Anastasis - Ricordi

di TuttaColpaDelCielo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ferite ***
Capitolo 2: *** Gelo ***
Capitolo 3: *** Equilibrio ***
Capitolo 4: *** Cicatrici ***



Capitolo 1
*** Ferite ***


Capitolo 1 – Ferite



Eravamo gli ultimi superstiti di una stirpe quasi estinta, lo diceva l’aria di morte che ci entrava nei polmoni a ogni respiro.

Eravamo l’estremo frutto di una terra agonizzante, nati senza conoscerne il motivo, vissuti cercando un senso che forse nemmeno esisteva.

Eravamo figli e fratelli di una razza matricida, prima accolti nel suo grembo, poi cacciati come mostri e traditori.

Eravamo vittime e carnefici in una tortura senza fine e senza senso, i ciechi giocatori di una partita che ci avrebbe impietosamente distrutti – una lotta intestina che non concedeva grazia.

L’epilogo di tutti noi ci respirava sul collo, ma scambiammo il suo fiato per la brezza invernale.



Un falò divorava i pochi ciocchi rimasti, sorvegliato da sei sguardi tesi. Fiamme incontrollate erano una condanna a morte come il gelo notturno, suggeriva l’istinto a quei corpi pronti a fuggire, e che avessero acceso un fuoco dava l’idea di quanto quell’inverno si stesse rivelando difficile.

Il silenzio, interrotto solo dai loro respiri pesanti e dal crepitio della legna, era sceso nella grotta non appena si erano raccolti in cerchio – ogni parola, ogni ringhio, ogni movimento congelati nell’attesa che l’ultimo arrivato rivelasse ciò che aveva appreso.

Quello, il più vicino alle fiamme, rimase per diversi minuti con le mani tese verso il calore, senza che nessuno osasse porre domande. Anche seduti a terra sovrastava gli altri di almeno mezza spanna, ma la vaga aria di superiorità con cui guardava i compagni sarebbe rimasta immutata anche se fosse stato meno imponente: era qualcosa nel modo in cui teneva le spalle dritte, nel barlume di fierezza che gli animava gli occhi grigi, nell’espressione severa dei tratti marcati – nel timore meno intenso con cui osservava il fuoco, anche.

Infine l’uomo ritrasse le mani e tossì, ottenendo l’attenzione di tutti.

«Sono in zona.» iniziò con voce rauca «Ho trovato le loro tracce vicino al ruscello.»

«Quanti?» chiese un altro, più anziano e tarchiato, riprendendo vitalità.

«Almeno cinque. A cavallo.»

«Ci siamo spinti troppo vicini ai villaggi.» mormorò una donna, con l’aria quieta e il grembo rigonfio di chi ospita una vita.

«Ci avrebbero trovato comunque, Soyi. Sono cacciatori, non contadini armati di forcone. Prima o poi sarebbe successo.»

«E quindi?» gli chiese lei, accarezzandosi il ventre.

L’uomo si passò una mano tra i capelli, esausto ma ancora con la dignità del capo.

«E quindi» sospirò «dobbiamo andarcene.»

Quattro voci si levarono contemporaneamente, suggerendo mete e itinerari; solo una donna rimase in silenzio, dritta e fiera quasi quanto lui, distogliendo lo sguardo dal fuoco per fissarlo in viso. Quegli occhi sembravano sfidarlo – non con la minaccia del suo corpo minuto, né con parole ostili, ma solo con l’ardente orgoglio di chi non contempla la fuga.

Continuarono a scrutarsi anche quando lui ricominciò a parlare.

«Ho sentito dei ragazzini, oggi. È tutto distrutto lungo il corso del Dara, e dalla foce fino a Limne gli Anastatoi hanno preso anche la costa.»

«Non è possibile.» ringhiò la donna che lo fissava «Avrai sentito male. Meno di una luna fa non erano ancora a Stoma, non possono aver conquistato tutto quel tratto in così poco tempo.»

«Ho sentito bene. O forse non ti fidi di me, Ahdle?»

Lei sorrise, ma fu più una smorfia ferina, selvaggia come tutto il suo aspetto – dai lineamenti decisi ai capelli scuri, ribelli e aggrovigliati.

«Certo che mi fido di te, Hetrir. È che non mi fido dei ragazzini umani.» rispose, ma sembrò intendere tutto il contrario.

«Anche noi siamo umani. E ora lasciami parlare.»

La donna sorrise di nuovo e mosse una mano, in un invito beffardo a continuare.

«Dicevo, prima che qualcuno m’interrompesse, che ormai il sud e quasi tutta la costa non sono più sicuri. E le Epaeidi del Dara stanno fuggendo verso la capitale, dovremo evitare anche loro.»

«Ho sempre sognato di incontrarne una.» intervenne con aria svagata un ragazzino dalla pelle scura, probabilmente il più giovane di loro «È vero che possono stregare cantando?»

«Non ho intenzione di andare a chiederglielo, Khai.» rispose l’altro con un’occhiata di rimprovero.

«Potremmo tornare indietro.» suggerì Soyi, lanciandogli un breve sguardo prima di tornare a fissare il fuoco.

«È rischioso. Non sappiamo com’è la situazione: forse ci sono ancora cacciatori, o si è insediato un altro branco, e lottare attirerebbe l’attenzione.» o il fronte è arrivato fin lì ed è stato distrutto tutto, pensò con un brivido «No, non possiamo neanche tornare indietro. L’unica sono le montagne.»

Una risata stridula riempì l’aria odorosa di fumo della grotta.

«Oh, certo. Che sciocchi.» commentò Ahdle, ferocemente ironica, continuando a guardarlo negli occhi «Le montagne. Perché non c’abbiamo pensato prima?»

«Ahdle.» la richiamò l’uomo.

«Credi che moriremo prima di freddo o di fame, Hetrir?» continuò, ignorandolo «O magari ammazzati per aver sconfinato nel territorio di qualche branco?»

«Ahdle.» ripeté lui, con un ringhio di gola.

«E come pensi che possa sopravvivere un cucciolo?» indicò con un cenno del capo il ventre di Soyi, e le braccia di lei scattarono istintivamente a circondarlo «Là ci sarà neve per almeno altre due lune. Pensi di chiedere a tuo figlio di nascere più tardi?»

«Proprio tu ti preoccupi di mio figlio?»

Lei sgranò gli occhi; per un attimo sembrò che le iridi nocciola fossero diventate lucide, ma poi sbatté le palpebre e tutto tornò come prima, se mai era cambiato.

«Potete continuare senza di me.» sibilò, prima di alzarsi e voltare loro le spalle.


* * *


Seduta all’entrata della grotta, con la schiena poggiata alla gelida roccia e gli occhi chiusi, sembrava dormire. Un’impressione ingannevole: sensi ben più fini della vista erano vigili, non ultimo l’istinto animalesco del predatore braccato, e i suoi pensieri erano ben distanti dal confuso rincorrersi dei sogni. Insensati e angoscianti, ma comunque spaventosamente lucidi – le era negato anche il conforto del non essere in sé.

L’aveva umiliata di fronte a tutti, e la sua voce era stata una lama più crudele dell’acciaio: le parole avevano morso nei punti più teneri fino a strappare brandelli di orgoglio, come artigli e zanne non avrebbero potuto osare su di lei, una femmina del branco – tabù radicati nella loro natura bestiale.

Inspirò, più per distrarsi che per senso del dovere. Muschio e neve e foglie marce e animali che si tenevano a distanza. Nessuna traccia umana nell’aria gelida, solo quella che permeava la coperta rubata in cui era avvolta. Fumo e l’odore confortante del branco, dall’interno della grotta.

Non c’era nulla nemmeno da udire, se non fruscii e richiami animali: la discussione era cessata da tempo, giungendo a una soluzione che non le interessava conoscere.

A un tratto percepì dei passi alle sue spalle e li riconobbe dall’insolita pesantezza.

«Soyi.» salutò a bassa voce, aprendo gli occhi «Non toccava a Nemunas il turno dopo di me?»

L’altra si rannicchiò goffamente accanto a lei, impacciata dal ventre gonfio, mormorandole: «Ho pensato di venire a farti compagnia.»

«Fa freddo, qui. Dovresti stare dentro.»

«Non importa, un po’ d’aria mi farà bene. Ah, ho preparato io le tue cose.»

«Le mie cose?»

«Be’, sì. Non ci hai ascoltati?» sorrise senza ironia, solo con gentilezza «Dopo la tua guardia, se non hai sentito nessuno avvicinarsi, ce ne andiamo.»

«Dove?»

«Torniamo indietro. Se la situazione non è buona, vedremo sul momento cosa fare.»

«Improvvisazione. Finalmente come ai vecchi tempi, eh?»

«Ai vecchi tempi non c’era un branco da guidare.» sospirò.

«Un branco di individui pensanti.» ribatté. E, come a voler stemperare l’atmosfera: «A parte Khai, forse, ma lui è un’eccezione.»

«E se non lo eliminerà la selezione naturale ci penserai tu, immagino.» rise.

«Ovviamente.» poi tornò seria «Perché Hetrir ha deciso di cambiare programma?»

«Perché in effetti le montagne sarebbero impraticabili, con un cucciolo.» si accarezzò il ventre con espressione contrita «Devi scusarlo. Lui-»

«Non preoccuparti.» la interruppe «Non è colpa tua se è un imbecille.»

«Non è nemmeno colpa sua, Ahdle. È tutto questo.» sussurrò, sapendo che avrebbe capito, e le cinse le spalle – un gesto che pochi avrebbero osato, ma che fu ricambiato quasi subito.

Vederle vicine sembrava strano, quasi insensato. Gli stessi lineamenti marcati e gli identici occhi nocciola suggerivano uno stretto legame di sangue, tuttavia nessuno avrebbe potuto confonderle: non era solo per l’evidente differenza di toni – pelle olivastra e chiarissima, capelli bruni e ramati –, ma per qualcosa nell’espressione e nello sguardo che rendeva impossibile lo scambio e ridicolo l’accostamento. Eppure erano lì, violenza e dolcezza a confronto, assurdamente abbracciate; un senso c’era, nascosto nel sangue e nell’infanzia, e la diversità non bastava a distruggerlo.

Rimasero immobili per qualche tempo, strette l’una all’altra, finché Ahdle non si allontanò un poco.

«Torna dentro sul serio, ora. Se ti ammalassi per colpa mia Hetrir tenterebbe di uccidermi, e non nutro troppo fiducia nei tabù, in questo caso.» accennò un sorriso e, rimasta sola, aggiunse in un sussurro: «O nella sua pietà.»

In quella non riponeva alcuna speranza, pensò amaramente, voltandosi a osservarla mentre tornava accanto al fuoco. Incontrò un lampo grigio mentre il compagno l’aiutava a sedersi e distolse in fretta lo sguardo.

Erano occhi inquietanti, quelli che solo lei nel cerchio aveva osato fissare: d’argento, come le lame più spietate, con un bagliore che poteva essere in ugual misura il riflesso delle fiamme o la luce feroce della crudeltà. Non c’era spazio per la compassione, in quello sguardo, ma solo per l’istinto selvaggio del predatore – un istinto che si ostinava a rifiutare, ma senza che la durezza dei suoi occhi ne risultasse addolcita.

Si strinse di più nella coperta, rabbrividendo, come se la lana avesse potuto proteggerla da ferite ben più in profondità della carne – e come se stesse congelando, il che non era poi troppo distante dalla realtà. Avrebbe potuto muoversi per scaldarsi, se avesse avuto energie da sprecare; ma non ne aveva, perciò doveva accontentarsi di porre più tessuto possibile tra il proprio corpo e la roccia gelida. Oppure avrebbe potuto mutare, per resistere meglio al freddo, ma Hetrir aveva ordinato di rimanere normali fino alla partenza.

Normali. L’altra forma non era la loro essenza più profonda, ma la parte scomoda, sgradita – almeno secondo lui, che definendoli umani li insultava ogni giorno.

Perché, si chiedeva lei da anni. Perché ripudiare la loro natura, quando era più semplice accettarla – la velocità e la forza e mordere divorare sopravvivere. Perché fingere di non sentire il richiamo, quando ogni muscolo gridava di essere nel corpo sbagliato – non c’entravano le fasi lunari o altre sciocche leggende infondate, era qualcosa di interiore, l’istinto della bestia che pesava sullo stomaco. Perché negare l’esaltazione della caccia e l’euforia della corsa, quando erano impresse in loro più delle emozioni umane – e tutte le leggi non scritte che seguivano spontaneamente, i tabù e la gerarchia e la lealtà.

«Sentito niente, Ahdle?» le riscosse una voce dall’interno della grotta.

«Niente.» rispose, pur sapendo di non essere stata particolarmente vigile.

Un uomo tarchiato, più anziano, la affiancò ridacchiando «Va’ pure dentro a preparati, qui resto io a controllare neve, neve e... ah, sì, neve.»

«Grazie, Nemunas.»

Si alzò, infreddolita dall’immobilità, e rientrando quasi si scontrò con un uomo.

«Sentito niente?» le chiese, brusco.

«L’ho già detto, Hetrir.» sibilò a denti stretti, obbligandosi a fissarlo negli occhi – argento che apriva ferite infette di umiliazione e rabbia «Niente.»

«Allora muoviti, stiamo già cancellando le tracce.»

Lei inspirò e storse il naso.

«E come pensi di togliere l’odore di fumo?»

«Preferivi morire di freddo?» ringhiò.

«E le tracce?»

«È buio e siamo nel bosco. Pensi che le vedranno?»

«Tra qualche ora sarà giorno.»

«Tra qualche ora saremo lontani.»

Lo urtò con la spalla per passargli accanto e raggiunse il fondo della grotta, dove Soyi e Khai si stavano spogliando. Distolse in fretta gli occhi da lui, chinandosi verso una sacca posata a terra; si tolse la coperta e il mantello e ve li infilò senza cura, poi iniziò a svestirsi.

Un ringhio minaccioso le salì alle labbra quando, slacciando lentamente i bottoni della casacca con le dita rigide, colse lo sguardo del ragazzino sul suo seno – troppo in basso e troppo giovane per poter osare tanto.

«Povero Khai.» ridacchiò Soyi a bassa voce «Mi fa tenerezza.»

«A me fa venire voglia di carne. Viva.» ribatté lei ben udibile, lanciandogli un ultimo sguardo minaccioso prima di girarsi verso la parete.

«Cerca di capirlo.» si voltò come lei per spogliarsi completamente «Siamo in tre, io sono impegnata e Tirani è sua sorella: rimani tu.»

«Che si dia all’incesto, se proprio non sa trattenersi.»

Rimasta completamente nuda, tremante per il gelo che mordeva la carne, controllò la chiusura della sacca e se la assicurò alla schiena.

«Andiamo?» le chiese l’altra, già pronta.

Annuì.


* * *


Alzò il viso di scatto, smettendo di fissare il fuoco.

«Sono qui.»

I compagni lo fissarono straniti, pur essendo ormai abituati al suo istinto quasi inumano.

«Sono qui, vi dico.» ghignò.






Questa storia si è classificata seconda al contest Let's fly on fantasy's wings! indetto da SunnyPain, con 49/50 punti.
Si tratta del prologo di un'altra storia, in fase di stesura, che inizierò a pubblicare poco dopo il termine di questa.
Ringrazio Eclectic_Doll che, con la sua serie Esaetter, mi ha ispirato questa struttura dei capitoli: voce in prima persona e narrazione in terza.
Per motivi di tempo, aggionerò ogni due venerdì. Ci rivediamo, quindi, il 25!

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Capitolo 2
*** Gelo ***


Capitolo 2 – Gelo


Una di noi aveva previsto da tempo ciò che accadde. Non credo conoscesse il futuro, ma comprendeva il passato e accettava il presente; osservava, soprattutto, riconoscendo i segni di una storia che tornava – una storia la cui eredità non era solo antiche leggende e resti di una lingua morta, ma un intreccio di cause e conseguenze che ci avrebbe condotti alla fine.
Era una trama troppo vasta e troppo importante perché credessimo di esservi coinvolti. Che poteva importarci di una rivolta e di una guerra, quando saremmo stati perseguitati in ugual modo sotto qualsiasi dominatore? Non eravamo nemmeno pedine, non appartenevamo a uno schieramento; per noi l’unica novità erano le razzie, il resto era affare dei potenti, non delle formiche. Pensavamo che non saremmo mai comparsi sulle cronache di quella guerra, e almeno su quello avevamo ragione – ma imparammo che la grande storia distrugge i piccoli uomini senza nominarli.


Non pensavano.
Correvano e basta, senza affondare nella neve fresca, ma nel loro incedere leggero non c’era alcuna eleganza – era solo un lavoro di muscoli e polmoni, con l’urgenza del pericolo, con il panico della preda braccata.
Bagliori di torce si intravedevano tra gli alberi, come promesse di morte del colore del fuoco; si avvicinavano in un cerchio sempre più stretto, provocando più terrore dei latrati dei cani e del tramestio degli zoccoli.
E loro correvano, perché così gridava l’istinto – e sentire il sibilo delle frecce accanto a sé e sperare di essere abbastanza veloci e sapere già di aver perso la partita, e implorare i polmoni di reggere un altro po’ e cadere a terra stremati.
La prima a fermarsi fu una femmina rossiccia dall’incedere più pesante degli altri, esausta; un istante più tardi un altro, poco più di un cucciolo, crollò accanto a lei con un guaito. L’odore del sangue li raggiunse prima che si rendessero conto degli eventi: sgorgava copioso dalla coscia ferita, confondendosi con il pelo nero, fino a colare sulla neve in dense gocce di un rosso cupo.
Vederli inermi fu come un richiamo, un ordine cui non potevano sottrarsi. In un attimo quattro sagome ringhianti furono attorno alle due a terra, con una lealtà sconosciuta agli umani – o forse solo con stupidità, perché non avevano più speranza di sfuggire alle frecce.
Poi fu rosso: quello buio del sangue, quello crudele del fuoco. E lamenti e panico e dolore, un dardo che la colpiva alla schiena, la testa che girava, schiocchi di mascelle, vestiti riversati dalle sacche ormai squarciate. Cavalli impazziti per il terrore, cani che latravano, il cuore che sembrava scoppiare. Caos.
Non capiva più nulla, stordita, con le viscere strette dalla nausea. Proteggere il corpo esanime di Soyi: questo era l’imperativo che la animava, il resto era una massa di pensieri inutili. La vista le si offuscò per un momento; era esausta, e solo vedendo un’ampia scottatura sul fianco di Nemunas, accanto a sé, si accorse che le torce si erano fatte ancor più vicine. In uno sprazzo di lucidità sperò che Khai fosse ben protetto dalla sorella, ma non riusciva a scorgerli nel turbinio di suoni e colori che era diventato quel tratto di bosco.
Lo stomaco si contrasse ancor di più quando vide una freccia raggiungere la sagoma grigia di Hetrir. Un altro giramento di testa, un sibilo e dolore, e un arciere a pochi metri da lei che aveva appena scoccato un dardo.
Era vicino, si rese conto mentre la nausea continuava ad aumentare – troppo vicino per sbagliare un tiro del genere. E, realizzando che non stavano mirando a punti vitali, la vista le si offuscò definitivamente.

* * *

Si trovò con gli occhi aperti senza capire quando si fosse svegliata: la coscienza aveva appena preso il posto dello stordimento che segue il sonno, lasciandola smarrita e dolorante. Fissò le travi di legno sopra di sé, che sostenevano un tetto di paglia; filtrava luce, perciò doveva essere giorno, ma non aveva idea di quanto mancasse al tramonto.
Udì un’esclamazione e serrò le palpebre, con le tempie pulsanti. Era dolorante e rigida per il freddo, e qualcosa di gelido le stringeva i polsi; assurdamente le sembrava che le opprimesse anche il petto, quasi impedendole di respirare. Riaprì gli occhi e provò a parlare, ma aveva la lingua impastata da bile amara.
«Ahdle!» sentì di nuovo, a voce più bassa, riconoscendo il timbro di Khai.
Si tirò faticosamente a sedere, notando che qualcuno doveva averla vestita, e lo guardò con un’ansia quasi materna: il viso scuro era graffiato in più punti e il labbro inferiore tumefatto, ma non sembrava essere ferito gravemente, realizzò con sollievo. Protese una mano verso il suo viso, vedendo solo in quel momento i bracciali di metallo che le cingevano i polsi.
«Argyrion.» mormorò il ragazzino, intercettando il suo sguardo «Nemunas ha detto così.»
Annuì, avvicinandolo al viso per osservarlo meglio. Era di lavorazione grossolana: i bordi erano quasi taglienti e la chiusura solo una striscia verticale in rilievo – poiché la magia è al sicuro dai furti, al contrario delle chiavi. Doveva essere quello a soffocarla così.
«Qualcuno ha già provato a cambiare forma?» chiese a bassa voce.
«Non ci riusciamo. Ma il problema è un altro.» scosse la testa e si alzò «Vieni.»
Lo imitò, inquieta, ma dopo qualche passo la nausea la costrinse a lasciarsi scivolare a terra. Hetrir, Tirani e Nemunas, inginocchiati accanto alla parete opposta, le davano le spalle; si voltarono per rivolgerle un sorriso stentato o un cenno, poi tornarono a fissare qualcosa nascosto dai loro corpi.
Per molto tempo non osò chiedere nulla, perché chiedere avrebbe significato ottenere risposte, e non era sicura di volerne – il mondo era già crollato abbastanza.
«Hetrir.» chiamò infine «Hetrir, che succede? Soyi... Soyi dov’è?»
L’uomo alzò il viso per un istante, mostrando una profonda ferita lungo una guancia e gli occhi vuoti, spenti. Sembrava un vecchio. E l’unica persona capace di prostrarlo così era... no.
Si avvicinò di scatto e scostò Tirani, in preda al panico, sperando di sbagliarsi; purtroppo, aveva sempre avuto un buon intuito.
Soyi, pallida, giaceva su una coperta infangata. Sangue incrostava gli abiti e i capelli ramati, gocce di sudore colavano dalla fronte e dal collo; unico segna di vita, il debole respiro che quasi non le sollevava il petto.
Gridò.


Non sapeva cosa sentisse Soyi. Se il dolore dell’argyrion, le loro voci o semplicemente il nulla.
Non sapeva nemmeno come darle sollievo. Poteva solo scostarle i capelli dalla fronte e detergerle il sudore, con la tenerezza che non appartiene agli amanti, ma agli innamorati – un gesto che tante volte aveva compiuto, e che forse lei percepiva anche nell’incoscienza.
Alzò lo sguardo su Ahdle, incapace di darle risposta. Non reagì nemmeno alle sue grida: lasciò che fosse Nemunas a soffocarle in una stretta, scoprendo che in realtà non gliene importava nulla. Non in quel momento.
Tornò a scrutare il viso di Soyi. Aveva gli occhi aperti, ma annegati nel torpore e nello smarrimento, e le labbra secche imploravano acqua. La vide sussultare, come se la voce di Ahdle l’avesse riscossa – quella e non la sua, che le era stato accanto per tutto il tempo, pensò con acredine.
Riuscì a sollevarle il busto appena prima che rigurgitasse bile acida; lei, ignorando i conati che ancora le risalivano in gola, strinse il ventre con le braccia e serrò gli occhi.
Uno, due, tre minuti.
Un tempo infinito in cui non osò toccarla, lasciando che s’immergesse in quel mondo intimo e femminile che gli era precluso, sperando, pregando. Perché se dentro di sé non avesse avvertito nulla, sarebbe morta; e lui insieme a loro.
Ahdle si avvicinò, la comprensione dipinta in volto, con un dolore che si pentì di aver deriso. Che Ilithia dal grembo rigonfio avesse deciso di punire la sua crudeltà?
All’improvviso la compagna gli crollò addosso.
«Non si muove.» singhiozzò «Non si muove.»
«Dev’essere l’argyrion. Lo stanca.» le sussurrò, stringendola.
Faceva male.
Faceva male vederla così, faceva male avere paura, faceva male non sapere nulla.
Faceva male fingere una sicurezza che non aveva e pregare gli dèi di avere ragione – aggrapparsi alla speranza per non affondare, anche a costo di spezzarsi le unghie.
«Come state?» chiese la donna.
Ahdle rispose al suo posto, quasi ringhiando: «Meravigliosamente. E ora, cos’è successo?»
Si sforzò di ridere.
«Lieto che la tua pazienza aumenti di giorno in giorno.»
«La tua propensione a rispondere fa lo stesso, mi pare.»
Sapevano di abitudine, quelle repliche sferzanti; certe cose non cambiano mai, e ripercorrerle tranquillizza. Anche quando della quotidianità non rimane nemmeno l’ombra.
«Hetrir.» lo chiamò Soyi, ancora abbandonata contro di lui «Cos’è successo?»
La strinse di più, prima di iniziare a parlare.


Lo ascoltava senza interromperlo, continuando ad accarezzare la guancia di Soyi, come per assicurarsi della sua presenza. L’uomo sembrava aver già ripetuto il discorso, forse a chi si era svegliato prima di loro: dava la sensazione spiacevole di una lezione imparata a memoria.
Era il tono distaccato di chi non vuole accettare. Erano gli occhi vuoti di chi spera che sia un incubo. La voce non vibrava e l’argento non riluceva.
Drogati, rinchiusi in un villaggio vicino; questo lo aveva già intuito. E poi supposizioni, ragionamenti, tutte parole assolutamente inutili.
Quando Hetrir terminò lei rimase in silenzio, ad ascoltare i propri respiri e i movimenti all’esterno – uomini di guardia, commenti stanchi e bisbigli incuriositi. Nessuna risposta, quando Khai tentò per la terza volta di avere acqua e informazioni.
Ringhiò, frustrata.
Il futuro era un punto interrogativo in mano ad altri; il presente, una dipendenza continua anche per le necessità più basilari.
Animali in gabbia.

* * *

Esitava da quasi un minuto di fronte a una porta. Sapeva di doverlo fare, ma non osava battere le nocche sul legno sottile, perché non gradiva la possibilità di disturbare – non l’avrebbe gradita l’altro, soprattutto. Era quasi tentato di tornare indietro e mandare un compagno al suo posto.
«Enar.» lo chiamò una voce dall’interno «Vieni.»
Non capì come avesse percepito la sua presenza. Forse l’aveva sentito arrivare e aveva riconosciuto il passo. O forse non doveva chiederselo e basta.
Entrò, accompagnato dal cigolio della porta e da un brivido di inquietudine. Vide l’uomo seduto sull’unico letto, a guardare il vuoto e a giocherellare con il sottile bracciale nero che portava al polso. Rimase di fronte alla porta, senza raggiungerlo.
«Hai paura di me?» gli chiese lui, con tono incolore, in una domanda ormai abituale.
Non rispose, sempre più turbato. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in Neryon: sembrava un folle – e lo era, probabilmente. Un folle lucido e sorridente. Seguiva schemi incomprensibili, risparmiando bambini e massacrando donne; poneva domande insensate, ridendo dell’incertezza altrui, senza aspettarsi davvero una risposta. Gioiva nel confondere, nell’avere gli altri in proprio potere. Era agghiacciante.
«Cosa devi dirmi?» lo riscosse.
«Sono svegli.»
«Bene. Ora andiamo.» sogghignò, alzandosi «Non vogliamo far attendere i nostri ospiti, vero?»


Era sdraiata accanto a Soyi, in un angolo, a parlare di tutto e di niente – un’intimità che era stata quasi dimenticata, e che suonava quasi fasulla.
«Si muove.» esclamò l’altra.
«Si è già mosso prima, non è una novità.»
Lei le afferrò la mano, avvicinandola al proprio grembo.
«Vuoi sentire?»
Percepì un colpo, energico, vitale – di quelli che fanno anche un po’ male, e lei se li ricordava bene.
Si alzò bruscamente. In qualche modo capiva l’entusiasmo della sorella, ma non poteva perdonare l’indelicatezza, né smettere di odiare la sua gioia. Non quando ancora passava le notti ad accarezzare il nulla, con il dolore e la rabbia serrati in gola e le lacrime da fermare.
Iniziò a percorrere il perimetro della capanna, venendo aggredita all’improvviso dai suoi odori – sudore, sangue, urina e bile. Avrebbe voluto andarsene. Cambiare forma, correre fino a star male e affondare i denti in carne pulsante di vita. Dare tutto al lupo e dimenticare ogni cosa.
Il freddo ai polsi tornò improvvisamente intenso, costringendola a sedersi per lo stordimento, quasi l’argyrion percepisse il suo stato d’animo e tentasse di calmarla. Sentì schegge di ghiaccio scavarle nella pelle, risalire il ventre e lo stomaco fino a opprimere i polmoni; la bestia non si acquietò, lottando per non farsi vincere dall’oblio, annaspando in cerca di forza e di aria. Era la parte più importante di sé, quella più vera, e un pezzo di metallo non poteva strappargliela. Non così, non come un cane alla catena.
Fu l’unica, quindi, ad avvertire il pericolo – l’unica con i sensi abbastanza vigili per poterlo fare.
Udì avvicinarsi qualcuno: una camminata incerta, esitante, una più sicura e rilassata. Nessun dubbio su quale dovesse temere. Una formula sussurrata in una lingua sconosciuta e la porta si aprì con uno scatto, ruotando verso l’interno.
Alzò gli occhi da terra. Una sagoma imponente si ergeva contro la luce, con un effetto tanto perfetto da essere forse studiato; dietro di essa, un giovane magro e nervoso non osava entrare.
«Vieni, Enar.» rise l’altro.
Aveva la voce rauca, bassa – da predatore divertito dalla caccia, le suggerì l’istinto, quasi riconoscendo un proprio simile. Vide distintamente le sue labbra tendersi in un ghigno, quando si abbassò in un inchino beffardo.
Incontrò i suoi occhi e tremò.
Argento.

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Capitolo 3
*** Equilibrio ***


Capitolo 3 – Equilibrio


Non so se capì subito la portata della sua decisione, quando la scelse. Provai a chiederglielo spesso, negli anni, ma non rispose mai; o, se lo fece, non fui in grado di interpretare le sue parole.
Non la amò, di questo sono certa – lei non glielo avrebbe mai permesso, né d’altronde ve ne fu il tempo. Forse si odiarono, in una lotta per la supremazia a cui mancò la fine, o si compresero e tremarono insieme all’avvento della rovina.
Erano più simili di quanto volessero ammettere: cacciatori feroci e profeti folli, parlavano del passato come fosse il futuro e inseguivano pensieri circolari. Se si fossero incontrati in altre circostanze, questo gioco di richiami e affinità avrebbe potuto unirli; ma era un legame sbagliato, o forse lo era il mondo stesso, e qualsiasi cosa vi fosse tra loro non ebbe che il tempo di germogliare.


Sul soffitto c’era una macchia simile a una quercia. Le radici apparivano lunghe e definite, la chioma si allargava con precisione e compattezza.
Si chiese non fosse la penombra o la propria immaginazione a falsarne la forma – non le lacrime, perché non si era permessa di piangere, mentre la sua attenzione si aggrappava a quell’immagine.
Continuò a fissarla, rifiutando di pensare ad altro: sì, quella quercia sembrava proprio perfetta non al materasso troppo sottile, ai lividi, alle labbra sanguinanti, ma forse aveva trovato una piccola imperfezione, uno spazio vuoto dove le radici si saldavano al tronco non al rivolo rosso che le scendeva tra le cosce, al dolore che la tormentava e la chioma appariva un po’ troppo piccola, guardando bene.
Non agli occhi d’argento che ancora non l’abbandonavano, dopo averla trafitta per tutto il tempo.
Era stato disgustoso e umiliante; l’argyrion le aveva ustionato i polsi, mentre la bestia si dibatteva per liberarsi e ammazzare, e lei aveva creduto d’impazzire.
A un certo punto il viso dell’uomo aveva coperto la macchia sul soffitto, ma si era rifiutata di chiudere gli occhi – per sfida, per mostrare un coraggio che non aveva. Per non perdere anche l’ultimo brandello di dignità.
Il suo orgoglio ne era stato annientato ugualmente.
E continuava a sentire il suo sguardo su di sé, così simile a un altro – un altro che l’aveva accarezzata con desiderio e allontanata con astio, ed era stato come rivivere quei momenti, e aveva fatto male anche quello.
E continuava ad avere il suo braccio sul ventre, a tenerla ferma, e il suo fiato sul collo e il suo odore quasi animale sulla pelle – probabilmente le sarebbe rimasto addosso per sempre, come nauseante ricordo di quella notte.
«Hai freddo.» constatò lui all’improvviso.
Finse d’ignorarlo, ma si accorse di non tremare solo per il terrore.
«Presumo» fletté il capo verso i suoi vestiti stracciati e si alzò «di doverti procurare degli abiti.»
«Molto gentile.» mormorò. Non ebbe la voce ferma che avrebbe voluto, ma si ritenne soddisfatta di quella piccola sfida – poteva ancora trovare sé stessa, sotto strati di nausea e dolore.
L’uomo si voltò di nuovo, con un’aria più divertita che contrariata. La soppesò con un ghigno sulle labbra, facendo ruotare distrattamente il bracciale nero che aveva al polso.
«Preferisci rimanere nuda, ther?»
Ther. Bestia. Pronunciò l’antico insulto con lo stesso tono che avrebbe usato per un complimento.
«Tu gradiresti, immagino.» bisbigliò ancora, sperando che se ne andasse presto, o che almeno non la fissasse così.
«Che carina, vuoi farmi un piacere?»
Chiuse gli occhi, esausta.
«Trovami quegli abiti.»
Lui rise.

* * *

Ripiegò tutto sul braccio e contò alcune monete. L’altra schioccò la lingua, soddisfatta.
«La tua donna apprezzerà.»
«Credimi, Melania, è tutto tranne la mia donna.»
«Un uomo?» chiese semiseria, abbastanza sfacciata e intima per concederselo.
Rise, sinceramente divertito, e si congedò con l’abituale inchino beffardo. Ogni altro saluto si perse nel pesante cigolio della porta, ma con insolita impazienza risalì le scale verso il secondo piano senza tornare indietro a ripetersi.
Trovava Melania una donna piacevole, tanto che più volte avevano goduto della reciproca compagnia, ma l’altra era certamente più interessante. Aveva una luce selvaggia nello sguardo, un orgoglio che l’aveva portata a tacere i singhiozzi e le suppliche; sarebbe stata difficile da prostrare, e questo compensava anche l’aspetto mediocre, valutò aprendo la porta.
La vide appiattirsi un angolo, avvertita dallo scatto della chiave, stringendosi nella coperta. Sembrava un animale in gabbia, con i muscoli tesi e gli occhi terrorizzati, pronto ad azzannare per paura – e per vendetta, poiché rimaneva un’umana, o quasi.
«Sono i miei vestiti?» chiese a bassa voce.
«Solo il mantello, era l’unico ancora utilizzabile. Il resto consideralo un regalo.» tese le labbra nel quasi onnipresente ghigno sarcastico «O un pagamento.»
«Oh, grazie.» ringhiò, salvo ritrarsi con un sussulto appena si mosse verso di lei.
«Dimmi» commentò «pensi di prendere questi vestiti o no?»
Rimase immobile per qualche istante, poi si sporse per strappargli di mano gli abiti. Lo fissò – senza però incontrare il suo sguardo, si accorse – come in attesa che se ne andasse; lui incrociò le braccia e attese. Umiliarla, annichilirla. Non le avrebbe lasciato respiro – avrebbe pagato ogni gesto di sfida, fino a diventare una bambola inerme. Avrebbe pregato di essere gettata via.
Si spogliò in fretta, tremando, con espressione turbata e furiosa. Aveva gli occhi lucidi di rabbia e le labbra bluastre, e l’odore acre dell’umiliazione incollato alla pelle. Le sottovesti, invece di scivolarle addosso morbidamente, s’impigliarono sul capo; con l’impaccio di chi non vi è abituato indossò anche l’abito, bloccandosi quando le dita rigide non riuscirono ad annodare i lacci.
Si avvolse nel mantello e sbottò: «Posso andare?»
Era contraddittoria, rifletté. Si stringeva nel tessuto come a volersi proteggere e si sfogava in attimi di aggressività, lo sfidava e tremava di terrore, si ritraeva da lui e sembrava al contempo volerlo aggredire. Cercava di guardarlo negli occhi quando era chiaro che non riusciva a sostenerli.
«Non così in fretta, ther» proruppe, raggiungendola in pochi passi.
Le afferrò un polso e la spinse contro il muro, forte del proprio peso. L’argyrion era gelido sotto le sue dita, quasi quanto il cerchio di metallo scuro che portava poco sotto la mancina; lo sguardo di lei, invece, ardente di rabbia e agitato dal panico. Le afferrò il mento con l’altra mano prima che tentasse di morderlo – era il primo istinto di un lupo in trappola, e lui lo sapeva bene.
Si abbassò per fissarla in volto. Aveva i denti scoperti in un ringhio e gli occhi nocciola sbarrati – e vi vide, ancor più a fondo del dolore e del disgusto, una bestia che l’avrebbe dilaniato senza esitazione. Una bestia ferita e terrorizzata, ma pur sempre tale.
Si chiese, stringendo la presa attorno al collo, quanti avrebbero potuto biasimarlo. Non poteva essere considerata una vittima, poiché i martiri hanno bisogno di una purezza almeno apparente: era solo uno dei tanti carnefici passati dalla parte opposta. Pagava per le sue colpe, come in futuro avrebbe pagato lui, in una storia beffarda che puniva senza insegnare.
«Prima o poi sarai tu a soffrire» esalò con il poco respiro che le rimaneva, quasi avesse indovinato i suoi pensieri «e pregherò Nemesis perché la vendetta degli Anastatoi non sia nulla a confronto.»


La lasciò all’improvviso.
Sembrava colpito da quella maledizione ringhiata con odio e paura; si era aspettata uno scoppio d’ira, invece era tornata a respirare.
Si massaggiò il collo, dove aveva sentito le sue dita stringere sempre di più, e qualcosa di gelido premerle contro la pelle. Aveva seriamente temuto che l’avrebbe uccisa, nonostante sapesse di essere una preda di valore: i suoi occhi d’argento – così simili, così dannatamente uguali – si erano persi in riflessioni incomprensibili, ma la sua presa aveva continuato a soffocarla.
«Così» disse lui, fissandola con espressione interessata «tu ti rivolgi alla dea degli Anastatoi e credi nel loro ritorno?»
Voleva parlare? Dopo averla umiliata, terrorizzata, ferita nel modo più crudele e profondo, voleva parlare? Continuò a rimanere schiacciata contro il muro, senza fidarsi – il suo corpo le ricordava bene di non doverlo fare, conservando ancora i segni della notte appena passata.
«Non sono in molti a pensare che vinceranno.» continuò, allontanandosi per sedersi sul letto, in un gesto distensivo o casuale.
«E tu ci credi?» costrinse la propria voce arrochita a mormorare – distrarlo, lasciar scorrere il tempo, ritardare il momento del dolore.
«Io ne sono certo. Risorgeranno, sta già accadendo.» rispose «Anastasis. Conosci questa parola?»
«Il ritorno degli Anastatoi.» fu la risposta, a metà tra un’affermazione e una domanda.
«Distruzione e rinascita.» la corresse «Per gli antichi la storia era circolare. Lo cogliamo nella loro lingua, e nelle loro profezie.»
«E l’occidente vedrà l’alba.» sussurrò.
Occidente. Dysis. La loro nazione, la loro capitale – confini tracciati con il sangue, edifici innalzati sulle macerie di un popolo. E il terrore, come tutti i vincitori, che i vinti risorgessero per vendicarsi.
«Precisamente. Ma ora vai.» la riscosse, dimentico di ogni intenzione precedente al dialogo.
Chiamò un ragazzino, tremante quasi quanto lei, e gli ordinò di portarla via.
«Sarai così brava da non tentare di scappare, vero?» le ringhiò all’orecchio, per poi rivolgere all’altro qualche parola in un dialetto sconosciuto.
Era tornata l’oggetto, la merce, la puttana. Si rifugiò nella consapevolezza vendicativa che nessuno rimane impunito – Nemesis le aveva porto il calice della sconfitta, ma presto anche lui avrebbe assaggiato il fiele.

* * *

Poteva dire, finalmente, di aver trovato un equilibrio. L’orrore si era trasformato in abitudine, e dall’abitudine in normalità; vi si era assuefatta per non impazzire, con lo spirito d’adattamento di chi rimane aggrappato alla vita al di là dei limiti imposti dall’orgoglio – perché, si era accorta venendo umiliata una notte dopo l’altra, poteva fingersi fiera, ma in realtà era una codarda. Non aveva rinunciato a resistergli, ma non andava più oltre il buon senso: arrivata al limite della sua pazienza, chiudeva gli occhi e sperava non le facesse troppo male.
Mostrarsi più mite, oltre a rendere tutto più breve e meno doloroso, lo compiaceva; durante le loro conversazioni poteva anche azzardare qualche domanda, a volte – ricevere notizie, avere un ultimo contatto con il mondo.
Quando gli incubi le toglievano il sonno tornava a pregare la dea degli Anastatoi, e quando era troppo stanca per odiare godeva di quei piccoli privilegi. Era il suo compromesso per sopravvivere.
«Da quanto tempo siamo qui?» gli chiese a bassa voce.
Neryon inspirò in modo quasi animalesco l’odore dei suoi capelli sparsi sul cuscino, forse divertito dal brivido che non riuscì a reprimere. Gli occhi d’argento erano tornati improvvisamente lucidi, con l’aria attenta che poteva precedere tanto una risata quanto una risposta pungente.
«Perché t’interessa?»
Non si aspettava la verità, lo sapevano entrambi – poneva domande per soppesare l’altro, più che per ottenere risposta. Voleva qualcosa di credibile o di acuto, che valesse la pena ascoltare, e semplice curiosità non era una replica accettabile.
«Non ci siamo mai spostati. Se stiamo aspettando qualcuno, è un po’ in ritardo, non ti sembra?»
«E secondo te stiamo aspettando qualcuno?»


La osservò con un ghigno mentre si dibatteva nell’incertezza. Non erano interrogativi a caso, i suoi – erano un gioco mirato a farla contraddire, a logorarla, a intimorirla. Una risposta sbagliata l’avrebbe infastidito, ma non esistevano risposte giuste, e ne era consapevole anche lei.
«Non credo, dopo tutto questo tempo.» disse infine, con voce più ferma di quanto si aspettasse.
«E allora cosa pensi?»
Si voltò a guardarlo negli occhi. Poteva essere stanca, ma in profondità rimaneva ancora sé stessa – una bestia che si nutriva di sfida e orgoglio. Lo capiva e tacitamente lo apprezzava: non sarebbe stata tanto interessante, altrimenti. Non sarebbe stata lei.
«Non lo so, Neryon. Dimmelo tu.» osò.
«Perché dovrei?»
I suoi sensi acuti colsero il movimento in tempo per impedirlo, ma la lasciò fare. Sentì mani fredde scorrergli lungo il petto e le braccia, evitando istintivamente il bracciale al polso sinistro, fino a stringergli piano le dita; il suo respiro accarezzargli il collo, le labbra sfiorargli la pelle.
«Per questo.» sussurrò.
Fu una risata sprezzante e quasi feroce, la sua. Il corpo tremante e l’acre traccia della paura ispiravano il suo istinto di cacciatore, invece della sua condiscendenza, e trovava ridicolo quello scarso tentativo.
«Non offrirmi ciò che posso prendere da solo» commentò «e che le donne al primo piano sanno fare molto meglio di te.»
Lei si allontanò di scatto, con l’umiliazione che le colorava il viso e le animava lo sguardo.
«In ogni caso» si alzò dal letto, divertito e compiaciuto, per frugare tra gli oggetti ammucchiati in un angolo «siamo ancora qui perché le strade non sono più sicure. Il fronte si avvicina.»
«Ma era ancora al Dara.» sussultò.
«Quasi una luna fa. Nemesis assiste gli Anastatoi, Ahdle, ti aspettavi che perdessero?»
«No, ma è...» scosse la testa «Pensavo che avrebbero impiegato di più.»
«Abbiamo i giorni contati.» disse – ed era una sentenza dal gusto quasi rassicurante, perché presto sarebbe finito il piacere, ma soprattutto il dolore.
Celò qualcosa nel pugno e tornò da lei. Poteva ordinarle di chiudere gli occhi, ma il profumo fresco della curiosità era troppo piacevole per sporcarlo con l’inquietudine; le si sedette accanto in silenzio e le prese il polso sinistro.
Il gelo dell’argyrion sotto le dita, una formula, il tintinnio del bracciale sul pavimento. Aprì l’altra mano e il respiro della donna si bloccò per un istante. I lineamenti severi di Nemesis emergevano dal metallo, rivolti verso il mondo con impassibile determinazione; ai lati due calici, simbolo della dea – il fiele degli sconfitti e il miele dei vincitori. Chiuse il cerchio argentato sul suo polso.
«Perché?» sussurrò lei.
«La nomini così tanto, almeno avrai qualcosa a cui rivolgerti.» ghignò.
Perché così, forse, ti risparmieranno come sua fedele.
Non lo disse.


Questo capitolo mi è particolarmente caro. Non accade nulla, in apparenza, ma si gettano le basi per il prossimo e, più in generale, per il seguito di questa storia.
Sto soppesando in questi giorni se scriverlo o meno: l'ispirazione mi ha abbandonata e, in fondo, Anastasis può esaurirsi anche solo con Ricordi. Si vedrà.
Ringrazio Falling_Thalia e Remnant per i Preferiti.
Mi piacerebbe avere qualche parere, per sapere cosa piace e cosa invece dovrei limare del mio stile ^^

A venerdì 23, con l'ultimo capitolo!

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Capitolo 4
*** Cicatrici ***


Capitolo 4 – Cicatrici



Gli Epirei si snodano per un terzo del loro corso sottoterra, scavando nella roccia, prima di riaffiorare e affluire al Dara. Così mi aveva raccontato mia madre, nei suoi saltuari e fiacchi sforzi per erudirmi.

Fu in quei budelli soffocanti che trascorremmo i nostri ultimi giorni; capimmo tutti che quella sarebbe stata la nostra fine, perché il futuro stava ormai assumendo le tinte meno fumose del presente. La paura scavò solchi profondi dentro di noi, ferendo con unghie di rimorso e disperazione, lasciandoci cicatrici e memorie indelebili. La paura, soprattutto, svelò cos’eravamo davvero – vili, dal primo all’ultimo.

L’Anastasis si compì poco dopo. L’occidente vide un’alba tinta di rosso, riecheggiante di grida; Dysis venne rasa al suolo e le sue macerie lasciate a monito per chi avesse voluto di nuovo sfidare i protetti di Nemesis.

Avevano dovuto aspettare secoli, ma gli Anastatoi ottennero la loro vendetta. Noi stiamo ancora attendendo la nostra, senza sperarvi veramente – non c’è nessuna profezia a darci forza, nessun dio al nostro fianco. Non abbiamo che le nostre cicatrici, e per trovarvi un senso possiamo solo scavare nel passato.

Possiamo solo ricordare.



Sentiva il suo viso tra i capelli, ad inspirare il loro odore, e il suo braccio circondarle i fianchi.

«Neryon» chiamò, sfiorando il freddo cerchio nero che portava al polso «perché non lo togli mai?»

«E tu perché credi che ti risponderò, ther?» rispose – e quell’insulto detto con il sorriso racchiudeva tutto ciò che c’era tra loro.

L’abitudine, l’intimità, i discorsi lunghi ore. L’odio, anche, e la stanchezza. Il peso di un destino ineluttabile che schiacciava entrambi, poiché entrambi ne afferravano la trama, e condividerlo era l’unico modo per non restarne soffocati.

Era stato un cambiamento lento, quasi impercettibile. Era diventato tutto meno brutale, meno doloroso, fino a non lasciarle che qualche segno dove lui l’aveva stretta; era arrivata a sentire la mancanza dei loro dialoghi spesso insensati, delle sfide, della semplice presenza di qualcuno accanto a sé. Si rifugiava in un meccanismo perverso che la portava a ignorare l’umiliazione e dimenticare il dolore; non sapeva più dire quanto di quella serenità fosse dovuto alla propria mente e quanto invece fosse reale.

«Ho sentito delle grida, oggi.» la riscosse lui.

«Ho avuto una piccola discussione.» minimizzò.

«Con un uomo?»

Ricordò gli occhi d’argento di Hetrir, il suo disprezzo, la sua rabbia. Era un uomo come si definiva, o una bestia almeno quanto lei?

«Se così vogliamo chiamarlo, sì.»

«Bene.»

«Perché?»

«Sei una femmina del branco, non può attaccarti.» sogghignò «Sai, un cadavere non sarebbe particolarmente di compagnia.»

Si chiese come potesse conoscere un tabù.


* * *


Hetrir la fissava. Doveva essere finito l’effetto della droga: iniziava ad essere sempre più leggero e breve, lasciandolo lucido per qualche tempo. Solitamente trascorreva quegli attimi accanto a Soyi – l’unica, oltre a lei, cui fosse permesso di rimanere cosciente, perché il cucciolo reagiva male a quelle erbe –, senza prestare attenzione a nient’altro. Il giorno precedente era stato un’eccezione.

Sistemò la manica sinistra, scoprendo il bracciale lavorato. Non aveva chiesto lei quel dono; anzi, il volto di Nemesis non faceva che ricordarle il poco tempo restante. Puttana. Poteva davvero biasimarla per aver scelto di non impazzire? Codarda. Per aver ceduto alla stanchezza, per aver abbandonato un orgoglio inutile e dannoso? Traditrice. Come poteva sputare sentenze, lui, lui che non ne aveva il diritto? Che non sapeva, che non capiva, che non ascoltava?

Sfiorò la mano di Khai. Era diventata più grande della propria, si accorse – stava diventando un uomo, ormai, ma senza perdere la vitalità dell’infanzia. Gli sorrise debolmente, sperando che la mantenesse per sempre; lui, con la mente annebbiata dalla droga, nemmeno se ne accorse.

«Ahdle.» la chiamò la sorella, al suo fianco.

Spostò lo sguardo dal giovane a Soyi.

«Dimmi.»

«Ho passato la nona luna, ormai. Volevo chiederti se...» esitò, torturandosi il labbro inferiore «se mi aiuterai, quando sarà il momento.»

Sentì lo stomaco stringersi in una morsa tale da spezzarle il fiato; lacrime amare le inumidirono gli occhi, ma l’argyrion restò quieto – era un dolore troppo umano perché potesse venirne destato.

«So che ti chiedo molto» continuò l’altra in un sussurro «ma mi fido solo di te.»

Pensava davvero che avrebbe ignorato l’invidia, la rabbia, il dolore? Riponeva davvero tanta fede in un affetto ormai polveroso?

Davvero, si rispose. Aveva la sincerità e la speranza sul volto; e, in fondo, non meritava un diniego.

«Ilithia.» cedette infine, tornando a guardare Khai «Prega Ilithia perché guidi le mie mani.»

E spera che ascolti le tue richieste più delle mie.


* * *


Non dubitava che quei cunicoli fossero stati usati come carceri. Si sentivano gli Epirei scorrere, oltre le pareti di roccia, e l’umidità permeava l’aria stantia. Dagli angoli, dove la luce delle torce non arrivava, sembravano provenire sibili e gemiti – bestie striscianti celate dall’acqua, ossessioni malate annidate nel buio. L’arrivo degli Anastatoi, tra quei contorni di ombra e angoscia, assumeva le tinte violacee di un incubo; e c’era da chiedersi se non sarebbe stato meglio morire subito, invece di nascondersi come topi.

Erano appena qualche centinaio di persone, ma tra gli echi e l’oscurità di quei cunicoli soffocanti sembravano moltiplicarsi all’infinito. Stringeva la mano di Khai fino a conficcargli le unghie nella pelle, e appena più delicatamente quella della sorella, sostenuta da Hetrir; il suo sguardo, però, era fisso su un altro che si voltava ogni minuto verso di lei.

L’argento, in quei budelli che avrebbero accolto cadaveri mangiati dalle larve, non riluceva.

Non Nemesis al suo polso.

Non gli occhi di Hetrir.

Non, soprattutto, quelli che cercava con l’angoscia a spezzarle il respiro.

Le architetture vacillanti su cui aveva modellato il proprio mondo erano appena crollate su un suolo già umido di sangue.


* * *


Gli artigliava le braccia fino a fargli male, ma forse non se ne rendeva nemmeno conto. Un sospiro riecheggiò nella galleria isolata in cui si erano rifugiati; non l’aveva mai sentita sospirare, e fu come se quel suono non le appartenesse davvero.

«Non ti piace questo posto.» commentò.

«A qualcuno piace, per caso?»

Si liberò dalla sua stretta e le prese la mano, distinguendo appena i contorni dei bracciali ai loro polsi.

«Immagino di no.»

«E allora perché dovrebbe piacere a me?» ringhiò «Non c’è aria. Non c’è luce. Non c’è calore. Perché dovrebbe piacermi, eh?»

«Sta’ calma» passò il pollice sul volto d’argento di Nemesis «o provocherai l’argyrion. E me.»

Rimasero in silenzio per un tempo indefinibile, mentre lo scorrere dei minuti si perdeva nel buio, scandito solo dai loro respiri. Ad un tratto la voce dell’uomo risuonò di nuovo nel cunicolo.

«Hai paura, Ahdle?»

«Di che cosa? Della morte?» rise, di una risata amara e stridula «Lo sapevo da tempo.»

«Di qualcosa.»

Non pensava gli avrebbe risposto, ma l’oscurità favoriva le confessioni, e la sua mente si era ormai convinta di stare bene, insieme a lui – o forse era davvero così e il suo orgoglio si rifiutava, nel profondo, di accettarlo.

«Non per me.» mormorò infine, improvvisamente stremata.

«Per quella donna? O per quel ragazzino che ti sta sempre intorno?»

«Entrambi.» fece una pausa «E tu, Neryon? Tu hai paura?»

Sfiorò di nuovo l’argyrion al polso di lei, i lineamenti della dea che s’indovinavano al tatto.

«No.»


* * *


Erano sedute a parlare, in un’intimità ritrovata con la prigionia. Tirani, addormentata accanto a loro, era una presenza discreta; Hetrir e Nemunas erano andati a prendere dell’acqua e Khai li aveva seguiti – con la minaccia degli Anastatoi nessuno faceva più caso a loro, e si erano ritrovati improvvisamente liberi. Erano sole, quindi, senza la presenza a volte quasi soffocante del branco.

«Tra una decina di giorni sarò all’ultima luna.» stava dicendo Soyi, accarezzandosi il ventre con aria incerta «Mi aiuterai, allora?»

Represse con stanca abitudine una protesta, salita dalle pieghe più profonde dell’anima – quelle che conservavano ancora il ricordo, e il dolore.

«Lo farò. Ma è meglio cercare anche una levatrice, o almeno un’altra donna.»

Prima che la sorella potesse rispondere, Tirani sbadigliò e si tirò a sedere. La videro assumere un’espressione accigliata e portare discretamente la mano tra le gambe, a contatto con il tessuto; ripulì le dita macchiate di sangue sulla coperta, poi si voltò verso di loro e chiese a bassa voce: «Ahdle, hai qualcosa per il mese?»

Non rispose. Non fece niente, in realtà, se non contare mentalmente. Una, due, tre volte. Il risultato era sempre lo stesso: almeno trentacinque giorni. Sicuramente più di una luna.

No, non era possibile. Non di nuovo. Non da lui. Non in quel momento.

Portò la mano al ventre.

Trentacinque giorni.


* * *


«Cos’hai?» le chiese, guardandola alla luce tremula della torcia.

«Nulla.»

Sentiva la traccia pungente della tensione, sopra il sudore; il corpo non mente, e lei di certo nascondeva qualcosa.

«Sei nervosa.» constatò senza emozione.

«È questo posto. Non c’è aria»

Cambiò discorso, decidendo di crederle – era stanco anche lui di nascondersi come un ratto.

«Avete trovato una levatrice, tra le donne del villaggio?»

Lei si irrigidì.

«Sarò io. Nessun’altra è disposta.»

«Hai avuto figli?» domandò istintivamente, interessato a una vita di cui non sapeva nulla.

«Uno.» rispose asciutta.

Gli sembrò di udire la sua voce tremare, prima che si girasse su un fianco e chiudesse gli occhi.


* * *


Fu uno scalpiccio lieve, all’inizio. Percorse i budelli neri, risuonò nelle sale umide, giunse sino a loro come il battito distorto di un cuore di roccia. E cresceva, cresceva, cresceva; finché capirono, e per un attimo ancora non si udì che quel suono agghiacciante. Poi fu il caos.

Richiami di madri, pianti, grida, un grumo denso di terrore che risucchiava tutti tra le sue spire vischiose. I volti passavano davanti agli occhi troppo veloci perché si potessero distinguere, le voci si confondevano in un unico urlo assordante, tutto era mischiato, confuso, soffocante, corpi sudati si accalcavano nei cunicoli togliendo aria e spazio, e quello scalpiccio si faceva sempre più vicino, sempre più forte, sempre più orrendo.

Sosteneva Soyi insieme a Nemunas, tentando di non farla cadere per gli urti; Khai, stringendole il braccio, si guardava attorno cercando la sorella. I suoi richiami venivano inghiottiti nel boato della folla, così come le parole che l’uomo più anziano stava cercando di farle udire, e quelle che Soyi ripeteva incessantemente – chiamava Hetrir, forse, ma perfino la sua sagoma imponente si perdeva in quella ressa.

Non avevano possibilità: glielo gridavano l’istinto e il ricordo, pelle tesa su una cicatrice che riprende a dolere, mentre il gelo ustionante dell’argyrion la confinava in un corpo lento e fragile. Il passato era tornato a ghermirla e questa volta avrebbe cancellato il futuro.


«Zenas!»

Urla panico sangue fuoco lacrime disperazione. Ma distingueva comunque il suo pianto, una lama che incideva fino alle pieghe più profonde dell’anima. Non poteva andarsene.

«Zenas!»


Lo scalpiccio si arrestò, ma i sibili delle frecce e lo stridore del metallo furono un suono ancor più terribile, una condanna a morte, una furia vendicativa e insensata, il fiele di Nemesis che scorreva acido in gola.

Soyi si accasciò, esausta, tenendosi il ventre.

«Andiamo.» le mormorò, inudibile «Forza, andiamo.»


«Ahdle, vieni via! Ahdle!»

«Non posso lasciarlo qui!»

Non fu più la stretta della sorella, ma una più rude, maschile.

«Muoviti, Ahdle.» le ringhiò l’uomo.

Il lupo, sconfitto, chinò la testa di fronte al capo. La madre, dentro di lei, continuò a urlare.

Non avrebbe più smesso.


Scorse uno sguardo grigio e si avvicinò di scatto, con un nome sulle labbra; ma quello scomparve tra la folla, e non seppe mai chi avrebbe chiamato, se Hetrir o Neryon, perché una spinta la gettò a terra.

D’istinto alzò le braccia per schermarsi. Il volto argentato di Nemesis, al suo polso, si rifletté impassibile nella lama del guerriero di fronte a lei.



Corse nella sua direzione nell’istante in cui gli Anastatoi raggiunsero il cuore della ressa, e la vide venire inghiottita dall’orda di soldati; il panico gli serrò lo stomaco e gli offuscò la mente, facendolo scattare verso di lei, ma non riuscì a penetrare nello sciame di persone terrorizzate.

Continuare a cercarla sarebbe stato inutile, si rese conto – e, se anche non lo fosse stato, l’uomo è egoista e codardo; la bestia no, a dispetto del suo nome, ma era sopita da troppo tempo perché potesse influenzarlo. L’amarezza che lo aggrediva a ogni passo non gli impedì di tornare a fuggire.

Incespicò in una donna a terra e, rialzatosi con un’imprecazione, riconobbe la sorella di Ahdle. Un ricordo, una voce, si fece strada tra il boato generale – «Hai paura?» «Non per me.» – e non riuscì a ignorarla. Almeno quello, si disse. Almeno quello glielo doveva – ma per cosa, poi? I ringhi le discussioni l’odio? Avevano davvero valore, quelle notti passate insieme?

Sì, pensò rabbiosamente, di valore ne avevano fin troppo.

Indicò alla gravida e ai due uomini con lei un passaggio ignorato dalla folla, troppo basso per un uomo adulto, quindi afferrò i polsi di ognuno e mormorò l’abituale formula, liberandoli dall’argyrion. La donna non si mosse, limitandosi a guardarlo: sembrava quasi chiedere E tu?, ma lui fece di nuovo cenno verso il cunicolo.

Gettò un’ultima occhiata al cuore della sala, dove Ahdle era scomparsa, dove gli Anastatoi infuriavano – dove qualcosa all’altezza dello stomaco gli ordinava di andare. Sfiorò il cerchio di metallo alla mancina; bastò un sussurro per farlo cadere a terra, e la roccia scalfì lo smalto nero, rivelando un bagliore argentato. I sensi, non più attenuati, vennero aggrediti dal caos nella caverna; impiegò qualche istante per riprendersi, poi fissò lo sguardo sulle tre fiere che correvano verso il cunicolo e cancellò ogni esitazione.

Un secondo dopo, un quarto lupo raggiunse gli altri.






Metto la parola fine a questa storia, ma non ai miei personaggi. Ho abbandonato il seguito principale, almeno per ora, ma ho in stesura altre piccole long-fic; non so quando le finirò, ma ho intenzione di pubblicarle, quindi ogni tanto date un'occhiata al mio account, se siete interessati.
Ringrazio per i preferiti. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questa storia, e quali personaggi vorreste vedere approfonditi nelle altre storie ^^
Alla prossima vena d'ispirazione!

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