Cerchio di morte

di Malvagiuo
(/viewuser.php?uid=131070)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Notte di vendetta ***
Capitolo 2: *** Il segreto di Tommy ***
Capitolo 3: *** La vita di Mary ***
Capitolo 4: *** La chiusura ***



Capitolo 1
*** Notte di vendetta ***






1
 
È una notte fredda. Sento ogni singolo respiro penetrarmi in bocca e farsi strada nel mio corpo come una lama di ghiaccio. Espiro. Osservo lo sbuffo biancastro fuggire dalle mie labbra, sollevarsi in volute e unirsi alla brezza della notte.
C’è la casa davanti a me. È buia. Il cancello è chiuso, ma è come se non esistesse. Un ostacolo che anche un bambino potrebbe aggirare. Io sono la volontà di Dio. La Sua mano mi guida nell’oscurità di questa notte, mi sprona a fare ciò che devo. Con Lui al mio fianco, non posso esitare.
Non è il buio a coprirmi, non sono i passi cauti a celarmi da sguardi indiscreti. Sento il caldo manto della Sua volontà coprirmi e proteggermi da qualunque insidia. Non fallirò.
Introduco il chiavistello e, dopo qualche tentativo, la porta sul retro si apre con qualche rumore di troppo. Ma nessuno si accorge di nulla. Io sono protetto. Egli mi guida. Non ho bisogno di luce per vedere la strada di fronte a me. Il luogo in cui mi trovo è un pianerottolo arredato con sobrietà, da quel che posso distinguere esaminando le sagome dei mobili. Intravedo in lontananza le scale che portano al piano di sopra. Niente parquet sotto i miei piedi. Solo una serie di morbidi, puliti e pelosi tappeti che celano ogni mio passo. È la volontà di Dio.
Una rapida salita e intuisco quale sia la camera da letto. Lui è lì dentro. Assieme ai suoi peccati. Non ho bisogno di controllare, non mi serve esaminare le altre stanze per esserne sicuro. Io lo so che è qui. La mia mano stringe il pomello e lo gira con delicatezza, e la porta è aperta. L’oscurità più totale cela la tana del peccatore, e non parlo della notte.
Sbottono dall’alto l’impermeabile e infilo la mano in una delle tasche interne. Estraggo lo strumento col quale Dio mi ha incaricato di compiere questo atto gravoso, ma necessario. È lucido e sembra smanioso quanto me di portare a termine la missione che ci è stata affidata. Meno di cinque passi mi separano dal letto e dalla figura dormiente su di esso. Li percorro in pochi secondi, ma l’impercettibile suono felpato di ognuno di essi mi rimane impresso nella mente e riecheggerà per ore, dopo che me ne sarò andato.
Il peccatore sussulta. Un movimento rapido e brusco, che cessa nel tempo di un battito di ciglia. È evidente che sogna. Russa sommessamente, ignaro che questi sono i suoi ultimi momenti sulla fertile terra del Signore.
Il mio pugno lo sovrasta. La punta della lama mira ai suoi occhi. Quegli occhi hanno dato inizio a tutto. È giusto che siano i primi a espiare. Devo badare a non colpire troppo in profondità. Molti altri colpi devono far seguito al primo, ed egli non può espiare se non è vivo per soffrire.
È crudele. È vendetta. È male.
Ma è il volere di Dio. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il segreto di Tommy ***






2
 
“Davvero una bellissima giornata.”
È quello che pensa Tommy Hambrook, un normalissimo impiegato che ha da poco superato la cinquantina, uscendo di casa per andare al lavoro e vedendo il cielo sereno che si staglia sconfinato sopra la sua testa. È davvero una bella giornata, in effetti.
Un sorriso soddisfatto si dipinge sul suo volto paffuto e ben rasato. Indossa pantaloni di stoffa nera e una camicia bianca nuova, i cui bottoni sono sottoposti a una pressione notevole. La mezza età non ha di certo fatto sconti a Tommy, che al liceo veniva sempre scelto per rappresentare la scuola nelle gare di corsa campestre, mentre ora fa fatica a trovare un negozio nella sua città che venda indumenti in grado di contenere il suo pancione flaccido.
Dall’altro lato della strada, la signora Dortis si sta prendendo cura delle sue piante. Con compassione, Tommy osserva la povera vecchietta travasare da un contenitore all’altro pianticelle raggrinzite che non daranno più fiori. Sono morte o prossime a esserlo, è chiaro, ma lui non oserebbe mai farglielo notare, dato che quella sembra essere l’unica occupazione in grado di distogliere l’anziana signora dalla solitudine della vedovanza e della follia.
«Buongiorno, signora Dortis! Ha visto che sole? Non sembra nemmeno inverno, vero?»
Emily Dortis solleva il capo e concentra per un attimo la propria attenzione sull’individuo che l’ha salutata. Il viso grinzoso e pieno di rughe si contrae in una smorfia disgustata, ma gli occhi si dilatano in un’espressione impaurita. Senza dire una parola, abbandona le piante e fa lentamente dietrofront, dirigendosi un passo dopo l’altro verso la porta di casa, che è rimasta spalancata. Entra e la chiude dietro di sé con la stessa, esasperante lentezza con cui ha travasato le piante e camminato lungo il vialetto, la lentezza di una donna di settantacinque anni che ormai non contempla più il significato della parola ‘fretta’. Dopo esser rientrata, si accosta alla finestra che dà sul giardino e borbotta qualche parola oscura all’indirizzo del suo vicino.
Ma Tommy questo non lo saprà mai, perché nel frattempo è andato via.
 
Le cinque arrivano presto e Tommy è di nuovo libero.
Libero di tornare a casa, che trova tanto calda e accogliente anche se nessuno lo aspetta. Tommy è una persona gioviale, ama ridere e scherzare, ma non è il tipo di persona disposta a condividere le piccole cose di ogni giorno con qualcuno. È uno strano individuo, anche se pochi si rendono conto fino in fondo della sua stranezza. Quelli che lo conoscono, e sono in tanti, lo trovano una persona simpatica e affabile, una spalla sui cui poter contare nel momento del bisogno. Tuttavia, quando cercano di capire alcune delle sue curiose scelte di vita, non riescono a trovare risposta.
Una su tutte, perché non si sia mai trovato una moglie, nonostante il fascino – una volta – non gli mancasse.
Oppure perché conduca un’esistenza solitaria, con una vecchia pazza come unica vicina nel raggio di alcune miglia.
Sono domande che per loro rimarranno sempre tali, probabilmente. Dopotutto è un adulto, e come tale ha il diritto di condurre la propria esistenza come gli pare e piace, senza essere assillato dai dubbi di una moltitudine di amici e conoscenti.
Uscendo dall’ufficio, Tommy sale in macchina e percorre la strada verso casa finché un nuovo fast food sul lato sinistro della corsia non attira la sua attenzione. Ci risiamo. Ancora una volta, lo stomaco dell’ex atleta prevale sui consigli del medico. Gli bastano due minuti per trovare un parcheggio e dirigersi laddove potrà commettere l’ennesimo peccato di gola della sua vita. È un uomo che ha la straordinaria capacità di non preoccuparsi del futuro. Non lo teme semplicemente perché non ci pensa. Ci sono tante cose che lo preoccupano, ma tra queste evidentemente non c’è un infarto delle coronarie.
Esce dall’atmosfera calda e unta del fast food mezz’ora dopo, ancora più appesantito ma soddisfatto.
È talmente soddisfatto da non accorgersi, per un momento, della ragazzina che lo sta fissando all’angolo della strada. È poco più di una bambina, di sicuro avrà meno di sedici anni. Snella e agile, con i capelli un po’ spettinati e, se gli occhi non lo tradiscono, con un’espressione atterrita dipinta sul volto.
Tommy si avvicina, per curiosità. Sicuramente non sta guardando lui, avrà visto qualcosa di affascinante in una delle vetrine dall’altra parte della strada e quello che in un primo momento ha scambiato come terrore si rivelerà nient’altro che banale stupore. Quando le è dirimpetto, si accorge che invece il suo sguardo è fissato proprio su di lui.
Nonostante l’uomo le stia davanti già da un minuto buono, non spiccica parola.
«Tutto bene, piccola?»
I suoi occhi hanno qualcosa che non va. Sono sconvolti. Un velo di lacrime li ricopre.
«Il... il... tubo...»
Tommy avvicina l’orecchio destro per non perdersi una sillaba. Capisce le parole, ma non ne afferra il significato. La bambina le ripete un paio di volte, e infine gli mostra i palmi delle mani. Sono rossi. Bagnati. Sporchi di qualcosa che sembra sangue, ma che non può essere sangue. Tommy prega che non lo sia.
Solo ora si accorge che è vestita in modo davvero strano. Jeans enormi che le cascano da tutte le parti, troppo grandi e troppo ingombranti per essere di moda. Maglia di lana orrenda, mocassini che si intravedono appena sotto le falde dei pantaloni, crocifisso d’argento. Una combinazione decisamente strana.
«Che cosa ti è successo?» dice, inginocchiandosi e mettendole le mani sulle spalle. Prova a scuoterla, poiché si rende finalmente conto che la piccola è in stato confusionale.
«Lei... lei è... morta... morta e io l’ho uccisa...»
Tommy ascolta, ma non dice nulla. È successo qualcosa di terribile a questa ragazza. Deve portarla al più presto in ospedale. Senza perdere tempo, spinge la ragazzina fino alla sua macchina, la fa salire e parte alla volta del centro di soccorso più vicino.
Durante il tragitto, la piccola non aggiunge nulla di nuovo a quanto già detto. A volte ripete le stesse frasi, oppure abbassa il capo e contempla le mani inzaccherate di sangue. Perché è sangue, adesso Tommy ne è sicuro, anche se non sembra appartenerle.
L’ospedale dista cinque minuti. Tommy ha imboccato una strada che conduce esattamente di fronte all’edificio, ma all’improvviso qualcosa comincia ad andare storto.
Non riguarda la ragazza, ma lui.
C’è qualcosa dentro di lui, che improvvisamente non va per il verso giusto. Un impulso ancestrale, una volontà che da anni ormai ha represso, che credeva di aver sottomesso. Deglutisce a forza e si concentra per pensare ad altro. Ma è impossibile. Quando quell’istinto si desta, come ha già sperimentato altre volte in passato, non può domarlo. Mentre guida, volta la testa verso il sedile del passeggero. Lei è giovanissima, ma ha già le forme di una donna. Nonostante i vestiti sformati, si intravedono le forme del seno che sta sbocciando. L’immaginazione gli permette di delineare le forme delle cosce, esili e invitanti. I capelli sono bellissimi. Lei è bellissima.
Tornando a guardare la strada, Tommy allunga una mano verso la gamba di lei, la più vicina. La tocca e la massaggia. La ragazzina non reagisce. Non sembra nemmeno accorgersi che qualcuno la stia toccando senza permesso. Continuando a fissare l’asfalto che scorre sotto la macchina, adesso più lentamente, Tommy si fa più audace e stringe le carni di lei con maggior foga. Il cuore gli batte a mille e comincia ad ansimare. Non il minimo accenno di reazione da parte della sua vittima.
La decisione viene presa quasi all’istante.
Anziché procedere dritto come dovrebbe, Tommy si immette in una via secondaria e si allontana dal centro urbano. In breve tempo, campi e alberi sostituiscono gli edifici squadrati e luminosi, il vento e il rumore del motore soppiantano le voci e i suoni della città. C’è silenzio, in campagna. Silenzio e solitudine.
La macchina percorre una strada sterrata e raggiunge un prato al limite di un boschetto. Il buio circonda ogni cosa, non appena i fanali dell’automobile si spengono. Tommy frena e spegne il motore. Esce velocemente e fa il giro per aprire la portiera dall’altra parte. Fa freddo, ma non se ne accorge. La terra è dura come ferro. Spalanca la portiera e trascina fuori la ragazza prendendola da sotto le ascelle. Lei non reagisce. Non oppone resistenza. Sembra che Tommy stia per violentare un corpo senz’anima. Un guscio vuoto. Non può vederli, ma i suoi occhi sono vacui, spenti. Il corpo è abbandonato a sé stesso, non cammina più. Viene lasciato cadere sul terreno e denudato. Un frutto acerbo strappato con brutalità dall’albero.
Il sangue sulle sue mani bagna la terra.
Di lì a poco, anche altro sangue cola sul terreno gelato del campo.
 
Tommy si riveste con la stessa lentezza della signora Dortis e trema. Trema da capo a piedi.
Si era promesso che non sarebbe più successo. Questa volta è andato oltre il punto di non ritorno che sapeva di non poter valicare. Deve adottare contromisure immediate, e ha già la soluzione in mente. Non perde tempo e apre il bagagliaio della macchina. Non ha il coraggio di volgere lo sguardo verso la ragazza, che ancora giace nuda sul terreno ghiacciato, immobile, senza produrre un lamento o un gemito. Sembra morta, anche se Tommy sa perfettamente che non lo è.
Dal bagagliaio estrae un lungo tubo di gomma e, dopo aver aperto il serbatoio, ne infila un’estremità al suo interno. Il fatto che la ragazzina resti ferma lo aiuta tantissimo, perché non saprebbe cosa fare se lei urlasse e decidesse di vendere cara la pelle. Se poi si mettesse a correre per mettersi in salvo, beh... è chiaro che Tommy non avrebbe speranze di raggiungerla in una rincorsa.
La benzina fuoriesce dal tubo e bagna la pelle candida del corpicino raggomitolato. Qualche spruzzo è sufficiente. Dopo aver estratto nuovamente il tubo e averlo riposto, Tommy richiude il serbatoio e si dirige nell’abitacolo per cercare qualcosa. Dopo qualche minuto ne esce, più pallido che mai. Nonostante il pallore, la volontà nei suoi occhi appare ferma. In mano c’è un oggettino che emana un bagliore rossastro, un cerchio di fuoco che lo stupratore regge come una reliquia.
Un accendisigari.
Quando Tommy si accovaccia, ne appoggia il lato bruciante sulla caviglia di lei, impregnata di combustibile. Quando urla, non sa se lo ha fatto solo per il dolore o per la consapevolezza di ciò che le stava per accadere. Ecco che si rianima, si solleva, una torcia umana che si staglia contro il nero della notte e si agita come il vento nella tempesta. Si distinguono alcune parole, diverse da quelle pronunciate finora. O meglio, una sola. Ripetuta ossessivamente fino alla fine di tutto.
«L’inferno! L’inferno! L’INFERNO!»
 
Un quarto d’ora dopo, il fumo si vedeva ancora sollevarsi all’orizzonte. Dal distributore all’incrocio di Nashville Road, Tommy lo distingueva chiaramente in mezzo alle tenebre. Mentre il benzinaio riforniva l’automobile di carburante, l’uomo serrò gli occhi.
Un giorno avrebbe confessato. Ma non sarebbe stato domani. Non era pronto per rivelare al mondo ciò che era.
Quando li riaprì, il signor Robbers era lì a porgergli dal finestrino le chiavi, in attesa di essere pagato. Cinque minuti più tardi, Tommy accelerava verso casa. Solo quando ebbe parcheggiato nel vialetto, si accorse di un luccichio proveniente dal sedile del passeggero.
Un piccolo crocifisso d’argento.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** La vita di Mary ***






3
 
“Gli occhi hanno qualcosa di diabolico” non poteva fare a meno di pensare Mary Dewey, quel giorno a scuola.
Non possono toccare fisicamente un corpo, ma basta che si focalizzino su di esso perché la pressione esercitata dallo sguardo sia percepibile. Due occhi che fissano sono opprimenti. Decine di occhi sono intollerabili. Centinaia sono un supplizio.
Mary camminava svelta, mantenendo il capo più basso che poteva, quasi a formare un angolo retto con il petto. Tutto ciò che vedeva era il nudo pavimento che scorreva sotto di lei, come un fiume privo di forma e vita. Si sentiva come prigioniera in una pressa, schiacciata a morte da ogni lato, senza via di scampo.
Con la testa abbassata, poteva concentrare la propria attenzione sull’unica cosa in grado di darle coraggio. Il piccolo crocifisso d’argento che portava intorno alla collottola oscillava su e giù, complice la foga dell’andatura. Sembrava scappare al suo fianco.
«Ehi, piccola ritardata!»
Eccola. La voce del demonio.
Mary aumentò la falcata dei propri passi. Un movimento di poco più accentuato, e sarebbe stata una corsa in piena regola.
«Idiota, ce l’ho con te!»
Il corridoio si fece sempre più stretto. Capì che si stava infilando in un vicolo cieco, anche se la mente si ostinava a suggerirle di proseguire il cammino. Un rumore di passi pesanti la seguiva. Questa volta erano ancora di più. Ma anche se si fosse trattato di un solo demonio, in ogni caso non avrebbe avuto via d’uscita.
“Dolce Signore, aiutami... ti prego” supplicò Mary.
Il miracolo, per un istante, parve compiersi: di fronte a lei apparve una porta. Dava sull’esterno. Sulla Jefferson Street. Un posto pieno di persone, affollato. Da lì non sarebbe stato un problema scappare. Sciolse un braccio dalla morsa con cui stringeva i libri di scuola al petto e lo diresse verso la maniglia di sicurezza davanti a lei. Riuscì persino ad afferrarla.
Poi qualcos’altro afferrò lei. Una presa ben più forte e crudele. Quella stessa forza che le si era avventata sulla spalla la costrinse a voltarsi. Smossa con brutalità, Mary si trovò faccia a faccia col demonio: Jane Nalcott. Alta, enorme e con quegli occhi in grado di congelare il cuore fino all’ultima fibra. Vedendola, non poteva non rievocare il paragone con la storia di Davide e Golia. Solo che lei non era la prescelta del Signore.
«Volevi scappare, puttanella?»
Un altro strattone e i libri scivolarono dalla sua stretta, crollando a terra.
Un coro di risate seppellì il gemito di Mary. Sette ragazze la circondavano, imponenti quanto Jane. O forse non erano affatto imponenti, era Mary nella propria esilità a vederle come mostri.
Un torrente di insulti la ricoprì. Avrebbe voluto coprirsi le orecchie con le mani, perché quelle parole erano la voce di Satana, come suo padre le aveva insegnato. Ascoltarle era peccato mortale. Ma anche parlare con le altre ragazze lo era. E indossare pantaloni come gli uomini. Tutto era peccato, tranne quello che diceva il babbo.
Mary portava una lunga gonna di lana che chiunque possedesse un minimo di senso estetico avrebbe definito orripilante. Non che il resto del suo guardaroba fosse diverso: abiti scoloriti, sgualciti, disadorni, che chiunque altro si sarebbe rifiutato persino di vedere nel proprio armadio. Tuttavia, quegli abiti l’avrebbero resa meno repellente agli occhi del Signore. Lei era donna, nell’età in cui si diveniva impure, e pertanto destinata a essere repellente agli occhi di Dio. Ma se avesse seguito la Sua parola, se la sua vita fosse stata consacrata alla cieca devozione verso Colui che salvò il mondo, probabilmente la sua anima sarebbe stata salva. Queste erano le parole di suo padre, cui lei doveva prestar fede.
“Altrimenti brucerai all’Inferno come tua madre” aggiungeva sempre, alla fine di una predica.
Mary non aveva mai osato parlare con lui di quello che le succedeva a scuola. Non era difficile tenerglielo nascosto, dal momento che assai raramente se ne interessava. Tutto ciò che importava a suo padre, era che Mary recitasse correttamente le preghiere, fosse devota e adempiesse ai suoi doveri verso il Signore. Il resto era polvere, o peccato.
Non gliene aveva mai parlato perché sapeva che, in qualche modo, quello che le accadeva era colpa sua. Attraverso vie che ignorava, commetteva peccati, gravi peccati, in grado di ripercuotersi sulla sua vita, punendola tramite la persecuzione da parte di questi messaggeri del demonio. Se il babbo ne fosse venuto a conoscenza l’avrebbe punita a sua volta, e Mary temeva le punizioni di suo padre più di qualsiasi umiliazione potesse subire da Jane Nalcott e il suo branco.
«Guardate cosa si è messa oggi!» esclamò Barbara Larson, da un punto imprecisato dietro le spalle di Jane.
«Sembra un sacco di patate!» si unì al coro Rebecca Stemper.
«E se gliela togliessimo? Secondo me non porta neanche le mutande!» suggerì Alice Robbins.
Un’ombra di sadico divertimento illuminò il volto di Jane.
«Perché no? Facciamo prendere un po’ d’aria a quelle gambette!»
Le furono addosso prima che potesse accennare una reazione, ammesso che una ragazzina fragile, sola e confusa come Mary Dewey fosse in grado di trovare la forza per reagire. Cadde brutalmente sul pavimento del corridoio, mentre il branco le strappava a forza la gonna, mettendole a nudo le cosce e le parti intime che, per fortuna, non erano nude come si era aspettata Alice Robbins.
«Chi la vuole come souvenir?» urlò Jane, sollevando e brandendo l’indumento come se avesse tra le mani il trofeo del torneo scolastico di volley.
Nessuna reclamò il bottino. Rebecca Stemper, però, adocchiò qualcosa che le altre parevano non aver ancora notato.
«Carino quell’affarino».
Quando Mary capì che lo sguardo di Rebecca stava puntando il suo crocifisso, una scarica di terrore la pervase come mai prima di quel momento. Non perse tempo a riflettere sul da farsi: agì e basta.
Con uno scatto che nessuno avrebbe immaginato possibile per un corpicino tanto delicato, la ragazzina forzò l’assedio del branco di bullette e si precipitò nella sola via libera di fronte a lei. Non badò alle imprecazioni e alle voci sollevatesi alle sue spalle, pensò solo a correre.
Correre. Correre. Correre.
E corse, Mary. A lungo, a gambe scoperte, senza badare agli sguardi attoniti degli alunni della scuola. Troppo pochi per aiutarla, troppo saggi per mettersi contro Jane Nalcott e il suo gruppo. Mary era sola. Come sempre era stata, nella sua vita. Aveva un padre, ma a volte si domandava se il Signore non l’avesse lasciato al suo fianco al solo scopo di torturarla per i suoi peccati. Mary accettava il dolore perché ne comprendeva la ragione. Sua madre era affogata in un lago di sangue per partorirla, un peccato così tremendo – essere venuti al mondo con un tributo di morte – che andava espiato giorno per giorno. La sofferenza era necessaria. Il dolore era la via per la salvezza.
 
Senza capire come, Mary si ritrovò in un posto buio e freddo. L’umidità le bagnava il volto, e non appena gli occhi si furono abituati all’oscurità cominciò a distinguere delle sagome: tubature gocciolanti e manovelle arrugginite. Era finita nella caldaia. Il boiler, gigantesco e minaccioso alla sua sinistra, confermò l’ipotesi.
Non il migliore dei rifugi, ma per un po’ sarebbe rimasta lì, al sicuro.
Si accovacciò in un angolo, cingendosi le ginocchia con le braccia e avvicinandole il più possibile al petto. Non era più facile come una volta. Fastidiose protuberanze di carne le sporgevano dal torace, benché si fosse resa conto che tutte le ragazze le avessero. Suo padre non sopportava di vederne il profilo sotto i suoi abiti. Mary ricordò con terrore quella volta, pochi mesi prima, in cui, irrompendo in camera sua, il babbo l’aveva sorpresa a fissarsi allo specchio, svestita dalla cintola in su. Quel giorno, Mary aveva provato dolore come mai prima. Ricordò il sangue scorrerle sui seni appena delineati, macchie rossastre sull’addome fin dentro l’ombelico, tagli ovunque. Aveva tremato, mentre suo padre la copriva di sputi rabbiosi. Rammentava ancora perfettamente il bruciore della saliva sulle ferite.
All’improvviso tornò alla realtà. Si ricordò di essere praticamente nuda dalla vita in giù e comprese di non avere nessuna possibilità di recuperare la gonna. Se fosse tornata a casa a quel modo, papà l’avrebbe massacrata come quel giorno di tre mesi prima. Non poteva tornare. Aveva peccato di nuovo. Però... però...
Però... porca puttana!
Aveva appena pensato una brutta parola. Anzi, due bruttissime parole! Portarsi tempestivamente la mano destra alla fronte per segnarsi non fu sufficiente a placare la sua collera, così come non bastò la paura di peccare.
Porca puttana, Cristo, questa volta non è colpa mia! Io non ho fatto niente! Niente!
Aveva nominato il nome del Salvatore invano. Questo era peggio, molto peggio, di qualsiasi altra cosa mai fatta prima. Suo padre le aveva insegnato che, per un simile crimine, avrebbe trascorso una settimana all’Inferno anche in caso di pentimento e assoluzione.
Eppure, dentro di lei stava accadendo qualcosa di nuovo. Di nuovo e, forse, irripetibile.
Nonostante la gravità dei pensieri formulati poc’anzi, la collera continuava a infuriarle dentro. Un’emozione più potente di tutte quelle mai provate finora. Più potente persino di un’estasi religiosa. Mary non capiva cosa le succedeva, ma lo sfogo di quella rabbia repressa, seppure rimasta dentro la propria testa, le stava facendo un gran bene. Lo percepiva nitidamente, proprio come percepiva i passi pesanti che riecheggiavano sugli scalini che portavano alla caldaia.
Jane Nalcott. Il demonio.
Sola.
Evidentemente la sua premura di trovarla era stata tale da mandare le altre del branco in esplorazione altrove. Anche se doveva vedersela con la sola Jane, la situazione per Mary non migliorava granché. Contro una o contro dieci, la sproporzione di forze era comunque enorme.
«Ti nascondevi qui, puttanella?»
Jane sorrise. Ghignò, anzi. Già si sfregava le nocche, pregustando il momento in cui avrebbero massaggiato le guance di Mary.
«Lasciami in pace» mormorò quest’ultima.
Jane arrestò di colpo la propria avanzata. Non certo per timore, solo per sbigottimento. Mary aveva parlato. Sapeva parlare. Incredibile. Era curioso. Un po’ come parlare con l’agnello cotto al forno nel piatto.
«Come vuoi, tesoro. Desideri altro?» replicò, assumendo un’espressione contrita.
Prima che Mary potesse rispondere, un gran destro si abbatté sul suo muso e la fece sbattere con violenza contro le tubature dietro di lei.
Il sangue. Era tornato. Un fiotto caldo e dal sapore sgradevole, che le scorreva sulla bocca facendola quasi annaspare e inzuppandole la maglia. Dopo una botta del genere, la capacità di coordinazione di Mary diminuì notevolmente. Anche solo capire dove si trovasse e ricordare il proprio nome divenne difficoltoso. Così, quando afferrò una delle tubature cadute a terra dopo l’impatto, a malapena si rese conto di stringere qualcosa nella mano. La vista era sfocata, ma comprese che Jane si stava avvicinando. Una figura che si stagliava sullo sfondo, enorme, nera, minacciosa. Fu l’istinto di sopravvivenza a guidarla, nient’altro. Sollevò un braccio con le forze residue e questo produsse un rumore sommesso, soffice, quello di un corpo duro che colpisce una superficie morbida. Sapeva che si trattava di un gesto inutile e ridicolo. Perse conoscenza qualche secondo più tardi.
 
Quando si risvegliò, era nelle stesse condizioni di prima. Sdraiata per terra, dolorante, circondata da tubi. Si accorse di essere bagnata, in basso. C’era un peso considerevole sul suo ventre. Non appena ebbe recuperato un poco di lucidità, vide che l’oggetto in questione era coperto di folta peluria.
Capelli.
I capelli di Jane Nalcott.
Era la sua testa a essere appoggiata sulla sua pancia. Il resto del corpo riverso per terra, inanimato, immobile. Un sacco di liquido rossastro e appiccicoso sporcava la sua testa e colava sulle gambe di Mary.
La ragazzina non pensò a niente. Non badò al bullone sporgente che aveva perforato il cranio di Jane, né al suo bacino lordo di sangue. Pensò solo a sfilare i jeans della sua carnefice e a indossarli, dopodiché uscire. Uscire e fuggire. Fuggire e uscire. Due parole che riecheggiavano di continuo, rimbalzando da una parte all’altra della sua testa.
Questa volta, non incontrò resistenza nell’allontanarsi dalla scuola. Uscì senza essere notata, nonostante gli enormi jeans che indossava e le sformavano vistosamente le gambe minute. Cominciò a correre prima di accorgersene, e la percezione dell’entità di ciò che aveva appena commesso iniziò a sfiorarla. Questo era più che pensare brutte parole, persino peggio che bestemmiare.
Aveva ucciso.
Un crimine irrimediabile, un’onta incancellabile.
Sfiorando il piccolo crocifisso, ebbe l’impressione che fosse rovente, come se il metallo fosse orripilato dal contatto con la sua pelle. E capì di essere condannata all’inferno.
«L’inferno» sussurrò.
Un velo di lacrime le imperlò gli occhi.
«L’inferno... l’inferno...»
Continuò a mormorare la stessa parola, a lungo. Al culmine della disperazione, pochi istanti prima di entrare nello stato catatonico in cui Tommy Hambrook l’avrebbe ritrovata di lì a qualche ora, urlò.
«L’inferno! L’inferno! L’INFERNO!»

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** La chiusura ***






4
 
Richie Albertson parcheggiò lentamente a fianco del marciapiede che dava sul numero 6 di Wilson Street. Tirò il freno a mano e spense il motore.
«So come ti senti» mormorò, volgendo il capo dal lato del passeggero.
«A cosa ti riferisci?» chiese all’agente in uniforme accanto a sé, con voce piatta.
«È inutile che fingi. Non puoi far finta che questo sia un arresto come tutti gli altri».
«Questo è un arresto come tutti gli altri».
Richie sospirò.
«Mi prometti che niente andrà storto?»
La donna al suo fianco, una robusta ragazza di ventisei anni, lo guardò con espressione terribilmente seria.
«Niente che non occorra fare sarà fatto» promise lei.
Richie si accontentò di quelle parole. Non lo rassicuravano, non cancellarono l’aura di paura che attanagliava il suo cuore, ma dovette rassegnarsi al fatto che da una come Jean non avrebbe ottenuto niente di più. Quella semplice dichiarazione era già molto più di quanto si aspettasse.
Uscirono dalla vettura della polizia. Il loro era stato un arrivo silenzioso, a sirene spente. Nessuno, nei dintorni, si era accorto della loro presenza, per il momento. Imboccarono il vialetto con passo normale, senza dar segni di apprensione. Raggiunsero l’ingresso e Richie bussò.
La porta era aperta. I due poliziotti compresero che non era un segnale incoraggiante. Richie appoggiò d’istinto la mano destra sulla fondina della pistola. Con una leggera spinta, la porta si spalancò. Nessuno dei due si premurò di chiedere permesso. Entrarono e si richiusero la porta alle spalle.
«Signor Dewey?»
Nessuna risposta. Jean slacciò la fondina.
Un rumore sommesso al piano superiore, debole ma abbastanza nitido da essere percepito dalle orecchie vigili dei tutori dell’ordine. Non ebbero bisogno di guardarsi per capire che il loro uomo era lassù. Richie avanzò in direzione delle scale, ma qualcosa glielo impedì. Anni di servizio lo avevano abituato a procedere senza badare alla retroguardia, poiché Jean gli aveva sempre protetto il fondoschiena a dovere. Quel giorno non andò così. Quel giorno, la retroguardia non fece il suo dovere.
Il calcio della pistola di Jean si abbatté con violenza sulla nuca di Richie. Il vecchio agente di polizia, prossimo alla pensione, stramazzò a terra senza un lamento. La dimensione dell’incoscienza lo avrebbe accolto per le prossime due ore.
Jean si fermò un istante a osservare il corpo riverso a terra del collega.
«Te lo prometto, Richie. Non accadrà niente che non debba accadere».
Saliti i gradini, Jean si ritrovò al primo piano, dove non ebbe difficoltà a individuare la sorgente del rumore. La porta della camera da letto le era dinanzi, chiusa. La ragazza intuì che non avrebbe avuto bisogno di sfondarla per entrarvi. Il rumore non era altro che un mormorio incessante e ossessivo.
Senza ulteriori indugi, Jean penetrò nella camera e incontrò Paul Dewey. Era inginocchiato davanti al letto, le mani giunte in preghiera, i gomiti appoggiati sulle coperte, le palpebre serrate e le labbra impegnate in un inarrestabile movimento impercettibile. Le pareti della stanza erano ricoperte di icone sacre, cornici della Sacra Famiglia, raffigurazioni di Cristo e riproduzioni di dipinti rinascimentali con soggetti di culto. Jean si sentì a disagio, quella stessa sensazione che opprime il cuore quando ci si avventura in un luogo dove si è chiaramente estranei.
«La smetta, Dewey».
La litania di Paul Dewey terminò. Sembrava aspettarla.
«L’Angelo della Morte è qui. È arrivato per salvarmi».
«Non so di cosa stia parlando».
Jean si mantenne a debita distanza. Quell’uomo era pericoloso, non poteva concedergli l’occasione di prenderla di sorpresa.
«Tutti noi commettiamo peccati. Il seme di Satana alberga dentro di noi, e versare il nostro sangue in sacrificio è il solo modo per espiare. Per quanto gravoso sia il pegno, esso deve essere pagato...»
«Per questo ha ucciso Tommy Hambrook? Per pagare un pegno?»
Un lampo sinistro baluginò nello sguardo allucinato dell’uomo.
«Quell’essere era il più immondo dei peccatori. Ho compiuto la volontà di Dio nell’eliminarlo».
«Confessa, dunque?»
«Confesso a Dio Onnipotente di aver compiuto la sua volontà».
«Mi basta. Perché l’ha fatto?»
Jean non ricevette risposta.
«Dov’è sua figlia?»
«Probabilmente con sua madre. Quella puttana».
«Mi dispiace turbare l’idillio della sua famiglia, ma sono qui per arrestarla».
«Non era mia figlia. Quella troia la concepì assieme a un altro. Non c’era sangue mio in lei. Tuttavia, non doveva essere versato. Per quanto impura, era anch’ella una creatura di Dio».
«Comincio a stancarmi delle sue farneticazioni. Mi dica dov’è sua figlia».
Paul la guardò per la prima volta. Lo sguardo era indecifrabile.
«È morta».
Un brivido scorse lungo la schiena di Jean. Comprese che quell’uomo, dopotutto, non stava farneticando.
«Ha ucciso sua figlia?»
«Non dica blasfemie in questa casa. Mary mi è stata portata via».
«Da chi? Chi gliel’ha portata via?»
«Quell’uomo. Quell’Hambrook».
D’un tratto, uno schema si delineò nella mente di Jean. Tommy Hambrook era stato trovato ucciso nella sua casa in Jefferson Street, con venti pugnalate disseminate su tutto il corpo. Le indagini avevano portato presto a Paul Dewey, le tracce lo avevano indicato come probabile colpevole fin dall’inizio. Tracce di pneumatici sull’asfalto, testimonianza di un vicino, sudore e capelli sul luogo del delitto che avrebbero inchiodato l’assassino dopo un’analisi comparativa del DNA.
Ma il caso Hambrook non era stato l’unico di omicidio in quei giorni. Il corpo carbonizzato di una ragazza, ancora non identificata, era stato trovato nei campi coltivati sulla strada per River Fields. Nessuno ne aveva denunciato la scomparsa, ma ora Jean apprendeva che il principale indiziato del caso Hambrook aveva perduto sua figlia, la quale aveva la stessa età che si presumeva avesse la vittima bruciata.
L’agente Jean Nalcott intuì che la sua vendetta sfumava, secondo dopo secondo. Il corpicino carbonizzato trovato vicino a River Fields apparteneva a Mary Dewey. Non aveva bisogno di perizie della Scientifica per esserne sicura. Il cadavere era il suo. Qualcuno l’aveva preceduta. E questo qualcuno, con buona probabilità, era – o meglio, era stato – Tommy Hambrook.
«Come può esser certo che Hambrook abbia davvero ucciso sua figlia?»
Dewey sospirò.
«Mary portava sempre con sé un crocifisso che le avevo donato io stesso. Hambrook l’aveva con sé».
«Come sarebbe a dire?»
«Il mio capo conosceva mia figlia, l’aveva vista tante volte, e conosceva quel crocifisso. L’ha visto nella macchina di Hambrook, e me l’ha subito comunicato».
«Di chi sta parlando?»
«Noah Robbers. Lavoro per lui al distributore sulla Nashville Road».
Jean rimase in silenzio. Doveva dirgli che cosa l’aveva spinta a tramortire il suo collega per trovarsi a tu per tu con Mary Dewey? No. Non v’era alcuna ragione. Non c’era motivo di comunicare a quel povero fanatico che la sua bastarda, poche ore prima di essere trasformata in un barbecue, aveva trovato la forza di uccidere sua sorella. Jane... che, a dirla tutta, non è che fosse questo stinco di santo. Sua sorella, in vita, era stata talmente ottusa da sfiorare il ritardo mentale, ma la mole le aveva sempre impedito di esser presa di mira come tale. Al contrario, si era evoluta in un’aguzzina della peggior specie. Ma questo a Paul Dewey non sarebbe importato minimamente. E, dopotutto, nemmeno a lei stessa. Una sorella era pur sempre una sorella. Perdonare chi gliel’aveva portata via non era ammissibile.
Tutto ciò che importava a Dewey era morto nell’attimo stesso in cui Tommy Hambrook aveva esalato l’ultimo respiro. Era superfluo chiedersi perché un individuo come lui non si fosse rivolto alla polizia per trovare la figlia. Dewey non viveva nella sua stessa dimensione. Non ragionava come lei, non agiva come lei.
O forse ?
Jean se lo chiese quando estrasse la pistola dalla fondina e la puntò verso il cranio dell’uomo inginocchiato di fronte a lei. Se lo chiese anche un attimo prima di premere il grilletto e inondare la stanza di sangue, tanto da ricoprire di chiazze rosse le icone della Sacra Famiglia e tutte quelle altre cose.
Stabilì che la risposta non aveva poi molta importanza.
“Scusa, Richie.”
Il cerchio di morte era chiuso.


Qui si chiude anche il mio racconto. Grazie a chiunque lo abbia seguito fino alla fine. Se avete apprezzato, spero che lascerete un commento. Sono intenzionato a migliorarlo, e ogni critica è più che ben accetta. Mi auguro di avervi regalato qualche minuto di intrattenimento ;) Alla prossima!




 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=885488