Hetalia F.R.I.E.N.D.S project di Yuki Delleran (/viewuser.php?uid=3649)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Voulez-vous ***
Capitolo 2: *** Di notte ***
Capitolo 3: *** Rainy night ***
Capitolo 4: *** What the hell ***
Capitolo 5: *** Alucinado ***
Capitolo 6: *** Marry you ***
Capitolo 7: *** 30 Mai - Souvenir de toi ***
Capitolo 8: *** One of the boys ***
Capitolo 1 *** Voulez-vous ***
Voulez-vous
Titolo: Voulez-vous
Fandom: Axis Powers Hetalia AU
Rating: giallo
Genere: se dicessi erotico probabilmente farei ridere i polli... -_-'''
Personaggi: Antonio Fernandez Carriedo (Spagna), Francis Bonnefoy (Francia)
Riassunto: L'ultima sera di permanenza a New York Antonio vuole passarla senza pensieri, all'insegna del
divertimento, della sangria e della buona compagnia.
Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya.
La canzone "Voulez-vous" è degli Abba e appare
nel musical "Mamma mia!"
Note: Questa fic nasce come flash back all'interno di una role AU ambientata in un mondo dove i personaggi
di Hetalia vivono in stile "Friends". Fa parte di un progetto più grande che forse vedrà la luce, forse no. Non lo so. Se
vi venisse voglia di dare un'occhiata, ho montato un piccolo
video che potrebbe fare da sigla.
E' la prima fic in assoluto che scrivo su Hetalia e ho scelto proprio questa coppia piuttosto anomala, nonostante io
ami alla follia la Spamano, la UsUk, e stia anche ruolando della FrUk... Vi autorizzo a lanciarmi... pomodori!
XD
Se ci sono errori in spagnolo, prendetevela con Google Traduttore.
Se ci sono errori in francese, prendetevela pure con me... ^^'''
Beta: GinkoKite
Voulez-vous
di
Yuki Delleran
Varcare la soglia del locale fu come entrare in un mondo a parte. La musica rimbombava nelle orecchie, martellante,
inducendo il corpo a seguirne il ritmo, consenziente o meno. Lì non esistevano responsabilità, decisioni da prendere,
preoccupazioni per il futuro, sensazioni di sconfitta o ansie ed era proprio per questo motivo che Antonio aveva
deciso di trascorrervi l’ultimo giorno della sua permanenza a New York.
Sarebbe tornato in Spagna, ormai non poteva fare altro. Dopo aver definitivamente abbandonato l’università, non
avrebbe più nemmeno potuto alloggiare nei dormitori del campus. Era stato ospite di vari compagni per un po’ di
tempo ma, nonostante la vita da nomade sulle prime fosse stata divertente, a lungo andare si era reso conto che non
avrebbe potuto continuare così facilmente. Senza un lavoro, senza una casa e senza un soldo non sarebbe
sopravvissuto neanche in un Paese come l’America, la Terra della Speranza.
Quindi ora era ufficialmente un senzatetto squattrinato e dal futuro quanto mai fumoso che tornava in patria con la
coda tra le gambe… Non prima di aver fatto il pieno di sangria come ricordo della sua ultima notte da “Sogno
Americano”, però!
La serata era trascorsa in modo allegro e spensierato, scandita dal ritmo incalzante della musica e intervallata da
diversi bicchieri e da altrettanti partner. Antonio era un ragazzo affascinante: i suoi magnetici occhi verdi attraevano
indiscriminatamente uomini e donne e il fatto che lui, per primo, non facesse distinzioni era senza dubbio d’aiuto. L’
allegria e la spigliatezza naturale (o alcolica) facevano il resto.
Quando ormai si avvicinava l’ora di chiusura del locale e la gente era un po’ diminuita, il dj si era lasciato prendere la
mano dagli scatenati ritmi revival degli anni ‘70-‘80 e la pista si era magicamente rianimata. Dal suo posto al bancone
del bar, sorseggiando l’ennesimo bicchiere di sangria, e con la testa incredibilmente leggera, Antonio scrutò attorno
alla ricerca di qualcuno con cui concludere in bellezza la serata. Attraverso uno spiraglio lasciato momentaneamente
libero dai corpi che si agitavano in pista, notò lo sguardo di un giovane biondo innegabilmente rivolto nella sua
direzione. Lo stava seguendo da un po’, se ne era vagamente reso conto, e ora che aveva la possibilità di guardarlo
meglio doveva ammettere che spiccava su tutti per una certa, sobria eleganza.
Se ne stava seduto da solo sul divanetto di un privè sorseggiando quello che, da quella distanza, poteva sembrare un
Martini e lo guardava, senza accennare a muoversi o a prendere qualunque tipo di iniziativa, semplicemente lo fissava.
Antonio decise in un attimo: era esattamente la persona che cercava, forse non il suo ideale di bellezza con quei capelli
biondi e gli occhi cristallini, ma possedeva quel tipo di fascino sottile che, in contrasto con il suo sangue latino, lo
attraeva inesorabilmente.
Lasciò quindi lo sgabello accanto al bancone e attraversò la pista con passo deciso. Ad ogni metro che avanzava
poteva quasi sentire le scintille sprigionarsi dal contatto tra i loro sguardi, o forse era semplicemente la troppa sangria
in circolo? Eppure persino la canzone lanciata a tutto volume pochi istanti prima sembrava spingerlo in quella
direzione:
People everywhere
a sense of expectation
hangin' in the air
givin' out a spark
across the room your eyes
are glowin' in the dark
and here we go again
we know the start
we know the end
masters of the scene...
Sillabando le parole a fior di labbra, si avvicinò al tavolo del biondo con andatura lenta e sensuale. Vi si appoggiò di
spalle, bevendo l’ultimo sorso dal proprio bicchiere e facendo tintinnare il ghiaccio mentre lo posava sul piano, quindi
tese la mano libera in direzione dello sconosciuto. Non era un bene che rimanesse seduto per tutta la sera avvolto in
quell’aura di bellezza tragica, non se aveva messo gli occhi su Antonio Carriedo. Fu con grande soddisfazione che
vide la sua mano accettata: allora afferrò a sua volta il giovane con leggera forza e lo tirò in piedi. La musica induceva
il corpo al movimento e Antonio si sentiva in grado di fare qualsiasi cosa quella sera.
We've done it all before
and now we're back
to get some more
you know what I mean...
Trascinò il giovane verso la pista, camminando all’indietro senza badare particolarmente a dove mettesse i piedi.
Quello che aveva attorno stava perdendo progressivamente importanza mentre si muoveva a ritmo, sfiorandolo in
modo fintamente accidentale e senza preoccuparsi minimamente di apparire sfacciato o altro: in fondo l’esuberanza e
l’istintività facevano parte della sua natura, così come la solarità e il calore della sua terra, non era facile mettervi un
freno e non aveva mai nemmeno voluto farlo.
Voulez-vous
take it now or leave it
now is all we get
nothing promised,
no regrets...
Nessuna promessa, nessun rimpianto, era esattamente così che si sentiva.
Non ci sarebbe stato futuro, solo una notte folle di divertimento, nata per lasciarsi alle spalle il grigiore dei giorni vuoti
prima della partenza.
Lasciò scivolare un dito sul collo del giovane, fin sotto il mento, mentre con l’altra mano si appoggiava al suo petto.
Davvero niente male come fisico, dovette ammettere avvertendo i muscoli delineati sotto la stoffa leggera e liscia della
camicia. Eppure, nonostante stesse accettando le sue avances così spudorate, lo sguardo cristallino del ragazzo
rimaneva inspiegabilmente velato di un’agrodolce malinconia. Antonio aveva l’impressione che si trattasse di qualcosa
che non poteva comprendere ma, in ogni caso, decisamente fuori posto in quel contesto. Durante quella serata voleva
che gli occhi dell’altro brillassero per un motivo ben diverso.
Voulez-vous
ain't no big decision
you know what to do
la question
c'est voulez-vous
Di nuovo la mano destra scivolò dalla spalla lungo il busto del giovane e l’altra lo afferrò per la cravatta attirandolo
verso di sé. Non attese una risposta, non la voleva e non ne aveva bisogno. Semplicemente s’impossessò delle sue
labbra. Quel bacio impetuoso venne ricambiato con un’inaspettata dolcezza e, quando si separarono, il giovane
finalmente gli sorrise.
«S’il-te plaît, attention, potrei scottarmi se sei così… caliente, correct? »
Le prime parole che sentiva uscire da quelle labbra di rosa. E già aveva individuato le sue origini. O era un mago o lo
aveva davvero seguito per tutta la sera.
Il sorriso di Antonio si allargò, trasformandosi in un ghigno malizioso: si diceva che la Francia fosse la nazione dell’
amore e il fato aveva voluto che per la sua ultima sera di spensieratezza si trovasse tra le mani proprio un bel
francese.
«Piacere, Antonio Carriedo. » si presentò, come se i nomi avessero una qualche misera importanza in quel
momento.
«Francis Bonnefoy… Martini? »
«Meglio sangria, gracias. »
***
Di come fosse passato dalla pista da ballo del locale alla camera da letto di un appartamento sconosciuto, Antonio
aveva solo ricordi fumosi, tutto quello che sapeva era che si trovava tra le braccia di Francis e che la sua camicia era
finita chissà dove. Le labbra del francese che stavano percorrendo lentamente la pelle del suo collo erano bollenti,
così come le mani che accarezzavano la sua schiena nuda, insinuandosi oltre l’orlo dei pantaloni e strappandogli
gemiti inarticolati. Un passo indietro e il suo ginocchio urtò il bordo del letto, piegandosi e lasciandolo cadere tra le
lenzuola. Stretto com’era a Francis, a causa del brusco movimento, se lo trovò letteralmente addosso. Antonio
dischiuse appena le labbra arrossate dai baci, tentando di regolarizzare il respiro, e sollevò le ciglia scure a scoprire le
iridi smeraldine: nella camera in penombra, gli occhi che incontrò erano luminosi quanto i suoi e poteva leggervi il
medesimo piacere.
Le mani di Francis erano gentili sui suoi fianchi, nonostante la chiara urgenza che ne accompagnava i gesti.
«Eres bueno, ¿eh? Muy caliente... » mormorò Antonio mordendosi le labbra per trattenere l’ennesimo
gemito.
«Je le sais... » soffiò il francese direttamente nel suo orecchio, provocandogli brividi incontrollabili.
Si aggrappò alle sue spalle, stropicciando inevitabilmente la stoffa fine della camicia, mentre sentiva i bottoni dei jeans
slacciarsi uno dopo l’altro.
La cravatta di Francis fu il capo successivo a finire disperso, seguito dalla sua camicia e dai pantaloni di Antonio e
ben presto si trovarono entrambi seminudi, avvinghiati tra le lenzuola sfatte, i corpi accaldati, la pelle sudata e i gemiti
soffocati dai baci. Nessuno dei due era disposto a cedere, a lasciare che l’altro dominasse: Antonio, provocatore e
intraprendente, e Francis, l’arte amatoria fatta persona, che non gli davano un attimo di respiro. Antonio stava
perdendo la testa, anzi forse l’aveva già persa nel momento in cui la sua chioma corvina si era sparsa su quelle
lenzuola di seta.
Una carezza più audace nell’interno coscia e Antonio chiuse gli occhi lasciandosi andare all’indietro: mentre la bocca
di Francis s’impossessava per l’ennesima volta della sua, capì che quella battaglia per la supremazia non sarebbe
durata ancora a lungo.
***
La prima cosa che Antonio vide al risveglio, nella luce fin troppo chiara del mattino che entrava prepotentemente dalle
imposte che nessuno si era preoccupato di chiudere, fu il sottile filo di fumo di una sigaretta.
Francis fumava pacificamente seduto accanto a lui, il torace nudo che emergeva dalle lenzuola blu notte creando un
netto contrasto con queste.
«Oh, pardonne-moi, ti da fastidio? » chiese quando si rese conto che era sveglio.
Antonio scosse la testa e abbozzò un sorriso.
Era un sensazione strana: le volte in cui si era svegliato a fianco di una sua conquista notturna si potevano contare
sulle dita di una mano, senza contare che quella volta quel ruolo era toccato a lui.
Sì, decisamente, realizzò mentre si sollevava portando le braccia abbronzate fuori dalle lenzuola: l’indolenzimento era
innegabile, anche se non poteva dire di sentirsi propriamente male. Francis era stato gentile ed inaspettatamente
delicato nonostante la scarsa lucidità reciproca.
«Ҫa va bien? » chiese il francese in tono leggermente apprensivo, badando di soffiare il fumo dalla parte
opposta.
Antonio sorrise di nuovo, stranamente rilassato. Certo, era una situazione strana, ma non si sentiva a disagio.
«Muy bien. »
Francis si rilassò a sua volta, aspirando dalla sigaretta e abbandonando la testa all’indietro, gli occhi chiusi.
«Si chiamava Jeanne. » mormorò tra sé.
Antonio lo fissò incuriosito, chiedendosi di chi stesse parlando.
«Ma fiancée. »
Un sospiro in risposta alla sua muta domanda.
La sua fidanzata.
Beh, certo, era ovvio, si disse Antonio sforzandosi di non essere deluso. Dopotutto era praticamente impossibile che
un così bel ragazzo fosse single.
«Perché ne parli al passato? » si azzardò a chiedere.
«Non c’è più…»
Il tono affranto di Francis gli fece capire che non era semplicemente stato mollato, si trattava di qualcosa di molto più
grave.
«È per questo che sono venuto a New York. Avevo bisogno di iniziare una nuova vita il più lontano possibile da ogni
luogo che possa ricordarmela. Ho giurato che non avrei mai amato nessun’altra donna. »
Giuramento senza dubbio mantenuto, rifletté Antonio che, in effetti, anche se solo per un momento, aveva pensato di
essere trattato con lo stesso riguardo di solito riservato alle ragazze.
Questo spiegava anche l’aura di tristezza che aveva intravisto attorno a lui nel locale.
«Mi dispiace…» disse, impacciato.
«Non hai motivo di farlo. Abbiamo vissuto momenti felici ed è stato splendido finché è durato. »
Francis gli rivolse uno sguardo sereno, spegnendo la sigaretta nel portacenere sul comodino.
«Et toi? Cosa ti ha portato qui, mon petit espagnol? »
Antonio fece una smorfia e snocciolò in poche parole la propria situazione di spiantato impenitente.
«È un gran peccato, mi piace New York ma non posso vivere sotto i ponti. » concluse ridacchiando suo malgrado,
anche se non c’era nulla di divertente.
Anzi, se si fosse attardato ancora avrebbe perso l’aereo.
Accennò ad alzarsi, ma Francis lo scrutò con un’aria sorniona che lo indusse a bloccarsi: quello sguardo poteva
significare tutto o niente, ma si trovò a fissare quegli occhi azzurri con un carico di aspettativa.
«Si dia il caso che io sia l’amministratore di questo condominio e che stia cercando un coinquilino con cui dividere le
spese. Inoltre, sempre per caso, conosco un simpatico vecchietto che da tempo ormai mi chiede di presentargli un
giovane di buona volontà che gli dia una mano con il suo bar. »
Antonio spalancò gli occhioni verdi, incredulo. Una casa e un lavoro, piovuti giù così, dal nulla, solo per aver
assecondato la follia di una sera.
Entusiasta, gettò le braccia al collo del suo benefattore.
«Tu eres… incréible! »
E al diavolo l’aereo!
- * - * - * -
Antonio si sistemò meglio sul divano, circondando con un braccio la vita di Lovino e tirandoselo vicino.
«E questo è quanto. » disse, concludendo il racconto. «Sono passati tre anni e da allora Francis non mi ha più
toccato neanche con un dito. La cosa è reciproca, ovviamente. »
L’italiano digrignò i denti, chiaramente contrariato.
«Come se la cosa m’importasse, bastardo! »
Antonio ridacchiò.
«Credo t’importi eccome dal momento che sei stato tu a chiedermi di raccontarti come ho conosciuto Francis.
»
Lovino lo guardò storto e fece per allontanarsi, mettendo su un broncio seccato.
«La mia era semplice curiosità. E comunque sei davvero un bastardo, avresti dovuto dirmelo fin dall’inizio! »
«Dall’inizio?! Oh, certo, alla festa di laurea al “Rose & Lily Garden” dove ci siamo incontrati. “Piacere, mi
chiamo Antonio e, una vita fa, da ubriaco, sono andato a letto con il mio migliore amico.” Davvero un’ottima
presentazione! »
Lovino sbuffò contrariato e per nulla divertito dall’ironia.
«Andiamo, Lovinito! È stato un secolo fa e non ne è rimasto niente tra noi. »
Antonio sfoderò la sua migliore espressione da cucciolo nella speranza di riuscire a smussare la reazione irosa del
ragazzo: sapeva che se avesse fatto dell’ironia sulla sua gelosia avrebbe finito per beccarsi come minimo un
pugno.
L’italiano non abboccò e si voltò verso di lui con espressione sempre meno rassicurante, gli occhi d’ambra ridotti a
due fessure.
«Non è affatto vero che non è rimasto niente. » decretò. «Francis ha mantenuto una certa passione per gli occhi verdi
e tu…»
Appoggiò una mano sul petto di Antonio e lo spinse all’indietro contro il bracciolo del divano.
«Tu conosci giochetti che sono indubbiamente farina del sacco del vinofilo. »
Senza aspettare che lo spagnolo, troppo sbigottito da quell’atteggiamento provocatore, potesse reagire, si sedette a
cavalcioni sulle sue gambe e lasciò scorrere le mani sotto la maglietta.
«Scommettiamo che qualche giochetto lo conosco anch’io? » mormorò con pericolosa malizia. «Magari ti farei
divertire anche più di Francis…»
Quel lato inedito di Lovino preoccupò leggermente Antonio, non aveva previsto che potesse finire in quel modo, ma
ci voleva ben altro per scoraggiarlo. Lo afferrò per i fianchi e lo attirò a sé per baciarlo.
«Se è il divertimento che vuoi, non sarò certo io a negartelo, mi amor! »
***
Non troppo lontano da lì, un borbottio spezzò il silenzio di una stanza avvolta nel buio morbido della notte.
«Oh, malédiction… Mi fischiano le orecchie…»
Un tramestio tra le lenzuola e il tonfo di un cuscino lanciato al volto di chi aveva bofonchiato.
«Shut up and sleep, stupid frog! »
|
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Capitolo 2 *** Di notte ***
Titolo: Di notte Fandom: Axis Powers Hetalia Rating: verde Personaggi:
Arthur Kirkland (Inghilterra), Francis Bonnefoy (Francia), citati: Antonio (Spagna), Elizaveta (Ungheria), Gilbert
(Prussia), Bella (Belgio), Alfred (America), Matthew (Canada) Riassunto: E' il giorno del
Ringraziamento e Arthur, lontano dagli amici, si sente solo e tenta di accorciare le distanze con una telefonata. Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya. La
canzone "I will always love you"
è di Whitney Houston. Note: Shonen ai Questo è un
altro frammento dell'"Hetalia F.R.I.E.N.D.S project" che stiamo lentamente portando avanti. La colonna
sonora del capitolo, oltre alla canzone già citata, nonchè ispirazione generale per l'atmosfera è
"Di notte" di Pierdavide
Carone. Come sempre, se ci sono errori in francese la colpa è tutta mia. XD E... ho scritto una FrUk...
sparatemi! Beta: GinkoKite
Di notte
di
Yuki Delleran
Arthur iniziò a sentirsi stupido nel momento stesso in cui mise mano alla cornetta; era un gesto irrazionale e
non da lui, eppure sentiva l’assoluta necessità di sentire quella voce. Per tutto il giorno era
riuscito, grazie al lavoro, a non pensare al modo in cui se ne era andato, ma una volta tornato in albergo era diventato
un chiodo fisso. Era il giorno del Ringraziamento e lui si trovava ad un oceano di distanza da quelli che aveva
iniziato a considerare amici. Il suo capo era stato irremovibile, festa o no c’era bisogno di lui a Londra, quindi
era dovuto partire e non avrebbe mai pensato di sentirsi in colpa per non aver avvertito quella banda di matti. Erano entrati nella sua vita nel momento peggiore possibile, quando invece di vedere gente avrebbe desiderato
seppellirsi sotto le coperte per sempre, e lo avevano aiutato, incredibile a dirsi, a superarlo. Non immaginava certo di
arrivare a provare qualcosa di simile all’affetto per l’ungherese lanciatrice di tazzine (*), il tedesco
narcisista, lo spagnolo canterino, il piccolo italiano scorbutico, la graziosa belga e poi per lui, quella stupida rana
francese che non gli dava un attimo di tregua. Se era partito quasi in segreto era stato anche per sfuggire a quella
situazione che iniziava a diventare scomoda, una sorta di fuga, in pratica. Eppure ora non ne era per nulla
soddisfatto. Arthur Kirkland, da sempre abituato a starsene per conto proprio e a fare affidamento solo su
sé stesso, quella notte, in quella buia stanza d’albergo, si sentiva solo. Mettendo da parte ogni
remora, calcolò velocemente il fuso orario e decise che, dopotutto, non avrebbe disturbato il sonno di
nessuno, di certo erano tutti riuniti a fare baldoria. Compose il numero dell’appartamento di New York
e pregò che non rispondessero Antonio o Gilbert, o sarebbe morto per l’imbarazzo. «Allô? » Arthur sospirò di sollievo riconoscendo la voce dal forte
accento francese, ma subito dopo s’irrigidì in preda all’ansia: preoccupato della
stupidità della cosa, aveva finito per non prepararsi nulla da dire. «Arthùr? Sei tu?
» chiese Francis dall’altra parte dell’oceano. Come facesse a riconoscerlo restava sempre
un mistero. «Ehm… yes. » «Ti ho cercato diverse volte in questi
giorni, ma non hai mai risposto né a casa né al cellulare. Mi sono preoccupato: dove sei? » «A Londra. » rispose Arthur sentendo nuovamente il senso di colpa mordergli lo stomaco. «A Londra?! » gli fece eco Francis, sovrastando con il tono di voce la musica che avvertiva in
sottofondo. «Già. Lavoro. » Così non andava. Non era rispondendo
a monosillabi che quella telefonata lo avrebbe aiutato a sentirsi meglio. «State festeggiando? » si
sforzò quindi di chiedere, tentando di apparire il più disinvolto possibile. La festa precedente a
cui aveva partecipato era finita in tragedia ed era stata la causa, diretta o indiretta, ancora non lo aveva stabilito, della
sua successiva depressione, ma nonostante questo avrebbe voluto essere là. «Proprio
così! » rispose Francis allegramente. «Antoine mi ha aiutato a preparare un tacchino enorme!
Sai, dobbiamo celebrare anche un’ottima notizia: finalmente Elize ha ricevuto una proposta ufficiale di
fidanzamento. È tutto il giorno che lei e Belle sfogliano riviste di abiti da sposa! Anche se…» La sua voce si abbassò notevolmente mentre continuava. «… Temo che Gilbèrt
non l’abbia presa molto bene. Si è scolato non so quante birre e adesso sta facendo la lap dance
attorno alla lampada del soggiorno…» Arthur tentò di immaginare la scena ma, invece di
scoppiare a ridere all’idea del bel modello albino in quello stato pietoso, si ritrovò a comprenderlo fin
troppo bene: essere abbandonati poteva essere straziante, lui stesso aveva dato fondo alla bottiglia di whisky. «Oh, Arthùr, c’è anche un’altra novità! » continuò
Francis con il tono eccitato di una comare pettegola che ha appena scoperto una nuova tresca. «Abbiamo
beccato Belle, la nostra Belle, con…» Lo sentì annaspare alla ricerca di un termine
adeguato. «… L’inquilino del piano di sotto. » concluse. Arthur
aggrottò le sopracciglia, perplesso. Al piano di sotto rispetto all’appartamento dei ragazzi
abitavano… «Intendi Alfred? » chiese mentre uno strano gelo scendeva dentro di lui. Bella era così graziosa, bionda e con quegli occhioni verdi… «Mais non, mais non!
» sentì esclamare Francis con fin troppa foga. «Parlo de le petit Mathieu!
» Probabilmente si era reso conto di aver fatto un passo falso ricordandogli il suo ex. Arthur non
ebbe nemmeno il tempo di stupirsi per la nascita di quella bizzarra coppia, che una voce fin troppo nota
risuonò nella cornetta. «Amministratoooore! Dai, molla quel telefono e vieni a ballare!
» Istantaneamente provò l’impulso di scaraventare il telefono il più
lontano possibile ed anche Francis tentennò senza sapere cosa rispondere e a chi. «È
lì da te? » riuscì finalmente a dire l’inglese, senza che la sua voce tremasse troppo.
«Alfred è lì da te? » In quel momento si sentì ancora più idiota di
prima: per un capriccio da ragazzino che aveva paura del buio, aveva fatto una chiamata intercontinentale, che gli
sarebbe costata un patrimonio, solo per scoprire che i suoi presunti amici e il suo assillante corteggiatore, stavano
festeggiando nientemeno che in compagnia del suo ex; lo stesso ragazzo che poco tempo prima, troppo poco
tempo prima, lo aveva lasciato, in lacrime e decisamente sotto shock, in ginocchio su un pianerottolo gelido
dopo avergli detto che non aveva bisogno di lui. E lui era lì, in quella stupida stanza d’albergo,
mentre sulla sua amata Londra scendeva l’ennesimo diluvio, e riusciva a sentire solo freddo. E voglia di
piangere. Idiot. Idiot. Damned idiot! «Arthùr…
S’il te plaît, non fare così. » Il tono accorato di Francis lo
riscosse. «Se fai quella faccia finirò per saltare sul primo aereo e venire lì. Non posso
sopportare di sapere che stai male e non poterti stare vicino. » «Sto bene. » rispose Arthur
a voce fin troppo bassa per essere credibile. «Menteur. Scommetto che in questo momento
stai stringendo l’orlo del gilet che porti al punto che ti trema la mano. Non hai bisogno di mentire con me, lo
sai. » Il giovane abbassò lo sguardo sulle dita strette attorno alla stoffa tanto da sbiancare le
nocche. Come faceva? Come faceva Francis a sapere esattamente come si sentiva? A cercare sempre,
con pazienza, le parole giuste che avrebbero placato la sua ansia? «Dimmi, Arthùr,
perché hai chiamato a quest’ora? » La domanda spiazzò leggermente
l’inglese. «Perché… Beh, oggi sono stato troppo occupato e non vi avevo ancora
fatto gli auguri di buon Ringraziamento. » buttò lì quasi a caso. «Mmm, certo.
Qui sono le dieci di sera ma lì da te, se non erro, sono circa le tre di notte: chiami sempre a queste ore insolite
per dei semplici auguri? » La voce di Francis si era fatta sottile e maliziosa e Arthur si trovò ad
arrossire involontariamente, rifiutandosi di rispondere. Non gli avrebbe mai e poi mai detto che aveva bisogno di
sentire la sua voce, che per la prima volta in vita sua non vedeva l’ora di lasciare Londra e che non riusciva a
chiudere occhio per il senso di colpa e un altro sentimento pungente sulla cui origine si rifiutava di indagare. «Sono felice che tu abbia chiamato. » continuò Francis, riempiendo quel silenzio
inopportuno e troppo carico di parole non dette. «Sono felice che tu abbia chiamato proprio me, mentre eri
triste. » La sua voce aveva perso completamente la precedente malizia, facendosi dolce come una
carezza e se chiudeva gli occhi, Arthur poteva quasi avvertire le sue dita che gli sfioravano la guancia. Improvvisamente, dall’altro capo del filo, la musica martellante che aveva fatto da sottofondo
all’intera conversazione, s’interruppe sollevando un coro di vive proteste e, sopra a tutte, quelle fin
troppo vivaci di Gilbert. «Silence! » esclamò Francis zittendo tutti.
«Finitela di fare caos! » Lo sentì trafficare con lo stereo e, un attimo dopo,
nell’etere, si diffusero le note calde di una canzone che Arthur riconobbe all’istante, sebbene stentasse
a crederci. If I Should stay I would only be in your way So I'll go But I know I'll think of you every step of the way.
Oh, era impossibile. Solo l’ennesima sdolcinatezza di quella stupida rana francese che non
faceva altro che...
And I... Will always Love you, oohh
Will always Love you You My darling you.
Un brivido gli corse lungo la schiena e Arthur si trovò, quasi senza rendersene conto,
a strofinarsi gli occhi da cui stava per sfuggire una lacrima birichina. «Revien vite á la
maison. » gli sussurrò all’orecchio la voce di Francis, scaldandogli il cuore con tanta
dolcezza che si trovò a rispondere : «Prendo il primo aereo del mattino. » Tanto non
avrebbe chiuso occhio comunque.
Nota: (*) Al loro primo incontro Arthur ha
rischiato di essere colpito da una tazzina che Eliza stava lanciando contro Gilbert. XD |
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Capitolo 3 *** Rainy night ***
Titolo: Rainy night Fandom: Axis Powers Hetalia Rating: verde Personaggi:
Gilbert Weillshmidt (Prussia), comparse: Feliciano (Nord Italia), Lovino (Sud Italia), Francis (Francia), Ludwig
(Germania) Riassunto: La festa del Ringraziamento giunge al termine, ma Gilbert non aveva
nulla da festeggiare, ferito dalla vicinanza di qualcuno e dalla lontananza di qualcun altro. Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya. Note: L'"Hetalia F.R.I.E.N.D.S project" continua! Due paroline
per spiegare il contesto della fic: nell'AU in questione Gilbert e Ludwig sono stati separati da piccoli a causa del
divorzio dei genitori. Ora Gilbert ha intrapreso la carriera di modello ma non ha notizie del fratello da circa quindici
anni. [Temo di essere caduta nel più tremendo OOC] Beta: GinkoKite
Rainy night
di
Yuki Delleran
La festa stava ormai volgendo alla sua naturale conclusione e Gilbert si trovava scompostamente sdraiato sul divano,
con l’ennesima bottiglia di birra ondeggiante tra le mani. Per lui non c’era stato proprio un bel niente
da festeggiare ed era stato uno strazio vedere Elizaveta così felice per la proposta di matrimonio di
quell’idiota. Che poi lui non era affatto certo che il damerino smidollato fosse in grado di fare una cosa
del genere, ma tant’è… Elizaveta ne era convinta e questo bastava a fare crescere il suo
sconforto e la sua rabbia. Rabbia perché non c’era niente che potesse fare. Rabbia
perché lui, il Magnifico Gilbert, odiava sentirsi impotente. Era una sensazione che aveva già
sperimentato tanto tempo prima, giurando a sé stesso che non sarebbe successo mai più. Mai
più avrebbe accettato di provare di nuovo la stessa sensazione lacerante di quella maledetta mattina di
quindici anni prima, quando sua madre se n’era andata portandosi via il piccolo Ludwig. Ricordava gli
occhioni azzurri del fratellino, spalancati e fissi su di lui, con l’espressione implorante di chi supplica di fare
qualcosa, qualunque cosa. Ricordava anche di aver abbassato la testa, stretto i pugni e represso la sua inutile rabbia
di bambino. Non era stato in grado di fare nulla. A causa dell’analogia tra i due sentimenti,
aveva passato quella serata di festa con l’immagine del fratello stampata in testa, scolandosi una birra dopo
l’altra fino a stordirsi completamente, nonostante Feliciano, l’unico che sembrava preoccuparsi per lui
in quel momento, continuasse a ripetergli che gli avrebbe fatto male continuare a bere così. A Gilbert
non importava un benemerito accidente di cosa gli avrebbe fatto male, così come probabilmente non
importava a nessuna delle persone che aveva attorno: Francis, che aveva passato un sacco di tempo al telefono con
l’inglese scorbutico; Antonio, che quando c’era Lovino nei paraggi sembrava trasformarsi in qualcosa
di pesantemente zuccheroso e calorico; Bella, che non aveva occhi che per il “poliziotto americano
n.2”*; persino quello stupido di Alfred era tutto preso dal nuovo vicino**. Per non parlare di Elizaveta,
costantemente persa nel suo mondo popolato di nuvolette rosa e campane a festa. Disgustoso. «Forza, è ora di andare a casa! » esclamò una voce direttamente nel suo
orecchio sinistro, mentre qualcuno lo tirava per un braccio. «Veh, Gilbert, dammi una mano! Sei pesante.
» Il tedesco aprì un occhio e si chiese come mai il giovane italiano fosse ancora lì e non
lo avesse abbandonato al suo destino. «Feli! Che stai facendo? » gli giunse la voce sferzante di
Lovino. «Datti una mossa, il tuo mangia-patate ci aspetta di sotto! » Dopo un attimo qualcun altro
gli tolse di mano la bottiglia di birra e fece leva sul bracciolo del divano per aiutarlo ad alzarsi. «Allez, Gilbèrt! » esclamò Francis, sollecito come sempre.
«Questa volta non sarà una gentil donzella ad accompagnarti a casa. » Accennò a
Bella, occhi negli occhi con Matthew, e ridacchiò dolcemente. Gilbert non ci trovava niente di
divertente, voleva solo che lo lasciassero tutti in pace, che lo lasciassero sprofondare in un sonno senza sogni dove
potesse dimenticare quanto male gli stesse facendo la vicinanza di Elizaveta e quanto ancora più dolorosa
fosse la lontananza di Ludwig. Voleva solo dimenticare, magari tra le braccia di qualche modella sciocca e
superficiale, che in lui vedeva solo quello che mostravano i cartelloni pubblicitari e le foto sui giornali. Qualcuno che
desiderasse il Magnifico solo per come appariva. Invece si trovò improvvisamente in strada, senza
ricordare come ci fosse arrivato, mentre un vento dispettoso e troppo freddo per i suoi sensi accaldati gli spingeva
negli occhi le ciocche argentee. «Veeeh, Lovi, aspetta! Vai troppo veloce! » si lamentava
Feliciano, più appeso al suo braccio che non di sostegno, mentre l’altro italiano li trascinava entrambi
sul marciapiede verso una macchina parcheggiata e con i fari accesi. «Feliciano…» Una voce calda e sconosciuta lo raggiunse, velata dalla preoccupazione e dallo sconcerto. «Doitsu!
» esclamò l’italiano lasciandolo di colpo per saltellare in direzione dello sconosciuto,
abbandonandolo in balia dell’assai meno tollerante fratello maggiore. Gilbert aveva la netta impressione
che, se gli fosse saltata la mosca al naso, per vendicarsi di tutte le volte che lo aveva preso in giro, Lovino non si
sarebbe fatto il minimo scrupolo a lasciarlo proprio al centro del viale trafficato che divideva il condominio
amministrato da Francis da quello in cui si trovava il suo appartamento. Tuttavia, si disse, in quel momento non aveva
la benché minima importanza. «Doitsu, lui è il fratellone Gilbert. »
continuò Feliciano con una vocetta cinguettante. «Ha bevuto troppo e non si sente bene. Io e Lovi non
ce la facciamo a portarlo fino a casa sua da soli. » Il tedesco tentò di alzare lo sguardo per dire
che lui stava benissimo, che non aveva bisogno di nessun aiuto, ma la testa gli ronzava e la luce dei fari gli impediva di
distinguere la figura che avanzava verso di lui. «Gilbert? Sei Gilbert… Weillshmidt? »
esclamò la stessa voce sconosciuta di poco prima, mentre una presa salda calava sulle sue spalle. Non
riusciva a distinguere nulla, tranne un paio di occhi azzurri, troppo azzurri, puntati su di lui. «Ja!
Sono Gilbert, il Magnifico! » dichiarò, levando un braccio al cielo nella parodia di un gesto
solenne che lo sbilanciò, rischiando di fargli perdere l’equilibrio. Un attimo dopo si
trovò con una guancia premuta contro il petto dell’uomo di fronte, mentre un paio di braccia robuste
lo stavano stringendo con inaspettato calore. Cos’era il peso che sentiva sulla spalla? Perché la sua camicia si stava bagnando anche se non pioveva? Perché non stava piovendo,
vero? Allora perché sentiva qualcosa di umido scivolargli lungo una guancia?Quando
socchiuse gli occhi nell’alba fumosa che spezzava appena la penombra della sua stanza, Gilbert aveva ben
pochi e frammentari ricordi della sera precedente: il sapore della birra, ora diventato acido nella sua bocca; la musica
martellante, ora ridotta ad un ronzio insistente nelle sue orecchie; il vento freddo della notte, un dolore sordo, la
sensazione di perdita, frustrante, la pioggia (aveva piovuto?), poi tutto si faceva confuso. L’impressione di
galleggiare nel nulla, la sensazione delle lenzuola fresche, il rumore di una porta che si chiudeva, lasciandolo solo. Solo come era sempre stato. Solo come sarebbe rimasto. Il suo sguardo appannato vagò lungo
le coperte, scivolando sul pavimento e alzandosi lentamente verso l’unica fonte di luce: la finestra con la
tapparella abbassata a metà. Nel farlo incontrò la base della sua poltrona preferita e, accanto ad essa,
un piede. Un piede? Gilbert batté le palpebre e risalì con lo sguardo lungo la gamba fino
ad avere una visione d’insieme, seppur ancora piuttosto confusa, del ragazzone biondo che dormiva
sprofondato nella sua poltrona. Il lampo di un paio di occhi azzurri gli attraversò la mente e, mentre le
ciglia iniziavano a pizzicargli fastidiosamente, si trovò a chiedersi come fosse possibile che piovesse anche
nella sua stanza.
Note: *si riferisce a Matthew, poliziotto come Alfred. **si riferisce a Kiku, dirimpettaio dei fratelli americani. |
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Capitolo 4 *** What the hell ***
Titolo: What the hell Fandom: Axis Powers Hetalia Rating: verde Personaggi:
Arthur Kirkland (Inghilterra), Alfred F. Jones (America) Riassunto: Il racconto di un incontro
fortuito che ha cambiato la vita di due persone. Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi
appartengono a Hidekaz Himaruya. Note: E' un flash back ambientato prima che
Arthur conoscesse Francis e i suoi inquilini, quando la sua storia con Alfred non era ancora iniziata. Questi due mi
piacciono un sacco e, proprio perchè mi piacciono, faccio un po' fatica a scrivere su di loro, ho
l'impressione di sminuirli. Beta: GinkoKite
What the hell
di
Yuki Delleran
All my life I’ve been good, but now Oh I’m thinking what the
hell
Era successo in un attimo. Si era voltato per pagare il tassista e quando era tornato a
chinarsi per recuperare la borsa, questa semplicemente non c’era più. Arthur si guardò
attorno stralunato finché non individuò un tipo che si allontanava di corsa con la sua ventiquattrore.
Fuck! Dimenticandosi completamente della mancia che si era ripromesso di dare al
conducente del taxi, si gettò all’inseguimento del ladro, consapevole che se la valigetta fosse andata
persa sarebbe stato un disastro, un disastro di cui lui avrebbe dovuto rendere conto. Dannato,
dannatissimo ladruncolo americano! Se solo avesse avuto un minimo di cervello si sarebbe accorto che una
borsa del genere non poteva contenere niente di valore ma solo documenti, nello specifico i suoi sudatissimi
documenti, che gli erano costati settimane di lavoro: statistiche, conteggi, movimenti di borsa, valutazioni dei titoli
azionari e tutto quello che gli era stato richiesto dopo il trasferimento dalla filiale di Londra a quella di New York. «W-Wait! Wait! Fermat…» ansimò già senza fiato svoltando un
angolo. Arthur non era mai stato un tipo particolarmente atletico, preferiva di gran lunga starsene tranquillo a
bere tè piuttosto che sfiancarsi in palestra. Solo in casi come quello malediceva la sua scarsa resistenza. Tuttavia, quando alzò lo sguardo con il fiato corto per la corsa, si rese conto che qualcuno aveva
già fermato lo scippatore. Un giovanotto in divisa stava seduto sulla schiena di quel tipaccio, ridendo
sguaiatamente e farneticando qualcosa a proposito di aver compiuto il suo dovere da eroe. Arthur si
avvicinò respirando profondamente per recuperare il ritmo normale. «Ehm… Thank
you. » iniziò, subito interrotto dal giovane poliziotto che, senza preavviso, gli lanciò la
borsa. «Dovere, amico! » rispose mentre Arthur, preso alla sprovvista dalla forza del lancio,
indietreggiava di un paio di passi e incespicava nella grata di un tombino, finendo a terra con un’imprecazione
piuttosto colorita. L’americano balzò immediatamente in piedi, correndogli accanto. «Ehi, tutto bene? » chiese sollecito, ma lo sguardo di Arthur era rivolto verso lo scippatore che,
vistosi improvvisamente libero, non aveva esitato a darsi alla fuga. «Lascia perdere, idiota! Sta
scappando! » urlò quindi allarmato. L’altro si voltò, raggiunse il rapinatore in un
paio di balzi e lo ammanettò, spingendolo poi nell’autopattuglia parcheggiata lì accanto. «Portalo tu alla centrale, Matt. Flagranza di reato. » spiegò brevemente. Dal punto in cui
si trovava, ancora seduto sul marciapiede, Arthur non poteva vedere la reazione del collega sull’auto ma,
dall’espressone del giovane, era chiaro che non ne fosse entusiasta. Partita l’auto, il poliziotto
tornò verso di lui. «Adesso mi permetterai di occuparmi di te? » chiese con un sorriso
luminoso, decisamente troppo luminoso per i gusti di Arthur. «Mi chiamo Alfred F. Jones e,
siccome sono un eroe, va contro la mia etica abbandonare fanciulle in difficoltà. » «What…?! Non sono una maledetta fanciulla in difficoltà! Sei cieco?! »
sbottò Arthur balzando in piedi. Avrebbe voluto urlarne di tutti i colori a quello screanzato, e
l’avrebbe fatto se non fosse stato per una fitta alla caviglia destra che lo costrinse a piegarsi su sé
stesso. Maledizione, evidentemente ad essere ferito non era solo il suo orgoglio di gentleman e freddo azionista. Neanche il tempo di dire una parola, che si trovò sollevato tra le braccia di Alfred. «Ecco, lo
sapevo che ti eri fatto male. Visto che sei sotto la mia responsabilità ti porto al pronto soccorso e, se non
vuoi che continui a chiamarti fanciulla, ti conviene dirmi come ti chiami. » L’inglese
sgranò gli occhi con tutte le intenzioni di protestare vivacemente ma, quando si rese conto che sarebbe stato
totalmente inutile, si limitò a ringhiare con rabbia. «Ngrrrthur. » «Che? Non
ho capito nulla! » esclamò Alfred continuando imperterrito a camminare. Non ottenendo
risposta, continuò: «Ti dispiacerebbe essere più chiaro? Ehi! Ehi, fanciulla? » «ARTHUR! Mi chiamo Arthur Kirkland! E ora falla finita! » Strillando in quel modo si era
agitato finendo per mettere in difficoltà Alfred che tuttavia, invece di lasciarlo lì in mezzo alla strada,
gli stava di nuovo rivolgendo quel sorriso luminoso. «Arthur! Fantastico! È un piacere
conoscerti! » Bastarono quelle poche parole e Arthur capì che, in un futuro neanche troppo
lontano, avrebbe combinato delle grosse sciocchezze per quegli occhioni azzurri e quel sorriso. Quello che non
poteva sapere era che Alfred sarebbe piombato nella sua vita ordinata sconvolgendola allegramente e facendogli
capire per la prima volta il vero significato di parole come amore, passione, gelosia e abbandono. Quello che
non immaginava era che quella girandola di emozioni si sarebbe infranta contro una porta chiusa, mentre lui stesso si
lasciava cadere, in lacrime e completamente svuotato, sul pianerottolo di una casa estranea. Quello che mai, mai,
avrebbe saputo era che, ogni volta che metteva piede al pronto soccorso con un ferito, ad Alfred tornavano in mente
due occhi verdi che lo fissavano alternativamente con irritazione, smarrimento e la totale devozione che solo
l’amore può dare, e che una stretta dolorosa finiva inevitabilmente per chiudergli lo stomaco. |
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Capitolo 5 *** Alucinado ***
Titolo: Alucinado Fandom: Axis Powers Hetalia Rating: giallo Personaggi: Antonio Fernandez Carriedo (Spagna), Lovino Vargas (Sud Italia),
teppisti random Riassunto: Antonio ha fatto di nuovo arrabbiare Lovino, ma la sua idea per
farsi perdonare si trasformerà presto in qualcosa di completamente inaspettato. Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya. La
canzone "Alucinado/Imbranato"
è di Tiziano Ferro (sì, il video del link è Spamano! :p). Lovino, le sue battute e il suo
comportamento in questa fic sono made in GinkoKite. Grazie! <3 Note: Si tratta della trascrizione di una
ruolata completa quindi è un po' più lunga delle precedenti e se alcuni passaggi risultano un po'
confusi, me ne scuso. Beta: GinkoKite
di
Yuki Delleran
Quella volta Antonio l’aveva combinata grossa. Non era stata colpa sua, semplicemente non si era reso
conto di essersi fatto prendere un po’ la mano. Ok, forse avrebbe potuto fare a meno di spingere Lovino sul
tavolo della cucina nel retro del locale, ma gli era sembrato così carino, dopo quel Bloody Mary
“corretto”, e così disponibile che aveva perso la testa. Il risultato era stato morso ben
assestato e tutt’ora, ad un giorno di distanza, un labbro dolorante. La reazione fin troppo decisa
dell’italiano aveva gettato lo spagnolo nel dubbio: forse i rifiuti di Lovino non erano esclusivamente
scenografici, forse detestava davvero fare “certe cose”, forse l’aveva spaventato e ora non
avrebbe più voluto vederlo! Esasperati dalle sue continue lamentele e dai suoi deliri romantici e pseudo
-drammatici, Francis e Bella avevano infine accettato di offrirgli il loro aiuto, consigliandogli di sfruttare la sua dote
migliore per dimostrare all’amato quanto i suoi sentimenti fossero sinceri. Per questo motivo ora Antonio si
trovava sotto le finestre di un anonimo palazzo in Little Italy, con lo sguardo rivolto verso l’alto e la chitarra in
pugno. Quella era l’unica cosa che, a suo parere, poteva fare per esprimere al meglio i suoi pensieri. Ci
aveva messo parecchio tempo a trovare l’appartamento condiviso dai fratelli Vargas e alla fine era anche
dovuto ricorrere nuovamente a Francis e alle sue “conoscenze”. In onore di questa lunga ricerca ora
stava facendo di tutto per reprimere l’istinto che gli gridava di precipitarsi di sopra, facendo i gradini a tre per
volta, e stringere Lovino nel più caldo degli abbracci. Un colpo di testa del genere avrebbe rovinato tutto il
suo progetto. Accordò la chitarra, la imbracciò stringendola dolcemente, come se si fosse
trattato dei fianchi di una fanciulla, e schiarita la voce e iniziò.Escúchame si trato de insistir, aguanta soportándome, mas te amo...Te
amo... Te amo, soy pesado, es antiguo, mas te amo. Perdona si
te amo, y si nos encontramos, hace un mes o poco más, perdona si no te hablo bajo, si no lo grito ¡muero! ¿te he dicho ya... Que te amo? Perdona si me río, por mi desasosiego te miro fijo y tiemblo, sólo con tenerte al
lado, y sentirme entre tus brazos, si estoy aquí, si te hablo emocionado, si estoy alucinado,
si estoy alucinado.
La voce calda del giovane spagnolo si diffuse lungo la via, resa solo
leggermente stridula per la tensione e l’emozione. Non si trattava di una canzone particolarmente impegnativa,
ma rispecchiava in modo straordinario il suo stato d’animo: con poche, semplici parole era in grado di
trasmettere la forza di un sentimento che sperava anche Lovino, là, oltre le finestre buie, potesse
sentire. Ciao… Come stai? Domanda inutile! Ma a me
l'amore mi rende prevedibile Parlo poco, lo so è strano, guido piano Sarà il vento,
sarà il tempo, sarà… Fuoco! E scusa se ti amo e
se ci conosciamo Da due mesi o poco più E scusa se non parlo piano Ma se non urlo
muoio Non so se sai che ti amo… E scusami se rido, dall'imbarazzo cedo Ti guardo fisso e
tremo All'idea di averti accanto E sentirmi tuo soltanto E sono qui che parlo emozionato …E sono un imbranato! Ah, ma ti amo! ¡Yo te
amo ...! Antonio aveva passato la giornata a provare e riprovare gli
accordi e, con grande disappunto del suo capo al bar, il testo in italiano che si era prefissato di imparare per fare
colpo su Lovino. Quando anche l’ultima nota sfumò tremolando nel buio della sera,
poté dirsi orgoglioso del fatto che la sua voce avesse tremato meno del previsto, ma questo non era stato di
grande utilità, dal momento che le finestre dello stabile rimanevano ostinatamente buie e nessuna reazione era
seguita alla sua dichiarazione accorata. Sospirando deluso, Antonio si voltò con l’intenzione di
rincamminarsi lungo la via. Forse Lovino aveva bisogno di tempo, forse avrebbe fatto meglio a non farsi vedere per
un po’, forse… I suoi pensieri vennero letteralmente gelati quando una cascata d’acqua
ghiacciata gli precipitò addosso da uno dei piani superiori: Antonio si voltò shockato, ma
riuscì solo a vedere un’imposta che sbatteva. Fantastico… Quella doccia fuori
programma era proprio quello che ci voleva per coronare una degna serata. Ora non voleva altro che andarsene a
casa, farsi una doccia bollente e lasciarsi consolare dai cioccolatini speciali di Francis. Purtroppo, però,
qualcuno non sembrava d’accordo con lui, infatti una risata sguaiata risuonò alle sue spalle:
«To’, un frocio canterino! Quella chitarra non è niente male, significa che sei ben fornito di
píccioli. Non ci piace la gente come te, quindi se non vuoi finire molto male, molla la grana e vattene!
» Antonio s’irrigidì e si voltò lentamente verso il gruppetto di ragazzi che lo stava
insultando e tentando di derubare. Era proprio vero che non esisteva limite al peggio: proprio quando si era convinto
che la serata non potesse terminare in modo più orribile, ecco che spuntavano fuori questi. Poco male, si
disse fulminandoli con lo sguardo, se era la rissa che volevano, li avrebbe accontentati. Fare a pugni sarebbe stato
utile per scaricare la tensione. Questo almeno era quello che pensava un attimo prima di ritrovarsi sotto il naso la
lama lucente di un coltello. «Fermo! » Un’esclamazione risuonò nella via
silenziosa: Antonio si voltò in quella direzione e vide Lovino avvicinarsi, a sua volta coltello alla mano. «Il bastardo è in territorio Vargas e solo io ho il diritto di menarlo e derubarlo, quindi vedi di girare al
largo, ok? » lo sentì esclamare in tono minaccioso. «Oppure volevi farti un giretto con il frocio?
» Occhi d’ambra lampeggianti, quell’inflessione pesante di scherno, quello stesso insulto
pronunciato da labbra tanto amate: quello non era il suo Lovino. Turbato, Antonio fece un passo indietro
inciampando sulla chitarra che aveva appoggiato al suo fianco e scivolando malamente sul marciapiede. Nel
frattempo il capobanda e i suoi compari si erano avventati sul giovane italiano, ingaggiando una confusa lotta. Le lame
scintillavano urtandosi a vicenda mentre Antonio le fissava impietrito, incapace di muovere un muscolo. Lui
non si era mai considerato uno di quei signorini dei quartieri alti, anzi prima di trasferirsi da Francis aveva vissuto
molto alla buona, ma la sua natura solare e positiva gli aveva sempre risparmiato quel lato oscuro della vita e vederlo
manifestarsi in quel momento nei panni della persona che più amava al mondo lo sconvolgeva e lo…
Sì, lo spaventava. Lo schianto metallico di una catena disarmò Lovino e il capo dei tipacci lo
sollevò afferrandolo per il colletto della camicia. La lama saettò, squarciando la stoffa sul fianco che
ben presto s’intrise di sangue e solo il suono delle sirene in avvicinamento, che annunciavano l’arrivo
della polizia, gli impedì di fare di peggio; scaraventato a terra il ragazzo, il gruppetto si diede alla fuga, mentre
le prime luci si accendevano alle finestre circostanti. Lovino ringhiò un insulto e allungò una
mano per recuperare il coltello. «Forza, alzati, bastardo! » esclamò premendosi una mano
sul fianco. «Sta arrivando la polizia! Casa mia è qui sopra, aiutami ad alzarmi! » Antonio
non aveva sentito minimamente le sirene, non aveva neppure notato le luci alle finestre, fu il tono pressante di Lovino
a riscuoterlo dal torpore in cui era precipitato: così, senza dire una parola, lo sollevò meccanicamente
e lo trascinò su per le scale nonostante le proteste per la sua scarsa delicatezza. Quando raggiunsero
l’appartamento, Lovino lo guidò verso il salotto imponendogli di rimanere lì mentre
recuperava l’occorrente per il primo soccorso. Antonio si sedette rigidamente sul divano, posando la chitarra
a fianco, e rimase a fissarsi le mani ancora sporche e scosse da un leggero tremito. Era il sangue del suo amore quello
che le macchiava. Amore? Quale amore? Chi era in realtà il ragazzo che aveva visto brandire il
coltello con tanta facilità? Che fine aveva fatto il suo Lovi tenero e imbronciato? E a chi apparteneva lo
sguardo tagliente che aveva intravisto in quelle iridi dorate? Una girandola di sentimenti contrastanti si agitava
dentro di lui, contesi tra l’inquietudine e il senso di colpa. Proprio quest’ultimo prevalse nel momento
in cui Lovino riapparve in salotto: a petto nudo e con la ferita al fianco medicata alla meglio, lo raggiunse con cotone
e disinfettante tra le mani. La vista del suo fisico sottile spazzò via ogni dubbio, rivelando ad Antonio la reale
fragilità del ragazzo che si era messo in pericolo per aiutarlo. Era rimasto ferito solo perché aveva
tentato di proteggere lui. Lo spagnolo si alzò e gli circondò delicatamente le spalle
con le braccia, facendo attenzione a non sfiorare la ferita. Appoggiò la fronte nell’incavo del collo
mormorando sulla sua pelle: «Perdóname…» Lovino
s’irrigidì un poco poi, per la prima volta, ricambiò la stretta lasciando cadere le bende e
passandogli le mani sulla schiena con gesto rassicurante: «Tu non c’entri… Non
c’entravi, ecco perché l’ho fatto. Quelli sono solo feccia, non potevo lasciarti lì,
capisci? » Dopo un attimo scivolò via dall’abbraccio e prese a ripulirgli le mani dal suo
stesso sangue. Con le mani strette da quelle dita inaspettatamente gentili, Antonio sentì sciogliersi il gelo
che fino a quel momento lo aveva paralizzato e finalmente alzò lo sguardo, alla ricerca dei suoi occhi color
dell’oro liquido. «Te quiero más que a mi vida. » mormorò
fissandolo seriamente e ribadendo il motivo della sua presenza lì. «Lovi… Posso baciarti?
» «Ma che posso e posso! Se ti va, fallo e basta! » esclamò il giovane italiano e,
senza aspettare una risposta, s’impossessò delle sue labbra. Antonio avrebbe voluto protestare
che voleva solo assicurarsi di non fare nulla di sgradito, che chiedere era da gentiluomini, che la volta scorsa non
l’aveva fatto ed era finita in un disastro, ma non riuscì a dire una parola. Le labbra di Lovino erano
dolci e allo stesso tempo esigenti mentre si schiudevano sulle sue e poté solo assecondarle. In un attimo si
ritrovò a stringere a sé il corpo esile del ragazzo e, in un momento del genere e con ancora tutta
quell’adrenalina in circolo, si rese conto che se non si fosse fermato ora non l’avrebbe fatto
più. Così, facendosi forza, sciolse il bacio e sollevò il ragazzo tra le braccia. «Dopo un trauma come questo è bene che tu riposi. » disse dirigendosi verso la camera da
letto e zittendo le sue proteste con un piccolo bacio sul naso. Lo depose sul letto e rimase ad osservarlo in
ginocchio sul pavimento per accertarsi che stesse realmente bene, anche perché, se avesse notato qualunque
segno dell’aggravarsi della ferita era pronto a portarlo al pronto soccorso in barba a qualunque protesta. Non
badò minimamente al fatto che nemmeno lui fosse in ottime condizioni, che la stoffa della sua maglietta,
ancora bagnata, aderisse alla pelle provocandogli piccoli brividi in tutto il corpo. Lovino invece lo notò,
nonostante tentasse di non darlo a vedere. «La signora Rosalia del terzo piano non è stata
esattamente delicata, eh? » constatò. «Razza di megera… Comunque, dato che sono
buono e in teoria sei mio ospite, puoi anche usare il bagno e prendere alcuni vestiti dalla stanza qui a sinistra, ci sono
cose di mio fratello. » Dopodiché si coprì la faccia arrossata con un cuscino in modo
che Antonio non potesse nemmeno ringraziarlo a dovere. Sorridendo, lo spagnolo si diresse verso il bagno,
dove abbandonò finalmente la maglia fradicia e s’infilò sotto la doccia, lasciando che il getto
d’acqua bollente portasse via i residui di tensione, paura e ansia. Si concentrò sul fatto che Lovino
fosse lì, a pochi metri da lui, e lasciò scivolare le dita sulla pelle abbronzata immaginando che fosse
lui a farlo. Quando anche l’ultimo brivido si fu placato, chiuse l’acqua, si strofinò con
l’asciugamano, indossò una maglia trovata nella stanza a fianco, sicuramente troppo grande per essere
di Feliciano, e di nuovo presentabile, si affacciò alla porta della stanza, ma questa volta non rimase sul
pavimento: si chinò su Lovino, scostandogli i capelli dalla fronte e posandovi un bacio lieve. Le
proteste giunsero con precisione quasi ovvia, se non che il ragazzo si irrigidì improvvisamente, fissandolo. «Toglila. » intimò. «Toglila, specie di idiota! Avanti! » Allo sguardo
confuso di Antonio, Lovino additò la larga maglia nera. «Hai messo una maglia del crucco
mangia-patate! Non voglio che tu somigli anche solo lontanamente a quel fiscale d’un nordico! » «Va bene, va bene, la tolgo! » esclamò Antonio, momentaneamente allarmato, sfilandosela e
rimanendo a petto nudo senza il minimo imbarazzo. Dopo un attimo il suo sguardo si accese di malizia.
«C’è davvero qualcosa che non va con tuo fratello o è tutto un espediente per farmi
spogliare?» Com’era prevedibile, la reazione di Lovino fu piuttosto brusca. «Ehi! Io
non ho niente contro mio fratello! E poi… Stai meglio senza…» L’ultima parte della
frase fu borbottata a voce talmente bassa che Antonio quasi stentò a sentirla, mentre il ragazzo si
raggomitolava appena sul letto, in reazione istintiva ad un tuono che brontolò in lontananza. Stava per
rispondere con una battuta maliziosa quando quel movimento brusco gli provocò un moto di
preoccupazione. «No, aspetta…» iniziò. «Se ti muovi troppo potrebbe
riaprirsi la ferita, è meglio se rimani disteso. » Lovino si limitò a ringhiargli contro,
affondando il volto arrossato nel cuscino che stringeva tra le braccia, in imbarazzo per la situazione, per il fatto che
Antonio avesse sentito il suo commento e per la stupida paura dei temporali che sarebbe sicuramente stata oggetto di
scherno. Lo spagnolo, tuttavia, non era assolutamente in vena di prese in giro mentre si sdraiava al suo fianco,
facendo attenzione a non urtare la ferita, e gli circondava le spalle con un braccio invitandolo ad appoggiarsi a lui. «Non sono meglio di un cuscino? » disse con un sorriso. «Tengo caldo, sono morbido e
all’occorrenza posso anche cantare ninne nanne. » Non aggiunse che aveva anche diverse idee
per fargli dimenticare il temporale in arrivo. Un nuovo tuono bloccò sul nascere le sicure proteste e
Antonio sentì le mani di Lovino correre al suo petto, mentre si stringeva a lui istintivamente. «I
cuscini di solito stanno zitti e fermi. » brontolò l’italiano chiudendo gli occhi, come ad
impedirsi la vista di qualcosa che l’avrebbe turbato. «Vedi di fare altrettanto. » Lovino
rimase così, stretto a lui e ignaro delle sensazioni che stava scatenando, di quanti brividi le sue mani ancora
fredde provocavano sulla pelle calda di Antonio, di come fossero piacevoli e, soprattutto, di quanto lo
spagnolo si stesse sforzando di non turbare l’atmosfera intima che si era creata e permettergli di riposare
come si deve. Essere in un letto con Lovino superava le sue più sfrenate fantasie e dubitava che sarebbe
mai riuscito a chiudere occhio, ma non per questo avrebbe impedito al ragazzo di farlo. Si limitò ad affondare
il volto nei suoi capelli e a mormorare un gentile: «Buenas noches, mi amor. » Allungò la mano e spense l’abat-jour sul comodino. Non sarebbe rimasto lì a
lungo, non appena il ragazzo si fosse addormentato si sarebbe trasferito sul divano, in modo che potesse stare
più comodo. O almeno, l’idea iniziale era stata quella, se non fosse stato che Antonio stesso alla fine
aveva ceduto alla stanchezza. Quando riaprì gli occhi non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse
passato. Probabilmente si era appisolato ma per fortuna non si era mosso. Lovino infatti era sempre nella stessa
posizione e respirava tranquillamente, segno che il suo sonno era pacifico. Badando di non fare il minimo
rumore e muovendosi il più delicatamente possibile, sollevò il braccio che lo cingeva ancora,
posandolo sulle lenzuola e, alzandosi dal letto, si voltò indietro per rimboccare premurosamente le coperte,
poi si diresse nel corridoio alla volta della sala. Attraversando la casa silenziosa, giunse al divano accanto al quale era
ancora posata la chitarra e la sfiorò leggermente con sguardo triste. Una corda penzolava penosamente di
lato, allentata dalla caduta. Sarebbe potuta andare peggio, ma gli si stringeva ugualmente il cuore a vedere il suo caro
strumento, la compagna della sua dichiarazione, in quello stato. L'indomani l'avrebbe sistemata nel
miglior modo possibile. Sospirando, si stese sul divano sistemando uno dei cuscini dietro la testa e chiudendo
nuovamente gli occhi in attesa del sonno, sonno che difficilmente sarebbe arrivato, sia a causa dello scroscio della
pioggia che sembrava voler allagare la città quella notte, sia per le immagini che costantemente gli ritornavano
alla memoria: la canzone, la doccia fredda, le minacce di quei tipacci, lo sguardo ardente di Lovino, la lama scintillante
del coltello, il rosso del sangue, il gelo della paura, il calore della passione... Affondò la testa nel cuscino. Di
quel passo non avrebbe dormito mia più! Rimase immobile nella speranza che il sonno sopraggiungesse
per inerzia o per noia, anche se quest'ultima non avrebbe mai potuto convivere con la consapevolezza di trovarsi in
casa di Lovino. Concentrandosi sullo scroscio della pioggia e tentando di accantonare tutte le emozioni che
non l'avrebbero fatto dormire, riuscì finalmente a raggiungere una parvenza di riposo. E fu sulla labile soglia
tra il sonno e la veglia, dove i pensieri si confondono con i sogni, che giunse a fargli visita un dolce servitore di
Morfeo. Antonio era convinto che si trattasse di un sogno, di un’immagine creata dal suo subconscio nel
dormiveglia, ma i sogni non hanno mani, non possono toccare, mentre le dita che gli sfiorarono la fronte invece erano
reali, così come le labbra che si posarono delicatamente sulle sue. Se era un sogno non voleva essere
svegliato mai più e fu per questo che mantenne gli occhi chiusi, in modo da assaporare al massimo quel
momento unico: perché si sa, i sogni si infrangono al risveglio. «E questo sarà
l’unico bacio che riceverai da me volontariamente. Ah, se mai ti sarai accorto di qualcosa, io negherò
sempre, bastardo. » Quelle parole sussurrate nel buio dalle labbra che avevano appena incontrato le sue
e il leggero movimento accanto a sé, convinsero definitivamente Antonio che non si trattava di un sogno,
inducendolo finalmente ad aprire gli occhi, scintillanti di calore, e allungare una mano per accarezzare la guancia di
Lovino. Non fece battute, non rise inutilmente, si limitò a cingere la vita del ragazzo con un braccio e ad
impedirgli di alzarsi, attirandolo a sé, finendo quasi per farselo cadere addosso. Lo circondò con
entrambe le braccia e se lo strinse al petto, dimostrando solo con quel gesto, tutto l'amore che provava verso di
lui. Se n’era andato per permettergli di riposare tranquillo, ma lui era andato a cercarlo. Anche un misero
divano sarebbe andato bene, l’importante era averlo tra le braccia e anche sentirlo ringhiare di disappunto per
poi acquietarsi sul suo petto era la migliore delle ricompense.
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Capitolo 6 *** Marry you ***
Titolo: Marry you Fandom: Axis Powers Hetalia Rating: verde Personaggi: Gilbert Weillschmidt (Prussia), Elizaveta Héderváry
(Ungheria), Bella (Belgio). Nominati: Natalia (Bielorussia), Roderich (Austria), Vash (Svizzera), Gary (Male!
Hungary) Pairing: Prussia/Ungheria Riassunto: "Si sentiva
molto un eroe tragico all’ultimo atto della rappresentazione, quando ormai nemmeno un improvviso colpo di
scena avrebbe potuto cambiare la sua sorte." E invece il colpo di scena ci sarà. Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya. La
canzone Marry you, che fa da sottofondo
d'atmosfera, è di Bruno Mars, nel link la versione di Glee che amo particolarmente. Note: Massicce dosi di fluff e di zucchero... Beta: GinkoKite
di
Yuki Delleran
Quella appena trascorsa era stata per Gilbert una delle peggiori giornate lavorative da quando aveva intrapreso la sua
magnifica carriera. L’intero problema ruotava intorno al fatto che il servizio fotografico odierno fosse
stato commissionato da una rivista di abiti da sposa e che a lui, nello stato d’animo in cui si trovava, alla sola
vista di un velo bianco venisse il voltastomaco. Il suo agente aveva dovuto sudare sette camicie per convincerlo a
portare a termine quel lavoro già pagato, adducendo come scusa la penale che avrebbero dovuto pagare per
la rescissione del contratto e altre stupidaggini del genere. Come sgradita conseguenza Gilbert si era ben presto
trovato sul set, circondato da raggianti modelle avvolte in fruscianti abiti candidi e la nausea mista a rabbia
l’aveva inevitabilmente accompagnato per tutto il servizio, rendendolo scontroso e scostante. Solo una delle
modelle aveva osato sfidare il suo malumore rivolgendogli la parola, una biondissima russa di nome Natalia che
lavorava per la sua stessa agenzia. «Chi non apprezza i matrimoni è destinato a rimanere solo.
» aveva sentenziato freddamente, liquidando con una smorfia il suo ennesimo sbuffo esasperato. Quella
battuta provocatoria, fatta con il solo scopo di punzecchiarlo, aveva invece finito per scatenare una serie di riflessioni.
E bisognava sapere che Gilbert odiava riflettere. Aveva trascorso il resto del servizio rivedendo nei
finti sguardi ridenti delle modelle gli occhi brillanti di Elizaveta mentre annunciava a tutti loro che il suo più
grande sogno si era realizzato: Roderich, colui che Gilbert soleva definire “damerino represso”, aveva
chiesto la sua mano. Era, ovviamente, al settimo cielo ma per Gilbert era stato un colpo talmente inatteso che aveva
finito per rifilarle alcune tra le sue peggiori battute. Il risultato era stato una lite furibonda. Lite che aveva
costantemente rievocato durante la pausa caffè, mentre se ne stava rintanato in un angolo con
un’espressone talmente feroce che nessuno degli assistenti di scena aveva osato avvicinarsi per suggerirgli che
forse era il caso che bevesse una camomilla. Alla fine era giunto ad una dolorosa conclusione: niente di
eccezionale, era la decisione più logica, ma aveva dovuto faticare parecchio per convincersi ad accettarla. Fu con questo stato d’animo che raggiunse il Movida*, dopo il lavoro, ringraziando che degli amici fossero
presenti solo Antonio, indaffarato dietro il bancone, e Bella, seduta ad un tavolino solitario ingombro di carte. Con un’entrata molto meno ad effetto di quanto avesse abituato gli avventori, il tedesco si sedette di
fronte alla ragazza mugugnando uno scocciato: «Guten abend. » Gli occhi verdi della
belga si posarono su di lui, carichi di curiosità: lei era l’unica ad essere a conoscenza dei suoi
tormenti, che il Magnifico non aveva osato rivelare nemmeno agli amici più cari, quindi, dopo essersi lagnato
per un po’ di Natalia e del suo inquietante fratello/agente/guardia del corpo, decise di venire al punto. «Ci ho pensato un sacco, oggi. » esordì. «Ho pensato a lei per tutto il
tempo in mezzo a quella marea di tulle bianco, a quanto sarà bella durante la cerimonia e a quanto
sarà felice. Ho io il diritto di minare questa felicità? » Domanda solo fintamente retorica,
visto che in condizioni normali avrebbe risposto: “Sì, perché io sono il Magnifico!” In condizioni normali, appunto, non ora. «Se dicessi che non c’è mai stato niente tra
noi sarei cieco e ipocrita, ma evidentemente non era destino che questo qualcosa sbocciasse. Me ne farò una
ragione e andrò avanti, non sarò il pretendente respinto che si mette in testa di rovinare le nozze.
» In realtà, in un primo momento, aveva pensato di non presentarsi proprio alle nozze, di
inventarsi un’improrogabile quanto improvviso impegno di lavoro che prevedeva l’immediata partenza
per l’angolo opposto del mondo, ma alla fine aveva stabilito che quella fuga vergognosa non si adattava
affatto alla sua magnifica persona, quindi le scelte rimaste erano ben poche. «Non voglio che mi odi
ancora di più di quanto non faccia già. » continuò. «Le starò vicino
come un buon amico, nonostante tutta questa schifosa storia mi faccia stare davvero male. Voglio che
sappia che, se è convinta della sua scelta, allora le auguro ogni bene e che sarò sempre qui se
avrà bisogno di sfogarsi prendendo a padellate qualcuno. Ma se…!» S’interruppe
un attimo e il suo sguardo si assottigliò. «Se quel damerino la farà piangere, gli
spaccherò la faccia! » Si sentiva molto un eroe tragico all’ultimo atto della
rappresentazione, quando ormai nemmeno un improvviso colpo di scena avrebbe potuto cambiare la sua sorte. Bella lo ascoltò fino alla fine, poi batté le mani impressionata. «Gilgil, sei un attore
nato. » disse con un sorriso. «Potresti riciclarlo come discorso del testimone. » Gilbert
sgranò gli occhi, allarmato. «Te-testimone? » Il sorriso della ragazza si
addolcì mentre con una mano gli sfiorava gentilmente il braccio. «Davvero sei convinto che Eliza
ti odi? » Testimone? Oh, no. Proprio no. Con tutta la sua buona volontà e lo (scarso) autocontrollo di cui disponeva sarebbe stato impossibile.
Avrebbe finito per urlare allo sposo quanto lo ritenesse idiota e alla sposa quanto fosse cieca, il tutto magari nel bel
mezzo della navata della chiesa. Un modo perfetto per mandare a rotoli il “matrimonio del secolo” e
farsi odiare per sempre. Aveva bisogno di una birra. E magari della compagnia di Ludwig. Dopo
aver rimuginato tutto il giorno per colpa di Natalia e tutta la sera a causa delle parole di Bella, non poteva esserci
niente di meglio di una bevuta con suo fratello per allontanare i pensieri molesti. Figuriamoci se Elizaveta non lo
odiava! Come se fossero mai andati d’accordo. Nemmeno quando giocavano a nascondino da piccoli era mai
successo. Stava per prendere il cellulare per chiamare Ludwig, quando vide lo schermo illuminarsi per una
chiamata: sospirando e chiedendosi cosa volesse ancora Bella da lui, Gilbert finì per rispondere. La bevuta fraterna era stata rimandata a data da destinarsi nel momento
stesso in cui aveva risposto al telefono. Il tono preoccupato di Bella di per sé sarebbe stato sufficiente, ma a
farlo scattare erano state le parole ansiose della ragazza: Elizaveta tardava, non rispondeva al cellulare, quindi aveva
chiamato Roderich per avere notizie; al posto dell’austriaco aveva risposto il suo contabile, quel tale Vash
Zwingli la cui presenza Elizaveta tanto temeva, e l’aveva liquidata con poche parole dicendo che la ragazza era
rimasta turbata da qualcosa che aveva visto e che probabilmente tra lei e Roderich era tutto finito. Tanto era
bastato per chiarire a Bella, e anche a Gilbert, cosa potesse essere successo. Per questo ora il tedesco correva
per strada, incurante dell’ora decisamente tarda e del vento novembrino che spazzava le strade di New York.
Con poche, rapide chiamate aveva mobilitato tutti gli amici che si erano messi alla ricerca della ragazza. Una donna
innamorata e tradita era capace di tutto e in quel momento la coscienza di Gilbert era dilaniata tra la preoccupazione
per lei e il desiderio sempre più forte di tenere fede alla propria promessa di spaccare la faccia
all’austriaco. Cercando di convincersi che l’omicidio di Roderich non sarebbe stato utile
nell’immediato, semmai più tardi come sfogo, si concentrò per farsi venire in mente un posto
dove Elizaveta sarebbe potuta andare: di certo non si trattava di qualcosa di ovvio come il Movida o il suo ufficio.
Scompigliandosi i capelli, masticò un’imprecazione: possibile che le donne avessero quella pessima
abitudine di reagire alle delusioni nascondendosi da qualche parte? Fu proprio quel pensiero a fornirgli un
involontario aggancio: nella zona in cui abitavano prima si trovava un piccolo parco giochi dove spesso si erano
incontrati da bambini. Gilbert ricordava chiaramente le insistenze della piccola per giocare a calcio con i maschi, il suo
inevitabile farsi male, i dispetti e le litigate che si susseguivano. Era un maschiaccio, niente di strano che
l’avesse considerata davvero tale per tanto tempo, ma poi era sbocciata in una splendida donna con un
carattere d’acciaio. Era forte, Elizaveta, nessuno era in grado di piegarla, ma possedeva anche un lato fragile
tanto raro quanto inestimabile ed era per questo che… Verdammt, sì, si era innamorato di
lei! Varcò l’ingresso del parco augurandosi di aver avuto fortuna e intuito sufficienti e si diresse
verso il vecchio scivolo azzurro, rifugio dove, da bambina, era solita nascondersi dopo ogni litigio. Ed eccola
lì, la sua Lizzie, rannicchiata nell’ombra con le ginocchia strette al petto e gli occhioni verdi pieni di
lacrime. Tutto il nervosismo di Gilbert scemò, evaporando come neve al sole. Si chinò verso la
ragazza, con un pallido sorriso. «Tana per Héd! » esclamò rispolverando il
vecchio nomignolo maschile nato da una storpiatura del suo cognome. Elizaveta sussultò leggermente
alzando lo sguardo e strofinandosi gli occhi, con il solo risultato di sbavare completamente quel poco che restava del
trucco. «Gilbert…» Il suo sguardo disperato cambiò luce in un attimo. «Sei qui per prenderti gioco di me? Per dirmi “Te l’avevo detto”? »
sbottò. «Perché se è così, io…» Il ragazzo non la
lasciò finire, afferrandola per un braccio e tirandola in piedi. Ignorando le sue proteste la strinse a sé
in un abbraccio che avrebbe dovuto essere consolatorio ma che finì per essere solo un maldestro tentativo di
zittirla. «Pensi davvero che lo farei? » mormorò con il volto affondato tra i suoi capelli.
«Mi reputi così crudele? » Elizaveta s’irrigidì tra le sue braccia. «Ne saresti capace! Specialmente ora che era tutto organizzato, che Gary** sarebbe venuto apposta
dall’Ungheria per la cerimonia, che mi ero vantata con tutti e…» La sua voce si
spezzò e con essa la tolleranza che aveva avuto per quell’abbraccio. Puntò le mani sul suo
petto e tentò di allontanarlo. «Adesso lasciami andare! » esclamò mentre, contro
la sua volontà, le lacrime ricominciavano a scorrere. Per tutta risposta Gilbert la strinse ancora di
più. «Non ci penso nemmeno! Got, ma quanto sei stupida?! Non ci sei ancora
arrivata? » Allentò l’abbraccio quanto bastava per incontrare i suoi occhi confusi, ma
non a sufficienza per farla scappare. «Tuo fratello organizzerà la migliore cerimonia mai vista,
avrai il tuo matrimonio da favola e sai perché? Ti sposo io! » L’espressione stralunata di
Elizaveta fu impagabile e Gilbert dovette sforzarsi per rimanere serio. «Non sto scherzando. »
continuò. «Sono innamorato di te da sempre. Da piccolo, per colpa tua, pensavo di avere strane
tendenze. Tutta la storia del damerino e del matrimonio mi stava distruggendo. Non ti lascerò scappare
un’altra volta. » Sentì i pugni di Elizaveta stringersi sulla sua camicia mentre le sollevava il
volto per baciarla delicatamente. Stranamente la ragazza non oppose resistenza anzi, a poco a poco, si sciolse
stringendosi a lui. Gilbert c’era sempre stato: tra litigate e urla, risse e sfratti, padellate e battute pungenti,
Gilbert era stato una costante nella sua vita da quando era bambina. «Pensi che potrei innamorarmi di te
a comando? » chiese Elizaveta, un’eco di sfida nella voce. «Penso che se non lo fossi
già, mi avresti preso a padellate da un pezzo. » rispose Gilbert con un ghigno. «E penso che ti
sposerei anche subito, nella cappelletta in fondo alla strada, senza dire niente a nessuno. » Inaspettatamente la ragazza sorrise e gli sfiorò la mano. «Magari Gary potrebbe occuparsi solo
del ricevimento…»
Note: * Movida: è il bar/pub dove
lavora Antonio e dove di solito si ritrovano i ragazzi **Gary: Male!Hungary, nella storia fratello maggiore di
Elizaveta, di professione... wedding planner! XD |
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Capitolo 7 *** 30 Mai - Souvenir de toi ***
Titolo: 30 Mai - Souvenir de toi Fandom: Axis Powers
Hetalia Rating: verde
Personaggi: Francis Bonnefoy (Francia), Jeanne (RP Jeanne D'Arc), Antonio
Fernandez Carriedo (Spagna), Arthur Kirkland (Inghilterra) Pairing: Francia/Jeanne,
Francis/Spagna, Francia/Inghilterra Riassunto: Il 30 maggio è una data
importante per Francis, si tratta del giorno in cui ha perso l'amore della sua vita, che mai dimenticherà e che
resterà per sempre nel suo cuore nonostante il passare degli anni e il mutare dei sentimenti. Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya. Note: Non ho la presunzione di scrivere qualcosa con il personaggio reale e storico di
Jeann D'Arc, non me ne sentirei mai all'altezza. Qui Jeanne è solo la vecchia fidanzata di Francis a cui si
è accennato delle altre shot. Volevo mostrare l'evoluzione dei sentimenti nel tempo, non sono certa di esserci
riuscita ma spero comunque che il risultato sia apprezzabile. ^^ Ispiratrice della prima parte: Our last summer degli Abba. Ispiratrice della
seconda parte: In
tango di In-Grid Terza parte nata dalla mia fantasia angst... -_-
Scritta per GinkoKite che ci teneva particolarmente a leggerla oggi e a lei dedicata.
Beta: GinkoKite
di
Yuki Delleran
Era l’inizio di una nuova estate, quando le giornate, ormai più lunghe,
iniziavano a scaldarsi notevolmente e il sole abbagliante riverberava limpido sulle acque della Senna. La città
vibrava di vita che si risvegliava, cespugli e arbusti in piena fioritura punteggiavano di colore gli angoli delle vie,
diffondendo nelle strade il loro profumo. Quella avrebbe dovuto essere la loro estate, nulla sembrava poter
intaccare la serenità di quei giorni trascorsi in allegria, mentre le preoccupazioni per il futuro apparivano
lontane anni luce. Lei era un fiore forte e gentile, dotata di un’energia all’apparenza inesauribile,
ed era bella. Di una bellezza luminosa di cui Francis si era innamorato all’istante e che avrebbe continuato ad
amare incondizionatamente per tutta la vita. Il tempo trascorso insieme sembrava volare e non era mai abbastanza. Per
un ragazzo appena ventenne e pieno di gioia di vivere era incredibilmente gratificante poter mostrare con orgoglio la
propria città. Lei era sempre vissuta lì eppure conosceva così poco del mondo. Avida di
sapere e di scoperte sempre nuove e meravigliose, pendeva dalle sue labbra e lo fissava con occhi sgranati e brillanti
mentre passeggiavano lungo il fiume e lui le illustrava la storia del luogo. Mentre seguivano i percorsi per turisti,
così ovvi per Francis eppure così entusiasmanti per lei, spesso aveva dovuto trattenerla sorridendo
delle sue esclamazioni estasiate. Il panorama dall’ultimo piano della Tour Eifell l’aveva lasciata
incredula per la sua bellezza: gli Champs Élysées si mostravano in tutto il loro verde splendore, la
città intera si stendeva ai loro piedi e nulla a parte una misera rete sembrava separarli
dall’immensità del cielo. «Mi sembra di volare! » aveva esclamato lei entusiasta.
Francis aveva riso e le aveva promesso che un giorno l’avrebbe portata ancora più vicino a
quel cielo tanto simile ai suoi occhi. Camminare nei presso di Notre Dame era un piacere irrinunciabile mentre
ammirava le sue gote arrossire nella luce calda del tramonto, la stessa luce che, specchiandosi sulla facciata di marmo,
regalava allo spettatore attento mille riflessi cangianti di rosa, arancio e rosso acceso, fino alle sfumare
nell’indaco e nel violetto della sera. Ogni giorno era come osservare un quadro sempre diverso per cogliere,
come Monet nelle sue “Cattedrali”, ogni minimo gioco di luce e ombra. Lei amava perdersi nella
contemplazione di quello spettacolo e Francis amava perdersi nella contemplazione della sua espressione rapita. Ogni sera la portava in un ristorante diverso, voleva che lei potesse vedere il meglio della sua città, il lato
scintillante di Parigi che tutto il mondo invidiava, e ogni sera si stupiva di quanto il suo sorriso si illuminasse sia
davanti ad un locale di lusso che alla prospettiva di un semplice pic-nic in un parco. «Oh, Francis,
è così bello! » esclamava. «Mi basta sapere che tu sei qui e che hai preparato questa
cena con le tue mani per rendere questa serata indimenticabile. E poi la tua cucina è la migliore del mondo,
dovresti fare lo chef! » Francis avrebbe voluto viziarla, coccolarla, farne una regina, ma lei non glielo
avrebbe mai permesso. Era troppo testarda per accettare di vivere nella bambagia, quel lato ribelle che Francis tanto
adorava non chiedeva protezione ma invocava la vita, in ogni sua sfaccettatura. Lei era un fiore forte e gentile e
quella avrebbe dovuto essere la loro estate, senza rimpianti, senza preoccupazioni, un inno alla libertà che
ogni giovane della loro età giustamente desiderava. Per questo quando l’aveva stretta per
l’ultima volta in quel freddo letto d’ospedale durante quella giornata di fine maggio, Francis aveva
tentato con tutto sé stesso di non piangere. Lei lo aveva sfiorato dolcemente mormorando con
l’ultimo filo di voce di cantarle ancora “La vie en rose” e lui l’aveva accontentata
finché non aveva sentito la stretta cedere, la mano ricadere inerte sulle lenzuola, le ciglia abbassarsi per
sempre. Solo allora Francis aveva permesso alla sua voce di spezzarsi in singhiozzi. Lei era un fiore forte e
gentile, ma immensamente fragile e lui le giurò che non avrebbe mai più amato nessuna allo stesso
modo. «Adieu, mon petit fleur, adieu, mon amour perdu. Adieu, ma Jeanne.
» *-*-*-*-*-*-*-*-*-* DUE ANNI
DOPO Ogni inizio estate era una riscoperta, una rinascita, ma quell’anno per
Antonio, si trattava di un nuovo inizio nel vero senso della parola. Aveva una casa, un lavoro e un amico che gli aveva
permesso di rimanere a New York. Beh, definire Francis semplicemente un amico era riduttivo, così come
definirlo un amante era altamente inesatto, anche se tra loro era iniziato tutto proprio in quel modo. Antonio sentiva il
legame con lui stringersi ogni giorno di più superando ogni fastidiosa definizione o forse, più
semplicemente, era lui a sentirsi assurdamente romantico nei confronti della persona a cui doveva così tanto.
Probabilmente quell’idea, a Francis, non era più passata nemmeno per l’anticamera del
cervello dopo quella loro prima notte. «Che sciocchezza! » si disse ridendo suo malgrado di
sé stesso mentre rientrava a casa dopo la chiusura del bar. Erano entrambi dei Don Giovanni,
avrebbero dovuto passare il tempo a confrontare le rispettive conquiste, altro che deliri romantici! Era deciso, quella
sera l’avrebbe passata raccontando e facendosi raccontare da Francis delle passate fiamme. Purtroppo,
più il tempo passava, più le sue intenzioni andavano in fumo: era quasi notte e del suo coinquilino
nessuna traccia. Antonio aveva ingannato il tempo preparando la cena, nonostante fosse consapevole che uno chef
come Francis difficilmente avrebbe apprezzato i suoi limiti culinari, ma quando aveva visto che l’ora si stava
facendo eccessivamente tarda, si era risolto a telefonare al ristorante, preoccupato. Gli aveva risposto il
capocameriere che lo aveva liquidato con poche, sbrigative parole. «Oggi è il 30 maggio e il 30
maggio lo chef non viene mai al lavoro, quindi lo stai cercando nel posto sbagliato. » Il 30 maggio. Antonio si diede mille volte dello stupido. Lui sapeva bene cosa significasse quella data per Francis, glielo aveva
raccontato lui stesso quella mattina neanche troppo lontana. Lo sapeva e, invece di stare vicino al suo amico, si era
perso in quegli stupidi ragionamenti superficiali. Senza perdere altro tempo, si vestì e infilò le
scarpe, precipitandosi fuori di casa: sicuramente Francis era nascosto da qualche parte a deprimersi da solo, doveva
trovarlo e portarlo a casa prima che combinasse qualche sciocchezza. Il problema era dove cercarlo. Non ne aveva la
più pallida idea e di certo non poteva chiederlo a Gilbert, il simpatico tedesco che da poche settimane si era
trasferito nell’appartamento di fronte al loro. Stavano legando bene, ma di certo non ancora abbastanza
perché Francis gli confidasse una cosa tanto intima. Mentre chiamava un taxi, Antonio rifletté sui
pochi indizi che il racconto forniva riguardo ai luoghi frequentati con la ragazza: torri, posti alti vicino al cielo,
cattedrali al tramonto, fiumi che attraversavano la città… Fiumi, certo! Colpito da
un’illuminazione, diede indicazioni al tassista sperando di arrivare il più in fretta possibile. Esattamente come Antonio aveva immaginato, il fiume era più facilmente raggiungibile
della cima di un grattacielo o di una cattedrale europea. Più difficoltoso era stato scendere lungo
l’argine sovrastato dall’immenso ponte autostradale, ma alla fine i suoi sforzi erano stati premiati.
Francis sedeva nel punto più vicino all’acqua, un completo nero indosso, che si perdeva nelle ombre
della sera, e una rosa bianca tra le mani. Nella scarsa illuminazione fornita da alcuni lampioni era appena distinguibile il
suo sguardo perso sulle acque scure. Di tanto in tanto staccava un petalo candido e lo lasciava cadere nella corrente
lenta e placida del grande fiume, mormorando parole incomprensibili tra le quali Antonio distinse a fatica
“mon petit fleur” e “mon amour”. Lo spagnolo si
avvicinò lentamente, certo ormai che la sua presenza fosse stata notata, e gli posò una mano sulla
spalla. «Stai bene? » mormorò sedendosi accanto a lui. Per tutta risposta Francis
sollevò appena lo sguardo lucido, lasciò cadere definitivamente la rosa nelle acque buie e
circondò con le braccia le spalle di Antonio, nascondendo il volto nell’incavo del suo collo. «Antoine…» sussurrò, il fiato caldo che sapeva di lacrime a diretto
contatto con la sua pelle. «Antoine…» «Sì? » Erano sussurri che parlavano di bisogno di calore, di vicinanza, di sostegno, e Antonio ricambiò
l’abbraccio più che disposto a dare tutto il conforto che poteva. Per questo non si stupì
quando il francese cercò le sue labbra con una brama quasi disperata. Antonio non si limitò a subire
quel bacio ma rispose con trasporto, sperando che l’amico cogliesse quello che stava tentando di trasmettere.
«Sono qui. » dicevano le sue mani che accarezzavano la schiena di Francis. «Sono qui,
non ti lascio. Anche se lei non c’è più, non sei da solo. » La situazione
iniziò a farsi più complicata quando si trovò sdraiato sull’erba mentre Francis tentava,
con movimenti più impacciati del solito, di slacciargli la camicia, le labbra che già gli tormentavano il
collo. «Tu la sens? La passion? » ripeteva mentre il respiro di Antonio si faceva via
via più pesante. «Donne-moi ton coeur et je te séduira. » Si stava
decisamente lasciando prendere un po’ troppo la mano, scordando che erano all’aperto e soprattutto
le circostanze in cui si trovavano. Se avesse affermato di non apprezzare quelle attenzioni, Antonio sarebbe stato un
gran bugiardo ma, allo stesso tempo, era troppo onesto con sé stesso per non capire che tutto stava
avvenendo nei tempi e nei modi sbagliati. «Francis, por favor…» tentò
di blandirlo con scarsa convinzione. «A volte penso al passato, a tutto quello che ho perso. »
rispose il giovane, la voce soffocata dalla pelle di Antonio e dalla stoffa della camicia. «Altre volte penso al
futuro e a tutto quello che non avrò mai…» «Non ha importanza… non ha
importanza…» mormorò lo spagnolo soffocando un gemito provocatogli un morso improvviso.
«Quando penso al presente desidero solo stringere qualcuno tra le braccia in questo modo. »
Quelle parole fecero capire ad Antonio che, in un momento del genere, lui o qualcun altro non avrebbe fatto
differenza. Francis voleva solo qualcuno che gli permettesse di smettere di pensare, di ricordare. Ricambiò l’abbraccio con affetto, mentre già la passione iniziava a scemare. C’era
qualcosa che solo lui, a differenza di un qualunque amante occasionale, poteva dargli. «Io ci
sarò sempre quando avrai bisogno, perché sono tuo amico. » gli sussurrò ad un
orecchio mentre accennava ad alzarsi. «Coraggio, andiamo a casa. » Quella notte Francis si
addormentò tra le braccia di Antonio, cullato dalle carezze gentili dell’amico e da una nostalgica ninna
nanna spagnola. *-*-*-*-*-*-*-*-*-* TRE ANNI
DOPO Era una di quelle mattine in cui il profumo dei tigli si diffondeva nell’aria
avvolgendo ogni cosa denso come melassa. La primavera stava gradualmente lasciando il posto ad un’estate
che si preannunciava più calda del previsto. Arthur aprì gli occhi forse disturbato dalla luce che
filtrava attraverso le tende socchiuse, accompagnata dalla debole brezza che le faceva ondeggiare. Il suo sguardo si
spostò subito sul letto accanto al suo, stupendosi di trovarlo vuoto. Ricordava perfettamente le
proteste di Francis la sera prima quando aveva insistito per prendere una camera doppia semplice mentre lui avrebbe
voluto una matrimoniale. Una matrimoniale lui e Francis, che assurdità! Come assurdo era quell’intero
viaggio che gli era piombato tra capo e collo per decisione irrevocabile del francese. Arthur si era trovato a dover
anticipare le ferie perché Francis doveva assolutamente portarlo a Parigi per presentarlo ad una persona. A
nulla erano valse le sue opposizioni e le sue richieste di spiegazioni: l’aereo era già stato prenotato.
E ora, dopo tutte quelle insistenze, osava non farsi trovare in camera al risveglio. Arthur non sapeva se sentirsi
indignato per essere stato abbandonato a sé stesso in terra straniera o essere sollevato che non lo vedesse
così arruffato di primo mattino. Solo dopo la doccia recuperò la lucidità necessaria per
notare il biglietto sul comodino. “Eri così bello
mentre dormivi che non ho avuto il coraggio di svegliarti. Ti aspetto nella hall, preparati come si deve per un incontro
importante. Bisous.
Francis” Brontolando e commentando
seccamente la propria presupposta bellezza, Arthur finì di prepararsi indossando uno di quei sobri completi
che non mancavano mai nella sua valigia. Abbinò alla camicia azzurro pallido una cravatta di seta blu e dei
pantaloni del medesimo colore. Nel dubbio sul tempo della giornata, finì per portare sottobraccio anche la
giacca abbinata, sentendosi come se stesse per andare ad una riunione a Wallstreet. Chissà chi doveva
presentargli Francis di così importante? Forse il suo bizzarro padre dai mille matrimoni? Non riusciva proprio
ad immaginarlo. Trovò il compagno nel salone dell’hotel, intento a bere un caffè. Aveva
un’aria assorta, notò prima di avvicinarsi, e vestiva completamente di nero, cosa strana per un tipo
come Francis. Sul tavolo, accanto alla tazzina, era posata una rosa bianca appena sbocciata. Viste le premesse, a quel
punto era molto improbabile che la persona che dovevano incontrare fosse il padre di Francis. Senza dire una
parola, Arthur si sedette di fronte a lui e ordinò un tè. Il francese lo sbirciò di sottecchi ma
non spezzò quello strano silenzio. Solo dopo aver finito la propria tazza, Arthur alzò lo sguardo su di
lui. «Hai dormito bene, Arthùr? » si sentì chiedere con la consueta
leggerezza, anche se il sorriso che gli veniva rivolto era più spento del solito. Si limitò quindi ad
un’occhiata obliqua e ad un’alzata di spalle. «Come un sasso. Ero troppo stanco per il
viaggio per rendermi conto di quanto fossero scomodi i materassi francesi. » La solita risposta burbera
e bisbetica per non mostrare all’altro che iniziava a preoccuparsi. Francis l’accolse, come
sempre, con un sorriso condiscendente. Il tragitto in taxi non fu particolarmente lungo,
ma li portò fuori città, lontano dal traffico delle strade principali, in una zona immersa nel verde. Si
fermarono davanti a quello che sembrava il cancello di un giardino privato e Francis pregò Arthur di
attenderlo all’ingresso qualche minuto poi sarebbe tornato a prenderlo. Dopo una mezz’ora buona,
l’inglese perse definitivamente la pazienza e la voglia di gironzolare nei dintorni, quindi varcò a passo
di carica il cancello deciso più che mai a scoprire cosa diavolo stesse succedendo e il motivo di quel viaggio
oltreoceano. Bastarono pochi passi per rendersi conto che quello non era affatto un giardino e Arthur fu
costretto a rivedere le proprie intenzioni: quello che stava attraversando era un cimitero. Rallentò
sensibilmente l’andatura per non disturbare altri eventuali, invisibili visitatori, fino a fermarsi del tutto quando
gli giunse la voce di Francis. Dal punto in cui si trovava non poteva vedere con chi stesse parlando, un’alta
siepe gli copriva la visuale, ma le parole lo raggiungevano chiaramente. «… e poi è un gran
brontolone. Davvero, non hai idea, sembra che lamentarsi sia il suo sport preferito. Tutto il contrario di te, mon
amour. Lavora in borsa quindi è un tipo molto preciso, pignolo al limite della paranoia, ed è un cuoco
terribile, senza contare che è inglese, tutto un programma…» Arthur
s’irrigidì, ormai certo che stesse parlando, o meglio sparlando, di lui. «Ha già
avuto un ragazzo ma non si lascia toccare nemmeno con un dito, sapessi che pazienza ci vuole,
però…» Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: brontolone, pignolo, paranoico,
cuoco terribile, inglese, frigido… Per quanto Francis aveva intenzione di continuare ad insultarlo?
Lo aveva portato lì solo per elencargli i suoi difetti? E poi che diavolo significava quel “mon
amour”? Già dimentico del luogo in cui si trovava, aggirò la siepe con espressione
tempestosa, pronto a dare battaglia. «What the hell are you sayin…»
iniziò, ma il sorriso sereno e per nulla scomposto che Francis gli rivolse gli fece morire le parole in gola. Il giovane mosse un passo in avanti e lo prese per mano. «… Però è la persona
che amo. » disse mentre lo sguardo confuso di Arthur saettava alle sue spalle. Non era una persona
quella con cui stava parlando, ma una lapide di lucido marmo bianco. Bastò una sola parola incisa su quella
pietra per chiarirgli ogni cosa: Jeanne, l’eterno amore di Francis a cui la rosa bianca posata sul terreno era
dedicata. Arthur iniziò a sentirsi a disagio. Venne condotto davanti alla tomba, mentre il francese
continuava a tenergli con delicatezza la mano. Non lo guardava, ma teneva lo sguardo fisso sulla foto della giovane
fanciulla che sorrideva con calore. Era davvero bella. «Nonostante i suoi difetti, anzi forse proprio per
quelli, non posso fare a meno di lui. » continuò Francis. «Perché sotto la scorza
nasconde l’animo più sensibile che io abbia mai visto. Si preoccupa per me anche se è troppo
timido per dimostrarlo e sa riscaldarmi il cuore come nessuno riusciva a fare da anni. Sono certo che sareste andati
d’accordo, ti sarebbe piaciuto, mon petit fleur. Ringrazio il cielo di avermi fatto incontrare una persona
così meravigliosa e non importa quanto tempo dovrò aspettare, resterò al suo fianco per
sempre, perché lui è la persona che ho scelto. » Davanti ad una confessione tanto
accorata, Arthur abbassò gli occhi, sopraffatto dall’atmosfera solenne del momento. Lui non aveva
fatto proprio niente per meritare tanta devozione, anzi aveva tentato in ogni modo di allontanarlo. Provava vergogna
per il nervosismo e la punta di gelosia di poco prima e soggezione nei confronti della foto che gli sorrideva dalla
lapide. Si chinò in avanti e la sfiorò con la punta delle dita della mano libera. «Sono
onorato di fare la tua conoscenza. » mormorò. «Non ho la presunzione di prendere il tuo
posto, non vorrei mai farlo e so che non è possibile, ma se questo scapestrato ha deciso di volermi vicino
temo di non poter fare altro che assecondarlo…» Una leggera stretta sulle dita e Arthur si
trovò le braccia di Francis a circondargli la vita, le labbra che sfioravano delicatamente le sue. «Merci, Arthùr. » gli mormorò all’orecchio mentre gli rivolgeva
un sorriso sereno. «Anche lei sarà più tranquilla ora che ci sei tu. » Quasi a
sottolineare quelle parole, si levò un debole alito di vento che li avvolse nel profumo dolce dei tigli misto a
quello della rosa e un unico raggio di sole fece risplendere la cornice dorata attorno al volto della ragazza che li
osservava con un sorriso benevolo. |
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Capitolo 8 *** One of the boys ***
Titolo: One of the Boys Fandom: Axis Powers Hetalia Rating: verde Personaggi: Elizaveta Héderváry (young!Ungheria), Gilbert Weillschmidt (young!Prussia), citata: Bella (young!Belgio) Pairing: Prussia/Ungheria Riassunto: Ai tempi della scuola Elizaveta era un maschiaccio e Gilbert il ragazzo più ammirato. Ma basta poco perchè il Magnifico si renda conto che un suo "territorio" sta per essere invaso. Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya. Il titolo e l'intera struttura della fic devono la loro ispirazione alla canzone One of the boys di Katy Perry. Note: Uno dei tanti prequel dell'Hetalia F.R.I.E.N.D.S project. La frase finale è un'autocitazione del capitolo Marry you. In realtà non è niente di che, l'ho scritta solo perchè avevo voglia di riprendere in mano questa parte della storia. Il linguaggio colloquiale è usato volutamente anche nelle parti discorsive.
One of the boys
di
Yuki Delleran
Ogni volta che lo vedeva sfilare nei corridoi come se si trattasse di un palcoscenico, i sentimenti che provava erano decisamente contrastanti: irritazione, disgusto e irrazionale invidia. Perché Gilbert Weillschmidt, il suo vecchio vicino di casa ottuso e prepotente, appena entrato al liceo era diventato uno dei ragazzi se non il ragazzo più ammirato dell’istituto. Aveva fatto di quello che avrebbe rischiato di diventare motivo di scherno, vale a dire il suo essere albino, il suo punto di forza. Non esisteva ragazza in tutta la scuola che non ammirasse la sua pelle lattea, non desiderasse sfiorarne i capelli argentei o potesse sfuggire al suo sguardo color del sangue. E lei, Elizaveta, non faceva eccezione, anche se i capelli da piccola glieli aveva tirati, la pelle riempita di lividi mentre giocavano a calcio nel campetto sotto casa, e gli occhi, più spesso che non, aveva desiderato cavarglieli a causa dell’irritazione che le provocava la sua espressione perennemente strafottente. Gilbert piaceva, sapeva di piacere, e questo gonfiava a dismisura il suo già non indifferente ego, finendo per urtare i nervi della ragazza. Perché quell’idiota faceva lo splendido con tutte tranne che con lei, si pavoneggiava davanti a quei gruppetti di oche adoranti mentre a lei rifilava una misera pacca sulla spalla ed un casuale: «Ehilà, Héd! » Era frustrante vivere nella consapevolezza che lui la considerasse ancora alla stregua dell’amico con cui giocare in cortile. L’amico maschio. Non che Elizaveta avesse mai assunto atteggiamenti particolarmente femminili: non strillava quando vedeva un insetto, non prendeva lezioni di danza come la maggior parte delle coetanee, si divertiva a giocare a calcio e non si vergognava minimamente ad avere a che fare con i ragazzi, anzi, se l’avessero infastidita oltremisura, non si sarebbe fatta scrupoli a picchiarli. Portava i capelli lunghi, ma costantemente legati in una coda, e prediligeva l’abbigliamento comodo con jeans e maglioncini morbidi piuttosto che abitini decorati con nastri e pizzi. Si rendeva conto che questo non contribuiva affatto ad accomunarla alle ragazze carine che bazzicavano i corridoi, ma non ci teneva nemmeno a rientrare nel gruppo di quelle galline tutte uguali che sembravano fatte con lo stampino. L’unica a conoscenza di questi sentimenti contraddittori era l’amica Bella, una belga rotondetta e con gli occhiali che Gilbert chiamava “il brutto anatroccolo” e che nemmeno considerava, eccezion fatta per quando doveva rubarle i compiti di matematica. Forse non era un tipo appariscente, ma la sapeva lunga ed era la migliore spalla che Elizaveta potesse desiderare quando si trattava a fare comunella contro il crucco. Inoltre conosceva le sue frustrazioni e si era posta come obiettivo quello di far cadere Gilbert ai piedi della bella (a suo parere) ungherese. Già una volta, durante le vacanze estive, si era impegnata a tirare fuori da quel maschiaccio la fanciulla che si nascondeva sotto strati di felpe e ironia pungente, ma la vera svolta era giunta con l’iscrizione a scuola di un nuovo ragazzo. «Che cosa?! » esclamò Bella strabuzzando gli occhi. «Quello nuovo ti ha chiesto di uscire? » «Beh, che c’è di strano? Non ho nessuna malattia infettiva che tenga la gente lontana da me. » rispose Elizaveta con aria perplessa. «E… E Gilbert? » Questa volta la ragazza s’incupì e distolse lo sguardo dal volto dell’amica. «Fatti suoi. » Elizaveta però non uscì mai con quell’affascinante e molto promettente ragazzo. Il giorno dopo, infatti, si presentò da lei con un vistoso occhio nero e la scusa di un “impegno improvviso” che spostava a data da destinarsi un loro ipotetico appuntamento. La ragazza andò su tutte le furie, a maggior ragione quando si diffuse la voce che Gilbert aveva picchiato quello nuovo. «Legittima difesa. » si giustificava l’albino con aria strafottente, pavoneggiandosi davanti alle sue ammiratrici adoranti. «Nessuno deve osare invadere il territorio del Magnifico. » Elizaveta, giunta sul posto per protestare di quella violenza gratuita, ricevette la consueta pacca sulla spalla e un sorrisetto complice. «Una seccatura in meno, dico bene, Héd? A proposito, nel pomeriggio abbiamo organizzato una partita di basket ma ci manca un giocatore. Conto su di te! » E così, quello che avrebbe dovuto essere un pomeriggio romantico in cui dimostrava al mondo quanto anche lei sapesse essere carina e femminile, si trasformò in uno scapestrato gioco in compagnia del suo “peggior nemico”. Di nuovo. Ma, ne era certa, prima o poi sarebbe riuscita a mostrare a quell’idiota che era una donna, non uno dei suoi stupidi amici ma una fanciulla da lusingare e corteggiare. Prima o poi.
*** «Sono innamorato di te da sempre! Da piccolo, per colpa tua, pensavo di avere strane tendenze! Tutta la storia del damerino e del matrimonio mi stava distruggendo. Non ti lascerò scappare di nuovo. » |
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