One Piece Paradise Park

di Ila_Chwan22
(/viewuser.php?uid=145109)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'innamoramento ***
Capitolo 2: *** Le difficoltà sul cammino ***
Capitolo 3: *** Brutti presentimenti e parole di conforto ***
Capitolo 4: *** Happy ending ***



Capitolo 1
*** L'innamoramento ***


Allora … prima di lasciarvi alla lettura volevo solo dire che l’idea e la storia sono totalmente state partorite dalla mente geniale e creativa di KH4 che ringrazio calorosamente di aver scritto questa piccola opera,io invece mi prendo il merito solo di aver creato l’Oc di One Piece Jessica e postato la storia qui su EFP. 

Maggio.

Quinto mese dell’anno.

Il suo arrivo equivaleva alla dipartita della primavera e all’arrivo della tanto agognata estate. Le tiepide brezze mattutine s'intensificavano e il sole risplendeva con più enfasi, quasi volesse esplodere. Pensare al mare o a tutto ciò che fosse sinonimo di “Fresco”, era un riflesso incondizionato delle menti degli studenti, ancorati ai banchi di scuola come dei carcerati condannati ai lavori forzati. Lo stare chiusi in un’aula, dove il sole picchiava per tutta la mattinata, era un supplizio che non concedeva armistizi o grazie, ma alla cara signorina Jessica Di Belleville, questo non aveva mai pesato più di tanto.

Altre erano le sue attuali preoccupazioni, e di natura molto più complessa delle serie di problemi che il professore di matematica aveva rifilato a tutta la classe. Per lei, il cui andamento scolastico era impeccabile quanto il canto, non esistevano crucci più intricati di quelli del proprio cuore, imprevedibili quanto la causa attorno a cui la sua mente continuava a girare. Non riusciva a porci un ordine logico, perché di logicità, in tutto ciò, non ce n’era traccia. Ne era cosciente, poiché l’essere una ragazza romantica implicava il sapere che l’amore, fra tutte le forze esistenti al mondo, era quella più indescrivibile e irrazionale. Anche “Assurda”, nel suo caso……….

SBADABAM!

Sobbalzando per quel tonfo assordante, la rossa si voltò immediatamente, vedendo rotolare a terra un vassoio circolare, nel mentre un paio di camerieri cercava di aiutare il collega appena rotolato giù dalle scale…..di nuovo.

E’ caduto ancora, sospirò mentalmente lei, con un sorriso dispiaciuto.

Era la terza volta che quel povero ragazzo volava giù dalle scale per colpa del suo aspetto, insieme a qualche altro cliente. Non lo faceva volontariamente, questo mai, ma l’essere una ragazza terribilmente affascinante, con una pelle nivea, un corpo slanciato e una chioma splendente quanto un rubino, comportava un’attenzione smisurata da parte del genere maschile. Non c’era giorno in cui i suoi compagni di classe la riempissero di complimenti, adulazioni, fiori o elogi di ogni genere, e tutto per un saluto o una sua fugace occhiata. Lei, che neppure era una ragazza vanitosa e ricercante l’attenzione, ogni volta finiva per essere accerchiata e adorata come se fosse una dea discesa dall’Olimpo. Qualunque altra sua compagna, al suo posto, avrebbe fatto a pugni pur di avere tutti i riflettori puntati addosso, ma Jessica ne avrebbe fatto volentieri a meno, seppur tra quegli adulatori, ci fosse una persona a cui lei teneva particolarmente…….

Mi basterebbe soltanto lui…, pensò lei, nell’emettere un leggero sospiro.

“Jessica?”

Il venire richiamata alla realtà da quella voce a lei molto familiare, la spronò a volgere i suoi splendidi occhi smeraldini sulla persona che stava aspettando e a cui rivolse un sorriso rincuorato. Fra tutto quello che poteva accorrere in suo aiuto, la proprietaria di quella voce era, poco ma sicuro, la più sperata.

“Ciao, Yu-chan”, fece lei “Ti stavo aspettando.”

Kanemiya Sayuri era la ragazza più gentile e a modo che la rossa avesse mai incontrato in vita sua. Di due anni più grande di lei – seppur l’altezza e il viso la facessero sembrare più piccola -, frequentava l’università della città, la cui sede era collegata alle superiori, alle medie e alle elementari. Dolce ed educata, aveva lunghi capelli castani che le incorniciavano il roseo viso, abbellito da due occhi color cioccolato enfatizzanti la sua graziosità. Una ragazza carina e gentile, nella media, insomma, con un bel sorriso e un modo di fare che a volte lasciava spiazzata la gente con cui aveva a che fare. Il loro incontro era stato casuale, un incontro fortuito, avvenuto quando la più giovane era ancora una matricola e non sapeva come muoversi dentro un liceo così grande e pieno di studenti: la castana l’aveva salvata dalla prima orda di ragazzi che si erano iscritti al club di musica solo per starle vicino. Fra tutte le sue attuali conoscenze, lei era la ragazza con cui si sentiva più a suo agio. Bastava starle vicino per percepire una calma benefica, una tranquillità così candida da risultare irreale, ma non era niente di cui doversi stupire: Sayuri non conosceva neppure la parola “Arrabbiarsi.”

“Perdona il mio ritardo”, le disse lei “Dovevo sbrigare alcune commissioni in facoltà.”

“Ma figurati, non sono arrivata da molto. Scusami tu, piuttosto. Ti ho chiamato in fretta e furia senza neppure pensare alle tue lezioni”, disse la rossa, mortificata.

“Sta tranquilla, è tutto a posto.”

Il loro scusarsi a vicenda era una specie di usanza che precedeva l’entrata in scena dell’argomento principale. Jessica, poi, in quel preciso momento, si sentiva in dovere di farlo: in quel periodo Sayuri era molto impegnata con lo studio, a causa della sessione d’esami estiva, e disturbarla in un momento così cruciale le era sembrato - e le sembrava tutt’ora - una vera cattiveria. Certo, anche lei aveva il suo bel da fare con il corso di musica:  l’insegnante l’aveva letteralmente pregata in ginocchio di partecipare a una serie di recite, dove la componente musicale era di vitale importanza e, per almeno tre volte alla settimana, tornava a casa tardi. Era faticoso, ma gratificante, perché per lei non esisteva nulla di più bello che cantare. Aveva preso questa passione da sua madre, che moriva dalla voglia di vederla sul palcoscenico. Tutto il contrario di suo padre, che si sarebbe piazzato nelle file più alte per fucilare tutti i suoi aspiranti pretendenti.

“Allora, di che cosa volevi parlarmi?” le domandò Sayuri, sedendosi.

“Di questi. Me li ha dati Sanji-kun questa mattina.”

Trafficando per qualche secondo nella cartella, Jessica estrasse e depose sul tavolino quattro biglietti colorati, aventi delle grosse lettere stampate sopra. Nel prenderne uno in mano, Sayuri lo osservò attentamente, come incerta che quel che stava guardando, fosse vero.

“Ma questi sono dei biglietti per l’One Piece Paradise Park”, mormorò poi, tornando a guardare l’amica.

“Proprio quello”, annuì la rossa.

Anche lei era rimasta molto sorpresa, quando il biondo glieli aveva porti dopo il suo solito idillio.

Il One Piece Paradise Park non era un parco dei divertimenti qualsiasi, ma IL parco dei divertimenti per eccellenza. Un posto grandissimo, variopinto, diviso in quattro aree tutte collegate fra di loro: la zona giochi, l’acquario, la cittadella dello shopping e l’area ristorazione. Non andarci almeno una volta nella vita era sinonimo di reato, una verità che era riuscita a convincere una riluttante Nami a scegliere quel posto come meta turistica, per una delle tante gite di gruppo fra amici. Era accaduto durante una domenica dell’anno scorso, giusto per stare tutti insieme, ma da allora, non c’era stata più occasione di ripetere l’esperienza. Al di fuori del fatto che al momento erano tutti un po’ impegnati, i biglietti del parco costavano un occhio della testa e anche mettersi in coda il giorno prima non risolveva nulla, il che portò le due ragazze a chiedersi come fosse riuscito il ragazzo a ottenere ben quattro di quei bei pezzi di carta colorati.

“Mi domando come sia riuscito a procurarseli. So che è difficile anche solo prenotarli”, si domandò per l’appunto Sayuri “Jessica,  non ti ha detto proprio nulla al riguardo?”

“Oltre ai suoi ripetuti elogi, niente”, fu la risposta dell’amica “Mi ha detto solo che questa domenica, al parco, si terrà un concorso speciale e che gli sarebbe….”, e lì arrossì leggermente “Piaciuto andare con me.”

Il solo ricordare quanta felicità avesse provato nell’istante in cui Sanji le aveva dato i biglietti in mano, la spinse ad abbassare gli occhi verso il basso: il cuore non le aveva mai battuto così forte e pensare che il ragazzo che tanto le piaceva,  le aveva chiesto un appuntamento, stava facendo sì che le porte del paradiso si avvicinassero di loro iniziativa. Si, Sanji le piaceva tantissimo, ne era rimasta profondamente colpita sin dal primo incontro, quando lui si era presentato con un enorme mazzo di rose rosse tutte per lei. Da quel momento, non c’era stato giorno in cui lei non avesse sospirato per quell’amore che tanto la confondeva. Ancora oggi non capiva come mai i suoi occhi si fossero posati proprio su di lui, neppure l’avesse fatto volontariamente: era un gentleman, un cuoco provetto, ma anche un marpione con la fissa per tutte le belle donne presenti sulla faccia della terra. Elargiva complimenti a tutte le compagne, incapace di soffermarsi su di una per più di dieci secondi. Un tipo del genere non lo aveva mai incontrato in vita sua. Lei, educata com’era, aveva sempre risposto ai suoi saluti cordialmente, evitando di fare caso agli sproloqui mentali che quel buffo ragazzo dalle sopracciglia attorcigliate le rifilava non appena metteva piede a scuola. Pensava che fosse il suo modo per attirare l’attenzione, ma non era così e, senza sapere come, dopo un po’ di tempo, fu lei a cercarlo con gli occhi. A volte lo guardava distrattamente, d’istinto, senza sapere perché la sua testa si fosse girata nel sentire la voce di lui. Ogni qualvolta se lo ritrovava davanti, il cuore prendeva a batterle velocemente e la sua attenzione si focalizzava su qualche particolare di lui: il sorriso era, senza ombra di dubbio, la cosa che preferiva di gran lunga.

Quando era “Calmo”, poi, sorrideva così…..così…….

Era carino. Tanto carino!

Ossessione amorosa per tutto il gentil sesso a parte, era un ragazzo gentile, disponibile, e Jessica non riusciva fare a meno di pensare quanto lo fosse con lei. Quell’invito poi, l’aveva profondamente colpita: chissà cosa aveva dovuto fare il suo adorato principe per ottenere quei piccoli tesori!

Dal canto suo, Sayuri era perfettamente cosciente di quanto fosse grande il sentimento dell’amica per il ragazzo. Jessica era la ragazza più corteggiata e ammirata del liceo, ma aveva notato fin troppo bene con che occhi guardasse Sanji, e non era un segreto che quest’ultimo la privilegiasse particolarmente. Bastava misurare la lunghezza dei suoi elogi per capire che il ragazzo aveva posto l’adorazione per la rossa sul piedistallo più alto di tutti.

“Perdonami, Jessica, ma non vedo dove stia il problema”, le sorrise dolcemente la più grande, vedendola così impappinata emotivamente “Hai sempre detto che ti sarebbe piaciuto uscire con lui. Ora hai l’occasione per farlo.”

“Lo so, ed è per questo che mi devi aiutare!” esclamò lei “Tu devi venire con me insieme a Ace.”

A quell’affermazione, Sayuri  non mancò di alzare le sopracciglia con fare stupito.

“Come dici? Io e..”

“Tu e Ace”, ripeté la rossa, sventolandole davanti due dei quattro biglietti “Sanji-kun mi ha detto che se volevo, potevo portare un’amica e io ho deciso di invitare te e lui. Questa sarà l’occasione buona perché voi due finalmente vi dichiarate e non provare a dirmi che siete solo amici, perché non ci credo neanche morta!”

Stavolta fu il turno dell’universitaria ad arrossire, e non ci fu modo di impedirlo.

Jessica sorrise compiaciuta, soddisfatta di sé stessa: sebbene fosse una persona dall’indole docile quanto quella di un agnellino, non appena si parlava di questioni amorose che non la riguardavano personalmente, diventava più sicura e decisa. Perfino con Nami si era dimostrata determinata, perché, anche se  non lo ammetteva, era evidente quanto il sole che fosse cotta di Rufy, il fratello minore di Ace. Era sempre stata brava a parlare dell’amore, perché lo riteneva la cosa più dolce e bella di quel mondo e, nel suo parlarne con sincerità, aveva dispensato semplici consigli che avevano reso felici alcuni dei suoi più cari compagni.

Niente di quanto elargito si avvicinava a tattiche pianificate e studiate, figurarsi se qualcosa come l’amore potesse essere pianificato: nutriva un profondo rispetto per quel sentimento, tanto che quando vedeva una coppia d'innamorati, sorrideva col cuore addolcito. Si, per lei l’amore era qualcosa che, per quanto tradotto in mille lingue, avrebbe conservato per sempre la sua magia, ma per Sayuri, la questione era radicalmente diversa. A dispetto delle apparenze, lei era completamente estranea all’innamoramento: non perché non ci credesse, soltanto, non aveva mai avuto occasione di provarlo. Era come una bambina inesperta davanti a un problema troppo complicato per la sua mente e, di conseguenza, finiva sempre per inciampare nei suoi stessi pensieri, senza mai capire se questi fossero realmente veri o una semplice illusione. Sembrava assurdo, perché in qualunque altro contesto immaginabile, la castana manteneva la calma e parlava pacificamente, ma davanti alla persona che suscitava in lei quel miscuglio ingarbugliato di pensieri ed emozioni ingestibili, finiva per perdersi in un bicchiere d’acqua.

Con Portuguese D. Ace, non c’erano mai state chance di vittoria per lei.

Non ricordava il momento preciso in cui aveva realizzato di esserne innamorata: per tanto tempo lo aveva osservato, ci aveva parlato, senza capire bene perché stare con lui fosse diverso che stare con gli altri suoi amici. Aveva pensato a un’amicizia speciale, di quelle che ti aiutano ad affrontare i problemi quotidiani, ma non era stato così. All’ultimo anno di liceo, qualcosa era cambiato nella castana, tanto da confonderla con più incisività. Ace era una persona vivace e scherzosa, e quando le si avvicinava troppo, con quel suo sorrisetto furbesco, le guance di lei si congestionavano senza che ne prendesse subito atto. Si bloccava, spalancando i suoi occhi e percependo i battiti del proprio cuore aumentare spasmodicamente.

Si era domandata tante volte se quello che provava fosse effettivamente amore e seppur si fosse resa conto di non provare più una semplice amicizia per il moro, non riusciva ancora a essere tranquilla e Jessica lo sapeva: vedeva l’amica completamente disorientata e nonostante il sostegno, questa finiva puntualmente per ritrovarsi con le spalle al muro. Lei era certa che i sentimenti di Sayuri fossero sinceri, così com'era certa che il ragazzo nutrisse lo stesso affetto per lei: solo un cieco non avrebbe visto quanto Ace fosse felice, quando le parlava o riusciva a imporporarle le guance. Perfino lei, a stento, si tratteneva dall’abbracciarla!

“Non so se è una buona idea, Jessica”, mormorò lei dubbiosa e con un vago rossore sul viso “Ace ha molto dare fare e poi, non vorrei essere di impiccio nel vostro appuntamento.”

“Ma non è proprio un appuntamento, se ha detto che posso portare qualcuno”, replicò lei, inclinando la testa con una certa vacillanza “E, comunque...mi aiuterebbe tanto se tu venissi.”

Chiedere aiuto non era qualcosa che Jessica faceva spesso, anzi, si poteva dire che era brava a cavarsela con le sue sole forze, ma quando Sanji le aveva porto quei biglietti, tutto raggiante, lei si era ritrovata colta alla sprovvista. Una domenica col suo bel principe era un sogno che si realizzava, ma si chiedeva se da sola sarebbe riuscita a non crollare. Una parte di lei voleva gioire e abbracciare il ragazzo con tutto il suo cuore, ma l’altra, governata dalla razionalità, le imponeva di rallentare e comportarsi come sempre. Quando Sanji le era vicino, la rossa aveva la sensazione di volare via e se succedeva, non era più in grado di tornare con i piedi per terra. Un’uscita con il biondo…sì, voleva assolutamente andarci, ma non da sola, non con qualcuno che fosse già impegnato o che la spingesse a situazioni impensabili. Di quelle, ne aveva i cassetti pieni.

Fra tutti, Sayuri era la sola che stava nella sua stessa situazione, se non peggio, per questo la stava guardando con occhi da tenero cerbiatto. Era certa del suo appoggio emotivo, per questo, se avesse accettato di venire con lei, avrebbe fatto di tutto perché alla fine della giornata, Ace le tenesse la mano come fidanzato. Ci teneva tantissimo che quei due si mettessero insieme, e quella era l’occasione buona perché entrambe provassero a fare il passo decisivo.

Da parte sua, Sayuri, guardando Jessica, provò una gran tenerezza per lei: si vedeva perfettamente che la rossa era innamorata di Sanji, ma, come lei, non era in grado di esprimersi. Benché estremamente popolare, bellissima, e con una voce melodiosa, il cuore della rossa era rivolto unicamente al biondo, le cui sceneggiate amorose nei suoi confronti, erano più elaborate rispetto delle altre. Dal profondo di sé, non si sarebbe mai permessa di negarle il proprio aiuto, ma la prospettiva di stare con Ace, le toglieva il respiro, come se i polmoni le si fossero riempiti di buchi. Da tempo non vedeva il moro, salvo a qualche lezione unita, e le sarebbe piaciuto sapere come stava, se andava tutto bene…si, le solite cose. Lo avrebbe chiamato lei, ma tra l’università e il lavoro all’asilo, le era veramente difficile ritagliarsi dei minuti liberi e di questo se ne rammaricava, perché il ragazzo era veramente importante per lei.

Quei biglietti per il One Piece Paradise Park erano esattamente la boccata d’ossigeno che le occorreva, il perfetto giubbotto di salvataggio per il suo animo confuso, e il rigirarli fra le proprie mani, la indusse a pensare che, dopotutto, era giusto che si mettesse in gioco: non poteva negare il proprio aiuto a Jessica, lei l’aveva sempre sostenuta quando ne aveva bisogno.

“D’accordo, Jessica. Ti accompagno”, le disse.

“Davvero? Oh, Yu-chan, non sai quanto mi rendi felice!” esclamò lei, prendendole le mani “Vedrai che…”

SBADABAM!!

Mancò poco che il gelato portato alle ragazze cadesse giù dal tavolo. Entrambe non si presero la briga di sporgere le loro teste e guardare che cosa fosse successo, perché come udirono delle voci esasperate dal piano terra, i loro presentimenti trovarono il giusto fondamento.

“E con questa fanno quattro”, sospirò Jessica, portandosi una mano alla tempia e sentendosi un po’ in colpa per le cadute che il cameriere continuava a fare per colpa sua. Sarebbe rimasta alquanto sorpresa se quel poveretto non si fosse rotto qualcosa.
 
 
Domenica. Ore 8. 10 del mattino.

“JESSICA-CHWAN! IL TUO SANJI-KUN E’ QUI PER TE!!!”

Ululando la sua presenza a tutte le persone presenti nel raggio di cento chilometri, Sanji turbinò verso Jessica e Sayuri come un piccolo tornado dell’amore. L’entrata del parco dei divertimenti – una enorme piazza circolare – era gremita di gente, tutta presa a fare la fila per i biglietti. Le due ragazze, arrivate con qualche minuto di anticipo, erano rimaste sedute vicino alla fontana, aspettando l’arrivo del moro e del biondo con uno strano peso al cuore. Tensione? Poteva darsi, ma con una bella giornata come quella, con tanto di temperatura piacevole e sole caldo, crucciarsi per problemi scuri quanto la pece non era proprio il caso. In fondo, erano lì per divertirsi, per staccare la spina.

Come il ragazzo stoppò il proprio svolazzare, la rossa inghiottì un consistente groppo di saliva, astenendosi dal mordere le labbra truccate. Il suo bel principe indossava abiti pratici ma eleganti allo stesso tempo: pantaloni e scarpe nere, una camicia bianca sbottonata appena sul collo, una giacca rossa aperta…..non seppe neppure come accidenti fece a non imbambolarsi come al suo solito.

“Ben arrivato, Sanji-kun”, gli disse lei, riscossa da un flebile bisbiglio di Sayuri “Spero tu non abbia avuto problemi ad arrivare.”

“Oh, Jessica-chwan! Eri in ansia perché temevi che non arrivassi?!? Quanto sei cara!!”

Come al solito, aveva travisato le parole della rossa.

“Io non intendevo dire questo….”, cercò di spiegare lei, con le guance rosse. “Ma, comunque, sono felice di vederti.”

Il “Mellorine!” lanciato dalla bocca di Sanji, fu di una potenza tale che, se fosse stata appena più accentuata, avrebbe rotto la barriera del suono. Inevitabilmente, la gran parte delle gente presente, finì per guardarli come se fossero dei disturbatori della quiete pubblica di prima categoria, nonostante di baccano ce ne fosse già in abbondanza. Un imbarazzante momento che si sarebbe dissolto nel giro di pochi secondi, se solo alcune teste maschili non avessero allungato a dismisura i loro colli per scannerizzare Jessica in tutte le sue angolazioni. Non era una novità che il faccino inconsapevolmente appariscente della rossa riscuotesse non poco interesse in chi lo incrociava, per questo la ragazza era grata a Sayuri e alla sua compagnia: anche con indosso un sacco di patate, riusciva sempre a riunire una consistente folla di ammiratori. E dire che non vestiva mai come una passeggiatrice!

Visto il piacevole clima, quel giorno aveva optato per un paio di jeans chiari, una maglietta bianca con spalline sottili, avente delle scritte brillantinate, e ballerine rosse con un accenno di tacco. I lunghi capelli mossi le scendevano lungo la schiena, dando alla sua figura alta e slanciata quella sensualità composta che aveva ereditato da sua madre. Vista la sua mania dell’arricciare le dita in quelle lunghe ciocche scarlatte, non si era mai presa la briga di chiuderli in una coda. Se andava in panico con Sanji, la soluzione era strangolare una delle sue dita con i capelli.

E intanto, il suo bel principe stava ancora cercando di giustiziare a suon di calci i ragazzi che l’avevano guardata con espressioni allupate……

“Non so se fermarlo o lasciarlo fare…”, mormorò lei, conscia di quanto dolore avrebbero provato i malcapitati rimasti, ma anche colpita per come il ragazzo avesse tirato fuori una gelosia di primo ordine tutta per lei.

Sayuri non poté che guardarla con sguardo materno. Sapeva bene che Jessica detestava la violenza, ma lei non si era mai preoccupata del fatto che Sanji potesse dare vita a una carneficina: si era accorta fin da subito che i calci del biondo non stavano andando a segno, e questo non perché avesse una mira pressoché inesistente. Sanji era tanto bravo a cucinare quanto a calciare, ma si stava limitando a incutere terrore in quei ragazzi, proprio per non perdere punti con la sua amatissima rossa. E inoltre, prima di quell’attacco di gelosia, il biondo stava adulando soltanto lei e nessun’altra ragazza, una chiara prova di quanto Jessica avesse un posticino tutto suo nel cuore di lui.

“Non preoccuparti, vedrai che fra un po’ tornerà qui”, la rassicurò lei.

“Lo spero…oh, guarda, sta arrivando Ace!” esclamò l’amica, per poi sventolare il braccio “Ace! Siamo qui!”

L’arrivo del moro costò a Sayuri un bel respiro profondo. Non lo aveva ancora individuato in mezzo a quella folla, ma il comprendere che stava venendo nella loro direzione, le fece ricordare da quanto tempo non lo vedesse. Riusciva sempre a rimanere calma e tranquilla quando parlava con lui, ma iniziava a capitolare quando lui superava la soglia dei quarantadue centimetri, mettendola così con le spalle al muro: si avvicinava con quel suo ghigno sghembo, facendo emergere automaticamente quel rossore che lei non riusciva mai a controllare. La guardava e le parlava con voce scherzosa, facendo capitolare le sue emozioni e le reazioni che il suo corpo tentava disperatamente di sottomettere. Non balbettava, ne cadeva a terra come un sasso: arrossiva col battito cardiaco un po’ più veloce, cercando di calibrare i propri respiri cosicché le parole non rimanessero sospese davanti a quel sorriso tempestato di lentiggini. Per quanto quell’esperienza non le fosse nuova, ogni volta che ci aveva a che fare, le sembrava sempre diversa: non sapeva spiegarlo bene, ma come la bocca di Ace si schiudeva in uno dei suoi sorrisi, ogni residuo di ombra emerso…scompariva nel nulla.

A Sayuri era sempre piaciuto il sorriso di Ace. Non c’era un motivo particolare, ma anche se fosse esistito, non avrebbe mai cercato di comprenderne la natura. Le bastava vedere il ragazzo sereno, tutto qui. Non c’era nulla che potesse alleggerirle il cuore, più del viso solare del moro.

“Ben arrivato, Ace!” lo salutò calorosamente Jessica “Stavamo asp…ma che ti è successo alla guancia?”

Senza neppure avere il tempo di salutarsi come si deve, l’attenzione delle due ragazze si era subito focalizzata sulla guancia destra dell’amico, dove spiccava un rossore piuttosto evidente.

“Niente, solo un piccolo incidente”, rispose lui sorridente, nel mentre si portava una mano dietro la nuca “Mi sarei stupito se non me ne fosse successo almeno uno!”

Uno che non conosceva Ace, avrebbe pensato che quel rossore fosse frutto di uno schiaffo datogli dalla fidanzata, ma la forma circolare della botta non corrispondeva a quella di una mano umana, senza contare che il moro, per quanto grande fosse il fan club che le liceali e le sue compagne universitarie avevano eretto in suo onore, non era occupato sentimentalmente. No, il suo problema non era legato a un’altra persona, ma a quella strana malattia neurologica chiamata Narcolessia: Ace ce l’aveva fin da bambino, era la maledizione che lo vedeva crollare inaspettatamente a terra come un peso morto.
Aveva perso il conto di quante volte la sua faccia fosse finita nel piatto o nella scodella del latte, ma quella mattina, anziché sbattere la fronte sul tavolo, si era addormentato in piedi sull’autobus e come quello aveva frenato, lui si ritrovato spiaccicato contro il vetro del mezzo, esattamente come una mosca.

La cosa suonava un po’ assurda, ma Sayuri poteva confermare pienamente quella spiegazione senza l’ausilio di prove. Ricordava ancora quando le era crollato davanti per la prima volta, non era riuscita a svegliarlo in alcun modo: il fallimento l’aveva vista costretta a portarlo in infermeria e a vedere la sua preoccupazione venir ridotta a un’inutile premura, nell’istante in cui l’infermiera le aveva illustrato il perché il ragazzo si fosse addormentato di punto in bianco. Ne era rimasta colpita, ma nonostante la spiegazione, lei non poteva fare a meno di preoccuparsi per Ace: non aveva controllo su quella sua particolarità e quell’appariscente rossore sul viso, era la prova più evidente.

“Ti fa male? Vuoi del ghiaccio?” gli domandò lei, senza riuscire a trattenere una nota di apprensione.

“No, tranquilla. In confronto ai pugni del nonno, queste sono carezze”, le disse lui tranquillamente.

Poi, stranamente, nel guardarla, inclinò la testa, lasciando che un punto interrogativo comparisse sulla sua testa. Vedendo come gli occhi neri del ragazzo la stessero sondando, la castana emise un flebilissimo sospiro smorzato, confuso per come lui la stesse osservando. Irrimediabilmente, si ritrovò confusa, ma ancor prima di capirne il perché, Ace tornò a sfoggiare il suo solito sorriso storto.

“Che cosa c’è, Ace? Qualcosa non va?” domandò infine lei.

La stava ancora guardando, e lei non capì che cosa avesse notato di tanto interessante, finché lui non alzò l’indice e lo puntò verso i suoi capelli.

“È opera tua, vero, Jessica?”, domandò il ragazzo, rivolgendosi alla rossa.

“Si”, confermò lei, raggiante “Non è un amore?”

Cogliendo il pizzico di orgoglio che l’amica aveva appena mostrato, Sayuri arrivò a comprendere la ragione dello sguardo incuriosito del moro: avendo ospitato Jessica a casa sua – per uno dei loro mini pigiama party notturni -, quest’ultima, per ricambiare la generosità, le aveva acconciato i capelli in due alti e ampi codini, abbelliti con un grazioso fiocchetto bianco e verde acqua chiarissimo, giusto per non stonare con gli abiti indossati: un vestito dello stesso verde del fiocco, superante di poco il ginocchio, munito di un leggero golfino bianco che lasciava un po’ scoperte le spalle e abbinato ai sandali bassi, aperti sulla punta. Un look sobrio, da “Santarellina”, così soleva definirla Donnie, ma perfetto per lei, che preferiva le semplici comodità ai capi stretti e piccoli. La rossa era sempre stata al corrente di questa sua preferenza, per questo aveva deciso di farle quei codini da “Bambina pucciosa”: come la castana le aveva promesso di sostenerla con Sanji, lei avrebbe fatto il possibile perché Ace la vedesse per quello che era realmente. L’importante era rimanere unite, scambiarsi occhiate sostenitrici e cercare di godersi la giornata al meglio. Certo, se solo avessero saputo cosa questa riservava per loro, si sarebbero preparate con doppia attenzione…….
 
 

“Buongiovno, cavissimi spettatovi!!! Avvicinatevi, avvicinatevi!”

La voce di Emporio Ivankov, proprietario dell’One Piece Paradise Park, rimbombò con forza nella piazza principale del parco, senza aver bisogno di amplificatori. Festoni e palloncini riempivano l’ampio spazio già ben decorato dai giardinetti, donando un aspetto ancor più festoso a quel luogo. Doveva star bollendo qualcosa di veramente importante, se erano stati aggiunti così tanti addobbi e per i quattro ragazzi non fu difficile immaginare il perché, visto che la spiegazione stava nelle loro mani. I biglietti di Sanji li avevano fatti entrare da una corsia speciale, senza code o noiose attese, ma con il gradito suggerimento di dirigersi verso il palcoscenico dove il signor Ivankov stava sculettando in maniera alquanto appariscente. Una visione che fece sbiancare il biondo, poiché i gusti di quel tipo, implicavano ciglia lunghissime, labbra colme di trucco e vestiti femminili svolazzanti. Vederlo camminare avanti e indietro sulla piccola costruzione luminescente, con un completo rosa shocking adornato di lustrini sfavillanti, fu una vera e propria sorpresa, che lasciò i presenti alquanto colpiti.

“Benvenuti a tutti quanti!” esclamò una volta che la folla si raggruppò “Mi fa piaceve vedeve tanti bei cavamellini nel mio pavco!”
 
Il perché mettesse la “V” al posto della “R”, era un vero mistero..

“Oggi è un giovno molto pavticolave!” continuò lui “Pevchè chi ha questo biglietto..”, e mostrò il pezzo di carta che solo una ristretta cerchia possedeva “Ha la possibilità di vinceve un pvemio assolutamente unico.”

Mormorii eccitati si fecero largo come un silenzioso brusio d’api.

“Quello che ho ideato, è gioco di coppie molto pavticolave” rivelò poi, battendo la mano su di una grossa palla di plastica trasparente, contenente a sua volta palline di diversi colori “Ciascuna di queste palline contiene un numevo e il nome di una delle mie attvazioni, dove ho nascosto un biglietto d’ovo molto speciale. Il compito delle coppie savà quello di tvovave il lovo biglietto nella giostva assegnata e chi viuscivà a povtavmelo questa seva, vicevevà un pass pevsonale che pevmettevà alla coppia di entvave gvatis nel pavco pev tutto l’anno!”

Una serie di urla eccitate si levò immediatamente in cielo: entrare gratuitamente nel parco più fantastico che fosse mai esistito, era un’occasione più unica e irripetibile, decisamente troppo emozionante per essere trascurata, considerando il fatto che non era mai capitata un’occasione del genere.

“Heehaw! Vedo che siete emozionati, ma non ho ancova finito!” esclamò Ivankov, facendo calare il silenzio “Oltve all’entvata gvatuita, alla coppia vevvà vegalato un buono shopping dei nostvi negozi e, pev solo questa seva, una cena a lume di candela sulla vuota panovamica!”

Questa volta fu impossibile per il proprietario del parco zittire la folla, perché quelle sue aggiunte si erano rivelate un ulteriore incentivo per rendere quel concorso, ancora più eccitante. Mettendo da parte quelle fantastiche giostre colorate per cui la gente era anche disposta ad avere un collasso, i negozi dell’One Piece Paradise Park non si avvicinavano minimamente a quegli stand dove si vendevano peluche, magliette con sopra il logo del parco o giochini di plastica che si rompevano alla prima occasione: lì si parlava di negozi veri, negozi pieni di abiti e accessori per cui ogni ragazza non si sarebbe fatta troppi problemi a spendere la propria paghetta. La cittadella dell’One Piece Paradise Park, sia per la comodità, che per il gusto estetico con cui era stata edificata, era il paradiso per eccellenza per ogni material girl esistente sulla faccia della terra, ma era fin troppo lampante che una montagna di vestiti firmati non potesse battere il terzo premio detto dal signor Ivankov: la ruota panoramica era l’unica delle attrazioni che non fosse stata costruita nell’area giochi, e tutto perché essa veniva utilizzata anche come ristorante. Pranzarci o anche solo salirci nel pomeriggio, era un’impresa impossibile, perché la fila per essa, era la più lunga di tutte quante.

Come premio, era indiscutibilmente il più bello che il signor Ivankov potesse scegliere, ma per chi conosceva quell’uomo eccentrico, sapeva bene che niente di quanto prometteva, poteva essere ottenuto tanto facilmente. Le prove erano nate per essere colme di colpi di scena e attimi pieni di suspence, una caratteristica che aveva sempre trovato un forte consenso nel carattere pazzoide del proprietario del parco, la cui sola capigliatura era assai discutibile.

“Vedo che siete entusiasti e mi fa piaceve, ma badate bene…”, e lì puntò il dito contro la folla “Che le pvove non savanno una passeggiata!”

Come ebbe cambiato tono di voce, la gente stoppò la propria eccitazione, venendo così scandagliata dagli occhi pesantemente truccati del signor Ivankov, che abbozzò un sorrisetto maligno. Se c’era una cosa in cui era maledettamente bravo, era far venire i brividi a chi lo ascoltava, specie a chi aveva già avuto a che fare con le sue prove.

“Vi aspettano pevcovsi molto difficili da supevave, quindi, siate molto attenti, pevchè una volta entvati nel gioco, non potvete più uscivne fino alla fine, Heewhaw!”

E con quell’ultimo avviso – che vide non pochi spettatori deglutire pesantemente - , cominciò a chiamare i fortunati possessori dei biglietti speciali.
 

 
“Sembra che questa volta, il signor Ivankov abbia fatto le cose in grande”, disse Sayuri.

“A me ha fatto un po’ paura”, ammise Jessica “Da quanto mi hanno detto le mie compagne, pochi riescono a vincere i premi che offre.”

Com’erano scesi dal palco, Ace, Sayuri, Sanji e Jessica, si erano messi in un angolo per vedere che numeri avessero pescato. Nel reggere le due palline da loro scelte, entrambe le ragazze non avevano potuto fare a meno di domandarsi che cosa avesse escogitato il proprietario del parco, per rendere quella giornata assolutamente indimenticabile. C’era chi si era ritirato dalla competizione, per paura di finire chissà dove, ma per quanto oscura fosse la natura dei giochi ordita da Emporio Ivankov, nessuna di loro, come i ragazzi, pareva abbastanza intimorita dal gettare la spugna con facilità.

“Non lasciamoci condizionare dalle parole di quel tipo”, si fece avanti il moro “È vero che è un po’ strano, ma questo rimane comunque un gioco e vista l’occasione, non vedo perché dovremmo sprecarla.”

“Ace ha ragione. Che io sappia, nessuno è mai finito all’ospedale”, arrivò Sanji “E POI IO VOGLIO ASSOLUTAMENTE FARE COPPIA CON TE, JESSICA-CHWAN!! VERO CHE AFFRONTERAI QUESTA SFIDA INSIEME A ME?!” aggiunse, nel prendere le mani della ragazza fra le sue, con gli occhi a forma di cuore.

“M-Ma sì….certo”, balbettò lei “Ora…apro la pallina”,  disse poi, liberando le mani dalla presa del biondo.

La ragazza non poté fare a meno di sentirsi tesa, nel mentre cominciava a svitare la parte superiore della piccola sfera colorata: in palio c’era un premio favoloso che , poco ma sicuro, non si sarebbe mai ripresentato una seconda volta e sebbene non fosse una persona competitiva, le sarebbe piaciuto poterlo vincere. Eppure, benché questo fosse meraviglioso, unico e irripetibile, la sua mente era ferma sul fatto che avrebbe passato la giornata con Sanji e che avrebbero affrontato la prova insieme. Le era tremata la mano quando aveva preso dal contenitore la pallina che ora stava aprendo con molta cautela, ma era riuscita a imporsi di stare calma, di non agitarsi: era in gioco e avrebbe fatto del suo meglio per vincere la sfida che la stava aspettando.

Come aprì il piccolo coperchio plastificato, estrasse un foglio ripiegato più volte, per poi aprirlo e leggerci:

“Numero sedici. Il castello delle favole.”

“È una bella attrazione”, disse Sayuri, contenta per l’amica “Spero che la vostra prova non sia troppo dura.”

“Me lo auguro. E voi due dove andrete?” domandò lei.

Compiendo gli stessi movimenti dell’amica, la castana dispiegò il foglio contenuto nella pallina azzurra.

“Dunque, noi abbiamo il numero cinquantasette. La casa degli orrori.”

“La casa degli orrori?” Jessica rabbrividì a quel nome.

Il ricordo itinere alla prima volta che ci era entrata, le balenò immediatamente in testa: quel luogo buio e pieno di vocine sottili e figure mascherate, le aveva fatto così tanta paura da vederla uscire di corsa dalla prima porta di sicurezza capitatale fra le mani. Si ritenne molto fortunata a non doverci andare, ma non poté non provare dispiacere per Sayuri, che avrebbe dovuto affrontarne la versione speciale. Sicuramente, Emporio Ivankov la doveva aver riempita di altri attori, di trappole o sotterfugi vari per renderla ancor più spaventosa di quanto già non fosse esternamente, ma la castana non pareva essere spaventata come lei, al contrario: era serena e composta come sempre.

“Temo che la vostra prova sarà più dura della nostra”, affermò la rossa “Quel posto non mi è mai piaciuto. Chissà cosa ci avrà messo il signor Ivankov…”

“Lo scopriremo soltanto andandoci. Sta tranquilla, Jessica, andrà tutto bene”, la rassicurò la castana.

“Uhm….”

 In realtà, la rossa non era molto convinta.

L’idea di separarsi dalla sua amica non le aggradava, seppur la prospettiva di rimanere con il suo Sanji fosse molto allettante. Se era riuscita a resistere fino a quel momento, lo doveva unicamente a lei, che le aveva tenuto la mano quando serviva, rincuorandola con parole semplici e dolci sorrisi. Anche lei non aveva mancato di darle il giusto appoggio, ma si sarebbe sentita molto più sollevata, se la giostra capitata a Sayuri fosse stata meno paurosa di quella casa: non sapeva bene il perché, ma aveva un brutto presentimento al riguardo…

“Non devi preoccuparti per lei, Jessica”, le disse Ace “Ci penso io a proteggerla. Tu vai pure con Sanji al castello delle favole.”

La fortuna volle che il moro stesse dando le spalle alla castana, perché se l’avesse vista in quel momento, ne avrebbe peggiorato le condizioni emotive: aveva dovuto abbassare la testa, tanto non voleva far vedere il proprio viso, stringendo la pallina svitata in petto con tutte le sue forze. Avvertì le proprie guance surriscaldarsi nel mentre le ultime parole del ragazzo aleggiavano nella sua mente come tanti echi imprendibili. Non le aveva dette ridendo o scherzando: poteva dire, che era stato serio, rassicurante in una maniera tale da cancellare ogni dubbio in Jessica e da lei, ed era stato proprio quel tono a rendere più calcati i battiti del suo cuore. Quello in cui stavano per cimentarsi era un gioco, una semplice attrazione, lui stesso lo aveva detto. E allora perché…perché non riusciva a riprendere il controllo di sé stessa?

Calma, riprendi fiato, si disse mentalmente, inspirando profonde boccate d’ossigeno.

Bastò ripetersi quella frase un paio di volte, perché riuscisse a tornare come prima. Era da tanto che non provava quella sensazione sulla sua pelle, forse da troppo, ma l’effetto era rimasto lo stesso, se non più forte di quanto pensasse: che le parlasse in faccia o meno, Ace riusciva sempre a scombussolarla.
Dalla sua posizione, Jessica tirò un grosso sospiro di sollievo, nel vedere l’amica riprendersi velocemente: ancora un po’ e avrebbe ceduto alla tentazione di andare lì e abbracciarla fino allo sfinimento. Era troppo tenera con le guance rosse, gli occhi lucidi e i lineamenti ammorbiditi! Avrebbe sorriso per quella visione, ma l’avere Ace davanti la fermò prima che la sua bocca si muovesse. Forse si era sbagliata, ma per qualche secondo, i suoi occhi si erano fatti incredibilmente seri….

Vuoi vedere che…?

“Jessica-chwan! Andiamo, mia adorata?”

Prendendo il posto di Ace, Sanji ruppe il pensiero formulato dalla rossa, lasciandolo interrotto a metà e senza conclusione.

“Si, Sanji-kun, arrivo”, gli disse, per poi rivolgersi nuovamente all’altro ragazzo “Mi raccomando, Ace. Ti affido Sayuri”, e fece l’occhiolino a quest’ultima, per augurarle un “Buona fortuna”, che venne ricambiato silenziosamente.

“È in buone mani”, le assicurò lui, sventolando la mano, nel mentre i due si incamminavano per il castello delle favole.

“Buona fortuna, Jessica”, le augurò la castana.

“Anche a voi”, rimandò lei.

Una volta che la rossa e il biondo furono spariti dalla loro visuale, Ace e Sayuri si scambiarono una veloce occhiata complice.

“Che dici, ci avviamo anche noi?” le propose il moro.

“Certo.” 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Le difficoltà sul cammino ***


“Che meraviglia!”

Jessica non aveva potuto fare a meno che portarsi le mani alla bocca, tanto l’incanto le stava facendo brillare gli occhi smeraldini. Davanti a lei, il castello delle favole dell’One Piece Paradise Park si ergeva in tutto il suo splendore, superando ogni immaginazione a suo carico. Ampio, sfarzoso, curato in ogni dettaglio, era più bello di qualsiasi altro maniero raffigurato nei libri che da bambina leggeva. Non era un agglomerato di carta pesta bucherellato o dai colori sbiaditi, una semplice facciata con una scritta in grande e brillantata, ma un castello vero e proprio, con mattoni reali, torri, stendardi, e un ponte levatoio con tanto di fossato. Uno splendore dentro cui perdersi.

Immersa in quello stato di pura contemplazione, la rossa sperò tanto che quel bel posto possedesse un giardino colmo di fiori e stanze degne di una principessa. Non si negò che aveva sempre covato il desiderio di poter vivere in un edificio del genere, sebbene fosse una fantasia un po’ impossibile da realizzare: ricordava perfettamente quando, da piccina, giocava con suo cugino, e lei, con la sua vaporosa camicia da notte rosa, faceva la parte della bella principessina da salvare dalle fauci dello spaventoso drago verde. Era stato il suo sogno fin da bambina, secondo solo al canto, ma il contemplare la grandezza del castello delle favole, lo rievocò in un batter d’occhio, rendendola più felice che mai. Stringendo le mani accaldate per via dell’adrenalina, desiderò vedere l’interno di quel posto meraviglioso, constatarne l’esistenza, giacché riteneva impossibile che il signor Ivankov, spasmodicamente attaccato alla bellezza estetica del suo parco, avesse trascurato l’interno delle sue attrazioni: si chiese poi, che tipo di prova avrebbero dovuto affrontare lei e Sanji per conquistare il biglietto d’oro e che genere di espedienti avrebbero tentato di ostacolarli. Considerata l’attrazione, le venne in mente un percorso a ostacoli con tanto di trabocchetti, ma nulla di più.

In tutta franchezza, non sapeva che cosa aspettarsi.

“Questo cartello dice che i partecipanti al concorso devono attendere l’inizio della gara nella piazzetta davanti al castello”, affermò la ragazza, leggendo quello che doveva essere il regolamento “Ma non riesco a capire se dobbiamo aspettare un determinato segnale e il perché qui ci siamo soltanto noi. Secondo te, Sanji-kun, le altre coppie sono già entrate?......Sanji-kun?”

Il non ricevere una risposta, la fece voltare: il biondo era sparito, volatilizzato dalla sua visuale, senza emettere fiato. Sbattendo le lunghe ciglia nere, Jessica si guardò attorno nella speranza di scorgerne la figura, ma ancor prima di scandagliare quella piccola area con tutta la sua concentrazione, qualcuno le si avvicinò cautamente, tanto che quando si accorse della sua presenza, sobbalzò con le mani sul cuore.

“S-Si calmi, signorina, non le voglio fare del male!” esclamò quello, cercando di tranquillizzarla.

Era un omino basso e magro, con gli occhi neri a palla, la faccia tonda, e una bocca larghissima. Ricordava tantissimo un pupazzo ed era vestito con pantaloni neri, giacca fucsia e una tuba dello stesso colore, ma così grande che quasi rischiava di cadergli sugli occhi. Nonostante lo spavento che le aveva fatto prendere, a Jessica non sembrò cattivo, ma nemmeno agile: seppur fermo, i suoi movimenti erano leggermente goffi e impacciati, presi a sistemarsi quella camicia bianca troppo larga per il suo esile corpicino.

“E lei chi sarebbe?” domandò poi, inclinandosi in avanti.

“Oh, io…ah…il mio nome non ha importanza…”, balbettò lui, con la faccia rossissima e gli occhi a forma di cuore.

Oh, no! Anche lui! Pensò la ragazza, sospirando sconsolatamente.

Ecco l’ennesima vittima di quel suo fascino che lei manco utilizzava per scopri lucrosi.

“C-Comunque!” riprese quello, rinsavendo quasi subito “Lei è la signorina Jessica Di Belleville, giusto?” le domandò con una sicurezza tale, da lasciarla  sorpresa.

“Certo, sono io”, rispose lei, senza capire il perché glielo avesse domandato “Ma…è forse successo qualcosa? Oh, mio dio, non riguarderà Sanji-kun?!” domandò allarmata e timorosa che potesse essere successo qualcosa al suo bel principe.

“Oh, no, non si preoccupi! E’ solo che dovevamo assicurarci di prelevare la ragazza giusta, tutto qui!” squittì lui.

“…..Come, scusi?”

Calò il silenzio. Uno di quelli strani, di tomba, perfettamente idonei a una situazione non chiara come quella. Jessica batté le palpebre più volte, guardando quell’omino sorridente senza spiccicare parola. Aveva proprio detto…prelevare?

“Prelevare”, ripeté lui, alzando l’indice “E’ la prima parte della prova, indispensabile per il susseguirsi delle altre, quindi le chiedo subito scusa per questo.”

“Q...Questo?”

E ancora prima di capire che cosa fosse nello specifico il “Questo” da lei pronunciato con una nota di timore, qualcosa le calò velocemente sulla testa, per poi sollevarla senza troppi preamboli.
 
“Jessica-chwan?! Dove sei, mia adorata?!?”

Ogni persona nasceva con una mania personale: chi per i robot, chi per i manga, chi per la cosmetica…..

Sanji aveva quella per le donne, il che lo avvicinava a essere considerato e visto come un pervertito senza ritegno. La sua passione non conosceva limiti, aveva fatto del suo stesso cervello un finissimo radar capace di captare la presenza femminile nel raggio di cento metri. Una cosa un tantino spaventosa e da depravati, ma piuttosto che negare l’evidenza, il biondo non avrebbe esitato a morire, purché la sua fine consistesse in una visione paradisiaca di sirene pronte a coccolarlo. Un triplo infarto garantito, ma il più benaccetto di tutti.

Sebbene il solo pensiero lo avrebbe fatto sghignazzare indecorosamente, il biondo era troppo preso a cercare la rossa per lasciarsi distrarre ulteriormente. La vista di una gonna svolazzante, piena di pizzi, unita al viso grazioso di quella che doveva essere una cameriera, lo aveva indotto ad avvicinarsi e a provarci spudoratamente, tirando fuori quel gentleman dalla voce seducente che utilizzava esclusivamente col gentil sesso. Era andato tutto bene, fin quando questa, con un sorriso, gli aveva detto:

“Bene, la mia parte l’ho fatta: buona fortuna!” e lo aveva lasciato lì, senza altre spiegazioni.

Nessun bacino o un numero telefonico. Zero, tabula rasa. Solo quella frase senza senso, che lo aveva visto guardare il vuoto per due buoni minuti. Il comprendere di aver momentaneamente abbandonato la sua bellissima Jessica, lo vide stramazzare a terra come se avesse ricevuto un colpo dietro la nuca, seguito da un’auto flagellazione verbale a cui diversi visitatori avevano assistito allibiti. Aveva commesso un atto imperdonabile, ma soltanto tornando davanti al castello delle favole, correndo come un pazzo, realizzò quanto avesse fatto male a cedere alla sua perversa mania.

“Jessica-chwan!!” la chiamò ancora.

Niente. Nessuna risposta. Un vuoto totale che gli fece abbassare la testa quanto un cane bastonato. La gente andava nei parchi e si lasciava distrarre dalle giostre, dal profumo dei dolciumi e da quello dei popcorn caldi, lui no: lui si lasciava distrarre dalle gambe delle ragazze e dai loro balconi. Una distrazione che gli era costata la compagnia della più bella di tutte e che lo avrebbe visto sbattere la fronte per terra, se non fosse stato per…….

“Lasciatemi andare! Mettetemi giù! Qualcuno mi aiuti!!”

Come il suo radar udì quella voce femminile, Sanji scattò in piedi come se fosse appena punto da un intero sciame di api. Non stette a guardare a destra o a sinistra per capire da quale direzione fosse provenuto quell’urlo: una vocina proveniente dal suo subconscio, indirizzò i suoi occhi laddove dovevano essere puntati.

Due tizi stavano tranquillamente camminando lungo il ponte levatoio del castello delle favole: uno era piccolo, tanto minuscolo da arrivare alle ginocchia dell’altro, un bestione avente la testa completamente pelata. Quest’ultimo reggeva sulla spalla un grosso sacco che non faceva altro che dimenarsi, ma senza sfuggire alla solida presa che la mano dell’energumeno esercitava su di lui.  Si agitava ripetutamente, scalciando e gridando con una voce che fece vibrare la colonna vertebrale del biondo, incamminatosi lentamente verso l’entrata dell’attrazione.

“Jessica-chwan?”

Fu nel mormorare il nome della ragazza, che la testa della suddetta sbucò fuori dallo spesso telo dentro cui era stata messa dentro.

“SANJI-KUN!!”

“JESSICA-CHWAN!!”
 
 

La collocazione della casa degli orrori era stata studiata appositamente perché risultasse un po’ più isolata rispetto alle altre attrazioni. Non c’erano vasi colmi di fiori, fontane o cartelli colorati nei dintorni, solo un asfalto sassoso e un'enorme villa aventi grossi cancelli ferrosi e lumini alquanto spettrali. Con alberi neri, avvizziti, le mura logore, e il tetto che sembrava sul punto di crollare, la casa degli orrori aveva già visto entrare diverse coppie iscritte al concorso, tutte smaniose di mettere le mani sul biglietto d’oro, ma incapaci di affrontare le trappole che il signor Ivankov aveva riservato per tutti quanti loro.

“Whaaaa!!! Basta, ci rinuncio! Andiamo via!”

La porta d’uscita fu spalancata con violenza da una ragazza, seguita a ruota dal fidanzato, bianco come un lenzuolo e poco disposto a tornare dentro. Quella era almeno la quarta coppia che Ace e Sayuri vedevano passare. Non erano nemmeno arrivati da dieci minuti, che avevano già udito mille e più grida farsi largo nelle loro orecchie. C’era da dire, che il proprietario dell’One Piece Paradise Park non aveva badato a spese nella realizzazione di quella minuscola ala del parco: il finto cimitero che si doveva attraversare per raggiungere la casa era alquanto realistico, tanto da dare l’impressione che anche il cielo fosse grigio e scuro. Camminando su delle foglie secche e nere, la castana osservò con accurata attenzione la casa, cercando di immaginare che cosa potesse esserci all’interno.

Mummie? Zombie? Assassini nascosti dietro l’angolo? Sinceramente, non sapeva che pensare, poiché era sicura che, essendo quella una giornata speciale, lo spettacolo sarebbe stato diverso dal solito. L’ultima volta, Usopp, Chopper e Brook le erano rimasti letteralmente incollati per la fifa, tanto i divoratori di cervella li avevano spaventati.

Poverini, erano veramente terrorizzati,pensò lei, sorridendo dolcemente per come i tre l’avevano supplicata di non lasciarli.

Chopper le era rimasto in braccio per l’intera giornata e si era rifiutato categoricamente di entrare una seconda volta, nonostante l’insistenza di Rufy.

“A che pensi, Sayuri?” le domandò Ace, vedendo sorridere.

“Come?” non si era accorta di essersi assentata con la testa.

“Ti ho chiesto a cosa pensi. Stai sorridendo”, disse il ragazzo, esibendo un bel sorrisetto.

“Oh…nulla di particolare. Mi sono solo ricordata la prima volta che sono venuta qui con gli altri”, spiegò lei “E’ stata una giornata bellissima.”

“Immagino. E’ un peccato che non ci siamo tutti, ma dubito che Sanji potesse procurarsi altri biglietti. Ancora mi chiedo come abbia fatto a ottenere quelli per …. Sayuri?”

Interrompendo il suo parlare, Ace si accorse che la ragazza aveva smesso di camminare e di ascoltarlo. Un evento strano, giacché Sayuri non era una persona capace di ignorare i racconti altrui.  Pensandoci attentamente, quella non era la prima volta che la castana si mostrava assente: durante il tragitto, i suoi occhi si erano fatti vacui, posti sempre nella medesima direzione e senza che lui potesse capirci qualcosa. Che fosse preoccupata per Jessica? No, lo escludeva. Con la rossa c’era Sanji, quindi non c’era da preoccuparsi. E poi, a loro era toccato il castello delle favole, cosa poteva esserci di tanto spaventoso?

Per quanto Ace conoscesse bene la buon’anima di Sayuri, era sicuro che, al momento, la ragazza non stesse pensando alla sua amica: osservandola attentamente, riuscì a percepire un flebile suono proveniente da lontano, una di quelle canzoncine che accompagnavano le giostre al momento dell’accensione. Sayuri sembrava esserne ipnotizzata, perché i suoi occhi color cioccolato si erano fatti grandi e splendenti. Ma non era propriamente la musica ad averla spinta a smettere di ascoltare Ace, ma l’attrazione da cui proveniva. Voltando parzialmente la testa, il moro guardò nella  stessa direzione della ragazza, scoprendo che la ruota panoramica era in movimento. Seppur fossero piuttosto distanti, la sua sagoma circolare, con le luci e i colori, era sufficientemente visibile.

Fu allora che Ace capì.

“Ti piace la ruota panoramica?” le domandò poi.

“Come, scusa?”

“La ruota panoramica”, ripeté il moro, indicando l’attrazione “Ho notato che la guardi molto spesso.”

“Ah…io…si”, rispose lei, dopo aver sussultato. Non si era resa conto di essersi incantata.

“Ma come? Non ci sei andata la volta scorsa?”

La ragazza scosse debolmente la testa “No. Purtroppo non ho mai avuto l’occasione.”

Nonostante pensasse di aver capito, Ace fu costretto a correggersi. Le sue intuizioni non erano sbagliate, ma incomplete, quindi inadatte per comprendere perfettamente lo stato emotivo della castana. Si stupì non poco per quella rivelazione, perché …. si, insomma … tutti, almeno una volta, erano riusciti a salire sulla ruota panoramica dell’One Piece Paradise Park. Lui e Rufy ce l’avevano fatta da piccoli ed era stato emozionante: vedere la gente farsi piccola come tanti puntini colorati e mobili, stare tanto in alto da toccare le nuvole ……

L’estrapolare quel nostalgico ricordo fu piacevole, ma anche inadatto, poiché Sayuri non poteva condividere le sue stesse emozioni. Parlargliene con enfasi, poi, l’avrebbe fatta stare ancora più male: lei non lo avrebbe mai dato a vedere, pur di non far preoccupare chi le stava attorno. Non era il genere di persona che si lamentava o che pretendeva qualcosa con gli altri, ma il cogliere quel suo piccolo desiderio, fece si che Ace le sorridesse con quella sua aria da bambino birichino, pronto ad entrare in azione, nonostante le innumerevoli raccomandazioni dei genitori.

“Vorresti salirci, vero?”

“Si…..mi piacerebbe molto”, mormorò lei, continuando a guardare la giostra “Ma c’è sempre tanta coda….”

“Un buon motivo per vincere il concorso, non credi?” le fece lui, riuscendo finalmente a farsi guardare “Basterà prendere il biglietto d’oro della casa degli orrori e potrai salirci liberamente.”

Effettivamente, Ace aveva ragione. La semplicità del suo ragionamento non lasciava spazio a grinze o a critiche che lo considerassero facile e sfrontato. Nel perdersi in quella contemplazione rivolta alla ruota, Sayuri aveva scordato il perché si trovasse davanti alla casa degli orrori e quali privilegi avrebbe ottenuto, se fosse riuscita a vincere. La prospettiva di entrare gratuitamente per tutto l’anno e il buono shopping nei negozi del parco erano molto allettanti, ma era fin troppo chiaro che a lei sarebbe bastato un semplice giro sulla ruota panoramica per essere felice.

Solo una volta, giusto per vedere il mondo da una diversa angolazione e per colmare quella sua piccola ed innocente curiosità.

“D’accordo”, asserì lei “Vista la possibilità dataci, sarebbe stupido non fare un tentativo.”

“Così mi piaci. Andiamo all’entrata della casa e vediamo cosa dobbiamo fare di preciso.”

Percorsi i metri restanti, si ritrovarono davanti al portone principale dell’attrazione, spalancato su di un buio così nero, da sembrare infinito. Due torce illuminavano l’entrata e una parziale parte di quello che era un sontuoso tappeto rosso, la cui totale lunghezza era nascosta dal buio della casa.  Le colonne che sorreggevano parte dell’attrazione, avevano un aspetto malconcio e barcollante: tra l’essere seriamente scheggiate e rotte, entrambi i ragazzi si chiesero come fosse riuscito il signor Ivankov a realizzare qualcosa di tremendamente instabile, cancellando il rischio che questo crollasse.

“Strano, non c’è anima viva”, notò il moro, appoggiando le mani ai fianchi.

Non era possibile che tutte le coppie fossero già entrate o che non fosse stato assegnato nessun addetto per quell’attrazione.

“Ace, vieni a vedere. Ho trovato qualcosa”, lo chiamò la castana.

Alla destra dell’entrata, ben illuminato da una delle due torce, vi era un grosso cartellone ingiallito e dai bordi bruciacchiati. Spiccava per il titolo scarlatto e svolazzante, scritto in grassetto affinché la gente lo notasse subito.  Al suo seguito, vi erano scritte più piccole, della stessa calligrafia, ma di colore nero.

“Sono delle indicazioni inerenti alla prova di questa attrazione”, affermò Ace, dandoci una rapida occhiata “Vediamo che dicono…”

Facendo scorrere velocemente l’occhio sul punto di partenza, il ragazzo cominciò a leggere quanto riportato sul cartello.
                                                           Benvenuti, signori giocatori. La casa degli orrori vi dà ufficialmente il benvenuto.

In occasione del concorso indetto dal signor Emporio Ivankov, l’attrazione ha subito un radicale cambiamento, al fine di rendere la prova il più suggestibile possibile, ma senza modificarne lo svolgimento. Lo scopo del gioco è semplice: ogni coppia dovrà addentrarsi all’interno della casa, trovare uno dei biglietti d’oro che sono stati nascosti nelle varie aree e uscire entro lo scadere del concorso. A ostacolarvi ci saranno mostri, trabocchetti e la casa stessa, quindi, se siete intenzionati ad entrare, leggete il regolamento scritto qui sotto:
 

  1. E’ vietato toccare o colpire gli attori.
  2. E’ vietato danneggiare i set costruiti all’interno della casa.
  3. E’ vietato uscire dalla casa senza il proprio partner, nel caso si sia già in possesso del biglietto d’oro: la coppia deve entrare e uscire dall’attrazione insieme. Se si verificasse la possibilità che uno dei due esca senza l’altro, ma con il biglietto in mano, la coppia verrà squalificata dal concorso.
 

Detto ciò, buona fortuna a tutti quanti!

 
 
“Uhm….non mi sembra nulla di complicato”, affermò il moro, incrociando le braccia “Salvo la terza aggiunta, tutto quello che dobbiamo fare è uscire insieme dalla casa.”

“Forse, ma credo che faremmo meglio a stare attenti. Che io sappia, il signor Ivankov è una persona piuttosto eccentrica…”, mormorò la castana, nel mentre rileggeva le regole stila sopra il cartello.

“Dì pure che è un pazzo squinternato. Ce ne vuole di coraggio per andare in giro con dei vestiti di pelle rosa.”

Sarebbe stato da sciocchi sottovalutare un tipo come Emporio Ivankov, lo strambo proprietario dell’One Piece Paradise Park. Al di fuori di quel suo ambiguo aspetto, sotto la capigliatura lilla si nascondeva una mente diabolica e strategica, capace di ideare l’impensabile. Decidere di partecipare a una delle prove da lui indette, significava non uscirne più fino alla fine: una ragione più che valida per riflettere attentamente su da farsi, ma per quanto il buio della casa degli orrori - insieme a quei strani sospiri e rumori angoscianti - fosse terribilmente pauroso, non lo era abbastanza per spingere Ace e Sayuri a scappare a gambe levate come l’ultima coppia che avevano visto. Si, esternamente, quella casa era ben fatta, come quelle di alcuni film horror che la televisione trasmetteva sul tardi, ma era sufficiente pensare che dentro fosse tutta una finzione, per compiere senza indugi il primo passo.

Una casa degli orrori non era esattamente quel che più poteva terrorizzare uno come Ace, abituato ad avere a che fare con un nonno dall’indole pazzoide e imprevedibile. Correre insieme al fratellino in piena notte, in mezzo a una foresta colma di animali, inseguiti da quel pazzo smanioso di temprare il loro spirito, era un’esperienza che non avrebbe mai augurato a nessuno. Aveva perso il conto di quanti bernoccoli avesse incassato o di quante volte il vocione del parente gli avesse forato i timpani, ma gli bastò guardare di sfuggita Sayuri, per ricacciare in fondo alla memoria quella parte della sua infanzia ed evitare di muovere la testa a casaccio.

Non era il caso di perdersi in sproloqui mentali davanti a lei: ci avrebbe rimediato solo una brutta figura e una cattiva impressione, due cose che non voleva accreditarsi, non con Sayuri. In tutta onestà, non gli era mai importato delle opinioni altrui: conosceva Marco, Jozu e tutti gli altri suoi colleghi come le sue stesse tasche, quindi non aveva mai sentito l’impellente bisogno di chiedere che cosa pensassero di lui.

Però … se proprio doveva sapere che cosa la gente pensava di lui ……. voleva l’opinione di Sayuri, solo la sua.

“Se non te la senti, possiamo sempre rinunciare”, le disse lui, nel vederla così pensierosa.

Non seppe bene spiegarsi perché le avesse detto una cosa simile, ma era stato qualcosa d'istintivo, proveniente da una consapevolezza di cui non riusciva a identificare la natura. La cosa insolita …. era che non era la prima volta che si preoccupava per lei. Forse, si era lasciato influenzare da quella coppia che era scappata a gambe levate o magari da quella voglia di sorridere che saltava fuori quando vedeva Sayuri arrossire. Che dovesse ricordare qualcosa di particolarmente importante su di lei?

“No, non preoccuparti, posso farcela” lo rassicurò, sorridendogli “I fantasmi e i vampiri non mi fanno paura.”

“Sicura?” le chiese nuovamente il ragazzo, guardandola con fare incerto.

Un’altra domanda dovuta a quella strana sensazione che gli stava pizzicando la coscienza. C’era qualcosa di cui doveva assolutamente ricordarsi; Ace, ormai, ne era certissimo, ma più sforzava la sua mente, più faceva fatica a focalizzare il perché di quella sua apprensione.

Da parte sua, Sayuri dovette avvolgere i lembi della gonna bianca fra le pieghe della gonna per placare quell’ennesimo moto incontrollabile che si stava agitando dentro di lei.

Sebbene la prova che attendeva lei e Ace fosse più dura rispetto a quella destinata a Sanji e Jessica, la castana non se la sentiva di tirarsi indietro. Per quanto paurosa potesse essere una casa degli orrori, tutto quello che si celava al suo interno non era vero e lei non era mai stata il genere di ragazza che nascondeva la testa nel cuscino per non guardare la scena di un qualche film horror. A volte era sobbalzata per quelle entrate violente, ma non si era mai messa a gridare. Da ben altra parte stavano le sue paure, ma in quel frangente, era troppo occupata a pensare, per potersi concentrare su di esse: escludendo il giro panoramico sulla ruota del parco, sarebbe stato ingiusto tirarsi indietro, dopo che Jessica l’aveva cordialmente invitata a passare quella giornata insieme a lei. L’occasione offertele non si sarebbe ripetuta una seconda volta, una giornata all’One Piece Paradise Park non capitava tutti i giorni.

E poi ……. la compagnia di Ace le era sempre piaciuta, sebbene il suo cuore non facesse che battere intensamente, ogni volta che lui le si avvicinava troppo o le sorridesse furbescamente. Le altre volte, aveva potuto contare sul fatto che ci fossero i suoi amici, tutta la compagnia, ma ora era sola, con lui, che la guardava con così tanta serietà da far vacillare ulteriormente la sua già fragile resistenza emotiva.

Doveva parlare, rispondergli prima che i suoi occhi cedessero e le gambe decidessero di lasciarla al suo destino, ma il non riuscire a distogliere lo sguardo da quello profondo del ragazzo, non fece altro che ricordargli quanto lui le piacesse.

“Certo. Davvero, Ace, me la sento”, riuscì a dire alla fin fine, annuendo debolmente.

Dare un segno di vita non le era mai sembrato tanto faticoso, ma, se non altro, il vedere l’espressione rasserenata di Ace, le permise di riappropriarsi della sua innata compostezza.

“Bene. Allora, andiamo”, affermò quest’ultimo, compiendo il primo passo dentro la casa degli orrori.
 
 

“RAZZA DI OMUNCOLO DA STRAPAZZO! COSA CREDETE DI FARE ALLA MIA JESSICA-CHWAN?! DOVE L’AVETE PORTATA?!?! PARLA, DANNATO, PARLA!!!!”

Sanji era un ragazzo gentile ed generoso con qualsiasi essere femminile presente sulla faccia delle terra. Era stato educato alle buone maniere e trattava tutte le appartenenti del gentil sesso con il massimo riguardo possibile.  Al contrario, con i maschi, si dimostrava duro e inflessibile, tanto che non si faceva problemi a spedirli in orbita con qualche calcio ben assestato. Era un tipo a posto, a volte un po’ strano, ma affidabile, una qualità che gli aveva garantito più volte il sorriso della sua adorabilissima Jessica, portata chissà dove da due tizi che gliel’avevano sottratta grazie alla complicità della graziosa cameriera.

Sì, si era fatto abbindolare da un paio di ciglia lunghe e da una gonna piena di pizzi,  cascato dall’albero come una pera cotta e intortato come un cretino. Una cosa che  lo avrebbe visto flagellarsi con le sue stesse mani, se solo la sua adorata Jessica non fosse stata sequestrata sotto i suoi stessi occhi. Non era riuscito ad arrivare in tempo, ma lo sfondare il portone d’entrata con un poderoso calcio volante, gli aveva permesso la cattura di uno dei due rapitori, il piccolo omino che ora stava sbattendo da tutte le parti, al fine di fargli sputare tutto quello che voleva sapere. 

“Signore, mi lasci….”, biascicò quest’ ultimo, completamente rimbambito e con gli occhi ridotti a due spirali.

“SOLO QUANDO MI DIRAI DOVE AVETE NASCOSTO LA MIA JESSICA-CHWAN!!!” tuonò il biondo, con occhi assatanati.

Il poveraccio era sull’orlo dello svenimento. Fra tutti le possibili reazioni dei clienti, non avrebbe mai pensato che uno di questi avesse la forza di sfondare un portone di legno spesso quattro metri e di sbatterlo da tutte le parti come se fosse lo straccio per pulire i pavimenti di una nave. Poco ma sicuro, avrebbe preteso un aumento …. sempre se fosse riuscito sopravvivere a quella furia dalle sopracciglia attorcigliate.

“S-S-Si calmi ….”, cercò poi di dire, approfittando del fatto che il ragazzo si fosse fermato “La sua amica sta bene. Fa tutto parte della prova del castello delle favole.”

“Spiegati meglio”, ordinò Sanji, senza allentare la presa.

Mancava pochissimo perché il malcapitato ci rimettesse la pelle, tanto si sentiva schiacciato dalla furia omicida di quel pazzo concorrente.

“Il rapimento della sua amica rappresenta l’inizio della sfida del castello delle favole”, tentò di spiegare l’omino, nonostante il suo collo fosse tenuto strettamente in ostaggio “Tutte le partecipanti femminili a cui è capitata questa attrazione, sono state portate in diverse aree del castello, in qualità di “Principesse da salvare”, mentre i ragazzi devono vestire i panni dei “Prodi Cavalieri”. Lì c’è il costume che devi indossare”

A fatica, l’omino indicò un appendiabiti nell’angolo della piazzetta d’entrata, sopra cui erano appesi dei sontuosi abiti principeschi, con tanto di mantello, cappello e spada. Sanji vi si catapultò immediatamente, afferrando il primo completo capitatogli fra le mani e indossandolo nel mentre l’addetto alla prova cercava di rimettersi in piedi.

“Ora che devo fare?” domandò il ragazzo, ammirando l’eleganza del capo indossato.

“Devi dirigerti verso una delle entrate”, e indicò i svariati corridoi ad arco che si diramavano in direzioni tutte diverse “Il compito dei partner maschili è quello di superare gli ostacoli che il castello offre e raggiungere la propria principessa. Alle coppie che riusciranno a uscire dall’attrazione, verrà consegnato il biglietto d’oro, ma bada che ……. ehi, mi stai ascoltando? Ehi!”

I continui richiami dell’omino non facevano altro che rimbombare inutilmente fra le pareti del cortile interno del castello della favole. Nell’istante in cui aveva indossato l’abito e compreso quale fosse il suo ruolo in quello strano gioco, la mente di Sanji aveva smesso di seguire le dovute indicazioni, cominciando a galoppare su sentieri rosei e traboccanti d'immagini melense che solo un patito dell’amore come lui poteva produrre.

“Oi…”

“S-Sì? Che c’è?”

Il ritrovarsi quel pazzoide biondo di fronte, inginocchiato, e con l’espressione più seria che avesse mai visto, fece sussultare nuovamente il povero omino, tanto che divenne bianco per la paura. Che volesse pestarlo ancora?

“Mi stai dicendo, che la mia adoratissima Jessica-chwan, si trova da qualche parte in questo castello, in attesa che io la salvi?”

“Beh, sì, ma ……”

“Ed è vestita da principessa?”

“Eh?”

“Ti ho chiesto se è vestita da principessa!” esclamò il ragazzo.

Ok …… o quel tipo si stava facendo coinvolgere troppo da quella prova o era, già di suo, uno squilibrato mentale. L’omino evitò di darsi risposta, giacché doveva rispondere a quel biondino, prima che potesse prenderlo e lanciarlo nel fossato.

 “Si…si, lo è. A tutte le ragazze è stato dato un abito e …….”

A quel punto, per Sanji, fu impossibile contenersi. Nella sua mente fibrillante, vide Jessica con indosso un bel vestito regale, rosso con ornamenti dorati, che non faceva altro che tendergli la mano e chiedergli aiuto con parole dolci.  La immaginava in alto, affacciata alla torre più alta, con un drago maligno a sua difesa e lui in procinto di salvarla e dunque accaparrarsi il leggendario bacio dell’amore eterno. D’accordo, l’ultima parte era una sua aggiunta personale, ma avrebbe fatto di tutto pur di ottenere un premio speciale dalla rossa. Il pensiero di sentire le soffici labbra di lei sulla sua guancia, fece sì che il sangue nelle sue vene iniziasse a bollire, accompagnato da un tremolio costantemente crescente da parte delle sue mani: crogiolare in quel sogno a occhi aperti era un conto, ma avere la possibilità di concretizzarlo, era dieci volte meglio che vedersi apparire il Padre eterno. Se poi la principessa era la sua Jessica-chawn……oh, apriti cielo. Non poteva esserci storia.

L’omino non fece neppure in tempo a chiedergli se stesse bene, che fu letteralmente inondato da una consistente quantità di polvere, finendo a gambe all’aria. Come riuscì ad aprire un occhio, per tentare di capire cosa diamine fosse capitato, vide l’ultimo dei neo principi correre all’impazzata verso una delle entrate, lasciandosi alle spalle una scia di fuoco e cuori mai vista fino ad ora.

“NON TEMERE, JESSICA-CHWAN!!! TI SALVERO’ IO!!!” ululò quest’ultimo, lasciando di stucco l’addetto.

Poveraccio. Non sa quello che l'aspetta …..
 
 
“Niente da fare. Non vuole proprio saperne di aprirsi.”

Da una buona ventina di minuti, Jessica stava facendo pressione sull’unica porta presente nella stanza, fatta di legno massiccio e cardini di ferro. Le sue mani spingevano, tiravano la maniglia ad anello con tutta la loro forza, ma senza muovere niente. Sospirando, la bella rossa si sedette sul sontuoso letto a baldacchino, dove aveva trovato l’abito che ora indossava, con allegato un biglietto e le istruzioni sul da farsi.

Doveva rimanere lì e fare la sua parte, ma sebbene la cosa la affascinasse, non poteva fare a meno di chiedersi se Sanji si fosse accorto della sua assenza. Il vedere la propria immagine riflessa allo specchio, la fece arrossire nuovamente: chissà cosa avrebbe pensato il ragazzo, se l’avesse vista con quell’abito indosso. Era così bello che, a stento, riusciva a descriverlo. Vaporoso, pieno di veli scarlatti e dorati, con un corpetto che lasciava in bella mostra, ma non eccessiva, il suo seno. Si era lasciata così ammaliare dalla sontuosità di quell’abito, che non aveva resistito ad acconciarsi i capelli, giusto per assomigliare ad una vera principessa.

Lo aveva fatto istintivamente, con il cuore che batteva a mille e gli occhi sognanti. L’apprendere che Sanji avrebbe vestito i panni del principe azzurro, poi, l’aveva vista arrossire vistosamente, spingendola a domandarsi quali sentimenti l’avrebbero pervasa, nel momento in cui il ragazzo avrebbe fatto la sua entrata in scena.

Sarà bellissimo, esattamente come l’ho sempre sognato!

Con un paio di giravolte, si lasciò cadere all’indietro sul letto, tenendo le mani strette al petto. Escludendo lo spavento iniziale, la prova del castello delle fiabe stava dando voce a tutti quei desideri che da bambina aveva sempre voluto realizzare.

Mi domando se Yu-chan stia bene, si ritrovò a pensare qualche secondo dopo, con gli occhi smeraldini puntati sul soffitto.

Nonostante la felicità, non aveva potuto fare a meno di ritagliare uno spazietto per la sorte dell’amica. Continuava ad avere un brutto presentimento, come se dovesse rammentare qualcosa di importante, ma qualunque cosa questa fosse, non ne voleva di farsi acchiappare.

“Speriamo non le capiti nulla e che Ace mantenga la promessa”, mormorò poi, nel mettersi seduta “Se non lo farà, saranno guai!”
 
 

“Santo cielo … c’è mancato davvero poco.”

La casa degli orrori si stava rivelando a dir poco infernale. Non c’era niente che potesse considerarla come un’attrazione di terza categoria, con attori scadenti e scenografia messe insieme con il nastro adesivo.  Il suo realismo aveva lasciato a bocca aperta sia Ace che Sayuri, ritrovatisi a correre in tutta la casa, senza sapere dove andare di preciso. Un labirinto sarebbe stato meno contorto di quelle stanze, ma il problema non stava unicamente nell’orientamento: a differenza loro, che non potevano toccare nulla, gli attori erano liberi di prenderli di peso e farli sparire dietro le mura.
Questo era il difficile della prova: non farsi catturare. Fra l’evitare di far azionare qualche congegno strano, il non cascare in una qualche botola nascosta, per non parlare del seminare un pazzo armato di motosega, la castana era arrivata ad un punto del percorso, in cui necessitava di fermarsi. Aveva bisogno di riprendere fiato, così come Ace, insolitamente silenzioso da una decina di minuti.

“Credo che abbia smesso di seguirci”, disse lei, tenendosi una mano sul petto, per regolarizzare i respiri “Non pensavo che ci avrebbe riconcorso per tutto questo tempo. Tu che cosa ne pensi, Ace?........Ace?”

Fra il correre e lo scansare i numerosi ostacoli, la ragazza aveva dimenticato di fare la cosa più importante di tutte: controllare che il compagno le fosse sempre rimasto vicino. Escludendo la regola che imponeva ai partner di uscire insieme dalla casa, vi era un’altra ragione per cui Sayuri avrebbe dovuto verificare con più costanza la presenza del moro: la sua totale e pressoché inesistenza capacità di orientarsi.

Oh, no! L’ho perso!

Nessuno avrebbe mai detto che Portuguese D. Ace fosse abile a trovare la giusta strada quanto lo era Roronoa Zoro, ma la verità era quella e, purtroppo per Sayuri, ciò non giovava alla situazione attuale. Lì era buio pesto, ed era già tanto che non fosse andata a sbattere da qualche parte. Come avrebbe fatto a trovarlo?

Dev’ essere rimasto indietro. Può darsi che riesca a trovarlo in una delle stanze precedenti, ipotizzò lei, cominciando a ripercorrere i suoi stessi passi.

Non avrebbe mai avuto il cuore di uscire da quella casa senza il ragazzo. Che ricordasse, non aveva visto deviazioni o altri corridoi oltre a quello passato, ma la visibilità era talmente scarsa che non seppe dirlo con certezza. Dovette appoggiare una mano al muro e procedere lentamente, per evitare di inciampare in qualche improvvisa rampa di scale; certo, sarebbe stato più facile, se avesse portato una torcia…..

Continuò ad avanzare per diversi minuti, quando, ad un tratto, scorse un flebile e opaco raggio di luce filtrare nel buio. Lo scorgerlo, fece si che le sue sopracciglia si alzassero in segno di stupore.

“Strano, non ricordo che prima ci fosse…”, mormorò fra sé e sé, avvicinandosi cautamente.

Doveva essere finita in una nuova area, perché proprio non rammentava di esserci passata. Forse, con una buona dose di fortuna, Ace era lì dentro; un tentativo le era pur sempre concesso, anche se trovò alquanto strano, che non ci fosse nessuno a tenderle un agguato.

Svoltato l’angolo da cui proveniva quel debole bagliore, si ritrovò davanti a una semplicissima e spoglia stanza circolare, con mura nere e una lampadina che pendeva dal soffitto, illuminante un piedistallo sopra cui era riposto…..

“Il biglietto d’oro”, si ritrovò a dire la castana, non credendo ai proprio occhi.

Il bel pezzo di carta dorato era lì, davanti a lei, scintillante e senza alcuna difesa. Prenderlo, sarebbe stato facilissimo, ma nel suo guardarlo attentamente, Sayuri non si sentì sicura: era troppo facile, troppo alla portata dei giocatori; essendo un oggetto depositario di un numero così considerevole di vantaggi, la ragazza non poté fare a meno di trovare veramente strano che il signor Ivankov avesse deciso di piazzarlo in bella vista. Eppure, lì in giro, non c’era nulla che potesse avvicinarsi a una trappola e a lei sarebbe bastato pochissimo per prenderlo.

Con un’ultima veloce occhiata, compì un paio di passi avanti, per poi allungare il braccio e dispiegare le dita verso il biglietto. Come sentì i polpastrelli venire a contatto con quest’ultimo, strinse la presa e ritirò l’arto, dando una veloce occhiata a quel pezzo di carta che le avrebbe permesso finalmente di fare un giro sulla ruota panoramica.

“Non posso credere di averlo trovato”, si disse, contenta “Ora devo solo……”

SCREEK!

Il tipico sibilo di sbarre ferrose che infilavano il pavimento, la fece voltare di scatto. Vide delle spesse aste grigie bloccare la sua sola e unica via d’uscita, che altri poi non era l’entrata da cui era passata.

“Avrei dovuto immaginarlo che non sarebbe stato facile”, sospirò.

E dire che ci aveva riflettuto sopra più e più volte….

Era illogico che il signor Ivankov avrebbe lasciato così ben esposto uno dei pass speciali, ma nonostante la ragazza fosse appena stata messa dietro a delle sbarre, non si demoralizzò: da qualche parte doveva esserci sicuramente un bottone o una leva nascosta capace di liberare il passaggio, quindi, non c’era ragione per cui dovesse disperarsi e mettersi a urlare per la paura.

Eppure … per quanto quella piccola e chiusa stanzetta buia non riuscisse a far vacillare la serenità di Sayuri, qualcos’altro la stava esortando a guardare gli angoli e il soffitto con un dubbio timoroso: un suono sottilissimo e scoordinato proveniva da questi ultimi, ma senza lasciarsi vedere e identificare. Per qualche strana ragione, il fiato della ragazza cominciò ad accorciarsi e i muscoli a riempirsi di tensione. Tremante, si appiccicò al piedistallo per cercare di usufruire dell’aiuto della luce che lo illuminava fiocamente: intravide dei piccoli contorni tondi e pelosi, con otto zampe ciascuno a muoverli ognuno. Come li vide riempire il pavimento, con il loro sibilare acuto, cominciò a sentirsi male.

No …. non è possibile.

Come dischiuse la bocca tremolante, gli occhi cominciarono a inumidirsi, pizzicandole la vista. Il cuore prese a tartassarle la gabbia toracica come se volesse esplodere. Provò a calmarsi, a scacciare quell’orribile consapevolezza che si era fatta prepotentemente largo in lei, ma come qualcosa di pungente le accarezzò la spalla, la gola le si chiuse e divenne definitivamente tutto nero.
 
 
“Ehi, tu. Tutto ok? Mi senti?”

“Ma non sarà morto?”

“Sei scemo? Non senti come russa?”

“Vero, però …. guarda! Si sta svegliando?”

Per il sollievo di quei due attori travestiti da mummie, Ace cominciò a smuovere le palpebre e ad alzare pigramente. Mugugnò qualcosa prima sbadigliare, stiracchiarsi le braccia e guardarsi in giro come un mezzo moribondo incapace di capire dove accidenti fosse finito.

“Yawn!Accidenti, devo essermi appisolato …”, borbottò massaggiandosi sulla spalla.

“Appisolato?!? Ma come si fa ad addormentarsi così di botto?!?” urlarono le due pseudo mummie, finendo con le braccia all’aria.

La loro fu una reazione normale, in quanto non conoscevano Ace e la narcolessia che lo aveva fatto crollare come un sacco di patate in uno dei sarcofagi egiziani dentro cui gli attori dovevano chiudere i partecipanti del concorso. Era stato un attacco improvviso, come sempre, tanto che Ace aveva dimenticato che le altre persone potevano spaventarsi per quei suoi crolli. Non badando ai presenti e al loro stupore, si alzò in tutta tranquillità, cercando di recuperare la lucidità persa e che faticava a tornare al suo posto. Non sarebbe andato molto lontano, se non si fosse accorto dell’assenza di una persona, che, teoricamente, avrebbe dovuto trovarsi con lui.

“Ehi, voi due”, e chiamò i due attori, ancora presi dal loro discorso “Avete visto una ragazza da queste parti? E’ bassa, con i capelli castani raccolti in due codini….”, cercò di descrivere, gesticolando.

“Chi?” domandò la prima mummia, con nota interrogativa.

“Penso si riferisca alla ragazza che ha fatto scattare la trappola della stanza del biglietto d’oro”, arrivò la seconda mummia.

“Trappola? Che genere di trappola?” indagò Ace, inarcando il sopracciglio.

Improvvisamente, quel suo  dover ricordare qualcosa, era tornato a tormentarlo, ma con molta più foga di prima.

“Beh, non ha un nome preciso”, fece l’attore “In pratica, se una persona prende il biglietto che sta sul piedistallo, fa scattare un meccanismo che blocca la porta d’entrata con delle sbarre e, in aggiunta, da alcune fessure poste negli angoli e nel soffitto, escono dei finti ragni telecomandati, ma sono fatti così bene da sem-  ehi, ma dove vai? Non ho finito!!”

Capire che cosa fosse preso a quel ragazzo con le lentiggini era un po’ come fare il tiro a segno con gli occhi bendati. Ci si poteva basare solo sulla fortuna, nient’altro. Né quegli attori, né chiunque altro, poteva sapere con certezza perché Ace avesse spalancato gli occhi e corso verso il corridoio come se, improvvisamente, si fosse ritrovato un gruppo di cani da caccia pronto a balzargli addosso, e questo perché la ragione non riguardava strettamente lui, ma una persona vicina a lui.

Conosceva Sayuri da molto tempo, tanto da sapere dettagli che perfino alcuni dei suoi più cari amici ignoravano. Gli era sempre piaciuto godere di quel vantaggio, ma non poté fare a meno di darsi dello stupido per aver dimenticato una delle cose più importanti al suo riguardo. Tra preferenze, difetti e gusti, c’era una cosa che la castana non poteva sopportare, di cui aveva una paura profonda e che non era mai riuscita a combattere ad armi pari: l’aracnofobia.
Sayuri era irrimediabilmente e indiscutibilmente terrorizzata dai ragni. Non era semplice fifa, ma un terrore che aveva sin da bambina, che la faceva stare male fisicamente e moralmente, tanto da mandarla in iperventilazione o peggio, se non si interveniva subito. Ace l’aveva scordato, e avrebbe passato il resto della giornata a darsi dello stupido, se non avesse dovuto focalizzare la propria attenzione per non perdersi.
Idiota! Sono un vero idiota! Si disse per l’appunto, svoltando a destra.
 

“JESSICA-CWHAN!!!!! DOVE SEI?!?!?”

Era la trentasettesima volta che Sanji urlava a squarciagola il nome della rossa ed era sempre la trentasettesima volta che non riceveva risposta. Gonfiava i polmoni di tutto l’ossigeno che poteva contenere e lo rilasciava in un solo colpo, evitando contemporaneamente tutte le trappole che il castello delle favole aveva a disposizione per ostacolare lui e gli altri cavalieri.  Fra botole munite di laghetti aventi dentro della anguille, tronchi d’albero pendenti dal soffitto, pareti sparanti fuori frecce appuntite, Sanji si destreggiava come se per lui fosse una routine quotidiana: il vestire i panni di un principe gli aveva portato l’adrenalina alle stelle, spingendo il suo corpo a compiere acrobazie disumane, che nessun’altro partecipante avrebbe potuto emulare. Saltava, schivava e deviava i colpi con i suoi possenti calci ………. tutto per raggiungere la bellissima Jessica e portarla fuori dal castello come i principi delle favole solevano fare, una volta svegliata la bella con un bacio.

Al solo pensiero, s'infiammò ancor di più, arrivando a sciogliere la rampa di scale a spirale che si era appena accinto a salire e buttando giù la porta posta in cima ad essa. Aveva perso il conto di quante porte avesse abbattuto, ma Sanji era sicurissimo che fosse quella giusta, quella dietro cui si nascondeva la sua amata.

Non appena il polverone si diramò, si ritrovò  in una stanza molto elegante, con un grosso letto a baldacchino a occuparne la maggior parte. Le tendine semitrasparenti lasciavano intravvedere la figura di una persona stesa al suo interno, come addormentata.
Il sopracciglio attorcigliato del biondo compì un paio di giravolte per quella visione.

“Il tuo principe azzurro è arrivato, Jessica-chwan”, mormorò con voce profonda e calma, ma con il cuore già in fibrillazione.

Immaginò la scena: la sua mano che scostava le tendine, la sua stupenda principessa in attesa del bacio guaritore, lui che si sporgeva in avanti e l’inizio di quella attesissima felicità che aveva sognato per intere notti senza dormire. Se non fosse stato impegnato a fare bene la parte dentro cui si era calato, Sanji sarebbe scoppiato a piangere per la gioia e poi morto sul colpo.

Sto per baciare Jessica-chwan, sto per baciare Jessica-chwan, sto per baciare Jessica-chwan…!!! Non fece che ripetersi.

Era così preso da quell’euforia mentale, che non si accorse che  la porta, da lui sfondata in precedenza, era magicamente tornata al suo posto, chiudendolo dentro senza alcuna via d’uscita. Se avesse conservato un minimo di sanità mentale, il biondo non avrebbe abbassato la guardia con tanta facilità: sarebbe riuscito a difendersi, ad avere un vantaggio misero, ma pur sempre valido. Purtroppo, quando c’erano di mezzo le ragazze, Jessica in particolare, il suo cervello andava a farsi benedire, insieme a tutto il resto …

Nello spostare le tendine, cominciò a chinarsi con le labbra smisuratamente allungate in avanti: per la gioia e la sicurezza che su quel letto ci fosse la sua rossa, aveva chiuso anche gli occhi.

Un grande, immenso ed apocalittico errore.

“Uh uh! Dolcezza! Come sei impetuoso!”

Lo sporgere le labbra di Sanji si arrestò di colpo. Un glaciale brivido gli percorse la spina dorsale, calcando sul fatto che quella non poteva essere in alcun modo la voce vellutata di Jessica. Sperò vivamente di aver udito male, ma come aprì gli occhi – altro grande, immenso e apocalittico errore -, la vita fuoriuscì dal suo corpo per lo shock.

La foto mentale che il poveretto si era fatto di Jessica cadde in mille pezzi, sostituita da un obbrobrio avente la faccia pelosa, con tanto di mascelle e zigomi grotteschi, labbroni sporgenti e un corpo tutt’altro che femminile.

“Allora, zuccherino! Me lo dai il bacio?” gli domandò il travestito, mettendogli le braccia attorno al collo.

“AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”urlò spaventatissismo il biondino.  

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Brutti presentimenti e parole di conforto ***


“Sayuri? Sayuri, mi senti? Sayuri.”

Chi…chi c’è?

La ragazza mugugnò impercettibilmente, mentre tutto il suo corpo prendeva atto di quell’intorpidimento che l’avvolgeva. Era caldo e soffice, abbastanza perché le sue palpebre si ostinassero a rimanere chiuse, nonostante la sua coscienza fosse perfettamente sveglia. La voce che la stava chiamando era familiare, preoccupata e vicina a lei, ma, al momento, non riusciva ad attribuirle un volto: esclusa la forte impressione di essere stesa orizzontalmente su qualcosa di morbido, non c’era null’altro che riuscisse a ricordare bene. Era tutto così sfocato e sfuggente ……

Doveva aprire gli occhi, non c’era altra soluzione. Non le importava quanto la testa le pesasse o le dolesse, voleva solo uscire da quel semibuio dentro cui sapeva di essere rimasta per troppo tempo. Qualunque cosa fosse successa, desiderava almeno che la voce che la stava chiamando, smettesse di preoccuparsi per lei. Non le dava fastidio, al contrario: le piaceva il suo suono, ma era proprio per quello che non voleva saperla così in pensiero.

“Mmm….”

Mugugnò una seconda volta, arricciando le labbra per il fastidio che la luce le diede agli occhi. La prima cosa che vide, fu un soffitto: decisamente povero perché meritasse una particolare contemplazione.

“Sayuri?”

Udendo nuovamente quella voce, la ragazza impiegò i pochi grammi di energie a sua disposizione per spostare leggermente la testa; batté le lunghe ciglia due volte, nel vedere che, seduto di fianco a lei, c’era un ragazzo alto, con capelli neri e scompigliati, avente due occhi del medesimo colore e una simpatica spruzzata di lentiggini a tempestargli le guance.

“Ace….?” mormorò, riuscendo a pronunciarne il nome.

“Finalmente, ti sei svegliata”, disse lui, con voce più sollevata “Come ti senti?”

“Bene, credo…..ma dove siamo?” domandò poi lei, flebilmente.

Quel poco che era riuscito a scorgere le era totalmente estraneo:  tra quei pezzi di mura bianche e quello che doveva essere lo spigolo di un comodino, non c’era nulla che conoscesse.

“Nell’infermeria del parco, vicino alla piazza centrale”, le rispose lui.

“Infermeria..?”

Quella rivelazione la scombussolò. Per quale ragione lei e Ace si trovavano proprio in quel posto?

“Non ricordi niente, vero?” le domandò subito il ragazzo, ma senza mostrare alcun segno di stupore.

“No, mi spiace”, rispose lei, seppur si stesse sforzando di ricordare qualcosa.

Il chiedersi che cosa fosse capitato non trovò risposta. La sua testa si rifiutava di lavorare, tanto era immersa in una cortina di fumo indistricabile: per una ragione strana, soltanto lei si trovava su di un letto, sotto delle coperte, e con una sfilza di domande enfatizzanti la sua spossatezza. Poi, sentendo la parola “Parco”, ecco che qualcosa cominciò a tornarle in mente….

Rimembrò la casa degli orrori, i biglietti, la prova, e di come a un certo punto, tutto fosse diventato nero. Si sforzò più di quanto stesse facendo, ma il suo stesso subconscio era contrario a venirle incontro: le sembrava di stare sbattendo la testa contro un muro invisibile, tanto si sentiva rimbalzare all’indietro. Ma se proprio non poteva ricordare con le sue sole forze, c’era sempre qualcuno a cui chiedere…

“Ace, puoi dirmi che cos’è successo?” gli chiese cortesemente lei “Io non riesco proprio a rammentare nulla.”

E come potresti?  Pensò il ragazzo.

Temeva che quella domanda saltasse fuori, per questo non poté fare a meno di passarsi una mano sul viso e fra alcune ciocche nere che gli ricadevano in avanti. Non era così difficile spiegare l’accaduto, ma si trattava pur sempre di doverle parlare senza che si sentisse ancora male. I ragni erano un argomento fin troppo spaventoso per lei, una fobia contro cui non aveva mai potuto fare nulla e dirle che le era cascata addosso una pioggerellina di quei simpatici esserini zampettanti, non era una buona idea. Ma non era neppure giusto traviare la verità, giacché vi era comunque la possibilità che quel dato momento lei lo ricordasse successivamente.

“Diciamo…”, e cercò di usare le giuste parole “Che hai avuto un brutto incontro.”

“Un brutto incontro?” ripeté lei, confusa “Di che ge…?”

Si bloccò istantaneamente, chiudendo la bocca e lasciando che le pupille le si rimpicciolissero drasticamente. Sayuri non era una ragazza stupida e nessuno poteva conoscerla bene quanto sé stessa; non le occorse molto per realizzare che c’era una sola cosa in grado di spiegare la ragione per la quale si trovava in un’infermeria. Guardò Ace con il viso ancor più sbiancato, cercando in lui una risposta che ottenne con un cenno affermativo della testa, e subito, quei particolari che tanto si stava sforzando di ricordare, le fecero stringere le spalle.

“Tranquilla, non erano veri”, la rassicurò subito Ace, vedendola irrigidirsi “Si trattava di robottini telecomandati. Il problema era che faticavi a riprenderti, così ti ho portato qui.”

Per tutta risposta, lei spostò i propri occhi color cioccolato sulle mani, appoggiate sulla coperta spiegazzata.

Quando si trattava dei ragni, era pressoché impossibile che si controllasse: che fossero piccoli, grandi, veri o ritratti su dei libri, per lei rappresentavano una fonte di malessere inevitabile. Sfortunatamente, il comprendere che quelli con cui si era scontrata, erano solo delle imitazioni, non la rasserenò come invece sarebbe dovuto accadere. Percependo fin troppo bene quella piccola morsa al cuore, non riuscì a fare meno di sentirsi un po’ in colpa per quanto successo: non era nulla che lei avesse premeditato, figurarsi, ma l’ultima cosa che avrebbe voluto, era vedere Ace preoccuparsi per lei. Stava nella sua indole il non voler impensierire la gente altrui, l’evitare situazioni che la costringessero vestire i panni del “Peso” da sopportare; non era una questione d’orgoglio, giacché a lei non importava nulla che derivasse da quella parola, ne un suo voler dimostrare di non essere una ragazza incapace a difendersi.

A dire la verità….neppure lei sapeva bene che cosa fosse; sentiva solo che non poteva accettare quella premura da parte del ragazzo. Era piacevole e più volte le aveva imporporato le guance, ma a ogni occasione, lei aveva sempre contraccambiato con un semplice “Grazie”, un forma di gratitudine inadatta a esprimere i suoi reali sentimenti. Ne era sempre stata consapevole, ma la differenza, ora….stava nel fatto che il disagio provato, le impediva addirittura di pronunciare quella singola e semplice parola. Se aveva deciso di venire all’One Piece Paradise Park, non era soltanto per aiutare Jessica, non unicamente: voleva provare a dire quelle poche parole che ruotavano attorno ai suoi sentimenti.

Peccato solo, che fosse più arduo del previsto…..

“Ehi, ehi! Cosa pensi di fare?”

Non ebbe neppure il tempo si mettersi seduta per bene, che le mani di Ace si appoggiarono alle sue spalle, impendendole di continuare.

“Mi alzo”, gli rispose lei “Mi sento meglio, Ace, non c’è bisogno che occupi ulteriormente il letto…”

A nulla valsero le sue spiegazioni: senza alcuno sforzo, il moro riuscì a farla sdraiare nuovamente e fu un gesto tanto fulmineo quanto delicato, che Sayuri non ebbe neppure il tempo di opporsi.

“Tu non ti muovi da qui”, sentenziò irremovibile lui “Non voglio che ti senta ancora male.”

Era vicino, molto vicino, abbastanza da permetterle di distinguere nitidamente le efelidi che gli contornavano le guance e di incrementare quella paralisi interiore che aveva già iniziato a estendersi in precedenza. Il nero che colorava gli occhi di Ace era pieno di sfumatura di gradualità diversa, tutte particolare e che, nel loro insieme, ne accentuavano la profondità. Non era mai stato tanto serio come in quel momento, non erano mai stati tanto vicini, e il solo sentire la sua voce accarezzarle il collo, la fece sprofondare ancor di più in quell’abisso indefinibile. Le sue mani le tenevano le spalle, senza stringergliele o esercitare una qualche pressione che fosse inadatta, ma annullando qualsiasi suo tentativo di ribellione. Scorgendo il proprio viso riflesso nello sguardo di lui, immobile e concentrato unicamente su di lei, si sentì ancor più scombussolata di prima, tanto da perdere quelle poche energie ritrovate. Quando si trattava di Ace, non c’era nulla che potesse fare: quel ragazzo era completamente imprevedibile per lei, aveva il potere di farla vacillare come nessun’altro e l’averlo così vicino non l’aiutava a ragionare con lucidità. A prescindere da quanto il cuore le stesse battendo freneticamente e il calore partitole all’altezza del torace, quelle parole che tanto voleva dirgli, magari in un posto più adeguato, le scivolarono via dalle mani non appena udì la suoneria di un cellulare.

“E’ il mio”, disse Ace, raddrizzandosi e lasciandole le spalle.

Armeggiando velocemente con la tasca dei jeans, ne estrasse un piccolo telefonino nero vibrante. Guardò il display velocemente, sospirando con tanta evidenza, che fu impossibile per Sayuri non accorgersene.

“Va tutto bene, Ace?” gli chiese lei, ripresasi da quel turbinare di emozioni.

“Si”, rispose dopo un fin troppo lungo secondo di attesa “Devo fare una telefonata”, le disse poi, tornando a guardarla “Torno il prima possibile. Non muoverti dal letto, mi raccomando.”

“D’accordo, ma….”

Non fece neppure in tempo a chiedere se avesse telefonato qualcuno della famiglia, che Ace si era già dileguato dietro la porta, lasciandola sola in quella povera e bianca stanza.
 



 
“Sanji-kun! Coraggio, fatti forza!”

Jessica aveva perso il conto di quante volte avesse pronunciato il nome del biondo, sdraiato su un lettino e ridotto peggio di una statua di granito: bianco, con la bocca spalancata e le braccia piegate in avanti - con tanto di dita irrigidite -, il ragazzo era bloccato in una sorta di stato comatoso apparentemente irreversibile, la cui profondità gli concedeva giusto qualche mugugno incomprensibile.

Ha subito un forte shock, le aveva detto il medico, visitandolo Ma non riesco a capire cosa, di preciso, possa avergli causato una reazione del genere.

Guardandolo e vegliando su di lui con amorevole apprensione, la bella rossa cercò di fare mente locale su quanto era successo, ma purtroppo, poche erano le cose a cui poteva rifarsi: attendendo il suo principe nella stanza a lei assegnata, era stata chiamata da un piccolo paggio che le aveva ufficialmente annunciato che lei e il suo partner avevano perso la sfida, per poi essere accompagnata in quella stanza dove, ancora adesso, non si capacitava su che cosa Sanji avesse potuto vedere di così orribile, da farlo collassare a quel modo.

Povero il mio bel principe…, sospirò mentalmente lei, accarezzandogli la chioma.

Era successo tutto con così tanta velocità, che non aveva neppure avuto il tempo di cambiarsi, ma disfarsi di quel bell’abito vaporoso e colorato non era una priorità che andava eseguita all’istante: la salute di Sanji era più importante di qualsiasi altra cosa le riguardasse e avrebbe fatto il possibile perché si rimettesse. Non lo aveva mai visto con quell’espressione così terrorizzata e il non sapere che cosa lo avesse ridotto a quello stato, l’angosciò di più. Il dottore le aveva rassicurato che si sarebbe ripreso prima della fine della giornata, ma lei voleva comunque accertarsi che non gli accadesse ancora qualcosa. Non se lo sarebbe perdonato, non con quello che provava per il ragazzo…

“Oh, è finita l’acqua”, si accorse poi, posando gli occhi sulla bacinella vuota.

Senza indugiare, la rossa afferrò il contenitore metallico e si alzò in piedi, facendo volteggiare gli svariati veli della gonna. Data l’assenza di un lavandino nella stanza, in punta di piedi, uscì dalla stanza con l’intenzione di trovare il più vicino possibile: non voleva lasciare solo Sanji troppo a lungo, non in quelle condizioni così preoccupanti. Cominciò a guardarsi intorno, facendo ondeggiare la lunga chioma scarlatta, nel mentre sceglieva il corridoio da percorrere; per quanto meraviglioso che fosse quell’abito principesco, sperò di non incontrare nessuno che la vedesse o che perdesse la testa com'era solito succedere. Correre con i tacchi non era il massimo della comodità.

Girò a lungo, agitando il proprio collo per non lasciarsi sfuggire neppure il più piccolo degli angoli, ma accumulando soltanto una clamorosa serie di insuccessi.
“Insomma!” sbuffò ad un certo punto, appoggiando una delle mani sul fianco “Possibile che non ci sia un lavandino in ques…..Yu-chan?”

“Jessica?”

Facendo su e giù, svoltando innumerevoli corridoi e ispezionando alcune stanze, Jessica aveva speso almeno una buona mezz’ora. Non era una persona che amava corrucciarsi o arrabbiarsi per delle sciocchezze, ma la necessità di trovare un lavandino, anche di microscopica grandezza, era di vitale importanza. Fu proprio nel fermarsi in quel preciso punto, che vide poco distante da lei, una figura troppo familiare perché le risultasse estranea: avrebbe riconosciuto quei lunghi capelli castani fra mille e come questa l’aveva riconosciuta, lei le andò subito incontro.

“Jessica, tu qui…”, mormorò visibilmente sorpresa la castana “Ma che cosa ti è capitato? Come mai indossi quell’abito?”

“Oh, Yu-chan, sapessi!” esclamò lei, abbracciandola di slancio “Sanji-kun si è sentito male e non accenna a riprendersi!”

In breve, le raccontò quello che le era capitato, dal rapimento alla squalifica dal gioco. Così tesa per la sorte del ragazzo che tanto amava, solo in quel frangente si rese conto quanto sfogarsi con la castana potesse farle bene; percepì il proprio animo sollevarsi, trovare l’angolo di liberazione che le occorreva per riprendere il fiato e la calma. Aveva bisogno di essere rassicurata da una voce amica, qualcuno di cui si fidasse ciecamente, e Sayuri era la persona che meglio conosceva questa sua esigenza. Vestiva i panni della sorella maggiore, gli stessi che anche lei indossava quando la situazione si surriscaldava e una Nami furente era in procinto di rompere la testa di qualcuno, ma l’essere più grande di lei – seppur di pochi anni -, permetteva alla castana di essere vista sotto una luce più materna. Trasmetteva serenità, un senso di pace e tranquillità a cui Jessica vi si aggrappò subito: se le avesse detto che tutto sarebbe andato bene, lei ci avrebbe creduto subito, senza immaginare altre possibilità o prospettive.

“Sta tranquilla, non devi avere paura”, le disse con sua enorme gioia, ricambiando con più dolcezza l’abbraccio “Se il dottore ha detto che è solo questione di ore, non c’è motivo per cui tu debba preoccuparti così tanto. A Sanji non farebbe piacere vederti in questo stato, starebbe ancor più male.”

“Tu..tu dici?” le domandò lei incerta, guardandola in faccia.

“Ne sono sicura”, annuì l’altra.

A quel punto, Jessica prese un bel respiro e lo buttò fuori all’istante. Doveva tranquillizzarsi, evitare di ingigantire la faccenda più del dovuto e di mettersi a piangere. Come aveva detto saggiamente Sayuri, Sanji non avrebbe mai voluto vederla ridotta a quella maniera. Certo, adorava alla follia quando scopriva di essere il centro dei pensieri di una bella donna, ma si sarebbe tagliato entrambe le gambe se l’avesse scoperta così in ansia esclusivamente per lui: da galantuomo quale era, far piangere una donna, volontariamente o no, equivaleva ad un crimine gravissimo e punibile solo col massimo della pena. Dei molti lati caratteriali del ragazzo, Jessica ne aveva visti la maggior parte, ed era innegabile che fra i suoi modi di fare sdolcinati, comici e smielati, vi fosse anche quello ferreo, dove egli assumeva un’espressione così seria e affascinante, da spingerla a schiudere le labbra e a guardarlo con fare sognante.

Quello era il Sanji che tanto le piaceva e a cui avrebbe regalato volentieri il proprio cuore.

“Hai ragione”, asserì lei, scostando alcune ciocche rosse dal proprio viso “Non è il caso che mi veda…ehi, ma sei pallidissima!” esclamò poi, accorgendosi di quanto colore avesse perso il viso dell’amica “Yu-chan, ti senti bene?”

A quel punto, le parti s'invertirono. Fu automatico e involontario, tipico dei loro caratteri, dolci e incapaci di affrontare argomenti di stampo amoroso, senza che vi fosse qualche nota timida a farli balbettare. Un passaggio naturale di quel loro parlare, ma era fin troppo lampante che la più in difficoltà, su tale argomento, fosse proprio Sayuri, i cui occhi si concentrarono momentaneamente sulle mattonelle lucide del pavimento. Non poteva dire a Jessica che andava tutto bene, ma nemmeno che tutto era andato a rotoli: disorientata com’era, non era ancora riuscita a trovare il senso logico di quanto le era capitato negli ultimi minuti.

“….Non lo so”, ammise per l’appunto.

Per qualche strana ragione, il rimembrare Ace mentre le dava le spalle per uscire dalla stanza, le diede un rilevante senso di disagio. Il secondo, per essere esatti; in quel loro breve scambio di parole, Sayuri aveva percepito una sorta di stranezza nel ragazzo, un vago senso di distacco, come se lo stare insieme a lei, in quella stanza, lo avesse fatto sentire inadeguato. Non aveva capito il perché, non lo capiva tutt’ora, ma ormai la sua mente era così zeppa d'incomprensione, che non esisteva null’altro che potesse sorprenderla. Le aveva fatto uno strano effetto vedere il ragazzo così diverso dal solito, male, se considerava quella stretta al cuore pari ad un morso violento. Alzarsi dal letto e uscire da quelle quattro mura biancastre era stato un desiderio tanto impellente, quanto quello di prendere una sana boccata d’aria. Lo scoprire di essere stata assalita da un consistente numero di aracnidi telecomandati e di aver perso il biglietto d’oro nel momento meno opportuno, non l’aveva aiutata granché: l’aveva rimembrato giusto qualche attimo prima di incontrare Jessica, visibilmente preoccupata per la risposta datale.  

“Cerchiamo un posto tranquillo. Devi raccontarmi tutto”, sentenziò la rossa, afferrandole la mano.

Andarono a chiudersi nella prima stanza capitata sotto lo sguardo smeraldino della più giovane. Sayuri non provò neppure a opporsi, tanto sapeva bene che l’amica non accettava scusanti per le questioni d’amore. Ella, infatti, sapeva riconoscere una situazione stabile da una allarmante: le era già capitato di vedere la ragazza pensierosa per qualcosa, ma lei le aveva sempre risposto che andava tutto bene e che non c’era motivo per cruciarsi. La castana era perfettamente in grado di badare a sé stessa, di risolvere i propri problemi con riflessività e ponderatezza, ma se questa volta non si era premurata di nascondere il tutto dietro al suo grazioso sorriso, era perché aveva superato una linea di confine troppo grande per le sue capacità.

Stavolta la faccenda era grossa. Oh, se era grossa.

Jessica non attese ulteriormente e si fece spiegare per filo e per segno tutto quello che era successo nella casa degli orrori. Non le era stato difficile intuire che dietro alla condizione emotiva dell’amica ci fosse qualcosa di veramente enorme, se l'era sentito nelle viscere fin dall’inizio, ma quando quella arrivò al punto di dover spiegare che cosa le fosse piombato addosso, la fermò istantaneamente: non voleva che Sayuri andasse in iperventilazione, solo per l’aver tentato di descrivere nel dettaglio quel preciso atto. Tutta la compagnia era al corrente di quanto fosse fondamentale tenerla ben distanziata da quei minuscoli esserini zampettanti, ma non erano quelli a rappresentare il vero problema in sé e la rossa non tardò certo a farglielo notare.

“E’ impossibile che Ace sia arrabbiato con te perché hai perso il biglietto d’oro. Non è il genere di persona che se la prende per queste cose! E poi, sa bene che effetto ti facciano…quei cosi”, affermò per l’appunto lei, facendo attenzione a non pronunciare la parola proibita “Però…”, e lì si mostrò alquanto dubbiosa “Non riesco a immaginare la ragione per cui ti abbia lasciato sola così a lungo…”

Lo trovava fin troppo sospetto, anomalo. Era fin troppo cosciente di quanto il moro volesse bene alla sua amica, per questo trovò ancor più strano il suo comportamento. Controllare chi avesse telefonato non richiedeva certo chissà quali requisiti divini e nemmeno il pessimo senso d’orientamento di cui Ace era stato dotato, sarebbe passato come spiegazione plausibile. Nel suo far lavorare la propria testolina, Jessica non riuscì a immaginare nessuna faccenda sufficientemente valida per cui Ace avesse deciso di sparire di punto in bianco, lasciando Sayuri da sola per più di un’ora. Era narcolettico, ma non maleducato,  e dubitava fortemente che fosse cascato in un buco nero o sequestrato dai marziani.

“Jessica, non deve essere qualcosa di strettamente collegato a me”, le disse la castana “Può darsi che a telefonargli, sia stato Rufy o suo nonno, ci sono molte possibilità al riguardo.”

“Si, però…..ti ha fatto male, non è così?”

Cercò di premere quel tasto con tutta la delicatezza a sua disposizione, appoggiando una mano sulla spalla della più grande, indecisa sulla risposta. La conosceva da tantissimo tempo, erano ottime amiche e non si erano mai nascoste nulla che potesse minare la loro amicizia. Eppure…il vederla esibire un sorriso, quel flebile sorriso, la fece sussultare impercettibilmente; fra tutte le possibili reazioni con cui sarebbe potuta uscire, quella la colse totalmente impreparata. Jessica non aveva formulato quella domanda col preciso scopo di spronare Sayuri a dirle quanto quell’attorcigliamento di stomaco le pesasse: voleva semplicemente che non si tenesse tutto dentro o che non le dicesse di preoccuparsi. La sincerità che muoveva l’amore della castana l’aveva sempre commossa, perché era dolce quanto lei, e meritava di essere ricambiata con eguale calore.

Però, quel sorriso………

Improvvisamente, l’angoscia della rossa s'intensificò ancor di più.

“Io…non sono mai riuscita a esprimermi bene”, mormorò Sayuri, con la frangia abbassata sugli occhi “Ero convinta che la mia fosse un’infatuazione passeggera, che mi sarebbe passata presto, ma tutto quello che ho fatto…è stato mentire a me stessa.”

Cercava di calibrare il respiro per evitare che il cuore pompasse più sangue del dovuto, lasciando perdere qualsiasi genere di difesa interiore dietro cui avrebbe potuto nascondersi.

“Ammetto di avere avuto un po’ di paura, all’inizio”, rise lei, intrecciando le dita “Non riuscivo a capire perché le mie guance diventassero calde o perché le mani mi tremassero…non avevo mai provato niente del genere. Sapevo solo che quando mi succedeva, c’era il sorriso di Ace a guardarmi.”

Addolcì il proprio viso nel ricordare il primo giorno di liceo: dopo quell’incontro ravvicinato con la sua narcolessia, lui le aveva stretto la mano, ridendo mentre spiegava che non era la prima volta che gli capitava di crollare come un sacco di patate. Un’allegra alternativa al classico presentarsi in classe, ma tutto quello che la ragazza era riuscita a pensare, in quel preciso momento, fu che avesse un sorriso davvero solare.

Era stato il primo pensiero che le era venuto in mente e non si era mai corretta.

“L’ho pensato subito e non mi sono mai corretta”, proseguì, dopo aver reso partecipe l'amica di quella notizia “Mi è sempre piaciuto vederlo sorridere, era come se tutti i problemi scivolassero via. Vederlo dopo tanto tempo me l'ha fatto ricordare e credo sia anche per questo, che ho accettato di venire in questo parco.”

“Yu-chan….”



Aveva creduto che quei cinque anni sarebbero volati via come niente e che non avrebbe mai scordato le amicizie fatte, ma tutto si era ribaltato quando Ace aveva cominciato a insinuarsi nella sua vita, in quegli angoli del cuore che lei aveva creduto addirittura inesistenti. Non vi era stata alcuna frettolosità, al contrario: era stato un crescere lento e graduale, scandito da piacevoli inconsapevolezze e attimi di disorientamento che solo adesso le apparivano più lucidi che mai. Negli occhi della castana, Jessica vide il riflesso di un amore bellissimo e che avrebbe commosso l’incarnazione stessa del romanticismo, ma scorse anche un’impotenza dolorosa che spinse Sayuri a guardarla con viso affranto.

“Volevo dirglielo, Jessica. Volevo veramente dirglielo, questa volta”, confessò a fatica, quasi avesse una pietra sopra il torace “Volevo dirgli che ragazzo gentile sia ai miei occhi, quanto importante fosse stato incontrarlo e quanto bene riesce a trasmettermi con la sua presenza, ma ogni volta….”, e si intristì “Finivo per rifletterci sopra e mi domandavo se quello che provavo, quello che provo…”, si corresse “Fosse realmente amore. Allora, sentivo male e avevo l’impressione che il cuore volesse scoppiarmi in petto.”

Si odiava per come il coraggio le veniva meno: era sempre riuscita a parlare senza alcun problema, a esprimere la propria opinione con semplicità ed eleganza, ma quando aveva a che fare con Ace, la vittoria andava automaticamente a lui. Succedeva sempre, quando lui la guardava in maniera particolare ed esibiva quel sorrisetto da bambino pestifero che la metteva con le spalle al muro. Una delle tante cose di cui Jessica era stata testimone e che rese quella confessione ancor più toccante; dal profondo del suo animo, avrebbe voluto dirle di fermarsi e di non abbattersi, ma sapeva fin troppo bene quanto Sayuri avesse bisogno di parlare, di dire, per almeno una volta, quel che si teneva dentro.

“Mi sarebbe andato bene anche se avesse avuto una ragazza. Gliel'avrei detto comunque”, se ne uscì poi, facendole sgranare gli occhi “Sarei passata per un’egoista, lo so, ma se avessi represso ancor una volta queste parole, non so se questo male avrebbe smesso di tormentarmi…”

“No che non l'avrebbe fatto!”  esclamò la rossa, afferrandole le mani “Sayuri, tu non senti male perché non riesci a confessarti, non solo! Tu senti male perché sei sinceramente innamorata di Ace, quello che hai nel cuore non è amicizia e, detto fra noi, tu sei l’ultima persona sulla faccia della terra che potrebbe passare per egoista! Hai il pieno diritto di confessargli il tuo amore, devi solo trovare il coraggio per ripetere le parole che mi hai detto!”

E se quell’idiota avesse osato liquidarla senza troppi preamboli, avrebbe avuto modo di conoscere l’ira funesta della bella Jessica Di Belleville, capace di cose impensabili, se si andava a prendere in giro un sentimento divampante come l’amore. Era rarissimo che sbottasse o si arrabbiasse, ma non le piaceva vedere Sayuri così in bilico. Stavolta la questione aveva raggiunto un punto critico e tutto per una telefonata fatta da un misterioso emittente!

Chiunque avrebbe potuto telefonare a Ace, non esistevano ragioni assurde per cui qualche suo conoscente non dovesse telefonargli ,e nonostante il fittizio alone che circondava il nome di quell’individuo, Sayuri non era non era saltata ad alcuna conclusione affrettata; non si sarebbe mai permessa di ipotizzare qualcosa e imporla come se fosse un’indiscutibile e inattaccabile verità, ma era innegabile quanto la cosa la stesse toccando……

E il brutto di tutto ciò, era che Jessica non poteva far altro che abbracciarla.

“Vorrei farlo…”, la sentì mormorare, con il mento appoggiato sulla sua spalla “Ma non sono più sicura se ne valga la pena.”

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Happy ending ***


La prima volta che Jessica aveva incontrato Sanji, era stato al club di musica. Lei ci si era iscritta per passione, incurante del fatto che la sua bellezza aveva esortato tutti i maschi presenti nell’istituto a fare lo stesso. Non si era stupita più di tanto quando, entrata in classe, l’aveva trovata totalmente stipata dai suoi compagni e da altri ragazzi desiderosi di poter duettare con lei: il fascino di cui era dotata era una prerogativa della sua famiglia e lei poteva ritenersi fortunata, perché sua madre Ambriel, alla sua età, riscuoteva tre volte il suo attuale successo. Una giusta motivazione che aveva spinto suo padre a prendere in seria considerazione un collegio rigorosamente femminile, giacché l’omicidio di più allupati decerebrati era vietato dalla legge.

Comunque, in quella prima lezione del club di musica, aveva incontrato lui, il suo futuro principe azzurro. Un tipo elegante e cordiale, ma anche pazzoide e di una perversità che rasentava la più completa delle assurdità. Un invasato di prima categoria, la cui ossessione per il genere femminile era vasta quanto il suo talento culinario. Ricordava perfettamente quando le si era parato avanti, definendola come la più bella creatura che la terra avesse mai avuto l’onore di ospitare, così come ricordava tutti i successivi momenti di quei lunghi anni scolastici. Neanche se fosse stata invisibile sarebbe riuscita a evitarlo, perché Sanji  - in un arco di tempo assolutamente inconcepibile – era riuscito a insediarsi nella sua testa, nei suoi pensieri, in qualsiasi posto lei si trovasse, compreso in quel quaderno rosa che lei aveva riempito di cuoricini e frasi romantiche e che teneva nascosto nel doppio fondo del suo cassetto. Era stato imbarazzante all’inizio, ma poi erano cominciati i lunghi attimi di contemplazione, i sospiri, e le innumerevoli notti passate a chiedersi se quanto le stesse accadendo poteva essere così  piacevolmente devastante. Le mura scolastiche erano testimoni di ogni passo e azione compiuta, ma Jessica era stanca di affacciarsi al passato: voleva dichiarare il suo amore per Sanji con tutta la sincerità del mondo, anche a costo di sembrare sfacciatamente zuccherosa. Al diavolo le persone, i balbettamenti e la stupida convinzione che dovessero essere solo i ragazzi a fare la prima mossa! Le dichiarazioni amorose appartenevano alle donne e tutto quello che le occorreva era una sana e massiccia dose di coraggio!

Ad avercela..., si ritrovò a pensare la ragazza, giocherellando con una della sue ciocche scarlatte.

Camminava su e giù per i corridoi in continuazione, senza chiedersi se stesse andando nella direzione giusta. In realtà aveva quasi timore nel tornare nella stanza data al biondo: dopo aver parlato con Sayuri, si era accorta di quanto poco avesse fatto, di come la situazione fosse rimasta la stessa. Niente di quanto sperato si era avverato e i dubbi non facevano altro che assalirla. L’essere innamorata era la sola cosa sicura che possedeva e solo lei sapeva quanto avrebbe voluto poterlo dire al ragazzo. Peccato solo che il coraggio tanto decantato dai suoi pensieri avesse deciso di scioperare fino a tempo indeterminato….

“Calma, Jessica, calma”, si disse, con una mano sul petto e respirando profondamente “Così non risolvi niente.”

Calibrando il suo respiro, pigiò un tasto nero e si prese una bottiglietta d’acqua. A forza di girare, era finita davanti a un distributore di bibite.

Forse…. Forse dovrei semplicemente lasciarmi andare, pensò nel mentre estraeva la bottiglietta Se continuo a farmi tutti questi pensieri, non riuscirò mai a dirgli quello che provo. Ma come faccio?

Si rabbuiò per quella domanda da un milione di dollari. Fare la predica a una amica per esortarla a farsi avanti era facile, ma mettere in pratica i propri consigli …..no, non era la stessa cosa, non con un caso disperato come il suo. Dichiarare il proprio amore era un’impresa epica quanto tutte le battaglie studiate durante l’ora di storia: richiedeva tanto fegato, tanti sentimenti, e se solo Jessica fosse riuscita a porsi un giusto ordine interiore, sarebbe stata in grado anche di attribuire a ciascun elemento il proprio nome.

Basta! Esclamò mentalmente, scattando in piedi Se continuo a farmi tutte queste domande non riuscirò mai a dirgli che lo amo. Devo essere più decisa, sì.

Si ripeté quella frase altre dieci volte prima di acquisire sufficiente autostima. Doveva provarci, fare appello a tutta se stessa e parlare: un tentativo le era comunque concesso e sarebbe sempre stato meglio che rimanere zitta e in balia di assurdi sproloqui mentali. Ma il farsi coraggio non la esentava dall’imprevedibilità del momento e come si voltò, non fece fatica a ricordarselo.

“O-oh! Guarda chi abbiamo qua.”

“Ciao, bellezza.”

Jessica sobbalzò alla vista di quei due tizi sconosciuti, tanto che la bottiglietta d’acqua le scivolò via dalle mani. Le erano arrivati di spalle, senza che se ne accorgesse, spingendola contro l’angolo del muro. I ghigni dipinti sulle loro facce lasciavano ben intendere cosa avessero in mente, ma se avesse ceduto immediatamente al panico, la situazione sarebbe degenerata all’istante.

“S-Salve. Posso aiutarvi?” domandò col cuore a mille.

“Può darsi, se sei disposta a seguirci”, sogghignò il primo.

Una risposta che spinse la rossa a stringere le spalle ancor di più.

“Tranquilla, vogliamo solo fare amicizia e divertirci”, continuò il secondo, notando l’accentuata rigidità di lei “Dopotutto, un Luna Park è fatto apposta per questo.”

“Ah…certo. Però non posso”, balbettò la ragazza, sgattaiolando via dall’angolo “Ho un amico che sta poco bene e non voglio lasciarlo solo…”

“Davvero? Beh, penso che se ne farà una ragione”, la fermò il secondo, prendendole il polso “Dopotutto, non è giusto che una bella ragazza come te sacrifichi il proprio divertimento. Dico bene, socio?”

“Dici be….AHIA! MI HA MORSO!!”

Adesso!

Aveva agito di istinto, senza starci a pensare troppo. Uscì dall’angolo in tutta fretta, cominciando a correre all’impazzata. Di voltarsi non se ne parlava nemmeno: quei due le erano dietro, li sentiva, il che la incitò a sufficienza a non demordere e a fare tutto il possibile per seminarli.

Ma perché cose del genere capitano solo a me?! si chiese disperata.

“Dove pensi di andare, dolcezza? Tanto ti prendiamo!” le urlarono quelli.

“Lasciatemi in pace!”

Girò, salì e scese scale, ma quelli continuavano a starle addosso peggio di uno sciame d’api assetato di miele. Con indosso il vestito da principessa poi, i suoi movimenti erano più pesanti e quando la fatica iniziò a farle mancare l’aria ai polmoni, un solo pensiero le balenò in testa: Sanji.

Avrebbe tanto voluto trovare la sua stanza e chiudersi dentro, sperare in un suo arrivo cavalleresco, ma concedersi simili fantasie era fuori discussione, specie con due tipacci e nessuna idea di dove fosse di preciso.

Era sul punto di svoltare l’ennesimo angolo, quando d’un tratto, il tacco della scarpa la tradì, spezzandosi e facendola cadere rovinosamente a terra.

“Ahi, ahi….”, si lamentò lei.

“Eh eh! Fine della corsa, bellezza!”

Di nuovo, venne accerchiata, con la differenza che questa volta non poteva più contare di un momento fortuito: uno dei due aveva avuto la buona idea di pestarle l’orlo dell’abito con le scarpe, impedendole di muoversi.

“Non è stato tanto carino scappare via a quella maniera. Sai che è da maleducati?”, la rimproverò il primo, agitando l’indice con fare divertito.

“Lasciatemi andare. Non posso venire con voi, ho una persona di cui devo prendermi cura!” esclamò con gli occhi smeraldini infiammati di coraggio e le mani intente a tirare la stoffa del vestito.

“E insiste pure!” si finse offeso l’altro “Si vede che dobbiamo insegnarle un po’ di educazione.”

I ghigni che Jessica vide, la impaurirono per bene, tanto da farla impallidire. Andava male, malissimo e più le ombre di quei due incombevano su di lei, più si sentiva schiacciata e sconfitta. Non si sarebbe mai mostrata così debole e indifesa, non avrebbe mai concesso a nessuno un simile privilegio, ma il corpo la stava tradendo su tutti i fronti e il pensare di poter sostenere quegli sguardi divertiti aveva tutte le fattezze di una mera illusione. Non voleva avere paura, ma ne aveva, come qualunque essere umano e quando le mani dei due si allungarono verso di lei, lasciò andare tutto quello che aveva trattenuto sino a quell’istante.

“SANJI-KUN!!!”

Lo chiamò con tutto il fiato avente nei polmoni, strizzando gli occhi e le mani in un sol gesto. D’istinto, come se questo potesse comparire a ogni suo comando. Non seppe mai dirsi se quanto seguì fosse stato un caso o il volere di una qualche divinità a lei sconosciuta, ma come un insolito spostamento d’aria le sollevò la chioma color rubino, il peso che la teneva ferma scomparve nel nulla.

“Cos..?”

Aprì gli occhi e lo vide. Era lì, in piedi davanti a lei, con le mani infossate nelle tasche dei pantaloni, la schiena larga e la sigaretta in bocca. Di questa, riuscì a scorgerne la presenza per via del leggero velo di fumo che emanava.

“Sanji-kun…”, mormorò incredula lei.

“Dannati bastardi! Cosa volevate fare alla mia adoratissima Jessica-chan?!” ringhiò il biondo ai malcapitati, finiti spiaccicati e svenuti contro il muro opposto.

Schiumava dalla rabbia, la sua voce era dura più dell’acciaio. I capelli dorati erano leggermente scompigliati e la camicia svolazzava a destra e a sinistra. Quegli abiti gli donavano molto più del costume da principe.

“Jessica-chan! Stai bene?!”

Si accorse tardi di quanto fosse vicino: si era inginocchiato di fronte a lei senza che se ne accorgesse, prendendole le mani con le sue e guardandola intensamente. Era confusa, con pensieri sparsi ovunque e quello sguardo penetrante – che aveva sognato tante volte di poter possedere - la disarmò completamente, pizzicandole gli occhi e rendendoli lucidi.

“Non sei ferita, per fortuna”, sospirò sollevato lui “Temevo che….Jessica-chan?”

Non provò neppure a controllare i tremiti del proprio labbro o di qualsiasi altro suo arto che cercava goffamente di darsi un contegno.

E’ venuto. E’ venuto per me…

Nient’altro si ripeteva nella sua mente, se non quelle parole cariche di emozioni indescrivibili e travolgenti. Era venuto, Sanji era venuto da lei e l’aveva salvata. Improvvisamente, si rese conto di essere piena di troppe cose: momenti, frasi lasciate in sospeso, sospiri….tutto un bagaglio di cui lei aveva sottovalutato la portata, guardandolo con occhi diversi da quelli richiesti.

“Jessica-chan, dimmi….off!”

Lo abbracciò così di slancio che caddero all’indietro, finendo sul pavimento con le labbra incollate. Un bacio puramente volontario e dato senza esitazioni. Se le fosse capitato di dover stilare una lista dei suoi gesti più eclatanti, avrebbe messo quello al primo, al secondo e al terzo posto, sicché non aveva mai avuto il coraggio di abbracciare un ragazzo che non fosse suo cugino Sean. Figurarsi baciarlo….

“Jessica-ch…”

“Sono così felice di vederti!” esclamò lei, stringendogli le braccia al collo “Ero così preoccupata…non ti svegliavi, non sapevo che cosa ti fosse successo e non sapevo che fare! Sono uscita a prenderti dell’acqua, ma mi sono persa e …oh, grazie! Grazie mille!”

Era troppo scombussolata per mettere insieme un discorso che spiegasse quanto stava provando. Felice, spaventata, sollevata, confusa….le sembrava impossibile stare ferma su un solo fronte, anzi: ne era totalmente incapace. Aggrapparsi a Sanji la salvò dal cadere in una buca troppo profonda perché la risalisse con le sue sole forze, il baciarlo, ruppe tutti quegli assurdi limiti e dubbi che le avevano frenato il cuore. Forse avrebbe dovuto essere più romantico, ma il prendere atto della propria azione fece trasalire la bella rossa, tanto che scattò all’indietro, diede le spalle al biondo e si prese il viso fra le mani.

Oddio, cos’ho fatto! L’ho baciato! L’HO BACIATO!

L’imbarazzo raggiunse dimensioni abnormi ed incontenibili. L’aveva fatto, aveva davvero baciato Sanji, così, di slancio. E non stava sognando!

“Jessica-chan…”

Non è possibile, non posso averlo fatto sul serio, non posso essere stata così…così…

“Jessica-chan…”

Stupida! Sì! Accidenti a me! Ma che mi è preso?!

“Jessica-chan..”

Il mio primo bacio…d’accordo, ero nel panico, cioè sono nel panico, ma non volevo dare il mio….ODDIO, IO HO BACIATO SANJI-KUN!!

“Jessica-chan.”

La ragazza sobbalzò quando sentì la mano di lui sulla sua spalla. Venne fatta voltare con una lentezza così esasperante che quasi si sentì mancare e ci mancò poco perché collassasse a terra: trovarsi di fronte a un Sanji serio – senza che questo perdesse sangue o tirasse fuori quelle sue espressioni stupidamente melense- , le chiuse la gola e la mente, pietrificandola di punto in bianco.

“Che…che…che cosa c’è,Sanji-kun?” balbettò stridulamente.

Ora anche la sua voce stava perdendo colpi...

“Eri davvero preoccupata per me?” le chiese lui dolcemente.

Respira, non farti venire ancor più panico: è una domanda semplice, le suggerì la coscienza.

Semplice o difficile, Jessica si prese un attimo per rispondere. Sapeva di non poter più contare sul proprio corpo, così come sapeva che la sua mente e il suo cuore erano troppo affollati perché ci ficcasse qualcos’altro dentro. La sua unica certezza, l’unica cosa che non avrebbe mai scartato, era l’idea di non voler perdere Sanji. Baciarlo a quel modo era stato improvviso e impensabile e la sua più grande paura era che questo potesse reagire male o stroncare di netto tutto il suo castello d’amore. Non avrebbe retto a un simile colpo, ma doveva rispondere, essere sincera. Altro non poteva fare.

“Ma certo che ero preoccupata: tu lo fai sempre, nei miei confronti”, mormorò lei, sentendo il sangue riscaldarle le guance “Mi aiuti per qualsiasi cosa io abbia bisogno, cerchi sempre di rallegrami anche quando passo un brutto periodo e so che ti faresti in quattro per esaudire un mio desiderio. Tu…”, ebbe un attimo di esitazione “Mi fai sentire bella.”

“Ma tu sei bella, Jessica-chan”, replicò il biondo.

“Non...non intendo fisicamente”, sussurrò lei, riuscendo a guardarlo “Tu mi fai sentire speciale, mi fai sentire bene con me stessa ed è una cosa che nessuno è mai riuscito a farmi provare. Mi sembra di toccare il cielo con un dito quando sono con te e anche se a volte ti vedo con altre ragazze, so che non saresti mai capace di farmi soffrire. Per questo ti amo tanto.”

Si rese conto di aver detto quello che aveva detto quando vide la bocca di Sanji spalancarsi e lasciar cadere a terra la sigaretta.

No! L’ho fatto di nuovo!  si disperò.

Complimenti, oggi la tua lingua non ha freni, si meravigliò la vocina stante dentro di lei.

Dio, non era umanamente possibile spiattellare anni e anni di sentimenti amorosi in meno di cinque minuti e senza nemmeno accorgersene in tempo reale.

“Sanji-kun, dimmi qualcosa”, lo implorò lei.

 “Davvero…”, cominciò quello, dopo attimi interminabili d’attesa “ Davvero mi ami, Jessica-chan?”

Un minuto per dare segni vitali. Piuttosto lento di comprendonio, l’amico, borbottò sarcasticamente la coscienza ribelle della ragazza.

“S…Sì”, mormorò quest’ultima, con il viso in fiamme e gli occhi lucidi.

Ormai si era buttata, ma la sua bella voce non sembrava più essere in grado di concretizzare i suoi pensieri. Le era sempre piaciuto, in una maniera così coinvolgente da non lasciarle scampo. Aveva sfondato la porta del suo cuore con un solo calcio, insinuandosi al suo interno passo per passo e riempendone tutti gli spazi, ma era inutile ricamarci ulteriormente sopra: aveva fatto il grande passo, si era lanciata nel vuoto e non poteva più fare altro – salvo sperare nella presa miracolosa del suo principe azzurro che ancora la fissava completamente stralunato -.

Si irrigidì quando entrambe le mani del biondo afferrano le sue e il volto fu tanto vicino da sfiorarle le guance. Era incredibile quanto ogni suo tocco riuscisse a provocarle lunghi e calcati brividi sulla schiena.

“Sanji-kun?”

“Mi hai preceduto”, disse semplicemente lui.

“Uh?”

“Volevo fare le cose per bene. I biglietti e tutto, insomma”, cercò di spiegarsi.

I biglietti per il One Piece Paradise Park li aveva ottenuti dopo due mesi di straordinario al lavoro. Riuscire a prenderne quattro era stato il primo passo verso la realizzazione di un progetto che Jessica ascoltò attentamente, rimanendo profondamente colpita dalla fatica che il ragazzo aveva fatto per farle trascorrere una giornata indimenticabile. Aveva fatto tutto per lei, peccato solo che non avesse previsto la prova assegnatagli dal concorso e quei dieci secondi di inferno che lo avevano costretto a lottare per la propria vita: dopo aver superato tutti gli ostacoli del Castello delle Favole si aspettava come minimo un bacio appassionato con la sua dolce Jessica-chan, non un orripilante e barbuto okama che voleva strappargli a morsi le labbra. Il solo ricordo lo fece diventare blu.

“Ecco perché il dottore ti ha diagnosticato un forte shock emotivo”, arrivò la ragazza, lasciandosi scappare uno sguardo compassionevole. “Mi spiace tantissimo, Sanji-kun.”

Quello, per tutta risposta, parve sprofondare ancor di più nella depressione  post-traumatica. Sì, doveva essere stata un’esperienza a dir poco che macabra, se il solo tirarla fuori dalla memoria lo riduceva in quello stato, ma la dolce Jessica aveva già una mezza idea su cosa potesse restituire il buon umore al ragazzo. Visto che aveva fatto trenta, tanto valeva fare trent’uno e ormai non c’era più ragione di essere impacciata o titubante.

Chinandosi quanto serviva e aggrappandosi a quel microscopico spicchio di sfrontatezza appena emerso, diede al suo bel principe un bacio sulla guancia. Una cosina semplice, ma sufficientemente potente da far tornare il ragazzo quello di prima.

“OH, JESSICA-CHWAN! ALLORA MI AMI DAVVERO!!!” ululò quello con un cuore gigante al posto dell’occhio e allungando smisuratamente le labbra verso la rossa “SUGGELLIAMO IL NOSTRO AMORE CON UN ALTRO BACIO!!!”

Bleah, i bradipi sono cento volte più reattivi e dignitosi di questo tizio qua. Certo che te lo sei scelto proprio bene, si mostrò disgustata la vocina.

“Sanji-kun, calma! Prima pensiamo alla tua salute, il dottore ti starà sicuramente cercando”, cercò di tranquillizzarlo lei. Non ci teneva proprio a vederlo morire dissanguato per la troppa felicità.

“Solo un bacino piccolo piccolo!” la blandì lui, senza demordere.

“Ugh….”

“SILENZIO LA’ DIETRO O GIURO CHE VENGO LI’ E VI UCCIDO A SUON DI CALCI!!” Tuonò il biondo, riferendosi ai due malcapitati che ancora stentavano a riprendersi dalle botte prese.
 

 
Con la venuta della sera, il parco si riempiva di luci colorate e accecanti. Nel loro insieme creavano un alone sfumato di arcobaleni tendenti all’arancione, che rendevano tutto ancor più suggestivo e divertente. Durava poco, ma meritava l’eguale attenzione che si dava al parco nel pieno della giornata. La ruota panoramica, poi, diventava magica. Seduta su una panchina stante in una delle floreali piazzette del posto, poco lontana dall’attrazione, Sayuri ne ascoltava attentamente la melodia. Era un motivetto corto e trillante, la cui ripetitività le stava accarezzando l’animo, sollecitandola a immaginarsi su quella giostra che tanto le piaceva.

Si sarebbe avvicinata di più, ma anche lì andava bene: era fin troppo consapevole di quanta calca avrebbe trovato se avesse deciso di sedersi proprio sotto l’attrazione. Il vociare chiassoso della gente le avrebbe impedito di estraniarsi e di godersi quella piacevole brezza che le solleticava il collo.

Per non parlare del riflettere lucidamente……

Dopo aver parlato con Jessica, non se l’era sentita di tornare in camera: quelle quattro pareti e l’aria stantia non erano ciò che le occorreva per far luce su ciò che voleva fare. Aveva sentito l’impellente bisogno di vedere qualcosa che l’aiutasse a sentirsi un pochino meglio e la ruota panoramica dell’One Piece Paradise Park si era rivelata, per l’ennesima volta, un’irriducibile fonte di sollievo immediato. Con la sua musica in sottofondo e il profumo dei fiori, la castana inspirò impercettibilmente, chiudendo per pochissimi istanti i suoi occhi color cioccolato. La mente si rifiutava di pensare ad altro che non fosse Ace e lei non si stava certo adoperando per sopprimerne l’immagine. Non aveva senso, non ce la faceva. I “Perché” di tutti gli anni passati avevano trovato una sola e unica risposta ormai e lo scoprire i propri sentimenti a Jessica non aveva fatto altro che sottolinearne l’evidenza: era veramente e irrimediabilmente innamorata di Portuguese D. Ace.

Alla fine ci era arrivata, lo aveva capito. Non si sarebbe sentita così male se si fosse trattata di una qualunque amicizia. Quella misteriosa telefonata l’aveva gettata in un dubbio mai provato e più si ripeteva che non c’era alcuna ragione per la quale dovesse pensare a chissà quale prospettiva, più il suo malessere si inspessiva.

Ma la colpa non era di Ace, si era detta. La colpa era sua, che non era riuscita a esprimere i suoi sentimenti per l’ennesima volta e di quella sua insulsa paura per i…i… per quei cosi di cui neppure riusciva a pronunciare mentalmente il nome.

Indubbiamente era una cosa su cui doveva lavorare, sicché un conto era sentirsi male davanti a dei ragni veri e un altro svenire come una stupida davanti a dei robottini travestiti, ma al momento erano altre le sue preoccupazioni. Il fatto che lui si fosse allontanato l’aveva resa maggiormente consapevole dei propri sentimenti, aveva calcato su quell’evidenza che ora stava ridendo di lei. Ma che si fosse sfogata o avesse compreso quanto grande fosse il suo affetto, adesso non aveva più importanza: si conosceva fin troppo bene e sapeva che non sarebbe mai riuscita a ripetere quanto aveva confessato a Jessica, non davanti a Ace. Tutto il suo coraggio era svanito in una nuvola di fumo, lasciandola lì, da sola, ad ascoltare la melodia della ruota panoramica del parco.

“Com’è tardi”, si accorse ad un certo punto, guardando distrattamente l’orologio della piazzetta “Mi converrà tornare da Jessica, prima che si preoccupi.”

Sistemandosi il golfino bianco sulle spalle e lisciando le pieghe della gonna, Sayuri si avviò verso l’infermeria, ma dopo neppure cinque passi, fu costretta a fermarsi.

“Ti ho trovata, finalmente.”

“Ace?”

Il ragazzo era davanti a lei, con una mano appoggiata al fianco e l’altra reggente un sacchetto rosso con un grosso fiocco d’oro sopra.

“Mi stavo preoccupando: sono tornato nella tua stanza e non c’eri. Non ti avevo detto di rimanere lì a riposare?” le domandò retoricamente, con una minuscola nota di rimprovero.
“Lo so, ma mi sentivo meglio e volevo prendere un po’ d’aria, così sono venuta qui. Ti chiedo scusa, non volevo farti preoccupare”, cercò di spiegarsi lei, facendo attenzione a non inciampare nelle sue stesse parole.

Era stata seduta su quella panchina così a lungo che il tempo era trascorso più velocemente di quanto pensasse. Ci mancava solo che facesse impensierire il ragazzo….

“Non fa nulla, è tutto a posto”, le disse lui, con un forte sospiro di sollievo che la colpì.

Si era preoccupato per lei, l’aveva cercata per tutto quel tempo e lei neppure aveva pensato di stare vicino all’infermeria. Sayuri se ne vergognò subito, ma neanche farlo apposta, il luccicante fiocco dorato che chiudeva lo sgargiante sacchetto rosso stante sulla mano del moro, richiamò la sua attenzione.

“Che cos’è?” domandò incuriosita.

“Questo?” e sollevò il pacco “E’ un pensierino. Prendilo pure.”

Dopo un attimo di incertezza, Sayuri allungò le mani verso il pacco e lo aprì, stando ben attenta a non rovinare il fiocco. Subito, le sue dita toccarono qualcosa di ruvido e di irregolare, e come sfilò il contenuto dal pacco rosso, dischiuse la bocca.

“E’ un modellino della ruota panoramica”, mormorò lei, osservando l’oggetto con stupore.

“Esatto”, annuì lui.

Più volte era passata davanti alla vetrina del negozio situato a pochi passi dalla giostra e sempre aveva avuto modo di osservarne i modellini colorati esposti in vetrina. Niente plastica leggera o meccanismi che dopo due o tre volte si fondevano per il troppo sforzo: i modellini della ruota panoramica del parco erano colorati e pesanti come un carillon di prima fattura, ricchi di dettagli e costruiti manualmente.

“E’ davvero stupendo, ma ti sarà costato una fortuna”, fece lei.

“Sì, però ho pensato che fosse carino regalarlo alla mia ragazza”, le confessò lui.

Ragazza?

Gelo. Un improvviso e appuntito gelo, sottile quanto un ago e letale quanto un colpo di pistola alla tempia. Fu doloroso e immediato, impossibile da accettare, eppure Sayuri lo incassò silenziosamente.

“Che ne dici?”

“Ecco, è davvero molto bello……”

No, la voce non poteva abbandonarla proprio in quell’istante. Così non faceva altro che rendere tutto ancora più difficile.

“Le piacerà, ne sono sicura”, gli sorrise, rimproverandosi mentalmente quella piccola esitazione e la sua inettitudine.

“Lo credo anch’io. Sai, le è sempre piaciuta quest’attrazione, ma non è mai riuscita a salirci”, le rivelò il moro, con un sorriso piuttosto ambiguo.

Se fosse stata totalmente sopraffatta da tutte quelle vicissitudini, Sayuri nemmeno ci avrebbe provato a riflettere su quell’affermazione tanto strana. Ma invece lo fece, perché il viso di Ace aveva qualcosa di diverso dal solito, riservato a lei e non a quell’ipotetica ragazza che non era mai salita sulla ruota panoramica; non pensò a una coincidenza o a uno strano caso del destino, ma ringraziò il cielo per non averle fatto tremare le mani. Quel modellino era così bello e pieno di colori che le sarebbe dispiaciuto tantissimo vederlo andare in pezzi, senza contare che il ragazzo doveva aver speso non poco per comprarlo. Fu in quel frangente, nel mentre restituiva il regalo al moro, che questo glielo spinse delicatamente contro, marcando il suo sorriso sghembo.

“Ma…?”

“Sciocchina. Credi che abbia comprato questo regalo per darlo a qualcuno che non fossi tu?” le sussurrò a pochissimi millimetri dalle labbra.

Vicino. Troppo vicino.

Non ci fu modo per impedire il completo arrossamento del suo viso, non quando la presenza di Ace la pressava a tal punto che poteva contare le lentiggini del suo volto. Riusciva a scombussolarla su tutti i fronti, rendendola meno sicura, privandola della capacità di reagire e di controllare il proprio respiro. Una sequenza vissuta innumerevoli volti, che si ripeteva esclusivamente quando Ace riusciva a inoltrarsi nel suo territorio e sconvolgerla. Non era niente di irruento, al contrario, ma l’inesperienza di lei – e l’estrema vicinanza dei loro volti - stava rendendo il tutto ancor più strano e incontrollabile e non occorse molto prima che l’imbarazzo a lungo trattenuto regalasse a Ace la vittoria schiacciante che tanto sperava di incassare.

“Dovresti vederti: sei completamente rossa”, le sussurrò divertito lui, giocherellando con alcune delle sue ciocce castane.

C’erano almeno venti centimetri di differenza fra loro due, il che rendeva Sayuri  piccola e apparentemente indifesa e se c’era una cosa che divertiva Ace era proprio il riuscire a disarmarla e metterla con le spalle al muro: trovava a dir poco adorabile come le sue guance si imporporassero quando le si avvicinava, ma la vittoria per cui aveva gioito in un primo momento, istantaneamente, svanì nel nulla, lasciando spazio alla sua coscienza. Si accorse del suo sbaglio, di come avesse sciolto di troppo la briglia che teneva a freno la sua impulsività e si ritrasse prima di giungere al punto di non ritorno. Non era una novità che fosse una persona piuttosto impulsiva – non quanto Rufy -, eppure aveva sempre cercato di usufruire della propria intelligenza, prima di caricare a testa bassa contro un ostacolo troppo duro per la sua capoccia. Ma con Sayuri la questione era diversa, lei era diversa, tanto da implicare un’ingente e continuo utilizzo di paletti “Anti-stupidità”, come li aveva definiti Sabo. Paletti che, disgraziatamente, erano appena andati a farsi benedire, siccome il proclamare una ragazza “Sua” senza neppure chiederle se volesse esserlo effettivamente, considerandola già tale, era tutto fuorché sensato!

“Scusami”, le disse poi, seriamente “Non avevo intenzione di dirtelo in questo modo.”

“Parli come se mi avessi offeso.”

“Cosa?” si ritrovò a guardare la ragazza e quel suo sorriso dolcemente rassicurante come se fossero il perno portante dell’universo intero.

“Io penso che ognuno di noi abbia il proprio modo per esprimere quello che pensa o vuole fare: se provasse a fingere di essere una persona differente da quella che è, si farebbe soltanto  del male. Forse la tua non sarà stata una dichiarazione da regola, ma è stata sincera e a me…è piaciuta, quindi non hai nessun motivo per scusarti.”, gli rivelò lei, con le dita intrecciate.

Avrei voluto dirtelo, provarci, perché ero al limite della sopportazione e anche se non fossi riuscita a sbloccarmi me la sarei fatta andare bene. Mi sarebbe andata bene qualsiasi cosa, qualunque…..

“Purché tu non mi odiassi”, mormorò a bassa voce, senza accorgersene.

Ci fu un momento in cui Ace rischiò di perdere la lucidità che lo stava tenendo con i piedi per terra, ma era così preso ad ascoltare le parole di Sayuri che non lo diede neppure a vedere.

La semplicità con cui la ragazza riusciva a sorprenderlo aveva lo stesso effetto del suo disarmarla quando superava i famosi quarantadue centimetri. Con la differenza che non scattava nessun bacio.

Lei, da parte sua, aveva detto tutto senza mai abbassare i suoi occhi color cioccolato e lasciando scorrere ogni singola forma di pensiero trattenuto. Ragazza. La sua ragazza. Ace aveva comprato quel modellino della ruota panoramica per lei, non considerandola una semplice amica e questo aveva eliminato quel blocco d’incertezza che sempre l’aveva tenuta a un’esagerata distanza di sicurezza. La cosa le si era riversata addosso senza che se ne accorgesse subito e ancora adesso faticava a mettere in ordine le idee. Non si aspettava un’uscita così dirompente e poteva capire bene perché Ace si fosse premurato a chiederle scusa, ma non le importava, non si era sentita minimamente offesa e questo perché di Ace amava pregi e difetti, in quanto lo rendevano il ragazzo per cui era certa oltre l’inverosimile di aver perso la testa.

Batté gli occhi un paio di volte nel vedere il moro, dopo un attimo di sconcerto, passarsi una mano sul viso per soffocare una piccola risata. Neanche ebbe il tempo di chiedergli che cosa avesse, che sentì il suo braccio avvolgerle le spalle e tirarla verso di lui.

“Ace?”

“Devi aver preso un bella botta nella Casa degli Orrori. Non è da te dire certe sciocchezze”, le disse, accarezzandole con la mano libera la testa.

“Scusami”, mormorò lei e prendendo mentalmente atto che le sue ultime parole le aveva dette a voce.

“Ecco, questo è da te”, ridacchiò poi, memore del fatto che la ragazza sapeva chiedere scusa anche per cose di minima importanza o che proprio non aveva commesso “Se non altro, Sabo non mi farà dormire sul pianerottolo di casa.”

“Sabo? Era lui al telefono?” domandò la castana, sollevando la testa.

“Sì”, le rispose “E parli del diavolo…”, aggiunse con irritazione, sentendo suonare il suo cellulare. Era lui, di sicuro: sempre nel momento meno opportuno! “Aspetta un minuto. Pronto? Sii veloce, per favore. Certo che sono occupato! No, non in quel senso, scemo”, seguì un lievissimo rossore da parte sua.

Sabo era il suo più grande amico di infanzia, quasi un fratello maggiore per lui e Rufy, sebbene avesse la stessa età del primo. Un ragazzo solare, con i capelli biondi, un sorriso contagioso e con non poco sale in zucca, capace di intuire cose che per gli altri sono ancora impensabili. Una qualità che a volte lo rendeva veramente detestabile, sicché poteva intortare chi aveva davanti come più gli aggradava , ma nessuno sarebbe mai andato a dire in giro che fosse cattivo, meschino o falso: Sabo teneva ai suoi amici ed era sempre disposto a dare una mano. Due, nel caso di Ace. Gli era occorso diverso tempo per realizzare che la sua ex compagna di classe - la stessa ragazza che ora si teneva vicino per paura che potesse essergli portato via -, era molto più di quanto si fosse limitato a pensare, ma Sabo lo aveva intuito sin dal loro primo incontro, durante un pomeriggio di studio che poi si era rivelato un flop colossale. Ace era una persona decisa, simpatica, che manteneva sempre la parola data, ma anche impulsiva, testarda, un po’ arrogante, burbera, e tanto narcolettica che a volte non lo si riusciva neppure a svegliare. Per non parlare poi dei suoi momenti neri: lì si chiudeva a mo’ di riccio in se stesso e non c’era verso di farlo aprire. Il suo orgoglio era forse la cosa più dura che ci fosse al mondo, ma in presenza di Sayuri non riusciva mai ad aggiudicarsi l’ultima parola, e questo perché la pazienza della ragazza lo disarmava dolcemente, senza rimproveri o ammonimenti vari; sapeva aspettare, trovare le parole giuste, capire che cosa passasse per la testaccia dell’amico ed era anche molto graziosa.

“Che tormento”, borbottò il ragazzo, infilando il cellulare in tasca.

“Va tutto bene?”

“Sì, voleva solo sapere l’andamento della giornata”, buttò velocemente lì.

“Non mi sembri molto sicuro della tua risposta”, notò lei, inclinando il viso.

Si guardarono per qualche istante, prima che Ace si passasse nuovamente la mano fra i capelli, con fare stranamente imbarazzato. Non era il genere di persona che arrossiva o esitava.

“ Voleva sapere se mi ero già dichiarato”, le rivelò.

“Oh….”, mormorò lei, non riuscendo a pronunciare altro.

“Era lì con me quando ieri mi hai chiamato, anzi: ha sempre preteso di essere presente ogni volta che uscivamo in gruppo, ma solo per rinfacciarmi l’evidenza dei fatti.”

“Che genere di evidenza? Scusami, ma non riesco a seguirti.”

Le aveva detto già che l’amava – non direttamente -, eppure qualcosa continuava a sfuggirle, la lasciava in perenne bilico. E nella posizione dentro cui si era cacciato, Ace non poteva astenersi dallo spiegare che cosa ci fosse dietro a tutta quella serie di vicissitudini che ora li vedeva finalmente insieme, ma come accidenti le spiegava che l’intera questione si rifaceva unicamente a una gelosia di prima categoria?

Era stupido, forse infantile, ma non si era mai ritrovato nella posizione di doversi trattenere così tanto. Poteva negarlo fino alla morte, mostrarsi come una persona perfettamente in grado di controllarsi, ma era fin troppo lampante che buona parte degli anni trascorsi al liceo li avesse sprecati anche a guardare storto Satch quando provava scherzosamente ad attirare le attenzioni della ragazza. Chiamarla “Principessa” aveva incrementato solo il desiderio di verificare quanto tempo la capigliatura dell’ex-compagno ci impiegasse a bruciare. Un esperimento mai messo in pratica e solo perché Sayuri aveva sempre declinato cortesemente qualsiasi invito da parte del biondo. Ma, come si era detto giusto due secondi addietro, non poteva buttare lì l’argomento come se fosse stato nulla di che. E tuttavia, non voleva neppure che la faccenda scivolasse via….

“Forse non si vede, ma io sono una persona egoista. A volte quello che ho non mi basta ed è da molto che l’essere amici non mi è più sufficiente”, le spiegò, cercando di essere conciso, esauriente e anche serio “Cercavo da tempo un modo per poterti vedere, senza altra gente in mezzo, ma tra un impegno e l’altro non riuscivo mai a farmi venire in mente un’idea sensata. La cosa mi rodeva, però poi tu mi hai invitato e prima ancora di accettare, Sabo ha minacciato di chiudermi fuori casa se non fossi riuscito a dirti che mi piaci. Prima, in infermeria, mi aveva chiamato per sapere come andava e quando gli ho raccontato dell’incidente nella Casa degli Orrori mi ha dato dell’idiota per essermi addormentato e averti lasciata sola.”

“Ma non è stata colpa tua, non l’hai fatto apposta ad addormentarti”, cercò di discolparlo lei “Il biglietto ce l’avevo io e avrei dovuto ….”

“Al diavolo quel pezzo di carta, mi interessi tu, non certo uno stupido concorso”, replicò con fermezza lui, avvicinandosi di più al suo volto “Non mi piace quando stai male e non avrei dovuto lasciarti sola”, aggiunse successivamente più piano, con gli occhi abbassati.

Era arrabbiato con se stesso e Sabo aveva avuto tutte le ragioni del mondo ad avergli dato dell’idiota. L’occasione che aveva praticamente cercato con tutti i mezzi a sua disposizione gli stata porta gentilmente dalla stessa persona su cui voleva fare colpo e in nemmeno in dieci ore era riuscito a farla andare a monte. Le volte che erano usciti soltanto loro due erano pressoché inesistenti, perché alla fine uno o più amici si aggregavano e il sapere che anche a quell’uscita ci sarebbero stati anche Sanji e Jessica, aveva incrinato leggermente il suo umore. Ma era sempre meglio che non avere niente e l’invito era partito da Sayuri, quindi aveva accettato senza neppure pensarci due volte – minacce di Sabo a parte -. Lui non era come Sanji, svisceratamente romantico e zuccheroso fino alla nausea, capace di compiere gesti impossibili per il solo gusto di far colpo su Jessica. Lui era Ace. Un pochettino scontroso, simpatico, gentile, sorridente e che avrebbe voluto fare le cose per bene, senza esagerare. Il fatto che si sentisse in colpa per come erano andate le cose, che si fosse infervorato a quel modo, proclamando che il suo attuale oggetto d’interesse era lei, fece apprezzare ancor di più alla castana il regalo fattole: salire sulla ruota panoramica era il suo piccolo sogno, il moro lo sapeva, e nonostante l’opportunità persa, aveva comunque voluto darle qualcosa di speciale.

“D’accordo, però adesso calmati. Sto bene, dico sul serio”, lo rassicurò nuovamente.

“E pensi che questo mi basti?” le domandò, aggrottando la fronte.

“Come?”

“Io sono egoista, te l’ho detto. E tu mi hai fatto prendere un bello spavento, in quella casa”, continuò lui “Senza contare che mi sono sorbito un’ora di coda per comprare quel modellino.

Quindi, adesso, voglio essere ringraziato a dovere”, concluse con un’espressione alquanto maliziosa, accompagnata dall’immancabile sorrisetto sghembo.

Era di nuovo vicino, tanto che poteva contargli tutte le lentiggini che gli tempestavano il viso. Lo stava facendo apposta. Se c’era una cosa su cui aveva sempre avuto forti dubbi – e che ora sapeva con certezza -, era che Ace fosse al corrente di quanto per lui fosse facile metterla con le spalle al muro, quando le si avvicinava troppo. Lei arretrava, lui accorciava le distanze. Lei diventava bordeaux e lui si aggiudicava la vittoria. Era incastrata lì, con lui e con la sua capricciosa pretesa di essere ringraziato con un bacio. Un’altra prova di come l’essere diretto di Ace fosse imprevedibile e fuori dagli schemi quanto la sua infantilità semi-nascosta. Non c’era verso per lei di reagire, non con il cuore in fibrillazione: andava così e mai sarebbe cambiato, perché il ragazzo sortiva su di lei un effetto così devastante da disorientarla ogni singola volta. E con il braccio di lui attorno alle sue spalle, come se avesse deciso di metterci le radici, le possibilità che quello fosse una semplice illusione, si azzerarono di colpo. Quasi quanto i pochi millimetri che separavano Ace a prendersi il proprio premio personale.

Se non che…..

Driiiiin!!!!

“QUEL DANNATO ROMPISCATOLE!!” ruggì il moro. Stavolta gli era stato impossibile trattenersi.

La suoneria era inconfondibile e fu abbastanza squillante da strappare Sayuri dallo stato di piacevole di confusione dentro cui era stata spinta inconsapevolmente, per essere spinta in un altro ancora più profondo e totalmente privo di quelle sensazioni  che le avevano congestionato le guance e inibito i sensi. Un millimetro. Un solo e microscopico millimetro e Ace l’avrebbe….

Pensarlo e realizzare di essere stati stoppati da quel suono dietro cui il ragazzo stava imprecando, le fece nascondere la testa contro il torace di quest’ultimo. Non era come essere stati colti in flagrante da una persona, ma il grado d’imbarazzo era uguale.

“Stavolta lo strangolo”, giurò Ace, sibilando, per poi accettare la chiamata “Spero tu abbia un motivo più che plausibile per…Rufy? Cosa fai col cellulare di Sabo? Che genere di urgenza?! Che?! No che non glielo chiedo, qualunque cosa tu abbia in testa…!”

“Passamelo, Ace”, le chiese gentilmente la castana, aprendo il palmo della mano. Da quel poco che aveva capito, il fratellino del moro sembrava volerle chiedere qualcosa ed era bene che intervenisse, prima che Ace prendesse in seria considerazione di appenderlo per il collo.

“Ciao, Rufy, sono Sayuri. Che cosa vuoi chiedermi?” domandò una volta che sentì la voce del ragazzo dall’altro capo del telefono “Come dici? Sì, certo che ne sono capace, ma perché me lo domandi?”

Il fratello minore di Ace la tenne occupata per altri cinque minuti, guadagnandosi un surplus di strigliate dal maggiore. A casa l’avrebbe sentito e anche Sabo! Gli aveva promesso di non chiamarlo più, ma evidentemente doveva aver lasciato in bella vista il suo telefono e considerata l’entità del danno, non gliel’avrebbe fatta passare liscia.

“Allora, quale era l’impellente urgenza che necessitava il tuo consiglio?” preferì buttarla su un tono ironico piuttosto che riprendere a sbuffare come una ciminiera.

“Mi ha chiesto se so cucinare la carne “, le rispose placidamente lei.

“……Come scusa? Puoi ripetere?”

“Rufy mi ha chiesto se so cucinare la carne”, ripeté lei “Secondo quanto gli ha detto Sabo, è una richiesta che si può fare solo quando la persona è di famiglia”, cercò di spiegare lei, con parole sue “E visto che adesso lo sono, ha detto che non c'è più nessun problema e che posso venire a cucinare a casa vostra quando voglio.”

No, non l’aveva fatto. Rufy non poteva averle chiesto una stupidata del genere, non in un frangente di cui aspettava la completa realizzazione da tempo indeterminato. Non poteva averlo fatto sul serio, ma dall’alto della sua sapienza, Ace era fin troppo conscio dell’imprevedibilità del fratellino  e di certe sue uscite, quindi non avrebbe dovuto stupirsene più di tanto. E invece no, perché quella testa di rapa riusciva sempre a portarlo all’esasperazione con la sola forza del pensiero e il permettere a Sayuri di venire a cucinare da loro quella stessa sera  -obbligo misteriosamente trasformato in un invito implicito – gli fece bollire il sangue nelle vene.

“Scusalo. A volte si comporta peggio di un bambino”, sospirò pesantemente il ragazzo, dimenticando momentaneamente la pretesa infantile interrotta due secondi addietro.

“Io l’ho trovato un modo curioso per darmi il benvenuto”, ridacchiò sommessamente lei “E poi non mi dispiace cucinare.”

Mentalmente, Ace ringraziò che la castana avesse preso l’interruzione nella maniera più positiva possibile. Solo lei avrebbe potuto trovare la cosa divertente. Lui doveva ancora finire di lavorarci, perché sospettava fortemente che dietro l’improvvisata di Rufy ci fosse lo zampino di Sabo: non voleva pensare male dell’amico, ma entrambi si conoscevano fin dalla tenera età e la sua irritazione era una delle poche cose che il biondo non riusciva a gestire completamente.

 “Guarda che non sei obbligata a venire. Tantomeno stare ai fornelli solo perché adesso puoi ”, le disse lui. Accidenti a Sabo e alle sue stupide trovate!

“Lo so, ma a me farebbe molto piacere”, mormorò lei, colpendo il moro. Aveva di nuovo le dita intrecciate  e un’espressione esitante.

“Tu hai detto di essere egoista, ma credimi, lo sono anch’io”, continuò la ragazza, con più sicurezza “Fra poco il parco chiude e io non me la sento di tornare a casa. Lo so che non si può allungare la giornata o fermare il tempo, ma… vorrei stare con te un altro po’. Solo un pochino, anche se ci sono altre persone e se… insomma… non ti crea disturbo.”

Era il suo piccolo e capriccioso desiderio egoistico. Solo per un altro po’ , giusto per compensare quello strano senso di vuoto che si era creato quando il cellulare di Ace l’aveva riappropriata del senso della realtà. La giornata aveva preso una piega del tutto inaspettata, ma tra una vicenda e l’altra, Sayuri era quasi giunta alla sua fine, e con il risultato più sconvolgente che potesse ottenere. Ma non le bastava. Per una volta volle essere egoista, volle provare ad esserlo: il pensiero di tutti i momenti passati era forte quanto il rimpianto di aver taciuto tanto a lungo e sebbene tale silenzio fosse stato supportato da considerevoli ragioni, adesso non se la sentiva di tornare sui suoi passi.

E il venire baciata fugacemente a bruciapelo, con morbida dolcezza, tranciò di netto qualsiasi possibilità di ripensamento.

“Sì, devi aver decisamente preso una bella botta nella Casa degli Orrori, se pensi che la tua presenza possa disturbarmi”, le soffiò il moro sulle labbra, accarezzandole con il pollice la guancia.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=895438