Cruelty of fate

di shotmedown
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Away ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***
Capitolo 7: *** VII. ***
Capitolo 8: *** VIII. ***
Capitolo 9: *** IX. ***
Capitolo 10: *** X. ***
Capitolo 11: *** XI. ***
Capitolo 12: *** XII. ***
Capitolo 13: *** XIII. ***
Capitolo 14: *** XIV. ***
Capitolo 15: *** XV. ***
Capitolo 16: *** XVI. ***
Capitolo 17: *** XVII. ***
Capitolo 18: *** XVIII. ***
Capitolo 19: *** XIX. ***
Capitolo 20: *** XX. ***
Capitolo 21: *** XXI. ***
Capitolo 22: *** XXII. ***
Capitolo 23: *** XXIII. ***
Capitolo 24: *** Non è un capitolo! ***
Capitolo 25: *** XXIV. ***
Capitolo 26: *** XXV. ***
Capitolo 27: *** XXVI. ***
Capitolo 28: *** XXVII. ***
Capitolo 29: *** XXVIII. ***
Capitolo 30: *** XXIX. ***
Capitolo 31: *** XXX. ***
Capitolo 32: *** XXXI. ***
Capitolo 33: *** XXXII. ***
Capitolo 34: *** XXXIII. ***



Capitolo 1
*** Away ***


Quando un sogno maturato in cinque anni non si avverava, risultava difficile continuare a credere in tutto ciò che non fosse concreto. Veniva spontaneo essere cinici, talvolta freddi, per riuscire a distogliere la mente da un unico pensiero: “la realtà ti assorbe”. E non si poteva far nulla, se non arrendersi e subire silenziosamente la tortura. Ero in una sala d’aspetto, e mentre armeggiavo con un cellulare arcaico, per non dire preistorico, attendevo che la mia amica e il suo ragazzo prendessero due biglietti per il prossimo volo. Direzione? Qualsiasi luogo mi sarebbe andato bene, purché fosse anche solo minimamente distante da Boston. Sembrava tutto così normale, consueto, ma io mi sentivo fin troppo osservata, e fu un sollievo quando intorno alle dieci, tutti scomparvero. “ Era davvero necessario lasciare la chiesa e correre subito in aeroporto? Potevi almeno togliere l’abito... ” sollevai lo sguardo e guardai la mia amica dritto negli occhi. “ Avrei perso tempo. E poi, chi vuoi che faccia caso ad un abito azzurro? ” gli sguardi della gente mi rispondevano esattamente ciò che non volevo sentirmi dire. “ Lungo. A gonna larga. Sembri un confetto ambulante. ” Talvolta la sua schiettezza mi irritava, ma aveva ragione. Mi rivolse un sorriso e poi tornò dal ragazzo, intento a porre le valigie su un carrello. Finalmente, dopo due ore, riuscii ad alzarmi da quella sedia, scomoda d’altronde; era la seconda volta in vita mia che vedevo un aereo così da vicino. Mi affacciai alla grande vetrata che dava proprio sulla pista, illuminata, al buio, solo da alcune luci rosse. Evidentemente non erano previsti voli di ritorno o di andata a quell’ora. Non seppi bene quanto tempo rimasi in quella posizione, immobile e dritta con lo sguardo perso nel vuoto. Sin da ragazzina era sempre stato il mio problema più grande: quando sentivo il bisogno estremo di riposo mi nascondevo nel silenzio e me ne stavo in uno stato di trance fino a quando qualcuno o qualcosa non mi riportava alla realtà. E benché fossi a conoscenza del fatto che quello potesse essere un problema, non avevo mai fatto niente per porvi rimedio. Semplicemente non mi importava; era una questione che riguardava solo e soltanto me. ‘ Losing what was found, a world so hollow, suspended in a compromise. ’ Avevo cercato di non sfidare qualcosa di più grande di me, ero riuscita a convincere me stessa, tuttavia, che un giorno sarei riuscita a vivere come il mio cuore desiderava. Ma non ce l’avevo fatta. Tutto era crollato con un effetto domino devastante, per me, e non ero riuscita più a sopportare ciò che mi circondava. Sentivo migliaia di dita puntate contro, e un coro incessante di ‘ Te l’avevo detto! ’ C’erano mille voci nella mia testa... “ Finirai col romperlo. ” Istintivamente sollevai lo sguardo in direzione della voce. “ Il cellulare, lo tieni troppo stretto. ” Allentai leggermente la presa, e solo quando anche lui se ne accorse si voltò verso di me. Aveva un volto estremamente familiare. “ Anche se si rompesse non mi importerebbe. ” Gli risposi. Inchiodò i suoi occhi castani nei miei, per poi prendere il piccolo oggetto dalle mie mani e posarlo, successivamente, su una delle mie borse. “ E’ un modello vecchissimo, quindi vuol dire che te lo ha regalato qualcuno che per te è importante. Brutti ricordi o rimorsi? ” “ Entrambi. ” Non seppi perché lo dissi così liberamente. Neanche lo conoscevo. “ Non saresti riuscita a distruggere ciò che è stato, lo sai? ” lo vidi sorridere. Purtroppo sì, lo sapevo fin troppo bene. Avevo pagato fin troppo il prezzo di una presunzione infantile. “ Forse sarei riuscita a cancellarne solo un piccolo tassello... ” mormorai tra me e me. “ Passato e presente plasmano il futuro. ” Pascal. Lo conoscevo bene. “ Certe volte il futuro diviene di nuovo passato, e lo stesso vale per il presente. Se sarà forgiato per me un nuovo avvenire sarò ben felice di accoglierlo. Per ora, mi aggrappo al nulla. ” Mi sentii chiamare da Leah; stranamente, avrei voluto continuare quella conversazione. “ Sono Pierre. ” “ Sam. ” Mi allontanai, raggiungendo i miei compagni; mi accorsi di avere un gran sonno e tantissima stanchezza sulle spalle. “ Ci rincontreremo! ” Sembrava un affermazione più che una domanda.

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Capitolo 2
*** II. ***


Cosa posso perdere, se decido di essere una
prostituta per un po' di tempo? L'onore.
La dignità. Il rispetto per me stessa. A ben pensare,
non ho mai avuto nessuna di queste tre cose.
Non ho chiesto io dinascere,
non sono mai riuscita a farmi amare,
ho sempre preso le decisioni sbagliate-ora
sto lasciando che la vita decida per me.

~ Paulo Coelho, Undici Minuti




“ Montréal?! ” sbraitai, scesa dal taxi. Vidi un sorriso a trentadue denti stamparsi sul volto di Jack, nel momento in cui aveva notato la mia espressione decisamente contrariata.
“ Non volevi andare a Sherbrooke... ”
“ Perché era a quattro ore da Boston! ”
“ Montréal è a cinque. ” Affermò soddisfatta Leah. Ebbi un certo moto di ira nei confronti di quei due. “ Hai sempre sognato di venire in Quebéc, e ora che ci sei ti lamenti. ” Dichiarò Jack. Gli lanciai un’occhiataccia per poi rivolgermi alle mie valigie.
“ Va bene. Questo te lo concedo, ma se mi ritrovo anche una sola formica di Boston nei paraggi prendo il primo autobus per Anchorage. ”
“ Non sopporteresti mai tre giorni e undici ore di viaggio, amica mia. ” Intervenne Leah, ammiccando.
“ Ma hai imparato a memoria ogni itinerario?! ”  annuì. In quel momento abbi la strana sensazione che intendesse seguirmi, seppur sapesse bene che non mi sarei mossa di lì. Portammo i bagagli dentro l’appartamento, esattamente nel centro della città.
“ Ah. Non ti ho detto una cosa...Domani sera andiamo in Rue Crescent! ”

Afflitta, cercai camera mia. Leah stava facendo di tutto per farmi distrarre, e anche se non glielo dicevo esplicitamente, la ringraziavo. Trovata una stanza di media grandezza, gettai la borsa sul materasso scoperto e lasciai le valigie sulla soglia. Era carina, anche se vuota. Presi da uno degli scatoloni una piccola tenda di tulle arancione, che si intonava perfettamente alle pareti beige chiaro e ne infilai i passanti nel bastone. Poi presi una sedia e, salitaci sopra, lo bloccai tra i due ganci attaccati al muro. Faceva il solito effetto, lo stesso ogni volta che veniva attraversata dai raggi del sole. Dopo circa dieci minuti dal nostro arrivo, ci armammo di detersivi e disinfettanti; quella casa sarebbe rimasta occupata un bel po’. Ad ognuno di noi fu affidata una camera, così da finire più in fretta.
Spolverai e pulii per bene l’armadio, attaccando sulle ante degli adesivi antitarme. L’indomani li avrei staccati, sperando che non ve ne fosse rimasta appiccicata neanche una. A fine giornata, la casa risplendeva. Io e Leah terminammo di pulire anche il salotto entro le nove di sera, giacché il giorno dopo entrambe avevamo un appuntamento di lavoro. Quando finalmente Jack ci lasciò sole, potemmo parlare liberamente.
“ Perché non hai accettato quell’impiego al giornale? ”
“ Sarebbe stato come schiacciare il pulsante ‘replay’. Magari un giorno riuscirò a voltar pagina. ”
“ Così disse una giornalista! ” capii troppo tardi la sua battuta. “ Scherzi a parte, sei davvero sicura di voler rinunciare alla scrittura per un banale lavoro da commessa? ”
“ Le recensioni sui libri e le interviste possono aspettare. Tu, piuttosto, sei pronta per il museo? ”
“ Sempre. Non vedo l’ora di iniziare a portare indietro nel tempo i canadesi! ”
“ Se tutto andrà bene, domani offro una birra a te e Jack. Promesso. ”
“ Mano sul cuore a destra? ”  
“ Mano sul cuore a destra. ” Ripetei.
 
Nonostante a quindici anni utilizzassi perennemente Google Maps per visitare Montréal, ora non ricordavo più nessuna strada. E non era una gran cosa, perché se avessi perso quel colloquio, addio lavoro, addio appartamento, benvenuta vita in strada. Cercai un cartello su cui fosse disegnata una mappa dettagliata della città. Se fosse stata così gentile da dirmi anche dove andare sarebbe stato molto meglio. ‘ E’ un fotografo, dove può trovarsi? ’ pensai. Infondo non dovevano essercene molti in città. Oggigiorno si facevano tutti foto da soli.
‘’ Excusez moi…’’   
‘’ Je ne parl pas français, désolé…’’ risposi, cercando di evitare una conversazione in quel momento. Non avevo per niente tempo. Sentii toccarmi una spalla, e voltandomi mi resi conto che a chiamarmi era una donna sui quaranta anni, vestita di un abito fin troppo leggero per il freddo che faceva lì. Tese una mano verso di me, cercando dei soldi. Avevo pochi spiccioli con me, ma non esitai a darle anche il mio pranzo. Tanto, se neanche ci fossi arrivata al colloquio, non mi sarebbe servito a nulla. Mi sorrise, dicendo qualcosa in francese e andò via. Mi guardai di nuovo davanti, cercando una strada familiare, ma niente. Inviai un sms a Leah per farmi scrivere la via, di modo che prendendo un taxi sarei arrivata prima. Perché non ci avevo pensato precedentemente?! Provai ad alzare un pollice in alto, come ero solita fare nella mia vecchia città, ma tutto ciò che ottenni fu una folata di vento abbastanza forte da farmi volare il fogliettino con il numero della stanza in cui sarei dovuta essere ricevuta dalle mani. Perfetto. Lo rincorsi fino ad un incrocio, ma quando stavo per gettarmi tra le auto qualcuno mi bloccò stringendomi due braccia intorno alla vita. Rimasi in una posa alla “ superman che spicca il volo ”.
“ Chi diamine sei?! Lasciami! ” gli sferrai una gomitata in pieno volto e solo quando mi girai mi resi conto che quel tizio lo avevo già incontrato qualche sera prima all’aeroporto. Si inginocchiò mantenendosi il naso, sanguinante ed ansimando per il dolore.
“ Stavi per rompermelo! ” mugugnò.
“ Ti prego, perdonami! Credevo fossi un malintenzionato! ”
“ Veramente stavo cercando di salvarti da quel camion in corsa! Prego, comunque. ”  
“ Scusa se ero di spalle e non l’avevo notato! ”
“ Hey, hey, frena. Non capovolgiamo la situazione. ” Non sapevo perché, ma iniziai a ridere. Ero isterica, ovviamente. Era tutto finito. Erano le dieci passate e il colloquio era saltato. Perfetto.
“ Andiamo, ti porto in ospedale ”. Dissi. Almeno avrei riparato ad uno dei tanti danni che avevo provocato. Si alzò da terra e mi spinse nella sua auto.
“ Casa mia è meglio. Non vorrei morire di emorragia. ” Mormorò, mettendo in moto. Che facesse di me quello che volesse. Non mi premurai di nulla, neanche delle sue intenzioni. In meno di cinque minuti arrivammo alla sua amabile dimora. Era davvero carina, e semplice oltretutto. Almeno da fuori. Mi condusse verso il porticato e aprì la porta. All’interno era ancora più accogliente. Una tipica casa canadese.
“ C’è un solo problema: non so medicarmi. ” Non potei fare a meno di sorridergli.
“ Portami la cassetta, ci penso io... ” Mi misi a sedere sul divano rosso nel salotto e mi guardai intorno. Un caminetto, delle foto e un enorme finestra che dava sul giardino. Stranamente mi sentivo in pace lì dentro; era come se tutte le mie ansie fossero scomparse nell’arco di un secondo.
“ Ecco.” Aprii la piccola cassetta marrone e cercai dell’ovatta e del disinfettante.
“ Farà un po’ male... ” tamponai leggermente vicino alle narici, cercando di non fargli provare troppo dolore. “ Ora tieni la testa alzata. ”
“ Dove andavi così di corsa? ” lo fissai.
“ Ricorrevo una possibilità. ” Sospirai, tappando il disinfettante.
“ Filosofica. E di che si trattava? ”
“ Lavoro. Avevo un colloquio, ma mi sono persa tra le strade della città”, mormorai.
“ Non può essere così grave... ” Scossi il capo, in totale disappunto.
“Non puoi capire...Devo andare. Scusa ancora. ” Corsi alla porta e afferrai la giacca dall’appendiabiti.
“ Dove abiti? ”
“ Rue La Moyne. ”
“ Vengo a prenderti domattina alle dieci. ” Senza dire niente, me ne andai. 

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Capitolo 3
*** III. ***


Prima di morire, però, voglio lottare per la vita. Se sono in grado
di camminare da sola, posso andare dove voglio.

~ Paulo Coelho, Undici minuti






 

Quella sera non ci fu granché da festeggiare, anche se fortunatamente, almeno Leah, aveva ottenuto il lavoro che desiderava. Ma, come promesso, comperai tre birre.
“Alla salute!” Mi bagnai leggermente le labbra con la bevanda. Non avevo per niente voglia di bere. Non quella sera. Osservavo Leah e Jack scatenarsi in pista e non potei fare a meno di provare un profondo senso di angoscia. O di mancanza, non avrei saputo definirlo. Detestavo profondamente quei periodi di depressione. Facevano parte dei motivi per cui avevo abbandonato casa per darmi alla vita ‘sfrenata’ della giornalista culturale; se a diciassette anni ti capita di leggere sul libro di biologia che la depressione è una malattia genetica, nasce il cosiddetto ‘istinto di sopravvivenza’. Avevo paura, era vero, di non potermi godere la vita a pieno.
“ Torniamo? Domani dovrei tenere un sermone su John Cabot. Sai com’è, ci si lega alle proprie origini...” le sorrisi. Non lo dava a vedere, ma adorava quel lavoro. Avevamo sempre avuto una sfrenata passione per la storia, solo che lei parlava e io, talvolta, scrivevo. E adoravo farlo; era il mio preferito mezzo di espressione. Presi la giacca all’entrata e, mentre Jack si affrettava a prendere l’auto nel parcheggio, mi divertii a disegnare sulla neve delle cose senza senso con un bastoncino.
“Hai le guance totalmente rosse!” gridacchiò Leah, afferrando velocemente la sua Polaroid. Non ebbi il tempo di controbattere, che su un fogliettino vidi un'altra me. Sorridente. “E’ stupenda.”
“ Passabile.”
“Sam!” mise il broncio. Per due secondi. Finalmente Jack arrivò.
“ Stavo per andare in ipotermia!” Leah si mostrò d’accordo con me. Mi strofinai le braccia cercando di creare calore; e Jack non accennava ad accendere il riscaldamento.
“ Sapete che la marcia indietro non è il mio forte.” Filammo dritti a casa. Controllai il cellulare, ed esattamente come la sera prima, trovai una lista di chiamate perse esasperante: Ben. Feci quanto c’era di più sensato: lo spensi. Prima o poi ne avrei comperato uno nuovo: l’importante ora era trovare un lavoro adeguato. Mi accomodai sul divano e accesi il televisore, cercando qualcosa di satirico. ‘The Family guy’ era appena terminato, sicché attesi che il nuovo programma iniziasse. Era un film, con Jude Law. Leah mi strappò il telecomando di mano e mi impose di guardarlo. Non che non volessi, ovviamente. Ma non troppo distante dall’inizio del film, sentii le palpebre diventare fin troppo pesanti. Cercai di pensare a qualsiasi cosa, ma finii con l’addormentarmi sul divano.
 
“ Sam... ” Sole. Luna. Insieme, senza eclissi. “ Sam... ” La terra tremava. Sollevai leggermente le palpebre e vidi, sebbene sfocata, l’immagine di Leah.
“ Sei tu quella che di solito viene a svegliarmi, ma... ” Portai uno dei cuscini sul volto e mi voltai dal lato opposto. Una mano spinse leggermente la mia schiena, e la voce della mia amica sembrava rintronare.
“ Mmmh... ” Mormorai.
“ C’è qualcuno per te. ” Mi misi a sedere lentamente, strofinandomi gli occhi per vederci meglio. Quello non era Jack.
“ Cristo Santo! ” Esclamai, facendo cadere il plaid.
“ Ciao, Sam. ” Ammisi di essermi totalmente dimenticata che ci saremmo dovuti vedere. Stava di fronte al divano con le mani infilate nelle tasche del cappotto marrone, e mi fissava con aria apprensiva. Evidentemente si aspettava che fossi bella e pronta.
“ Ti dirò una cosa: è molto più carina appena sveglia che dopo quattro ore di prepara-zione. ”
Avvampai così violentemente che fui costretta a correre in bagno per sciacquarmi il volto con acqua congelata.
“ Io vado, Sam, ci vediamo oggi! Piacere di averti conosciuto, Pierre. ”
La porta si chiuse lentamente e sentii dei passi diretti verso il bagno.
“ Sei pronta? ” chiese, appoggiandosi allo stipite della porta.
“ Tu che dici? ” dissi, sbattendogli la porta in faccia. Mi gettai sotto la doccia, cercando di fare il più in fretta possibile. Uscii solo dopo dieci minuti, sperando che non fosse entrato in camera mia, direttamente collegata al bagno. Cercai di non andare a sbattere contro gli spigoli dei mobili, e, spalancate le tende e le veneziane, fui libera di vestirmi tranquillamente.
“ Mi sono servito da solo. Vuoi una Red Bull? ” gli lanciai un cuscino in faccia.
“ Ti hanno mai detto di bussare prima di entrare in camera di una ragazza?! ” Mi infilai velocemente la t-shirt e abbottonai la felpa, cercando di non prenderlo a schiaffi proprio dopo avergli quasi rotto il naso la mattina precedente.
“ Si, ma non lo faccio mai. ” Disse, serenamente, mettendo il cuscino a posto. Mi porse la mia lattina. Attesi che terminasse la sua per uscire di casa. Non sapevo neanche perché mi scomodassi tanto per un tipo che nemmeno conoscevo. Salimmo nella sua auto e la prima cosa che notai fu un volantino sul cruscotto. Annunciava un concerto degli Ash.
“ Ti piacciono? ” lo rimisi subito a posto, tornando a guardare la strada.
“ Uno dei miei gruppi preferiti. ” Furono le ultime parole che si udirono durante tutto il viaggio. Per circa quindici minuti cercai di non far trapelare la mia noia, ma poi final-mente arrivammo. Una piazzetta, stile quella del telefilm Ghost Whisperer. Me ne ero totalmente innamorata nel film, e vederne una simile dal vivo era...una bella sensazione.
“ Lì c’è un fotografo, anziano. So che ti piacciono le foto.”
“ Ma...”
“ Leggevo il giornale per cui lavoravi. Non mi trovo d’accordo con una critica rivolta a 1984, di Gorge Orwell. E’ uno dei miei libri preferiti. ”
“ Ma come facevi a sapere che fossi io? Non ho mai messo una mia foto.”
“Internet.” Detestavo quella risposta. Era...banale e scontata. E poi perché aveva cercato il mio nome su internet? Non poteva semplicemente chiedere? Restava il fatto che non avrei concesso a quel ragazzo la possibilità di sapere qualcosa di me. Neanche un piccolo, minuscolo, insignificante aneddoto.
“ Perché hai smesso? ” chiese, lasciandomi totalmente spiazzata.
“ Mi annoiava. ” Mentii. E se ne accorse.
“ Non è vero. Ci mettevi passione e lo si leggeva tra le righe. ”
“ Acuto, sul serio. ” Entrai nel negozio e, improvvisamente ogni pensiero scomparve. Forse per il fatto che quelle pellicole avevano costituito per quattro anni parte del mio lavoro, o forse perché racchiudevano mondi e vite. Pierre si diresse verso una porta, sulla quale vi era scritto, a caratteri cubitali, ‘Mark Powell’. Attendendo che uscisse, iniziai a girare per la galleria, notando, oltretutto, alcune foto fuori posto.
“ Signorina Gordon? ” mi voltai di scatto, facendo quasi cadere una cornice. Mi ritrovai davanti una uomo maturo, sulla settantina, con una camicia blu e una corona di capelli bianchi intorno al capo. “ Sono Mark Powell, il proprietario della galleria. Il signor Bouvier mi ha detto che è alla ricerca di un lavoro. ”
“ Io... ”
“ E’ assunta. ” Tagliò corto lui. “ Inizia domattina alle nove. Ovviamente, voglio assicurarmi che le mie piccole saranno al sicuro con lei...”, disse, accompagnandosi con un gesto della mano. Riuscii solo ad annuire. Si allontanò in fretta, lasciando me e Pierre finalmente liberi di andare. Non sapevo se ringraziarlo, saltargli addosso e lodarlo, oppure... “ Ma che ti salta in mente?! ”
“ Ti serviva un impiego e te l’ho trovato... ”
“ Non te l’ho chiesto. ”
“ Si chiama magnanimità; sai, uno dei tanti valori cavallereschi. ” Stavo iniziando ad irritarmi. Camminai verso la macchina e aprii la portiera, sbattendola violentemente subito dopo essermi messa a sedere. Così come all’andata, nessuno disse una parola.
Mi concentrai sulle goccioline di pioggia sul finestrino, che scorrevano lentamente sulla superficie a causa del vento dovuto al movimento dell’automobile. Forse la mia reazione era stata esagerata. Infondo, mi aveva dato qualcosa di cui avevo davvero bisogno. Senza che me ne rendessi pienamente conto eravamo arrivati sotto casa. Ed erano appena le dodici e venti.
“Pierre...” sussurrai. Mi pentii di averlo fatto.
“Mmh?”

Aprii la portiera e misi una gamba fuori, pronta ad andarmene subito dopo aver detto la parola che più detestavo. “Scusami...” Mi rivolse un sorriso, sparendo, poi, dietro l’angolo di rue McGill. 

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Capitolo 4
*** IV. ***


<< Ho riesaminato i miei appunti sulle nostre imprese degli ultimi sette mesi,
le dico le miei conclusioni? Io sono psicologicamente disturbato. >>

Dr. Watson, Sherlock Holmes


 



Avevo una personalità scontrosa da far ribrezzo, ultimamente. Quella mattina, subito dopo il piccolo litigio risoltosi in breve con Pierre, in casa avevo visto Leah e Jack. C’era stato una specie di terzo grado sulla giornata appena trascorsa con lui, e nonostante avessi detto e ribadito che mi aveva solo aiutato a trovare lavoro, loro avevano sentito la necessità di riaprire un vecchio cassetto. Un cassetto che avrei preferito sigillare.
“Lascia perdere Ben, okay?” La tazza di caffé cadde a terra, rovesciando tutto il contenuto sul pavimento. Cercai di calmarmi, ma con scarsi risultati.
“Ti sto solo dicendo che forse se ti lasciassi andare potresti trovare qualcuno di meglio!” affermò lei. Credevo sapesse cosa avessi passato, credevo avesse compreso quanto avessi sofferto a causa di un uomo. Uno solo, su quanti ce n'erano su quel maledetto pianeta. Alzai al massimo il volume dell'i-pod, arrivando tuttavia a sentire le lamentele della mia amica. 
“No, Leah, no.
“Mi dici perché?”
“Vado in camera mia.” Cercai di non ascoltare cosa mi stesse dicendo dall’altra parte, ma con scarsi risultati. Ben. Forse lasciarlo in chiesa non era stato maturo, ma in quel momento mi era sembrata la scelta migliore; per entrambi. Mi lasciai andare alla musica di Jeff Buckley, quasi fosse calmante quanto a volte deprimente.
 
Pierre p.o.v
Quella casa era vuota. Totalmente vuota. E mi andava bene così.
“Pronto?” ritornai alla realtà udendo il suono della voce di una donna dall’altra parte della cornetta con un brusio di sottofondo decisamente fastidioso.
“ Buonasera. Mi chiedevo se fosse possibile avere due biglietti per il concerto degli Ash di questa sera.”
“Sta scherzando, vero? Due giorni fa c’è stato il sold out!” rise senza averne voglia, per il semplice gusto di prendermi per i fondelli.
“Va bene, ho afferrato. Quanto vuole?”
“Cosa?”
“Ha capito bene.” Attese qualche istante prima di rispondere alla mia domanda.
“Ma chi si crede di essere?!”
“Pierre Bouvier, piacere. Ora mi risponda.”
“B-Bouvier? Quel Bouvier?”
“Non il fratello di Marge Simpson.” Trattenni una risata. Era davvero difficile convincere delle ragazze. Talvolta risultava impossibile. Con alcune bastava essere rockstar, con altre ci volevano le tenaglie vere e proprie. Quella donna apparteneva al primo genere.
“Ne ho due!” gridacchiò. Proprio quello che volevo evitare a tutti i costi. Per le persone normali non avevano nessuna considerazione, e mi infastidiva. Andai, però, contro la mia morale, accettando i biglietti.
“Perfetto. Vengo a prenderli.” Staccai prima che continuasse a cercare di irritarmi, benché involontariamente. ‘Ma che fai?’ Non lo sapevo. Non comprendevo a pieno quel mio comportamento, ma era come se il suo solo nome mi spingesse a farlo. Presi di nuovo l’auto dal garage e mi diressi al porto, dove si sarebbe tenuto l’evento musicale. Prima di scendere, indossai un cappellino per non farmi riconoscere dalle persone arrivate da ore per assistere al concerto. Corsi dritto alla cassa, alla quale stava seduta la ragazza che poco prima doveva avermi ricevuto al telefono.
“Dica.” Di nuovo fredda come prima.
“I due biglietti di cui parlavamo poco prima.” Abbassò il capo per assicurarsi che fossi realmente io, e prima di gettarsi in mille smancerie, mi passò i due foglietti. Le rivolsi qualche sorriso di circostanza, le firmai un autografo e infine mi allontanai per andare via. Avevo una sola ora per raggiungere casa sua e convincerla a venire.
 
Sam p.o.v
Grace. L’ultima canzone prima che tornassero ancora a disturbarmi.
“Sam!” Jack bussava insistentemente alla porta, nonostante sapesse che non avrei risposto. Alzai il volume dell’ipod, incurante del fatto che l’indomani avrei dovuto comperarne una nuova se avesse continuato così.  “oh drink a bit of wine, we both might go tomorrow…oh my love”
Una delle canzoni più belle che avessi mai ascoltato. La porta si spalancò improvvisamente, facendomi sobbalzare. “Jack, dannazione! Si può sapere che vuoi?!” rabbuiai.
“ E’ da stamattina che sei così irritata. Hai le mestruazioni?” Mi alzai dal letto e gli corsi dietro, riuscendo, proprio davanti al divano, a saltargli sulla schiena per atterrarlo. Gli sollevai il capo trattenendolo per i capelli e costringendolo a guardarmi in faccia.
“L’umore delle donne non è legato solo a quello!” Iniziò a ridere, cadendo sulla mia amica.
“Va bene, va bene! Mi arrendo! Ero venuto ad annunciarti una persona.” disse, mettendosi a sedere composto.
“Sai che il Buckley time non si interrompe. E comunque, chi è?” con un cenno del capo indicò qualcuno dietro di me. Mi voltai e me lo trovai davanti; di nuovo nell’arco di una giornata. “ E tu che ci fai qui?” mormorai. Ero totalmente imbarazzata.
“Bé, ero venuto a chiederti se ti andava di venire al concerto degli Ash di questa sera. Hai detto che ti piacevano, e...” sgranai gli occhi. Ero fisicamente immobile ma la mia mente vagava dietro le quinte del palcoscenico, alla ricerca di un autografo da uno dei componenti della band. Uno qualsiasi.
“Ma i biglietti...” prima che potessi terminare la frase tirò fuori dalla tasca due strisce di carta bianche. Inconsapevolmente, un enorme sorriso mi si stampò sul volto. Leah tossicchiò, attirando l'attenzione di tutti. “Leah, gli Ash non ti piacciono.” affermai.
“Lo so, ma...” aspettai che terminasse la frase. “ Pierre, a che ora me la riporti a casa?” avevo voglia di svenire.
“ Leah!”
“Mi preoccupo solo per te! Siamo in una città nuova e poi sei una sconsiderata...”
“Grazie.”
“Prego, e comunque, tornando al discorso principale, all’una devi rientrare. Io e Jack ti aspetteremo.”
“E non vi annoierete?” chiese Pierre.
“Ci troveremo un passatempo...” si guardarono e ammiccarono entrambi. Mi venne da vomitare al solo pensiero di quei due...sull’amato divano...
“Vado a vestirmi.” dissi infine. Ci impiegai poco, cosicché Leah non coinvolgesse Pierre in discorsi sgradevoli; alle volte mi veniva da paragonarla a una sorta di madre. Ciò che mi turbò di più, fu la confidenza con la quale Pierre, per l'ennesima volta, era entrato in casa mia per uscire. Ci conoscevamo da qualche giorno, pur tuttavia era lì. Ancora. 
“Andiamo?” domandò lui, sorridendomi. Annuii, uscendo per prima, seguita da lui che, ero sicura, stava cercando qualcosa di interessante da dire. Salimmo in auto e fui immediatamente presa da un moto di eccitazione assurdo.
“E’ la prima cosa bella che mi capita da quando sono qui.” dissi.
“Prima?” chiese flebile lui. Lo guardai, per poi abbassare subito lo sguardo.
“La seconda. Grazie ancora per il lavoro. Quello è al primo posto nella classifica.” parcheggiò velocemente nell’area vip. “Perché qui? Ti lasciano passare?” rise in un modo che parve beffeggiatore.
“Diciamo di sì.” Camminammo fino alle transenne, che oltrepassammo senza problema. Mi chiedevo perché avesse tutti quei privilegi. La sicurezza addirittura lo salutava. Mi strinse l’avambraccio e mi condusse alla prima fila.
“Poi mi spieghi.” dissi, un istante prima che la band facesse la sua entrata in scena. E Tim Wheeler era proprio di fronte a me. Qualcosa, uno strano impulso, mi spinse a saltare, cantare, dimenarmi come un emerita cretina. Ma mi sentivo bene, ero viva.
 
Ero stanchissima, e quindi, benché non volessi finire in quello stato, mi addormentai sul sedile della Audi di Pierre. Nella mia testa risuonavano ancora i testi delle canzoni degli Ash, il volto del cantante di fronte al mio...e non era stato un sogno. Avrei voluto ringraziare Pierre nel modo migliore, ma non riuscivo a immaginare nulla che potesse “fronteggiare” validamente quell’esperienza.
Il problema era che dopo quattro ore di salti e grida le palpebre avevano iniziato a diventare fortemente pesanti, ed era difficile restare svegli.
Il giorno dopo, mi ritrovai Leah sul letto, intenta a scrutarmi.
“Sei una frana.” sussurrò. Mi stiracchiai per bene, cercando di capire perché mi avesse definito in quel modo, a quell'ora del mattino.
“Perché?” ridacchiò.
“Ti addormenti nell’auto di un figo come quello?”
“Mmmh...Leah...Ti prego...” implorai, cercando di riaddormentarmi.
“Ti ha rimessa lui a letto, sai?” mi alzai di scatto, forse troppo in fretta. Per un secondo persi la vista.
“Come?”
“Sì. Gli ho detto che poteva dormire qui.” Cercai di non mostrarmi toccata dalla situazione. Però, poteva essere un modo per iniziare a rendergli il favore.
“E’ di là?” annuì. Mi alzai e mi trascinai a forza in cucina, cercando di non badare al mio aspetto. Stava guardando fuori dalla finestra, con lo sguardo perso nel vuoto. Chissà a cosa stava pensando...
“Buongiorno.” mi rivolse un debole sorriso, per poi prendere una tazza, riempirla di caffé e porgermela. “Leah mi ha detto che hai dormito qui...”
“Avrei voluto. Ma Jack non era dello stesso parere. Ha parlato tutta la notte; di cose interessanti, se devo essere sincero. Ma ora sta rigirando il dito nella piaga, perché dorme. E io vorrei essere al suo posto.” mi voltai verso il mio amico che dormiva profondamente sul divano.
“Mi vesto e ti accompagno.” dissi, bevendo l’ultima goccia. “ Non vorrei che morissi.”
Feci una doccia veloce e con altrettanta velocità indossai una felpa e un paio di jeans. Presi le chiavi della sua auto e lo aiutai a scendere le scale, facendolo appoggiare a me. Mancava un solo millimetro e i suoi occhi si sarebbero sigillati per ore. Cercai di ricordare dove fosse esattamente casa sua, dato che erano quasi tutte uguali. Villette a due piani con un verdeggiante giardino. Poi mi tornò alla mente il numero civico; finalmente. Scesi per prima, cercando di svegliarlo.
 "Siamo arrivati. Pochi passi a potrai dormire." 
A passi pesanti scese dall’auto e si accasciò su di me. ‘Perfetto,’ pensai. Riuscii ad arrivare alla porta d’ingresso, l’aprii e mi diressi in salotto. Lo gettai sul divano e lo sistemai per bene, stendendogli una coperta trovata lì addosso.
“Sogni d’oro...” sussurrai, e senza rendermene conto, quasi istintivamente, gli diedi un bacio sulla fronte. Mi pentii immediatamente di averlo fatto e dunque, uscii di casa in tutta fretta. Fuggii, sarebbe lecito dire. 

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Capitolo 5
*** V. ***



~ I'm singing, oh, I'm feeling your heartbeat. 

The Fray, Heartbeat







Three years later...
Non potevo affatto lamentarmi della mia permanenza lì a Montréal. Avevo un lavoro che mi piaceva e tre amici presenti. Solo che la paura che tutto potesse finire presto e il timore di perdere ogni cosa ogni tanto mi impediva di vivere. E Pierre si trovava a casa nostra proprio in quei momenti, quasi come se sentisse di dover essere lì per darmi man forte con i miei alti e bassi.
“Sam! Renditi utile! Distrai Pierre, mi sta distruggendo!” Io e Leah ci mettemmo a sedere accanto a loro, intenti a giocare ad un videogame sulla Formula 1.
“Pierre, mi deludi.” Mormorai, sorseggiando del tè.
“Sam, Vettel sarà anche bravo, ma nel videogioco a gareggiare sono io e mi serve l’auto più veloce.”
“E la Red Bull non lo è?” Scivolai sul divano e mi accovacciai in un angolino, per avere una visuale migliore. “Mi hai ricordato che devo andare in Germania...”
“E perché mai?” domandò, mettendo in pausa e voltandosi a guardarmi. Jack potè finalmente riposarsi.
“Sebastian è tedesco. Sua moglie dovrà pur conoscere qualcosa della sua cultura...”
“Ma ci crede davvero?” chiese, rivolto a Leah, che scoppiò in una fragorosa risata.
“Ho più probabilità io di sposare Vettel che tu di vincere contro Jack.” Il ragazzo, preso in considerazione, si caricò, deciso a mantener fede alla sua lunga tradizione di vittorie. Il gioco durò circa un’ora, e si concluse, come mi aspettavo, con la vittoria di Jack e la sconfitta di Pierre. “Samantha Vettel...suona bene, no? Che ne pensi Leah?”
“Tantissimo. Ora, Jack, muovi le chiappe.”
“Uscite?” Mi resi conto solo dopo che la mia migliore amica era splendidamente vestita.
“Jack, per il nostro anniversario, ha deciso di portarmi in un luogo di lusso. Ma non ha voluto dirmi quale.” Disse, eccitata.
“ Finalmente hai capito che il McDonald è meglio del camioncino dei panini...”
“Precisamente!” confermò lui. Mi salutò e mi raccomandò di chiudere bene le finestre e la porta nel caso in cui avessi deciso di uscire. Erano già sei anni che stavano insieme, e sicuramente lei aspettava che lui le chiedesse di sposarlo. Ma Jack non era pronto, ed io lo sapevo bene. A causa sua avevo passato tante notti in bianco.
“Ti va di vedere un film?” chiesi a Pierre, che giocherellava con il rubinetto.
“A patto che si chiami Donnie Darko.”
“Non lo hai mai visto?” ero sorpresa. Era un film degno di lode, sebbene lo avessi visto una sola volta a diciassette anni. Ma ricordavo bene la trama. Inserii il DVD e preparai una busta di pop corn, mentre lui si armava di coperta. Una cosa che avevo imparato lì, era che a Ottobre il freddo era insopportabile. Ci mettemmo a sedere e iniziammo a guardare lo schermo.
 
“Perché indossi quello stupido costume da coniglio?” “E tu perché indossi quello stupido costume da uomo?”
“Perché tu indossi quello stupido costume da Pierre?” trattenni una risata per dare suspence alla situazione.
“Perché tu indossi quello stupido costume da Sam?”
“Era l’ultimo rimasto in negozio, e mi sono arrangiata. Niente male, vero?”
“Se così fosse, non sarebbe stato l’ultimo rimasto, no?”
“Questa me la paghi, Bouvier!” gli rovesciai la scodella di pop corn in testa, più preoccupata del danno da ripulire che dei suoi capelli, pieni di sale. Mi alzai in fretta dal divano, per evitare un’eventuale reazione negativa e, anche se solo minimamente, violenta.
“Inizia a correre, Gordon.” Non fui mai tanto felice di obbedire ad un ordine. Entrai in camera di Jack e Leah, e spalancai la finestra per uscire, certa che avrei solo potuto guadagnare tempo. Misi un piede dall’altra parte e mi assicurai che non stesse arrivando, per poi richiudere e nascondermi sul terrazzo. Se non si fosse dato una mossa, sarei morta dal freddo. Mi sentivo stupida, ma era una sensazione che avevo provato ben poche volte e risultava sempre “nuova”, se così si poteva dire. La finestra si spalancò e Pierre uscì fuori, guardandosi intorno; si diede una scompigliata ai capelli per eliminare i granellini bianchi che qualcun altro avrebbe sicuramente preso per forfora e fu pronto a rientrare, quando mi notò seduta dietro al comignolo.
“Samantha, Samantha” canticchiò, avvicinandosi. “Non puoi immaginare, cosa ti sto per faare” quella voce... Era così familiare...Più cantava delle mie sorti più ricordavo qualcosa.
“Pierre...” mormorai, quando si fermò.
“Chieder scusa non si può!” iniziò a fissarmi stranito. “Ehm...cos’hai?”
“La tua voce...” parve irrigidirsi all’istante, poi distolse immediatamente lo sguardo. Ad un tratto sembrò aver perso ogni voglia di buttarmi giù dal cornicione.
“ Pierre, stai bene?” Lo afferrai per l’avambraccio prima che rientrasse da dove era uscito. Si voltò e mi strinse la mano, accennandomi un: “Tutto okay.”
“Mi sembra inutile sottolineare che io non ti creda affatto. Tu...”
“Cos’ha la mia voce?” mi interruppe. Mi trovai del tutto spaesata; non sapevo davvero cosa rispondergli.
“Pierre...”
“Cos’ha la mia voce?” ribadì.
“Ma quanto siamo suscettibili oggi...” mi fissò torvo, aspettandosi una risposta. “Niente, mi sembrava solo estremamente familiare.” Sospirò. “Davvero, non capisco perché ti sia acceso tanto per una cosa del genere.”
“ Scusami tanto, è che...”
“Lascia stare, non fa niente. L’importante è che tu non abbia ammazzata.” Si voltò immediatamente verso di me, socchiudendo gli occhi con fare minaccioso. “Ma quanto sono stupida!” Mentii. Ricominciai a correre, cercando di non farmi prendere. L’avevo buttata sul vago, ma avevo intenzione di scoprire perché ricordassi la sua voce nonostante non lo avessi mai visto prima di mettere piede a Montréal.
“Te ne stai tutto il giorno a poltrire in biblioteca e sul divano. Mi dici come fai ad essere così scattante, maledizione?!” Gridò, cercando di afferrarmi mentre saltavo dal divano. Se solo lo avessi sentito cantare ancora...Ma non potevo chiederglielo: avrebbe sicuramente reagito male di nuovo. “Basta, mi arrendo.” Si accasciò sul mio letto, chiudendo gli occhi. Passarono circa trenta secondi interminabili prima che decidessi di avvicinarmi e controllare che non si fosse addormentato sul serio. Sembrava russasse. Arretrai qualche passo, poi feci la scelta azzardata di girarmi per uscire tranquillamente dalla stanza; in un secondo si alzò, chiuse a chiave la porta e mi schiacciò contro la superficie lignea con il suo corpo.
“Pierre, che...”
“Pensavi davvero che mi saresti sfuggita?” Gli sorrisi.
“Ah, caro...” Con un piede riuscii a piegargli un ginocchio e fargli perdere l’equilibrio; ne approfittai per uscire dalla porta del bagno, ancora aperta. “Non sei abbastanza furbo per me!” Lo chiusi dentro, e mi diressi in cucina, ascoltando i suoi lamenti.
“Resterai lì fino a quando non torneranno Leah e Jack!” Ad un tratto zittì. Aveva capito che facevo sul serio. Accesi il televisore e cercai il canale di musica, per passare il tempo, ma come se qualcuno ce l’avesse con il mio relax della domenica, bussarono alla porta. Forse Leah aveva dimenticato di nuovo le chiavi e Jack era troppo ubriaco per ricordarsi dove le avesse messe. “Arrivo!” Andai a liberare Pierre, che iniziò ad imprecare flebilmente, poi spalancai la porta, ritrovandomi davanti chi non avrei voluto vedere per il resto della mia vita. “Ben...”

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Capitolo 6
*** VI. ***



~ Ciononostante, a volte, ripeto ad alta voce una tua frase, o solo una sequenza di parole,
e sento sfilacciarsi una cucitura interna, l'imbastitura dell'anima.
Scrivi, ogni giorno sprecato è un delitto.

David Grossman, Che tu sia per me il coltello









“Che ci fai qui?” Lo guardai, mettendo nel mio sguardo tutto il disprezzo possibile.
“Sono venuto a trovarti, non si vede?”
“E’ mezzanotte.”
“C’è il fuso.” Diede un’occhiata all’interno, scorgendo anche la figura di Pierre che doveva aver spento il televisore. “Vedo che sei impegnata.” Nella sua voce c’era un tono ironico che non mi piacque affatto; mi faceva sentire colpevole.
“Infatti. Preferirei che tu te ne andassi.”
“ Ho fatto cinque ore di viaggio ed è così che mi accogli?” Passò al di sotto del mio braccio, dirigendosi verso Pierre, che lo fissò in un modo per niente amichevole. Perfetto.
“Benjamin. Tu sei?”
“Pierre.” Affermò, guardandomi. “Vado a fare una chiamata.” Si avviò in fretta nella mia stanza, lasciando me e Ben soli. Quello che avrei voluto evitare più di ogni altra cosa, perché più che di lui, non mi fidavo di me stessa e della mia intemperanza.  
“Allora...” disse, guardandosi intorno e sfiorando la stoffa del divano “ti sei sistemata davvero bene, vedo.” Mi appoggiai allo stipite con le braccia incrociate, sperando che arrivasse al dunque il prima possibile, senza troppi giri di parole, e che se ne andasse senza pretendere troppo.
“Tua madre ha chiesto di te.” Alzai lo sguardo e lo fissai dritto negli occhi. “Le ho detto che mi hai lasciato e che ora vivi a Montréal da circa tre anni.” Sospirai.
“Conoscendoti, avrai saltato tutti i dettagli della vicenda, vero?”
“E quali sarebbero questi dettagli?” Mi avvicinai a lui, così tanto da poter sentire il suo respiro sulla fronte. “Eravamo di fronte ad un altare e lei è fuggita via per non tornare mai più?”
“E la parte in cui mi hai tradita dinanzi a tutti gli invitati l’hai saltata?” rabbuiai, sentendomi colpita nell’anima ancora una volta. Aveva riaperto una ferita sanata solo in parte e ora dovevo solo cercare di non farla sanguinare troppo.
“Ti ho già detto che è stata Maggie ad alzarsi e a baciarmi lì!” non seppi precisamente perché, ma iniziai a ridere. Ero isterica, stavo impazzendo sul serio.
“Sei stato con lei due anni e mezzo e al nostro matrimonio hai deciso di spezzarmi il cuore! Tu non puoi neanche lontanamente immaginare cosa io abbia passato!” Sentivo le lacrime rigarmi le guance, e non riuscivo a fermarle. Ero impotente, ero nulla, ero patetica. Solo un pezzo di carta in balìa del vento, senza possibilità di controllare la propria sorte.
“Detesto me stessa per il solo fatto di essermi fidata così tanto di qualcuno!”
“E tu non credi che io abbia detestato me stesso in tutto questo tempo?” Mi chiedevo chi volesse prendere in giro con quella sua prostrazione. In cuor mio sapevo che se mi avesse chiesto scusa ancora una volta avrei chiesto a me stessa di dargli un’ulteriore possibilità; per questo, per istinto di sopravvivenza, non per altro, mi avvicinai alla porta e la spalancai.
“Vattene, Ben.”
“Io ti ho amata. Ed è ancora così. Sarò qui a Montréal per due settimane e non ho per nulla intenzione di lasciar perdere, a meno che a chiedermelo non sia tu.” Mi lasciai scivolare a terra, e iniziai a singhiozzare. Era un passato da cancellare, ma evidentemente non ne ero capace. Pierre si mise a sedere accanto a me, abbracciandomi e lasciando perdere le parole di conforto. Neanche Montréal era abbastanza lontana, la Terra non era abbastanza grande.  
Restammo in quella posizione per circa un’ora, quando finalmente mi decisi: dovevo calmarmi. Versai dell’acqua nella teiera e la misi sul fuoco; riempii due tazze e ne diedi una al ragazzo che se ne stava seduto fuori al terrazzo, attendendo che io tornassi. Non sentivo freddo, e lui non dimostrava di averne se pure così fosse stato. Cercò di distrarmi, insegnandomi nomi di stelle che probabilmente neanche esistevano; e gliene ero profondamente grata, benché non avessi aperto bocca per tutto il tempo.
“Pierre...” Mormorai, guardandolo osservare il cielo.
“Non dire nulla.” Mi mise un braccio sulla spalla e mi strinse a lui. Mise una coperta sulle nostre teste e mi fissò, con uno sguardo che mai gli avevo visto prima.
“Che c’è?” dissi, quando iniziai a sentirmi in imbarazzo.
“Niente, niente.” Iniziò ad indicarmi altre stelle, tra le quali, ne ero certa, vidi delle ali.
Guardai l’orologio: erano le quattro del mattino, e nessuno dei due aveva chiuso occhio. Gli chiesi di tornare a casa e riposare qualche ora prima di andare a lavoro.
“Il giornalismo richiede energia. Non farmi sentire più in colpa, va’!” Non appena vidi la sua auto allontanarsi, mi lasciai cadere sul mio letto, cercando di riposare anche io per affrontare una nuova giornata di duro lavoro. Ma, come avevo previsto, non riuscii a chiudere occhio a causa di un unico pensiero che mi tartagliava la mente: cosa dovevo fare con Ben? Insomma, una parte di me intendeva perdonarlo, l’altra gettarlo giù da un grattacielo di settanta piani.
 
Pierre p.o.v
Cercai di non addormentarmi in auto, ma era davvero difficile. L’unica cosa che mi teneva sveglio era il cellulare: se avesse squillato, sarei stato sicuro che si trattasse di lei, e non avrei esitato a tornare al suo appartamento; aveva bisogno di me. Parcheggiai nel vialetto di casa e sperai che Lachelle non fosse ancora tornata da Los Angeles. Fortunatamente era così. Mi distesi sul divano e mi addormentai, puntando la sveglia alle otto.
Ciò che più mi preoccupava, a parte il fatto che sarebbe stato difficile farla fidare di me, erano i suoi dubbi. Avevo sbagliato a cantare e lei aveva colto la palla al balzo senza neanche accorgersene. Non avrebbe dovuto sapere del mio lavoro, anche se, se un giorno fosse accaduto, avrebbe trattato me più o meno nello stesso modo in cui aveva trattato Ben quella notte. Ero confuso e il saperla così fragile mi faceva stare da schifo.
“Hey, Bouvier! Comeva?”
“ Ciao, Chuck. Tutto bene, grazie.”
“Sei pronto a cantare un po’?”
“Lo sono sempre. Dove sono Seb, David e Jeff?”
“Seb accorda la chitarra, David si stira i capelli e Jeff...Bhè, Jeff non si stira i capelli.” Scoppiai a ridere, immaginando il nostro amico pelatone con una piastra tra le mani. Entrammo in sala registrazione e ci servimmo da bere un bicchierino prima di iniziare. Salutai Patrick, il nostro tutto-fare e entrai pronto a cantare. “Jet Lag”, il primo singolo dell’album sarebbe stato messo on-line entro qualche ora e doveva essere pronto in serata. Prevedevo una giornata durissima.
“Hai già detto a Lachelle che farai tardi questa sera?” Scossi la testa e Pat mi passò il cellulare. ‘Oggi sono pieno. Ci vediamo domani, vengo a trovarti dal fotografo. Ma doveva essere una sorpresa, quindi fa’ finta di non saperlo, okay?’ Spedii il messaggio, ma non alla mia fidanzata.
 
Sam p.o.v
Indossai la divisa da lavoro, e iniziai a sistemare qualche quadro qua e là. Consegnai qualche album fotografico e ricontrollai i conti della settimana precedente, prendendo anche il posto della contabile. “Ho una laurea in Scienze della Comunicazione e mi tocca lavorare con i numeri.” Dopo circa tre ore e trentacinque minuti, lasciai perdere, la testa mi stava letteralmente esplodendo. Decisi di prendermi una pausa, quando il campanello della porta annunciò l’entrata di qualcuno.
“Ambasciator non porta pena, ma un buon pranzetto!”
“Dove hai preso quel cestino da picnic? E dove devi andare?” Lo aiutai con le bibite, onde evitare che mi allagasse il pavimento proprio ora.
“Tre, due, uno...Pausa pranzo. Su, abbiamo solo trenta minuti di tempo.” Mi prese la mano e mi trascinò verso il gazebo al centro della piazza. Stese la tovaglia a terra e dispose velocemente il cibo, per poi prendere il tè freddo e versarlo in due bicchieroni.
“Sei un amico!” Assaggiai una fetta della torta di mele, la mia preferita.
“Perché inizi dal dessert?” chiese, addentandone anch’egli una fetta.
“Perché sono anticonformista.” Bevvi un sorso di tè, e diedi un altro morso.
“Certo. Un anticonformista che ha deciso di fare un lavoro come un altro.”
“Non ne parliamo, Pierre.”
“Sto solo dicendo che con le tue capacità avresti potuto dar voce non solo ai libri, ma anche alle menti urlanti di coloro che la pensano come te.” Tutt’a un tratto mi passò la fame. Erano circa tre anni che non si parlava più delle mie aspettative e dei miei sogni, decisamente anacronistici, se si voleva metterli su un piano di realizzazione reale.
“Questo lavoro mi piace, guadagno abbastanza da poter pagare l’affitto e la mia vita è al sicuro. Non è ciò che vorrebbero tutti?”
“Appunto. Ti stai unendo alla massa. Vuoi iniziare a far parte del meccanismo?”
“Ne faccio già parte da quando sono stata registrata all’anagrafe.” Rise, ma quando mi vide posare il pezzo di torta tornò serio. Aveva toccato un tasto dolente.
“Mi stai dicendo che si nasce solo per diventare parte di una macchina? Non ci credi nemmeno tu, Sam.”
“E dimmi, Pierre, se anche volessi dar voce alla diversità, come potrei fare? Ho chiuso con il giornalismo, e non intendo ritornare sui miei passi. C’è un netto distacco tra il passato e il presente e ogni volta che ripenso a quello che mi è accaduto, la separazione si concretizza sempre di più.”
“Hai mai pensato di mettere da parte il tuo individualismo e a pensare di più anche a chi bisogno di te? Hai la possibilità di avere capacità innate di scrittura; talvolta, i tuoi, più che articoli, sembrano elegie.”
“Oh, oh...Sappiamo anche cosa sono le elegie...”
“Non sono stupido.” Afferrò una fetta di pane, e vi sparse sopra della crema di tonno. “Ritornando al discorso, credo che tu debba pensarci.”
“Va bene.”
“Speri di cavartela così? Sam, il mio non è un gioco. Io lo dico perché ti conosco e so che questo è il lavoro che più ami fare.”
“Se dicessi di non essere più anticonformista da circa...ora?” Lo guardai dritto negli occhi, sperando di trovare un segno di cedimento.
“Allora vorrà dire che rinnegherai tutte le lodi rivolte a Fromm. E sarai una tra tanti.”
“ Mi va bene.”
“No che non ti va bene.” Certe volte la sua sfrontatezza mi irritava.
“E chi dice che non sia così?”
“Io.” Stavo davvero iniziando ad alterarmi.
“Non mi sembra di averti concesso il diritto di esprimere giudizi circa la mia vita!” Mi alzai di scatto, facendo quasi cadere il bicchiere mezzo pieno. O mezzo vuoto. Tornai in negozio, sbattendo involontariamente la porta e costringendo il signor Powell a controllare che fosse tutto a posto. Pierre mi fissava dal centro della piazza, con sguardo sconsolato, o arreso, piuttosto. Mi sembrava di essere colpevole di un delitto che ne avevo commesso, né commissionato né pensato. Se la mia vita era arrivata ad essere ciò che era ora, era solo a causa mia e l’unica persona che cercava in qualche modo di cambiarla se ne stava lì, a guardarmi come se in realtà fosse stata colpa sua.
Raccolse quello che aveva preparato con tanta cura e andò via, lasciandomi dentro una bruttissima sensazione di abbandono.
Quando tornai a casa, Leah stava preparando la cena, e Jack era allo studio legale. Gettai la borsa sul divano e con essa mi lasciai cadere anche io, cercando di non pensare alla discussione avuta con uno dei miei migliori amici. Leah aveva passivamente accettato la mia scelta, e Jack non sembrava averla mai presa in considerazione, ma Pierre sembrava più di tutti ostinato a farmi tornare indietro, a prendere una strada diversa da quella che avevo forzatamente imboccato; ma questa volta ero io a non volerlo. Avevo raggiunto un obiettivo postomi da qualcun altro, ma era uno dei pochi traguardi che ero riuscita a tagliare e non intendevo gettare tutto al vento: avrei continuato a vivere quella vita, gli stesse bene o meno. Perché a me stava bene; almeno credevo. Mangiai un cucchiaio di purea e andai a fare una doccia, per rinfrescare non solo il mio corpo, ma anche le idee. Dovevo parlare con Pierre, chiarire e lasciare questa brutta situazione alle spalle. Non mi faceva stare bene e non ero ben consapevole del perché. Così, quella sera, decisi di parlarne con Leah. Forse avrebbe portato a qualcosa.
“A me sembra che stia diventando indispensabile per te.”
“Certo. Leah, non è così. Io non ho bisogno di lui.” Mi porse una tazza di caffé, bevendo un sorso prima di rispondermi.
“Questo lo credi tu. Sam, se fossi stata un’estranea sarei arrivata alla conclusione che voi due siate innamorati l’uno dell’altra.” Per poco non gli sputai la bevanda in faccia, ma di contro mi entrò nell’apparato respiratorio, costringendomi a tossire.
“Ma...che...stai...” Ripresi aria, inspirando e asciugando le lacrime dovute all’attacco di tosse. “Ma che diavolo stai dicendo?”
“Mi hai chiesto un parere e io te l’ho espresso. Come il caffé.”
“Squallida.”
“Ora, se vuoi scusarmi, vado a fare una doccia.” Posò la tazza sul tavolo, e corse in camera sua. Ora non solo dovevo affrontare Ben e il suo ritorno poco gradito e inaspettato, ma anche Leah e le sue tesi sui miei sentimenti.
 
Passarono tre giorni e lui non si faceva sentire. Passarono tre giorni e io mi sentivo uno schifo con me stessa. Passarono tre giorni e nulla era cambiato se non le mie certezze. Mi capitava di prendere il cellulare tra le mani ed evidenziare il suo numero in rubrica, per poi chiudere subito e scrollare me stessa dal pensiero di chiamarlo. Non era orgoglio: era mancanza di scuse. Non ne avevo: mi ero comportata male. E mi mancava.

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Capitolo 7
*** VII. ***


~ Se non sai dove andare, finirai
sicuramente in qualche altro posto.
L.J Peter.








Pierre p.o.v
“Pierre, si può sapere che hai?” Lachelle mi guardava, sospettosa. Le rivolsi un sorriso di circostanza, tanto per rassicurarla.
“Stavo pensando che forse dovremmo partire per un po’”.
“E dove vorresti andare?” Ovunque io possa dimenticarmi di lei.
“Non so, che ne dici di Salt Lake City?” Sgranò gli occhi, sorpresa quanto me di quell’improvvisa affermazione.
“Nello Utah? Ma...”
“Sarà divertente, e saremo solo io e te.” Ci pensò su, ma alla fine accettò. Infondo, avrebbe potuto prendere un aereo quando le pareva per tornare a Montréal. E, ripetei a me stesso, sarebbe stato per poco. Uscì, per andare ad avvisare la madre e la sorella della nostra decisione, lasciandomi solo in quella casa. La Moyne. LaMoyne. Qualcosa mi spingeva verso quell’auto e a dirigermi in Rue La Moyne. Basta, basta! Portai la testa tra le braccia, cercando di chiudere fuori tutti i pensieri che la riguardavano. Non potevo comportarmi in quel modo; non era giusto nei confronti di nessuno dei tre, compresa Lachelle: eravamo fidanzati da quattro anni e non potevo farle un torto del genere. Presi le chiavi dell’auto e mi allontanai da quelle quattro mura che, a dirla tutta, mi stavano togliendo il respiro. Misi in moto e accelerai, sperando di arrivare prima che diventasse troppo buio. Avevo una sola destinazione.
 
Sam p.o.v
Alt, avevo deciso. Dovevo dare un taglio a quella storia e se qualche forza superiore avesse cercato di ostacolarmi, avrei cercato di abbatterla. Erano le nove di sera, e non avrei potuto che trovarlo a casa sua, magari a leggere un libro. Arrivata di fronte alla sua dimora, notai che le luci erano spente e la sua auto mancava. Forse era uscito. Mi diressi in centro, in un bar piccolo ma abbastanza accogliente, tipicamente "filmesco".
“Mi dia qualcosa di pesante, per favore.” L’uomo al banco mi fissò stranito, come se invece di una bevanda gli avessi chiesto cicuta e cianuro. Quando mi posò davanti un piccolo bicchierino con del contenuto marroncino dentro, provai un profondo senso di nausea, ostacolato dal senso di colpa che chiedeva di essere soppresso, in qualsiasi modo. Bevvi tutto d’un sorso, provando a reprimere un eventuale conato di vomito.
“Problemi?” mi chiese il barman, notando la mia testa appoggiata sul bancone. Lo guardai, persa e mezza brilla. Senza rendermene conto ero arrivata a quattro drink.
“Perché in occasioni del genere i barman diventano psicologi?” Bevvi un sorso dalla birra che mi aveva appena versato. “Sai, mi è venuta un’idea.” Iniziavo a sentirmi un po’ alticcia. Mi alzai e corsi fuori, salendo in auto e guidando - almeno per quanto mi riusciva - fino al parco fuori città. I fari delle auto erano così fastidiosi...Parcheggiai neanche sapevo dove e non mi preoccupai che il parcheggio fosse chiuso.
And I’ve lost who I am, and I can’t understand why my heart is so broken rejecting your love…” Perché avessi iniziato a cantare proprio quella canzone non lo sapevo. “Without love gone wrong...Lifeless words carry on...” Diedi un calcio ad un albero, che si rivelò essere un palo della luce spento. Perché mi sentivo così...frantumata? Da piccola mio padre soleva definirmi un diamante; ora mi sembrava di esserne soltanto la brutta copia in vetro. “And this war is not over...” Avanzai ancora, non pienamente consapevole di dove stessi andando precisamente, ma sicura del fatto che camminare non potesse che farmi bene. Arrivai ad un punto in cui era difficile proseguire, a causa della presenza di un terrazzamento un po’ troppo alto. Ma non avevo intenzione di fermarmi. Con un salto, riuscii a cadere in piedi, continuando poi per una strada che portava su una spiaggia. Passeggiando un po’ più lontano dal bagnasciuga, iniziai a guardare il cielo e a riflettere. Ero sempre stata spinta a considerare Ben come unica fonte di fiducia nella mia vita, ma qualcosa era andato storto, e i miei ideali erano totalmente crollati. Ero fuggita da un problema che non potevo e, soprattutto, non volevo affrontare: era inutile, i fatti parlavano chiaro. Ero riuscita a dimenticarlo, almeno in parte, ma qualcosa di lui viveva ancora in me. Ero ancora innamorata? No. Tenevo ancora tanto a lui? No. Ma ora non avevo una spalla su cui poggiare e ben presto sarei caduta se non avessi riparato al danno fatto. E forse qualcuno che poteva aiutarmi a farlo c’era. Poteva quel qualcuno essere Pierre?
"I'd do anything, just to hold you in my arms, to try to make you laugh, 'cause somehow I can't put you in the past. I'd do anything just to fall asleep with you. Will you rimember me, 'cause I know I won't forget you..." Ancora quella voce. “I close my eyes, and all I see is you. I close my eyes, I try to sleep, I can't forget you.
Mi avvicinai, seguendo il suono della voce accompagnata da chitarra acustica. Trovai una piccolo grotta, illuminata da una debole luce arancione e vi entrai, senza esitare, continuando ad ascoltare. C'era familiarità, c'era calore, dolcezza, anima. C'era lui.

“Pierre...” non appena mi vide, si fermò, posando la chitarra a terra e alzandosi in piedi, come se lo avessi colto nel bel mezzo di un reato.
“Sam, che...che ci fai qui?”
“Passeggiavo sulla spiaggia e ho sentito una voce. Potresti, ecco...cantare ancora?” Avrei dovuto parlare con lui non chiedergli di cantare per me.
“Ehm...sono un po’ stanco...Ora me ne torno a casa.”
“No, scusami. Me ne vado io, tu resta qui.” Uscii dalla grotta, sperando che lui mi richiamasse. Ma non accadde.
 
Pierre p.o.v
“Stupido, idiota, imbecille!” Sferrai un calcio alla chitarra, che di tutta risposta mi fece notare di aver appena spezzato una corda e rotto la paletta. Corsi fuori, cercandola con lo sguardo, ma era lontanissima. Avrei dovuto chiamarla? Per complicare ancora di più le cose? No, meglio di no. Tornai dentro a spegnere il fuoco, presi quel che restava dello strumento musicale e me ne andai. Sperai che non si voltasse e si accorgesse della mia presenza; ma lo fece. Due secondi, per poi girarsi e tornare sui suoi passi. Ad un tratto si fermò, tornò indietro e corse ad abbracciarmi. Mi sentii totalmente impotente, sicché lasciai cadere la chitarra a terra e la strinsi forte, cercando di combattere il desiderio di andare oltre.
“Pierre?” mi chiamò, sommessamente.
“Mmh?”
“Promettimi una cosa.” Alzò lo sguardo e puntò i suoi occhi nei miei, non lasciandomi altra possibilità che dire: “Si.”
“Non abbandonarmi mai.” Affondò la testa nel mio petto. “E scusa. Sono un’idiota.”
“Vorresti togliermi il primato?” capii che rideva dal calore che mi infondeva tramite la maglietta. “Scusami tu. Hai ragione, non mi hai mai dato il diritto di interferire nella tua vita e...”
“Fallo. E se mi arrabbierò ancora con te, prendimi a schiaffi.”
“Proposta allettante, direi...”
“Dico sul serio.” Dalla sua espressione non traspariva un velo di ironia.
“Lo hai detto tu.”
“Ti voglio bene, Bouvier.”
“Anche io, Gordon.” Le feci scorrere una mano sul volto, e le alzai il mento. “Hai bevuto?” Era la prima volta che le sentivo addosso l’odore dell’alcol.
“Un po’...” Si allontanò, facendo tornare il freddo. “Non so, ma ho sentito rimorsi che sarebbero potuti scomparire solo con un aiuto liquido.”
Risi, prendendole la mano e iniziando a camminare. Come avrei potuto andare a Salt Lake City arrivati a questo punto?
 
Sam p.o.v
Risalimmo il terrazzamento con un po’ di difficoltà, dopodichè cercammo di camminare più lentamente. Eppure, lo sentivo distante. In tre anni avevamo maturato, insieme, una sorta di telepatia; ora mi accorgevo che c’era qualcosa che non andava.
“Domani” dissi, cercando di distrarlo “ti faccio vedere uno dei capolavori di Brandon Lee.”
Non può piovere per sempre! Il corvo è uno dei miei film preferiti. Lo avrò visto circa una decina di volte.”
“Esattamente. Che ne dici?” annuì, voltando l’angolo che ci avrebbe condotti alle nostre auto.
“Di sera o di pomeriggio?” chiese, aprendomi la portiera.
“Sera. Il pomeriggio andrò a parlare con Ben.”
“D’accordo...Cosa gli dirai, di preciso? Vuoi tornare con lui?” Mi sembrava troppo...curioso.
“Non so cosa gli dirò, ma una certezza ce l’ho.”








A HeySoulSister__
Come promesso C= Grazie ancora per le recensioni e i commenti!

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Capitolo 8
*** VIII. ***


~Perché aspettiamo per qualsiasi cosa? Perché non afferriamo immediatamente il piacere?
Quante volte la felicità viene distrutta dalla preparazione, stupida preparazione.

 

Jane Austen 











Chiamai Ben per farmi dire il nome dell’albergo, dove avrei potuto liberamente parlare con lui e chiarire ogni cosa. Sempre che qualcosa fosse rimasto. Quando raggiunsi la sua camera, lo trovai in accappatoio, alle quattro del pomeriggio. Non per infangare la sua reputazione o cose simili, ma non era mai stato quello che si soleva definire “un gran lavoratore”. Viveva di rendite da parte dei ricchi genitori; era viziato, e davvero non sapevo come avessi potuto innamorarmi di lui in quel modo. Non si trattava di inesperienza, o cose simili: era riuscito a comprare mia madre e vedendola così felice non avevo potuto pensare altro che un uomo così non potesse che far bene sia a me che ai miei cari. E man mano avevo costretto il mio cuore a battere di più in sua presenza, fino a prenderci l’abitudine.
“Hai deciso?” Si mise a sedere sul letto, aspettando che dessi una risposta.
“Da circa tre anni, Ben. Puoi tornartene a Boston.”
“E’ per quel tizio, vero? Un cantante da strapazzo che crede di potersi prendere la mia donna!”
“Io non sono mai stata tua! Neanche se fossimo stati sposati lo sarei stata. E poi Pierre non c’entra niente.” Mi fissò torvo, continuando a inspirare ed espirare per poter mantenere la calma. “Stammi lontano, Ben. Addio.” Feci per andar via, quando si alzò per bloccare la porta. Nei suoi occhi c’era rabbia e rancore; non pentimento. Mi sentii debole fino al momento in cui non posò le sue labbra sulle mie, con una forza che mi costrinse a voltarmi di lato per riprendere fiato. Lo allontanai e passai una mano sulla bocca per pulirla: non avrebbe dovuto farlo, ma essendo effettivamente l’ultimo, mi limitai a disprezzarlo in silenzio. Uscii di tutta fretta dalla porta, lasciandolo seduto lì, con i pugni chiusi. Ora ero ufficialmente libera: tutti i lati oscuri erano stati illuminati. Solo una cosa non comprendevo: il perché avesse definito Pierre un cantante da strapazzo. Lo aveva soltanto visto una volta, e non poteva sapere che cantasse bene. Sarei potuta tornare dentro a chiederglielo, ma non volevo riaprire alcun argomento. Chi se ne importava di quello che diceva? Era solo un bastardo a cui non dare ascolto. Guidai fino a casa, dove ad aspettarmi c’erano Leah e Jack, con la nostra vicina di casa, Daria. Bevevano del caffé, chiacchierando del più e del meno. Vedendomi arrivare, Leah si alzò e mi venne incontro per chiedermi come fosse andata. Un semplice “bene” avrebbe chiuso la questione. Tornai in cucina con lei, salutando la giovane ragazza che sedeva a capotavola. Quando mi accorsi che i suoi discorsi, o meglio, i suoi pettegolezzi sui nostri condomini mi annoiavano e infastidivano allo stesso tempo, mi alzai e mi chiusi in camera mia a leggere. Qualche poesia non avrebbe potuto che rendere migliore quella giornata. Dopo quindici componimenti, decisi di chiudere: troppo amore in poche pagine. Inoltre, avevo la nausea; ogni poesia mi ricordava Pierre, e tutto ciò per colpa di Leah. Lei e le sue stupide supposizioni sulla vita sentimentale altrui. Gettai il libro sul letto e iniziai ad osservare il soffitto. Si, forse il ragazzo era diventato indispensabile per me, ma tutto ciò per il semplice fatto che passavamo il cinquanta per cento della settimana insieme, e lui faceva ormai parte di quasi tutte le mie azioni. Mi sentivo bene con lui, ma ciò non implicava il fatto che ne fossi innamorata. Eppure...Oh, no. Basta, non pensarci. Su, su... Iniziai a provare una strana sensazione. Devo distrarmi. Okay, ehm...Dovrei ridipingere la mia stanza. Tutto inutile. Leah me l’avrebbe pagata stavolta.
“Leah!” La mia amica si precipitò da me, allarmata.
“Che c’è? Aspetta, chiamo i pompieri!” La bloccai per un polso e la trascinai in camera mia, costringendola a sedersi sul letto. Iniziai a girare avanti e indietro per la stanza.
“Ieri sera...quando io e Pierre abbiamo risolto il problema del “tu-sai-cosa”, abbiamo parlato...”
“Lo so. Me lo hai già detto.”
“Ci siamo abbracciati e gli ho detto di volergli bene.”
“E fin qui tutto okay. Quindi?” sembrava impaziente di sapere a cosa stessi cercando di tendere.
“Io...non lo so...Ho provato una strana sensazione. Mi dava la nausea. Ma certo!” Sobbalzò a causa del mio improvviso grido.
“Hai scoperto di che si trattava?”
“Avevo bevuto. Ecco perché.” Scoppiò in una fragorosa risata.
“Ma se non ci credi neanche tu! Basta, Sam. Io resto del parere che tu ti sia innamorata. Punto.” Sentimmo il campanello suonare, e subito il mio cuore partì a mille. Calmati!, gli ordinai. All’entrata, Pierre teneva tra le mani un pacchetto. Lo osservai da più punti, ma non riuscii a capire o a immaginare ciò che conteneva. Leah e Jack finsero di non mostrare interesse e uscirono, chiudendosi lentamente la porta alle spalle. Pierre, invece, mi fissa-va. Quando si accorse che lo avevo notato, distolse lo sguardo e mi porse il pacchetto. Era pesantoccio.
“ Cos’è?” Chiesi, iniziando ad aprirlo. Quando sollevai il coperchio della scatola, mi resi conto che si trattava di qualcosa da mangiare. “Una torta!”
“E’ stata la donna della pasticceria a impacchettarla, in realtà. Io l’avevo solo ordinata per mangiarla durante il film.”
“ Hai rovinato un bel momento, sai?” Dissi, torva.
“Spiacente.” Posai il dolce sul tavolino dinanzi al televisore e cercai il DVD de “Il corvo”. Jack doveva averlo messo lì, da qualche parte. Al solito, Pierre si dedicò alla preparazione della nostra postazione da film, e nell’esatto istante in cui parve volermi chiedere qualcosa, il film saltò fuori. Lo inserii nel lettore e mi misi a sedere accanto a lui; mi sentivo un’ipocrita. Se fino a qualche minuto prima avevo ordinato al mio cuore di smetterla di scalpitare, ora stare accanto a lui mi faceva sentire peggio. Era inutile dare la colpa a Leah, era solo una sorta di alibi che mi ero creata per non accettare il fatto che forse Pierre stava diventando troppo. Troppo importante. Sollevai lo sguardo e lo guardai di sottecchi; i suoi occhi riflettevano le luci dello schermo. Pensai al fatto che non conoscevo molto della sua vita privata. Ma se avesse avuto qualcosa di interessante da raccontarmi lo avrebbe fatto, o non sarei mai potuta essere la sua migliore amica. A quel pensiero, risi. Era un concetto così infantile, così adolescenziale, proprio come lui. Alle volte, mi dava l’impressione di essere un ragazzino di quindici anni, alle prese con le prime esperienze, sebbene avesse passato i trenta. Quando si accorse che lo stavo osservando, mi sorrise, e si alzò, mettendo il film in pausa. Sparì qualche istante e quando tornò teneva tra le mani la torta che lui stesso aveva portato; mi porse una forchetta e mi concesse il primo assaggio.
“Tutto okay con Ben?” Domandò, fissando lo schermo del televisore.
“Adesso sì.” Sapevo non avrebbe avuto il coraggio di chiedermi cosa fosse realmente successo in quella camera, ma qualcosa mi spinse a raccontargli la verità: infondo, eravamo amici. “Ho chiuso. E credo che anche per lui sia così. Quel bacio, infondo, ha sancito la fine.”
“Bacio?” Non mi piacque affatto il tono con cui pronunciò quella domanda. Sembrava deluso e amareggiato, sebbene io sapessi che si trattava solo di una mia impressione.
“Ci...” Ripensai all’accaduto e riformulai la risposta. “Mi ha baciata.” Perché mi sentivo come se mi fossi appena tolta un peso dallo stomaco?
“Capisco.” Si impossessò del telecomando e riavviò il film, continuando a mangiare il dolce come se nulla fosse accaduto. Per tutto il tempo, regnò una tensione tale da farmi venire i brividi ad ogni suo contatto.
Quando andò via non era lo stesso; il suo saluto fu un semplice e alquanto banale “ciao”, seguito da passi pesanti volti all’uscita.
 
Pierre p.o.v
Avrei voluto sferrare un pugno in faccia a quel tipo. Sapevo, sapevo benissimo che la cosa non era partita da lei, e il pensarla indifesa di fronte ad un energumeno come quello mi faceva solo venire voglia di spezzare in due qualcosa. Controllai il cellulare, e notai un sms di Seb; un’uscita era ciò che ci voleva. Passai a prendere Lachelle e mi diressi in centro, dove ad aspettarci c’erano i ragazzi. Parcheggiai l’auto e presi per mano la ragazza bionda che da un po’ di tempo a quella parte diceva di sentirsi trascurata: non potevo darle torto.
“Finalmente!” Esclamò Jeff. “Che hai? Ti è morto il gatto?”
“Io ho un cane, e quello che in realtà sembra essere appena tornato da un funerale sei tu. Cos’è, avevano finito i capi colorati?” Domandai, ironico, notando il suo abbigliamento.
“Esatto! Ma è anche vero che il nero fa figo.”
“Ragazzi, attenti a Jeff. Potrebbe portarci via le donne.” Intervenne David. Entrammo nel locale che Sebastien aveva scelto, nel quale si stava tenendo uno degli eventi mondani organizzati dalle band emergenti della città. Ordinai da bere e lasciai che Lachelle si divertisse.
“Tra cinque giorni suoneremo al porto, non vedo l’ora!” Chuck era sempre il più eccitato quando si trattava di concerti. Alle volte mi veniva da pensare che se la band non fosse esistita, Chuck non sarebbe esistito. “Pierre, non bere troppo che domani ci serve la tua voce.”
“Quanto sei noioso, Comeau.” Bevvi un sorso di birra e guardai la mia fidanzata dimenarsi sulla pista da ballo. Forse avrei dovuto pensare al matrimonio, una buona volta, al luogo, a tutto quello su cui si rifletteva prima di compiere il grande passo. Ma mai prima di allora ero stato così confuso e disorientato; non capivo perché mi sentissi così quando ero solo. Ma chi volevo prendere in giro? Lo sentivo, sentivo di stare già tradendo Lachelle. La proposta di trasferirci per un po’ era ancora valida, sebbene non ne fossi più così convinto come quando l’avevo formulata. Avevo considerato che il pensiero di quella fuga fosse nato solo ed esclusivamente dalla rabbia, dalla necessità di stare lontano dall’unica persona che in quel momento mi stava facendo uscire di senno; ma una forza maggiore mi spingeva a starle accanto, anche a costo di rinnegare me stesso e i miei ideali.
“Ora sono serio. Si può sapere che hai?” Sobbalzai, udendo la voce di David, un flebile sussurro, anche con quel frastuono. Scossi il capo, sorridendo, ma proprio a lui non potevo mentire. Non ci riuscivo, era più forte di me.
“Dave, ho bisogno di cantare.”       

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Capitolo 9
*** IX. ***


~ Succede che...non succede niente di
quello che dovrebbe succedere...

Nicola Aghilar













Quella mattina il negozio sembrava meno ospitale del solito, e il mio umore era di parecchi punti al di sotto dello zero, come accadeva tutte le volte in cui non sentivo l’influenza positiva della vita. Feci involontariamente cadere un paio di rullini a terra, e non potei fare a meno di imprecare e urlare contro qualsiasi cosa mi trovassi davanti e mi fosse d’ostacolo, com’era normale che accadesse quando provavo risentimento verso tutto e tutti. Fortunatamente quel mattino il signor Powell aveva delle fotografie da scattare ad una band, che, mi aveva detto, quell’anno avrebbe pubblicato un CD. Persone famose...Puah. Le detestavo, a volte. Perché mai acquistavano tanta importanza tra la gente? Perché erano venerati come déi? Potresti anche smetterla di prendertela con chi ha avuto più fortuna di te, mi dissi. Posizionai delle fotografie sulle mura appena imbiancate del locale e notai che per quel giorno non c’erano appuntamenti, se non quello preso già dal proprietario, così mi affrettai a fare qualche chiamata e a chiudere. Girai per la piazzetta, osservando quelle poche vetrine che c’erano e rendendomi conto di non avere nulla di interessante da fare. Mi lasciai cadere su una panchina e controllai il cellulare. Nessuna chiamata. Leah quel giorno avrebbe lavorato duramente, a causa di un gruppo di turisti intenzionati a visitare il museo nel quale lavorava da cima a fondo, e Jack era altrettanto occupato. Pierre...inutile dirlo. Erano circa sette giorni che non lo sentivo, e non capivo perché non si fosse ancora fatto vivo. Tuttavia, decisi di fare una cosa. In tre anni, per restare lontana dal passato, avevo lasciato perdere i giornali. Le riviste di qualsiasi genere erano state bandite dal mio intrattenimento, e fino a quel momento neanche avevo fatto caso alla mancanza di informazione sul mondo dei libri alla quale ero andata incontro. Così mi feci coraggio ed entrai in un’edicola. Sembrava ben fornita. Cercai la “Montréal Gazette”, per la quale lavorava il mio amico, speranzosa di leggere uno dei suoi articoli. Sfogliai le pagine del giornale, ma non trovai nulla.
“Mi scusi, lei conosce i giornalisti che risiedono in città?” Domandai alla donna al bancone.
“Certamente. Chi le serve?”
“Pierre Bouvier.” La risata che seguì quella mia richiesta fu tanto inaspettata quanto lievemente offensiva.
“Non credo sia un giornalista, signorina...” Prima che potessi chiedere ulteriori spiegazioni, sentii la tasca vibrare.
“Signor Powell?”
“Signorina Gordon, sto tornando. Ha chiuso il negozio?”
“Sì.”
“D’accordo, bene. Domattina dovrà fare una consegna, la band ha bisogno delle foto.” Confermai e uscii dall’edicola. Non ricordavo di cosa stessi parlando con la donna, sicché tornai a casa. Per passare del tempo, decisi di preparare la cena. Mi rimboccai le maniche e preparai degli spaghetti al pomodoro, cercando di ricordare esattamente la ricetta di mia nonna. Poi mi dedicai al piatto preferito da me e da Leah: cotolette di carne e insalata. Durante la frittura, udii uno strano rumore provenire dalle mie spalle, e quando mi voltai notai che il display del cellulare era illuminato.
“Sì?”
“Sono Pierre.” Restai qualche istante in silenzio, cercando qualcosa da dire. “Che combini?”
“Sto...Sto cucinando.”
“Questa mi è nuova. Cosa stai facendo di buono?” La sua tranquillità rasentava sfrontatezza. Non si era fatto vivo per una settimana intera e...Cercai di mantenere i nervi saldi e parlare con calma.
“Cibo.” Spensi appena in tempo i fornelli. C’era un odorino rigenerante.
“Apri la porta.” Sollevai lo sguardo dal piatto nel quale avevo collocato le cotolette e sussultai. A passo lento mi diressi all’entrata e poggiai una mano sul pomello, che girai lentamente. Quando lo vidi, teneva ancora il cellulare accanto all’orecchio, ma il suo volto era nascosto da un mazzolino di fresie.
“Sei un idiota.” Affermai, facendolo entrare. Annusai quelli che erano i miei fiori preferiti e andai alla ricerca di un piccolo vaso per contenerli. Trovai quello che tenevo da tanti anni ma che mai aveva accolto fiori e lo riempii d’acqua, collocandolo poi nella mia stanza. Tornai in cucina, dove, ovviamente, il ragazzo se la stava spassando con la mia cena. “D’accordo, sei invitato.” Sul suo volto si stampò un sorriso a trentadue denti; quella situazione era esilarante. Il suo sorriso beffardo lo era, e glielo avevo sempre detto. Non c’era nulla di più divertente che vedere Pierre Bouvier ridere, sfoggiare una risata coinvolgente e maledettamente rilassante. Mi avvicinai a lui e lo guardai, e subito dopo mi trovai tra le sue braccia; era così estasiante sentire il suo profumo, familiare.
“Non sparisco più, promesso.” Sussurrò, poggiando il mento sul mio capo.
“Stamattina volevo leggere uno dei tuoi articoli, ma non sono stata molto fortunata.” Si irrigidì improvvisamente, facendomi sobbalzare. Mi allontanai e lo fissai, chiedendogli cosa gli stesse succedendo.
“Nulla. E’ che...ho preso un periodo di pausa. Devo trovare l’ispirazione necessaria.”
“Ah, ti capisco.” Sorrise di nuovo. “Mi stai nascondendo qualcosa, Bouvier?”
“No. Cosa te lo fa pensare?” Feci spallucce, iniziando ad apparecchiare.
“Non so...hai degli strani atteggiamenti. Sarà solo una mia impressione, non pensarci. Chiamo Leah.”
 
Pierre p.o.v
Che iniziasse a dubitare e a porsi delle domande, era lecito. Ma perché aveva deciso di ricominciare a leggere i giornali? Un altro problema si poneva con l’imminente uscita del nuovo album, quell’anno. Mancavano cinque mesi, ma in breve sarebbero stati affissi i poster e le locandine. Dovevo parlarle, dirle tutta la verità, farle sapere ogni cosa, dalla band a...Lachelle. Forse lo avrei fatto quella sera stessa, dopo cena, approfittando del fatto che ormai avesse già iniziato a chiedermi qualcosa. Quando Leah rientrò, l’aiutai a portare dentro le buste della spesa e poi andai a prendere Jack a lavoro. Attesi qualche minuto prima che uscisse e mi raggiungesse in auto. Parlammo del più e del meno, quando improvvisamente, fermi ad un semaforo, mi chiese qualcosa che mai mi sarei aspettato.
“Come va con le canzoni?” Eravamo, fortunatamente, già fermi, sicché non corsi il rischio di schiantarmi contro un palo della luce.
“Che vuoi dire?” Rise, rendendo la situazione ancora più pesante.
“Simple Plan. Non ci crederai, ma Sam e Leah vi ascoltavano fino a cinque anni fa.” Ecco perché considerava la mia voce estremamente familiare. Chinai il capo e colpii più volte il volante, in segno di flagellazione. “Poi hanno smesso per lavoro. Sam ha pensato alla laurea e alla carriera e lo stesso Leah. Si sono completamente dimenticate le vostre facce.”
“Ha riconosciuto la mia voce e non il mio volto.” Affermai, fissando la luce rossa. “Devo parlare con lei.”
“Se non lo fai tu lo farà la pubblicità.” Finalmente uscì il verde. Nel momento stesso in cui rimettemmo piede in casa, ci rendemmo conto che le ragazze si erano cambiate. Erano in pigiama.
“Che sensualità!” Affermò Jack, abbracciandole. Durante la cena non potei fare a meno di osservarla. Sembrava così tranquilla. Cosa ci sarebbe successo dopo la mia confessione? Cosa avrei dovuto fare per riparare a quel danno? A fine pasto, mi lasciai cadere sul divano, chiudendo gli occhi, mentre Leah e Jack andarono a dormire; il ragazzo mi fece un occhiolino e scomparve dietro la porta. Aiutai Sam a mettere le ultime cose a posto, poi insieme ci dirigemmo, al solito, sul terrazzo, nonostante il freddo glaciale. Ora o mai più, pensai. Le carezzai i capelli, sentendo in quel momento la morbidezza al tatto; quello che proprio avrei voluto evitare era sentire ogni “emozione” in modo più enfatizzato; era un segnale estremamente negativo.
“Dovremmo comunicare all’osservatorio le tue scoperte astronomiche.” Mormorò, interrompendomi prima ancora che potessi iniziare.
“Meglio di no. Potrebbero richiedere interviste o cose simili, sarebbe stressante.”
“Potrei fartene una io...Sai, per riassaporare il piacere del colloquio con personaggi di spicco nel campo della scrittura.”
“Se scrivere ti manca tanto, perché non ricominci?” Scosse il capo, portando le ginocchia al petto.
“Magari leggere un tuo articolo potrebbe essere la spinta giusta.” Disse, sorridendomi.
“A proposito di questo...” Mi sgranchii la voce e guardai dritto di fronte a me. Era quello il momento giusto. “Samantha, ho una cosa da confessarti.” 

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Capitolo 10
*** X. ***



Okay, ho scritto questo capitolo sul Blackberry. Tutto per colpa di una professoressa di scienze inacidita , convinta che anziché essere al quarto anno di classico, noi poveri esseri etichettati come alunni siamo al terzo anno di università, facoltà medicina. Sono stressata e vorrei solo prendere a calci qualcuno che le somigli, anche solo minimamente (= 

~ P.S I love you.







Mi chiesi perché fosse cosi ansioso e cosi distaccato, e iniziai a temere che intendesse dirmi qualcosa che avrebbe potuto rovinare il nostro rapporto. E infatti...
"Ti ho mentito" Sussurro'. "Io...Io non sono un giornalista..." 
"Cosa vuol dire?" Ero confusa, non ancora arrabbiata.
"Quello che ho detto." 
"Ora mi permetterai di chiederti cosa fai di tanto scandaloso da non aver avuto il coraggio di dirmelo in tre anni?" Dissi, restando calma.
"Io ho...una band." Sussultai, chiedendomi come avesse fatto, come fosse riuscito a nascondermi una cosa simile per tutto quel tempo. In un primo momento fui sul punto di non credergli e scoppiare a ridere, ma poi fu come se i pezzi di un puzzle che neanche credevo di aver iniziato avessero preso la giusta direzione per essere incastrati. Mi tornò alla mente la sua voce, quella sera nella grotta...Poi ebbi una sorta di flash, e l'anticamera della memoria mi ricordò chi in realtà  fosse il possessore di quella voce.
"Sei tu..." 
"Se per 'tu' intendi il cantante che ascoltavi una volta, si, sono io." Si porto' una mano sulla nuca e sorrise, per le circostanze in cui eravamo, forse per sdrammatizzare. Eppure, io, quell'effetto proprio non riuscivo a sentirlo.
"Non ci posso credere. Cos'altro mi hai tenuto nascosto?" Tornò serio, e fisso' i suoi occhi nei miei, parlandomi con un tono di cui non credevo la sua voce fosse capace. 
"Ho una fidanzata." Non seppi perché proprio quello mi fece più male, perché sentii di non potergli perdonare proprio quella menzogna.  Più di tutto, mi chiesi perché non me lo avesse mai detto. 
"Non lo so, esattamente." Mi detestavo quando pensavo ad alta voce. "O forse si, ma mi spaventa pensarla in quei termini." Sollevai il volto e lo guardai, cercando di apparire quanto meno persa potessi. 
"Non mentirmi anche stavolta..." Poso' una mano sulla mia guancia e si avvicinò, con un ghigno disegnato sulle labbra. 
"Sto mentendo anche a me stesso, in questo momento." 
"E allora smettila, dannazione!" Mi alzai di scatto, scostandomi i capelli dal volto e tenendo gli occhi fissi sulla finestra che dava sulla camera da letto. "Forse e' meglio che tu vada via." Mormorai.
"Ho rovinato tutto?" Rientrai in casa e chiusi a chiave la porta della mia camera, lasciandomi scivolare lungo la parete. Se dovevo stare male, doveva essere per il fatto che in tre anni in cui aveva più volte ribadito quanto fossi importante per lui non aveva fatto altro che raccontarmi bugie. Sfidavo non avessi trovato suoi articoli in giro, ma quel che pi§ mi tartassava la mente era come avesse fatto a spiegare alla sua fidanzata dove avesse passato più volte la notte, quando a furia di giocare ai videogames con Jack si era addormentato sul nostro divano. Mi sollevai da terra e spalancai l'armadio; scostai i vestiti e cercai la scatola gialla contenente i miei ricordi. Quando la trovai, sollevai il coperchio e cercai i CD che tanto da ragazzina avevo bramato e ottenuto solo con i sacrifici. Sulla copertina, il suo volto corrucciato, serio... Come avevo fatto a non riconoscerlo?  

Pierre p.o.v
Scesi lentamente le scale che mi avrebbero condotto fuori dal palazzo, lontano da lei e da quello che avevamo costruito in quegli anni. Mi ero accorto solo in quel momento che le basi che avevamo posto erano atte ad ospitare ben due palazzi; la messa a punto del mio era però ostacolata dai sensi di colpa. Che non riuscissi a starle lontano, era trasparente come il vetro, chiaro come il sole. E quello che ancora non riuscivo a capire era: perché lei? La mia vita era pressoché perfetta, fino al suo arrivo, con quell'abito azzurro totalmente inappropriato per un viaggio, in aeroporto. 
Rientrai in casa, facendo attenzione a non mostrare angoscia o sentimenti simili alla mia fidanzata. Difatti, Lachelle era al telefono, e non appena mi vide le si illuminò il volto.
"Ci sono grandi notizie!" La fissai con sguardo interrogativo, chiedendomi a cosa si riferisse di preciso. "Per te, ovviamente. A me toccherà starti lontana ancora una volta." 
"E' quello che penso?" Chiesi, sentendo già l'euforia.
"Sì! Farete qualche concerto in giro per spianare la strada all'uscita del nuovo CD. Partirete tra una settimana, è già tutto pronto!" Così presto? Sarei stato via a lungo, non avrei potuto mettere le cose a posto. Sorrisi, rispondendo all'euforia di Lachelle, poi decisi di fare una doccia per schiarirmi le idee. Lasciai che il getto d'acqua calda facesse tutto da solo e liberai la mente; con scarsi risultati, ovviamente. Quando dovevano essere passati circa trenta minuti, Lachelle bussò alla porta e mi chiese se andasse tutto bene. Indossai una t-shirt e un paio di calzoni e la raggiunsi in camera da letto. 
"Riposa, domani devi cantare tutta la giornata." Mi scoccò un bacio sulla guancia e si coprì con il piumone, voltandosi dal lato opposto. Fissai il vuoto qualche istante, prima di addormentarmi definitivamente.

Uscii di buon mattino, sorprendendo anche me stesso. Arrivato allo studio di registrazione, mi armai di chitarra e strimpellai qualche nota della canzone che avevo scritto qualche giorno prima, colto da un'improvvisa ispirazione. Mi, Re... No, così non va, pensai. Provai a mettere insieme qualche altra nota, ottenendo come massimo risultato qualcosa di appena udibile.
"L'ideale sarebbe utilizzare questo sound facendo ricorso alle chitarre elettriche e al basso. Con la batteria, poi, migliora tutto." Salutai David, fermo sulla soglia. Fui felice di sapere che il suono poteva andare. "Tutto okay?" Annuii, posando lo strumento sul divanetto. 
"Ho parlato a Samantha." Affermai, giocherellando con i tasti per il controllo voce.
"E...?" 
"E, cosa? E' andata proprio come mi aspettavo. E' arrabbiata." Utilizzare quell'aggettivo, con lei, era riduttivo. Avrei potuto dire che fosse delusa, il che era decisamente peggio considerate le circostanze e il suo modo di fare. In tre anni avevo imparato che non perdonava facilmente, che a volte non lo faceva affatto, soprattutto se ferita da persone di cui si fidava ciecamente. L'unica magra consolazione era quella, per metterla in quei termini. 
"Dovresti darle tempo." Scossi il capo, lasciandomi cadere sulla sedia.
"Non a lei."
"Per come ne parli non sembra una tipa normale." Disse, sorridendo. 
"E' solo troppo umana, David." Mormorai. "Ricordi quello che ci diceva mio padre?" 
"Siamo tutti animali fino al momento in cui non ci pugnalano alle spalle?" 
"Proprio quello." Nell'esatto istante in cui mi alzai, fecero il loro ingresso Seb, Jeff e Chuck, ansiosi di provare. Bevvi un sorso d'acqua ed entrai in sala registrazione, indossando le enormi cuffie che da anni a quella parte utilizzavo. Provammo una canzone che l'anno precedente avevamo cantato all'I-day festival in Italia, dopodiché a Dave venne la grandiosa idea di concretizzare il mio pezzo. Dopo circa un'ora di battibecchi sulle note da mettere insieme, tirammo fuori una delle canzoni migliori che avessimo mai composto. 
"Come la chiamiamo?" Iniziarono a tirar fuori nomi improbabili, e mentre me ne stavo in silenzio ad ascoltare le loro idee, la semplicità mi fece parlare.
"Astronaut." 
"Che fantasia, Pierre." Commentò Chuck, continuando a pensare. 
"Pensateci. E' facile da ricordare, e al tempo stesso rende il tutto misterioso; chi potrebbe immaginare un testo così con un titolo del genere? E sarebbe un nome fenomenale da dare ai nostri fan, non credete?" Sembrarono convincersi. Qualche minuto dopo, stavamo definitivamente registrando quella che, me lo sentivo, sarebbe stata un grandissimo successo. Intorno alle undici e trenta, decidemmo di prenderci una pausa e riposare. Mi offrii di andare a prendere dei caffé di sotto, a patto che non iniziassero, al solito, a fare gli imbecilli chiedendomi cose impossibili quali: caffellatte tiepido, con molto zucchero, cacao amaro e chicci di caffé ma senza troppo caffé. Non volevano dire niente quelle parole. Nulla. Riempii sette bicchieri di carta e tornai di sopra, rischiando di ustionarmi proprio dinanzi alla porta. Spinsi il maniglione antipanico e mi aiutai con la schiena a spalancare il portone, dopodiché posai le bevande sul tavolino di legno. 
"Sono fantastiche!" Mi guardai intorno e notai che i ragazzi erano spariti, ma la voce di Seb era ancora chiara. Aprii la porta dell'ufficio del tecnico e trovai tutti intenti ad osservare qualcosa. "Pierre, guarda!" Prima ancora che i miei occhi si posassero sulle fotografie appena stampate, incontrai lo sguardo di Sam. Evidentemente a disagio, chinò il capo e rivolse un sorriso a David, che la stava ringraziando.
"Sono troppo figo." Affermò subito dopo, analizzando uno degli scatti. "Ragazzi, andiamo di là." 
"E perché mai?" Domandò Chuck, confuso.
"Perché la moquette mi ispira. E anche le mura marroni."
"Hai bevuto per caso?"
"Chuck, sta' zitto e muoviti." Guardandoli non potei fare a meno di ridere. Silenziosamente, ringraziai il mio amico, che chiusosi la porta alle spalle, lasciò me e Samantha da soli. Mi voltai lentamente, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento e cercando di trovare qualcosa da dire. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene, qualsiasi. Ovviò lei alla mia tomba di idee.
"E' simpatico, David." 
"Sì, lo è." Grandioso. Risposte tanto concise non avrebbero certo aiutato la conversazione. 
"Meglio che vada, Powell mi sta aspettando." Annuii, ma prima che si avvicinasse alla porta, imposi a me stesso di farmi avanti. 
"Potrà...Potrà mai tornare tutto com'era prima?" Un profondo ma loquace silenzio seguì quella mia domanda. 
"Quando entrambi vivevamo in una menzogna?" Mosse un passo in direzione dell'uscita, ma non potevo lasciarla andare proprio adesso. Le afferrai un braccio e glielo strinsi, avvicinandola a me. 
"Ti ho mentito solo sulla mia vita, Sam. Con te sono sempre stato me stesso; più di quanto potessi credere possibile." 
"Non è così semplice. Pensa...Come ti sentiresti se improvvisamente ti dicessi che a scrivere gli articoli non ero io, ma qualcun altro e che invece che rompere con Ben io ci fossi tornata insieme?"
"Non lo so, non so come mi sentirei."
"Fa stare da schifo. Mi fidavo di te, Pierre. Mi sono affezionata troppo, è stato un errore." Allentai la presa, scosso da quelle parole.
Se solo lei avesse saputo cosa mi stesse torturando da troppo tempo. Dal suo arrivo, praticamente. Se solo avesse saputo quanto io tenessi a lei...Se solo io avessi accettato quella situazione.  

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Capitolo 11
*** XI. ***


~ Next time I’ll be braver,
 I’ll be my own savior.

Adele, Turning Tables
 
 







“Pierre, credo solo che tu debba lasciarmi andare.” La sua mano, prima stretta in una morsa che avevo sentito come troppo forte anche per me che sapevo difendermi meglio di qualunque altra donna, era chiusa in un pugno. Nella saletta accanto piombò il silenzio quando ad uscire fui prima io, e David, che prima si era mostrato tanto cordiale nei miei confronti, mi venne incontro. Gli rivolsi un sorriso di circostanza e scesi giù in parcheggio, dove il signor Powell attendeva impaziente il mio ritorno. Negli ultimi mesi il suo caratteraccio era uscito fuori in un modo che mi fece sorprendere di me stessa. Non potevo credere di essere tanto tollerante nei confronti degli schiavisti. 
“Senta un po’, perché non se ne torna in quello stupido negozio e mi lascia in pace, eh?”
“Signorina, non mi faccia prendere provvedimenti...” Disse, sfrontatamente. 
“Stia zitto.” 
Mi avviai lungo la strada che mi avrebbe ricondotta a casa; sapevo che avrei dovuto trovarmi un altro lavoro, e che se proprio avessi voluto fare qualcosa di decente, avrei dovuto tornare a scrivere. L’indomani, avrei presentato una richiesta alla Montréal Gazette per ottenere quel posto che credevo fosse di Pierre e tornare a fare ciò che amavo e che sapevo non mi avrebbe mai tradita. Scrivere. Calciai una lattina, colpendo per sbaglio qualcuno intento ad affiggere un cartello sulla vetrina di un negozio di musica. 
“Non è così che si impara a giocare a calcio, sai?” Chiesi scusa, continuando a camminare. “Hey...ma io ti conosco!” Sollevai gli occhi al cielo, accelerando il passo. 
“No, non mi conosci.” Svoltai un angolo e non seppi come, mi trovai un energumeno di un metro e ottanta di fronte. 
“Il signor Powell ha stressato anche te, vero?” 
“Cosa? E come fai a saperlo?” 
“Ho lavorato per lui fino al tuo arrivo. E’ un tipo insopportabile, lo so bene.” 
“Dovrebbe darsi una calmata, o dovrà trovare assistenti ogni mese.” 
“Hai resistito tanto, per quanto ne so. Sono passato l’altro giorno in negozio, e c’eri ancora tu.” Fu un dettaglio in particolare a farmi tornare alla mente il suo volto: il tatuaggio sul collo, raffigurante una rosa. Era quel patito dei Guns ‘n Roses. 
“Patience.” Mormorai. Quando mi aveva vista, mi aveva dedicato quella canzone, ricordai. Scoppiai a ridere, trovando solo in quel momento il nesso tra la canzone e me. Rientrammo nel negozio in cui lavorava, o sarebbe stato licenziato per cattiva condotta, e continuammo a chiacchierare fino al momento della chiusura pomeridiana. 
“Senti un po’, com’è essere l’altra di Bouvier?” Quella domanda mi colse totalmente alla sprovvista, tanto che sentii mancarmi il respiro. 
“Che cosa stai dicendo?” Scesi dallo sgabello su cui mi ero momentaneamente seduta e indossai il cappotto, pronta ad andare via. Ma prima, volevo una spiegazione. 
“Oh, andiamo, siete fortunati che i giornali non ne parlino ancora. Siete venuti qui qualche volta e giurerei di avervi visti solo un attimo staccati.” Avvampai violentemente, sicché mi coprii il volto con la sciarpa. “La sua fidanzata è davvero sexy. Non che tu non lo sia, insomma...Ma non credevo decidesse di darsi alla pazza gioia.” 
“Io non sono l’altra. Siamo...eravamo solo amici.” Prima che potesse dire qualsiasi altra cosa, mi affrettai ad uscire, sbattendo la porta alle mie spalle. Procedetti a passo spedito fino a casa, dove Leah sembrava decisa a trattarmi allo stesso modo in cui mi avevano trattata gli altri; ma non ero pronta a sentire altro su Pierre. Cenammo in silenzio, lanciandoci di tanto in tanto delle occhiatine complici. Le avrei parlato dopo. Andai a fare una doccia, dopodichè infilai le cuffie e mi nascosi sotto le coperte. Mi sentivo già meglio, così isolata. 
Intorno alla mezzanotte, sentii il freddo tornare a colpirmi in pieno volto, e una luce accecarmi gli occhi. Leah. Si coricò accanto a me e aspettò che iniziassi a parlare. Le raccontai ogni cosa, senza tralasciare neanche un singolo e insignificante dettaglio, quasi stessi riportando per iscritto l’accaduto nel mio diario personale. Solo in quel momento, pensando al suo volto, sentii un groppo alla gola che non volle saperne di scendere se non quando una parola pronunciata sottovoce dalla mia amica fece sì che ben altro uscisse fuori. 
“Piangi così di rado che non può farti che bene.” 
 
Erano passati quattro giorni, e al giornale avevano detto che mi avrebbero fatto sapere. Nel frattempo le mie giornate passavano così lentamente che sentii di poter invecchiare precocemente, e la noia prese ben presto il posto della malinconia. Il giorno dopo quel lungo pianto, avevo deciso di essere sincera e leale nei confronti di me stessa e mettermi all’opera per ricominciare tutto, di nuovo, questa volta da un punto di partenza differente. Quello che volevo io. Al diavolo se fosse andato tutto male, ci avrei provato di nuovo. Per ora, mi limitavo però ad aspettare che l’agenzia si facesse sentire, e per passare il tempo avevo deciso di imparare a suonare la chitarra che avevo comprato all’età di sedici anni, colta dall’improvvisa voglia di possedere uno strumento, tipica di quell’età. Si chiamava Naya, ed era di un blu marino bellissimo, e le corde D’Addario, che mi avevano detto fossero le migliori, rendevano il suono celestiale, come quello che più amavo udire nelle canzoni che ascoltavo di sera, nel letto. Iniziai con il classico giro di SOL, che ancora ricordavo, poi mi dedicai al tanto “amato” barré. Cos’avevano le mie dita che non andavano? Perché non riuscivo a suonare quel Fa?! Cercai di analizzare a fondo tutte le caratteristiche della nota, quando sobbalzai a causa del cellulare. Lo afferrai, imprecando, ma cambiai tono notando il nome apparso sullo schermo. Staccai e mi alzai dal divano, avvicinandomi alla porta. La aprii lentamente, come per dargli la possibilità di andare via. 
“Ciao.” Dissi, scostandomi e lasciandolo entrare. “Hai dimenticato qualcosa?” Tornai a sedermi e impugnai nuovamente lo strumento. 
“Le bacchette per la batteria.” Annuii, cercando di concentrarmi sulle dita. Provai con gli arpeggi, ma neanche in quel caso potei dirmi fortunata o almeno capace. “Non è quello il modo di tenere la paletta.” 
“Come vuoi che si debba tenere una paletta? E’ il mio stupido polso ad avere un problema.” 
“Hai un polso normale, ma una convinzione sbagliata. Tienila così.” Inclinò leggermente la chitarra, facendo poggiare l’incurvatura della cassa sulla mia coscia e raddrizzando la paletta stessa, che, ora, era più atta all’essere impugnata bene. 
“Grazie.” Affermai, chiudendo il libro. Notai che le sue dita stringevano quel paio di bacchette che mi aveva fatto vedere un anno prima, per insegnarmi il ritmo. 
“Domani parto.” Mormorò, prima di uscire. 
“Tour?” Riuscii solo a chiedere. 
“Una specie. Starò via un po’ di tempo.” Annuii, chiedendomi cosa avrei dovuto fare in quella circostanza. 
“Le canzoni sono già pronte?” Domandai, incrociando le braccia sul petto.
“E’ davvero questo quello che ti basta chiedermi?” Preferii non rispondere. Mosse un passo nella mia direzione, e notando che non mi ero mossa di un centimetro, colmò quella distanza che ci divideva. Dovetti leggermente sollevare il capo per poterlo guardare negli occhi e dirgli tacitamente di andar via. 
“Non puoi dire che non voglia ascoltarti, Pierre. Il problema è che non sono più disposta ad udire quella che tu fai passare per verità ma che non è altro che una sporca bugia.” Mugugnai tra i denti.
“Non ho mai detto una cosa simile. Ma le cose che devi sapere mi tocca dimostrartele, non dirtele...” Aggrottai la fronte, non comprendendo a pieno le sue parole. 
“Stai cercando di confondermi?” Scosse velocemente il capo, facendo un passo indietro. Sembrava fin troppo combattuto, e ciò mi fece pensare che almeno in quel momento mi stava dicendo la verità. Poggiò le mani sulla superficie della porta e chinò il capo in avanti, facendomi preoccupare. Istintivamente allungai una mano e gli sfiorai la schiena. Ad un suo sussulto la ritrassi e mi allontanai, ma lui non fu d’accordo. Lo sguardo che mi fu possibile scorgere nonostante il crepuscolo fu uno dei pochi che Pierre mai mi aveva mostrato in quei tre anni. Non seppi se esserne spaventata o attratta, ma quel che era certo e che il suo respiro all’altezza della mia fronte non fu un segnale positivo. 
“Che co...” Non avevo mai capito perché dicessero perché in un istante un gesto tanto semplice quanto baciare avrebbe potuto comportare conseguenze disastrose. Non fui così coraggiosa, così spavalda da rifiutare le sue labbra, e in un momento sentii le mie muoversi con le sue, come impegnate in una sorta di movimento premeditato. La sua mano strinse forte all’altezza della mia mascella spingendo il mio volto verso il suo. Sentii quasi i polmoni gridare affinché concedessi loro un attimo di tregua, sicché feci per scostarmi. Ma non ci riuscii, data la pressione che faceva. Gli morsi il labbro inferiore, facendolo arretrare e ripresi fiato. Tuttavia, come se abbastanza ossigeno fosse arrivato al cervello, non lo lasciai riprendere, sentendomi una vigliacca. 
“Ora sono stato sincero. Contenta?”  

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Capitolo 12
*** XII. ***




Scrivo finché posso, dato che la mia pausa didattica dura esattamente tre giorni -.-'' Ah, cosa darei per un pizzico di SERENITA'. 
A proposito, chi è che va al concerto di Roma? 


~ Mi dico che forse in fondo, la vita è così: molta disperazione, ma anche
qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso. È come
se le note musicali creassero una specie di parentesi temporale,
una sospensione, un altrove in questo luogo... un sempre nel mai.
Si, proprio così, un sempre nel mai.

Muriel Barbery, L'eleganza del riccio


 









Mia madre non comprendeva, e mai lo avrebbe fatto; ma infondo, era così felice. Non potevo e non intendevo deluderla. L'acconciatrice prese a pettinarmi i capelli con una delicatezza tale da farmi quasi addormentare e la truccatrice cercò di starmi quanto più lontana possibile: almeno per quello, mia madre mi aveva concesso libertà di espressione. Ovviamente, per il giorno più importante della mia vita, non intendevo farmi dipingere il volto alla stregua di una geisha, o mi sarei sentita in imbarazzo tutto il tempo. Quando lo chignon fu pronto, mi alzai dallo sgabello e chiesi alla mia amica, nonché damigella d'onore, di aiutarmi ad indossare l'abito; azzurro. Era così anacronistico, favoloso nel senso proprio del termine, che non avevo avuto la forza di dirgli "no" il giorno in cui ero andata a sceglierlo. Il corpetto di seta con lievi arricciature di tulle e la gonna a trapezio della medesima stoffa mi fecero sentire come colei che in vita mia non ero mai stata: una principessa. 
"Ci vuole un tocco di me, sono troppo fiabesca." Commentai, chiedendo che mi si passasse la collana d'oro bianco che portavo da sette anni, donatami da mia nonna. Seppure non fosse cambiato granché, ai miei occhi non apparivo più un'altra persona. Mi attaccarono il velo e mi diedero il bouquet di gelsomini e fresie, raccomandandomi di non portarlo in modo troppo rozzo o si sarebbe rovinato, avendo i gelsomini uno stelo abbastanza breve. Li annusai e mi sentii pronta come non mai. Nulla avrebbe rovinato quel giorno. Nulla. Mio padre mi aspettava fuori alla porta e quando mi vide assunse la tipica espressione di un genitore per nulla pronto a cedere la propria figlia a un altro per il resto della vita.
I miei avevano insistito affinché mi sposassi in chiesa, nonostante le ripetute volte in cui li avevo supplicati di realizzare il mio sogno di maritarmi in un prato, sotto un gazebo di legno decorato con decine e decine di fiori. Iniziarono a suonare la marcia nuziale, e il lungo percorso che mi avrebbe portata da Benjamin era ricoperto di petali di rose bianche; notai, tra gli invitati, mia nonna, una delle persone più importanti della mia vita, la mia famiglia e quella del mio futuro marito, e Maggie. Le sorrisi, notando che si fosse accorta che l'avevo vista. Allungai una mano verso Ben, la cui espressione estasiata mi lasciò intendere che almeno quel giorno mi avrebbe amata sul serio. Nonostante le divergenze e i litigi il cui peso riuscivo effettivamente a sentirlo solo io, eravamo arrivati lì, più grazie a mia madre che grazie alla "forza dell'amore". Io, lo avrei detto per sempre, non ci credevo. Non ero convinta, per niente, che ci fosse qualcosa di più potente della razionalità, e che l'amore non fosse altro che un simbolo dell'affetto smisurato che due persone provavano l'una per l'altro. Il reverendo pronunciò allora il sermone che precedeva le nostre promesse nuziali, e il tanto atteso momento della verità arrivò.
"...Parli ora o taccia per sempre." Mai la mia sicurezza era stata tanto messa in ginocchio in ventitré anni di vita. Quando dal centro sala udii provenire un grido, stridetti i denti e anziché voltarmi verso la folla per guardare in faccia colui o colei che era contrario alla nostra unione, fulminai Ben con lo sguardo. Io sapevo. Ma non avrei mai e poi mai voluto che accadesse proprio lì, davanti a tutte quelle persone arrivate da altri Stati dell'America solo per vedermi incoronare il sogno di una vita di ogni ragazza. Perché, si, nonostante tutto, nonostante l'assurdità dei miei ideali tutt'altro che principeschi e per niente "rosa", a diciassette anni avevo iniziato a pensare e a sognare il giorno del mio matrimonio. Un sogno per nulla conforme alla massa, ma pur sempre un sogno. Margareth si avvicinò a Ben e in un istante che mi parve un'eternità, tirò il colletto della sua camicia in modo da avere il suo volto all'altezza di quello del ragazzo. Quello che era successo dopo, era storia ben nota.

Fu ciò a cui pensai nel momento in cui avevo chiesto a Pierre di non farsi mai più vedere. Fu ciò a cui pensai quando rimproverai me stessa di essere stata troppo debole per fuggire alla tentazione ed essere scesa così in basso.

Pierre p.o.v
Quella volta era finita sul serio. Com'era ovvio che fosse, iniziai a sentirmi uno schifoso bastardo solo dopo aver compiuto l'azione peggiore della mia vita, e in quel momento sentii di non poter far altro che bere per dimenticare. Ma non potevo. Dovevo preparare i bagagli e prendere qualcosa per addormentarmi, o non avrei avuto la forza di cantare l'indomani. Chiaramente, non potevo nascondere nulla a Lachelle, fintanto che oramai la mia scelta l'avevo fatta; da un pezzo, sì, ma solo ora avevo davvero deciso. Se solo ripensavo all'odore della sua pelle, alla morbidezza di quelle labbra che ero finalmente riuscito a stringere, e alla sua voce rotta che mi chiedeva di andarmene per non farmi mai più vivo, mi sentivo estasiato e distrutto, disintegrato. Ma pur pensando a tutto quello, non potevo non sorridere; per un breve, ma intenso momento lei era stata mia. Spensi il cellulare e iniziai a mettere in valigia quello che mi sarebbe tornato utile, quali vestiti, scarpe e spazzolino da denti. Lachelle si appoggiò allo stipite della porta, muovendo tra le dita quello che doveva essere il mio rasoio.
"O ti crescerà una barba così lunga che al tuo ritorno non ti riconoscerò." Sarebbe stato comunque così, ma per odio. Mi lasciai cadere sul letto e le strinsi i fianchi, avvicinandola a me. Poggiai il capo sul suo ventre e sussurrai: "Che pensi degli addii?"
"Che sono tristi. Ma cosa c'entrano?"
"Io tengo a te, Lachelle. Ma il problema è proprio questo."
"Pierre, mi stai spaventando." Disse, ridendo nervosamente.
"Non voglio fare troppi giri di parole, anche se ti meriteresti un discorso serio e ben fatto, ma..."
"Mi stai lasciando? Diavolo, Pierre, mi stai mollando dopo tutto questo tempo?!"
"Non ti sto mollando!" Rabbuiai, inveendole contro. Quando mi resi conto di aver alzato troppo la voce, cercai di calmarmi e tornare ad essere una persona almeno sopportabile. "Mi odio per tutto questo, e so che dipende solo ed esclusivamente da me. Ma sono tre anni che..."
"Stai con un'altra?" Scossi il capo.
"Sono di un'altra." Preferii usare, con lei, quel tipo di linguaggio. Samantha non era 'un'altra', benché oramai nel linguaggio convenzionale si usasse portar avanti quel tipo di lessico. Uscii di casa prima che lo facesse lei e mi diressi dall'unica persona che avrebbe potuto capirmi, in quel momento. David era in casa, ma dovetti attendere un po' prima di poter entrare. Guardò prima me e poi il bagaglio e l'altro borsone, e mi lasciò entrare.
Quel mattino raggiungemmo i ragazzi al tour bus, che non vedevo da tanto, troppo tempo. Mi era mancata quella casa ambulante e tutte le notti insonni passate a causa degli attacchi di sincerità di almeno uno dei componenti della band. O per le mie follie da ubriaco, ma poco importava. Erano dettagli. Caricammo le valige e iniziammo a mettere sotto sopra l'intero bus, per ricominciare da dove avevamo lasciato prima di prenderci una pausa. Pronto per affrontare un lungo ed estenuante viaggio, tolsi le scarpe e mi distesi su quello che eravamo soliti chiamare letto. Bentornata, vita su strada.

Samantha p.o.v
"Pronto?" 
"Montréal Gazette. Signorina Gordon?" 
"Sì, mi dica." Leah incrociò le dita e iniziò a pregare, mentre il mio cuore iniziava a perdere battiti.
"Riteniamo che il suo curriculum sia idoneo alle nostre aspettative. Saremmo onorati di averla tra noi." Non ricordavo precisamente quando avessi iniziato a saltellare, ma fatto stava che poco dopo ero senza fiato.
"E' una notizia grandiosa, mille grazie!"
"Ma le pare...Però ci sarebbe un piccolo problema." Con una mano feci segno a Leah di aspettare. "Il Boston Globe ha richiesto la sua collaborazione per un paio di articoli, la cui stesura potrà essere messa a punto solo in sede. Dovrà tornare a Boston qualche mese."
"A Boston? Io mi sono licenziata da quel posto, non dovrebbero più richiedere la mia presenza." Leah giunse le mani, avvicinandosi alla cornetta per sentire.
"Il contratto lo firma con noi, ma pubblica gli articoli sul loro giornale."
"Scusi, ma non è controproducente?" Domandai, cercando di trovare un modo per non tornare nell'Inferno.
"Non si direbbe. Anzi, più presto torna a farsi sentire, prima riprenderà quel successo che l'aveva colta durante la sua attività e alla Montréal Gazette farà un'ottima pubblicità." Alla fine, fui costretta ad accettare, o avrei potuto dimenticarmi della scrittura. Sarei dovuta partire entro un paio di giorni, così chiesi a Leah di uscire e andare a bere qualcosa nel locale in cui eravamo state il giorno dopo il nostro arrivo, per innaugurare la nostra nuova vita a Montréal. Infondo, nessuno avrebbe dovuto sapere che ero tornata in città e che ero tornata per restarci tre mesi. Cercai sull'elenco telefonico l'agenzia immobiliare a cui ero ricorsa quando io e Ben avevamo cercato insieme un appartamento dopo il nostro fidanzamento, e quando lo trovai, chiesi alla donna al di là della cornetta di trovarmi qualcosa di economico e vicino agli uffici del giornale. Doveva essere la stessa donna che ci aveva trovato casa, perché fu così veloce che neanche mi accorsi di essere rimasta in attesa. L'affitto era di cinquecento dollari, compresi luce e gas. Una camera da letto, un bagno, un piccolo salotto e una cucina. Perfetto. Quando Jack rientrò, lo spingemmo nuovamente fuori casa e ci dirigemmo al locale. Trovammo libero proprio il tavolo che avevamo occupato tre anni prima e ordinammo delle birre per brindare.
"Non dare la mia camera in affitto, o quando torno ti uccido."
"Potremmo venire con te, no?"
"Non pensarci nemmeno. Sono stanca di voi, ho bisogno di staccare un po'." Affermai, sarcastica. Strinsi forte la mia amica e poi abbracciai Jack. In tre anni, stare sempre con loro mi aveva portata ad esserne dipendente. Come avrei fatto a sopravvivere?
"E se...torna Pierre?" Chiese, improvvisamente. Ci pensai su, poi, voltandomi altrove, dissi: "Non tornerà." 
Passammo il resto della serata a ordinare cibo alquanto improbabile; lasciai che i miei due amici bevessero quanto bastasse per farli addormentare, poi li trascinai a forza fuori al locale. Li spinsi in auto, poi mi misi alla guida, per tornare in quella casa alla quale mi ero affezionata più del dovuto. Sono solo tre mesi, suvvia. 
L'indomani iniziai a fare i bagagli e ricontrollai più volte con la speranza di non aver dimenticato nulla di importante. Il giorno della partenza, tipicamente, Leah iniziò a piangere. Jack l'abbracciò, stringendola a sé e permettendomi di andare via. Feci il check-in, e mi imbarcai, pronta a tornare nella città dalla quale credevo di essermi separata per sempre. 

 






 

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Capitolo 13
*** XIII. ***


~ L'amicizia fra un uomo e una donna 
è sempre un poco erotica, anche se
inconsciamente. 
Jorge Luis Borges













Con un calcio spalancai la porta dell'appartamento e feci scivolare dentro le valige. 
"Una firma qui, una qui...Perfetto. Tre mesi ha detto?" Annuii, guardandomi intorno. Era grandicella, per una sola persona; e vuota. Accompagnai la donna all'uscio, dopodiché, lentamente e con tutto il tempo del mondo a disposizione, iniziai a farmi un'idea su come sistemare le mie cose. Nel salotto c'era un divanetto rosso, di stoffa, e su di esso erano poggiati due piccoli cuscini; proprio di fianco ad esso c'era un'enorme finestra che dava direttamente sugli uffici del Boston Globe. La camera da letto presentava un letto a due piazze proprio in mezzo e un'armadio bianco sulla parete destra. Proprio come a Montréal, issai le tende e spalancai le persiane, pur essendo ormai il crepuscolo. Era ben messa, nessun granello di polvere in giro, sicché iniziai a sistemare i miei vestiti e a mettere le cose a posto. Quando ebbi terminato, diedi un'occhiata in giro e fui abbastanza soddisfatta. Let's go, Sam. 
 
 
Pierre p.o.v, two weeks later.
Dovevo riposare, o non ce l'avrei fatta a reggermi in piedi sul palco. Mi coricai sul divanetto e con l'avambraccio mi coprii gli occhi, per ripararli dall'attacco della luce al neon; non avrei dovuto bere così tanto la notte precedente. Chuck iniziò a provare con le bacchette e quando capii che non avrebbe smesso, mi alzai e andai a prendere un po' d'aria. Erano concerti privati, aperti a poche persone, che perlopiù facevano parte del mondo degli sponsor. Niente fan che mi dessero la soddisfazione di conoscere la nostra musica e che sapessero perché cantassimo. Controllai ancora una volta il cellulare, con la speranza che ci fosse aqualche chiamata persa, ma una volta resomi conto che non era così, lessi ancora l'sms che mi aveva inviato Leah qualche giorno addietro.
"Panta rei. Anche il suo risentimento." Infilai l'oggetto in tasca e tornai dentro, notando che erano tornati anche gli altri. Era ora. Tolsi la giacca e mi sgranchii le gambe e le braccia, per poi correre verso il palco e iniziare a gridare.
 
Stavo volando. Ne ero certo...Però riuscivo a vedere solo il pavimento, chissà perché. 
"Io credo che Newton si sbagliasse." Affermai. Che luci accecanti! Proprio in quel momento, caddi su quello che doveva essere un materasso. 
"Pierre? Mi senti?" Cercai di mettere a fuoco il volto che mi fissava e mi chiedeva come mi sentissi.
"Nonna! Mi sei mancata..." Mi allungai per abbracciarla, ma quello che sentii fu un disgustoso odore di birra. "Nonna, hai bevuto?" 
"Ora dormi, su." 
"Non ho sonno." Feci per alzarmi, ma persi quel po' di equilibrio rimastomi dopo qualche bicchierino di troppo. Non avevo alzato troppo il gomito, ne ero certo. Oh, la moquette! Carponi mi avvicinai alla finestra e misi la testa fuori per respirare aria pulita, ma un conato di vomito mi costrinse a inserire la testa altrove. Sentii di poter vomitare anche l'anima. 
Erano le cinque del mattino quando riaprii gli occhi, e un mal di testa mi stava lacerando il cranio, quasi come se un castoro stesse battendo la coda sulla mia fronte. Castoro...Mi ricordava qualcosa. Al mio fianco Dave dormiva ancora, e una debole luce filtrava dalla finestra. Mi alzai lentamente dal letto, sbandando tanto quanto bastava a rendermi conto che non mi reggevo in piedi, e mi misi a sedere sul bordo, cercando di ricordare qualcosa della sera precedente, ma niente: un totale buco nero. La mia più grande sbronza e nessuno che potesse raccontarmela per farmi rendere conto di quanto mi fossi messo in ridicolo e quanto avessi detto. Feci una doccia fredda, per poter recuperare più lucidità, e dopo essermi leggermente ripreso uscii dalla stanza e scesi a prendere del caffé al bar dell’hotel. Allora, facendo qualche conto, reggevo l’alcol, quindi dovevo aver davvero alzato troppo il gomito per ridurmi in uno stato totale di perdita di memoria. Ma cosa più importante, cosa avevo detto? E a chi? Dannazione, che avevo combinato?
“Sei qui...” Mi voltai e David, sebbene ancora assonnato, si era svegliato e mi aveva raggiunto al bar.
“Ho bisogno di caffeina. Tu piuttosto, è presto, che fai già in piedi?” 
“Ho pensato che se ti lascio troppo libero tu mi combini disastri; e ieri ne è stata la prova. Non hai mai bevuto così tanto, che ti è successo?” Ordinò un bicchiere di latte e prese due muffin per entrambi.
“Non lo so...” Scoppiò in una possente risata, provocando nella mia testa tante piccole martellate. Mi massaggiai le tempie e chiusi gli occhi, cercando di riprendermi.
"E' per lei, vero?" 
"No." Mi affrettai a rispondere. "Mi sono lasciato andare, ecco tutto." 
"Certo. Ma fammi il favore!"
"La smetti di gridare?!" Urlai, attirando l'attenzione del barman. Chiesi scusa, sia a lui che a David. Lo vidi sospirare e distogliere lo sguardo. "Che hai?" 
"Nulla. Perché?" Mi stava mentendo. Mi stava nascondendo qualcosa. Gli afferrai il cellulare dalle mani e nonostante i suoi tentativi di bloccarmi, riuscii ad entrare nella cartella messaggi. Quello che vidi mi bastò a sentir l'irritazione nascere e crescere inesorabilmente. Evidenziai un sms e glielo sbattei in faccia.
"Da quanto va avanti questa storia?!" Il suo sguardo colpevole e pentito non bastò a farmi calmare.
"Un paio di settimane..." Mi alzai dallo sgabello su cui stavo seduto e mi allontanai a passi pesanti, senza intenzione di tornare indietro. Alzai il cappuccio della felpa e uscii dall'albergo, certo che David non avrebbe provato a seguirmi. Mi fidavo di lui: come poteva avermi tenuto nascosta una cosa simile? Mi sorpresi del fatto che fosse riuscito a mantenere il segreto così a lungo, senza rendersi conto che quasi non finivo in ospedale per la dose eccessiva di alcol. Mi chiusi nel primo locale che riuscii a trovare, e non mi mossi di lì fino a quando non mi decisi a ricominciare. Tuttavia, nell'esatto istante in cui portai le labbra al beccuccio della bottiglia, David irruppe e si avvicinò al mio tavolo per poi togliermi l'alcol dalle mani. 
"Si può sapere che problema hai?!" Si lamentò.
"Che problema ho? Mi chiedi che problema ho?! Ci parli da due settimane come se fossi la sua amichetta del cuore!" Sbraitai, sferrando un pugno sul tavolo di legno. 
"Non potevo dirtelo. Amico, l'ho fatto per te." 
"No, David, hai sbagliato." 
"E poi è stata lei a chiedermelo." 
"Non vuol dire niente." Cercò di trovare mille scuse che da un orecchio mi entrarono e dall'altro mi uscirono. Quando fui stanco di quella situazione, mi alzai nuovamente e mi diressi verso la porta. 
"Voleva sapere come stessi senza che tu ne fossi a conoscienza." Mi bloccai, tenendo ferma la mano sulla maniglia della porta.
"Che cosa le hai detto?" 
"Le ho mentito." Mormorò, tornando a guardarmi. 
"E perché mai lo avresti fatto?" 
"Perché stanne certo adesso sarebbe qui." Mi riusciva difficile crederlo, ma in un secondo mi passarono per la mente i tre anni passati insieme, e quegli attimi di sincerità in cui aveva più volte ribadito di volermi bene. Mi mancava troppo per sentirmi arrabbiato con il mio migliore amico.
"Che devo fare, Dave?" 
"Aspettare che sia lei a tornare." 
"Oh, insomma. Cos'è che non comprendete nella frase 'La rivoglio'?" Sospirai, chiedendogli di passarmi il cellulare, ma si rifiutò. 
"Io comprendo, Pierre. Il problema è che devi riprenderti. Diamine, ritorna il cazzone di sempre!" Detto ciò andò via. 
David aveva ragione; io non ero Pierre. O meglio, non ero più lo stesso Pierre. 

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Capitolo 14
*** XIV. ***


Don't let me go, don't let me go, don't let me go.

The Fray, Never say never










Afferrai Chuck per un piede e lo tirai giù dal letto, facendo cadere con lui anche le lenzuola, poi mi allontanai per testare la situazione da una distanza di sicurezza. Iniziò a contorcersi come colto da uno spasmo improvviso. Quando tornò in piedi, si guardò intorno confuso, per poi notare la mia presenza e puntare tutta la sua rabbia su di me.
"Ma che ti salta in mente?!" Seb e Jeff se la ridevano di gusto. 
"E' un'ora che cerco di chiamarti." Controllò il cellulare e trovo le mie venti chiamate perse, ma ciò non bastò a frenare le sue imprecazioni. Ora avrei dovuto svegliare David, e quello sarebbe stato molto più che divertente. Chiesi ai ragazzi di seguirmi con del ghiaccio e lentamente ci avvicinammo alla porta della sua camera. Posai un orecchio sulla superficie e cercai di capire se fosse già in piedi oppure no: silenzio assoluto. Abbassai cautamente la maniglia della porta e intimai ai ragazzi di seguirmi senza inciampare nelle cose del bassista. Era completamente buio, ma Seb ovviò a questa cosa utilizzando il telefono e facendo luce a tutti noi. Senza neanche respirare ci avvicinammo al suo letto e ci inginocchiammo, dopodiché chiesi a Chuck di avvicinarsi alle tende e di spalancarle non appena avessimo finito. Intanto Jeff si accostò a David e si chinò lievemente, inclinando il bicchiere. Al mio segnale, tirò la maglia di Dave tanto quanto bastava a farci scivolare il ghiaccio dentro. Immediatamente il ragazzo si alzò iniziando ad urlare come una donna. Chuck fece entrare la luce e David si accasciò sul letto coprendosi gli occhi. Nel ridere caddi a terra, seguito dagli altri a cui mancava addirittura il respiro.  
"Bastardi! Me la pagherete cara!" Gridò, cercando di scostare la t-shirt dalla pelle, ma con scarsi risultati, sicché si chiuse in bagno.
"A Dave non passerà facilmente." Commentò Chuck, calmandosi e coricandosi sul letto della nostra vittima. 
"Oh, David e' un bonaccione. Scommetto che se ne sta li in bagno a ridersela come un idiota." Affermai. Mi sollevai da terra e mi avvicinai a lui, bussando alla sua porta. "Hey, Mr. Maglietta ghiacciata, dobbiamo andare!" Soppressi una risata udendo il suo lamento, ma quando tornò in camera compresi che ormai ci aveva perdonati. Per orgoglio maschile continuò a tenere il broncio per un bel po', almeno fino a quando non decisi di avvicinarmi a lui e metter fine a quella sorta di 'risentimento'. 
"Eri tutto un fuoco, dovevo fare qualcosa..." Mormorai, accarezzandogli il volto con fare provocante.
"Pierre...C'e' una corda nel borsone. Sai cosa farci." Mise quei pochi vestiti che restavano fuori in valigia e andò a fare una doccia. Gli altri lo imitarono, sicché decisi di scendere per primo e accaparrarmi il posto migliore in auto. L'aeroporto era vicino, saremmo arrivati a Winnipeg in giornata, dopodiché c'era Ottawa e poi finalmente casa. Finalmente si faceva per dire. Avrei voluto rimanere a Vancouver, se proprio me lo avessero chiesto, ma dopo la mia chiacchierata con David qualche giorno prima, avevo capito che la mia vita privata non doveva compromettere il mio rapporto con gli altri, e che solo tornando ad essere il vecchio Pierre avrei potuto far capire che nulla era cambiato. 

Samantha p.o.v

Era pomeriggio inoltrato quando rientrai, con migliaia di cose da fare e zero voglia di impegnarmi per farle bene. Gettai la borsa sul divano, facendo scivolare fuori qualche cartellina e mi diressi sotto la doccia, per scrollarmi dalle spalle il peso di una giornata in cui non avevo concluso altro che un piccolo paragrafo della recensione di un libro da lanciare sul mercato entro qualche giorno, e i cui diritti erano valsi un milione di dollari. Lo avevo letto, e dovevo dire che mi era piaciuto subito tantissimo. 'Il linguaggio segreto dei fiori' meritava sul serio tutto quanto era stato speso e anche mi fosse costato settimane di duro lavoro, lo avrei reso noto almeno nel Massachussets e negli Stati Uniti. Mi piaceva pensare in piccolo, le conseguenze e i risultati non arrecavano grosse delusioni. Decisi di mangiare un sandwich per quella sera, e appena mi fu possibile chiamai Leah per darle mie notizie e sapere come procedeva lì. Impugnai la cornetta e composi il numero della casa di Montréal, per poi attendere qualche squillo prima che la sua voce squillante arrivasse a spaccarmi i timpani.
"Ero intenzionata a chiamare l'FBI!" Sgranai gli occhi, ma non potendolo lei notare le chiesi il perché di quell'affermazione. "Sono giorni che non ti fai sentire e non rispondi a chiamate e messaggi, cosa dovrei pensare?"
"Che ho troppo da fare, forse?" Iniziò a sgridarmi alla stregua di una madre petulante e apprensiva, ma ad un tratto si fermò e sospirò. Capii che stava sorridendo e che finalmente aveva ritrovato la calma.
"Leah, sto benissimo. E poi tra due mesi e mezzo sarò a casa, pensala in questi termini." La rassicurai. Ovviamente, fu come chiedere ad un koala di staccarsi dal suo albero. 
"Un corno. Tra un mese è il tuo compleanno, ricordi?" Eravamo già a fine Febbraio? Controllai il piccolo calendario sul tavolo di fronte al divano e mi resi conto che il 31 Marzo sarebbe arrivato proprio entro quattro settimane.
"Che non ti venga niente in mente!" Proruppi, alzandomi in piedi. Detestavo le feste a sorpresa; non mi sorprendevano mai e non sentivo la classica euforia crescermi dentro alla vista di persone con cui non avevo mai avuto dialogo e che erano lì solo ed esclusivamente per un fattore numerico ed estetico.
"Tranquilla, tranquilla. Ma di certo non puoi passarlo da sola."
"Perché no, scusa?" Sapndo di non poterla convincere in alcun modo e di non poterla distogliere da idee strambe, decisi di scendere a patti. "Tu e Jack potreste venire qui un paio di giorni. Che ne pensi?" 
"Vado a prenotare i biglietti." Detto questo riagganciò, lasciandomi come un'emerita idiota a chiamare il suo nome.
Andai a distendermi sul letto, ricominciando la lettura di Pascal, uno degli autori che preferivo. Dovevo molto a parte del suo pensiero esistenzialista, e il poterlo leggere così spesso mi aggradava. Tuttavia, come se la mente si aprisse a pensieri più profondi, iniziai a ricordare l'ultima volta che lo avevo sentito nominare: il 27 Settembre del 2008, all'aeroporto di Boston. 'Passato e presente plasmano il futuro', aveva detto, in un flebile ma percettibile sussurro. In quel momento il mio disastroso passato e il mio compromesso presente non avrebbero potuto dare alla luce un futuro roseo, di quelli che ci si aspettava dalla vita per il solo fatto che si aveva sofferto in precedenza. Chiusi il tomo e lo posai sul mobile accanto al letto, poi spensi la luce. Prima di serrare le palpebre, diedi un'occhiata al cellulare: una chiamata di David, di quattro giorni prima. Ci pensai su un po', prima di prendere la decisione di richiamarlo. 
"Forse sarebbe meglio finirla qui, Sam." Socchiusi gli occhi, sospirando. Era la cosa più giusta e concreta da fare. Mi sentivo così ipocrita nei confronti prima di me stessa poi di Pierre. "Lui sa." Fui colta da un sussulto. 
"E' arrabbiato con te?" Dissentì. In quel momento, provai più confusione di quanta ne avessi mai sentita prima. "Non so come sentirmi, David..."
"Che intendi dire?" Poggiai il capo sulla lettiera, colpendola lentamente più volte. 
"Non so se sentirmi ancora più delusa o...felice per lui." 
"Delusa, perché...?" Dave mi sembrava consapevole di qualcosa, ma non potevo rischiare di chiudere i contatti con l'unica persona che potesse comprendermi, a parte Leah, perché vicina a Pierre. 
"Perché è così felice?" Un silenzio profondo seguì quella mia domanda. Non sapevo come facesse a sentirsi così bene dopo aver lasciato la sua ragazza e aver distrutto la nostra amicizia. E soprattutto non mi sembrava giusto, per quanto egoista quel mio pensiero potesse sembrare. Misery loves company, infondo.
"Forse è solo apparenza, Samantha." 
"Effettivamente a mentire è bravo." Affermai. 
"David! Diamine, ti sei perso lo scivolone di Jeff!" Sentii una voce in lontananza che riconobbi subito. Entrambi se la ridevano, e in quel frangente non seppi se soffermarmi a immaginare la scena, o staccare sedutastante. "E' tua madre?" Udii un'interferenza, o quello che doveva essere un passaggio di cellulare. I miei muscoli si contrassero, ma non risposero ai miei comandi. Allontanai il telefono dall'orecchio, ma la sua voce che chiamava un'altra donna mi spinse a riavvicinarlo. Ascoltai silenziosamente il suo respiro; in un istante riuscii a dimenticare tutto e a ricordarmi solo che mi mancava. Lo sentii più lontano, poi improvvisamente bloccato. Doveva aver letto sul display il mio nome. 
"Sam? Sam, sei tu?" Sentii un groppo in gola, e subito dopo ebbi la sensazione che i miei occhi volessero esplodere. Lasciai che una lacrima scorresse, ma una dopo l'altra iniziarono a rigarmi il volto. Chiusi il collegamento e gettai il cellulare a terra, scivolando lungo il muro. Solo i singhiozzi di colei che non riusciva a perdonarsi di essere così orgogliosa e testarda per perdonare colui che le aveva ridato vita, riempirono il silenzio, che oramai, sovrano, regnava in una stanza ai margini di Sydney Street.  

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Capitolo 15
*** XV. ***


~ Will you stay away forever?

Avenged Sevenfold, Far away

 
 
 
 
 



Dovevo essermi addormentata sulla moquette, perché quando il giorno dopo riaprii gli occhi fui accecata dalla luce e la mia schiena gridava pietà. Lentamente mi sollevai e mi avvicinai al cellulare, per controllare l’orario; ero in un ritardo tremendo. Corsi, nonostante il dolore alle ossa, in bagno e testai la situazione: le guance erano rigate di nero e i capelli formavano una sorta di aureola intorno alla mia testa, che per inciso, mi faceva male. Sciacquai il volto e mi sistemai come meglio potei, per poi indossare la prima cosa che trovai in armadio. In strada iniziai a sentire un certo languorino, la cui insistente crescita in fame vera e propria non fece altro che spingermi ad arrivare prima in ufficio. Parcheggiai l’auto accanto all’entrata e oltrepassai la soglia del Boston Globe; la receptionist mi diede il buongiorno e mi annunciò che il presidente mi stava cercando. Sbuffai, gettando le cartelline sulla scrivania, e iniziai a sistemarmi camicetta e capelli.
“Buongiorno.” Ripetei, entrando nel suo ufficio che ero solita definire vero e proprio loft.
“Signorina Gordon! Sono lieto sia arrivata...” Lessi una nota di sarcasmo nella sua voce, probabilmente riferita al fatto che ero arrivata
con quasi un’ora di ritardo. Mi scusai, ma subito dopo iniziai a pensare che non ve ne fosse motivo. Io non lavoravo più per lui.
“Voleva vedermi?” Annuì, mettendosi a sedere e iniziando ad armeggiare con il laptop. Mi fece segno di accomodarmi, e nel farlo iniziai a guardarmi ancora in giro. Non c’era dubbio: quello era un loft. Prima che potessi iniziare ad ammirare quello che doveva essere un quadro di Kandinsky, uno dei miei artisti preferiti della corrente dell’Espressionismo, richiamò la mia attenzione sullo schermo del suo portatile per farmi notare qualcosa che io non riuscii a scorgere.
“A Boston sono in molti a leggere, ma guardi qui.” Acuii lo sguardo, ma non riuscivo a capire. Vedevo solo decine di numeri, e io, personalmente, sostenevo una lotta contro di essi dai tempi del liceo. “Un milione di copie vendute!”
“Ohh.” Affermai, fingendo un sorriso. Era un enorme passo avanti in una carriera che avevo deciso di continuare altrove. “Be’, mi fa piacere.”
“Le fa piacere? Andiamo, non mi dica che non sente l’euforia del momento! Lei è famosa.” Mi avvicinai alla scrivania di mogano e poggiai i gomiti su di essa, guardando il presidente dritto negli occhi.
“Forse le sfuggono un paio di cose: io non ho mai messo il mio nome a capo dei miei articoli.”
“Giusto, ma potremmo provvedere. La sua rivelazione ci apporterà ancora più vendite, il grande segreto sarà svelato.”
“Glielo dico gentilmente.” Affermai, alzandomi. “Non ci penso nemmeno.”
“Perché mai? La fama la disgusta?”
“A dir poco.” Chiusi la porta alle mie spalle e tornai a fare quello per cui mi pagavano e quello per cui, secondo il presidente, ero divenuta famosa.
Amavo il mio lavoro, ma più di tutto amavo la mia vita. Non volevo soldi in più per il mio nome, volevo solo scrivere. Non era chiedere tanto ed esigevo che le mie volontà venissero rispettate. Mi misi a sedere e presi a stampare quanto già avevo scritto per poter mettere a punto il testo finale, che avrei presentato al redattore capo per la pubblicazione. Pensare che dopo un ultimo articolo, in via di pubblicazione in un paio di mesi, sarei tornata dalla mia famiglia mi faceva sentire meglio e meno sola.
Accettai di buon grado un caffé offertomi da Rocio, ritrovando in breve un po’ di voglia di fare e dimenticandomi di avere una chiamata da fare a Leah per chiederle quando era intenzionata ad arrivare. Contai di finire l’articolo in giornata, ma non ci riuscii. Di solito, avevo bisogno di una revisione settimanale per convincermi del tutto di ciò che avevo scritto.
“Torno a casa...Ciao, ragazze.” Mi affrettai ad entrare in auto e accendere il riscaldamento. Quando rientrai in casa, si congelava. In attesa che la caldaia facesse il resto, andai a fare una doccia, per poi chiamare Leah e dare mie notizie.
“Le cose sono più chiare, ora.” Affermai, dopo averle raccontato quello che mi era accaduto la notte precedente.
“Stai ammettendo che provi qualcosa per lui?” Non l’avevo mai sentita così seria.
“Direi che sarebbe riduttivo dire ‘qualcosa’.” Rimanemmo in silenzio qualche secondo, prima che lei riprendesse a parlarmi delle sue considerazioni.
“E così, alla fine, hai compreso cosa significhi amare...” Iniziai a ridere, sentendomi un’isterica. Leah aveva ragione, stavo impazzendo a furia di rincorrere l’irraggiungibile, quella che gli epicurei chiamavano autarkeia, l’autosufficienza. Non potevo farci nulla: il mio umore dipendeva da lui.
“Non voglio aver bisogno di lui, Leah...” Mormorai infine.
“Dimmi, Sam, hai mai provato a vederla in un altro modo?”
“L’amore è mancanza.” Dissi solamente, e lei sembrò capire. Dopo aver cambiato discorso, discutemmo un altro buon quarto d’ora, poi decidemmo di staccare.
Forse era vero, avevo avuto bisogno di un netto distacco per rendermi conto che provavo qualcosa di più forte del semplice bene nei confronti di Pierre.
E non era nei canoni della mia concezione dell’amore, quella ridotta all’affetto reciproco. Era differente, più forte. Non sapevo se la mia persona sarebbe stata capace di sopportare tanto; o forse...non credevo di meritare tutto quello.
 
Pierre p.o.v
 
Avevo raccontato ai ragazzi di Sam, com’era giusto che fosse. Il tour bus ci era venuto a prendere all’aeroporto e durante la notte, come eravamo soliti fare, avevo svegliato tutti per rendere noto il mio ‘segreto’. Seb, per quanto potesse essere sembrato più distante negli ultimi mesi per la sua trasmissione radiofonica tenuta insieme a Pat, aveva confessato di aver pensato che ci fosse qualcosa in me che non andava. Jeff e Chuck furono abbastanza sorpresi, ma quando Dave parlò loro di quello che per me ormai era divenuto un problema, sembrarono comprendere. Mai come quella volta fui felice di essere nella band. Risposi, stando attento a non invadere la privacy della ragazza, alle varie domande che mi posero; non riuscivano a capire come avessi fatto a tener nascosta una cosa così per così tanto tempo, e quando iniziai a temere che anche loro potessero iniziare ad essere arrabbiati con me, mi assicurarono che non ci fosse motivo di temere nulla. In quel momento ripensai anche a Lachelle, che non avevo più visto dopo che se n'era andata sbattendomi la porta in faccia. Dopo qualche stupida battutina se ne tornarono nelle rispettive cuccette, lasciando me e David soli. Il ragazzo mi guardò così assiduamente che iniziai a sentirmi a disagio e sentii l'esigenza di chiedergli cosa gli prendesse.
“Sei sicuro di stare bene?” Mi domandò, tenendo lo sguardo fermo sul mio volto. Si sarebbe accorto subito che stavo mentendo.
“Sono confuso, Dave.” Confessai. “Perché ha pianto? Se mi odia, perché ha pianto?”
“Pierre, devi essere tu a capirlo. Non mi va di fare il cupido della situazione, e per inciso non avresti neanche dovuto sentire.”
“Sfaticato.” Ironizzai.
“Sai bene a cosa mi riferisco. Tra una settimana saremo a casa, potresti rivederla.” Quel pensiero mi riempì di gioia e angoscia al tempo stesso. Era inevitabile che ci saremmo incontrati, frequentando entrambi le stesse zone della città. Senza dire nulla, tornai a dormire. L’indomani avrei
pensato solo ed esclusivamente a cantare.
 
Two weeks later
 
Che cosa vuol dire che è andata via?!” Rabbuiai, scattando e sentendo nascere l'ira e la delusione.
“Quello che ho detto. E’ partita due mesi fa per Boston.” Leah mi guardò come dispiaciuta. Ma non poteva comprendere come mi sentissi in quel momento. Dopo un’intera settimana passata a cercare di vederla, anche solo da lontano per sapere come stesse, mi sentii preso e gettato via come una cartaccia. La ragazza mi lasciò entrare in casa e mi offrì un tè, che però rifiutai. Non potevo e non volevo essere arrabbiato con Samantha, ma il fatto che avesse trovato come una via per risolvere i nostri problemi quella della fuga, mi faceva sentire poco importante per lei. E non c’era nulla di peggio. Nel voltarmi notai un paio di valige, e su di esse dei biglietti aerei. Leah mi guardò, ma non fece nulla per impedirmi di leggere la destinazione.
“Andate da lei?” Annuì.
“Non posso chiederti di venire, Pierre...Mi dispiace.” Le sorrisi, alzandomi e dirigendomi alla porta.
“Non c’è bisogno. Ora so cosa devo fare.”  

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Capitolo 16
*** XVI. ***


~ When I see your smile, tears run down my face. I can't replace. 
And now that I'm strong  I have figured out how this world turns
cold and it breaks trough my soul.

The Red Jampsuit Apparatus, Your guardian angel












"Hai proprio deciso?" Annuii, mettendo in moto l'auto. "Davvero?" 
"No." Dissi, secco. "Io non decido un bel niente." Imboccai l'autostrada e, cercando di rispettare il limite di velocità, mi diressi verso l'aeroporto. 
"E allora perché rovinare tutto?" Stavo iniziando a pentirmi di aver chiesto a David di accompagnarmi, ma non avrei potuto fare altrimenti. Infondo, era l'unico modo per essere sicuro di non cambiare idea una volta arrivato lì. "Dannazione, si può sapere perché non sai aspettare?" Strinsi le dita intorno al volante e digrignai i denti, per reprimere la rabbia, ma non riuscii a controllarmi più di tanto.
"Perché finalmente ho capito con chi ho a che fare!" Sbraitai, scusandomi quasi subito con lui. Ero solo stanco di tutta quella situazione, e rivolere la mia vita indietro non significava andare in cerca di guai. Parcheggiai di fronte all'entrata e scaricai il borsone dall'auto, per poi chiedere a David di sbrigarsi. Dovevo ancora fare il check-in e nella mia mente stavo maturando un'idea diversa da quella che mi ero fatto quattordici giorni prima. Leah era passata da me un'ultima volta prima di dirmi che sarebbe partita qualche giorno per raggiungere Sam a Boston e restare lì in occasione del suo compleanno, e aveva fatto di tutto per non farmi pesare la distanza e l'impossibilità del contatto. Quando si era chiusa la porta alle spalle, avevo preso una decisione definitiva, e mi ero ripromesso di non tornare indietro, qualunque cosa accadesse. Ero furioso. Presi il biglietto dalla tasca e lo consegnai all'assistente, che mi fece passare e mi augurò di fare un buon viaggio. David, nonostante mi stesse mandando a quel paese, sapeva bene fosse la cosa giusta da fare.
 
Samantha p.o.v
"Vorrei morire!" Gridai, battendo più volte la testa sulla superficie liscia della scrivania. Avevo appena iniziato a scrivere il nuovo articolo su un libro appena uscito e che neanche mi era piaciuto e già non riuscivo più a sopportare la pressione che il passare del tempo faceva su di me. Finii di bere l'ennesimo caffé e mi proposi di terminare almeno un paragrafo. Critica negativa, decisamente negativa. Magari ci fosse stata Leah, avrebbe potuto aiutarmi. Invece, aveva deciso di prendersi un giorno per andare a trovare i suoi genitori a sud dello Stato, per far loro una sorpresa. Jack, ovviamente, l'aveva seguita. Sul cellulare c'erano decine di messaggi di auguri, alcuni inviati da persone di cui neanche ricordavo l'esistenza e altri da chi non me lo sarei mai aspettato: la band di Pierre. Quello che avevo preferito in assoluto era stato quello carico di ironia di Chuck, che si chiedeva come avessi fatto a dimenticarmi delle loro facce in soli cinque anni. Doveva averglielo detto David, al quale lo avevo confessato una di quelle sere passate al cellulare, durante le quali nessuno dei due aveva nient'altro da fare che esprimere i propri pensieri. Mi sollevai dalla sedia, sentendomi più pesante del solito e cercai il mio blackberry nella borsa; quando lo trovai, decisi di cercare una delle loro canzoni che preferivo: 'Me against the world'. Per uno spirito libero come il mio, e mi venne da ridere solo pensandoci, a quattordici anni, era l'ideale. Avevo più volte evitato di ascoltare i litigi dei miei genitori grazie ad essa. La voce di Pierre mi colpì come un'uragano, facendo tornare a galla il rimorso. Neanche a pensarci su due volte, smisi di farmi del male. Forse sarei dovuta tornare a Montréal quella sera stessa, dato che, in un modo o nell'altro, sentivo di aver perdonato Pierre. O forse non ce l'avevo mai avuta con lui, ero solo bisognosa di tempo per pensare. Infondo, mi dicevo, proprio come me doveva aver ritenuto la fama l'unico motivo delle sue amicizie. E io sapevo quanto fosse umano, quanto gli facesse male la falsità e l'ipocrisia. Il desiderio di tornare a casa mi spinse a scrivere, il che fu un ottimo motivo per costringere il tempo a passare e tenere la mia mente occupata. Intorno alle otto di sera, quando ormai avevo trascorso in quell'ufficio più di dodici ore, fui felice di constatare che avevo terminato. Rilessi un'ultima volta il testo, dopodiché, soddisfatta, lo stampai e andai a posarlo sulla scrivania del redattore. Gli avrebbe fatto piacere vedere che avevo terminato il mio lavoro con due settimane di anticipo. 
"Ciao, Rocio..." Ero sopraffatta dalla stanchezza e tutto quello che desideravo era tornare a casa e chiudermi in camera mia per dormire. Presi l'auto e con tutta la calma del mondo mi diressi in Sydney Street, dove mi aspettavo di trovare Leah, appena tornata dal suo viaggio, con il suo 'magnifico', ipsa dixit, regalo di compleanno. Parcheggiai nel vialetto del palazzo e salii le scale con una lentezza che dopo un po' iniziai a trovare snervante, e mi trovai di fronte alla porta di casa. Presi la chiavi dalla borsa, ma quando le inserii nella toppa, mi resi conto che la serratura era già stata fatta scattare. Feci un passo indietro, temendo, più che una rapina, una festa a sorpresa di Leah. Cautamente entrai e mi guardai intorno: completamente buio. Sospirando, accesi la luce e...Il mio cuore perse un battito. Poi un altro. Dopodiché iniziò a contrarsi violentemente, facendomi pensare che in breve sarei andata in fibrillazione se non avessi deciso di calmarmi. 
"Sorpresa." 
Sentii le lacrime arrivare a pungermi gli occhi, ma vietai a me stessa di piangere. Fui costretta a combattere prima contro il pudore e poi contro il mio orgoglio prima di decidermi a gettare la borsa a terra e correre verso di lui senza più avere il coraggio e la forza di esitare. Non fui certa di essergli saltata in braccio fino a quando non sentii la terra mancarmi sotto i piedi e il suo corpo aderire, come la prima volta, perfettamente al mio. Lo strinsi più forte che potevo, per permettere alla mia mente di realizzare che non stessi immaginando nulla. Scostai il volto e gli accarezzai una guancia, sorridendo, e sentendo il calore della sua pelle sotto i polpastrelli freddi a causa della pioggia che ultimamente cadeva incessante sulla città. Ciò che feci dopo fu per me ancora più inaspettato. Non avevo affatto dimenticato la morbidezza delle sue labbra, la stretta ferrea e possessiva delle sue braccia intorno alla mia vita e il senso di protezione che mi dava sentire il suo respiro a fior di pelle. Il suo sapore era proprio quello che mi aveva resa febbrile e impaziente negli ultimi tempi, e il saperlo così vicino attivò nella mia mente un meccanismo che mai avevo sentito scattare prima. Lasciandomi completamente guidare dall'istinto, gli sollevai lievemente la maglietta, ma con uno scatto veloce mi fermò e fu come se il freddo tornasse improvvisamente a colpirmi.
Lo guardai, con espressione interrogativa. 
"Così rendi tutto più difficile..." Mormorò, scostandosi e levando lo sguardo verso la porta. Perché sentivo di dover andare via? Per la mia incolumità mentale, feci un passo avanti e lo costrinsi a guardarmi negli occhi. Lo sguardo che mi rivolse fu sì pieno di angoscia che provai una fitta lancinante al cuore. 
"Forse è tutto sbagliato. Forse io non sarei neanche dovuto venire qui e..."
"Forse io non avrei dovuto baciarti." Conclusi. Rimase così tanto tempo in silenzio che pensai aspettasse il momento giusto per andar via, sicché, quasi spinta dal senso di umiliazione, andai a distendermi sul letto. Ora ero definitivamente distrutta, e provavo odio nei confronti di me stessa. Come avevo potuto permettermi di cedere in quel modo? Come avevo potuto abbassare la barriera e permettere a qualcuno di entrarmi in testa così? Mi accovacciai, portando le ginocchia al petto e chiusi gli occhi. 
"Va tutto bene..." Sussurrò, cingendomi un fianco con il braccio.
Non sentii il desiderio di allontanarmi. Mi era mancato così tanto che non mi importava se lo lasciavo avvicinare più del dovuto.
"Non andrà mai tutto bene. Mai." 
"Invece sì. Hai ritrovato il tuo lavoro, hai delle certezze. Puoi proseguire." 
"Sono certa solo di una cosa ora, Pierre." Dissi, svincolandomi dalla sua presa. "Ora che so cos'è l'amore, lo abbatterò e non gli permetterò mai più anche solo di sfiorarmi."
 
Pierre p.o.v
Sgranai gli occhi, udendo i suoi passi allontanarsi verso il salotto. Non ero certo di aver compreso bene, ma anche fosse stato, Sam non poteva amarmi. No, perché lei non conosceva l'amore, mai lo avrebbe conosciuto chiusa com'era al mondo intero, compreso me. Nonostante negli ultimi tre anni avessimo trascorso quasi tutti i giorni insieme, non ero mai riuscito a scorgere la possibilità, per un altro uomo all'infuori di me, di conquistarla. Non che lo volessi, ma almeno avrei potuto capire se fosse un problema suo o dell'altro. Scivolai giù dal letto e barcollai fino all'appendiabiti, dal quale presi la giacca e, dopo averle dato un ultimo sguardo, uscii.  

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Capitolo 17
*** XVII. ***


 The broken locks were a warning, you got inside my head.
I tried my best to be guarded, I'm an open book instead.

Lifehouse, Broken












"Buongiorno." 
La hostess si offrì di portarmi dell'acqua; doveva aver notato il gonfiore dei miei occhi e aver sentito la stanchezza. Magari su quell'aereo avrei potuto dormire un po', anche se c'era neanche mezz'ora di viaggio fino a Montréal. Leah era partita due giorni prima di me, dandomi il tempo di recarmi all'agenzia immobiliare per mettere di nuovo l'appartamento sul mercato e concedendomi la possibilità di minacciare il Boston Globe; non che possedessi poi tutto quel carisma, ma l'avvicinarsi di una probabile denuncia li avrebbe fatti ricredere sul mio carattere. Quella notte, non avevo dormito affatto. Subito dopo essere tornata da una piccola festicciola di addio data da Rocio avevo preparato le valige e avevo rimesso a posto la casa, lasciandola esattamente come l'avevo trovata due mesi e mezzo prima. Socchiusi gli occhi qualche istante, ma sentii improvvisamente qualcuno tamburellare sul mio braccio. 
"Siamo arrivati." Sussurrò dolcemente una donna, sorridendo. Dovevo essere crollata. Tuttavia, quel pisolino mi era servito a recuperare un po' di forze, necessarie a caricare le valige e chiamare un taxi. In quella città, era difficile, assai complicato riuscire a trovare qualcuno disponibile. Lentamente oltrepassai la hall e mi diressi alle porte scorrevoli, che si aprirono così velocemente che neanche me ne resi conto. Fortunatamente, riuscii a trovare un tassista disposto ad accompagnarmi fin sotto casa: evidentemente gli facevo pena. Caricò le valige e mi aprì la portiera per farmi salire, chiedendomi poi quale fosse il nome della strada. Nel pronunciarlo provai un profondo senso di beatitudine. 
"Rue La Moyne." 
Cercai di non prendere nuovamente sonno, o un risveglio improvviso come quello di prima mi avrebbe distrutto i nervi definitivamente. 
"E' americana?" Chiese improvvisamente il tassista. 
"Oh, er...sì." 
"Come mai qui in Canada?" Feci spallucce, ritenendo quella risposta troppo ovvia. Almeno per me.
"Ci abito da tre anni." Non avevo molta voglia di parlare e l'uomo doveva essersene accorto, perché dopo un cenno di assenso, guidò in silenzio. Quando entrammo in città, ritrovai energia. Leah sarebbe stata felice di vedermi arrivare così in anticipo. Non gliene avevo parlato per non costringerla a provvedere alla cena, al passaggio in aeroporto e alla mia stanza; si sarebbe fatta in quattro sapendo che stato tornando, ed era meglio che così non fosse. Il taxi si fermò proprio in corrispondenza del nostro appartamento e mi aiutò a scaricare i bagagli. Gli consegnai i soldi e gli diedi una cospicua mancia, sperando, in cuor mio, di non essere costretta a prendere nuovamente uno. Guardai l'auto allontanarsi, per poi decidermi a chiamare la mia amica. 
"Sei troppo pigra! Sono qui già da trenta secondi e nessuno viene ad aprirmi." La rimproverai, sarcastica. Non disse nulla, ma in un minuto esatto me la trovai addosso. "Ti prego, ho le ossa a pezzi..." La implorai, ma non volle sentire ragioni. 
"Jack, prendila in braccio, io porto le valige." 
"Cosa?!" Inveii. Prima ancora che potessi ribellarmi, Jack mi prese alla stregua di un sacco di patate e mi portò fin sopra il pianerottolo. Tutto il tempo ebbi una paura matta di cadere. Mi intimò di non aprire la porta fino a quando non fosse stato lui a dirmelo; com'era ovvio che fosse, trovai il tutto molto sospetto, ma gli obbedii. Entrambi temevamo l'ira di Leah. Mi misi a sedere su di un gradino e attesi che i due tornassero con i miei bagagli, e quando li intravidi, erano spossati. Mi proposi di aiutarli, ma me lo impedirono gridando in modo disumano un 'No!'. Leah mi spinse ad entrare, e quando aprii la porta mi dovetti ricredere sulle feste a sorpresa. C'erano David, Chuck, Jeff, Sebastien, un paio di ragazze che avevo conosciuto due anni prima, ora nostre vicine di casa e al mio seguito Leah e Jack. Nonostante Chuck, Jeff e Seb non mi conoscessero, vennero ad abbracciarmi. 
"Effettivamente ci siamo visti una volta sola, ma sapere che hai sopportato Powell tutto questo tempo fa di te una persona degna di stima." Affermò Seb, presentandosi ufficialmente. Doveva essere il chitarrista; aprendo il cassetto sigillato della memoria, passai alla rassegna tutti i componenti, ricordando alla perfezione il loro ruolo. La mia amica si diresse in cucina a prendere l'ultima sorpresa: una torta alle fragole. Ne divorai avidamente una fetta, sentendo tutta la stanchezza scomparire definitivamente. Andai a sedermi sul divano accanto a David, che mi scoccò un bacio sulla tempia.
"Non amo molto le relazioni a distanza..." Affermò, sorridendo. 
"Mi sei mancato molto." Finsi, reggendogli il gioco. Sorseggiai una Red Bull, per poi tornare alla nostra conversazione. Nonostante non volessi aprire quell'argomento, fui costretta a render conto alla mia curiosità. "Lui dov'è?" 
"In studio, come sempre." Annuii, guardando Leah. Mi rivolse un sorriso di comprensione, dopodiché tornò alla sua conversazione con Seb. Lo sguardo assassino di Jack la diceva lunga sul suo passato. Aveva sempre dovuto combattere con il fantasma del chitarrista, di cui la mia amica era follemente innamorata. "C'è una cosa che devo dirti, Sam." Mi voltai verso David, che evitava il mio sguardo. 
"Cosa c'è?" Dissi, cercando di utilizzare un tono che non lo facesse sentire sotto interrogatorio.
"C'è un motivo per cui Pierre..." fissò i suoi occhi nei miei, facendomi spaventare. "C'è un motivo per cui Pierre quella sera ha mollato tutto."
"E quale sarebbe?" Esitò a rispondere, temendo che qualcuno potesse sentirci. Così gli chiesi di seguirmi fin sul terrazzo, dove ero solita passate le serate con il suo amico. La primavera ancora esitava a farsi sentire. 
"Vedi, quando siamo tornati dal nostro 'tour', lui ha aspettato qualche giorno prima di venire qui." Annuii, esortandolo a continuare. "Leah gli ha detto che te n'eri andata e lui è andato su tutte le furie." 
"E' stato un fraintendimento, allora?" Chiesi, certa delle mie parole. Il bassista si limitò ad assentire. Tuttavia, per me non cambiava nulla. "Gli ho detto cosa provavo, e lui se n'è andato, Dave. Avrebbe dovuto parlarne con me." 
"Conosci Pierre. Quando si tratta di trasformare in parola ciò che sente, è un disastro." 
"Lo so. Ecco perché non ti ho riferito altro che ciò che ha fatto. Se n'è andato. La cosa non è difficile solo per lui."
"Perché non gli parli?" Mi alzai e sollevai la finestra dalla quale eravamo usciti. 
"Lo hai detto tu: a parole non è bravo." 
 
Pierre p.o.v
Do...Sol...No, non funzionava. Mi stavo giusto chiedendo dove fossero andati a finire i ragazzi. 
I'm coming home, to an empty room, my head's spinning on a Saturday afternoon. There was a time when I had it all. I can still remember but I'm barely hangin' on.
Non riuscivo a continuare quella che doveva essere una nuova canzone. Avevo ritrovato l'ispirazione appena tornato da Boston, ma non ero riuscito ad andare oltre, limitandomi a chiudere quel pezzo nella cassetta delle canzoni mai completate. La matita mi scivolò dalle mani e nel riprenderla feci cadere in terra la mia chitarra. Era un casino senza la band al completo. Mi alzai dal divanetto e salutai i tecnici, pronto a tornare a casa. Presi la chiavi dalla tasca della giacca, ma nel farlo afferrai il cellulare, trovando un sms di Sebastien. 
'Sei un completo idiota. Mi chiedo proprio come farai ad andare avanti costretto a vederla tutti i giorni.' Mi chiesi a cosa si stesse riferendo, ma non trovando risposta decisi di richiamarlo. Quando mi rispose, udii delle risate di sottofondo e una voce molto, troppo familiare. Jack. Chiesi al mio amico cosa ci facessero a casa di Leah, e la risposta che mi diede fu abbastanza esaustiva. 

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Capitolo 18
*** XVIII. ***


 
Come potevo resistere a una tale attrazione, a una tale dolcezza! Chi al mondo ci sarebbe riuscito?
Sì, a poco a poco mi sono innamorato di lei.

Jane Austen, Ragione e sentimento











"Ahh!" Gridai, coprendomi immediatamente gli occhi. "Dannazione, David!" Il ragazzo se la stava ridendo di gusto. Con una mano cercai la maniglia della porta, ma con scarsi risultati, sicché mi misi a sedere a terra, poggiando la schiena al muro.
"E' fantastico!" Esclamò, felice come un bambino. 
"Metti subito qualcosa addosso!" Calò un profondo silenzio, che a dirla tutta, mi fece ben sperare che finalmente si fosse deciso a coprirsi. Lentamente sollevai lo sguardo verso l'alto, ma ciò che mi fu possibile vedere mi fece venire la pelle d'oca. "Mi avete fatta venire qui per questo?!" 
"Esattamente!" 
"Mi sento violentata." Decretai, sollevandomi, e uscendo di corsa dalla stanza. Ero certa fossi violacea, così attesi in sala d'aspetto che uno di loro, possibilmente con indosso almeno la biancheria, venisse a tranquillizzarmi e ad assicurarmi che quello fosse stato solo un incubo. La ragazza all'entrata sorrise, e mi invitò a restare calma, confessandomi che solitamente facevano di peggio. Ma quello era per una buona causa, almeno per l'amministrazione. Per loro, mettendo da parte l'altruismo, non era che divertimento. Intrattenni una breve conversazione con l'assistente, fino a quando dalle scale non vidi comparire la figura di Sebastien, che stava fingendo, almeno speravo, di sbottonarsi i pantaloni. Mi sorrise beffardo, chiedendomi poi di seguirlo in sala registrazioni dove erano pronti a registrare. 
"Forse non è una buona idea, Seb." Dissi, ritraendomi. Il ragazzo scese quel gradino che lo separava da me e mi afferrò un polso, per poi costringermi a salire con lui. Nonostante i miei tentativi di ribellarmi alla sua dittatura espressa con la forza fisica, nettamente maggiore rispetto alla mia, riuscì a spingermi nel salottino. Mi guardai intorno, salutando timidamente e andando a sedermi sul divano. Pochi istanti dopo, entrò anche Pierre, vestito. Cercai di non guardarlo, e mi sorpresi di non essere scappata quando si accomodò a pochi centimetri da me per accordare la chitarra. Deglutii e David se ne rese conto. 
"Sam, potresti venire un attimo?" Lo ringraziai silenziosamente, affrettandomi a raggiungerlo in cabina. C'erano fili e microfoni ovunque, e un disordine pazzesco, frutto di anni di esperienza nel campo della musica. E pensare che io non ero in grado neanche di tenerla tra le mani, la chitarra. 
"Devo andare via." Affermai, scostando i capelli dal volto e respirando profondamente. "E' assurdo, non sarei neanche dovuta venire." 
"Ora sei nostra amica. E inoltre, lo faccio per il vostro bene. Forse vedendovi più spesso riuscirete a capire che non c'è nulla di male nel tornare come prima che vi sbaciucchiaste." Lo fissai stranita, sperando che stesse scherzando. 
"Ragazzi, iniziamo." Il tecnico di sala mi chiese di raggiungerlo accanto alla tastiera, dove avrebbe tenuto sotto costante controllo il sound e la voce di Pierre. Tamburellai con le dita sulla superficie liscia del banco, quando improvvisamente il suono di una chitarra elettrica mi fece sobbalzare. 
 
<>
 
Come tutte le canzoni precedenti era davvero orecchiabili. Carine. Okay, confessai a me stessa che la fan che avevo sepolto anni prima stava cercando di tornare a galla. Osservai il volto di Chuck, scoppiando a ridere notando l'espressione che tendeva ad assumere quando si divertiva e concentrava allo stesso tempo. 
 
<>
 
Incrociai, senza volerlo, lo sguardo di Pierre, che si accingeva a staccare. Fu in quel momento che capii che non avrei potuto continuare, a detta di David, a incontrarlo senza sperare che potessi sentirmi bene. 
 
Pierre p.o.v
Jeff e Seb diedero l'ultimo stacco e nel momento esatto in cui feci per togliermi le cuffie, la vidi andar via, a passo svelto. Non sapevo cosa mi stesse passando per la mente, ma un attimo dopo ero lì che le correvo dietro, rischiando di inciampare sulla moquette dello studio. Preferii non chiamarla, o, ne ero certo, avrebbe accelerato per fuggire via da me. Prima che potesse salire in auto, l'afferrai per un braccio e la feci voltare verso di me. Cercai di riprendere fiato, ma al tempo stesso non volevo che si pentisse di essersi fermata; pertanto, con il cuore a mille per la fatica e per lei, cercai di esprimermi.
"Perché sei qui?" Domandai, stringendo la presa. Sussultò, facendomi rendere conto che le stavo facendo male, così allentai, scusandomi. 
"Ci abito." Scossi, il capo, cercando di farle capire che non era quella la risposta che volevo. E lei lo sapeva benissimo. Rimase qualche istante in silenzio, levando gli occhi al cielo per non fissarli sul mio volto. Stava dicendo sul serio. Feci un passo indietro, ripercorrendo in breve tutto il percorso fatto qualche giorno prima, da casa di Leah a Boston e chiedendomi a cosa stessi pensando quando la ragazza mi aveva detto che lì aveva trovato lavoro per un po'. "Perché non ti fidi di me?" 
Le sue parole furono gocce di pioggia acida. Aveva capito quello che in parte sentivo. 
"E' difficile..." Mormorai, appoggiandomi alla portiera della sua auto.
Il motivo era uno solo. 
"E' deludente." Affermò, continuando a guardare di fronte a sé. Nonostante tutto, non riuscivo a sopportare l'idea di averla delusa. Di nuovo. Era inconcepibile che non mi fidassi dei suoi sentimenti, ma lei doveva cercare di capirmi. Ben era stato per me un campanello d'allarme, e nel momento in cui lei mi aveva raccontato di quanto facile fosse per lei confessare un amore che neanche provava, avevo provato a difendermi dai suoi occhi. Ma non ci ero riuscito. Ero crollato come un perfetto idiota, finendo con l'innamorarmi di lei sempre di più. 
"Eri arrabbiata con me, eppure ti sei tenuta in contatto con David per sapere come stessi. Perché?" 
"Non ero arrabbiata con te." Affermò, meravigliandomi. "Ti conoscevo troppo bene per esserlo. Ma non potevo accettare che una menzogna tanto grande passasse inosservata, e la rabbia si è trasformata in delusione." 
"Ora cosa provi?" Mi ritrovai a domandarle, mordendomi la lingua subito dopo. 
"Non ti fidi di me, come potresti credermi se ora ti dicessi che mi odio a morte perché non riesco a mandarti via?" Touché. 
"Come ti sentiresti se ti dicessi: 'ti amo', mentendoti spudoratamente?" Esitò un istante, prima di decidersi a guardarmi in faccia. Ma io stesso, ora, provavo timore. Non l'avevo mai vista così.
"Lascia Ben fuori da questa storia." 
"Non posso, se lui è il tuo unico passato." Portai le mani nelle tasche onde evitare di iniziare a gesticolare. 
"Sai meglio di me perché sono arrivata a un passo dal matrimonio."
"Perché non hai rispetto per te stessa, ecco perché." Inveii.
"Perché non riesco neanche lontanamente a considerare l'idea di deludere le persone che amo!" Si rabbuiò, tenendo i suoi occhi nei miei per poi abbassare lo sguardo. "In tre anni, tu sei stato l'unico ad avere il permesso di toccarmi, di abbracciarmi e di interferire nella mia vita. Mentre ero a Boston, ho pensato: 'Forse è lui, la mia Altra Parte è lui.' Non dovrei neanche dirtele queste cose. Sono stanca di lottare contro i mulini a vento, così ho preso una decisione. E mi sembra di avertela comunicata la sera stessa in cui sei andato via da casa mia senza dire una parola dopo aver risposto al bacio che hai considerato un fatale errore." Sussurrò. Aprì la portiera e mise in moto l'auto; senza degnarmi di uno sguardo, andò via.
Quando rientrai, nella brama di prendermi a pugni da solo, mi si avvicinò David. Mi passò un braccio sulle spalle, e avvicinandomi a lui, disse: "Non ti stanchi mai di essere così stupido?" 

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Capitolo 19
*** XIX. ***


Ammetto di aver riso più in questo weekend che durante tutto il corso della mia esistenza. No, in diciotto anni non mi sono mai divertita tanto.
THESE ARE BANANAS! And where the hell is my wild tiger?! How am I supposed to be a wild animal on the stage when there are no wild animals  in my backstage environment?!
Come faccio a descrivere un Pierre combattuto e serio quando mi si presenta questo dinanzi agli occhi? 
Li adoro.
Sempre sia lodata la chioma corvina di Jeff.
 
Yesterday all my troubles seemed so far away.
The Beatles, Yesterday






"Arrivo." 
Asciugai le mani, chiudendo il rubinetto e dirigendomi verso l'entrata. Aprii la porta, trovandomi dinanzi a una donna bionda, con uno sguardo stanco e spossata dal peso della borsa. 
"Samantha?" Annuii, facendola entrare, mettendo da parte l'istinto di sopravvivenza e facendola accomodare. Le offrii dell'acqua fresca, che con il caldo di quel periodo, era l'ideale. Montréal, nel mese di Giugno, era più calda di Boston. Decisamente. Mi misi a sedere di fronte a lei, e attesi che iniziasse a parlare. 
"Sono Lachelle." Annuii, non ricordandomi di lei. Ero certa di non averla mai incontrata prima in vita mia, e il fatto che mi parlasse con un tono sì melodrammatico mi lasciò intendere che invece su di me sapesse molte cose. "L'ex fidanzata di Pierre." 
"Oh." Mormorai, distogliendo immediatamente lo sguardo. Non mi sembrava il caso di continuare a fissarla come una perfetta estranea; non dopo che con lei avevo inconsapevolmente condiviso l'affetto del ragazzo per tre lunghi anni. 
"Come...Perché sei venuta qui?" Chiesi, con fare incerto. Avevo timore di quello che era potuto accadere nei mesi in cui io e Pierre non ci eravamo visti nè sentiti, pur incontrando le medesime persone quasi ogni weekend. Si alzò dalla sedia con un po' di fatica, e mi diede le spalle, sospirando. 
"Ho bisogno del tuo aiuto. Devo vederlo." 
 
Pierre p.o.v 
Mi distesi in giardino e socchiusi gli occhi, sorridendo. Era giunto il momento tanto attesp. Quella sera ci sarebbe stata una gran festa per celebrare l'uscita del nuovo CD, quel 21 Giugno. Io e i ragazzi eravamo entusiasti del risultato a cui avevano portato mesi di duro lavoro e grandi collaborazioni e tra i fan regnava il delirio. Perfetto, proprio la situazione che . David aveva intanto costruito una solida amicizia con lei. Non che mi dispiacesse, ma sopportare e cercare di reprimere i sentimenti che provavo risultava difficile se ero costretto a vederla ogni qualvolta il mio amico si offriva di andarla a prendere a lavoro, per fare un favore a Jack. In quei momenti infilavo gli auricolari e guardavo altrove, per non essere costretto a mordermi la lingua nel caso in cui avessi deciso di parlare. Erano passai tre mesi da quando avevamo innalzato un muro tra di noi, e nessuno sembrava intenzionato a buttarlo giù. O meglio, io ne avevo una gran voglia, ma non avevo i mezzi adatti. Le scuse non erano abbastanza, e quando avevo deciso di ricorrere a quello che meglio mi riusciva di fare, avevo lasciato perdere. Neanche una canzone sarebbe servita, e lo sapevo. Mi ero ricreduto su tutto quanto le avevo detto, e avevo capito di fidarmi di lei come di nessun altro a parte chi di dovere meritava la mia fiducia. Ma in quel momento, forse, era lei ad avere il diritto di decidere. L'avevo offesa e solo il tempo avrebbe potuto guarire le ferite. 
Iniziai a sentire la pelle d'oca, sicché pensai fosse ora di prepararsi per il grande evento. All'arrivo di mia madre, iniziai a preoccuparmi e lasciai a lei l'arduo compito di scegliere cosa suo figlio dovesse indossare per una sera così importante e andai a fare una doccia. Tornato di sotto, non ebbi il tempo di sedermi. 
"Jay!" Salutai mio fratello, e lo invitai ad entrare. 
"Molto bene Pierre, dov'è la grana?" 
"Nel frigo, se proprio ti interessa." Nostra madre ci colpì lievemente dietro la nuca, per poi dirigersi in cucina.
"Jay, smettila di chiedere denaro a tuo fratello, e Pierre, tu non fare stupide battutine." Mi passò la mia giacca preferita e un paio di jeans. La fissai esterrefatto. "Hey, conosco il genere. Non puoi presentarti in smoking." 
Annuii, filando a prepararmi. Nel frattempo cercai di capire cos'avessero intenzione di fare i ragazzi con i nostri strumenti. Chuck, ovviamente, avrebbe suonato anche il bongo pur di farmi tranquillizzare. Ma era troppo importante; tre anni di silenzio. Questa era una sorta di rinascita. Tornai di sotto ed entrai in garage per prendere l'auto, rimasta a lungo ferma. Parcheggiai nel vialetto e suonai il clackson per avvisare i miei dell'imminente partenza. David mi informò che erano già lì, e aspettavano solo il mio arrivo per fare il loro ingresso. 
"Mamma!" Gridai, ricevendo un semplice "eccomi!" come risposta. Presi a tamburellare sul volante, impaziente. Mio fratello Jay, ovviamente, se la rideva di gusto. Facendo attenzione a non andare troppo veloce - in tal caso mia madre non avrebbe esitato a sequestrarmi la patente per una settimana, nonostante i miei trentadue anni suonati - mi diressi in centro, dove, ad aspettarci, c'era una marea di gente. Parcheggiai nel retro, e consegnai i pass ai miei per non correre il rischio di non essere riconosciuti. Attraversai un corridoio abbastanza stretto, seguito a ruota da Jay, e imboccai un'uscita. In poco tempo riuscii a trovare il camerino. Entrai e salutai tutti; fui felice di constatare che Alex aveva accettato il nostro invito ad esibirsi per il lancio del CD. Nel bel mezzo di una conversazione il nostro manager fece il suo trionfale ingresso, annunciandoci che entro cinque minuti avremmo dovuto essere sul palco. Sentii l'adrenalina crescere e un desiderio immenso di cantare impossessarsi di me. Mentre mi dirigevo dietro le quinte, presi una decisione.
"E' qui?" Chiesi a David, armato di basso. Mi sorrise e assentì, avviandosi sul palco. Udii le grida delle persone perforarmi i timpani. Fu un dolore piacevole, e dovevo ammettere mi era mancato più di ogni altra cosa. 
 
"E' stato il debutto migliore di tutti i tempi!" Affermò Chuck, saltandomi sulle spalle. Stanco com'ero, non sarei riuscito a sopportare il peso del suo corpo se solo non mi fossi retto a Seb. 
"Ragazzi, riuscite a suonare un'ultima canzone?" Chiesi, implorando. Si guardarono l'un l'altro, e ammiccarono. 
"Ma certo." Sorrisi, tornando sul palco.
 
Samantha p.o.v 
Lachelle sollevò il cappuccio della sua felpa e mi seguì, fino alla zona sottostante il palco. Credevo che Dan, un tecnico, avrebbe potuto indicarci la strada per il loro camerino, ma ad un tratto distolse lo sguardo e lo puntò sullo stage. Pierre era tornato. Testò la funzionalità del microfono, per poi invitare gli altri a non andare via. Mi chiesi cosa avesse intenzione di fare, ma tutto ciò che portò avanti fu l'inizio di una nuova canzone. 
 
*I'm coming home, to an empty room. My head is spinning, on a Sunday afternoon.*
 
Continuavo a guardarlo e ad ascoltarlo, e in breve dimenticai tutti coloro che mi circondavano, compresa la ragazza che avevo accompagnato.
 
*I never should have let you go, 'cause I'm falling to pieces. I just wanna let you know that I can't keep pretending, I never should have let you go. You're so far away and I just can't live without you, I just can't breathe without you. I never should have let you go.*
 
Sentii il calore della mano di Lachelle e la sua stretta si fece ferrea. Mi voltai verso di lei e la vidi sorridere, per poi rivolgermi a Pierre. L'aveva riconosciuta. 
 
Scese dal palco e ci venne vicino, con sguardo interrogativo. Preferii lasciarli soli, sicché raggiunsi David, intento ad uscire, e insieme ci dirigemmo dai ragazzi, felici come non mai. Rivolsi loro un sorriso di circostanza, ammettendo a me stessa di essere fin troppo curiosa di sapere cosa si stessero dicendo. 
"La smetti di tremare?" Chiese David, spazientito. Mi accorsi che teneva ancora un braccio lungo le mie spalle, e che il mio corpo era impegnato in una sorta di movimento non voluto. Mi scusai e cercai di calmarmi, con scarsi ed esigui risultati, sicché mi alzai dal divanetto e presi a camminare avanti e indietro, armeggiando con il cellulare. 
"Eccoli." Annunciò Seb, indicando la porta. Tutti zittirono quando Pierre e Lachelle entrarono, tenendosi per mano. Sul volto di entrambi era stampato un sorriso felice, soddisfatto. Iniziai a provare fitte profonde alla bocca dello stomaco, e la malinconia crebbe quando dalla bocca di Pierre a uscire furono parole che mai e poi mai avrei voluto sentire. Non da lui, almeno, non in quella situazione.
"Ragazzi, Lachelle aspetta un bambino."  

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Capitolo 20
*** XX. ***


 

Non dirmi che non c'è più alcuna speranza. 
Insieme resisteremo, divisi cadremo.

Pink Floyd, Hey You.











Aprii delicatamente la porta e feci scivolare la borsa a terra, per poi dirigermi a passi pesanti in camera mia. Rivolsi un ultimo sguardo a Leah e le sorrisi, rassicurandola e promettendole che nonostante tutto sarebbe andato tutto bene. Ci sarebbe mai stata una remota possibilità che la sottoscritta trovasse qualcuno che...Scossi il capo, per cancellare quei pensieri assurdi e poco razionali. Benché oramai Pierre fosse diventato impossibile da raggiungere - e ciò non faceva altro che attanagliarmi l'anima - ero felice. Un bambino era pur sempre il dono più bello che si potesse desiderare di ricevere, e ora entrambi avevano la possibilità di sentirsi più uniti. Forse anche per me e Ben sarebbe potuta andare meglio, se ci fosse stato un figlio a tenerci insieme. Istintivamente mi portai una mano sul ventre e sospirai, lasciandomi cadere sul letto. Chiusi gli occhi e cancellai ogni pensiero dalla mente, tanto quanto bastava a sentirmi ancor più vuota e abbandonata.
Quel mercoledì mattina, uscii di casa con poca voglia di scrivere e lavorare, sicché, arrivata a metà del percorso che mi avrebbe dovuta condurre alla Montréal Gazette, chiamai in ufficio, per prendere un giorno di pausa. Il direttore non fece storie, e mi ringraziò per averlo avvisato. In quegli ultimi mesi, per non soffermarmi su riflessioni alquanto inutili sulla mia vita, avevo lavorato come una forsennata, fino a tarda sera, per poi ricorrere ai passaggi di David per tornare a casa. Infondo, restava fuori fino a notte fonda, e rifiutare uno strappo mi sarebbe parso poco conveniente sia per lui che si offriva di accompagnarmi, che per me che, in caso contrario, avrei dovuto percorrere quasi un chilometro a piedi. Spensi il cellulare e cercai un taxi, per condurmi laddove sapevo sarei rimasta tranquilla per un po'. 
Per quanto cercassi di far fronte alla notizia, mi rendevo conto che più ore passavano più la necessità di sentirlo ancora si faceva più forte. Più lui non era con me, più ne sentivo la mancanza, e questo mi stava uccidendo, lentamente, e dolorosamente. Sapevo non sarebbe più stato possibile riaverlo con me, non dopo un evento del genere e...
"Qui dentro si sta sempre bene." Sobbalzai, sentendo il battito del cuore accelerare: ma non dissi niente, sicura che non sarebbe andato via nessuno dei due, se non dopo aver parlato. "Posso?" Chiese, indicando un posto invisibile accanto a me. A malincuore, annuii, sentendomi sempre più una perfetta masochista. Migliaia di domande mi affollavano la mente, ma lasciai perdere ogni tentativo di capire. Entrambi, rimanemmo in silenzio abbastanza da sentire il peso di parole che nessuno avrebbe pronunciato. Poi mi arresi all'inquietudine.
"Pierre..." Mormorai, fissando un punto impreciso sulla parete di pietra. 
"Mmh?" Mi voltai verso di lui, e combattendo contro i demoni della malinconia, incrociai il suo sguardo e gli sorrisi. 
"Congratulazioni." Fece per dire qualcosa, ma zittì e prese ad armeggiare con il cellulare. Lentamente mi alzai da terra e mi spolverai i jeans. Avevo della sabbia nelle converse, ma feci finta di niente e silenziosamente uscii alla luce del sole. Mi guardai intorno, e dopo essermi sfilata le scarpe mi avvicinai alla riva per provare la freschezza dell'oceano. Inspirai a fondo, sentendo l'aria salmastra che nell'arco di un secondo mi rigenerò completamente. Sì, mi sentivo bene.
 
Pierre p.o.v
 
Un passo alla volta e le fui accanto; senza pensarci su due volte, l'avvolsi con le braccia e la strinsi forte, udendo i suoi singhiozzi - purtroppo - in modo abbastanza marcato. Sentii le sue mani stringere forte la mia maglietta e implorare, silenziosamente, di non lasciarla andare fino a quando lei stessa non me lo avesse esplicitamente chiesto. 
Le accarezzai i capelli, sentendomi totalmente impotente e desiderandola, ad ogni contatto, sempre di più. 

Watch your step, love is broken. I am every tear you cry. Save your breathe, my heart has broken; you already have my life.
 
Perché mi tornasse alla mente proprio quella canzone non lo seppi fino a quando non mi resi conto che mi avrebbe dato la risposta. 
"Scusa." Sussurrò, stringendo più forte le dita. "Scusa."
"Perché?"
"E' stata tutta colpa mia e della mia stupida convinzione di non meritare nulla di tutto questo." 
"Effettivamente non te lo meriti." Risposi, producendo uno strano suono dato l'ostacolo che l'incavo del suo collo rappresentava. 
"Sai bene a cosa mi riferisco." Annuii, chiudendo gli occhi e cercando di lasciare fuori il resto del mondo. Era così facile perdere la cognizione dello spazio e del tempo quando stavo con lei, tanto che talvolta mi riusciva facile pensare che se lei non fosse mai arrivata, avrei vissuto una vita semplice. David aveva più che ragione: dovevo lasciare che qualcosa di più potente di me prendesse il sopravvento. I cambiamenti non potevano portare solo a conclusioni disastrose, dopotutto.
 "Posso confessarti un segreto, come ai vecchi tempi?" Sorrisi, ricordando le notti passate a raccontarci cose improbabili sui nostri pensieri. "Voglio tornare da mia madre e...riprovarci con Ben. Ho come l'impressione che questa volta potrebbe funzionare." 
"Cosa?" Fui sul punto di perdere l'equilibrio, data la velocità con la quale mi staccai da lei per indietreggiare; fui colto totalmente alla sprovvista, e lei parve rendersene conto. "Stai scherzando, vero?" Scosse il capo, e sentii di nuovo la rabbia riaffiorare e il senso di colpa tornare a galla. Non poteva fare questo a se stessa. Non poteva! E arrivati a quel punto, neanche a me. Passai una mano sulla nuca e presi a camminare avanti e indietro per un breve tratto di spiaggia, cercando di calmarmi e ritrovare il coraggio di parlare come una persona civile. Sapevo bene perché fosse giunta a quella conclusione, pur tuttavia non riuscivo a smettere di considerare quella una presa di posizione estremamente errata.
"Smettila!" Inveì. 
"Perché dovrei? Qui sei l'unica a poter fare quello che le pare?" Mi pentii subito di averlo detto, ma ormai era troppo tardi. Tuttavia, lei mantenne una calma che mi parve sovrumana, impossibile data la sua suscettibilità negli ultimi tempi. Doveva essere uno di quei periodi in cui lasciava che le parole fluissero liberamente dalla sua bocca senza il timore di essere represse per soggezione. 
"Io non sto decidendo di andare al patibolo, Pierre. Forse è vero, è una delle scelte più insensate che io abbia fatto negli ultimi tempi, ma considerate le circostanze la distanza non potrà che farci bene." Affermò.
"Dimmi, allora, cosa c'entra Ben in tutto questo." 
"La distanza che intendo non è solo quella fisica." Agitai il capo, considerandola l'idea più sciocca e suicida che avesse mai maturato. "Non posso restare." 
"E allora vattene." 
"Cosa?" Udii nella sua voce un tono sorpreso. 
"Vattene." Ripetei, alzando lievemente la voce. "Ma stavolta non tornare." 
Fece un passo indietro, raccolse le sue scarpe e dopo avermi guardato un'ultima volta si allontanò. Non potevo averla portata su quella strada. Doveva esserci un'alternativa. C'era sempre un'alternativa. Ad ogni passo, sentivo nascere il desiderio di correrle dietro e impedirle di andar via. Ma dovevo pensare a Lachelle e al bambino, a cosa sarebbe successo se ora mi fossi lasciato andare e cosa invece sarebbe accaduto a me se non lo avessi fatto e avessi permesso che lei potesse allontanarsi nuovamente da me. Ora come ora, l'unica soluzione era guadagnare tempo e cercare di mettere a posto i tasselli del puzzle, per riportare tutto all'ordine, come prima che ogni volta che cercavo di avvicinarmi a lei qualcosa di assurdo tendeva a mettersi tra i piedi. L'ultimo caso era ben diverso. Un bambino era ciò che volevo, ma la donna che amavo non era la madre, e, prendendo in considerazione gli ultimi tre anni, non lo sarebbe mai stata, se non per obbligo morale. Mi sentivo un mostro, ma non potevo andare avanti così.  
"Dannazione!" Velocemente mi incamminai verso di lei, e quando le fui abbastanza vicino l'afferrai per un braccio e la costrinsi a voltarsi. Prima di eliminare la distanza tra noi, la guardai negli occhi; non riuscii a capire, per la prima volta, cosa essi cercassero di comunicarmi. 

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Capitolo 21
*** XXI. ***


Come le funi che aprono il sipario di un teatro, ogni tuo sorriso
è un debutto. Una prima. Tu che sveli te stesso.
~ Chuck Palanhiuk, Diary













"...e comprendere solo alla fine che il vero amore, a chiunque esso sia rivolto e da chiunque sia donato, è quello senza pretese."

Conclusi l'ultima recensione della settimana, e spensi il portatile per riposare qualche minuto. Distesi la schiena sulla superficie morbida del letto e sospirai, guardando in direzione del ragazzo che giaceva al mio fianco. Detestavo il fatto che nei telefilm lei, il mattino dopo, tendesse ad indossare la sua camicia. Lo trovavo assurdo. Tuttavia, in quel momento, compresi il perché di quel gesto; inspirai a fondo e assaporai appieno il suo profumo, e chiusi gli occhi. Se non fosse stato per la situazione in cui ci trovavamo, quello sarebbe stato il momento più bello della mia vita. Mi accovacciai accanto a lui e mi riaddormentai, cercando di non pensare a cosa avrei trovato al mio risveglio.

Sollevai lievemente le palpebre, ma le richiusi subito, accecata dalla luce del sole. Feci per scostarmi i capelli dagli occhi, ma qualcuno lo fece al posto mio. Sorrisi.
"Sei ancora qui?" Sussurrai, lieta che non se ne fosse andato via senza prima avvisarmi.
"Vuoi che me ne vada?" No! Gridai a me stessa. Mi avvicinai a lui e gli baciai una clavicola, per poi abbracciarlo. No, non volevo farlo scappare. Non in quel momento. Sentii le sue braccia avvolgermi e stringermi a lui, e i nostri corpi aderire perfettamente. Ora, come avrei potuto andare avanti sapendo di dipendere, effettivamente, dalla sua prossima scelta? Dal momento che ormai era a conoscienza di ciò che provavo, sarebbe stato tutto più difficile prendere una decisione che non fosse dolorosa. Ma tutto ciò che volevo era sentirmi vicina a lui come mai prima d'ora. Solo qualche istante...
"Credi che Leah..."
"Oh, no, per favore." Affermai, imbarazzata. Non volevo neanche immaginare cosa avesse pensato la mia amica quando era rientrata dal lavoro. E cosa avesse pensato Jack; me lo avrebbe rinfacciato tutta la vita, e tutto ci voleva tranne che avesse un motivo per prendermi in giro. Di quella notte volevo ricordare solo gli aspetti positivi. Me e Pierre. Punto. Il suo petto vibrò, e capii che stava ridendo.
"Cercherò di non fantasticare sulle loro facce." Disse infine. Prese ad accarezzarmi delicatamente i capelli e notò che erano cresciuti dall'ultima volta che aveva davvero fatto caso alla mia acconciatura. Li fece divenire più ricci, attorcigliandoli intorno alle sue dita per poi lasciarli ricadere sulla schiena. Il silenzio regnò sovrano nella stanza fino a quando entrambi non udimmo dei rumori provenire dalla camera accanto. Leah doveva essersi alzata e aver iniziato le faccende domestiche prima del solito. Non potevo lasciarle fare tutto, sicché sollevai il braccio di Pierre e, a malincuore, andai a rivestirmi. Feci una doccia fredda e indossai qualcosa di fresco per poi tornare in camera e vederlo seduto a guardare fuori. Mi accomodai accanto a lui e gli porsi la camicia, che però non prese.
"Lo consideri un errore, vero?" Chiesi, timorosa. Non rispose, continuando a fissare un punto impreciso e innalzando, forse inconsciamente, una barriera tra noi. Mi allontanai silenziosamente, dirigendomi verso la cucina. Dovevo preparare la colazione.

Armeggiai con i fornelli per un po', fino a quando non mi decisi a prepare delle frittelle. Presi l'impasto preparato la sera precedente da Leah e iniziai a versarlo a piccole dosi nella padella. Il suo semplice profumo mi esalò tutta e mi riempì lo stomaco. Ad una ad una le misi in un piatto e lo poggiai al centro del tavolo. Mancavano il succo d'arancia e il latte. E ovviamente, il classico sciroppo d'acero. Finito ciò, chiamai Leah e l'informai che era pronto, per poi andarmi a sedere di fronte al televisore. Mi dedicai qualche secondo allo zapping, poi, infastidita, mia sollevai dal divano e a passi svelti mi diressi in camera mia. Quando fui davanti alla porta, mi chiesi se fosse giusto dargli o meno un ultimatum. Solo alla fine lo ritenni totalmente egoista. Era abbastanza maturo da sapere cosa fare, e io mi fidavo di lui. Sì, mi fidavo.
"Che stai facendo?" Domandò, vedendomi lì.
"La...la colazione è pronta." Balbettai, tornando indietro.
"Grazie."
Quella tranquillità la diceva lunga sui pensieri di ognuno di noi. Leah e Jack si guardavano di tanto in tanto, per poi rivolgersi a me e Pierre. Quest'ultimo fissava costantemente il piatto, come se pensasse di trovarci qualcosa prima o poi. Una volta finito, rassicurai Leah e le chiesi di uscire con il suo ragazzo, impaziente di andar via. Avrei pensato io al resto. Scostai la sedia dal tavolo e impilai i piatti uno sopra l'altro, per poi metterli nel lavello. Feci scorrere l'acqua per un po' prima di decidermi ad impugnare la spugna e iniziare a lavarli davvero.
"Pierre?"
"Mmh?" Misi le posate nel cassetto e chiusi il rubinetto, ma non mi voltai.
"Se non vuoi restare puoi anche andar via. Non la considererei una fuga." Il silenzio che ne seguì mi diede prova che aspettava solo che gli dessi il permesso. Fece per dire qualcosa, ma lo squillo del telefono lo interruppe. Esitante, sollevai la cornetta. Era mia madre. Deglutii, chiedendole perché mi avesse chiamata. Da quando ero fuggita dal mio matrimonio non ci eravamo più parlate, sebbene lei stessa sapesse che ad avere ragione fossi io. Il problema era che per orgoglio non lo avrebbe mai accettato. Non avrebbe mai neanche lontanamente considerato l'idea che lei potesse essersi sbagliata sul conto di una persona. Mi annunciò che era arrivata in città e che contava sulla nostra ospitalità per qualche giorno. Affranta, accettai, e mi preparai a riceverla in pochi minuti. Riagganciai e mi accomodai sulla sedia, ricordandomi solo dopo un po' che c'era ancora qualcuno lì con me. Incrociai il suo sguardo, e mi chiesi cosa avrei dovuto fare anche con lui. Non potevamo continuare quel tira e molla all'infinito, e lui ne era consapevole tanto quanto me. Mi rivolse uno sguardo prima di allungare una mano nella mia direzione; gliela strinsi, sentendo ancora tutta la sua forza.
"Non lo considero un errore." Disse infine, avvicinandosi a me. Lo abbracciai, affondando il viso nel suo petto.
"A proposito. La canzone era meravigliosa." Affermai. Mi baciò una guancia, per poi alzarsi e dirigersi verso la porta.
"L'ho scritta io, sfido sia bellissima." Prima che potesse uscire, tuttavia, fu sul punto di ritrovarsi steso a terra privo di sensi. Si scostò appena in tempo per vedere i miei entrare, armati di valige e piccole borse per il viaggio in auto. Mi affrettai a raggiungere l'entrata e diedi loro una mano per portare i bagagli all'interno. Pierre era terrorizzato. Io, da canto mio, ero sul punto di svenire.
 
Pierre p.o.v
Il padre di Samantha mi si avvicinò e mi porse una mano, presentandosi. Il suo sguardo cadde sul mio braccio sinistro, e un'espressione di disappunto si dipinse sul suo volto. Anche la madre fece lo stesso, per poi dirigersi verso la figlia. Questa, con lo sguardo, implorò un aiuto che ero certo non poterle dare, non conoscendo benissimo i soggetti. Sapevo quanto fossero autoritari e severi in fatto di relazioni, e se la figlia frequentava un tipo come me, ero sicuro stessero pensando di interferire di nuovo con le sue scelte. Un altro ostacolo. Non era possibile che ci fosse di nuovo qualcosa che si frapponesse. Karma di me...
"Suppongo lei sia un amico." Ero certo che a quel 'suppongo' avrebbe volentieri sostituito un'espressione di speranza. Guardai prima Samantha, poi lui, e infine annuii. "Cos'è quel coso che ha sul braccio?" Chiese.
"Un...tatuaggio." Affermai, timoroso.
"Un momento. Io la conosco..." I suoi occhi divennero due fessure. "Ma certo! Lei è quella specie di musicista!" Sgranai gli occhi. Questa Sam avrebbe dovuto spiegarmela meglio. Fui colto da una risata nervosa, seguita da uno sguardo truce verso la ragazza intenta ad armeggiare con le valige.
“Io andrei...” Affermai, voltandomi verso la porta.
“Non così in fretta.” Mi ammonì la madre. “Che ci fa lei a quest’ora a casa di mia figlia?”
Sul volto di Samantha era dipinta un’espressione di terrore puro. Non che io mi sentissi meglio.
“E’ un amico di Jack, è passato a portargli...” Si guardò intorno, poi scattò verso il tavolo della sala da pranzo e tornò con del latte.
“Latte?”
“Sì. Lo avevamo finito, e ieri non abbiamo fatto la spesa...” Mentì. “Ma Pierre stava andando via. Ha molte cose da fare.”
Rivolsi loro un sorriso di circostanza, e, ancora fortemente turbato, mi affrettai ad uscire. Ora, ammisi a me stesso, temevo molto più la reazione dei suoi che quella di Lachelle. 

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Capitolo 22
*** XXII. ***


Ci sono storie che quando le racconti si consumano.
Altre storie invece, consumano te
Chuck Palahniuk, Cavie













Detestavo il fatto di dover rendere conto delle mie azioni a persone che non avrebbero dovuto interferire così tanto nella mia vita. Adoravo i miei genitori, ma il fatto che mi stessero facendo un vero e proprio terzo grado per sapere tutto di Pierre e del nostro rapporto, mi stava facendo innervosire. Mi lasciai cadere sulla sedia, tempestata dalle domande di mia madre a proposito del fatto che si trovasse qui proprio alle otto del mattino. Erano passati due giorni e non accennava a darmi un attimo di tregua. E come se non bastasse, aveva iniziato a mettere in mezzo anche Leah, che, però, decisi di lasciar fuori. Quella sera mio padre era uscito, per fare un giro nei dintorni e incontrare qualche amico che da tempo abitava lì. Io e mia madre eravamo rimaste sole, ma a mio favore stava il fatto che ormai si fosse decisa a smetterla di torturarmi. Iniziai a preparare la cena, conscia del fatto che quella sera avremmo avuto David come ospite. Non poteva capitare momento peggiore per invitarlo. Quando arrivò, il tocco della sua mano fu come rigenerante. Si presentò a mia madre, la quale lo scrutò da cima a fondo, alla ricerca di probabili tatuaggi. Non trovando nulla, sorrise al ragazzo, e lo esortò ad accomodarsi. 
<< Ah, amico di quello. >> Disse, acida. David aveva appena smesso di raccontare della band, quando mia madre sembrò man mano cambiare opinione sul suo conto. Possibile detestasse tutti i musicisti? Il bassista, per riparare al danno appena fatto, si alzò dalla sedia e si diresse verso lo stereo del salotto. Mi chiese dove avessi messo Steve Ray Vaughan. Quando glielo consegnai, lo inserì e invitò mia madre a ballare. Il mio sguardo interdetto diede possibilità a David di capire che non ero ancora riuscita a comprendere dove volesse arrivare. A cosa, precisamente, volesse tendere.
<< Vede, signora, la musica è una gran cosa. Non si sente più rilassata? >> Mia madre distolse lo sguardo, divagando.
<< Be', forse. Ma non la vostra. Samantha è diventata tremendamente ribelle ascoltando quella stupida canzone... Me...Me qualcosa. >>
<< Me against the world? >> Domandò lui, sorridendo.
<< Esatto. >>
<< Ma le ha dato la spinta necessaria a scrivere articoli che le hanno portato i soldi necessari a cominciare una propria vita. >>  
<< Lei deve frequentare un bravo ragazzo, che le dia tutto ciò di cui ha bisogno. >> Fui sul punto di intervenire, ma Dave mi bloccò con un gesto della mano, continuando a muoversi lentamente con mia madre. 
<< Pierre è una persona grandiosa. E la ama. Non crede sia abbastanza? >> Rimasi profondamente colpita da quelle parole. Sentii una sensazione strana allo stomaco, quasi fosse invaso da qualcosa di anomalo...
<< Chi le dice che la sua non è altro che attrazione momentanea? Mai fidarsi dei tatuati. >> 
<< Oh, andiamo. Vuole davvero condannarlo per questo? Sono tre anni che si strugge per timore di rovinare la vita di sua figlia, quindi la sua non è una semplice fiammella. E poi non mi dica che non è mai stata attratta da una rockstar. >> Il volto paonazzo di mia madre la disse lunga sul suo passato. E io sapevo bene che mio padre non era stato il suo primo, vero amore. Lei parve dare ascolto a queste parole, così David continuò a parlarle, incurante del fatto che avessero bussato alla porta. Andai ad aprire, trovandomi davanti Pierre, preoccupato. Si guardò intorno sospettoso, e quando vide David e mia madre in salotto fu sul punto di andarsene. Lo trascinai dentro, e chiusi silenziosamente. Restò ad ascoltare il suo amico, intento a persuadere la donna al suo fianco. Nel vedere che lei aveva ormai quasi ceduto, sorrise, abbracciandomi.
<< Perché porti una camicia in piena estate? >> Gli chiesi, notando che stesse morendo di caldo. Guardò in direzione dei due, accennando un semplice sorrisetto complice. Quando la canzone terminò, e mia madre si fu accorta della presenza del ragazzo, calò un silenzio preoccupante. Lasciai perdere ogni speranza di vedere mia madre accettare una mia scelta e sospirai, arresa.
<< Bene, Pierre. Voglio concederti... >> I miei occhi si illuminarono. Prima che potesse concludere, mio padre fece irruzione nell'appartamento, facendo sobbalzare tutti. Stretta in un pugno, aveva una rivista, arrotolata su se stessa.
<< Tu! >> Gridò, indicando Pierre e avvicinandosi pericolosamente al cantante. Questi arretrò, terrorizzato, ma io, mia madre e Dave ci spingemmo verso l'anziano uomo. << Sta' lontano da mia figlia! >>
<< Papà! Smettila! >> Urlai, trattenendolo per un braccio.
<< Santo cielo, John! Che ti è preso? >> Gli occhi di mio padre ardevano. C'era odio e preoccupazione nella sua voce.
<< Che mi è preso?! >> Strepitò, fermandosi. Pierre non si era calmato ancora. << Ecco cosa mi è preso! >> Sfogliò velocemente la rivista e puntò un articolo verso di noi: c'erano foto di Pierre e Lachelle di qualche mese prima, e una foto di lei ora, incinta. Impallidii e arretrai, urtando contro il tavolo. Era finita.
<< Avevi intenzione di mettere incinta anche lei e poi lasciarla? >> Imprecò, alzando la voce ancora di più. Non potevo giustificare una cosa simile, non avrebbe capito.
<< Pierre, è vero? >> Chiese mia madre, quasi inorridita. << E pensare che stavo per concederti... >> Scosse il capo, disgustata.
<< Signori Gordon, ero venuto qui proprio per parlarvi di questo. >> Intervenne Pierre, finalmente ripresosi.
<< Oh mio Dio, sei già incinta? >>
<< No! >> Inveii, portandomi istintivamente una mano sul grembo. Dopo un attimo di esitazione, i miei genitori tornarono a fissare Pierre in modo maniacale. Ci sedemmo tutti intorno al tavolo della cucina, cercando di tenere Pierre ad una distanza di sicurezza da mio padre, pronto ad esplodere in un atto di violenza non appena Pierre gliene avesse data l'occasione. Con calma, mi rivolsi al ragazzo, invitandolo a parlare. Infondo, era venuto per discutere con me, e in quel momento ascoltarlo era l'unica cosa giusta da fare.
<< Io e Lachelle ci siamo lasciati prima che io scoprissi che lei fosse incinta, >> iniziò a spiegare << e quando sono venuto a saperlo ho subito preso posizione. Devo essere un buon padre. Ma... >> Si fermò, e iniziò a guardarmi. << Ma io...io amo lei, e non potrebbe essere altrimenti. >> Sentii un groppo in gola, e un senso di beatitudine immensa. << La mia fidanzata... >>
<< Fidanzata? >> Lo interruppe mio padre.
<< Sì. Dicevo, la mia fidanzata sa di tutta questa storia. >>
<< E la accetta di buon grado? >> Chiese mia madre.
<< Ci siamo lasciati sei mesi fa, credo un'idea se la sia fatta. >> Spiegò, spazientito. Gli strinsi una mano per infondergli coraggio, ma in cambio ricevetti uno sguardo fulminante di mio padre. << Lei non vuole stare con qualcuno che non la ami. >>
<< Quindi mi stai dicendo che farai da padre al bambino ma starai con Samantha? >> Domandò. Pierre annuì, sorridendomi. Sarei stata immensamente felice, se non fosse stato per il fatto che mio padre si era lentamente alzato dalla sedia, sferrando due pugni sul tavolo e facendo tremare il pavimento. Sollevò lo sguardo verso il ragazzo al mio fianco e con un'imprecazione simile ad un ruggito, gridò: << CHE COSA?! >> 


Scusate l'attesa, ma questo è il secondo quadrimestre. SECONDO QUADRIMESTRE. Nel mio vocabolario è sinonimo di morte. Spero di poter continuare la settimana della gita a Barcellona D:
Lisa. 

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Capitolo 23
*** XXIII. ***


Scopro con malinconia che il mio egoismo non
è poi  così grande, visto che ho dato ad
altri il potere di farmi soffrire.


Antoine De Saint-Exupéry












Silenziosamente chiusi la porta e feci scattare la serratura; controllai in borsa: avevo tutto. Scesi in fretta le scale che mi avrebbero condotta all'uscita del palazzo, e quando fui lì, ebbi timore. Avrei dovuto ricordare la strada, o sarei stata finita. Mi strinsi nella giacca, e conscia del fatto che quasi sicuramente mi sarei persa, mi diressi verso la fine della strada. 
<< Mi sento un'adolescente disobbediente. >> Affermai, proseguendo fino al semaforo. Erano le due di notte, e per strada non c'era anima viva. Notando un gruppo di barboni, optai per cambiare strada, ma l'alternativa sarebbe stata un cane randagio. Non che avessi qualcosa contro gli animali, anzi. Ma quello sembrava affamato. E tanto. A capo chino affrettai il passo, cercando di non guardare nessuno negli occhi. Avevo paura. Ero sola. Ma di quella situazione non sarei stata ancora la vittima. Non quando avevo lottato per l'indipenza per poi vedermela strappare via da un momento all'altro. Pierre aveva ragione: dovevo uscire dal meccanismo, o vi sarei rimasta intrappolata tutta l'esistenza. Mi fermai dinanzi alla mappa della città, e lì valutai quanto mancasse alla mia meta. Ora che ci pensavo, ero stata a casa di Pierre solo il primo anno in cui ci eravamo conosciuti, quando avevo perso la possibilità di fare un colloquio e gli avevo quasi spaccato la faccia, e mi sembrò di comprendere anche il perché. 
Ma che stavo facendo? 
Fui sul punto di tornare indietro, ma se mi fossi arresa, non me lo sarei mai perdonato. Lotta, una buona volta, pensai, rimproverando la mia ignavia. In un tempo che mi parve infinito, mi trovai dinanzi ad una serie di villette, tutte molto simili. Mi addentrai in una strada, rendendomi conto che non c'era neanche un lampione. Buio totale. Chiusi gli occhi, cercando di ricordare il numero civico dell'abitazione; erano trascorsi troppi mesi dall'ultima volta che avevo dovuto riportarlo alla mente, ma quando mi parve di rimembrare delle cifre, fui contenta di constatare che ero nel posto giusto. Trovata. Mi guardai intorno, con fare circospetto, poi imboccai il vialetto che mi avrebbe condotta all'ingresso. E ora? 
 
Pierre p.o.v
 
Mi ricomposi, cercando di far scorrere sangue anche nel resto del corpo. Non riuscivo a chiudere occhio, e solo Dio sapeva quanto necessitassi di una lunga dormita. Guardai la parte di letto vuota al mio fianco, e riflettei. Lachelle era andata a vivere dai genitori, fuori città. Avevo combinato un casino. Avevo rovinato ogni cosa. Fui tentato di chiamare prima lei, ma mi resi conto che era tardi, poi Sam. I suoi genitori non erano come me li aveva descritti: la loro autorità era ben lungi dal poter essere definita sobria. Erano arrivati proprio quella mattina. Quella in cui avrei voluto dirle che andava tutto bene, che eravamo liberi. Dopo quella notte che avevo atteso per anni. Avevo bisogno di un bicchiere d'acqua. Lentamente scesi le scale, per non inciampare e accesi le luci, dirigendomi verso il frigorifero. L'ideale sarebbe stato una birra, effettivamente. Ne stappai una, ma dopo un sorso sentii un profondo senso di disgusto. La spinsi sul bancone, arrendendomi al fatto che neanche l'alcol poteva nulla. Fui sul punto di tornare a dormire, quando sentii un rumore provenire dal giardino. Sussultai, afferrando la prima cosa che mi ero trovato davanti. La chitarra di Jeff; mi avrebbe perdonato. Impugnai la paletta e mi avvicinai alla finestra, per sbirciare fuori. C'era realmente qualcuno. Cercai il cellulare con gli occhi, e quando lo trovai chiamai David. 
<< Sono le tre di notte, Bouvier. >>
<< Ma, Dave, c'è qualcuno! >> 
<< E allora apri la porta, urlagli contro. Io intanto chiamo la polizia. >> Non ero molto convinto che quel metodo fosse sicuro. Ma mi fidavo di David, e avendo questi appena composto il numero della centrale, mi avvicinai alla porta. Con uno scatto la spalancai, pronto a gridare. Ma non ce ne fu bisogno, almeno non di paura. Intimai al mio amico di stare tranquillo e poggiai la chitarra alla parete. Le ci volle un istante, prima di correre ad abbracciarmi. La strinsi forte, provando a recuperare quel tempo perduto ad evitare di incontrarci. Una settimana senza vederla. Come avrei potuto resistere ancora? 
<< Mi sei mancata. >> Sussurrai, baciandola. << Dannazione, se mi sei mancata. >> 
<< Sei solo? >> Chiese. Annuii. 
<< Vuoi dare una festa? Io penso agli alcolici. >> Feci per allontanarmi, ma nonostante possedesse poca forza, riuscì a riportarmi di fronte a lei. Per arrivare alla mia altezza fu costretta ad ergersi sulle punte, sicché per darle una mano la sollevai lievemente. 
Entrammo in casa, e prima di offrirle qualcosa inviai un messaggio a David. Quando mi misi a sedere al suo fianco, notai che aveva lo sguardo perso. 
<< Sei scappata di casa? >> A quella mia domanda scoppiò in una fragorosa risata, che io riuscii a leggere solo come nervosa. 
<< Ho ventisei anni e sono costretta a scappare di casa per vederti. E' assurdo. >> 
<< Con dei genitori come i tuoi l'infanzia non ha mai fine. >> Affermai, carezzandole i capelli. 
<< E' un incubo. Io voglio solo... >> Attesi che continuasse, ma evidentemente aveva bisogno di un'esortazione.
<< Solo? >>  Inspirò ed espirò profondamente, chiudendo gli occhi. 
<< Stare con te. >> Non riuscii a fermare il sorriso che mi si disegnò sul volto. Le sollevai il mento, sfiorandole la punta del naso con le labbra. Io conoscevo lei e me stesso; quella reazione, da parte di entrambi, non era nell'ordinario. Avevo a lungo sperato che per Samantha provassi solo una forte attrazione fisica, ma a lungo andare le poche convinzioni - avrei potuto definirle meglio "speranze" - erano svanite, lasciando posto alla realtà dei fatti: io...
<< Ti amo. >> Udire tali parole da altri mi aveva sempre fatto detestare quella frase. Ora mi sembravano semplicemente imbevute di sincerità. I suoi occhi divennero lucidi, e quello, pensai, doveva essere l'unico motivo per cui avrebbe potuto piangere. Non per altro, non glielo avrei permesso. Non mi aspettavo mi rispondesse subito, non volevo si sentisse costretta. Ma infondo, ricordai, in tre anni mi aveva detto tutto ciò che pensava, eccezion fatta per quello che sentiva nei miei riguardi. 
<< Quando partirai per quel tour? >> Domandò. 
<< Tra due giorni. >> Risposi, rimembrandomene improvvisamente. << Vuoi venire? >> Non colsi l'assurdità di quella proposta fino a quando non fu lei a rispondermi in modo razionale.
<< Non posso, lo sai. Piuttosto, se quando torni non mi trovi, aspettami. >> La fissai con sguardo interrogativo. << Devo far perdere le mie tracce. >> 
<< Vuoi fuggire? >> Assentì. << Non se ne parla. Non ho intenzione di saperti in giro per gli Stati Uniti nel disperato tentativo di far arrendere i tuoi. >> 
<< La decisione l'ho già presa Pierre. >> Affermò, decisa. A quel punto mi alzai dal divano, e afferrai la giacca all'entrata. 
<< Spiacente, ma mi hai dato il diritto di immischiarmi nella tua vita. >> Chiusi la porta alle mie spalle e presi l'auto dal garage. Quando Sam tentò di raggiungermi, le intimai di tornare dentro e di aspettarmi, o non avrei risposto delle mie azioni. Per quanto importanti fossero per lei, i suoi genitori non potevano e assolutamente non dovevano immischiarsi. Volevano il meglio per la loro unica figlia? Io non ero un grand'uomo, ma ero tutto ciò che speravo di poter essere per lei. Per me. Per i ragazzi. In quelle condizioni forse non avrei fatto altro che aggravare ciò che già di per sé era ad un livello critico; ad una sorta di punto di non ritorno. Sbattei violentemente la portiera, e presi a suonare con insistenza affinché capissero che era urgente. A sporgere il capo dalla finestra fu Leah, che scese di sotto ad aprirmi. Le confermai che Sam era da me e che potevano smettere di preoccuparsi. Quando entrai nell'appartamento, fui sul punto di trovarmi schiacciato contro la parete. Il signor Gordon era su tutte le furie. 
<< Riportami mia figlia! >> 
<< Ora lei sta zitto e mi sta a sentire! >> Gridai, ammutolendolo. << Sam ha ventisei anni. E non è un'idiota. Se ha scelto di stare con me, un motivo ci sarà. Qualcosa di buono in me ci deve essere, o, mi creda, mi avrebbe allontanato il primo giorno in cui sono passato a prenderla per trovarle un lavoro. Dovete smetterla di cercare di dettar legge, o sarò io a costringervi. >> 
<< E come credi di fare? >> Lo sguardo minaccioso del padre non mi colse per nulla alla sprovvista. 
<< Se lei osa mettere Sam in condizione di dover scappare, giuro che gliela faccio pagare. >> L'uomo arretrò, avvicinandosi alla moglie. Per un istante incontrai gli occhi di Leah, spaventati e speranzosi al tempo stesso. Lanciai un'ultima occhiata agli astanti, dopodiché, con calma, tornai alla mia auto. Durante il tratto di ritorno, non feci altro che pensare a cosa dire a Samantha; avevo minacciato suo padre.   


Tornata! Per poco D: Essendoci il concerto tra dieci giorni (**) ho migliaia di cose da fare, per andarci TRANQUILLA. Grazie per tutte le recensioni, e grazie anche a tutti i lettori (=

Lisa.

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Capitolo 24
*** Non è un capitolo! ***


Non è un capitolo, scusate l'"illusione".
Ma...volevo condividere con voi la mia gioia. 
Sì, perché tra quattro giorni c'è il concerto e perché un figo del cavolo ( a cui piacciono i Simple Plan ) mi ha chiesto, e poi è morto, di uscire. 

MUOIO. 

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Capitolo 25
*** XXIV. ***


It was like a time bomb set into motion,
we knew that we were destinated to explode.
Time bomb - All Time Low











Digrignai i denti per reprimere un urlo di dolore. Faceva male.
Malissimo. 
E io ci ero dentro, completamente. 
Strinsi forte la mano di Pierre, seduto al mio fianco: sul suo volto, quasi la mia stessa espressione. Perché lo avevo fatto? Perché non gli avevo dato retta? 
"Abbiamo quasi finito." Mormorò l'uomo con il camice. Stavo soffrendo come non mai, e solo Dio sapeva quanto poco riuscissi a sopportare il dolore fisico. Il mio corpo fu scosso da un violento spasimo, ma fortunatamente l'ago non era nella pelle. "Se vuoi che il lavoro sia fatto bene, cerca di star ferma." 
"La fai facile, tu." Quasi ruggii quando tornò al mio bacino. Pierre, da canto suo, se ne stava in silenzio, cercando di non dire nulla per non farmi arrabbiare. Ma la sua voce mi mancava, anche se utilizzata per definirmi una bambina incapace di sopportare un aghetto. Guardò Jim con fare compassionevole, e qualche istante dopo, ci fu solo silenzio, e nessun brusio. Finito? Mi misi a sedere cautamente, poggiando la schiena sul cuscinetto. Inspirai ed espirai, profondamente, riuscendo a riacquistare un po' di lucidità. Incontrai lo sguardo di Pierre, che mi sorrise e mi diede un bacio sulla fronte.
" Ora è finita." Lo feci chinare nuovamente per poter avere le sue labbra all'altezza delle mie. Gli mordicchiai il labbro inferiore, tirandolo verso il basso, e costringendo lui a fare lo stesso. Tuttavia, prima di poter approfondire il bacio, Jim lo scostò violentemente. 
"Vi aumento il prezzo se non la smettete." Scoppiai a ridere, aiutandolo a sterilizzare la zona. 
"E' bellissimo, grazie." Mi aiutò a scendere e a non farmi male, mentre con una mano tenevo salda la garza. "David. Dobbiamo andare da David." Affermai, prendendo Pierre per mano. Ma questi non si mosse di un solo centimetro, costringendomi a tornare indietro e guardarlo negli occhi. 
"David non vedrà un bel niente." Lo fissai interrogativa, chiedendomi perché avesse improvvisamente assunto quell'aria severa e...gelosa. "Vorresti dirmi che pur di farglielo vedere saresti disposta a metterti a nudo?" Lo guardai allibita, ma compresi subito a cosa si riferiva. Proruppi in una fragorosa risata, bloccata dal dolore alla contrazione dei muscoli del bacino.  
"Andiamo, basta scostare un lembo di biancheria..."
"Lo ha già visto Jim, non voglio che tutti ti vedano. "
"L'esclusiva ce l'hai solo tu." Ammiccai, facendolo arrossire. Ma la sua reazione era esagerata, dato che neanche io mi sarei spinta tanto oltre. La scritta 'Perfect' non era poi così vicina alla mia intimità, e Pierre lo sapeva. Per un motivo a me oscuro, teneva a precisare qualcosa che all'evidenza non era così. Ci dirigemmo verso l'auto, e lì gli chiesi di farmi guidare. Assicuratosi che non sarei andata da Dave, mi lasciò fare, tenendo, però, lo sguardo fisso sulla strada. 
"Dai tuoi conviene andare tra qualche giorno, quando il rossore sarà sparito e tu potrai camminare come un comune mortale." Propose, trovandomi d'accordo. Se i miei avessero saputo che avevo violato il mio corpo, mi avrebbero linciata. Poi data in pasto ai cani randagi. Arrivati a casa, prima che potessi varcare la soglia della porta - ormai dormivo da mesi, da quando era partito, dato che i miei genitori si erano appropriati di casa mia - mi prese tra le sue braccia, sorprendendomi. "Faccio pratica." Affermò, sorridendo. Sentii un tuffo al cuore, e il respiro si fece irregolare. Non poteva dirmi certe cose senza prima pensare che avrei potuto avere un qualsiasi tipo di attacco soltanto nel pensare che noi due potessimo stare insieme per l'eternità. Era quello che desideravo, ma al tempo stesso dovevo rispettare i suoi tempi. Non ero una tipa da tradizione: se non fossi più riuscita ad aspettare, sarei stata io a chiederglielo. Ma sapevo che ora come ora il momento era estremamente sbagliato. Stava per avere una figlia, era in guerra con i miei ed era appena tornato da un tour che lo aveva tenuto impegnato tutta l'estate. Quanto mi fosse mancato...No, lo sapevo io e basta. Quando era tornato, mi ero appiccicata a lui e lo avevo bloccato in camera per giorni interi. Poi era arrivato il momento per me di andare a lavoro, e per lui di dedicarsi alla band. 
"Ti amo, lo sai? " Affermai. 
"Ora sì." Nonostante il fatto stessimo insieme da molto, non glielo avevo mai detto esplicitamente. Non mi ero mai sentita tanto spontanea con qualcuno ed essere sincera su una questione tanto importante era per me fondamentale. E lui lo sapeva, dato che quando mi baciò, sembrò più prorompente del solito. Riuscii a tenere il ritmo per il solo fatto che ogni volta - seppur questa fosse più enfatizzata - lui era travolgente. Era un idiota travolgente. 

Pierre p.o.v
Guardai l'ora, chiedendomi cosa stesse facendo di sopra. Non era ancora arrivato il momento di andare, pertanto non era in ritardo. Ma fatto stava che aspettare era noioso. 
"Ahi!" 
"Cosa c'è?" Gridai, per farmi sentire. 
"Le scarpe...la pelle tira, e fa male." Feci per salire di sopra, ma lei mi fermò con la sua sola voce. 
"Ma perché non ti limiti a indossare un paio di jeans?" Domandai, fermo sulle scale. 
"Perché è una cena ufficiale con i tuoi genitori e non voglio essere la solita sciatta." Rispose. La sentii camminare verso il pianerottolo. Quando spuntò dalla camera da letto, restai...no, impossibile. Era bellissima anche in tuta, ma in quel momento aveva superato ogni limite. Quel vestito azzurro lungo fino al ginocchio le faceva risaltare la carnagione e i capelli scuri. Scese lentamente, avvicinandosi a me. Solo allora mi resi conto che digrignava i denti per il dolore.
"Hai superato te stesso, Bouvier." Mormorò, baciandomi. Fui cauto nell'avvicinarmi a lei, timoroso di farle del male con la mia solita negligenza. Quello era il suo modo di farmi capire che aveva carpito il mio complimento. Le presi la mano e chiusi la porta di casa, andando poi a prendere l'auto. L'aiutai a salire, poi, dopo essermi aggiustato la giacca, entrai al posto del conducente. Durante tutto il tragitto pensai a cosa avrebbero detto i miei una volta conosciutala come mia ragazza. Al più presto, pensai, avrei voluto presentarla come mia fidanzata. Ma era troppo presto. La certezza che anche lei desiderasse lo stesso non ce l'avevo, e non volevo perderla. Arrivati a destinazione, le intimai di aspettarmi mentre mettevo l'auto nel vialetto di casa. Ma come se mia madre avesse avuto una sorta di sesto senso, si catapultò fuori e corse ad abbracciarla. 
"Ah, Samantha! Come sono felice di rivederti!" Ebbi paura di dover intervenire, ma lei parve cavarsela. Sembrò...farle piacere.
"Lo è anche per me, signora Bouvier. "
"Chiamami Louise." Annuì, poi mia madre mi venne incontro. "Scrive ancora per la Montréal Gazette?" Mi sussurrò, sorridendo ancora a Sam.
"Sì, mamma."
"E' una giornalista..."
"E' un critico letterario. Non scriverà nulla su di noi." La rassicurai. Sembrò calmarsi, sicché ci condusse all'interno. Si sentiva già il solito odore di carne, tipico di quel periodo. "Amo il ringraziamento canadese." Decretai, salutando Jay. 
"Tu ami ogni festività. L'importante è che si mangi." Disse lui, acido e sarcastico al tempo stesso. Gli ripresentai Samantha, che sembrava essere lievemente a disagio.
"Fratellino.." Mi voltai di scatto, trovandomi Jonathan dinanzi agli occhi. Non potevo crederci. Gli saltai addosso, stringendolo forte. Era da tanto, troppo tempo che non lo vedevo. Non esitai a fargli conoscere Sam; l'apprezzò tantissimo. La ringraziai per il fatto che piacesse così tanto a tutti. Era rassicurante.
"A tavola!" Gli uomini della famiglia si misero a sedere tutti alla destra di mio padre, il quale confessò di voler tenere Sam di fronte. Lui e le sue fisse. Intanto la mamma e Sam si occuparono di portare i piatti in tavola. Avrei dovuto avere la decenza di aiutare, ma ero troppo preso dalla conversazione con i miei fratelli.
"Un'onda di quindici metri...Wow..." Sognai, ad occhi aperti. Avrei voluto tornare in spiaggia per provare ancora una volta. Forse, un giorno. Ora dovevo occuparmi del tour, che stava quasi per iniziare. Australia, Canada, Europa...E poi c'era la nascita di mia figlia. A breve sarei diventato padre. 
"Avete già scelto il nome?" Mio padre parve interpretare i miei pensieri. Scossi il capo, rendendomi conto che erano settimane che non sentivo Lachelle. "Manca poco..."
"Lo so, papà. Mangiamo?" 
"D'accordo." Incrociai lo sguardo di Samantha. Mi stava sorridendo.
Mi è venuta voglia di fare un tatuaggio. Ma preferirei "Me against the world", la mia canzone preferita. Sarebbe fantastico. Okay, smetto di sognare. Grazie ancora per le recensioni, grazie a voi che seguite e preferite la storia! Sta per giungere al termine, promesso! Sì, sarebbe andato tutto bene. 

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Capitolo 26
*** XXV. ***


Welcome to my life.
 













<< Be', effettivamente sì. >> Affermai, tenendo lo sguardo fisso su quella fotografia. Era così dannatamente familiare quell'atmosfera; mi sembrava di sentirmi inutile.
<< Pierre, sei dimagrito troppo. >> Affermò Louise, guardando suo figlio, che, nel frattempo, si era tolto la giacca, rimanendo con la sua camicia blu. Mio Dio. Ancora non mi ero abituata, non ero mai abbastanza pronta per lui. Da quando lo avevo conosciuto, aveva tagliato i capelli, sembrava essere più alto ed era tremila volte più bello. Come aveva potuto lui migliorare tanto e lasciare me così indecente? Smettila di farti complessi. Scossi il capo e tornai all'album di fotografie, cercando di capire cosa stessero facendo Pierre e suo fratello su quella barca, quando aveva circa sette anni. Aveva una faccia buffa ed era meravigliosamente innocente. Lo sguardo cadde sul suo braccio senza tatuaggio: non lo avrei riconosciuto, senza, sebbene da ragazzina ascoltassi le canzoni dei ragazzi.
<< L'unica foto che ho di te da piccola, è quella della fragolina. >> Avvampai violentemente quando me lo ricordò, mettendosi a sedere accanto a me.
Era stato un momento decisamente imbarazzante.
<< Come fai ad averla? Non l'hai neanche mai... >>
<< Ti sbagli, >> mi interruppe << me l'ha data Leah. Eri minuscola. Quanti anni avevi? >> Nascosi il volto tra le mani e mormorai qualcosa che neanche io riuscii a comprendere.
<< Un anno e mezzo. >> Dissi infine, sospirando. Ad un tratto sentii il suo braccio sulla mia spalla; mi avvicinò a lui, e mi scoccò un bacio sulla fronte, stringendomi.
<< Mia madre mi ha appena messo in ridicolo con la mia infanzia, ora subisci. >> Risi, iniziando improvvisamente a tremare. Mi ero appena resa conto che eravamo soli. Mi succedeva sempre, ogni qualvolta lui mi abbracciava e in casa eravamo solo io e lui. Anche quando eravamo amici. Solo che, in quel caso, non sapevo perché mi sentissi così. Si alzò dal divano, e continuando a guardarmi, mi chiese di tornare a casa. Solo qualche istante dopo lessi nei suoi occhi qualcosa che mi fece completamente sciogliere. Cercai di dire qualcosa, ma non vi riuscii. Ero un'impedita, e stare con lui mi rendeva ancora peggio. Pierre mi faceva male, e questo lo sapevamo entrambi. Ma era un male che avrei potuto sopportare, e mai avrei voluto combattere; se sentirmi così era il prezzo da pagare per vivere insieme a lui, ero ben felice di stare in quel modo. 
<< Vado a salutare i tuoi. Torno subito. >> Affermai, affrettandomi. Nel frattempo, lui si recò fuori a prendere l'auto. Mi diressi in cucina, trovando l'intera famiglia intorno al banco. La madre di Pierre mi abbracciò, chiedendomi di portare una parte di torta per l'indomani, e i fratelli ammiccarono più volte, facendomi arrossire come mai prima d'ora. Chissà se Pierre parlava loro della nostra vita...No, improbabile. O forse sì. Dubbi, dannati dubbi. Uscii di casa, e non appena fui sotto il porticato, mi chinai e tolsi le scarpe. Ero distrutta. Raggiunsi l'auto e mi accasciai sul sedile, cercando di riposarmi fino al nostro rientro. Presi la mano di Pierre, stringendola, ma lasciandola andare non appena mi resi conto che effettivamente stava guidando e rimasi in silenzio fino a quando non giungemmo di fronte al vialetto di casa. Lì, intimandogli di fermarsi, scesi dall'automobile e percorsi il breve tratto fino alla porta. Inserii la chiave nella toppa e provai a girare, ma senza che me ne potessi rendere conto, trovai il mio corpo schiacciato contro la superficie di pietra del muro.
<< Pierre, che... >> Quasi non morii a causa della forza con la quale spinse il mio capo nel muro; ma il fatto che le sue mani spingessero il mio corpo contro il suo e le sue labbra premessero affinchè dessi alle mie il permesso di aprirsi, fecero passare tutto in secondo piano. Mi lasciai andare, aiutandomi con la parete ad avvolgere le gambe intorno alla sua vita. Riuscì ad aprire la porta di casa, quando sentii la sua tasca vibrare. In un primo momento nessuno dei due ci fece caso, e difatti ad un certo punto smise. Stringendomi ancora e continuando a baciarmi cercò di salire le scale, senza inciampare.
<< Dannazione! >> Affermò, facendomi scendere e rispondendo irato al cellulare. << Pronto?! >> Nel frattempo cercai di riprendere un colorito normale. No, non mi sarei mai abituata. << Arrivo. >>
<< Cosa succede? >> Chiesi, vedendolo ansioso.
<< Devo andare. Lachelle. Ti chiamo dopo. >> Lo guardai allontanarsi e sparire dietro la porta. Scivolai lungo la parete, portando le ginocchia al petto. Era arrivato il momento?
 
Pierre p.o.v
Evitai più volte auto e passanti, e sfrecciai verso l'ospedale. Mancava poco, davvero poco. Lasciai che la gente imprecasse, pensando solo a ciò che a breve sarebbe accaduto. Mia figlia. Mia figlia stava per nascere. Passai con il rosso, importandomene davvero poco della multa che ne sarebbe derivata e giunsi a destinazione. Lasciai l'auto accanto al marciapiede e corsi verso l'entrata, chiedendo di Farrar. Datomi il numero della stanza, mi affrettai a raggiungerla, senza pensare a cosa avrei potuto dire, anche ai suoi genitori. Spalancai la porta e la vidi, dolorante. Era già in travaglio.
<< Pierre! >> Gridò, contorcendosi. Mi avvicinai al letto e istintivamente le presi la mano, cercando di infondere coraggio tanto a lei quanto a me. Ero spaventato a morte.
<< Sono qui, sta calma. Respira. >> Sì, respira anche tu, Pierre. Un, due, un, due.
Qualche istante dopo fece il suo ingresso l'ostetrica, per controllare la "dilatazione" e verificare che fosse tutto in ordine per procedere.
<< E' pronta. >> Lachelle non aveva voluto fare l'epidurale; voleva un vero e proprio parto naturale, sofferenze e conseguenze comprese. Non avevo inizialmente condiviso tale scelta, ma infondo il corpo era il suo: nulla potevo contro le sue decisioni, e in anni di frequentazione lo avevo imparato e anche accettato.
Le allargarono le gambe, coprendole con un lenzuolo. Nel frattempo varie infermiere si sistemarono intorno al medico per assisterla durante l'operazione. Si armarono di guanti in lattice e stetoscopi. Era tutto vero, e ancora non ci credevo.
<< Pierre, non andartene. >> Guardai i suoi occhi, rossi e pieni di lacrime. Stava soffrendo, non potevo rischiare di dire qualcosa di sbagliato. Mi limitai ad annuire. Prese a spingere, stringendomi ogni volta sempre più forte. Gridava, si contraeva...non avrei mai potuto comprendere ciò che stava provando, eppure si diceva quello fosse il dolore più bello.
<< Lach, prova a respirare più a fondo. >> Suggerii, fissandola. Incrociò il mio sguardo; parve voler ribattere, voler ribadire che ce la stava mettendo tutta, ma dopo un po' mi diede retta. Le asciugai la fronte imperlata di sudore e gliela baciai, istintivamente. Mi resi conto di quello che avevo fatto troppo tardi. Nessuno dei due ebbe il coraggio di dire qualcosa, data la situazione poco atta ad accogliere discorsi sulla nostra relazione finita. La madre mi lanciò uno sguardo d'intesa, e annuii: prima di tutto, Lachelle e la bambina. Varie spinte dopo, l'ostetrica affermò di aver visto la testa : l'ansia crebbe. L'infermiera intimò a Lachelle di fare un ultimo, definito sforzo. Proprio come lei, sentii di stare per vomitare. Ad un tratto, udimmo urla infantili e pianti sommessi. Santo cielo. 

Era nata.




Okay, questo "capitolo" non è particolarmente lungo. Ma in ambito letterario, potrei definirlo "capitolo cerniera". Praticamente mi serve per arrivare all'ultima parte... Un altro po' di sofferenza e vi lascerò in pace, promesso.

Lisa.

P.S Grazie ancora, grazie **

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Capitolo 27
*** XXVI. ***


This is goodbye, one last time.












 









 

Era passato un mese da quella notte. Anne* era bellissima, la sua innocenza aveva conquistato tutti. Anche i miei genitori. Avevano insistito per vederla, e Pierre aveva concesso loro il permesso, con grande gioia. Lachelle stava benissimo, aveva già iniziato a perdere peso, il suo colorito era quello di sempre e sembrava essere diventata addirittura più bella.  Continuai a cullarla tra le mie braccia, cantandole la ninna nanna che mia nonna era solita suonarmi da bambina, quando a causa della mancanza dei miei, non riuscivo a chiudere occhio. Sorrideva, mostrando le gengive arrossate, e gli occhi ancora inesperti. La dolcezza.
Le baciai la fronte, dopo essere finalmente riuscita a farla addormentare, e tornai di sotto. Tuttavia, fui costretta a fermarmi, udendo le voci dei genitori di Lachelle in salotto, intenti a discutere animatamente nonostante nella stanza di fianco ci fossero Pierre e la figlia. Non avrei dovuto origliare, ma non fui capace di evitarlo: parlavano di lui. Cercai di combattere contro l'istinto di ascoltare, ma non riuscii nell'impresa. Mi arresi. 
<< Pierre la metterà sempre al primo posto. >> Sorrisi, immaginando, ancora una volta, Anne tra le sue braccia. Erano la cosa più bella che ci fosse. << A breve, se continuano a vedersi così frequentemente, sono certo torneranno insieme. >> Ebbi un sussulto, rendendomi conto che non stavano affatto parlando della bambina.
<< Non lo so, lo vedo molto legato a quella ragazza. >> Vidi l'uomo scuotere il capo.
<< No. Ora ha una figlia, la cotta per Gordon gli passerà a breve. E poi Pierre ha promesso. >> Preferii non infierire ulteriormente, recandomi verso l'appendiabiti e afferrando la giacca con forza. I due mi guardarono straniti, ma rivolsi loro semplicemente un sorriso e uscii di casa, senza Pierre. Sarei tornata a piedi. Gli inviai un messaggio, informandolo che c'era un servizio urgente da sbrigare in ufficio.  
Pierre aveva promesso. 
Pierre aveva promesso.
Pierre aveva promesso.
Non riuscivo a pensare ad altro. Eppure, mi scoprii tanto egoista; Anne e Lachelle avevano bisogno di lui, molto più di quanto non ne avessi io. Mi avevano accolta felicemente il giorno dopo la nascita della bambina, mostrandomela e lasciandomela tenere tutto il tempo che desideravo. Avrei dovuto pensare già da quel momento che forse, probabilmente, il posto di Pierre era accanto a loro, sin dall'inizio. Avrei dovuto lasciarlo andare?
Sì, forse avrei dovuto.

Pierre p.o.v

<< Lachelle...Devo raggiungere i ragazzi. Se hai bisogno, chiamami, okay? >> 
<< Non preoccuparti. >> Affermò, sorridendo. La salutai un'ultima volta, prima di prendere l'auto e recarmi agli studi di registrazione. A breve avrebbe avuto luogo una riunione per discutere le date del tour. Al primo semaforo cercai di chiamare Samantha, ricevendo, tuttavia, come risposta, la voce della segreteria telefonica. Debole e meccanica. Lanciai l'oggetto sul sedile accanto al mio e continuai a guidare fino a destinazione. Accanto alla porta, David. Gli altri non erano ancora arrivati? Parcheggiai non molto distante dall'edificio e mi affrettai a raggiungere il bassista, apparentemente ansioso e trepidante. Il suo volto serio, lasciava intendere che non ci fosse qualcosa di buono. Lo guardai, inarcando un sopracciglio.
<< Cosa mi sono perso? >> Chiese, fissandomi. Ritrassi il capo, domandandomi cosa intendesse. << Sono passato a casa tua. C'era l'auto dei genitori di Samantha. >>
<< Ci siamo avvicinati, credo. >> Confessai, ricordando una cena tenuta con loro nel vecchio appartamento di Samantha. Leah era sembrata particolarmente nervosa, ma soprattutto scocciata per il fatto che dovesse ospitarli ancora a lungo. Lei e Jack non riuscivano più a vivere, praticamente. Risi, pensando alla faccia del mio amico. 
<< Non mi hai capito. >> Mi afferrò per un braccio e mi costrinse a guardarlo negli occhi. << C'era l'auto dei genitori di Samantha. E Sam era seduta dietro. >> 
<< Non riesco a seguirti, Dave. Sarà andata a fare un giro con loro. >> Trovai quella tesi particolarmente improbabile solo quando ricordai che mi aveva chiesto di tornare più tardi perché doveva recarsi in ufficio per sbrigare delle faccende. In teoria, non avrebbe dovuto trovarsi lì. Perché mi aveva mentito, allora? Arretrai, terrorizzato. << Spero non sia vero. >> Mormorai, prima di correre verso l'auto, seguito da David. Feci velocemente marcia indietro, rischiando di investire un pedone intento ad attraversare la strada, e accelerai, dirigendomi verso casa. Imprecai più volte, costretto ogni volta a fermarmi ad un semaforo rosso. Dave stava cercando di calmarmi, ma solo constatare che Sam fosse ancora in casa avrebbe potuto mettere fine a quel turbamento. Forse erano semplicemente passati a prenderla a lavoro, l'avevano riaccompagnata. Ma avevo uno strano presentimento, una sensazione terribile che mi stava attanagliando lo stomaco. Raggiunsi il nostro quartiere e sterzai violentemente a destra, trovandomi fuori il nostro garage. Nostro. Nostro. Non volevo diventasse di nuovo mio. Le luci erano spente, le tende tirate. No, no! Inserii la chiave nella toppa, facendola girare e mi catapultai dentro, chiamandola più volte. Nulla. La prima cosa che feci fu chiamare Leah. 
<< No, qui non è passata. Però i genitori sono andati via, il che è un buon segno. >> 
<< No, Leah, non lo è. >> Terminai la conversazione, tornando in cucina. Mi misi a sedere, portando la testa tra le braccia. Non era possibile, non era vero. Provai a richiamarla, ma udii solo il fastidioso rumore di uno squillo. Sollevai lo sguardo sul frigorifero. 
<< Pierre... >> Sentii la mano di David posarsi sulla mia spalla. << Forse non è come sembra. >>
<< Ah, no, David? No? E questo come lo spieghi? >> Mi allungai verso la superficie metallica, staccando un post it. Il mio amico si allontanò, lasciandomi adito di leggere da solo. 

Non è giusto, non lo è affatto. Non posso privarti di ciò che hai sempre desiderato, detesterei me stessa più di quanto già non faccia.
Amarti è stata...no, è la cosa più bella che mi sia mai accaduta, e sono sicura che nonostante tutto riuscirai a perdonarmi. Sono io
che non lo farò. Però, forse, saperti con la madre di tua figlia e tua figlia stessa, riuscirà a colmare in parte il vuoto che si verrà a creare.
Non odiarmi, lo sentirei. 

Sam.


Accartocciai il foglio giallo e lo gettai sul bancone. Se n'era andata.
Mi aveva lasciato.
<< Hai intenzione di andarla a prendere? >> Volsi lo sguardo verso David. Samantha. Non c'era più. Quella casa sembrava più vuota, così insensata. Lasciai che i minuti passassero, che le voci si perdessero nel silenzio creatosi in seguito alla domanda postami dal mio amico. Cos'avevo intenzione di fare? Non mi sembrava di avere molta scelta, nonostante tutto. Non potevo fingere che, fosse stato per me, avrei preso il primo aereo per Boston per anticiparla. Per riportarla a casa prima che potesse mettere piede nella sua residenza. Prima che i genitori me la portassero via definitivamente. Prima che tornasse da Ben. Ero certo lo avrebbe fatto, date le volontà dei suoi. Cosa non faceva per rendere felici gli altri? In quel momento, detestai profondamente quella sua parte tanto altruista. Come poteva pensare di fare il mio bene andandosene? D'altro canto, avrei dovuto immaginarlo. Era pur sempre Samantha. La conoscevo da anni, avrei dovuto immaginare che un giorno avrebbe fatto i bagagli e se ne sarebbe andata; lei era così. Lasciava il segno e partiva. 
Ora la mia, più che un segno, sembrava essere una ferita.
Lei solo avrebbe potuto cicatrizzarla. 
<< No. >> 


 

*Tanti rumors che affermano che Anne non sia il suo vero nome e bla, bla, bla. Qualunque esso sia, quel che conta è la bambina. Anne o no, è una Pierre Production (?) 
Lasciamo perdere D: 


Colpo di scena anche per ME! Mi sentivo negativamente ispirata, ecco. 

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Capitolo 28
*** XXVII. ***


Siamo io e te, e tutti gli altri senza nulla da fare, 
nulla da perdere. Siamo io e te e non so perché
non riesco a toglierti gli occhi di dosso.

You and me - Lifehouse













Sollevai il capo per cercare di vedere chi mi stesse salutando oltre la visiera del cappello. Ricambiai, riconoscendo il signor Johnson, salvo poi tornare alle fresie che ero sul punto di piantare in giardino. Presi un bocciolo tra le dita e lo annusai: non aveva ancora quel profumo estasiante che un fiore della sua specie, da adulto, emanava. Ad una ad una inserii in piccole fossette tutte le piantine, bagnando poi il terreno con acqua quanto bastava. Inspirai a fondo. Espirai. Guardai casa mia. Un edificio di due piani, molto simile alla casa in cui stavo con Pierre. In un modo particolare, non avevo voluto allontanarmi da un passato che mai avrei voluto diventasse tale. Provai un moto di nostalgia, che repressi per poi dirigermi in cucina per preparare la cena. Era quella la vita che mi ero scelta, da un anno a quella parte. Raccolsi del cibo dal frigorifero e cercai di mettere insieme qualche ingrediente per una semplice insalata di pollo, dopodichè scesi in cantina per prendere del vino. Lui non cenava, se non c'era del vino in tavola. Presi una delle cinque bottiglie di rosso che ci aveva regalato suo padre e tornai di sopra, per metterla in un luogo fresco. Non gli piaceva freddo. E neanche caldo. Mentre il pollo coceva, gli occhi caddero sul telefono affisso alla parete; l'ultima volta che aveva squillato per una persona lontana, era stato due mesi prima. Mi ero resa conto che continuare a parlare con David come se nulla fosse non avrebbe portato nessuno da qualche parte. Continuavo a sentire la voce di Pierre, e sapevo bene quanto lui fosse consapevole del fatto che dall'altra parte della cornetta ci fossi io. E la sua indifferenza faceva male. Sicché, avevo pensato di dover chiudere per sempre le comunicazioni con Dave; lui non si era opposto. Gli ultimi mesi li avevano trascorsi in Europa. Avevo fatto un salto su Twitter soltanto per leggere delle reazioni dei fan, entusiasti come non mai di tutte le esibizioni. Quanto mi piaceva farmi del male.
Ma, diamine, quanto mi mancava.
 
<< La cena è in tavola, Benjamin! >> Sentii un rumore di passi farsi sempre più forte, fino a quando non figurò la sua persona accanto alla porta.
<< Insalata di pollo. Grande. >> Da quando eravamo tornati insieme non avevamo parlato più di tanto. Non mi aveva neanche chiesto di nuovo di sposarlo; si era limitato a prendere una casa, che, però, aveva lasciato scegliere a me. Non c'era dialogo, ed ero certa che sarebbe andata avanti così per altri anni, fino a quando uno dei due non si fosse deciso a metter fine a tutto ciò. Io non lo volevo. Per ora mi concentravo sul lavoro. Scrivevo ancora per la Montreal Gazette, inviando le recensioni per e-mail, almeno un paio di volte a settimana. Talvolta ero costretta a lavorare su più recensioni per poter avere poi un po' di tempo da dedicare a me stessa. Ma mi andava bene così, mi impediva di pensare che la mia vita ormai non valesse più nulla.
<< Domani devo partire. Tu puoi stare qui un paio di giorni, no? >>
Riportai a galla il discorso per l'ennesima volta, certa che prima o poi avrebbe dovuto darmi una conferma. Annuì, bevendo il terzo bicchiere di vino e riportando gli occhi nel piatto, vuoto.
<< Vediamo se torni. >>
 
Pierre p.o.v


Gettai le ultime cose in valigia e la consegnai al fattorino. Mi diressi in camera di Dave, e con un calcio abbastanza forte spalancai la porta facendolo sobbalzare.
<> Gridai, scoprendolo completamente. Si rannicchiò, accovacciandosi su se stesso e lamentandosi. << New York City ci attende! >>
<< E’ una città, non potrebbe muoversi! >> Ignorai la sua stupida constatazione e iniziai a mettere le sue cose su una sedia; avrebbe fatto prima. Anche Seb entrò, portando con sé la chitarra.
<< Banana, alzati! >> Banana. Giusto. Ne presi una dal cesto della frutta accanto al suo comodino e la sbucciai, mettendogliela poi sotto il naso. Seguì l’odore fino a quando non si trovò seduto.
<< Carenza di potassio! Dammela! >> L’afferrò avidamente e la mangiò. Bene, aveva fatto anche colazione.
<< Nascondiamogli le mutande. >> Propose Sebastien mentre il nostro amico era sotto la doccia. Con un sorriso complice, consegnammo i suoi bagagli al fattorino e gli lasciammo soltanto pantaloni, felpa, giacca, calzini e scarpe. Uscimmo dalla stanza e ci dirigemmo nella hall, aspettando con ansia che Dave ci raggiungesse. Stavo morendo dalla curiosità di vedere come avrebbe reagito.
<< Bouvier, hai già chiamato casa? >> Mi prese in giro Chuck, spintonandomi. Gli feci il verso, fingendo di non aver compreso bene cosa avesse detto. Non riuscivo a non pensare ad Anne, purtuttavia i miei amici erano convinti che io pensassi a Lachelle. Non ero tornato con lei come Samantha si aspettava facessi dopo la sua partenza. Partenza. Non mi piaceva chiamarla fuga. Forse perché ancora speravo tornasse. I miei pensieri furono interrotti dall’arrivo – quasi claudicante – del mio amico. Trattenni una possente risata e con nonchalance mi diressi con gli altri in taxi.
<< Ho dimenticato le mutande in valigia, mi sa. >> Affermò il bassista, iniziando a dimenarsi per trovare una posizione abbastanza comoda fino all’arrivo in aeroporto. << Meno male che NY è vicina. >>
<< Sì, meno male. >> Schiacciai silenziosamente il cinque a Seb, che intanto poteva tranquillamente ridersela, essendo seduto sul sedile anteriore. Durante il tragitto, proposi quello stupido giochetto che eravamo soliti fare nel tour bus, per passare il tempo; ancora funzionava. Era sempre divertente.
Fatto il check-in, ci imbarcammo; Dave ancora si contorceva. L’hostess gli chiese se desiderasse un cuscino, o qualcosa per stare più comodo. Lì per lì non ci vidi più. Scoppiai in una fragorosa risata che coinvolse tutti gli altri membri della band e incuriosì gli altri passeggeri. David mi fissava stranito, sicché mi vidi costretto, anche per senso di colpa, a confessargli tutto.
<< Hai trentatré anni suonati e ancora fai scherzi del ca… >> notò la presenza di una bambina << cavolo. E tu Seb…me la pagherai. >>
<< Suvvia, non ti senti più libero? >> Mormorò Seb, ridendo.
<< E’ come fare sesso senza preservativo, ammettilo. >> Sussurrai, perché mi sentisse solo lui. Ammiccò, e avvicinò la mano al mio volto; prima di sferrarmi un pugno abbastanza forte da farmi vedere le stelle. Immaginai di avere la mascella slogata, dato che non riuscivo a parlare correttamente, ma quando atterrammo tutto sembrò tornare alla normalità. Io e Sebastien decidemmo di chiedergli scusa.
<< Perdonati. Anche perché ho vomitato sulle vostre scarpe la scorsa notte. >> Affermò, ricordandomi il nauseante avvenimento. Continuammo a camminare, quando improvvisamente lo vedemmo correre. Si fermò di scatto dinanzi all’entrata, si voltò e gridò: << Però avete ragione! Il mio amico si sente libero! >> Io, Jeff, Seb e Chuck avvampammo, nascondendo i nostri volti e fingendo di non aver sentito, e lo raggiungemmo, tenendolo sempre a debita distanza. Proprio per rimanere nella più completa “latitanza”, ad attenderci c’era un’auto sulla cui portiera c’era il nostro logo. Inarcai un sopracciglio, titubante; che segretezza. Durante il piccolo viaggio che compimmo fino all’albergo, cercai di non pensare alle solite cose. Dovevo distrarmi, e la musica era un ottimo espediente. Scivolai sul sedile e chiusi gli occhi, riavvolgendo nella mia mente il film che avevano costituito quegli ultimi tredici mesi. Anne aveva compiuto un anno, e, sia io che Lachelle, stentavamo a credere a cosa avesse detto quando aveva cercato di soffiare sulle candeline: “zia Sa.” Emetteva ancora strani versi nel tentare di parlare, e oltre alle parole “mamma”, “papà”, “quello” e “fame”, conosceva solo quelle. Eppure, lei, Sam l’aveva vista quando era ancora piccolissima. Non poteva ricordarsi. Ed infatti, era stato Dave, durante una delle sue solite chiacchierate con lei. Spesso gli capitava di tenere in braccio Anne e di essere anche al telefono con Samantha. A volte si parlavano, anche.
<< Com’è che non l’hai più sentita? >> Mi trovai a chiedere, pentendomene subito. Per i miei amici quella con lei era una cosa bella e passata.
<< Chi? >> Dave parve incerto, ma dal mio sguardo comprese a chi mi riferissi. << Ah, lei. Ha preferito chiudere i contatti. >>
<< Non ti ha spiegato perché? >>
<< Perché pagava bollette troppo care. >> Scherzò, fissandomi ironico. << Secondo te? >>
<< Mhn...>> Proseguimmo il viaggio in silenzio, cercando di non pensare ad altro che all’esibizione della sera dopo.
Quando arrivammo, aiutai a scaricare i bagagli e a portarli fin su in camera. Dopodichè tornai nella hall per fare il check in completo e avere le stanze assicurate per due notti. Presi l’ascensore e tranquillamente attesi che arrivasse al piano terra; quella musichetta classica mi stendeva i nervi incredibilmente. Iniziai a poco a poco a riprenderne il sound, canticchiando, per poi rendermi conto che non fossi solo. Rivolsi un sorriso imbarazzato alla donna al mio fianco, la quale ricambiò. Inquietante quel cappotto rosa. Al suono della campanella, capii che eravamo arrivati. Uscii con calma e mi sollevai il cappuccio della felpa, dirigendomi verso la reception; non c’era nessuno. Richiamai la receptionist all’attenzione e le chiesi i moduli da firmare. La donna di poco prima mi salutò prima di dirigersi verso l’uscita.
<< Oh! >> Alle mie spalle sentii un gridolino. << Ma lei è... >> Mi strinsi nelle spalle, pronto a negare. O a fuggire. Eppure, non aveva riconosciuto me. << Lei è quella famosa critica letteraria. E’ un piacere immenso incontrarla. >>
Sgranai gli occhi.
<< E’ un piacere anche per me, signora. >> Quella voce.
<< Speravo davvero un giorno potessimo incontrarci. Vorrei donarle questo. >> Mentre fingevo di controllare le clausole del contratto, acuii l’udito. << E’ un libro che mi piacerebbe recensisse per dirmi cosa ne pensa. >>
<< Con piacere. Lo farò appena possibile. >> Riuscivo a sentire il suo sorriso imbarazzato e compiaciuto.
<< Grazie, signorina Gordon. >> La sentii allontanarsi. Ma altri passi si fecero più vicini.


Cosa dovevo fare? 





Scusate la lunga (lunghissima, va bene) attesa. Ma la mia vita ormai verte su libri, quaderni, un ragazzo che è più confuso di un menomato di cervello e...tutto quanto. Uccidetemi.
However, grazie a tutti per le recensioni. Mi spronano a scrivere, e per liberare la mente è un bene! Appena posso aggiorno.

Lisa.
 

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Capitolo 29
*** XXVIII. ***


She makes me feel like it's raining outside and when the storm's gone I'm all turn up inside. Blink 182, Story of a lonely guy Non avrei mai pensato che potesse essere così facile innamorarsi. Non avrei mai pensato che lui potesse essere così dannatamente bello. Anche ora, quando nel suo sguardo non c’era che desiderio; nessuna dolcezza. Stretta a lui, gli passai una mano nei capelli, stringendo le dita per sentire ancora quella morbidezza che tanto mi era mancata, così come la sua lingua intrecciata alla mia. Gli mordicchiai il labbro, guardandolo di soppiatto. Quanto era bello. Non riuscivo a pensare, ed era l’unica cosa di cui ero estremamente certa. Eravamo bollenti, e riuscivo a sentirlo anche attraverso i vestiti. << Diamine… >> Lo sentii mormorare, contro le mie labbra. Mi resi conto che non riusciva a trovare la carta magnetica della sua stanza. Continuai a stringerlo, desiderosa che lui facesse lo stesso. Lasciò perdere l’impresa e si avventò nuovamente su di me, passando a baciarmi il collo, fino ad arrivare, lasciando dietro di sé una scia di fuoco, alla clavicola. Sentimmo qualcuno tossicchiare. << Pierre… >> Amavo pronunciare il suo nome, in qualsiasi circostanza ci trovassimo. Ora, era alquanto imbarazzante. Prese a cercare nelle tasche della giacca, poi in quelle dei pantaloni. << Credo di averle dimenticate di sotto dopo il check in. Aspettami. >> Annuii, baciandolo ancora una volta prima che si allontanasse. Com’eravamo potuti arrivare a tanto? Mi sembrava di essere reduce da una notte a base di alcol. Degli ultimi quindici minuti, ricordavo solo la sua stretta intorno alla mia mano e la velocità con cui mi aveva trascinata nell’ascensore. Poi buio, irrazionalità. Mi parve di poter respirare, in quel momento, e riacquistare quel po’ di lucidità che mi permise di valutare i fatti. Dovevo fermarmi. Per quanto mi dolesse farlo, dovevo dare un taglio a quella storia. Non faceva bene né a me né a lui, e far del male ai rispettivi compagni con un tradimento simile non rientrava nei miei – quanto nei suoi, ne ero certa – piani per quel week end lontani da casa, per impegni di lavoro. Scivolai lungo la parete della porta, scostandomi i capelli dal volto: dovevo essere impazzita. Perché quando si trattava di lui non riuscivo a mettere in ordine anche i pensieri più banali? Perché mi sembrava che ogni volta valesse la pena correre il rischio? Lui mi faceva sentire tanto potente verso il mondo, ma al tempo stesso così incerta nei confronti di me stessa. Quando tornò, vidi nel suo sguardo la rassegnazione: anche lui aveva avuto modo di riflettere. Si avvicinò a me lentamente, poggiandosi al muro, con gli occhi bassi. Lo sentii sospirare e quello fu il segnale che aspettavo; si era pentito. Io, nonostante avessi valutato tutto quello che era accaduto come sbagliato, non mi ero pentita. Avevo goduto, e lo avrei fatto anche in futuro, di quel momento. Mi era mancato più di qualsiasi altra cosa. << Che stanza sei? >> Chiese, prendendo la mia valigia. << Cinquecentoventisei. >> Mi limitai a dire, sollevandomi lentamente. Non riuscii a guardarlo. Procedemmo dritto per un frangente di tempo troppo lungo, e, dopo poche stanze, mi resi conto che eravamo vicini. La sua era quattro stanze prima della mia. Lo ringraziai timidamente, infilando la carta magnetica nella serratura, facendola scattare. Con una lieve spallata feci sì che la porta si aprisse, ed entrai, sola. Quando tornai a prendere la valigia, notai, in breve lontananza, una porta chiudersi. Era fuggito.   Pierre p.o.v Cosa mi era preso? Cosa mi era passato per la mente? Era più di un anno che non ci vedevamo, avremmo dovuto comportarci come due perfetti sconosciuti. Invece…c’era mancato poco. Se solo avessi avuto la chiave, ero certo avrei commesso il più grande errore della mia vita. Lanciai la giacca sulla poltrona accanto al letto e mi lasciai cadere su di essa, spossato. Con tutti gli alberghi di New York, ma soprattutto, con tutti i periodi dell’anno, tutte le stanze di quell’albergo, ci eravamo dovuti incontrare. Benché non fossi molto superstizioso, mi sovvenne pensare che il karma mi stesse giocando un brutto scherzo. O forse qualcuno di potente stava cercando di mettere alla prova la mia resistenza. Forse quella non era neanche la reale Samantha. Sam, la mia Sammy. Non più mia, oramai. Leah mi aveva riferito che avesse preso casa con Ben, e che, se non subito, a breve lui le avrebbe chiesto di nuovo di sposarla. Quanto era ingenuo. E lei era una masochista. Come poteva accettare di tornare da un uomo come quello pur di lasciare me e fuggire via? Perché non potevo pensare che lei se ne fosse andata per me; semplicemente, non sopportava la vista di me, Anne e Lachelle. Ero l’unico a pensare che potesse trattarsi di gelosia, sebbene agli inizi l’avessi pensata in modo diverso. Ora mi sembrava essere tutto chiaro; altrimenti non si sarebbe spiegato quel bacio. Istintivamente mi sfiorai le labbra, notando, sulla superficie specchio del guardaroba, l’arrossamento lasciato dai suoi morsi. Chissà se baciava anche quel demente così. Mi piaceva pensare che simili trattamenti li avesse riservati solo a me, sino ad allora. La conoscevo, le sue precedenti relazioni non erano state passionali quanto la nostra. Neanche quella con Ben, l’uomo che stava per sposare, e che avrebbe preso come marito se l’amante di quello non si fosse alzata, nel bel mezzo della cerimonia, per andarlo a baciare. Che situazione ridicola e assurda. Quel che più mi deludeva era il suo comportamento, la sua accettazione; l’aveva tradita, e lei c’era tornata. Dov’era finito il caratterino che utilizzava nelle nostre conversazioni? Sentii bussare alla porta, e per un attimo ebbi il timore che si trattasse di lei. Nonostante il rancore, nulla mi avrebbe fermato dal prenderla e farla mia, quella notte. Ancora una volta. << Pierre, sono David. >> Mi alzai di scatto, ma prima di aprire la porta mi assicurai di non avere segni di alcuno stravolgimento. Quello emotivo potevo tranquillamente nasconderlo. << Hai mangiato gelato? >> << Perché? >> Capii il motivo della sua domanda solo dopo averne posta un’altra. Preso dall’imbarazzo, annuii, facendolo entrare. Si accomodò sul letto, invitandomi a sedermi di fronte a lui. Quando lo feci, evitai il suo sguardo; perché ero così debole? << Hai saputo chi c’è in albergo? >> Sgranai gli occhi, ma evitai di parlare in quanto sarei riuscito solo a balbettare. Ergo, Dave avrebbe capito tutto. << Vanessa Diffenbaugh. L’autrice de “Il linguaggio segreto dei fiori.”>> Finsi entusiasmo, collegando ora il motivo per cui Sam fosse qui. << Leggi romanzi simili? >> Lo buttai sullo scherzo, senza rendermi conto che in realtà Dave sapeva benissimo che lo avessi letto anche io. Tutta colpa della sua recensione perfetta. << E’ una delle autrici che lei recensiva più volentieri; ha promosso il suo libro anche in Canada. >> Perché la stava elogiando? Che avesse capito che lei era qui? Non avrei sputato il rospo, benché gracchiasse insistentemente per trovare libertà. Serrai le labbra. << L’ho incontrata nella hall. E’ una bella donna. >> << David, è sposata. Il suo libro si basa sulla forza dell’amore materno, tanto biologico quanto non. Dunque ha dei figli. >> Lo rimproverai. << Calma, mammina. Non ho intenzione di farci nulla. Solo…ci sono tanti recensori in giro per l’albergo, tanti giornalisti. >> << Quindi? >> << Di’ un po’, hai per caso le mestruazioni? >> Affermò, ironico. Mi resi conto della mia acidità troppo tardi. Se non avessi parlato, lo avrei comunque spinto a credere che qualcosa fosse successo. David uno dei miei migliori amici, se ne sarebbe reso conto a breve. Scivolai sulla poltrona, chiudendo gli occhi. << Le donne non sono sempre nervose, quando hanno le loro cose. >> Dichiarai, deciso. << Sam docet. >> Sussultai. << Andiamo, si sentirebbe il suo zampino in questa affermazione anche a chilometri di distanza. >> Disse, scoppiando a ridere. Lui non poteva sapere che mi ero arreso, gli avevo promesso che sarei stato forte e gli avevo giurato che non l’avrei più cercata, non l’avrei più toccata. E lui aveva chiuso la loro amicizia per darmi una mano. Io avevo distrutto la loro amicizia e il minimo che potessi fare era tener fede alla parola data. << Sì, è vero. >> Dissi solo, sollevandomi e stiracchiandomi. << Andiamo a prendere qualcosa da bere? Ho la gola secca. >> Assentì, sicché afferrai giacca e portafogli e lo invitai ad uscire per primo. Chiusi la porta alle mie spalle, e istintivamente lanciai uno sguardo a quella della diretta interessata del discorso di poco prima; era serrata. Raggiunsi Dave accanto all’ascensore, e nello specchio riuscii a scorgere ancora rossore intorno e sulle mie labbra. Segno che lei era passata. Segno che lei mi aveva marchiato. Mi persi nel contare i pochi piani che ci separavano dalla hall, e quando la luce gialla si accese sulla “T”, sospirai. Eravamo arrivati. Ci dirigemmo al piano bar, e sperai che avessero qualcosa di forte. << Siamo in un hotel a cinque stelle, avrò pure il diritto di prendere un gin, non credi? >> Fece spallucce, arreso. Bevanda così popolare, ma così dannatamente forte. Al quinto giro, mi sentivo già meglio. O forse, avevo perso un po’ di lucidità. David mi guardò. << Era buono il gelato? >> Chiese, improvvisamente. Inarcai un sopracciglio, chiedendomi perché gli importasse così tanto. << C’è un motivo per cui...? >> Lasciai cadere la frase, notando il suo sguardo perso sul fondo del bicchiere. Una ciocca di capelli gli cadeva dinanzi agli occhi. << E dimmi, >> disse, voltandosi a guardarmi << com’è il gusto Samantha? >>    Eccomi! Scusate la lunga attesa, ancora una volta, ma la scuola mi ha tolto tempo e vita. Ora è finita e le mie dita fremono dalla voglia di digitare. Sono grata a tutte coloro che hanno recensito la storia, che l'hanno gradita, messa tra i preferiti e le seguite. Insomma, vi amo. Aggiornerò al più presto, anche perché in questo momento mi sento esattamente come Pierre e Sam: distrutta. Non voglio annoiare nessuno con la mia vita sentimentale, quindi...alla prossima! Si spera, io per prima fidatevi, presto :3 Lisa.

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Capitolo 30
*** XXIX. ***


Over and over I fall for you,
over and over I try not to.

Three Days Grace, Over and Over











Pierre p.o.v

<< Oh, andiamo Dave... Cosa credi che sia, uno stupido? >> 
<< No, solo un incosciente. Si vede lontano un miglio che Samantha ti è passata addosso. >> Il barista ci rivolse uno sguardo di disappunto. Avevamo alzato la voce, e gran parte dei clienti dell'hotel si era voltato infastidito a guardarci. Mimai un "mi dispiace", e mi alzai, pagando il conto. David mi seguì a ruota, nonostante il mio sospiro infastidito. 
<< Non abbiamo fatto nulla. Non ci siamo visti. >> Mentire così spudoratamente mi risultava difficile con i miei migliori amici. Mi fermai nel bel mezzo della hall e agguantai il mio amico. Lo trascinai sull'ala est dell'albergo e puntai i miei occhi nei suoi, certo che almeno così avrebbe cercato, avrebbe tentato di dare una possibile fiducia alle mie parole. Mi stavo spingendo realmente in basso. Inventai una balla dietro l'altra, ma, alla fine, parve arrendersi. Lui mi stava dando retta, finalmente. Sperai soltanto che la storia finisse lì, che non fossi costretto più a vederla, perché altrimenti non avrei saputo come portare avanti una menzogna simile. Tutta la band teneva a me e a Sam, nonostante tutto quello che era successo. Ma ora avevo una figlia, dovevo mettere la testa a posto e tener sotto controllo gli impulsi irrazionali. Trentatrè anni, ricordai. Non ero mica un ragazzino? 
<< Vorrei solo non vederla. >> Confessai, poggiandomi al muro. Dave mi imitò, iniziando a fissare le mura bianco avorio di fronte a sé. Sembrava essere importante ciò su cui stava riflettendo, dato che zittì per un minuto intero. 
<< Tu vorresti, ma pensi di non farcela. >> Dannato fosse David e le sue constatazioni sempre veritiere. Detestavo il modo in cui riusciva sempre a capire il modo in cui pensavo e mi sentivo. Era stressante dover rendere conto di ciò che si giudicava opportuno a qualcuno che era già a conoscenza del tuo modo di vedere le cose. Da ciò derivava che spesso avrei dovuto essere nervoso. Invece no. Ormai ero così abituato a quella telepatia, che la trovavo gradevole. A quell'affermazione mi limitai ad annuire, sapendo che ormai Dave sapeva benissimo cosa mi passasse per la testa bacata che mi ritrovavo. 
<< Ci sono stati mesi in cui ho dovuto combattere contro la voglia di prendere il primo volo per Boston, e riportarla indietro, a casa sua. Perché sì, se la casa è dov'è il cuore, lei doveva stare con me. Non credi anche tu? No, non rispondere. So già che mi dirai di sì. Fatto sta che non riuscivo a continuare e non riuscivo a lasciar perdere; ho perso un mucchio di tempo. Poi decido e puff, lei rispunta. Nel mio stesso albergo, il mio stesso week end. Forse qualcuno ce l'ha con me, ai piani alti. >> 
<< Forse avresti solo dovuto dirle che il problema non era lei, che doveva rimanere. >> Scossi il capo, allontanandomi. Nulla mi avrebbe fatto ricredere. Raggiunsi la hall in pochissimo tempo, abbastanza per vedere arrivare i ragazzi. Chuck mi corse incontro, seguito a ruota dagli altri, che urlarono qualcosa che avrei preferito archiviare. 
<< Sam è qui! >> Avrei voluto prendermi a schiaffi. Mi scostai e a passo svelto mi diressi verso l'ascensore, prima di sentire la stessa frase ancora una volta. 
<< Smettetela, okay?! >> Qualcuno si voltò nella mia direzione. << Non mi importa niente se Samantha è tornata.>>
Plin. L'ascensore era arrivato.
<< Sono un padre single e ho bisogno di qualcuno che non sia propenso a fuggire ogni qualvolta si presenti un ostacolo da saltare, dannazione! >> 
Vidi i loro volti diventare paonazzi e David scuotere la testa con disapprovazione. Ebbi timore di andar via. Mi voltai, ma lo spettacolo che mi si presentò non fu dei migliori. Arretrai di qualche passo, ma riacquistai sicurezza. Ne andava del mio orgoglio.
<< Ciao. >> 
Lei aveva sentito tutto.

Sam p.o.v 

Avevo sentito bene. 
Avevo immaginato quel momento per un anno intero. Il momento in cui avrei capito che ormai era tutto finito. Sorrisi, sconfitta, ma meritevole di tale perdita. Scansai il suo corpo e con un cenno della mano salutai gli altri ragazzi, che ricambiarono tornando a guardare Pierre. Nonostante fossi consapevole che ormai era quello ciò che pensava, ero rimasta delusa. Delusa da me stessa perché mi ero comportata male. Avrei dovuto parlarne con lui, decidere di partire ma lasciarlo senza che facesse male, ma ormai era troppo tardi.
Faceva male.
Ed io non riuscivo a sopportarlo.
Chiamai un taxi per farmi condurre al centro conferenze di New York, ove avrei incontrato dei redattori per decidere del destino di un libro che avrei voluto riportare a galla. "La Medea", di Christa Wolf, argomento della mia tesi di laurea. Mi sarei occupata io stessa della critica, ma non solo Montréal avrebbe dovuto conoscere di nuovo quel libro. Tutto il mondo doveva. C'erano rappresentanti italiani, francesci, tedeschi, olandesi, finlandesi, russi, inglesi, americani, giapponesi e indiani. Insomma, una cosa semplice. 
Ero ansiosa, e la situazione personale non aiutava affatto. Che il Canada avesse deciso di inviare me, era un onore. Non era certo la mia terra madre, ma proprio per questo ero grata del fatto che avessero preso me e non qualche canadese, come consuetudine richiedeva. << Lei ha un curriculum eccellente >>, avevano detto. E lì avrei voluto che il mio ego divenisse smisurato. Invece no. Mi ero eccitata per qualche giorno, poi avevo iniziato a pensare a come comportarmi. Poco dopo Central Park, ci fermammo. Pagai il tassista, lasciandogli la mancia, ed entrai nella grande sala congressi. Porsi la giacca alla donna all'entrata, restando in quel tubino nero che tanto detestavo. L'eleganza in sé, non rientrava nel mio abbigliamento quotidiano. Solo con Pierre mi ero concessa...No, non dovevo ricordare. I tacchi alti produssero un rumore che fece eco in tutto l'edificio, attirando l'attenzione di varie persone. Mi avvicinai alla sala riunioni e attesi che gli altri si rendessero conto della mia presenza. Quando lo fecero, il rappresentante norvegese di cui non riuscii a dire il nome mi porse la mano per presentarsi.
<< Sono Kristiansen, Gazette Bok. >> Accennai un sorriso, ricambiando la stretta.
<< Samantha Gordon, Montréal Gazette e McGraw Hill Companies. >> Affermai, sorridendo. Mi invitò ad accomodarmi, scostando e riaccostando la poltrona una volta constatato che mi fossi messa comoda. Osservai i suoi lineamenti duri e gli occhi grigi. I capelli sul biondo rossiccio e la lieve barbetta da "giorno dopo", che teneva sicuramente per rendersi più affascinante. Quando si accorse che lo osservavo, distolsi lo sguardo imbarazzata. 
<< Allora, vediamo. >> Affermò. << "La Medea", eh? Donne. >> 
<< Donne? >> Mi ritrovai a ripetere, con un pizzico di incredulità. 
<< Ho letto e recensito questo libro anni fa, mi è parso molto femminile. O femminista. >> Continuò, scadendo sempre più dell'ignoranza. 
<< E' una visione particolareggiata del personaggio di Medea. Una difesa. >>
<< Ha ucciso i propri figli, non vedo cosa ci sia da difendere. >>
<< Mai sentito dell'ultima esitazione avuta prima di compiere il fatidico passo? E non si può dire che Giasone avesse aiutato tanto, lasciandola per una donna di rango elevato con la scusa "oh, ma io lo faccio per noi, per te, affinché ti facciano rimanere qui", tanto per citare. >>
<< Questo non la giustifica affatto. >> 
<< Non ho detto questo, ma resta il fatto che il libro è meraviglioso e va riscoperto. >> Affermai, decisa. L'indiano si trovò d'accordo con me, così come la giapponese e il resto del gruppo. Fui soddisfatta abbastanza della mia difesa, sicché fui la prima a firmare per il nuovo contratto che prevedeva la ristampa in tutto il mondo. Ad affare concluso, Kristiansen mi raggiunse nella sala principale.
<< Posso permettermi di riaccompagnarla in albergo? >> Lo fissai interdetta.
<< Mi faccia capire. Lei si comporta da galantuomo un attimo prima di diventare un uomo ignorante e superficiale? >> Scoppiò in una fragorosa risata, che non mi sentii di ricambiare, attendendo tuttavia una risposta soddisfacente. 
<< Lasciamo perdere il lavoro, >> giammai << posso riaccompagnarla? Insisto. >> Mi ritrovai, mio malgrado, ad accettare. Il suo autista mi aprì la portiera, chiudendola poi delicatamente. Perché mi sentivo tanto donna dell'alta società? 
<< Il suo fidanzato non le rende giustizia, sa? >> Disse, improvvisamente, prendendomi la mano sinistra. La guardai, notando soltanto l'anello comprato durante un viaggio con Pierre, in un negozio di dischi. Non lo avevo mai tolto. 
<< Questo anello ha un valore importantissimo per me. >> Mi limitai a dire, sentendomi al tempo stesso incoerente. << E non è del mio fidanzato. >>
<< Buon per me. >> Tornai a guardarlo, distogliendo l'attenzione dal traffico. << E' una donna molto affascinante, mi piacerebbe conoscerla meglio. >> Repressi una risata, immaginando la faccia di Ben se fosse venuto a sapere che uscivo con un norvegese. Almeno non era Pierre, l'uomo che da qualche anno odiava.
<< Signor Kristiansen, ho detto che non è del mio fidanzato, ma non che non frequenti già qualcuno. >>
<< E' un gran peccato. >>
<< Ma non avrebbe potuto funzionare. Lei è norvegese. >>
<< Ho abbastanza soldi da potermi trasferire qui per un breve periodo. >> Sgranai gli occhi, sorprendendomi di quell'affermazione tanto assurda. Non potevo credere avesse detto una cosa simile. Tornai a guardare fuori dal finestrino, notando che eravamo ormai quasi arrivati. << Grazie, signor Kristiansen >> Affermai, sorridendo e attendendo che l'autista adempiesse al suo dovere. Avrei potuto scendere da sola, ma avevo la netta sensazione che quell'uomo avrebbe perso il lavoro se mi fossi permessa di metter mano sulla portiera. Quella vita, pensai, non faceva affatto per me.
<< E' stato un piacere conoscerla. >> Disse, aiutandomi a scendere.
<< E' stato un piacere anche per me... >> poi riformulai la mia risposta, << prima della riunione e dopo. >> Rise, coinvolgendomi.
<< Mi saluti il suo uomo. Gli dica che è molto fortunato. >>
<< Glielo saluterò, certo. Appena lo vedo. >> 
<< E' per caso quell'uomo che fissa lei arrabbiato e me come se volesse sotterrarmi? >> Mi chiesi a cosa si stesse riferendo, quando vidi il volto di Pierre contratto. Era appena uscito dall'albergo e si dirigeva in auto, per andare chissà dove. 
<< No, non è lui. >> Affermai, salutando l'uomo che mi aveva riaccompagnata.
No, non era più lui, purtroppo.



Rieccomi! Spero il codice stavolta non mi giochi brutti scherzi.
Comunque sia, il norvegese è identico al menomato che...la sottoscritta sopravvaluta, quindi ho preferito essere io a liquidarlo :D Il mio ego ne aveva bisogno. Estremamente.
Buona lettura, e a presto! 


Lisa 

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Capitolo 31
*** XXX. ***


I die each time you look away.

Trading Yesterday, Love Song Requiem











Cercavo di valutare le cose da tutt'altra prospettiva, di capire come avrei dovuto comportarmi quei due giorni in cui, ero certa, l'avrei visto davvero di rado. Ma lo avrei visto. Avrei dovuto farmi portare la cena in camera, per evitare di vederlo al ristorante, ma poi arrivavo a chiedermi perché mai avrei dovuto segregare sia il mio corpo che la mia mente a causa degli istinti. Decisi che dovevo solo evitare di guardarlo, e di non farmi notare dai ragazzi. Ero certa che Chuck, col quale avevo legato molto quando stavo con Pierre, non avrebbe esitato a cercare di mettere le cose a posto, non sapendo di peggiorare soltanto la già critica situazione. Quella notte, esattamente come tutte le altre, lo sognai. Mi ero svegliata nel bel mezzo della notte e la sua immagine non volle saperne di liberare la mia testa, stanca e spossata per quell'andirivieni di ricordi, che, per carità, erano più che graditi, ma che al momento mi impedivano di rinfrescare la mente con una sana e gradita dormita. Mi voltai nel letto per l'ennesima volta, fino a quando non mi parve di udire nei passi nel corridoio. Il cuore iniziò ad accelerare il battito, al solo pensiero che al di là di quella parete, procedendo così frettolosamente, ci fossero Pierre e i ragazzi. Controllai l'ora: le tre.
Che avessero appena concluso la festicciola che erano soliti dare per incontrare i fan? Quasi sicuramente. Mi alzai lentamente e poggiai l'orecchio alla superficie lignea, acuendo l'udito. Qualcuno di loro era ubriaco e biascicava frasi incomprensibili, ma che qualcuno riusciva a decifrare molto bene, date le risposte laconiche e materne che dava. Quando i ragazzi bevevano un po' troppo, ero io a doverli tenere a bada, a Montréal. David diventava alquanto suscettibile, Jeff se ne andava prima che fosse troppo tardi e France lo costringesse a dormire sul divano non sopportando l'odore acre dell'alcol, Chuck perdeva tutto il contegno che mostrava nella vita diurna e Seb...be', lui era il maestro della cambio dovuto alla sbornia. Se Pierre iniziava a diventare particolarmente stupido, notando qualsiasi sciocchezza e commentandola divertito, il ragazzo dagli occhi del colore del cielo iniziava una sorta di corteggiamento di massa. Non c'era ragazza, bella, accettabile o brutta che fosse, che non sfuggisse alle sue grinfie. "Tutte, e dico tutte!, passano sotto di me", e capendo l'ambiguità delle sue parole, seppure brillo, scoppiava in una fragorosa risata che coinvolgeva anche i suoi compagni. Un sorriso spontaneamente affiorò sulle mie labbra, costringendomi a coprirmele come se loro fossero lì e potessero vedermi, chiedendomi a cosa stessi pensando. Nonostante tutto, la mia vita, l'avevano cambiata. Ed io, da brava masochista qual'ero, ero riuscita a tornare al punto di partenza. Tornai sul mio letto, ma prima che potessi coricarmi, sentii bussare alla porta. Mi voltai di scatto, chiedendomi chi fosse a quest'ora e chiedendomi se l'orologio si fosse improvvisamente rotto senza che me ne accorgessi. Ma questa mia tesi fu smentita dal mio cellulare. Sentivo dei sussulti, e qualcuno che si lamentava. Aprii lentamente la porta, timorosa, quando questa improvvisamente sfuggì alla mia presa e sbattè contro il muro violentemente, col solo risultato che un uomo mi cadde addosso a peso morto. Lanciai un gridolino di dolore, massaggiandomi la nuca.
<< Dave, dannazione! >> Imprecò...Pierre. Subito il dolore fisico sembrò lasciar posto ad una sofferenza più acuta, e per nulla curabile, non in quel momento. 
<< Ciao, Shaaammy. >> Non potei fare a meno di ridere e sentirmi ridicola, in quella situazione. Dave era letteralmente coricato su di me e aveva improvvisamente iniziato a palparmi il seno. Uscii fuori di me dalla vergogna e lo feci rotolare di lato, evitando di schiaffeggiarlo, perché, da sobrio, non lo avrebbe mai fatto. Almeno speravo. << Hai un seno piccolo. >>
<< Me ne sono accorta anni fa, grazie. >> Dissi soltando, alzandomi. Inarcai la schiena per riprendere una postura degna di quel nome ed evitai lo sguardo di Pierre, che purtroppo immaginavo puntato sulla parte del corpo da David prima citata. Avvampai ed aiutai il nostro amico ad alzarsi. Si aggrappò a me con tutte le sue forze, sicché fui costretta a ricevere aiuto dall'altro ragazzo, improvvisamente ammutolito. Accesi la luce, ma fui costretta a spegnerla ad un debole lamento di David. 
<< Pesce! >> Gridò, improvvisamente, indicando il carrellino con la pietanza sopra, coperta da uno strato trasparente di carta. << Che schifo. Posso mangiarne un po'? >>
<< E' la sua cena, Dave. Non è carino. >> Sembrava sul serio una madre intenta ad insegnare al proprio figlio le buone maniere.
<< No, può prenderlo. >> Affermai, guidandolo verso il tavolino al centro della camera. Si mise a sedere su una sedia e affondò, letteralmente, la testa nel piatto pieno di calamari fritti. Non avevo molta fame quella sera, ed avevo saltato il pasto. Certo, il denaro non era andato sprecato. Scoppiai a ridere, notando che sul suo volto si era disegnata una cornice d'olio, e afferrai un tovagliolo, iniziandolo a pulire. << Prendo dell'acqua. >> Feci, rivolta a Pierre. Con lo stesso intento della sottoscritta di evitare sguardi e incontri, annuì, tornando al suo amico e spingendolo ad alzarsi. Questi lo fece, e dopo che io gli ebbi pulito ben bene il volto, si lasciò cadere sul mio letto.
<< Grandioso, ora non lo riprendo più. >> Commentò l'amico.
<< Lascialo qui. Dormirò sul divano. >> Proposi, coprendo il bassista, che già russava.
<< Non se ne parla. Dormirò io con lui, tu puoi andare in camera nostra. >> Affermò, senza una punta di premura nella sua voce. Perché parlarmi, se doveva essere così freddo? Non lo avevo mai sentito così, ed era amareggiante. Senza obiettare ulteriormente, raccolsi il cellulare e mi diressi in camera loro. Aprii lentamente la porta, incerta se ci fosse qualcun altro o fossi sola, e quando constatai che non c'era nessuno, sospirai di sollievo. Mi avvicinai al letto, e mi ci lasciai cadere sopra, stanca. Senza che me ne rendessi conto, mi addormentai. 

Pierre p.o.v

Le luci dell'alba erano fastidiose, e in quella parte di albergo lo risultavano particolarmente. Strizzai gli occhi, con solo quattro ore di sonno sulle spalle e l'ansia di ritrovarmi improvvisamente Sam in camera. Era una tipa mattiniera, lei. Quando vivevamo insieme, trovavo sempre il caffé pronto e la colazione servita, a letto. Era una pacchia assoluta, la mia, durante quel periodo. Mi resi conto di non avere con me il rasoio e la schiuma da barba, così, dopo essermi almeno sciacquato il volto, diedi un'ultima occhiata a David, che senza dubbio si sarebbe svegliato tardi e con un mal di testa atroce, e uscii, lasciando la porta socchiusa. A quell'ora era improbabile che ci fosse qualcuno, che fosse anche solo in parte una fan pronta ad assalirti nel sonno. Quelle che avevamo conosciuto, non lo erano per niente, e sperai davvero che fossero tutte così. I fan maschi erano più ribelli, e con le nostre canzoni sarebbero arrivati ad odiare chiunque fosse famoso, compresi noi. Risi all'idea di veder cantare e saltare e al tempo stesso insultarci, fan pieni di voglia di gridare. Mi ricordai di aver consegnato a Samantha la nostra carta magnetica, così sarei stato costretto a bussare e svegliarla. Dovevo, avevo un appuntamento a Central Park alle otto. In tutto ciò, dovevo ancora fare una doccia, svegliare David e radermi.
Toc toc. 
Sapevo fosse sveglia. E infatti mi aprì la porta dopo qualche istante.
<< Buongiorno. Sono venuto a fare una doccia. >> Affermai, senza preoccuparmi che lei potesse considerarmi un idiota.
<< Certo. Dave ancora dorme? >> Annuii, avvicinandomi alla valigia, e notando la superficie del letto abbassarsi quando lei si mise a sedere di spalle. Avevo la netta impressione che uno dei due, a breve, avrebbe iniziato una conversazione. Feci in fretta, armandomi del necessario e mi avviai verso il bagno. Di fronte alla porta mi fermai e mi voltai.
<< Sam... >> Iniziai, pronto a chiederle di tutto, ma soprattutto il perché vero e proprio della sua fuga, come niente l'avesse spinta a rimanere.
<< Sì? >> La speranza che lessi nei suoi e nel tono della sua voce fu devastante e disarmante. No, non potevo costringerla a parlarmi.
<< Potresti chiudere la porta, se esci? >> Abbassò lo sguardo, poi tornò a guardarmi e mi sorrise, e fu come se il mondo mi crollasse addosso. Come resistetti alla tentazione di avvicinarmi e stringerla, era un fatto a me ignoto.
<< Certo, nessun problema. Nel caso, buona giornata. >> Distogliendo gli occhi da me, prese ad armeggiare con il suo cellulare. Sospirai ed entrai nel bagno, certo di poter mandare via tutte le buone e le cattive intenzioni con una buona doccia. Fatto stava che non sarebbe mai bastato. Lei c'era, e ci sarebbe sempre stata. Lo dimostrava il fatto che dopo un anno io ancora sentissi la forza e la sconfitta invadere il mio animo, e l'amore per lei che per nulla era svanito, ma che era anzi cresciuto. La odiavo, ma non riuscivo a detestarla. 
You're a part of me, and I'll never be the same here without you. 
L'acqua bollente mi fece sobbalzare. Dannazione. Mi ero mezzo ustionato un pettorale. Finii di sciacquarmi, poi uscii e indossai un paio di pantaloni. Dovevo cercare una crema rinfrescante. Dave nella sua infinità di creme idratanti per una pelle femminilmente sensibile, doveva averne una, no? Presi a scavare nella sua borsa, col solo risultato di innervosirmi ancora di più. Notai inoltre che la porta era aperta, a dispetto di quanto avevo chiesto a Sam, e mi avvicinai per chiuderla, irritato. Ma la sua mano mi bloccò, e quando la guardai sembrava intimidita. 
<< Ho dimenticato il cellulare. >> La lasciai entrare, tornando poi al borsone di David. << Che hai combinato? >> Chiese, indicando la scottatura.
<< Mi sono ustionato, e quell'idiota di Dave nasconde le sue stupide cremine. >> La sentii ridere, avvicinandosi. Armeggiò con la valigia e trovò una tasca interna che non avevo visto. Ne estrasse una pomata e mi impose di sedermi, in modo autoritario, ma al tempo stesso divertito. Obbedii, ringraziando il cielo che ci fosse almeno David con le sue cure. 
<< Rischierai di perdere strati di pelle se continui così. Devi smetterla di pensare sotto la doccia. O di comporre, fa lo stesso. >> Affermò, spremendo il tubetto e accogliendo, sulle mani, un'esigua dose di crema. Quel momento era così familiare... 
<< Non è colpa mia se le caldaie decidono di giocare brutti scherzi. >> Mi lamentai, quando iniziò a muovere le dita in modo circolare sul pettorale destro. La sensazione di bruciore non si alleviò affatto ma si trasferì anzi in tutto il resto del corpo. Digrignai i denti, e strinsi i pugni, cercando di pensare ad altro.
<< Ma a soffrire poi sei tu. >> La dolcezza nella sua voce mi innervosì ancora di più. In me stesso, le intimai di smetterla, ma non riuscii mai a imporle di non toccarmi. 
<< Se le caldaie non sanno tenere i propri valori sotto controllo, non voglio essere una valvola di sfogo. >> Dissi, ammettendo che quel discorso iniziava a prendere una piega differente.
<< Ma tu puoi tranquillamente impostare l'acqua tiepida. Accettare la normalità, no? >> Spalmò la pomata ancora un po', poi si fermò.
<< L'acqua mi piace calda. Decido io quando è ora di cambiarla, e sono certo l'amerò sempre così. >>
<< Ti sei scottato tante volte, non credi sia ora di arrendersi? >>
<< No, se trovo una pomata pronta a curarmi. >> Mi alzai e indossai una maglietta, seguito dal suo sguardo, quando poi la vidi allontanarsi e avvicinarsi alla porta.
<< A volte le caldaie credono che l'acqua non sia abbastanza perfetta e decidono di intervenire e dare una mano. Devi essere tu a non prendertela con loro solo perché hanno cercato di venirti incontro. >>
<< Se avessero voluto venirmi incontro avrebbero lasciato i loro livelli stabili e avrebbero continuato a farmi godere di una buona temperatura. >> Dannate caldaie che mi costringevano a pensare più del dovuto per rispondere.
<< Sei egoista, Pierre. >> Disse, e fu come se la rabbia prendesse il sopravvento. Non potevo credere alle mie orecchie.
<< Meglio egoista che codardo, non credi? >> La vidi abbassare lo sguardo. Battè un lieve colpo sulla porta, poi se ne andò via. Grandioso.
Lei non era più lì, ed io avevo perso definitivamente la mia possibilità di chiarire. 

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Capitolo 32
*** XXXI. ***


Are you out there?
'Cause you're all I've got!









Non poteva aver detto una cosa simile; io, la mia mente, e il mio cuore, non riuscivamo a crederci. Tutto si poteva dire, tranne che fossi una codarda: perché lo avevo lasciato, senza mai chiarire definitivamente la rottura, e andare via per lasciare a lui la possibilità di vivere la vita che meritava, aveva richiesto una dose di coraggio e buonsenso che non ero sicura di possedere fino a quel momento. Ribadivo il concetto: era un egoista, e per quel che aveva detto non lo avrei mai perdonato. Facile a dirsi, e probabilmente anche a farsi, dato il fatto che non ci saremmo mai più visti dopo New York. Ancora una volta, in cuor mio, maledissi il caso, il karma e tutto quanto riguardava la stupida superstizione per avermi condotta lì proprio quando c'era lui. Era prevedibile che avrei ceduto tanto fisicamente quanto psicologicamente a lui, alle parole che aveva espresso con i gesti. Perché ero sempre così dannatamente debole? Risparmia almeno la mia dignità, destino. Scesi in fretta le scale e mi diressi fuori dall'albergo, rabbiosa. Avevo una gran voglia di prendere a calci qualcuno che gli somigliasse. 
<< Sam! >> Feci roteare le pupille, stanca anche degli interventi del tutto inutili di David. Accelerai il passo, trovandomi in breve a Times Square. Infondo, non eravamo poi così lontani. Quel giorno, decisi, sarei andata a visitare l'Empire State Building. Non c'ero mai stata, e benché dicessero che lì sopra nascessero molte storie d'amore, ero certa che la visione della mia vita da una prospettiva diversa, avrebbe messo fine alla mia. Se finalmente o purtroppo, non avrei potuto dirlo fino a storia conclusa. Ma c'era qualcuno che intendeva ostacolare i miei progetti. Dave, infatti, mi afferrò per un polso e mi costrinse a voltarmi, per far sì che lo guardassi negli occhi. Era forte, per sembrare la persona più delicata del gruppo. 
<< Dave, cosa non capite del concetto: sto andando via per i fatti miei e non voglio nessuno tra i piedi? >> Affermai, cercando di divincolarmi. Dovetti tuttavia arrendermi alla sua forza, così, assicuratogli che non sarei scappata via alla prima occasione, lo convinsi a lasciarmi andare. Riprendemmo a camminare; probabilmente ne aveva bisogno anche lui.
<< Non so cosa mi spinga ad essere l'angelo custode di Pierre. >> Confessò, provocando una mia risposta.
<< Tu sei più un paracu...>> 
<< Sì. >> Fece, interrompendomi. << Fatto sta che io sono la sua parte razionale, e quella che deve cercare di farlo ragionare. >> Fui un momento commossa per quella sua affermazione. Sapevo quanto lui tenesse a Pierre e viceversa, e quanto entrambi desiderassero solo il bene per l'altro. Era un'amicizia che molto spesso rispecchiava quella mia e di Leah, che, a proposito, non vedevo da una vita. Mi mancava, pensai. Mi mancava davvero tanto. 
<< Allora fagli aprire gli occhi, una buona volta! >> Cercai di rientrare nei parametri della calma, così inspirai ed espirai più volte, senza che però il mio amico se ne accorgesse. 
<< Ci hai già pensato tu, Samantha. >> Nome completo, discorso serio e filosofico in arrivo. << Lui non era così. Sembrava considerare l'amore abitudine. Quante volte ho cercato di fargli capire il contrario, ma stare con Lachelle probabilmente lo spingeva a pensarla in questo modo. Da quel giorno all'aeroporto - sì, mi ha raccontato tutto, forse per chiarirsi le idee quando tu te ne sei andata - di quattro anni fa, lui ha provato qualcosa che non ha mai sentito prima. Non era il solito colpo di fulmine, quello tutti preferiamo lasciarlo ai romanzi rosa e alle storielle da quattro soldi. Era qualcosa di più forte, qualcosa che lo ha legato ad una sconosciuta in abito azzurro. Tu gli sei entrata dentro senza che lui se ne accorgesse, distruggendo ogni sua convinzione. E cosa succede quando parte di te ti lascia e se ne va via? >> Sentii le lacrime pungermi gli occhi. Iniziai a tremare contro la mia volontà, rendendomi conto che Dave aveva appena disintegrato le mie, di convinzioni . Ma io restavo sempre del parere che il destino di Pierre fosse con sua figlia e quella che avrebbe dovuto diventare sua moglie, perché lui era instabile, stentava una sicurezza sul palco che era tutta una farsa: lui, talvolta, non sapeva chi era, e il compito di ricordarglielo era stato affidato a me. Ma per lui avevo dimenticato me stessa, tutto quello di cui ero stata colonna portante fino a quel momento. Non era certo una sensazione sgradevole, ma avevo bisogno, io in primis, di rendere la vita più semplice. Lui a Montréal, come prima che ci conoscessimo, io a Boston. Come prima che io iniziassi ad amarlo e gli lasciassi prendere una parte della mia anima. Ricordai un libro di Coelho, lo Zahir. Lo Zahir era un pensiero fisso, che all'inizio ti sfiorava, per poi prender completo possesso della tua mente. Pierre era il mio Zahir, e non me ne sarei mai liberata. Perché in parte non volevo, perché sapevo che il solo rivolgere la mia mente a lui era per me fonte di sostegno. L'amore non era solo distruzione. Salutai Dave e mi diressi verso la mia meta per quel giorno. Comperai un biglietto per l'ottantaseiesimo piano, e attesi con altri clienti l'arrivo dell'ascensore. Sapevo che non avrei mai cambiato idea, eppure mi convincevo che nonostante tutto sarei potuta andare avanti. Con Ben? Una risata mi scosse tutta, attirando l'attenzione di qualche curioso. Chiesi scusa per l'inconveniente e tornai al mio posto, per poi salire sull'ascensore. Ad ogni scampanellio che indicava l'arrivo ad un piano, sentivo un fremito. Eravamo quasi giunti a destinazione, quando sentii una morsa allo stomaco, che tenni sotto controllo.
Arrivati. 
Uscii con calma, e attesi che le porte si richiudessero prima di dirigermi, senza neanche una giacca a vento, sulla terrazza del piano più alto del grattacielo. Come previsto, c'era un vento la cui direzione non era ben chiara, dato che i miei capelli si trovarono a combattere una guerra per rimanere sulla stessa lunghezza d'onda. Socchiusi gli occhi e mi avvicinai alle reti di protezione per guardare la città dall'alto. Era uno spettacolo meraviglioso. Sembrava di poter avere il controllo di tutto. Mentre ero assorta nella contemplazione del luogo, il cellulare nella mia tasca prese a suonare. Mi sorpresi, data la scarsità di segnale. 
<< Pronto? >> Chiesi, senza neanche controllare il nome sul display.
<< Sono Leah. >> Sembrai ritrovare ancor di più buon umore. << La prossima settimana io e Jack veniamo a Boston! >> 
<< Davvero?! Oh, non sai quanto mi rendi felice! Avviserò Ben del vostro arrivo e... >>
<< Frena, frena. Vuoi dirmi che ancora non l'hai lasciato? >> Inarcai un sopracciglio, pur sapendo che la mia amica era in Canada e non poteva certo vedermi. Sentii in sottofondo la voce di Jack dire "quell'idiota buono a nulla, sfascia famiglie, rovina vite." Quanto amore, mi emozionai. 
<< No, Leah. Me lo hai chiesto anche tre giorni fa, quando lui era accanto a me. E' una fortuna che non ti abbia sentito. >> 
<< Nessun evento significativo che ti abbia fatto cambiare idea? >> 
<< Se per "incontro significativo" intendi un bacio con Pierre e poi una litigata definitiva, sì. >> Sentii il suo stupore, così, senza neanche rendermi conto del tempo che passava, dei soldi che spendeva perché in un altro Stato, le raccontai tutto. Non era facile, soprattutto era imbarazzante descrivere il bacio che c'era stato. Ma era Leah e pretendeva di sapere tutto. Alla fine, annuì più volte, poi senza dirmi niente mi salutò e chiuse la comunicazione. Conoscendola, mi avrebbe tenuto un discorso alla David quando sarebbe arrivata a Boston. 
Pierre p.o.v
Ero certo David le avesse detto qualcosa. Così, aspettai che tornasse in camera per parlare direttamente con lui. Infondo, con Samantha, avevo chiuso, no? Ma chi volevo prendere in giro? Chiudere con lei era come cercare di smettere di cantare. Impossibile e neanche accettabile. Chinai lo sguardo su alcune fotografie che lei personalmente mi aveva stampato quando lavorava per Parsons. Ritraevano me, lei, me e lei, me e i ragazzi, lei e i ragazzi, noi insieme. Noi. Insieme. Maledizione! Le lasciai cadere ai miei piedi, portandomi le mani nei capelli. Lei non poteva farmi l'effetto di portarmi alla disperazione, non era concepibile. Presi ad andare avanti e indietro per la stanza, fino a quando mi decisi. L'indomani sarei partito, dovevo giocarmi il tutto e per tutto. Lasciai la camera, e proprio nel corridoio incontrai Dave che mi disse solo "Empire State Building." Annuii e corsi verso l'ascensore. Schiacciai ripetutamente il pulsante del pian terreno fino a quando le porte non si chiusero e mi fecero innervosire ancora di più. Corsi in strada e chiamai un taxi, per arrivare più in fretta. Ma proprio mentre stavamo per arrivare, ci imbucammo in un ingorgo. Imprecai più volte, prima di prendere la decisione di scendere ed arrivare di corsa al grattacielo. Comperai velocemente un biglietto e mi misi in fila, sperando che lei non fosse andata già via. Chiesi ad una guardia, che mi confermò che il gruppo entrato alle nove non era ancora andato via. Finalmente fu il mio turno, e a mano a mano che mi avvicinavo a lei, sentivo l'insicurezza prender possesso di me. Cosa le avrei detto? Cosa avrei fatto? Dovevamo parlare, questo era certo. 
Mi affrettai ad entrare sul terrazzo, e quando mi guardai intorno per cercarla, dovetti stare attento al vento. Poi la vidi. Si teneva stretta tra le sue braccia, per scaldarsi. Senza pensarci su due volte, mi avvicinai a lei, e la cinsi da dietro. Non disse una parola, non mosse un muscolo. 
In quel momento, eravamo solo io e lei. 




Okay, adesso qualcuno conosce anche la mia faccia hahaha Gente, ultimamente ho molta voglia di scrivere, ma non ho solo questa fanfiction, quindi cercherò di districarmi u.u (parla da donna super impegnata!) Grazie ancora a coloro che recensiscono, che seguono, ricordano e preferiscono la storia *-* #muchloveforyou
Recensite miei prodi! 

Lisa.
 

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Capitolo 33
*** XXXII. ***


                     I wanna share your horizons,
and see the same sun rising.
Turn the hour hand back to
when you were holding me..
Jet lag, Simple Plan

 

 





Pierre p.o.v

Varcai la soglia dell'aeroporto con i ragazzi. Ogni volta era un tuffo al cuore. Il ricordo del nostro primo incontro mi assaliva, mi attanagliava l'anima e non riuscivo a lasciarlo andare, nonostante tutto. Perché, maledizione, io l’amavo più di quanto pensassi. Posai la valigia sul carrello, che poi un uomo condusse verso dei tappeti affinché potesse esserne controllato il contenuto. C'erano da attendere due ore prima che il nostro volo partisse. Anche Samantha era lì, lontana da me. Stava facendo il check in e si era diretta verso un'altra uscita: il suo aereo per Boston stava per decollare. Non riuscii a guardarla mentre porgeva il biglietto alla donna accanto al gate, non riuscii a vederla sparire dietro il portellone. Era finita. Quel giorno, all'Empire State Building, avevo capito tutto.
La strinsi forte, perché il mio corpo, il mio cuore lo richiedevano. Io non avrei mai voluto che finisse così, mi aveva sussurrato, con voce rotta da quelle che poi scoprii essere lacrime, ma è dovuto succedere. Benché si ostinasse a ripetermi che fosse stato per il mio bene, io non riuscivo a perdonarla. Come potevo sentirmi meglio se lei se ne andava? Chuck mi aveva più volte detto che se avessi permesso a qualcosa di portarmi via ciò che amavo, avrei dovuto lottare per difenderla. Ma io non avevo avuto scelta. Lei era tornata da Ben, io ero rimasto da Lachelle. In breve, avevo mantenuto una promessa mai fatta.
<< Tu sai, vero, che darei via tutto per tornare a Montréal con te? >> Mormorò, affondando il viso nel mio petto. Riuscivo a sentire il calore del suo respiro attraverso la t-shirt leggera. Fu una bella sensazione, dato il vento autunnale che soffiava.
<< Hai già dato via tutto tornando a Boston. La tua vita è ancora in casa nostra. >> Preferii utilizzare quell'aggettivo, piuttosto che un altro. Infondo io, la mia casa eravamo ancora suoi. Come lei era mia, ma non se ne rendeva conto. La sentii sorridere, e poi stringere la presa sulla mia maglietta. Povero illuso, Ben, che credeva lei fosse tornata per dei ripensamenti sui suoi sentimenti nei suoi confronti. Lei era mia. Mia e basta.
<< Perché non sei tornato con Lachelle? >> Chiese, sollevando lo sguardo e incrociando il mio. Non l'avevo mai vista così, in quattro anni che ci conoscevamo. O forse sì. Quelli erano gli stessi occhi, la stessa espressione che aveva quando l'avevo visto in aeroporto, persa e sconsolata. Tradita. Ora, però, sembravo scorgere un barlume di speranza.
<< Perché se fossi voluto rimanere con lei l'avrei fatto sin dall'inizio. Forse, se non avessi dato adito ai miei sentimenti di rovinare tutto, a quest'ora tu vivresti ancora nel tuo appartamento e potrei tranquillamente vederti e parlarti. Invece no, ho dovuto attendere che le coincidenze ci facessero incontrare a New York per poi spingermi fino all'ottantaseiesimo piano dell'Empire State Building per poter avere un dialogo con te. >>
<< Non hai rovinato tutto, Pierre. Io...tu lo sai, io ero convinta che l'amore non esistesse. Mi ero arresa alle difficoltà. >> Spiegò, staccandosi lievemente. << Poi sei arrivato tu, stupido cantante da strapazzo, con la tua band di ragazzi scalmanati, con le vostre canzoni che rispecchiavano ogni mio dannato stato d'animo. Lo avete sempre fatto, e davvero non so come abbia potuto dimenticarmi di voi in cinque, sei anni che fossero. Però, forse, se non avessi smesso per forze superiori, vedi mia madre, di ascoltare la vostra musica, non ti avrei mai conosciuto. E se lo avessi fatto, per me saresti stato Pierre dei Simple Plan. Per me, tu, ora sei Pierre Charles Bouvier, un uomo meraviglioso che non merita di soffrire. Così come non merita di soffrire Anne, che certamente vorrebbe vedere suo padre insieme a sua madre. E tu saresti felice con loro, io lo so. Di me non mi importa, non ho più nulla da perdere ormai. Sei una brava persona, Pierre. >> Si soffermò un attimo. Non riuscivo a parlare, non sapevo cosa dire. << Però sei anche un cantante, tanto meglio. >> Disse, ironica, e lì scoppiai a ridere.
<< Un cantante molto figo. >> La corressi, con finta nota di altezzosità. Di rimando, mi spintonò lievemente. Qualcuno si voltò a guardarci, e poi un gruppetto di persone si avvicinò. Mi scrutò per bene, poi con volto meravigliato mi riconobbe. C'erano alcune ragazze, accompagnate da quattro o cinque ragazzi, che pretesero un autografo. Li accontentai volentieri, per poi proporre una foto di gruppo che Sam si offrì di scattare. Una ragazzina, infine, mi si avvicinò e mi intimò di chinarmi. Lo feci, e mi sussurrò un 'grazie' all'orecchio che trovai infinitamente dolce. Quanto fossi devoto ai nostri fan, era cosa risaputa. Non mancava occasione che lo rendessi noto, senza problemi. Li salutai e tornai da Sam, che si era affacciata sulla citta di New York.
<< Torna a Montréal. >> Affermai soltanto. Lei si voltò, si allungò verso di me e mi sfiorò le labbra cingendomi il collo con le braccia. Non approfondii il bacio, sapendo che lei non avrebbe voluto.
<< Ci vediamo, Bouvier. >> Si allontanò, proteggendosi con le sue stesse braccia.
 
Poggiai le mani sul lungo tubo di metallo che correva lungo la finestra e guardai l'aereo, che, purtroppo, era in fase di decollo.
Alla fine era partita.
 
Sam p.o.v

Le ore di viaggio sarebbero state poche, però la fretta che avevo mi stava tartassando. Le mie mani tremavano, il mio corpo chiedeva movimento. Io volevo Pierre. Prima arrivavo a Boston, prima tornavo a Montréal. Avrei potuto richiedere un calmante, ma non ero certa mi avrebbe fatto granché. Credevo di averlo convinto con le mie parole, ma lui era ostinato, e io mi fidavo di lui. Se diceva di esserci per me e per Anne, io gli credevo. Inoltre, non vedevo l'ora di rivedere la piccola, che ormai aveva compiuto un anno. Quando atterrammo, riaccesi il cellulare, trovandovi un messaggio. Il numero non lo conoscevo, ma lo lessi lo stesso. "Tu gli fai bene, torna qui. E poi Anne dice continuamente il tuo nome, anche se non ti vede da una vita. Dubito che 'papà' sia stata la prima parola che ha pronunciato." Lachelle. Come aveva il mio contatto telefonico? Cancellai immediatamente i mille dubbi che mi occupavano la mente, per dar spazio ad un solo pensiero: non c'era rancore. Il fatto che Lachelle fosse una donna così sensibile, ma al tempo stesso così forte, mi faceva ricredere sul fatto che Pierre avesse sul serio scelto me. Cosa ci avrà trovato in una complessata, che non riesce a far altro che combinare danni ovunque cerchi di metter mano? Sebastién si era trovato a parlare con me, un giorno, e mi aveva rivelato che tutti, nel gruppo, mi ritenevano una tipa molto chiusa. Ma che quando mi ero aperta, avevo mostrato il lato che Pierre amava di più. Ma qual era questo lato? Presi un taxi e gli chiesi di fare in fretta, per dirigermi a casa e mandare Ben a quel paese. Ero sicura, nel frattempo, che stesse ancora frequentando Margareth. Quella donna non si stancava mai di essere "l'altra". Forse si divertiva, chi poteva dirlo. Pagai la corsa e guardai il vialetto di casa mia. Come ogni volta, il mio vicino mi diede del "bentornata", per poi rientrare. Cercai di fare lo stesso. L'auto di Ben era nel vialetto. Un'altra era parcheggiata di fronte casa. Pff, è qui. Sgualdrina. Adesso non avrei neanche avuto il rimorso di doverlo lasciare. Mi sentii un po' in colpa, dato il fatto che a lui avevo riservato un discorso e da Pierre ero scappata. Spalancai la porta e lasciai cadere la valigia. Aprii la porta dello sgabuzzino e presi gli altri due trolley che mi ero portata dietro quando ero partita, un anno prima e salii in camera per metterci dentro tutta la mia roba. Sicuramente quei due erano in veranda. Ancora lui sperava che sentendo i miei passi avrebbe fatto in tempo a farla andare via. Che idiota. Mi impossessai dello scatolone che tenevo sul fondo dell'armadio e tolsi il coperchio: dentro, tutti i miei ricordi. C'erano anche le chiavi di casa del vecchio appartamento, e la copia di quelle di casa di Pierre. Le presi entrambe e le misi in borsa, per poi svuotare il contenuto dello scatolone in una delle due valige. Infilai vestiti, scarpe, fotografie. Quando ebbi finito, mi guardai allo specchio. Avrei fatto una doccia, prima di prendere il prossimo volo. Lasciai cadere i vestiti sul pavimento, poi in silenzio entrai nella cabina, per fare una cosa veloce. Volevo coglierli in flagrante, non era cosa da nascondere, e dirgli semplicemente che me ne andavo. Bloccai il getto d'acqua e mi rivestii, per poi, a fatica, scendere di sotto con i bagagli. Il tutto pesava molto, ma a breve tutta la mia vita sarebbe stata più leggera. Avrei poi chiesto che mi fosse portata l'auto, in futuro. Per ora chiamai un altro taxi, e nell'attesa che arrivasse, mi affrettai verso la veranda. Come previsto, c'erano. Entrai senza bussare.
<< Scusate il disturbo, >> fu un divertimento vedere il disagio di Ben, "imprigionato" sul divanetto dal corpo di Margareth, nuda. Ebbi l'istinto di coprirmi gli occhi, ma desistetti << ti volevo avvisare che sto partendo. >>
<< Dove vai? >> Fece, scostando la donna. Questa si coprì con una coperta.
<< Non ti avvicinare o giuro che Margareth in futuro non avrà niente con cui giocare. >> Dissi, acida. << Me ne vado, torno a Montréal. Appena puoi mandami l'auto. Non voglio che ci facciate sesso dentro, è nuova. >> Così detto, mi allontanai e tornai di fronte casa. Proprio in quel momento, arrivò il taxi. Il tassista mi aiutò a caricare le valige, e prima che Ben potesse giungere, seminudo, sul posto, fui già alla fine del vicolo. Era fatta. Io ero libera.
<< Dove, signorina? >> Con un sorriso stampato sul volto, pronunciai il nome dell'aeroporto. Sperai Pierre mi perdonasse per essere ripartita senza rendergli note le mie intenzioni. La settimana seguente sarebbero ripartiti per l'Europa, non volevo perdermi l'occasione di dirgli che lo avrei aspettato. Ancora una volta valutai se quella scelta fosse del tutto sbagliata, ma puntualmente mi tornarono alla mente gli abbracci, le carezze e le parole di Pierre. Se lui diceva che sarebbe andato tutto bene, se Lachelle mi confermava che non aveva intenzione di tornare con lui...io ero lì. Ci avevo provato, ma stargli lontana era impossibile. E lo avevano dimostrato le numerose coincidenze che ci avevano spinti ad incontrarci. Non volevo pensasse fossi egoista; infondo tutto ciò che avevo fatto era per lui. Ma forse avevo pensato troppo a me stessa, al senso di colpa e quant'altro per rendermi conto che lo stavo semplicemente rovinando. Sentirmi così importante per lui mi rendeva felice come non mai. Sembravo un'adolescente con la prima cotta. Solo che io lo amavo più di me stessa.
Presi l'ennesimo taxi, quel giorno, e recitai a memoria il nome della strada in cui abitava Pierre. Riconobbi il volto del tassista, che, un anno prima, mi aveva riportata a Montréal. Forse, però, prima sarei dovuta andare da Leah. Infondo non la vedevo da tantissimo tempo, e dovevo avvisarla che non c'era più bisogno di andare a Boston. Cambiai rotta, e la indicai all'uomo, che non parve scocciato dall'improvviso ripensamento. Arrivammo in breve sotto il palazzo, in Rue la Moine. Sentii le lacrime pungermi gli occhi, ma le ricacciai indietro. Inviai, come l'ultima volta, un messaggio a Leah. E proprio come l'ultima volta in un breve istante fu da me, e io ero a terra, sovrastata da lei e Jack.
<< Dannazione, ce ne hai messo di tempo! >> Gridò la mia amica, stringendo forte. Non potei fare a meno di ridere, quando finalmente si decisero ad aiutarmi. Si alzarono e mi tirarono su, con loro.
<< C'è Seb di sopra. >> Disse Jack.
<< Perché? >>
<< Siamo diventati grandi amici della band, carissima. Ti sei persa un mucchio di cose. >> Spiegò lui, aprendomi il portone.
<< Ma sono appena tornati. Insomma, perché lui è qui? >> La mia amica rise, aiutandomi con la valigia. Le intimai di lasciarla lì, perché non sarei rimasta molto. Avevo qualcuno da incontrare.
<< Diciamo che si è innamorato... >> Leah lasciò cadere la frase, e io rimasi sconvolta. Mi ero persa tantissimo. << Si è innamorato delle mie frittelle. Mi ha inviato un messaggio prima di sbarcare chiedendomi esplicitamente...>>
<< Io direi che ti ha ordinato. >> Proruppe Jack. Senza rendercene conto, avevamo percorso decine di scalini. Eravamo di fronte casa.
<<...Di preparargliele. Ora è qui. >> Difatti, quando entrai, lui era sul divano, mentre divorava un piatto che a me parve infinito di frittelle. Scoppiai a ridere, e mi avvicinai a lui per abbracciarlo. Ci eravamo visto anche poche ore prima, ma era con i ragazzi, e io non potevo avvicinarmi. Dovevo fare una sorpresa a Pierre.
<< Ciao donna di mondo! >> Disse, stringendomi e sollevandomi da terra.
<< Sei un maiale, al solito! Oinky dei miei stivali. >>
<< Oinky al tuo servizio, mademoiselle! >> Mi offrì una frittella, che però rifiutai. Andavo un po' di fretta. Chiesi a Leah il permesso di prendere l'auto, e quando mi diede le chiavi, salutai tutti. Seb mi chiese un passaggio fino a casa sua, che non potetti negargli. Però cercai di fare il più in fretta possibile, per arrivare prima da Pierre.
<< Seb, Pierre è in casa, vero? >> Annuì, indicandomi la strada. Gli dissi che non era necessario, dato il fatto che la ricordavo perfettamente. Tutte le sere in cui lo avevo riaccompagnato, facendo la parte dell'amica sobria, mi erano rimaste impresse nella mente. Sebastién don Giovanni, mi era rimasto nella mente, a dire il vero.
<< Solo che lo troverai in condizioni pessime. Prima di partire non si è rasato. >> Sorrisi, ricordandomi della lieve barbetta che era solito tenere quattro anni prima. Prima che diventasse ancor più bello di quanto non fosse. Più ci pensavo, più mi veniva voglia di saltargli addosso. Cancellai quei pensieri dalla mia mente, e continuai a guidare. Arrivammo, e lo salutai, per poi dirigermi verso la mia meta. Finalmente. Accelerai quando un semaforo, verde da troppo tempo, fu sul punto di diventare rosso, e in breve mi trovai di fronte la casa. Non era molto distante da dove abitava Seb. La sua auto era lì.
Osservai la struttura, sentendo una morsa allo stomaco.
Santo cielo, quanto mi erano mancate quelle quattro mura. Attraversai il vialetto, e una volta sotto il porticato, bussai leggermente alla porta. Sentivo il battito del cuore accelerare ogni secondo. Inspirai ed espirai più volte, quasi avessi le contrazioni, poi chiusi gli occhi e cercai di calmarmi. Solo quando sentii il rumore della maniglia che si abbassava sentii di poter morire.
La sua figura mi apparve dinanzi. Un velo di barba gli copriva il volto assonnato, le guance rosse e i capelli fuori posto. Doveva essersi addormentato.
<< I gerani, >> dissi, cercando di mantenere la calma per rendere il sarcasmo più evidente e non apparire diversamente, mentre vedevo affiorare sul suo volto, a poco a poco, un'espressione di felicità << non sai prenderti cura neanche dei gerani. >>

 



Penultimo capitolo, con tanto di immagine (quella che più amo del video)! Eh sì, è giunta la fine della storia, ma il finale è ancora una sorpresa (anche per me, mi sa) Senza farlo apposta, finisco a 33 capitoli, come gli anni del Piero *-* .

Lisa :3 

 

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Capitolo 34
*** XXXIII. ***


 
You know it's not the end.










Mancava poco alla vigilia di Natale e al solito mi ero ridotta all'ultimo per comperare tutti i regali. Entrai nell'ennesimo negozio, con la speranza di trovare quello giusto per David, che, come tutti gli anni, risultava il più impossibile da accontentare. Con il precario equilibrio che mi ritrovavo, fu un'impresa riuscire ad entrare da quella piccola porticina di vetro. Quando ci riuscii, lasciai cadere tutto a terra e mi diressi alla cassa. Chiesi alla commessa di portarmi qualsiasi cosa ci fosse di zebrato. Qualsiasi. Si allontanò, dopo avermi chiesto qualche particolare sul carattere di David e sulle sue passioni, sorprendendomi non poco. Insomma, eravamo a Montréal, il gruppo era stra conosciuto. Anche il cane della nostra vicina conosceva David Desrosiers. Purtroppo. Era impossibile trattare con lei quando il ragazzo passava a casa nostra. Il suo cucciolo puntualmente gli saltava addosso, e lei era fermamente convinta che lui intendesse portarlo via con sé. Vani i miei tentativi di farle comprendere che casomai, sarebbe stato Mint (nome strano, ma era meglio non commentare con lei) a rapire David. Pierre mi aveva proposto di prendere un gatto, e di chiamarlo Wasabi. Alla battuta, ero scoppiata in una fragorosa risata che la donna aveva trovato altamente offensiva.
La commessa fece ritorno, e tra le mani stringeva una stampella. Mi mostrò una giacca di pelle nera.
<< Ma lui ce l'ha già. >> Affermai, guardandola. Poi tirai giù la lampo e mi resi conto che era esattamente quello che stavo cercando. Pagai, finendo, come tutti gli anni, i risparmi per i regali di Natale, e tornai alla mia auto, fattami gentilmente recapitare da una ditta da Ben. C'era tutto il plotone a cena, quella sera, per celebrare la vigilia e aspettare insieme il Natale, quindi dovetti fare ritorno. Collocai i regali sotto l'albero e mi sgranchii le ossa, per poi scaldarmi qualche minuto di fronte al camino. Tacchino, dovevo iniziare a cucinare il tacchino e il contorno di patate, e infine la salsa di mirtilli. Ma prima, il ripieno. Mi appostai di fronte al bancone, aprii il frigo e presi quanto necessario. Afferrai il telecomando dello stereo e feci partire la prima canzone. Iniziai a canticchiarla, e nel mentre preparavo da mangiare da più lati della cucina. Un esercito, ricordai, un esercito di affamati ti assedierà casa questa sera.
 
So raise your glass if you are wrong in all the right ways.
All my underdogs, we will never be, never be anything but loud,
and nitty, gritty, dirty little freaks!
Won't you come on, and come on and raise your glass?
 
Infornai il tacchino con tanto di ripieno, per poi finire il bicchiere di succo di frutta comprato appositamente per quell'occasione, per evitare gli alcolici. Sperai con tutta me stessa non avessi sbagliato niente, anche se ero certa avrebbero mangiato di tutto. Per tener fede ad una mia vecchia tradizione di famiglia, preparai anche la salsa di gamberetti che mia nonna era solita cucinare per poi versarla su degli ottimi spaghetti con pomodorini. Sembrava disgustoso a dire, ma era la cosa più buona che avessi mai mangiato. Non mi resi conto che Pierre era rientrato, dato il volume alto dello stereo, dalle cui casse si diffondevano le note di You and Me, dei Lifehouse.
<< Che romantica che sei. >> Disse, avvicinandosi e assaggiando la salsa.
<< Stai parlando con lo stereo? Non sapevo fosse donna e che tu avessi un'altra relazione. >> Scherzai, fingendomi offesa. Di tutta risposta, mi ritrovai del cioccolato che avevo appositamente sciolto per preparare il tronchetto di Natale sul naso. >> Cosa dico solitamente in queste circostanze?"
< Uhm..."Inizia a correre, Bouvier!"? >> Lo rincorsi fino al divano, per poi prenderlo di spalle; ma lui fu più forte di me, e con una sola mossa agile riuscì a farmi cadere sul divano, sovrastandomi poi con il suo corpo. Vani i tentativi di ribellarmi.
<< La cena brucia...>> Feci, ma il fatto che fosse così vicino mi tolse ogni briciolo di razionalità. Sentivo il suo respiro sulle labbra, così mandai al diavolo ogni pretesa di aver ragione di lui.
 
<< Pensa ad ingravidarla su quel lago e sta' zitto. >> Cercai qualcosa da lanciargli in faccia, ma ci pensò Pierre a saltargli addosso per soffocarlo. Debolucci entrambi, si stancarono in fretta e scoppiarono a ridere. Chi riusciva ad immaginare una storia d'amore seria tra quei due era da premio Oscar. Continuai con Chuck, ansioso di vedere la mia reazione quando avessi visto...il vinile di John Coltrane. Non sapevo come facesse a ricordarsi che lo adoravo, ma sapevo che il caro batterista aveva memoria e cuore per cose a cui teneva - mi ritenni fortunata di essere tra le persone che amava - sicché lo ringraziai e guardai Pierre. Mi si avvicinò e mi sussurrò all'orecchio che il suo regalo sarebbe arrivato dopo. La festa ripresee tutti optarono per un brindisi. Pierre mi porse un bicchiere di champagne, col quale bagnai solo le labbra, disgustata. Ci fu del tempo per un canzone di Natale, ma Anne era crollata, così Lachelle andò via, seguita dopo da Jeff con Maya, Zoey e France, distrutte, Jay, Jonathan, Real, Louise, e pian piano tutti, compreso David che aveva indossato il mio regalo, al contrario, mostrando la stoffa zebrata. Non riuscivo a smettere di ridere, così evitai di salutarlo da vicino. Chiusi la porta e mi appoggiai alla superficie lignea, stanca morta. Fortunatamente capitava una volta l'anno. Senza che potessi opporre resistenza, Pierre mi prese tra le sue braccia e mi portò di sopra, poggiandomi poi sul letto.
 
 
<< Io non so davvero cosa tu mi abbia fatto, quella sera, all'aeroporto: sono solo consapevole del fatto che non riesco più a fare a meno di te, e che tutto ciò che ti riguarda mi rende felice, mi tranquillizza, mi fa talvolta arrabbiare, mi fa ricredere su tutto quello in cui credo, mi fa sentire me stesso. David dice che mi sto rincoglionendo, ma spara stupidaggini molto spesso quando si tratta di me. Il regalo stavolta l'ho scelto io, e non voglio nient'altro da te se non il tuo consenso a rovinarti la vita per sempre. O almeno fino a quando non morirò, poi ci sarà il mio fantasma.>> Tirai fuori la scatolina di velluto blu e l'aprii. Lei non voleva diamanti o brillanti. Ma le dovevo tutto, e un piccolo zaffiro su quell'oro bianco ci stava tutto. La vidi piangere, e per un attimo temetti mi rifiutasse. Perché avevo pensato a me, perché non ce la facevo più a non saperla definitivamente mia. Perché io ero suo da quattro anni. Un piccolo cenno del suo capo mi mandò in tilt. Le chiesi di ripetere la risposta che, maledetto me, non avevo recepito.

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