Anastasis - Ricordi di TuttaColpaDelCielo (/viewuser.php?uid=55175)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ferite ***
Capitolo 2: *** Gelo ***
Capitolo 3: *** Equilibrio ***
Capitolo 4: *** Cicatrici ***
Capitolo 1 *** Ferite ***
Capitolo
1 – Ferite
Eravamo
gli ultimi superstiti di una stirpe quasi estinta, lo diceva
l’aria
di morte che ci entrava nei polmoni a ogni respiro.
Eravamo
l’estremo frutto di una terra agonizzante, nati senza
conoscerne il
motivo, vissuti cercando un senso che forse nemmeno esisteva.
Eravamo
figli e fratelli di una razza matricida, prima accolti nel suo
grembo, poi cacciati come mostri e traditori.
Eravamo
vittime e carnefici in una tortura senza fine e senza senso, i ciechi
giocatori di una partita che ci avrebbe impietosamente distrutti
–
una lotta intestina che non concedeva grazia.
L’epilogo
di tutti noi ci respirava sul collo, ma scambiammo il suo fiato per
la brezza invernale.
Un
falò divorava i pochi ciocchi rimasti, sorvegliato da sei
sguardi
tesi. Fiamme incontrollate erano una condanna a morte come il gelo
notturno, suggeriva l’istinto a quei corpi pronti a fuggire,
e che
avessero acceso un fuoco dava l’idea di quanto
quell’inverno si
stesse rivelando difficile.
Il
silenzio, interrotto solo dai loro respiri pesanti e dal crepitio
della legna, era sceso nella grotta non appena si erano raccolti in
cerchio – ogni parola, ogni ringhio, ogni movimento congelati
nell’attesa che l’ultimo arrivato rivelasse
ciò che aveva
appreso.
Quello,
il più vicino alle fiamme, rimase per diversi minuti con le
mani
tese verso il calore, senza che nessuno osasse porre domande. Anche
seduti a terra sovrastava gli altri di almeno mezza spanna, ma la
vaga aria di superiorità con cui guardava i compagni sarebbe
rimasta
immutata anche se fosse stato meno imponente: era qualcosa nel modo
in cui teneva le spalle dritte, nel barlume di fierezza che gli
animava gli occhi grigi, nell’espressione severa dei tratti
marcati
– nel timore meno intenso con cui osservava il fuoco, anche.
Infine
l’uomo ritrasse le mani e tossì, ottenendo
l’attenzione di
tutti.
«Sono
in zona.» iniziò con voce rauca «Ho
trovato le loro tracce vicino
al ruscello.»
«Quanti?»
chiese un altro, più anziano e tarchiato, riprendendo
vitalità.
«Almeno
cinque. A cavallo.»
«Ci
siamo spinti troppo vicini ai villaggi.» mormorò
una donna, con
l’aria quieta e il grembo rigonfio di chi ospita una vita.
«Ci
avrebbero trovato comunque, Soyi. Sono cacciatori, non contadini
armati di forcone. Prima o poi sarebbe successo.»
«E
quindi?» gli chiese lei, accarezzandosi il ventre.
L’uomo
si passò una mano tra i capelli, esausto ma ancora con la
dignità
del capo.
«E
quindi» sospirò «dobbiamo
andarcene.»
Quattro
voci si levarono contemporaneamente, suggerendo mete e itinerari;
solo una donna rimase in silenzio, dritta e fiera quasi quanto lui,
distogliendo lo sguardo dal fuoco per fissarlo in viso. Quegli occhi
sembravano sfidarlo – non con la minaccia del suo corpo
minuto, né
con parole ostili, ma solo con l’ardente orgoglio di chi non
contempla la fuga.
Continuarono
a scrutarsi anche quando lui ricominciò a parlare.
«Ho
sentito dei ragazzini, oggi. È tutto distrutto lungo il
corso del
Dara, e dalla foce fino a Limne gli Anastatoi hanno preso anche la
costa.»
«Non
è possibile.» ringhiò la donna che lo
fissava «Avrai sentito
male. Meno di una luna fa non erano ancora a Stoma, non possono aver
conquistato tutto quel tratto in così poco tempo.»
«Ho
sentito bene. O forse non ti
fidi di me, Ahdle?»
Lei
sorrise, ma fu più una smorfia ferina, selvaggia come tutto
il suo
aspetto – dai lineamenti decisi ai capelli scuri, ribelli e
aggrovigliati.
«Certo
che mi fido di te, Hetrir. È che non mi fido dei ragazzini
umani.»
rispose, ma sembrò intendere tutto il contrario.
«Anche
noi siamo umani. E ora lasciami parlare.»
La
donna sorrise di nuovo e mosse una mano, in un invito beffardo a
continuare.
«Dicevo,
prima che qualcuno m’interrompesse, che ormai il sud e quasi
tutta
la costa non sono più sicuri. E le Epaeidi del Dara stanno
fuggendo
verso la capitale, dovremo evitare anche loro.»
«Ho
sempre sognato di incontrarne una.» intervenne con aria
svagata un
ragazzino dalla pelle scura, probabilmente il più giovane di
loro «È
vero che possono stregare cantando?»
«Non
ho intenzione di andare a chiederglielo, Khai.» rispose
l’altro
con un’occhiata di rimprovero.
«Potremmo
tornare indietro.» suggerì Soyi, lanciandogli un
breve sguardo
prima di tornare a fissare il fuoco.
«È
rischioso. Non sappiamo com’è la situazione: forse
ci sono ancora
cacciatori, o si è insediato un altro branco, e lottare
attirerebbe
l’attenzione.» o il fronte è
arrivato fin lì ed è stato
distrutto tutto, pensò con un brivido
«No, non possiamo neanche
tornare indietro. L’unica sono le montagne.»
Una
risata stridula riempì l’aria odorosa di fumo
della grotta.
«Oh,
certo. Che sciocchi.» commentò Ahdle, ferocemente
ironica,
continuando a guardarlo negli occhi «Le montagne.
Perché non
c’abbiamo pensato prima?»
«Ahdle.»
la richiamò l’uomo.
«Credi
che moriremo prima di freddo o di fame, Hetrir?»
continuò,
ignorandolo «O magari ammazzati per aver sconfinato nel
territorio
di qualche branco?»
«Ahdle.»
ripeté lui, con un ringhio di gola.
«E
come pensi che possa sopravvivere un cucciolo?»
indicò con un cenno
del capo il ventre di Soyi, e le braccia di lei scattarono
istintivamente a circondarlo «Là ci
sarà neve per almeno altre due
lune. Pensi di chiedere a tuo figlio di nascere più
tardi?»
«Proprio
tu ti preoccupi di mio figlio?»
Lei
sgranò gli occhi; per un attimo sembrò che le
iridi nocciola
fossero diventate lucide, ma poi sbatté le palpebre e tutto
tornò
come prima, se mai era cambiato.
«Potete
continuare senza di me.» sibilò, prima di alzarsi
e voltare loro le
spalle.
* * *
Seduta
all’entrata della grotta, con la schiena poggiata alla gelida
roccia e gli occhi chiusi, sembrava dormire. Un’impressione
ingannevole: sensi ben più fini della vista erano vigili,
non ultimo
l’istinto animalesco del predatore braccato, e i suoi
pensieri
erano ben distanti dal confuso rincorrersi dei sogni. Insensati e
angoscianti, ma comunque spaventosamente lucidi – le era
negato
anche il conforto del non essere in sé.
L’aveva
umiliata di fronte a tutti, e la sua voce era stata una lama
più
crudele dell’acciaio: le parole avevano morso nei punti
più teneri
fino a strappare brandelli di orgoglio, come artigli e zanne non
avrebbero potuto osare su di lei, una femmina del branco –
tabù
radicati nella loro natura bestiale.
Inspirò,
più per distrarsi che per senso del dovere. Muschio e neve e
foglie
marce e animali che si tenevano a distanza. Nessuna traccia umana
nell’aria gelida, solo quella che permeava la coperta rubata
in cui
era avvolta. Fumo e l’odore confortante del branco,
dall’interno
della grotta.
Non
c’era nulla nemmeno da udire, se non fruscii e richiami
animali: la
discussione era cessata da tempo, giungendo a una soluzione che non
le interessava conoscere.
A
un tratto percepì dei passi alle sue spalle e li riconobbe
dall’insolita pesantezza.
«Soyi.»
salutò a bassa voce, aprendo gli occhi «Non
toccava a Nemunas il
turno dopo di me?»
L’altra
si rannicchiò goffamente accanto a lei, impacciata dal
ventre
gonfio, mormorandole: «Ho pensato di venire a farti
compagnia.»
«Fa
freddo, qui. Dovresti stare dentro.»
«Non
importa, un po’ d’aria mi farà bene. Ah,
ho preparato io le tue
cose.»
«Le
mie cose?»
«Be’,
sì. Non ci hai ascoltati?» sorrise senza ironia,
solo con
gentilezza «Dopo la tua guardia, se non hai sentito nessuno
avvicinarsi, ce ne andiamo.»
«Dove?»
«Torniamo
indietro. Se la situazione non è buona, vedremo sul momento
cosa
fare.»
«Improvvisazione.
Finalmente come ai vecchi tempi, eh?»
«Ai
vecchi tempi non c’era un branco da guidare.»
sospirò.
«Un
branco di individui pensanti.» ribatté. E, come a
voler stemperare
l’atmosfera: «A parte Khai, forse, ma lui
è un’eccezione.»
«E
se non lo eliminerà la selezione naturale ci penserai tu,
immagino.»
rise.
«Ovviamente.»
poi tornò seria «Perché Hetrir ha
deciso di cambiare programma?»
«Perché
in effetti le montagne sarebbero impraticabili, con un
cucciolo.» si
accarezzò il ventre con espressione contrita «Devi
scusarlo. Lui-»
«Non
preoccuparti.» la interruppe «Non è
colpa tua se è un imbecille.»
«Non
è nemmeno colpa sua, Ahdle. È tutto
questo.» sussurrò, sapendo
che avrebbe capito, e le cinse le spalle – un gesto che pochi
avrebbero osato, ma che fu ricambiato quasi subito.
Vederle
vicine sembrava strano, quasi insensato. Gli stessi lineamenti
marcati e gli identici occhi nocciola suggerivano uno stretto legame
di sangue, tuttavia nessuno avrebbe potuto confonderle: non era solo
per l’evidente differenza di toni – pelle olivastra
e
chiarissima, capelli bruni e ramati –, ma per qualcosa
nell’espressione e nello sguardo che rendeva impossibile lo
scambio
e ridicolo l’accostamento. Eppure erano lì,
violenza e dolcezza a
confronto, assurdamente abbracciate; un senso c’era, nascosto
nel
sangue e nell’infanzia, e la diversità non bastava
a distruggerlo.
Rimasero
immobili per qualche tempo, strette l’una
all’altra, finché
Ahdle non si allontanò un poco.
«Torna
dentro sul serio, ora. Se ti ammalassi per colpa mia Hetrir
tenterebbe di uccidermi, e non nutro troppo fiducia nei
tabù, in
questo caso.» accennò un sorriso e, rimasta sola,
aggiunse in un
sussurro: «O nella sua pietà.»
In
quella non riponeva alcuna speranza, pensò amaramente,
voltandosi a
osservarla mentre tornava accanto al fuoco. Incontrò un
lampo grigio
mentre il compagno l’aiutava a sedersi e distolse in fretta
lo
sguardo.
Erano
occhi inquietanti, quelli che solo lei nel cerchio aveva osato
fissare: d’argento, come le lame più spietate, con
un bagliore che
poteva essere in ugual misura il riflesso delle fiamme o la luce
feroce della crudeltà. Non c’era spazio per la
compassione, in
quello sguardo, ma solo per l’istinto selvaggio del predatore
–
un istinto che si ostinava a rifiutare, ma senza che la durezza dei
suoi occhi ne risultasse addolcita.
Si
strinse di più nella coperta, rabbrividendo, come se la lana
avesse
potuto proteggerla da ferite ben più in
profondità della carne –
e come se stesse congelando, il che non era poi troppo distante dalla
realtà. Avrebbe potuto muoversi per scaldarsi, se avesse
avuto
energie da sprecare; ma non ne aveva, perciò doveva
accontentarsi di
porre più tessuto possibile tra il proprio corpo e la roccia
gelida.
Oppure avrebbe potuto mutare, per resistere meglio al freddo, ma
Hetrir aveva ordinato di rimanere normali fino alla partenza.
Normali.
L’altra forma non era la loro essenza più
profonda, ma la parte
scomoda, sgradita – almeno secondo lui, che definendoli umani
li
insultava ogni giorno.
Perché,
si chiedeva lei da anni. Perché ripudiare la loro natura,
quando era
più semplice accettarla – la velocità e
la forza e mordere
divorare sopravvivere. Perché fingere di non sentire il
richiamo,
quando ogni muscolo gridava di essere nel corpo sbagliato –
non
c’entravano le fasi lunari o altre sciocche leggende
infondate, era
qualcosa di interiore, l’istinto della bestia che pesava
sullo
stomaco. Perché negare l’esaltazione della caccia
e l’euforia
della corsa, quando erano impresse in loro più delle
emozioni umane
– e tutte le leggi non scritte che seguivano spontaneamente,
i tabù
e la gerarchia e la lealtà.
«Sentito
niente, Ahdle?» le riscosse una voce dall’interno
della grotta.
«Niente.»
rispose, pur sapendo di non essere stata particolarmente vigile.
Un
uomo tarchiato, più anziano, la affiancò
ridacchiando «Va’ pure
dentro a preparati, qui resto io a controllare neve, neve e... ah,
sì, neve.»
«Grazie,
Nemunas.»
Si
alzò, infreddolita dall’immobilità, e
rientrando quasi si scontrò
con un uomo.
«Sentito
niente?» le chiese, brusco.
«L’ho
già detto, Hetrir.» sibilò a denti
stretti, obbligandosi a
fissarlo negli occhi – argento che apriva ferite infette di
umiliazione e rabbia «Niente.»
«Allora
muoviti, stiamo già cancellando le tracce.»
Lei
inspirò e storse il naso.
«E
come pensi di togliere l’odore di fumo?»
«Preferivi
morire di freddo?» ringhiò.
«E
le tracce?»
«È
buio e siamo nel bosco. Pensi che le vedranno?»
«Tra
qualche ora sarà giorno.»
«Tra
qualche ora saremo lontani.»
Lo
urtò con la spalla per passargli accanto e raggiunse il
fondo della
grotta, dove Soyi e Khai si stavano spogliando. Distolse in fretta
gli occhi da lui, chinandosi verso una sacca posata a terra; si tolse
la coperta e il mantello e ve li infilò senza cura, poi
iniziò a
svestirsi.
Un
ringhio minaccioso le salì alle labbra quando, slacciando
lentamente
i bottoni della casacca con le dita rigide, colse lo sguardo del
ragazzino sul suo seno – troppo in basso e troppo giovane per
poter
osare tanto.
«Povero
Khai.» ridacchiò Soyi a bassa voce «Mi
fa tenerezza.»
«A
me fa venire voglia di carne. Viva.» ribatté lei
ben udibile,
lanciandogli un ultimo sguardo minaccioso prima di girarsi verso la
parete.
«Cerca
di capirlo.» si voltò come lei per spogliarsi
completamente «Siamo
in tre, io sono impegnata e Tirani è sua sorella: rimani
tu.»
«Che
si dia all’incesto, se proprio non sa trattenersi.»
Rimasta
completamente nuda, tremante per il gelo che mordeva la carne,
controllò la chiusura della sacca e se la
assicurò alla schiena.
«Andiamo?»
le chiese l’altra, già pronta.
Annuì.
* * *
Alzò
il viso di scatto, smettendo di fissare il fuoco.
«Sono
qui.»
I
compagni lo fissarono straniti, pur essendo ormai abituati al suo
istinto quasi inumano.
«Sono
qui, vi dico.» ghignò.
Questa storia si è classificata seconda al
contest Let's
fly on fantasy's wings! indetto da SunnyPain, con 49/50
punti.
Si tratta del prologo di un'altra storia, in fase di stesura, che
inizierò a pubblicare poco dopo il termine di questa.
Ringrazio Eclectic_Doll che, con la sua serie Esaetter, mi ha ispirato
questa struttura dei capitoli: voce in prima persona e narrazione in
terza.
Per motivi di tempo, aggionerò ogni due venerdì.
Ci rivediamo, quindi, il 25!
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Capitolo 2 *** Gelo ***
Capitolo
2 – Gelo
Una
di noi aveva previsto da tempo ciò che accadde. Non credo
conoscesse
il futuro, ma comprendeva il passato e accettava il presente;
osservava, soprattutto, riconoscendo i segni di una storia che
tornava – una storia la cui eredità non era solo
antiche leggende
e resti di una lingua morta, ma un intreccio di cause e conseguenze
che ci avrebbe condotti alla fine.
Era
una trama troppo vasta e troppo importante perché credessimo
di
esservi coinvolti. Che poteva importarci di una rivolta e di una
guerra, quando saremmo stati perseguitati in ugual modo sotto
qualsiasi dominatore? Non eravamo nemmeno pedine, non appartenevamo a
uno schieramento; per noi l’unica novità erano le
razzie, il resto
era affare dei potenti, non delle formiche. Pensavamo che non saremmo
mai comparsi sulle cronache di quella guerra, e almeno su quello
avevamo ragione – ma imparammo che la grande storia distrugge
i
piccoli uomini senza nominarli.
Non
pensavano.
Correvano
e basta, senza affondare nella neve fresca, ma nel loro incedere
leggero non c’era alcuna eleganza – era solo un
lavoro di muscoli
e polmoni, con l’urgenza del pericolo, con il panico della
preda
braccata.
Bagliori
di torce si intravedevano tra gli alberi, come promesse di morte del
colore del fuoco; si avvicinavano in un cerchio sempre più
stretto,
provocando più terrore dei latrati dei cani e del tramestio
degli
zoccoli.
E
loro correvano, perché così gridava
l’istinto – e sentire il
sibilo delle frecce accanto a sé e sperare di essere
abbastanza
veloci e sapere già di aver perso la partita, e implorare i
polmoni
di reggere un altro po’ e cadere a terra stremati.
La
prima a fermarsi fu una femmina rossiccia dall’incedere
più
pesante degli altri, esausta; un istante più tardi un altro,
poco
più di un cucciolo, crollò accanto a lei con un
guaito. L’odore
del sangue li raggiunse prima che si rendessero conto degli eventi:
sgorgava copioso dalla coscia ferita, confondendosi con il pelo nero,
fino a colare sulla neve in dense gocce di un rosso cupo.
Vederli
inermi fu come un richiamo, un ordine cui non potevano sottrarsi. In
un attimo quattro sagome ringhianti furono attorno alle due a terra,
con una lealtà sconosciuta agli umani – o forse
solo con
stupidità, perché non avevano più
speranza di sfuggire alle
frecce.
Poi
fu rosso: quello buio del sangue, quello crudele del fuoco. E lamenti
e panico e dolore, un dardo che la colpiva alla schiena, la testa che
girava, schiocchi di mascelle, vestiti riversati dalle sacche ormai
squarciate. Cavalli impazziti per il terrore, cani che latravano, il
cuore che sembrava scoppiare. Caos.
Non
capiva più nulla, stordita, con le viscere strette dalla
nausea.
Proteggere il corpo esanime di Soyi: questo era l’imperativo
che la
animava, il resto era una massa di pensieri inutili. La vista le si
offuscò per un momento; era esausta, e solo vedendo
un’ampia
scottatura sul fianco di Nemunas, accanto a sé, si accorse
che le
torce si erano fatte ancor più vicine. In uno sprazzo di
lucidità
sperò che Khai fosse ben protetto dalla sorella, ma non
riusciva a
scorgerli nel turbinio di suoni e colori che era diventato quel
tratto di bosco.
Lo
stomaco si contrasse ancor di più quando vide una freccia
raggiungere la sagoma grigia di Hetrir. Un altro giramento di testa,
un sibilo e dolore, e un arciere a pochi metri da lei che aveva
appena scoccato un dardo.
Era
vicino, si rese conto mentre la nausea continuava ad aumentare
–
troppo vicino per sbagliare un tiro del genere. E,
realizzando
che non stavano mirando a punti vitali, la vista le si
offuscò
definitivamente.
* * *
Si
trovò con gli occhi aperti senza capire quando si fosse
svegliata:
la coscienza aveva appena preso il posto dello stordimento che segue
il sonno, lasciandola smarrita e dolorante. Fissò le travi
di legno
sopra di sé, che sostenevano un tetto di paglia; filtrava
luce,
perciò doveva essere giorno, ma non aveva idea di quanto
mancasse al
tramonto.
Udì
un’esclamazione e serrò le palpebre, con le tempie
pulsanti. Era
dolorante e rigida per il freddo, e qualcosa di gelido le stringeva i
polsi; assurdamente le sembrava che le opprimesse anche il petto,
quasi impedendole di respirare. Riaprì gli occhi e
provò a parlare,
ma aveva la lingua impastata da bile amara.
«Ahdle!»
sentì di nuovo, a voce più bassa, riconoscendo il
timbro di Khai.
Si
tirò faticosamente a sedere, notando che qualcuno doveva
averla
vestita, e lo guardò con un’ansia quasi materna:
il viso scuro era
graffiato in più punti e il labbro inferiore tumefatto, ma
non
sembrava essere ferito gravemente, realizzò con sollievo.
Protese
una mano verso il suo viso, vedendo solo in quel momento i bracciali
di metallo che le cingevano i polsi.
«Argyrion.»
mormorò il ragazzino, intercettando il suo sguardo
«Nemunas ha
detto così.»
Annuì,
avvicinandolo al viso per osservarlo meglio. Era di lavorazione
grossolana: i bordi erano quasi taglienti e la chiusura solo una
striscia verticale in rilievo – poiché la magia
è al sicuro dai
furti, al contrario delle chiavi. Doveva essere quello a soffocarla
così.
«Qualcuno
ha già provato a cambiare forma?» chiese a bassa
voce.
«Non
ci riusciamo. Ma il problema è un altro.» scosse
la testa e si alzò
«Vieni.»
Lo
imitò, inquieta, ma dopo qualche passo la nausea la
costrinse a
lasciarsi scivolare a terra. Hetrir, Tirani e Nemunas, inginocchiati
accanto alla parete opposta, le davano le spalle; si voltarono per
rivolgerle un sorriso stentato o un cenno, poi tornarono a fissare
qualcosa nascosto dai loro corpi.
Per
molto tempo non osò chiedere nulla, perché
chiedere avrebbe
significato ottenere risposte, e non era sicura di volerne –
il
mondo era già crollato abbastanza.
«Hetrir.»
chiamò infine «Hetrir, che succede? Soyi... Soyi
dov’è?»
L’uomo
alzò il viso per un istante, mostrando una profonda ferita
lungo una
guancia e gli occhi vuoti, spenti. Sembrava un vecchio. E
l’unica
persona capace di prostrarlo così era... no.
Si
avvicinò di scatto e scostò Tirani, in preda al
panico, sperando di
sbagliarsi; purtroppo, aveva sempre avuto un buon intuito.
Soyi,
pallida, giaceva su una coperta infangata. Sangue incrostava gli
abiti e i capelli ramati, gocce di sudore colavano dalla fronte e dal
collo; unico segna di vita, il debole respiro che quasi non le
sollevava il petto.
Gridò.
Non
sapeva cosa sentisse Soyi. Se il dolore dell’argyrion, le
loro voci
o semplicemente il nulla.
Non
sapeva nemmeno come darle sollievo. Poteva solo scostarle i capelli
dalla fronte e detergerle il sudore, con la tenerezza che non
appartiene agli amanti, ma agli innamorati – un gesto che
tante
volte aveva compiuto, e che forse lei percepiva anche
nell’incoscienza.
Alzò
lo sguardo su Ahdle, incapace di darle risposta. Non reagì
nemmeno
alle sue grida: lasciò che fosse Nemunas a soffocarle in una
stretta, scoprendo che in realtà non gliene importava nulla.
Non in
quel momento.
Tornò
a scrutare il viso di Soyi. Aveva gli occhi aperti, ma annegati nel
torpore e nello smarrimento, e le labbra secche imploravano acqua. La
vide sussultare, come se la voce di Ahdle l’avesse riscossa
–
quella e non la sua, che le era stato accanto per tutto il tempo,
pensò con acredine.
Riuscì
a sollevarle il busto appena prima che rigurgitasse bile acida; lei,
ignorando i conati che ancora le risalivano in gola, strinse il
ventre con le braccia e serrò gli occhi.
Uno,
due, tre minuti.
Un
tempo infinito in cui non osò toccarla, lasciando che
s’immergesse
in quel mondo intimo e femminile che gli era precluso, sperando,
pregando. Perché se dentro di sé non avesse
avvertito nulla,
sarebbe morta; e lui insieme a loro.
Ahdle
si avvicinò, la comprensione dipinta in volto, con un dolore
che si
pentì di aver deriso. Che Ilithia dal grembo rigonfio avesse
deciso
di punire la sua crudeltà?
All’improvviso
la compagna gli crollò addosso.
«Non
si muove.» singhiozzò «Non si
muove.»
«Dev’essere
l’argyrion. Lo stanca.» le sussurrò,
stringendola.
Faceva
male.
Faceva
male vederla così, faceva male avere paura, faceva male non
sapere
nulla.
Faceva
male fingere una sicurezza che non aveva e pregare gli dèi
di avere
ragione – aggrapparsi alla speranza per non affondare, anche
a
costo di spezzarsi le unghie.
«Come
state?» chiese la donna.
Ahdle
rispose al suo posto, quasi ringhiando: «Meravigliosamente. E
ora,
cos’è successo?»
Si
sforzò di ridere.
«Lieto
che la tua pazienza aumenti di giorno in giorno.»
«La
tua propensione a rispondere fa lo stesso, mi pare.»
Sapevano
di abitudine, quelle repliche sferzanti; certe cose non cambiano mai,
e ripercorrerle tranquillizza. Anche quando della
quotidianità non
rimane nemmeno l’ombra.
«Hetrir.»
lo chiamò Soyi, ancora abbandonata contro di lui
«Cos’è
successo?»
La
strinse di più, prima di iniziare a parlare.
Lo
ascoltava senza interromperlo, continuando ad accarezzare la guancia
di Soyi, come per assicurarsi della sua presenza. L’uomo
sembrava
aver già ripetuto il discorso, forse a chi si era svegliato
prima di
loro: dava la sensazione spiacevole di una lezione imparata a
memoria.
Era
il tono distaccato di chi non vuole accettare. Erano gli occhi vuoti
di chi spera che sia un incubo. La voce non vibrava e
l’argento non
riluceva.
Drogati,
rinchiusi in un villaggio vicino; questo lo aveva già
intuito. E poi
supposizioni, ragionamenti, tutte parole assolutamente inutili.
Quando
Hetrir terminò lei rimase in silenzio, ad ascoltare i propri
respiri
e i movimenti all’esterno – uomini di guardia,
commenti stanchi e
bisbigli incuriositi. Nessuna risposta, quando Khai tentò
per la
terza volta di avere acqua e informazioni.
Ringhiò,
frustrata.
Il
futuro era un punto interrogativo in mano ad altri; il presente, una
dipendenza continua anche per le necessità più
basilari.
Animali
in gabbia.
* * *
Esitava
da quasi un minuto di fronte a una porta. Sapeva di doverlo fare, ma
non osava battere le nocche sul legno sottile, perché non
gradiva la
possibilità di disturbare – non
l’avrebbe gradita l’altro,
soprattutto. Era quasi tentato di tornare indietro e mandare un
compagno al suo posto.
«Enar.»
lo chiamò una voce dall’interno
«Vieni.»
Non
capì come avesse percepito la sua presenza. Forse
l’aveva sentito
arrivare e aveva riconosciuto il passo. O forse non doveva
chiederselo e basta.
Entrò,
accompagnato dal cigolio della porta e da un brivido di inquietudine.
Vide l’uomo seduto sull’unico letto, a guardare il
vuoto e a
giocherellare con il sottile bracciale nero che portava al polso.
Rimase di fronte alla porta, senza raggiungerlo.
«Hai
paura di me?» gli chiese lui, con tono incolore, in una
domanda
ormai abituale.
Non
rispose, sempre più turbato. C’era qualcosa di
profondamente
sbagliato in Neryon: sembrava un folle – e lo era,
probabilmente.
Un folle lucido e sorridente. Seguiva schemi incomprensibili,
risparmiando bambini e massacrando donne; poneva domande insensate,
ridendo dell’incertezza altrui, senza aspettarsi davvero una
risposta. Gioiva nel confondere, nell’avere gli altri in
proprio
potere. Era agghiacciante.
«Cosa
devi dirmi?» lo riscosse.
«Sono
svegli.»
«Bene.
Ora andiamo.» sogghignò, alzandosi «Non
vogliamo far attendere i
nostri ospiti, vero?»
Era
sdraiata accanto a Soyi, in un angolo, a parlare di tutto e di niente
– un’intimità che era stata quasi
dimenticata, e che suonava
quasi fasulla.
«Si
muove.» esclamò l’altra.
«Si
è già mosso prima, non è una
novità.»
Lei
le afferrò la mano, avvicinandola al proprio grembo.
«Vuoi
sentire?»
Percepì
un colpo, energico, vitale – di quelli che fanno anche un
po’
male, e lei se li ricordava bene.
Si
alzò bruscamente. In qualche modo capiva
l’entusiasmo della
sorella, ma non poteva perdonare l’indelicatezza,
né smettere di
odiare la sua gioia. Non quando ancora passava le notti ad
accarezzare il nulla, con il dolore e la rabbia serrati in gola e le
lacrime da fermare.
Iniziò
a percorrere il perimetro della capanna, venendo aggredita
all’improvviso dai suoi odori – sudore, sangue,
urina e bile.
Avrebbe voluto andarsene. Cambiare forma, correre fino a star male e
affondare i denti in carne pulsante di vita. Dare tutto al lupo e
dimenticare ogni cosa.
Il
freddo ai polsi tornò improvvisamente intenso,
costringendola a
sedersi per lo stordimento, quasi l’argyrion percepisse il
suo
stato d’animo e tentasse di calmarla. Sentì
schegge di ghiaccio
scavarle nella pelle, risalire il ventre e lo stomaco fino a
opprimere i polmoni; la bestia non si acquietò, lottando per
non
farsi vincere dall’oblio, annaspando in cerca di forza e di
aria.
Era la parte più importante di sé, quella
più vera, e un pezzo di
metallo non poteva strappargliela. Non così, non come un
cane alla
catena.
Fu
l’unica, quindi, ad avvertire il pericolo –
l’unica con i sensi
abbastanza vigili per poterlo fare.
Udì
avvicinarsi qualcuno: una camminata incerta, esitante, una
più
sicura e rilassata. Nessun dubbio su quale dovesse temere. Una
formula sussurrata in una lingua sconosciuta e la porta si
aprì con
uno scatto, ruotando verso l’interno.
Alzò
gli occhi da terra. Una sagoma imponente si ergeva contro la luce,
con un effetto tanto perfetto da essere forse studiato; dietro di
essa, un giovane magro e nervoso non osava entrare.
«Vieni,
Enar.» rise l’altro.
Aveva
la voce rauca, bassa – da predatore divertito dalla caccia,
le
suggerì l’istinto, quasi riconoscendo un proprio
simile. Vide
distintamente le sue labbra tendersi in un ghigno, quando si
abbassò
in un inchino beffardo.
Incontrò
i suoi occhi e tremò.
Argento.
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Capitolo 3 *** Equilibrio ***
Capitolo
3 – Equilibrio
Non
so se capì subito la portata della sua decisione, quando la
scelse.
Provai a chiederglielo spesso, negli anni, ma non rispose mai; o, se
lo fece, non fui in grado di interpretare le sue parole.
Non
la amò, di questo sono certa – lei non glielo
avrebbe mai
permesso, né d’altronde ve ne fu il tempo. Forse
si odiarono, in
una lotta per la supremazia a cui mancò la fine, o si
compresero e
tremarono insieme all’avvento della rovina.
Erano
più simili di quanto volessero ammettere: cacciatori feroci
e
profeti folli, parlavano del passato come fosse il futuro e
inseguivano pensieri circolari. Se si fossero incontrati in altre
circostanze, questo gioco di richiami e affinità avrebbe
potuto
unirli; ma era un legame sbagliato, o forse lo era il mondo stesso, e
qualsiasi cosa vi fosse tra loro non ebbe che il tempo di
germogliare.
Sul
soffitto c’era una macchia simile a una quercia. Le radici
apparivano lunghe e definite, la chioma si allargava con precisione e
compattezza.
Si
chiese non fosse la penombra o la propria immaginazione a falsarne la
forma – non le lacrime, perché non si era permessa
di piangere,
mentre la sua attenzione si aggrappava a quell’immagine.
Continuò
a fissarla, rifiutando di pensare ad altro: sì,
quella quercia
sembrava proprio perfetta non al materasso troppo sottile, ai
lividi, alle labbra sanguinanti, ma forse aveva trovato una
piccola imperfezione, uno spazio vuoto dove le radici si saldavano al
tronco non al rivolo rosso che le scendeva tra le cosce, al
dolore che la tormentava e la chioma appariva un
po’ troppo
piccola, guardando bene.
Non
agli occhi d’argento che ancora non
l’abbandonavano, dopo averla
trafitta per tutto il tempo.
Era
stato disgustoso e umiliante; l’argyrion le aveva ustionato i
polsi, mentre la bestia si dibatteva per liberarsi e ammazzare, e lei
aveva creduto d’impazzire.
A
un certo punto il viso dell’uomo aveva coperto la macchia sul
soffitto, ma si era rifiutata di chiudere gli occhi – per
sfida,
per mostrare un coraggio che non aveva. Per non perdere anche
l’ultimo brandello di dignità.
Il
suo orgoglio ne era stato annientato ugualmente.
E
continuava a sentire il suo sguardo su di sé,
così simile a un
altro – un altro che l’aveva accarezzata con
desiderio e
allontanata con astio, ed era stato come rivivere quei momenti, e
aveva fatto male anche quello.
E
continuava ad avere il suo braccio sul ventre, a tenerla ferma, e il
suo fiato sul collo e il suo odore quasi animale sulla pelle
–
probabilmente le sarebbe rimasto addosso per sempre, come nauseante
ricordo di quella notte.
«Hai
freddo.» constatò lui all’improvviso.
Finse
d’ignorarlo, ma si accorse di non tremare solo per il terrore.
«Presumo»
fletté il capo verso i suoi vestiti stracciati e si
alzò «di
doverti procurare degli abiti.»
«Molto
gentile.» mormorò. Non ebbe la voce ferma che
avrebbe voluto, ma si
ritenne soddisfatta di quella piccola sfida – poteva ancora
trovare
sé stessa, sotto strati di nausea e dolore.
L’uomo
si voltò di nuovo, con un’aria più
divertita che contrariata. La
soppesò con un ghigno sulle labbra, facendo ruotare
distrattamente
il bracciale nero che aveva al polso.
«Preferisci
rimanere nuda, ther?»
Ther.
Bestia. Pronunciò l’antico insulto con lo stesso
tono che avrebbe
usato per un complimento.
«Tu
gradiresti, immagino.» bisbigliò ancora, sperando
che se ne andasse
presto, o che almeno non la fissasse così.
«Che
carina, vuoi farmi un piacere?»
Chiuse
gli occhi, esausta.
«Trovami
quegli abiti.»
Lui
rise.
* * *
Ripiegò
tutto sul braccio e contò alcune monete. L’altra
schioccò la
lingua, soddisfatta.
«La
tua donna apprezzerà.»
«Credimi,
Melania, è tutto tranne la mia donna.»
«Un
uomo?» chiese semiseria, abbastanza sfacciata e intima per
concederselo.
Rise,
sinceramente divertito, e si congedò con
l’abituale inchino
beffardo. Ogni altro saluto si perse nel pesante cigolio della porta,
ma con insolita impazienza risalì le scale verso il secondo
piano
senza tornare indietro a ripetersi.
Trovava
Melania una donna piacevole, tanto che più volte avevano
goduto
della reciproca compagnia, ma l’altra era certamente
più
interessante. Aveva una luce selvaggia nello sguardo, un orgoglio che
l’aveva portata a tacere i singhiozzi e le suppliche; sarebbe
stata
difficile da prostrare, e questo compensava anche l’aspetto
mediocre, valutò aprendo la porta.
La
vide appiattirsi un angolo, avvertita dallo scatto della chiave,
stringendosi nella coperta. Sembrava un animale in gabbia, con i
muscoli tesi e gli occhi terrorizzati, pronto ad azzannare per paura
– e per vendetta, poiché rimaneva
un’umana, o quasi.
«Sono
i miei vestiti?» chiese a bassa voce.
«Solo
il mantello, era l’unico ancora utilizzabile. Il resto
consideralo
un regalo.» tese le labbra nel quasi onnipresente ghigno
sarcastico
«O un pagamento.»
«Oh,
grazie.» ringhiò, salvo ritrarsi con un sussulto
appena si mosse
verso di lei.
«Dimmi»
commentò «pensi di prendere questi vestiti o
no?»
Rimase
immobile per qualche istante, poi si sporse per strappargli di mano
gli abiti. Lo fissò – senza però
incontrare il suo sguardo, si
accorse – come in attesa che se ne andasse; lui
incrociò le
braccia e attese. Umiliarla, annichilirla. Non le avrebbe lasciato
respiro – avrebbe pagato ogni gesto di sfida, fino a
diventare una
bambola inerme. Avrebbe pregato di essere gettata via.
Si
spogliò in fretta, tremando, con espressione turbata e
furiosa.
Aveva gli occhi lucidi di rabbia e le labbra bluastre, e
l’odore
acre dell’umiliazione incollato alla pelle. Le sottovesti,
invece
di scivolarle addosso morbidamente, s’impigliarono sul capo;
con
l’impaccio di chi non vi è abituato
indossò anche l’abito,
bloccandosi quando le dita rigide non riuscirono ad annodare i lacci.
Si
avvolse nel mantello e sbottò: «Posso
andare?»
Era
contraddittoria, rifletté. Si stringeva nel tessuto come a
volersi
proteggere e si sfogava in attimi di aggressività, lo
sfidava e
tremava di terrore, si ritraeva da lui e sembrava al contempo volerlo
aggredire. Cercava di guardarlo negli occhi quando era chiaro che non
riusciva a sostenerli.
«Non
così in fretta, ther» proruppe, raggiungendola in
pochi passi.
Le
afferrò un polso e la spinse contro il muro, forte del
proprio peso.
L’argyrion era gelido sotto le sue dita, quasi quanto il
cerchio di
metallo scuro che portava poco sotto la mancina; lo sguardo di lei,
invece, ardente di rabbia e agitato dal panico. Le afferrò
il mento
con l’altra mano prima che tentasse di morderlo –
era il primo
istinto di un lupo in trappola, e lui lo sapeva bene.
Si
abbassò per fissarla in volto. Aveva i denti scoperti in un
ringhio
e gli occhi nocciola sbarrati – e vi vide, ancor
più a fondo del
dolore e del disgusto, una bestia che l’avrebbe dilaniato
senza
esitazione. Una bestia ferita e terrorizzata, ma pur sempre tale.
Si
chiese, stringendo la presa attorno al collo, quanti avrebbero potuto
biasimarlo. Non poteva essere considerata una vittima,
poiché i
martiri hanno bisogno di una purezza almeno apparente: era solo uno
dei tanti carnefici passati dalla parte opposta. Pagava per le sue
colpe, come in futuro avrebbe pagato lui, in una storia beffarda che
puniva senza insegnare.
«Prima
o poi sarai tu a soffrire» esalò con il poco
respiro che le
rimaneva, quasi avesse indovinato i suoi pensieri «e
pregherò
Nemesis perché la vendetta degli Anastatoi non sia nulla a
confronto.»
La
lasciò all’improvviso.
Sembrava
colpito da quella maledizione ringhiata con odio e paura; si era
aspettata uno scoppio d’ira, invece era tornata a respirare.
Si
massaggiò il collo, dove aveva sentito le sue dita stringere
sempre
di più, e qualcosa di gelido premerle contro la pelle. Aveva
seriamente temuto che l’avrebbe uccisa, nonostante sapesse di
essere una preda di valore: i suoi occhi d’argento
– così
simili, così dannatamente uguali
– si erano persi in
riflessioni incomprensibili, ma la sua presa aveva continuato a
soffocarla.
«Così»
disse lui, fissandola con espressione interessata «tu ti
rivolgi
alla dea degli Anastatoi e credi nel loro ritorno?»
Voleva
parlare? Dopo averla umiliata, terrorizzata, ferita nel modo
più
crudele e profondo, voleva parlare? Continuò a rimanere
schiacciata
contro il muro, senza fidarsi – il suo corpo le ricordava
bene di
non doverlo fare, conservando ancora i segni della notte appena
passata.
«Non
sono in molti a pensare che vinceranno.» continuò,
allontanandosi
per sedersi sul letto, in un gesto distensivo o casuale.
«E
tu ci credi?» costrinse la propria voce arrochita a mormorare
–
distrarlo, lasciar scorrere il tempo, ritardare il momento del
dolore.
«Io
ne sono certo. Risorgeranno, sta già accadendo.»
rispose
«Anastasis. Conosci questa parola?»
«Il
ritorno degli Anastatoi.» fu la risposta, a metà
tra
un’affermazione e una domanda.
«Distruzione
e rinascita.» la corresse «Per gli antichi la
storia era circolare.
Lo cogliamo nella loro lingua, e nelle loro profezie.»
«E
l’occidente vedrà l’alba.»
sussurrò.
Occidente.
Dysis. La loro nazione, la loro capitale – confini tracciati
con il
sangue, edifici innalzati sulle macerie di un popolo. E il terrore,
come tutti i vincitori, che i vinti risorgessero per vendicarsi.
«Precisamente.
Ma ora vai.» la riscosse, dimentico di ogni intenzione
precedente al
dialogo.
Chiamò
un ragazzino, tremante quasi quanto lei, e gli ordinò di
portarla
via.
«Sarai
così brava da non tentare di scappare, vero?» le
ringhiò
all’orecchio, per poi rivolgere all’altro qualche
parola in un
dialetto sconosciuto.
Era
tornata l’oggetto, la merce, la puttana. Si
rifugiò nella
consapevolezza vendicativa che nessuno rimane impunito –
Nemesis le
aveva porto il calice della sconfitta, ma presto anche lui avrebbe
assaggiato il fiele.
* * *
Poteva
dire, finalmente, di aver trovato un equilibrio. L’orrore si
era
trasformato in abitudine, e dall’abitudine in
normalità; vi si era
assuefatta per non impazzire, con lo spirito d’adattamento di
chi
rimane aggrappato alla vita al di là dei limiti imposti
dall’orgoglio – perché, si era accorta
venendo umiliata una
notte dopo l’altra, poteva fingersi fiera, ma in
realtà era una
codarda. Non aveva rinunciato a resistergli, ma non andava
più oltre
il buon senso: arrivata al limite della sua pazienza, chiudeva gli
occhi e sperava non le facesse troppo male.
Mostrarsi
più mite, oltre a rendere tutto più breve e meno
doloroso, lo
compiaceva; durante le loro conversazioni poteva anche azzardare
qualche domanda, a volte – ricevere notizie, avere un ultimo
contatto con il mondo.
Quando
gli incubi le toglievano il sonno tornava a pregare la dea degli
Anastatoi, e quando era troppo stanca per odiare godeva di quei
piccoli privilegi. Era il suo compromesso per sopravvivere.
«Da
quanto tempo siamo qui?» gli chiese a bassa voce.
Neryon
inspirò in modo quasi animalesco l’odore dei suoi
capelli sparsi
sul cuscino, forse divertito dal brivido che non riuscì a
reprimere.
Gli occhi d’argento erano tornati improvvisamente lucidi, con
l’aria attenta che poteva precedere tanto una risata quanto
una
risposta pungente.
«Perché
t’interessa?»
Non
si aspettava la verità, lo sapevano entrambi –
poneva domande per
soppesare l’altro, più che per ottenere risposta.
Voleva qualcosa
di credibile o di acuto, che valesse la pena ascoltare, e semplice
curiosità non era una replica accettabile.
«Non
ci siamo mai spostati. Se stiamo aspettando qualcuno, è un
po’ in
ritardo, non ti sembra?»
«E
secondo te stiamo aspettando qualcuno?»
La
osservò con un ghigno mentre si dibatteva
nell’incertezza. Non
erano interrogativi a caso, i suoi – erano un gioco mirato a
farla
contraddire, a logorarla, a intimorirla. Una risposta sbagliata
l’avrebbe infastidito, ma non esistevano risposte giuste, e
ne era
consapevole anche lei.
«Non
credo, dopo tutto questo tempo.» disse infine, con voce
più ferma
di quanto si aspettasse.
«E
allora cosa pensi?»
Si
voltò a guardarlo negli occhi. Poteva essere stanca, ma in
profondità rimaneva ancora sé stessa –
una bestia che si nutriva
di sfida e orgoglio. Lo capiva e tacitamente lo apprezzava: non
sarebbe stata tanto interessante, altrimenti. Non sarebbe stata lei.
«Non
lo so, Neryon. Dimmelo tu.» osò.
«Perché
dovrei?»
I
suoi sensi acuti colsero il movimento in tempo per impedirlo, ma la
lasciò fare. Sentì mani fredde scorrergli lungo
il petto e le
braccia, evitando istintivamente il bracciale al polso sinistro, fino
a stringergli piano le dita; il suo respiro accarezzargli il collo,
le labbra sfiorargli la pelle.
«Per
questo.» sussurrò.
Fu
una risata sprezzante e quasi feroce, la sua. Il corpo tremante e
l’acre traccia della paura ispiravano il suo istinto di
cacciatore,
invece della sua condiscendenza, e trovava ridicolo quello scarso
tentativo.
«Non
offrirmi ciò che posso prendere da solo»
commentò «e che le donne
al primo piano sanno fare molto meglio di te.»
Lei
si allontanò di scatto, con l’umiliazione che le
colorava il viso
e le animava lo sguardo.
«In
ogni caso» si alzò dal letto, divertito e
compiaciuto, per frugare
tra gli oggetti ammucchiati in un angolo «siamo ancora qui
perché
le strade non sono più sicure. Il fronte si
avvicina.»
«Ma
era ancora al Dara.» sussultò.
«Quasi
una luna fa. Nemesis assiste gli Anastatoi, Ahdle, ti aspettavi che
perdessero?»
«No,
ma è...» scosse la testa «Pensavo che
avrebbero impiegato di più.»
«Abbiamo
i giorni contati.» disse – ed era una sentenza dal
gusto quasi
rassicurante, perché presto sarebbe finito il piacere, ma
soprattutto il dolore.
Celò
qualcosa nel pugno e tornò da lei. Poteva ordinarle di
chiudere gli
occhi, ma il profumo fresco della curiosità era troppo
piacevole per
sporcarlo con l’inquietudine; le si sedette accanto in
silenzio e
le prese il polso sinistro.
Il
gelo dell’argyrion sotto le dita, una formula, il tintinnio
del
bracciale sul pavimento. Aprì l’altra mano e il
respiro della
donna si bloccò per un istante. I lineamenti severi di
Nemesis
emergevano dal metallo, rivolti verso il mondo con impassibile
determinazione; ai lati due calici, simbolo della dea – il
fiele
degli sconfitti e il miele dei vincitori. Chiuse il cerchio argentato
sul suo polso.
«Perché?»
sussurrò lei.
«La
nomini così tanto, almeno avrai qualcosa a cui
rivolgerti.» ghignò.
Perché
così, forse, ti risparmieranno come sua fedele.
Non
lo disse.
Questo capitolo mi è particolarmente caro. Non accade nulla, in apparenza, ma si gettano le basi per il prossimo e, più in generale, per il seguito di questa storia. Sto soppesando in questi giorni se scriverlo o meno: l'ispirazione mi ha abbandonata e, in fondo, Anastasis può esaurirsi anche solo con Ricordi. Si vedrà. Ringrazio Falling_Thalia e Remnant per i Preferiti. Mi piacerebbe avere qualche parere, per sapere cosa piace e cosa invece dovrei limare del mio stile ^^
A venerdì 23, con l'ultimo capitolo!
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Capitolo 4 *** Cicatrici ***
Capitolo
4 – Cicatrici
Gli
Epirei si snodano per un terzo del loro corso sottoterra, scavando
nella roccia, prima di riaffiorare e affluire al Dara. Così
mi aveva
raccontato mia madre, nei suoi saltuari e fiacchi sforzi per
erudirmi.
Fu
in quei budelli soffocanti che trascorremmo i nostri ultimi giorni;
capimmo tutti che quella sarebbe stata la nostra fine,
perché il
futuro stava ormai assumendo le tinte meno fumose del presente. La
paura scavò solchi profondi dentro di noi, ferendo con
unghie di
rimorso e disperazione, lasciandoci cicatrici e memorie indelebili.
La paura, soprattutto, svelò cos’eravamo davvero
– vili, dal
primo all’ultimo.
L’Anastasis
si compì poco dopo. L’occidente vide
un’alba tinta di rosso,
riecheggiante di grida; Dysis venne rasa al suolo e le sue macerie
lasciate a monito per chi avesse voluto di nuovo sfidare i protetti
di Nemesis.
Avevano
dovuto aspettare secoli, ma gli Anastatoi ottennero la loro vendetta.
Noi stiamo ancora attendendo la nostra, senza sperarvi veramente
–
non c’è nessuna profezia a darci forza, nessun dio
al nostro
fianco. Non abbiamo che le nostre cicatrici, e per trovarvi un senso
possiamo solo scavare nel passato.
Possiamo
solo ricordare.
Sentiva
il suo viso tra i capelli, ad inspirare il loro odore, e il suo
braccio circondarle i fianchi.
«Neryon»
chiamò, sfiorando il freddo cerchio nero che portava al
polso
«perché non lo togli mai?»
«E
tu perché credi che ti risponderò,
ther?» rispose – e
quell’insulto detto con il sorriso racchiudeva tutto
ciò che c’era
tra loro.
L’abitudine,
l’intimità, i discorsi lunghi ore.
L’odio, anche, e la
stanchezza. Il peso di un destino ineluttabile che schiacciava
entrambi, poiché entrambi ne afferravano la trama, e
condividerlo
era l’unico modo per non restarne soffocati.
Era
stato un cambiamento lento, quasi impercettibile. Era diventato tutto
meno brutale, meno doloroso, fino a non lasciarle che qualche segno
dove lui l’aveva stretta; era arrivata a sentire la mancanza
dei
loro dialoghi spesso insensati, delle sfide, della semplice presenza
di qualcuno accanto a sé. Si rifugiava in un meccanismo
perverso che
la portava a ignorare l’umiliazione e dimenticare il dolore;
non
sapeva più dire quanto di quella serenità fosse
dovuto alla propria
mente e quanto invece fosse reale.
«Ho
sentito delle grida, oggi.» la riscosse lui.
«Ho
avuto una piccola discussione.» minimizzò.
«Con
un uomo?»
Ricordò
gli occhi d’argento di Hetrir, il suo disprezzo, la sua
rabbia. Era
un uomo come si definiva, o una bestia almeno quanto lei?
«Se
così vogliamo chiamarlo, sì.»
«Bene.»
«Perché?»
«Sei
una femmina del branco, non può attaccarti.»
sogghignò «Sai, un
cadavere non sarebbe particolarmente di compagnia.»
Si
chiese come potesse conoscere un tabù.
* * *
Hetrir
la fissava. Doveva essere finito l’effetto della droga:
iniziava ad
essere sempre più leggero e breve, lasciandolo lucido per
qualche
tempo. Solitamente trascorreva quegli attimi accanto a Soyi –
l’unica, oltre a lei, cui fosse permesso di rimanere
cosciente,
perché il cucciolo reagiva male a quelle erbe –,
senza prestare
attenzione a nient’altro. Il giorno precedente era stato
un’eccezione.
Sistemò
la manica sinistra, scoprendo il bracciale lavorato. Non aveva
chiesto lei quel dono; anzi, il volto di Nemesis non faceva che
ricordarle il poco tempo restante. Puttana. Poteva
davvero
biasimarla per aver scelto di non impazzire? Codarda.
Per aver
ceduto alla stanchezza, per aver abbandonato un orgoglio inutile e
dannoso? Traditrice. Come poteva sputare sentenze,
lui, lui
che non ne aveva il diritto? Che non sapeva, che non capiva, che non
ascoltava?
Sfiorò
la mano di Khai. Era diventata più grande della propria, si
accorse
– stava diventando un uomo, ormai, ma senza perdere la
vitalità
dell’infanzia. Gli sorrise debolmente, sperando che la
mantenesse
per sempre; lui, con la mente annebbiata dalla droga, nemmeno se ne
accorse.
«Ahdle.»
la chiamò la sorella, al suo fianco.
Spostò
lo sguardo dal giovane a Soyi.
«Dimmi.»
«Ho
passato la nona luna, ormai. Volevo chiederti se...»
esitò,
torturandosi il labbro inferiore «se mi aiuterai, quando
sarà il
momento.»
Sentì
lo stomaco stringersi in una morsa tale da spezzarle il fiato;
lacrime amare le inumidirono gli occhi, ma l’argyrion
restò quieto
– era un dolore troppo umano perché potesse
venirne destato.
«So
che ti chiedo molto» continuò l’altra in
un sussurro «ma mi fido
solo di te.»
Pensava
davvero che avrebbe ignorato l’invidia, la rabbia, il dolore?
Riponeva davvero tanta fede in un affetto ormai polveroso?
Davvero,
si rispose. Aveva la sincerità e la speranza sul volto; e,
in fondo,
non meritava un diniego.
«Ilithia.»
cedette infine, tornando a guardare Khai «Prega Ilithia
perché
guidi le mie mani.»
E
spera che ascolti le tue richieste più delle mie.
* * *
Non
dubitava che quei cunicoli fossero stati usati come carceri. Si
sentivano gli Epirei scorrere, oltre le pareti di roccia, e
l’umidità
permeava l’aria stantia. Dagli angoli, dove la luce delle
torce non
arrivava, sembravano provenire sibili e gemiti – bestie
striscianti
celate dall’acqua, ossessioni malate annidate nel buio.
L’arrivo
degli Anastatoi, tra quei contorni di ombra e angoscia, assumeva le
tinte violacee di un incubo; e c’era da chiedersi se non
sarebbe
stato meglio morire subito, invece di nascondersi come topi.
Erano
appena qualche centinaio di persone, ma tra gli echi e
l’oscurità
di quei cunicoli soffocanti sembravano moltiplicarsi
all’infinito.
Stringeva la mano di Khai fino a conficcargli le unghie nella pelle,
e appena più delicatamente quella della sorella, sostenuta
da
Hetrir; il suo sguardo, però, era fisso su un altro che si
voltava
ogni minuto verso di lei.
L’argento,
in quei budelli che avrebbero accolto cadaveri mangiati dalle larve,
non riluceva.
Non
Nemesis al suo polso.
Non
gli occhi di Hetrir.
Non,
soprattutto, quelli che cercava con l’angoscia a spezzarle il
respiro.
Le
architetture vacillanti su cui aveva modellato il proprio mondo erano
appena crollate su un suolo già umido di sangue.
* * *
Gli
artigliava le braccia fino a fargli male, ma forse non se ne rendeva
nemmeno conto. Un sospiro riecheggiò nella galleria isolata
in cui
si erano rifugiati; non l’aveva mai sentita sospirare, e fu
come se
quel suono non le appartenesse davvero.
«Non
ti piace questo posto.» commentò.
«A
qualcuno piace, per caso?»
Si
liberò dalla sua stretta e le prese la mano, distinguendo
appena i
contorni dei bracciali ai loro polsi.
«Immagino
di no.»
«E
allora perché dovrebbe piacere a me?»
ringhiò «Non c’è aria.
Non c’è luce. Non c’è calore.
Perché dovrebbe piacermi, eh?»
«Sta’
calma» passò il pollice sul volto
d’argento di Nemesis «o
provocherai l’argyrion. E me.»
Rimasero
in silenzio per un tempo indefinibile, mentre lo scorrere dei minuti
si perdeva nel buio, scandito solo dai loro respiri. Ad un tratto la
voce dell’uomo risuonò di nuovo nel cunicolo.
«Hai
paura, Ahdle?»
«Di
che cosa? Della morte?» rise, di una risata amara e stridula
«Lo
sapevo da tempo.»
«Di
qualcosa.»
Non
pensava gli avrebbe risposto, ma l’oscurità
favoriva le
confessioni, e la sua mente si era ormai convinta di stare bene,
insieme a lui – o forse era davvero così e il suo
orgoglio si
rifiutava, nel profondo, di accettarlo.
«Non
per me.» mormorò infine, improvvisamente stremata.
«Per
quella donna? O per quel ragazzino che ti sta sempre intorno?»
«Entrambi.»
fece una pausa «E tu, Neryon? Tu hai paura?»
Sfiorò
di nuovo l’argyrion al polso di lei, i lineamenti della dea
che
s’indovinavano al tatto.
«No.»
* * *
Erano
sedute a parlare, in un’intimità ritrovata con la
prigionia.
Tirani, addormentata accanto a loro, era una presenza discreta;
Hetrir e Nemunas erano andati a prendere dell’acqua e Khai li
aveva
seguiti – con la minaccia degli Anastatoi nessuno faceva
più caso
a loro, e si erano ritrovati improvvisamente liberi. Erano sole,
quindi, senza la presenza a volte quasi soffocante del branco.
«Tra
una decina di giorni sarò all’ultima
luna.» stava dicendo Soyi,
accarezzandosi il ventre con aria incerta «Mi aiuterai,
allora?»
Represse
con stanca abitudine una protesta, salita dalle pieghe più
profonde
dell’anima – quelle che conservavano ancora il
ricordo, e il
dolore.
«Lo
farò. Ma è meglio cercare anche una levatrice, o
almeno un’altra
donna.»
Prima
che la sorella potesse rispondere, Tirani sbadigliò e si
tirò a
sedere. La videro assumere un’espressione accigliata e
portare
discretamente la mano tra le gambe, a contatto con il tessuto;
ripulì
le dita macchiate di sangue sulla coperta, poi si voltò
verso di
loro e chiese a bassa voce: «Ahdle, hai qualcosa per il
mese?»
Non
rispose. Non fece niente, in realtà, se non contare
mentalmente.
Una, due, tre volte. Il risultato era sempre lo stesso: almeno
trentacinque giorni. Sicuramente più di una luna.
No,
non era possibile. Non di nuovo. Non da lui. Non in quel momento.
Portò
la mano al ventre.
Trentacinque
giorni.
* * *
«Cos’hai?»
le chiese, guardandola alla luce tremula della torcia.
«Nulla.»
Sentiva
la traccia pungente della tensione, sopra il sudore; il corpo non
mente, e lei di certo nascondeva qualcosa.
«Sei
nervosa.» constatò senza emozione.
«È
questo posto. Non c’è aria»
Cambiò
discorso, decidendo di crederle – era stanco anche lui di
nascondersi come un ratto.
«Avete
trovato una levatrice, tra le donne del villaggio?»
Lei
si irrigidì.
«Sarò
io. Nessun’altra è disposta.»
«Hai
avuto figli?» domandò istintivamente, interessato
a una vita di cui
non sapeva nulla.
«Uno.»
rispose asciutta.
Gli
sembrò di udire la sua voce tremare, prima che si girasse su
un
fianco e chiudesse gli occhi.
* * *
Fu
uno scalpiccio lieve, all’inizio. Percorse i budelli neri,
risuonò
nelle sale umide, giunse sino a loro come il battito distorto di un
cuore di roccia. E cresceva, cresceva, cresceva; finché
capirono, e
per un attimo ancora non si udì che quel suono
agghiacciante. Poi fu
il caos.
Richiami
di madri, pianti, grida, un grumo denso di terrore che risucchiava
tutti tra le sue spire vischiose. I volti passavano davanti agli
occhi troppo veloci perché si potessero distinguere, le voci
si
confondevano in un unico urlo assordante, tutto era mischiato,
confuso, soffocante, corpi sudati si accalcavano nei cunicoli
togliendo aria e spazio, e quello scalpiccio si faceva sempre
più
vicino, sempre più forte, sempre più orrendo.
Sosteneva
Soyi insieme a Nemunas, tentando di non farla cadere per gli urti;
Khai, stringendole il braccio, si guardava attorno cercando la
sorella. I suoi richiami venivano inghiottiti nel boato della folla,
così come le parole che l’uomo più
anziano stava cercando di
farle udire, e quelle che Soyi ripeteva incessantemente –
chiamava
Hetrir, forse, ma perfino la sua sagoma imponente si perdeva in
quella ressa.
Non
avevano possibilità: glielo gridavano l’istinto e
il ricordo,
pelle tesa su una cicatrice che riprende a dolere, mentre il gelo
ustionante dell’argyrion la confinava in un corpo lento e
fragile.
Il passato era tornato a ghermirla e questa volta avrebbe cancellato
il futuro.
«Zenas!»
Urla
panico sangue fuoco lacrime disperazione. Ma distingueva comunque il
suo pianto, una lama che incideva fino alle pieghe più
profonde
dell’anima. Non poteva andarsene.
«Zenas!»
Lo
scalpiccio si arrestò, ma i sibili delle frecce e lo
stridore del
metallo furono un suono ancor più terribile, una condanna a
morte,
una furia vendicativa e insensata, il fiele di Nemesis che scorreva
acido in gola.
Soyi
si accasciò, esausta, tenendosi il ventre.
«Andiamo.»
le mormorò, inudibile «Forza, andiamo.»
«Ahdle,
vieni via! Ahdle!»
«Non
posso lasciarlo qui!»
Non
fu più la stretta della sorella, ma una più rude,
maschile.
«Muoviti,
Ahdle.» le ringhiò l’uomo.
Il
lupo, sconfitto, chinò la testa di fronte al capo. La madre,
dentro
di lei, continuò a urlare.
Non
avrebbe più smesso.
Scorse
uno sguardo grigio e si avvicinò di scatto, con un nome
sulle
labbra; ma quello scomparve tra la folla, e non seppe mai chi avrebbe
chiamato, se Hetrir o Neryon, perché una spinta la gettò a terra.
D’istinto
alzò le braccia per schermarsi. Il volto argentato di
Nemesis, al
suo polso, si rifletté impassibile nella lama del guerriero
di
fronte a lei.
Corse
nella sua direzione nell’istante in cui gli Anastatoi
raggiunsero
il cuore della ressa, e la vide venire inghiottita dall’orda
di
soldati; il panico gli serrò lo stomaco e gli
offuscò la mente,
facendolo scattare verso di lei, ma non riuscì a penetrare
nello
sciame di persone terrorizzate.
Continuare
a cercarla sarebbe stato inutile, si rese conto – e, se anche
non
lo fosse stato, l’uomo è egoista e codardo; la
bestia no, a
dispetto del suo nome, ma era sopita da troppo tempo perché
potesse
influenzarlo. L’amarezza che lo aggrediva a ogni passo non
gli
impedì di tornare a fuggire.
Incespicò
in una donna a terra e, rialzatosi con un’imprecazione,
riconobbe la sorella di Ahdle. Un ricordo, una voce, si fece strada
tra il boato generale – «Hai
paura?» «Non per me.»
– e
non riuscì a ignorarla. Almeno quello, si disse. Almeno
quello
glielo doveva – ma per cosa, poi? I ringhi le discussioni
l’odio?
Avevano davvero valore, quelle notti passate insieme?
Sì,
pensò rabbiosamente, di valore ne avevano fin troppo.
Indicò
alla gravida e ai due uomini con lei un passaggio ignorato dalla
folla, troppo basso per un uomo adulto, quindi afferrò i
polsi di
ognuno e mormorò l’abituale formula, liberandoli
dall’argyrion.
La donna non si mosse, limitandosi a guardarlo: sembrava quasi
chiedere E tu?, ma lui fece di nuovo cenno verso il
cunicolo.
Gettò
un’ultima occhiata al cuore della sala, dove Ahdle era
scomparsa,
dove gli Anastatoi infuriavano – dove qualcosa
all’altezza dello
stomaco gli ordinava di andare. Sfiorò il cerchio di metallo
alla
mancina; bastò un sussurro per farlo cadere a terra, e la
roccia
scalfì lo smalto nero, rivelando un bagliore argentato. I
sensi, non
più attenuati, vennero aggrediti dal caos nella caverna;
impiegò
qualche istante per riprendersi, poi fissò lo sguardo sulle
tre
fiere che correvano verso il cunicolo e cancellò ogni
esitazione.
Un
secondo dopo, un quarto lupo raggiunse gli altri.
Metto
la parola fine a questa storia, ma non ai miei personaggi. Ho
abbandonato il seguito principale, almeno per ora, ma ho in stesura
altre piccole long-fic; non so quando le finirò, ma ho
intenzione di pubblicarle, quindi ogni tanto date un'occhiata al mio
account, se siete interessati.
Ringrazio
per i preferiti. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questa
storia, e quali personaggi vorreste vedere approfonditi nelle
altre storie ^^
Alla
prossima vena d'ispirazione!
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