La strada sbagliata

di Elos
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Voci di un futuro domani ***
Capitolo 3: *** La lista ***
Capitolo 4: *** Comunicazione ***
Capitolo 5: *** Ciò che è rimasto indietro ***
Capitolo 6: *** Mancante ***
Capitolo 7: *** Segnali di fumo ***
Capitolo 8: *** Babau ***
Capitolo 9: *** Davanti al bivio ***
Capitolo 10: *** Testamenti ***
Capitolo 11: *** Quello che la profezia ha chiamato ***
Capitolo 12: *** Nessun sa ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



"[...] Insomma, non dico che quell'incantesimo che hai usato contro Malfoy sia grandioso..."
"Nemmeno io" convenne subito Harry.
"Ma comunque è guarito, no? E' tornato in piedi in un baleno".
"Già" mormorò Harry. Era verissimo, ma la coscienza gli si contorse lo stesso. "Grazie a Piton..."

(J.K.ROWLING, Harry Potter e il Principe Mezzosangue, Salani Editore, Milano 2006, trad. a cura di Beatrice Masini, pg. 489)




Harry rimase come fulminato. Malfoy stava piangendo: le lacrime scorrevano sul volto pallido e dentro il lavandino sudicio. Malfoy singhiozzò e deglutì; poi, con un gran brivido, guardò lo specchio incrinato e vide Harry che lo fissava al di sopra della sua spalla.
Si voltò di scatto ed estrasse la bacchetta. D'istinto Harry fece lo stesso. La maledizione di Malfoy lo mancò di pochi centimetri, mandando in pezzi la lampada sulla parete accanto a lui; Harry si gettò di lato, pensò Levicorpus! e agitò la bacchetta, ma Malfoy bloccò la fattura e si preparò a scagliarne un'altra...
“No! No! Basta!” strillò Mirtilla Malcontenta. La sua voce echeggiò forte nella stanza foderata di piastrelle. “Basta! BASTA!”
Si udì una sonora esplosione e il bidone dietro Harry scoppiò; Harry tentò un Incantesimo delle Pastoie che rimbalzò sulla parete dietro l'orecchio di Malfoy e fracassò la cassetta sotto Mirtilla Malcontenta, che strillò ancora più forte; l'acqua si riversò dappertutto e Harry scivolò in terra, mentre Malfoy, il volto deformato dalla rabbia, urlava: “Cruci...”
SECTUMSEMPRA!” gridò Harry dal pavimento, agitando furiosamente la bacchetta.
Il sangue schizzò dal volto e dal petto di Malfoy come se fosse stato colpito da una spada invisibile. Barcollò all'indietro, lasciò cadere la bacchetta dalla mano afflosciata e piombò sul pavimento allagato sollevando un enorme spruzzo.
“No...” ansimò Harry, senza fiato.
Scivolando e barcollando, si rialzò e si lanciò verso Malfoy, che aveva il viso lucido e rosso; le sue mani bianche raspavano il petto zuppo di sangue.
“No... io non...”
Harry non sapeva cosa stava dicendo; cadde in ginocchio accanto a Malfoy, che tremava in maniera incontrollabile, in una pozza di sangue.
Mirtilla Malcontenta levò un urlo assordante: “ASSASSINIO! ASSASSINIO NEL BAGNO! ASSASSINIO!”*
La ferita sul petto di Malfoy era larga e profonda: Harry vi premette le mani sopra e le sentì affondare nello squarcio. Il respiro del ragazzo si fece più rapido e spezzato, mescolato ad un lamento soffocato; sembrava emergere fuori stranamente liquido, e i versi che Malfoy faceva erano quelli di un annegato. Harry vide con orrore una schiuma rosata affiorargli sulle labbra e cominciare a colargli sul mento.
“Aiuto... no...” gemette confusamente.
Mirtilla Malcontenta piangeva rumorosamente, appollaiata sullo scarico. Harry si girò e guardò la porta del bagno, disperatamente sperando e pregando che qualcuno arrivasse, che chiunque arrivasse, Hermione o Ron o Silente, chiunque, perché il respiro di Malfoy si stava facendo sempre più debole e lui non sapeva cosa fare.
“Malfoy!” chiamò. Gli sembrava che la sua stessa voce emergesse da un posto lontanissimo. Suonava affannata, debole e tremante. “Malfoy, ti prego... ti prego...”
Malfoy si mise a tremare. Fu un lungo tremito, che lo scosse tutto dalla testa fino alle ginocchia, mentre lui tirava un gran respiro che gli fece risucchiare un po' di quella schiuma insanguinata in bocca. Il fiotto di sangue che uscì dalla ferita arrivò a schizzare Harry fino ai gomiti, e subito dopo Malfoy smise di respirare del tutto.
“Malfoy?” annaspò Harry. Il corpo sotto di lui era orribilmente fermo, adesso. Attraverso le palpebre socchiuse gli occhi avevano quella strana qualità, vitrea, annebbiata, che Harry aveva già visto sul volto di Cedric la notte della Terza Prova, nel cimitero... “No!” boccheggiò Harry, inorridito. “No! No... No, Malfoy, ti prego... Io non...”

“NO!”

***



La neve ai confini della Foresta Proibita era uno strato compatto e scintillante: nell'alba prendeva una sfumatura azzurra che non aveva in nessun altro momento della giornata, una tinta celestiale che si rifletteva nelle aguzze stalattiti ghiacciate sospese ai rami bassi degli alberi. Un cespuglio di bucaneve con i quali qualcuno aveva magicamente pasticciato diversi anni prima si ritrasse all'avvicinarsi della strega, i fiori pallidi che si richiudevano guizzando al riparo tra i rami secchi. Una civetta grigia intenta ad una caccia tardiva le passò accanto all'altezza dei fianchi, tanto vicina da colpirle il braccio con un'ala tesa. Un paio di Horklump si tirarono indietro per non essere schiacciati: la punta della spada che la strega teneva in mano scivolò tra la neve, incontrò stridendo un sasso e li mancò per un soffio.
Qualcosa fece pop! in lontananza, un suono sordo come quello di una bottiglia stappata: ma la strega non si girò a guardare e non rallentò. Scavalcò un tronco caduto e fece per addentrarsi nella Foresta Proibita.
La voce di qualcuno, alle sue spalle, infranse il silenzio gelato tra gli alberi:
“Fermati!”
La strega si fermò lentamente e si volse. Le sue vesti variopinte ruotarono come la gonna d'una ballerina, chiazze di giallo e di marrone e di rosa a spazzare la neve bianca; gli orli erano sporchi del fango e della terra in mezzo ai quali li aveva trascinati, lacerati dove i cespugli si erano portati via brandelli di stoffa. I suoi occhi pallidissimi vagarono per un attimo nel mezzo del bosco fino a fissarsi sul ragazzo che aveva davanti.
“Harry.” chiamò la strega, dolcemente. Come quegli occhi pallidi, anche la voce era trasognata, assorta.
Il ragazzo serrò i pugni, le braccia tese al fianco. Alzò la mano sinistra – quella che non reggeva la bacchetta – e la puntò contro di lei, l'espressione ferita, dolorante.
“Perché l'hai fatto?”
La strega non rispose. “Mi fidavo di te!” insisté il ragazzo, ora furioso. “Perché l'hai fatto? Perché lo stai facendo? Io mi fidavo di te!”
Altri si stavano avvicinando: altri che, a differenza del ragazzo, Harry Potter, Distruttore di Voldemort, non erano in grado di Smaterializzarsi all'interno dei confini di Hogwarts, altri che avevano dovuto correre per raggiungere la strega in fuga. La strega li osservò avvicinarsi e gli occhi chiari e assenti si fermarono per un attimo su una testa di capelli rossi, prima di tornare su Harry. Il ragazzo sembrò esalare un respiro profondissimo, la mascella serrata per la frustrazione; poi allungò una mano verso di lei e le ordinò stancamente:
“Vieni.”
La strega inclinò il capo da una parte. L'espressione del ragazzo si fece più rigida, più rabbiosa, per un attimo: ma subito dopo s'addolcì.
“Vieni.” le disse, ancora, piano, pianissimo: nessuno dei maghi e delle streghe che si stavano avvicinando potevano sentirlo. “Non voglio farti del male. Non importa quello che hai fatto. Non mi importa se hai cercato di tradirmi. Non ti farò del male.”
La strega rimase in silenzio ancora per un istante. Sollevò lentamente la spada che aveva in mano, l'elsa rivolta verso l'alto, e la protese innanzi a sé come la stesse offrendo al ragazzo: il volto di Harry si rilassò, la fronte si distese. Gli occhi sembrarono un po' meno cupi, nella penombra buia della Foresta, un po' più verdi.
La spada di Grifondoro venne calata senza preavviso verso il basso con forza e, prima che il ragazzo potesse fare nulla, prima che potesse fermarla, la punta era affondata nella neve e nel ghiaccio che rivestivano il terreno e li aveva spaccati e attraversati. La strega si piegò sull'elsa, serrandola con entrambe le mani, tenendo la propria bacchetta incastrata tra la pelle e l'elsa. Il terreno ai suoi piedi parve sfrigolare per un attimo, rivestendosi di una nebbiolina di scintille bianchissime che guizzarono lungo l'orlo della gonna della strega: le scintille si raccolsero, addensandosi, disegnando rune e cerchi sul terreno, prima un triangolo pallido, poi una linea retta, ancora rune, un cerchio abbacinante si aprì sotto i piedi di lei come la bocca di un pozzo bianco.
Gli occhi di Harry si sgranarono a quella vista. Balzò in avanti per cercare di afferrarla, la strega o la lama, una delle due, per fermarle: ma il suolo tremò sotto di loro e lo fece barcollare, mentre una grande vampata di luce evanescente, sfavillante come il cristallo, si alzava tra la terra e il cielo. Inghiottì la strega e scintillò per un attimo tanto intensamente da costringere Harry ad arretrare e a coprirsi gli occhi. Quando poté riaprirli, quando la Foresta fu tornata buia e quieta, la vampa si era dissolta: al suo posto una stalagmite di ghiaccio si alzava tra gli alberi radi, rilucendo ogni volta che un raggio di sole riusciva ad infiltrarsi tra le fronde più basse.
Nel mezzo del blocco di ghiaccio Luna Lovegood, ventidue anni, se ne stava incastonata, piegata sulla spada di Grifondoro: l'elsa d'argento scuro spiccava contro le sue mani pallide, i rubini come gocce di sangue scuro. Aveva gli occhi chiusi.
Harry sbatté le palpebre.
“Luna?” bisbigliò incredulo.
Mosse un passo in avanti, esitando, poi un altro. Toccò il ghiaccio e sembrò che il contatto l'avesse ustionato, perché ritrasse le dita bruscamente e si portò la mano al petto.
“Luna...” chiamò ancora. Suonava incerto, esterrefatto, e c'era un fondo di dolore nella voce che la rendeva piccola e giovane, più giovane del dovuto, come quella di un bambino.
Ron Weasley gli si fermò accanto, ansimando per la lunga corsa, e fissò con eguale incredulità il blocco di ghiaccio.
“Oh, buon Merlino.” esalò. La voce gli uscì fuori rauca, colma di pietà: allungò una mano e cercò di posarla sulla spalla dell'amico. “Harry...”
Harry non dette segno d'averlo sentito. Alzò un pugno e colpì il blocco di ghiaccio con forza, come dimentico della bacchetta che teneva in mano: quando il colpo non parve sortire alcun effetto sollevò anche l'altro pugno e li abbatté entrambi, stavolta, violentemente, poi ancora, ancora, ancora. Ad ogni colpo il ghiaccio tremava e vibrava, ma la figura al suo interno non si muoveva, non apriva gli occhi. Harry mugolò, un suono che dopo un attimo divenne un grido rauco e strozzato, angosciato. Il sangue che gli colava dalle mani graffiate disegnò lunghe striature rosse sul blocco.
Ma Luna, dall'altra parte del ghiaccio, non sembrò accorgersene.





Note del capitolo:
(*) J.K.ROWLING, op.cit., pp. 474-475.
E' breve, lo so, e non è neanche tutto mio: ma giuro che si chiama Prologo per una ragione e che i capitoli che seguiranno sono ben più corposi.

Note della storia: Partiamo dai ringraziamenti. Si ringrazia dierrevi, che si sta - con autentico spirito di sacrificio - occupando di rileggere e rivedere un capitolo alla volta di questa storia. Si ringrazia poi infinitamente la Signora Autrice (Voi-Sapete-Chi), alla quale (più o meno) tutti i personaggi e le ambientazioni qui presenti appartengono.

Questa storia nasce da un caotico ammasso di idee che si sono rimescolate insieme più volte sino a dar forma a quella che avrebbe potuto essere una trama. Forse.
Ci lavoro sopra da mesi: chi dovesse aver letto La miglior parte della nostra vita o Prima di King's Cross sa che sono stata talmente assorbita dalla stesura di La strada sbagliata da decidere di pubblicare lì, in fondo all'ultimo capitolo, due piccole anteprime.
La storia è attualmente completa sino al Capitolo 8 (9, in effetti, contando questo prologo) su n capitoli, con n numero variabile compreso tra 10 e infinito. Per una volta ho infatti deciso di compiere l'esperimento di cominciare a pubblicare una storia che non ho ancora finito di scrivere: la trama è lì, bella che pronta, il finale c'è già, i nodi principali anche... ma i singoli capitoli sono ancora tutto un work in progress. Ciò significa che andando avanti potrei decidere di modificare qualcosa nei pezzi ancora da scrivere, o aggiungere qualche capitolo a quelli già in programma se dovessi vedere che ci sono delle spiegazioni che mancano, o - anche - ritrovarmi a dover interrompere la pubblicazione a metà. Guh, spero proprio di no. Non ho mai bloccato a metà una storia e spero proprio di non cominciare con questa.

Un grazie a chiunque dovesse fermarsi a leggere e doppio con panna a chi mi lascerà un'opinione. Per i pomodori c'è sempre la cassetta alla vostra sinistra.

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Capitolo 2
*** Voci di un futuro domani ***





- 1 - Voci di un futuro domani



Sotto la pioggia Diagon Alley si era riempita di Incantesimi Schermanti sui quali le gocce d'acqua rimbalzavano pesanti, scivolavano tracciando sottili ruscelletti a mezz'aria e andavano infine a schiantarsi innocue nelle pozzanghere fangose sul selciato; solo pochi, tra le streghe e i maghi nella folla in quel tardo pomeriggio d'ottobre, sfoggiavano mantellette ed ombrelli nelle fogge più esotiche e assurde. Una grassa strega vestita di rosa aveva un impermeabile di scintillante tessuto in tinta delle dimensioni di un piccolo tendone; i tre bambini di una famigliola in visita al Ghirigoro sfoggiavano altrettanti piccoli ombrelli verdi sui quali si rincorrevano, saltando dall'uno all'altro, una coppia di cagnolini con un fiocco al collo. Poco più in là un mago uscì dal Paiolo Magico, batté distrattamente contro il terreno con il bastone da passeggio e, sollevandolo, lo Trasfigurò in un distinto ombrello marrone dal manico d'avorio.
Michael Corner si fece largo nella folla con la sua Autocappa Antipioggia – brevetto esclusivo dei Tiri Vispi Weasley, ovviamente, venduta in tredici distinte tonalità e in due diversi tagli, corta per i maghi più giovani e moderni e ampia per i tradizionalisti affezionati alla lunghezza a mezzo polpaccio – badando bene a tenere la borsa con i documenti all'interno del raggio d'azione della Cappa. La stoffa lievemente dorata sfavillava debolmente, sotto la pioggia, diffondendo tutt'attorno uno schermo largo più di un palmo che repelleva l'acqua e teneva il mago all'asciutto.
Un ragazzo con il mantello azzurro distintivo degli strilloni della Gazzetta del Profeta sventolava una bracciata di giornali sotto al naso di chiunque gli passasse accanto:
“Edizione del mattino! Edizione del mattino! Intervista al Capo degli Affari Babbani sulle leggi Potter-Finnigan! Il discorso del Ministro della Magia, come la Potter-Finnigan cambierà il Mondo Magico! Edizione del mattino, il Puddlemore United conclude la partita contro le Vespe di Winbourne con centotrenta punti di vantaggio! Rita Skeeter intervista Oliver Baston, in lizza per il record di Pluffe parate per partita!”
Michael Corner allungò al garzone otto zellini – il prezzo corrente del giornale – e prese una copia. La faccia sorridente di Seamus Finnigan lo salutò agitando una mano dalla foto in prima pagina. Accanto all'alto, giovane irlandese ben piantato, la figura di Harry Potter era quella di un ragazzo snello e poco appariscente con una gran massa di capelli arruffati. “Il Capo degli Affari Babbani” recitava la didascalia, “ed il Ministro Harry Potter, Distruttore di Voldemort, durante l'annuncio dell'approvazione del Wizengamot alle leggi Potter-Finnigan”.
Michael si assicurò di avere la borsa ben incastrata sotto al braccio piegato, mentre armeggiava con il giornale per aprirlo. Sorrise soddisfatto mentre la pioggia – grazie agli incantesimi dei quali l'Autocappa era intrisa – rimbalzava al di sopra del foglio, quasi ci fosse, tra essa e la Gazzetta, uno strato di gomma invisibile a separarle: le Autocappe Weasley erano vendute a dodici galeoni al pezzo, ma valevano fino all'ultimo zellino di quel che costavano.
IL WIZENGAMOT APPROVA Il PROGETTO DI LEGGE POTTER-FINNIGAN, era il titolo di testa. “Due anni fa, con le Leggi per l'Integrazione e per l'Apertura del Mondo Magico ai Babbani” ha dichiarato il Ministro della Magia “passate al Wizengamot nella trecentodecima ricorrenza dell'approvazione dello Statuto Internazionale di Segretezza, Maghi e Streghe di tutto il mondo hanno potuto finalmente smettere di nascondersi. Oggi festeggiamo la scelta compiuta in quel giorno permettendo, con la nuova normativa di supporto, un passaggio che sia il più sereno e amichevole possibile tra il vecchio e il nuovo mondo. I Babbani non devono avere ragione di temerci.”
A chi gli ha domandato quale linea intendesse seguire nella gestione dei rapporti con il Ministero della Magia francese – ancora tesi a seguito dell'epocale infrazione allo Statuto Internazionale – il Ministro ha sostenuto che tutti i grandi cambiamenti portano necessariamente con sé un carico di comprensibili preoccupazioni per l'ignoto.
Il Capo del neo-dipartimento degli Affari Babbani, Seamus Finnigan, Eroe della Battaglia di Hogwarts e Ordine di Merlino di Seconda Classe, ha sostenuto di essere pienamente soddisfatto dalla piega presa dagli eventi. Come proponente delle nuove leggi si è trovato a dover affrontare l'incertezza della...

Qualcuno lo urtò, passandogli accanto, con forza sufficiente a farlo barcollare e a perdere il filo: Michael chiuse il giornale e girò la testa giusto in tempo per vedere un paio di ragazzi in età da Hogwarts correre giù per Diagon Alley verso la Gelateria Fortebraccio – che era stata riaperta da Armida Fortebraccio alla fine della guerra. Il cadavere di suo zio era stato ritrovato dagli Auror in un fosso dalle parti dei Docklands, tre mesi dopo la Battaglia di Hogwarts, e tutti ne rimpiangevano ancora la morte; ma Armida faceva un buon gelato. Il gusto Cioccofragola Incandescente spopolava tra le ragazze, specialmente sotto San Valentino.
Michael mugugnò all'indirizzo dei due ragazzini, prima di tastare la borsa di cuoio per controllare che fosse sempre all'asciutto sotto alla Cappa. Adocchiò la porta aperta del Paiolo Magico con aperto desiderio – il pensiero di fermarsi lì per cena e di non doversi preoccupare di cucinare aveva indubbiamente un certo fascino – prima di decidere che sua madre gli avrebbe probabilmente lanciato una Cruciatus se avesse scoperto che aveva ripreso a cenare fuori casa tutte le sere. Lui e Padma avrebbero dovuto proprio decidersi a sposarsi, rifletté cupamente: questo, se non altro, avrebbe chiuso definitivamente il becco alle madri di entrambi.
Deviò all'altezza del Ghirigoro, infilandosi in una stradina stretta circondata dai palazzi di pietra grigia, puliti e ben conservati, del nucleo più antico di Diagon Alley. Da una finestra socchiusa scendeva un profumino delizioso di stufato di carne; lo stomaco di Michael emise un mezzo brontolio, a quell'odore, stiracchiandosi speranzoso. Stufato di carne, ponderò lui. Con un buon Incantesimo Riscaldante avrebbe potuto far cuocere il manzo abbastanza in fretta da riuscire a prepararsene uno prima di morire di fame. Carne di manzo, sedano, cipolle...
“Ehi!” esclamò qualcuno alle sue spalle. “Aspetta! Ti è caduta questa!”
Michael si girò, sorpreso, e scorse una ragazza con una gran massa di biondissimi capelli ricci avanzare verso di lui sorridendo e sorreggendo avanti a sé con entrambe le mani una borsa di cuoio dall'aspetto familiare. Michael sgranò gli occhi e si domandò come avesse fatto a non accorgersi di essersela fatta cadere per strada. Sorrise in risposta alla ragazza, soprappensiero, e la mano che stringeva il giornale si alzò a tastare in un gesto automatico il punto in cui la borsa si era trovata un attimo prima.
E che era ancora lì.
I cinque secondi che seguirono si svolsero molto, molto in fretta. Mentre Michael sbatteva le palpebre, confuso e stupito e colto di sorpresa, la ragazza lasciò cadere a terra la borsa e alzò la mano sinistra – con la quale reggeva un qualcosa, fino a quel momento nascosto dalla borsa stessa, che assomigliava ad una specie di flacone da profumo, solo più grosso e di metallo, e senza etichette. Il cervello di Michael lo spronò a reagire, ad aprire la bocca per chiedere spiegazioni, ad arretrare, ad estrarre la bacchetta; ma, prima che potesse muoversi, la ragazza premette sulla sommità del flacone ed uno spruzzo vaporoso che sapeva di limone e di altro, familiare, dolce e pesante e colloso, lo colpì in piena faccia.
Le ginocchia di Michael sembrarono piegarsi sotto il suo stesso peso. Inspirò e boccheggiò, ed era odore di melissa, annaspando ne mandò giù un altro po'. I capelli della ragazza scintillarono come un'aura d'oro attorno alla sua figura confusa, mentre lei lo guardava dal basso verso l'alto. Sdraiato sul selciato fradicio, Michael cercò ancora di muovere la mano, di cacciarsela in tasca per prendere la bacchetta, ma le sue braccia non sembravano voler cooperare. La pioggia esplodeva sul selciato accanto alla sua testa, ogni goccia assordante, ogni schizzo un'onda.
Quando la ragazza si chinò, accovacciandoglisi accanto, e gli spruzzò in faccia un'altra dose di qualunque cosa ci fosse nel flacone, quel che restava della consapevolezza di Michael si dissolse in una vampata di profumo dolciastro.

***



Gli arcipelaghi del Mar dei Caraibi sono tra i pochi luoghi al mondo ad affacciarsi su un mare che è più azzurro di quanto sia azzurro il cielo. Il sole è sole tutto l'anno – tranne durante gli occasionali, intensi uragani di passaggio – e la temperatura oscilla tra una primavera mite e un'avanzata estate. L'umidità ti incolla un po' i vestiti addosso, certo, e girano certe zanzare grosse come pompelmi, ma esiste tutta una serie di eccellenti incantesimi per liberarsene. Tutto sommato, è un buon posto per scomparire.
Dopo la battaglia di Hogwarts, Michael Corner era rimasto dalle parti di Londra il tempo necessario a sostenere privatamente e in tutta fretta i propri M.A.G.O., a ritirare la sua medaglia – Ordine di Merlino, Terza Classe – al Ministero e ad ottenere dalla Gringott l'indennizzo che gli spettava per i danni fisici e morali riportati durante l'anno in cui Lord Voldemort aveva avuto il controllo dell'Inghilterra e Lucius Malfoy era stato Preside di Hogwarts. Dopodiché, si era rivolto ad un'agenzia per ottenere una Passaporta per il posto più caldo, lontano e piacevole che si potesse visitare per almeno sei mesi con i soldi di quell'indennizzo ed era partito.
Le isole Turneffe erano effettivamente calde, lontane e molto, molto, molto piacevoli: spiagge bianche, mare di cristallo, pesci e noci di cocco, quel genere di isole. I giorni sembravano infiniti, le stelle in cielo erano tante e tanto luminose che anche nelle notti senza luna si poteva scendere in spiaggia e farsi una nuotata, e non faceva mai freddo. Le ossa di Michael, ghiacciate sin nel midollo da qualcosa che non era un gelo fisico, non precisamente, ed aveva soprattutto a che vedere con i Dissennatori e con quello che i Dissennatori facevano, erano sembrate sciogliersi per la prima volta da mesi. Si alzava la mattina tardi, ciondolava un po' in giro per l'Olandese Volante - il miglior albergo magico del Mar dei Caraibi, quattrocento anni di tradizionale e costosissima ospitalità per i maghi di tutto il mondo - e poi scendeva in spiaggia, nuotava, faceva lunghissimi bagni nell'acqua trasparente e ancora più lunghi bagni di sole, infine tornava in albergo e dormiva. E il giorno dopo ricominciava.
Si teneva lontano dal Great Blue Hole: gli avevano detto che c'erano gli squali, sul fondo, e che potevano attaccare chi vi si immergeva. Michael aveva tutte le intenzioni di stare alla larga dagli squali: ne aveva visti per un anno, squali su due zampe e squali senza pinne, ma con i denti, squali ottusi e crudeli che si aggiravano per Hogwarts con una Cruciatus un po' troppo pronta sulla punta della bacchetta.
Padma Patil gli aveva mandato via gufo la notizia che la data dell'esecuzione di Lucius Malfoy era stata fissata; poi gli aveva chiesto se poteva raggiungerlo, e Michael le aveva detto sì, sicuro, purché tu non dica a nessuno dove mi trovo. Mentre a Malfoy, ai Carrow e ad altri sette Mangiamorte veniva somministrato il Bacio in un'assolata, luminosissima giornata di luglio, Michael aveva alzato una mezza noce di cocco ripiena di succo d'arancia e aveva brindato al cielo.
Sognava molto spesso. La notte, soprattutto, e ogni tanto anche di giorno: gli bastava addormentarsi sulla sabbia e risvegliarsi scoprendo che una nuvola era passata sul sole per cominciare a cercare la bacchetta, freneticamente, chiedendosi dove fossero i Dissennatori, se fosse un Lethifold – i Carrow avevano lasciato un altro Lethifold davanti alla porta della Stanza delle Necessità?
Mentre il Mondo Magico procedeva alla propria definitiva, catartica, liberatoria depurazione, arrestando o giustiziando tutti i Mangiamorte, tutti i traditori, gli opportunisti, tutti coloro che avevano sostenuto Colui-Che-Era-Morto-E-Ben-Gli-Stava e i suoi massacri, tutti quelli che avevano contribuito a scrivere opuscoli e libelli che avevano mandato a morte o ad Azkaban i Mezzosangue, i Nati Babbani e le loro famiglie, mentre il Mondo Magico si cicatrizzava nel fuoco, perché le ferite che la guerra si era lasciata alle spalle sembravano troppo profonde per poter essere curate in qualunque altro modo, Michael Corner aveva oziato al sole e aveva bevuto molto succo d'arancia in numerose noci di cocco, cercando di rimuovere tutto quello che gli ultimi dodici mesi erano stati.
Padma l'aveva raggiunto in agosto con una carrellata di notizie fresche al seguito. Avevano trovato Greyback, Greyback era morto. Harry Potter si era proposto come nuovo Ministro della Magia e l'Inghilterra era in festa. Kingsley Shacklebolt era a capo dell'Ufficio Auror. Avevano assegnato al professor Lupin e a sua moglie Ninfadora l'Ordine di Merlino alla memoria, Prima Classe...
“Non credo che a loro importi molto, adesso.” aveva osservato Michael, interrompendola.
Padma era rimasta zitta per un po'. Aveva dei piedi minuscoli, bruni sulla sabbia bianca della spiaggia. Anche Ginny aveva avuto piedi così, ancora da bambina, dall'arco rotondo. Michael l'aveva vista scalza, una volta, e l'aveva trovata bellissima. Avevano avuto sedici anni. Tutta una vita ad aspettarli.
“Non vuoi tornare a casa?” gli aveva chiesto Padma.
Michael aveva scrollato le spalle:
“Tra un po', sì. Non subito. Hai fretta di rientrare a Londra?”
Padma ci aveva pensato su per un lungo istante, prima di scuotere la testa. Michael le aveva sorriso.
“E allora resta qui con me, no?”

Sognava molto spesso, la notte, soprattutto. Sognava il corpo di Ginny come l'avevano trovato sulla tavola di Grifondoro nella Sala Grande, quand'erano scesi per fare colazione: Michael non lo poteva dimenticare, e non lo voleva ricordare, e così lo sognava.
Il giorno in cui avevano trovato il corpo di Ginny era stato anche quello in cui Michael aveva smesso di essere un ragazzo ed aveva cominciato ad invecchiare.

***



Aprì gli occhi e credette per un attimo di essere diventato cieco, perché il mondo era bianco, bianchissimo e insopportabile, un mondo di luce intollerabilmente puntata contro le sue pupille dilatate. Michael sbatté le palpebre e gemette. Cercò di girare la testa e scoprì di non poterlo fare. Gli sembrava di essere immerso nella colla, nel cotone, tutti i sensi lontani e distanti, le percezioni come aliene. Non avrebbe saputo dire se era seduto o in piedi o sdraiato, se c'era un pavimento sotto di lui, se c'era un mondo, lì da qualche parte. Non avrebbe saputo dire se si trovava in una stanza o all'aperto. Si era sentito male? Era al San Mungo? Non ricordava...
Si irrigidì, colto da un terrore ancestrale e agghiacciante, quello di essere cieco e paralizzato, di non potersi muovere, di non poter chiudere gli occhi, scansarsi. Gli occhi gli lacrimarono e lui gemette di nuovo, più forte.
“Sssssshh...” Bisbigliò qualcuno accanto al suo orecchio. “Calmati. Rilassati.”
Michael si sforzò di farlo. Davvero. Si sforzò di calmarsi e di rilassarsi, e di pensare che sarebbe andato tutto bene, si sforzò di non pensare di essere paralizzato, di avere solo luce bianca negli occhi, di essere cieco. Se solo fosse riuscito a sbattere le palpebre si sarebbe sentito molto meglio, ne era certo.
“Stai iperventilando.” disse ancora la voce. Era una voce d'uomo. Familiare. Veniva da un posto... veniva da un posto... Michael si ricordò la melissa, tutto ad un tratto, l'odore di melissa. Si ricordò della pioggia e della borsa e della ragazza in Diagon Alley. - Non c'è ragione di farsi prendere dal panico. - gli spiegò la voce con freddezza. “Respira profondamente. Tra mezz'ora sarai ritornato nel posto dal quale sei stato prelevato, senza alcun danno. Non ti ricorderai nemmeno di essere stato qui.”
Questa era una bella notizia, pensò Michael. Se fosse riuscito a crederci, sarebbe stata una bellissima notizia.
Qualcosa oscillò nel suo campo visivo: la luce bianca si affievolì per un attimo prima di spegnersi del tutto. Per un istante gli occhi di Michael furono piene di dolorosissime scintille infuocate, mentre sbatteva le palpebre – finalmente, finalmente – e le lacrime gli scorrevano spontanee lungo le guance, colando dagli occhi arrossati per essere stati tenuti aperti troppo a lungo. Michael Corner guardò avanti a sé e si trovo a fissare un paio d'occhi nerissimi e fondi e familiari. Come la voce. Come la melissa.
Michael Corner boccheggiò:
“Professor Piton?”
L'uomo non rispose. Si chinò su di lui, gli puntò una bacchetta contro la faccia ed esclamò:
Legilimens.”






Note della storia: ... riesco a sentire da qui le rotelline girare e produrre una lunga fila di punti interrogativi. "Ma che cosa c'entra questo, adesso?"
Per chi fosse interessato, la melissa (Melissa officinalis) era anticamente usata come ingrediente per diversi distillati e medicinali dall'effetto soporifero e rilassante. E' una pianta che, in Europa, ha un'antica tradizione presso guaritori e medici, e mi sembrava ragionevole trovarla in un laboratorio di Pozioni.

Qualche cosa in più sul Nuovo Personaggio la dirò nelle Note al terzo capitolo: come mi ha fatto giustamente notare dierrevi, parlarne nel Prologo avrebbe rovinato un po' la sorpresa.
Per il momento, vorrei spoilerarvi invece che non ci sarà un unico protagonista in questa storia: il filo principale sarà uno solo, certo, ma volevo che il racconto finale si trasformasse in una sorta di narrazione corale da più punti di vista. Per cui, preparatevi a vedere parecchi personaggi secondari in giro qua e là.

Ne approfitto per ringraziarvi tutti con infinita gratitudine per l'appoggio che avete dimostrato al Prologo: davvero non sapevo bene cosa aspettarmi, e, be', mi si è allargato il cuore. Spero che il seguito non vi deluda.
E, dato che un po' di pubblicità non fa mai male, segnalo qui che ho messo online il primo capitolo di L'ultima grande avventura (il secondo sarà in Rete il giorno di Natale), per ringraziare tutti coloro che hanno seguito Prima di King's Cross.

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Capitolo 3
*** La lista ***





- 2 - La lista



Trascorsero in silenzio diversi minuti prima che Severus Piton muovesse nuovamente la bacchetta e mormorasse:
Oblivion.”
L'espressione di Michael Corner si fece improvvisamente vacua e quieta. Le sue membra parvero afflosciarsi tutte insieme: era una fortuna che la sedia sulla quale l'avevano messo a sedere fosse dotata di un alto, largo schienale e di spessi braccioli imbottiti che potevano sorreggerlo, perché altrimenti sarebbe scivolato sul fondo del sedile e sarebbe caduto a terra.
Severus chiuse gli occhi e parve concentrarsi per un lungo istante, le labbra serrate e la fronte aggrottata, prima di puntare ancora una volta la bacchetta e borbottare qualche parola a mezza voce. Gli occhi svuotati di Michael Corner si chiusero istantaneamente ed il giovane sembrò crollare in un sonno profondo, la bocca lievemente schiusa dalla quale usciva un rassicurante ronzio.
“Non ce l'ha lui.” affermò Severus dopo un attimo di silenzio. La ragazza in piedi dall'altra parte del tavolo abbassò la testa e prese a giocherellare con un galeone d'oro che teneva tra le mani: i lunghi, folti e lucenti ricci biondi colarono davanti alla faccia ad adombrare un'espressione di profonda delusione. Severus batté con due dita sul tavolo, con impazienza, per richiamare la sua attenzione. La ragazza rialzò la testa di scatto e l'uomo aggrottò la fronte.
“Era il primo di una lunga lista.” esclamò a bruciapelo. “Poco più che un esperimento. Ho un'esperienza sfortunatamente pluridecennale con adolescenti viziati e ragazzini impazienti, e nessun interesse nell'avere a che fare nuovamente con uno di essi. Ricorda sempre che, se in un qualunque momento le mie condizioni non dovessero più piacerti, sei sempre in tempo per cambiare idea e andartene.”
Severus osservò l'espressione della ragazza virare in un istante dalla delusione all'allarme: lei scosse la testa con veemenza e la chioma rigogliosa ondeggiò da una parte all'altra. Una delle ciocche le finì davanti alla faccia e parve non volersi più scollare di lì. La ragazza alzò le mani, se le passò sotto i capelli e assestò uno strattone deciso: la parrucca venne via con un suono di risucchio colloso, mentre lo scotch che aveva usato per fermarla alla fronte e alla nuca le rimaneva attaccato alla pelle.
Sotto alla parrucca i capelli erano lunghi forse un pollice, di un castano privo di riflessi, lievemente appiccicosi per il sudore; e, senza quella gran chioma riccia e dorata, il viso aveva un aspetto tutto sommato piuttosto insignificante, di quelli che visti in mezzo ad una folla non si notano affatto.
Mentre la ragazza si toglieva un pezzo di scotch alla volta, serrando gli occhi mentre le strisce, venendo via, si portavano dietro anche ciocche di capelli, Severus esaminò rapidamente e con efficienza il contenuto della borsa di pelle di Corner. Divise i documenti in piccole pile sulla scrivania e batté su alcuni di essi con la bacchetta: l'inchiostro parve incendiarsi per un attimo, prima di ricomparire, trascritto fino all'ultimo punto e fino all'ultima macchia, su una lunga striscia di pergamena intonsa predisposta sul piano di legno a quello scopo. Severus rimise al loro posto i documenti nell'esatto ordine in cui li aveva trovati; ripristinò gli incantesimi di guardia apposti originariamente sulla borsa e la richiuse.
La ragazza aspettò che avesse finito, prima di domandare in tono cauto:
“Ho fatto bene, professore?”
Severus si girò per guardarla in viso.
“Avresti dovuto aspettare che girasse l'angolo.” Affermò dopo un attimo di silenzio. “Avreste potuto essere ancora visibili dal Ghirigoro, se qualcuno si fosse affacciato dall'ultima vetrina.”
La ragazza sgranò gli occhi:
“Non c'era nessuno nel vicolo. Nessuno ci stava guardando, ed era buio. Pensavo... avevi detto che prima lo facevo, meglio era.”
“Ti avevo anche detto di non avvicinarti a Corner prima di essere sicura che nessuno in Diagon Alley potesse vedervi.”
“Ma non potevano...”
Severus l'interruppe, la voce scostante, impaziente e venata di sarcasmo di chi stia parlando con qualcuno che ritiene a tutti gli effetti un sommo imbecille:
“L'ultima vetrina del Ghirigoro, che, guarda caso, affaccia precisamente sulla strada dove hai preso Corner, ospitava l'ultima volta che l'ho vista uno scaffale contenente i volumi di Trasfigurazione attualmente richiesti per i sette anni di corso ad Hogwarts. Mentre è altamente improbabile che in questo periodo dell'anno qualcuno si interessi precisamente a quello scaffale, è comunque un rischio inutile, ed ero assolutamente sicuro di aver ribadito con chiarezza, prima che tu uscissi, l'assoluta necessità di non correre rischi inutili. Non l'ho forse ribadita, signorina Gordon?”
Ci fu una lievissima esitazione, nella ragazza, prima che questa annuisse. Sul suo viso affilato passò un'espressione delusa e lievemente umiliata; Severus l'osservò in silenzio per un lungo istante, lasciando che il rimbrotto sedimentasse a fondo, prima di soggiungere in un tono solo lievemente meno gelido:
“Tuttavia, era un primo tentativo. Non era nulla di particolarmente difficile, né qualcosa con cui mi aspettavo ci sarebbero stati problemi, ma nessuno vi ha seguiti e nessuno si è accorto di niente. Questo significa che sembrerebbe sia andato tutto bene.”
La ragazza rialzò la testa con espressione lievemente rianimata.
“Sembrerebbe...?”
“Sembrerebbe.” ripeté Severus. “Lo sapremo con certezza solo quando il signor Corner e la sua borsa saranno stati riportati dove sono stati presi.”
Lei chinò nuovamente la testa. Giocherellò con il galeone per un attimo, rivoltandolo e strofinandolo, fissandolo quasi si aspettasse di poterci leggere sopra la risposta a tutte le domande del mondo; ma poi si schiarì la voce e affermò piano:
“Mi dispiace, professore.”
“Le istruzioni ti vengono date per una ragione.” replicò Severus, laconico. “Seguile.” Raccolse con una mano la pergamena copiata, arrotolandola, prima di allungarla verso la ragazza: “Cerca le firme e i riferimenti ai dipendenti del Ministero e ai vari reparti. Voglio che tu prepari una lista con tutti i nomi e con tutti i riferimenti utili che riesci a trovare, ruoli, mansioni, caporeparto. Io sarò di ritorno tra un'ora.”

Sembrava che fosse andato veramente tutto bene.
Michael Corner e la sua borsa erano stati riportati nel vicolo: Severus si era guardato intorno e non pareva che nessuno si fosse accorto di niente. Non c'era allarme in Diagon Alley, nulla che fosse fuori luogo. Il ragazzo si sarebbe svegliato con un gran mal di testa, l'impressione di aver avuto un mancamento e nessun ricordo delle ultime ore.
Severus gettò una lunga occhiata verso il Ghirigoro – otto passi, pensò, otto passi e sarebbe stato dietro le sue vetrine, in mezzo ai suoi scaffali, a cercare tra i libri. Tredici passi per Il Paiolo Magico, ventitré per la banca. Il Mondo Magico era a portata di mano, ma avrebbe potuto essere su un altro pianeta per quanto era irraggiungibile, alieno, posizionato in un altro universo. Otto passi. Severus serrò le labbra. La ragazza aveva indubbiamente cotone nel cervello. Otto passi. Avrebbe potuto essere vista anche da un cieco, con otto soli passi di distanza nel mezzo.
Svoltò l'angolo per essere sicuro di non essere più a portata d'occhio da Diagon Alley, prima di Smaterializzarsi.
L'odore nel rifugio era un miscuglio di fumo, vecchie pozioni sedimentate e legno muffito. L'aria era lievemente umida, stantia. Cercavano di tenere le finestre chiuse il più possibile perché i fumi dei calderoni non attirassero l'attenzione dei Babbani: per arieggiare gli ambienti Severus aveva gettato su una vecchia cassa vuota un Incantesimo Cappa, così che il fumo vi venisse incanalato e potesse essere fatto Evanescere a intervalli regolari di tempo. Quello che adesso era un rifugio una volta era stato un magazzino alla foce del Tamar; c'era una vecchia fabbrica abbandonata, poche centinaia di metri più a sud, che l'aveva usato come deposito fino alla fine degli anni Settanta: la fabbrica era stata chiusa, poi, e abbattuta, ma il magazzino era rimasto. Severus l'aveva scoperto durante la Prima Guerra Magica, prima di andare da Albus Silente in cerca di aiuto, prima di cominciare il suo doppio, triplo gioco, prima di ascoltare la Profezia che avrebbe posto una mannaia sopra al collo di Lily.
Era un buon posto. Severus sapeva riconoscere un rifugio sicuro, quando ne vedeva uno. Era un buon posto per una spia, per chi si nascondeva, era un buon posto per ritirarsi a leccarsi le ferite, un posto che Silente non conosceva, che il Signore Oscuro non conosceva, che i Mangiamorte non conoscevano... che il Ministero, ovviamente, non conosceva.
Quando si era svegliato aveva scoperto che la guerra era finita, e che si era lasciata dietro una scia di cenere e macerie ed un muro di ostilità palpabile e feroce tra i vincitori e i vinti. Erano passati tredici mesi tra il giorno della morte di Draco, il giorno in cui Severus Piton aveva perso conoscenza di fronte alla porta di un bagno al sesto piano del castello di Hogwarts, e quello in cui aveva aperto gli occhi per trovare un mondo in cui Lucius Malfoy era stato Preside di Hogwarts in sua assenza, Albus era morto, il Signore Oscuro era morto... ed Harry Potter aveva vinto.
I Mangiamorte venivano abbattuti uno alla volta, uno dopo l'altro, ogni volta che qualcuno riusciva a mettere le mani sopra uno di essi: nessun processo, nessun giudizio, solo un rapido esame al Marchio Nero – per essere sicuri che fosse l'originale – e poi si finiva davanti ai Dissennatori. Severus non era rimasto per scoprire se avrebbero ritenuto colpevole anche lui, un Mangiamorte come gli altri, ora che Silente non era più lì per difenderlo, oppure no: si era alzato dal suo letto al San Mungo e, prima che i Medimaghi potessero accorgersi che si era svegliato, aveva tolto il disturbo in gran fretta.
Aveva fatto bene: a poche ora dalla sua fuga era comparso sulla lista dei ricercati dal Ministero. Sembrava che Silente si fosse completamente dimenticato di lasciarsi dietro qualcosa, qualche documento, qualche testimonianza comprovata, che potesse dimostrare l'appartenenza di Severus all'Ordine della Fenice, il suo compito di spia, la sua presenza nella fidata cerchia del Signore Oscuro come infiltrato, non come sostenitore. Nel mezzo della caccia spietata ai Mangiamorte si davano indistintamente al Bacio i Mangiamorte veri e quelli dell'ultimo minuto, le riserve, i nuovi arrivati, quelli che erano stati costretti e quelli che non avevano capito niente. Severus sapeva che in un clima politico del genere non gli sarebbero mai stati dati né il tempo né il modo di discolparsi.
Il secondo piano del magazzino sul Tamar era stato riorganizzato per fungere da laboratorio. Diversi calderoni erano sparsi in giro per la stanza, impilati in file ordinate negli angoli o suoi tavoli o sospesi a treppiedi ad un'altezza comoda per lavorarvi attorno. In un recipiente che pareva ricavato da un guscio di tartaruga incrostato di pietre preziose cuoceva lentamente qualcosa che aveva l'aspetto e la consistenza dell'oro liquido. All'interno di un basso calderone di peltro sembrava stesse bollendo un liquido poco denso e lievemente verdastro, come acqua di palude: ma non c'era alcuna schiuma sulla sua superficie, e il vapore che emanava pareva secco al tatto. Severus girò lentamente un piccolo mestolo al suo interno: da uno scaffale trasse una piccola, scintillante matassa di fili argentei; ne contò cinque e li gettò nel calderone. Il bollore della pozione si fece più pronunciato: grosse bolle si formarono ed esplosero sul pelo del liquido, prima che questo prendesse un'intensa, trasparente limpidezza. Severus maneggiò in silenzio la matassa, soppesandola, prima di rimetterla al suo posto sullo scaffale. Procurarsi del crine d'unicorno era sempre complicato, ora che non poteva più recarsi tranquillamente in Diagon Alley per acquistarlo, ma distillare il Veritaserum era un'inevitabile necessità.
Severus superò anche il secondo calderone e si diresse in fondo al laboratorio. Il calderone che si trovava lì, sospeso sopra ad un debole fuoco dalle vampe di un blu scintillante, era estremamente piccolo, non più grande di una normale pentola da cucina: l'odore, per nulla sgradevole, era pungente come quello della menta, ma l'aspetto era disgustoso, tutto grumi nerastri, con grosse chiazze oleose che galleggiavano in superficie. Severus emise un breve suono di gola, esaminandolo, e allungò una mano per afferrare i barattoli più vicini.
Fu così che lo trovo la ragazza mezz'ora più tardi: con il naso adunco curvo sulla pozione, intento a triturare, affettare, schiacciare e spellare cose sulla provenienza delle quali nessun essere umano sano di mente avrebbe mai voluto informarsi.
Lei si fermò sulla porta del laboratorio, con un vassoio tra le mani ed una cartellina rigida sotto braccio.
“Professore?” lo chiamò, molto piano. “Il tuo tè.”
Severus non la guardò nemmeno:
“Lascialo lì.”
La ragazza fece per posare il vassoio al centro della grande tavolata nel bel mezzo del laboratorio: poi adocchiò il piccolo cumulo di fegati di Mooncalf in un contenitore proprio lì accanto e, con espressione lievemente nauseata, spostò il vassoio un po' più in là.
Si sedette su una sedia dall'alto schienale appoggiata alla parete accanto alla porta del laboratorio, con la cartellina chiusa in grembo, e si dispose all'attesa.

Dovette passare oltre un'ora prima che Severus raddrizzasse la schiena, facesse levitare il calderone ribollente dal fuoco fino al tavolo e infine sollevasse la testa e la guardasse. Aggrottò la fronte, vedendola, ma la ragazza gli rivolse per tutta risposta uno sguardo neutro.
Severus agitò la bacchetta verso il vassoio: mentre dalla tazza di tè tornava prontamente a sprigionarsi una nuvoletta di vapore, l'uomo Trasfigurò uno sgabello in una poltrona di pelle e si sedette. La tazza di tè levitò nelle sue mani, seguita dal piatto coperto che l'accompagnava. Severus ne esaminò con vaga curiosità il contenuto e scoprì una piccola pila di sandwich dall'aspetto vagamente appassito.
Inarcò un sopracciglio all'indirizzo della ragazza, che gli spiegò quietamente:
“Era avanzato del pollo.”
Il sopracciglio inarcato si fece pesantemente sarcastico:
“Devo chiedere vecchio di quanto giorni?”
“Non era andato a male.”
“Questa non è una risposta alla mia domanda.”
La ragazza cominciò a sollevare lievemente le spalle per scrollarle: ma colse l'occhiataccia del professore e si fermò ancor prima di aver iniziato, abbassando la testa.
“Ce n'è ancora dell'altro,” sostenne.
Severus emise un altro, breve e indistinto suono di gola, mentre prendeva un sorso dalla tazza di tè.
Nessuno dei due aprì bocca per diversi minuti, con il suono colloso della bollitura della pozione contenuta nel calderone ricavato dal guscio di tartaruga – il guscio di un Fiammagranchio, incrostato di gemme scintillanti – a riempire il silenzio che si stendeva tra di loro. Alla fine, Severus posò la tazza ora vuota sul tavolo e sollevò un sandwich, osservandolo con attenzione.
“Hai fatto quel che ti ho detto?”
Lei protese la cartellina che aveva tra le mani, mostrandogliela:
“Ho preparato la lista.”
Severus le rivolse un cenno impaziente:
“Fammi vedere.”
La ragazza si alzò in piedi e gli si avvicinò, offrendogli la cartellina; invece che tornare a sedersi, poi, rimase in piedi accanto alla sua sedia. Severus aprì il fascicolo e prese con cautela un morso del sandwich. Sapeva di diverse cose che non avevano molto a che vedere con il pollo fresco, ma sembrava tutto sommato commestibile. Masticò e inghiottì.
La lista che la ragazza aveva stilato era breve e poco articolata; ad ogni nome erano associate alcune frecce che portavano a collegamenti o piccole informazioni, a volte accompagnate da un punto interrogativo. La grafia era brutta e spigolosa, e in certi tratti si faceva incomprensibile, troppo lunga e asciutta: pareva la grafia di qualcuno che avesse scarsa familiarità con la penna e il calamaio.
Severus sollevò il capo per incontrare lo sguardo della ragazza che, in piedi davanti a lui, dava l'impressione di essere una studentessa, solo un'altra dei suoi allievi ad Hogwarts. Avrebbe potuto essere un'adolescente, magra e virtualmente priva di forme; ma era anche alta, allampanata, con un viso scarno e ascetico che forse spingeva a darle qualche anno in più.
“Sei riuscita a trovare cinque minuti di tempo per spremere le meningi e cercare di formarti un'idea personale?”
“Un'idea su cosa, professore?”
Severus le rivolse un'occhiata indecifrabile che la ragazza gli restituì. Le labbra dell'uomo si piegarono in un'espressione che era un miscuglio di profondo sarcasmo e lieve disgusto:
“Dimentica che io l'abbia chiesto.” Puntò un dito su uno dei nominativi della lista ed affermò: “Susan Bones. Queste sono tutte le informazioni che hai trovato su di lei?”
“Sì, professore.”
“Vive ad Hogsmeade,” commentò l'uomo. “Sai cos'è Hogsmeade?”
“La città di Maghi vicino alla scuola.”
“Capisci cosa potrebbe significare cercare di entrare ad Hogsmeade, per te?”
La ragazza esitò per un istante, prima di annuire quietamente:
“Sì, professore.”
Piton tenne gli occhi sul viso di lei, fissamente; per tutta risposta, la ragazza abbassò lo sguardo e non incontrò il suo neanche di sfuggita. Alla fine, l'uomo si alzò in piedi:
“Molto bene.”
Le spinse il fascicolo tra le mani e raggiunse il fondo del laboratorio. L'aspetto del liquido dall'odore di menta contenuto nel calderone lasciato a raffreddare era, nel frattempo, ulteriormente peggiorato: i grumi nerastri sembravano essersi dissolti per lasciar spazio a qualcosa dall'aspetto colloso; un sottile strato oleoso che galleggiava in superficie, più leggero del resto del composto, dava al tutto un colore da moccio sciolto. Severus usò un mestolo per raccoglierlo e riempirne una tazza sbeccata.
“La tua pozione, signorina Gordon.”
La guardò prendere la tazza e bere tutto d'un fiato, senza fare smorfie per il sapore – che era probabilmente disgustoso, pensò Severus. Fissò con una sorta di macabra fascinazione la pozione densa passare il blocco dell'esofago, un breve movimento all'altezza della gola e poi era andata, giù, giù, e tutto ad un tratto gli sembrò che qualcuno gli bisbigliasse nell'orecchio: quel qualcuno aveva la voce di Albus, e il ragazzo deve morire, gli stava dicendo. Pensò alle profezie e dovette distogliere lo sguardo.
“Professore...?” lo chiamò la ragazza, incerta.
Severus le tolse la tazza vuota dalle mani.
“Torna in camera. Riposati. Dormi.” Le diede le spalle: finché non la guardava in viso non aveva bisogno di nascondere niente. “Parleremo domani.”






Note della storia: Prima di ogni altra cosa, due cose sul Nuovo Personaggio: non so bene perché, ma ogni volta che decido di non usare più un Nuovo Personaggio in una fanfiction mi ritrovo con un Nuovo Personaggio incastrato tra i denti. Giuro che non vorrei: in questo caso una delle versioni della storia prevedeva Draco Malfoy (!) nella parte che il Nuovo Personaggio è andato ad occupare, ma il povero Draco... be'...
Insomma.
Perché sempre femmina...? Perché ci sono già troppi maschi tra i piedi, ecco perché.

Adesso, una recensione ricevuta nello scorso capitolo mi fa pensare di non aver messo i giusti avvertimenti a questa storia: cercando, tuttavia, non sono stata in grado di trovarne altri. Vorrei ribadire il fatto che sono certa che la trama non sarà più chiara per almeno... diciamo altri quattro capitoli, ma che tutti gli eventi avranno una spiegazione nel corso dello svolgimento della storia.
Prima o poi. x°D

Augurandovi anche qui buone feste (e sperando che le stiate trascorrendo serenamente), ne approfitto per pubblicizzare il secondo ed estremamente natalizio capitolo di L'ultima grande avventura.

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Capitolo 4
*** Comunicazione ***





- 3 - Comunicazione



La Passaporta riapparve nel magazzino sul Tamar in un guizzo di luce dorata, trascinandosi dietro diverse mattonelle, quella che pareva una fetta larga cinque dita di una toilette in ceramica e Gabrielle Gordon, aggrappata con entrambe le mani ad un barattolo vuoto di fagioli.
Severus fece appena in tempo ad Evanescere le mattonelle e il resto, prima che la ragazza si piegasse in due, barcollando fino in fondo alla stanza per potersi appoggiare ad una parete, e si svuotasse lo stomaco sul pavimento. L'uomo alzò gli occhi al cielo e non disse niente. Aspettò che i conati si fossero fatti asciutti e brevi, prima di Evanescere anche la chiazza di vomito e tirar fuori da una tasca un quadratino di stoffa non più grande di un francobollo, facendogli riassumere le dimensioni di un fazzoletto con un rapido colpo di bacchetta. Lo porse alla ragazza, che lo usò per pulirsi la bocca.
“Mi dispiace, professore.” esclamò raucamente.
“Non ha importanza. Da dove sei partita?”
“Con la seconda Passaporta, da Charing Cross.”
Severus aggrottò la fronte. Aprì bocca e parve in procinto di dire qualcosa; ma poi scosse il capo e allungò un braccio per rimetterla dritta. Gabrielle alzò la testa: al di sotto della parrucca molto rossa la carnagione pallida della ragazza appariva sbiadita e incolore, gli occhi quasi neri. Sulla guancia sinistra una cicatrice orribile si allargava come un blocco di carne grassa e raggrumata. Il professore la tastò con un dito, distrattamente:
“Sembra abbia retto. Problemi?”
Gabrielle scosse il capo. Si raddrizzò e cercò di sottrarsi alla presa dell'uomo, ondeggiando con evidente disagio sul posto. Il professore se ne accorse e la lasciò andare; non appena fu libera, la ragazza si scansò impercettibilmente, recuperando spazio.
“Ad Hogsmeade nessuno mi guardava, professore. Proprio come avevi detto.”
“Hai preso quello che ti ho detto?”
La ragazza si tolse la borsa di spalla e la aprì. Da un involto di panni arrotolati pigiato all'interno estrasse con infinita cura un barattolo di vetro: all'interno del vetro untuoso parecchie piccole rane di un blu scintillante, nessuna più lunga di un pollice, galleggiavano nell'alcool. Severus le tolse il barattolo dalle mani, esaminandolo controluce.
“Quanto le hai pagate?”
“Un galeone e sette falci ognuna, professore.”
“L'apotecario ha fatto domande?”
“No.”
L'uomo le rivolse una breve occhiata, prima di accennare seccamente alla porta:
“Vai a lavarti la faccia, ma non perderci una mezza giornata. Ti aspetto nel laboratorio.”
Fu il turno di Gabrielle di aprire bocca e richiuderla, senza parlare. La aprì una seconda volta ma, davanti al sopracciglio inarcato di Severus, si limitò a scuotere la testa e a girare i tacchi. Non aveva neanche fatto in tempo ad uscire dalla stanza, che già l'attenzione dell'uomo era tornata alle rane nel barattolo.

Non era che Gabrielle fosse precisamente avida di complimenti.
Aveva imparato a mandar giù il sarcasmo di Piton, che era perpetuo e continuo e aggressivo, un fuoco di fila che cominciava al mattino e terminava alla sera, e gli insulti, ché tanto a quelli aveva fatto il callo parecchio tempo prima. Ricordava vagamente le piccole malignità dei suoi giorni di scuola – per la sua faccia non troppo bella, per il suo naso troppo adunco, per i suoi denti molto storti – e la crudeltà metodica e feroce dei MacLaggen. Quella non era vaga. Era netta. Si era stampata da qualche parte nella sua testa – ogni giorno e frase e parola e tono di voce – incisa a fuoco tra un neurone e l'altro. Aveva provato a grattarla via, ma non sembrava voler sloggiare.
Comunque non aveva nessun problema con gli insulti. Davvero. Sentirsi chiamare stupida non le andava del tutto giù – non da uno di loro, soprattutto – ma che Gabrielle Gordon fosse ignorante, disastrosamente, orribilmente ignorante, era un dato di fatto. La sua grafia era una lunga linea di scarabocchi malamente intrecciati. Sapeva far di conto, perché chi non lo sapeva fare? Non capiva metà delle cose delle quali il professore le parlava, e la metà che capiva le arrivava comunque a pezzi e bocconi.
Era un bene che non avesse nessun interesse a capire. Non era curiosa: non le importava. Il professore doveva sapere quel che stava facendo, per cui serviva davvero che lo sapesse anche lei? Credeva di no.
La cicatrice sulla guancia sinistra non venne via facilmente. Il sapone l'ammorbidì un po', e l'alcool la rese molle e spugnosa, ma dovette grattarla via con le unghie per toglierla del tutto, ed alla fine la pelle sotto al trucco rimase arrossata e graffiata. Guardandosi allo specchio fu grata di non vederla più: aveva saputo che era finta, sicuro, ma una parte di lei non aveva smesso neanche per un attimo di ripeterle brutta, brutta, brutta, racchia.
Non era che Gabrielle fosse precisamente avida di complimenti. Era solo che avere a che fare giornalmente con il professore per oltre nove mesi l'aveva portata a capire che nessuna delle reazioni dell'uomo aveva una traduzione diretta. Cioè, non una traduzione umanamente diretta. Niente di facilmente interpretabile. Se Piton ghignava, non necessariamente era divertito. Se le ringhiava contro, non sempre era arrabbiato. Se alzava un sopracciglio era interessato, due sopracciglia incredulo, due sopracciglia più una smorfia disgustato. Lei odiava la combinazione sopracciglia più smorfia. La faceva sentire sempre molto piccola e molto stupida. Molto mancante. Più ignorante del solito.
Non si era aspettata un complimento, quindi. Neanche un brava. Un hai fatto bene, forse sì. Anche un bene da solo, senza niente accanto, intorno, sarebbe stato accettabile.
Si lavò i denti per cancellare il sapore stantio che le era rimasto incollato al palato. Tenendo una mano davanti alla faccia vi alitò dentro per vedere se il suo fiato sapeva ancora di succhi gastrici; una patina lieve di vapore si depositò allo specchio e lei vi scrisse sopra: Hogsmeade.
Camminare per Hogmseade era stata un'esperienza strana. I tetti aguzzi, camini che buttavano fuori fumo che non era grigio, non sempre, e meridiane dipinte sulle pareti dove il sole gettava ombre rivolte nella direzione sbagliatissima. La cupola della barriera riempiva il cielo di minuscole scintille dorate ogni volta che un uccello vi passava attraverso.
Da quando le Leggi per l'Integrazione erano state approvate, gli incantesimi Anti-Babbani della barriera erano stati rinforzati. Era una misura di sicurezza necessaria, aveva detto il Ministero: non si poteva permettere che ogni pazzo Babbano che non avesse approvato il nuovo ordine delle cose venisse ad Hogsmeade per cercare di seminare il caos. Hogsmeade era stata chiusa a chiunque non fosse un Mago. Se anche un Babbano fosse riuscito ad attraversare la barriera – oh, c'era sempre quella possibilità su un milione, sicuro, era una possibilità su un milione, ma c'era – se fosse stato scoperto, ci sarebbe stato il Wizengamot ad aspettarlo. Nessun Babbano voleva finire davanti al Wizengamot: non tutti in Inghilterra ancora avevano capito bene cosa fosse Hogwarts e come funzionasse il Ministero della Magia, ma tutti avevano afferrato benissimo e sin da subito a cosa servisse Azkaban.
Camminare per Hogsmeade era stata un'esperienza strana. Passare per la barriera era stata un'esperienza stranissima: aveva camminato con le mani protese in avanti e l'aveva sentita sfrigolare sotto le dita, liquida e fredda ed effervescente. Attraversandola aveva avuto l'impressione di dover trattenere il fiato.
Il professore le aveva detto di non metterci una mezza giornata, perciò chiuse il rubinetto, dopo essersi lavata per la seconda volta i denti, uscì dal bagno e e si arrampicò sul letto per scavalcarlo e raggiungere la porta. Piton le aveva spiegato una volta di aver espanso lo spazio all'interno di un vecchio ripostiglio il più possibile, per farci entrare la sua stanza e il suo bagno privato, e che c'erano dei limiti alla quantità di metri che potevano venire magicamente aggiunti ad una camera prima che questa collassasse su sé stessa. Perciò nel bagno c'era una doccia, e proprio davanti alla doccia il lavandino. Il letto occupava la parte centrale della stanza; contro una parete erano state accumulate pile di cartone piene di cose Babbane con le quali il professore aveva preferito non pasticciare: erano rimaste alle loro dimensioni, così, ed occupavano un sacco di spazio.
Il magazzino era un intrico di corridoi in disuso, grossi spazi vuoti e ripostigli. Dall'esterno dava l'impressione di aver germogliato: di essersi riprodotto un'ala alla volta, come un fungo, accatastando angoli su angoli che si erano sporti dall'originaria struttura lineare a forma di parallelepipedo fino a trasformarla nell'equivalente architettonico di un qualcuno al quale fossero spuntate un po' troppe gambe e braccia e teste di riserva. Gabrielle non gironzolava mai troppo nei corridoi. Insieme al professore aveva montato trappole un po' ovunque e, sicuro, lei non avrebbe dovuto correre il rischio di attivarle accidentalmente... ma non si poteva mai sapere.
Il professore dormiva in una stanza che una volta doveva essere stata un ufficio, proprio accanto al laboratorio. Il ripostiglio di Gabrielle era dall'altra parte del corridoio, perché Piton non la voleva accanto alle sue pozioni. Non troppo. Non quando ci stava lavorando attorno, almeno: nove mesi di convivenza con l'uomo le avevano insegnato che era davvero meglio stargli lontano dai piedi il più possibile quando aveva la faccia china su un calderone e, se proprio bisognava stargli attorno, la cosa migliore era stare zitti e buoni e far finta di non esistere. Gabrielle era eccezionale nel fingere di non esistere: quella di assimilarsi alla tappezzeria era un'abilità affinata in diciannove anni di continua necessità.
Sgattaiolò nel laboratorio e scoprì che Piton aveva già la schiena curva su uno dei tavoli: stava sezionando con un bisturi minuscolo una delle piccole ranocchiette blu del barattolo. Gabrielle rabbrividì, ingoiando a vuoto per ricacciare indietro un moto di nausea.
Il professore le lanciò un'occhiata distratta, prima di ordinarle:
“Prendi una sedia.”
Gabrielle prese una sedia. La trascinò fino al punto in cui lui stava lavorando e si sedette. Piton si limitò ad ignorarla per un po', prima di alzare la testa dalla rana eviscerata ed affermare con freddezza:
“Immagino vi sia una ragione per la quale non hai aspettato di allontanarti più di dieci metri dal Paiolo Magico, prima di usare la Passaporta.” Il sarcasmo prese a sgocciolare come acido dalla voce dell'uomo: “Un errore può capitare a tutti. Due errori dello stesso genere, commessi in fila, sono pura imbecillità. Devo ripeterti cosa penso degli imbecilli, signorina Gordon?”
D'accordo. Questo non era un hai fatto bene e, sicuro quanto la morte, non era un brava.
“Sono entrata in un pub per farlo, professore.” gli spiegò quietamente. “Ho chiesto il permesso di usare il bagno. I vestiti da mago stavano attirando troppo l'attenzione, fuori da Diagon Alley, e tutti guardavano la cicatrice, lì, non come ad Hogsmeade.”
Piton la scrutò in silenzio per un lungo istante, prima di commentare:
“I Babbani si saranno fatti qualche domanda, scoprendo che dal bagno siete scomparsi tu ed un grosso pezzo di pavimento. Non pensi che ci avranno fatto caso?”
“Avevano già visto i vestiti, professore. Vestiti da mago.” ripeté. “Nessuno fa domande su quello che i maghi fanno.”
Un'altra pausa di silenzio, prima che Piton assentisse lentamente:
“Già.”
Alzò una mano: a quel gesto una seconda sedia strisciò sul pavimento fino a fermarglisi accanto. Piton si sedette, intrecciò le mani e se le depose in grembo, fissando Gabrielle con attenzione.
“Parti dall'inizio. Hai avuto difficoltà ad oltrepassare la barriera?”
“No, professore.” E poi, dopo un attimo di esitazione: “Non dovevo averne, non è vero?”
L'uomo rimase in silenzio per un attimo, prima di replicare pianamente:
“No, non avresti dovuto.”
Nel modo in cui le rispose c'era qualcosa si strano - di dissonante - ma Gabrielle non avrebbe proprio saputo dire cosa.
“Cosa ne pensi di Hogsmeade?”
Gabrielle scrollò le spalle.
“E' strana.”
Non avrebbe potuto giurarlo, ma le sembrò di vedere l'ombra di un sorrisetto passare sulle labbra del professore: scomparve in fretta, tuttavia, quando l'uomo alzò gli occhi al cielo con espressione di esasperato disgusto.
“Interessante, Gordon. Posso considerarlo il tuo parere tecnico in proposito, questo?”
Lei non si prese il disturbo di offendersi. Troppa fatica: se si fosse offesa per ogni insulto, più o meno velato, che il professore le indirizzava, avrebbe passato la giornata tenendo il muso. Posò le mani sulla sedia, accanto alle sue cosce unite, e si aggrappò al bordo di legno.
“Credo di poterlo fare.” disse.
L'espressione dell'uomo si fece imperscrutabile, ma la voce rimase venata di sarcasmo:
“Tu credi...?”
“Io-io penso.” Si rese conto d'aver stretto il bordo della sedia un po' troppo, perché la mani ora le facevano male come se se le fosse scorticate contro il legno. Allentò la presa e ripeté: “Penso di farcela.”
Severus rimase in silenzio per un lungo istante. Quando parlò di nuovo, non aveva più sarcasmo né disprezzo, nel tono: solo una patina di freddezza che le spedì un lungo brivido giù per la schiena rigida e tesa.
“Immagino di non doverti spiegare cosa succederebbe se tu scoprissi di non potercela fare quando sarai già dentro.”
“No, professore.”
“La Passaporta non funzionerà all'interno della barriera.”
Lei si umettò le labbra aride e annuì.
“Hogsmeade è pattugliata dagli Auror giorno e notte.” aggiunse lui.
“Sì, io...” Gabrielle si schiarì la voce, sorpresa nel sentire quanto suonava rauca alle sue stesse orecchie. “… ne ho visti due. Oggi. Davanti ai Tre Manici di Scopa.”
Severus le lanciò un'occhiata tagliente:
“E tu sei certa che non ti abbiano notata?”
Gabrielle aveva visto le divise viola e nere davanti alle porte spalancate della locanda e le aveva riconosciute immediatamente: prima ancora che il suo cervello potesse ricollegarle a qualcosa di conosciuto, una parte di lei che risiedeva nel suo midollo spinale, affondata nelle radici viscide del suo terrore, si era risvegliata ed aveva cominciato a stridere. Superare i due Auror senza guardarli, senza rallentare il passo, senza cedere all'impulso di girare i tacchi e correre nella direzione opposta, era stata tra le cose più difficili che avesse mai fatto.
Annuì rigidamente.
“Non ho fatto niente per attirare la loro attenzione. Non mi hanno seguita. Non mi hanno neanche guardata, credo.”
Il professore parve rilassarsi. Si alzò in piedi e tornò a chinarsi sulle rane morte: Gabrielle lo guardò prendere un paio di pinzette e affondarle tra i due lembi di pelle aperta sullo stomaco, cercando tra le interiora. Prima che la scena potesse farsi troppo sanguinolenta ed imprimersi un po' troppo a fondo nella sua testa – e non sarebbe stata una buona idea, con così poche ore a separarla dalla cena – Gabrielle si alzò in piedi e mugolò, un po' più che lievemente nauseata:
“Posso andare, adesso, professore?”
Severus agitò una mano in un gesto secco.
Gabrielle lanciò un'ultima occhiata alle rane morte sul bancone. Avevano zampette minuscole, occhi tondi e vacui. Sembravano cuccioli. Niente più che cuccioli.
Chiuse gli occhi per non guardare, per non pensare, e si mosse alla cieca verso la porta.

***



Era stata una caldissima mattinata di luglio. Lo ricordava perché avevano dovuto tenere aperte le finestre per tutta la notte, e Lydia si era svegliata al mattino sudata, piagnucolosa e ostile. Gabrielle le aveva preparato la colazione e l'aveva messa sul divano, sepolta in mezzo ai cuscini, a guardare i cartoni animati del mattino mentre lei cercava di fare i compiti in cucina.
Non capiva a cosa servisse studiare letteratura. Leggere non le piaceva: le lettere sembravano accavallarlesi davanti agli occhi, non conosceva metà delle parole e quella roba era tutta molto, molto, molto noiosa. Non era riuscita ad afferrare chi fosse questo signor Beckett e a che servisse aspettare il tal Godot, e i discorsi dei suoi personaggi assomigliavano ai deliri di qualcuno sotto psicofarmaci. Leggerli le sembrava una grossa perdita di tempo. Prima che Agnes sposasse Terence – e prima che Terence la costringesse a tornare a scuola – Gabrielle era stata consapevole dell'esistenza delle addizioni, delle sottrazioni e delle moltiplicazioni. Le divisioni si erano perse da qualche parte nel marasma parzialmente digerito delle lezioni seguite prima dei suoi quindici anni. Le tabelline erano un concetto vago, compreso in linea teorica, ma sul quale si sentiva tecnicamente poco salda. Le equazioni non appartenevano al suo mondo, e costituivano ai suoi occhi una nozione aliena e priva di alcun fondamento: l'espressione che si trovava davanti al momento – e che qualcuno si aspettava che lei riconsegnasse completa entrò il lunedì successivo – avrebbe potuto anche essere scritta in arabo, per quanto ne capiva. Chimica, poi, era semplicemente oltre le sue capacità.
Verso mezzogiorno, esausta e irritata e umiliata, aveva resistito a stento all'impulso di buttare i libri per terra e camminarci sopra, e poi andare in camera di Agnes e rovesciare tutto, i mobili lucidi e il vaso di ceramica cinese pieno dell'ultimo bouquet che Terence aveva regalato a sua madre, buttare per terra i vestiti di lusso e calpestarli. Gettare nella tazza del bagno le scarpe nuove di zecca di Agnes. Sua madre sarebbe andata su tutte le furie, aveva pensato. Sarebbe stato soddisfacente.
Invece era tornata in soggiorno, dove Lydia stava giocando sul suo tappetone gommoso smontabile, rotolandosi con il suo peluche preferito e conversando amabilmente con una bambola dagli orribili vestiti scintillanti – un altro regalo di Terence, senza dubbio. Il gusto dell'orrido era il suo marchio di fabbrica. Gabrielle si era accovacciata accanto alla sorellastra, che le aveva prontamente allungato il pupazzo:
“Fai volare il dottor Ash?”
Gabrielle aveva fatto volare il dottor Ash. Il dottor Ash, un tempo noto come Barnie Pelosone, era stato suo prima di essere di Lydia: era un cane imbottito con più toppe che pelliccia, ormai, privo di un occhio – che era stato sostituito da un bottone – e con la coda spelacchiata. Lydia se lo portava dietro ovunque. Ci dormiva insieme. Ci mangiava sopra. Gli sbavava addosso. Andava lavato ogni due settimane, perché ad aspettare ulteriormente ci si ritrovava ad avere tra le mani il produttore ufficiale della madre di tutte le puzze. Terence aveva cercato di persuadere Lydia a buttarlo via, ma la bambina aveva strillato tanto e tanto forte da convincerlo che il dottor Ash era dotato di un'intoccabile Licenza di Puzzare.
“Vuoi le frittelle?” le aveva domandato Gabrielle, dopo che il dottor Ash era stato fatto doverosamente saltare in aria il numero richiesto di volte – mai meno di tre, mai più di sette. Lydia le aveva rivolto un'occhiata calcolatrice:
“Con la cioccolata?”
Gabrielle le aveva punzecchiato il naso con un dito:
“No, piccola ingorda. Sarai grassa come un maialino, se continui ad ingozzarti di cioccoschifezzerie tutti i giorni. Frittelle di mele. Niente cioccolata.”
“Terence fa le frittelle con la cioccolata.”
“Terence ti farà venire il diabete.”
“Non le voglio di mele.”
“Una frittata con le zucchine, allora.” Lydia aveva arricciato il naso. “No? Pollo? Tramezzini al pomodoro? Farinata? Spaghetti?”
“Spaghetti!” Lydia aveva battuto le mani per sottolineare la propria soddisfazione, prima di cantilenare: “Spaghetti! Spaaaaghetti. Spaghetti. Gabbie fa gli spaghetti.”
Gabrielle l'aveva presa in braccio, sistemandosela contro un fianco: lei era magra e asciutta e bassa, ma Lydia era ancora tanto piccola da starle comodamente arrampicata addosso come una scimmietta, e da non pesarle neanche. Aveva potuto cucinare con la bambina appollaiata su un fianco, usando una mano sola per aprire il barattolo degli spaghetti e rovesciarli nella padella con il sugo pronto. Aveva affettato le cipolle con la sinistra, cercando di tenere il dottor Ash e il suo orrido pelo puzzolente il più lontano che fosse possibile dal tagliere, e riscaldato nel microonde le polpette precotte che Agnes aveva lasciato a scongelare in frigo.
Stava scodellando nei piatti, Lydia già posizionata in cima alla sua sedia rialzata, quando avevano suonato alla porta.
Gabrielle aveva alzato gli occhi al cielo.
“Ed ecco che la pacchia è finita.” aveva mugugnato, prima di aggiungere a beneficio della sorellastra: “E' tornata la mamma, sentito?”
Lydia, che nel frattempo aveva avuto il tempo di cacciare il cucchiaio nel piatto, farne riemergere un mucchio di spaghetti triturati e rovesciarsene una buona metà addosso e quel che restava in bocca, le aveva rivolto un sorrisone parzialmente sdentato e totalmente sporco di sugo.
“Brutta ingordona!” l'aveva rimproverata Gabrielle con poca convinzione, i pugni sui fianchi: “Non si aspetta la cuoca prima di cominciare a mangiare?”
Lydia – che all'espressione irritata della sorella doveva aver creduto molto poco – aveva riso e aveva tirato su un'altra cucchiaiata di pasta, offrendola a Gabrielle:
“Gnam! Una a Lyddie, una a Gabbie! Fai gnam, Gabbie!”
Il campanello aveva suonato di nuovo, due volte. Gabrielle si era pulita le mani in fretta su uno straccio:
“Ora torno e faccio gnam. Intanto stai lì seduta, che vado ad aprire ad Agnes.”
La casa di Terence era grande, il corridoio era lungo e ingombro di mobili. Quando era riuscita a raggiungere finalmente la porta, la mano già sulla maniglia, il campanello aveva squillato una terza volta. Gabrielle aveva alzato nuovamente gli occhi al cielo, e non si era preoccupata di fingersi meno irritata di quanto fosse mentre apriva la porta ed esclamava:
“Dove hai lasciato le chiavi, questa volta, mam...”
E si era interrotta lì.
Sulla soglia, in piedi sul pianerottolo in cima ai tre gradini che portavano dal giardino alla casa, c'erano due persone: uno era alto e massiccio, scuro di pelle e grave in viso; l'altro era più mingherlino, magro e dinoccolato, forse sulla cinquantina. Era stato quest'ultimo a parlare, con voce strascicata:
“Casa Harris?”
Gabrielle li aveva fissati senza capire. Non avevano giacche, ma lunghi cappotti di stoffa nera, con riquadri e ritagli di colore viola inseriti all'altezza delle spalle e dei fianchi. Il primo istinto della ragazza era stato quello di ritrarsi all'interno dell'appartamento – ma i due non sembravano armati. Era già qualcosa.
L'uomo che aveva parlato era sembrato irritato dal silenzio, perché aveva ripetuto a voce più alta:
“E' questa casa Harris?”
“Sì. Mia madre e suo marito non sono in casa.” Gabrielle era finalmente riuscita a riconnettere lingua e neuroni, ed aveva pensato che fosse una buona idea metterli in funzione, a quel punto. “Se volete parlare con loro, dovete ripassare più tardi.” I due uomini si erano scambiati un'occhiata bizzarra, indecifrabile; sulla scia di una sensazione di panico indescrivibile e irragionevole, Gabrielle si era ritrovata ad aggiungere, agitata: “C'è l'allarme alla porta. Se cercate di entrare, suona. La polizia lo sentirà, e c'è mio fratello al piano di sopra...”
“Tu non hai un fratello.” l'aveva interrotta l'uomo dalla voce annoiata. “Gabrielle Harris. Siamo del Ministero della Magia. Agnes Harris e Terence Harris sono sotto custodia al Dipartimento Auror, con le accuse di diffamazione ai danni di individui di pubblico rilievo e di istigazione e partecipazione ad atti di violenza contro la comunità dei Maghi. Se volessi prendere tua sorella e seguirci...”
Gabrielle non aveva aspettato di sentire il seguito: aveva fatto per sbattergli la porta in faccia e, quando l'uomo aveva cercato di mettere avanti un piede per impedirglielo, gliel'aveva schiacciato due volte con il battente, con violenza, e gli aveva assestato un feroce pestone. L'uomo aveva cacciato un urlo e aveva ritratto il piede, permettendole di chiudere la porta. Gabrielle non si era premurata di tirare il chiavistello: c'era sempre quella cosa, Maghi, che finora era stata una parola e niente più, scritta a grosse lettere su tutti i giornali, strillata con odio da Terence nei suoi discorsi alla televisione, ma che adesso era reale, era lì. Erano venuti per lei e per Lyddie, aveva pensato, il respiro mozzo per il terrore, erano lì per Lyddie, non avrebbe dato loro Lyddie.
Aveva sentito la porta esplodere in fondo al corridoio, ma non si era girata a guardare. Era schizzata in cucina: Lyddie era ancora lì, sulla sua sedia rialzata, gli occhi sgranati per lo stupore e venati di panico.
“Gabbie...?”
Gabrielle non si era fermata a riflettere: aveva sollevato la bambina, rovesciando la sedia nel farlo, ed aveva attraversato di corsa la porta che dava nel soggiorno. Quando Lyddie aveva aperto la bocca per dire qualcosa, lei ci aveva premuto una mano sopra per zittirla. Aveva scavalcato il divano – il bel divano di pelle bianca di sua madre, aveva pensato a cosa avrebbe detto Agnes vedendola mentre ci camminava sopra, ma Agnes l'avevano presa i maghi, l'avevano portata via – e ci si era tuffata dietro: c'era giusto lo spazio per nascondersi, tra lo schienale e la parete, abbastanza da pigiarcisi tenendosi stretta la sorellastra addosso.
Il viso di Lydia era rigato di lacrime, una maschera di panico e sorpresa. Gabrielle gliel'aveva accarezzato con la mano con la quale non la stava costringendo al silenzio, cercando di confortarla. Aveva sentito rumore di passi in cucina, una sedia che strisciava sul pavimento. I passi avevano raggiunto la porta del soggiorno.
Erano rimaste impronte di terra sul divano bianco? Si era chiesta con terrore. Oddio. Non c'erano molti nascondigli in soggiorno: dietro le tende, sotto il tavolo, dietro la poltrona, dietro il divano...
Homenum revelio.” aveva detto una voce che non era quella dell'uomo annoiato.
Gabrielle aveva avuto a malapena il tempo di chiedersi se fosse un incantesimo, quello, se fosse magia, quando si era accorta con enorme orrore che il corpo di Lydia era avvolto da uno sciame di deboli scintille blu; le stesse scintille sembravano attraversare Gabrielle come se lei non ci fosse, ma si addensavano attorno alla sorella, brillando, rendendola evidente come un faro per l'uomo nella stanza...
Gabrielle aveva sentito il divano cigolare. Aveva alzato il capo lentamente, il panico che sembrava averle tolto la capacità di respirare, di pensare, di muoversi, e aveva visto il viso dell'uomo dalla pelle scura proprio sopra di loro.
Il terrore le aveva reso molli le dita. Doveva aver allentato la stretta attorno alla bocca di Lydia, perché l'aveva sentita singhiozzare e piagnucolare, agitandosi tra le sue braccia. Lydia. Erano venuti anche per Lydia, Lyddie. Era tutta colpa di Terence, tutta colpa di Terence, tutta colpa di... Gabrielle aveva puntellato il braccio destro dietro di sé, per rialzarsi, e l'uomo sopra di loro aveva abbassato la mano per afferrarle una spalla, per sorreggerla, forse, per tirarla su, per strattonarla, Gabrielle non lo sapeva. Sapeva solo che la sua mano destra aveva trovato la spina della lampada da tavolo posizionata accanto al divano, e che il suo braccio si era mosso di scatto, strappandola dalla presa e tirandola avanti: come una frusta, il cavo elettrico si era inarcato per un attimo in aria, prima di trascinarsi dietro la lampada e spedirla a schiantarsi contro il viso dell'uomo.
Lyddie aveva strillato. Gabrielle l'aveva lasciata cadere dietro al divano – al riparo, al riparo! – ed era saltata dall'altra parte dello schienale, afferrando le spalle dell'uomo dalla pelle scura, che ora barcollava, stordito per il colpo, trascinandolo per terra. Aveva messo il piede in fallo tra i cuscini. Inciampando e crollando più pesantemente di quando non avrebbe voluto, aveva colto solo con la coda dell'occhio un movimento sulla soglia del soggiorno; ma non aveva fatto in tempo a girare la testa prima che qualcuno urlasse:
STUPEFICIUM!”
Una gran luce rossa le aveva riempito gli occhi. Si era sentita volare attraverso la stanza e aveva incontrato a tutta velocità la parete. Dolore. Buio.

Un attimo prima stava galleggiando in un mare di suoni ovattati e confusi. L'attimo dopo qualcuno doveva aver armeggiato con la manopola dell'antenna, perché adesso sentiva, e vedeva, anche se tutto era nebbioso.
Sentiva piangere Lyddie. Aveva cercato di alzare la testa dal pavimento, perché Lyddie stava piangendo, e dov'era lei mentre Lyddie piangeva?
Una sagoma scura aveva riempito il suo campo visivo, e la voce annoiata di uno dei due maghi aveva bofonchiato:
“Ancora sveglia?” L'aveva visto muoversi, chinarsi. Si era trovata con la bacchetta – la bacchetta!, aveva strillato il suo cervello confuso e dolorante, la bacchetta! - dell'uomo piantata in mezzo agli occhi, improvvisamente a fuoco. “Deve averti preso di striscio. Stupeficium!”
Luce rossa, di nuovo. Gabrielle aveva sentito la sua schiena inarcarsi di scatto ed aveva avuto paura che si sarebbe spezzata in due. Il mondo stava girando vorticosamente e c'era una parte di lei che avrebbe voluto soltanto che tutto si spegnesse, che il buio tornasse e l'incoscienza se la prendesse. Le costole le avevano fatto male da morire. Respirare aveva fatto male, pensare aveva fatto male. Aveva la nausea. Per un lungo istante era sembrato che stesse per essere accontentata – ebbe l'impressione di sprofondare quietamente sotto il pelo dell'acqua – ma poi era di nuovo lì; lo stupido omino che giocherellava con l'antenna doveva essere tornato, perché il mondo era ricomparso dall'altra parte delle sue palpebre socchiuse, dove avrebbe ragionevolmente dovuto essere.
Aveva sentito distintamente il mago sussultare, poi imprecare:
“Ma che diavolo...”
Lyddie, aveva detto lei. Lyddie. In realtà ad uscir fuori era stato qualcosa di più simile ad un gutturale:
“L'de...”
Il pianto di Lyddie si era fatto più forte.
“Merda, Shacklebolt, questa non vuole andare giù.”
“Lascia perdere,” aveva detto l'altro uomo. “Basta così.”
“E no, che cazzo.” La bacchetta era stata premuta contro la sua fronte con tanta forza da farle male. Gabrielle aveva cercato di aprire gli occhi del tutto e di mettere a fuoco la stanza: c'era il mago davanti a lei, accovacciato, e poi quello con la pelle scura, che stava estraendo Lyddie dal suo nascondiglio. La bambina si era messa a piangere e a gridare, scalciando per impedirgli di prenderla e chiamando la mamma. Gabrielle aveva tentato di rotolare su un fianco: il dolore l'aveva accecata, per un attimo, e si era sentita soffocare. “Sta' giù. Cazzo. Sta' giù, stronza.” Aveva sibilato l'uomo, la voce piena di furia: “Sta' giù, sta' giù... STUPEFICIUM!”
Il mondo era sembrato riempirsi di sangue: l'aveva sentito nelle orecchie, negli occhi, in gola. Aveva creduto di annegare. Nel sangue, anche il pianto di Lyddie era andato perduto.
Lyddie. Aveva pensato Gabrielle. Lyddie.





Note della storia: Sto scrivendo in questi giorni quello che sarà il decimo capitolo di questa storia. E' veramente stranissimo scrivere qualcosa che si sta già pubblicando... e chi ci riesce serenamente ha tutta la mia ammirazione.
Dal prossimo capitolo la storia entrerà davvero nel vivo dell'azione.

Ne approfitto per pubblicizzare Mi chiamo Morte, una piccola cosina ispirata ad Harry Potter e alle storie di Terry Pratchett che io e l'amabile dierrevi abbiamo messo online sul nostro account di Pseudopolis Yard.

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Capitolo 5
*** Ciò che è rimasto indietro ***





- 4 - Ciò che è rimasto indietro



Si svegliò e c'era un'eco lontana di esplosioni nelle sue orecchie. Le lenzuola sembravano viscide e pesanti – per un attimo ebbe l'orribile impressione che fosse sangue, ma era sudore, soltanto sudore. Rabbrividì e si posò un braccio sul viso, coprendosi gli occhi. Solo sudore.
Allungò una mano a tastoni e trovò la bacchetta sul tavolino da notte.
- Lumos. - bisbigliò. La luce bianca dell'incantesimo rischiarò la stanza, gettando bizzarre ombre troppo lunghe e troppo aguzze contro gli angoli. Le stelle d'oro dipinte sul baldacchino del letto a due piazze scintillarono debolmente. La tintura aveva perso colore e densità, con gli anni, facendosi un poco sbiadita nonostante gli incantesimi lanciati per ripristinarla: ma il blu era sempre un bel blu, scuro e vivo, come il blu del soffitto della Sala Grande ad Hogwarts nelle sere limpide d'inverno.
Susan Bones si alzò in piedi e si guardò allo specchio: e non fu sorpresa dal vedere che gli occhi che ricambiavano il suo sguardo attraverso il vetro erano quelli di una ragazza pallida e scarmigliata. Con i capelli sciolti, il viso pallido e la camicia da notte bianca ebbe l'impressione di guardare uno spettro.
Le imposte della finestra chiusa ondeggiarono e sbatterono l'una contro l'altra, spinte dal vento, i vetri tremanti sotto le sferzate della tempesta che batteva Hogsmeade: non pioveva ancora, ma il cielo era nero e viola, carico d'acqua ferocissima. L'aria satura d'elettricità sembrava sfrigolare. Niente stava esplodendo, ma il cielo tuonava.
La sera ad Hogsmeade, in quel periodo dell'anno, portava un vento freddo, tagliente e sottile che riusciva sempre ad infilarsi in qualche modo attraverso gli spiragli delle finestre malgrado tutti gli Incanti Otturanti lanciati sui vetri. Susan cercò a tastoni la vestaglia e se la drappeggiò sulle spalle: la stoffa pesante le diede una misura incalcolabile di conforto che le permise di trovare le energie di risollevare la bacchetta ed accendere un paio di candele. La luce nella camera da letto perse il candore tagliente del Lumos e si fece più calda, ambrata. Le ombre lunghe e spaventose ondeggiarono e scomparvero.
Susan si strofinò le braccia per scaldarsele. Resistette alla tentazione di cacciarsi l'indice in bocca e di mordicchiarsi l'unghia – perché era una brutta abitudine, quella, e una molto poco dignitosa, anche. Avrebbe dovuto essere adulta. Gli adulti non si mangiano le unghie. Gli adulti non hanno paura del buio.
Il sonno si era perso da qualche parte nel mezzo dell'incubo. Ogni tuono la faceva saltare e scattare, la testa che ruotava da una parte all'altra per controllare che nella stanza fosse tutto a posto. Impossibile dormire, in quelle condizioni.
- Una bella tazza di latte caldo. - si disse. Lo disse ad alta voce. La sua voce era come la vestaglia, un conforto nel buio, e perciò lo ripeté ancora senz'altra ragione che quella di sentir qualcuno parlare: - Una bella tazza piena di latte caldo.
Per avere quella tazza di latte caldo bisognava arrivare alla cucina, e per arrivare alla cucina bisognava passare attraverso i corridoi bui di tutta la casa. Ponderò per un istante sulla possibilità di usare un Incantesimo di Appello... ma e il latte caldo? E i suoi Incantesimi di Appello non erano mai stati un fiore di precisione...
Si affacciò dalla porta della stanza e combatté ferocemente contro l'istinto che le diceva di guardarsi attorno, su e giù lungo il corridoio, di guardare dietro all'appendiabiti per controllare che non ci fosse niente. Si fermò davanti alla porta socchiusa di Albert e sbirciò all'interno, scostando il battente quel tanto necessario a far cadere la luce sulla della sua bacchetta sul letto: il bambino dormiva saporitamente, beatamente ignaro della tempesta in corso, e il suo respiro quieto e regolare sollevava ritmicamente le coperte. La febbre doveva essersi abbassata. Aveva ancora la fronte sudata, ma il viso aveva un aspetto più sano e sereno, meno malaticcio. Susan rimase ad osservarlo per un lungo istante – guardarlo sembrava farle bene, le quietava lo stomaco e il cuore – prima di riaccostare la porta e dirigersi alle scale.
Al piano di sotto era tutto molto silenzioso. Ogni tuono sembrava far vibrare le pareti, scuotendo il pavimento come un terremoto in miniatura; aveva preso a piovere, ad un certo punto, e le gocce ticchettavano gentilmente contro le imposte.
Susan puntò la bacchetta contro il camino:
- Incendio.
Il fuoco crepitò sibilando tra i ciocchi asciutti, attecchì all'esca lasciata a riposare nel camino e si alzò scoppiettando allegramente, rischiarando il soggiorno in una vampa di calore improvviso. Dalla porta socchiusa dello studiolo provenne uno scricchiolio che fece sussultare Susan: ma il tuono che scoppiò all'improvviso subito dopo la spinse a ridacchiare tra sé e sé, nervosamente, e a strofinarsi di nuovo le braccia. Il temporale le faceva sentire rumori ovunque.
Era il silenzio, pensò mentre riscaldava il latte con un tocco di bacchetta e aggiungeva miele e cannella. C'era troppo silenzio in quella casa troppo vuota, troppe poche persone a riempirla. Avrebbero dovuto cercarsi una casa a Diagon Alley, pensò Susan. Una casa con le stanze giuste per lei e per Albert, con una grande cucina e un grande soggiorno e grandi finestre che facessero entrare sempre molta luce. Una casa al secondo piano di un edificio abitato da molte famiglie. Avrebbe potuto cercare qualcosa vicino al Paiolo Magico: sarebbe stato bello vivere lì e vedere gli studenti di Hogwarts affollare le strade d'estate. Sarebbe stata più vicina al Ministero, anche...

C'era un'incalcolabile parte di Susan che era rimasta in qualche modo incastrata a tre anni prima. Il passare dei giorni, lunghi giorni tutti ugualmente senza guerra, aveva reso oleosi gli incastri della sua memoria: si era lasciata alle spalle, così, il ricordo frammentario e dolorante della fame nella Stanza della Necessità, quello delle botte e quello delle Cruciatus dei Carrow, si era lasciata alle spalle il ricordo della battaglia, di Fenrir Greyback che incombeva su di lei, premendo, pesando, l'odore del sangue nel fiato di lui – ed era stato il sangue di lei – e la sensazione che sarebbe morta, sarebbe morta, nessuno avrebbe mai saputo quante cose aveva desiderato fare, vedere, sentire, provare. Non era stata in grado di lasciarsi alle spalle il ricordo dei corpi: quelli schierati nella Sala Grande in file lunghe, l'uno accanto all'altro, corpi grandi e corpi piccoli – e certuni erano stati corpi di dodicenne, piccolissimi – resi tutti uguali dalla morte, freddi e bianchi e perduti, dall'altra parte del cielo e del Velo. Non era stata in grado di lasciarsi alle spalle il ricordo dei mesi dell'orrore di Hogwarts: non aveva più messo piede a scuola, poi, perché tutto era stato un po' troppo, troppo terrificante, troppo nauseante. La memoria che era gocciolata via da quelli che erano sopravvissuti era sembrata incollarsi alle pareti della scuola e sedimentare lì. Grattarla via era diventato impossibile.
Susan Bones era stata una ragazzina felice. Non era stata Harry Potter, famoso per la sua cicatrice e ogni anno di più per gli atti di eroismo che portava avanti alla faccia di tutto e di tutti, salvando la scuola una volta dopo l'altra, affrontando Colui-Che-Non-Doveva-Essere-Nominato una volta dopo l'altra, tutte le volte vittorioso e glorioso. Non era stata Hermione Granger, brillante, oh, così brillante, così amata da tutti i professori – tranne da Piton, che però non contava. Non era stata neanche Ginny... ma pensare a Ginny era ancora tabù. Anche Ginny si era incastrata, come uno straccio sbrindellato, tra gli ingranaggi della sua memoria: e non importava quanto forte Susan avesse tirato per cercare di strapparlo via, non importava quanto avesse cercato di scordare tutto, Ginny non se n'era andata via come tutti gli altri, Ginny era rimasta.
In un certo senso, era come se fosse stata quella la goccia sul bordo del vaso troppo pieno. Non Diggory, non Silente o la zia Amelia. Ginny.
Susan sentiva ancora gli altri dell'Esercito di Silente. Si scrivevano spesso, tutti quelli che erano rimasti, Neville alla scuola e le gemelle Patil – Padma si sarebbe sposata presto e Susan era tra gli invitati al matrimonio – e Corner e Goldstein e gli altri. Ernie. Hannah, sicuro, che lavorava ai Tre Manici di Scopa e sembrava contenta così. Susan sentiva spesso anche Seamus, ovviamente, perché era a capo del suo stesso dipartimento, ma non Hermione o i Weasley o... o Harry. Però lo incontrava al Ministero, ogni tanto, Harry. O lo trovava sui giornali. Era difficile non vederlo.
C'erano delle volte in cui Susan aveva la tentazione di lasciar scivolare nelle lettere che scriveva agli altri qualcosa riguardo a Ginny. Ai sogni. A tutto il resto. Pensava che loro forse avrebbe potuto aiutarla a elaborare il lutto. Parlarne con un estraneo, no, era impensabile: un estraneo non avrebbe capito. Nessuno che non fosse stato lì con loro avrebbe capito.
Una volta Susan ci aveva provato. Aveva scritto ad Hannah e le aveva chiesto... le aveva chiesto se ricordava che giorno fosse stato. Era stata la fine di marzo? I primi di aprile? Era stato...
A quella lettera Hannah non aveva mai risposto. Susan... Susan non aveva mai chiesto. Non voleva sapere. Se Hannah – Hannah che era così vicina, Hannah che viveva, che lavorava, a pochi passi da casa sua – aveva deciso di lasciarla sola, di non aiutarla, perché aveva troppa paura, Susan non voleva saperlo. Preferiva credere che il gufo avesse smarrito la lettera.
Quello della morte di Ginny era diventato il Giorno-Del-Quale-Non-Si-Parlava.
Susan Bones era stata una ragazzina felice, prima del Giorno-Del-Quale-Non-Si-Parlava. C'erano state un sacco di cose che aveva desiderato fare, vedere, sentire, provare, ma dopo, dopo la fine della guerra, ebbene, nessuna di quelle cose aveva ripreso ad avere importanza ai suoi occhi. Non veramente.
C'era un'incalcolabile parte di lei che non era mai stata oleata dal passare dei giorni: e che si era arrugginita, inceppandosi, come un meccanismo sbagliato.

***



- Perché no? - le aveva chiesto Seamus.
Lei non aveva saputo precisamente cosa rispondergli. Perché no, dopotutto? Non aveva veramente un lavoro. Aveva pensato per un po', da bambina, che avrebbe potuto diventare infermiera al San Mungo; ma trascorrere sette anni a contatto con Madama Chips – bravissima donna, sicuro, e competente, anche, ma che sarebbe stata un po' troppo da tollerare per chiunque – le aveva fatto perdere ogni voglia. Aveva ipotizzato una carriera da giornalista – e poi era venuta in contatto con la Skeeter e con quello che la Skeeter scriveva e si era detta: così mai.
Aveva più denaro di quanto avrebbe mai potuto ragionevolmente spenderne in una vita intera: certo non quanto ne avevano avuto i Malfoy – e sicuramente non quanto ne aveva Harry Potter adesso, tra l'eredità di suo padre e quella arrivatagli da due dei tre rami della famiglia Black che prima della fine della guerra erano stati ancora in possesso di qualcosa – ma comunque molto. Abbastanza per mandare a scuola Albert come sua madre avrebbe voluto, e pagargli un buon Apprendistato, nel caso in cui ne avesse voluto uno. Abbastanza da poter dividere in due l'eredità e vivere felici per tutti gli anni che avevano davanti: Susan non progettava di avere figli ai quali lasciare qualcosa, perciò risparmiare e investire non erano azioni che avessero veramente importanza, ai suoi occhi.
Aveva una grande casa. Aveva un fratello da accudire – ma Albert sarebbe andato ad Hogwarts, presto. Questione di pochi anni. Lui sarebbe andato ad Hogwarts e lei sarebbe rimasta sola. In casa. Da sola.
- Non ho alcuna competenza. - aveva risposto a Seamus, debolmente. - E' un incarico di responsabilità.
Seamus aveva agitato una mano come a voler scacciare tutte le sue preoccupazioni. Aveva messo su un po' di peso, dalla fine della guerra, e si era fatto più alto e robusto, con un aria da persona sicura di sé. Era diventato un bel ragazzo. Nelle foto pubbliche, quando veniva ritratto accanto ad Harry, quest'ultimo appariva sempre scarno e minuto come un ragazzino ancora in età da Hogwarts.
- Io non ero competente quando ho iniziato. - le aveva detto lui, con fermezza. - Non importa. Il Ministero è deserto, Susan. Quando abbiamo finito di liberarci dei Mangiamorte e dei loro collaboratori, ci siamo trovati con interi dipartimenti svuotati da capo a piedi. La competenza la puoi costruire, ma la fiducia no. - Doveva aver letto chiaramente l'espressione combattuta della ragazza, perché aveva insistito: - Harry preferirebbe ci fosse qualcuno come te a guidare il dipartimento. Le Leggi sull'Integrazione saranno un gran passo. Se il Wizengamot darà l'approvazione definitiva... ma le approveranno, Susan! … avremo bisogno di qualcuno che gestisca tutto quel che verrà dopo. Qualcuno fidato. Qualcuno che capisca cosa significa.
- Non ho esperienza. - aveva detto ancora Susan, incerta. - Non ho mai gestito niente. Merlino, non ho mai nemmeno dato ordini a nessuno!
Seamus le aveva rivolto un sorriso enorme, scoprendo denti bianchissimi dietro la pelle abbronzata e leggermente lentigginosa del viso:
- E' a questo che servo io.
Susan aveva pensato ad Albert. Aveva pensato alla casa vuota. Aveva pensato alle Leggi per l'Integrazione: tutti sapevano che cos'erano le Leggi per l'Integrazione, perché Harry Potter in persona le aveva proposte, ed Harry Potter aveva ucciso Voldemort, fermato la guerra, fermato i massacri, e quelle leggi avrebbero cambiato il Mondo Magico se fossero state approvate. Avrebbero potuto cambiare la storia. Le Leggi per l'Integrazione avrebbero potuto fare quello che Albus Silente non era riuscito a fare, quello che... quello che i Fondatori non erano riusciti a fare, perché non solo l'Inghilterra, poi, ma il mondo, tutto il mondo, Babbani e Maghi, tutti sarebbero stati a conoscenza dell'universo oltre il muro di Diagon Alley.
Il progetto di Legge non era piaciuto al resto dell'Europa. La Francia aveva minacciato di chiudere i confini ai Maghi inglesi. L'Austria, con la sua piccola comunità di maghi arroccata tra le montagne, aveva dichiarato che non avrebbe preso parte a quella pagliacciata – ma loro non c'erano stati, aveva pensato Susan, loro non sapevano cosa accadeva quando i Babbani venivano tenuti lontani dal Mondo Magico. Loro non avevano avuto Voldemort, con i Purosangue a formare il terreno di coltura fertile e alla giusta temperatura per farvi crescere sopra l'odio e il disprezzo che avevano portato alla guerra.
Aveva pensato a tutto questo, e a molto altro ancora. E poi aveva detto:
- Sì.

***



Il latte caldo aveva fatto miracoli per i nervi di Susan. Sussultava ancora ogni volta che un lampo riempiva la cucina di luce bianchissima, e si tendeva in attesa del tuono che sarebbe seguito: ma il ricordo del sogno e del terrore sembrava più lontano, ora, meno opprimente.
Susan riempì un'altra tazza e raschiò il fondo del barattolo di biscotti per potersene portare in camera un piatto pieno. Se doveva passare una notte insonne, rifletté, meglio guardarla trascorrere mangiando cioccolata.
Il soggiorno pareva freddo malgrado il camino acceso, spigoloso, alieno e ostile malgrado la familiarità di tutto ciò che conteneva. Sua madre le fece l'occhiolino dal ritratto sopra alla credenza e suo padre agitò una mano per salutarla. Susan sorrise ad entrambi, ma con il cuore gonfio. Il dolore non se n'era mai andato via veramente: era sempre lì, e c'erano giorni in cui minacciava di soffocarla; ma poi c'erano sempre tante cose da fare che portavano via tempo ed energia, così che alla fine non ne restavano abbastanza per morire di nostalgia.
Susan stava per imboccare le scale quando lo vide.
Non lo vide davvero, in realtà. Non precisamente. I suoi occhi non avevano registrato niente di preciso, niente che avesse una forma, un contorno, un corpo, solo qualcosa che si era mosso al di là della porta socchiusa dello studiolo. Nella fessura. L'aveva visto passare.
Si ritrovò con il cuore in gola e le mani che tremavano tanto forte che la tazza sussultava sul vassoio, oscillando. Non riusciva a smettere, perché aveva visto qualcosa dietro di lei. Aveva visto qualcosa. Qualcuno. Nello studiolo.
Avrebbe voluto chiudere gli occhi per un attimo, solo per un attimo, ma il solo pensiero bastava a farle tremare le ginocchia. Le ci volle tutta la forza di volontà che possedeva per non scappare. Era il temporale, si disse, era la casa vuota. Era il sogno che tornava, ora che non era più in cucina. Si girò con il vassoio tra le mani – le dita della mano destra si stringevano, sotto al piano di legno, attorno alla bacchetta – e puntò verso la porta dello studiolo. Erano le tende aperte, pensò. Erano volati dei fogli dalla scrivania...
Erano volati dei fogli dalla scrivania: le finirono addosso quando socchiuse cautamente la porta, spingendola con il vassoio, e le strapparono un gridolino. La finestra dello studiolo era stata lasciata aperta: le tende ondeggiavano furiosamente ad ogni folata di vento e la pioggia scrosciava obliqua all'interno della stanza. Susan gemette al pensiero di cosa avrebbe detto suo padre alla vista dell'antico e prezioso Axminster rosso rovinato a quel modo dall'acqua. Usò il piede per scansare la porta ed avanzò nella stanza.
E poi non ebbe il tempo di reagire prima che la persona che aveva visto muoversi dietro la porta – perché era una persona, non un foglio o una tenda – le piantasse l'estremità gelata di qualcosa che teneva in mano contro la guancia sinistra.
- Ferma.
Susan rimase ferma. Proprio come le era stato detto, perfettamente ferma. Da quella distanza l'Avada Kedavra non le avrebbe lasciato neanche il tempo di voltarsi. Una Reducto le avrebbe fatto schizzare la testa dal corpo. Il Sectumsempra gliel'avrebbe mozzata via di netto.
- La bacchetta. - disse la persona alla sua sinistra. - Lasciala cadere per terra.
Susan avrebbe preferito strapparsi un occhio e lasciar cadere per terra quello. Il vassoio che reggeva tremò convulsamente, e la cosa premuta contro la sua guancia sinistra le si schiacciò con maggiore ferocia contro la carne.
- Lasciala cadere. - sibilò ancora la sconosciuta – perché era una sconosciuta, con una voce di donna, giovane e rauca. - Subito.
Susan aprì la mano. Il vassoio le sfuggì e si schiantò sul pavimento, portandosi dietro la bacchetta: lei la guardò rimbalzare per terra e rotolare via, e dalle labbra schiuse le scappò un singulto.
- Girati.
La cosa schiacciata contro la sua mascella le strisciò su per la guancia mentre Susan si girava: venne ritratta leggermente e poté vederla, finalmente, la canna liscia di metallo che scintillava debolmente nel buio, troppo corta e troppo gonfia per poter essere una bacchetta...
Era qualcosa di familiare, e le fece gelare il sangue nelle vene. Ne aveva viste tante, di cose così, da quando aveva cominciato a lavorare per il Ministero. Dopo i Sette Giorni di Londra – dopo gli scontri tra Babbani e Maghi che avevano lasciato tutti quei morti per le strade, dopo gli arresti e il caos che erano seguiti all'annuncio delle Leggi per l'Integrazione – il Ministero era stato invaso da quelle cose: con un buco in cima alla canna che sputava piccole, crudeli palle di ferro che avevano bisogno di incantesimi più potenti del Protego per essere fermate, facili da riempire, facili da usare, tanto che certi giorni sembrava che tutti i Babbani potessero averne una. Susan aveva visto i corpi rigati di sangue dei feriti al San Mungo. Non era niente come quel che poteva fare la magia, ma era sangue da una cosa che non era stata una bacchetta a causare, niente incantesimi, pozioni, oggetti maledetti, niente che fosse normale.
Quella che aveva contro la faccia sembrava orribilmente grossa, vista da così vicino. Il buco all'estremità della canna pareva tanto vasto da inghiottire il mondo intero.
- Bones. - disse la ragazza che teneva la pistola. Era più alta di lei, ossuta, con le spalle curve. Nel buio non riuscì a vederne il viso, ma solo il naso, che la luce che filtrava dalle finestre faceva sembrare adunco come un becco. Aveva i capelli cortissimi: se non fosse stato per la voce, Susan avrebbe creduto fosse un uomo. - Dove tieni i fascicoli?
A Susan occorse un attimo per capire di che cosa stesse parlando, e fu un attimo di troppo: la pistola venne spinta in avanti e le premette contro il viso, facendola ondeggiare all'indietro nel tentativo di sfuggire all'arma.
- I f-fascicoli...? - balbettò. - Sei qui per i fascicoli...?
- Voglio che tu me li dia. Adesso. Dove li tieni?
Susan inghiottì a vuoto. Ora che il terrore cieco dei primi istanti si era quietato le sembrava che il panico stesse perdendo presa su di lei: sapeva che era l'adrenalina, quella, che contrastava la paura, che le faceva il sangue caldo, il battito irrequieto.
- Sono in ufficio. - annaspò, rabbrividendo per la propria stessa audacia. - Li ho lasciati in ufficio.
La sconosciuta rimase in silenzio per un lungo istante. Susan pensò per un attimo che le avesse creduto: ma poi sentì un clic sordo provenire dalla pistola contro la sua faccia, e l'adrenalina, il coraggio, le menzogne, tutto parve evaporare in un attimo.
- Stai mentendo.
- Ti prego. - Susan si sentì bisbigliare e stentò a riconoscere la propria voce. - Vattene via.
- Dammi i fascicoli e me ne vado.
- S-sono nel cassetto della scrivania.
Un attimo di silenzio, di nuovo.
- Non sono riuscita ad aprirlo. Aprilo tu.
La sconosciuta le tenne puntata l'arma addosso mentre Susan arretrava lentamente e faceva il giro della scrivania. Gettò un'occhiata brevissima alla bacchetta per terra – ma era lontana. Troppo lontana.
- Devo rimuovere gli incantesimi di guardia sul cassetto. - tentò. - Mi serve la bacchetta...
- No.
- Non posso aprire il cassetto se non...
- Vuoi che conti fino a tre? - la interruppe la ragazza, a denti stretti. - Conto fino a tre?
Susan scosse la testa freneticamente. La bacchetta era troppo lontana. La ragazza era troppo vicina. Troppo vicina per uno Stupeficium – non c'erano altri incantesimi utili che Susan sapesse fare senza bacchetta – troppo vicina per impedire che la pistola si lasciasse scappare un colpo che avrebbe potuto ucciderla lo stesso. Si chinò ed afferrò la maniglia del cassetto per aprirlo: ma poi, con la coda dell'occhio, vide Albert in piedi nello spiraglio della porta.
Le ginocchia le tremarono così forte che credette sarebbe caduta a terra.
Va' via, lo implorò in silenzio, vai via. Avrebbe fatto meglio a lasciarlo ad Hogwarts, meglio a lasciarlo con Madama Chips per la notte, cos'era uno sfogo di allergia da Bubotubero in confronto alla possibilità di prendersi una palla di ferro in testa? Vai via, vai via, vai via...
- Susan? - la chiamò il ragazzino, stupito.
La sconosciuta sussultò: Susan vide la pistola fare su e giù nelle sue mani e per un attimo pensò con orrore che le sarebbe sfuggito un colpo. La testa della ragazza ruotò impercettibile verso la porta. Anche nel buio, Susan vide i suoi occhi sgranarsi alla vista del bambino.
- Che sta succedendo? - insisté Albert, spostando lo sguardo dall'una all'altra donna. Con una mano si reggeva alla porta, il viso lucido di febbre, confuso, con l'altra stringeva la sua bacchetta nuova. Aveva guadagnato qualche centimetro da quando era entrato ad Hogwarts, e polsi e caviglie facevano ora capolino dagli orli del pigiama troppo corto. La fronte del ragazzino si corrugò alla vista dell'arma tra le mani della sconosciuta; Susan non era sicuro che riuscisse a riconoscerla per quello che era, ma il suo tono si fece più aggressivo e arrabbiato, come per istinto: - Chi è lei? Chi sei tu? Cosa state facendo?
- Vai via, Albert. - bisbigliò Susan. - Vai via...
La sconosciuta mosse la pistola di lato come per puntarla contro Albert, ma le mani le tremarono a metà del gesto: la abbassò immediatamente e la fece oscillare tra Susan e suo fratello, come non sapesse bene cosa fare.
- Fai come ti ha detto. - ordinò alla fine, raucamente. - Vattene via.
- Vattene via tu! - sbottò Albert. Sembrava ignaro del pericolo costituito dalla pistola, perché avanzò nella stanza. Susan gemette e la sconosciuta si girò di un'altra impercettibile frazione verso di lui. - Che cosa stai facendo a mia sorella?
- Albert... - mugolò Susan. Non ebbe modo di dirgli di nuovo di andarsene, perché proprio in quel momento dalla punta della bacchetta di suo fratello emersero una manciata di scintille rosse. La sconosciuta rialzò la pistola di scatto, ma, di nuovo, non sembrò in grado di dirigerla contro Albert: la punta dell'arma oscillò verso la parete, stretta tra mani incerte ed Albert le puntò la bacchetta addosso con un gesto feroce.
- Incendio!
Uno schizzo di fiamme rosse serpeggiò sul pavimento, si inarcò attraverso i fogli caduti che incontrò sulla sua strada, incendiandoli, e si arrampicò sui calzoni della ragazza. Alla luce rossa del fuoco il viso della sconosciuta apparve magro e incavato, con occhi dilatati e una bocca spalancata nel panico. Indietreggiò barcollando, alzando la pistola verso il soffitto senza sparare un colpo. Susan si buttò in avanti, gettandosi sul pavimento per afferrare la bacchetta caduta; rotolò su un fianco, cercando di rannicchiarsi per farsi più piccola che poteva, prima di puntare la bacchetta contro la sconosciuta.
- STUPEFICIUM!
Il getto rosso dovette passare a pochi centimetri dalla testa della ragazza, perché questa non sembrò esserne stata colpita: si appoggiò alla finestra spalancata e, mentre una folata di vento le spingeva addosso la pioggia battente, sollevando fili di fumo dai pantaloni in fiamme, la scavalcò di getto e si buttò fuori.
Albert e Susan arrivarono correndo davanti alla finestra giusto in tempo per vedere una sagoma scura scavalcare la recinzione – come beatamente inconsapevole degli incantesimi di guardia che avrebbero dovuto fermarla, pensò Susan freneticamente, non sarebbe dovuta entrare! – e allontanarsi a tutta velocità lungo la strada. Susan si aggrappò ad una spalla di Albert, sentendolo tremare sotto le sue dita, per il freddo o la febbre o la paura a scoppio ritardato, questo non riuscì a capirlo, e sollevò la bacchetta verso il cielo.
Un getto potente di scintille dorate schizzò nella notte piovosa, rischiarandola a giorno per un attimo.
Da qualche parte nelle strade di Hogsmeade esplose in risposta una sirena.





Note della storia: Venti punti a chi aveva capito che si trattava di Susan Bones fin dal principio. x°D

Giacché è diventata un po' una specie di abitudine e, essendo io un animale abitudinario, trovo difficile rinunciarvi, ne approfitto per pubblicizzare un po' Undici giorni verso Hogwarts, che si è classificata - con mio infinito gaudio - prima all'[Auror Contest] Rabbits on the run indetto da patronustrip.

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Capitolo 6
*** Mancante ***





- 5 - Mancante



Gabrielle corse con le gambe che le facevano male e i polmoni che sembravano dilatarsi ed implodere bruciando ad ogni boccone d'ossigeno. Il sangue che le pulsava nelle orecchie era più assordante dei tuoni, tanto forte da coprire lo scrosciare della pioggia e la sirena dell'allarme. L'aria fredda le ustionava la gola e le ghiacciava la lingua, avrebbe voluto fermarsi a riprendere fiato ma non poteva. Li sentiva arrivare.
Scivolò su una pozzanghera e finì con il ginocchio per terra: fu più svelta a rialzarsi che a cadere, però, e barcollò zoppicando fino ad una recinzione. La scavalcò, finendo per crollare in un cespuglio ai margini di un giardino malamente curato. Si rannicchiò tra i rami bassi e il fango, lì, tirandosi le ginocchia al petto per farsi più piccola che poteva. Dall'altra parte della recinzione, in strada, passarono correndo un gruppo di persone: Gabrielle vide i Lumos scintillare sulla punta delle loro bacchette e trattenne il fiato. Sentì i loro passi alzare un rumore d'acqua smossa nelle pozzanghere, il battito irregolare della pioggia sulle loro vesti. Quando furono lontani, si cacciò una mano in tasca – sussultando quando le dita urtarono contro la pistola, ricacciata al sicuro nella fondina – e frugò fino a trovarne una larga moneta d'oro: senza tirarla fuori, la strofinò con forza tra pollice ed indice, proprio come le aveva detto di fare il professore.
C'era una voce, nella sua testa, che strillava in preda al panico. Un'altra voce che la stava insultando, con metodica ferocia, per l'orribile idiozia che aveva dimostrato. Una terza voce che cantilenava solo un bambino, solo un bambino, solo un bambino. Era stato un bambino. Solo un bambino. Cosa ci si aspettava che facesse in questi casi, pensò con una sensazione prossima al terrore, che gli sparasse? Ad un bambino? Dio, aveva avuto paura che le scappasse un colpo, che il proiettile sbattesse da qualche parte e che lo colpisse di rimbalzo! Non aveva avuto neanche il coraggio di sparare alla sorella che le puntava la bacchetta contro, Dio, Dio, Dio, non lì davanti a lui!
Lasciò andare la moneta e tirò su la testa con cautela. Sembrava non ci fosse nessuno in strada. Gattonò cautamente lungo la recinzione, tenendo la testa bassa, e si affacciò dall'altro lato della casa. La porta sul retro dava su un vicolo: Gabrielle si inerpicò sul basso cancellò e lo scavalcò, saltando nuovamente in strada.
La testa le pulsava dolorosamente. La luce rossa che la strega nella casa le aveva lanciato contro le aveva lasciato un'emicrania feroce e un gran desiderio di stendersi e chiudere gli occhi per un po', solo per un po', per lasciarli riposare. Doveva camminare piano per non far rumore e per non scivolare sul selciato umido e i pochi metri che la separavano dall'angolo le sembrarono un infinità. Sgattaiolò giù per il vicolo e, una volta arrivata in fondo, tirò fuori la bussola dalla tasca per orientarsi. La barriera di Hogsmeade scintillava sopra al suo capo come una nebbiolina luminosa e stranamente regolare. Le gocce di pioggia che l'attraversavano sollevavano a tratti manciate di scintille pallide.
La sirena miagolava ancora per le strade: a Gabrielle sembrava che provenisse insieme da tutti i punti e da nessun punto, calando implacabile dall'alto e lasciandole in bocca il sapore acido del panico in aumento. Molte delle imposte alle finestre delle case erano aperte, adesso: le luci erano accese, e c'erano maghi che si affacciavano, maghi che guardavano verso il basso, maghi che sollevavano bacchette e le puntavano contro la strada – cercavano lei, pensò Gabrielle, mentre il terrore minacciava di toglierle nuovamente il fiato. Stavano cercando tutti lei.
Il professore le aveva chiesto se sapeva cosa sarebbe successo, se l'avessero presa. Gabrielle lo sapeva. Gabrielle ne aveva un'idea piuttosto precisa. Era tutto quello di cui aveva paura.
Si schiacciò contro l'angolo e si guardò intorno. Doveva pensare. Se non pensava, era presa. C'era un lato della strada in penombra. Se fosse stata cauta... ma poi sentì di nuovo rumore di passi frettolosi lungo la strada che tagliava quella nella quale si trovava ora, rumorosi nell'acqua bassa delle pozze, e ogni abbozzo di piano fu abortito sul momento. Scattò a correre, rientrando nel vicolo, e girò a destra non appena poté. Se si fosse tenuta sulla destra, avrebbe puntato a nord: era dove la barriera era più vicina, a nord, era dove sarebbe potuta passare.
STUPEFICIUM!”
Le gambe di Gabrielle pensarono più in fretta del suo cervello. Si ritrovò per terra, le ginocchia doloranti per l'impatto, prima ancora di aver capito cosa stesse succedendo. La vampa rossa schizzò da un punto imprecisato alle sue spalle e accese per un attimo la notte sopra di lei.
"Da questa parte!" strillò una voce di donna alle sue spalle. "L'ho trovata! Incarceramus!" Gabrielle si buttò su un fianco e rotolò a terra, mentre sottili corde nere guizzavano attorno a lei come i tralci di una qualche orribile pianta carnivora uscita da un film dell'orrore, cercando di afferrarla, mirando alle mani e alle gambe. Strisciò sul sedere, arretrando, e fece forza sulle braccia per rimettersi in piedi. C'era una strega che puntava verso di lei a tutta velocità, ed altre ombre indistinte più indietro, perse nella pioggia e nella nebbia. La strega rialzò la bacchetta e tutto ad un tratto, nel mezzo del terrore e del caos e delle voci che le urlavano nella testa ordini contrastanti, il cervello di Gabrielle sembrò svuotarsi per un meraviglioso attimo. Cacciò una mano nella tasca rigonfia e trovò al tatto un'ampolla liscia. La stappò con dita rigide e tremanti e ne lanciò il contenuto nella direzione della strega. Un po' le finì sulle mani, e il liquido bruciò come acido, dandole l'impressione che si stesse mangiando la pelle e penetrando lentamente nella carne. Gabrielle mugolò per il dolore e pensò per un istante che avrebbe urlato, ma poi tutto il contenuto dell'ampolla che era finito sul selciato prese fuoco: una colossale vampata di fiamme bianchissime si alzò nel mezzo della via, tagliando la strada ai suoi inseguitori.
Gabrielle lasciò cadere l'ampolla per terra ed arretrò, serrandosi la mano ferita al petto. Si chiese, nauseata, se l'acido avrebbe continuato a mangiarsi la carne fino all'osso. Se avrebbe proseguito. Se le sarebbe rimasto qualcosa della mano, o solo un moncherino. Non osava guardare.
Corse barcollando, stordita dal dolore. Sentì alle sue spalle il suono della Materializzazione – tutti tonf sordi che si susseguivano, uno dopo l'altro – e le sue gambe si mossero più in fretta. Di nuovo si cacciò una mano in tasca: afferrò quelle che sembravano una manciata di biglie di metallo e, dopo averle agitate con forza per un attimo, le lasciò cadere per terra. Non si voltò a guardare cosa succedeva, ma sentì gli scoppi e gli strilli e vide il riflesso delle brevi fiammate sulle pozzanghere.
La barriera sembrava lontanissima, irraggiungibile, i passi dietro di lei sempre più veloci. Sentì qualcosa schizzare nell'aria e passarle tanto vicino alla testa da sbilanciarla: si appoggiò alla grata alla sua destra per non perdere l'equilibrio e vide il mago in sella ad una scopa che l'aveva appena superata girarsi e ritornare verso di lei a tutta velocità. Le sue mani trovarono un vuoto nella recinzione che aveva usato per sostenersi e lei ci si lasciò cadere dentro.
Si domandò per un attimo, confusamente, come avessero fatto le cose a peggiorare tanto in fretta. Era sembrato andare tutto così liscio... Corse, attraversando un giardino privo d'alberi e di ripari e sentendosi orribilmente esposta, finché non andò a sbattere con l'altro lato della recinzione: i suoi piedi scoprirono freneticamente appigli che i suoi occhi non vedevano e si arrampicò su per la grata più in fretta che poteva. Era arrivata in cima quando sentì il tonf vicino della Materializzazione e più voci che gridavano insieme:
Diffindo!”
Reducto!”
REDUCTO!”
Qualcosa la colpì ad una spalla come un colpo di frusta; non le tagliò la pelle, ma sentì i vestiti strapparsi sul dorso, l'aria gelida e la pioggia che penetrarono immediatamente all'interno come attraverso una crepa su un muro. Non ebbe il tempo di preoccuparsene, ad ogni modo, perché la recinzione sotto di lei esplose tutto ad un tratto, sbalzandola via. Il dolore scoppiò da qualche parte all'interno della gamba destra, lacerante, prima ancora che atterrasse sul selciato, rimbalzasse un paio di volte e, dopo aver strisciato nell'acqua per diversi metri, spinta dalla forza dell'esplosione, si fermasse.
Per un attimo non riuscì a respirare. Forse aveva perso conoscenza per un istante o due, perché riaprendo gli occhi le sembrò di passare senza soluzione di continuità da una condizione di beata, paralizzata inconsapevolezza ad una di orribile, pervasivo, assoluto dolore. Accovacciata su un fianco, ebbe la malaugurata idea di abbassare lo sguardo. Subito dopo dovette chiudere gli occhi e gettare indietro il capo per combattere la nausea, perché c'era quella che sembrava un'asta di ferro, nella sua coscia, che l'aveva passata da parte a parte.
Finita, pensò confusamente, finita, finita, presa. Tutte le voci nella sua testa urlavano terrorizzate, adesso.
Riaprendo gli occhi, vide la barriera.
Era così vicina che guardarla, osservarne lo scintillio irrequieto e irregolare, pulsante, quasi le faceva girare la testa. Era lì. Era a meno di due metri di distanza, ma avrebbero potuto anche essere mille, centomila, perché di certo lei non poteva alzarsi in piedi e raggiungerla. Con un senso crescente di nausea e di disperazione, sentì le voci e i passi dei suoi inseguitori avvicinarsi: puntò i gomiti a terra, stringendo i denti, e strisciò in avanti.
Si aggrappò al pensiero che mancassero solo pochi metri. Solo pochi passi. Che fosse quasi arrivata al bordo. Agitò i fianchi, contorcendosi per cercare di guizzare via da una pozzanghera appiccicosa, e qualcosa si strinse attorno alla sua caviglia e la strattonò indietro.
Con un grido rauco di frustrazione, Gabrielle rotolò su un fianco per potersi guardare alle spalle: vide i maghi puntare verso di lei, e il più vicino dirigerle contro una bacchetta dalla quale era emersa un'altra fune nera. Gabrielle afferrò la pistola, la estrasse con uno strattone dalla fondina e, senza neanche essere certa di aver tolto la sicura, la puntò contro il mucchio e fece fuoco.
Non riuscì a colpire nessuno, ma i maghi arretrarono, e quello che impugnava la bacchetta con la fune si tirò indietro, lasciandola andare. Gabrielle rotolò e rotolò, di nuovo, e sentì la punta di ferro che aveva nella gamba muoversi. Il sapore del vomito le riempì la bocca, le orecchie che ronzavano follemente. Giacque sul dorso, la pistola puntata da qualche parte sopra di sé, senza sapere a chi o a che cosa stava mirando. Sotto alla schiena non aveva più il selciato, ma erba, fango.
Qualcuno le mise una mano sulla spalla. Gabrielle strillò e cercò di alzare la pistola, ma poi vide gli occhi neri e il naso adunco di un viso familiare, i capelli unti appesantiti dalla pioggia che gli spiovevano attorno alla faccia come fossero stati immersi nella colla. Gemette, il sollievo tanto intenso da essere quasi fisico, doloroso. Sentì la mano di Severus Piton serrarsi con maggior forza attorno alla sua spalla, poi il turbinio feroce e vorticoso della Passaporta. La sbarra di ferro le si mosse nella coscia e Gabrielle non sentì più niente.

***



Si svegliò sentendosi calda e intorpidita. La testa le girava: socchiuse gli occhi a malapena di uno spiraglio, ma la luce che filtrò tra le ciglia bastò a farle venire la nausea. Cercò di tossire per liberarsi la gola dal rigurgito di bile ed una mano le passò sotto la testa, sollevandogliela.
Con un brivido di panico Gabrielle si ritrasse, tirandosi indietro, strisciando sul letto e cercando di sfuggire alla mano, alle dita. Spalancando gli occhi, vide per un attimo solo una sagoma nera che oscurava la luce, ritagliandola, poi il braccio proteso verso di lei. Cercò di dire alla sagoma di non toccarla, ma tutto quel che uscì fuori fu un gorgoglio.
“Devi restare sdraiata.” le disse Piton – perché era Piton a tenerle la testa alzata. Qualcosa nel cervello di Gabrielle si smosse e le disse che poteva star tranquilla, che andava tutto bene, ma tutto il resto continuò a fissare l'uomo con cieco terrore. Non riusciva ad alzare le braccia. Non riusciva a muovere le gambe. Pensò di essere rimasta paralizzata – di nuovo – e il panico l'invase.
Non di nuovo. Annaspò. Non poteva essere successo di nuovo. Le sembrava di avere la bocca piena di sangue. Le sembrava che la stanza odorasse di salvia. Si contorse e, sfuggendo alle dita di Piton, sbatté la testa contro il piano di legno sul quale era sdraiata. Sentì qualcuno sibilare, un verso animalesco rauco e pieno di terrore e di confusione, e realizzò con una sensazione di incredulità che quel suono veniva da lei.
Piton le premette le mani sulle spalle, bloccandola contro il tavolo, e Gabrielle rabbrividì e cercò di alzare i pugni chiusi per colpirlo e allontanarlo: ma l'uomo era più forte, le sue braccia così deboli. Smuoverle solo di un soffio le costò una fatica indicibile.
“Sei sotto l'effetto di una Pozione Calmante. Di un sedativo.” le spiegò l'uomo, con pazienza. Non sembrava dovesse sforzarsi per tenerla ferma, e la cosa non fece altro che aumentare il terrore in Gabrielle. “Ho dovuto drogarti. Capisci quel che sto dicendo?”
Sedata. Drogata. Andava tutto bene, cercò di pensare, perché era stato Piton a farlo: ma tutto quel che c'era in lei di non razionale e di molto confuso riprese a strillare a quella notizia. Sedata e drogata. Non riusciva a muovere le gambe.
La fronte di Piton si corrugò.
“Non sembra che tu capisca.”
Tutto quel che Gabrielle capiva era che voleva essere lasciata. Voleva che Piton si scansasse. Che arretrasse. Piton la guardò in viso ancora per un attimo e parve comprendere, finalmente, perché si scostò. Gabrielle si tirò le ginocchia al petto e strisciò sul lato più lontano da quello sul quale si trovava l'uomo, rannicchiandosi.
Guardando verso il basso, scoprì di non avere più alcun asta nella gamba: dove la sbarra di ferro era affondata nella coscia ora c'era solo uno stretto bendaggio insanguinato, nel mezzo di uno strappo nei calzoni. Si sentiva calda e asciutta come se non si fosse appena fatta un lungo giro strisciando in mezzo alla pioggia e al fango. Cercò di muovere la gamba ferita e non ci riuscì. Il ricordo netto e feroce della cantina dei MacLaggen le riempì di nuovo la testa con l'odor di salvia; aveva cercato di strisciare via dalle scale, allora, e aveva scoperto di non riuscire più a sentire niente che fosse più in basso del collo. Il dolore era stato niente, a confronto.
Piton sembrò capire, di nuovo, perché sostenne in tono laconico:
“Il torpore alle gambe è un effetto temporaneo dei sedativi. Ho bisogno che tu prenda un'altra dose, adesso, Gordon.”
Gabrielle scosse la testa freneticamente. No, niente sedativi. Niente droghe. Il professore aggrottò la fronte e aggiunse con voce venata di fastidio:
“La mia non era una domanda.”
Gabrielle cercò di strisciare giù dal piano di legno e Piton la bloccò e la trattenne per una spalla.
“Se mi dai modo di chiudere la ferita, domattina sarai di nuovo in piedi.” disse ancora l'uomo: ma stavolta in un tono che, se non era precisamente gentile, era quantomeno un poco più umano. “Non posso operarti se sei sveglia, Gordon. Sforzati di essere ragionevole.”
Gabrielle voleva solo scuotere ancora la testa, tornare a rannicchiarsi e non essere per nulla ragionevole. Aveva paura ed era stanca e si sentiva umiliata, mancante, un fallimento. La memoria dell'odor di salvia le aveva lasciato un sapore acre e appiccicoso nel fondo della gola. Piton le serrò lievemente la spalla e Gabrielle, rabbrividendo, annuì.
Un bicchiere di vetro dal collo largo le venne portato alla bocca. Gabrielle mandò giù un sorso del suo contenuto denso e quasi vomitò di nuovo di fronte al sentore di calzini sporchi: si sforzò di non respirare mentre deglutiva sorsata dopo sorsata fino a svuotare il bicchiere. Mano a mano che la pozione andava giù tutto il suo corpo sembrava distendersi: era innaturale e inquietante, ma la sensazione di quietezza le era arrivata fino alla testa e non riusciva a preoccuparsene, così, non veramente. Sentì le palpebre pesanti scivolare verso il basso e cercò di tenerle aperte; ma Piton le posò una mano sugli occhi e:
“Dormi.” le ordinò.
Gabrielle lo fece.

***



Aprì gli occhi con il profumo delle uova fritte nella testa ed una qualche specie di mostro affamato e brontolante nello stomaco. Fu il mostro a spingerla a tirare le gambe giù dalla branda sulla quale era stata sdraiata, stiracchiandosi e sussultando quando sentì dolore... ovunque. Non credeva di avere un solo centimetro di carne che non fosse illividita e pesta: la sua pelle sembrava troppo corta, troppo stretta, come se tutto quel che c'era dentro si fosse orribilmente gonfiato nel corso della notte.
L'odore di uova fritte però era buono. Se era così forte da arrivare fin dentro al laboratorio del professore, dovevano essere state cotte da poco; e, se erano state cotte da poco, forse ce n'erano ancora.
Si mise in piedi e mosse qualche goffo passo: la gamba destra non le lanciava più atroci fitte d'allarme verso il cervello, ma era rigida e doleva. Il bendaggio, seppure non più insozzato di sangue, era stato lasciato al suo posto, e la fasciava dal ginocchio sino a mezza coscia.
Zoppicando uscì dal laboratorio – il professore doveva averla tenuta sotto osservazione per tutta la notte, se si era svegliata lì – e si lasciò guidare dal profumo d'uova giù per il corridoio. La cucina era stata allestita nella stanza agibile più lontana che ci fosse dal laboratorio: era per evitare, le aveva spiegato un giorno Piton con notevole sarcasmo, che piccole quantità di cicuta e asfodelo venissero accidentalmente scambiate per menta e chiodi di garofano, finendo così nello stufato della cena. Il professor Piton aveva molta poca fiducia in chiunque stesse attorno alle pozioni – eccetto sé stesso. Sembrava pensare che Gabrielle fosse costantemente sul punto di rovesciarsi addosso qualcosa di molto esplosivo, o di molto acido...
Gabrielle si bloccò davanti alla porta socchiusa della cucina e si guardò le mani. Erano bendate anche quelle. Non le facevano male, non davvero: c'era più una sorta di dolore fantasma nelle ossa che sembrava farle dolere dall'interno, ed erano rigide e gonfie. Si chiese se la pozione le avesse portato via tutta la pelle. Se non ci fosse rimasto più niente tra le bende e la carne viva sottostante. Si chiese...
“Vuoi entrare o preferisci restare ad occupare la soglia con la tua inebetita presenza, signorina Gordon?”
La voce tagliente del professore le fece fare un mezzo sobbalzo in avanti; spinse il battente con la spalla ed entrò nella cucina, cercando l'uomo con gli occhi.
Piton non alzò nemmeno la testa dal giornale:
“La tua colazione è nella madia. Le pozioni che devi prendere sono sul vassoio. Una delle fiale è fragile, fa' attenzione a quello che fai.”
Non sembrava di cattivo umore, giudicò cautamente Gabrielle. Non più del solito, ad ogni modo: era difficile stabilire quanto Piton fosse irritato, in genere, perché lo era sempre almeno un po' – per una ragione o per l'altra. Alzò il coperchio della madia posata sulla credenza e l'odore di uova strapazzate e pomodori fritti risvegliò il mostro nel suo stomaco. Trasportò il vassoio sul tavolo, agganciò una sedia con un piede per trascinarla fino a sé e impugnò la forchetta:
“Ah-ha.” la fermò Piton. “Prima le pozioni, poi la colazione, Gordon.”
Le fiale erano tante: riconobbe nel mezzo solo la solita pozione dall'odore di menta, ma poi ce n'era una di un vivo rosso sangue, un'altra che spandeva un fetore fortissimo di sudore e stoffa bruciata, una terza dalla consistenza della cenere bagnata. Le mando giù una dietro l'altra, reprimendo il desiderio di tapparsi il naso per non sentirne la puzza.
Il primo boccone di uova fritte, subito dopo, le parve paradisiaco. Le trangugiò senza quasi fermarsi a riprendere fiato tra un morso e l'altro, ostacolata dalle mani bendate, rallentando solo quando Piton osservò in tono di vago disgusto:
“Ho visto bambini di undici anni dimostrare maniere a tavola principesche, se paragonate alle tue. Ci sono altre uova in dispensa e difficilmente al piatto spunteranno le gambe da un momento all'altro; non c'è nessuna ragione di ingurgitare a quel modo.”
Il che, ponderò Gabrielle senza alzare la testa, poteva essere tradotto come ti sentirai male se continui a mangiare così di fretta, non ti porterò via il piatto, se hai ancora fame ce n'è ancora. O, almeno, a lei piaceva pensare che la traduzione suonasse così. Che vi fosse una traduzione, diamine.
I pomodori fritti erano buoni come li ricordava: per una ragione o per un'altra, né lei né Piton ne avevano mai comprati per rimpinguare le scorte. L'ultima volta che ne aveva mangiati era stato a casa di Terence. Avevano un sapore forte e aspro da estate, sale e pane grattato e la memoria vaga di un tempo da Babbano.
Scansò il piatto solo quando fu vuoto, sentendosi piena fino a scoppiare ma desiderando ancora, confusamente, di poterne avere di più. Piton le lanciò un'occhiata penetrante:
“Hai ancora fame?”
Gabrielle esitò per mezzo secondo, prima d'annuire.
“Una delle pozioni che hai bevuto, la Rimpolpasangue, sovraccarica il lavoro del tuo corpo per riprodurre il sangue che hai perso. Tra gli effetti collaterali vi sono debolezza, propensione all'affaticamento, giramenti di testa e un intenso acutizzarsi dell'appetito. Se hai ancora fame, la padella è lì.”
“Non credo di poter mandare giù qualcos'altro, professore.” ammise Gabrielle a malincuore.
Piton inarcò un sopracciglio:
“Molto bene.” Richiuse con un colpo secco il giornale che aveva in mano, ripiegandolo con cura. Gabrielle colse uno squarcio di fotografie in movimento e riconobbe così il giornale dei Maghi con il quale certe volte il professore faceva ritorno da una delle sue uscite. “Prima di parlare, voglio che tu veda una cosa.”
Gabrielle non aveva molta voglia di parlare, perciò tutto ciò che poteva rimandare il momento in cui fosse stata costretta a farlo era cosa buona e giusta. Il professore allungò verso di lei il giornale e Gabrielle lo fissò con cauta perplessità.
“Aprilo.” la invitò l'uomo, l'espressione indecifrabile. “Prima pagina.”
Gabrielle obbedì. Adocchiò distrattamente gli articoli, scorrendo tra una riga e l'altra di caratteri da stampa antiquati senza veramente vederli, e buttò uno sguardo alla fotografia in primo piano. Gli occhi le si sgranarono e il fiato le rimase incastrato da qualche parte tra la gola e i polmoni.
“Oddio...” esalò. Si accorse di aver serrato il giornale tra le mani con tanta forza da accartocciarne i bordi, ma aveva le dita tanto contratte da non riuscire ad allentare la presa. Dall'altra parte della foto, gli occhi del professore ricambiarono il suo sguardo, la fronte aggrondata e le labbra strette in una piega sottile e minacciosa. In bianco e nero il pallore dell'uomo smetteva di essere giallognolo e diventava impressionante, ogni ruga una linea netta sulla fronte e attorno alla bocca: nella fotografia se ne stava curvo come un immenso, gobbo avvoltoio su di un corpo riverso sul terreno che Gabrielle riconobbe con orrore come il proprio.
I meccanismi incastrati del suo cervello si misero in funzione a fatica dopo un attimo di panico raggelante, rimettendosi in moto freneticamente. La foto era evidentemente stata scattata la notte prima. Gabrielle non ricordava niente che assomigliasse ad un fotografo e, senza ombra di dubbio, niente che avesse nemmeno lontanamente a che vedere con una macchina fotografica: ma non era stata molto lucida durante l'ultimo tratto della sua fuga, ed era possibile che nel caos... nella confusione...
“Mi dispiace, professore.” bisbigliò raucamente. Non riusciva a staccare gli occhi dalla pagina.

L'inquadratura aveva tagliato via la ferita alla gamba e l'asta di ferro che c'era stata piantata dentro: vista così, sembrava proprio che Piton fosse l'aggressore e lei la sua vittima. Non si vedeva il sangue, in bianco e nero, né il taglio sulle vesti... né si vedeva il suo viso. Sperò che quella fosse la miglior foto tra quelle che avevano, che in nessuna la sua faccia fosse riconoscibile, perché da qualche parte nel mezzo di quell'Inghilterra impazzita c'era ancora Lyddie in mano ai Maghi.
Cercò con gli occhi il titolo e lo decifrò a fatica, le sue rugginose, stentate capacità di lettura che si inerpicavano meglio che potevano sulle scivolose volute dei caratteri di stampa: SVENTATA SORTITA DI MANGIAMORTE, c'era scritto nel mezzo della pagina; e poi, più sotto, SEVERUS PITON AVVISTATO AI CONFINI DI HOGSMEADE.
“Mi dispiace.” balbettò ancora Gabrielle. Stavolta riuscì ad alzare gli occhi: la vergogna le faceva girare la testa e bruciare le guance. La sensazione di essere mancante, un fallimento, stava tornando in superficie: aveva lo stesso odore di sempre, salvia, salvia bruciata e appiccicosa, come un incenso di cattiva qualità. - Mi dispiace tanto, professore. - E poi, mentre un terrore improvviso prendeva il sopravvento su tutto il resto: “Vuoi mandarmi via?”
Piton corrugò la fronte, prima di torcere la bocca in una smorfia sgradevole:
“Non ho intenzione di mandarti da alcuna parte, sciocca ragazza. In che modo migliorerebbe la situazione?” Allungò una mano e le sottrasse il giornale. Aggrottò la fronte quando il Piton in miniatura nella fotografia gli rivolse un'occhiataccia, ma, quando tornò a parlare, la sua voce parve farsi meno aspra e spigolosa. “Voglio solo che tu capisca che hai avuto fortuna. Un metro di meno e saresti rimasta dentro la barriera di Hogsmeade. Un metro di meno e saresti tornata al Ministero. Non c'è bisogno di dirti che lì difficilmente avrebbero considerato con un occhio di riguardo il tentativo di entrare in casa di un dipendente di alto rango degli Affari Babbani e di appropriarti indebitamente di documenti riservati. Posso assicurarti che casa MacLaggen ti apparirebbe come un ameno rifugio a confronto di Azkaban, signorina Gordon.”
Un po' del panico si ritrasse in un angolino della sua testa alle parole di Piton; ma la vergogna rimase tutta lì, integra e intatta, e trasformò la sua voce in un balbettio:
“Mi dispiace per la... per la foto, professore.”
L'uomo lanciò un ultimo sguardo al Piton nella fotografia, prima di richiudere il giornale con un colpo secco.
“Non ha importanza.” replicò stancamente. “Sarebbe accaduto ugualmente, prima o poi.. Adesso voglio che tu mi spieghi che cos'è accaduto e perché sei tornata a mani vuote. Dal principio e con ordine, se non è chiedere troppo.”





Note della storia: Con il prossimo capitolo smetto di mettere carne al fuoco e comincio a fornire informazioni. E sarebbe anche ora... x°°°D
Ho una specie di blocco attorno al capitolo 9 (qui: il capitolo 10), ma sono riuscita a superare il mio scoglio più grosso e sono fiduciosa. In ogni caso, mi trovo con un paio di mesi di tempo, ancora, prima di essere veramente nei guai.

Un grazie a voi che vi prendete del tempo per scrivermi un parere. Grazie di cuore.

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Capitolo 7
*** Segnali di fumo ***





- 6 - Segnali di fumo



Spinner's End era un posto deprimente anche in pieno giorno; al crepuscolo, con la luce obliqua del sole invernale a tagliare linee rette sui tetti delle case e a disegnare macchie oleose sulla superficie del fiume fangoso, era semplicemente desolante. Nel mezzo di una nebbiolina grigia ed umida drappeggiata sul selciato la ciminiera emergeva come una torre nera, gigantesca, al di sopra delle casupole malmesse schierate lungo la strada.
Con quel freddo ed a quell'ora a nessuno piaceva farsi trovare in giro per Spinner's End: così, quando qualcuno scavalcò la recinzione che separava il pendio del corso d'acqua dalla via e tagliò attraverso la strada per raggiungere la porta di un edificio che poteva essere definito solo come catapecchia, c'erano solo le ossa bianche di una volpe, smangiate dal tempo e dai roditori, e un paio di pipistrelli di passaggio a fare da testimoni. Era un qualcuno che aveva la faccia mite di un signore di mezza età, con vestiti da impiegato e una giacca a vento rossa che spiccava come una macchia d'improbabile, limpido colore nel grigio scuro di Spinner's End: si fermò davanti alla porta della catapecchia e, dopo essersi guardato intorno per un attimo, cautamente, fece sbucare la punta di una bacchetta dalla manica sinistra e l'agitò a mezz'aria, cantilenando a mezza voce parole oscure. L'aria circostante scintillò debolmente prima di rosso, poi di verde, poi di nuovo di rosso. L'uomo scosse la testa e parve soddisfatto.
Inginocchiandosi sul selciato, si cacciò una mano in tasca e ne estrasse una piatta lettera sigillata che cercò di spingere al di sotto della porta: dovette far forza per riuscirci, perché uno spesso strato di immondizia si era sedimentato nella fessura tra il battente e il pavimento, ma alla fine la lettera – accartocciata e un po' sgualcita ai lembi – fu al sicuro all'interno della casa.
L'uomo appoggiò una mano sul battente e sospirò profondamente. Per un attimo sembrò molto, molto stanco; chiuse gli occhi e piegò il capo in avanti, posando la fronte alla porta. Quando si rialzò, si guardò nuovamente intorno, come a controllare che non ci fosse nessuno, ma anche i pipistrelli sembravano momentaneamente spariti. Nel silenzio teso e tetro delle sere d'inverno i suoni lontani del quartiere Babbano erano come un ronzio discontinuo, un rumore di fondo al quale dopo un po' non si faceva più caso; da qualche parte in uno dei vicoli si sentì sbattere una persiana.
Con uno schiocco sordo, il mago si Smaterializzò altrove.

***



Il professore era chino su un bizzarro strumento simile ad un pendolo di rame, quando quella sera Gabrielle entrò nel laboratorio dopo aver cautamente bussato, e non alzò immediatamente la testa per guardarla: tenne gli occhi sulla pallina che oscillava avanti e indietro, tracciando percorsi ben più complicati del dovuto, uno zigzagare a mezz'aria, poi una linea curva, nuovamente uno zigzagare, linea curva...
“Professore?” lo chiamò lei, piano.
L'uomo sollevò di una frazione di centimetro gli occhi, inquadrandola, ma non alzò la testa. Gabrielle levò le mani bendate, mostrandogliele.
“Sono le sette e mezza,” si affrettò a spiegarsi. “Mi hai detto di venire alle sette e mezza per cambiare la fasciatura. Adesso sono le sette e mezza,” ripeté. Lo sguardo inquieto dell'uomo le metteva addosso l'insopprimibile bisogno di giustificarsi.
Piton la fissò in silenzio ancora per un istante, prima di raddrizzarsi con un sospiro ed accennare ad uno sgabello.
“Siediti.”
Gabrielle gli obbedì. Lui le fece poggiare le mani sul tavolo e, invece che svolgere le bende, usò la bacchetta per tagliarle dal polso alle nocche e rimuoverle in maniera rapida ed efficiente. La fasciatura emise un suono viscido e colloso staccandosi dalla carne: era intrisa di una sostanza dal vivo colore rosso e dall'odore metallico, che aveva appiccicato una benda all'altra, formando uno spesso strato compatto, e che era rimasta in una pellicola semitrasparente sulla pelle rovinata.
Piton esaminò attentamente i segni lasciati dalla Pozione Incendiaria, reggendo la mano della ragazza per il polso e ruotandola alla luce.
“Stanno guarendo?” chiese la ragazza, la voce ansiosa.
L'uomo le lanciò un'occhiata penetrante:
“Rimarranno le cicatrici.”
Gabrielle scosse la testa, impaziente, e mosse la mano che l'uomo le aveva lasciato libera in un gesto che pareva voler accantonare il problema:
“Sì, ma stanno guarendo?”
Piton la fissò in silenzio e Gabrielle si agitò per un lungo istante, a disagio sotto l'intensità quasi feroce di quello sguardo, prima che l'uomo riportasse la sua attenzione sulle cicatrici.
“Perché lo chiedi?” domandò lentamente. “Ti fanno male?”
“No, ma le sento rigide. Non piego molto le dita.”
“E' l'effetto dell'unguento.” spiegò Piton, il tono distratto. Usò le unghie per rimuovere la pellicola, che venne via senza fatica e senza lasciarsi dietro residui: la pelle sottostante era lucida, tesa e dura quasi come una crosta. “Penetra attraverso l'epidermide e intorpidisce i legamenti. Serviva precisamente ad evitare che tu piegassi le dita, signorina Gordon, rallentando la formazione del necessario tessuto cicatriziale. Piegale adesso.”
Gabrielle obbedì: fletté senza fatica le dita di entrambe le mani, e parte di quel grosso grumo viscido e oscuro che sembrava esserlesi sedimentato nei polmoni dalla notte del fallimento di Hogsmeade parve evaporare, lasciandola libera di trarre il primo vero respiro profondo da allora. La gamba le doleva appena e quasi non zoppicava più. Le sue mani funzionavano ancora. Era andata male, ma avrebbe potuto andare peggio.
Piton si allontanò per andare ad esaminare il contenuto di uno degli scaffali: schierate in una fila ordinata, etichettate ciascuna con una piccola striscia di pergamena che ne riportava siglati il nome e la quantità, centinaia di fiale di pozioni se ne stavano pronte all'uso, ciascuna di forma e dimensione diversa. Gabrielle continuò a flettere le dita mentre il professore, dopo breve riflessione, ne sceglieva una e tornava accanto a lei. Le cacciò l'ampolla tra le mani e l'istruì:
“Questa va massaggiata sulle cicatrici. Due volte al giorno, non più di cinque gocce per volta. E' particolarmente oleosa, perciò bada a farla penetrare bene nella pelle. Se andrai di fretta, sarà inutile. Mi hai capito?”
“Sì, professore.” E poi, con un filo di cautela nella voce: “A cosa serve?”
Piton ripulì il piano di lavoro dalle bende sporche con pochi gesti di bacchetta, prima di spiegare: “Ad ammorbidire e levigare le cicatrici. Non servirà a rimuoverle, ma contribuirà a renderle meno evidenti. Esporre la pelle perfettamente cicatrizzata al sole con costanza farà il resto. Dodici, diciotto mesi al di più, e si vedranno a malapena.”
“Oh.”
Gabrielle abbassò lo sguardo e si fissò le mani rovinate. Non che fossero mai state belle, prima. Non che fosse mai stata bella, lei. Erano solo mani. Era solo... era solo pelle. Solo un po' di pelle più dura del resto. Non che avesse davvero importanza.
“Grazie, professore,” bisbigliò.
Non aveva davvero importanza, però ne aveva. C'era il ricordo, incastrato da qualche parte nel mezzo dello schifo di quegli ultimi anni in caduta libera, di un momento in cui aveva avuto effettivamente importanza. In cui aveva pensato che avrebbe potuto averne, un giorno. Che prima o poi il suo naso non sarebbe stato così grosso, magari, la sua faccia così magra, i suoi denti così storti.
Gabrielle intascò l'ampolla e si guardò intorno, una sensazione di lieve imbarazzo a farla sentire nuovamente agitata e incerta.
“Non pensavo fosse così acida quella roba che brucia, professore.”
“La Pozione Incendiaria.”
“La Pozione Incendiaria, sì.”
“Nessuno degli ingredienti che la compongono è acido di per sé stesso, ma lo diventano l'uno in reazione all'altro,” spiegò Piton, tornando ad occuparsi con estrema concentrazione del suo strumento a forma di pendolo. “E' la ragione per la quale numerosi ingredienti, gestibili con assoluta facilità se presi singolarmente, posti assieme in un calderone generano gli accidenti più imprevedibili.”
Gabrielle lo fissò con uno sguardo vacuo ed un poco perso. L'uomo se ne avvide. Sospirò profondamente e tradusse:
“Se metti più di un ingrediente in un paiolo senza sapere quel che stai facendo, ragazza, il paiolo potrebbe esplodere, radendo al suolo la stanza nel quale è contenuto. In effetti, ad essere rase al suolo potrebbero essere diverse case nei dintorni del paiolo stesso.”
“Ma io non ho mai visto i tuoi paioli scoppiare, professore. O sciogliersi.”
“Perché io so cosa sto facendo,” Piton osservò il pendolo muoversi avanti e indietro ancora per un istante: zigzagare frenetico, poi ampio cerchio, di nuovo zigzagare e ampio cerchio, zigzagare e ampio cerchio, come in una specie di bizzarro codice morse destinato agli occhi e non alle orecchie. “In passato ho avuto la mia buona dose di laboratori in fiamme. E' compreso nei rischi della sperimentazione, signorina Gordon,” concluse con l'impercettibile ombra di un ghigno. Fermò il pendolo tra due dita e tutto lo strumento parve di colpo smettere di vibrare, smettere di muoversi, smettere di vivere.
Gabrielle aggrottò la fronte:
“Ma non mi sembra che tu hai cicatrici, professore.”
Il professore rimase per un attimo in silenzio, prima di correggerla in tono neutro e senza guardarla:
“Non mi sembra che tu abbia, signorina Gordon.”
Gabrielle non se la prese. Ripeté pazientemente:
“Non mi sembra che tu abbia cicatrici, professore.”
Vi fu una seconda pausa di silenzio che dette a Gabrielle ragione di pensare che dietro alla correzione vi fosse stato il desiderio di prendere tempo nell'attesa di formulare una risposta appropriata, più che quello di renderla nuovamente edotta sullo stato desolante della sua ignoranza.
Piton replicò piattamente, alla fine:
“Vi sono diversi incantesimi che renderebbero la guarigione estremamente più rapida, signorina Gordon, rimuovendo il tessuto cicatriziale e permettendo a pelle e carne sane di ricrescere sulle ossa senza lasciare segni. L'impossibilità di usare gli opportuni incantesimi rende necessario ricorrere ad unguenti e pozioni sostitutivi che sono adeguatamente funzionali, ma non altrettanto... efficaci.”
Gabrielle non seppe bene cosa rispondere, a quello, se non:
“Ah.”
L'uomo alzò la testa dallo strumento e la fissò.
“Cominci a pentirtene, signorina Gordon?” Gabrielle ci pensò su per un attimo. Pensò all'asta di ferro nella gamba e alla nausea, a quanto pesasse la pistola che aveva riesumato dalla scatola nell'armadio di Terence e a tutta la paura provata la notte ad Hogsmeade, quando l'aveva puntata contro la testa di un qualcosa che respirava e pensava ed era vivo, il terrore di farsi scappare un colpo e di finire sporca di sangue e materia cerebrale. Pensò alle sue mani rovinate. Alla cicatrice rimasta sulla coscia. Alle pozioni che facevano bruciare lo stomaco e a quella più forte di tutte, dall'odore di menta, che le aveva dato la febbre, al principio, anche se adesso il suo corpo sembrava non accorgersene più. Poi pensò ad Agnes. Alle liste di bambini sparpagliati in giro per l'Inghilterra, e nel mezzo di tutti quei bambini c'era anche Lyddie. Pensò all'odore di salvia dello scantinato dei MacLaggen ed alla sensazione orribile dell'impotenza e dell'inutilità. Non era stata in grado di fare niente: ma adesso, anche se era ancora mancante e sbagliava spesso e non sapeva niente di quel che stava succedendo davvero, adesso serviva a qualcosa.
Paragonato a quello, tutto il resto impallidiva.
“No,” rispose quieta. “Non sono pentita.”
Si sforzò di sostenere lo sguardo del professore – tutto iridi troppo nere e pupille senza fondo, pozze scure dalle quali i pensieri non riaffioravano mai – perché aveva bisogno di dimostrargli che era vero. Che ci credeva sul serio.
Piton tacque ancora per un istante, come in attesa, prima di annuire brevemente. Subito dopo cambiò discorso:
“E' stato lasciato qualcosa sotto alla porta di uno degli edifici che in passato ho usato come rifugi temporanei. Poiché le barriere anti-Babbano si occupano generalmente di tenere lontani volantini pubblicitari e lettere indirizzate alla persona sbagliata, oltre che gli intrusi occasionali, devo supporre che si tratti di un mago.” Esitò. “Di un mago che sappia perfettamente che la casa appartiene a me. Domattina andrò a vedere di cosa si tratta. Nel frattempo, voglio che tu rimanga qui e non metta piede fuori dalla porta del magazzino per nessuna ragione.”
Gabrielle esitò:
“Non posso andare io, professore?”
“No.”
La riposta secca e aspra dell'uomo la fece sussultare: lo guardò in viso, timorosa al pensiero di vederlo irritato, di vedere le sue labbra piegate in una smorfia e le sue sopracciglia inarcate in quella che era l'espressione, simile ad un colpo di frusta, del disappunto. Ma Piton sembrava solo teso, con la bocca sottile e le spalle rigide, e non la guardò con ira:
“Devo essere certo che non uscirai da qui, Gordon. Molto probabilmente il fotografo di Hogsmeade non è riuscito ad inquadrare una porzione del tuo viso sufficiente a riconoscerti; ma è sempre possibile che le foto più significative, semplicemente, non siano state consegnate alla Gazzetta del Profeta. Un'imprudenza in questo momento, perciò, rientrerebbe nell'elenco delle dieci azioni più imbecilli alle quali io abbia mai assistito... ed io avuto modo di assistere a numerosi episodi che avrebbero potuto serenamente classificarsi come l'apoteosi dell'imbecillità. Sono stato più chiaro, adesso?”
“Sì, professore.”
“E resterai qui.”
Gabrielle annuì:
“Sì, professore.”
Piton parve studiarla per un attimo, quasi cercasse di stabilire se gli stava mentendo oppure no; ma alla fine, senza discutere ulteriormente, si spostò verso uno dei calderoni appesi ai treppiedi sul fondo del laboratorio. Ne travasò il contenuto in una tazza usando un mestolo e tornò verso di lei. Gabrielle riconobbe l'odor di menta e allungò una mano per accettarlo, ancor prima che il professore glielo offrisse dicendo:
“La tua pozione, signorina Gordon.”

***



La pietra tombale che si era chiusa sulle spoglie mortali di Albus Percival Wulfric Brian Silente, su tutto quel che restava dei suoi progetti e dei suoi piani e dei suoi confusi, caotici sogni pieni di speranza, aveva sigillato nel contempo sotto di sé molti dei segreti di Severus Piton.
Piton sospettava che Silente fosse morto troppo presto, prima del pianificato, prima del previsto: che fosse morto senza aver avuto il tempo di approntare un qualche rimedio alla prematura e assolutamente inaspettata dipartita dalla scacchiera di quello che sarebbe stato a tutti gli effetti il primo tra i molti pezzi che aveva avuto intenzione di schierare in campo dopo il proprio decesso, Severus Piton, la spia, l'infiltrato; che fosse morto senza avere il tempo di preparare le difese della scuola contro l'assalto dei Mangiamorte, perché il piano di Draco Malfoy era stato – per una volta – un piano veramente astuto, sottile e intelligente e completo in ogni sua parte. Draco era riuscito a tenere segreto a tutti i difensori di Hogwarts il mistero dell'Armadio Svanitore: e così, quando i Mangiamorte si erano presentati a frotte sulla soglia della Stanza delle Necessità, meno di ventiquattr'ore dopo la sua morte, non c'era stato nessuno pronto ad accoglierli. Silente, indebolito dalla vecchiaia, dalla stanchezza, dalla maledizione che gravava sul suo braccio ormai da mesi e che andava estendendosi sempre più di giorno in giorno, era morto per mano di Voldemort; e Potter, Granger e Weasley – Potter e la sua Piccola, Ribelle Corte – erano stati messi in salvo per un soffio nella Foresta Proibita – ci aveva pensato Minerva, che doveva essere riuscita a fiutare sin da subito da che parte avrebbe soffiato il vento.
Piton aveva il sospetto che Silente avrebbe gradito avere un po' di tempo in più. Il tempo necessario a capire com'era possibile che Harry Potter, il suo meraviglioso, compassionevole, leale e generoso Grifondoro, avesse eviscerato con una maledizione, il lezzo di Magia Oscura della quale era fiutabile perfettamente anche a quindici passi di distanza, un coetaneo compagno di scuola. Il tempo necessario a spiegare al suddetto Harry Potter che cosa ci si aspettava precisamente da lui, prima della fine della guerra, perché adesso non ci sarebbe più stato Piton a potergli recare la lieta novella, quando fosse stato il momento giusto. Il tempo necessario, soprattutto, per togliergli dai piedi i primi Horcrux.
Guardando in superficie, sembrava che fosse andato tutto bene comunque. Harry Potter aveva vinto, Voldemort era morto, il Mondo Magico era libero e salvo e adesso aveva a disposizione tempo ed energie per cercare di imporre molto altruisticamente un pezzo di sé anche nel Mondo Babbano. E Draco era stato, dopotutto, un Mangiamorte – al quale sarebbe toccato il Bacio in ogni caso, alla fine della guerra. Nessuno aveva veramente voglia di investigare sul Sectumsempra che gli aveva tolto la vita. Mettere sotto processo Harry Potter? Nessuno era così imbecille. Era un eroe. Era l'Eroe. Distruttore di Voldemort. Salvatore e Prescelto del Mondo Magico. Il più giovane Ministro della Magia mai esistito. Li aveva tirati tutti fuori dai guai, due volte: e se qualcuno dei leccapiedi di Voldemort era finito un po' in pezzi lungo la strada... be', questa era da considerarsi una perdita collaterale, necessaria e prevedibile in una guerra.
In superficie era tutto perfetto: ma Piton aveva camminato tanto a lungo all'ombra di Albus Silente da aver imparato a discernere i grumi fangosi d'alghe e foglie morte sotto il pelo dell'acqua, quelli che nascondevano cadaveri e mostri nel buio, quelli che nessuno vedeva, nessuno riconosceva, ma tutti sentivano che c'era qualcosa di strano. Le Leggi per l'Integrazione. I Sette Giorni di Londra. I Babbani dissidenti ad Azkaban – e i loro bambini che finivano sparpagliati per l'Inghilterra. I Mangiamorte che venivano falciati via uno dopo l'altro, ma nessuno si preoccupava del fatto che Harry Potter fosse il Ministro della Magia più potente da mezzo millennio a quella parte.
Piton non aveva dimenticato quel che Silente gli aveva detto. Il segreto che gli aveva affidato, quel che avrebbe dovuto essere comunicato al ragazzo perché questi sapesse che cos'era che ci si aspettava da lui. Piton non l'aveva dimenticato.
Le barriere della casa di Spinner's End si aprirono al suo passaggio come tende schiuse. Piton non ebbe bisogno di guardarsi intorno per essere certo di essere perfettamente invisibile ai passanti, perché diversi Incanti di Dissimulazione a largo raggio erano stati intessuti nelle barriere stesse, insieme all'equivalente su ampia scala di un Incanto Scudo, numerosi Incantesimi Respingi-Babbani e almeno un'altra mezza dozzina di incanti e maledizioni di vario tipo, tutti pensati per rendere la casa di Spinner's End l'equivalente magico di un rifugio antiatomico.
Nessuna di quelle barriere, tuttavia, avrebbe potuto durare tanto a lungo, né essere tanto resistente, se non fosse stato per l'Incanto Fidelius che era alla base di ciascuna di esse.
La pietra tombale sul capo di Albus Silente aveva sepolto insieme al cadavere del mago il segreto del Fidelius. Piton aveva sempre creduto che Albus fosse morto senza rivelare mai a nessuno la locazione della casa di Spinner's End: ma se qualcuno era riuscito ad attraversare le protezioni... se qualcuno era riuscito ad arrivare fino alla porta...
Quando Piton spalancò il battente, la pioggia fitta e gelida che era caduta ininterrottamente sin dal mattino entrò in casa con lui: l'acqua trasformò tre anni di polvere depositatasi sul pavimento in una fanghiglia grigia e collosa che tratteneva la suola dei suoi stivali in un alternarsi ad ogni passo di sguish e gush disgustosi.
La casa appariva vuota, quieta e silenziosa.
Homenum revelio,” sussurrò Piton. Nessuno sciame di scintille blu in vista, ma lui aveva lasciato nel magazzino alla foce del Tamar qualcuno che dimostrava in carne ed ossa – più ossa che carne, in effetti – la possibilità che l'incantesimo non funzionasse. Fu doppiamente cauto, perciò, nel chinarsi e raccogliere la lettera infangata da terra; la scrollò per far scolare via l'acqua ed aggrottò la fronte alla vista della grafia arcuata e familiare che aveva tracciato sul lato esterno dell'involucro il destinatario: Prof. S.P..
Si chiuse la porta alle spalle e accese la lampada sul tavolo con un gesto impaziente della bacchetta: la luce pallida della fiammella si spanse sul divano impolverato, sulla vecchia poltrona dal sedile sfondato e su una libreria nella quale rimanevano solo pochi tomi, ormai, e nessuno dotato di alcun reale valore. Nel raggio chiaro della fiamma fu più facile studiare la grafia, riconoscerne le curve e i segmenti e quel modo bizzarro e fastidioso e conosciuto di scrivere la A maiuscola in stampatello e di tagliarla diagonalmente con uno svolazzo.
A Severus quella grafia era terribilmente familiare. L'aveva avuta davanti agli occhi per sei anni, dopotutto, stesa in file ordinate nei saggi più lunghi e ridondanti che mai studente avesse osato riconsegnargli.
Non ebbe quasi bisogno di strappare l'involucro, perciò, e di guardare la firma sul fondo della lettera – apparsa in lettere fiammeggianti nel momento stesso in cui la busta era stata aperta – per sapere che a scrivergli era la signorina Granger.





Note della storia: La mistica spiegazione fondamentale a tutte le questioni della storia è nascosta da qualche parte in questo capitolo - e giuro che era più ovvio di quanto sembrasse. x°°°D Era una di quelle cose che ti fanno dire, deluso, oh, ma dai, tutto qui?
Che posso dire? Io sono per il rasoio di Occam.
Pubblico con una settimana di ritardo perché l'università e gli esami ci mangiano tutti vivi. Grazie a voi, come sempre, voi che leggete e voi che vi fermate a lasciarmi un parere.

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Capitolo 8
*** Babau ***





- 7 - Babau



Ricordava di aver pensato che l'uomo, con quel mantello nero, il naso adunco e i capelli unti e scuri che spiovevano attorno ad una faccia dal colorito giallognolo, somigliava ad un vecchio, grosso corvo, molto rigido e un po' spaventoso.
Non aveva avuto veramente paura solo perché tutta la paura le sembrava fosse morta al piano di sopra. Lì sotto c'era lo scantinato, il buio, l'odore di salvia. C'era la chiazza di sangue viscido sul pavimento nella quale i suoi piedi scalzi avevano strisciato. Avere paura di qualcosa, lì, sembrava assurdamente inutile.
“Devo supporre...” le aveva detto l'uomo. “… che la macelleria all'ingresso sia opera tua.”
Era opera sua. Aveva il coltello tra le mani, i vestiti sporchi e la faccia macchiata del sangue che le era schizzato addosso ogni volta che aveva abbassato la lama. Aveva ancora nelle orecchie il suono viscido e colloso della carne che si era sfasciata sotto ai suoi colpi, sfaldandosi, e quello scricchiolante delle ossa infrante: dubitava che l'uomo fosse in grado di saperlo, quello, ma tutto il resto – il coltello, i vestiti, le macchie – erano precisamente quel che poteva essere considerato un indizio. Anche il più beota degli investigatori avrebbe capito da che parte tirava il vento della colpa, da quelle parti.
Lei aveva pensato che avrebbe dovuto provare a uccidere anche lui, adesso. Aveva pensato di non averne la forza: aveva guardato il viso di McLaggen riempirsi di sangue e di terrore senza riuscire a racimolare alcuna pietà, ma questo era diverso. L'uomo era uno sconosciuto: non aveva ad accompagnarlo il ricordo-terrore dell'osso del collo spezzato, delle crudeltà metodiche e feroci dette e ripetute e ancora e ancora e ancora un giorno dopo l'altro, del panico cieco e sordo dello scantinato buio e delle casse piene di cose sconosciute che scricchiolavano, a volte, la notte. Lei considerò il coltello, considerò la striscia di pelle esposta al di sopra del mantello dal rigido colletto nero. Abbassò la lama e, rabbrividendo, la sentì stridere contro il pavimento.
L'uomo aveva sollevato la bacchetta – l'aveva tenuta abbassata contro un fianco fino a quel momento, come dimenticata – e lei si era ritratta ancor di più contro gli scatoloni. Si era chiesta se l'avrebbe uccisa. Se le avrebbe fatto male. Si era chiesta se avrebbe capito cosa stava per arrivare. Aveva inghiottito a vuoto, nauseata, e aveva sentito tutti i suoi pensieri – anche quello di Lyddie, che era come un chiodo arroventato infisso nel suo cranio, sempre, senza fuga né sollievo – venire drenati via dalla paura.
Non voleva morire. Aveva paura.
L'uomo aveva agitato la bacchetta e un bel po' del sangue che le aveva appiccicato i capelli al viso era scomparso. Un altro colpo di bacchetta e il freddo gelido che sembrava impregnarle le ossa si era affievolito.
“In piedi.”
Lei gli aveva obbedito: ci aveva messo un po', perché aveva fame e la testa le girava e tutte le sue ossa scricchiolavano e gemevano, le cartilagini sottili come un foglio di carta velina là dove le giunture si erano gonfiate e illividite. Si era appoggiata alle casse e, quando la mano dell'uomo si era allungata verso di lei, era schizzata indietro spinta da puro e semplice panico. No, no, no, non toccarmi, aveva cercato di dire: ma tutto quel che era emerso dalla sua gola era stato uno stridio.
L'uomo aveva aggrottato la fronte.
“Se vuoi restare qui ad aspettare gli Auror, fa' pure,” le aveva detto, la voce che strascicava fastidiosamente le parole, con pesante sarcasmo. “Nutro l'assoluta certezza che saranno lieti di sentirti raccontare come e perché hai provveduto ad accoltellare il dipendente ministeriale al quale eri affidata; ho il vago sospetto, tuttavia, che tu sarai discretamente meno lieta di goderti il lungo soggiorno ad Azkaban che seguirà al tuo racconto.”
Lei l'aveva fissato, l'espressione vacua, ed aveva cercato di decifrare quel che l'uomo aveva detto: non era sicura di aver capito tutto, e c'erano una o due parole, nel mezzo, che non conosceva affatto. Auror, però, la conosceva. Anche Azkaban la conosceva. Aveva rabbrividito, di nuovo e più violentemente, ed aveva allungato per istinto una mano per afferrare quella che l'uomo le porgeva. Questi aveva fissato le sue dita sporche, il suo polso ossuto che sbucava al di sotto della manica rovinata, e aveva aggrottato la fronte: invece che respingerla, però, le aveva stretto il braccio tra le dita per trattenerla.
Aveva cominciato a girare su sé stesso, come per voltarsi, e lei aveva fatto per seguirlo: ma il pavimento era scomparso d'improvviso in un turbinare di colori e caos, e lei si era sentita pigiare, comprimere e schiacciare in un tubo invisibile e troppo stretto. Aveva boccheggiato, annaspando, ed aveva cercato di lasciare la presa. Il mondo era impazzito. Non c'era più aria.
Era riemersa dall'altra parte del tubo in un posto che non era lo scantinato dei McLaggen: si era piegata in due per vomitare, lo stomaco in subbuglio, e si era trovata sdraiata per terra senza quasi accorgersene.
Da lì a svenire, il passo era stato breve.

Si era svegliata con la luce bianca della bacchetta puntata negli occhi. Aveva mugolato ed aveva cercato di scansarla, ma l'uomo le aveva trattenuto il braccio, impedendoglielo.
“Sotto choc,” aveva bofonchiato, irritato. “Denutrita. Debilitata. Apri la bocca.”
L'ultima cosa che lei avrebbe voluto era obbedirgli, ma c'era sempre la minaccia degli Auror e di Azkaban ad aleggiare sopra la sua testa. Aveva aperto la bocca ed una sorsata di qualcosa dal sapore di muffa le era scivolata in gola. Da sdraiata non riusciva a deglutire bene, ma l'uomo le aveva massaggiato la gola: il grumo muffito era andato giù con più facilità, così, senza strozzarla.
Un po' della nausea e della confusione erano sembrati sparire come per magia.
“Non ci voglio andare,” aveva bisbigliato con la prima voce che era riuscita a racimolare. “Non mi ci mandare.”
L'uomo l'aveva fissata con aperta perplessità:
“Dove?”
“Azkaban. Non ci voglio andare.”
L'uomo l'aveva guardata in silenzio per un lungo istante. Lei non avrebbe potuto giurarlo, ma per un attimo le era sembrato – per un attimo, solo per un brevissimo, fugace attimo – che nei suoi occhi passasse qualcosa che avrebbe potuto anche essere scambiato per pietà.
“Non ho intenzione di mandartici,” le aveva detto. “Bevi un altro sorso.”
Lei aveva bevuto un altro sorso di quella cosa che puzzava e sapeva di amaro, ma che le faceva passare il dolore alla testa e che acquietava il desiderio di vomitarsi anche l'anima.

“Io sono il professor Severus Piton,” le avrebbe detto lui qualche giorno più tardi. A quel punto lei aveva già trangugiato un'infinità di bicchieri ripieni di cose disgustose, viscide e dense, e alcune avevano avuto sapore di ruggine ed un odore vago di sangue, altre di limone, altre ancora avevano emanato un disgustoso odore di calzini sporchi. Era stata nutrita. Aveva potuto lavarsi. Aveva addosso vestiti puliti e un paio di scarpe che non erano le sue, ma che erano calde e comode e in buone condizioni. Si sentiva bene: per la prima volta da mesi e mesi si sentiva lucida.
“Puoi chiamarmi professore o signore, come preferisci. Hai un nome?”
Babbana, aveva detto la voce di Cormac McLaggen da qualche parte nel fondo della sua testa, lurida Babbana, inutile, feccia, Babbana. Lei l'aveva soffocata in un angolo; in cerca di una qualche forma di sollievo dalla vergogna e dall'umiliazione, si era ricordata del sangue che gli era schizzato fuori dal petto ad ogni colpo di coltello – ma anche quella era stata una memoria piena di nausea, di schifo, di dolore cocente. Non le aveva portato alcun conforto.
“Gabrielle,” aveva risposto all'uomo. Sentire il suono del suo nome le aveva acceso in petto uno strano fuoco: era come la voce di un morto, lontana e piena di eco, satura delle memorie di quella che sembrava essere stata la vita di qualcun altro, un mondo di vite prima di questa. Il suo nome l'aveva riempita come il cibo, in maniera diversa dal cibo, saziando una fame che non aveva saputo fino a quel momento di avere. Babbana, aveva detto ancora McLaggen. Lei l'aveva respinto con fastidio.
“Mi chiamo Gabrielle Gordon.”

***



La ragazza lo stava aspettando nel laboratorio, seduta sulla solita sedia dallo schienale appoggiato alla parete. Si alzò in piedi, quando lo vide entrare, fissandolo con un miscuglio di ansia lieve, sollievo e qualcos'altro che Piton non riuscì bene a decifrare.
“Professore.”
“Gordon,” replicò lui, con un profondo sospiro d'esasperata impazienza. “Quando ho detto che desideravo che non mettessi piede fuori di qui, non mi stavo riferendo in maniera specifica e ristretta al laboratorio. Pensavo che questa fosse una deduzione tanto lampante da non meritare d'essere ulteriormente messa in chiaro, ma evidentemente mi sbagliavo.”
La ragazza si schiarì la voce:
“Sì, professore. Voglio dire, no, professore. Avevo, uh, avevo capito che non dovevo uscire dal magazzino, non dal laboratorio.”
Severus inarcò un sopracciglio. Gabrielle spostò il proprio peso da un piede all'altro, evidentemente a disagio, prima di domandare:
“Va tutto bene?”
Severus si prese del tempo per estrarre la lettera da una tasca del mantello e posarla sul piano di lavoro. Constatò infastidito che il tessuto interno della fodera delle sue vesti cominciava a cedere; c'era un numero limitato di riparazioni che poteva essere effettuato con l'uso della magia, prima che la trama stessa della stoffa prendesse a sfaldarsi. Da qualche parte ad Hogwarts, se nessuno li aveva ancora buttati via, dovevano esserci i suoi vestiti ripiegati in un baule: la veste di velluto verde scuro per le grandi occasioni, acquistata con i risparmi di un anno di lavoro, gli abiti neri da insegnante, di tessuto spesso e pesante per ripararlo sia dal freddo dei sotterranei che dagli eventuali accidenti comprendenti lo spargimento di pozioni possibilmente corrosive, il mantello che era stato l'ultimo regalo di Natale di Albus. Mettere piede ad Hogwarts era al momento impensabile, e così se ne andavano le sue vesti buone, i suoi libri rari, una foto di Lily a tredici anni nascosta all'interno di un taccuino e le poche altre cose che costituivano tutto il bagaglio di Severus Piton, professore di Pozioni, spia e Mangiamorte.
Avrebbe dovuto chiedere un aumento ad Albus quando ancora poteva, considerò acidamente. Forse non l'avrebbe aiutato nella situazione nella quale si trovava ora, ma di sicuro gli avrebbe permesso di rimpiangere un baule meglio fornito.
“Professore...?”
La voce cauta ed esitante della ragazza lo spinse ad alzare la testa, riscuotendosi. La considerò con un'occhiata, accarezzando con due dita, distrattamente, il dorso della lettera di Hermione Granger. Tra Pozioni Rimpolpasangue, decotti di valeriana e stimolanti per l'appetito, Gordon aveva messo su diversi chili nel corso degli ultimi mesi: appariva ancora ossuta e allungata come l'adolescente mal cresciuta che era, ma non più dolorosamente magra. Le sue spalle si erano allargate, stirandosi, sulle braccia e sulle gambe erano apparsi muscoli che prima non c'erano. Era ancora prudente e insicura quanto un animale colto una volta con una zampa in una trappola – per quanto potesse guarire, sanarsi, sarebbe rimasta sempre la cicatrice, da qualche parte, sepolta sotto ad uno spesso strato di ferocia e di rancore.
Severus le indicò la lettera:
“Puoi leggerla. Preferirei, anzi, che lo facessi.”
Gabrielle ne parve sorpresa. Probabilmente non s'era aspettata che le venisse detto niente: Piton aveva badato bene a centellinare le informazioni il più possibile, in quei mesi, limitandosi a tutto ciò che doveva necessariamente essere inserito in un'istruzione per renderla comprensibile. I lunghi anni al servizio dell'Oscuro Signore gli avevano insegnato che non era saggio affidare troppa conoscenza a qualcuno che andava sul campo, nel mezzo dei nemici: il rischio che fosse catturato e che tutto ciò che sapeva gli fosse estorto era troppo alto. Non tutto quello che avrebbe potuto essere fatto normalmente ad un mago poteva essere fatto a Gabrielle, ma c'erano sempre un'infinità di metodi che avrebbero reso inutile qualunque difesa. Nella migliore delle ipotesi, c'era il Veritaserum.
Severus la guardò mentre prendeva la lettera, lanciava verso di lui un'occhiata estremamente incerta e – davanti alle sopracciglia inarcate che ricevette in risposta – apriva l'involto con cautela. La osservò compitare le parole con fatica e si disse, distrattamente, che prima o poi avrebbe dovuto farla sedere davanti ad un tavolino e insegnarle a leggere e scrivere decentemente: l'analfabetismo della ragazza gli era sempre sembrato quasi un insulto personale.
“Leggi ad alta voce, Gordon.”
La ragazza avvampò, il sangue che le arrivava alle guance pallide in una colata, e tutto quel rossore che Severus ricordava come grazioso, poetico, quasi, sul bel viso bianco di Lily, non fece niente per migliorare l'aspetto degli zigomi scarni di Gabrielle. Lei aprì bocca e parve sul punto di obiettare; ma alla fine scosse la testa e obbedì:

Al Prof. S. Piton, lesse lentamente. Esitò ancora, le dita che scorrevano di riga in riga, prima di iniziare:

Hogwarts, Hogwarts, del nostro cuore,
In ogni anno, al tuo calore
Giuriam solenni di ritornare.
Hogwarts, Hogwarts, del nostro cuore.
Grifondoro, la tana dell'audace
Aspetta lieta chi non cerca pace.
Tassorosso la quieta e la serena
E da mane a sera non vi si trova pena.
Corvonero sulla soglia ha scritto:
“Io vi dico, entrate, se ne avete il diritto”.
Ma Serpeverde astuta, ricorda, la verde
Insegna ad attender chi per lei si perde.
Troverai tra noi sempre gli amici sinceri,
Era vero così, domani, oggi e ieri.
Riga sette giorni, nell'ora di settembre,
Oggi ti aspetto ai portoni di novembre.

Hermione Granger.


Gabrielle alzò gli occhi dalla lettera e lo fissò, perplessa:
“Non significa niente.”
“Ha senso, se sai cosa cercare.”
La ragazza aggrottò la fronte. Si rigirò la lettera tra le mani un paio di volte, prima di cambiare approccio:
“Tu conosci questa persona, professore?”
“Dovresti conoscerla anche tu.”
Gabrielle sbatté le palpebre, incerta, e Severus sospirò e si volse: agitò la bacchetta verso la scrivania premuta contro un angolo del laboratorio ed uno dei cassetti si aprì senza far rumore, permettendo ad una cartella di pelle rigida di emergerne e di dirigersi fluttuando verso di lui. Severus l'afferrò e ne estrasse un ritaglio di giornale, che tese alla ragazza. Era un vecchio ritaglio già ingiallito e piuttosto sciupato: sotto ad un grosso titolo che occupava quasi mezza pagina con l'annuncio trionfale della morte dell'Oscuro Signore c'era una foto di tre ragazzi non ancora del tutto adulti, i visi sporchi e i capelli arruffati, le espressioni spossate e un po' sconvolte di chi sia appena passato attraverso un inferno o due e ne sia riemerso sorpreso di scoprirsi, tutto sommato, senza troppi danni. La vista della testa nera e riccia nel mezzo causò a Severus un familiare moto d'ira, ma fu la terza testa da sinistra quella che indicò a Gabrielle:
“La riconosci?”
Gabrielle guardò il ritaglio di giornale e il viso della ragazza nella foto – chiuso e stanco e rovinato, pieno di graffi, gli occhi gonfi di lacrime e occhiaie – e si morse le labbra.
“Oh,” disse solo.
Oh, già.” Severus lasciò cadere la fotografia sul piano di lavoro. Pensò d'aggiungere un paio di commenti taglienti sull'evidente incapacità della ragazza di conservare le informazioni rilevanti in quell'ammasso di tessuti molli che chiamava cervello, ma Gabrielle pareva sufficientemente a disagio già così e Severus doveva fare uno sforzo, a volte, per ricordare che quello che aveva davanti non era uno studente, pigro e noioso e fondamentalmente inutile. Intimidirla era un sistema efficace per assicurarsi che gli avrebbe obbedito senza discutere, ma abusarne poteva essere deleterio a lungo termine.
La ragazza si schiarì la voce:
“Se è... se è lei, non è... voglio dire...”
Certe volte era veramente difficile controllare il sarcasmo.
“Prova a dirlo con parole tue, signorina Gordon.”
Il tono pungente sembrò sbloccare l'incertezza della ragazza come per magia:
“E' amica di Harry Potter,” disse, puntando un dito contro la lettera. “Se ti ha mandato una lettera, professore, non è... è una trappola?”
Piton inclinò il capo da una parte:
“Forse.”
Gabrielle esitò. Nuovamente, lisciò la pergamena che teneva tra le mani, prima di sollevarla:
“E cosa significa...?”
“Leggi la prima lettera di ogni riga. Solo la prima lettera.”
Gabrielle sgranò gli occhi, sorpresa. Obbedì, e Piton la osservò muovere le labbra in silenzio per compitare la stringa di lettere:
“Ad alta voce.”
“H... I... GH... G... A... T... E... CI... M... I... T... E... R...” Gabrielle si interruppe. “Highgate. Il cimitero di Highgate.”
“Dieci punti alla signorina Gordon,” commentò Piton con un sorrisetto sulle labbra. “Dimmi quando e i punti diventeranno venti.”
La ragazza chinò nuovamente la testa sulla lettera. Rimase in silenzio per un lungo istante, prima di azzardare:
“Il sette novembre...?”
Piton reclinò impercettibilmente il capo in un gesto d'assenso. La fronte di Gabrielle si aggrottò nella perplessità:
“E allora cosa c'entra questa cosa su settembre, professore? Riga sette giorni, nell'ora di settembre... Ma settembre è già passato!”
“Arguta osservazione, Gordon,” Gabrielle si limitò a fingere di non cogliere il sarcasmo che l'uomo distribuiva generosamente a manciate, e Piton si rassegnò, dopo un attimo di silenzio, a concedere: “Il riferimento è impossibile da cogliere, probabilmente, per chi non sia stato uno studente di Hogwarts. Chi non è mai stato studente ad Hogwarts non ha mai avuto il dubbio piacere di ascoltare il Cappello Parlante. E chi non è mai stato studente ad Hogwarts non sa che c'è un certo treno che parte da King's Cross alle undici in punto, il primo giorno di settembre.”
Gabrielle chinò il capo per fissare la lettera. Tacque per un attimo, prima di domandare:
“Perché una poesia...? Non poteva scrivere semplicemente ci vediamo lì, a quest'ora qui, non tardate o me ne vado? Non era...” La ragazza si interruppe. “Aveva paura che la lettera la leggesse qualcuno che non eri tu, professore?”
“Altri cinque punti per l'arguzia dimostrata, signorina Gordon,” replicò Piton, pianamente. “Suppongo sia stata precisamente questa la ragione ad averla spinta a questo incongruo tentativo... poetico.” Piton pronunciò poetico con tutto il disgusto che generalmente si infondeva in un obbrobrioso.
“Ma se l'hai capito tu, professore, quello che c'era scritto, anche altri potevano.”
“Possibile.” Piton aggrottò la fronte, lasciandosi cadere seduto su una sedia. “Ma improbabile. La signorina Granger ha dimostrato, molti e molti anni fa, di non essere estranea ad una certa, precoce, capacità logica. Sfortunatamente, lo stesso non posso dire per molti tra i suoi coetanei.”
La breve, profonda pausa di silenzio che seguì venne rotta dalla voce rauca di Gabrielle:
“Vuoi andarci, allora, professore?”
L'uomo alzò gli occhi e la fissò in viso.
“No.”
Gabrielle parve sorpresa:
“No?”
“No. Non io. Ci andrai tu.”
La ragazza lo guardò e per un attimo non disse niente. Piton aggrottò la fronte:
“Hai qualcosa in contrario, Gordon?”
Gabrielle scosse la testa con veemenza:
“No, professore.” E poi, il tono cauto: “Posso davvero?” Piton le lanciò un'occhiata bizzarra e la ragazza si spiegò: “Credevo di non dover uscire da qui.”
Piton tamburellò con le dita sul tavolo che aveva accanto, per un attimo, prima di rispondere:
“La cosa più prudente sarebbe che tu restassi qui, sì. Tuttavia, la zona circostante il cimitero di Highgate è piuttosto frequentata dai Babbani: passerai infinitamente più inosservata lì che non nei dintorni di Spinner's End. Inoltre è molto più probabile che la signorina Granger riconosca me che non che riconosca te, foto o meno, e finché non saremo certi delle sue... intenzioni...” Lasciò sfumare la voce. “E' un rischio ragionevole da correre.”
Le lanciò l'ennesima, lunga occhiata ed il suo sguardo penetrante colse con fastidio le maniche slabbrate della maglia logora, i pantaloni scuri con la gamba rattoppata là dove l'asta di metallo, ad Hogsmeade, le aveva attraversato la coscia. I vestiti di Gabrielle, come tutte le cose nel magazzino alla foce del Tamar, avevano un aspetto vecchio e consunto.
Piton prese in considerazione quel che restava dei suoi risparmi – e che sarebbe stato necessario a mantenerlo ancora per molto, molto tempo, se qualcosa non fosse cambiato in fretta – ed esitò per un istante, prima di emettere un sospiro sibilante ed aggiungere:
“L'appuntamento è in tarda mattinata. Voglio che, prima di recarti al cimitero, tu ti fermi ad acquistare qualcosa di... decorosamente civile... da indossare. Vestiti Babbani,” specificò, con un filo di disgusto nella voce. “Quelli che hai addosso al momento sembrano stracci.”
Gabrielle non arrossì e non parve insultata; allargò le braccia e si guardò, perplessa, prima di informarsi in tono prudente e lievemente perplesso:
“Tu vuoi che vada a fare... compere, professore?”
Piton alzò gli occhi al cielo:
“Precisamente.”
Gabrielle lo guardò fissamente, con un'espressione che lasciava intuire chiaramente che pensasse che Piton si fosse bevuto il cervello, e l'uomo sbottò, il tono esasperato che assumeva una sfumatura leggermente ringhiosa:
“Se non hai altro da fare, Gordon, puoi andare a trascinare la tua inutilità in un'altra stanza. A numerose porte di distanza da questa, possibilmente.”
“Uh, sì... sì, professore.” Gabrielle inghiottì, richiudendo la bocca che aveva spalancato per un attimo. Fece per muovere qualche passo verso la porta, ma poi si fermò e lo fissò ancora, curiosamente. Piton le rivolse un'occhiata minacciosa:
“Signorina Gordon...”
Il rumore della porta chiusa risuonò un microsecondo più tardi.





Note della storia: Ed eccoci tornati. Prima di tutto, qui potrete trovare il sito del cimitero di Highgate, uno dei numerosi cimiteri monumentali - e uno tra i più belli - della città di Londra. Qui, invece, per una spiegazione del titolo.

Nel frattempo, di questa storia sono riuscita a scrivere solo un altro capitolo: mi sono bloccata a due capitoli di distanza da qui e non sono ancora riuscita a liberarmi di un momento critico; ma ho deciso di pubblicare i capelli già pronti, nel frattempo, per non far perdere la speranza a quei pochi lettori che stanno (o stavano? x°D) seguendo questa storia.
Un grazie a tutti voi che siete rimasti, e due volte grazie a chi si fermerà a lasciarmi un'opinione. Questa storia è un po' un esperimento, e devo racimolare l'entusiasmo per scriverla andando avanti.

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Capitolo 9
*** Davanti al bivio ***





- 8 - Davanti al bivio



Nel momento in cui il corpo di Tom Orvoloson Riddle, Lord Voldemort, Signore Oscuro, nemesi e tormento di Harry Potter, si era inarcato senza grazia in un'esplosione di luce verde, venendo sbalzato all'indietro ed accasciandosi, dopo un brevissimo volo, sul pavimento della Sala Grande in un cumulo di membra troppo pallide e vesti nere, Hermione Granger si era trovata a guardarlo cadere senza sollievo e senza gioia, troppo svuotata per riuscire a racimolare un qualunque sentimento.
Per un attimo tutta la Sala era rimasta in silenzio: le due ali di folla schierate lungo le pareti, accalcate attorno ai tavoli, in piedi sulle panche, sulla pedana della tavolata dei professori, appoggiate alle pareti, alle sedie, aggrappate agli stendardi lacerati, avevano fissato Harry Potter, Il Ragazzo Che Era Sopravvissuto Di Nuovo, e nessuno aveva osato muoversi.
Harry aveva fatto un passo avanti, poi un altro. Aveva raggiunto il cadavere di Voldemort e, senza una parola, gli aveva premuto un piede sul petto.
Ed Hermione non era riuscita a distogliere lo sguardo. Aveva pensato ad Harry, Harry gentile che si era illuminato in viso in quei cinque minuti in cui aveva creduto che gli sarebbe stato permesso di andare a vivere con Sirius, Harry gentile che aveva fissato estasiato ed incredulo Ginny, certe volte, come se non riuscisse a credere alla fortuna di poterla baciare, Harry gentile che l'aveva consolata quando Ron l'aveva lasciata sola. Harry. Era il suo migliore amico.
Gli occhi di Harry erano freddi come finestre in inverno.
Mentre la Sala Grande si riprendeva dallo choc e dalla sorpresa, lentamente, e cominciava a gioire e a festeggiare e a muoversi verso il suo Salvatore, Hermione non aveva potuto far altro se non starsene lì e guardarlo, senza osare muoversi, senza osare parlare. Se avesse toccato Harry tutto sarebbe diventato reale, aveva pensato confusamente. Se avesse toccato Harry...
Ripensando a quei momenti, adesso, pensava che dovesse essere stato quello il punto, il bivio, che li aveva trascinati tutti sulla strada sbagliata.

***



Quel mattino la sveglia era sembrata squillare intollerabilmente presto: intorpidita dal sonno, Hermione si era sporta dal letto e le aveva assestato una pacca per spegnerla. Si era rotolata tra le coperte per un attimo, senza il minimo desiderio di alzarsi e lasciare il calore del letto e dei cuscini, prima di fissare il soffitto e ricordare perché la sveglia aveva suonato adesso, quando il sole non era ancora sorto e la città era ancora immersa nel buio.
Per un attimo aveva immaginato di poter allungare una mano e posarla sulla spalla di Ron – ma Ron non c'era, e il letto aveva una metà vuota. Il freddo, così, sembrava intridere le lenzuola.
Dopo un istante di immobilità, Hermione si tirò a sedere e buttò via le coperte.
Una doccia e un paio di tazze di caffè più tardi si sentiva molto meglio. Non c'era stato modo di cancellare la debole sensazione di nostalgia struggente, ma aveva una giornata piena, davanti a sé, molte cose da fare. Mentre sistemava le sue cose in una borsa si accorse di avere lo stomaco invaso da uno sciame inaspettato di farfalle: era una sensazione che le era mancata, quella, la sensazione che quella mattina tutte le cose potessero accadere, tutte buone cose, tutte possibilità e speranze e opportunità da cogliere. L'immagine di un ippogrifo levato in volo in un cielo pieno di nuvole e stelle le si affacciò alla memoria ed Hermione la accarezzò amorevolmente, per un lungo momento, prima di metterla da parte.
Riempì la ciotola dei croccantini e quella dell'acqua per Grattastinchi, grattandogli la schiena quando questo le si strusciò contro una gamba. Lesse il giornale che il gufo del Profeta le aveva lasciato sul tavolo del soggiorno, tenendolo con una mano sola ed usando l'altra per lavarsi i denti. Le notizie erano le solite: ce n'era qualcuna buona, qualcuna cattiva, e poi tutte quelle che riguardavano i Babbani. Il Primo Ministro avrebbe partecipato ad una cerimonia pubblica nell'Atrium del Ministero. Si sarebbe tenuto in giornata il processo a Raymond Muller, recentemente arrestato, accusato di aver preso parte ai Sette Giorni di Londra due anni prima. Il terzo appello di Cornelius Caramell aveva abbreviato la sua condanna a due mesi da scontare ad Azkaban e cinque anni di allontanamento dalla comunità magica, privato della possibilità di usare una bacchetta e di usufruire dei servizi della Metropolvere, del Nottetempo e del San Mungo; era stato un giudizio clemente, aveva sostenuto un membro del Wizengamot che aveva preferito rilasciare anonimamente la propria dichiarazione al quotidiano, in considerazione dei venticinque anni ad Azkaban ai quali era stata condannata Dolores Umbridge, colpevole di crimini contro la comunità magica per aver assecondato i delitti e le atrocità del governo insediato dal Signore Oscuro prima della definitiva distruzione di questi.
Hermione ricordava una ciotola piena di essenza di Purvincolo, i tagli sulle mani di Harry che si erano ricoperti di pelle bianca, con il passare dei giorni, divenendo solo altre cicatrici per lui. Io non devo dire bugie, inciso nella carne, per essersi sforzato di dire tutta la verità.
Non provava pietà per la Umbridge, orribile, orribile donna, reinsediata al Ministero nel 1996 per occuparsi di stendere opuscoli orrendi contro i Babbani e tutti quelli che in una famiglia Babbana erano nati, cresciuti, che aveva cacciato l'occhio del professor Moody nel battente di una porta, che aveva gioito della sofferenza e del terrore altrui: ma non era certa che questa mannaia alzata sulla sua testa – sulle teste di tutti – carica di giudizi ferocemente giusti, fosse quello di cui il mondo aveva bisogno, adesso.
Quando si accostò finalmente al baule che riposava indisturbato da anni in un angolo della sua camera da letto, dalle finestre già filtrava la luce pallida ed azzurrata dell'alba in arrivo; West Harrow era ancora silenziosa e quieta dietro ai vetri chiusi, ma a breve avrebbero cominciato a sentirsi le prime macchine, le prime porte che si aprivano, il camion della nettezza urbana che passava due strade più in là. Hermione batté tre volte con la bacchetta sul baule e si inginocchiò davanti ad esso; salmodiò la lunga stringa di un incantesimo piuttosto articolato e picchiettò ancora con la bacchetta sulla serratura. Esitò solo per un istante, poi, con le dita posate sul legno.
Faceva ancora in tempo a richiuderlo, si disse. Non c'era ragione di credere che il professor Piton si sarebbe presentato veramente... e, se anche si fosse presentato, che cosa sarebbe cambiato? Piton poteva essere veramente quello che lo accusavano di essere, un Mangiamorte e un traditore. Tutto quello che stava accadendo al Mondo Magico poteva essere la miglior cosa possibile. Le Leggi per l'Integrazione forse erano davvero una soluzione, forse avrebbero portato davvero la speranza. Hermione non poteva essere certa di essere nel giusto.
Di nuovo rivide l'ippogrifo e l'espressione determinata di Harry, che non aveva esitato un solo istante a buttarsi in mezzo ai Dissennatori – per quanto ne fosse terrorizzato, Hermione lo sapeva, orribilmente, totalmente, assolutamente terrorizzato – pur di impedire che ad un innocente venisse recato danno.
Hermione strinse i denti.
“Da qui non si torna indietro.” bofonchiò. Spinse il coperchio, e il baule si aprì.
C'erano diverse cose al suo interno: una copia logora e consunta di Storia di Hogwarts, l'orlo rovinato che mostrava i segni di troppe, amorevoli letture, faceva bella mostra di sé su di una vecchia divisa nera accuratamente ripiegata. Una mezza zanna – che, seppur rotta, era lunga quasi quanto un intero avambraccio – se ne stava seminascosta contro un angolo, accanto a qualcosa che rassomigliava grandemente ad una clessidra dalle pareti crepate appesa ad una sottile catena d'oro. C'era una pila di lettere chiusa da un nastro: tutte le lettere che Hermione era stata più felice di ricevere, mandate dalle persone che più aveva amato. In cima alla pila, una bella busta recava il sigillo di Hogwarts e l'indirizzo Sign. H. Granger, Stanza verde, Covent Street 14, Londra. Perso nel mezzo c'era, incongruo e inaspettato, un Galeone d'oro dall'aspetto ossidato.
Hermione scansò la divisa, lisciandone le pieghe con dita istintivamente amorevoli, e cercò nel fondo del baule finché le sue dita non incontrarono qualcosa di invisibile, che crepitò debolmente quando lei lo estrasse. Lei agitò la bacchetta e pronunciò una seconda stringa di parole latine, prima di portarsi l'involto alle labbra: quando vi espirò sopra, l'oggetto scintillò e ricomparve. Era un incarto dall'aspetto modesto, tenuto insieme da diversi giri di spago. Quando Hermione li ebbe sciolti con cura, un bellissimo Mantello dell'Invisibilità dai pesanti drappeggi color dell'acqua scura le scivolò in grembo, facendole scomparire le gambe e i piedi.
Accarezzandolo, Hermione sentì la gola pizzicarle. Non era solo che il Mantello di Harry sembrava intriso dei ricordi di tutto quel che lei aveva vissuto negli anni di Hogwarts, intessuto della stessa materia della quale era stata allora costituita tutta la meraviglia del mondo magico: era anche che sembrava in qualche modo sbagliato, ingiusto, tenerlo tra le mani adesso con il proposito di ingannare il suo proprietario.
“Indietro non si torna.” bisbigliò ancora. “E' per il meglio.”
Se avesse continuato a ripeterselo, forse tutti i dubbi sarebbero scomparsi.
Mise il mantello in borsa e la borsa in spalla. Si chinò per fare un'ultima carezza a Grattastinchi: il gatto la guardò fissamente per un istante, prima di strusciarlesi contro le gambe un'ultima volta, attraversare il soggiorno passando sotto al tavolo e, infine, spingere la gattaiola sulla porta di casa per uscire.
Hermione si aggrappò alla borsa e si Smaterializzò.

Si Materializzò un attimo più tardi nel bel mezzo del Parco Forestale di Hainault, spaventando a morte una coppia di scoiattoli e mettendo in fuga una mezza dozzina di minuscoli uccellini marroni. Nella penombra densa sotto alle chiome degli alberi, con il sole pallido d'inverno che ne tingeva d'oro le cime ma non scendeva fin là sotto, Hermione si appoggiò ad un tronco per aiutarsi a scavalcare una radice e ad aggirarlo. Mosse qualche passo avanti, passò in mezzo ai cespugli, si Smaterializzò di nuovo per ricomparire qualche metro più in là. Le foglie morte scricchiolavano sotto ai suoi piedi, e l'aria fredda ed umida sembrava insinuarlesi dentro la giacca, gelandola fino alle ossa. Prese fiato e si Smaterializzò ancora.
La sua terza Materializzazione la portò all'interno della Cattedrale di San Paolo, accanto ad una nicchia ai piedi della torre dell'orologio. Ricordava di essere entrata lì dentro con sua madre alcuni anni prima: era cambiato qualche arredo, nel frattempo, ma la Cattedrale era sempre la stessa, quieta e buia nell'alba azzurrata. Una quarta Smaterializzazione la fece comparire da qualche parte nel Sutton: se avesse alzato la testa avrebbe visto la facciata familiare della casa di un'ex compagna di classe – Mary Ann Pretchett, Babbana, ottimi voti in inglese e matematica, ma sempre la seconda della classe (e sempre molto poco felice di esserlo) – ma il fiato le mancava a causa di tutti quei balzi.
Si portò una mano agli occhi, sperando che tenerli coperti l'avrebbe aiutata a placare la sensazione di stordimento che l'aveva assalita, ma tutto quel che riuscì ad ottenere fu aggiungere la nausea allo stordimento. Dovette aspettare diversi minuti prima di potersi Smaterializzare ancora.
Ricomparve nei bagni della stazione della metropolitana di Euston: a quell'ora non solo erano deserti, ma la ditta di pulizie non era ancora passata ad aprirne le porte. Hermione si guardò intorno, ad ogni modo, prima di decidere che effettivamente non c'era nessuno e che poteva fermarsi a riprendere fiato sul serio, adesso. Rimase appoggiata per un po' ad una parete, aspettando che la nausea e la confusione scomparissero. Aprì un rubinetto e si sciacquò il viso e la bocca. Quando si sentì meglio, si tolse la borsa dalle spalle e ne estrasse il Mantello dell'Invisibilità: la stoffa scintillò debolmente tra le sue mani, frusciando mentre Hermione se la drappeggiava sulle spalle. Guardandosi allo specchio sopra ai lavandini, non riuscì a trovarsi riflessa nel vetro. Rimettendosi la borsa in spalle, si assicurò che il Mantello la coprisse interamente, senza lasciarle scoperti i piedi, prima di marciare fino alla porta e toccarne il battente con la punta della bacchetta.
Alohomora,” bisbigliò.
Teneva la bacchetta in una guaina all'avambraccio, protetta dalle maniche piuttosto larghe del maglione e della giacca. Un cerchio sottile di cuoio al dito medio, facilmente scambiabile per un anello, era fissato magicamente al meccanismo della guaina stessa: bastava un movimento verso l'alto delle dita per far scattare fuori la bacchetta, dritta in mano ad Hermione e pronta all'uso. Bill gliel'aveva regalata per il suo diciannovesimo compleanno: lei aveva pensato che sarebbe stata presto la signora Granger-Weasley, allora, con i suoi M.A.G.O. ancora freschi e tante speranze per il domani.
Curioso quanto poco bastasse ad illuminare nuove prospettive.
Sgattaiolò fuori dai bagni di Euston e scese le scale che portavano alle pensiline della metropolitana, direzione High Barnet. C'era una donna dalla pelle scura con una gran massa di capelli riccissimi ad aspettare pazientemente seduta su una panca, ed un paio di ragazzi con gli zaini a tracolla qualche metro più in là. Hermione si spostò la borsa sul petto per meglio tenerla d'occhio e aspettò pazientemente che la metropolitana arrivasse.
Il viaggio fu rapido e tranquillo: la metropolitana era semivuota, i vagoni illuminati come case fantasma artificiali e scarne. La donna con i capelli ricci era salita con lei, ma i due ragazzi erano rimasti sulla pensilina. I passeggeri già a bordo erano pochi e dispersi, ed Hermione non dovette preoccuparsi di calpestare accidentalmente i piedi di nessuno.
Avere il Mantello di Harry sulle spalle, lì, era quasi peggio che tenerlo tra le mani pensando a cosa sarebbe servito. Era un tradimento, pensò qualcosa in lei. Come un tradimento. Appoggiò la fronte al vetro del portello, socchiudendo gli occhi. Dio, quando aveva cominciato a diventare tutto così difficile...? Neanche l'anno terribile trascorso sfuggendo a Voldemort lo era stato così tanto, perché al tempo aveva avuto Harry davanti a sé, Ron al suo fianco. Non era mai stata veramente sola.
Scese ad Highgate ed aspettò che la metropolitana fosse ripartita, allontanandosi sferragliando sui binari, prima di imboccare le scale verso l'uscita.
Il sole si era alzato, nel frattempo, e le strade erano invase dalla luce limpida di una rara giornata di bel tempo; nel cielo azzurro fluttuavano nuvole traslucide e spumose, e le foglie degli alberi frusciavano dolcemente sulla sua testa. Adesso c'era più gente per strada, uomini e donne elegantemente vestiti, qualche ragazzo, un bambino spinto in una carrozzina da una signora molto anziana: era tutto così completamente normale e così assolutamente Babbano, lì, da non dare nemmeno l'impressione di essere ancora nello stesso mondo dal quale Hermione era venuta.
Highgate era verde, bella e ricca. Non aveva nulla a che vedere con la West Harrow dalle basse case a schiera, con i suoi giardini piatti e le sue strade come una rete di linee rette, silenziosa e poco animata sia di giorno che di notte. Ad Highgate i negozi per le vie erano aperti e pieni di vita; i Babbani si fermavano a fare colazione lungo la strada e a comprare libri e giornali alle edicole. I cancelli del cimitero si aprirono di fronte ad Hermione quasi d'improvviso, stagliandosi sotto una coltre autunnale di alti alberi antichi, nel mezzo di una cinta di mura grigie ed umide come quelle di Hogwarts.
Era troppo presto per entrare pagando il biglietto, ma Hermione non se ne preoccupò. Protetta dal Mantello dell'Invisibilità, studiò attraverso la cancellata il punto adatto in cui atterrare e si Smaterializzò ancora una volta.
Dentro, la terra era soffice sotto le sue scarpe, umida e gonfia di rugiada. L'erba era lucida come un gioiello; sopra di essa, le foglie cadute disegnavano un disegno d'oro pallido e rosso in mezzo agli alberi. Era malinconico e silenzioso. Le tombe di pietra avevano lo stesso grigio scuro delle mura, certe lapidi erano inclinate o rovinate, di altre non si leggevano più i nomi e le date. Hermione si rannicchiò ai piedi di un albero, il Mantello raccolto attorno a sé, e si predispose all'attesa.

***



Il giorno in cui Hermione Granger aveva scoperto di non poter più credere al suo migliore amico era stato lo stesso in cui quello che sarebbe stato ricordato poi come il più terribile diluvio degli ultimi dieci anni si era abbattuto su tutta Londra. Dopo tre ore di pioggia ininterrotta la città si era trovata con l'acqua alle caviglie; mezza giornata più tardi in certe zone di periferia le macchine galleggiavano verso gli scarichi e uno strato compatto di foglie morte e rifiuti si era accumulato ai bordi delle strade. Il traffico era intasato, la metropolitana bloccata. Hermione aveva spalancato le porte dell'ufficio del Ministro della Magia con la Gazzetta del Profeta tra le mani, la giacca intrisa di pioggia e un'espressione furiosa stampata in viso.
Harry aveva alzato la testa dal fascicolo che stava studiando e l'aveva fissata dapprima con sorpresa, poi con preoccupazione:
“Hermione?”
“Che cosa significa questo?” aveva ringhiato lei, sbattendogli il giornale sulla scrivania.
Harry aveva lanciato un'occhiata ai titoli in prima pagina e le sue spalle si erano impercettibilmente abbassate. Era rimasto in silenzio per un lungo istante, il capo chino, prima di guardare nuovamente verso di lei.
“Ti prenderai un malanno,” aveva detto, quietamente. “Sei tutta bagnata.”
Aveva agitato la bacchetta verso Hermione, che aveva sentito il maglione e il cappotto asciugarsi istantaneamente, tornando caldi, soffici e comodi da indossare. I capelli le crepitarono attorno al capo, gonfiandosi disordinatamente e dandole un aspetto selvaggio e leonino.
Non era stato che un piccolo pensiero, ma era bastato ad ammorbidire il cuore di Hermione. Per un attimo, persa di fronte all'orrore infinito di quello che aveva trovato a colazione sulla Gazzetta, si era dimenticata che quello che stava andando ad affrontare era Harry, Harry, il suo amico Harry.
“Harry...” aveva mormorato, angosciata. Il ragazzo aveva alzato una mano per trattenerla, prima di girarsi e fare cenno all'assistente che era corso dietro ad Hermione per cercare di fermarla.
“E' tutto a posto, Bartleby,” gli aveva detto. “Può lasciarci da soli.”
L'assistente aveva rivolto un'occhiata estremamente sospettosa ad Hermione. Alle sue spalle i due Auror in servizio perpetuo davanti alla porta dell'ufficio si erano scambiati un'occhiata, prima di scrollare le spalle e ritornare ai loro posti. Il battente si era chiuso alle spalle di Bartleby con un suono soffice ed ovattato.
Nel silenzio dell'ufficio, Hermione aveva disteso il giornale.
“Harry,” l'aveva chiamato ancora, la voce rauca e lievemente supplichevole: “Dimmi che quel che c'è scritto qui non è vero.”
VENTICINQUE ANNI AD AZKABAN PER GLI ASSASSINI DEI SETTE GIORNI DI LONDRA, sosteneva il titolo in prima pagina.
Le dita di Harry erano passate lentamente sul foglio. Hermione aveva guardato la foto in bianco e nero, i visi dei Babbani come colti di sorpresa dallo scatto, mentre sbattevano le palpebre e alzavano le mani ammanettate per ripararsi dai flash. Erano in ventitré – ed erano tutti ad Azkaban, adesso.
“Il loro attentato al Ministero ha causato la morte di settantanove tra Maghi e Babbani, Hermione,” aveva detto Harry pianamente. “Cosa avresti voluto che facessimo? Che dessimo loro una pacca sulla spalla e che li rimandassimo a casa?”
“Avrei voluto che venissero processati dai Babbani! Sono Babbani, Harry! Il loro mondo è stato stravolto da un giorno all'altro, non possiamo... Cosa siamo, adesso? Giudici, giuria e boia?”
“Il maggior numero di morti sono stati tra i Maghi. Ieri mattina ho firmato l'assegno d'invalidità per Kathrine Hill. Ha perso entrambe le mani, e il San Mungo non è in grado da curare le ustioni sui moncherini. Non terrà mai più una bacchetta tra le dita. Non ha più dita per tenerla. Ha una figlia di sei anni che non potrà mai più abbracciare. Con che faccia avrei potuto dirle che i Babbani che hanno fatto questo non avrebbero ricevuto il processo che meritano?”
“L'avrebbero ricevuto anche fuori da qui! Il governo Babbano...”
“Il governo Babbano è nel caos, Hermione,” replicò Harry in tono quieto. “E, ad ogni modo, non sarebbe stata la stessa cosa. Dovevano essere processati da noi. Qui. Servirà a dare l'esempio per tutti gli altri.”
Hermione aveva avuto l'improvvisa, orribile, soffocante impressione di essere appena stata cacciata in una vasca piena d'acqua ghiacciata. Il mondo le stava turbinando attorno e non c'era niente al quale potesse appigliarsi, niente che potesse salvarla. Niente che potesse restituire stabilità al suo universo.
“Credevo che lo Statuto di Segretezza fosse stato abolito per questo,” aveva bisbigliato. “Per metterci alla pari. Perché nessuno come Voldemort potesse più prendere il potere.”
Harry l'aveva guardata con dolcezza ed aveva allungato una mano per cercare di stringere quella di lei:
“ E così sarà, Hermione. Ma...”
Hermione aveva ritratto la mano di scatto.
“No!” aveva sbottato. “No, Harry, no. State... il Wizengamot ha deciso di dare i figli dei Babbani rinchiusi ad Azkaban ai Maghi e tu non stai facendo niente per impedirlo!”
“Saranno adottati. Le famiglie che li prenderanno li tratteranno come figli.”
“Saranno come Magonò, Harry! Nessuno di loro è un Mago! Perché non restituirli alle loro famiglie? Avranno parenti... amici... tutori... qualcuno che li prenderebbe con sé, no?”
“Non è questo il punto, Hermione. Se vivranno nel Mondo Magico si integreranno. Saranno...”
“Si integreranno come ti sei integrato tu, Harry? Non è questo che ti ha fatto Silente?”
Si erano fissati, lei ed Harry, ed Hermione aveva sentito un lungo brivido scorrerle per la colonna vertebrale, improvviso e raggelante, perché l'espressione di Harry, Harry gentile, il suo migliore amico, era terribile, vuota e fredda, con la medesima ira feroce che lei gli aveva visto in viso un attimo prima che uccidesse Voldemort.
Hermione non aveva toccato la bacchetta neanche allora – perché quello era Harry, Harry, Harry! – ma per un attimo non era stata del tutto certa che lui non l'avrebbe aggredita.
Invece, Harry aveva preso un respiro profondo ed aveva abbassato la testa:
“Non pretendo che tu capisca, Hermione.”
C'era stato un attimo di pausa. E poi:
“Bene,” aveva mormorato lei. “Perché io non capisco.”
L'ira sul volto di Harry era stata sostituita da un'improvvisa sofferenza: Hermione l'aveva guardato negli occhi ed aveva visto che era ferito, addolorato, dal fatto che lei non lo stesse appoggiando.
“Non sei con me?” le aveva chiesto Harry.
“Non in questo,” aveva risposto Hermione. Aveva sentito il proprio stesso cuore andare in pezzi a quell'ammissione, e si era chiesta cosa potesse provare lui. “Ripensaci,” l'aveva implorato, sporgendosi verso di Harry. “Ti prego. Questa è pazzia, Harry. E' il primo passo verso quello che la Umbridge avrebbe voluto fare, è... è qualcosa che Voldemort avrebbe potuto fare, non tu. Ti prego, Harry. Tu non sei così.”
Ma Harry l'aveva guardata e per un lungo istante non aveva detto niente; e quel che era uscito dalle sue labbra, alla fine, mentre le sue mani già ripiegavano il giornale e lo lasciavano cadere nel cestino della cartastraccia accanto alla scrivania, era stato solo:
“Buona giornata, Hermione.”

Lei era scesa al piano di sotto, poi, Dipartimento per il Controllo e la Regolazione delle Creature Magiche. Era stata nominata direttrice da meno di tre mesi. Aveva rassegnato le dimissioni quella stessa mattina e poi aveva lasciato il Ministero, si era lasciata Harry alle spalle, ed era andata a cercarsi un lavoro nella Londra babbana.
Era stato il 24 Novembre 1999.

***



Nel cimitero di Highgate erano le undici, adesso, ed Hermione aveva l'impressione di avere il cuore in gola. Si tolse il Mantello, nascosta dietro un albero. Lo ripiegò, lisciandone le pieghe amorevolmente, e lo ripose nuovamente nella borsa.
Dovette prendere un respiro profondo prima di incamminarsi attraverso il cimitero, allo scoperto, esposta e vulnerabile e... e Piton non era in vista da nessuna parte, ma era ragionevole pensare che si fosse dissimulato in qualche modo. Era sempre stato estremamente sospettoso, il professor Piton – aveva dovuto esserlo, probabilmente, pensò Hermione, se era sopravvissuto così a lungo al suo doppio gioco nelle mani di due tra i più potenti maghi del suo tempo.
Era stata lei ad invitarlo, si ricordò. Lei che doveva lasciarsi trovare. Doveva confidare che sarebbe andato tutto bene. Confidare che non ci sarebbero stati gli Auror ad aspettarla, perché una minuscola parte in Hermione pensava che se anche così fosse stato non ci sarebbe stato niente di cui preoccuparsi, dopotutto, perché Harry non le avrebbe mai fatto de male, non a lei, non Harry, ma tutto il resto della sua testa sapeva che non era più ragionevole crederci.
Malgrado ormai fosse orario di apertura c'era poca gente in giro per il parco: una coppietta piuttosto giovane spingeva una carrozzina sul sentiero poco più in là; c'era uno studente seduto ad una panchina con un grosso libro tra le mani ed una cartella posata accanto a sé, e ad un'altra panchina una ragazza che leggeva una rivista dalla copertina lucida. Hermione si lasciò scivolare in mano la bacchetta con un piccolo scatto del polso e bisbigliò a mezza voce, affondando più che poteva il mento nella sciarpa per nascondere il movimento delle labbra, un piccolo, utile incantesimo appreso durante il suo sesto anno ad Hogwarts: tutti quelli che erano nel parco al momento brillarono d'azzurro ai suoi occhi – e soltanto ai suoi occhi – rivelandosi per quel che erano, solamente Babbani. Certo, un Auror in incognito avrebbe potuto probabilmente ingannare l'incantesimo. Forse anche il professor Piton.
Hermione si tenne sul sentiero, passeggiando avanti e indietro: superò la ragazza con la rivista tra le mani, poi la coppietta. Sembravano tutti veramente Babbani. Gli occhi le caddero sul bimbo nella carrozzina: poteva avere forse nove mesi, piccolo e roseo e con una gran testa di capelli finissimi e neri. Hermione e Ron avevano pensato di avere presto dei figli, il prima possibile, quando la guerra era finita: avevano pensato di trovarsi un lavoro, sposarsi e poi dare inizio ad una prole numerosa, perché lui veniva da una famiglia di sette fratelli – anche se due di essi ora dormivano sotto la terra lieve – e lei era stata figlia unica ed aveva sofferto per questo. Volevano tantissimi bambini. Ne avrebbero chiamato uno Fred ed uno Albus ed una... una Ginny... così sarebbe stato come riaverli vicini. Non veramente, ma quasi.
Certe volte Hermione ci pensava. I suoi bambini mai nati. Si chiedeva che età avrebbero potuto avere, adesso, se sarebbero stati maschi o femmine. Se avrebbero preso più da Ron o più da lei.
“Hermione Granger?”
Sussultare e girarsi fu una cosa sola per Hermione; ruotò sul posto con il braccio destro già proteso in un gesto istintivo e si trovò di fronte allo studente che prima era sulla panchina, con il suo gran libro in mano, un viso scarno e ossuto da asceta e un naso francamente notevole. Non aveva nessuna bacchetta tra le dita, e forse fu per questo che Hermione si rilassò impercettibilmente, distendendosi... ed erano passati degli anni dai giorni in cui aveva avuto bisogno di essere sempre all'erta...
Lo studente fece cadere il libro a terra e il mondo attorno ad Hermione prese a vorticare e roteare, impazzito, in un vortice di colori. Lei riconobbe lo strattone all'altezza dello stomaco che solo una Passaporta poteva dare e si aggrappò alla propria bacchetta come all'unico, solido appiglio in mezzo a quel caos in movimento.
Quando atterrò, sbatté le ginocchia contro una superficie dura e fredda. Erano in una stanza, in un posto chiuso e senza finestre: da qualche parte filtrava una lama di luce che trasformava il buio in penombra, ma le cose erano poco più che sagome ai suoi occhi. Hermione si sforzò di combattere la nausea, stordita, e puntò la bacchetta immediatamente contro la forma sfocata che aveva di fronte.
Ritrovandosi a fissare, così, la bocca spalancata di una pistola.
Hermione boccheggiò:
“Ma cosa...?”
Dall'altra parte della pistola – una semiautomatica, riconobbe Hermione, incongruamente moderna in mano a qualcuno che aveva appena usato una Passaporta – c'era lo studente dal viso scarno, che pareva nauseato quanto lei dallo sgradevole viaggio. In ginocchio, reggeva l'arma con entrambe le mani, e nel gesto la sua schiena si piegava, la sua maglia si tendeva. C'era un seno sotto a quella giubba, ed Hermione realizzò che si trattava di una donna. Di una ragazza.
La ragazza tenne la mano destra sul calcio della pistola, l'indice posato sul grilletto, ed usò la sinistra per frugare all'interno della propria giacca. Hermione si irrigidì, rafforzando la presa sulla bacchetta, e la ragazza con la pistola aggrottò la fronte:
“Non farlo,” disse. “Se lo fai, premo il grilletto.”
Hermione pensò che i proiettili potevano viaggiare molto veloci. Si chiese se avrebbe potuto abbassarsi ed evitare il colpo – ma nel momento stesso in cui se lo chiedeva si rispose che no, da quella distanza era impossibile.
“Che cosa ci faccio qui?” chiese alla sconosciuta. “Che cosa vuoi da me?”
La sconosciuta tornò a frugarsi nella giacca. Non le rispose, ma disse:
“Sto prendendo il Veritaserum. Voglio che tu ne metta tre gocce sotto la lingua.”
Una pistola. La Passaporta. Il Veritaserum.
“Professor Piton...?” chiese Hermione, aggrappandosi all'idea che potesse esserci della Polisucco di mezzo. Il professor Piton era dopotutto un Mezzosangue. Era vissuto tra i Babbani. Era così impensabile che sapesse cos'era una pistola, che sapesse come usarla? Forse la sua bacchetta era andata perduta.
Di nuovo, la sconosciuta non le rispose. Trasse una fiala piena di un liquido trasparente come acqua da una tasca e la passò ad Hermione.
“Tre gocce,” ripeté. “Sotto la lingua.” E poi, vedendo che Hermione esitava: “Adesso.”
Il cervello di Hermione lavorò freneticamente attorno al problema. Se fossero stati gli Auror, non avrebbero avuto bisogno di organizzare qualcosa di così complicato: sarebbe bastato loro balzarle addosso in gruppo e portarla via, e adesso si sarebbe trovata nelle celle sotto al Ministero, in stato di fermo. Poteva essere davvero il professor Piton? Oppure... La pistola le venne agitata ancora una volta davanti alla faccia, minacciosamente, ed Hermione stappò la fiala e se la portò al naso. Inodore. Incolore. Sembrava Veritaserum, ma poteva essere veleno. C'era un contagocce a tappare la fiala, e lei lo usò per lasciarsi cadere la dose richiesta sotto la lingua.
Tutto ad un tratto fu come se qualcuno le avesse svuotato la testa da ogni pensiero, raschiandole le pareti del cranio con un cucchiaio, e l'avesse riempita invece con del cotone. Si sentiva leggera. Si sentiva confusa. Accondiscendente.
“Sei Hermione Granger?” le stava chiedendo la sconosciuta.
Hermione annuì. Anche i movimenti erano come attutiti, in quella nuvola di non-pensiero, più lenti e più leggeri e più facili:
“Sì.”
“Sei... ci sono gli Auror con te? C'erano degli Auror ad Highgate?”
C'erano? Lei non ne aveva visti.
“Non lo so.”
“Non erano con te?”
“No.”
“Potter... Harry Potter ti ha chiesto di andare ad Highgate?”
“No.”
“Eri lì per lui? Per aiutarlo...?”
“Sì,” Sì, aiutare Harry. Salvare Harry. Era questo che la ragazza le stava chiedendo? Forse... “No.” Perché Harry era cambiato. Hermione voleva salvarlo, ma non sapeva se ne sarebbe stata in grado.
La sconosciuta con la pistola parve confusa:
“Ma non ti ha mandato lui?”
“No.”
La ragazza che forse era Severus Piton alzò la testa, tenendo sempre la pistola puntata su Hermione, e guardò verso il fondo della stanza: qualcuno emerse dalle ombre nell'angolo ed avanzò verso di loro, ed Hermione seppe improvvisamente che la ragazza non era Severus Piton, certo che no – perché era Severus Piton quello che aveva davanti adesso.
“Buongiorno, signorina Granger.”





Note della storia: Niente, non sono riuscita a sbloccare quel povero capitolo che non ne vuole sapere di andare avanti e che si è fermato a metà. Le spiegazioni sono lunghe e complicate e gradirei fosse qualcosa di più di un elenco di chiarimenti. Nel frattempo, però, c'è ancora un altro capitolo - oltre a questo - già pronto per essere messo online.

Un grazie enorme, come sempre, a chi si è fermato per lasciarmi qualche parola. Risponderò a tutte le recensioni, promesso: l'università mi sta mangiando, ma ormai la sessione è quasi finita.
... certo, poi c'è quella di settembre.

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Capitolo 10
*** Testamenti ***





- 9 - Testamenti



“Professor Piton,” esalò Hermione. “E' lei.”
Piton inarcò un sopracciglio in un'espressione che, qualche anno prima, sarebbe stata più che sufficiente a spingerla a rannicchiarsi in un angolo: era il genere di espressione nella quale l'uomo si era esibito generalmente davanti al secondo calderone esploso di Neville o alla terza risposta sbagliata di Harry, un'espressione che esprimeva chiaramente che la considerazione che aveva delle capacità intellettuali dell'interlocutore era, al momento, quantomeno scarsa.
“Dato che la sua lettera era stata specificatamente indirizzata a me, signorina Granger, non mi sarei aspettato che ne fosse sorpresa.”
“Non ero certa che non si trattasse di una trappola.” ammise Hermione. Il Veritaserum ancora in circolo nel suo sangue rendeva la sua voce sognante, i suoi pensieri molto confusi.
“Ed è venuta lo stesso?” L'espressione di Piton si fece impressionata. “Estremamente idiota da parte sua.”
La ragazza con la pistola si era rialzata, nel frattempo, e aveva provveduto a rimettere la sicura all'arma prima di cacciarla in una fondina che portava alla cintura: la maneggiava con entrambe le mani, e i suoi gesti sembravano quelli di qualcuno che non fosse troppo sicuro di quel che stava facendo. Era alta e ossuta, con arti lunghi e lineamenti spigolosi, e nella mente confusa di Hermione si formò, al principio, l'immagine di un grosso ragno nero.
Piton si spostò, indicando una porta in fondo alla stanza:
“Da questa parte, signorina Granger.”
Hermione fece per muoversi: ma poi qualcosa nel fondo della sua testa fece clic e un po' dello stordimento parve dissolversi.
“L'antidoto,” disse, “senza di quello non vengo da nessuna parte.”
Piton si girò e la guardò fissamente. Per un lungo istante rimase in silenzio, ma poi si fece scivolare una mano in tasca e ne trasse una sottile fiala di vetro verde che lanciò ad Hermione. Lei la prese al volo e la stappò: l'odore era quello giusto, vagamente dolciastro e con un sentore lontano di verbena. Tuttavia, lei esitò lo stesso. L'odore non aveva veramente importanza, no? Piton aveva insegnato Pozioni per anni, e quel che c'era nella fiala avrebbe potuto essere qualunque cosa, davvero. Hermione alzò gli occhi verso Piton, e il professore ricambiò il suo sguardo ed inarcò un sopracciglio: sembrava sfidarla, e lei serrò i denti, si schiacciò la fiala contro le labbra e ne trangugiò il contenuto.
Dovette ricacciare indietro un conato di nausea, poi, perché l'antidoto aveva un sapore acido e stomachevole di vomito, nauseante malgrado l'odore non del tutto sgradevole: ma la sua testa si schiarì come per incanto.
Severus Piton la stava ancora guardando. Aprì la porta che aveva alle spalle, lentamente, e la indicò ad Hermione con un breve, ampio gesto; le sue labbra, sottili e tese, avevano la piega amara del sarcasmo.
“Da questa parte, signorina Granger,” ripeté.
Questa volta, lei lo seguì.

“Sembra avere trovato una buona sistemazione, professore,” ebbe modo di osservare Hermione qualche minuto più tardi. Dalla stanza tramite la quale lei e la sconosciuta erano arrivate erano passati in un lungo corridoio grigio e asettico e, da lì, in un largo laboratorio sorprendentemente fornito. C'erano barattoli di vetro schierati in lunghe file sugli scaffali inchiodati alle pareti, paioli di ogni forma e dimensione e un grosso guscio di Fiammagranchio appeso ad un treppiede in un angolo: ed ecco svelato il mistero, pensò Hermione, di come il professor Severus Piton, sospetto Mangiamorte e spia, riuscisse a procurarsi il Veritaserum. Certo, questo non spiegava come facesse ad ottenere i costosi, rari ingredienti necessari, che potevano essere trovati solo nel Mondo Magico, ma...
Seguendo il filo dei suoi pensieri, gli occhi di Hermione guizzarono improvvisamente verso la ragazza sconosciuta: questa ricambiò il suo sguardo per un istante, facendo sfoggio di un'ammirevole espressione neutra che rendeva probabilmente orgoglioso il professor Piton, prima di girarsi verso l'uomo.
“Posso andare, professore?”
Il professor Piton spostò una sedia di legno, appoggiandosi all'alto schienale di questa: era una bella sedia di pesante legno scuro intagliato e, come tutte le cose nel laboratorio, parlava anch'essa di una ricchezza vecchia e fuori posto, qui, come rubata.
“Preferirei che tu ascoltassi quel che abbiamo da dire, Gordon.”
La sconosciuta si mordicchiò un labbro.
“Vado solo a fare il tè, professore,” affermò dopo un attimo di disagevole silenzio. “Torno subito, dopo.”
Piton parve esitare per un attimo, prima di annuire brevemente. La porta si chiuse alle spalle della ragazza con un suono sordo.
“E' una Babbana,” iniziò Hermione. Pensò a come sarebbe potuta suonare quell'osservazione alle orecchie della ragazza – se questa fosse rimasta dall'altra parte del battente ad ascoltare, certo – e resistette all'impulso di agitare la bacchetta verso la soglia per lanciare un Muffliato solo perché quella non era casa sua, era terreno del professore, e sarebbe sembrato sgarbato e impudente.
“Ammirevole deduzione, signorina Granger. Si sieda, prego.”
Hermione scansò una sedia e si sedette. Si guardò intorno, come sperasse di poter ottenere qualche risposta dagli scaffali e dai tavoli ingombri, ma non c'era niente di personale, sulle pareti, non c'erano giornali in giro né fogli o libri sui piani di legno. Hermione trovò strana l'assenza di libri, per un attimo – ma poi si ricordò che le cose di Piton erano rimaste ad Hogwarts. La McGranitt doveva averne... disposto. In qualche modo.
Per un attimo il sentimento di tristezza che le avvolse il cuore fu tanto forte da levarle il fiato, e tutto quel che riuscì a provare per l'uomo che aveva di fronte fu pietà.
Piton aspettò che lei si fosse seduta prima di accomodarsi a sua volta, la schiena diritta e le mani intrecciate in grembo.
“E' una Babbana,” ripeté Hermione, più piano. L'acredine di pochi istanti prima sembrava essersi volatilizzata dalla sua voce. “Ha mandato a incontrarmi una Babbana. Avrebbero potuto esserci degli Auror, lì.”
“E le possibilità che riconoscessero me piuttosto che Gordon, signorina Granger, erano straordinariamente alte. Suppongo che lei sappia che esistono barriere che annullano anche gli effetti della Polisucco.”
Hermione ricordò una camera blindata alla Gringott, la fuga pazza nei suoi cunicoli, il drago e la coppa e le ustioni e l'orrore di dover indossare il corpo di Bellatrix La Strana. La colata d'acqua che gliel'aveva levato di dosso.
“Ma lei avrebbe potuto difendersi, professore. Un Babbano non avrebbe...”
“Signorina Granger,” la interruppe Piton, spazientito. “Se è venuta qui con il solo scopo di irritarmi, la informo che sta magnificamente riuscendo nel suo intento e che tra cinque minuti si ritroverà Obliviata e sulla via di casa. Se invece aveva qualcosa di cui parlarmi, sarò lieto di ascoltarla.”
Tutta la simpatia che Hermione potesse aver provato verso l'uomo sembrò dissolversi in uno sbuffo di fumo.
“L'ho cercata per parlarle di Harry.” disse lei, pianamente.
Il professor Piton corrugò la fronte:
“Il signor Potter non è mai rientrato tra gli argomenti di conversazione che prediligessi...”
“Ho trovato le ultime volontà del professor Silente.”
La voce sarcastica di Piton sfumò nel nulla. Ad un osservatore distratto la sua faccia impassibile sarebbe apparsa il ritratto dell'assenza di emozioni, ma Hermione vide qualcosa di liquido e scuro muoversi nel fondo dei suoi occhi.
“E in che modo ciò dovrebbe riguardarmi, signorina Granger? Voglio sperare che lei non sia venuta qui per unirsi al coro delle voci di quelli che mi hanno accusato di averlo avvelenato lentamente nel corso del suo ultimo anno di vita in vista dell'attacco dei Mangiamorte: la teoria suonava francamente ridicola la prima volta che l'ho ascoltata, e non è migliorata con il passare dei mesi.”
“Non mi chiede dove le ho trovate?”
Piton la guardò e non disse niente.
“Erano nel suo studio,” proseguì Hermione. “In un cassetto nascosto della sua scrivania al quale neanche la Preside ha mai avuto accesso.”
“Ma lei sì,” disse Piton lentamente, dopo un attimo di silenzio.
Hermione annuì:
“Il ritratto del professor Silente me l'ha indicato. Ero andata... ero entrata nel suo studio per parlargli di Harry e lui mi ha detto di cercare lei, se volevo delle risposte,” spiegò lei a disagio. Si rese conto di starsi torcendo le dita per l'agitazione e il nervosismo e si lisciò il dorso delle mani, lentamente, per cercare di placarsi.
“Sembra che lei abbia una gran voglia di parlare del signor Potter con chiunque,” commentò Piton, beffardo.
Hermione posò sull'uomo uno sguardo tagliente:
“La smetta.”
“Di fare cosa?”
“La smetta di... la smetta di fare così. Il sarcasmo non l'aiuterà.”
Le dita intrecciate di Piton si serrarono, la sua bocca contratta in una linea dura: sembrò sul punto di dire qualcosa di estremamente sarcastico o estremamente insultante – o entrambi. Ma poi le sue spalle si abbassarono impercettibilmente.
“Sembra che non sia rimasto molto altro ad aiutarmi, signorina Granger.”
Da una stanza vicina giunse un frastuono di qualcosa di metallico e pesante – come pentolame, ad esempio – crollato al suolo. Piton si portò una mano alla fronte, stringendosi la radice del naso tra indice e pollice con un atteggiamento di profonda esasperazione, ed Hermione serrò le labbra.
Piton dovette cogliere la sua occhiataccia, perché socchiuse le palpebre e si informò:
“Quale dei miei atteggiamenti non ha incontrato la sua approvazione, adesso?”
“Faceva così anche con noi,” replicò lei dopo un attimo di silenzio, una punta d'amarezza nella voce cupa. “Come se non facessimo altro che sbagliare. Aveva sempre quell'espressione in faccia.”
Piton le rivolse un'occhiata neutra, ma non disse niente. Hermione strinse i pugni, sentendo una vampata di irritazione invaderla, mescolandosi con la stanchezza e la depressione e la tensione degli ultimi anni.
“Se non avesse trattato Harry come fosse...” Hermione inghiottì a vuoto, “... se non avesse trattato Harry come fosse suo padre, forse non saremmo qui, oggi. Se Harry si fosse... se lei e il professor Silente vi foste fidati di Harry, se gli aveste spiegato...”
Piton puntò un dito contro di lei, ed aveva tanta furia negli occhi, tanta ira, che Hermione dovette fare uno sforzo su sé stessa per non ritrarsi come se, invece che un dito, fosse stata una bacchetta:
“Non osi accusarmi...” ringhiò lui, “... delle scelte di Silente. Fosse stato per me, Potter sarebbe stato informato di quel che ci si aspettava da lui il suo primo giorno di scuola. E' stato Silente a non volerlo. Silente che non pensava fosse necessario addestrarlo. Silente che ha preferito tenerlo per sedici anni nell'ovatta e sbatterlo il diciassettesimo nel mezzo di una guerra che non era preparato ad affrontare. Non osi accusare me di questo.”
Una parte di Hermione si ritrasse a riflettere su quel che l'uomo le stava dicendo – ma un'altra parte, rancorosa e arrabbiata e spaventata, la spinse a replicare irata:
“Ha tenuto Harry lontano da sé. Se anche il professor Silente non voleva addestrarlo, lei avrebbe potuto. Avrebbe potuto evitare quello che è accaduto a Draco Malfoy.”
Piton si alzò in piedi, i suoi movimenti rapidi e come a scatti, agitando una mano verso di lei e replicando con pesante sarcasmo:
“Chi avrebbe potuto immaginare che l'eroico signor Potter avrebbe sventrato un compagno di classe con una Maledizione Oscura?”
“Con la sua Maledizione Oscura.”
Piton, che aveva cominciato a passeggiare di fronte alla sua seggiola, si voltò di colpo e si girò a guardarla. Gli occhi dell'uomo parevano neri come l'onice, neri come pozzi dei quali non si vedeva il fondo.
“Con la mia Maledizione Oscura,” le fece eco lui dopo un lunghissimo istante di silenzio. “Come l'ha scoperto?”
“Eileen Prince,” replicò Hermione debolmente. “Sua madre. Il suo libro di Pozioni. Il Principe Mezzosangue.”
Rimasero a guardarsi senza dire niente per oltre un minuto, prima che Hermione riaprisse bocca; ma stavolta, quando parlò, lo fece con voce stanca e rauca, e più desolata che furiosa:
“Avrebbe potuto insegnare Occlumanzia ad Harry. Insegnare davvero. Avrebbe potuto... avrebbe potuto aiutarlo.”
Piton non disse niente, ed Hermione serrò le mani e si torse le dita, distogliendo lo sguardo dall'uomo.
“Durante l'anno della guerra...” mormorò, “... mentre cercavamo gli Horcrux, Harry stava diventando... strano. Era nella testa di Voldemort, continuamente. Ci ha guidati ad Hogwarts. Ci ha permesso di vedere cosa stava accadendo a... alla tomba di Silente. Ma sembrava sempre più lontano, sempre più stanco, e quando è finita... quando è finito tutto, la battaglia, Voldemort, tutto, Harry non sembrava più... sé stesso.”
“No”, replicò Piton, molto piano, dopo un'infinita pausa di silenzio. “Immagino di no.”
Hermione alzò la testa e lo guardò: ma qualunque cosa avesse avuto intenzione di chiedere a Piton dovette essere rimandata, perché in quel preciso momento la porta della stanza si aprì e la ragazza Babbana rientrò nel laboratorio. Reggeva tra le mani un vassoio con tre tazze e una teiera che pareva cercare cautamente di tenere in equilibrio; mentre avanzava verso di loro, Hermione si rese conto per la prima volta che zoppicava un poco.
Piton le andò incontro, togliendole il vassoio dalle mani e posandolo sul tavolo.
“Prenditi una sedia, Gordon.”
La ragazza esitò. Aprì bocca, la richiuse, guardò Hermione. Quando parlò, lo fece a voce bassa:
“Devo proprio restare, professore?”
Piton alzò gli occhi verso di lei.
“Sì,” replicò dopo un istante di silenzio. “Sì, devi.”
Non c'erano altre sedie in giro: perciò, la ragazza agganciò uno sgabello con un piede e lo trascinò verso il tavolo. Si sedette in maniera tale da poter appoggiare la schiena al bordo del piano di legno e da poter guardare sia Piton che Hermione, le mani in grembo ed un'espressione vagamente tetra. Non sembrava molto felice di trovarsi lì con loro due. Aveva un accento marcato da londinese, rilevò Hermione. Il dorso delle sue mani era orribilmente rovinato, la pelle pallida e tesa come per un'ustione, la carne troppo sottile sulle nocche – che così sbucavano fuori come noduli.
La ragazza dovette accorgersi dello sguardo di Hermione, perché cominciò a tirarsi il bordo delle maniche per coprire le cicatrici.
Hermione arrossì, vergognandosi, e fu salvata dall'imbarazzo dal professor Piton: che passò la prima tazza a lei, la seconda alla ragazza Babbana, prima di servirsene una lui stesso e di tornare a sedersi sulla seggiola dall'alto schienale.
“Non abbiamo avuto modo...” disse, la voce lenta e vagamente trascinata, “... di fare le dovute presentazioni. Signorina Granger, lei è Gabrielle Gordon. Signorina Gordon, Hermione Granger.”
Gabrielle Gordon, dopo un brevissimo istante di esitazione, tese una mano verso Hermione. Lei la strinse cercando con tutte le sue forze di non guardarla, malgrado le sue dita sentissero la pelle troppo sottile e troppo liscia e malgrado qualcosa in lei le strillasse nella testa che quelle cicatrici erano fresche, ancora rosate, e come diavolo se le era procurate...? Gli occhi di Hermione guizzarono automaticamente verso Piton.
“La signorina Granger ed io stavamo parlando del signor Potter, Gordon.”
Gabrielle si posò nuovamente le mani in grembo, l'espressione attentamente neutra, e non disse niente.
“La signorina Granger è convinta che il signor Potter sia cambiato dopo la fine della guerra. Tuttavia, non mi ha ancora spiegato per quale ragione ritiene che la cosa debba interessarmi.”
Lo sguardo di Hermione tornò a farsi irritato:
“Le ho detto che ho trovato le ultime volontà del professor Silente, professore. Le ho lette. Il professor Silente ha lasciato scritto il fatto che era... che era stato una spia. Per lui. Per noi. Per tutto questo tempo.”
“Questo non ha niente a che vedere con...”
“C'era scritto del suo voto,” proseguì Hermione, implacabile. Piton si ammutolì; Hermione rabbrividì sotto all'intensità quasi feroce del suo sguardo, ma non gli permise di chiuderle la bocca così: “Del suo voto di proteggere Harry.”
“Il signor Potter sembrerebbe perfettamente in grado di proteggere sé stesso, adesso. Pare invece che siano gli altri ad aver bisogno di essere protetti da lui.”
Sia Hermione che la ragazza Babbana si irrigidirono sulle loro sedie a quelle parole; ma, mentre quest'ultima non fece altro se non prendere un piccolo sorso dalla sua tazza, Hermione serrò i pugni e bisbigliò, furiosa:
“Non è così.”
Piton sembrava vagamente soddisfatto della reazione ottenuta. Guardò Hermione al di sopra della propria tazza, gli occhi carichi di una specie di placida perfidia:
“Se davvero pensa che non sia così, signorina Granger, allora non si spiega perché lei sia venuta qui.”
Era tutto lì, pensò Hermione. Tutto sul piatto. Tutto quello che doveva dire, tutto quello che aveva avuto modo di pensare in quegli anni, tutto quello che la separava... che li separava... da quello che era stato, prima. Quello che aveva cambiato le cose. La tazza le tremò tra le mani e dovette posarla sul tavolo, serrando le mani l'una contro l'altra.
Le erano occorsi due anni per capire. Due anni trascorsi a ripensare ai sogni di Harry, al Serpentese di Harry, alle visioni di Harry. Due anni trascorsi a ripensare a quanto le fossero sembrati vicini, lì in riva al lago con l'ombra di un grosso drago cieco che si stagliava ancora sopra di loro, Harry e Voldemort. Così simili. Così capaci di capirsi.
La cicatrice di Harry. Tutto quel che Harry aveva fatto, dopo. Dopo la guerra. Dopo la scomparsa di Voldemort.
Hermione inspirò ed ebbe l'impressione che quella fosse la sua ultima boccata d'aria prima di un lungo, lungo tuffo in acque buie e fredde che aveva paura di esplorare.
“Harry è un Horcrux,” bisbigliò. E poi lo ripeté, perché la prima volta le era uscito fuori con la voce sbagliata, tutta rotta e crepata: “Anche Harry è un Horcrux.”
Incrociando lo sguardo di Piton, vide che gli occhi dell'uomo avevano perso ogni traccia di malignità e di sarcasmo, ora, ma non parevano sorpresi.
In quella mancanza di sorpresa Hermione trovò il coraggio di andare avanti:
“Dopo che il suo corpo fisico è stato distrutto dall'Avada Kedavra, quel che restava dell'anima di Voldemort si è aggrappata al suo Horcrux più vicino – l'ultimo che gli era rimasto: Harry. E ora sta prendendo il sopravvento,” bisbigliò. “Lentamente, ma lo sta facendo. E nessuno se n'è accorto.”
Di nuovo, Piton non mostrò alcuna reazione. Hermione serrò i pugni.
“Lei lo sapeva?”
Questa volta Piton annuì, dopo una brevissima esitazione.
Hermione sentiva di avere lo stomaco in rivolta e di essere prossima a vomitare – ma non poteva vomitare lì, nel bel mezzo di un laboratorio. Tra le altre cose, probabilmente c'erano ingredienti delicati in giro, pozioni incomplete, tutte cose pronte ad esplodere in presenza del reagente sbagliato.
“Lei lo sapeva,” ripeté Hermione. “Ma non gliel'ha detto.”
“Non potevo,” replicò Piton, pianamente. “Era il segreto di Albus, e io avrei dovuto mantenerlo fino a quando non fosse stato il momento giusto.”
“Il momento giusto per cosa?”
Nella voce di Piton l'amarezza si fece tanto densa e palpabile che anche il sarcasmo parve impallidire di fronte ad essa:
“Per informare il signor Potter che cosa ci si aspettava che lui facesse: che marciasse incontro a Voldemort e che da Voldemort si lasciasse uccidere, perché nessuno dei due poteva vivere, se l'altro sopravviveva. Erano destinati a morire l'uno per mano dell'altro: Voldemort privato dei suoi Horcrux e della sua immortalità, pronto ad essere ucciso, questa volta per sempre, e Potter come un agnello al macello.”
Hermione inghiottì a vuoto:
“E il professor Silente era d'accordo...?”
Piton scrollò le spalle:
“Non c'era molto altro che si potesse fare, signorina Granger... a meno che, certo, lei non conosca un modo per infrangere l'ospite vivente di un Horcrux senza distruggerlo. Se ce l'ha, sarei curioso di...”
“La spada di Grifondoro.”
Piton inarcò un sopracciglio.
“Come ha detto?”
“La spada di Grifondoro,” ripeté Hermione, la sua voce che si faceva via via più sicura. “La spada di Grifondoro taglia attraverso gli Horcrux e li distrugge, ma potrebbe lasciare intero... l'ospite. Neville ha decapitato Nagini, e... ed era un danno troppo grande per poter guarire, certo, ma il lucchetto di Serpeverde è rimasto intatto, a parte il taglio e qualche bruciacchiatura. Usare il veleno di Basilisco ucciderebbe l... l'ospite. L'Ardemonio lo distruggerebbe. La spada di Grifondoro potrebbe essere la soluzione.”
Piton rimase in silenzio per un lungo istante, gli occhi fissi su di lei. La ragazza Babbana non si era mossa dalla sua posizione: si era limitata, finora, a prendere piccoli sorsi di tè e ad apparire grandemente a disagio, ed Hermione non era in grado di valutare quanta parte della loro conversazione fosse stata in grado di seguire e comprendere.
Alla fine, il professor Piton affermò lentamente:
“Se anche quel che dice fosse vero, signorina Granger, la spada di Grifondoro dev'essere rimasta ad Hogwarts. Il signor Potter si sarà occupato di farla sparire, e non ci sarà modo, adesso, per...”
Ma Hermione stava scuotendo la testa, e Piton si interruppe.
“Non è ad Hogwarts?”
Hermione abbassò gli occhi.
“E' ad Hogwarts,” replicò, la voce tesa e stanca e piena di tristezza. “Ma non ce l'ha Harry.”
“Chi, allora?”
Hermione alzò la testa e guardò in viso l'uomo. Si morse il labbro – l'aveva tormentato tanto, oggi, che adesso lo sentiva gonfio e dolorante – e rispose:
“L'ha presa Luna Lovegood dopo i Sette Giorni di Londra.”
La Babbana parve agitarsi per un brevissimo attimo sulla sua sedia, ma, quando Hermione si girò a guardarla, era già tornata ferma e quieta, gli occhi tanto fissi sul suo tè che pareva intenta a sezionarlo con lo sguardo.
“Quando sono finiti i processi...” proseguì Hermione, “... e dopo che io avevo lasciato il mio lavoro al Ministero. Ha preso la spada di Grifondoro dall'ufficio della Preside e senza dir niente a nessuno ha cercato di lasciare Hogwarts con essa: Harry l'ha raggiunta prima che riuscisse a superare i confini delle barriere anti-Smaterializzazione, ma lei doveva averlo previsto. Si è sigillata in un blocco di ghiaccio insieme alla spada. Siamo riusciti a ritrovare le fonti dell'incantesimo che ha usato in un vecchio tomo della biblioteca di Hogwarts, dopo, e la Dama Grigia ha ammesso di averle spiegato come eseguirlo, ma... ma non siamo riusciti a liberarla. Suo marito ha provato di tutto, ma neanche lui ci è riuscito.”
“Suo marito...?” domandò Piton, distrattamente: la sua mente sembrava occupata altrove. Hermione batté le palpebre, perplessa:
“Sì, suo marito. Harry.” E poi, quando il professor Piton alzò la testa, molto, molto lentamente, e la fissò con un'espressione che metteva perfettamente in chiaro la sua convinzione che lei si fosse bevuta il cervello: “Si erano sposati alla fine della guerra. Perché, non lo sapeva?”





Note della storia: Eeeeeeeeee questo sospetto sarà l'ultimo capitolo per un po'. x°D Cioè, fino a settembre, credo, perché il capitolo 10 è ancora tutto un work-in-progress. Tuttavia, appena l'avrò terminato aggiornerò la storia, e continuerò a fare così mano a mano che si andrà avanti: perciò, spero di non dovervi far aspettare troppo per un seguito.

Detto questo, vorrei festeggiare con voi un piccolo traguardo: la mia 50° storia pubblicata su EFP è online, adesso, e si è anche classificata prima al concorso Possa la fortuna essere sempre dalla vostra parte indetto da Ray08 e Feel Good Inc. Ne approfitto anche per ringraziare la centocinquantesima persona - chiunque egli od ella sia x°°°D - che mi ha inserita tra gli autori preferiti.

Sperando che questi capitoli di spiegazione non siano davvero troppo, troppo noiosi e che il seguito possa arrivare presto e non deludere nessuno. Un grazie a tutti quelli che si fermano a lasciarmi qualche parola, come sempre. Grazie.

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Capitolo 11
*** Quello che la profezia ha chiamato ***





- 10 - Quello che la profezia ha chiamato



“L'ipotesi più probabile, dunque...” osservò Piton una tazza di tè più tardi, “... sembrerebbe essere che la signorina Lovegood abbia intuito che c'era qualcosa che non andava in suo marito...” Piton pronunciò marito come altri avrebbero pronunciato scarafaggio, ma Hermione si sforzò di non permettere alla cosa di infastidirla: “... e che abbia deciso perciò di mettere in salvo personalmente la spada. Nel più sicuro dei modi, a quanto pare, visto che nessuno è stato in grado di tirarla fuori di lì.”
Gabrielle era sparita nuovamente da qualche parte a riempire un'altra teiera: Hermione era stata sul punto di offrirsi di accompagnarla, di aiutarla, ma la ragazza era parsa grandemente a disagio e lievemente ostile, e ben contenta di poter sfuggire al laboratorio del professore.
Hermione girò un paio di volte il cucchiaino nella sua tazza bollente, sentendosi al momento incapace di rialzare lo sguardo, prima di schiarirsi la voce ed affermare quietamente:
“C'è un'altra cosa. Credo... crediamo che la spada di Grifondoro non sia stato l'unico oggetto che Luna ha portato con sé. Anche Harry lo pensava.”
Piton inarcò un sopracciglio. Hermione prese un piccolo sorso della sua tazza. Si sentiva le dita sudate, le mani umide, e non era una buona sensazione.
“Il giorno in cui Luna è scomparsa è sparito anche uno degli Horcrux rotti di Voldemort,” spiegò infine, riluttante. “Li avevamo conservati ad Hogwarts. Harry... lui aveva chiesto di poter restare lì per un po', dopo la guerra. La considerava la sua casa, e la McGranitt era stata... tutti eravamo stati felicissimi di poter fare qualcosa per lui, sembrava così stanco... Aveva fatto così tanto... Stava aiutando a riparare i corridoi crollati nell'ala ovest, è stato difficile rialzare le barriere crollate e sembrava che lui ci riuscisse senza difficoltà...” Hermione esitò. “L'avevamo preso tutti come un buon segno.”
La tazza di tè tra le sue mani era tanto calda da scottarle le dita: Hermione la posò sul tavolo e scoprì che, così, non c'era più niente con il quale potesse distrarsi.
“Gli Horcrux che erano stati distrutti durante la guerra sono rimasti ad Hogwarts. Nell'ufficio della Preside. Con Harry.. Non possiamo essere certi che l'Horcrux scomparso sia con Luna, ma sembra... ragionevole... presupporlo.”
Alzando la testa e incrociando finalmente lo sguardo di Piton, scoprì che l'uomo la stava fissando con un'espressione indecifrabile, ma che aveva le labbra tirate.
“Quale Horcrux era...?”
“L'anello di Gaunt,” bisbigliò Hermione. “Quello che il professor Silente aveva spezzato.”
L'espressione di Piton si aprì, per un momento, ed Hermione poté leggervi dentro un miscuglio di sospetto, cautela e tensione.
“Mi sta dicendo...” iniziò lui, “... che la signorina Lovegood potrebbe aver portato con sé...”
“La Pietra della Resurrezione, sì.”
Di nuovo, la maschera di Piton parve come spaccarsi, bruscamente, mettendo in mostra tutto quel che c'era dietro.
“Come ha detto, prego...?” E poi, con più asprezza: “Come fa a saperlo?”
“Semmai, come fa lei a saperlo,” ribatté Hermione.
Piton alzò una mano in un gesto brusco ed impaziente:
“Avevo visto l'anello. Ho avuto il tempo di fare... le mie ricerche. Silente mostrava...” Piton esitò. “... forti... sentimenti... verso quell'anello. Ero interessato a capire cosa l'avesse spinto a cacciare la mano destra in un oggetto che era evidentemente saturo di magia oscura.”
“Noi avevamo l'anello,” replicò Hermione dopo un istante di silenzio. “E c'era il simbolo, sopra. Ron mi ha parlato della storia dei Doni, e io ho cominciato a fare le mie ricerche, e alla fine della guerra ho scoperto che cosa c'era sopra all'anello. Ho scoperto la Pietra. Ho scoperto il Mantello. La Bacchetta.”
Piton la stava fissando tanto intensamente che Hermione ebbe l'impressione che, da un momento all'altro, quegli occhi le avrebbero aperto un buco nel cranio.
“E il signor Potter lo sa...?”
Hermione annuì.
“Il signor Potter sa della Bacchetta?”
Hermione annuì ancora.
“Era diverso, quando l'ho scoperto,” bisbigliò lei. “Voleva chiedere alla Preside di prenderlo in considerazione per la cattedra di Difesa ad Hogwarts. Voleva diventare professore. Non era ancora cominciata la storia del... del Ministero. Le Leggi per l'Integrazione erano diverse.”
“Potter sa della Bacchetta di Sambuco,” ripeté Piton. Suonava lievemente incredulo, e la sua faccia già usualmente piuttosto pallida aveva preso una malsana sfumatura verdognola: “Sa dov'è la Bacchetta di Sambuco. L'Horcrux in Potter sa della Bacchetta di Sambuco.”
Sulla faccia di Hermione passò un lampo di qualcosa di indecifrabilmente tormentato, e Piton socchiuse gli occhi sospettosamente:
“Cos'è che non mi sta dicendo?”
“Non ne posso essere certa...”
Granger.”
Il ringhio di Piton sembrò spronarla a svuotare il sacco in fretta:
“Credo che Harry... Voldemort... insomma, credo che abbia preso la Bacchetta di Sambuco dalla tomba del professor Silente. Credo che l'abbia Trasfigurata per farla assomigliare alla sua vecchia bacchetta e credo sia... credo sia quella che sta usando, ora.”
Piton la fissò per un attimo con un'espressione tale che Hermione sentì il bisogno quasi fisico di contorcersi sulla sedia. L'uomo aprì la bocca, la richiuse, poi si prese la radice del naso tra le dita.
“Ha qualche altra buona notizia per me, signorina Granger?”
“Non al momento, professore,” replicò lei debolmente.
“Cosa le fa pensare che il signor Potter abbia la Bacchetta di Sambuco? Il signor Potter non ha ucciso Silente. La Bacchetta non lo riconoscerà come suo...”
“Harry ha ucciso Voldemort. Se la bacchetta è passata a Voldemort con la morte del professor Silente, adesso è Harry a possederla. E se è l'Horcrux ad aver preso... se è l'Horcrux a muoversi dentro Harry, adesso, vuol dire che Voldemort non è stato veramente sconfitto e che la Bacchetta può riconoscerlo come proprietario.”
Piton l'adocchiò con uno sguardo penetrante:
“Pare che lei ci abbia pensato sopra a lungo.”
Rimasero in silenzio per un istante a squadrarsi, poi, prima che Hermione si schiarisse ancora una volta la voce e si guardasse intorno, a disagio, cercando di cambiare discorso:
“Sembra che ci stia mettendo molto tempo.”
Piton parve capire a chi si stava riferendo senza bisogno di nomi.
“Probabilmente la sua presenza la mette a disagio, signorina Granger.” C'era una certa punta d'acida soddisfazione nella voce dell'uomo, ed Hermione ne fu irritata:
“Non credo che sia stato il Ministero ad affidargliela, professor Piton. E' una Babbana, e lei è in una situazione pericolosa. Il Ministero potrebbe trovarvi, e adesso anche i Babbani finiscono ad Azkaban. Se la trovassero con lei...”
“La signorina Gordon ha ragioni... personali...” affermò Piton in un pigro tono strascicato che sapeva di fastidio, “... per non voler essere trovata dal Ministero. La mia presenza è l'ultimo dei suoi problemi.”
“E allora perché l'ha mandata ad incontrarmi? Santo cielo, avrei potuto essere seguita. Avrebbero potuto esserci barriere, incantesimi, trappole...”
La porta scelse proprio quel momento per aprirsi: Gabrielle entrò portando un secondo vassoio, l'espressione concentrata di qualcuno che non è troppo sicuro del proprio equilibrio e che sospetta che il percorso che lo aspetta sia costellato di scivolose bucce di banana. Hermione, che aveva girato la testa di scatto verso di lei, sentì la voce di Piton suonarle accanto nel medesimo tono pigro e infastidito:
“Gordon...?”
La ragazza alzò la testa con un'espressione interrogativa.
“Poggia il vassoio sul tavolo.”
La ragazza gli obbedì.
E Piton sollevò la bacchetta, la puntò contro le sue braccia protese e, prima che Hermione potesse impedirglielo, esclamò:
Sectumsempra.” Il vassoio esplose in un crepitio di porcellana infranta, la teiera che si sbriciolava e le tazze che si spaccavano dove la maledizione le aveva investite. L'acqua bollente finì sul pavimento con un sibilo e Gabrielle Gordon si ritrasse di scatto, le maniche della sua giacca in brandelli ed un'espressione sbalordita sulla faccia magra. Hermione strillò e balzò in piedi, puntando la bacchetta d'istinto contro Piton.
Expelliarmus!”
Protego!”
L'incantesimo rimbalzò contro lo scudo di Piton, che rimase seduto al suo posto, le gambe incrociate ed un sopracciglio lievemente inarcato in un'espressione sardonica, come non fosse appena successo niente, come non avesse appena tagliato via le braccia di qualcuno senza una ragione...
“Professore...?” chiamò Gabrielle, incerta.
La bacchetta di Hermione, ancora puntata contro l'uomo, tremò mentre lei si girava a guardare. I suoi occhi le dissero qualcosa che il suo cervello non era in grado di registrare: sulle maniche lacerate non c'era sangue, non c'era sangue per terra, ed entrambe le mani erano ancora attaccate a tutto il resto. Lei aveva visto il Sectumsempra mozzare teste e gambe come fossero fatte di formaggio, aveva visto come poteva aprire un corpo umano, come un rasoio, un bisturi, aveva visto i cadaveri nella Sala Grande e tutti sapevano che Draco Malfoy era morto per questo. Il vassoio era in pezzi e c'era un taglio sulla tavola di legno, dove la maledizione aveva attraversato il coccio delle tazze per raggiungere gli strati di materiale sottostante: ma dietro alle maniche sbrindellate le mani erano ancora lì. Attaccate. Intere.
Hermione boccheggiò.
“Metta via la bacchetta, signorina Granger, prima che qualcuno si faccia male.”
Hermione non poté fare a meno di seguire il sardonico consiglio, ricacciando la bacchetta nella guaina all'avambraccio con dita goffe.
“Che cosa ha fatto...?” bisbigliò, senza distogliere lo sguardo da quelle braccia che non avrebbero dovuto esserci più. “Che incantesimo era? Credevo fosse...”
“Signorina Gordon,” la interruppe il professore. “Vieni qui. Lascia stare quelle tazze.”
Gabrielle Gordon, che aveva cominciato a chinarsi per cercare di raccogliere i pezzi, si raddrizzò e andò incontro al professore, gli occhi che continuavano a spostarsi con evidente cautela nella direzione di Hermione. Il professore si alzò e mosse la bacchetta verso i frantumi di ceramica; i cocci tremarono per un attimo sul pavimento, prima di guizzare l'uno verso l'altro e di ricongiungersi; da un tavolo vicino scivolò giù un panno sporco che prese ad asciugare il pavimento, mentre tutto quello che era troppo complicato riparare veniva fatto sparire con un Evanesco.
“Fa' vedere le tue braccia alla signorina Granger, Gordon.”
Con un'occhiata di profonda sfiducia, Gabrielle sollevò le mani verso Hermione. C'era un segno rosso come quello di una bacchettata, là dove la maledizione doveva aver colpito, ma stava già sparendo: Hermione lo toccò e Gabrielle serrò le labbra e fece per ritrarsi, ma più per il fastidio, pareva, che per il dolore.
Hermione sbatté le palpebre:
“Com'è possibile?”
“Provi con uno Stupeficium,” suggerì Piton, la voce pesantemente divertita. “Il Dipartimento Auror sembra prediligerlo, quando si tratta di avere a che fare con i Babbani.”
Hermione gli rivolse un'occhiata che era un miscuglio di disgusto, stupore, confusione ed una miriade di altre emozioni, e Piton aggiunse, il tono pesantemente mellifluo:
“Se preferisce usare un Petrificus Totalus, libera di farlo. Ricordo la sua... propensione... ad utilizzarlo anche sulle sue conoscenze strette.” E poi, quando Hermione serrò le labbra e parve esitare, la spronò con una punta d'impazienza: “Non sia ridicola, signorina Granger. Nella peggiore delle ipotesi la signorina Gordon si troverà sul pavimento e non sarà affatto felice d'esserci. Gradirei risolvere la questione qui ed ora per poter passare oltre, se non le dispiace. Mettiti a sedere, Gordon.”
Obbediente, la ragazza tirò con il piede lo sgabello verso di sé e si mise seduta; i suoi occhi continuarono a seguire la bacchetta di Hermione con un'espressione di profonda sfiducia fino a quando Piton non si schiarì la voce: allora girò la testa verso di lui, ricambiando l'occhiata indecifrabile dell'uomo con una tutta sua.
“La signorina Granger...” disse Piton, il tono vagamente mellifluo, “... non crederà finché non vede, Gordon.”
Dopo un lunghissimo istante d'immobilità, Hermione puntò la bacchetta verso la ragazza. Una parte di lei sapeva che, se anche l'incantesimo avesse funzionato, non ci sarebbe stato alcun danno; ma un'altra parte di lei vide la Babbana irrigidirsi e rannicchiarsi impercettibilmente sulla sedia, e si sentì orribilmente in colpa.
“Posso...?” chiese, esitando.
Guardando verso il professore, la ragazza annuì.
Hermione mosse la bacchetta in avanti in una secca stilettata:
Pietrificus Totalus.”
Gabriel Gordon sbatté le palpebre e la fissò. Strusciò le ginocchia l'uno contro l'altra, a disagio, ed Hermione sentì un velo di sudore gelido imperlarle la fronte.
Pietrificus Totalus!”
Aveva versato molto più potere dietro l'incantesimo, adesso: ma, di nuovo, la sensazione di non aver detto niente invase Hermione, facendola rabbrividire. Non era questo che tutti i maghi temevano? Che gli incantesimi smettessero di funzionare, che la magia li abbandonasse...? Che tutto si riducesse a tenere in mano nulla più che un pezzo vuoto di legno? Non era questo il terrore dei maghi? La ragazza girò nuovamente la testa verso Piton, ed Hermione seguì il suo sguardo.
“E' lei che lo sta facendo?” chiese, la voce rauca.
Piton scosse la testa. Con un ampio gesto della mano indicò nuovamente Gabrielle Gordon seduta sullo sgabello.
“Perché non prova qualcos'altro?” propose. “Qualcosa di controllabile, se non le dispiace.”
Lo Stupeficium l'avrebbe lasciata con un sapore amarissimo in bocca: il sapore d'averlo visto usare, ancora e ancora, sui Babbani, come il primo strumento di repressione e controllo, applicato indiscriminatamente ed alla minima provocazione... ed al principio erano stati solo gli Auror ad adoperarlo, ma poi, be', poi era sembrato diventare naturale un po' per tutti. Avrebbero dovuto esserci dei controlli, sicuro, ma pareva sempre che fosse difficile ricordarsene. No, decise Hermione, niente Stupeficium. Ma un Incanto Pungente sembrò passare come aria pura sulla ragazza sullo sgabello, e una piccola Maledizione Pruriginosa fece la stessa fine.
Girandosi verso Piton, Hermione aggrottò la fronte:
“C'è una barriera in questa stanza? Non ho sentito...”
Piton scosse la testa.
“Allora è lei davvero. Che cosa sta facendo?”
“Le ho già detto che non sono io, signorina Granger.”
La bacchetta di Hermione si mosse in un breve circolo spezzato quando la ragazza spalancò le braccia in un gesto d'impotenza e confusione; ma, poi, la sua espressione si oscurò.
“Non capisco cosa voglia ottenere con questa piccola messinscena, professore, ma se sta cercando di farmi credere...”
Piton inarcò un sopracciglio e le labbra di Hermione si serrarono in una linea sottilissima. Vibrando la bacchetta in una stoccata secca, esclamò:
Incantum revelio.”
Poiché niente nella stanza sembrò cambiare, passò ad una lunga stringa in latino. Quando neanche quella parve sortire alcun effetto, la pronunciò una seconda volta: poche cose che fossero uscite fuori da un libro avevano tradito fino a quel momento la fiducia di Hermione, e quella cosa in particolar modo era venuta dalla biblioteca personale di Silente. Praticamente certificata.
Ecco perché, quando l'incantesimo accese una piccola manciata di scintille su un orologio in un angolo della stanza e niente più, Hermione si girò lentamente verso Piton. L'espressione dell'uomo avrebbe potuto vincere il primo, secondo e terzo posto a pari merito in un concorso per le espressioni più sardoniche nella storia dell'umanità.
“Come lei ricorderebbe, signorina Granger, se mai avesse prestato attenzione alle mie lezioni...” affermò l'uomo con voce serica, intrecciando le mani di fronte a sé, “... invece che sprecare il mio e il suo tempo facendo domande inutili e cercando di mettersi in mostra come un'oca giuliva, preferisco tenere il mio laboratorio sgombro di magia superflua. Ci sono ingredienti delicati, qui dentro.”
Hermione cercò inutilmente qualcosa da dire: per una volta sembrava che tutti i pensieri l'avessero abbandonata. Qualcuno era entrato ad Hogsmeade. A casa di Susan. Qualcuno aveva passato le barriere, tutte le barriere, ed al principio avevano creduto fosse un mago, ma avrebbe dovuto essere un mago molto potente per attraversarle senza farle scattare. Qualcuno che era riuscito a scappare. Qualcuno...
“Ha qualche altra dimostrazione da sperimentare, signorina Granger?” domandò Piton, serafico.
Hermione si lasciò cadere seduta su una sedia.

“L'ho scoperto accidentalmente,” le spiegò Piton qualche minuto più tardi. La ragazza – Gabrielle Gordon, Babbana, sulla quale gli incantesimi non sembravano avere effetto – era andata a preparare la loro terza teiera di tè, apparentemente ansiosa di togliersi di mezzo e assai poco desiderosa di restare ad ascoltare quel che sarebbe seguito. Il professore parlava a voce bassa e lentamente; in piedi accanto alla sua sedia, aveva gli occhi fissi su un'ampolla posata sul tavolo. “La signorina Gordon non è arrivata qui in condizioni ottimali. Gran parte dei suoi... disturbi... erano apparentemente sanabili con nulla di più complicato di un paio di mesi di pasti regolari e molto riposo, ma ad una scansione completa sono emersi piccoli danni alla colonna vertebrale. All'altezza delle prime costole.” Gli occhi di Piton scivolarono verso Hermione, indecifrabili. “La permanenza presso il signor MacLaggen non sembra esserle stata salutare.”
Hermione boccheggiò.
“MacLaggen...? Cormac MacLaggen?”
“Precisamente.”
Hermione si irrigidì sulla sedia. Per un lunghissimo istante fissò Piton in silenzio, mezzo milione di minuscole rotelle occupate a girarle nella testa e a rimettere insieme i pezzi.
“L'hanno trovato morto sulle scale di casa,” affermò alla fine, molto, molto lentamente.
Un angolo della bocca di Piton si inarcò verso l'alto in una piega sgradevole, la voce dell'uomo bassa e melliflua e i suoi occhi come conficcati in quelli di Hermione:
“Sta forse insinuando che la signorina Gordon ne sappia qualcosa?”
Hermione dovette inumidirsi le labbra inaridite.
“E' stata lei?”
Piton non le rispose.
Dopo un'infinita pausa, con il solo rumore di qualcosa lasciato a sobbollire lentamente in un paiolo a spezzare il silenzio, Piton riprese:
“Le microfratture della colonna vertebrale erano preoccupanti. Tuttavia, il primo incantesimo mirato ad intervenire su di esse – un piccolo sortilegio localizzato, qualcosa che qualunque Guaritore alle prime armi sarebbe stato in grado di portare a termine – non ha sortito alcun effetto. Un incanto a più ampio raggio si è dimostrato maggiormente efficace, ma sono state egualmente necessarie diverse pozioni per portare a termine l'intervento. Ho dovuto aprirle la schiena, signorina Granger, ed applicare un unguento sull'osso.” Gli occhi di Piton guizzarono una volta di più dall'ampolla ad Hermione. “Avrà notato le mani della signorina Gordon.”
Hermione annuì, riluttante.
“Pozioni, unguenti, veleni, antidoti,” spiegò Piton freddamente. “Tutto quel che non è un'applicazione diretta di magia sembra avere effetto sulla signorina Gordon. Maledizioni, incantesimi, sortilegi... questi, invece, non sembrano avere su di lei i medesimi risultati che hanno su chiunque altro. La barriera di Hogsmeade non la riconosce, non la vede. Le permette di passare.” Il sorriso di Piton si fece leggermente più aguzzo: “Sospetto accadrebbe la medesima cosa con quella di Hogwarts.”
“Non capisco. Sono pensate per trattenere i Babbani. Se non... a maggior ragione, se non è una strega, la barriera...”
Piton tamburellò le dita sul piano di legno, l'espressione un poco assente, prima d'accarezzare la superficie dell'ampolla sul tavolo:
“A questo proposito, tutto quel che posso offrirle in risposta è una teoria, signorina Granger.”
Hermione si mosse lievemente sulla sedia, interessata, ed ebbe all'istante la terribile impressione di essere tornata in classe; Piton dovette leggerle nel pensiero – letteralmente, probabilmente – perché il suo sopracciglio inarcato era un capolavoro di malcelato sarcasmo. Forse colto da un momento di pietà, tuttavia, l'uomo scelse di non commentare.
“La magia – qualunque cosa la renda possibile – dev'essere presente potenzialmente in ogni essere umano, Babbano, Mago, Magonò. I Maghi ne hanno in quantità maggiore: possono adoperare la magia... incanalarla... esserne vittime. I Magonò percepiscono la magia quasi come i Maghi, ma non possono adoperarla. I Babbani non percepiscono la magia, non possono incanalarla, ma possono subirne gli effetti.” Piton afferrò il collo dell'ampolla tra due dita, roteandola lentamente. “Sospetto che la signorina Gordon sia un gradino al di sotto dei Babbani in questo campo. Qualunque cosa sia ad essere il potenziale recettore della magia, la signorina Gordon ne ha molto poco. Meno di quanto ne abbia un mattone, probabilmente, perché un mattone è sensibile ad un Reducto – e la signorina Gordon non lo è.”
“Ha sperimentato un Incanto Reductor su di lei?” chiese Hermione, nauseata.
La domanda parve infastidire Piton come un dito cacciato in una piaga aperta, perché l'uomo si irrigidì; e, come spesso accadeva in Piton, l'offesa subita si trasformò repentinamente in malignità sfogata:
“Non ho avuto bisogno di farlo, signorina Granger: mi è bastato aspettare che gli Auror di Hogsmeade se ne occupassero al posto mio.”
Hermione sussultò visibilmente, prima di aggrottare la fronte.
Rimasero a squadrarsi per un attimo, ambedue irritati ed ambedue tesi, ed estremamente cauti. Alla fine, il primo a distogliere lo sguardo fu Piton, che tornò a fissare la sua ampolla sul tavolo; Hermione si ritrovò con il tempo che le serviva a raccogliere le idee per decidere quel che voleva chiedere. Si sentiva la testa piena, gonfia, satura di cose che forse avrebbe preferito non sapere, ma non sapere era pericoloso. Non sapere era tutto quel che li aveva condotti fin lì, poco alla volta, mentre le cose andavano peggiorando di giorno in giorno; e così si erano ritrovati in un magazzino abbandonato, con Piton che riparava spine dorsali e Auror che lanciavano Incanti Reductor sui Babbani e MacLaggen che era stato trovato morto sulle scale di casa – tredici colpi di coltello, e c'era voluta una squadra di Guaritori per rendere il cadavere almeno riconoscibile, dopo – e che forse se l'era meritato, dopotutto.
Hermione voleva chiedere dove Piton avesse trovato Gabrielle Gordon, e in che condizioni. Da dove venisse. Cos'altro avessero fatto nel frattempo, loro due, in quale altro posto fossero stati oltre che a casa di Susan, e cosa avessero cercato lì. Voleva chiedere un miliardo di cose, tutti pensieri, domande, che si affollavano nella sua testa e premevano per uscire; ma quel che fece, invece, fu unire i puntini che si stendevano di fronte a lei, tanto chiari che quasi le pareva di poterli vedere, ed affermare con quieta certezza:
“Quando l'ha trovata, professore, lei non era già così... così impermeabile agli incantesimi.” Piton si girò verso di lei e l'espressione di Hermione sembrava sfidare l'uomo a mentirle: “Non è così?”
Piton la fissò in silenzio per un lungo istante, prima di annuire.
“Gli Auror se ne sarebbero accorti, altrimenti,” rifletté Hermione a voce alta. “MacLaggen se ne sarebbe accorto.”
Piton inclinò il capo da una parte e, con un lievissimo cenno della mano, la invitò a proseguire.
“Ma lei l'ha esaminata da vicino e se n'è accorto. Ed ha pensato che avere qualcuno che non poteva essere toccato dagli incantesimi avrebbe potuto essere utile. Utilissimo,” continuò Hermione. Si sentiva la gola tanto asciutta da far male, ma questo non bastò a fermarla. “Per passare attraverso le barriere. Per ottenere gli ingredienti per le sue pozioni. Per avere informazioni.”
“Per poter entrare ad Hogwarts,” aggiunse Piton, il tono quasi gentile.
“Ad Hogwarts,” fece eco Hermione. Gli ultimi puntini si unirono ed il grafico fu completo. “Per avvicinarsi ad Harry.”
Le dita di Piton tracciarono il contorno dell'ampolla, i polpastrelli macchiati e le lunghe unghie giallognole a contrastare nettamente con la delicatezza con la quale disegnò il bordo di vetro.
“La Profezia aveva scelto un bambino,” osservò alla fine, lentamente. “E Silente si era costruito un'arma. Si può dire che questa volta siano state genetica e scienza a fare tutto il lavoro.” Gli occhi che si levarono ad incontrare quelli di Hermione erano freddi e taglienti, e come vacui.
“E' una Babbana,” bisbigliò Hermione. “Non può coinvolgerla.”
La voce di Piton virò ad un tono d'esasperata impazienza:
“E' già coinvolta, signorina Granger. Tutto il mondo Babbano è già coinvolto. Prima, Voldemort uccideva Babbani a manciate; oggi, il Ministero, sotto l'illuminata guida del signor Potter, li ha tirati dentro interamente e completamente. Non possono sfuggire alla guerra, perché la guerra è già nelle loro case. Nelle loro leggi. Nel loro governo.”
“E' una Babbana,” ripeté Hermione, ostinatamente, ferocemente. “Che cosa le ha fatto, professore? Aveva più... più di quei recettori, non è così? Prima! Era come tutti gli altri, prima, non è vero?”
“Era predisposta,” spiegò Piton, il tono quieto. “Come gli altri non sono.”
“Professore...”
“Signorina Granger,” la interruppe lui, freddamente. “Ho avuto modo di osservare le reazioni di molti Babbani agli incantesimi e alle maledizioni nel corso della mia vita – certo non devo spiegarle in quali circostanze. Molti Babbani – ma la signorina Gordon è la prima persona che io abbia osservato con una simile predisposizione. Le possibilità che una cosa simile capitasse qui e adesso, dove e quando ve ne è la necessità, sono...” Le dita di Piton, lunghe dita ossute e macchiate dagli ingredienti delle sue pozioni, si serrarono attorno al collo dell'ampolla, ma la voce dell'uomo rimase placidamente controllata. “... quantomeno scarse.”
Hermione sentì le obiezioni che aveva in gola – manciate di obiezioni, granulose, scivolose, sulle quali faceva fatica a mantenere la presa – scivolarle via. Qui e adesso. Qui ed adesso, dove ce n'era necessità. Dove ce n'era bisogno.
“Era a casa di McLaggen,” disse Hermione, infine, dopo un lunghissimo attimo di silenzio. “L'hanno mandata lì dopo i Sette Giorni di Londra?”
Piton esaminò l'ampolla che aveva in mano, sollevandola per guardarla controluce.
“Se vuole saperlo,” rispose lentamente l'uomo, il tono noncurante, “può chiederlo alla signorina Gordon. La signorina Gordon risponderà a quello a cui vuole rispondere.”
Hermione parve esitare, e Piton abbassò il capo e la fissò.
“Ne parli con Gordon,” ripeté. “Se vuole altre risposte.”
Hermione non era certa di volerle.





Note della storia: Innanzitutto, ho una parola per voi: Midi-chlorian.
Cinque punti a tutti coloro che non hanno avuto bisogno di seguire il link a Wikipedia per sapere di cosa stessi parlando. x°D Dopodichè, no, sinceramente al principio il riferimento non era voluto: mi è stato suggerito dal buon dierrevi, colui che si sta betando tutti i capitoli di questa storia - e colui, anche, che mi ha lanciato (metaforici) pomodori quando mi sono lasciata sfuggire che mi mancava l'entusiasmo di continuarla. I pomodori metaforici mi preoccupano grandemente: questa storia sarà terminata.

A settembre ho tuttavia avuto un incontro ravvicinato del (probabilmente) terzo tipo con il fandom inglese dei Vendicatori, e ho un po' lasciato da parte il mondo non sempre felice di Hogwarts e dintorni. Concluderò comunque questa storia e la serie di Come (non) doveva andare, perché, personalmente, detesto le storie abbandonate e mi sentirei un po' mitile dentro a fare una cosa simile a qualcun altro. Indi per cui, non disperate.

Ringraziando, come sempre, tutti voi che seguite questa storia e che vi siete presi cinque minuti di tempo per ricordarmelo e punzecchiarmi nel corso degli ultimi mesi. Grazie davvero.

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Capitolo 12
*** Nessun sa ***





- 11 - Nessun sa



La prima casa di Gabrielle era stata una roulotte dalle parti di Birmingham. Aveva smesso di parlarne alla gente perché aveva scoperto, una volta arrivata a Londra nella bella casa bianca dietro al St. James's Park, che tutti reagivano nel modo sbagliato: quando erano gli altri a parlarne, la roulotte di Gabrielle diventava una soluzione temporanea e spiacevole, anche se necessaria, allo stipendio incerto di Agnes, nulla di cui andare fieri, un posto brutto e triste che spiegava, se non altro, perché Gabrielle fosse diventata così.
Gabrielle ricordava la sua casa su ruote come un posto in cui era stata molto felice. Ricordava l'odore dell'erba tagliata nel campo accanto al parcheggio e quello più pungente della benzina quando un camper o un auto se ne andavano sgommando sull'asfalto, le libellule rosse sulla superficie oleosa del rigagnolo ai margini dell'area del parcheggio, il sole al mattino e le stelle, molte più di quelle che si sarebbero viste dalle finestre di una casa di Birmingham, pallide e nebbiose. La scuola di Gabrielle era stata alla distanza di una passeggiata a piedi, quindici minuti trascorsi tagliando attraverso i campi e gli steccati in direzione della periferia di Birmingham, e la tavola calda dove Agnes aveva fatto la cameriera era stata giusto dall'altra parte del parcheggio. Le roulotte non avrebbero potuto fermarsi per più di un paio di notti, era contro il regolamento, ma il proprietario del terreno era anche il datore di lavoro di Agnes, ed a lui non dispiaceva.
Agnes era sempre stata molto bella. Gabrielle, che aveva scoperto relativamente presto di essere invece destinata a diventare un elemento da tappezzeria, aveva capito che essere belli poteva essere o un colpo di fortuna od una fregatura. Poteva essere un colpo di fortuna: il proprietario del parcheggio chiudeva un occhio sulla roulotte abusiva di Agnes, i clienti le lasciavano sempre un sacco di mance e anche i poliziotti che avrebbero dovuto dire ad Agnes che non poteva restare per sempre in quel parcheggio facevano finta di non vedere. Ma poteva anche essere una fregatura: se Agnes non fosse stata bella, Terence non le avrebbe mai chiesto un appuntamento.
Non era la prima volta che Agnes usciva con qualcuno. Gabrielle non aveva paura a restare sola nella roulotte durante la notte: c'erano i cellulari per chiamare aiuto, in caso di emergenza, e la tavola calda restava aperta tutto il giorno, tutti i giorni. Se avesse avuto bisogno di aiuto, le sarebbe bastato strillare. La disturbava vedere Agnes con qualcun altro – ma tutti gli altri, tutti quelli che erano venuti prima di Terence, erano scomparsi da qualche parte tra il terzo e il quarto appuntamento per mai più ricomparire. Terence, invece, era rimasto.
Nei giorni in cui Gabrielle si sentiva giusta e misericordiosa, riusciva a riconoscere che Terence fosse tutto sommato una brava persona. Una persona buona. Una persona meno buona avrebbe continuato ad uscire con Agnes finché gli avesse fatto comodo e poi l'avrebbe piantata lì, sola, con un secondo bambino da crescere in una roulotte ai margini di una piccola stazione di servizio. Il padre di Gabrielle, dopotutto, aveva fatto precisamente questo; non aveva neanche aspettato che Agnes sfornasse Gabrielle, aveva semplicemente preso e se n'era andato. A Gabrielle non dispiaceva veramente: tutto sommato, lei ed Agnes erano state bene, insieme, prima di Terence.
Terence non aveva abbandonato Agnes; non aveva voluto neanche farsi da parte, darle dei soldi per crescere la bimba e chiuderla così, però. Certe volte Gabrielle pensava che sarebbe stata la cosa migliore. Lei ed Agnes se la sarebbero cavata benissimo senza di lui: Gabrielle aveva lasciato la scuola da qualche mese, aveva un lavoro e tutti i pomeriggi liberi, Agnes sarebbe stata con il neonato di mattina e lei sarebbe rimasta alla roulotte di pomeriggio e tutto sarebbe andato a posto.
Terence non aveva voluto neanche sentirne parlare.
Così, quando il pancione di Agnes aveva cominciato a farsi evidente, Terence ed Agnes erano già sposati da un paio di mesi, avevano una casa a Londra dalle parti del St. James's Park e contavano i giorni che mancavano all'arrivo del neonato. Gabrielle non aveva più il suo lavoro: in compenso era di nuovo a scuola, dove si sentiva ignorante, goffa e non voluta, sempre più tappezzeria e sempre meno utile.
Non c'erano più libellule rosse fuori da casa sua. Qualche volta si svegliava sentendo odore di benzina, ma dalla finestra non si vedeva nessuna stella: solo la luce ingiallita della Londra di notte.

Il bambino era nato in settembre e non era stato un bambino, ma una bambina, tre chili e due etti di piccole mani e dita minuscole e pochi capelli, con un odore stranissimo e denso di latte e pelle morbida e cacca.
L'avevano chiamata Lydia. Lydia Harris. Gli occhi dietro alla patina blu da neonato sarebbero stati blu, e i capelli sarebbero diventati tanti, e lei sarebbe stata la cosa migliore che Terence Harris avesse mai prodotto.
Gabrielle non era tanto felice a Londra, ma Lyddie... Lyddie, be', Lyddie.
Gabrielle voleva bene a Lyddie.

Dopo che i maghi erano venute a prenderle, dopo che la luce rossa e il mal di testa forte da spaccare il cranio avevano reso il mondo tutto buio per un po', Gabrielle si era svegliata senza sapere dove fosse Lydia.
Era stato un pensiero spaventoso.
Gabrielle sapeva sempre dove fosse Lydia: a casa, in soggiorno, al parco, all'asilo, con Terence, con Agnes, con i nonni, con me. Adesso non lo sapeva più. C'era un buco nero dove prima c'era stata Lydia, e nessuno voleva dirle dove fosse, e la casa dei MacLaggen dove l'avevano mandata in adozione era stata una parentesi orribile, con lo scantinato e il giorno della schiena rotta e tutte le volte in cui le avevano fatto realizzare quanto impotente e stupida e ignorante fosse e lei si era chiesta con terrore se Lydia fosse in un posto simile.
Non voleva. Non voleva, non voleva, non voleva. Voleva indietro la sua vita. Voleva indietro la roulotte con le libellule e l'odore di benzina. Voleva indietro Lyddie. Agnes e Terence erano scomparsi – morti, pensava, Agnes e Terence forse erano morti – e anche Lyddie era scomparsa.
Doveva essere ancora in Inghilterra. Lì, da qualche parte. Con i maghi. Se solo Gabrielle avesse saputo con chi, precisamente, e dove, avrebbe potuto andarsela a riprendere, rapirla, portarla via, e poi lasciare l'Inghilterra e passare in Europa, nascondersi. Sapeva che si poteva passare la Manica da clandestini: non sapeva bene come, ma sapeva che c'erano barconi che lasciavano l'Inghilterra tutti i giorni, con i non-maghi in fuga da Londra, dalla Gran Bretagna del Ministero della Magia e di Harry Potter e della repressione che era seguita ai Sette Giorni.
Se avesse saputo dov'era Lydia. Se avesse saputo dove cercarla.

E:
“Ci saranno dei documenti,” le aveva detto Piton un bel giorno, “fascicoli, schede. Non si può organizzare una redistribuzione di minorenni Babbani senza burocrazia, e la burocrazia lascia sempre tracce. Qualcuno avrà firmato le carte necessarie a trasferirla. Qualcuno saprà dov'è.”
Gabrielle aveva saputo anche allora che cosa il professore stava cercando di fare. Aveva capito, confusamente, che Piton pensava che lei potesse essergli utile, e Piton l'aveva tirata fuori dallo scantinato dei MacLaggen, l'aveva rimessa in piedi e le aveva dato da mangiare e non l'aveva lasciata agli Auror – e Gabrielle gli era grata, davvero, ma non si fidava di lui.
Il professore era una persona molto intelligente. Era sempre meglio non credere troppo nelle persone intelligenti.
Gabrielle sapeva che cos'era un'esca, come funzionava. Sapeva riconoscerne una quando se la vedeva penzolare davanti, ma Lyddie, Lyddie, Lyddie.
Erano passati quasi ventuno mesi dall'ultima volta che l'aveva vista.
“E chi ha firmato le carte?” aveva chiesto.
Piton l'aveva guardata.

***



“Posso rendermi utile?”
Gabrielle aveva i capelli così corti che le ciocche più lunghe le arrivavano a malapena a metà della fronte: ma il modo in cui teneva sempre la testa piegata su una spalla, anche ora che, girato il capo, stava fissando Hermione dritta in viso, lasciava pensare che li avesse portati più lunghi, una volta, e che fosse abituata a guardare le persone attraverso una frangia. Non era precisamente brutta, ma c'erano un po' troppi spigoli e sospetto, sulla sua faccia, per poterla trovare gradevole.
Era anche alta, scoprì Hermione muovendo qualche passo nella cucina per metterlesi accanto, alta come un ragazzo, lunga e ossuta com'era stato lungo ed ossuto Harry, tutta angoli e carne mancante e spalle strette. Non era mai stato come Ron, Harry, Ron che Molly aveva cresciuto a tre pasti abbondanti al giorno, molto sole, molta aria fresca e tanta sana attività fisica – ma pensare a Ron faceva male, adesso, quasi quanto faceva male pensare ad Harry. Era una qualità di dolore che aveva sapore di ruggine, di nostalgia tremenda.
Gabrielle spostò con un colpetto la teiera proprio nel mezzo del fornello e scosse la testa.
“Ho quasi finito,” replicò quietamente.
I fornelli erano Babbani; era Babbano il lavello ed era Babbana la lampada appesa al soffitto, erano Babbane le saliere e i rotoli di carta assorbente. C'erano pentole e padelle, nessun calderone in vista da nessuna parte, nessun camino, nessuna stufa. Hermione pensò a Piton, Piton che era sempre stato così accuratamente mago, con le sue vesti nere e i suoi capelli lunghi e il mantello e la bacchetta perpetuamente in movimento, Piton con le sue pozioni e la sua voce colta, e cercò di far combaciare quest'immagine con quella della cucina in formica bianca e alluminio: ma poi gli occhi le caddero sulle mani rovinate di Gabrielle, che stava cercando di tirar via la teiera dal fuoco aiutandosi con una presina lavorata all'uncinetto, Gabrielle che portava una felpa ed un paio di scarpe da ginnastica e alla quale non piacevano per niente le bacchette, e le due immagini parvero sovrapporsi serenamente, scivolando l'una sull'altra senza fare attrito.
Un gradino al di sotto dei Babbani, pensò Hermione, più Babbana di un Babbano vero.
Quando Gabrielle si mosse per avvicinarsi al tavolo, Hermione si spostò per metterlo tra sé e l'altra. Gabrielle le rivolse un'occhiata di sottecchi, perplessa e cauta, al principio: ma poi adocchiò il piano di legno ed i due passi abbondanti di pavimento che adesso la separavano da Hermione. La postura rigida delle sue spalle parve rilassarsi impercettibilmente.
“Il professore...?” chiese Gabrielle, il capo chino. Le foglie nella teiera erano nere come la cenere bagnata, l'odore del tè fragrante e aspro nella stanza chiusa.
Hermione si sedette. Seduta, si disse, seduta e con le mani posate sul tavolo, niente affatto minacciosa.
“Speravo che potessimo parlare un po', prima.”
Gabrielle le rivolse un'occhiata penetrante, ma non disse nulla.
“Il professore mi ha detto che ci sono cose che dovrei chiedere a te,” spiegò Hermione, la voce quieta. “Solo a te.”
Tutta la tensione parve tornare nella ragazza in un momento, le sue spalle una linea rigida quanto quella della sua bocca, gli occhi cauti e nervosi.
“Il professore le ha detto che devo risponderle?”
Hermione scosse la testa.
“Ha detto che avresti... che avresti risposto a quello a cui volevi rispondere,” rispose onestamente. “Ed io sono Hermione. Puoi chiamarmi... preferirei mi chiamassi Hermione,” aggiunse dopo un brevissimo istante, la voce ferma.
Sospetto e nervosismo scivolarono via dal viso della ragazza. Come Harry, pensò Hermione, e il pensiero fu una fitta tutta nuova ed inaspettata, sembrava che le si potesse leggere tutto in faccia, ogni cosa, ogni pensiero. Era sempre stato facile da leggere, Harry, facile da capire, aperto e onesto malgrado tutti i pensieri molti complicati che si era portato dentro, aperto e onesto e lineare, in un certo senso, molto lineare, prima che la guerra finisse. Sembrava che dopo fosse cambiato anche in questo. Forse erano state le morti, tutte quelle morti, le morti, la guerra e Voldemort. Forse era stato l'Horcrux.
“Hermione,” provò Gabrielle, cautamente.
Hermione le sorrise.
Gabrielle parve messa a disagio da quel sorriso, perché distolse lo sguardo, le mani strette l'una all'altra mentre si tirava piano le dita in un gesto di nervosismo malamente represso.
“Sei... tu sei andata ad Hogwarts?” chiese Gabrielle. E poi, come temesse che Hermione non potesse capire che cosa le era stato chiesto: “Alla scuola dove il professore insegnava. Hogwarts.”
“Certo, sono andata ad Hogwarts,” replicò Hermione, lentamente, cercando di nascondere la sorpresa. “Tutti i maghi e le streghe in Inghilterra ci vanno.”
“E il professore era... era il tuo professore?”
Hermione represse un brivido leggerlo: erano passati tanti anni, ma la memoria delle ore trascorse nello scantinato buio, umido e freddo, saturo dell'odore spesso sgradevole degli ingredienti, le foglie di faggio schiacciate dall'odore amaro, i Vermicoli fetidi, l'odore del sangue di ratto e di drago, i piccoli cuori viscidi dei pipistrelli, povere, povere bestiole, con il fuoco di fila continuo e feroce del sarcasmo di Piton a fare da accompagnamento al tutto, costituiva uno dei suoi ricordi meno preferiti in assoluto.
Si sforzò tuttavia di non far trapelare dalla sua voce neanche un'oncia dell'astio che quella particolare memoria le causava:
“Certamente.”
Gli occhi di Gabrielle tornarono improvvisamente su di lei, penetranti, acuti e svegli in una maniera che non sembrava combaciare del tutto con il nervosismo e l'agitazione e il panico vago e latente che pareva non abbandonarla mai.
“Ma tu sei figlia di persone... di Babbani,” azzardò Gabrielle. “Sei cresciuta con loro.”
“I miei genitori sono Babbani, sì.” E poi, quando Gabrielle si limitò a fissarla in silenzio per un lunghissimo istante, senza dar segno di voler domandare altro, Hermione azzardò: “Anche i tuoi lo sono?”
Gabrielle abbozzò una scrollata di spalle, abortita a metà e seguita da una lunga occhiata preoccupata rivolta alla porta. Quando fu chiaro, evidentemente, che la porta aveva tutte le intenzioni di restare chiusa e che nessuno si sarebbe affacciato da lì per rimproverarla, tornò a guardare Hermione e rispose – ma senza neanche l'ombra di una spalla scrollata:
“Credo.” Dovette leggere la curiosità evidente sul viso di Hermione, poi, perché aggiunse un po' a malincuore: “Mia madre è una... è Babbana. Non è come te o il professore. E' come me.”
“E tuo padre...?” tentò Hermione.
La scrollata di spalle che le arrivò in risposta fu pura e completa, stavolta, accompagnata da un broncio aggressivo; le labbra strette, le sopracciglia aggrottate, Gabrielle rivolse ad Hermione un'occhiata con la quale pareva sfidarla a dire qualcosa, qualunque cosa, sull'argomento. Hermione si guardò bene dal farlo.
Se ne stettero in silenzio per un po', dopo, fino a quando Gabrielle non finì di versare il tè nelle tazze e spinse il bricco del latte e la zuccheriera attraverso il tavolo. Hermione prese un piccolo sorso ed emise un garbato mormorio d'apprezzamento; sembrò essere stata la reazione giusta, perché le spalle di Gabrielle si piegarono ancora una volta.
“Volevi parlarmi,” disse lei alla fine, molto piano, gli occhi fissi sulla propria tazza. “Di che cosa?” “Del professor Piton,” rispose Hermione. “Di te. Di quello che sta succedendo.”
Gabrielle se ne stette zitta per un momento e, quando aprì nuovamente bocca, quel che disse non era nulla di quel che Hermione si era aspettata di poter sentire.
“Il professor Piton mi ha già detto che cosa sta succedendo.”
“Ti ha detto che cosa sta facendo?”
La ragazza scrollò le spalle.
“Ti ha detto della pozione?”
La ragazza annuì.
“Ti ha detto a che cosa serve,” mise in chiaro Hermione, inarrestabile. “Che cosa c'è dentro. Gli effetti collaterali che potrebbe avere.”
“Mi ha fatto leggere dei libri,” rispose Gabrielle dopo un attimo di silenzio. “Me li ha fatti leggere due volte. Mi ha spiegato le parole che non ho capito.”
Le dita di Hermione si serrarono attorno alla tazza, una sensazione di ira improvvisa ed amarissima a riempirle il petto.
“ E' una pozione che non è mai stata testata,” esclamò con durezza. “E' una pozione che non è mai stata neanche studiata, prima, neanche pensata. Potrebbe avere ogni genere di effetto collaterale imprevedibile, e il professore non aveva il diritto di somministrarla a qualcuno che non poteva sapere...”
La ragazza sbottò, aggressivamente:
“Non sono stupida!” E poi, perché Hermione si era fermata di botto e la stava fissando in silenzio, sorpresa, aggiunse con voce più quieta: “Non sono stupida.” Guardò Hermione, e c'era tutto un mondo di rancore ed irritazione e risentimento sulla sua faccia. “Non sono intelligente come il professore. Non sono intelligente quanto te. Io non l'ho neanche finita, la scuola. Ma non sono stupida.”
Hermione mormorò:
“Non intendevo questo.”
Gabrielle la fissò per un istante ancora, le labbra assottigliate, prima di annuire rigidamente e riabbassare lo sguardo sulla propria tazza.
“Il professore mi ha fatto leggere dei libri sugli ingredienti. Me li ha fatti provare prima di aggiungerli alla sua pozione, uno per uno. Mi ha detto a cosa serviva, che cosa ci avrei fatto, ed io gli ho detto di sì,” spiegò Gabrielle, pianamente. “Potevo dirgli di no.”
Hermione non dubitava che Piton le avesse detto che una risposta negativa era possibile. Che niente le sarebbe stato dato senza il suo consenso. Quello di cui dubitava era che Piton l'avesse veramente pensato, mentre lo diceva. Che Piton avrebbe... che Piton avrebbe accettato un no, che avrebbe messo da parte un piano, un progetto, un mezzo utile... Dopotutto, pensò Hermione, con un brivido, ad Harry il lusso di dire no non era stato concesso.
Gabrielle sembrò leggerle i dubbi in faccia. Aggrottò la fronte e si fece girare la tazza tra le dita, nervosamente.
“Che cosa vuoi sentirmi dire?” chiese, il tono più stanco che aggressivo. “Hai detto che volevi farmi delle domande, ma a che cosa serve, se le fai e poi e non mi credi?”
Hermione fece per protestare, ma la Babbana la interruppe prima che potesse dire qualcosa:
“Sapevo che cosa stavo bevendo, la prima volta che ho preso la pozione. Il professore mi aveva detto che ci sarebbero state delle conseguenze.” Alzò le mani rovinate, il dorso cicatrizzato rivolto verso Hermione. “Conseguenze,” ripeté, prima di dire ancora, con una punta d'ostinazione nella voce: “Non sono stupida.”
“Non ho detto questo,” replicò ancora Hermione, la voce piana. “Non lo penso. Ma ho bisogno di sapere per certo che sai a che cosa stai andando incontro. Harry era il mio migliore amico, lo sai?”
Gabrielle distolse lo sguardo, a disagio, prima d'annuire.
“Era il mio migliore amico,” ripeté Hermione. “E' stato usato per tutta la sua vita. Voldemort... Silente, Caramell... Scrimgeour...” Piton, pensò, ma non lo disse. “Ciascuno a modo suo. Lo usavano e lo tenevano all'oscuro, mai la verità, mai tutta la verità. Abbiamo dovuto impararla un po' alla volta, da soli, ogni volta che commettevamo un errore e che qualcuno ne pagava le conseguenze. Se qualcuno gli avesse detto la verità, all'inizio, tutta la verità, se ce l'avessero detta...” Si accorse di stare stringendo il manico della tazza con tanta forza che il palmo le doleva, ed allentò la presa. “Forse le cose sarebbero state diverse,” disse, la voce ridotta ad un bisbiglio.
Rimasero in silenzio per un lungo istante. Poi, la Babbana affermò:
“Io so che cosa il professore vuole da me.”
Le sopracciglia di Hermione schizzarono verso l'alto:
“Davvero?” E poi, poiché Gabrielle stava aggrottando la fronte, l'espressione nuovamente aggressiva, ostile, si affrettò a correggere la domanda: “E ti sta bene? E' quel che vuoi?”
La Babbana piegò il capo da una parte, gli occhi sfuggenti, e le sue spalle sembrarono crollare.
“Quello che voglio...” disse, raucamente, “... è che le cose tornino com'erano prima. Vorrei non aver mai sentito parlare di nessuno di voi. Se rimanevate dov'eravate, sarebbe stato meglio.”
Hermione non ebbe bisogno di chiederle chi fosse quel voi di cui stava parlando. Oh, Harry, Harry, pensò, e sentì la nausea assalirla. Tutte le cose che abbiamo sbagliato, ogni volta che non ti abbiamo fermato, perché non ti abbiamo fermato, perché nessuno ti ha fermato, quando ancora potevamo...?
“Ma il professore ha detto che mi aiuterà,” aggiunse la ragazza, una sfumatura di durezza e di caparbietà nel fondo della voce. “Io aiuterò lui, e lui aiuterà me. Le cose non possono tornare com'erano prima, ma se il professore mi aiuterà...”
“Aiutarti a fare cosa?”
Gabrielle esitò. Fissò Hermione in silenzio per un lungo istante, l'espressione combattuta, come fosse indecisa tra il parlare e il tacere. Alla fine, si alzò in piedi e recuperò le tazze vuote e la teiera ormai fredda, portandole al lavandino; aprendo l'acqua, diede le spalle ad Hermione.
“Sto cercando una bambina,” disse alla fine. “Una Babbana.”
Hermione rimase dov'era e non disse niente.
Gabrielle posò le tazze ad asciugare sulla grata e aggiunse, molto piano:
“Non voglio parlarne.”
Hermione esitò:
“E MacLaggen...”
Gabrielle si girò per guardarla.
“Non voglio parlarne,” ripeté. Il tono era quieto e freddo, liscio come una lastra di ghiaccio.
Hermione non insisté.

Più tardi, Hermione posò tra le mani di Piton il Mantello dell'Invisibilità.
“Questo,” gli disse, “è meglio che lo tenga lei.”
Piton si fece passare tra le dita ossute la stoffa argentata, impalpabile, con un'espressione indecifrabile sul viso. Rialzando gli occhi, inarcò un sopracciglio:
“E si fida a lasciarlo con me, signorina Granger?”
Hermione si trattenne a stento dallo sbuffare.
“Uno dei due deve pur fare un passo avanti e mostrare un po' di fiducia.” Il e, dato che lei non sembra disponibile... filtrò non detto. “E poi,” aggiunse, “tenerlo è diventato troppo pericoloso. Harry potrebbe decidere da un giorno all'altro di volerlo indietro.”
“E se le dovesse chiedere dov'è?”
“Mi preoccuperò di fasciare quella particolare testa rotta solo se sarà necessario,” replicò Hermione, sistemandosi la borsa sulle spalle. Sembrava stranamente più leggera, ora che non conteneva il Mantello... ma era solo un'impressione, ovviamente, il Mantello era leggero come l'acqua, come un velo. Tessuto con la stessa materia della quale erano tessuti i sogni.
Piton parve esitare con il Mantello tra le mani per un attimo ancora: poi, cominciò lentamente a ripiegarlo.
“Lo terrò al sicuro.”
“Lo usi,” gli disse Hermione, piano, ma mentre lo diceva guardava Gabrielle, “le servirà.”
“E lei mi riferirà quel che scoprirà.”
Hermione annuì.
Piton mosse un passo indietro. Gabrielle, alle sue spalle, si mosse lievemente, a disagio.
“Mi farò sentire presto,” promise Hermione.
“Si faccia sentire quando avrà qualcosa di utile da dire,” replicò Piton, seccamente.
La Smaterializzazione portò Hermione da qualche parte nei pressi di Portsmouth: la fitta di debolezza improvvisa, nauseante, le disse che il balzo era stato più lungo di quanto avesse pensato. Saltò ancora, a Reading, a Brighton, nel Derby. Ricordava di essere stata da quelle parti, molti anni prima, per una piccola vacanza con i suoi genitori: si Smaterializzò da un villaggio all'altro finché le gambe la sorressero, prima di puntare nuovamente verso Londra.
La casa in West Harrow era buia e immobile, al suo arrivo: Hermione aprì la porta e Grattastinchi le si strusciò contro gli stinchi, uscendo, facendola sobbalzare. Accese le luci, controllò gli angoli bui; un paio di incantesimi le assicurarono di essere sola in casa. Sola. Silenzio. La nostalgia le prese la gola come un groppo, come una morsa, inaspettata. Se chiudeva gli occhi poteva vedere la Sala Grande, la sera, piena e rumorosa e caotica, il fuoco nel camino e il divano che puzzava di gatto e di gufo, le poltrone e gli altri, tutti gli altri, quelli che ora erano morti, quelli che erano ancora vivi. Quella del tramonto era sempre l'ora peggiore, si disse, e si chiese se non fosse il caso di uscire fuori a cena. La signora della tavola calda all'angolo era chiacchierona e gioviale, e faceva volentieri quattro chiacchiere con i clienti; sarebbe stato meglio che stare chiusa in casa a guardare pareti vuote, dove non aveva appeso fotografie per non dover vedere, e ricordare, e pensare.
Alla fine, però, mise sul fuoco una padellata di spaghetti precotti. Mentre l'acqua bolliva nella teiera ed un buon odore d'aglio e pomodoro riempiva la cucina, Grattastinchi venne ad acciambellarlesi sulle ginocchia.
Hermione prese il telefono e compose un numero a memoria. Si chiese se qualcuno le avrebbe risposto, stavolta: se qualcuno si sarebbe ricordato che si doveva sollevare la cornetta senza premere i bottoni, se qualcuno avrebbe riconosciuto gli squilli per quel che erano. Se qualcuno dei ragazzi fosse stato in casa, forse. Se...
Al quarto squillo, clic.
“Sì?” disse qualcuno dall'altra parte della linea. Lo disse a voce un po' troppo alta: erano passati tanti anni, ma non aveva mai imparato che non serviva urlare per farsi sentire attraverso i fili. Ad Hermione sembrò che qualcuno le avesse improvvisamente tolto una pietra dalla gola. Sorrise.
“Ciao, Ron.”





Note della storia: Prima di tutto, il titolo. Il titolo è una citazione dalla ballata The Twa Corbies, la crudele variante scozzese della canzone The Three Ravens. In sunto: and naebody knes that he lies there, e i corvi finiscono per cenare con il cadavere del cavaliere morto, dato che nessuno lo sta cercando.

Ho una notizia buona ed una cattiva. La notizia buona è che il capitolo successivo è già stato scritto per un bel pezzo. La notizia cattiva è che, prima di poterlo pubblicare, dovrò finire di scrivere almeno i due capitoli che seguono, per decidere se rimuovere una scena che ho in mente o tenerla.
La questione è questa: il passaggio che segue spande un orribil fetore, per chi volesse cogliere la citazione, di personaggio simpaticamente marysuesco ed allegramente PP. Da una parte, ci sono dozzine di scene simili in Harry Potter; dall'altra, scene simili con un Nuovo Personaggio ci riportano sempre alla questione della fetenza di cui sopra.
Quando ho cominciato a scrivere questa storia, tuttavia, avevo solo tre scene ben delineate in mente - e quella che segue, con le dovute modifiche del caso, è una di queste. Che fare, perciò? Scrivere o non scrivere? Nel dubbio, ho deciso che butterò giù tutti e tre i capitoli, me li rileggerò a mente serena, li farò rileggere al prode dierrevi, che non teme le Mary Sue ed è pronto ad abbatterle a colpi di sgualembro rovescio, e vedrò se la cosa mi pare accettabile oppure no.

Un grosso grazie, nuovamente, a tutti voi che non avete ancora abbandonato questa storia. Con un po' di fortuna, arriveremo a vederne la fine prima della prossima Apocalisse.

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