When you crash in the clouds di crazyfred (/viewuser.php?uid=82886)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Do not stand at my grave and weep ***
Capitolo 3: *** Let's get lost ***
Capitolo 4: *** You're not alone ***
Capitolo 5: *** May angels lead you in ***
Capitolo 6: *** As you really are ***
Capitolo 7: *** Only Time ***
Capitolo 8: *** Things you cannot know ***
Capitolo 9: *** Won't stop till it's over ***
Capitolo 10: *** She will be loved ***
Capitolo 11: *** Night in white satin ***
Capitolo 12: *** I want you so (need) ***
Capitolo 13: *** Answers ***
Capitolo 14: *** Decisions ***
Capitolo 15: *** Allison ***
Capitolo 16: *** You are my sister ***
Capitolo 17: *** No doubt in my mind (where you belong) ***
Capitolo 18: *** Gift ***
Capitolo 19: *** Long lost memory of mine ***
Capitolo 20: *** Good life (hopelessly) ***
Capitolo 21: *** Empire State of Mind ***
Capitolo 22: *** On the road ***
Capitolo 23: *** Nobody's home ***
Capitolo 24: *** Lonely Lone ***
Capitolo 25: *** I am here for you ***
Capitolo 26: *** I .... You ***
Capitolo 27: *** I was broken...but it's over now ***
Capitolo 28: *** Is this the end? ***
Capitolo 29: *** Slowly sinking ... wasting ***
Capitolo 30: *** Lay & Love ***
Capitolo 31: *** Hold on to me and never let me go (parte I) ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
When you crash in the clouds - prologo
Salve a tutti!!!!!!! Per chi
mi conosce già è inutile fare le presentazioni ma, visto
che in questa sezione sono nuova, è giusto che io ricominci
d'accapo. Io sono crazyfred e sono un'autrice, discretamente nota al
pubblico delle FF sugli attori. Ho deciso di scrivere questa prima FF
su Tyler perché adoro il suo personaggio e soprattutto volevo
provare a cambiare un po' le carte in tavola con questo personaggio
meno noto, ma altrettanto forte come Mallory di Welcome to the
Rileys (che in Italia non è ancora uscito e per questo è
una FF un po' spoilerosa). Spero che la storia possa essere di
vostro gradimento. Vi
lascio al prologo e, dalla prossima settimana, sempre di
giovedì,
andiamo avanti con il capitolo. Buona lettura!
Prologo
Micheal era morto.
Se me l'avessero detto avrei pensato ad uno dei suoi soliti scherzi bastardi e
coglioni, avrei riso in faccia a qualcuno e poi avrei preso mio fratello e
saremmo andati nel "nostro posto" di Manhattan a riempirci
di pancake fino a vomitare, fino a non volerne più per un anno intero.
Ed invece io l'avevo visto, rapito dalla morte con quel cappio al collo, nel
bell'appartamento che nostro padre gli aveva comprato. Quanto poteva valere?
Cinquecentomila dollari? Cos'erano in confronto a quello che lui gli aveva
preso.
Charles, non era degno di essere chiamato padre, lo aveva derubato ai suoi anni
migliori, gli aveva tolto il sorriso, la sua musica, la sua vita. In giacca e
cravatta lo aveva preso e portato con sé a lavorare, in giacca e cravatta
l'aveva interrato per l'eternità.
Quei giorni di cui l'ha privato non torneranno, lui e la sua vita non
torneranno mai indietro.
Micheal è stato ucciso.
Quanto è passato da allora? Un'ora, un giorno, un mese? Non me lo ricordo più
... non bastano le puttanate filosofiche che mi hai lasciato fratello, non
bastano i fiumi di alcool che invadono il mio corpo a farmi sentire bene.
Perché hai voluto che fossi io a trovare quel che restava di te, e non
quell'infame...assassino di tuo padre.
So che non lo vorresti, tu in fondo eri quello buono ed io la pecora nera, la
testa calda, il ribelle, ma io non ci riesco a non odiarlo per quello che ti ha
fatto. Ma non avrà la mia vita e così vivrai con me, in me, a partire da questa
sera.
Assaporo l'ennesimo sorso di tequila, sperando che il suo effetto sia lo stesso
che nei caffè di Parigi ha reso illegale l'assenzio, escludendomi da un mondo
che è fatto di merda, e che per la nostra stupidità meritiamo fino all'ultimo
granello di polvere, e attendo che l'ago del tatuatore ti iscriva per sempre
sul mio cuore.
Ringrazio
la carissima Iris (aka KuroiNamida_) per il bellissimo banner. Spero
che vorrete da subito iniziare a commentare, perché non potete
capire quanto sia importante per me sapere le vostre opinioni.
Vi invito come sempre a raggiungermi nella mia pagina FB e su Twitter.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Do not stand at my grave and weep ***
When you crash in the clouds - capitolo 01
Capitolo 1
Do not stand at my grave and weep
"Tyler ..." la voce di Aidan continuava a blaterare informazioni
senza senso che avrei fatto bene a tenere in mente, ma non era proprio
giornata. A dirla tutta, non era giornata da un anno.
Micheal era morto da un anno e la mia famiglia aveva organizzato una cerimonia
di commemorazione davanti alla sua tomba. Ci sarebbero stati tutti ma proprio
tutti, per quel figlio tanto amato. Mia madre e il suo nuovo marito, di cui
facevo sempre fatica a ricordare il nome da un anno a questa parte, da quando
cioè i miei migliori amici erano diventati Tequila e Camel. Ci sarebbe stata la
mia adorabile e adorata sorellina Caroline, la nostra piccola artista, un
talento immenso racchiuso in un corpo così piccolo. E ci sarebbe stato anche
lui, Charles, l'unico uomo sulla faccia della terra a portare degnamente il
nome degli Hawkins, secondo un suo medesimo parere. Era dal giorno seguente il
funerale di mio fratello che non lo vedevo, quando ero andato a prendermi
quelle due o tre cose che Micheal aveva deciso di lasciarmi: i suoi libri, la
sua chitarra, tutto quello che nostro padre gli aveva negato in nome di un
successo e di un futuro solido e sicuro, ma che a Mike andava troppo stretto.
"Tyler" continuava imperterrito il mio coinquilino "ricordati
che questa settimana tocca a te occuparti delle pulizie di casa, non ho
intenzione di vivere in un porcile". Diceva così ogni settimana, ma il suo
turno non arrivava mai ed io non avevo certo intenzione di fare il lavoro anche
per i suoi porci comodi. Certo, in quelle condizioni l'unica compagnia che
potevamo permetterci sarebbero rimasti dei topi di fogna, ma l'importante era
che la mia camera da letto fosse rimasta pulita ed il bagno fosse decente per
le notti brave. Generalmente si accontentava di uno sgabuzzino con un letto a
castello, ma in certe occasioni, anche se brilli, ci si tiene a fare buona
figura. Il mattino se ne andavano tutte prima ancora che preparassi il caffè, dunque
non era necessario che la cucina fosse poi così pulita ... lungi da me
soffermare il mio sguardo su un paio di calzini sporchi e bucati che
misteriosamente erano finiti sul tavolo insieme ai rimasugli dell'ultimo
Mexican Party di Aidan.
"Tyler" qualche giorno quella bocca gliel'avrei chiusa per sempre
"in libreria ti hanno spostato il turno a questo pomeriggio" "va
bene" risposi, sperando che la smettesse.
"Ah, e butta la spazzatura prima che esci" "Va bene" era
diventato assillante peggio della vecchia zia Gertrude da cui passavo le
vacanze da bambino. "Tyler" ancora "e stasera si va fuori"
... come se non uscissimo mai "ho scoperto un nuovo localino che devi assolutamente
vedere...ci sono andato con Samantha l'altra sera: è una ficata! Cioè...a dir la
verità sono andato con Joe della classe di letteratura, ti ricordi quel pazzo
che non la smetteva di limonare con quella cessa di Annie alla festa di
compleanno di Bree...Dio che schifo, non ci posso pensare che mi viene ancora
il voltastomaco!!! Comunque siamo andati con Joe e ho visto che Samantha lavora
come barista lì allora ho attaccato bottone e ho passato il resto
della serata al bancone con lei. In realtà c'era mooolto altro da vedere ma,
amico, capisci che non potevo fare niente davanti Samantha, è troppo che
me la lavoro ... allora ci andiamo stasera vero?" "Va bene"
risposi molto passivamente, sicuro di non sbagliare, mentre inzuppavo fiaccamente
un biscotto nel latte.
"Tyler, me lo fai un ultimo favore?" sentiamo, basta che ti levi
dalle scatole il prima possibile "te ne vai a fanculo?" "Va
bene" risposi; mi accorsi dell'immane figura di merda che avevo fatto solo
quando il biscotto che avevo in mano si disintegrò e si tuffò nella tazza,
imbrattando la mia unica camicia bianca. Imprecai verso tutti i santi del
paradiso. L'unica camicia bianca pulita con cui dovevo andare alla
commemorazione di mio fratello...fantastico!
"Tyler la devi smettere!" imprecò Aidan, tornando sui suoi passi
"non puoi vivere il resto della tua esistenza in questi stato di catatonia
pura. Cazzo hai 22 anni! Svegliati, esci, c'è un mondo là fuori!"
Ecco come far incazzare Tyler Hawkins.
Presi la tazza di latte e la rovesciai ancora piena nel lavandino, con i
biscotti spappolati che andavano a depositarsi attorno allo scarico. Presi una
birra dal frigo e iniziai a berla praticamente a stomaco vuoto, senza curarmi
nemmeno di dove fosse finito il tappo. "Ti sembra che io non faccia
esattamente il tuo stesso genere di vita? Non perdiamo una festa, bevo e vomito
l'anima una sera sì e l'altra pure e nel mio letto ogni mattina c'è una ragazza
diversa. Cazzo vuoi da me?"
"Voglio che la smetta di vivere nel rimorso, nel dolore, che ti lasci alle
spalle il passato, perché non torna indietro Tyler e lo sai meglio di me ..."
probabilmente si rendeva conto che insistere con me sulla questione era una
battaglia persa, ma lui era l'unico ad essermi stato davvero vicino quando
avevo iniziato a dare segni di cedimento dopo la morte di mio fratello e gli
avevo chiesto di stimolarmi, sempre, senza arrendersi. Mi aveva detto tante
volte che prima o poi probabilmente avrebbe perso le speranze, mi avrebbe
lasciato per strada, a leccarmi le ferite come un cane abbandonato; speravo che
non sarebbe mai arrivato quel giorno, anche se sapevo di meritarmelo.
Mi seguì verso la scalinata anti incendio su cui la mia camera da letto si
affacciava e dove puntualmente mi mettevo a riflettere in quei momenti di oblio
totale. Mi accesi una sigaretta e aspirai come se fosse aria pulita di
montagna, come se mi purificasse fin dentro l'anima. Ed invece mi uccidevo ogni
volta, con le mie stesse mani; ma era una droga, non ne potevo più fare a meno.
E non certo ero immerso nella radura più verde e lussureggiante: attorno a me,
il traffico newyorkese completava il senso esalazione necrofila, come se quelle
immagini che avevo perennemente davanti agli occhi non mi facessero
sopravvivere ... vivere è una parola troppo grande ... come se fossi
perennemente dentro una bara.
"Così ti riempirai il vestito di ruggine!" osservò il mio coinquilino
mentre cacciava il suo muso fuori dal finestrone. Gli feci notare, con un ampio
gesto delle mani, che peggio di come stavo messo non poteva andare, e
sinceramente non è che me ne importasse più di tanto. Le uniche persone per cui
valeva la pena di rendersi presentabile erano mia madre e mia sorella, per loro
solo avrei fatto uno sforzo. "Senti amico" continuò "vorrei per
un attimo che ti guardassi allo specchio ... sei una persona così intelligente,
affascinante, tutti sanno che le ragazze che mi porto in giro ci stanno perché
è te che vogliono, e sei anche ricco. Tu puoi sfondare cazzo! Non mandare la
tua vita a puttane ... so che Michael non lo vorrebbe"
"Micheal non lo vorrebbe ..." ripetei la sua frase con un'espressione
di sfida "tu, tu che cazzo nei sai COSA AVREBBE VOLUTO mio fratello? Lui
aveva la nostra età, voleva ciò che vogliamo noi oggi. Ed invece no, mio padre
gli ha tolto tutto in nome del successo. Io non li voglio quei soldi macchiati
del suo ... sangue. Mi fanno schifo!"
Aidan capì che forse non era il caso di andare oltre; in fondo, cos'altro si
poteva aggiungere?
Mi lasciò solo, in balia dei miei non pensieri.
Riuscii ad evadere dal pranzo di famiglia con la scusa del lavoro alla
libreria, in tempo utile da non trovarmi davanti mio padre. Sapevo che mia
madre e Caroline ci sarebbero rimaste male, ma non mancava mai il tempo per
andarle a trovare, con la sicurezza che nessuno sguardo inquisitore mi
squadrasse da capo a fondo per valutare quanti soldi stavo scalando da suo
conto corrente. Mio padre sapeva benissimo che non usavo i suoi soldi da quando avevo
superato la soglia della maggiore età, che mi ero ritagliato una certa
indipendenza con sacrificio per non doverne manovrare, eppure non mancava di
farmi ricordare dai suoi assistenti ... perché non aveva nemmeno le palle o il
tempo di farmi una telefonata, lo stronzo ... chi è che mandava avanti
responsabilmente la baracca di famiglia, una baracca da 10 milioni di dollari
di fatturato annui. Ci incrociammo però di sfuggita, mentre mi defilavo tra un
"sei bellissimo" di mia madre e "ti puzza l'alito di birra"
di mia sorella. Mi vide e mi fece cenno di fermarmi, mentre continuava la sua
conversazione al telefono ... il suo broker era sempre venuto anche prima di
sua moglie ... ed io feci in tempo ad imprecare un paio di volte prima che mi
raggiungesse.
"Non l'avevi una
cravatta?" mi chiese, senza neanche salutarmi. Erano un anno intero che
non ci sentivamo né vedevamo e lui mi chiedeva della cravatta,
tipico. "Ciao papà!" risposi, con la speranza che cogliesse
tutto il
mio disprezzo. "Non rispondi?" continuò ancora lui. “Per
farci cosa
esattamente? Legarmela al collo come ha fatto tuo figlio?” Non
avrei voluto
dirlo perché, prima che ferire lui, avevo ferito me stesso, ed
il ricordo che mi
ero giurato di cancellare era tornato a galla, prepotente, come quella
morte
inutile che me l’aveva strappato.
Lo lasciai con un palmo di naso davanti all’ingresso
della cappella del cimitero, mentre giuravo a me stesso che mai più sarei
tornato in quel luogo di tormento ed incubo, e non avrei più pianto.
Micheal era vivo, nel mio
cuore, nella mia memoria.
Do not stand at my grave and weep.
I am not there, I do not sleep.
I am a thousand winds that blow,
I am the diamond glints in snow,
I am the sunlight and ripened grain.
I
am the gentle Autumn rain.
Mio fratello era in tutto ciò che
poteva dirmi che anch’io ero vivo: nello scorrere delle stagioni, nel soffio
del vento, o in ogni piccola cosa che cambiava e diveniva intorno a me.
Tuttavia, nel lasciarmi dietro quel
posto mi voltai, nell’intento di scorgere qualcosa, per l’ultima volta.
Purtroppo, per quanto potessi andare avanti con quelle menate poetiche, la
verità era un’altra. Potevo sforzarmi quanto volevo a far rivivere mio fratello
in me, ma restava sempre quella pietra fredda e bianca, piantata sopra quella
collina in lontananza, all’ombra di quel grande acero che ormai, con l’inverno
alle porte, aveva creato un caldo manto di foglie gialle e rossicce. E poi ci
sarebbe stata la neve. Ed io questo non lo potevo fermare. Ed ero di nuovo
punto e a capo.
Per quanto mi sforzassi, per quanto io
potessi lottare, non riuscivo a trovare uno scopo per cui valesse la pena di
vivere. E per morire … beh, per quello avevo troppa paura.
Mi sforzai di fingere un certo
entusiasmo, mentre percorrevamo le stradine buie di un quartiere a caso di New
York, già decentemente brilli, tuttavia non abbastanza per dimenticare come si
cammina. La serata si era avviata con una cena cinese nel ristorante sotto
casa, ed ancora mi stupivo di non averne abbastanza considerando che
quell’odore pregnante di fritto si era insediato persino nelle assi di legno
del nostro pavimento. Probabilmente sarei morto di cancro prima dei 50 anni, ma
almeno avrei potuto dire di aver battuto il record mondiale di biscotti delle
fortuna.
Aidan mi trascinò, saturo di birra e
Maotai, fino a quel locale che si vantava tanto di aver scoperto, insieme ad
una manica anonima di gente che si portava perennemente appresso. Non mi
interessava sapere in quale remoto e malfamato angolo del Bronx eravamo finiti,
purché mi avesse riportato a casa sano e salvo. Garantiva ottimi cocktail e
divertimento per tutti i gusti, il resto non mi interessava.
L’ingresso del locale era piuttosto
nascosto, senza grandi insegne, il che mi fece dubitare della buona fede del
mio compare, che probabilmente era strafatto nel momento in cui vi aveva messo
piede la prima volta. C’era un solo cartello, scritto a mano tra l’altro, che
ricordava il divieto d’ingresso ai minori di 21 anni. Almeno quello …
Entrando, l’atmosfera ed il tipo di
musica mi fecero capire in che razza di posto ero andato a finire. Uno strip
club. Non che mi considerassi un verginello, una bella ragazza non si disdegna
mai, e non è certo tanto bello usare la mano per “scaricarsi”, ma quel genere
di cose andava ben oltre il mio senso del divertimento. Le ragazze che si
dimenavano come ossesse attorno a quei pali erano tutto fuorché sensuali, e non
ci voleva l’FBI per capire che la maggioranza di loro erano minorenni o
clandestine, bastava dare un’occhiata in giro, o guardare i loro volti per
davvero, non come quei porci bavosi che stavano li a guardarle, e ogni tanto
manovravano con le mani sulla patta. Dio che schifo!
Pregai con tutto me stesso, semmai ci
fosse stato un Dio pronto ad accogliere le mie preghiere, visto che cose come
queste mi facevano dubitare della sua reale esistenza, che Aidan non decidesse
di sedersi vicino ad uno di quei cosi per esibirsi. Ed invece, deficienti fino
al midollo, andammo a sederci al bancone del bar, dove alcune ragazze stavano
mostrando i loro tanga ad un gruppo di turisti cinesi allupati. Per un attimo
mi venne da ridere: finalmente vedevano una vera donna, chissà cosa le avrebbe
aspettati a casa.
Come si dice: i coglioni vanno sempre
in coppia; sì perché, se Aidan aveva già iniziato a fare il cretino con la
ragazza del bar (che a quanto pare non si chiamava Samantha ma Veronica), io
gli andavo appresso come un automa, incapace di decidere cosa fosse meglio per
me, sebbene la testa mi urlasse a gran voce di andarmene da lì. Tutto indicava
guai, dalle luce rosse e basse, alla musica provocante ed incalzante, fino alla
puzza di sudore del grassone vecchio e pelato che mi stava di fianco. Ed invece
rimasi lì, seduto sul mio sgabello, a fumarmi una sigaretta e a bere il
Margarita peggiore della mia esistenza.
“Ehi dolcezza” urlò Aidan ad una delle
ballerine di lap dance che stavano sculettando sul bancone. Ad altri sarebbe
parso ubriaco ed invece, strano a dirsi, quella voce da alcolista era
perfettamente naturale. “Perché non fai compagnia al mio amichetto?” disse
indicando me “è un po’ giù ultimamente … vedi tu di fargli tornare il sorriso”.
Vaffanculo. V.A.F.F.A.N.C.U.L.O. Era
l’unica parola di senso compiuto che mi venne in mente in quel momento. Mi
strofinai le mani sugl’occhi e alzai lo sguardo verso la ragazza che era
davanti a me, che batteva ritmicamente il piede sul bancone. Calzava un paio di
scarpe bianche con la zeppa ed il tacco enormi, quelli che sotto la suola hanno
stampato il marchio T.R.O.I.A. Salendo notai delle bellissime gambe bianche,
questo dovevo dargliene atto, enfatizzate ancora di più dal tacco esorbitante,
ma purtroppo le calze a rete la rendevano più volgare di quanto non fosse.
Volli sorvolare con lo sguardo su quanto venne dopo, perché l’abbigliamento
serviva piuttosto a scoprire che nascondere. Dov’era finita la finezza e la
sensualità del vedo-non-vedo?
Mi portai con gli occhi sul suo volto
ed, incrociando lo sguardo, si chinò verso di me, fino a sedersi sul piano. Avanzò
lentamente verso lo sgabello spingendosi verso di me, a gambe aperte, fino a
cadermi letteralmente addosso. Prese dalla mia bocca la sigaretta che avevo
acceso, l’ennesima della serata, ed aspirò profondamente. Per quanto disgustassi
quel posto, per quanto il lavoro che quelle ragazze facevano (per scelta o
costrizione) mi facesse dannatamente schifo, rimanevo comunque un uomo, sui cui
lombi si era appena accomodata una bellissima ragazza dal fare estremamente
provocante, ed io ed il mio fratellino non riuscivamo proprio a rimanere
indifferenti; soprattutto quando lei, probabilmente accortasi della mia
“costrizione” portò di nuovo tra le mie labbra quella sigaretta, pregna ora del
suo sapore. Quella fu la mia morte. Iniziai a sentire caldo, e non era un bene.
“Allora …” mi disse “che ci fa un bel
ragazzo come te tutto solo, eh? Non ce l’hai una ragazza?” “Non la voglio una
ragazza” risposi, fingendomi annoiato dalla situazione più del dovuto, sperando
che capisse che non era proprio aria. “Bene” continuò lei, schiacciando il suo
piccolo seno, coperto praticamente da 5 cm di stoffa e qualche laccio, al mio
petto “perché altrimenti stasera la piccola dolce Mallory … che sarei io … non
potrebbe coccolare il bel … come hai detto che ti chiami?”. Evidentemente
quella sera doveva recitare la scolaretta; chissà quante altre parti aveva
dovuto interpretare: infermiera, poliziotta, indiana … la fantasia maschile in
questo campo sa essere alquanto vasta. “Tyler … ma credo che stasera la piccola
Mallory dovrà rimanere a bocca asciutta” così dicendo presi la mia giacca di
pelle che avevo appeso allo schienale della sedia e, alzandomi, me la infilai, facendo
scendere dal mio cavallo la ragazza.
In piedi era leggermente più bassa di
me, il che significava che doveva essere davvero piccola, considerando che quei
trampoli l’alzavano di 20cm. Era minuta e magrissima, quasi anoressica. Ma quel
culo … potevo far finta di nulla quanto volevo, ma quel culo sarebbe comunque
rimasto una favola.
Mi si avvicinò, di nuovo, e la vidi
giocare con le mani birichine con i bottoni della mia camicia, fino a
raggiungere il taschino dove avevo le sigarette. Nel prese una e l’accese con
quella che io stavo fumando.
“E così ti vendi per una sigaretta,
piccola Mallory?” scherzai con lei. “Per chi mi hai presa?” mi riprese
scherzosamente, spintonandomi leggermente, e riportandosi a sedere sul bancone.
“Volevo solo evitare di perdere … un compagno di giochi … vorrà dire che
chiederò a qualche maestro di farmi delle ripetizioni” mi disse guardandosi in
giro, e notai che posò il suo sguardo su un tizio poco più in là, che meno di
60 anni non poteva averne ma, dall’orologio che aveva al polso, sembrava anche
abbastanza infagottato. Non potevo credere che per soldi sarebbe stata capace
di andare con quello lì ma, probabilmente, era il suo unico modo per mangiare.
Forse non esattamente decoroso ed onesto, ma i suoi occhi parlavano chiaro:
Mallory, o come cavolo si chiamava, aveva fame.
Non so se fosse per proteggerla da
quel pappone, se per gelosia o per pura competizione maschile, ma quello che
feci un minuto dopo, mentre la vidi allontanarsi per raggiungere quell’uomo,
andava ben oltre i miei piani.
La seguii e la bloccai per un braccio.
“Senti … io non so cosa … fai … esattamente, e non so nemmeno se ho soldi a
sufficienza per il tuo … spettacolo … ma non andare da lui”. Lei si avvicinò di
nuovo a me, in parte incredula, in parte divertita; “stai con me” sussurrai, ad
un passo dalle sue labbra, tanto si era avvicinata. Sorrise, ancor più
compiaciuta di aver ottenuto ciò che voleva “la piccola Mallory è davvero
contenta sai, non vede l’ora di giocare con te”.
Sentii gli incitamenti di Aidan e
degli altri ragazzi di quella comitiva sgangherata, attutiti dalla musica ad
alto volume e dal chiacchiericcio concitato della folla del locale, ma non feci
caso a loro; l’unica cosa che sentivo era il contatto con le sue mani, che
aveva intrecciato alle mie, mentre mi guidava verso una scala a chiocciola in
ferro, in un angolo buio del locale. Preferii non pensare a cosa sarebbe
successo di lì a poco, a come ne sarei uscito: in quel momento sentivo davvero
di aver fatto la cosa giusta. L’avevo salvata dall’ennesimo porco, almeno per
quella sera.
NOTE FINALI
Ho aggiornato oggi eccezionalmente perché purtroppo non credo di poterlo fare in settimana
Ho
deciso che d'ora in avanti i miei commenti a inizio capitolo non ci
saranno per lasciarvi di immergere nel capitolo totalmente e non
influenzare in alcun modo la vostra lettura, e lo stesso quelli alla fine.
Nel testo troverete
i link per le canzoni che mi ispirano e di volta in volta noterete la
corrispondenza del titolo con una canzone che rispecchi il tema del
capitolo. Per qualsiasi domanda possiate avere sappiate che vi aspetto
nella pagina dei commenti e nella pagina Facebook che è a
vostra totale disposizione.
Vi ringrazio per l'ampio consenso che già solo il prologo ha
ottenuto. Spero di poter ripagare le vostre aspettative con questo
capitolo.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Let's get lost ***
When you crash in clouds - capitolo 2
Capitolo 2
Let's get lost
Mi lasciai guidare per il piano superiore del locale come un cieco in mezzo ad una strada affollata. Le luci
soffuse, tinte di un tenue ed ammiccante rosso, che non poteva far altro che
rimandare agli stimoli ed impulsi più primitivi dell’uomo, non impedivano certo
di vedere; ero io, piuttosto, che mi rifiutavo di alzare lo sguardo.
Con la mia esperienza sessuale avrei
potuto certamente riscrivere il kamasutra, e persino aggiudicarmi il premio
Pulitzer per aver composto una pietra miliare della letteratura contemporanea,
ma mi sentivo terribilmente a disagio in quel luogo, come quei ragazzini dei
primi del novecento, che venivano mandati dalle prostitute dai propri padri,
affinché venissero introdotti ai piaceri della carne.
Allo stesso modo mi sentivo spaesato,
timido, come se non avessi mai visto una donna nuda davanti a me e per me.
Lasciai che lo sguardo continuasse a fissare cauto il pavimento, molto simile
al parquet invecchiato e marcio su cui camminavo a casa mia, lo stesso
scricchiolio minaccioso ed irritante.
La musica, dal piano di sotto, perdeva
di intensità e si ovattava man mano che ci addentravamo per lo stretto e scuro
corridoio. Ai lati, dove una volta c’erano delle porte, ora c’erano delle
tendine antimosche, che mal celavano l’attività di quelle piccole stanzette;
quantunque, anche volendo tenere all’oscuro gli occhi, le orecchie non
avrebbero impiegato troppo a distinguere i mugolii ed i gemiti degli altri
ospiti del privé e delle loro accompagnatrici.
Non che mi aspettassi morigeratezza o
castità da un locale simile, con chiusura all'una di notte e limite nella
consumazione degli alcolici, semplicemente speravo che fosse un pregiudizio
mentale, o almeno, da buon figlio della borghesia americana ipocrita e bigotta,
non avvenisse alla luce del sole.
La ragazza che era con me, Mallory il
nome con cui avrei dovuto chiamarla, mi fece accomodare nell’ultima stanza in
fondo, la più discreta di tutte.
“Eccoci qui” mi disse, sospirando
“mettiti pure comodo”. Forse era contenta di non aver dovuto ospitare un vecchio,
magari anche ubriaco, ma dal suo tono di voce traspariva tutto il disappunto e
il rimorso per quel lavoro degradante ed sporco che stava facendo.
Benché fosse un bocconcino più che
invitante, non l’avrei toccata, non sarebbe entrata nell’elenco di ragazze che
erano passate nel mio letto, e di cui nemmeno ricordavo il nome. Non capivo per
quale motivo mi comportassi così con lei, probabilmente in un’altra serata ma
anche semplicemente con un’altra persona non mi sarei fatto tutti quegli
scrupoli. Ma la sentivo vicina, molto simile a me e la spavalderia, il
carattere con cui dava prova della sua forza ed indipendenza, il modo
disinibito e sboccato che aveva di approcciarsi agli uomini, per lei solo tasche
piene di soldi, mostravano una creatura molto più timida e ingenua di quanto desse a vedere. Non era poi così
difficile leggerla, bastava focalizzarsi sulla persona e non sulla merce che
aveva da offrire.
Mi feci largo nella stanza,
completamente spoglia al di là di un paio di sedie, un tavolino basso e un
vecchio camino, ricettacolo ormai solo di polvere e ragnatele. Sulla cornice
del caminetto, un paio di candele consunte, che certo non aiutavano a rendere
l’atmosfera accogliente, restituivano all’ambiente ancora di più la miseria che
il buio avrebbe dovuto mascherare. Il pavimento, qua e là macchiato, come se vi
fossero finiti spruzzi di coca cola agitata, mi ricordava come tante cicatrici
il motivo per cui ero finito lì.
Mi accomodai sopra una di quelle
sedie, quella che mi sembrava essere uscita illesa dal conflitto a fuoco dei
miei predecessori e non potei evitare di sentirmi uno schifo. La mia coscienza
mi diceva che io ero stato il suo salvatore, ma la realtà era un’altra: da lì a
nemmeno venti minuti probabilmente le sue mosse conturbanti ed il testosterone
già in circolo mi avrebbero reso uguali agli altri uomini che affollavano quel
locale e lei mi avrebbe visto come un cliente, senza nome né volto. Le avrei
lasciato la mancia, le avrei fatto una carezza ed un sorriso compiaciuto e
lasciata lì come sì fa con un giocattolo rotto. Ma, se ero davvero il paladino
a cui mi atteggiavo, dovevo andarmene da lì, anche a costo di passare per
impotente.
Mentre lei accendeva le ultime candele
per la stanza e una bacchetta di incenso che, avevo sentito dirle,
distrattamente, era alle rose e veniva dall’Egitto (chissà se qualcuno c’era
mai cascato a quel pallone), una delle ragazze del bar venne a consegnarci
dello champagne di terza categoria e pretese anche 20 dollari di mancia, oltre
al conto della consumazione. Meno male che mi ero premunito portandomene 200,
semmai ad Aidan fosse venuto in mente di far diventare la serata quella del Tyler paga da bere a tutti. E per tutti
di solito poteva significare anche a tutto il locale …
Mandato giù un bicchiere di quello che
osavano anche chiamare champagne, giusto per stordirmi e rilassare i miei
nervi, Mallory mi si avvicinò con fare ammiccante, più da gattina innocente che
da pantera quale fingeva di essere. Salì carponi sul piccolo tavolino che avevo
davanti, miagolando, e riempì di nuovo le flute, porgendomene una, e la mandai
giù senza neanche assaporare, per trattenere il meno possibile quel terribile
sapore sulle papille gustative. Si alzò in piedi e si mise a ballare,
oscillando lentamente i fianchi, a ritmo della canzone che aveva poco prima
avviato allo stereo. Con una mossa di studiata sbadataggine si verso addosso la
bevanda, anche se effettivamente non c’era molto tessuto da bagnare. “Uh … sono
tutta bagnata” esclamò con falsa ingenuità, puntando l’accento sull’ambiguità
della frase; “vieni ad aiutarmi” mi incitò, con fare malizioso.
“Sto bene così” dissi più a me stesso
che a lei, cercando di fissare il meno possibile quella simil minigonna in
stoffa scozzese e quello che, teoricamente, avrebbe dovuto coprire. Allora,
noncurante del mio rifiuto, riprese ad ancheggiare, mettendo ben in vista ciò
che aveva capito essere di mio gradimento. Scese dal tavolo e mi si avvicino,
in maniera sempre più provocante.
Maledetto fratello traditore, mi
ritrovai a pensare, accavallando le gambe in modo da nasconderle il problema
del momento. Ma, dovevo riconoscerlo, era una vera professionista nel suo
lavoro, e se avessi ceduto … cosa che probabilmente sarebbe accaduta davvero a
breve … ne sarebbe valsa la pena.
Venne di nuovo a sedersi in braccio a
me, avvicinando pericolosamente le nostre intimità, la mia ancora dolorosamente
compressa nei jeans e la sua, a causa del tanga, assolutamente libera di
compiere danni. Le sue mani vagavano praticamente dappertutto sul mio petto ed
io non sapevo dove mettere le mie così, da perfetto cretino alla sua prima
volta, lasciai che fosse lei ad agire.
“Touch me I’m cold … unable to control
…” sussurrò alle mie orecchie la canzone che ci faceva da sottofondo e allora
tornò a galla la verità: che non c’era partecipazione in lei, né
coinvolgimento. Era lì per me, non per se stessa.
Ero andato a letto con decine di
ragazze prima di lei, e nessuna era intenzionata ad avere relazioni serie; ma
nessuna, prima di allora, era stata con me per soldi. E non avevo intenzione di
avere un esperienza simile. Non avevo alcuna intenzione di umiliarla anch’io.
“Ehi … ehi” le dissi, scansandola da
me e portandola a sedere sul tavolino che avevo di fronte, e che prima era
stato il suo palco “cosa … cosa stavi cercando di fare?”. Era una domanda ovvia
ma al momento, e nello stato in cui ero ridotto, anche l’unica che mi venisse
in mente. “Volevo solo che ti divertissi un po’, sai come si dice … far felice
il cliente!” trillò, con la vocina cantilenante, imitando malamente i direttori
dei negozi di lusso dove, evidentemente, il cliente ha sempre ragione. Raccapricciante
similitudine …
“Ma io sto bene” risposi poco
convinto, tanto che lei alzò un sopracciglio in segno di disappunto. Ero
davvero un così cattivo bugiardo? “Solo” tentai la via della mezza verità
“preferirei un altro tipo di divertimento”.
Quanto potesse rivelarsi infelice
quella mia frase lo capii neanche mezzo minuto dopo, quando mi ritrovai quella
ragazzina … sarebbe stato già un grande miracolo se fosse stata maggiorenne …
ai miei piedi, tutt’intenta a slacciare cinta e pantaloni. “Beh, effettivamente
avevi ragione” mi disse “hai molto più bisogno di divertimento qui” e così
dicendo passò la sua mano sulla mia patta, carezzandola quasi
impercettibilmente. Ma, date le mie precarie condizioni, quel suo gesto fu
ultra percepito, abbastanza da farmi letteralmente sussultare sulla sedia ed
emettere un gemito strozzato. Era un diavolo che andava fermato, perché io non
volevo essere come gli altri. Ma la forza di fermarla, e soprattutto la
volontà, tornarono ad essere di nuovo orizzonti lontani.
“Di mano o di bocca?” chiese, mentre
opponevo resistenza al suo tentativo di togliermi pantaloni e boxer in un colpo
solo. “Cosa?” chiesi, del tutto spaesato. “Sono 50 verdoni per una sega”
spiegò, mimando cosa intendesse, nel caso non fosse stata già particolarmente
esplicita “ e 100 per un pompino … ma solo se hai il preservativo”. A quella
sua delucidazione sulle tariffe della serata non ci vidi più e la scaraventai
lontano da me, cercando di essere rude il meno possibile. Ma era possibile che
una ragazzina dovesse annullarsi a quel modo?
“Mi dispiace” le dissi, alzandomi in
piedi per risistemarsi e cercando di badare il meno possibile al dolore che
quell’interruzione volontaria mi avrebbe provocato “ma non c’era questo nei
progetti della mia serata …”
“E allora che cazzo sei venuto a fare
da me?” mi disse, offesa “a quest’ora con quel fottuto vecchio avrei già finito
e me ne starei cercando un altro …” “è questo che ti interessa?” le
risposi, altrettanto concitato “i soldi sono la chiave di tutto? Tieni …” le
dissi, lanciandole due banconote da 50 “ ma ora, sei vuoi farmi felice, stiamo
qui e parliamo un po’”. “Woah … grazie Tyler!”
Ancora evidentemente stupita dalla mia
reazione, con il solito sorriso beffardo sulle labbra piccole e carnose, si
allungò sul tavolino, a gambe oscenamente divaricate, puntando i gomiti sul
tavolo per tenere il busto alzato.
“E così …” iniziai, per rompere il
ghiaccio “questo non è solo uno strip club?” “Cosa cazzo ti aspettavi” mi
rispose “un convento di clausura?” “No, certo che no” mi affrettai a spiegare
“solo non pensavo che vi esibiste anche in altro genere di performance … quanti
anni hai?” chiesi, sperando che la mia domanda non la mettesse a disagio o la
insospettisse. Molto matura, ebbe la prontezza di rispondere: “Quanti ne
dimostro?” “Non più di 18” risposi, in tutta franchezza. “Non si può avere meno
di 21 anni per fare questo lavoro …” “E quindi quanti anni hai?” “22” “”22,
eh?!” la sfidai. “è quello che dice la mia carta di identità”
Sapevo che sarei riuscita a spuntarla,
me lo dicevano tutti da bambino che avrei dovuto fare l’investigatore. “Puoi
anche avere un documento che dimostra che hai 22 anni … ma questo significa che
tu abbia davvero 22 anni. Ma ora la mia domanda è un’altra … da quanto tempo
hai 22 anni? E per quanto ancora avrai 22 anni? Mallory è il tuo vero nome?”
“Ma vaffanculo!” sbraitò
all’improvviso, agitata probabilmente dalle troppe domande che le avevo rivolto
“cazzo, dovevo immaginarlo … sei un fottutissimo poliziotto!!!” “No, non sono
un poliziotto!!!” mi affrettai a chiarire, prima che potesse chiamare la
sicurezza e, sinceramente, non mi andava di essere ridotto ad uno straccio dal
bestione che si aggirava con fare sospetto per il locale. “E allora che cazzo
erano tutte quelle domande del cazzo? Eh? Che cazzo vuoi da me?” “Tu non hai
più di 18 anni, vero? Dio solo sa se sei persino maggiorenne … e lavori in un locale
come questo … ma non ti fa schifo? Ho pensato che almeno per una sera potevi
scampartela …” “Allora riprenditi questi cazzo di soldi e vattene fuori dai
coglioni, perché mi hai fatto perdere solo tempo e soldi questa sera. E
ringrazia se non chiamo Dean che è di sotto … stronzo!” Quell’ultima
imprecazione la fece sparire e tornare al piano di sotto, ad altri clienti, ad
altri servizi.
Probabilmente aveva ragione: ero solo
un coglione moralista che aveva tentato di lavarsi la faccia facendo l’elemosina
ad una povera prostituta. Non avevo il diritto di entrare nella sua vita, e non
avevo il diritto di rimproverarla come se fosse stata mia sorella. Uscendo mi
ritrovai nel corridoio dove poco prima, con lei, avevo camminato mano nella
mano, e mi accorsi che a quel pensiero fui sfiorato da un leggero formicolio,
come quando si viene presi dalla scossa. Ma il momento di pseudo poesia fu
interrotto dai suoni sgradevoli che provenivano dalle altre camere. Cercai con
tutto me stesso di tenerli fuori dalla mia mente, accelerando il passo per
arrivare più in fretta possibile alle scale, dove la musica diventava, gradino
dopo gradino, sempre più assordante. Sceso, trovai la comitiva con cui ero
entrato pronta per andare via, visto che un paio dei nostri non avevano retto
alla tentazione di palpare le gentili signorine ai pali senza avere intenzione
di sborsare un centesimo e il gorilla Dean si stava già accorciando le maniche
per buttarli fuori. Aidan, che, dopo tanti anni di conoscenza, mi stupiva
ancora per la sua resistenza agli alcolici, anche dei surrogati micidiali che
servivano in quel locale, era riuscito finalmente a ricevere il suo ennesimo
bel due di picche dalla ragazza del bancone, così non avremmo avuto più motivi
per tornare in quel locale, ed in un paio di serate avrei ben dimenticato
Mallory; ma non ero sicuro che questo fosse il suo vero nome. Mi voltai un
momento, prima di uscire, e la vidi volteggiare ad uno dei pali per la lap
dance. Si fermò, un istante, ed in quel attimo mi sembrò quasi che mi stesse
fissando, come per dirmi addio. Provai un bruciore nel petto, una rabbia
montante per non aver saputo proteggerla da quel mondo e da sé stessa.
Nei romanzi rosa della piccola
Caroline, la mia precoce sorellina, questa era la descrizione del colpo di
fulmine. Possibile che mi stessi innamorando di lei?
Mentre gli altri si dirigevano verso
la metropolitana, visto che erano rimasti senza soldi per il taxi, io rimasi un
po’ indietro rispetto a loro, nella speranza assurda che lei mi rincorresse e
mi chiedesse di aiutarla. Ma a chi la davo a bere … avevo letto e visto troppi
libri e film romantici recentemente, e speravo sempre che la vita fosse come uno
di quelli. Aidan sosteneva che fossero proprio quelle stupidate a permettermi di
far colpo sulle donne, quel fascino un po’ intellettuale che, insieme al filo
di barba e agli occhi azzurri, mi rendeva una macchina per il sesso. Forse agli
occhi degli altri ero così, ma io mi vedevo ancora come un ragazzino alla
fermata dell’autobus delle opportunità che aspetta da ore di prendere la sua
corsa; aspetta e aspetta, e poi si accorge che si è distratto proprio mentre passava e deve prenderla
al volo.
Mentre quel pazzo sciroccato del mio
compagno mi raccontava i dettagli della sua serata e premeva per sapere i
dettagli della mia, capii che la mia opportunità stava passando esattamente in
quel momento e dovevo coglierla, prima che fosse troppo tardi e nel tentativo
invano di afferrarla mi fossi fatto male. Forse non era amore, forse era solo
la voglia di sentirsi utili per qualcuno, la possibilità di dimostrare a me
stesso che ero riuscito a salvare qualcuno, cosa che con mio fratello Micheal
non ero stato in grado di fare; ma di una cosa ero certo: era un anno che non
mi sentivo così vivo.
Mi liberai dalla stretta del mio amico
ed iniziai a correre indietro, verso il locale.
“Ehi, ma dove vai?” mi urlò, mentre mi
allontanavo, ma ero già abbastanza lontano da lui perché potesse sentire la mia
risposta “Devo andare da lei”.
NOTE FINALI
La cosa che maggiormente mi preme per questo capitolo è
assicurarmi che nessuno di voi si sia sentito offeso dal linguaggio
utilizzato. Purtroppo non potevo fare diversamente; capite benissimo
che Mallory ha un certo linguaggio e non si fa problemi ad usarlo.
E non sta a me cambiarlo, ne va della veridicità della storia.
Per il resto vi ringrazio dell'ampio consenso e spero davvero che possa aumentare di capitolo in capitolo.
Ora che Tyler ha preso la sua decisione bisogna vedere come reagira Mallory.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** You're not alone ***
When you crash in the clouds - capitolo 3
Capitolo 3
You're not alone
Avevo
perso il conto di quante vasche avevo fatto avanti ed indietro di
fronte all’ingresso angusto del locale. Se ci fosse stata la
security, se quella non fosse stata una bettola in un quartiere
altamente malfamato, probabilmente a quest’ora sarei di fronte ad
un poliziotto sospettoso e soprattutto scocciato a rispondere a domande
assurde e perfettamente inutili.
Ma agli occhi dei rari
passanti dovevo sembrare piuttosto un tossicodipendente in attesa del
suo pusher, o di qualche altro disgraziato che uscisse dal locale per
farci a botte e regolare chissà quale conto.
Non c’è
spazio per le storie a lieto fine nel Bronx, al massimo ti puoi
ritrovare senza una gamba dopo una sparatoria e dire che ti è
andata bene; così mi era stato detto, se non altro.
Mi guardavo attorno
attento, senza però dare l’impressione di essere estraneo
ad un posto come quello. Nel frattempo s’erano fatte le 3 di
notte ed avevo visto uscire tutti dal locale: dai vecchiacci bavosi,
fino alla comitiva di cinesi allupati, che, completamente fatti,
cantavano allegramente per strada un motivo che aveva tutta
l’aria di essere particolarmente solenne e incredibilmente
ridicolizzato.
Vidi uscire dal retro lo
scimmione del locale, quello che per qualche miracolo aveva deciso di
risparmiare dal pestaggio Aidan e la sua comitiva e pensai che non
poteva mancare molto ormai all’uscita delle ragazze. Notai un
muretto non molto alto poco distante dall’uscita posteriore del
club, perfettamente di fronte dalla porticina di ferro da cui sarebbe
dovuta uscire Mallory. Mi andai a sedere lì e l’aspettai.
Finalmente, da sola e per ultima, vidi uscire anche lei.
La guardai attentamente e
mi stupii da averla anche riconosciuta a primo colpo. Non aveva
l’aria di una spogliarellista, né tantomeno di una
squillo. Però una cosa non era cambiata: la fame. Se la portava
dietro, come un’ombra, come quell’avvoltoio che vola,
spiritato, attorno ad un’animale morente, come la iena bavosa e
ridacchiante che già sente puzza di carcassa. I pantaloni,
troppo larghi per quella sua vita da vespa, erano allacciati in vita da
una vecchia cinta da uomo, probabilmente presa a qualche cliente come
forma di pagamento o molto più probabilmente rubata. Indossava
una maglietta slabbrata e sporca, con qualche buco sul collo, e si
copriva dal freddo della notte autunnale newyorkese come meglio
poteva, con un giubbotto vagamente militare che le arrivava alle
ginocchia e le maniche, accorciate con almeno un paio di giri, le
teneva ben strette tra le sue mani, come se fossero guanti.
L’uscita del locale
era leggermente interrata rispetto al livello della strada,
quindi non ebbe modo di scorgermi e, sicuramente, altri pensieri
affollavano la sua mente per ricordarsi di me, il primo cliente ad aver
dato forfait davanti alle sue performance. “Ehi!” la
chiamai, mentre si avviava nella strada buia, rimanendo ancora sul
muretto “Ehi!”. Finalmente si girò e con un colpo di
reni scesi dal muro e la raggiunsi. Lei dapprima sembrò non
ricordarsi di me poi, puntandomi il dito contro “Tu … tu
sei Tyler … giusto?” “In persona” le dissi
sorridente, tendendole la mano “ e tu sei Mallory, o
sbaglio?”. Speravo non si rabbuiasse come era accaduto nel club
qualche ora prima, e mi mandasse via, ma probabilmente il malumore le
era passato e, con aria un po’ divertita e un po’ frustrata
mi rispose: “No … non sono Mallory … né
Roxy, né Jennifer, né qualsiasi altro nome sentirai
dentro quel locale …”
Come avevo intuito, era
solo nomi fittizi, usati per recitare una parte o per non lasciare
tracce di sé fuori da quell’ambiente.
Avrei voluto chiederle il
suo vero nome, ma preferii non rischiare di commettere lo stesso errore
due volte: doveva scoprire che poteva, anzi doveva fidarsi di me, che
io l’avrei aiutata davvero, ma non stava a me darle dei tempi e
forzare la mano.
Visto che non stava a me
parlare, né lei sembrava interessata ad avere una conversazione
con me, dopo un po’ che camminavamo insieme, silenziosi, come se
nella strada mal illuminata lei nemmeno si fosse accorta della mia
presenza, la piccola ragazzina che avevo di fianco prese a guardarmi
con fare incuriosito, come se mi vedesse per la prima volta.
“Scusa, ma che vuoi da me?”. “Niente” risposi,
abbozzando una risata divertita, pensando a quanto fosse assurda tutta
quella situazione: ero nell’ultimo posto al mondo in cui avrei
voluto ritrovarmi, solo, con una ragazza conosciuta in uno strip club
solo poche ore prima, eppure senza avere il minimo timore che potesse
accaderci alcunché di male, ma solo con l’obiettivo di
starle accanto e proteggerla.
“Hai cambiato
idea?” mi chiese, ma non capii a cosa si stesse riferendo.
“Lavoro anche a casa però le regole rimangono le stesse
del club” “Ancora!!!”
esclamai, esasperato “voglio solo fare due chiacchiere con te,
quelle per cui avevo pagato e non sono stato esaudito”. “Ma
io ti ho ridato indietro i soldi” rispose, quasi dispiaciuta di
aver perso quell’opportunità; così sfilai dalla
tasca dei jeans i due bigliettoni da 50 che mi aveva tirato addosso
prima e glieli misi fugacemente dentro la tasca, avvicinandomi
leggermente a lei. Ovviamente la mia manovra non le sfuggì e
vidi, alla luce fioca dei radi lampioni che costeggiavano le strada
deserta, che non mancò di arrossire e sorridere alla buona sorte
che, almeno per una volta, si era avvicinata anche a lei.
“Vieni” mi disse.
Entrammo in un discount
aperto ad orario continuato, gestito da un indiano. La merce era
ammassata disordinatamente e l’arredamento probabilmente non era
stato né ammodernato né pulito dal giorno
dell’apertura e le piastrelle recavano il segno di bevande
gassate esplose sul pavimento e mai pulite. Con l’immancabile
repertorio di musica etnica che il lettore cd stava riproducendo, mi
chiesi se stando lì avrei avuto l’opportunità di assistere ad una
rapina a mano armata in diretta, così cercai di ripetere
mentalmente tutti i numeri d’emergenza di cui avremmo potuto
avere bisogno. Con mio grande sollievo, constatai che li ricordavo
tutti.
Mallory, o come cavolo si
chiamava, passava svogliata tra gli scaffali e ogni volta che prendeva
qualcosa, la rimetteva a posto quasi immediatamente, forse scoraggiata
dal prezzo. Mantenendomi a debita distanza da lei, senza farmi notare,
infilavo, in un cestino che avevo preso, tutto quello che lei stava
scartando. Ovviamente non erano prodotti da Chez Maxime, ma era sempre
meglio che rimanere a stomaco vuoto.
“Ma sei sicura che questa roba sia commestibile? … le scadenze si possono truccare, lo sapevi questo?”
Rise; probabilmente avevo
la classica faccia da figlio di papà che mette il naso in terza
classe, leggermente schifato, ma incuriosito, da creature strane come
quando si visita per la prima volta allo zoo.
“Ti faccio ridere,
eh?” le domandai, ma lei mi ignorò e si avviò verso
il cassiere mezzo addormentato con un pacchetto di patatine e una
bottiglia di coca.
Li intravidi parlottare
un po’, mentre cercavo di interpretare cosa ci fosse dentro un
barattolo di latta dalle scritte in arabo, che era persino sprovvisto
di immagini.
“Senti … non
puoi aspettare la prossima? Oggi non posso proprio, i soldi mi servono
per pagare l’affitto!!!” “Basta! Sono due mesi che
metto in conto! Ora mi paghi sennò ti mando la polizia”
Mi avvicinai intuendo che
la situazione stava prendendo una brutta piega, e vidi che, quasi in
lacrime, Mallory supplicava il commerciante di non chiamare la polizia
e di concederle una proroga del conto che aveva aperto in quel negozio.
Avere a che fare con gli sbirri avrebbe significato per lei finire in
galera, oppure dover fuggire e darsi alla macchia; non per un stupido
conto da un droghiere immigrato, ma perché sarebbero entrati
nella sua vita, una vita a tutti gli effetti criminale. Probabilmente
quella del commerciante era solo una minaccia, magari anche lui non era
perfettamente in regola, ma tanto era bastato a mandarla nel panico.
Picchiai sul bancone della cassa il piccolo cestito in ferro, in modo
da fare rumore di proposito e attirare l’attenzione su di me.
Mentre l’uomo batteva sulla cassa il prezzo dei prodotti Mallory
li squadrava uno per uno e lasciava che il suo sguardo vagasse da me
alla spesa, dalla spesa a me. Non impiegò molto a capire che
avevo raccolto tutto quello che lei aveva lasciato ed incredula mi
fissava, inebetita. Lasciai che le mie labbra le concedessero un
sorriso. Non potevo sapere quale significato avesse per lei, ma tentai
di trasmetterle tutta la fiducia che potevo infonderle. Volevo che si
fidasse di me, lo volevo con tutto il cuore.
“Perché lo
hai fatto?” mi chiese, una volta fuori dal negozio, mentre con la
busta della spesa colma, la seguivo ancora per le strade del Bronx
“perché hai pagato la mia spesa e hai persino saldato il
mio conto?”
“Perché mi
andava di farlo … e perché ho fame, e voglio mangiare
qualcosa anch’io quando arriviamo a casa tua.”
Si lasciò andare
ad una fragorosa risata e iniziò a camminare all’indietro,
per guardarmi bene in faccia mentre si rivolgeva a me “Allora
vedi che vuoi venire a letto con me?” “Non voglio venire a
letto con te! Cosa te lo fa pensare?” “Hai pagato la mia
spesa” “Ma non ho pagato te!” obiettai, rispondendole
per le rime. “Non paghi me perché la tua coscienza te lo
impedisce … così hai meno rimorsi … sei cattolico
per caso?”
Era molto intelligente,
ed il suo umorismo cinico denotava non solo un vissuto troppo pieno per
una ragazza evidentemente più giovane di me, ma anche
un’educazione discreta, interrotta però sul più
bello da qualcosa … o da qualcuno.
“Eccoci, siamo
arrivati” mi disse, entrando in uno spiazzo. L’edificio
sembrava essere un vecchio motel, infatti su un lato della costruzione
campava ancora un’insegna sgangherata, e i due piani dello
stabile – una serie di stanze che avevano come ingresso comune un
lungo balcone che dava sul cortile - davano l’idea di poter
cadere da un momento all’altro. Mallory mi spiegò che il
condominio apparteneva al suo datore di lavoro, un certo Joe, che
affittava alle sue colleghe e ad immigrati, completamente in nero, e il
prezzo andava a sua discrezione. Qualcuna delle sue colleghe nemmeno lo
pagava l’affitto, né le bollette, ma in cambio dovevano
fornire prestazioni sessuali o girare filmini porno.
“Pensa di farmi
paura con queste minacce di sfratto” continuò a sfogarsi,
mentre gettava nel cortile l’ennesimo, a quanto pareva, cartello
d’affitto “come se a qualcuno interessasse questa topaia.
Preferisco rimanere con il culo per terra che darla a quel puttaniere.
Io ho i miei diritti cazzo!”. Sembrava strano detto da lei,
eppure era terribilmente giusto quello che diceva. Doveva esserci una
distinzione ben precisa tra il lavoro e la vita fuori dal locale, anche
se probabilmente fuori da quel posto non ci fosse un granché, ma
sicuramente le garantiva ancora un minimo di sanità mentale.
Entrando in casa, ci
accorgemmo che mancava la luce. “Di nuovo …
vaffanculo!” imprecò, accendendo una candela che aveva sul
davanzale della finestra accanto all’ingresso. “Che
c’è?” le domandai “non hai pagato le
bollette?”
“No” rispose,
avvilita “ … è quello stronzo! Pensa che
così mi decido a fare quello che gli dice la sua testa vuota,
anzi suoi coglioni, visto che è con quelli che ragiona, ma non
ha capito con chi ha a che fare … se ha bisogno di qualcuno per
indurire il suo pisello moscio paghi una prostituta … io non
sono una puttana!!!”
“Ah no?!” le
chiesi. Mi pentii immediatamente di quello che le dissi, ma venne
così spontaneo che non riuscii a trattenermi. Eppure lei non
sembrò prendersela più di tanto, probabilmente era
abituata a certe gaffes, o forse molto più semplicemente era
abituata a sentirsi offendere così ogni giorno.
“Perdonami, io
…” “No, tranquillo, hai ragione … so
benissimo come vengono chiamate quelle come me … ma quello che
intendevo io era un’altra cosa” “Sì certo
…” le risposi, come se potessi capirla. In realtà
non ci riuscivo per niente. Faceva la prostituta a tutti gli effetti
nel privé di quel club, e anche fuori, ma faceva la schizzinosa
se qualcuno le offriva di pagare in natura anziché in contanti.
Non che dovesse piegarsi ai ricatti di quel porco, ma mi sembravano
assurdi quei moralismi.
Nel frattempo, i miei
occhi si erano ormai abituati a quella penombra e Mallory aveva acceso
candele qua e là e finalmente l’appartamento iniziava a
prendere forma. Non mi aspettavo un loft extralusso, ma casa mia in
confronto era un hotel a cinque stelle. In quello stanzone
c’erano praticamente mobili, al di là di un divano letto,
un comò; la cucina economica anni ‘60 ed un piccolo frigo
alla parete destra mi ricordavano molto la piccola baita di montagna
dove andavamo a campeggiare con la colonia estiva io e mio fratello da
bambini. Il bagno era in fondo alla stanza, ma non osai nemmeno
affacciarmi, considerato l’odore nauseante che arrivava da quel
vano buio.
Preparammo dei sandwich e
li mangiammo sul letto scricchiolante, sporco e scomodo, con le spirali
della rete che si conficcavano praticamente dappertutto; se non fossi
stato attento avrei anche potuto finire sodomizzato da una di quelle
molle.
“Comunque io sono
Allison, Allison Eugenia Riley” mi disse, nel bel mezzo del
nostro spuntino, mentre le raccontavo di come ero andato a sbattere nel
suo locale. Evidentemente aveva deciso che poteva fidarsi di me, e non
potevo esserne che felice.
“Ed io sono Tyler
Hawkins, piacere di conoscerti Allison!” le risposi, divertito e
compiaciuto per aver raggiunto quel piccolo traguardo.
“Hawkins? Sei imparentato con Charles Hawkins per caso?”
“Sì. È … è mio padre. O mio Dio! Non mi dire che lui …”
“No! Tranquillo
…” sorrise, mentre io mi rilassavo. Ero già pronto
ad andare a spaccargli la faccia. Lo ritenevo un uomo squallido, ma non
fino a quel punto. “Lo conosco solo di nome. Mio padre lavorava
nella filiale della sua società ad Indianapolis ...”
interruppe le sua spiegazione, rendendosi conto che forse aveva parlato
troppo, o forse ciò che mi stava raccontando non era piacevole
per lei. E comunque quant’era piccolo il mondo.
“Ed ora non lavora
più per lui?” chiesi, curioso. Ma evidentemente stavo
toccando una nota troppo dolente, perché non era più
così tranquilla mentre parlava “ … i miei si sono
trasferiti in un’altra … ehm, città, sì
… due anni fa … e diciamo che … non mi andava di
seguirli …” “E non avevi nessun’altro con cui
stare?”
Non mi rispose. Il
silenzio prolungato era il segnale che mi ero spinto troppo in
là, così non mi intromisi oltre. Si alzò, e dallo
zaino che aveva buttato per terra e che portava con sé dal
lavoro tirò fuori una scatolina di latta. Aprendola venne fuori
il profumo tipico dell’erba e vidi che effettivamente aveva
acceso una delle canne che aveva già rollato. “Vuoi un
po’?” mi disse. Era tanto che non me ne fumavo una, dai
primi mesi dopo la morte di mio fratello, ma qualche tiro per allentare
la tensione che mi portavo dentro a forza di mantenere a bada i miei
ormoni, non mi avrebbe fatto male. Ci allungammo sul letto e, ridendo,
lasciammo che la marijuana facesse il suo effetto.
Leggermente storditi
dallo spinello restammo allungati su quel letto a fissarci, con le
teste sepolte tra i cuscini. Lei continuava a fissarmi, mentre era
allungata a pancia in giù, con quel bel panettone che si portava
dietro in bella mostra, grazie al perizoma praticamente ridotto ad un
filo e alla magliettina che usava per dormire che non arrivava a
coprirle il fondoschiena. Per fortuna ero anch’io a pancia a
terra, così potevo nasconderle il mio inconveniente senza che
ricominciasse di nuovo con la storia del sesso. Cercai di convogliare
la mia attenzione ai suoi occhi che mi scrutavano attenti, alla ricerca
di qualcosa.
“Io non capisco
…” disse ad un certo punto, stizzita, rigirandosi nel
letto e facendo cigolare tutto “com’è che non hai
voglia di fare sesso con me?”. Come rigirare il coltello nella
piaga … decisi, masochisticamente, di mettermi alla prova e di
farle capire una volta per tutte che non era per quello che ero rimasto
con lei.
Mi voltai anch’io,
mettendomi supino, e mostrando il rigonfiamento un evidente
nonché imbarazzante tra i pantaloni. Di solito non mi creava
problemi, era motivo di scherzo con gli amici e di vanto con le donne,
ma non davanti a lei.
“Secondo te?” le chiesi.
“E allora? Vuoi
provare” incalzò lei, convinta di avermi piegato.
“No, grazie” risposi laconico. Poteva dirmi quello che le
pareva, ormai avevo preso la mia decisione, anche se dolorosa. Il che
mi fece pensare che un filmino per adulti non ci sarebbe stato male
l’indomani …
“Guarda che sono
brava!” insistette, portandosi in ginocchio sul letto, mentre io
rimanevo ancora steso. “Non lo metto in dubbio …”
risposi, alquanto impacciato, distogliendo lo sguardo. Dio! Mi sembravo
un ragazzino poco più che adolescente alle prese con le sue
prime turbe ormonali. “E allora qual è il problema? Non mi
sembra che non ti piaccio …” ironizzò, accennando
al mio pacco; eppure per attimo mi fece tenerezza: sembrava una
bambina, di quelle che fanno i capricci perché la mamma non
compra loro il giocattolo che volevano.
Allora balzai e,
gentilmente, la presi portandola sotto di me. I nostri corpi non si
erano avvicinati così tanto prima, e per un attimo fui costretto
ad impormi di respirare, se la mia intenzione era ancora quella di
mantenere un certo contegno. Poggiai le braccia con i gomiti sul
materasso, ai lati del suo bel viso. A vederla bene da vicino aveva
degli occhi bellissimi, nonostante il trucco sbavato; non potevo
distinguerli al buio, anche la luna aveva paura ad affacciarsi da
quelle parti, ma erano grandi e brillavano, colmi di vita, passione e
speranza. Era una ragazza forte, la conoscevo da poco, ma nonostante
l’avessi vista affrontare la vita vera, quella tosta e bastarda,
non era uscita una lacrima dai quei suoi bellissimi occhi.
Le tirai via qualche ciocca di capelli e, lievemente, carezzai la sua guancia.
“Sei bellissima …” le sussurrai “… ma non voglio essere come gli altri”.
Percepii il suo corpo
fremere sotto di me, mentre le dedicavo delle attenzioni che meritava,
per la sua forza, per il suo coraggio, ma che mai aveva potuto
chiedere, e mai nessuno le aveva concesso.
Avrei combattuto perché tornasse ad essere viva e libera, perché lo meritava.
“Ora dormiamo” le dissi, mentre mi risistemavo al mio posto, dandole le spalle “buonanotte!”
La sentii muoversi nel
letto e capii che si stava avvicinando. Si strinse a me con un braccio
e presi la mano che mi aveva teso, come se stesse chiedendo aiuto. Sono qui Allison, sono qui.
Accucciò il suo
viso sulla mia schiena e riuscivo ad immaginarla mentre si rannicchiava
contro di me. “Buonanotte Tyler” mi sussurrò “
… e grazie”.
NOTE FINALI
Come
avrete notato alcuni dettagli di Welcome to the Rileys li ho cambiati
in modo da poter avere tutti i personaggi del film presenti anche in
questa storia. Nella vita, come del resto in questa storia, le cose non
vanno sempre come dovrebbero, come vorremmo; anzi il più delle
volte il bicchiere è mezzo vuoto. Ed è per questo motivo
che Mallory, o meglio Allison, ha voluto dare a se stessa,
più che a Tyler, questa opportunità.
Ma, come già detto, le cose non sempre vanno nella maniera in cui desideriamo.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** May angels lead you in ***
When you crash in the clouds - capitolo 04
Capitolo 4
May angels lead you in
soundtrack
Come tutte le
mattine in cui non c’è un cazzo da fare e vorresti stare a
letto a poltrire, la sveglia del cellulare venne a buttarmi giù
dal letto con il suo insopportabile tremolio nella tasca dei pantaloni,
che avevo ancora addosso, e la sua ancor più irritante suoneria
deficiente. Il mio caro, carissimo coinquilino, aveva optato, per me,
per registrare un suo messaggio sveglia, fatto di urla ed imprecazioni,
che ogni volta finiva per ritorcersi contro di lui, quando mi alzavo e
lo picchiavo di santa ragione. Ma era caduto dal seggiolone da piccolo,
non era colpa sua se era venuto su cerebroleso.
Così, scosso dalla
vibrazione e stordito dalla sua voce, mi mossi di scatto sul letto e,
con un movimento scomposto, degno di un invasato, mi ritrovai seduto ad
occhi spalancati. Era ancora buio nella stanza, nonostante il mio
telefono sostenesse il contrario. Mi affrettai a recuperarlo e
spegnerlo, senza capire molto di tutta la situazione.
Certamente la sera
precedente dovevo aver bevuto o, nella peggiore delle ipotesi, avevo
fumato o preso qualcosa, visto che mi sentivo come se un camion mi
avesse asfaltato e poi, ripetutamente, tutti i grattacieli di Manhattan
mi fossero crollati addosso. Mentre, con un mal di testa di quelli
epici, i miei occhi mettevano bene a fuoco nel buio della stanza,
iniziai a fare mente locale sul dove mi trovassi, ma soprattutto sul
perché fossi finito lì, in un ex motel del Bronx, dimora
di una ragazzina squillo che, per un non meglio comprensibile istinto
da Samaritano mi ero deciso ad aiutare e, ancor più
incomprensibilmente mi aveva accettato tra quelle quattro mura senza
battere ciglio. Eravamo finiti a parlare, aiutati dal fumo e
dall’alcol, quasi fino all’alba quando, più che
intontiti, crollammo sul suo divano letto.
Erano le nove, ma in
quella stanza senza finestre sembrava che non fossero passati neanche
cinque minuti da quando ci eravamo addormentati, con lei che cingeva la
mia vita con le sue braccia esili.
Poi, in un lampo di
lucidità e logica, mi girai verso di lei che, nonostante la
sveglia scassamaroni, non aveva fatto una piega e continuava a dormire
beata.
Nel frattempo il mio
cellulare segnava le 9 di sabato mattina. Meraviglioso, era sabato, in
università non avevo lezioni e miracolosamente era anche il mio
giorno libero al lavoro. Avrei potuto dormire finché anche lei
non si fosse svegliata e poi le avrei chiesto di restare con me per il
resto della giornata, per magari poi convincerla a non andare a lavoro
quella sera. Bene … le botte di culo capitano anche a me ogni
tanto …
Tornai a stendermi di
nuovo al suo fianco, mentre lei si rigirava nel letto. Speravo che gli
eccessi della sera precedente mi aiutassero a prendere di nuovo sonno,
ed invece furono i ricordi ad avere la meglio, così che gli
ingranaggi del mio cervello, già fusi dalla serata turbolenta,
potessero andare in escandescenza. Il tuo cervello lavora troppo, mi
ripeteva sempre Michael, così finirai col bruciartelo prima dei
trenta; cazzo se aveva ragione!
Avrei dovuto fare come
Aidan, ma poi pensai che, in effetti, lui se l’era già
giocato, e comunque non stava tanto meglio di me.
Cosa avevo fatto? Come,
ma soprattutto perché mi trovavo lì? Cos’è
che mi spingeva ad aiutare una sconosciuta?
Dopo aver contato tutte
le ragnatele della stanza, dai 4 angoli del soffitto
all’intelaiatura del lampadario ed aver valutato la
gravità della muffa che macchiava le pareti della stanza,
arrivai alla conclusione che io e Mallory, o meglio Allison, non
eravamo poi così sconosciuti. Doveva essere accaduto qualcosa,
nella sua vita, prima che arrivasse a New York, che l’aveva fatta
diventare quello che era, una piccola donna arrabbiata con il mondo,
disillusa dalla vita e delusa da chi le stava intorno. Ed io, in fondo,
guardandola, era come se mi guardassi allo specchio. Anche se ero stato
poco con lei, avevo capito che c’era qualcosa dietro, e nei suoi
comportamenti c’erano tutta la ferocia e l’orgoglio di chi
sa che a stare soli si sta meglio, che è meglio bastarsi.
E non c’era altro
che volessi da lei, e per lei. Era quello il mio scopo, aiutarla ad
essere davvero libera ed indipendente. In cambio non volevo niente; se
fossi riuscito nel mio intento, il ritorno lo avrei trovato nel mio
cuore: la soddisfazione di essere riuscito dove con mio fratello avevo
fallito, quando non avevo riconosciuto i segnali di allarme e le sue
continue richieste d’aiuto.
Mentre mi perdevo tra
progetti e fantasticherie, su come mi sarei comportato al suo risveglio
oppure su cosa le avrei detto per convincerla a non tornare al lavoro,
il cellulare, a cui prontamente avevo imposto il silenzio,
iniziò a vibrare sul pavimento e, sporgendomi dal divano letto,
con una molla ficcata nel fianco, notai che segnalava la chiamata di
Aidan. Il campo era veramente poco nella parte interna del piccolo
locale, così mi spostai verso l’ingresso, alzando la
tapparella e addossandomi al davanzale che dava sul pianerottolo a
cielo aperto. La luce di quella che appariva come una bellissima
giornata di sole autunnale mi colpi con tutto il suo bagliore,
accecandomi, e fui costretto a dargli le spalle. Confidando
nell’abitudine di Aidan a non mollare finché non avesse
ottenuto risposta, feci tutto con estrema calma, pensando a cosa gli
avrei detto per giustificare la mia fuga della sera precedente.
“Pronto?”
risposi, cercando di mantenere un tono disinvolto, come se quello che
avevo fatto fosse stata la cosa più naturale del mondo.
“Dove cazzo
sei?” tuonò minaccioso il mio interlocutore
all’apparecchio. Rimasi in silenzio, evitando di rispondere a
quella domanda piuttosto scomoda, anche perché sinceramente non
è che avessi molto chiare le coordinate. “Senti”
cercò di darsi un tono più calmo e conciliante “non
mi interessa con chi te la sei spassata stanotte, escluso nel caso in
cui tu fossi andato con Samantha perché in quel caso verrei fino
in capo al mondo per evirarti …”
Lo interruppi con una
risata “a parte il fatto che si chiamava Veronica … e
comunque non sono con lei tranquillo!”
“Molto bene”
sembrò decisamente tranquillizzarsi “insomma … non
mi interessa sapere con chi sei, né cosa hai fatto. Dimmi solo
perché cazzo non sei a casa a quest’ora?”
A volte si comportava
come una moglie gelosa, o una mamma iperprotettiva nei miei confronti,
ma capivo che il suo comportamento era solo dettato dalla
responsabilità che sentiva nel tenermi al sicuro da ogni guaio e
dal bene infinito che provava per me. Escludevo tendenze omosessuali
solo perché una volta, ubriaco fradicio, c’avevo provato
con lui (secondo il suo racconto perché io non ne ho memoria) ed
il mattino seguente mi sono ritrovato con il naso mezzo rotto e tampone
per il sangue su per una narice.
“Stai
tranquillo” gli dissi, divertito ancora dal ricordo che mi aveva
involontariamente evocato “non sono né in galera,
né in ospedale … sono solo a casa di una ragazza”
“A casa di una ragazza? Ma se le uniche ragazze che abbiamo
incontrato ieri sera erano … Tyler sei andato a letto con la
tipa del locale?”. D’improvviso sembrava aver perso tutta
la preoccupazione e ritrovato il suo così tipico entusiasmo
infantile “Amico mio? Ma che c’hai dentro quelle mutande
… non ti stanchi mai?” scoppiammo a ridere entrambi
perché, in fondo, di acqua sotto i ponti ne era passata tanta,
forse anche troppa, ma noi eravamo rimasti gli stessi ragazzetti
cretini che sottobanco, al liceo, si passavano i giornaletti a luci
rosse, o facevano la gara delle dimensioni sotto le docce negli
spogliatoi della palestra.
Le nostre risate fecero
risvegliare Mallory … no, lei era Allison ed era giusto che io
la chiamassi così … che si contorceva come una gattina
dispettosa tra le lenzuola di quel lettino, troppo scomodo per avere un
riposo decente. Aveva bisogno di un letto vero …
“Ora devo lasciarti
… non so quando torno …” “Ma Tyler!!!
...” pigiai il tasto rosso prima che potessi sorbirmi qualsiasi
rimprovero dal mio amico e prima che mi costringesse a dargli
spiegazioni che non potevo, non volevo e non sapevo dargli.
Onestamente, mi avrebbe preso per pazzo e l’avrei capito. Ma
questa era una cosa mia, lui non doveva entrarci, non ancora.
Mi avvicinai al divano e
la vidi ancora sonnecchiante, in quello stato di torpore che, grazie
alla luce che finalmente entrava in quel monolocale, la rendeva
innocente e sensuale allo stesso tempo, una bellezza intrappolata a
metà tra il paradiso ed inferno che mi mandava in tilt.
C’era poco da fare: era un bellissima ragazza e io non rimanevo
indifferente ma, per una volta, il mio organo riproduttore doveva
starsene a riposo dov’era, e lasciarmi fare quello che dovevo,
quello che era giusto. Mi sedetti al suo fianco, cercando di essere il
più cauto possibile e limitare il cigolio al minimo, e stetti a
bearmi di lei; era troppo bella per staccarle gli occhi di dosso,
troppo bella per dover essere sprecata a quel modo, sgualcita come un
straccio per la polvere, trattata a mo’ di oggetto. Ma non erano
solo le ferite dell’animo a preoccuparmi. Girandosi, aveva
portato un braccio al di sopra della sua testa, mettendo in vista
diversi graffi e lividi. Anche la sera precedente, mi ero accorto di
una piccola ombreggiatura, mentre fissavo il suo fondoschiena, quando
eravamo ancora nel locale. All’inizio, data anche la penombra,
avevo ipotizzato una voglia, o qualcosa del genere. Alla luce di quelle
spiacevoli rivelazione, non impiegai molto a fare due più due
… non mi interessava proprio capire il motivo dei quei graffi e
lividi, perché più ne scoprivo e sapevo su di lei,
più il senso di nausea e la rabbia crescevano esponenzialmente
in me. Ora più che mai avevo voglia di porre fine a quello
schifo.
Si stropicciò gli
occhi mentre il sole filtrava dalla finestrella misera della stanza e
mugugnava qualcosa che non capii, forse stava ancora sognando. Ed
invece aprì i suoi meravigliosi occhi e non potei fare a meno di
sciogliermi. La matita e il resto del trucco sbavato non bastavano a
sminuire quegli smeraldi incastonati nel suo viso d’angelo
tentatore. Era il ritratto dell’innocenza rubata, di una malizia
forzata da cause di forza maggiore.
“Ehi” le sussurrai, sorridendole, non riuscendo a smettere di fissarle quei meravigliosi occhi verdi.
“Ty …
Tyler?” mi chiamò, stupita, ancora stordita dal sonno
“sei ancora qui?”. Tra tutte le cose che poteva chiedermi,
aveva scelto proprio la più complicata; temevo che potesse
respingermi, e mi auguravo che non lo facesse ma, in cuor mio, sapevo
che aveva tutti i diritti di farlo. Chi ero io in fondo per entrare
così prepotentemente nella sua vita, senza nemmeno chiedere
permesso?
La fissai ancora per un
po’, ma dai suoi occhi assonnati era difficile scorgere qualche
pensiero o idea a tal proposito. Ma la dovevo smettere di vedere il
bicchiere perennemente mezzo vuoto; pensa positivo Tyler, cazzo! Magari
è solo sorpresa!
Così presi
coraggio, era la terza o quarta volta in meno di ventiquattro ore,
praticamente un record per me. “Ti da fastidio?” le
domandai, tentando di celarle la mia inquietudine non solo per quella
strana situazione, ma anche sul quadro più ampio, su ciò
che le pieghe della sua vita nascondevano e su ciò che avrebbe
potuto cambiare e migliorare, se solo avesse voluto.
“No” rispose,
schietta. Probabilmente Allison non conosceva il significato
dell’espressione avere peli sulla lingua, probabilmente il tipo
di vita che conduceva le aveva insegnato che non c’erano mezzi
termini: il sì era un sì ed il no era un no, il nì
via di mezzo non era contemplato. “Solo …”
proseguì “… gli altri di solito se ne vanno prima
del mio risveglio. Anzi, di solito vanno via prima che io mi
addormento”. C’era un pizzico di fastidio nella sua voce,
come se, per la prima volta probabilmente, avesse vergogna di mostrarsi
per quello che era. O meglio, come se temesse che la parte che tutti
gli altri conoscevano di lei potesse avere la meglio davanti a me.
C’era come un muro di difesa, ma anche d’attacco, di fronte
a me; costruito per difendersi forse da quella parte scomoda di
sé, e per aggrapparsi a me, per qualche motivo. Non potevo che
inorgoglirmi a quella sensazione.
Istintivamente la mia
mano corse alla sua guancia, calda e vellutata, bianca come le bambole
di porcellana esposte in bella mostra nella camera di Caroline. Eppure
lei non metteva soggezione, il suo sguardo non era vitreo come quello
dei fantocci. Era viva e i suoi occhi correvano su di me in mille posti
diversi, come se non sapessero cosa osservare per prima, come se
volessero ricordare di me il più possibile, a conferma forse che
per lei ero solo un sogno e che doveva portare con sé il mio
ricordo al suo risveglio.
“Ma io non sono
come gli altri” le rassicurai, mentre abbozzò un sorriso,
a cui evidentemente non era particolarmente avvezza. Un risata si
concede a chiunque: ad un comico di bassa lega, alle vignette di un
cartone animato; ma il sorriso, il sorriso è solo per chi ti
vuole bene … chissà quand’era stata l’ultima
volta che per lei erano stati provati sentimenti veri, e non rigurgiti
di sessualità repressa e subdola. Era raro per me capire una
persona così velocemente, di solito non lasciavo che la prima
impressione mi guidasse nella scelta delle mie compagnie, eppure in me
c’era la strana percezione di conoscersi da sempre, che non ci
fosse nulla da dirsi perché c’avevano pensato già
le nostre vite, così tacitamente speculari, a raccontarcelo.
Mi alzai a malincuore da
quel letto, dove avrei volentieri passato il resto della mia esistenza,
immerso in quello stato di beatitudine totale, a cui non ero più
abituato, ma a cui ci si può assuefare facilmente. Non
c’era niente che giustificasse un rapporto tra noi, né
alcun sentimento reciproco, eppure era un piccolo rifugio dove stavamo
bene entrambi e per un po’ c’eravamo dimenticati di cosa ci
aspettasse fuori.
Andai nel piccolo angolo
cottura e misi a scaldare l’acqua per il caffè. Non ero
abituato a farlo così, visto che era già stato un
miracolo imparare ad usare la macchinetta automatica; speravo davvero
di non sbagliare le dosi. Rovistai nei bustoni della spesa che non
avevamo svuotato la sera precedente e trovai la confezione di frollini
al cacao che ricordava vagamente quelli che usavo io a colazione.
“Sono quasi tutti
rotti” mi lamentai mentre tornavo a sedermi sul letto, aprendo il
pacco di biscotti. “Oh fa niente” mi tranquillizzò
mentre ne portava uno in bocca “tanto comunque in bocca si
rompono”. Scherzammo insieme ancora mentre aspettavamo che
l’acqua fosse calda per scioglierci il caffè. Non fu una
conversazione costruttiva, non servì a conoscerci l’un
l’altro più di quanto non avessimo fatto nella notte: mi
raccontò della sera precedente, di come si era sentita sollevata
quando le avevo detto che volevo stare con lei e che la rabbia per il
mio comportamento era dovuta soprattutto al rifiuto in sé,
piuttosto che al tempo o al denaro perso.
“Posso farti una
domanda?” le chiesi, mentre bevevamo il caffè; non era
uscito male, per fortuna. “Dimmi”. “Perché mi
hai lasciato venire qui? Sapevi benissimo che non volevo nulla di
ciò che volevi offrirmi eppure non hai opposto resistenza quando
ti ho detto che volevo passare del tempo con te …” avevo
il terrore della sua risposta, ma dovevo sapere.
“Forse dovrei
smettere di bere sul lavoro” confessò, con una risata
quasi isterica “a fine serata mi dà leggermente alla testa
e non capisco più molto di quello che faccio o dico”
“No, dovresti
smettere a prescindere perché è una merda quello che
danno da bere là dentro, ho il sospetto che ci sciolgano qualche
colla o resina tossica” “Noooo” smentì
immediatamente, scherzando “al massimo circola qualche bottiglia
scaduta!!!” Anche la sua risata era bellissima, cristallina; dava
davvero l’idea di trascorrere per la prima volta dopo tanto tempo
un momento sereno. E stava facendo apprezzare anche a me
quell’istante, così piccolo e semplice eppure prezioso.
“Comunque” continuò “davvero non saprei Tyler
… sicuramente ero un po’ brilla … e forse, forse
per una volta mi andava di passare la notte con una persona per
bene”
Quello che mi disse mi
sorprese; ovviamente ero felice di sapere che si fidasse di me, ma non
riuscivo a capire come potesse reputarmi una persona per bene in
così poco tempo. “Ma come fai a dirlo? Avrei potuto
recitare la parte del galantuomo e poi approfittare di te
…”
“Ma dai!!!
Guardati, non faresti male ad una mosca!”. E no! Questo è
giocare sporco e ferire il mio orgoglio di maschio.
“Senti”
replicai “non avrò il fisico da wrestler ma non mi sembra
di essere un pappamolle!” “Non sto parlando del fisico
Tyler!” spiegò lei “io li conosco i clienti del
locale, hanno tutti la stessa faccia e anche se cercano di mascherarlo
io lo so che sono maiali fino al midollo. Ma tu no”.
Cuore mio, ti prego,
cerca di non farti scoprire a battere così forte, ma soprattutto
cerca di non abbandonarmi proprio ora. Non ci riusciva Allison a non
essere provocante, era più forte di lei; le bastava ridurre la
sua vicinanza a meno di 10 cm che chiunque le fosse stato davanti,
nella fattispecie io, le sarebbe caduto ai piedi. Era incredibile.
“Basta
Allison” la ripresi “stiamo facendo un discorso serio. Sai
che non mi devi nulla e che non pretendo niente da te”. Mi alzai
dal letto e nel piccolo lavandino posai le tazze.
“E allora
tu?” fece lei “perché sei venuto da me? Se non
è il sesso che vuoi, che sei venuto a fare?”
Come gliel’avrei
detto? Quali parole usare per non ferirla? Perché diciamo la
verità: quante possibilità c’erano che non
s’incazzasse con me? Avrei finito col definirla una prostituta o
peggio ancora, le avrei fatto la predica sui valori morali e altre
stronzate che fanno più prete di campagna che studente
squattrinato e festaiolo. Mi appoggiai al piano del lavello e presi un
respiro profondo. La testa mi pulsava: i postumi del venerdì
sera non erano ancora andati via e la tensione del momento mi stava
infliggendo il colpo di grazia.
“No non è
per il sesso” confermai “e ad essere sincero non posso
permettermi di spendere quanto mi chiedevi …” “Ah
no?” chiese meravigliata “ma tuo padre …”
“Con mio padre ho chiuso i ponti un anno fa …”. Io
non mi spinsi oltre, lei non pretese altro da me, proprio come era
accaduto con lei nella notte, quando avevamo scavato un po’ nel
suo passato.
“Beh … se
credevi di potermi sfilare dei soldi allora sei venuto proprio nel
posto sbagliato” assicurò amareggiata “e i soldi di
ieri sera mi servono per … o cazzo! Che ore sono?”.
Quando scoprì che
erano ormai le 10.30 entrò letteralmente nel panico,
scorrazzando avanti ed indietro per quella stanzetta come se avesse a
disposizione un anello di pista d’atletica. Iniziò ad
affilare la spesa nella piccola credenza, incurante del fatto che fossi
ancora lì con lei e che stavamo avendo una conversazione. Da un
lato mi rincuorò sapere che non avrei più dovuto dirle
nulla, ma quel suo atteggiamento era troppo strano, sospetto; la sua
agitazione arrivò al punto in cui, per lavare le tazze e la
caffettiera, mi strattonò con violenza (alla quale non mi
opposi): “Levati di mezzo” mi disse, senza tante smancerie.
“Che ti prende?” le chiesi.
“Te ne devi
andare” mi ordinò, senza giri di parole, ancora con le
mani immerse nell’acqua. “Che cosa?” domandai, ancora
più incredulo. “Hai capito benissimo. Te ne devi
andare.” “Ma perché?” proseguii, insistendo
“stavamo così bene e di punto in bianco mi cacci?”;
mi sembravo un adolescente alla prima cotta, la dovevo smettere di
rincretinirmi per una ragazza che evidentemente, capito
l’andazzo, non aveva alcuna voglia di starmi a sentire.
“Questa è
casa mia. Saranno anche un po’ cazzi miei?” non aveva tutti
i torti, eppure quella colazione fatta insieme, quelle domande che ci
eravamo rivolti fino a pochi minuti prima mi avevano dato la percezione
che forse sarei riuscito a perforare quella parete stagna che aveva
messo tra me e lei. Ma si era chiusa, di nuovo.
“Senti” mi
avvicinai a lei, cauto, mentre scalzava la biancheria dal materasso:
non avevo alcuna intenzione di tornare a casa con dei lividi che non
avrebbe impiegato molto a provocarmi. “Ti chiedo scusa se ho
invaso troppo la tua privacy, non era mia intenzione. Se ti ho ferito
in qualche modo devi dirmelo, parleremo di quello che vuoi tu
…”
Si fermò dalle sue
faccende, mentre riponeva in uno dei cassetti del comò le
lenzuola, si voltò verso di me e mi fissò, irritata e
nervosa, per meno di cinque secondi. Tanti ne bastarono per farmi
capire che non era proprio aria e avrei fatto meglio a starmi zitto.
“Dammi una mano a chiudere il divano, dai” mi disse. Imitai
le sue mosse, e sembrò calmarsi un attimo, in
quell’atmosfera dal sapore vagamente fraterno. “Sta per
arrivare il capo” confessò “e se ti trova qui
c’ammazza a tutti e due” “Ma è casa
tua!!!” sbraitai, incredulo. Ok, era il suo datore di lavoro,
oltre che affittuario, ma questo non gli dava nessun diritto sulla vita
privata delle ragazze.
“Magari … il
fatto è che se ti trova qui dentro penserà che sei un
cliente … e vorrà la sua parte …” ammise, ed
era evidente che si vergognasse a morte. Sapevo benissimo quale fosse
la sua professione, ma non immaginavo che la faccenda potesse assumere
determinate dimensioni. Era come un iceberg: la parte esterna è
solo un inerzia rispetto al sommerso.
Ci siamo, pensai;
paradossalmente era proprio quello il momento più opportuno per
dirle perché ero rimasto fuori dal locale ad aspettarla,
perché avevo passato la notte con lei, perché avevo
scelto lei per preparare, per la prima volta nella mia vita, la
colazione ad una donna. “Non lo fare più quel lavoro,
Allison” la supplicai “non c’andare più!”
Mi fissò,
incredula che potessi veramente averle fatto una richiesta simile.
“Stai scherzando vero?” “No” “E secondo
te cosa potrei fare?” “Siamo a New York, lo troverai un
lavoro più decente di questo, anche pulire i cessi della
stazione … è sempre meglio che fare la puttana!”
Lo sapevo, me lo sentivo
che sarei arrivato a quel punto. Avevo fatto e detto esattamente le
parole che mi ero ripromesso di non usare. Ora me lo meritavo proprio
di essere preso a botte e di essere cacciato da quella stanza.
Allison si buttò
sul divano, accendendo una sigaretta. Sembrava quasi che le mie parole
non l’avessero nemmeno scalfita. Si portò le mani a
coprirsi il volto e a massaggiarsi le tempie, come se anche lei avesse
la stessa emicrania infernale che stava comprimendo il mio cervello.
“Tu non sai niente
Tyler … niente. Che ne puoi sapere? Male che ti va corri da
mammina e papino e la situazione è risolta. Io non ho nessuno
pronto a pararmi il culo”.
Voleva ferirmi, ma credo
che in quel modo ferisse più se stessa, ricordando l’amara
verità della sua condizione. Probabilmente aveva ragione: su di
lei non avevo alcun diritto e non potevo pretendere dal giorno alla
notte di toglierla dalla strada e pensare che mi permettesse di farlo
stendendo un tappeto rosso al mio passaggio. Come aveva detto lei, io
non sapevo niente, non avevo idea di cosa volesse dire vivere in quel
mondo, in quel modo.
“Vai via Tyler Hawkins … è meglio così”.
NOTE FINALI
Oggi
non voglio tediarvi con delle note finali, immaginando già il
vostro stato d'animo, visto che sarà identico al mio.
Quando
ho scritto il
capitolo mi è costato tanto sudore, ma credo che debba essere
così la loro "relazione", il loro rapporto: un andirivieni
continuo, un passo avanti e tre indietro. Ma è così che
funziona nella vita vera.
Vi
ringrazio per il seguito, anche se mi piacerebbe sentire molte
più voci...per quanto possibile su un sito internet!!! XD
Vi ricordo che potete
passare a salutarmi quando vi pare sulla mia pagina FB e su Twitter; i link sono nella mia pagina qui su EFP.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** As you really are ***
When you crash in the clouds - capitolo 6
Capitolo
6
soundtrack
Io amo il mio lavoro.
Non è una di
quelle frasi che si dicono quando si è ai ferri corti con il
proprio datore di lavoro e si devono stringere i denti, perché
io lo amavo davvero.
Stare in mezzo a quei
libri, percepire fragranze diverse da pagina a pagina, distinguere il
profumo della carta nuova dall’odore forte ed acre di quella
riciclata, mi dava la sensazione di essere in un mondo fatto per poche
persone e di essere tra gli eletti. Conoscere tutti gli scaffali, gli
autori e i testi che li riempivano mi faceva sentire veramente pieno e
soddisfatto. Forse era inutile studiare all’università,
visto che avevo trovato la mia realizzazione in mezzo a tutti quei
volumi.
Tuttavia in un modo o
nell’altro, da me ci si aspettava che prendessi in mano
l’azienda di famiglia e, per quanto la cosa non mi esaltasse
particolarmente, lo avrei fatto; non per compiacere mia madre,
né tantomeno mio padre, il quale non sembrava peraltro ansioso
all’idea di passarmi il testimone al timone della
compagnia, ma per portare a termine il mio ormai ben noto
progetto di ultimare ciò che Michael, fu mio fratello, non era
stato in grado di portare avanti.
Per quanto detestasse
lavorare con mio padre, infatti, Michael teneva al nostro futuro, come
lo chiamava lui: avrebbe solamente preferito fare tutto a tempo debito
e poter avere almeno un minimo controllo sulla sua vita. Questo era
quanto ci aveva lasciato scritto in mezzo appunto, accanto al suo corpo
penzolante ed esanime.
Al momento però,
essendo soddisfatto della mia condizione, cercavo di pensare il meno
possibile al momento in cui avessi dovuto sedere al tavolo degli
azionisti, puntando piuttosto a ricordare l’ordine preciso del
ciclo dei Rougon-Macquart di Zolà.
Tanto perché il
supplizio di avere lui e le sue chiacchiere in giro per casa non pareva
essere già sufficiente, Aidan, il mio beneamato compagno di casa
e di studi, era anche la mia condanna sul posto di lavoro. Certo, il
nostro non era un lavoro da definirsi estenuante e, alla fine della
giornata, ma anche molto prima, finivamo puntualmente per cazzeggiare
bellamente in compagnia l’uno dell’altro, nascosti tra i
vari scaffali, e puntualmente ripresi dal direttore della libreria.
Ma la cosa più
bella in assoluto? La zona bar: quel genio del boss, infatti,
s’era inventato una piccola area del negozio da adibire a zona
caffè per clienti e non, dando la possibilità di poter
leggere i propri acquisti già dentro il negozio, bevendo del
buon caffè e mangiando delle ciambelle più che decenti.
Di tanto in tanto vi organizzava anche degli eventi, come presentazioni
di libri e letture di scrittori emergenti. Chapeau al capo per essere
stato tanto brillante, arrivando per primo ad un’idea che
è poi diventata un must per i maggiori book store
d’America, naturalmente ricavandone introiti considerevoli.
Quell’area relax
consentiva a noi dipendenti anche di rimorchiare, dalla ragazza alla
ricerca dell’ultimo libro romantico e strappalacrime alla
studentessa dal profilo più intellettuale e malamente sostenuto
… e poi le consumazioni per lo staff erano gratis: cosa si
può volere di più dalla vita?
Il Natale a New York era
praticamente alla porte il 5 dicembre,contando che i maggior centri
commerciali aprono mediamente le loro offerte speciali subito dopo
Halloween ed il nostro negozio era in piena corsa al regalo,
specialmente quando è domenica pomeriggio e il freddo pungente
delle strade newyorkesi non permette il passeggio per le strade, ancora
per poco spoglie dalla neve, aiutato anche dalla nuovissimo menù
di dolci e bevande a prezzi vantaggiosi che stavamo pubblicizzando
ormai da due mesi.
Il nostro compito in
quella bolgia, quindi, non era solo quello di sistemare i libri, stare
alla cassa o, al limite, consigliare l’acquirente ma anche fare
la guardia ad eventuali furti.
Io amo il mio lavoro. Lo
amavo maggiormente in giorni di promozioni intense come quello, quando
il marasma e il caos regnavano sovrani, ed io riuscivo a staccarmi di
dosso quella piattola ambulante di Aidan.
Ed era proprio senza di
lui che ero andato a fare pausa. La caffetteria era talmente affollata
che non mi era possibile applicare la mia solita tecnica per aggirare
la fila, la fiumana di gente era così pressante che Genny non
poteva vedere, neanche da lontano, quelli che lei riteneva essere degli
occhi magnetici ed un sorriso smagliante, che di solito mi consentivano
un trattamento di favore; ma, siccome il cliente ha sempre ragione, il
mio cartellino identificativo non aveva alcun valore pratico in termini
di favoritismi. Di quel passo avrei fatto prima ad andare ad uno dei
bar di Downtown.
Quando finalmente riuscii
ad avere il mio cappuccino ed un muffin al cioccolato per fortuna
appena sfornato capii che effettivamente l’impresa era appena
cominciata. Non avendo lo stomaco fisiologicamente adatto a consumare
quelle delizie nel nostro stanzino 2x2, puzzolente di scarpe e sudore
anche a 40 gradi sotto zero, avrei dovuto trovare un buco per sedermi
in quella babilonia. Esclusi i tavoli con le famiglie confusionarie e
le vomitevoli coppiette di innamorati, mi fiondai lì dove avevo
scorto un movimento sospetto: un mio simile, un nerd topo di
biblioteca, che rispondeva al nome di Marc, habitué del nostro
esercizio stava alzandosi per andare via dopo aver lasciato i
bicchieroni dei suoi cinque caffè sul tavolo ed aver finito la
copia dell’ultimo Stephen King acquistato quella stessa mattina.
Presi una rincorsa da far impallidire Hussein Bolt e, con un movimento
repentino ed elastico mi accomodai nella poltroncina che dava sulla
strada mostrando tutto il mio compiacimento per l’impresa
riuscita con uno sguardo a tratti strafottente, a tratti divertito, a
chi era rimasto in piedi. Presi la mia Moleskine e vi tuffai il muso
lasciando che la penna facesse scorrere rapidamente il suo inchiostro.
Era stato da sempre il
regalo di Micheal per il mio compleanno e, quando se n’era
andato, avevo continuato da me questa nostra piccola tradizione. Da
allora avevo preso l’abitudine di usarla come fosse il mio punto
di incontro con lui, una linea diretta con il paradiso … una
voce così bella non poteva essere la colonna sonora per demoni
ed anime dannate …
Alle volte non sapevo
nemmeno io cosa gli raccontavo: la mia giornata, la cronaca di New York
e del mondo, la mia depressione, ma era anche, e soprattutto, un modo
per non impazzire o forse era già andato fuori di testa e non me
ne ero reso ancora conto.
“Ehi” una
voce femminile mi richiamò all’ordine “ il fatto che
sei solo non ti permette di tenere un tavolo per sei tutto per te
… voglio dire, questo posto è pieno e non cade il mondo
se lasci sedere qualcuno …”
Un momento. Io conosco
questa voce. Insolente un po’ roca. No non è possibile! Cosa verrebbe a
fare lei qui?
Alzai lo sguardo verso la
mia interlocutrice e trovai la persona che meno mi aspettavo, ma che
più in cuor mio avevo sperato di vedere, almeno nelle ultime tre
settimane. Eppure non era come la ricordavo, era un’altra delle
sue mille facce; un’altra lei, quella a cui pochi, forse solo io
qui a New York, avevano avuto modo di conoscere. Allison. Il suo volto
pulito, senza quella orribile matita carbone a nascondere i suo
bellissimi occhi verdi, ora davvero brillanti, a darle quell’aria
dura e vagamente volgare, ed i capelli ordinatamente raccolti in un
semplice chignon da ballerina.
Sembrava una di quelle
ragazzine appena uscite dalla lezione di danza classica, corpicino
minuto, a confermare i miei sospetti sulla sua reale età, e
tutta felpata pulita e precisa, rigorose anche nell’abbigliamento.
Mi domandai quanti altri
lati nascosti possedesse quella ragazza e quanti avrebbe rivelato o
tenuti nascosti.
Cercai di farle notare
quanto fossi felice di vederla dopo che mi ava cacciato da casa sua ed
io senza protestare accusai il colpo e me andai strisciando con la cosa
tra le gambe. Eppure guardandola attentamente notai che tra i due la
più elettrizzata da quel nostro incontro/scontro fortuito fosse
proprio lei. Ma non era stata proprio lei a cacciarmi dal suo
appartamento?
“Che … che
ci fai qui?” chiesi balbettante tornando a percepire quel disagio
e quell’imbarazzo che avevo sentito ad averla al mio fianco la
prima volta, nonostante tra noi ci fosse una certa distanza di
sicurezza, imposta dal tavolo di un bar, e fossimo circostanti da una
folla chiassosa ma decisamente diversa da quella che frequentava il suo
locale.
“Ho un po’ di
tempo libero” rispose lei quieta “così ho deciso di
farmi un giro per la New York bene … a dir la verità
pensavo di trovare Aidan qui, non te. Così mi aveva detto
Veronica”.
Aidan? Cosa poteva mai
volere lei da Aidan. Sapevo che i ragazzi erano tornati in quel locale
almeno un paio di volta da quella sera ed io mi ero costantemente
e categoricamente rifiutato di metterci di nuovo piede, quasi a voler
prima avere una piano di guerra e poi agire e sferrare l’attacco
finale contro le forze del male. Allo stesso tempo però
conoscevo bene le serate di Aidan perché, pur non volendo, lo
avevo sentito lamentarsi del fatto che nemmeno in quella bettola fosse
riuscito a spuntarla con qualcuna. Ergo, non poteva essere una
questione di lavoro. Altri giri loschi? Me ne sarei certamente accorto
se avesse cominciato a fare uso di sostanze illegali … anche
perché probabilmente non sarebbe tornato a casa, ma sarei dovuto
andare a cercarlo per ospedali ed obitori.
“Aidan?!”
chiesi, rimanendo sul vago, senza mostrare la mia perplessità a
riguardo “effettivamente anche lui lavora qui. Se vuoi lo
chiamo”. Cercai di essere conciliante, anche se non mi andava a
genio che si vedesse con lui; primo, perché a lui avevo messo in
chiaro le cose e non tolleravo che la sfruttasse e due, perché
stupidamente la consideravo mia; a quale titolo, dovevo ancora
scoprirlo.
“No” si
affrettò a rispondere “non ce n’è bisogno. Lo
cercavo solo in quanto tuo amico”. Come diceva Cartesio? Ah,
sì, sogno o son desto?. Per quanto mi sentissi inorgoglito dalla
sua affermazione dovevo rimanere con i piedi per terra e non farle
capire quanto fossi felice che, per qualche motivo, mi stesse cercando.
“Ah
sì?” chiesi, fintamente sorpreso. “Sì”
rispose affermativamente, abbassando lo sguardo, come se avesse timore
di una tale rivelazione. Avrei voluto tenderle la mano, farle capire
che le ero vicino e che con me non aveva nulla da temere. Ma capii le
sue paure, soprattutto alla luce dei nostri trascorsi; ancor di
più, doveva capire che non ce l’avevo con lei per come ci
eravamo salutati l’ultima volta: certo c’ero rimasto male,
ma non potevo biasimarla, non si può pretendere di essere
sconosciuti ed essere accolti da subito con un tappeto rosso e grandi
onori, il rispetto e la fiducia devono essere guadagnati a piccoli
passi e gesti. Ed era proprio quello che avevo intenzione di fare,
mosso a nuova speranza da quell’incontro.
“Avevo bisogno di
parlarti e stavo aspettando solo di avere del tempo a disposizione per
venire a cercarti. Devo chiederti scusa … per come mi sono
comportata quella mattina a casa mia …” si era fatta
piccola nel suo posto a sedere, finendo quasi per sotterrarsi
letteralmente dalla vergogna per quanto aveva fatto. Ma non era stato
commesso nessun delitto e, per quanto potessi essermela presa allora,
era passato un mese ed avevo smaltito la rabbia, o qualsiasi cosa
fosse, e dovevo farle capire che non c’era nulla da perdonarle.
Ma non mi guardava, restava fissa con lo sguardo verso il basso,
probabilmente ponendo la sua attenzione verso le mani che non la
smetteva di torturare, almeno da quanto si poteva distinguere dal
movimento scomposto delle sue braccia.
Raccolsi quelle poche
briciole di coraggio e sfrontatezza che avevo e le incanalai tutte
verso il mio braccio, tendendolo verso di lei. “Allison” la
chiamai, ma senza successo “Allison!”. Finalmente mi
rivolse lo sguardo e notai quanta sofferenza e speranza vi custodisse,
ed erano dilatati ma alteri, colmi di lacrime che aveva ricacciato
indietro e che si erano fossilizzate, appesantendo il suo cuore di
rancore e malinconia. Chiedeva aiuto e tutta la comprensione che sapeva
avevo da offrile, essendomi già proposto una volta. “Non
è successo niente, io non ce l’ho con te, capito?”.
Annuì, tirando su
col naso e imponendo alle sue lacrime di tornarsene da dove erano
venute per l’ennesima volta: mi chiedevo per quanto tempo avrebbe
retto nella strenua ostinazione di dover modulare e tenere a bada le
sue emozioni. Timidamente prese la mia mano con le piccole mani, con un
gesto che mi ricordava la dolcezza disarmante dell’infanzia,
quando i bambini stringono le grandi mani adulte con le loro dita
minute, scoprendo la novità di quel contatto così
speciale. Il mio palmo avrebbe voluto spingersi ben oltre la vicinanza
scontata di una stretta di mano: correre su per il suo volto ed
accarezzarlo, rinvigorire le sue spalle, scuotendola da un torpore che
l’aveva resa schiava di uomini senza scrupoli. Una cosa avevo
capito con lei: aveva bisogno dei suoi tempi, probabilmente aveva
bisogno di scoprire di nuovo il mondo e di riprendere confidenza con le
persone; sapevo che ci sarebbero stati momenti in cui avrebbe mollato
la presa, in cui avrei dovuto correrle di nuovo incontro, ma aveva
accettato la mia mano e non avevo intenzione di tirarmi indietro.
Quella non era una presa come un’altra, era l’attracco ad
un porto sicuro, l’inizio di un qualcosa di importante, per lei e
per me. Perché avevo di nuovo una maratona in cui valesse la
pena di gareggiare, della quale non conoscevo il tragitto, ma di sicuro
sapevo la destinazione, e non era l’infinito.
Michael, fratello mio, non avertene
a male se do la precedenza a lei, piuttosto che a te. Ti voglio bene e
non ti dimenticherò mai, ma lei è viva, ed io sono vivo
con lei, ed è l’unico modo che conosco al momento per
distruggere i miei fantasmi. Ti voglio bene e non ti
dimenticherò mai, ma tu sei uno di questi ed io devo vivere. Se
non per me, almeno per coloro che a me ci tengono. Forse non tu
non la
vedevi così, ma c’è un mondo di persone per cui
vale la pena di vivere e non è per quei due o tre bastardi che
ci mettono i bastoni tra le ruote che dobbiamo smettere di combattere
per ciò in cui teniamo. Io vado a vivere Michael, ci sentiamo
quando avrò buone nuove.
Questa fu
l’ultima
nota scritta sul mio diario prima di accorgermi che si era ormai fatto
tardi e la mia pausa era scaduta da almeno 10 minuti; dovevo solo
ringraziare la folla di quella domenica se il direttore non si era
ancora fatto vivo per tirarmi le orecchie e trascinarmi al lavoro a
suon di pedate. Allison era rimasta al mio fianco, silenziosa, bevendo
il suo caffè e mangiando una ciambellina. Io nemmeno mi ero
comportato tanto diversamente: dopo il nostro simil chiarimento avevo
avuto poco da dirle e non volevo compromettere il nostro rapporto,
già di per sé abbastanza precario, con frasi da mordersi
la lingua a sangue come avevo fatto in precedenza. Per cui, aspettando
un buon argomento di conversazione che non sarebbe comunque piovuto dal
cielo mentre noi restavamo in silenzio, io mi immersi di nuovo nella
scrittura e lei rimase pensierosa di fronte a me. Rendendomi conto
dell’orario di break altamente sforato, mi alzai dal tavolo
radunando quelle quattro cianfrusaglie che avevo portato con me:
“Devo tornare al lavoro” annunciai, esagerando forse con un
tono di voce avvilito “magari potremmo rivederci qui nei prossimi
giorni se ti fa piacere” proposi “che ne dici?”.
“Posso venire con
te in libreria ora?” mi supplicò “faccio un giro tra
gli scaffali e non ti do fastidio, prometto!!!”. Era così
strano sentirla parlare a quel modo, non la ricordavo così
docile e remissiva; mi ricordava la piccola Caroline, quando aveva
voglia di stare con me ed io dovevo studiare e mi supplicava
affinché al facessi restare con me: c’era lo stesso tono
zuccherino nella voce, lo stesso sguardo adulatore ed ammaliatore, ma
senza quella malizia che la contraddistingueva. Finalmente si era
rivelata per quello che era veramente, una ragazzina cresciuta per
forza, a cui le miserie del mondo avevano reso la bocca amara e che
manteneva dentro di sé la voglia di tornare a giocare; bastava
solo che qualcuno le mostrasse dove fosse il parco giochi.
Era difficile non volerle
bene e non sorridere davanti a quel visino contorto in una smorfia di
implorazione, che divertiva anche lei; se avesse aggiunto un “ti
prego ti prego ti prego!!!” cantilenando, l’avrei
ribattezzata Caroline due - la vendetta, probabilmente era quello il
motivo che mi aveva spinto come una calamita verso di lei:
un’attrazione a pelle, un vincolo quasi di sangue.
Scoppiai in una risata
che lasciava intendere una risposta affermativa e mi diressi verso la
mia area di libreria, lasciando di mancia alla cameriera che puliva i
tavoli un misero occhiolino. Non ero sicuro di conoscerla, ma Pat alla
cassa della libreria garantiva che tutte lì al bar mi sbavassero
dietro, ragion per cui avevo ottenuto il massimo risultato con il
minimo sforzo.
“Ma fai sempre
così con le donne?” mi chiese Allison mentre mi seguiva su
per le scale che portavano alla sezione Letteratura Europea.
“Così come?” domandai. “Lo stronzo. Le illudi
con uno sguardo o un sorriso … magari lei ti ha anche lasciato
il numero da qualche parte … quando invece ci scommetto quello
che vuoi che tu non sai nemmeno il suo nome!” “Beh, ci hai
preso” risposi onestamente “ma non per questo sono uno
stronzo. Pensa alla gente che frequenti tu piuttosto. Se io sono
stronzo, cosa sono loro?” Ecco che me ne uscivo con
un’altra delle mie cazzate infelici, roba da prendermi a calci e
rendermi neutro definitivamente: aveva ragione lei, ero uno stronzo.
Ma, sorprendendomi piacevolmente non si arrabbiò; probabilmente
era alticcia, o semplicemente comprese che nella mia espressione non
c’era niente di offensivo nei suoi confronti.
“Quelli sono
maiali, è leggermente diverso … comunque, e così
tu lavori qui?” “Sì. Letteratura europea, la mia
preferita”. Andavo tremendamente fiero della mia postazione,
soprattutto quando qualcuno mi chiedeva qualche consiglio ed io potevo
sfoderare tutta la mia conoscenza a riguardo, oppure quando dovevo
sfoderare gli accenti stranieri per pronunciare i titoli dei libri; non
parlavo né francese né tedesco, anche se il mio
curriculum scolastico a quanto pare riporta ben 8 anni passati a
studiarli, ma il mio accento, enfatizzato a dovere, faceva sempre
effetto.
“Anche a me piace,
Baudelaire è il mio poeta preferito. Per la prosa invece non ho
nessuno in particolare, forse Oscar Wilde …”
“Davvero?”
chiesi, sinceramente sorpreso “non ti facevo una lettrice
così impegnata!” “Quando ancora andavo al liceo in
letteratura avevo tutte A e non dovevo impegnarmi particolarmente
… li vedi questi libri?” mi disse, indicando la mensola
dedicata alla Austen e alla Bronte “letti tutti dagli 11 ai 14
anni. E questo” disse prendendo in mano il tomone del Signore
degli Anelli di Tolkien “fatto fuori a 13 anni in 3 mesi. Ero una
delle frequentatrici più assidue della biblioteca della Contea
ad Indianapolis”. C’era una punta d’orgoglio nelle
sue parole, un vanto neanche troppo nascosto per aver fatto qualcosa di
buono e normale nella sua vita. Si sentiva bene in mezzo a quegli
scaffali e faceva avanti ed indietro tra le pile di libri come un bimbo
dentro un negozio di giocattoli. Conoscevo una sola persona al mondo
con la stessa febbrile passione per i libri: me stesso; non era quindi
così difficile per me capirla ed ero ben lieto di aver trovato
un punto comune da cui partire alla scoperta reciproca.
Eppure c’era ancora
qualcosa che non andava, una malinconia di fondo che persisteva. Si
fermò quando vide un libro in particolare: lo prese in mano ed
iniziò a sfogliarlo, accarezzandolo pagina per pagina, divorando
le parole ad una ad una, come si fa sempre quando si cerca la propria
citazione preferita da un testo. Erano i Promessi Sposi,
dell’italiano Manzoni. “Questo è stato
l’ultimo libro che ho letto … ma non l’ho mai
finito” confessò con quella ormai tipica punta di
inquietudine mista a rabbia che caratterizzava ogni cosa dicesse
“ricordo ancora l’ultima pagina che ho letto: Addio monti
sorgenti dall'acque … Non ho mai saputo se Renzo è
riuscito a sposare Lucia”.
Ebbi quasi voglia di
piangere per lei, che di lacrime non c’era verso che ne versasse.
Aveva pronunciato a memoria quelle poche parole, trascinando con
sé quella carica emotiva che il testo necessitava, come se fosse
stata lei a dover addio alla sua casa, alla sua famiglia e dover
voltare le spalle ai luoghi della sua infanzia e dei suoi affetti,
lasciando che il dolore scavasse goccia a goccia dentro di lei. Forse
aveva dovuto farlo davvero.
Mi avvicinai a lei cauto,
capendo quanto personale fosse quel momento per lei. Ho sempre
considerato sacro il rapporto tra un lettore ed il proprio libro,
pensato che ogni pagina avesse il potere di racchiudere in sé
tutte le emozioni ed i ricordi del momento, impreziositi da dettagli
che il tempo abbellisce, rendendo il passato roseo alla nostra memoria.
Probabilmente essendo stato l’ultimo, portava con sé
ricordi poco piacevoli: non avevo idea di cosa avesse passato,
né come era finita in quel giro poco rispettabile, ma certamente
non era per divertimento che si era data a quella vita, lasciando
famiglia e affetti. Eppure anche quel ricordo, potenzialmente doloroso,
si era trasformato in un dolce souvenir.
Lasciai che le mie mani
si fondessero lentamente con le sue, carezzando la loro pelle delicata
e diafana, riscaldandole dal gelo che non erano ancora riuscite a
smaltire. Chiusi il libro tra i nostri palmi ed attesi che alzasse lo
sguardo verso di me. Quegli occhi mi parlavano di un mondo che con lei
avevo conosciuto, fatto di miseria ed ignoranza, ma anche di uno che
invece conoscevo bene, pieno di lussi e sprechi e che forse aveva
conosciuto anche lei e di cui era stata privata.
“Tienilo”
sussurrai, sorridendole “non c’è modo migliore per
scoprire come va a finire un libro che leggerlo”
“Questa non
è una biblioteca Tyler” affermò amareggiata
“i libri non si possono prendere così. E sai benissimo che
i soldi mi servono per ben altro”
Almeno qualcosa di lei
ora la sapevo; non potevo dire di conoscerla quella sì che
sarebbe stata una parola grossa ma era già u’inizio.
Sapevo che adorava leggere, passione che evidentemente condividevamo e
che con il suo nuovo lavoro aveva dovuto rinunciarvi, perché
come giustamente dicevano i sempre pragmatici latini le parole volano,
sono altre le cose che riempiono lo stomaco. Certo, non di solo pane
vive l’uomo, qualcuno avrebbe potuto obiettare, ma che te ne fai
di un libro quando stai morendo di stenti?! Ma si vedeva che quella
rinuncia le costava parecchio, soprattutto ora che si trovava in quello
che era il paradiso, per gente come noi, e forse per la prima volta si
rendeva conto del male che aveva procurato a se stessa; non per quella
rinuncia in sé, quanto piuttosto per essersi ridotta a quello
stato, mentre oggi forse avrebbe potuto essere già al college o
all’ultimo anno di liceo, a scattare foto con i compagni di una
vita e a fare progetti per il futuro.
Ma aveva afferrato la mia
mano, ed io ero il suo contatto nuovo con quel mondo che aveva perso, o
forse non aveva mai conosciuto. Non saprei dire se sia un mondo
perfetto, ma di sicuro migliore dell’inferno in cui già
bruciava.
“E secondo te che
ci sto a fare io qui? Vieni con me” le dissi trascinandola mano
nella mano tra gli scaffali del quell’enorme store. La costrinsi
ad attingere a quei ripiani e buttare dentro una piccola sporta di lino
tutto quello che voleva: tra i mille benefici del lavorare in quel
posto c’era anche lo sconto su tutti i volumi; della restante
parte non me ne sarei accorto sin quando lo stipendio non fosse
arrivato smezzato a fine mese. Ma succedeva così ogni mese,
quindi niente drammi.
Così Allison fece
incetta di volumi, dai classici alla contemporanea dai trattati
filosofici alla narrativa per ragazzine. “Ho un po’ di
arretrati” si giustificò, arrossendo alla mia faccia
attonita davanti ai 30 libri che aveva scelto “ed io sono una
lettrice incallita, non smetto fin quando non leggo la parola
fine”. A quanto pareva, avevamo un’altra cosa in comune:
non conoscevamo le mezze misure.
Mentre per tutte quelle
persone che gironzolavano distratte era solo l’ennesimo
pomeriggio di pioggia e noia a New York, per lei sembrava essere
davvero la vigilia di Natale.
“Però poi me
li presti … anzi” le proposi, quando passai alle casse per
farmeli addebitare “perché non vieni qui a leggerli? Ti
prendi un caffè e quando sono in pausa ci facciamo una
chiacchierata …”
“Non so se posso …”
Eccola di nuovo che si
tirava indietro; ma io imparo in fretta, dispettosa e diffidente
Allison, e so come affrontarti. “Ma si che puoi, piccola come sei
tra gli scaffali ti nascondi benissimo e di norma durante la settimana
posso concedermi molte più pause … e non costringermi a
passarle tutte con Aidan, ti prego! E poi scusa” le domandai
“non avevi detto di avere qualche giorno libero?”
“Sì”
confermò, quasi stupita che lo ricordassi, o che fossi stato
anche ad ascoltarla; “sì” rispose forse più a
sé stessa, persuadendosi probabilmente di star facendo la cosa
giusta “direi che si può fare. Però ora è
meglio che vada. Non conosco bene questa zona di New York ed è
meglio che mi muova quando c’è ancora parecchia gente in
giro …”
“Suona
strano” la canzonai “detto da una che se ne va in giro per
il Bronx tutta sola”. Per fortuna rise anche lei.
“Ma mica per paura
scemo” mi rimproverò divertita, dandomi una botta sulla
spalla. Cavoli se faceva male, menava davvero forte, dovevo ricordarmi
di non provocarla mai “è solo perché non so
orientarmi bene”.
Fu a quelle parole che mi
si illuminò la lampadina e all’omino che ogni tanto di
ricordava di abitare nel mio cervello venne un’idea
potenzialmente geniale, se lei avesse reagito bene: questa era la vera
incognita. Guardai l’orologio e mi accorsi che erano ormai
trascorse qausi due ore dalla mia pausa caffè e che tra vreve
avremmo lasciato la libreria ai ragazzi dei turno serale.
“Ascolta, se mi
aspetti tra una mezz’oretta finisco il mio turno e sono libero.
Ci mangiamo qualcosa in un posticino carino dietro l’angolo e poi
ti accompagno io a casa” le proposi “che ne dici?”
Aspettai la sua risposta
con il fiato sospeso, come se da questa dipendesse la mia esistenza e
quella del mondo intero; non avremmo interrotto di certo la nostra
conoscenza, semmai avesse risposto con un no, non l’avrei mai
permesso, ormai c’ero troppo dentro, ma certo sarebbe stato bel
un colpo, considerando il nostro muto patto di aiuto ed amicizia che
c’eravamo scambiati quel pomeriggio.
Lei sembrò presa
in contropiede dal mio invito e rimase, credo, un attimo senza fiato.
Anch’io mi resi conto in quel momento di essere rimasto a corto
di ossigeno ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a far ripartire
la mia respirazione, almeno fin quando lei non mi avesse risposto.
La vidi prendere un
grosso respiro ed i suoi muscoli facciali andarono a rilassarsi e
comporsi in un’espressione serena “Sì, assolutamente”.
NOTE FINALI
Per la prima volta da quando ho
iniziato questa storia non sono soddisfatta per nulla del mio lavoro.
Forse avevo bisogno di più tempo, forse ho spero troppo tempo in
discorsi inutili e ripetitivi.
Ditemi voi cosa ne pensate,
perché ho bisogno di rivedere la mia scrittura e solo con il
vostro aiuto posso farlo. Oggi però non voglio vedervi con musi
tristi...Allison e Tyler si stanno dando una possibilità, si stanno
rivelando l'un l'altro per cio che ... sono veramente...
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Only Time ***
When you crash in the clouds - capitolo 5
Capitolo 5
Only Time
soundtrack
Mi
lasciai alle spalle quell’appartamento e presi la strada di casa. Entrai nei
sotterranei di New York distrattamente, fin quando non misi piede dentro i
vagoni della metro. Non c’era tanta gente a quell’ora e trovai posto a sedere
senza essere costretto a cederlo a nessun anziano o donna gravida della
situazione.
Mi
guardai un po’ intorno e per la prima volta prestai attenzione a tutti i
passeggeri. Mi chiesi chi fossero, quale fosse la loro occupazione e come fosse
la loro vita. Senza quella notte fuori dall’ordinario probabilmente non avrei
mai fatto quel viaggio, né mi sarei posto tante domande sulle persone che mi
circondavano, cercando ed osservando ogni minimo dettaglio. La realtà è che
sotto il cielo, sotto i grandi grattacieli della Grande Mela siamo tutti
uguali, al di là delle nostre vite e dei nostri conti in banca. In fondo,
pensai, se non avessi l’avessi incontrata in quel bar, chi me l’avrebbe detto
che Allison era una stripper?
Mi
sentivo di merda. Avevo ricevuto una grande batosta, peggiore delle delusioni
d’amore, quasi peggiore del lutto. Avevo ricominciato a lottare per aiutarla,
per dimostrare a me stesso che valevo ancora qualcosa, ed invece avevo fallito
miseramente, arrendendomi alla prima difficoltà. Per un momento avevo persino preso
in considerazione l’ipotesi di ritornare sui miei passi, ancora, ma poi
compresi che avrei fatto meglio a rassegnarmi; lei non voleva il mio aiuto,
questo era quanto, ed io non avrei dovuto più interferire con lei, visto che
evidentemente avevo già osato abbastanza.
Aiutato
dalla musica che passavano alla radio nella metro, finii con il deprimermi
ancora di più, tornando ad essere il Tyler che tutti conoscevano e che non
avrebbe fatto male ad una mosca, innocuo perché perfettamente passivo.
Tornando
a casa mi aspettavo di trovare Aidan con la mazza da baseball tra le mani,
pronto a scatenarmi addosso l’ira degli dei ed invece, a quanto pareva, il
fatto che fossi, secondo lui, andato a letto con Mallory, mi perdonava ogni
cretinata. Mallory … dovevo abituarmi a chiamarla così, perché per me doveva
essere solo una troietta, conosciuta in un locale di spogliarelliste,
convertite all’occorrenza in meretrici dei bassifondi da un datore di
lavoro/aguzzino.
“Allora
Don Giovanni?” mi si buttò addosso alle spalle “Hai consumato fino all’ultimo
centesimo per quella sventola?! Di’ la verità … appena ha visto il tuo pacco …
ti ha proposto il pacchetto convenienza …” non risposi alle sue battute che per
la prima volta dall’inizio della nostra amicizia mi sembravano squallide; avevo
sempre considerato il suo umorismo piuttosto demenziale e a volte scontato, ma
non mi aveva mai irritato come in quel momento. Non dovevo però prendermela con
lui, ero io ad avercela con il resto del mondo, di nuovo, come una volta.
Come
una volta … sembrava passata un’eternità invece erano passate solo 24 ore
dall’ultima volta che mi ero sentito in quel modo.
Per
il resto della giornata non avevo programmi, né avevo intenzione di uscire con
Aidan e i suoi amici in serata; con la fortuna che mi ritrovavo sarebbero
tornati di nuovo a fare danno in qualche locale a luci rosse. Me ne sarei
rimasto a casa, o magari sarei andato da mia madre e mia sorella, la cui
compagnia sopportavo più di quella dei ragazzi della mia età.
Entrai
in doccia avendo ancora nelle orecchie la voce di Aidan che cianciava a
macchinetta contro le mie orecchie; avrebbe dovuto fare il conduttore di
televendite o darsi alla radio o, perché
no, l’avvocato: tanto la dote di raccontare balle a profusione ce l’aveva
innata.
Mi
rifugiai sotto il gettito d’acqua calda e, tra i fumi del vapore, cercai di
lavare via ogni traccia della serata precedente: il fritto del cinese sotto
casa, l’alcol e il fumo. Ma c’era un’ essenza che non andava via, nonostante i
litri d’acqua e di bagnoschiuma, a dispetto della spugna passata su e giù per
la schiena ed il petto; era come annidato nei condotti nasali e giù, fino ai
polmoni. Era insolente quel profumo, come lei, sapeva di nobiltà, ma anche di
miseria: dolce, intenso e brutale.
Ancora
con l’asciugamano avvolto alla vita mi lasciai cadere a peso morto sul mio
letto, trovando una superficie comoda, rispetto a quella tavola per le torture
su cui avevo dormito la notte precedente. Era una sensazione libidinosa
starsene lì, con il rilassamento provocato dalla doccia che si accumula sulle
caviglie e come zavorra impedisce anche solo un singolo passo. Il riscaldamento
centralizzato del nostro palazzo non mi costringeva nemmeno a vestirmi, tanto
ai 25 gradi ci si arrivava tranquillamente, e dunque perché fare tanta fatica
inutile. Chiusi gli occhi e cercai al buio le mie sigarette. Ne accesi una e
aspirai fino a riempire tutto il volume polmonare. Ero in un limbo di pace
assoluta, ma non bastava per essere felici, per quello esisteva già il
paradiso.
Non
volevo finire in analisi, in tanti avevano provato a farmi vedere da psicologi
e strizzacervelli vari nell’ultimo anno, ma fortunatamente non c’erano
riusciti; forse questa volta ci sarei andato di mia spontanea volontà. Mi
sentivo come intrappolato nel vuoto più assoluto, in balia del vago e del
nulla, dell’oblio e del disinteresse. Chissà se anche Michael si sentiva così
prima di presentarsi da recluta volontaria di fronte alla morte.
Ma
io no, non l’avrei mai fatto; per paura, ma soprattutto per egoismo. Mallory
aveva ragione: sarei rimasto comunque il figlio di un milionario, che faceva un
viaggetto nei bassifondi solo per farsi bello con gli amici. Facile fare il
proletario con i soldi, ripeteva sempre il prof di filosofia a lezione. Ma allo
scadere della mia mezzanotte, il bel romanzo avrebbe scritto la parola fine ed
io sarei stato introdotto nei salotti bene, a discutere di politica e finanza
finché fossero durati rhum e sigari.
Mentre
tentavo di lasciarmi trasportare dal sonno sentii il letto sobbalzare ed è solo
per le mie forze inesistenti che Aidan non si ritrovò all’ospedale.
“Allora?”
mi chiese. “Cosa?” chiesi di rimando. “Che hai combinato stavolta? … e non
rispondere niente perché ti conosco
Tyler, quest’aria alla Jim Morrison-barra-James Dean ce l’hai solo quando
combini qualche cazzata sentimentale delle tue. L’ultima volta è stato per
Monica, la ragazza di scienze politiche: ci sei andato a letto una volta ed era
già la donna della tua vita. E come è finita? La sera dopo sei andato a casa
sua per uscire e l’hai trovata a cena con genitori e fidanzatino venuti direttamente
dal Connecticut. Chi è stavolta?”
“Che
te lo dico a fare?” risposi, ancora ad occhi chiusi, con la speranza che
andasse via “tanto è una storia già chiusa”. Mi sembrava inutile continuare a
rigirare il coltello nella piaga, quando mi sembrava più che evidente quale
dovesse essere il mio posto.
Percepii
il letto scuotersi sotto i movimenti repentini e maldestri del mio compagno e,
così, pensai: addio sogni! Aprii gli occhi e lo vidi che, in ginocchio sul letto
mi fissava, con quella sua faccia da caricatura: “Ti prego … non me lo dire: è
per quella sciacquetta di ieri sera. Ma come devo fare con te?”
“Non
è come credi” mi affrettai a discolparmi. “Ah no? E com’è sentiamo?” “Non è
amore” no, su quel fronte potevo stare tranquillo. Le sarei saltato volentieri
addosso almeno in un paio di occasioni, quello sì, ma erano più impulsi
ormonali che vicende sentimentali. “È che è immersa in un mare di merda”
spiegai nella maniera più semplice possibile “e vorrei aiutarla”.
“Tyler,
Tyler, Tyler, Tyler …” cantilenò, segno che stava per partire una di quelle
paternali del tipo amico fidati di me che
ho una certa esperienza, quando la sua storia più lunga è durata una
settimana ed eravamo al liceo e il suo gesto più caritatevole è stato portare
la spesa della nonna su per le scale previo pagamento.
“Possibile
che debba ripetertelo ogni volta …” ogni volta? In quali altre occasioni ho
tentato di far uscire una ragazza da un giro di prostituzione? “… fare il buon
samaritano non porta mai a niente di buono. Non puoi metterti a fare il
paladino della giustizia solo perché per una volta te l’hanno sbattuta in
faccia e poi ti hanno chiesto il conto. Io non ci vengo in galera con te perché
il principino ha bisogno di provare emozioni forti!” Non l’avevo mai visto così
alterato; il suo volto era spiritato ed era, sì, per la prima volta da quando
lo conoscevo Aidan era veramente incazzato. Certamente, però, non aveva ben
chiara la situazione.
“Ma
che cazzo … ma che cazzo stai dicendo Aidan?” urlai, alzandomi finalmente dal
letto. Avevo appena smesso di fumare ma avevo un disperato bisogno di nicotina,
i miei nervi imploravano pietà. “Tu davvero credi che io ci sia andato a
letto?” “Ah no?” domandò, quasi sbalordito che io potessi aver davvero solo
dormito con la ragazza del club. “No” sentenziai, freddo e severo “non ho
alcuna intenzione di finire dentro per pedofilia, visto che probabilmente era
anche minorenne … e comunque è davvero in un brutto giro, e voglio aiutarla”.
“Tyler”
mi riprese lui, sommessamente, rendendosi conto di aver esagerato poco prima e
pentendosi di avermi creduto capace di certe bassezze “vacci piano. L’ho
capito, sai, perché vuoi aiutarla; non pensare che non ti conosca. Ma non
cacciarti nei guai amico, perché mi conosco e so che alla fine finirei col
ficcarci il naso anch’io … perché a quella tua lurida pellaccia ci tengo più di
te”
Lo
presi e lo abbracciai di slancio. A suo modo mi aveva fatto la più
straordinaria dichiarazione d’amicizia che ci si potesse aspettare soprattutto
da un tipo come lui. Ma purtroppo anche se avessi voluto non avrei potuto
fare nessuna pazzia non avevo né mezzi né forze per combattere da solo quella
battaglia. Lei non si voleva aiutare io non avrei potuto farlo anche per lei.
Goffamente cercò di divincolarsi e si allontanò da me, scuotendo un po’ la
testa.
Eravamo
due pazzi, ma proprio non ce la facevamo a stare lontani l’uno dall’altro.
“Stai tranquillo” gridai, mentre infilava le cuffiette e si spaparanzava sul
divano “No ti farò finire in galera!” “Mi augurò che queste non siano le
cosiddette ultime parole famose …”. Ridemmo entrambi, liberandoci della
tensione che si era scatenata con la nostra discussione: non eravamo abituati a
urlarci reciprocamente le cose in faccia, e quando accadeva faceva sempre male.
Mi
stesi di nuovo sul letto e spensi la sigaretta che avevo acceso, non ne avevo
più bisogno.
Quando
le chiesi se c’era da mangiare a sufficienza per un’altra persona quella sera,
mia madre fece davvero fatica a nascondere il suo entusiasmo per quel figlio
che, di sabato, decide di passare la serata in famiglia piuttosto che con gli
amici.
Ma
lei sapeva che i suoi figli si erano sempre distinti dal resto della marmaglia
di ragazzi, forse proprio perché erano i suoi figli. Da piccoli non ci portava
mai al mare, o in piscina, quando il caldo rendeva le strade di New York
impraticabili, bensì nei musei, dove l’aria è mitigata per la miglior
conservazione delle opere. E così le nostre ninna nanne non era filastrocche,
ma sinfonie e sonate al pianoforte.
Difficile
stupirsi dunque se due dei suoi tre figli fossero venuti fuori geni;
prevalentemente incompresi, ma pur sempre geni. Ma a me, il figlio cadetto e
per giunta arenato nella mediocrità delle sue attitudini, aveva sempre
riservato un trattamento identico, se non più adulto. Parlavamo tanto, io e
lei, sin da quando, ancora adolescente, avevo timore del mio futuro e lei
tentava di spiegarmelo introducendomi alla filosofia. Lei diceva che avevo un
talento straordinario, la capacità rara di conoscere le persone e capirle, e la
maturità calibrata per indirizzarle e consigliarle nei loro percorsi.
Mi
aveva chiesto aiuto quando la piccola Caroline aveva iniziato ad essere esclusa
a scuola dalle compagne, ed insieme combattevamo quella battaglia da almeno 5
anni; mi aveva chiesto sostegno quando disperatamente voleva salvare un
matrimonio a cui davvero teneva, ma in cui era rimasta da sola. Eppure non lo
avevamo capito Michael, con lui avevamo solo assistito alla sua disfatta
silenziosa ed improvvisa. Ma lei continuava a credere in me, e non avevamo mai
smesso di parlare, anche quando il dolore portava via la voce e le parole.
Per
quel motivo non avevo timore nel parlare del “Don Hill”, il locale dove avevo
conosciuto Mallory. D’altronde, non si avrebbe dovuto stupirsi nel sapere che
tipo di vita conduceva suo figlio, visto che ormai abitavo da solo e non certo
in un monastero. Quando mi ritrovai a pensare che mia madre era un’assistente
sociale rimuginai sulla fortuna sfacciata che avevo avuto, e che per una volta
il destino aveva deciso di essere benevolo nei miei confronti.
“Che
ti serve Tyler?” mi chiese divertito Les, il nuovo marito di mia madre. Era un
brav’uomo Leslie, di questo dovevo dargliene atto, ma non ero sicuro al cento
per cento che mia madre ricambiasse il suo affetto. Quello che avevo avuto modo
di vedere nei quattro anni precedenti era il suo grande amore per lei, la cura,
la dedizione ed il supporto che non mancava mai di dimostrarle; e forse era
proprio quello il motivo che l’aveva spinta ad accettarlo nella sua vita.
Inoltre, era un’ottima figura paterna per Caroline, il che non guastava.
Mio
padre era stato capace di sacrificare e distruggere, con le sue stesse mani, la
famiglia che aveva creato. Fino alla nascita di mia sorella eravamo stati una
famiglia piuttosto idilliaca, con qualche litigio ogni tanto; ma si sa, le
discussioni non possono fare che bene. Ma poi, pian piano, il nostro bel
castello di sabbia ha iniziato a sgretolarsi e mio padre, probabilmente
pensando di aver ottemperato ad ogni suo dovere coniugale e genitoriale, ha
iniziato a metterci da parte, in favore del mero profitto finanziario. E così
mia madre decise di non essere più la signora Hawkins anche perché, ad esserlo
o meno, non faceva più tanta differenza: in ogni caso non avrebbe avuto un uomo
al suo fianco.
“Perché?”
domandai, rimanendo interdetto alla sua domanda.
“Da
che ti conosco” rispose “non ti ho mai visto muovere un muscolo per fare nulla
in casa, figuriamoci sparecchiare con tua madre …”. Effettivamente non aveva
tutti i torti, non ero mai stato avvezzo a fare nulla in casa, ma non ero
esattamente un impedito.
“Non
essere così severo, tesoro” lo rimproverò giocosa mia madre “adesso vive da
solo, ha dovuto imparare ad arrangiarsi. Bravo il mio ometto!!!”. Per lei ero
sempre il suo ometto, quello che finiva sempre vittima degli scherzi idioti del
suo fratello maggiore, quello a cui si sentiva ancora autorizzata, nonostante i
22 anni suonati, a scompigliare ancora i capelli. Cercai come sempre di
divincolarmi dalle sue coccole, ma non vi riuscii. Feci una smorfia compiaciuta
a Les, mentre lui andava a godersi un film davanti allo schermo piatto del
salone, e tornai ad aiutarla. Caroline, appena finito di mangiare, era scappata
a disegnare in camera sua al piano superiore.
“Come
va con la scuola?” domandai a mia madre. Non avevo bisogno di
specificare,
sapeva benissimo che mi riferivo alle stupide compagne di classe della
mia
sorellina. Purtroppo alla piccola Caroline capitava di estraniarsi di
tanto in
tanto, sia a casa che a scuola, fin da piccolissima; avevamo provato a
farla
seguire da psicologi vari, ma tutti ci avevano rassicurato che non
fossero
eventi correlati a traumi o problematiche varie ed andavano
assecondate, fino a
quando col tempo non fossero scomparse. Finché rimaneva in
casa il suo “problema”, che non consideravamo
tale, non si manifestava praticamente mai, tranne che in poche
occasioni, tutte
mentre era davanti alle sue tele; a scuola però, nonostante la
direttrice
avesse più volte rassicurato mia madre sul comportamento
ineccepibile delle
bambine e sull’atteggiamento altamente professionale del corpo
insegnanti, i
suoi “momenti”, come li chiamava lei, erano quasi
all’ordine del giorno,
amplificati dalle prese in giro delle pseudo – amichette e dai
rimproveri delle
maestre. Ed ogni volta, tutte le nostre rimostranze diventavano buchi
nell’acqua.
“Ma
che te lo dico a fare, Tyler …” rispose mia madre, esasperata. “Lei ormai non
ne parla più, ma praticamente le insegnanti lamentano che in classe è sempre
più sola ed anche i lavori scolastici ne risentono. Sono preoccupate che …”
“Loro sono preoccupate?” inveii “Ma che ca…”
“Tyler!”
mi riprese “questo è l’ultimo anno, poi andrà alle medie e l’aria nuova le farà
bene. Almeno spero. Si tratta solo di resistere ancora per qualche mese …”
Annuii,
ma non mi andava giù che il mio scriccioletto dovesse penare per delle stupide
ragazzine con la puzza sotto il naso. Lei era speciale, aveva un talento che le
altre si sognavano, ma era ingiusto che per averlo dovesse pagare un prezzo
tanto alto.
“Sono
contenta che sei qui, la tua presenza l’ha messa di buon’umore. Erano settimane
che non scappava da tavola per andare a disegnare. Dovresti venire un po’ più
spesso!” “Se per te va bene vengo volentieri” le risposi, con un sorriso amaro
in bocca “è meglio che la smetto per un po’ di uscire con Aidan e la sua comitiva,
non hanno fatto altro che procurarmi guai”.
Mia
madre smise per un attimo di insaponare la pila di pentolame vario che non
poteva mettere in lavastoviglie, stando ai suoi tentativi di ammaestrarmi sull’economia
domestica. Si voltò verso di me, squadrandomi come solo lei sapeva fare, con un
sguardo indagatore ma non sospettoso, preoccupato ma fiducioso allo stesso
tempo. “C’è qualcosa che non va?” domandò. “No” risposi, rimanendo sul vago
“solo … ci sono delle cose che avrei preferito non sapere”.
“Vieni”
mi disse “io insapono e tu sciacqui”. Mi sembrava di essere tornato bambino,
quando ci prendeva sempre accanto a lei quando voleva sapere qualcosa.
Conoscevo le sue tecniche e non cercavo in alcun modo di sottrarmene, anche
perché quello che avevo da dirle non era facile ed essere impegnato mi avrebbe
aiutato ad aprirmi con lei.
“C’è
un locale dove sono andato … dove le ragazze diciamo che hanno diversi … ruoli.
E potrebbero non essere tutte attività lecite.” “Prostituzione?” chiese, con la
freddezza ed il rigore che assumeva sempre quando si parlava di lavoro. “Sì”
risposi e feci un sospirone per continuare “ma la cosa più grave è che
probabilmente la maggior parte di loro è clandestina o minorenne …” “E tu …” fu
tentata di chiedermi, ma aveva evidentemente paura di scoprire la verità. “Ed
io me ne sono andato, mamma. Mi ha fatto davvero schifo quel locale, e spero
vivamente che i miei compagni non ci mettano più piede”; sembrava davvero
rincuorata dalla mia dichiarazione. Certo non potevo dirle che c’era mancato
davvero poco perché finissi a letto con una di quelle entraineuse, ma quella
che le dissi era comunque la verità.
La guardai, attentamente, sperando che cogliesse la mia muta richiesta d’aiuto.
“Noi
abbiamo le mani legate, Tyler. Finché non ci chiama la polizia non possiamo
intervenire. Sempre che per loro non sia più facile mandare quelle poverine in
galera o rispedirle nei loro paesi d’origine” spiegò, e capii che purtroppo
davvero era impotente su tutta la linea. “Puoi segnalare la cosa alla polizia,
ma credo che durante i controlli questi generi di locali siano sempre
terribilmente in regola e abbiano qualche santo in paradiso che li avverte se
ci sono ispezioni in incognito”.
Avrei
dovuto immaginarlo: d’altronde non si possono tenere in piedi certi affari per
troppo tempo sperando di farla franca solo per fortuna; evidentemente c’era
qualche talpa o cose del genere, pronti ad avvertirli.
“Ma
se fossero le ragazze a chiedervi aiuto?” “C’è sempre prima la polizia …”.
Dunque
non avevo speranze di poter aiutare Mallory in maniera concreta senza metterla
nei guai: prostituzione, furti e chissà quanti altri reati potevano essere
scritti sulla sua fedina penale.
Non
era il caso di tornare da lei, e se mai avessi avuto le palle per farlo avrei
dovuto contare solo sulle mie forze.
“Mi
dispiace tesoro” cercò di confortarmi mia madre … come se fossi io quello da
aiutare “ma a volte la nostra voglia di giustizia non sempre combacia con la
macchina dello Stato. Vedrai che se veramente è un giro tanto losco, prima o
poi verrà fuori. Ora però non ci pensare più … vai da tua sorella”.
Rimuginando
su tutte le ipotesi, le congetture e le notizie accumulate da mia madre,
preparai due belle tazze di gelato al cioccolato, di cui Caroline era ghiotta a
tutte le stagioni; sormontai tutto con una spruzzata indecente di panna, solo
per il gusto di vederle il musino tutto imbiancato.
“Maestro!”
la salutai, come al mio solito; e lei a suo solito rispose con un sorriso
meraviglioso. Eccola lì la donna della mia vita, chi me lo faceva fare a
trovarmene un’altra? Stavamo così bene insieme!
Era
bellissima la sua stanza, si aveva la sensazione di entrare in un museo, con le
copie di opere d’arte alle pareti; e poi c’era il suo laboratorio, un piccolo
angolo della sua stanza da principessa, pieno dei suoi disegni e dei suoi
strumenti, affacciato sul piccolo giardino posteriore.
Poggiai sulla scrivania la sua coppa di gelato e mi allungai sul letto con la
mia. “Dai Ty, scendi da lì! La mamma non vuole che sali sul letto con le scarpe
…” le tolsi immediatamente, scalciando “… e non vuole nemmeno che si mangi sul
letto!” “E noi non glielo facciamo sapere! Dai, vieni qui!” le dissi, facendole
segno di accomodarsi al mio fianco.
Passammo
il resto della serata a chiacchierare, come se la nostra enorme differenza
d’età non fosse un problema, come se fossimo due coetanei. Guardai Caroline
disegnare, perdendomi con lei in quel mondo che le sue mani, con una semplice
matita, sapevano creare. Non mi sarebbe dispiaciuto avere uno dei suoi “momenti”
ogni tanto, la facoltà di poter staccare la spina dal mondo, anche per pochi
secondi ed entrare in un universo parallelo, dove le brutture del nostro mondo non
hanno nemmeno un nome.
E
tornammo di nuovo a parlare, mentre si lavava i denti, mentre le spazzolavo i
capelli. Io stesso mi sentivo libero di chiacchierare ogni volta che ero
assieme a lei, come se nulla fosse accaduto nelle nostre vite, come se Michael
fosse ad un concerto e sarebbe rientrato tardi, come se Mallory fosse una
ragazza tra le tante che in realtà faceva solo la preziosa, e non mi accorsi
che Caroline, il mio prezioso talento, si era addormentata, abbracciata a me.
Così mi sistemai un tantino meglio e ci coprii con la coperta.
“Buonanotte
maestro!” le sussurrai.
Quella
era la seconda notte consecutiva che non tornavo a dormire a casa, e non potevo
che esserne contento.
Quella
serata mi aveva permeato di una forte energia positiva, nonostante dentro non
mi sentissi perfettamente in forma, nonostante le cicatrici che le amarezze del
mondo mi avevano lasciato. Forse col tempo avrei aggiustato tutto: avrei curato
me stesso, avrei aiutato quella povera ragazza, avrei persino portato la pace
nel mondo. Solo il tempo poteva saperlo, ma per il momento non avevo intenzione
di interrogarlo.
NOTE FINALI
Dopo questo capitolo di transizione ci sarà
l'inizio di una nuova vita per Tyler...o semplicemente il ritorno alla
vita di tutti i giorni.
Mallory/Allison sembra essere una parentesi di una notte sbandata...destinata a perdersi in quelle a venire.
Ma sarà davvero così? Staremo a vedere...
Vi ringrazio per i commenti sempre più profondi e dettagliati
che accompagnano questa storia, anche se ammetto di essere abbastanza
dispiaciuta dal vedervi di meno rispetto alle altre volte. Sappiate
che, se qualcosa non vi piace, potete dirlo tranquillamente,
rispettando naturalmente i canoni del buon comportamento. Ricordo qui
anche la mia pagina FB dove vi aspetto con spoiler, aggiornamenti ed altro ancora.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Things you cannot know ***
When you crash in the clouds - capitolo 7
Capitolo 7
Things you
cannot know
soundtrack
“E questo sarebbe il posticino carino di cui parlavi?”
Se avessi dovuto
descrivere, di primo acchito una persona come Allison, avrei usato
espressioni come sarcastica e senza peli sulla lingua.
Non sapeva proprio
trattenersi: ma questo, che agli occhi degli altri sarebbe apparsa come
maleducazione ai miei era invece ingenuità, tipica di una
persona tutto sommato sprovveduta, che aveva dovuto cavarsela da sola
nel mondo fin da ragazzina. Aveva una grande forza e una stoica
determinazione, figlia delle continue lotte in quel porcile che era il
suo pane quotidiano; eppure restava un qualcosa che sa di innocenza
assopita ma non per questo perduta.
Eravamo davanti alla
miglior pizzeria italiana di New York. Non era uno di quei surrogati
che circolavano in giro, dove il proprietario l’Italia non
l’ha mai vista, nemmeno in cartolina, e il pizzaiolo, cinese di
Shangai che al massimo può condire la pizza con gli ingredienti
degli involtini primavera.
Era per pochi intimi,
quelli che riuscivano ad accaparrarsi le poche sedie di legno
pieghevoli ed i tavolini di plastica, apparecchiati con tovaglie di
carta e l’unica cosa che si salvava dal risparmio erano posate,
bicchieri e piatti, quest’ultimi coloratissimi con disegni dei
più classici cliché italiani. I prezzi eccellenti, la
cucina ancora di più.
Il locale era stato
creato in un garage di una via un po’ nascosta, ai bordi delle
strade più trafficate, di quelle che non si prendono mai quando
si è da soli eppure l’aria di casa che vi si respirava
dava l’impressione di essere in qualche angolo della costiera
amalfitana o in una viuzza di Roma, un affresco della Dolce Vita degli
anni ’50. I profumi, le luci e i colori riuscivano a catapultarti
nella bella penisola già a duecento metri di distanza. Eppure in
pochi la conoscevano: sono pochi, infatti, i newyorkesi che si
addentrano per strade secondarie se non strettamente necessario. Il mio
diciamo u piuttosto un incontro casuale, come del resto tutti i
migliori nella vita di un uomo, dopo l’ennesima notte da
diciottenni ubriachi clandestini, che alle quattro del mattino vanno in
giro senza meta, aspettando di veder sorgere il sole dalla foce
dell’Hudson. Fu così che l’odore di pane fresco e
appena sfornato ci invitò ad entrare in questa piccola bicocca
in piena Midtown e conobbi Nando, un pizzaiolo italiano di mezza
età, dal cuore grande e dalla risata sempre pronta. Forse era
uno stereotipo che conservava dell’italiano medio,
un’immagine fittizia che conservava per il cliente, ma
finché la cucina fosse rimasta quella, chi se ne frega se la sua
è tutta una recita.
“La mia definizione
di posto carino è un posto dove si mangia bene” le spiegai
“ Spero che per te valga lo stesso …”
“Assolutamente
sì” confermò “oltretutto ho una gran fame. Ma
questo posto non mi da granché fiducia …”
“Stai zitta
… donna di poca fede …” la rimproverai, con un tono
palesemente giocoso “E seguimi se hai fame. Altrimenti puoi anche
andartene pure a casa. Da sola … che io mi fermo qui a
mangiare”
“Non ci penso
nemmeno ad andarmene” disse provocandomi, prendendo un passo
svelto per entrare nel locale. Era abbastanza buffa ed impacciata nei
movimenti tentando di fare la risoluta “ e chi se la perde una
pizza a sbafo”.
“Vaffanculo! Mi hai fregato!!!” risposi, con tutto il sentimento che quell’imprecazione poteva contenere.
Era ovvio che avrei
pagato la cena anche per lei, è questo quello che a quanto ne
potevo sapere, fa un gentiluomo con la donzella in difficoltà
della giungla moderna, ma odiavo essere preso in contropiede da una
ragazzina furba e smaliziata, che ancora tanto doveva conoscere del
mondo, almeno di quello vero, eppure riusciva a tenermi perfettamente
testa.
Seduti a tavola e aperti
i menù, ci scoprimmo entrambi amanti della capricciosa, ma
soprattutto mi sorpresi di quanto voracemente potesse essere in grado
di svuotare il piatto di patatine fritte prima e di pizza poi.
“Toglimi una
curiosità” le chiesi approfittando dell’unico
nanosecondo in cui non aveva la bocca piena – non che non
riuscisse a parlare anche senza il boccone tra le fauci, ma non mi
sembrava un’esperienza così emozionante ficcarle due dita
in gola per liberarle le vie aeree nel caso in cui il cibo le fosse
andato di traverso – “ma quanti anni hai? Seriamente
…"
“18 il prossimo 20
gennaio E sinceramente non vedo l’ora …”. Come
sospettavo era ancora minorenne, ma per fortuna presto non lo sarebbe
stata più: un guaio in meno di cui occuparsi.
“Così
potrò smettere di giocare a guardie e ladri …”
aggiunse, bevendo un sorso di birra che il figlio adolescente di
Giuseppe, Vince, magro e spilungone, era appena venuto a portarci. Lei
non avrebbe nemmeno dovuto berla, ma l’I.D. falso le permetteva
cose che normalmente non sarebbero consentite, come bere … o
lavorare in uno strip club.
“Naturalmente
…” intervenni, comprensivo “… eppure non mi
risulta che per fare il tuo lavoro basti avere …”
“Non mi riferivo a
quello” precisò, allontanando lo sguardo da me, puntando
verso un angolo non meglio identificato del locale. Lasciò la
frase in sospeso, segno inequivocabile che si era spinta troppo oltre
per parlarne, anche con me che a questo punto, sperai, ero qualcosa di
più di uno sconosciuto. E non certo pretendevo da lei di essere
totalmente aperta con me, non così subito, io stesso sarei stato
completamente in difficoltà a raccontarle le disgrazie che
avevano caratterizzato la mia esistenza prima di conoscerla. Decisi
così di cambiare argomento e tornare sul leggero; se lo
meritava, per tutto lo sforzo, l’impresa titanica che aveva
portato a compimento, quel pomeriggio, sul piano emotivo.
“E così …” le dissi “ti sei presa un periodo di vacanza …?”
“A dir la
verità abbastanza forzato” precisò lei. Mi chiesi
se ci fosse un solo aspetto della sua vita che non avesse il retrogusto
amaro della coercizione e del sopruso.
“Sì”
continuò a spiegare “c’è stata una soffiata
che quei cazzo di sbirri di merda verranno a controllare il club nei
prossimi giorni … e anche se ho i documenti falsi è
meglio avere prudenza. È stata una cosa improvvisa … non
è normale in questo periodo dell’anno …”
Volli sperare che dietro
a quel controllo straordinario si celasse quella santa donna di mia
madre, che nelle ultime settimane avevo stressato fino allo sfinimento,
affinché si informasse e si impegnasse per farli chiudere. Una
sua telefonata ai numeri giusti e pressioni fatte a gente che conta
fanno sempre miracoli. D’altronde, lei che aveva
possibilità concrete di agire, di cambiare le cose, non poteva
assumere un comportamento omertoso solo per un vizio di forma della
macchina burocratica.
Probabilmente, anzi quasi
certamente, questi erano solo sogni di un ragazzo idealista, cresciuto
a pane e Gandhi, ma restava comunque il fatto che c’era la reale
possibilità che quel posto chiudesse.
“Bene”
esclamai, decisamente di buon umore, sollevando il mio boccale di
bionda a mo’ di brindisi “speriamo che ci sia un buon
motivo per farlo chiudere, allora!”
“Ma che cazzo
dici?” mi chiese lei contrariata. Non sapevo cosa avevo fatto o
detto di così eclatante, ma lei si era incazzata. Era assurdo
che ce l’avesse con me perché avevo auspicato la cosa
più legittima al mondo, la chiusura di quella bettola che si
ostinava a chiamare lavoro. “No” continuò
“assolutamente no, cazzo!”
“Ed invece
sì, cazzo, Allison!” ribattei io, convinto della mia
posizione, “possibile che non ti rendi conto che siamo a New
York, la Grande Mela cazzo e ci sono mille possibilità per una
ragazza giovane e carina come te?”
Non riuscivo a
capacitarmene. Rifiutava di darsi una speranza di cambiamento, si
vedeva dentro quello squallido club per l’eternità,
aguzzina di se stessa, continuando a vivere nell’ombra del reato
e della maldicenza. Per quanto poco la conoscessi, sapevo che avrebbe
meritato un destino migliore di quello, neanche al mio peggior nemico
avrei inflitto una condanna simile.
Non so di quanto avessimo
alzato i decibel durante la discussione, ma il chiacchiericcio dei
clienti e la musica dello stereo sembravano averci attutito, abbastanza
da non far girare nessuno. Eppure non ebbi il coraggio di guardarmi
intorno, per controllare se per caso stessimo dando spettacolo.
Continuai a fissarla, sfidandola, stufo di saperla ancora rassegnata a
quella schiavitù, nonostante tutte le parole dette, e ancor di
più i gesti, che urlavano più di folla inferocita.
Ma era una guerra persa
da principio con lei, dura e testarda come un mulo, che non avrebbe
desistito finché non fosse stato il suo avversario a cedere, per
primo. “E tu?” chiese “possibile che non capisci? Io
NON HO scelta.”
Mi fissò con quei
suoi grandi occhi verdi, severi, cupi, come se volesse trascinarmi in
quel baratro di sudiciume e disonestà che impregnava la sua
vita. Nelle sue labbra, perennemente in lotta con i denti, martoriate e
tumide, vittime anch’esse di baci sgraditi, tutta la vergogna e
l’umiliazione che questo suo continuo svelarsi a me si portava
dietro.
Ma io non l’avrei
mai giudicata, immaginavo che ormai lo avesse capito, non sarei mai
stato lì a puntarle il dito contro, come tanti avranno invece
fatto. Sì, lo sapeva, ed era forse proprio per questo che un
tipo così fiero come lei si sottoponeva comunque ad una tale
mortificazione.
“No Don Hill”
proseguì “no casa merdosa, no soldi per mangiare …
e forse nemmeno fottutissima aria per respirare”
“Che cosa?”
domandai shockato. Il mio cervello aveva iniziato a captare
informazioni che lo mettevano in allarme, che lanciavano il May Day
d’aiuto ed imploravano di fermarsi prima che fosse troppo tardi.
Ma il mio cuore, masochista, le diede un tacito consenso a continuare.
“Irina. 23 anni.
Russa. Dopo aver passato anni a fare le peggiori cose per lui”
non riusciva nemmeno a pronunciare il nome di quel merdoso figlio di
puttana “così da ottenere i suoi favori e guadagnare
meglio decide che può bastare così e andarsene.
L’hanno trovata delle mie colleghe riversa a terra in una pozza
di sangue fuori dalla porta del suo appartamento e non si sa per quale
miracolo sia ancora viva. Ora è passato un anno ed ancora lavora
per lui …”
Il suo racconto aveva
portato a galla un mondo di cui, mi rendevo sempre di più conto,
conoscevo solo la punta dell’iceberg. La brutalità che nei
telegiornali è sempre censurata e che, quando guardi i
polizieschi, pensi sempre che sia ingigantita. Ed invece no, dura e
cruda come solo la realtà sa essere, si era presentata a me per
bocca una ragazzina di 17 anni, che invece di urlare dietro alle star
del memento, lancia le sue grida d’aiuto per essere strappata via
dall’imbuto di quelle sabbie mobili, conscia della sua impotenza.
Eppure era un continuo
andirivieni il suo, tendere la mano per chiedere aiuto e tirarla
indietro quando si allunga la mano per afferrare la sua. Forse era
orgoglio, forse paura, ma così non saremmo andati da nessuna
parte. Ingannata da un solo uomo, ora trovava difficile fidarsi del
mondo intero.
Era tornata ad essere
fredda, mentre raccontava, cinica come se quella storia terribile non
la sfiorasse, o come se si imponesse di rimanervi fuori a tutti i costi.
“Lo capisci
ora?” Lo capisci perché ti ho cacciata quella mattina? Io
non posso scegliere, quella è la mia prigione”.
La sua voce sì
incrinò per la prima volta, avendo forse, percezione finalmente
di quanto greve e grande fosse il suo fardello, travolta dalla
terribile verità della sua rivelazione.
Sì, lo capisco
ora, so perché l’hai fatto: perché hai voluto
proteggermi, da qualcosa che anche tu temi e non sai, non puoi tenere a
bada. L’hai fatto perché mi vuoi bene, a modo tuo.
Anch’io te ne voglio, qualunque cosa significhi.
“Grazie
Tyler” disse, uscendo dal locale “Dio … sono
pericolosa per il tuo portafoglio … ogni volta che sono nei
paraggi finisci per sborsare un mucchio di soldi …”
Ridacchiammo entrambi.
Poteva anche essere come diceva lei, ma non mi interessava molto. Lei
li valeva tutti, fino al minimo centesimo. Era un buon investimento, se
si può chiamare così.
“Lo faccio con piacere, davvero …”
Le sorrisi, sincero;
doveva capire che per me non c’erano secondi fini o scopi ultimi
da raggiungere. Lei mi aveva chiesto aiuto, io ero accorso. Era come in
un episodio di Baywatch: anche se io non ero certo David Hasselhoff, ma
la metafora rende bene. Quando l’avessi riportata, sana e salva,
sulla riva, avrei sfoderato un bel sorriso e sarei andato via, tornando
alla mia vita perfettamente inutile. La sua riconoscenza sarebbe stata
sufficiente.
Passeggiavamo per strada
svogliatamente, consapevoli che la nostra direzione era la
metropolitana che l’avrebbe riportata a casa.
Con le labbra ed il naso
completamente sporchi, Allison si godeva l’ultimo ed ennesimo
piacere della serata, un mega cornetto alla Nutella, fumante da farmi
venire voglia di strapparglielo dalle mani e papparmelo, anche se ero
pieno da scoppiare. Era stato un compromesso necessario per farla
desistere dal prendere un cono gelato, non esattamente salutare con il
freddo che c’era quella sera per le strade bagnate di Manhattan,
che i gas di scarico e i fumi dei riscaldamenti non erano riusciti ad
asciugare.
Anche lei, come Caroline,
adorava il gelato anche in inverno, ma questo non la autorizzava ad
ibernarsi solo per viziosa golosità. Io, per compensare, decisi
di riscaldarmi con la mia amata sigaretta, e mi aggiustai come meglio
potevo il giubbino di pelle e il cappuccio sulla testa. Tentai di
scaldarmi anche muovendomi un po’, giocherellando con la shopper
di juta della libreria che lei mi aveva appioppato quando le avevo
preso il cornetto, in uno dei chioschetti lungo la 47esima. Era tempo
che rispolverassi il mio cappellino di lana, che faceva tanto clochard,
dai meandri del mio armadio. Magari avrei smesso di radermi per un
po’, che un filo di barba protegge sempre dagli spifferi del
vento. Stavo morendo di freddo, ma non stava bene che lei lo notasse.
Avrebbe sicuramente iniziato a prendermi in giro, senza tregua, per
almeno 365 giorni.
“Spiegami una cosa
…” esordì, e la cosa non mi piacque. Sapeva di
ramanzina della mamma o di menata alla Aidan. “Io non ho i soldi
nemmeno per piangere … e tu vai in giro conciato come un barbone
che non può permettersi degli abiti più pesanti
…”
“Senti
…” iniziai con lo stesso impegno che c’aveva messo
lei, la stessa espressione a metà tra il concentrato e lo
scazzato, per apparire convincente. La verità è che non
ci credevo nemmeno io, e rischiavo seriemente l’assideramento da
un momento all’altro. “… questo si chiama hobo
style, si vede che non capisci un cazzo di moda. E comunque sto
bene”
Mi guardò
attentamente, dalla testa ai piedi, e dovetti fare un bello sforzo per
costringere i miei muscoli a rilassarsi e a smettere di tremare.
Collaborate cazzo!!! Tra i denti che battevano, la sigaretta si stava
disintegrando, lasciandomi sulla lingua segatura di tabacco e altre
porcherie che, però, non servivano a dissuadermi dallo smettere.
La sua occhiata era sorniona, palesemente incredula di fronte alla mia
bugia. “Ma vaffanculo …” imprecò; ed io ci
andai, divertito, mentre continuavamo la nostra camminata amichevole.
In fondo ero stato bravo ad avere la battuta pronta …
Quelli che dovevano
essere quattro passi di saluto, si rivelarono essere quasi una gita
notturna nel cuore di Manhattan, tra i grattacieli residenziali e i
locali più alla moda. Faceva finta di niente, come se fosse
abituata a tutto quello che c’era intorno a noi, ma io lo capivo
che si stava divertendo da matti, lo vedevo dai suoi occhi, lucidi e
ben focalizzati su ogni dettaglio.
“Com’è
Indianapolis?” mi azzardai a domandarle, sperando che non si
infastidisse alla mia continua richiesta, ormai non più
così velata, di conoscerla.
“Mi spieghi perché devi essere sempre tu a fare le domande?! Tu non mi dici niente di te …”
Cosa potevo dirle: che
anche la mia vita era uno schifo, ma nulla di paragonabile alla sua?
Avrei davvero potuto dirle una cosa del genere? Non credo proprio
…
Soprattutto non mi vedevo
ancora pronto e disposto a parlarle di Michael, dei silenzi con mio
padre, dei problemi di mia sorella; mi resi conto solo in quel momento
quanto fosse difficile aprirsi con gli altri, specialmente quando si
tratta di cose che non vanno come dovrebbero e fanno restare di merda,
sia chi racconta, che chi ascolta. Non mi restava che ammirare ancora
di più quel piccolo scricciolo che avevo avuto la fortuna di
incontrare e che ora, di fianco a me, mi chiedeva di essere sincero con
lei, né più né meno di come già lei lo era
stata nei miei riguardi. Per fare una cosa del genere ci volevano una
forza ed un coraggio che io sentivo di non avere, almeno per il momento.
“Queste strade sono
la mia vita” le dissi e fu una mezza verità politically
correct che a nessuno poteva dar fastidio “conosci New York e
conoscerai me.”
Ed in fondo non mi ero
allontanato di molto dalla verità. Ero un New Yorker. Mia madre
è del Queens e mio padre un puro sangue di Manhattan. Una vita
trascorsa tra queste strade, lungo i binari della metro o a cavallo di
una bici sgangherata, a raccogliere la polvere e lo smog di queste
strade che pullulano di gente a tutte le ore, una vita passata a non
fermarsi mai. Continuare ad andare per inerzia, per poi arrivare allo
stop, e accorgersi che si era rimasti senza fiato e col cuore in gola.
Fermarsi per prendere fiato e avvertire di non poter ricominciare.
“Indianapolis non
è New York …” si limitò a sussurrare,
continuando a camminare a testa bassa; un flebile fruscio che serviva a
spiegare, almeno nella mia testa, qualcosa di molto grande: noi eravamo
troppo diversi, agli antipodi, per poter sperare che ci fosse qualcosa
ad accomunarci, qualcosa da poter condividere.
La bloccai per un
braccio, costringendola così a voltarsi e guardarmi: “Ma
in fondo tutte le città si assomigliano un po’ tutte.
No?”
Se anche ci fosse stato
anche solo un elemento in comune, una sola scusa per poter stare con
lei anche solo cinque minuti, mi ci sarei aggrappato fino allo stremo
delle forze.
“Beh questo sì!” rispose, fiduciosa.
Non c’eravamo
scambiati che un paio di battute, praticamente sul nulla, eppure
c’eravamo detti più di quanto non avessimo fatto usando le
parole appropriata. Ma queste, a differenza, erano parole giuste.
L’accompagnai fino
all’ingresso della metropolitana, dove mi chiese di poter
continuare da sola. Era stata una giornata lunga, per entrambi;
c’era bisogno di una buona dose di sonno e sogni. La guardai
scendere le scale ed addentarsi nella notte, leggera come una piuma e
pronta a tornare la guerriera della notte, che si difende dagli altri e
da se stessa.
Prima di scomparire, mentre le restituivo i libri che le avevo regato, la promessa che ci saremmo rivisti presto.
Allison, così
piccola e così forte, vorrei stringerti tra le mie braccia e
difenderti da quel mostro, ma non sono un soldato e nemmeno un eroe. Ma
se posso scaldarti, almeno con un sorriso, lo farò. E se vorrai
scoprire l’amore, quello pulito, lo scopriremo insieme. Ci
salveremo dalle nostre paure, fuggiremo dai nostri orchi.
NOTE FINALI
Tyler usa una parola alla fine...amore. Non incominciate a sognare, perché esistono tanti tipi diversi d'amore.
Lui non li conosce, ma vuole scoprirli e farli scoprire ad Allison.
E chissà, che in questa lotta contro le fiamme ... non finascano entrambi con lo scottarsi.
Questo capitolo è un po' più corto dei precedenti...e scriverlo è stata una fatica immane.
Grazie a tutte, siete davvero generose, anche mi sento ingorda perché i commenti che ricevo non mi bastano mai...
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Won't stop till it's over ***
When you crash in the clouds - capitolo 8
Capitolo 8
Won't stop till it's over
soundtrack
“No,
ti prego” sbuffai “non anche tu!”
Sapevo
che lasciarle carta bianca sui libri da scegliere si sarebbe rivelato un errore
fatale, come lasciare una porta aperta nei film horror. Avrei dovuto escludere
dalla lista volumi adolescenziali di urban fantasy.
“Non
bastava mia sorella a sfondarmi i timpani e fracassarmi i maroni con tutti
questi esseri soprannaturali … ti prego” la scongiurai “almeno dimmi che non
sei per il vampiro!”
Rise
di gusto al mio sproloquio nevrotico. Adoravo la sua risata, era così naturale
e spontanea, ne gustava ogni secondo e lasciava che le sue labbra, carnose e provocanti,
ma non volgari, si aprissero ad un sorriso liberatorio di quelli che da troppo
non si concedeva e che non aveva, almeno per una volta, incollato a sé il
ritratto macabro del suo mestiere, salato ed insolente come la lacrima del più
malinconico Pierrot.
Mi
rendevo sempre più conto, man mano che passavano i giorni assieme a lei, di
stare abusando eccessivamente della sua presenza, sempre più allegra e
positiva. Mi sarei fatto malissimo a starle così vicino e poi non vederla più;
sapevo che sarebbe andata a finire così e lasciavo scorrere i giorni sperando
che l’addio non arrivasse mai, osservandolo guardingo avvicinarsi da lontano,
come una nuvola di pioggia nel bel mezzo di un barbecue estivo all’aperto. Mi
sarei ferito alla fine, perché non sapevo dire di no alla parte più stupida ed
egoista di me stesso; le stavo vicino e non avevo nemmeno il buon senso di
indossare un giubbotto antiproiettile: ne sarei uscito disastrato, ma non è che
me ne importasse più di tanto. In fondo, cosa avevo da perdere, se non una vita
di cui ancora raccoglievo cocci dappertutto?
Lasciavo
che si imboscasse tra gli scaffali della libreria e leggesse insieme a me per
tutta la mia giornata lavorativa. Magari la lettura non era interessantissima: conoscere
le rogne di una tizia, apparentemente sfigata, cessa ed asociale, costantemente
contesa tra due eterni nemici, si da il caso uno più bello dell’altro, non era
proprio lo scopo della mia vita, ma sentirla scandire con passione ogni parola
e colorare ogni pagina con espressioni di stupore o disappunto era quasi un
miracolo, lo spettacolo più bello sulla terra. Ecco avrei giusto gradito che
non scaraventasse il libro contro una delle pareti, quando la protagonista
piange tra le braccia del suo fidanzato per l’altro, apostrofandola con epiteti
poco eleganti. Credo proprio che in questo potesse darsi la mano con Caroline e
con un milione di fan sparse per il mondo. Valle a capire le donne …
“E
così hai una sorella?” mi chiese incuriositasi quando la citai.
“Sì,
Caroline. Ha 10 anni” risposi.
“Devi
amarla parecchio” disse senza domandare, ma rivolgendosi a me con un dato di
fatto a cui non potei far altro che annuire. “Si vede” mi confidò, timidamente
“ti brillano gli occhi”.
Avrei
voluto mostrare un pizzico di spina dorsale in più, cercando una scusa
plausibile al mio inguaribile sentimentalismo, ma la verità è che la piccola
dama dagli occhi blu era stata la mia ancora di salvezza per mesi e mesi,
l’unico vincolo che ancora mi teneva legato alle mie radici e a quel mondo che
era stato la mia casa e la mia famiglia per oltre vent’anni. E poi era arrivata
lei, irriverente e scomoda come solo la verità può essere, ridandomi la voglia
di vivere e di fare qualcosa, e non solo per mero spirito di sopravvivenza.
Erano
passati solo cinque giorni dalla nostra cenetta a base di pizza e patatine ed eravamo
passati dalla fase dell’ “hey” timido, pronunciato per sbaglio ed ascoltato
ancora più per errore, alla fase dei nomignoli. Ty, Allie e lo stronzo cronico.
Più che un appellativo, l’ultimo era proprio la più adatta delle descrizioni
che potessero essere fatte di Aidan.
Lavorando
e vivendo insieme a lui non avevo potuto escluderlo dalla mia conoscenza con
Allison. All’inizio aveva storto il naso, proclamando una litania di
raccomandazioni; proprio lui, che era la persona meno affidabile e responsabile
sulla faccia della Terra. Ma alla fine era stato anche lui colpito dalla realtà
delle cose, dalla brillante e dolcissima ragazza che si celava dietro la
spogliarellista, al di là del suo magnifico corpo che, a discapito della
morigeratezza dei miei costumi in sua presenza, ancora mi faceva tribolare in
piena notte.
In
più di un’occasione avevo dovuto trattenere quel cretino, perché solo così puoi
chiamare una persona del genere, da commenti poco puliti ad alta voce in sua
presenza: non che non vi fosse abituata, nello squallido posto dove lavorava ne
avrà sentite sicuramente di peggiori, ma a me davano veramente fastidio, come
se avessero offeso la mia ragazza con avances pesanti in mia presenza.
La
mia ragazza … accostare questa definizione con Allison mi sembrava allo stesso
tempo strano eppure naturale; mi sarebbe piaciuto avere una ragazza, dopo i
casini dell’ultimo anno, mi sentivo pronto a rientrare in piazza e c’avrei
messo la firma perché fosse come lei. Una di quelle che guarda al di là della
facciata esteriore, una che sa apprezzare davvero le piccole cose come se
fossero dei tesori. Ma lei no, era solo il modello da cui partire. Lei nessuno
avrebbe dovuto sfiorarla, se non con il suo consenso: tantomeno io.
Averla
vista all’ingresso della libreria il lunedì mattina, quando ormai, dopo una
notte passata a rimuginare sui vari significati dell’espressione “ci vediamo
presto”, mi ero persuaso che ci avrei messo un po’ per rivederla e che, anzi,
avrei fatto prima a cercarla io stesso, fu per me la più piacevole delle
sorprese, la conferma insperata della sua volontà di uscire fuori da quel mondo
che le andava troppo stretto, che non era certo degno di lei. Eppure, quando terminavo
il mio turno, tornava a chiudersi in sé stessa, proibendosi libertà che si era
concessa fino a poco più di un minuto prima, precludendosi la possibilità di
riscoprire il mondo con i suoi occhi, al di fuori delle pagine di un libro. E
se ne tornava nelle fogne da dove era venuta, come punizione per aver osato
chiedere troppo dalla vita e da se stessa, per un sogno che non le era permesso,
un memento di ciò che per lei doveva essere solo un’esperienza fugace e
furtiva, inevitabilmente destinata a finire. Lo vedevo dai suoi occhi quanto le
dispiacesse andare via da ogni ultimo sguardo che lanciava alle pile di libri,
ai tavolini del bar, al direttore del personale che mi avrebbe licenziato in
tronco se non l’avessi fatta finita di importunare le nostre clienti più
giovani. Erano un milione di ultimi sguardi, gli stessi di quella prima mattina
passata insieme nella sua stanza quando incredula aveva trovato me ed una
colazione decente al suo risveglio. Incapace di godersi il presente perché
troppo convinta di non meritarselo. E lo stesso valeva per il suo futuro.
Tuttavia,
finché l’avessi trovata ad aspettarmi ogni volta che prendevo servizio, non
avrei perso la speranza di aiutarla, perché lei per prima stava combattendo
contro se stessa.
“Cosa
odono le mie orecchie?” domandò sorpreso Aidan, affacciandosi alla nostra
postazione segreta per la lettura, dove riuscivo a stare con lei senza dare
nell’occhio e al contempo sorvegliare l’intera situazione. Aidan, da parte sua,
faceva da vedetta e mi avvertiva ogni qual volta il capo del personale passava
in rivista il nostro piano. “La bellissima Cenerentola è ancora qui a
deliziarci della sua presenza?!” continuò nella sua recita, confermando la
teoria di Allison secondo cui sarebbe stato perfetto come giullare di corte
“Per fortuna non esistono più le fate Smemorine di una volta e gli incantesimi
non durano più fino a mezzanotte …” Lui, sornione, era riuscito a farla
illuminare di nuovo con un sorriso ed i suoi occhi sorridenti e raggianti
corsero immediatamente a me a cercare consensi. Risposi sommessamente al suo
riso, per sostenerla, ma c’era poco da stare allegri.
Non
può piovere per sempre … ma nemmeno il sole c’è in eterno; così come arriva
l’estate, arriva anche l’inverno; persino più puntuale della bella stagione.
Più tempo passava e più avrei faticato all’idea di non vederla più, perché l’incantesimo
sarebbe stato spezzato prima o poi e quel momento si faceva sempre più vicino e
cercare di allontanarlo dalla mia mente non serviva a granché. A meno che non
fossi stato io a fermarla, sarebbe stata di nuovo inghiottita dagli abissi
torbidi e profondi della mercificazione del proprio corpo. Sì, mi sarebbe
toccato fermarla, ma mi ero talmente assuefatto all’idea di averla in giro a
lavoro e vederla ogni giorno che agire contro la sua volontà mi sembrava quasi
una prevaricazione nei suoi confronti, oltre alla consapevolezza che l’avrei
persa per sempre se avessi commesso un solo passo falso, come poteva esserlo
mettersi contro di lei. Ma dovevo ricordarci che era folle, nonché criminale,
starsene con le mani in mano a permetterle di rovinarsi una vita ancora salvabile.
“Mi
dispiace disturbarla dalle sue ascesi quotidiane Mr. Nichilismo in persona”
blaterò Aidan, riscuotendomi dai miei pensieri “ma vorrei ricordarle che
dobbiamo chiudere e andare a casa, non …”
“…
non senza aver accompagnato alla sua carrozza la vostra amatissima principessa,
nonché me medesima” completò la frase Allison, con quegli occhi furbetti di chi
sapeva che era riuscita a spuntarla con noi e a farci suoi schiavi. Non credo
che Aidan sarebbe stato tipo da seguirla fino in capo al mondo, non era nella
sua indole, ma era riuscita a farsi offrire le ciambelline d’avanzo che di
solito il bar gli dava a fine giornata; anche se lui non aveva speso un
centesimo per averle, conoscendo il soggetto è come se l’avesse portata fuori a
cena da Tribeca. Erano ancora entrambi sogghignanti e sgranocchianti, più che
due ragazzi sembravano due pecore ruminanti, soprattutto Aidan aiutato dalla
barbetta incolta che si ostinava a voler tenere. Diceva che faceva
intellettuale. Contento lui …
“No!”
esclamai, ancora catalettico, a metà tra il mondo dei sogni e quello della
realtà.
“No?”
ribatterono loro, interrogativi; in particolare Allison, che sembrava rimarcare
nel suo volto il punto di domanda che aveva espresso a voce. Non capivano
evidentemente a cosa fosse da collegare il mio no perentorio.
“No”
spiegai meglio ad Aidan “non dobbiamo riaccompagnare nessuno”. Spostai la mia
attenzione su Allison e la vidi ancora più perplessa e probabilmente timorosa
che non ce l’avessi con lei per qualche motivo. Lasciai che i suoi occhi
incrociassero i miei e non avessero paura; la vidi rilassarsi, almeno un
pochino “Stasera stai con noi”.
Non
era particolarmente convinta che la serata potesse mantenere il tenore che
avevano le nostre giornate insieme in libreria e soprattutto, per quanto non
rinunciasse mai a scambiare battute e risate assieme a lui, Allison metteva in
dubbio l’autocontrollo sessuale di Aidan.
“Non
me ne vogliate ragazzi … ma io cose a tre non ne faccio, sia ben chiaro!!!”
Mise le mani avanti, mentre ci incamminavamo verso casa, con lei ancora
titubante se restare con noi o meno. L’avevo convinta almeno a pensarci lungo
il tragitto, visto che comunque l’ingresso alla sua linea della metro era di
strada. Se si fosse convinta, bene, altrimenti ci avrebbe lasciati a meno di
metà strada.
Vedevo
quella scalinata verso la New York sotterranea sempre più vicina, lei non aveva
ancora deciso e Aidan ci metteva come al solito del suo per farla scappare a
gambe levate. Se per oltre un mese aveva visto in me un bravo ragazzo, uno di
quelli che nel suo locale ci mettono piede solo per sbaglio, ora grazie ad
Aidan aveva iniziato a credere che fossi un maniaco sodomita.
“Oh
tesoro mio” si rivolse a lei Aidan “non ci tengo a soddisfare le voglie
omosessuali del mio coinquilino … a cui peraltro ho già rotto il naso per lo
stesso motivo tempo fa … ma se proprio senti l’esigenza di fare qualcosa lo
capisco, siamo fatti di carne. Sbattiamo fuori dai coglioni il nostro amichetto
triste e moscio e ci prendiamo il suo letto per fare due capriole” le disse,
rincarando la dose virgolettando con le dita alla parola capriole. Riusciva ad
essere veramente idiota quel ragazzo, e per fortuna al suo fianco non aveva
un’alunna del Sacro Cuore ma una a cui spesso la defecazione fuoriesce spedita
dalla bocca e non dal sedere in quanto a linguaggio. “Due
capriole te le faccio fare volentieri Aidan” le rispose provocante Allison,
spiazzandomi del tutto “… ma per le
scale buttandoti fuori a calci nel culo se non chiudi quella fogna che hai tra
naso e mento!!!”
Si
voltò sorridente verso di me, lasciando che Aidan somatizzasse
l’ennesima
batosta simil-sentimentale e corse da me che ero rimasto più
indietro rispetto
a loro. Si mise sottobraccio e camminammo insieme per quelle poche
decine di
metri che ci separavano dall’ingresso della metro. Era bello
stare insieme
così, camminando semplicemente, anche senza dirsi nulla.
L’avrei implorata di passeggiare con me per tutta la serata
finché non fosse crollata per il sonno e
mi avesse implorato di riportarla a casa. E poi vederla nei panni di
una
ragazzina acqua e sapone mi aveva fatto dimenticare l’immagine
sporca di lei in
quel locale, per me più un incubo che un ricordo vero e proprio.
“Non
senti più freddo Ty?” mi chiese, ricordando il freddo boia della serata che
avevamo trascorso insieme “che ti dicevo io che era solo questione di coprirsi
un po’ di più?”
“La
finisci di fare la maestrina?” la sgridai “altrimenti finisce che ti carico
come un sacco di patate e a casa mia ti ci porto con la forza …”
“Voglio
proprio vedere come fai …” cominciò a prendermi per il culo come al suo solito:
era bravissima nel prendere in giro le persone, ma con me le riusciva
particolarmente bene “… ultima volta che in libreria hai dovuto togliere 10
libri da uno scatolone c’è mancato poco che ti uscisse un’ernia …”
“Ah
sì?!” le domandai, in tono di sfida, mentre lei, staccandosi da me, mi si era
messa di fronte camminando all’indietro e non accorgendo di quanto fossimo
vicini all’ingresso dei sotterranei. “Vieni qui!” le intimai, cominciando a
correre verso di lei ed in poco tempo, per quanto fossero affollate le strade e
lei molto agile e veloce la raggiunsi e me la caricai sulle spalle come fosse
un sacco di patate, tanto era leggera. Iniziò a dimenarsi addosso a me come
un’anguilla fastidiosa e viscida, riempiendomi la schiena e il torace con pugni
e calci.
“Voglio
vedere dove vai ora!!!” sogghignai, dandole delle pacche giocose sul sedere.
Maledetto me quando avrei imparato a tenere le mani a posto: lei tirava forte,
lo avevo già sperimentato e non so come riuscì con precisione millimetrica a
sferrare un colpo al mio stomaco lasciandomi senza fiato. Riuscii però a
mantenere salda la presa e a non lasciarla scappare via. Aidan, sconsolato e
con la sua solita flemma ci raggiunse e, man mano che si avvicinava, rassicurava
i passanti che non stavano assistendo ad un rapimento ma ad una zingarata di
due matti. Intanto lei continuava a starnazzare come un’oca in preda ad una
crisi isterica, intimandomi di lasciarla andare “Eddai Ty!!! Mettimi giù non
sei per niente divertente” “Perché se no che fai … lo dici alla mamma? Uuuh
povera piccola Mallory … Guarda!!! Di’ ciao alla metropolitana che si allontana
… ciao metro!!!” “Che cosa? Noooo … sei uno stronzo Tyler!!!” “Lo so” ribattei
ridacchiando, ormai eravamo proprio andati, parlavamo e litigavamo a ruota
libera; non perché fossimo veramente arrabbiati l’uno con l’altro, io stesso
d’altronde avevo iniziato quel gioco, ma perché non sopportavamo di dare vinta
all’altro, nemmeno per gioco. “Eddai basta mettimi giùuuuuuuuu!!!!” continuò a
blaterare lei “va bene dai! Ci vengo a casa tua …”.
Contento
di aver conseguito quel piccolo successo la lasciai andare e, mentre si
ricomponeva al meglio, facendo finta di cercare Aidan con lo sguardo tra la
gente cercai di riprendermi dal gesto atletico che non ero abituato a fare. Era
difficile da ammettere, ma lei aveva ragione.
“Ehi
piccioncini?! Avete finito?” Aidan … era il solito bambino egocentrico, che se
non era al centro dell’attenzione si insospettiva e metteva il broncio. Ridemmo
di gusto tutti e tre insieme … se solo fosse stato possibile, se solo lei me lo
avesse permesso, saremmo potuti diventare una bella compagnia di amici e
avremmo potuto divertirci parecchio.
“Dai
ragazzi ma non avete visto che bordello lì sotto? Non lo saprà nessuno che ci
siamo imboscati … dai non potete dirmi di no!”
Il
rapporto di Aidan con l’alcol era piuttosto complicato. Non perché non lo
reggesse, anzi lo tollerava piuttosto alla grande, talmente alla grande che con
la dose necessaria a lui per essere sbronzo io sarei già in una cella frigorifera in obitorio, pronto
per essere squartato dal medico legale. Piuttosto era un rapporto difficile
nella misura in cui non riusciva a stargli lontano; non alcolista, direi invece
storia d’amore appassionata, di quelle dove ad amarsi troppo si finisce con il
farsi del male. Ed è universalmente noto che le bevande alcoliche sono amanti
focose e sadiche.
“Ed
invece ti dico di no Aidan … devo tornare a casa mia più tardi e preferirei
farlo con le mie gambe …”
“Eddai
solo unooo!!!” continuava a pregarci, sperando di convincerci con le sue
faccine ruffiane. Come se potesse funzionare con me che l’avevo visto strafarsi
e vomitare l’anima o con lei, che di uomini marci ne vedeva a decine ogni sera.
“Uno?
Aidan ricordami l’ultima volta che era stato solo uno?” gli domandai.
Iniziò
davvero a riflettere a quella mia domanda retorica. “Prima comunione?!” rispose
alla sua domanda da un milione di dollari. Io ed Allie ci guardammo e lo
guardammo perplessi e preoccupati per il suo comportamento e la sua stupidità,
e non c’era dubbio che nei nostri occhi passava silenziosa la stessa domanda,
se mai quello spettacolo indecoroso avrebbe trovato fine. Ma il nostro compare
di sventura pareva ben determinato nel suo intento di dare sfogo alle sue manie
etiliste e fondo alle scorte di vino da quattro soldi che circolavano a casa
degli inquilini del secondo piano; così, mentre ancora discuteva tra sé e sé il
modo più opportuno per ricevere da noi il permesso di andare e trascinarci con
lui, lo lasciammo lì sul pianerottolo tra i due piani a discutere con
l’angioletto ed il diavoletto sulle due spalle. “Smettila di blaterare da solo
e vai a divertirti!” gli urlai dal nostro pianerottolo. Non se lo fece ripetere
due volte che lo vidi sparire dalla mia vista e buttarsi a capofitto per la
tromba delle scale. Entrammo e chiusi la porta alle mie spalle.
“E
così questa è casa tua …” commentò Allison, politicamente corretta, quando ebbe
finito di fare un giro dell’appartamento. Non si era sbilanciata, ma i suoi
occhi curiosi mi suggerivano un vago apprezzamento.
“…
e di quel pazzo” precisai io. “Naaaaaa …” considerò “lui ci dorme solo qui, sei
tu che la vivi”
“E
cosa te lo fa pensare?” domandai incuriosito da una teoria interessante e
potenzialmente vera. “Non c’è niente che ricorda lui qui dentro. Tutto mi parla
di te … ed è un bene visto che non mi hai mai voluto dire nulla”
“E
sentiamo …” la sfidai “cos’è che ti dicono queste quattro mura logore?”
“Che
sei molto più profondo di quanto voglia far credere, che ti piace conoscere più
cose possibile … e che vivi di ricordi, visti gli appunti sparsi sul tuo letto
– che non ho letto sia ben chiaro - e le foto che riempiono questa casa …”
Ed
io che mi ritenevo un abile lettore di anime! Aveva appena fatto una
radiografia di me e della mia vita attraverso quelle quattro cianfrusaglie
ammassate senza ordine e senza rispetto in quelle due stanze; in poco meno di
mezz’ora aveva capito di me più di quanto io stesso sapevo di me stesso, dopo
una vita di convivenza forzata. Vivevo di ricordi … avrei preferito che non
fosse vero.
“Ah!”
aggiunse, spensierata “e ho capito anche un’altra cosa. Che sei un porco … cioè
hai visto quel bagno?! Dio che schifo!!!”
“Senti
chi parla … preferirei farla per strada piuttosto che dovermi sedere sul cesso
di casa tua. Veniva un profumino quando ci sono venuto!!!” “mmmmm” mi tirò una
linguaccia bella e buona e finii col vendicarmi lanciandole un cuscino in pieno
volto. Era uno spettacolo vederla tutta arrabbiata, con le rughe d’espressione
che le corrucciavano la fronte ed il naso che si arricciava, contratto, insieme
alle labbra che si serravano in un broncio che a vederla, mi veniva voglia di
mangiarmela di baci. Ok, dovevo smetterla con certi pensieri del kaiser,
sembravo una fan di Justin Bibier in calore, ma uscivano spontanei e non sapevo
controllarli.
Mentre
mi perdevo in fantasie adolescenziali, fatte di lettere d’amore imbucate
nell’armadietto di scuola e di frullati alla fragola in un bar stile Happy
Days, non avevo avuto modo di controllare e prevedere la reazione della piccola
peste. Iniziò a rincorrermi per tutta casa con la stessa arma con cui l’avevo
ferita e sapevo che, se conosceva il proverbio quanto me, avrei dovuto
soccombere con la stessa spada, nella fattispecie un cuscino che perdeva piume
neanche fosse un rettile nel periodo di muta.“Tyler KEATS Hawkins?!” scandì
incredula e divertita “davvero ti chiami Keats … porca puttana, i tuoi devono
essere dei tipi davvero pretenziosi?!” Nella fuga dai suoi fendenti per poco
non inciampai ed evidentemente dalla tasca dei jeans venne fuori il mio portafogli,
perché c’era un solo posto al mondo dove tenevo sigillata a tenuta stagna la
verità sul mio nome intero: la carta d’identità, ben mimetizzata nel quarto
scomparto a sinistra. Arrivammo nel piccola cucina e cercai di difendermi da
lei con il primo oggetto che mi capitò tra le mani, un misero tagliere di
legno, lasciato lì sulla mensola da una vita e chissà quando era stato usato
per l’ultima volta.
Nella
concitazione della battaglia, quasi arrivati allo scontro diretto, accadde
quello che nessuno dei due poteva aspettarsi: eravamo vicini, a ridosso del
mobile della cucina, talmente vicini da sentire i battiti dei nostri cuori
rimbombare alle orecchie dell’altro e scontrarsi l’un l’altro, mentre i respiri
concitati muovevano e scontravano le rispettive casse toraciche.
Oltre
al martellare dei nostri cuori ed i nostri sospiri affaticati, c’era la musica
ovattata della festa hippy al piano di sotto. Erano passati ai lenti anni '60/’70,
tipico sintomo che il vino aveva iniziato a fare effetto. Sobrio di vino, ma
ebbro della sua presenza cercavo di non pensare a quella colonna sonora come un
segno del destino, ma come una razionale, seppur bizzarra, coincidenza. Bastava
davvero poco ad annullare quella distanza, bastava solo volerlo. Vedevo i suoi
occhi, mentre i miei si perdevano in quel suo visto disteso, concentrato in una
comunicazione verbale che per una volta non riuscivo a cogliere, preso e perso
com’era il mio cervello a studiare ogni dettagli di quella situazione. Sembravano
dirmi qualcosa i suoi occhi, grandi e verdi, occhi irlandesi li avrebbe
ribattezzati la bisnonna Hawkins, lei che il Donegal l’aveva visto davvero, sconfinati
come l’oceano e verdi come le ampie radure; sembravano chiedermi perché eravamo
arrivati fino a lì e cosa esattamente stesse accadendo. Cosa rispondere a degli
occhi ammaliatori come quelli?
Ma
lei sembrò abbastanza lucida da decidere per entrambi e si tirò indietro. Forse
era meglio così: niente contatto, meno dolore quando fosse scomparsa dalla mia
vita. Era così brava a saper riprendere il controllo della situazione, così
padrona dei suoi istinti che sembrava impossibile avere davanti una
diciassettenne. Era per questo, forse, che non era uguale alle altre, per
questo c’era in lei qualcosa in più, solo per me.
Feci appena in tempo a riprendermi da
quell’attimo un po’ pericolo, che capii che un altro era in arrivo, ben
peggiore. Con la coda dell’occhio vidi partire un tiro mancino, pronto a
colpirmi in pieno volto. Riuscii a schivarlo appena in tempo, ma forse avrei
fatto meglio a prendermelo: una vagonata d’acqua bollente mi venne addosso
dalla pentola in cui avremmo dovuto cuocere la pasta. Stavo aspettando che
bollisse, quindi per fortuna non era eccessivamente calda, ma sentirsela
addosso d’improvviso non era certo una bella sensazione.
“Oh
merda! Tyler scusami! Cazzo! Non volevo, ti giuro! Ho esagerato come al mio
solito … perdonami ti prego!” iniziò a scusarsi Allison che non sapeva dove
mettere prima le mani, se correre a raccogliere il pantano sul pavimento oppure
a me che, fradicio e bollente, sembravo appena uscito sulla neve dalla sauna ed
avevo il corpo fumante. Mi affrettai a spiegarle che non aveva nulla di che
scusarsi, era stato un incidente. “Capita” la rassicurai, sorridendole “quando
si fa gli scemi per casa come facevamo noi!”. Certo che però se mi avessi
baciato ora eravamo a fare altro ed i vestiti non avrei dovuto certo toglierli
per evitare di ustionarmi!
Andai
in camera a cambiarmi e lasciai gli abiti ad asciugare sul davanzale
arrugginito della mia finestra, tanto comunque avrei dovuto portarli alla
lavanderia a gettoni ad un paio isolato da casa. Lei era rimasta nella zona
giorno, quasi avesse pudore a vedermi senza maglietta; lei, che era abituata a
ben altre visioni, ben più raccapriccianti. D’un tratto la sentii bussare allo stipite
della porta “Posso?” chiese, titubante. “Certo” la esortai.
Era
guardinga, forse ancora un po’ in colpa per quanto era successo.
“Aspetta”
disse, mentre mi abbottonavo la camicia “ma hai un tatuaggio sul petto? Non ti
facevo tipo da tatoo, sai? Che poi sul cuore … spero non l’abbia dedicato ad
una ragazza che ti sei scopato e poi hai lasciato la mattina dopo perché
sarebbe imbarazzante …”.
“È il nome di mio fratello” la freddai e lei passò
delicatamente la mano sulla pelle, percorrendo ogni lettera come fosse cieca e
quella fosse una scritta in Braille, provocandomi un leggero brivido. Sembrava
voler carpire ricordi ed immagini direttamente dal mio cuore, sul quale quel
nome era stato inciso.
“Scusami”
si giustificò, ancora, la voce balbettante “io … io non avevo idea che …”.
Abbassò lo sguardo e si allontanò da me, andando a sedersi ai piedi del letto.
Era sconvolta, neanche le avessi comunicato la morte di un suo parente; ma
allora compresi che dietro il suo dramma doveva celarsi qualcosa di simile, un
lutto o una perdita abbastanza grave da ridurla a schiava di qualcuno per
chissà quali motivi. Non eravamo così distanti. La raggiunsi sul letto e mi
avvicinai quel tanto che bastava a farle capire che non me l’ero presa e che,
anzi, ero ben felice di levarmi finalmente quel peso con lei, dimostrandole che
la mia vita non era poi così perfetta come lei credeva.
“È
il ragazzo delle foto che hai di là, vero?” annuii. “Come …”
“Suicidio”
faticai a spiegarle, anche se era necessario “si è impiccato poco più di un
anno fa il giorno del suo 24esimo compleanno. Si era laureato in economia ed
aveva da poco iniziato a lavorare con nostro padre … ma la sua passione era la
musica e lui gliel’ha distrutta, mandando in rovina tutto il resto …”
“so
che sembra strano ma … ma so come ci si sente. Sia nei suoi panni che nei tuoi,
credimi”.
Mi
stesi sul letto, ad occhi chiusi, cercando di riordinare le idee. Era
stata una
bella giornata, ma anche piuttosto lunga; con Allie le cose andavano a
meraviglia e sembrava essersi instaurato tra noi un clima di
distensione e
amicizia, forse anche qualcosa di più. Mi riusciva difficile
credere che quel
qualcosa di più, per me, lo avesse lei; ma l’amore
è cieco, non chiede
permesso, ed il più delle volte si presenta a noi irriverente ed
inopportuno.
D’improvviso sentii il letto scuotersi sotto delle piccole mosse;
era
evidentemente Allison, che si stava avvicinando a me in maniera
difficile,
tanto perché tra noi le cose non erano abbastanza complicate.
Venne ad
appoggiare la testa sulla mia spalla e, mente una mano si era fermata
sul
petto, l’altra era corsa ai capelli, con una timida audacia che
faceva di lei predatrice e preda nel medesimo istante, in un perenne
gioco di attacco
e difesa. Aprii gli occhi e le sorrisi, lei però non
riuscì a distendersi e a
rispondermi. Le carezzai la guancia con il dorso della mano ed i
suoi occhi
erano tornati ad essere fermi e tristi, imploranti una pietà ed
un aiuto che
non avrebbero mai potuto ottenere senza sapere quale fosse il problema.
“Hei?!” le sussurrai dolcemente, stringendola a me. Avrei voluto che quel
momento non finisse mai. Il suo profumo si era addolcito, addomesticato da un
mondo di nuove esperienze, e ne avrei aspirato e respirato l’essenza
all’infinito.
Puntò
il suo sguardo dritto nei miei occhi, con la severità che solo le cattive
notizie possono dare. Lo sapevo che quel momento non avrebbe tardato la sua
visita, lo sapevo che sarebbe stata questione davvero di ore. E quel che è
peggio che lei lo sapeva, e si era tenuto dentro fino all’ultimo minuto,
soffrendo fino all’estremo sacrificio dell’addio, eppur godendo fino all’ultimo
di questi attimi. Era arrivato il momento dell’insensato abbandono.
“Oggi
è l’ultimo giorno Tyler” mi disse, senza celare in alcun modo la disperazione
di quelle parole “domani torno a lavoro”.
L’abbracciai,
d’istinto, e lei non s’oppose, chiedendo solo con tutta se stessa di potersi
gustare quell’ultimo momento d’amicizia tra noi.
Le
cose sarebbero cambiate, inevitabilmente, in un modo o nell’altro.
NOTE FINALI
E
fu così che i due amici ... che forse amici non sono veramente
... dovettero dirsi addio. Tyler non si rassegna all'idea di lasciarla
andare e Allison si aggrappa a lui con tutti le forze che possiede. Una
storia d'affetto che nasce per caso e sconvolge le esistenze di chi la
vive. Le cose non possono andare mai bene ... ed è per questo
che quando iniziano ad andare per il verso giusto, arriva qualcosa a
sconvolgere l'equilibrio. Il bello deve quindi ancora venire.
Piccolo annuncio:
per scrivere i prossimi capitoli, i più impegnativi di tutta la
storia, credo che mi prenderò due settimane di pausa. Tuttavia,
se saranno pronti prima del previsto, non esiterò a pubblicare.
Spero che questo di oggi sia stato di vostro gradimento, che non sia stata ripetitiva, pesante o prolissa.
Per
qualsiasi consiglio, critica o commento in generale sapete dove
trovarmi, e vi ringrazio per il sostegno ed il consenso che mi date
ogni, volta. So che siete molti di più di quanti vi vedo ogni
volta e mi piacerebbe che anche voi, lettori silenziosi, vi facciate
sentire. Per me è fondamentale ... nonché gratificante.
Oggi sono di una chiacchiera ...XD Vabbè ... vi lascio andare
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** She will be loved ***
When you crash in the clouds - capitolo 9
Capitolo 9
She will be loved
soundtrack
Era
stata la notte più brutta della mia vita. Non ero riuscito a chiudere occhio e
non facevo altro che correre con la mente a lei. Non aveva voluto saperne di
restare con noi; diceva che non aveva intenzione di fare l’infermierina
appresso ad Aidan completamente fatto di alcool ed erba. Ma sapevo benissimo
che era solo una scusa per defilarsi senza grandi cerimonie, per andarsene
senza dover affrontare l’argomento “nuovo incontro”.
Trascinai
Aidan su per il suo letto mentre balbettava qualcosa di incomprensibile a
proposito di Woodstock e Jimi Hendrix. Dovevo segnare nella nostra bacheca il
monito MAI IMBUCARSI AD UNA FESTA DI
FIGLI DEI FIORI. Mi adoperai per assicurargli un riposo sicuro, applicando che
ogni giovane marmotta impara al corso di primo soccorso e, prese coperta e
sigarette, mi diressi verso il tetto. Faceva freddo, tremendamente freddo ma la
coperta riusciva a riscaldarmi a sufficienza. Al resto, provvedevano le
sigarette.
È
bella New York di notte. Apparentemente ferma e silente dai suoi tetti,
nonostante il traffico non si fermi mai. È bella e magica. Lontani, i
grattacieli di Manhattan si stagliano forti ed orgogliosi dritti verso il
cielo, a testimoniare la nostra vanagloriosa potenza sulla Terra e sugli
uomini. Ma sopra di noi rimane sempre il giudizio delle stelle. Le nuvole piene
di smog e le luci della città impediscono di vederne una gran quantità, ed il
traffico aereo toglie poesia anche quando la trapunta blu è perfettamente
visibile.
Ma,
con mia somma gioia, la luna quella sera aveva vinto la coperta di nuvole e
continuava a vegliare ancora su di noi, come una madre accanto alla culla. Era
bello e confortante pensare che dovunque si fosse in quell’istante, in una
metropoli grande come questa, alzando il naso al cielo, chiunque avrebbe potuto
vedere quello spettacolo. Una grande torta tutta farcita di panna, lì solo per
noi, grande e bianca. Mi era sempre piaciuto immaginarla così da bambino, e non
avevo mai smesso di fantasticare su quel magico satellite.
Michael
l’adorava; collezionava storie e racconti su di lei e m’aveva trasmesso la
passione per quell’astro affascinante e misterioso.
Mi
piaceva pensare, anche se razionalmente era una cosa improbabile, che anche lei
stesse godendo della stessa visuale.
Ma
lei forse non avrebbe mai alzato lo sguardo verso quella pallida regina della
notte, nella strana rivalità che il destino si era divertito a creare. Come in
un mito senza tempo, il fato aveva tolto gli occhi alla luna e li aveva donati
a lei, perché fossero osservati dagli uomini più da vicino. Ma la luna, dea
vanitosa, si è vendicata privandola delle lacrime, esattamente come fa con
l’acqua di mare attraverso le maree.
Indomabile
ed indomata, nonostante la sua bellezza e la sua vivacità provenissero da una
luce potente, eppure riflessa.
Era
tornata alla luce, nei pochi giorni che avevamo trascorso insieme, ed aveva
riscoperto il piacere di un’esistenza sana, fuori da quella prigione malata, da
cui non aveva, a suo dire, via d’uscita. Da sola, invece, non riusciva a
brillare e se n’era tornata nelle tenebre.
Più
stavo lì a fissare la luna, dimenticandomi del tempo che scorreva e del freddo
che mi avvolgeva, più mi convincevo che era il suo elemento naturale, la sua
essenza.
I
poeti vivono di notte, ma anche le persone di malaffare: non volevo annoverarci
tra questi, né per meriti, né per colpe.
D’altronde
anche gli amanti preferiscono la notte; era per questo che la luna sorgeva ogni
sera: per nascondere al giorno i segreti del proprio cuore.
Ed
i miei segreti sai nasconderli, Luna? I miei dubbi, i miei perché?
Nonostante
fossero trascorse solo poche ore, volevo rivederla; questo era poco, ma sicuro.
Come, dovevo ancora capirlo. Perché, restava un’incognita.
Quando
l’avevo incontrata per la prima volta, disinvolta ed sfacciata sul bancone di
quella bicocca, mi ero chiesto de per caso quella forza, quel fuoco che avevo
sentito divampare in me fosse per caso quel che si dice COLPO DI FULMINE.
Razionalmente mi risposi di no, che era solo voglia di fare l’eroe a spingermi
verso di lei, la volontà di aiutarla, come non aveva fatto con mio fratello
esattamente un anno prima, la voglia di dimostrarsi ancora importanti per
qualcuno.
Eppure
mi era sempre più evidente che il raziocinio aveva poco a che fare con la mia
vita, negli ultimi tempi. Era diventata, infatti, un susseguirsi di passi
avventati, gesti che mi avrebbero potenzialmente in un mare di guai.
Forse
le mie giustificazioni logiche erano state valide quella primissima sera,
quando dovetti combattere con gli ormoni a palla, ma ora le sentivo sgretolarsi
come un castello di sabbia su una spiaggia ventosa d’inverno.
Non
ero più certo che il mio cuore fosse ancora indipendente; era pesante e
affaticato, come un operario che fa un doppio lavoro, come se battesse per due.
E c’erano pochi dubbi sul fatto che l’altra persona fosse proprio lei.
Ero
pateticamente avvezzo a riservarle il primo pensiero e l’ultimo, nell’arco
della giornata, entrando in paranoia quando i minuti passavano e lei non era
con me. Aidan me l’aveva fatto notare in più di un occasione, e l’avevo
apostrofato come un visionario e mandato a fanculo tutte le volte. “Sarà” mi
diceva “ma tu con quella ti bruci, fidati”.
Certo
Aidan aveva ragione, fin troppa ragione, a dire che ero un tipo
dall’innamoramento facile; mi conosceva troppo bene. Ma sentivo io per primo
che stavolta era diverso … ok, probabilmente è una di quelle frasi che si dice
di solito in questi casi, e riconosco di averla detta un milione di volte … ma
stavolta era davvero diverso. Sentivo che la posta in gioco era troppo alta per
potermi tirare indietro, pronto a mettere in discussione persino me stesso per
raggiungere l’obiettivo. Ma non si trattava più solo di tirare via una povera
ragazza da un brutto giro. Per quanto avessi combattuto contro me stesso
convincermi per il contrario, dovevo cominciare ad ammetterlo: provavo qualcosa
per Allison.
Intorpidito
dal sonno che iniziava a fare capolino ed intirizzito dal freddo, decisi di
levare le tende e tornarmene al caldo delle mie lenzuola. Starsene lì a fare i
poeti maledetti, mentre lontano si intravedono le prime luci dell’alba,
rischiando di ammalarsi per bene solo per riempirsi la mente di puttanate, a
due passi da un cielo minaccioso di neve e freddo artico, non aveva molto
senso. Meglio starsene al caldo e sognare che la vita fosse semplice e
perfetta.
Prima
di scendere le scale, lanciai un ultimo sguardo alla quella grande palla bianca
che mi aveva fatto compagnia lungo tutta quella notte. E pensai ancora a lei.
“Buonanotte
… Allison” sussurrai, e chiusi la porta del terrazzo alle mie spalle.
Ripercorrere
le strade buie e vuote che portavano al Don Hill mi provocava di nuovo quella
sensazione di nausea e malessere generale che avevo provato ad appartarmi con
lei nel privé del locale. Avevo paura di ritrovare quell’atmosfera squallida
della prima volta, la stessa spiacevole percezione del sentirsi fuori luogo ed
inopportuno. Soprattutto, non ero sicuro che i miei nervi avrebbero mantenuto
il contegno necessario davanti all’immagine della mia Allison che si comportava
come aveva fatto con me, come era in fondo giusto che facesse, dato il suo
lavoro.
L’eco
della musica e dei bassi arrivava fin sulla strada e, ad accogliermi, trovai
Dean, lo scimmione occhialuto che per poco non aveva reso neutri me ed Aidan
durante la nostra prima visita.
Ora
invece, era da solo che entravo nel covo di vipere. Non avevo dovuto accampare
grandi scuse sulla mia serata alla mia babysitter Aidan, troppo impegnato a far
andare in porto uno dei suoi rarissimi appuntamenti con effettive chance per il
dopo serata.
Erano
tre giorni che non vedevo, né sentivo Allison, ed era perfettamente logico
visti i ritmi che le venivano imposti lavorando in quel postaccio. E forse
anzi, quasi certamente, andare a trovarla proprio in quel posto dove l’avevo
conosciuta nel dare il peggio di sé, nel buttare via anzi tutta se stessa nel
peggiore dei modi, era stato l’ennesimo errore madornale della mia vita, un’ulteriore
zappa tirata sopra i miei piedi, l’estrema dimostrazione della mia profonda
coglionaggine; ma dovevo rivederla, continuando a sperare, almeno per lei, che
era possibile non arrendersi a quella sorte.
“Chi
cerchi ragazzo?” mi domandò Dean quando, una volta entrato nel club, inizia a
guardarmi attorno per cercarla. Purtroppo, come nel peggiore dei miei incubi,
il ricordo che avevo conservato di quel luogo era fedele a ciò che era in
realtà. Le emanazioni di fumo, alcool e sudore uccidevano le mie ghiandole
nasali quasi fossero scarti tossici d’industria e le luci soffuse, unite ai
lampi che di tanto in tanto mi colpivano con le luci psichedeliche, avevano il
potere di neutralizzarmi la vista.
La
musica infine, era riuscita ad inibire il resto dei miei sensi, se questo scopo
non era già stato raggiunto da luci ed odori.
“Mallory”
balbettai, temendo di metterla nei guai. Cercai non usare il suo nome, per
l’assurda convinzione che entrambi avevamo, di dover distinguere tra vita
privata e lavoro.
“Mallory?!”
domandò lui perplesso “non c’è nessuna Mallory qui”
Non
è possibile, pensai, shockato. Se n’era andata? Non poteva farlo, lei stessa me
l’aveva rivelato.
Possibile
che mi avesse mentito riguardo al suo ritorno al lavoro, che fosse solo una
scusa campata in aria solo per scaricarmi?
Effettivamente
come ragionamento filava piuttosto bene … avrà avuto paura di scottarsi, ed io
come uno stupito ho lasciato che mi fregasse. Me l’ero meritato in fondo,
perché ne sapeva una più del diavolo e me l’aveva fatta sotto il naso non
appena avevo abbassato la guardia.
“Ragazzo?!
Ragazzo!!” mi richiamò all’ordine quel bestione “se sei venuto qui per farmi
perdere la pazienza, dimmelo subito perché non ho tempo da perdere appresso a
te … così ti sbatto subito fuori dai coglioni!!!”
“Aspetti
… mi … mi lasci spiegare … io … io …”
Bella figura del pollo che stavo facendo, incapace com’ero di spiegare la
situazione a quell’energumeno. Ma del resto, come farlo senza compromettere
Allison e proteggerla da ulteriori catastrofi?
“Dean!”
una voce alle mie spalle, proveniente dalle scale che portavano al privé, fece
scattare il gorilla sull’attenti “lascialo stare … lui è qui per me. Non è vero
Tyler?!”
Mi
voltai non appena sentii il mio nome. Era quasi ovvio che a parlare fosse stata
lei, ma nella confusione del locale, tra musica e versi poco umani che venivano
emessi ad ogni angolo, era difficile distinguere una voce da un’altra. Non mi
curai del buttafuori, e poco importava che fosse ormai ancora dietro di me o si
fosse dileguato. Il mio sguardo si concentro su quel viso che per tre giorni mi
ero esercitato a ricordare, e non c’era verso di posare gli occhi altrove,
nonostante fosse tutto piuttosto visibile.
Nel
suo habitat sembra sempre piuttosto disinvolta e chiaramente disinibita,
probabilmente anche grazie a qualche bicchierino di troppo mandato giù per
distendere i nervi. Forse era per quello stesso motivo che, nonostante gli
alti, ma soprattutto i bassi, della nostra controversa amicizia, lei sembrava
dare per scontata la mia presenza lì e si comportava come niente fosse.
Mi
prese per mano e mi accompagno fino al bancone, costringendomi a prendere
almeno un birra, ovviamente per lei. Mi accesi una sigaretta, che sapevo già
avremmo finito col condividere. Non so se era così con tutti i clienti, ma per
me era il nostro gioco, anche fuori da lì.
Evidentemente
attenta a mantenere una certa facciata, Allison si stava impegnando con tutte
le sue forze ad incollarsi a me, sedendosi sul bancone a gambe decisamente
divaricate o provocandomi con ogni arte degna della migliore geisha di Tokyo.
Per quanto fossi concentrato a cercare il suo sguardo, un muto consenso per una
conversazione, non potei fare a meno di notare il suo corpo, come non lo vedevo
effettivamente da un po’ e che tuttavia avrei difficilmente dimenticato. La
gonnina scozzese aveva fatto posto ad un gonnellino nero con grembiulino,
perizoma rosso da perderci il sonno e reggiseno a triangolo nero. Era
provocante, come la ricordavo, sexy da far paura ma, forse perché avevo
imparato a conoscerla per come era veramente, aveva perso quella volgarità
tipica di una persona che svolge quel tipo di lavoro. Non indossava né calze a
rete, né zeppe da battona, ma dei semplici tacchi a spillo che la rendevano la
regina del locale, nonostante probabilmente fosse di ritorno da una delle sue
“performance” private. Il volto era truccato in maniera composta ma elegante,
come se volesse distinguersi da quella massa di prostitute che era lì con lei.
“Io non sono come voi” sembrava urlare “io me ne andrò da qui”. Era come se
tutta la normalità e la purezza che era riuscita a riacquistare nei giorni
precedenti, non sia stata in grado di metterla da parte. E questo non faceva
che riempirmi di gioia.
Anch’io
del resto, avevo maturato un profondo rispetto per la Allison della libreria,
quella della pizza dietro l’angolo e del cornetto alla nutella, che non
riuscivo a guardare il suo corpo e a provarne piacere o desiderio alcuno, bensì
ribrezzo per quella condizione di serva che era ancora costretta a subire,
nonostante desse perennemente l’impressione di essere libera e serena in quei
pochi panni.
Così
mi rifugiavo nei suoi occhi che, scontrandosi con i miei, mi donavano ancora il
riflesso di quell’anima che avevamo ripulito insieme.
“Cos’è?”
le chiesi in un sprizzo di audacia “non ti fai trovare? Ho chiesto di Mallory e
…”
“… e Mallory stasera non c’è. Piacere di conoscerti” tese la sua mano in segno
di saluto “io sono Bridget, e sarò la tua cameriera personale della serata”.
“Piacere di conoscerti Bridget!” ricambiai il saluto divertito.
Nonostante
provasse in continuazione a farmi bere quella brodaglia che spacciavano per
birra, l’esperienza dell’ultima volta mi era bastata al punto che anche se
fossimo stati in pieno deserto, avrei preferito mille volte morire di sete.
Così continuai ad aspirare dalla mia bionda, facendole fare un tiro di tanto in
tanto.
Venne
a sedersi su me, alla stessa conturbante maniera della primissima volta, e si
avvicino al mio orecchio “C’è il capo in giro … devo ballare per forza.
Scusami”.
Si
stava scusando per il suo comportamento, perché doveva provocarmi e fare la
sensuale, altrimenti l’avrebbero anche potuta picchiare. Allora stetti al suo
gioco, sussurrandole di rimando: “Fai quello che devi …”
“Ogni
tuo desiderio è un ordine” strillò quasi, probabilmente per farsi sentire da
qualcuno che la stava osservando. Salì sul bancone del bar ed iniziò a
sculettare e a ballare su uno dei pali. Mi dava tremendamente fastidio vederla
umiliarsi a quel modo, avendola conosciuta davvero, avendo scoperto il vero
tesoro di una ragazza come lei. Non un premio da comprare per una notte, non un
oggetto da sfruttare a pagamento; ma una bellissima ragazza da conquistare con
dignità e correttezza, nella sua dolcezza, nella sua simpatia e per la sua
incredibile voglia di vivere. Mi guardai intorno, per distogliere lo sguardo da
quella visuale poco gradevole, per quanto interessante potesse essere agli
occhi di chiunque; cercai quel porco, per poter vedere che faccia potesse avere
un criminale del genere: eppure, al di là dei due/tre buttafuori che si
guardavano intorno circospetti, non c’era nessuno che potesse sembrare un
criminale. C’erano solo uomini ubriachi ed infoiati, malati al punto da andare
anche con delle ragazzine.
La
rabbia mi saliva dentro sempre di più, al punto che forse, pensai, era meglio
per tutti se me ne fossi andato. Meglio per me, che calmandomi avrei evitato
guai con la sicurezza; e meglio per Allison, che avrebbe fatto il suo, seppur
sporco, lavoro, senza la vergogna di farsi vedere dalla mia ombra che la
sorvegliava.
“Non
ho i soldi per andare di sopra, mi dispiace …” le urlai, mentre ondeggiava al
ritmo di musica. Era una canzone bellissima, adatta per una romantica serata
d’amore, e rovinata dall’atmosfera di quel luogo.
“Fa
niente …” mi rispose “… sarà per la prossima volta. Lo sai che mi piace
chiacchierare con te …” “Lo so” risposi, sottovoce, più a me stesso che a lei.
Se
solo avessi conosciuto un modo per farla rimanere al sicuro, se solo avessi
davvero potuto proteggerla, l’avrei portata via con me all’istante. Ma in
quella prigione c’ero entrato anch’io ormai.
Al
cambio di canzone la vidi rivolgere lo sguardo verso una delle bariste che,
probabilmente istruita dal capo, le stava indicando con un cenno del capo, un
angolo buio del locale. Era difficile distinguere chi fosse seduto a quel
tavolo, ma oltre la cortina di fumo e i vapori dell’alcool, riuscivo ad
intravedere una sagoma piuttosto consistente, ed immaginai che fosse un
omaccione di quelli grossi, e magari con le tasche gonfie di soldi. Magari un
californiano, uno con orologi e collane d’oro massiccio che coprono ogni centimetro
di pelle.
Bridget,
come si era fatta chiamare quella sera, scese dal bancone e, preso lo champagne
e due flute, si preparò ad andare proprio verso di lui.
“È
ora che vada” mi disse “se riesco a portarlo di sopra, per stasera ho finito”.
C’era quasi un tono speranzoso nella sua voce, come se la ricompensa potesse
valere un tale sacrificio. Probabilmente era uno di quelli da servizio
completo, il che mi fece ulteriormente rabbrividire.
“Ma
come fai?” le chiesi, cingendole i fianchi nudi con un abbraccio. Sperai che
per un attimo si soffermasse a guardare attentamente i miei occhi, e vi
scorgesse tutto lo sdegno e la disperazione che provavo a vederla in quello
stato.
“Ha
sessant’anni … farò in fretta …”. Cercò di sorridermi, dandomi quella misera
giustificazione, ma era palese l’imbarazzo che sempre aveva a parlare con me di
certe cose. Sapeva che non mi scandalizzavo, né che l’avrei mai offesa davvero,
ma probabilmente dopo che si era aperta davvero con me, si sentiva
legittimamente a disagio a mostrarsi in quelle vesti. Mi diede un veloce bacio
sulla guancia e si diresse verso il nuovo cliente.
Laddove
le sue labbra si erano delicatamente impresse sulla la mia pelle e laddove le
mie dita avevano sfiorato la sua, era ancora il fuoco. Sapevo cosa significava;
dovevo fare qualcosa.
Mi
cercai un posto vicino a quello dove Allison stava intrattenendo il suo ospite, lavorandolo ai fianchi per
ottenere il suo scopo. Pensai che quel tavolino alla loro destra, non molto
distante e a riparo da occhi minacciosi ed indiscreti, fosse perfetto per me.
Nessuno mi avrebbe visto, lei non mi avrebbe visto, ed io avrei continuato a
vegliare su di lei. Se fossi stato beccato in fondo, mi avrebbero dato del
voyeur ma, in quel marasma di pervertiti, uno in più non faceva scandalo.
Accesi l’ennesima cicca e stessi lì a guardare.
Ero
un masochista, pazzo e masochista come quel leone
di cui Allison mi aveva letto e di cui avevo avuto la nausea. Forse ero davvero
malato e ossessionato da lei, ma non potevo sopportare che mani sudice
violassero quel corpo senza colpa.
La
vidi muoversi su di lui come aveva fatto con me, provocandolo, e
paradossalmente sembrava farlo con trasporto. Era brava nel suo lavoro, era
evidente. Lui infatti gradiva in maniera più che evidente e le sue mani scorrevano
sulla sua pelle cercavano di sciogliere i lacci del reggiseno anche se le mani
di lei correvano immediatamente ad impedirglielo.
Sentivo
dentro di me nascere una forza violenta e nera, pronta ad esplodere da un
momento all’altro e a riversarsi impetuosa su chiunque mi si fosse parato
davanti.
Controllavo
quelle dita grasse e rugose e, nonostante non riuscissi a vederlo, potevo
figurarmi con grande facilità l’eccitazione sul viso di quel porco; avrei
voluto cavargli gli occhi e tagliargli quelle dita una ad una, lentamente,
provocandogli lo stesso dolore che stavo provando io ad assistere a quello
spettacolo indecente.
Poi
fu un lampo: mi avventai su quell’ammasso di lardo, scaraventando su una
poltroncina lì di fianco la povera Allison, non curandomi di dosare la mia
forza e la mia rabbia. Non so come vi arrivai, né come mi districai dagli
uomini della sicurezza che subito mi si erano parati addosso: l’ultimo mio
ricordo infatti, erano le mani di quell’uomo che scostavano il filo del
perizoma di Allison e accarezzavano la parte più intima di lei.
Mi
impegnai con tutto me stesso a tirare pugni su quella merda ambulante e, con la
mia giaccia tra le mani, tentai anche di strozzarlo. Sentivo i gemiti del
vecchio, che arrancava nella ricerca vana di aria e aiuto. Mi accorsi che mi
avevano preso solo quando non sentii più la terra sotto i piedi, e la
temperatura glaciale dell’esterno mi fece capire che mi avevano portato fuori.
Dopo
fu solo buio e sangue e dolore.
Tra
pugni e calci, e il sangue che grondava dalla mia fronte per la testata che
avevo preso e il calcio che mi aveva fatto finire a terra, riuscii a scorgere
la sagoma di Allison, alta ed esile sulle decolleté nere lucide e dal tacco
vertiginoso. Stringeva contro si sé la mia giacca, troppo grande per lei, ma
che a malapena scendeva a coprirle i fianchi. Se ne stava lì a guardare,
inerme, la bestia morire al mattatoio, tranciata e finita. La sentii implorare
di smetterla almeno un paio di volte, ma le sue grida arrivavano impotenti alle
orecchie dei miei aggressori. La mannaia continuava a sferrare i suoi fendenti
fatti di percosse e il fuoco delle lesioni misto alla polvere dell’asfalto non
si estingueva dalle ferite.
Il
forte odore del sangue, ferroso e salato, mi era entrato sin dentro il cervello
e mi faceva venir voglia di vomitare anche l’anima. Probabilmente qualche
calcio era arrivato anche a lesionarmi lo stomaco, e non mi sarei stupito se
avessi iniziato a sputare sangue dalla bocca. Sentivo la ruggine in gola,
pronta ad essere espulsa. O forse, e questa era la mia grande speranza, il
sangue dal naso era sceso fino in bocca oppure avevo il labbro spaccato. Ora
che ce l’avevo fatta non potevo morire, anche se sentivo già il volo degli
avvoltoi avvicinarsi.
Ma
dovevo resistere. Allison aveva già visto di me la più brutta delle immagini,
non volevo assistere ad uno spettacolo anche peggiore.
Quando
sembravo più morto che vivo, incapace di reagire, la morsa della violenza di
allentò. Percepii Allison che parlottava con loro, con aria supplichevole.
Aprendo leggermene le palpebre vidi i due scimmioni allontanarsi ed Allison avvicinandosi,
chinandosi amorevole su di me.
Peggio
di una bambola rotta cercai di tirarmi su, ma mi sentivo peggio di un vaso di
cristallo fatto in mille pezzi. Non avevo idea di come fosse ridotta la mia
faccia, ma in fondo ero ancora lucido e non conciato poi così male, al di là di
qualche doloretto, normale, per la caduta e le botte.
Ero
un pappamolle, non c’è che dire; due pugni, e già vedevo S.Pietro sventolarmi
davanti le chiavi del Paradiso.
Allison
mi posò la giacca sulle spalle e con dei fazzolettini di carta mi tamponava il
sangue sulla fronte e sul naso. Le rimisi il giaccone addosso, scherzoso: “Tieni
… serve più a te che a me …”
“Ridi
pure Tyler?” mi riprese, severamente. “Lo so, scusa … è meglio se mi sto zitto!”
“Vattene”
rispose, fredda “per stasera hai già fatto troppi casini”
“Sì,
hai ragione” confermai, in colpa “ma credimi non c’ho visto più!”
Allison
mi guardava, silenziosa, ed il suo sguardo non riusciva a tradire alcuna
emozione. Non era in pensiero per me, non era arrabbiata: niente.
“Non
rientrare in quel locale, Allison … vieni via da lì!”
“Ancora
Tyler” gridò, esasperata “ma non hai ancora capito? Io non posso …”
“Io
posso aiutarti, se solo mi lasciassi …” “tu Tyler? Davvero puoi aiutarmi?”
chiese, in tono palese di sfida e sdegno; ora era davvero arrabbiata. “E come?
Mettendoti a fare a cazzotti con ogni cliente che mi tocca? È il mio lavoro,
dovresti saperlo!”
Già,
lo sapevo; ma non potevo tollerarlo. Perché l’avevo vista vivere di giorno, e avevo
sperimentato che poteva essere una ragazza come tutte le altre. E poi c’era
quell’altra cosetta, ancora più complicata, che mi impediva di sopportare la
sua presenza in quel luogo. Se ne stava rientrando nel locale, e sapevo che se
l’avessi lasciata andare, non l’avrei più vista. Non aveva l’aria di una che
aveva apprezzato il mio gesto, né di chi mi avrebbe perdonato.
“Ti
prego Allie … vieni via con me!” “Tu mi preghi?” invei, tornando sui suoi passi
“pensa tu a pregare piuttosto, Tyler!” Non capivo dove volesse arrivare. “Vai
via e prega che nessuno massacri di botte anche me nelle prossime ore, prega
che io possa conservare ancora questo posto o il tetto che ho sopra la testa …”
Fu
lì che mi ricordai della cena in pizzeria, di quando mi aveva raccontato la
storia della sua collega. Capii il perché della sua rabbia e avrei voluto
sotterrarmi per la vergogna di aver compiuto quella stronzata. Non volevo farla
cadere nella merda più di quanto già non fosse, ed invece era proprio quello
che avevo fatto.
Attrezzate
un plotone ed eseguite la condanna di morte. Mi sacrificherò io al posto suo.
“Allison
…” la chiamai, mentre di nuovo mi voltava le spalle per andarsene, lasciando
per terra il giaccone “Allison!”. Racimolando le poche forze che mi erano
rimaste, la ricorsi. Era l’unica cosa che ero in grado di fare da quando l’avevo
conosciuta. Eppure ogni volta sembrava funzionare; ergo, non l’avrei lasciato
intentato questa volta.
La
costrinsi a voltarsi e, prendendole il volto tra le mani, stampai un bacio irruente
sulle sue labbra. Era il nostro primo bacio, ma non si avvicinava neanche
lontanamente a quello che avevo in mente per noi. Io avevo la faccia sporca e
devastata, lei tra le lacrime si era ridotta in uno stato altrettanto pietoso. All’inizio,
forse avendola spiazzata, sembrò rimanere passiva alle mie labbra sulle sue o,
sperai, ricambiò perché in fondo era quello che volevamo entrambi. Tuttavia, al
mio ancor minimo tentativo di approfondire, quando sembrava avermi dato la sua
approvazione a farlo, mi strattonò da lei, mordendomi anche leggermente le
labbra, come punizione.
I
suoi occhi erano pieni di furore e quel morso sul labbro inferiore sembrava
davvero essere una bazzecola in confronto a ciò che avrebbe potuto farmi. Offesa
e presa in giro anche da me: ecco cosa urlava, con tutto il suo corpo.
“Io
… io” tentennavo, ma sentivo che dovevo parlare “mi sto innamorando di te
Allison. Ti voglio per me … e non posso tollerare che ti lasci toccare da
nessun altro”
Non
seppi distinguere la sua reazione; ovviamente sembrava sorpresa, ma
positivamente o negativamente non saprei dirlo. Furono le sue parole a
ghiacciarmi, e a dirmi che non avrei avuto più di che sperare.
Ostinata
e arresa a quella merda di esistenza che si trascinava dietro come una palla di
piombo, mi urlò in faccia: “Io non sono di nessuno … nemmeno mi appartengo. E i
problemi della gente come me non si risolvono solo con l’amore …”
Raccattai
i miei quattro stracci e andai a leccarmi le ferite lontano, il più lontano
possibile.
NOTE FINALI
Personalmente
mi sento parecchio arrugginita dopo la scrittura di questo capitolo,
quindi se troverete difficile la scorrevolezza lo capirò,
perché nemmeno io sono soddisfatta.
Ci
aspettano ora capitoli non facili, e questo è solo il primo. Ho
avuto bisogno della pausa di due settimane per mettere in ordine le
idee e perché ho avuto da fare.
D'ora
in avanti non ci diamo più una data d'appuntamento, ma diciamo
che in massimo una decina di giorni dovrei aggiornare.
Non
voglio parlare del capitolo perché lascio a voi le conclusioni e
se avete qualche domanda sapete dove trovarmi e quali strumenti avete a
vostra disposizione.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Night in white satin ***
When you crash in the clouds - capitolo 10
Capitolo 10
Night in white satin
soundtrack
Mi
ritrovai faccia a faccia con quel che restava di me stesso.
Il
punto era che quella poltiglia che era la mia faccia, era solo la minima parte
di ciò che era stato distrutto.
Il
resto se ne stava tutto dentro, a macerare ed infettare come carcasse e a
ferire come tanti pungoli arrugginiti. Ritrovarmi quel riflesso, di fronte allo
specchio, costituiva davvero il male minore.
Probabilmente
avrei dovuto fornire spiegazioni qua e là, certamente per strada sarei stato
l’oggetto di sguardi inquisitori e maligni, ma solo io potevo sapere la pena
che quei graffi e quei lividi si portavano dietro, il ricordo scottante della
mia colpa, marchiato in ogni eventuale cicatrice.
Per
quanto avessi evitato qualsiasi consumazione in quel locale, sentivo i miei
abiti pregni di quell’odore nauseante di alcol, grasso e fumo, e ristagnava
ancora nelle mie narici, come nella memoria, l’essenza acre e irritante del
vecchio che avevo assalito: sapeva di profumo scaduto e medicinali; non capivo
come le potesse accettare di piegarsi a quelle nefandezze.
Forse
era vero che non capivo le donne, ma quello andava al di là di ciò che
qualsiasi ragazza avrebbe fatto normalmente. Era come suicidarsi, come guardare
in faccia il boia durante la propria esecuzione.
Buttai
via camicia e maglietta, insanguinate e lorde, ormai inutilizzabili, riuscendo
a salvare almeno i jeans.
Avrei
dovuto fare dello shopping per rinfoltire il mio guardaroba. Sperai dunque di
non dover essere costretto a regalare i miei già pochi risparmi all’ospedale
per farmi visitare e medicare.
Mi
osservai scrupolosamente, esaminando ogni centimetro di pelle e, con mio enorme
sollievo, a parte qualche livido sul costato ed un’escoriazione sul palmo delle
mani, era solo la mia faccia a sembrare un campo di battaglia.
Lavai
via la polvere ed il sangue che era colato lungo le tempie che, seccandosi, si
era annerito e raggrumato, e disinfettai al meglio le ferite ancora leggermente
aperte. Purtroppo a nulla servirono i
miei sforzi di fronte ad un occhio, rosso ancora per poco, pronto a diventare
nero, e ad uno zigomo gonfio.
Felpa
e pantaloni della tuta, visto che il pigiama non è esattamente tra i miei
indumenti preferiti, me ne andai nella zona giorno a stendermi un po’ sul
divano. Sonno non ne avevo, l’adrenalina e la tensione per quanto accaduto
erano ancora in circolo. Per fortuna Aidan non sarebbe stato nei paraggi almeno
fino al mattino successivo, quando sarebbe tornato completamente fatto o, nella
migliore delle ipotesi, su di giri; ed, anche in quel caso, avrei avuto poche
occasioni di dialogo o scontro.
Accesi
il vecchio mangiadischi di Michael ed avvicinai a me un bicchiere ed una
bottiglia di rhum, uno bello tosto.
Ma
non stavo tranquillo neanche a bere e a sentire musica.
La
bocca amara dal sangue contrastava il calore del liquore e me lo rendeva
imbevibile, cosicché neanche il mio umore non riusciva ad addolcirsi.
Il
pensiero correva sempre a quanto accaduto solo un’ora prima e a quanto in meno
di venti minuti, avevo buttato al vento e fatto volare via.
In
più, cosa ancora più emeritamente cogliona, l’avevo messa in pericolo da me,
con quelle stesse mani che erano ancora doloranti per i pugni tirati all’aria,
nel vano tentativo di difendermi.
E
sembrava essere contro di me anche il vecchio vinile che girava sul piatto. Mi
parlava di lei ovviamente. Ma, d’altronde, probabilmente lo avrebbe fatto
qualsiasi altro trentatré giri avessi preso.
Mio
fratello ed i suoi gusti musicali … se non erano depressi e malinconici come
lui non gli piacevano. Diceva che così esorcizzava il malumore: si è visto poi
come lo ha esorcizzato bene …
Mi
chiesi se mai avrei la possibilità di rivederla, se mi avrebbe accettato di
nuovo nella sua vita e se avrebbe permesso a se stessa di fidarsi di me,
ancora.
Odiavo
lei per arrendersi ad una vita scritta per lei con la forza, da qualcuno che
solo con il terrore deteneva il potere; ma odiavo forse più me stesso per
essermi assimilato a quella politica, per aver pensato che i miei metodi
valessero anche per lei. Anche se con metri diversi, non mi ero comportato
tanto diversamente da chi la forzava a rimanere in quel locale; con la scusa
del sentimento buono e giusto, la stavo trascinando a forza in qualcosa che,
evidentemente, non voleva.
Ma
forse era anche arrivato il tempo di non pensarci più e smetterla di farsi così
male.
Just what you want to be
You‘ll be in the end
Quello che avrebbe voluto essere, ciò
che avrebbe voluto fare, sarebbe toccato solo a lei deciderlo. Io non avrei più
interferito; l’avrei aspettata, in silenzio. E se avessi fatto parte di ciò che
avrebbe voluto … beh, non avrei potuto che esserne felice. Ma sino a quel
momento, me ne sarei stato in disparte, perché era solo sua la vita e doveva
riprenderne il pieno controllo, come io, duramente e neanche totalmente, ero
riuscito a fare, anche un po’ grazie a lei.
And I love you
Yes I love you
Cazzo
sì se ti amo, e mi sembra di amarti sempre di più ogni secondo che passa, quasi
che l’averlo detto ad alta voce sia servito anche a me per realizzarlo
pianamente. In fondo, quindi ti ho anche mentito. Non mi sto innamorando …
perché sono completamente pieno di te, è inutile mentirsi, uno spreco di
energie e parole vane. Come del resto era inutile stare lì a dire che non avrei
fatto nulla finché non fossi stata tu a presentarti alla mia porta: alla prima
occasione avrei strisciato ai tuoi piedi, avrei persino scommesso contro me
stesso, tanto ero sicuro che alla fine lo avrei fatto.
Ma
perché sono nato così cazzone?! Possibile che non mi sia rimasto un briciolo di
puro orgoglio maschile?! Guarda come mi hai ridotto Allison!
Sentivo
il brusio del giradischi e della puntina che scorrendo sul disco strideva e a
volte stentava nell’avanzare, quel leggero soffio nella traccia che ti
ricordava del tempo che era trascorso da quando il disco era stato inciso; mi
sentivo avvolto da un’aura retrò, sospeso tra i ‘Sessanta delle rivolte e i
‘Settanta un po’ in bilico tra il passato ed il futuro: vivere una vita
sospesi, non male come ipotesi. Ma poi ricordai che in fondo era quello che
avevo fatto per quasi un anno e, per quanto facessero male i fatti di quella
notte, non si poteva dire che da quando avevo incontrato Allison la mia vita
fosse la stessa di prima; ero vivo, pieno di aspettative ed obiettivi,
sentimenti e passioni. Sopravvivere in anestesia dal mondo non è poi dunque
quella gran cosa.
Mi
accorsi di non aver acceso nemmeno una sigaretta da quando era rientrato in
casa e la cosa sembrava scivolarmi via tranquillamente; spensi distrattamente
il giradischi e mi misi a letto, sperando che la notte potesse portarmi
consigli migliori del giorno.
Fui
svegliato da ripetuti colpi, leggeri eppure decisi, alla porta di casa.
Mi
girai sul fianco, dando le spalle al resto della casa, aspettando che Aidan la
smettesse di martellare su quella maledetta porta. Era andato in bianco anche
questa volta … possibile che fosse così imbranato? Forse non ero fortunato
nelle storie d’amore, ma portare al letto una ragazza non era mai stato un
problema. Si era ripresentato a casa con un due di picche e senza chiavi: una
nottata all’addiaccio sul pianerottolo non gli avrebbe fatto male.
Quando
sembrava che ormai avesse deciso di smetterla, provai, ancora sghignazzando, a
coprirmi sotto il piumone e a chiudere gli occhi. Ma niente da fare, il
coglione riprese a battere sulla porta, ancora più insistentemente di prima. Fui
costretto ad alzarmi, a prendermi tutto il freddo che quella notte aveva
sfoderato e a far gelare il letto, solo per alzarmi e chiudere la porta della
mia stanza. “Tanto non ti apro, è inutile che sbatti!!!”
Eppure
c’era qualcosa di strano: solitamente, nonostante fossimo in piena notte, Aidan
avrebbe blaterato ed imprecato urlando come se fosse stato pieno giorno, e nel
palazzo tutti fossero attivi e pimpanti quanto lui. Invece, al di là di quella
porta, c’era solo silenzio. Iniziai a preoccuparmi, e sperai che non si fosse
cacciato anche lui in qualche guaio; solo quello ci mancava.
Avvicinandomi
all’ingresso iniziai ad avvertire dei timidi colpi di tosse, quasi come se chi
li producesse avesse persino il timore di farsi sentire e dare fastidio,
seguiti poi da dei sussurri di una voce singhiozzante e flebile. “Ty … Tyler”
invocava, quasi in agonia “sono io … Allison …”
Per
quanto debole, era difficile non indovinare a chi appartenesse quella voce.
Aprii velocemente la porta, senza badare nemmeno a controllare nello spioncino.
Mi
aspettavo di trovarmela davanti, Allison, ed invece non c’era che un borsone
lercio e consunto. Furono gli ennesimi colpi di tosse, forzatamente trattenuti
e smorzati, ad attirare la mia attenzione e a mostrarmi Allison.
Appena
la vidi, alla luce lampeggiante e smorta del neon quasi andato delle scale, mi
sentii morire.
Era
rannicchiata ad un angolo, vuoi per cercare evidentemente di scaldarsi, vuoi
per protrarre la difesa istintiva da qualcosa o qualcuno. Forse ero un
pessimista, ma non c’erano altre ragioni per cui Allison, che avevo baciato
contro la sua volontà poche ore prima, si presentasse nel cuore della notte a casa
mia: doveva essere successo qualcosa.
“Allie!”
mi precipitai verso di lei, in preda al panico “cos’è successo???!”
Non
mi accorsi di urlare, fin quando lei stessa, con un filo di voce, mi chiese di
abbassare il volume della voce.
Le
mani a martoriare uno straccio di fazzoletto, portate a coprire il suo volto,
celavano alla mia vista i suoi tratti e la sua espressione. Per quanto potesse
vergognarsi di ciò che era, non mi aveva mai nascosto il suo viso; andava
troppo fiera, giustamente, della sua bellezza: questo suo gesto, oltre ad
insospettirmi, mi fece temere ciò che avrei eventualmente scoperto se l’avessi
obbligata a rivelarsi.
Non
rispose ai miei ripetuti interrogativi, né la forzai a farlo, ma pensai che non
fosse il caso di continuare ad accusare l freddo e le correnti d’aria che si
concentravano lungo le scale.
“Dai,
andiamo dentro” la invitai, e non se lo fece ripetere due volte, annuendo e
tirando su col naso ghiacciato e raffreddato. L’aiutai ad alzarsi,
appoggiandola a me, e le si arpionò al mio collo con le sue braccia. Mi accorsi
solo allora, aiutandola a stare in piedi e a prendere il bagaglio, che i suoi
vestiti, vecchi e logori, inadeguati per una
notte fredda come quella, erano completamente fradici. Non mi ero
accorto che avesse iniziato a piovere, c’era troppo silenzio ed il ticchettio
della pioggia sul ferro delle scale antincendio non mi aveva fatto da sveglia
come era solito fare. Entrati in casa e chiusa la porta alle nostre spalle, mi
sentii sollevato e protetto dal tepore che, grazie al riscaldamento, aveva
intiepidito l’ambiente. Era certamente freddo, ma niente paragonabile
all’androne. Quel lieve calore riscorre e placo anche Allison che non aveva
smesso un attimo di mugugnare e tremare; non riuscivo a distogliere il pensiero
dalle mille e mille ipotesi su cosa potesse esserle accaduto, mentre le
prendevo un telo di spugna per asciugarsi e mettevo sul fuoco un po’ di latte
per scaldarla.
Non
riuscivo a guardarla, avevo una paura matta di scoprire qualcosa di sgradito o
che comunque avrebbe potuto far riaffiorare la rabbia nei miei nervi, ancora
tesi per l’azzuffata fuori dal club. In fondo, sapevo benissimo il motivo per
cui era venuta a farmi visita a quell’ora: se avesse voluto chiedermi scusa,
avrebbe di certo aspettato un orario più propizio per farmi visita. Ed invece,
scrutando l’orologio del cellulare, potei constatare che erano le 3 di notte, e
un’idea me l’ero già fatta, purtroppo. Lei stessa mi aveva urlato contro ed io
mi ero dannato per averla messa in mezzo alla merda, più di quanto già non
fosse.
Mi
avviai alla poltrona dove era ancora seduta, nel vano tentativo di
asciugarsi e
ricomporre i capelli. A terra una pozza d’acqua ed il divano era
bagnato come
lei, ma poco importava se era lei a non stare bene. Lasciai la tazza di
latte
caldo sul tavolino e mi affacciai al finestrone; capii per quale motivo
non
avevo sentito la pioggia scrosciare lungo le condutture di scolo: stava
nevicando. D’altronde un freddo del genere non poteva essere
giustificato
altrimenti. Mentre ancora guardavo scendere la neve sui tetti e posarsi
delicatamente sulle auto nel vicolo, imbiancando e purificando, la
guardai di
sfuggita mentre era ancora di spalle e beveva “Ho aggiunto un
po’ il cioccolato
un polvere, è già zuccherato. Spero ti piaccia
così” “Sì … grazie” rispose lei,
già abbastanza rinvigorita. “Ah” aggiunsi “se
vuoi i biscotti sono nella
credenza, sotto lo stereo”. Mi ero allontanato nel frattempo per
evitare di far
cadere il mio sguardo su di lei eccessivamente, e far male ad entrambi.
Io ne
avrei sofferto a vedere come era stata ridotta, lei avrebbe sofferto
perché
proprio io ne ero stato la causa. Andai in camera e frugai nei cassetti
del
comò per darle qualcosa di asciutto da indossare: la sua borsa
era talmente
zuppa, che difficilmente si era salvato qualcosa lì dentro. Mi
fermai un attimo
a guardare fuori, affascinato dalla tormenta di neve che si abbatteva
su New
York e si faceva sempre più insistente: ficcai i naso fuori
dalla finestra e mi
misi ad annusare l’aria. Era una cosa che amavo far sin da
bambino; nessuno mi
credeva e tutti mi prendevano in giro, ma ho sempre pensato che il
freddo della
neve conferisse all’aria un profumo diverso, particolare,
pungente e quasi
dolce. Ho sempre amato la neve. Fa tacere e nasconde ciò che di
brutto c’è in
giro col suo manto bianco. Da piccolo non capivo come si potesse
odiarla: i
miei stavano alla finestra ed imprecavano, sperando che smettesse il
più presto
possibile; io invece schiacciavo il naso più che potevo verso
sul vetro, facendola
appannare, per poi disegnare o scriverci sopra. Ridevo di chi con
l’auto in
panne spalava la neve per farsi strada ed invidiavo chi veniva mandato
a
giocare a palle di neve. Mi piace ancora la neve, come piaceva a
Michael, con
cui stavamo le ore a giocare a carte e mangiare cioccolata quando fuori
tutto
diventava bianco.
Senza
nemmeno accorgermene mi ritrovai a scrivere sul vetro il nome di mio fratello,
come facevamo da bambini. Mi manchi
Michael, ti scriverò presto, promesso.
Trovata
una maglia non troppo grande, tornai nella zona giorno e mi convinsi a parlare
con Allison. Avevamo aspettato fin troppo ormai, eppure era così tipico di noi
che non ci dava fastidio. Si era spostata dal divano e si era accucciata sul
davanzale interno; anche lei era stata rapita dalla neve. Poggiando lo sguardo
casualmente sull’asciugamano che aveva lasciato sul divano, mi accorsi di
alcune sbavature di sangue, per lo più ossidato e coagulato. Cominciai
amaramente a realizzare che quanto lei stessa temeva era accaduto, purtroppo.
Mi sedetti a terra, al suo fianco, mentre il suo sguardo continuava a rimanere
fisso sul vetro e perso nel vuoto della strada bloccata dalla neve.
“Mi
ha sempre affascinato il colore della neve di notte … tutto diventa rosso …”
disse. Sembrava persa e sconvolta.
“È
successo vero?” le chiesi “ti hanno sbattuta fuori? … perdonami”
Ero
contento in parte che fosse accaduto perché, al di là di ciò che provavo per
lei, non era giusto che trascorresse la vita a fare la schiava ad un vecchio
pappone. Ma il modo in cui era accaduto andava ben al di là delle mie speranze
e delle mie aspettative. Non mi aspettavo nulla di romantico o letterario, solo
che si armasse di un minimo di amor proprio, coraggio e, fatti i bagagli,
scappasse via. Ed invece l’avevano malmenata e mandata via, lasciandola senza
un soldo e senza una casa, noncuranti nemmeno della notte che avrebbe trascorso
al gelo.
Ancora
si rifiutava di parlarmi: era il minimo; probabilmente era venuta a rifugiarsi
da me perché sapeva che ero l’unico che l’avrebbe accolta. Giocava con me: l’aveva
sempre fatto e continuava a farlo; ma era perché io gliene davo la possibilità,
imperterrito, pazzo di lei e stregato da qualcosa che dovevo ancora capire. Non
era per la bellezza, ordinaria e pulita, non era per il carattere, testardo e
schivo peggio del mio. C’era un qualcosa in lei che sentivo essere anche parte
di me, la condivisione del dolore che avevano sperimentato, l’aiutarci a
vicenda anche senza rendercene conto: la guardavo e vedevo me stesso; ecco
perché mi ero innamorato di lei.
Mi
alzai da terra e mi misi a sedere sul davanzale, di fronte a lei. Mi costrinsi
a guardarla e notai che anche lei aveva un visino niente male, con lividi,
gonfiori e qualche graffio. I capelli si stavano asciugando ma i vestiti ne
avrebbero avuto ancora per molto. “Ti ho … preso una mia maglia, se vuoi
cambiarti. Almeno non ti becchi un malanno a stare con quei vestiti umidi
addosso …”
Mi
rispose con un sorriso tenue, quasi accennato e forzato. Si alzò e senza
curarsi della mia presenza, dandomi le spalle si tolse il camicione maschile di
velluto che indossava e mise la mia maglia, mostrandomi i lineamenti perfetti
dei suoi fianchi e della sua schiena nuda; distolsi lo sguardo per un momento,
concedendole quella privacy che in quel momento sembrava non interessarle. La
mia maglia, bianca e a maniche lunghe, sembrava piuttosto una camicia da notte,
visto che era troppo grande per lei.
“Non
la metto più … se vuoi puoi tenerla, ti sta bene” le confessai, ma non sembrò
curarsi più di tanto del mio
complimento. Approfittando dell’aumento della temperatura – avevo nel frattempo
riaperto le valvole dei termosifoni, chiuse prima di andare a dormire, unico
modo per salvarsi dai bollori del riscaldamento centralizzato – si liberò anche
dei pantaloni, buttandoli a terra vicino alla camicia e alla sacca che portava
con se. La aiutai a metterli sui radiatori ad asciugarli e proposi di fare
altrettanto con quelli che aveva in borsa: “Non credo si sia salvato qualcosa
con questa tormenta …” dissi, aprendo il borsone. “No aspetta!” urlò, correndo
a bloccarmi.
Ma era troppo tardi, ormai avevo aperto il borsone ed il segreto che custodiva
era stato svelato. Non c’era niente dentro, niente che potesse essere di una
certa utilità: l’unico indumento era una camicia da notte di satin, lunga e
femminile, un’armonica a bocca e tanti libri, tutti quelli che io le avevo
regalato.
“Sono”
balbettò “sono le uniche cose che sono riuscita a salvare …” Era al limite, si
vedeva che stava per scoppiare e mi augurai che non fosse un’implosione, perché
ciò che aveva da urlare e da reclamare doveva venir fuori, e non ucciderla
dentro.
“Non
ho più niente Tyler!” pianse, scoraggiata, in preda alle prime lacrime che le
vedevo versare “non ho più niente!”.
Si
buttò tra le mie braccia e quel pianto, che forse agognava da una vita,
sembrava non trovare una consolazione. Ma doveva piangere, doveva tirare tutto
fuori, per poter ricominciare a vivere serenamente.
“Shhh!
Shhh!” la consolai, come meglio potevo, mentre accasciata per terrà si era
rannicchiata contro il mio petto sempre più piangente “è finito tutto Allie … è
finito tutto ora”
“Ho
avuto paura!” mi disse e le chiesi se avesse voglia di dirmi cosa le era
successo. Avevo paura di sentire il suo discorso, perché paradossalmente, per
quanto mi sforzassi di non pensarci, la mia mente aveva già girato almeno due o
tre film sulle situazioni possibili e plausibili in cui Allison potesse essere
stata coinvolta, uno più nero dell’altro e temevo che tra quelli ci potesse
essere anche la realtà.
“Ho
continuato a lavorare fino all’una. Tornata a casa trovo un paio di uomini accampati
lì per terra, dove capitava, e uno steso sul mio letto. Gli ho detto di
andarsene, che era casa mia quella …” continuò il suo racconto, alternandolo
con singhiozzi che neanche un intero bicchiere d’acqua era riuscito a placare “…
ma parlavano una lingua incomprensibile, forse arabo, forse arabo ... non lo so
… era difficile distinguerli al buio … ma poi sono arrivati due che lavorano
per il capo e mi hanno detto di andarmene. Sapevo di non poter combattere
contro di loro, allora ho cercato di radunare le mie cose, ma non appena ho
provato a prendere anche solo i miei slip, mi hanno presa e sbattuta al muro …”
Avrei
voluto fermarla, pregarla di smetterla,
perché come racconto era già abbastanza chiaro e forte, e poteva bastare. Ma era
un treno a cui si sono rotti i freni, e non sembrava in grado di smettere, e
forse nemmeno voleva.
“Devo
aver sbattuto la testa da qualche parte, perché ho dei vuoti qua e là … ricordo
solo che ad un certo punto ho avvertito delle mani risalire sulle gambe e altre
hanno tentato di slacciarmi il reggiseno”
Il
senso di nausea e rabbia che mi aveva pervaso quando l’avevo vista tra le
luride braccia di quel vecchio, con le nodose mani nodose e grasse che
carezzavano la sua pelle era nulla a confronto di ciò che stavo provando mentre
si sfogava con me. La collera era amplificata dall’impotenza del proprio
essere, dalla consapevolezza che tutto questo poteva essere evitato se solo …
ma con i se non ci si combina nulla, al di fuori di ipotetiche congetture che
vanno bene ai filosofi, e non agli uomini e le donne che nel mondo vero ci
vivono e sopravvivono con le unghie e con i denti. Dovevo … dovevamo pensare al
presente, e a quello che ora potevamo fare per dimenticare il passato.
“Sono
scappata via appena ho realizzato cosa stesse accadendo, mordendo, graffiando e
prima che potessero raggiungermi e uccidermi di botte ero già in metro sulla
strada verso casa tua.”
Le
lacrime si erano fermate, ma l’angoscia per quanto era accaduto e
la
disperazione per un futuro che sembrava essere ancora più nero,
l’avevano sfigurata.
Prese in mano quegli oggetti che aveva con se, in particolare la
camicia da
notte che aveva uno strappo ad un lato; pareva volerli accarezzare,
trattarli
con una cura e una delicatezza che le avevo visto usare solo con i
libri fin’ora:
“era la preferita di mia madre …” spiegò
“… e l’armonica era di mio padre. È tutto
ciò che ho di loro … non volevo perdere anche
questo”. Non volli indagare
oltre, mi sembrava che la violenza subita ed il racconto che me ne
aveva fatto
fossero uno strazio sufficiente per la sua serata. Me ne stetti
lì, a testa
bassa, a guardarla emozionarsi davanti ai suoi ricordi.
“E
i libri?” Una stupida domanda uscita fuori nel momento meno opportuno, uscì
tipicamente dalla mia bocca.
“Perdonami
Tyler per come ti ho trattato prima, fuori dal locale!” fu questa la sua
risposta, il che mi fece capire che probabilmente avevo ancora una speranza con
lei, ma la tenni per me; illudersi fa male, farlo per due volte è un attentato
suicida.
Allison
prese ad esaminare con cura i libri, forse nella speranza di non trovarli
rovinati dalla neve che si era infiltrata tra la stoffa della borsa e la carta
dei vari tomi. Glieli avrei ricomprati tutti, se fosse stato necessario, se le
avesse restituito il sorriso per sempre.
“Ho
solo ricordi con me … cose che mi legano a chi voglio bene … non ho altro
Tyler!” riprese a piangere “niente altro!”
La
abbracciai, d’istinto, perché anche se utopica, la speranza che mi aveva dato
sembrava essere più che concreta, almeno ai miei occhi. Ci teneva a me, ed io
tenevo a lei. Tanto mi bastava per essere felice, anche per lei. Se non fosse
stato amore l’avrei capito, ma averla vicino mi bastava per essere sereno e
poter continuare ad aiutarla “Hai me” la rassicurai “sono qui” Sì, mi aveva,
rapito anima e corpo e consegnato a lei da fate ignoranti e meschine, eppure
efficienti nel proprio lavoro.
Sentii
le sue labbra stamparsi ripetutamente sul mio collo e le sue mani diventare febbrili,
dapprima sulle braccia, per poi scendere fino ai fianchi. Non seppi come
comportarmi, se assecondarla e per insano egoismo soddisfare i miei desideri, oppure
oppormi e da gentiluomo ricordarle che non aveva bisogno di certi pagamenti per
contraccambiare il mio aiuto. Optai per la seconda.
“Allison”
la ripresi “ti prego …” Mi alzai da terra e la scostai, facendo attenzione ad
ogni mio minimo movimento per non ferirla o offenderla. Mi spostai nel cucinino
con il pretesto di sciacquare la tazza del latte e mi accorsi, con la coda dell’occhi,
che mi seguiva con la coda dell’occhio. Una volta riposte quelle quattro
stoviglie che avevo lavato come scusa, mi voltai verso di lei, che si era
appoggiata allo stipite della porticina che separava il tinello dall’angolo
cottura; sembrava volersi nascondere dietro quella minima parete e l’unico
occhio che lasciava intravedere era persino nascosto dalla massa informe e ribelle
di capelli che si erano ormai completamente asciugati. Era così innocente
eppure così sensuale, gattina e leonessa racchiuse in unica persona. Non ce la
facevo a starle lontano troppo tempo, ma starle vicino era altrettanto
pericoloso: e da perfetto coglione mi ero tirato da solo la zappa sui piedi,
lasciando che indossasse la tua maglia e lasciasse scoperte le sue bellissime
gambe bianche. Non era la sua bellezza ad avermi colpito, non era una bellezza imponente e
statuaria, formosa e prorompente; eppure starle vicino era come ammirare una
scultura classica di dea, era inutile negare la sua bellezza, che lascia
comunque senza fiato.
“Ho
bisogno di te” sussurrò ed in lei c’era tutta la necessità primordiale e l’urgenza
di sentirmi vicino che provavo io per lei. “Ho bisogno di te” ripeté, e sapevo
cosa voleva dire.
Mi
avvicinai e per un flash vidi la scena dall’esterno; non potei evitare che una
lacrima scendesse persino sulle mie guance. Allungai un braccio e con la mano cercai al buio del corridoio la
sua. L’altra mano sulla sua guancia, a spazzare via le ultime gocce di tristezza
che cadevano giù dagli occhi, troppo belli per essere rovinati dal pianto.
“Fai l’amore con me, Allison. Fai l’amore con
me …”
NOTE FINALI
Bene,
eccomi a voi con l'ennesima schifezza. Probabilmente non avete capito
nulla del capitolo perché rileggendolo mi sono resa conto di
quanto sia effettivamente confuso. Ma forse è perché i
nostri due beniamini non effettivamente confusi...non so se il finale
sia appropriato alla storia, forse ho esagerato, forse è troppo
presto: sta a voi giudicare.
Ho in serbo per voi una sorpresa per il prossimo capitolo: riuscite ad
immaginarla? Mi fa piacere poter annunciare tralaltro che è
già avviato. Ma non posso dirvi altro.
Come alcune di voi sapranno, durante questa settimana ho scovato dei video fan made su Youtube
che trovato pertinenti alla storia. Ditemi cosa ne pensate, vi lascio i link qui di seguito.
trailer 1 trailer 2
Vi
lascio perché non ho molto tempo e vi do appuntamento al
prossimo capitolo, ringraziandovi per l'ampio seguito e ricordandovi
che, per qualsiasi cosa, c'è un angolo tutto a vostra
disposizione per contattarmi.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** I want you so (need) ***
When you crash in the clouds - capitolo 11
Capitolo 11
I want you so (need)
soundtrack
…when you fell
you fell towards me…
"Fai l’amore con me Allison, fai l’amore con me …”
Quelle parole erano
entrate nel mio cuore con la forza di un fulmine, come una scossa
elettrica che ti prende scuote e lascia folgorato. Incapace di muovermi
e di reagire. Incapace di distinguere lo spazio ed il tempo che,
immobili attorno a me consentivano una pausa dal caotico corso degli
eventi.
Ero appena fuggita da
quello che, nel bene e nel male era stato il mio mondo e la mia vita,
la mia certezza ed il mio futuro negli ultimi anni. Me ne ero andata
via a gambe levate correndo all’impazzata per sfuggire a mani
grandi ruvide e sudate di uomini senza volto né ritegno. Mi ero
lasciata alle spalle il puzzo dei soldi sporchi e dell’alcool,
che rendeva meno amaro il sapore della mia condizione di schiava Mi
chiamavo ballerina, ma davanti allo specchio del camerino ogni giorno
si rifletteva una puttana di bassa lega, che aveva rinunciato alla sua
vita per stupido orgoglio e si era lasciata annegare nella merda.
Anche ora mi ritrovavo
tra le braccia di un uomo, come se nella mia vita fossi vincolata a
quella condanna, eppure stavo bene protetta e sicura come non lo ero
mai stata in vita mia.
Mi chiedeva di fare l’amore con lui … e chi lo aveva mai fatto?!
Avvezza a certe pratiche,
avrei saputo soddisfare ogni sua richiesta, eppure non sapevo cosa
volesse dire fare l’amore. Non l’avevo mai fatto. Per me
era sempre e solo sesso; doveva esserlo, uno scambio equo di merce, se
non volevo impazzire.
Ma con lui no, con lui
doveva essere per forza diverso. Lo era stato fin dall’inizio,
doveva esserlo anche in quel momento.
Lascia che le sue labbra mi raggiungessero di nuovo, questa volta senza trovarmi impreparata e pienamente consenziente.
Era cauto, docile, come chi sa che non può sbagliare di nuovo.
Ci sfiorammo appena, ma tanto bastò per rimanere entrambi folgorati.
Tuttavia, senza volerlo,
in un moto di difesa istintivo, mi accorsi di essermi tirata indietro
ancora una volta, sebbene volessi quel bacio, lo volessi con tutta me
stessa.
Fu così che mi
obbligai a fare un passo avanti verso di lui che, a testa bassa, se ne
stava in piedi di fronte a me, con aria dimessa, trascinandosi
appresso, come una spada di Damocle, una condanna di colpevolezza che
non gli apparteneva.
Appoggiai le mani al suo
petto e mi tirai su in punta di piedi, lentamente, colmandomi del suo
odore, facendo attenzione a memorizzare ogni centimetro del suo corpo
su cui i miei occhi si andavano a posare.
Eppure i suoi occhi no,
mi sforzai di non cercarli, non ancora almeno; mi conoscevo abbastanza
per sapere che, altrimenti, mi sarei tirata indietro, per pura codardia
e complesso di inferiorità. Pur conoscendo i suoi sentimenti,
infatti, non potevo dimenticare quale fosse la mia condizione e quale
la sua: ero solo una ragazzina povera, ignorante ed anche un po’
delinquente, lui il ragazzo che l’aveva tirata fuori dai guai.
Come potevo sperare di essere realmente sua pari?!
Allora mi concentrai
sulle labbra, carnose e straordinariamente rosse, che attendevano e
supplicavano di congiungersi con le mie.
Le accontentai e
sembrarono esultare al nuovo incontro. Presi entrambi dalla foga del
momento, ci abbracciammo, questa volta senza esitazione alcuna,
prorompendo ed impossessandoci del corpo dell’altro. Mi stava
baciando, Tyler Hawkins mi stava baciando nel corridoio buio di casa
sua; ed io stavo baciando lui: situazione talmente assurda da essere
dannatamente vera e meravigliosa.
Avvertivo le labbra umide
e formicolanti, dischiuse dalle sue, dolci e decise, le guance irritate
per la barba, leggermente visibile ma ispida, che sfregava il mio
volto.
Mi ritrovai ad infilargli
le mani sotto la felpa, e quasi mi imbarazzai, come una ragazzina alla
sua prima volta, sentendo i lievi muscoli sotto la maglietta,
desiderando al contempo di poter godere del calore della sua pelle
sulla mia.
Oddio!!! Non voglio che la smetta!!! Non voglio che finisca.
“Dov’è
Aidan?” ansimai sulle sue labbra quasi soffocando, aggrappandomi
ai suoi capelli come se fossero un salvagente che tiene a galla e
cercando le sue labbra come potessero offrirmi ossigeno.
“È fuori per la notte … tranquilla” rispose altrettanto concitato.
Lo volevamo entrambi e sapevamo che al di là delle conseguenze ne avevamo bisogno quasi fosse acqua nel deserto.
Eravamo così diversi eppure così simili opposti fatti per attrarsi e comporsi.
Raggiungemmo la sua
stanza a stento sia per il buio, sia per l’impazienza che avevamo
di donarci completamente all’altro. Ma soprattutto percepivamo la
stessa urgenza del sentirsi vicini uniti pronti per ricevere
dall’altro quell’aiuto che a parole non eravamo mai stati
in grado di implorare.
Le nostre mani correvano
febbrili ed impazienti sul corpo dell’altro e scoprivamo la forza
di strapparci gli abiti di dosso, ma anche la tenerezza di una carezza
dona sollievo.
Fu così che, sotto
il tocco delle sue mani lunghe calde e sapienti, mi ritrovai nuda ed,
in un moto di timidezza, provai a coprirmi come meglio potevo. Mi
sentivo sporca, inadeguata, profanatrice di un’anima così
pura come la sua. Io, che del mio corpo mi ero sempre sentita padrona,
tanto da buttarlo via come se non mi appartenesse, come se fosse un
vecchio straccio logoro e sviato, mi ritrovavo a fare i conti con la
mia anima, venduta al diavolo per fame, e che ora reclamava gli
interessi su una vita che le confacesse. Un’anima altrettanto
buona, confidai, che avevo dimenticato di possedere.
Concentrata come al
solito su di me, persi completamente la dimensione di ciò che mi
stava accadendo attorno e non badai nemmeno alla magnificenza di quanto
avevo davanti agli occhi. Tyler era davanti a me con la purezza del
bianco marmo e tutta la sensualità che un uomo può
trasmettere di fronte alla donna che desidera. Un mix micidiale di
dolcezza, potenza ed eccitazione, che mi dava alla testa più di
qualsiasi sostanza stupefacente di cui avessi mai fatto uso. Il suo
corpo non era prepotente, né reclamava attenzione, eppure
sentivo che, a lasciarmi avvolgere tra le sue braccia e le larghe
spalle, mi sarei sempre sentita al sicuro. Non era un narciso, era
evidente che non teneva particolarmente al suo aspetto: era
semplicemente un ragazzo, come me, come quelli che avrei frequentato se
non me ne fossi andata da Indianapolis, che voleva farmi sentire
speciale, come non mi sentivo più da troppo tempo.
Le sue lunghe mani,
discrete ma non per questo inesperte, risalivano lungo la mia schiena
ed il suo naso percorreva la linea del mio collo, accompagnandosi con
piccoli baci lasciati qua e là a bruciare la mia pelle,
solleticandomi e caricandomi, come una bomba ad orologeria.
“Non temere” mi disse, accarezzandomi il volto “sei bellissima”.
I suoi occhi erano
lucidi, profondi e blu come l’oceano di notte, ed avrei voluto
volentieri tuffarmi in essi, scoprire ogni suo segreto, abbandonarmi in
lui e rifugiarmi nel suo cuori e viverci per sempre.
Aveva detto che si stava
innamorando di me. Ma io non conoscevo quella parola, non esisteva nel
mio vocabolario. Eppure sentivo che era qualcosa di bello, di grande, e
volevo conoscerla. Non sapevo se avrei mai imparato, ma volevo provarci.
Lo attirai a me e mi
arpionai con le braccia al suo collo, appropriandomi delle sulle
labbra, dolci e soffici, ancora una volt. In pochissimo tempo erano
già diventate la mia droga, non potevo evitare di giocarci,
succhiarle, assaporarle. La mia lingua le aveva leccate, gustate e la
sua si era fatta strada nella mia bocca; prima timidamente, gentiluomo
come sempre, poi sempre più affamato.
“Tyler”
invocai, con lo stesso tono e la stessa devozione che si ha davanti al
santo “io … io non so come si fa …”
Vedevo il suo sguardo
perdersi in me, scrutare nei miei occhi una risposta che però
non arrivava. Doveva suonargli davvero strana una frase di quelle che
usciva dalla mia bocca! Avrebbe voluto aiutarmi, come sempre,
togliendomi dall’imbarazzo di dover usare le parole per spiegarmi.
“Nella mia vita
c’è stato spazio solo per il sesso” precisai
“e non voglio farlo anche con te. Insegnami a fare l’amore,
Tyler …”
Volevo imparare, volevo
amare ed essere amata. E lui era la persona più giusta con cui
farlo. Lui, che era riuscito ad andare oltre la facciata; lui, che
sapeva leggermi dentro; lui, che mi amava.
Mi sorrise, mostrando
leggermente i suoi denti bianchi e perfetti. Non c’era niente in
lui che non andasse: non una sbavatura, non un errore. Mi ero sempre
chiesta se per caso fosse stato un suo avo a posare per il David di
Michelangelo. E, se c’era qualche minima imperfezione, come quel
naso un po’ storto e la camminata un po’ strana, lo rendeva
se possibile ancor più affascinante.
Sono senza fiato; in
tutta la mia vita non ho mai desiderato un uomo con tanta
intensità. Ogni carezza era un marchio a fuoco sulla mia pelle
ogni bacio un timbro indelebile. Non ricambiavo i suoi sentimenti,
almeno credo, eppure sentivo di fare la prima cosa giusta dopo tanto
tempo. Darmi a lui non sarebbe stato mai un errore, perché lui
si stava dando a me.
Avevamo ancora un ultimo
indumento ad ostacolarci, eppure, quasi non desse fastidio,
specialmente a lui, era come se fossimo già ben oltre, come se
fossero le nostre anime a doversi unire, e non i corpi.
Percepivo, secondo dopo
secondo, carezza dopo carezza, che stavo risalendo gli inferi, pronta a
tornare umana; e, per qualche grazia divina, sapevo che c’era il
paradiso ad aspettarmi. Mi sentivo bene viva e libera.
Improvvisamente, la sua
bocca mi sfiora un capezzolo ed io sto già respirando affannata
per l’eccitazione quando lui mi spinge sul letto,
finalmente. Mi domando se il calore che sentivo, l’aria che
respiravo, i suoni che arrivavano otturati alle mie orecchie, fossero
componenti di ciò che chiamano piacere. Strano a dirsi, per una
come me, abituata a dare piacere, ma mai a riceverne.
Non c’era solletico, nei baci, non fastidio nelle mani che percorrevano senza sosta tutto il mio corpo.
Sentivo il respiro farsi
sempre più pesante e sempre più chiassoso, la vista
annebbiarsi ulteriormente al buio, obbligandomi a tenere gli occhi
chiusi quasi dovessi addormentarmi, perdermi in un sogno, magari senza
fine.
Poi, d’un tratto,
tutto ciò che mi stava sconvolgendo svanì. Mi chiesi se
per caso non fosse stato davvero tutto un sogno, da cui ero stata
strappata a forza ed era ora di alzarsi ed andare al lavoro, alla mia
condanna.
Mi riscossi dal torpore,
ancora con le mani sul seno: ero nella stanza di Tyler, sul suo letto,
ed il mondo girava nel verso giusto anche per me, questa volta.
Fuori la neve, ma dentro, tra quelle coltri, stava per divampare un incendio.
Alzai la testa, cercando
di modulare parole e respiro: “Ty …” ansimai, al
meglio delle mie possibilità. Per quanto ne sapevo, eravamo solo
all’inizio, e mi preoccupai se il mio cuore avrebbe retto ad
un’emozione tanto forte e grande.
Lo fissai e notai che il
suo sguardo era allo stesso modo fermo sul mio: le sue mani sui lembi
del mio intimo, supplicando con gli occhi il permesso per proseguire.
“Vai” gli ordinai. Non avevo più dubbi e rigettai la testa all’indietro sul cuscino.
Con un fremito sentii che
la stoffa scendeva lentamente le gambe e sentii il suo sguardo
spogliarmi ancora, nonostante fossi ormai definitivamente nuda sotto di
lui.
Bruciava la stoffa,
mentre scorreva lungo le gambe, scottavano le sue mani mentre mi
sfilava gli slip. O, più semplicemente, ero io ad essere
incandescente.
Sentii le sue labbra sul
polpaccio, risalire poi più su verso l’interno coscia,
delicatamente: sapevo cosa stava facendo e, bene o male, sapevo anche
cosa avrebbe provocato; tuttavia non avevo idea delle proporzioni,
della potenza e della grandezza di quanto stava per accadere.
Mi affidai completamente a lui, alle carezze delle sue mani e ai baci delle sue labbra, a contatto con le mie.
Gradualmente, ma sempre
più imponente, mi sentii boccheggiare impotente, la testa ormai
altrove. Era come se la mia mente si fosse staccata dal corpo, un
viaggio esoterico in un modo lontano, dai colori ambrati e dai profumi
orientali. Tutto andò a convogliarsi lì, dove sentivo
ardere il fuoco. Mi sentivo morire, impotente com’ero in preda ad
un’agonia piacevole; eppure non avrei mai posto fine a quel dolce
dolore, avrei fatto di tutto per farlo durare in eterno.
Non mi vergognavo
più di fronte a lui di quello che ero stata, perché
Mallory e le altre non c’erano più; ero solo io, per la
prima volta c’era solo Allison. E c’era Tyler, che
l’amava.
Il respiro si era
tramutato in gemito e, quasi posseduta, le mie mani non sapevano stare
ferme: i suoi capelli si ritrovarono vittime innocente della mia
ricerca d’appiglio, il suo nome corse alla mia bocca decine di
volte, un inno di grazie per il suo dono.
Quando lo spazio attorno
a me tornò ad essere definito ed il tempo a scorrere, compresi
appieno cosa mi era accaduto. Ed ero felice ed appagata.
Avevo conosciuto l’amore e, non paga, ne volevo ancora. Amata, volevo amare a mia volta.
Mentre ancora Tyler stava
lì a venerarmi … credo che non esista termine migliore
per definirlo … lo feci tirare su. L’amore aveva estinto
il suo debito, ma io mi sentivo una strozzina e volevo gli interessi.
In fondo lo dovevo a lui. Probabilmente soffriva per quel piacere che
mi aveva dato, ma che invece, per sé, stava contenendo in un
paio di boxer neri ormai troppo stretti.
Lo baciai come avevo
imparato ormai a fare, come, avevo capito, gli piaceva. Piccoli e a
fior di labbra, un contatto ravvicinato eppure fugace, con la lingua
che a malapena si faceva sentire; passione e dolcezza, racchiusi in uno
schiocco di labbra rapido e fintamente innocente.
Mi tirai su da quella che
era stata la mia tomba e, mentre sulle sue labbra facevo una conoscenza
approfondita con il mio sapore, lo aiutai a liberarsi dai boxer e, per
il sollievo,a Tyler scappò un gemito più forte degli
altri. Sorrisi sulle sue labbra, seguita da lui, e mi sedetti su di
lui, che era in ginocchio sul materasso. Non c’erano spalle per
sorreggermi, né un letto su cui fare forza per muovermi; solo
una criniera incasinata di capelli biondi ed un po’ sudati, che
erano la cima della nave a cui aggrapparmi e tirarmi su, con entrambe
le mani.
L’aria la prendevo sai suoi polmoni, la forza dalle sue ciocche, il resto non aveva grande importanza.
Sentivo il piacere
richiamarci entrambi come un reggimento alla battaglia, un dovere cui
non potevamo né sapevamo sottrarci.
Sentivo i nostri cuori
battere all’impazzata e, più in basso, il suo corpo
pulsare contro il mio. Mi scappò quasi da ridere, perché
sembrava un pugno che bussa ad una porta, e chiede il permesso per
entrare.
“Che
c’è?” mi chiese Tyler, sorpreso della mia allegria,
mentre le sue mani passavano tra i miei capelli, a ricomporli.
“Lo stiamo facendo?!” chiesi di rimando, quasi non fosse un’ovvietà.
“Solo se lo vuoi” replicò. Si preoccupava sempre maledettamente per me, anteponendo il mio bene al suo.
A modo mio lo amavo, qualsiasi cosa poteva significare quella parola per me.
“I want you so …” mormorai, sulle sue labbra. Un istante, ed eravamo una cosa sola.
In quel momento ci
incontrammo, come le correnti d’aria che si scontrano nel cielo.
Fu mentre perdevo di nuovo il controllo che lo guardai, perso nel
piacere e nell’amore che ci stavamo donando, che capii: non sarei
più stata sola.
… when you crashed in the clouds
you found me …
NOTE FINALI
Non voglio tediarvi con grandi discorsi finali. Solo ricordarvi che non è oro tutto quello che luccica.
Capitolo più breve rispetto al solito, ma, spero, intenso. Spero emozioni voi, quanto ha emozionato me.
Oggi
con questo capitolo avete anche scoperto qual è l'origine del
titolo di questa FanFiction. Questa bellissima canzone dei Barcelona,
che ho conosciuto grazie al primo trailer del film "Water for Elephants"
Vi
lascio dandovi appuntamento al prossimo capitolo e augurandomi che
questa volta si facciano sentire anche le lettrici più
silenzione, perché è molto importante per me capire se
questo capitolo è riuscito nel suo intento di emozionare senza
essere volgare.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Answers ***
When you crash in the clouds - capitolo 12
Capitolo 12
Answers
Se
non fosse stato per la neve che ancora fioccava fuori dai finestroni,
avrei
definito il mio risveglio decisamente
“cinematografico”; mi sentivo divinamente
e la casa era pervasa da un forte aroma di caffè.
Guardai
l’orario sul cellulare e, oltre a scoprire che erano
già le undici, trovai un
sms di Aidan che mi comunicava – Dio sia lodato per questo
– di essere bloccato
tra le lenzuola con la sua biondina di turno, inconsapevole della sua
imminente
rovina, a causa della neve. Sì, decisamente la giornata non
avrebbe potuto
cominciare in modo migliore.
Mi
alzai, non avendo affatto quella sgradevole sensazione di disfatta
fisica che
mi accompagna di solito al mattino. Ricordavo alla perfezione ogni
secondo di
quella notte meravigliosa, ogni millimetro della sua pelle ed ogni
singola
volta avesse sussurrato o urlato il mio nome.
Erano
più o meno le sei quando finalmente riuscimmo a prendere
sonno, lei accoccolata
a me, il mio torace a farle da cuscino, l’ultima immagine di
quella notte che
avrei sempre portato con me. Ed ero tornato a sognare, in quelle ore di
riposo,
come non mi accadeva più da una vita; per quanto senza
senso, essi mi
assicuravano davvero che nella mia testa era tornato tutto al suo
posto, come
se una sana notte d’amore fosse la panacea per i mali di
entrambi. Volesse il
cielo che fosse così, semplice e buono come mandare
giù un tubetto di Smarties.
Ma
naturalmente non sarebbe mai andata così, troppo bello e
troppo facile;
Allison, del resto, doveva essere sgusciata via dal mio abbraccio visto
che, a
parte me, quel letto non ospitava nessun altro. Ovviamente dagli odori
e dai
rumori si intuiva
facilmente dove fosse.
Mi misi a sedere sul letto, non tanto per riordinare le idee quanto per
gustarmi ancora un po’ quella sensazione di benessere a cui
però non dovevo
abituarmi, e notai la mia agenda in bilico su una pila di altri libri
sul
comodino. La presi ed iniziai a scorrere con la biro sui fogli ad una
velocità
di cui io stesso mi stupii.
La
amo
Michael, ne sono sicuro perché non mi ero mai sentito
così prima.
Mi basta
il suono della sua voce per stare bene … eppure ho paura.
Ho paura
che non mi voglia, che possa tirarsi indietro, lo fa continuamente, ho
paura di
non sapermi frenare, mentre so che lei ha bisogno di qualcuno che segua
i suoi
ritmi. Ho paura che questo amore che ho da offrirle non basti.
Mi
sarebbe piaciuto da morire presentartela; sarebbe piaciuta anche a te,
ne sono
certo.
Mi sento
forte, ma allo stesso tempo vulnerabile davanti a lei: dunque
è questo l’amore? Io non lo so, è la
prima volta che mi capita.
Se
esiste qualcosa “dopo” saprai di certo cosa si
porta dietro. E chissà cos’altro mi sta
nascondendo. Ce
la voglio mettere tutta, mi impegnerò al massimo,
affinché quelle famose impronte di cui parlavi sempre non
sbiadiscano.
Perché in lei c’è tanta di quella
polvere che
potrebbe sommergerle.
Se
esiste qualcosa “dopo”, spero tu ne faccia parte:
magari, ecco, puoi metterci
una buona parola …
“Fanculo!”
Un’imprecazione
dalla cucina mi riportò al mondo reale. Feci per rivestirmi,
ma l’unica cosa
che trovai furono i miei boxer: non si può dire che la
stanza fosse pulita a
specchio, ma per quanto gli abiti fossero volati via, non ricordavo
proprio di
averli mandati fuori dalla finestra. Così, svogliato fino al
punto di non aprire
neanche un cassetto, mi avviai scalzo e in intimo verso la zona giorno
da dove,
oltre a raffinati francesismi e lo sbatacchiare di pentolame vario,
provenivano
una serie di profumi uno più invitante dell’altro.
Fu
quando misi piede nella piccola cucina che mi sfiorò il
dubbio; se, per caso,
non fossi ancora riemerso dal mondo dei sogni; o se, chissà,
le forti emozioni
della notte precedente mi avessero stroncato definitivamente e quella
fosse la
visione angelica ad attendermi alle porte del paradiso.
Ecco
chi aveva preso la mia felpa! Troppo grande per lei, Allison ne aveva
ripiegato
le maniche lungo le braccia,
ma faticava
a tenerle al proprio posto perché il suo gomito era
parecchio più piccolo anche
del mio polso. Inoltre, le arrivava poco oltre la vita e gli slip a
strisce
bianche e rosse, che non avevo notato, risaltavano ciò che,
nonostante facessi
perennemente finta di nulla, preferivo di più di lei.
Si
dava il suo bel da fare tra lavandino e fornelli e non so se non mi
sentì
arrivare o fece finta di non essersene accorta. Poi
una rivelazione: “I love playing with fire/and I
don't wanna get burned/I
love playing with fire/and I don't think I'll ever learn”
Doveva
aver preso in prestito l’iPod di Aidan, perché
solo lui poteva avere la
discografia completa della Runaways e idolatrare quella bambolona di
Cherie
Currie. Io, personalmente, per quanto non fosse la mia band preferita,
preferivo di gran lunga Joan Jett. Ed Allison, con il suo carattere e
la sua
fierezza, ma anche con la sua bellezza quasi ferina sembrava averne
ereditato i
tratti.
Non
l’avevo mai sentita cantare, ad esclusione di quella volta
nel club, ma allora
gli ormoni erano andati a ballare la samba a Rio e non
c’avevo capito un
granché. Aveva una bella voce ed un buon senso del ritmo; se
solo non fosse
stato quel torbido curriculum che si portava dietro, avrei avuto tutte
le
ragioni per dire che si trattava di una ragazza perfetta.
Me
ne stetti ancora un po’ lì, a godermi quello show
con un sorriso da ebete
stampato in faccia, appoggiato allo stipite di una porta che non
c’era. Non
avevo bisogno di una ragazza perfetta, avevo già lei.
Mi
dispiacque un po’ quando, durante la sua performance di air
guitar, a seguito
di una piroetta, si accorse della mia presenza e, vergognandosi, si
fermò. Sì
levò in fretta le cuffiette e tornò ad occuparsi
della colazione, o qualsiasi
cosa stessa facendo su quel piano.
Mi
avvicinai e lentamente l’avvolsi in vita con un abbraccio a
cui lei, per
fortuna, non si oppose. Affondai il mio volto nell’incavo del
suo collo, grazie
alla zip non perfettamente tirata su, anche a causa del movimento, che
le
faceva scendere la felpa delicatamente sulle spalle. Posai un bacio
leggero lì
dove pulsa la giugulare, dove ritrovai più intenso il nostro
profumo,
quell’essenza unica che avevamo creato nella notte: sapeva di
baci, sudore,
vaniglia e latte di mandorle sulla sua pelle vellutata e morbida
mischiati con
il ginseng del mio bagnoschiuma; una catapulta dei sensi verso le Indie
Orientali e verso quelle lenzuola ancora disfatte.
Avevo
paura ad affrontare con lei l’argomento più
spinoso di tutti, quel noi che ero
incerto di poter pronunciare. Qualcosa mi diceva che Allison e Tyler
sarebbero
rimasti tali, almeno per un po’; ma era giusto
così: la vita era già complicata
così com’era, non era proprio il caso di
aggiungere altri pensieri. Per ora,
pensai, avrei voluto godermi la tregua di quel tacito armistizio che
avevamo
sancito.
“Ti
sei svegliata presto?” le chiesi, lasciandole un bacio giusto
dietro
l’orecchio. Sapevo che era un miracolo il suo consenso,
dunque pensai bene di
approfittarne e fare una bella scorpacciata di quelle coccole, prima
che la
luna storta tornare a renderla scontrosa e intrattabile.
“Un’oretta
fa … più o meno” mi disse “fa
troppo caldo qui dentro, non ci sono abituata”.
Sorrideva di sé stessa e delle sue sventure, ma
probabilmente mi stava
nascondendo la verità.
“Allora
se mademoiselle non si trova bene in simili condizioni di miseria le
troviamo
una sistemazione migliore … che ne pensa del sottoscala,
giù all’ingresso? È
abbastanza freddo e umido?”
Rise, con la medesima risata cristallina e squillante di quei giorni
passati
insieme tra gli scaffali della libreria, il che mi fece intuire che
anche lei
si era svegliata di buon umore.
Rimanendo
stretta a me nella stessa posizione in cui l’avevo
imprigionata tra me ed il
mobile della cucina, corse con la mano ai miei capelli, tirandomi
quella ciocca
frontale che, qualunque posizione assumessi nel sonno, rimaneva sempre
sull’attenti. Mi tirò verso di sé e mi
stampò un bacio sulla guancia; mi girai
con il volto verso di lei, impercettibilmente, quel tanto che bastava a
farle
imprimere il bacio successivo direttamente sulle mie labbra e farlo
sembrare
del tutto casuale. Al che mi tirò un leggero schiaffo e mi
intimò di andarmi a
sedere, che la colazione era pronta.
“Hai
preparato la colazione?” domandai, piacevolmente sorpreso.
“E
non solo” rispose lei “guardati un po’
intorno dormiglione!!!”
Effettivamente,
distratto dal suo spettacolo di poco prima ed ancora un po’
intorpidito, non mi
ero accorta del cambiamento radicale subìto dalla cucina.
Ripulita da ogni
oggetto fuori posto e dall’immondizia, ora era decisamente
più vivibile ed
igienica; sinceramente non ricordavo un’immagine simile di
quell’angolo della casa
dai tempi del mio arrivo. Anzi, probabilmente neanche allora aveva un
aspetto
tanto decoroso: il vecchio padrone di casa non si poteva certo definire
un
maniaco dell’ordine e della pulizia, a giudicare dalle
condizioni in cui aveva
lasciato il bagno.
La
tavola, di cui rivedevo il piano dopo non so più quanto
tempo, era
apparecchiata con delle tovagliette che ci aveva regalato la nonna di
Aidan il
Natale precedente e non avevamo mai tolto dalla confezione, con piatti
di
ceramica e bicchieri di vetro, e non la solita carta plastificata che
eravamo costretti
ad usare a forza di
scaricarci l’un l’altro l’onere delle
pulizie.
Mi
sedetti, ancora frastornato dalla novità; c’era
tutto quello di cui quella casa
aveva bisogno: una donna.
“Ma
… ma” le domande mi morirono in gola, non appena
Allison tirò fuori dal forno i
pancake in un piatto e salsicce e uova in un altro.
“Li
ho messi lì in caldo … ma era talmente fuori
allenamento, povero forno, che
temevo di saltare in aria …” mi disse, sorridendo.
Portando in tavola due
caraffe e una bottiglietta proseguì: “qui ci sono
lo sciroppo per i pancake ed
il caffè. Buon appetito!”
A
stento riuscii ad augurarle anch’io il buon appetito. Non
potevo crederci; no,
di sicuro stavo ancora sognando, perché un risveglio del
genere era ben oltre
ogni mia più rosea aspettativa. Ma i minuti passavano e la
sveglia non si
decideva a suonare.
Mentre
lei si gustava il suo pancake io ero ancora fermo, con il piatto pieno
di
leccornie, a cercare di realizzare la situazione; finché mi
decisi ad aprir
bocca, ma non per mangiare: “Ma come hai fatto?”
“Oh
beh, veramente è tutto merito della signora Craig”
“Chi?”
“La
signora Craig del primo piano” lei era stata qui
sì e no un paio di volte e già
si intendeva gli inquilini, di cui io nemmeno conoscevo
l’esistenza. Andiamo bene,
pensai. “È lei che mi ha prestato la farina per
fare i pancake. È una vecchina
davvero adorabile … si era offerta persino di farli lei, ma
poi mi toglieva
tutto il divertimento. Un’unica cosa … non vi
facevo tipi da frutta e verdura fresche!”
“È
una lunga storia” mi limitai ad abbozzare come risposta.
“Aidan,
vero?”
“Ovviamente”.
Era universalmente riconosciuto che qualsiasi cosa accadesse entro
quelle
quattro mura fosse connessa al mio esimio collega di libreria. Le
arance, nella
fattispecie, facevano parte della sua ossessione per il fitness che lo
aveva
preso negli ultimi tempi; naturalmente con risultati nulli, visto che
il fast
food e l’alcool non riusciva ad eliminarli.
“E
tu, fammi capire” continuai, mentre iniziavo a godermi quella
favolosa
colazione “sei andata dalla signora del primo piano conciata
così?”. Non era
per gelosia, ma solo per proteggerla da chiacchiere e occhiatacce degli
altri
inquilini dello stabile che feci questa domanda, enfatizzando il così con un movimento
circolare del mio
dito indice, puntato contro di lei, mentre con il resto della mano
tenevo un bicchiere
di aranciata.
“Certo
che no, sei matto!” reagì lei “ho
rimesso i miei abiti, ma dentro casa mi danno
fastidio, così li ho tolti. Ti dispiace?”
Naturalmente
non mi dispiaceva affatto, ma non potevo certo dirglielo
così, come se niente
fosse; era decisamente sconveniente. Così mi limitai a darle
un cenno di
consenso approssimato, mentre mandavo giù
l’ennesimo boccone.
“Toglimi
una curiosità …” dissi, intento ad
innaffiare il dolce di sciroppo d’acero
“perché?
Voglio dire … sei stata gentilissima, ma un po’ di
caffè bastava”
Si fece piccola sulla sua sedia, segno che la stavo mettendo in
imbarazzo; in
più, nonostante avesse abbassato lo sguardo, distinsi
facilmente le guance
imporporate per la vergogna. Tutto quello che ci era successo e le si
intimidiva
ancora di fronte a me?
“Hei!” mi rivolsi a lei, sussurrando lievemente.
Alzò lo sguardo ed i suoi
bellissimi occhi si rivelarono a me in tutto il loro bagliore di
smeraldo. La
presi in vita e la portai a sedere sulle mie gambe, compiaciuto che
fosse così docile.
Non lasciai la stretta, perché lei per prima teneva le mie
braccia serrate
attorno a sé. Appoggiai il mio mento sulle sue spalle e mi
dedicai a lei dolcemente:
“Che c’è?! Mmh?! Sai che puoi dirmi
tutto …”
“Niente
…” si riscosse “è solo il mio
modo per dirti grazie … grazie per avermi ospitata
anche dopo tutte le cattiverie che ti ho detto”
“Ah” ammiccai sarcastico, cercando di smorzare
l’apprensione che si era creata “pensavo
che volessi rimettermi in forza dopo i due round di questa notte. Ma
credimi,
tesoro, ci vuole ben altro per atterrarmi!”
“Oh
ma fammi il piacere Tyler!” controbatté Allison,
andando a sedersi di nuovo al
suo posto accanto a me “non ti chiami mica Rocco!!! Fai poco
lo svelto!!!”
Ridemmo
entrambi per la serenità con cui entrambi riuscivamo ad
entrare sempre in certi
discorsi, senza scandalo né impaccio, e a ridere come se lei
fosse un compagno
di scuola, anziché la ragazza di cui ero innamorato.
“Quello
che è successo …” iniziò lei
ma mi sentii in dovere di fermarla, di affrontare
quella conversazione per cui avevamo già temporeggiato
abbastanza.
“Cosa
è successo tra noi?” le chiesi, concentrandomi con
lo sguardo fisso su di lei,
sperando recepisse ciò che avevo da domandarle.
“Non
è successo niente Tyler”
Ecco
la doccia gelida. Ero incredulo: possibile che avesse davvero
intenzione di
dimenticare tutto? Le tenerezze di quella mattina e le carezze di
un’intera
notte sarebbero state cancellate così, di punto in bianco?
Certo non mi
aspettavo nulla di romantico. Ma quello faceva parte proprio delle
ipotesi più
nere.
“Non
mi fraintendere Ty” mi rassicurò Allison,
stringendomi la mano “quello che ho provato
stanotte … Dio! È stata la notte più
bella della mia vita. Ma non chiedermi
altro: quello che vale per te non vale anche per me Tyler, capiscimi
…”
Naturalmente
la capivo e me l’aspettavo in certo senso.
Sapevo
che non mi amava nella stessa maniera in cui io amavo lei,
però non era stato
solo sesso e questo faceva la differenza su tutto. Anche volendo come
si poteva
tornare indietro dopo aver calato ogni cortina dopo che
c’eravamo entrambi
esposti con tutte le nostre debolezze e fragilità di fronte
all’altro?
Inoltre
la sua vita scombussolata contribuiva a porre continuamente paletti qua
e là
lungo qualsiasi strada decidesse di percorrere. Forse era un modo di
proteggermi dai suoi stessi sbagli, ma sapeva che con lei ero pronto a
prendere
dei rischi.
“Io
… io non capisco …” o forse era miglio
dire che non accettavo ciò che era
lampante da comprendere.
“Senti”
iniziò lei “lasciamo le cose come stanno. Stiamo
bene così ,senza incasinarci
la vita. Ridiamo scherziamo ci aiutiamo a vicenda … e se ci
va di stare insieme
lo facciamo senza troppe conseguenze il giorno dopo”
Ora
la verità era chiara come il sole: aveva assaggiato il
biscotto ed ora non
sapeva rinunciarvi. Ipocrita lei, volgare e cinico io:
dov’era finita la telenovela
melensa di quel mattino?
“Certo
… niente relazioni serie, ma una sana scopata guai a
perderla!” sbottai, acido
come mai lo ero stato. Non che da lei mi aspettassi niente di diverso,
davvero,
ma forse era stato un male illudersi che quel risveglio stile
pubblicità fosse
il mondo che mi stavo apprestando a vivere.
“Tyler
sai benissimo che non è così … e che
non potrei farlo con nessun altro quello
che abbiamo fatto insieme questa notte. Ma non posso darti quello che
non ho!”
Aveva
ragione; non poteva darmi quell’amore che reclamavo e che lei
per me non
provava. Tendevo troppo spesso a dimenticare, infatti, che tra i due
ero stato
io lo stupido che aveva perso la testa. Le presi il volto tra le mani e
mi
avvicinai a lei: “Perdonami, non so cosa mi sia preso
…”
Masochista
fino all’osso decisi di tenerla ancora vicino a me, nella
speranza, abbastanza
vana, che magari il lieto fine potesse toccare anche a me. Avremmo
fatto le
cose a modo suo e magari, chissà, non erano così
male come sembravano a me.
“Allora”
proseguii “cos’è che siamo? Amici,
amanti, frequentatori …”
“Perché
dobbiamo per forza darci una definizione? Siamo Allison e Tyler, non ti
basta?
Non complichiamoci troppo la vita!” Annuii e
l’abbracciai, dimenticando la
rabbia che silente continuava ad ardere dentro ed il fastidio latente
per un
qualcosa che, lasciato a metà, stonava con il resto del mio
mondo.
“La
vuoi sapere una cosa?” mi confidò Allison mentre
sistemava la cucina, dopo aver
terminato quella colazione eterna ,che praticamente era diventata il
pranzo “facevamo
sempre così ad Indianapolis quando nevicava. Mia madre
preparava delle enormi
colazioni ma siccome nessuno si alzava mai prima delle undici, alla
fine
diventavano dei pranzi”.
Stavo
guardando New York dalla finestra, con la chitarra di mio fratello tra
le mani
tentando di strimpellare qualche accordo, ma il suo discorso mi
distolse,
nonostante lo spettacolo fuori fosse meraviglioso: mezzo metro di neve
aveva
bloccato le strade e ripulito i vicoli dalla spazzatura e dalla
sporcizia. Aveva
smesso di nevicare, almeno per il momento secondo il meteo, e i guai
stavano
solo per iniziare.
Riposi
la chitarra nel fodero con cautela e mi misi ad ascoltarla.
“Papà
adorava uova al tegamino e salsicce così mamma ne faceva
sempre in quantità industriali,
ma alla fine finivano sempre per litigare perché lui si
ingozzava e lei gli
sbraitava contro! Papà non andava mai a lavoro quando
c’era la neve e potevamo
stare insieme … a giocare in giardino o a vedere vecchi film
in tv. Il mio
preferito era Piccole Donne”
Non
c’erano lacrime da versare, né risate per
ricordare dei tempi felici: restava
solo il rimpianto per qualcosa che sarebbe potuta andare in maniera
diversa, e
la differenza stava nelle proprie mani. Conoscevo bene quella
sensazione, l’avevo
provata a lungo dopo la morte di mio fratello.
Cauto
l’avvicinai, carezzandole la guancia con la nocca
dell’indice; proprio in quell’istante
una lacrima cadde a bagnarmi il sito e la sentii, quasi
impercettibilmente,
tremare al mio tocco.
“Li
amavi” la mia non suonò come una domanda eppure la
vidi annuire, sbarrando labbra
ed occhi ad un dolore che avrebbe utilizzato ogni angolo del suo corpo
per
venire fuori.
“Non
è da loro che sono scappata …” mi
confessò e questo mi fece capire che la
storia era molto più complicata di quanto apparisse. Una
laguna di segreti che
poco alla volta stavano tornando a galla. “Ma guarda il lato
positivo … se non
fosse stato così non ci saremmo mai contrati!” e
sorrise ancora, perché la speranza
in qualcosa di buono, di migliore, continuava ad averla nonostante i
momenti bui.
Avrei voluto avere la sua stessa forza, il suo stesso ardore
nell’affrontare la
vita.
Egocentricamente
avrei dovuto essere contento, ma in amore bisogna saper guardare al
bene dell’altro:
dunque avrei preferito saperla lontana ma felice piuttosto che al mio
fianco ma
piena di malinconia.
Le
sorrisi di rimando, avendo esaurito le parole giuste, sia da amico, che
in
fondo non ero mai stato, sia da innamorato, ora troppo crucciato per
poter parlare.
D’un
tratto suonò il campanello. Andai a rispondere mentre lei se
ne andò in camera.
“Adesso
che ci vede conciati così, ad Aidan prederà un
colpo” ironizzò Allison.
Lei
non era ridotta poi così male, qualche graffio ed il labbro
leggermente gonfio,
io invece sentivo; a pensarci, la trazione delle ferite che iniziavano
a
cicatrizzarsi e non essendomi guardato allo specchio, non avevo idea
dello
stato in cui ero ridotto. Ma non era quello a preoccuparmi.
“Ehm
… non Allison non è Aidan. È mia
madre”
NOTE FINALI
Ben
ritrovate mie care, sopo una settimana e poco più d'assenza!
Mi
sono presa un po' più di tempo per scrivere questo capitolo,
troppo delicato come immaginate,a seguito del precedente. Incomincia
una nuova fase per entrambe i personaggi.Qualcuno prende coscienza di
sé, qualcun'altro invece si trova immerso in un limbo di
dubbi.
sono proprio curiosa di vedere cosa accadrà ora. Voi no?!
Non ci resta che darci appuntamento al prossimo capitolo.
Un bacione grandissimo a tutte ... e un grazie immenso per il seguito
à
bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Decisions ***
When you crash in the clouds - capitolo 13
“Come tua
madre?” mi chiese lei; più che stupita o nervosa, la sua
espressione sembrava letteralmente terrorizzata all’idea di
conoscere qualcuno che non fosse Aidan o me.
C’era da capirla:
d’altronde, non aveva avuto molti contatti con il mondo esterno
da quando lavorava in quello strip club. Ed ora che se l’era
lasciato alle spalle, chiunque poteva sembrarle una minaccia,
soprattutto per il modo poco ortodosso che avevano usato per darle il
benservito.
“Stai
tranquilla” le fui subito accanto, circondandole le spalle con un
braccio e massaggiandole la schiena con la mano libera; era così
rigida e tesa, che a poco servirono le mie tecniche rudimentali di
fisioterapia a calmarla.
“Io non
capisco” si lamentò “New York è sommersa
dalla neve, e lei viene da te proprio oggi … ma che
cazzo!!!”
Avrei riso del suo
disappunto in altre circostanze, ma non nel momento in cui avrei dovuto
avvertirla di qualcosa che mi riguardava, a proposito di mia madre.
“Veramente”
iniziai, preoccupato fin dal principio per la sua quasi certa reazione
catastrofica alla notizia che stavo per darle “veramente
l’ho chiamata io”.
Me ne ero pentito non
appena lei aprì bocca dopo averle annunciato dell’arrivo
di mia madre, ma quando l’avevo fatto mi era sembrato non esserci
soluzione migliore; sperai con tutto il cuore che potesse comprendere
le mie ragioni.
Le diedi la notizia tutto
d’un fiato, allontanandomi da lei e da ogni possibile traiettoria
di volo di oggetti contundenti, tenendo timorosamente lo sguardo
lontano dai suoi occhi: non volevo scorgere, né scatenare in lei
rabbia o qualsivoglia sorta di malumore.
Come biasimarla del
resto: era mezza nuda e stava per conoscere la madre del ragazzo con
cui era andata a letto ma con cui non aveva esattamente quelle che si
definiscono intenzioni serie.
“Cos’è
che hai fatto tu?” mi chiese, con una voce che, per fortuna,
sembrava contenere quella rabbia che invece immaginavo prorompente e
distruttiva.
“Le ho mandato un
messaggio, per la precisione” confessai, come un bambino che fa
sì una marachella, ma che poi non è così pentito;
in fondo l’avevo fatto solo per il suo bene. “Ieri sera,
quando sono andato a prenderti la maglia asciutta. Eri sconvolta,
ferita, e pensavo che nessuno meglio di lei avrebbe potuto aiutarti.
È un’assistente sociale, te l’ho detto
…”
Probabilmente avevo
utilizzato le due parole meno appropriate tra tutte quelle a mia
disposizione; quelle due paroline, indicanti una professione, che erano
bandite dal vocabolario di Allison, anche se sinceramente faticavo a
comprendere il motivo di tanta avversione per delle persone così
altruiste e generose. Certo, la burocrazia tende sempre a rovinare
tutto, ma mia madre ed i suoi colleghi non erano poi affatto male nel
loro lavoro.
La vidi sedersi sul
letto, portandosi le mani tra i capelli; decisamente dovevo averla
sconvolta, anche se la sua reazione non era scomposta come
probabilmente sarebbe stata agli inizi della nostra conoscenza:
“Tu … Tyler … tu hai fatto la cosa più
stupida di tutte!!!! Grazie per l’impegno che ci stai mettendo
per mandarmi in galera! Lo sai benissimo come funzionano queste cose:
assistente sociale uguale polizia …. Vaffanculo!”
Ringraziai che casa mia
era al settimo piano di un vecchio palazzo alto e senza ascensore,
anche il più allenato ci avrebbe messo un po’ a salire
tutto quelle scale fino al mio appartamento. In quei pochi secondi che
avevo ancora di vantaggio sull’arrivo di mia madre, avrei dovuto
assolutamente rassicurare Allison e riacquistare quella fiducia che, da
perfetto coglione quale ero, riuscivo ogni volta a sgretolare con le
mie stesse mani.
“Allie ti assicuro
…” mi gettai letteralmente ai piedi del letto, in
ginocchio dinanzi a lei “ anzi … ti giuro …
quella è proprio l’ultima delle mie intenzioni. Non ci
finirai in galera … dovessi andarci io per impedirlo. Te lo
prometto!”
Sembrava non volermi dare
ascolto questa volta, chiusa in se stessa come poche altre volte aveva
fatto. Ma chi me l’aveva fatto fare? Per quanto sembrasse la cosa
più buona e giusta del mondo perché avevo mandato
quell’sms a mia madre? Nuova lezione imparata: mai cercare di
fare una buona azione. Ma ormai c’ero più dentro di lei in
quella vita di casini e toccava a me ballare se lei non voleva farlo;
oltre che per lei, era diventata una faccenda personale tra me ed il
destino beffardo e bastardo che si divertiva a giocarci tiri mancini
ogni minuto.
“Andrà tutto bene” le sussurrai “devi fidarti di me hai capito?”
Ma Allison aveva ormai alzato le barricate dell’astio e del silenzio contro di me ancora una volta.
“Allie?” la
chiamai scuotendola un po’ ma oltre ad un muso lungo ed al capo
girato dall’altro lato, non rispose al mio appello.
Mia madre bussò
alla porta, visto che il campanello era fuori uso da una vita, ed andai
ad aprirle; avrei volentieri lasciato la porta aperta già da
prima e rimanere così vicino ad Allison, ma non sai mai chi
può intrufolarsi in casa a New York neanche con mezzo metro di
neve per terra.
Mi diressi a malincuore verso l’ingresso, controllando la mia peste ribelle e musona con la coda dell’occhio.
Feci a malapena in tempo
a salutare mia madre, e lei a poggiare in terra un paio di borse che
aveva con se nel tentativo di abbracciarmi, che la porta della mia
stanza si chiuse alla nostre spalle e la serratura fece un doppio
scatto.
Allison si era appena chiusa dentro.
Corsi disperato verso
quella porta appena mi accorsi cosa stava accadendo, nella speranza di
evitare, ma invano, la chiusura a doppia mandata; mia madre mi venne
dietro, in apprensione per una ragazza che non conosceva, ma che
evidentemente le stava già a cuore: forse era pura deformazione
professionale per lei, ma in un certo senso sapevo che, con un
po’ più di conoscenza, si sarebbero adorate. E poi, mia
madre si fidava di me, questo non l’avrei mai messo in dubbio e
sapeva che se tenevo a qualcosa, o qualcuno, ne valeva sempre la pena.
Allison aveva bisogno di
qualcuno che la guidasse, per quanto riuscisse a cavarsela benissimo da
sola, ma una ragazza di quasi 18 anni non può vivere senza una
madre, o almeno un supporto per i problemi tipici di
quell’età.
A sentirmi ragionare in
quei termini sembravo mio nonno o qualcosa del genere, ma il mio lato
di fratellone protettivo era sempre in agguato quando si trattava di
ragazze indifese, sia che fossero la metà di me per età e
altezza sia che fossero delle bombe sexy a cui avrei dato l’anima
per dividerci il letto.
Immaginai la piccola
Caroline senza nostra madre: sarebbe stata persa. Immaginai qualcuno
con mille guai più di lei, immaginai Allison e fu per quel
motivo che non dovevo pentirmi di quel piccolo messaggio mandato a mia
madre alle 3 di notte.
Impressi diversi pugni
alla porta della mia stanza, che già si teneva in piedi con un
precario equilibrio, tanto che mi sorprese non venne giù dopo il
colpo che Allison le aveva inferto per chiuderla.
“Allie! Allie apri
questa porta!!!” le intimai, urlando con quanto fiato avessi in
gola “non fare la stupida, vieni fuori!”
Mi sembrava anche quella
una scena cinematografica, di quelle talmente assurda da poter essere
viste solo al cinema, e che ora invece era perfettamente reale. Quella
mattina era la seconda volta che vivevo una situazione simile, solo che
quest’ultima me la sarei risparmiata volentieri.
“Non ci penso nemmeno! Non finché tua madre è lì!!!”
Tutto era così
dannatamente assurdo e quasi comico, che nel bel mezzo delle mie
invocazioni mi venne da pensare alla faccia che avrebbe fatto quel
cretino del mio coinquilino in una situazione del genere; un secondo
dopo, per bilanciare la mia demenza, pensai invece al fatto che Allison
avrebbe potuto commettere qualche gesto estremo, come uscire dalle
scale antincendio e andarsene.
“Allie per piacere non fare nulla di sconsiderato” la supplicai “non scappare”
Ma bravo Tyler, se lei non ci aveva pensato le hai appena suggerito di fuggire … coglione!
“Incazzata
sì … scema no Tyler!” mi rispose, ovviamente
“fa freddo e sono praticamente nuda e scalza … dove vuoi
che vada?! Ma non apro finché tua madre non se ne va fuori dai
coglioni!!!”
Mi voltai verso mia
madre, che nel frattempo era rimasta al mio fianco in silenzio; non
doveva essere piacevole sentirsi rivolgere quelle parole dal una
perfetta sconosciuta, ma forse ci era abituata, perché non
sembrò scomporsi più di tanto. Le rivolsi uno sguardo che
non poteva lasciare adito a dubbi, invitandola a prendere il mio posto
in quella assurda opera di convincimento.
Fece un bel respiro
profondo per caricarsi e, con la voce più impostata e modulata
che aveva, si avvicinò alla porta invitando Allison al dialogo.
“Allie?! Ciao, io sono la madre di Tyler!”
“Sti cazzi”
rispose, molto finemente “non mi interessa chi sei, ma quello che
fai. Sei uno sbirro di merda ed io in galera col cazzo che ci
vado!”
Non mi ricordavo di
averle mai sentito dire tutte quelle parolacce tutte insieme in una
sola frase; dalla serie: non si finisce mai d’imparare …
ma non mi aspettavo, dopo tutti i progressi fatti, che potesse tornare
indietro così di botto, solo perché le avevo messo dentro
casa un’assistente sociale.
Vidi mia madre prendere
di nuovo un bel respiro, magari per sbollentare la rabbia per quelle
imprecazioni che le erano appena state rivolte. “Io non sono uno
sbirro, sono un’assistente sociale … e con la polizia non
ho niente a che fare …”
“Non è
vero!” ribatté lei, convinta della sua posizione “lo
dice solo per farmi stare tranquilla, ma io lo so che appena esco da
qui mi aspetta una bella cella”
“Ma no
tesoro” la rassicurò mia madre, dolcemente “sono
sola e non ho chiamato nessuno. Nel mio ufficio nessuno sa che sono qui
… e nemmeno ho intenzione di dirglielo. Sono solo Diane, la
madre di un tuo amico … che è capitata qui per caso. Ma
ora apri questa porta”
Mia madre era così
sicura di ciò che diceva, che non mi sarei stupito di vedere
Allison uscire da quella stanza non appena mia madre avesse smesso di
parlare; ma la conoscevo abbastanza da sapere che purtroppo non
l’avrebbe fatto, e con lei ci voleva di più di un paio di
parole altisonanti e ben dette.
“Diane?”
sentimmo chiamare, timidamente, al di là della porta.
“Sono qui … come hai detto che ti chiami tesoro?”
“Allie … Allison” “Bene Allison … dimmi
piccola”
“Perché sei
venuta se sei da sola?” le chiese; forse avevamo istillato in lei
il dubbio, la possibilità che non stavamo agendo contro di lei e
sperai di poterla spuntare senza essere costretto a mandare via mia
madre.
“Perché
un’amica di mio figlio era in difficoltà. Ho portato
qualche abito pulito … non ti preoccupare … sono
praticamente nuovi ... ho il vizio di portami il lavoro a casa”
sorrise lei d’impaccio “un kit di pronto soccorso se
c’era bisogno di medicare qualche ferita e qualcosa da mangiare
… dentro questa topaia non so se ci sia qualcosa di commestibile
…”
Vallo a spiegare a mia
madre che grazie alla sua intraprendenza, Allison aveva preparato dal
nulla una delle migliori colazioni che avessi mai fatto in vita mia.
Intanto dalla camera da letto non arrivò alcuna risposta, ma
solo un silenzio interminabile, fin quando non sentimmo scattare di
nuovo la serratura. Mia madre ed io tirammo un sospiro di sollievo ed
io le bacia una guancia di slancio.
“Eccoti
finalmente!” proclamò mia madre quando Allison si fece
vedere “volevi nascondermi questo bel faccino?!”
Allison si limitò
ad accennare un sorriso stento, che sapeva più di timidezza che
di disappunto. Non si era data pena di coprirsi un po’ di
più: forse voleva che mia madre capisse, o che
l’accettasse per com’era.
E, se la conoscevo bene,
mia madre non era tipo da lasciarsi influenzare dal lato esteriore:
quel commento sul viso, infatti, non fu pronunciato a caso; lei
guardava le persone ed era proprio dritto negli occhi che instaurava le
migliori conversazione. Certo, era brava ed esperta nel suo mestiere,
ma rimaneva comunque dotata di un’immensa sensibilità,
affinata anche dalle prove che la vita le aveva offerto.
Le due si spostarono di
nuovo verso la camera da letto, anche se, personalmente, avrei evitato
volentieri che mia madre si sedesse sul letto ancora sfatto dove io ed
Allison avevamo fatto l’amore solo poche ore prima. Magari lei
nemmeno l’aveva capito, però saperla lì mi dava un
leggero senso di fastidio e pudore, che mai avevo sperimentato prima
d’allora; forse anche la vergogna faceva parte della schiera di
novità a cui, con l’arrivo di Allie nella mia vita, avevo
dato il benvenuto e a cui avrei dovuto fare l’abitudine: non ne
sapevo molto di sentimenti … se ne può discutere su
milioni di libri e mai trovare una soluzione comune … ma
immaginavo che questo mio disagio fosse un modo per proteggerli.
Allison si sedette nel
letto, coprendosi con la trapunta, e mia madre andò a sedersi di
fianco a lei, mantenendosi però a debita distanza. Ogni suo
gesto, ogni sua postura, erano ben studiati e definiti per aiutare
Allison a mettersi a suo agio; probabilmente Allie, nella sua
intelligenza, doveva averlo capito, ma non sembrava darvi peso
più di tanto: anzi, sembrò apprezzare notevolmente il
rispetto che mia madre le stava dimostrando.
“Le assomiglia
molto Tyler” disse poi a mia madre, con fare confidenziale, come
sei io non fossi lì con loro, appollaiato sulla cornice interna
di uno dei due finestroni della stanza.
Mia madre, però,
contestò la sua impressione, affermando invece, fermamente, che
io assomigliassi di più a mio padre.
“Non lo
conosco” ribatté lei “ma ora conosco lei
…” “ti prego Allison dammi del tu, mi fai sentire
vecchia!” Entrambe risero.
“Allora conosco te … e posso garantire che caratterialmente siete due gocce d’acqua”
“Oh questo è poco ma sicuro … l’ho cresciuto io, non poteva essere altrimenti”
Ringraziai il cielo che
solo i geni mi hanno reso fisicamente simile a mio padre, ed il danno
non si fosse esteso fino a livello cerebrale. Non avrei potuto
sopportare di avere ulteriori affinità con quella stessa testa
di cazzo perbenista e spocchiosa, lo stesso livello siderale di
presunzione, la stessa stronzaggine invadente fino al midollo osseo.
Mi guardarono entrambe ed
io, vedendole lì, insieme, quasi complici nelle battute e nelle
conversazione come vecchie amiche, riacquistai la speranza di vivere
ancora quella piacevole quotidianità che avevo gustato quella
mattina.
“allora
…” esordì mia madre, cauta, subito dopo i
convenevoli, durati già abbastanza “ti va di parlare di
qualcosa? C’è qualcosa che vorresti dirmi?”
Allison sembrò
pensarci su per un po’; cosa avrei dato per poter sentire la sua
mente almeno una volta, per capire ciò che le passa per la testa
quando il suo volto diventa la maschera di cera che copre tutte le
emozioni. Niente fastidio, niente apprensione, niente offesa …
“Non voglio finire in galera Diane!” la scongiurò Allison, con la voce tremante ed invocante.
“E con ci finirai tesoro, te lo assicuro! Perché dovresti finirci poi?”
“Immagino a questo
punto che Tyler ti abbia parlato un po’ di me”
esordì lei; effettivamente sì, le avevo accennato
qualcosa, ma non immaginavo a quali conclusioni mia madre potesse
essere giunta, soprattutto a vederci in quel modo. “Per quanto mi
ostini a ripetere a me stessa e agli altri che sono una ballerina io
sono una prostituta!”
Era la prima volta che la
sentivo parlare di se stessa a quel modo, sfogandosi e ammettendo,
senza vergogna, la verità. Forse l’aveva celata per
pudore, forse per non farsi del male o poter continuare a fare quella
vita senza farsi schifo, ma finalmente era riuscita ad aprirsi,
con la speranza di aprirsi ad un futuro pulito e sempre più
possibile
“ … e poi
non è solo per questo” continuò “ho rubato,
ho anche spacciato droga in quel locale dove lavoravo” di lei
sapevo davvero poco, ne ero consapevole, e la punta dell’iceberg
ora in secca, mostrava una montagna di male e violenze che aveva dovuto
subire nonostante la sua giovane età.
“Questo è un
bel guaio, lo riconosco” annuì mia madre, non lasciando
trasparire dal suo volto alcun giudizio e sapevo che Allison, questo,
lo avrebbe apprezzato molto “ma con un buon avvocato si
potrà dimostrare che tu l’hai fatto solo perché
costretta. E vedrai che te la caveresti con poco e potresti uscire con
la cauzione … una multa o dei lavori socialmente utili”
“E chi pagherebbe la cauzione o la multa per una come me?” chiese, lamentandosi.
Mi sentii quasi offeso
dalla sua domanda, come se la risposta non fosse praticamente ovvia.
Così mi avvicinai e poggiai la mia mano sulla sua: lei mi
guardò, sorpresa, probabilmente comprendendo il significato di
tale gesto e sorridendomi grata di rimando. Non mi interessava che ci
fosse mia madre a spiarci e ad indagare cosa potesse esserci tra noi,
che pensasse quello che le pareva; Allison aveva ragione, stavamo
talmente bene così, che complicarsi la vita con inutili
definizioni era una perdita di tempo. Io ci sarei stato per lei e lei
di sicuro per me: tanto bastava ad entrambi, per ora.
“Però per farlo ho bisogno che tu aiuti te stessa … devi denunciarli Allison!”
“No, non posso farlo … non posso!!!”
“Perché no
Allie?!” le chiesi; sentivo che si sarebbe rifiutata, e
così la spronai a tirare fuori le sue paure.
“Perché loro
saprebbero chi è stato e verrebbero a cercarmi …”
entrò nel panico, con la voce ancora più tremante e
concitata nei gesti “no … è troppo pericoloso! Io
… io … loro si vendicherebbero!”
“Ma avresti tutta
la protezione del mondo credimi!” la sostenni “io non
permetterei mai che ti accada nulla di male, lo sai, e poi la polizia
ti aiuterebbe …”
“Tyler ho troppa paura e non voglio immischiarti in questa storia ... ti ho dato già abbastanza problemi”
“Credi che
così andrà tutto bene?” intervenne mia madre, seria
e severa “cosa hai intenzione di fare per ora? Startene qui,
nascosta, ad aspettare che qualcuno ti trovi e venga a chiuderti la
bocca comunque?”
Né io, né
lei probabilmente, avevamo considerato questa ipotesi. Effettivamente
mia madre aveva ragione, e le maschere di ghiaccio che erano i nostri
volti sbiancati e gli sguardi agghiacciati ci fecero comprendere che
quella poteva rivelarsi molto più che un’ipotesi.
“Ed in prigione sarei molto più al sicuro … naturalmente”
“Non sto parlando
di prigione Allison.” Mia madre capì di aver messo a
disagio Allison così si fermo un attimo a prendere fiato per far
calmare i nervi di entrambe. “C’è qualcosa che
vorresti fare, ora che non lavori più in quello night
club?”
“Beh dovrei
trovarmi un lavoro, una casa dove stare … e se riesco a mettere
da parte qualche soldo mi piacerebbe riprendere la scuola e
diplomarmi”
“E questo è
esattamente quello che ho da offrirti” la incoraggiò mia
madre “saresti protetta, avresti un tetto sopra la testa e
potresti studiare o lavorare, come preferisci. Ci sono delle strutture
che accolgono ragazze poco fortunate”
“Ma non accoglierebbero me …” sbuffò, scoraggiata, Allison.
“Ma che stai dicendo?” le chiesi, non capendo dove volesse arrivare.
“So come funzionano
queste cose … c’ho pensato mille volte ad andarmene e mi
sono informata. Ti mandano in queste case-famiglia, ti reintegrano
nella società e tutti vissero felici contenti come nelle favole.
Ma ovviamente non sarei Allison se per me non ci fosse un destino
diverso: io verrei rispedita ad Indianapolis … e lì
sarebbe peggio che andare al fresco”
“Ma
perché?” la interrogai. Avevo bisogno di sapere, era
necessario perché io potessi aiutarla concretamente, assieme a
mia madre.
“Perché
lì ho sì dei parenti … ma non una famiglia, pronta
ad accogliermi a braccia aperte” scoppiò “anzi, il
loro disprezzo e le loro accuse sono state abbastanza gravi da farmi
scappare 3 anni fa, ora mi ucciderebbero”
“Ma cosa …?”
Ora c’ero troppo
dentro, incominciavo a sapere troppe cose, ma erano informazioni troppo
frammentarie perché io potessi capirci qualcosa; la pregai di
spiegarsi meglio, le chiesi il perché di quest’astio nei
confronti della sua famiglia, soprattutto perché nemmeno
mezz’ora prima aveva parlato con affetto e malinconia dei suoi
genitori.
“Possiamo evitare di parlarne ora? Ti prego …”
Lasciai stare, come
sempre. Come sempre sapevo che aveva i suoi tempi e che prima o poi si
sarebbe degnata di rispondere alle mie domande. Sapeva che di me poteva
fidarsi e non l’avrei giudicata, quindi non temevo di non
ricevere risposta. Non mi sarei mai stancato di aspettarla, ne valeva
terribilmente la pena e sarei stato ricompensato prima o poi, anche se
non sapevo esattamente come.
Nel frattempo mia madre
sembrava averci lasciato un po’ di privacy, allontanandosi dal
letto e passeggiando avanti e indietro per il corridoio, rimuginando.
Lì per lì neanche c’eravamo accorti della sua
assenza, impegnati a sciogliere la trama intricata della vita di
Allison. Quando la sentimmo parlare tra sé però,
iniziammo a preoccuparci. Lei allora si voltò verso di noi,
rivolgendosi ad Allison: “Quanti anni hai?” “Ne
compio 18 il 20 gennaio”
“È perfetto!” esclamò mia madre di rimando.
“Che intendi dire
mamma?” chiesi, dubbioso. Era una donna troppo cervellotica e la
sua mente correva era molto più veloce della mia, che stentavo
il più delle volte a starle dietro.
“Ascoltate”
ci disse, ma rivolgendosi particolarmente ad Allison “ho trovato
il modo per darti la sicurezza di cui hai bisogno senza esporti a
casini vari con denunce o robe simili”
Sia io che Allison
eravamo ansiosi e concentrati nell’attesa di scoprire cosa avesse
architettato, così mia madre non perse altro tempo.
“Vieni a stare da me” la invitò mia madre, orgogliosa della sua trovata geniale.
“Cosa … come
vengo a stare da te?” non sembrava sconvolta negativamente, ma
sicuramente nessuno dei due aveva immaginato niente di simile; non so
nella sua mente, ma nella mia vedevo già me stesso, lei ed una
vecchia auto e la Route 66 spianata davanti a noi nel deserto
dell’Arizona. I pensieri della solita mente malata.
“Ma
sì” commentò divertita mia madre “non mi dire
che avevi intenzione di rimanere qui con questi maiali …”
Magari non era nelle sue
intenzioni, ma nelle mie era una più che forte speranza; non
solo per la compagnia migliore che aveva da offrirmi, rispetto ad
Aidan, ma perché con la sua presenza e le sue capacità
casalinghe saremmo certamente tornati in un mondo più civile e
igienico. Allison rise e sospirò, evidentemente
l’esperienza mattutina tra rimasugli di cibo andato a male e
sporcizia le era basta ed avanzata.
“Verrai a stare con
me” proseguì ancora “naturalmente sarà una
sistemazione temporanea … fino a quando non diventerai
maggiorenne e allora deciderai quello che è meglio per te
… e nessuno potrà costringerti a tornare con la tua
famiglia”
Il quadro che aveva
prospettato non sembrava così male: avrebbe avuto un posto
sicuro, tranquillo e per bene dove stare, dove io avrei potuto
continuare a vederla ed avrebbe conosciuto la mia Caroline … non
vedevo l’ora … ed avrebbe vissuto una vita normale e
tranquilla, all’interno di una vera famiglia. Avrebbe fatto bene
a lei, a mia madre, a mia sorella: sarebbe stato un bene per tutti;
eppure c’era qualcosa che ancora stonava.
“Sei sicura che
andrà tutto bene ma’?” le chiesi, in apprensione
“se ti scoprono sarai in un mare di guai … lo sai”
“No Diane”
intervenne Allison “non voglio che qualcuno paghi per me …
starò bene qui. Anzi, appena troverò un lavoro mi
troverò una camera ammobiliata e me ne andrò … do
fastidio anche a loro”
“Ma non se ne parla
nemmeno” obiettò mia madre “i miei colleghi non si
sognerebbero mai di venire a casa mia, il lavoro lo lasciano sempre in
ufficio … e se qualcuno dovesse fare domande ti
presenterò come mia nipote … o qualcosa da improvvisare.
Ma fidati, non succederà nulla”
Forse non era
così, ma mia madre sembrava fiduciosa e serena che le cose
sarebbero andate nel verso giusto, come da lei previsto; questo non
poté far altro che tranquillizzare anche noi ed Allison si
fidò di lei ed accettò infine la proposta di mia madre.
Non perdemmo tempo e
organizzammo il trasloco per quello stesso pomeriggio, mentre la
città si riattivava dopo la bufera e gli spazzaneve e spargisale
preparavano la città al nuovo turbine notturno. Mentre Allison
era sotto la doccia io e mia madre riordinammo i libri che avevamo
messo ad asciugare la notte prima, per lasciare che li portasse con
sé. Le spiegai meglio tutta la situazione e lei commentò:
“è una cara ragazza, Ty, non mi stupisce che tu ne abbia
tanta cura … ma non giocare con lei”
“Io non sto giocando, assolutamente …” la rassicurai.
“Quindi suppongo che farsi distruggere la faccia ti sia venuto dal cuore!?”
“È colpa mia” intervenne Allison, pulita e pronta per uscire nel completo che mia madre le aveva portato.
“Mmmmm …
domani andiamo a fare un po’ di shopping come si deve Allison
… non pensavo fossi tanto magra!”
Effettivamente gli abiti
che mia madre le aveva portato erano un po’ larghi, ma almeno
decenti e nuovi, rispetto agli stracci con cui si era trascinata fino a
casa mia.
“È colpa mia
se Tyler è stato picchiato” ribatté Allie
“lui voleva difendermi ed invece io mi sono comportata da
stupida”
Volevo che la smettesse
di sentirsi in colpa: ognuno è responsabile delle proprie azioni
e delle loro conseguenze. Io avevo assalito quel vecchio nel locale e
mia era la colpa per essere rimasto passivo di fronte alle percosse. Mi
avvicinai a lei e l’aiutai ad indossare il giaccone: “Non
voglio sentirti più parlare così. Non guardare più
al passato … ora pensa ad essere felice perché è
quello che meriti”
Si strinse nella morbida
e calda giacca e sorrise alla verità delle mie parole:
“agli ordini signor Hawkins … non vedo l’ora!”
soundtrack
NOTE FINALI
Questa
volta ho messo la canzone che di solito accompagna il capitolo alla
fine, come un ponte che condurrà verso i capitoli che verrano.
Iniziamo a ricostruire il puzzle della vita e del passato di Allison e per farlo sia lei che Tyler dovranno avere tanta forza.
Sono qui anche per dirvi che per un po' mi prenderò una vacanza dalla pubblicazione.
Questo è un periodo un po' difficile e devo concentrarmi in altre cose.
Quando sarò pronta per tornare a pubblicare non so, ma la storia
non rimarrà incompleta, questo è poco ma sicuro.
Grazie mille per il vostro supporto e le vostre splendide, numerose, recensioni.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Allison ***
When you crash in the clouds - capitolo 14
Arrivati a casa di mia madre, Allison sembrava una bambina al suo primo
giorno di scuola, in parte felice e curiosa della nuova esperienza, in
parte intimorita dalle conoscenze che avrebbe fatto.
“Woah!” fu il suo commento all’ingresso, mentre si guardava intorno e dava un primissimo sguardo.
Les, nel frattempo, si
era avvicinato a noi, prendendoci gentilmente le giacche; uno come lui
era perfetto per mia madre, buono e senza riserve per nessuno, generoso
ed anche simpatico.
“Lui è mio
marito Leslie, Allison” lo presentò mia madre. Con una
stretta di mano amichevole si salutarono ed Allison timidamente sorrise
di rimando, confermando la buona impressione che Leslie faceva a
chiunque venisse introdotto.
“Chiamami
Les” fece lui, che altrettanto di buon grado la accettava
evidentemente in casa; certo quella era a tutti gli effetti casa di mia
madre, e lui le era devoto se possibile in ogni sua cellula, ma ero
sicuro che non nascondesse disappunto o contrarietà nei
confronti della nuovo arrivata.
“Vieni con me,
Allison” la invitò mia madre, per mostrarle il resto della
casa, lasciando così a me e suo marito, l’incombenza di
portare il borsone con i pochi stracci di Allison e le buste piene di
libri al piano di sopra, in quella che era stata la mia stanza. Non ero
geloso che la occupasse lei, anzi, ne ero strafelice. In fondo non
sarei più tornato a vivere da mia madre e quella non la
consideravo più casa mia da un pezzo nonostante, i cimeli ancora
sparsi per la stanza o appesi alle pareti.
Per prima cosa sostituii
la sfilata di accendini da collezione che avevo accumulato negli anni
su una delle mensole, con la collana di libri che le avevo regalato,
più consona all’arredamento di quanto non lo fossero
quelle quattro cianfrusaglie che solo per pigrizia spudorata non erano
ancora finite nella spazzatura.
Les, silenzioso ma
indagatore, stava lì a darmi una mano, liberando il mio vecchio
armadio che negli anni si era straformato in un ripostiglio extra.
“È bella!” sentenziò, di punto in bianco.
“Chi?”
chiesi, fingendo di cadere dalle nuvole “oh … ah
sì! Allison ... sì, è molto bella …”
farfugliai qualcosa a caso, per non destare troppi sospetto. In fondo
era una bella ragazza, chiunque avrebbe potuto confermalo, anche un
cieco, con il solo uso del tatto avrebbe riconosciuto dei bei tratti
come i suoi.
“In quanto a
ragazze hai un buon gusto, non c’è che dire” riprese
“tua madre ha ragione a dire che somigli a tuo padre … ma
non fare come lui, cerca di tenertela stretta”
Les non aveva problemi a
parlare di mio padre: sapeva che era e sarebbe sempre stato una
parte importante della vita di mia madre, il padre dei suoi figli;
forse in minima parte lo temeva, ma la sua lealtà e le sue
attenzioni avrebbero sempre avuto la meglio.
Il nostro rapporto,
invece era più complicato: lo avevo ritenuto sempre una
benedizione per mia madre, ma non avevamo mai legato particolarmente.
Era strano dunque che mi fosse vicino e si permettesse certe confidenze
e conversazioni con me Lo trovavo impacciato, forse perché per
la prima volta parlavamo di qualcosa che non fosse solo il baseball, ed
io lo ero quasi più di lui. Ma non mi infastidiva,
d’altronde gli avevo portato una ragazza in casa, la sua opinione
era il minimo che gli si potesse concedere.
“Oh! Ci puoi
giurare” risposi di getto, senza pensare a chi avessi di fronte.
Mai rispondere prima di aver contato fino a dieci, mi ripeteva la
maestra a scuola da piccolo. Cazzo sì se aveva ragione!!!
“Ehi!”
protestai, non appena mi resi conto dell’errore madornale e della
colossale figura di cioccolata “non è la mia ragazza
… è solo un’amica”.
“L’importante è crederci” commentò lui, sornione.
Avrei voluto
controbattere, spiegare che non c’era nulla oltre la splendida e
limpida amicizia che stavamo portando avanti, perché qualcuno
tra di noi non vedeva nulla che potesse andare oltre, ma evidentemente
era chiaro come il solo quello che provavo per Allison e anche se mia
madre aveva fatto finta di niente, difficilmente non era giunta
anche lei alla conclusione più ovvia, almeno per quanto
riguardava il mio fronte, ormai spacciato. Mi arresi a quel dato di
fatto e misi di nuovo la testa dentro l’armadio e gli scatoloni
per ultimare il riordino della stanza.
“… e questa
è la tua stanza” sentii la voce di mia madre annunciare,
avvicinandosi, e i passi di più di una persona pestavano il
parquet e si perdevano laddove vi erano dei tappeti.
Alzando la testa mi
accorsi di essere rimasto da solo con Allison, con mia madre che
chiudeva la porta alle sue spalle, furtivamente sorpresa a ridere sotto
i baffi, come di chi la sapeva lunga e Les che, senza che me ne
accorgessi, doveva averla seguita in corridoio, prima che potessi
fulminarlo con lo sguardo per l’alto tradimento.
Ok, era stupido essere
imbarazzati, ma anche Allison mostrò di essere nelle mie stesse
condizioni. Se ne stava sull’uscio della porta, quasi avesse
paura che qualcosa potesse attaccarla in qualsiasi momento, immobile e
timorosa, ma i suoi occhi non riuscivano a nascondere un’euforia
generale per quella giornata estremamente fortunata e generosa che, con
quella nevicata notturna, aveva letteralmente fatto cadere manna dal
cielo.
Mi alzai e la raggiunsi,
visto che non dava segni di movimento, e allargando le braccia le
mostrai, come un fiero cicerone, quella che era ormai, a tutti gli
effetti, la sua stanza.
“Benvenuta!”
esclamai, sorridendo. Lei, tuttavia, sembrò non curarsi troppo
di me, impegnata a guardarsi ancora intorno e a scrutare ogni
dettaglio, quasi certamente ancora incredula che in poche ore il
destino le avesse donato più di quanto potesse sperare e
chiedere. Aveva un’espressione divertita, qua e là
sostituita da occhiate più scettiche, mentre si fermava su
alcuni dettagli della stanza, ma non dimostrandosi mai scortese o
scontenta.
“So che non
è esattamente la stanza che una ragazza può desiderare
…” spiegai, vergognandomi neanche poi tanto velatamente
delle mie passioni adolescenziali. Tra collezioni varie, gadget del
baseball e cimeli musicali, sembrava piuttosto un bazar mediorientale
che una stanza da letto.
“ … ma se
vuoi puoi darle il tuo tocco personale e più femminile, non mi
arrabbio” le dissi, sogghignando ma sinceramente.
“sì, me
l’ha detto anche Diane” rispose “ma non credo che lo
farò”. Tenne a precisare che avrebbe levato qualche
vecchio poster di giocatori di baseball o vecchie locandine di film di
fantascienza più vecchi di noi, ma che le piaceva così e
non l’avrebbe cambiata di una virgola.
“Davvero?!”
domandai, incredulo. Non aveva peli sulla lingua generalmente, ma in
questo caso non mi avrebbe stupito vederla mentire pur di non ferirmi
ed abusare della generosità dei suoi ospiti.
“Davvero!”
confermò, con un entusiasmo che non lasciava adito a dubbi
“mi piacciono le pareti in legno scuro ed i colori caldi delle
tende e delle lenzuola, l’atmosfera soft e tutte questi strumenti
musicali … sembra di stare in un Hard Rock Café.
Sì, mi piace!”
Sembrava sincera, e la
sua energia positiva era contagiosa. Poi si accomodò sul lettone
grande e morbido che troneggiava nella stanza, poggiando i piedi sulla
cassapanca ai piedi del letto, con tutte le scarpe, poggiando la
schiena su una delle colonnine che componevano il letto. Rividi me
stesso, accovacciato lì, nella stessa posizione, solo qualche
anno prima, mentre mio fratello, seduto per terra, mi insegnava a
suonare la chitarra. Alla fine però, si finiva sempre con
l’ascoltare i suoi assoli meravigliosi. Ci sapeva fare con la
chitarra …
“La mia stanza ad
Indianapolis era un tantino diversa” spiegò Allison,
riscotendomi dai miei soliti sogni ad occhi aperti “tutta pizzi e
crinoline, hai presente?! E c’era tanto rosa”. Sembrava una
confessione divertita e leggermente imbarazzata, certamente era
difficile immaginarsela in una camera da principessa delle favole, ma
come al solito quando si trattava di rispolverare qualcosa dal passato,
era diventata inquieta. Ero abituato ormai a vederla ridursi in quello
stato, non mi davo più tanta pena come all’inizio, sapevo
bene che le sarebbe passata in fretta e riuscivo anche a rimanere
impassibile per non farla rattristare maggiormente. Andai a sedermi
sulla cassapanca, lasciando che dal mio sguardo trasparissero pazienza
e fiducia, ciò di cui aveva bisogno per aprirsi con me e stare
bene. Io non avevo avuto la sua stessa fortuna quando si trattò
di Michael, nessuno che fosse disponibile a starmi a sentire e volevo
che lei avesse quel genere di possibilità.
“L’aveva
arredata mia madre prima che nascessi” chiarì “ad
Emilie piaceva tanto … la sua invece sembrava il bosco delle
fate”
Forse non avrei dovuto, sentivo che qualcosa non quadrava, eppure non riuscii a trattenermi: “Chi è Emilie?”
“Mia sorella” rispose lei, telegrafica, risparmiando fiato, parole ed emozioni.
“Non mi avevo mai
detto di avere una sorella” incalzai, senza rendermi conto che
probabilmente ero stato il re degli indelicati.
“Infatti non ce l’ho ... è morta più o meno tre anni fa”
Rimasi freddato come se
un proiettile mi avesse trapassato contemporaneamente il cuore,
fermandomi i battiti, i polmoni, strozzandomi il respiro, e il
cervello, arrestandomi ogni pensiero. Incapace di reagire ad una
notizia tanto grave, incapace di assorbirla e somatizzarla, incapace di
essere in quella stessa stanza con lei e dirle almeno una parola
gentile che non suonasse stupida e banale.
Ricordai allora di quella
sera, quando le rivelai della fine di Michael, e delle sue
parole: “so come ci si sente …”. Sì, lo
sapeva, e per uno strano gioco, il destino aveva riservato ad entrambi
un dolore tanto simile e tanto terribile. Lei in quel momento, al mio
contrario, sembrava essere un vulcano di parole, come se la prima tra
le rivelazioni avesse innescato una reazione a catena nei suoi cassetti
della memoria.
“Aveva solo otto
anni … era una bambina bellissima” non c’erano
lacrime nei suoi occhi, né voce rotta dalla commozione, eppure
tutte le corde del suo corpo, raggomitolato in una strana ed innaturale
posizione, parlavano di un dolore che non si era estinto con gli anni,
un lutto con cui conviveva da tre anni, insito in ogni sua fibra; le
lacrime erano finite, ma il dolore restava intatto. Se la prima raffica
di proiettili non fosse bastata a farmi fuori, era arrivata
allora anche una sciabola a conficcarsi nel mio petto, per farmi
collassare una volta per tutte. Pensai a Caroline: oggi avrebbero avuto
la stessa età ed un giorno si sarebbero magari incontrate al
college … chiusi gli occhi, raggelato da immagini atroci.
“Come … come …?” balbettai, cercando di esserle d’aiuto, per quanto si potesse.
“Un incidente
d’auto, una sera d’estate. C’era mio padre con lei. E
c’ero anch’io. Ma non ricordo nulla, so solo quello che mi
è stato detto e che me la sono cavata con una gamba rotta”
“E tuo
padre?” domandai. “Coma. A dire il vero non ho la
più pallida idea di come sia andata a finire con lui. Voglio
dire … non so se si è mai risvegliato”
“Come sarebbe a dire che non lo sai?”
“Sono scappata di
casa dopo poco tempo, quando l’aria è incominciata a
diventare irrespirabile tra me e mia madre …”
Non sapevo cosa fare;
l’entità del suo racconto era talmente grave e potente da
nn lasciare scampo. Avrei voluto interromperla ma sembrava non
potersi fermare, anche se le mie orecchie imploravano pietà da
parte del mio cuore, che non avrebbe retto un simile racconto.
Straziante da ascoltare … impossibile da vivere. Era tanto forte
la mia Allison, tanto forte da sopravvivere a tanto dolore senza
sopravvivere.
Mi chiesi se avevo il
diritto di sapere, se dietro la mia incapacità di bloccarla non
ci fosse solo curiosità morbosa celata da un sostegno falso ed
ipocrita. Non riuscivo a staccarmi da quel racconto, come catapultato
indietro in tempi e luoghi sconosciuti, a condividere quel fardello
insieme a lei. Però mi riscossi; alla fine il mio rispetto per
lei ed il suo privato seppe prevalere sull’idiozia del curioso e
pose freno al suo racconto, poggiando delicatamente l’indice
sulle sue labbra, rosse e carnose, leggermente dischiuse per quel suo
vizio adorabile di respirare con la bocca, che le lasciava stampata sul
volto quell’espressione di perpetuo stupore che adoravo.
“Shh
…” sussurrai, avvicinandomi più di quanto la mia
mente avesse intenzione di fare “non sei obbligata a dirmi
tutto”
“Ma io
voglio” si impose, scansando la mia mano. “Sei sempre stato
gentile con me Tyler” continuò, carezzandomi la guancia
“ma è ora che non nasconda più nemmeno a me stessa
quella parte della mia vita. E poi è giusto che tu sappia: se
prendi me, prendi tutto il pacchetto”
Adoravo l’idea che,
con quella frase innocente, aveva evocato, pur sapendo che per lei il
significato era ben diverso da quello che io gli attribuivo. In
più, compresi, che era per pura codardia che stavo negando ad
Allison il diritto di parlami di sé, dopo settimane passate a
sperare che si aprisse. Ma il vaso di Pandora, notoriamente, non
conteneva solamente i mali del mondo: la speranza restava, per coloro
che vi avrebbero creduto.
Fu così che mi affidai a lei e a ciò che aveva da dirmi.
Si stese sul letto, ed io
feci altrettanto, guardandola mentre fissava un punto indefinito del
soffitto a braccia conserte, le mani strette lungo le braccia.
Forse cercava di
proteggersi dai ricordi troppo amari e dolorosi o forse tentava di
trovare parole migliori per descriverli. Poi posò il suo sguardo
perso nel vuoto su di me, cercando qualcosa che non sapevo cosa fosse:
conforto, consenso, coraggio; in ogni caso, non c’era nulla che
lei avrei negato, ma nulla avevo da offrirle.
Mi sentivo come un
involucro svuotato di tutto: ciò che nella mia vita mi aveva
spezzato ed abbattuto sembrava piuma in confronto al piombo che
risaliva dal suo cuore e traspariva dai suoi occhi.
Restammo a fissarci per
un po’, senza parlare, a contare i battiti lenti dei nostri cuori
ed i respiri modulati a forza con l’unico scopo di
tranquillizzarci reciprocamente. Finché non risolsi per entrambi
di sciogliere quel silenzio: “Mi avevi detto … mi avevi
detto che non te n’eri andata per colpa dei tuoi genitori
…”
“No, infatti”
rispose lei, dopo un lieve respiro “ma quella non era mia madre.
Di lei era rimasto solo l’involucro esteriore. Il resto era solo
fango e rancore”
Vidi una lacrima scendere
alla fine verso l’esterno dell’orbita e scivolare delicata
giù, fino a rimanere intrappolata tra i capelli.
Conoscevo
quell’amarezza, conoscevo bene il gelo dell’animo di fronte
a qualcuno che si pensava di conoscere. Non mi ci volle molto a
riportare a galla le immagini sfocate ed in parte rimosse di mio
padre che se ne stava chiuso nel suo ufficio, su per quell’alta
torre di Manhattan, invece di occuparsi di mia madre e mia sorella, che
come lui avevano perso una persona più che cara, e di me, che
quella stessa persona l’avevo vista penzolare nel suo
appartamento. Lo avevo odiato per la sua distanza ed avevo risposto
alla sua indifferenza con la stessa medaglia. Non la biasimavo dunque
per la scelta che aveva fatto. Volevo solo capire il perché. E
la risposta non tardò ad arrivare.
Allison si alzò
dal letto e si portò davanti alla finestra bianca e squadrata,
dove la differenza di temperatura tra i caldo degli interni ed il
freddo dell’esterno aveva appannato il verro e qualche fiocco di
neve si era incollato alla base della finestra, mentre le folate di
vento li spostava dagli alberi della strada.
“la nostra era la
vita di una normalissima famiglia americana. Io andavo al liceo, avevo
ottimi voti e sognavo di diventare una cheerleader” iniziò
il suo racconto più dettagliato, intervallandolo con occhiate
fugaci verso delle mani nervose ed irrefrenabili, che contorcevano un
fazzoletto di stoffa preso chissà dove.
“Quell’estate
entrai nelle grazie del quarterback della squadra di football della
scuola … era un senior, io solo una junior del secondo anno,
puoi solo immaginare il mio entusiasmo. Mi sembrava di entrare in un
altro mondo: frequentavo la gente giusta” disse mimando delle
virgolette alla parola giusta
“andavamo alle feste dei grandi e tutte le ragazze del mio anno
erano verdi d’invidia. Ormai ero di diritto nella squadra delle
cheerleader, stando sempre con loro avrei passato l’audizione
anche se fosse stata un disastro.”
Mi raccontò che la
madre non vedevano assolutamente di buon occhio quella nuova compagnia:
diceva che l’avrebbe portata sulla cattiva strada e tutte quelle
storie che una madre accampa quando si rende conto che i figli stanno
crescendo e si sente impotente di fronte ad un simile dato di fatto; lo
aveva fatto una donna all’avanguardia come mia madre, figurarsi
la madre di Allison, a quanto pare una donna benpensante e reazionaria,
restia ad ogni cambiamento, tutta casa durante la settimana e chiesa
alla domenica.
“Ma una sera
d’agosto questo ragazzo con cui uscivo, Steve, organizza una
festa a casa sua ed io per andare accampo una scusa ai miei e la mia
migliore amica di allora, Abigail, avrebbe dovuto reggermi il
gioco” proseguì “Non che stessi facendo nulla di
male … c’era qualche spinello e gli alcolici ovviamente,
ma io non bevevo ne fumavo all’epoca. Ma i miei non approvavano
ed io ci tenevo troppo ad esserci”
Ricordo benissimo quel
periodo della mia vita, nonostante le frequenti sbornie di nascosto dai
miei o le prime sigarette clandestine; magari nemmeno si piacevano
davvero, lei e quel tizio, ma quando si è adolescenti certe cose
si fanno perché le fanno tutti e non vuoi essere da meno o per
dimostrare agli altri di essere grande e forte. Ma a
quell’età nessuno pensa ad andare piano, che la vita poi
riprende tutto con gli interessi, finché poi non viene davvero a
riscuotere il suo debito nella maniera più terribile.
Allison parlava di
sé come se da allora fossero passati decenni, come se non fosse
ancora una ragazza, nemmeno maggiorenne, ma una donna fatta e finita
che racconta, ora con distacco, ora con maggio trasporto, le disgrazie
della sua gioventù. Sembrava la sceneggiatura di un film
indipendente a basso budget e con attori dilettanti, un documentario
sulle famiglie del ceto medio e dei loro figli viziati e ribelli, che
lascia presagire un finale nient’affatto rosa.
“Però la
copertura saltò, anche se non so bene come”
proseguì, dimostrando le lacune che un trauma come quello aveva
lasciato nella sua memoria “così mio padre venne a
prendermi, ma non so perché mia sorella fosse con lui …
non me lo ricordo. Ricordo che litigammo in macchina, sulla strada per
casa … e poi dei fari abbaglianti che ci venivano incontro e un
clacson che non la smetteva di suonare. Da lì in poi il vuoto
più totale … il primo ricordo che ho è di me in un
letto d’ospedale con la gamba ingessata e nessuno al mio fianco a
spiegarmi che stava succedendo. Furono i medici ad informarmi di mio
padre e mia sorella”
Probabilmente era ancora
amareggiata per l’indifferenza dimostrata nei suoi confronti,
anche se sembrava non dargli più peso e non dimostrava
più segni di insofferenza verso quei ricordi, come quando
convivi con rumori o fastidi quotidianamente e finisci per non farci
più cosa. Forse il racconto era servito ad esorcizzare il dolore
e la malinconia.
“Dopo il funerale
di Emilie mia madre iniziò a fare la spola tra ospedale e
cimitero, come se a casa non ci fosse nessuno per cui valesse la pena
di tornare. E quando provai a reclamare la sua attenzione e ricordarle
che c’ero anch’io quella notte iniziò ad accusarmi
di essere l’unica responsabile della morte di mia sorella e di
tutto il resto, che ero diventata una puttana … beh lei
non usò quel termine, da puritana qual era preferì
usare il termine meretrice … e non ero più la figlia che
lei aveva tirato su.”
Quelle ultime frasi
però sembrarono affliggerla più del resto, come se
l’onta per una tale offesa avesse intagliato una ferita mai
più rimarginata.
“Beh” riprese
“a parlare così, neanche lei aveva più tutta
l’aria di essere la madre che mi aveva amata fino a poco tempo
prima”
Era innegabile che
sembravamo essere attratti l’un l’altro per la mole quasi
speculare di eventi avversi e persone sbagliate che ci trascinavamo
dietro come palle di piombo, che avevano forgiato i nostri caratteri
fino a renderci le pecore nere, anziché i capri espiatori dei
complessi e delle frustrazioni altrui.
“Immagino ti sia
difesa dalle sue accuse e abbia sostenuto le tue ragioni
…” commentai, per la prima volta, da quando aveva iniziato
il suo lungo monologo.
“Ed invece
no” disse, disattendendo le mie aspettative “semplicemente
perché aveva ragione … so che è strano, ma
più lei mi additava come una prostituita, più io mi
conformavo al suo capo d’accusa. È così che sono
diventata quella che sono: il primo fu Steve, poi il resto della
squadra di football, finché tutta la scuola poté
esprimere giudizi sulle mie abilità”
Era ancor peggio dello
squallido documentario che si era profilato nella mia mente, era una
storia triste, ai limiti tra un romanzo contemporaneo e la vita vera,
in cui il confine tra realtà e fantasia è praticamente
invisibile.
Nel mio intimo il terrore
che quella fosse la realtà più cruda mi faceva sperare in
una bugia per intenerirmi, in un racconto ben congeniato e arricchito
di elementi ultra drammatici. Ma non la davo a bere a nessuno: sapevo
che era solo la pura verità e dovevo affrontarla da uomo.
Così … o l’avrei persa.
“Perché?”
domandai. Conoscevo e apprezzavo così tanto la parte giocosa e
spensierata di Allison da non comprendere come fosse stato possibile
che la parte oscura di lei potesse essere nata ed avere avuto il
sopravvento.
“Mi sentivo voluta,
cercata, apprezzata, all’inizio. Ma poi tutto si reggeva sui
guadagni estremamente facili. Le prime volte furono delle ricariche per
il telefonino, poi dei buoni per fare shopping in qualche negozio
firmato. Infine arrivarono le banconote, ma tutto accadde molto
velocemente, nel giro di un mese o due ero entrata in un circolo
vizioso. Potevo averne quanti volevo, senza fare nulla di male …
almeno così la vedevo allora … e mi sarei liberata di mia
madre. Era quello che volevo di più. La sua presenza …
anche solo la sua voce … era diventata insopportabile.
Così, messo da parte un piccolo gruzzoletto, lasciai casa e me
ne andai da New Orleans. Speravo di poter diventare una ballerina, ma i
soldi non bastavano mai e così mi ridussi ad essere una cubista
con … mansioni speciali.”
Mi ero sempre chiesto che
le storie ed i casi umani degli show televisivi fossero un chiaro
esempio della tv spazzatura o se fossero reali; dunque non erano solo
finzione creata per alzare lo share, accadevano davvero. Il problema
è che spesso ci si dimentica di guardare davvero e con
attenzione cosa c’è dietro, oltre la facciata. In giro ci
sarebbero molte più anime redente e meno farisei pronti a
scagliare pietre.
“Poi il locale di
New Orleans venne chiuso dalla polizia ma il pappone del Don Hill mi
comprò quasi letteralmente dal vecchio boss prima che finissi
nei guai con la polizia e mi fece venire a New York un annetto fa. E da
allora non è successo niente, almeno fino a quando un certo
Aidan Hall non mi chiese di intrattenere il suo amico solitario, tale
Tyler Hawkins, una sera di novembre”.
Sorridemmo entrambi, ma
fu quasi un sussurro leggero e timido che, per quanto quella sera fu
strana e anche difficile da gestire, testimoniava l’inizio di
qualcosa di piacevole, che fosse una semplice amicizia o qualcosa di
più.
Fece una pausa in cui si
voltò e torno vicino al letto, dove io ero rimasto e me ne stavo
seduto in religioso e rispettoso silenzio. Mi tese le mani ed io
intrecciai le mie alle sue. Modellai i miei movimenti ai suoi,
trovandomi in questo modo di fronte a lei, in piedi. Non sapevo come
comportarmi, anche guardarla mi sembrava irrispettoso; parlare, poi,
sarebbe stata la più stupida delle cose che, conoscendomi, avrei
potuto fare, rovinando tutto, come sempre.
Lasciai che fosse lei a fare ogni singola, minima mossa; avrei risposto se interrogato, mi sarei mosso, se me lo avesse chiesto.
Mi prese il volto tra le
mani, con un’intraprendenza dolce e naturale che non le
riconoscevo e non alla maniera marcata e sgarbata di Mallory e dei suoi
mille altri alter ego delle sere passate e depositò un bacio
sulla mia guancia.
A che pro commentare la
scossa ed il calore che invasero il mio corpo, già irrigidito da
un simile contatto, del tutto inaspettato. Diceva che tra noi era tutto
lecito, ma i sentimenti andavano lasciati fuori: le avevo promesso che
me lo sarei fatto bastare pur di averla al mio fianco, ma sentivo che
questo compromesso mi avrebbe procurato un biglietto di sola andata per
il manicomio. Uno spreco di tempo soffermarsi e parlare di quelle
labbra carnose, calde e leggermente bagnate che più che sulla
guancia, si erano posate impertinenti ma delicate all’angolo
della bocca, come se la sofferenza non fosse già al limite.
“Inutile mentire” disse puntandomi con i suoi grandi occhi da cerbiatta “mi hai cambiato la vita”.
Se era sua intenzione
eliminarmi c’era riuscita in pieno. Era pienamente consapevole
che per me quella era una nota dolente ed entrambi avevamo imparato
quanto diversi fossero i significati che avremmo attribuito a delle
simili parole; ma masochisticamente mi sforzai di adeguarmi al suo e
scoprii che non era poi così male. Si stava bene anche in quel
pianeta piccolo e semplice, libero da briglie ed obblighi.
L’abbracciai
forte, avvolgendo le mie braccia alla sua vita e soffocai le lacrime
nascevano nell’incavo del suo collo.
NOTE FINALI
Lo so, è passato
tantissimo tempo dall'ultima volta che ho scritto. E me ne dispiace da
morire. Spero proprio di farmi perdonare con questo capitolo. Non vi
dico molto perché credo parli da se.
Chiedo scusa se non ho risposto a tutte le recensioni dello scorso
capitolo ma non ho avuto tempo, ma vi assicuro che le ho lette tutte e
prometto di essere più presente d'ora in avanti.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** You are my sister ***
When you crash in the clouds - capitolo 15
Capitolo 15
You are my sister
soundtrack
Mi chiusi la porta alle spalle,
lasciando che Allie si godesse la sua nuova stanza un po’ da sola, riordinando
le idee dopo la mezz’ora trascorsa a parlarmi di sé e a far riaffiorare un
passato doloroso e spiacevole. Non sapevo cosa fare, più che abbracciarla e
farle sentire quel calore che negli ultimi tre anni le era evidentemente
mancato, ma ero anche cosciente che tre anni di disattenzioni e angherie subìte
non potevano essere spazzati via da una buona colazione ed una stanza tutta
nuova, né sarebbero bastate una seduta dal parrucchiere o una mattinata a
spasso tra i migliori negozi della città.
Nonostante avessi provato sulla mia
pelle cosa significasse essere ignorati nel momento del dolore, non concepivo
come dei genitori potessero davvero comportarsi così con i propri figli; avevo
solo voglia in quel momento di stanare quella donna dovunque fosse e guardarla
negli occhi, capire come potesse anche solo respirare sapendo a quale vita
aveva costretto il sangue del suo sangue e poi sputarle in faccia,
letteralmente, tutto lo sdegno che provavo per lei.
Era una cosa che mi ero ripromesso di
fare prima o poi; tuttavia ora dovevo invece solo concentrarmi a far star bene
la mia Allie in questa nuova situazione, ospite in casa di sconosciuti, che pure
la stavano trattando come se fosse una di famiglia.
La mia Allison, che mia non lo era per
niente. Fingevo che lo fosse, ma chiaramente era un’illusione bell’e buona, e
per di più dolorosa, destinata a svanire e distruggermi. Non era interessata a
stare con me, ma aveva dimostrato di essersi affezionata e di non voler
rinunciare a ciò che di me potevo offrile senza creare troppe complicazioni tra
noi. Mi accontentavo, sperando di farle cambiare idea, prima o poi.
Al momento però, tra i molti pensieri
che affollavano la mia mente, c’era anche un piccolo comparto dal nome
Caroline. Da quando avevamo messo piede in casa non si era fatta sentire, né
tantomeno vedere e conoscendola sapevo che non avrebbe fatto la prima mossa.
Era troppo timida per presentarsi ad un estraneo di sua spontanea volontà e le
sue difficoltà di relazione con gli altri si amplificavamo ogni volta per via
del timore che la trovassero strana, come non mancavano mai di ricordarle
quelle stupide oche che si ritrovava come compagne di scuola, o che scoprissero
dei suoi momenti di distrazione dal resto del mondo. Nessuno di noi, a casa,
gliel’avrebbe mai fatto pesare, ma era terrorizzata da chiunque non la
conoscesse e avrebbe potuto etichettarla come uno scherzo della natura.
Mi avvicinai alla sua stanza sperando
di sentir risuonare qualche pezzo di musica classica, segno inconfondibile
della sua produttività artistica. Era molto abile nella ritrattistica,
prediligendo in particolar modo l’uso delle matite e del carboncino al posto
dei pennelli ed ogni volta che ritraeva qualcuno, fosse un estraneo o un amico
di lunga data riusciva con pochi semplici tocchi e particolari a coglierne la
più vera essenza.
Ma in quel momento lo stereo non stava
funzionando e, aprendo la porta, la trovai stesa sul letto. Non appena mi vide voltò
le spalle e, nel breve attimo in cui incrociai il suo sguardo, non mi fu
difficile scorgere astio e dissenso; evidentemente era già a conoscenza degli
eventi di quella giornata e non sembrava essere d’accordo.
Mi sedetti sul letto, al suo fianco,
lasciando che mi desse le spalle e mantenesse il broncio ancora per un po’, ma
le schioccai un bacio sulla guancia, sapendo che a quello non sapeva proprio
resistere. Ma sembrò per la prima volta non riuscire a perdonarmi, pulendosi con
il dorso della mano laddove l’avevo baciata, schifata.
“Che c’è?!” cantilenai, richiamandola “non
ti piacciono più le coccole del tuo fratellone?”
Tuttavia sembrava che le mie moine per
ingraziarmela avessero addirittura sortito l’effetto contrario, facendola
risentire ancora di più. Immaginavo che ce l’avesse con me per averle portato
Allison in casa, ma dovevo capire il perché.
“Allora?!” incalzai “vuoi dirmi perché
fai l’offesa? Mmh?!”
Si girò, lentamente, tirando su il
naso, sperando forse che io non capissi che avrebbe volentieri pianto. Era
davvero una bambina, ma il più delle volte, purtroppo tendevo a dimenticarlo.
“Chi è quella lì?” frignò. Bingo! C’avevo
preso, chiaramente.
“Te l’ha detto mamma che abbiamo fatto
venire una ragazza a stare qui?” chiesi; lei scosse la testa, spiegando che ci
aveva visti arrivare e dal pianerottolo aveva spiato la nostra conversazione al
piano di sotto.
“Si chiama Allison, è una mia amica”
chiarii “ non ha più un posto dove stare e mamma ha suggerito di farla
trasferire qui fin quando non troverà una sistemazione per conto suo”
Mi sembrava la spiegazione più
semplice e comprensibile, che non implicasse parole difficili e situazioni che
non avrebbe dovuto conoscere alla sua età, risparmiandomi una montagna di
domande scomode a cui rispondere.
“Non sta bene lasciare senza una casa
le persone a cui vogliamo bene, soprattutto con questo freddo, non ti pare?” le
dissi.
Eppure, testarda come un mulo, affilò
la lingua e rispose: “Questo varrà per te ma non per me, Tyler. Io nemmeno la
conosco …”
“Se non fossi così difficile l’avresti
già conosciuta” mi sentii ribattere.
“Sono in casa mia” mi contraddisse “sta
a lei presentarsi!”
Restai con un palmo di naso. Dov’era
finita Caroline, la mia timida, dolce, sensibile ed adorabile sorellina? Non
ricordavo di avere un serpente dalla lingua biforcuta come sorella!
Quella sua risposta pronta, quel suo
cipiglio fiero e battagliero mi fecero pensare ad un felino che difende il suo
territorio. E per questo c’era una parola ben precisa: GELOSIA.
Solo che in ballo non c’erano solo
quelle quattro mura, bensì qualcosa di più grosso e più importante: i suoi
affetti.
Non era abituata a dividere ciò che le
apparteneva, né tantomeno le nostre attenzioni, con nessuno altro e, anche se
non l’aveva dichiarato apertamente, il suo atteggiamento parlava da sé.
“Non fare la bambina” la rimproverai “Allison
ha i suoi buoni motivi per rimanere sulle sue, credimi. Ogni tanto si tratta
anche di venirsi incontro. Non puoi sempre fare come se tutto ti fosse dovuto”
D’altro canto, pensai, quel suo
atteggiamento, alle volte vittimistico, era dovuto al trattamento da cocca di
casa che noi tutti ci ostinavamo a riservarle e che aveva inevitabilmente
portato a tirarla su viziata ed egoista.
Ma come risultato ottenni solo la
reazione inversa, un plateale broncio accompagnato da sbraiti e grandi
sceneggiate per buttarmi fuori dalla sua camera. Avrei potuto fermarla con una
mano o zittirla con un semplice richiamo ben assestato, che mia madre non era
mai stata in grado di farle, ma preferii non obiettare oltre alle sue
rimostranze, ero pur sempre suo fratello maggiore, e se ora il muso le sarebbe
passato con una coppa di gelato o un pomeriggio insieme nel suo museo
preferito, se avessi tentato di impormi avrebbe cominciato ad odiarmi per
essere l’ennesima figura autoritaria nella sua vita che cercava di imporle le
sue regole. A me non sarebbe piaciuto, figurarsi a lei.
“E ti ricordo” mi urlò, una volta
cacciatomi dalla stanza “che ho 10 anni e mezzo … sono ancora una bambina!”
“Caroline dai …!”
In quel momento, mentre Caroline mi
sbatteva la porta in faccia, un’altra si aprì alle mie spalle. Allison fece
capolino timidamente dalla sua stanza ed io mi avvicinai, impacciato. La mano
corse ai capelli, ma era diventato nel corso degli anni un gesto talmente
incondizionato, da non farci quasi più caso.
“Non devi litigare con lei per me” mi
disse, accennando a quella porta irrimediabilmente chiusa.
“Nnn …” obbiettai, borbottando “non ci fare caso. Stasera o al più tardi domani
sarà tutto passato.”
“Ed invece no” si impose “non ne vale
la pena. È tua sorella, ti vuole bene … le vuoi bene e non devi sprecare neanche
un secondo del tempo che passate insieme.”
Capii in un battibaleno il sottile
riferimento a sua sorella e compresi che forse aveva ragione. Del resto, se
Michael fosse ancora vivo o se solo mi fosse data l’opportunità di trascorrere
con lui ancora poche ore, certo le sfrutterei al meglio. Ma il tempo che ci
viene concesso non è mai abbastanza e puntualmente lo sprechiamo,
concentrandoci su futili litigi e chiacchiere inutili.
“Le parlerò” promisi, sapendo che
tanto bastava poco per fare pace con la mia sorellina. “A te invece come va nella
nuova stanza?” le chiesi, alludendo in realtà alla nostra conversazione di
prima. Ci capitava molto spesso di parlare per traslato e, per fortuna,
riuscivamo ad intenderci sempre alla perfezione.
“Bene, grazie”. Sperai che avesse capito
a cosa mi riferissi, ancora una volta.
La neve si era quasi totalmente
sciolta, nonostante un’ulteriore bufera ci avesse colpiti di nuovo quella
notte, ma il gelo tra mia sorella ed Allison persisteva ancora dopo due giorni.
Ormai ero diventato ospite fisso di
pranzi e cene da mia madre, per l’invidia di Aidan a cui ancora dovevo rendere
conto del nuovo ordine in cucina e del perché Allison si era trasferita da mia
madre: “una cosa per volta” mi sbrigavo ogni volta per affrontare quella
conversazione, cambiando velocemente stanza o fingendomi impegnato in altro; lui
sembrò per una volta abbastanza rispettoso da non mettersi in mezzo.
Non che mi lamentassi di quella nuova routine,
economicamente favorevole e salutare per la mia dieta oltre che per l’ottima compagnia,
ma il ruolo di mediatore mi andava alquanto stretto. La piccola di casa si
rifiutava di scendere a mangiare finché ci fosse stata quella ed Allison andava rincuorata ogni volta che questo
sprezzante accanimento si ripresentava.
“Non è giusto” diceva “non è giusto
che in casa sua Caroline si comporti da estranea per favorire me.” Si offrì di
cenare in camera per tutto il tempo della sua permanenza, a parte cercare di convincerci,
invano, che fosse il caso di non trattenersi oltre.
“Allison” le ripeteva mia madre “Caroline
deve imparare che non sempre si deve fare come dice lei”
Straordinariamente mia madre sembrava
essere in accordo con me sulla questione, eppure Allie ribadiva quanto l’ostruzionismo
di Caroline fosse legittimo e lei non aveva il diritto di insistere oltre. A
dirla tutta aveva anche provato ad avvicinarla, ma Caroline aveva sfoderato un
lato di sé che non conoscevo; sembrava un gatto furioso e prepotente, pronto a
sguainare gli artigli in ogni momento.
Non sapevo più come affrontare l’argomento
con lei; cercavo di farle sputare il rospo su ciò che non andava, ma il mutismo
era la sua arma prediletta.
Avremmo dovuto trovare un soluzione al
più presto, perché non volevo che Allison lasciasse quella casa; per quanto la
proposta di una convivenza (amichevole) con me era sempre valida, anche un
cieco avrebbe notato i benefici che la permanenza in casa di mia madre, vivendo
con delle persone che avevano per lei un aspetto vagamente genitoriale, le
aveva ridonato quella quotidianità preziosa e semplice di cui aveva bisogno. Se
solo l’avesse capito anche Caroline.
Probabilmente un altro genitore, con
un altro figlio, si sarebbe comportato diversamente e l’avrebbe costretto a
stare a tavola comunque. Ma con Caroline non era possibile adottare certe
misure ferme: non dopo il divorzio di mia madre ed il suo secondo matrimonio, non
dopo la morte di nostro fratello, non con un padre-fantasma come il nostro.
“Maestro!” la salutai, dopo aver
cenato, andando a ritirare il vassoio con la sua cena. Mi salutò di rimando con
la sua risata appena accennata, ma che per noi parlava più di centro frasi
fatte o parole di convenienza. Ma invece di lasciarla ai compiti che il
pomeriggio aveva sostituito con la pittura, decisi di farle un po’ compagnia,
aiutandola con i problemi di aritmetica e gli esercizi di grammatica. Di tanto
in tanto cercavo di punzecchiarla con il solito argomento, che iniziava a dare
la nausea un po’ a tutti. Ma era più scaltra di quanto desse a vedere e, grazie
alla sua capacità manipolativa o, per meglio dire, alla mia malleabilità, non c’era
verso di dirigerla verso una riconciliazione (a dir la verità, si trattava di
un vero e proprio primo incontro) tra lei ed Allison.
Il giorno seguente, approfittando del
mattino libero dal lavoro e dei corsi universitari senza frequenza
obbligatoria, mi recai a casa di mia madre, secondo la versione ufficiale, per
preparare gli esami della sessione invernale.
Les non poté fare a meno di alzare gli
occhi al cielo vedendomi arrivare di buon mattino a casa sua, con caffè e
ciambelle per tutti. Casa mia non era certo il luogo migliore per concentrarsi
e studiare, su questo eravamo d’accordo, ma la biblioteca dell’università era
molto più vicina e c’erano altri mille posti in cui andare, come la caffetteria
sul posto di lavoro o altri che comunque avrei preferito, fino a qualche giorno
prima, secondo il marito di mia madre.
“Ma di tutti hai scelto questo” ribadì
il concetto Les, ironico, strizzando l’occhio. “Ma non ce l’hai un lavoro Les?”
gli chiesi, fintamente offeso, nel nostro gioco, ormai quotidiano, di provocazione
e battutine punzecchianti.
Rise sornione, addentando una delle
ciambelline e brandendo una tazza di caffè che gli avevo portato, con la
ventiquattrore ciondolante nell’altra mano. Uscì e mi lasciò solo in casa,
visto che Caroline era a scuola ed Allison era con mia madre da qualche parte,
visto che mi nascondevano tutti i loro progetti e acquisti.
Fui costretto a mettermi a studiare
sul serio, distratto però ogni 5 secondi dai dettagli nuovi che arricchivano ora
quella che era la mia camera e in cui mi ero piazzato, a detta di Les, “proprio
a caso”. Oltre alle chitarre ed alcuni cimeli musicali di mia proprietà che
aveva conservato, Allison aveva aggiunto un mobile da toilette antico in legno (sicuro
opera di mia madre e della sua mania per l’antiquariato), una riproduzione
della “Classe di Danza” di Degas impreziosita da una cornice in oro, finemente
lavorata e lasciata volutamente per terra, in piedi, addossata delicatamente ad
una parete ed invece, sulle pareti, alcune locandine di spettacoli di danza
leggendari, dai Balletti Russi di Balanchine allo Smuin Ballet di San Francisco,
a dimostrazione che la danza era parte integrante della sua prima vita. Magari
il suo sogno era quello di diventare una grande ballerina, e lo sarebbe stata
se non avesse scelto di abbandonare sua madre e la sua famiglia; ma con i se e
con i ma non si combina granché …
Così, alzandomi e distraendomi per la
cinquantesima volta nel giro dell’intera mattinata, lasciai la stanza di
Allison per andare a farmi un caffè, visto che quelli che avevo portato li avevo
ormai finiti; passai di fronte alla stanza di Caroline e non ci pensai due volte
ad entrare. Mi dava un gusto particolare sbirciare le sue creazioni quando lei
non era presente, soprattutto perché puntualmente finivo col cercare quelle che
lei scartava o nascondeva finché non fossero concluse: non per morbosa
curiosità o invadenza, ma era come entrare in un museo di work in progress. Mi
guardai un po’ intorno e, oltre ai miei ritratti, di cui oramai ne aveva
collezionati una dozzina, c’era qualche paesaggio innevato di New York, scorci
dalla sua stanza o vedute immaginarie di Central Park e Times Square, ricordo
dei giorni passati. Infine, ben nascosto tra gli altri fogli, trovai un
ritratto che mi colpì. Riconobbi subito i tratti del soggetto: era Allie,
seduta tra morbidi cuscini sul davanzale interno della sua camera, intenta ad
osservare qualcosa fuori eppure con lo sguardo perso nel vuoto, un libro aperto
sulle ginocchia.
Doveva averla spiata parecchio, doveva
averla osservata con attenzione per aver trovato in lei così tanti particolari
degni di nota: le labbra sempre leggermente dischiuse, i capelli mai in ordine
e la testa appoggiata sul freddo vetro; neanche una leggera escoriazione sul
collo le sfuggì, cicatrice della notte in cui era scappata dalle mani violente e
lerce di gente straniera e violenta. Trovai con sorpresa che nonostante lo
shopping con mia madre Allie non si era più staccata dalla mia felpa grigia,
vecchia e slavata, che usava più come camicia da notte per quanto era grande,
le sue belle gambe, bianchissime e perfette, in vista ed i suoi piedi delicati
da ballerina, contratti come se camminasse sulle punte.
Pur avendo la possibilità di averla davanti
a me in carne ed ossa ogni singolo giorno, quel disegno mi ricordò ancora una
volta perché ci avevo messo poco ad innamorarmi di lei: il suo corpo era sì da
paura, ma era al contempo un tempio perfetto per l’anima ancor più meravigliosa
che ospitava.
Neanche l’avessi fatto apposto in un
tempismo degno della peggiore telenovela sudamericana, la porta d’ingresso si
aprì ed un cicaleccio risalì le scale, rivelando mia madre ed Allison, infreddolite
nei lori cappotti e coperte in sciarpe e cappelli, piene di buste e sacchetti
da negozi di abbigliamento scarpe e accessori, gli ennesimi della settimana,
che corsero a nascondere divertite, in camera di Allison … come se non sapessi
che mi avrebbero fucilato se solo avessi sbirciato … donne …
Rivolsi un cenno del capo ad Allison, che
subito fu al mio fianco.
Mi scoccò un bacio fraterno sulla
guancia e le porsi il disegno che mia sorella le aveva dedicato. Forse non
stava bene, ma credo che per entrambe fosse necessario sapere che si volevano
bene senza nemmeno conoscersi.
Lasciando stare il comportamento di
una bimba di 10 anni, stava alla controparte cercare di mediare a questo punto.
“È molto bello” commentò Allison,
nascondendo stentatamente la commozione che saliva. Ricordavo bene la gioia
della prima volta che Caroline mi ritrasse tutto l’orgoglio che mi portai
dentro per giorni, capivo bene come potesse sentirsi: finalmente benvenuta ed
amata.
Poi ripensai a ciò che mi aveva
raccontato pochi giorni prima e compresi quale ulteriore valore potesse aver
per lei una probabile nonché del tutto possibile amicizia con mia sorella:
Emilie, la sorellina scomparsa, avrebbe avuto la sua età così ebbi un’idea.
“Credo che dovresti fare un ultimo
tentativo di parlare. Perché … perché non le racconti di Emilie?” provai a
suggerire; era rischioso, ma Caroline era abbastanza sensibile e discreta per
una storia simile e forse avrebbe trovato un’amica con cui aprirsi e
condividere i suoi altrettanto pesanti fardelli.
“Non lo so Tyler” si espresse scettica
Allison “non penso che sia una buona idea, non voglio rattristarla, ha già i
suoi problemi … né tanto meno impietosirla”
“Credimi Allie … Caroline è tutto meno
che impressionabile” la incoraggiai “ e poi si tratta solo di una prova.
Abbiamo sbagliato approccio con lei, abbiamo pensato che si stesse comportando solo
da maleducata dimenticando che ha solo 10 anni”
Probabilmente era anche un po’ gelosa
di Allison, ma la paura più grande doveva essere quella di perdere me. E come
quattro cretini nessuno di noi lo aveva capito prima, ci saremmo risparmiati un
sacco di discussioni e di richiami a porta sbattute in faccia.
Lasciai casa di mia madre, direzione
lavoro, con Allison che ancora rimuginava sul da farsi. Per strada un clacson
attirò la mia attenzione: Caroline in macchina con Les tornava a casa. Mi
avvicinai all’ingorgo e mi affacciai all’interno della vettura per salutarli.
“C’è qualcuno che vuole parlarti a
casa” dissi subito a Caroline, velocemente prima che potesse cambiare discorso”
non essere indisponente, per favore. Fallo per me”
La vidi rabbuiarsi all’istante, ma
almeno annuì e così la lascai, sperando che a cena non sarei stato costretto
più ad essere il cameriere di quella piccola permalosona.
Non so se ritenermi contento del successo
che Allison ed io ottenemmo su Caroline. Certo mi fece indubbiamente piacere
vedere come lei ed Allie si affiatarono in fretta, subito dopo essersi parlate,
quella sera stessa non si staccarono un attimo l’una dall’altra. Tuttavia nei
giorni seguenti ebbe inizio la tiritera di domande impiccione della mia
sorellina impertinente a cui non c’era modo di sottrarsi quando rimanevamo soli
in camera sua.
“State insieme?” iniziava. Alla mia
negazione stizzita allora proseguiva con: “ma ti ci metterai?” oppure “vi siete
almeno baciati?”, fino all’inaudito “ci sei andato a letto?”
Mi vergognavo a parlare con lei di
certe cose perché con lei non avevo mai parlato di ragazze prima d’ora e poi soprattutto
perché non avevo idea che a scuola fossero tanto precoci nel parlare di
educazione sessuale.
Ma la cosa davvero sconcertante era
sentirsi dire da uno scricciolo di 10 anni (10 e mezzo come teneva a precisare)
“non giocare con lei Tyler, ha sofferto molto”
Senti chi parla, avrei proprio voluto
rimbeccare!
Era proprio l’unico rimprovero che non
accettato proprio da nessuno, dopo tutte le dimostrazioni tangibili di ciò che
avevo fatto e stavo ancora facendo per lei, perché stavo facendo tutto meno che
giocare con lei.
Nessuno però sembrava accorgersene,
nessuno vedeva quanto fossi cambiato per lei. Nessuno … tranne Allison.
NOTE
FINALI
Sono tornata, finalmente. Vi sono mancata, vero? Credo però che scrivere e pubblicare sia mancato più a me.
Il
brivido del postare, l'ansia per le recensioni. Chiedo scusa a
proposito per non aver risposto a tutte, ma sappiate che leggo sempre
con molto affetto e gratitudine ogni vostro commento, sia positivo che
negativo, quando essi sono costruttivi ed educati.
Entriamo
in una fase molto particolare della storia, molto si è
assestato, ora ci sono solo dettagli da mettere a posto, che sembrano
essere insignificanti, ma che in realtà sono colonne portanti.
Immagino
che vi starete chiedendo che ne sarà dei nostri due eroi. Non
posso dirvi niente ... se non al limite consigliarvi un film, "500
giorni insieme" che vi potrebbe chiarire un po' le idee.
Non
vi do un appuntamento perché non so quando potrò scrivere
e pubblicare e poi amo vedervi sorprese dalla pubblicazione.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** No doubt in my mind (where you belong) ***
when you crash in the clouds
Capitolo 16
No doubt in my mind (where you belong)
soundtrack
I giorni sul
calendario sfilavano velocemente tra i turni in libreria, sempre piena
per la corsa ai regali di Natale, e le giornate a casa di mia madre.
Per quanto Allison tentasse di farmi studiare - sembrava essere sempre
la più grande e responsabile tra i due - finivamo sempre
per metterci a fare altro. Una volta era la musica, un'altra un film,
trovavo sempre la scusa per stare lontano dai libri e sempre più
spesso vicino a lei. D'altronde era inevitabile, con lei si stava
troppo
bene, irradiava luce e calore naturalmente, nonostante le giornate buie
e fredde che ci stavano accompagnando verso le feste.
Mi ero messo in testa l'idea di farla divertire e farle recuperare tutte le
uscite che si era persa negli anni passati, fossero esse a base di
amicizia o qualcosa di più. Non potevo portarla in nessun club
visto che non era maggiorenne e mia madre si era premunita di
confiscarle i documenti falsi, per evitare che finisse in altri
guai. Inoltre gli scagnozzi del suo boss non si erano fatti vivi ma
portarla in discoteca poteva esporla ad una certa visibilità
restando il fatto che in quel business era abbastanza conosciuta ed i
locali notturni erano di sicuro il primo posto dove l'avrebbero cercata.
Al di là di questa insignificante impasse, cenette e serate di
cinema non ce li levava nessuno. Avevamo svaligiato la videoteca
più grande di New York ed il cinese sotto casa mia, insieme ai
vari fast food della zona, erano tornati ad essere i fornitori
ufficiali delle mie cene, a parte le rare occasioni in cui Allison
riusciva ad averla vinta e la lasciavo mettersi ai fornelli. Per quanto
se la cavasse molto bene in cucina, non mi andava giù che si
sentisse in obbligo di fare alcunché, come se mi dovesse
qualcosa.
Tuttavia a mezzanotte, massimo l'una, mia madre aveva preteso che la
riaccompagnassi a casa, come la più moderna delle Cenerentole e,
quando questo non accadeva, il mio telefono si riempiva di chiamate a
profusione. Credevo che si fidasse di me, lo aveva sempre fatto;
incominciai ad avere il dubbio che non si fidasse di Allison: magari le
avrebbe anche fatto piacere se tra noi ci fosse stato qualcosa, ma
aveva il timore tutto materno che avremmo bruciato le tappe. In questo
riconoscevo le sue ansie di quando io e Michael uscivamo per i primi
appuntamenti con le ragazze, quando fu lei stessa a consegnarci un
preservativo perché, a suo dire, non ci teneva a diventare nonna
a 40 anni. Non si fidava perché lei stessa si era scottata e non
avrebbe mai permesso che accadesse lo stesso ai suoi figli, naturali o
d'adozione: perché era questo, in fondo, Allison.
In tutto questo il mio coinquilino, Aidan, se ne stava beatamente fuori dai coglioni.
Non mi fu possibile però, purtroppo, tenergli tappata la bocca
troppo a lungo. A seguito dell'ennesima serata trascorsa insieme ad
Allison, dopo che mia madre era venuta di persona a prenderla (la
responsabilità che sentiva su di lei era a volte eccessiva),
trovai Aidan sulla soglia di camera mia, braccia conserte, a scrutarmi
con fare circospetto. Non osai nemmeno controllare, ma immaginavo che
stesse anche battendo il piede a terra.
"Ora mi spieghi una volta per tutte che cazzo state combinando tu e Miss Femme Fatale ..." esordì.
Come antifona era certamente delle peggiori.
"Senti Aidan, non incominciare" feci per scansarlo, ma mi si
piantò davanti, imperterrito, e, nonostante lo sovrastassi di 10
abbondanti centimetri, non riuscii a lasciarmelo alle spalle. "Eh no
Tyler, se pensi di passarla liscia anche stavolta ti sbagli di grosso"
minacciò, senza il tono scherzoso che lo contraddistingueva
solitamente e che non avrebbe intimidito generalemente nemmeno un
bambino. Ma possibile che nessuno sa farsi i cazzi suoi? Non dico
sempre ... ma ogni tanto non guasterebbe.
"Va bene la privacy e tutto il resto" sospirò "mi
interessa fino ad un certo punto con chi ti vedi e lo sai, ma ne
converrai che con quella ragazza le cose sono un tantino diverse. E
siccome ho imparato a voler bene a tutti e due, non voglio che finiate
nella merda perché avete giocato troppo col fuoco"
Fu a quella parola ... giocare ... che non ci vidi più e
scattai: "giocare...giocare...ma è possibile che non sappiate
dire altro? Tu, mia madre, persino mia sorella di 10 anni! Siamo due
persone adulte e vaccinate, Allison è molto più matura di
molte persone di mezza età che conosco, e sappiamo quello che
facciamo"
Lo portai nel salone e lo feci sedere sul divano per spiegargli come
stavano le cose tralasciando però i detagli più personali
che riguardavano la storia di Allison ... e in parte anche me.
Naturalmente, dopo un momento di serietà assoluta, non sarebbe stato Aidan se non avesse iniziato a sparare cazzate.
"Ma tu ..." insinuò "cioè voi..."
"Cosa?" domandai, pur sapendo a cosa alludesse. Iniziò uina
serie di ceni del capo più o meno compensibili e assertori, che
avrebbero avuto, secondo lui, lo scopo di farmi capire meglio a cosa si
stesse riferendo. Non capivo, visto che eravamo soli e non in luogo
pubblico, perché non si decidesse a fare nomi e cognomi, e a
dire le cose come stavano. Continuai a fare l'indifferente,
finché non sbottò ... lui: "Oooh, insomma, gliel'hai data una
bottarella si o no?"
Mi chiesi se fosse consapevole della volgarità che emanava o fosse un difetto di fabbrica ormai irrecuperabile.
"Allora?" incalzò ... e lui era quello che non voleva sapere niente di me.... belle ultime parole famose....
Con lui non mi ero mai fatto scrupoli a parlare delle mie conquiste,
tutte quelle che mi ero portato a letto finivano più o meno
anche nel suo letto la notte dopo, ma da quando si trattava di Allison
su moltissime cose avevo cambiato prospettiva. C'era soprattutto,
costantemente, della ritrosia ed un certo pudore a parlarne. Era come
se mi avesse restituito le mie priorità e la mia scala di
valori e di moralità.
Tentennai per più di un po', finché il maschio di scimmia
Bonobo che era in me non prese l'iniziativa senza conscultarmi e fece le
scarpe al mio Homo Sapiens.
D'altro canto Aidan, che era un maestro in questo genere di
conversazini diceva sempre che per l'uomo è naturale parlare
della propra vita sessuale con gli altri amici, si tratta secondo lui,
di un mero retaggio antropologico: UOMO=PISELLO=CHIODO FISSO PER IL
SESSO.
"Due volte per la verità, quando tu non
c'eri" Alla fine confessai un po' turbato ma maggiormente divertito.
"Vedo che non hai perso tempo ...bene bene! Separate o nella stessa
sera? No perché amico, se è la stessa sera vale come una
sola"
"E scusa chi l'ha detta questa cosa...due goal segnati nella stessa
partita non fanno per uno..." lo corressi e mi stupii di me stesso per
la grande genialata di risposta che avevo sfoderato.
"Ma
due round fanno parte di uno stesso match bello mio ... è
così che funziona. Ma in ogni caso sono contento per te" commentò
soddisfatto Aidan, dandomi una pacca sulla spalla
"Vuol dire che tu funzioni e lei ha apprezzato"
"Altroché ..." commentai, senza neanche curarmi di
abbassare il tono della voce "ehi! ma che cazzo mi fai dire,
coglione?!" Aidan iniziò a ridere perché per quanto
quelle cose che gli avevo confidato fossero vere, era riuscito a
farmi entrare nella sua trappola ed ormai era troppo tardi.
"Dai dai...ora devi dirmi tutto! Ha lavorato in quel cazzo di posto
...come si chiamava ... il Don Hill....non può non essere una
forza a letto. Dimmi, l'hai fatta lavorare un po'?"
"Che cosa stai dicendo?" chiesi, disgustato, da ciò che aveva appena detto. Meno male che aveva detto di volerle bene ...
"Lavoretto di mano?" "No!" "Di bocca?" "No!"
"Ci sono...le hai fatto TU un lavoretto di lingua.." affermò, come se avesse fatto la scoperta del secolo.
Cercai di mantenere la calma e un certo grado di ironia per quanto
aveva detto, perché altrimenti gli avrei spaccato la faccia.
Oltre che un minimo
autorità, naturalmente.
"Siamo in piena recessione, la disoccupazione è alle stelle ... niente lavoretti!"
Girai i tacchi e me ne andrai a chiudermi nella mia camera. "Guarda che
ti ho visto sai...ho visto che hai abbassato lo sguardo, quando ho
detto la parola lingua ... lasciatelo dire, amico mio, sei un signore!"
E così dicendo si allontanò, continuando a blaterare per
cazzi suoi che era quello il motivo del mio successo con le donne, che
lui non ci sarebbe mai riuscito ed altre stronzate simili.
In ogni caso, aver troncato lì quella conversazione si era
rivelato la classica vittoria di Pirro. Infatti, nonappena poteva
cogliere l'occasione propizia, si rifaceva sotto con le sue domande
inopportune e anche piuttosto sconce.
"Ascoltami bene Aidan" sbottai all'ennesimo attacco, la mattina della antivigilia di Natale "e ascoltami bene
perché parlerò una volta sola: non tollererò
più che ficchi il naso in faccende TANTO private. E pretendo
rispetto per Allison ... ha molta più dignità di tutte
quelle battone che frequentano l'università e che dopo un
bicchiere offerto sono già in bagno a farsi scopare"
Ci misi davvero poco a pentirmi per essere stato tanto rude nei suoi
confronti, quasi non provassi per lui un affetto molto vicino a quello
che provavo per mio fratello. Ma Allie era al di sopra di
tutti, anche al di sopra di Michael.
Ma lui, incredibilmente, sembrò non curarsi della mia sfuriata;
al contrario, si dimostrò incuriosito dal mio atteggiamento
severo ed il suo sguardo indagatore iniziò a farmi una bella
radiografia come solo lui era in grado di fare, con quel sopracciglio
destro alzato più dell'altro e gli occhi allucinati. In
più, sotto quei baffetti appena accennati e il pizzetto a
capretta che si ostinava a portare, non riusciva proprio a nascondere
un ghigno furbo di chi la sa lunga.
"Ti saresti mica innamorato davvero Tyler?" chiese, incredulo delle sue
stesse parole. Mi aveva sempre detto che ero uno dal cuore facile, che
si faceva prendere subito dal batticuore e stronzate simili, ma il tono
delle sua domanda era persino diverso stavolta: anche lui aveva capito
che stavolta ero andato ben oltre le menate sentimental-adolescenziali
in ero solito buttarmi. Tuttavia non sapevo come rispondere; temevo,
infatti, l'arma a doppio taglio che avrei forgiato con le mie stesse
mani, rispondendo. "Tyler" continuò "sai che di me puoi fidarti.
Il gioco è bello quando dura poco ... io di solito lo faccio
durare un po' di più, lo ammetto, ma ora sarò serio"
Potevo stare davvero al sicuro con lui? Sì, in più di un'occasione me ne aveva dato prova.
"Sì Aidan, la amo" confessai tutto d'un fiato "ma le cose sono complicate ..."
L'espressione che aveva assunto cambiò, specchio della mia,
nonappena il mio tono di voce divenne più grave, serio ed
impassibile. Non era più il tempo degli scherzi.
"Io credo in fondo che niente sia complicati. E' il genere femminile ad
essere il vero problema" dichiarò, orgoglioso della sua
rivelazione "mi rendo conto che Allison è un po' l'eccezione che
conferma la regola, ma credimi ... nascoste da qualche parte ha un paio
di ovaie pronte ad esplodere in ogni momento!"
E addio momento serio, ma come potevo sperare del resto che con Aidan
sarebbe durato più di cinque minuti. Così, per
riguadagnare la sua attenzione e un po' di concentrazione da parte mia,
passai al vaglio, scandaglaindole con metodica precisione, le due
settimane trascorse da quando io ed Allison ci eravamo conosciuti, per
così dire, più intimamente; con l'aiuto di Aidan tirai
fuori tutti i articolari, anche quelli che all'apparenza potevano
sembrare insignificanti e che, a guardarli bene, diventavano dei grossi
cartelloni pubblicitari con tanto di scritta luminosa. Passeggiate mano
nella mano per Central Park, sigarette rubate direttamente dalla mia
bocca, le mie spalle usate come cuscini mentre si guardava un film e,
dulcis in fundo, le lunghe battaglie a colpi di solletico, perfette per
far aderire i nostri corpi in maniera quasi scandalosa, soprattutto in
virtù del fatto che la signorina mal sopportava i suoi vestiti e
puntualmente finiva col rimanere in coulotte e maglietta.
"Senti ma ..." si insinuò Aidan nel bel mezzo del mio riepilogo " in queste due settimane non avete più ..."
Scossi ampiamente la testa.
"Niente di niente?" proseguì il suo interrogatorio "non dico un home run, ma almeno arrivare in 2°/3° base ...?"
"Quando dico niente è niente, Aidan, mettitelo bene in testa!"
"Va bene, va bene!" si arrese, sventolandomi davanti agli occhi un Cleenex bianco in segno di resa.
"Ma lei sa cosa provi?" soggiunse, facendosi pensieroso "Ti sei dichiarato insomma?"
"sì..." tentennai, ricordando non solo la mia dichiarazione, ma
anche il bacio ed il morso che mi ero beccato in meno di un minuto, con
la faccia gonfia ed insanguinata ed il freddo che spezzava le ossa che
non erano state già fracassate dai gorilla di quella bettola.
"Ma?" proseguì lui, capendo subito che non c'era ancora un lieto fine in quella storia.
"Ma lei ha detto che non può darmi quello che voglio,
perché non è quello che vuole lei" spiegai. "Però
ha detto anche che se ci va di stare insieme ... in quel senso ...
possiamo farlo e al mattino non ci sarebbe nessuna conseguenza"
"Cioè ..." intervenne Aidan, sconvolto " come si dice, chi
ha il pane non ha i denti, bello mio. Hai la donna perfetta davanti a
te, cazzo! Non vuole una relazione seria ma non ha problemi a venire a
letto con te. Se solo tu ...."
"...se solo non fossei innamorato di lei, già"
"Veramente stavo per dire ... se solo tu non fossi così
coglione. Cioè, veramente, come si fa a dire di no ad una
proposta simile!!!"
Evidentemente abbiamo concetti diversi di moralità, caro Aidan.
Non potrei concepire sesso senza amore e, per quanto quella notte fosse
stata la migliore della mia vita, quanto sarebbe stata straordinaria se
lei avesse provato per me quell'amore che io avevo per lei.
"E quindi cosa sei per lei!" mi domandò.
"Non me lo chiedere ..." risposi, onestamente impacciato e desolato.
Pensai però che forse sarebbe stato meglio dimostrarsi forti;
non tanto perché non avrebbe compreso il mio stato d'animo, cosa
di cui peraltro ero convinto, o perché sarei stato compatito,
cosa che detestavo; ma perché, in fin dei conti,
masochisticamente stavo bene nella mia bolla personale, immerso nella
beata illusione di un rapporto perfetto ma che a conti fatti non
esisteva nemmeno nei miei sogni.
"Ma poi scusa ..." mi ripresi, con fare sostenuto "sappiamo benissimo
come stanno le cose tra noi, siamo due persone mature ... ci dobbiamo
per forza omologare? è roba da ragazzini del liceo ... cicci
cicci, pucci pucci ... ma mi ci vedi così? No, decisamente non
fanno per me!"
"Parli come un nerd che fa finta di essere disgustato dall'amore
perché in realtà non se l'è mai filato nessuno"
"Ok" annui, sarcasticamente, come se con la sua accusa avesse colto nel
segno, preparandomi invece a sferrare l'attacco che lo avrebbe ucciso
moralmente "... innanzi tutto, l'ultima ragazza che ha accettato di
stare insieme a te - e non parlo di sesso Aidan, fa attenzione - era
Sarah Cohen, al terzo anno di liceo, ed è durata una settimana,
ora più ora meno"
Vidi che tentava di rispondere ed obiettare, ma gli tappai la bocca,
pronto per la stoccata finale "e tuo fratello Bill, l'unico esemplare
maschio della tua numerosa famiglia in età da relazioni
sentimentali è fidanzato con la stessa ragazza da quando ....
tipo dal 2000?"
"1999" rispose, freddi ed impassibile, prendendo il sandwich che si
stava preparando mentre parlavamo e sparendo dalla mia vista,
sconsolato.
"Millenovecentonovantanove" ripetei, divertito e soddisfatto per la
rivincita."Non prenderla come un'offesa" gli dissi, passando davanti al
suo angolo-letto, dove fingeva di ascoltare musica da un iPod
evidentemente spento "ma non puoi certo definirti un guru delle
relazioni moderne"
"Tu glielo vuoi chiedere" mi disse Caroline, nel bel mezzo
della conversazione che stavamo avendo, a proposito del progetto
di portare Allison a visitare i musei di New York durante le vacanze di
Natale.
"Veramente gliel'ho già chiesto, ha detto che viene" risposi,
anche un po' seccato dal fatto che fossimo ancora a quel punto.
"Tyler!" mi richiamò lei, con insistenza. Ok, lo ammetto,
effettivamente mi ero un po' distratto. Eravamo a cena da mia madre per
la vigilia di Natale e la famiglia di Leslie si era unita a noi per i
festeggiamenti. C'era persino la zia Sarah, che la mamma aveva
appioppato a Les pur di togliersi di torno lei ed il suo profumo allo
Cherry. Mancavano solo due persone all'appello: mio padre, che per
queito vivere mia madre invitata e lui per altrettanto quieto vivere
declinava ogni anno l'invito, ed Allison, che a quanto ne sapevo, si
era barricata in camera sua dalle 5 e mezza di quel pomeriggio e alle 9
non si era ancora degnata di scendere. La mia mente vagava al pensiero
di quanto bella sarebbe stata e valutava in una scala da 1 a 1 milione
quanto sarebbe stata grave la mia sincope alla sua vista.
"Che c'è?" chiesi a mia sorella, riprendendo le redini della mia
attenzione e alzandomi per trovare altro da fare oltre che pensare a
lei. Tirai fuori il pacchetto che avevo nella mia giacca e,
stringendolo forte, andai a metterlo insieme agli altri regali sotto
l'albero. Lo aveva fatto lei quest'anno insieme a mia sorella,
innescando una battaglia sulle decorazioni da usare che la videro
uscire vincitrice dopo almeno 8 anni di supremazia da parte della
piccola di casa.
"Abbiamo cambiato discorso almeno 5 minuti fa Tyler...stai dormendo in piedi per caso?"
No, sto pensando all'amica tua veramente,
avrei tanto voluto rispondere. Ne convenni che non era il caso di
aggiungere benzina al fuoco delle sue teorie su una mia relazione
segreta con Allison di cui lei era una fervente sostenitrice.
"Stavamo parlando di Allison e del fatto che non mi dice mai niente su di te..."
"Ma cosa dovrebbe dirti di me? Sei mia sorella, dovresti conoscermi meglio di lei ..."
"Ma parlo di voi, stupido! A volte sei proprio ritardato ..."
sospirò, come se con me avesse perso ogni speranza. Ho perso
ogni speranza con me stesso da solo, cara sorella.
"Ma non c'è niente da dire su die noi, te l'ho già detto:
è un'amica. Come mai Allison non ti ha ancora tirato una bella
cuscinata? Scommetto che la esasperi continuamente..."
"Sì sì, come ti pare" commentò, sorvolando
sull'accusa che le avevo rivolto "Ma lo vedo come la guardi e come lei
guarda te, le facce sceme che fate quando te la nomino e quando ti
nomino ... o come diventate rossi"
"Scusami" la interruppi " ma siamo sicuri che hai 10 anni?"
Lei sorrise divertita, ma io non ero ami stato così serio.
"Comunque, secondo me me tu glielo vuoi chiedere..." mi ripetè.
Ma ancora non avevo capito. "Ma chiederle che cosa?" Non amavo
nasconderle niente, ma non sapevo come avrebbe reagito Allison e
così preferivo mantenere il gicoo, anche se iniziava a darmi
noia.
"Di mettervi insieme, ovvio. Non credo che a lei dispiacerebbe,
dovresti vedere com'è brava ad indagare sul tuo conto! Io e
mamma ci facciamo sempre un sacco di risate quando state al
telefono ..."
"E quindi secondo te a lei piaccio?" le domandai a fatica, mordendomi
la lingua per aver parlato più del dovuto, per aver fatto
intendere che da parte mia c'era un certo interesse.
"Secondo me sì ... e non tu preoccupare" aggiunse strizzandomi l'occhio "con me sei in una botte di ferro!"
Mi chiesi se per caso non fosse in realtà sorella di Aidan e non
mia, per via della lingua lunga; io la lingua pungente e la battuta
pronta non sapevo nemmeno dove avessero casa, di solito.
Soprattutto non ero sicuro fi poterle affidare i miei segreti,
ipotizzando che quelle rivelazioni venissero da Allison stessa, che si
era magari confidata, fidandosi ciecamente di una bambina di 10 anni
che sembrava un angelo ... ma non lo era per niente.
"Però io farei in fretta se fossi in te" proseguì la mia
piccola saggia "non vorrei che troppo ad aspettare si stufi e finisca
per scappare con il primo Damon Salvatore che incontra per la strada"
"Il primo chi? Chi è questo Damon?" domandai un attimo perso e anche leggermente nel panico.
"Un bonazzo qualsiasi" sbuffò, come se quel Damon fosse
Gesù in persona ed io non avevo idea di chi fosse "uno con gli
addominali scolpiti e la faccia da schiaffi"
Sorvolando sul linguaggio usato da Caroline, non c'erano dubbi su chi
le avesse insegnato quel nuovo vocabolario, qualcosa mi fece capire che
si trattava di qualche celebrità, qualche attoruncolo a cui
bastava togliersi la camicia per alzare gli incidi d'ascolto. Qualcuno
che, evidentemente, condivideva le attenzioni di mia sorella e di
Allison.
"E questo Damon piace anche ad Allison?" mi accertai, preoccupato.
"Tyler, Damon Salvatore piace a tutte!"
Ero ufficialmente nel panico. In una scala da 1 a 10, 100 per mia
sorella, che a 10 anni aveva il corpo di una bambina e le turbe
ormonali di una 40enne. Avrei dovuto guardare più spesso la TV
con lei...
e 1000 per Allison, che ancora una volta non avevo capito e a quanto
pareva non stava aspettando altro che una mia mossa, lei che di
sentimenti non ne sapeva niente. Era un'ovvietà che puntualmente
avevo omesso. Datemi un muro per fracassarmi la testa, vi prego, almeno
avrei una scusa per giustificare tutto il suo vuoto.
Mia madre venne a chiamare mia sorella. Les aveva esaurito tutti gli
argomenti di conversazione con mia zia, e ora stava iniziando ad
appiccicarsi a lei. "Caroline fai vedere alla zia i tuoi ultimi lavori,
da brava, non lasciare che la mamma sia accusata di omicidio natalizio"
Ridemmo entrambi. "Vengo con te" la incoraggiai "avviandomi verso le
scale "così vado a vedere se per caso Allison nonsia stata
inghiottita dal gabinetto"
Ma non appena alzai lo sguardo, la vidi scendere le scale, bella come
non l'avevo mai vista. Splendida e pura come le statuette di porcellana
del '700, la pelle candida come il latte ed il calore che, leggero
e timido, si diffondeva sulle sue guance, aveva quasi paura di
rovinare quel pallore delicato. Una principessa, una fata, una dea.
Eppure niente era di troppo, niente era pesante o fuori luogo. C'era
rifore ed equilibrio nella scelta del suo vestiario, un semplice ed
alegande abito a palloncino, la cui fantasia a scacchi mi diceva che
c'era il tocco di mia madre in quella scelta, fissato con Burberry e le
sue linee. Niente tacchi per lei quella sera: da quando aveva potuto
smettere di indossare i trampoli del suo mestiere, ai piedi aveva solo
ballerine o scapette da tennis, alla riconquista di una adolescenza che
ancora faceva parte di lei, seppure in cassetti della memoria che
faceva ancora fatica ad aprire.
"Sei bellissima" non potei far altro che constatare e lei arrossi a
quel complimento. Certo si trattava di una bellezza mai convenzionale,
talvolta anche aggressiva, ma non c'erano dubbi a riguardo.
"Ce ne hai messo di tempo ..." commentò Caroline, che saliva le
scale tenendo per mao una già barcollante zia Sarah, che non si
curò di Allison neanche per un attimo. Speravo ardentemente che
facendole mangiare qualcosa, gli effetti dell'alcool su di lei si
sarebbero attenuati prima di cena.
Allison si limitò ad annuire, un po' imbarazzata.
"Ne è valsa la pena però ..." la incoraggiai e notai le
sue guance imporporarsi di nuovo, oltre a quel sorriso accennato a
testa bassa, che adoravo.
"Anche tu sei bellissimo stasera" disse, e la mia risposta si
limitò ad un sorriso timido e ad una mano tra i capelli. Avrei
potuto fare di meglio, ringraziarla, ma era il meglio che mi veniva con
Allison davanti. Come hai fatto a farmi diventare così, piccola
gattina impertinente? Quale maga hai corrotto per farmi una fattura
così potente?
Che poi non capivo cosa potesse rendermi così bello come lei
paventava: giacca e cravatta neri, camicia bianca ... niente di
così straordinario."Comunque" mi ripresi e cambiai argomento
"quella che ci ha sorpassati poco fa insieme a Caroline era zia Sarah,
l'alcolista di famiglia"
"Non avete paura a lasciarla sola con Caroline?" domandò in apprensione.
"Nooo....al limite si può accasciare sul letto di Caroline priva di sensi, ma credimi non farebbe male ad una mosca":
Nonostante l'avessi rassicurata, mentre scendevamo le scale Allison
continuò a voltarsi indietro per controllare che al piano di
sopra fosse tutto tranquillo. Voleva bene a Caroline, almeno quanto
gliene volevo io.
Le presentai il resto degli ospiti e nessuno obiettò o ebbe
qualcosa da ridire su quella ragazza sconosciuta che viveva con Leslie
e Diane. L'avevamo presentata come una mia amica proveniente
dall'Indiana. Agli altri stava raggiungere le proprie conclusioni. Che
avessero pensaro male o bene non mi importava, dal momento che non ci
sarebbero state altre occasioni per incontrarsi.
Allison dal canto suo era nervosa, e muoversi in mezzo a degli
sconosciuti, recitare la parte della ragazza educata e per bene che
aveva dimenticato ad Indianapolis, la rendevano impacciata. Era una
brava ragazza, ma nonostante fosse cambiata molto, aveva ancora poca
dimestichezza con il bon ton, soprattutto quando alzava le sue difese
in situazioni di impaccio.
Passata la cena indenne, con la zia che ogni tanto ne sparava una delle
sue, ma ormai nessuno più si scandalizzava conoscendo il
soggetto, tutti si spostarono in salotto per il dopo cena, a base di
pettegolezzi o discussioni di politica ed economia che nella notte di
Natale avrei evitato volentieri. Allison inoltre, pur non mostrandolo,
aveva una voglia matta di allontanarsi da tutta quella gente.
"Vuoi andare sopra?" le sussurrai ad un orecchio, mentre l'aiutavo ad
alzarsi da tavola. "Sì ti prego" rispose, quasi implorando. Era
il momento giusto per restare da soli e parlare. Tuttavia,
poiché avevo notato gli sguardi furtivi di mia madre durante
tutta la serata, avevo bisogno di crearci un alibi. "Caroline!" la
chiamai, sperando che ci avrebbe coperti a sufficienza "vuoi venire di
sopra con noi, andiamo a vedere il DVD dello Schiaccianoci..."
Caroline corse immediatamente via dal salotto, correndo per le scale
senza dire una parola e con un sorriso innocente che ne sapeva una
più del diavolo. Mentre noi, calmi, avevamo appena messo piede
sul corridoio del secondo piano, dove c'erano la sua stanza e quella di
Allison, la vedemmo correre come un razzo fuori dalla stanza di Allison
con quella che probabilmente era la custodia di un DVD e corse a
chiudersi in camera, non prima di averci fatto l'occhiolino ed
averci augurato la buonanotte. Che peste!
Entrammo allora in camera di Allison e io mi allungai sul letto a peso
morto, distrutto dal tour de force culinario che avevamo portato a
termine poco prima. Allison mise un po' di musica allo stereo e venne a
stendersi accanto a me, poggiando la sua testa sul mio torace. Era il
momento. Anche la canzone
che c'era in sottofondo sembrava essere fatta apposta per l'occasione.
Il mio cuore iniziò ad accelerare i suoi battiti e sentivo la
gola riarsa di botto.
"Che c'è? Sei nervoso?" chiese Allison. Mi chiesi se per caso
non avesse letto la mia mente, ma molto semplicemente accostandosi al
mio torace aveva solo sentito il mio cuore battere forte. Presi un bel
respiro e sputai il rospo: "Cosa stiamo facendo?" domandai. Lei,
ovviamente non capì. "Cioè ... so che ne abbiamo
già parlato ma ... vorrei capire ... cosa c'è tra noi
due?"
"Non so, non ne ho idea" rispose lei senza riflettere neanche per un
istante "ma che importanza ha?". Forse per lei non aveva importanza, ma
per i miei nervi era un'informazione vitale. "Voglio dire" riprese"io
sto bene con te, tu stai bene con me?"
"Sì" risposi, senza ombra di dubbio sì. E l'omino del mio
cervello saltava di gioia all'idea che anche lei stesse bene con me.
"Perfetto" sentenziò lei, pensando di poter chiudere lì
il discorso. E per un attimo lo pensai anch'io: le sue labbra aperte in
un sorriso, i suoi occhi vivaci nello scrutarmi, le sue gambe che, per
girarsi e rivolgersi a me, si erano intrecciate con le mie, e le mani
che non la smettevano di giocare con le mie, erano per me la peggiore
distrazione che potesse capitarmi.
Ma mi imposi - e lo imposi anche al mio fratellino con una certa fatica
- di riprendere il controllo e un certo contegno così proseguii.
Non avevo certo finito io.
"Non siamo obbligati a metterci un'eticherra. Lo capisco, lo accetto."
Non lo capivo e non lo accettavo, ma se era il prezzo da pagare lo
avrei fatto pur di averla per me. "ma ho bisogno di sapere che ... come
posso essere sicuro che domani mattina non avrai cambiato idea..."
Vidi la sua espressione cambiare, man mano che scandivo con attenzione
le mie parole. La vidi farsi seria, staccarsi da me, distogliere lo
sguardo. La vidi tirarsi su e pensare ed io la seguii a ruota,
mettendomi a sedere accanto a lei.
"Senti" iniziò "non posso darti ciò che vuoi ...
perché non ho la minima idea di cosa sia." In tutti i suoi
difetti, la sincerità era il migliore. Feriva, ma almeno apriva
gli occhi. "Guardo le persone attorno a me e non ci capisco niente ...
cosa provano marito e moglie tra loro? E un fratello e una
sorella? Due ragazzi che al parco si baciano su una panchina? Due
amici? Quanti tipi di amore ci sono e come si distinguono ... io non ne
ho la più pallida idea."
Mio Dio. Quella testolina era ancora tanto incasinata. Non dava a
vederlo, ma c'era una bella confusione. E quanto ancora se lo sarebbe
tenuto dentro se non le avessi parlato?!
"Quello che non posso dare a te, Tyler, non posso darlo né a me
stessa né a nessun altro" mi disse. "Ma una promessa posso
fartela" aggiunse "non ci sarà mai nessun altro a cui
darò il permesso di amarmi"
Persi un paio di battiti, come minimo. Era come una confessione d'amore, forse anche meglio.
"Perché?" domandai, tentando di trattenere le lacrime.
"Esiste
davvero l'amore o è solo una montatura che facciamo finta ci
vada bene per non rimanere soli? Non lo so, ma sento che quello che tu
provi per me è sincero, onesto. Ho bisogno di un amore
così"
Sai
che ti amo, amore mio. L'hai capito e lo vuoi. Nel tuo cuore c'è
confusione, ma se me lo permetterai ti aiuterò a capire meglio
come va il mondo. Non c'è solo il marcio...
Presi la sua mano e la
baciai, piano. Poi, con entrambe le mani, mi appropria del suo volto,
baciandone ogni angolo, lasciando per ultime quelle labbra che sapevano
dire le parole più più profonde, che avevano colpito
diritte al mio cuore.
Mi presi tutto il tempo
del mondo per venerare quella labbra, con una delicatezza che forse
neanche un artista mette davanti alle sue opere. Ed il tempo
sembrò regalarci se stesso, fermandosi, concedendoci la lentezza
necessaria per approfondire e apprezzare ogni gesto, ogni tocco, ogni
flebile carezza.
Mi alzai ed interruppi
quei baci controvoglia. Dovevo chiudere la porta a chiave se non
volevamo essere interrotti. Spensi anche la luce; neanche un passo al
buio e mi ritrovai Allison addosso, che aveva arpionato le braccia al
mio collo, e le sue mani scorrevano morbide tra i miei capelli. Sentivo
le sue labbra sorridenti sulle mie e entrambi ci lasciammo andare a
delle risatine, quasi sciocche, quando veramente a fatica ci lasciammo
cadere per terra, perché era troppo buio per raggiungere il
letto. Ma quando la vista sembrò abituarsi, ritrovai i suoi
occhi e lei ritrovò i miei, entrambi luccicanti di emozione. Ci
stavamo ritrovando ancora e forse nessuno dei due se lo aspettava.
Dal salone, sebbene in lontananza, si percepiva il tintinnare di cristalli ed un vociare festoso.
"Buon Natale" mi disse,
regalandomi l'ennesimo bacio. Qualcosa mi diceva che quella notte non
sarei tornato a casa a dormire. Qualcosa mi diceva che quella notte non
avrei dormito. Punto.
NOTE FINALI
Chiedo
venia per il mio immane ritardo. Ma come ho già spiegato sul
gruppo di FB, il primo finale non mi piaceva per niente.
Spero che questo vada meglio. Qualcosa mi dice che è così.
Le cose sono un po'
incasinata, ma Tyler ama troppo Allison per tenersi strette le sue
ragioni e lascia vincere Allison pur di non perderla. Chissà
dove li porterà tutto questo.
Per ora vi lascio questo
capitolo e credo che prima di un mese non ci risentiremo. Spero inoltre
di potervi portare la prossima volta anche una piccola sopresa... non
vi dico nulla però
Fatevi sentire numerosi
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** Gift ***
When you crash in the clouds - capitolo 17
Capitolo 17
Gift
soundtrack
I am bleeding joy, still peaceful,
I am waiting for patience
I live something beautiful, just thinking not too fast
Riaprii gli occhi
lentamente, protetto da una bolla di calore profumato che mi avvolgeva.
Sapeva di latte di mandorle, sapeva di … Allison. Ci misi poco a
ricollegare tutta la faccenda, dove mi trovassi, ma soprattutto con chi
avevo passato la notte. Quando all’improvviso un leggero fruscio
del lenzuolo mi annunciò che la ragazza che dormiva al mio
fianco si stava probabilmente svegliando. Mi rigirai nel letto alla mia
sinistra e fu solo allora che mi accorsi che era rimasta ancorata a me,
le braccia come due arpioni ai miei fianchi ed il viso schiacciato
contro la mia schiena. Non si era ancora svegliata, così mi
mossi lentamente, per lasciarla sognare ancora un po’ e rimasi
allungato prono, ricambiando il suo abbraccio. Avevo sperimentato che
per fortuna non aveva un sonno leggero, al mattino era sempre
un’impresa svegliarla, ma quando dormiva continuava ad essere
bella come da sveglia, forse anche di più. I suoi tratti erano
completamente rilassati, i capelli completamente sconvolti, ma ne
guadagnava in dolcezza. Avrei volentieri preso quelle labbra per
mangiarmele di baci …
Era così piccola
sotto di me, che avevo la costante paura di farle male. Ma era
stupefacente il modo in cui riuscivamo a trovarci, qualcosa che andava
ben oltre il sesso, che pure era straordinario. Quello era amore, con
la A maiuscola, in grassetto e sottolineata. Non c’era la corsa
al piacere sfrenato, la volontà di appagare i propri bisogni
meramente fisici aveva ceduto il passo ad un ringraziamento reciproco,
per tutto quello che ci eravamo donati reciprocamente, l’aiuto,
il sostegno, l’incoraggiamento, e tutto quello che ancora avevamo
da offrirci e far diventare patrimonio comune. Niente di materiale, ma
con molto più valore di ogni ricchezza.
Mentre restavo a bearmi
di lei e del suo respiro profondo e placido, del suo profumo che a
tratti sapeva anche di me, mentre godevo ancora di quei piccoli morsi
di una mattina di Natale diversa dalle altre la sentii muoversi,
spostandosi, ancora dormiente, sul mio torace, e stringermi ancora
più forte. Venne ad accucciarsi al mio collo, come faceva ogni
volta che voleva delle coccole da me. Eravamo ancora nudi,
perché non c’era stata né la necessità,
né francamente la voglia, di rivestirsi: sentivo così
ogni centimetro della sua pelle muoversi lungo la mia, riuscivo a
percepire ogni cambiamento di posizione. Non riuscivo però
ancora a decifrare se stesse dormendo o se, fingendo ancora di dormire,
volesse accaparrarsi qualche coccola extra ed essere contemporaneamente
lasciata in pace ancora per un po’. Valla a capire la mia micia
volubile e imprevedibile.
Mi sentivo in pace, pur
non essendo quella una situazione tranquilla. Era come se il
compromesso a cui mi ero dovuto piegare non fosse il peso che avevo
temuto, ma piuttosto un sollievo per le mie paturnie e le mie
inquietudini. Temevo che quel comportamento sarebbe potuto diventare
un’abitudine, ma al contempo dentro di me lo speravo. Un
conflitto di interessi e di sentimenti mi sbranava già da un
po’, ma quella notte era stato l’ennesimo colpo di grazia
per le mie speranze di poter far andare le cose tra noi in maniera
adeguata. Aveva i suoi tempi lei, ma anche le sue necessità
evidentemente, e al contempo non sapeva rinunciare a niente. Ed io
… la verità è che io non sono mai stato in grado
di dirle di no. Per la sua voce, che incanta, per i suoi occhi, che
stregano, per il suo corpo, che ammalia.
Mi ricordai allora della
mitologia greca, che Michael adorava e che, a forza di botte in testa
con libri e tomi vari, aveva infilato anche nella mia zuccona vuota di
tredicenne o giù di lì. Non c’era forse un nome
preciso per quelle come Allison? Belle e terribili, capaci di uccidere
senza pietà coloro che avevano attirato a sé. Le
chiamavano sirene, voci di miele e serve di Thanatos.
Non era nella sua
volontà farmi del male, questo non lo mettevo in dubbio, ma il
suo comportamento e la sua indole, i suoi desideri e le sue
indecisioni, non avevano propriamente quello che si definisce effetto
placebo su me, ma anche neanche su di sé. Di questo passo
saremmo finiti entrambi annegati nei nostri stessi dubbi ed esitazioni,
con la convinzione che quelle onde ci stessero cullando invece di
travolgerci. Non ero da solo a farmi male, anzi forse a me toccava
proprio la parte minore del danno, perché in parte ne ero
consapevole e me assumevo ogni responsabilità.
“Mmmmm!!!”
La sentii lamentarsi e
capii che si era ormai risvegliata definitivamente. Strusciò il
suo viso sulla mia spalla, quel tanto che bastava per mandarmi in
overdose di dolcezza. Ma si può essere tanto checca? Dio mio,
pensavo ci fosse un limite …
Ma lei sembrava proprio uno di quei cuccioli paffuti e arruffati che si sfregano le zampette al muso quando devono pulirsi.
Quando aprì
finalmente gli occhi nella penombra della stanza, ancora chiusa con
finestre e tapparelle abbassate, non riuscii a scorgere bene né
i suoi adorati occhi verdi né i suoi lineamenti, che per primi
di solito parlavano per lei. Non riuscivo a capire quali fossero i suoi
pensieri e non c’era modo di indovinarli; tanto, anche se ci
avessi provato, con lei niente era mai limpido.
L’ultima volta che
eravamo stati assieme, la prima volta, l’avevo ritrovata serena e
positiva al mattino. Il ricordo della colazione a base di pancakes e
coccole mi fece ben sperare, ma con la regina dell’imprevedibile
era d’obbligo non farsi mai trovare con le difese abbassate. A
meno che non si volesse finire ridotti a brandelli.
“Oh cazzo!” disse, tirandosi su di scatto “cazzo cazzo cazzo!!!”
Non feci in tempo a
domandarle cosa fosse successo che la vidi balzare fuori dal letto in
pieno panico, scalzando via le coperte portando via con sé tutto
il tepore che avevamo guadagnato nella notte. Tornai a coprirmi in
tutta fretta con il piumone mentre la seguivo con lo sguardo, notando
che, raccattando i suoi abiti da terra, si era messa già rimessa
addosso gli slip e una vestaglia presa in bagno.
“Ma porca puttana!” imprecò per l’ennesima volta.
“Ma si può sapere che cavolo ti prende?” le chiesi, infine.
“Ti prego dimmi che non l’abbiamo fatto di nuovo …”
“Nooo” risposi sarcastico “abbiamo giocato a strip poker e ci hanno ripulito”
“Non è
questo il momento di fare gli spiritosi, Tyler!” mi
rimproverò. “Come cazzo ci è venuto in mente di
fare una stronzata del genere!!! Siamo due irresponsabili
…”
Ma che cazzo le prendeva?
Non era ubriaca la sera prima, di questo ne ero certo. Io,
d’altro canto, non lo ero abbastanza da abusare di una ragazza e
non ricordarlo. “Mi … mi era sembrato che ieri sera fossi
di un altro avviso Allison ... e poi, com’è che avevi
detto?” continuai, ricordandole parole uscite dalla sua stessa
bocca “se ci va di stare insieme lo facciamo senza troppe
conseguenze il giorno dopo giusto? Ora che sono tutte questi sensi di
colpa?!”
“Come al solito non
capisci un cazzo …” sbraitò, catapultandosi di
nuovo nei panni e nei modi della ballerina di lap dance volgare ed
insolente che avevo conosciuto una sera di tre mesi prima.
“Oh certo …
come al solito sono io quello che non capisce un cazzo!” sbottai
e fui costretto ad alzarmi anch’io dal letto e a rivestirmi, per
raggiungerla.
Non riusciva a stare
ferma nella stanza, si passava e ripassava in continuazione le mani tra
i capelli per portarle poi davanti alla bocca, sconcertata.
“Mi vuoi spiegare dov’è il problema?” chiesi, perentorio.
“Abbiamo fatto una
stronzata abominevole” sentenziò “ci siamo
comportati peggio di due ragazzini, completamente irresponsabili”
Lei che faceva a me la morale? Bene, ero finito in un mondo parallelo in cui il mondo va decisamente al contrario.
“Ma di cosa hai
paura? Guarda che non c’è pericolo, non ti ho mica messa
incinta. Forse non te lo ricordi, ma il preservativo l’ho usato
… cavoli non mi sembravi messa tanto male ieri sera”
Rise per un attimo, ma
era più che altro guidata dal nervosismo più che da reale
divertimento. Si vedeva che era tipica risata di chi ride per non
piangere.
“Proprio non riesci
a capire, eh? Dov’è che siamo … questa non è
solo la tua vecchia camera. È anche casa di …”
“Di mia madre” continuai la frase per lei.
Non c’era bisogno
di aggiungere altro, il puzzle si era ricomposto ed io c’ero come
al mio solito arrivato in ritardo.
“Lei ha così
fiducia in me … ed io ho contraccambiato andando a letto con suo
figlio. Come una puttanella qualunque. Bel modo di ripagarla di tutto
quello che ha fatto per me … chissà ora cosa
penserà”
La bloccai per le spalle
e la costrinsi a voltarsi e guardarmi. Sorvolando sul fatto che
indugiò sulla mia camicia bianca della sera precedente
completamente sbottonata, cosa che in altre circostante mi avrebbe reso
fiero di me stesso, la fissai, calmo ma deciso. Dovevo infonderle
quella fiducia che forse non riponeva completamente in mia madre.
“Io non credo
che se la prenderà così tanto” la tranquillizzai
“quando è venuta a prenderti casa mia quella mattina non
avrà impiegato molto a fare due più due e credo che a
quest’ora penserà che stiamo insieme e non glielo diciamo
solo perché la situazione è un po’ delicata e tu
sei ancora minorenne”
C’era anche quel
piccolo particolare per cui, essendo lei minorenne ed io più
grande di quattro anni, per la legge americana avrei potuto essere
tacciato di pedofilia e sbattuto in galera. La nostra storia, o quel
che cavolo era, stava diventando come un barbecue il 4 di luglio; pieno
di carne pronta per finire sulla brace. E sinceramente non faceva parte
dei miei progetti futuri finire incenerito, anche solo metaforicamente.
“Sei sicuro?”
chiese lei, ancora titubante. “Ma certo!” risposi e man
mano iniziavo a crederci anche io. Forse lei l’avrebbe
risparmiata, ma io sarei finito castrato, ne ero ormai più che
certo. Già me la vedevo, isterica e incazzata, urlarmi contro e
minacciandomi per aver approfittato di Allison, la sua protetta.
Peccato, ci tenevo a diventare padre, prima o poi … più
poi che prima.
“E ora?”
Quella era la domanda da un milione di dollari a cui non sapevo proprio
dare risposta. Sbirciai verso l’orologio a muro e scoprii che
erano solo le 9.45.
“Per ora ce ne torniamo a letto, nel frattempo ci inventeremo qualcosa …”
Prima di rientrare sotto
le coperte alzai le serrande per lasciar entrare un po’ di luce
naturale nella stanza. Corsi a letto di filato, lasciando di nuovo a
terra pantaloni e camicia, raggelato dalla temperatura glaciale della
stanza; ma ormai anche il calore del letto era andato perso,
così approfittai della ritrovata serenità di Allison per
avvicinarmi a lei e riscaldarci un po’ insieme.
“Dio che dormita
però” commentò, con un sonoro sbadiglio e
stiracchiandosi fino a travolgermi con le sue braccia. Mi guardò
con gli occhi socchiusi – odiava quando le facevo luce di botto
– e notai che, oltre ad essere ancora un po’ sconvolta,
aveva tutta l’aria di chi aveva goduto del migliore dei riposi
della sua esistenza. “Ma quanto ho dormito?” domandò
“E che giorno è oggi?”
Sorrisi, perché
davvero non credevo di aver approfittato di una giovane fanciulla
brilla. Scusandomi sorridendo, le confessai l’atroce reato.
“Ma quale
ubriaca!” si giustifico “è questo letto la mia
rovina, è troppo comodo e dormo ogni notte come se non dormissi
da dieci anni”
Il che, parzialmente,
corrispondeva a realtà. Negli ultimi anni aveva vissuto
principalmente di notte, riservando il riposo al mattino, ma il suo
monolocale, lercio e scomodo, non era esattamente il posto adatto per
recuperare le energie, specialmente quando convivi con il perpetuo
terrore che qualcuno possa scovarti e portati via, guardie o ladri che
fossero.
“Buon
Natale, comunque” le dissi, baciandole dolcemente una guancia,
sorridendole “è la mattina del 25 dicembre”
I'm offering this simple phrase,
To kids from one to ninety-two,
Although it's been said
Many times, Many ways
Merry Christmas to you.
Per un attimo si
tirò su e si mise a sedere, coprendosi accuratamente con il
piumone rosso come se fosse un bozzolo. Faceva così freddo che,
pur non avendo badato al tempo che c’era fuori dalla finestra,
non mi sarei stupito di trovare accumulati almeno una 20 di centimetri
di neve. Maledetta Allison…qua c’è qualcuno che ha
freddo…la smetti di scoprirmi!!! Stavo quasi per iniziare una
delle nostre schermaglie farlocche, una di quelle da concludere a
cuscinate, ma notai che era tornata di nuovo impenetrabile, con quel
broncio tutto suo che lasciava intendere un pensiero scrupoloso e
rimase lì, silenziosa per qualche secondo ed io non potei fare
altro che allungarmi di nuovo con le braccia dietro alla nuca,
altrettanto impegnato ad osservarla e a ridere di quella
comicità del tutto involontaria. Era comica, sì, nei suoi
gesti, in quella saggezza grossolana, dettata più
dall’esperienza che dalle conoscenze, quella voglia di tornare ad
essere la signorina per bene ma senza dimenticare la ragazza un
po’ rozza e sguaiata che calcava i cubi da lap dance
anziché i palchi di danza classica.
“Che bello!”
sentenziò, scattando e voltandosi verso di me fiera e
soddisfatta. “Questo …” iniziò la frase, ma
venne chiaramente colta da quel pudore che l’accompagnava
puntuale quando si trattava della sua vita passata “…
questo è il primo Natale vero che festeggio
dall’incidente. Il mio ultimo Natale in casa con mia madre e la
nostra famiglia, pochi mesi dopo la morte di Emily, non fu esattamente
idilliaco”
“So che non posso
ridarti niente di quello che avevi ad Indianapolis” aggiunsi,
portandomi a sedere di fianco a lei e poggiando il mento sulla sua
spalla, abbracciandola delicatamente da dietro “so non posso
ridarti tua sorella. Ma permettimi almeno di alleviare questa
malinconia. È il mio secondo Natale senza Michael, so come ci si
sente”
Già, sapevamo entrambe com’era vivere con un pezzo mancante nel cuore.
Si girò verso di
me e mi baciò sulle labbra. Non era un bacio passionale,
preludio di una mattinata dai toni più roventi; aveva tutta
l’aria di essere un bacio coccoloso, di quelli che generalmente
si danno al mattino le coppie delle soap opera, quando la mattina di
Natale fuori nevica e fa troppo freddo per alzarsi. Io non avevo idea
nemmeno dei pensieri che la mia mente stesse partorendo in quel
momento, sopraffatto da una scala di sensazioni tutte nuove ma potenti
e docili allo stesso tempo. Era così che si comportava una
coppia, o due amici di letto si comportano allo stesso modo? Ed era
ancor più inutile provare a parlarne con lei, che aveva le idee
ben più sconnesse delle mie. Dove saremmo finiti di questo passo?
Finimmo allungati e intrecciati, di nuovo, innocenti e pericolosi allo stesso tempo.
“Non voglio
più uscire da qui”. Fu un soffio, sussurrato con il volto
schiacciato completamente sul mio petto, al quale per devozione e
tradizione ormai finiva sempre con l’ancorarsi, ma io non ebbi
difficoltà a distinguerlo.
“Non dobbiamo per
forza …” la rassicurai, ma sapevo che la verità era
un'altra. Al piano di sotto ci stavano aspettando mia madre, suo marito
e mia sorella, insieme ad una tonnellata di sensi di colpa e figure di
merda serviti su un piatto d’argento. “Cosa diremo?”
mi chiese. Sapevo che, dopo quanto ci eravamo detti la sera precedente,
non mi avrebbe mai più fatto fare niente che non mi andava. Ma
io stesso non l’avrei spinta in recite che le stavano strette e
che non sarebbero state mai pienamente credibili.
“Ciò che
vuoi” le risposi, accarezzandole i capelli con una mano e
sfiorandole la pelle con il pollice dell’altra, impegnata a
stringerla a me, nuovamente libera anche lei da ogni indumento, eccetto
gli slip.
“Ma non ce
l’hai una maglietta?” la rimproverai, pur non credendo
neanche a io a quello che stavo dicendo, per il semplice gusto di
vederle arricciare il naso. “Senti chi parla…”
rispose e finimmo col ridacchiare come due scemi. Adoravo quei piccoli
momenti di normalità che mi concedeva, pur essendo cosciente che
per lei non significavano nulla. O magari mentiva, a me e a sé
stessa, ma dal momento che le andava bene ed io sopportavo ancora bene
le conseguenze del mio ben noto autolesionismo, andavamo avanti ancora
per quella strada.
“A parte gli
scherzi” tornai per un attimo ad essere serio “possiamo
anche pronunciare un bel no comment e dirgli di non azzardarsi a tirare
fuori l’argomento perché sono solo fatti nostri …
il che mi sembra un’idea perfetta.”
“Forse”
annuì, non ancora pienamente convinta “ma rimane il fatto
che ho tradito la fiducia di tua madre”
Incredibile. Se di questa
ragazza attenta e giudiziosa mi avessero raccontato la storia quella
mattina di Natale, non c’avrei mai creduto. Ma io la conoscevo in
modo che forse anche sua madre a Indianapolis si sognava …
quindi non avrei dovuto stupirmi più di tanto.
“Ma non sei una
suora di clausura, questo non è un monastero e mia madre non
è il Padre Eterno. Può anche blaterare quanto le pare, ma
non si deve nemmeno azzardare a giudicarti.”
Non parlò
più ed il suo respiro sembro regolarizzarsi e diventare anche
più lento, segno che forse si stava anche riaddormentando. Ma i
pensieri nella mia mente non andarono certo diminuendo e aspettai che
fosse nuovamente assopita per sgusciare via dal letto. Avevo bisogno di
risistemare le idee, di parlare eventualmente con mia madre, chiarire e
scusarmi anche. Tutto questo davanti a del caffè e una sigaretta.
Per fortuna Allison aveva
voluto per sé alcuni miei vecchi abiti, con la scusa della
comodità, così non dovetti presentarmi al piano di sotto
con gli abiti della sera precedente. Non ricordavo che nessuno avesse
anche solo provato a disturbarci, nessuno che fosse venuto a chiamarci
o che avesse chiesto a Caroline cosa ci facevamo con la porta chiusa a
chiave. Non che fossi attento a ciò che accadeva fuori, ma le
voci bene o male si sentono anche distrattamente.
Così scesi le
scale e mi ritrovai nella zona giorno calda e piena di differenti
odori: eggnogg, prosciutto arrosto già in forno per il pranzo e
caffè e mince pie. Caroline non credeva più a Babbo
Natale da un pezzo, da quando mio padre almeno un paio di Natali prima
durante una lite con mia madre le fece candidamente capire che eravamo
noi a lasciarle i regali sotto l’albero; era una di quelle cose
che mi ero segnato al dito, la dimostrazione che di noi non gli era mai
fregato un cazzo, ciò che gli importava era solo il suo
dannatissimo lavoro. Così da quel giorno mamma la cucinava
comunque ed invece di lasciarla per Babbo Natale, la mangiamo tutti
insieme a colazione.
Notai sul mobile
d’ingresso un bigliettino con la grafia di mia madre, che
avvisava me e Allison che erano andati tutti in chiesa. Sapevo che
sarebbero andati tutti insieme in Chiesa nella notte, quindi doveva
essere rimasto lì dalla sera precedente. Il mio rapporto con Dio
era un po’ complicato e andare in Chiesa per le feste comandate
mi sembrava un atto di profonda ipocrisia. Come potevo credere che
colui che non aveva salvato mio fratello fosse davvero venuto a
salvarci tutti? Per cui, dal momento che amavo profondamente la mia
famiglia, mi godevo le feste come occasione per poter stare accanto a
mia madre e mia sorella. Forse era un modo di pensare profondamente
consumistico, ma da buon newyorkese non poteva essere diversamente.
Entrai in cucina, dove
mia madre e Caroline erano di spalle, entrambe indaffarate, l’una
ai fornelli, l’altra a spazzolare via una tazza di cioccolata
calda e biscotti di Natale che, come voleva la nostra tradizione,
andava sempre a rubare dall’albero. Les mi accolse con un colpo
di tosse sospetto, eppure mi guardò sorridente e divertito,
quasi complice.
Mia madre si voltò
all’istante, così come anche Caroline, che corse ad
abbracciarmi. “Buon Natale Tyleeeeer!!!”
“Buon Natale anche
a te piccola!” ricambiai “hai trovato il regalo che il
vecchio Santa ha portato da parte mia?”
“Lo sai che so la
verità Tyler … comunque l’ho trovato. È
bellissimo! Grazie!” era un libro su Modigliani, uno dei miei
artisti italiani preferiti.
“Sai ... si dice
che non riuscisse a dipingere gli occhi nei suoi quadri perché
non riusciva a scorgere l’anima dei soggetti” le spiegai.
Quella era la leggenda, eppure un suo quadro riesce ancora a parlare,
ad oggi, più di quanto non riescano mille predicatori in
un’intera vita. “Che peccato che tu sia nata
così tardi sorellina, avresti potuto insegnarli qualche trucco
per la parte dell’anima!” continuai, strizzandole
l’occhio. Bastava poco per farla sorridere e diventare rossa;;
impazzivo a vederla tanto felice e spensierata, lei che a volte aveva
la serietà e la tristezza che accomuna gli adulti.
“Ehm …
Carol” ci interruppe nostra madre, con un tono di voce
decisamente poco natalizio “perché non vai con Les in
soggiorno e lo aiuti a montare il suo regalo”
“Ma maaaaaaa’….” “Niente ma’, vai!”
A malincuore fu costretta
a lasciarmi andare e io dovetti fare altrettanto. Era un atteggiamento
poco maturo il mio, ma averla al mio fianco mi avrebbe risparmiato
ramanzine poco piacevoli.
“Dorme?” domandò ed io annuii silenzioso.
“Senti Tyler
…” sospirò e non impiegai molto a figurarmi tutta
la predica sul passato turbolento di Allison, sulla sua sofferenza ed i
miei doveri di tenere le mani a posto e anche qualcos’altro nei
pantaloni. Così mi armai di coraggio e la sfidai ancor prima che
potesse formulare alcunché di accusatorio.
“Mamma” la
interruppi, cogliendola anche piuttosto di sorpresa “so cosa stai
pensando, ma non è come credi. Non sto giocando e non mi
permetterei mai. Se ti ho messo in imbarazzo con gli ospiti ieri sera
ti chiedo scusa, ma credimi non hai nulla di cui preoccuparti, non sto
giocando con lei. Non lo farei mai”
“No, non è
per quello” chiarì immediatamente per prendersi poi un
attimo per pensare “E così … state insieme?”
si limitò a chiedere. Non sembrava turbata, anzi pareva anche
piuttosto sollevata sapendo che io avevo capito i suoi timori e li
avevo dissipati quasi totalmente.
“Mi piacerebbe
poterti dire che è così mamma, credimi, ma non posso.
Come certamente saprai la vita di Allie è un casino. So che non
è una giustificazione valida, che non è il genere di
notizia che a una madre piace sentire, ma questo è ciò
che possa darti, una verità nuda e cruda” sorridemmo
sommessamente entrambi alla mia battuta infelice “non so come
andrà a finire ma io ci metterò tutto l’impegno e
l’amore che ho per farle andare bene. Questo te lo posso
garantire”
“Amore?” si
lasciò scappare, con un volto che minacciava lacrime.
“Buon Natale mamma!” risposi, sorridendo, chiudendo
così una conversazione spinosa e pericolosa. Mia madre seppe
arrendersi e accetto di buon grado, dandomi un bacio e ricambiando i
miei auguri. Mi raccomandai con lei affinché non le sfuggisse
nulla con Allison a proposito della nostra conversazione e me ne tornai
a casa a cambiarmi per il pranzo. Non c’era neve per le strade,
il tempo però era freddo e nuvoloso. Una tipica mattina di
Natale. La metrò era tranquilla e poco affollata e anche nella
radio interna trasmettevano le tipiche canzoni di Natale. Al pensiero
che avrei trascorso anche quel giorno con lei, anche quelle musiche, le
luci ed i festoni, sembrarono riprendere i colori e i toni che negli
anni avevo perso.
soundtrack2
Sulla via del ritorno
verso casa mia madre, incrociando le vetrine chiuse ma comunque
illuminate ed addobbate di una gioielleria, ricordai che non avevo
ancora dato il mio regalo ad Allison. Non era niente di speciale, una
scemenza davvero, ma era difficile poter trovare un modo per non
sentirmi un idiota totale, senza sentire l’imbarazzante ingerenza
di mia sorella e del nostro patrigno come degli avvoltoi che ti stanno
lì con il fiato sul collo, senza occhi indiscreti pronti a
ficcare il naso in faccende che non gli riguardavano, senza che si
scatenasse il gossip del secolo.
Con questi pensieri mi
ritrovai al numero 13 di Cranberry Street, Brooklyn senza neanche
rendermene conto. Mia sorella aveva dato evidentemente il via alla
maratona dei concerti di Natale sulle varie reti nazionali e Les si
dava da fare a stare appresso a mia madre che il giorno di Natale ci si
metteva proprio d’impegno a diventare più isterica del
solito. Per fortuna eravamo solo noi a pranzo, il che avrebbe evitato a
tutti di rimanere ingessati in formalismi e cerimonie inutili. Andai ad
appendere il mio giubbotto nel ripostigli all’ingresso mentre
tutti si limitarono a salutarmi con un cenno del capo, troppo
indaffarati nelle loro faccende per darmi retta. Non mi accorsi, al
buio di quel piccolo stanzino, che Allison s’era piazzata alle
mie spalle, appoggiata alla porta dello sgabuzzino. Quasi mi venne un
colpo quando, girandomi, me la ritrovai davanti.
“E così te ne sei andato?” disse, seria “senza neanche dire ciao”
“Ciao”
risposi, imbarazzato. Cosa potevo dire a mia discolpa? Che volevo
evitare il momento imbarazzante in cui lei sarebbe scesa per fare
colazione e tutti gli sguardi si sarebbero posati ed intercambiati su
di noi? Che preferivo far passare il malumore a mia madre prima di
stare insieme alla sua presenza?
“Allora?” rincarò lei la dose. Ma si poteva sapere cosa voleva da me?
“Abbiamo già fatto questo discorso stamattina Allison, è Natale, non mi va di discutere”
Magnifico! Solo quello ci
mancava: avere una Allison imbronciata durante il pranzo di Natale. Che
poi non riuscivo a capire cosa ci fosse di sbagliato. Non era stata
proprio lei a lanciare il manifesto dell’indipendenza tra di noi.
Amici di letto, è questo ciò che eravamo; non poteva
pretendere da me che le portassi la colazione a letto e le lasciassi un
biglietto romantico sul cuscino assieme ad una rosa. L’avrei
fatto, ma solo se avessi potuto considerarla la mia ragazza. E lei
aveva messo in chiaro che quell’opzione non era contemplata.
Inutile che ora teneva il broncio.
Se ne andò per fatti suoi verso la sala da pranzo, apparecchiata di tutto punto. Io, invece, me ne andai in salotto.
“Ciao
scricciolo!” salutai mia sorella, imbambolata davanti versione
del Canto di Natale di Dickens fatta dal Muppet Show. Vedere Caroline
seduta davanti alla TV era un evento più unico che raro, anche
se mi rinfrancava il fatto che, negli anni, mi aveva risparmiato lunghe
e pallose visioni dei cartoni di Barbie Raperonzolo e compagne.
Prima che potesse
distogliere lo sguardo dal programma, mi riappropriai del regalo di
Allison, che la sera precedente avevo messo sotto l’albero e che
per fortuna nessuno aveva toccato. Decisi di scartarlo e toglierlo dal
pacchetto, ma qualche folletto impertinente aveva un udito troppo acuto
per non accorgersi che stavo scartando un regalo.
“E quello che cos’è?” chiese mia sorella, curiosa.
“Di … nessuno” bravo Tyler, proprio una bella risposta …
Infatti la mia peste
preferita si alzò da terra e lasciò perdere lo spettacolo
… mannaggia a me mannaggia a me … per raggiungermi prima
che potessi far sparire le prove della mia colpevolezza nella tasca dei
miei pantaloni.
“Oh mio Dio Tyler
ma quell..” feci in tempo a tapparle la bocca prima che fosse
troppo tardi e le feci cenno di stare zitta. “È una
sorpresa per Allison!” spiegai a bassa voce ma deciso,
arrendendomi al fatto che non si poteva nasconderle nulla “ma ora
fa la brava e torna al tuo film … lasciami fare …”
“Ricevuto!”
mi sorrise e si mise sull’attenti come un piccolo Marines con
tanto di saluto militare. “Brava!” le dissi e le scoccai un
bacio in fronte.
Allison era in cucina,
seduta ad uno degli sgabelli della grande penisola che riempiva
l’intera stanza, impegnata a leggere un quotidiano; in casa non
c’era campo libero, con il via vai di mia madre e Les tra cucina
e sala da pranzo, così dovetti ingegnarmi diversamente. Le andai
vicino e le sventolai davanti un pacchetto di bionde:
l’avversione al fumo di mia madre si era ripercossa anche su di
lei, forzandola ad astenersi dalla nicotina; immaginavo dunque che
agognasse una sigaretta più di qualunque altra cosa, a giudicare
da quanto era incostante e nervosa nelle ultime ore, oltre a quella
gamba che non la smetteva di agitarsi sul piede della sedia.
“Vieni giù in lavanderia” le sussurrai vicino all’orecchio “e mettiti la giacca”
In meno di un minuto me
ci ritrovammo nel posto convenuto, e potevo facilmente immaginare lo
smarrimento che era dipinto sul suo viso, soprattutto perché
l’avevo fatta imbacuccare per poi rimanere in uno stanzino
temperato come il resto della casa.
“Non credo che
stare qui ci salverà … lo sai che tua madre ha installato
il sistema antincendio per tutta casa, compresa la lavanderia. Una
boccata di fumo e finiremo col farci una bella doccia!”
Così le sventolai
davanti al naso una piccola chiave dorata, sorridendo sornione alla sua
espressione ancora più incerta. Le feci segno di seguirmi per un
piccolo corridoio buio e anche un po’ sporco che nessuno mai
usava e che conduceva ad una porticina chiusa da secoli.
“Non può
essere la chiave di ...” esclamò sorpresa Allison,
puntandomi il dito contro sgomenta, mentre armeggiavo con quella
vecchia serratura “mi ha detto Diane che la chiave ce l’ha
solo lei ed è ben nascosta …”
“io non ci giurerei
… nel comò tra le lenzuola non è certo il miglior
nascondiglio” affermai fiero del mio ingegno da Arsenio Lupin,
mentre aprivo finalmente la porta “è da quando Michael
aveva 15 anni che questa chiave fa avanti e indietro da quel cassetto e
nessuno se n’è mai accorto. Dopo di lei signora
…”
Così ci ritrovammo
nel piccolo androne sotto la scalinata d’ingresso
dell’intera abitazione, deposito delle biciclette e
dell’arredamento da giardino che mia madre toglieva dal giardino
alla fine dell’estate. Mentre ci concedevamo una sigaretta
ciascuno, raccontai ad Allison di come mio fratello si ingegnò
per primo a trovare un posto clandestinamente e di come me ne rese
partecipe e le spiegai il sistema per sbarazzarsi del mozzicone una
volta terminato.
“Ecco vedi”
le dissi, arrampicandomi sopra un cassone di legno “basta farle
scivolare delicatamente sul marciapiede. Così chiunque
penserà che qualche passante maleducato l’ha buttata
via”
Rise e salì anche
lei sulla cassa per fare altrettanto. Rimanemmo un po’ seduti
lì ancora un po’ dopo la fine dei racconti, silenziosi; il
vento soffiava abbastanza forte e non bastavano i cappucci dei nostri
giubbotti e le sciarpe a ripararci. Allison mi sfilò il
pacchetto di Camel e andò ad accucciarsi per terra, con la
schiena alla parete, per stare più riparata, e se ne accese
un’altra. Aspirò profondamente e poi lo buttò via
godendosi appieno il momento, buttando la testa all’indietro. Non
avrei pensato mai dirlo, ma la trovavo sexy anche con una sigaretta tra
le labbra. Le andai accanto e mentre se ne stava ad occhi chiusi con il
volto al cielo, quel piccolo squarciò di cielo grigio e nuvoloso
che si scorgeva tra le case e i rami del viale alberato, le allacciai
il suo regalo al collo. Si riscosse non appena sentì scivolare
quella cosa fredda lungo il suo collo e quasi zompò in aria per
lo spavento. Depositò la sua cicca tra le mie labbra e
portò le sue mani al collo, prese tra le mani la collana e la
osservò. Sembrò quasi nascerle un sorriso tra occhi e
labbra, ma probabilmente si impose di rimanere seria; certamente,
però, era sorpresa.
“Però
… un lucchetto e una chiave … il massimo del
romanticismo” commentò, con una vena acidula nella sua
voce. Non ci badai quasi, sapevo che quella forma di difesa così
cafona era solo un retaggio del suo vecchio lavoro e non riusciva a
trattenersi.
“Ti sbagli”
risposi, chiudendo nel mio palmo la sua mano e la collana “quando
l’ho visto ho pensato a te, ma non è certo quello che
pensi tu. Niente chiavi del cuore o boiate simili … il lucchetto
è la tua vita e la chiave affianco significa che è solo
tua, nessuno può disporne se non gliene dai tu il permesso”
Sapevo che era la cosa
giusta per lei, sapevo che avrei colpito nel segno. Forse non mi
avrebbe mai detto grazie a parole, forse non era tipo da abbracci in
quelle circostanze, ma vedere gli occhi lucidi e anche solo una lacrima
rigarle il viso mentre entrava in tutta fretta dentro casa prima che io
potessi accorgermene, mi ripagò di tutto.
soundtrack
Non ero esattamente di
buonissimo umore quando mia madre e Les ci lasciarono a casa davanti
alla TV per andare a trovare degli amici, mentre Caroline disegnava in
camera sua. Fuori era già buio e in quell’angolo di
Brooklyn che si affaccia su Manhattan era un trionfo di luci e addobbi
ad ogni numero civico.
“È da
sfigati starsene a Natale dentro casa davanti alla TV se si ha di
meglio da fare” commentò Allison ricominciando
d’accapo con lo zapping per centesima volta “tu e Caroline
dovreste uscire!”
“Non se ne
parla!” chiusi perentorio l’argomento prima che
ricominciassimo da dove avevamo interrotto durante il pranzo, quando
Caroline, ferita da una mia parola indubbiamente di troppo,
abbandonò la tavola imbronciata e offesa.
“Posso capire che
tu non voglia parlargli ma è anche suo padre, ha il diritto di
vederlo almeno a Natale” disse Allison, più matura di
quanto io stesso non fossi. Ma non volevo averla vinta con un tizio
come Charles Hawkins. Diventai immediatamente furioso quando mia madre
mi comunico che io e Caroline saremmo dovuti andare da nostro padre,
che alle 18.30 per lui andava bene e che mezz’ora prima sarebbe
passato il suo autista a prenderci. Non ci vidi più quando mia
madre mi disse che dovevo farlo perché ero suo figlio e dovevo
portargli rispetto, almeno a Natale. Dovevo fare qualcosa che
già di per sé non mi andava e dovevo anche farlo
aspettando i suoi comodi.
Per me era decisamente troppo.
“Tu non puoi
capire, Allie. Io non posso nemmeno guardarlo più negli occhi
… non ce la faccio! Lui … lui ha ucciso mio
fratello” dissi sostenuto sottovoce, ma il mio cuore urlava
ancora per quel dolore che di tanto in tanto faceva ancora capolino e
per una ferita che, in momenti come quello, si apriva di nuovo e
tornava a sanguinare.
“Sì che
posso capire. E lo sai. Non sei il solo ad avere una storia triste in
questa stanza” e dopo avermi dato questa stoccata si alzò,
andando verso la cucina. Rimasi raggelato dalla sua freddezza, dal suo
distacco e dalla realtà che aveva messo in quelle poche parole.
La vidi tornare con un paio di birre e me ne passo una. Heineken, la
mia preferita.
Fece un lungo sorso,
stette un po’ sulle sue mentre la televisione parlava per conto
suo da un lato ed il caminetto scoppiettava dall’altro. Poi,
d’un tratto, preso un lungo respiro, si lasciò andare:
“Tu che ce l’hai un padre, tu che un rapporto con lui puoi
ancora salvarlo, fallo per favore” mi pregò, guardandomi
con degli occhi che sembravano non avere più lacrime per
quell’argomento, ma che se avessero potuto si sarebbero lasciati
andare volentieri al pianto. Se fosse stato solo per lei, quello sforzo
l’avrei fatto, mi sarei anche umiliato. Ma non avrei mai potuto
assistere allo spettacolo indecoroso e pietoso di un uomo che non aveva
idea di cosa significasse fare il padre e due, tre volte l’anno
ci provava con una bambina di 10 anni che lo adorava comunque. A dir
poco imbarazzante.
“Vieni con me!” proposi, con un’enfasi forse eccessiva.
“Scusa?” chiese, incredula “cosa c’entro io?”
“Ti prego io
stavolta … vieni con me. Mi devi aiutare a trattenere la calma
… potrei anche spaccargli la faccia!”
“Non sono sicura che sia la cosa giusta da fare”
ribadì “se ha davvero un brutto carattere come dici, non
credo che la prenderà bene a vedere un’estranea entrare in
casa sua senza preavviso, tanto più se questa estranea non ha
alcun titolo per presentarsi con suo figlio”.
Non aveva tutti i torti
ma io avevo bisogno di lei, non sarei andato da nessuna parte senza di
lei e non avrei fatto muovere neanche Caroline, ero irremovibile.
“Voglio dire”
tentò di spiegarsi quando ebbi finito con il mio monologo
“torniamo allo stesso discorso Tyler, gli diciamo che sono una
tua amica? E perché questa amica non è casa sua a passare
il Natale con la sua famiglia? Inizierà a fare domande e lo sai
quanto detesto che mi si faccia il terzo grado”
Lo sapevo e sapevo che
con mio padre era possibile che la sua previsione si avverasse, ma non
avrei permesso mai che lui la trattasse male.
In fondo mi stavo
convincendo che era una cosa giusta fargli visita, per Caroline
più che altro ed Allison e mia madre avevano ragione. In
più non volevo fare brutta figura agli occhi di mia sorella, e
già mi ero quasi giocato il suo affetto con la sfuriata del
pranzo, non potevo rimetterci ulteriormente. Ma non vedevo alternative
possibili: “O con te o nulla Allison” le dissi, sperando
che potesse comprendere. Mimò un cenno arrendevole e affermativo
con la testa, mentre mandava giù l’ultimo sorso di birra,
e mi sentii l’uomo più fortunato del mondo ad averla
accanto, in qualsiasi modo volesse o potesse.
“Sei sicuro che
vado bene così?” domandò scrupolosa Allison per
l’ennesima volta, aggiustandosi i vestiti e i capelli per
l’ennesima volta nello specchio dell’ascensore mentre
salivamo su per i 72 piani della Trump World Tower. Se avessi dovuto
scegliere io un appartamento per lui, non avrebbe saputo fare di
meglio; non c’era posto al mondo che rendesse al meglio le sue
aspirazioni, le sue manie di grandezza, la sua smania di potere e la
sua sete per il denaro e gli affari. Tutto richiamava lusso e potenza,
dagli arredi extra lusso, alle finestre che dominano sull’East
River e la Midtown Manhatta fino a quell’ingresso superbo e
arrogante proprio di fronte al quartier generale delle Nazioni Unite;
se c’era un modo per far sentire i propri ospiti delle cacchine
insignificanti, quello era proprio il migliore.
“Non ti
preoccupare, sei perfetta” la rincuorai “meglio non
conformarsi ai suoi canoni estetici, potrebbe affezionarsi
…”
Al di là del mio
umorismo contestatore e di bassa lega, stava davvero bene Allison quel
giorno: capelli sciolti e morbidi e un look da lei stessa definito rock
chic – almeno secondo quanto le aveva detto la commessa del
negozio – con jeans neri e tshirt grigia stampata e un blazer
grigio leggermente asimmetrico. Per l’occasione sciolse il suo
voto di astinenza dai tacchi e ai piedi aveva un paio di Louboutin
grigie tacco 12. Questo, sempre secondo quanto detto da lei … io
annuii colpito, ma per me rimaneva arabo.
Caroline invece sembrava
più eccitata che preoccupata, con i suoi completi da bombola
troppo cresciuta metteva tenerezza, ma era in quella classica fase in
cui non si è ne bambine né ragazzine; stringeva tra le
braccia il fodero in pelle con cui portava i suoi disegni, che era
sempre orgogliosa di mostrare a nostro padre. Speravo solo che lui
fosse interessato a vederli.
Mrs. Hill, la governante
di mio padre venne ad accoglierci alla porta. Prese le nostre giacche e
ci saluto molto calorosamente, augurando a tutti un buon Natale.
“Oh Eve!” esclamai, riprendendole la mia giacca di mano e
appendendola da solo “neanche a Natale ti lascia libera
quell’orco!”
“Oh Tyler! Non devi
parlare così di tuo padre! È un bravo datore di lavoro!
” mi riprese lei “E poi lo sai che non ho nessuno con cui
passare il Natale da quando il mio povero marito non c’è
più. Mia figlia si è sposata dall’altro lato degli
Stati Uniti e mio figlio preferisce andare con gli amici in montagna.
Non è proprio un problema per me stare qui …”
Era una santa quella
donna, davvero. Convivere con mio padre praticamente 365 giorni
all’anno … un’impresa. Era deliziosa signora sulla
cinquantina, che aveva perso il marito a seguito dell’11/9 e si
era dovuta rimboccare le maniche come poteva per crescere i figli e
farli studiare. Mandare avanti una casa era l’unica cosa che
sapeva fare e ne fece il suo lavoro. Era sempre stata gentile con noi,
con un occhio di riguardo per la piccola Caroline e non sembrò
turbata più di tanto quando le presentai Allison. “Oh
benvenuta Allison!” la saluto, anche piuttosto entusiasmata da
quella novità “non può immaginare da quanto
aspettavo questo giorno”
Ovviamente era arrivata
alla conclusione più ovvia, ma anche quella più
sbagliata. Io ed Allison ci guardammo perplessi per un attimo e
sorridemmo sconsolati.
“Ma prego” continuò “il signor Hawkins vi aspetta nel suo studiolo”.
Ci incamminammo per
l’appartamento, troppo grande per essere quello di un divorziato
che non trascorre mai del tempo con i figli, ma la megalomania di
quell’uomo non conosceva confini. E nemmeno la liquidità
delle sue carte di credito. Eppure, per quanti soldi potesse spendere
per l’affitto mensile di quella piccola reggia arredata, era
asettica e fredda quanto lui. Persino le decorazioni natalizie della
casa sembravano prese da un catalogo e messe qui e là solo per
dovere di cronaca. L’unica nota positiva era la vista mozzafiato
su tutta New York di cui disponeva. Da rimanerci secchi. E neanche ad
Allison sembrò passare inosservata.
Quando entrammo nello
studio Charles Hawkins era in piedi di fronte al camino, nel suo abito
italiano di pregiata sartoria da 5 mila dollari e un bicchiere di
Whisky canadese invecchiato in mano. Quando ci video non fece nulla per
dissimulare la sorpresa, e aggiungerei il dissenso, di una terza
persona accanto a Caroline e me. Il gelo che si era creato era palese
persino alla piccola Caroline, che si affrettò a correre da suo
padre e distogliere l’attenzione da quell’ospite inattese e
sgradita. Lui sembrò, per fortuna, interessato alle smancerie di
sua figlia, che l’aiutarono a sciogliersi un po’ …
rimanendo sempre nei suoi standard.
“Papà” mi sforzai di interpellarlo “lei è Allison, una mia amica”.
Gliela presentai nella
maniera più calma e gentile che potessi, per lei … non
certo per rispettare lui. Dovetti modulare il respiro e ripetermi come
un mantra dentro la mia testa che lo stavo facendo per Caroline e non
potevo scappare da lì, che con Allie al mio fianco sarebbe
andato tutto bene.
“Buon Natale signor Hawkins, piacere di conoscerla!”
NOTE FINALI
Innanzi
tutto spero che vi abbia fatto piacere questo ritorno prima della
scadenza del mese di attesa. Ma sono sicura che è così...
Poi
volevo fare una precisazione per la colonna sonora. Ho cercato una
canzone che esprimesse la confusione di Tyler ma anche quella di
Allison. Quando si è confusi ma felici come loro è
veramente facile commettere errori. E loro ne stanno facendo uno dopo
l'altro. Per adesso sanno capirsi e perdonarsi ... ma per quanto ancora
potranno andare avanti così?
Tyler Allison e Charles ... vedremo cosa accadrà tra loro. Tyler
pensa di aver capito che tipo è suo padre, ma sarà
davvero così?
Per le altre canzoni ho cercato di attenermi al tema natalizio
cambiando il ritmo a seconda dell'esigenza del racconto. Ma nella track
list sulla pagina di FB aggiungerò solo Gift
Merci pour tous e à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** Long lost memory of mine ***
When you crash in the clouds - capitolo 18
Capitolo 18
Long Lost Memory of Mine
soundtrack
“Buon Natale signor Hawkins, piacere
di conoscerla!”
“Buon Natale a lei Allison” rispose
educatamente mio padre.
Sapevo bene, tuttavia, quanto fosse
irritato da quella visita. Non tanto per la conoscenza in sé, che poteva anche
tollerare, quanto per non avere la situazione perfettamente sotto controllo.
Non c’era cosa che lo mandasse più in bestia, del resto, dell’imprevedibilità,
da pazzo maniaco del controllo qual era.
“La prego signor Hawkins” ribatté
Allison, le cui guance si erano fatte tutte rosse, imbarazzata e con lo sguardo
basso “mi dia del tu, non sono abituata a tutte queste formalità”.
“Molto bene Allison, come vuoi” le
disse mio padre, che sembrava stranamente interessato a lei. “E così sei la ragazza
di Tyler …” sentenziò, fintamente interessato e per nulla toccato.
“Ehm no … papà” mi affrettai a
prendere posto di Allison nella conversazione, ben sapendo quanto la
imbarazzasse rispondere a quel tipo di domande “Allison è solo un’amica.”
Sapevo talmente bene quel copione ormai che se anche fosse stata una bugia
completa, e non per metà, non avrei avuto difficoltà a reggere il gioco. “Al
momento abita a casa di mamma” continuai “e così lei l’hai invitata a passare
il Natale con noi.” Sembrava ad entrambi il modo migliore per aggirare
l’argomento più ostico senza generare grande curiosità o domande inopportune.
“E così abiti con la cara Diane, eh?” Allie annuì. “Ti trovi bene?” domandò mio
padre, proseguendo il suo terzo grado.
“Sì molto bene signore, grazie”
rispose lei, decisamente convinta; avrei sottoscritto anche io, se fosse stato
necessario. Non c’era stata decisione migliore di quella, per l’umore ed il
benessere generale di Allison. E anche del mio.
“Diane e Les sono due persone
estremamente cordiali ed ospitali” aggiunse Allie “Les poi è simpaticissimo!”.
Chiunque le avrebbe creduto, con quel sorriso che parlava da se. E chiunque
conoscesse Les e mia madre avrebbe concordato. Chiunque tranne mio padre,
ovviamente. Vidi Allison guardarmi e mordersi la lingua subito dopo quella sua
ingenua confessione, ma con un cenno le feci intendere che non doveva
assolutamente prendersi pena per ciò che aveva detto. Avrebbe dovuto essere
contento mio padre, se era vero, come lui sosteneva, di essere ancora innamorato
di nostra madre, di sapere che nostra madre aveva trovato un uomo per bene e di
saperla finalmente felice. Peccato che Charles non sopportasse nemmeno che si
nominasse Leslie davanti a lui; una volta lo sentii persino accusarlo di averlo
fatto becco, mentre invece mia madre gli era rimasta fedele fino all’ultimo
giorno. Non dava a vederlo Charles Padronanza-della-situazione Hawkins, ma
covava ancora dentro la rabbia per non essere riuscito a tenersi stretto sua
moglie.
“E come mai stai da lei?” proseguì
l’interrogatorio, prima che il pensiero di Les e mia madre potesse infastidirlo
più del dovuto; questa volta nella sua espressione era istillata una vena di
sospetto, ed anche i suoi occhi sembrarono diventare più piccoli e scuri, dei
piccoli radar fatti per scrutare ed indagare al meglio.
“Ho perso il lavoro e la casa” rispose
lei, in fondo sincera e tranquilla “e così Diane si è gentilmente offerta di
ospitarmi fin quando non troverò un lavoro che mi permetta di affittare un
appartamento per conto mio. Nel frattempo l’aiuto in casa e mi sono anche
rimessa a studiare per il diploma da privatista”
“Purtroppo questa crisi sta colpendo
tutti” commentò lui, fingendo di sapere di cosa stesse parlando Allie. Il
problema era il grande dislivello tra l’alta finanza dei ricchi sempre più
ricchi, ed i pochi soldi che permettono a gente normale, come Allison, di
sopravvivere. Non avrebbe mai potuto capire. “E quindi devi ancora diplomarti …
ma sei giovanissima, non avrai più di 18 anni?”
“In effetti non li ho ancora compiuti
… ne saranno 18 a gennaio.”
Mio padre rimase un attimo in silenzio,
immerso nelle sue teorie e impegnato ad elaborare accuse che aveva da
rivolgermi. Immaginavo che non si sarebbe bevuto la storia dell’amicizia, in
fondo era un uomo anche lui, e forse nemmeno credeva che Allison abitasse
veramente con mia madre.
Guardai Allison per un attimo,
incrociando il suo sguardo. Era sicuramente nervosa, ma non mostrò un minimo di
esitazione. Era bravissa in quel genere di cose, dissimulare le sue emozioni,
incredibilmente padrona com’era della sua mimica facciale.
“E come vi siete
conosciuti tu e Tyler … raccontami un po’ …”
Non capivo tutto l’interesse di mio
padre. Chissà, forse voleva andare a fondo e cercare il marcio che era sicuro
di poter trovare. Se c’era una cosa che dovevo riconoscergli, infatti, era
l’estrema capacità intuitiva insieme ad un’abilità incredibile nel servirsene,
nella vita privata come nel lavoro; era un cane da caccia, pronto a fiutare e
stanare ogni sua preda. Dote che, da pezzo di pane qual ero, evidentemente non
avevo ereditato.
Allie non sembrava però impensierirsi,
forse confidava ancora nella buona fede del suo interlocutore. “Oh beh, sa come
succedono queste cose” disse lei, briosa “ci
si incontra di sera per caso in un locale, si beve qualcosa e si
finisce a letto insieme …”
Se mio padre era rimasto di sasso, io
ero invece un involucro porpora al cui interno era rimasto solo un cuore in
supersonica accelerata, tamburellante e rimbombante nel vuoto più assoluto.
“Stai scherzando, vero?” osò domandare
mio padre, utilizzando la riserva d’aria che aveva inglobato poco prima, ai
limiti dello shock. Io ero invece in preda ad un legittimo attacco di panico ed
ero troppo impegnato a valutare tutte le uscite di sicurezza, pronto a fuggire
in caso di furia cieca di mio padre, per occuparmi dell’omicidio di Allison. Se
fossimo sopravvissuti a Charles Hawkins, avrei sicuramente avuto tutto il tempo
del mondo per farle passare un brutto, bruttissimo, quarto d’ora. Dio, mi ha
fatto perdere cent’anni di vita! Ma come poteva esserle venuto in mente di dire
certe cose davanti ad un puritano come mio padre, un repubblicano metodista e
fariseo come pochi?
Mentre ogni secondo nella mia mente
sembrava durare dozzine di minuti, la risata canterina di Allison risuonò per
l’intera stanza: “Ma naturalmente signore!!! … ci siamo conosciuti sì in un bar,
ma l’unico interesse comune che abbiamo sono i libri, mi creda!”
Vidi mio padre
ridere assieme a lei, ma non ero sicuro che fosse una risata onesta, di
spirito. Io ripresi a respirare, ed il mio pensiero corse immediatamente a
Caroline, che era seduta alla scrivania di nostro padre, intenta a disegnare.
Quanto aveva captato dell’exploit di Allie? Di solito tendeva ad estraniarsi mentre
si dedicava al disegno, ma sapevo che quando si trattava di cose piccanti o
pettegole, era sempre pronta con le antennine ritte e pronte all’ascolto. 10
anni e mezzo … ho detto tutto.
Andai verso di lei, mentre mio padre
spiegava ad Allison che le sembrava un volto conosciuto.
“Ehi” sussurrai all’orecchio di mia
sorella, piegandomi su di lei “cosa disegni di bello?”
Era ancora un primissimo scheletro, ma
già si distinguevano Allison e mio padre al centro, in piedi di fronte al camino,
che ridono e conversano amabilmente.
“E poi ci sarai tu” mi rivelò
“all’angolo del camino, più indietro, con il tuo solito broncio e le mani nelle
tasche dei pantaloni”
Ogni visita di Caroline a nostro padre
terminava sempre così: con lui che la manda a disegnare, così da poter
occuparsi di ciò che gli interessa davvero. Pensava così di assolvere al suo
ruolo di padre, scaricarsi la coscienza dal peso di un assenteismo reiterato e
intenzionale una volta ogni due settimane – nonostante il giudice avesse deliberato
la custodia congiunta – e mandando l’autista sotto casa ogni mattina per
portarla a scuola. Ma il risultato era solo una figlia sempre più distante e
confusa, offesa nella sua grande intelligenza. “Mi creda signore” tornai di
nuovo a focalizzare la mia attenzione su Allison “a meno che lei non sia un
frequentatore di locali notturni, non credo che ci siamo mai incontrati prima.
Oltretutto non sono qui da molto … in realtà sono di Indianapolis”
“Indianapolis?!” esclamò mio padre,
stavolta davvero sorpreso, ma solo perché in qualche modo si toccavano i suoi
interessi “c’è una filiale della nostra società. Lo sapevi?”
“Sì, signore, lo sapevo” disse, senza
mostrare il briciolo di emozione per aver evocato, anche se per vie traverse,
la figura di suo padre “Tyler deve avermelo accennato.” Straordinariamente
politically correct, brava la mia Allison.
“Ma dove sono finite le mie buone
maniere? Prego Allison, accomodati!” la invitò mio padre, indicandole il divano
e una delle due poltrone in pelle marrone-rossiccio di fronte al camino. Mentre
Allison si sedeva, mio padre mi lanciò un’occhiata intollerante, inquisitoria,
che tutto pareva dire fuorché sono
contento, figliolo, che tu abbia incontrato questa brava e simpatica
ragazza,trattala bene.
Falsità, recite e menzogne: questa era
la vita di Charles Hawkins e non riusciva mai a smentirsi. Prima che potessimo
tornare alla conversazione, però, dei colpi alla porta della stanza
annunciarono l’arrivo di Eve. Entrò nella stanza con un carrellino da servizio,
pieno di leccornie per tutti i gusti, che sembrava essere uscito dal Regno dei
Dolci. Cioccolata calda con cannella e panna, praline, bacchette di zucchero,
la tipicissima Christmas cake, biscotti di pan di zenzero … c’era persino una
casetta di pasta frolla tutta decorata, che sembrava uscita direttamente dalla
fiaba di Hansel e Gretel: tutto quello che potevi desiderare era in quei vassoi
e Caroline, per quanto matura, restava pur sempre una bambina nel giorno di
Natale così, nonostante gli abbondanti pasti degli ultimi due giorni sembrò
ritrovare il sorriso e finì col fiondarsi sul carrello e la povera Eve, che a
stento riuscì a contenere la sua golosità.
“Vogliate scusarmi un attimo” si
congedò mio padre, mentre la signora Hill era riuscita a catturare l’attenzione
di Allison. Dovevo riconoscere che anche io non ero rimasto indifferente a
tutto quel ben di Dio, e non seppi dire proprio di no ad uno di quei cupcakes
con le divertenti decorazioni natalizie, dalle renne di marzapane ai pupazzi di
neve di zucchero, disposti su un’alzatina a forma di albero di Natale. Chissà
perché a Natale basta davvero poco per rallegrare l’aria e far tornare tutti
bambini.
“Come va?” chiese premurosa Eve ad
Allison.
“Bene, grazie” le sorrise, cordiale.
“Bene …” ironizzai “figuriamoci! Puoi
dirla la verità … dille che ti sta spellando viva …”
“Ma perché dovrei mentire Ty?!” si
oppose “sono solo una sconosciuta per lui, è normale che mi faccia un po’ di
domande. È una persona un po’ formale, su questo siamo d’accordo, ma non per
questo è sgarbato o altro”
“Se lo dici tu …” mi arresi;
d’altronde lei non poteva conoscerne l’animo subdolo e manipolatore, non poteva
apprezzare le sue doti di giudice implacabile e censore della moralità
nazionale. Lo conosceva del resto solo da cinque minuti, quel tanto che basta
ad ammaliare con classe e charme dal tocco europeo. È a lungo andare che i
difetti verrebbero a galla.
D’altro canto però dovevo dargli atto che
non si era lasciato distrarre dal suo lavoro o non si era immerso in un elogio
auto celebrativo dei suoi, del tipo: io ho fatto, io ho detto.
“Oh Tyler” mi rimproverò la signora
Hill “Allison ha perfettamente ragione … se solo non ti ostinassi a vedere in
tuo padre il marcio che non c’è …”
Il marcio che non c’era? Come lo
chiamavano loro uno che impone ai proprio figli una vita che non vogliono,
anche a costo di sacrificarli pur di averla vita, nel rispetto del buon nome
della famiglia e non della loro felicità e autorealizzazione. Poteva anche
essersi redento agli occhi degli altri, ma per me rimaneva solo uno sporco
dittatore egoista.
Non feci in tempo ad oppormi che Charles rientrò nella stanza. Senza dire una
parola d’affetto o anche solo d’augurio, consegnò a me e Caroline due grossi
pacchi regalo, mentre ad Allie ne diede uno più piccolo.
“Se Tyler mi avesse avvisato per tempo
che saresti venuto anche tu avrei provveduto diversamente” le disse, mettendomi
come sempre in mezzo e come sempre in cattiva luce.
“Oh signor Hawkins!” lo bloccò Allie
“non ce n’è bisogno davvero! Non posso accettare!”
“Ah!” la riprese lui,
sorridendole “non accetto che mi si dica di no!” Mi vantavo di sapere
distinguere alla perfezione gli atteggiamenti di mio padre, le sue recita, ma
questa volta era davvero difficile, il limite tra realtà e finzione era
particolarmente labile.
Rimasi a guardare Allison che, ancora
meravigliata, apriva il piccolo cadeau. All’interno c’era un fermaglio
impreziosito da cristalli a forma di fiocco di neve e mi scappò da ridere a
pensare che, per un attimo, quasi avevo creduto alla buona disposizione di mio
padre nei suoi confronti. Quel fermacapelli era la versione femminile del
regalo aziendale che mio padre ogni anno distribuiva ai dipendenti. Per anni,
infatti, mia madre aveva scelto personalmente il modello della spilla, o del
ciondolo o del fermaglio di turno. Riconoscevo ora la carta regalo ed il logo
della bigiotteria di lusso che li forniva. Nemmeno il fiocco del pacchetto era
cambiato negli anni. E conoscevo anche bene l’abitudine di mio padre di
riportarsene sempre un paio a casa, nel caso fosse capitato un regalo
dell’ultimo minuto.
Allison ne era entusiasta e lui era
riuscito nel suo intento e me ne aveva messa un’altra contro, sul fronte della
nostra guerra privata. Il suo sorriso soddisfatto e compiaciuto ne era una
prova lampante.
Caroline invece era rimasta senza
fiato davanti al piccolo carosello meccanico, evidentemente di altissima
fattura artigianale, che aveva ricevuto in dono. Era un pezzo di grandissimo
valore, che si andava ad aggiungere alla sua già grande collezione di giostrine
simile che aveva iniziato da piccolina e che ora era diventata una vera e
propria città dei balocchi. Caroline partire la carica e la musica del carillon
interno era sognante, incantevole. Sembrava d’immergersi in un sogno d’altri
tempi.
“E tu Tyler?” mi chiamò mio padre “tu
non apri il tuo regalo?”
Ero indeciso se accettarlo o meno, ma
pensai che se lo avessi restituito avrei fatto ancor di più il suo gioco,
specialmente con Allison presente. Avevo in mente un altro genere di smacco per
lui.
Aprii la shopping bag, che portava la
firma del più grande store di abbigliamento vintage di New York, e quello che
vi trovai andava ben oltre ogni aspettativa, oltre ogni peggiore previsione. Fu
un colpo terribile.
“So che ami il vintage” disse mio
padre “mi hanno detto che questo è un pezzo incredibilmente raro”
Era una giacca originale di Bob Dylan,
un mito per Michael. Stava per ore ad ascoltarlo e per lui quella giacca era
come l’Eldorado, una miniera d’oro e di fortuna. Durante i suoi anni di college
abbiamo girato mezz’America ogni estate per trovarla, visitato ogni negozio
possibile, ma nessuna replica che fosse come quella. E ora davanti a me, tra le
mie mani, avevo l’originale.
E mio fratello gliel’aveva persino
chiesta per i suoi diciotto anni, l’unica preghiera della sua vita a nostro
padre … ma lui preferì regalargli l’orologio del nonno. Banale e insensibile;
ma lui aveva detto che non voleva vedere suo figlio come uno di quei pezzenti
che stanno alla YMCA.
“Eve” mi rivolsi alla governante,
sperando che recepisse il messaggio dal mio sguardo eloquente e corrucciato
“perché non porti Caroline con te?” Mio padre rimase sconcertato, lo vedevo dai
suoi occhi come il sangue gli s’era raggelato nelle vene. Ed anche Allison sembrò
essere colpita dalla stessa preoccupazione, lo percepivo dalla sensazione
sgradevole di avere i suoi occhi puntati addosso. Rimasi tuttavia con lo
sguardo fisso su mio padre, con aria di sfida, ma con la cosa dell’occhio
mantenni la situazione sotto controllo; vidi Allison spostarsi verso Caroline
ed andarle vicino, aiutandola a raccogliere i fogli ed il materiale da disegno.
Mia sorella dal canto suo non batté ciglio; sapeva che tra me e mostro padre
finiva sempre a quel modo e non ne faceva più un dramma, era moralmente
preparata a sostenere l’urto.
“Vengo con te Caroline” le disse Allie,
dolce e attenta nei suoi confronti.
“Non c’è niente che io abbia da dire
che tu non possa sentire Allison” la fermai, anche un po’ bruscamente e
vagamente autoritario, sperando che decidesse di rimanere al mio fianco. Ne
avevo bisogno come l’aria i polmoni, come spiraglio d’aria fresca in una camera
piena di gas.
“Sono affari di famiglia Tyler, non mi
sembra il caso” sentii la sua voce tenace e ferma, che suonava alle mie
orecchie come un rimprovero per aver rovinato tutto-
“Eh no Allison” la corresse mio padre,
tagliente “a quanto pare fai parte della
famiglia molto più di quanto tu stessa voglia ammettere. Perciò rimani”. Quelle
ultime due parole suonarono come un obbligo per Allison, che non poté fare
altrimenti.
Eccolo lì il vero Charles, quello che
tutti tranne me facevano finta di non vedere, quello cinico, autoritario,
prevaricatore.
La sua voce tuonava
imperiosa,offensiva,denigratrice; ma non era più capace di ferirmi. Ne avevo
prese talmente tante, che ormai ero in grado di farmi scudo e proteggermi da
qualsiasi angolazione e con qualsiasi arma colpisse. Solo tre miei punti
deboli: la famiglia, quella vera, la memoria di Michael ed Allison. Ma non gli
conveniva colpire lì: se solo ci avesse provato, sarebbe finito in cenere.
“qual è il tuo problema Tyler?” chiese, non appena Eve e Caroline ebbero chiuso
la porta alle loro spalle.
“Bob Dylan era il cantante preferito
di Michael … quella giacca doveva essere il suo regalo perfetto, non il mio” lo
accusai, arrancando con la voce man mano che i ricordi tornavano a galla
prepotenti e dolorosi “non fingere con me di essere il padre generoso e attento
che non sei mi stato … che mai potrai essere”
Anni di frustrazioni, di bocconi amari
inghiottiti per forza, lacrime trattenute per dimostrare di essere il più forte,
schiaffi morali e rifiuti subiti stavano consumando la loro vendetta in quel
momento; eppure non aveva il sapore dolce che si dice l’accompagni. E non era
fredda. Aveva il sapore acre del sangue e bruciava dentro come il fuoco, senza
vederne l’estinzione. Lui sembrava persin più forte di me, non curandosi delle
mie accuse,, arroccato nella sua torre di pietra, alta ed ermetica al punto da
non sentire né vedere più nessuno eccetto sé stesso.
“Lo farai credere a Caroline”
proseguii “ma a me non lo nascondi che ogni anno è Janine ad occuparsi dei
regali di Natale”
Ricordo ancora quando Michael ed io
scoprimmo nostra madre al telefono con la segretaria di nostro padre, per
accordare i regali di Natale, lo sdegno da parte mia, allora solo uno
studentello di liceo, nel sapere che neanche durante la festa più importante
dell’anno quell’uomo era capace di dedicare cinque minuti ai suoi figli.
“Ma tu che ne vuoi sapere di come
funziona la mia vita … il mio lavoro … che ne puoi sapere di quello che faccio
io per farvi fare la vita che fate?” mi rimproverò. Ma erano parole al vento,
gridate all’aria e volate via, di cui rimaneva solo un’eco destinato
evitabilmente a svanire. Io non ricevevo più un dollaro da lui da una vita, non
mangiavo alla sua tavola da almeno un anno ed i suoi regali li ripagavo ogni
volta fino all’ultimo centesimo. Non mi poteva comprare così.
Del suo lavoro sapevo d’altronde che
non l’avrei mai fatto: una vita di lusso ed esclusività a discapito dei
rapporti interpersonali? No, grazie. Povero in canna ma felice con amici e
famiglia suona decisamente meglio. Morto Michael mi ero riproposto di
continuare per lui, ma dall’incontro con Allison molte cose erano cambiate, io
stesso mi sentivo profondamente diverso, finalmente vivo dopo mesi e mesi di
torpore. C’era in me una nuova consapevolezza di me stesso, pronta a
rivendicare i propri diritti, pur nella memoria di mio fratello. Ma c’è Tyler
sulla Terra, sembrava ripetermi ogni giorno la coscienza.
“Tu l’unica responsabilità che hai è
quella di cambiarti le mutande al mattino … cosa ne puoi sapere di aziende come
la mia? Sei solo un ragazzino …” insinuò “che si diverte tra alcool e
puttanelle. Come la paghi lei … a ricariche telefoniche?”
Vidi Allison crollare di getto in
ginocchi sopra il tappeto di fronte alla finestrone in fondo alla stanza, che
dominava l’intera New York notturna, totalmente illuminata a festa. Le andai
vicino e la trovai pallida e muta, senza lacrime o parole per potersi indignare
e difendersi dal fango uscito dalla bocca di quello che, solo sulla carta,
rimaneva mio padre.
“Ma che cazzo dici!!!” scattai,
rivolgendomi a quella figura di bronzo che stava davanti a me, immobile ed
saldo, come se nulla di ciò che dicesse o facesse lo toccasse minimamente “come
cazzo ti permetti???”
Mi alzai repentinamente e gli andai
incontro con veemenza, vedendo tutto nero attorno a me. Questa volta aveva
superato ogni limite di decenza, rispetto, educazione. Il primo peccatore del
mondo che scagliava pietra su pietra contro una vittima della fame de della
violenza. Senza provare nemmeno per un attimo a capirla, ad immedesimarsi. Solo
per sentito dire, solo per il suo giudizio dall’alto di un piedistallo.
Lo spinsi contro una parete, prendendolo
per il bavero della camicia. Nella mia vita avevo fatto tante cazzate, tanti
errori di cui poi mi ero puntualmente pentito,ma quella non era certo
nell’elenco: per la prima volta , forse, usare la violenza mi era sembrata la
cosa più giusta da fare, forse addirittura l’unica.
“Credi … credi” tentò Charles di
parlare, annaspando nella morsa delle mie mani. Non volevo fargli male davvero,
solo fargli capire che il suo era solo un delirio di Onnipotenza che anni di
adulazione da parte dei suoi dipendenti lecchini e paraculi avevano contribuito
a consolidare Doveva darsi una svegliata e quale miglior strategia se non
quella di fargli sentire la terra mancargli sotto i piedi, fargli capire che è
un signor nessuno.. Doveva scendere dal trono, prima che potesse trasformarsi
in un patibolo e ritorcersi contro di lui. Non volevo ferirlo, solo istillare
in lui un sano terrore della fine, la sua fine. Placai la stretta e lo lasciai
parlare: “Credi che io non sappia niente … di te, di Caroline … ma io so tutto
di voi. So quando starnutisci … figurati se non so dove l’hai raccattata
quella lì”
“Noto con piacere che non hai perso il
vizio di farci controllare a vista come se fossimo dei ricercati …” lo lasciai
andare e mi tirai indietro, ridendo sardonico mentre lui divorava letteralmente
l’aria e respirava voracemente. Non potevo credere che l’incubo di Michael
stesse prendendo vita con noi di nuovo e lui stesse ripetendo di nuovo lo
stesso errore con me e Caroline, sorvegliati speciali da un pull di agenti
segreti e guardie del corpo come quando Michael cominciò a lavorare per lui e
la sera andava a suonare comunque di nascosto. Non gli era servita ancora di
lezione la perdita del suo figlio preferito? Mi lavai le mani di lui e le
scossi, platealmente, per ripulirmi dallo schifo di aver anche solo tocaato i
suoi abiti, sporchi del sangue del suo primo figlio e di quello che avremmo
versato io e mia sorella quando sarebbe giunto il nostro turno. Ma volevo salvarci entrambi da
lui prima che fosse troppo tardi. Fosse stata l’ultima cosa che avrei fatto in
vita mia.
Allison in tutto questo se n’era
rimasta accasciata al suolo, sconvolta ancor più dalla mia frenesia che
dall’onta ricevuta. Avevo sentito infatti i suoi continui richiami ed i suoi
inutili sforzi a calmarmi, nonostante i riguardi poco cavallereschi che Charles
aveva avuto nei suoi confronti; ma tutto era arrivato alle mie orecchie
ovattato, come se l’adrenalina che circolava nel mio organismo avesse fatto di
me un sordo, almeno temporaneamente.
Corsi di nuovo da lei che mi guardò
severa, arrabbiata quasi. “Sai che te ne pentirai” mi sussurrò. “Sai che non
accadrà mai” le risposi, serio ma risollevato.
L’aiutai a rialzarsi e guardai mio
padre, con il fuoco che ancora divampava dentro di me. Solo avere Allison
vicina mi ritraeva dalla voglia di strappargli i coglioni, perché uno che parla
e si comporta così … che uomo è?”
“Forse non ti conosco bene come dovrei
… ma so bene che non sei il gentiluomo che fingi di essere … e so che tra noi
non sono io a dover dispensare regali per farmi amare da chi mi circonda.
Andiamo via Allison” la trascinai per un braccio di peso “lo sapevo che non
dovevamo venire qui oggi …”
L’accompagnai fuori dallo studiolo e
andai a chiamare Caroline, che era in cucina con la signora Hill ed il signor Smith,
l’autista, a finire la sua cioccolata.
“Non si preoccupi Smith” tranquillizzai
l’autista che si stava affrettando a risistemarsi la divisa “non c’è bisogno
che ci accompagni. La metro andrà benissimo”
“Ma signor Hawkins” replicò lui –
dello staff di mio padre, infatti, solo Janine e la signora Hill che ci
conoscevano da una vita erano abituate a trattarci con confidenza, per gli
altri eravamo solo i figli del capo “fa freddo fuori e la stazione più vicina è
lontana. In più avete i pacchi regalo con voi, quello della signorina Caroline
è fragile, non vorrei si rompesse …”
“Allora accompagnerà solo Caroline ed
Allison.” Mi sembrava la cosa più giusta da fare. “E non prenda il mio regalo”
aggiunsi “quello rimane qui.” Se non lo volevo prima, Charles Hawkins mi aveva
dato un ulteriore buon motivo per lasciarlo dov’era.
Andai insieme a Caroline all’ingresso,
dove Allison si era già rivestita. Aiutai mia sorella con il cappottino e mi
chinai a darle un bacio in fronte prima di abbassarle bene il cappellino sulle
orecchie; mi rialzai e sistemai bene anche la sciarpa di Allison. L’abbracciai
ai fianchi e la attirai a me in modo da averla più vicina che potevo e far sì
che mi guardasse bene negli occhi. “Passerà anche questa” le dissi,
massaggiandole energicamente le braccia. “È già passata” rispose e sorrise,
seppur sommessamente. Se la sua era la verità ne ero contento; era tanto forte
la mia Allie, una guerriera. Speravo ardentemente che non lo dicesse per farmi
stare tranquillo.
“Voi andate … io ho ancora qualcosa in
sospeso” dissi loro, guardando verso lo studio, dove le luci s’erano spente e
da cui provenivano solo i bagliori del focolare e delle sue fiamme.
“Tyler, non fare niente di cui potrai
pentirti” si raccomandò Allison, puntando lo sguardo verso Caroline. Capivo a
cosa si riferisse: non era solo mio padre e Caroline nel bene e nel male gli
voleva bene, e lo ammirava molto.
“Tranquilla …” la rassicurai e sembrò
fidarsi di me. Avrei lottato contro me stesso per ripagarla del suo sostegno e
della fiducia a volte cieca che mi accordava; non potevo prometterle che non l’avrei
più rivisto dopo quella sera, ma non avrei permesso che il nostro astio
rovinasse il suo rapporto con Caroline e nemmeno che lui trovasse un pretesto
per parlarle male di me. “Non so se tornerò da mamma stasera. Al limite ti
chiamo” le feci l’occhiolino e mi rispose con un sorriso timido dei suoi. Ed io
mi sentii riscaldato e avvolto da un’aura protettrice e corroborante.
Alle
persone basta davvero poco per stare bene insieme, anche nei momenti meno facili
e felici. Se solo mio padre fosse stato in grado di capirlo, forse tante cose
sarebbero andate in maniera diversa.
Tornai dove lo avevo lasciato e lo
trovai seduto alla scrivania, riverso totalmente su qualche documento o
qualcosa di simile. Mi avvicinai a lui ma non se ne accorse, i passi attutiti
dai tappeti che ricoprivano l’intero parquet.
Quello che stava studiando era il
regalo di Caroline, un ritratto ad acquerelli di nostro padre a Martha’s
Vineyard, alla casa al mare dei nonni, preso da una foto di qualche anno fa,
quando lei, forse, non era nemmeno nata.
Forse era il suo modo per dirgli che
avrebbe desiderato vederlo in quel modo, sereno e rilassato, senza quei gessati
super costosi e fuori dai grattacieli claustrofobici e vertiginosi fuori da un mondo che per lei era il mostro
che le rapisce il padre per intere settimane.
“Lo vedi che hai sbagliato tutto?!”
Alzò lo sguardo alla mia voce e non
appena si accorse che ero lì, si affrettò a ricomporsi e a ridarsi il suo
solito aplomb. Tuttavia per un istante colsi nei suoi occhi non solo sorpresa,
nel vedermi ancora lì, ma anche e soprattutto quella che avrei detto essere
disperazione. Ma fu un nanosecondo, prima che potesse calarsi nuovamente nei
panni dell’orco.
“Quando Janine mi ha fatto vedere
quella giacca l’ho riconosciuta subito” confessò “ho pensato che potesse farti
piacere avere qualcosa che sarebbe piaciuto a Michael … non dimentico quanto
gli fossi legato”
L’avevo quasi preso a botte e lui
parlava della giacca, ancora. Guai a non conservare le apparenze in casa
Hawkins, che squallore! Ma non mi intontiva con le sue chiacchiere, così decisi
di riprendere l’argomento che mi stava più a cuore. “Spero proprio che tu
capisca che dopo quanto è accaduto io e te abbiamo chiuso. Non è mettendoci
appresso dei segugi che ti dimostri attento. Spero che questo consiglio possa
aiutarti con Caroline … lo vedi” dissi, prendendo in mano il lavoro che gli
aveva dedicato “per lei conti moltissimo!”
Mi scrutò con attenzione e incrociammo
i nostri sguardi; non più da padre a figlio ma da uomo ad uomo, da perfetti
pari. Non avevo paura a reggere il suo sguardo, non c’era più nessuna reverenza
filiale che potesse frenarmi: era diventato un estraneo, in tutto e per tutto. “Forse
ti starai divertendo a fare l’eroe ora” dichiarò, senza perdere la sua natura
sfrontata e sprezzante “ma prima o poi ti stancherai.” Era chiaro come il sole
che stava parlando di Allison. “Ma chiudila qui questa pagliacciata, Tyler.
Prima che sia io a decidere che può bastare. Sei un Hawkins, da te ci si
aspetta un certo comportamento. E quella sgualdrina deve uscire dalla tua vita
e da quella di Caroline. Subito. Te lo dico con le buone anche per il bene di
tua madre. Non mi costringere a passare alle cattive ... non vuoi che si ritrovi
la polizia in casa, vero? Non ci vuole niente a far scoppiare uno scandalo,
Tyler”
Per quanto quelle minacce suonassero
terribile non mi facevano minimamente paura. Sapevo che non ci sarebbe mai
riuscito. Era talmente interessato a mantenere la facciata immacolata, che
scatenare uno scandalo che lo avrebbe risucchiato inevitabilmente era l’ultima
delle sue aspirazioni. E poi, se era vero che ancora provava qualcosa per mia
madre, non l’avrebbe mai esposta a tal punto o messa nei guai.
“Io non sono uno dei direttori dei
tuoi giornali, a cui fai cambiare colore politico per conservare il posto di
lavoro. Non sono nemmeno Michael, che hai omologato ai tuoi canoni di
perfezione. Non mi piego, io.” Purtroppo questa era la verità. Mio fratello non
era stato abbastanza forte da resistergli. Bisognava essere altrettanto forti
per tenergli forza e forse era questo, purtroppo, il punto. Talmente uguali da
respingerci, io e mio padre eravamo della stessa pasta.
“E mi aspetto” continuai “che nei prossimi
giorni arrivi a casa di mamma una lettera di scuse formali alla signorina
Allison Eugenia Riley.” Doveva capirlo che in vita mia non ero mai stato tanto
serio.
“Avrà anche fatto la spogliarellista
per sopravvivere” era inutile mentire, dal momento che
probabilmente ne sapeva
anche più di me sul suo conto “ma è soprattutto una
povera ragazza sfortunata,
a cui la vita ha riservato prove persino più dure delle nostre.
Suo padre era oltretutto un tuo dipendente ad Indianapolis, se ti
può interessare. Viene da una
buona famiglia … è solo una vittima delle tante
cattiverie di questo mondo di
merda”
Detto questo gli voltai le spalle, prima
che potesse prendersi la briga di rispondermi. Svuotai il mio portafoglio – più
o meno 300 dollari tra i regali in denaro che avevo ricevuto negli ultimi
giorni – sulla giacca di pelle che doveva essere il mio regalo, abbandonata sul
divano dello studiolo e me ne andai, senza salutare, senza nemmeno la minima
tentazione di voltarmi indietro.
NOTE FINALI
Non ho molto da dire per congedarmi da questo capitolo. Forse nessuna di voi (e nemmeno io) si aspettava un Tyler così.
Ma è stato colpito laddove fa più male, nei suoi affetti più cari e nella memoria di suo fratello.
è pero questo il capitolo dove ci accorgiamo che Tyler è
cambiato molto dall'inizio della storia. ma la vita è
così, ci modella a partire dalle nostre esperienze.
Mi preme come al solito ricordarvi di fare attenzione al testo della
canzone che ci accompagna. Mai scelta a caso...e in questo capitolo di
più delle altre volte.
Dove ci porterà tutto questo? Non credo per ora di poter aggiungere altro se non...dateci dentro con le recensioni =)))
Grazie mille per la vostra gentilezza ed il favore che sempre mi accordate
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** Good life (hopelessly) ***
When you crash in the clouds - capitolo 20
Capitolo 20
Good life (hopelessly)
soundtrack
“Tyler?! Tyler mi ascolti?”
“Eh?! Sì, che c’è?”
“È da un paio di giorni che sei strano … si può sapere che hai?”
E come te lo faccio a
spiegare amore mio? Come te lo dico, anche se probabilmente sei
abbastanza intelligente da averlo già capito, che dietro alla
mia distrazione c’è quello stramaledetto pomeriggio
nell’ufficio di mio padre?! Il tuo di padre, invece, mia amata
Allie, il grande uomo che amavi e ami ancora così tanto, in una
maniera che io non oso nemmeno sperare, è vivo e ti sta cercando.
E so che sono un mostro,
ma sai che c’è? Che non oso dirtelo, perché temo,
anzi sono sicuro, che firmerei la mia condanna e sarei costretto a
lasciarti andare. E non sono disposto a farlo, non ora che ti sento
tanto vicina.
“Mi ricordi per
piacere il motivo per cui siamo qui?” risposi con un’altra
domanda, inventando la prima cosa che mi passava per la mente,
buttandola sul ridere, dispersi nel reparto maschile di un non meglio
per me identificato negozio di intimo all’interno del Manhattan
Mall, in cui lei mi aveva trascinato a forza un’oretta prima.
“Perché non
posso tollerare che stasera non indosserai niente di rosso”
rispose calma e seria. “E dal momento che non vuoi mettere il
maglione che ti ha regalato tua zia, un paio di boxer non dovrebbero
costarti tanta fatica”
“Ascolta
bene” rimbeccai “il Natale è passato ormai e non ho
intenzione di travestirmi da Babbo Natale con il maglione di mia zia
…” la vidi ridere di gusto e dimenticai tutti i crucci che
mi affollavano la mente, ogni nuvola che mi annebbiava il cervello e mi
impediva di godermi appieno il presente, anziché calcolare e
pianificare il futuro maniacalmente. Evidentemente anche lei concordava
con me che quella maglia era un orrore, mancavano i folletti e il
Grinch e avremmo avuto un film di Natale perfetto su un maglione di
lana: orribile, nemmeno le associazioni caritatevoli lo avrebbero
voluto!
“E comunque”
proseguii “non comprerò un paio di boxer che so già
indosserò solo per un paio di ore, dal momento che
c’è un’alta percentuale di possibilità che tu
me li strapperai di dosso”
Non so se a provocare la
sua reazione stizzita furono le mie parole, oppure il mio ammiccare
volutamente accentuato e squallido. Ma adoravo persino vederla andare
in bestia, perché era allora che diventava adorabile: possedeva
una carica energica invidiabile, ed era uno spettacolo vederla
scatenarsi.
“Pensi che non
sappia resisterti?” domandò, cercando invano di non
scomporsi troppo. I luoghi pubblici erano la cosa migliore che potesse
capitarci in molto circostanze: in molti casi erano la sola ragione per
cui avevamo evitato di essere arrestati per atti osceni in luogo
pubblico, contenendoci in nome della pubblica decenza.
“No”
l’affrontai, arrogante e pungente “penso che io non
saprò resisterti … specialmente se hai intenzione di
indossare quel completino sexy che ho sbirciato in camera tua”
Come risposta mi arrivò un bel ceffone in piena guancia: beh, quello un po’ me lo meritavo.
“Quanto sei
stronzo!” fece l’offesa, ma era evidente che non riusciva a
trattenere le risate “ti hanno mai detto di non ficcare il naso
negli affari e nei guardaroba delle signore?”
“Seeee … ha parlato Jacqueline Kennedy …”
Quella era la cosa
più bella e straordinaria tra noi, che con fatica e un bel
po’ di musi lunghi, stavamo conquistando e gustando sempre di
più: potevamo permetterci anche il lusso di sfotterci e
prenderci a parolacce, sicuri di ridere anziché sentirsi offesi
alla fine del gioco.
Si poteva anche parlare
di sesso pur non stando insieme. Avrei certo preferito qualcosa di
più, ma ero un uomo e non una stupida liceale. Anche se molto
lentamente, iniziavo a non farne più un dramma: me la godevo
finché potevo così com’era, soprattutto dal momento
che probabilmente molto presto avrei dovuto salutarla
In fondo, a ben vedere,
ci mancava solo l’etichetta, e a me nemmeno serviva: eravamo a
tutti gli effetti una coppia, migliore anche di quelle vanno in giro a
sbandierare il loro amore ai quattro venti e poi alla prima
difficoltà gettano la spugna invece che sedersi a tavolino e
discutere, cosa che invece noi facevamo praticamente tutti i giorni.
Eravamo una coppia
… ma chi prendevo in giro, non c’era mai stato un noi
… e per quanto ne sapevo non c’era alcuna speranza che ci
sarebbe mai stato; perché lei sarebbe tornata ad Indianapolis ed
anche a voler fare i romantici: quanto sarebbe potuta durare una
storia, un’amicizia, a miglia e miglia di distanza? La risposta:
neanche il tempo di dirsi ciao.
“Comunque”
riprese lei, dondolando un paio di boxer rossi sotto il mio naso
“prova questi. Non c’è nessuna scritta stupida e
dovrebbero essere della tua taglia, corri a provarli che voglio uscire
da qui!”
Quando le feci notare che
non era colpa mia, che io nemmeno ci volevo entrare in quel centro
commerciale, mi ritrovai sotto il fuoco incrociato di maledizioni,
occhiatacce e percosse con borsa che mi ricordarono la prima regola per
la sopravvivenza da shopping: annuire sempre e comunque, anche se la
ragione era dalla nostra. Quanto era vero che le donne cadevano in
trance durante la caccia al saldo, come fossero davvero felini in cerca
della preda migliore. Ed Allison non era da meno, pur dando il suo
tocco un po’ rock e maschiaccio all’intera faccenda.
Riuscii a trascinarla
fuori da lì solo dopo aver sventolato bandiera bianca ed aver
accettato la resa. Sembrava una bambina di cinque anni davanti al suo
dolce preferito quando le dissi che potevamo prendere quei boxer, per
quanto inutili continuassero a sembrarmi. In realtà, tutto quel
tira e molla aveva avuto anche dei benefici, al meno a giudicare dai
miei ormoni, ormai da un mesetto con residenza ufficiale su Venere: dal
camerino, e sbirciandola dalle tendine notai che si era buttata a
capofitto su una cesta di felpe maschili scontatissime, ma che
probabilmente o erano Made in China o erano di 20 anni fa e nessuno le
voleva più. Ma a lei facevano impazzire, le avrebbe messe anche
per uscire, e più erano vecchie e malandate e più le
piacevano, soprattutto se avevano le maniche lunghissime da poter
tirare e nasconderci dentro le mani. Un segno ulteriore di quella sua
sensualità un po’ naif e un po’ inconsapevole che
adoravo. Da quando poi era fuori dal giro di malaffare in cui
l’avevo scoperta, infatti, molto del suo savoir faire era andato
perso, a favore però di quella dolcezza e quel romanticismo che
non speravo quasi più di trovare in lei.
Era una ragazzina
maleducata e mascolina che giocava a fare la femmina, quando
l’avevo conosciuta, sboccata e goffa; smuoveva l’ormone,
certo, ma non era Miss Eleganza. Sembrava un’altra persona,
quella che avevo ora davanti a me; mi sembrava impossibile, e non mi
sembrava quasi vero che potevo attribuirmene il merito, ma
l’esserci incontrati ci aveva cambiati, tanto: lei era sempre
più donna, ancora ragazza, ma sicuramente conscia di sé
molto più di prima, non solo dei suoi doveri, ma anche e
soprattutto dei suoi diritti, come essere pensate e con un cuore pieno
di emozioni.
Era una sorpresa continua
quel volto mutevole e capriccioso, con una scala di espressioni diverse
che si alternavano ad ogni nuovo stimolo; e a me piaceva stare
lì a fissarla, senza dire una parola, magari di nascosto,
guardala passare dal pensieroso al felice, per una pagina bella di
qualche libro, dal serio al triste, per qualche notizia del
telegiornale, dall’eccitato al completamente rapito, quando
eravamo solo io e lei, e ad entrambi sembrava di toccare il cielo con
un dito. Era in quei momenti che riuscivo a convincermi che anche lei
mi amava ed era solo questione di tempo. Ma poi, al mattino, ecco la
sveglia e la doccia fredda.
“Ti ha chiamato
Caroline?” le chiesi, fermi ad un chioschetto di hot dog sulla
35sima West di Manhattan; ormai era lei a tenersi in contatto con la
mia famiglia, abitando con loro e occupandosi della casa. Mia sorella,
mia madre e Les erano partiti da un paio di giorni e, per niente
dispiaciuto di passare per un cafone, non mi mancavano. Non mi ero
trasferito da Allison solo perché sapevo che l’avrei messa
a disagio e mi bastava andarmene via tardi, o riaccompagnarla a casa
dopo essere stati fuori tutta la sera. Portarla da me, non era il caso,
Aidan era l’altra ragione per cui non potevo permettermi di
dormire fuori casa: con il capodanno già nelle vene, ossia con
una dose massiccia di alcool in corpo, mi avrebbe ridotto casa in un
cumulo di immondizia, merda e vomito senza rendersene conto: aveva
bisogno di una balia e di un’infermiera. Lui c’era stato
per me ed io dovevo estinguere il mio debito nei suoi confronti.
“Sì,
stamattina” rispose lei “era contenta perché
c’era una bufera di neve e non se ne vedeva via d’uscita.
Il che significava che non avrebbe messo piede fuori dall’albergo
per un bel po’ ”
Non c’era nulla da
dire, io e mia sorella eravamo fatti della stessa pasta su quel fronte:
dateci una poltrona e saremmo campioni mondiali di stampa del sedere
sul cuscino, ma farci praticare alcuno sport è pari ad una
condanna capitale.
“Quanto è
stupida!” commentò Allison “Diane le aveva proposto
di andare a pattinare nella pista privata del Resort e ha detto di no!
Se ci fossi stata io non le avrei nemmeno fatto finire la frase che ero
già a bordo pista”
“Davvero?”
domandai, mentre sentivo già l’omino del cervello
accendere l’interruttore e la lampadina accendersi in ogni
singolo neurone.
“Mm mm”
annuì. La presi per mano ed iniziai a correre. La sua presa era
salda, fiduciosa, seppure le sue parole inducessero a pensare al
contrario: “Si può sapere dove andiamo? Tyler vuoi
rispondermi?!!!”
Correvo a perdifiato e mi al contempo cercai di godermi ogni secondo che, senza malizia, quelle dita erano intrecciate alle mie.
Scendemmo nella stazione
della metro ad Herald Square e ci infilammo in uno dei vagoni della
linea B colma di gente come solo durante le feste può esserlo:
turisti, lavoratori in ferie, ragazzini in vacanza dalla scuola.
Trovare un posto era impossibile, così mi curai almeno che Allie
fosse al sicuro da mani leste o morte, non avevamo tempo per la
comodità. Le feci scudo tra le mie braccia e lei sembrò
apprezzare, anche se era ancora un po’ interdetta per questo
cambio repentino di programma, per lei oltretutto ancora sconosciuto
… il che, sono sicuro, la rendeva ancora più nervoso e
scostante. Mi piaceva prenderla alla sprovvista, dal momento che
generalmente non era mai contenta se non metteva bocca in tutto e ci
mettesse la firma, dando l’ultima parola. Era bello chiuderle
quel becco ogni tanto, per adorabile che fosse.
La vidi drizzare le
orecchie e farsi più attenta quando le dissi che Rockefeller
Plaza sarebbe stata la nostra fermata e dovemmo scendere.
La folla per strada era
immensa e quasi le correnti di aria gelida avevano difficoltà a
diffondersi con tutte quelle persone che pullulavano per la via: i
giornali e in tv non si sentiva altro che parlare di crisi, di crescita
zero, di mancanza di soldi per le famiglie, eppure attorno a me vedevo
solo una marea di gente con buste e pacchi straripanti. Ed i negozi
sono tutti pieni, dalle 9 alle 20, orario continuato.
Valli a capire gli Americani…
Finalmente vidi aprirsi
davanti a noi un varco tra la folla e la grande statua dorata di
Prometeo del Rockefeller Center si presentò di fronte a noi in
tutto il suo splendore, troneggiando e risplendendo al contrasto con il
bianco della pista di pattinaggio.
“Oh My Gosh!”
urlò Allison in un esplosione di gioia che non le avevo mai
visto prima. Era estasiata, non c’erano parole per descrivere il
suo stato d’animo. Un bambino all’ingresso di Disney World
ad Orlando si sarebbe comportato con maggior contegno a mio parere. Ma
lei era così, una donna d’estremi. Ed era bellissimo
poterla vedere risplendere per la sorpresa e l’emozione. Non la
smetteva di fare la sua scatenata Happy Dance. “Ty! Ty!
Ty!” ripeté saltellando sul posto, aggrappata al mio
braccio che ormai non sentivo più. “Io … io ti
adoro! … mio Dio! Non credo ti renda conto di quanto io sia
felice in questo momento!!!”
May Day May Day … l’abbiamo persa, è ufficiale.
“Direi che una vaga
idea me la sono fa…” ma non feci in tempo a terminare la
frase che mi ritrovai le sue labbra stampate, spalmate sulle mie, con
le braccia arpionate al mio collo a non darmi scampo. E chi ci pensava
a scansarsi?
Le cinsi la vita con le
mie braccia e ricambiai il suo esuberante modo per dirmi grazie. Sapevo
che non significava per lei quello che significava per me, ed è
strano a dirsi ma lo sentivo, percepivo la differenza delle sue
attenzioni rispetto al mio modo di pormi. Ma cercavo di farmi scivolare
di dosso quei fantasmi.
In “Dead poets
society” il professor Keating invitava i suoi ragazzi al Carpe
Diem ed io avevo tutta l’intenzione di cogliere l’attimo,
dal momento che vedevo sempre più chiaro davanti a me che era
davvero questione di giorni per me ed Allison. I miei sforzi non
sarebbero serviti a nulla, non sarei mai riuscito a farla davvero mia.
Tanto valeva lasciarci un buon ricordo di quei pochi giorni che ci
erano stati concessi.
E quello era certamente
uno dei ricordi che avrei sempre conservato di lei: il suo sorriso
dolce e raggiante, il naso rosso e gelato dal freddo, il paraorecchie
di peluche per proteggere le orecchie e le sue mani con i guanti di
lana intrecciate alle mie.
Peccato che
l’euforia contagiosa venne presto smorzata dalla lunga fila che
si prospettava davanti a noi, a dimostrazione che
l’estemporaneità non sempre paga, soprattutto se abiti a
New York e durante le feste vuoi appropriarti di una delle mete
più gettonate dai turisti. Per fortuna in pista sembrava ancora
esserci un minimo di spazio per scivolare in pace con i pattini.
“una volta venni
qui con mia madre e Michael … portammo Caroline a pattinare per
la prima volta, aveva due anni, non si reggeva in piedi
all’asciutto figurati sulle lame” raccontai divertito
“solo che la pista era talmente stracolma di gente che in
realtà sembravamo una colonia di pinguini che giravano
intorno.”
La sua risatina timida e
quasi nervosa si diffuse per tutta la coda, o molto più
semplicemente le mie orecchie avevano ormai imparato ad escludere tutte
le voci della folla, ad esclusione della sua. Non c’era altro che
vedessi né sentissi. Un po’ deprimente, un po’
folle, ma non potevo farci proprio nulla.
“Non era
esattamente un bello spettacolo …” ne convenni, ancora un
po’ traumatizzato da quel ricordo, grattandomi la testa. Per
salvare la mia reputazione, lungi da me raccontare dell’incontro
ravvicinato del mio naso prima e del mio deretano poi con il pavimento
ghiacciato. Non era colpa mia … il ghiaccio che era scivoloso!!!
Dopo
un’interminabile attesa, ingannata perfettamente in compagnia di
Allison, tra cioccolata calda e i pretzel giganti presi quasi al volo
da uno stand vicino, ci furono consegnati i pattini e fummo
letteralmente buttati in pista per l’intera ora successiva.
Coscienziosamente non
avevano riempito la pista fino all’inverosimile, come quella sera
di qualche anno prima, ma in ogni caso prima di mettere le lame sul
ghiaccio invocai mentalmente Dio, Jahvé, Allah, Krishna o
chiunque altro ci fosse al piano di sopra, di non farmi fare una figura
beghina con Allison e farmi rimanere in piedi.
Sembrava avermi
ascoltato, chiunque fosse, perché non solo non caddi ma mi
sembrava anche di essere piuttosto sicuro … e non sembrare un
pinguino era piuttosto un miracolo per me. Non si poteva dire la stessa
cosa di Allison, che passò i primi cinque minuti a litigare con
la pista, attaccata alla barriera. Mi obbligò a lasciarla da
sola per un po’, con la scusa che doveva riprenderci la mano da
sola, ma lo vedevo che non era esattamente il suo genere di sport. Non
resistetti lontano da lei che per due giri di pista e la raggiunsi,
spiaccicandomi anche io sulla recinzione, a seguito di una frenata
sborona finita male.
“È la prima
volta, vero?” le chiesi, ma senza intenzione di colpevolizzarla o
prenderla in giro e per fortuna lei lo capì. Annuì,
timidamente.
“Sul ghiaccio
sì” chiarì “da piccola avevo un paio di
rollerblade, ma non è esattamente la stessa cosa … e
comunque è passata una vita da allora”
La cinsi per i fianchi con un braccio, pur tenendomi di lato, a distanza di sicurezza.
“Vediamo se in due si cade meglio” ironizzai, prendendo con la mia mano libera la sua.
Piano piano avanzammo,
cadenzando il ritmo delle nostre pattinate, la sua un po’
più impacciata della mia. Eravamo quasi praticamente fermi e
sempre sull’orlo del precipizio, ma sembrava di volare comunque.
“Ah! Aiuto
Ty!” urlava Allie di tanto in tanto, quando voleva fare di testa
sua e non seguire le mie istruzioni. “Che ti ho detto?” la
rimproverai, bonariamente “la schiena non la devi tirare troppo
su, o finirai per andartene all’indietro!”
Allo scadere
dell’ora eravamo accaldati, stanchi e nemmeno c’eravamo
accorti che la notte era scesa già a New York e tutte le luci
delle feste si erano accese, nonostante fossero solo le cinque del
pomeriggio.
Le strade iniziavano a
riempirsi di tipi alla Aidan, che passano il veglione di Capodanno per
strada, sperando di far colpo su qualche bella ragazza e poterla
baciare a mezzanotte sotto le luci della quinta strada. Ai bordi della
strade c’erano già i poliziotti con lo sguardo arcigno,
pronti a sbatterti dentro appena sgarri. E poi c’erano le prime
bottiglie di birra vuote abbandonate sui marciapiedi, perché fa
freddo e si crede ancora alla teoria che l’alcool riscaldi.
Domani mattina saranno centinaia di migliaia, come coloro che
barcolleranno per le strade e sarà un miracolo se troveranno di
nuovo la via di casa, e le bestemmie di chi dovrà pulire si
sprecheranno. Ma è la notte più lunga dell’anno e
si riesce a perdonare anche il vomito del post-sbronza.
Ed era in quella notte
che avrei detto ad Allison di suo padre, perché avevo atteso
abbastanza e non avevo il diritto di trattenerla oltre. Non ero nessuno
per lei, se non uno che aveva provato a fare l’eroe per un
po’, non mi doveva niente ed era un suo sacrosanto diritto
tornare da suo padre e sua madre. Perché non c’erano altre
strade plausibili, neanche nei miei sogni più belli esiste la
versione in cui lei decide di rimanere a New York con me, al di
là di tutto. Perché io non ero nessuno.
Non ero nessuno anche se
seduta nel vagone del metrò aveva la testa sulla mia spalla e
sonnecchiava nonostante il baccano e la folla attorno a noi, anche se
le sue mani erano racchiuse nelle mie, perché cadendo sul
ghiaccio i guanti di lana erano bagnati e gelidi.
“Che vuoi fare
stasera?” le chiesi, cercando di tenerla sveglia con le
chiacchiere; lo avrei fatto molto volentieri, ma era logisticamente un
po’ difficile imbracciarla e portarla via in quella bolgia.
“Possiamo raggiungere Aidan e stare con lui ed i suoi amici in
strada … oppure stare da soli a casa e aggiornarci sul count
down con qualche programma trash in tv”
“Stiamo a
casa” mi disse, con la stessa voce lagnosa che mia sorella ha al
mattino quando non vuole alzarsi dal letto ed andare a scuola
“cucino qualcosa ed aspettiamo la mezzanotte sotto le coperte
… ho sonno!!!”
Per quanto potesse
suonare innocente, e sono sicuro che lo fosse veramente, visto lo stato
in cui era ridotta, l’omino del mio cervello ed il suo amichetto
del piano inferiori si misero a ballare la Samba al pensiero di
ritrovarsi sotto le coperte con Allison, che non era particolarmente
avvezza all’uso del pigiama. Anzi, il mio fratellino ricordo
anche all’omino del cervello del completino intimo famoso e fui
costretto a pensare alle cose più brutte del mondo per evitare
di andarmene in giro col pacco lievitato.
Era dalla vigilia di
Natale che non stavamo insieme-insieme ed ero sempre più
convinto che stare a fissarci negli occhi castamente non era
contemplata come ipotesi da nessuno dei due. Allison si sarebbe
ridestata con un bel caffè e sarebbe andata avanti sveglia come
un treno fino all’alba. Ok … forse meglio evitare questi
doppi sensi, non aiutano affatto il fratellino …
“Mancano solo 2 minuti al nuovo anno New York!!!”
Il vecchio Dick Clark
della ABC, presentatore della diretta da Times Square, annunciò
orgoglioso alla folla radunata e a tutti i suoi megaospiti che era ora
di preparare le bottiglie di champagne e gli scintillanti, che il 2009
era proprio agli sgoccioli.
In tutto questo io ero
pronto con la mia bottiglia di spumante dolce italiano, Allison aveva
in mano i bicchieri e davanti a noi, una distesa sterminata di persone,
tutte pronte e cariche per dare il benvenuto al 2010.
Alla fine eravamo scesi
anche noi in strada, trascinati da un Aidan trasfigurato
dall’euforia per la nottata di bagordi che lo aspettava. Ci
eravamo uniti alla sua compagnia di matti, ma non avevo ancora ben
chiaro da dove sbucassero quelle persone, dove le avesse conosciute o
se le andava raccattando per strada a patto che portassero fiumi di
alcool e facessero un casino della malora.
Non era stata poi una
brutta serata, anche se avrei preferito starmene al caldo tra le
lenzuola solo con Allie e forse anche lei lo voleva, perché in
piedi davanti alla torre del New York Times dove il conto alla rovescia
era evidenziato dai led dei cartelloni animati che riempiono la strada.
Tra noi due, lei era
sicuramente quella più impaziente di lasciarsi il vecchio anno
alle spalle, e buttare via tutto quello che di brutto e vecchio aveva
con sé: la vecchia vita, le sue brutture, le paure, ma anche e
soprattutto la vecchia Allison. In un certo senso anch’io avevo
qualcosa da salutare una volta per tutte: il Tyler complicato e
depresso era ormai un ricordo, anche se continuava a seguirmi come
un’ombra e non ero sicuro che, cambiato il calendario, mi avrebbe
abbandonato. Bastava poco per farlo tornare alla carica, bastava che
quella splendida ragazza che era con me fosse andata via.
Non la smettemmo un
attimo di ridere quella sera: sicuramente eravamo entrambi brilli ed
eccitati, la birra con cui innaffiamo la cena in piedi a base di pizza
take away aveva fatto il suo effetto, e ad ogni stupida melodia che
sentivamo risuonare dagli altoparlanti, dagli stacchi pubblicitari alle
performance live di qualche artista, prendevamo fuoco e ballavamo, o
per meglio dire saltavamo, considerando che eravamo serrati tra le
transenne come sardine, ridendo come due idioti insieme alla compagnia
di matti che ci portavamo appresso.
Ma stavamo bene, felici,
senza il minimo pensiero a turbarci la serata. Non eravamo stati
disturbati né da Aidan, né da mia madre, quindi non
potevamo chiedere di meglio.
“5 … 4 … 3 … 2 … 1 … BUON ANNO!!!”
Un tripudio di luci e
colori esplose nella piazza, insieme ai fuochi d’artificio che
partivano dai grattacieli intorno a noi e da lontano rimbombavano
quelli che scoppiavano sulle rive dell’Hudson. Un boato di gioia
generale risuonò per tutte le strade e migliaia di tappi di
spumante e champagne saltarono via all’unisono. Era uno
spettacolo senza precedenti né uguali, che valeva il freddo e la
noia di starsene in piedi per ore ad aspettare.
Non la smettevamo di
urlare nemmeno noi e sembravamo fatti di qualcosa di davvero potente
perché avevamo davvero fatto il pieno di carica di vita quella
sera, sarei potuto andare per strada nudo e scalzo che non avrei
sentito né freddo né dolore. Personalmente ero in uno
stato di felicità perfetta da farmi quasi schifo, perché
una cosa del genere non mi era mai successa prima: forse era trovarmi
lì con Allison, forse perché sentivo che molte cose erano
andate al loro posto, forse perché non sentivo più la
mancanza di Michael come assenza di una parte di me stesso.
Ed Allison come me non la
smetteva di ridere, sorridere e gridare, e sicuramente aveva più
motivi di me per credere che quello sarebbe stato di sicuro un anno
migliore.
Avrei voluto contemplare
quell’immagine in eterno ma non era quello il momento per
immagini slow motion e musica soft. La presi e la baciai, perché
non c’era niente di meglio da fare, perché volevo che
quell’anno cominciasse con lei e con il suo sapore sulle mie
labbra, il suo profumo tutt’intorno a me e speravo
quell’aura di allegria e gioia pure che emanava potesse
accompagnarci per il resto dell’anno.
“Oh vi prego
… sono di stomaco debole io!” commentò sarcastico
Aidan, con una bottiglia di Vodka liscia vuota tra le mani, ma ancora
sufficientemente sobrio da restare in piedi. Ce ne voleva di alcol per
atterrarlo ormai …
Sentii Allison ridere sulle mie labbra, ed era una cosa che mi faceva impazzire, contagiando anche me.
“Invece di stare a
guardare noi come uno squallido voyeur” gli fece eco Allison,
staccatasi per un attimo da me “perché non ti trovi anche
tu una ragazza da baciare!”
“Ubriaca
magari” mi venne da aggiungere, ridacchiando “così
domani mattina non ricorderà nulla di quella tragica
esperienza!”
Ci congedò con un
dito medio e si buttò nella calca che non demordeva nei
festeggiamenti. Era passata mezz’ora dall’inizio del nuovo
anno, ma per me erano solo cinque minuti. Allison volle baciarmi
ancora, con la scusa che a stare vicini ci si riscalda meglio.
“Vorrei tornare a
casa” mi urlò all’orecchio, mentre l’ennesima
popstar si esibiva sul palco ed i fan isterici cantavano a squarciagola
ogni rima della canzone.
Fu un’impresa
raggiungere la metropolitana e la parte più bella fu sicuramente
tenerla per mano o abbracciata a me, la sensazione straordinaria di
proteggerla e l’emozione che mi regalava sempre la certezza che
lei, con me, si sentiva protetta e sicura.
soundtrack2
“Ti giuro … mi venne vicino e disse: tu, con me, nel mio
letto!” Allison non la smetteva di ridere al mio racconto del mio
primo capodanno passato in compagnia di Aidan a casa di Trisha, una
bruttona con una marea di soldi che lo aveva invitato in questa villona
un po’ fuori mano solo perché mi aveva adocchiato a scuola
e voleva portarmi a letto ed Aidan era l’unico punto di contatto
che aveva con me. Molte delle mie avventure erano nate così e
lei stentava a credere che davvero non me ne cercavo una ma, al
contrario, cadevano tutte ai miei piedi.
“E tu?” chiese curiosa, a quel punto.
Io iniziai a ridere
nervosamente, perché quella, da uomo, non era una parte di cui
andare molto orgogliosi: “Beh … per quanto mi fossi
sforzato a pensare a Pamela Anderson … niente da fare!”
“Cosa?!!!”
era sconvolta. Come darle torto, avevo 16 anni e fui compatito dai miei
compagni di scuola per il resto dell’anno. Non bastò
un’estate di conquiste a riabilitarmi. La povera Trisha, per
quanto ne so, dovette ricorrere alla chirurgia plastica appena compiuti
18 anni per rimediare.
“Voi uomini
… siete tutti uguali” cosa? Ora era colpa mia? Quella era
un cesso e la colpa del mancato alzabandiera è mia??? “se
una non ha le tette di Pamela Anderson e il culo di Jennifer Lopez non
siete contenti…”
“Non è vero!” provai a ribattere “a parte il fatto che così mi offendi…”
“Ah ti senti pure offeso, dopo quello che hai fatto alla povera Trisha!”
“Sì
…” risposi, riflessivo, mentre lei era seduta cavalcioni
su di me. Approfittando dell’assenza degli altri inquilini non
c’eravamo presi troppo la briga di arrivare in camera da letto e
chiuderci dentro. Così gli abiti erano sparpagliati tra il
pavimento e le poltrone, e noi distesi sul divano, nudi e un po’
sudati, ci godevamo quegli attimi di calma e distensione post orgasmica
tra una chiacchiera e l’altra, giocando e ridendo come due
ragazzini.
La casa era buia e le
uniche luci provenivano dalle luci ancora accese ancora a pieno regime
in tutte le abitazioni del vicinato. Mi piaceva starla a guardare in
quella semioscurità, quando i barlumi della strada e il pallore
argenteo della luna, nascosta tra i palazzi, si riflettevano sulla sua
pelle perfetta e candida.
Con le mani ancora
caldissime e pregne di lei accarezzai la linea perfetta del suo collo,
fino ad afferrare il suo mento in una mano, così da potermi
sporgere e baciarla. Anche lei sapeva ancora di me, e quella
commistione di sapori ed umori mi dava alla testa; noi, insieme, il
privilegio che avevo avuto ad incontrata e le libertà che troppo
spesso mi concedevo nell’averla, erano dei pensieri che mi
turbavano. Lei non era mia, non voleva essere mia, eppure era sopra di
me, nuda e bella come una Venere.
Con la mente intrappolata
ancora in quelle elucubrazioni negative, ripresi a percorrere una
strada immaginaria sul corpo di Allie, scendendo dal collo fino al
petto, dove incontrai i suoi seni e li racchiusi tra le mie mani.
La perfezione di quelle
curve, la loro semplicità eppure al contempo la loro
sensualità mi lasciavano ogni volta senza fiato: ne conoscevo
ormai ogni linea, ma .mi portavano sempre alla scoperta di mondi nuovi
ed incontaminati. Una volta era la calda ed assolata africa,
un’altra l’esotica e mistica Asia, un’altra la
selvaggia Australia; oppure poteva essere semplicemente una culla ed
una casa, l’anziana e colta Europa o l’accogliente e
fiorente America.
“Che c’è?” chiese lei, mite e materna, sussurrando.
La guardai negli occhi e
vidi quanto era bella. Lo sapevo già, ma c’era qualcosa
che in lei non avevo mai notato prima, una nuova sfumatura di donna, ad
ulteriore riprova della mia teoria.
“Dimmi cosa stai
pensando?” continuò “deve essere qualcosa di
particolarmente importante perché corrughi sempre le
sopracciglia quando c’è qualcosa che non va … e
diventi un cucciolo adorabile”
“Niente” risposi “solo che sei bellissima …”
Dolcemente guidai le mie
labbra su una di quelle coppe e ve le posai, sperando che potesse
capire a quale punto potesse arrivare la mia dedizione nei suoi
confronti. Le sue mani si afferrarono ai miei capelli e la sentii
posare un bacio sul mio capo.
“Non è vero” ribatté, modesta “porto una mezza di reggiseno e”
“il tuo seno
è perfetto” non la feci finire di parlare “e poi
compensi alla grande con altre curve importanti”
Ammiccai e spostai le mie
mani a palparle quel sedere da paura che si ritrovava: “JLo ti fa
una pippa proprio…”
“Quanto sei
volgare!” mi riprese, spintonandomi e rigettandomi sul divano
“a forza di passare tempo con Aidan sei diventato un porco come
lui”
E di nuovo punto e a
capo, non c’era discorso o appunto romantico che potesse essere
portato a buon fine tra noi; ma era bello anche così,
perché non eravamo come i personaggi di Anna Karenina, depressi
e tenebrosi, né come i protagonisti di Beautiful, con quei primi
piani in silenzio pieni di suspance.
Eravamo solo Tyler e
Allison, due ragazzi di 22 e 17 anni che stavano provando a rimettere
insieme i cocci di due vite disastrate.
“Ehi! Ma qui
qualcuno diventerà maggiorenne a breve?!!!” esclamai,
portandola sotto di me e solleticandola leggermente. Adoravo vederla
ridere e ne approfittavo in ogni modo possibile.
“Mmmmmm … ti prego non ricordarmelo!!!”
“C’è qualcosa che vorresti? Stavo pensando ad un regalo speciale ma non mi veniva nulla in mente”
“Tu cosa hai fatto
per i tuoi 18 anni?” domandò. “Non vorresti saperlo,
fidati. Ti basti pensare che furono organizzati da Aidan e mio fratello
… allora insieme non facevano per una persona!!!”
“Non c’è niente che io voglia … tu mi hai dato tutto quello che potessi desiderare …”
Quando si dice che uno fa una santa morte. Se solo avessi avuto la certezza che le sue parole andassero ben oltre il materiale.
Non mi andava di rovinare
l’atmosfera che si era creata tra noi, il precario equilibrio tra
amicizia e desiderio fisico che si sarebbe potuto sgretolare con una
sola parola. Non le avrei mai più ripetuto quelle dichiarazioni
che parlavano d’amore e della speranza di un futuro insieme. In
più quei giorni di divertimento stavano per finire e stava solo
a me decidere quando.
“Una cosa però ci sarebbe” dichiarò, timidamente.
“Dimmi … lo
sai che non c’è niente che ti negherei” le dissi,
incoraggiandola “e non voglio che tu mi nasconda nulla”
“Non è proprio un regalo … è un sogno che ho, ma so che è impossibile …”
“E chi lo ha
detto?” la sfidai, sereno, aggiustandole i lunghi capelli castani
che scendevano sulle spalle e sul seno, lievemente increspati
dall’umidità.
Lei buttò lo
sguardo altrove, fissando un punto non ben definito del camino spento
davanti a noi. Sentivo che quello era in uno di quei suoi momenti in
cui apriva totalmente il suo cuore, quando non riusciva a reggere lo
sguardo del suo interlocutore per paura di rivelare quanto fragile
fosse dentro.
“Ehi
…” mormorai, carezzandole con la punta dell’indice
la guancia. Eppure le non tolse lo sguardo dal vuoto.
“Vorrei tornare ad
Indianapolis … vorrei portare dei fiori alla tomba di mia
sorella” la sua voce si ruppe per il trasporto ed il carico di
ricordi che quella sola semplice frase portava con sé. “Ma
non posso chiedere a nessuno di voi di esaudire i deliri di una
ragazzina”
“Non sei una
ragazzina” obiettai “ed è giusto che tu voglia
andare da tua sorella in un giorno speciale come il tuo compleanno. Se
te la senti, noi non possiamo impedirtelo”
Presi un respiro profondo e continuai: “Però c’è una cosa che devi sapere …”
Era arrivato il momento: avrebbe ascoltato con attenzione e forse era abbastanza calma da non avere un crollo di nervi.
“Non mi spaventare
Tyler” esclamò, corrucciata. Dovevo aver usato un tono di
voce troppo greve e averla terrorizzata inutilmente.
“No, stai
tranquilla … è una buona notizia” risposi,
mettendomi a sedere “però è una cosa un po’
delicata”
Lei mi seguì a
ruota, alzandosi e sedendosi di fianco a me, coprendoci con una coperta
che mia madre teneva sempre su una delle poltrone del salotto, per
scaldarsi a sera guardando la tv. Eravamo in un piccolo bozzolo, caldi
e protetti, e quel tepore non solo mi diede la forza per andare avanti,
ma portò con sé anche una flebile speranza che la sua
reazione non sarebbe stata negativa.
“È una cosa
che ho scoperto da pochi giorni … solo che non sapevo come
dirtelo e ho aspettato un po’” in più ho voluto
trascorrere le ultime feste con te, prima del tuo sicuro addio.
“Si tratta di tuo padre Allison … è vivo, è uscito dal coma”
Il suo sguardo non era
mai stato tanto imperscrutabile prima di allora; lei mi fissava, in uno
stato tra lo shockato, il terrorizzato e l’euforico. Era
incredula, di sicuro, perché forse non era quella la notizia che
si aspettava, non aveva messo in conto un tale sviluppo della
situazione.
“C-come? Cosa? Io … io … non capisco”
Allora, nella maniera
più cauta che potessi, passai ad illustrarle tutta la trafila di
eventi che portarono mio padre alla conclusione che lei era quella
Allison che il suo dipendente andava cercando per mezza America insieme
a sua moglie e che, di conseguenza, era sopravvissuto
all’incidente.
Allison era rimasta in
silenzio per tutto il tempo e avrei giurato che fosse morta di
crepacuore se non fosse stato per il respiro a bocca aperta, un
po’ pesante, a cui era costretta da quando quel pomeriggio si era
raffreddata sui pattini.
Speechless è il
modo più opportuno per descrivere il suo stato d’animo e
dal canto mio non riuscivo a levarmi dalla mente il terrore che potesse
prendersela con me per non averglielo detto subito; e in più,
una volta che si fosse ripresa dallo shock cosa avrebbe fatto? Mi
avrebbe allontanato? Mi avrebbe mandato via? … forse era meglio
se fossi stato da solo a fare quel passo, di mia spontanea
volontà.
“Senti” presi
la parola, lasciandola sotto il plaid e iniziando a rivestirmi
“forse è meglio che io ti lasci da sola, ora avrai bisogno
di rimettere in ordine le idee. Puoi chiamarmi però, a qualsiasi
ora e per qualsiasi cosa. Ok?”
La vidi annuire
passivamente e poi battere rapidamente gli occhi, svegliandosi dallo
stato catatonico in cui si era rifugiata, probabilmente per difendersi
da quegli sconvolgimenti troppo repentini di una stabilità che
aveva difficoltosamente conquistato nelle ultime settimane.
“Sì … cioè no!” si corresse “tu non vai da nessuna parte! Ho bisogno di te!”
Quella affermazione mi
rinfrancò ancora una volta. Perché la sapevo essere
onesta più che mai e sapevo che mi voleva nella sua vita. Quasi
certamente non nel ruolo che andavo reclamando, ma qualcosa dovevo pur
contare a questo punto.
Si alzò dal divano
e si avvicinò a me, ancora avvolta nella coperta: “Io
… io credo che a questo punto devo proprio andare ad
Indianapolis”
Annuii. Beh era il minimo, sapevo che era una cosa necessaria, naturale e non potevo contrappormi al richiamo della famiglia.
“Però”
continuò lei “non voglio andarci da sola … non
posso andarci da sola. Vieni con me”
L’abbracciai,
perché questa volta era stata lei a volermi partecipe di
qualcosa di tanto personale. Lei non mi aveva lasciato solo a
combattere quell’orco di mio padre e io non l’avrei
lasciata sola. Tornare ad Indianapolis non significava solo rivedere
suo padre, ma anche affrontare sua madre: non era solo una battaglia,
probabilmente sarebbe stata la soluzione finale.
E poi, una volta rimesse apposto le cose, avrei dovuto trovare il coraggio per dirle addio.
NOTE FINALI
Comunque ... la dolcezza e il buon'umore nella vita reale come in
quella fantastica possono essere soppiantati dalla malinconia in un
battibaleno. Sta a noi trovare la forza e lo spunto per vedere nelle
cose sempre il lato positivo, non si può stare sempre lì
a deprimersi.
Ed è esattamente quello che Tyler sta facendo ora, seppur con molta difficoltà.
Allison sta subendo una lenta trasformazione, non è più
la ragazza che abbiamo conosciuto nei primi capitoli, ora in lei
c'è più un mix tra una donna matura e una ragazzina
ingenua alle prese con il primo amore. Eppure il fantasma di Mallory
c'è ancora, molto in profondità. Non sono sicura che si
lascerà completamente andare se quel fantasma non andrà
via.
Non
mi uccidete per quanto vi faccio aspettare ogni volta, vero? Vi do
capitoli lunghi apposta, così potete leggerli a più riprese e non vi
manco!!! XD
Ragazze mi raccomando, lo so che la scuola vi porta via molto tempo, ma vi sarei grata se lasciaste tutte un commentino.
E venite a trovarmi sulle mie pagine di FB e Twitter
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** Empire State of Mind ***
When you crash in the clouds - capitolo 19
Capitolo 19
Empire State of Mind
“Lei come sta?”
“Imbronciata. Appena siamo tornate a
casa è corsa su per le scale senza salutare nessuno e si è chiusa in camera sua.
Adesso dorme” mi rispose Allison, senza preoccuparsi troppo di nascondere la
apprensione per quella bambina, che ormai considerava quasi come una sorella. “Ma
le passerà, vedrai” continuò, con fermo ottimismo “credo ce l’abbia con suo
padre più che altro. Non è stupida, ha capito come stanno le cose … e ti vuole
troppo bene per prendersela con te”
Lo speravo davvero tanto, perché
sbagliavo di continuo con le persone a cui volevo bene e, per una volta che mi
sentivo di aver fatto la cosa giusta per difenderne una, non volevo pagare un
prezzo troppo alto.
“Tu come stai?” continuò lei,
probabilmente in pensiero dopo avermi visto con gli occhi rossi e le orecchie
fumanti di rabbia, come nelle migliori vignette.
“Io … io non lo so” risposi
candidamente “ancora un po’ frastornato a dire il vero. Io … io non ho saputo
resistere, tu lo capisci” e la mia voce iniziò ad accelerare il discorso,
volevo trovare una scusa, un appiglio per quanto avevo fatto, pur non
essendocene bisogno, pur trovando corretto il mio agire. Ma lei comprese e mi
freno: “Sì, sì lo capisco … lo sai, ci sono passata anch’io”
Si prese un attimo per riflettere, una
pausa necessaria ad entrambe per riordinare le idee ancora incasinate nelle
nostre teste. Era un bene che fossimo al telefono; gli sguardi bassi e scuri, i
crucci e i rancori di quella giornata così lunga e difficile era meglio
tenerseli per sé. Non volevo che mi vedesse agitato com’ero né io volevo
vederla triste; avrebbe riportato a galla ricordi poco piacevoli e trasmesso in
me ulteriori istinti violenti che stavo cercando con tutte le mie forze di
reprimere.
“Però” riprese lei “voglio che domani
tu venga qui e parli con lei … e con tua madre”
Già, mia madre. Probabilmente era
quella la cosa che la preoccupava di più, oltre me e mia sorella. Aveva trovato
in lei una figura di supporto insostituibile: un surrogato materno, un’amica,
una zia, una sorella maggiore, mia madre era tutto per lei, si fidava di lei
molto di più di me e cercava di non deluderla mai.
Ma io conoscevo Charles abbastanza da
sapere che non c’era nulla da temere.
“No piccola, stai tranquilla. Non
accadrà nulla di male … Charles vuole solo metterci paura, ma non passerà mai
dalle parole ai fatti”
Mi lasciai scappare un sorriso, vuoi
anche per incoraggiarla e lasciare che distendesse i nervi. L’avevo chiamata piccola e avrei sinceramente voluto
mangiarmi la lingua: a giudicare da una reazione che non avvenne non doveva
aver notato quella parola in più che avevo messo e per lei non doveva avere il
significato che aveva per me. Meglio così, mi risparmiava un sacco di scuse
campate per aria. Me la immaginavo seduta sulla poltrona, in camera sua, a
piedi scalzi e lì appollaiata nella posizione più contorta, a dimostrazione che
gli anni da ballerina di lap dance le hanno conferito una elasticità
invidiabile, leggings neri e maglia bianca del sottoscritto sformata e
sbiadita, leggermente pendente sulle spalle da lasciar vedere il reggiseno nero.
E la coda di cavallo che arrangiava in quella maniera così strana che mia
sorella ogni volta la guardava come se avesse visto un fantasma.
“Tyler non è il momento di scherzare”
mi rimproverò la mia maestrina, destandomi dalle mie fantasie senza speranza;
era più grande di lei di oltre 4 anni, eppure lei era la mamma ed io il bambino
scalmanato di 5 anni da mettere in riga “sto parlando sul serio. Domani le spieghi la situazione ed io mi troverò un
posto dove stare. In qualche modo riuscirò a trovare i soldi per l’affitto,
dovessi anche …”
“Dovessi anche cosa Allison? Non
voglio più sentire una cosa del genere … non mi sono fatto spaccare la faccia
per farti andare via da quel locale e farti pagare l’affitto di un appartamento
a suon di prestazioni sessuali” quella era una cosa che non tolleravo; mi aveva
fatto sempre schifo parlarne, figurarsi ora che quello spettro sembrava essere
svanito dalle nostre vite, dalla sua vita, una volta per tutte.
“Tyler ma sei matto! Non ho intenzione
di fare più la puttana … dicevo, anche a costo di mettermi a fare la donna
delle pulizie nei cessi della metro”
Tirai un sospiro di sollievo. Erano le
stesse parole che avevo usato io tempo addietro per convincerla a lasciare
quella bettola. Umile ma onesta, era quella la Allison che preferivo.
“In ogni caso” continuai “se proprio
non ti trovi bene da mia madre verrai a stare da me. Ma non hai motivo di
temere, mio padre non vi torcerà un capello nemmeno metaforicamente”
“Tyler” mi richiamò lei. “Dimmi” le
sussurrai, dolcemente.
“Prometti che le parlerai” le sue parole alle mie orecchie suonarono come una
preghiera, l’ultima supplica ad un santo.
“Va bene” cedetti, infine “le parlerò.
Ma ora fammi andare. Ho bisogno di farmi una bella dormita su ciò che è
successo oggi. E faresti bene a farlo anche tu”
“Ok. Hai ragione. Buonanotte Ty”
“Buonanotte piccola”
Lei chiuse il telefono praticamente
all’istante. Forse non ebbe il tempo di sentire come l’avevo chiamata, o forse
era proprio quello il motivo per cui mi chiuse il telefono in faccia. Ero stato
troppo diretto, di nuovo, e ripetere lo stesso errore due volte nella stessa
conversazione era sintomo che qualche rotella in me non girasse a dovere, o
forse girava fin troppo bene. L’espressione cotto
di lei probabilmente non è sufficiente a spiegare la mia situazione, il mio
stato d’animo. Devastato eppure mai stato così sereno in vita mia, almeno da
quando Michael non c’era più. Era come se avessi trovato un collante per
riattaccare i pezzi rotti del mio cuore; forse qualche piccola breccia sarebbe
rimasta, una piccola falla microscopica, ma non sufficienti a fare danni di
nuovo, almeno finché ci fosse stata lei a tenermi in piedi.
Buon Natale Michael, è una vita che non ti
parlo, me ne rendo conto. Ma sono stato … un tantino impegnato. Ma immagino che
tu lo sappia già, non è così? Da lassù la visuale è senz’altro migliore. È
inutile che io ti dica quello che penso, quello che provo, quello che faccio.
Sai quanto la amo … e non fare quella faccia nauseata, l’amore non sarà stata
cosa per te, ma ricordi cosa dicevi ad Aidan di me? Il mio fratellino è fatto
per i fotoromanzi …
Forse avevi ragione, la mia vita assomiglia ad
una di quelle soap sudamericane con i sottotitoli e l’audio in ritardo. Anche
con nostro padre … hai visto che sceneggiata? Da Oscar, vero?! Mi ripeto che era
l’unica cosa giusta da fare ma ora non lo so più … c’è qualcosa che non mi
quadra; possibile che fosse davvero l’unica soluzione possibile? Tu ti sei
arreso, io non ho intenzione di farlo, perché ho troppe persone al mio fianco
per cui vale la pena di continuare a vivere … Caroline, la mamma, sì anche Les
e Aidan … e naturalmente lei Allie. Dio che spettacolo Mike, vorrei che la
vedessi …
Dicono che amare sia essere se stessi con
l’altro; eppure sento di essere cambiato, tantissimo, per lei … e forse anche
per me.
Sono senza più parole … conosci i miei dubbi, i
miei desideri: come al solito vedi di metterci una buona parola. E salutami la
nonna, dille che come fa lei i biscotti di Natale alla mamma non verranno
mai!!!
Buon Natale ancora, mi manchi
Avete presente quelle mattine di festa
in cui sai che non hai un cazzo da fare e sai che potrai stare a letto fino
alle due del pomeriggio perché nessuno verrà a romperti i coglioni e sbatterti
giù dal letto? Beh, purtroppo quella mattina non era una di quelle.
Finiti i pranzi-maratone, finiti gli
incontri e gli abbracci ipocriti con i parenti, la vita di tutti i giorni
ricominciava con il peggiore degli auspici possibili: il ritorno di Aidan nel
nostro appartamento, e per lui poco importava che fossero le 6 del mattino e
c’era gente che ancora dormiva; fintanto che lui era sveglio e pimpante…
“Che ti sei fumato per essere così
euforico?” gli chiesi, mentre distrattamente e miracolosamente, riuscii a
tenere in mano la tazza di caffè che mi aveva passato. Non stetti a sentire
nemmeno una virgola delle sue mirabolanti avventure con l’amica Amish di sua
cugina, che aveva lasciato a quanto
pareva la sua famiglia per entrare nella civiltà moderna. Eppure per quanto mi
sforzarsi di porre un freno mentale alle sue parole, esse penetravano con
insistenza nel mio cervello, senza che io riuscissi a fermale, impregnando di
nuovo i miei neuroni di quel fastidio naturale e ai cui mi ero ormai assuefatto
dato dalla sua semplice presenza. “È difficile resistermi” si vantò; e
purtroppo l’esperienza mi aveva fatto constatare quanto potesse essere
veritiera quella sua frase. Altrimenti dopo 5 anni di liceo, tre di università
vissuti praticamente fianco a fianco come gemelli siamesi dubito che sarebbe
ancora nelle mie vicinanze se mi fosse stato così sulle palle quanto andavo
blaterando. Ok, a volte era un coglione-stronzo cronico tendente, ma come
Allison l’aveva perfettamente descritto, era un adorabile cagacazzo. Dove sarei
io se non ci fosse stato lui a prendermi quel giorno che mio fratello si tolse
la vita? Probabilmente nella tomba accanto alla sua, finito sotto un treno o
volato già da una delle finestre di casa mia.
Era rincasato tipo da due ore, ma le
pulizie di Natale di Allison erano state vanificate in tipo 10 minuti, tempo di
fargli usare il piano cottura, la doccia e fargli sparpagliare le valigie di
panni puliti che la mamma gli aveva preparato sul divano.
Nel frattempo ascoltai le notizie
finanziare al giornale radio e scesi a comprare un giornale di economia al
chioschetto più vicino. Era la prima volta che lo facevo in una vita; mi
piaceva tenermi informato sulle notizie, ma era il mio giorno della mia intera
esistenza che chiesi al giornalaio di darmi una copia del Wall Street Journal e
del Financial Times. Probabilmente Charles Hawkins avrebbe storto il naso a
vedermi con il Financial tra le mani, ma la mia teoria era che bisognasse
leggere le notizie da tutte le prospettive possibili. Anche da quelle più
parziali.
Leggere tutte quelle cifre e dargli un
significato mi stupì; mio padre mi aveva insegnato da ragazzino, quando per
andare in visita alla Borsa con la scuola non volle che fossi impreparato. Mi
stupii più che altro di ricordare ancora come si facesse: l’alfabeto cirillico.
Per mia madre, era più facile.
Michael invece diceva che quello era
un segno: “Tu sei l’erede naturale di nostro padre” mi ripeteva “dagli solo il
tempo di capirlo …”
Peccato che di mezzo ci siano passati
un divorzio, un suicidio ed una lite talmente insanabile che a confronto
rincollare Humpty Dumpty era un gioco da ragazzi.
E più leggevo quegli articoli, più
accumulavo dati, più mi rendevo conto che
Michael aveva ragione. Io ero un economista nel sangue: quei soldi che
schifavo avrebbero potuto essere fonte della mia fortuna, di quella
dell’azienda e di quella della mia intera famiglia. Era possibile reprimere
l’indole personale? Non lo sapevo ma contavo di farlo, perché non mi sarei
ridotto ad uno sciacallo speculatore, innamorato del denaro ed impiegato part
time con i propri affetti. Non mi sarei ridotto come mio padre.
“Mh” biascicò Aidan alle mie spalle,
mentre masticava una fetta di pane tostato, comparendo all’improvviso alle mie
spalle “prova a raccontagli del Dow Jones oggi ai nostri clienti, magari
otteniamo il premio di produzione”.
Ecco il mio vero problema, la fantasia.
Mi è bastato un articolo di giornale per vedermi guru della finanza, in piena
crisi finanziaria per giunta: che tempismo! La verità era che mi aspettava una
nuova giornata di lavoro in libreria, in pieno periodo di svendite post
natalizie? Anche in libreria, chiederete voi … ebbene sì, soprattutto dal
momento che il boss non ha intenzione di mantenere in magazzino copie di libri
ordinati appositamente per il Natale come “Il manuale fai-da-te per fare un
nano da giardino” o “Le ricette della cucina tradizionale pannone”, logicamente
invendute. E ora stava a noi l’arduo compito di promuoverli e venderli. In più
bisognava riordinare tutti gli scaffali e far posto alle decorazioni per la
fine dell’anno.
Odiavo il capodanno; per Aidan era
un’occasione come un’altra per fare baldoria e strafarsi, per me un’occasione
come un’altra per essere trascinato a forza in locali troppo bui e troppo
affollati. Mi rasserenava il fatto che avrei avuto una buona scusa per
defilarmi quest’anno. Ultimo tango a Parigi era un film che Allison doveva
assolutamente vedere ed era perfettamente in grado di non offendersi per la
sessualità esplicita che le avrei proposto con quelle scene.
“Ohi che mi dici di Allison?” chiese
Aidan urlando, tra i clacson dell’ora di punta del mattino freddo e inquinato
di New York, mentre per attraversare l’incrocio bisognava pregare che non
sbucasse nessun pony express in bicicletta che andava di fretta. Un giorno o
l’altro il sottoscritto sarebbe rimasto gambizzato …
“avete concluso qualcosa? E parlo di
quel qualcosa Tyler, perché lo so che sei troppo imbranato per riuscire a
concludere dal punto di vista sentimentale”
“Ma che cazzo…?!” “Oh andiamo!” non
ebbi nemmeno il tempo di protestare che subito si rifece lui sotto “sappiamo
entrambi che se fosse stato per te non l’avresti più vista dopo la notte in
quel locale … le ragazze normali solo a letto te le porti facilmente, per
chiedergli un appuntamento ci metti dalle due alle quattro settimane.
Figuriamoci con lei”
Touché. Cos’altro avrei potuto
aggiungere che non fosse così dannatamente vero? Ma fui aiutato dal ritardo e
dalla figura del boss in allerta all’ingresso della libreria, così mi misi a
correre con Aidan che mi seguiva, col fiatone, verso l’ingresso secondario.
Quando una giornata inizia di merda,
sinceramente, quante sono le speranze che si raddrizzi? A mio parere, veramente
poche. Non solo ci beccammo la mazzolata del secolo per il ritardo mostruoso di
20 minuti. Come facemmo ad arrivare in ritardo essendo svegli dalle sei, ancora
dovevo capirlo, ma questo mio processo mentale a ritroso per trovare una scusa
non mi evitò la sezione libri per l’infanzia. Che strazio! Quelle musichette da
carillon dei libri per i più piccoli mi mettevano un’ansia addosso
insospettabile, mi sembrava di essere in qualche film dell’orrore e mi
mettevano addosso una sconcertante voglia di piromania addosso. Rimettendo a
posto dei libri sulla mitologia greca per ragazzi mi venne in mente la mia
Caroline, a cui poco tempo prima ne avevo regalato uno molto simile, per quanto
fosse più brava del disegnatore, era affascinata dalle illustrazioni di quel
libro, e quella giustificazione bastava per rileggerlo ogni volta daccapo o anche
solo sfogliarlo.
Per fortuna quanto accaduto nei giorni
precedenti non l’aveva turbata più di tanto, anzi, era stata abbastanza in
grado di accettare le ragioni per cui io non l’avrei accompagnata alla cena che
nostro padre tradizionalmente ci offriva a S.Stefano. E con nostra madre tutto
s’era risolto come avevo previsto: una bella risata da parte sua e una carezza
rassicurante ad Allison, che per poca conoscenza del soggetto, s’era presa un
brutto spavento.
“Imparerai anche tu a conoscerlo
purtroppo” liquidò in fretta l’argomento mia madre.
Si poteva dire che anche quella era
passata.
“Ma si può sapere dove cazzo hai messo
il cellulare?” raffinata quanto uno scaricatore di porto, Allison si fece
avanti a grandi falcate lungo gli scaffali della libreria, noncurante dei
clienti che rispettavano il silenzio imposto nel locale e della moderazione del
linguaggio richiesta nella zona bimbi. Sembrava un’amazzone, con quel broncio
che si portava dietro. Il problema vero era che, purtroppo, era rivolto a me, qualsiasi
cosa le avessi fatto.Alzai le mani in alto in segno di resa,
sorridendole: “Buongiorno, Allison!” “Buongiorno a te, idiota!” esclamò. Cos’è
che avevo detto? Ah, sì: giornata di merda. “Spero che almeno la testa al
lavoro ce la porti: dov’è il tuo telefono?”
Oh cazzo! Lo sfilai dalla tasca dei
jeans, convinto di averlo lasciato lì, per giunto acceso, per tutta la notte.
Morto, giustamente. Datemi un muro per
sbattere la testa, vi supplico.
“Scusa … è tornato Aidan ed è da
stamattina che non ci capisco più niente. Lo capisci che mi ha svegliato alle
sei?”
“Aidan è tornato?! Dov’è quel
coglione! Devo farlo crepare di botte: non s’è neanche fatto sentire per gli
auguri …”
“È nella zona letteratura religiosa.
Ma io non andrei se fossi in te… non vorrei incappare in qualche fanatico
avventista del settimo giorno…” “Tyler non tentare di farmi cambiare argomento!!! Sono profondamente incazzata
con te, ho il ciclo e le ovaie rigirate … questa mattina non volevo uscire e
sono stata costretta perché qualcuno era irraggiungibile”
“Ma perché” mi allarmai “è successo
qualcosa?”
Per quanto ne sapevo, tutti eccetto me
erano ancora a casa per le vacanze e mia madre, Les e Caroline sarebbero
partiti solo l’indomani per la settimana bianca, lasciando a me ed Allison la
casa libera per ben 10 giorni … Tyler, un
po’ di contegno. Porca puttana!
“Nooooooo … solo un centinaio di
chiamare non risposte al cellulare da parte di tuo padre. Pensava che fossi da
noi così ha chiamato a casa”
“Mio padre?” chiesi, palesemente
sorpreso “che vuole?”
“E io che ne so” rispose Allison,
terribilmente inacidita. Speriamo il
ciclo le duri poco … non ho intenzione di mandare all’aria il mio programmino
di capodanno. Tyler, basta! “Ha detto che devi andare nel suo ufficio da
solo oggi pomeriggio, deve parlarti. Di più non ha detto. Però ha scassato così
tanto che alla fine mi sono offerta di venire ad avvertirti di persona. E visto
che a casa tua non c’eri … beh, ovviamente eccomi qui.”
“Grazie per esserti scomodata, ma non
se ne parla” chiusi lì, freddo e duro, distaccato a sufficienza da dimostrare
quanto poco tenessi a lui. Purtroppo la situazione era un’altra. Quell’uomo
rimaneva pur sempre mio padre e, per quanto mi imponessi di tenerlo lontano,
era un meccanismo che poteva funzionare solo se applicato da me. Ad chiunque me
lo ricordava, il lavoro fatto si sgretolava. E di nuovo lo tsunami di dubbi
tornava alla carica, man mano che il tempo passa.
“Non fare lo scemo. Tu ci vai eccome!”
disse imperiosa mentre per un braccio mi trascinava lungo la libreria che ormai
conosceva piuttosto bene. “Ray!” urlò ad uno dei responsabilità “Ty si prende
una pausa!” Ray capì che non doveva nemmeno osare a fare domande.
Davanti ad una ciambella e ad un caffè
caldo, la mia visione delle mie cose non cambio di un millimetro. Ero
soddisfatto della mia tenacia, dote che non ero assolutamente conscio di
possedere. Ed invece riuscivo a non demordere. Era la cosa migliore non vederlo,
qualsiasi cosa avesse da dirmi; anche se stargli lontano faceva senz’altro un
po’ male, stargli affianco avrebbe significato calpestare ogni mia convinzione.“Devo ricordarti le parole che mio
padre ti ha riservato l’altro giorno Allie?” le chiesi. Non avrei voluto
ricordarle una cosa così brutta, ma le non sembrò toccata più di tanto.
Estrasse un bigliettino dalla sua borsa e me lo passò: era la terribilmente
perfetta grafia di mio padre, che si scusava con la signorina Allison Eugenia
Riley per il suo comportamento riprovevole e si riprometteva un nuovo incontro
pacificatore.
“Il tutto accompagnato da tre dozzine
di rose. Sono arrivate stamattina” commentò, senza lasciare che alcuna emozione
le segnasse il viso. Era disillusa, forse? O pensava di non dovermi influenzare?
“Senti Allison” forse le avrei fatto
male, ma di quell’uomo doveva conoscere fino in fondo lo schifo di cui era
capace “quelle scuse, beh veramente …”
“Gliele hai suggerite tu? Naturalmente
… ma lo ha fatto. E questo dimostra che almeno a te ci tiene. Per cui vai e ci
parli.”
“Per dirgli cosa esattamente?”
rimbeccai, mi dava fastidio non avere ragione su un argomento come quello.
Sembravamo essere tornati indietro di un paio di giorni, quando Allison era
impegnata a convincermi che dovevo andare a trovare mio padre il giorno di
Natale. E quello che era successo proprio quella sera, certo non mi aiutava a
scegliere favorevolmente per un nuovo incontro.
“Beh, intanto tu ascolti quello che
vuole dirti lui” rispose, calma e decisa “e poi deciderai, civilmente, come
comportarti, senza sclerare come ha fatto l’ultima volta”
“Ah perché ora ho io la colpa!”
sbraitai “lui ti chiama puttana e io ho la colpa!” risi shockato dalle sue
parole: non pensavo potesse arrivare a tanto. Poteva non dare peso alle offese
che mio padre le aveva rivolto, poteva essere rimasta impressionata dalle sue
scuse, ma non le avrei permesso di addossarmi la colpa. Mentre mi intimava di
fare silenzio, visto che nella caffetteria ci stavano praticamente guardando
tutti, mi afferrò le mani con le sue; erano due ghiaccioli, come al solito,
così toccò a me raccogliere le sue tra le mie.
“Sai bene che non è quello che
intendevo dire” si corresse, mortificata “ma vorrei solo che avessi un po’ di
contegno con lui. Che lo rispettassi un po’ per ciò che rappresenta. È tuo
padre … se fosse vivo il mio o se avessi l’opportunità di riavvolgere il nastro
con mia madre … forse la coda la terrei un po’ di più tra le gambe. Non
rovinare la tua famiglia”
Capivo la sua prospettiva, ma il punto
era che quella famiglia non esisteva più da un po’, e non certo per colpa mia.
E preferivo conservare gli stracci che mi restavano piuttosto che tentare un
rattoppo estremo, destinato a non funzionare. Tanto con Charles significare
tornare punto e accapo ogni volta. E oltre a farmi male, il che rappresentava
il problema minore, avrei fatto male a mia sorella e questo non lo tolleravo.
“Telefonagli almeno” incalzò,
passandomi il suo cellulare “così puoi valutare senza doverlo vedere per forza
in faccia”.
Mi strizzò l’occhio – ricordava ogni
minima cosa le confidassi e questo mi istillava un’incredibile fiducia in lei –
e composi il numero, sbuffando come quel bimbo di otto anni a cui la madre ha
imposto di fare i compiti invece di stare davanti ai videogiochi.
Naturalmente dovetti passare prima per
la zona filtro delle tre segretarie: quella generale, quella del suo piano e la
sua personale. Janine, che mi conosceva da una vita, ebbe molto piacere di
risentirmi e lo stesso valeva anche per me. Lei come tutti quelli che
conoscevano di mio padre solo il lato professionale, ne tessevano le lodi ogni
giorni e lo stimavano particolarmente come un lavoratore insaziabile. Il
problema era che io e mia sorella non avevamo bisogno di un lavoratore, bensì
di un padre.
“Tyler” mi rispose mio padre con il
suo solito tono piatto “finalmente!”
“Scusa, avevo il telefono scarico ed
ero a lavoro. È stata Allison ad avvisarmi”
“Molto gentile da parte sua …
salutamela”
Sentivo che faticava a parlare di lei,
ma almeno l’aveva digerita, cosa che volente o nolente prima o poi avrebbe
dovuto fare perché non avevo intenzione di lasciarla andare da nessuna parte.
“Cosa c’è?” tagliai corto “mi ha detto
Allison che vuoi vedermi”
“Sì” rispose lui e lo sentii diventare
alquanto turbato “si tratta di una questione delicata e non mi va di parlarne
al telefono”
Non capivo di cosa parlasse. Non
avevamo mai discusso di affari di famiglia, né di eredità o cose simili. Ero
decisamente frastornato.
“Che … che tipo di questione?”
domandai.
“Ci vediamo oggi pomeriggio verso le 5
nel mio ufficio. Finisco una riunione e sono completamente libero, non ho altri
impegni. Avremo il tempo di parlare con calma”
Lui che non aveva altri impegni mi
suonava come nuova; di solito la frase era ho
un’ora sola, facciamo in fretta. Ora invece era completamente libero: era
sempre stato libero e ci mentiva regolarmente, oppure finalmente aveva cambiato
atteggiamento? Era bastata la mia sfuriata a farlo cambiare così. L’avessi
saputo me ne sarei occupato prima. In ogni caso, non dimenticai quanto
manipolatore sapesse essere, quindi decisi di non fidarmi troppo di lui, non
avevo intenzione di scottarmi.
“Se non mi dici di che si tratta non
vengo” minacciai, anche se ero troppo curioso per dargli davvero buca. Allison
di fronte a me alzò gli occhi al cielo e le sorrisi, ammiccando divertito.
“Ho delle buone notizie … su Allison”
Mi prendeva in giro o cosa? Mi vidi
riflesso nello sguardo mutato di Allison, dallo spensierato al inquieto. “Che
significa?” domandai.
“Vieni qui e lo saprai” ribatté mio
padre “ma non ne fare parola con lei per il momento … come ti ho spiegato è una
faccenda complicata”
E non ne feci parola. In un lampo
ripensai al nostro ultimo incontro ed ebbi come dei flash che scorrevano nella
mia mente: i segugi di mio padre, Allison, il locale. Però erano buone notizie,
aveva detto: eppure non riuscivo a stare tranquillo.
Mantenni la promessa, accampando ad
Allison la prima scusa che mi venne in mente e chiedendole di tornarsene a
casa. Lei sembrò bersela, o quantomeno finse di farlo, ma se non poteva avere
la verità da me, almeno aveva ottenuto che mi vedessi con mio padre e questo
bastò per risollevarle il morale.
Finito il turno e sistematomi un poco
(il che significava jeans puliti e una camicia che non fosse a quadri) mi
ritrovai all’ingresso dell’Empire State Building.
La società di mio padre si era
trasferita lì dal 2002, quando riuscì a risollevarsi dal disastro del World
Trade Center intascando i soldi dell’assicurazione. Purtroppo nell’economia i
morti non c’è il tempo di piangerli, soprattutto se sei quotato in borsa. E
così, sistemati gli uffici e trovato nuovo personale, la “Hawkins Communications”
e la sua sorella maggiore “Steven&Jacobs Publications” si erano rimesse in
marcia, sotto l’egida di Charles Hawkins che ne aveva approfittato per
mangiarsi i suoi due soci e divenire azionista di maggioranza. Mors tua vita
mea, dicevano i latini. E cazzo se avevano ragione.
Sembrava di essere in uno di quei film
anni Ottanta sull’alta finanza, dove tutti sono rigorosamente in giacca e
cravatta e non cavi alle persone un sorriso di bocca neanche dopo una serie di
giornate positive a Wall Street. Sembravano tutti essere troppo indaffarati nei
propri affari, per badare a segnali di vita che andassero oltre agli indici di
gradimento nei loro grafici o alle altalene degli indici di Borsa.
Eppure ad alzare lo sguardo, al mio
passaggio, tutti erano subito pronti a richiamare il collega sull’attenti e a
far partire i regolari salamelecchi. Mettevo piede veramente di rado in quell’edificio,
ma per loro ero sempre il figlio del capo ed erede dell’impero, ed ognuno lì
era impegnato a mantenersi ben stretto il suo posto di lavoro, la bella
poltrona di pelle e la scrivania in frassino. Oltre allo stipendio d’oro e al caffè
caldo e ciambella gratis al mattino.
Dalla Hall fui spedito al 75esimo,
dove c’era la segreteria della società. Salii poi fino al 90esimo piano, dove
gli uffici del grande capo. Appena le porte dell’ascensore si aprì, trovai
Janine seduta alla sua scrivania. Il tempo passava, ma restava sempre una
bellissima donna. Pur rigorosa nel suo tailleur nero gessato e comoda nelle sue
scarpe basse, non dimenticava di viziarsi un po’ con i foulard di Hermes, l’unica
sua vera debolezza a sentirla parlare.
“Chi non muore si rivede” mi disse,
vedendomi.
Le sorrisi “È bello rivederti Janine …
grazie per il regalo di Natale!”
“Dio Tyler ho combinato un bel guaio,
non avevo idea…”. Sembrava così contrita, ma io volevo solo fare una battuta. “Ma
non è colpa tua!” la rassicurai “tu non potevi sapere … d’altronde dovrebbe occuparsi lui di quelle cose …”
“Vieni dai” cambiò argomento,
conducendomi verso l’ufficio di mio padre, poggiando una mano sulla spalla “ti
sta aspettando”
“Com’è il suo umore?” chiesi, tanto
per andarci prevenuto.
“Basta che non gli fai venire un
infarto come al tuo solito e vedrai che andrà bene” sorrise, strizzando
l'occhio impertinente. Sapeva del mio pessimo carattere, e sapeva altrettanto
bene quanto lui non lo soffrisse. “Cerca di non bere troppo caffè, ti rende
nervoso” mi consigliò, con candida insolenza.
“Charles c’è tuo figlio” mi annunciò e
da dentro la voce che così tanto mi dava i nervi mi richiamò a sé. Entrai,
chiudendomi la porta alle spalle.
Parlammo del più e del meno per 10
minuti, intercalando frasi fatte modi di dire ad argomenti di conversazione
generali, come il meteo, il lavoro, e le notizie del giorno.
Nel momento in cui avevamo ormai
esaurito ogni distrazione dal vero motivo per cui mi aveva convocato, arrivò il
telefono a toglierci dall’imbarazzo di quel silenzio che si stava diffondendo
tra un sorso di caffè e l’altro.
“Non mi interessa che siano i Cinesi o
chiunque altro. Vi ho già ripetuto che sono impegnato con mio figlio e non
vogliono essere disturbato”
Non l’avevo mai sentito parlare così,
e si vedeva che era certamente imbarazzato dal pronunciare queste parole in mia
presenza, nel mostrarsi così vulnerabile proprio davanti a me, che per una vita
l’avevo ritratto come un despota burbero e dal cuore di pietra.
Chiuso il telefono in faccia persino a
Janine, si sedette alla sua bella scrivania ed estrasse un fascicolo giallo che,
senza dire una parola, mi passò.
“Cos’è?” chiesi, titubante e non
ricevetti alcuna risposta, ad esclusione di un cenno che sembrava un invito
evidente ad aprire la cartella.
Sfilai l’elastico e sfoglia un plico di
carte su cui erano segnati dati anagrafici ed una serie di nomi di città con
delle cifre, che potevano significare tutto o niente, non reputandoli di grande
importanza, non mi soffermai a leggere le piccole scritte in grassetto. Fin quando,
pietrificato, mi ritrovai di fronte alla foto di una ragazzina, da primo anno
di liceo, o forse qualcosa in pià. La strappai con foga dal foglio su cui era
stata attaccata con la spillatrice e la guardai più attentamente, mentre la
cartella e i suoi fogli caddero a terra, ma non me ne curai; tutto quello che
mi interessava al momento, era la ragazzina della fotografia, che io conoscevo
evidentemente molto bene.
Girai la foto, notando in controluce
il calco di una scritta nella carta plastificata della foto: 20 Gennaio 2007, 15 anni.
Due anni fa, quasi tre ormai. Prima
della tragedia, prima che diventasse la piccola donna che io conoscevo, prima d
che noi … e mio padre aveva una sua fotografia nel suo ufficio, in una
cartelletta da investigatore privato.
“Fino a dove si può spingere la tua
sete di controllo? Come hai avuto questa fotografia, maiale!” lo aggredii solo
con le parole, perché la mia voce non reputava nemmeno di dover perdere fiato
con quell’uomo.
“Non è come credi” rispose calmo “lasciami
spiegare”
Si alzò dalla sua poltrona e si portò
verso la finestra, a guardare fuori, a distogliere i suoi occhi da me, a
nascondermi il suo sguardo.
“Era da poco che Michael …” iniziò, e
sembrò già non farcela “questa coppia di Indianapolis“si presentò qui a
chiedermi aiuto. La loro figlia maggiore Allison era scappata di casa, ed
avevano ricevuto delle segnalazioni da New York, ma nessuno nella polizia aveva
voluto dargli retta, così sono venuti da me, sperando che potessi aiutarli”
“Io … lo so che sembra strano detto da
me … ma non potevo tollerare che quelle persone potessero soffrire come stavo
soffrendo io, avevano già perso la figlioletta. Così per farla breve decisi di
aiutarli, ma dopo un iniziale successo in un piccolo bar notturno di Harlem sembrò
sparita letteralmente nel nulla”
Ero in uno stato tra il rigor mortis
ed i’euforico, shockato non basta per descrivere le montagne russe di
sensazioni ed emozioni che si alternavano tra testa e cuore. Felice, eccitato,
disperato, terrorizzato: e tutto allo stesso momento, dire che erano un tantino
sopraffatto era un eufemismo.
“Aspetta un momento” intervenni,
riacquistando lucidità “non mi pare di aver capito bene: hai detto una coppia
giusto?”
“Sì” rispose lui affermativamente “lui
è uno dei nostri migliori impiegati”
“Ma questa è una notizia meravigliosa …”
ma lui non poteva capire, non sapeva “Allison non sa che suo padre è vivo! È convinta
che non si sia risvegliato più dopo il coma”
“Beh …” replicò lui “non era proprio in formissima quando ci siamo incontrati,
ma da allora sono passati due anni, scommetto che ha recuperato alla grande”
“Ma tu … non li senti più?” indagai “non
dopo che si sono perse le tracce. Ecco perché mi ero dimenticato completamente
di lei … questo fascicolo c’ho messo una notte intera per riesumarlo da casa
mia”
E dire che era un maniaco del
controllo e dell’ordine.
Mi ricordai di quella sera, per la
prima volta da quando ero con lui. Lui sapeva chi era, sapeva benissimo con chi
aveva a che fare, ma non aveva esitato un secondo ad offenderla ed umiliarla.
“Dimmi una cosa” mi feci avanti, di
nuovo serio “perché lo stai facendo? Per rispedirla da sua madre in modo che io
non possa più vederla? Perché sinceramente è un po’ antiquato come metodo …
esistono le web cam ed esistono gli aerei che ti piaccia o no”
“Senti Tyler …” provò ad intervenire ma non gli lasciai
mettere due parole di fila.
“Lo sai perché se n’è andata di casa? Perché sua madre era proprio come te,
forse è per questo che vi siete trovati. La figlia era distrutta e non trovava
di meglio che insultarla e darle della troietta, invece che starle vicino e
cercare di correggerla come ogni madre sana di mente avrebbe fatto”
“Smettila Tyler” si impose “io non
avevo idea di chi fosse quando l’hai portata a casa, la sera di Natale. In
quanti siamo a New York, ci saranno migliaia di Allison. Ed è stato solo dopo
che mi hai detto il suo cognome e che sua padre lavorava per me che ho unito
tutti i pezzi del puzzle. Indianapolis, il suo nome, suo padre.”
“Come sarebbe a dire che non sapevi
niente su di lei? Non è possibile! Sai meglio di me dove, come e quando l’ho conosciuta
e i tuoi cani da riporto non sono stati capaci di saperne di più?!” Non volevo
deriderlo, eppure era esattamente quello che venne fuori dai miei sputi di
parole insolenti.
“Oh Tyler non essere stupido!” mi ammonì
“Allison è come se non esistesse per l’America: i suoi documenti sono falsi,
non ha nome o ne ha mille, nel bar dove lavorava era solo una sigla con tre
iniziali e non certo andavano a raccontare al primo che passa i loro affari.”
E anche lui c’aveva ragione.
“Io non sapevo chi fosse” mi supplicò
di credergli e volli fidarmi
“Ma questo non giustifica quello che hai
detto. Io … credo di aver bisogno di una boccata d’aria”
Me ne andai intascando la fotografia
di quella ragazzina dell’Indiana, che ancora non sapeva che il suo desiderio
più grande era realtà. Sarebbe toccato a me dirglielo e non sarebbe stato
facile. Non avrei mai potuto presentarmi da lei e dire: “Ciao, lo sai che tuo
padre è uscito un annetto fa dal coma, ti va di andare al McDonald?”
Né andava fatta una tragedia alla Re
Lear di Shakespeare. Non ero il miglior comunicatore, ma ero l’unica persona in
grado di poterle dare una notizia del genere. Ci voleva tatto, sensibilità e
una gran dose di fiducia reciproca.
Presi la mia bici fuori dal
grattacielo ed iniziai a sfrecciare incurante del freddo pomeriggio di New York
lungo il traffico della città, sormontato da quegli imponenti dominatori dell’aria,
mentre nuvole di smog mi drogavano ed uccidevano respirando a pieni polmoni.
Dopo nemmeno un paio di isolati mi
sentii già affamato d’aria pulita; forse era lo smog, forse la massiccia dose
di novità che mi aveva preso in pieno come un treno in corsa o forse, più semplicemente,
paura di dirle la verità e scoprire che non ero una ragione sufficiente ad
impedirle di andarsene via da me.
NOTE FINALI
Chiedo scusa per aver tardato nell'aggiornamento. Ma come già vi
dissi in precendenza non diamoci più una data perché non
so se l'ispirazione o altro mi daranno la possibilità di essere
costante.
Non so cosa dire di questo capitolo. Spero possa parlare da solo.
Il resto ditemelo voi...lasciate che siano le vostre emozioni a parlare.
Vi aspetto
p.s.:appena potrò risponderò a tutte le recensioni del vecchio capitolo. Croce sul cuore =)
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** On the road ***
When you crash in the clouds - capitolo 21
Capitolo 21
On the road
soundtrack
Con due pesanti trolley ed altrettanti borsoni ci incamminammo per il
terminal, gremito di autobus sebbene fossero le nove di sera, seguiti
da mia madre, alla ricerca della nostra corsa. Les se n’era
rimasto a guardia del SUV, parcheggiato in doppia fila in un posto
alquanto fortuito, giusto per scaricare i bagagli.
“Io ancora non riesco a capire perché non abbiate voluto
prendere l’aereo. È più comodo ed impieghereste
meno tempo …”
Io ed Allison ci scambiammo un’occhiata tanto eloquente quanto scoraggiata.
“È inutile che fate quella faccia” rimbeccò
mia madre, squadrandoci e puntandoci contro l’indice
“sapete bene che ho ragione”
Mentre il fattorino ci aiutava a caricare le valigie sul pullman,
tentai di spiegare ancora una volta a mia madre il perché di
quella scelta: Allison non avrebbe accettato più soldi né
da mia madre né da me né da nessun altro ora che era
quasi, mancavano pochissime ore, maggiorenne, e quelli che era riuscita
a guadagnare occupandosi di Caroline (un lavoro a metà strada
tra babysitter e istitutrice) non bastavano per pagarsi nemmeno un
biglietto in economica.
In più, parte del suo pacchetto “desideri per la maggiore
età” prevedeva un viaggio on the road, come nella migliore
tradizione americana. Tuttavia nessuno dei due era un bravo pilota: lei
non aveva avuto il tempo di fare pratica, scappando subito dopo aver
preso la licenza; io, invece, avevo un rapporto di amore/odio con le
auto. Più che altro, si trattativa di una vera e propria
dominazione dell’automezzo nei miei confronti. Per cui entrambe
avevamo concordato che mettersi alla guida, non era di certo una cosa
fattibile: depressi e sfigati sì, ma alla nostra pellaccia
ancora ci tenevamo.
“Va beh” si arrese mia madre, al momento dei saluti,
disperata nemmeno fossimo in partenza per il Vietnam “ma mi
raccomando, chiamatemi … almeno per farmi sapere che siete vivi
… Tyler non fare come al tuo solito, come quella volta che sei
andato in gita ad Ellis Island”
Come al mio solito?! Ma se prendeva sempre in esempio (l’unico
che aveva) quella gita ad Ellis Island in 5a elementare, quando il
telefono cellulare era ancora un mattone con l’antenna estraibile
e lo schermo monocromatico e solo mio padre che era un milionario
poteva permetterselo.
Madri … quel cordone famoso non sarà mai abbastanza reciso nella loro testa.
Ci abbracciò entrambe, e se non l’avesse smessa con quelle
moine le sarebbero arrivati due bei ceffoni (uno da me, l’altro
da suo marito che a larghe braccia da lontano esprimeva tutta la sua
solidarietà nei nostri confronti), e finalmente ci lasciò
salire sull’autobus.
Per essere l’autobus un mezzo usato, almeno in America, dai meno
abbienti … beh devo dire che non c’è niente di cui
lamentarsi. Sarà stato anche per il parco auto recentemente
rinnovato dalla compagnia, ma non ci mancava proprio nulla: sedili
confortevoli e larghi anche per un spilungone come me, prese della
corrente per ricaricare gli apparecchi elettronici, wireless. Non
avremmo avuto problemi a trascorrere le successive, lunghissime ore.
La durata, infatti, era l’unico problema di quel viaggio: 16
lunghissime ore, lungo le sterminate autostrade americane, a volte
anche nel bel mezzo del nulla.
“Io vicino al finestrino” strillò Allison,
precipitandosi a sedere, sgusciandomi di fianco mentre sistemavo le
giacche nel cassettino sopra le nostre teste.
Mi cacciò una bella linguaccia di soddisfatta vittoria non
appena mi accomodai vicino a lei, e quello fu il primo atteggiamento
vagamente sereno e spensierato da almeno un paio di settimane.
Sicuramente il pensiero di tornare nella sua città natale, il
terrore di incontrare qualche parente o amico per sbaglio la faceva
tremare come una foglia ed agitare. Diceva di sentire come un pugno
forte allo stomaco, una fiammata al cuore e il respiro che le si
troncava in gola ogni volta che pensava a
quell’eventualità. “Cerca di non pensarci” la
incoraggiavo. “Fosse facile” rispondeva puntualmente lei.
Non era solo un semplice ritorno agli affetti, se ancora questo per lei
poteva significare qualcosa, ma era anche e soprattutto un ritorno a
ciò che lei era stata, un faccia a faccia con la ragazzina
innocente ma ribelle e la piccola donna ormai tranquilla ma con un
carico di tormenti sulle spalle.
Avevamo provato a fare programmi, nei giorni precedenti alla nostra
partenza, anche per distrarla un po’, ma anche solo cercare un
albergo dove dormire, per lei era un dolore ed una fatica in
più. Quello no…era il padre di un suo compagno di scuola,
quell’altro nemmeno…sua madre giocava a bridge con la
figlia del proprietaro. Quell’altro nemmeno a parlarne…era
la pensione ultraeconomica dove la portavano i ragazzi quando aveva
iniziato il suo giro di amicizie “intime”.
Speravo di sbagliarmi, lo speravo con tutto me stesso, ma niente mi
levava dalla testa che quel viaggio sarebbe stato un disastro.
E il fatto che il suo umore fosse sottoterra, ai minimi storici da
quando la conoscevo, non faceva che rafforzare la mia ipotesi.
“Sei davvero sicura?” le
chiesi, titubante, ancora una volta. S’era messa in testa di
voler chiamare i suoi, prima di partire per Indianapolis, almeno per
capire che aria tirava.
Senza proferire verbo annuì
vigorosamente, fissando il telefono come fosse un mostro letale.
“Devo” precisò; afferrò la cornetta di quel
vecchio apparecchio che Les ancora teneva in casa, nello studiolo,
attentamente, quasi scottasse e iniziò a comporre le cifre a
memoria, senza neanche controllarle sul file che mio padre ci aveva
fatto avere e che era da giorni aperto nel computer di mia madre:
d’altronde era pur sempre il numero telefonico di casa sua.
Una mano reggeva la cornetta, con
l’altra si aggrappava stretta al bordo della scrivania; il suo
respiro era affannato, irregolare, non ero sicuro che avrebbe retto a
lungo. Non era il suo primo tentativo, ma tutti erano falliti
miseramente, interrotti richiudendo malamente l’apparecchio prima
che potesse anche solo sentire una risposta. L’ultima volta che
ci aveva provato, solo il giorno precedente, aveva resistito un bel
po’, prima che scattasse la segreteria telefonica.
Dopo cinque squilli e i suoi nervi
ancora saldi e decisi nell’andare avanti, sentii una voce
maschile rispondere all’altro capo del telefono. Ma lei era
diventata pallida e muta, turbata da quella voce a lei evidentemente
familiare.
“Pronto? Pronto?! Ma chi
è?!” continuò l’interlocutore, mentre lei
riusciva solo a respirare rumorosamente, finché non si risolse a
riattaccare, ancora.
Scattò via, furiosa,
probabilmente imbarazzata da quella figura appena rimediata. Ma doveva
capire che non era colpa sua, era del tutto naturale essere impacciati
in una circostanza simile. “Allison! Allie!” le corsi
appresso, per cercare di calmarla, ma lei non voleva sentire ragioni.
Entrati in camera sua – era già tanto che non mi avesse
chiuso la porta in faccia – accese lo stereo
a palla, mettendo su qualcosa di veramente pesante. Aveva iniziato a
maltrattarsi labbra, mani e capelli, segno evidente che qualcosa non
andava. Girava intorno nella stanza, torcendo quella povera malcapitata
di una tshirt bianca che usava in casa.
“Allie!” la presi e la fermai, placcandola con le mie mani sulle sue braccia “calmati!”
Bisognava essere fermi e decisi in
quelle situazioni, soprattutto con lei che era la regina nel passare da
una crisi depressiva ad una isterica. Era necessario prevedere e
prevenire ogni sua mossa.
Quando si fu calmata, quando il suo
respirò sembrò regolarizzarsi e i suoi incisivi avevano
smesso di solcare a sangue le sue belle labbra carnose e rosse, la
lasciai libera e placai anche il mio tono di voce.
“Perché sono così
stupida?!” borbottò tra sé e sé, severa
contro il suo riflesso allo specchio sulla toletta, rimproverandosi
evidentemente per quella conversazione mai iniziata. “È
tuo padre cazzo!” continuò “Cosa c’è di
più normale che parlare con tuo padre…cogliona! Sei
sempre la solita emerita cogliona…fatta apposta per rovinare
tutto!”
Non le avrei permesso di
autodistruggersi così, neanche se avesse avuto ragione di farlo
– e non era quello il caso. C’era una cattiveria ed un
rancore nei confronti di sé stessa che poteva essere
particolarmente deleterio; quell’indice puntato in maniera feroce
all’immagine allo specchio, uno sguardo sprezzante rivolto a
sé stessa che non avevo mai visto. L’avevo vista
disprezzare gli altri, odiare l’immagine che di sé avevano
gli altri, deprecare il suo lavoro anche…ma lo sterminato
orgoglio innato le avevano sempre conferito una straordinaria pienezza
di sé. Ma non negli ultimi giorni, non da quando le ultime
barriere erano cadute.
Mi era sembrato di aver letto il nome Pittsburgh da qualche parte sui
cartelloni stradali che sfilavano lungo l’autostrada. Era
difficile esserne sicuri quando sei appena sveglio dopo una dormita su
un autobus in viaggio, alle primissime luci dell’alba, quando non
capisce bene se è notte o giorno, con i fari delle auto che
sfrecciano veloci tutt’intorno. In ogni caso i cartelloni
pubblicitari e il paesaggio intorno a noi, vagamente lussureggiante
rispetto alle abituali colate di cemento delle mie zone, mi diedero da
pensare che avevamo lasciato alle nostre spalle i popolosi stati di New
York e del Connecticut ed ci eravamo lanciati a capofitto nella
cavalcata verso il West, incominciando con la Pennsylvania. Buttai un
occhio all’ipod che ancora suonava della musica
techno negli auricolari, che come un innocuo moscerino ti da fastidio
ma cerchi di ignorare; l’orologio del lettore segnava le 7.30 del
mattino - orario di New York, ma noi stavamo andando in Indiana, quindi
una volta arrivati avrei dovuto ricordami di portare le lancette
un’ora indietro. Attorno a noi era tutto ancora buio ed
addormentato, gli altri passeggeri rispettavano il silenzio imposto
nella vettura, visto che qualcuno era ancora assopito.
Cercai Allison, che di solito aveva l’abitudine di addormentarsi
usando le mie spalle come suo cuscino; ma stavolta non era così,
aveva scelto il vetro freddo ed umido, ammorbidito dal cappuccio della
felpa e dal piccolo collare di gomma gonfiabile che mia madre le aveva
dato prima di partire.
Era da un paio di giorni che era strana, imbronciata, silenziosa. Era
come covasse qualcosa dentro, ed avevo la netta sensazione che era una
malinconia comune: entrambi vedevamo la realtà in faccia,
vedevamo il punto di svolta sempre più vicino, al di là
di ciò che sarebbe potuto accadere; e ne eravamo spaventati a
morte, ma invece di aiutarci a vicenda ci evitavamo l’un
l’altro. Era un muto addio, un abituarsi all’idea che non
sarebbe stata più la stessa cosa tra noi.
Se qualcosa fosse andato storto, ed egoisticamente ad essere sinceri me
lo auguravo proprio, forse sarebbe tornata con me a New York, ma non
sarebbe stato più lo stesso: non sarei stato più la
persona più importante della sua vita, quella a cui rivolgersi
per un problema, l’unica che potesse garantirle aiuto e riparo.
Non osavo nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto quando avrebbe
rivisto sua madre, ammesso che avrebbe accettato di rivederla, cosa di
cui non ero sicuro. Non si poteva negare, però, che a suo padre
non aveva intenzione di rinunciare. Se lei provava per suo padre il
bene incondizionato che Caroline provava per nostro padre, nonostante
tutti gli sbagli in cui lui perseverava, lo avrebbe rivoluto nella sua
vita con le unghie e con i denti. E poi, a sentir parlarne Allison, suo
padre avrebbe potuto combattere contro il resto del mondo per tenersela
stretta. E faceva bene, anche io lo avrei fatto se fosse stato un mio
diritto.
Ma non lo era, ed eccomi su un autobus per riportarla a casa, la sua vera casa.
“Che cos’è questa faccia triste Ty?”
Sobbalzai alla voce di Allison che d’improvviso mi richiamò alla realtà.
“Sei sveglia?!” domanda idiota. “Ma niente, non
preoccuparti” le sorrisi cordialmente “sono solo stanco
… ho dormito poco e male”
“Sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata”
commentò, sibillina, puntando uno sguardo severo verso
l’orizzonte dove c’era ancora il buio. L’alba,
invece, era alle nostre spalle. “Spero proprio che la prossima
fermata ci sia a breve” disse, stiracchiando le braccia “ho
bisogno di sgranchire le gambe e prendere un po’ d’aria
… ho ancora nelle narici la puzza di fritto della cena di
Bombolo.
Bombolo era un passeggero del sedile davanti a noi, soprannominato
così da Allison per via del suo volume, oltre che per la
quantità immane di ciambelline ingurgitate dal momento della
partenza fino all’1, quando l’autista spense le luci e si
mise anche lui a dormire.
“Siamo nei pressi di Pittsburgh” la informai
“lì ci fermeremo. Io ho proprio bisogno di una
sigaretta!”
“Nervoso?” domandò. Scossi la testa: “dicono
che il fumo porti dipendenza … non si può stare molte
senza fumare e mi pare che dovresti saperne qualcosa …”
Mi cacciò la lingua, indispettita come tutte le volte che
provavo ad essere sarcastico con lei, e l’aria tra noi
sembrò tornare vagamente respirabile, escludendo il fatto che,
al di là di qualche parola o informazione, non ci eravamo detti
molto, immersi nella lettura o nelle rispettive playlist.
Alla stazione degli autobus, tra barboni addormentati sulle panchine e
tossicodipendenti che si avvicinano per racimolare qualche soldo
d’elemosina, riuscimmo a darci una rinfrescata in bagno e a
prendere la colazione al bar. Non era Starbucks, ma non era nemmeno
acqua sporca. Seduti allo scalino del marciapiede, al freddo pungente
del mattino, aspettavamo che l’autobus fosse pronto per partire
di nuovo. Ci aspettavano altre 7 ore di viaggio: un calvario se tra me
ed Allie non se ne fosse andata quell’atmosfera da funerale.
Tra un sorso di caffè e un tiro di sigaretta infatti, i cappucci
delle felpe e delle giacche calati sulla testa, gli occhiali a
nascondere le borse sotto gli occhi, non avevamo niente da dirci; e per
due come noi, che per smettere di parlare avevano bisogno di minacce
atomiche, era davvero grave.
E non era come quando si sta bene anche senza dirsi nulla,
perché non si stava bene per niente. Era il classico silenzio
assordante e stridente, fatto di urla e parolacce urlate a vicenda, che
per quanto eravamo coglioni andavamo a letto insieme (per la
verità dopo Capodanno mi aveva mandato in bianco tutte le volte
che ci avevo provato) eppure se c’era un problema da risolvere
non eravamo capaci di dircelo in faccia.
Ma il tempo per dirsi tutto quello che ci passava per la testa, per
giocarsi le ultime carte, era agli sgoccioli; meglio che ti dia una
mossa Tyler!!!
“Come ti senti?” chiesi, usando una domanda generica per
rompere il ghiaccio. Dio, sembravamo due estranei, che cosa patetica!
“Meglio ora, il caffè mi ha rimessa al mondo
proprio!” esclamò soddisfatta, stringendo il bicchierone
fumante del caffè tra le due mani e portandolo vicino alla
bocca, per riscaldarsi meglio oltre che per bere.
“Non mi riferisco a quello” replicai.
“Quanto lo odio quando fai così, Tyler!”
esclamò lei, e sembrò veramente incazzarsi di punto in
bianco. Beh, rispetto all’apatia delle ore precedenti, era
già una certa botta di vita. “Che
c’è?!” chiesi. “Mi fa incazzare questo modo di
fare che hai … sei sempre perennemente criptico! Risparmia il
fiato e dimmi che cosa vuoi sapere?!”
“Innanzi tutto non c’è bisogno di scaldarsi
così tanto, stai calmina” le dissi, alzandomi per buttare
il mio contenitore del caffè. Nel frattempo accesi la sigaretta
numero due, perché mi aveva fatto schizzare di nuovo i nervi
… ma perché era così maledettamente lunatica e
isterica?! “e poi se proprio non ci arrivi da sola, volevo sapere
come ti senti al pensiero che stiamo andando ad Indianapolis”
Prese una lunga boccata di nicotina, lasciando che le invadesse tutte
le vie aeree; conoscevo quella sensazione piacevole e consciamente
letale. Poi si alzò e si diresse verso l’autobus,
liberandosi anche lei del bicchiere di carta del caffè. Notai
così che anche gli altri passeggeri si stavano avvicinando al
bus. Allie chiese all’autista ancora un paio di minuti per finire
la sigaretta, così restammo ancora un po’ di fianco al
portellone del bus. Anch’io feci un altro tiro, eppure non
riuscivo a calmarmi. E la fretta che ci aveva messo addosso
l’autista non aiutava. Forse avrei dovuto provare con una spranga
in testa.
“È una cosa che andava fatta” rispose calma, tirando
fuori l’ultima colonna di fumo. Salì poi con uno scatto i
gradini del pullman ed io la seguii a ruota, buttando la cicca
sull’asfalto e raggiungendola ai nostri posti.
“Non mi sembri felice” constatai. “Dovrei?!” fece lei, disincantata.
“Certo” affermai “domani è il tuo compleanno,
farai 18 anni e rivedrai tuo padre, che credevi morto. Dovresti
sprizzare gioia da tutti i pori … io lo farei. Voglio dire, se
mi dicessero che Michael è vivo io …”
“Hai ragione, scusa” disse, stringendomi la mano “il
problema è che non si tratta solo di mio padre, Tyler, e lo
sai”
“Tua madre?” chiesi. Era bello vedere che tirando fuori i
rospi le cose tornavano a posto tra noi, benché già in
partenza non è che fossero esattamente in ordine. Ma
l’ordine mentale, al momento, anche quello bastava.
Lei annui, senza aggiungere altro, ma solo fissandomi, scrutandomi con
attenzione e la cosa non mi piaceva affatto; sapevo benissimo che era
capace di leggermi dentro, con una sensibilità che mai nessuno
prima d’ora aveva avuto: nessuno mi aveva mai compreso come lei,
e lo odiavo perché non c’era nulla che potessi
nasconderle, niente che da cui potessi proteggerla in quel senso.
Abbassai lo sguardo ma tanto la scansione l’aveva già
fatta e vedevo bene, con la coda dell’occhio, il modo in cui mi
osservava.
“Tu piuttosto …” disse “che è quel
broncio? È da stamattina che ti porti quel muso lungo dietro
… è da un paio di giorni che sei giù, l’ho
notato sai, ma oggi proprio non riesci a mascherarlo. Potevi dirmelo
che è un problema per te accompagnarmi, non mi sarei offesa e
sarei venuta da sola”
“Ma che dici … no, non è come credi” mi
affrettai a replicare. Anche se con la morte nel cuore, non le avrei
mai permesso di fare un viaggio come quello da sola. Come disse lei? Ah
sì: è una cosa che andava fatta.
“Sono solo preoccupato” risposi, genericamente. Non era il
caso di spiegare nei minimi dettagli la mia preoccupazione, anche
perché sarebbe stata la volta buona che mi avrebbe preso per
pazzo e mollato a calci nel sedere alla prima stazione di servizio.
“Tu non lo sei?” incalzai. Era l’unico modo che
conoscevo per distrarmi e distrarla: farla parlare di sé.
“Certo che sono preoccupata. Ma tu non dovresti, Tyler. Dimmi cosa c’è che non va Tyler”
Cosa non andava mi chiedeva? Mi scrutava dentro ma per fortuna non era
ancora in grado di leggermi i pensieri in dettaglio, o sarei stato
spacciato.
Così me ne inventai una … che poi era una mezza verità visto come stavano le cose.
“Non voglio vederti soffrire di nuovo. Non voglio che quella
donna ti tratti come ha fatto mio padre. E non vorrei vedere delle
porte chiuse in faccia. Non lo sopporterei …”
“Oh Ty!” esclamò e si strinse a me prendendomi per
un braccio, come negli ultimi giorni non aveva più fatto
“io non so cosa accadrà se e quando andrò a casa
dei miei genitori. Ma ti prometto che non mi lascerò piegare
… te lo devo per tutte quelle volte che sei stato forte per me.
Perché sei stato tanto forte”
Lei posai delicatamente un bacio sui capelli, mentre stringendosi
ancora più forse Allie intrecciava le sue gambe alle mie,
poggiando finalmente la testa sulla mia spalla. Il sole, seppur timido
e pallido, aveva deciso di fare una comparsata in quella giornata, e le
distese di boschi e radure attorno all’autostrada si rincorrevano
e susseguivano, mentre noi, dall’autobus, li osservavamo, un
po’ più sereni.
Quasi 18 interminabili ore ci erano volute per arrivare a destinazione,
nonostante la compagnia di viaggio assicurasse nei suoi depliant la
massima puntualità. Ma nulla può il mezzo e un buon
autista contro cause di forza maggiore. No, non parlo di traffico,
incidenti stradali, maltempo o bazzecole simili. Parlo delle vesciche
delle nonnette che non riescono a trattenerla ed invece di prendere un
comodo treno optano per prendere il mezzo di trasporto più
selvaggio di tutti: l’autobus.
Raggiunto l’albergo, un Bed & Breakfast a ridosso del centro,
economico ma ben tenuto, di nuova gestione e libero da ogni possibile
legame con la sua vita ad Indianapolis, andammo in camera, a gettarci
nel letto per una dormita decente, in barba a fame o sete, senza
contare che erano solo le due del pomeriggio.
“Hai visto che non c’era niente di cui aver paura?”
esclamò Allie ad alta voce, mentre si asciugava i capelli di
fronte allo specchio, ancora con l’accappatoio addosso. Io invece
me ne stavo morto sul letto e non avevo alcunissima intenzione di
muovermi da lì per il resto della mia vita. “Ti ho detto
che il russo che l’ha fatta è un vero portento … se
non se n’è mai accorto nessuno tra New Orleans e New York
non vedo come potessero accorgersene qui”
“Sarà…ma mi hai fatto sudare freddo
comunque!” Quando infatti Allison estrasse la sua carta di
identità contraffatta al check in alla reception, infatti, avrei
voluto morire, sotterrarmi e decompormi. Non era andare in
villeggiatura al fresco che avevo in mente per festeggiare i suoi primi
18 anni, con l’accusa di contraffazione, pedofilia e rapimento di
minore. Vallo a spiegare alla polizia che, anzi, la stavo riportando
dai genitori …
Lei continuava a ripetere che non c’era altro modo, che non
poteva andare in giro con il suo vero nome, non era ancora sicuro, ed
inoltre mancavano ancora 9 ore alla mezzanotte del 20 gennaio, ora in
cui sarebbe stata finalmente libera da ogni obbligo verso i suoi
genitori e verso la legge che l’avrebbe ricondotta a casa anche
contro la sua volontà.
Così, durante i nostri pernottamenti nella città dei motori, lei sarebbe tornata ad essere Mallory Banning.
“Mi spieghi una cosa?” le chiesi, riflettendoci un po’ su.
“Dimmi!” mi incoraggiò lei.
“Tu mi hai sempre detto che per il tuo … lavoro …
hai sempre usato nomi diversi. Perché hai scelto proprio Mallory
per la tua seconda identità?”
“Ehm…non prenderla a male” iniziò lei, e
già da lì la cosa non mi piacque. Forse non avrei dovuto
chiederlo. “Croce sul cuore!” esclamai, da buono scout.
“Banning è il cognome di mia madre da nubile. Mallory
invece è il secondo nome di Emily. Quando mi chiesero come
volevo farmi chiamare fu il primo nome che mi venne in mente,
perché in fondo avevo sempre la piccola in mente …”
conoscevo bene quella sopraffazione che si prova in certi momenti,
quando vivi e sopravvivi per qualcosa che non è più vivo,
reale, e pure fa parte di te a tal punto che vivi di quei fantasmi.
“Poi anche nel locale dove ballavo a New Orleans iniziarono a
chiamarmi così e non potevo tollerarlo perché sentivo di
macchiare la memoria della mia sorellina, così inventai la
storia dei personaggi diversi e cercai di essere Mallory il meno
possibile. Ma il danno era fatto … a molti piaceva vedermi e
chiamarmi in quel modo e non potevo farci nulla. Ma dentro morivo per
quello che stavo facendo.”
Era terribile quello che aveva passato, e volevo fortemente che sua
madre, la donna che l’aveva messa al mondo, si rendesse conto di
ciò che aveva causato. Volevo che soffrisse per lo schifo
vissuto da sua figlia, ma non sarebbe mai stato abbastanza,
perché non l’avrebbe mai vista come l’ho vista io,
sculettare vestita da prostituta attorno ad un palo, con i genitali
praticamente sbattuti in faccia a chiunque le mettesse la mancia nel
tanga.
“Fa strano” le confidai “sentire quello che mi dici e
ricordare che io ti ho conosciuta proprio come Mallory”
“Già” annuì lei, pacata “è come un cerchio che si chiude”
Ma ormai era il suo sorriso ad essere serrato; con la mia
stupidità le avevo tolto anche quel briciolo di pace che le era
rimasto, riportando a galla ricordi che era meglio lasciare sopiti per
ancora qualche ora.
Accesi la tv per riempirci la testa con le chiacchiere inutili che
quella scatola propinava, il gossip delle riviste patinate e il
bagliore dei flash sui tappeti rossi. Non mi fece alcun effetto vederla
spogliarsi e rivestirsi davanti a me, ne vederla muoversi per la stanza
in mutande e canottiera. Stavo vivendo di nuovo quei momenti di
imbarazzo e profondo schifo, trasportato in un universo parallelo,
nella camera ammobiliata e lercia in cui mi aveva condotto Mallory,
dove avevamo fumato una canna ed avevamo parlato tutta la notte,
decisamente su di giri, e dove, in fondo, avevo lasciato il mio cuore a
farle da guardia.
Capii che Mallory non se n’era davvero mai andata, e se non
l’avesse fatto, se Allison non l’avesse mandata via, niente
sarebbe potuto cambiare. Non solo per quello che avrebbe potuto esserci
tra noi, ma avrebbe complicato ogni suo progetto, ogni relazione.
Lei mi voltò lei spalle e ci mise poco ad addormentarsi, ma a me
la stanchezza aveva sempre procurato l’effetto contrario,
così decisi di uscire ed esplorare un po’ la città.
Preso il mio zaino, le lasciai un appunto sul comodino, un bacio in
fronte ed uscii.
Per quanto decisamente più piccola di New York, Indianapolis
rimaneva comunque una città che non si poteva girare a piedi
senza qualcuno a guidarti. Mi feci chiamare un taxi alla receptionist,
ma non appena montai in macchina mi accorsi di non avere la
benché minima voglia di visitare la città da solo, senza
Allison pronta a viverla con me. Era come passeggiare per New York
senza di lei, una camminata ad occhi chiusi, anziché una
scoperta continua di cose che in 22 anni non avevo mai notato.
“4319 Springwood Trail” ordinai al tassista “il quartiere dovrebbe essere Wynnedale”
Quando un cartello stradale mi indicò l’ingresso nel
quartiere di Wynnedale, mi ritrovai in un delizioso quartiere
residenziale, di quelli da vita tranquilla da serie televisiva, dove le
madri fanno ancora le torte di mele e i bambini vendono la limonata per
strada d’estate. I due lati della strada erano delimitati da
querce alte e probabilmente secolari, che bene si accostavano alla
semplicità e alla familiarità delle villette, costruite
su delle piccole collinette. Il sole di un caldo e anomalo pomeriggio
invernale batteva sul lato della strada che era la mia destinazione, e
le case dipinte con colori tipicamente autunnali si riscaldavano e
avevano tutta l’aria di essere molto accoglienti. Era un bel
posto dove vivere, dove metter su famiglia. Ma è anche un posto
dove è facile – e forse d’obbligo – celare le
proprie disgrazie familiari.
Scesi dal taxi e presi un gran respiro, mi incamminai su per il lungo
viale che mi conduceva alla grande casa marrone, ad un solo piano ma
molto ampia, con un giardino ben curato e una berlina della Cadillac
parcheggiata davanti al garage. Almeno qualcuno era in casa.
Suonando il campanello mi accorsi che sul portone campeggiava una
scritta, incisa su una placchetta d’ottone. Welcome to the Rileys.
Sorrisi amaramente; la loro – ormai – unica figlia era
scappata perché si sentiva una estranea in casa propria e loro
mi auguravano il benvenuto…decisamente il festival
dell’ipocrisia.
Venne ad aprire un uomo alto e grosso, praticamente una montagna. Era
un po’ stempiato, sulla cinquantina probabilmente, invecchiato
per l’età o più probabilmente per colpa di un
destino che non gli aveva risparmiato nulla.
“Il signor Riley?” domandai, tendendo la mano che lui
seppur titubante non rifiutò e strinse.
“Sì?!” rispose, esitante.
“Sono Tyler Hawkins, figlio di Charles Hawkins”
“Hawkins jr?!” chiese conferma, ancor più incerto,
probabilmente la mia visita lo aveva preso in contropiede.
“Sì signore, sono io. Avrei bisogno di parlare con
lei” “Ma..ma certo! Si .. si accomodi!”
Entrai in casa e subito si aprì davanti a me la grande zona
giorno con i mobili in legno scuro e le pareti rosso veneziano; avrei
potuto girare perfettamente per quella casa senza sbagliare e tutto era
rimasto probabilmente come lei lo aveva lasciato e come me lo aveva
raccontato.
“È stato già in ufficio? Le hanno detto loro che mi
avrebbe trovato qui?” chiese l’uomo, preoccupato. Ma io
negai, non era per un’ispezione per conto di mio padre che io ero
lì. “Sa” spiegò “il martedì esco
sempre prima dal lavoro…è stata una casualità che
mi abbia trovato a casa”
Mentre Doug mi invitò ad accomodarmi su una delle poltrone di
fronte al camino in pietra, notai le sedie del tavolo da pranzo ancora
con il cellophane sulla seduta, e le bomboniere disposte maniacalmente
nella vetrinetta insieme ai servizi buoni, esattamente come Allison me
le aveva descritte.
“Signor Hawkins” mi chiamò Doug. “La prego
signor Riley, mi chiami Tyler” lo corressi; non ho mai amato che
delle persone più grandi di me mi chiamassero per cognome solo
perché ero il figlio del capo.
“Va bene Tyler, però tu chiamami Doug” rispose affabile “… lei è mia moglie, Lois”
Mio Dio, era una bellissima donna! Ora capivo la bellezza, semplice
eppure allo stesso tempo sofisticata, di Allison. Capelli dalla piega
impeccabile biondi, ma probabilmente non naturali, indossava una gonna
grigia a tubino, una semplice camicia bianca e delle perle che
impreziosivano il suo look senza strafare. Se Allison a volte mi era
sembrata una principessa, sua madre era una regina. Doug era un uomo
molto fortunato.
Mi alzai e la salutai. Sembrava estremamente timida, una donna tutta casa e chiesa, timorata di Dio e devota alla sua famiglia.
Tuttavia queste erano il genere di sensazioni che di solito la gente
provava quando conosceva mio padre; il che fece suonare il campanello
d’allarme nel mio cervello, e mi consentì di restare
all’erta.
Poteva trattarsi anche di una regina, ma guardando ai suoi trascorsi,
era piuttosto la strega di Biancaneve invece della dolce madre della
Bella Addormentata. Era difficile credere che quella stessa donna che
era davanti a me, era stata capace di tante malignità nei
confronti del suo stesso sangue; ma d’altronde il delitto
perfetto è quello in cui tutte le prove vengono fatte sparire.
I successivi cinque minuti trascorsero in maniera molto formale, con la
signora Riley che preparava del tè ed io e Doug parlavamo del
più e del meno, di mio padre e dell’azienda, del suo
cordoglio per la morte di mio fratello e del mio per la morte della
piccola Emily.
“È stato suo padre a dirglielo?” chiese la signora
Riley, bianca in volto, di ritorno dalla cucina, con la teiera e tre
tazze.
“Non…non esattamente” precisai. Lasciai che Lois
servisse il tè e le chiesi di accomodarsi con noi.
“È per questo che sono qui” spiegai “ho
bisogno di parlare con voi di una cosa che so per certo vi sta molto a
cuore”
Vidi i loro sguardi incrociarsi e diventare apprensivi, scorsi anche
una vaga luce di speranza, negli occhi annoiati di quell’uomo di
mezza età e in quelli afflitti della sua consorte. Uniti ancora
dopo tante prove, uniti nonostante tutto: forse avrebbero avuto loro
qualcosa da insegnare ai miei genitori su come far funzionare un
matrimonio. Ma quella è un’altra storia …
Vidi Lois portarsi una mano davanti alla bocca, incredula eppur felice:
doveva aver capito. “Allison?!” chiese, con una voce piatta
e flebile, ed io non feci altro che annuire.
“Fermi un momento” intervenne Doug, concitato “che
cosa … che cosa significa Allison? Tu conosci mia figlia? Sai
dove si trova?”
“Allison è una delle mie migliori amiche, sì
… diciamo così” non potevo certo dire loro che
eravamo compagni di letto occasionali “l’ho conosciuta per
caso nel posto dove lavorava e l’ho aiutata a rimettersi …
in carreggiata”
Speravo di aver usato le parole più giuste per descrivere una
situazione spiacevole come quella in cui si era cacciata Allison.
Nonostante i motivi che l’avevano costretta a fuggire di casa, i
suoi genitori, specialmente suo padre, non sembravano delle persone
meritevoli di subire altri torti o umiliazioni. Generalmente nessuno
dovrebbe esserlo. “È stata lei” continuai “a
raccontarmi di voi e di Emily”
“Aspetta un attimo giovanotto” prese la parola Doug
“che significa che l’hai rimessa in carreggiata?”
Non avrei voluto dargli quella mazzata, già mio padre mi aveva
consigliato di andarci piano, ma era meglio sentirlo da me che dalla
bocca della propria figlia. Presi un attimo per radunare le parole e li
vidi entrambi tendere verso di me anche con il corpo, sporgendosi dal
divano in pelle su cui erano seduti. Lui le stringeva la mano, era
quasi un piacere per gli occhi vederli così uniti.
“Lei … lei lavorava in un club per adulti … come
entreneuse” tirai fuori tutto d’un fiato, senza guardarli e
senza pensare. Ora, però, dovevo essere pronto alla raffica di
domande che sicuramente mi avrebbero rivolto. Ed invece davanti a me
avevo solo il silenzio di due mummie, imbalsamate e sconvolte, rotto
soltanto dal singhiozzare di Lois, che per disperazione o per vergogna
si era nascosta il viso con le mani. Suo marito
l’abbracciò e lei proseguì il suo pianto sul petto
di Doug, che aveva tutta l’aria di essere la sua roccia.
Avevo giurato a me stesso che non avrei avuto pietà con lei, che
l’avrei fatta sentire uno schifo per come aveva trattato sua
figlia, ed invece erano bastate solo due frasi per massacrarla.
“È colpa mia … è tutta colpa mia”
pianse Lois, abbracciata a suo marito; ma lui non si mosse, non fece
una piega: restò lì ad abbracciarla e a consolarla, a
ricordarle che non era colpa sua e che si sarebbe aggiustato tutto e
tutto sarebbe andato bene.
Fu allora che non ci vidi più: perché posso tollerare una
madre straziata dal dolore, posso capire l’incredulità e
lo shock, ma negare quanto accaduto … beh, mi dispiace, ma non
lo accetto.
“Senta Doug!” dissi, alzandomi “io non so quanto sua
moglie le ha raccontato di ciò che è accaduto mentre lei
era in coma, ma so quello che mi ha raccontato Allison. E so cosa ha
passato in questi anni. Quindi per favore: mi faccia il piacere di non
dire che non è successo niente e che non è colpa di
nessuno”
Doug sembrava impietrito; persino Lois aveva smesso di piangere ed
entrambi mi guardavano come se avessero visto un fantasma, uno spirito
che li ammoniva per le loro azioni.
“Io non sono un pervertito che va per locali di spogliarelliste
… mi trovavo lì per caso ed ho incontrato vostra figlia.
Era … beh, non penso che avreste voluto vederla la notte che ci
siamo conosciuti. Una serie di circostanze hanno fatto sì che
diventassimo amici ed lei mi ha permesso di aiutarla ed ora sono
convinto che riuscireste a stento a riconoscerla per quanto è
bella e buona e fantastica in tutto quello che fa. Ma se è vero
quello che lei mi ha raccontato, ed ho piena fiducia in lei, beh
dovreste smetterla di fingere e assumervi le vostre
responsabilità!”
“Pensi che io stia fingendo?” trillò allora Lois,
che se ne era stata in silenzio fino a quel momento, a riprendersi
dalle lacrime “pensi che io non mi senta in colpa per aver
trascurato mia figlia ed averla fatta finire in una cattiva strada. Se
potessi tornare indietro le starei più vicina, non la lascerei
mai andare via …”
“Lois” la zittì suo marito, prendendola per mano.
“Tyler, io credo che tu abbia frainteso le mie parole”
continuò, rivolgendosi a me “volevo dire che è
inutile stare qui a incolparsi, perché quel che è fatto
è fatto, non si può tornare indietro. Ora dobbiamo
rimettere apposto le cose, per quanto possibile”
“Ma lei…” cercai di ribattere, ma lui me lo
impedì. “Tyler io non ti conosco e non posso giudicarti
… allo stesso modo tu non puoi giudicare noi. Quindi fammi il
favore non dire altro. Noi ci conosciamo, sappiamo cosa è
successo e quali sono le nostre responsabilità e non abbiamo
bisogno di un estraneo che venga a farci una ramanzina già
sentita”
Mi aveva appena tirato addosso una raffica di mitra, freddandomi sul
colpo. Lui aveva ragione, perfettamente ragione; e pensai che tutti
avremmo potuto imparare tanto da lui e dalla sua fierezza, nella quale
riconoscevo tutta quella dignità che Allison portava sempre con
sé. Abbassai il capo e, forse per la prima volta in vita mia,
chiesi perdono. Perché questa volta me lo sarei detto da solo:
sei solo un ragazzino Tyler!
Doug mi si avvicinò e, con dei leggeri pacchi sulla spalla, mi
sorrise. “Vieni, dai” mi disse “andiamo a fare due
passi …”
NOTE FINALI
Eccomi
presente all'appello! Visto che ho pubblicato prima che un mese
passasse...direi che merito un applauso. Scherzo naturalmente!
L'applauso lo meritate voi che rimanete fedelissime...
Dunque...le cose procedono molto velocemente...però non so come giudicarle.
La semi-sfuriata di Tyler, la gentilezza del padre di Allison, e senza
dimenticare la reazione di Lois, la madre. Sono cose che sinceramente
spiazzano anche me ... che posso pianificare una storia, ma fino ad un
certo punto.
Io non dico altro...aspetto che siate voi a commentare. Spero siate numerose come sempre
Grazie mille a tutte
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** Nobody's home ***
When you crash in the clouds - capitolo 22
Capitolo 22
Nobody's home
Arrivammo in
silenzio fino al parco giochi alla fine del lungo viale alberato. Cinquecento
metri, forse meno. Faceva freddo e si cercavano gli ultimi barlumi di sole per
riscaldarsi, come fanno le lucertole, e non c’era nessuno in giro. Né bimbi, né
anziani. Avevo persino la sensazione, guardandomi intorno, di non essere
nemmeno negli Stati Uniti … avevamo per caso cambiato nazione? Era il Canada per
caso?
Doug
sguinzagliò il cane, un beagle; ne aveva approfittato per portarlo a spasso e
lo guardò mentre correva libero giù per la collinetta. “Non avevamo mai
permesso alle bambine di avere un cane, per quanto si disperassero” disse, sorridendo
amaramente ed evitando accuratamente il mio sguardo “Lois è sempre stata una
maniaca dell’igiene e dell’ordine” spiegò. “Ed ora eccoci qua … ad occuparci di
un cane come terapia antidepressiva”.
Non sapevo
cosa dire: incolparlo non mi sembrava il caso, avrei infierito su un dolore che
lui per primo aveva provato, probabilmente senza alcuna colpa; incolpare sua
moglie me lo avrebbe messo di nuovo contro e difficilmente anche una persona
ben disposta come lui fosse un tipo capace di perdonare per due volte.
Così rimasi
sul generico, diplomatico e vago: “Sono certo che Allison lo adorerebbe …”
“Sa che sei
qui?” mi chiese, senza tanti preamboli, sedendosi ad una delle panchine.
“Nì” risposi,
abbozzando un sorriso. Il che corrispondeva alla realtà in fondo: “Non sa che sono
venuto a casa vostra ma sa che sono qui ad Indianapolis”.
Mi accesi una
sigaretta: era l’unica arma che avevo per rimanere calmo e concentrato. Mia
sorella e mia madre combattevano ogni santo giorno per farmi smettere ed ogni
sigaretta promettevo che era l’ultima, ma sapevamo tutti che non era così.
Erano come un’oasi nel deserto per me, dopo giorni e giorni avanti e indietro
tra le dune, innegabile come l’ultimo desiderio per un condannato a morte.
Ne offrii una
anche al mio interlocutore, che mi ringraziò con un sorriso che aveva tutta
l’aria di essere sincero, oltre che amichevole.
“È una delle
tante cose che in casa non mi è mai stata concessa …”
A quel punto
iniziai a chiedermi quale fosse la giornata tipo in quella famiglia, quando le
cose andavano bene, con una donna come Lois a mandare avanti la baracca. Forse
le fobie le erano venute dopo la disgrazia? Ma non mi risultava poi così
difficile, a questo punto, capire i continui dissidi tra Allison e sua madre e
la sua decisione di allontanarsi da lei il più possibile.
Ma non era
quello il momento per lasciarsi sprofondare nei pensieri. Riordinai le idee e
continuai dove mi ero fermato: “Allison sa che sono qui ad Indi” presi un bel
respiro “perché è qui con me, Doug”
“Allison è qui
con te?” domandò, cercando malamente di mantenere la calma, ma era chiaro come
la luce del sole che dentro fremeva. Annuii. “È stata una sua idea venire qui”
proseguii “voleva andare da sua sorella per il suo compleanno”
“Domani …”
sussurrò Doug, probabilmente a sé stesso. Nel frattempo il beagle tornò dal suo
padrone, portando tra le fauci un bastone, si mise a sedere ai nostri piedi,
riposando beatamente e godendo delle carezze un po’ grossolane che quelle
grandi mani gli dedicavano; eppure sembrava che gli recassero giovamento, a
giudicare dal suo sguardo pienamente soddisfatto.
“Non aveva
idea che lei fosse uscito dal coma” continuai “quando lo ha saputo ha insistito
ulteriormente per venire. E così eccoci qui …”
“Le vuoi bene
Tyler?” domanda con una risposta ovvia, ma non era certo quella che mi
aspettavo di ricevere in quel momento. Mi prese in effetti del tutto in
contropiede, ed era anche molto rischiosa. D’altronde, pensai, era proprio una
domanda da padre. E forse quella che voleva era proprio una risposta da genero.
“Sì signore,
molto” l’onesta era l’unica carta possibile. Avrei voluto aggiungere che a
volte le volevo bene nel modo sbagliato, in un modo che lei non poteva
accettare, ma erano considerazioni che per il momento era meglio tenere per sé.
“Si vede” commentò
lui e non potei far a meno di notare che il suo tono di voce nascondeva una
serie di messaggi, ben poco celati al dire il vero. Certamente aveva capito
cosa c’era da parte mia, forse non immaginava che per sua figlia la faccenda
era un tantino diversa e complicata, ma se questo fosse bastato per aiutarmi a
tenerla vicina, non sarei stato certo io a negare una relazione che non c’era,
ma che era l’unica cosa che desiderassi per me al mondo.
“Dov’è ora?”
chiese. “In albergo. Dorme. Ha insistito per pagarsi da se tutte le spese del
viaggio e quindi ci siamo dovuti accontentare di venire in autobus”
“Una
sfacchinata insomma …” osservò, ridacchiando. “Ma lei ha ripreso a me in quanto
a testardaggine. È sempre stata testarda e orgogliosa, fin da bambina …”
Lo vidi
scurirsi in volto, perdere tutta la serenità che la notizia di una figlia tanto
vicina gli aveva donato, in favore di un grigiore che sapeva di vecchio e
passato, di una sfilza di ricordi troppo dolorosi per potersi sbiadire
nonostante i lunghi anni ormai trascorsi.
“Tyler”
esclamò, teso e risoluto “ho bisogno che tu mi dica tutto di lei …”
“Signore” lo
frenai “non credo di essere la persona giusta per farlo. Sono venuto a
prepararvi, ma questa è una cosa che può fare solo Allie. Non me lo chieda di
nuovo …”
Assentì, mesto,
ma io sentivo di non poterlo fare. Mi ero già spinto troppo oltre.
“Però mi sento
di dirle una cosa Doug: io prima mi sono fermato … ma non creda che Allie vi
risparmierà. Soprattutto sua moglie …”
“E non sarò io
ad impedirglielo” rispose mentre, riagganciando il cane al guinzaglio, si
preparava per fare marcia indietro e tornare verso casa “è giusto che lei dica
quello che si è tenuta dentro per tutto questo tempo. Forse se lo avesse fatto
allora tutto questo non sarebbe successo, ma d’altronde con i se e con i ma non
si fa nulla, giusto?!”
Sorrise, di
nuovo sereno, e, mentre appena arrivati sul marciapiede, si voltò verso di me e
si fermò di nuovo. “Prima devi esserti fatto un’idea sbagliata di me … io non
sono l’uomo pacato che sembra, ho anch’io i miei momenti. Non sai quanto è
stato difficile i primi sei mesi dopo il coma, quando mi sono ritrovato da solo
in casa, con una moglie profondamente segnata e cambiata, una figlia al
cimitero e l’altra chissà dove”
In quel
momento mi tornarono in mente come un flashback in bianco e nero i primi mesi
dopo la morte di mio fratello; in fondo si tratta solo di un anno, ma sembrava
ormai passato un secolo. Ricordavo com’era difficile accettare che non avrei
più sentito la sua voce, che non avrei più ascoltato la sua musica, che non
avrei visto più la sua risata. E poi vedevo mia madre piangere e mio padre che
si allontanava sempre di più da noi. Capivo e condividevo facilmente le
sensazioni di Doug.
“Ho litigato,
strillato, bestemmiato, rinnegato contro mia moglie notte e giorno … ma non mi
faceva sentire meglio e non cambiava le cose. Così mi sono rimboccato le
maniche ed ho provato a salvare il salvabile, perché è mia moglie e la amo
comunque … ed essere uniti ci ha aiutato anche nelle ricerche, ci ha portati
fino a New York da tuo padre.”
“Le ho detto
Doug” ripresi, mentre camminavamo verso casa “che non la giudicherò, però io
trovo che sarà molto difficile per Allison dimenticare le parole dette da sua
madre”. Era giusto che sapesse: “Lei è qui per sua sorella e per rivederla…ma
ho come la sensazione che non voglia rivedere sua madre”. Doug annuì,
rassegnato.
“Penso che non
sia il caso di far sapere a Lois che vostra figlia è qui, almeno per il
momento. Forse … forse è meglio che vi incontriate voi per primi e poi magari
si convincerà a vederla”
Conoscendola,
aveva decisamente bisogno di fare le cose con calma, riprendere possesso di
quella parte della sua vita a piccoli passi, in briciole anziché un sol
boccone. Del resto, anche Mary Poppins lo diceva: basta un poco di zucchero e la
pillola va giù. Appunto: prima lo zucchero e poi la medicina amara.
“Tu non puoi fare niente per convincerla, Tyler?”
“Non credo”
risposi “sta già facendo tanto … e poi, mi scusi, ma se fossi nei suoi panni io
non vorrei rivederla. Ragion per cui non la forzerò a fare qualcosa in cui non
credo”
“Quando credi
che potrò vederla?” chiese. Non so se non approfondì il mio commento per
evitare discussioni in mezzo ad una strada o perché si rendeva conto che
effettivamente avevo ragione. Non volli indagare perché sentivo che, in fondo,
anche per me era meglio così.
“Domani
mattina andremo al cimitero …” gli dissi, mentre mi sbracciavo per far
avvicinare un taxi che si era fermato di fronte ad una casa poco più avanti. “Però
non si faccia illusioni … Allison non è più la bambina che ha lasciato casa sua
anni fa”
“Lo
immagino…purtroppo”. Si lasciò scappare quel commento, ma non gli diedi peso.
Molte delle cose che si era lasciato sfuggire, molte delle osservazioni che
forse aveva represso nel corso degli anni, mi ero ben curato di lasciarle al
vento, senza intervenire. Era il minimo che potessi fare, non farlo sentire in
colpa; lasciarlo sfogare senza che sentisse il peso di alcun giudizio su di sé.
Gli strinsi la
mano, congedandomi con un sorriso impercettibile, ed entrai nell’auto che mi
aspettava.
Non avevo
considerato una cazzata quell’incontro pomeridiano con i signori Riley fin
quando non mi ritrovai faccia a faccia con Allison. O meglio; nonostante fossi
pienamente convinto ancora della mia innocenza e della mia buona fede, non
riuscii a confidarlo ad Allison, temendo una delle sue solite reazioni
spropositate. Lei non notò niente di strano e io feci in modo che lei non
accorgesse di nulla.
Risultato: la
cazzata da regolare stava diventando di dimensioni mastodontiche, il che complicava
inevitabilmente i miei sforzi per tenerla nascosta.
Nel frattempo,
ci si metteva anche una insolita tensione a complicare le cose; eravamo
entrambi tesi come due corde di violino, io inconsciamente reo di un non meglio
identificato crimine contro l’umanità e già sentivo la scure del mio
giustiziere penzolare sulla mia testa, lei atterrita, in bilico su un
precipizio con degli spietati inseguitori alle calcagna. Eravamo due cadaveri
ambulanti insomma.
La cena nella
tavola calda accanto alla pensione trascorse taciturna e nemmeno, per fortuna
aggiungerei, quando venne fuori che nel pomeriggio ero stato in giro per la
città, Allison sembrò interessarsi più di tanto. Ma io dico: perché ogni fottutissima
volta che dobbiamo fare qualcosa, finiamo sempre per complicarci la vita con
complessi e menate varie? Non sarebbe più facile lasciar scorrere gli eventi
come vengono, cavalcando semplicemente l’onda del momento?
No … non
saremmo noi d’altronde … due asociali complessati e depressi, perennemente
insicuri, troppo presi a rimuginare su di sé da badare al mondo che intorno a
loro continua la sua corsa. Avrei voluto volentieri alzare la testa e guardarmi
attorno, anche solo per un attimo, ma avevo paura di scoprire un mondo troppo
veloce per me, un mondo che non mi avrebbe permesso di raggiungerlo e mi
avrebbe lasciato troppo indietro, da solo. E così me stava rintanato nella mia
spelonca buia, in compagnia almeno dei miei pensieri.
Sebbene fossi
sveglio da ormai da un indecente numero di ore, stanco dal viaggio e da una
giornata ricca di altalene emotive, me ne stavo a pancia insù nella mia parte
del letto, con le mani dietro la testa ed ad occhi sbarrati. Allison, dal canto
suo, era altrettanto sveglia ed irrequieta. Indubbiamente aver dormito nel
pomeriggio non l’aveva aiutata, ma ero sicuro che non fosse quello il vero
problema; la radiosveglia sul comodino segnava le tre di notte: era da poco
maggiorenne e tra poche ore sarebbe stata sulla tomba di sua sorella. In più,
ma questo lei non poteva saperlo, avrebbe rivisto suo padre.
Mi chiesi se
fosse il caso di dirglielo, ma ne convenni che spiegarle il mio gesto sarebbe
stato una perdita di tempo, nel caso – le probabilità era vicine al 100% - non
avesse gradito.
Dopo aver
passato un’ora a rigirarsi tra quelle lenzuola ruvide, la vidi alzarsi. Al buio
della stanza, con le sole luci dei neon che venivano dalla strada, la vidi
prendere le sigarette e uscire sul balcone, in pigiama. Mi alzai a ruota, rivestendomi
alla svelta.
“Copriti o ti
prenderà un malanno” la rimproverai dolcemente, poggiandole sulle spalle il suo
giaccone. Lei lo strinse meglio a sé, infilandolo, ma sorridendomi appena con
la sigaretta tra le labbra.
“Sono andata
in giro meno coperta di così quando faceva anche più freddo” disse, poggiandosi
sulla ringhiera del balcone e portando via il suo sguardo “ e non mi sono mai
ammalata”
Era diversa,
negli ultimi giorni, era quasi cattiva. Era come se rimettersi addosso quel
nome, Mallory, la stesse sporcando di nuovo. Ma io non volevo questo per lei.
“Si può sapere
che ti prende?” le chiesi, infine.
“Forse venire
qui non è stata una buona idea …” rispose, finalmente dando voce ai suoi
pensieri.
“Vuoi
andartene?” domandai. Sapere che non era sicura di sé mi dispiaceva, ma mi
rassicurava sul nostro futuro.
“No … ormai ci
siamo e non si torna indietro” disse, prendendo il posacenere sul piccolo
tavolino del balcone e facendovi un po’ di cenere accumulata. Io nel frattempo
mi andai a sedere su una delle due sedie che erano sul balcone, anche se mi
accorsi ben presto che la mia idea non fu affatto saggia e mi ritrovai con il
sedere ghiacciato. “Oltretutto” continuò “voglio davvero andare da mia sorella.
Ma ho paura di vedere la mia famiglia … specialmente mio padre”
“Tuo padre?!”
chiesi, interdetto. Questa era una cosa che non mi aspettavo: del resto quando
le avevo dato la notizia della sua guarigione mi era sembrato, al contrario, un
incentivo alla sua decisione di partire.
“Non sei
costretta ad incontrarlo se vuoi” la rassicurai comunque, mentre mi accendevo
anch’io una bionda, per scaldarmi “sei libera di fare quello che vuoi. Sei maggiorenne
ora. A proposito … auguri!”
Mi alzai e
l’abbracciai in vita, mentre era ancora di spalle, e nonostante l’imbottitura
del piumino riuscii ad arrivare in quel punto del collo, appena dietro
l’orecchio, dov’era più sensibile. Purtroppo non parve gradire e si divincolò
immediatamente, appoggiandosi di schiena al balcone e guardandomi in faccia,
severa: “Essere maggiorenni non significa essere liberi” esclamò, con una
freddezza ed una malinconia devastanti e lo sguardo perso nel vuoto “essere
maggiorenni significa che inizi a fare le cose perché devi”
Iniziai a
preoccuparmi seriamente: l’avevo sempre ritenuta più grande della sua età,
un’adulta intrappolata nel corpo di una piccola donna. Eppure sentivo che c’era
qualcosa che andava oltre la sua incredibile maturità e quella sua saggezza a
volte un po’ naive.
“Perché dici
questo?” le dissi “nessuno può obbligarti a fare ciò che non vuoi. Non più”.
C’era stato un tempo in cui questo per lei non valeva, ma d’ora in poi sarebbe
dovuto essere solo un brutto ricordo, un cattivo esempio da tenere come monito.
“Sai che puoi
e devi dirmi tutto” la spronai. Come potevo aiutarla, d’altra parte, se si
teneva tutto dentro?!
“Di sicuro mi
prenderai per stupida …” disse, ma io negai, scuotendo vigorosamente la testa.
Come poteva solo pensare, ancora, dopo tutto quello che avevamo vissuto
insieme, che potessi prenderla per stupida? Non c’era niente in lei che non
andasse, niente che fosse stupido e valesse una battuta di scherno. “Ho paura
che rivedendo mio padre io mi senta in dovere di restare qui … ed io non voglio.
Non voglio neanche rivedere mia madre” aggiunse “ma so che lui finirebbe per
convincermi a farlo”
“Lui non lo
farebbe mai” mi lasciai sfuggire “non ti forzerebbe mai a fare qualcosa che non
vuoi”.
“Tu non
capisci” replicò “io non sono mai stata capace di dirgli di no!”
Forse allora
era più corretto dire che più che di suo padre, era di sé stessa che aveva
timore, e della sua capacità di non saper mantenere controllo e autorità sulla
situazione. Io le sarei stato vicino, innegabilmente, anche perché si trattava
di riportarla a casa con me, e se ieri vedevo la situazione buia e nera, ora c’era
una luce bianca e sfavillante alla fine del tunnel ed avrei fatto di tutto per
raggiungerla insieme a lei. Anche se, indubbiamente, la sua parola contava più
della mia e se alla fine lei avesse scelto di rimanere ad Indianapolis, non mi
sarei opposto e non avrei dato in alcun modo a vedere il mio dispiacere.
“Certo tocca a
te essere forte. Ma io credo che tuo padre capirà che non sei più quella di una
volta … e non farà o dirà nulla che possa ferirti” stavo giocando troppo con le
parole e con il fuoco, a dosarle male avrei potuto finire bruciato.
“No … tu non lo conosci!” obiettò
“Non è un prepotente ma sa come usare le parole”.
“Credimi Allie … posso
assicurarti che non è così” ribadii “ci tiene troppo a te per pensare di
condurre il gioco”
Sapevo che mi ero gettato
troppo oltre; lo vidi nella sua espressione, che da abbattuta passo ad essere dubbiosa
ed esitante. Avevo istillato sospetto in lei ed ero sicuro che mi avrebbe fatto
sputare il rospo e sarebbero stati guai, guai seri. Si stava preparando una
battaglia e si prevedevano molte vittime.
“Che cosa significa Tyler?”
domandò. La vidi prendere un grosso respiro, preludio ad una sfuriata con i controfiocchi,
mentre spegneva la cicca nel posacenere. Io la seguii a ruota, entrando di
nuovo in camera e chiudendo la finestra, gettandomi finalmente alle spalle il
freddo e l’umidità di quella notte.
“Ti prego Tyler” mi supplicò,
portandosi le mani ai capelli dopo essersi levata a giubba “dimmi che non c’hai
parlato davvero? Dimmi che me lo sono solo immaginata!”
Avrei voluto dirle che era
proprio così, che era solo frutto delle sue paure se quelle strane idee le
venivano in mente. Ma non potevo, anche perché di lì a poche ore ci saremmo
visti e i nodi sarebbero venuti al pettine. Così la guardai e il mio solo
sguardo avvilito bastò a farla capire … e ad esplodere.
“Come …” urlò, insensibile alla
norma secondo cui nella struttura era assolutamente vietato ed impensabile un
tale schiamazzo nel cuore della notte. Poi si frenò e si rese conto che forse
era il caso di dare una regolata ai decibel ed inizio a sproloquiare sottovoce:
“Come cazzo ti è venuta in mente una stronzata simile???” Se la situazione non
fosse stata grave sarei di certo scoppiato a riderle in faccia: era troppo
comica quando si incazzava.
“Io non lo so dove le vai a pescare
queste tue brillanti idee … cos’è, Aidan ti ha regalato il manuale del coglione
perfetto a Natale?” continuò “perché è incredibile … solo tu riesci a tirare
fuori dal cilindro nel momento più inopportuno la cazzata perfetta!”
“Ma io … io …” cercai di
replicare, ma davanti a me avevo un essere non meglio identificato di un colore
che oscillava tra il cremisi e il blu cianotico. Lei che ogni volta che parlava
mi terrorizzava, proprio lei aveva paura di affrontare un pezzo di pane come
suo padre. “Ma io cosa?!” rimbrottò “sentiamo che altro hai da dire?”
“Io pensavo …” così non ce l’avrei
mai fatta. Mi armai di tutto il coraggio che avevo e di quel poco testosterone
che mi era rimasto e li usai per tenerle testa: “Io pensavo che avessi bisogno
di una mano … qualcuno che andasse a spianarti la strada e a preparare i tuoi
genitori”
“Io non ho parole” commentò
lei, platealmente basita, andandosi a sedere ai piedi del letto “cioè tu hai
fatto proprio l’ultima cosa che avresti dovuto fare!!!”
La vidi cercare di respirare a
pieni polmoni, per incamerare aria e calmarsi. Mi sembrava proprio uno di quei
tori scalpitanti delle corride, furiosi e insofferenti, che hanno voglia di far
fuori una volta per tutte i loro carnefici. Mancava solo che il fumo le uscisse
dalle narici.
“Sappiamo tutti e due che era
una cosa che volevi anche tu” le dissi, gettandomi ai piedi del letto, di
fronte a lei. Cercai anche di prendere le sue mani tra le mie, ma invano. “Tu
non c’eri riuscita, così mi sono fatto avanti io”
“Ma nessuno te l’ha chiesto!”
mi rimproverò, alzandosi in piedi, furibonda. “Questa è una faccenda che non ti
riguarda … si tratta di me e della mia famiglia” spiegò, sforzandosi di
mantenere la calma “non ho bisogno di nessuno che mi faccia da ambasciatore. Io
mi basto per combinare casini. Non ho bisogno che tu ne aggiunga altri … non ho
bisogno di te”
Quell’ultima frase mi gelò come
nessun’altra mai pronunciata da lei aveva saputo fare. Ci eravamo già
presi a parolacce prima d’ora, ma quel linguaggio era parte di lei come parte
di me, non ci scalfiva né feriva. Ma questa volta era ben diverso: mi sentivo
offeso, per tutte le volte che mi ero fatto avanti per lei, e rinnegato, per
ogni volta che era stata lei a chiedermi il suo aiuto. Cosa era rimasto di quel
aiuto reciproco che ci eravamo promessi … cos’era rimasto di quell’amicizia un
po’ speciale che spesso a volte andava anche un po’ oltre? Datemi la macchina
del tempo: vorrei tornare alla notte di Capodanno, vorrei essermi fatto i fatti
miei, vorrei non averle detto nulla, vorrei non aver saputo nulla di suo padre,
vorrei non averle mai fatto incontrare il mio. Se fosse possibile resettare
tutto, sarei la persona più felice del mondo.
“Ok perfetto” esclamai,
sarcastico e distaccato “grazie a Dio non hai bisogno di me … vedi, basta che
me lo fai sapere. Così la prossima volta che hai bisogno di sfamare la micetta
è meglio che ti trovi qualcun altro” Voleva merda? E merda le avrei dato.
Perché questa volta mi aveva fatto male ed era giusto che sapesse quanto come
mi sentissi. Ero stato straordinariamente volgare, ma dentro mi sentivo come
una terra arida ed incenerita dopo un incendio, con ancora qualche focolaio tra
le sterpaglie carbonizzate.
Andò verso l’armadio e prese
una coperta ed un cuscino di scorta. “Sai che non era quello che volevo dire”
tentò di riparare al danno, disastrosamente, gettandomi quella biancheria
addosso e rivelando in quel momento tutta la fragilità che aveva dentro. Ma non
mi inteneriva, non in quel momento. “… e ora scusa” proseguì, indicandomi con
gli occhi il tappeto sul pavimento sul quale, apparentemente, avrei dovuto
trascorrere la notte “sono stanchissima, ne parliamo domani”.
La vidi sparire sotto le coltri
del letto matrimoniale, ora troppo grande e freddo per dormirci da soli. E così
rimasi con un palmo di naso, ferito e umiliato da una ragazzina maleducata e
pure ingrata. Le sue parole mi riecheggiarono nella mente: non ho bisogno di te
… ne parliamo domani. Ma era già domani …
“No” dichiarai, nel buio pesto
della stanza appena tornata all’oscurità “ma non mi metto il cuore in pace
finché non mi dici cosa c’è tra noi”
La vidi riemergere dalle
lenzuola profondamente sconvolta. Evidentemente non si aspettava una reazione
del genere. Onestamente, da me stesso, non me l’aspettavo nemmeno io.
“E questo cosa significa? Che …
che cosa c’entra?” domandò lei, mentre si avvicinava a me.
“C’entra … perché se tra noi ci
fosse qualcosa mi porteresti lo stesso rispetto che io porto a te. Te ne
fregherebbe un po’ più di me … anziché trattarmi come se fossi il tuo
schiavetto, da usare solo quando ti fa comodo!”
Eravamo arrivati al bivio dove
non avrei mai voluto trovarmi, ma era il momento di affrontare la realtà. Le sarei
sempre stato d’appoggio, magari nell’ombra, ma bisognava giocare quella partita
ad armi pari. Dovevo poter smettere di vivere nell’illusione di un rapporto
perfetto che era solo un’utopia, un sogno da cui dovevo risvegliarmi. Ora o mai
più.
“Non c’è niente tra noi”
affermò lei, evitando però accuratamente il mio sguardo “siamo solo … ami” “No!”
proruppi “non mi prendere per il culo con la storia dell’amicizia …”. La ritenevo
troppo intelligente per rifilarmi una stronzata del genere … o semplicemente
ero troppo codardo io per ammettere che avevo perso. Non volevo credere alle
mie orecchie, non volevo arrendermi a quella sconfitta.
“Non è così che si comportano
due amici” ribadii, puntandole un dito contro “due amici
non vanno mano nella
mano per strada, non si baciano sulla bocca ma soprattutto due amici
non fanno l'amore come l'abbiamo fatto io e te. Perché quello
era amore Allison ... non sesso. Amici … amici un paio di
palle!”
Mi guardò demoralizzata, come
se non fosse sua la colpa della mia sfuriata, come se lei non potesse fare
nulla per risolvere quella situazione. Evidentemente non ci credeva nemmeno lei
a quello che aveva detto, perché se davvero non ci fosse stato niente tra noi,
non saremmo finiti a letto insieme una, due, tre volte.
“Lo sai che mi piaci” confessò “il
punto è che non posso avere una relazione seria!” “Piantala” sbottai di nuovo “non
sei l’unica ad avere voce in capitolo! Esisto anch’io … ed io dico che siamo
una coppia porca puttana!”
Presi il mio giaccone e le mie
scarpe e me le rinfilai, facendo fatica ad allacciarmi i lacci per via del
tremore che la rabbia mi aveva scatenato. Sentivo la sua voce che mi richiamava
in lontananza, come ovattata. Forse mi stava chiedendo dove volessi andare,
cosa volessi fare o forse mi stava pregando di non andarmene. Ma non volli
curarmi più di lei che a lavare la testa all’asino si spreca solo il sapone. Presi
il mio borsone e lo zaino, che non avevo avuto voglia di disfare, fregandomene
di ciò che avevo lasciato e chiudendomi la porta alle spalle. Passai per la
reception, scusandomi per gli eventuali rumori e saldando il conto per i tre pernottamenti
che avevamo prenotato.
Quando il taxi arrivò mi feci
condurre all’aeroporto: non avrei sopportato un altro calvario come quello dell’andata
e oltretutto il mio biglietto era nella valigia di Allison. Non sapevo quanto
avrei dovuto aspettare per un volo per New York, ma non mi importava. Non avrei
resistito un minuto di più in quella città, insieme a quella ragazza.
Continuavo a provare per lei
quell’amore che avevo sentito sin dall’inizio, perché altrimenti non avrei
perso tempo ad arrabbiarmi così tanto, ma ora volevo solo mettere 700 miglia
tra noi. Fui felice di scoprire che Allison non venne a cercarmi, né alla
reception, né all’aeroporto, e quando mi dissero che avrei dovuto aspettare
fino alle 6 per un volo con posti disponibili in Economy, non mi preoccupai
molto di addormentarmi su una panchina di metallo. Avevo smesso di combattere
per lei; aveva ragione, quella era la sua battaglia ora e non era certo di uno
scudiero che aveva bisogno.
NOTE FINALI
Mi dispiace portarvi un capitolo tanto triste proprio alla vigilia dell'anno nuovo.
Piange il cuore anche a me.
Sembra la fine...ma dietro una fine si nasconde sempre un inizio.
È solo l'attesa a renderci nervosi.
Vi dico solo una cosa...abbiate pazienza.
Grazie mille e spero che le recensioni aumenteranno ora che siete in vacanza
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 24 *** Lonely Lone ***
When you crash in the clouds - capitolo 23
Capitolo 23
Lonely lone
soundtrack
Non serviva a molto pensarti se
poi voltandomi non c’eri.
A cosa serve l’immaginazione se
poi non c’è la realtà a completarla?
Lonely spell to conjure you,
but conjure hell is all I do
Così me ne stavo ferma, raggomitolata nel mio
angolo di letto, freddo e vuoto, cercando di guadagnare del calore che non sarebbe
arrivato mai. Me stavo con gli occhi sbarrati, perché a chiuderli l’unica
immagine che si formava era il ricordo di quella litigata in piena notte,
scellerata e stupida, come stupide erano state le mie parole.
Sempre meglio che starsene a
piangere e a compatirsi addossati ad una parete o alla porta, cosa che avevo
già abbondantemente fatto non appena lui
aveva lasciato la stanza. Incapace di corrergli dietro, me ne stavo
pietrificata, messa al tappeto dalla mia stessa idiozia; continuavo a ripetere
a me stessa quanto fossi stata stupida e, tiritera della mia breve esistenza,
cogliona e stronza. Perché ce ne voleva di cattiveria per dire quelle parole ad
un ragazzo come Tyler: era facile dire che aveva un cuore d’oro, ma lui andava
ben oltre l’immagine di bravo ragazzo. Era un angelo, un essere soprannaturale
che aveva avuto la pazienza di curarsi di me, di starmi vicino, di aiutarmi. Mi
ha vista quando ero invisibile, mi ha ascoltata quando ero muta, ha continuato
a parlarmi persino quando ero sorda. E l’unico ringraziamento che ero stata in
grado di dargli era uno schiaffo morale, uno sputo sporco sulla sua anima
pulita.
Non
ho bisogno di te,
gli avevo detto, non ho bisogno di te.
Bugiarda, testarda e stupida. Perché non solo sentivo di aver bisogno di lui
come l’aria nei polmoni, ma ero stata ulteriormente egoista nel sentirmi
l’unica protagonista di quella cosa bellissima che stavamo portando avanti,
qualunque cosa fosse.
Ed ora mi ritrovavo in una
città piena di ricordi dolorosi, a dover affrontare un passato scomodo: ed ero
da sola. Per la prima volta nella mia vita sentivo di aver davvero paura del
buio.
No sweetheart in the dark to call my
own
E non c’erano più le braccia
dove andarsi a rifugiare, le mani lunghe che asciugavano le mie lacrime erano
andate via. E mi mancavano da morire: era come non poter respirare ad alta
quota, era come l’arsura nel bel mezzo del deserto. Ma io non avevo bisogno di
lui … vai a raccontarlo a chi ancora ti crede Allison!
Immobile ed infreddolita me ne
stavo sotto le lenzuola che, sarà stata la scarsa qualità del tessuto o la
quantità enorme dei miei rimorsi, sembravano cosparse di spine e non la
smettevano di pungere ad ogni singolo movimento. Mi sembrava di essere
confinata di nuovo in quel mio stanzone 4x4, sporco e maleodorante, costretta a
vedermela da sola con il resto del mondo. Come si stava male da soli.
Perché … perché la razza umana
è così pateticamente ottusa da accorgersi del valore delle cose che ha solo
quando le perde? Perché dobbiamo arrivare alle conclusioni più ovvie quando
ormai è troppo tardi? Non ci basta vivere in un purgatorio … non siamo contenti
se la vita non è un inferno in Terra.
O almeno questo valeva per me,
la viziata, spocchiosa, egocentrica Allison, pronta a restare sola nel suo
guscio, piuttosto che rischiare di imboccare la via stretta e tortuosa per
avere una migliore compagnia.
La notte scivolava via, insonne
e silenziosa, interrotta solamente dai singhiozzi di un pianto solitario e
muto. I muscoli non si erano tesi nello sforzo di raggiungerlo e fermarlo, le
corde vocali non si erano sgolate per fargli cambiare idea e così mi ritrovavo
a fissare sul comodino lo schermo di un vecchio orologio digitale che
lampeggiava ad intermittenza, troppo lento perché il tempo potesse scorrere
correttamente, e un telefono muto come tutto quello che lo circondava. Non
avrebbe chiamato, chi volevo prendere in giro? Dopo quello che gli avevo detto
era già troppo che non mi aveva presa a calci.
Lui non avrebbe cambiato idea,
era troppo arrabbiato e troppo deciso per farlo, e le mie braccia al contempo
sembravano atrofizzate per prendere il cellulare in mano e comporre il suo
numero. Paura marcia di un addio a cui non c’era rimedio e che mi ero meritata.
Tyler aveva diritto di
pretendere da me risposte a domande che sicuramente erano rimaste zitte e
irrisolte per settimane, pur non avendo potuto scegliere un momento peggiore
per rivolgermele. Se solo avesse aspettato che tutto quel trambusto fosse
passato, se solo mi avesse dato un paio di settimane per ambientarmi con le
novità … forse la mia risposta sarebbe stata meno sgarbata, e certamente
sarebbe stata diversa.
Non un sì a testa alta e senza
esitazione, ma un nì possibilista. Perché Tyler è speciale e vale la pena
provare. Per lui … per me.
Avrei impegnato tutta me stessa
per tentare ciò che per lui, per mia evidente colpa, era già una realtà; mi
sarei impegnata anima e corpo affinché lui non soffrisse. A me poco importava:
un cuore più spezzato, non era possibile averlo. Ma lui, per tutto quello che
aveva fatto per me, meritava di certo qualcosa di più di un paio di gambe
aperte ed un corpo arrendevole.
Non ero la persona giusta per
lui, col mio carico di guai non avrei fatto altro che rovinargli la vita, ma di
me gli interessava solo il cuore e non stava a me negarglielo.
Ero sola e per la prima volta
avevo paura del buio: paura di affrontare da sola ciò che mi si parava davanti,
paura di scegliere, paura di usare il cuore al posto della ragione.
Come si poteva dormire o anche
solo riposare, se il rumore degli ingranaggi del mio cervello produceva un
rumore infernale? Il suo era un lavoro straordinario a cui negli ultimi tempi
era abituato, ma che tuttavia stava mostrando i suoi effetti negativi,
sfiancando l’intero sistema. L’allarme era stato lanciato, le sirene spiegate,
la spia rossa era accesa: esplosione imminente. Io non avrei saputo dove
rifugiarmi e non c’era nessuno, stavolta, pronto a soccorrermi, nessuno di cui
potessi fidarmi completamente almeno.
Mi accorsi le notte non era
ormai così buia e avendo ormai scaricato l’Ipod a furia di ascoltare
ininterrottamente la stessa canzone, l’unica che potesse descrivere al meglio
le mie sensazioni, optai per una doccia lunga e bollente, per distendere i
nervi e prepararsi a quella lunga giornata.
sountrack2
Presi un lungo respiro e
raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo quando l’autobus urbano mi lasciò
a pochi passi dall’ingresso del cimitero. Per essere inverno era una bella
giornata e non era nemmeno tanto freddo, era per giunta piacevole starsene
fermi al sole. Ma io non la smettevo di tremare: strinsi meglio il giubbotto,
benché sapessi che la temperatura non aveva niente a che fare con i miei
brividi. Fin da piccola odiavo l’idea di dover mettere piede nei cimiteri e con
gli anni la fobia non mi era di certo passata. Ma questa volta avrei dovuto
mettere da parte soggezione e orrore per un posto tanto funereo e considerare
quella passeggiata all’aria aperta come una visita che si fa a casa di un
parente. E non di uno qualunque, ma di mia sorella.
Quella distesa quasi infinita
di pietre tombali, poggiate sul manto erboso verde e ben curato mi metteva una
tristezza ed una malinconia infinita. Man mano che procedevo verso la mia meta,
e nonostante fossero ormai trascorsi un bel po’ d’anni dall’ultima volta che
ero entrata in quel posto, scoprii di aver mantenuto una certa familiarità con
quelle tombe. Conoscevo i nomi di coloro che si succedevano e, nonostante non
ci fossero foto, di alcuni di loro ricordavo bene i volti dall’infanzia o fui
sorpresa di ritrovarli lì e non dove li avevo lasciati, alle loro scrivanie o
nei loro salotti. Di alcuni ricordavo persino buffe storie, tra il comico ed il
macabro, che ascoltavo dai miei genitori ogni volta che si passava in mezzo a
quelle lapidi. Finché non la vidi. Era piccola e semplice, di un marmo bianco e
puro, proprio come lei.
Emily
Mallory Riley, beloved daughter and sister.
“Ciao piccola” sussurrai e mi
ritrovai ad inginocchiarmi di fronte alla sua tomba, esattamente come avevo
fatto prima di partire. Accanto alla stele con il suo nome e le date c’era una
cornice in argento, ossidata dalle intemperie e dal tempo che passa, anche in
un posto come quello. Ricordo di aver scelto personalmente quella fotografia,
non solo perché era bellissima ma perché in quella piccola bocca aperta in una
risata sfavillante c’era tutta la mia Emmy, tutta la sua dolcezza, tutta la sua
vivacità, tutto il suo amore per un’infanzia serena e la gioia di una famiglia
quasi perfetta. L’avevo scelta perché potessi dimenticare il suo volto diafano
e tumefatto dentro la bara bianca, perché potessi evitare di ricordare quella
odiosa frase che gli anziani dicono di fronte ad un cadavere: “pare dormire”.
Posai sul prato una rosa bianca
ed un coniglietto di peluche, regalo di Caroline.
“Questo te lo manda una mia
amica, Caroline” le dissi, come se sperassi che potesse sentirmi “lei avrebbe …
no, tu avresti la sua età se non …”
Ma non riuscii a proseguire, i
lampi di ricordi di quella afosa notte d’estate facevano ancora male,
nonostante tutta l’acqua fangosa che era passata sotto i ponti.
“Le voglio bene” dissi “anche
lei ha perso un fratello, anche se era parecchio più grande di lei e poi … e
poi c’è Tyler, l’altro fratello. Era venuto qui con me per farti visita, sai?
Ma io mi sono comportata come una stupida e lui è andato via …”
Prima di partire ero stata
diverse volte di fronte alla tomba di Emily, ma quella era la prima volta che
le parlavo, come se lei potesse sentirmi e per giunta rispondermi. Di solito me
ne stavo zitta, in piedi, di fronte a quella pietra bianca, e anche nella mia
mente era silenzio. Sentivo solo il fruscio degli alberi lontani se c’era vento
o il rumore delle auto provenire dalla strada più vicina.
Ma stavolta era tutto diverso:
sentivo il bisogno che qualcuno mi ascoltasse, avevo bisogno di parlare
apertamente con qualcuno, senza giudizio, senza freni, senza censure. Facile
farlo con chi non può più rispondere … eppure non mi sentivo così, era come se lei
fosse lì con me, come mai era accaduto prima.
“Avrei voluto che lo conoscessi
anche tu” ripresi “ti sarebbe piaciuto e sareste andati subito d’accordo, ne
sono sicura!”
La mia mente corse per l’ennesima
volta a Tyler e pensai a tutte quelle volte in cui l’avevo visto assorto e letteralmente
immerso nella suo taccuino, mentre scriveva a suo fratello. Iniziavo a
comprendere il sollievo che si sentiva ad avere quel genere di contatto.
“Sono in un bel pasticcio
sorellina” le confessai “adesso abito a New York con una famiglia meravigliosa,
tutti mi vogliono bene e Tyler … beh Tyler è il ragazzo perfetto però ha detto
che mi ama”
Come
però? Sembravano chiedermi i suoi occhietti vispi
dalla fotografia. “Il problema è che non so cosa
voglio io … io, io gli voglio bene, mi piace da morire, mi tratta come se fossi
l’unica cosa di cui avesse bisogno, però non me lo merito io uno come lui …”Era la prima volta che sentivo
uscire la verità non solo dalle labbra ma anche dalla mia testa. Un groviglio
di ma, se e però, di congetture e dubbi, si erano avvolti e ingarbugliati
attorno all’unica chiave del problema. Presa la chiave, mancava la toppa
corrispondente, dove infilarla per aprire la serratura.“Io non sono stata una brava
persona negli ultimi anni … me ne sono andata da casa ed oggi è la prima volta
in 3 anni che rimetto piede ad Indianapolis. Oggi è il mio compleanno, Em. Ti
ricordi i nostri compleanni? La torta al cioccolato di mamma e i barbecue di
papà … non è rimasto più niente.”
Mi mancavano quei giorni;
tuttavia non potevo negare che i giorni meno belli e più difficili erano stati
necessari: senza di loro non sarei diventata la Allison che si è lasciata alle
spalle lo squallore della sua vita malfamata, non avrei conosciuto persone
speciali come Diane e Les, non avrei mai riso con Hayden e non avrei mai potuto
conoscere quanto amore si può ricevere da persone come Tyler. Lui mi amava e, a modo mio, ero
sicura di ricambiare quell’amore. Forse non era perfettamente inquadrato, non
vedevo il mondo colorato di rosa confetto e non era zucchero filato l’unico
odore che il mio olfatto percepiva: ma anche il mio era amore; ma noi, del
resto, non eravamo Barbie e Ken. Anche quel noi, ormai, non
suonava più come il rullo finale dei tamburi sul patibolo, un attimo prima
dell’esecuzione capitale.Non meritavo tanta fortuna
tutta insieme, neanche come risarcimento per gli orrori visti e vissuti, ma per
una volta forse era il caso di non curarsi di cosa fosse giusto, ma piuttosto
di cosa avessi più bisogno io. L’unico rimpianto era averlo
capito troppo tardi.
“Dici che è troppo tardi?”
domandai a mia sorella, ma invece di cercare oracoli, la mia attenzione si
spostò sull’ombra che d’improvviso avvolse la lapide di Emily e me. Mi voltai
e, ritrovandomi in piedi prima che potessi anche aver pensato di alzarmi da
terra, rimasi di sasso. Una lacrima rigò una mia guancia, lentamente, fino a
gocciolare sulla linea della mascella.
Ricordare come lo avevo
lasciato e vederlo di nuovo fu un sollievo ed un dolore devastante che
contemporaneamente si alternavano nel mio animo. La consapevolezza degli anni
persi, il rimorso che con il sennò di poi mi rinfacciava di non aver resistito
un altro po’, invece che scappare via come un coniglio impaurito.
E la gioia di vederlo in piedi,
perfettamente in salute, grande e in forze come lo ricordavo dai giorni
migliori: la mia roccia, mio padre. Eppure non riuscivo a muovere
un muscolo per avvicinarmi o lasciare che lui si avvicinasse a me. Era troppa
la paura che fosse un sogno, troppo il timore di essere delusa anche da lui.
“Ciao Allison” disse, e
riascoltare quella voce dopo mesi e mesi di silenzio mi fece sentire fragile
come una bambolina di porcellana. Era bello sentire una voce familiare, ancora
più sentire una voce che credevi persa per sempre e di un avevi il terrore di
perdere il ricordo.
“Papà” soffiai, rapidamente,
mentre l’emozione di poter pronunciare ancora quella parola mi rapiva il
respiro.
Ero felice, davvero felice,
come quando ricevetti il regalo di Natale di Tyler, come quando andammo a
pattinare, come quando la mia Emily ed io facevamo la battaglia dei cuscini.
Era una di quelle gioie semplici eppure non quantificabili, che nascono dentro
senza apparente motivo.
Eppure dovevo andarci con i
piedi di piombo, perché ero stata via per parecchio tempo e non ero l’unica ad
essere cambiata.
“Sei venuta a trovare Emily
proprio oggi … ne sono 18 vero?” chiese, sommesso e sicuramente preoccupato
anche lui di usare la parola sbagliata. Eravamo troppo simili per non capirlo e
certe cose non cambiano.
Annui e lo lasciai proseguire;
avevo bisogno di starmene zitta a metabolizzare ma contemporaneamente volevo
prendere quanto più potevo di quella voce e riempire i cassetti della mia
memoria.
“Ti va … ti va se andiamo a prendere qualcosa in centro … c’è ancora il tuo
negozio di torte preferito, sai? Solo … solo io e te … sempre se ti va” ribadì
e per quanto mi era servito per ritrovare me stessa, sentivo che quel contatto
con mia sorella era sufficiente. Che lui fosse arrivato proprio in quel
momento, proprio mentre dalla mia bocca usciva la frase dici che è troppo tardi sembrò il modo che aveva mia sorella per
dirmi che il mio posto era tra i vivi e che era ora di andare.
“Sì … sì mi va” risposi e ci
incamminammo insieme verso l’uscita.
Avevo mille cose da chiedergli,
da confessargli e più di ogni altra cosa sentivo una voglia matta di attaccarmi
al suo collo e non lasciarlo più, di recuperare ogni secondo perso di coccole
padre/figlia. Ma non riuscivo a muovermi e le corde vocali sembravano non
essere in grado di emettere alcun suono.
“Credevo … credevo di non
trovarti da sola” disse mio padre, che mi precedeva di pochi passi, voltandosi
ed aspettando che lo raggiungessi “so che gli avevo promesso di non dirti
nulla, ma è stato il tuo amico, Tyler, a dirmi che ti avrei trovata qui … non
te la prendere con lui”
“E chi ti dice che me la
prenderei con lui?” chiesi, diretta e
immediata, anche vagamente ironica, come avrei fatto quotidianamente con lui.
“Allison!” mi riprese mio padre,
con un’espressione che la diceva lunga “come se non ti conoscessi!?”
Purtroppo fu costretto a
mangiarsi la lingua da solo e a frenarsi perché di rese conto da sé di quanto
poco veritiera fosse quella affermazione. Non poteva più dire di conoscermi,
perché quella che aveva davanti non era la Allison che lui era andato a
prendere alla festa di Steve Johnson anni prima, poco prima che la nostra auto
si schiantasse. Anche se, in quel caso, ci aveva preso, perché era proprio la
sua conversazione con Tyler che mi aveva fatto scattare nella notte.
“Lui … lui non è più qui. È
ripartito per New York questa notte. E comunque mi aveva detto del vostro
incontro …”
“Spero che non sia stata quella
la ragione per cui è ripartito … lui lo ha fatto solo per il nostro bene,
Allison. Anzi, per il tuo bene” spiegò. Ma io, stizzita, lo interruppi:
“Dobbiamo parlare di Tyler papà?!” domandai. Non volevo essere dura, ma non ci
vedevamo da due anni e mezzo e lui pensava ad un estraneo.
“No … hai ragione” ne convenne.
Si lasciò andare ad un sorriso lieve, mentre mi avvicinavo e lui sembrava preso
dai suoi pensieri. “Sai” mi confessò “è bello sentirsi chiamare di nuovo papà
…”
Non riuscii a resistere oltre;
come avrei potuto del resto?! Corsi verso di lui e lo abbracciai, nascondendo
il volto e le lacrime nel suo petto: bastò veramente un istante per ritrovare
quell’intimità perduta, il profumo di casa dei suoi abiti e l’odore forte di
dopobarba, sempre lo stesso. Per quanto mi sforzarsi, più
sentivo le sue grandi mani accarezzarmi vigorosamente la schiena e le sue
larghe braccia stringermi a sé, più i singulti aumentavano ed il pianto
sembrava diventato inconsolabile. La scoperta di non essere più soli, la
consapevolezza che mio padre era davvero ancora vivo ed era lì con me mi dava
una felicità ed un entusiasmo che non erano quantificabili; più sentivo che lui
c’era ed era con me, più l’emozione cresceva e le lacrime uscivano fuori. Lui
stava lì, a stringermi come faceva quando avevo degli incubi da piccola,
aspettando che mi passasse. Era bellissimo essere amati senza remore, senza se
e senza ma.
“È … è bello poterti chiamare
ancora papà” affermai, ancora singhiozzante, quando lo tsunami di emozioni che
mi aveva travolta iniziò a ritirarsi e a darmi fiato. “Shh … shh piccola mia”
mormorò mio padre, senza sciogliere l’abbraccio tra noi “è tutto finito bambina
mia … papà è qui con te”
Forse non si era reso
perfettamente conto che non ero più l’adolescente sola e ribelle che era
perennemente in conflitto con sua madre e con un grande desiderio di libertà. Ora
ero una donna, forse non completamente fatta e finita, ma certo non erano più
le coccole di un padre ad interessarmi. Avrebbe dovuto presto fare i conti con
un’altra realtà: avrebbe dovuto condividere le mie attenzioni con altre persone.
Eppure, anche a me, per qualche minuto, aveva fatto piacere ritornare con le
lancette a qualche anno prima, quando tutto era al suo posto e quando New York
era solo una grande metropoli lontana e che non aveva nulla da offrire se non i
migliori musical e forse la migliore scuola di danza al mondo.
Il viaggio per tornare in
centro fu impacciato e quasi imbarazzante: quando hai tante cose da dirti,
infatti, o si parla troppo o non si parla per niente. Noi optammo per il
mutismo.
“Ti sei fatta proprio grande”
si lasciò sfuggire mio padre, titubante e non del tutto sicuro che fosse la
migliore cosa da dire in quel momento “però dovresti mangiare un po’ di più …
sei così magra”. Mi diede un pizzicotto sul braccio, libero dall’imbottitura
del giaccone, che avevo levato quando lui aveva acceso il riscaldamento. Parenti … non cambiano mai: le
uniche cose di cui sanno parlare o sono i ragazzi, o sono i chili in più o in
meno che ti vedono addosso.
“Ero molto più magra di così
fino a qualche mese fa, papà, credimi” ammisi “durante le feste di Natale mi
hanno ingozzata come un tacchino … sono sicura di aver preso come minimo tre
chili!”
E come se non fossero bastati, mio
padre mi condusse nel mio negozio di torte preferito, il migliore della città.
Mi ci portava sempre a fine anno scolastico e ci andavamo sempre a prendere la
torta per il compleanno della mamma, quando era categorico che lei non passasse
la giornata sui fornelli, neanche per fare un dolce.
“Ma è meraviglioso” esclamai,
mandando giù la mia torta preferita, impasto al cioccolato e crema di nocciole
e mascarpone, il tutto ricoperto di panna “è proprio come allora …” “Beh … in fondo due anni
passano in fretta e non sono poi così tanti …” osservò mio padre “anche se a me
sono sembrati un’eternità”. Lo vidi rabbuiarsi mentre, beveva un sorso di latte
dal suo bicchiere.
"Lo so … vale anche per me”
confermai “ma ora siamo qui”. Presi la sua mano e la strinsi, sorridendogli
quando alzò lo sguardo verso di me: non volevo che pensasse che sarei rimasta
con lui ad Indianapolis per sempre, ma ora che ci eravamo ritrovati non avevo
intenzione di perderlo di vista di nuovo per troppo tempo, anche se far
ripartire tutti gli ingranaggi sarebbe stata un’impresa faticosa. Lui sembrò
distrarsi da quei brutti pensieri e, ritrovando il sorriso, infilzò una fetta
di torta. “Questa la devi proprio assaggiare … è nuova” disse, tentando di
imboccarmi “senti … pare una di quelle merendine che mangiavi da piccola …”
“Dai papà smettila” mi lagnai,
quando tentò di imboccarmi con tanto di aeroplanino “non ho sei anni! Ti stai
rendendo ridicolo!”
“E allora prendi e mangia” ribadì, sornione. Gli presi la forchettina tra le
mani e assaggiai questa famigerata torta … beh, effettivamente quel retrogusto
paradisiaco di Kinder Delice c’era proprio … Dio che bontà.
“Visto?!” fece mio padre,
notando evidentemente che nel gustarmi quella bontà avevo persino chiuso gli
occhi come fanno nelle pubblicità.
Conclusa con una grossa risata
di mio padre quella imbarazzante parentesi padre/figlia un po’ da bambini, un
po’ da dementi, mi imposi di tornare alle cose più serie e più urgenti da
discutere. Credo che fosse di questo avviso anche lui, perché mi precedette di
pochi secondi nel parlare.
“Dio quanto mi sei mancata …” disse,
e sentivo bene il retrogusto dolce amaro delle sue parole “… dove sei per tutto
questo tempo Allison?”
“Non vorresti saperlo” gli
dissi. “Purtroppo ne ho una vaga idea” ammise, ma fu risoluto da cambiare
registro abbastanza in fretta “Come … come vanno le cose ora Allison?”
Era un bene che ne parlasse
come se non fosse accaduto nulla di tanto grave, da un certo punto di vista; mi
rendeva tutto più facile e non mi faceva sentire in colpa ad averlo lasciato
solo, senza uno stralcio di spiegazione.
“Adesso abito con Diane, la
madre di Tyler, ed il suo nuovo marito … mi trovo molto bene con loro, sono
delle persone splendide! Mi hanno vestita, nutrita, protetta … senza voler
sapere nulla di me o di ciò che avevo fatto per arrivare a ridurmi in quel modo
…” e lì mi fermai. Non avevo idea di quanto gli avesse detto di me Tyler ed
ebbi il timore che parlarne troppo apertamente avrebbe aperto in lui
un’ulteriore ferita. Ma la pietra l’avevo ormai tirata, nascondere la mano fu
inutile, visto che poi fu lui stesso a voler approfondire l’argomento.
“Ridurti come?” domandò, serio
e con una maschera di ferro a nascondere le sue emozioni. Ricordai allora che
era un discreto giocatore di poker e doveva imparato al tavolo verde a non
scomporsi troppo.
“Piena di lividi e ferite …
presa a pugni e vestita di stracci, magra ai limiti dell’anoressia, rozza e
volgare come se gli anni passati da educanda nei migliori istituti della città fossero
solo un miraggio” avrei voluto fermarmi, ma perché tacere ormai “ho finto per
tanto tempo di essere solo una ballerina, ma è stato solo quando ho incontrato
quella gente così generosa e buona che ho capito che era il momento di
smetterla di mentire persino a me stessa. Ero solo una pro-”. Ma mio padre di si alzò di
scatto, prendendo il portafogli dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni.
“Forse è meglio se ce ne andiamo da qui …” disse, andando verso la cassa. Io lo
segui, in silenzio, ma quella cosa mi colpì molto e mi deluse in una certa
misura. Mi chiamava la sua bambina eppure voleva discutere in privato di qualcosa
che, alla luce del sole o di nascosto, era di dominio pubblico tra chi ci
conosceva ad Indianapolis.
Una volta fuori dalla
pasticceria, lungo la strada per raggiungere l’auto, allargai le braccia e mi
calai gli occhiali sugli occhi: non tanto per il sole, quanto per nascondergli
gli occhi gonfi di rabbia e delusione, che avrebbero potuto tracimare di nuovo
da un momento all’altro. Scossi la testa, mentre lui, confuso, mi guardava. “È
inutile nasconderlo o evitare di dirlo … io ero esattamente quello che sai. Non
ero sulla strada e non ho preso malattie se è quello che ti preoccupa, ma
comunque il risultato non cambia: ho venduto il mio corpo per vivere. Puoi
usare il termine che preferisci per definirmi … ma rimane il fatto che ero una
prostituta”
Preferii voltargli le spalle ed
incamminarmi da sola verso il parcheggio sotterraneo dove Doug, mio padre,
aveva lasciato l’auto. Presi dal mio zaino nero le sigarette e me ne accesi
una, in preda ad una tale agitazione, da non riuscire nemmeno a far partire l’accendino.
“Allison! Allison!” mio padre
grido, sempre più vicino, così mi fermai. Non volevo discutere con lui, non
ora; ma non potevo tollerare che degli estranei come Diane e Les avevano avuto
la sensibilità di non giudicare ed invece mio padre faceva il moralista e
pretendesse di lavare in casa i panni sporchi.
“Forse ho sbagliato” ammisi
“non avrei dovuto dirti certe cose. Ma era il solo modo … non esistono edulcoranti
per questo genere di cose. Il punto è che non voglio nasconderti nulla e questa
era tutta la verità”
“Sarà anche la verità” disse
mio padre, un po’ affannato per la corsa che, data la sua stazza un po’ tozza,
doveva essergli costata fatica “ma perché vantarsene?” “Non è un vanto per me papà. È
quello che sono … o almeno, quello che ero finché Tyler non è entrato nella mia
vita. Non posso far finta che questi due anni per me non siano esistiti e”
aggiunsi “non dovrai farlo nemmeno tu”
“Hai ragione” si scusò,
affiancandomi “la prossima volta farò più attenzione. Però non essere arrabbiata
con me”
“Non sono arrabbiata con te
papà” dissi “è solo che non sono più abituata a sentirmi dire ciò che devo fare
… e appena qualcuno ci prova, scatto. Credo di essere io a dover chiedere
scusa”.
Era la prima volta forse che
chiedevo il perdono di qualcuno, veramente, non come una frase fatta ma per
vera ammissione di colpa. Significava molto per me, sentivo che era un punto di
partenza importante, un notevole tassello da aggiungere alla mia crescita. La
vecchia Allison non ci sarebbe mai riuscita, sarebbe fuggita a spron battuto
invece di rimanere e provare a parlarne.
Così lo presi sottobraccio e
riprendemmo a camminare, stavolta insieme. Calcare quelle strade mi faceva uno
strano effetto, un misto tra una consuetudine che non se n’era mai andata ed l’indifferenza
per dei luoghi che ormai sentivo non appartenermi più da un pezzo.
“Dimmi solo perché …” riprese
lui. “Avevo voglia di libertà … qui era diventato un inferno e avevo bisogno di
andarmene” confessai, cercando le parole più adatte per non pugnalarlo “e
quello era l’unico modo possibile per trovare i soldi alla svelta. Ma quella
libertà aveva avuto un prezzo troppo alto da pagare e mi sono ritrovata ben
presto in catene”
Non volli guardarlo, né sentivo
il suo sguardo addosso: eravamo stati entrambi raggelati dalla mia confessione,
lui perché forse non immaginava che la vita potesse riservare un destino tanto
amaro a sua figlia e si rendeva conto di quanto la lotta contro lo sterco del
mondo mi avesse resa dura e spigolosa, ed io perché non provavo né odio, né
ribrezzo per quel passato, poi non tanto remoto, ma solo una grande e profonda
apatia, come se fosse la vita di un’altra.
In lontananza, nella lunga
avenue che stavamo percorrendo, individuai il palazzo in cui aveva sede
l’ufficio di mio padre, la filiale della Hawkins Communications, proprietaria tra le altre cose di alcune
televisioni locali, almeno fino a due anni fa. Inutilmente tentai di sviare i
miei pensieri, ma essi si focalizzarono su Tyler. Era passato da poco
mezzogiorno, le undici a New York e di sicuro era già a casa da un pezzo se,
come era nei suoi progetti, aveva preso l’aereo. Finita quella giornata, avrei
dovuto iniziare a pensare anche a lui. Perché non volevo perderlo, non potevo.
“Sai che ho conosciuto il tuo
capo?!” dissi a mio padre, per tentare di distrarmi.
“Il signor Hawkins?! Ottima
persona, non trovi?” chiese. Purtroppo, non potei trovarmi d’accordo con lui
perché, sebbene si fosse interessato in prima persona per questo mio viaggio e
stava tentando in tutti i modi di recuperare per la scenata di Natale, non
riuscivo ancora bene a capire di che pasta fosse fatto e che gioco stesse
giocando. Potevo spronare Tyler a riavvicinarsi a suo padre, ma dentro di me
pregavo sempre che lo facesse con molta cautela e che di un uomo come lui era
meglio non fidarsi. Annuii a mio padre, ma per
fortuna fu lui stesso a chiudere il discorso sul nascere. “Hai detto che ora
abiti con la ex signora Hawkins, giusto?” annuii “e cosa fai ora? Non te ne
starai con le mani in mano tutto il giorno spero…”
Mio padre era sempre stato uno
stakanovista, il primo ad entrare in ufficio e l’ultimo ad uscirne, in casa
sapeva arrangiarsi nelle riparazioni di ogni tipo e si dava da fare ad aiutare
mia madre, quindi capivo la sua domanda.
“Beh … in effetti sto in casa
quasi tutto il giorno … ma è lì che lavoricchio. Mi occupo della Caroline
Hawkins, la figlia più piccola di Diane e Charles, è come se fossi la sua
governante … e in più aiuto nelle faccende di casa, anche se per quello c’è già
la domestica. Diane mi da una specie di paghetta a fine settimana, il giusto
per mangiare fuori o andare al cinema, ma in casa non mi manca niente, così
sono riuscita a mettere da parte un bel gruzzoletto, anche con i regali di
Natale … però per venire qui ho speso tutto” feci spallucce. Purtroppo ero
praticamente al verde, e se volevo sperare di pagare l’albergo da sola, visto
che avevo praticamente usato una doppia ad uso singola, avrei certo dovuto
chiedere una mano a mio padre. Mi scocciava farlo, ma glieli avrei restituiti,
a costo di inveire ancora contro di lui.
“In più a Settembre inizierò a
frequentare una scuola serale, in modo da poter lavorare di giorno per mantenermi
agli studi … anche se quel lavoro devo ancora trovarlo. E devo trovarmi una
casa per conto mio … voglio bene a Diane, Les e Caroline, ma non voglio abusare
della loro generosità … hanno già fatto troppo per me” “Vuoi tornare a studiare?”
domandò mio padre, mentre entravamo nel parcheggio sotterraneo.
“Sì” risposi “voglio prendere
il diploma e poi, chissà … magari andare al college”
Non speravo di poter arrivare
così in alto, mi bastava un pezzo di carta per trovare un lavoro decente ed
onorevole, con uno stipendio sufficiente a pagare un affitto e a non morire di
fame. Magari avrei potuto permettermi anche di pagare la retta ad una scuola di
danza e avrei potuto anche ricominciare a ballare, solo per il piacere di farlo
e senza nessun secondo fine, una scuola dove i passi sono fatti di tecnica e
non sculettate volgari.
Era bello potersi permettere di
sognare di nuovo e soprattutto sapere che i sogni potevano realizzarsi
stavolta.
“Io … io lo so che è presto per
parlarne, ma visto che hai tirato fuori l’argomento …” esordì mio padre,
ridestandomi dai miei pensieri “ma pensavo che, magari … ecco … potresti
tornare qui per il finire il liceo e poi anche il college …”
Sapevo che avrebbe sfruttato
quell’opportunità per tirarmi a sé e tenermi stretta, ero preparata ad
un’eventualità del genere; del resto il mio lancio era stato perfetto e lui
aveva preso letteralmente la palla al balzo. Ma Tyler aveva ragione: se non era
quello che volevo, dovevo essere ferma ed oppormi. Per questa ragione, scossi
vigorosamente la testa: “No papà”
Ma lui continuò, imperterrito:
“non avresti bisogno di trovarti un lavoro per mantenerti e potresti dedicarti
pienamente allo studio, così ti sarà più facile andare al college”. Sapevo
anche che l’avrebbe messa sul piano dei soldi, ed era una nota dolente visto
che non ne avevo e in un periodo come quello era davvero difficile reperirne
onestamente. Ma Indianapolis non era più casa mia da due anni, era questo che
doveva capire.
“Non fare così papà, ti prego.
Non rendere le cose più difficili. Non avrei voluto dirtelo così presto, ma è
meglio essere chiari fin dall’inizio”. Presi un bel respiro e tutte le forze
che avevo per dargli la mazzata, perché quella, in fondo, era un mazzata bella
e buona. Lo vedevo fermo e teso, di fronte alla sua auto, pronto a ricevere un
colpo che sapeva lo avrebbe ferito. Ma questo non bastò a fermarmi.
“Io non sono venuta qui per
restare. Riparto tra due giorni, forse anche prima” non aveva senso restare
oltre, sentivo di poter continuare il rapporto con mio padre anche da lontano e
forse sarebbe stato anche più facile. In più c’era una cosa che mi premeva fare
a New York in quel momento: sentivo questa urgenza scalpitare di ora in ora e a
poco serviva il mio raziocinio a placarla.
“Ma Allison” esclamò mio padre
“sei … sei appena arrivata. Devi … devi incontrare con tua madre … dovete
parlare, dove chiarirvi … avete tante cose da dirvi, non puoi andare via così …
la uccideresti!” “Lei … lei sa che sono con te?!”
chiesi. “No … non sa nemmeno che sei qui, Tyler è stato molto cauto …” “Bene …
perché non dovrà saperlo … ” fui perentoria “non abbiamo niente da dirci per il
momento”. Sapevo di fargli male, perché lui doveva volerle ancora bene, non
avendola abbandonata nonostante tutto, aiutato di sicuro da una visione poco
chiara di come sono andate le cose.
“Dì la verità” proseguì mio
padre “è per lei che non vuoi restare. Ti assicuro che è molto cambiata …
stenteresti a riconoscerla …”
“Siamo cambiati tutti papà” lo
freddai, buttandomi a capofitto dentro l’auto, allungandomi nel sedile
posteriore della sua berlina per non essere costretta a guardarlo in faccia.
Lui mi seguì e avviò l’auto per andare via.
“E comunque” ripresi “non è per
lei. La mia vita è a New York ora, tutto il mio futuro lì. Capitolo chiuso. E
ora ti prego … riportami in albergo”
Lungo la strada fummo entrambi
taciturni e presi dai nostri pensieri. Mi chiesi se non ero stata per caso
troppo dura con lui, ma ne convenni che ad un tipo come lui si poteva tener
testa solo in quel modo, anche se con me sembrava docile come il burro sul pane
tostato.
“Dannazione papà! Non essere
arrabbiato con me!” sbottai, irritata da tutto quel silenzio “non ho intenzione
di perderti proprio ora!”
“Non sono arrabbiato con te”
rispose, con voce piatta. Non poter vedere il suo volto, vincolata dalla
cintura di sicurezza, mi metteva un’ansia addosso ulteriore.
“Oh beh perché ti comporti proprio come se fossi arrabbiato con me …” gli feci
notare.
“Non mi comporto come se fossi
arrabbiato con te” disse e chiuse il discorso.
Muovendomi sul sedile potei
finalmente arrivare a scorgere delle sue occhiate fugaci attraverso lo
specchietto retrovisore. Nonostante le mie parole suonassero già come un addio,
nonostante i battibecchi, lo vedevo sorridere, carico di una gioia quasi puerile
e beffarda per non essere riuscito ad essere un padre severo ed imperterrito
per più di cinque minuti. Ma d’altronde non era mai stato il suo forte. Lui era
sempre stato il buono e coccolone di casa e mia madre quella che portava i
pantaloni, maniaca e isterica. Almeno di una cosa potevo essere sicura che non
era cambiato nulla.
Fermi ad un semaforo rosso, mi
sembrò di avere un dejà vu. Poi capii: quello era l’incrocio dove anni prima
avvenne l’incidente. Ed era più o meno tutto come allora: papà taciturno e imbronciato
al posto di guida ed io seduta dietro, altrettanto taciturna ed imbronciata,
che guardavo fuori dal finestrino. Le uniche differenze erano che era una notte
calda d’estate e accanto a me era seduta mia sorella. Steve abitava dall’altra
parte della città e per tornare a casa nostra bisognava attraversare tutto il
centro.
“Posso chiederti una cosa?”
esordii, prendendo coraggio “perché quella sera con te c’era anche Emmy … cosa
è successo … io non mi ricordo nulla”
Lo vidi cambiare letteralmente
espressione dallo specchietto. “Cos’è che ricordi?” mi domandò, inquieto.
“Ricordo che eri venuto a
prendermi a casa di Steve Johnson ed Emily era con te. Vi avevo detto che
passavo la notte da Abigail, ma evidentemente avete scoperto la verità … poi mi
ricordo che tornando a casa abbiamo discusso. E poi il vuoto. Cos’è successo?”
C’era una sola persona, oltre a
mio padre, a conoscere quei miei ricordi. Al resto del mondo, a mia madre, ai
medici, avevo detto di non ricordare nulla. Nessuno seppe spiegarsi perché mi
trovassi in macchina con mio padre e non ricordavo come Abigail ed io
giustificammo la cosa, anche perché passo poco tempo e smisi di parlare con
tutti i miei amici più cari e fidati.
“Cos’è
successo mi chiedi?! Quello
che succede sempre … la vita, il destino” la sua
imperturbabilità mi spiazzò e mi sembrava di essere
di fronte
al riflesso di me stessa. Mi ricordai di quando avevo criticato Tyler e
gli
avevo detto che non era l’unico ad aver sofferto … ora era
il proprio il caso
di auto-rimproverarmi. “Era una serata afosa ed avevamo deciso di
prendere un
gelato per rinfrescarci prima di andare a letto” continuò
“La piccola Emmy
volle venire con me perché voleva scegliere i gusti. Così
andammo alla
gelateria artigianale di Vincenzo, poco distante da casa di Abigail
… e fu lì
che la trovammo con la sorella. Non poté mentirmi…”
Sapevo che non poteva essere
andata lei a spifferare tutto ai miei. Quando era venuta a raccontarmi come
erano andate le cose l’avevo cacciata, distrutta dal dolore per la perdita di
mia sorella. Poi l’avevo allontanata. Mi sarebbe piaciuto sentirla, anche se
sinceramente non credevo di poter avere qualcosa in comune con lei.
“Decisi di venire a prenderti e
portarti davvero da Abigail prima che tua madre potesse scoprire dov’eri stata”
andò avanti mio padre nel frattempo “Steve non
mi piaceva … ma le sfuriate di tua madre nei tuoi confronti non mi
piacevano ancora di meno. Io ero dell’opinione che bisognava farti fare i tuoi
errori, per me eri abbastanza intelligente da capire da sola quali fossero le
persone da seguire e quelle da tenere a distanza. Ma tua madre voleva sempre
avere il controllo su tutto …”
Ricordai allora le sue parole
di quella sera. Tu ora vai dove dovresti
essere, mi disse, e domani mattina
tornerai a casa come se ci fossimo solo incontrati dal gelataio ed Emily si è
trattenuta a giocare con te … io e te faremo i conti poi.
Ma non ci fu possibile. A quel
maledetto incrocio un pazzo ubriaco ci venne contro frontalmente, dopo un
sorpasso azzardato che gli fece invadere completamente la corsia opposta.
Al di là dei brutti ricordi, mi
confortava tuttavia sapere che, almeno sul comportamento di mia madre, la
pensavamo alla stessa maniera. Forse io non avevo capito di star facendo la
cosa sbagliata, ma se mi avesse lasciato fare ci sarei arrivata, prima o poi. Ed
invece, in quel modo, aveva solo stimolato la mia disubbidienza.
Arrivati davanti all’albergo
uscimmo entrambe dall’auto per salutarci. Senza accorgercene avevamo
trascorso insieme metà giornata, per lui era ora di rientrare in casa prima che
mia madre si allarmasse o si insospettisse. “Sei sicura di non voler venire
a casa?” chiese, ma ormai ero ben decisa. Avrei trascorso probabilmente
un’altra notte insonne, in compagnia della mia testa logorroica, ma era meglio
che rovinarsi il fegato con litigate senza via d’uscita.
“Vuoi che ci vediamo domani?”
chiese allora, dopo il mio rifiuto, accorto e premuroso.
“Sì” risposi, sicura “ma dopo
il lavoro … non vorrei che a tua moglie venisse all’orecchio che hai chiesto
due giorni di permesso …”
“Non chiamarla così … è tua
madre e ti vuole bene” disse lui, ma per quanto ne sapevo l’ultima volta che
c’avevo parlato mi aveva detto che ero la più grande delusione della sua vita.
“So che non sarà facile, ma promettimi che pian piano proverai a legare anche
con lei … un colpo di telefono non le dispiacerebbe. Se hai bisogno di consigli
da donna o … che ne so io …”
Non era certo un’immagine in
cui mi vedevo bene, al telefono che parlavo con mia madre di assorbenti o di
protezioni da malattie veneree. Sarebbe corsa di certo fino a me dall’altro
capo della cornetta per mettermi sotto una campana di vetro. Ero sempre stata
una bambolina di porcellana per lei e quando non lo ero più … beh ha
semplicemente svalvolato.
“Promettimelo” insistette mio
padre, prendendomi il volto tra le sue mani grosse e calde. Non potevo
resistere ai suoi grandi occhi verdi, che mi aveva lasciato in eredità. “Promesso” riuscii a dire e lo
abbracciai forte, in punta di piedi, perché mi era mancato da morire quel
contatto e quella vicinanza con lui. Lui mi baciò la testa e io mi allontanai,
avendo cura di nascondergli le lacrime di gioia che stavano sgorgando.
NOTE FINALI
Eccoci
giunti alla fine di un capitolo che oserei definire cruciale.
Perché entriamo in un modo diverso nella testa di Allison.
Mentre l'ultima volta era per descrivere la sua scoperta dell'amore,
qui invece viviamo con lei un'intera giornata. La sentiamo vivere,
pensare, esprimere opinioni. Viviamo insieme a lei delle emozioni
importanti.
Credo che a questo punto si possa dire con certezza che non solo
è una ragazza che ha sofferto tanto, ma è soprattutto una
ragazza decisa a voltare pagina e lasciarsi andare pienamente.
E secondo me ora è anche pronta a concedersi qualcosa in più con Tyler.
Purtroppo ha dovuto averlo lontano per sentirlo vicino.
Ma ora c'è anche il padre con lei, inizia una fase nuova della
sua vita ed è anche il giro di boa della storia se vogliamo.
Scusatemi se il capitolo è un po' lunghetto, ma non volevo
lasciare nulla in sospeso prima di tornare a New York da Tyler.
Grazie mille per l'enorme seguito e l'entusiasmo con cui seguite la storia. Significa molto per me.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 25 *** I am here for you ***
When you crash in the clouds - capitolo 24
Capitolo 24
I am here for you
soundtrack
Erano passati i tre giorni
fatidici. Sarebbe tornata a New York in un’ora, o poco meno, o non sarebbe
tornata più. Dopo quello che era successo, dopo la mia sparata di quella notte,
vedevo difficile riavvicinarmi a lei come se nulla fosse, con un caloroso abbraccio
e un “bentornata!” contornato da festoni e palloncini. C’era troppo in ballo
che non poteva più essere nascosto e troppo che le avevo rinfacciato e le avevo
urlato e non poteva essere rispedito nei miei polmoni.
Il 70% di ciò che avevo detto
non lo pensavo, per l’altro 30 era meglio se una volta tanto mi fossi fatto i
cazzi miei e avessi dato tempo al tempo.
Ero a casa da due giorni ormai,
avevo ripreso la mia routine nonostante le ferie per evitare sindromi maniaco-depressive;
non dovevo pensare a le h24, la mia vita doveva tornare alla normalità,
soprattutto in prospettiva del suo non ritorno. Non potevo deprimermi di nuovo,
Aidan non me lo avrebbe perdonato stavolta, non per una ragazza almeno.
Così mi misi sotto con lo
studio e tornai tra gli scaffali della libreria con somma gioia del capo che
non era più obbligato a pagarmi le ferie. Tuttavia nessuno, al di fuori di
Aidan e dei miei colleghi di lavoro e di università, sapeva del mio ritorno. Non
potevo certo dire a mia madre di aver lasciato Allison da sola in un bed & breakfast,
né che tantomeno spiegarle che lo avevo fatto perché, in una sorta di
dichiarazione, lei mi aveva dato il ben servito ed io me l’ero presa. Certo,
non appena fosse andata alla stazione degli autobus a prenderla, sarei stato
sgamato alla pulita e già sentivo i suoi acuti isterici perforarmi i timpani,
ma fino ad allora potevo far finta di aver dimenticato il carica batterie a
casa tenendo il cellulare spento. Inoltre, potevo essere abbastanza sicuro del
fatto che lei ed Allison si dovevano essere sentite davvero di sfuggita perché,
se lo avesse saputo da lei, a quest’ora avrebbe fatto sfondare la porta e le
finestre di casa mia dai vigili del fuoco pur di parlarmi. Non c’erano dubbi
sul fatto che avesse ottime conoscenze tra le forze dell’ordine.
Sebbene potessi dire di averla
fatta franca da mia madre, almeno per il momento, nulla avevo potuto contro
quella suocera travestita da studente universitario di Aidan. Generalmente le
sue rimenate non mi facevano né caldo né freddo, entravano da un orecchio ed
uscivano dall’altro, ma stavolta mi avevano fatto veramente male. La sfilza di
“avresti potuto … ma perché non hai fatto così … io al posto tuo” che erano
volati si sprecavano, così come avevo perso il conto di quante volte,
mentalmente, avevo interpellato i componenti femminili della famiglia di Aidan
in maniera poco garbata. Lui non poteva parlare di amore e veniva a fare a me
la paternale … tipico. Ma non ero più il tipo remissivo a cui le offese non
facevano un graffio. Così avevo finito col prendere anche Aidan a parole
grosse, senza pesare il significato di ogni fosse, senza considerare quanto
tempo avrei impiegato per riparare a ciascuna di esse. Come si dice, mi ero
decisamente tirato la zappa sopra i piedi e dalla padella ero passato alla
brace.
Ci eravamo ridotti allo stato
di due conoscenti che condividono un appartamento ed il posto di lavoro, invece
che essere due amici che alle spalle avevano anni e anni di bisbocce e ricordi
anche dolorosi da partecipare.
Ancora pieno di rancore e collera,
covati per tanto tempo, scoppiati nel giro di nemmeno 10 minuti e rimuginati lungo tutto il volo, non trovavo
ragione che fosse dal lato di Allison. Dopo tutto quello che avevo fatto per
lei, dopo essermi esposto per lei come non avevo fatto per nessuno prima di
allora … bel modo di essere ripagati. Potevano scusarla in ogni modo possibile,
ma per come la vedevo io, era arrivato il momento di accantonare le attenuanti
e lasciare che si assumesse ogni responsabilità. Forse lo aveva fatto
inconsciamente, ma mi aveva ingannato, o quantomeno aveva istillato in me false
speranze. È il minimo sentirsi di merda come mi sono sentito io. Avrei solo
voluto, per una volta, che capisse lei come mi sentissi io, e non fossi io, per
una volta, l’accomodante, il comprensivo.
E così, da incazzato sono
passato al depresso. Fantastico! Portatemi il muro del pianto vi prego, ho
bisogno di versare qualche lacrima e ripetere le mie dolenti litanie. Perché
l’unica colpa che sentivo di dover espiare è di amare una donna che non sente di
amarmi o che mente persino a sé stessa a tal proposito. Non riuscivo più a
distinguere se quella fosse la colpa o la condanna: splendido!
E il tutto per colpa di una
ragazzina che non ero sicuro che avrei rivisto, egoista insensibile e frigida.
Basta!
Urlai
a me stesso, di fronte allo specchio del bagno, pulendo con la mano lo specchio
appannato, dopo la doccia bollente. Stavo ricamando l’immagine di Allison con
gli epiteti più raffinati, la dipingevo come una persona ingrata ed
insensibile, uscendo dalla vicende come la vittima dall’anima candida, umiliato
e offeso da una donna senza scrupoli.
Ma come in tutte le cose nella
vita la verità sta nel mezzo, e se era vero che stavolta non potevo prendermi
tutte colpe, era anche vero che non dovevo lasciarle tutte a lei.
Però per quanto potessi
mortificarla, anche soltanto nella mia memoria, non riuscivo a sminuire il
sentimento che provavo per lei. Ricordavo ancora quella notte buia nel Bronx,
quando le dissi che mi stavo innamorando di lei. Alcune cose erano cambiate da
allora, ma il buio apparentemente era stato al mio fianco in diverse occasioni,
mi aveva aiutato ad nascondermi quando avevo bisogno invece della massima
esposizione. Anche le mie parole erano cambiate: non le avevo pronunciate ad
alta voce, ma solo uno stupido non le avrebbe colte tra le righe. Ed Allison
non era una stupida. Io l’amavo e lei lo sapeva.
Tra poche ore avrei saputo la
verità e avevo paura persino di andarmene a dormire senza la sua telefonata o
di qualcun altro per lei. Se mi fossi svegliato senza che nessuna chiamata mi
avesse spaventato nel cuore della notte o alle prime luci dell’alba, sarebbe
stato proprio il caso di dire addio ad Allison.
E
se invece tornando non avesse voluto più vedermi? Comprensibile, inattaccabile, ma era mio
dovere avvicinarla e cercare di spiegarmi. Almeno così mi diceva il cuore. Ma la
ragione non comprende le ragioni del cuore, è per questo che nella nostra vita
combiniamo tanti disastri: amiamo definirci animali razionali, ma la verità è
che se seguissimo un po’ più spesso il nostro cuore, la via filerebbe un
pochettino più dritta.
Ma la notte era passata indenne
da risvegli improvvisi, a parte la sagoma di Aidan che rientrando non faceva
nulla per evitare di svegliarmi. Così mi ritrovai alle dieci spaccate davanti
alla porta di casa di mia madre, aspettando che qualcuno venisse ad aprirmi.
Ero sceso dal letto all’alba, quando ancora fuori era buio, saranno state le
sei meno un quarto, massimo mezz’ora più tardi, non badai troppo a controllare
sull’orologio, ma tanto ero sazio delle pur poche ore di sonno che mi ero
concesso quella notte. E mia madre salutò la mia giornata con una chiamata
fredda e telegrafica. Non avrei voluto rispondere, ma c’era poco da fare i
polli in una situazione simile. “Vieni qui, subito” disse e non aggiunse altro,
riagganciando la conversazione senza lasciarmi nemmeno il tempo di dirle
buongiorno. Non una parola al fatto che non fossi con Allison, non un accenno
alla mia fuga da adolescente ribelle. Non si perse nemmeno troppo nei
convenevoli quando venne ad aprirmi, ancora nel suo pigiama bianco e avvolta in
uno scialle dello stesso colore. Aveva i capelli raccolti in una coda fatta
senza troppa cura, il che significava che anche lei aveva avuto altri pensieri
per la testa, come me. Cazziatone in arrivo, lo sentivo nell’aria.
“Non dovresti essere al lavoro
oggi?” “Pomeriggio” rispose, al massimo della sintesi.
“Caroline?” chiesi, per
stemperare la situazione. Sembrava di essere al Polo Sud e già mi vedevo i
pinguini di Madagascar sbucare per casa come se niente fosse. Mi sembrava fuori
luogo chiedere di Allison, dal momento che era sicuro al 100% che dovesse
parlarmi di lei.
“Sono le dieci e un quarto
Tyler … dove vuoi che sia?!” rispose, piuttosto acida. Ora, una madre che non
coccola suo figlio come se fosse il Teddy Bear di una vetrina di negozi di
giocattoli è universalmente riconosciuto come un brutto segno, ma non capivo se
fosse dovuto al ciclo mensile, oppure ai cambiamenti di umore dovuti al fatto che,
forse, il ciclo lei non lo aveva più. Comunque la girassi, restava una
situazione di merda.
“Senti Tyler” si sedette alla
penisola della cucina, di fronte a me, passandomi una tazza di caffè “immagino
che tu sappia di cosa voglio parlarti, non c’è bisogno che lo dica perché lo
immagini … vero?”
“Certo mamma” risposi, da
perfetto bambinone consapevole di averla fatta grossa. Mi sembrava di essere
rimpicciolito su quella sedia, mi sentivo stretto nella divisa della scuola
privata, con il cravattino, il blazer e i calzoncini corti, le ginocchia
sbucciate e i capelli a spazzola biondissimi. Ed in compenso vedevo mia madre
grande e minacciosa, come se temessi che potesse confiscarmi la collezione di
figurine o impedirmi di andare a vedere la partita degli Yankees. “Allison”
dissi, ma credo che mi sentii da solo e fu più che altro per il labiale se lei
poté annuire.
“Senti mamma” mi affrettai a
prendere la parola, non perché volessi che capisse le mie ragioni, ma perché
volevo che sapesse che la pensavo come lei, avevo colpa e me ne assumevo ogni
responsabilità “non c’è giustificazione per come mi sono comportato con Allison,
sono stato un irresponsabile a lasciarla da sola! Ora vorrei solo poter
rimediare …”
Non avevo ben chiaro il tipo di
ascendente che mia madre aveva su Allison, anche se ero sicuro che si volessero
molto bene e che Allison provava per lei un profondo rispetto; speravo però che
fosse sufficiente a darmi la possibilità di spiegarmi e farmi perdonare. Perché
pur di non perderla avrei accettato anche l’amicizia fraterna. Guardare e non
toccare sono due cose che fanno crepare, su questo sono d’accordo tutti, ma
vederla sparire sarebbe stato mille volte peggio.
“Lascia stare quello che è
successo tra di voi, sono cose private in cui io non voglio entrare …” mi frenò
lei, mettendo letteralmente le mani avanti. Era bello sapere che nonostante
fossimo amici di letto quasi alla luce del giorno, ci era ancora concessa della
privacy, anche se forse la riservatezza di mia madre era dovuta più al pudore
che da altro. “E del fatto che te ne sei letteralmente sparito senza dire una
parola ne parleremo più tardi … ma ora c’è una cosa che mi sta più a cuore …”
disse lei e notai nelle corde della sua voce un cambiamento radicale: sembrava
più preoccupata che arrabbiata e questo era un presagio peggiore, rispetto alle
mie previsioni.
“Oddio!” esclamai, figurandomi
davanti immagini sciagurate di incidenti stradali, con carcasse di autobus in
fiamme e lenzuoli bianchi stesi qua e là sul manto stradale. “Dov’è Allison
mamma? Dov’è?” domandai inorridito, alzandomi dalla sedia senza che il comando
fosse mai partito dal cervello ai miei muscoli. Sentivo la mia voce
agghiacciata dagli scenari che mi si erano profilati e solo a pensare a quella
tremenda ipotesi il mio corpo rabbrividiva.
“Tyler!” mi riprese mia madre,
mettendomi a sedere di nuovo, esattamente come quando ero bambino “Tyler
calmati! Va tutto bene, è tornata ieri sera e sta benone. Solo …”
“Solo?” incalzai. Odiavo quel
suo modo di fare, quando interrompeva le frasi stile soap opera. Se mi devi
dare una brutta notizia, non c’è niente di peggio che averla a piccole dosi,
provando più dolore che ad apprenderla in una sola botta.
Vidi mia madre chiudere gli
occhi e passarsi le mani sul volto, a nascondere lo sguardo. Era visibile la
sua tensione, il dubbio che aveva, il terrore probabilmente di usare le parole
meno adatte. Una volta ripreso evidentemente il controllo, strinse meglio a sé
lo scialle e parlò: “Allison è andata alla polizia, Tyler. È uscita presto di
casa stamattina” mi raccontò “aveva detto di voler andare a correre per
sgranchire le gambe dopo il lungo viaggio in autobus. E dopo un’oretta ci
arriva la sua chiamata dalla polizia, dicendo che aveva bisogno di un avvocato
Il resto della conversazione
non fu esattamente chiaro, ricordo la voce di mia madre come un’eco lontana, un
suono ovattato che la mia testa, in confusione, non aveva fatto in tempo a
decodificare.”
Mi madre aveva parlato di
denuncia, ma non avevo ben capito sé era andata a denunciare i suoi aguzzini o
a costituirsi. Che poi non capivo cosa avesse da confessare: lei era stata solo
una vittima arrendevole. Contrariamente a quanto si crede generalmente, nel suo
caso piegarsi era meglio che spezzarsi, questione di sopravvivenza.
E così la mia piccola Allison era
finita davanti a quei mastini delle guardie: così piccola ed indifesa che al
minimo tentennamento avrebbero potuto mangiarsela in un solo boccone.
Corsi a perdifiato per la
strada, perché la stazione di polizia più vicina non era particolarmente
lontana e avevo bisogno che l’aria gelida di New York mi raffreddasse il
cervello, in ebollizione per tutte le informazioni che mia madre mi aveva dato:
gli uffici a cui dovevo rivolgermi, tutti i nomi che aveva fatto e che mi avrebbero
aiutato a vederla. Sapevo che non era sola, Les si era fatto subito avanti per
sostenerla. Perché avere per patrigno un avvocato, a volte, può essere davvero
un vantaggio.
Finché non salii le scale della
centrale di polizia non potevo ancora credere che lo avesse fatto. Man mano che
passavo di ufficio in ufficio, ogni volta che mi lasciavano ad aspettare fuori
da una porta o che davanti a me un poliziotto grassotto mi stava a guardare con
sufficienza, aspettando qualcuno che dall’altro capo del telefono rispondesse,
ero sempre più sconvolto dall’idea che lo avesse fatto per davvero. Avevo
ancora davanti a me, nitide, le immagini di quella mattina tragicomica, dopo la
notte più bella della mia vita, quando avevamo fatto l’amore per la prima
volta, mia madre si era presentata al mio appartamento e lei, presa dal panico,
si rintanò in camera mia facendo l’isterica e urlando che mai e poi mai lei
sarebbe finita in gabbia. Ed ora si stava offrendo volontaria. Meraviglioso!
“Tyler!” sentii chiamarmi alle
spalle, mentre davanti ad una macchinetta del caffè prendevo quello che era il
quarto caffè della giornata. Forse una camomilla sarebbe stata più appropriata,
ma avevo bisogno di essere il più vigile e reattivo possibile. Les mi venne
incontro in jeans e maglione di lana, invece che con il suo solito gessato
carbone d’ordinanza. Aveva in mano un fascicolo, che supposi essere tutta la
documentazione riguardante Allison. Mi strinse la mano e ci lasciammo andare ad
un abbraccio che in tanti anni di parentela acquisita non ci eravamo mai
concessi. Eravamo entrambi nervosi e capii che in qualche modo quella ragazza
era entrata anche nel suo cuore. Come poteva essere diversamente.
“Ma che cosa …” volli
domandare, ma evidentemente sentiva l’urgenza di dirmi qualcosa che fosse più
importante.
“Ti ringrazio di essere venuto.
Allison non voleva che ti avvisassimo ma io e tua madre abbiamo pensato che non
fosse giusto …”
Non sapevo cosa dire, ero del
tutto stordito. Riuscii a pronunciare un grazie stentato. Avevo bisogno di una
sedia o sarei caduto a terra come una pera cotta. Notai una panca accanto al
distributore di bevande e mi lasciai stramazzare lì sopra, abbandonato da tutte
le forze.
“Dov’è?” domandai. “È con gli
ispettori, le stavano facendo delle domande fino a poco fa, ci siamo presi una
pausa, ma lei non può muoversi … sai come sono i poliziotti qui … sembra ancora
di stare nel Far West”
Me lo ricordavo bene: nei primissimi
mesi dopo la morte di Michael, infatti, Les era stato costretto a tirarmi fuori
di prigione per tre volte, e i capi d’accusa erano uno più ridicolo dell’altro.
L’unica volta che mi ero veramente cacciato nei guai, ma non ricordavo molto
considerati i fiumi d’alcool che erano scivolati via quella notte, quando,
qualche anno prima, non ancora ventunenne, ero stato beccato ubriaco per le
strade di NY ed eravamo andati a fare i cretini con dei vecchi compagni di
liceo proprio davanti ad una volante della polizia. Scemo e più scemo. Quella
volta fu l’avvocato di mio padre a tirarmi fuori di prigione e lui me lo
rinfacciò così tanto che avrei preferito marcire in prigione piuttosto che
farmi pagare la cauzione da un uomo di mio padre.
“E ora” chiesi, esitante e preoccupato
“che succede ora?”
“Vorrei poterti dire che non
succederà nulla … il problema è che non lo so neanche io” rispose inerme ma
franco “sicuramente verranno avviate delle indagini, ma non le risparmieranno
il processo. Lo sai, qui è il …”
“… il Far West” completai io la
sua frase “lo so”. Non avevo idea del motivo che l’avesse spinta a quel gesto,
visto che proprio lei era quella che vedeva la casa circondariale come uno
spettro da evitare con tutta sé stessa. Volevo esserle vicina, volevo che sapesse
che le ero accanto, davvero, volevo che sapesse che non l’avevo abbandonata,
nonostante la mia fuga da stupida ragazzina adolescente che fugge anziché
affrontare le sue responsabilità. “Posso … posso vederla?”
“Non credo Tyler che te la
lasceranno incontrare …” rispose Les, titubante.
“Andiamo!” lo incalzai “sei o
non sei il migliore avvocato di tutta la costa Orientale?”
“No, non lo sono” negò lui,
ridendo, mentre lo scuotevo per le spalle. Ok, probabilmente la mia era stata
la sviolinata meno riuscita della storia, ma comunque Les restava un buon
avvocato, a New York era rispettato e questo doveva pur valere qualcosa. Quando
gli ribadii quello che pensavo di lui, lo vidi alzarsi, forse per orgoglio,
forse per autocompiacimento, sistemarsi il colletto della camicia e dirigersi
in un ufficio in fondo al corridoio.
Dieci minuti dopo, dopo una
serie di urla e parole un po’ pesanti da parte di un insospettabile Les, mi
trovavo in una stanza di quelle che fanno tanto poliziesco, con gli specchi
unidirezionali e le cimici a registrare ogni singolo respiro. Non era la
condizione idea per rivederla, ma per lei potevo sopportare anche che un
omaccione afroamericano mi rovistasse dappertutto per controllare che non
avessi nulla di potenzialmente pericoloso con me.
Quando me la condussero avrei
voluto stringerla forte e baciarla, ma ne convenni che non era il posto né la
circostanza migliore per lasciarsi andare a pubbliche dimostrazioni d’affetto.
Eppure, al contempo, non avrebbe potuto esserci opportunità migliore: se solo
non mi fossi comportato da emerito cretino l’ultima volta che c’eravamo visti. Ero
stato un cretino, e da cretino patentato mi stavo comportando: sì perché non
riuscivo a non essere fiero del mio comportamento; hai fatto bene, doveva sapere continuava a ripetermi la mia
coscienza. E se quella testa ciarlona non l’avesse finita l’avrei schiacciata,
come si fa con i grilli che parlano troppo.
Così lei mi salutò con un cenno
del capo e un piccolo gesto con la mano, nascosta quasi completamente nella
manica della maglia. Aveva paura: faceva sempre così quando era spaventata.
Eppure non si stava tirando indietro, affrontava il suo peggior nemico e lo
stava facendo con dignità.
Venne sedersi accanto a me,
poggiando le mani, quasi giunte, sul tavolo. D’istinto le presi tra le mie:
erano gelate; le portai verso la mia bocca e le baciai, sperando che non le
ritraesse, né che prendesse a male il mio gesto. Fortuna mia, non accadde né
l’una, né l’altra cosa.
“Perché?” le domandai, finalmente.
“Immaginavo che Diane e Les non
ti avrebbero tenuto all’oscuro per molto. Anzi … direi proprio che non hanno
saputo tenere la bocca chiusa nemmeno per un secondo” non capivo per quale
motivo evitasse di rispondere alla mia domanda, non riuscivo a trovarne uno che
fosse sensato. Pensai alla vergogna, alla paura, ma entrambe erano fasi che
avevamo superato da un pezzo? Se mi avesse detto che non era una faccenda che
mi riguardava più mi avrebbe fatto incazzare ancora di più di quanto non mi era
accaduto solo pochi giorni prima, perché mi ero fatto spaccare la faccia per
lei, e non mi andava a genio l’idea di farmi illividire per niente.
“Spiegami perché” pressai,
pregando che non si risentisse della mia insistenza.
“Detenzione di documenti falsi
è l’accusa al momento” rispose “prostituzione, spaccio di droga e furto
dovranno essere accertate. Ma sono tutte imputazioni di cui mi sono
personalmente accusata davanti al mio avvocato. Appena finiranno con
l’interrogatorio mi trasferiranno al piano di sopra …”
Sapevo bene cosa c’era un paio
sopra a dove ci trovavamo noi: avevo già dormito un paio di notti in gattabuia
ed ero sempre stato attento a non farmi scarcerare prima della colazione: è
gratis ed è dannatamente buona. Ma lei no, non volevo che ci entrasse nemmeno
per un secondo.
“Les dice che non ci passerei
più di un paio d’ore, tempo di sbrigare tutte le prassi burocratiche … uscirei
con la cauzione. E poi, certo, ci sarà il processo”
“E cos’altro dice Les?!”
sputai, sarcastico “lo dice che non hai idea del pasticcio in cui ti sei
cacciata? Che la giustizia americana è un Far West dove è meglio non immischiarsi
perché solo chi è forte vince?”
“Io sono forte Tyler … posso
farcela. Non ho paura di entrare in una cella … ho vissuto anni in gabbia!” rispose
lei, con altrettanto fermezza. Tuttavia non era una questione di carattere,
piuttosto una questione di potere. Era fortunata a non avere un avvocato di
ufficio, sottopagato e spremuto fino all’osso dallo Stato, ma il suo processo
non sarebbe stato sulle prime pagine dei giornali come Lindsay Lohan e nessuno
le avrebbe ridotto la pena solo per aver letto il suo cognome. Non volli
insistere oltre: Les le aveva tenuto nascosta quella parte e non stava a me darle
queste cattive notizie; inoltre, da ragazza intelligente qual era, dubitavo
fortemente che non sapesse già quello che, per proteggerci entrambi, aveva
sicuramente finto di non capire.
“Va bene” dissi, cercando di
reprimere la rabbia che mi saliva a vederla così calma “però mi devi dire
perché diamine l’hai fatto. Perché sei venuta dalla polizia?”
La vidi abbassare il capo e
nascondermi i suoi bellissimi occhi, cosa che mi innervosiva sempre perché
voleva dire che non aveva fiducia in me o per qualche ragione si vergognava e
mi temeva. Ma come, avrebbe dovuto saperlo, non dovevano esserci barriere:
erano cadute nello stesso istante in cui mi aveva fatto entrare nella sua vita.
“Io” tentennò “l’ho fatto
perché avevo bisogno di dire addio a Mallory una volta per tutte. Non bastava
far sparire dei documenti falsi o darsi una ripulita per iniziare una nuova
vita”
“Una nuova vita?” chiesi
spiegazioni, ma avevo paura che la sua risposta potesse farmi male. Ma dovevo
saperlo subito, se aveva intenzione di dirmi addio
“Tu avevi ragione … io ho
semplicemente fatto finta di non vedere quello che per tutti era alla luce del
sole” esordì, sorridendo sommessamente, quella vaga aura malinconica che sempre
la circondava.
“A cosa ti riferisci?”
domandai. “A noi” rispose lei, questa volta lasciando che i suoi grandi occhi
verdi arrivassero dritti ai miei, per rimbalzare verso il mio cuore e farlo in
mille pezze.
Avevo sentito bene?! Aveva
detto proprio NOI, quella parola magica che da tempo sognavo di sentire. Quindi
credeva come me che quel noi esisteva, ma si era ostinata a non voler vedere.
“Io lo sai, non ne capisco
molto di sentimenti” riprese, stringendo lei questa volta lei miei mani “però
io … io ho c’ho pensato a lungo in questi giorni e so già che sarà un casino …
ma voglio provarci”
Sapevo che non avrebbe mai
usato le parole che avrei potuto usare io, capivo la difficoltà e l’impaccio
nell’esprimere sentimenti che fondamentalmente non conosceva. Però sentivo
anche tutto lo sforzo che ci stava mettendo e sentivo forte il battito del suo
cuore, il calore e l’emozione che quella dichiarazione un po’ sbadata le
stavano procurando. Era tutto passato, dimenticato; non c’era rancore o sdegno:
c’era solo tutto l’amore che ero pronto a darle e che lei, finalmente, si
sentiva pronta a ricevere.
“Non è mai facile Allie … ma
quando si è in due tutto è più facile” sapevo che non dovevo usare paroloni che
l’avrebbero spaventata, era meglio sottintendere. Doveva essere tutto facile, dovevamo
rimanere Allison e Tyler di sempre, quelli che andavano in giro per New York a
divertirsi o rimanevano in casa a coccolarsi: perché eravamo già una coppia,
l’eravamo sempre stati agli occhi degli altri. Solo che, ora, l’avremmo saputo
anche noi.
Sciolsi la presa delle nostre
mani e le accarezzai una guancia, sorridente. Mi sentivo un idiota, ma non me
ne fregava nulla. Ero felice e, anche se non ero esattamente sotto la Tour
Eiffel, avrei voluto gridarlo al mondo. Ma la cosa più straordinaria di tutti
era quella meraviglia che avevo davanti agli occhi, quella porcellana che con
la mia carezza stavo sfiorando: era felice quanto me, e non aveva paura di
mostrarlo; forse per la prima volta da quando la conoscevo, si occupava davvero
di sé stessa. Stava mettendo da parte gli scrupoli e si stava concedendo il mio
affetto senza scrupoli, senza più porsi le domande o preoccuparsi di trovare un
modo per sdebitarsi.
“Devo chiederti scusa per come
mi sono comportato con te ad Indianapolis” le confessai “eravamo entrambi
nervosi e come al mio solito ho finito per peggiorare la situazione. Avevo
troppa paura di perderti …”
“ed invece è stata proprio la
tua sfuriata ha farmi aprire gli occhi … forse lo sapevo già … ma è stato
quando sono rimasta sola che ho capito che la mia vita è qui, con te”
Ero un uomo, ma avrei voluto
piangere; avrei voluto prenderla, baciarla, abbracciarla, magari anche portarla
davanti ad un prete e sposarla in quel momento. Mi voleva … mi voleva davvero.
Non era possibile eppure era vita vera e non un sogno malefico venuto a torturarmi
per lasciarmi con l’amaro in bocca una volta sveglio. E se è un sogno vi prego … lasciate che io muoia ora così questo sarà
il mio ultimo ricordo.
Mi avvicinai a lei quel poco
che bastava per sfiorare le sue labbra. Non volevo la passione, ma solo
sfiorare le sue labbra, sentire il suo sapore ed il suo profumo invadere i miei
sensi in maniera gentile ed innocente, come lei sapeva fare; ma mi fermò,
premendo l’indice contro la mia bocca. “Non qui … non ora” parlò sottovoce, tuttavia
emozionata ed imbarazzata, accennando a qualcuno che era oltre la mia spalla.
Un paio di poliziotti in
borghese, le facce impenetrabili e serie, facevano le belle statuine
all’ingresso della stanza e sperai che fossero lì da poco.
“È ora di andare ragazzo” mi
disse uno di loro, avvicinandomi e prendendomi per il braccio.
Le lasciai una lieve carezza
sulla guancia e per entrambi era stato come bruciarsi.
“Sono qui fuori ad aspettarti”
le sussurrai. Lei annuì, sicura che fosse la verità.
Nel corridoio incontrai Les,
che aspettava di riprendere l’interrogatorio con un plico sempre più grande di
carte e libri da studiare e a cui ricorrere.
“Come l’hai trovata?” mi
chiese, notando evidentemente che, rispetto a quando era entrato, ero
decisamente più rilassato. “Bene” risposi “è serena e ha fiducia in te. Non
deluderla”
“Faccio del mio meglio lo sai”
replicò lui “ma devo pensare anche a tutta un’altra serie di cose ora. Se, come
penso io, partiranno le indagini, anche noi verremo coinvolti … niente di cui
preoccuparsi, ma vorranno almeno sentire quello che abbiamo da dire”
“Certo certo” annuii. E ne
avrei avute di cose da dire io; se fosse servito a farmi vedere in faccia quel
pappone che aveva ridotto Allison ad una schiava, se fosse servito a sbatterlo
in galera e a buttare via la chiave, avrei parlato davvero molto volentieri.
“Un’altra cosa Tyler …” riprese
Les “dovresti avvisare i genitori di Allison. La polizia li avrà già avvertiti
visto che era stata fatta una denuncia di scomparsa, ma ho bisogno che li
tranquillizzi. Allison non vuole vederli …”
Annuii e lo lasciai rientrare
negli uffici dove si stava tendendo l’interrogatorio. Ero ancora troppo
euforico per pensare a trovare un panino da mettere sotto i denti per il pranzo
e non avevo oltretutto la minima intenzione di abbandonare l’edificio. Una
promessa è una promessa e va mantenuta.
Prima di tutto avrei dovuto
chiamare i Riley e non sapevo cosa aspettarmi: Les aveva detto che Allison non
voleva vederli e questo, oltre ad rattristare, mi metteva il dubbio che lei non
li avesse incontrati, nonostante avessi organizzato un incontro fortuito con
suo padre il giorno del suo compleanno; oppure lui non si era fatto avanti, ma
questa era un’ipotesi che mi sentivo di poter scartare.
Ma il mio corpo sembrava
essersi calmato e riavviato alla grande dopo l’incontro con Allison e nel giro
di dieci minuti i crampi allo stomaco mi stavano corrodendo e implorando di
buttare giù qualcosa. Mi sembrava di ricordare, a memoria visiva, di un bar a
pian terreno, ed infatti fu lì che andai; eravamo io ed un centinaio di altre
persone ad intasarlo: per prendere un hamburger e una Coca Cola impiegai 20
minuti sani, tanto che mi sembrava di essere nella mia libreria nei giorni di
punta: avrei provato il trucchetto degli occhi dolci, se solo al bancone non ci
fossero solo uomini. Mangiato al volo me ne andai a fumare una sigaretta fuori
dall’edificio, in mezzo al passeggio continuo dei marciapiedi di New York:
avevo voglia di caffè, ma per oggi ne avevo presi già troppi. Tra un tiro e
l’altro tirai il naso in su, tra i grattacieli il sole era al suo zenit e si
scorgeva; era una strana giornata d’inverno: non era fredda e umida, come al
solito, ma calda e secca, quasi primaverile. Ma non per questo provai a
togliermi il giaccone.
Presi il telefono e trovai di
getto il numero di casa Riley sulla mia rubrica, dove Allison aveva voluto che
lo salvassi: previdente come al solito.
Non passarono che due squilli
da quando avevo avviato la chiamata.
“Pronto?” rispose all’altro
capo Doug. La sua voce era esattamente quella di colui che è in attesa di
notizie gravi e sviluppi e non era certo mia intenzione tenerlo sulle spine.
“Doug?! Salve Doug sono Tyler
…” “Oh Tyler, benedetto ragazzo!” sentii esclamare, ma stavolta a parlare era
Lois, la mamma di Allison, leggermente in lontananza. “Signora Riley?!” chiesi,
titubante, a causa di una conversazione non particolarmente limpida. “Tyler non
preoccuparti … sei in vivavoce” esclamò Doug, leggermente rilassato a sentire
una voce amica “dimmi tutto”
Non sapevo fino a che punto
spingermi, avevo paura di sbagliare come e peggio di prima. Rischiare di
perdere Allison una volta avrebbe potuto essere umano, ma perderla due … era
decisamente diabolico.
“Non preoccupatevi” cercai di
minimizzare, diplomatico “la situazione è in mano al marito di mia madre, Leslie
Hirsch. È un ottimo
avvocato, dovete davvero stare tranquilli …”
“Tyler ma di cosa è accusata?” chiese Lois, in
apprensione. “Signora … davvero glielo devo dire?!” chiesi, sperando di non
risultare troppo cinico “e comunque è stata lei a presentarsi dalla polizia. Ha
denunciato le sue vecchie … compagnie … ma per farlo ha dovuto dare loro i suoi
vecchi documenti e spiegare la sua posizione. La faremo uscire pagando la
cauzione, ma Les è fiducioso che il giudice capirà la posizione di Allison e
lei ne uscirà pulita”
Forse mi ero spinto troppo oltre, raccontando
loro una versione del futuro a cui non credevo, ma sapevo quanto Les avesse
sofferto e non meritava altro dolore. E per quando si fosse comportata da
stronza, neanche Lois lo meritava.
“Bene” commentò Doug, ma era così ermetica la sua
voce che non capii se si trattava di soddisfazione vera o fosse una mera
constatazione: optai per la seconda. “Noi verremo a New York in ogni caso”
dichiarò “… tempo di trovare un volo. Domani sera al più tardi saremo lì”
“No Doug!” lo fermai “non è il caso davvero! La
situazione è sotto controllo e già questa sera Allison sarà a casa” … con me, aggiunsi, ma lo solo le mie
labbra se ne accorsero.
“Tyler è nostra figlia!” ribatté Lois “non puoi
impedirci di vederla”
“Io no” ne convenni “ma lei sì. È maggiorenne
ormai … Doug, avrei bisogno di parlarti privatamente per favore”
Non era per cattiveria, ma c’erano cose che Lois
non sapeva e non stava a me parlargliene. Ne sarebbe venuta a parte solo quando
e se sua figlia avesse voluto. Io avevo sbagliato una volta, non mi sarei
fregato con le mie stesse mani di nuovo.
“Dimmi
Tyler” disse Doug e mi accorsi immediatamente che eravamo rimasti solo io e lui
nella conversazione, sentendolo decisamente più vicino. “Cos’è successo?
Allison dice che non vuole vedervi. Io non le ho chiesto nulla, ma Les dice …”
“È
colpa mia” mi interruppe “non ce l’ho fatta a nascondere la verità a mia
moglie. Le ho detto che era in città ed andata da lei …”
E
così non era riuscito a mantenere il silenzio; purtroppo, era una cosa che
avrei dovuto aspettarmi. A vederli insieme, Doug e Lois, era palpabile quando
fosse solida la loro unione, ma soprattutto la loro fedeltà e fiducia l’un
l’altro, nonostante le prove che avevano dovuto affrontare. Potevo solo
immaginare la reazione di Allison a trovarsi sua madre di fronte, l’ultima
persona che lei avrebbe voluto trovarsi davanti.
“Ora
non mi stupisce che non ci voglia vedere … si è sentita tradita” constatò lui,
demoralizzato “l’ho accompagnata alla fermata degli autobus per ripartire, ma
ci siamo scambiati poche parole. Parlale Tyler, ho paura che non voglia più
vedermi …”
Doveva
essere una paura ricorrente quella, c’ero passato anch’io e sapevo cosa si
provasse. “Proverò” mi impegnai “ma non garantisco”
Ci
salutammo cordialmente e cercai di tranquillizzarli di nuovo entrambi. Lasciai
loro anche il recapito telefonico di Les, volendo accollarsi l’onere della
cauzione. Anche se non erano in buoni rapporti, anche se ricucire quel legame
sembrava difficile, sembravano intenzionati a far funzionare le cose. C’era da
fidarsi di loro, o almeno di Doug: conoscevo quel genere d’impegno e
determinazione, perché era lo stesso che mi aveva portato ad averla vinta
proprio con Allison.
Passai
il resto della giornata nella sala d’aspetto della centrale, tra gli sguardi
sospetti degli agenti e squallide riviste comprate nel giornalaio in fondo alla
strada in tutta fretta, per evitare di non essere presente quando Allison fosse
stata rilasciata. Di tanto in tanto andavo a rompere le scatole negli uffici a
chiedere informazioni, ma venivo molto poco educatamente rimandato a sedere e
ad aspettare, perché quel genere di cose non ha un tempo stabilito e non
possono parlarne con il primo che capita. Il tempo passava, più di quanto io
stesso avevo stimato e fui costretto a chiedere ad Aidan di fare gli
straordinari in libreria per sostituirmi; ce l’avevo ancora con lui e lui con
me, ma non era riuscito a dirmi di no: “Spero per te che ne valga la pena”
aggiunse, quando gli spiegai perché stavo passando la giornata in una centrale
di polizia.
Quando
vidi Les uscire dall’ascensore erano ormai le sette di sera, e non mi ero
nemmeno accorto che erano state accese le luci nell’edificio. Nell’androne
eravamo rimasti in pochi, qualche barbone rifugiatosi lì per la notte e gente
in fila per denunce o documenti.
Gli
andai incontro mentre si preparava ad uscire, infilandosi giaccone e sciarpa.
Sembrava soddisfatto ed io tirai un deciso sospiro di sollievo, anche se non
potevo esserne ancora certo.
“Allora?!”
domandai e dal tono che mi uscì dovetti risultare più in apprensione di quanto
non fossi realmente, a giudicare dall’espressione scettica di Les.
“Come?!”
chiese lui a sua volta, sarcastico e divertito, ricordando le mie lusinghe di
quella mattina “non mi avevi definito il miglior avvocato della East Coast?! E
questa è tutta la fiducia che riponevi in me … complimenti!”. Ridemmo entrambi
e lui mi mise un braccio attorno alle spalle, dandomi un grosso scossone, notando
sicuramente quanto quell’intera situazione mi aveva coinvolto e provato. “È
andato tutto come previsto” continuò “Allison sta prendendo le sue cose e
scenderà a breve. Io me ne torno a casa, è stata una lunga giornata …”
“Grazie
… grazie mille Les” esclamai, abbracciandolo davvero di cuore. Ma lui si
stacco, lasciandomi delle pacche sulle spalle confortanti e annuendo
leggermente con la testa: era sempre stato un gran chiacchierone e uno che non
ha peli sulla lingua, a riprova del fatto che la sua professione calzasse a
pennello con la sua personalità, e vederlo lì in silenzio, quasi commosso dalla
mia espansività nei suoi confronti, mi disorientava. Di figli non ne aveva
avuti, né con mia madre, né dal suo primo matrimonio, finito male, con un’oca acida
che, se non fosse stato per sue le ottime conoscenze nel foro di New York,
aveva tutte le intenzioni di ridurlo sul lastrico. Ed ora si occupava in
maniera egregia della piccola Caroline e negli ultimi tempi anche di me; era un
ottimo padre putativo, cosa che non era riuscita affatto al nostro padre
naturale, colui che vi aveva dato il nome. Mi sarebbe piaciuto che fosse stato
lui lì con me, che lui si fosse fatto in quattro per Allison, che lui mi avesse
dato quelle pacche sulle spalle. Ma nella vita non si può avere tutto, e se
questo era il meglio che potevo avere, lo prendevo con molta gratitudine. Les
si allontanò, ma prima di uscire mi salutò un’ultima volta: “Immagino che non
dobbiamo aspettarci un rientro di Allison a casa prima di domattina, giusto?”
soundtrack2
Risi,
un po’ timidamente e mentre lui se ne andava mi voltai, accorgendomi che gli
ascensori si stavano aprendo di nuovo. Allison era finalmente davanti a me.
Dentro quella stanza, prima di pranzo, avrei voluto prenderla, abbracciarla e
baciarla. “non qui … non ora” disse lei; ma ora sì che avrei potuto, e anche se
il luogo non era esattamente il più romantico e appropriato che conoscessi,
sentivo che potevo farlo. Avrei baciato Allison; ero emozionato come una
adolescente al suo primo bacio, anche se quello non era certo il primo bacio
che avrei dato ad Allison. Ma la mia ragazza, per lei sì che era il primo
bacio.
Fu
lei però a sorprendermi e a venirmi incontro, lasciando che sue braccia si
ancorassero alle mie spalle e le mani si arpionassero tra i miei capelli.
Nascose la testa nel mio collo ed io la tirai su. Non piangeva, non rideva e
non ero nemmeno sicuro che stesse respirando. Stavamo lì, fermi, a bearci l’uno
della stretta dell’altro. Il suo profumo al ridosso del mio corpo mi era
mancato immensamente e quell’aroma di latte di mandorle era ormai il mio
calmante naturale; mentre con una mano le cingevo la vita, con l’altra le
accarezzavo i capelli lisci e setosi.
“Sei
qui!” disse lei quando ci staccammo, quasi incredula ma felice di avermi trovato.
“Sono qui!” confermai ed i suoi occhi si fecero lucidi, le labbra si
contrassero, come quando si vogliono reprimere a forza le lacrime. Eppure era
raggiante. “Sei qui!” ripeté, la voce rotta. “Non piangere” sussurrai, stringendole
il volto tra le mie mani e posandole un bacio sulla fronte “dove pensavi che
fossi … te l’avevo promesso”
Così
come lei era rimasta interdetta dall’avermi trovato lì ad aspettarla, così io
ero ancora sconcertato dall’idea che la mia piccola eroina aveva deciso di dire
addio al suo passato nel modo più terribile, e lo aveva fatto per noi, perché
potessimo stare insieme senza ombre e senza paure.
La
vidi ricacciare in dentro le lacrime, obbligandosi a sorridere anche se aveva
voglia di piangere tutte le lacrime di questo mondo. Mi diceva sempre che le
lacrime non erano fatte per la felicità e si stava impegnando per far sì che
fosse così.
“Ora
me lo puoi chiedere” disse, posando le sue mani sul mio torace; dapprima non
capii e non ci fu bisogno di chiedere, perché lei comprese il mio
disorientamento. Dovevo avere una faccia che era tutta un programma … “quello
che mi hai chiesto ad Indianapolis” chiarì “chiedimelo di nuovo”
Non
aspettavo altro e non ebbi paura. Perché sapevo bene quale fosse la risposta e
non c’era nemmeno bisogno di chiederglielo. Lasciai scorrere le mie mani dal
suo volto al collo, intrecciando le mie dita con l’attaccatura dei suoi capelli
alla nuca, l’attirai a me e l’ultima cosa che vidi prima di chiudere gli occhi
fu il suo sorriso. Le nostre labbra si incontrarono di nuovo dopo quello che mi
sembrava un periodo lunghissimo, una vita intera. Si salutarono prima
timidamente, poi sempre più spavalde, come chi ha atteso e palpitato perché
quell’incontro avvenisse. Tutto quello che avevamo passato fino a quel momento
era in quel bacio, la fatica di capirsi e aprirsi all’altro, la facilità di
stare insieme e divertirsi insieme. I sorridi, le lacrime e anche e soprattutto
i litigi. Eravamo cambiati molto, entrambi, ma non eravamo mai stati così tanto
noi stessi per l’altro. Sentii le sue mani finire di nuovo nei miei capelli,
afferrandoli, tirandoli eppure quello che i nostri corpi frementi parlavano era
un idioma diverso da quello delle nostre bocche; mentre le nostre mani ci
avrebbero strappato già i vestiti di dosso, le labbra assaporavano quel momento
fino in fondo, fino all’ultimo: un filmato a rallentatore che apprezzava ogni
singolo fotogramma.
Dovemmo
staccarci controvoglia, ricordandoci che quella era una stazione di polizia e
nessuno dei due aveva intenzione di finire dentro per disturbo alla pubblica
decenza. Non c’era niente di male a baciarsi, ma i poliziotti non sono persone
particolarmente sensibili …
La
presi per mano, intrecciando le nostre dita ed andammo via: fino a quel momento
ogni volta che lo avevo fatto avevo dovuto ricordarmi che non era per lei
quello che valeva per me. Ora invece no, quello che aveva un significato per
me, lo aveva anche per lei: era una sensazione di alleggerimento mai provata
prima. Non avrei dovuto più pesare le mie parole e i miei gesti e, anche se non
sarebbe stato facile, era certamente una passeggiata rispetto alla situazione
precedente, quando eravamo in bilico tra amicizia e amore.
“Ciao
Aidan” salutammo il mio inquilino, appena rientrati in casa. Più entrare civilmente,
sembrava più che altro che avevamo sfondato la porta, battendovi contro,
impegnati a baciarci mentre aprivamo la serratura.
“State bene voi due?” domandò Aidan, uscendo dal cucinotto con in mano un
sandwich. “Sì” rispondemmo all’unisono, ma lui ci guardò perplesso.
Effettivamente, tra le risate e gridolini dovevamo dare l’idea di essere
ubriachi; ma era proprio così che mi sentivo, ero assolutamente strafatto di
Allison, del suo profumo, del suo sapore, del suo sorriso, dei suoi occhi.
“Aidan” esordii, con aria solenne “ti presento Allison, la mia ragazza!” “Ciao
Aidan!” mi fece eco lei, altrettanto euforica. Andai in cucina a prendere due
birre e lei prese il telefono per chiamare per ordinare delle pizze.
“Ma
tu non eri in galera?” le chiese Aidan, facendosi serio. “Strumento
meraviglioso la cauzione, non trovi?” rispose lei, non riuscendo a rimanere
seria. Avvicinandomi, le porsi la mia bottiglia e lei mi tirò a sé per la
maglia per darmi un bacio, così mi buttai sul divano anch’io e mi curai poco di
Aidan, rimasto lì a reggere il moccolo. Neanche nei miei sogni migliori era
stata così espansiva, ma immaginavo fosse solo la carica del momento e che
passate le prime ore, ci sarebbe passata ad entrambe. Almeno lo speravo,
altrimenti Aidan sarebbe stato costretto a trovarsi un altro appartamento.
“Ho
capito …” decretò il mio coinquilino e staccandomi controvoglia da Allison lo
vidi imbacuccarsi per uscire “è meglio se per stasera mi trovo un altro posto
per dormire”
NOTE FINALI
Ok,
lo so già che mi ammazzerete ora perché come finale
è orrendo e c'era una cosa che volevate leggere ... vi
conosco ormai porcelle XDXDXD
Comunque, questo è quanto. Finalmente! Allelujia!! Samba!!!
Lo so, lo so ... ce ne abbiamo messo di tempo ma alla fine ce l'abbiamo
fatta. Spero che non sia stato tutto troppo frettoloso, ma ho veramente
avuto tanta difficoltà a scrivere questo capitolo e se provavo a
dividerlo in due mi risultava vuoto.
Spero che vogliate farmi sapere cosa ne pensate perché è
davvero fondamentale per me. Parlo soprattutto con voi...lettrici
silenziose ù.ù
Vi rinnovo l'invito a passare sia sulla pagina di Facebook che su Twitter
Ora mi prendo una pausa di un mesetto (forse anche più) e vi
saluto chiarendo che la storia non è assolutamente finita, anzi.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 26 *** I .... You ***
When you crash in the clouds - capitolo 25
ATTENZIONE: questo capitolo potrebbe contenere parti adatte solo
a lettrici adulte. Per consentire a tutte la lettura ho deciso di non
cambiare il rating della storia da ARANCIONE a ROSSO. Confido nella vostra grande maturità.
Capitolo 25
I
…. You
"I stroke her lightly, memorizing her body.
I want her to melt into me, like butter on toast.
I want to absorb her and walk around for the rest of my days with her encased in my skin.
I want.
I lie motionless, savoring the feeling of her body against mine.
I'm afraid to breathe in case I break the spell."
(Water for Elephants )
Rimasti
da soli, nel silenzio di quelle quattro mura ed il ronzio della città che
veniva da fuori, sembrava di essere in un universo parallelo. Non avrebbe
dovuto esserci, eppure sentivo dell’imbarazzo a ritrovarsi soli, da parte di
entrambi.
Per
sciogliere il ghiaccio mi staccai per un momento da lei, dal suo abbraccio e
dal suo sguardo e presi a bere la mia birra.
Non
era mia intenzione ubriacarmi, non c’era un secondo di quella lunga notte che
avessi intenzione di perdermi; dovevo distendere i nervi, e non conoscevo nulla
che assolvesse il compito meglio dell’alcool. A parte il sesso e le sigarette,
ma ogni cosa va fatta con ordine.
“Dici
che l’abbiamo spaventato?” chiese lei, spaparanzandosi sul divano, con i gomiti
e comodamente appoggiati sullo schienale. Sorrisi, ricordando la faccia di
Aidan quando ci aveva visti rientrare in casa come se fossimo i due
protagonisti della commedia romantica e schifosamente zuccherina di turno. Era
strano pensare che quella descrizione potesse valere anche per noi, che
c’eravamo mandati a fanculo reciprocamente tante di quelle volte che ormai
avevo perso il conto e che, se avessimo potuto, ci saremmo presi a pizze in
faccia.
Ora
sembravamo piuttosto la versione a due zampe di Lilli e il vagabondo, mancava
solo un piatto di spaghetti da condividere. Se mi fossi guardato dall’esterno,
probabilmente mi sarei fatto schifo da solo, ma ero in uno stato di tale
beatitudine con me stesso e con il mondo che se mi avessero svaligiato casa
sotto il naso non avrei reagito. Atteggiamento da checca, ne convengo, ma non
era una cosa che potessi controllare.
“Ti
va di mangiare?” domandai, visto che le pizze che avevano portato si stavano
freddando sul tavolino di fronte a noi; ma la vidi arricciare il naso: “nnn …
dopo”. “Allie … le pizze” il gran coglione che era ribatté, nel momento meno
opportuno. “Le riscaldiamo al forno …” borbottò lei contro le mie labbra, pragmatica
e al contempo smaniosa di arrivare al dunque della situazione. Mi ero fidanzato
con una ragazza perennemente ingrifata ed io stavo lì a proporle una cenetta
romantica. Cazzone!
Può
darsi che attraversassi una fase in cui ero leggermente effeminato, ma non
riuscivo a digerire l’idea di prenderla lì com’era e portarla in camera da
letto, oppure farlo lì sul pavimento, di punto in bianco.
Forse
perché mi piaceva pensare che fare l’amore con lei fosse sempre qualcosa di
speciale e meritasse di essere trattata con i guanti. Volevo prendere di lei
ogni cosa che aveva da offrirmi ed io ero pronto a donarle in cambio tutto me
stesso. Ma a modo mio.
Mi
avvicinai e le posai un bacio sulle labbra, e finalmente potei assaporarne ogni
istante, in silenzio, senza il chiasso dei miei dubbi, senza i sensi di colpa.
Le sue mani corsero rapidamente ai miei capelli e sentivo le sue dita giocare
con le ciocche, tirarle leggermente, aggrappandosi come fossero radici. Era
bello immaginare che ogni problema, da quel momento in poi, si sarebbe risolto in
quel modo, spegnendo ogni malumore dell’uno sulle labbra dell’altro. Ogni paura
svanita, ogni dubbio dissipato, il tempo riprese a scorrere lievemente insieme
ai nostri respiri, calmi e sicuri. Non poteva esserci nulla del resto di più
naturale, se non un ragazzo ed una ragazza che si stringono ed esprimono i
sentimenti con la parte migliore di sé. Non c’è niente di sbagliato, niente di
immorale o volgare, nel voler celebrare l’incontro di due anime con i corpi che
si cercano fino allo spasmo. Ero stato uno stupido a credere di poter rendere
tutto più bello e perfetto, cercando l’attenzione per il dettaglio,
pianificando ogni mossa; siamo animali, in fondo, è bene ogni tanto seguire i
propri sensi.
E
non c’era posto dove volessi essere, se non quello in cui l’olfatto, l’udito, il
gusto, la vista ed il tatto mi avevano condotto: tra le sue braccia, sulla sua
bocca, a contatto con la sua pelle, immerso nei suoi occhi; e presto dentro di
lei, di nuovo. Una seconda prima volta non viene concessa spesso: non avrei
perso neanche un singolo battito di ciglia.
Ci
eravamo tacitamente definiti amici di letto fino a qualche giorno prima, ma
alla fine avevamo condiviso le lenzuola solo in 3 occasioni. Tutto quel sesso
centellinato in fondo aveva contribuito a rendere ancor più speciale quel
momento perché tutto era visto con occhi diversi, ogni suono, ogni gesto, ogni
odore. Non era qualcosa di scontato che avevamo già fatto o che veniva da sé;
era l’ennesima scoperta dell’altro, il raggiungimento di nuovi limiti e di
nuove mete.
Non
conoscevo ancora precisamente quelle sue linee perfette, quelle sue forme
timide e leggere a cui mi ero sempre incastrato perfettamente, per quanto me le
sognassi la notte ,ed ero pronto a scommettere che lo stesso valesse per lei
,che agognava per un nostro contatto più profondo come l’ultimo desiderio di un
condannato a morte. Ma nessuna condanna all’orizzonte se non la splendida
esecuzione di un verdetto che ci aveva colpiti entrambi, destinati ad
appartenerci nonostante tutto, a dispetto della sua testa calda o della mia
reticenza a farmi avanti, nonostante le vite diverse o i traumi per le tragedie
vissute.
Misi
a dormire il grillo parlate che aveva chiacchierato un po’ troppo nella mia
testa, mi alzai e, abbandonate per qualche istante quelle labbra ormai rosse e
gonfie, le guance accaldate, mi ritrovai a spogliarmi di fronte a lei che mi
seguiva attenta, affamata di ben altra carne. C’era desiderio ma anche purezza
in quello sguardo ed era devastante sentirmi spogliare l’anima per mano dei
suoi soli occhi. Quando rimasi solo in boxer si alzò. Sapevo che avrebbe voluto
pensarci lei, così mi fermai e stetti ad aspettare, troppo dolorosamente per il
signorino del piano di sotto, compresso e soffocato dalla stoffa dell’intimo.
Ma
prima di venirmi incontro Allison fece una cosa che non avevo previsto e che fu
la mia morte definitiva. Rimanendo seduta e sempre con quegli smeraldi
infuocati incastonati nel volto intenti a squadrarmi ,si tolse in un sol colpo
la maglia di lana e la tshirt bianca che aveva addosso, rimanendo con
nient’altro che un paio di jeans attillati nel punto che più amavo di lei.
Dio
mio, cosa ho fatto di male per meritare una simile tortura? E cosa ho fatto di
tanto buono per meritare un simile
premio?
Sentivo
di volerla, non solo con tutti i muscoli del mio corpo, dal più sveglio in quel
momento al più inutile: era un bisogno cerebrale, un tarlo che, se non
soddisfatto, mi avrebbe portato all’autocombustione. E per l’attesa era tanto
più penosa e piacevole, quanto più ero mi rendevo conto di quanto meravigliosa
e promettente fosse quella notte.
“Tu
il reggiseno no, eh?” commentai, sarcastico, ma contento che quel suo vizietto
portasse con sé i migliori benefici.
Fece
spallucce e finalmente si alzo, avvicinandosi. Mi avvolse con le braccia il
collo, provocante come la più ruffiana delle gattine.
Poteva
aver rinunciato alla sua vecchia vita, rendendomi l’uomo più felice del mondo,
poteva aver riconquistato l’adolescenza buttata alle ortiche, ma non poteva
dire addio alla geisha che era in lei, a quelle abilità e quelle movenze ormai
acquisite, di cui il suo corpo era ormai pregno. Non le avrei detto di
smettere, ora che quella sensualità ormai ingentilita era tutta per me, perché
non c’era dolore più gradito, non c’era piacere più grande che avrei chiesto,
se non quello donatomi da lei.
Io
non resistevo più e vedevo che per lei era lo stesso: mi abbassò il viso con le
sue mani per baciarmi, prima le labbra, poi più intraprendenti, le nostre lingue
si incontrarono senza che nessuno diede loro ordine alcuno.
Poi,
l’unica cosa che ho in mente è l’immagine del suo seno nudo che sfiora
pericolosamente il mio petto e le sue mani che giocano con l’elastico dei boxer,
un attimo prima che la stoffa sparisca, sostituita dalla morsa di sollievo e
calore della sua mano. “Dio …” fui in grado di esalare, infine, in un estremo
lampo di lucidità, quando le mie labbra sono vicine alla pelle del suo collo,
calda e morbida. Forse perso nel mio paranirvana, egoista come solo un uomo
eccitato può essere, mi accorsi solo dopo un po’ che lei era ancora fasciata
dai suoi jeans, quando tentai scendere con le mie mani su quel monumento che
era il suo fondo schiena.
“Adesso
tocca a me però” le dissi, portandola ad allungarsi sul divano. Ringraziai
mentalmente, perché se non mi fossi imposto quella pausa, sarei miseramente
esploso prima del previsto. E non era quello il momento di ricoprirmi di
ridicolo davanti alla mia ragazza.
Le
sfilai via i jeans e lei tolse anche le mutandine, che io avevo lasciato. Erano
lontani i tempi in cui si vergognava di quel corpo umiliato e profanato da cani
e porci; ora era solo mia e sembrava felice e fiera di esserlo. Sapeva che
c’era rispetto nelle mie frasi sussurrate, c’era compostezza in ogni posa e si
fidava: non potevo esserne più felice, per lei e per me … per quel noi che
finalmente era reale.
Posai
un bacio leggero sul fianco, avvicinandomi verso l’ombelico; sapevo che avrebbe
riso, e adoravo sentire il suono della sua risata, il tintinnio leggero e
delizioso delle sue corde vocali. L’abbracciai in vita e poggiai il mio mento
sul suo ventre piatto, standola a guardare per un attimo: era bellissima, pure
accalorata e già un po’ sudata. Ma la cosa più bella erano i suoi occhi, lucidi
e vivi come non lo erano mai stati prima e per una volta mi sentii libero di
esserne orgoglioso, perché ero io la causa della sua estasi. La sua mano,
piccola e vellutata, tracciò una carezza lungo il mio volto guardandomi con
quello sguardo pacato e timido che amavo. Non c’era nulla di più puro, nulla
che mi facesse rinascere quanto quella dolcezza che veniva a posarsi su di me.
“Vieni
qui” sussurrò e mi gettai su di lei, sulle sue labbra ed entrambi lasciammo
alle nostre mani il compito di esplorarci ancora e darci sollievo. Sarà stata
anche una notte fredda fuori, ma per noi era una notte di mezza estate, umida
ed afosa, buona solo per guardare le stelle ed esprimere i propri desideri.
E
non c’era niente ormai che potessi chiedere, perché lei mi aveva dato tutto e
non volevo indietro me stesso: ero suo e stavo da dio.
Ma
come se non fosse già abbastanza la vidi staccarsi da me e scendere verso il
basso, posando una scia di baci roventi lungo il suo tragitto; sapevo qual era
la sua meta e un arsenale di fuochi d’artificio esplose in me: il corpo era
pronto ad accogliere le sue attenzioni e anzi le bramava, ma la mente aveva
tirato il freno a mano e invocato il may day. I flash di quella notte in cui mi
ridussi la faccia ad una poltiglia per lei erano ancora troppo vividi per
tollerare che lei si inginocchiasse davanti a me, non come la donna che amavo
ma come l’amante di una notte. Non a caso le avevo promesso che le avrei
insegnato l’amore e non il sesso, non potevo lasciarla spingersi tanto oltre.
Con
le ultime riserve di razionalità la spinsi via, delicatamente, senza che
potesse fraintendere alcunché di male e la attirai a me, con la scusa di un
bacio, tirandomi a sedere con lei. “Lo sai che non devi …” le dissi, la voce
troppo roca per essere autoritaria, alludendo a ciò che stava per farmi. “Ma
io…” riprese lei, ma la fermai, portandole un dito sulle labbra. “Non voglio che
… ti senta obbligo di fare qualcosa solo perché la faccio io” spiegai, al
meglio che potevo; pensavo infatti che si sentisse in dovere solo perché io le
avevo spesso riservato quel tipo di trattamento. Ma non doveva pensare che io
fossi quel genere di persona.
“Non
devo io” sussurrò sulle mie labbra, tornando ad accarezzarmi più in basso “o
non vuoi tu?! Perché io lo voglio … per la prima volta”
Bastarono
quelle poche parole ad aprirmi un mondo: il sesso è amore, e diventa volgare solo se lo si vuole rendere volgare.
Allie aveva fatto per tanto tempo quello che le era stato chiesto dietro
pagamento, piegandosi e umiliandosi davanti a perfetti estranei; ma io l’amavo
e lei amava me, non eravamo affatto estranei. La volevo e volevo tutto quello
che aveva da offrirmi, in un modo che incominciava davvero a far male, ma non
ci riuscivo. Lei sembrò leggermi nella mente perché si abbassò verso la punta e,
con un visino fintamente timido, prese in mano la mia erezione e, avvicinandola
alla sua bocca come fosse un microfono, disse sorridendo sorniona e provocante.
“Neanche un bacetto?”
Mi
lasciai cadere sul divano, ormai definitivamente abbattuto, ridendo come un
matto e coprendomi con le mani il volto, come un santarellino indignato e
scandalizzato. Come poteva esserci volgarità in quel viso da gattina,
impertinente e divertita. Cosa c’era di osceno in un due ragazzi che non si
trattengono dal ridere neanche mentre fanno l’amore?
“Solo
perché non ce la faccio più” mi giustificai, sostenuto, ed in parte era vero
che avevo i minuti contati “ma dopo mi concedi il secondo round …”
“Strano”
commentò “di norma avrei dovuto chiederlo io a te”
Ma
non le diedi più retta o sarei venuto solo a guardarla e, in un surreale
silenzio, persi completamene la trebisonda.
“Ecco
qui” disse Allison, entrando in camera da letto con un piatto colmo di pizza,
già tagliata a spicchi, i tovaglioli e una bottiglia di birra.
Non
capivo perché le donne amassero tanto indossare le maglie degli uomini dopo
aver fatto l’amore: Allison non era certo impegnata a sfatare questo mito ed io
non perdevo il mio tempo a contestare, la mia salivazione subiva impennate
storiche ogni volta che lei si aggirava per casa con una delle mie felpe,
facendo bella mostra delle lunghe gambe bianche e di quella libidine con i
fiocchi che si intravedono leggermente dal bordo della maglia.
“Grazie”
risposi, sporgendomi a rubarle un bacio, dolce e fugace, mentre veniva a
riscaldarsi sotto le coperte; in fondo era solo la fine di gennaio e le tracce
dell’ultima, copiosa, nevicata erano sparite da poco.
Non
c’era nulla di più bello – a parte il sesso – che stare con lei a chiacchierare
a letto, scherzando e coccolandosi, al buio della camera da letto. Lo avevamo
fatto la sera che ci eravamo conosciuti e le migliori tradizioni vanno
conservate rispettosamente.
“Ho
parlato con tuo padre oggi pomeriggio” le dissi, addentando un pezzo di pizza
bollente. Dopo la figuraccia rimediata ad Indianapolis ci tenevo a chiarire
immediatamente le mie intenzioni e le spiegai ampiamente perché l’avevo
chiamato e ciò di cui avevamo parlato, senza tralasciare alcun dettaglio. Lei
stette ad ascoltarmi, tranquilla e silenziosa. Quando ebbi finito, sorrise e,
prendendo un tovagliolo, mi pulì il bordo della bocca, evidentemente sporco di
pomodoro e mozzarella: “tu e mio padre siete simili per un certo verso …”
“cosa”
scherzai “ci sbrodoliamo mentre mangiamo”- Sorrise. “Per proteggere chi amate
siete disposti ad accollarvi ogni colpa”
Non
capii a cosa si riferisse, in un primo momento.
“Ha
detto a mia madre dove mi trovavo solo perché non c’era altro da fare” spiegò
“io sono stata tanto ingenua da chiamarlo al cellulare quando era in casa e
rispose lei al posto suo. È stato costretto a dirle tutto, non poteva fare
altrimenti. E poi lei si è presentata in albergo … a proposito, non ti ho
ringraziato per aver pagato il conto”. Scoccò un bacio proprio in
quell’angoletto della mia bocca che aveva appena pulito e si alzò per portare
via il piatto ormai vuoto, spazzolato per bene in meno di 5 minuti.
“Non
ce n’è bisogno” dissi, raggiungendola in cucina con il resto della spazzatura
che avevamo fatto. Era passata da un bel po’ la mezzanotte e faceva un freddo
cane nell’appartamento, così la convinsi a lasciar perdere le stoviglie e a
tornare sotto il piumone.
“Com’è
andata con tua madre?” domandai, mentre smadonnavo mentalmente per i suoi piedi
ghiacciati intrecciati alle mie gambe.
“È
diversa da come la ricordavo …” rispose. “E questo è un bene o un male?”
sondai. “Non lo so … era diversa, punto. Non so se la mia memoria si era creata
un ricordo sbagliato o se è cambiata e basta” spiegò “però a pensarci mi sento
uno schifo per come l’ho trattata, non l’ho lasciata nemmeno parlare e avevo
promesso a mio padre che avrei fatto un tentativo. Lei ci è andata piano e io l’ho
aggredita … al mio solito”
Era
sfiduciata, si sentiva, delusa per aver deluso suo padre, a cui doveva tenere
molto. “E Doug? Con lui come è andata?” decisi di cambiare argomento, mentre
lei colta da improvvisa inquietudine iniziò a muoversi agitata nel letto; così
l’attirai a me più di quanto non fosse già e presi a carezzarle la schiena con
una mano mentre l’altra, intrappolata tra le sue, era impegnata in uno strano
gioco ad intreccio. “Bene … con lui è andata molto bene” disse ed ero
felicissimo di sentirglielo dire; almeno il mio errore era valso a qualcosa. “Non
mi ero resa conto di quanto mi fosse mancato fino a quando l’ho visto lì
davanti a me, vivo e perfettamente in salute” confessò “ci siamo ritrovati
subito e abbiamo chiarito diverse cose … come il mio stare qui”
“Cosa
ti avevo detto?!” le dissi, rassicurante “ero sicuro che ce l’avresti fatta ad
importi …” “Sì avevi ragione … avevi ragione su tante cose… e poi” cercò di
continuare, ma la sentivo distante, rapita già da un primissimo torpore che
quelle coltri calde avevano favorito. Era stata una giornata lunga ed
estenuante, ci meritavamo entrambi un po’ di sano riposo, insieme.
“È
tardi amore … mi racconti meglio domani, abbiamo un sacco di tempo …”
“Ehm
no Tyler …” disse, come svegliata di soprassalto da un bombardamento. Posò la
sua mano sul mio petto, dove già si era prontamente sistemata a mo’ di cuscino “Ti
prego … non chiamarmi … è difficile …”
“Cosa?”
domandai perplesso “credevo che ora sarebbe stato tutto diverso … perdonami” “No,
no … non chiedere scusa” si affrettò a mettere in chiaro “è tutto diverso ora
ma … devi darmi un po’ di tempo per abituarmi. Io voglio stare con te, lo
voglio davvero … ma niente nomignoli, ti prego”
Come
al mio solito correvo troppo. Dovevo aspettarmi questa sua reazione spaventata
e forse per un verso era anche meglio così, perché se avesse tenuto tutto
dentro sarebbe stata una peggiore tortura per entrambi. Ma sentirla confidarsi
e chiarire era un segnale che le cose andavano bene e che c’era fiducia, onestà
e rispetto.
“Ok,
come vuoi … hai ragione. Ora dormi però … Allison”
Ci
sdraiammo di nuovo e quando chiusi gli occhi per lasciarmi andare al sonno un
paio di labbra carnose si posarono lievemente sulle mie.
“Grazie”
sussurrarono, credendomi ormai assopito “… ti amo”.
NOTE FINALI
Non ho granché da dire, ma immagino che capirete il motivo.
Mi premeva darvi questo capitolo più di ogni altra cosa. Spero vi sia piaciuto e spero che possa avere numerose recensioni...
Vi saluto e vi do appuntamento al 17 febbraio, data in cui festeggeremo il primo anniversario di questa storia.
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 27 *** I was broken...but it's over now ***
When you crash in the clouds - capitolo 26
Capitolo 26
I was broken ... but it's over now
soundtrack
Quando mi svegliai quella mattina, fu una sensazione strana ad accogliermi. Piacevole, ma strana.
Allison dormiva ancora,
sdraiata accanto a me, respirando profondamente e abbracciata al suo
cuscino, in posizione fetale. Sembrava un cucciolo in letargo e
sospettavo che non l’avrebbe buttata giù dal letto neanche un cannone:
era stata una lunga e stressante giornata quella che precedente, che ci
aveva scossi ed elettrizzati entrambi. Benché in un primo momento
l’euforia avesse preso il sopravvento, ero ben consapevole ancora di
quanto fosse accaduto in realtà e quanto ci aspettasse nei giorni che
sarebbero seguiti: a seguito la denuncia di Allison, ed il suo arresto,
la polizia avrebbe aperto un’indagine, ci sarebbero stati altri
interrogatori, deposizioni, tutte quelle cose che fanno tanto film
poliziesco. Era assurdo pensare che fosse quella l’unica soluzione che
Allison avesse per liberarsi definitivamente del suo passato.
Ma il pensiero di
qualcuno che avrebbe potuto minacciarla, farle del male o rivendicare
diritti assoluti su di lei, mi inorridiva: non avrei mai permesso che
le accadesse niente di male; avevo lottato fino a quel momento affinché
fosse al sicuro e non mi sarei certo fermato ora. Mosso da un
improvviso istinto di protezione l’abbracciai, avvolgendola
completamente, e posando un bacio quasi impercettibile dietro
l’orecchio, laddove era più sensibile. Ed il suo profumo mi invase e mi
accolse, proprio come se fosse l’odore di cucina che pervade le case
durante il pranzo della domenica: sapeva di famiglia, di benvenuto; era
stato sciocco pensare, quando credevo di non avere speranze, che avrei
mai saputo farne a meno.
Al suo risveglio e per il
resto della giornata i brutti pensieri erano ormai un’ombra lontana,
che tenevo ben alla larga pensando ad altro ma soprattutto pensando a
lei e alla soddisfazione immensa di aver raggiunto quel tanto agognato
traguardo. Aidan tornò a casa per cambiarsi e ci trovò più o meno come
ci aveva lasciati: lei seduta sulle mie gambe, al tavolo della cucina,
che beveva una tazza di caffè. Non disse molto, oltre ad alzare gli
occhi al cielo, finché lei era rimasta con noi. Ma sapevo che non mi
avrebbe risparmiato, quando lei non ci fosse stata.
“E così l’hai spuntata,
eh?” chiese, sulla strada per l’università. Avevamo lasciato Allie nel
vagone della metro, dal quale non sarebbe scesa prima di un’ altro paio
di fermate. Da casa mia a casa di mia madre c’era un bel po’ di strada,
ma non ti puoi lamentare se paghi 500$ d’affitto rispetto al doppio che
pagherei ad abitare in un quartiere più vicino al centro e più
raffinato.
Cercai comunque di non
dare a vedere ad Aidan quanto facevo fatica a lasciare andare Allison,
nonostante sapessi che l’avrei rivista a sera..
“Sì …” risposi, con una
punta di fierezza, forse eccessiva date le circostanze. È risaputo che
i maschi adorano vantarsi delle proprie conquiste, ma il nostro era un
caso ben diverso: quella con Allison non era una relazione a tempo
determinato, di quelle che quando le inizi sai già che finiranno; ci
siamo trovati quando tutto attorno a noi c’era buio e ci siamo
reciprocamente guidati fuori dalle nostre nebbie. Una volta fuori, era
stato naturale per entrambi, capire che il legame che ci univa era
qualcosa di più del mero istinto di sopravvivenza.
“Bene …” commentò,
impacciato “immagino che ora dovrò fare l’abitudine ad avere una nuova
coinquilina in giro per casa” Per lui non doveva essere facile vedermi
con Allie, anche se sentivo che ne era segretamente felice: eravamo
sempre stati solo noi due in quell’appartamento, al lavoro, a scuola,
che dividermi con un’altra persona sarebbe stata dura da digerire. Non
si preoccupava certo di mantenere un certo contegno dei modi –
conosceva troppo bene Allison per dar peso a certe cose, visto che lei
era il primo scaricatore di porto – ma conoscevo la sensazione
nauseante che si prova ad essere il reggi moccolo della situazione.
“Non più di quanto lei
non lo fosse già” lo rassicurai, dandogli una pacca sulla spalla. Forse
non sarebbe stato esattamente come gli stavo promettendo, ma mi sarei
impegnato affinché non si sentisse troppo a disagio.
Non feci in tempo a
mettere piede in università e a trovarmi un posto nell’aula perché mi
vibrasse il cellulare. Era Allison, mi avvisava che mia madre mi voleva
a cena per quella sera. Nient’altro. Né un mi manchi, né un bacio,
nulla. Mi rendevo conto che per lei era difficile lasciarsi andare e
quello che avevamo raggiunto fino ad allora erano passi da gigante,
rispetto a quando nemmeno riusciva a guardarmi in faccia per parlarmi,
ma un po’ incominciava a diventare pesante quel portare pazienza. Per
fortuna fu sufficiente ripensare a quanto dimostrasse di amarmi quando
eravamo insieme, oppure a quel ti amo sussurrato sulle mie labbra
quella stessa notte, quando era convinta che io fossi addormentato. E
ero ben sicuro che non fosse un sogno: doveva solo abituarsi,
comprendere che era una situazione normale e non c’era niente di male
ad essere affettuosi.
<<Ok>> le risposi <<… e cmq anche tu mi manchi ;-) >>
Lei forse non sapeva come
ci si comportava in una relazione, ed io non ero un maestro in
relazioni durature, ma qualcosa ne capivo e quindi risolsi di
insegnarle quel poco che ne sapevo.
Arrivati a sera mi
presentai a casa di mia madre con la carica di un bimbo che torna da
scuola con dei bei voti, con l’unica differenza che mia madre non
avrebbe mai ficcato il naso nel mio libretto universitario e tutto
quell’energia veniva in realtà dal fatto che finalmente non avrei
dovuto più fare recite davanti a mia madre e Les. Sapevano già cosa
provassi per Allison, l’avevano capito fin dall’inizio, forse pensavano
addirittura che tra noi ci fosse già qualcosa in corso – senza contare
che tecnicamente era la verità visto che andare a letto insieme è già
qualcosa – ma visto che non c’era nulla di ufficiale e di moralmente
accettabile da una persona adulta dovemmo mentire e tacere per un po’.
Naturalmente supponevo i fatti della vigilia di Natale fossero
diventati di pubblico dominio e continuare a fingere per la quiete di
Allison era diventato davvero difficile. Ora però niente più recite,
finalmente, e glielo dissi ben chiaro quando, a pranzo, le telefonai.
Non sembrava particolarmente entusiasta all’idea, ma se n’era fatta una
ragione e probabilmente già si aspettava da me una simile richiesta,
tanto che la sua risposta affermativa arrivò all’istante.
Feci per suonare il
campanello e sentii la voce di Allison avvicinarsi e avvertire mia
madre che sarebbe venuta lei ad aprire la porta.
“Ehi … ciao!” sussurrò,
portando dietro le orecchie una ciocca ribelle, con una dolce timidezza
che era sempre più visibile in lei e che stava soppiantando la sguaiata
e volgare Mallory dai trampoli volgari e le collant bucate.
“Diane è Tyler!” disse
lei a volume più alto, mentre io entravo. Ancora con il giaccone
addosso mi avvicinai a lei per abbracciarla e darle un bacio, che erano
oltre 10 che non ci vedevamo e mi era mancata da morire.
“No dai!” disse, quasi infastidita, ritraendosi dal mio abbraccio e scansandomi.
“Che c’è?!” domandai,
perplesso. “Non me la sento ... se ci vede tua madre? O Caroline …
pensa se ci vede Caroline?” domandò. Oh amore mio … ma come devo fare
con te?! Possibile che non riesci a fare nulla senza rimuginarci su
ogni volta!
“Ma chi vuoi che ci veda
scusa?” ribattei “e poi che ti frega?!”. Non volevo essere severo con
lei o esigere che si comportasse con nonchalance dal primo minuto, ma
mi sentivo in dovere di farle capire che non aveva bisogno di essere
così impacciata proprio in casa di mia madre, dove c’erano persone che
ormai erano la sua famiglia. La attirai a me con decisione e le cinsi
la vita, cercando e ottenendo che mi guardasse dritto negli occhi. Lei
sembrò essere ancora titubante, ma si lasciò plasmare a mio piacimento:
era una di quelle cose mi fecero capire che neanche lei riusciva a
starmi troppo lontana, come io non riuscivo a staccarmi da lei.
“Ehi!” mormorai,
scotendola un po’ da quel broncio che aveva ogni volta che le cose non
la convincevano “Prima di tutto … credi davvero che mia madre e Les non
sappiano nulla? Devo ricordarti della notte di Natale? Non dovrei dirlo
ma insomma … ieri sera Les non c’era per riportarti a casa, se n’è
andato quando mi ha visto ad aspettarti e ti risparmio il commento
sarcastico”. Con la battuta su Les riuscii a strapparle un sorriso,
seppure lieve e mi accorsi che le sue braccia, prima rigide e ferme
sulle mie come pronte a respingermi, ora erano finite dentro la mia
giacca, oltre la camicia, ad afferrare la mia maglietta all’altezza dei
fianchi. Pensai così che mancava poco a farla cedere, così sferrai
l’ultimo attacco.
“E Caroline non è mica così impressionabile sai …” continuai “si vede quanto poco la conosci”
“Sarà …” disse lei
annuendo, ancora poco convinta “… so che te lo avevo promesso, ma per
me è difficile … non so come spiegarlo …”
“Dimmi a parole tue …” la incoraggiai “lo sai che non devi tenermi nascosto nulla”
“Io … io … non so darmi
una misura” spiegò, sebbene non capissi cosa volesse intendere “voglio
dire … non voglio essere una di quelle oche appiccicose e che sbavano
in continuazione appresso al loro ragazzo, non voglio essere petulante
e asfissiante con te … ma nemmeno apatica e frigida, perché non mi
sento così. Ma non so cosa sia giusto. Quando siamo soli è tutto più
facile, naturale … ma con altri davanti è un problema … e non ho
intenzione di rimanere chiusa in camera da letto per il resto della mia
vita …
“Per quanto sarebbe una
bellissima prospettiva” scherzai ed anche lei si lasciò trascinare
dalla mia risata. Ora capivo quale fosse il problema. Certo non era
facile trovare un equilibrio tra la ragazza appiccicosa e quella
distaccata e non certo potevo dirle io come essere, perché non sarebbe
stata lei stessa ma solo ciò che io avrei voluto che fosse. Povero
cervello mio … a volte non mi seguo da solo per quanto corri veloce!
“Ciao Tyler!” una voce mi
salutò alle spalle di Allison. Era Caroline, scendeva le scale per
andare in cucina, ma sembrava proprio non curarsi di noi.
“Ciao maestro!” contraccambiai. “Cosa fai ancora con il giubbotto?” domandò.
“Ah sì … no, niente, lo
stavo levando …” dissi, ma lei era ormai già sparita dietro la porta va
e vieni della cucina. Mi resi conto solo in quel momento che io ed
Allison non ci eravamo minimamente staccati l’uno dall’altro e la
piccola, per fortuna, non aveva fatto una piega. Avevo detto ad Allison
che Caroline non era sensibile a certe cose, ma non ne ero poi tanto
sicuro; la cosa che più temevo non era la rabbia, visto che voleva bene
ad Allie, quanto piuttosto un’imbarazzante euforia.
“Visto!” le dissi, stringendole forte la mano. Che culo! pensai. “Vieni … ti mostro una cosa”
La portai con me nel
ripostiglio delle giacche, all’ingresso. Mentre io mi spogliavo lei
stava allo stipite ad aspettare, a braccia conserte, come se fosse in
attesa di qualcos’altro.
“Vieni qui” le dissi a
bassissima voce, disgustosamente roca – anche se alle sue orecchie
doveva suonare altamente sensuale visto che si accese letteralmente
come un cerino. La spinsi verso di me, quasi schiacciandola contro il
muro e fui fortunato che nell’impeto incontrollato non si fece male,
grazie alle giacche imbottite che fecero quasi da air bag. Prese a
ridacchiare in quel modo timido e decisamente poco innocente che aveva
lei, ormai perfettamente conscia del fatto che, anche solo con quella
risata, riusciva a far suonare la cavalleria ai piani inferiori.
Prima le stampai un bacio
sulle labbra, innocuo e anche fastidioso. “Questo” spiegai e la voce
uscì dalle mie corde vocali quasi spiritata, che mi misi paura da solo
“è un bacio a stampo”. “Non mi piace” confessò lei, stuzzicandomi
“anche in Via col vento fanno di meglio”
Allora fu lei a prendere
l’iniziativa; le sue mani risalirono dal mio collo fino al volto, e
sentii distintamente il sangue ribollirmi fin dentro le arterie più
interne. Si arpionò ai lobi delle mie orecchie e prese a giocarmi:
tanto bastava per annebbiarmi la vista. Nonostante tutto riuscii a
vedere come mi guardava, come riuscisse a farmi sentire nudo sotto il
suo sguardo indagatore e perennemente sbalordito, ed era una sensazione
meravigliosa. Mi sentivo suo e mi sentivo come un privilegiato; vederla
guardarmi come se fossi il suo miracolo mi riempiva i polmoni di aria
calda. Poso un bacio leggerò sulle mie labbra, ma era tutto fuorché
innocente. Rincarò la dose e sembrava quasi che avesse intenzione di
divorarmi le labbra. Ed ero ben felice di sottopormi a quel genere di
cannibalismo, nonché di sdebitarmi.
“Così va decisamente
meglio …” pronunciò, mentre per un secondo, le posavo un bacio sul
collo. “Solo che così non mi so fermare …” mi lagnai, ma sapevo di non
crederci più di tanto. Le sue mani erano finite in un nano secondo tra
i miei capelli e le mie erano già sulla linea di partenza per la
staffetta tra seno ed il sedere, visto che ritenevo un’ingiustizia
decretare un vincitore tra quelle due meraviglie, anche se dovetti
combattere un bel po’ con me stesso per rimanere al di sopra i vestiti.
In poco tempo, in quel piccolo stanzino l’aria divenne bollente e irrespirabile.
“Tyler! Allison!” arrivò
la chiamata di mia madre e fummo costretti a staccarci, a malincuore, e
a ricomporci, più facile a dirsi che a farsi. Ma non potevo presentarmi
a tavola con un cuscino tra le gambe a nascondere il pacco lievitato.
Così optai per levarmi la camicia e farle il nodo sui fianchi, sperando
che potesse bastare e che il signorino rientrasse nei ranghi al più
presto.
“Mi piace quella stanza”
disse Allison, ancora un po’ accaldata, mentre attraversavamo il
corridoio di ingresso “dovremmo starci più spesso”. “E non dimenticare
la lavanderia …” rincarai la dose. “Tu.sei.un.genio” affermò, mentre
entravamo in cucina, tenendoci per mano.
“Buonasera a tutti!”
salutai, visto che anche Les era lì. Per fortuna, altrimenti chi se le
sarebbe sentiti i che ti avevo detto di Allison, diedero tutti per
scontato il fatto che io ed Allison eravamo entrati nella stanza mano
nella mano e, visto che era impossibile che non l’avessero notato, non
potei far altro che apprezzare la loro discrezione ancora una volta.
“Che fine avevate fatto?”
chiese mia madre “sei arrivato 10 minuti fa e non sei venuto nemmeno a
salutarmi”. Eccola che ricominciava … fosse stato per lei mi avrebbe
dato il biberon con il latte e i Plasmon per cena. Io ed Allison ci
scambiammo uno sguardo fugace di incredulità, che nel mio caso si
traduceva piuttosto nel girarli al cielo, sgomento.
“Ehm … siamo andati
sopra, mamma” le dissi, dandole un bacio per farla contenta mentre era
ancora ai fornelli “avevo bisogno del bagno”
Potei giurare di aver sentito Les borbottare “sì..adesso si dice così” ma non indagai.
La cena passò abbastanza
tranquillamente, io ed Allison riuscimmo a non creare scandalo e a
contenerci, senza neanche essere troppo distaccati. Parlammo del suo
viaggio ad Indianapolis, della sua amica Abigail che aveva rincontrato
dopo tanti anni e del negozio di torte dove l’aveva portata suo padre
per festeggiare il compleanno. Non toccammo l’argomento Lois, sapevo
che per lei era ancora complicato parlarne.
“So che il tuo compleanno
è passato da qualche giorno ma volevo festeggiarlo comunque” disse mia
madre ad Allison “buon compleanno tesoro!”
E così estrasse da una
scatola per dolci una torta a forma di cupcake gigante e che
probabilmente avremmo impiegato un anno per finire. Era tipico di mia
madre andare alla ricerca delle torte più strane; ricordavo ancora la
torta per i miei 18 anni: il classico pan di spagna circondato di
KitKat e ricoperto da M&Ms. Era entrata nella leggenda ormai!
“Esprimi un desiderio!”
le gridammo quando, dopo averle cantato Tanti Auguri, doveva spegnere
le diciotto candele. Così, dopo averci pensato su qualche secondo,
soffiò sulle candeline, facendo esplodere gli applausi.
Mi avvicinai, cauto,
sperando che nell’allegria e nell’atmosfera generale di festa non mi
respingesse con la scusa che eravamo in pubblico.
“Io … io non ce l’ho un
regalo a dire il vero” ammisi. Con il trambusto della partenza, il
litigio e poi tutto il resto non avevo avuto tempo per comprarle nulla
e sinceramente non avevo avuto nessuna idea in mente che non fosse
scontata e banale. “Sai che non ho bisogno di niente da te … mi hai già
dato tutto quello che potessi chiedere” disse e mi sentii inorgoglito.
“Non avrei avuto nemmeno bisogno di esprimere un desiderio … con te li
ho avverati tutti!”
Quello che mi stava
dicendo andava ben oltre chiamarsi amore e darsi dei vezzeggiativi.
Sapevo bene che non eravamo quel genere di coppia, che non era nemmeno
necessario per noi prenderci per mano perché l’importante era dirsi in
faccia quello che provavamo; e quello ci veniva benissimo.
“Posso dirti una cosa?”
domandai. Annuì. “Ti amo” le dissi e non mi importava che mia madre e
gli altri fossero lì a guardarci “e anche se mi odierai per avertelo
detto … ieri notte ti ho sentito mentre lo dicevi a me”. Feci
l’occhiolino e le sorrisi, ma non sembrò fortunatamente essersela
presa; anzi, prendendomi per la nuca, mi abbassò alla sua altezza
“mmm…non mi importa” disse “perché tanto è vero. Ti amo”
E così non potei resistere e le lasciai un bacio … sulla fronte. “Grazie” sussurrò.
Dopo cena mi ritirai per un po’ nello studio con Les, per capire qual
era la situazione di Allison e come sarebbero andate le cose d’ora in
avanti per lei che tecnicamente non era libera, ma in libertà vigilata.
Soprattutto volevo accertarmi che non era pericoloso, per lei, aver
denunciato i suoi aguzzini. Allison nel frattempo stava al piano
di sopra a lavare i capelli di Caroline.
“Purtroppo non so
rispondere a questa domanda Tyler” mi rispose, onesto “vorrei dirti che
non corre pericoli, ma non ne sono sicuro … sono cose che vedremo man
mano che vanno avanti le indagini. Però tu ad Allison non dire nulla”
“Ci mancherebbe altro …”
risposi. L’ultima cosa che volevo era che Allison si preoccupasse
inutilmente. Les andò avanti, spiegandomi che, dato che avevamo pagato
la cauzione, ovviamente Allison non era in libertà a tutti gli effetti,
e avrebbe dovuto presenziare alle varie udienze che lo stato avrebbe
intentato contro di lei, ma al contempo non c’era da preoccuparsi
perché avevano assolto gente per cose molto più gravi di un documento
falso.
“E le altre accuse?”
chiesi, non completamente sicuro “lo spaccio … il furto … la
prostituzione … tutte quelle cose di cui lei si è accusata?!”
“Farò in modo di portare
la questione a nostro favore … Allison ha appena compiuto 18 anni, a
nessuno verrà in mente che lei possa aver fatto tutto questo di
spontanea volontà”
Il problema era che, per
quanto incredibile che fosse, per quanto spinta dalla fame e dalle
necessità, lei si era gettata volontariamente nelle braccia del suo
protettore. Che poi lui non era stato ai patti che aveva preso con lei,
quello era un altro paio di maniche.
“C’era un’altra cosa che
volevo chiederti” proseguii “Allison era preoccupata per mamma? Temeva
di procurarle problemi una volta che verrà fuori che lei vive qui”
“Dille di stare serena … tua madre sa destreggiarsi da sola, lo sai che è un Marines”
Tranquillizzato, fino ad
un certo punto, me ne andai al piano di sopra, dove sentivo ancora il
rumore del fohn e le loro chiacchiere, il tutto condito da musica
chiaramente adolescenziale, scelta evidentemente da mia sorella. Stare
lì a guardarle era uno spettacolo, una seduta sullo sgabello di fronte
al grande specchio del bagno, l’altra intenta a passare la spazzola e
il fohn a quelle ciocche bionde, lunghissime e lisce. Sembravano un
quadretto familiare terribilmente spontaneo e naturale, che quasi viene
da ridere a quei primissimi giorni quando Caroline non voleva saperne
nemmeno di incontrarla. Ed ora sembravano due sorelle. Chissà come
doveva sentirsi Allison a prendersi cura di quella bambina che aveva la
stessa età di sua sorella: conoscevo bene la sensazione di trovarsi di
fronte alla tomba del proprio fratello, ma trovarsi un surrogato,
qualcuno a cui vuoi bene ma non è mai quel lui o quella lei che hai
perso, doveva creare un tumulto interiore non indifferente. Ne avrei
parlato con lei, al più presto.
Mi sarebbe piaciuto
restare lì fuori a guardarle, spiarle per qualche minuto magari,
carpirne qualche segreto. Ma lo specchio era davvero grande e, anche se
ero alle loro spalle, non ebbero difficoltà a scorgermi dal riflesso.
“Tyler!” gridò la mia sorellina “che ci fai lì! Lo sai che non si spia!!!”
“Io?!” finsi di cadere dalle nuvole “di cosa stavate parlando?”
Con quell’asciugacapelli
a pieno regime saremmo finiti tutti sordi a forza di urlarci, ma faceva
caldo in quel bagno e si stava bene, c’era una atmosfera che non
respiravo da tempo, da quando io e Michael eravamo dei ragazzini e
mamma faceva il bagno alla piccola Caroline. La piccola di casa ancora
indossa il pigiama e la vestaglia azzurra dopo il bagno e le pantofole
sono sempre quelle profumate con i pupazzi di peluche: non è cambiato
nulla da allora … o quasi.
Mi sedetti allo spigolo
della vasca da bagno, curandomi che l’avessero svuotata e che fosse
tutto asciutto: non era proprio il momento di rompersi la testa.
“Parlavamo male di te ovviamente” rispose sarcastica Allison “di quanto baci da schifo”
“Ah sì?” dissi, con fare
minaccioso e feci per alzarmi ma mi ritrovai una folata di aria
bollente di faccia a mo’ di pistola così alzai le mani, e mi arresi.
Allison e Caroline
esplosero in una risata complice ed io con loro “la verità è che tua
sorella mi sta facendo il terzo grado a proposito di questa novità …
riguardo a noi due”
“E chi te l’ha detto a
te, signorina?” le domandai. “L’uccellino … chi vuoi che sia stato
Tyler! Mamma ne parlava con Les e poi vi ho visti a cena …
piccioncini!!!”
Ti rendi conto che stai
diventato vecchio quando la tua sorellina, dieci anni e mezzo, ti parla
con quello che ha tutta l’aria di essere una bozza di sarcasmo. E ti fa
male, perché allora capisci che non potrai fargliela sotto al naso, e
non potrai più prenderla in giro o farle scherzi. Rimasi di sasso.
“Tornando a noi Allison
…” continuò mia sorella nel terzo grado alla povera Allison “ahia mi
hai bruciato l’orecchio!” “Scusa piccola ma te l’ho detto che dovevi
levarti gli occhiali … che mi danno fastidio” rispose Allie. “Sì ma poi
non ci vedo …” rimbeccò mia sorella. “Stiamo parlando non hai bisogno
di vedermi ma di sentirmi” ribatté Allison. “Sì ma con il fohn non ti
sento … almeno leggo il tuo labiale..no?”
Se mia sorella si era
messa in mente qualcosa era difficile farla desistere, perché l’ultima
parola doveva andare a lei. Ed Allison lo sapeva; così, dopo qualche
schermaglia iniziale, se ne stava zitta, sorridendo. Chissà quanto
dovevano esserle mancate quelle polemiche tra sorelle tra un colpo di
spazzola e un altro.
Io guardai Allie
affascinato, perché se quella era la donna per me, quella che è per
sempre, avrei fatto di tutto per tenermela stretta, straordinaria
com’era in ogni pregio e anche in ogni difetto. Forse vide una veda di
scetticismo nel mio sguardo, del tipo ma come fai a sopportarla, che in
parte corrispondeva a verità visto che io, a stare con un tipo come
Caroline tutto il giorno e occuparmene come fossi una balia, non avrei
resistito più di 24 ore.
“E tu non ci hai viste quando le passo la piastra …” disse lei, ironica. Risi perché me le immaginavo e sinceramente avrei voluto vederle.
“Comunque” riprese Caroline “visto che ora sei la ragazza di Ty te ne andrai da qui? Andrai a stare con lui”
Mia madre mi disse
sottovoce, durante la cena, che non avevano detto nulla a Caroline
dell’avventura di Allison in gattabuia, quindi non sospettava che ci
sarebbero potuti essere altri motivi a spingere Allie a cambiare
indirizzo.
“Ma no tesoro!” le disse
Allison, protettiva e amichevole “potrà capitare” e lì ci sfuggì
un’occhiata nei miei confronti “che io rimanga a dormire da Tyler
perché si da tardi … ma non me ne vado. Perché dici così?”
Si avvertiva tutto il
disagio della mia sorellina all’idea di perdere un’amica vera, una
confidente, forse l’unica che abbia mai avuto, a parte me.
“E comunque” mi venne
spontaneo aggiungere “anche se Allison non dovesse abitare qui non è
che ti lascia … ce la porto io qui a pedate se solo ci prova”
“Ehi!” si lamentò lei e
mi arrivò una spazzola sulla testa “non mi piacciono i tipi violenti”
Così mi alzai e la baciai e lei si arrese al bacio sin dal principio e
fu un crescendo di emozioni.
“Bleah … che schifo” osservò mia sorella, fintamente inorridita.
Ma non ci curammo di lei,
che infatti si arrese uscendo dal bagno, i capelli ormai completamente
asciutti e ben piegati. Il bacio crebbe piano piano, quasi metafora di
quel nostro rapporto difficile e sofferto, diventato da poco qualcosa
di più. Ma una volta costituitosi qualcosa di concreto, quel bacio era
diventato forte e generoso, regalando soddisfazioni immense.
Mi chiedevo se mi sarei
mai abituato o se baciarla avrebbe perso col tempo quel carico di
emozioni che ci trascinavamo dietro da un po’.
Al momento però, non mi interessava più di tanto.
NOTE FINALI
Salve ragazze! Sono riuscita a darvi il capitolo come promesso. Buon
anniversario a me, a voi, ma soprattutto a Tyler ed Allison che ci
accompagnano in questa avventura da un anno ormai. Non credevo che
sarebbe durata tanto ... ma soprattutto quando ho iniziato non credevo
che sarebbe stata tanto apprezzata e seguita.
Grazie Grazi Grazie!!!
Non mi dilungo perché non c'è
nulla da spiegare. Volevo dare loro un attimo di respiro, un momento
per godersi questa giovane storia. Come dice la canzone che da il
titolo al capitolo, erano "rotti" ma ora è finita. Ora si sentono
entrambi capaci e degni di amarsi, hanno trovato una persona con cui
poter esprimere sé stessi senza vergogna. Ed è una cosa meravigliosa.
Spero abbiate apprezzato ... ma credo di sì-
Per il momento vi dico
arrivederci, non so quanto ci risentiremo, perché devo decidere come
evolvere la storia per la volata finale e avendo poco tempo non voglio
scrivere capitoli frettolosi e brutti solo per rispettare date ... non
è una cosa che fa per me.
Infine chiedo scusa se non
rispondo alle recensioni, ma veramente non riesco a trovare un momento
per sedermi a rispondere. Ma sappiate che leggo e apprezzo ogni singola
parola. Vi voglio bene!
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 28 *** Is this the end? ***
Capitolo 27
Is this the end?
soundtrack
Michael,
la
vita è tornata a scorrere nel verso giusto ultimamente. Persino io riesco a
vedere il bicchiere mezzo pieno, pensa un po’…
A
volte penso alla nostra vita ora e, anche se mi impongo di non farlo, non
riesco a levarmi dalla testa il pensiero che, se ce l’avessi permesso, se solo
ne avessi parlato, avremmo trovato una soluzione anche per te. La morte non è
mai la soluzione giusta fratello … e non parlo solo di quella fisica.
Io
ho passato mesi a vegetare e, anche se non è così, sembrano passati anni da
quando la mia esistenza era ridotta ad una mera sopravvivenza. Eppure basta
poco per darsi una scossa, basta solo volerlo. Certo ci vogliono anche gli
stimoli giusti, ne convengo. Forse siamo stati solo più fortunati di te. Per
non sentire più il sapore acre della colpa mi ripeto che non hai avuto la mia
stessa fortuna, che non è colpa mia. Ma non ci riesco … ti ho perdonato tempo fa per ciò che ci hai
fatto, ma non so se mi sento pronto a perdonarmi ancora per non aver capito che
avevi bisogno d’aiuto. Forse ora stai bene, ti va bene così, d’ovunque ti
trovi, ma la verità è che vorrei averti qui, vorrei che vedessi come si sta bene
una volta mandato a fanculo nostro padre.
Sono
passati già 3 mesi da quando io ed Allison ci siamo messi insieme, ma sembra
sempre essere successo ieri. Le cose vanno molto meglio ora, lei sembra essersi
abituata all’idea di noi e si lascia andare molto di più alla mia idea di
coppia. Io le dico sempre di non pensare troppo, perché è quando lascia vincere
l’istinto che viene fuori la parte migliore di lei. E povero Aidan: ormai ha
deciso di convivere con noi, perché si è stufato di passare tutte le notti fuori,
e si è armato di tappi per le orecchie. Ma non voglio fingere di sentirmi in
colpa per lui … dovrebbe trovarsi una ragazza anche lui, sarebbe meno isterico.
Anche
il processo di Allison si è risolto per il meglio: la sentenza c’è stata la
settimana scorsa e Les è riuscito a farla uscire pulita da tutti i capi di
imputazione. Dovrà ancora essere a disposizione della polizia e dei giudici per
le indagini sul giro di prostituzione, ma almeno lo spauracchio della prigione
è ben lontano ,per la felicità di tutti.
Ora
ti devo lasciare, Allison mi sta chiamando. Dovresti sentire che buon profumo
viene della cucina … vado a fare colazione.
Ti
voglio bene … e mi manchi, sempre.
Tyler
C’era
una cosa che però avevo omesso dalla mia abituale lettera per l’aldilà: in
realtà una cosa che mi preoccupava c’era. I genitori di Allison tempo un paio
di giorni sarebbero venuti a New York. Lei ovviamente era contraria, ma non
poteva più opporsi alla loro presenza nella sua vita, non quando era stata proprio
lei a fare il primo passo verso di loro.
Il
padre di Allie era stato abile a porre sua figlia in una condizione di
debitrice, accollandosi le spese processuali e pagando l’assistenza di Les.
Naturalmente per Doug rappresentava un obbligo morale piuttosto che una mossa
ben giocata, ma era innegabile che Allison si sentisse leggermente frustrata.
Non lo diceva a parole ma non era nemmeno in grado di nasconderlo, non a me
almeno. Del resto se c’era una cosa che detestasse, ed io con lei, era proprio
sentirsi debitrice nei confronti di qualcuno, con il timore continuo di
sentirsi rinfacciare quanto era stato fatto per lei. Come se non bastasse, a
sentire che la loro figlia non voleva trattenersi oltre da mia madre, Lois e
Doug si erano dati un bel da fare tra siti internet e telefonate varie per
trovare qualche soluzione, da visionare naturalmente tutti insieme. E l’affitto
sarebbe stato a loro spese, ovviamente. Ecco spiegato il motivo del loro
viaggio imminente: questo bastava a mandare Allison in bestia. A starle dietro
c’erano tutti i presupposti per diventare matti, garantito.
I
rapporti con sua madre non erano migliorati per niente da quando era tornata da
Indianapolis: si era limitata a mandarle i saluti un paio di volte quando era
al telefono con suo padre, ma solo se fosse stata sua madre per prima a
salutarla, in lontananza, dall’altro capo del telefono.
Brutta
faccenda la storia di quella famiglia: si vedeva che c’era una voglia matta ed
un bisogno estremo di ritrovarsi, da entrambe i lati, ma ciascuno di loro
continuava a fare un errore dopo l’altro, esigendo che l’altro si avvicinasse
completamente anziché trovarsi a metà strada.
“Se
rimanessi da mia madre le cose sarebbero più facili … non dovresti nemmeno
preoccuparti di rendere conto a tua madre” le dissi, portando avanti una
crociata che in realtà non mi apparteneva, ma che mia sorella mi aveva
costretto a combattere. Lei la voleva con sé, ma la verità era che ci serviva
davvero un posto dove stare da soli, davvero soli. Una volta era Aidan,
un’altra Caroline, un’altra ancora mia madre o suo marito, così diventavano
davvero striminzite le occasioni che riuscivamo a ritagliare solo per noi.
Era
sempre straordinario ed eccitante fare l’amore con Allison, ma a volte era
davvero frustrante doversi tappare la bocca reciprocamente, oppure obbligarsi a
contenere un grido o un sospiro di troppo perché non si è soli in casa, dove le
pareti hanno le orecchie e le porte gli occhi.
“Lo
sai anche tu che non è così” replicò lei, mentre si alzava dalle mie ginocchia
e si metteva a sparecchiare le stoviglie della colazione. Nel piccolo cucinino
di casa mia c’era spazio per due sedie, ma la sua erano ormai le mie gambe, e
se Allison aveva deciso qualcosa, non si poteva farle certo cambiare idea …
“Però
in parte Tyler ha ragione Allison …” intervenne Aidan, entrando in cucina. Era
come se fosse appena uscito dal film L’alba
dei morti viventi, trascinandosi sfatto e pesante nel piccolo stanzino, con
i capelli arruffati e non badando a dove mettesse i piedi. Fu per questo che
con il suo alluce scalzo beccò in pieno il piede del tavolo … una miriade di
santi venne chiamati in causa quella mattina. Così, una volta passato il dolore
si rifugiò con la testa nel frigo, bevendo svogliatamente e direttamente dal
boccione del latte, senza curarsi – ma, visto il suo aspetto di quella mattina,
probabilmente senza accorgersi – che la bevanda, colando dai lati della sua
bocca, era finita su tutta la maglia del pigiama. Allison non avrebbe retto a
tanto.
“Aidan che schifo!” gli urlò contro lei, infatti, fungendo da sveglia meglio di
qualsiasi orologio “io sgobbo qui per tenervi casa pulita e tu ti comporti come
un maiale … non dico di farlo per igiene ma almeno per rispetto nei miei
confronti!”
Su
questo aveva ragione Allison: nel tempo che passava a casa da noi, ne avevamo
guadagnato in igiene e salute, grazie anche alle sue qualità di casalinga e
cuoca provetta. Probabilmente non era uno chef della nouvelle cousine, ma rispetto
agli esperimenti culinari di Aidan che ero costretto ad ingurgitare prima, pena
rischio sopravvivenza, era un notevole passo avanti. In più la lavanderia a
gettoni dietro l’angolo aveva ripreso relazioni stabili e civili con i nostri
abiti e le lenzuola, dopo quasi un anno in cui ci eravamo lasciati in maniera
dolorosa, soprattutto per noi. Noi davamo la colpa ai macchinari ostili, ma in
realtà eravamo semplicemente troppo svogliati per portare la biancheria a
lavare una volta a settimana. Avevamo provato a tirare avanti con gli
smacchiatori a secco per diversi mesi, ma quelli non levano via la puzza di
sudore. Così alla fine riempivamo sacche intere di roba e lasciavamo a mia
madre e alla madre di Aidan, a turno, l’incombenza di lavare e stirare. Ora
invece Allie aveva preso in mano le redini della situazione, che nella fattispecie
significava trascinarmi per un orecchio in quel locale (più che altro una
caverna buia e minacciosa), dopo avermi dato ripetutamente del porco e viziato.
Il che tradotto in termini correnti significava “D’ora in avanti i panni dovrai
farteli da solo sennò rimani a bocca asciutta, cretino” ed io, muto e
rassegnato, obbedii.
“Vedi
Allison” si rivolse a lei Aidan “questo mio comportamento …” E si fermò, pensante,
per trovare l’aggettivo più appropriato. Allison, che di prima mattina era più
scazzata del solito, suggerì che la parola più appropriata fosse animalesco.
“No
… non animalesco. Primordiale piuttosto” la corresse lui “vedi Allison ….
Questo comportamento primordiale lo devi vedere come una forma di richiamo …
una richiesta implicita … un invito a rimanere …”
“Bel modo che hai per chiedermi di restare!” si complimentò con lui. Non aveva
poi tutti i torti.
“Certo!!!
Non possiamo vivere senza di te, Allie, ci hai visti?!” la supplicò, con una
vocina melensa e con fare ai limiti de melodrammatico, esagerando volutamente
ogni sua mossa in modo teatrale “se proprio devi cambiare casa … vieni qui da
noi! C’è tanto spazio nel letto di Tyler …”
“Oh su questo non ho dubbi” commentò lei, ormai non riuscendo più a fare la
sostenuta e la severa. Ma con Aidan era risaputo che non si poteva restare seri
per più di dieci secondi contati. Era forse per questo che due come noi, in
passato fondamentalmente dei depressi cronici, lo avevano scelto come migliore
amico, come unico vero amico. Non era facile conquistarci … e per esserci
riuscito, nella sua stupidità, doveva ben valere qualcosa quel ragazzo.
Ed
era bello vederlo bisticciare con la mia Allie, perché erano come fratello e
sorella, di quelli che si tirano i capelli se stanno vicini troppo a lungo, ma
che se non si vedono per un po’ si cercano.
“Lo
sai che non si può” insistette lei “e poi ho bisogno della mia privacy”. Parlò
con Aidan, ma il suo sguardo era puntato, dritto, verso di me. La pensavamo
alla stessa maniera ed evidentemente aveva capito che, anche quando lo chiedevo
di rimanere da mia madre, in realtà non ci speravo per niente. Anzi, piuttosto
il contrario.
Rimasti
soli nella mia camera da letto, mentre ci preparavamo per uscire, mi disse
qualcosa che, sinceramente, non mi aspettavo.
“Probabilmente
comunque non avrò nemmeno bisogno che i miei paghino l’affitto al posto mio
quando avrò casa … potrei aver trovato un lavoro!”
“Davvero?”
domandai, sorpreso ma assolutamente felice per lei. Credevo che fosse una tappa
fondamentale per voltare pagina e ricominciare daccapo. Aveva fatto il giro di
diverse tavole calde e qualche bar ma, vuoi per l’esperienza inesistente, vuoi
perché, più semplicemente, neanche a NY quello era un buon periodo per trovare
lavoro; era riuscita a farsi prendere in prova in un piccolo caffè a Manhattan,
sull’ 81esima, ma ero stato costretto ad uscire prima dal lavoro per andarla a
prendere, perché qualche cliente, non riuscimmo a capire se riconoscendola o
solo perché fondamentalmente pervertito, aveva allungato le mani e lei s’era
fatta risentire ,alla sua maniera.
Si
gettò al mio collo e pianse a lungo quella sera perché secondo il proprietario del
posto, lei avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco, ma Allison non ci
stava più. Aveva smesso di farsi umiliare, aveva ribadito, non importava che
fosse in un diner anziché in un club per adulti. Ero stato veramente fiero di
poter vedere tanta maturità e tanto orgoglio in lei.
“Si
tratta di consegnare la posta in un ufficio per ora” spiegò “ma con il diploma
potrei anche aspirare a qualcosa di più … è tutta questione di gavetta …”
Certo
non era niente di che, di sicuro nemmeno la paga era un granché, ma eravamo di
poche pretese. “Beh certo” annuii. Sembrava un lavoro onesto e rispettabile, ma
soprattutto il fatto che lei sembrasse contenta e soddisfatta deponeva a favore
di quell’impiego.
“E
dov’è questo ufficio?” chiesi. “Ehm …. Empire … Empire State Building” balbettò
“si tratta dell’ufficio … degli uffici di tuo padre”
“Che
cosa?” esclamai, sconvolto “hai chiesto lavoro anche a lui?! Pensavo ne
avessimo già parlato Allison ….”
Quando aveva iniziato la ricerca di un lavoro, infatti, mia madre ci aveva
proposto di chiamare Charles, mio padre, perché con il suo prestigio e la sua
influenza un lavoro sarebbe saltato fuori in un battibaleno. Ma io mi ero
opposto con tutte le mie forze, perché non volevo che quell’uomo trovasse un
nuovo motivo per farmi sentire in debito nei suoi confronti; o peggio ancora,
far sentire Allison in debito.
Lei
stessa sembrò essere risoluta nell’opporsi sia alla proposta di mia madre, sia
a Les, che invece si era offerto per trovarle un lavoro in uno studio legale
associato al suo come receptionist. Voleva guadagnarselo il lavoro, aveva
detto, ma evidentemente erano state parole dette per non contraddirmi al
momento, per farmi stare buono, oppure alla prima difficoltà si era arresa. In
entrambe i casi, mi aveva deluso.
“Non
è come credi” si affrettò a spiegare “è stato tuo padre a contattarmi. Ti
ricordi quando sono andata ad accompagnare Caroline nel suo ufficio la scorsa
settimana?”. Annuii; lui aveva una riunione delle sue, di quelle che sai quando
iniziano ma non sai quando finiscono ed aveva chiesto a Caroline di
raggiungerlo nei suoi uffici per non lasciarla sola a casa, ma lasciando però
che la sua segretaria tuttofare, le facesse da babysitter. “Beh io sono rimasta
con Caroline per un po’ perché l’avevo vista a disagio con Janine …” raccontò.
Ricordavo anche quello: era rimasta lì praticamente tutto il pomeriggio, fino a
che la riunione non si concluse, alle nove di sera. “Così mi accompagnarono fin
qui con l’auto di tuo padre, visto che avevo declinato l’invito a cenare con
loro. E allora parlando del più e del meno a Caroline è venuto in mente di
dirgli che stavo cercando un lavoro. Credimi se avessi potuto l’avrei
ammazzata! E ieri lui mi ha chiamata … non vorrai incolpare tua sorella ora!”
Naturalmente
no … ma non avrei permesso che lei accettasse nulla da quell’uomo.
“Allison”
le andai vicino e l’afferrai per le braccia, energico e deciso, ma non
aggressivo “mio padre è uno di quelli che non fa mai niente per niente … e
tanto non accetterai la sua proposta … questo è quanto, fine della
discussione.”
“Scusa?!”
esclamò, e sentivo tutto lo sdegno nel suo tono di voce “primo … come ti
permetti di venirmi a dire quello che devo o non devo fare?!” Già … come mi ero
permesso?! Mi stavo comportando esattamente come tutto ciò che disprezzavo,
come un despota coglione e ottuso. “… e poi … anche se volessi accettare … dove
sarebbe il problema? Cosa c’è di male se tuo padre mi aiuta? Non l’ho capito
allora e non lo capisco adesso”
“Cosa
c’è di male?!” ribattei “raccomandazione Allison, si chiama raccomandazione … e
poi tu sei la mia ragazza, di sicuro inizierebbero a correre voci …”
“È
questo che ti da fastidio Tyler? Il giudizio degli altri?” mi aggredì
verbalmente “pensavo che fossi l’ultima persona al mondo che desse peso a
queste cose … ed invece sei proprio come tutti gli altri …”
Le
ultime parole furono pronunciate non solo con sprezzo e avvilimento, ma
soprattutto con delusione, specchio del suo volto. Io mi ero detto deluso dal
suo comportamento, ma si vedeva che lei lo era di più tra di noi. In fondo mi
ero sempre professato paladino della giustizia e della verità, io che non mi
ero lasciato ingannare dall’abito che indossava nel nostro primo incontro e che
avevo saputo andare oltre, arrivando al cuore della sua bellissima persona. Ed
ora ero proprio come tutti gli altri, gente senza volto né nome, che l’aveva
ignorata e sminuita, collocandosi al di sopra della sua volontà grazie al
ricatto e al potere dei soldi e della paura.
Si
mise addosso giacca e borsa a tracolla e fece per uscire dalla stanza. La
seguii; non le avrei permesso di andarsene così, senza chiarirci, senza che mi
disse l’opportunità di scusarmi, da emerito coglione qual ero. Nella
concitazione della discussone non c’eravamo neanche accorti che Aidan se n’era
andato, forse per rispettare la privacy del nostro primo litigio vero e
proprio.
Eccolo
lì … pensavo che non sarebbe mai arrivato ed invece si era presentato facendo
già dei danni importanti; ma non volevo, davvero, avrei voluto chiuderla lì,
darle un bacio e chiederle scusa, ma non riuscivo a tollerare che lavorasse per
mio padre, che ricevesse come stipendio il denaro di quell’affarista criminale
ed egoista.
“Allison”
la fermai, quando la sua mano era già sulla maniglia della porta, un attimo
prima che uscisse. Forse la mia voce rotta, forse il mio sguardo supplichevole,
forse le sue sensazioni sgradevoli simili alle mie, ma qualcosa la fece
desistere dall’aprire la porta ed andò a sedersi sul cornicione di una delle
finestre della zona giorno.
“Io
… io non ci vedo niente di male” disse, in un lamento. Odiavo vederla piangere
e non le avrei permesso di farlo per mio padre, non ne valeva proprio la pena.
Se era stato un piano di quello stronzo, studiato apposta per farci litigare,
c’era riuscito alla grande. Ma eravamo superiori a lui, noi ci volevamo bene
davvero e non solo a parole, avremmo superato anche quella.
“Capirai
che bella raccomandazione …” continuò, ridendo nervosamente “… smistare la
posta e consegnarla agli impiegati”
“Non
è per questo Allison …” le dissi, portandomi di fronte a lei ed
inginocchiandomi. Le presi le mani ed iniziai a giocarci: erano piccolissime
tra le mie, quasi come quelle di una bambina, ma erano lisce e si intrecciavano
bene con le mie. Era bellissimo, in una situazione di tensione come quella,
poter stabilire un contatto intimo e personale come quello. “Tu non lo conosci
Allison … non bene quanto me, almeno” insistetti “ non sai quanto possa essere
pressante”. Bastava ricordare quanto accaduto a mio fratello, che era finito
due metri sotto terra solo perché non ce la faceva più ad obbedire ai suoi
ordini e a seguire le sue disposizioni.
“Vuoi
passare il resto della tua vita ad essere riconoscente a mio padre?” incalzai
“perché lui non te lo farà dimenticare mai, sappilo. Non lo ha fatto con me e
con Caroline … non si farà tanti scrupoli a farlo con te!”
Ma
lei continuava a scuotere la testa, nonostante mi avesse dato la possibilità di
dire ciò che pensavo; cosa che, a differenza sua, io non ero stato in grado di
fare. “Perché non gli dai la possibilità di riscattarsi Tyler? Da quella notte
di Natale è cambiato … e tanto. Dovresti dargliene atto e dovreste parlavi, vi
farebbe bene!”
Ma
quello era il mio turno di scuotere la testa, vigorosamente, imbronciandomi
pure. Era un falso, che poteva darla a bere agli altri con i suoi modi educati
ed eleganti, ma io conoscevo sin troppo bene il soggetto per farmi ingannare:
il lupo perde il pelo ma non il vizio, era risaputo.
Lei
si alzò, di colpo, quasi facendomi cadere per terra. Mi alzai anche io a quel
punto e la vidi che se ne stava in piedi, camminando per la stanza con una mano
ai capelli e l’altra su fianco, inspirando ed espirando forzatamente, cercando
di imporsi un ritmo e darsi una calmata. Ecco, ci siamo, pensai … stava per
scoppiare.
“Quanto
… quanto cazzo mi fai incazzare Tyler” iniziò, al limite delle lacrime “com’è
che mi dicevi? Dalle una possibilità Allison! Tua madre ha sofferto molto in
questi anni … non è più quella che raccontavi”. Ora mi faceva pure la
caricatura, fantastico! Ed io me ne stavo lì, come un cane bastonato, a subire
una passivamente una ramanzina che non ero del tutto sicuro di meritare. “perché
dovrei farlo se non lo fai nemmeno tu?!” domandò “non permetterti più di farmi
una cazzo di predica, Tyler, perché sei il primo qui dentro a fare lo stronzo”
“Non
è la stessa cosa …” provai a giustificarmi, anche se alla mia scusa non ci
credevo più nemmeno io.
“Ed
invece sì Tyler!” insistette “forse mi sto comportando da egoista con mia madre,
perché non sono stata l’unica a perdere Emily quella notte. Lo stesso vale per
voi … non sei il solo ad aver perso Michael, ti sei mai chiesto come possa
essersi sentito lui?”
Aveva
ragione, ero solo uno stronzo … e non ci pensai nemmeno a smentirla. In effetti
il suo discorso non faceva una piega ed anzi mi aveva aperto un mondo di
domande e riflessioni che prima o poi avrei dovuto affrontare, anche se da
coniglio qual ero cercavo solo un modo per ritardare quel confronto il più
possibile. Io stavo ogni giorno ad intercedere per una donna che praticamente
conoscevo solo di vista, con cui non avevo mai avuto una conversazione decente
e lei, invece, occupandosi di Caroline aveva passato molto più tempo di me con
mio padre nell’ultimo periodo. Avrei dovuto concedere il beneficio del dubbio a
Charles, in fondo la mia strigliata di Natale poteva davvero essere stata la
scossa necessaria per cambiarlo però, come Allison con sua madre, non mi
sentivo ancora pronto ad affrontarlo. Ecco dunque che le parole di Allison
dovevano suonarmi profetiche: testa bassa e silenzio, perché lei aveva avuto
ragione, ancora una volta.
Mi
stravaccai sulla poltrona, abbracciando la chitarra di mio fratello che tenevo
lì di fianco. Provai a strimpellare qualche accordo, ma era scordata … non
avevo dedicato molto tempo alla musica ultimamente. Allison invece se ne stava
ancora lì davanti a me, ancora con quello sguardo severo negli occhi e quel
broncio aggressivo che detestavo e la imbruttiva. Ma almeno aveva buttato sul
divano sia la giacca che la borsa. Andò nel cucinino e, sbattendo violentemente
lo stipo per prendere un bicchiere, prese a bere l’acqua del rubinetto. Tramite
il finestrone che si apriva sull’angolo cottura potevo controllarla e vidi che
si appoggiò sul lavello, come in preda ad un attacco di nausea. Al pensiero che
fossi io la causa del suo malessere mi veniva proprio voglia di picchiarmi con
le mie stesse mani per quanto ero stato stronzo.
“Scusa”
sussurrai, onestamente pentito, ma ero certo che mi avesse sentito “hai ragione
su tutta la linea …. È della tua vita che stiamo parlando ed io non mi intrometterò
più, sei libera di fare come vuoi. Puoi anche uscire da questa casa se lo ritieni
giusto …”
Vidi con la coda dell’occhio, cercando però di puntare il vuoto, che si voltò
verso di me, forse non sicura di aver capito quello che le avevo appena detto.
“Sì
hai capito bene” proseguii “non ne faccio una giusta, hai ragione. Per cui se
pensi che per te sono troppo cazzone va bene, lo accetto. Anche se farà male da
morire senza di te …”
Il
mio cervello non fece in tempo a registrare quanto tempo passò dacché finii di
parlare a quando Allison si buttò letteralmente tra le mie braccia, togliendomi
la chitarra dalle mani, per baciarmi ed abbracciarmi. Era finito tutto. L’aria
non mi mancava più ed il sangue era tornato a scorrere correttamente nelle vene,
senza che il cuore facesse male.
“Sì”
disse, affannandosi tra un bacio e l’altro, prendendomi il volto tra le mani
“sei un cazzone, coglione e ti comporti da stronzo a volte. Ma sei il Mio
cazzone, il MIO coglione, il MIO stronzo … e non vado da nessuna parte ….
Almeno non senza di te”
“Ti
amo” le dissi, prima di congiungere per l’ennesima volta le mie labbra con le
sue. Ed in quei momenti non c’era nulla che andava, non c’erano madri e padri
petulanti e dittatori, non c’erano affitti da pagare né conti in sospeso con la
legge. C’eravamo solo noi e si stava da dio-
“Farò
come vuoi tu” aggiunse lei, ricomponendosi per uscire di nuovo di casa,
stavolta insieme “capisco il tuo punto di vista in un certo senso, perché provo
lo stesso per … per Lois, perciò se davvero per te è così difficile accettare
che io possa lavorare per tuo padre non fa nulla, mi inventerò altro, cercherò
altrove”
“No
Allison” mi opposi, mentre chiudevo a chiave casa lei mi aspettava sul pianerottolo. Le diedi
la mano e ci incamminammo giù per le scale “ non devi rinunciare a quel posto. È
un’offerta che non ti ricapiterà e non importa quello che penso io di mio
padre. Tu ti fidi di lui e questo è ciò che conta …”
“Grazie”
esclamò, abbagliandomi con il suo sorriso ritrovato e attirandomi a sé per un
bacio, brandendo il collo della mia giacca con la sua presa forte. Sì, ok, ero
affamato, drogato di quelle labbra, ma meglio qualche momento di imbarazzo
davanti ai vicini che ti colgono i flagrante nell’androne del palazzo,
piuttosto che altro. Abbracciandola più stretta in vita, infatti, non mi
accorsi che la signora del terzo piano, di origine greca, era appena entrata e,
vedendoci, aveva preso a tracciarsi ripetutamente il segno della croce, alla
maniera ortodossa, e a pronunciare frasi incomprensibile, ma che potevano
essere benissimo sia maledizioni che esorcismi. La buttammo su ridere,
lasciandola passare e aiutandola con le buste della spesa stracolme che le
erano cadute per lo scandalo.
“Cosa
farai oggi?” le domandai, mentre ci salutammo all’ingresso della librerai. Sarebbe
stata una giornata lunga per me: avevo il turno centrale, perché il mese
precedente mi ero preso troppi permessi per lo studio, vanificati dal ronzarmi
intorno di una certa ragazza, e ora dovevo recuperare le ore perdute se volevo
avere uno stipendio decente a fine mese. Ergo, sotto con gli straordinari.
Lei
fece spallucce: “Chiamerò tuo padre per dirgli che accetto il lavoro … ma solo
se tu vuoi davvero. In fondo è un lavoro come un altro … non voglio vedere musi
lunghi …”
“Ok
…” risposi, divertito “e voglio davvero che tu sia serena; quindi se tu lo vuoi,
lo voglio anche io. L’hai detto … è un lavoro come un altro”
In
fondo era quello che ci voleva: un lavoro onesto, tranquillo, sicuro. Che mi
piacesse o meno il datore di lavoro poco importava, tanto volente o nolente
quella sarebbe stata la mia stessa sorte tra qualche anno, non potevo scappare.
“E
poi vorrei andare a vedere un paio di appartamenti” continuò lei “senza lo
zampino dei miei …”
“Vienimi
a trovare però” la supplicai. Già la giornata sarebbe stata dura stare lì a non
fare niente tutto il giorno, figurarsi senza di lei. Avevo già in mente di
romperle le scatole ogni secondo con i messaggi, giusto per il gusto di vedermi
mandare a fanculo via sms e subito dopo ricevere un messaggino di scuse con
scritto ti amo. Forse ero regredito all’adolescenza insieme a lei, ma non
importava davvero.
“Non
se ne parla … l’ultima volta c’è mancato poco che Ray ti sbattesse fuori a
calci in culo” “Quanto sei raffinata amore mio …” la presi in giro; sapevo
quanto odiava che la chiamassi in quel modo. “grazie tesoro mio” rispose lei, stando
al gioco e gettando gli occhi al cielo “comunque non se ne parla … l’ultima
cosa di cui hai bisogno è che giocarti il posto per colpa mia. E poi hai sempre
Aidan … non ti sentirai solo!” Le risposi con un bel dito medio, facendola
ridere.
La
lasciai andare solo dopo che ebbi avuto una razione sufficiente di baci per una
giornata intera, dopo aver respirato il suo profumo sul collo quanto basta per
non andare in crisi d’astinenza e solo dopo che il mio capo, con un’occhiata
fulminante mi passo d’avanti per aprire le serrande del negozio e mi impose, eloquente
benché muto, di troncarla lì.
Tempo
di tornare a casa e mi avrebbe sentito quella cretina … lasciarmi senza
messaggi o chiamate per un’ora e mezza. Qualunque cosa stesse facendo non era
una scusa sufficiente a giustificare un silenzio di ben 90 minuti, troncando la
comunicazione con un <<sto
tornando a casa. Devo prendere la metro, il tel lì non prende. Non ti far
prendere dal panico>>
Non
si trattava di farsi prendere dal panico … è che la metro dal Queens all’East
Village ci metteva un’ora, ma qui eravamo andati ben oltre e lei non s’era
fatta sentire. Capivo che non volesse prendere il taxi, costavano veramente
troppo, ma andare a finire nel Queens per prendere casa e dover tornare a
Manhattan tutti i giorni per lavoro era una fatica che spero si sarebbe
risparmiata. In
ogni caso arrivai a casa e non feci in tempo a salire la prima rampa di scale
che il telefono iniziò a vibrarmi in tasca. Eccola: di sicuro aveva fatto tardi
davanti a qualche vetrina, oppure mia madre l’aveva chiamata a rapporto. Come
biasimarla, dopotutto era sotto la sua responsabilità, ma si vedevano sempre
più di rado. Non che vivessimo insieme a tutti gli effetti, era troppo presto
per entrambi, ma ci mancava davvero poco.
“Dove
sei? Non hai letto i miei messaggi!!!” esclamai, seccato ma sollevato. “Tyler Hawkins?”
una voce femminile dall’altro capo dell’apparecchio, educata e formale, mi fece
capire che non stavo parlando con Allie. Il campanello di allarme iniziò a
risuonarmi in testa e il mio cuore prese a battere all’impazzata. Mi fermai per
le scale, a metà strada, sedendomi sui gradini. “Sì … sono io” risposi, la voce
tremante “chi … chi parla?”
“Salve
Tyler, sono nurse Kristie, chiamo per conto del Pronto Soccorso del Bronx-Lebanon
Hospital Center … il suo numero era quello più ricorrente nel telefono della
signorina Allison Riley e abbiamo pensato di chiamarla … lei la conosce vero?”
“Certo,
certo che la conosco … è la mia ragazza!”
Non
ero sicuro di aver capito bene … Allison era in ospedale?! Nel Bronx? Cosa ci
faceva Allison nel Bronx se era andata nel Queens?!
“Scusi”
incalzai, prima che l’infermiera potesse parlare di nuovo “ma cosa … cosa è
successo alla mia ragazza?”
“Ci
hanno chiamati e l’abbiamo soccorsa per strada, era priva di sensi e piena di
ferite e ecchimosi … abbiamo già chiamato la polizia”
Senza
pensarci due volte mi buttai a capofitto giù per le scale e mi ritrovai in
strada, senza accorgermene, con la mano alzata per fermare un taxi; era l’unico
modo che avevo per arrivare il più presto possibile da Allison. Nel frattempo l’infermiera
continuava a parlare di assicurazione sanitaria o cose simili, ma io mi ero già
perso quando aveva detto che era priva di sensi.
“Io
sto ... sto arrivando, faccio prima che posso … ma lei mi deve dire come sta”
“Non
glielo so dire, mi dispiace … tutto quello che so gliel’ho appena detto”
“E
ti pareva” sputai, chiudendole il telefono in faccia. Saltai al volo sul primo
taxi vuoto che beccai e provai a mandare un messaggio veloce a Les, ma le mani
mi tremavano talmente tanto che non ero sicuro di aver scritto nulla che avesse senso compiuto.
Ma
cosa ci faceva Allison nel Bronx? E che cosa le avevano fatto?
La cosa più
spaventosa era la sgradevole sensazione di conoscere già la risposta a
quelle domande, ed il sangue mi si raggelava nelle vene all'idea che
quell'incubo non fosse affatto finito.
NOTE FINALI
Rispondendo
alla domanda del titolo: no...non è la fine. Ma ci siamo molto vicini.
E non vi preoccupate in qualche modo...prima o poi...le cose si
sistemeranno.
Ok lo so, sono malefica. Muahahahahh!!! Vorrei dirvi altro, ma come faccio??? XDXDXD
Ah...dimenticavo...mi do il bentornata da sola dopo un mese di assenza.
Ma vi avverto da subito che il prossimo capitolo lo avrete dopo Pasqua,
non mi aspettate prima perché non ho proprio il tempo di scrivere. In
compenso vi lascio il link del trailer della storia ,che potrete già
aver visto sulla pagina di FB
http://www.youtube.com/watch?v=6QTwVy7cc3Q
spero che vi piaccia...è un primissimo esperimento...spero possa essere seguito da altri...
Ora bisogno del vostro
aiuto...se conoscete qualcuno che possa tradurre la mia storia in
inglese vi sarei grata se poteste mettermi in contatto tramite la
pagina FB, perché diverse persone su twitter mi hanno chiesto se era
possibile averne una versione inglese ... ed io, benché sia abbastanza
fluente con la lingua, non sono in grado di fare delle traduzioni come
si deve.
ora vi devo lasciare, ho una cena e mi devo preparare.
à bientot
Federica
p.s.=
chiedo scusa ma non mi è proprio possibile rispondere alle
recensioni...spero comprenderete. Risponderò solo se ci dovessero
essere domande a cui rispondere...spero che ce ne siano ^_^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 29 *** Slowly sinking ... wasting ***
When you crash in the clouds - capitolo 28
Capitolo 28
Slowly
sinking … wasting
soundtrack
Era
un incubo quello, non poteva essere altrimenti. No, certo che no, quella era
solo la naturale conseguenza di una delle tante sere in cui avevo mangiato
pesante. Lo prometto, basta con ali di pollo fritte e patatine per cena … lo
sapevo che prima o poi avrei mandato in malora stomaco, fegato e budella.
A
breve avrei aperto gli occhi ed Allison mi avrebbe portato una tazza di
camomilla a letto per aiutarmi a ripulirmi dalle porcherie della cena ed io
avrei fatto le storie come un bimbo quando gli mettono davanti la medicina
cattiva; datemi tutto ma non la camomilla, è una cosa che proprio odio, da
sempre.
Sì,
sarebbe andata di certo così, doveva andare così, perché non era possibile che
ogni cazzo di volta che provo ad essere felice va a finire tutto in rovina,
come un castello di sabbia sulla battigia di fronte all’alta marea.
Continuavo
ad illudermi, ma sapevo bene che quella era la nuda e cruda verità. Non sarebbe
cambiato nulla; l’unica cosa che poteva evitarmi ciò che mi stava aspettando
era un bello svenimento, ma persino il mio organismo si rifiutava di collaborare,
dandomi una forza per affrontare quegli eventi che sinceramente avrei preferito
non avere. Ma lei si fidava di me, aveva bisogno di me, e se fossi caduto mi
sarei dovuto rialzare, per lei.
Il
taxi si fermò nel bel mezzo di un ingorgo così, quando seppi dal tassista che
l’ospedale era a pochi isolati più avanti, decisi di pagarlo e proseguire a
piedi. Il mio cellulare aveva continuato a vibrare nei miei pantaloni per tutta
la durata del viaggio … non dico rispondere, ma non avevo nemmeno il coraggio di
vedere chi fosse. Troppe domande a cui non potevo né sapevo rispondere, sebbene
per molte di quelle conoscevo già la risposta dentro di me. Se fossero stati i
genitori di Allison cosa avrei detto: avevo ripagato la loro fiducia, la
fiducia di una padre che aveva da poco ritrovato quella figlia tanto amata,
mandando quella povera ragazza dritta in ospedale. Non ero stato capace di
prendermene cura, di proteggerla, di starle vicino ed ora chissà in che stato
era. Mi si pararono davanti le immagini più disparate, una peggio dell’altra, e
non riuscivo a mandarle via. Nella migliore delle ipotesi si era rotta qualche
osso ed aveva qualche livido, nella peggiore … mi rifiutai di pensarci.
Che
poi, cosa c’era tornata a fare nel Bronx? Non era forse il primo posto che lei
avrebbe dovuto evitare, dove le bande si fanno guerra ogni tanto giorno e dove
il suo pappone aveva il suo quartier generale?
Quando
mi trovai all’ingresso del Lebanon Hospital accadde tutto così rapidamente che
non credo di aver veramente vissuto la seguente mezz’ora: qualcuno doveva aver
premuto il tasto fast forward, perché mi ritrovai a vagare senza una meta ben
chiara di reparto in reparto, chiedendo informazioni, venendo sbattuto da una
parte all’altra dell’edificio, aspettando in sale d’attesa in cui nessuno mi
diceva nulla perché andava bene avvisare il fidanzato per dare le brutte
notizie, ma quando si tratta di spiegare la situazione … beh allora non sei
nessuno. Finché qualcuno non si impietosì di me, diciamo pure finché qualcuno
non capì che stavo per fare un casino, avendo già mandato per aria un paio di
barelle non occupate. Mi si parò davanti una donnona alta e leggermente
mascolina, capelli da maschiaccio e bionda, con una cartelletta tra le mani e
uno zaino vecchio e malandato, che riconobbi essere la borsa che Allison
scorrazzava con sé e che era grande quanto una valigia. Era talmente mal
ridotta che di certo non sembrava uscita dal negozio solo dopo l’ultima
svendita di Accessorize.
“Lei
è qui per Allison Riley, giusto?” dalla voce riconobbi la donna con cui avevo
parlato al telefono, l’infermiera Kristie o come cavolo si chiamava. Certo non
era così che me l’ero figurata. Più Candy Candy, meno signorina Trinciabue.
“Dov’è?
Come sta?” mi precipitai e non fui sicuro che l’infermiera comprese appieno quello
che stavo dicendo, o forse le parole nemmeno erano uscite.
“Senta
io vengo dal Pronto Soccorso” proseguì lei, non interessandosi minimamente di
me, anzi a dir poco scocciata dall’incombenza di dover parlare con un ragazzo
sclerato, che come unica colpa aveva quella che nessuno gli diceva nulla a
proposito della sua ragazza da almeno mezz’ora. “Queste sono le cose che aveva
con sé la sua ragazza quando l’hanno portata qui. Ora però ci sono queste carte
da firmare, sono per il ricovero. Ce l’ha l’assicurazione, vero?”
“Io
… io non l’ho so” balbettai “però posso, possiamo pagare non preoccupatevi. Lei
è sola qui, ma appena arriveranno i suoi genitori potrete parlare con loro di
queste cose.” Conoscevo tutto di lei, sapevo quante volte al giorno andava in
bagno e quando aveva il ciclo, conoscevo ogni suo vizio ed ogni suo gusto, ma
di una cosa così fondamentale come l’assicurazione sanitaria non avevo la più
pallida idea. “Domani saranno qui …” rassicurai la donna, quando la vidi indisporsi
ulteriormente a quell’imprevisto “e tra un po’ dovrebbe arrivare il suo
avvocato che è il suo tutore; può parlarne con lui se lo ritiene necessario”
“Bene”
fu solo capace di rispondere, mentre rimetteva in ordine la pila di carte che
aveva portato da firmare. Mi persi a controllare la borsa di Allison, ma al suo
interno non mancava nulla di importante a prima vista, il mazzo di chiavi era
ancora lì e il portafogli era ancora ben chiuso nella tasca interna, pieno di
soldi e documenti nuovi di zecca. Non era stata una rapina, dunque, ma il mio
istinto questo lo sapeva bene, prima ancora che fossero delle prove a dirmelo.
Rialzando
la testa mi accorsi che l’infermiera si stava allontanando, ma non poteva
farlo, non prima di avermi detto come stava Allison, dov’era e se avessi o no potuto
vederla. Anche lei però si aggiunse al novero di persone che non sapeva nulla.
“Non
è possibile!” inveii, attirando l’attenzione dell’intero corridoio “è mezz’ora
che sono qui ed io non riesco ancora a sapere nulla della mia ragazza!” “Si
calmi la prego” fu solo capace di dire “non è questo il luogo per certe
scenate” “No, non mi calmo” continuai “non è possibile che nessuno possa dirmi
dov’è o come sta … l’unica cosa che vi interessa sono solo queste cazzo di
carte … ma pulitevici il culo!”
“Senti
ragazzino …” disse l’infermiera, spazientita dalla mia sfuriata, passando dalle
buone maniere formali ad una schiettezza un po’ gretta e poco consona al suo
ruolo “non credere che noi siamo qui a rigirarci i pollici, lo vedi anche tu
quali sono le condizioni in cui lavoriamo … io lavoro all’accettazione, questo
è il mio compito e di più non posso fare. Ora se hai la bontà di stare calmo
per altri dieci minuti, faccio un paio di telefonate e troviamo la tua ragazza
…”
E,
come al solito, ebbi la conferma che le cose si ottengono solo alzando la voce.
In dieci minuti trovai Allison, ricoverata nel reparto di Chirurgia Generale,
il primo reparto dove ero stato mandato, ma dove non mi fecero entrare nemmeno
entrare perché non era orario di visite. Ora invece con un permesso scritto e
la scorta di un vigilante, venni ammesso tra gli sguardi contrariati dei
professoroni in camice bianco e delle vecchie infermiere zitelle ed acide.
Venni
condotto oltre le poche camere, nella grande corsia dove i letti sono divisi da
tende divisorie. Fu allora che finalmente sentii la sua voce, dopo un intero
pomeriggio in cui ero stato senza e dopo aver temuto che non l’avrei più
sentita. Era un mugolio piuttosto, un lamento di dolore, ma tanto era bastato per
togliermi il peggio dalla mente. Quando scostarono la tendina per farmi
entrare, trovai un giovane medico, assistito da un’infermiera, intento a fasciarle
il volto, dove si vedeva una estesa medicazione della guancia sinistra, forse
avevano anche messo i punti. Lei era infastidita, certamente dolorante, ma
almeno era vigile. La bocca era gonfia, con una decisa spaccatura sul labbro
superiore; gli occhi tumefatti e a stento riusciva a tenere aperti, perciò in
un primo momento non si accorse di me, anche a causa della grande lampada che
le era stata puntata addosso dal medico che le stava ricucendo la ferita sulla
guancia e che doveva averla abbagliata.
“Lei
è?” mi chiese l’infermiera che era vicino al letto di Allison. “Il suo ragazzo,
Tyler Hawkins” dissi con una punta di fierezza, mostrando il permesso. Non era
il momento di fare gli eroi, ma non potei farne proprio a meno. “Ty…” tremò di
gioia la voce di Allison “Ty …”. “Amore sono qui” mi feci largo in quella
piccola stanzetta di fortuna, sedendomi sul letto, incurante del rimprovero che
a tal proposito mi venne fatto. “Ty…ler” pronunciò a stento Allison, che non ce
la fece proprio a trattenere le lacrime. Le presi le mani tra le mie e notai
che anche le braccia, scoperte per via del camice, erano piene di ematomi e
graffi, quelli più profondi medicati e coperti. “Ho avuto paura … tanta paura”
pianse e la vidi sforzarsi nella speranza di alzare il busto e raggiungermi, ma
non aveva forza nemmeno per compiere un gesto tanto banale. Povero amore mio,
chi è stato tanto animale da trattarti come una bambola di pezza? Chi è quella
carogna … spera solo che non passi sotto le mie mani, perché allora mi
rimarrebbero solo il braccio della morte ed il miglio verde.
“Shhh
… shhh piccola non ti agitare” le sussurrai, avvicinandomi a lei più che
potevo, facendola rimanere in posizione semiseduta e non pesandole sopra.
Volevo passare la mia mano tra i suoi capelli, gesto che amava e sapevo quanto
la rilassasse, ma al posto delle morbide ciocche castane trovai solo una matassa
informe e stopposa, insudiciata dalla polvere e da sangue raggrumato. Non osai
immaginare cosa ci fosse nella parte di corpo coperta, se quella che si
figurava ai miei occhi era solo la punta dell’iceberg.
“Io
… io devo dirti … spiegarti come …”
“Ora
devi stare solo calma e pensare a rimetterti, quando starai meglio ne
riparleremo” la tranquillizzai. Ci sarebbe stato tempo per tutto, l’importante
era sapere che ora era al sicuro e che sarebbe stata bene.
“Signor
Hawkins” l’infermiera che era in stanza con noi fino a poco prima venne alle
mie spalle, appoggiando una mano sulla mia schiena, facendomi voltare. Io mi
alzai e mi rivolsi verso di lei: “Mi chiami Tyler”; avrà avuto l’età di mia
madre, non mi sembrava corretto farmi trattare come un uomo di mezza età.
“Tyler” continuò lei, visibilmente più a suo agio “qui fuori ci sono un paio di
persone che vorrebbero parlarti …”.
“Allison
sono qui fuori, non vado via” mi girai verso la mia ragazza, accucciandomi su
di lei leggermente per lasciarle un bacio sulla fronte. “Le dia uno sguardo”
chiesi, implorante, all’infermiera che annuì dolcemente. Finalmente qualcuno
con un po’ di cuore.
Prima
di uscire verso la corsa mi voltai un’ultima volta: “Quando potrò parlare con
un medico?” chiesi alla donna. “Una decina di minuti e sarà a tua disposizione,
deve finire il giro di medicazioni”. Le sorrisi e uscii.
Individuai
immediatamente le due persone che mi stavano aspettando: erano due poliziotti,
in borghese, ma con il distintivo ben in vista. Ero già stato avvertito che la
polizia fosse stata allertata e ne ero ben contento. Loro avrebbero dovuto
proteggerla fin dall’inizio, avrebbero dovuto capirlo che un soggetto come lei
poteva correre dei rischi ad andare in giro da sola dopo aver fatto nomi e
cognomi e dato un volto a criminali reiterati. Al contrario, invece, non
avevano smesso per un secondo di tranquillizzarci e così anche il più scettico
tra noi a riguardo, cioè il sottoscritto, si persuase che Allison avrebbe
potuto e dovuto godersi una ritrovata tranquillità. Oltretutto erano passati
diversi mesi dalla sua denuncia e le indagini proseguivano spedite, e per
quanto ne sapevamo sarebbero state concluse entro la fine dell’estate, con
arresti e ampia risonanza da parte della carta stampata e dei network televisivi.
Ma soprattutto molto altre schiave sarebbero state liberate dalle loro catene.
Il
più anziano tra i due, bianco, mi venne incontro e mi strinse la mano,
presentandosi. Il suo collega se ne stava in disparte, guardandosi attorno con
fare circospetto, e doveva essere uno di quelli che non lascia il proprio
lavoro neanche varcata la soglia di casa. “Sono il sergente Neil Craig e lui è
il mio collega, l’agente Thompson. Leo!” richiamò all’ordine il gorilla alto e
nerboruto accanto a lui che, a forza di stare troppo di vedetta, si era
distratto un attimo. Era però un gigante buono: mi strinse anche lui la mano,
affabile.
“Il
personale dell’ospedale ci ha detto che la ragazza aveva con sé una borsa e che
ve l’hanno riconsegnata … ha per caso notato se manca qualcosa?”
“No”
risposi “ho dato uno sguardo ma pare non mancare nulla. Le chiavi di casa ci
sono e così il portafogli. Non erano i soldi ad interessarli. Oltretutto io ed
Allison non navighiamo nell’oro. Lei ha appena trovato lavoro e finora faceva
la babysitter, io lavoro in una libreria part time e studio. A casa nostra non
c’è niente che possa interessare dei ladri …”
Non
parlai del fatto che Allison in realtà avesse la residenza con mia madre, la
cui casa avrebbe fatto particolarmente gola a dei ladri, perché sapevo
benissimo che non era stata una rapina finita male, ma dietro c’era qualcosa di
ben più grave. Una minaccia forse, un avvertimento a stare al proprio posto da
parte di qualcuno, il suo vecchio boss probabilmente, che sentiva la terra
tremare sotto i suoi piedi.
“I
sanitari ci hanno detto che l’hanno trovata sul ciglio della strada. Che è
arrivata una segnalazione anonima e sono corsi” spiegò il gorilla. “Pare fosse
riversa in una pozza di sangue … i vestiti strappati e scalza. Quando siamo stati
allertati abbiamo subito pensato che fosse una prostituta o una povera ragazza
violentata … qui capitano spesso casi del genere”. Chiusi gli occhi per un
attimo e quasi mi sentii mancare, al pensiero di quello che aveva potuto
passare in quegli attimi. Si sarà sentita sola, indifesa come mai e il pensiero
che io non abbia potuto evitarle tutto quello mi rodeva dentro, mi bruciava
come fuoco liquido nello stomaco. Avevo voglia di spaccare tutto, prendere quei
porci che le avevano fatto del male e guardarli in faccia, sputargli e
castrarli, perché chi tratta così le donne che uomo è? Che campa a fare?
“Dunque
mi sembra che la rapina sia da escludere” disse il capo “… sa se c’è qualcuno
che potesse avercela con lei? Un … chiamiamolo così … amore non corrisposto … non
so …”
“Senta”
lo fermai, prima che quei suoi voli pindarici andassero troppo oltre “pensavo
che conoscendo il nome della mia ragazza sarebbe arrivato subito alla
conclusione più ovvia e non avrei certo dovuto spiegarglielo io”. Mi feci più
vicino che potevo, abbassando il volume della voce quasi a parlare in un
sibilo. “Allison era coinvolta in un giro di prostituzione minorile in un
locale a South-West Bronx, è stata lei stessa a denunciare la faccenda alla
centrale di Brooklyn e a far partire le indagini. Immagino a questo punto che
il vostro dipartimento non fosse coinvolto …”
“Aspetti
un momento …” mi fermò il sergente “ Allison Riley … Allison Riley. Giusto, ma
certo! Come ho fatto a non pensarci prima …”. Sembrava aver avuto
un’illuminazione divina. “Probabilmente non c’ho pensato prima perché il
semplice fatto che nei nostri atti il suo nome compare solo con le iniziali,
per motivi di privacy, A.R. capisce?” Annui. Certo mi risultava strano pensare
che su delle carte la privacy venisse rispettata e che poi nessuno si era
preoccupato di controllare che Allison fosse al sicuro in giro per le strade di
New York.
“Beh
credo di non aver bisogno di altro. Ora devo solo parlare con la signorina,
solo lei può dirci chi era ad aggredirla e se i nostri sospetti sono fondati” i miei sospetti caro sergente, che se non
era per me … ma me ne stetti zitto, non mi andava di finire ai ferri per
una parola di troppo.
“Lasciatela
riposare” li pregai “è distrutta, non credo che sopporterebbe un interrogatorio
proprio ora”. “Si tratta di un paio di domande …” insistette l’agente Thompson.
“No!” lo rimproverò il sergente Craig “torneremo domani, non si preoccupi. Ora
vorrei controllare alcune cose … arrivederci signor Hawkins, si tenga a
disposizione” “Naturalmente, arrivederci!” li salutai e me ne tornai da
Allison. Per un attimo però, mentre percorrevo il corridoio, provai la
spiacevole sensazione di sentirmi osservato. Sarà stato per lo sguardo furtivo
dell’agente Thompson che mi aveva squadrato per tutto il tempo, sarà stato lo
stato di ansia che mi portavo appresso da quando avevo messo piede in
quell’ospedale, la bruttissima sensazione che non era finito un bel niente. Mi
guardai intorno e vidi un uomo appoggiato ad una parete, che parlava ad un
telefono fisso, e che però continuava a fissarmi, incurante del fatto che io me
ne fossi accorto; mi sembrava una faccia conosciuta, un uomo di mezza età alto
alto con la testa minuta, che però non riuscivo ad associare ad un nome o ad
una situazione. Stavo quasi per avvicinarmi a lui, per chiedergli se ci
conoscessimo, se ci fosse qualcosa che non andava, ma il pensiero di lasciare
Allison ancora da sola prese il sopravvento e mi fece cambiare idea.
L’infermiera
non era rimasta con Allie, d’altronde chissà di quanti altri pazienti aveva di
cui occuparsi, ma d’altronde la mia cucciola si era appisolata e sembrava
tranquilla, forse anche per la dose di tranquillanti che le stavano
somministrando tramite le flebo. Io mi sedetti accanto a lei: vederla riposare
era il miglior auspicio dopo una giornata sbagliata come quella, non c’era
niente di meglio che potessi chiedere per lei e per me. Le presi la mano,
delicatamente per non farla svegliare, e la strinsi tra le mie, lasciando qua e
là dei piccoli baci, quasi impercettibili, sulla pelle livida e fragile.
“Tyler”
sussurrò una voce familiare alle mie spalle. Era mia madre. Le corsi incontrò e
le mi abbraccio forte. Era come quando da piccolo mi ero perso a Central Park
all’orario di chiusura, c’era da liberarsi entrambi di un bello spavento. Anche
lei si avvicinò al letto e carezzo vellutata la guancia di Allison libera dalle
bende. Mi fece tenerezza vederla trattare con tanta cura ed amore una persona
che fino a pochi mesi prima nemmeno conosceva e che ora era per lei come una figlia.
“Come
c’è finita qui?” mi domandò, sottovoce. Feci spallucce: era una di quelle cose
che ancora non riuscivo a spiegarmi e di cui non gliene avrei fatto una colpa,
ma di cui avrebbe dovuto rendere conto; non solo a me, ma anche e soprattutto
alla polizia.
“Caroline
e Les?” domandai. “Caroline l’ho portata da papà” mi disse “per una volta si
assuma le sue responsabilità e se ne occupi, non avevamo tempo di trovare una
babysitter e aspettare che arrivasse a casa. Da papà c’è Eve che la conosce e
se ne occupa meglio di chiunque altro”. Quello era vero, e oltretutto mi
rendeva felice il fatto che mia madre non tentasse di coprire le carenze di mio
padre come genitore e anzi, spingesse affinché fosse lui a prendersi cura di
mia sorella, visto che tecnicamente avevano l’affidamento congiunto. “Les è
dalla caposala …” riprese “gli hanno dato un bel malloppo di documenti da
compilare e firmare”
“Scusa
se vi ho avvertiti con un messaggio” le dissi, riportandomi vicino al letto e
vicino ad una Allie ancora dormiente, stringendole ancora le mani. Feci un
grosso sospiro e provai a nascondere un ghigno beffardo: mi aggrappavo a lei
come se fosse un’ancora, quando era evidente che tra i due non ero certo io
quello messo peggio. Dovevo essere forte per lei, ma era lei l’eroe. “Ma
credimi non ci stavo capendo niente” mi giustificai. “Senti, avete chiamato i
genitori? Io non ho il coraggio …” ammisi; ero un codardo, era poco ma sicuro,
ma chi al posto mio avrebbe avuto il sangue freddo e le palle per affrontare
tutto senza il minimo cedimento mentale. Io mi sentivo stanco, svuotato, e non
solo per la giornata di lavoro da scaffalista in libreria o perché era ora di
cena e nel mio stomaco non c’erano rimasti nemmeno i succhi gastrici: ero
stanco di dover stare sempre all’erta, di guarda perché nessuno provasse a
scalfire ciò a cui più tenevo. Ma la resistenza prima o poi cede ed io mi
sentivo sempre più vicino alla ritirata.
“Sì,
non ti preoccupare” mi tranquillizzò mia madre, massaggiandomi le spalle “arrivano
domani ad ora di pranzo, non dovrebbero avere difficoltà a cambiare i biglietti
che avevano per questo week-end”.
Mi
risollevai; avere i suoi genitori vicino sarebbe stato certamente un bene per
Allison: quale migliore occasione per stare vicini ed prendersi cura l’un l’altro.
“Povera
donna” esclamò mia madre, evidentemente riferendosi a Lois “quante gliene
dovranno capitare ancora?” Ma io la vedevo un po’ diversamente: certamente non
era stata fortunata, il destino le aveva riservato prove difficili, ma lei non
aveva provato sulla pelle quello che invece aveva vissuto Allison. Ora la capivo,
la mia piccola, quando diceva che sua madre non la capiva, che non si sarebbero
mai capite e che non bastava sedersi a prendere un caffè per risolvere il mare
di problemi, incomprensioni e rancori che c’era tra loro.
Per
cui certamente le avrei aiutate a ritrovarsi, ma certo non avrei più forzato la
mano. Spesso mi fermavo a pensare, e non a caso, che Allison avesse ragione: e
anche quella volta era così, come sempre del resto.
“Tyler?”
Les mi chiamò dal corridoio e accanto a lui il medico che, appena arrivato,
trovai al letto di Allison a medicare le ferite. Mi alzai, senza dire nulla mi
diressi fuori da … no, non eravamo in una stanza, perché c’erano solo delle
tendine a dividerci dagli altri malati… mi allontanai insomma dal letto e mi
diressi verso l’ingresso del reparto, dove c’era l’ufficio medici e lasciando
indietro anche Les e mia madre. Io mi sentivo responsabile di Allison e di
quanto le era accaduto, io ne avrei reso conto ad Allison stessa e ai suoi genitori,
nonostante lei fosse maggiorenne ed indipendente da loro.
Il
dottor Hernandes, un uomo di mezza età con la divisa verde da chirurgo ed il
camice bianco, mi condusse fino alla sua scrivania, dove aveva lasciato la
cartellina dedicata ad Allison. Sembrava un tipo taciturno e pragmatico,
nonostante le sue origine ispaniche farebbero sospettare un’indole più aperta. O
forse la questione era ben più grave e non lasciava spazio a sorrisi.
“Allora
dottore, mi dica …” lo incalzai mentre, dopo un tempo che a me era sembrato
eterno, se ne stava ancora a sfogliare le sue carte.
“Dunque”
esordì “la signorina è arrivata in ospedale priva di sensi, tuttavia i suoi
parametri vitali erano presenti, sebbene fossero alterati … e aggiungerei anche
logicamente, vista la situazione di shock e la notevole perdita di sangue subìta.
Al Pronto Soccorso sono stati eseguiti degli esami del sangue in emergenza, ma
essi sono risultati tutti nella norma e abbiamo scongiurato, per il momento, la
necessità di una trasfusione. Quando l’hanno portata qui in reparto le ho
autorizzato una Radiografia al cranio, visto che non era più priva di sensi, ma
era alquanto soporifera”. La qual cosa mi preoccupò non poco, visto che era di
là che dormiva, ma non avevo il coraggio di fare la figura di merda e chiedere
se il fatto che dormisse fosse un bene o un male. “Tuttavia” riprese l’uomo,
risollevandomi un minimo il morale “non ho riscontrato alcuna frattura al
cranio. Però nei prossimi giorni vorrei farle fare una TAC e una visita
neurologia, perché potrebbe aver subito qualche trauma che è al di là di ciò
che con i raggi possiamo vedere”.
“E
le ferite?” domandai, cercando di mostrarmi partecipe; non che non lo fossi, è
che avevo la tendenza ad estraniarmi quando ero particolarmente concentrato.
“Sono
un bel po’, sparse su tutto il corpo. Soprattutto graffi e qualche taglio”
spiegò “e tanti lividi. Mi dispiace essere così crudo, ma l’hanno riempita di
botte. La sua ragazza non mi ha risposto mentre la visitavo, perciò vorrei
escludere l’ipotesi di violenza carnale con una consulenza ginecologica.”
Bonjour
finesse. Grazie tante, eh. Raggelai e fui costretto a sedermi perché non potevo
concepire che qualcuno potesse essersi accanito su quell’esserino così fragile
ed indifeso con tanta veemenza e crudeltà gratuita. Ma quel che andava fatto,
andava fatto, dovevamo sapere tutti la verità. Soprattutto Allison.
Mi
sentivo un fuoco ardere in gola e seccarmi la lingua, atrofizzandola. Il chirurgo
venne a sedersi al mio fianco, invece che al suo posto, di fronte. Aveva una
brocca d’acqua tra le mani e me ne offrì un bicchiere. Lo feci fuori in un nano
secondo, distruggendo anche il bicchiere che era di carta. Il mio interlocutore
non si scompose, probabilmente aveva a che fare con gente come me tutti i santi
giorni.
“Non
si preoccupi” mi disse, dimostrandosi finalmente più gioviale “gliela rimetto
in sesto la sua ragazza!”
Ed
io tirai fuori un leggero sorriso, sollievo misto a tutta quella stanchezza
accumulata. Non mi interessava se fosse rimasta qualche cicatrice, non mi
importava se avesse zoppicato o se avesse dovuto portare gli occhiali per
leggere d’ora in avanti, l’importante era riaverla con me, a casa, seduta sul
letto con il computer portatile sopra le gambe o allungata in poltrona a vedere
la serie tv di turno. Mi interessava poterla abbracciare di nuovo, soprattutto
senza dover più temere niente e nessuno.
Passammo
la notte da soli, io ed Allison, nonostante mia madre mi avesse implorato di
lasciarle il posto, ma dormire a casa, da solo, sapendo lei in un letto d’ospedale,
era impossibile. Così restammo lì, io nella poltroncina più scomoda del mondo e
lei nel letto, immobile ma smaniosa, ora infastidita dalla luce di corsia, ora
per la sirena di un’ambulanza, ora per i dolori che le riaffioravano.
Il
mattino dopo, mi allontanai giusto l’oretta necessaria a me per tornare a casa
e per cambiarmi, a lei per essere ripulita da capo a piede dalle infermiere,
che gentilissime le fecero il bagno a letto, togliendo tutto il sangue anche
dai capelli con un bello shampoo, anche se non capivo bene la dinamica del loro
operare. Avevamo detto loro che sarebbero arrivati i suoi genitori e loro le dissero
che non poteva farsi trovare sporca e puzzolente (sì, puzzava leggermente). A sua
madre, e qui dovevo dargli ragione, sarebbe preso un infarto. Sembrava stare
meglio Allison, il che mi mise decisamente di buon umore. I dolori li aveva
ancora dappertutto, come giusto che fosse dopo quello che aveva passato e
nonostante la dose di antidolorifici fosse ancora massiccia, ma sembrava sopportarli
meglio e lo spavento sembrava essersi allontanato. Era una leonessa la mia
Allie, e come tale si sapeva rialzare alla grandissima. Era molto più forte di
me, su quello c’erano pochi dubbi.
Quando
tornai, più tardi del previsto, mi incontrai con i genitori di Allison giusto
fuori dalla porta del reparto, e capii che non era il momento per entrare. Li
abbracciai entrambi, visto che era dalla mia toccata e fuga da Indianapolis che
non li vedevo. Li avevo sentiti spesso, ma era la prima volta che me li
ritrovavo davanti da quando ero tecnicamente loro genero; faceva uno
stranissimo effetto.
“C’è
il medico legale dentro” mi disse Doug. Mi prese un attimo un attacco di
panico, ma poi mi ricordai che non fanno solo autopsie quei poveretti. “È
venuto con la polizia, sta analizzando tutte le ferite di Allison” mi spiegò
infatti Doug … mio suocero. Si, era decisamente strano, meglio togliersi quella
idea stramba dalla testa.
Lui
era al solito una roccia, stava in piedi davanti alla porta d’ingresso e
sembrava non scalfirlo nulla. Lois invece era come la ricordavo, la casalinga
per bene della borghesia di provincia, camicia e gonna, filo di perle
perennemente al collo e borsetta sopra le gambe, impaziente e nervosa, come se
fosse seduta su un letto di chiodi anziché una panca in plastica. Voleva bene
alla sua bambina, allo stesso modo di suo marito, eppure c’era qualcosa che si
era rotto qualche anno prima, qualcosa che ora da parte sua era tornata
apposto, ma che Allison doveva ancora ritrovare.
“Come
siete arrivati fin qui?” le domandai, sedendomi accanto a lei per rompere il
ghiaccio e tentare di calmarla. “Il signor Hawkins … ehm, tuo padre. È stato
così gentile da mandare il suo autista a prenderci all’aeroporto” immaginai che
mia madre dovesse aver suggerito quella mossa, sebbene agli occhi del suo
dipendente e sua moglie apparisse l’immagine di un uomo gentile e premuroso. “Lo
abbiamo trovato qui quando siamo arrivati … è venuto a trovare Allison prima di
andare a lavoro” intervenne allora Doug. Questa proprio non me l’aspettavo. “Oh
Tyler è stato così gentile” proruppe allora Lois “ci ha invitati a stare nel
suo appartamento fin quando non ripartiremo. Ma non vogliamo abusare della sua
generosità”
“E
perché no?!” obiettai. Quando vi ricapita
tanta generosità da parte di quell’orco, pensai. “Lui non c’è mai a casa,
molte volte si ferma persino in ufficio a dormire … ha una piccola stanza lì. Sapete
com’è … ha sposato il suo lavoro”
Odiavo
me stesso per risultare così gentile e garbato nei confronti di un uomo come
Charles che non lo meritava, ma loro avevano un’altra immagine di lui che non
mi sentivo di distruggere.
Vidi
Doug tentare una replica, ma ogni sua parola venne strozzata in bocca da un
urlo agghiacciante che venne direttamente dal reparto. Non bastarono le pareti
semi isonorizzate ad attutirlo. Ci guardammo terrorizzati ed io corsi avanti,
battendo contro la porta chiusa a chiave affinché aprissero. Una volta dentro
mi fiondai verso il letto di Allison, ma venni bloccato dai poliziotti che
avevo conosciuto il giorno prima. L’unica che fecero passare fu la madre, Lois.
Mentre Doug chiedeva, concitato, spiegazioni, tutto quello che io riuscivo a
sentire erano il pianto inconsolabile della mia Allie e le sue grida quasi
incomprensibile. “Guarda! Guarda!” sembrava dire tra i singhiozzi, forse
rivolgendosi a sua madre.
Spinsi
per andare oltre e raggiungerla, ma il poliziotto che avevo ribattezzato il
gorilla, di cui non ricordavo il nome, mi fermò dicendomi che era stata Allison
a chiedere di non lasciarci avvicinare. A cosa era dovuto questo cambiamento
così repentino? Perché aveva consentito a sua madre di avvicinarla e a me e a
suo padre no?
Intanto
il dottor Hernandes parlava con Doug, così mi avvicinai a loro, sperando che il
mio nervosismo si placasse. “La ferita che però più mi preoccupa è quella al
volto” spiegò il chirurgo “spero che si rimargini bene altrimenti dovremmo
intervenire chirurgicamente.” Dunque era per quello che Allison stava urlando:
una brutta ferita profonda sul volto. Non voleva farsi vedere, soprattutto da
noi che le eravamo più cari, ma avrebbe dovuto sapere che per noi non era il
volto a renderla la persona speciale che era. “Ne ho già parlato prima con i
poliziotti” riprese “perché sinceramente appena medicata mi è parsa subito
molto strana … quasi intenzionale”
“Che significa intenzionale?” intervenni. Non
capivo; ogni singola ferita procurata era intenzionale, non possono averla
ridotta ad uno straccio accidentalmente.
“È
la forma che mi ha insospettito, non è quella di una ferita inferta a caso … è
come se avessero voluto sfregiarla, lasciarle un marchio … ed il medico legale
è della mia stessa opinione. E le urla della povera Allison hanno confermato i
nostri sospetti …”
Vidi
in fondo al corridoio Lois che usciva dalla piccola stanzetta di fortuna dove era
ricoverata Allison. Era seria, provata. Fece cenno a me e Doug di venire
avanti. Poco prima che potessi essere sufficientemente vicino da vedere Allie
oltre la coltre di medici e infermieri che la coprivano, Lois si avvicinò e
poggiando una mano sul mio petto mi bloccò. “È sconvolta, la stanno sedando … è
terribile quello che le hanno fatto, povera la mia piccola”.
Ero
ancora più scioccato, perché non riuscivo a capire cosa ci fosse che non
andava, oltre la ferita che le avevano lasciato sul volto. Era stata
violentata? … no, non dovevo pensarla nemmeno una cosa tanto brutta. Chi era la
carogna che avrei dovuto mangiarmi fino all’ultimo grammo di carne?
Mi
avvicinai, cauto, temendo che solo a vedermi si sarebbe agitata ulteriormente
ed era l’ultima cosa che tutti noi volevamo. Non sapevo cosa aspettarmi,
sinceramente … una bruciatura, una guancia corrosa dall’acido … nessuno che si
fosse degnato di prepararmi. E tremavo, tremavo come una foglia. Non perché avessi
paura di vederla, ma perché avevo il terrore che i miei occhi e il mio viso
potessero tradirmi ed ingannare Allison. Non l’avrei mai lasciata, ma una
reazione sbagliata, anche non voluta, avrebbe potuto far crollare tutto. Tieni
duro cuore, sii forte, pregavo dentro di me.
Fu
allora che la vidi: i nostri sguardi si incrociarono e in lei il lago di
lacrime torno prepotente a galla, come se non avesse pianto fino ad allora. Mi focalizzai
sui suoi occhi, così verdi e così lucidi, così splendidi che quasi non vidi il
grande squarcio sulla gota sinistra. Erano più d’uno anzi, quattro linee
oblique che riempivano l’intera guancia, unite a formare un disegno continuo,
una lettera forse, la W. Lei continuava a fissarmi, come se cercasse qualcosa
in me, come se mi implorasse. Cosa voleva? Perdono? Scuse? Non c’era niente da
perdonare e niente per cui scusarsi. Io la volevo solo vedere felice. Eppure non
c’era niente di felice in quegli occhi, quegli occhi così tristi che le avevo
visto solo una volta da quando la conoscevo: quando, cioè, scappò via dai suoi
aguzzini che volevano farla fuori. Quando non aveva più nulla, quando era solo
una ragazzina che per tanto tempo aveva negato anche a sé stessa la verità di
quella squallida vita.
Poi
ebbi un lampo, il ricordo di quella mattina, dopo che avevamo fatto l’amore la
prima volta, quando incontrò mia madre e le confessò quale fosse il suo mestiere.
“Per quanto mi ostini a ripetere a me stessa e
agli altri che sono una ballerina io sono una prostituta!”
Mi
sedetti sul letto, accanto a lei, che mi abbracciò forte, come non aveva mai
fatto prima, e scoppiò di nuovo a piangere. Nessuno era rimasto attorno a noi,
nessuno che ci fosse né d’intralcio né d’aiuto; non ne avevamo bisogno: ancora
una volta ci bastavamo, io e lei insieme.
Non
era stata violentata: peggio. Le era stato inflitta una punizione, un marchio
perenne. Lei lo aveva sfidato ed era sopravvissuta, lo ha sfidato di nuovo e lo
ha quasi messi in galera e lui ha risposto così, imprimendole sulla pelle il
ricordo di ciò che era stata e che secondo lui sarebbe stata per sempre.
W.
Whore. Puttana.
No,
non per me. E mentre la consolavo, avevo ancora addosso la sensazione di un
paio di occhi che mi fissavano.
NOTE FINALI
Oggi mi trovate di pochissime parole. Ho una connessione di cacca XD e questo capitolo mi ha letteralmente prosciugata.
Spero vivamente che abbiate voi qualcosa da dire a proposito perché vi
lascio la parola e vi do appuntamento tra un paio di settimane. Se
siete shockate lo sono io quanto voi...forse un po' di più...perché ho
dovuto trovare le parole giuste, quando di parole ce ne sono veramente
poche.
Vi lascio solo un paio di appunti per la riflessione: ecco spuntare un
nuovo personaggio, Neil Craig, padre di una certa Alyssa Craig, interpretata in Remember Me dalla bellissima e dolcissima Emilie De Ravin ... e
poi, di chi sono quel paio di occhi che Tyler continua a sentirsi
addosso?
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 30 *** Lay & Love ***
When you crash in the clouds - capitolo 29
Capitolo 29
Lay & Love
soundtrack
Si
era riusciti a calmarla alla fine, rassicurandola che quello sfregio non
sarebbe rimasto sul suo volto a lungo, che avremmo cercato il miglior chirurgo
plastico del mondo se fosse stato necessario. Per ora, però, altro non si
poteva fare che coprire con una benda e sperare che non ci cadesse l’occhio
sopra; solo così, per il momento, si poteva evitare di rinnovarle il dolore che
aveva dentro, anche se con scarsi risultati.
La
cosa che però mi rendeva felice, anche in quel momento in cui non avrei dovuto
esserlo, era sapere che lei mi voleva al suo fianco e quasi non mi permetteva
di lasciarla sola. E non sarei stato certo io a fare il guastafeste della
situazione. Ero lì con lei anche quando la polizia andò ad interrogarla, il
giorno seguente, quando i medici avevano scongiurato ogni complicazione
cerebrale e autorizzato l’incontro con le forze dell’ordine. Presto sarebbe
anche tornata a casa … ma una cosa per volta.
“Allora
signorina” iniziò il sergente Craig, affacciato alla finestra della stanza che
finalmente si era resa disponibile per Allie “io lo so che per lei non è
difficile, ma la prego di fare uno sforzo e cercare di aiutarci il più
possibile. Le prometto che faremo il massimo per dargli quello che si meritano”
Non
sembrava il genere di poliziotto insensibile e tutto d’un pezzo, anzi sembrava
essere davvero preoccupato per Allison e il suo modo di fare aveva infuso
grande sicurezza in tutti noi. Sapevamo che non sarebbe stato facile ritrovare
quei bastardi, neanche se Allison avesse fatto nomi e cognomi, soprattutto
quando c’è di mezzo un giro di affari loschi e malavita organizzata come
quella. Non avevo mai ben capito cosa ci fosse sotto, mafia russa o cinese,
boss sudamericani, o altro: non ne avevamo mai parlato apertamente con Allison
né io ero stato lì a fare domande; lei diceva sempre “il boss qui, il boss là”,
ma non sapevo con esattezza se fosse il capo dei capi o un piccolo frammento
del quadro più esteso. Era una parte delicata della sua vita che non me l’ero
mai sentita di riportare a galla.
“Forza
Allison” la incitò ancora l’uomo “raccontami come sono andate le cose”
Vidi
Allison prendere un respiro profondo, mentre io me ne stavo ad un angolo della
stanza, in piedi e a braccia conserte, quasi trattenendo il respiro, come se
avessi paura di rompere quell’ecosistema delicato e precario che si era venuto
a creare. “Ero … ero andata nel Queens” cominciò lei, apparentemente
tranquilla; io sapevo benissimo che non lo era per niente, lo vedevo da come
stava martoriando quelle povere lenzuola. Dunque era stata davvero nel Queens,
non aveva fatto nulla di avventato come in un primo momento avevo temuto.
“Dovevo
vedere alcune case in affitto, e ho passato lì tutto il pomeriggio”
“C’è
qualcuno che può confermarlo?” domandò lui, mentre un suo giovane collega, non
il gorilla, che era invece rimasto di guardia fuori, prendeva appunti su un
piccolo block notes, ansioso di non perdere nulla. Aveva tutta l’aria di essere
un damerino alle prime armi e di essere al primo caso davvero importante della
sua vita, ed aveva addosso tutta l’eccitazione e l’agitazione di non sfigurare
davanti al capo che gli aveva fatto la grazia di averlo portato con se.
“Naturalmente”
rispose lei “l’agente immobiliare che mi ha accompagnata”
“Hai fatto o ricevuto qualche telefonata?” “Mi ha chiamata la signora Diane
Hirsch, la madre di Tyler … e poi beh, io e lui” disse Allie indicandomi “ci
siamo scambiati parecchi messaggi durante il pomeriggio, l’ultimo prima di
andare a prendere la metropolitana”
“Perfetto”
commentò il poliziotto. Ricordavo bene quel semplice messaggio, l’avevo letto e
riletto per non so quanto tempo, aspettandone un altro che non arrivava mai,
che non sarebbe mai arrivato. “Hai notato qualcosa di strano nel pomeriggio?”
continuò l’uomo. “Strano?” domandò lei. “Sì … che so … una macchina che ti
seguiva, qualcuno che ti fissava insistentemente o che ti ha avvicinato
facendoti strane domande, qualsiasi cosa … anche una spallata innocente
potrebbe essere sospetta”
Ma
lei scosse il capo vigorosamente. “È stato un pomeriggio assolutamente normale,
niente di strano che io possa ricordare … mi dispiace”
Era
assurdo che lei si sentisse in fallo, colpevole di non riuscire a ricordare
nulla di particolarmente interessante per un investigatore. Ma lui capì il suo
stato d’animo e le si avvicino, carezzandole lievemente la testa, come forse
solo un genitore sa fare. “Non ti preoccupare Allison, va bene così … andiamo
avanti. A che ora sei scesa a prendere la metropolitana?”
“Sette
e un quarto, sette e venti … non ricordo di preciso” disse, ma si vedeva che si
stava agitando, perché la voce aveva preso a tremare e correva mangiandosi le
parole “dovrebbe esserci…dovrei avere il …il biglietto nella mia borsa, nel …
nel portafogli se vuole l’orario preciso”
Con
un cenno, il sergente indicò al suo attendente l’armadietto, dove aveva ci
aveva visti riporre la borsa, e il ragazzo … non poteva avere che un paio
d’anni più di me, corse impacciato ad eseguire l’ordine. Ma era talmente goffo
che in una sola mossa aveva scombinato tutto l’ordine certosino che la mamma di
Allison aveva fatto. “Aspetta … lascia stare” intervenni, cercando di tamponare
quel disastro che aveva fatto. “Ecco!” dissi, passandogli la borsa.
Immaginavo
che non potesse servire più a cercare impronte, visto che era passata in mano a
non so più quante persone, e immaginavo che il sergente lo sapesse anche meglio
di me. Intanto prese il biglietto della metro. Probabilmente sperava di
risalire a qualche telecamera a circuito chiuso tramite l’orario.
“Poi
sono salita sul vagone per tornare a casa” ricominciò Ally senza che nessuno
l’avesse interpellata. Sembrava lei un vagone in corsa. “era pieno zeppo,
c’erano solo posti in piedi e così mi aggrappai ad un corrimano e stetti ad aspettare
che si liberasse qualche posto. Facemmo un paio di fermate … forse tre e poi
iniziò un tratto lungo, senza fermate. Fu lì che mi venne puntata una pistola
alla schiena…”
A
sentire quelle parole non ressi più. Mi ero avvicinato al letto e avevo preso
dal comodino una bottiglietta, per porgere ad Allison un bicchiere d’acqua.
Aveva la gola completamente secca e la lingua incordata dalla salivazione
azzerata, si percepiva dallo sforzo enorme che faceva per scandire ogni parola.
Ma il bicchiere d’acqua finì a terra, rompendosi, e la bottiglia, rovesciatasi,
riversò tutta l’acqua sul pavimento. “Scusatemi … scusatemi” fui solo capace di
dire mentre, ormai agitato ed in profondo imbarazzo, mi davo da fare per
asciugare il pavimento, consumando tutto il rotolo di carta per le mani che era
in bagno. Il sergente mi fece aiutare anche dal giovane agente Cody Rogers,
nome che scorsi dal distintivo. Nel frattempo, il suo capo non si fermò e cominciò
anche a prendere gli appunti per l’interrogatorio.
“Gli
hai visti in faccia?” chiese. “No…mi hanno minacciata dicendomi che se solo
avessi provato a girarmi avrebbero sparato a me e a qualche passeggero a caso
sul treno. Non potevo rischiare…”
“Mmm …” mugugnò lui “nessuno si è accorto di nulla quindi” “No..non credo, non
penso. C’era molta gente, non ci si poteva muovere, figuriamoci guardarsi
intorno…no, era impossibile”
“Poi cosa successe?” “Alla fermata successiva mi dissero di scendere e di non
voltarmi o provare a scappare perché mi avrebbero gambizzata se solo ci avessi
provato…e quella è gente con cui non si scherza. Se promettono una cosa la
fanno. Comunque non avevo idea di dove fossimo, non me lo ricordo…non ho avuto
il tempo di guardarmi intorno. Ma non era una fermata molto frequentata, con
noi non scese nessuno. Risalendo in superficie all’uscita della metro mi
condussero fino ad un vicolo cieco, senza illuminazione. Lì mi bendarono e
legarono e mi fecero salire di peso sul retro di un furgone e partimmo”
“Eri
da sola lì nel retro?” “Immagino di sì…non vedevo nulla, l’unica cosa che
ricordo è il rumore di una pistola o di un fucile … non lo so … che veniva
caricato”
“E
le voci? Te le ricordi le voci?” “Beh sì …” “Cosa mi sai dire? Qualunque cosa
può aiutarmi ed aiutarti Allison”
“Ma
non le basta signore?” intervenni, stufo di vedere Allison che si stava
letteralmente ammazzando per ricordare ogni singolo dettaglio, che stava
provando il terrore di quella sera di nuovo sulla sua pelle. Lui non la
conosceva, ma ogni movimento del suo corpo, ogni tensione di muscolo ed ogni
incrinatura della sua pelle mi faceva stare sul chi va là.
“Sto
bene Ty” mi tranquillizzò Allison. Lei si preoccupava per me, ma non si curava
di sé stessa, non lo faceva mai. Il sergente dal canto suo rimase in silenzio,
comprendendo la mia posizione ed aspettando che fosse Allison a decidere cosa
fare. “No, non stai bene” insistetti “il medico dice che devi riposarti”
“E
lo farò” promise, prendendomi per mano, quando mi riavvicinai a lei una volta
terminato il mio lavoro di pulizie “ma è meglio che io finisca questa cosa al
più presto possibile e che io dica al sergente Craig tutto quello che so e che
ricordo ora … domani potrei aver perso già molti dettagli”.
Da
quel punto di vista poteva anche avere ragione, ma non volevo che impazzisse
andando dietro a dei ricordi tanto dolorosi. Ma sembrava non importarle o non
avere timore. Da dove le veniva tutta quella forza e quella sicurezza?
“Se
non ce la fai a sentirmi, puoi anche uscire … lo capisco” “No, io sto qui con
te, non ti lascio” dissi, fermamente, baciandole la mano. Così la lasciai
continuare.
“Le
voci erano tre, tutte maschili. Le due che mi avevano braccata sulla metro e
l’altra probabilmente era dell’autista del furgone. Lui era americano, o
comunque parlava inglese senza particolari accenti, gli altri due avevano
l’accento spagnolo”
“Messicani?”
“Forse … o di qualsiasi paese del centro o sud America dove si parla spagnolo”
“Le
avevi mai sentite prima?” “Quella dei due uomini no … l’autista sì. Era uno dei
buttafuori del locale, John, non so il suo cognome” “Sapresti farne un identikit?”
“Naturalmente…” John lo ricordavo anche
io: come dimenticare l’uomo che mi aveva spaccato la faccia. L’altro invece … tutt’a
un tratto ebbi come un’illuminazione. Bastò che Allison pronunciasse la parola
buttafuori per ricordarmi dove avevo già visto quell’uomo che da due giorni
gironzolava intorno al reparto, fissandomi insistentemente ogni volta che gli
rivolgevo lo sguardo. Uno spilungone con la testa piccola, Dean, il buttafuori
che per poco non ridusse me ed Aidan in poltiglia la prima volta che entrammo
nel Don Hill e lo stesso che mi lanciò fuori dal locale quando provai a
picchiare un vecchio porco.
Nel
frattempo, mentre Allison e i poliziotti continuavano a parlare di come, quando
e perché l’avessero condotta nel vecchio motel dove abitava, dove ad aspettarla
c’era Mr Don Hill in persona, che tutti chiamavano così, ma era chiaro che non
fosse il suo vero nome; lei pensava fosse russo o qualcosa del genere, perché
il suo accento lo tradiva. Lei era la prima volta che lo incontrava, avevano
sempre “trattato” per intermediari, tuttavia non ebbe modo di vederlo in faccia
perché l’avevano lasciata bendata. Non sentii più nulla del suo racconto, né di
lei di cosa si sono detti, né e soprattutto di quando hanno alzato le mani su
di lei. Avevo resettato completamente il mio cervello, concentrandomi su
quell’uomo che, evidentemente ci avevano messo a farci da guardia, senza
nemmeno curarsi troppo di rimanere nell’ombra: o erano scemi, o erano
incredibilmente sicuri di loro stessi. Non sapevo come dirlo al sergente,
soprattutto nei riguardi di Allison che non doveva preoccuparsi troppo.
Speravo
che il gorilla lì fuori se ne fosse già accorto e che presto ci avrebbe dato
lui stesso la notizia e lo avrebbe fermato. Certo, sarebbe stato interessante
uno scontro tra titani, visti i soggetti, ma preferivo che ad avere la meglio
fosse il gigante buono, ovviamente.
“Chiedo
… chiedo scusa” interruppi la conversazione tra Allie e il sgt. Craig “Allie io
scendo al bar, ho bisogno di un caffè … vuoi qualcosa?”
“No,
grazie Ty, va pure” rispose lei, dolcemente, come se avesse capito che il mio
era solo un pretesto; non che ci volesse un genio per capire che stavo accampando
una scusa qualsiasi per uscire da quella stanza, dove l’aria era diventata decisamente
irrespirabile. Tra Allie che indugiava nei particolari del massacro e gli
sbirri che la spalleggiavano, mi sentivo imprigionato in qualcosa che non mi
apparteneva. Avevo fatto l’eroe troppo a lungo, ed Allison non mi aveva mai
chiesto tanto: me lo diceva sempre, ma non le davo mai ascolto. Era arrivata
l’ora del time-out, di staccare la spina e prendersi almeno cinque minuti per
tornare ad essere un ventiduenne irresponsabile ed ingenuo, che nulla sa della
malavita se non quelle poche notizie che sente al notiziario la sera.
“Lei
sergente?” domandai, garbato, prima di lasciare la stanza “prende qualcosa?”
“No
grazie ragazzo … noi siamo apposto” rispose, anche a nome del collega a lui
sottoposto.
Presi
ad aspirare fumo dalla sigaretta, seduto ad una panchina all’ingresso
dell’ospedale, il bicchiere di caffè al mio fianco. Ma né la nicotina, né la
caffeina mi davano più soddisfazione, non placavano più i miei malumori come
una volta. Anzi, mi ritrovai senza pensarci troppo a gettare a terra una
sigaretta consumata per metà, disgustato da quella esalazione fatta ormai più
per vizio che per piacere oggettivo. Non ricordavo più né quando né perché
avessi iniziato, ma ora sentivo che era arrivato il momento di provare a darci
un taglio, e non solo perché individui in divisa bianca mi avevano guardato in
cagnesco per aver osato fumare una sigaretta alle porte di un nosocomio.
Provai
a fare il punto della situazione, sorseggiando il mio caffè e osservando
l’andirivieni di gente che mi passava davanti: donne gravide o neomamme,
ragazzini ingessati o anziani in sieda a rotelle, ragazze bellissime ma con
foulard che tentano invano di coprire un male che va ben oltre qualche ciocca di
capelli in meno. Cosa ero io confronto? Ed eccolo di nuovo, quel senso
opprimente di impotenza, riaffacciarsi sfrontato e bastardo, a comprimermi il
cuore, a levarmi il fiato. Mi accasciai quasi sulla panca, letteralmente
ripiegato su me stesso, le mani giunte, balbettando una preghiera qualsiasi, retaggio
di una infanzia passata con una nonna pia che mi aveva insegnato a recitare le
sue devozioni a memoria. Ma la mente era stata svuotata di tutto, come un
computer in sovraccarico che viene formattato. Si poteva finire così? No, non
di certo. Tutto l’amore che avevo dato e ricevuto non era stato vano, era
ancora lì, racchiuso in un cuore che non ha smesso di battere neanche per un
secondo, forse un po’ stordito dopo le continue percosse. Illividito forse, ma non
ferito a morte.
Mi
rialzai dopo aver schiarito le idee, pronto a riaffrontare di nuovo la
trama
della vita che il destino aveva tramato per me; avrei voluto la vita
noiosa e stupida di molti miei coetanei, ma se quello era il prezzo da
pagare per poter
amare – ed essere amati – dalla donna che avevo al mio fianco … beh
allora
avrei alzato le mani e avrei dichiarato la mia resa.
Fermo
davanti alle porte degli ascensori, erano già cinque minuti che attendevo il
mio turno … sarei arrivato già a destinazione se avessi preso le scale, ma ero
troppo pigro perché sei piani di scale potessero attirare la mia attenzione. Decisi
di prendere comunque l’ascensore alla fine, nonostante andasse ai piani
sottostanti … l’importante era riuscire a salirci. Infatti, quando tornammo a
pian terreno, eravamo di nuovo strapieni, che solo un paio di persone
riuscirono a salire. Fu lì che lo vidi, l’uomo/vedetta, che da quando eravamo
in quell’ospedale non aveva fatto altro che osservarci, come il peggiore degli
avvoltoi; lui però, a dispetto di un’altezza ragguardevole, non mi vide tra la
folla, compresso com’ero nel vano dell’ascensore. Tentai di sfruttare la sua
distrazione a mio favore e, una volta arrivato al livello del reparto dove era
ricoverata Allison mi decisi ad aspettarlo e ad affrontarlo. Non avrei dovuto
fare l’eroe, non era gente dalle buone maniere quella … non c’avevano messo
niente a rovinare la faccia di Allison, non sarei stato certo io ad
impressionare un bestione come quello.
Ma
volevo togliermi la soddisfazione di guardarlo dritto negli occhi e sputargli
in faccia tutto il mio schifo, e poi avrebbe potuto fare di me quello che
voleva.
Avevo
recitato per tanto tempo la parte dell’eroe buono, quando in realtà non ero da
paragonare nemmeno al Robin di Batman, ero sempre il primo nella lista dei
conigli. Ma quella era una cosa da cui non potevo esimermi.
Mi
sedetti nella sala d’attesa di fronte all’ingresso del reparto, dove i parenti
senza permessi speciali aspettavano l’inizio dell’orario visite; lui avrebbe
dovuto fermarsi lì, non l’avevo mai visto aggirarsi nel reparto oltre quel paio
d’ore giornaliere regolamentari. Pochi minuti dopo, infatti, eccolo spuntare
con il suo passo pacato ma impavido, come di chi sa il fatto suo. Anche se
avesse voluto, non avrebbe potuto passare inosservato dall’alto dei suoi due
metri di altezza. Indossava un paio di jeans e una tshirt slavata, un gilet che
immaginai essere un giubbetto antiproiettile e un auricolare all’orecchio
destro. No, decisamente era sua intenzione far notare la sua presenza: come
monito, come a dire “noi siamo qui … ci siamo sempre … guai a voi”
Si
sedette di fronte a me, un paio di posti più a destra, fingendosi intento alla
lettura di un giornale: ma quegli occhi erano troppo vispi e troppo attenti ad
altro per seguire il filo di un articolo.
Presi
un respiro profondo. “Puoi farcela Tyler … devi farlo per lei” mi incoraggiai
quando, da codardo qual ero, mi balenò in testa che forse sarebbe stato più
corretto far intervenire la polizia anziché immischiarmi in faccende così
pericolose.
Mi
portai a sedere proprio di fronte a lui ed attirai la sua attenzione chiedendo
gli l’ora esatta. Notai che il mio approccio lo mise a disagio e la cosa mi
stupì: se era stato tanto spavaldo da farsi notare, perché aveva timore di me?
“Ha
qualche parente ricoverato in chirurgia?” gli domandai a testa alta e
accomodandomi meglio sul seggiolino di plastica, mostrando una finta sicurezza.
In realtà me la stavo facendo addosso come mai prima di allora. “L’ho notata
nei giorni scorsi …” continuai, ma lui accennò un mezzo sorriso e annuì,
scocciato dalla mia ingerenza. Chiunque avrebbe potuto pensare che la causa del
suo malumore fosse il mio fare scortese ed inopportuno, soprattutto perché
generalmente la malattia ed il dolore non sono un buon argomento di
conversazione. Ma sapevamo entrambi che non era così.
“Scusi…devo
fare una telefonata” bofonchiò, alzandosi e andando verso un’uscita secondaria
del pianerottolo, che conduceva agli ascensori di servizio.
“Ehi!
Ehi!” lo chiamai, venendo rimproverato da un paio di vecchiette. Provai a
corrergli dietro ma barella con un malato di ritorno dalla sala operatoria mi
ostruì la strada e raggiunsi l’ascensore solo quando le porte si furono
richiuse davanti a me. Sbattei i pugni contro le porte un paio di volte dalla
rabbia ma per fortuna nessuno se ne accorse. Presi così a scendere le scale
all’impazzata, quasi rischiando di rotolare giù a valanga per aver saltato un
paio di gradini, sperando di vederlo almeno uscire dall’ascensore. La sorte mi
fu vicina almeno in quell’occasione, perché del personale di servizio aveva
bisogno dell’ascensore per trasportare un carico di medicinali dalla farmacia
fino all’ultimo piano, quindi fu costretto a scendere. Fu lì che lo persi,
saltandogli letteralmente addosso. Non ero pesante, ma l’effetto sorpresa mi
permise di atterrargli comodamente alle spalle e buttarlo a terra. Avevo
qualche secondo prima che la sua reazione mi mettesse k.o., ma forse penso che
l’ospedale non fosse il posto migliore per massacrarmi di botte, soprattutto
quando ci sono delle guardie pronte a metterti dietro le sbarre qualche piano
più in alto, e così si limitò a rimetterci entrambi in piedi e a condurmi verso
un cortile interno della struttura, dove il personale si lasciava andare nei
momenti di pausa.
“Guarda
che non ti faccio niente … ma tu non devi fare certe cazzate!” mi disse l’uomo
“ringrazia che non c’era nessuno in giro … come ti è saltato in mente di
aggredirmi in quel modo!!!” Effettivamente la mia era stata la genialata del
secolo, mi capitava spesso di farne: avevo rischiato io di finirci dietro le
sbarre anziché mandarci lui.
“Non
ci siamo presentati” esordì lui “io sono Dean Johnson”
“Piacere”
risposi alla sua stretta di mano “ io so-” E lì mi fermai. Se era nel medesimo
giro in cui Allison era fino a qualche mese prima, e se era il primo nella
lista degli scagnozzi del suo aguzzino, non c’era da fidarsi manco per niente.
Poteva
avermi mentito sul suo nome, oppure poteva essere stato sincero sulle
credenziali ma rimanere uno stronzo voltagabbana pronto a fare amicizia con me
e a sputtanarmi con chi di dovere un secondo dopo, al solo scopo di finire il
lavoro che avevano iniziato con Allie. Per cui serrai per bene la bocca.
“Io
so chi sei” sputai, incazzato ma sicuro che non mi avrebbe potuto fare niente
davanti ad altra gente. Anche se sembrava proprio quella la sua intenzione. “Tu lavori al don Hill … come posso fidarmi di
te?”
“Perché non dovresti?” domandò lui, tranquillo, come se avesse la coscienza
pulita.
“Come
posso fidarmi di uno che viene da quello schifo di posto … chi me lo dice che
questa non è un giochetto per farmi parlare?”
Ai suoi occhi dovevo sembrare un ragazzetto che giocava a fare il poliziotto e
che aveva visto troppi episodi di Criminal Minds. Dovevo farlo ridere, ero lo
scemo del villaggio al suo confronto, ma rimaneva impassibile ed
imperturbabile.
“Solo
tu puoi decidere se fidarti o meno di me” rispose lui, calmo “ma a mio parere
di conviene. Io non sono qui per farti del male, te l’ho già detto. E ho
bisogno che mi aiuti …”
Io?! Ma per chi mi avevano preso … per una crocerossina? Per madre Teresa,
forse? Io non riuscivo a cavarmela da me per allacciarmi un paio di scarpe e a
saltava sempre fuori che ero indispensabile a tutti.
“Cosa
vuoi da me?” domandai.
“Ti
ho visto vicino a quella ragazza che è ricoverata in chirurgia, quella che è
stata picchiata … e ti ho visto parlare con la polizia. Ho bisogno che mi aiuti
a raggiungere un accordo con la polizia?” “Che genere di accordo?” “Io parlo …
ma devo uscirne pulito”
“Ma tu sei pazzo!!! Ma per chi mi hai preso? Posso darti il numero di un buon
avvocato, anche del principe del foro newyorkese se vuoi, ma se vuoi andare
dalla polizia a costituirti devi farlo per assumerti ogni responsabilità e pagare
il tuo debito con la giustizia, non per ricevere una condanna a saldo. Non è
così che funziona”
“Ma
io ho le mie buone ragioni…”
“Anche
quella povera ragazza aveva le sue buone ragioni per vivere in santa pace” gli
urlai contro, sprezzante “ma tu lo sai che cosa hanno fatto i tuoi amici alla
mia ragazza?” Venni colto da una risata isterica e non mi accorsi di aver
parlato troppo. “Certo che lo sai …” ripresi “altrimenti non staresti qui a
farci da guardia”
“E
così sei il ragazzo di Allison?!” domandò “e brava la piccolina!!!”
“Tu
… tu conosci il suo nome vero?” chiesi, interdetto, distogliendo la mia
attenzione dalla sfuriata. “Sì … conosco i nomi di tutti lì dentro. Ero il
responsabile della sicurezza, non un semplice buttafuori. Mi occupavo di documenti,
identità, sviare i controlli della polizia … era tutto sotto il mio controllo”
“Era?”
domandai. Lui annuì. “Me ne sono andato l’altro giorno, dopo quel capolavoro
che hanno fatto ad Allison …” affermò, distogliendo lo sguardo da me e puntando
altrove, gli occhi nascosti dagli occhiali da sole “… ne avevo fatte tante di
cose scorrette e illegali, non ero certo fiero di me stesso … ma quando l’unica
cura per tuo figlio costa centomila dollari e l’assicurazione non copre certe
spese faresti di tutto … di tutto”
La
fame, la disperazione, eccole di nuovo. Le avevo viste negli occhi di Allison
quando l’avevo conosciuta, le percepivo di nuovo nella voce di quell’uomo tanto
grande e grosso quanto fragile.
“Ma
quello che mi avevano chiesto di fare ad Allison non potevo tollerarlo … è solo
una bambina. Così me ne sono andato … ora vorrei solo rifarmi un’altra vita.
L’ideale sarebbe cambiare città … ma mio figlio non può interrompere le sue
terapie quotidiane. Così ogni giorno sarà una battaglia per sopravvivere …
letteralmente”
Non
lo interruppi perché sentivo che il suo era solo uno sfogo di cui aveva bisogno
per se stesso, piuttosto che la voglia di parlare davvero con me della sua
tragica storia. Avrei voluto recriminare sulla ragione che gli aveva impedito
di far del male ad Allison; diverse ragazze prima di lei avevano subito quel
trattamento, ma prima di allora non aveva aperto bocca o protestato. Perché? Mi
risolsi a tenermi quel dubbio per me, la mente umana è troppo contorta.
“Mi
dica perché è qui a fare il cane da guardia allora … se non lavora più per
quegli uomini?” la mia suonò più come una preghiera disperata che come una
domanda.
“Mio
figlio viene tutti i giorni in ospedale … un giorno è l’oncologia, l’altro è la
dialisi, un altro ancora la pediatria … la mia presenza in ospedale passa
davvero inosservata ai più. Ma tu mi conosci ragazzo, sai dove lavoravo …”
“…
come potrei dimenticarlo … il tuo collega mi ha spaccato la faccia e tu mi hai
fatto fare un volo di due metri in lungo prima di Natale”
“Davvero?!” domandò, cercando di trattenere una risata nervosa “scusa … ma non
me lo ricordo” Eh, chissà a quanti l’avrete riservato quell’accoglienza … io
non ci trovo nulla da ridere!!!
“E
quindi …” incalzai, ritornando all’argomento di conversazione principale.
“Sono stato io a chiamare la polizia e l’ambulanza …” disse, tutto d’un fiato “
mi ero lavato le mani di quel lavoro, non mi ero mai sporcato con il sangue di
quelle ragazze … lo avevano sempre fatto altri al posto mio … ma non potevo
parlare o protestare, quei bastardi mi
tenevano per le palle con la storia delle cure per mio figlio”
Eccone
un altro, un’altra vittima della macchina del terrore. Ora che lo conoscevo
meglio non faceva più paura, anche lui era un gigante buono. Non sembrava più
nemmeno tanto grande ora.
“Dissi
loro che mi sarei occupato io di lei, avrei dovuto lasciarla a morire di stenti
secondo loro sotto qualche ponte o in qualche vicolo dove nessuno passa mai …
ma come ho sempre fatto con le altre ragazze ho chiamato i soccorsi”
“Dean
… grazie” dissi, sinceramente, posando una mano sulla sua spalla, approfittando
del fatto che si era seduto su un gradino dell’edificio. “Se c’è qualcosa che
posso fare per te … qualsiasi” Lui l’aveva salvata, questo mi rendeva debitore
a vita. Lui scosse la testa, sorridendo sommessamente: “Tu l’hai salvata,
nessuna di quelle ragazze per cui ho chiamato l’ambulanza aveva un ragazzo che
passasse la notte con loro in ospedale o che smuovesse cielo e terra per farle
avere la miglior assistenza possibile. L’ho visto sai …”
In
parte quell’uomo aveva ragione, se io non ci fossi stato, lei avrebbe
continuato a fare la vita di prima, o sarebbe caduta ancor più in profondità
nel baratro.
“Comunque
io mi chiamo Tyler Hawkins” dissi alla fine, tendendogli io la mano questa
volta, decidendo di fidarmi. “Sarai tu però Dean a farmi un favore” dissi “devi
andare alla polizia, devi fare nomi, cognomi, tutto quello che sai glielo devi
dire … non possono passarla liscia”
Lui
strinse la mia mano, e sorrise: eravamo d’accordo. Dal canto mio gli avrei
convinto Les ad occuparsene, le sue parcelle onerose gli concedevano di tanto
in tanto di fare gratuito patrocinio.
Rientrando
in reparto, accompagnato da Dean il
redento, vidi gli agenti lasciare finalmente la stanza di Allison. Li
salutai, garbatamente, lasciandomeli alle spalle in fretta tornare da Allie.
Alle mie spalle sentii Dean parlare con gli agenti e, girandomi per un istante,
vidi che se ne stavano andando insieme, serenamente.
Entrando
in stanza notai Allie finalmente in piedi, appoggiata alla finestra, che
guardava fuori. Bussai, per avvisarla del mio ritorno.
Quando
si girò per vedere chi fosse, la sua bocca si spalancò in un sorriso non appena
mi riconobbe, assolto da ogni pena e da ogni colpa, libero da ogni paura. Le
andai vicino e l’avvolsi tra le mie braccia … non che ci volesse molto piccola
com’era e le posai un bacio sulla fronte. Me ne accorsi dopo un po’ che anche
io stavo sorridendo, scioccamente. Mormorai: “Ora possiamo tornare a casa”. Lei
non rispose, ma la sua mano era arpionata alla mia maglia; tanto mi bastava a
capire che andava tutto bene.
NOTE FINALI
Non
ho molto da dire, se non che mi dispiace per l'immenso ritardo. Non mi
rocordo nemmeno quando è stata l'ultima volta che ho pubblicato... mi
duole dirlo, ma ho avuto il cosiddetto blocco dell scrittore e non
riuscivo a venirne a capo. Non so infatti quanto sia gradevole questo
capitolo. Certo scioglie molti nodi...
Vi lascio un'anticipazione, che più che altro risponde ad una domanda
che alcune di voi mi hanno fatto. A questo capitolo ne farà seguito un
altro, massimo due, e poi l'epilogo (che poi sarà in realtà un
prologo). Ma non sarà una chiusura definitiva; come molte di voi sanno,
e come vi ho fatto capire usando la parola prologo qui sopra, sono
intenzionata a dare un seguito alla storia, cambiando completamente
toni e registro. Se posso darvi un'altra anticipazione...quasi non li
riconoscere più questi due.
Prometto che risponderò appena posso alle recensioni
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Capitolo 31 *** Hold on to me and never let me go (parte I) ***
When you crash in the clouds - capitolo 30
Capitolo 30
Hold on to me and never let me go (Parte I)
soundtrack
“Eve
la cena è stata magnifica, grazie mille! Però non ce n’era bisogno … io e mia
madre ce la saremmo cavata benissimo da sole!”
Sentii
Allison protestare con la domestica di mio padre, in sala da pranzo, mentre sparecchiavano
la tavola dalla sontuosa ennesima cena che Eve aveva organizzato durante la
permanenza dei Riley a New York, ospiti di mio padre.
“Allison
ha ragione Eve, tu non sei una cuoca d’albergo e noi non siamo la famiglia del
Presidente degli Stati Uniti” rincarò Lois “questi banchetti quotidiani non
sono necessari … ci stai viziando troppo!”
“Oh
ma io lo faccio con piacere signora” sentii Eve risponderle “mi capita così di
rado di cucinare per più di una persona…anzi sono più le volte che il signor
Hawkins cena fuori e questa cucina rimane fuori uso per settimane. E poi tu
Allison sei ancora convalescente, piccola … non credere che me lo sia
dimenticata. Perciò ora voi due andate di là, che qui ci penso io”
“Vai
tu tesoro” disse Lois dolcemente a sua figlia “io devo fare un discorsetto alla
nostra Eve … sono ancora convinta che il suo maiale con le mele abbia un
ingrediente segreto e lei non voglia dirmelo”
Risero
tutte insieme e il chiacchiericcio tra donne si infittì e divenne
incomprensibile, vuoi perché si erano spostate in cucina, vuoi perché,
infastidito dal vociare delle signore, Doug aumentò il volume del televisore.
“Ci
fosse una santissima volta che io possa seguire un po’ di sport in santa pace …
e ciùciù ciùciù ciuciù…sempre radio Lois in sottofondo” si lamentò, sbuffando.
Tentai
malamente di nascondere le risate, ma alla fine bastò uno sguardo tra me e Doug
per farci ridere di gusto, insieme.
Era
tutto così nuovo e strano, non solo per Allison, che non riusciva – e forse
nemmeno ci si sforzava troppo – a nascondere una sensazione di disagio nei
confronti di questa situazione, a dir poco surreale, venuta fuori in poco meno
di un paio di settimane, ma anche per me, che le famiglie in armonia le avevo
viste sempre e solo in pubblicità da quando avevo 14 anni.
Dopo
le dimissioni dall’ospedale, fu opinione comune che per Allie fosse meglio un
periodo di riposo e calma a casa di mia madre, nella bella e grande stanza che
aveva a sua disposizione lì. Avrebbe dovuto riprendere le forze al 100% e non
poteva certo pensare a fare da balia a me ed Aidan nel nostro piccolo
appartamento/discarica; né era mia intenzione d’altronde che Lois e Doug vi
entrassero e ci vedessero vivere lì, insieme: sapevano tutti ormai che stavamo
insieme, e forse non era difficile per loro immaginare che passavamo il più
delle notti nello stesso letto, ma Allison aveva solo 18 anni, nonostante
l’estrema maturità, e sua madre e suo padre non erano certo pronti ad accettare
un tale passo quale la convivenza con un ragazzo.
Così
Allison tornò da mia madre ed io cominciai la patetica recita del ragazzo
d’oro, che se ne tornava a casa sua dopo il bacio della buona notte. Questo
almeno, fin quando Allison non decise, con mia somma gioia dopo nemmeno una
settimana, che ebbe recuperato a sufficienza la forze e fosse ora di smetterla
con quell’astinenza forzata e dolorosa. Così, come due adolescenti, di nascosto
dai genitori, ce ne andavamo a casa mia e se avessi potuto mi sarei chiuso
dentro e avrei buttato la chiave. Non c’era niente di più bello che starsene a
letto, o sul divano, o sul pavimento o sul tavolo della cucina o sotto la
doccia, avvinghiati, intrecciati, stretti, affannati e sudati, stanchi ma
appagati, obbligati a prendere ossigeno dal respiro dell’altro per respirare,
sazi e saturi dei nostri sapori e dei nostri umori. Poco importava avere a
disposizione cinque minuti o un pomeriggio intero, non era doloroso dover
reprimere urla e gemiti, quando guardando negli occhi dell’altro vedi un
vulcano che esplode e ti rendi conto che quella è la persona che ami, ed
insieme siete magia allo stato puro, e niente è come voi messi insieme.
Perso
nei miei pensieri venni risvegliato da una cuscinata in faccia, che solo da una
persona poteva venire. Mi girai e la vidi entrare nella stanza, lentamente,
come se volesse farsi ammirare da me e farmi venire voglia di rapirla. Era
quasi estate, giugno era ormai alle porte: non faceva particolarmente caldo, ma
Allison si sentiva autorizzata ad andare in giro già in infradito, con shorts
bianchi e una canotta attillata, mettendo così in mostra generosamente le sue
bellissime gambe. Il fratellino del sottoscritto ringrazia sentitamente.
Mi
venne incontro e si chinò su di me, che me ne stavo seduto su una poltrona
accanto a suo padre, e sperai che la partita di baseball offrisse proprio in
quel momento qualche azione importante, abbastanza da estraniarlo completamente
e distogliendo l’attenzione da noi. Allison prese il cuscino che mi aveva
tirato addosso, e lo posizionò direttamente sopra la patta dei pantaloni, dove
si notava un certo rigonfiamento. Si sedette poi sopra il braccioli della
poltrona alla mia sinistra, avvolgendomi le spalle con il braccio destro.
“Quando
pensi certe cose” mi sussurrò all’orecchio, badando bene a coprire il labiale
con la mano libera “cerca almeno di non farlo davanti a mio padre”
“Non
sono io …” le risposi, sporgendomi verso il suo orecchio “che vado in giro
sculettando mezza nuda”. Le depositai un piccolo bacio proprio dietro
l’orecchio, poco al di sopra della nuca: sapevo che era particolarmente
sensibile in quel punto, e la sentii decisamente rabbrividire al mio tocco,
seppur lieve e veloce. Bastava così poco per infiammarla …
“Portami
a casa” pronunciò, monocorde, ad alta voce, fissando lo schermo tv come se
fosse la frase più normale ed innocente del mondo. Ma entrambi sapevamo che non
era così: non certo voleva che la portassi a Brooklyn, da mia madre. Era il mio
appartamento che desiderava, soprattutto perché non erano nemmeno le dieci e
quel giorno non ci eravamo visti per niente, io confinato in libreria, lei
rapita da sua madre e mia sorella in visita al Guggenheim.
Mi
bastò annuirle che subito si alzò e corse a prendere la sua borsa e una
maglietta a maniche lunghe che aveva avuto la decenza di portare con in caso a
sera fosse stato più fresco. Salutò sua madre, che era ancora intenta in cucina
a fare un dettato le ricette di Eve, ma senza grande successo, visto che non
avrebbe mai spifferato la ricetta completa. Era impossibile rubarle i segreti
in cucina, l’unico modo possibile sarebbe stato drogarla o qualcosa di simile.
“Mamma
noi andiamo” si rivolse Allison a Lois, cingendole le spalle da dietro con un
abbraccio e lasciandole un bacio sulla guancia. Non sembravano due persone che
non si erano parlate per tre lunghi anni, non sembravano una madre e una figlia
che avevano dovuto ricucire una ferita profonda e dolorosa, ma sapevo bene
quanto costasse ad Allison sforzarsi d’essere così espansiva con sua madre,
soprattutto così in fretta. “Come?” domandò la donna “di già?! Ma è presto …”
“è
stata una lunga giornata” intervenni, entrando in cucina ed intromettendomi tra
le due “e domani ve ne aspetta un’altra. Allison si è stancata molto, è meglio
che vada a nanna”. Lungi da me rivelare a Lois il mio significato di nanna, ma
queste erano cose nostre.
“Certo
ragazzi … allora buonanotte!” Lois ci lasciò andare, non sospettando
minimamente alcuna deviazione del nostro percorso, nonostante mia madre ci
lanciasse occhiatacce letali ogni volta che accompagnavo a casa Allison a notte
fonda e puntualmente ce la ritrovavamo in salotto con l’abatjour accesa e un
libro sulle gambe, di guardia come un metronotte guardingo e vigile. Mi faceva
sentire colpevole come un adolescente alle prime uscite, ma capivo che sentisse
una enorme, ulteriore, responsabilità nei confronti della sua protetta, dopo
quanto accaduto. Era una cosa di cui cercavamo di parlare il meno possibile,
anche per aiutare Allison a riacquistare
una certa stabilità, ma era inevitabile che ci avesse cambiati un po’ tutti. Io
dal canto mio mi ero impegnato a non lasciarla mai sola nei limiti del
possibile, e ad accertarmi che non fosse da sola quando non era con me; ad
altri sarebbe apparsa una decisione eccessiva, ma dal momento che la polizia
non ci aveva potuto assicurare protezione, erano stati loro stessi a
consigliarci di starle accanto il più possibile e non abbassare la guardia, e
poi anche Allison pareva sentire l’esigenza di avere sempre qualcuno vicino. Da
qui, il riavvicinamento repentino con sua madre.
Arrivati
al pianterreno, all’ingresso del condominio extralusso, vedemmo mio padre, di
ritorno da un viaggio di lavoro. La ventiquattrore ben stretta in mano, il
telefono cellulare all’orecchio, entrava a testa bassa nell’androne del palazzo
mentre il portiere gli teneva la porta aperta. “Non mi puoi fare questo John … e
lo sai” inveì contro il suo interlocutore “no, no … senti, così tu mi uccidi”.
Immaginai che fosse John Jacobs, il suo vice, la cui azienda di editoria era
stata accorpata a quella di mio padre, ma grazie alle sue capacità aveva
mantenuto un ruolo di comando nella nuova società. Insieme lui e mio padre
erano come Scrooge e Marley, una coppia temuta e temeraria, spauracchio dell’alta
finanza e avvolto per le compagnie che navigavano i cattive acque. Laddove c’è
crisi e fallimento là ci sono loro pronti a risucchiare e a guadagnare il
massimo del profitto con il minimo dispendio di risorse.
Invece
che venire verso di noi, cioè verso gli ascensori, si diresse verso un piccolo
salottino nella hall. Il palazzo infatti, con i fattorini e tutti i servizi che
aveva a disposizione sembrava più un resort che un condominio.
Poggiò
la sua valigetta nera su una delle poltrone in pelle bianca, estraendo in tutta
fretta il suo iPad nuovo di zecca. Quella nuova diavoleria made in Apple era
uscita da pochissimo e gli era stata recapitata direttamente in ufficio con i
complimenti di Mr Jobs in persona. Non avevo mai visto mio padre come un
intenditore o appassionato di tecnologia, ma immaginavo che possedere quell’aggeggio
fosse per lui più uno status symbol, piuttosto che una concreta necessità. Lo vidi
smanettare sullo schermo touch-screen, alle prese probabilmente con l’andamento
di qualche borsa asiatica: per cos’altro del resto avrebbe potuto avere tali interesse
ed apprensione? Mi aveva mostrato con estremo entusiasmo le applicazioni che
gli consentivano di seguire in tempo reale gli indici azionari e i movimenti di
capitali intorno al globo 24/7; io non ci trovavo nulla di straordinario, era
solo la tecnologia che seguiva il suo naturale corso evolutivo, ma dovetti
ammettere che c’è chi si esalta per le cazzate. E mio padre faceva parte di
quella categoria di persone.
“Senti” continuò mio padre se possibile ancor
più incazzato di prima “chi tra noi due è il capo? … Ecco vedi allora non sono
affari tuoi quello che faccio fuori dall’orario di lavoro. Ti basti sapere che sono appena
tornato da Washington e non ho intenzione di venire in ufficio ora”
Fosse
stato per me, avrei tirato diritto senza curarmi di lui. Ma Allison era di un
altro avviso e, purtroppo, finiva sempre per decidere lei per entrambe. Ero convinto
che lui non ci avesse visti, che saremmo passati inosservati visto che era
immerso completamente nel suo lavoro e che, se solo ci fossimo avvicinati, gli
avremmo solo recato disturbo e lui non ci avrebbe accolto con lo stesso slancio
che lei gli avremmo riservato. “E se anche così fosse” mormorò Allison,
tirandomi per impedirmi di scappare fuori dall’edificio “non saremo certo noi a
fare la figura dei cafoni”. Ma io mi sentivo tipo una ragazzina timida, di
quelle che non vogliono fare qualcosa da sole che si vergognano e mandano
avanti l’amica o la mamma. Alla stessa maniera io cercavo di mandare avanti
Allison. E lei, invece, testarda e mascolina, rimbeccava e borbottava,
giustamente.
Mentre
noi decidevamo ancora sul da farsi – Allison aveva già deciso, ero io a dovermi
convincere – notai un facchino avvicinarsi a mio padre, ma egli lo mandò via a
grandi gesti, infastidito.
“Vedi
che non è aria … andiamocene” tentai di dissuadere Allison. Non mi andava di
parlare con mio padre, ma lei era cocciuta e mi prese per un braccio, trascinandomi
verso le poltrone dove era seduto. “Tyler Keats Hawkins” sbraitò “smettila di
fare il bambino!”
“John
… John, te lo ripeto un’ultima volta: non sono affari tuoi.” Anche mio padre,
seduto nella sua comoda poltrona di pelle, sbraitava e si dimenava, nervoso. Qualcosa
non andava, lui non era uno di quelli che si scomponeva facilmente, era sempre
in grado di mantenere un certo contegno e conservare un aplomb quasi british. Mia
madre diceva sempre che gli anni di studio alla London School of Economics gli
avevano forgiato quel carattere freddo e distaccato, ma per me si trattava solo
di DNA di stronzo patentato. “Prima … prima cosa?” domandò, tonante, e c’era da
scommettere che chiunque fosse all’altro lato dell’apparecchio fosse atterrito
e ammutolito. Si alzò dalla poltrona con uno scatto repentino e si voltò,
notandoci a primo colpo. Si sbracciò per salutarci, rivolgendoci quello che
poteva sembrare un sorriso, ma che forse, più probabilmente era rivolto a qualche
notizia positiva dall’ufficio. Ci fece segno di accomodarci, sulle poltrone
accanto a lui ed Allison, soddisfatta e fiera di aver avuto ragione, non se lo
fece ripetere due volte. Si avvicinò alla zona lounge con fare altezzoso, in
tono quasi di sfida nei miei confronti, con il naso all’insù e camminando come
se toccasse a malapena con i piedi per terra. Io mi sedetti sull’ottomana più
distante da mio padre ed Allison fu costretta a seguirmi.
“Smettila tu
piuttosto di farti la svelta” protestai, come un bambino dell’asilo che non
accetta la sconfitta “ non hai fatto niente di che”. Ma lei mi rispose,
puntuale, con una linguaccia.“A
te non deve fregare di come gestivo gli affari prima e di come gli gestisco ora”
continuò mio padre “è così importante che io ci sia? Possibile che non riuscite
a sbrigarvela da soli?! … lo vedi?! Lo vedi?! E allora …! Non farmi perdere
altro tempo … eh … buonanotte!”
E
riattaccò, sbuffando rumorosamente e gettando il telefono nella borsa,
venendoci incontro. In tanti anni che lo conoscevo quella era forse la primissima
volta che lo sentivo rinunciare ad una riunione di lavoro. Per lui erano sempre
state la cosa più sacra di tutte, anche più delle feste comandate ,anche più
del 4 luglio il giorno più sacro di tutti per ogni cittadino americano. “Gli
affari non dormono mai” disse una volta
al piccolo figlioletto di 8 anni quando, allacciandosi la cravatta davanti allo
specchio, gli spiegava perché avrebbe dovuto rinunciare alla giornata padre
figlio che la scuola aveva organizzato e a cui il piccoletto non vedeva l’ora
di partecipare, orgoglioso com’era del suo papà gigante, “ e se ti distrai un
attimo, puoi star certo che ti ritroverai qualche pivellino pronto a mettertelo
in quel posto”.
Era
così strano dunque, vederlo rinunciare al suo lavoro, ammettendo le sue
debolezze e preferendo la sua vita provata agli affari.
A
pensarci bene non era la prima volta che notavo questo genere di stranezze da
parte sua (in un’altra persona sarebbe stato normale … ma in lui era
sicuramente un comportamento fuori dalla norma), il che mi fece temere che non
fosse tutto apposto anche se fisicamente era sempre l’uomo in forma e in
perfetta salute che conoscevo.
“Già
andate via ragazzi?” ci chiese ,approcciandoci e abbracciando Allison. A me
riservò invece una pacca sulla spalla. Dopo la figuraccia di Natale stava tentando di recuperare punti
nei nostri confronti. Forse il suo cambiamento era anche merito di quella sfuriata
che gli avevo riservato, anche se io non riuscivo a fidarmi pienamente di uno
come lui ,e mi mantenevo sempre a distanza di sicurezza ,diffidente. Mi ero già
bruciato tante volte con lui, non avevo voglia di ritrovarmi un’altra cicatrice
da ustione per colpa sua. Allison da parte sua se era fin da subito resa
disponibile a dimenticare quanto accaduto ,lasciando che l’innegabile fascino
di un uomo come Charles la irretisse.
“Sì
Charles … sono un po’ stanca questa sera” rispose Allison, come al solito
gentile “” ma sopra ci stono mamma e papà. Questa sera non sono usciti … ci
sono gli Yankees contro i Baltimore Orioles …”
“Uh.”
Commentò mio padre sovrappensiero “… beh allora è meglio che mi sbrighi a
salire ,scommetto che li stiamo facendo neri!”
Anche
se la sua serata tipo generalmente ,quando non era a lavoro, vedeva mio padre impegnato in riunioni privatissime al suo
circolo esclusivissimo, da quando aveva invitato i Riley a stare in casa sua
finché ce ne fosse stato bisogno, aveva rinunciato alle sue amicizie altolocate
in favore di serate tranquille nel suo appartamento tra cenette e partite di
biliardo quando Lois e Doug non erano in giro a godersi la New York by night.
Si
era creato un buon rapporto tra il padre di Allison ed il mio, forse aiutato
dal fatto che parlassero la stessa lingua a proposito di lavoro, nonostante
Doug fosse un semplice contabile. In più, entrambi erano fan degli Yankees in
Major League.
Nel
frattempo entro nel palazzo anche Smith, l’autista di mio padre. “Signore mi
ha chiamato?” chiese lui, formale e reverente. Mi ricordai solo allora di
averlo visto manovrare il cercapersone quando ci vide all’uscita degli
ascensori.
“Sì Bruce” ero talmente abituato a chiamare l’autista con il suo cognome, che
ogni singola, rarissima, volta che sentivo quel nome, dovevo trattenere le
risate, come un cretino. Ma non era colpa mia se Smith non aveva la faccia da Bruce manco per niente. “Per favore
riaccompagna la signorina Riley e mio figlio. A casa tua, Tyler, vero?” mi domandò
mio padre, sorridendo con aria furba.
“Sì
… cioè no” mi ripresi, ma solo dopo una dolorosa gomitata in pieno fianco da parte
di Allison. “ma ... ma cosa …?!“ rimasi interdetto. Non era da lui usare dell’umorismo leggero e sornione,
soprattutto quando parlava con me. “non crederete davvero che io e Doug non
abbiamo capito il trucco del riposo … siete giovani e vi volete bene …
è normale cercare qualche momento di intimità”
No
ok vi supplico … scavate una fossa per sotterrarmi … Dio che vergogna! Certi
discorsi me li aspettavo da Les ,con il quale negli ultimi tempi avevamo
instaurato un rapporto amichevole splendido, ma non da mio padre l’uomo
moralista e tutto d’un pezzo, sempre ligio al dovere e mai disposto a prendere
la vita con leggerezza. L’uomo che aveva sorriso per l’ultima volta nel 1999
quando gli dissero che finalmente aveva avuto una figlia femmina.
“Touchée”
sorrise Allison tra il divertito e l’imbarazzato “però non dica nulla a mia
madre la prego. L’ultima cosa di cui ho bisogno è una lezione sui fiori e le
api da parte sua …. O peggio ancora che mi faccia una di quelle prediche sulla
morale d il buon costume che il pastore della sua congregazione le ha fatto
imparare a memoria.”
Mio
padre sorridendo imitò una cerniera lampo che si chiudeva sulle sue labbra:
“Non ti preoccupare … sarò muto come una tomba. Buona notte ragazzi!”
“Buonanotte
papà!” salutai, spontaneamente e, come non mi accadeva più da una vita, non
sentii il sapore amaro della forzatura e della farsa. Non mi accorsi quasi di
essermi accomodato nella sua Maybach scintillante e luccicante senza nemmeno
una mia minima rimostranza, e che per una volta dopo tanto tempo vedevo in
quell’uomo mio padre e non un orco che era stato costretto a darmi il suo nome.
La
brutta esperienza di Allison ci aveva davvero cambiati tutti.
Seduti
nel retro della limousine mentre la strada e i palazzi sfilavano tutt’intorno e
New York si illuminava per la notte, Allison si accucciò a me, intrecciando le
sue gambe alle mie. Non era esattamente una posizione comodissima, le due
poltrone erano infatti divise da una colonnina divisoria con il frigorifero per
le bevande e la consolle multimediale; ma lei era piccolina, riusciva a trovare
spazio per accomodarsi anche nelle superfici più ristrette. Le posai un bacio
sulla testa carezzando la bella chioma castana, molto più lunga setosa e profumata
di quando la sfiorai la prima volta, nel buoi di quella catapecchia che lei
aveva per casa. Poi scesi con la mano verso le tempie, massaggiandole per un
po’, e poi più giù, con il dorso della mano ad accarezzare quasi
impercettibilmente la sua guancia offesa.
I
punti che le avevano applicato erano caduti da soli pochi giorni prima, lasciando
al loro posto una lettera scarlatta come impressa a fuoco. Il chirurgo plastico
che l’aveva presa in cura subito dopo l’incidente aveva già cominciato le
infiltrazioni di cortisone e le applicazioni giornaliere di creme e cremine, in
più si stava incominciando a pianificare un’eventuale laserterapia a fine
estate se non ci fosse stato nessun miglioramento con la terapia farmacologica.
Noi
cercavamo di non far cadere lo sguardo sullo sfregio che quei bastardi le
avevano lasciato perché, più che fisicamente, ad Allison faceva male
moralmente; d’altro canto però, Allison stessa s’era rifiutata di coprirla con
trucchi e correttori vari. Voleva andare avanti, ma non si sarebbe mai concessa
di dimenticare quello che le avevano fatto.
“Dimmi
un po’” esordii “mio padre non ti sembra un po’ strano ultimamente?”
“Mmm
no” rispose Allison, dopo averci riflettuto un po’ “se per strano intendi che
passa più tempo a casa rispetto a qualche tempo fa’… beh sì, ma non lo trovo
strano: io e te siamo spesso a casa sua per via dei miei e sicuramente ne vorrà
approfittare per starti vicino … hai visto che anche con Caroline la situazione
è migliorata tantissimo”
Già,
Caroline. La piccola era entusiasta della trasformazione positiva di nostro
padre, che l’aveva persino portata a visitare il suo museo preferito, il Met,
il giorno in cui Allison era appena tornata dall’ospedale ed era importante che
avesse attorno meno confusione possibile. Forse non lo aveva fatto proprio per
stare con la bambina, ma considerando i precedenti, quello era un passo da
titani.
“Non
lo so” continuai, scettico “mi sembra strano che tutt’a un tratto si comporti
da padre amorevole e premuroso come per anni non ha fatto. Voglio dire … sono
contento, soprattutto per Caroline, ma non mi convince … è cambiato dall’oggi
al domani!”
Allison
riemerse dalla cuccia che si era creata tra le mie braccia e il mio costato, tornando
a sedersi, con un gioco di contorsionismo, sulla sua poltrona e guardandomi con
attenzione, mentre mi posava una mano sulla guancia.
“Perché
ti sento preoccupato?” domandò, corrucciata.
Come
al solito, mi leggeva dentro meglio di chiunque altro, meglio anche di me
stesso, che non riuscivo a decifrare mai con chiarezza tutte le paturnie e
pippe mentali che mi tormentavano. Sì, aveva ragione, mi sentivo invaso da una
strana sensazione di paura e preoccupazione, come se gli ultimi eventi mi
avessero convinto che non si potesse mai abbassare la guardia, che non c’è mai
fine alle disgrazie.
“Sì
… sono preoccupato, hai ragione” ammisi. Ma perché? “Ho paura” le confidai “ho
paura che gli sia successo qualcosa, qualcosa che gli abbia fatto mettere in
discussione la scala dei suoi valori. Che voglia passare del tempo con i suoi
figli o che voglia redimere le sue cattive azioni perché non sta bene … o
qualcosa del genere.” Era un’assurdità, a dirla ad alta voce me ne rendevo
conto da solo, ma con un uomo come mio padre il diritto diventava rovescio con
una facilità disarmante. Quindi dovevo ampliare il raggio del plausibile…
“Non
ho un buon rapporto con mio padre, lo sai” continuai “ma è pur sempre mio padre
e gli voglio …”
“…
bene” concluse Allison per me una frase così semplice, ma così devastante, che
mi si bloccò in gola.
“vedi?!” proseguì lei “è la stessa cosa che è successa con mia madre. Le cose
non sono ancora andate a posto tra noi, ma il nostro è un legame di sangue che
non si spezza mai del tutto.”
“Già”
fu tutto quello che fui capace di dire. Non c’era nulla da fare, Allison
sarebbe sempre stata molto più matura e responsabile di me.
“La
tua famiglia – come la mia del resto – ha subìto una grave perdita. La botta è
stata forte per tutti, per noi, per loro e ognuno reagisce in maniera diversa,
te l’ho già detto una volta. Magari tuo padre ci ha impiegato un po’ di più per
via del brutto carattere … e la tua strigliata di Natale gli è servita per
svegliarlo e fargli capire che ha altri due figli che sono ancora vivi e hanno
bisogno di lui. Esattamente come io ho svegliato mia madre andandomene di casa”
“Tu
credi?” “Ne sono sicura … sei l’unico che in questi mesi non se n’è accorto …
non c’è niente di cui preoccuparsi” mi incoraggiò, serena. Mi sorrise, semplice
e luminosa come una mattina d’estate. Mi piaceva l’estate, mi piaceva lei. Riusciva
a trasmettermi tutta la calma interiore e la serenità che solo la pace
riconquistata con sua madre le aveva potuto restituire. Adoravo la prima Allison,
quella piena di problemi che mi facevano dimenticare i miei, scontrosa e a
volte intrattabile, ma la nuova Allison, quella vera, quella che avrei potuto
incontrare per le strade di Indianapolis solo qualche anno prima, lei mi aveva
rapito il cuore.
“Sei
perfetta … come farei senza di te” esclamai, avvolgendola in vita e trascinandola
a sedere su di me – i vantaggi di un’auto con i vetri oscurati.
“Non
è vero” replicò lei, arricciando il nasino e corrugando la fronte, mentre nascondeva
il viso nell’incavo del mio collo, bordeaux per la vergogna.
“Lo
sei” insistetti, pretendendo che mi guardasse e scuotendola fino a farla ridere
“perfetta per me”
“Ti
amo” disse, sfiorando le mie labbra, arpionandosi alla mia t-shirt.
“Ti
amo” risposi, e colmai l’esigua distanza che c’era tra noi con un bacio.
NOTE FINALI
Eccoci qua, l'inizio della fine.
Beh, come ormai immagino abbiate capito, non sarà un addio, ma piuttosto un
arrivederci, ma dopo tanto tempo è difficile e strano usare la parola
fine per qualcosa che ci ha accompagnato. Per me è stata una esperienza
meravigliosa, un viaggio difficile e tortuoso, una sfida costante, una
ricerca dei miei limiti (al solo scopo di superarli ogni volta). Ma non voglio
tediarvi con discorsi pesanti e strappalacrime, non è ancora il momento. Ho voluto
occuparmi di Charles tra gli altri oggi, con questo capitolo, perché non mi
sembrava giusto chiudere la storia e lasciarlo lì, con la sua cattiveria e con
quell'aura da cattivo che, in realtà, è solo una corazza di dolore che si porta
dietro dalla morte del figlio. Certo Tyler non è ancora pronto a riallacciare
dei buoni rapporti padre-figlio con lui, ma è un'inizio. Così come è agli
inizi, il rapporto Allison-Lois, di cui però parleremo più ampliamente nel
prossimo capitolo, l'ultimo (prima dell'epilogo).
Grazie mille a chi non mi ha mai fatto mancare il suo appoggio, grazie a chi
vorrà commentare (spero sarete di più dell'ultima volta)
à bientot
Federica
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=659341
|