Bree: Remembering lightning

di voiceOFsoul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 ***
Capitolo 2: *** 02 ***
Capitolo 3: *** 03 ***
Capitolo 4: *** 04 ***
Capitolo 5: *** 05 ***
Capitolo 6: *** 06 ***
Capitolo 7: *** 07 ***
Capitolo 8: *** 08 ***
Capitolo 9: *** 09 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***
Capitolo 26: *** 26 ***
Capitolo 27: *** 27 ***
Capitolo 28: *** 28 ***
Capitolo 29: *** 29 ***
Capitolo 30: *** 30 ***
Capitolo 31: *** 31 ***
Capitolo 32: *** 32 ***
Capitolo 33: *** 33 ***
Capitolo 34: *** 34 ***
Capitolo 35: *** 35 ***
Capitolo 36: *** 36 ***
Capitolo 37: *** 37 ***
Capitolo 38: *** 38 ***
Capitolo 39: *** 39 ***
Capitolo 40: *** 40 ***
Capitolo 41: *** 41 ***
Capitolo 42: *** 42 ***
Capitolo 43: *** 43 ***
Capitolo 44: *** 44 ***
Capitolo 45: *** 45 ***
Capitolo 46: *** 46 ***
Capitolo 47: *** 47 ***
Capitolo 48: *** 48 ***
Capitolo 49: *** 49 ***
Capitolo 50: *** 50 ***
Capitolo 51: *** 51 ***
Capitolo 52: *** 52 ***
Capitolo 53: *** 53 ***
Capitolo 54: *** 54 ***
Capitolo 55: *** 55 ***
Capitolo 56: *** 56 ***
Capitolo 57: *** 57 ***
Capitolo 58: *** 58 ***
Capitolo 59: *** 59 ***
Capitolo 60: *** 60 ***
Capitolo 61: *** 61 ***
Capitolo 62: *** 62 ***
Capitolo 63: *** 63 ***
Capitolo 64: *** 64 ***
Capitolo 65: *** 65 ***
Capitolo 66: *** 66 ***
Capitolo 67: *** 67 ***
Capitolo 68: *** 68 ***
Capitolo 69: *** 69 ***
Capitolo 70: *** 70 ***



Capitolo 1
*** 01 ***


A questo mondo esistono ragazze stupende. E' difficile non innamorarsene, anche guardandole una sola volta. Io non sono una di quelle. A questo mondo esistono ragazze con stupendi talenti naturali. Riescono a stupirti in pochi secondi. Io non sono una di quelle. Non sono bella e non mi riesce di far bene nulla se non studiare. E ogni tanto, in qualche momento di leggerezza, fare la cretina per far ridere quelle tre, quattro persone che sono capaci di sopportarmi standomi vicino. Una cosa ho di particolare. Quando sta per succedere qualcosa io lo sento. Non sono una veggente. Per carità! Più sto lontana da ste cose meglio mi sento. Dico solo che, di solito almeno, quando sta per succedere qualcosa ho delle strane sensazioni. E il mio gionocchio impazzisce. Sì, il ginocchio destro. Inizia a pulsare. Un piccolo muscolo nel lato interno del ginocchio inizia a contrarsi in modo sempre più veloce. E lì capisco che sta per succedere qualcosa. Bella o brutta non so. Qualcosa.
E' per questo che quella sera in macchina ero nervosa. Non ricordo se guidavo la mia macchina o meno. Non ricordo nemmeno se alla guida c'ero realmente io. Ricordo solo il mio vestito rosso e il ginocchio che trema. Poi solo buio.

Apro gli occhi. Piano. La testa mi scoppia dal dolore. Sembra che qualcuno stia giocando con un martello pneumatico dentro le mie tempie. Gli occhi mi bruciano e ci vuole un po' per mettere a fuoco. Non so dove mi trovo. Sento che sono sdraiata. Provo a muovere le gambe. Le sento pesanti, come se stessero ancora dormendo. Provo a muovere le braccia. Loro sono sveglie, ma sono più goffe del solito. Urto qualcosa a lato di quello che deve essere il letto su cui sono sdraiata. Mi sento intontita, come se qualcuno mi avesse sparato un narcotico per elefanti. Alzo il braccio destro fino a portarmelo davanti agli occhi. Tubi escono dal dorso della mano parzialmente fasciata. Oh cacchio. Sono in ospedale! Deve essermi successo qualcosa. Inizio a sentirmi sempre più agitata. Un bip-bip che prima era impercettibile adesso si fa sempre più acuto. Devono essere quei cosi per tenere sotto controllo il battito cardiaco. Li riconosco. Li ho visti milioni di volte in tv. Chissà se adesso dalla porta entrerà l'infermiera Hathaway con la sua divisa rosa. Seguita magari dal Dr. House col suo bastone che vorrà farmi qualcuna delle sue domande trabocchetto. E magari, se avrò fortuna, riuscirò a incontrare anche Mark Sloan o il Dr. Shepherd. Ma no. Sto volando troppo con la fantasia. Deve sicuramente essere un sogno. Non c'è altra spiegazione. Eppure tutto sembra così reale. Questo suono sempre più forte, il torpore diffuso. E poi adesso c'è anche una signorina, o signora non so, che mi si è avvicinata e continua a ripetermi di stare calma e continuare a riposare. Vicino al suo viso distinguo la sagoma di un altro volto, ma la signorina deve avermi dato un altro po' di sedativo per elefanti e ancor prima di riuscire a definire i lineamenti di quel viso appannato sono di nuovo circondata da buio.

Apro gli occhi. Cavolo che brutto sogno! Ho sognato di essere in ospedale e un'infermiera mi.. oh, no! Non era un sogno. Sono sempre qui, su questo letto. Sotto un tetto bianco e tra pareti azzurre. Rivedo la signorina, che tanto signorina non deve essere. Ha un viso tondo e sorridente, ma segnato già da qualche ruga e non solo di espressione. Ha due orecchini dorati ai lobi, sembrano quelli con le clip per le donne che non vogliono bucarsi le orecchie. Il suo sorriso è tinto di un rossetto rosso fuoco che su di lei non sembra essere volgare. Le vedo solo il viso eppure ho la sensazione che abbia un'eleganza unica. La vedo, sì. Riesco a metterla a fuoco bene e senza fatica. Mentre lei mi dice che adesso posso stare un po' sveglia, provo a muovere le gambe che mi rispondono meglio.
- Posso sedermi? - le chiedo. La mia stessa voce mi sembra più strana del solito. Assomiglia più a quella di una bambina che non alla mia.
- Certo, cara. Ti aiuto io, però. -
Il suo tocco è delicato ma il suo aiuto sembra essere fondamentale. Non so se da sola avrei potuto farlo.
- Cosa mi è successo? -
- Non ricordi niente, cara? - Ecco, quel 'cara' magari vorrei che lo evitasse. Non ricorderò il motivo per cui sono su questo letto, ma ricordo che odio essere chiamata così.
- Qualcosa mi ricordo. Mi ricordo chi sono. Sono Bree, giusto? -
- Brigida. Si. Il tuo nome è questo. Ricordi quanti anni hai? -
- Ventidue. Giusto? -
- Perfetto. Ricordi quando li hai compiuti? -
- 14 Gennaio. Giusto? -
- Ottimo. Allora, Brigida... -
- La prego. Mi chiami Bree. Odio il mio nome. -
- Come vuoi, cara. - E smetta anche di chiamarmi 'cara'. Questo lo penso ma non lo dico. - Sei qui perchè hai fatto un incidente in auto. Hai dormito qualche giorno. O meglio, ti abbiamo fatta dormire noi per evitare di farti sentire dolore. Fortunatamente non hai niente di estremamente grave, se non per la tua memoria. -
- Che vuol dire? Che ha la mia memoria? Non ricordo l'incidente, ma non ho dimenticato chi sono! So parlare. E sono sicura di ricordare ancora come si legge e come si scrive. Se vuole le ripeto tutti i teoremi di Analisi che ho studiato. Se ne scordo qualcuno è perchè non li ricordavo neanche prima. Mi dia un computer. Programmo. So programmare ancora. Non posso non saper più programmare! - Il bip-bip è tornato.
- Bree calmati. Stai calma. Fammi spiegare. La tua memoria antica è perfettamente a posto lì dove deve stare. Ma ci sono cose a cui al momento non sai accedere. -
- Che significa? -
- Significa che è un po' come se avessi perso la chiave di alcuni archivi. E quelli per ora non li puoi aprire. -
- E non possiamo chiamare un fabbro per rifare queste chiavi? -
La signora elegante ride. Ha un sorriso dolce ma il suono della sua risata non lo è altrettanto.
- Vedi Bree, non c'è bisogno di farne una nuova di chiave. Tu ce l'hai ancora, solo che hai dimenticato dove è. -
- Ora mi sta confondendo. -
- Non confonderti. Ti spiego. Queste zone di memoria devono essere riaperte pian piano e puoi farlo solo tu. Nessuno deve raccontarti quello che non ricordi altrimenti quel cassetto non si aprirà mai e tu vivrai quel pezzo della tua vita solo come il racconto di un altro. -
- E che si deve fare? -
- Devi parlare con le persone a te più care. Loro devo spronarti a ricordale. -
- Come possono fare se non devono raccontarmi niente? -
- Ho già spiegato tutto ai tuoi amici qui fuori. -
- Ci sono i miei amici? Qui fuori? Posso vederli? -
- Si, Bree. Tra poco potrai vederli, ma al momento dobbiamo finire di parlare solo io e te. -
- Ok. Dottoressa...? -
- Collins, cara. -
- Oh Collins. Come Phil Collins? -
- Vedo che la buona musica la ricordi, eh cara? -
- Ricordo Tarzan. -
- Tarzan? -
- Si. Phil Collins che canta la colonna sonora di Tarzan. Il cartone animato della Disney. -
- Ma certo. Torniamo a parlare di cose serie. Mi avevano avvertito che appena inizi a parlare non la smetti più, ma non pensavo che riuscissi in tre secondi a portare il discorso così lontano. - sorride di nuovo adesso.
- Ok Dottoressa Collins. -
- Allora Bree ti dicevo che i tuoi amici già sanno cosa devono fare. Ci sono tanti posti che possono far riaffiorare i ricordi. Posti, volti, oggetti, profumi e perfino cibi. La memoria da recuperare, poi, non è tanta. A quanto abbiamo capito i cassetti chiusi a chiave sono gli ultimi. Riguardano gli ultimi mesi. -
- Quanto pensa che ci vorrà? -
- Dipende da te, cara. - Stavolta 'cara' non mi da fastidio. E' dolce. Da mamma. Oh cavolo...
- Ma mia madre? -
- Tua madre sta bene. E' qui fuori coi tuoi amici. C'è anche tuo padre. -
- Mio padre? -
- Si. -
- Ricordare mio padre non è molto facile. E di certo non per l'incidente. -
- Nei giorni che è stata qui tua madre mi ha raccontato cosa è successo. Però adesso è qui. Magari non potrà aiutarti con la memoria perchè in questi mesi non c'è stato... -
- In questi anni non c'è stato, vorrà dire. -
- Si, scusa. Intendevo dire che magari non sarà fondamentale per la tua guarigione, ma almeno è qui. Si è precipitato appena l'hanno informato del tuo incidente. -
- Si sarà ricordato di avere una figlia. -
- Bree, al momento non devi pensare a cose negative. Agitarti non ti fa bene per nulla. -
- Ok Dottoressa Collins. -
- E adesso da brava. Sta calma. Ti sistemo il cuscino dietro le spalle e faccio entrare quella carovana di persone che c'è qui fuori la porta. Vuoi? -
- Si, grazie. - Sorrido. Il viso è ancora un po' intorpidito, ma sorrido. - Dottoressa Collins. - la chiamo mentre ha la mano sulla maniglia, prima che la giri. - Prima che esca voglio chiederle un'ultima cosa. -
- Dimmi Bree. -
- Funzionerà secondo lei? -
- Funzionerà Bree. Fidati. -
- Grazie. - Sorrido. Sento il viso più disteso.
La Dottoressa 'cara' Collins mi guarda e sorride teneramente. A guardarla così sembra finta. Una di quelle che si vede solo in tv. Sembra l'infermiera Hathaway un po' invecchiata e salita di grado. Apre la porta e la richiude alle sue spalle. Sento rumori di persone che si alzano da sedie cigolanti. Un brusio. Poi il silenzio e la voce della mia Dottoressa. Dice a tutti che mi sono svegliata e che mi ha spiegato tutto. Comunica che ora possono entrare. Possono entrare tutti in una volta nella stanza ma non devono fare baccano. Poi la porta si apre e vedo apparire finalmente visi conosciuti.

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Capitolo 2
*** 02 ***


La prima ad entrare fu Gigì. La mia Gigì. Lei non è chiusa a chiave nei cassetti, anche perchè non è mai passata dalla mia testa. E' scesa dritta al cuore dal primo giorno in cui ci siamo incontrate. Ha i capelli legati in una coda alta, gli occhi gonfi e il mascara sbavato. Ancora piange. Lei piange sempre. Si scaraventa sul letto e inizia a singhiozzare con le braccia abbandonate sul mio collo. Rischia di buttare a terra tutto e di strapparmi la flebo, ma non le interessa. Non interessa neanche a me. La abbraccio. Io non piango, però. Io rido. Rido perchè sono felice che sia stata lei la prima a venirmi incontro e perchè la scena, a mio parere, è più comica che strappalacrime. Lei quasi si offende. Si sente presa in giro forse. Ma no. Sa come sono. Sono quella 'anti diabete emozionale' io, no? Quella che non sopporta le cose troppo mielose e le spezza sempre con le battute più stupide. Come può offendersi.
Iniseme a lei sono entrate altre cinque persone. Non è poi così grande questa carovana Dottoressa 'cara' Collins! Cristina sorride ma le si legge in faccia che non dorme da giorni. Debby tiene stretta la mano di Giovanni. Deve aver dormito appoggiandosi su di lui, perchè la maglietta di Giovanni è un po' bagnata sulla spalla destra e sulla guancia corrispondente c'è un rossore evidente, segno che qualcuno c'è stato appoggiato sopra. I miei genitori non stanno mano nella mano, nemmeno si guardano in realtà. Mia madre si è appostata di fianco al mio letto. Non parla, probabilmente non se la sente con i miei amici qui. Mio padre è rimasto vicino alla porta. Mi guarda da lontano. Gigì è ancora appesa al mio collo. Le accarezzo i capelli e le sussurro all'orecchio che vorrei restare sola con mia madre. Lei mi guarda fisso negli occhi. Mi accontenta subito. Porta fuori gli altri ragazzi. Nella stanza restiamo io e lei. Mio padre è ancora appoggiato alla porta. Mi chiede con gli occhi se può restare. Non ci vediamo da tre anni, ma riusciamo ancora a capirci. - Entra quando esce la mamma. - gli dico. Anche lui mi accontenta. Va via chiudendo la porta dietro di sè. Solo allora mia mamma mi si butta al collo piangendo. E solo allora inizio a piangere anche io. Restiamo sole il tempo di rassicurarci che siamo ancora tutte e due vive. Il tempo dei 'mi hai fatto preoccupare' e dei 'fortuna che stai bene' non dura molto.
- Prima iniziamo e prima sarà tutto come prima. -
- Cosa vuoi dire mamma? -
- Devi iniziare a parlare coi tuoi amici. Per la tua memoria. -
- Tu non hai niente da farmi ricordare? -
- No, amore. Anzi, una cosa c'è. Che poi dovrebbe coincidere con l'inizio della tua amnesia. Ma lo sai che non posso dirti nulla. -
- Lo so mamma. Come devi farmelo ricordare? -
- Ho qui una cosa che ti può aiutare. - Si tuffa nella borsa. E' una di quelle enormi, in cui metti di tutto e non trovi mai niente. Una borsa da mamma. Ne tira fuori un ciondolo. No, non è un ciondolo. E' un portachiavi. E' uno della mia collezione. Il mio preferito. Mia madre mi prende la mano, quella senza tubi infilati dentro. Ci poggia dentro il piccolo panda stando attenta che non cada. Appoggia anche l'anello metallico che è collegato con una catenella al piccolo animaletto bianco e nero. C'è pure una chiave. Non l'avevo vista quando l'ha uscito dalla borsa. - Ecco qui. Questo è il mio contributo. -
- E' Pinco. Me lo ricordo questo. -
- Non è Pinco che devi ricordare, amore. Non so come funziona sta storia di ricordare, ma la Dottoressa mi ha detto che ti verrà naturale. Non succede nulla? Non ricordi? -
- No mamma. Non sento niente di diverso da quando mi sono svegliata. -
- Ok, amore. Magari ci vuole tempo. - Si avvicina e mi bacia delicatamente la fronte. Come quando da piccola avevo la febbre e lei doveva uscire lasciandomi sotto il piumone a guardare i cartoni. - Ora faccio entrare gli altri se per te va bene. -
- Va bene mamma. -
- Vuoi che faccia entrare tuo padre? -
- Ti da fastidio se ti dico di si? -
- No, amore. E' pur sempre tuo padre. Io non l'ho mai dimenticato questo. Al contrario di quanto ha fatto lui, forse. - Abbassa lo sguardo a terra. Succede sempre quando parla di lui. Penso che sia la rabbia che le sale in corpo. Abbassa gli occhi per non fare vedere le fiamme che le si scatenano dentro. Poi torna a parlare dolcemente. - Ma l'importante è che ora è qui, no? Se per te non è un problema, se non ti fa agitare o cose simili, posso dirgli di entrare. -
- Grazie mamma. - Mi sforzo di sollevarmi. Voglio baciarla come ha fatto con me.
- Ferma, ferma. Che stai facendo? -
- Voglio un altro bacino. - Faccio gli occhi da cucciolo di foca. Per intenerire. Lei ride lievemente. Si avvicina e mi accontenta. Poi va verso la porta.
Poso Pinco sul ripiano che ho accanto. Mi giro appena in tempo per vedere lo sguardo di fuoco che lancia mia madre a quell'uomo che trova davanti a sè aprendo la porta. Non si scambiano una parola neanche adesso. Non so se abbiano parlato mentre io dormivo. Ne dubito. Mio padre entra lentamente ed altrettanto lentamente chiude la porta. Sembra che non abbia il coraggio di guardarmi in faccia.
- Ciao principessa. -
- Papà. Chiamarmi principessa non funziona più da quando avevo otto anni. L'hai dimenticato? -
- Lo so. Volevo solo essere gentile. -
- Gentile un cazzo. -
- Ehi, signorina. Da quando ti è permesso usare questo linguaggio? - Alza un po' la voce, ma sembra che se ne penta.
- Da quando tu non sei più mio padre. -
- Io sarò sempre tuo padre. -
- Per il mio sangue si. Per me no. Hai smesso di esserlo quando hai lasciato casa. E quando per tre anni non mi hai cercato? Anche allora eri mio padre? - Il bip-bip sta ricominciando. Respiro profondamente. Non voglio che la Dottoressa Collins o chi per lei entri e ci interrompa. Lui resta con gli occhi bassi. Sembra un vecchietto stanco e amareggiato dalla vita, preso a calci da ragazzini pieni del fervore della ultraviolenza, come direbbe Alex DeLarge. Non mi guarda in faccia. Non ce la fa forse. - Ma ora sei qui. Grazie. -
- Non devi ringraziarmi. Quando ho ricevuto la telefonata e ho creduto di averti persa per sempre non sai come mi sono sentito. -
- Come? -
- Una merda. Perchè è una merda che sono. Sono stato una merda a non cercarti più. A fare finta che tu non esistessi. Tu sei l'unica cosa buona che ho fatto nella mia vita. L'ho capito troppo tardi. -
Frasi fatte, forse. Non riesco a credergli pienamente. La mia testa ha cancellato tre mesi della mia vita a quanto mi hanno detto. Io non riesco a cancellare tre anni in un attimo. - Papà. Spero che queste parole siano vere. Spero che tu ti sia reso conto di quello che hai fatto. E spero che tu davvero voglia recuperare. - Ho visto per un attimo un sorriso accendersi sul suo volto. Gli occhi gli brillano come un bambino che sta per entrare al Luna Park. Quasi mi dispiace dirgli ciò che sto per dirgli, ma non posso evitare di farlo. - Però tu sai la situazione in cui sono adesso. E' abbastanza delicata come cosa. Devo recuperare tre mesi della mia vita. Tu non puoi aiutarmi, se non standomi lontano fino a quando non sarò del tutto guarita. - Mi aspettavo che a questo punto si intromettesse con qualche obiezione, invece mi fa continuare a parlare. - Ho bisogno di serenità per poter aprire i miei cassetti, papà. Quando poi sarò guarita, se davvero pensi ciò che hai detto, potremo provare a recuperare. - Ho finito. Voglio una risposta, ma non sembra che arrivi. Per un po' stiamo in silenzio tutti e due.
- Hai ragione. - Si è deciso a rispondermi. - Per il momento ciò che importa di più è la tua salute. Devi pensare solo a quello. Io starò al mio posto per un po'. Ti giuro che quello che ho detto è davvero il mio pensiero. Starò in contatto con tua madre e quando la tua guarigione sarà completa tornerò. Voglio riavere la mia bambina. -
- La tua bambina non c'è più, papà. -
- La mia bambina ci sarà per sempre, BreeBree. - Nessuno mi chiama BreeBree da molto tempo. Forse nessuno mi ha mai chiamato così tranne lui. - Tu sarai la mia bambina anche quando sarai piena di rughe. - Dicendo questo inizia ad andare verso la porta. - Arrivederci, principessa. - Apre la porta e sparisce nel corridoio.
Vedo comparire nella stanza Cristina.
- Posso? -
- Entra, entra. -
- Non vorrei disturbarla signorina ma avrei qualcosa per lei. -
- Qualcosa per farmi tornare la memoria? - le chiedo ridendo.
- No. Qualcosa per riempirti lo stomaco. - mi mostra un pacchettino bianco fatto coi fazzoletti - Qui ti hanno tenuto su con queste cose liquide, ma io lo so che tu hai bisogno di sostanza! -
- Sicura che posso? -
- Puoi, puoi! Ho chiesto alla Collins e mi ha dato il permesso. Ovviamente a patto di portarne una fetta anche a lei. - Scarta l'involucro delicatamente. - Torta alle mele. La tua preferita. -
- Oddio Cristina. Ti amo. -
- Ami la mia torta di mele! -
Ridiamo insieme. Poi mi tuffo dentro quella fettona di torta. Non so se è l'ospedale, l'incidente o solo la fame, ma sembra più buona di sempre.
- Cristina, devo chiederti una cosa però. -
- Dimmi. -
- Non ho visto Evan prima. Come mai? -
- Beh... -
- Cri parla! E' successo qualcosa? -
- No Bree tranquilla. Evan sta bene. Solo che per ora non può essere qui. Non posso dirti molto, lo sai. Posso dirti solo che al momento giusto sarà qui. -
- Oddio. Perchè mi confondete tutti? -
- Eh, Bree. Vedrai che ogni cosa andrà al suo posto. -
- Lo spero. Gli puoi dire qualcosa da parte mia? -
- Penso di poterlo fare. -
- Allora digli che spero venga presto. -
- Penso che questo già lo sappia. -
- Tu diglielo comunque. -

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Capitolo 3
*** 03 ***


Sono andati tutti via. Sarebbe meglio dire che li hanno cacciati via. L'orario delle visite era finito. Anche quello delle visite straordinarie. E io devo dormire ancora. Non so per quanti giorni mi hanno tenuta addormentata e vogliono che dorma ancora. Serve per il cervello, per oliare i cassetti, ha detto 'cara' Collins. Per fortuna, però, non è ancora venuto nessuno a spararmi altro sonnifero per elefanti. Così posso riflettere su quello che mi è successo oggi. Non ho molto su cui riflettere, in effetti. Ho solo saputo che la mia testa è mezza andata. In fondo è quello che mi sento ripetere da ventidue anni. Non è stata una novità. Solo non ho capito come dovrei guarire. Quando mi faranno uscire di qui? Io odio gli ospedali. Se mi serve tranquillità e zero nervosismo non penso che stare qui a fissare il soffitto mi aiuti molto. Il bip-bip non è ricominciato, ma io non mi sento affatto rilassata. Sicuri che sto coso funzioni? Non lo so. Pensarci non migliora la situazione quindi preferisco smetterla. Cerco qualcosa da fare ma non c'è niente nella stanza oltre al mio letto, agli strumenti dei medici e al vassoio qui accanto. Prendo Pinco, infilo il dito nella catenella e lo lascio dondolare davanti ai miei occhi. Guardarlo mi fa sorridere. Ricordo quando l'ho comprato. Ero con Gigì un giorno che avevamo marinato la scuola. Niente che fosse chiuso a chiave. Non si apre nulla. E poi, cosa dovrebbe succedere? Come si apre un archivio di ricordi? La dottoressa ha detto a mamma che mi verrà naturale. Io non riesco ancora a capire come. Prendo la chiave che è appesa a Pinco. La osservo. Non è quella di casa mia. Neanche quella della mia piccola auto. Di chi sarà? E perchè è appesa qui? Pinco è da collezione, non lo uso mai per portarlo in giro con le chiavi appese. Tante domande, ma niente risposte. Saranno forse le domande che mi aiuteranno a ricordare? Oddio, sono confusa più di prima. Altro che archivi da aprire. Prima c'è un'intera scrivania di scartoffie da riordinare!
Qualcuno interrompe i miei pensieri. E' entrata un'infermiera. E' giovane, avrà poco più della mia età. I capelli biondi raccolti in una lunga treccia che esce dalla cuffietta che deve obbligatoriamente portare quando è in servizio, la divisa verde e le scarpe di gomma. Sembra stanca. Sarà stata tutto il pomeriggio a lavorare. Spinge un carrello. Il piano superiore è pieno di boccettine. Sotto ci sono due bicchieri e qualche scatolo.
- Buonasera ciccina. - Ciccina? Ma siamo pazzi? Prima la Collins che mi chiama 'cara', ora questa che mi chiama 'ciccina'. Ma che vogliono da me?
- Buonasera. E' venuta per farmi un altro sedativo per elefanti? -
- Mi dai del lei adesso? -
- Perchè? Ci conosciamo? Ci siamo già viste? Mi scusi ma io non la ricordo. -
- Allora è vero. -
- Cosa? - Perchè nessuno riesce a scambiare due parole con me senza confondermi?
- Non sapevo fossi tu quella con l'amnesia. Scusami. Non avrei neanche potuto essere qui! -
- Perchè? -
- Perchè noi ci siamo conosciute, ma tu non lo ricordi per ora. E non vorrei che il mio essere qui, il fatto di averti detto queste cose, possa aver influenzato il tuo percorso. -
- Dai, non mi hai detto nulla. Non penso sia così tragica la cosa. -
- Non lo so. Queste sono cose che non si possono prevedere. -
- Mi stai spaventando. - Per l'ennesima volta in questa giornata. La gente non sa fare altro che confondermi e spaventarmi. Nessuno che abbia pietà di una poverina con la mente bacata?
- Forse hai ragione tu. - Deve avermi letto in faccia i pensieri. Si vede che mi sta dando ragione solo per tranquillizzarmi. Io, però, ho bisogno di tranquillizzarmi perciò fingo di crederle.
- Cosa hai portato per me? -
- Devi prendere un paio di medicine. Fino a ieri le mettevamo in flebo, ma adesso puoi prendere da sola. E ti ho portato qualcosa da mettere nello stomaco prima. Devi ricominciare ad usarlo. -
- Ah questo già fatto! -
- La Collins me lo ha detto. E anche se non me l'avesse detto, le briciole non scompaiono dal letto da sole. -
Abbasso gli occhi. L'infermiera ha ragione. La coperta è piena di briciole. Mi sporgo e con un paio di rapidi movimenti le butto a terra. - Quali briciole? - Spalanco un fintissimo sorriso da chi è stato beccato con le mani nel vaso di marmellata.
- Non spariscono neanche dal pavimento. -
- Scusami. -
- Tranquilla. Ci penseranno domani. Per ora prendi questo. - Si china e apre lo sportello sotto il secondo ripiano. Esce un piatto di plastica. Quelli da mensa ospedaliera sigillati con la carta trasparente. Me lo porge. Dentro ci sono due fette di formaggio, una di proscitto e una fetta di pane in cassetta. - E se hai ancora fame c'è anche questo. - Preleva un piatto uguale, ma che contiene una mela tagliata a fette.
- Che cena da re! -
- Non fare la schizzinosa. E' una delle cene migliori in ospedale. -
- Lo so, lo so. Scherzavo. - Apro il primo piatto. - Ti dispiace se mangio adesso? -
- Devi mangiare adesso! Io devo restare qui finchè prendi le medicine. E non puoi prenderle se prima non finisci tutto! -
- Ho capito che devo sbrigarmi. - Rido. Prendo il pezzo di pane e gli poggio su una fetta di formaggio. Lo piego su se stesso e lo porto alla bocca. Non è la torta di mele di Cristina, ma almeno è solido. - Puoi dirmi come ti chiami? -
- Sinceramente non lo so. -
- Per il fatto dei cassetti? -
- Eh? Che cassetti? -
- Lascia perdere. Una cosa che mi ha detto la Collins per farmi capire quello che succede qui dentro. - Mi porto la mano che non regge il panino alla testa. Parlo con la bocca mezza piena, ma lei non sembra schifarsi. - Intendevo dire, pensi che possa influire sul riacquisto della memoria? -
- Forse, non lo so. Preferisco non dirti nulla prima di aver parlato con la Collins. Voglio sapere come comportarmi. Non voglio avere i tuoi ricordi sulla coscienza. - Da come parla sembra che mi voglia bene. Dobbiamo esserci frequentate molto in questi tre mesi. - Per adesso chiamami S. -
- S? -
- Sì. Così non saprai il mio nome fin quando non lo ricorderai o non potrò dirtelo tranquillamente. - Sorride. Ha delle belle labbra e gli occhi castani sembrano pieni di lucciole da quanto sono luminosi.
- Senti una cosa S. Tu per caso sai come funziona questa storia dei ricordi? -
- Che vuoi dire? -
- La dottoressa mi ha detto che mi aiuteranno cose, luoghi, profumi, ma non come. Mia madre mi ha portato questo. - Le faccio vedere Pinco. - Mi ha detto che è il suo contributo, ma ancora non è successo niente. Non ho ricordato niente di più. -
- Precisamente non so come funziona. Se te l'ha lasciato vuol dire che è successo qualcosa collegato con quest'oggetto. Forse quella chiave significa qualcosa. Penso che a un certo punto ti venga un improvviso ricordo. Come quando cerchi di ricordare per ore qualcosa che dovevi dire o fare e poi, quando non ci pensi più, hai una specie di lampo e ti viene in mente. -
- Dici? -
- Penso. Forse adesso non ti viene in mente e appena ti rilassi un po' e non ci pensi più ti fulmina il ricordo. -
Guardo per un attimo Pinco spenzolare. Lo poso di nuovo sul vassoio. - Forse hai ragione tu. -
Mi rituffo nel piatto. Prendo il resto del formaggio, lo arrotolo dentro il prosciutto a formare un involtino e lo mando giù in due bocconi. S inizia a trafficare con le medicine. Sta miscelando dei liquidi presi dalle boccettine all'interno di una siringa. Io inizio a mangiare i pezzi di mela. S apre degli scatoli. Si avvicina al vassoio e poggia sopra un tovagliolino due pillole. Una è abbastanza piccola, di quelle bicolore che sanno di plastica, mezza bianca e mezza rosa. L'altra è tutta bianca, di media grandezza. Torna al carrellino, prende uno dei due bicchierri e lo poggia vicino alle pillole. Ci versa dell'acqua dentro dopo aver prelevato una bottiglia dall'armadietto sotto il vassoio. Nel frattempo io ho finito di mangiare le fette di mela.
- Prima devi prendere questa. - Mi indica la pillola grande. - La devi prende con tutto il bicchiere d'acqua altrimenti non agisce bene. -
- Ok. - Metto la pillola in bocca e prendo il bicchiere. E' un po' amara. Bevo l'acqua tutta d'un fiato e mando giù con lei anche la piccola.
- Ora devi prendere l'altra. Stessa storia con l'acqua. -
- Va bene capo! -
S mi versa altra acqua nel bicchiere. Ripeto la stessa operazione di prima. Stavolta è più semplice. La pillola bicolore semrba non avere sapore e scivola lungo la gola quasi da sola.
- Perfetto. Adesso tocca a questa. - Prende la siringa che aveva preparato sul primo ripiano.
- Dove me la devi infilare quella? -
- No tranquilla. Questa va in vena dal tubo della flebo. - Si avvicina. Scollega uno dei fili che mi escono dalla mano staccandolo da un appiglio di plastica bianca. Ci inietta dentro il contenuto della siringa e riattacca il tubo.
- E' il sedativo per elefanti? -
- Ma sei fissata co sto sedativo per elefanti! Tranquilla, serve solo a farti rilassare. Sarai sicuramente tesa dopo il trambusto di oggi. -
- Scombussolata, direi. -
- E' normale. Domani andrà già meglio. Adesso io vado. Mi sono trattenuta fin troppo. Buonanotte Bree. -
- Buonanotte S. -
S esce dalla stanza spingendo il carrellino. Non mi ha mentito. Fosse stata un'altra dose di quello che mi hanno buttato ieri starei già dormendo. Ieri? Sono sicura che fosse ieri? Non lo so. Non so nemmeno per quanti giorni mi hanno tenuta addormentata. Che giorno è oggi? Non c'è neanche un orologio appeso al muro. Nulla. Mi appoggio su un fianco stando attenta a non strapparmi nessuno dei tubicini. Fisso Pinco che è seduto sul vassoio.
- Fammi ricordare, Pinco. Ti prego. -
Lo squadro da cima a fondo. Qualcosa non va, però. Non ci ho fatto caso prima. Ero troppo presa da mia madre, dalla confusione, da S, dalle medicine.
- Questo non è Pinco! -
Il portachiavi è uguale a quello che ho comprato con Gigì, ma non è Pinco quello sul vassoio. Pinco ha una delle due zampe graffiate. L'unica volta che l'ho usato è stato quando ho avuto l'incidente mentre andavo a casa di Gigì. Dopo che si graffiò lo misi tra quelli che non dovevano essere usati, perchè ci tenevo troppo. Questo invece è intatto. Lo prendo tra le mani. Lo giro e lo rigiro. Ecco un'altra differenza. Pinco ha la sciena completamente bianca. Questo ha una striscia nera al centro. E questa chiave... è la chiave della macchina di mamma. Oddio, mi scoppia la testa. Eccolo. Aveva ragione S. Il fulmine è arrivato.

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Capitolo 4
*** 04 ***


Suona la sveglia alle 7:30 del mattino. Non ce la faccio ad alzarmi. Ho troppo sonno. Altri cinque minuti!
- Bree farai tardi a lezione! - mi grida mia madre. Sarà in cucina a leggere il giornale con la sua solita tazza di latte e caffè, più latte che caffè.
- Sì, mà! - Mi giro dal lato opposto e tiro su la coperta a coprirmi le orecchie anche se inizia a far caldo.
Risuona la sveglia. Sono le 7:45. Di nuovo mia madre mi chiama. Forse è meglio alzarmi. Con la vitalità di un bradipo tiro via le coperte e scendo i piedi a terra. Mi alzo e mi stiracchio un po'. Poi vado in cucina con l'energia di uno zombie. Succo di mela e due biscotti.
- Ti ho lasciato il caffè. -
- Vadvan. - Di mattina non riesco a parlare. Mia madre, dopo ventidue anni non l'ha ancora capito. O più semplicemente si diverte a farmi domande appena sveglia.
- Che hai detto? - Eccola che gira il dito nella piaga.
- vadvan! -
- Certo, certo. Come dici tu! - Mi prende anche per il culo adesso! Le lancio un occhiataccia ancora mezza addormentata.
Mi trascino in bagno. Niente doccia di mattina. Sono troppo addormentata anche per quella! Mi lavo a pezzi e vado in camera a vestirmi. Jeans, polo a maniche corte e converse. Tenuta da universitaria. Torno in cucina.
- Si può sapere che hai detto prima? - Ancora se la ride sotto i baffi lei.
- Ho detto che lo prendo da Evan. -
- Ah! L'avevo capito! - e ride.
E' bella quando ride. Ma appena sveglia non l'apprezzo così tanto. Torno in camera e sistemo la borsa. Butto dentro i documenti e le cose che mi serviranno per prendere appunti. Guardo l'orologio. Le 8:15. Sono perfettamente in tempo per passare da Evan prima della lezione.
- Bree devo dirti una cosa. -
- Che c'è mamma. - Ho già la borsa in spalla.
- Ieri ho saputo una cosa. Ho voluto aspettare a dirtela, però. - E' seria. Mi sta facendo preoccupare. Sembra leggermelo in faccia. - No, no, tranquilla. Non è niente di grave. Solo che c'è bisogno di me su. -
- Su, dove? -
- Lombardia. -
- Oddio! Per quanto tempo? -
- Devo fare gli ultimi tre mesi al posto di una professoressa che è in maternià. -
- E chiamano te da qui per una in maternità? -
- Non lo so perchè hanno chiamato me. So che ci fanno comodo tre mesi di lavoro. -
- Si mamma lo so. Ma la Lombardia! -
- Lo so. Non piace neanche a me. Ma parto stasera. -
- Stasera? Sei pazza? Quando dovevi dirmelo? -
- L'ho saputo ieri. Volevo farti dormire tranquilla. -
- Ma tra poco inizieranno gli esami. E poi io non ci voglio andare a Lombardia. Non ci voglio vivere nemmeno per tre mesi! -
- Tesoro, forse non hai capito. Ho detto che parto stasera, non che partiamo. -
- Resto qui? -
- Bree ormai hai ventidue anni. Non ne hai più tredici come l'ultima volta che ho avuto un lavoro fuori. Puoi badare a te stessa per tre mesi. E poi non credo che la madre di Gigì avrà problemi a darti una mano nel caso ne avessi bisogno. -
- Quando è l'aereo? -
- Alle 19 devo essere in aereoporto. -
- Allora appena finisco le lezioni vengo a prenderti e pranziamo fuori. E stasera ti accompagno io, ovviamente. -
- Ma di pomeriggio non hai altre lezioni? -
- Sì, ma chissene! -
- Sei sicura? -
- Si, mamma. - Guardo l'orologio. - Ora però devo andare. -
- Ci vediamo a pranzo amore. -
La bacio sulla guancia ed esco dalla stanza.
- Un'ultima cosa Bree. -
- Cosa? -
- Tieni. - Mi tira una oggetto. Lo prendo al volo. Lo guardo.
- Che ci facevi con Pinco? -
- Non è Pinco, tranquilla. E' il mio portachiavi. Un regalo di Evan. -
- Adesso Evan ti fa anche i regali? -
- Ogni tanto mi vizia, sì. Comunque, questa è la chiave della mia macchina. Ti do il permesso di prenderla mentre sono via. Ti prego solo di non farmela ritrovare a pezzi al mio ritorno. -
- Tranquilla mà. Sono diventata una pilota ormai! -
- Immagino. - Mi sta di nuovo prendendo in giro.
- Abbi un po' di fede, mà. Per il momento ti risparmio l'infarto. Vado col motorino che faccio prima. - Poggio il panda sul tavolo del salottino. Corro a darle un altro bacio. Stavolta lo condisco anche con un bell'abbraccio. - Ci vediamo dopo, mà. - E scappo in garage. Prendo il casco nel bagagliaio e sono pronta per uscire.
Il bar di Evan è a pochi passi dalla facoltà. Lascio il motorino difronte all'entrata ed entro col casco al braccio.
- Buongiorno Singor Nimei. -
- Oh, ciao Bree. Il solito? -
- Sì, grazie. - Il padre di Evan è un uomo affascinante. Lo dimostra la quantità di studentesse che sono diventate caffeinomani una volta che l'hanno scoperto. Anche adesso ci sono due ragazze al bancone che lo stanno mangiando con gli occhi. Le ho già viste. Sono matricole. Devo ammettere che anch'io al primo anno venivo qui solo per dare una sbirciatina al fisico che ancora si ritrova. Per non parlare di cosa ammiravo quando si girava per fare il caffè. Sodo e tondo. Meglio di quello di un diciottenne. Adesso è diverso, ovviamente. - Evan dov'è? -
- E' sul retro. Te lo chiamo subito. - Si sporge oltre un'apertura. Poi torna e mi porge il caffè. Sul piattino ci sono già due bustine di zucchero. Accanto poggia un bicchiere di acqua fresca, rigorosamente senza bollicine. Verso il contenuto delle bustine nel caffè e inizio a miscelarlo. Solo allora Evan arriva. Evan non assomiglia a suo padre. E' alto quanto lui, ma il suo fisico è nettamente diverso. Ha i capelli scuri sempre scomposti dal gel e profondi occhi grigi protetti da occhiali da secchione. Non ci sono ragazze che sbavano al bancone per lui. Sciocche! Non avrà ereditato il fascino di suo padre, ma ha un cuore grande. E' dolce e poi non è nemmeno brutto.
- Sei in ritardo! -
- Lo so, ma mia madre mi ha trattenuto. -
Si avvicina. Mi passa il braccio intorno alla vita, mi stringe a sè. - E perchè? - Mi da un bacio forte sulla guancia sinistra.
- Perchè stasera parte. -
- Dove va la mia mamma di altri preferita? -
- Ohi! Ma ci stai provando con mia mamma? -
- Chi ci sta provando con tua madre? - si intromette il signor Nimei.
- Nessuno pà. -
- Ah ecco! Ricordati che quando tua madre tornerà a mettersi su piazza il primo a provarci sarò io. -
Rido. Me lo dice da quando papà è andato via. Ovviamente scherza. - Non credo che sua moglie sarebbe molto daccordo con questo. -
- Dettagli, dettagli. - e così torna a lavorare.
- Cosa stavamo dicendo prima che mio padre ci interrompesse? -
- Dicevamo che ci provi con mia madre! -
- No, dicevamo che tua madre parte. -
- Non cambiare discorso Evan! -
- Dove va? -
- Lombardia. Per tre mesi. Ma non fare il finto tonto con me. Allora, rispondi! -
- A cosa? -
- Ci provi con mia madre? Sì o no? -
- Ma ti pare che ora mi metto a provarci con la madre della mia migliore amica! Ma non scherzare Bree! -
- Sarà... ma io il dubbio me lo tengo. -
- Come vuoi. Tieniti pure il dubbio. Ma ora scappa che se no arrivi a lezione iniziata e poi ti lamenti che hai perso pezzi importanti per colpa mia! -
- Va bene, va bene. Fammi pagare e vado via. - mi avvio dietro il bancone.
- Ma se è due anni ormai che non paghi più qui! -
- Tu zitto. - gli intima suo padre.
- Quanto viene signor Nimei? -
- Allora, fammi fare due conti. Hai preso il solito, no? - - Niente di più, niente di meno. -
- Allora paghi il solito. - Sorrido. Gli stampo tre baci sulla guancia. Le due matricole al bancone adesso hanno convertito i loro sguardi ormonali in lanciarazzi e mi stanno incenerendo. - Ora puoi andare. -
Vado da Evan e faccio lo stesso con lui.
- Mi sa che non sono io a provarci con tua madre, ma mio padre a provarci con te. -
- Scemo. -
- E geloso. - aggiunge il signor Nimei.
Saluto ancora una volta Evan ed esco. Posteggio il motorino all'interno della facoltà e corro a lezione. Il professore è già dentro, ma per fortuna non ha ancora iniziato a spiegare.

Cavolo. Fanno male i fulmini. Mi gira la testa. Vertiginosamente. E mi fa male. Troppo. Una lancia mi trapassa da parte a parte le tempie, più e più volte. Urlo, ma non sento la mia stessa voce. S, però, la sente. Entra nella mia stanza accendendo la luce. No, la luce no. Mi fanno male gli occhi. Urlo ancora. S cerca frettolosamente una boccetta di vetro. Ne preleva il contenuto con una siringa e mi inietta il contenuto tramite il tubo della flebo come ha fatto dopo cena. La lancia inizia a rallentare. Il dolore di placa. Anche le vertigini. Ho solo un gran bisogno di vomitare. Ho l'impressione di averlo fatto non rendendomene contro, perchè S adesso sta pulendo il pavimento di fianco al mio letto.
- Ho avuto un lampo. Come dicevi tu. -
- Davvero? Quando? -
- Adesso. Ma ha fatto male. -
- All'inizio è normale. Penso che poi ti abituerai alla situazione. -
- Mi hai sparato un po' di sedativo per elefanti? -
- Stavolta si, Bree. -
- Stavolta mi va bene S. -
- Che hai ricordato. -
- E' stato il portachiavi. Ho ricordato il giorno in cui mia madre mi ha detto che partiva. -
- Benissimo Bree. Quello era il primo cassetto chiuso, come direbbe la Dottoressa Collins. L'hai aperto in tempo record. -
- Ma non è stato come ricordare. E' stato come viverlo adesso. -
- Spiegati. -
- Io non stavo pensando a quello che era successo. Io lo stavo vivendo. Prima è iniziato un forte mal di testa. Poi ho visto tutto bianco. Poi tutto nero. E poi mi sono svegliata nel mio letto. Nel mio letto di casa. Ho rivissuto quella giornata. Ma non sapevo niente dell'ospedale nè dell'incidente. -
- Perchè non era ancora successo. Ti sembra di aver rivissuto quella giornata, ma in realtà l'hai solo ricordata. Solo che per te è la prima volta. Per questo nessuno deve raccontarti niente. Altrimenti non sarebbe più un tuo ricordo vero, perchè sarebbe come se non l'avessi vissuto. -
- Ora inizio a capire quello che mi ha detto la Dottoressa. - Riesco a stento a tenere gli occhi aperti. Ha fatto effetto il sedativo per elefanti.
- Brava Bree. Adesso dormi. - E' l'ultima cosa che riesco a sentire. Torno nel buio.

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Capitolo 5
*** 05 ***


Ringraziando il cielo, dopo essere crollata nel buio, ho dormito profondamente fino ad adesso. Mi sono svegliata senza nessun disturbo, per fortuna. La Dottoressa 'cara' Collins è già passata. Ha fatto i sali di gioia appena saputo del mio primo flashback. Ha detto che abbiamo raggiunto un grande risultato in poco tempo. A me un giorno di ricordi pagato al prezzo di un trapano nel cervello non sembra un gran risultato, ma lei dice che lo è e le credo. Ha detto anche che i malori dovrebbero diminuire man mano che inizio a ricordare. Mi ha detto che i flashback sono collegati a quello che già era stato memorizzato nei miei archivi prima dell'incidente. Perciò se la mia mente aveva già deciso di togliere qualche pezzo perchè non necessario non posso più recuperarlo. Non mi piace molto questa storia, ma lei dice che non mi causerà problemi. Quindi alcune cose non le rivivrò, le ricorderò soltanto o nemmeno quello. S non è di turno oggi. Ha staccato stamattina e non so quando tornerà. Per adesso mi ha assistito un'infermiera molto più grande di lei. Deve essere anche molto più esperta. Mi ha aiutato a rendermi presentabile per l'orario di visita. E' gentile ma parla poco. Non ricordo nemmeno lei, ma probabilmente non l'ho mai incontrata prima.
E' iniziato l'arrivo dei parenti. Lo sento. Il corridoio si è riempito di rumori. Voci felici si mischiano a voci preoccupate. Per il momento, però, non c'è nessuno dei miei. La prima ad entrare in stanza è mamma. Mi bacia. Le racconto del mio flashback e le chiedo come è andata poi con il lavoro.
- Non posso dirti nulla amore mio, lo sai. -
- Ma quando sei tornata a casa? Prima del mio incidente? -
- Amore ti prego, non vorrei combinare danni al tuo cervellino. -
- Dai mami. - Si scioglie sempre quando la chiamo così. E mi da ciò che voglio. Uso questo trucco da quando avevo otto anni. Non se ne è mai resa conto. O almeno questo è quello che credo.
Stavolta però il mio trucchetto non funziona. E' determinata a non dirmi nulla che potrebbe danneggiare la mia 'guarigione'. Per sua fortuna non ho il tempo di insistere perchè arriva Gigì con Debby. Mi chiedono come ho passato la notte.
- Mi hanno dovuto addormentare di nuovo. -
- Per quale motivo? - Gigì è preoccupata. Le si sono arricciate le sopracciglia.
- Stavo male. Avevo forti dolori e ho pure vomitato, mi pare. Ero in una confusione tale che non so esattamente cosa è successo. Almeno, però, è servito a qualcosa. -
- A farti fare una dose per dormire? - Non capisco se Debby l'ha detto per cercare di sdrammatizzare ciò che ho raccontato.
- No. E' stata la reazione al primo ricordo. -
Il viso di Debby si illumina. Il sorriso le arriva alle orecchie.
- Hai ricordato? - A Gigì le cose si devono sempre dire due volte.
Annuisco. Gigì è così felice che urla.
- Shhhhhh. Siamo in ospedale. Ricordatelo. -
Dalla porta entra l'infermiera di stamattina chiedendo se è tutto apposto, se mi serve qualcosa.
- No, grazie. - Le sorrido. - E' stata solo la reazione a una bella notizia. -
L'infermiera capisce. Sorride anche lei. Va via. Non chiude la porta perchè c'è qualcuno che deve entrare. E' Cristina.
- Scusate il ritardo ma avevo bisogno di una grande autorizzazione. - Ha in mano una teglia rettangolare ricoperta da carta argentata.
- Una dolce autorizzazione? -
- Un'autorizzazione al bacio! - Poggia la teglia, che sembra essere pesante, sul tavolo di fronte al letto e viene a salutarmi. - E' la crostata con cioccolato e nocciole. -
- Cri, ti amo sempre di più. -
- Anche sta volta ho dovuto portare la parte alla Collins. -
- Certo che è una scroccona questa, eh! - dice Debby da vicino al tavolo. - Come la mangiamo questa? -
- Ho pensato a tutto io! -
Cristina pensa davvero a tutto. Sempre. E la crostata è davvero squisita. Vorrei fare il bis ma preferisco non esagerare. Le guardo. Le quattro donne della mia vita. Sono tutte qui. Mi piace guardarle. Stanno sorridendo tutte. Le ho fatte spaventare molto, ma ormai la paura è passata. Ormai sono sulla via della guarigione. Vorrei che ci fosse anche Evan. Non mi dispiacerebbe se ci fosse anche suo padre. Qui sto tutto il giorno da sola e voglio avere tutte le persone a cui voglio bene sott'occhio durante l'orario di visita. Vola il tempo mentre loro sono qui. Vola anche se non possono raccontarmi niente. Vola anche se non rispondono mai alle mie domande. Vola ed è già finito.
Sono andate via. Tutte mi hanno lasciato qualcosa per ricordare. Tranne mia madre, ovviamente. Ora so perchè non può aiutarmi. Debby mi ha dato una foto. Ci siamo noi quattro abbracciate. E' sera e siamo per strada. Sorridiamo. Ho addosso una maglietta che non ho mai visto e che non centra niente con il resto del mio abbigliamento. Cristina mi ha portato un rossetto. Non è mio. Io non sono tipo da rossetti. Non che sia una ragazza acqua e sapone, ma odio lasciare impronte di labbra ovunque. Gigì mi ha lasciato una carta, un asso di picchie. Questo non ho la più pallida idea di cosa significhi. Ho abbandonato tutto sopra il vassoio quando se ne sono andate. Ho paura a guardare troppo a lungo queste chiavi. Non so perchè ma ho paura dell'arrivo di un nuovo fulmine.
La porta della mia stanza si apre. Entra l'infermiera di poche parole. Mi ha portato la cena. Riso bianco, due polpette e una pera a fettine. Mangio quasi tutto anche se non ho fame. E poi ho ancora il sapore delizioso della crostata di Cristina perciò il sapore squallido del riso bianco ci fa un po' a pugni. Quando finisco di mangiare l'infermiera mi fa ripetere tutto quello che ho già fatto ieri sera con S. Piccola grande. Acqua. Pillola bicolore. Acqua. Siringa in flebo. Lei mi dice che mi hanno diminuito di poco la dose del tranquillante perchè ieri sera mi hanno riaddormentato. Sperano che stasera non serva. Lo spero anche io. - Cerchi di riposare. - E si avvia verso la porta.
Sono di nuovo da sola. Nel buio della mia stanza. Entra una fioca luce dalla finestra. L'infermiera si è dimenticata di chiudere completamente le tapparelle. Deve esserci una luna piena fuori. E il cielo limpido. O forse è solo un lampione fuori dalla mia finestra. Non posso saperlo. Non so neanche in che ospedale sono. Non me l'hanno detto e io non ho chiesto. Come non ho chiesto del mio incidente. Ero sola? Come è andato? Non mi avrebbero risposto comunque. Avrebbero usato la solita scusa del 'non ti diciamo niente per i tuoi cassetti'. Non ne posso più di sentirmelo ripetere. Guardo il vassoio su cui ho abbandonato tutto quello che mi hanno lasciato. C'è un solo modo per far in modo di non farmi più ripetere quella frase. Guarire. Riacquistare la memoria il più presto possibile. Mi siedo sul letto facendo attenzione. Prendo tutto quello che è sul vassoio e me lo poggio sulle gambe. Fisso attentamente la foto. Passo al rossetto. Poi all'asso di picchie. Mi sforzo. Voglio ricordare. Voglio aprire i miei cassetti. Voglio andarmene di qui. I miei occhi continuano a scrutare ogni particolare di quelli oggetti, ma nella mia mente non sembra smuoversi nulla. Inizio ad agitarmi. Il bip-bip sta aumentando il suo volume. Devo calmarmi. Forse è meglio concentrarsi su un oggetto alla volta. Magari non riesco ad elaborare più cose contemporaneamente. Prendo in mano la foto. Guardo la strada che è ripresa. Cerco di capire dove eravamo. Sembra il viale del lungo mare. Non è una nostra meta frequente. Soprattutto quando facciamo un'uscita sole donne. I locali della zona non hanno una bella nomina. Eppure sembra proprio quella la strada. Niente. Nessun fulmine. Prendo il rossetto. Tolgo il tappuccio della confezione e lo passo sul dorso della mano. Il colore è un rosso scuro. Ha un odore delicato. Sono quasi sicura di averlo visto in dosso a Gigì. Perchè allora ce l'aveva Cristina? I dubbi invece di diminuire aumentano sempre di più. E nessun fulmine sembra aver voglia di colpirmi stasera. Prendo la carta che mi ha lasciato Gigì. Questa è proprio la cosa che mi disorienta di più. La giro e la rigiro tra le mani cercando qualche traccia che mi possa aiutare a capirne il significato. Nulla. E' una semplicissima carta di un mazzo di carte francesi con il retro blu. Nessun segno particolare, nessun simbolo, nessun appunto. Niente di niente. Un semplice asso di picchie che non significa nulla per me. Almeno non adesso. Ho un lieve mal di testa. Che stia iniziando a smuoversi qualcosa? Riprendo tutto e inizio di nuovo a scrutare a raffica tutti i particolari dei tre oggetti. Il mal di testa aumenta. Guardo più intensamente. Iniziano a bruciarmi gli occhi. Più forte. Ancora di più. Si accende il martello pneumatico nella testa. Chiudo gli occhi.

Non è successo niente. Mi sono addormentata. Sono le sette. Un'altra infermiera entra nella mia stanza. Mi trova così. Con i miei oggetti stretti tra le mani e la schiena ancora sollevata. Non è arrivato nessun fulmine. Quel martello pneumatico dev'essere stato causato dalla stanchezza. La stessa che mi ha portato ad addormentarmi dopo soli tre secondi di occhi chiusi. Non ha funzionato. Gli oggetti delle mie tre più care amiche non sono serviti. Ieri sera non si è aperto nessun cassetto. L'infermiera che è entrata è giovane, sembra avere l'età di S. O almeno quella che S dimostra. Si presenta, lei può perchè non ci conosciamo. Si chiama Jessica. Ho sempre pensato che sia un nome volgare. Spero che lei non lo sia altrettanto. Dice che mi è dato il permesso di provare ad alzarmi se me la sento. Non so se me la sento ma accetto. Jessica mi sostiene per le braccia e mi aiuta con i fili. E' più forte di quello che sembra. Riesce a sostenermi anche quando perdo l'equilibrio o sento le gambe abbandonarmi. Succede spesso nel breve tragitto che ci separa dal bagnetto che c'è dentro la mia camera. Lì mi aiuta a lavarmi. Lo desideravo davvero. Poi mi riaccompagna a letto. Mi aiuta a sdraiarmi e ripromette di tornare non appena la Collins sarà arrivata per venire a visitarmi. Esce. Sono di nuovo da sola. Sorrido. Sono felice di essermi finalmente alzata. La testa però mi gira. Dev'essere stato lo sforzo di stare in piedi. Ma gira sempre più forte. Ancora. Ancora. Il fulmine di ieri deve aver trovato traffico perchè è in ritardo di una notte.

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Capitolo 6
*** 06 ***


Non mi piace dormire da sola. E poi è la prima votla che mamma è via. Ieri per poco non mi si scioglieva in lacrime quando ha passato il check-in. Tornando a casa ho chiamato Gigì, ma non poteva restare da me stanotte e quindi mi sono arrangiata a dormire da sola. Ho dormito nel letto di mamma, ma nel lettone è più brutto. E' brutto ma non mi sono mossa di qui oggi. Tra la giornata libera, l'essere sola in casa e la notte passata a svegliarmi ogni mezz'ora, ho dormicchiato fino all'ora di pranzo. Mi arrangio con qualcosa di veloce e do una sistemata a casa. Questo pomeriggio vengono le ragazze. Penso che resteranno a dormire qui tutte e tre. Sono le 16 spaccate e il campanello di casa mia trilla. E' Evan.
- Che ci fai qui? -
- So che non ti va di stare sola a casa. -
- Veramente tra un po' arrivano le ragazze. -
- Pomeriggio da donne? -
- Pomeriggio, serata e notte. -
- Ah, capisco. Quindi la mia presenza è superflua. -
- Ma scemo che sei. Puoi restare quanto vuoi. -
- C'è anche Cristina? -
- Si. - Fa una faccia strana. - Oh cavolo! Vero. L'ho totalmente rimosso scusami. -
- Non preoccuparti. Resteri volentieri, ma non vorrei che la situazione diventasse pesante per tutti. -
- Ma non siete in buoni rapporti? -
- Sì, siamo tranquilli. Ma... - Pausa. Troppo lunga per uno che non ci pensa più. - Non me la sento. Scusa. -
- Evan se non te la senti, vai. Stiamo insieme domani. - Gli metto la mano dietro al collo e lo tiro a me. Lo abbraccio. Sento che stringe le mani sulla maglia del mio pigiama.
- Grazie. -
- Evan. Sono passati due anni ormai. -
- Lo so. - Si stacca da me. - E' solo che non mi sento di passare una serata con lei. -
- Tranquillo. - Gli do un piccolo pizzicotto sulla guancia morbida. - Allora passi domani? -
- Verso le 10 ti va bene? Ti porto in spiaggia. -
- Perfetto. - Sento il rumore del motore di una macchina che si ferma vicino casa mia. - Se non vuoi rischiare di incontrarla ti conviene andare. Dovrebbero essere qui. -
- Scappo allora. -
Mi da un bacio veloce sulla guancia e va via. Lo vedo incrociare lungo il vialetto Gigì e salutarla rapidamente. C'è Cristina con lei. Il saluto tra loro è proprio stentato. Salta sul motorino e va via.
Le ragazze entrano in casa. Cristina mi anticipa - Bree non ricominciare! -
- Che ho detto? -
- Ancora niente, ma ti leggo nel pensiero. -
- Ma che ho fatto? -
- Ripeto, non hai fatto niente per ora. Ma tra poco farai quello che fai sempre quando c'è di mezzo anche Evan. -
- Cri, metti il freno a mano. Io non stavo per dire o fare proprio niente. -
- Quindi non stavi per dirmi quanto è bravo e quanto ancora ci sta male Evan, giusto? -
- No. -
Mi scruta attentamente. Decide di credermi. Andiamo in cucina, dove Gigì si è fiondata appena entrata. La troviamo che spalma nutella su una fetta di pane bianco.
- Non offrire, eh! - Le dice Cristina.
- Ho bisogno di energie per dopo. -
- Tutte abbiamo bisogno di energie per dopo. - Cristina le strappa di mano la fetta innutellata. Le da un morso e la rimette in mano a Gigì.
- Scusate, ma energia per cosa? - Mi intrometto nel discorso. - Non eravamo rimaste per pizza e film sul divano? -
- Solo perchè non avresti mai accettato il nostro piano. -
- Quale piano? -
- Stasera si festeggia la casa vuota. -
- Volete fare un festino qui? Siete pazze? -
- Ma non qui, rimbecillita. -
- Sempre gentile tu, eh! -
- Sono o non sono la tua camionista preferita? - Sì, che lo è.
- Allora? Cosa avete in mente? -
- Ti portiamo in disco. Adesso non hai scuse. Non c'è la tua mammina da sola a casa. -
- Oh, ragazze. Lo sapete che odio la discoteca. Tutta quella gente, quel caldo, quella musica truzza. -
- Per una volta non è mai morto nessuno. -
- Ma Debby? E' daccordo? -
- Non molto, ma Giovanni l'ha convinta. Lo sai che lui è un truzzo nell'anima. -
- Quindi la serata tra donne è diventata una serata con Giovanni in discoteca? - Non mi piace questa cosa. Sono sicura che finirò la serata seduta sul divanetto a guardare loro sculettare in pista. Non che non mi piaccia ballare, ma mettermi in pista significherebbe rischiare di picchiare qualcuno. Ho provato una volta ad andare a ballare. Dopo i primi dieci minuti ci hanno buttato fuori perchè uno cercava di strusciarmisi addosso e casualmente il suo naso è andato a sbattere contro il mio pugno chiuso.
- Già. E' proprio così. E ora tu fili in doccia e poi noi ti sistemiamo. -
- A quest'ora? Non è un po' prestino? -
- Prima andiamo a cena fuori ovviamente. -
Così mi hanno liquidato. Le lascio in cucina per andare a infilarmi in doccia. Ne esco solo un'ora dopo. Esco dal bagno ancora con la tovaglia avvolta. Entrata in stanza trovo Giovanni e Debby che si baciano sul mio letto.
- Piccioncini buongiorno. - Li ho fatti saltare in aria. - Dovrei vestirmi, io. -
- Scusa Bree. - Debby salta verso di me e mi stampa un bacione in fronte.
- Attenta a non farmi cadere l'asciugamano! -
- Ciao Bree. - Giovanni è visibilmente imbarazzato. Non so se è più imbarazzato per avermi visto così oppure per essere stato beccato da me a pomiciare sul mio letto. Scappa dalla camera prima che possa ricambiare il saluto. Debby lo segue quasi subito.
Mi posiziono di fronte all'armadio. Apro le ante e ne fisso il contenuto. Le richiudo e mi infilo la tuta che c'è poggiata sulla sedia accanto alla scrivania.
- Hai intenziona di venire così stasera? - E' Gigì. E' entrata senza bussare. Sa che può.
- Non mi dispiacerebbe, sai? -
- Ah, lo so. Però facciamo così. Tu vai di la. Cristina ha deciso che ti vuole sistemare i capelli. Io resto qui a decidere cosa ti metterai stasera. -
- Cosa hanno che non va i miei capelli? -
- Niente tesoro. Piacciono a tutti i tuoi ricci. Ma stasera ti vogliamo diversa! -
- Continuo a non capire perchè. -
- Tu vai e basta. -
Arrivata in cucina trovo Cristina e Debby con in mano una spazzola in mano. Hanno portato una presa multipla e ci hanno attaccato due fohn. Hanno anche poggiato due piastre per capelli sul tavolo. Mi torturano i capelli per più di un'ora. Alla fine loro sono sfinite e io senza nemmeno uno dei miei boccoli. Mi guardo allo specchio. Hanno fatto un ottimo lavoro le ragazze. Come sempre, da liscia dimostro almeno tre anni in più. Però ogni tanto non è male cambiare. Gigì esce solo adesso da camera mia.
- Ce l'ho fatta. - Urla trionfante.
- A fare cosa? -
- Ho trovato il tuo look perfetto. Ho fatto un po' di fatica per dire la verità. Dovremmo fare più spesso shopping insieme. -
- Sei tu quella che ci tiene a ste cose. A me basta che i vestiti mi coprano. -
- I vestiti servono per farsi guardare. -
- Abbiamo concetti un tantino diversi mi sa! -
Mi trascina in camera. Sul letto ha organizzato tutto quello che mi obbligherà a indossare. Mi ha scelto perfino le mutande! Un paio sexy che comprai per fare piacere al mio ex e che, fortunatamente, non avevo più indossato. Sono di uno scomodo assurdo.
- Volevo costringerti in una mini, ma non ne ho trovate. -
- Lo sai che non sono tipo da uscire con le cosce al vento. -
Mi ha scelto i jeans più attillati che ha trovato e una maglietta bianca lunghetta ed aperta sulla schiena.
- Niente reggitette con questa mi raccomando! -
- Ma non se ne parla minimamente. Come le tengo su tutta la serata? -
Gigì mi guarda. - In effetti quelle boccione farebbero troppo scandalo. Cambiamo! - Prende la maglietta che ho in mano e la butta sulla scrivania. Io apro il cassetto e scelgo un reggiseno color carne che può star sotto qualsiasi cosa sceglierà. Sceglie una delle mie magliette preferite. E' nera, è comoda ma soprattutto la trovo maledettamente sensuale perchè una delle maniche cade un po' lasciando nuda la spalla e la clavicola, una delle cose più sexy di una donna secondo me. - Toh! Non è il massimo ma mi accontenterò. - Infilo la maglia e alzo lo sguardo su Gigì.
- Sei una porcona tesoro. - - La mia scaricatrice di porto! Quanto è delicata lei! - Mi getto al suo collo e la riempio di baci per tutta la faccia.
- Ora calmati che c'è il pezzo forte. -
- Cosa? -
- Aspettami qui. -
Corre in salotto e torna con in mano una cintura e un paio di decolletè, tacco 12 e un piccolo platò. Sono entrambe rosse.
- Rosse, ma non laccate! So che non le avresti mai messe laccate. - Gigì mi ha letto nel pensiero. - Sono un piccolo prestito dal mio archivio personale. Non volevo vederti tutta vestita strafiga e con le converse ai piedi. -
- Tu sei folle. -
- E per questo che mi ami. -
- Già. -
Cristina ci chiama dal soggiorno. - Ragazze vedete che ridendo e scherzando si sono fatte le 19.30. Abbiamo prenotato per le 20.30, ma la pizzeria è lontanuccia. -
- Abbiamo finito. - Grida Gigì. Poi mi guarda. - Quasi. -
- In che senso quasi? -
- Manca qualcosa. Devi truccarti. -
- Se non ti rompe per questo faccio da sola! - Mi fiondo in bagno. In dieci minuti ho finito. Rapida come sempre. Mi sono tenuta sul semplice. Trucco quasi naturale con solo un po' di glitter leggerissmo agli angoli interni degli occhi. Il tutto incorniciato con una linea del solito eyeliner nero e mascara.
- Hai degli occhi fantastici amore. - Mi dice Gigì.
- Ma tu non bussi mai? -
- Perchè dovrei qui? -
- Ovviamente. Non ci avevo riflettuto. - Ridiamo.
- Manca qualcosa ancora. - Esce dalla tasca il suo rossetto. Rosso scuro.
- Devo proprio? -
- Fammi contenta per una volta, dai. -
Mi lascio convincere. Per la prima volta dopo anni Bree porterà il rossetto! Un giorno da segnare sul calendario. E rosso per giunta.
- Ora tu vai di la che io mi cambio e vi raggiungo. -
Vado in salotto e trovo Cristina e Debby vestite in modo diverso da come le avevo lasciate prima. Si sono cambiate anche loro. L'unico che è rimasto uguale è Giovanni. Poverino, dovrà sorbirsi un'altra sera da unico maschio in mezzo a quattro pollastrelle. Gigì magicamente non si fa aspettare.
- Ho deciso di mettermi il tuo scarto. Non ti dispiace, vero? - Si è infilata la mia maglia bianca, quella aperta sulla schiena, sopra un paio di pantaloni e un paio di sandali neri, ovviamente tacco 12.
- No, tranquilla. Dillo che ci speravi che ti facessi scegliere un'altra maglietta! -
- In effetti, un pochino. Almeno io la posso indossare senza reggitette e non fare scandalo, visto i miei due acini d'uva. -
- Sei bellissima anche con gli acini d'uva. -
- Sentite a me piace la macedonia, ma ho una fame che non ci vedo. Andiamo? -
- Ok, Debby. Andiamo. -

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Capitolo 7
*** 07 ***


La pizza è stata ottima. Siamo al lungomare. La primavera si fa sentire. Non c'è più freddo ma l'aria è ancora frizzantina. Fortuna che ho avuto il tempo di prendere il giubbotto di jeans prima di uscire. Camminiamo piano, seguendo la ringhiera che ci separa dagli scogli, coi nostri cocktail in mano. Di fronte a noi c'è un gruppo di ragazzi. Uno di loro, seduto sulla ringhiera, colpisce la mia attenzione. Non riesco a capire se lo conosco o assomiglia a qualcuno. Deve essersi accorto che lo fisso. Lo vedo parlottare all'orecchio di un suo compagno ed indicarmi. Oddio. Mi giro, faccio l'indifferente. Cerco di intromettermi nel discorso che Gigì e Cristina stanno facendo. Guardo il mare continuando a camminare.
- Perchè non andiamo dall'altro lato della strada? Entriamo in un pub e prendiamo un Mojito. - In realtà non voglio passare in mezzo a quei ragazzi e non ho ancora finito il mio Tequila Sunrise. Gli altri non mi sentono o fanno finta di non sentirmi. Riguardo per un attimo quel ragazzo. Mi sta ancora fissando. Sento le guance arrossire. Prendo il braccio di Gigì. Lei mi sorride e mi da un bacio sulla guancia per poi tornare a parlare con Cristina.
- Tu cosa ne pensi? - Mi chiede Cristina.
- Di cosa? - Appena in tempo. Parlo con lei mentre passiamo in mezzo a quei ragazzi. Non so se il tizio mi stia guardando o no. Non ho controllato. Lascio il braccio di Gigì per gesticolare mentre spiego la mia opinione sull'esame di Grafica 3D. Qualcuno mi tira per il bordo del giubbotto di jeans. Mi volto convinta che sia Debby che vuole chiedermi qualcosa. E mi ritrovo di fronte lui. E' bello, cavoli se non lo è. Solo ora capisco perchè ero convinta di conoscerlo. Assomiglia in modo impressionante a Checco dei Modà. Ma vedendolo da vicino mi accorgo che ha gli occhi verdi come il mare invernale. Un'ombra di barba gli copre le guance. Ha il viso meno scavato del suo sosia famoso.
- Per caso ci conosciamo? -
- Cosa? - A stento ho sentito che stava parlando, figurarsi se afferravo il senso delle parole.
- Ti ho chiesto se ci conosciamo. Dato che non mi hai staccato gli occhi di dosso. -
- Veramente no. - Devo avere una faccia da ebete. - Cioè, si ti ho guardato. - Non è convinto di quello che gli sto dicendo. - Scusami. Ero convinta di conoscerti. Poi ho capito che era solo una mia impressione. - Sto cercando di sorridere, ma non so quanto ci riesco. Sono troppo imbarazzata.
- Peccato. - Si volta. Va via.
- Strano modo per provarci. - Gigì glielo ha urlato senza pudore.
Lui si rivolta verso di noi. Sorride. Gigì sembra soddisfatta. Io vorrei sprofondare.
- Ma sei cretina? -
- No. Gli ho solo detto quello che avresti dovuto dirgli tu! -
- Solo che adesso non potrò dirgli nulla nemmeno se lo reincontrassi tra cent'anni. Con sta gran brutta figura che mi hai fatto fare! -
Gigì mi guarda seria. - Tesoro io ho cercato di smuovere le acque. - Sembra quasi arrabbaita. Mi prende per il braccio. Stringe, ma non troppo da farmi male. - E ora le smuovi tu. - Mi tira di forza verso il gruppetto dei ragazzi verso cui è tornato il sosia di Checco. Cerco di oppormi ma è tutto inutile. Arriviamo vicino ai ragazzi. Qualcuno di loro se ne è accorto e l'ha riferito a lui, che non so nemmeno come si chiami. - Muoviti. - Mi sorride. La mia faccia è già dello stesso colore delle scarpe che mi ha prestato. Ma le ricambio il sorriso. Mi dirigo verso di lui passando tra i suoi amici che già ridacchiano.
- Volevo scusarmi per la mia amica. -
- Non mi pare che tu sia venuta qui di tua iniziativa. -
- No, non direi proprio. - Rido imbarazzata.
Mi prende per il braccio e ci allontaniamo dai suoi amici e da Gigì. Siamo a pochi passi ma già mi sento meno in imbarazzo.
- Perchè mi hai portato qui? -
- Perchè la tua amica ti ha portato qui? -
- Sinceramente non lo so nemmeno io. - Forse sto riprendendo il mio colore normale. Lo guardo negli occhi. Sorrido. Lui ricambia.
- Io sono Steve. -
- Piacere, Bree. -
- Che strano nome. -
- In realtà mi chiamo Brigida ma tutti mi chiamano Bree da quando sono nata. -
- Interessante. - Mi accarezza la guancia. Mi coglie impreparata. Non me l'aspettavo. - Dovresti tornare dalla tua amica adesso. -
- Si, credo proprio di si. - Mi sento una bambina di otto anni.
Mi afferra per la nuca e mi attira a sè. Appoggia le sue labbra sulle mie. Solo per pochi secondi. Sbarro gli occhi e perdo il fiato. Mi sembra di aver fatto un salto di tredici metri nel vuoto e non so neanche perchè. - Ciao Bree. - Lui torna dai suoi amici.
Io resto interdetta. Ferma come lui mi ha lasciato per qualche istante. Mi muovo piano verso Gigì che è ad aspettarmi a bocca aperta. - Ma cosa cavolo...? -
- Non lo so Gigì, non lo so. Torniamo dagli altri. -
Raggiungiamo i nostri tre amici che, a distanza, non hanno capito bene cosa è successo.
Dopo un altro paio di cocktail ho già dimenticato anche il suo nome e ci dirigiamo finalmente verso il locale. Non ho mai retto molto l'alcool, stasera però riesco ancora a camminare dritta. Il buttafuori non se ne accorge. Forse mi scambia per una bimbominkia eccitata all'idea di entrare in disco. L'interno del locale non è pacchiano come quello della prima, unica e ultima discoteca in cui sono stata. E' affollata ma sembra piena di gente pseudo normale. Debby odia ballare e si siede su un divanetto a bordo pista. Ne approfittiamo per lasciare a lei la nostra roba. E' la prima volta che vedo Giovanni lasciarla sola. Si fionda in pista e fa uscire il mezzo truzzo che è nascosto in lui. Cristina si siede accanto a Debby e viene in pista solo per qualche canzone che le piace particolarmente. Gigì si scatena. Io non sono ancora abbastanza ubriaca per farlo completamente. Ma ballo.
- Vedi qualche tipo carino? - Mi urla Gigì.
Butto l'occhio qui e lì tra la pista. - Nessuno che sia il mio tipo. -
- E un tipo per me? Lo vedi? -
- Vuoi lasciarmi sola in pista per provarci con qualcuno? -
- Amore, ma non lo farei mai. - Mi si butta al collo e mi da un bacio stampo prolungato. Gigì tiene l'alcool più di me, ma ha anche bevuto il doppio di me. I ragazzi intorno a noi si eccitano alla vista di due ragazze con le labbra incollate e iniziano ad incitare alla lingua. Gigì si stacca e ricomincia a ballare come se niente fosse successo.
- Vado un attimo al bancone a prendere qualcosa. Che vuoi? -
- Scegli tu amore. -
Mi allontano e la lascio a scatenarsi. Vado verso il bancone. Ovviamente tutte le sedie sono occupate da supercoscioni in minigonna e tette al vento rigorosamente accompagnate da qualche allupato che sta tentando di farsela dare. Ho l'unico faretto del bar sparato addosso che quasi mi acceca. Nella penombra vedo che il barista è dal lato opposto a parlare con due bionde. Provo a chiamarlo. Nulla, non mi sente. Lo chiamo più forte. Si gira appena e torna dalle due bionde.
- Devi darla gratis se vuoi qualcosa da bere? - Urlo. Tutti quelli al bancone mi hanno sentito. Complice anche un inaspettato attimo di silenzio dalla console. Faccio finta di non starmi vergognando alla grande. Il barista lascia le due bionde sbuffando. E si avvicina verso di me.
- Qualche problema Bree? -
Bree? Come fa a sapere come mi chiamo? Si avvicina di più e capisco perchè sa il mio nome.
- Che ci fai qui? -
- Ci lavoro io qui. Invece tu? Sei qui per darla gratis per qualche bicchiere o la dai gratis solo dopo aver bevuto? -
- Nè prima nè dopo. -
- Quindi lo fai a pagamento. -
- Vaffanculo. Preferisco morire di sete che sentirmi parlare così. - Mi allontano dal bancone e da Steve, che torna alle sue bionde. Probabilmente una di loro finirà nel suo letto stasera. Magari tutt'e due. Magari non arriveranno neanche al letto ma finiranno nei bagni del locale. Torno in pista per cercare Gigì, ma non la trovo. Giro un po' tra la gente che balla prima di trovarla. Lei e Cristina hanno convinto Debby a ballare. Giovanni è a far da guardia alle borse, mentre loro tre stanno ballando insieme ai bordi della pista. Mi butto in mezzo a loro e insieme ci scateniamo. Siamo tutte e quattro insieme, felici e a divertirci. Appena finita la canzone mi faccio accompagnare da Gigì nel bagno delle donne. Ho bisogno di buttarmi un po' d'acqua addosso. Ci stiamo poco perchè è un'ambiente invivibile e ormai diventato unisex. Appena fuori dal bagno ho il mio terzo incontro con Steve nella stessa serata. Ci arriva contro e il suo cocktail finisce sulla mia maglietta bianca che è addosso a Gigì.
- Ma allora sei proprio coglione! -
- Wow. Nel giro di tre ore sei passata dal fissarmi a darmi del coglione. Sarai mica un po' lunatica? -
- Ti ho detto che ti guardavo solo perchè mi sembrava di conoscerti. -
- E secondo te me la sono bevuta. -
- E' la verità. -
- Certo. Però il bacio te lo sei preso. -
- Me lo sono preso? Non mi hai dato neanche il tempo di reagire. -
- Mi dispiace interrompervi. - Gigì si intromette. Mi giro a guardarla. Si copre il seno con le mani. La maglietta è diventata completamente trasparente una volta bagnata. E anche se i suoi sono acini d'uva non è il caso di mostrarli a una discoteca piena. - Io avrei un problema da risolvere Bree. -
- Oh cazzo! - Steve si è accorto di qual è il problema.
- Vaffanculo e vattene stronzo. Noi entriamo in bagno che cerchiamo di asciugarla. -
Steve ci segue oltre la porta sulla quale è appesa la donna stilizzata a cui qualcuno ha aggiunto un paio di tette e dei ricci con l'uniposca.
- Ma ancora qui stai? -
- Bree vedi che non concludi niente in questo modo. - Si toglie la maglia e la passa a Gigì. - Metti questa. - Esce prima che noi possiamo replicare.
- Quello secondo me te lo scopi entro la serata. -
- Cretina pure tu. - Le tolgo la maglietta dalle mani. - Ora vado a tornargliela. -
- Ma sei scema? - Gigì mi blocca. - Io sono con le tette al vento e tu vuoi tornargli la maglietta? -
- Effettivamente hai ragione. Almeno a qualcosa è servito. - Le torno la maglietta. Gigì la gira e la rigira.
- C'è un problema. Io questa non me la metto. -
- Perchè? -
- Prima di tutto è sudata da far schifo. Seconda cosa è troppo larga per me e sono pure senza reggitette quindi mi farei un male cane. Terzo...non si intona con le scarpe. -
La guardo sconvolta. - Entra in bagno! - Entro insieme a lei. Mi tolgo la maglia nera e la passo a lei. Mi infilo la maglia di Steve. Ha ragione Gigì. E' sudata, ma almeno non puzza. Gigì si toglie la maglia bianca e si infila quella che prima avevo in dosso io. Torniamo da Debby e le affidiamo la mia maglia bianca e, ormai, totalmente sporca. Gigì si ributta in pista.
- Ma che è successo? -
- Uno gli ha versato il cocktail addosso e per riparare ci ha dato la sua maglietta. Lei non l'ha voluta mettere e l'ho indossata io. - Debby mi guarda sconvolta. - A proposito, vado a ringraziarlo. - Purtroppo.
Vado verso il bancone di nuovo. Steve non c'è. Chiedo al ragazzo che l'ha sostituito dove si trova. E' vicino al dj in console. Lo guardo. Si è infilato un altra maglietta. Salgo su.
- Ehi Steve. -
- Oh. A cosa devo l'onore? -
- Non scherzare. Ti volevo ringraziare. -
- Non sto mica scherzando. E' la prima volta che mi chiami per nome. Per cosa dovresti ringraziarmi poi? -
- Per questa. - Faccio segno alla maglietta.
- Non potevo lasciare che due tette piccole come quelle girassero libere per il locale. -
- Ma allora sei stronzo proprio. - Questa però mi ha fatto ridere. Non riesco a trattenermi.
Steve si avvicina. Mi accarezza la guancia come ha fatto prima mentre eravamo in strada. Divento rossa di nuovo. - Poi me la torni però. -
- Come faccio a tornartela? -
- Ci vediamo. -
- Quando? -
- Domani. -
- Dove? Come? -
- Fidati. Punto. -
Non mi bacia. Quasi ci avevo sperato. - Allora, ci vediamo domani. - Riscendo verso la pista.
I ragazzi mi stanno aspettando. Vogliono andarsene, specialmente Debby. Non so perchè, ma non ho voglia di andare via. Forse lo so perchè. Ma non lo dico a loro. Anzi, faccio credere che non vedo l'ora di andarmene. Usciti dal locale pretendo che Giovanni ci faccia una foto. Voglio ricordare questa serata, esattamente così come è adesso. Giovanni scatta.
Mentre ci accompagna a casa, Gigì prende una carta da gioco.
- E quella cos'è? -
- Niente. - Il suo sorrisetto però la inganna.
- Dimmi cos'è! -
- Un tipo con cui ho ballato prima che ce ne andassimo mi ha dato questa. - Gira la carta verso di sè. La rigira. Il suo sorriso si spegne.
- Ti ha dato un asso di picchie? -
- Ero convinta che ci fosse il suo numero scritto da qualche parte. - C'è rimasta male.
- Che merda che dev'essere questo. Oppure era talmente strafatto di essersi convinto di averlo scritto. -
Un attimo di silenzio. Poi scoppiamo a ridere tutte. Come sempre.
Giovanni ferma l'auto nel vialetto di casa mia. Cristina e Gigì scendono insieme a me. Debby resta in macchina. Hanno casa libera stasera e non si vogliono perdere l'occasione. Li capiamo e non ci offendiamo. Saliamo a casa e prima di infilarci tutt'e tre nello stesso letto togliamo solo le scarpe.

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Capitolo 8
*** 08 ***


I ricordi faranno meno male andando avanti mi ha detto la Collins. Forse è vero. Infatti adesso non vomito, non urlo. Ma mi sento come dopo la sbronza epocale che non ho mai fatto. Mi sento la testa vuota e piena allo stesso tempo. Il fulmine è finito ma continua a venirmi davanti agli occhi il viso di Steve. Il martello pneumatico per il momento non è scomparso. Chiamo aiuto con il bottoncino rosso che non ho mai usato sul vassoio accanto al letto. Jessica arriva dopo pochi istanti. Mi chiede cosa è successo.
- Nulla di grave, ma ho in testa un martello pneumatico e mi sento come sull'ottovolante. Puoi darmi qualcosa? -
- Malessere normale o ricordo? -
- Ricordo. -
- Allora aspettami. -
Come se potessi andare da qualche parte. Prima mi hai dovuto tenere tu solo per arrivare fino al bagno! Esce dalla mia stanza e torna dopo poco con una boccetta di vetro simile a quella che ha usato S. O almeno così mi sembra. No. Non voglio dormire. Sarà orario di visita tra poco. Non voglio perdermi l'unico momento che ho per stare con qualcuno che conosco e che mi ama. Lo dico a Jessica, che non mi ascolta. Lo dico alzando la voce, ma lei continua a ignorarmi. Ha già la siringa pronta. Raccolgo le forze. Non appena stacca la flebo dal tubicino che mi esce dalla fasciatura, ritiro la mano e gli urlo che se la può mettere nel culo il suo fottuto sedativo per elefanti. Tanto il culo ha dimensioni similari a quello di un elefante. Jessica sembra arrabbiarsi parecchio. Lo so che è il tuo lavoro ma è inutile che mi guardi con quella faccia. Sto male, ma stavolta non mi faccio addormentare. Ve lo scordate. Nella stanza entra la Collins. Ha sentito le mie urla e si è precipitata.
- Cosa sta succedendo qui? -
- Non voglio dormire! -
- Chi ti ha detto che devi dormire? -
- Ho avuto un altro ricordo. Ho detto all'infermiera che sto male e lei ha portato quello che mi iniettate per farmi dormire. Io non voglio dormire. - Mi sento una bambina che fa i capricci. Non mi sono nemmeno accorta che sto piangendo. Che sto singhiozzando.
- Jessica per favore. Porta via il carrello e torna al tuo posto. -
- Ma Dottoressa, io facevo solo quello che mi è stato detto. -
- Lo so Jessi. - E' calma la Dottoressa 'cara' Collins. Non si è alterata. Io sto cercando di ricompormi. - Ma la signorina qui ha subito un danno emotivo enorme. Per favore, fai come ti ho detto. -
Jessica se ne va via. Sembra mortificata.
- Mi dispiace di aver reagito così. -
- Non ti preoccupare, cara. -
- Le può portare le mie scuse? -
- Lo farò, cara. Come è andata stavolta il ricordo? -
- Come la prima volta. Ma non ho vomitato. Anche se ho ancora la nausea. -
- Il mal di testa? -
- C'è. -
- Quanto hai ricordato? -
- Un giorno intero stavolta. -
- Oh, cara. Ma allora è vero che sei un fenomeno. -
- Da baraccone? -
- Sto dicendo sul serio. Stai riprendendoti con una velocità impressionante. -
- Dottoressa, senta una cosa. Quando lei mi ha parlato la prima volta, mi ha detto che anche posti possono risvegliare la mia memoria. Come faccio a vederli se sono qui? -
- Bree ti faremo uscire, ma prima devi esserti rimessa fisicamente. Quando sarai pronta e i ricordi arriveranno con meno malessere potrai uscire. -
- E quando avverrà? -
- Se continuiamo così, presto. Però non uscirai definitivamente. -
- In che senso, Dottoressa? -
- Non me la sento di non seguirti più. Fino a quando non avrai riaperto tutti i cassetti ti voglio controllare ogni sera. In pratica potrai passare la tua giornata fuori, ma tornerai qui la sera per gli esami e monitorarti durante la notte. -
- Me lo farò bastare. -
Mi scompiglia i capelli. Prende uno scatolo dal taschino sul petto del camice bianco. Ne esce un blister. Prende una delle pillole che contiene e me la poggia sul vassoio. - Questa è per il mal di testa. Dovrebbe aiutarti senza farti addormentare. Ora torno al mio giro di visite. Tra poco arriveranno i tuoi. Cerca di riposarti. - Esce.
Piano mi siedo sul letto appoggiando la schiena sul cuscino che ho sistemato. Riempio il bicchiere che ho sul vassoio con l'acqua che è lì accanto. Prendo la pillola e la mando giù aiutandomi con l'acqua. Poi riprendo in mano gli oggetti che mi hanno portato al fulmine su Steve. Il rossetto, la foto, l'asso di picchie. C'erano tutte. Le mie ragazze hanno fatto le scelte giuste. La pillola che mi ha dato 'cara' Collins è forte. Già mi sento meglio.
Passa solo mezz'ora e vedo entrare dalla porta mia madre, seguita da Gigì e Debby. Cristina come sempre arriva dopo e con un regalino calorico per tutte. Mia madre si accomoda sulla sedia, mentre le ragazze si posizionano alla meno peggio sul letto.
- Ho avuto un altro ricordo. -
- Quando? Stanotte? - Mi risponde Debby.
- No, poco fa. Fortunatamente stanotte ho dormito come un angioletto. -
- E cosa hai ricordato? - La curiosona, come sempre, è Gigì.
- Il giorno dopo la partenza di mamma e la serata in disco. A proposito. - Guardo Gigì. - Come sta la mia maglietta bianca? -
- Ehm, veramente... -
- Veramente cosa? -
- Non potrei dirtelo. Sai com'è... i cassetti. -
Sta cercando di arrampicarsi sugli specchi. Lo capisco sempre quando lo fa. Eppure lei continua a provarci.
- Ok. La macchia non si è tolta. C'ho provato giuro! -
- Gigì io ti ammazzo! -
- Ammazza il ragazzo che me l'ha macchiata. -
- Portala a me. Ci penso io. - E' mamma. Non so fino a che punto ci riuscirà, ma lei si pronta sempre a risolvere tutto.
- Ragazze, invece di parlare di ricordi e passato, che ne dite di aiutarmi ad alzarmi? -
- Cosa? Puoi? -
- Oggi mi hanno fatto alzare. Non penso ci siano problemi. La Collins dice che sto guarendo in frettissima. - Faccio gli occhi da cucciolo, ma non cedono. Debby va a chiedere se posso alzarmi e se possono aiutarmi solo loro o ci vuole la presenza di qualcun altro. Torna dopo non molto insieme a Jessica.
- La signorina può alzarsi, ma non fatela stancare troppo e sorreggetela bene. - Va immediatamente per uscire.
- Jessica. - Si ferma e si volta. - Mi scusi per prima. Non volevo reagire male. -
- Non si preoccupi. - Mi sorride. Non so fino a che punto abbia perdonato una sfuriata come quella che le ho fatto. Va via.
Per alzarmi mi sostengono tutte e tre. Mi fanno passeggiare per la camera. Debby e Cristina mi tengono per le braccia mentre Gigì mi precede camminando all'indietro. Come stamattina ogni tanto perdo l'equilibrio e dopo poco non mi reggo davvero più. Mi riappoggiano sul letto, ma siamo tutte contente di questi pochi passi.
Bussano alla porta. Con stupore di tutti entra un enorme mazzo di fiori, così grande che non si vede chi ci sta dietro. Solo quando lo poggia sul tavolo e si volta verso il letto vedo che è il signor Nimei. Sono felice di vederlo. Non pensavo venisse a trovarmi. Evan però non è con lui. Non mi piace questa cosa. Cosa gli ho fatto di grave in questi tre mesi da non meritarmi nemmeno una piccola visita?
- Signor Nimei non doveva scomodarsi a venire. - gli dico ancor prima che mi saluti.
- Sei forse impazzita Bree? So che la mia cliente preferita è ricoverata e non vado a portarle un enorme mazzo di fiori che le riempia la stanza? - Lo adoro quando fa così. Si avvicina e saluta mia madre da galantuomo d'altri tempi. Da un bacio alla guancia di Cristina. Sono rimasti in buoni rapporti dopo che lei ed Evan hanno rotto. Fa un cenno di saluto alle altre e viene ad abbracciarmi. - Come ti senti? -
- La Dottoressa dice che mi sto riprendendo in fretta. -
- E' fatta di ferro la mia Bree! L'ho sempre saputo. -
- Posso chiederle una cosa io? -
- Certo che puoi. -
- Dov'è Evan? Perchè non è venuto a trovarmi? - Sento le lacrime che iniziano a risalirmi agli occhi. Raccolgo le forze per respingerle indietro.
Il signor Nimei abbassa gli occhi, poi guarda le ragazze ancora sedute sul mio letto. - Non lo sa? -
- No, Claudio. - E' mia madre a rispondergli. - Non le dobbiamo dire niente. Deve ricordare da sola. -
- Non fatemi preoccupare vi prego. - Sento uno stato d'ansia che mi sta iniziando a riempire.
- Bree tranquilla. - Cristina mi si avvicina e continua a parlarmi accarezzandomi i capelli. - Sta bene, te l'ho detto. - Continua a parlare ma io non la comprendo.
- Cosa gli è successo? Gli è successo qualcosa? -
- No, Bree. E' sano come un pesce. - Mi ha risposto il signor Nimei. - Vedrai che arriverà qui prima di quanto immagini. -
- Ma gli ho fatto qualcosa? E' arrabbiato con me? -
- Assolutamente Bree. Sai che ti vuole bene. Solo che per ora non può essere qui. - Mi sorride. Anche se suo figlio non gli assomiglia quasi per niente, hanno lo stesso sorriso. Questo, non so perchè, riesce a tranquillizzarmi.
- Vorrei solo sapere perchè. -
I miei visitatori si scambiano uno sguardo, come se stessero decidendo chi per prima deve parlare. Il compito è toccato a Gigì. - Non possiamo dirtelo. Fa parte dei tuoi ricordi. -
- Mi sono rotta di sentire sempre questa scusa! -
- Lo sai che se potessi te lo direi. Sai come sono fatta. Non riesco a non raccontarti le cose. Di qualsiasi cosa si tratti. Ma stavolta non posso. -
Decido di accontentarmi. - Cambiamo discorso. - Il padre di quello che in questi anni è diventato il mio migliore amico porta mia madre alle macchinette per offrirle un caffè. Debby mi saluta e va via perchè Giovanni la aspetta per andare a sbrigare delle commissioni. Gigì e Cristina tentano di non farmi pensare ad Evan. Parliamo della sera in cui ho conosciuto Steve, del mio ultimo ricordo. Come se oggi fosse il tipico "giorno dopo" in cui commenti tutto con le amiche e racconti e riracconti quello che è successo mille volte anche se le altre erano presenti e hanno visto coi loro occhi le scene. Sono tentata a chiedere se ho più rivisto Steve, se la maglietta gliel'ho poi realmente tornata, ma è inutile. Non mi risponderebbero.
Mia madre e il signor Nimei sono tornati nella mia stanza dopo molto più del tempo che serve per un caffè. Mamma ha gli occhi gonfi. Devono aver parlato dell'incidente, almeno così suppongo. Non passa molto dal loro rientro e Jessica si presenta in camera chiedendo a tutti di uscire perchè l'orario di visita è finito. Tutti iniziano a recuperare le loro borse per avviarsi all'uscita.
- Ehi. - Si voltano tutti al mio richiamo. - Nessuno di voi deve lasciarmi qualcosa? -
Tutti scuotono la testa tranne il signor Claudio. Lui si avvicina ai fiori che mi ha portato. Prende qualcosa che deve aver lasciato nascosto di proposito e me lo porta. E' una pietra. - Questa è per te. Fai finta che te l'abbia portata Evan. -
- Ok. - Non faccio polemiche stavolta. Gli indico soltanto di appoggiarla sul vassoio.
- Io non ho niente da darti, ma ho una cosa da dirti. - E' Gigì.
- Che mi ami? - La butto lì. Una battuta ogni tanto non fa male.
- A parte quello. La mia carta, quella che ti ho portato ieri, dovrebbe ancora servirti. -
- Grazie. -
Sorrido mentre li guardo mandarmi saluti dalla porta ed uscire ad uno ad uno per farmi tornare nella mia solitudine. Nella stanza entra Jessica per la solita routine serale di medicine. Quando esce so già che l'unica compagnia che avrò fino a domani saranno i miei ricordi, se vorranno svegliarsi. Odio stare da sola e odio gli ospedali. C'è poco da spiegare, quindi, che questa non sia proprio la mia situazione ideale. Prendo in mano la pietra che mi ha portato il padre di Evan. Fa finta che te l'abbia portata lui, mi ha detto. Ma fino a quando non avrò capito perchè non è ancora stato qui, non me la sento di fare finta che sia venuto a trovarmi. Mi sentirei presa in giro da me stessa. La pietra, però, la riconosco. O meglio, credo di sapere da dove proviene. Sembra una di quelle che si trovano nella baia dove ogni tanto ci rintaniamo io e lui nelle sere d'estate. La appoggio sul cuscino. Prendo la carta che ieri mi ha lasciato Gigì e la posiziono accanto alla pietra. Dopo appoggio la testa lì vicino, stando attenta a non farla cadere. Le guarderò fin quando un fulmine non si deciderà a colpirmi.

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Capitolo 9
*** 09 ***


Interni di una macchina. Il mio vestito rosso. Fari di un auto. Un boato. Urla. Sangue.

Mi sveglio sudata e in preda a un attacco di ansia. Mi sono di nuovo addormentata fissando gli oggetti che dovrebbero aiutarmi a ricordare. Stavolta ho sognato. Un incubo più che un sogno. Dovrebbe essere l'incidente quello nel sogno. O almeno quel che ne ricordo adesso. Ho bisogno di acqua. Ho la gola secca e il respiro affannato. Sto ancora tramando. Non chiamo Jessica, però. Deve odiarmi quella ragazza e non ha nemmeno tutti i torti. Prendo l'acqua da sola e la butto giù tutto d'un sorso. Tolgo la carta e la pietra da sopra il cuscino e le rimetto al loro posto sul vassoio. Anche stanotte dormirò. Il fulmine arriverà domani, probabilmente. Mi sbaglio. Lo sento arrivare mentre mi rigiro nel letto col pensiero fisso su Evan cercando una spiegazione plausibile al suo non essere qui in questi giorni. Lo sento anche se si sta insinuando più silenziosamente degli altri due dentro la mia testa. Almeno all'inizio. Poi arriva il martello pneumatico, sempre lui. E poi inizia il viaggio.

Stanno suonando al campanello di casa. Apro un occhio solo e vedo i capelli di Gigì che coprono il cuscino quasi completamente. Apro anche l'altro e mi sollevo. Guardo la sveglia. Sono le 9. Nel letto ci siamo solo io e Gigì. Dal profumino che viene dalla cucina, non è difficile capire dove è Cristina. Il trillo del campanello ritorna e Cristina si affaccia alla porta della camera da letto di mamma dove abbiamo dormito. Ha messo il grembiule da cucina che usa ormai solo lei a casa mia, pur non abitandoci e ci si sta asciugando le mani umide.
- Non ho risposto perchè non mi sembra il caso, ma stanno suonando da un quarto d'ora. -
- Vado io Cristina. - Mi sono sforzata di parlare decentemente e forse ci sono riuscita.
Lei torna in cucina mentre io, piano, mi alzo cercando di fare il meno rumore possibile per non svegliare Gigì. Mi accorgo solo ora di avere ancora addosso la maglietta del ragazzo di ieri sera. Come chiamava? Ah si, Steve. A piedi nudi mi trascino lenta fino alla porta d'ingresso.
Volutamente evito di specchiarmi per fare finta di non sapere che ho assunto il colorito di un panda. Suonano di nuovo. Mentre ancora il citofono trilla, apro la porta. E' Evan. Cacchio! Mi ero dimenticata che mi voleva portare a mare.
- Per caso ti ho svegliato? -
- Scusa Evan, stavo dormendo. Ieri abbiamo fatto un po' tardi. -
- Allora dovrò aspettare che ti sistemi, suppongo. -
- Veramente ci sarebbe un problema. -
- Quale? -
- Gigì e Cristina hanno dormito da me perciò sono ancora qui. Non posso lasciarle sole. - Evan abbassa gli occhi. Mi sa che se l'è presa. - Però se vuoi puoi restare. Non sono ancora passata in cucina, ma Cristina avrà cucinato qualcosa delle sue. Entra, dai. -
- No, Bree. Lascia stare. Goditi le tue amiche. - Si volta e si incammina per il vialetto.
Esco di casa anche se so di essere in condizioni orripilanti. - Che significa? - Devo alzare la voce perchè mi senta.
- Significa che è la seconda volta a distanza di nemmeno ventiquattro ore che mi dai buca. - Non si ferma nemmeno mentre me lo dice.
- Evan non fare il bambino stupido. Ci vediamo oggi pomeriggio. -
Si ferma. Stavolta si volta a guardarmi per rispondere. - Non sono una ruota di scorta. -
- Coglione di un bambino! Evan non sei la ruota di scorta di niente. Semplicemente non posso lasciare le ragazze da sole a casa mia. Mi sembra logico, sai? Poi pensa quel cavolo che ti pare. -
Mi fissa per un attimo. Torna a voltarsi e ad allonatanarsi. Lo seguo con lo sguardo mentre ancora sono fuori dalla porta di casa mia. Deve sentire il mio sguardo, perchè dopo non molto si volta ancora.
- Alle 16 ti passo a prendere. Se stavolta mi dai buca ti pesto. -
- Ok, capo. - Sorrido e rientro.
Vado in cucina e trovo Gigì appena sveglia. - Chi è che mi ha svegliato? -
- Se ti ha svegliato il campanello era Evan. -
Cristina al suono di quel nome lascia cadere ciò che ha in mano. Per fortuna la scodella è di plastica ed era vuota. La riprende e fa finta di nulla come io faccio finta di non essermene accorta.
Facciamo colazione insieme con i muffin appena sfornati, buoni come solo Cristina li sa fare, e del caffellatte, unica cosa che riesce a preparare Gigì senza incendiare la cucina. Passiamo la mattinata a parlare dei più e dei meno di ieri sera. Gigì va via prima di pranzo. Io e Cristina, invece, ci arrangiamo con quello che troviamo in dispensa. Ne approfitto per dirle che ho solo fatto finta di non vedere, prima, e per la prima volta da quando è successo mi sento che è il momento di chiederlo.
- Perchè vi siete lasciati? -
- Avevo il sentore che gli piacesse un'altra. - Non riesce a guardarmi in faccia. Deve essere una cosa dura da ammettere. - Però poi ho capito che non mi faceva male e che quindi non lo amavo neanche io in realtà. Allora ho deciso che era meglio finirla lì. -
- E lui questo motivo lo sa? Perchè sai, lui a me ha detto... -
- Shhhhh. - Mi zittisce e cambia discorso. Dopo poco, non so se per una scusa o meno, va via.
Solo adesso, tornata in camera, mi tolgo di dosso la maglietta di Steve. La odoro per cercare di carpire il profumo del suo proprietario, ma dopo una serata, una notte e una mattina in dosso a me ha preso il mio di odore. E anche un po' della mia puzza devo ammettere! Meglio lavarla prima di tornargliela. Sì, tornargliela! Quello mi ha detto di fidarmi, ma io non capisco ancora come facciamo a vederci senza esserci scambiati numeri e senza appuntamento. Meglio così forse. Ho una maglietta gratis, in caso.
Frugo nei cassetti per trovare un costume da bagno. Se Evan ha ancora intensione di portarmi al mare, un bagno non me lo leva nessuno. Trovo un due pezzi nero. Me lo porto in bagno insieme al primo vestitino leggero che trovo nell'armadio. Mi faccio una doccia veloce, senza bagnare i capelli. Mi vesto e lego i capelli, lisci ormai solo in parte, in una coda alta. Prendo lo zaino che mi ha accompagnato per gli ultimi anni di superiori e ci infilo dentro un grande telo da mare in spugna. Finisco di preparare tutto appena in tempo per sentire il citofono trillare. Grido un "arrivo" e mi precipito, zaino in spalla e occhiali da sole infilati, verso la porta di ingresso. Quando la apro vedo le spalle di un ragazzo dentro un giubbino leggero da motociclista che va verso una Z750 nera. Ho un tonfo al cuore. Chi è? Non conosco nessuno con una moto di quella. Per un attimo mi viene in mente Steve. Non so se lo spero o no. Arrivato alla moto, il ragazzo si gira rivelando la sua identità.
- Oddio ma sei tu! Pensavo fossi un ragazzo. -
Evan si guarda nello specchietto e si accarezza l'accenno di barba che ha sulle guance. - In effetti devo dire che sono molto femminile! -
- Non intendevo quello, scemo! - Mi avvicino alla moto. - Intendevo solo che non avevo capito fossi tu e pensavo fosse un altro. -
- Dovresti ricordarti più spesso che sono un maschio anche io. -
- Mi porti ancora a mare? -
- Vuoi andare lì? -
- Ho messo su il costume. Secondo te qual è la risposta? -
- Monta, dai. -
Infilo lo zaino per bene. Ho qualche difficoltà a salire, ma alla fine riusciamo a partire. Non sapevo che Evan guidasse moto, eppure sembra padrone della strada. Con un braccio cingo la sua vita tenendomi stretta per non cadere mentre con l'altro tengo giù la gonna del vestitino che ho messo su. Se l'avessi saputo avrei sicuramente optato per un paio di bermuda! E poi, sono addominali quelli che sento? La palestra sembra star dando i suoi primi effetti sul fisico del mio amico.
Ci fermiamo arrivati in spiaggia ed Evan spinge la moto spenta fin vicino alla riva. - In realtà è di mio cugino. Voglio tenerla sott'occhio. Non si sa mai succeda qualcosa! -
- Ecco il trucco! Sapevo che non potevi avere una Z750 senza dirmi nulla. -
Mentre lui ancora cerca di posizionare bene la moto, io mi sfilo il vestito e mi getto in acqua. E' fredda, ma non esco. Dopo poco Evan mi segue. Nuotiamo e ci schizziamo come bambini. Gli racconto di ieri, di Steve, della maglietta di Gigì, di Debby che si è decisa a ballare, dell'asso di picchie che hanno rifilato a Gigì convinta che fosse un numero di telefono.
All'improvviso, però, qualcosa cambia. Siamo fermi uno di fronte all'altra, inginocchiati sulla sabbia con il viso immerso nell'acqua. Ne fuoriescono solo gli occhi. Io sorrido, ma Evan è serio. Non capisco perchè sia così serio. Probabilmente gli ha fatto male che anche adesso che siamo soli e ci stiamo divertendo, ho ripreso a parlare delle ragazze. O magari gli da fastidio sentire di Cristina in discoteca a ballare in mezzo ad altri ragazzi. Mentre sto ancora pensando a queste cose, mi ritrovo la sua bocca incollata alla mia. Sbarro gli occhi, ma non riesco a far altro. Lui ha gli occhi chiusi e adesso mi ha anche abbracciato sott'acqua. Quasi di peso mi tira su, in piedi. Stacca le sue labbra dalle mie mantenendo le sue mani, però, a salda presa sulla mia schiena. Io non riesco a muovermi. Non perchè lui me lo impedisca, ma perchè sembra che ogni mio muscolo sia in pieno sciopero. L'unica cosa che sembra non smettere di funzionare è la mia testa, che si inizia ad affollare di quando, come e soprattutto di perchè. Il mio migliore amico, ex di una delle mie migliori amiche, mi ha baciato e io non ho saputo reagire.
- Bree. - La sua voce sembra svegliarmi da un lungo sonno buio.
- Che hai fatto? -
- Al mio paese quello si chiama bacio. -
- Perchè? - Sono ancora un po' sconvolta.
Lui sorride. Lo stesso sorriso di suo padre. - Non ti sei mai accorta di nulla. -
- Di cosa? - Mi sento impedita. Ad ogni pensiero che non sia 'che cacchio ho appena fatto' è impedito l'accesso ai miei neuroni che credo stiano per fondere.
Evan si rituffa sulle mie labbra. Anche stavolta non reagisco. Anzi no. Una reazione c'è. Bree che cacchio ti salta in mente? No, non puoi farlo. O sì? Giusto o meno, lo sto facendo. Mi rendo conto di stare ricambiando quel secondo bacio al gusto di mare. Mi rendo conto di aver accettato che le labbra di Evan si giungessero alle mie e che insieme si dischiudessero per far incontrare le nostre lingue che sanno di salsedine. Sì, sto sentendo la lingua del mio migliore amico nella mia bocca. E la cosa più sconvolgente è che mi piace. Questo bacio mi piace. E' un concentrato di dolcezza e di paura. Sento le mani di Evan che iniziano a muoversi lungo la mia schiena. Mi accarezzano dolcemente. Riesco finalmente a muovermi. Porto una mano sulla sua nuca, ad accarezzare i suoi capelli. L'altra l'appoggio sul suo braccio. Il nostro bacio continua. Sembra senza fine, senza tempo, eterno. Le sue mani scivolano pericolosamente in basso, ma si fermano all'estremo confine del bordo del costume. Salto e gli cingo la vita con le gambe. Mi attacco a lui come un koala. In questa posizione lui mi trasporta facilmente. Non mi accorgo quasi che mi ha portato fuori dall'acqua. Me ne rendo conto solo quando, riappoggiando i piedi a terra, sento la sabbia tiepida. Solo allora le nostre labbra si staccano e riprendono fiato. Ci guardiamo negli occhi. Intensamente. Fossi in me, mi rivestirei e andrei via a piedi. Ma non sono in me, non sono io a decidere. Evan apre il mio zaino, ne tira fuori il telo in spugna e lo allarga sulla sabbia. Mi aiuta a sdraiarmici su. Lui si appoggia lateralmente mettendo un braccio sotto la mia testa a farmi da cuscino e tenendo l'altra mano sulla mia pancia che si solleva lenta ai miei brevi respiri. Ci tuffiamo di nuovo l'uno nelle labbra dell'altro a raggiungere quell'incastro che sembra perfetto. Le labbra di Evan si staccano dalle mie e iniziano a prelustrare il mio collo per poi scendere lungo quella pelle che lui ha visto solo in estate. Scende ancora. Mi bacia la pancia e continua a scendere. Mentre lui scende giù, tra le mie gambe, non riesco a trattenere i sospiri. Risale non staccando mai le labbra dalla pelle. Si adagia sopra di me. Per la prima volta da quando ci conosciamo lo vedo come giovane uomo qual è e sento che il suo desiderio è pari a quello che ha fatto nascere in me. Ci vuole poco e i costumi volano via, lasciandoci pelle contro pelle, nella luce di un sole rosso che sta pian piano tuffandosi in mare. Sembra quasi che si sia appostato lì a spiarci, a fare il guardone con due ragazzi nudi su un telo da mare che continuano a baciarsi e ad accarezzarsi.
Evan si blocca. Fissa i suoi occhi lucidi nei miei. Poggia la sua mano destra sul mio viso. Appoggia delicatamente le sue labbra sulle mie. Sembra quasi avere paura, come un bambino che sta giocando coi i vasi di mamma e sa che se li rompe riceverà una punizione epocale. Utilizza la mano che mi ha appoggiato sul viso per accarezzarmi. La sento passare il mio seno, il mio fianco, la mia gamba. La poggia sulla mia natica. E poi è un attimo. Un colpo solo che miscela correttamente forza, passione e dolcezza. E da allora ogni traccia di razionalità prende il volo per altri cieli e restiamo solo noi, coi nostri istinti e le nostre emozioni.
Loro torneranno solo due ore dopo, mentre noi saremo sfiniti e abbracciati su un telo da mare a guardare il cielo, ornato ormai delle sue prime stelle, che ci ha visto uniti.

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Capitolo 10
*** 10 ***


- Sicura che non vuoi che ti accompagni a casa? -
- No tranquillo. Lasciami da Gigì. Le avevo detto che andavo da lei per le 20.30. - Sto mentendo. Non ho nessun appuntamento con Gigì. Non so neanche se sarà a casa.
Salgo in moto. L'unica cosa che rimane di questo lungo pomeriggio in spiaggia sono i miei capelli, ormai arricciati di nuovo, pieni di salsedine e un po' di sabbia sparsa qua e la un po' dovunque. Ci siamo promessi che quello che è successo tra noi non cambierà niente, che faremo finta che non sia mai successo. Una promessa che sa tanto di irrealizzabile. Mi sento stranamente sporca. E non di acqua di mare. Mi sento in colpa. In colpa verso Cristina. In colpa verso Evan. In colpa verso me stessa. In colpa un po' verso tutti. Ho fatto la minchiata di chiudere la porta al pensiero razionale e dare libero sfogo a quegli ormoni che erano tenuti chiusi da un bel pezzo ormai.
Immersa nei miei pensieri non mi accorgo neanche che siamo arrivati al cancello di Gigì. Evan ha fermato la moto sul marciapiede e mi aiuta a scendere. - Aspetto che entri. -
- No, no. - Se Gigì non dovesse essere a casa ci faccio una figura di merda epocale. - Vai tranquillo. Non lo vedi che c'è la macchina in garage? - Non ho neanche controllato prima di spararla stavolta. Spero in una botta di culo.
- Io resto uguale. -
- Come vuoi. - Spero che ci sia almeno Alberta.
Ci salutiamo da amici, ma non come noi da amici. Faccio i quattro passi che mi separano dal portone e salgo lo scalino prima di suonare il campanello. Fa che ci sia Alberta in casa. Fa che ci sia Alberta almeno. Ogni istante passato dietro questa porta con la certezza che c'è Evan che mi fissa alle spalle dura un eternità. Finalmente qualcuno apre. Non guardo neanche chi è. Dico un ultimo 'ciao' a distanza ad Evan e mi precipito dentro sbattendomi la porta alle spalle.
- Bree? Gigì non mi ha detto che venivi. -
- Non lo sa neanche lei in realtà. - Non la sto neanche a guardare. Mi sono incollata allo spioncino aspettando di vedere Evan ripartire. Solo allora starò tranquilla.
- Te la chiamo. -
- Ah è a casa? - Sta controllando se la sella è bagnata.
- Sì, non lo sapevi. - Forse si è deciso a partire.
- Veramente lo speravo altrimenti mi toccava tornare a casa a piedi. - E' partito. Mi volto finalmente verso Alberta. La mamma di Gigì è come una seconda amica del cuore per me. Mi ha fatto da spalla più di una volta. E' una bella donna matura che non dimostra i suoi quasi cinquant'anni. Qualche ragazzo la definirebbe una MILF e non potrei dargli torto. La abbraccio e le stampo un bacio sulla guancia incipriata. Lei sembra sconvolta. Non ha ancora capito perchè mi trovo a casa sua senza che Gigì lo sappia e senza che io sapessi che Gigì fosse a casa.
- Ma c'è Bree? - Grida Gigì dalla sua stanza.
- E' appena arrivata. - Le risponde Alberta.
La sento uscire dalla camera e scendere in fretta le scale. - Che ci fai qui? - La vedo comparire in cima alla rampa.
- No, nulla. Mi sono fatta lasciare qui. -
- Da quello di ieri sera? -
- No, no. Da Evan. Siamo stati a mare. -
- Bravi, bravi. Non dite niente, eh! -
- Non c'era il posto. Siamo andati in moto. Se l'è fatta prestare da non mi ricordo più chi. -
- Sei sempre una stronza. Forza sali. -
La raggiungo sulle scale ed insieme entriamo in camera sua. Ho chiesto ad Evan di portarmi qui per poter parlare con lei, ma ora non ce la faccio. Non me la sento. Parlarne con qualcuno significherebbe rendere davvero reale ciò che ho fatto, ciò che abbiamo fatto. E io non voglio. Non deve essere reale. Deve restare un vago ricordo sbiadito che si confonde tra sogno e fantasia. Non riesco a parlare di nient'altro, però. Gigì se ne è accorta. Ha capito che di tutto quello che mi ha detto o chiesto da quando siamo in stanza non è stato recepito che dalle mie orecchie. Ha capito che qualcosa non va.
- E' successo qualcosa Bree? -
- No, non ti preoccupare. - Fingo. - Sono solo stanca. - Tipica scusa. Spero che se la beva. - Anzi, mi riporteresti a casa? -
- A casa? Di già? Pensavo restassi a cena. -
- Sono troppo stanca. Ti prego. - Le faccio gli occhioni da cucciolo di foca ai quali non riesce mai a resistere. Lo faccio perchè non voglio dover dare spiegazioni sul mio stomaco stranamente chiuso.
Gigì mi accompagna così come si trova, nel suo pigiama estivo. Tanto lei è bella comunque. E anche se non lo fosse, non è il tipo da sprecare energie a vestirsi per un caso su mille in cui dovesse succedere qualcosa mentre è fuori. Ci stiamo poco ad arrivare. Non abitiamo poi così lontane. La saluto in fretta. Prima di entrare in casa lei mi chiede ancora se è tutto ok e io di nuovo le propino la scusa della stanchezza.
- Vuoi che resti qui a dormire? Tanto sono già in pigiama! -
- No Gigì. Torna a casa. Io mi faccio una doccia, mangio qualcosa al volo e mi abbandono sul letto. - Entro in casa prima che lei mi possa rispondere.
Mi abbandono sul divano della cucina nel silenzio della mia casa vuota. La stanchezza addosso ce l'ho davvero, altroché. Tanto che solo il trillo del citofono mi fa accorgere che mi sono appisolata senza volerlo. Ho dormicchiato venti minuti, non di più. Il problema adesso è un altro. Chi è? Io non aspetto nessuno. La mia ansia da film horror di terza categoria inizia a salire. Sono una fifona, io. Che non riesce a non pensare al peggio se è a casa da sola e qualcuno citofona. Mi avvicino alla porta senza fare rumore cercando di inventarmi agente segreto. Chiunque ci sia dietro la porta non sta andando via perchè ha citofonato ancora. Cerco di autoconvincermi a stare calma, ma come sempre fallisco nell'impresa. Mi avvicino piano allo spioncino e ci guardo dentro mentre l'ansia mi sta per fare scoppiare una coronaria. C'è un uomo. Più che un uomo è un ragazzo. Vedo solo i suoi capelli perchè si sta guardando le scarpe. Ha un giubbotto di pelle leggero e aperto con sotto una semplice maglietta bianca. Finalmente si è deciso a guardare verso di me. Ho un tuffo al cuore. Chi cazzo gli ha detto dove abito?
- Ma porc... - Me lo lascio scappare un po' troppo forte. Steve, dall'altra parte della porta, mi ha sentito. - C'è nessuno? -
Apro la porta lasciando la catenella inserita. - Si può sapere come hai trovato casa mia? -
Steve sorride. Ha il sorriso da bastardo, quello che fa impazzire le donne. Non io, però. O forse no. - Dovevo riprendermi la mia maglietta. -
Devo avere la faccia di una zitella, vipera e acida in questo momento. Riesce a farmi prendere i nervi con una sola frase. E' il colmo! - Aspettami qui che te la prendo. -
- No, no. Aspetta. Non avere fretta. Facciamoci un giro prima. -
- Era tutta una scusa per chiedermi di uscire con te? Non ce le avevi le palle per chiederlo? -
- Ehi, ehi. Modera i termini con me. Già mi hai preso per coglione e testa di cazzo sul mio luogo di lavoro, che non mi sembra molto carino. Ora ti ho solo chiesto un giro per recuperare ieri sera perché siamo partiti col piede sbagliato e mi rispondi così. Sei proprio una stronza, eh? - Si avvicina al mio viso dietro la catenella. - O giochi solo farlo? -
Richiudo la porta di scatto. Devo averlo preso in pieno naso perché lo sento urlare. Tolgo la catena e riapro per uscire. Lo trovo seduto per terra con le mani sul naso.
- Fai vedere. - Mi inginocchio vicino a lui e gli sposto via le mani per vedere come è combinato il suo naso. - Non c'è sangue e non è nero. Buon segno. Se si fosse rotto ci sarebbe stato due secondi a gonfiare e a formare il livido. Anche se te lo saresti meritato. -
- Non ci riesci proprio a trattarmi come una persona, eh! - Ha la voce nasale in questo momento. E' buffo come sembri diverso da ieri sera adesso seduto sotto il mio piccolo portico con il naso dolorante, ma non rotto.
- Ti ho preso appena. Sei una femminuccia? - Gli sorrido. Non mi risponde, ma mi lancia un fulmine con lo sguardo. Rido. Lui mi segue anche se dolorante.
- Entra che ti metto su del ghiaccio. -
Adesso è seduto sul divano dove poco fa io ero appisolata, con una busta di fagiolini congelati schiacciata sul naso. - Come va? -
Solleva la busta prima di rispondermi. - Non mi sento più la faccia. -
Mi siedo vicino a lui e gli riappoggio la busta sul naso facendo attenzione a non fargli male. - Mi devi ancora dire come hai saputo dove abito. -
- Il nostro dj abita due case più giù. Me l'ha detto dopo che mi ha visto darti la maglietta. -
Lo guardo. In questo momento sembra quasi tenero. - Facciamo una cosa. Tu ora stai qui e io mi vado a fare una doccia veloce che sono tutta sporca di salsedine e sabbia. Poi usciamo insieme a bere qualcosa. Un'uscita veloce e senza doppi fini, però. Penso di dovertela dopo la botta che ti ho dato. -
- Veloce e senza doppi fini? -
- Altrimenti niente. -
- Neanche un pompinino a fine serata? -
So che è una battuta, o almeno è quello che spero, ma un pugno dritto in pancia non glielo risparmio. Adesso rantola sul divano trattenendosi l'addome all'altezza stomaco con un braccio mentre con l'altro cerca di non far spostare i fagiolini congelati. - Vado a farmi la doccia. Se non ti stanno bene le mie condizioni puoi anche andartene. -
Faccio la doccia più veloce che si sia mai vista. In venti minuti sono fuori. Mi metto su i primi vestiti che incontro in stanza. Lego i capelli ancora bagnati e scendo in cucina. Steve non c'è. Deve essersi offeso per il pugno o per quello che gli ho detto dopo. O magari ha capito che non avrebbe avuto quello che voleva. O semplicemente ha intuito che tipo sono e vuole salvare la pellaccia prima di morire pestato prima di fine serata. Poco male. La doccia l'ho fatta. Ora mi tocca solo di mettermi in pigiama e fiondarmi a letto. Suono di clacson. Insistenze e continuo. Mi affaccio dalla finestra per vedere se è successo qualcosa. Vedo Steve in piedi di fianco a quella che penso sia la sua auto. Ha il braccio infilato dal finestrino aperto dentro l'abitacolo. E' lui che suona. Esco dalla porta portandomi dietro solo le chiavi per evitare di restare chiusa fuori.
- Avevi detto doccia veloce. Io è mezz'ora che aspetto! -
Salgo in macchina con lui senza nemmeno tornare dentro a prendere una parvenza di borsa. Mi porta in un locale affollato, tra una chiacchiera e l'altra, davanti a due belle bottiglie di birra. Scopro così finalmente la sua età, 24 anni, è poco più grande di me. Scopro che di lavoro fa il barman nella discoteca di ieri, ma non è l'unico suo impiego. Lavoricchia un po' dovunque per non pesare sulle spalle dei suoi. Anche io gli racconto un po' di me. Le tipiche conversazioni da primo appuntamento, insomma. Anche se tecnicamente questo non è un appuntamento.
Le birre si sono moltiplicate. Dalla birra siamo passati agli shortini. Dagli shortini ai cocktail. Io ci sono stata poco a partire di testa. Già al primo drink avevo la seconda guerra mondiale in testa.
- Io ho raggiunto il limite. - Cerco di dire non sembrando un alcolizzata ubriaca.
- Vuoi andare a casa? -
- Già! -
- Ce la fai a camminare fino in macchina? -
- Certo! - Fossi stata in un film qui ci avrebbero infilato un bel singhiozzo forte. Siccome questo non è un film, non c'è nessun singhiozzo ma io riesco a stento a trattenere un mega rutto. Mi sembra male spararglielo in faccia alla prima serata. Mi alzo dallo sgabello su cui ho passato la serata. E mi ritrovo col culo per terra a ridere.
- Si, certo. Ce la fai! -
- Mi stai prendendo per il culo? -
- Assolutamente no! - Mi tira per le braccia mettendomi di peso in piedi. Si passa un mio braccio intorno al collo.
- Invece mi sa che ho ragione. -
- Si, certo. Hai ragione. - Mi prende in braccio.
- La smetti di prendermi per il culo? -
Mi ignora. Saluta il barista e mi porta in macchina. -
Sicura che non mi ridipingi la tappezzeria? -
Lo guardo con uno sguardo cagneso. Buona parte dei capelli una volta asciutti sono sfuggiti alla coda quindi non voglio neanche pensare a cosa posso sembrare in questo momento. - Non ho mai vomitato in ventidueanni di sbronze. Vai tranquillo. La tua tappezzeria grigio topo morto è salva. -
Anche stavolta ignora tutto quello che ho detto. Ovviamente solo dopo il 'non ho mai vomitato'. Mette in moto e ci dirigiamo verso casa mia.

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Capitolo 11
*** 11 ***


Apro gli occhi. Ho il lenzuolo bianco che mi copre il viso. Oddio che mal di testa! Ed ho pure una nausea pazzesca. Anche solo girarmi sulla schiena mi provoca dolore da tutte le parti. Sembra che mi sia passato addosso un camion. Che cosa è successo? Non sono neanche nel mio letto. Allungo la mano destra, tastando. Il letto finisce dopo poco. Faccio lo stesso con la sinistra. Non trovo la fine del letto, ma tocco qualcosa. Sembra...non vorrei allarmarmi per nulla come al mio solito, ma sembra una mano. Cercando di muovermi il più lentamente possibile mi sollevo per sedermi sul letto. Mi guardo intorno. Niente paura, sono nella stanza di mamma. Sdraiata vicino a me c'è una sagoma in posizione quasi fetale ricoperta dal lenzuolo, come prima ero io. Quello che ho toccato deve sicuramente essere una mano. Cercando di fare ancora più piano scosto il lenzuolo dal viso della sagoma. Come immaginavo. E' Steve. Non mi ricordo nulla di ieri sera dopo che siamo saliti in macchina. Che è successo? Se mi sono addormentata in macchina, come ci sono arrivata qui e perchè c'è anche lui? Perchè non ho addosso i vestiti di ieri sera? Perchè non ho addosso nulla se non la biancheria intima? Non è che ci siano molte alternative plausibili. Non ricordo nulla, ma due più due al mio paese fa quattro. Ero ubriaca e lui si è preso quello che voleva. Io stessa gliel'avrò offerto su un piatto d'argento con tanto di guarnizione! Mi alzo piano cercando di non svegliarlo. Trovo i miei vestiti per terra. Li raccolgo e mi rivesto. Mentre lo faccio continuo a fissare il mio riflesso nello specchio lungo di mamma. Si sente così una puttana d'alto borgo mentre si riveste dopo aver soddisfatto un cliente? Non lo so, ma so che non mi piace sentirmi così. Farlo con due ragazzi diversi in meno di ventiquattr'ore non è di certo il comportamento adatto a una brava figlia di famiglia come in teoria dovrei essere io. Mi avvicino allo specchio. Poggio le mani accanto al riflesso del mio viso. Chissene se rimarranno le mie impronte sul vetro! Le pulirò poi. Continuo a fissarmi e vedo che la lacrima che ho trattenuto per troppo tempo ha il coraggio di uscire fuori.
- Ben alzata. - Si è svegliato.
Blocco il rubinetto delle lacrime e mi asciugo il viso con le mani. Tiro su con il naso.
- Stai bene? -
- Tranquillo. Solo un po' di mal di testa. -
- E ci credo! Ieri non ti reggevi neanche in piedi. -
- Già. Vado a fare il caffè. Tu come lo prendi? -
- Amaro, grazie. -
Mi precipito in cucina. Mi sento sporca più di ieri. E stavolta non ho dubbi. Non c'è 'è giusto o sbagliato' stavolta, Bree. C'è solo che sei diventata un bel troione. Preparo due caffè usando la macchinetta, perennemente accesa, che ci ha regalato il signor Nimei dopo aver assaggiato il mio tremendo caffè fatto con la moka. Steve entra in cucina appena fermo il flusso nero di caffè.
- Amaro, giusto? - Gli porgo la sua tazzina.
- Sì. -
Prendo due cucchiai di zucchero, li butto dentro la mia e mescolo bene prima di berlo tutto d'un fiato.
- Anche tu lo prendi amaro, giusto? -
- Amara c'è la vita già, devo prendermi pure il caffè? -
- Lo diceva sempre mio nonno. -
- A me lo diceva sempre mio padre. - Parlo stentatamente e non per il dopo sbronza o perché mi sono appena svegliata. Steve invece sembra fresco come una rosa e ha il sorrisetto da bastardo stampato in faccia. Nessuno dei due parla più. Sto già odiando questo silenzio. Ma non riesco a inventarmi niente per romperlo. Neanche Steve si decide a parlare, ma si sta avvicinando verso di me. E' a un passo, ormai. Mi accarezza i capelli. Continuo a fissare i suoi occhi verdi che si avvicinano sempre di più. Poggia il suo indice sulla mia fronte e inizia a disegnare il mio profilo. Si ferma sulle labbra.
- Rilassati. Puoi stare tranquilla. -
Non capisco cosa voglia dire, ma qualsiasi cosa significhi ha deciso di riallontanarsi da me. Il mio respiro si fa pian piano più regolare mentre va a sedersi sul divano. Solo ora riesco a parlare. - Che significa? -
- Che con me puoi stare tranquilla. -
- Continuo a non capirti. -
- Significa che sono un bravo ragazzo che non si approfitta delle ubriache neanche se mi invitano ad entrare in casa... - Oddio. L'ho iniviato io. - ...vogliono spogliarmi ancor prima di arrivare in camera... - Oddio. Puttana! - ...e organizzano uno spogliarello per me. - Puttana e troia!
Sono imbarazzata da non credere. Sento il viso infuocato e tutto ciò che riesco a dire si riduce al balbettio di uno 'scusami'. Steve mi contempla arrossire sempre di più gustandosi la scena con il suo sorriso bastardo.
D'improvviso se ne esce in una risata. Non capisco perchè stia ridendo. Se sta ridendo di me in imbarazzo giuro che gli tiro un pugno che quello di ieri in confronto sembrerà una carezza.
- Bree hai fatto una faccia che andava ripresa! - Sì, sta ridendo di me. Non sa che sta firmando la sua condanna a morte facendo così. - Vedi che stavo scherzando! -
Scherzando? - Su cosa? -
- Nessuno spogliarello e nessun invito. Ti sei addormentata come un sasso in macchina e non sono riuscito a svegliarti neanche a manganellate. Russavi come un taglialegna. E ogni tanto sbavavi pure. -
Lo guardo sconvolta. Forse era meglio pensare di avergli fatto uno spogliarello rispetto a come ha posto lui la situazione adesso! Eppure riesco a trattenermi dalle risate solo per poco. Mi unisco a lui nel ridere a crepapelle. Come quando inizi a ridere senza un motivo e non puoi fermarti più.
- Come mai allora abbiamo dormito insieme e senza vestiti? - Cerco di ricompormi.
- Una volta che ti ho portato dentro non mi andava di lasciarti da sola. Se ti fossi sentita male di notte? - Sa tanto di scusa, ma almeno è una scusa dolce. Passiamola vah! - Ti ho portata dentro e ti ho appoggiata sul letto. Lì ti sei mezza svegliata, ma non eri molto lucida. Sono andato in bagno a darmi una sciacquata e quando sono tornato ti ho trovato già riaddormentata, ma spogliata. Ti ho coperto e mi sono messo a letto vicino a te. Durante la notte ho sentito troppo caldo e piano piano mi sono spogliato anche io. Ma giuro di non averti neanche sfiorata! -
- Devo crederti? -
Steve si alza in silenzio. Si avvicina di nuovo e torna ad accarezzarmi i capelli. Torna a fissarmi negli occhi. Non sono più imbarazzata eppure ho di nuovo la gola improvvisamente secca e un vortice nello stomaco. - Giuro. Non dico che sia stato facile, ma lo giuro. -
Mi sento annegare. Annegare nei suoi occhi verdi. Mi manca il fiato. Devo concentrarmi per cercare di dire qualcosa, ma anche stavolta è più un balbettio che non una frase.
- Io oggi dovrei andare a lezione. -
- Non preoccuparti io vado via. Devo tornare a casa entro le 10 o mia madre chiamerà la polizia per denunciare il mio rapimento. -
Mi strappa un sorriso. Sorride a sua volta. Guardo l'orologio. Sono le 8:30. - Sono già un po' in ritardo io. - La lezione inizia alle 9:30.
- Allora io ti lascio. Spero che ci rivedremo. -
- Se non mi lasci il tuo numero non credo che sarà facile. - Gli ho chiesto davvero di darmi il suo numero? Devo essermi davvero fritta il cervello ieri.
- Ci ho già pensato. E' lì. - Indica il frigo.
Sullo sportello, tenuto con una delle calamite di mamma, c'è l'asso di picchie che qualcuno ha rifilato a Gigì due sere fa, quando ho conosciuto Steve. Sopra stavolta c'è un numero. Il suo. Mi saluta con un bacio sulla guancia prima di andare. Nonostante sia già in ritardo non posso fare a meno di restare appiccicata alla finestra a guardarlo partire. Ha dimenticato la maglietta. Me ne sono accorta ma non gliel'ho detto.
Passo dal bagno per darmi una lavata veloce. Mi cambio ancor più velocemente. Prendo la macchina oggi, la macchina di mamma con le chiavi appese al finto Pinco che le ha regalato Evan. So che farei prima usando il motorino, ma preferisco rischiare un'occhiataccia dal prof perchè entro in ritardo che non rischiare di incontrare Evan. Lo so che ci siamo promessi di far finta di niente, ma non è possibile. Almeno non adesso. Sono passate solo una manciata di ore in fondo. Se mi fermo a pensarci posso ancora sentirlo, sentire il suo profumo, le sue mani addosso e lui dentro di me. Perciò no, non voglio incontrarlo. Non ora. E poi dovrò posteggiare la macchina abbastanza lontano dalla facoltà perciò potrò anche camminare un po'.
Oggi m'è andata bene. Ho dovuto lasciare la macchina di mamma solo due isolati indietro rispetto all'entrata della facoltà. Cammino a passo spedito con gli occhi a terra ma la testa da tutt'altra parte.
- Attenta signorina! -
A pochi metri dall'ingresso con il suo via vai di studenti, qualcuno mi urla questa frase prima di afferrarmi per la vita e tirarmi indietro. Poco davanti a me c'è un fosso aperto e non protetto. Sovrappensiero com'ero non l'avevo visto. Chiunque sia stato mi ha salvato la vita. Quanto meno mi ha risparmiato una brutta caduta. Ancora ho il braccio del mio 'salvatore' intorno alla vita. E' scuro di abbronzatura per le molte ore che deve aver passato a lavorare per strada o nei cantieri. Sopra c'è un tattoo. Discreto, non tamarro. Una piccola fenice stilizzata.
- Signorina deve stare attenta. Poteva finire male. Dove aveva la testa? - Solo ora mi lascia e riesco a guardarlo. Indossa la mantella arancione catarifrangente, obbligatoria per chi fa questo tipo di lavori. La sua voce sembra giovane, non molto più grande di me, ma il suo viso provato dal sole sembra invecchiato prima dei suoi tempi. I suoi lineamenti marcati, uniti all'accento con cui parla, tradiscono probabilmente un'origine non italiana.
- Mi scusi. Ero sovrappensiero. La dovrei ringraziare mille volte per avermi preso in tempo. -
- Dovere, signorina. - Si toglie il casco. I suoi capelli sono chiari e i riflessi che danno alla luce del sole sono oro puro. Gli occhi grandi sono color nocciola intenso. - Ma stia più attenta. -
- Lo farò sicuramente. - Gli sorrido per ringraziarlo ancora una volta.
Supero la fossa e mi volto a guardarlo. Si rimette a posto il caschetto, anch'esso arancione, e mi saluta con un gesto della mano. Ricambio il suo saluto e filo dentro la facoltà. Entro in aula. Il professore ha già iniziato da un bel po' la sua lezione ma per fortuna non mi lancia nessuna occhiata di fuoco mentre silenziosamente vado a sedermi nel posto riservato per me da Cristina. La bacio sulla guancia.
- Come mai così tardi? - Mi chiede sotto voce.
- Ieri sono uscita con quello della maglietta e stamattina c'è stato un po' di trambusto. -
- Stamattina o stanotte? - Ridacchia sperando di non farsi notare.
- Cretina. Dopo ti spiego. -
- Durante la pausa devi raccontarmi tutto. -
Lo farò. Durante la pausa le racconterò tutto, ogni particolare di ieri. L'unica cosa che non gli racconterò sarà di aver fatto l'amore con il suo ex ragazzo sulla spiaggia. Quella parte della giornata la salterò a piè pari.

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Capitolo 12
*** 12 ***


Avevamo promesso di dimenticare quanto accaduto e io l'avevo fatto. Non di mia propria iniziativa, ma l'avevo fatto. Fino a ieri io avevo dimenticato di aver fatto l'amore con Evan. Adesso, però, lo ricordo. L'ho rivissuto poco fa. Come faccio a dimenticarlo, adesso? Non so neanche se l'ho raccontato a qualcuno, non so se qualcun altro sa cosa è successo. So solo che io adesso sto male e non solo per il ricordo lungo e faticoso.
Si è fatta mattina. Entra in camera un'infermiera che non conosco con un sorriso enorme stampato in faccia. Sembra una quarantenne tutto pepe e ancora piena di vitalità.
- Buongiorno signorina Bree. Ha riposato bene stanotte? Come sta stamattina? -
Non lo so come sto, ma non posso spiegarglielo. - Sono stata meglio. - Mi sforzo di sorriderle. - Ho un po' di nausea. - Non so se è dovuta al ricordo o a cosa ho ricordato, ma non lo aggiungo.
Si avvicina per poggiare il dorso della sua mano sulla mia fronte. Mi ricorda quando da piccola dicevo a mamma che non potevo andare a scuola perchè stavo male e lei veniva a controllare quanta verità c'era in quello che le dicevo. - Hai avuto qualche ricordo? -
- Si. -
- E' stata dura come le altre volte? - Adesso che si preoccupa per me sembra assomigliare ancora di più a mia madre.
- Un po' si e un po' no. - Mi guarda perplessa. - Fisicamente l'ho presa meglio. Mi gira soltanto la testa e ho un po' di nausea. Non mi ha fatto piacere quello che ho ricordato. - Non so neanche perchè lo sto dicendo a lei.
- Brutte notizie? -
- Circa. -
- Non pensarci per ora. Adesso devi pensare a uscire di qui il più presto possibile. - Sembra che mi abbia letto nel pensiero. Già amo questa donna! - Quindi che ne pensi di alzarti? Te la senti? -
- Ieri ho camminato un po'. -
- Oggi camminiamo di più. -
Mi regala un altro enorme sorriso. Mi sento meglio solo a guardarla. Mi aiuta ad alzarmi, ma non si limita a portarmi in bagno per lavarmi. Usciamo in corridoio. Mi appoggio a lei con un solo braccio mentre con l'altro trascino con me la flebo. Mi sento più forte di ieri, ma ancora le mie gambe si rifiutano di rispondermi ogni tanto. Nel corridoio incontriamo la Dottoressa Collins.
- Stavo proprio venendo da te, ma vedo che ormai puoi benissimo venire tu da me, cara! -
Rido. Rido e quasi cado a terra perché le gambe proprio adesso non ne hanno più voluto sapere di tenermi su. Per fortuna l'infermiera se ne è accorta in tempo e mi ha sorretto.
- Non esageriamo, però, cara. - Mi dice la Collins. Mi sto quasi affezionando a quel 'cara'. - Anna riportala in stanza e falla mettere a letto. La facciamo alzare di nuovo quando arrivano i parenti. -
L'infermiera Anna ha qualche difficoltà a portarmi di peso in stanza trascinando anche la flebo. Cerco di raccogliere le forze per fare qualche passo, ma ne trovo ben poche. Tra una fatica e l'altra, però, riusciamo a raggiungere la stanza. Quando mi lascia sul letto, l'infermiera Anna tira un sospiro di sollievo.
- Mi deve scusare. -
- Ma non preoccuparti. E' colpa mia. Dovevo farti fare un tragitto più breve. L'importante è che non ti sei fatta male. -
- No, no. -
- Ora riposati. Ti porto un po' di the e fette biscottate così ti riprendi un po'. -
Esce dalla stanza e io ritorno da sola coi miei pensieri. Fisso ancora quel sasso che voleva ricordarmi la spiaggia su cui io ed Evan abbiamo condiviso qualcosa di importante, ma che ancora non ha dato risposta al perchè lui non si sia ancora presentato. Anzi, ha ampliato questo enorme punto interrogativo. E ne ha fatti spuntare altri. Cosa è successo dopo? L'ho raccontato a qualcuno? Poi guardo la carta, quella carta che doveva ricordarmi Steve. Ecco, Steve! Lui è un altro bel punto di domanda. Per il momento con lui mi sembra di star guardando un telefilm, uno di quelli in cui aspetti sempre la puntata successiva per scoprire come va a finire. L'unica cosa certa al momento è che neanche lui si è mai presentato qui finora.
L'infermiera Anna torna nella mia stanza per lasciarmi il the promesso. Quasi mi ci tuffo in quel the per niente zuccherato. Sento subito i benefici. Caccia via quasi subito il senso di nausea e dopo poco risento energia nelle gambe. Vorrei chiedere ad Anna di farmi fare un altro giretto, ma so che la Collins ha ragione. Se strafaccio rischio di avere l'effetto contrario.

Il tempo che mi divideva dall'orario di visita l'ho passato sonnecchiando. Quando Gigì entra dalla porta ho ripreso tutte le forze. E' sola oggi e a quanto pare non ci saranno altri ad arrivare. Cristina ha un esame e Debby l'ha accompagnata come sostegno morale. L'avrei dovuto dare anche io, ma al momento non ricordo neanche se ho mai studiato per questa materia. Mia madre, invece, mi ha chiamato mentre sonnecchiavo scusandosi di non poter scendere da me perché doveva aiutare il nonno a sbrigare non ho capito bene cosa. Mi ha detto che stasera proverà a convincere qualcuno a farla salire fuori orario. Sembra quasi un segno del destino che io e Gigì siamo da sole proprio oggi. Non so se in questi tre mesi le ho raccontato qualcosa, ma oggi devo dirglielo. Sento di doverlo fare. Le chiedo di chiamare l'infermiera Anna perchè voglio che mi aiutino a camminare fino alla saletta dove si trovano le macchinette perchè voglio parlarle lontano dalla mia stanza. Non ci vuole poco sforzo, ma alla fine arriviamo alla meta. Non c'è nessuno a parte noi. Meglio così. Anna mi aiuta a sistemarmi bene su uno dei divanetti e prima di andare via mi raccomanda di chiamarla per tornare in camera. Le chiedo se posso approfittarne per bere qualcosa.
- Tutto tranne caffè. - E' la sua risposta.
Chiedo a Gigì di offrirmi uno dei succhi di frutta della macchinetta vicino a quella del caffè.
- Perdi la memoria ma il vizio di scroccare no, eh? -
Le sorrido mentre si siede accanto a me porgendomi il mio succo. La guardo girare il bastoncino trasparente nel suo caffè macchiato con poco zucchero e berlo d'un fiato fino all'ultima goccia quasi fosse uno shortino.
- Cosa devi dirmi? -
- Devo raccontarti cosa ho ricordato. Non so se te l'ho già detto in passato o meno, perciò ascoltami comunque. E non interrompermi, ti prego, potrei non avere il coraggio di continuare. - Solo dopo questa premessa inizio il mio racconto. Vedo Gigì trasformarsi in viso man mano che vado avanti, ma stranamente riesce a trattenersi dall'aggiungere commenti. Parlo quasi senza prendere fiato finché non arrivo alla fine. - Ora devi dirmi solo una cosa. -
- Cosa ne penso? -
- No. -
- Se lo sapevo? -
- No, anche se rispondendo alla mia domanda risponderai implicitamente anche a questa. -
- Cosa allora? -
- L'ho detto a Cristina? -
- Allora Bree, non so se potrei dirtelo. -
- Non sparare ancora queste scusa Gigì, ti prego. Questo lo voglio sapere. -
- Cristina lo ha saputo dopo come l'ho saputo dopo io. -
- Come la presa? -
- No, Bree. Ho risposto a una domanda ed è già tanto. -
- Gigì ti prego. -
- No, Bree. E poi non c'è neanche bisogno che ti risponda. L'hai vista in questi giorni Cristina. Come ti è sembrata? Non è stata quella di sempre? -
- Sì. Per questo non pensavo lo sapesse. -
- Lo abbiamo saputo tutti dopo un po', ma tutti l'abbiamo cancellato. Anche tu. E devi rifarlo. -
- Come faccio? -
- Ricorderai come hai fatto e lo farai di nuovo. Fidati. - Non è arrabbiata mentre me lo dice. Sembra quasi commossa. Appoggio la testa sul suo petto e restiamo ferme così. Abbracciate.

Anna arriva in saletta e ci trova ancora così. E' finito l'orario di visita, dice. E' passato così tanto tempo? Mi riaccompagnano piano in stanza. Appena dentro vedo qualcosa che prima non c'era. Una scatola bianca sul tavolo. Gigì ed Anna mi aiutano a sdraiarmi.
- Gigì prima di andartene potresti portarmi quella scatola? -
- Quale scatola? -
- Quella bianca sul tavolo. -
- Non c'è nessuna... - Si volta e la vede anche lei. - Chi ce l'ha messa? -
- Non lo so. Vedi se c'è un biglietto. -
Gigì si avvicina al tavolo mentre Anna le ricorda che deve andare via. - Sì, un attimo solo. - Prende in mano la scatola. - Sì, un biglietto c'è, ma non doveva esserci secondo me. -
- Che significa? -
- Che è scritto su un tovagliolo. - Si avvicina al letto. Mi porge la scatola ma tiene il biglietto improvvisato. - C'è scritto. "Sono passato per lasciarti questo, ma non sei in camera e sembra che nessuno voglia dirmi dove trovarti. Però so che mi hai ricordato e questo mi basta." -
- Non è firmato? -
- Si. - Mi porge il tovagliolo.
- Steve? -
- Steve. -
- Chissà che è successo con sto ragazzo! - Gigì ride. - Non ridere che io mi sto sentendo la spettatrice di un telefilm. Aspetto sempre la prossima puntata per scoprire qualcosa. -
Gigì continua a ridere, ma Anna entra di nuovo in camera. - Per favore signorina deve andarsene adesso. - le dice.
Gigì stavolta deve ubbidire. Mi da un bacio forte e scappa via.
- Mi scusi infermiera. - la chiamo prima che possa uscire. - Se dovesse arrivare mia madre potrebbe farla salire comunque anche se l'orario è finito? -
- Non potrei. -
- La prego. Non è potuta essere qui oggi. - Chissà se anche con lei funzionano gli occhi dolci.
- Signorina devo chiedere al capo reparto. Le farò sapere. -
- Grazie mille. - Funzionano!
- Torno tra poco con le medicine della sera. -
Stavolta le medicine da prendere sono diverse. Due piccole pillole azzurre al posto di quella grande, la solita piccola bicolore e la solita iniezione in flebo. Dice che mi stanno alleggerendo la cura perché sto reagendo bene. Così potrò uscire prima. Sperano di mandarmi a casa al più presto. Quando rimango da sola apro la scatola che mi ha lasciato Steve. Dentro c'è un piccolo orsetto di pezza, di quelli appiattiti e morbidi. Come quello che porta sempre con sé Mr Bean, ma senza X sopra gli occhi. Ha un fiocco rosso intorno al collo e un gonnellino in tartan verde e rosso. Pendente dal nastrino rosso c'è una targhetta dorata. Sopra c'è scritto 'Teddina'. Non ho mai avuto un orsetta simile. E se mai l'avessi avuto non l'avrei di certo chiamata così! Non so neanche se è un 'indizio' oppure un regalo. La esco dalla scatola e la metto accanto a me sul letto. Comunque sia dormirò con lei vicino.
E' stato un peccato non incontrare Steve. Anche se forse, a pensarci bene, sarebbe stato piuttosto imbarazzante. Dopo tutto io non lo conosco, o meglio ho dimenticato di conoscerlo. Non so cosa c'è stato tra noi, se mai c'è stato. Anche se quel bigliettino, non so perchè, mi suggerisce che qualcosa c'è stato.

L'infermiera Anna è stata dolcissima. E' riuscita a far dare a mia madre il permesso di salire. Solo cinque minuti, ma mi ha fatto bene vederla. Con lei non ho parlato nè di Evan, nè di Steve. Non mi ha neanche chiesto di Teddina. Forse era questo che mi serviva per tranquillizzarmi e passare una notte in santa pace.

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Capitolo 13
*** 13 ***


Non è stata una notte tranquilla come speravo. Quando mamma è andata via ho iniziato a non sentirmi molto bene. La testa ha iniziato a girare e martellare, lo stomaco a fare le capriole. Esattamente come se dovesse arrivare un fulmine. Ma non è arrivato. O forse si, non lo so neanche io. E' stato strano. E' stato come ha detto la Collins. Ricordato ma non rivissuto. Mi sentivo sulla 'ballerina', quella giostra che ti fa girare su te stessa, su una poltrona che gira intorno a un cerchio che a sua volta gira intorno al centro di tutto. E mentre stavo seduta su questa improbabile giostra, davanti a me scorrevano immagini. Come se stessi vedendo un film girato male e montato peggio, composto da ricordi scialbi. Non so quanti giorni siano passati davanti ai miei occhi. So solo che sembravano tutti uguali. Non ho visto nulla oltre la mia camera, la mia cucina e l'aula dove seguo le lezioni. Non un'altra persona, non un altro posto. Il tutto ha avuto durata breve. Un'ora al massimo. Più volte sono stata sul punto di vomitare, ma sono riuscita a trattenermi. Quando tutto è finito, invece, non ho avuto la stessa forza.
Non ricordo di aver urlato, ma Anna è arrivata comunque. In quel momento, più di tutta la giornata, mi è sembrata un angelo inviato dalla divina provvidenza ad aiutarmi. Non un rimprovero, non una faccia disgustata. Sembrava non vedesse la conseguenza della mia nausea sporcare lenzuola e pavimanto. E' corsa da me, a sorreggermi per evitare che cadessi. Mi ha poggiato delicatamente sul cuscino. Ero sudata e stravolta. E' andata via per pochi secondi, il tempo di prendere un panno e bagnarlo, per poi poggiarmelo sulla fronte.
- Va meglio? - mi ha chiesto.
- Un po'. - le ho detto. Era la verità. Non sentivo più di dover vomitare. Anche perchè non so cosa avrei trovato più da buttar via. Ma la testa ancora mi faceva male e mi pulsava. Mi sentivo ancora sulla giostra.
Anna ha pulito il pavimento velocemente e mi ha dato un antidolorifico. Ha avvicinato la sedia al mio letto ed è rimasta a tenermi la mano e ad accarezzarmi. Ho tenuto gli occhi chiusi fingendo di dormire, ma l'ho sentita parlarmi dolcemente, come solo una mamma sa fare. C'è voluto un bel po' perché mi addormentassi davvero. E fino a quel momento lei è stata lì, accanto a me.

Neanche il mio sonno, però, è stato tranquillo. Sono sveglia dall'alba. Anna non è più accanto a me e, se non mi sbaglio, l'ho appena sentita salutare l'infermiera che è venuta a darle il cambio. Certo che i turni di 24 ore devono essere pesanti! Adesso sto meglio. Il mal di testa è passato e la giostra si è fermata. Sono sdraiata su un fianco, così per come mi sono svegliata, e non ho intenzione di muovermi finchè non mi verranno a chiamare. Sto ferma a fissare il vuoto e a pensare al nulla. Sento che mi sto per assopire di nuovo. Meglio, almeno potrò riposare un altro po'.

Anche sta volta mi sono sbagliata. Torna il martello pneumatico e stavolta il fulmine arriva in piena regola.

E' passata una settimana. Una settimana che mi sono presa per me. Solo casa e università. Le ragazze sono passate un paio di volte, ma non ero molto di compagnia. Gigì ha preteso di passare qui una notte perché ha visto che stavo male. Non le ho detto perché, ma mi ha fatto piacere non passare la notte da sola a pensare. Ha anche tentato di farmi uscire, ma lì ha fatto un buco nell'acqua. A stento la mattina trovavo la forza per guardarmi allo specchio, figurarsi se riuscivo a passare una serata fuori. Mi sentivo giù, ero a terra. Ho avuto anche un po' di influenza. Stomaco chiuso, ossa rotte e nausea. Non ho visto nè sentito Evan. Non ho chiamato Steve. Mi sono messa in standby. Oggi, per fortuna, mi sento un po' meglio. Ho solo una leggera nausea, ma lo stomaco mi si è riaperto. Ed anche di brutto! E poi ho deciso che non devo buttarmi giù così. Devo reagire. Gli sbagli si fanno. Ci si rialza e si va avanti. E per me è arrivato il momento di farlo. E' un pomeriggio assolato e io non ho voglia di fare lezione. Chiamo Gigì.
- Amore sei viva? -
- Sì Gigì. Oggi sto meglio. A dire la verità vorrei andare a fare due passi. -
- Aspetto da una settimana di sentirtelo dire. Dove vuoi che andiamo? -
- Passeggiata in centro? -
Accetta e vado a infilarmi in doccia. Me la prendo comoda e finisco di vestirmi che già Gigì mi sta aspettando in macchina.

- Perchè ti sei fermata qui? - ha fermato la macchina proprio davanti al bar di Evan.
- Da qui iniziano i negozi, Bree. -
- Pensavo volessi andare al centro. -
- Tu hai detto 'fare due passi'. Facciamo una bella passeggiata fino alla piazza centrale e torniamo indietro. -
- Sì, ma... - non trovo nulla da dire per convincerla a non sostare proprio lì.
- Ma niente! E poi se posteggiavo al centro mi facevi tornare qui a piedi per salutare Evan, quindi mi sono fatta un favore da sola. - No, oggi no. Oggi non ti avrei portato a salutare Evan. Ma non te lo dirò.
- Ok. - Fingo un sorriso e mi convinco a scendere dalla macchina.
- Finalmente! - Gigì ultima il posteggio e scende anche lei. Sicura, antifurto e attraversiamo la strada. - C'è il padre di Evan, vero? -
- Dovrebbe esserci. Perchè? -
- Così almeno guardo un bel culo! - Mi strappa una risata.
Appena oltrepassiamo la posta d'entrata, troviamo il signor Nimei al bancone.
- Bree! Ciao! - Mi saluta festoso. Esce da dietro il bancone per venirmi incontro. - Si può sapere che fine hai fatto? Non ti fai vedere da un sacco di tempo. - Mi abbraccia.
- Buongiorno signor Nimei. Questa settimana non mi sono sentita molto bene, perciò sono uscita di casa solo per le lezioni. -
- Ah, la mia secchiona! - Mi lascia libera e si volta verso Gigì. - Tu devi essere... - Non si ricorda mai il nome di nessuno!
- Gigì. - gli suggerisco io a voce bassa.
- Certo! Gigì. Tu sei Gigì. -
- Sì. Sono Gigì. - Ci rimane male ogni volta, ed ogni volta le basta guardare il suo lato B per perdonarlo.
- Evan? - In realtà non voglio sapere dov'è. Ma devo chiederglielo. Devo far finta che non sia successo nulla.
- Sta per arrivare. Ti faccio il solito nel frattempo? -
- Sì grazie. -
- Per te? - chiede a Gigì.
- Lungo con due gocce di latte se è possibile. -
- Tutto per le amiche di Bree. -
Mentre il signor Nimei è voltato a prepararci il caffè, Gigì continua a fissarlo sussurrandomi affettuasamente che sono una stronza e che lei al posto mio se lo sarebbe già scopato sul bancone.
Vedo arrivare Evan. Si appoggia sulla soglia della porta posteriore a guardarmi. E' imbarazzato. Lo capisco da come strofina spasmodicamente le mani pulite contro uno strofinaccio a caso. Anche io sono nervosa. Prendo il caffè che suo padre mi ha appena messo davanti e inizio a girarci dentro il cucchiaino senza averci aggiunto lo zucchero. Lui si avvicina, mi passa un braccio intorno alla vita e mi stringe. Ma non è sincero. Si sta sforzando anche lui di far sembrare tutto normale, ma entrambi sappiamo che non è così. E ho paura che se ne accorga qualcun altro. Non voglio che si sappia. Mi bacia sulla guancia. Mi chiede come sto e gli rispondo che non sono stata bene in questi giorni ma che mi sento meglio.
- Solo un po' di nausea. -
A questa parola Evan sembra sbiancare. - Nausea? -
- Si, ma non tanta. Si avvicinano gli esami perciò è normale. -
- Normale? - Sembra che abbia visto un fantasma.
- Sì, certo. - Mi fissa negli occhi e pian piano riprende colore. Bevo in fretta il mio caffè per sfuggire da quello sguardo. - Oddio lo zucchero! - Mi ha smosso di nuovo la nausea. Sento risalirmelo in gola ancora tiepido. Corro nel bagno che per fortuna e libero e sputo tutto ciò che viene nel lavandino. Lo pulisco e mi sciacquo il viso prima di uscire.
- Stai bene? - Evan è di nuovo bianco come un cencio.
- Sì. E' l'effetto del caffè amaro. Lo sai che mi fa schifo. -
- Bree, tutto ok? -
- Sì signor Nimei. - Mi avvicino a Gigì. - Però ora dobbiamo andare. -
Salutiamo e ci allontaniamo. Gigì mi guarda strano. - Che c'è? -
- Tu non me la racconti giusta. -
- Cosa? - Divento rossa. Lo sento.
- Tu mi nascondi qualcosa. -
- Ma che dici! Ti credi di nuovo Lightman? -
- Non mi prendere in giro. Me lo sento. -
Cerco di convincerla che si sbaglia, ma io stessa non mi crederei.
- Attenta signorina! - La stessa voce di una settimana fa. Lo stesso braccio abbronzato con la fenice stilizzata sopra che mi afferra per la vita. Lo stesso uomo che una settimana fa mi aveva salvato dal cadere nella buca stavolta mi ha evitato di finire contro al palo. Prese dal discorso nè io nè Gigì l'avevamo visto. - Signorina lei vuole proprio farsi male. -
- E lei vuole proprio salvarmi. - Lo guardo e sorrido. - Grazie. Di nuovo. -
- Dovere. - Sorride mentre mi fa l'occhiolino. - Ma stia attenta. Io non lavorerò qui per tutta la vita. - Rido e passo oltre insieme a Gigì.
- E quello chi è? - Per fortuna basta una nuova presenza maschile per farle dimenticare il discorso di prima.
- Non lo so. -
- Che significa non lo sai? -
- Non so chi sia. A questo punto penso sia la mia guardia del corpo. Settimana scorsa stavo finendo in un fosso camminando sovrappensiero e lui mi ha tirata via. -
- Wow. Un principe azzurro albanese in tuta arancione! -

Il pomeriggio con Gigì alla fine è andato bene. Non è più tornata sulla questione 'mi nascondi qualcosa'. Non so quanto avrei resistito se avesse insistito un po'. Ho anche fatto un piccolo acquisto. Un piccolo orsetto di pezza con un fiocco rosso intorno al collo e un gonnellino in tartan verde e rosso. C'è anche una targhetta per il nome. Gigì ha insistito per farci incidere sopra 'Teddina'.
Adesso penso sia arrivato il momento di fare un'altra cosa che attende da una settimana. Mi avvicino al frigorifero e stacco la carta con sopra il numero di Steve.

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Capitolo 14
*** 14 ***


Ho composto il numero senza neanche sapere cosa dire esattamente. E se neanche si ricordasse di me? Il telefono sta squillando, ma ancora nessuno risponde. Stacco la chiamata e mi butto sul divano. Non ho il tempo di rilassarmi che il telefono, ancora nella mia mano, inizia a vibrare. Una chiamata da un numero che non è in rubrica. Probabilmente è Steve che mi richiama.
- Pronto. - Rispondo sorridendo.
- Pronto. Chi parla? - E' la voce di una donna. Resto perplessa.
- No, scusi. E' lei a dovermi dire chi è. Lei ha chiamato. -
- Ma tu hai chiamato per prima. -
- Quando? -
- Poco fa. - Quindi non mi ero sbagliata. Questo è il numero di Steve.
- Guardi devo aver sbagliato numero, allora. -
- O forse no. Chi cercavi? Steve per caso? -
- In realtà, sì. -
- Immaginavo troietta. - Troietta? Mi ha appena dato della troietta? - Mi basta questo. Non mi interessa perchè lo cercavi, ma qualsiasi sia il motivo puoi benissimo cancellarlo dalla lista delle persone che conosci. -
- Senti, gioia mia. - Odio essere chiamata così e odio usare questo appellativo, soprattutto in tono provocatorio. Ma lei mi ha appena dato della troia! - Per prima cosa rilassati. E per seconda vattene a fanculo. -
Termino la chiamata così, finemente.
Ho bisogno di un po' d'aria. Esco dalla porta di casa portando con me il telefono e le chiavi per evitare di restare chiusa fuori. Mi siedo per terra con le gambe incrociate a fissare il nulla. Una ragazza, la sua ragazza? Potrebbe darsi. Che bastardo, però! Provarci in quel modo quando poi hai una ragazza a casa che ti aspetta. Quella mi ha chiamato troia. Questa proprio non riesco a farmela andare giù.
Non ho alcun motivo per arrabbiarmi, eppure sento un fuoco dentro che inizia a crescere, i nervi iniziano ad affiorare sulla pelle. Mi sento elettrica. Ho bisogno di uscire. Chiamo Gigì. Stasera non può uscire. Riunione di famiglia. Chiamo Debby. Stasera esce da sola con Giovanni. Non mi va di fare la candela a quei piccioncini. Chiamo Cristina. L'idea di restare da sola con lei non mi va ancora tanto, non so se riuscirei a non sentirmi in imbarazzo. Anche lei è impegnata, purtroppo o per fortuna. Deve studiare. Con quest'ultima chiamata le mie speranze di poter andare ad affogare i nervi in un paio cocktail è sfumata.
Qualcosa mi tocca la gamba facendomi trasalire.
- E tu chi sei? - Un bellissimo gatto ha deciso di venirmi a fare le fusa, forse sperando in qualcosa da mangiare. Non è un gattino, ma neanche un gatto adulto. Ha il pelo lungo, folto e nero come la notte che sta per arrivare. Gli occhi enormemente gialli e straordinariamente dolci mi incantano quasi. - Ma sei stupendo! - Inizio ad accarezzarlo. Inizialmente non si fida della mia mano, ma poi capisce che voglio solo coccolarlo e mi lascia fare. Prende più confidenza con me e sale sulle mie gambe acciambellandovisi. Continuo a coccolarlo. - Per oggi hai trovato una casa, cucciolotto. - Lo porto dentro con me. So che mia madre mi ucciderà al suo ritorno, ma non mi va di lasciarlo solo. E poi, se è un randagio, già domani sarà scappato via. Sono così loro, cercano amore solo quando gli serve.
Poggio ai piedi del lavandino della cucina un piatto dove verso del latte. Ci butto dentro un po' di pane spezzettato. Accanto metto un altro piattino dove metto un po' di carne in scatola, anche se è per umani dovrebbe andar bene. Infine, metto un bel piattone colmo d'acqua. Black, nome scontato da dare a un gatto nero, ci si fionda dimostrando che la cosa gli interessa parecchio. Mi siedo sul divano e lo guardo. Lo guardo e rifletto. Sono così dolci quando vogliono ottenere qualcosa. Sanno rigirarti e convincerti che hanno bisogno di te. Sanno farti credere di volerti. Ma poi? Poi li chiami e ti risponde una ragazza che ti da della troia!

Come immaginavo, Black è andato via dopo aver fatto il pieno di cibo, acqua e coccole. Mi ha fatto capire che voleva andarsene piantandosi alla porta e miagolando senza sosta. L'ho guardato allontanarsi e ho capito che avevo davvero bisogno di uscire. Da sola se necessario. Sono corsa dentro a vestirmi. Niente di appariscente, scollato o provocante, niente che potesse attirare maschi. Niente posti balordi, solo un piccolo bar. Niente 'annegare i pensieri nell'alcool', solo una birra e torno a casa.

Come piccolo bar ci siamo. E' pure in una zona centralissima e solitamente tranquilla. E' su 'una birra e torno a casa' che mi sono persa. Sola a bere seduta al bancone del bar non devo dare una bella impressione a chi mi vede.
- Un'altra per favore. -
- Non crede di esagerare signorina? - Il barista toglie le quattro bottiglie vuote.
- Esagerare? Perchè? - L'ho detto già che non reggo l'alcool, giusto? A stomaco vuoto, poi...
- Perchè non riesce più a parlare. - Lo guardo o almeno provo a farlo. - E' venuta in auto? -
- No, a piedi! Certo che sono in auto! -
- Non può guidare così. -
- Mi accompagna lei a casa? - Provo a fare la sarcastica anche da mezza ubriaca, forse anche tre quarti.
- L'accompagno io. - Non è il barista a parlare, ma un ragazzo che è alle mie spalle.
- Sarò pure quasi ubriaca, ma non sono cogliona. Secondo te mi fido di uno sconosciuto che vuole riportarmi a casa mentre sono in queste condizioni? - Non mi volto neppure.
- La signorina non ha tutti i torti. - Il barista più protettivo che abbia mai visto sta squadrando male il ragazzo alle mie spalle. Non che io conosca molti baristi. A parte Evan, suo padre e Steve, ovviamente.
- Ha ragione a non fidarsi signorina. - Il ragazzo dietro di me si avvicina e poggia il suo bicchiere al bancone. Non mi volto ma di sfuggita la vedo. La fenice stilizzata. - Ma io l'ho già salvata due volte. Accompagnarla a casa evitandole un incidente sarebbe solo la terza. -
Si avvicina a me. Penso che non l'avrei riconosciuto se non fosse per quel tatuaggio, e non perché sono un po' partita di testa. Sembra dannatamente diverso. E dannatamente bello.
- E' un vizio il tuo. Dovresti smettere. -
- Di salvarla? -
- No. Di darmi il lei. - Sorrido. Gli porgo la mia mano, quella che non è ancora incollata alla bottiglia vuota. - Sono Bree. -
- Bree? -
- Brigida, ma chiamami Bree. Odio il mio nome. -
- Daccordo Bree. - Afferra la mia mano. Ha una stretta sicura e decisa. - Io sono Samir. -
- Samir? -
- Sì. E chiamami Samir perchè a me il mio nome piace. - Battutona. Sembra addirittura soddisfatto di averla fatta a quanto dice il sorriso che si è stampato in faccia. Lo assecondo sorridendo a mia volta. Ci crede. Non sono tanto ubriaca da non saper fingere. - Tornando alla questione seria, signorina... Bree, scusa. Non puoi guidare. -
- Tra poco mi riprendo, non preoccuparti. -
- Invece mi preoccupo. -
- Ce l'hai nel sangue di fare il salvatore delle donzelle in pericolo a tutti i costi? -
- Semplicemente non mi sembra giusto farti rischiare patente e vita. -
- Senti, amico. - Sarà la birra, ma mi sta facendo alterare. - Come hai detto che ti chiami? -
- Samir! -
- Senti Samir. So badare a me stessa. -
- Ma non sei in grado di guidare adesso. -
- Dici? -
- Secondo me non sei in grado neanche di stare in piedi. -
- Mi stai sfidando? - Mi alzo dallo sgabello. In un nanosecondo mi ritrovo col culo per terra. Per la seconda volta in una settimana. Stavolta non rido.
Lo fa lui e anche di gusto. - Cosa ho vinto? -
Mi offre il braccio per aiutarmi, ma io lo rifiuto. Mi sollevo da terra aiutandomi pian piano con lo sgabello. Deve essere una scena comica, suppongo. - Smamma! Non ci salgo in macchina con te! -
- Chi ha parlato di macchina? -
- Hai detto che vuoi accompagnarmi. -
- Fossi matto! E chi si fida di una supersbronza come te? - Si avvicina pericolosamente a me. - E se mi violentassi? - Si siede sullo sgabello vicino al mio. - Non voglio accompagnarti a casa se non vuoi o non ti fidi. Mi basta essere sicuro che ti è passata la sbronza prima di farti mettere al volante. -
- Farmi passare la sbronza? Ci vorrebbe una dormita. O un po' di cibo. Sono a stomaco vuoto. -
- Provvediamo subito. - Si rivolge al barista. - Sto portando questa signorina al tavolo. Le puoi portare lì un panino? -
- Certo. Con cosa lo facciamo? -
Rispondo io. - Prosciutto, formaggio e un chilo di insalata. -
- Arrivo subito. -
Samir mi prende il braccio destro e mi fa appoggiare a lui. Iniziamo a camminare verso il tavolo. E' sempre stato così lontano?
- Di questo passo il ragazzo col panino arriverà al tavolo prima di noi. -
- Che fai? Sfotti? -
- Non posso? -
Siamo arrivati. Mi aiuta a sedermi. Mi sento come quando due anni fa presi una brutta distorsione alla caviglia durante uno spettacolo. Non poggiai il piede per tre mesi, quasi. Il mio panino arriva dopo poco accompagnato da un mega bicchiere di acqua. Lo divoro mentre Samir si alza e va verso la cassa. Paga la sua consumazione, il mio panino e anche tutte le mie birre. Torna da me.
- Ma non avevano portato il tuo panino? Dov'è finito? - Stavolta la battuta è simpatica, anche se sta prendendo per il culo la mia fame.
- E' dentro la mia panza a farsi una nuotata nella birra. - Ride. Sembra che abbia un concetto diverso dal mio di belle battute. Prendo un sorso d'acqua. - C'è del limone qua dentro! -
- Penso che sia per aiutarti a mandar via le birre. -
- Mi vuole fare vomitare? -
- Forse. -
- Ma ho appena mangiato! E poi è una settimana che vomito! -
- Sei stata male? -
- Un po' di influenza. -
- Influenza o non influenza, vomitare non ti farebbe male. Prima ti riprendi, prima ti liberi di me. - Mi sorride. Un sorriso che sembra estremamente pieno di dolcezza, nonostante i lineamenti duri e quasi provati del volto.
- Non mi sembra il caso di farlo qui! -
- Il bagno è alle tue spalle. -
- Ci sarebbe un problemino. -
- Sì, tranquilla. Ti porto io. -
Samir mi riprende per il braccio, mi aiuta ad alzarmi e mi accompagna fino alla porta del bagno. In realtà avrei potuto camminare da sola. La testa non gira più come un attimo fa. Ha portato anche il bicchiere con acqua e limone. Lo poggia sul lavandino a cui già mi sono aggrappata per non correre il rischio di cadere. Chiude la porta e mi aspetta fuori. Vedessi la scena dall'esterno farei fatica a credere che siamo praticamente due sconosciuti.
Non ho bisogno di buttare giù l'acqua e limone. Un conato di vomito mi sorprende e butto quel poco che c'era nel mio stomaco nel lavandino. Uso il contenuto del bicchiere per sciacquarmi e togliermi il saporaccio dalla bocca. Apro la porta.
- Tutto bene? -
- Sì grazie. - Un altro conato in arrivo. - Anzi no! - Mi volto e vomito nel lavandino senza aver il tempo di chiudere la porta.

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Capitolo 15
*** 15 ***


- Passata la sbronza? -
- Sto meglio, grazie. Ora vado. -
- No, resta ancora un po'. -
- Samir, mi sento meglio. -
- Hai appena vomitato l'anima. Siediti e parliamo un po'. - 
- Se vuoi parlare, parliamo. Ma fuori di qui. Ho bisogno di aria. -
Mi accontenta. Ci sediamo sulla panchina fuori dal locale. 
- E allora Samir. Da dove vieni? -
- Albania. - Gigì c'ha indovinato! - Sono qui da cinque anni. -
Iniziamo a parlare e senza neanche accorgermene gli ho raccontato metà della mia vita dopo aver ascoltato metà della sua. Ha 28 anni, quindi solo sei più di me. Non è venuto in Italia per il lavoro perchè lì in Albania era ben sistemato grazie a suo padre. E' venuto per voltare pagina, per staccarsi da lui e da una storia andata male. Per risorgere dalle ceneri, come la fenice che si è tatuato poco prima di lasciare la sua terra. 
- Sei bravo a far parlare la gente. - 
- Ci hanno visto bene i miei genitori. -
- Cosa? -
- Samir, il mio nome, significa qualcosa tipo "compagno di una chiacchierata notturna". Perciò è destino per me. - Sorride. Di nuovo quel sorriso dolce. 
- Credo sia il momento di andare a casa adesso. -
- Posso accompagnarti? E' tardi. Ti seguo in macchina. -
Decido di fidarmi. Non so perché. - Ok. Prendi la macchina che ti aspetto qui. La mia è quella. - Indico la macchina di mia madre posteggiata perfettamente di fronte all'entrata del bar. 
Entro in macchina e mi guardo allo specchietto. Ho un aspetto a dir poco sconvolto, per non dire raccapricciante. Vedo arrivare Samir. Mi immetto in strada precedendolo e mi avvio verso casa.

Mi sono fermata a parlare con Samir ancora un po' dopo aver posteggiato l'auto in garage, seduti sul cofano anteriore della sua. Prima di andare via, mi ha baciato. Ed io? Io l'ho lasciato fare. Non dico che me l'aspettassi, ma ci stava perfettamente a conclusione di una serata come questa. Mi ha baciato teneramente. All'inizio sembrava quasi spaventato, forse perché pensava che avrei reagito male. Ha solo appoggiato le sue labbra contro le mie, delicatamente, per pochi istanti. L'ha rifatto. Poi si è tranquillizzato. E' diventato più sicuro, più deciso, ma è riuscito comunque a restare dolce accompagnando piano la sua lingua accanto alla mia. Non ha neanche tentato di toccarmi, fatto strano rispetto ai ragazzi che ho conosciuto. Per tutto il tempo ha tenuto una mano ferma sotto il mio mento. Con l'altra mi ha accarezzato il braccio, la sciena, ha giocato coi miei capelli. Infine mi ha stretto. Ed è stato bravo, caspita se è stato bravo. E' riuscito a farmi impazzire. Non so se è per quel pizzico di alcool che ancora mi circola nel sangue o se è stata tutta opera di quel meraviglioso, perfetto bacio. Ho tremato come una foglia per tutto il tempo. E poi? Poi l'ho ringraziato della serata e sono entrata in casa. Erano le 2. Mi sono subito buttata sul letto, il mio letto, e mi sono addormentata praticametne subito, totalmente vestita, col sorriso sulle labbra e un semi-sconosciuto in testa.

Mi sveglia il cellulare che vibra. Stranamente ho il sonno leggero di questi tempi. Prima di guardarlo corro in bagno a vomitare l'ultimo strascico di sbronza. Tornata a letto la chiamata era già terminata. Sono le 4. Chi può chiamarmi a quest'ora? Controllo la liste delle chiamate. Un numero che non ho in rubrica. Sono troppo stanca per andare a controllare se sia il numero di Steve. Spengo il cellulare per evitare di essere disturbata ancora, mi volto e ritorno nel mondo dei sogni. 

Ore 6. Apro gli occhi. Un forte crampo all'addome mi ha svegliato, ma è già passato. Non vorrei che mi fosse arrivato il ciclo con una settimana di anticipo! Mi alzo per recarmi in bagno. La testa mi gira così forte che devo appoggiarmi al muro per non cadere. E' solo un attimo, ma è sembrato di stare sull'ottovolante. Vado in bagno tenendomi vicino al muro per evitare che un altro giramento mi colpa alla sprovvista a mi faccia cadere. Niente ciclo in anticipo, per fortuna. In compenso ho ancora un po' di nausea. Vado in cucina, sempre costeggiando il muro. Prendo un pentolino, lo riempio d'acqua e lo metto sul fuoco. Mi ci vuole un bel tè caldo al limone. Appena l'acqua bolle, spengo la fiamma e metto in infusione la bustina di tè ed una fetta di limone. Mentre aspetto che sia pronto mi appallottolo sul divano.

Ore 7. Sento la mia sveglia suonare, ma talmente lontana che ancora non ho compreso di essermi davvero svegliata. Poi ricordo di essermi trasferita in cucina, anche se non ricordo quando mi sono addormentata. Lascio la sveglia suonare e prendo il mio tè ormai freddo e senza zucchero. Lo butto giù di un fiato sperando che mi aiuti. Non mi sento al massimo della forma, ma oggi ho una lezione importante da seguire. Faccio la doccia che non ho avuto la forza di fare ieri. Mentre torno in camera coi capelli ancora bagnati, la testa riprende a girarmi. Di nuovo è solo un attimo sulle giostre. Mi appoggio al muro ed entro in camera mia. Mi vesto prendendo vestiti a caso dall'armadio. Un paio di jeans che arrivano al polpaccio e una maglia larga senza maniche. Perfetto. Prendo il motorino per andare in facoltà sperando che l'aria fresca in viso aiuti a riprendermi e pregando che non ci sia da fare un altro giro di giostra mentre guido.
Decido di passare dal bar di Evan prima di entrare in facoltà. Per non fare insospettire suo padre, sia chiaro. Lascio il motorino al solito posto.
- Buongiorno signor Nimei. - E' voltato a preparare un caffè, ma riconosce la mia voce.
- Ciao Bree. Il solito? - Mi risponde senza girarsi.
- No, oggi no. -
Si volta verso di me guardandomi in modo strano. - Come mai? -
- Non mi sento molto bene. -
- Ricaduta? -
- Probabile. - Mi avvicino al bancone e mi siedo.
- Sei passata per salutare Evan? -
- Sì. - Fingo spudoratamente. 
- Purtroppo adesso non c'è. - Mi lascio sfuggire un sospiro di troppo. Se ne accorge. - Per caso devi dirmi qualcosa? - Lo guardo perplessa. - Tipo la verità sul perchè sei quasi scomparsa dalla circolazione, sul motivo per cui tu ed Evan non vi sentite più tutti i giorni. - 
Mi ha colta alla sprovvista. - No, ma che dice! Signor Nimei non è vero. Sono solo stata male. - 
Mi fissa in silenzio. Arrossisco. So che non mi riesce bene di inventargli balle, ma cosa dovrei dirgli? 'Sa Signor Nimei, non mi vede più spesso perché per sbaglio io e suo figlio abbiamo fatto l'amore in spiaggia'.
- Sarà. A me voi due non la raccontate giusta. Un bicchiere d'acqua almeno lo prendi? -
- Sì, quello sì. -
Bevo, lo saluto ed esco in fretta dal bar. Prendo il motorino, lo posteggio all'interno della facoltà e corro in aula. 
Il professore non è ancora arrivato. Cerco Cristina, ma non la trovo. Forse è meglio così. 

La lezione è stata più pesante del solito. Cristina è arrivata a lezione iniziata e si è seduta accanto a me. E' stata lei a tenermi sveglia. 
- Che avevi oggi? Non ti avevo mai vista così assente a lezione. - Mi dice accompagnandomi al motorino.
- Non ho dormito bene e penso di avere ancora l'influenza. Stamattina ho avuto forti giramenti di testa e ho di nuovo la nausea. -
- Sei sicura che te la senti di guidare? - Questa frase mi fa venire in mente ieri sera.
- Sì tranquilla. - 
- Non mi convinci. -
- Tranquilla ti ho detto. - Le sorrido. 
- Facciamo così. Andiamo a pranzo insieme e poi ti riaccompagno qui così torni a casa. -
- Non c'è bisogno Cri. -
- Insisto. - Mi prende il braccio e mi tira verso l'uscita. - Offro io, ovviamente. - Certe volte penso che Cristina sia la personificazione della generosità. 
Uscendo dalla facoltà, vedo Samir. E' appoggiato al portone coi suoi abiti da lavoro, il giubbino catarinfrangente e il cascetto arancione. Penso che stia aspettando me. Mi sorride. E' lo stesso sorriso di ieri.
- Bree. -
- Samir. - 
Sorrido anche io. Nessuno parla più. Cristina è ferma accanto a me, perplessa. Alla fine è Samir che decide di rompere quell'infinito silenzio. - Come stai? -
- Stanotte non è andata troppo bene. - 
- Per la sbronza? Pensavo ti fosse passata. -
- Non penso sia stata la birra. Penso di avere una ricaduta di influenza. -
- Mi dispiace. -
- Non preoccuparti. - Continuo a sorridere come un imbecille. Cristina mi spinge il braccio. Mi ero scordata di lei, perdendomi negli occhi nocciola di Samir. - Ah Samir. Ti presento Cristina. - 
Si stringono le mani mentre Cri accenna un 'piacere' quasi sottovoce. - E' una delle mie migliori amiche. -
- Molto onorato. - Torna a buttare i suoi occhi nei miei. - Ora devo tornare a lavoro altrimenti un bel rimprovero non me lo toglie nessuno. -
- Sì, vai. Scusa se ti ho trattenuto. - 
- Ma se ti stavo aspettando. - Si toglie il casco e si avvicina pericolosamente al mio viso. Non so perchè sono quasi terrorizzata all'idea che mi baci. Qui, con Cristina, difronte al bar di Evan. Samir sembra quasi averlo capito. Preme delicatamente le sue labbra contro la mia guancia. Un brivido mi corre lungo la schiena. Saluta Cristina, infila il casco e torna dai suoi colleghi. 
- Chi è quello? - Io non rispondo subito. Sto ancora immobile a fissarlo per un paio di secondi. Sembra avere un effetto ipnotico su di me. - Ehi Bree! Mi hai sentito? -
- Si chiama Samir. -
- Questo l'ho capito. Anzi, questa è l'unica cosa che ho capito a dire il vero. - Ride. 
Attraversiamo la strada e ci incamminiamo verso la mensa che si trova un isolato più giù della nostra facoltà. Entriamo, Cri da due biglietti all'entrata e prendiamo i nostri vassoi. Dopo averli riempiti, ci sediamo nei primi posti liberi che troviamo. Siamo una di fronte all'altra. - E allora? Hai intenzione di raccontarmi di questo Samir o no? -
Le racconto dei primi due incontri con Samir, di ieri, del pomeriggio con Gigì, della furba pensata di andar a bere da sola, di come lui mi abbia voluto salvare per la terza volta, del bacio. Il mio racconto è durato per tutto il pranzo. Cristina mi ha ascoltato silenziosa tra una forchettata di pasta scotta e un pezzo di carne insapore.
- Ora aspetto tuoi giudizi. -
Mi dice che sono stata un'irresponsabile ad andare da sola e un'incoscente a dare così tanta confidenza a uno sconosciuto. Questo lo so anche io, però. Accetto il rimprovero in silenzio. Poi aggiunge che come al solito sono stata fortunata perchè, nel mio essere irresponsabile, non ho trovato un maniaco approfittatore, ma un operario che mi fa la corte.
- Samir non mi fa la corte. -
- No? Ti salva la vita, non ti permette di guidare ubriaca, sta con te fino a che non ti passa la sbronza, ti accompagna a casa e la mattina dopo ti aspetta fuori dalla facoltà. -
- Ok, forse hai ragione. -
- Forse? -
- Cri. - Sto arrossendo ancora prima di pronunciare quello che sto pensando. - Penso che mi piaccia. -
- Questo non mi stupisce. Tu ti innamori anche delle farfalle che vedi passare. - Ride. Non ha poi tutti i torti. Poi mi fa una domanda che mi lascia perplessa. - Evan come sta? -
- Non ci stiamo sentendo spesso in questo periodo. Sai, lui è impegnato, io sono stata male. - Sto arrossendo sempre di più.
- Dai, andiamo via. -
Usciamo e torniamo in facoltà. Lungo la strada è lei a parlare. Io sento il rossore ancora sulle guance. Improvvisamente arriva un altro giro di giostra.

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Capitolo 16
*** 16 ***


Stavolta non dura poco. Mi appoggio al muro per non cadere.
- Cri sto male. - Mi accascio a terra. Ho la vista annebbiata.
- Bree! Bree! Cosa ti senti? - Sento Cristina preoccupata venirmi incontro. Non riesco a risponderle. Continuo a sentire tutto intorno a me, il traffico, Cristina, ma non riesco a parlare nè a muovermi. Mi sento debole all'inverosimile. 
- Cosa è successo? - Sembra la voce di Samir.
- Non lo so. Si è sentita male. Chiamo l'ambulanza. -
Mi prende in braccio. - Il pronto soccorso è qui dietro. Andiamo in macchina. Faremo prima. -
Non sento più nulla.

Mi sveglio in ospedale. Vicino a me trovo Cristina. Quando si accorge che ho aperto gli occhi va a chiamare qualcuno fuori. Entra una donna dal viso tondo e sorridente, con due orecchini dorati ai lobi e un rossetto rosso fuoco che su di lei non sembra essere volgare. 
- Cosa è successo? - 
- Niente cara, non preoccuparti. Io sono la dottoressa Collins. Ci hai fatto prendere un brutto spavento, ma non è nulla di grave. Sei svenuta e i tuoi amici ti hanno portato qui. Supponiamo che sia stata solo l'unione di uno stato di ansia con un abbassamento di pressione dovuto a stanchezza e caldo. Può capitare nelle prime settimane di gravidanza. -
- Cosa? Ma io non sono incinta. -
- Le avevo detto che non lo sapeva! - E' Cristina a parlare. E' rimasta alle spalle della dottoressa.
- Non sapevo cosa? Non sono incinta! -
- Cara, so che non è carino venirlo a sapere così, ma lo sei. Non mi stupisce che tu non lo sappia. Dai valori la gravidanza risulta avviata da 6-9 giorni. Facciamo sempre gli esami prima di effettuare qualsiasi terapia. -
- Oddio. - Sono sconvolta. - Com'è possibile? - Poi ricordo. Evan non ha usato protezioni, nè accorgimenti di alcun tipo. - Oddio, no! -
- Suppongo che non ti aspettassi una notizia del genere. -
- No. Non doveva accadere. -
- Comunque, in generale stai bene perciò non ti ricoveriamo. - Si volta verso Cristina. - Dopo il passaggio dell'infermiera può portare la sua amica a casa. - Si rivolge a me. - Ciao Brigida. -
- Grazie dottoressa. -
Mi volto mentre esce. Mi raggomitolo in posizione fetale. Cristina mi si avvicina. - Cucciola come ti senti? -
- Bene. - Una lacrima inizia a rigarmi il volto. 
- Non sapevo che ti vedessi con qualcuno in questo periodo. Chi è il padre? Lo sai?-
- Sì. Non è qualcuno con cui mi vedo. -
- Ah. Sesso occasionale non protetto. - 
- Non è esattamente così. -
- Bree, non ti sto giudicando. -
- Ti dico che non è quello. Mi sono giudicata abbastanza da sola. - Le lacrime sul mio viso si sono moltiplicate. - Quel giorno che sono stata a mare con Evan. -
- Sì, ricordo. -
- Non te l'ho detto perchè non sapevo che fare. E' stato un errore. Non sapevo come l'avresti presa. Noi non dovevamo. -
- Voi cosa? -
- Noi... E' imbarazzante già di suo. Parlarne proprio con te di più. - Abbasso gli occhi a terra, non riesco a sostenere il suo sgaurdo.
- Lo dico io? Avete fatto l'amore. - 
- Sì. -
Mi accarezza la testa. Porta il suo indice sotto il mio mento e mi costringe a guardarla. - Cucciola te l'ho detto che secondo me eri tu a piacergli davvero. Non farti problemi. Non stiamo più insieme e non provo niente per lui. -
- Sicura Cri? -
- Certo Bree. - Mi abbraccia forte. - Non vedo l'ora di stringere tra le braccia la mia piccola nipotina. - Mi guarda negli occhi seriamente. - Perchè mi farai una bella femminuccia, vero? -
Non riesco a non ridere vedendola in questo modo. - Certo! - Rido. Rido tra le lacrime che ancora scorrono tranquille. Rido e piango mentre Cristina mi stringe ancora più forte.
- Qui fuori c'è il tuo amico straniero. Mi ha aiutato a portarti qui e non è voluto andare via. Penso che si sia preso una bella cottarella per te. - Mi sorride. - Vuoi che lo faccia entrare? -
- Fallo entrare, sì. -
Cristina mi lascia e va a chiamare Samir, che entra visibilmente imbarazzato.
- Come ti senti Bree? -
- Meglio. Molto meglio. -
Si viene a sedere ai piedi del letto. - E così, sei incinta. Non sapevo stessi con qualcuno. Ti chiedo scusa. -
- Samir non devi chiedermi scusa. Il padre non è il mio ragazzo. E' il mio migliore amico. E' una cosa un po' complicata... -
- Non devi giustificarti con me. -
- Ma sono io che dovrei scusarmi. Ieri ho passato davvero una bellissima serata grazie a te. Sei stato estremamente gentile e ti sei preso cura di me come nessun estraneo avrebbe mai fatto. E quel bacio poi... - Forse non avrei dovuto dirlo. 
- Bree, non devi assolutamente scusarti. Ieri ti sono stato vicino perché volevo, non mi hai costretto tu. E quel bacio forse è stato un errore. Non vorrei pensassi che tutto è stato studiato per mirare a quello o a qualcosa di più. -
- Non l'ho pensato. Fino a qualche ora fa, anzi, ero sicura di voler uscire ancora con te. Ma adesso... -
- Bree non è una situazione facile quella dove ti trovi. Per adesso devi pensare solo a riprenderti e a chiarire le cose con il padre del bambino. -
Le lacrime si sono liberate di nuovo e iniziano a correre senza freni sul mio viso. - Grazie. -
Mi abbraccia. Forte. Un abbraccio che non ha niente di malizioso. Un abbraccio amico, quasi fraterno. 
Ci interrompe una ragazza con la divisa verde che entra in camera. E' giovane ed ha lunghi capelli biondi trattenuti in una coda molto alta. - Signora può iniziare a raccogliere le sue cose. Purtroppo suo marito deve aspettarla fuori. -
Io rido. Samir mi fa compagnia. - Non è mio marito. - 
L'infermiera ci resta per un attimo. Esce dalla porta e guarda il numero inciso su. - Oh, mi scusi. Ho sbagliato camera! Lei... - controlla la lista che ha con sè. - ...deve uscire comunque. Lei è il non-ricovero. -
- Sì sono io. La prego, mi dia del tu. -
- Allora anche lei! - Ride. - Torno tra cinque minuti per darle i suoi oggetti personali. -
Samir mi guarda dolcemente. - Meglio che esca. Faccio rientrare Cristina così ti aiuta. - 

L'infermiera è tornata dopo pochi minuti. Ha portato i vestiti che mi hanno tolto e quelle poche cianfrusaglie che porto sempre addosso. Cristina mi ha aiutato a vestirmi, anche se in realtà non ne avevo di bisogno. Mi sento perfettamente in forze. 
Cri mi ha accompagnato all'entrata della facoltà. 
- Sicura di voler tornare in motorino? -
- Sì Cri. Tranquilla mi sento bene. E poi prima voglio passare da Evan per dirglielo. -
- Non traumatizzarlo, ok? - Mi ha detto ridendo e solo dopo mille raccomandazioni è andata via. 
Ora sono da sola a guardare l'entrata del bar. Sono quasi le 18. Dovrei entrare, ma non ce la faccio. Non saprei cosa dire nè come dirlo. Non è facile dire a una persona che la prima e unica volta che siete stati insieme avete concepito un figlio. Non è una cosa per cui ti preparano. Forse è meglio non dirglielo adesso. Ok, deciso. Entro nel bar. Il signor Nimei non c'è. Meglio. C'è Evan al bancone.
- Evan. Dobbiamo parlare. -
- Di cosa? - 
- Non qui. Ti aspetto stasera a casa mia. - dico tutto d'un fiato. Mi volto ed esco. 
- Ma almeno dimmi di cosa si tratta. - 
La domanda di Evan rimane al vento. 

Sono arrivata a casa da circa un'ora. Il viaggio di ritorno è stato tranquillo. Fortunatamente non ho avuto nessun disturbo. Quando Evan suona il campanello io sono sdraiata sul divano in cucina a fissare i piatti dove ha mangiato Black. Vado ad aprirgli in silenzio e senza dirgli una parola torno al mio posto.
Evan si siede accanto a me. E' visibilmente preoccupato. 
- Cosa devi dirmi, Bree? Di cosa dobbiamo parlare? - 
- Di quello che abbiamo fatto una settimana fa. -
- Mi sembrava che avessimo chiarito tutto. Non avevamo detto di non pensarci più? Di cancellare tutto, insomma. -
- Purtroppo non si può. -
- Eri daccordo anche tu, no? -
- Si, ma c'è qualcosa più grande di noi che non si può semplicemente lavare via come una macchina sul vestito nuovo. Qui c'è di mezzo un'altra persona. -
- Se ti riferisci a Cristina, io... -
- Non parlo di Cristina. -
- E chi altro dovrebbe esserci implicato? Quel cretino che hai conosciuto in discoteca? -
- Non centra neanche Steve. -
- Chi allora? -
Non riesco a dirglielo. Dovrebbero essere le parole più facili da dire, no? 'Evan, aspetto un bambino ed è tuo'. No, non sono facili per niente. Gli afferro la mano e la poggio delicatamente sulla mia pancia. - Lui. O lei, ovviamente. -
- Cosa? - Evan è più stordito di me. 
- Oggi sono stata in ospedale perchè sono svenuta, mi hanno fatto delle analisi. - Prendo fiato. - Sono incinta, Evan. -
- Che significa incinta? -
- Evan! Non far finta di non capire. Abbiamo fatto l'amore, io non prendo la pillola, tu non hai usato precauzioni e sono rimasta incinta. -
- Ma sei sicura? Potresti sbagliarti. - 
- Sicura di cosa? Di essere incinta o che sia tuo? - 
Non parla più. Si è ammutolito e imbambolato. Fissa il vuoto. Mi alzo e corro in camera mia. Vederlo in quel modo mi fa solo salire una grande rabbia. Pensavo fosse una persona matura, pensavo che mi avrebbe aiutato. Mi butto sul letto e inizio a piangere.
Non passa molto tempo ed Evan entra silenziosamente in camera. Si siede sul letto e mi accarezza la schiena. 
- Scusa. - E' quasi un sussurro. - Mi hai preso alla sprovvista. Non pensavo... Che vuoi fare? -
- Cosa? -
- Dico, che vuoi fare? Lo tieni? -
Mi alzo e lo fisso. Rabbia, rabbia che cresce. - Non è un cazzo di giocattolo che butti via come niente! Evan, stiamo parlando di tuo figlio, di nostro figlio. Tu sei rimasto sconvolto? A me l'ha detto una dottoressa convinta che fosse una bella notizia! Come ci sono rimasta io, secondo te? Mi è crollato il mondo addosso. Ma neanche per un momento mi è passato per la mente di mandare via mio figlio! -
- Bree calmati. -
- Non mi dire di stare calma! -
- Invece te lo dico! Calmati. Non intendevo dirti di abortire. Volevo solo sapere cosa avevi intenzione di fare. - Ha iniziato ad accarezzarmi i capelli.
- Io non voglio buttarlo via. -
- Io ci sono, allora. - Mi sorride dolcemente e inizia ad accarezzarmi la pancia. Di colpo si fa serio. - E noi? -
- Noi cosa? -
- Abbiamo parlato di lui per il momento. -
- Di lei. -
- Di lei? -
- Me lo sento che è una femmina. - Inizio a ridere. Saranno gli ormoni questi sbalzi d'umore improvvisi. Lo abbraccio. Ride anche lui. 
- Dai, Bree. Seriamente. Noi cosa faremo? Resteremo amici? Faremo i genitori a distanza? Cosa? -
- Non lo so. - Tristezza in arrivo. - Per il 'noi' dovremmo aspettare ancora un po'. -
- Io sono pronto adesso, se tu vuoi. - Mi stringe le mani e mi guarda con luce di speranza negli occhi. 
- Io non lo so. -
- Bree noi ormai siamo legati. -
- No, Evan. Nostro figlio è legato a noi. Noi siamo solo due amici che si sono lasciati trasportare. -
Lascia le mia mani e si alza. Inizia a camminare per la stanza. - E' per quello Steve? -
- Evan, lui non centra nulla. Non ci sentiamo da un sacco di tempo. Anzi, ieri l'ho chiamato e mi ha pure risposto una ragazza che mi ha dato della troia! Figurati quanto centri lui! No, Evan. - Lo raggiungo e lo fermo prendendogli il polso. Lo costringo a guardarmi negli occhi. - Semplicemente non voglio che nostro figlio cresca con due persone che stanno insieme per forza e che ogni volta che rimpiangeranno di stare insieme ripenseranno che è colpa sua. Tu sarai sempre suo padre e io sempre sua madre, ma non sappiamo se è la cosa giusta stare insieme. -
- Possiamo almeno provarci? -
- Evan abbiamo nove mesi e anche di più per decidere. Dobbiamo fare le cose con calma. -
- Giuro! - I suoi occhi sono diventati talmente luminosi da essere quasi accecanti. 

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Capitolo 17
*** 17 ***


Quando Evan è andato via ho chiamato Gigì. Non appena ha saputo la novità si è precipitata qui dicendo che voleva essere la prima a dormire con sua nipote. E' riuscita a spazzare via definitivamente la tristezza e la rabbia da questa giornata. Mi ha fatto riflettere che, errore o meno, adesso dentro di me sta crescendo una piccola vita che ha bisogno di tutto l'amore possibile. 
Sono le 3 ed io non ho sonno. Continuo a vedere scorrere il film della mia vita futura mentre accarezzo i capelli di Gigì che si è addormentata poggiando la testa sulla mia pancia. Sarà una zia bravissima lei, ma io sarò una madre decente? Solo il tempo potrà dirlo. E mia madre? Sarà contenta di diventare nonna? Oggi non ho avuto il coraggio di dirglielo. Non mi sembra bello per telefono, ma domani dovrò farlo. 
Passa un'altra ora e sembra che Morfeo si sia finalmente deciso a venire qui. Mi sono quasi del tutto assopita quando il telefono inizia a vibrare. Una chiamata da un numero non registrato in memoria. Chiudo la chiamata, non voglio che Gigì si svegli. 
Richiamano. Chiudo di nuovo.
Arriva un messaggio.
'Spero tu sia Bree e spero che prima o poi io possa riuscire a parlarti ancora. Steve.'
Non deve avere tutte le rotelle a posto sto ragazzo! Chiama alle 4 di mattina per sapere se sono io! Spengo il telefono e lo rimetto dov'era. Continuo ad accarezzare Gigì. Oggi di dormire non se ne parla proprio.

A quanto pare, invece, ce l'ho fatta a rubacchiare qualche ora di sonno. Apro gli occhi che è già mattina da un pezzo. Gigì non c'è, ma la sento canticchiare piano dalla cucina. Mi alzo e la raggiungo. 
- Ehi! - Mi corre incontro e mi bacia la pancia. - Piccolina hai una mamma dormigliona, lo sai? -
- Gigì ancora la piccolina è più piccola della capocchia di uno spillo! Non ti sente! -
- Fa silenzio tu! - Torna a rivolgersi alla pancia. - Non ascoltarla. Io so che mi senti. - Da un altro bacio. 
- Tu sei matta! -
- Forse, però ti ho preparato la colazione! - Va verso il frigo e ne esce un vassoio che poggia sul tavolo. Mi costringe a sedermici di fronte. - Mezzo bicchiere di latte freddo appena zuccherato, due fette biscottate con marmellata di pesche e una tazza di caffè temperatura schifo e pieno di zucchero. Ho indovinato tutto? -
La guardo e non riesco a trattenere una risata. - Si hai indovinato. - Riesco a dire tra le risa.
- Pff sei un'ingrata! L'ho fatto solo per lei. Ricordatelo! -
L'orologio sul muro segna le 10 e il mio stomaco reclama qualcosa di solido. Mi tuffo nella colazione che ha preparato per me. - Non hai da fare oggi? -
- Sì, tra poco vado via. Ho delle commissioni da sbrigare per i miei. Tu che farai oggi? -
- Non lo so. Penso che andrò a farmi una passeggiata in spiaggia e mi metto a studiare un po' lì. -
- Mi raccomando la protezione! Non voglio che mia nipote nasca rossa come un'aragosta! -
- Ok, ok! -
Gigì aspetta che finisco la colazione prima di andare via. Tornata in camera scopro che ha sistemato tutto. Quella pazza ha pulito casa per non farmi stancare. La adoro. Infilo il costume. Sopra metto il vestitino leggero che avevo il giorno in cui abbiamo dato inizio a una nuova vita. Prendo il libro e lo scaravento dentro lo zaino insieme all'evidenziatore verde, fedele compagno di sottolineatura. Prima di uscire, però, voglio provarci anche io. Voglio provare come Gigì a parlare con il piccolo lampo di vita che mi sta crescendo dentro. Mi fermo davanti allo specchio e alzo il vestito. Mi guardo la pancia. Ancora è impossibile che si veda qualcosa, eppure mi sembra già diversa. Più luminosa, forse. La accarezzo.

Ehi tu. Lo so che non puoi ancora sentire la mia voce, ma il mio cuore sicuramente lo senti. Non devi spaventarti. E' vero che né io né tuo padre ci aspettavamo che tu arrivassi. Non so chiamarti errore, però. Perchè un errore è una cosa brutta. Tu non lo sei. Il tuo arrivo è stato inatteso, sì, ma non sei una cosa brutta. Sei parte di me, sei il mio lascito al mondo. Sono sicura che avrai le guanciotte da prendere a pizzichi e un sorriso dolcissimo. E ti giuro che non ti abbandonerò. Mentre mi vedrò invecchiare, vedrò te raggiungere i tuoi obiettivi. Non permetterò che ti accada mai niente di brutto. Lo giuro. 

Mi accorgo di stare piangendo. Gli scherzetti che combinano questi ormoni in circolo, eh! Sciacquo il viso, recupero lo zaino in stanza e vado in macchina. 

Seduta sulla riva, smuovo coi piedi i sassolini bagnati. Ho provato a leggere il noiosissimo libro che mi toccherà portare all'esame, ma ho la testa da tutt'altra parte. Infine, perciò, ho desistito. Mi sdraio e scivolo un po' di più verso il mare. In questa posizione l'acqua riesce a bagnarmi anche le cosce. Prendo il telefono dalla borsa e compongo l'unico numero che so a memoria. Solo pochi squilli e sento rispondere.
- Bree, amore, è successo qualcosa? -
- Mamma stai tranquilla! Non ti agitare! -
- Non mi agito, ma devi ammettere che è insolita una tua chiamata a quest'ora. Quando sono fuori sono sempre io che ti devo telefonare. E comunque se mi chiami mentre sono a lavoro è normale che penso sia successo qualcosa. -
Ridacchio. - No, ma'. Sono a mare e non ho controllato l'orario prima di chiamarti. Ho interrotto una lezione? -
- No, tranquilla. Sono in corridoio che ho un'ora buca. -
- Allora posso parlarti? -
- Allora è successo qualcosa. -
- Mamma qualcosa è successo. Non vorrei dirtelo per telefono, ma tu non tornerai a casa prima di tre mesi e allora sarà ancora più complicato da spiegare. -
- Mi stai facendo preoccupare. Parla e basta. Se ci sono problemi prendo il primo treno e scendo immediatamente. -
- No, ma' non c'è bisogno di allarmarsi così nè di scendere. -
Riesco piano ad aprirmi e a spiegare a mia madre che sta per diventare nonna. La sua reazione è come l'avevo prevista. Prima è stata in silenzio, poi mi ha detto come la pensa. Siamo giovani, abbiamo sbagliato, ma almeno ci stiamo dimostrando capaci di prenderci le responsabilità delle nostre azioni. L'unica cosa di cui non è convinta è il rapporto tra me ed Evan. Secondo lei ormai dovremmo sposarci per dare stabilità alla creatura. Le ho spiegato che sono io a non volerlo, almeno per ora. Che voglio provare se davvero possiamo farlo crescere felice stando insieme. Ha capito, non condiviso. Siamo rimaste daccordo che non scenderà se non si presenteranno altri tipi di problemi. 
Quando ho chiuso con lei mi sono tuffata a mare. Sottacqua ho rirovato la mia pace, come sempre. A contatto con quello che ho sempre considerato il mio habitat, circondata dal silenzio dell'acqua che in realtà è stupendamente ricca di suoni. Adesso sono in macchina verso casa. Il mio stomaco richiede di nuovo cibo.

Non entro l'auto, ma la parcheggio di fronte casa. Non si sa mai mi venisse voglia di uscire dopo aver svuotato il frigo. Prendo lo zaino, chiudo tutto e attraverso distrattamente la strada mentre per abitudine poso le chiavi nella tasca superiore. Una sorpresa mi attende alzando gli occhi verso la porta di casa mia. 
- Che ci fai qui? -
- Ciao Bree. Aspettavo te. -
- Penso di averlo intuito questo. -
- Non mi hai risposto in questi giorni. -
- Alle 4 di notte ho l'abitudine di dormire. -
- Scusami. Ti chiamavo appena uscito da lavoro. Perchè non mi richiamavi durante il giorno? -
- Perchè quando ho provato a chiamarti mi sono presa della troietta da una sconosciuta! - 
- Lo so. Hai fatto bene a mandarla a fanculo. L'ho fatto anche io. - 
- Sono felice per te, ma a me non interessa. -
- No, Bree. Lasciami spiegare. -
- Non devi spiegarmi niente Steve. Tra noi non c'è niente e tu ti puoi fare tutte quelle che ti pare. L'unica cosa che mi ha dato fastidio è il 'troia' gratuito che mi sono preso da una che forse troia c'è davvero. -
- Abbastanza direi. - 
- Se mi eviti i particolari te ne sono grata. - 
- No, non hai capito! -
- Ho capito. - 
- No, non hai capito ti dico! Che è una troia ci hai azzeccato ma non c'è mai stato niente tra noi. -
- Steve, non darmi spiegazioni. Non me le devi e non mi servono. -
- Ma io voglio dartele. So che sembra una scusa e anche poco originale, ma quella è una che lavora con me. C'ha provato in tutti i modi, ma io l'ho sempre rifiutata. Sono un ragazzo, ma non significa che mi faccio qualsiasi troia che me la sbatta sotto il naso. E tu ne sei la prova! -
- Come, scusa? -
- No, aspetta. Mi sono spiegato male! -
- No, no ti sei spiegato benissimo caro. Te li ricordi ancora i miei pugni? -
- Oh sì. Ma fammi spiegare ti prego. - 
- Non sei bravo a spiegare a quanto abbiamo capito quindi ora vattene o ti rinfresco la memoria volentieri. -
- Intendevo dire che nello stato in cui eri avrei potuto fare qualsiasi cosa, ma non l'ho fatto! -
- E' leggermente diverso da 'non mi faccio qualsiasi troia che me la sbatta sotto il naso'! -
- Ti ho detto che mi sono espresso male, infatti. - 
- Facciamo finta che ti credo. Continua. -
- Questa per ripicca cerca di farmi terra bruciata intorno. Quella mattina ha sfilato il cellulare dalla mia borsa e il risultato l'hai visto. - 
Lo fisso. - Sì. -
- Sì cosa? -
- Sì è una scusa squallidissima. -
Ride. - Meno male che abbiamo chiarito. - Si avvicina. Vuole abbracciarmi, ma mi sposto. Non se l'aspettava. - Pensavo che avessimo chiarito. -
- Steve, senti. Tra noi non c'è stato niente e continuerà a non esserci niente. -
- Ma, io... - Sembra che gli sia crollata una certezza. - Ero convinto, cioè pensavo di piacerti. - 
- Steve tu mi piaci, però è un brutto periodo. -
- Provo a indovinare? Vuoi i tuoi spazi. O no? Forse stai uscendo da una storia seria e non te la senti di impegnarti. Anche queste sono scuse squallide, Bree. -
- Sono incinta. - L'ho detto di getto, senza pensarci due volte, senza paura. Come una doccia fredda. 
- Cosa? - Doccia fredda arrivata. 
- Sono incinta, Steve. Del mio migliore amico. Vogliamo provare a stare insieme, per decidere cosa è meglio per il bambino. - 
- Ma, da quanto? -
- Poco più di una settimana. -
- L'hai scoperto subito, eh. - 
- Mi sono collassata per strada, mi hanno portato in ospedale e facendo le analisi di routine è uscito fuori. -
- Bella botta! -
- Pensa io. -
- Scusa Bree. Io non potevo immaginare una cosa del genere. -
- Neanche io. -
L'ho invitato a restare per pranzo. Come amico, s'intende. 

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Capitolo 18
*** 18 ***


Apro gli occhi che è già mattina. Nella mia testa il solito martello pneumatico, ma per fortuna nessun altro disturbo. Nella stanza trovo Jessica.
- Buongiorno. Ti sei svegliata adesso? -
- In questo istante. -
- Come ti senti? - Sembra avermi perdonato davvero. 
- Un po' confusa. - 
- Mal di testa? -
- Non tanto. Non ho neanche nausea. -
- Stai migliorando. - Mi sorride. Sì, mi ha perdonato.
Mi aiuta ad alzarmi per andare a lavarmi. Stamattina mi sento più forte. Mi porta a fare un giro in corridoio. Stavolta non ho bisogno del suo aiuto. Riesco a camminare aiutandomi solo con la flebo. Sono felice di questo anche se il martello non se ne è ancora andato. 
Rientriamo in camera e troviamo la Collins che ci aspetta. 
- Allora Bree, come andiamo stamattina? - Mi chiede mentre Jessica mi aiuta a rimettermi a letto. 
- Meglio, grazie. -
- E i ricordi come vanno? - 
- Arrivano. - Sarebbe meglio di no, però. Questo non lo dico. 
- Ci sono belle notizie per te. Domani esci di qui. - 
- Così presto? - 
- Ti dispiace? -
- No, no. - Almeno potrò tornare a casa! - Dovrò tornare qui di sera? -
- Per il momento sì. Non voglio rischiare. -

La dottoressa Collins non si è trattenuta oltre. Dopo avermi spiegato un paio di particolari su questa 'libertà vigilata' è andata via. Jessica mi ha portato qualcosa per il mal di testa. Poi è andata via anche lei. Sono rimasta sola coi miei cento pensieri e i miei mille dubbi. Sono ancora incinta? Aspetto ancora il figlio di Evan? Cosa è successo? Ma soprattutto, perchè nessuno vuole dirmi niente? Tutti continuano a nascondersi dietro la stessa scusa. Inizio a piangere senza neanche accorgermene. Piango fino ad addormentarmi di nuovo. 

- Ehi, dormigliona. Sveglia. - E' la voce di mia madre. E' arrivata all'inizio dell'orario di visita e mi ha trovato così, addormentata. 
- Mami. -
- Amore mio, come ti senti? - Mi bacia la fronte.
Questo gesto, così profondamente tenero, sembra aver azionato di nuovo le mie lacrime. Ricomincio a piangere senza poter spiegare.
- Tesoro cos'hai? Non farmi preoccupare. - Parole familiari per me, adesso. 
- Niente mamma. - 
- Tanto non ti credo. Dimmi la verità. -
- Ho solo tanta, tanta confusione in testa. -
Sembra aver capito. - Hai ricordato qualcosa che ti ha confuso? -
- Sì. - Anche adesso non riesco a dirle che sono incinta, che ero incinta.. non so che tempo utilizzare. 
- Amore so che sei confusa, ma sai che non posso aiutarti. -
- Lo so. E non lo sopporto. -
- Figurati cosa darei io per poter fare qualcosa per aiutarti. Non chiedermi nulla, ti prego. - Mi asciuga il viso con le mani. - E ora smetti di piangere. Tutto andrà al suo posto. - Mi bacia di nuovo la fronte. - Cos'è quello? - 
- Cosa? - Vuole cambiare discorso e io l'accontento volentieri. 
- Dietro il cuscino sembra esserci qualcosa. - Si avvicina e tira fuori Teddina. 
- Ah, questo? -
- Non te l'ho mai visto. -
- Oggi ho ricordato di averlo comprato con Gigì. Il nome l'ha deciso lei. Ieri è arrivato qui in una scatola da Steve. -
- Te l'ha mandato Steve? -
- Sì. Non so come mai ce l'avesse lui. Tu conosci Steve? -
- Non fare domande Bree. - 
Dalla porta vedo spuntare Gigì insieme a Cristina e Debby. Si avvicinano a me e mi stringono una per volta. Non so perchè oggi mi sento in imbarazzo con Cristina, o forse lo so.
Arriva anche il signor Nimei con un altro grande mazzo di fiori. Mi saluta affettuosamente e mi dice che è passato solo per un saluto veloce. - Evan mi ha detto di dirti di stare tranquilla perchè tra poco vi vedrete. - Mi dice solo questo. Poi porta mamma alla macchinetta del caffè. 
Le ragazze sono tutte intorno a me e mi chiedono se ho ricordato qualcos'altro. Dico loro che preferisco non parlarne e loro sembrano tutte capire cosa mi passa in testa. Sono io a non sapere cosa c'è nella loro. 

Sono andati via tutti. Questa visita è passata più veloce delle altre. Le ragazze mi hanno portato a passeggio per quasi tutto l'ospedale. Sono riuscita a fare la strada del ritorno totalmente da sola. Jessica l'ha subito detto alla Collins e la dottoressa ne è stata contentissima. Le ha detto di cambiare di nuovo le medicine e di darmi solo le due azzurre e quella bicolore. Niente iniezione. Mi ha anche fatto staccare la flebo facendomi promettere, però, di bere in continuazione. Poco ma spesso, mi ha ribadito prima di uscire. Jessica è tornata dopo poco portandomi da mangiare. Cibo da ospedale, s'intende. Ma almeno cibo solido. 
Mentre mangio piano, intervallando ogni boccone con grandi sorsi d'acqua come mi è stato raccomandato, sento strani rumori provenienti dal corridoio. Strano. Quando finisce l'orario di visita, solitamente, qui cala il mortorio. Dei ricoverati in questo reparto sono quella messa meglio e questo è tutto dire! Eppure non mi sono sbagliata. Il rumore c'è ed è sempre più vicino alla mia porta. 
- La prego vada via. - Questa è la voce di Jessica.
Mi inizio a preoccupare. - No, sono io che prego lei. Me la faccia vedere. Solo due minuti. La prego. -
- Le ho già detto di no. Non so neanche come sia arrivato fin qua, ma proprio non posso. Non mi costringa a chiamare la vigilanza. -
- La prego! Starò sulla soglia della porta, non la disturberò. - 
Facendo molto piano, mi alzo dal letto. Tenendomi vicino al muro per evitare di cadere (anche questa sensazione non mi è nuova ormai) vado verso la porta. Voglio vedere cosa succede. La apro quel tanto che basta per vedere il corridoio. Vedo i capelli di Jessica. Quindi lei e il suo interlocutore sono esattamente davanti alla mia porta. 
- La prego vada via! - 
Mi decido e la apro del tutto. - Mi scusi, che succede? - 
- Bree, piccola mia! - Steve mi abbraccia così forte che quasi mi fa cadere. - Dovevo vederti. Dovevo! - Mi lascia e mi guarda. E' la prima volta che vedo i suoi occhi al di fuori dei miei ricordi. Gli occhi verdi sembrano quasi avere luce propria. Adesso sono lucidi, arrossati, quasi stesse per scoppiare a piangere da un momento all'altro. - Dimmi che ti ricordi di me, ti prego! - Eccola. Una piccola lacrima dall'angolo sinistro dell'occhio si tuffa dentro quell'accenno di barba che gli ricopre le guance come la prima volta che ci siamo visti. 
- Steve... - 
Mi stringe di nuovo. Stavolta lo stringo anche io. Inizia a baciarmi le guance. 
- Bree ti prego. Se lo beccano qui mi buttano fuori. - Jessica ci interrompe. 
- Ha ragione Steve. Dovresti andare. Io domani esco quindi potremo vederci con calma. -
- Sì, vado. Dovevo solo rivederti un attimo. - Mi stampa un altro bacio sulla guancia, infila le mani nelle tasche dei jeans e si incammina lungo il corridoio. Resto sulla porta a guardarlo. Visto così sembra quasi un cantante all'interno di un video musicale. Jessica lo segue per accertarsi che vada via il più in fretta e il più silenziosamente possibile. Lui ogni tanto si volta a cercarmi. Poi scompare dietro la porta bianca di accesso al reparto.
Torno piano al mio letto. Mi ci tuffo quasi dentro. Sono più serena, non lo so perchè. Non so dare una spiegazione alla sensazione che mi ha invaso rivedendo Steve. E' come se il solo vederlo avesse cancellato i miei cento pensieri e ammutolito i miei mille dubbi. 
Finisco la mia cena e svuoto la bottiglia d'acqua. La Dottoressa 'cara' Collins sarebbe fiera di me in questo momento. Premo il bottone per chiamare Jessica che, puntualmente, arriva dopo pochissimo. 
- Serve qualcosa? -
- No, ho solo finito la cena e non so dove mettere queste cose. -
- Dai a me. - Prende tutto e lo mette sul tavolo accanto ai fiori del padre di Evan. - Domattina li passano a prendere. Questi fiori? Vuoi un vaso in cui metterli? -
- No, tranquilla. Tanto domani me li porto via. -
- Serve altro? -
- Veramente si. -
- Dimmi. -
- Non è che ci sarebbe qualcos'altro da mangiare? Sto morendo di fame! -
Jessica mi guarda spaesata per qualche momento prima di esplodere in una risata. - Non ti farebbe bene buttare altre cose solide nello stomaco. Se vuoi posso procurarti un po' di yogurt. -
- Sarebbe stupendo! - Immaginando la mia faccia, non mi stupisco di veder ridere così tanto Jessica per la prima volta. 
Torna dopo poco con un vasetto di yogurt bianco e uno alla frutta. Me li poggia sul vassoio insieme a un cucchiaino di plastica. - Questi sono tuoi. Giostrateli fino a domattina. - 
- Grazie mille. E grazie anche per prima. -
- Non preoccuparti. - Si avvia verso la porta. - Buonanotte. - La chiude alle sue spalle. 

Li ho mangiati entrambi subito e ho svuotato già un'altra mezza bottiglia d'acqua. L'effetto-Steve non è ancora passato. Per la prima volta, forse, mi sento stranamente felice qui dentro. Queste quattro mura sembrano più azzurre e il soffitto sembra più bianco, luminoso quasi. Non so se è davvero Steve o se è il pensiero che domani potrò uscire. Spero che questo effetto duri fino a domani. Almeno potrò riposare davvero. 

Mi sono addormentata senza neanche rendermene conto. Ho dormito come una pupottola appena nata per ben nove ore filate. Mi ha svegliato l'infermiera di turno dicendomi di iniziare a preparare le mie cose, perchè la Collins stava per arrivare a dimettermi. Mi sono sentita euforica, come una bambina che si sveglia il giorno in cui mamma e papà la porteranno al parco divertimenti. Inizio a vagare piano per la stanza alla ricerca delle mie cose, che in realtà non so neanche quali siano. Dopotutto non ce le ho portate io qui. Dal modo in cui le trovo disposte, però, deve essere sicuramente stata mia madre. Non porto via tanta roba, soprattutto dovendo tornare qui stasera. Infilo tutto nel mio borsone rosso che ho trovato dentro l'armadietto. Mi infilo gli unici vestiti puliti che ho trovato e mi siedo sul letto ad aspettare la mia libertà vigilata.

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Capitolo 19
*** 19 ***


La porta della mia stanza si apre. Entra lui. Non è cambiato di una virgola eppure non so cosa in lui mi porta a pensare che sembri più grande, più maturo. Più uomo, insomma. 
- Ciao Bree. - Sta sorridendo. 
Non riesco a dire una parola.
- Sei stupita? Non sei contenta? Ti aspettavi qualcun altro, forse. -
- Pensavo venisse Gigì. -
- Le ho detto io di stare a casa dato che finalmente posso vederti. - Sembra tranquillo, l'Evan di sempre. 
- Perchè dopo così tanto tempo? - Io, invece, non riesco ad essere la Bree di sempre con lui. 
- Dovrai ricordarlo da sola. -
- Ne ho piene le palle di sta cosa. - Una strana sensazione di rabbia mi scoppia dentro. Il mio migliore amico, quello con cui ho fatto l'amore sulla spiaggia e con cui ho condiviso un figlio è qui davanti a me. E' dovuta passare quasi una settimana prima di venirmi a trovare. E non ha neanche una scusa decente! Sa solo dirmi che non può dirmelo, come tutti. 
- Posso solo immaginarlo. - 
- No, non puoi. -
- Bree, ti prego. - Solo adesso si avvicina. Si siede accanto a me. - Scusami se non sono stato qui dal primo giorno, non sai quanto avrei voluto, ma non potevo. Te lo giuro su quanto ti voglio bene. -
- Se è vero... - Gli afferro la mano che ha posato sulla mia schiena per accarezzarmela e la poggio sulla mia pancia. Non ho la minima idea se sia ancora piena, ma completo la frase in modo automatico. - ...giura su di lui. -
Evan di colpo sbianca. Ritira la mano e si alza. - Andiamo Bree. -
Prende il mio borsone rosso ed esce. 
Capisco di aver esagerato. Deve essere successo qualcosa, altrimenti non avrebbe reagito così. 
Mi alzo in silenzio ed esco anche io. Lo trovo appoggiato al muro ad aspettarmi. 
- Scusami. - Lo sussurro appena, ma lui lo sente. 
Eccome se lo sente. In meno di un batter di cuore, me lo ritrovo appiccicato addosso. Mi abbraccia forte, accarezzandomi i capelli e affondandovi il viso. Mi sussurra milioni di volte che mi vuole bene e che gli sono mancata. Mi bacia le tempie teneramente come fa sempre mentre piango sulle sue spalle per qualcosa andata storta. Stavolta non sono io a piangere, però. Quando allarga il suo abbraccio per guardarmi in viso, vedo che il mare dei suoi occhi grigi dietro le lenti da vista è allagato di lacrime. Riesce a trattenerle. Sì, è diventato un uomo.
- Dove mi porti? - Espongo il mio sorriso più grande. Voglio spezzare quest'aria triste che si è creata.
- In un bel po' di posti. - Si passa le mani sugli occhi sollevando gli occhiali per cancellare le lacrime. - Dobbiamo sbrigarci, però. Mi hanno detto di riportarti qui entro la fine dell'orario di visita. -
- Non c'è tempo da perdere allora. -
Mentre andiamo in macchina gli chiedo se gli hanno detto altro. Mi dice che ha parlato con la Dottoressa Collins e lei gli ha spiegato di non farmi stancare troppo, di farmi bere spesso e mangiare piano. Gli ha anche detto che nel caso in cui mi arrivi qualche fulmine non deve spaventarsi di nulla perchè è tutto normale. 
- Mi ha anche dato queste. - Esce dalla tasca un tubetto bianco. Lo apre e me lo porge. Dentro ci sono tante pillole biance, rotonde e piatte. Sembrano quasi delle mentine. - Mi ha detto di fartene prendere due nel caso in cui ti venga la nausea dopo un ricordo. -
Gli restitusco il tubetto con le pillole-mentine. Siamo ormai fuori dall'ospedale e vedo che la sua macchina è posteggiata poco più in là.

Mi ha portato in giro per la città per aiutarmi a racimolare qualche ricordo. Ho avuto qualche flashback, ma per fortuna non ho avuto bisogno delle pillole. Ho ricordato, a volte velocemente altre meno, quasi un mese della mia vita. Un mese passato per lo più con Evan che si divertiva a fare il padre perfetto più che il fidanzato ideale. Ogni giorno di più mi convincevo che era nato per essere il mio migliore amico, non mio marito, nonostante fosse il padre di mio figlio. Un mese passato a guardarmi la pancia ogni mattina e a vederla modificarsi, più per il cibo a quantità industriali che mi costringeva a mangiare lui che non per il piccolo, penso. Un mese passato ad incontrare Steve di nascosto. Come amico, ovvimente. Sì, nei miei ricordi ci comportavamo da amici, ma se ho ricordato bene le mie emozioni, il cuore continuava ad accellerare i battiti ogni volta che ci guardavamo negli occhi in silenzio per interminabili secondi. Un mese passato incontrando spesso Samir fuori dalla facoltà o al parco per due chiacchiere contornate di gelato. Mi piaceva parlare con lui, mi sentivo bene quando parlavo con lui, stranamente libera. Ad ogni ricordo mi sono sentita più incasinata e, non mi vergogno a dirlo, ho iniziato a pensare che l'amica di Steve avesse ragione. Mi sentivo sporca e troppo troietta per i miei gusti. Non avevo fatto nulla con nessuno. Non dopo aver saputo del bambino, almeno. Non avevo fatto promesse né avevo lasciato intendere nulla, eppure mi sembrava di giocare con tre mazzi di carte. 
Ad ora di pranzo mi ha portato a casa dove ho potuto finalmente riabbracciare mia madre, Gigì, Cristina e Debby fuori dalle mura dell'ospedale. Abbiamo mangiato tutti insieme. E' la prima volta che vedo Evan e Cristina mangiare allo stesso tavolo da quando si sono lasciati, almeno che io ricordi. Non si sono seduti vicini, ma mi pare di averli sentiti parlare tra di loro in tono amichevole, tranquillo. Sono felice che la mia tragedia, se di tragedia si può parlare, li abbia riavvicinati. Gigì non è cambiata di una virgola, ha tenuto banco per tutto il pranzo coi suoi discorsi e i suoi racconti. Mia madre sembrava la felicità fatta persona, ha sorriso per tutto il tempo. Non ricordavo il suo viso così radioso dai tempi in cui ancora papà viveva con noi.
Dopo pranzo volevo mettermi a letto, ma non ho potuto. Evan mi ha ritrascinato in macchina. Voleva portarmi in un ultimo posto prima di riaccompagnarmi in ospedale.

Siamo qui da venti minuti. Evan è seduto ad almeno due metri da me e non dice una parola da quando siamo arrivati. Io continuo a guardare questo luogo che dovrebbe dirmi qualcosa, ma non riesco a ricordare nulla. 
Siamo seduti su una scogliera che finisce a strapombo sul mare. E' alta che quasi mi vengono le vertigini, ma forse in estate con un po' di incoraggiamento mi ci tufferei volentieri. Respiro profondamente cercando di far entrare più aria possibile nei polmoni. Piccolo, se ancora ci sei qui dentro di me, lo sto mandando a te. Ti fa bene quest'aria fatta di salsedine. 
Dietro di noi, a qualche metro, c'è uno stradone extraurbano. Dalla carreggiata ci separa un muretto basso, troppo per impedire di scavalcare. A distanza regolare, i pali della luce pronti a illuminare la strada anche di notte. Un segnale di curva pericolosa è un po' abbattuto, come se una macchina sbandando vi fosse finita contro. 
- Evan, sicuro che dovrei conoscere questo posto? -
- E' un bene per te che non ricordi. Quando lo farai tornerà ad essere uno dei posti che odi di più. - Sono le prime parole che gli riesco a strappare e sembra quasi che pronunciarle gli costi una fatica immane. Si alza. - Ti dispiace se andiamo via? - Non aspetta la mia risposta. Inizia già ad avvicinarsi al muretto. 
Per l'ennesima volta non capisco cosa succede e chiederlo sarebbe inutile. Lo seguo in silenzio. 
- Mi dispiace portarti via, ma non potrei restare più di così. - Mi dice salendo in macchina. Non parte, però.
Non lo guardo in viso, ma sento che sta piangendo. - Evan. Mi stai mettendo paura. -
- Scusa. Ho fatto uno sbaglio dopo l'altro. - 
- Non so di cosa tu stia parlando. -
- Oh, lo saprai. Purtroppo lo saprai. Ed inizierai ad odiarmi di nuovo. - Più le sue lacrime scendono, più la mia testa si confonde. - Sono stato uno stronzo, un insensibile, un egoista e un testa di cazzo. - Inizia a martellarmi, adesso. - Non potrai mai perdonarmi. - Più forte. Ancora più forte. - E non devi farlo perchè io per primo non lo farò mai. -
- Evan. - Lo interrompo con voce flebile, ormai del tutto in preda al martello che mi sfonda le tempie. Probabilmente non mi ha sentito, perchè continua ad insultarsi a gran voce. - Evan! - Stavolta è un grido, quasi disperato il mio. Apro la portiera dell'auto e prendo un ultimo grosso respiro prima che la vista mi si annebbi. Cado di peso all'indietro arrivando sulle sue gambe e sbattendo la schiena contro la leva del cambio. 
- Bree! Bree cos'hai? - 
- Ho l'impressione che stavolta dovrai darmi le pillole. - Le ultime parole che riesco a dire. Poi, fulmine.

Oggi è un mese esatto da quando ho scoperto di essere incinta. Sono davanti allo specchio con solo l'intimo addosso. Mi accarezzo la pancia, sorridendo in automatico come una rincoglionita. La mia pancia si è un po' gonfiata, ma ho l'impressione che siano solo chili messi su dovuti a tutte le volte che Evan mi costringe a mangiare per due dimenticandosi che al momento il nostro bambino è grande poco più di una lenticchia. Questo mese mi ha trattato da dea, quasi. Però sono convinta sempre di più che come famiglia non potremmo funzionare. Ho intenzione di dirglielo, oggi. Che poi io ci avrei pure provato, ma per la prima volta nella mia vita ho le complete attenzioni di tre ragazzi su di me e la cosa mi confonde. Evan è il mio migliore amico, Steve è una continua scarica di elettricità, Samir sembra dolcezza allo stato puro. Oddio! 
Suonano alla porta. - Arrivo! - Come se potessero sentirmi sussurando così! Mi infilo la camicia da notte che ho tolto prima di fare la doccia e mi precipito all'entrata. Guardando tra le tende della finestra vedo un uomo sconosciuto vestito completamente di verde. Suona ancora alla porta. 
- Chi è? - Chiedo senza aprire. 
- Ho una consegna da fare. -
- Consegna di cosa? -
- Fiori, signora. Sono per una certa Bree. Non so se hanno sbagliato a darmi il nome. -
Fiori? Apro la porta, lasciando però inserita la catenella. Vedo che l'uomo vestito di verde ha realmente un mazzo di fiori in mano. Chiudo, tolgo la catena e riapro. Prendo i fiori, ringrazio il signore vestito di verde e lo guardo ripartire con il suo camioncino, verde anch'esso. 
Sono fiori stupendi. Ci sono rose gialle, rosse e rosa, insieme ad alcune viole del pensiero. Il tutto ammalgamato con un po' di nebbiolina, che io adoro. Nel biglietto non c'era altro che il significato dei fiori di cui era composto il mazzo. Rose gialle: gelosia. Rose rosse: passione. Rose rosa: dolcezza. Viole del pensiero: ricordo. In basso a destra, quasi nascosta, compariva timida la sua firma. Steve.

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Capitolo 20
*** 20 ***


Gelosia, passione, dolcezza e ricordo. Dolce passione per la gelosia di un ricordo. Ricordo la dolcezza di una passione gelosa. Geloso dei ricordi di dolce passione. Provo a riordinarle in ogni modo possibile, ma non c'è una frase che mi convinca. Non capisco il biglietto, ma mi godo i fiori. Li metto dentro il vaso che mamma adora, quello basso con il boccale stretto e la pancia larga.  Ci stanno d'incanto. Li metto all'entrata, vicino alla finestra, così prenderanno luce e mi ricorderò di cambiargli l'acqua. Vorrei e dovrei mandare un messaggio a Steve per ringraziarlo, ma non ho ancora deciso cosa scrivere. Perciò rimango così, cellulare alla mano, a guardare questo stupendo mazzo colpito dal sole. 
Vibra il cellulare. E' Gigì. Mi chiede se pomeriggio sono impegnata. Le rispondo di sì anche se non è vero, non ancora almeno. Voglio uscire con Evan per dirgli quello su cui ho riflettuto. 
Vibra il cellulare. Una chiamata. Una sua chiamata. Non so bene cosa dirgli. M'inventerò qualcosa sul momento.
- Pronto? - Cerco di non farmi tremare la voce, ma mi riesce poco.
- Piaciuti i fiori? -
- Quali fiori? - Finta indifferenza Bree, brava.
- I fiori che hai già messo sul tavolo vicino alla finestra. - Un colpo allo stomaco. 
- Dove sei? - Ho quasi paura. Maledetta ansia da film horror! 
- Li hai messi lì allora? Ci avrei giurato. Ero indeciso tra il tavolo vicino alla finestra e come centrotavolta in cucina. Ho scelto giusto, però. - Un sospiro di sollievo. Spero non l'abbia sentito.
- Sì, hai indovinato. - La mia voce è tornata normale.
- Piaciuti? -
- Molto. Anche se non sono ancora riuscita a decifrare il messaggio del biglietto. - 
Ride. - Te lo spiego io, se vuoi. -
- Certo che voglio. -
- Me lo devi dimostrare. -
- Come? -
- Vediamoci oggi pomeriggio. -
- Oggi pomeriggio non posso. -
- Evan? - Voce fredda, quasi delusa.
- Sì, lui. -
- Dove andate? -
- Non lo so ancora. -
- Capito. - Si ammutolisce. 
Non so che dire per rompere questo silenzio telefonico. - Tu che volevi fare? - Forse è una brutta idea, ma la sparo lì. 
- Non ha importanza. Senti, devo andare adesso. Ciao. - 
- Ciao. - Il mio saluto è andato perso. Ha chiuso la chiamata prima che potessi arrivare a metà. Ci deve essere rimasto male, mi sa. Capitan ovvio che non sono altro. 
Guardo i fiori e, come se mi togliessero un velo dagli occhi, mi balena in mente un'idea. La gelosia è Evan. E' geloso di Evan. Dopo questa chiamata ne sono sicura. Le altre parti mi sfuggono ancora. Forse sono io che voglio farmele sfuggire, per il momento. Confusione su confusione. Grazie, eh Steve? Non potevi essere chiaro, vero? Una cosa chiara in mezzo a tutto sto macello non ci sarebbe stata male, sai? 
Riprendo il telefono che avevo appoggiato accanto ai fiori e chiamo Evan. Ho detto la prima cosa saggia da un bel pezzo. Ci vuole una cosa chiara. E tocca a me chiarirla. Forse dopo sarà tutto più semplice. 

Ore 15. Puntuale, come sempre, Evan citofona. Vado ad aprirgli, lo bacio sulla guancia e cerco di tornarmene in camera per vestirmi. Lui non me ne da il tempo. Mi afferra da dietro e mi accarezza la pancia. Delicatamente mi gira e la bacia attraverso la camicia da notte che ancora indosso. - Ciao amore. - Sussurra. Mi si stringe il cuore a vederlo così pensando a quello che dovrò dirgli. 

Ho la gola secca e parlo a stento. Il posto dove mi ha portato Evan è davvero stupendo. Una scogliera fuori città che costeggia un'ampia extraurbana. Nella mente, però, ho una guerra aperta tra le frasi che dovrei dirgli e l'immagine di lui che bacia la mia pancia innamorato della creatura che c'è dentro. 
- Un penny per i tuoi pensieri. - Con questa citazione mi riporta alla realtà.
- Lo sprecheresti. - Sorrido cercando di sembrare meno imbarazzata di quanto sono.
- Se me li dici gratis lo risparmio. -
Una risata piccola, di circostanza quasi.
- Al telefono hai detto che volevi parlare un po' in un posto tranquillo. Il posto tranquillo c'è, ma non hai detto una parola. -
- Lo so, scusami. -
- E' successo qualcosa, Bree? Ho fatto qualcosa che non va? -
- No, no Evan. Tu sei stato perfetto. In questi giorni mi hai trattato come una principessa, solo che... - Mi blocco, non riesco proprio a dirglielo.
- 'Solo che' cosa? - Si è incupito.
- Solo che non lo so. -
- Non lo sai? - Stringe le labbra in una smorfia di irritazione. - Io dico che lo sai, invece. - Si alza e va a sedersi sul muretto che ci divide dalla strada. 
- Evan che stai dicendo? Se ti dico che non lo so, vuol dire che... -
Mi interrompe. - Vuol dire che lo sai e non hai le palle per dirmelo. - Quasi urla. E' parecchio alterato. Non l'ho mai visto così, neache quando litigava con Cri. - Centra quello stronzo! Li ho i visti i fiori, sai? Ti sembro stupido? Stai cercando un modo per mandarmi a fanculo e andarti a scopare quel bastardo figlio di puttana! - 
- Evan. - Sono sconvolta. Non si è mai permesso di parlarmi così. Non sembra nemmeno lui. Il suo volto è trasformato dalla rabbia, le vene sembra che gli stiano per scoppiare da un momento all'altro. Perfino la voce non sembra la sua. 
- Tu porti mio figlio. - Inizia ad avvicinarsi a me. 
- Lo so. - Sussurro quasi. Ho una paura folle. Non lo riconosco più. Istintivamente cerco di allontanarmi da lui voltando la testa di tanto in tanto a controllare che la scogliera non sia finita. Piango. 
- Non piangere! - Mi urla in faccia. Piango più forte, a singhiozzi. E' molto vicino. I miei passi sono più piccoli dei suoi perchè ho le gambe quasi immobilizzate. - Non ti azzardare a piangere puttana! - Mi afferra per il polso e con uno strattone mi porta quasi incollata al suo viso. Guardo gli occhi che hanno preso il posto dei suoi. Sono iniettati di sangue, rabbia, gelosia. - Non lo porti mio figlio a scopare con quel bastardo. Hai capito? -
Annuisco tra le lacrime sperando che questo mi faccia conquistare la libertà. Ma non è così. Inizia a girarmi il polso. Fa male. Per evitare di farlo spezzare devo seguire il movimento con tutto il corpo. Così mi ritrovo a terra in ginocchio. Con la mano libera mi afferra i capelli dopo essersi inginocchiato dietro di me. Cerco di smettere di piangere, ma riesco solo a camuffare i singhiozzi.
Mi lascia. Resto immobile per un secondo, cercando di capire se davvero ho l'opportunità di andarmene. Mi getto in avanti, ma lui torna. Mi afferra per la vita e mi stringe al suo corpo. Lo sento annusarmi i capelli. - Profumano come quella volta, sai? - Parla piano stavolta.
- Lasciami andare, ti prego. - Dico mentre le lacrime continuano a correre copiose.
- Per farti andare da lui? -
- No. Non voglio andare da lui. Ma non farmi del male. Non farne al tuo bambino. - 
- Il mio bambino. - Inizia ad accarezzarmi la pancia. 
- Sì, il tuo bambino. - Un altro spiraglio di salvezza. Il mio cuore ci si aggrappa.
- No. - Anche stavolta era un barlume falso, immaginario. La visione di una oasi nel deserto. 
Mi spinge in avanti. Per fortuna ho le mani libere e riesco a parare la caduta evitando di sbattere la faccia sulle rocce. Mi gira con violenza e mi blocca i polsi all'altezza delle tempie. Le sue gambe bloccano le mie. - E chi me lo dice che è mio figlio? Eh, Bree! Protebbe essere il bastardo di uno dei tuoi amichetti. - E' del tutto impazzito. 
Si sdraia su di me. Si zittisce. Il suo petto inizia a sussultare come in preda a singhiozzi. Sento la mia pelle bagnarsi. Sta piangendo. Provo a liberarmi i polsi. Ce la faccio subito perchè non sta più mettendo forza per tenermi giù. Continuo a piangere mentre gli accarezzo i capelli cercando di convincerlo a lasciarmi andare. Dopo un po' sembra convincersi. Si alza e aiuta anche me ad alzarmi. Stiamo entrambi piangendo ma io ho ancora paura. Le gambe mi reggono a stento. Gli chiedo se posso andarmene. Non mi risponde, si gira verso il mare. Lo prendo come un sì, afferro l'occasione per andarmene, per scappare. Non so come farò a tornare a casa a piedi, ma per il momento quello che mi interessa è andarmene di lì. Corro verso il muretto. Con qualche difficoltà lo supero e mi butto subito in strada per raggiungere l'altro capo.

A volte il destino è strano. A volte il destino gioca. A volte il destino è crudele. Non credo al destino, ma quando capitano certe cose inizi a valutare ogni opzione.
Ho sentito lo stridere di freni. Ho visto a stento quell'auto nera. Per evitarmi ha sbandato fermandosi a un passo da un palo della segnaletica. Le mie gambe hanno ceduto e mi sono ritrovata stesa in terra. A quel signore è preso un colpo! Pensava di non essere riuscito ad evitarmi. Ho ripreso i sensi quasi immediatamente, mentre ancora lui chiamava il 118. 
- Signore. - Lo chiamo con voce flebile. 
- Oddio. Sei viva! -
- Sì, signore. Sono svenuta? -
- Ti ho investito. Ero al cellulare e tu sei arrivata in strada così d'improvviso! -
- No signore. Non mi ha investito. - Mi metto seduta sull'asflato. - Ricordo i freni e ricordo l'auto che si ferma. Dopo si è fatto buio. Deve essere stato lo spavento. - Mi stupisco di come sto riuscendo a mantenere la calma, ma non voglio che questo signore si spaventi più di quanto è già terrorizzato.
- Sicura che non ti ho preso? -
- Sicurissima signore. Vede, è che sono incinta quindi... -
- Oddio è pure incinta! -
- Si calmi signore. - Sono io che dico di stare calmo a lui! Incredibile. - L'ho sentita chiamare il 118, stanno mandando un'ambulanza? -
- Sì, sì. -
- Allora non si preoccupi. Mi porteranno in ospedale e vedranno che è tutto apposto. - 
- Ti senti niente? -
- No, sono solo un po' debole. - Bugia. Ho crampi al basso ventre da quando mi sono seduta. Li ho nascosti per evitare di fargli venire un infarto.

L'ambulanza è arrivata dopo venti minuti. Fossi stata grave sarei morta lì. Mentre mi salivano sulla barella ho visto Evan. Era fermo sul muretto a fissarmi, come in trance. Non so da quanto fosse lì, so solo che in questo momento vorrei ucciderlo. 
Ho subito detto ai paramedici del mio stato e dei crampi sempre più forti. Gliel'ho ripetuto per tutta la strada fino in ospedale, ma hanno fatto finta di non sentirmi.

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Capitolo 21
*** 21 ***


Quattro giorni in ospedale mi è costata la gelosia di Evan. In realtà mi è costata molto di più. Solo arrivata in ospedale mi sono resa conto del perchè i paramedici mi ignorassero. Mi sono resa conto di quanto sangue avevo perso, tanto da far sembrare i miei jeans neri dall'inguine alle ginocchia. Poteva significare una cosa sola ed era esattamente così. Avevo perso il bambino. Con un mio errore era arrivato e con un suo errore era andato via. Pensando a cosa era stato capace di fare Evan, per qualche attimo fui quasi sollevata da questa consapevolezza. Poi arrivò il dolore. Non l'avevo voluto, ma l'avevo accettato e avevo iniziato ad amarlo. 
Come per qualsiasi aborto spontaneo, il giorno seguente eseguirono il raschiamento per ripulirmi all'interno di eventuali tracce residue della gravidanza, anche se mi hanno detto che il mio corpo aveva espulso tutto. Hanno detto che è probabile che la gravidanza più avanti si sarebbe interrotta comunque. Magra consolazione. Mi hanno tenuto in osservazione e questo non mi è dispiaciuto. Non ho parlato con nessuno dei miei amici, nonostante Gigì e Cristina venissero ogni giorno. Non facevo altro che fissarle in silenzio, senza versare una lacrima o spargere un sorriso. Come fossi in stato catatonico. Steve continuava a chiamarmi e mandarmi messaggi, ma non gli ho mai risposto. Li leggevo a stento. L'unica persona con cui parlavo era l'infermiera. Era la stessa che un mese fa mi aveva detto del non-ricovero. Si chiama Sabina, "senza r" aggiungerebbe lei. E' una ragazza allegra e dolcissima. Mi ha aiutato molto, mi ha fatto parlare e riflettere. Strano come mi sia venuto più facile aprirmi con una sconosciuta come lei. Eppure era come se ci conoscessimo da una vita. Forse per quel suo modo spontaneo di porsi. Ad esempio, mi ha chiamato per nome solo la prima sera! Per tutte le altre volte solo e soltanto 'ciccina'. E' una cosa che odio, ma fatto da lei mi faceva ridere. E poi c'è passata anche lei, mi ha raccontato. E la sua storia è stata molto più brutta della mia, non solo perchè era già incinta di tre mesi, ma soprattutto perchè la causa principale dell'aborto è stata la quantità di calci che s'è presa dal suo fidanzato ubriaco e geloso. Me l'ha raccontato con una tale intimità che l'ho subito sentita vicina.
Ho chiamato mia madre solo oggi dopo essere tornata a casa. Avevo bisogno di tranquillizzarmi per non preoccuparla. La sua reazione è stata quasi peggiore di quando le ho telefonato per dirle di essere incinta. Ha pianto per venti minuti buoni. L'ho dovuta implorare di non scendere perchè stava già provvedendo a cercare il biglietto aereo. 
Ho chiamato Gigì e sono uscita con lei, come mi aveva consigliato Sabina. Le ho detto che avevo bisogno di passare una serata spensierata con la mia dolce metà e mi è quasi scoppiata a piangere tra le braccia. Siamo andate alla discoteca dove lavora Steve, ma non l'ho trovato lì. Per fortuna aggiungerei. Per una serata dopo tanto tempo c'eravamo solo io e la mia migliore amica. 
Adesso Gigì è addormentata accanto a me. Io sto piangendo in silenzio, sperando di non svegliarla. Mi alzo piano. La vedo muoversi, ma per fortuna si sta solo mettendo più comoda. Mi scappa un sorriso tra le lacrime. Mi sciacquo il viso in bagno e bevo un sorso d'acqua in cucina. Sensa un perchè vado all'entrata a guardare i fiori, ormai quasi raggrinziti, di Steve. Cambio l'acqua nel vaso e ci metto dentro una bustina di vitamine, come fa la mamma, per fare durare i fiori più a lungo. Non so se funzioni, ma lo fa sempre. Torno in camera e decido di chiamarlo. E' tardi, ma lo faccio comunque. 
- Pronto? - Mi risponde insonnolito.
- Scusa se ti ho svegliato. -
- Ah non ti preoccupare. Chi sei? - Deve aver risposto senza guardare il display, magari ha ancora gli occhi chiusi. Ha la voce ancora addormentata.
- Sono Bree. - Dico, accompagnando la frase con una piccola risata.
- Certo e io sono Nostradamus. -
- Scemo, sono Bree. - 
- Dovete smetterla di prendermi per il culo co sta storia. Per una volta che mi piace una tipa, tutto sto bordello! -
- Steve. Sono Bree. - 
- E siamo a tre! Dimmi, chi è che ti ha detto di farmi sto scherzo? Dav o Joshua? -
- Non conosco nessuno dei due. - 
- Aspetta un attimo. - Sento il suo respiro allontanarsi dal microfono. Penso stia controllando il nome sul display. Rido già al solo pensiero di immaginarlo così. - Cacchio! - Dice mentre è ancora lontano dal microfono. - Bree! Scusami! - 
- Oh! Ben svegliato. - Rido. 
- Scusami Bree, davvero. Pensavo fossero i miei amici. -
- L'ho capito, l'ho capito. -
- Come mai a quest'ora? -
- Non riuscivo a dormire e ho provato a rompere le scatole a qualcuno. -
- Lo sai che non rompi. -
- Ti ho svegliato alle quattro di notte e hai il coraggio di dirmi che non rompo? -
- Ok. Un pochino forse. - Ride anche lui adesso, ma torna serio quasi subito. - Pensavo non volessi più sentirmi. -
- Scusa se sono sparita Steve. Ho avuto qualche problema. -
- Che tipo di problema? -
Silenzio. 
- Ehi Bree! Ci sei ancora? -
- Sì, scusa. Diciamo che ho avuto qualcosa da sbrigare. - Bugia. Enorme bugia. Ma proprio non mi va di dirglielo. Non così. Non ora.
- Qualche problema qualcosa da sbrigare? Non mi quadra tanto. - Beccata! - Ma se non ne vuoi parlare non fa niente. -
- Semplicemente non è il caso. -
- Bree non giustificarti. Quando e se vorrai, potrai parlarne. Mi basta solo che mi dici che stai bene. -
- Sto bene. - Forse.
- Mi basta. -
- Grazie. -
- Ti... -
- "Ti" cosa? -
Silenzio. 
- Ti sei riaddormentato? -
- No, no. Dicevo solo... ti piacerebbe rivederci? -
- Adesso? -
- No, non adesso. - 
- Steve, non sparisco di nuovo. -
- Ok. -
- E ora torna a dormire. -
- Mi ha fatto piacere risentirti. -
- Anche a me. Buonanotte. -
- Ciao Bree. -
Torno in stanza, silenziosamente, sorridendo.
Gigì sta ancora dormendo. Mi sdraio accanto a lei e le bacio la fronte. Fa una strana smorfia e tira su il lensuolo fino a coprirsi anche i capelli. Sorrido ancora. Poi finalmente, mi addormento. 


Mi siedo di scatto. La portiera dell'auto è ancora aperta. Vomito anche l'anima sull'asfalto. Mi alzo uscendo dall'auto e corro verso il muretto. Piango. Mi gira la testa e piango. Evan mi raggiunge conitnuando a dirmi di prendere le pillole.
- Non toccarmi! - Siamo nello stesso luogo di allora, ma adesso sono io che grido e sempre io che piango. - Non mi devi toccare stronzo! - 
Si zittisce di colpo. I suoi occhi si riempiono di lacrime, ma le trattiene. - Hai ricordato quindi. - E' quasi un sussurro il suo.
- Certo! Non ti dico che sei un gran figlio di buttana solo perchè conosco quella santissima donna di tua madre. - 
- Me lo meriterei. Tralasciando mia madre, ovviamente. -
- Ti permetti anche di fare sarcasmo? -
- Scusa. -
- Scusa un gran paio di palle! - Lo fisso. Sembra tornato il bambino che i bulli prendevano in giro per gli occhialoni. - Ti odio. -
- Mi odio anche io. - Si volta. - Ogni giorno mi odio per aver ucciso il nostro bambino, ogni giorno mi odio per come sono stato capace di trattarti, ogni giorno mi odio per come mi sono lasciato accecare da una gelosia che non avevo il diritto di provare. - Cade sulle ginocchia al centro d'asflato. - Ogni giorno mi odio per non avere avuto neanche il coraggio di venirti in aiuto mentre credevo che quell'auto ti avesse investito. - Urla, ma stavolta è un urlo disperato. Sembra che ad ogni parola il cuore gli si strappi via. 
Lo raggiungo e sto in piedi a guardarlo dall'alto, inginocchiato sull'asfalto a piangere. - Portami a casa. - Mi dirigo verso l'auto.
Mi raggiunge dopo poco e mi porta fino a casa senza dirmi una parola. Scendo, sbattendo forte la portiera. Non gli rivolgo neanche un saluto. Entro in casa. Non piango più. Ho finito le lacrime. 

Ho raccontato a mamma cosa ho ricordato. Sono riuscita a non piangere. Mi ha assicurato che andrà meglio col tempo, che per il momento è come se fosse appena successo perciò devo darmi il tempo per riprendermi. Di nuovo. Dopo cena ho chiamato Gigì per farmi riaccompagnare in ospedale. Quando è arrivata Evan era ancora lì in macchina a fissare il vuoto. 

Arrivata in ospedale la Collins mi ha rimpoverato per essere stata fuori più di quanto concesso e ha voluto sapere come era andata la giornata. Avrei sinceramente voluto risponderle che non era mia madre e di farsi gli strabenedetti cavoli suoi, ma non l'ho fatto. Le ho detto che mi sono scombussolata verso la fine, ma per il resto è andata bene. La verità, dopo tutto. Mi ha dato lei le medicine stasera e poi è andata via. 
Mi sono girata sul fianco pensando che non avrei preso sonno, ma per fortuna la stanchezza e lo stress hanno vinto sulla tristezza e sono crollata quasi all'istante. La fortuna, però, non è riuscita a scacciare via i brutti sogni.
Ho sognato e risognato le stesse scene: Evan che mi aggrediva, il signore dell'auto nera che chiamava il 118, i paramedici che mi ignoravano, la preparazione per l'intervento e Sabina. Infine arrivava la parte che ancora non sapevo spiegarmi. Gli interni di una macchina, il mio vestito rosso, i fari di un auto e un botto incredibile che si mischia a urla incomprensibili. Arrivata a questo punto mi svegliavo col cuore in gola. Bevevo un bicchierone d'acqua, mi rigiravo nel letto, ricadevo tra le braccia di morfeo e ricominciava la ruota.

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Capitolo 22
*** 22 ***


- Bree svegliati. - 
Apro gli occhi è mi volto verso la provenienza della voce. Vedo l'infermiera Anna che è venuta a svegliarmi.
- Come stai oggi? -
- Penso bene. - Farfuglio mentre stiracchio le braccia e sbadiglio. 
- Ti ho portato la colazione. Yogurt e frutta. Mi sono permessa di prenderti anche il caffè. -
- Grazie. - Le sorrido. Mi ricorda sempre più mia madre.
- Sbrigati. Tra poco verranno a prenderti. - 
- Ci sarebbero problemi se oggi non volessi uscire? -
Anna mi guarda quasi incredula. - Perché non dovresti voler uscire? -
Che dirle adesso? Non ho nessuna ragione per restarmene chiusa qui a raggomitolarmi nel dolore, un'altra volta. Sarebbe fare tutto il contrario di quello che mi ha aiutato la prima volta. 
- Per nessun motivo. - Mi sforzo per far uscire un sorriso che sembri naturale. - La prendevo in giro! -
Ride, l'infermiera Anna. Ride di cuore, con gli occhi pieni di dolcezza. 
- Le posso fare una domanda strana? -
- Dimmi pure. -
- Avrei bisogno di sapere come contattare una sua collega. -
- Mia collega? -
- Sì. Sabina si chiama. Ha circa la mia età. - 
- Capelli biondi? -
- Sì. -
- Posso darti il suo indirizzo. Oggi dovrebbe essere a casa. -
- Mi farebbe un grosso favore. -
Scrive l'indirizzo sul retro di un foglio stracciato che doveva appartenere ad una prescrizione sbagliata utilizzando la penna dorata che ha sempre con se affacciata dal taschino. - Come mai cerchi Sabina? -
- Niente di particolare. Mi piacerebbe rivederla. Tutto qui. - 

E' venuta a prendermi Gigì. Le ho subito chiesto di portarmi da Sabina, ma adesso che sono dietro all'alto portone di questa casa grigia non so se è la cosa migliore da fare. L'ultima volta che ci siamo viste era come se non la conoscessi, come se non fosse stata lei, da sconosciuta, ad avermi aiutato in uno dei momenti più difficili della mia vita. Suono ancora tentennante il campanello.
Viene ad aprirmi una bambina, i capelli biondi raccolti in due trecce un po' spelacchiate e due enormi occhi verdi. 
- Ciao piccola. -
La bimba non dice una parola. Resta a guardarmi con la bocca serrata in un'espressione quasi spaventata.
- C'è qualcun altro in casa? -
Forse non avrei dovuto chiederlo, le sarò sembrata una di quei cattivi delle fiabe che vanno in cerca di bambini. Scappa dentro e sbatte forte la porta alle sue spalle. 
- Ci sai fare con i ragazzini, eh! - Gigì è accanto a me. E sfotte, naturalmente. 
Risuono il campanello. Stavolta alla porta arriva Sabina. Anche lei ha i capelli biondi raccolti in due trecce e solo adesso mi accorgo di quanto quella bambina le somigliasse. Sembra quasi una scena di quei film in cui i protagonisti bambini crescono improvvisamente grazie a un desiderio. 
- Bree, che ci fai qui? - Dice ancor prima che io possa aprire bocca. - Ti hanno fatto uscire? - Un enorme sorriso le illumina il viso.
- Quasi. -
- Quasi? - Sembra voglia una risposta, ma non è così. Infatti aggiunge subito: - Entrate, entrate. Posso offrirvi qualcosa? The? Caffè? Succo di frutta? - Continuando a elencare tutto ciò che ha in casa da offrire a due ospiti improvvise, ci fa strada verso una veranda che da sul giardino. Semplice, ma deliziosa. Ci sono due poltroncine a dondolo e un divano con la tapezzeria floreale. - E allora? Cosa vi porto? - Ci dice dopo averci fatto accomodare. 
- Per me un caffè se non ti disturba. - Dice Gigì.
- Prenderei un caffè pure io. - Aggiungo. 
Accende la macchinetta che si trova vicino alla porta da cui siamo entrate. - E allora Bree, cosa ti porta da queste parti? Come va la tua memoria? - Dice mentre armeggia coi bicchierini di plastica.
- Bene... - Breve pausa. - Sabina. -
I bicchieri le cadono dalle mani. Per due secondi resta immobile come fosse una sagoma di cartone pubblicitaria. Si volta piano verso di me. - Ti ricordi il mio nome? -
- Mi ricordo di te. -

Gigì è stata a giocare per tutto il tempo con la bambina che abbiamo scoperto essere la sorellina di Sabina. Si chiama Phoebe ed ha otto anni. 
Io e Sabina abbiamo avuto così modo di parlare da sole. Le ho chiesto di raccontarmi di nuovo la sua storia, se non le dispiaceva. Avevo bisogno di sentirla di nuovo, avevo bisogno di sentire di nuovo i suoi consigli, avevo bisogno che questa non più sconosciuta mi aiutasse di nuovo ad uscire dal nero. 
Siamo andate via ad ora di pranzo, rifiutando gentilmente i tanti inviti che Sabina ci ha fatto. Non posso e non voglio impedire a mia madre di avermi almeno a pranzo. Non è rimasta nemmeno Gigì. Ha capito che ci serviva un po' di tempo da sole. 
Dopo pranzo ho obbligato mia madre a stendersi sul letto con me. Avevo bisogno di abbracciarla, di sentire quel calore che mi sono negata quando ne avrei avuto più di bisogno. Non avrei dovuto farlo e adesso mi rendo conto che ne avevamo bisogno entrambe. Ho riempito i polmoni col suo profumo e mi sono assopita tra le sue braccia.

Abbiamo dormito abbracciate per un'oretta e, dopo una bella doccia, sono uscita. Da sola. Ho portato con me le pillole che avevano dato ad Evan per sicurezza, sperando di non doverle usare. Mamma ha insistito che fosse poco sicuro girare da sola, ma non ho voluto portarla con me. Non so di preciso cosa voglio trovare, ma so che voglio scavare da sola, guidata dall'istinto, nel buio dei miei ricordi chiusi a chiave per adesso. 
Cammino con la macchina di mamma da almeno mezz'ora senza una meta precisa. Solo adesso qualcosa mi ha imposto di fermarmi. Sotto questa casa un po' diroccata che non ricordo di aver mai visto, davanti a questo vecchio cancello nero ed enorme. Guardo le persone passare cercando un viso familiare. Scruto la zona cercando qualcosa che mi dica perché mi sono portata fin qui. Mi concentro così tanto che trasalgo quando qualcuno bussa forte sul vetro del finestrino.
- Mi fai le poste sotto casa? - E' Samir.
E' la prima volta che lo vedo da quando l'ho ricordato. Saprà del mio incidente? Come è finita tra di noi?
- Ciao. - Accenno imbarazzata.
- Ciao. - Aspetta me. Probabilmente vorrà sapere perchè mi trovo qui. Come spiegargli che non lo so? - Cosa ti porta da queste parti? La tua collega mi ha detto che eri all'ospedale per un brutto incidente. - 
- Te l'ha detto Cristina? -
- Mi pare si chiami così. Mi ha vietato categoricamente di venire a trovarti, per questo vederti qui mi stupisce parecchio. -
- E' una storia lunga. -
- Lo sai che mi piace ascoltare le persone. Vuoi salire? -
- Non so se è il caso. -
- Dai, non è mica la prima volta! -
Non è la prima volta? Non credo sappia molto di ciò che è successo alla mia testa. Cristina non gliel'ha detto sicuramente. 
Lo seguo lungo le scale quasi infinite che portano al suo appartamento: sono due piani molto alti questi qui. La casa è vecchia e ristrutturata male. Gli ambienti sono spaziosi, i tetti alti, i muri di un bianco ormai sporco. Mi guida in camera sua. Strana come camera, deve essere stata ricavata da un ambiente dedicato ad altro scopo. Manca una parete che è stata sostiuita da un'enorme porta a soffietto che permette l'entrata non appena si toglie il piccolo lucchetto che la tiene ferma ad un piccolo anello posto sul muro del corridoio. Poca privacy, devo dire. Dentro, però, è adorabile. Grande, luminosa e riempita con l'indispensabile. Una scrivania, un armadio e un letto singolo.
- Scusa il solito macello. - Mi dice.
- Samir devo chiederti una cosa. Stai zitto. -
Mi guarda perplesso. - Cosa? -
Gli spiego che non può dirmi nulla riguardante ciò che è successo da quando ci siamo conosciuti, almeno non da un mese e mezzo a questa parte. Cerco di usare le stesse parole che la Collins ha usato per spiegarmi tutta la storia dei cassetti chiusi a chiave da aprire da sola. Lui mi segue perplesso.
- Quindi quando ti sei svegliata non ti ricordavi neanche di me. -
- Esatto. Pian piano mi sono ricordata di te, di come ci siamo conosciuti, di quando con Cri mi hai portato in ospedale e di alcune altre cose. Non ricordavo di essere mai stata qui, però. Lì ancora non ci sono arrivata. -
Samir inizia a camminare per la stanza in silenzio, nervosamente. - Non ricordi niente di quello che è successo qui? - Nonostante la pelle abbronzata riesco a notare il rossore che ha preso possesso del suo viso.
- Nulla. Potresti cercare di aiutarmi a ricordarlo? - 
Silenzio. Non capisco cosa possa mai essere successo da metterlo così in imbarazzo. 
- Ho una sete da lupi. Mi potresti dare un bicchiere d'acqua? - Cerco di spezzare l'atmosfera. Sembra che non ci sia riuscita. Samir si è bloccato improvvisamente e si è voltato a guardarmi con gli occhi quasi sbarrati. - Mi hai sentito? -
- Sì. - Avrebbe voluto dire, forse. Ma muove solo le labbra. - Ridillo. -
- Cosa? Che ho una sete da lupi? -
- Già. - Sorride e il rossore si fa ancora più vivo. - Vado a prenderti l'acqua. - Sembra essere uscito dal mondo dei pensieri ed essere tornato finalmente sulla terraferma. 
Esce dalla camera lasciando la porta a soffietto appoggiata al muro ma non chiusa.
Inizio a guardarmi intorno. Guardare la stanza dovrebbe aiutarmi. E lo fa. Mi sembra tutto familiare. Inizio a sentire riecheggiare quelle mie parole. 'Ho una sete da lupi'. Ancora. Di nuovo. Eccolo, il mal di testa, il martello pneumatico, il fulmine. Ho solo il tempo di frugare in borsa per cercare le pillole. Poi mi accascio sul letto e ne segue buio.

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Capitolo 23
*** 23 ***


Mi sono svegliata senza Gigì nel letto. Al posto dei suoi capelli sul cuscino c'è un biglietto. 'Devo andare a lavoro, eri troppo tenera da svegliare. Il caffè è pronto. Un bacio. Gigì.' Mi alzo con calma e vado in bagno. Mi spoglio ed entro in doccia. Resto una buona mezz'ora sotto l'acqua bollente. Alcuni direbbero che sono una folle ad usare l'acqua bollente per la doccia con il caldo che stanno portando fuori queste giornate, ma io lo faccio lo stesso. Mi rilassa e mi aiuta a non pensare a cose brutte. Uscita dalla doccia, mi avvolgo in un asciugamano abbastanza grande e vado in cucina a fare colazione. Trovo un altro biglietto. 'Ti ho preso anche i biscotti. Ti amo. Gigì.' Ah, come farei senza la mia Gigì! 
Guardo il calendario per la prima volta dopo troppo tempo. Ho perso un bel po' di lezioni. Meglio che oggi scenda in facoltà a parlare col professore. Sembra disponibile, magari mi darà qualche dritta per recuprarle al meglio nel minor tempo possibile.
Mi vesto in fretta infilando un vestitino leggero che mi arriva a metà coscia sopra un paio di leggins neri al polpaccio. Non mi va di andare gambe al vento ad un ricevimento. Costringo i ricci in una coda alta e poi in una treccia. Prima di uscire respiro il profumo dei fiori di Steve che si sono un po' ripresi rispetto a stanotte. 
Vado in motorino e faccio tappa al bar di Evan per salutare il signor Nimei sperando che suo figlio non ci sia. Invece c'è. E' al bancone, ma appena mi vede entrare con una scusa va sul retro. Il signor Nimei è visibilmente preoccupato.
- Bree, ti prego. Sai dirmi che succede a mio figlio? Sono quattro giorni che non parla e si rifiuta di mangiare. Non so che gli è successo. -
Sentire quelle parole mi fa sentire stranamente bene. Chiamatela sete di vendetta, ma quello che sta provando lui non si avvicina neanche a un quarto di quello che ho subito io e penso che almeno un po' se lo meriti. Forse più di un po'. Non so cosa dire a suo padre, però. Il signor Nimei spera in me per avere notizie e quelle che dovrei dargli non gli piaceranno per niente. - Penso che quando sarà il caso, lui stesso glielo dirà. - Mi limito a dire freddamente. 
Il signor Nimei sembra capire che non ho intensione di parlarne e, triste, mi chiede se voglio il solito. - No, sono passata solo a salutarla. Stamattina Gigì mi ha portato la colazione. - Vado a baciarlo sulle guance fresce di rasatura. Mi tremano un po' le labbra e sento le lacrime che stanno per arrivare, perciò subito dopo scappo via.

Il colloquio con il professore non è andato come mi aspettavo. Ho aspettato fino ad ora di pranzo una fila interminabile per sentirmi liquidare dicendo che non si possono recuperare lezioni importanti in mezz'ora di ricevimento e che l'unica cosa che posso fare è cercare un'anima pia tra i miei colleghi che mi presti appunti o registrazioni. Mi sono anche sentita dire che se evitassi di andare ai festini la mattina potrei alzarmi in tempo per le lezioni. Ma vai a cagare brutto laureato dei miei stivali! Che ne sai di cosa ho passato io in questo periodo? Demoralizzata ho preso il motorino e sto per uscire dalla facoltà. Appena immessa nel traffico sento il mio nome gridato da qualcuno. 
- Bree! -
Metto la freccia ed accosto. E' Samir.
- Oh ciao. - Sorrido.
- Ti ho vista col musone. Esame andato male? -
- No, professore idiota. -
- E' un sacco che non ci sentiamo. -
- Ho avuto un paio di problemi. - Abbasso gli occhi. 
- Mi dispiace. Se vuoi, lo sai che io sono sempre a disposizione per parlare. -
- Grazie. - Non voglio parlarne.
- Facciamo così. Io ho appena staccato. Andiamo a pranzo insieme e recuperiamo questi giorni in cui non ci siamo sentiti, ok? - 
Non rispondo e abbasso di nuovo gli occhi.
- Non devi parlarmi per forza di questi problemi, se non vuoi. Puoi parlare di qualsiasi cosa, lo sai. - 
Sembra avermi letto nel pensiero. - Cinese? - Dico sorridendo.
- Cosa? -
- Mi porti a pranzo al cinese? - 
- Se è proprio necessario. -
- Proprio sì! - Rispondo con un sorriso che mi riempie il viso. 
- Ce ne sta uno vicino casa mia. Ho la macchina posteggiata un po' più avanti. Se mi aspetti lì, ti faccio strada. -

Ho posteggiato il motorino dentro il portone di casa sua e siamo andati a piedi al cinese che si trova all'angolo della traversa dove abita. Ha fatto ordinare me e, ovviamente, ha voluto pagare lui. Tra una ciotola di riso e un boccone di manzo abbiamo parlato degli argomenti più vari, da come è andata la giornata a come si sta in Albania, dal perchè ho voluto iscrivermi all'università a come si è trovato in Italia. Gli ho fissato spesso il tatuaggio all'avambraccio. Quella fenice sembra avermi stregata. Lui se ne è accorto.
- L'ho fatto prima di partire per l'Italia, per ricordarmi chi sono stato e chi diventerò. Risorgere dalle proprie ceneri è l'unica cosa saggia che un uomo possa fare dopo aver mandato in fumo qualcosa di importante. - Mi ha spiegato di nuovo, fiero ma allo stesso tempo con un tocco di malinconia.
Siamo tornati al portone di casa sua e adesso io sto volontariamente perdendo tempo ad accendere il motorino, non so in speranza di cosa.
- Sembra quasi che tu non te ne voglia andare. - Beccata. Perchè chiunque riesce a leggermi? O forse non sono tutti. E' lui.
- Non mi va di stare a casa da sola. -
- Se vuoi possiamo fare un giro insieme. -
- Veramente... - Non credo a quello che sto per dire. - ...mi piacerebbe vedere dove abiti. - Ecco l'ho detto! Sono una testa di cazzo e l'ho detto. 
- Vuoi salire? -
Annuisco arrossendo.
- Andiamo. - Mi sorride e inizia a salire le scale.
Due interminabili rampe di scale dopo, entriamo in casa. 
- Carina. - Dico, più per cortesia che per altro. La casa è un po' vecchiotta, si vede. E i padroni non devono tenerci più di tanto.
- Non è una villa di lusso, ma mi ci trovo bene. -
- Ci vivi solo? - E' parecchio grande, coi tetti altissimi. 
- No. Siamo in cinque. Ci sono due doppie affittate a studenti, forse qualcuno lo conosci pure. -
- Immaginavo fosse casa di studenti. -
- Da cosa? -
- Non lo so, si capisce. I padroni di casa non le curano più di tanto le case dove fanno entrare ragazzi. -
Mi fa fare un rapido giro. Il corridoio è immenso, le camere chiuse, il bagno accettabile. La cucina è minuscola ma con un'immensa pila di piatti da lavare. 
- Ecco, se non lo sapessi questa sarebbe la conferma che qui ci stanno studenti maschi. -
Samir arrossisce. - Scusa. I miei coinquilini hanno litigato con la pulizia. -
- Tranquillo. Alcuni miei colleghi stanno messi peggio. - Rido. 
Mi accompagna in camera sua. Non entro, ma la guardo dal corridoio perplessa. La parete manca totalmente. Al suo posto un'enorme porta a soffietto con un piccolo lucchetto. 
- Questa è camera tua? -
- Lo so che è strana, ma è l'unica singola della casa e non mi va di dividere la stanza con uno studente. Senza offesa. -
- Nessuna offesa. Solo che non capisco come fai a starci. -
- Mi ci sono abituato. -
Entrati dentro la camera è grande e luminosa, arredata col minimo indispensabile, ma allo stesso tempo comoda. Una porta finestra porta al balconcino che da sulla strada.
- Scusa il disordine. - In realtà non c'è quasi nulla fuori posto. 
- Mi piace. -
- Cosa? -
- La tua stanza! E' enorme. -
- Contento che ti piaccia. - Sorride. 
Ho un brivido lungo la schiena. Ha un sorriso bellissimo, dolce ma da uomo. Mi siedo ai piedi del letto e sto in silenzio. 
- E allora, perchè non vuoi stare sola a casa? Paura del lupo cattivo? -
- No, è che non mi fa bene stare da sola. -
- Per quei problemi di cui non vuoi parlare. -
- Ho perso il bambino. -
- Cosa? - Ha la faccia sconvolta, quasi avesse visto un fantasma. - Mi dispiace tantissimo. Sarai sconvolta. - Mi poggia una mano sulla spalla.
Il contatto con la sua mano fa scattare in me qualcosa che ero riuscita a reprimere grazie alla serata fuori con Gigì, il dolore che ho ancora dentro. Penso che non se ne andrà mai del tutto e che ci sarà sempre qualcosa che potrà riportarlo in superficie. Scoppio in un pianto disperato. Samir senza dire una parola si siede accanto a me e mi abbraccia. Nascondo la faccia nell'incavatura tra il collo e la spalla e lascio sfogare il dolore rapace che ho dentro. Lui continua a non dire nulla e mi accarezza i capelli finchè le lacrime non mi sono finite.
- Scusa. - Sussurro tra gli ultimi singhiozzi. - Non volevo fare questa scenata. -
- Bree, non è una scenata. Posso solo immaginare il dolore che hai provato e che provi. - 
Mi asciugo gli occhi e lo guardo. Riesco a metterlo a fuoco a fatica perchè ho ancora la vista un po' appannata dagli occhi lucidi, ma intravedo le sue guance rigate. Ha pianto con me, anche se non me ne sono resa conto. Non ho il tempo di chiedergli perché anche a lui siano scese le lacrime. Si alza dal letto. 
- Vuoi andare a sciacquarti il viso? -
- Non sarebbe un'idea cattiva. Posso andare? -
- Sì, vai tranquilla. I ragazzi dovrebbero essere tutti tornati a casa. Ti ricordi la porta? -
Annuisco ed esco dalla stanza. Mi dirigo verso il bagno. Quale porta è? Destra o sinistra? Entro a destra e trovo la cucina. Rido internamente di me. Entro nel bagno, porta a sinistra, e mi butto un po' di acqua in faccia lasciando la porta aperta. Sento qualcuno passare dal corridoio ed entrare in cucina. 
- Samir? Sei tu? -
- Sì. Sto prendendo una cosa. Vai in camera ed aspettami lì. -
Così faccio. Torno in camera, la porta a soffietto è aperta quel tanto che basta per passarci tranquillamente. Mi siedo di nuovo ai piedi del letto e lo aspetto.

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Capitolo 24
*** 24 ***


Samir entra con un sacchettino bianco. Ne esce una bottiglia d'acqua, dei bicchieri di plastica e un cestino di pesche. Posa tutto sul tavolo e si volta verso di me.
- Un po' di frutta? -
- No, grazie! Ho ancora gli involtini primavera che fanno a pugni col gelato fritto. - Dico ridendo.
- Un po' d'acqua? -
- Quella si, volentieri. Ho una sete da lupi! - 
Samir mi guarda fisso per qualche istante, poi scoppia in una fragorosa risata. 
- Che c'è? Che ho detto? -
- Sete da lupi? Non era "fame da lupi"? -
- Embè? I lupi non bevono forse? Non hanno anche loro sete? -
- Oh Bree. Sei tutta strana. - Porta la sedia della scrivania vicino ai piedi del letto e ci si siede. - E' carino. -
- Cosa? 'Sete da lupi'? -
- No. - Mi dice, versando l'acqua in due bicchieri. - Che sei strana. -
- Grazie! - Sono sarcastica e faccio l'offesa, ma non riesco a reggermi il gioco per molto.
Bevo avidamente l'acqua, chiedendone dell'altra appena è finita. Butto giù anche il secondo bicchiere. Poi me ne accorgo. Samir mi sta fissando con uno sguardo quasi perso e il sorriso più dolce che abbia mai visto. Divento rossa quasi all'istante, senza alcun motivo apparente. Fingo di sentire caldo e gli porgo il bicchiere vuoto. Lui lo poggia sulla scrivania per poi tornare a fissarmi. Ricambio il suo sguardo stavolta, cerco di sostenerlo e capirlo allo stesso tempo. Ma da capire cosa ci dovrebbe essere?
Ancora seduto sulla sedia, si avvicina di più ai piedi del letto e si sporge in avanti, verso di me. Mi accarezza la tempia, portandomi dietro l'orecchio un ricciolo che era riuscito a sfuggire alla treccia. Poi scende ad accarezzarmi il collo. Mi afferra gentilmente per la nuca e mi tira leggermente verso di sè. Immagino cosa sta per succedere e il cuore inizia a battere sempre più forte, tanto forte che forse lo sente anche lui ormai. I suoi occhi nocciola sembrano adesso più intensi, più profondi, quasi non avessero fine. Per una frazione di secondo il panico ha la meglio, ma poi capisco che in realtà sono anche io a volerlo. Samir si sporge ancora un po' in avanti e accosta la testa leggermente di lato. Le sue labbra socchiuse adesso sono ad appena qualche centimetro dalle mie.
- Samir. - La voce non appartiene a nessuno dei due. Torniamo alla realtà. - Oh, scusa. Ho visto la porta aperta e pensavo fossi da solo. - Sulla soglia della camera c'è un ragazzo alto e magro, un po' trasandato nel vestire e con lunghi capelli neri. E' visibilmente imbarazzato. 
Samir gli dice di non preoccuaparsi, che avrebbe dovuto chiudere la porta, ma si era dimenticato di farlo essendo solo. - Che c'è? - Gli chiede uscendo dalla camera.
Li guardo parlottare a bassa voce, non capendo una parola di ciò che si dicono. In realtà non li capirei neanche se mi si urlasse nelle orecchie. Penso di avere i neuroni in tilt. 
- Problemi? - Gli chiedo quando torna in camera, dopo aver chiuso la porta. 
- No, mi voleva solo avvisare che lui è tornato. Va via tra tre giorni e vengono alcuni suoi amici per la cena. -
- Capito. - Sono più imbarazzata del suo coinquilino che ci ha trovato ad un passo dal bacio. Abbasso gli occhi al pavimento di granito. 
Sento il suo indice scivolarmi sotto il mento a sollevarmi il viso. Lui è già lì, nella stessa posizione, ad un passo dalle mie labbra, di nuovo.
Ci si tuffa dentro ed io lo accolgo, prima titubante, poi piacente. Ci baciamo seduti ognuno al proprio posto, io sul letto, lui sulla sedia. Senza sfiorarci in altri modi. L'unico contatto tra noi, oltre l'indice che ha ancora sotto il mio mento, sono le nostre bocce che si assaggiano e le lingue che giocano. Toglie il dito da sotto il mio mento e appoggia la mano sul copriletto blu accanto alla mia gamba. Appoggia l'altra mano dal lato opposto. Delicatamente lo sento alzarsi e sporsi verso il letto. Sussulto e tremo. Il mio cuore impazzisce nello stesso istante in cui, senza pensarci per un secondo in più, inizio a spostarmi piano all'indietro poggiando il peso sui gomiti senza staccare le labbra dalle sue. Mi segue quasi gattonando sul materasso. 
Continuamo il nostro lunghissimo bacio sdraiati. Poggia delicatamente il suo peso sopra di me e la mano sulla mia coscia. Inizia ad accarezzarla delicatamente, salendo piano sotto il vestito leggero. Arrivato ai fianchi, inizia il percorso opposto. Il suo bacio dolce si è fatto man mano più denso, più corposo, più passionale. Stacca le labbra dalle mie, solo per portarle a baciare il mio collo. Un fremito mi percorre interamente non appena inizia a stuzzicarmi il lobo con la punta della lingua e a mordicchiarlo. In risposta al mio fremito sento che il suo corpo inizia a ribellarsi ai comandi razionali che lo vogliono trattenere. Per un attimo sembra vincere. Mi addenta il collo con passione quasi violenta mentre la mano palpa in modo deciso la mia coscia. Mi sfugge un lamento a labbra chiuse. 
- Ti ho fatto male? - La razionalità ha ripreso le redini.
- Cosa? - La mia no. Ha chiuso per ferie.
- Ti ho fatto male col morso? -
- Assolutamente no. - Rispondo sottovoce, in tono palesemente malizioso. Incollo di nuovo le labbra alle sue. 
Ci rotoliamo piano su quel letto singolo continuando a baciarci e ad accarezzarci. Continuando a fingere di non starci sforzando di reprimere gli istinti che ci porterebbero a sfiancarci di sesso a vicenda. Le sue mani si fanno d'improvviso più audaci infilandosi sotto il vestito fino alla pancia e poi su, fino a toglierlo facendolo finire sul pavimento. Poco dopo al mio vestito fa compagnia la sua camicia. Mi stringe a sé e il contatto di pelle fa scattare dentro di me scintille che non provavo da tempo. L'eccitazione di entrambi è ormai palpabile nell'aria. Mentre sono sdraiata su di lui tira via gli elastici che trattengono i miei capelli sciogliendoli dalla treccia alta in cui li avevo costretti e facendomeli ricadere sulle spalle. Ci infila le mani in mezzo e, trattenendomi così, mi tiene a pochi centimetri dal suo viso. Mi perdo nei suoi occhi che adesso sembrano quasi più scuri. Mi morde le labbra, ma senza farmi male, solo facendomi impazzire ancor di più. Stacca le mani dai capelli e inizia a farle scorrere lungo la colonna vertebrale mentre i suoi morsi scendono verso il mio petto. Affonda per un attimo il viso tra i miei seni tirando su un lungo respiro, quasi volesse catturarne il profumo. Slaccia il reggiseno che ancora li copre fissandomi negli occhi, quasi a chiedere il mio permesso. 
Ci voltiamo ancora e solo quando sono adagiata sul suo materasso, sfila definitivamente via il reggiseno che va sul pavimento con gli altri compagni che l'hanno preceduto. 
- Hai un seno perfetto. - Dice piano, quasi lo stesse dicendo a se stesso. 
Si stende sul fianco. Guardandomi fisso negli occhi e mantenendo le labbra a qualche centimetro dalle mie, poggia la mano sulla pancia. La fa scivolare piano verso l'alto. Poi la solleva e fa scorrere sulla mia pelle solo un dito, facendolo salire lungo il mio petto ad arrivare alla gola. 
- Sei stupenda. - Mi sussurra scostandomi i capelli dal viso e accarezzandomelo.
Sorrido imbarazzata.
Ci baciamo di nuovo. Dolcemente. Teneramente. Ma la passione non si fa attendere per molto e dopo poco siamo di nuovo avvinghiati, desiderandoci a vicenda. 
Gli aggancio le gambe in vita e lo spingo verso di me trattenendolo in un abbraccio che lascia poco alla razionalità. Mentre continua a baciarmi, il mio desiderio sale. Affondo le unghie nella sua pelle, graffiandolo. Questo sembra eccitarlo maggiormente. Inizia a muoversi delicatamente, quasi si fosse dimenticato di non essere dentro di me. Porto le mie mani sui suoi jeans, stringendo per un attimo i suoi glutei sodi. Le sposto poi in avanti, cercando la lampo. 
Samir si ferma. Mi scosta le mani e si sposta. Si siede su quel poco di materasso libero e poggia i piedi a terra. Indecisa sull'essere perplessa, delusa o solo mortificata, non muovo un muscolo finchè non si decide a parlarmi.
- Scusami, Bree. -
- Scusa? Per cosa? - 
- Per questo. -
- Mi pare che non mi abbia costretto nessuno. - Mi siedo dietro di lui, passandogli le gambe intorno alla vita e le braccia sopra le spalle per accarezzargli il petto. Appoggio il viso alla sua schiena su cui si intravedono le linee rosse dei graffi. - Tu mi vuoi ed io ti voglio. - Gli sussurro.
- Sarebbe solo sesso. - Si sposta di nuovo dal mio abbraccio sedendosi accanto a me e prendendomi il viso tra le mani. - Io voglio di più con te. Mi piaci davvero, Bree. E non mi va di rovinare tutto per un'ora di sesso. Io voglio fare l'amore con te. Ti meriti questo tu. Amore. Non ormoni impazziti. E' difficile resisterti per me, ma voglio averti con la testa e col cuore non solo con la carne. -
Mi lascia spiazzata questo discorso. Non so cosa rispondere. Riesco a pensare soltanto a quanto si avvicini al ragazzo perfetto, a quanto qualsiasi ragazza sarebbe disposta a dare per averlo. E poi capisco quanto sarebbe ingiusto illuderlo. Non è il periodo per iniziare una relazione seria. Prima devo sistemare quella con me stessa.
Mi alzo dal letto in silenzio. Recupero la mia roba e me la rimetto addosso. Prendo gli elastici e senza dire una parola esco dalla stanza per recarmi in bagno. Stavolta indovino subito la porta. Lasciandola aperta entro e davanti allo specchio torno a legare i miei capelli. Tornando in stanza incrocio il coinquilino che mi sorride maliziosamente, con la faccia di uno che aspetta di sentire gridolini orgasmatici e cigolii di reti da un momento all'altro. Resterai deluso mio caro! Se vuoi sentire roba del genere dovrai farti un giro su youporn stasera.
- Bree si è fatto buio. - Samir è davanti alla porta finestra e guarda fuori. 
- Meglio che vada allora. -
- Ti seguo in macchina. -
- Non è necessario. So cavarmela. -
- Bree non ti lascio tornare a casa in motorino da sola. - Si avvicina a me. 
- Sembri mia madre. -
- Potrò sembrarti anche tua nonna, ma io ti seguo in macchina se vuoi tornare a casa. -
- Se voglio? -
- Sì. Per me non ci sono problemi se vuoi restare per stanotte. Chiederò a Gianni di farmi stare nel letto di Alberto. -
- Non voglio sfrattarti dalla tua stanza. - Lo abbraccio. - Resto solo se dormi con me. - Non so perché l'ho detto. Non voglio illuderlo che tra noi possa iniziare qualcosa, ma so di non poter resistere lontano dalle sue braccia per molto. Lì dentro è l'unico posto dove trovo sicurezza da quando lo conosco a questa parte.

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Capitolo 25
*** 25 ***


Abbiamo cenato in camera perchè il coinquilino non aveva a cena alcuni amici, ma una ragazza. E' andato in bianco, però. L'ho sentita uscire correndo e sbattendo la porta proprio poco fa. E' ancora presto. E' passata da poco mezzanotte, ma Samir è crollato appena ci siamo appoggiati sul letto. Era stanco morto, poverino. Mi ha prestato una sua maglia e un paio di pantaloncini per dormire più comoda. Io però non dormo. Non ho un briciolo di sonno ancora e ho caldo da impazzire. 

Sono passate due ore. Samir dorme come un angelo abbracciandomi da dietro. Io ho quasi dormito per un'ora. Ho bisogno di rinfrescarmi e di qualcosa che mi concili il sonno. Mi libero piano dalla sua presa, cercando di non svegliarlo, e mi alzo delicatamente. Mi dirigo verso la porta e la faccio scorrere silenziosamente. Prima di introdurmi nel corridoio lo guardo. Appena il mio peso ha abbandonato il letto, lui si è rigirato e adesso dorme a pancia sotto occupando tutto il letto. Trattengo a stento una risata rumorosa. Mi dirigo nel bagno, mi spoglio e mi infilo nella doccia. Apro l'acqua in modo che scorra senza fare troppo rumore. Mi appoggio alla parete e la lascio scorrere lungo il mio corpo. Mi aiuta sempre a rilassare i nervi e a distendere i muscoli. Funziona anche adesso. Dopo poco sento di stare per addormentarmi in piedi, lì contro la parete, perciò decido di uscire. Mi infilo solo la maglietta sopra l'intimo per evitare di incontrare Gianni totalmente nuda rientrando in camera. Arrivata lì poso tutto sulla scrivania. Mi iniflo i calzini corti. So che è strano, ma è una mia fissazione. Freddo o caldo che sia il tempo, devo avere i piedi coperti per dormire tranquilla. Forse è anche per questo che non riuscivo a prendere sonno prima. 
Vado verso il letto. Adesso Samir si è raggomitolato in posizione fetale su un fianco. Non posso prendere il posto di prima perciò mi infilo nel letto alle sue spalle facendo più piano che mi è possibile. Prima di sdraiarmi del tutto nel poco spazio che mi è concesso, lo guardo. Così rilassato sembrerebbe quasi un bambino se non fosse per quell'ombra di barba che lo ricopre quasi fino agli zigomi. I capelli corti rispondono con riflessi dorati al chiaro di luna che riesce a filtrare dalla porta finestra. Non resisto alla tentazione e inizio ad accarezzarli. Sul suo volto si disegna un sorriso. Gli bacio una tempia nella speranza di aiutarlo a restare in quella parte del mondo dei sogni che ne regala di belli. Fa un mugolio e si smuove un po'. Riprendo a coccolarlo e sembra calmarsi. Il viso sempre sorridente. Un altro bacio, stavolta sulla spalla. Apre gli occhi. Ancora intorpidito dal sonno si volta ad abbracciarmi. Mi stampa un bacio sulle labbra e richiude gli occhi. A vederlo così il mio cuore impazzisce. Lo sento scalpitare a ritmo quasi irregolare. Nella mia mente una guerra. In lotta più fazioni. Da destra arriva la squadriglia della ragione al grido 'non si può e non si fa'. Da sinistra arriva la legione della passione urlando 'lo vogliamo'. Dal centro si precipita l'esercito dei sentimenti che invece di urlare continua ad elencare tutte le caratteristiche che fanno di Samir l'uomo ideale. Tutti hanno la loro quantità di verità e la loro porzione di bugia. Ma come fare ad accordarli? E' impossibile.
Con la guerra ancora in atto, io prendo la decisione più indecisa. Lo bacio. Attacco le labbra alle sue, delicatamente. Baci brevi, dolci, delicati. Lui, sveglio ma non del tutto, mi risponde. Andiamo avanti con una naturalezza che mi stupisce, come se stessimo insieme da anni, come se conoscessimo i nostri corpi in ogni millimetro. Carezze e baci si sprecano e rendono tutto estremamente dolce e romantico. Non mi blocca stavolta, nemmeno quando, mentre siamo già nudi, gli chiedo se ha in camera dei preservativi. Con gli occhi chiusi, ancora un po' intorpidito e le labbra impegnate a baciarmi e mordermi, allunga la mano verso il cassetto del comodino. Lo apre e vi rovista dentro alla cieca.
Mentre lo indossa continuo a baciarlo avidamente sul collo e ad accarezzargli il petto. Sta per pentrarmi, quando si blocca. 
Fissa i suoi grandi occhi nocciola nei miei. Mi bacia le palpebre.
- Sei sicura? - Mi chiede sussurrando. 
Lo abbraccio dicendogli di si. 
Poggia delicatamente le labbra sulle mie e, accarezzandomi, porta le sue mani fino alle mie cosce. Le solleva un poco, delicatamente. 

Mi ha penetrato continuando a baciarmi. Si è mosso dentro di me con un ritmo dolce ma deciso. La nostra pelle ha continuato a strusciare contro quella dell'altro per tutto il tempo. E' stato un continuo baciarsi. Le nostre labbra si staccavano solo quando io, prossima all'orgasmo, inarcavo la schiena gettando la testa all'indietro ed aggrappandomi con le unghie alla sua schiena. Mentre facevamo l'amore, perché di amore si è trattato, non abbiamo mai sciolto il nostro abbraccio. 
E' stato amore, perché mai sesso potrebbe essere tanto dolce, appagante ed emozionante. Ho tremato per quasi tutto il tempo e non solo per le numerose volte in cui mi ha spinto verso il piacere più puro. Mentre Samir raggiugeva il suo apice, mi ha afferrato il viso e baciato da togliermi il fiato. Raggiunto il picco massimo del piacere ha soffocato un urlo che portava il mio nome. Si è accasciato su di me e i nostri cuori ansimanti si sono di nuovo toccati attraverso la nostra pelle sudata.
Ci siamo separati per un breve periodo di tempo, per questioni igeniche necessarie, ma quando è tornato dal bagno ha ripreso la stessa posizione e così è rimasto. Sdraiato sopra di me, con la testa appoggiata sul mio petto. Io gli accarezzo i capelli respirando a pieni polmoni le meravigliose sensazioni del dopo.
- Penso di essermi innamorato di te. - Sussurra. Ed è ora che inizio a sentirmi una persona cattiva, sporca. - Grazie. -
- Ringrazi sempre le ragazze che vengono a letto con te? - Dico sorridendo. Faccio finta di non avere afferrato la prima parte della frase. 
- No. Solo te. Mi hai fatto stare meravigliosamente. -
- Sono stata stupendamente anche io. - Gli bacio la fronte. 
- Non con me. -
- Cosa? - Mi spiazza completamente. 
- Ho fatto finta di non aver sentito e dopo avertelo detto continuerò a fare finta che non sia successo. -
- Di cosa stai parlando? -
- Hai farfugliato spesso. -
- Ed è un problema? - Cerco di sdrammatizzare. Non capisco cosa vuole dirmi. 
- Se una ragazza farfuglia il nome di un altro mentre è a letto con te non è una cosa bellissima. - Mi si gela il sangue nelle vene. - Steve, mi pare che sia. - Ora sì, che mi sento un puttana. - Ma te l'ho detto, Bree. Farò finta che non sia stato così. Voglio ricordare solo di avere fatto stupendamente l'amore con la ragazza più meravigliosa che abbia mai incontrato. - Poggia le labbra sulle mie, ma io sono ancora sconvolta per quello che mi ha detto. Non mi sento più sporca, adesso. Mi sento proprio uno schifo. E lui sembra accorgersene. - Bree, ti ho detto di stare tranquilla. Davvero. - Sorride. - Era una sfida persa in partenza e l'ho sempre saputo. Solo che stanotte non ti ho resistito. -
- Ti ho provocato io. -
- Bree, so resistere alle provocazioni, se voglio. Ma ti desidero da troppo tempo. Adesso posso almeno dire di conoscere il tuo sapore. - Mi bacia ancora.
Lo abbraccio forte e gli accarezzo le tempie finchè non crolla di nuovo nel sonno. E piango in silenzio per l'ennesima cazzata che ho fatto.

Stamattina ci siamo svegliati nella stessa posizione, un po' incriccati tutti e due. Nonostante entrambi ricordiamo benissimo cosa è successo e anche di fronte all'esserci svegliati nudi ed abbracciati, fingiamo che sia tutto come prima. Ci rivestiamo e andiamo in cucina per la colazione. Caffè, latte, biscotti. E' come se tacitamente avessimo promesso di cancellare quanto accaduto e di non tornarci più. Ed io sono perfettamente daccordo. E' stato bello, come non lo era mai stato forse. Non so neanche se mai ci sarà qualcuno che saprà farmi stare meglio o almeno tanto bene quanto stanotte. Ma ormai sembra chiaro a chi il mio cuore abbia deciso di dedicarsi. A qualcosa di positivo almeno è servito questo ennesimo errore. 

Sono appena rientrata a casa che squilla il telefono.
- Si può sapere che fine hai fatto? Sono stata in pensiero! Sei scomparsa per tutto il giorno e non sei neanche tornata a dormire. - E' Gigì.
- Mi aspettavi a casa? -
- No, ma dato che non mi rispondevi sono passata a controllare. -
- E hai passato la notte sul portico. - rido.
- Non ridere, sai? Mi hai fatto prendere un colpo! -
- Ho passato la notte fuori. -
- L'ho notato. -
- Se vieni a pranzo ti racconto. -
- Apri la porta cretina! -
Apro la porta di casa e la trovo lì, ancora col cellulare all'orecchio. 
- Ti ho vistra rientrare adesso col motorino, stronza. -
- Sei stata davvero qui fuori tutta la notte? -
- Ti sembre idiota? -
- Solo un pochino. -

- E quindi questo albanese scopa bene. Ottimo, ottimo! -
- Gigì! Ti prego! Mi sento già abbastanza in colpa. -
- Non devi sentirti in colpa. Tu non l'hai costretto e lui ti ha detto che già sapeva tutto. Non è che mi daresti il suo numero adesso? -
- Gigì! -
- Ok, ok. Scherzavo! -
- Oh, certo. -

Nel pomeriggio siamo andate in centro con Cristina, Debby e Giovanni. Ho passato il tempo a cercare tra la folla. Per evitare Evan. Per non avere un incontro imbarazzante con Samir. Per cercare Steve. 

Non ho trovato Steve, ma arrivata a casa, mentre cambiavo l'acqua ai suoi fiori, è arrivato un suo messaggio.

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Capitolo 26
*** 26 ***


Esco dal buio. Ho le guance infuocate e la fronte bagnata. Apro gli occhi. Samir mi sorregge la testa tamponandomi in viso un fazzoletto bagnato. 
- Oddio Bree! Ti sei svegliata. -
- Avrei dovuto dirti che poteva capitare. Sai, i ricordi fanno male, spesso. -
- A te nel senso letterale del termine a quanto pare. - Sorride. Vuole scongiurare la paura che gli si legge ancora negli occhi. Sorrido anche io, ma non aggiungo altro. - Sono tornato e ti ho trovata svenuta sul letto. Mi ha preso il panico. -
- Scusa. - Sono quasi imbarazzata e non solo perchè gli ho fatto prendere uno spavento. Ora ho ricordato il motivo per cui conoscevo già la sua stanza e anche perché non ci vedevamo da un secolo, a quanto pare. Non ho ancora ricordato il resto, ma è molto probabile che ci siamo evitati quanto più possibile. 
- Adesso stai bene? -
- Sì, sì. Un po' di mal di testa, ma è normale dopo un fulmine. -
- Fulmine? - 
- Sì, lo chiamiamo così. E' quando rivivo uno dei miei ricordi. Solo che mi bruciano le guance. Questo non è normale. - Me ne massaggio una.
- Quella è colpa mia, scusa. -
- Hai approfittato del fatto che ero svenuta per picchiarmi? - Dico ridendo.
- No, no. - Ride con me. - Cercavo di farti rinvenire. -
Sorridiamo fissandoci negli occhi. Come la prima e forse unica volta che sono stata qui. Come il pomeriggio che ha preceduto quella schifosamente stupenda notte. 
- Posso avere un po' di quell'acqua ora? - Dovevo assolutamente spezzare questo silenzio. 
- Certo, è tutta tua. - 
Me ne versa un bicchiere e io lo bevo con avarizia. Ho la gola secca. - Per quanto tempo sono stata svenuta? -
- Circa un quarto d'ora. Minuto più, minuto meno. -
- Penso sia l'ora di tornare in ospedale. -
- Vorrei accompagnarti. - Silenzio da entrambe le parti. Gelo. - Se non ti disturba. -
Sorrido in modo teso, quasi nervoso. Abbiamo detto di cancellare tutto, no? Di comportarci come se non fosse successo, non è così? Se non l'ho fatto prima inizierò da adesso. Quindi sì! - Certo Samir. - Allargo il mio sorriso e lo addolcisco. - Devo lasciare la macchina a casa. Ci vediamo lì? -
- Dovrei ricordarmi la strada. -

Mia madre era un po' sconvolta del fatto che all'ospedale mi riaccompagnava Samir. Devo averle raccontato cosa è successo tra noi. Certo, magari evitando qualche particolare. 
Adesso siamo nella sua auto sulla strada per l'ospedale. Un silenzio imbarazzante domina l'atmosfera, la tensione potrebbe tagliarsi con coltello da quanto è palpabile. 
- Mi odi ancora? - Forse ho scelto l'argomento sbagliato per iniziare una conversazione, ma devo sapere.
Samir sembra capire al volo a cosa mi riferisco. - Non ti ho mai odiato. Non ti dirò che è stata la cosa più piacevole che mi sia successa, ma ti ho subito detto cosa ne pensavo. Ed era la verità. -
- Samir, tu... tu sei stato fantastico. Io non so... non so proprio come sia potuto succedere. Ero cosciente che eri tu. Lo sapevo ed era tutt'altro che sgradevole pensarci. -
- Bree non devi giustificarti. -
- Non mi sto giustificando. Tu mi hai detto la verità e devo dirtela anche io. -
- Bree l'unica verita è che io mi stavo innamorando di te, mentre tu ti stavi innamorando di un altro. -
Mazzata. Proprio in testa. Pugnalata. Dritta al cuore. L'ha detto così, quasi stesse parlando del tempo. 'Sì, fa caldo anche se c'è un po' di nuvoloso. A proposito, sei una puttana che mi ha spezato il cuore.'
- Non mi odi, eh? -
- Non ti odio. E' la pura verità. Ho imparato ad accettare quello che sapevo ancora prima che succedesse qualcosa tra di noi. - Mi sorride. Un sorriso amaro. Ai miei occhi, quasi sadico.
Il resto del viaggio lo facciamo in silenzio. Arrivati in ospedale, le ultime parole tra noi. 
- Samir, non so cosa sia successo dopo quella sera. Non l'ho ancora ricordato. So solo che adesso, sentendo tutto l'astio che c'è nascosto dentro di te nei miei confronti, penso che continuare a mantenere i contatti, anche come semplici amici, non farebbe bene a nessuno dei due. -
Non dice nulla. Si volta verso l'uscita dell'ospedale. 
- Stavi solo aspettando che lo dicessi io, vero? - Trattengo i singhiozzi a stento. 
Si ferma e si volta di nuovo. Mi fissa a distanza. - Hai semplicemente ragione. Hai dannatamente e fottutamente ragione. Spero che tu guarisca presto e spero di riuscirlo a fare anche io. -
E' uscito dall'ospedale senza dire più nulla, senza voltarsi un attimo a salutarmi. E' sparito dietro la porta scorrevole dai vetri leggermente oscurati.

L'infermiera Anna è stata tanto gentile da cercare un vassoio per la cena che ho saltato essendo arrivata in ritardo. La Dottoressa 'cara' Collins non è passata oggi a controllarmi, ma Anna mi ha fatto il quarto grado sulla giornata. Dolce per com'è, non potevo risponderle male. Le ho detto che ho avuto dei ricordi ma non mi sono sentita male come ieri e che tornando qui ho chiuso un vecchio conto in sospeso. Mi ha chiesto di Sabina e le ho spiegato perchè volevo rivederla. A quel punto le ho chiesto io qualcosa. Volevo sapere perché Sabina, o S come ormai mi viene quasi naturale chiamarla, non è più stata di turno qui. Mi ha gentilmente spiegato che la Collins l'ha vietato dopo aver saputo che ci eravamo conosciute nel periodo che io non ricordavo. Per prudenza, per evitare che una parola di troppo potesse sconvolgere il mio equilibrio. Sapesse la Collins quante cose sono successe che il mio equilibrio l'hanno direttamente mandato a fare un giro tra le prostitute resterebbe sconvolta! 
Dopo avermi dato le medicine mi ha lasciato da sola. Ho avuto un po' di difficoltà a prendere sonno. Ripensavo a Samir, a tutto il rancore che gli avevo letto dentro nonostante lui facesse finta che tutto fosse al suo posto. Forse non sarebbe mai successo se non avessi parlato di quella sera come ci eravamo tacitamente promessi. Forse è meglio così. 

E' venuta a prendermi Cristina stamattina. Mi ha portato a casa ed è scappata a lezione. Ho passato la mattina con mamma, come non facevamo da tanto tempo, troppo forse. Mi ha chiesto come mai ieri mi ha accompagnato Samir. Le ho spiegato che avevo bisogno di chiarire definitivamente la situazione, lei ha capito quale. Quando ha saputo che abbiamo chiuso il cerchio mi è quasi sembrata sollevata. Non ho chiesto cosa la preoccupasse.
Dopo pranzo ho chiamato Steve. Gli ho detto che ero fuori per il pomeriggio e mi sarebbe piaciuto incontrarlo. Dopotutto è l'unico uomo del triangolo che si è creato negli scorsi mesi a non aver ancora passato del tempo con me, se non quei pochi attimi rubati in ospedale. Con la voce di un bambino in un giorno di vacanza dalla scuola ha accettato di portarmi al mare un paio di ore. 
Certo che se ci ripenso... in fondo mi viene da ridere. La mia vita super piatta, al limite con lo squallidume più profondo, decide di darsi una svolta. Ed io? Dimentico tutto per un incidente! Sì, una risata ci sta tutta. 
Steve per poco non piangeva mentre mi stringeva quando è venuto a prelevarmi a casa. Ho visto di sfuggita mia madre che lo guardava sorridendo. Penso che le piaccia, anche se non so quanto si conoscano. In effetti non so neanche dopo siamo arrivati io e lui. Magari ci siamo sposati e nessuno mi ha detto niente per la solita storia dei cassetti. Certo, Bree! Hai ragione. Non stai esagerando.
Ora siamo in acqua. Nuotiamo tranquilli. Parliamo come se fossimo amici da sempre. Scherziamo come se fossimo ancora undicenni. E' la prima volta da quando mi sono ripresa che accanto a un ragazzo sto così bene. Sia con Evan che con Samir è presto finita male la situazione. Con lui, no. Sembra diverso. E quegli occhi verdi! Cavolo, sembrano trafiggerti l'anima. Ha la pelle leggermente abbronzata e le guance un po' arrossate li rendono ancora più profondi.
Siamo inginocchiati, l'acqua ci copre fin sopra il naso. Fissa i suoi occhi nei miei. Mi manca il fiato. E non centra niente il non avere le branchie. E' lui, sono i suoi occhi, è il mio cuore che diventa un tamburo, è il mio stomaco che fa le capriole. E' il suo profumo che non riesce a confondersi neanche impregnandosi di salsedine. 
Il primo a cedere è lui. Si alza dall'acqua tirando un respiro profondo. Lo seguo.
- Sei una femminuccia! - Lo derido, ma solo per deviare la sua attenzione dalla mia pelle che ha iniziato a fremere. 
Mi guarda malizioso. - Devo dimostrarti che sono un maschietto? -
- E come faresti? - Divento maliziosa anche io.
Dura poco. Scatta in avanti ridendo. Gli sfuggo per poco. Riesce ad afferrarmi solo un polso. Mi trascina verso di sè ed è lotta. Lui cerca di buttarmi sott'acqua, io di sfuggirgli. Riesco a liberarmi dalla presa al polso e corro verso la spiaggia. Lui mi segue. In acqua sono più agile io, ma arrivati sulla terraferma ci sta poco a raggiungermi. Mi balza addosso facendomi cadere, senza farmi male, per fortuna. Ridiamo come due pazzi mentre rotoliamo tra la ghiaietta cercando di divincolarci l'uno dall'altro. 
Improvvisamente il gioco finisce. E' riuscito ad atterrarmi ed è sopra di me tenendomi fermi i polsi ancorati al terreno. Fissa di nuovo i suoi occhi nei miei. Il suo odore mi riempie le narici. Si avvicina a me, sempre di più. Le labbra morbide leggermene dischiuse. Chiude gli occhi. Il suo profumo diventa sempre più forte. E' questo ad accendere l'interruttore del fulmine. 
Martello pneumatico d'improvviso nella mia testa. Urlo per un attimo. Steve, quasi terrorizzato, lascia la presa dai miei polsi e si alza. Mi raggomitolo dicendogli che va tutto bene, di non spaventarsi, che sta arrivando un ricordo ed è tutto normale. Deve solo aspettare che passi. Spero di averlo saputo dire in modo comprensibile, perchè ormai sono nel buio che precede il fulmine.

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Capitolo 27
*** 27 ***


Non uno, ma ben due messaggi in realtà. Arrivati in ritardo per i soliti scherzetti del mio cellulare. Nel primo mi chiedeva di uscire, nel secondo disdiceva tutto ancora prima della mia risposta perché doveva lavorare al locale. Mi sento ancora un po' pezzo di merda per la storia di Samir, ma vorrei vederlo. Steve, intendo. Vorrei vedere se davvero il mio cuore è impazzito per lui fino al punto in cui credo.
Lo chiamo. Il suo cellulare squilla un bel po' prima che risponda.
- Buonasera miss non sparisco e invece si. -
- Ma se ci siamo sentiti stanotte! -
- E non hai risposto al mio invito. Per me questo è sparire senza volerlo dire. -
- Steve il tuo messaggio mi è arrivato praticamente adesso. Lo sai com'è ogni tanto il mio cellulare. E' già capitato, no? -
- Scuse o meno, ormai l'invito è ritirato. - Vuole fare l'offeso, ma so che non lo è. Una vena dolce nella sua voce tradisce l'indifferenza che vuole mostrare. - Il lavoro chiama e io ho l'abitudine di rispondere. -
- E dai, Steve. Quanto la tirerai alle lunghe con questa storia? -
- Finchè miss Bree non si deciderà ad accettare i miei inviti. -
Rifletto un attimo. Potrei chiedere a Gigì se...
- Ohi, ci sei? -
- Sì, scusa. Stavo pensando ad una cosa. Ho un'idea per farti smettere sta storia. -
- Sentiamo. -
- Venirti a trovare sul lavoro lo potresti considerare accettare il tuo invito a vederci? -
- Intendi venire al locale? -
- Posso proporlo. Alle ragazze piace e io potrei fare un'altra eccezione al mio 'non andare in disco'. -
- Ma nelle tue condizioni non penso sia il caso. -
- Quali condizioni? -
- Parlo del bambino. - Fitta al cuore. Avevo dimenticato che lui ancora non sa nulla di ciò che è successo. - Musica alta, alcool, confusione, fumo. Non penso gli faccia bene. -
Una lacrima silenziosa mi riga il volto. Non lo ascolto più mentre lui continua a parlare producendo alternative alla mia proposta. Ripenso a quello che ho passato stringendo forte la mano sulla pancia, graffiandomi.
- Steve. - Lo interrompo. - Ci vediamo stasera al locale. Tu devi lavorare e io devo aggiornarti. -
- Aggiornarmi? E' successo qualcosa? -
Non rispondo e attacco. Non sarei riuscita a dire altro. Il dolore nascosto è tornato in superficie più feroce di prima.

Mi sono calmata stando per venti minuti a piangere sotto l'acqua bollente della doccia. Uscita di lì ho chiamato Gigì e Cristina. Entrambe hanno acconsentito ad andare al locale dove lavora Steve.
Ceniamo a casa mia con un po' di pasta improvvisata. Gigì si infila qualcosa scelta dal mio guardaroba e insiste, ovviamente, per scegliere cosa dovrò mettere io. Stavolta ha optato per un vestitino nero allacciato al collo che mi scende morbido sui fianchi e si ferma troppo in alto per i miei gusti. Insisto per infilarci sotto un paio di pantaloncini. Non voglio rischiare di restare nuda al primo passo. Decoltè rigorosamente nere e sono pronta. Mi convince a caricare un po' col trucco.
- Con due occhioni come i tuoi, sarebbe un peccato non metterli in evidenza! - Mi ha ripetuto finchè non sono uscita dal bagno con un elegante smoky nero sugli occhi e le labbra colorate di un leggero rosso fragola. - Strafiga! - Ha commentato. E solo allora abbiamo potuto lasciare la casa.
Arriviamo al lungomare parecchio in anticipo e ci godiamo una bella passeggiata tranquilla. Verrebbe quasi voglia di non rovinare la serata rischiando qualche disastro in discoteca, ma io devo vedere Steve. Voglio, più che devo.
Condiamo la nostra conversazione con un bel paio di drink, ma senza esagerare. Voglio essere lucida per poter parlare con lui. Arrivato il momento di entrare, il buttafuori ci fa passare guardandoci quasi preoccupato di vedere tre ragazze non accompagnate. Gigì non mi da neanche il tempo di dirle che vorrei passare al bancone da Steve che è già in pista. Cristina, invece, viene con me.
Al bancone, però, non c'è Steve. Cristina chiama il barista biondo e gli fa cenno di avvicinarsi.
- Cosa vi porto belle signore? -
Cristina mi guarda e legge nel mio pensiero. - Due birre, grazie. Heineken, giusto? - Annuisco. - Giusto. -
Ci porge le birre fredde dopo averle aperte. Mando giù un sorso della mia. Il biondo è ancora appoggiato al bancone vicino a noi a guardarci.
- Dov'è Steve? - gli chiedo. - Dovrebbe esserci lui, qui. -
- Invece ci sono io. Delusa? -
Non gli rispondo neanche e torno alla mia birra. La scolo tutta e la poso sul bancone.
- Prendi tutto quello che trovi che abbia una sostanziale presenza di alcool, buttalo in un bicchiere e portamelo. - Dico al biondino.
- Qualcuno si vuole ubriacare perché non ha trovato Steve? -
- Prendi per il culo? -
- Non mi permetterei mai di farlo con un bocciolo come te. A meno che non sia tu a chiederlo, certo. -
Cancellerei volentieri il sorrisetto che gli si è stampato in viso a forza di pugni.
- Se entro tre secondi non smuovi quel culo moscio e non torni a fare il tuo lavoro invece di importunare le ragazze, giuro che avrai bisogno della cannuccia per mangiare perchè ti faccio ingoiare tutti i denti. - Ecco, chiunque abbia detto queste parole mi ha letto nel pensiero.
- Oh, oh! Il grande capo è arrivato con le palle girate oggi. -
Il biondino si volta e solo adesso sposto lo sguardo a cercare chi ha parlato. Non è dietro il bancone, ma non aspetta di andarci per cazziare il biondino. Sorrido incrociando il suo sguardo. Si avvicina a me.
- Dovrei farglieli ingoiare lo stesso per quello che ti ha detto. - Mi accarezza la guancia. - Ciao Bree. -
- Pensavo non ci fossi stasera. -
- Scusa, un po' di ritardo. Mi dispiace di averti lasciato nelle grinfie di quel depravato. - Ride, ma i suoi occhi tradiscono uno spesso velo di gelosia reale.
- E' Dav o Joshua? -
- Joshua e sa essere anche peggio di così, perciò non credo che te lo presenterò. -
Rido anche io. - Lei è Cristina, la ricordi? -
- Ci siamo intravisti. -
Continuiamo ancora per poco a parlare, poi mi lascia per mettersi a lavoro. Gli prometto di passare spesso a scambiare due chiacchiere, e lui mi dice che quando ci sarà poca confusione al bancone verrà a trovarmi in pista.
Raggiungo Gigì mentre Cristina si cerca uno spazio libero tra i divanetti a bordo pista. Tracanna il Marbella che le ho portato come fosse acqua liscia. E' estremamente su di giri, complice anche un po' di ganja che gira silenziosamente tra i ragazzi della pista. Mi metto a ballare con lei e, nonostante io non abbia toccato fumo da anni e non sia ancora neanche brilla, raggiungo i suoi livelli di esaltazione. Mi sento libera, senza freni e ho voglia di spaccare il mondo.
Torno da Steve con un po' di fiatone e sudata da far schifo.
- Ti stai dando alla pazza gioia, eh! - Sembra più un rimprovero che una frase per iniziare una coversazione.
Al bancone ci sono poche persone, la gente è quasi tutta in pista o a cercare di accoppiarsi tra i divanetti.
- Mi serve. Non ho passato un bel periodo. -
- Non dovresti. Non avrei mai pensato di dirtelo ma sei un'incosciente. A tuo figlio non ci pensi? -
Gelo. Silenzio. Fitta al cuore. Abbasso gli occhi cercando il coraggio per parlare e la forza per spingere indietro le lacrime che cercano sempre di scappare al minimo accenno di dolore.
- Non ti offendere se te lo dico, eh! Io lo faccio solo per il tuo bene. - Continua a rincarare la dose. Non sapendolo mi ha conficcato un coltello in mezzo al cuore e sta passando il tempo a rigirarcelo.
- Steve possiamo parlare dieci minuti da soli, lontani da qui? - Alzo gli occhi, ormai lucidi, da terra per guardarlo. - Per favore. -
Tace per un secondo. - Chiedo a Joshua di coprirmi. -

Siamo fuori dal locale. Non ci hanno messo nessun timbro sulla mano perchè Steve mi ha portato all'uscita sul retro, quella del personale. Ci siamo seduti sul marciapiede e tra un singhiozzo e una lacrima respinta indietro ho spiegato cosa è successo anche a lui. Inizialmente si è mortificato e scusato centinaia di volte per quello che mi aveva detto, poi è prevalso in lui un altro sentimento. La rabbia. Ha tirato un pugno al muro del locale, immaginando probabilmente che fosse la faccia di Evan. Ho iniziato a tremare appena l'ha fatto. Se ne è accorto ed è subito corso ad abbracciarmi.
- Bree, non avere paura. Non ti farei mai del male. -
- Lo so. Non lo faccio apposta. - Anche la voce trema. Come se ogni singolo muscolo del mio corpo sia spinto a contrarsi in continuazione e involontariamente.
- Scusa se ho reagito così, ma davvero non so che farei a quel bastardo se lo avessi tra le mani. - Continua ad abbracciarmi e ad accarezzarmi i capelli.
- Ora passa. -
- Piccola ci sono qua io. Sei al sicuro. - Mi bacia la fronte.

Dopo un po' di tempo passato tra le sue braccia, in silenzio, a farmi accarezzare, sono riuscita a rilassarmi e siamo rientrati. Sono rimasta con lui al bancone fino ad adesso, quando Gigì e Cristina sono venute a cercarmi.
- Dove cazzo sei stata? Mi hai fatto prendere un colpo. - La mia Gigì! Dolce e delicata come al solito. Non riesco a non ridere. - Non c'è niente da ridere signorina! -
- Siamo stati a parlare, Gigì. Non è successo niente. -
Mi si butta al collo e inizia a baciarmi tutta la faccia.
- Gigì per caso hai fumato ancora? -
- No, mamma. -
- Hai bevuto senza di me? -
- No, giuro. -
Cristina, alle sue spalle, sorride annuendo e facendomi capire a gesti che si è totalmente fottuta a furia di cocktail.
- Torniamo in pista, dai! Devo farti conoscere delle personcine tanto carine. - Mi afferra per il polso e, traballando un po', mi tira verso la pista. Mentre mi trascina faccio segno a Steve che lo raggiungerò di nuovo dopo e lui mi grida un 'divertiti' che si mischia alla musica e al rumore della folla.
Arrivate in pista, Gigì butta le braccia attorno al mio collo e inizia a ballare. La seguo, scatenandomi di nuovo pian piano. Adesso oltre a sentirmi libera, mi sento anche leggera. Leggera da un peso che ho buttato via e spero di non dover riprendere più sulle spalle. So che non sarà così per sempre, ma almeno per questa serata non voglio più pensarci.
Un gruppetto di ragazzi si avvicina e inizia a ballare intorno a noi. Qualche mano cerca di toccarci ma un paio di gomitate al ventre del proprietario la riportano al suo posto. Gigì mi passa un bicchiere con mezzo cocktail. Non l'ha preso prima al bar. Non so quando l'abbia preso. Lo mando giù.
Continuo a ballare, ma presto inizio a sentirmi strana. Sento il mio corpo che inizia a non rispondere bene ai comandi. Le luci diventano più forti e iniziano a darmi fastidio. La musica sembra quasi ovattata. Sento qualcuno afferrarmi in vita, vorrei voltarmi a vedere chi è, ma non ne ho la forza.

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Capitolo 28
*** 28 ***


Mi stropiccio gli occhi e scosto il lenzuolo bianco che mi ricade sul volto. Il primo pensiero? 'Oddio no, è successo ancora'. Ma stavolta è diverso. Non ricordo nulla se non voci confuse e luci accecanti. Nel letto insieme a me non c'è Steve, ma Gigì e siamo entrambe vestite di tutto punto. Come siamo arrivate a casa? Cosa è successo? Cristina dov'è? Troppe domande in una volta sola. Vado in bagno e vomito anche l'anima. Mi sento come se avessi preso dieci sbronze in una sera. Mi trascino fino alla cucina, da dove sento provenire dei lievi rumori. Come se qualcuno stesse facendo piano per non svegliarci.
Ci trovo Steve, intento a preparare il caffè. Ha il labbro graffiato e un livido sotto l'occhio destro.
- La storia si ripete, eh! -
- Shhhh! - Mi zittisce e indica il divano. C'è Joshua raggomitolato lì che dorme.
Mi avvicino a lui. - Che ci fate qui? - Gli chiedo sussurrando.
Spegne il fuoco sotto la moka e mi fa cenno di seguirlo. Usciamo di casa e ci sediamo lì fuori. Black attraversa la strada e miagolando si tuffa tra le mie gambe.
- Sei tornato, eh? -
- Ti era scappato? -
- E' un randagio. - Inizio ad accarezzarlo. - Vuoi di nuovo da mangiare, eh! - Mi risponde con un miagolio e inizia a farmi le fusa strofinandosi contro la mia mano. - Vado subito a prenderti qualcosa, piccolino. - Mi rivolgo a Steve. - Lo tieni un attimo? -
- Veramente io... -
- Ti schifi, ho capito. - Mi alzo prendendo Black in braccio. - Vieni Black, ti porto con me. Abbiamo ospiti schizzinosi. - Faccio una smorfia verso Steve ed entro in casa.
Sotto il lavandino metto un piatto che colmo d'acqua, uno pieno di latte e uno con dei croccantini che ho comprato sperando che Black tornasse. Ci si fionda. Lo accarezzo un'ultima volta e lo lascio lì a mangiare. Vado in bagno a disinfettarmi le mani e torno fuori da Steve.
- Il gatto è sistemato. Ora parliamo di quello che è successo ieri, di cosa hai fatto all'occhio e di perchè sia tu che Joshua siete qui. -
- E' una storia un po' complicata. -
- Sono in diritto di sapere cosa mi è successo, no? Non ho bevuto al punto di crollare in un modo simile. La cosa non mi piace per niente. -
- Dopo che te l'avrò raccontata ti piacerà ancora meno. -
- Motivo in più per dirmi tutto. -

Poi quando dico che non mi piace l'ambiente delle discoteche hanno il coraggio di prendermi per pazza! Da oggi il primo che mi dice che certe cose succedono solo nei film gli spacco le gengive.
Partiamo dall'inizio. Il bicchiere da cui beveva Gigì gli era stato offerto da uno dei cinque ragazzi che ci avevano quasi accerchiato ballando. Nella sua ingenuità, perchè sì, lei è ingenua quanto una bambina di cinque anni a volte, l'ha accettato e ne ha bevuto quasi un quarto. Il resto l'ho tracannato io. Io non ho la scusa di essere ingenua, sono semplicemente una testa di cazzo. Ci siamo sentite entrambe male perché sti gran signori non s'è capito bene cosa ci avessero messo dentro per stordirci.
Steve si è accorto di movimenti strani e quando ha visto due di loro portarci quasi di peso verso la stanza privata ha lasciato il bancone e li ha seguiti senza farsi notare. Si è portato dietro anche Joshua perchè ha capito subito che la cosa non era messa per niente bene.
Quando sono arrivati nella stanza hanno trovato me e Gigì semi incoscienti nelle mani di quei ragazzi. Due di loro ci sorreggevano in piedi leccandoci il collo. Altri due avevano iniziato a spogliarci, toccando un po' da per tutto. Il quinto aveva il cellulare in mano e riprendeva la scena. Bastardi schifosi.
Steve con un pugno ha rotto il naso a quello con cellulare e Joshua si è fiondato sugli altri quattro per farci lasciare. I due che ci sostenevano ci hanno fatto cadere per terra e insieme si sono fiondati su Joshua, mentre gli altri si dirigevano di corsa verso la porta. Il tizio con il naso rotto era a terra rantolante. Io e Gigì eravamo svenute. Steve avrebbe voluto inseguire quei due, ma nella confusione si sarebbero persi e avrebbe inutilmente lasciato Joshua da solo a farsi pestare da due fuori di cervello. E' tornato dentro la stanza e si è introdotto nella colluttazione. Due contro due, ad armi pari. I due bastardi hanno capito che Steve e Joshua non avrebbero ceduto facilmente e hanno coraggiosamente seguito l'esempio dei loro amici fuori dalla porta.
Steve è andato a chiamare Cristina che non si era accorta di niente e ci stava cercando in pista. Joshua è rimasto con noi, tenendo d'occhio il tizio che ancora si lamentava per il naso rotto. Quando Cristina è, ovviamente, scoppiata a piangere, i ragazzi hanno capito che era il momento di portarci a casa tutte. Hanno informato il capo della situazione e ci hanno trasportato a casa mia, l'unica in cui si poteva arrivare in quelle condizioni senza dovere dare spiegazioni a genitori proccupati o a coinquiline incazzose. Non volevano farci stare da sole quindi sono rimasti anche loro. Joshua sul divano, Steve per terra. In camera mia dovrebbe esserci ancora Cristina, mentre io e Gigì siamo state trasportate insieme inel lettone di mamma.

- Steve, cosa posso dirti? Solo grazie, anche se è poco. -
- Mi pare di averti già detto che con me sei al sicuro. - Mi sorride e riesco a stento a trattenermi dal fiondarmi su quelle labbra morbide.
- Sei stato gentile a preoccuparti per me, per noi. -
- Ma scherzi? Potevo lasciarvi nelle mani di quelli? -
- Quindi, adesso, sei il mio eroe. Giusto? -
- Dipende da cosa si merita un eroe come ricompensa! - Mi accarezza la gamba.
- Se vuoi, come ricompensa, ti faccio nero anche l'altro occhio. -
- Oh, no grazie! - Si alza di scatto mentre io inizio già a ridere. - Mi è bastata una volta con i piselli congelati sul naso per colpa tua! Ci rinuncio volentieri. -
Continuo a ridere mentre mi aiuta ad alzarmi.
Rientriamo in casa silenziosamente e andiamo in cucina. Joshua si è svegliato e sta coccolando Black che si è acciambellato vicino a lui.
- Carino il tuo gatto. - Anche lui ha il labbro spaccato. Non sembra proprio il barista che ci provava pervetitamente ieri sera.
- E' un randagio. -
- Oh cazzo! - Si alza lanciando Black in aria. Terrorizzato il gatto inizia a correre per la cucina saltando su tutti i mobili.
- Calmo Black. - Gli intimo, mentre cerco di afferrarlo. Per poco non mi graffia in faccia quando ci riesco. Gli blocco le zampette e lo accarezzo portandolo in soggiorno. Ha il cuore a mille. Apro la porta e lo lascio uscire. Lui scende di corsa, poi si ferma e si volta a guardarmi. Un 'miao' che sembra quasi un 'grazie' e si allontana.
Torno in cucina e trovo Joshua che si lava freneticamente sotto il lavandino insaponandosi con il detersivo per i piatti.
- E' pazzo? - chiedo a Steve.
- No. E' solo un po' ipocondriaco a volte. -
Rido. - Se vuoi ho un po' di acido in garage. -
Mi guarda serio. - Spiritosa. - Smette di strofinarsi compulsivamente sotto l'acqua e si avvicina. Mi porge la mano ancora gocciolante. - Sono Joshua. -
- Bree. - Gli afferro la mano. - E ora asciugati le mani che mi stai gocciolando sul pavimento! -
Se le porta sulla maglietta.
- Ipocondriaco con gli animali forse. - Sussurro a Steve, che ride alla mia battuta annuendo.
- Cosa gli hai detto? -
- Nulla. -
- Mi prendete per il culo voi due? -
- Non mi rischierei mai. -
- E fai bene! Ieri ho salvato te e la tua amica quindi mi merito un po' di rispetto. -
- E' un po' esaltato. - mi sussurra Steve. Mi bacia la tempia. - Come ti senti? -
- Un po' intontita. - Lo abbraccio. - Ma al sicuro. -
Sento dei passi dal corridoio. E' Cristina che si è svegliata. Corre ad abbracciarmi staccandomi da Steve. - Oddio cucciola, stai bene! - Piange.
- Cri stai tranquilla. Sto bene. Grazie a loro sto bene. -
- Mi sento tanto in colpa. -
- Piccola, perchè? - Cerco di consolarla.
- Averi dovuto starvi vicino. -
- Piccola ma tu non avresti potuto fare niente. Saresti stata anche tu con noi. Non devi sentirti in colpa. - Le bacio i capelli. Smette di piangere e mi sorride.
- Per fortuna che c'erano loro. -
- Già. E' stata proprio una fortuna. - Sorrido guardando Steve.
Steve versa il caffè in cinque tazzine. Cristina apre lo sportello in alto ed esce dei biscotti.
- Vado a svegliare Gigì. -
Arrivata in camera trovo Gigì avvolta completamente nelle coperte. La scopro piano e inizio a chiamarla dolcemente accarezzandole la fronte. Apre gli occhi. Si siede piano sul letto. - Quanto abbiamo bevuto ieri? -
Le sorrido. - Stai male? -
- Mi sento i fuochi di artificio in testa. -
- Vieni a fare colazione. Ti spiego tutto dopo. -

Non posso ancora credere a quello che ci è successo ieri, nemmeno mentre lo racconto a Gigì. Ne parliamo a tavola, dopo avere fatto colazione mentre siamo ancora tutti insieme. Gigì è sconvolta e si colpevolizza per aver accettato quel bicchiere. In realtà è la stessa cosa che ho pensato io appena saputo tutto, ma non posso farle pesare una cosa del genere. Ha fatto uno sbaglio, chi non ne fa? Abbiamo avuto la fortuna di avere avuto qualcuno che è subito intervenuto e questo è l'importante. Due principi azzurri che fanno i baristi e che sono arrivati senza cavallo bianco, come ha sdrammatizzato più volte Joshua.
L'ho osservato molto stamattina e credo davvero che dentro di lui ci sia molto di più di quello che vuole mostrare. Non è solo un ragazzo con la fissa del sesso. Per questo quando ha proposto a Gigì di uscire ho pregato che lei accettasse. Lei, quasi leggendomi nel pensiero, non si è fatta ripetere l'invito due volte. A un patto, però. Che l'appuntamento fosse a quattro. A quel punto ho avuto la certezza che mi avesse letto nel pensiero.

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Capitolo 29
*** 29 ***


Apro gli occhi. La prima cosa che vedo è la schiena di Steve colpita dalla luce rossastra del tramonto. E' seduto a pochi passi da me e fissa l'orizzonte tirando, di tanto in tanto, un sassolino in acqua. Mi ha messo una tovaglia asciutta addosso per evitare che il calare della sera mi facesse tremare. Continuo a guardarlo in silenzio. Mi avvicino a lui cercando di non fargli sentire nulla. Assorto nei suoi pensieri per com'è credo che non mi sentirebbe comunque, ma meglio fare con cautela. Scelgo un bel sassolino piatto, non troppo grande. Perfetto per fare i salti. Mi alzo in piedi. Un passo in diagonale e sono ormai al suo fianco, ma lui continua a non accorgersene. Mi preparo come mi ha insegnato mio padre da bambina e tuff. Il sasso fa uno, due, tre saltelli sulla superficie leggermente increspata dalla corrente prima di affondare. Steve si volta istintivamente e solo adesso si accorge che gli sono accanto. 
- Così si fanno saltare i sassi. -
Si alza in piedi. Ha gli occhi lucidi e il sorriso che gli illumina il viso. - Piccola mia, stai bene. - Mi stringe forte come la volta che è sgattaiolato in ospedale. Mi ferma quasi il respiro, ma mi sta bene così. In realtà spero che quest'abbraccio duri il più al lungo possibile. Sento dentro un piccolo fuocherello accendersi, un caldo tepore avvolgermi. Una musica dolcissima arriva alle mie orecchie, ma è solo per me. Nessun altro può sentirla. Non credo di capire esattamente cosa succede. L'unica certezza che ho è che il suo corpo, le sue braccia, il suo odore, il suo viso mi tengono incatenata a lui e mi fanno sperare di non staccarmene mai.
Mi guarda negli occhi. Suppongo che i miei stiano scintillando dall'emozione. Almeno quanto lo fanno i suoi.
Poggia delicatamente le labbra sulle mie. E' un solo secondo. Come il bacio che ci scambiammo, ancora sconosciuti, quella sera al lungomare. Il tramonto, però, rende tutto più romantico, si sa. Sarà quella sensazione di conclusione, saranno quelle scene da film che ci propinano fin da piccoli. Secondo me sono quelle pennellate rosa ed arancioni nel cielo a far sembrare tutto diverso. La fioca luce rossastra che ne viene fuori tinge tutto di magico. E oggi fa il suo sporco lavoro più che bene. Le labbra di Steve mi hanno già lasciato, eppure il brivido che hanno innescato scorre ancora libero lungo la mia schiena. 
- Mi hai fatto prendere un colpo all'inizio. -
- Scusa. Dovevo avvertirti prima. -
- L'aveva già fatto tua madre. - Mia madre? L'ha avvertito mia madre? Evito di chiedere spiegazioni. - Ma viverlo è diverso. - 
- In realtà neanche lei l'ha mai vissuto. -
- Suppongo si sia basata su quello che le hai raccontato. -
- Io non so esattamente quando arrivano i fulmini, non posso prevedere cosa scatenerà il prossimo. -
- E stavolta? -
- Stavolta cosa? - 
- Cosa te l'ha scatenato. -
Sorrido un po' imbarazzata. - Il tuo odore. -
- Profumo vorrai dire. - Dice quasi offeso.
- No, no. Odore. -
- Stai dicendo che puzzo? -
Rido. - No, scemo. Dico solo che non è stato il profumo che porti, ma il tuo odore naturale. - Gli passo una mano sul petto. - Quello della tua pelle. - 
Arrossisce. - E.. cosa.. che hai ricordato? -
Faccio salire la mano, accarezzandolo. La porto dietro la nuca e inizio a giocare coi suoi capelli non troppo corti. - Quando mi hai salvato. -
- Ah, dici... quei cinque in discoteca? - Le parole gli escono di bocca quasi con difficoltà. 
- Già, già. - Mi alzo sulle punte e mi sporgo verso di lui. Gli bacio delicatamente la guancia, stranamente sbarbata. 
Restiamo per un po', imbambolati entrambi, a fissarci. Il sole è ormai scomparso quasi del tutto.
- E' ora di accompagnarmi in ospedale, Steve. -
- Devo proprio? - Un bambino che fa i capricci!
- Se non mi ci riporti, la Dottoressa Collins manderà l'esercito a prendermi. - 
Gli sorrido e gli stampo un altro bacio sulla guancia. Gli sfioro la mano e lui me la afferra delicatamente, sorridendomi.
Raccogliamo tutto e ci dirigiamo verso la macchina. 
- Puoi dirmi una cosa? -
- Sai che non posso dirti niente. -
- Forse questo potrai dirmelo. -
- Sentiamo. -
- Quei due sono stati a letto insieme? -
- Quei due chi? -
- Ma come chi? Joshua e Gigì! -
Mi guarda stupito per un attimo. Poi inizia a ridere. - Lo scoprirai. -

Sono passata da casa solo per un rapido saluto a mamma. Non sembrava tranquilla come quando sono andata via con lui. Che si sia preoccupata? Steve mi ha, poi, accompagnato in ospedale. Ho incontrato la Collins in corridoio.
- Bree, hai un'ottima cera! -
- Penso proprio di si. - Non riesco a togliermi quell'enorme sorriso dalla faccia. 
- Una bella giornata? -
- Assolutamente. -
- Problemi con i ricordi? -
- Non sono stata male. E' una cosa positiva, no? -
- Assolutamente. Come diresti tu. - Mi sorride. Ma dietro il suo sorriso precepisco un velo scuro. 
In realtà l'ho notato da quando l'ho incontrata. Non sembra la solita Dottoressa 'cara' Collins piena di allegria, dolcezze e buone notizie. Suppongo che sia solo per una giornata storta, anche se il mio ginocchio destro sembra pensare il contrario. Vuole avvertirmi di qualcosa. Non lo fa da quella sera in macchina, la sera dell'incidente. Lo ignoro volutamente. Saluto la Collins ed entro nella mia camera. 
Seduto sul letto c'è mio padre. 
- Che ci fai qui? Mi sembrava di averti detto di sparire fino a quando non sarei guarita del tutto. -
- Lo so, lo so. Volevo solo sapere se stai bene. -
- Tutta questa paternità in una sola volta non ti farà male? -
- Rischierò. - Si alza dal letto e viene ad abbracciarmi. Il nostro ultimo abbraccio risale a dieci anni fa almeno, prima che iniziassi la mia adolescenza, prima che iniziassero i problemi che tre anni fa hanno definitivamente distrutto la mia famiglia. Quando si stacca da me vedo che ha gli occhi lucidi. Per una figlia, un padre che piange è sempre un pugnale dritto al cuore. Anche se non è più un padre. Mi bacia la fronte e si avvia alla porta. 
- Papà. - Lo fermo prima che esca. - Grazie. -
Mi sorride. - Buonanotte BreeBree. - Va via, quasi scappando. Coprendosi il volto. 
Non riesco a capire cosa sia successo. Mia madre, la Collins e adesso mio padre. E ci si mette pure il ginocchio che non la smette di pulsare.
Di malavoglia butto giù la cena che trovo sul tavolo, continuando a pensare a cosa diavolo possa essere successo in così poco tempo. E soprattutto perchè oggi, a rovinare una giornata che altrimenti si sarebbe potuta considerare perfetta. Tutto questo pensare mi provoca un mal di testa epocale. La ciliegina sulla torta, no? Appena l'infermiera mi da le medicine e va via, arriva il martello pneumatico con cui ormai ho fatto amicizia e si aggiunge anche la nausea. Corro in bagno a vomitare quello che ho appena ingerito. Mi sento debole. Devo essermi stancata troppo oggi.
Mi infilo piano nel letto. Sento le gambe pesanti e un cerchio alla testa. Ho solo tanta voglia di dormire. 

Vengo svegliata da persone che parlano a voce molto alta in corridoio. Penso siano proprio dietro la mia porta. Uno dei due è molto arrabbiato, l'altro cerca di calmarlo educatamente. Quello arrabbiato sembra Steve.
La porta della mia stanza viene aperta bruscamente. Non mi ero sbagliata, è proprio Steve.
- Cos'è questa storia? -
- Quale storia? - Sono ancora insonnacchiata e il cerchio alla testa non è andato via. 
- Questa storia che non ti fanno uscire. -
- Cosa? -
- Non ne sai niente? -
L'infermiera entra in stanza. - Signore per favore, adesso deve uscire o sarò costretta a chiamare la vigilanza. - 
- Steve io mi sono appena svegliata. Non so nulla. -
Arriva la Collins. Quando la vede, Steve si blocca. Sembra un bambino beccato dalla mamma a combinare qualche marachella. Al primo suo invito ad uscire, chiede solo di potermi salutare. Mi stampa un bacio in guancia e sparisce fuori dalla porta. 
- Che significa che non mi fate uscire? -
- E' solo per oggi. -
- Voglio sapere perchè! - 
- Non vorrei allarmarti, Bree, ma dobbiamo farti altri controlli. -
- Controlli? Per cosa? -
- Gli ultimi esami non mi sono piaciuti. Ci sono dei valori che non salgono come dovrebbero. -
- Se non voleva farmi allarmare, non c'è riuscita. -
- Potrebbe non essere nulla, ma voglio fare alcuni accertamenti. - 
- Ma non aveva detto che andava tutto bene? -
- Andava, hai detto bene. Ma quelli di ieri e di oggi non mi sono piaciuti per niente. Quindi per oggi stai qui. Ti controlliamo per bene e se non è nulla domani potrai ricominciare ad uscire. -
- E se invece è qualcosa? -
- Se è qualcosa, beh... - Si blocca. Non vuole dirlo. - Non pensarci per adesso. -
- Non mi dica di non pensarci e risponda alla mia domanda. - Tono duro, ma ci vuole. Voglio delle risposte. Ho bisogno di risposte. Mi merito delle risposte. Ho diritto a delle risposte. - Per favore. - Aggiungo a denti stretti, solo per non completare in maleducazione il tutto. 
- Se è qualcosa, potremmo dover fare quello che speravo non fosse necessario. -
- Cosa? -
- Operare. -
- Operare? Cosa? Se lei stessa mi aveva detto che non ho nulla oltre al problema della memoria. -
- L'ho fatto è vero. Daccordo con tua madre abbiamo deciso di non dirti tutta la verità subito. Sperando che il problema migliorasse più in fretta avendo tu maggiore serenità. -
Serenità un cazzo, gli urlerei in faccia, ma non lo faccio.

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Capitolo 30
*** 30 ***


Mi stanno facendo qualsiasi tipo di analisi esistente, suppongo, data la quantità di sangue che mi hanno prelevato e i viaggi vari che mi hanno fatto fare. Sì, mi hanno costretto a viaggiare sulla sedia a rotelle trasportata dall'infermiera che ha cercato di fermare Steve. La Collins non mi ha spiegato nulla. E' scomparsa subito dopo avermi detto, praticamente, che da quando mi sono svegliata mi hanno riempito di puttanate su quello che è successo alla mia testa. Altro che fulmini e archivi chiusi a chiave. Altro che serenità. Da quando lei è uscita dalla stanza, io non ho più spiccicato parola. Mi sembra di essere tornata la bambina che metteva il broncio e minacciava col silenzio mamma e papà. Mamma e papà, sì. Complici anche loro della situazione in cui mi ritrovo. Incosapevole di cosa cavolo mi stia succedendo. Da mio padre me lo sarei anche aspettato. Ma da mamma, no. Ha provato a chiamarmi, ma non ho voluto risponderle. Mi hanno nascosto non so cosa e non mi hanno detto nulla. Avrebbero potuto almeno rimediare ieri. Invece non l'hanno fatto. E adesso mi ritrovo qui, chiusa nel mio silenzio, a farmi trasportare tra un esame e l'altro.
- Dobbiamo fare l'ultimo esame. - Non le rispondo. - Dobbiamo fare una TAC cranica. Ne hai mai fatta una? - Continua a parlare da sola, ma spero che non smetta. E' la prima a spiegarmi qualcosa, almeno. - Qui usiamo la TAC volumetrica quindi sarai introdotta in un tubo che ruoterà completamente intorno a te e i dottori avranno poi un modello in tre dimensioni della tua testolina. Durerà circa una mezz'oretta. Ti hanno già fatto tutti gli esami preventivi e ti hanno anche iniettato il liquido di contrasto. - 
Si zittisce. Non mi ha detto la cosa più importante. Quello che ho bisogno di sapere.
- Cosa cercate? - Mi vedo costretta a rompere il silenzio. 
- Si deve controllare lo sviluppo della tua situazione. - A rispondermi non è l'infermiera, ma la Collins. Era praticamente di fronte a me, ma non mi ero accorta della sua presenza. - Puoi andare, da qui la prendo io. -
L'infermiera ha annuito, mi ha salutato ed è andata via. 
La Collins si è posta alle mie spalle ed ha iniziato a spingere la sedia a rotelle in direzione dell'ascensore. Mentre scendevamo e percorrevamo i lunghi ed immensi corridoi che portavano a destinazione, mi ha spiegato finalmente tutto. O almeno spero. Non ho capito perfettamente tutto, ma il sunto l'ho afferrato bene eccome. Il mio cervello ha subito un'alterazione traumatica in seguito all'incidente. E' stata la causa della mia perdita di memoria. Inizialmente pensavano che spingendomi a ricordare, facendomi stare il più tranquilla possibile (secondo loro, ovviamente) e dandomi le giuste cure, tutto si sarebbe risolto. Ma adesso qualcosa non va. I miglioramenti forse sono solo fittizzi. Ecco perché è stato necessario rifare tutti gli esami. Se gli esami daranno esiti positivi, vorrà dire che i valori sballati che la Collins ha visto sono stati solo sporadici o forse dovuti a qualche errore nell'effettuazione delle analisi. Altrimenti... beh, altrimenti la situazione non è delle più rosee. L'alterazione in sé potrebbe anche non essere un enorme problema, ma il punto dov'è nata non è dei migliori. Potrebbe stimolare la nascita di un tumore ed aumenterebbe la sua crescita in maniera quasi spropositata. Diminuirebbe il suo decorso in maniera così drastica che le speranze di prenderlo in tempo e di riuscirlo a combattere sarebbero quasi nulle. 
Bella notizia, eh? Ho una bomba ad orologeria nella testa e se salta il filo sbagliato...boom! Ciao, ciao Bree. Quasi rimpiango di averlo saputo. Come riuscirò, adesso, a stare tranquilla?

Siamo arrivate a destinazione. Sono sdraiata sul lettino con la testa dentro il tubo radiogeno. Non riesco a smettere di piangere silenziosamente da quando ho realizzato in parole povere quello che la Collins mi ha spiegato tanto dottamente.
- Bree devi calmarti. - E' lei che mi parla attraverso il microfono. E' nella stanza a fianco e mi scruta attraverso il vetro insieme ad altri tre medici. - So che è difficile adesso, ma devi farlo. Devi essere rilassata e rimanere immobile. Ascoltami. Chiudi gli occhi. - Ubbidisco. - Pensa a una cosa bella. - La prima cosa che mi viene in mente è il viso di Steve. - Adesso concentrati su questa cosa bella. - Istintivamente sorrido. - Brava, Bree. Continua così. Adesso resta concentrata. Devi restare rilassata per mezz'oretta almeno quindi fa che questa cosa bella duri a lungo, ok? - Mi scappa una piccola risata. - Non ridere, Bree. -
- Abbiamo iniziato? -
- Per fortuna non ancora, altrimenti avremmo dovuto ricominciare. -
- Avrei una domanda da fare. -
- Una soltanto. -
- Sì, una. E se concentrandomi tanto su questa cosa bella saltasse fuori un ricordo? - Sento la Collins consultarsi coi medici che la accompagnano. - Io non li comando. Arrivano quando vogliono arrivare. - Mi rendo conto di dirlo quasi scusandomi.
- Lo so, Bree. Se arriva un ricordo penso che non influisca negativamente sull'esame. Potrebbe aiutarci a capire realmente cosa succede dentro la tua testa quando un pezzo di memoria torna in superficie. Direi, quasi, che sarebbe meglio se arrivasse! -
- Mi concentrerò, allora. - Sorrido. Chiudo gli occhi. Focalizzo di nuovo il viso di Steve.
- Bree. Iniziamo. -
Sento il rumore meccanico del tubo che ruota e sento la luce arrivarmi addoso, nonostante non abbia calore. Cerco di concentrarmi, di estraniarmi dal resto e di visualizzare solo Steve. Ripenso a tutto ciò che ricordo di lui, dalla prima sera che ci siamo incontrari alla disavventura in discoteca. Mi concentro. Voglio un ricordo. Lo voglio e ne ho bisogno. Lo devo avere e lo avrò. 
Immersa nella luce accecante, immobilizzata e cullata dal movimento trasversale del lettino, dopo non molto scivolo piano verso il nero del sonno. E fortunatamente questo mi indirizza dolcemente all'ambita meta. Così, senza mal di testa né martelli pneumatici, arriva il primo fulmine davvero sperato.

Sono passati due giorni da quella sera in discoteca. Gigì e Joshua si sono sentiti spesso mentre Steve non si fa vivo da un po'. Da parte mia, non ho avuto neanche il tempo per restarci male. La fine delle lezioni si avvicina e tra un mese inizierà il periodo degli esami perciò mi sono data un po' una mossa a recuperare quello che mi sono persa in questo periodo un po' burrascoso, se così si può definire. 
Gigì ha dormito qui stanotte e adesso siamo in cucina a fare colazione insieme. Lei mi sta parlando dell'unica cosa che sembra riesca a tenere viva la sua attenzione da due giorni a questa parte. Joshua, ovviamente. Mi dice di quanto è sexy e spesso spudorato, ma anche di quanto sa essere dolce. 
- Hai trovato un tuo sosia, allora! - Ridiamo insieme.
Siamo interrotte da una vibrazione insistente. 
- E' lui che ti chiama? - 
Gigì prende in mano il telefono. - Non è il mio a vibrare. -
Mi alzo e vado a prendere il mio cellulare, rigorosamente dimenticato sulla mensola accanto al frigo. Un numero che non conosco.
- Pronto. -
- Ciao Bree. - 
- Ma ciao! E' una vita che non ci sentiamo? Sei scomparso dalla circolazione. -
Gigì mi chiede, usando il labiale, se è Steve. Scuoto la testa facendo una smorfia per farle capire che si sbaglia di molto. 
- Un bel po' in effetti. Come stai? -
- Eh, non c'è male adesso. - Mi allontano dalla cucina e mi reco in soggiorno. 
- Senti, ti chiamo perché mi servirebbe un favore. -
- Dimmi tutto. - 
- Mi piacerebbe parlarne di persona. Con un buon caffè, magari. Che ne dici? Tra un'oretta al bar di Evan? -
- Veramente io... -
- Ti prego non dirmi di no! -
- Per il caffè e la chiacchierata va bene, solo che... -
- Sei impegnata? Facciamo dopo? Facciamo adesso? -
- No, no. E' che... -
- Non ci saranno problemi con Evan, vero? -
- Veramente un paio di problemi ci sarebbero. -
- No, ti prego. Ditemi che non avete litigato. -
- Sono successe un po' di cose, ma... dai, va bene. E' arrivato il momento di guardare avanti. Posso entrare nel suo bar per un buon caffè e per parlare con te. -
- Così mi piaci! -
- Ci vediamo lì tra un'ora? -
- Perfetto. -
Torno in cucina e trovo Gigì che, sorridendo, riattacca il telefono. 
- Mi ha appena chiamato Joshua. Mi ha chiesto di uscire insieme domenica sera. - Ha un sorriso a trecentosessanta denti stampato in volto. 
- Grande. - Cerco di nascondere un po' di amarezza. L'uscita non doveva essere a quattro? Forse è meglio così. Steve non si è più fatto sentire e Gigì probabilmente sarà più libera senza me tra i piedi. 
- Tu sei libera, vero? -
- Io? -
- Sì. Siamo io, Joshua, tu e Steve. Ricordi? -
Sorrido. - Ma dai, uscite da soli. Non vogliamo reggervi il moccolo io e Steve. -
- Si fa in quattro o non si fa. Punto. Così è deciso! Tu sei libera, no? -
- Guarderò l'agenda. - Ironia inutile. Gigì sa che avrei cancellato qualunque cosa per quest'uscita. Sperando almeno che a Steve faccia piacere quanto lo fa a me. 
Mi stampa un bacio sulla guancia. - Chi era al telefono? -
- Era Mario. -
- Mario? Non ricordo nessun Mario. - 
- Mario. Quello del gruppo. -
- Gruppo? Ah, dici la tua fissa da ballerina? -
- Non prendermi in giro. Lo sai che quando l'ho lasciato c'ho sofferto un casino. Mi piaceva un sacco quello che facevamo. -
- Lo so, lo so. Che voleva? -
- Chiedermi un favore. -
- Che favore? -
- Non me l'ha detto. Dobbiamo vederci tra un'ora al bar di Evan. -
- Da Evan? Sicura? -
- Tranquilla Gigì. Non posso evitarlo a vita. - Mi avvicino e l'abbraccio. - Vado a farmi la doccia se no arriverò tardi. Tu che devi fare? -
- Mi sa che farò un giro di compere per domenica sera. -
- Mancano ancora due giorni! -
- Così avrò più tempo per prepararmi! - Mi stampa un bacio in guancia. - Vado a mettermi i vestiti e scappo. -

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Capitolo 31
*** 31 ***


Sono arrivata all'appuntamento un po' in anticipo. Volevo essere sicura di riuscire a restare calma. Dopo tutto ci siamo incrociati solo una volta dopo la perdita del bambino e non so cosa potrebbe scattarmi dentro. Entro nel bar quasi in punta di piedi, cercandolo. I nostri sguardi si incorciano per un istante. Gli cadono dalle mani due tazzine vuote nel lavabo. Suo padre lo rimprovera, ma sembra non sentirlo. Si toglie il grembiule e va sul retro.
Mi avvicino al bancone. 
- Salve signor Nimei. -
- Oh Bree, ciao. - Sembra quasi più preoccupato del'ultima volta che ci siamo visti. - Stai bene? -
- Molto meglio, grazie. -
- Evan invece no. Bree io non riconosco più mio figlio. Ti prego dimmi qualcosa. -
Mi agito, sento fuoco scorrermi nelle vene. - Le ho già detto che lui glielo dirà. -
- Sappiamo entrambi che non lo farà. - Fissa i suoi occhi nei miei. - Bree, ti sto pregando. - Li vedo farsi lucidi. - Dimmi se è successo qualcosa. - 
Abbasso gli occhi. Se li chiudo posso ancora vedere Evan che mi strattona sulla scogliera e sentire i freni dell'auto che mi ha quasi investito. - Qualcosa è successa. Una cosa parecchio brutta. -
- Bree non farlo. - Evan è tornato dietro il bancone. Il fuoco nelle mie vene è stato sostituito da lastre di ghiaccio taglienti. - Devo farlo io. -
Il signor Nimei deve aver notato il mio cambiamento. - Se hai fatto qualcosa a Bree, giuro che ti strangolo con le mie mani. -
- Puoi iniziare, allora. - 
Il signor Nimei lo guarda interdetto mentre si avvicina a me. Cerca di accarezzare la mano che ho poggiato sul bancone. La ritraggo istintivamente. - Non merito alcun perdono Bree, ma voglio dirti comunque che il bene che ti ho voluto e che ti voglio è sempre stato reale. - Una lacrima gli riga la guancia destra. Si volta verso suo padre. - Papà, non è il caso di parlarne qui al bar. Stasera, a casa con la mamma, ti dirò tutto. - Torna sul retro, in silenzio.
Il signor Nimei sembra essersi imbambolato. - Ma cosa cazzo ha combinato? -
- Glielo dirà stasera. Dopo che avrà saputo si ricordi che io adesso sto bene. Evan non è un cattivo ragazzo, non voleva farlo. O almeno, lo spero. Solo che gelosia e rabbia spesso... - Mi si spezza la voce. Deglutisco il nulla. Ho la bocca completamente arida.
Il signor Nimei esce da dietro il bancone e mi raggiunge. Mi bacia la tempia. Riesco a stento a trattenere le lacrime che spingono prepotenti. - Piccola Bree. - Mi sorride teneramente. Stento un sorriso anche io. 
- Vedo che la tua passione per gli uomini maturi non è passata, eh Bree. - Mario è sulla soglia del bar. 
- Ciao Mario. - Gli sorrido, sul serio stavolta. - Lui è il padre di Evan. Dovresti ricordarlo. - Lo saluta educatamente. 
Stampo un bacio sulla guancia del signor Nimei e seguo Mario verso un tavolo. Non è cambiato molto da due anni a questa parte, quando ho dovuto abbandonare il gruppo. Alto, muscoloso, moro e simpatico all'inverosimile. Non fatico a ricordare perché, quando ho mosso i primi passi nella sua sala, lo adoravo. E poi ballare con lui era un'esperienza nuova e sconvolgente ogni volta. Col gruppo ballavamo hiphop, ma con me non si fermava lì. Preparavamo spesso uscite "di coppia" da aggiungere a quelle di gruppo per gli spettacoli. Mi ha insegnato le basi per praticamente qualsiasi cosa, dai passi a due di moderno a quelli caraibici. Un tuttofare della danza, come lo definivo io. 
- Allora, che favore devi chiedermi? -
- Più che un favore è un'offerta. -
- Che non si può rifiutare? - Ridacchio della mia citazione scontata.
- Quasi. Giungo subito al sodo poi ti spiego i dettagli. Vuoi tornare a ballare con me? -
- Cosa? - Resto un po' interdetta. Mi sarei aspettata di tutto come richiesta, ma questa mai. - Sono due anni che non muovo un passo. Lo sai che con l'università non ho abbastanza tempo. -
- La mia è una richiesta a breve termine Bree. Un amico ha convinto una signora abbastanza importante, diciamo così, a finanziare un mio progetto. -
- Stupendo, no? Cosa centro io? -
- Fammi continuare. Due giorni fa questa signora se ne è uscita con la storia che prima di confermare vuole vedere uno spettacolo del mio gruppo in un suo locale. -
- Ma è fantastico! -
- Non tanto se consideri che lo spettacolo lo vuole domenica. -
- Domenica? E te lo ha detto due giorni fa? Vuole uno spettacolo montato in quattro giorni? -
- E' da pazzi lo so, ma ho dovuto accettare o addio progetto. -
- Sì, Mario, ma io continuo a non capire cosa centra con me tutta sta storia. -
- Centra che mi servi, Bree. Devi essere su quel palco con me. Al gruppo manca una col talento che hai tu! Inoltre da quando sei andata via non ho trovato più nessuno che riuscisse nelle coreografie a due fuori dal nostro stile. Solo tu, Bree. Mi puoi salvare solo tu. -
- Mario ti rendi conto di cosa mi stai chiedendo? -
- Di salire di nuovo sul palco. Di drogarti di nuovo di quell'adrenalina che ti scorre nelle vene a mille mentre centinaia di persone guardano solo te. -
Lo guardo per un po' senza sapere cosa dire. Ha toccato le corde giuste. Sa che darei l'anima per tornare a ballare. - Mi stai chiedendo una cosa che non è possibile. Non puoi chiedermi di recuperare due anni in neanche due giorni. -
- Tu puoi. -
- Hai dimenticato le mie caviglie e le mie ginocchia? Facevano i capricci già quando ero allenata. E vogliamo parlare di cosa vorrebbe dire per me dover imparare un intero spettacolo in un giorno e mezzo? Tu sei fuori, Mario. Sei fuori completamente! -
- Io so che puoi farcela. So che sei l'unica che può farcela. - Mi prende le mani fra le sue. - Ti prego. Fallo per me. - 
Per un attimo nei suoi occhi vedo il signor Nimei, ma scrutandoli meglio riesco a rivedermi tra le sue braccia a danzare senza un filo di pensieri. 
- So che vuoi dirmi di si. -
Ho il cuore che sta già iniziando a battere a ritmo di beat. 
- Allora? -
- Allora... proviamoci. -
- Grande! - Si alza di scatto e solleva anche me dalla sedia. Mi tiene sospesa in aria con la facilità di un tempo. 
- Ho detto proviamoci! Se non funziona, non posso farci nulla. -
- Funzionerà. - 

Non ci credo ancora di essere tornata in questa sala. Il parquet è ancora lucido come la prima volta che ci ho camminato sopra. E gli specchi enormi dove guardavo il mio corpo compiere movimenti di cui mai lo avrei reputato capace, sono ancora lì. Mario mi presenta il gruppo. Nel periodo in cui ho l'ho abbandonato, molti hanno dovuto fare la mia stessa scelta. E l'anno scorso gli ultimi veterani hanno abbandonato la nave, perciò i ragazzi sono tutti nuovi, tre maschi e cinque femmine. Età variabile tra i sedici e i diciannove anni. I miei ventidue mi fanno sentire vecchia qui in mezzo, ma Mario mi fa buona compagnia con i suoi trenta. Una delle ragazze attrae la mia attenzione. Ha diciottanni e tanta voglia di esplodere che non riesce a trattenerla. E' mora, i capelli legati in due lunghe trecce che lasciano fuori solo la frangia che le ricopre la fronte. I pantaloni larghi a vita bassa non riescono a nascondere gambe un po' troppo grosse per una che vuole ballare, ma lei sembra fregarsene. Il seno prorompente, il culo rotondo, i buchi di venere al loro posto. Eppure non cerca mai di mettere in risalto la sua femminilità. Mario li fa ballare per mostrarmi cosa hanno rispolverato in questi giorni dal repertorio dell'anno. La fisso mentre muove i suoi passi. E' impossibile non farlo. Ha una grinta che eclisserebbe chiunque. E' brava, fottutamente brava. 
- Guardi Elèna, vero? -
- Non riesco a toglierle gli occhi di dosso. E' fenomenale. -
- Sai chi mi ricorda? -
- MaryJ? -
- Te, Bree. Sei tu quattro anni fa. - 
Si allontana e va verso lo stereo. Lo guardo riflettendo su ciò che ha detto. E' sempre stato esagerato nei complimenti, specialmente con me. Non credo di essere tutto sto gran talento imperdibile che dice lui. 
- Allora ragazzi. Bree si unirà a noi per lo spettacolo. Non posso pretendere da voi tre ore di spettacolo senza sosta in un buco di locale dove avremo a stento aria a sufficienza. E non posso pretendere da lei che impari tre ore di coreografie in un giorno e mezzo. - Si avvicina al mio orecchio. - Anche se secondo me ce la faresti. - Mi sussurra. Arrossisco mentre torna a parlare ai ragazzi. - Voi farete i pezzi che abbiamo ripassato in questi giorni. Oggi monteremo due coreografie in cui includeremo Bree. Domani voi proverete fino allo sfinimento. Io e Bree invece monteremo caraibico e moderno. Tutto chiaro? -
Mi gira la testa solo a pensarci.

Dopo sei ore di sala prove con Mario, chiunque tornerebbe a casa con le ossa rotte. Ed esattamente così sono tornata a casa. Credevo impossibile riuscire a fare tutte queste cose, ma Mario riesce sempre a stupirmi e a farmi stupire di me. Le coreografie di gruppo che ha montato non sono difficili ma sono di effetto. Giocano molto sugli scambi. L'ha fatto per non affaticarmi, ne sono sicura. E so anche che ha scelto le basi pensando a me: una è di Missy, l'altra è un sexyssimo reggaeton.
La prima e unica cosa che ho la forza di fare rientrata a casa è spogliarmi gettando i vestiti sudati all'inverosimile a fare tapezzeria nel bagno e infilarmi in doccia. Lì ripenso a quanto in fondo sono grata a Mario per avermi ricordato che nonostante le mille cose successe in questo periodo, nonostante mi senta un'altra persona, sono ancora quella di sempre.
Uscita dalla doccia mi dirigo in camera a passi lenti, gli unici che mi è possibile fare. Ancora quasi del tutto bagnata mi abbandono tra le lenzuola fresce, affondo la testa nel cuscino e mi addormento quasi istantaneamente lasciando che il cellulare vibri senza che io lo senta, come ha fatto per tutto il pomeriggio.

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Capitolo 32
*** 32 ***


La sveglia stamattina è stata un trauma più degli altri giorni. Ogni cellula del mio corpo sembra essere dolorante e sono sicura che potrei vendere acido lattico da quanto ne hanno prodotto i miei muscoli. Però mi sento stranamente viva. Prima di andare a far colazione, mi sono già infilata la tuta e ho legato i capelli in una coda altissima. Arrivata in cucina mi verso ed ingurgito in fretta un bicchiere di latte. Afferro due fette biscottate, ne infilo una in bocca e, tenendo l'altra in mano, vado in salotto. Mi ricavo spazio spostando una poltrona, come facevo ogni mattina nel periodo in cui mi allenavo col gruppo. Mi siedo per terra con le gambe aperte e inizio a stirarmi mentre finisco di mangiare.
Suona il campanello di casa. Mi alzo a fatica. I miei muscoli non reagiscono più come due anni fa! Guardo dalla finestra per vedere chi ha suonato. Apro la porta a Gigì, ma subito torno a prendere il mio posto per terra salutandola solo da lontano. La vedo entrare in modo goffo perché sovraccaricata da shop bag. Le getta per terra, richiude la porta dietro di se e toglie gli occhiali scuri che le coprono quasi tutto il viso. Sembra essersi accorta solo ora di quello che sto facendo.
- Che ci fai seduta lì? Ma soprattutto, come cazzo fai a tenerti le gambe in quel modo? -
- Buongiorno anche a te Gigì. Io sto bene, grazie. Mi fa piacere che stai bene anche tu. Quale buon vento ti porta qui? -
- Non si nota? - Indica le buste per terra.
- Regali per me? -
- No, scema. Sono passata per farti vedere quello che ho comprato ieri, così mi dai una mano a scegliere cosa mettermi domani. -
- Domani? - Un lampo mi riporta in mente il casino che ho combinato. - Oh cazzarola! -
- Che è successo? -
- Ho fatto un casino Gigì! - Mi alzo da terra. - Domani c'era l'appuntamento a quattro. -
- Domani c'è l'appuntamento, non c'era. -
- Si, c'è. Ma io ho preso un impegno per domani sera. -
- Cosa? - Si è già innervosita. Come darle torto?
- Ieri Mario mi ha chiesto di aiutarlo con il gruppo perché ha una serata importante. Una tizia vuole vedere un suo spettacolo prima di finanziargli un progetto. -
- Aspetta, aspetta! Cosa sentono le mie orecchie? Tu, mi dai buca, dai buca a Steve, perché uno che non si fa sentire da due anni ti chiede un favore? -
- Non è così Gigì, calmati. Me lo sono tolto di mente. E' stato uno sbaglio. -
- Ok, mi calmo. Mi calmo se tu chiami Mario in questo momento e gli dici di cercarsi un'altra ballerina. -
La guardo con lo sguardo triste. Sono in un bel guaio. - Gigì non posso farlo. Lo metterei nei guai. Ormai ho dato parola. -
- L'hai data anche a me. Valgo meno di lui? -
Mi fissa per molti secondi di agghiacciante silenzio. Non so cosa risponderle, ogni cosa mi sembra una banalità.
- Perfetto. Grazie. - Si volta. Prende le buste al volo e va fuori a passo spedito.
Le corro dietro. - Gigì fermati. Hai frainteso. -
Si ferma senza neanche voltarsi. - Ho capito benissimo, invece. - Adesso si volta a guardarmi. - Sei una stronza. - Riprende il suo cammino.
La guardo salire in macchina e andare via. Sono sconcertata da quello che è successo. Rientro in casa come se fossi un automa, non riesco a formulare un pensiero. Poi un pensiero arriva. Sì, io avrò fatto un errore a dimenticarmi dell'appuntamento, ma non è mica morto nessuno! Non c'era bisogno di prendersela in quel modo. Dopo tutto è il mio di appuntamento che crolla, è Steve che dovrebbe prenderla male. Lei può uscire comunque con Joshua, nessuno lo impedisce. Quanto sa essere viziata ed egocentrica, a volte! Qualsiasi decisione è presa per farle del bene o del male. Non possono esserci altri fattori. Solo lei.
Bene, adesso sono incazzata pure io. Meglio, mi serve grinta per affrontare la giornata. Vado in camera e prendo il mio borsone rosso con dentro un asciugamano, le scarpette per il caraibico, le fasce per i piedi per il moderno e una bottiglia d'acqua. Afferro il cellulare. Ci sono dieci chiamate perse di Steve fatte tra ieri pomeriggio e ieri sera. Mentre salgo in macchina mi chiama di nuovo. Metto l'auricolare e rispondo mentre avvio il motore e mi immetto in strada.
- Pronto. -
- Pronto Bree. Dov'eri finita ieri? Ti ho cercata tutto il giorno. -
Certo, dopo due giorni in cui sei scomparso completamente! In questo momento potrei non rispondere delle mie azioni, ma fortunatamente riesco a non dirlo. - Ho avuto una giornata impegnativa. -
- Per caso ti disturbo? - Devo essere stata un po' troppo fredda.
- Sto guidando, ma sono con l'auricolare, non preoccuparti. Cosa mi dovevi dire? - Non sono stata molto più coinvolta adesso, ma è più forte di me.
- Gigì ti ha già detto per domenica, no? Beh, volevo invitarti ufficialmente io. Non volevo lasciarla solo una cosa a quattro per fare uscire Gigì e Joshua. -
- Sì, lei me l'ha detto. Ed è una cosa molto carina che hai pensato, però... Vedì, c'è stato un imprevisto. Un amico mi ha chiesto un favore per domenica sera perciò io non ci sarò. -
- Ah. -
- Mi dispiace. Spero che si possa recuperare. -
- Fa nulla, Bree. Capisco. -
- Steve, io ci tengo davvero a farla questa uscita, solo non Domenica. -
- Daccordo. -
- Steve, ti prego. Non fare quella vocina. Stamattina ho già litigato con Gigì per lo stesso motivo. -
- Non preoccuparti Bree. Sarà per un'altra volta. Ti lascio guidare. Ciao, ciao. -
Non mi è sembrato convinto più di tanto. Ci mancava solo lui. Adesso il quadro è perfetto.

Oggi l'allenamento è stato più pesante di ieri. Tutto il giorno in sala, con solo una pausa per pranzo. Pagato da Mario, ovviamente. Le coreografie sono favolose. Credo che abbia superato se stesso stavolta. La finanziatrice non potrà che acconsentire definitivamente. Ce la possiamo fare, ce la posso fare. Mi sento stranamente pronta a spaccare il mondo. Sono sotto la doccia, riprovo mentalmente tutto. Esco e mi asciugo tamponandomi con l'asciugamano. Infilo il pigiama e, seduta sul letto, mi massaggio i quatricipiti e i polpacci. Penso a Gigì e alla litigata di stamattina. Non mi piace essere arrabbiata con lei, tanto meno quando anche lei è arrabbiata con me. Ma non riuscirei a farle capire che ha frainteso tutto neanche arrivando fino a casa sua strisciando in ginocchio. Il brutto è che non so darle torto fino in fondo. Ho la mia buona dose di colpe che pesano sulla schiena. E poi, non ha forse ragione a darmi della stronza? Non lo sono stata?
Appoggio la testa sul cuscino e prendo Teddina tra le mani. L'ho tenuta sempre accanto a me da quando l'ho portata a casa. La bacio e la stringo a me, come facevo da piccola con Fluffy, il mio enorme coniglio di pezza blu. Un corposo velo di tristezza mi accompagna stasera tra le braccia di Morfeo.

Una domenica mattina iniziata con una corsa per svegliare i muscoli e scioglierli un po', seguita da una buona dose di stretching e una colazione abbondante. Le prove generali sono andate piuttosto bene, anche se stasera dovremo fare di meglio. Principalmente io avevo la testa per aria. Pensavo a Gigì e a Steve e a quello che poteva succedere stasera. Ma proprio io non posso permetterlo, ancora meno degli altri.
Dopo un pranzo veloce siamo stati a vedere il locale dove ci esibiremo per ambientarci un po' e provare le posizioni. Il palco è molto più piccolo di quello che ci aspettavamo e abbiamo dovuto apportare delle modifiche quasi sostanziali alle nostre coreografie, soprattutto al passo a due che dovremo fare io e Mario. La zona del retro palco non è chissà che splendore, ma mi sono cambiata in luoghi peggiori.
- Allora Bree. Ti piace? -
- Ho visto di peggio. -
- Oh, anche io. Ti ricordi quella volta che non ci volevano dare gli spogliatoi? -
- Come dimenticarselo! Alla fine ci hanno rifilato uno stanzino un metro per un metro e noi eravamo quindici! -
Ridiamo dei nostri ricordi per un po' ed infine mi porta i vestiti di scena per stasera.
- Per le coreografie con il gruppo mi va benissimo tuta e top, come sempre. Per il passo a due ti ho portato questo, dovrebbe entrarti se non ricordo male le tue misure. -
- Mario, ma è stupendo! - E' di un bianco candido, quasi angelico. Le maniche aderenti arrivano al polso e si legano alla mano con un anello al pollice. La scollatura è inesistente sul petto, ma scende sulla schiena lasciandola quasi del tutto scoperta, tranne per la fascia che serve a trattenere il seno. Il tutto termina giù alle gambe, formando una coulotte.
- E questo per il caraibico. -
- Bellissimo anche questo. - Abito rosso, estremamente coperto di lustrini. Legato a collarino intorno al collo, ma con un'ampia scollatura a boccale. Schiena nuda e gonnellino frangiato.
- Spero di non aver sbagliato taglia. -
- Ed io spero di non rovinarli con la mia femminilità inesistente. -
- Cosa hai detto? - Prima che io possa accorgermene mi ha afferrato la mano, spinto a fare due pirouette e tirata a sè. Porta il suo braccio a sostegno della mia schiena e mi fa scendere in sensualissimo casquet a risalita lenta. - E tu saresti quella con la femminilità inesistente, eh? -
Arrossisco. - Già. -
- Bree. Ascoltami. - Si avvicina pericolosamente a me. Cerco di indietreggiare ma lui ancora mi tiene stretta a sè. Si avvicina al mio orecchio sospirando. - Fanculizzati! - Mi libera. - Sei più sexy tu di tutte quelle che si sentono superfigone messe insieme! -
- Mi hai fatto prendere un colpo! -

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Capitolo 33
*** 33 ***


Il momento è sempre più vicino. I ragazzi sono già sul palco e tra meno di dieci minuti toccherà a me. Sono già pronta di tutto punto, dal capello al trucco al vestito. Dovrei vestirmi così più spesso. Mi sento forte, è come se mi infondesse coraggio e autostima. Sposto un po' il cappellino di lato e scendo dal retropalco. Mi metto di lato ad osservarli, a restare incantata dai movimenti di Elèna e a gustarmi lo splendido lavoro di Mario.
- Ciao stronza. - Qualcuno urla così forte da sovrastare la musica. - Ehi stronza, nemmeno ti giri? -
Possibile che stia parlando con me? Mi volto piano, come se non volessi controllare chi è che parla. Appena la vedo, però, mi scappa automatico un sorriso e il cuore mi si gonfia.
- Ciao Gigì. Che ci fai qui? -
- Sei una stronza e su questo non torno indietro. Però era l'unico modo per salvare l'appuntamento. -
- Sei qui con Joshua quindi. -
- E con Steve. -
- Co-cosa? -
- Sì, c'è pure lui, quindi adesso sali su quel palco e inizi a muovere quel bellissimo culo come sai fare solo tu. Non farmi pentire di averli portati qui. - Si volta e inizia ad andare verso la zona del locale dove sono sistemati i tavoli.
- Gigì! - La richiamo. - Ci sarebbe una cosa da fare prima di salire sul palco. Ricordi? -
- Rituale? -
- Già. Io ho portato tutto per sicurezza. Ci speravo di vederti arrivare. - La prendo per mano e la bacio.
La porto dove ho lasciato i miei vestiti. Prendo l'uniposca blu dalla borsa e lo porgo a lei. Mi volto e sento la punta leggermente fredda del pennarello scorrermi lungo la schiena.
- Ecco fatto! -
- Fammi vedere. - Mi avvicino allo specchio che abbiamo appoggiato al muro indietreggiando come un gambero. - 'Sei una stronza ma ti amo. Falli sbavare!' Ti amo anch'io! -
Mario arriva sudato e con un bel po' di fiatone. - Bree ci siamo. -
- Arrivo. - Un ultimo bacio sulla guancia di Gigì e scappo sul palco.

Le emozioni che esplodono nel momento esatto in cui si accendono le luci puntate su di te e senti il beat iniziare a scivolare non possono essere descritte. Tutto sparisce, il pubblico diventa un ammasso di forme indefinite, sempre più nebulose. La musica prende il posto di ogni pensiero, pompa nei muscoli caricandoli di energia nuova ad ogni istante, fa battere il cuore a tempo. Ci sono energia e passione. Ci sono cuore e polmoni. Ci sono amore e rabbia. C'è vita. E quando il tuo tempo finisce, quando la musica arriva al suo termine, tutto torna al suo posto. Il pubblico riprende forma e tu riacquisti il te stesso che avevi perso tra le note.

Sono da sola nel retro palco. I ragazzi si stanno esibendo. Mario ed io ci siamo già preparati per il caraibico. Lui adesso è fuori a discutere non so cosa con non so chi. Io, nel mio vestito rosso, continuo a fissarmi allo specchio pensando che al termine della serata dovrò appendere di nuovo le scarpette al chiodo. Un rumore mi fa tornare alla realtà.
- Mario dobbiamo andare? -
Mi volto. Non è Mario. Davanti a me, in silenzio, c'è Evan.
- Chi ti ha fatto arrivare fin qui? -
- Non saluti più? - Nei suoi occhi non c'è il dispiacere di due giorni fa. Sembrano esserci di nuovo le fiamme di rabbia di quel giorno sulla scogliera.
- Ciao. -
- Sei stupenda, lo sai? - Si avvicina a me. Indietreggio. - Hai paura di me, vero? -
Annuisco.
- Non devi. Lo sai che non ti farei mai del male. -
- L'hai fatto. - Non so neanche dove trovo la forza di rispondere.
- Mi ci hai costretto tu. -
- Evan, cosa stai dicendo? -
- Bree, tocca a noi. Oh, ciao Evan. - Mario è arrivato appena in tempo. Le gambe mi tremano e non è l'emozione di salire sul palco.
- Ciao Mario. Stavo giusto tornando di là a godermi lo spettacolo. - Si avvia verso l'uscita, ma proprio prima di varcarla mi lancia un'occhiata di fuoco.
- Che strano è diventato sto ragazzo, oh! - Mi sento morire. Ho i battiti accellerati e la paura si è infiltrata in ogni parte del mio corpo. - Bree, ti senti bene? -
- Non proprio. - Inizio a piangere senza neanche rendermene conto.
- Ehi, ehi! Che succede? -
- Niente, Mario. Non preoccuparti. - Mi asciugo le guance e tiro su col naso. Mi guardo allo specchio controllando che il trucco non si sia distrutto. - Andiamo, dai. -
- Sicura di farcela? -
- Devo. -
- Bree se non te la senti non si fa nulla. -
Chiudo gli occhi e respiro profondamente. Devo andare avanti, non devo lasciarmi vincere dalla paura. Non posso lasciare che la mia vita sia condizionata da un solo episodio. Non posso. Altro respiro profondo. Sono forte, posso farcela. - Andiamo. - Sorrido.
Salgo sul palco sicura di me stessa. Poco prima di essere accecata dal faretto puntato su di noi, riesco a incrociare lo sguardo di Steve. Sì, posso farcela.

E' appena finito tutto. Sono ancora nel mio vestito bianco perché Mario ha voluto chiudere lo spettacolo con un bis del passo a due, dato che sembra essere piaciuto parecchio. Siamo tutti sul palco, un'unica catena umana, per godere degli ultimi applausi. Arrivati nel retropalco ci sono abbracci e baci dovunque, complimenti che si sprecano e gente che inizia a spogliarsi.
Entra nello stanzone una donna elegantissima. Dev'essere la proprietaria, quella che dovrebbe finanziare il progetto. Tutto improvvisamente tace. Noi ragazzi continuiamo a cambiarci in silenzio, mentre Mario va a parlare con lei. La conversazione dura poco, dopo di che l'elegante signora va via regalandoci solo un 'Grazie ragazzi' che sembra quasi stentato.
Mario non dice una parola e fissa il pavimento. Ho paura che abbia ricevuto brutte notizie. Fortunatamente mi sbaglio. Dopo non molto inizia a urlare di gioia coinvolgendo tutti in un festeggiamento improvvisato.
- Ha detto di sì. Le siamo piaciuti un sacco! Finanzierà il mio progetto a partire da Settembre. -
- Sono felicissima per te. - Abbraccio infinito. - Posso chiederti una cosa? -
- In questo momento potresti chiedermi anche la luna! E' stato anche merito tuo. -
- Mio? E' solo merito tuo! -
- Di questo riparleremo. Ora fammi sta domanda. -
- Qual è questo progetto da finanziare? Non me l'hai detto. -
- Una scuola, Bree. La mia scuola di danza. Non più una saletta con quattro specchi e due tavole di parquet. Non più un solo gruppo da poter seguire. Una scuola a tutti gli effetti, con corsi differenti per ogni stile, con istruttori professioniti. E da settembre finalmente potrà esistere. E voglio te, Bree. -
- Me? -
- Sì Bree. Ti voglio dentro la mia scuola. -
- Ma io non sono un'istruttrice professionista. -
- Lo so, ma ti ci voglio comunque. Qualcosa mi inventerò! -

Dopo essermi cambiata e aver salutato tutti, cerco di trovare i miei amici. Mentre cammino guardando chi è seduto ad ogni tavolo, qualche sconosciuto mi ferma per farmi i complimenti. Ogni volta un timido grazie e fuggo via. Li ho trovati seduti al tavolo che si trova quasi al centro del locale.
- La mia ballerina! - Gigì è sempre entusiasta alla fine dei miei spettacoli. Corre da me e mi solleva in aria. - Sei stata strepitosa! -
- Grazie. -
- Molto brava davvero. - Aggiunge Joshua.
Steve non dice nulla, sorride semplicemente.
- E la mia dedica? Oh, ha fatto la sua sporca figura grazie a quei vestiti scollati. C'ero anche io con te, lì sopra. -
- Come sempre, no? -
Mi siedo al tavolo con loro e divoro la pizza che mi hanno ordinato. Nel frattempo ascolto i commenti di Joshua e Gigì sullo spettacolo. E' la prima volta che escono insieme, ma sembrano già una coppia affiatata, con tanto di battute sul culo delle altre e piccole scenate di gelosia. Steve continua a non dire nulla. Sorride e mi guarda. Fa solo questo. Un po' imbarazzata, mando giù l'ultimo boccone di pizza.
- Non mi hai ancora detto se ti è piaciuto lo spettacolo. -
- Carino. -
Puff! Palle a terra. - Ok. -
Si avvicina a me e sposta una ciocca di capelli dal mio viso portandoli dietro l'orecchio. Mi accarezza la guancia. - Sei stata stupenda. - Sussurra. Incolla le labbra alla mie, per pochi istanti. Ma bastano a far partire le capriole del mio stomaco.
- Grazie. -
Sorride ancora.
Lo sbattere di qualcosa sul nostro tavolo ci riporta alla realtà. Scopro che è stato Evan a sbatterci sopra una bottiglia vuota. L'ennesima a quanto posso intuire, dato che sembra davvero ubriaco fradicio.
- Puttana. -
- Evan, smettila. -
- Sei una puttana. -
- Cosa hai detto? - Steve si alza e lo afferra per la maglietta.
- No, Steve. Non farlo. Ti prego. - Sto già piangendo. Non vorrei farlo, ma non riesco a fermarle. Gigì viene subito ad abbracciarmi, mentre Joshua si affianca a Steve.
- Ha ragione Bree. Lascialo andare. E' ubriaco, non lo vedi? -
- Io lo so cosa hai fatto brutto pezzo di merda. - Steve sembra non avere sentito Joshua, che cerca di staccarlo da Evan. - E non ho aspettato altro che averti sotto mano dal momento in cui l'ho saputo. -
- Devi difendere la tua puttana, pappone? -
La mano libera di Steve arriva come un proiettile, chiusa in un pugno, sullo zigomo di Evan, che finisce sul nostro tavolo e poi a terra.
Joshua cerca di fermare Steve, di trattenerlo, di calmarlo. Ma Steve continua a urlare che si merita si essere massacrato e che non desidera altro. Io piango come una bambina e Gigì sembra terrorizzata almeno quanto me. Joshua afferra Steve per le spalle un attimo prima che questi sferri un calcio. Si pianta tra lui ed Evan che si sta rialzando piano. - Steve, smettila! Guarda Bree. Vedi come sta? Secondo te le fa bene vedere queste cose? La stai spaventando a morte. -
Steve mi guarda. Ha le guance rosse di rabbia e i suoi occhi verdi sembrano velati di nero. Respira profondamente mentre torna a parlare con l'amico. - Toglimelo da davanti agli occhi o lo ammazzo. -
Joshua annuisce. Aiuta Evan ad alzarsi e, strattonandolo per un braccio, lo accompagna, non proprio gentilmente, fuori dal locale.
Steve si avvicina a me e prende il posto di Gigì nell'abbracciarmi. - Scusa piccola. Ti prego, scusami. Non avrei dovuto reagire così, ma solo al pensiero di quello che ti ha fatto... Scusami. -
- Non preoccuparti. Io non ho paura di te. -
- Non devi avere paura di nessuno. Ci sono io adesso con te e nessuno ti potrà fare del male. Nessuno. - Mi bacia la tempia e sento una lacrima cadere dal suo viso al mio. Alzo lo sguardo per fissarlo nel suo, da cui ormai è caduto il velo di rabbia.
E così, piangendo entrambi, ci scambiamo il nostro primo bacio appassionato, reso tanto più dolce dal sapore salato delle nostre lacrime che vi si mischiano.

Uscendo dal locale, troviamo Evan ancora lì. E' seduto sul marciapiede e sembra quasi spaesato, perso. Mi fissa con gli occhi teneri che ho sempre visto sul mio migliore amico, non con quelli iniettati di sangue che aveva indossato fino a poco fa. Mi stringo di più a Steve e mi sento sicura. Continuo a camminare senza rivolgergli uno sguardo in più, aggrappata a una nuova forza.
- Ci sono qua io. - Continua a ripetermi, baciandomi i capelli.

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Capitolo 34
*** 34 ***


- Ci sono qua io. - La sento ancora adesso questa frase, come se stesse pronunciando ogni singola parola in questo istante.
Il nero inizia a tingersi di chiaro, fino a tuffarmi nell'accecante luce della TAC. Sento ancora il lettino muoversi e il rumore meccanico del tubo radiogeno che ruota. Quanto tempo è passato?
- Bree, mi senti? - E' la Collins. - Puoi parlare, abbiamo terminato da un pezzo. Ci sei? -
- Sì, sì, ci sono. - Ho la bocca asciutta e uno strano sapore metallico su tutto il palato. - Avrei bisogno di bere. -
La luce si spegne e il lettino si muove verticalmente per uscire dal tubo. La Collins arriva con un bicchiere colmo d'acqua. La seguono altri due dottori in camice bianco che la sorpassano per venirmi ad aiutare. Mi siedono delicatamente, mentre la mia testa prende a girare vorticosamente. Pochi secondi e passa tutto.
- La testa gira? -
- E' già passato. -
- Tieni l'acqua. Bevila piano, però. -
Seguo il consiglio e mando giù l'acqua a piccoli sorsi.
- Avete trovato quello che cercavate? -
Mi sorride. - Stai tranquilla, Bree. Per il momento pensa a riposare. Ti portiamo nella tua stanza per l'orario di visita e poi ne riparleremo, ti va? -
Non le rispondo. Preferirei sapere tutto adesso. Soprattutto perché non mi va di vedere nessuno. Nessuno, tranne Steve. I due dottori mi aiutano a passare sulla sedia a rotelle, mentre il terzo esce dalla stanza per richiedere con l'interfono un'infermiera che mi venga a prendere.
Mentre l'aspettiamo li spento parlottare ancora, mentre guardano delle stampe che hanno fatto della riproduzione in 3D del mio cervello. Quel poco che arrivo a sentire non mi fa capire molto, sono tutti termini tecnici di cui non conosco il significato.

Mia madre è venuta a trovarmi. E' entrata piangendo e mi si è gettata al collo chiedendomi perdono. Ho fatto un po' la dura, ma poi mi sono sciolta. Questo non significa che non le abbia chiaramente detto che se prova di nuovo a nascondermi una cosa del genere può dimenticarsi di avere una figlia.
Sono venute a trovarmi anche Gigì, Cristina e Debby. Non so se loro sapessero come stavano davvero le cose, ma preferisco pensare che fossero all'oscuro quanto me. Dopo tutto erano stupite che non mi abbiano fatto uscire e le lacrime che si sono sprecate quando ne ho riassunto loro il motivo sebrano confermare la mia ipotesi. Le abbiamo scacciate ingozzandoci del budino al cioccolato che ha portato Cristina.
Steve, invece, non è arrivato. L'ho aspettato con ansia, ma non si è presentato.
Appena sono andati via tutti è arrivata la Collins. Sorrideva ma sembrava comunque molto tesa. E' entrata in silenzio ed adesso si è seduta accanto a me, sul letto.
- Va tutto bene? Come ti senti? -
- Mi sento bene. -
Ha ripreso a non parlare. Sfoglia nervosamente i fogli che ha portato con sè. Ne estrae uno e me lo porge.
- Vedi qui? Queste zone segnate con il pennarello? -
- Sì. - Sono sparse un po' dovunque, ma sempre in superficie.
- Quella è la tua alterazione traumatica. -
- Bella, eh? Se ne ha altre magari le porto a un'agenzia e la faccio scritturare per qualche programma. -
- Almeno il sarcasmo è rimasto inalterato. -
- Non c'è proprio speranza di farlo passare, mi sa! -
- Hai avuto un ricordo mentre facevamo l'esame, vero? - Annuisco e lei diventa seria. - Quello che abbiamo visto non ci ha rassicurato. -
Credevo di essere preparata a sentirlo, invece non lo sono affatto.
- La situazione non è estremamente grave, ma riteniamo opportuno intervenire comunque. -
- Intervenire? Come? Perchè? Quando? - Le domande si accalcano sulle mie labbra veloci come è diventato il battito del mio cuore e affannose come è diventato il mio respiro.
- Ti ho già detto che il problema non è l'alterazione in sè. -
- Ma il suo evolversi. - L'interrompo. - Me l'aveva già detto, sì. - Aggiungo in tono quasi di scusa.
- L'evoluzione di quest'alterazione è strettamente legata a dei lievi cumuli di sangue che si sono formati nella tua scatola cranica e che premono contro la corteccia celebrale su cui questa si è formata. La corteccia celebrale è la sede delle funzioni elevate del cervello, per così dire. Il pensiero e la coscienza. Crediamo sia per questo che ha intaccato i ricordi, perchè mentre ricordavi... - Si è ammutolita. Cerca le parole giuste, forse.
- Mentre ricordavo, cosa? -
- E' sembrato strano anche a noi quindi suppongo che per te lo sia ancora di più, ma l'alterazione si muoveva. Quasi fosse viva. -
- Cosa? -
- Si, appena hai iniziato a ricordare lei si è ritratta. E' quasi scomparsa. Appena è finito tutto, si è riestesa. -
- Ma se torna sempre al suo posto che problemi può dare. -
- Non è questo il problema Bree. Ma, se a causa della pressione causata dal sangue, prendesse ad espandersi e ad infiltrarsi più in profondità. - Fa un respiro profondo. - Andrebbe a finire in posti dove causerebbe molti più danni. Ricordi il rischio che ti si prospetta? -
- Un tumore fulminante che mi ucciderebbe ancora prima di scoprirlo. - Un brivido di terrore mi scuote fino alla parte più interna delle ossa al solo pronunciare quelle parole nonostante il sarcasmo che ho cercato di buttarci dentro.
- E' per questo che vorremmo operare. Ovviamente serve il tuo consenso. -
- Devo darvi il permesso di aprirmi la testa? -
- Prima di firmare il consenso il chirurgo ti spiegherà in cosa consiste l'operazione e quali sono gli eventuali rischi. -
- Non mi opererà lei? -
- Io? Oh no. Non sono un neurochirurgo. - Abbasso lo sguardo. La Collins chiude le sue mani intorno alle mie. - Sarò lì con te, però. Te lo prometto. -
La guardo regalandole un piccolo sorriso, incerto e pieno di paura. - Sarei più tranquilla se ci fosse lei. -
- Domani parlerai con Benussi. E' un chirugo coi controfiocchi, Bree. Se firmerai il consenso, credo che ti opererà nello stesso pomeriggio. -
- Domani pomeriggio? - L'ansia mi assale.
- Credo di sì. Vogliamo tutti vederti uscire sana di qua il più presto possibile. - Ha messo su un sorriso che riesce a tranquillizzarmi.
Si alza dal letto ed inizia ad incamminarsi verso la porta. - Ti porteranno da mangiare. Goditi questa cena perché se domani Benussi ti opererà, non potrai mangiare per un bel po'. E, per sicurezza, non bere dopo mezzanotte. Ok? -
- Va bene. -
- Vado che c'è qualcuno che vuole vederti adesso. -
- Adesso? Ma l'orario di visita è finito. -
Apre la porta e piano fa il suo ingresso nella stanza Steve. - Se vuoi lo rispedisco a casa. -
- Assolutamente no! - Il cuore mi si è quasi illuminato. L'ansia sembra essere stata spazzata via. Il solo vederlo ha cancellato qualsiasi pensiero relativo ad alterazioni, tumori e operazioni. Esiste solo lui, per me, in questo istante.
Lui sorride anche se si nota che è teso più di una corda di violino. Resta sulla porta.
- Resta solo venti minuti, poi ti voglio fuori dal mio reparto. Capito, ragazzino? -
- Sì. - Si volta verso di lei. - Grazie mamma. -
La Collins sorride e va via, mentre lui corre ad abbracciarmi.
- Mamma? - Sono sconvolta. - E' tua madre? -
- Ssshhhh! - Mi zittisce con un bacio. - Hai sentito fin troppo tu. Devi ricordarle da sola le cose, no? - Ne stampa altri mille sulle mie labbra.
- Oddio. La mia vita sta diventando peggio di una soap opera. - Riesco a farfugliare in quei pochi attimi in cui le nostre labbra non sono incollate.
- Ma vuoi stare zitta ogni tanto e baciarmi, o no? -
Mi scappa una risata. Lo bacio, teneramente. Cerco protezione in quel bacio. Affetto, calore, forse conferme. E ci trovo tutto.
Quando ci stacchiamo, però, l'aria è d'improvviso pesante. Sembra che entrambi abbiamo silenziosamente affermato che è il momento di parlarne.
- Sei nervosa? -
- Un pochino. -
- Dimmi la verità. -
- Ho una fifa matta. -
- Piccola è normale, ma andrà tutto bene. Benussi è bravissimo. -
- Ma io ho paura comunque. - Piango. Voglio farlo da quando la Collins ha pronunciato la parola 'intervenire'.
Steve mi stringe a sé carezzandomi i capelli. - Sfogati piccola. Ti farà bene. - Mi solleva il viso e mi fa perdere nei suoi immensi occhi, che adesso sembrano aver preso di nuovo il colore del mare in tempesta. - Ti prometto che andrà tutto bene. -
- Come fai a dirmi una cosa del genere? -
- Piccola, fidati di me. -
Sì, mi fido di te. Ma non sei tu a dover aprirmi la testa e scavarci dentro. Non sei tu a decidere se andrà tutto bene o no. Continuo a fissarlo piangendo. Inizia a baciarmi le lacrime e a giurarmi che andrà tutto bene.
Ma i venti minuti a nostra disposizione sono volati troppo in fretta e l'infermiera che oggi si è presa cura di me entra nella stanza con il solito carrellino. - Che ci fa lei qui? L'orario di visita è finito da un pezzo. -
- Ho avuto un piccolo permesso extra. Vado via immediatamente. - Mi bacia la fronte ed ubbidisce subito al comando di scomparire dal reparto.
L'infermiera, sorridendo, poggia la mia cena sul vassoio accanto al letto. Mi da le medicine di sempre e mi raccomanda di nuovo di non bere dopo la mezzanotte. Poi va via.
Provo a mangiare ma ho lo stomaco chiuso dalla tensione. Prendo il cellulare e chiamo Gigì. Le dico cosa mi hanno comunicato e piango per un po' al telefono con lei. Cerchiamo di farci forza pensando ad altro, e lo facciamo. Iniziamo a parlare di quello che ho ricordato, della sera dello spettacolo e ho anche cercato di farmi raccontare qualcosa di più. Senza risultati ovviamente. Continuiamo a parlare anche mentre, di malavoglia, mando giù la cena. Chiudiamo solo quando, entrambe sfinite, sappiamo di non poter continuare per un altro secondo a restare sveglie.

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Capitolo 35
*** 35 ***


Mi ha svegiato Sabina. Sono stata estremamente contenta di vederla. Quasi ci speravo che oggi accanto a me ci fosse lei. Dopo tutto, mi ha dato forza in momenti in cui nessuno ci era riuscito. Mi ha abbracciato forte e tartassato di domande su come mi sentivo, come avevo preso le notizie e cosa pensavo dell'operazione. Non mi dava il tempo di rispondere ad una che già ne aveva sparate fuori altre due. E' rimasta con me fino a quando un'altra infermiera non è venuta a comunicare che Benussi era arrivato. Mi ha accompagnato lei, rigorosamente sulla sedia a rotelle, continuando a ripetermi di stare tranquilla e che sarebbe andato tutto bene.
Arrivate allo studio, troviamo Benussi che cerca di fare ordine sulla sua scrivania. La luce che proviene dalla parete a vetri alle sue spalle lo circonda e gli da un aspetto quasi spirituale. Non riesco a vederlo bene ma sembra un uomo parecchio anziano, non certo un neurochirurgo alla Shepherd. Sembra fatto di carta pesta e la prima immagine che mi ispira è quella di lui che, mentre ha le mani nel mio cervello, dimentica cosa stava facendo a causa della demenza senile. No, non è rassicurante come immagine. Eppure non appena si alza dalla scrivania per venirmi incontro e abbandona quell'alone di luce quasi accecante, sembra un'altra persona. Alto più di quanto potessi immaginare vedendolo seduto e con un aspetto assolutamente rassicurante. Tradisce la sua età solo il viso rifinito da molte rughe e la pelle estremamente chiara che sembra quasi di porcellana. Una voce possente, che non è affatto quella di un uomo ormai in preda alla demenza senile, ma che anzi potrebbe essere scambiata per quella di un trentenne se non si vedesse da chi proviene, mi dice allegramente di abbandonare quella sedia movibile e di seguirlo. Mi fa accomodare sulla poltrona nera di fronte alla scrivania e torna a sedersi dov'era quando sono entrata.
- Bree, mi pare che così ti faccia chiamare o mi sbaglio? -
- Non si sbaglia. - La voce mi trema e le mani mi stanno sudando già da un bel pezzo.
- E allora, Bree, cerchiamo di rassicurarti, eh. Cosa ti ha detto la mia cara collega? -
- Che si deve togliere del sangue che preme nella mia testa. -
- Ti ha spiegato come? -
- No. - Degluitisco il nulla.
- Tu come pensi che si faccia una cosa del genere? -
Chiede consigli a me? - Io, io non ne ho la più pallida idea. -
- Per fortuna, allora, che esiste Wikipedia! - Inizia a digitare qualcosa sulla tastiera del suo netbook.
- Co-cosa? -
Si blocca e mi rivolge uno sguardo da sopra la montatura leggera dei suoi occhiali. - Conosci Wikipedia, no? - Torna a rivolgere lo sguardo al piccolo schermo. - Ci si trova di tutto. Cerchiamo se c'è anche questo. -
Sono del tutto attonita. Nelle mani di chi mi hanno messo? Benussi continua a scrutare lo schermo e digitare. Io continuo a fissarlo senza parole con la sola voglia di scappare via il più veloce possibile. D'un tratto si blocca di nuovo e torna a guardarmi da sopra gli occhiali. Serio. Poi esplode in una fragorosa risata e si alza applaudendosi.
- Scusa, sono un burlone. Non riesco a trattenermi. -
- Non capisco. -
- Stavo scherzando Bree. Credevi davvero che cercassi come si svolge un'operazione del genere su Wikipedia? Oh madre santissima, ci cascano tutti ogni volta! -
Resto allibita per alcuni attimi, poi esplodo. Ma non certo in una risata. - Scherzando? Lei scherza così con i suoi pazienti? Loro entrano qui preoccupati per la loro salute, per la loro vita, e lei pensa a scherzare? - urlo alzandomi a mia volta.
Benussi mi guarda immobile, ricomponendosi. - Solitamente le persone preoccupate si trovano più a loro agio con una persona che cerca di spezzare un'atmosfera tesa. - Torna a sedersi. - Parliamo seriamente, allora. -
Mi siedo anch'io. - Mi scusi se ho alzato la voce e le ho parlato in maniera inappropriata, ma sono piuttosto nervosa. E spezzare l'atmosfera in quel modo con me non ha funzionato. -
- Ho notato. - Sottolinea il lieve sarcasmo con una risatina in sordina, per poi tornare serio. - La farò breve, Bree. E' un intervento delicato, ma allo stesso tempo è quasi di routine per un neurochirurgo. Si tratta di aprire la calotta cranica e di aspirare tutto ciò che si deve aspirare. Una volta aspirato tutto il sangue, eventualmente, si procede ad eliminare anche quello che dovesse essere un po' rappreso. Nel caso in cui dovessimo trovare delle piccole traccie di necrosi che non sono state rilevate dalla TAC, cosa che ritengo piuttosto improbabile, si procederà a eliminare anche quelle. Come ti dicevo, è un intervento sicuramente delicato ed è anche parecchio lungo. Si tratta di stare in sala operatoria tra le quattro e le otto ore per fare un lavoro preciso e cauto. -
- Sarò sveglia mentre opererete? Ho letto diverse volte che gli interventi al cervello a volte si fanno col paziente in stato di coscienza. -
- Hai letto bene, ma non è il tuo caso. Nel tuo caso è addirittura totalmente sconsigliato. Se durante l'intervento iniziassi a ricordare qualcosa, ci troveremmo di fronte a una situazione non prevista. E tu capisci che è molto meglio prevedere cosa succederà una volta aperto. -
- Certo, comprendo benissimo e sono perfettamente daccordo. Non so se sarei riuscita ad affrontarlo. -
- Hai domande che vorresti farmi? -
- I rischi quali sono? -
- I rischi sono quelli di qualsiasi intervento, Bree. -
Lo fisso per fargli capire che questa risposta non mi basta.
- Una complicazione potrebbe comportare un'azione drastica. Protebbero essere causati danni permanenti. -
- Danni permanenti come la morte? -
Silenzio. Abbassa gli occhi e sospira.
- Mi ha già risposto. Non c'è bisogno che dica altro. Probabilità? -
- Che ci siano delle complicazioni? Uno su dieci. Se parliamo di danni permanenti scendiamo a uno su mille. Per la morte le probabilità crollano a uno su diecimila. -
- Sono statistiche, numeri. Io credo alle probabilità, ma credo anche alla sfiga. -
Sorride guardandomi con occhi comprensivi e pieni di empatia. - Bree tu sei una ragazza giovane e perfettamente in salute, piena di vigore. Chiudi la sfiga fuori dalla tua vita e pensa che hai il 90% di probabilità di superare l'intervento senza alcun tipo di complicazioni. E lo farai, Bree. La TAC ci ha detto esattamente dove andare a colpire e non ci sono i presupposti per nessuna delle operazioni aggiuntive che ti ho detto prima. Apriamo, puliamo e chiudiamo. L'unico inconveniente sarà la cicatrice che ti porterai dietro, ma non appena i capelli ricresceranno sparirà del tutto. -
- I capelli? Li taglierete tutti? -
- La zona che opereremo dovrà essere completamente rasata, ma il resto dei capelli sarà solo accorciato. Vuoi che chiamiamo il tuo parrucchiere di fiducia? Magari ci scappa un taglio gratis anche per me, che ne dici? -
Stavolta il suo umorismo serve a farmi sciogliere. Rido discretamente alla sua battuta. - Sarà fatto oggi pomeriggio? -
- Se tu firmi, sì. Inizieremo immediatamente la preparazione e spero di poterti riportare in camera il più presto possibile. -
- Mi dia solo una penna. -

La preparazione è iniziata immediatamente davvero. Appena io e Sabina siamo rientrate in camera sono venuti a prelevarmi per scendere giù. La stanza preoperatoria mi mette ansia. Le pareti sono di un verde acido e il ronzio che proviene dai neon dona a tutto un atmosfera che rasenta quella di un film horror di serie B. Inoltre, sto gelando. Mi hanno fatto spogliare completamente e mi hanno dato da indossare una leggerissima mantella, anch'essa verde, totalmente aperta sulla parte posteriore. Sono sdraiata su un lettino metallico, altro fattore che ha contribuito al mio semi-assideramento, e subito iniziano a prepararmi la testa. Vedo con la coda dell'occhio i miei riccioli cadere per terra uno dopo l'altro. Quando sento le lame del rasoio solcalmi la cute, non riesco a trattenere le lacrime e mi lascio andare all'ennesimo pianto silenzioso.
Un uomo maturo e molto affascinante, nel suo camice azzurro corredato di cuffietta e mascherina in tinta, si avvicina a me e inizia a parlarmi. Gli rispondo in modo automatico, ma senza prestare reale attenzione a ciò che dice. Inizia a trafficare con la flebo dopo averla inserita in vena. Mi dice di respirare profondamente e rilassarmi, mentre prepara del liquido in una siringa. La inietta nella cannula della flebo e mi chiede di contare fino a dieci.
Uno, due ...le palpebre si fanno pesanti... tre ...la vista annebbiata e i suoni attutiti... quattro ...la mia stessa voce è difficile da percepire... cin... Resta incompleto. L'anestesia ha già fatto completamente effetto.

Aprire gli occhi è lo sforzo più grande che avessi mai fatto. Non avrei mai pensato che le mie palpebre potessero essere così pesanti. Sento una voce che mi suona familiare ma che non riesco a distinguere nettamente.
- Si sta svegliando, presto. Chiamate il dottore. -
Confusione, una grande confusione. Riesco ad aprire gli occhi quel tanto che basta da essere accecata dalla luce che qualcuno mi punta sulle pupille e mi accorgo di non essere io ad aprire gli occhi ma è quel qualcuno ad alzarmi le palpebre.
Adesso, però, riesco a sentire in modo più distinto ciò che avviene attorno a me.
- Pupille reattive. Si sta riprendendo, ma fatela ancora riposare. - Questo è Benussi, ne sono quasi certa. - Sarebbe meglio se usciste tutti. Metteremo un'infermiera fissa accanto a lei per avere un'assistenza costante, ma voi parenti è meglio che torniate a casa. - Parenti? Chi c'è? Voglio vederli.
- Vorrei offrirmi per l'assistenza se non è contrario. - Credo sia Sabina.
- Nulla in contrario, basta che convinca i signori ad andare a casa. -
- Il dottor Benussi ha ragione. Bree ha bisogno di serenità per riprendersi completamente. E anche voi avete bisogno di riposo. Siete qui da tre giorni. - Tre giorni? Cosa? - Avevate deciso di fare i turni, ma non ho mai visto uno di voi lasciare l'ospedale. -
Riesco a stringere i pugni attorno al lenzuolo. Nessuno sembra accorgersene, però.
- Anche tu sei qui da tre giorni con noi. - Gigì, impertinente come sempre. La sua voce la riconoscerei tra mille.
- Ma è il mio lavoro. Andate, vi prego. -
- Io resto con lei. - Oddio, c'è anche lui.
- No, Steve. Tu devi andare insieme a loro. -
- Ha ragione, tesoro, dobbiamo andare. - Chi è questa donna? Sembra mia madre, ma a chi sta dicendo tesoro? - Potremo venire ad orario di visita comunque, no? - Sembra proprio lei intanto.
- Credo che non ci saranno problemi, signora Alberta. - Adesso non ci sono dubbi che quella che ha parlato è mia madre. Che si riferisse a Steve con quel 'tesoro'? Sono così intimi? - Se si dovesse svegliare, comunque, vi contatto immediatamente. -
Sento rumore di passi e borse, parole confuse e voci sovrapposte. Poi i loro saluti verso di me e la porta che si chiude.

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Capitolo 36
*** 36 ***


Estrema voglia di alzarmi da questo letto e correre loro incontro. Voglia di baciare Steve, di abbracciare mia madre, di stringere Gigì, di parlare con Sabina. Mi accontenterei anche soltanto di avere la forza per aprire gli occhi, ma nulla. Ci provo in continuazione, ma non riesco.
Sento il calore di una mano che accarezza la mia. Mi concentro e riesco a stringere di nuovo il lenzuolo tra le mani. Stavolta Sabina se ne accorge.
- Oddio, ti sei mossa. Riesci a sentirmi, Bree? -
Sì che ti sento Sabina. Ti sento eccome. Ma non posso fare altro.
- Mi senti Bree? - Prende la mia mano tra le sue. - Se mi senti, prova a stringermi la mano. -
Mi concentro di nuovo e, anche se per pochi istanti, ci riesco.
- Oddio è meraviglioso. Riesci a fare altro? -
Mi concentro di più. Provo ad aprire gli occhi, a muovere le gambe, ad alzare il braccio, ma nulla.
- Mi hai sentito, Bree? Stringi la mano se non puoi fare altro. - La stringo per qualche attimo in più.
Mi riempie di domande su cosa sento e cosa no. Comunichiamo per un po' così, lei parla e io rispondo stringendole la mano. Poi, quasi leggendomi nel pensiero, mi spiega la situazione.
L'intervento è andato bene, o almeno così pensavano. Non sono riusciti a svegliarmi dall'anestesia. Respiravo in modo autonomo e il mio cuore batteva da solo, ma non prendevo conoscenza. Così mi hanno tenuta sotto osservazione costante aspettando il momento in cui mi fossi ripresa. Per fortuna sembra che adesso qualcosa si sia smosso finalmente. Ed è un segno positivo.
Mi bacia la fronte. Una lacrima riesce a farsi strada tra le mie ciglia serrate e cade giù silenziosa e solitaria. Mi dice di riposare e che andrà a dire a Benussi e alla Collins le reazioni che sono riuscita a manifestare. Sento la sua mano abbandonare la mia, i suoi passi e di nuovo la porta.
Da sola, nel mio buio, immersa nel silenzio della stanza e nel caos dei miei pensieri, decido di distogliermi dal pensiero dell'operazione e della mia condizione attuale. Fissarmi su domande a cui non posso avere risposta, come 'Mi sveglierò davvero?', non ha senso. Il mio cervello funziona e funziona a meraviglia. Le orecchie funzionano, gli occhi pure funzionerebbero se riuscissi ad aprirli di mia spontanea volontà. I muscoli ricominceranno a rispondere ai miei comandi. Ho bisogno di distrarmi e l'unica distrazione possibile per una persona che non può far nulla è pensare. E io ne ho di che pensare! Ho un mese di vuoto da colmare di ricordi ancora. Voglio essere pronta per andare fuori di qui il prima possibile, non appena le mie gambe riusciranno di nuovo a portarmici. E questo significa che devo completare di aprire i miei archivi chiusi a chiave, come direbbe la Collins.
Inizio a ripensare alla sera dello spettacolo sperando che arrivi un fulmine. Credo di sperare che il suo arrivo dimostri che non è successo nulla di grave nella mia testa, che confermi che mi sto riprendendo, che mi rassicuri che presto potrò comandare di nuovo il mio corpo.
Sembra voler farmi contenta, il fulmine. Si insinua veloce tra i miei pensieri, ma con la delicatezza di un elefante in un negozio di cristalli. Le orecchie iniziano a ronzarmi e la testa sembra che voglia esplodere. Un concerto di martelli pneumatici mi distrugge il sistema nervoso. Sento ogni singola parte di me iniziare a contrarsi freneticamente ed in modo involontario. Poi tutto tace, tutto si ferma e lui fa la sua entrata trionfale.

- Ci sono qua io. - Continua a ripetermi, baciandomi i capelli.
Joshua e Gigì si allontanano da noi appena incrociamo una piccola traversa in cui hanno lasciato l'auto, mentre Steve continua la strada con me. Mi accompagnerà a casa, dove anche Joshua verrà a portare Gigì. Ho provato a dire che era più pratico che io e Gigì andassimo insieme a casa lasciando i ragazzi liberi di tornarsene direttamente alla loro, ma Gigì mi ha fulminato in un batter d'occhio.
Il viaggio in macchina trascorre accompagnato da una conversazione stentata ed imbarazzata. Non è mai stato così tra di noi, ma stasera, adesso, sembra esserci nell'aria qualcosa di diverso. Perdo il respiro ogni volta in cui i nostri sguardi si incrociano di sfuggita. Lui tamburella con le dita sulla gamba e io non riesco a tenere ferme le mani sul volante. Sembriamo due quasi adolescenti al primo bacio.
Fermo la macchina di fronte casa mia. Di Joshua e Gigì neanche l'ombra.
- Credo che li aspetteremo per tanto. - Accompagna ciò che dice con un sorriso malizioso.
- Dici? -
- Secondo te perchè sono andati da soli? - Si avvicina a me.
Mi accarezza le braccia nude e un fremito percorre in un attimo il mio corpo. E' tornato serio. Le guance gli si sono tinte di rosso. Lo vedo nonostante la poca illuminazione. Le sue mani salgono a cogliermi il viso. Chiudo gli occhi. Il mio cuore sembra fermarsi, la pelle ribellarsi.
- Sei bellissima. -
Apro gli occhi appena in tempo per vedere i suoi chiudersi. La sua bocca si fionda delicatamente sulla mia. Richiudo gli occhi per godere di quelle sensazioni stupende. Le sue mani lasciano il mio viso per aggrapparsi strette alla mia schiena facendo aderire i nostri corpi l'uno a l'altro. Lo stringo a me anch'io, infilando le mani sotto la sua maglia per prendere contatto con la sua schiena. Il nostro bacio si evolve in continuazione, diventando adesso passionale, adesso tenero, adesso infuocato, adesso angelico. La direzione che prende, zigzagando tra mille sfaccettature, è comunque unica. E' viscerale, intimo e lo diventa sempre di più.
Un piccolo gemito mi sfugge via dalle labbra, nel momento in cui le sue le lasciano. Ci imprigioniamo in uno sguardo che sembra poter sconfiggere il tempo. Poi, riprende a baciarmi con estrema tenerezza, sforzandosi di arginare quell'eccitazione che ormai lo divora in modo più che evidente.
Quando questo meraviglioso bacio giunge al termine, sono le sue labbra a lasciarsi sfuggire un sospriro.
- Vuoi entrare? - Occhi negli occhi, il mio cuore sta saltellando fuori dal petto.
- E se arrivassero? - Il nostro abbraccio si scioglie lentamente.
- Se conosco lo sguardo di Gigì, non credo che arriveranno presto. - Gli prendo la mano.
Mi sfiora ancora le labbra ed io di nuovo credo di impazzire.
Entriamo in casa silenziosamente, come se qualcuno potesse sentirci. Richiusa la porta alle nostre spalle, la passione che fino a questo momento avevamo tenuto a freno si scatena. Mi abbraccia trasportandomi in un bacio impetuso. Io mi aggrappo a lui e gli salto in braccio agganciando le gambe alla sua vita. Continuamo a baciarci freneticamente, mentre lui si accascia sul divano del salotto con me ancora attaccata addosso. Mi poggia sul divano e quasi mi strappa di dosso la maglietta. Sfila anche l'elastico che teneva i miei capelli raccolti in una coda accomodata. Io sbottono velocemente la sua camicia, ma non arrivo a terminare di farlo. Se la toglie facendo saltare gli ultimi due bottoni. Arriva su di me tornando a impossessarsi delle mie labbra. Il contatto con la sua pelle è come una continua scarica elettrica. Continuamo a divorarci le labbra e ad accarezzarci in modo quasi selvaggio, avvinghiati seminudi sul divano, dimentichi di tutto ciò che c'è intorno e consci di nulla all'infuori dei nostri corpi.
Uno strano rumore proveniente dalla porta d'ingresso ci fa trasalire riportandoci alla realtà.
- Che cazzo è stato? - Lo stacco da me e mi siedo impaurita portando le gambe al petto.
- L'entrata. - Si alza dal divano e muove due passi verso la porta che continua a cigolare.
- No, Steve. - Mi stendo sul divano per arrivare ad afferrargli il polso. - Non andare. E se fossero dei malviventi? -
Torna a sedersi accanto a me. - Devo difenderti, no? - Mi bacia la fronte.
In quel momento la porta si apre.
- Te l'avevo detto che funzionava. E' solo un po' vecchiotta. -
La luce si accende.
- Ehm, Gigì te l'avevo detto che era meglio non entrare con la chiave. -
Raccolgo la maglietta da terra e la rinfilo velocemente. Raccolgo anche la camicia di Steve e gliela porgo mentre è ancora imbambolato e visibilmente imbarazzato. Mi avvicino a Gigì che continua a fissare gli addominali di Steve mentre si riveste.
- Credevo faceste tardi. - Bisbligio.
- Anch'io, ma lui non ha voluto. - La sua voce è ancor più bassa della mia.
- Cosa? -
- Poi ti spiego. -
Mi volto a guardare Joshua e gli faccio cenno di entrare. - Dato che siamo tutti qua, ormai vi offro qualcosa, no? -

E' bastato un buon the, per fortuna, a smorzare l'atmosfera di imbarazzo che si era creata. Nessuno di noi aveva voglia di far terminare la serata così, perciò abbiamo impiegato il tempo terminando una partita di Scarabeo che io e Gigì avevamo fermato da almeno due anni. I ragazzi sono andati via che erano ormai le quattro del mattino, così noi femminucce abbiamo potuto spettegolare su quanto successo. Io ho raccontato a lei di quello che avevano interrotto e Gigì mi ha raccontato che non avevo capito male le sue intenzioni, proprio per niente. Ha anche convinto Joshua a passare da un posto carino ed appartato prima di venire a casa, con la scusa di parlare un po' da soli. Ma arrivati al Panorama, parcheggio con vista stupendamente romantica che si trova poco distante da casa mia, Joshua si è bloccato. Le ha detto che non voleva rovinare tutto trattandola come una ragazza qualunque. Gigì aveva gli occhi a cuoricino anche mentre lo raccontava a me, non oso immaginare la sua faccia mentre lo ascoltava. Sono venuti anche a me! Sentire certe parole è merviglioso e sono felicissima che stavolta la persona a cui erano rivolte fosse proprio Gigì. Spero solo che siano reali.
L'ho abbracciata forte e ci siamo dirette in camera. La voglia di dormire stava a zero, perciò abbiamo iniziato una di quelle conversazioni infinite e senza senso che puoi fare solo con la tua migliore amica alle cinque di notte e che ti portano a guardare l'alba con una tazza di cioccolata in mano.

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Capitolo 37
*** 37 ***


Dormiamo appena un paio d'ore e, dopo una rapida e svogliata colazione, Gigì torna a casa. L'espressione felice che ha indossato ieri non è stata cacciata nemmeno dalla stanchezza. Anche io mi sento serena. Appena lei va via inizio a prepararmi per andare in facoltà.
Fermo il motorino direttamente nel posteggio interno senza passare dal bar e senza curarmi se Samir sta ancora lavorando o meno in quella strada. Incontro Cristina alle macchinette.
- Che ci fai qui? Niente caffè da Evan? -
- Da oggi in poi solo macchinette. Almeno finchè Evan non torna quello che era. -
- Successo qualcosa? -
Le racconto della serata che si è persa ieri.
- Sapevo che sarebbe successo. -
- Cosa? -
- Niente, lascia stare. -
- Cri, non nascondere la mano dopo che hai tirato il sasso. Parla. -
- Prima di mettermi con lui, Evan era in cura da uno psicologo. -
- Cosa? Perché non me lo ha mai detto? -
- Perché si vergognava enormemente. Io stessa l'ho scoperto per caso perché l'ho incontrato mentre usciva dallo studio con suo padre. -
- Oh... -
- Mentre siamo stati insieme ha seguito la cura ed era arrivato a tenere sotto controllo tutto. -
- Tutto cosa? -
- Quando ci siamo lasciati mi ha promesso che si sarebbe continuato a curare, ma credo che non abbia mantenuto la promessa. -
- Cristina, tutto cosa? Parla chiaro. -
- Deve aver lasicato la cura quando ha saputo che eri incinta. I momenti di felicità sono i più pericolosi, li spingono ad abbandonare le cure credendosi guariti. E poi arrivano a questo. -
- Cristina, cazzo, parla. -
- Ha la bordeline. -
- La bordeline? -
- Sì, è un disturbo della personalità. Quando si sono accorti che l'aveva sviluppata, ha accettato bene il fatto di curarsi perciò non l'hanno rinchiuso in ospedale. Prendeva antidepressivi ed antipsicotici. -
Ascolto quello che mi dice sempre più sconvolta.
- Deve aver abbandonato la cura, perché pian piano ha ripresentato i sintomi. Tu non l'avrai notato perché li avrai attribuiti a qualcosa di momentaneo, a gelosia magari. Io li ho riconosciuti perché sapevo. Ma adesso, adesso non è più un dubbio. Adesso è certezza. -
La guardo sgranando gli occhi. - Cristina. - Le parlo fissando il vuoto, totalmente sconvolta da ciò che ho appena saputo. - Puoi prendere gli appunti anche per me. -
- Non vieni a lezione? -
- Devo andare da Evan. -
- Bree non te lo consiglio. Se non si sta curando può comportarsi in modo anche peggiore di ieri sera. -
- Devo provare. -
- Sta attenta, Bree. -
Le stampo un bacio sulla guancia e vado via.
Non vado da lui. Mi precipito a casa e inizio a documentarmi. Tra i sintomi del disturbo bordeline trovo "sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono". La giornata alla scogliera, quella in cui ho perso il bambino. Trovo anche "quadro di relazioni interpersonali caratterizzate dall’alternanza di iperidealizzazione e svalutazione" ed "instabilità affettiva". Non ci sarebbero parole migliori per descrivere la nostra relazione. Ancora la lista è composta da "rabbia immotivata", "difficoltà a controllare la rabbia" ed "ideazione paranoide". Questi li ha mostrati ieri sera. Mi convinco sempre di più che la sensazione di Cristina non sia errata.
Salgo sul motorino e volo verso casa sua. Arrivata lì, però, non trovo altri che la signora Nimei. La saluto cortesemente ed accetto volentieri la cioccolata che mi offre. Mi dice che le dispiace di non essersi fatta viva quando ha saputo del bambino, nè dopo quando ha saputo della perdita. Faccio finta di nulla. In fondo, loro non avevano nessun obbligo nei miei confronti. Finita la cioccolata, mi congedo velocemente per andare al bar.
Nemmeno lì trovo Evan.
- Buongiorno Signor Nimei. -
- Ciao Bree. - Stacca gli occhi a stento dalle tazzine che sta lavando.
Dentro il bar c'è poca gente. Mi accomodo di fronte al bancone. - Evan non c'è? -
- E' a casa. -
- Veramente no. -
- Cosa? - Alza gli occhi sgranati fissandoli nei miei.
- Sono appena stata lì, ma c'era solo sua moglie. -
- Cosa hai detto? Non era a casa? - Lascia stare le tazze e si asciuga freneticamente le mani sul grembiule. Le parole gli escono affannose di bocca.
- No. - Inizio a preoccuparmi.
Si slaccia il grembiule e lo getta sul bancone. - Sasha! - Urla.
Una donna sulla trentina si affaccia dal retro del locale. Ha i capelli a caschetto neri e grandi occhi grigi coperti da un paio di lenti da vista. - Che c'è capo? -
- Io devo andare. Il locale è in mano tua. -
- Cosa? Mi lascia da sola? -
- Affari di famiglia Sasha. -
- Ma io... -
- Non un'altra parola. Ti pagherò il doppio se sarà necessario, ma devi stare zitta e fare quello che ti ho detto. -
Sasha annuisce e si infila il grembiule che aveva il signor Nimei. Lui si rivolge a me. - Seguimi. -
Non capisco esattamente cosa stia succedendo, ma credo di immaginarlo. Mentre corriamo verso l'auto del signor Nimei, l'unica cosa che ho in mente è uno dei sintomi che ho letto. "Ricorrenti minacce, gesti e comportamenti suicidari".
Saliamo in macchina, l'accende e si infila velocemente in carreggiata.
- Singor Nimei cosa succede? -
- Devo trovarlo Bree. Dobbiamo trovarlo. -
- Signor Nimei, ha paura che possa succedere qualcosa? -
- Una paura fottuta. - Si blocca un attimo e si volta verso di me. - Scusa il termine. -
- Non si preoccupi signor Nimei. -
- Claudio, chiamami Claudio. -
Continua a correre come un pazzo verso l'uscita dalla città.
- Dove stiamo andando? -
- Nell'unico posto dove potrebbe essere. -

Dopo poco arriviamo a destinazione. Riconosco subito il posto. Siamo alla scogliera. Claudio scende dall'auto e attraverso lo stradone iniziando ad urlare il nome del figlio. Lo seguo in silenzio, ma arrivati dall'altra parte della strada lo supero scavalcando il muretto per prima. Poi entrambi ci blocchiamo.
Evan è seduto sul ciglio della scogliera. Nonostante il caldo che è ormai arrivato, ha addosso una pesante felpa azzurra. Guardo suo padre. E' pietrificato. Faccio per avvicinarmi ad Evan, ma Claudio mi blocca.
- Potrebbe essere pericoloso Bree. -
- Lo so signor Nimei...volevo dire, Claudio. -
- Potrebbe buttarsi o farti del male. -
Prendo la sua mano e la forzo delicatamente per schiuderla. - Devo fare qualcosa e devo farla io. Vada in macchina. - Dargli il 'tu' mi sembra strano, iniziare in questa situazione poi. - Fidati di me. -
Impaurito, Claudio annuisce e mi lascia andare da Evan. Mi avvicino camminando piano e cercando di essere il più tranquilla possibile. Mi siedo dietro di lui e lo abbraccio dopo avergli tolto il cappuccio della felpa dalla testa. Sento le sue mani poggiarsi delicatamente sulle mie che lo cingono.
- Come stai, dolcezza? - Mi dice.
Respiro profondamente e raccolgo tutte le energie per poter rispondere senza che la voce tremi. - Abbracciata a te sto sempre bene. -
Volta un po' la testa verso di me, sorridendomi. - Cucciola, la piccola come sta? -
- Mica è sicuro che è una femmina! - Sta parlando del bambino che non c'è più, ne sono sicura. Ho l'anima che si straccia ad ogni parola, ma so che questo è l'unico modo per farlo allontanare da qui ancora intero. Mi sforzo di sorridere. - Io ho freddino, sai? -
- Vuoi la mia felpa? -
- No, vorrei tornare a casa. -
- Sicura? -
- Sì... - Deglutisco. - Sì, amore. -
Sorride ancora di più e mi bacia la punta del naso. - Tutto per la mia piccola. -
Ci alziamo piano e ci avviamo verso la sua macchina. - Mi fai guidare? - Dico saltellando, fingendomi una ragazzina neopatentata. - Ti prego, ti prego, ti prego. - Occhioni da cerbiatta mode on.
- Basta che stai attenta. Voglio che la mia piccola nasca sana. -
Sorrido e prendo le chiavi. Dentro di me tiro un sospiro di sollievo.
Ci porto a casa sua. Claudio ci ha seguito per tutto il tempo a debita distanza, per non farsi notare da Evan. Entriamo in casa. Claudio rientra poco dopo di noi. Al suo arrivo si piomba sul figlio.
- Dove sei stato? -
- Fuori con Bree, papà. -
Con gli occhi gli confermo che sto bene e gli chiedo di non farlo alterare. Lui si avvicina a me e mi sussurra che in qualche modo dobbiamo convincerlo ad andare dal dottore per ricominciare le cure. Gli rispondo di lasciar fare a me.
Torno da Evan mentre Claudio resta nella stanza.
- Dammi la mano. - La poggio sulla pancia. - Evan, qui dentro sai cosa c'è? -
- C'è il nostro bimbo. -
- No, Evan. Il nostro bambino se ne è andato. -
- Cosa? -
- Sei stato tu, ricordi? Sulla scogliera. Mi hai aggredito perchè eri geloso di Steve. Ricordi? -
Evan ritira la mano e si siede sul divanetto.
- E ricordi ieri? Hai provato a rifarlo. -
Mi fissa in silenzio con lo sguardo colpevole.
- Lo so, ma non è colpa mia. -
- E di chi è? -
- C'era qualcosa che mi spingeva. -
- Non c'era niente. -
Abbassa gli occhi a fissare la moquet.
- Da quando hai smesso di prendere le medicine? -
Non mi risponde. Mi avvicino a lui e gli sollevo il viso costringendolo a guardarmi.
- Rispondimi. Quando hai smesso con le medicine? -
- Quando hai saputo di essere incinta. Credevo di stare bene, ormai. Credevo di essere ok. -
- Invece non eri ok, Evan. Quella cura è l'unica cosa che può farti stare ok. Lo sai? -
- Quello che mi fa stare bene sei tu. - Prova a baciarmi, ma mi scosto velocemente.
- Non sono io Evan, sono le medicine. - Vedo la rabbia affiorare nei suoi occhi. So che sta per esplodere di nuovo. - Evan, devi tornare dal dottore. -
Si alza ed inizia a urlare che non ci tornerà mai.
- Evan, devi andarci. Fallo per me. -
- Zitta, puttana! - Urla.
Claudio si precipita su di lui e gli blocca le braccia in tempo per evitarmi un pungo in piena faccia. La signora Nimei arriva dalla cucina e gli infila una siringa nel collo. Dopo pochi istanti Evan è addormentato sul pavimento.
- Erano anni che non usavamo il sedativo con lui. -
- Cosa succederà adesso? - Chiedo ancora scossa.
- Lo portiamo in clinica. Stavolta dovrà starci. Lì lo cureranno bene. - Claudio si avvicina a me e mi abbraccia. - Vieni, ti porto a casa. -
- Il mio motorino è al bar. -
- Lasciami le chiavi, te lo faccio portare da Sasha quando stacca. -
- No, no. Povera Sasha! Non voglio darle altro disturbo. Faccio una chiamata. -
Chiamo Steve.
- Pronto piccola. Ti pensavo, sai? -
- Steve mi serve un favore. -
- E' successo qualcosa? - Mi chiede preoccupato.
- Ti racconto tutto dopo. Avresti modo di arrivare al bar di fronte alla facoltà? -
- Quello dove lavora quel figlio di puttana? -
- Esatto. Ho lasciato il motorino lì. Potresti portarmelo a casa? Le chiavi le ha il signor Nimei. Tranquillo che lui non c'è. -
- Ok piccola. -
- Ti aspetto a casa allora. Pranziamo insieme e poi ti riaccompagno io, in caso. -
- Intanto vediamoci da te. Ciao piccola. -

Claudio mi ha riaccompagnato a casa ringraziandomi per quello che ho fatto per Evan nonostante non se lo meritasse per come mi ha trattata. Dopo mezz'oretta è arrivato Steve. Gli ho raccontato tutto tra le lacrime.
Nessuno dei due si sentiva di mangiare perciò siamo andati in camera e abbiamo passato il pomeriggio abbracciati in silenzio. Lo desideravo da tanto.

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Capitolo 38
*** 38 ***


- Come ti senti? -
- Nettamente meglio. -
Sono passate parecchie ore. Ormai sono le sette. Steve mi ha abbracciato per tutto il tempo, coccolandomi e cercando di non farmi pensare a questa mattina.
- Io avrei un po' di fame. Che ne dici se andiamo in cucina e preparo la cena? -
- Vuoi avvelenarmi? -
- Non ti fidi di me? -
- Di te si. Della tua cucina meno. - Ridacchio.
Mi prende le guance tra le dita e scuote piano. - Ti rimangerai quello che hai detto. -
Andiamo in cucina e Steve si mette subito ai fornelli mentre io mi appallottolo sul divano.
- Trovi la dispensa nuda e cruda! Dopo più di due mesi che sto da sola ho spazzolato tutto quello che mi aveva lasciato mamma e compro le cose giornalmente quando sono sicura di mangiare a casa. Dovrebbe esserci della carne in frigo. -
- Hai anche delle uova? -
- Controlla tu. Dovrebbero essere nel primo ripiano dello sportello nel frigo. -
Si avvia verso il frigo. Prima di aprirlo si volta verso di me sorridendo. - E' ancora appesa qui? -
- Cosa? -
- La carta col mio numero. Potrebbe prenderlo chiunque! -
- Per tutta la folla di ragazze che invade casa mia ogni giorno ti preoccupi? Gigì, Cristina e Debby non credo che siano interessate a te. Senza offesa, eh! -
- Intanto Gigì ieri mi squadrava bene mentre ero senza maglietta. -
Alzo il sopracciglio con aria minacciosa. - E la cosa ti interessa? -
Ignorandomi, inizia a controllare il frigo. Esce la carne e preleva tre uova. Mi alzo e vado verso di lui, arrivandogli alle spalle. Lo blocco appena posa il cibo sul bancone della cucina. Gli schiaccio i polsi per tenerlo fermo e avvicino il mio viso, ancora minaccioso, al suo, che ride sotto i baffi.
- E allora? Ti interessa o no? -
- Se mi interessasse? - Dice lui sfidandomi.
- Bene. - Lo lascio libero. - La invito subito a cena, così potrai dirglielo. - Cammino verso il salottino d'entrata.
Sento i suoi passi rapidi e poi le sue braccia strette intorno alla mia vita. - Dove vai scema? -
- A chiamare Gigì. -
- La piccola è gelosa, eh! - Mi scompiglia i capelli tenendomi saldamente ferma con un solo braccio.
- Di cosa dovrei essere gelosa? - Dico riuscendomi a liberare. - Non stiamo neanche insieme! -
Vedo il suo viso farsi improvvisamente serio e lui tornare silenziosamente in cucina. Lo raggiungo.
- Ehi, cos'hai? -
- Niente. Preparo la cena. -
Torno ad appallottolarmi sul divano e lo guardo zitta, zitta mentre taglia la carne a straccetti e sbatte le uova insieme.
- Credevo che avesse significato qualcosa. - Dice improvvisamente mentre apre lo sportello che gli ho indicato e preleva una padella.
Mi avvicino a lui. - Di cosa stai parlando Steve? -
- Di noi. Di quello che c'è stato da quando ci siamo conosciuti. - Si ferma e mi fissa per pochi secondi. Riesco a notare, però, il rossore che ha circondato il verde dei suoi oggi.
Provo ad accarezzargli la nuca, ma si scansa.
- Non ha significato niente per te? - Riprende a fissarmi.
- Certo che ha significato qualcosa. - Parlo a fatica, ma riesco a parlare. - Ci tengo a te, Steve. Prima era solo una cosa detta tanto per dire. Una battuta cretina mentre stavamo scherzando. Non avrei chiamato te oggi se non fosse così. -
In silenzio riprende a cucinare. In silenzio mangiamo la frittata con la carne che ha preparato. In silenzio lavo i piatti mentre lui sul divano fa zapping in tv. Si ferma quando trova un canale con un film che sta iniziando in quel momento. Ci sono ancora i titoli di apertura. Finito di lavare tutto, mi siedo sul divano anch'io, dietro di lui, abbracciandolo con gambe e braccia. Mi accarezza un braccio e si volta a darmi un bacio. Un bacio estremamente dolce. Ci sorridiamo e poniamo fine alla freddezza della nostra piccola lite. Guardiamo in silenzio 'Big Fish' coccolandoci e commuovendoci in più punti.
- Mi piace un sacco sto film. - Tipico da me, innamorata persa di Tim Burton.
- Carino, sì. - Sorride.
- E' estremamente dolce. - Lui continua a sorridere e io a parlare estasiata. - La scena di Edward che si dichiara a Sandra è una delle mie preferite. -
- Non che sia molto normale, eh! -
- Cosa? -
- Innamorarsi di una che hai visto tre secondi in un circo. -
- Nemmeno un gigante come Carl esiste! E poi la dichiarazione che le fa è meravigliosa. "Tu non mi conosci ma il mio nome è Edward Bloom e io ti amo." - Mi alzo continuando a declamare quasi a memoria il discorso di Ed, mentre Steve ridacchia.
Si alza anche lui e si posiziona di fronte a me. Poggia le mani sul tavolo, imprigionandomi. - Sai qual è la parte che è piaciuta a me? -
- Quale? -
- Prova a indovinare. -
- Dammi qualche indizio, no? - Cerco di non darlo a vedere, ma il mio cuore sta iniziando a battare sempre più forte. Non riesco a distogliere lo sguardo da quei bellissimi occhi verdi. Sento l'atmosfera di ieri sera ripresentarsi.
- E' poco dopo quella che piace a te. - Mi accarezza il viso.
- Quale potrebbe essere? - Faccio finta di riflettere un po' - Tu neanche mi conosci. - Dico facendo gli occhi da cerbiatta.
Mi sorride e si avvicina a me. Inizia a baciarmi. - Lo farò per la vita. - Dice continuando a baciarmi.
- Veramente dice... -
- Sta zitta. - Incolla di nuovo la sue labbra alle mie e non mi lascia respiro.
Mi afferra i fianchi e mi solleva facendomi sedere sul tavolo. Cingo le gambe attorno alla sua vita, mentre lui continuando a baciarmi mi spinge delicatamente all'indietro. Mi adagio piano sul tavolo, mentre inizia a baciarmi il collo e scende fino alla pancia. Infila le mani sotto la maglietta accarezzandomi il ventre, poi piano sale sul tavolo insieme a me.
- Lo faremo cadere. - Dico sorridendo mentre riprendiamo a baciarci.
Fa finta di non avermi sentito e prende a mordicchiarmi le labbra. Continua ad accarezzarmi il ventre e scende verso le gambe, afferrando infine il gluteo. Mentre passa a mordicchiarmi l'orecchio, capisco che è estremamente eccitato, almeno quanto me.
Mentre siamo presi dalla foga, inizia a suonare il suo cellulare.
- Lo spengo subito. - Lo prende in mano, ma dopo aver visto da chi proviene la chiamata invece di spegnerlo, risponde. - Pronto Josh. -
Lo guardo strano, con un misto di impazienza e voglia. Mi mima un "E' Joshua" labiale mentre scende dal tavolo e va a parlare in salotto. Mi siedo e la percentuale di voglia inizia a scendere vertiginosamente sovrastata da quella di delusione. Torna dopo qualche minuto in cucina.
- Scusa piccola. -
- Che voleva? - Dico fissando il pavimento imbronciata.
- Devo andare al locale. Uno si è sentito male e non hanno con chi sostituirlo. -
- Ma siete aperti tutte le sere? -
- Quasi. Ti sorprenderesti di quante persone si lamentano dell'unico giorno di chiusura che abbiamo! - Mi bacia la fronte e con l'indice mi alza il viso per portarlo al pari col suo. - Riprenderemo il discorso esattamente da dove l'abbiamo lasciato, ok? - Dice sorridendo.
Annuisco per accontentarlo. Lo accompagno alla porta e lì ricordo.
- Ma come ci vai se sei senza macchina? Sei venuto qui col mio motorino, ricordi? -
- Cazzo, vero! Aspetta un attimo. -
Prende il telefono e chiama Joshua. Credevo gli dicesse che non può raggiungerlo, invece gli chiede di mandare qualcuno a prenderlo.

Dopo venti minuti circa è arrivato qualcuno che l'ha portato al locale. Non so chi fosse. Io l'ho accompagnato solo fino alla porta. Mi ha ripetuto di non essere triste e che avremmo sicuramente avuto altre occasioni. Se ne è andato via, baciandomi e sorridendomi. Io mi sono fatta una doccia fredda e lunghissima per calmare i bollori e mi sono convinta che, in fondo, è stato meglio così. Sia oggi che ieri era chiaro che eravamo trascinati dagli ormoni. Non che non mi sarebbe piaciuto. Quel ragazzo mi attrae in un modo incredibile! Ma c'è di più. Mi piace sul serio. Credo di starmi innamorando e credo che lo stesso valga per lui. L'ho capito da come ha reagito oggi. Quindi è meglio tenere a freno gli ormoni e aspettare il momento e il modo giusto. Mi infilo tra le lenzuola fresce e, poco prima di assopirmi, sento il telefono vibrare. C'è un suo messaggio.
'Sono arrivato sano e salvo. Mi dispiace avere interrotto la nostra serata. Davvore. Spero mi perdonerai. Credo che ormai sia evidente che mi sto innamorando come un bambino delle elementari. E' inutile continuare a negarlo. Buonanotte piccola. Speravo di poterti abbracciare per tutta la notte. Aspetterò con ansia quel momento.'
Non riesco a smettere di rileggero e sorridere.

Il fulmine fugge via. Torno nel mio letto d'ospedale, senza la forza di fare nulla. Provo ancora ad aprire gli occhi ma con scarsi risultati. Le braccia, invece, iniziano a rispondermi. Riesco ad alzarne uno. Qualcuno è nella mia stanza. L'ho capito perchè appena l'ho fatto ho sentito un 'Oh mio Dio' e dei passi che correvano fuori.
I passi rientrano nella stanza.
- Le giuro che ha alzato un braccio! - E' la voce di Debby. Che ci fa qui?
- Adesso controlliamo, signorina. Si calmi. - Benussi. Controlla di uovo le pupille e per un istante vedo qualcosa di diverso dal mio buio. - Sì, la situazione va sempre migliorando. E' positivo. Jessica, per favore, fa un'altra dose alla signorina Bree. -
- Subito dottor Benussi. - Sento Jessica allontanarsi.
- Signorina lei deve calmarsi. La sua amica si sta riprendendo. -
- Ma come faccio? - Debby sta signozzando.
- Signorina si calmi la prego. Abbiamo visto che la sua amica sente quello che le sta intorno. Se la sente così non le farà bene. Se non riesce a sopportare la situazione è meglio che si faccia sostituire. -
Debby tira su col naso. - No, no. Adesso mi calmo. -
- Bravissima signorina. Vedrà che nel giro di qualche giorno tornerà tutto come prima. -
- Lo diceva anche dopo l'operazione. -
- I miglioramenti ci sono stati e sono stati notevoli. Siamo sulla buona strada. -
Benussi va via. Debby si avvicina a me, mi prende le mani e riprende a piangere.

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Capitolo 39
*** 39 ***


Sono passati due giorni, credo. La sensazione del tempo non è molto precisa quando non riesci neanche a distinguere il giorno dalla notte. Mi sono basata sulle volte che mi sono venuti a trovare tutti insieme.
Pian piano ho iniziato a muovere quasi tutto e oggi, finalmente, sono riuscita ad aprire gli occhi. Accanto a me c'era Gigì. Ha iniziato a urlare di felicità ed è corsa a chiamare i medici saltellando, anche se loro stavano già venendo in camera dopo averla sentita.
L'unica cosa che non posso ancora fare bene è parlare. Mi stanco facilmente e la mia voce ha un volume eccessivamente basso per essere sentito con tranquillità. Sia Benussi che la Collins mi hanno detto che devo esercitarmi a muovere di nuovo le corde vocali, ma alternando frequenti momenti di riposo.
In questi due giorni ho ricordato ancora. Non molto, in verità. I ricordi accelleravano in qualche punto e saltavano in altri, come una vecchia vhs un po' rovinata. Però, fortunatamente, ho un quadro completo di quei giorni. Sono stata principalmente con Steve. Direi che stiamo insieme, ormai. Anche se non siamo riusciti a "riprendere il discorso". Ogni volta ne capitava una, pazzesco! In realtà non abbiamo neanche parlato di ciò che mi ha detto nel messaggio, perciò io non gli ho ancora confidato di provare esattemente le stesse cose. Ho incontrato Samir, una volta. E' stato parecchio freddo ed imbarazzante. A giudicare da ciò che è successo il giorno in cui ci siamo incontrati, col senno di poi (che sarebbe quello di adesso, è abbastanza complicato anche per me come concetto) non è un caso. A dir la verità sospettavo già da allora che sarebbe finita così.
Adesso sono a letto. Accanto a me, sempre Gigì. Ha già chiamato mia madre e gli altri, ma la Collins non farà venire nessuno in camera prima dell'orario di visita che sarà tra poco. Gigì mi aiuta a sforzarmi a parlare, ma ogni volta che lo faccio ho una sensazione orribile. E' simile a quella che senti quando in un incubo provi a urlare ma la voce non esce, anzi è esattamente quella. E' snervante, faticoso e non migliora di una virgola! Sto provando a raccontarle ciò che ho ricordato, ma non ce la faccio più. Mi fermo e scoppio a piangere. Un pianto liberatorio, scomposto, senza freni. Gigì mi si getta al collo.
- Tesoro, non fare così! Ti riprenderai. L'importante è che sei ancora qui con noi. - Mi accarezza le spalle e mi bacia la fronte. - In questo periodo ho rischiato troppo spesso di perderti. Non so come avrei fatto se... - Le si spezza la voce, perciò non termina la frase.
- Ti voglio bene Gigì. - Riesco a sussurrare al suo orecchio. Le bacio via la lacrima che sta scendendo sulla guancia. - Mi daresti un po' d'acqua? -
- Puoi bere? -
Faccio spallucce. Non ne ho idea.
- Vado a chiedere. -
Esce in corridoio e rientra dopo poco con Benussi.
- Apri la bocca per favore. - Mi scruta la gola con la sua torcetta elettrica abbassandomi la lingua con l'orribile bastoncino di legno. - Non dovrebbero esserci problemi. Dobbiamo vedere però se riesci a deglutire senza problemi. Provaci. -
Lo faccio una prima volta senza fatica. Aspetto due secondi e riprovo. La seconda volta ci riesco pure, ma subito dopo inizio a tossire.
- Non è molto incoraggiante, ma bevendo a piccoli sorsi non dovresti avere problemi. - Mi porge il bicchiere. - Se non ti da fastidio vorrei essere presente almeno stavolta. -
Annuisco e prendo il bicchiere dalle sue mani. Piccoli sorsi di acqua fresca iniziano a scendermi in gola. Sembrano una manna dal cielo. Riesco a seguirne il percorso dentro di me. E' come se stessero svegliando qualcosa, è una sensazione stupenda.
- Grazie. - Esclamo finito il bicchiere.
- Ehi, la tua voce migliora a vista d'occhio! -
In effetti stavolta il volume era più alto e la fatica è stata minore. Magari è stato un caso. - Mi sono esercitata tutta la mattina. - Non è forte come poco fa, ma il miglioramento lo noto anch'io. Gigì ha un sorriso enorme stampato in viso. Sorride anche Benussi, in modo più discreto. Continua ad annuire dicendomi che i buoni segni ci sono tutti e che si risolverà presto. Poi va via.
- Riprovaci! - Mi chiede immediatamente Gigì.
La guardo perplessa.
- Parla ancora. Sì, dimmi qualcosa! Dimmi "Bazinga!". -
Non riesco a trattenermi e scoppio in una risata che, se avessi avuto le corde vocali pienamente funzionanti, avrebbe svegliato tutto il reparto.
- Non prendermi in giro. Prova a parlare di nuovo. -
- Ci provo, sei contenta? -
- E' vero. Stai migliorando! -
- Credo che l'acqua fresca mi abbia fatto bene. Però quando parlo sento dei graffi alla gola. -
- Meglio di nulla! -
Conosco quell'espressione in Gigì. E' felice. Ha il viso luminoso, non riesce a star ferma con le mani e non si scolla dalla faccia quel sorriso stupendo. E' bellissima, la mia Gigì.

L'ora di visite è un susseguirsi di urla di gioia, abbracci, lacrime, confusione e risate. Sono così felice da non riuscire a stare ferma, nonostante i piccoli movimenti che mi è consentito fare. Le gambe che pungono, vogliono correre e saltare in braccio ad ognuno di loro, baciargli il volto fino a consumarlo e gridare quanto li amo. Tutti loro, le persone più importanti della mia vita.
No, ne manca una.
- Evan. - Sussurro a me stessa.
Claudio è accanto al mio letto e sta parlando con mamma insieme a sua moglie. La mia voce non è ancora abbastanza alta da riuscire a farmi sentire in mezzo a questa confusione. Cerco di allungare il braccio fino ad afferrargli i jeans e mi concentro per strattonarli un po' in modo da farmi notare. Mi costa fatica, ma arrivo al mio scopo.
- Cosa c'è Bree? - Mi chiede voltandosi verso di me sorridendo.
Gli faccio cenno di avvicinarsi ed accosta il suo orecchio al mio viso.
- Come sta Evan? -
Si allontana di scatto, guardandomi quasi sconvolto, senza darmi una risposta. Vedendo che non ho ancora finito, però, si riavvicina.
- E' alla clinica? -
Si allontana di nuovo, lentamente sta volta. Il suo sguardo è un misto di tristezza e dolcezza. Un sorriso amaro sulle labbra. Mi accarezza la testa annuendo. - Sta già meglio. Ha ripreso le cure. Gli permettono di uscire anche e può guidare. Per questo è potuto venire da te quando ti hanno fatta uscire. Certo dopo quel giorno... - Si ferma pensieroso.
- Cosa? - Non so se sia riuscito a sentirmi, ma so che ha comunque ripreso a parlare.
- Dopo quel giorno è stata un po' più dura. Si aspettava la tua reazione, l'avevamo preparato. Ma ha avuto comunque una piccola ricaduta. Per fortuna il dottore lo conosce bene e sa come aiutarlo. Non pensarci per ora. Pensa a guarire. - Sorridendo torna alla sua conversazione precedente.
A me si avvicina Steve.
- Che è quel muso lungo, piccola? -
- Ho parlato con Claudio. Mi ha detto che Evan è peggiorato dopo che ci siamo visti. -
Al solo sentire il suo nome, Steve si incupisce, serra i denti. - Gliel'hai chiesto tu? -
Annuisco. Steve fa un respiro profondo prima di riprendere a parlare tra i denti serrati.
- Perchè? - Non mi guarda in faccia, fissa il lenzuolo. - Perchè chiedi di lui? -
- E' mio... -
- Non è tuo amico! - Mi interrompe alzando la voce. Gli altri, per fortuna, non lo notano o non gli danno retta. - Ti ha fatto del male, Bree! E potrebbe rifartene! -
- E'... -
- Malato? Bella scusa! -
- Non è una scusa. - Interviene Claudio.
Steve si zittisce. Nella stanza cala il silenzio. - Io sono suo padre, ma non gli perdonerò lo stesso quello che ha fatto passare a Bree. Ma lui è mio figlio e la sua malattia non è una scusa. - Non l'ho mai visto così serio.
Steve non risponde, ma lo vedo respirare sempre più ferocemente ed increspare le labbra sempre più strette.
- Non ti permettere mai più di dire una cosa del genere. E poi facendo così non ti comporti tanto meglio di lui! -
Steve non ce la fa più a trattenersi. Le vene del collo gli si stanno gonfiando a dismisura. Faccio scivolare il braccio sul lenzuolo fino ad accarezzargli la mano. Lui me l'afferra e la stringe.
- Bree deve guarire ed è questo che vogliamo tutti, ma dobbiamo farla stare tranquilla. Parlare in quel modo non l'aiuta? -
- Pensare di suo figlio si, invece? - Sbotta. Ha sparato ogni singola parola come fosse un proiettile.
Claudio impietrisce.
- Basta così! - Nel silenzio la mia voce, sebbene flebile, si sente bene. Lascio la mano a Steve. - Avete ragione entrambi, ma non è questo il momento e non è questo il modo. - Ho cercato di alzare la voce il più possibile. La gola sta iniziando a bruciare. Mi volto verso Steve. - Sì, mi ha fatto del male. - Mi volto verso Claudio. - Sì, quello che ha fatto non è perdonabile neanche se malato. - Il bruciore aumenta sempre di più. - Ma è pur vero che entrambi dovete rispettare me. - Tossisco.
Li guardo entrambi fissare silenziosamente il pavimento. Prendo un respiro profondo prima di concludere.
- E non lo fate accusandovi a vicen.. - La frase resta incompiuta. La tosse prende il sopravvento.
Il bruciore alla gola è insostenibile. Gigì corre a darmi un po' d'acqua, ma stavolta sembra solo peggiorare la situazione. La tosse si fa sempre più intensa. Sento Cristina che urla nel corridoio cercando un'infermiera. Continuo a tossire, mentre il lenzuolo bianco inizia a chiazzarsi di piccoli puntini rossi.
L'infermiera arriva correndo e sposta, quasi di peso, tutti che si sono accalcati su di me. - Fatela respirare, per carità divina! -
Mi spinge la fronte per farmi alzare la testa e mi allontana le mani dalla bocca. - Sangue. Perfetto! -
- Come perfetto? Che significa perfetto? - Mia madre è nel panico almeno quanto me.
L'infermiera corre fuori e ritorna quasi immediatamente con una siringa piena di liquido trasparente. Cercando di tenere fermo il braccio quanto più possibile, la infila intramuscolo e la innietta. - Per il momento è l'unica cosa che possiamo fare. Sedarla. - Dice agli altri.
La tosse si fa sempre più flebile, così come la percezione di ciò che ho intorno. Oh no! Non ancora il sedativo per elefanti! Non il buio di nuovo, vi prego.

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Capitolo 40
*** 40 ***


Apro gli occhi che è notte fonda. La stanza è illuminata solo dai pochi raggi di luna che si infiltrano dalle serrande abbassate. Quando inizio ad abituarmi a guardare nell'oscurità vedo che sulla sedia accanto al mio letto c'è la mamma. Provo a chiamarla. Sento un filo sottile di aria vibrarmi in gola ed uscire dalle mie labbra, ma nessun suono le accompagna. Allungo il braccio verso di lei. Arrivo a sfiorarla appena, ma lei, che si era assopita in quella scomoda posizione, trasale.
- Amore di mamma ti sei svegliata? - Viene a baciarmi e a stringermi. Accende la luce sopra il mio letto e mi chiede come mi sento.
Provo a dirle che sto bene, ma ancora una volta il suono non arriva. Cerco di sforzarmi, ma l'unica cosa che riesco a fare è causarmi un forte bruciore alla gola aggravato da qualche colpo di tosse.
Mia madre, che un attimo fa mi guardava sorridendo, si impensierisce di colpo, con la fronte arricciata da un'aria preoccupata. - Vado a chiamare qualcuno? -
Scuoto la testa in senso di negazione e le indico l'acqua sopra il vassoio. - Vuoi bere? - Annuisco. - Prendo quella fresca dal dispenser fuori? - Annuisco ancora.
Raccoglie le mie mani e le bacia, prima di uscire. Torna in camera con un bicchiere d'acqua freddissima, che mando giù a sorsi microscopici. Sento di nuovo la bellissima sensazione di risveglio, ma stavolta la situazione della mia voce non migliora. - Tesoro, io vado a chiamare qualcuno. -
Rientra dopo poco accompagnata da un dottore che non conosco, che si presenta solo come Alex. Affascinante nel suo camice bianco, legge la mia cartella facendo scorrere i suoi enormi occhi azzurri velocemente. Conosce il mio caso, anche se non vi è mai stato in mezzo. Sembra parecchio giovane, probabilmente è un tirocinante a cui scaricano il peso delle notti. Si avvicina e mi controlla la gola, sentenziando poi che è estremamente gonfia e arrossata, motivo per cui non riesco a parlare. Dice che preferisce non darmi medicine dato che da quando sono qui mi stanno imbottendo. Mi consiglia, però, il rimedio casalingo di sciaqui col limone. Si offre lui stesso di procurarmi il necessario e di assistermi. Gli sorrido quasi ipnotizzata dal suo modo di fare.
Gli sciaqui hanno fatto un po' di effetto, anche se il dolore che mi hanno provocato è stato straziante. Per lenirlo un po' il dottor Alex mi ha procurato, non so come, un po' di the caldo con miele.
- Prova adesso a parlare. Dimmi, come ti senti? -
- Investita da un camion. - Stavolta le parole escono. Basse ed un po' graffiate, ma escono!
- Perfetto. I rimedi della nonna funzionano sempre. Adesso riposati e vedrai che domani sarà tutto come prima. -
- Grazie dottore. -
- Alex, sono Alex per te. - Mi sorride, facendomi l'occhiolino.
- Dottor Alex la ringrazio davvero di essersi premurato così tanto per mia figlia. - Mia madre lo accompagna fino all'uscita della stanza e poi torna da me.
Mi accarezza il viso sussurrandomi dolcemente che farei meglio a seguire il consiglio del dottore e a dormire. Le bacio la mano e lei mi ricambia con un bacio sulla guancia. - Buonanotte piccola mia. -
Mi giro sul fianco, voltata dalla sua parte e la guardo accomodarsi alla meno peggio sulla sedia. Chiudo gli occhi cercando di addormentarmi, ma la sento alzarsi.
- Sei scomoda sulla sedia? - Le chiedo con quel filo di voce che mi esce, tenendo ancora gli occhi chiusi.
- Sto solo prendendo una cosa, tranquilla. -
- Cosa? - Apro gli occhi curiosa e la vedo tornare verso il letto con in mano Teddina.
- Questa. - La accomoda accanto al mio viso sul cuscino, lasciandomi un altro bacio sulle tempie.
Le sorrido. - Ti voglio bene, mamma. -
- Anch'io gioia mia. Anch'io. -
Chiudo gli occhi, serena. Nonostante non mi senta quasi per niente stanca, scivolo piano in un sonno tranquillo, pieno di sogni e, fortunatamente, di ricordi.

- Dai ti prego! Giuro che se perdiamo più di venti minuti ti pago la cena. -
Steve mi guarda rassegnato ed io, baciandolo, lo trascino dentro il negozio.
Siamo venuti al Centro Commerciale per un gelato pomeridiano, che si è trasformato in un giro di shopping, che poi è diventato un 'ormai restiamo qui a cena'.
E' una situazione parecchio strana la nostra, anche se al momento, forse, sta bene così ad entrambi. E' come se fossimo una coppia, ma senza seghe mentali. Ovvero, ci comportiamo da coppia per quasi tutti gli aspetti, ma non siamo al punto di dover vivere in simbiosi e scambiarci ogni minimo movimento con l'altro durante la giornata. Non che non lo pensi praticamente tutto il giorno o che non mi chieda cosa stia facendo in quel particolare momento. Solo che non glielo chiedo e lui non lo chiede a me. Credo, però, che mi piacerebbe se lo facesse o se me lo dicesse spontaneamente. Ecco, forse, pensandoci bene, vorrei che la situazione si definisse per bene. Insomma, mi ha detto che si sta innamorando di me con un sms e poi non ha più ripreso il discorso! Però non voglio pressarlo. Lui sembra star bene così e forse è meglio aspettare un altro po'. Non lo so, in certi momenti mi sento così confusa!
- Che ne pensi di questo? - Gli mostro un carinissimo abito con una fantasia delicata.
- Molto carino, ma... - Lo vedo frugare tra altri abiti. - ...mi piacerebbe che provassi questo. -
- Sei pazzo? Mi hai forse scambiato per Gigì? - Mi avvicino per vederlo meglio. E' un tubino fasciante che arriva poco sopra il ginocchio, senza maniche, con la scollatura leggermente a cuore, di uno stupendo color smeraldo scuro. - E' un colore stupendo, ma non è il mio genere. -
- Secondo me saresti una favola con questo addosso. -
Lo prendo in mano poco convinta e mi dirigo verso il camerino. Steve mi segue continuando a fissare il mio corpo e, probabilmente, ad immaginarmi dentro quel vestito così fuori dal mio usuale. Faccio qualche passo voltando la testa verso di lui. Nel farlo arrivo addosso a una ragazza facendole cadere il malloppo di vestiti che aveva in mano. Steve inizia a ridere indietreggiando e facendo finta di non conoscermi. Io mi volto verso la ragazza cercando di aiutarla.
- Mi scusi, davvero. Ero distratta. -
- Eri girata dall'altro lato! La prossima volta guarda dove metti i piedi. -
Mi verrebbe di rispondergli a tono, di dirle che i capelli biondo platino, un chilo di trucco e uno stacco di gamba di mezzo metro non la autorizzano a trattarmi così. Fortunatamente mia madre mi ha cresciuto in modo educato, perciò mi limito a rispondere in modo piuttosto formale. - Le ho chieso di scusarmi, infatti. - Le porgo quello che le ho raccolto, anche se forse gliel'ho più lanciato in faccia. - E usi più di educazione e meno fondotina. - Opsh! Questo mi è scappato di cuore.
Senza aspettare risposta, raccolgo anche il mio vestito che è finito a terra e vado a chiudermi in camerino. Mi spoglio compiacendomi in fondo di ciò che ho fatto e ripensando alla faccia inebetita di quella biondona. Mi infilo il vestito che ha scelto Steve, facendo quanta più attenzione è possibile per non rovinare quella stoffa meravigliosa. Tiro su la lampo da sola improvvisandomi contorsionista e resto sbalordita guardandomi allo specchio. Non sembro io quella riflessa e mi stupisco di non stare, effettiamente, esageratametne male. Anzi, devo ammettere che mi ci vedo bene pur non essendo nei miei canoni. Mi raccolgo i capelli con la mano improvvisando un'acconciatura che lasci cadere qualcuno dei miei boccoli sulle spalle e tenga per sè gli altri. Immagino un bel girocollo delicato, degli orecchini sottili e lunghi ad incorniciarmi il viso e delle decolletè nere con tacco alto ai piedi. Viaggio per un attimo con la mente e mi vedo mentre, così combinata, ascolto Steve che mi apre il suo cuore dopo una bella cenetta romantica.
Convinta ad acquistarlo, quasi per scaramanzia, esco dal camerino in preda alla felicità. Cerco Steve, ma quello che trovo è un pugno dritto allo stomaco. Guardo quella stangona bionda parlare con lui e guardarlo come se volesse scoparselo qui ed ora, senza problemi. La vedo accarezzarsi continuamente i capelli e cercare di sbattergli quella dannatissima quarta sotto il naso. Vederla così improvvisamente perfetta accanto a quello che non so se è il mio uomo, mi fa improvvisamente sentire goffa ed impacciata dentro il mio futuro acquisto. Steve si accorge che sono ferma fuori dal camerino a fissarli e, sorridendo, si avvicina verso di me portando con sè lei. Mentre la guardo camminare con un'aspettata sensualità puttanesca, mi ricordo di essere in una condizione quasi impresentabile: l'accoppiata vestito elegante e calzini a righine multicolor non è certo il massimo.
- Piccola sei una favola! Lo sapevo. Lo prendiamo, no? -
- Veramente non sono ancora decisa. - Dico imbarazzatissima, mentre cerco di tirare giù la gonna per nascondere le mie odiate gambe.
- Ma se sei un incanto. - Si volta verso la biondona. - Diglielo anche tu! -
- Beh, male non ti sta. Anche se starebbe meglio a una come me probabilmente. Dovrei provarlo quasi, quasi. Hai visto se c'era la taglia più piccola? -
Una smerdata in piena regola, eh? Si sta vendicando, forse? - Non l'ho preso io quindi non lo so. - Dico digrignando un po' i denti.
- Non ho controllato nemmeno io. Valla a cercare. L'ho preso laggiù. -
Io continuo a fissarmi le punte dei calzini, mentre lei si allontana ancheggiando e cercando di attrarre sguardi sul suo culo.
- Piccola lasciala perdere. Sei una favola. -
- Ha ragione, invece. - Mi richiudo dentro il camerino. - Non è per me. -
Tolgo il vestito mentre mi cresce un nodo in gola e rinfilo svogliatamente i miei. Esco dal camerino gettando il vestito tra le mani di Steve e dirigendomi senza dire una parola verso l'uscita del negozio. Mi siedo su una panchina poco più in là ed aspetto. Credevo che Steve mi stesse seguendo, invece esce dal negozio parecchio dopo di me. Mi volto appena lo intravedo.
Sento un rumore di buste, poi mi abbraccia sedendosi accanto a me. - Piccola, ci sei rimasta male per quello che ha detto Rachele, vero?
- Rachele? Quella biondona coscia lunga? -
- Piccola, quella è un'oca egocentrica. Lascia perde quello che ti ha detto. -
- Un'oca egocentrica che ti spoglia con gli occhi. - Non avrei voluto dirlo. Mi sembra un'eccessiva dimostrazione di gelosia per due che, in fondo, non stanno neanche concretamente insieme. Però non ce l'ho fatta a trattenermi. E' arrivato il momento di tirare le somme di questo rapporto indefinito.
Lui guarda in basso, poi racchiude le mie mani tra le sue. - Piccola, lei è insignificante per me. E' una che lavora con me e tu dovresti già sapere che non mi interessa niente di lei. E' la ragazza che ti ha risposto al telefono quella volta, ricordi? -
- Quella che mi ha dato della troietta? -
- Esattamente quella. Per me lei non è nulla. Tu sei la mia ragazza. -
Il cuore che salta un battito, il sorriso che si allarga spontaneo, gli occhi che iniziano a produrre stelline, le gambe che vogliono saltare di gioia. - La tua.. -
- La mia ragazza, sì. - Mi stringe a sè e mi bacia lasciandomi senza fiato. Un bacio dolce, più dolce del solito, un bacio rivelatore di cose nascoste da tempo che non sanno più stare chiuse nel cuore. - Te l'ho detto, piccola mia. Mi sono innamorato di te come un bambino. -
- Anche per me è la stessa cosa. -
Mi bacia ancora. Poi prende da terra una busta di cartoncino plastificato bianco e me la porge. Guardo dentro e ci trovo il vestito smeraldo con sopra una scatolina di velluto nero.
- Sei un folle, piccolo! -
- Ti stava troppo bene per restare in negozio. - Prende la scatolina e la apre rivelando dei meravigliosi orecchini. Sono formati da un sottile filo argentato, lunghi ma fondamentalmente discreti. Meravigliosi, esattamente come li avevo immaginati in camerino. - Spero ti piacciano. Li ho visti alla cassa e non ho resistito. Accompagnerebbero divinamente quel tuo visino dolce. -
E cosa puoi fare in un momento di questo? Io ho fatto esattamente l'unica cosa possibile e necessaria. Gli sono saltata al collo, facendo quasi cadere tutto. Ho iniziato a baciarlo, ringraziandolo. A baciare il mio, finalmente dichiaratamente, ragazzo.

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Capitolo 41
*** 41 ***


- Avremmo dovuto dividere come abbiamo sempre fatto. Oggi hai speso fin troppi soldi per me. -
- Se l'ho fatto vuol dire che volevo farlo. -
- Ma non avresti dovuto. -
- Non è mai morto nessuno per aver offerto un panino da McDonald! -
Lo guardo mentre ride prendendomi in giro. - Sai come si dice a casa mia? Fate bene alla gatta che vi graffierà! -
- E cosa vorrebbe dire? -
- Può essere applicato in tanti modi, per esempio quando cerchi di fare un bel gesto e ti prendono in giro. - Dico canzonandolo.
- Dai piccola, ti prometto che dalla prossima volta offrirai tu. -
- Non starai esagerando adesso? - Ridacchiando ci avviamo verso il parcheggio del Centro Commerciale. - Sai che c'è? Non ho voglia di tornare a casa. - Metto un finto broncio per fare una faccia da bambina supplichevole.
- Cosa vorrebbe la mia bambina? -
- Mi andrebbe un bel film. -
- Vuoi che andiamo al cinema? Siamo ancora in tempo per l'ultimo spettacolo, credo. -
Annuisco e sorrido in modo consapevolmente esagerato, per concludere bene la parte della bimba accontentata. Steve mi circonda con un braccio le spalle e mi bacia il naso, sorridendo a sua volta. - E cinema sia. -
Arrivati al cinema, però, non troviamo nessun film che vada bene ad entrambi.
- Io avrei avuto un'idea, se per te va bene. -
- Sentiamo. -
- Andiamo da me. In camera ho una collezione di DVD da fare invidia al peggior cinefilo, un impianto audio-video discreto e un divano nettamente più comodo delle poltroncine che ti propinano qui. -
Non so perchè, ma il solo pensiero che mi stia invitando per la prima volta in camera sua fa accendere le mie guance di un rossore vivido. - Dici che è una buona idea? -
- Solo se tu vuoi, ovviamente. -
- Per me andrebbe anche bene, ma non daremo fastidio ai tuoi? -
- Io dico che neanche se ne accorgeranno, fidati. -
Il rosso si ravviva e il sorriso imbarazzato non vuole andare via. - Va bene. -
Mi afferra la mano e torniamo in macchina, in silenzio. Non capisco proprio cosa mi prenda. Quest'imbarazzo, quest'emozione, queste sensazioni così forti.
- Piccola sei sicura che ti va? Hai messo il muso da quando te l'ho chiesto. -
- No, no! Assolutamente. Ti sbagli. - Mi esce un sorriso un po' troppo forzato.
- Sicura? Ti sei ammutolita. Se non vuoi, sei stanca o hai cambiato idea ti riaccompagno a casa. -
- No, niente di tutto questo. -
- Ti imbarazza venire da me? -
- Un po'. - Confesso iniziando a torturarmi le dita e fissandomi le ginocchia.
Lui mi fissa per un attimo, non dicendo una parola. Sento i suoi occhi addosso, il suo sguardo sembra riscaldarmi. Ferma le mie mani accarezzandole con la sua. - Hai paura che voglia fare l'amore con te? - La domanda mi stupisce ancor di più delle mie emozioni. Il ginocchio destro inizia a pulsarmi. Mi volto piano verso di lui col viso in fiamme e senza sapere che dire. - E' capitato più di una volta che lo stessimo per fare. Avevi paura anche quelle volte? -
Un secco 'no!' mi esce d'istinto.
- E allora? Cosa c'è che non va adesso? -
- E' che credo che ci sia un motivo per cui ogni volta capitava qualcosa. -
- Piccola erano solo coincidenze. Credi davvero che ci sia qualcosa che non vuole che stiamo insieme? -
- No, no. Credo solo che qualcosa ci abbia fatto capire di rallentare. - Vedendo il suo sguardo perso, comprendo che non ha realmente capito cosa voglio dire. - Ecco, credo che non dovremmo bruciare le tappe. L'ho fatto troppe volte e sono tutte finite male. Voglio andarci piano con te, voglio che venga dal cuore, non dagli ormoni. -
Inizia a sorridermi. - Hai detto una cosa dolcissima. -
- Lo so che è un ragionamento forse un po' stupido alla nostra età, soprattutto, dato che nessuno dei due è vergine, però... -
- Ho capito, Bree. - Stringe le mie mani. - Rallenteremo. - Ci scambiamo un bacio, reso ancora più dolce dal sapore di MilkShake al Tiramisù che ancora c'è.
Mette in moto ed esce dal parcheggio. Entrambi sorridiamo incessantemente. Mi sento tornata alla mia prima cotta adolescenziale, solo che stavolta credo che lui mi rispetti e sia preso almeno quanto me.
- Comunque la collezione di DVD ce l'ho davvero e l'invito per il film è valido lo stesso. -
Sorrido ancora di più. - E film sia. -

Arriviamo a casa sua dopo aver guidato per mezz'ora buona. Quello che mi si presenta è uno spettacolo che non avrei mai immaginato. Una villa meravigliosa, in una zona tranquillissima e con un giardino immenso. Mentre la aggiriamo per arrivare alla stanza di Steve, che si trova nella dependance sul retro, intravedo un gazebo con un salottino da esterni e l'azzurro di una piscina illuminata. La sua stanza è enorme e parecchio disordinata. Ai muri poster su poster tapezzano tutta la parete sopra il letto ad una piazza e mezza. Accanto al letto, la scrivania sopra cui si trovano un fisso di vecchia generazione e un portatile Dell che sembra nuovo di zecca. Dall'altro lato della stanza, la parete è riempita interamente da una libreria straripante di DVD. I libri sono relegati in un unico ripiano in alto e sembrano per la maggior parte libri scolastici. Ad angolo con la libreria, uno schermo LED a parete di fronte a un divano tre posti foderato di blu scuro, circondato da un impianto audio che credo faccia scoppiare le orecchie se usato al massimo del potenziale. Continuo a girare lì dentro sempre più stupefatta.
- Ti piace? -
Lo guardo ancora sconvolta. - Sei figlio del Presidente della Repubblica e non me l'hai detto? -
Ride.
- Dico sul serio! Credevo lavorassi per mantenerti. -
- Infatti lo faccio. Non mi piace fare il mantenuto dai genitori. Prendo quello che vogliono darmi, il resto me lo sudo io. -
- Anche queste meraviglie? -
- La dependance è stata mia di diritto quando i piccoli sono cresciuti e hanno reclamato delle camere singole. Quello che c'è dentro è un misto di regali e soldi lavorati da me. -
- I piccoli? Non mi avevi detto di avere fratelli. -
- Non me l'hai mai chiesto! Ne ho due, un maschio e una femmina. Gemelli eterozigoti. -
- Quanti anni hanno? -
- Ne hanno fatti quattordici due mesi fa. Tu sei figlia unica? -
- Si. Ho una sorellastra che non ho mai conosciuto. Da quando mio padre se ne è andato non abbiamo più avuto contatti. So che ha una bambina di due anni solo da voci esterne. -
- Da quando vi ha lasciate? -
- Sono tre anni orami. - Dico un po' triste. Parlare di mio padre non mi piace. - Avevano problemi da prima, quindi per il divorzio ero quasi contenta. Non credevo che si sarebbe dimenticato di me, però. -
Steve mi abbraccia forte. - Non sa cosa si è perso a non stare vicino ad una bimba tanto speciale. -
- Vuol dire che per lui non sono tanto speciale. -
- Tu lo sei e basta! Non è una questione soggettiva. - Mi stringe più forte, quasi togliendomi il respiro.
- Oh, scusate! Non sapevo che avessi ospiti. - Sulla porta della dependance c'è una donna. Suppongo sia la madre di Steve. Una donna matura col viso segnato da qualche ruga, ma comunque estremamente sobria ed elegante. Orecchini dorati ai lobi, rossetto rosso fuoco e occhi studiatamente delineati da un filo di matita nera. Il suo viso, però, non mi è nuovo, mi sembra di averla già vista.
- Ciao mamma, questa è Bree. -
- Piacere. - Dico imbarazzatissima. Chissà che idea si è fatta a trovare suo figlio con una ragazza qui senza che lei ne sapesse nulla.
- E' un piacere. - Dice educatamente, poi ritorna fissa sul figlio. - Credevo fosse chiaro che ci devi avvertire quando porti persone in casa. - Il suo tono è fermo, ma non sembra un rimprovero.
- Lo so, ma è stata una cosa improvvisata. Vediamo un film e l'accompagno a casa. Credevo che foste fuori, per questo non sono entrato ad avvertire. -
- Va bene, Stefano. - Eh, Stefano? - Io e papà stiamo uscendo adesso perché sono tornata tardi da lavoro. -
- Giornata difficile in ospedale? - Ospedale? Ecco dove l'ho già vista!
- Abbastanza, sai com'è da noi. Un giorno di pace e uno di inferno. Comunque noi stiamo andando. Un'ultima cosa. Ha chiamato la zia e dice che probabilmente stasera Alessandro viene a dormire qui. -
- Qui? Perché? -
- L'hanno trasferito nel mio reparto quindi dovrà cercare una casa qui vicino per evitare di viaggiare ogni giorno. -
- E deve venire qui a rompere? -
- Non parlare così di tuo cugino! Almeno lui qualcosa l'ha conclusa! -
- Grazie mamma. Comunque il fatto che non sono diventato medico anch'io non significa che non ho concluso nulla! -
- Lo spero tanto, per te principlamente! Adesso vado che papà mi aspetta in macchina. Buonanotte tesoro. Ciao... -
- Bree. - Le suggerisco io.
- Che strano. Mi sembra di aver già sentito questo nome. -
- Sì, sono stata sua paziente. Due volte. -
- Capisco. Scusami cara, ma purtroppo vedo molte facce ogni giorno ed è difficile ricordarsi di tutti se, fortunatamente per loro, non passano molto tempo da noi. -
- Oh, non si preoccupi. La prima volta è stato solo per un paio d'ore, la seconda solo quattro giorni. -
- Spero, sinceramente, di non rivederti più lì dentro. -
- Lo spero anch'io. - Sorrido.
- Ora vi lascio al vostro film. Buonanotte ragazzi. -
Appena va via, Steve si getta a peso morto sul divano.
Mi getto vicino a lui. - Allora, Stefano! - Dico prendendolo in giro.
- No, ti prego! Lei è l'unica a chiamarmi così e solo raramente per fortuna. -
- Ma è così che ti chiami, no? -
- Solo perché voleva mettermi un nome italiano dato che ho un cognome straniero. -
- Croppins, giusto? -
- Collins. Papà ha origini inglesi. -
- Non è che sei parente con Phil Collins, vero? -
- Non con quello famoso almeno! - Ridiamo insieme.
- Tua madre ti fa pesare di non aver fatto il medico? -
- Mi fa pesare di aver abbandonato Medicina perché volevo mantenermi da solo. -
- Strano, avrebbe dovuto apprezzarlo. -
- Lei crede che, dato che economicamente non era un problema per loro, non avrei dovuto farlo. Alla fine, però, l'ha superata . -
- Prima non sembrava. -
- Ogni tanto gira il coltello nella piaga, ma si è molto calmata rispetto a quando ho fatto il 'grande passo'. -
- Tuo padre come l'ha presa? -
- Lui bene. Pur di non avere due medici in casa avrebbe pagato per farmi rifiutare da qualsiasi facoltà di Medicina! Tu quando hai conosciuto mia madre? -
- E' stata lei a dirmi che ero incinta e lei a dirmi che avevo abortito. - Abbasso gli occhi con un velo della solita tristezza che ancora non è del tutto scomparsa.
- Certo che stiamo prendendo un argomento più bello dell'altro stasera, eh! - Steve cerca di sdrammatizzare. - Lo vediamo o no questo film? -

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Capitolo 42
*** 42 ***


Abbiamo scelto di vedere Wall-E. O meglio, l'ho scelto io in verità, perché sono impunemente innamorata di quel robottino con gli occhioni dolci. Solo che non avevo calcolato che, pur essendo dolcissimo e pieno di significato, è un po' troppo silenzioso per vederlo quando si è stanchi e si è sprofondati su un divano comodo. Perciò non sono arrivata a vedere nemmeno l'arrivo di Eve che già ronfavo beatamente tra le braccia di Steve. Non so se lui l'abbia continuato a guardare da solo, ma so che mi sono appena svegliata nel suo letto. Stropiccio gli occhi e mi stiro un po'. Lui non c'è, la stanza è completamente vuota. Mi alzo cercando qualche suo segnale. L'unica cosa che si sente è l'acqua che scorre dalla doccia, nel bagno della dependance. Sorrido e mi mordo il labbro, mentre decido di entrare a fargli una sorpresa. Apro piano la porta che non è chiusa a chiave ed entro in punta di piedi.
- Buongiorno piccolo. - Sussurro mentre inizio a togliermi la maglietta di ieri sera fissando la sagoma che si intravede in mezzo al vapore dalla porta di vetro satinato. La vedo voltarsi verso di me. Allora mi giro di spalle. Sento l'acqua fermarsi e la porta aprirsi un po'. - Non uscire, dai. Ti va un po' di compagnia? - Mi slaccio i jeans e mi volto verso la doccia prima di iniziare a scenderli. - Oh cazzo! -
- Non credevo di riceve una così bella accoglienza da mio cugino. -
Estremamente imbarazzata e quasi completamente nel panico, raccolgo la maglietta e me la poggio addosso cercando di coprirmi. Pietrificata, guardo ancora ad occhi sbalancati quel viso che si sporge a guardarmi da dietro la porta. Il suo corpo, troppo vicino al vetro, è nascosto ai miei occhi solo da un leggero vapore che ancora non è svanito.
- E allora? Entri o no? - Dice ammiccando.
Torno in me e scappo via dal bagno sbattendo la porta. - Si usa chiudersi a chiave, non lo sapevi? - Gli urlo, giustificandomi ancora mortificata per quello che è successo.
Lo sento ridere e riaprire l'acqua. Mi infilo la maglietta e, cercando la mia borsa con l'intenzione di andar via, trovo un messaggio di Steve. Dev'essere stato poggiato sulla scrivania, ma adesso è caduto per terra accanto alla sedia girevole. Lo raccolgo. 'Piccola sono dovuto andare via per delle commissini. In casa non dovrebbe esserci nessuno perché ieri Alex non è arrivato, ma se dovessi incontrare un coglione palestrato è lui. Se vuoi e puoi, aspettami. Altrimenti ci sentiamo per telefono. Già mi manchi. Un bacio, Steve.' Palestrato non lo so, ma coglione sicuro! Cacchio Steve, pure tu poi. Mettere il messaggio in un posto dove l'avrei visto subito, no? Mi sarei evitata sta situazione ben volentieri. Mentre ancora rimugino su ciò che è successo e su come sarebbe potuto non succedere, Alex esce dal bagno con addosso solo un asciugamano attorcigliato in vita. Ok, è anche palestrato come ha detto Steve. Ha rubato una tartaruga al WWF e se l'è appiccicata sul ventre e le spalle sembrano quelle di un quarterback di football con tutta la divisa di gioco. Mi guarda sogghignando mentre va verso la libreria. Solo adesso vedo che lì ci sono ben due valigie.
- Potevi metterti qualcosa addosso prima di uscire dal bagno, sapendo che qui c'ero io! - Lo rimprovero continuando ad arrossire e cercando di non fissarlo.
- Io l'ho fatto proprio perchè c'eri tu! - Ride sguaiatamente. - Io ho visto te mezza nuda e questo è il mio modo per ricambaire il favore. -
- Favore un bel niente! E' stato un equivoco. -
- Cercavi qualcun altro? -
- Ero convinta che fosse Steve. Mi ero dimenticata che doveva arrivare suo cugino. -
Si avvicina a me e mi toglie il biglietto di Steve dalle mani. - Ma se dovessi incontrare un coglione palestrato è lui. - Legge imitando la voce di Steve. - Quindi lo sapevi. - Lo lancia verso di me, ma il foglietto arriva oscillando a terra.
- L'ho letto dopo. -
Sorriso bastardo e torna alle sue valigie.
- E comunque non mi fai affatto un favore facendoti vedere mezzo nudo. -
Lascia volontariamente cadere l'asciugamano a terra. Mi volto immediatamente verso la scrivania, innervosita oltre che imbarazzata. Fortunatamente mi dava le spalle e adesso io le do a lui mentre si veste con calma e senza pudore. - Ti imbarazza vedere un uomo nudo? -
Mi prende pure in giro sto stronzo! - Vaffanculo! -
- Quanto sono signorili le ragazze che mio cugino si porta a letto! -
- Ehi, ehi! Modera i termini! - Me ne strafotto di rischiare di vederlo nudo o meno e mi alzo in piedi raggiungendolo. Fortunatamente ha già infilato i jeans perciò in bella mostra c'è solo roba innocua.
- Che ho detto? -
Mi posiziono di fronte a lui, seria, incazzata. - Non ti permettere di parlare così di me. -
- Per quale parte della frase ti sei offesa? - Continua imperterrito a fare il sorrisetto bastardo.
- Iniziamo dal fatto che non sono una di quelle che tuo cugino si porta a letto. -
Alza il sopracciglio con fare beffardo. - Sei una ragazza, eri nel suo letto e stamattina volevi fartelo in doccia. O volevi soltanto aiutarlo a pulirsi la schiena? -
- Te lo ripeto. Vaffanculo! -
Mi afferra il viso con una mano. Cerco di tirarmi indietro, ma stringe quanto basta per non farmi muovere. - Ora sei tu che devi moderare i termini. -
- Se vuoi te lo dico di nuovo! -
Mi lascia libera. Inizio a massaggiarmi le guancie indolenzite. - Hai un bel caratterino per essere una ragazza di mio cugino. -
- Non sono UNA ragazzo di tuo cugino. Sono LA ragazza di tuo cugino. -
- Ah, sì? - Mi risponde con sarcasmo. - E da quanto state insieme? -
- Da quasi due mesi. - Mento. La risposta 'da ieri' sarebbe stata l'equivalente di 'eccomi, sono su un piatto d'argento per te, vuoi anche delle patate per contorno?'.
- E perchè io è la prima volta che lo sento? -
- Abbiamo fatto le cose con calma. -
- Ma davvero? -
- Già. E poi, saranno anche fatti nostri come decidiamo di gestire la nostra storia o no? - Lo fisso in cagnesco.
Non risponde, ma finalmente si toglie quel sorrisetto insopportabile quanto affascinante dal viso. Si infila la maglietta e mi porge la mano. Lo guardo un po' confusa.
- Ricominciamo da capo? -
- In che senso? -
- Io sono Alessandro. Per te, Alex. - Mi fa l'occhiolino sorridendo.
- Bree. - Gli stringo la mano guardandolo negli occhi, nei suoi profondissimi occhi blu cobalto.
- Bel nome. -
- E' un diminutivo. - Sono delle calamite, i suoi occhi. Un labirinto in cui perdersi.
- Hai fame, Bree? - Dice staccando le nostre mani.
Non gli rispondo e continuo a fissare quel blu, quasi certa che tra poco arriverà la spuma delle onde a colorarli.
- Potrei esserti d'aiuto dato che non conosci la casa. -
Finalmente mi riprendo. - Sì. - Bella ripresa, eh! Ma meglio di niente. - Grazie. -
Mi fa strada verso la cucina, a cui si accede direttamente dalla porta dall'altra parte del vialetto. Mi accomodo su uno degli sgabelli alti intorno all'isola che si estende direttamente dal piano cottura. Inizio a fare vagare il mio sguardo in quell'immenso ambiente, estremamente sobrio ma contemporaneamente accogliente e caldo. Sembra la tipica cucina di un telefilm americano. Alex mi prepara una tazza di latte e mi porge un pacco di biscotti al cacao. Poi mette su il caffè. Mentre addento il primo biscotto il suo cellulare suona.
- E' il tuo ragazzo. - Mi sussurra prima di rispondere. - Pronto? ... Sì sono arrivato stamattina. ... No, non è successo nulla, solo che morivo di sonno e mi sono fermato in un motel. ... Sì è qui, perchè? - Fa un cenno con il capo verso di me, come se Steve potesse vederlo, e fa nuovamente l'occhiolino. - Sì è svegliata poco fa, non avrà controllato il cellulare. Ci vuoi parlare? ... Ok, te la passo. - Mi porge il cellulare e torna a badare al caffè.
- Buongiorno. -
- Ehi, piccola. Hai dormito bene? -
- Molto bene, grazie. - Mi alzo e mi allontano un po' per poter parlare più liberamente. - Certo, avrei preferito svegliarmi con te. -
- Lo so, piccola, ma dovevo proprio andare. Mio cugino ti ha dato problemi? -
Mi volto a guardarlo un attimo e trattengo la risata che mi uscerebbe spontanea ripensando a cosa è successo e a come reagirebbe Steve nel saperlo. - No, nessun problema. -
- E' un po' un coglionaccio. Non farci molto caso. -
- Tranquillo, piccolo. E' tutto sotto controllo. -
- Che ne dici di pranzare insieme? -
- Veramente avevo un mezzo impegno con Gigì. -
- Capisco. -
- In caso le chiedo se è libero Joshua e andiamo in quattro. -
- No piccola. Stai con lei. Non vi vedete quasi mai da quando si sono formate le coppiette. - Lo sento ridacchiare.
- Allora facciamo uscita a quattro stasera, ok? -
- Proponilo a lei e fammi sapere. Per me va bene. -
- Ok piccolo. -
- Mi manchi. -
Arrossisco al solo sentirglielo dire. - Anche tu. - Ancor di più nel dirlo, soprattutto sentendo quanto è stranamente vero.
Ci salutiamo e riagganciamo. Porto il cellulare ad Alex e torno al mio latte.
- Tutto bene? - Mi chiede lui.
- Certo. Perché non dovrebbe? -
- Mio cugino è un po' geloso. Non vorrei che ci fossero problemi per stamattina. -
- Geloso? Steve? Non me ne ero mai accorta! - Rido ripensando a tutto quello che ha fatto per la sua gelosia. - Non gli ho detto nulla. E' stato un grosso malinteso, no? - Stavolta sono io a fare l'occhiolino a lui.
- Sì, sei nettamente troppo simpatica per essere la ragazza di mio cugino! -

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Capitolo 43
*** 43 ***


Il pranzo con Gigì è stato tranquillo e la serata a quattro è stata accettata con entusiasmo. Essendo Venerdì sera, Steve e Joshua hanno dovuto fare un po' di salti mortali per trovare chi li sostituisse al locale, ma per la nostra serata ci sono riusciti. Si è deciso per un locale ultra-chic. In realtà Steve ha insistito perché andassimo lì per farmi indossare il vestito che mi ha regalato e Gigì, ovviamente, non se lo è fatto ripetere due volte. Presto, però, questa si è trasformata in una serata a otto in cui di mezzo c'era un mezzo appuntamento al buio. Si sono uniti a noi Debby e Giovanni, così abiamo pensato di dirlo anche a Cristina. Per non farla restare da sola a reggere il moccolo a tre coppie ho costretto Steve a invitare Alex. Parecchio di controvoglia, ma ha accettato. 
- Sei una meraviglia amore! -
- Gigì, lo dici ogni volta che usciamo. Il tuo parere sta perdendo di credibilità. - Ridiamo insieme e ci infiliamo in bagno per truccarci.
Il verde smeraldo del vestito con le luci serali sembra ancor più meraviglioso e gli orecchini sono semplicemente perfetti. Tutto è come l'ho immaginato in camerino. 
Gigì è strafighissima nel suo abito stile impero dalla gonna leggermente a palloncino che arriva a metà coscia. La fisso dallo specchio e vedo che mentre tira la riga di eyeliner, stranamente, le trema la mano. 
- Per caso sei nervosa? -
- Io? Perchè? -
- Ti tremano le mani. -
- Ma che dici. -
- Guarda! - Le afferro la mano e la lascio nel vuoto. Trema come una foglia. 
Gigì sbuffa e si allontana incrociando le braccia. Lascio cadere lo scovolino del mascara e l'abbraccio. - Ehi stellina, è successo qualcosa? -
- E' Joshua che mi fa quest'effetto. Non mi era mai successo. - La ascolto sorridendo. - Mi trema la voce quando gli parlo, mi sudano le mani in continuazione, lo stomaco non si decide a stare al suo posto e tremo quando so che lo vedrò. E non ti dico cosa mi succede quando mi sfiora! Mi gira la testa, il cuore mi scoppia e non riesco più a muovermi. -
- La mia Gigì si è per caso innamorata davvero stavolta? -
Mi guarda un po' triste, pensierosa più che altro. Arrossisce e si pizzica i gomiti freneticamente. - Credo di sì. -
- E lui? - 
- Non ne ho idea! Non capisco più niente quando siamo insieme. -
- Allora stasera ci penso io a squadrarlo bene! - Le dico, portando allegramente la lingua tra i denti del mio sorriso. Le prendo il viso tra le mani e stampo un bacio fortissimo sulla guancia. - Adesso sbrighiamoci che ci staranno aspettando. -

Il locale è estremamente elegante, molto più di quanto ho sempre immaginato osservandolo da fuori. Un'enorme terrazza coperta e circondata da pareti di vetro sovrasta la scogliera e si tuffa nel mare della notte striato dei riflessi argentati della luna. La luce soffusa e le molte candele che emanano un delicato odore di gelsomino rendono l'atmosfera estremamente romantica. 
- Avessi saputo che volevi venire qui, saremmo stati da soli. - Sussurro con un misto di dolcezza e malizia a Steve, mentre appesa al suo braccio mi conduce verso il tavolo che ha prenotato per noi. 
- Vuol dire che ci torneremo. - Mi bacia la tempia. - Ragazzi. - Si volta verso gli altri. Ci siamo tutti, meno Alex che stacca un po' più tardi da lavoro. - Non è il migliore tavolo del locale, ma spero vi piaccia ugualmente. -
Tutti annuiscono e si complimentano per il gusto nella scelta del locale. Lo guardo ricevere con garbo e delicatezza i complimenti e familiarizzare di più coi miei amici, coi pezzi della mia vita. Nel suo vestito nero, reso un po' più soft dalla camicia bianca lasciata un po' aperta, trasuda eleganza e compostezza. Quasi non si direbbe che sia lo stesso ragazzo che fa il barista in disco. Dopo aver conosciuto parte della sua vita, però, credo sia normale che sappia comportarsi in situazioni più d'élite. Da vero galantuomo, mi aiuta ad accomodarmi e mi bacia lievemente il dorso della mano prima di accomodarsi accanto a me continuando ad accarezzarla.
Ricordo la promessa fatta a Gigì e mi volto a controllare come è tra di loro la situazione. Credo che Gigì non sia la sola ad essersi annegata il cervello in una pozione di cuoricini rossi. Joshua sembra non vedere altri che lei intorno a sè. Cercare di parlare con lui è un'impresa perché è quasi totalmente assorbito da lei. Anche lui, tutto in tiro per com'è, non si riconoscerebbe.
- Mi sto spostando vicino alle ragazze per il momento, ok? - 
- Va bene, piccola. - Bacia nuovamente la mano prima di lasciarmi andare. 
Vado a sedermi nel posto libero accanto a Cristina, lasciandolo alla sua conversazione con Giovanni.
Cristina mi chiede subito di Alex e continua a ripetermi che gli appuntamenti al buio non le sono mai piaciuti.
- Non è esattamente un appuntamento al buio, Cri! Gli abbiamo chiesto di unirsi per non restare dispari. -
- Se era per quello potevo restare a casa tranquillamente. -
- Non fare la musona solitaria. Prova a rilassarti. - Le pizzico piano il braccio. - Credo che sia di allegra compagnia il cugino di Steve. -
- Non lo conosci? -
Gigì, che ha sentito ciò che dicevamo, ricordando quello che le ho raccontato a pranzo, lascia per un attimo il suo Josh per sussurrarmi un 'altro che' ridendo maliziosa. 
Continuamo ognuno nelle sue conversazioni per circa mezz'ora.
- Steve, ma tuo cugino quando staccava da lavoro? Io avrei fame! Ordiniamo? - Lo stomaco di Gigì non conosce ragioni quando inizia a farsi sentire! Ma, in fondo, ha solo detto ad alta voce ciò che tutti stavamo pensando. 
- Se volete, ordiniamo anche senza di lui. - Risponde visibilimente imbarazzato per il cugino. 
Tutti si tuffano nel menù ed io torno a prendere il mio posto accanto a lui. Mi porge il menù, ma lo rifiuto. 
- Scegli tu per me, mi fido. - Gli dico baciandolo. 
- Non lo farei se fossi in te! - Mi volto verso la voce. 
- Perchè? - Sorrido ad Alex.
- Se non conosce alla perfezione i tuoi gusti lo manderai in crisi con una richiesta del genere. -
- Sei arrivato da soli tre secondi e già inizi a prendermi per il culo. - Steve sembra alterato dall'istante in cui l'ha visto. 
- Altimenti a cosa servirebbero i cugini? - 
In risposta Steve borbotta qualcosa che nemmeno io arrivo a comprendere bene. 
- Dato che non mi presenti tu alla bella comitiva, lo faccio da solo. Io sono Alex, il cugino di quell'individuo a capo tavola. -
Questa battuta da un po' fastidio anche a me, così cerco di cambiare discorso, chiamando ad alta voce il cameriere per prendere le ordinazioni. 

La cena è squisita. Purtroppo non ho potuto godermela come avrei voluto. Steve sopporta male la sostanziosa dose di egocentrismo di suo cugino e mentre Alex ha dato il meglio, o il peggio, di sé tenendo banco nella conversazione per la maggior parte della serata, lui è stato adombrato in silenzio. Con una scusa l'ho portato in disparte.
- Piccolo, per favore. Non potresti cercare di sorridere un po'? -
- Non posso farci niente se stare con mio cugino mi sta stretto. Avevo già detto che era una cattiva idea. -
- Lo so e ti chiedo scusa per aver insistito, ma ti prego non roviniamoci la serata. - Gli chiedo supplichevole. 
- E poi ti spoglia con gli occhi! - 
- Secondo te qualasiasi maschio mi spoglia con gli occhi! -
- Solo perchè è vero. - Mi attira a sè portando un braccio dietro la schiena. Mi sorride davvero, per la prima volta da quando è comparso suo cugino. - Perché sei la più bella di tutte. -
- E tu il più bugiardo. -
Ci baciamo discretamente ma con quel tanto di trasporto che basta per farmi rizzare la pelle e poi torniamo al nostro tavolo sorridenti. 
- Oh, mio cugino che sorride! -
- Capita. - 
Gli accarezzo il volto mimandogli un 'grazie' con le labbra. So quanto sforzo gli costa lasciar correre. 
- Dov'è Joshua? - Chiedo a Gigì.
- Ha ricevuto una chiamata e si è allontanato. - 
- Ah sì, sta tornando. -
In effetti Joshua si avvicinava al tavolo, ma il suo aspetto è tutt'altro che sorridente. - Steve, ha chiamato Dav. -
Anche Steve si fa serio. Lo guardo preoccupata. - Ci sono problemi? -
- Ha detto se possiamo passare a locale per fine serata. -
- Senza di noi non riescono a fare un cazzo. - Sussurra Steve stringendo un po' troppo la mia mano. 
Lo guardo triste. - Devi andare? -
Steve mi fissa con altrettanto dispiacere. Poi, risoluto, si rivolge a Joshua. - Che gli hai detto? -
- Che dovevo parlarne con te. -
- Bene, allora digli che andremo al locale. -
- No! - Esce in modo flebile ma udibile sia dalle mie labbra e che da quelle di Gigì. 
- Andremo al locale. - Dice guardandomi sorridendo. - Andremo tutti al locale, se per nessuno è un problema. - Osserva tutti quelli del nostro tavolo cercadone l'assenzo. - Non andremo per lavorare. Andremo da clienti, solo per vedere la situazione ed essere pronti in caso di imprevisti. Mi sono rotto di fargli da balia. Devono imparare ad andare avanti anche senza di noi! -
Lo guardo illuminata. - Grazie. -
- Perchè mi ringrazi? -
- Perchè resti con me. - 
Mi sorride dolcemente, mi afferra entrambe le mani. - Da adesso, sempre. - Mi bacia teneramente. - E poi, dove dovrei lasciarti andare da sola vestita così? -
- Scemo! - 
Ci baciamo ancora, mischiando i nostri sorrisi ed intrecciando le nostre anime.

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Capitolo 44
*** 44 ***


E' un po' imbarazzante entrare nel locale conciati così elegantemente, ma una volta dentro ci avviamo verso una conclusione di serata inaspettata che soddisfa un po' tutti.
Joshua e Steve fanno sapere che sono arrivati, ma restano con noi in pista. Ci avvinghiamo l'uno all'altra e dopo pochi attimi tutto sparisce. Esistiamo solo noi e la musica che guida i nostri corpi a muoversi all'unisono.
L'incanto, però, è rotto dopo poco. Qualcuno li viene a prelevare dalla pista. Ci lasciano sole, ma, sperando di rivederli presto, continuamo a ballare insieme. Alex si precipita in mezzo a noi trascinando con sè Cristina e poi sparisce anche lui in mezzo alla folla. Si ripresenta poco dopo, portando come un equilibrista quattro cocktail stracolmi. Li tracanniamo alla goccia insieme, prese completamente dall'euforia di questa svolta della serata che si rileva piuttosto gradita. Vedo Cristina scatenarsi come mai ha fatto. Credo che stia seguendo il mio consiglio di rilassarsi un po', chiudendo fuori preoccupazioni e pensieri. Inizia a ballare con Alex, mentre io torno in coppia con Gigì, nell'esaltazione di un gruppetto di ragazzi con gli ormoni al guinzaglio.
Mentre ballo con lei mi sento afferrare delicatamente i fianchi. Mi volto e vedo che è proprio Alex. - Scambio di coppia? - Urla la sua proposta per farla approvare, ma la attua senza aspettare la risposta. Mi attira verso il suo corpo, quasi lanciando Cristina cerso Gigì. Mi tiene stretta a sè cingendomi in vita ed ondeggia lateralmente strusciandosi contro la mia schiena. Cerco di allentare la sua presa, ma non ci riesco. - Ti da fastidio se ti tengo così? -
Finalmente riesco a liberarmi dal suo braccio. - Non riesco a ballare. - Dico sorridendo nascondendo il sarcasmo che dovrebbe pungerlo in volto.
Pur capendo il mio, non proprio velato, rifiuto all'abbraccio, torna a tirarmi verso di sè afferrandomi per il braccio. - E io non riesco a parlarti se stai così lontana. - Sotto le luci alternanti della pista, i suoi occhi si fanno più chiari. Il blu cobalto diventa quasi un azzurro che tende all'indaco. E sono tinti di malizia, adesso come stamattina.
- Non siamo qui per parlare. - Gli dico tentando di allontanarmi.
Stavolta non ci riesco. Continua ad avvicinarmi, finchè non mi serra intorno entrambe le braccia facendomi aderire completamente a sè. Affonda la faccia nel mio collo, annusando a fondo il mio odore. - Hai un profumo così buono. - Lo sento iniziare ad accarezzarmi avvicinandosi pericolosamente al mio fondoschiena. Posso quasi intuire i suoi pensieri, confermati immediatamente dalle sue azioni. Avverto la punta della sua lingua umida solleticarmi il collo e salire su fino al lobo dell'orecchio, mordicchiandomelo. Serro i pugni e inizio a tirarglieli sui fianchi con quanta forza riesco a trovare. Insensibile a qualsiasi mia ribellione, continua a respirarmi nell'orecchio sempre più affannosamente. Inizia a sussurrarmi cose che comprendo a stento, intermezzandole con baci e morsi sul collo. - Lo so che state insieme solo da ieri sera. Me l'ha detto oggi a pranzo. Perciò tecnicamente oggi potremmo fare qualsiasi cosa vogliamo senza problemi. -
- Io non voglio fare proprio niente con te! - Gli do una ginocchiata mirando ai genitali, ma riesce a pararsi.
Almeno per farlo mi ha liberata dall'abbraccio. Mi guardo intorno. Gigì e Cristina non ci sono più, ecco perchè non mi hanno aiutato. Devono essere al bar. Mi precipito lì sperando di trovarci anche Steve.
Mentre mi avvicino, lo vedo alla porta secondaria parlare con Joshua e un altro tizio un po' strambo. Mi precipito da lui e gli resto accanto senza dire una parola.
- Ehi, piccola. Che succede? -
Respiro profondamente prima di rispondere cercando di controllare al massimo la voce che un po' mi trema. - Niente. Solo che vorrei tornare a casa se non ti dispiace. - Mi sforzo di sorridere.
Steve sembra non credere al mio 'niente' e mi scruta sospettoso.
- Mi fanno male i piedi e sono stanchissima! - Adduco una scusa ancora prima che me la chieda. Poi mi avvicino di più e completo la frase vicino al suo orecchio in modo che gli altri non ci sentano. - E vorrei stare un po' da sola con te. -
Steve mi sorride. Mi ha creduto. Fa pensolare davanti a me le chiavi. - Mi servono cinque minuti. Se vuoi, inizia ad andare in macchina. -
Le afferro. Lo bacio e mi allontano. Vedo Gigì al bancone e le dico che io e Steve stiamo andando via. Poi esco dal locale e mi avvio verso la macchina.
Continuo a voltarmi sperando che Alex non mi abbia seguito. Ogni rumore sembra amplificato e un povero cagnolino che sbuca fuori da una macchina mi fa trasalire urlando. Sento dei passi seguire velocemente i miei. Istintivamente accellero arrivando quasi a correre e cerco freneticamente l'auto di Steve con lo sguardo, senza avere il coraggio di voltarmi indietro. Non penso di crederlo capace di aggredirmi, ma non riesco a fare a meno di avere il cuore in gola al solo pensiero che possa essere davvero lui. Finalmente raggiungo la macchina, la apro con il comando a distanza e mi ci precipito dentro chiudendo immediatamente la sicura. Sento ancora quei passi veloci, attutiti però dal vetro, e cerco di vederne il proprietario. Scopro essere di un ragazzo che non conosco e che non è minimamente interessato a seguire me. Infatti continua a correre verso la fine del parcheggio e sparisce dalla mia visuale.
Così mi ritrovo da sola in macchina, aspettando che Steve arrivi, stupendomi della confusione che si è venuta a creare nella mia testa. Cosa vuole Alex da me? E' uno psicolabile? E' una ripicca a suo cugino o è attratto davvero? Ma cosa ben più importante sarebbe sapere perché me ne frega qualcosa. Ho più paura che ci provi ancora o di starci se ci ripovasse? No, questo no. Stiamo insieme solo da un giorno, ma non ho dubbi su Steve, su quanto mi scoppia il cuore al solo guardarlo, su quanto ogni parte di me lo voglia perennemente accanto. Dovrei dirgli ciò che è successo, ma conosco abbastanza come è fatto da sapere come andrebbe a finire e non voglio vederlo di nuovo picchiare qualcuno per me. Soprattutto se quel qualcuno rischia di spezzarlo in due al primo colpo. Manterrò il segreto. Stavolta non per coprire Alex, ma per salvaguardare lui.
Un forte rumore mi spaventa e non trattengo un urlo balzando sul sedile. Qualcuno bussa forte al finestrino. Per fortuna è Steve. Sospiro sollevata. Leggo il suo labiale che mi dice di aprirgli. Mi ero dimenticata di essermi chiusa dentro non pensando che lui non ha le chiavi. Apro la macchina dall'interno e lo accolgo in macchina con un sorriso.
- Come mai ti eri chiusa? -
Alzo le spalle continuando a sorridere.
- Sicura che non sia successo niente? - Mi accarezza la gamba mentre mi guarda preoccupato. - Mi sembri un po' strana. -
Scuoto la testa, un po' troppo per sembrare naturale.
- Sicura? -
Annuisco, ma continuo a rimanere in silenzio.
- Vieni qui. - Mi sorride attirandomi a sè. Mi sdraio verso di lui, evitando accuratamente di conficcarmi il cambio nel fianco. - Avevo proprio bisogno di stare un po' con te. -
- Anch'io. - Sollevo la testa per regalargli un piccolo bacio.
Mi sorride e poi mi stringe dolcemente, accarezzandomi le braccia e respirando i miei capelli. - Hai un profumo così buono. -
- Cosa? - Trasalgo allontanandomi da lui. Ritorno tanto velocemente al mio posto che quasi sbatto la testa contro il finestrino.
- Ho detto solo che hai un buon profumo. - Non capisce la mia reazione. Non può, non sa. - Ti da fastidio? - Dice avvicinandosi a me.
- N-no. -
- E allora perché ti sei allontananta così di colpo? Ho fatto qualcosa che non va? -
- N-no. - Inizio a tormentarmi le dita, fissandole.
- Piccola. - Mi accarezza la fronte. - Dimmi cos'hai. -
- Non posso... - Sussurro.
Si allontana da me e, con un'aria strana, si appoggia al volante fissando dritto davanti a sé. - Chi è? -
- Chi è chi? -
- L'altro. - Si volta a guardarmi senza staccare le mani dal volante che ormai stringe quasi volesse stritolarlo.
- Non c'è nessun altro. - Mi affretto a dire appoggiando una mano sul suo braccio.
Mi fissa in silenzio quasi volesse leggermi l'anima. - So chi è. - Scende dalla macchina senza aggiungere altro e si incammina velocemente verso l'entrata.
- Che stai facendo? - Gli urlo correndogli immediatamente dietro.
- Vado a spaccare la faccia ad Alex! -
Mi fermo impietrita a quelle parole. Resto immobile in mezzo alla strada a guardarlo allontanarsi come una furia. Lui si accorge che non lo sto più seguendo. Si ferma anche lui e si volta verso di me. - E così è vero. - Dice in modo abbastanza forte da farsi sentire.
- Vero cosa? - Urlo in risposta io, riprendendo a camminare verso di lui.
Aspetta che arrivi vicino a lui per rispondermi. Mi afferra le braccia. Stringe, ma non tanto da farmi male. - Cosa è successo stamattina tra di voi? -
- Co.. Nulla! Assolutamente niente! Che ti ha detto? -
- Cosa avrebbe dovuto dirmi? -
- Non lo so cosa può essersi inventato. -
- Lui non mi ha detto niente, Bree. Ma ti conosco meglio di quanto pensi e riesco a capirlo quando succede qualcosa. Stamattina al telefono ho avvertito qualcosa, poi hai insistito per farlo uscire con noi. Vi ho visto ballare insieme e adesso non riesci a starmi vicino. -
So di non aver fatto nulla, la mia coscienza è pulita. Allora perché mi sento così maledettamente in colpa? Cerco di abbracciarlo, ma mi scosta le mani. - Steve ti giuro che non è successo nulla. Ci ha provato, sì è vero, ma non è successo niente. -
Lo vedo serrare i pugni tanto da conficcarsi le unghie corte nella carne. Inizia a respirare sempre più forte, come un toro imbufalito. Appoggio le mani sui suoi pugni. Volta il viso per non guardarmi. Glielo accarezzo ed allenta i pugni. - Mi credi? -
- Potrei spaccargli la faccia lo stesso per averci provato. -
- No, Steve. Ti prego. -
- Perché non dovrei farlo? Perché non me lo hai detto? -
- Non te l'ho detto proprio perché non volevo rischiare che lo picchiassi. -
- Perché non vuoi che lo faccia? - Mi fissa sospettoso.
- Perché non voglio che picchi nessuno. - Lo guardo seria.
Mi prende la mano e senza dire nulla ci dirigiamo nuovamente in macchina.

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Capitolo 45
*** 45 ***


Apro gli occhi. Accanto a me trovo ancora mamma che dormicchia scomodamente seduta sulla sedia. Prendo il telefono sul vassoio accanto al letto per guardare l'orario. Sono le 10 di mattina. Strano che nessuno sia ancora venuto a svegliarmi. Poso il telefono al suo posto e provo a mettermi seduta. Faccio un po' di fatica in più rispetto al solito, ma i muscoli mi rispondono. Decido di rischiare provando ad alzarmi in piedi senza che nessuno mi abbia autorizzato. Credo di poterlo fare. Giro le gambe per scenderle dal letto ed appoggio i piedi al pavimento. E' freddo, liscio, lo percepisco perfettamente. Afferrandomi al letto riesco a mettermi in piedi. Le ginocchia mi cedono un po', ma appoggiandomi al muro riesco a sostenere il mio peso. Faccio qualche passo, sorridendo per la soddisfazione di esserci riuscita. Mi dirigo verso il bagno, ma la porta della stanza si apre. Il rumore mi toglie la concentrazione e rischio di cadere. Mi appoggio con le spalle al muro per evitarlo.
- Bree, che ci fai alzata? - Mia madre, svegliata anche lei dal rumore, si precipita verso di me per sorreggermi, anche se in realtà ho già trovato di nuovo l'equilibrio.
Non le rispondo e continuo a fissare Alex che, nel suo camice bianco, è entrato nella stanza accompagnato dall'infermiera Anna.
- Signora, la lasci fare! - Dice Anna sorridendo a mia madre.
Si avvicina anche lei a me e mi stacca delicatamente le mani di mamma da dosso. - Vediamo come stanno messe queste gambine, eh tesoro? - Mi accarezza il viso dolcemente.
Sotto lo sguardo preoccupato di mamma e quello tenero di Anna, riprendo a fare qualche passo appoggiata al muro. Arrivata alla porta del bagno mi volto a guardarle con un sorriso entusiasta, quasi dimentica della presenza di Alex che si è finora limitato ad osservarmi dalla posizione che ha preso ai piedi del mio letto.
- Perfetto, Bree. Ti riprendi sempre in modo soprendentemente veloce. - Anna viene a sorreggermi per il braccio. Chiede a mia madre di fare altrettanto, poi si rivolge ad Alex. - Possiamo portare questa brava signorina a fare un giretto? -
- Credo si possa fare. Basta che non stiate molto in giro. Non deve stancarsi troppo e la dottoressa Collins sarà qui fra poco. Però prima devo controllare una cosa. -
Mentre si avvicina a me non riesco ad evitargli uno sguardo odioso.
- Controlliamo la gola, ok? - Mi dice mieloso come stanotte. - Apri la bocca. -
Ubbidisco.
- Perfetto. Il gonfiore è passato quasi del tutto, ma è ancora un po' arrossata. Ti faccio preparare un altro po' di the col miele per quando torni in camera. - Mi sorride. Visto così non si direbbe quel coglione che in realtà è. - Mi dici qualcosa così sento a che punto è la ripresa? -
Posso dirti vaffanculo? - Credo di stare molto meglio, Alex. - Pronuncio il suo nome fissandolo con occhi che sembrano fucili e scandendo il nome quasi facendone lo spelling. Voglio fargli capire che ho ricordato quello che è quando si toglie il camice bianco. La mia voce, comunque, si sta nettamente riprendendo, come il resto del mio corpo. Finalmente.
- Sì, lo credo anch'io. - Continua a sorridere. - Potete andare. -
Accompagnata da mamma e Anna esco in corridoio. Lui esce subito dopo di noi, ma va dalla parte opposta. Percorriamo buona parte del corridoio e le gambe iniziano a cedermi, così decidiamo di tornare in camera. Sdraiarmi di nuovo su quel letto sembra stranamente una cosa desiderabile. Come promesso, trovo il mio the col miele e lo mando giù piano.
La Collins arriva dopo poco che siamo tornati in camera. Il controllo va bene e si dice soddisfatta dei miglioramenti che ho fatto. Prima che vada via, arriva Benussi. Anche lui sembra parecchio soddisfatto. Dice che entro un paio di giorni dovrei rimettermi completamente. Domani ripeteranno gli esami del pre-operatorio per vedere se anche dentro la mia testa tutto sta andando per il meglio.
Mi lasciano di nuovo sola con mamma.
- Mamma ma non dovresti andare a casa a riposare? -
- Non mi va di lasciarti sola. -
- Mamma io sto bene. E tra qualche ora ci saranno le visite. - Le sorrido dolcemente. Povera mamma! Deve essere davvero distrutta dopo un'intera giornata e nottata su quella sedia. Credo che non abbia neppure toccato cibo. - Io sono più contenta se ora vai a casa, mangi tranquilla, ti fai un bel bagno rilassante, dormi un po' e poi torni con gli altri all'orario di entrata. -
Mi guarda parecchio indecisa. Non vuole lasciarmi, ma l'idea di un bel bagno e di una bella dormita comoda non credo le dispiacciano.
- Mamma, davvero. Vai. -
- Sei sicura? Cosa farai tu? -
- Cosa vuoi che faccia? - Rispondo ridendo. - Mi farò una corsetta nel giardino! -
Insisto ancora un po', ma alla fine la convinco ad andare. Rimasta da sola, sprofondo nel mio cuscino. La camminata di oggi mi ha davvero spremuto le energie. Non riesco a riposare, però. Non sono passati cinque minuti da che mia madre ha varcato la soglia che Alex si presenta in camera mia. - Posso? -
Per me risponde l'aria incazzata che mi compare automaticametne in volto appena lo vedo.
- Ho visto tua madre uscire e ho pensato di venirti a trovare per parlare un po' da soli. -
- Puoi anche andare via, allora. -
Ignorandomi, chiude bene la porta e si avvicina al letto. - Quindi ti ricordi di me? -
- Sì. Ti ho ricordato stanotte. -
- Immaginavo. Eri tranquilla con me, mentre stamattina sei tornata quella di sempre. - Sorride. Non si intravede malizia, però, in quello che dice.
- Cosa vorresti da me dopo come ci hai provato. Sono... Ero... No, sono! Sono la ragazza di tuo cugino e non avresti dovuto comportarti in quel modo. -
- Cosa hai ricordato? -
- Fino alla serata in discoteca. -
- Non so se te lo posso dire, ma ti ho già chiesto scusa per quello che è successo in discoteca. -
Continuo a fissarlo torvo.
- Scusa Bree, non sarei dovuto venire qui. - Si volta per andare verso la porta.
- Finalmente l'hai capito. -
Lo guardo allontanarsi.
- Ti ho detto che Steve sa tutto di quella sera? -
Si blocca e torna a voltarsi verso di me. Non so perché non sono riuscita a trattenermi. L'ho detto con orgoglio, quasi a sottolineare che non ha voluto coprirlo, quasi a enfatizzare quanto Steve sia stato migliore di lui nel non prenderlo a botte. In risposta lui mi guarda per un po' in silenzio, poi gli esce un mezzo sorrisetto. - No, tu non me l'hai mai detto. - Riprende a camminare verso l'uscita. - I pugni di mio cugino sì, però. - L'ha detto senza voltarsi, soddisfatto quasi quanto me poco fa, quasi a dirmi che no, Steve non era stato meglio di lui.
L'ha voluto specificare. Steve non mi ha ascoltato ed hanno litigato. Ma io lo sapevo? E' stata quella sera stessa o è successo successivamente? Meglio non dire niente a Steve per il momento.
Sto così per tutto il tempo che mi separa dalla loro visita. A fissare il muro e a cercare di capire ciò che potrebbe essere successo, a cercare di ricordare, ma ho solo peggiorato la confusione nella mia testa. Per fortuna sono arrivati puntuali togliendomi la possibilità di continuare a costruirmi castelli di sabbia e draghi di cartone. Oggi Claudio non c'è, ma gli altri sono tutti qui. Mamma è nettamente più riposata e si è rasserenata nel trovarmi esattamente come mi aveva lasciato. Gigì, Cristina e Debby si entusiasmano quando dico loro che stamattina ho fatto una passeggiata in corridoio. Mi chiedono di rifarlo, ma sinceramente non me la sento proprio. Steve è l'unico silenzioso. Seduto accanto a me, mi tiene la mano sorridendo, ma non parla quasi per nulla.
- Che hai piccolo? -
- Niente, piccola. Sono contento che stai meglio. - Mi bacia la fronte.
- Dici una parola ogni venti minuti perché sei contento? -
- Sono stato in giro tutta la mattina, sono un po' stanco. - Mi bacia di nuovo.
Gli sorrido. Gli porto la mano dietro il collo e lo attiro verso di me. I suoi stupendi occhi verdi a pochi centimetri dai miei. - La conosco questa scusa. L'ho praticamente inventata io! Ma non insisterò nel chiederti cos'hai. E' solo per farti sapere che ho capito che qualcosa non va. - Gli bacio le labbra, assaporandole per un lungo secondo. Mi mancavano.
Sorride imbarazzato. - Mi dispiace tanto per ieri. -
- Per la discussione con Claudio? -
- Sì. Mi sento in colpa. Ti sei sentita male per quello che ho fatto io. -
Lo accarezzo cercando di rassicurarlo. - Non devi. Sono io che non dovevo cercare di gridare. -
Ci sorridiamo a vicenda prima di scambiarci un altro bacio. Stavolta più lungo, più dolce, più tutto. Un bacio da togliere il fiato e dimenticare qualsiasi cosa intorno, persino mia madre.
La porta si apre mentre le nostre labbra sono ancora incollate. Ci concediamo ancora qualche attimo per noi, prima di staccarci e vedere chi è entrato. Steve diventa quasi all'istante una lastra di ghiaccio. Gigì e Cristina ammutoliscono e fissano Steve. Solo mia madre sembra essere contenta di vedere che è appena arrivato Alex. Credo non sappia nulla. Dietro di lui si presenta quasi subito la Collins. - Salve a tutti. - Sorride portandosi al centro della stanza, mentre Alex, anche lui ammutolito, resta vicino alla porta.
- E' venuta per controllarmi di nuovo? - Le chiedo, ignorando suo nipote.
- No, cara. - Non so perché, ma adesso quel 'cara' ha ripreso a starmi sullo stomaco. - Stiamo facendo il giro e volevo salutare i tuoi e rassicurarli che la ripresa sta facendo passi da gigante. - Continua a sorridere, ma da come guarda continuamente Steve comincio a pensare che lo scopo della sua visita sia un altro.
- Ho già detto loro quello che mi ha comunicato stamattina. - Acida. Se è entrata per mettere Steve e Alex di nuovo l'uno di fronte all'altro, per ricordare ancora a Steve quanto abbia sbagliato a lasciare l'università, è meglio che vada fuori di qui il prima possibile. Ed Alex dovrebbe andare via prima di lei.
Resta per un po' al suo posto in silenzio, continuando a sorridere. - Bene, allora. Domani faremo gli esami e vedremo come va il post-operatorio nella tua testolina. Per il momento ti lascio coi tuoi familiari. Credo che noi ci vedremo direttamente domattina. Dopo passerà l'infermiera per le medicine. -
Accoglie i saluti stentati da parte di tutti e si avvia verso la porta. Steve si alza e la segue fuori.

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Capitolo 46
*** 46 ***


La porta è rimasta aperta, così noi sentiamo tutto quello che si dicono.
- Avevi giurato che questo non sarebbe mai stato vicino a Bree. -
- "Questo" è tuo cugino, Stefano! E' un medico di quest'ospedale e oggi c'era da coprire un turno. Non sempre le cose possono ubbidire ai tuoi ordini, signorino. -
- Lo sai che è per il bene di Bree. -
- Quello che è bene per la sua salute posso dirlo io, non tu. E la sorveglianza di un bravo medico può solo farle bene. E' grazie a lui che oggi Bree può di nuovo parlare, mentre ho saputo che è merito tuo se non ci riusciva più. Giusto? - Un attimo di silenzio. - E' così o no? - Ancora silenzio. - Pensi ancora di combattere per il suo bene? Io non direi proprio. -
Altro silenzio seguito da passi che si allontanano nel corridoio.
- Medico o non medico, stai lontano da lei! - Steve urla nel corridoio, talmente forte che l'avremmo sentito anche con la porta chiusa. Rientra nella stanza e si avvicina a me silenziosamente. Mi bacia la fronte, prende la sua roba e va via continuando ad essere immerso nel suo silenzio. Nessuno fa nulla per fermarlo.
Raccolgo tutte le forze che ho e, appoggiandomi alla spalliera del letto, mi muovo lentamente per scendere dal letto.
- Che stai facendo, Bree? Ferma! - Mia madre mi intima, quasi terrorizzata, di rimettermi immediatamente a letto.
Gigì, la più vicina a me, invece, mi aiuta ad alzarmi e a raggiungere la porta il più in fretta che le mie gambe mi permettano. Arrivata in corridoio lo vedo ancora lì, a camminare lentamente a testa bassa, quasi strisciasse i passi per terra e contasse quante volte i suoi lacci si incrociano.
- Chiamalo tu. Io non posso. - Gigì annuisce prima di pronuniciare a voce alta il suo nome. Steve si blocca, ma senza voltarsi riprende a camminare.
- Steve. - Sussurro il suo nome, eppure sembra sentirmi. Si blocca ancora e stavolta si volta. Stupito dal vedermi in piedi, per lui ovviamente, si precipita indietro. Mi attira a sé tenedo strette le mie braccia, quasi volesse sostenermi. - Perché stavi andando via? -
- Perché mia madre ha ragione. - Soffia le parole dentro il mio orecchio, affidandomele come un prezioso segreto. - Non sono capace di farti stare meglio. -
- Cazzate! Tu lo fai, tu sei l'unico a farlo. - Lo stringo a mia volta, con quel poco di energia che mi resta.
Si scosta da me, continuando a sostenermi, per guardarmi in volto. - Sai che non è vero. E' tutta colpa mia se... -
- Non è stata colpa tua. -
- Oh sì, invece. Tutta. - Scosta lo sguardo mordendo le sue stupende labbra.
- Cosa vuoi dire? -
Sposta lo sguardo su Gigì.
- Nulla! - Interviene in suo aiuto. Si avvicina a noi e poggia la mano sulla spalla di lui. - Non vuole dire nulla. Vero? - Ha un tono ai limiti della minaccia.
Fisso lei. - Gigì cosa mi state nascondendo? -
Mi guarda con un sorriso dolce ai limiti del falso.
- Non fare quella faccia con me. -
Lo cancella e lo sostituisce con la faccia seria che aveva mentre parlava a Steve. - Bree, sai quanto vorrei dirti ogni cosa e quanto sia difficile per me non dirti nulla. Ma non posso, lo sai. -
- E tu sai che mi sono rotta di sta cazzo di scusa! - Non posso farci niente se ormai quelle fatidiche parole mi fanno girare i nervi. Allontano le mani di Steve da me e, appoggiandomi al muro, torno in camera. Sono stanca per essere stata questo tempo in piedi. I nervi a fior di pelle non migliorano la situazione. Superata la porta le fibre del mio corpo si accorgono di aver esaurito ogni briciolo di energia e mi abbandonano. Finisco dritta con la faccia a terra, sbattendo le tempie sul pavimento gelido, e finisco nel buio.

Apro gli occhi non so dopo quanto tempo. Mi ritrovo immersa in una luce accecante e sento un rumore meccanico. Inizo a muovere freneticamente gli occhi per cercare qualche indizio che mi dica dove sono, ma non c'è altro che bianco intorno a me.
- Bree, Bree sta ferma. Abbiamo quasi finito. - La voce della dottoressa Collins mi arriva filtrata e amplificata da un microfono.
Un rumore secco, poi un sibilo e il lettino su cui mi trovo inizia a spostarsi verticalmente. Riconosco il tetto della sala Tac e appena sono fuori dal tubo, inizio a tirarmi su. Che cosa diavolo mi è successo?
Vedo la Collins entrare quasi di corsa, precipitandosi ad aiutarmi. - Bree, come ti senti? -
- B-bene. Almeno credo. Ho un gran male alla testa. - La mia voce sta magnificamente.
La Collins annuisce e fa un cenno ai medici dall'altra parte del vetro. Li vedo entrare in silenzio. Uno di loro, prima di raggiungerci, richiede un'infermiera tramite l'interfono. C'è Benussi, ma nessuno dei tre è Alex, almeno questa volta la Collins ha rispettato il patto.
- Cosa è successo? - Non lo reggo più questo enorme silenzio allo stesso modo in cui non reggo più le loro facce serie che non accennano a spiegarmi nulla.
- Sei caduta e hai battuto la testa. -
- Questo lo ricordo. -
- Sei svenuta, così abbiamo anticipato la TAC di domani. -
- E.. cosa avete trovato? -
- Per fortuna non c'è stato trauma cranico conseguente alla botta che hai preso. -
- E il post-operatorio? -
La Collins inizia a sciogliersi in un sorriso, ma non proferisce parola.
L'infermiera arriva con la solita sedia a rotelle. Mentre mi aiutano a sedermici, continuo a chiedere la stessa cosa. - Perché non mi rispondete? Cos'ho? - Inizio a piangere mentre la giovane infermiera mi spinge lungo i corridoi, su fino ad arrivare in camera. Continuo a farlo ininterrottamente quando mi lascia da sola nella stanza che ormai mi è cara come una prigione.
Benussi arriva ad interrompere i miei singhiozzi.
- Perchè stai piangendo Bree? -
- Perchè non mi dite cos'ho. - Qualche singhiozzo mi sfugge ancora.
Si avvicina ad accarezzarmi le mani. - E cosa ti fa pensare che tu abbia qualcosa? -
- Perchè sarei qui allora? Perchè non mi avreste detto nulla? -
- Bree, devi capire che la medicina non sempre può permettersi giudizi affrettati. - Si siede sul letto accanto a me. - Se io oggi ti dicessi che sei perfettamente guarita, ma domani ci fossero complicazioni, come la prenderesti? - Rifletto in silenzio sulle sue parole, finchè non si decide a continuare. - Per il momento le cose vanno bene, molto meglio di quanto ci aspettassimo. Ma dobbiamo essere cauti. La botta di oggi non ci voleva proprio. Fortunatamente non è successo nulla di grave. -
Riesco a fermare anche le ultime lacrime definitivamente. - Quindi è tutto ok? -
- Per adesso sì. - Dice sorridendomi. Non l'avevo mai visto sorridere così, come mio padre mentre mi curava i graffi alle ginocchia quando cadevo da bambina.
Non so perché l'ho fatto, non so se era il caso, non so se gli ha dato fastidio, ma mi sono gettata al suo collo con tutta l'energia che potessi racimolare tra i miei tessuti. Sì, l'ho abbracciato con tanto di quell'entusiasmo che per poco non siamo caduti entrambi dal letto.

Ho passato una notte serena, dormendo più o meno come un bradipo. Mi sono svegliata presto, prima del passaggio dell'infermiera e mi sono avventurata da sola verso il bagno. Stavolta non ho avuto nessun problema e nessun cedimento. Mi sento le gambe più forti e sembra che nuova energia abbia ricominciato a scorrermi dentro. Sono tornata nel mio letto prima che Jessica arrivasse per la colazione e i controlli mattutini. Non ho detto nulla della mia gitarella, ma il sorriso che non abbandona il mio viso l'ha stupita.
- Ti senti meglio? -
- Moltissimo, sì. -
Questo è stato tutto quello che ha detto prima di andare via.
Continuando a sorridere, fisso le quattro mura che ormai sono l'unico panorama possibile. Il mio sguardo viene attratto dalla finestra e quasi mi convinco a raggiungerla. Poi rifletto che è meglio non esagerare. Prendo Teddina dal cuscino e la stringo. La sollevo a mezz'aria e inizio a parlare con lei, come una pazza. No, come una bambina felice.
- Sai, Teddina, è bello vedere come ogni pezzo di puzzle stia andando pian piano al suo posto. Tutto quello che mi sembrava strano ed insolito, sta trovando una spiegazione. Primo fra tutti Evan! Lo sai quanto mi tormentavo perché non veniva subito a trovarmi? Mi sono messa a fare mille e mille supposizioni. Invece era per il ricovero nella clinica. Puff, Evan. Non so ancora cosa dovrei pensare di quello che è successo. Eravamo così tanto amici, che mi fa male anche solo pensare di non perdonarlo. Ma poi penso a quanto sono già stata male, e... non so decidermi! Peccato tu non possa aiutarmi! - Faccio un attimo si silenzio. Già, come potrebbe aiutarmi un'orsacchiotta di pezza? - E tu? Tu cos'hai da raccontarmi? Finora tu non mi hai detto tanto, sai? Ti ho comprato con Gigì, questo l'ho ricordato. E dormo stretta a te quando litigo con lei, anche questo l'ho capito. Ma c'è una cosa che non mi spiego ancora. Come mai ti ha portato qui Steve? - Una strana sensazione mi blocca. Sento come un vento, un irrequieto vento del Nord, che entra a far baldoria nella mia testa. Fisso Teddina e rivedo il momento in cui l'ho trovata nella scatola lasciata da Steve. Il vento nella mia testa soffia più forte. Appoggio la testa al cuscino, portando anche Teddina con me e continuando a fissarla.
- Vuoi spiegarmelo adesso, vero? -
Poi, il fulmine.

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Capitolo 47
*** 47 ***


Siamo di fronte casa mia. Per tutta la durata del tragitto non ha detto una sola parola. Ha continuato a fissare la strada con il viso imbronciato. In quel silenzio mi sono chiesta cosa ho intenzione di fare stasera, perchè lo sto portando a casa mia? Non ho ancora deciso.
- Entri? -
Steve si volta a guardarmi, per la prima volta da quando siamo in macchina. Non risponde. Mi fissa in silenzio.
- Ok, fa niente! - Sfodero un sorriso e mi lancio verso di lui per salutarlo con un bacio. Scendo dalla macchina chiudendo lo sportello delicatamente. Lui non riparte.
Mentre attraverso la strada sento il rumore di uno sportello sbattere. Un sorriso mi esce spontaneo quando sento il rumore dell'antifurto inserito. Pochi passi e mi raggiunge abbracciandomi alla vita. Entriamo in casa ancora in silenzio.
- Cosa posso offrirti? - Mi stacco da lui diretta verso il mobiletto del salotto in cui sono nascosti quei pochi alcolici che teniamo in casa. Lo sento seguirmi ma non risponde alla mia domanda. Arrivati al mobiletto mi volto verso di lui sorridente, appoggiando le mani sul legno fresco. - E allora, cosa vuoi? -
- Te. - Si fionda sulle mie labbra. Un bacio irruento, pieno di desiderio. Mi solleva per le gambe e fa aderire la mia schiena al muro e il suo corpo al mio. Lo sento tastare tutto di me, lo fento cercare di affondare la sua lingua più a fondo nella mia gola.
Qualcosa non va, qualcosa non mi quadra di questo bacio. Non mi sento a mio agio in un bacio così appassionato, non adesso almeno. Cerco di fargli capire che vorrei si fermasse, ma non mi da retta, così inizio a spingerlo via. Non si ferma neanche adesso. Continua a baciarmi e a schiacciarmi col suo peso contro il muro. D'improvviso, poi, mi lascia facendomi quasi cadere. Mi ricompongo il vestito e lo raggiungo sul divano, dove si è andato a sedere con la testa fra le mani. Mi siedo all'altro capo, guardandolo ma senza il coraggio di dire o fare nient'altro.
- Perché non mi vuoi più, Bree? -
- Che stai dicendo? -
- Perché in un solo giorno sei cambiata così tanto? -
- Io non sono cambiata Steve. Di cosa stai parlando? -
- Mi hai rifiutato o è stata impressione mia? -
- Steve, io.. non volevo. -
- Vedi che è come dico io? - Si alza dal divano e va verso l'uscita. - Mi chiedo solo perchè mi hai invitato ad entrare! -
- Steve non andartene. - Lo raggiungo e gli afferro la mano prima che apra la porta.
- Perché? -
- Perché io ti voglio qui. -
- Hai appena detto che non volevi. Devi deciderti! Non puoi cambiare idea ogni due più tre. -
- Io non volevo quello. Non ho detto di non volere te. -
- Quello ero io! -
- No, quello non eri tu. - Sorrido dolcemente accarezzandogli i capelli. - Tu sai unire il desiderio alla dolcezza, io lo so. -
- So anche non essere dolce. -
Il mio sorriso va via. - Credo di capire cosa mi stai volendo dire in realtà. Non girarci intorno. Chiedimelo chiaramente. -
- Non sto cercando di dirti niente. -
- Credo proprio di sì, invece. Chiedimelo, dai. E' una domanda semplice. -
Non dice nulla.
- E' facile da dire. Ti aiuto io. "Bree, sei attratta da mio cugino Alex?". E' questo il punto, no? Credi che lui mi attragga e quindi vuoi fare la parte dello stronzo sciupafemmine per dimostrarmi che sai essere come lui, no? -
Ancora nessuna risposta.
- Se assomigli anche soltanto un pelo a tuo cugino, sei pregato di uscire da questa casa e dimenticarti di me. -
Non aspetto una risposta stavolta. Gli volto le spalle e mi dirigo in cucina. Un rumore dietro il vetro della finestra mi fa un po' spaventare, ma mi accorgo subito che è solo Black che vuole un po' di coccole e qualcosa da mangiare. Apro l'anta, facendolo entrare.
- Solito menù signorino? - Chiedo con un tono che non nasconde affatto il magone che mi è salito in gola al solo pensiero di Steve che esce da casa mia per non farvi più ritorno. Gli verso i suoi croccantini e sistemo l'acqua nel piatto accanto.
- Hai dimenticato il latte. -
Mi volto di scatto. Steve è alla soglia della cucina. E' rimasto! Non è andato via! Ho il cuore che scoppia di contentezza, vorrei sorridere e gettarmi in un suo abbraccio, ma le lacrime si affacciano da sole.
- Dovresti adottarlo questo gattino. - Si avvicina verso di me, accennando un sorriso.
- Mia madre mi ucciderebbe. - Cerco di sorridere, ma il pianto ha la meglio.
- No, no, non piangere. - Mi butto tra le sue braccia e mi accoglie teneramente, inifilando le dita tra i miei capelli e lasciando che le mie lacrime gli bagnino la giacca. - Perché stai piangendo piccola? Sono qui. -
Ci baciamo, teneramente stavolta. Un bacio condito dalle lacrime che pian piano decidono di fermarsi.
Il campanello di casa ci interrompe. Ci fermiamo guardandoci dubbiosi. Io, in realtà, sono già preda dell'ansia. Torniamo all'entrata tenendoci per mano. Steve guarda chi è da dietro le tende, mentre io mi nascondo dietro di lui.
- Cosa ci fa il tuo amico albanese qui a quest'ora? -
- Chi? - Stupita è dire poco.
- Cosa vuole? -
- E che ne so io? Vado ad aprire. -
- Sicura? -
- Ci sei tu qui con me, no? - Gli sorrido e mi dirigo verso la porta. Aprendola trovo davvero Samir. - Ciao. -
- Ciao. -
Siamo entrambi visibilmente imbarazzati dalla situazione.
- Che succede? Che ci fai qui a quest'ora? -
- Ho qualcosa che penso sia tuo. -
- C-cosa? Che ci può essere di così importante da dovermelo riportare a quest'ora di notte? -
Samir si sposta lateralmente e scopre Cristina seduta per terra dietro di lui.
- Cristina! - Mi precipito su di lei. E' ubriaca fradicia e i capelli sono sporchi di vomito. - Che cavolo hai combinato? - Samir mi aiuta a sollevarla e a portarla in casa.
- Aspetta, faccio io. - Steve si affretta a prendere il mio posto.
- Portiamola in bagno. -
I ragazzi la trascinano fin lì, mentre lei è quasi totalmente addormentata nell'abbraccio di Bacco. - Grazie ragazzi. Ora ci penso io. - Steve e Samir escono lasciandomi sola con lei che non si regge in piedi. La faccio sedere sulla cesta dei vestiti sporchi e le tolgo il vestito di seta rosa che è rimasto miracolosamente intatto e pulito. Le scarpe erano già in mano a Samir. Lascio cadere anche il mio vestito verde sul pavimento e mi infilo in doccia con lei. Le faccio andare acqua fredda in viso e in tutto il corpo. Urla e si ribella un po', ma continuo a farlo finchè non si riprende abbastanza da tenersi in piedi da sola. Solo allora esco dalla doccia. Affaccio solo la testa nel corridoio e chiamo Steve a gran voce. - Per favore andresti in camera mia? E' quella lì. - Gliela indico uscendo il braccio che gocciola sul pavimento. - Nel primo cassetto sotto l'anta dell'armadio ci sono i miei pigiami. Me ne porteresti due? -
Annuisce e ci si precipita. Torna dopo un po' con in mano due dei miei pigiami estvi. Lo bacio sulla guancia e torno dentro. Aiuto Cristina a mettersi il mio pigiama e mi infilo l'altro. Poi la porto in camera e la faccio sdraiare sul mio letto.
- Ti voglio tanto bene, sai? - Solite cose che dicono gli ubriachi, no? - Ma tanto, tanto davvero! - Mi tira verso di se e mi da un bacio sulla guancia che quasi mi stritola.
- Sì, sì, lo so. - Le dico ridendo. - Ora però dormi. -
- Tu dove vai? -
- Io vado a prendere un po' d'acqua. -
- Va bene. -
Neanche il tempo di uscire dalla stanza che sta già ronfando alla grandissima.
Vado in cucina, dove trovo Steve e Samir seduti uno di fronte all'altro a fissarsi in silenzio. Quando mi sentono entrare, entrambi si alzano.
- Tranquilli. L'ho messa a letto. - Si risiedono e io prendo posto sulle gambe di Steve. - Samir, grazie per averla portata qua. -
- Sai come sono fatto. -
- Sì. Tu sei abituato a salvare le ragazze, no? -
- Già. -
- Come ricordavi Cristina? Vi sarete visti al massimo tre volte. -
- E' stata lei a ricordarsi di me. L'ho trovata da sola che vomitava all'uscita di un locale. Le ho chiesto se le serviva una mano e lei mi ha detto 'oh, sei il principe azzurro con la tuta arancione di Bree'. Non ho capito cosa volesse dire, ma poi ho ricordato che l'avevo vista insieme a te e vedendola in quelle condizioni l'ho portata qui perché non mi sembrava il caso di portarla a casa mia. -
- Hai fatto benissimo. Grazie ancora. -
- Bene, allora io tolgo il disturbo. Mi dispiace avere interrotto qualsiasi cosa stavate facendo. -
- Non preoccuparti stavamo solo parlando. -
- Ok. -
- Ok. - Un imbarazzante silenzio invade la cucina.
- Allora, io vado. -
- Sì. -
Saluta Steve stringendogli la mano ed io lo accompagno alla porta. - Grazie ancora. -
- Sai che non devi ringraziarmi. Certo, salvare te era tutta un'altra storia. - Mi sorride ed io non riesco a non abbassare gli occhi a terra. - Ma erano altri tempi. Immagino che quello sia Steve. -
- Sì, è lui. -
- Auguri allora. Buona vita. -
Lo guardo salire in auto e partire prima di rientrare in casa.
- Principe azzurro di Bree? - Mi chiede Steve in tono quasi di rimprovero. - Che vuol dire? -
- E' una lunga storia. -
- E raccontamela. Abbiamo tempo. Io non ho mai capito che rapporto c'era tra voi e neanche perché poi non vi siete visti più. -
E' vero non gli ho mai raccontato nulla e forse adesso è arrivato il momento di parlargliene, anche se sono stanchissima. - Vieni. - Per mano lo riporto in cucina dove ci accomodiamo abbracciati sul divano. Appena ci vede, Black mi salta in braccio e si appallottola sulle mie gambe. Così, inizio a raccontare di Samir mentre lui si prende le coccole e io mi godo quelle di Steve. Gli racconto tutto, ogni singola parola. Dai due salvataggi per strada, alla serata in cui mi ha trovata mezza ubriaca al bar, fino alla sera in cui abbiamo fatto l'amore. Sì, gliel'ho raccontato. E' stato terribile per me parlarne con lui e credo lo sia stato altrettanto per lui sentirlo. Infine gli ho detto il motivo per cui abbiamo smesso di frequentarci.
- Hai detto il mio nome? -
- A quanto pare sì. -
- Non so se incazzarmi o esserne contento. -
- Quello devi deciderlo tu. -
Mi bacia delicatamente, sfiorandomi quasi.
- E' ora di tornare a casa, piccola. -
- No. - Faccio i capricci come una bimba.
- Piccola è tardissimo. -
- Resta qui, ti prego. -
- Sicura che vuoi che resti? -
- Possiamo dormire abbracciati nel lettone di mamma? -
Mi guarda dubbioso, mentre sfodero i miei migliori occhioni dolci, quelli che farebbero dir di sì a qualsiasi cosa. - Ho resistito dormendo accanto a te ubriaca persa e anche quando hai dormito a casa mia. Una volta in più, non dovrebbe essere così tanto complicato. -
- Grazie. - Felicissima, lo stringo a me iniziando a baciarlo.
- Tu però non iniziare a provocarmi. -
- Farò la brava, giuro. -

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Capitolo 48
*** 48 ***


- Buongiorno piccola. - Mi sveglia sussurrando e baciandomi il naso.
- Fmire. - La mia incapacità di parlare al mattino dovrebbe essere ormai cosa nota.
- Cosa hai detto piccola? -
- Fmire! - Alzo la voce per fare capire il mio 'fammi dormire', ma in risposta ricevo solo una risata.
- Alzati farfugliona. Cristina è già in cucina. -
Cristina? Cacchio! Solo ora ricordo lei, Samir ed il macello di ieri sera. Mi costringo a mettere i piedi a terra e striscio fino in cucina ancora mezzo addormentata. Lì trovo Steve con addosso il vestito di ieri, l'avrà rimesso appena sveglio, e Cristina con la testa nascosta tra le braccia poggiate sul tavolo. Le passo accanto scompigliandole ancora di più i capelli. Risponde con un verso disturbato.
- Non toccarmi i capelli. Mi fanno male. - Parla come se fosse ancora ubriaca o come se tenesse in bocca quattro caramelle contemporaneamente.
- Così impari ad ubriacarti! -
- Ma se me l'hai detto tu di divertirmi! -
- Divertirti si, ma non c'era bisogno di ridurti così. -
- Avresti dovuto specificarlo. A proposito di ieri, io mi ricordo che te n'eri andata. Come ci sono arrivata qui? -
- Non ti ricordi nulla? - Steve alle mie spalle già ride, mentre io cerco di trattenermi.
- Mi ricordo che stavo ballando e poi mi ricordo della tua doccia. In mezzo non ricordo nulla. -
Steve mi mette in mano una tazza di caffè e porge un mug con dentro del the a Cristina che lo fissa senza berlo.
- Non è avvelenato, tranquilla. - Steve non riesce a smettere di ridacchiare. Lei gli risponde con uno sguardo pressocché inceneritore.
- Lei lo beve tiepido. - Rispondo io al suo posto. Mi siedo accanto a lei. - Che tu ci creda o no ti ha portato qui Samir. -
- Sa-chi? -
- Samir, ti ricordi quello che lavorava vicino all'ingresso della facoltà? -
- Ah, quel Samir. -
- Perché? Quanti ne conosci? -
- Non avevo ricollegato chi fosse. Ma come mi ha riconosciuto? -
- Veramente mi ha raccontato che l'hai riconosciuto tu, ma l'importante è che in qualche modo sei arrivata qui. Sei stata fortunata. Lo sai cosa poteva succederti? E se ti avesse trovato qualcun altro? -
- Devi avermi passato un po' della tua fortuna. - Inizia a sorseggiare il the.
L'ho presa male questa sua affermazione. So che è una battuta, ma mi è sembrata più una frecciatina sul mio essere irresponsabile. Mi alzo da tavola ed inizio a lavare le stoviglie sporche che si sono accumulate. Tolgo tutto quello che resta della visita che Black ci ha fatto ieri. Nessuno parla. A rompere il silenzio arriva la suoneria del mio telefono. Steve corre a prenderlo in camera da letto, ma non fa in tempo a tornare che la chiamata è terminata.
- Era Gigì. -
Prendo il telefono e la richiamo.
- Pronto? -
- Bree, hai sentito Cristina? - La sua voce è preoccupata.
- Cristina è qui a casa mia. -
- Oh ringraziando il cielo, per fortuna l'ha accompagnata da voi. -
- Chi? -
- Il cugino di Steve. -
- Cosa? -
- Sì, è voluta andare via con lui. Io non volevo, ma che potevo fare? -
- E' andata via con lui? - Fisso Steve, che ricambia il mio sguardo senza comprendere cosa sta succedendo.
- Sì, perchè ti stupisce? -
- Veramente non l'ha portata lui qui. -
- Cosa vorrebbe dire? -
- Esattamente quello che hai sentito. -
- E come è arrivata da te? -
- Storia lunga. Tu e Joshua? Come è andata? -
- Oh, bene. Siamo andati via poco dopo Cristina, siamo stati un po' a parlare guardando le stelle sdraiati sul cofano della sua macchina e poi mi ha accompagnato a casa. -
- Scene da film, quindi. Come piace a te. -
- Puoi dirlo forte. -
- E dopo questo tempo non gli sei saltata addosso. E' una cosa seria, allora? -
- Ieri allora non hai capito nulla di quello che ti ho detto? Io mi sono stracotta! -
- Anch'io. - Guardo Steve arrossendo, anche se lui non può sapere perchè.
- Che fai adesso? -
- Credo che andrò a dire due paroline a chi-sai-tu. -
- Alex? -
- Già. - Quella tartaruga gliela faccio mangiare con tutto il guscio!
- Ok, amore. Salutami Cristina. -
- Ciao, ciao. - Termino la telefonata. - Ti saluta Gigì. -
Cristina fa un cenno di saluto con la mano libera, mentre continua a bere il suo the. Vado ad abbracciare Steve che mi chiede silenziosamente di spiegargli cosa mi ha detto Gigì. - Mi ha detto che ieri Cristina è andata via dal locale con tuo cugino. - Gli dico a bassa voce.
- Cosa? Ma quello che l'ha riportata non ha detto... -
- ...che l'ha trovata davanti la porta di un locale a vomitare. -
- Questa è la volta buona che lo ammazzo. -
- Non ammazzi nessuno tu! -
- Invece si. -
- Invece no. - Alzo la voce per un attimo, ma torno ad abbassarla. - Andiamo a casa tua, credo lo troveremo lì. E ci parliamo. -
- E' inutile parlare con lui. -
- Ci parliamo, ho detto. -

Dopo aver finito la colazione ed aver accompagnato Cristina a casa, ci siamo diretti verso casa di Steve. In camera sua, però, nessuna traccia di Alex, se non una ragazza completamente nuda addormentata nel letto di Steve. - Ci penso io. Tu vai fuori. - L'ho svegliata non proprio al massimo della delicatezza e con altrettanta gentilezza l'ho invitata a rivestirsi e sparire.
- Sarà andato a lavoro. - Dico raggiungendolo in giardino.
- Non credo. Ieri aveva il turno pomeridiano quindi oggi dovrebbe lavorare di notte. -
- Potrebbe aver ricevuto una chiamata per dello straordinario. -
- Non lo so, Bree. So solo che dovunque sia, ha i minuti contati. -
- Avevamo deciso di parlargli, no? -
- Tu hai deciso di parlargli. Io sono arrivato al limite ormai. -
- Allora vorrà dire che gli parlerò da sola. -
- No! -
- Perché? -
- Perché non voglio. -
- Nemmeno io voglio che vi picchiate. - Lo fisso seriamente per fargli capire che faccio sul serio.
- Non capisco il motivo! -
- Il motivo è che non mi piace. Punto. - Inizio ad alterarmi davvero.
Steve sostiene il mio sguardo con altrettanta serietà. E' chiaramente visibile tutta la rabbia che prova in questo momento verso suo cugino e, forse, anche verso di me. Da parte mia, però, non accenno a cambiare opinione. Non voglio rischiare che Alex lo faccia nero.
- E va bene. - Alla fine cede, sbuffando.
- Va bene cosa? -
- Parliamo e basta. Però, insieme. Non mi piace che resti sola con lui. -
- Ok, piccolo. - Sorrido soddisfatta.
- E ho un'altra condizione. -
- Quale? -
- Questa. - Mi prende in braccio così velocemente da non farmene nemmeno rendere conto.
- Che hai intenzione di fare? - Urlo ridendo. In realtà ho già capito come mi finirà.
Butta la mia borsa per terra e corre verso la piscina. Arrivati al bordo, però, non mi butta in acqua. Si tuffa direttamente lui con me in braccio. Così ci ritroviamo entrambi in acqua a ridere come idioti.

- Mi passi il phon? -
- Sei così bella coi capelli bagnati! -
- Dai Steve! -
Il bagno in piscina totalmente vestiti è durato abbastanza da farmi quasi prendere un raffreddore nonostante ormai il clima estivo sia praticamente arrivato. Adesso i miei vestiti sono nell'asciugatrice ed ho indosso una sua tuta, mentre Steve, appena uscito dalla doccia, è avvolto nel suo accappatoio.
- Tieni. - Mi porge quello che gli avevo chiesto e mi abbraccia da dietro. Guardo la nostra immagine riflessa nello specchio, sorridendo.
- Certo che siamo proprio carini. -
- Tu sei stupenda. - Sposta delicatamente i miei ricci bagnati e mi bacia il collo. Chiudo gli occhi inclinando la testa per godermi meglio quello stupendo tocco e le carezze che ha iniziato a farmi sulla pancia.
Lascio stare il phon appoggiandolo accanto al lavandino e mi volto a ricambiare il suo abbraccio. Sento il mio corpo tremare, ma è logico che non sia il freddo a causarlo. Gli accarezzo i capelli e gli bacio le orecchie, mentre lui continua a baciarmi e solleticarmi il collo aggrappandosi alla mia schiena al di sotto della maglietta. Mi solleva quel tanto che basta per farmi sedere sul mobiletto dove avevo poggiato il phon che cade rovinosamente a terra, ma nessuno ci fa caso. Occhi negli occhi, mani nelle mani, respiro nel respiro per un attimo che sembra eterno. Vorrei tanto che lo fosse. Il cuore diventa tamburo, la pelle ormai è impazzita e le labbra chiedono solo di poterlo avere per sè.
- Credi che sia troppo presto? - Sussurra con la voce quasi tremante.
Vorrei rispondergli, ma ho un nodo alla gola che non me lo permette. Le parole non escono e riesco solo a scuotere leggermente la testa. No, non è presto. E' perfetto.
Mi stringe a sè baciandomi, in una lotta di passione e dolcezza. Oserei dire che sia amore quello che sento. Mi prende in braccio e mi porta in camera adagiandomi piano sul letto. I suoi baci delicati come un alito di vento iniziano ad accaezzarmi il ventre per salire fino al petto mentre le sue mani provvedono ad eliminare la maglietta che si frappone tre le sue labbra e la mia pelle. Ogni tocco, un brivido, una scarica di adrenalina dritta in vena. Arrivato al collo si solleva per guardarmi. I nostri visi sono infiammati di rosso e i suoi occhi verdi sembrano spiccare ancora di più, come lucciole nel buio. Li guardo rivelarmi la fragilità che è nascosta in lui, mentre gli accarezzo le guance coperte di quel leggero velo di barba che lo fa sembrare tanto uomo. Scendo ad accarezzare il suo petto, la sua pelle ancora calda e profumata dopo la doccia che si è concesso. Faccio scivolare via le maniche dell'accappatoio che gli resta, però, allacciato in vita.
- Per un attimo ho creduto che stessi approfittando della bionda di stanotte. Per fortuna è solo la tua ragazza. - La voce di Alex arriva ad interrompere il momento con la puntualità di un orologio svizzero.

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Capitolo 49
*** 49 ***


Mi infilo sotto le lenzuola in tempo record.
- No, no. Continuate pure! Volete spettatori o posso vado via? -
Steve si alza e inizia a sbraitargli contro di sparire mentre preleva dal cassetto dei boxer neri e li infila saltellando su un piede.
- Calmo, calmo, Stefano. Non c'è bisogno che ti rivesti così in fretta. Non ti vergognerai di farti vedere nudo da tuo cugino, no? -
- Gran pezzo di stronzo. Ti ho detto di uscire! -
Mi infilo la maglietta di Steve ed esco dalle coperte.
- Perché l'hai rimessa? Potevi stare senza tranquillamente. -
- Eh no, ora basta! -
Steve si lancia su Alex a pugni serrati. Mi getto su di lui bloccandolo appena in tempo. - Fermo! -
- Levati. -
- No! Non vale niente quello che ti ho detto prima? - Mi fissa con gli occhi in fiamme. - Per favore. - Sussurro guardandolo preoccupata.
Si scioglie piano e respirando profondamente si rivolge ad Alex. - Ringrazia che c'è lei. -
- Altrimenti? - Alex si avvicina sfidandolo senza mezzi termini.
Steve serra i pugni quasi a farsi male e il suo respiro si fa sempre più pesante. Guarda me, cercando un assenzo che non gli concedo. Mi volto verso Alex. - Senti Alex. Non vogliamo che nessuno picchi nessun altro qui, no? Facciamo le persone civili ed adulte. -
- Come vuole lei, principessa. - Si porta una mano alla testa, mimando una riverenza. Mi prende per il culo e mi sta facendo alterare, ma devo controllarmi.
- Che cosa è successo ieri con Cristina? -
- Niente. -
- Non sparare cazzate. -
- Senti, io non sono il babysitter di nessuno. -
- Dimmi che cazzo è successo ieri sera! - Urlo. Sento Steve afferrarmi le mani per calmarmi.
Dall'espressione stranita che ha montato su, sembra che nemmeno Alex si aspettasse una reazione del genere da me. Cosa voleva? I complimenti forse?
- Non so che ti ha detto la tua amica, ma io non l'ho toccata nemmeno con un dito. -
- La mia amica non mi ha detto niente, perché non si ricorda niente. So solo che siete andati via insieme ma un semi-sconosciuto l'ha portata a casa mia dopo averla trovata totalmente ubriaca, senza la forza di reggersi in piedi, vicino alla porta di un locale. Adesso tu mi spieghi come le due cose si conciliano col tuo "niente". -
- Io non ho fatto niente. E' lei che ha dato di matto! -
- Che significa "ha dato di matto"? -
- Siamo usciti, mi si è buttata addosso e poi ha iniziato a sclerare! Prima mi infila due chilometri di lingua in bocca e appena faccio mezza cosa inizia a prendermi a schiaffi. -
- L'hai toccata, no? Brutto schifoso! -
- Ehi, se una ragazza mi salta in braccio infilandomi la lingua in bocca non si può lamentare se le butto una mano sul culo! -
Non riesco a rispondergli, non so come contraddirlo. Forse perché tutti i torti non li ha.
- Mi ha tirato uno schiaffo. Per fortuna, ubriaca per com'era non m'ha nemmeno preso. Per un pelo non cadeva. Poi barcollando è tornata verso l'ingresso e io me ne sono andato. -
- L'hai lasciata lì, da sola, in quello stato? -
- Non l'ho lasciata lì da sola. Credevo stesse entrando di nuovo in discoteca e sono andato via. -
- A cercare qualcuno da portarti a letto, ovviamente. Era più importante di controllare una ragazza in quelle condizioni. -
- Te l'ho già detto. Non sono il babysitter di nessuno. -
- No, ma sei un gran stronzo. - Non sostiene il mio sguardo, iniziando a fare vagare gli occhi per la stanza. - Ringrazia soltanto che è andata a finire bene. Se le fosse successo qualcosa, io... io... -
Steve mi stringe, accarezandomi le braccia. - Calmati piccola. - Mi sussurra all'orecchio.
Alex è ancora fermo ad evitare il mio sguardo. Si scambiano uno sguardo incendiario. Steve si allontana da me per avvicinarsi a lui. Lo fissa per qualche istante. Un pugno dritto allo stomaco, così veloce da non permettere a nessuno di accorgersene in tempo, così forte da far piegare Alex in due, così meritato da non permettergli di reagire. - Questo è per Cristina. - Alex si risolleva continuando a premere il braccio contro lo stomaco per riprendersi. Riceve un altro pugno, stavolta in faccia, più pensato e assestato meglio. - E questo è per Bree. -
Non riesco a mettermi in mezzo e a dirgli di non farlo. Torna da me, mi accarezza la guancia. - Scusa. Ho dovuto. -
Non gli rispondo, ma non sono arrabbiata con lui. Come potrei? Ha fatto quello che averi fatto io. Prende la mia mano e mi porta via da casa.

Abbiamo passato la giornata insieme fuori, a non pensare a quello che è successo e poteva succedere ieri. Mi ha portato in una località turistica poco fuori città. Un'idea stupenda e romanitica da far venire il diabete sentimentale: siamo su una barchetta da turisti, tra le acqua stupende del nostro mare, ad esplorare le grotte e le insenature della nostra costa alla luce rossastra del tramonto. Intorno a noi solo profumo di mare e il rumore dell'acqua che sbatte contro le pareti della piccola imbarcazione. L'anziano che guida la barca è l'unica persona presente oltre noi. Inizialmente si è lasciato andare a numerosi racconti e descrizioni, ma adesso fissa il mare in silenzio. In una situazione del genere solitamente tirerei fuori una di quelle battute squallide ed ammazza-atmosfera. Le cose troppo romantiche non sono il mio forte. Ma adesso, guardando Steve che mi osserva sorridente in questa luce quasi magica, non so farlo. Non ci sono parole, no. Lo guardo mordersi il labbro.
- Che c'è? - Siamo praticamente da soli perché il marinaio è immerso nel suo mondo, ma parliamo a voce quasi impercettibile. Come se usare un tono un po' più altro rischiasse di svegliarci da quel sogno fatto di silenzi, sguardi e profumo di salsedine.
- Niente. Cosa dovrebbe esserci? - Arrossisce continuando a mordersi il labbro e a giocare con le mie dita.
- Non lo so. Sembra che... -
- Cosa? -
- Che tu debba dire qualcosa, ma non trovi il coraggio. - Sì, sembra esattamente così. Ho improvvisamente paura che davvero possa finire un sogno, il mio con lui.
Non mi risponde, ma abbassa gli occhi. Quasi una conferma delle mie paure. Li abbasso anche io, a fissare le nostre mani intrecciate. Piano divincolo le mie portandole a torturare il bordo della maglietta. Non voglio guardarlo. Ho paura di scoppiare a piangere da un momento all'altro.
- Bree, io... -
Ecco, ci siamo. Tra poco troverà il coraggio o le parole giuste per fare meno male. Mi dirà che ha bisogno di tempo, di spazio, di libertà. Mi dirà che ha capito che non può stare con me, che non gli piaccio, che non sono giusta per lui.
Steve mi abbraccia, attirandomi a sé, quasi prendendomi in braccio. Affonda il viso tra il mio collo e la spalla. Lo sento cercare di regolarizzare il respiro. Una lacrima più coraggiosa delle altre sfugge al mio controllo e va ad esplorare la mia guancia. Il cuore inizia a perdere battiti e lo stomaco fa strane capriole.
- Ti amo. - Lo dico senza pensarci un secondo di più di niente, come se non fosse la prima volta che riesco a dirgli realmente cosa sento, come se non ci fosse da decidere se dirlo o meno.
Sento le sue mani stringere di più la mia schiena e le sue dita calcare di più nella mia pelle, quasi volessero penetrarci dentro. Perde il controllo del suo respiro che inizia a farsi sempre più veloce. Credo di averlo messo in difficoltà. Stacca il viso da me e torna a fissarmi negli occhi. I suoi sono lucidi.
- Steve, non devi sentir... - Serra le mie labbra poggiandoci l'indice.
- Volevo essere io il primo a dirtelo. - Il suo sorriso si apre, mentre gli occhi continuano a luccicare.
- Quindi non stavi per dirmi che volevi lasciarmi? -
- Che idee ti vengono in mente? - Perplesso e quasi irritato dal solo pensiero che un'idea del genere potesse essere presa in considerazione.
- Non lo so. Ti ho visto così serio. -
- E secondo te, ti avrei portato qui per lasciarti? - Un sorriso ironico sostituisce l'espressione perplessa.
Faccio spallucce sorridendo a mia volta. Ha ragione, ma come posso spiegargli che è la mia mente bacata a giungere a certe conclusioni?
Il mio sorriso, però, dura poco. Steve, infatti, torna improvvisamente serio. - Mi hai detto che mi ami solo per evitare che ti lasciassi? -
- No! - Rispondo istintivamente, di nuovo senza pensarci.
- Ne sei sicura? -
- Steve io ho avuto paura che tu mi lasciassi, ma giuro che non avrei mai voluto che tu continuassi a starmi vicino solo per pietà, perché non avresti avuto il coraggio di lasciare una ragazza che ti dice 'ti amo' per la prima volta. -
- Quindi mi ami davvero? -
- Te l'ho già detto, no? Mi sento una quindicenne. -
- Oh, Bree! -
Mi stringe baciandomi e continuando a sussurrarmi il suo amore tra le labbra.
- Non vorrei disturbare, ma siamo arrivati al molo. - Il vecchio marinaio ci interrompe delicatamente ed armato di sorriso, quasi dispiaciuto. - Sapete che io chiesi a mia moglie, santa donna, di sposarmi proprio su una barca come questa? -
- Davvero? - Rispondo io eccitata, mentre Steve si è già alzato per scendere.
- Sì, ed è stata una benedizione. Ragazzo! - Richiama l'attenzione di Steve. - Una promessa fatta in mare è sacra, ricordalo sempre. -
Steve annuisce, quasi infastidito e scende dalla barca, aiutandomi a seguirlo. Saluto sorridente il marinaio per poi prendere il suo braccio.
Il tramonto si è ormai concluso e, coccolati dalla luna appena arrivata ed ancora colorata di rosso, ci baciamo di nuovo sul molo. - Promettimi qualcosa. Una promessa fatta in mare è sacra. -
- Cosa vuoi che ti prometta? -
- Quello che senti di poter realizzare. -
- Allora ti prometto che fin quando vorrai dividere la tua vita con me, ti proteggerò. E quando non vorrai più farlo, continuerò a proteggerti di nascosto. -
- E' una cosa dolcissima. -
- Ti amo, Bree. -
- Ti amo anch'io. -

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Capitolo 50
*** 50 ***


- Vuoi cenare da me? Preparo qualcosa di veloce. - Lo bacio ancora una volta. Siamo in auto, davanti casa mia, da ormai un'ora.
- Mi piacerebbe piccola, ma... -
- Ma? -
- Ma dovevo essere a casa già due ore fa. Stasera avevamo i nonni a cena. -
- Perchè non me l'hai detto? Non ti avrei trattenuto. Già tua madre mi odia. -
- Mia madre non ti odia. -
- Dici? -
- Sì piccola. Anzi, dico che conoscendoti ti adorerà. -
- Sarà, ma io non ne sono molto convinta. -
- E' così, fidati. - Mi bacia la tempia.
Gli sorrido. - Dai, piccolo. Ora torna a casa. Ti prenderai qualche sgridata? -
- Da mia madre sicuramente, ma ci penserà nonno a calmarla non appena saprà il motivo del mio ritardo. - Sorride anche lui.
Frugo nella mia borsa cercando le chiavi di casa. - E tu che ci fa qui? -
- Cos'è? -
- Teddina. L'ho comprata insieme a Gigì. -
- Fammi vedere. - La prende in mano, osservandola scrupolosamente. - E' carina, sembra quasi da collezione. E poi, non so perchè, ma credo che ti assomigli. -
- Non so se prenderlo come un complimento. -
- Lo è. E' tenerissima. - La stringe a sè premendosela contro la guancia e arricciando le labbra come un bambino. E' dolcemente buffo.
- Tienila se ti piace. -
- Come hai detto? -
- Tienila, ho detto. Anzi, dammi un po'. - Riprendo Teddina e la lego per il nastrino allo specchietto dell'auto. - Così mi avrai sempre con te. -
Steve ride. Mi prende il viso tra le mani, premendo leggermente sulle guancie per far sporgere le labbra in avanti. - La mia Teddina. - Dice scuotendomi un po' il viso.
Cerco di sorridere, producendo in realtà una smorfia, mentre inizia a picchiettarmi di baci.
- Dai che si è fatto tardissimo. - Cerco di dire tra un bacetto e il successivo.
- Hai ragione, amore. - Amore, la prima volta che mi chiama così. E' stupendo il suono di questa parola pronunciata dalle sue labbra.

Apro gli occhi con Teddina ancora tra le mani. Mi ha spiegato più cose di quante non avessi sperato. Tra le tante cose ricordate, Cristina ubriaca, Alex sempre più stronzo e lo strano incontro con Samir, c'è una cosa che mi porta al settimo cielo. Quel 'ti amo' in barca. Oddio, che cosa straordinaria! Pensare che quando mi sono svegliata qui in ospedale non ricordavo di averlo neppure incontrato. Chissà come dev'esssere stato per lui!
La luce del sole che entra abbondante dalla finestra illumina la stanza. Non so quanto tempo è passato, ma adesso sento di avere una ragione di più per voler uscire in fretta da questo ospedale, perciò decido di raggiungerla. Faccio dei passi lenti, più per precauzione che per altro. Arrivo lì senza alcun problema e anche adesso non sento stanchezza nelle gambe. Guardo fuori. In tutto il tempo che ho passato qui dentro, questa è la prima volta che vedo cosa c'è fuori di qua. Sono circa al quinto piano. Sorrido ammirando tutto il verde che decora il cortile interno che unisce tutte le enormi palazzine.
- Vedo che ti sei ripresa quasi del tutto, ormai. Vero, cara? - La Collins è sulla soglia e mi guarda sorridente.
- Già. - La guardo sorridendo, abbastanza imbarazzata ripensando che sono difronte a quella che potrei definire mia suocera.
La Collins si avvicina sorridente nella sua impeccabile eleganza. - Mal di testa? Stancehzza? Qualche disturbo particolare? -
- No, nessun disturbo. -
- Che hai, cara? Sembri strana oggi. -
Sa è che ho appena ricordato che suo figlio mi ama. Non mi sembra il caso di dirglielo. - No, sono solo felice di stare migliorando. Voglio uscire il più in fretta possibile di qui. -
- E' quello che vogliamo tutti. - Mi da una pacca leggera sulle spalle. - Quindi sbrighiamoci a fare le analisi. Prima vediamo se stai bene, prima potrai andare via. -

Jessica mi ha accompagnato di laboratorio in laboratorio e di ambulatorio in ambulatorio per rifare tutti i controlli. E' stata molto più gentile del solito, o forse sono stata io a pormi meglio verso di lei. Ogni medico che ho incontrato si è detto felice di vedermi di ottimo umore. Mi ha riportato in stanza appena in tempo per le visite. Mamma è arrivata insieme a Claudio, seguita da Gigì e Cristina. Giovanni e Debby sono arrivati dopo circa mezz'ora. Per farsi perdonare il ritardo mi hanno propinato, sotto consenso della Collins, una porzione di cannelloni fatti in casa dalla mamma di Debby. Li ho divorati senza un briciolo di dignità sotto gli occhi di tutti.
- Non ne hai lasciato neanche un pezzetto per me? - Steve è appena arrivato.
Mi imbambolo a guardarlo sorridendo, senza essere capace di formulare un pensiero che si allontani dal mio ricordo del suo 'ti amo'. Mi bacia la punta del naso prima di accomodarsi sul letto in cui mi hanno costretta di nuovo. Si allunga verso il vassoio dall'altro lato e ne prende un tovagliolo. Mi pulisce agli angoli della bocca ridendo. - Sei proprio un bambina. -
- Una teddina, vorrai dire. -
A queste parole si blocca. Ferma la mano e mi guarda sorpreso. Vedo i suoi occhi illuminarsi. - Hai ricordato quel giorno? -
Annuisco continuando a sorridere. La sua mano si apre lasciando libero il tovagliolo di cadere sulle lenzuola bianche. I suoi occhi iniziano ad inumidirsi. - Hai ricordato tutto? -
Annuisco di nuovo.
- Anche... - lo zittisco poggiando l'indice sulle sue labbra.
Gli getto le braccia al collo, attirandolo verso di me e continuando a sorridere. - Ti amo. - Gli sussurro all'orecchio.
Le sue braccia mi cingono la vita stringendomi tanto da togliermi il respiro. - Anch'io, piccola. Ti amo, ti amo da impazzire. - Mi riempie di baci, salati da qualche lacrima.
- Perchè stai piangendo, piccolo? -
- Avevo paura che non l'avresti mai ricordato. -
- Che non avrei ricordato di amarti? -
- Anche. Sì. -
Gli asciugo le guance con le dita e porto il suo viso verso di me, per baciarlo. - Puoi smettere adesso. -
- Mi ami? -
Annuisco felice.
Un applauso parte nella mia stanza. Sembra che non fosse il solo ad aspettare che io lo ricordassi. Ci abbracciamo felici.
Lo sono, sì. Sono felice, abbracciata a Steve ed in mezzo alle persone più importanti della mia vita. Manca solo... no, non voglio soffermarmi a pensare alle cose brutte. Non voglio rovinata questa giornata per nulla al mondo. Stringo più forte il mio ragazzo e cerco di riempirmi gli occhi dei visi sorridenti delle mie amiche e di mia madre.
- Basta, basta, che me la sciupi! - Gigì si intromette tra di noi, staccandomi da Steve e prendendo il suo posto accanto a me.
Mentre lei mi parla, vedo mia madre continuare a conversare con Claudio tenendo le mani a Steve e continuando ad accarezzarle.
- Sono carini, vero? -
- Chi? -
- Tua mamma e Steve. Lo so che non mi stavi ascoltando, ma guardavi loro. -
- Ma non è vero, ti ascoltavo. -
- No che non mi ascoltavi. Ma non fa niente. - Preme le sue labbra contro la mia guancia. - Vi dispiace se porto questa malaticcia ad accompagnarmi a prendere un caffè? - Chiede a tutti i presenti.
Ci allontaniamo, così, dalla stanza e percorriamo il corridoio verso le macchinette del caffè in silenzio. Quando Jessica mi vede mi raccomanda di non assumere caffeina. Arrivati nel salottino, Gigì prende il suo caffè e mi offre una cioccolata. Ci sediamo sul divanetto e sorseggiamo le nostre bevande.
- Adoro essere innamorata, sai? - Gigì finalmente parla.
- Ti piace? - Le sorrido.
- Finalmente so quello che provi. -
- Cosa vuoi dire? -
- Tu ti innamori anche delle farfalline che ti girano intorno. -
- Non posso darti torto. - Rido. - Con Steve è diverso però. -
- Lo so. E' perché lui è diverso. -
- Sì. -
- Anche Josh. Lui è così... così... -
- Speciale? -
- Unico, direi unico. Mi ha trattato come mai nessuno ha fatto. -
- Ma alla fine avete... -
- Cosa? -
Le faccio intendere a gesti cosa le sto chiedendo.
- Bree! -
- Che c'è? Non posso chiedere? -
- No! -
- No che non l'avete fatto o no che non me lo dici? -
- No che non te lo dico. A parte che non posso. -
- A parte che sei diventata di settemila colori quindi l'ho capito da sola. -
- Stronza. -
- Ti amo anch'io. -
Ridendo torniamo in stanza. Non mi rimetto a letto. Prendo posto sulle gambe di Steve e ci resto finché l'infermiera non arriva a chiedere a tutti di andare via perché l'orario di visita è finito.
Li lascio andare con un po' di malinconia. Passeggio da sola, attraversando in continuazione la stanza, per un po'. Jessica mi porta la cena. La mando giù seduta sulla sedia che ha utilizzato mamma. Solo adesso mi rendo conto che sul vassoio c'è qualcosa. Una scatolina di velluto blu, stretta e lunga. Accanto c'è un biglietto. 'Scoprirai perchè'. Apro curiosa la confezione. Dentro c'è una biro a scatto, placcata in argento. La prelevo iniziando ad osservarla. E io che credevo di trovarci dentro un bracciale di Tiffany! Una semplice biro, sottile, elegante, molto carina, ma pur sempre una biro a scatto. La riposo dentro il suo cofanetto, nella speranza che mi aiuti a ricordare qualcosa che possa cancellare questo velo di delusione che, forse un po' egoisticamente, provo. Ma chi nella mia situazione non avrebbe sperato che dentro quel cofanetto ci fosse un bel regalo, magari che implicasse una proposta di portare la relazione a una fase successiva? Bree Collins suona così bene! Suonerebbe bene addirittura Brigida Collins. Ok, sto esagerando.
Proprio la Collins entra in stanza ad interrompere le mie fantasie.
- Cara, ho i risultati delle analisi. -

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Capitolo 51
*** 51 ***


La guardo a lungo, cercando di carpire se dietro quel viso stanco ci sia una buona notizia o meno. Lei si avvicina continuando a fare scorrere sotto gli occhi i fogli che tiene in mano.
- Buone notizie? - Domando. Il silenzio mi sta già irrigidendo.
- Direi di sì. - Si decide a dire, lasciando le carte sul letto. - Tutti i valori si sono normalizzati e stai rispondendo bene all'intervento. -
Sento il viso illuminarsi e mi fiondo ad abbracciarla. - Potrò uscire, quindi? -
- Con calma, Bree. Con calma. -
- Devo aspettare ancora? - Rispondo quasi delusa, staccandole le braccia dal collo.
- Potrai uscire, ma alle solite condizioni. -
- Non affaticarsi e tornare qui di sera? Lo consideri fatto. - Sorrido felice. Non vedo l'ora di tornare fuori. 
- Esattemente questo. Soprattutto niente fatica. - 
- Si fidi di me. -
- E coi cassetti? A che punto stai col recupero dell'amnesia? -
- Non so di preciso quanto manchi. Credo poco, comunque. - Inspiegabilmente ho voglia di chiederglielo. Non dovrei, ma lo faccio. - Dottoressa, lei... lei mi odia? - 
La Collins mi guarda perplessa. - Che cosa intendi? -
Arrossisco cercando le parole giuste. - Non saprei. E' che... io e suo... suo figlio. -
- Oh, Bree! Davvero pensi che io ti odi perché stai con mio figlio? -
- Di solito io non piaccio alle madri. E poi, per quello che ho ricordato... -
- I piccoli scontri tra me e Stefano non centrano nulla con te. - Mi accarezza il viso sorridendo. - Quindi sta tranquilla. E poi in questo momento tu sei prima di tutto una mia paziente ed è mio interesse farti guarire il più in fretta possibile. - 
Sorrido imbarazzata. 
- E questa chi te l'ha lasciata? - Il suo sguardo è caduto sulla scatolina blu.
- Non lo so. L'ho trovata sul vassoio, dopo che tutti se ne sono andati. -
La prende tra le mani e la apre. - Stupenda questa Parker. -
- Cosa? -
- La penna. E' una Parker. La vedi la freccia qui, alla fine dell'asticina? -
- Sì, l'avevo notata, ma non sapevo che indicasse la marca. -
- Chiunque te l'abbia regalata è un intenditore. Questa è una di quelle più pratiche. - 
- Dubito di sapere chi sia stato. -
- Credo che lo ricorderai. -
- Lo spero. -
- Ti lascio dormire, Bree. Riposa bene. Vado a chiamare tua madre per dirle che domani mattina qualcuno venga a prenderti. - 
Annuisco sorridendo. La guardo uscire dalla stanza e mi abbandono felice sul cuscino. Finalmente belle notizie.

E' stato difficile prendere sonno, ma alla fine ho dormito bene per quasi tutta la notte. Mi sono svegliata che fuori era ancora buio. Avevo la gola secca. Dopo aver bevuto, la sonnolenza rimasta è svanita via. Continuavo a pensare alla Parker, ma soprattutto scommettevo su chi sarebbe venuto domani a prendermi. Scontato dire che il primo nome a venirmi in mente fosse quello di Steve. 
Pian piano sono scivolata nel tempore di uno stato di dormiveglia, continuando a fantasticare su chi avrebbe varcato quella soglia, cosa sarebbe successo, cosa avrei ricordato ancora. Da lì, quasi senza accorgermene, delicatamente, senza dolore alcuno, sono scivolata nel mio ennesimo ricordo.

Con Steve sto stupendamente. Mi fa sentire come nessuno mai è riuscito prima. E' passata una settimana da quel giro in barca e mi riscopro innamorata di lui ogni giorno di più, nonostante ci siamo potuti vedere poco. Io ho iniziato a studiare per gli esami del semestre, lui ha trovato un impiego da tappa buchi in un'azienda del paese vicino. Anche Gigì è perdutamente innamorata. Joshua l'ha completamente stravolta, rivelandosi un tipo di persona completamente diverso da ciò che mi ero immaginata. Sono affiatati e sembrano terribilmente fatti l'uno per l'altra. Cristina è tornata quella di sempre. La parentesi delle follie si è aperta e chiusa quella sera e non ha più voluto vedere Alex nemmeno per sbaglio. Anche noi cerchiamo di evitarlo il più possibile, anche se dopo i cazzotti di suo cugino sembra aver calato la cresta. E' diventato tutto casa e lavoro, lavoro e casa. Quelle poche volte che ci siamo incrociati ha tenuto lo sguardo basso e se ne è andato il più velocemente possibile.
E' domenica pomeriggio e, finalmente, sia io che Steve abbiamo tempo libero da dedicarci, oltre le pause pranzo e le brevi cene. Siamo in camera sua a coccolarci con in sottofondo della musica rilassante. Alex, ovviamente, non c'è.
- Ho sentito Sabina, sai? -
- L'infermiera? -
- Sì. Ci siamo incontrate per caso e stavolta ci siamo scambiate i numeri. -
- Come sta? -
- Bene, bene. In effetti, non tanto. -
- Successo qualcosa? -
- Non lo so, ma l'ultima chiamata che mi ha fatto era un po' preoccupante. Sembrava spaventata, tesa, preoccupata. Mi ha accennato qualcosa, ma non ho ben afferrato tutto. Pare centri il suo ex. - 
- Quello del bambino? -
- Sì. Povera S. -
Prende le mie mani tra le sue e le poggia sulla mia pancia. - So che puoi capirla. -
Annuisco, rabbuiandomi un po'. Ancora la ferita non è del tutto cancellata. 
- Credi di volere avere dei figli in futuro? -
La domanda mi stupisce, non poco. - Credo di sì. -
- Ti ci vedo proprio come mamma, sai? - 
- Non adesso magari. -
- Non dico di fare un figlio adesso. Dico solo che, guardando al futuro, immaginarmi te come madre mi viene facile. -
- Perché? -
- Perché sei dolce, ma sai anche essere rigida quando serve. -
- E tu ti vedi come papà? -
- Io... credo di sì. Sì, potrei riuscirci. -
- Io ti vedo più come un bambino adesso. - Rido scompigliandogli i capelli.
- Bambino? -
- Sì. - Faccio la voce tenera ed inizio a spremergli le guancie. - Sei un cuccioletto da difendere. -
- Difendere? - Ripete con voce potente. - Io? - Mi prende per i polsi e gira le mie stesse braccia intorno alla mia vita, incatenandomi in un auto abbraccio. - Chi ha bisogno di essere difeso adesso? - Mi sussurra all'orecchio, iniziando poi a baciarlo. Rido cercando di divincolarmi, mentre inizia a farmi il solletico sui fianchi.
- No, il solletico no! - Continuo a ridere e a contorcermi. Lui non si ferma. Riesco, però, a sfuggire dalla sua presa. 
In piedi, difronte al divano su cui lui è rimasto seduto, assumo una posa da perfetta lottatrice di sumo. - Lotta? -
- Mi stai sfidando? -
- Accetti? - Chiedo strizzando l'occhio. 
Bussano alla porta, mentre Steve fa finta di meditare una risposta. Si alza dal divano. - Chi è? -
- Sono io. - Risponde Alex da dietro la porta. - So che c'è Bree e non vorrei disturbare, ma ho appena staccato da un doppio turno a lavoro e avrei bisogno di dormire. - 
Steve fissa la porta non decidendosi ad aprire. Gli accarezzo un braccio, convincendolo ad avere un po' di compassione verso suo cugino. Apre la porta in modo quasi meccanico. Appare un Alex stremato, con delle enormi occhiaie e la forza stentata per trascinarsi dentro. 
- Stai bene? - Mi viene automatico chiederlo.
- Oh, sì. Non preoccuparti. E' solo che sono a lavoro da ieri mattina. - Si trascina lento verso il bagno. - Non vi disturberò, giuro. Faccio una doccia e mi infilo a letto. Se non mi addormento in piedi sotto l'acqua. -
- Fai tranquillamente, non preoccuparti. Anzì, noi stavamo proprio uscendo. - Piccola gomitata a Steve. - Vero? -
Mi guarda dubbioso e non appoggia la mia mozione. Senza aspettare altro, prendo la mia roba. - Buon riposo Alex. - Mi volto verso Steve. - Ti aspetto in macchina. - Esco fuori. Faccio il solito giro e mi appoggio allo sportello della macchina di Steve. 
- Ciao Bree. - La Dottoressa Collins è appena scesa dalla sua auto. Inserisce l'antifurto e si avvicina a me. Accanto a lei, un affascinante uomo di mezza età, alto, estremamente elegante anche lui. 
- Salve. - Sorrido arrossendo. Quello deve essere il padre di Steve. 
- State uscendo? -
- Sì, sto aspettando Steve che doveva finire di sistemarsi. -
- Ah, il mio Stefano! Più vanitoso di una ragazza. Non trovi? -
Continuo a sorridere, evitando di rispondere. 
- Ti presento mio marito. Il Signor Collins. Caro, lei è la ragazza di Stefano. -
- Incantato signorina. - Mi prende la mano ed effettua un baciamano da perfetto gentiluomo, non appoggiandoci le labbra. - Potrebbe ripetermi il suo nome? -
Oltre ad essere elegante, ha tutta l'aria di un aristocratico in piena regola, un vero Lord inglese. Ha gli occhi verdi di suo figlio. - Mi chiamo Brigida, ma preferisco essere chiamata Bree. -
- Bree. Bree. - Lo ripete più volte alzando la testa al cielo, quasi annusando l'aria. - Ha un bel suono dolce. Come lei, signorina? -
- Sì, papà. E' dolcissima. - Steve è apparso all'improvviso a salvarmi dall'imbarazzo che mi stava sormontando. Bacia leggermente sua madre ed abbraccia suo padre. - Dimmi la verità. Non è bellissima? - Ma non doveva salvarmi dall'imbarazzo? Mi sta facendo arrossire ancora di più! 
- Devo ammettere che è una signorina di presenza davvero gradevole. Cara, non credi che dovremmo invitarla a cena per gustare del suo aplomb? - 
Guardo fisso Steve, cercando aiuto. Non sono pronta per una cena coi suoi. 
- Certo che dovremmo, caro. Ma non penso sia il caso di farlo stasera. I ragazzi avranno già qualche impegno. - La Dottoressa sembra avere capito il mio stato inquieto, almeno più di suo figlio.
- Come è tua volontà, cara. Ma dovremo riparare al più presto. - Prende nuovamente la mia mano. - Signorina, la prego di aspettarsi un nostro invito al più presto. Al momento la prego di volerci scusare se ci accomiatiamo da voi ed entriamo in casa, ma i nostri gioielli stanno attendendo il nostro ritorno per decidere cosa far della serata. - Altro baciamano.
- Oh, non si preoccupi minimamente. Non vi tratteniamo oltre. -
Il signor Collins prende a braccetto la moglie e si inoltrano verso la casa. Steve si avvicina a me divertito. 
- Simpatico papà, vero? -
Lo fulmino. - Non sei di aiuto! Tuo padre sembra un Lord inglese e io una stracciona. Non mi sono mai sentita così in imbarazzo. -
Lui se la ride. - Ma dai che gli sei piaciuta un sacco. Non ti avrebbe fatto quei complimenti. -
- Si chiama buona educazione, Stefano! -
- No, non chiamarmi così! Eravamo daccordo. E comunque sei la prima che vuole invitare a cena lo stesso giorno che l'ha conosciuta, quindi l'hai colpito. -
- Hai presentato già tante ragazze ai tuoi? -
- Io non ne ho presentata nessuna. Si sono presentate da sole. E non hanno mai fatto bella figura. -
Lo guardo perplessa. In risposta ricevo un bacio sulla punta del naso. 
- Decidiamo dove andare, allora? -
- Ti piace il cinese? -
- Ristorante cinese? E' da un po' che non ci vado. Ti porto nel mio locale di fiducia. Papà conosce il proprietario. - 
- Però dividiamo. -
- Non se ne parla nemmeno, sia chiaro. -
- Ma... -
- Niente ma. Sali in macchina. -
Ci siamo appena avviati verso la nostra meta, che il mio cellulare inizia a trillare.

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Capitolo 52
*** 52 ***


- Pronto. - Rispondo senza guardare il nome sul display.
- Ciao Bree. Disturbo? -
- No, tranquilla. Stavo in macchina. - Sento che è una voce femminile, ma non la riconosco bene. Mi scosto leggermente dall'auricolare per vedere il nome. E' Sabina. - Dimmi S, tutto ok? -
- Circa. -
- Successo qualcosa? L'ultima volta che ci siamo sentite non mi sei sembrata molto tranquilla. -
- Non è un bel periodo, diciamo così. -
- Vuoi che ci vediamo? -
Steve mi lancia un'occhiataccia. Gli faccio cenno di aspettare.
- Sarebbe una bella cosa, ma non voglio rovinare i tuoi piani per la serata. -
- No, ma quali piani? Non avevamo deciso niente ancora. -
Steve si ribella in silenzio. Mi ricorda sottovoce che dovevamo passare la serata noi due da soli.
- Sicura che non scombino niente? Forse volevi stare da sola con Steve. -
- No, figurati. Stiamo soli in altri momenti. -
Steve non regge più le mie parole. - Eh sì, ventiquattro ore al giorno! - Sbotta sarcastico. Gli faccio cenno di zittirsi.
- Lui non mi sembra della tua stessa opinione. -
- Bravo! Ti ha sentito! - Gli dico sottovoce, coprendo il microfono del cellulare.
- Era il mio scopo. - Mi risponde alterato.
Gli faccio una smorfia e torno al telefono. - No S, tranquilla. Te l'ho detto che scherza spesso. Ti va se andiamo al cinese? -
- Perfetto. -
- Ti passiamo a prendere noi. Dammi l'indirizzo preciso. -
S mi detta l'indirizzo e lo ripeto a Steve. - Sicura che va bene per voi? -
- Sicura. Siamo lì tra mezz'ora al massimo. -
Appena riaggancio il telefono, Steve sbotta di nuovo. - Stiamo soli in altri momenti? Quando? -
- Il tempo per stare da soli lo troviamo. Calmati. -
- Calmarmi? - Sterza bruscamente e si accosta alla banchina. Ferma l'auto e scende sbattendo lo sportello. La strada è vuota, fortunatamente. - Come posso calmarmi se tutto viene prima di me? Sempre! - Mi urla da oltre il vetro.
Scendo dalla macchina cercando di mantenere la calma. - Mi spieghi che bisogno c'è di fare così? -
- C'è che mi sento la ruota di scorta, Bree! C'è che fai la carina e la gentile con tutti e ti dimentichi che io ho bisogno di te. -
- Ma siamo insieme, mi pare, no? -
- Bree è una settimana che ci vediamo solo a pranzo o per qualche cena veloce. Oggi pomeriggio avevamo promesso di dedicare tempo a noi. Invece no! Arriva Alex e tu senza pensarci su decidi di andare via. Chiama Sabina e le dici di passare la serata con noi. Io come dovrei reagire? -
Respiro profondamente. Conto fino a dieci. - Non posso darti tutti i torti. Hai ragione. Oggi doveva essere dedicato solo a noi. Ma non hai valutato i fattori che mi hanno spinto a fare determinate cose. Hai solo deciso che le avevo fatte per metterti in secondo piano. -
Mi guarda serrando i pugni.
- Saresti voluto restare a casa con Alex che dormiva nella stessa stanza in cui eravamo noi? -
Fissa l'asfalto senza dire una parola.
- Rispondimi. Volevi questo? -
- No. - Gli esce stentato fra i denti serrati.
- Quindi un punto lo possiamo cancellare. Seconda cosa, Sabina sta passando un brutto periodo. Voglio proprio vedere se al posto suo, avesse chiamato Joshua o Dav. Saresti andato da loro senza problemi, anche se fossero stati tranquilli. -
- Questo non è vero. -
- Supponiamo che tu abbia ragione. Se fossero stati nei guai non saresti corso da loro? -
- Sì, ma è diverso. -
- Perché è diverso? Perché lei è amica mia e non tua? -
Continua a fissare l'asfalto. Ritorna in auto senza dire una parola. Rientro anche io. - Facciamo una cosa. Lasciami a casa. Esco da sola con S. -
- Che stai dicendo? - Mi fissa preoccupato.
- Ormai la serata tra noi è rovinata tanto, no? Non voglio costringerti a passare la serata con una mia amica, quindi se non vuoi venire, puoi pure lasciarmi a casa. Prenderò la macchina di mamma e andrò da Sabina da sola. -
- Non se ne parla. -
- Stai forse cercando di darmi ordini? -
- No, ma non mi piace che due ragazze se ne vadano in giro da sole. -
- Chiamerò Gigì. Lei e Joshua non avranno problemi a passare la serata con noi. -
Steve incassa il colpo. Accende l'auto e si immette in strada. Mi porge il cellulare dopo poco. - Chiama Joshua da parte mia. Chiedigli se vogliono venire stasera. Almeno passeremo la serata in cinque e Sabina non si sentirà il terzo incomodo. -
Si sentirà il quinto, dato che siamo due coppie. Non glielo dico, però. E' già uno sforzo quello che sta facendo.
Chiamo Joshua. La conversazione risulta più breve del previsto.
- Che ti ha detto? - Mi chiede.
- Hanno già un impegno. -
- Con chi? -
- Pare che ci sia un compleanno di non so quale cugino. -
- Un cugino di Gigì, credo. Joshua i suoi li frequenta poco. -
- Credo di sì. -
- Wow. Fanno passi avanti. Adesso pure in famiglia. -
- Non è proprio una presentazione ufficiale. Saranno solo tra cugini. -
- E' sempre qualcosa. -
- Già. -
Silenzio imbarazzante.
- Allora mi lasci a casa o vieni anche tu? -
- Non vi lascio da sole. Siamo quasi arrivati a casa di Sabina. -
Di nuovo silenzio.
- Mia madre è fuori per lavoro. - Dico quasi scusandomi. Ho l'impressione che quella di prima fosse una battuta per chiedermi di presentarlo ai miei adesso che sono stata presentata ai suoi.
- Me lo ricordo, Bree. -
- E' per questo che non te l'ho presentata. -
- Lo so. -
- Ok. -
Arriviamo a casa di Sabina accompagnati da altro silenzio glaciale.
Scende da casa in un sorriso smagliante ed entrata in macchina inizia a parlare a manetta, senza fermarsi un attimo. Almeno riempie questo silenzio insopportabile. Continua così anche mentre siamo al ristorante cinese, tra un boccone di involtino primavera e un pezzo di manzo e bambù. Il suo monologo, però, si fa sempre più triste man mano che inizia ad esagerare con la birra cinese più amara che abbia mai assaggiato. Esce fuori tutti i pensieri che l'assillano in questo periodo. Tutti con dentro 'quel brutto porco', come continua a definirlo, iniziando a piangere. Ha superato la perdita del bambino, sì, ma il trauma di essere stata pestata quasi a morte da quello che era il suo ragazzo non l'ha per niente superato. Solo sapere che lui è in città la terrorizza. Non mi ha voluto dire come l'abbia saputo. Mi ha solo detto che per fortuna ancora non l'ha incontrato, ma non potrà evitarlo per sempre se lui non va via. Ho cercato di farla calmare, perché abbiamo attirato l'attenzione di tutti. Chiedo con lo sguardo aiuto a Steve che, comprendendo finalmente la situazione, si alza per pagare il conto e ci porta via di lì. In macchina mi siedo sul sedile posteriore insieme a lei. Le accarezzo i capelli tenendola appoggiata al mio petto. Dopo un po' smette di piangere e si appisola con la testa tra le mie gambe. Io e Steve continuamo a scambiarci sguardi dallo specchietto retrovisore.
- Si è calmata? -
- Per ora pare stia dormendo. -
- La dovremo svegliare arrivati a casa. -
- Penso proprio di sì. -
- La porto da te? -
- Da me? Perché? -
- Magari non vuoi farle passare la notte da sola. -
- E' vero, ma... -
- Ma? -
- Ma volevo passare la notte con te. -
- Io devo rientrare a casa, lo sai. -
- Potrei venire da te. -
- E lei? -
Continuo ad accarezzarle i capelli. - Non lo so. Non so che fare. Ti ho rovinato la serata già abbastanza. - Guardo gli occhi di Steve attraverso lo specchietto. Sono tristi quanto i miei.
Non mi risponde. Lo vedo prendere il telefono e comporre un numero.
- Non dovresti usare il telefono mentre guidi. -
- Lo so, ma è necessario. -
Mi zittisco e lo lascio fare, ascoltando poi la sua conversazione. - Ciao mà, che fate? Siete a casa? ... No, non è successo niente. ... Non torno stasera. ... No, non passo la notte da Bree. ... Da Joshua, come sempre. ... Siamo usciti con lui e la sua ragazza. ... Ok, ci vediamo domani. - Riattacca. - Andiamo da te. -
Gli sorrido felice. Forse abbiamo trovato il modo per non rovinare del tutto la serata.
Sabina non si sveglia per tutto il tragitto e anche quando siamo arrivati non riusciamo a farla alzare. Steve è costretto a portarla dentro in braccio. La poggia delicatamente sul mio letto. La copro con un piumino leggero per evitare che durante la notte senta freddo e le lascio un biglietto sul comodino per dirle che è a casa mia, nel caso si svegli di notte. Usciamo dalla stanza in silenzio, anche se dubito che il rumore dei nostri passi riuscirebbe a turbare il suo sonno profondo.
- Vuoi del the? - Gli chiedo iniziando ad incamminarmi verso la cucina.
- Voglio te. - Mi abbraccia da dietro assaggiando il profumo dei miei capelli.
Sorrido, appoggiando le mani sulle sue e voltando il viso a guardarlo. Bacio le sue labbra, come ho desiderato fare per tutta la serata.
- Scusa per prima. Non dovevo aggredirti in quel modo. -
- Piccolo, io ho capito come ti sei sentito. E mi dispiace. -
- Avevi ragione. Io avrei fatto lo stesso e non sarebbe stato per niente diverso. -
Ci baciamo ancora. - Abbiamo sbagliato entrambi. Io avrei dovuto chiedere il tuo parere prima di invitare Sabina. -
Un altro bacio. - Ho un'idea interessante per fare pace. - Mi prende in braccio senza darmi il tempo di comprenderlo. - La camera da letto è di qui, vero? -
Annuisco ridendo. Steve oltrepassa la porta con me in braccio e mi poggia sul letto per poi andare a chiudere la porta.
- Cosa ha intenzione di fare signorino? - Uso la voce più provocante che ho e faccio l'occhiolino, mentre mi sdraio lateralmente.
- Una cosa che credo le farà piacere. - Sorride avvicinandosi al letto. Si sfila la maglietta e si inginocchia sul letto. Mi fa sdraiare sulla schiena e inizia a sbottonarmi la camicetta, mentre bacia la mia pancia. Si sdraia su di me, baciandomi il viso e mordendomi le labbra. - Vuoi fare l'amore con me? - Mi sussurra all'orecchio.

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Capitolo 53
*** 53 ***


'Sì. Sì, che lo voglio. Lo voglio con tutta me stessa. Voglio completarti ed essere completata a mia volta. Voglio viverti come finora non abbiamo potuto fare. Voglio averti e concedermi a te.' E lo voglio così tanto che non riesco a dirglielo, che le labbra non si decidono a muoversi se non per baciare la sua pelle calda. Ancora, ancora e all'infinito, mentre lui continua ad aggrapparsi alla mia pelle e a mordermi i lobi. Gli prendo il viso tra le mani e lo porto difronte al mio. I nostri occhi si uniscono in uno sguardo che rivela più di quanto non possano mai fare mille libri di poesie d'amore.
- Vuoi? - Mi ripete.
Sorrido e annuisco, arrossendo ancor di più.
Il suo sorriso risplende davanti ai miei occhi. Meraviglioso, come sempre. No, molto di più. Si impossessa della mia bocca, sua facile preda ormai. Mentre fionda le sue labbra con lo stesso slancio sul resto del mio corpo, non riesco ad evitare di ridere.
- Perché ridi? - Si blocca, quasi preoccupato. - Ho fatto qualcosa che non va? -
- No, amore. - Contiuo a ridere. E' la giusta occasione per usare questa parola con lui per la prima volta.
- E allora? Ti fanno ridere i miei baci? - Adesso sembra quasi innervosito.
- Nemmeno. - Smetto con le risate. Adesso sorrido soltanto. - Sono solo felice. -
Tranquillizzato, risale a baciarmi le labbra teneramente.
- Dolce. - Gli sussurro, mentre i nostri sorrisi si allontanano.
Torna a guardarmi negli occhi. - Più dolce che posso. -
- Di più. - Il sorriso, stavolta, viene dal cuore.

- No, cazzo! Questa è sfiga! - Mentre Steve quasi si dispera, io non riesco a smettere di ridere da almeno dieci minuti. Da quando si è ricordato di non avere con sè il "necessario".
- Amore è tutta colpa del tuo romanticismo. - Non riesco a fermare le risa.
- Smettila di prendermi in giro. - Si alza dal letto. - Esco e cerco il primo distrubutore. Ce ne sarà uno qui vicino, no? -
Gli afferro il braccio con cui sta frugrando tra le coperte per cercare i suoi jeans. - Non dire scemenze. Non vai da nessuna parte, tu. -
- Vuoi forse fare senza? -
Lo guardo perlpessa per poi scoppiare a ridere nuovamente. - Vuoi dirmi che hai ancora voglia? -
Mi fissa mentre dalle forti risate sono costretta a tenermi lo stomaco con le braccia.
- Cosa ci sarà così tanto da ridere, poi. - Si mette a sedere sul letto.
Fermo le risate come meglio posso. Mi ingonocchio dietro di lui abbracciandolo. - Avevamo detto dolce, no? - Mi sporgo in avanti per baciargli la guancia.
- E allora? -
- Allora facciamo i dolci. - Mi butto all'indetro trascinandolo con me. Si volta ricambiando il mio abbraccio e sorridendomi. - Per l'ennesima volta! - Immediatamente mi fiondo a chiudergli le labbra stampandoci sopra le mie. Cerca di divincolarsi per protestare alla mia battuta un po' velenosa. Glielo impedisco premendo forte con le mani sul suo collo per non farlo scostare dalle mie labbra.
- Sei una stronza. - Farfuglia, prima di arrendersi e baciarmi sul serio.

La mattina è arrivata troppo presto. Suona la sveglia che ha puntato Steve come gli avevo chiesto. Non posso permettermi di dormire tutta la mattina perché devo studiare. Svegliarmi tra le sue braccia, però, non è per niente un incentivo a lasciare il letto. Sorrido guardandolo chiudere gli occhi più forte per non essere disturbato dalla luce. Gli bacio la punta del naso e lo incito ad svegliarsi.
- Ancora cinque minuti. - Sembra un bambino che non vuole andare a scuola.
- Vado a preparare il caffè. -
- Dove credi di andare tu? - Mi stringe più forte per non farmi alzare.
- A fare il caffè, te l'ho detto. -
- No. - Lo scandisce in modo tassativo.
- Dai amore che poi devo andare da Cristina a studiare. - Faccio finta di volermi divincolare dal suo abbraccio, quando in realtà resterei qui vita natural durante.
- No. - Più categorico di prima. - Prima devi darmi un bacio. - Senza lasciarmi il tempo di ribattere, stampa le sue labbra sulle mie tenendo ancora gli occhi chiusi. - Ora puoi andare a fare il caffè. -
Allarga le braccia permettendomi di alzarmi dal letto.
Prima di andare in cucina, vado nella mia stanza da Sabina. La trovo ancora addormentata, avvolta nelle mie lenzuola fin sopra la testa. Mi siedo sul letto accanto alla sua sagoma imbacuccata e abbasso il lenzuolo finché non riesco a vedere il suo viso. Sembra serena, spero abbia riposato bene. Le accarezzo la fronte e lei inizia a fare smorfie col viso infastidita, probabilmente, da questo disturbo al suo sonno. Inizio a chiamarla usando una voce dolce e bassa. Lei pian piano apre gli occhi.
- Buongiorno S. -
- Bree, che ci fai qui? -
- Sei a casa mia, S. Ieri sera ti sei addormentata in macchina. -
- Perché non mi avete svegliata? -
- Ci abbiamo provato, ma non ti svegliavi. - Ridacchio. - Eri molto stanca. -
- Sono giorni che non dormo, dev'essere stato questo. Mi dispiace avervi creato questo disturbo. -
- Ma figurati. - Le dico sorridendo. - Il bagno è proprio qui difronte se vuoi farti una doccia. Io vado a preparare la colazione. Cosa prendi tu? -
- Di solito non mangio niente. -
- Solo un caffè? -
- Andrà benissimo. -
- Vado. - Le bacio la fronte e mi dirigo in cucina.
Preparo tre caffé con la macchinetta. Frugando nel frigo trovo il quarto rimanente della ciambella al cioccolato che mi ha portato Alberta. La esco e ne taglio tre fettine, appoggiandole ciascuna accanto a una tazzina. Poggio sul tavolo anche il cartone del latte, una bottiglia di succo di frutta e una d'acqua.
- Mancano dei fiori. - Steve è sulla porta della cucina a guardarmi da un pezzo. Me ne sono accorta subito, ma l'ho lasciato fare senza farglielo intendere.
Gli sorrido. - Ne faremo a meno oggi. -
Si avvicina al tavolo. - Sabina si è svegliata? -
- L'ho svegliata prima di venire in cucina. Vado a vedere a che punto è. -
Busso alla porta di camera mia.
- Avanti. - Mi risponde da dentro Sabina.
Mi affaccio sulla porta. E' seduta sul letto e si sta allacciando le scarpe sportive che portava ieri. - La colazione è pronta. Ti aspettiamo. Quando sei pronta passa in cucina. Non puoi sbagliare, è in fondo al corridoio. -
- C'è anche tua madre? -
- No, mia madre ancora è fuori per lavoro, ricordi? -
- Ah, già. C'è il tuo ragazzo, allora? -
- Sì, è rimasto a dormire qui. -
- Mi dispiace davvero di avere rovinato la vostra serata a due, ma avevo bisogno di stare con qualcuno di amico. Devo scusarmi con lui. -
- Sabina, non pensarci nemmeno. L'abbiamo fatto con piacere. - Insomma, proprio con piacere Steve no. Ma che avrei dovuto dire?
- Sicura ciccina? -
Rido. - Mi mancava il tuo modo di chiamarmi così. -
- Ti da fastidio? -
- Solitamente non mi piacciono molto i nomiglioli di questo tipo, ma tu puoi farlo. -
Mi regala un sorriso stupendo. Illuminato quasi. - Siamo amiche, quindi. -
- Certo. - Le ricambio il sorriso.
- Sono pronta. - Annuncia alzandosi dal letto. - Posso chiederti solo un elastico per capelli? -
- Prendi quello che vuoi. Sono lì dietro. -
Li guarda e ne sceglie uno piccolo, semplice, verde acqua. Si fa una coda veloce. - Possiamo andare. -
Ci rechiamo insieme in cucina. Arrivati vedo sul tavolo un bicchiere di carta con dentro un piccolo mazzo di margheritine bianche e gialle. Steve guarda con un sorriso soddisfatto la mia espressione stupita.
- Ma... - Non riesco a formulare la frase in modo corretto.
- Ti avevo detto che mancavano dei fiori! Sono uscito e ne ho strappato qualcuno da vicino al tuo portico. Spero non mi ucciderai. -
- Sei dolcissimo. - Lo bacio.
- E c'è anche un'altra sorpresa. -
- Cosa? -
- Guarda lì. - Indica l'angolino sotto la finestra col dito.
Volgendo il mio sguardo in quella direzione vedo Black che beve da un piattino con dentro del latte. Sorrido andandolo a prendere in braccio. Lo accarezzo mentre mi godo le sue fusa sotto il mento. - Ciao piccolo birbante. - Chiedo a Steve di prendergli anche della carne in scatola e riappoggio il mio amico felino per terra lasciandolo libero di rimpinzarsi. Mi sciaquo le mani e poi ritorno a tavola.
- E' il tuo gatto? - mi chiede S.
- No, è un randagio, ma spesso mi viene a fare visita. Lui mi fa le fusa e io gli do da mangiare. -
- Quindi dovrò farti le fusa anch'io dopo la colazione? -
Ridiamo insieme ed iniziamo la nostra colazione in compagnia di una bella conversazione.
Anche se nessuno mangia molto perché siamo tutti ancora un po' appesantiti dalla cena non proprio leggera di ieri, restiamo a tavola per un bel po', chiacchierando come vecchi amici. Steve sembra molto più tranquillo nei confronti di Sabina, fino ad un punto che mi stupisce parecchio.
- Che ne dite di cenare insieme pure stasera? -
Guardo il mio ragazzo sgranando gli occhi, del tutto sorpresa.
- No, ragazzi. Non voglio rubarvi un'altra sera da soli! -
- Chi ha detto che saremo solo noi tre? Mi è venuta un'ottima idea. -
- Spiega amore. -
- Mio padre ha detto che vuole inviarti a mangiare da noi, giusto? -
Annuisco, non capendo ancora dove vuole andare a parare.
- Bene. Gli dirò se si può organizzare per stasera. E per evitarti l'imbarazzo di affrontarli da sola, porteremo anche Sabina. -
- E cosa dirai per fare invitare anche lei? -
- Dirò che lei sta dormendo da te, cosa effettivamente vera, e che quindi non puoi lasciarla da sola a casa. Lascia fare a me, so come fare credere a mio padre che tutto sia stata un'idea sua. -
- Sei sicuro? -
- Sei voi siate daccordo, per me è una soluzione ottima. -
- Ah, io sono perfettamente daccordo. S? Tu che ne pensi? -
Ci guarda perplessa. Continua a spostare gli occhi da me a Steve per poi ritornare a me. - Se pensate che sia una cosa buona. - Accetta. Un po' titubante, ma accetta. -
Prendiamo appuntamenti per la sera, basandoci su una risposta affermativa dei genitori di Steve che in realtà ancora non c'è. - Ci sentiamo per confermare, comunque. -
- Certo. -
Dopo questo ci salutiamo e andiamo via. Steve riaccompagna Sabina a casa ed io vado da Cristina per studiare.

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Capitolo 54
*** 54 ***


- Carissima Bree. - Il padre di Steve mi viene incontro a braccia aperte appena varchiamo la soglia di casa. Afferra la mia mano per baciarla. - Posso dirle che è stupenda stasera? -
Arrossisco ringraziandolo e iniziando a lisciarmi la camicia bianca che ho scelto di indossare su dei pantaloni neri. Scelta a cui sono arrivata, ovviamente, solo dopo ore di crisi esistenziali fissando l'armadio aperto e di cambi continui per i più svariati motivi.
- Lei è sempre stupenda, papà. -
- Ah su questo non ho dubbi. Riconosci una vera donna quando la guardi. Hai preso tutto da tuo padre. -
Continuo ad arrossire. Raggiungiamo la cucina dove troviamo la dottoressa Collins affaccendata ai fornelli. Anche con indosso il grembiule da cucina sugli abiti e coi capelli raccolti in uno chignon improvvisato, è sempre tremendamente elegante.
Il padre di Steve non mi lascia un attimo, mentre il mio ragazzo fa amicizia con Sabina. Mi prende a braccetto. - Ti dispiace se la porto nel mio studio? - Chiede al figlio.
- Fai pure papà. -
Così, il signor Collins mi conduce nel suo studio, mentre il mio imbarazzo cresce nettamente. Non è molto grande ed è arredato come uno studio legale d'altri tempi. Si allontana da me sorridendo, lasciandomi da sola ad ammirare i mobili in legno stracolmi di libri. Lo vedo aprire dei cassettoni ed uscirne dei grandi scatoli blu per depositarli sull'enorme scrivania.
- Avvicinati prego. -
Mi porto vicino a lui e vedo che le scatole sono tutte rivestite di velluto.
- Voglio mostrarti il mio orgoglio. La mia collezione. -
Apre una dopo l'altra tutte le scatole. All'interno sono foderate di raso, anch'esso blu. Custudiscono delle stupende penne da collezione. La maggior parte sono argentate o dorate e sono di varie forme, grandezze e tipologie. Le guardo ammirata, più per l'enorme numero in suo possesso che perché ne afferro il vero valore o prestigio.
- Ti piacciono? Le colleziono ormai da quarant'anni. -
- Sono magnifiche. - Ammetto sorridendo.
- Sei una collezionista di qualche cosa? -
- Solo di brutte figure, purtroppo. - Rido alla mia stessa battuta, cercando di spezzare un po' la tensione che sembro sentire solo io.
- Oh, non ci credo che almeno da piccola non hai mai collezionato nulla. -
- Nulla che mi ricordi. -
- Non bisogna incorrere nel banale luogo comune di considerare i collezionisti come gente antipatica e narcisista. Così si espresse una giornalista italiana. -
- Non credo che i collezionisti siano antipatici. -
- Dovresti farne parte allora. So come farti iniziare. - Si tuffa dentro un altro cassetto. Ne tira fuori molte scatole e scartoffie, per poi riemergere con una piccola scatolina blu tra le mani. - Questa è un ottimo inizio. - Me la poggia tra le mani.
La apro. Dentro c'è una biro a scatto, placcata in argento.
- E' una Parker. Per iniziare la tua collezione. -
Lo fisso senza trovare le parole per rispondere. - Non posso accettarla. -
- Per quale motivo? -
- E' della sua collezione. -
Sorride mostrandomi una penna identica riposta al sicuro in uno dei grandi scatoli blu, insieme alle altre. - E' il regalo di un collega. Non gli ho mai detto che era un doppione. Credeva di avermi regalato il pezzo mancante. -
Rido insieme a lui. Richiude la scatolina che è ancora nelle mie mani. - Che inizi o meno a collezionare penne, questa è tua Bree. - Sembra meno formale adesso che siamo soli. E la cosa mi sta aiutando a sbloccarmi. Mi porge il braccio e stavolta mi ci appoggio sorridendo. - Adesso dovremmo tornare in cucina, altrimenti la mia signora e mio figlio inizieranno a sospettare che ci sia qualcosa di losco tra di noi. -
Ridiamo ancora insieme. Arrivati in cucina mi bacia di nuovo la mano e si congeda andando ad abbracciare la sua signora che sta apparecchiando la tavola.
- Signora Collins, vuole una mano? -
- Oh, assolutamente no, cara. Sei un un ospite. Vai pure da Stefano. Mio marito ti ha tenuto con sé da quando sei arrivata. -
Sorrido ringraziandola tacitamente e raggiungo Steve e Sabina dall'altra parte della sala da pranzo.

- Signora la cena è squisita. Non ho mai mangiato delle orate tanto saporite. -
- Oh, grazie cara. Avevo paura che non mangiassi pesce. Sai, i giovani di oggi spesso non lo amano. -
- Sono un'eccezione allora. - Affermo soddisfatta.
- Ha ragione Bree, dottoressa. Sono da leccarsi i baffi. - Aggiunge Sabina. La chiama dottoressa da tutta la sera, abituata com'è a farlo a lavoro.
- Grazie anche a te Sabina.

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Capitolo 55
*** 55 ***


Mi sveglio e salto fuori dal letto. Quasi ci fosse una tarantola che mi avesse punto sotto le coperte. Troppo velocemente per non subirne le conseguenze. Arrivano le vertigini. Per non cadere a terra, mi getto di peso sul letto. Nel farlo butto a terra tutto ciò che c'è sul vassoio lì accanto.
- Maledetto. - Continuo a ripetere tra i denti, mentre i pugni si serrano sempre più forti. Inizio a sbatterli sul materasso. Come se colpirlo potesse sfogare tutta la rabbia verso quel verme schifoso. - Stronzo, maledetto. -
Alla porta della mia camera si presenta una giovane infermiera che mi ha assistito un paio di volte, ma di cui non so nulla. - Signorina cosa è successo? - Si precipita ad aiutarmi anche se in realtà non ne ho bisogno. Le vertigini sono passate.
- Mi sono alzata di scatto e ho perso l'equilibrio. Ora è tutto ok. Grazie. - Non riesco a sorridere e i miei pugni sono ancora chiusi.
- Sicura di stare bene? -
- Mai stata meglio. - Eh? Davvero?
Mi guarda molto dubbiosa. - Vuole che l'aiuti a sistemarsi? Tra poco verranno a prenderla. -
- Un aiuto lo accetto volentieri. - Le indico le poche cose da infilare dentro il borsone rosso, mentre io vado in bagno a darmi una rinfrescata e a vestirmi.
Quando esco dal bagno c'è già Cristina seduta sul letto ad aspettarmi. Sono contenta di vederla, anche se ero quasi sicura che venisse Steve. Usciamo dall'ospedale per mano. Respirare l'aria esterna dopo questi giorni di nuovo rinchiusa del tutto è stupendo. Niente odore di disinfettante, niente pareti azzurre, niente camici bianchi. Mi porta al bar di Evan dove, ovviamente, troviamo solo Claudio che festeggia la mia entrata come se non mi vedesse da anni. Facciamo colazione come se fosse uno dei nostri tanti giorni insieme, da passare rinchiuse tra le mura della facoltà.
- Come è andato poi l'esame? - Le chiedo metre ci stiamo dirigendo verso casa mia.
- Ho avuto qualche problema col professore. Ho l'impressione che in questo periodo il suo compagno non lo faccia sfogare abbastanza. E' di un acido intollerabile. -
- Non che normalmente sia molto meglio, eh! -
- In effetti hai ragione. -
Guardo le strade della città scorrere fuori dal finestrino. Mi sfugge un sospiro.
- Steve verrà per pranzo. -
- Cosa? - Chiedo voltandomi di nuovo verso di lei.
- Ho risposto alla domanda che vuoi farmi da quando mi hai visto in stanza. - Mi sorride dolcemente. - Gli ho chiesto io di lasciar venire me oggi. Ma a pranzo ci sarà. Anzi. - Guarda velocemente l'orologio al suo polso. - Conoscendolo lo troveremo a casa tua. -
Le sorrido quasi imbarazzata.
- Siete stupendi insieme. -
- Lo credi davvero? -
- Ti ho mai detto una cosa che non pensassi davvero? -
Siamo arrivate a casa. Come aveva previsto, Steve è già qui. Ho riconosciuto la sua auto. Entrata in casa, mi travolge un delizioso odore di zucca dolce. Seguito immediatamente dall'abbraccio di mia madre che si commuove.
- Mamma, farai così ogni volta che uscirò? -
- E anche se volessi? - Si stacca da me e si asciuga il viso con le mani.
- Ah, se ti piace tanto. - Rido mentre mi avvicino a darle un piccolo pizzicotto sulle guance. - Cosa hai preparato di buono? C'è un odorino! - Mi avvio verso la cucina.
- Io nulla. Il cuoco è il tuo meraviglioso ragazzo, amore di mamma. -
In effetti, in cucina, oltre a Gigì raggomitolata sul divano a guardare la piccola TV, c'è Steve con il grembiule che ormai è di proprietà di Cristina che si destreggia tra i fornelli tanto appassionato da non essersi accorto di me. Mia madre lo adora, ormai ne ho la certezza. Non so perché ma so che è così. Ne ho un'altra conferma quando mi si avvicina ammiccando ed indicandolo con gesti veloci della testa. Steve si volta e finalmente mi saluta. Un cenno del capo e un piccolo 'ciao, amore'. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se fossimo sposati da una vita e questa fosse una stupenda routine. Mi avvicino a lui e gli fermo le mani mentre sta tagliando a fette un finocchio.
- Non mi dai neanche un bacio? -
- Scusa piccola. - Mi regala un piccolo bacio sulla punta del naso. - Non vorrei bruciarti il pranzo. Ti piace la pasta con la zucca, vero? -
Annuisco.
- E i finocchi gratinati? -
- Gnam, gnam! Mi stai preparando un pranzo da re! -
- Da regina. - Picchietta il mio naso con l'indice. - La mia. -
Arrossisco, non sapendo cosa rispondere. Per la trilionesima volta mi lascia senza parole. Lo abbraccio da dietro, mentre continua ad affettare, sminuzzare e condire.
- Come ti senti? - Mi chiede mentre torna a mescolare la pasta in cottura dopo aver infornato la teglia con i finocchi gratinati.
Lo abbraccio di nuovo, stretto. - Ora bene. -
- Sei stata male stanotte? -
- No, solo che mi sono scombussolata un po'. Ho ricordato la storia di Sabina con tuo cugino, quello stronzo. - Ancora la rabbia non se ne è andata, ma stare tra le braccia di Steve riesce a zittirla.
Mi bacia la tempia. - Non voglio che stai male per quello. -
- Nemmeno io, piccolo. E' che non riesco a sopportare quello che è successo. -
- Piccola ti assicuro che non succederà più niente del genere. -
- Come fai ad esserne sicuro? -
- Fidati di me. - Mi bacia ancora.

Pranzo delizioso. Il mio ragazzo ci sa davvero fare in cucina. Non è Cristina, ovvio, ma se la cava. Mia madre è andata a riposarsi. Finito di mangiare, Gigì e Cristina mi hanno obbligato a non fare nulla mentre loro ripulivano tutto. Così io e Steve ci siamo accoccolati sul divano.
- Come mai non c'è Joshua? - Chiedo a Gigì.
- Sta facendo un giorno di prova in un bar. Gli serve uno fisso per il turno di pomeriggio. Speriamo bene. Se lo dovessero prendere sarebbe perfetto, così la mattina può riposare e uscito dal bar può andare al locale. E due stipendi da fame ne fanno uno mezzo decente. -
- Non starete mica progettando un matrimonio senza che io ne sappia niente, vero? -
- Non l'ha ancora rincitrullito a quel punto, no! - Steve si è intromesso ridendo.
- Zitto tu. - Gigì tira uno strofinaccio umido verso di noi.
- Zitti tutti e tre, invece. - Cristina si avvicina alla finestra. - Ho sentito un rumore. -
- Da dove? -
- Sembrava venire da qui dietro. Lo sentite anche voi? -
Tendo l'orecchio. Adesso lo sento anch'io. Rumore di foglie mosse e di legnetti calpestati. Il rumore è troppo flebile per venire da passi umani. Mi alzo sorridendo e raggiungo la finestra spalancandola. Black sta frugrando tra l'aiuola. Sentendo la finestra aprirsi alza gli occhi verso di me, regalandomi un 'miao' che sembra gridare 'ben tornata'.
- Ehi, Black! Vieni qui, dai. Salta. -
Con un balzo scavalca la finestra bassa ed è tra le mie braccia. Lo accarezzo mentre mi godo le sue fusa che non avevo da troppo tempo. Steve si alza dal divano e va a preparare i piattini per il gatto randagio che ormai è un membro della famiglia.

Cristina e Gigì sono andate via. Io e Steve siamo andati in camera a riposarci un po' sul mio letto. Abbracciati abbiamo iniziato a parlare saltando da un argomento all'altro.
- Abbiamo tre ore di tempo prima di dover tornare in ospedale. Che vorresti fare amore? -
- Stare abbracciata qui con te. -
- Dico sul serio. -
- Anch'io. -
- Vuoi andare a mare? A fare una passeggiata in centro? -
- Voglio stare abbracciata con te ti ho detto! - Eccola che viene di nuovo fuori, la Bree capricciosa di otto anni, che vuole le coccole a tutti i costi.
- Non c'è niente che vorresti fare? In questi giorni rinchiusa tra quelle quattro mura avrai pur pensato a qualcosa da fare una volta uscita. -
- Veramente no. Volevo uscire e basta. Più per stare con voi che per fare qualcosa. -
- Proprio niente? -
- In effetti qualcosa c'è. - Qualcosa a cui ho pensato c'è. Non so se è il caso di dirglielo, però.
- Cosa? -
So già come reagirà. Si incazzerà da matti e mi urlerà contro le solite cose che ormai mi ha ripetuto allo sfinimento. Ma ci provo lo stesso. - Vorrei andare a trovare Evan alla clinica. -
Steve ferma le mani che prima giocavano coi miei capelli. - Devo aver capito male. -
- Hai capito bene, piccolo. Vorrei andare a trovare Evan. -
Mi spinge piano ma deciso via dal suo petto e si siede sul letto, coi piedi poggiati per terra.
- Ti prego piccolo, non ti arrabbiare. So come la pensi. -
- Se sai come la penso non puoi chiedermi di non arrabbiarmi. Bree, lui ti ha fatto del male e può fartene ancora. Non è tuo amico, lo capisci? Quello che ti ha fatto non vale niente per te? -
Queste parole non mi sono piaciute. Mi alzo piano dal letto dandogli le spalle. Inizio a parlare fissando il muro e stringendo le mani sulla mia pancia, quasi graffiandola. - Vale. Non sai quanto. Non ho cancellato niente. E' tutto vivo nella mia testa come fosse ieri. Mio figlio, il mio bambino, è morto per colpa sua. Mi ha aggredito, mi ha urlato contro, mi ha trattato come uno straccio senza valore. Tu lo sai ed io lo so. Quello che tu non sai è che io non posso cancellare più di sei anni di amicizia con un semplice colpo di spugna. -
- Ma lui... -
- Non interrompermi. - Alzo la voce per bloccargli le parole in bocca. Poi riprendo a parlare con lo stesso tono pacato, quasi indifferente, estraneo. - Mi ha fatto tanto male, ma non era in lui. Non era lui che mi strattonava su quella scogliera. Con questo tipo di malattie non si scherza. Ha bisogno di cure e si sta curando. Lo sta facendo anche per me, per evitare di farmi ancora del male. - Mi volto a guardarlo. Fredda come forse non lo sono mai stata con lui. - E' un mio amico e gli amici non si abbandonano quando sono in difficoltà. Che tu sia daccordo o no io andrò a trovarlo. Se vuoi tanto proteggermi, vieni con me. Altrimenti ci andrò da sola. - Senza aggiungere altro esco da camera mia.

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Capitolo 56
*** 56 ***


Ospedale psichiatrico. E' di questo che si tratta, no? Anche se fuori c'è scritto 'Clinica per il sostegno psicologico'. Certo, non è questo che ti viene in mente quando pensi ad un ospedale psichiatrico. Spazi ristretti, buio e ragnatele. Infermieri e dottori più macabri e più incazzosi dei pazienti. Questo è nella mia mente. Ed immaginarci Evan in mezzo era una cosa che non mi piaceva. In realtà è tutto diverso. Gli ambienti sono ampi, luminosi. Domina il bianco e l'odore di lavanda. Chiunque abbia un camice è sorridente, gentile e disponibile. Quasi credo di aver sbagliato posto.
Ieri sera io e Steve c'eravamo salutati freddamente sulla porta dell'ospedale, ma stamattina ha deciso di accontentarmi. Non è felice dell'idea, questo è visibile a chiunque, ma l'ha fatto. Attraversato il grande prato, siamo arrivati ad una reception che assomiglia più a quella di un hotel di lusso e abbiamo chiesto all'infermiera di accompagnarci da Evan.
Camminiamo lungo infiniti corridoi sofficemente illuminati dalla luce solare che filtra dalle immense vetrate di cui sono composte le pareti. Ci accompagna verso il giardino interno. Sembra un parco cittadino in piena regola. Anziani sulle panchine che offrono briciole ai piccioni, ragazzi abbracciati che si scambiano effusioni, donne che chiacchierano in spensieratezza. Restiamo per qualche attimo a guardare la scena allibiti.
- Potete andare tranquillamente senza di me. Solitamente Evan Nimei è vicino al laghetto. Seguendo questo sentiero lo troverete facilmente. -
Il posto è stupendo, ma la sensazione dentro di me no. Ed il ginocchio che inizia a tremare me ne da conferma. - E' sicura che possiamo andare da soli? -
L'infermiera mi sorride. - Oh sì. I pazienti che hanno il permesso di star fuori dalla camera senza sorveglianza sono tranquillissimi. Sono quelli che non danno alcun problema e segono le cure volontariamente. E poi ci sono sempre in giro i ragazzi della sicurezza. Non si sa mai dovesse succedere qualcosa, loro interverranno. -
Continua a sorridere mentre ci saluta e torna al suo posto come se fosse la cosa più normale del mondo. Beh, lei ci sarà pure abituata, ma noi no! Iniziamo a percorrere il sentiero che ci ha indicato quasi fossimo dei condannati a morte che vanno verso la sedia elettrica. Steve mi avvolge con un braccio e mi appiattisco contro di lui continuando a voltare lo sguardo in continuazione per cercare di tenere sotto controllo tutto quello che ci circonda. Sembra che non interessi a nessuno di noi, eppure io continuo a sentirmi più agitata ad ogni sguardo che incrocio. Il sentiero volta a destra, infilandosi tra alcuni alberi. Finiti gli alberi si apre davanti a noi l'ampio prato che circonda il laghetto. L'acqua del piccolo lago artificiale scintilla colpita dal caldo sole di questa giornata estiva. Non si vede nessuno qui intorno, se non due sagome sedute sull'erba accanto all'acqua. Una delle due si alza quasi immediatamente e viene verso di noi.
- Bree ciao! - Mi abbraccia, strappandomi via da Steve. - Sapevo che saresti uscita, ma è davvero una sorpresa vederti qui. -
- Ciao Claudio. Non immaginavo che fossi qui. Il bar? -
- Lo tiene Sasha. Io prendo qualche ora di permesso appena posso per venire da lui. - Si volta a guardare l'altra sagoma che è rimasta seduta sull'erba. - Sai che ti dico? - Riprende a guardarmi. - Quanto è passato dall'operazione? -
- Ho perso il conto. Più di una settimana, comunque. - Dico ridendo.
- Sette giorni oggi. - Mi corregge Steve, serio.
- Accorciati così ti stanno bene. E per come li hai sistemati non si notano nemmeno quelli rasati. - Mi accarezza i capelli.
- Grazie. Ho fatto quello che ho potuto. - Fortunatamente non li hanno tagliati troppo corti e riesco tranquillamente a portare delle ciocche di capelli all'indetro con i ferrettini per coprire il buco dell'operazione.
- Cresceranno in fretta. - Sorride.
- Quasi, quasi li tengo corti. - Sdrammatizzo ridendo. Finora è stato un argomento tabù. Nessuno ne ha mai parlato per paura che potesse traumatizzarmi.
- Evan è seduto lì se vuoi raggiungerlo. -
Annuisco e mi incammino verso la sagoma. Steve fa per seguirmi, ma Claudio lo blocca. - Tu no, carino. -
Mi fermo e seguo la conversazione senza voltarmi.
- Devo starle vicino. -
- Non devi proteggerla da niente. Evan si sta curando. -
- Evan è un pericolo. -
- Tu sei un pericolo, Steve. Ricordati quello che hai fatto. -
Steve ammutolisce, non aggiunge una sillaba. Mi volto e Claudio se ne accorge. Lo prende sottobraccio e sfodera un grande sorriso. - Noi uomini andiamo a prendere un bel caffè. Torniamo tra poco. Tu vai, tranquilla. - Non prendono il sentiero, ma si dirigono verso l'entrata più vicina a noi, sulla sinistra a qualche metro dal laghetto.
Raggiungo Evan che mi accoglie sorridendo. - Ciao Bree. -
Ammetto che ho un po' di fifa e le brutte sensazioni legate al mio ginocchio pulsante non sono svanite. Mi accomodo sull'erba cercando di mascherare il mio stato d'animo. - Ciao Evan. Come ti senti? -
- Non posso lamentarmi. Qui mi trattano benissimo. Il personale forse è più gentile di quello del tuo ospedale. Le cure funzionano. E io mi sto nettamente riprendendo. Tu? Mio padre mi tiene sempre aggiornato su come stai. -
- Io mi sto riprendendo pure. Tra poco potrò uscire definitivamente. -
- Hai finito coi ricordi? -
- Quasi. Se non ho fatto male i conti mancano pochi giorni prima di ricordare l'incidente. E allora avrò finito tutti i compiti per casa. - Cerco di ridere alla mia stessa squallida battuta.
- Ti stanno bene i capelli corti, sai? - Stende la mano per accarezzarmi il viso. Mi tiro indietro automaticamente, spaventata. - Non ti faccio niente, Bree. - Ride.
- Scusa. -
Continua a ridere. - Non devi scusarti. - Torna serio. - Non sei tu che devi scusarti. -
- Nemmeno tu. E' una storia chiusa ormai. -
- Non dire bugie Bree. Non sei mai stata brava. Dare la colpa alla malattia non cancella quello che ti ho fatto passare. E mi dispiace. -
- Evan, io e te siamo amici. E gli amici si aiutano quando sono in difficoltà. - Appoggio la mano sulla sua schiena. La sento rabbrividire.
Si volta verso il lago, poi riprende a guardarmi sorridendo. - Ti stanno bene i capelli corti, sai? - Stende di nuovo la mano per accarezzarmi.
Stavolta lo faccio fare. Chiude gli occhi mentre passa il dorso della mano sulla mia guancia. Continua a tenerli chiusi mentre fa scivolare le sue dita lungo il mio collo e le porta dietro la nuca. Le incastra dentro quel che resta dei miei riccioli. Apre gli occhi. Qualcosa non va.
C'è qualche che non va. Il ginocchio sta tremando troppo forte. Evan mi sta guardando troppo fisso. Qui intorno c'è troppo silenzio. Nell'aria un unico rumore, quello di un orologio da polso che suona il suo bip-bip di sveglia.
- Evan. -
- Sì, Bree. - La sua voce è diversa. Totalmente diversa da un attimo fa.
- Il tuo orologio suona. -
- Lascialo stare. - E' quella voce, quella maledetta voce.
- Che vuol dire che il tuo orologio suona? -
- Lascialo stare ho detto. - Alza la voce, deciso, autoritario. Esattamente come quel giorno.
- Evan. Mi stai spaventando. - Ho il cuore a mille e il respiro difficile.
- No, bambolina. Non avere paura. - Il suo tono non è affatto tranquillizzante. Sposta la mano per accarezzare di nuovo il mio viso. Ma non è affatto delicato. Preme forte il suo palmo contro la mia pelle, strofinando.
- Piano. Mi fai male. -
- Ti fai male, eh, bambolina. - Inizia a premere di più e a strofinare più forte. Poi mi spinge fino a farmi cadere col viso sull'erba. Resto immobile a subire in silenzio. Non riesco a far nulla se non chiudere gli occhi e piangere.
- Fermo Nimei. Fermo! - Una voce forte e molto vicina urla. Poi sento il peso della sua mano allontanarsi da me. Continuo a non muovermi. Qualcuno mi solleva. - Signorina, sta bene? -
Apro gli occhi e mi trovo tra le braccia di un bel ragazzo moro con gli occhi blu. E' uno della sicurezza e io sono ancora tanto sotto shock da non sapere rispondere. Un altro ragazzo, molto più palestrato, cerca di tenere fermo Evan che si dibatte urlando. - Puttana! - continua a ripetere fissandomi. Mi stringo al ragazzo della sicurezza continuando a piangere.
- Venga con me. - Mi accompagna verso la porta da cui sono entrati Claudio e Steve. Sento le gambe molli e non potrei fare nemmeno un passo senza abbandonare il mio peso completamente su di lui. Appena varcata la soglia, vedo Steve parlare con Claudio. Volta lo sguardo verso di me. Non appena mi vede, corre immediatamente incontro a noi urlando il mio nome.
- Cos'è successo? - Chiede al mio soccorritore mentre si prende carico del mio peso al suo posto.
- Nimei ha avuto una crisi. Siamo intervenuti in tempo per fortuna. Seguitemi, la facciamo sdraiare un po'. -
Continuo a piangere aggrappata a Steve. Mi solleva da terra portandomi in braccio fino ad una stanza lì vicino, dove mi poggia sul letto.
- Non andartene! No! - Rimango appigliata alla sua maglia. Lo costringo a sdraiarsi vicino a me.

Fortuna che Steve riesce sempre a calmarmi. Anche se stavolta c'è voluto un bel po' prima che smettessi di piangere.
- Puoi dirmelo se vuoi. -
- Cosa? -
- Che avevi ragione. So che vuoi dirmelo. -
- Credi che mi faccia piacere aver avuto ragione? E poi ho sbagliato anch'io. Non dovevo lasciarti sola, me lo sentivo. Dovevo rimanere con te. L'importante è che stai bene adesso. -
- Sì amore. Sono solo un po' scossa. -
- E' normale. Vuoi che chieda dei tranquillanti? -
- No, no! Ne ho abbastanza di medicine. Voglio solo andarmene di qui. -
- Lo faremo presto amore. Dobbiamo fare un'ultima cosa prima. -
- Cosa dobbiamo fare qui? Io non voglio fare più niente qui. -
- Il dottore di Evan ti vuole parlare. -
- Perché? -
- Non lo so. Ma gli ho chiesto di essere presente per non lasciarti sola. -
- Se ci sei pure tu, va bene. -
- Certo che ci sono. Non ti lascerò mai più da sola. -

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Capitolo 57
*** 57 ***


Lo studio del Dottor Bertini è piccolo ma spazioso. Dentro c'è ben poca roba. Solo un divano due posti ed una poltroncina abbinati, oltre ad un tavolino di vetro ed una lampada a stelo. Lui è molto più giovane di quanto credessi. Nonostante non sia in abiti da medico, ci accoglie in modo serio e professionale. Ci sediamo sul divano biposto, tenendoci la mano. Lui si accomoda sulla poltroncina e mi fissa in silenzio tamburelando con le dita sui braccioli.
- Dottore deve dirci qualcosa? - Steve interrompe il silenzio. Ha fretta di portarmi via di lì.
- In effetti devo dire qualcosa alla signorina. Qual è il suo nome? -
- Bree. - Rispondo con un filo di voce tremante. - Brigida. - Aggiungo. Nonostante la giovane età mi mette parecchio in suggestione.
- Signorina Brigida, lei ha combinato un bel guaio. -
- Io? Dottore non capisco cosa intende. -
- Lei oggi ha giocato con la mente di uno dei miei pazienti e io non posso permettere una cosa del genere. -
- Cosa avrei fatto? - Lo guardo sconvolta.
- Dottore se ci ha chiamati qui per sparare stronzate, ce ne andiamo immediatamente. - Steve si alza tenendomi ancora per mano.
- Signor Steve, la pregherei di non intromettersi più nei miei discorsi con la signorina. Lei è qui solo come guardia del corpo della signorina, se così lo vogliamo definire. Anche se non vedo proprio di che protezione dovrebbe aver bisogno. -
- E noi siamo qui perché lei non sa fare il suo lavoro. -
Bertini si alza dalla sedia e raggiunge la porta. - La signorina Brigida è al sicuro qui dentro. Lei è pregato di aspettare fuori. -
- No! - Intervengo. - Per favore, siediti Steve. -
Mi guarda un attimo leggendo l'implorazione nei miei occhi, poi torna ad accomodarsi accanto a me. Anche Bertini torna al suo posto.
- Dottore io non ho fatto nulla. Sono solo venuta a far visita ad un amico che è vostro paziente. Non ho giocato con la sua mente come sostiene lei. -
- L'ha fatto. Non consciamente, forse. Non volontariamente, magari. Ma l'ha fatto. Lei per Evan Nimei è come il ticchettio della sveglia per Capitan Uncino. Non so se rendo l'idea. -
- Si spieghi senza esempi, per favore. -
- Lei risveglia l'Evan malato. Dopo il trauma della perdita del bambino che avete entrambi subito, neanche le terapie migliori riescono a tenerlo sotto controllo quando c'è lei. -
Rimango in silenzio.
- La farò breve signorina. Lei non deve più avere nessun tipo di contatto con Evan Nimei. Deve diventare uno sconosciuto per lei. Altrimenti lei resterà sempre un rischio per la sua salute. -
Mi alzo fissandolo ancora in silenzio, fredda ed estranea al mio stesso corpo. - Grazie della spiegazione Dottore. - Faccio cenno a Steve di alzarsi. - Vorrei dirle solo una cosa prima di andare via. Io ho subito il trauma della perdita del bambino, io. Io lo portavo dentro. Lui l'ha ucciso. Inoltre l'unica salute che è a rischio quando sono vicino ad Evan Nimei è la mia, non la sua. Questa non è la prima aggressione che ricevo da lui, quindi non si preoccupi per la buona riuscita delle sue cure perché non ho alcuna intenzione di rivederlo. Buona giornata. -
Mi affretto ad uscire dalla porta. Steve mi segue. Non l'ho ancora guardato in viso, ma credo che stia provando una strana soddisfazione. Questo potrebbe farmi arrabbiare, ma decido di non soffermarmici sopra.
Fuori dalla clinica troviamo Claudio seduto sul marciapiede. Ci ha aspettato.
- Bree, ti senti bene? - Ha gli occhi arrossati.
- Sì, Claudio. Fortunatamente sì. -
- Mi dispiace Bree. Sono stato uno sciocco. E' colpa mia, tutta colpa mia. Steve, anche tu devi perdonarmi. Avevi ragione e non ti ho ascoltato. -
- Signor Claudio, non deve chiedermi scuse e non ho bisogno che lei mi ricordi che avevo ragione a diffidare di suo figlio. L'importante è che ora Bree non sia più messa in pericolo. -
- Lo giuro. Lo giuro su quanto ho di più caro al mondo, Bree. - Mi prende le mani. - Tu per me sei come una figlia e io voglio solo la tua felicità. -
- Lo so, Claudio. -
- Non posso abbandonare mio figlio, quindi credo che questo tra di noi sia un addio. -
- No, Claudio. - Gli sorrido. Uscire da quel posto che si è rivelato terribile mi ha rasserenato. - Io ed Evan non potremo più avere contatti, per il bene di tutti. Ma tu e tua moglie non centrate niente. -
- Bree non devi sentirti costretta. -
- Claudio io sono come una figlia per te e tu più di una volta hai sostituito mio padre. Non mi intrometterò mai nel rapporto con tuo figlio, ma spero che il nostro possa resistere. -
- Ne sarei felice. - Mi stringe forte, accarezzandomi i capelli. - Adesso scappo al bar. Si è fatto tardi e Sasha mi ucciderà. -
- Salutamela. Ci vediamo presto. -
Steve mi circonda la vita con un braccio e mi bacia la tempia. - Ti amo, piccola. -
- Anch'io, amore. - 
- Andiamo a casa. -

- Che avete fatto stamattina? - La domanda di mia madre mentre lavo i piatti del pranzo arriva come un fulmine a ciel sereno. - Siete andati in clinica da Evan o no? -
- Sì, mamma. -
- E come è andata. -
- Male. -
- Sta male? Oh, mi dispiace. -
- No, mamma. Lui sta bene. -
- Ma hai appena detto... -
- Ho detto che è andata male. - Rispondo seccata, lascio i piatti ancora insaponati nel lavabo e corro in camera mia.
Gigì e Cristina mi raggiungongo. Sono sdraiata a fissare il soffitto. Si siedono sul letto, una su ciascun lato.
- Vuoi parlare? -
- Non c'è niente da dire. -
- Non direi da come sei scappata. Tua madre c'è rimasta male. Le sta parlando Steve. -
- Allora le dirà lui quello che c'è da dire. -
- A noi non vuoi dirlo? -
- Gigì non insistere. - Le dice Cristina.
Mi metto a sedere e guardo le mie amiche preoccupate. - Non la metterò per le lunghe. Evan ha cercato di aggredirmi di nuovo. Il suo dottore dice che ormai avere contatti con me lo fa destabilizzare e le medicine non riescono a tenerlo sotto controllo. Quindi non ci dovremo vedere mai più. Questo è quanto. - Mi sdraio di nuovo.
Restano in silenzio a guardarsi a vicenda. Continuano a non dire nulla, ma sembrano essersi tacitamente messe d'accordo. Si sdraiano entrambe accanto a me, stando attente a non cadere dal mio lettino ad una piazza sola. Steve entra in camera trovandoci così.
- Amore, tua madre ti vorrebbe parlare. -
Torniamo tutte in cucina, dove mia madre sta piangendo appoggiata al tavolo. - Mamma. -
- Amore mio. - Mi si getta al collo continuando a piangere. - Scusa, scusa, scusa. -
- Mamma, dai. Smettila. Non hai fatto niente. E' tutto ok. -
- No, non è tutto ok! -
- Mamma, sì. - Le sollevo il viso per guardarla negli occhi. - Ti dico di si. - Le sorrido per rassicurarla e le asciugo gli occhi. - Ora smetti di piangere. -  Alzo gli occhi verso l'orologio della parete. - Sono ancora le 15. Ora ti metti a letto, ti riposi un'oretta e verso le 16 usciamo. Ti va bene? -
- Sicura? -
- Sì, mami. Andiamo tutti insieme al centro commerciale. Ti va? -
- Ma non voglio rovinarti il pomeriggio. Stai coi tuoi amici, tu. Stai col tuo fidanzato. -
- Invece sto coi miei amici, col mio fidanzato e con mia mamma. - La abbraccio forte. - Ora vai a letto. Ti chiamo io quando è ora. - Mi bacia la fronte e sorridendo va verso la camera da letto.
- Chiamo Debby e vedo se loro sono liberi. - Dice Cristina.
- Io chiamo Joshua se può venire pure lui. - Dice Gigì.
- Certo che può venire anche Joshua. E' tanto che non lo vedo. Quasi, quasi chiamerei anche Sabina. Va bene per te? - Chiedo a Steve.
- Tutto quello che vuoi, amore. - Mi bacia la fronte. - Però adesso vorrei andarmi a riposare un po'. Ci buttiamo a letto un'oretta anche noi? -
- Veramente vorrei restare un po' con le ragazze. Tu vai. -
- Ok, piccola. - Un piccolo bacio labbra contro labbra.
Appena Steve va via, mi getto sul divano tra Gigì e Cristina, entrambe al telefono, e le abbraccio.

Il pomeriggio sereno in compagnia di tutte queste persone che mi vogliono bene mi ha del tutto tirato sù. Lasciarle sulla porta dell'ospedale è stato un po' triste, ma almeno ho la sicurezza che le vedrò domani.
- Sei raggiante stasera, Bree. -
- Sì, signora Anna. Sono felice. -
- Hai passato una bella giornata? -
- Era iniziata abbastanza male a dire la verità. Fortunatamente i miei amici sono riusciti a salvarla. -
- Gli amici servono a questo, no? Se no che amici sarebbero? -
- Ha ragione. - Sorrido iniziando a mangiare la cena che mi ha portato.
- Credo che mi dispiacerà non vederti più quando uscirai di qui. Ho saputo che manca poco. -
- Signora Anna, non si offenda, ma io non vedo l'ora di non vederla più! Almeno non in veste da infermiera. - Ridiamo entrambe.
- Il figlio della Dottoressa Collins è davvero fortunato ad avere trovato una ragazza come te. -
- E io sono fortunata ad aver trovato un ragazzo come lui. -
- E poi hai avuto una fortuna che nessun'altra ha avuto mai, credo. -
- Quale? -
- Essere curata da tua suocera! Vuoi mettere che opportunità? Così deve prenderti in simpatia per forza. -
- Non l'avevo mai vista sotto questo punto di vista. - Non credo che abbia ragione, ma per come l'ha detto non posso non sorridere. E poi oggi deve finire con un sorriso. Sono decisa. Stamattina dev'essere cancellata. Evan dev'essere cancellato. Via, via, via dalla mia mente. Facciamo spazio! Devo completare di aprire i miei cassetti e lasciare spazio per poterci mettere i ricordi che mi costruirò in futuro.

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Capitolo 58
*** 58 ***



E' più di un giorno che non ho un fulmine. E dire che lo aspetto con ansia. Voglio liberarmi di questo ospedale definitivamente e riprendere la mia vita normale, vivere la mia vita di nuovo finalmente. Anche oggi è venuto a prendermi Steve. Come daccordo siamo andati da Sabina, l'abbiamo prelevata insieme a Phoebe e siamo andati al parco. Seduta su una panchina accanto a S, guardo Steve giocare con la piccola. Ci sa fare coi bambini. Con due gemelli come fratelli più piccoli dev'essere abituato a fare da baby sitter fin dall'età dei giochi. E Phoebe, passato il timore iniziale e messa da parte un po' di timidezza, è una bambina davvero dolce. Più la guardo, più rivedo in lei la mia S.
- Ieri non abbiamo parlato molto, eh Bree. Come stai? -
- Bene. Molto meglio. Ieri mattina è successo un macello, ma per fortuna tutto si è risolto bene. -
- Non prendermi per un'impicciona, ma so già cos'è successo. -
- Gigì? -
- Sì. Le ho chiesto io, giuro. -
Ridacchio. - Non ti preoccupare. Non era un segreto. -
- Ti sei ripresa? -
- Sì, te l'ho detto. Sto meglio. Vorrei solo uscire definitivamente dall'ospedale. -
- La Collins non ti vuole far uscire prima di aver terminato coi ricordi, vero? -
- Già. Dopo mi faranno tutti gli accertamenti di nuovo e poi sarò libera! - Alzo le braccia al cielo in senso di vittoria.
- Manca tanto? -
- Non dovrebbe mancare molto. L'ultima cosa che ho ricordato è stata... - Abbasso la voce, quasi dirlo piano facesse meno male. - ... la sera in cui abbiamo cenato da Steve e hai rivisto Alex. -
- Ah. - Guarda per terra per un paio di istanti. Impallidisce ma riprende subito il suo colorito per tornare a fissarmi con un grande sorriso. - Tranquilla. Se mi stai per chiedere se è tutto a posto, sì è tutto a posto. All'ospedale cercano di non farci incontrare e quelle poche volte che ci incrociamo ci comportiamo civilmente da sconosciuti. Forse questa cosa mi sta addirittura aiutando a superare quello che è successo come non avevo mai fatto fino in fondo. - Mi sorride. Un sorriso vero, tranquillo, che riesce a rasserenare anche me.
Sorrido a mia volta e devio il discorso con disinvoltura. - Sono quasi due giorni che non arriva più niente. Non so perché. -
- Forse sei stata presa dal presente. Per questo non ti sei concentrata sul passato. -
- Forse sì. Non vedo l'ora di poter vivere solo e soltanto nel presente. Voglio tornare ad avere la mia vita in pugno. Adesso mi sento in standby. Sempre in attesa, sempre all'oscuro di qualcosa. Non sogno nemmeno più l'incidente. -
- Cosa hai sognato dell'incidente? -
- Poco, davvero poco. Ricordo che avevo il mio vestito rosso e che mi vibrava il ginocchio. Sentivo che stava per succedere qualcosa. - Questo lo sto ricordando adesso. Chiudo gli occhi e apro la porta a queste nuove sensazioni che mi tornano in mente. - Ero contenta, sorridevo... No, ridevo, ma era una risata isterica, tra le lacrime. Piangevo, disperata. Ero dentro una macchina, ricordo gli interni. Credo... credo che non fosse la mia auto, ma non riesco a ricordarla così bene da capire di chi fosse. Ero seduta al posto del passeggero... no, mi sbaglio. Ero al posto di guida. Guidavo io. - Respiro profondamente. Il cuore inizia a battermi più velocemente. La testa diventa pensante. - C'erano i fari di un'altra auto puntati verso di me. Ho chiuso gli occhi e poco dopo ho sentito i freni stridere. Poi un botto, un boato. Urla, non solo le mie. Sangue, c'era del sangue. - Apro gli occhi, li sbarro quasi in preda a terrore. Respiri corti e frettolosi. Battiti accellerati. Li richiudo un attimo, li serro proprio. Forte, quasi a farmi male. - Poi più niente. - Apro gli occhi di nuovo. Mi rendo conto adesso di avere serrato i pugni tanto da avere le nocche bianche. Cerco di respirare profondamente e riesco a togliermi di dosso quest'ansia assurda che è arrivata.
- Bree, stai bene? Sei diventata pallida. -
- Sì, S. Mi ha messo un po' di ansia ripensare a quella sera. Ho ricordato dei particolari che non avevo mai ricordato. -
- Magari si sta sbloccando qualcosa. Non era quello che volevi? -
- Credo di sì. - Credo di sorridere. Mi tremano le mani.
- Bree! - Una voce femminile, non molto lontana da noi, chiama il mio nome. Voltandomi vedo Elèna corrermi incontro. Pantaloni da tuta neri e giacca mezza aperta che lascia intravedere un top azzurro, cappellino nero con strisce azzurre e cuffiette alle orecchie. Prima di fermarsi definitivamente, saltella una corsetta sul posto. - Ciao! - Spalanca un enorme sorriso mentre mi saluta con un po' di fiatone togliendosi le cuffiette.
Mi alzo dalla panchina, sorridendo a mia volta. - Elèna, ti trovo benissimo. Ti sei dimagrita? -
- Ho perso un paio di chili. Ho deciso di mandare le cosce in vacanza. Devo essere in forma per l'apertura della scuola. -
- Ma stavi bene anche prima. -
- Sto seguendo i corsi per l'abilitazione e mi stanno mettendo sotto torchio, capisci no? -
- Certo. Basta che non esageri, eh! Mi raccomando. - Le do una pacca affettuosa sulle spalle.
- Tu che fai? Ci hai pensato a essere dei nostri? -
- In questo periodo sono stata un po' incasinata, diciamo. -
- Spero che sarai dei nostri. Ti ho visto quella sera e mi piacerebbe lavorare accanto a te. -
- Grazie Elèna. Ci penserò. -
- Pensaci. - Fa l'occhiolino e rinfila le cuffiette. - Adesso riparto altrimenti mi raffreddo troppo. -
- Vai, tranquilla. Ci vediamo. -
Inizia a saltellare. - Ci conto. - Parte di nuovo, riprende la sua corsa.
Mi siedo di nuovo accanto a Sabina. - Ci penserai davvero? -
- Se riesco ad organizzarmi con l'università, sì. Sarebbe perfetto. Arrotonderei le entrate in famiglia facendo qualcosa che mi piace. -
- Ti ci vedo, sai? -
- Cosa vedi? - La voce cristallina di Phoebe precede un bel salto in braccio alla sorella.
- Adesso vedo che sei sudatissima e puzzolente! - Inizia a farle il solletico. Ridono entrambe di gusto. Sono bellissime e non posso fare a meno di sorridere guardandole.
- Anche tu sei sudato, amore? - Chiedo a Steve che si è seduto accanto a me e mi sta già abbracciando.
- Ci ho perso un po' la mano. Non porto i gemelli al parco da quattro anni. -
- Dovrai farmeli conoscere i tuoi fratelli, se già non li conosco. -
Mi sorride baciandomi la punta del naso. - Vedremo. -
- Sabby ho fame! -
- Andiamo a casa? -
- Venite a pranzo da noi. - Le invito senza pensarci due volte. - Vi va? -
Phoebe mi guarda ancora un po' in cagnesco. Non piaccio molto ai bambini.
- Cosa ti piace? Le lasagne? - Le sorrido cercando di comprare la sua fiducia.
Si apre finalmente in un sorriso verso di me e annuisce velocemente. - C'è anche il gelato? -
- Phy. Non essere impertinente. -
- Lasciala fare S. Sì, Phoebe, compriamo anche il gelato. - Le accarezzo una guancia sorridendo.

Steve ha accompagnato Sabina e Phoebe a casa. Io sul mio letto fisso il tetto e ripenso a stamattina, alle strane sensazioni che mi hanno preso mentre parlavo al parco con Sabina. I nuovi dettagli che si sono aggiunti mi hanno lasciato sconvolta. Ero io alla guida, ma non della mia macchina. Quindi sono andata io a schiantarmi contro qualcosa. O qualcuno. C'era un auto ne sono sicura. Ho sbattuto contro l'auto? Chi c'era lì dentro? Cosa si sono fatti? Continuo ad aggiungere domande su domande. Quelle non mancano e continuano ad arrivare, ma le risposte scarseggiano. Voglio avere risposte! Sono stanca di domande. Chiudo gli occhi e inizio a sbattermi i pugni sulla fronte. Voglio ricordare! Voglio ricordare! Passo a picchiare il materasso, per sfogare il mio rancore verso la mia stessa memoria che non vuole tornare. Comincio a rivedere la scena ancora. Il mio vestito rosso, il ginocchio che vibra, il pianto disperato. Il posto di guida di un auto non mia, i fari dell'altra auto. Il botto, le urla, il sangue. Inizia a crescere in me di nuovo l'ansia, la paura. La rivedo altre mille volte, come una riproduzione a nastro continuo. La testa inizia a farsi sempre più pesante, più dolorante. Fa male anche tenere gli occhi aperti. La nausea arriva prepotente e sgombera il mio stomaco sul pavimento della stanza. Fitte alle tempie, il martello pneumatico. Lui, il mio fulmine, è arrivato. Eccolo, è qui.

- Buongiorno amore. -
- Ciao piccolo. Entra. Il caffè è pronto. -
- Non lo prendiamo fuori? -
- Ormai l'ho fatto e te lo prendi. -
- Ok, non ti agitare. - Mi afferra la vita e mi attira a sé teneramente. - Prima dammi un bacio. -
Il bacio del buongiorno, anche se non si ha dormito insieme, ha sempre un gusto particolare. Tenero per dirsi che ci si è mancati. Dolce per recuperare le ore perse senza stare insieme. Passionale per ricordarsi quanto ci si vuole.
- Dopo pranzo devo andare da Cristina a studiare. -
- Ok, allora chiamo Joshua e vediamo che facciamo prima di lavorare. -
- Va bene. -
- Adesso andiamo che si fa tardi. -
- Non chiudono l'ingresso alle spiaggie. -
- Ma io voglio arrivare presto. -
- Prendi il caffè che io vado a finire di sistemarmi. -
- Non metterai mica uno di quei costumini microscopici che lasciano tutto il ben di dio di fuori, vero? -
- Perché? Sei geloso, forse? -
- Che ne dici? Non è che impazzisca all'idea che tutti guardino il culo della mia ragazza. -
- Ma non mi guarda nessuno. -
- Questo lo dici tu! Io la penso diversamente. -
- Vuoi che mi metta una muta da sub per andare a mare? - Lo fulmino un attimo. Ok la gelosia, ma iniziamo male se vuole dirmi cosa mettermi addosso. - Fossi stata una che porta tutte cose al vento potrei anche capire questo enorme dubbio, ma proprio a me non puoi dire una cosa del genere. - Filo in camera senza dire null'altro e indossando il musone.
Infilo il bikini che avevo preparato e metto sopra pantaloncini e maglietta. Sento la porta della camera aprirsi.
- Amore sei arrabbiata? -
- No. -
- Certo. E questo tono me lo sto inventando io? -
- Non scherzare. -
- Dai amore. - Mi abbraccia da dietro. - Sei bellissima ed io impazzisco a pensare che qualcun altro ti possa guardare. -
- Sei scemo. Punto. - Sorrido. Riesce a farmi sciogliere con niente.
- No, sono pazzo. Pazzo di te. - Mi bacia il collo, delicatametne, facendomi fremere la schiena.
Mi volto agganciandogli le braccia intorno al collo, baciandolo.
- Smetti di baciarmi o non arriveremo a mare oggi. -

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Capitolo 59
*** 59 ***


La spiaggia è molto più affollata di quanto mi aspettassi. Ho perso la cognizione del tempo e mi sono dimenticata che siamo già alla fine di Giugno. Ormai le scuole sono finite e i ragazzi si riversano qui in massa. Troviamo comunque un posto abbastanza tranquillo dove appostarci. Accanto a noi delle ragazze sono imbrattate di olio abbronzante e chiacchierano a voce alta dei prossimi esami di maturità che dovranno affrontare. Mi sembra di sentire me e Gigì ormai quattro lunghi anni fa. Come siamo cambiate ormai! Una di loro guarda spesso Steve e l'effetto su di me è strano, parecchio strano. Da una parte, una piccola parte, ho l'impressione che mi gratifichi. Una ragazza appena diciannovenne guarda il mio ragazzo perché è talmente bello che nessuna riesce a togliergli gli occhi di dosso. Dall'altra parte, una grossa, enorme parte, ho la rabbia che mi sale alle orecchie pensando a chissà che pensieri si starà facendo col mio ragazzo in testa. Il 'mio' ragazzo, ci sarà un motivo per cui si chiama 'mio'! Mi contengo, non faccio trasparire nulla. Non voglio fare la parte della pazza gelosa che fa scenate in pubblico. Respiro profondamente il profumo di salsedine, gli stringo la mano e lo bacio. Chiamatelo marcare il territorio, perché è esattamente quello che è.
- Faccio un salto al bar, amore. - Si siede sulla stuoia.
- Da solo? -
- Vuoi venire con me? - Mi chiede sorridente. - Non volevo farti scomodare. -
E lasciarti sbranare con gli occhi da tutte le femmine su questa spiaggia? Non fare la gelosa, Bree. Non farlo. - Mi porti un the freddo? - Sorriso finto ma credibile.
- Limone, giusto? -
- Pesca. -
- Ah si, vero. Pesca. - Mi bacia la fronte e si alza.
Mi alzo sui gomiti e lo seguo fino a quando non lo vedo entrare al bar della spiaggia.
- Palla! - Un urlo precede l'arrivo di un pallone da volley sulla mia pancia. Cacchio che male!
Mi raggomitolo tenendomi lo stomaco, mentre sento le tre ochette ridacchiare. Un ragazzo corre verso di me. - Stai bene? -
- Oh, una meraviglia! State più attenti, cavolo! -
Mi volto dopo averlo rimproverato. Due occhi azzurro ghiaccio mi fissano preoccupati. - Scusa, è colpa mia. Non sono riuscito a bloccarla. - Si piega sulle gambe per essermi più vicino. - Dove ti ha preso? -
- Secondo te? - Gli indico la mia pancia non abbronzata su cui si è già formata una stampa rotonda completamente rossa.
- Cazzo, lì fa male! -
- Non dirlo a me. -
Mi guarda un attimo sorridendo. - Mi chiamo Daniel. - Mi porge la mano destra.
- Bree. - Sorrido afferrandogliela.
- Ciao Dani. - Una delle tre ochette si è alzata e adesso è ferma accanto a noi. Lo fissa in modo molto poco equivoco.
- Ciao. - La liquida con uno sguardo e poca considerazione per poi tornare a rivolgersi sorridente a me. - Posso offrirti qualcosa per scusarmi? -
Prima di rispondere guardo l'ochetta indispettita andare via offesa. Non posso evitare di ritornargli la risatina cattiva che lei e le sue amiche mi hanno gentilmente offerto poco fa. - Ho l'impressione che volesse provarci con te. -
- Non torno a rotolarmi nel fango da cui sono uscito. -
- Ex? -
- Già. -
- Finita male? -
- Un paio di corna col mio migliore amico significa finire male? -
- Oh cacchio, mi dispiace. -
- Storia vecchia, tranquilla. -
- E con l'amico com'è finita? -
- Non ci siamo più parlati da quel giorno. - Guarda a terra. - Certo che sei un'impicciona. -
- Scusami. - Dico imbarazzata. - Non volevo sembrare troppo impertinente. -
- Mi piacciono le ragazze impertinenti. -
Ci sta provando per caso? Meglio non rispondere.
- Allora. Posso offrirti qualcosa o no? - Si alza in piedi e si pulisce le mani dalla sabbia.
- Veramente... -
- Veramente ha già qualcuno che le porta da bere. - Steve è arrivato tenendo in mano due lattine di the. Lo fissa in cagnesco. - Sparisci. -
Daniel lo fissa in aria di sfida. - Calmati fratello. -
- Fratello lo vai a dire a qualcun altro. E ora sparisci. - Steve continua a fissarlo male. Lo supera di qualche centimetro. Se Daniel dovesse aggiungere qualcosa non c'è dubbio che lo farebbe alterare ancora di più. Intervengo. Mi alzo e mi metto tra i due tori infuriati, voltata verso il mio ragazzo.
- Steve, calmati. Non è successo niente. Mi è arrivato un pallone addosso e Daniel è venuto a scusarsi. -
- Daniel? - Lo sguardo da toro imbufalito adesso è rivolto verso di me. - Conosci questo tizio? -
- Si è presentato. - Mi volto verso Daniel. - Grazie per l'interesse e la gentilezza, ma adesso è meglio che torni dai tuoi amici. - Lo supplico silenziosamente di non andare oltre.
Mi fissa un paio di secondi, poi torna a fissare Steve. - Ciao fratello. - Si volta e torna dai suoi amici con una piccola corsetta.
- Vedi? - Guardo Steve come se non fosse successo niente. - Che c'è voluto? - Gli bacio la guancia e gli tolgo di mano la mia lattina di the. Mi sdraio e si siede accanto a me, ma è ancora palesemente alterato. - Vieni qui, dai. Abbracciami. - Sorrido.
- Fatti abbracciare da Daniel. - Pronuncia il suo nome accompagnandolo con una smorfia.
Rido vedendolo così. - Amore, sei geloso? -
- Non dovrebbe essere una novità. -
Salgo a cavalcioni sopra di lui. Apro la lattina e ne bevo un sorso continuando a fissarlo. La poggio accanto a noi sperando che non cada. Gli accarezzo il volto iniziando a baciarlo. Passo le mani sulle sue braccia e sul suo petto, continuando ad assaporare le sue labbra mordicchiandole. Cede alle mie coccole e depone la gelosia per abbracciarmi. Mi accarezza le spalle delicatamente. Sento su di noi gli occhi dei vicini. - Andiamo a fare il bagno? -
- Adesso? -
- Amore ci stanno fissando tutti. -
- Non mi importa. -
- Dai amore. In acqua è più romantico. - Gli faccio l'occhiolino mentre mi sollevo e inizio a camminare verso la riva, ondeggiando provocante consapevole che mi sta fissando.
Mi raggiunge immediatamente abbracciandomi da dietro. - Non sculettare in quel modo quando siamo in pubblico. -
- Perché? -
- Perché potrei non rispondere delle mie azioni e una denuncia per atti osceni in luogo pubblico vorrei evitarla. -
Rido sfuggendogli dalle braccia e tuffandomi in acqua.

E' arrivata l'ora di pranzo e noi dobbiamo andare via. Raccogliamo la nostra roba e ci dirigiamo verso la strada.
- Amore io mi farei una doccia prima di andare, tanto per togliermi il sale dalla pelle. Così appena finiamo di mangiare vado direttamente da Cristina. -
- Io la faccio a casa. Inizio a portare la roba in auto. - Mi bacia e inizia a camminare più velocemente.
Non mi piace molto che mi abbia lasciata da sola. - Almeno i miei vestiti li lasci qui o devo venire in strada in costume? -
- Sì, scusa. - Torna indietro ed esce dalla borsa l'asciugamano pulito insieme a pantaloncini e maglietta. Me li porge, mi da un altro bacio veloce e riprende il cammino.
Lo guardo interdetta per qualche secondo, poi mi dirigo verso le docce. Lascio le mie cose sulla panchina e, dopo aver trovato il coraggio, mi infilo sotto l'acqua fredda. Faccio il più in fretta possibile per non assiderare. Uscita dalla doccia inizio a tamponarmi con l'aciugamano pulito.
- Il tuo cane da guardia non c'è? -
Davanti a me, Daniel.
- E' già in macchina. -
- Per essere uno così geloso ti lascia spesso da sola. -
- E' un caso, oggi. Di solito non lo fa. -
Continuo ad asciugarmi come se non mi imbarazzasse il fatto che continua a fissarmi. Almeno mi fissa solo in faccia.
- Suppongo che se chiedessi il tuo numero... -
- Non te lo darei, supponi bene. - Lo interrompo evitando di guardarlo.
- Giusto. - Fissa il pavimento.
Inizio a vestirmi sedendomi sulla panchina e voltandogli così le spalle.
- Quanti anni ha il tuo ragazzo? -
- Ventiquattro. -
- E tu? -
- Non si chiede l'età a una signora. -
- Non credevo fossi così vecchia da non poter dire quanti anni hai. -
- Ventidue. Ne ho ventidue. -
- Avevano ragione, allora. -
- Chi? Che dicevano? -
- Gli altri. Dicevano che non avevo speranze perché eri più grande. -
Mi volto a guardarlo. - Quanti anni hai tu? -
- Diciotto. -
Sgrano gli occhi. Cosa? Non sembra proprio un diciottenne, ha un fisico da adulto. Anche se i lineamenti puliti del volto potrebbero rivelare qualcosa. Sarà che non l'ho notato perché mi sono concentrata solo su quegli occhi ghiaccio che ancora mi fissano. - Sembri più grande. -
- Non sembro di ventiquattro anni. - Si passa una mano tra i capelli neri, distogliendo lo sguardo.
- No, quello no. Però almeno una ventina te li avrei dati. -
Mi infilo la maglietta e sono pronta. Mi alzo e prendo l'asciugamano.
- Vai già via? -
- Devo andare a pranzo e poi a studiare. -
- Fai l'università? -
- Sì. - Inizio a camminare e Daniel inizia a seguirmi.
- Che facoltà? -
- L'unica che c'è in città. - Mi fermo, voltandomi a guardarlo. - Non vorrei essere scortese Daniel. Sei molto carino e molto gentile, ma se ti vede seguirmi saranno cazzi amari per tutti e due. -
- Sì, hai ragione. Scusa. - Si volta e torna indietro infilandosi le mani nelle tasche del costume. - Magari ci rivediamo. - Mi dice fermandosi un attimo a guardarmi.
- Ciao Daniel. - Riprendo a camminare senza voltarmi ancora. 
Arrivata in strada giro a destra verso la sua auto, ma mi blocco quasi subito. Il sorriso sparisce dal mio volto. Arriva un pugno allo stomaco, anzi no, una cinquina in piena faccia. Steve è appoggiato alla portiera delle sua auto e davanti a lui, con le mani poggiate sulle sue spalle, c'è quella biondona coscialunga oca e troia di Rachele. Gli si avvicina sempre di più e le sue mani scendono accarezzandogli il petto, ancora senza maglietta, fino al bordo del costume. Non voglio vedere una cosa di più. Mi giro e rifaccio la stessa strada fino alla spiaggia. Mi siedo sulla sabbia e mi accorgo di essere tanto sconvolta ed arrabbiata da non avere neanche la forza per piangere.

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Capitolo 60
*** 60 ***


- Bree. - Daniel mi corre incontro. - Cosa è successo? -
- Daniel, che ci fai ancora qui. - Esco dal mondo di silenzio e rabbia in cui mi sono chiusa. Lo vedo, zaino in spalla, con tutti i suoi amici.
- Stavamo andando via. -
- Ma quanto tempo è passato? -
- Da quando ci siamo salutati? Cinque minuti appena. Il tempo di raccogliere le cose. Tu che ci fai ancora qui? -
- Niente. -
Mi aiuta ad alzarmi. - Non ti credo. -
Lo fisso qualche istante. - Steve. L'ho visto con una. -
- Cosa? Il tuo ragazzo? -
- Sì. Ma non stavano facendo niente. Lei è una sua collega. Solo che lei ci prova da una vita e la scena mi ha un po' scombussolato. Tutto qui. Non è successo niente. -
- Sicura che stavano solo parlando? -
- Sì. - Stavano parlando e lei lo tastava come se fosse frutta da acquistare.
- Vuoi che ti accompagnamo? Siamo diciottenni, ma lo possiamo buttare a terra in tre secondi se ce lo chiedi. -
- No, no! Troppo gentili! Non ho intenzione di fare buttare a terra nessuno. -
Ci incamminiamo tutti verso la strada. Saluto Daniel voltando a destra mentre lui e i suoi amici salgono sui motorini. Arrivata in macchina, Steve è da solo.
- Ci hai messo tanto. -
Lo fisso cercando di non menarlo. Poggio le mie cose sul sedile posteriore e salgo accanto a lui. Ha un enorme sorriso in faccia, uno di quelli che in altre circostanze mi farebbero impazzire. - Ho fatto la fila. - Mi metto la cintura di sicurezza.
- Amore, che hai? -
- E' tardi. Andiamo. -
- Prima dimmi cosa succede. -
- Ho detto andiamo. - Lo fisso incazzata nera.
In silenzio avvia il motore. In silenzio raggiungiamo il fast food. In silenzio divoriamo i nostri panini. In silenzio paga il conto. In silenzio mi accompagna a casa. In silenzio siamo sulla porta.
- Mi dici cos'hai adesso? -
- Chiedilo a Rachele. - Gli sbatto la porta in faccia e corro in camera mia. Butto la borsa per terra e prendo il telefono. Chiamo Cristina per dirle che sono troppo stanca per uscire. Mi fa la ramanzina su quanto siano vicini gli esami e su quanto poco tempo ho per recuperare. Decide che se io non sono disposta ad uscire di casa verrà lei qui e mi costringerà a studiare. Lo fa. Arriva a casa mia dopo mezz'ora. Dispone libri, appunti e pc sul tavolo della cucina, mentre io metto su l'acqua per il the.
- Bree, per caso hai litigato con Steve? -
- Cosa te lo fa credere? -
- A parte il muso enorme che hai su, dici? Il fatto che è qua fuori. -
- Qua fuori? Steve? - Senza dirle altro mi precipito all'entrata ed apro la porta.
Steve è lì fuori, seduto sugli scalini. Quando sente aprire la porta si alza e mi guarda in silenzio, con gli occhi rossi. Gli faccio cenno di entrare. Ci sediamo sul divano in salotto. Si getta tra le mie braccia.
- E' un modo per ammettere che mi hai tradito? - Fredda come una lastra di ghiacico.
- Tradito? No! -
- E allora? -
- Mi hai visto con Rachele, vero? -
- Sì. -
- Cosa hai visto? -
- Quanto basta. -
- Amore ti giuro su quanto ti amo che non è successo nulla. Lei continua a provarci, ma per me lei non è niente. Niente. Hai capito? Assolutamente nulla. Mentre tu, tuu sei tutto. -
Cerca di baciarmi.
- Steve sai che vorrei crederti, ma in questo momento... L'ho vista accarezzarti. E tu? Tu non hai fatto un minimo movimento per scansarla, mandarla via. Niente. - Mi alzo dal divano. - E' perché non abbiamo ancora fatto l'amore? -
- Non dirlo neanche per scherzo. Non sono minimamente interessato a Rachele. -
- Perché non hai fatto niente allora? -
Mi guarda in silenzio.
- Non dici nulla nemmeno adesso? -
Si avvicina a me. - Amore, era sconvolta. -
- Cosa? Era sconvolta e quindi può toccarti? -
- No, non dicevo questo. - Mi prende le mani. - Amore, ti prego. Perdonami. Non volevo ferirti. -
Lo fisso. I suoi occhi, i suoi stupendi occhi verdi, sono sinceri. - Non è successo niente tra di voi? -
- No. Giuro. -
- Va bene. Facciamo finta che non sia successo niente. -
Mi abbraccia baciandomi la fronte. - Non ti tradirei mai. Ti amo troppo. -
- Ti amo anche io. - Mi bacia. - Ci vediamo stasera? -
- Passi al locale? -
- Oggi lavori, vero! No allora credo che ci vedremo domani. Non so a che ora finiremo con Cristina. Probabilmente faremo full immersion fino a notte fonda. -
- Va bene amore. Ci sentiamo allora. -
- Sì, amore. -
Ci baciamo e poi va via. Torno in cucina, dove Cristina ha già toltol'acqua dal fuoco e messo in infusione le bustine di the. - Tutto risolto. -
- Diciamo di si. E' stato un malinteso. -
- Capitano di tanto in tanto. Basta parlarne con calma e risolvere tutto, no? -
- Hai ragione, Cri. Come sempre. -
- Ora che sei più tranquilla possiamo iniziare a studiare? -

Sono le 19. Abbiamo studiato per quasi quattro ore filate. Mi ha spiegato tanta bella roba che mi ero persa saltando le lezioni. Fortunatamente Cristina è meglio del più bravo professore per farmi comprendere nozioni importanti. L'unica pausa che abbiamo fatto è stata molto breve e solo per far entrare Black che bussava alla finestra.
- Ho bisogno di fermarmi, Cri. Non recepisco più niente. -
- Va bene, fermiamoci. Dopo cena facciamo un altro po', che dici? -
- Di andare avanti non credo di esserne capace. Possiamo fare un ripasso di quello che abbiamo fatto adesso, se vuoi. Intanto faccio uscire questa palla di pelo che ronfa sul divano e ordino le pizze. -
- Viene anche Gigì per cena? -
- Chiamala e chiedile. Il telefono è sopra la mensola. -
Prendo in braccio Black che inizia a farmi le fusa. Lo porto fuori di casa e lo lascio andare. Mi saluta strusciandomisi tra le gambe e poi va via.
- Bree, hai adottato questo gatto ormai. - Nicola, il figlio dei vicini passa davanti casa mia a piedi quasi ogni sera, tornando da casa della sua ragazza. Ha diciannove anni, ma quest'anno non è di maturità perché sta ripetendo il quarto. L'anno scorso ho provato ad aiutarlo un po' con la matematica ma mi ha detto che gli era piaciuto troppo quell'anno e voleva rifarlo. In realtà voleva rifarlo per essere in classe con la sua ragazza e vivere di rendita con lo studio di lei che è stata una delle più brave della scuola fin dal primo anno.
- Non credo che mia madre sarà daccordo. -
- Per caso stasera devi studiare? -
- Perché? -
- Perché vengono un paio di amici da me e faremo un po' di bordello. Probabilmente non potrai studiare. -
- Grazie dell'avviso. - Sorrido.
- Se vuoi passare sei la benvenuta, lo sai. -
- Grazie Nico. - Entro in casa. - Nicola ci ha appena invitato a una festa di diciannovenni. - Dico a Cristina passando in cucina.
- Hai intenzione di andarci. -
- Ma anche no! - Ridiamo. - Hai chiamato Gigì? -
- Sì. Sta arrivando. Ho anche ordinato le pizze. -

- Pronto amore. -
- Ohi. -
- Come stai, piccola? -
- Con la pancia piena. Abbiamo appena finito di divorare le pizze. -
- Con lo studio come è andata? -
- Bene. Abbiamo fatto un bel po'. Adesso riprendiamo. -
- Non ti farà male studiare tutto questo tempo? -
- Tranquillo, sono abituata. -
- Quindi non passate proprio stasera, vero? -
- No, amore. Gli esami sono troppo vicini perché Cristina mi lasci uscire. -
- Va bene. Pensami ogni tanto. -
- Sarà fatto, capo! -
- Ti amo, scema. -
- Anch'io. -
- Salutami le ragazze. -
- Come fai a sapere che c'è Gigì? -
- Me l'ha detto Joshua che veniva per cena. -
- Certo, come ho fatto a non pensarci. -
- Ciao amore. -
- Ciao. -
Riaggancio. - Vi saluta Steve. -
- Peccato che oggi lavorino. -
- Per me è un bene. Almeno posso studiare con tranquillità. -
- Volete davvero studiare ancora? -
- Cosa vorresti fare? -
- Uscire, prendere aria, non lo so. Qualcosa che non abbia a che fare con un libro. -
- Gli esami sono vicini. - Cristina è perentoria, non transige quando si è in periodi di esame.
- E tu sei troppo lontana dalla mia stanza! - Gigì la prende in giro iniziando a canticchiare la canzone di Venditti.
- E dai, Gigì. - Le do un pugno delicato sul braccio. - Ha ragione Cristina. Gli esami sono tra poco. Ma ha ragione anche Gigì. Abbiamo studiato tutto il pomeriggio e le nostre capacità di apprendimento saranno sotto zero, ormai. -
- Esatto! Volevo dire essattamente questo. - Gigì è soddisfatta.
Cristina ci guarda per un po' scuotendo la testa. - Cosa vorreste fare? - Ha ceduto le armi, finalmente!
La abbraccio saltellando, mentre Gigì da alcune opzioni sulla serata.
- Niente di tutto quello che hai detto. Una serata tranquilla per rilassarci, altrimenti io vado a casa. -
- Ci sarebbe la festa di Nicola. -
- Festa di Nicola? Il tuo vicino di casa? -
- Sì. Ci sono degli amici a casa sua. E' una festa di diciannovenni, cosa può esserci di tragico? Nessuna delle tre vuole rimorchiare. Non abbiamo bisogno di metterci in tiro. Scrocchiamo un po' di patatine, ascoltiamo della musica e beviamo qualcosa. Il tutto assolutamente gratis e a due passi da casa. Che ne dite? -
Ci pensano un po' e poi entrambe accettano. Chiamo casa di Nico per dirgli che accetto l'invito e porto altre due amiche. Dal telefono sento già della musica e un po' di confusione.

Non entro a casa di Nicola da quando mia madre mi ci lasciava da piccola quando ero sola a casa. L'anno scorso Nico veniva a casa mia il pomeriggio per recuperare matematica. Non è cambiata di una virgola, è uguale a come la ricordavo. C'è già un bel po' di gente e l'atmosfera è davvero simpatica. - Credo che questa serata rispetterà i nostri piani. -

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Capitolo 61
*** 61 ***


Dopo aver salutato Nico ed essere state presentate alla sua ragazza e ad altre sue amiche, ci siamo piantate sul divano a parlare. Come se fossimo a casa, solo che le patatine sono gratis! Mando un messaggio a Steve. 'Abbiamo cambiato programma'. Dopo due secondi netti mi telefona. Esco in terrazza, per evitare la musica e rispondo.
- Amore, ciao. -
- State venendo qui? - E' strano. Sembra quasi...preoccupato. Ma di che?
- N-no. Succede qualcosa? -
- Assolutamente niente. Serata piatta. Vi annoiereste un sacco a venir qui. -
- Cristina non vuole allontanarsi molto da casa. -
- Ha ragione. Non puoi fare tardi se domani devi studiare. -
Guardo per un attimo il telefono, come se potesse vedermi.
- Lo dico per te, ovviamente. Poi se vuoi venire, decidi tu. - Aggiunge.
- No, ci ha invitate il mio vicino di casa che ha dato una specie di festa. Anche qui è un po' un mortorio, ma almeno scrocchiamo birra gratis. -
- Capito amore. Torno a lavorare che c'è fila al bancone. -
Non mi da quasi il tempo di salutarlo e riattacca. Fila al bancone? In una serata piatta e con l'aiuto di Joshua, c'era bisogno di scappare in quel modo? Bah, certe volte non lo capisco proprio.
Torno dalle ragazze. - Vado a cercare una birra. -
- Portane una anche a me. - Gigì mi manda un bacio in aria.
Cerco Nicola. Lo trovo a ballare con due amici.
- Nico, le birre? -
- In frigo. La cucina ti ricordi dov'è? -
Annuisco e lo lascio al suo ballo tamarro. Percorro il corridoio e arrivo alla cucina dove da piccola mangiavo pane e nutella imbrattandomi fino alle orecchie, con un piccolo Nicola che giocava coi trenini. Anche questa non è cambiata per nulla, a parte il frigo. Ne hanno preso uno di quelli enormi a due sportelli. Lo apro e lo scopro pieno di birra messa a ghiacciare. Ne prendo due bottiglie cercando di non far cadere nulla. Ci penso bene e ne prendo altre due, per evitare di dover tornare dopo poco. Inizio da maleducata ad aprire cassetti finché non trovo l'apribottiglie. Tolgo il tappo alle quattro birre e le afferro come fossi un'abile bar-woman. Cammino a passo spedito, cercando di non tradire la paura di inciampare e fare una gran brutta figura in mezzo a questa ventina di diciannovenni. Fortunatamente sia io che le birre arriviamo sane e salve al divano. Mi ci tuffo, dopo aver poggiato due bottigle sul tavolino davanti a noi ed una in mano a Gigì. Scolo la mia quasi fino in fondo, gustandola scendere fredda nella gola. Ci vuole proprio in questa serata ormai estiva. Mando giù due patatine, quando qualcuno mi chiama alle spalle.
- Bree, puoi farmi un favore? - E' Nico.
- La mia ragazza non sta tanto bene e devo riaccompagnarla a casa. -
- Vuoi che l'accompagni io? -
- No, a quello penso io. Ti seccherebbe fare la portinaia? -
- Eh? - Lo guardo stranita, accompagnando lo stupore con una strana smorfia.
- Ti spiego. Deve arrivare qualcun altro. -
- Faccio gli onori di casa, in pratica? -
- Una cosa del genere, sì. Ti dispiace? I ragazzi si stanno trasferendo quasi tutti fuori, ormai. -
- Ok, Nico. Se hai problemi chiama, eh. Il mio numero dovresti averlo. -
- Ce l'ho. Io dovrei essere di ritorno in una mezz'oretta al massimo. -
Nicola va via insieme alla sua ragazza. La musica è stata alzata per permettere ai ragazzi fuori di ballare e noi dobbiamo urlare per sentirci nonostante siamo così vicine. Da fuori iniziano a provenire le risate dei ragazzi che stanno andando un po' su di giri, ma che per fortuna non combinano niente se non qualche scherzo alle ragazze. In un attimo di silenzio dallo stereo sento il campanello trillare a lungo. Salto fuori dal divano e corro alla porta. La apro. Davanti a me un gruppo di cinque ragazzi. - Oh, dopo dieci minuti qualcuno ci ha sentito! -
- Scusate ragazzi, non vi abbiamo sentito. -
Li faccio entrare sulla fiducia, sperando che non siano infiltrati malintensionati. Li guardo in faccia uno per uno mentre solcano la porta. Tutti con la faccia pulita e l'aria da bravo ragazzo. Sono entrati tutti. Richiudo la porta.
- Aspetta! -
La porta sbatte contro qualcosa. Qualcuno dal di fuori ha messo un piede per evitare che si chiudesse.
- Ehi! Ci sono anch'io. -
Apro la porta. Oddio. Daniel è stupito almeno quanto me. Mi fissa senza pronunciare una parola ed io faccio altrettanto. Jeans e maglietta lo rendono ancora meno diciottenne. La barba si fa vedere di più di stamattina e gli occhi sono ancora terribilmente belli. - Ciao. - Riesce a pronunciare.
- Ciao. - Mi viene automatico sorridere. Restiamo ancora immobili per qualche istante. - Entra. Non stare fuori. -
- Posso? Sicura che il tuo ragazzo non mi ucciderà? -
- Non c'è. -
Entra in casa continuando a fissarmi. - Non c'è adesso o non c'è più? - Gli ridono gli occhi mentre lo dice.
- Daniel! -
- Ok, ok. Non ci provo più, giuro. -
- E' a lavoro. -
- E non è geloso che sei qui da sola? -
- Non sono sola. - Indico il divano.
- Amiche tue? - Annuisco. - Com'è che tre ventiduenni si ritrovano ad una festa di mocciosi? -
- Nicola ed io siamo cresciuti insieme. Abito qui accanto. Ci siamo rotte di studiare ed abbiamo accettato l'invito. -
- Bene. Molto bene. - Mi accarezza la guancia e va dai suoi amici, lasciandomi impietrita ancora accanto alla porta. No, la serata non rispetterà le nostre previsioni.
Mando un altro messaggio a Steve, mentre torno sul divano. 'Mi manchi'. Lo giuro, è vero. Mi manca non poter baciarlo di tanto in tanto mentre parliamo con gli altri. Mi manca anche la sua gelosia. Daniel ci ha già provato e non credo che desisterà stasera. Non voglio assecondarlo anche se sembro impedita a non farlo. E senza Steve che cerca di fare il super uomo difendendo ciò che è suo, cioè io, non è per niente divertente. E' solo stressante e preoccupante. Daniel è carino, sì. Ma è piccolo e, ancor più importante, io amo Steve.
Mi siedo tra le ragazze, ma non le ascolto. Continuo a fissare il telefono sperando che Steve mi risponda, ma non lo fa. Nessun segno di vita da parte sua. La serata si sarà movimentata e sarà indaffarato. Poso il telefono nella tasca dei jeans e riprendo a parlare con le ragazze. Gigì spesso si ferma a scrivere un messaggio o a leggerne uno.
- Ma con chi stai parlando? -
- Con Joshua, ovvio. Hanno una serata fiacca. Fortuna che non ci siamo andate. Ci saremmo tagliate le vene. Non te l'ha detto Steve? -
- Sì. Prima. - Hanno una serata fiacca. Joshua messaggia tranquillamente con Gigì. Steve non ha un secondo di tempo per rispondere a me? Bella considerazione. Avete presente quando si dice che pensi a una cazzata, sai di fare una cazzata ma fai lo stesso la cazzata? Io sto per farla. - Abbiamo fatto bene a venire qui. Esco a prendere un po' di aria. - Lascio le ragazze senza aggiungere una parola.
Esco fuori e mi fermo sulla soglia della porta a vetri. Guardo i ragazzi, brilli e non, che si divertono come mi divertivo io alla loro età. Crescendo tutto si schematizza di più, anche il divertimento. Ma non li sto guardando rimpiangendo i miei diciannove anni, no. Li sto guardando per cercare Daniel, per vedere dov'è e cosa sta facendo. O spero che mi raggiunga lui. Lo trovo in fondo al giardino. Parla con due ragazze sorseggiando una birra. O meglio, le due ragazze parlano con lui. Lui sta fissando me. Alzo la mano e gli regalo un piccolo saluto muovendo le dita, accompagnato da un sorriso sornione almeno quanto il suo. Lui non sa che non voglio fare nulla di compromenttente con lui. Voglio solo tirare un po' la corda, per ripicca. Sperando che non si spezzi. Si allontana dalle due ragazze senza dir nulla, lasciandole a metà strada tra lo stupito, l'offeso e l'inviperito. Viene verso di me, con un sorriso da super figo in viso. Un sorriso che, cazzo, assomiglia proprio a quello di Steve. No, Steve non c'è. Steve non risponde nemmeno ai messaggi. Steve ha altro in testa. Mi metto altro in testa anch'io. Arrivato accanto a me, si appoggia al muro esterno e, continuando a non dire nulla, mi porge la sua birra. La afferro e me la porto alle labbra. Comincio a bere senza scostare gli occhi dai suoi, poi la torno al proprietario. Non controlla nemmeno se ne è rimasta. La porta alle sue labbra e, continuando il nostro sguardo, beve a sua volta.
- E' un po' come se ci fossimo baciati, no? -
- Non proprio. - Rido, spezzando la tensione ormonale che si era creata e che non avrei sopportato oltre probabilmente.
Ride anche lui. Lo stesso sorriso di... No. E' suo e basta, almeno stasera. Si allontana per gettare la bottiglia vuota. Mentre sono sola controllo di nuovo il cellulare. Calma piatta. Vaffanculo, io riprendo a tirare la corda.
- Balliamo? - Gli chiedo mentre torna verso di me.
- Vuoi che ti insegni qualche passo? -
Lo guardo con aria sufficiente. - Non sai con chi stai parlando, carino. -
- Nemmeno tu. - Si avvicina con aria di sfida. Poggia la fronte contro la mia. Si avvicina troppo.
Mi allontano da lui. - Sfida? -
- Mi stai sfidando? -
- HipHop. Accetta solo se vuoi essere umiliato. -
- Non ci conterei, bellezza. -
Mi dirigo verso il ragazzo che stasera si è improvvisato DJ e gli chiedo della musica adatta. Cerchiamo insieme tra le sue cartelle ed infine troviamo qualcosa. Facciamo velocemente una playlist e torno da Daniel. Si è già formato il cerchio intorno a noi, quasi fossero tutti abituati agli uno-contro-uno.

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Capitolo 62
*** 62 ***


Uno-contro-uno. Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho proposto una sfida? Qualcosa tipo quattro anni. Anche allora eravamo ad una festa, ma in sfida eravamo due ragazze. E ce le siamo suonate di brutto. In ballo, ovviamente, la difesa del territorio. Persi, sfortunatamente. Dovetti tornare a casa a piedi per più di un mese prima che la storia fosse dimenticata. Adesso è totalmente diverso. Non c'è un premio in palio, è solo per movimentare la serata e mettere un po' di spazio tra me e Daniel nel nostro tiro alla fune.
Parte la musica. Lascio iniziare lui per vedere come se la cava. Per essere un 'profano' si muove bene e riesce a tenere il tempo. Ci alterniamo al centro del cerchio, mettendo in mostra quello che ci viene in mente, supportati dagli altri che tifano. Le ragazze per lui, i ragazzi per me. Strano, eh? La portiamo avanti per ben dieci minuti. Vinciamo entrambi, che è un modo come un altro per dire che non vince nessuno dei due. Tutti intorno si sono gasati ancor più di noi e iniziano a formare altri cerchi di sfida. Sudata, stanca e soddisfatta vado verso l'entrata della casa. Daniel mi sbarra l'entrata.
- Abbandoni il campo di battaglia? - Mi sorride. Anche lui è sudato da far schifo.
- Complimenti. E' stata una bella lotta. - Gli porgo la mano. La voglia di tirare la corda è finita. E' stata una cosa momentanea e idiota. L'unica voglia che ho adesso è di chiamare Steve e sentire la sua voce.
- Non è stata male. - Afferra la mia mano, sorridendo. I suoi occhi sono gli stessi di prima, credo che la sua di voglia non sia per niente passata.
- Balli da tanto? - Ritiro la mano e cerco il distacco, facendo un passo indietro.
- Se per ballare intendi seguire un corso, non ne ho mai fatto uno. - Resta fermo davanti alla porta, sbarrandomi l'entrata con il braccio.
- Ho bisogno di una birra. - Magari così mi fa entrare.
- Prego, entra pure. - Toglie il braccio, ma non si sposta.
Riesco a entrare solo strofinandomi contro di lui. Appena lo supero mi trovo davanti Gigì. Senza dire nulla e senza guardarla in volto la prendo sotto braccio e la tiro in cucina.
- Meno male che doveva essere una serata tranquilla. - Mi dice appena ci arriviamo.
- Non lo è? -
- Cambio affermazione allora. Meno male che nessuna doveva rimorchiare. -
Mi volto a fissarla lasciando andare una birra che avevo afferrato da sopra una piccola piramide. Per fortuna non si rompe nulla. - Cosa stai dicendo? -
- Cristina si è rimorchiata uno. -
Tiro un sospiro di sollievo. - Un diciottenne? - Riprendo la birra e la stappo.
- No. E' il fratello di una. Hanno iniziato a parlare, tu eri fuori a ballare con quello ed io sono rimasta da sola. -
- Sono stata via dieci minuti. E poi potevi uscire anche tu a ballare. - Mando giù un sorso ghiacciato.
Mi fissa per un attimo. - E interrompere la vostra danza dell'accoppiamento? -
Botta allo stomaco di nuovo. La birra mi va di traverso ed inizio a tossire.
- Per caso ci ho azzeccato? -
- Che stai dicendo, Gigì? Ti sei ammattita? -
- Bree, quello ti spolpa con gli occhi e tu gli dai corda. -
Colpevole. Colpita e affondata.
- Non stai bene con Steve? - Si avvicina con le braccia conserte, ma il suo tono non è più quello di un rimprovero.
- Sto bene con Steve, solo che oggi... - Le racconto l'incontro spiacevole con lui e Rachele stamattina, le scuse del dopo pranzo e aggiungo la strana telefonata di stasera ed il fatto che non si sia più fatto vivo.
Cammina per la cucina, pensierosa, accarezzandosi il mento con due dita. - E' abbastanza strana come cosa. -
- Molto. E mi ha scombussolato. Volevo vendicarmi, ma non volevo fare niente di ché. Solo tirare un po' la corda. -
- Non avresti dovuto farlo comunque. Una giornata strana non è una scusa per flirtare con un altro. Un diciottenne per giunta! - Essere rimproverata moralmente da Gigì, la libertà sessuale fatta persona. Devo aver toccato il fondo.
- Hai ragione. - Sono mortificata.
- Ora che vuoi fare? -
- Chiamarlo. - Tenendo la mia birra in mano esco dalla cucina e mi dirigo verso il giardino.
Passando dal salottino getto uno sguardo alla possibile conquista di Cristina. C'è di meglio, ma non è male. Cerco di non farmi notare da Daniel e mi rifugio in un angolino appartato, vuoto e dove la musica arriva molto attutita. Prendo il cellulare e lo chiamo. Il telefono squilla a vuoto fino alla chiusura automatica della chiamata. Provo altre due volte, sempre con lo stesso risultato.
- Adesso non risponde nemmeno al cellulare, eh. - Daniel mi ha scovato.
- Deve essere impegnato con i clienti. - Rispondo acida.
- O con la ragazza di stamattina. - Si avvicina con un sorriso provocatorio.
Lo fulmino con lo sguardo. - Hai perso un'opportunità per stare zitto, lo sai? -
- E' lui che si perde opportunità. - Ormai è vicinissimo ed arriva ad accarezzarmi il viso senza difficoltà.
Gli afferro i polsi e li stacco dal mio viso. - Non sta perdendo un'occasione, sta lavorando. Daniel, io non so cosa tu abbia capito o cosa tu stia pensando. -
- Se vuoi te lo dico. - Ignora il mio 'no' e me lo dice comunque. - Ho capito che il tuo ragazzo è un'idiota a lasciarti da sola e a non voler passare ogni istante della sua vita accanto a te. Sto pensando che mi piaci. Sto sentendo che io piaccio a te. - Poggia le mani sulla rete di protezione che circonda il giardino, incastradomi. - Sento che lo vuoi anche tu. - Avvicina il suo viso al mio, chiudendo gli occhi.
E' a pochi centimetri dalle mie labbra. - No. - Poggio la mano sulla sua bocca spingendolo all'indietro per allontanarlo. - Sei fuori strada. L'unico che voglio è il mio ragazzo. -
Toglie le mani dal muro, lasciandomi libera. Inizio ad allontanarmi. Mi segue. Afferra il mio braccio abbastanza forte da bloccarmi ma allo stesso tempo delicatamente per non farmi male. - Tu sei attratta da me. -
- Daniel, ho l'impressione che tu non mi abbia capito. -
- E' perché ho diciotto anni, giusto? -
- No, no, no che non è giusto. Non è perché hai diciotto anni e non è perché non sei un ragazzo attraente. E' perché io sono impegnata, sto con un ragazzo che amo e che mi ama, per quanto tu ti sia fatto un'idea sbagliata di lui. -
- Sei felice con lui? - Mi accarezza la mano.
- Sì. -
- Io potrei... -
- Daniel. - Un sorriso quasi materno mi affiora alle labbra. - Non ci conosciamo nemmeno. - Gli accarezzo i capelli. - Ti sei fissato con me solo perché sono più grande e i tuoi amici ti hanno detto che non hai speranze. Se ci pensi bene, probabilmente nemmeno ti piaccio davvero. -
- Questo non è vero. Sei bellissima. Sono rimasto incantato davanti al tuo viso ed hai un fisico mozzafiato. Dico sul serio. -
Arrossisco. Un complimento è pur sempre un complimento. - Tu sei davvero un bel ragazzo e ti giuro su quanto ho di più caro che se non fossi impegnata sarei caduta ai tuoi piedi. Ma lo sono. E lo amo. -
Guarda l'erba sotto i nostri piedi. Ritiro la mano dai suoi capelli e la porto sotto il suo viso, sollevandolo fino a farmi guardare negli occhi.
- Guardati intorno. Scommetto che non c'è una ragazza a questa festa che ti rifiuterebbe. -
- Una l'ha appena fatto. - Piccolo sorriso triste.
- Io e le mie amiche non contiamo. - Rido cercando di tirarlo su di morale. Mi volto a scrutare tra la gente. - Ecco, quella lì per esempio. Quella seduta da sola vicino al tavolino. Vai da lei. Scommetto che ti adorerà. - Gli faccio l'occhiolino. - Ma non provare subito a portartela a letto! - Aggiungo ridendo e dandogli una piccola botta col gomito.
Ridacchia anche lui adesso. - Non è una ventiduenne superfiga, ma mi accontenterò. - Mi da un bacio sulla guancia. - E' stato un piacere conoscerti. -
- Anche per me. -
Lo guardo dirigersi verso la ragazza che gli ho indicato. Lei sembra quasi spaventata dal fatto che lui abbia deciso di parlarle. Da come ha reagito credo che Daniel le piaccia parecchio. La mia buona azione da cupido mi ha rimesso il sorriso addosso. Torno dentro e trovo Gigì annoiata sul divano, mentre Cristina parla ancora con la sua quasi-conquista. - Ragazze che ne dite di andare? -
Gigì mi guarda quasi in adorazione, mentre Cristina si volta quasi delusa. - Così presto? -
- Ma tu non eri quella che voleva stare rinchiusa a casa a studiare? - Sbotta Gigì mentre si è già messa in piedi.
Cristina la fulmina con lo sguardo. - Ragazze voi andate, io sto un altro po'. Tanto ho l'auto. -
- Non lo sospettavo minimamente. - Gigì getta un po' di acido sarcasmo per ripagarla di averle fatto passare la serata in solitaria.
Sorrido a Cristina salutandola e porto via Gigì. Trovo Nico vicino alla porta. Lo ringrazio per l'invito e per la serata che alla fine è riuscita a non distruggersi troppo. Adduco alla scusa della giornata di studio intenso di domani per andare via così relativamente presto. Appena fuori dalla porta Gigì mi ringrazia di averla salvata da quella che per lei è stata una serata piattissima.
- Che ne dici di movimentarla, se per te non è stata abbastanza? -
- Non volevi andare a casa? -
- No, volevo solo andarmene di lì. In realtà mi è venuta un'idea. -
- Quale? -
- Joshua ti ha detto che è una serata morta lì da loro, no? Perché non gli facciamo una sorpresa e andiamo a trovarli? Ho voglia di vedere Steve. -
- Senso di colpa? -
- E per cosa? Ho risolto tutto con il ragazzino. Gli ho fatto capire che non c'è trippa per gatti. -
- Meglio così. Non dico niente a Jo, così facciamo due sorprese invece di una. -
- Ancora meglio. -
Ci prendiamo sottobraccio e andiamo verso la sua auto, saltellando e cantanticchiando come due idiote ubriache.

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Capitolo 63
*** 63 ***


Il fulmine è terminato. Mi ritrovo a fissare il soffitto di camera mia, verde acqua come tutte le altre pareti. Decido di alzarmi, ma appena lo faccio cado in ginocchio per vomitare di nuovo.
- Bree, stai bene? - Mia madre arriva di corsa dalla sua stanza. Mi trova ancora accovacciata a buttare fuori il pranzo. Mi tiene la testa spostandomi quei pochi capelli che mi arrivano sulla fronte finché non finisco. Mi aiuta ad alzarmi e a sedermi sul letto. - Resta qui. - Va a prendere straccio e secchiello per lavare via tutto.
- Scusa. -
Lascia andare tutto e viene ad abbracciarmi. Sta piangendo. Me ne accorgo solo adesso. - Come stai? - Sussurra tra i singhiozzi.
- Meglio mamma. Sto meglio adesso. -
- Che ti è preso? -
- Ho avuto un ricordo e mi è presa male. -
- Come all'inizio? Perché? E' normale? -
- Non lo so mamma. -
- Io ti porto in ospedale. -
- No, mamma. Non c'è bisogno. -
- Io ti porto in ospedale e basta. - Mi costringe ad alzarmi e ad appoggiarmi a lei anche se riesco a star in piedi da sola. Mi porta fino alla sua macchina e mi ci fa entrare. Sale dal lato giudatore e prima di avviarla mi passa il mio cellulare che ha preso da sopra il comodino. - Chiama Steve e diglielo. -
- Per allarmarlo? - Uno sguardo di rimprovero.
- Chiamalo. - Parte e si dirige verso l'ospedale.
Ubbidisco all'ordine di chiamare Steve, ma invento una scusa. Non gli dico che ho vomitato, nè che mia madre mi sta portando in ospedale. Gli dico solo che stiamo uscendo e non ci troverà in casa. Mia madre, però, mi strappa il telefono dalle mani. - Steve, stiamo andando in ospedale perché si è sentita male. - Glielo urla terrorizzata quasi e poi mi torna il cellulare.
- Spiona! - Le dico fulminandola con lo sguardo. Poi riprendo a parlare con Steve cercando di convincerlo della realtà, cioè che non è nulla di grave e che è mia madre ad essere troppo paranoica. Non riesco a convincerlo e decide di venire in ospedale anche lui.
Ci incontriamo al parcheggio. Sono arrabbiata con entrambi che stanno trasformando una cosa insignificante in un'enorme tragedia. Entriamo nel pronto soccorso e Steve si precipita a parlare con la prima infermiera che gli capita a tiro spiegandole la mia situazione, esagerandola ovviamente. L'infermiera mi chiede di seguirla immediatamente e mi porta dentro uno stanzino dove mi fa accomodare su una barella che sembra parecchio instabile per poi scomparire al di là della porta. Passati circa dieci minuti decido di scendere dalla barella ed andarmene. Non sopporto tutta questa situazione. Purtroppo il destino ha deciso ancora una volta di darmi uno spintone. Scendendo dalla barella poggio il piede in malo modo e mi ritrovo faccia a terra con una caviglia storta e dolorante. Mi arriva addosso anche il vassoio per le suture su cui mi ero poggiata cercando di riprendermi dalla storta. Il baccano attira nello stanzino l'infermiera ed il dottore di turno. E qui il destino ha fatto proprio il bastardo.
- Bree cavolo! Non avresti dovuto muoverti. - Alex mi prende in braccio di peso e mi poggia di nuovo sulla barella. - Hai perso l'equilibrio? -
- No. - Rispondo seccata e seccante. Dal modo in cui lo fisso traspare tutto ciò che penso: 'Sei una merda!".
- Cosa è stato allora? -
- Ho messo male il piede. -
- Una storta? Vediamo questa caviglia. -
Cerca di sollevarmi il lembo dei jeans per guardarla, ma ritiro le gambe. - Non provare a toccarmi. - Lurido schifoso. Lo aggiungerei ma non lo faccio.
Mi guarda con lo sguardo di chi sa di essere in torto. Inizia a parlarmi sottovoce. - Potresti mettere da parte l'odio che provi per me solo per cinque minuti e lasciarti visitare? -
- Non può visitarmi un altro? -
- Sono tutti occupati e tu non puoi aspettare. Se stai male per colpa del tuo problema dobbiamo scoprirlo il prima possibile. -
- Io non sto male! -
- Sei appena caduta di nuovo. -
- E' stata una storta. -
- Anche il vomito? -
- Non ho vomitato. -
- Invece sì. - Indica il pavimento.
Guardo giù e resto allibita. Ha ragione. In quei pochi secondi che sono stata a terra ho vomitato ancora e neanche lo ricordo. Sento una grande ansia impossessarsi di me. Inizio a respirare affannosamente.
- Calmati, Bree. - Alex mi poggia le mani sulle spalle. - Andrà tutto bene. -
- Me lo avete ripetuto troppe volte. Non ci credo più. - Le labbra mi tremano e sento le lacrime in arrivo.
Mi accarezza il viso continuando a guardarmi negli occhi. - Devi crederci, invece. - Si volta verso l'infermiera che finora è stata immobile poco dopo la porta. - Richiedi la Collins e Benussi. Digli che si tratta di Bree e che devono essere qui prima di subito. - L'infermiera ubbidisce. - Io vado a chiamare Steve. - Mi sorride ed esce dalla stanza.
Dopo poco Steve entra nella stanza. Sta sulla porta, non si avvicina. - So che hanno chiamato mia madre e Benussi. -
- Sì. -
- Come ti senti? -
- In preda al panico. -
- Domanda sbagliata, eh? -
- Forse. -
- Cosa può averti scombussolato così tanto da farti stare di nuovo male? -
- I ricordi suppongo. -
Un velo d'ombra scende sul suo viso. - Cosa hai ricordato? - Parla tanto piano che riesco a sentirlo a stento.
- Ricordare la storia di Alex e Sabina non mi ha fatto bene. -
- Ma quello è stato due giorni fa ormai e non è successo nulla quando l'hai ricordato. Cosa hai ricordato oggi? - Avverto una nota strana nella sua voce.
- Ho ricordato di quando siamo andati a mare. -
- Quando mi hai visto con... - Non aggiunge il nome.
- Rachele. - Lo dico con l'amaro nel cuore.
- E... cos'altro? - Sempre quella nota strana nell'inflessione della sua voce. Quasi fosse sotto accusa e cercasse di difendersi.
- La festa di Nicola. -
Non mi risponde. Si zittisce e guarda il pavimento con occhi sbarrati.
- Che ti prende? -
- Nulla. - Si affretta a rispondere. Quasi non mi fa terminare la domanda.
- Ti vedo agitato. E' forse per quel ragazzo? Daniel? -
Alza lo sguardo verso di me, quasi sollevato. - Sì. Sì, sì, è per lui. - Forza un sorriso fintissimo. - Hai appena ricordato uno che ci prova con te. -
- Che ci provava. -
Sbarra gli occhi di nuovo. Quasi avesse visto un fantasma.
- Gli ho chiaramente fatto capire che non c'è trippa per gatti con me. Te l'avrò già detto, no? -
Anche stavolta sembra che tiri un sospiro di sollievo. - Sì, me l'hai già detto. -
- Allora perché sei così teso? -
- E' solo perché stai male, amore. - Si avvicina, finalmente, a me. Mi accarezza i capelli e mi bacia. - Solo perché stai male. -
- Sembra quasi che stai cercando di convincere qualcuno. - Sì, sembra che stia cercando di convincere se stesso di quello che dice.
Sta per rispondermi, ma Benussi si precipita di corsa dentro la stanza e gli chiede, nemmeno tanto gentilmente, di uscire. - Un altro dei tuoi scherzetti, eh Bree? - Fingo un sorriso, ma si vede lontano un miglio che dentro ho la paura che mi sta rosicchiando completamente. - Controlliamo cosa succede. -
Mi controlla la gola e gli occhi, dopo passa a testare i riflessi. Nel frattempo entra nella stanza anche la Collins. - Benussi, cosa abbiamo? -
- Notizie buone e notizie cattive. -
- Iniziamo da quelle buone. -
Benussi sta in silenzio per un paio di secondi. - Il mio era un modo di dire. - Emette un gran sospiro. - Purtroppo nessuna notizia è rassicurante. Possiamo uscire un attimo a consultarci? -
- No! - Urlo. - Voglio sapere cosa mi succede. - Tremo.
Benussi mi guarda compassionevole. - Credo che ci siano altri problemi legati all'incidente. Dobbiamo fare un'altra TAC e vedere se in questi giorni è successo qualcosa. -
- Ma sono passati solo due giorni. -
- Dobbiamo controllare. La facciamo subito. -
La Collins chiama l'infermiera del pronto soccorso che, staccata la barella dal muro, mi inizia a trasportare. Il viaggio verso la sala TAC è molto più breve delle altre volte, ma la procedura è uguale. Appena uscita dal tubo radiogeno, mi viene incontro la Collins, sorridente.
- Buone nottizie, Bree. - Fissa il mio sguardo ancora serio e preoccupato. Poi aggiunge. - Buone notizie davvero, stavolta. -
- Sentiamo. - Sono poco fiduciosa, in effetti.
- Benussi si sbagliava. Per fortuna si sbagliava. La tua testa sta benone. Anzi! Ci sono addirittura dei netti miglioramenti. -
- E allora oggi? -
- I malesseri sono stati legati proprio a questo. - La guardo perplessa. - Devi considerare che sia un peggioramento che un miglioramento comporta comunque un movimento di qualcosa all'interno del tuo cervello che è strettamente collegato a tutto il resto e particolarmente al sistema nervoso. Perciò può capitare che tu abbia le vertigini o che senta il bisogno di vomitare. Specialmente se legata a un momento di stress. - E di quello ne ho a bizzeffe!
- E' sicura, quindi? Non devo fare altri accertamenti? Nulla? -
- No. Sei sana come un pesce. -
- Un pesce che ha ancora un cassetto chiuso a chiave. -
Mi sorride. - Lo aprirai, sta tranquilla. -
Mi permettono di camminare per tornare da mia madre che mi sta aspettando insieme a Steve nell'atrio del pronto soccorso. Mi ha accompagnato Benussi. Appena ci ha visto arrivare anche Alex si è avvicinato per sapere come stavo. - Sono felice di comunicare che prima mi sono lasciato ingannare. Ho interpretato i sintomi in modo molto negativo, ma per fortuna mi sono sbagliato. Abbiamo fatto la TAC e abbiamo trovato dei miglioramenti. Sono state le cicatrizzazioni probabilmente a causa il malessere. So che può sembrare illogico, ma è esattamente così. -
Inutile dire quanto mia madre sia contenta della notizia e come mi ha abbracciato e baciato subito dopo. Alex è andato via in silenzio, porgendomi solo un sorriso. Steve, invece, è rimasto con il suo alone di tristezza addosso.
- Amore, non sei felice che sto bene? - Gli chiedo sorridente.
- Certo che sono contento. - Di nuovo il sorriso finto. Di nuovo quel tono di difesa.
- Allora perché nemmeno sorridi? -
Fissa i miei occhi. Il volto impassibile e triste. Una lacrima solitaria lascia le sue ciglia senza che nient'altro nel suo viso cambi. - Scusami. -
- Per cosa devo scusarti? - Glielo chiedo con tutta la preoccupazione che vederlo e sentirlo così mi ha fatto nascere.
- Non posso. - Le lacrime si moltiplicano.
- Dimmelo. -
- Non posso. - Si volta e inizia a correre verso l'uscita.
Gli corro incontro gridando. - Cosa? Dimmelo! Ti prego. Non andare via. -
Esce dall'ospedale e si catapulta in auto. Scappa via.
Resto nel parcheggio a guardare il posto che ha lasciato vuoto. Mia madre arriva dopo poco. Ha corso anche lei per quello che può. E' affannata. Mi stringe le braccia. - Cos'è successo? -
- Non ne ho la più pallida idea. -

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Capitolo 64
*** 64 ***


- Rispondimi, cazzo. - Nulla. Sarà la decima volta che provo a chiamarlo ma non mi risponde.
Sono a casa. Prima di mettersi a letto, mamma mi ha costretto a stare ferma sul divano con la coperta addosso. Come se il caldo di questi giorni non bastasse. In cucina ci sono Gigì, Cristina e Debby. Mamma le ha chiamate e appena hanno saputo del viaggio in ospedale si sono precipitate estremamente in pensiero per me. Da quando hanno saputo cosa è successo con Steve, però, sembra che io non esista più. Sono in piedi accanto ai fornelli e parlottano come se non vedessi le loro espressioni preoccupate. Preoccupate sì, ma non per me credo. L'unica cosa che sanno dirmi da una buona mezz'ora è chiedermi se Steve mi ha risposto. Stavolta è stata Debby a chiedermelo.
- No che non mi ha risposto. Mi avete visto parlare al telefono, forse? - La situazione mi ha reso parecchio nervosa.
Riprendono a scambiarsi sguardi ansiosi e parole bisbigliate. Mi alzo dal divano facendo volare a terra la coperta e mi precipito proprio in mezzo a loro. - Scusate! Non per interrompervi né per fare l'egocentrica, ma voi non sareste qui per me? Cos'è tutto questo parlottare e sussurrare? -
In risposta ancora sguardi inquieti tra di loro.
- Dovremmo dirglielo? - Sussurra Cristina.
- Vedi che ti sento. Sono qui davanti a te. E ti rispondo io stessa. Sì, dovete dirmelo. Di qualsiasi cosa si tratti. -
- Non possiamo, scusaci. - Debby è seriamente dispiaciuta, ma questa storia del 'non posso' deve finire.
- Ragazze ve lo dico per l'ennesima volta. Non ditemi che non potete. Ormai ho ricordato quasi tutto e i dottori dicono che mi sono ripresa del tutto. Non mi farà del male sentire quello che dovete dirmi. - Abbassano lo sguardo, in sielenzi. - Mi fa molto più male vedervi così e non potere sapere perché siete preoccupate. -
- Siamo preoccupate per te, ovvio. - E' Gigì a rispondere.
- Non mi è sembrato. -
- Solo perché non sai, non puoi sapere. -
- Devo. - Non c'è bisogno di alzare la voce per fare capire a Gigì che ho bisogno che mi rispondano.
Guarda le altre tristemente, poi aggiunge piano. - Io lo faccio. -
- Non farlo. - Cristina si precipita a chiuderle la bocca.
Gigì sposta la sua mano e prende la mia. Mi accompagna al divano, dove ci sediamo, mentre le altre ci guardano dall'altro lato della cucina.
- Non ti dirò tutto. - Parla con calma, dolcemente. - Non posso e non voglio. Sto cercando di cancellare il tuo incidente perché appena tu sarai guarita del tutto non voglio mai più pensare a quanto poco c'è mancato per perderti. Cosa ricordi adesso dell'incidente? -
- L'ho sognato diverse volte, ma mai chiaramente. Stamattina ho avuto dei flash di altri particolari mentre ne parlavo con Sabina. Ricordo che guidavo una macchina che non era la mia mentre piangevo. -
- Quando hai avuto l'incidente nessuno di noi sapeva cosa fosse realmente successo. Solo dopo un bel po' ci hanno detto come erano andate le cose. -
- Chi? Cosa vi hanno detto? - Invece di calmarmi, mi sto agitando sempre di più.
- Steve. -
- St-Steve? Cosa centra lui? -
- Si sente in colpa, Bree. E devo ammettere che, quando abbiamo saputo come è andata la cosa, tutti lo abbiamo incolpato. Ma poi ci ha spiegato tutto e... -
- Gigì di cosa stai parlando? -
- Steve ci ha raccontato quello che non sapevamo. L'unica a non sapere nulla è tua madre. Siamo stati tutti daccordo nel non dirle nulla. L'ha preso a cuore fin da quando l'ha conosciuto il primo giorno in ospedale, mentre tu ancora dormivi. -
- Il m-mio incidente è s-stata colpa sua? - Non risponde alla mia domanda. Mi agito sempre di più. - Gigì rispondimi! -
- Questo non posso farlo. -
- No Gigì. Adesso tu devi dirmelo. - Inizio ad alzare il tono della voce, il cuore pulsa sempre più forte.
- Lo scoprirai a breve, molto breve. L'incidente è stato la stessa sera della festa da Nicola. -
- Ed è stata colpa di Steve? -
Gigì si prende la testa tra le mani continuando a non rispondere.
- E' stata colpa sua? Ha finto tutto questo tempo senza dirmi che il mio incidente è colpa sua? - Mi alzo dal divano quasi urlando.
- Bree, calmati. - Debby si avvicina a me. - Gigì non avresti dovuto dirle niente! -
- Smettetela di decidere cosa posso e non posso sapere. E no, non mi calmo proprio per nulla. - Vado dritta in salotto, afferro le chiavi e volo fuori dalla porta.
Cristina mi corre dietro cercando di afferrarmi, ma attraverso e mi infilo in macchina prima che possa raggiungermi. Parto senza nemmeno guardare la strada, cosciente di rischiare un nuovo incidente. Corro, corro da lui, corro dalla verità che voglio conoscere e ho il diritto di sapere. Devo sapere se la persona che mi è stata accanto e ha promesso di proteggermi, non ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di dirmi il suo ruolo nel mio incidente. Come ha potuto? Come ha fatto a guardarmi negli occhi per questo tempo? Come ha fatto a parlare in quel modo di Evan quando stava nascondendo che la colpa di tutto quello che ho passato è stata sua?
Arrivo a casa sua in metà del tempo che avrei dovuto impiegare, posteggio la macchina alla meno peggio nel vialetto e mi fiondo nella depandance. La porta è chiusa, la stanza dentro è vuota. Torno alla porta principale e inizio a bussare insistentemente. Viene ad aprirmi un ragazzino poco più basso di me, un tipico quattordicenne che vuole dimostrare più della sua età. Ha incollato alle dita una console portatile nera e chiede chi sono e cosa cerco. I gemelli non mi hanno mai incontrata in effetti, nemmeno quella sera in cui sono venuta a cena perché erano dagli zii.
- Sono la ragazza di tuo fratello. E' a casa? -
- Non c'è nessuno. Chiamalo se lo cerchi. - Richiude la porta sbattendomela quasi in faccia.
Resto per due secondi a fissarla mentre penso a che cacchio di carattere ed educazione abbia quel moccioso nettamente viziato. Ma non ho il tempo per insegnargliela adesso. Così mi rifiondo in macchina mentre inizio a chiamare Steve in continuazione. Giudo verso non so nemmeno io dove, sempre più agitata, sempre più in collera. Uno strano malore sparso un po' ovunque si impossessa di me. Nausea, torpore, vertigini, emicrania. Si riversa tutto insieme e mi rende impossibile continuare a guidare. Sento che la macchina inizia a deviare dalla traiettoria retta, ad ondeggiare per la carreggiata. Le braccia si fanno sempre più deboli. Riesco a mantenere la lucidità appena in tempo per accostare ad un pelo dal guard rail. Mi accascio sul volante mentre sento il corpo sempre più debole e la testa sempre più dolente. Un fischio nelle orecchie precede il buio. Il fulmine. L'ultimo.

Arrivate al locale troviamo una situazione che è tutta l'opposto di quello che ci aspettavamo. Il locale è pieno da scoppiare, altro che serata tranquilla! Il ragazzo all'entrata ci riconosce e ci permette di scavalcare la fila, fingendo che apparteniamo allo staff del locale. Ci avviamo immediatamente verso il bancone, dove troviamo solo Joshua e le sue acrobazie con lo shaker.
- Stella che ci fai qui? - Al solo vedere Gigì si illumina completamente. Lancia il bicchiere a chi l'aveva ordinato e salta sul bancone come una scimmietta da circo per poi lanciarsi, letteralmente, tra le braccia di Gigì.
- Questa sarebbe la serata tranquilla? - Fa finta di non essersi sciolta come un ghiocciolo, cercando di tenere il muso.
- Stella ti giuro che fino a mezz'ora fa il locale era completamente vuoto. - Mi volto mentre inizia a sbaciucchiarla. Ancora non sono pronta a vedere la lingua della mia migliore amica e del suo ragazzo.
- Altrimenti non avrei mai fatto andare via Steve. -
Queste parole, però, mi fanno trasalire. - Cosa? - Mi intrometto nel loro bacio. - Dove è andato Steve? Perché? -
- E' andato a casa. Non stava molto bene, si vedeva. Era strano da far paura, non l'ho mai visto così. Dato che c'era poca gente e potevo gestirla gli ho detto io stesso di tornarsene a casa. Non ti ha detto niente? -
- Veramente no. -
- Strano. Era al telefono quando è andato via. -
Non con me, questo è certo. Non mi piace proprio questa situazione. Gigì si volta verso di me, seriamente. - C'è qualcosa che non va? -
- Direi di sì. -
- Dovresti andare a casa sua. -
- Stavo pensando esattamente la stessa cosa. -
- Ti accompagno io, se vuoi. -
- A piedi non posso arrivarci, questo è sicuro. -
- Ragazze perché siete così preoccupate? - Joshua, ovviamente, lo difende. E' suo amico e per di più è sempre stato un bastardo con le ragazze fin quando non ha incontrato Gigì. Si sente in diritto e in dovere di coprire qualsiasi cosa stia succedendo, pur non sapendone nulla. - Una giornata storta può capitare a tutti. Non ha mica la polmonite! Era solo un po' sovrappensiero. Capita, no? -
- Il problema non è che stia morendo o meno. E' che non si è fatto sentire per tutta la sera e non le ha neanche detto che tornava a casa da lavoro. - Gigì è incazzata, si vede.
- Non ci avrà pensato. -
- Non è una cosa tanto normale. -
- Ragazzi, calmi! Non voglio essere nelle cause del vostro primo litigio. -
Gigì lo guarda per un attimo ancora incavolata. - Noi due ne riparliamo di questa storia! - Mi afferra il polso. - Andiamo, ti porto a casa di Steve. Andiamo a scoprire che diavolo sta succedendo. -

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Capitolo 65
*** 65 ***


- Perché stai andando verso casa mia Gigì? -
- Perché devi cambiarti. -
- Cosa? Per quale motivo? -
- Ti spiego subito. - Ultima curva e lascia la macchina quasi in mezzo alla strada di fronte casa mia. Scende continuando a parlare. La seguo mentre butto un occhio verso la festa che sembra continuare a pieno ritmo. - Abbiamo la sensazione che c'è qualcosa che non va, giusto? -
- Che centra questo? - Apro la porta.
- Eccome se centra! Se devi mollarlo devi essere stupenda per farglielo rimpiangere. -
Mi fermo sulla porta e la guardo mentre va spedita verso la mia stanza. Si accorge che non la sto seguendo e si volta a guardarmi a sua volta. - Che hai da stare lì impalata? -
- Sto cercando di interpretare quello che hai detto. -
- Non volevo dire che non sei stupenda anche così, ovviamente. -
- Non mi riferivo a quello. Perché dovrei mollarlo? -
Silenzio per pochi attimi, poi gira i tacchi e si infila in camera mia. - La mia era solo un'ipotesi. - Mi urla da dentro. Mi muovo per raggiungerla, mentre aggiunge. - Se non è nulla e risolvete tutto, tanto meglio. Ti sei fatta bella per una serata col tuo uomo. Magari questa è la volta buona che riuscite a combinare. -
Sono sulla porta a guardarla frugare il mio armadio. Continuo a non ritenere necessario cambiarmi, ma so che se si è fissata così nulla potrà farle cambiare idea e insistere servirebbe solo a perdere tempo. Ed io non ho tempo da perdere. Voglio e devo chiarire questa storia che mi puzza di bruciato. Anzi, di marcio.
Gigì tira fuori dall'armadio il mio vestito rosso, l'unico vestito rosso che possiedo, l'unico che è riuscita a farmi acquistare. Un semplice vestito estito, con una piccola manica a coprire la spalla e una scollatura morbida. Sagomato fino in vita, scende poi morbido sulle gambe coprendole fino a poco prima del ginocchio. Mi tolgo in fretta tutto e lo infilo velocemente, mentre Gigì continua a frugare finchè non trova i miei sandaletti. Infilo anche quelli. Mi guardo allo specchio, passando le mani tra i ricci sistemandoli un po'.
- Adesso possiamo andare? - Mi volto verso di lei.
Mi fissa a bocca aperta. - Amore se quello stasera non ti scopa, ti scopo io! -
Sgrano gli occhi. - Che cazzo sei scema? -
- Sei così... così... sexy e bella e naturale. Sei perfetta. -
Riprendo a fissarla seria. - Possiamo andare? -

- Eccoci arrivate. - Gigì si accosta senza spegnere il motore.
Fisso fuori dal finestrino. Guardo quell'immensa casa, ma non ho il coraggio di scendere. Il mio ginocchio trema, trema da impazzire da quando siamo uscite da casa mia. Qualcosa succederà stasera e ho paura che non sia niente di positivo. Gigì poggia le sue mani sulle mie. - Stai bene? -
- Sì. - Risposta troppo immediata, troppo secca e accompagnata da un sorriso troppo finto per essere vera.
- Non dire cazzate. Ti sta pulsando il ginocchio. Lo vedo da qui. -
Ha ragione. Pulsa così forte che le contrazioni si notano ad occhio nudo. - Sono solo un po' nervosa. -
- Bree, dimmi la verità. Di cosa hai paura? -
- Di trovare qualcosa che non voglio vedere. -
- Bree. - Mi prende il viso tra le mani. - Steve ti ama. Lo sappiamo tutti. E non perché te lo dice, no. Per come ti guarda, fin dalla sera in cui ci siamo conosciuti. Per come ti accarezza, quasi avesse paura di romperti. Si vede lontano un miglio che è pazzo di te. Vedrai che è stato tutto un grande equivoco. Ci riderete sopra e tornerete più tranquilli di prima. -
Non so se lo pensa davvero e non voglio neanche pensarci sopra. Probabilmente lo sta dicendo per tranquillizzarmi e a me sta bene così. - Ok. - Sospiro ed apro lo sportello. - Tu vai. -
- No, ti aspetto qui. -
- No, torna da Joshua al locale. -
- E nel remoto caso che non fosse a casa? -
- C'è la macchina nel vialetto. - Gliela indico. - Quindi è sicuramente qui. Qualsiasi cosa dovesse succedere non credo che mi lascerebbe per strada. Mi farò riaccompagnare da lui. O chissà... - Un altro sospiro. - Magari passerò la notte qui. Quindi tu torna al locale e stai col tuo ragazzo. -
Mi guarda abbastanza indecisa. - Facciamo così. Io aspetto dieci minuti. Se non ti vedo uscire vuol dire che tutto sta andando bene e vado via. -
- Patto? - Le porgo la mano destra.
- Patto! - La afferra sorridendo.
- Spero che arriverai ad andare via. -
- Lo spero anch'io. Adesso vai. -
Le bacio la guancia e scendo dalla macchina.
Percorro piano il vialetto che mi conduce sul retro della casa, all'ingresso della depandance. Tanto piano che potrei contare ad uno ad uno tutte le margheritine che spuntano dalle aiuole che lo costeggiano. Ad ogni passo il mio cuore ha già fatto venti battiti e il mio stomaco almeno due capriole. Il ginocchio pulsa, ma non è il solo. Sto tremando come una foglia, lo sento. Getto l'occhio verso la piscina. Al ricordo del nostro bagno completamente vestiti mi nasce spontaneo un sorriso. Ferma davanti alla porta della depandance non riesco a decidermi a bussare. Da dentro non proviene nessun rumore. Cerco di sbirciare oltre i vetri, ma stranamente l'enorme tenda bianca è chiusa e mi impedisce di vedere bene cosa succede dentro. Dai Bree, respira profondamente. Prendi coraggio. Che poi, a cosa ti serve il coraggio? Dentro c'è solo il tuo ragazzo un po' malaticcio. Sarà sicuramente a letto o davanti alla tv con un piumino addosso. Sarà contento di vederti arrivare, gli farai una bella sorpresa. Lo coccolerai un po', lo convinverai a farsi misurare la febbre e a farti preparare un po' di the e poi passerai la notte a curarlo con tanto amore. Cosa c'è d'aver paura? Dai, Bree, non fare la tragedia greca come il tuo solito. Guardo l'orologio. I primi cinque minuti sono già volati via. Chiudo gli occhi e ispiro profondamente riempendomi i polmoni di odore di erba appena annaffiata. Li apro fissando la maniglia della depandance. Alzo il pugno e lo avvicino alla porta. Conto a bassa voce. - Tre, due, uno. - Altro respiro profondo. Serro gli occhi per farmi coraggio e busso. Toc, toc. Due colpi secchi, brevi e chiaramente udibili.
- Chi è? - La voce di Steve mi risponde quasi subito.
- Steve, sono io. - Forse parlo troppo piano per farmi sentire bene, ma la voce non si decide ad uscire decentemente. Una strana ansia mi blocca i suoni in gola.
- Chi è? - Ripete più forte. Non deve avermi sentito. Sento rumori provenire dall'interno ma non riesco a percepire nulla.
- Io. - Ripeto a voce un po' più alta.
- La porta è aperta. -
Afferro la maniglia e la apro. Steve mi da le spalle. Si trova accanto al letto ed indossa solo un paio di jeans. - Ciao amore. -
Parlo piano, ma stavolta mi sente bene. Si volta, sconvolto. Gli occhi sbarrati, il viso pallido, le guance rosso fuoco. - Bree? Che... che cosa ci fai qui? -
- Non hai capito che ero io? - Chiedo confusa, richiudendomi la porta alle spalle.
- Credevo fosse mia madre. -
- Se ti da fastidio vado via immediatamente. - Riafferro la maniglia.
- No, no. Scherzi? - Viene verso di me e mi afferra per il braccio tirandomi gentilmente verso il divano. - Perchè dovrebbe darmi fastidio? - Si siede.
Mi accomodo accanto a lui continuando a scrutarlo. Ha un'aria strana, troppo strana. La sensazione che ci sia qualcosa che non va per il verso giusto aumenta sempre di più. Sembra quasi me quando da piccola rompevo qualcosa e mentivo spudoratamente giurando e spergiurando di non averla mai toccata.
- Come mai sei venuta? -
- Joshua mi ha detto che sei andato via perché stavi male. Volevo farti una sorpresa per tirarti su di morale. Ma non sembra che tu stia tanto male. -
- Sei stata al locale? -
- Sì. Eravamo venute per farvi una sorpresa. Joshua era parecchio incasinato perché il locale si è riempito dopo che sei andato via. -
- Mi dispiace di averlo messo nei casini. Non mi sentito tanto mene. - Si porta la mano alla tempia e inizia a massaggiarsela. - Non sto benissimo nemmeno adesso in effetti. -
- Avrei detto il contrario. -
Mi sorride. Sorriso dolce, potrebbe anche ingannarmi se i suoi occhi non fossero nettamente bugiardi. - Sono felice di vederti perciò sto un po' meglio. -
- Cosa ti senti? - Dico fredda, distante, mentre schivo le sue mani che tentano di prendere le mie.
- Che ti prende, Bree? Sei arrabbiata per qualcosa? -
- Ti ho solo chiesto cosa ti senti. Tutto qui. - Non potrà mai credere che non sono arrabbiata. Lo capirebbe anche uno sconosciuto.
- Ho mal di testa e un po' di vertigini. Devo aver preso un po' troppo sole. - Mi fissa con occhi colpevoli. Sì, c'è qualcosa sotto. E sa che so. O almeno sa che ho capito qualcosa.
Non dico nulla. Nel silenzio sento il rumore della macchina di Gigì che riparte. E' già passato così tanto tempo? Guardo l'orologio. Sì, sono volati anche più di dieci minuti in realtà. Adesso siamo davvero solo io e lui.
- E allora? Mi dici cos'hai? E' successo qualcosa? -
- Sono io che dovrei chiedertelo, lo sai? -
- C-che vuoi dire? -
- Ammetti di essere stato strano oggi o mi sono inventata che stasera non mi hai minimamente calcolato? - Silenzio. - Mi hai fatto una chiamata stranissima per dirmi di non venire al locale, non mi hai risposto quando ti ho scritto che mi mancavi, sono venuta a farti una sorpresa al locale e te ne eri andato senza avvisarmi, stai male e non mi dici nulla, arrivo qui e sei più strano di prima. -
- Amore devi credermi, non è successo nulla. Mi sento a pezzi e non riuscivo nemmeno a pensare. Per questo non ti ho chiamato, non ti ho risposto e non ti ho avvertito. Volevo solo arrivare a casa e mettermi a letto. -
- Eppure non ti ho trovato a letto. -
Mi fissa di nuovo sbarrando per un attimo gli occhi. Deglutisce. Ha capito, certo che ha capito. Sa che il giudizio è stato emesso. Spalle al muro, aspetta solo l'esecuzione. Restiamo in silenzio. L'unico rumore è quello di una macchina che si ferma. Devono essere tornati i tuoi.
- Bree, se sei venuta qui per litigare, sappi che non è serata. Sto male e non è proprio il caso. - Si alza dal divano.
Mi alzo insieme a lei. - Mi stai dicendo un pugno di stronzate e lo sai meglio si me. -
- Ti ho detto che non voglio litigare. - Si avvicina alla porta. - Se vuoi litagare vattene adesso. - La apre senza pensarci su due volte.
Sono sicura che se avesse riflettuto almeno un secondo in più rendendosi conto di cosa ci fosse lì dietro, non avrebbe mai aperto quella stramaledetta porta.

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Capitolo 66
*** 66 ***


Jeans attilati fasciano le sue gambe lunghissime. Una maglietta scollata lascia in bella vista il suo seno. I capelli biondi sono legati in una coda studiatamente scomposta. Eyeliner nero sottoliea i suoi occhi, resi ancora più intensi da chili di mascara nero. Rachele fa la sua entrata trionfale in camera senza accorgersi di me.
- Perché non c'è mai un distributore rifornito quando ti serve? - Entra velocemente e senza guardarsi in giro si siede sul letto di Steve, lanciandogli la sua borsa.
Steve la guarda stralunato. Io, io non so nemmeno come guardarla. Come guardarlo. Come guardarli. - Che ci fai qui? - Le dice, quasi fosse sconvolto di vederla.
- Come, che ci faccio qui? Eravamo rimasti di chiarire questa storia stasera, no? Non sei tornato a casa per questo? -
- Quale storia dovete chiarire? - Incazzata nera, mi avvicino cercando di mantenere la calma.
Rachele non si aspettava di trovarmi qui evidentemente. Scatta in piedi spaventata. - Lei che ci fa qui? -
- No, tesoro. La domanda giusta è che ci fai tu qui. -
- Steve, lei che ci fa qui? - Continua ad avvicinarsi a lui che sembra essere nel panico.
- Già, Steve. Lui deve rispondere. - Mi incollo a lui. Gli prendo il mento stringendolo nella mia mano. Inerme, non oppone la minima resistenza. - Spiegami che cazzo sta succedendo. Ed evita le minchiate. - Lo lascio e mi siedo sul divano accavallando le gambe per poggiarci le mani incrociate sopra. - Ti ascolto. -
- Bree, io... - Fissa il pavimento. Balbetta una serie continua di 'non so come dirtelo' e 'mi dispiace'.
- Cazzo, ok! Lo faccio io. - Rachele gli strappa la borsa dalle mani e vi fruga dentro.
- Che vuoi fare? No. Sta ferma! - Cerca di bloccarle le mani, ma lei riesce comunque a trovare quello che cercava. Me lo lancia per poi lasciar andre la borsa a terra.
Steve corre verso di me cercando di strapparmi di mano la sottile scatola di cartone che non ho ancora guardato bene. Mi dice di lasciar perdere, che è tutto un equivoco, che non è come sembra. Non lo ascolto, non ascolto le sue stupide scuse. Voglio sapere e basta. Mi alzo di scatto portando con le ma scatolina ed osservandola per la prima volta.
Mi manca il battito da dentro il petto. Mi si blocca il respiro. Sento le gambe cedere. Ricado sul divano guardando ancora sbigottita la scatola. - Che significa? - Sussurro. Lascio andare la scatola e mi appendo con tutta la forza ai capelli Steve. Non oppone resistenza, non urla. Lascia che lo strattoni fino a portare il suo viso a pochi centrimetri dal mio. Urlo, urlo con quanta forza riesco a trovare. - Che cazzo significa? - Lascio andare anche lui. Mi prendo il viso tra le mani e piango, libero le lacrime che ho respinto indietro dal momento in cui ho letto quella maledetta scritta.
- Bree, io... -
- 'Bree, io' uno stracazzo! - Continuo a urlare. - Perché Rachele è venuta qui, da te, con un test di gravidanza? Perché? -
- Io, io posso spiegarti tutto. -
Mi alzo dal divano ed inizio a camminare per la stanza, completamente sconvolta, senza riuscire a formulare un pensiero che non fosse 'voglio andaremene di qua'. Steve mi viene dietro cercando di afferrarmi i polsi e continuando a ripetere cose a cui nemmeno lui crede.
- Steve, basta. Dille tutto. - Rachele è in piedi accanto al letto. Non è spaventata. Non è sconvolta. Sembra, al contrario, stranamente tranquilla. Stranamente soddisfatta, oserei dire.
- Sì, Steve. Dimmi tutto. -
Mi fissa. Gli occhi verdi sono completamente contornati di rosso e allagati di lacrime. Non dice una sola parola. Cerca di afferrarmi le mani, ma non glielo lascio fare. Non voglio che mi tocchi, non voglio neanche che pensi di toccarmi.
- Lo dirò io, allora. - Si mette tra di noi. Gli poggia una mano sul petto nudo. Steve si allontana, continuando a fissarmi negli occhi piangendo. Lo seguo finché non si siede accanto alla scrivania sprofondando il viso tra le mani per dare sfogo al suo pianto. - Sono incinta, Bree. - Quasi sorride mentre lo dice.
Un pugno, dritto allo stomaco. - E perché sei qui? - La guardo tentando di frenare le lacrime e di riprendere un po' di contegno.
Abbassa gli occhi al pavimento, poi torna a guardarmi. Sorride, sì. Stavolta sorride e basta, senza tentare di nasconderlo. - Perché il padre di mio figlio è lui. - Me lo spara in pieno volto. Una fucilata a brucia pelo.
Le gambe cedono ancora. Riesco a tenermi in piedi solo appoggiandomi al muro. - No. - E' l'unica cosa che riesco a dire. - Non può essere vero. - E' l'unica cosa che riesco a pensare. - Dimmi che non è vero. - Vado verso la scrivania. Steve continua a fissare il pavimento senza muovere un muscolo. Lo scuoto più che posso. - Dimmi che non è vero, Steve! - Le gambe non mi reggono più, cado in ginocchio davanti a lui, ricominciando a piangere. Non riesco a pensare ad altro, a loro insieme come noi due noi siamo mai stati. - Ti prego, dimmi che sta mentendo. Ti prego. - Continuo a piangere singhiozzando, abbracciando le sue gambe. - Dimmelo, Steve. Dimmelo! -
Finalmente riesco ad alzare lo sguardo. Lui fa altrettanto. Restiamo per qualche secondo a fissarci in silenzio. Occhi negli occhi, cerco di leggere i suoi pensieri. Sta piangendo anche lui, ma nessun cenno di negazione gli compare in volto.
- Quindi è vero. - Mi rialzo in silenzio. Tiro su col naso e mi asciugo il volto. Lotto con me stessa per serrare i cancelli alle lacrime. Devo andarmene di qui e devo farlo con la mia dignità. Lui è la merda, non io. Lui fa schifo, non io. Lui mi ha pugnalato alle spalle, non io. Prendo le chiavi dell'auto di Steve che stanno accanto al computer, mentre lui non guarda. Mi avvio a passo deciso verso l'uscita.
Rachele ancora sorride, guardandomi a braccia incrociate. Mi fermo di fronte a lei. Uno sputo, uno soltanto. Centro le sue scarpe in pieno anche se avrei voluto spararglielo al centro di quella faccia da troia che ostenta con tanta superbia. Arrivata alla porta, guardo Steve facendo spenzolare le sue chiavi nel vuoto.
- Mi ha accompagnato qui Gigì perciò prendo la tua auto per andare via. Te la riporterò domani. - Sbatto la porta alle mie spalle e inizio a correre verso la sua auto.
Sento la porta riaprirsi e passi veloci inseguirmi. - No, Bree. Non puoi guidare in questo modo. Sei sconvolta. Non farlo. -
Non bado a nulla. Continuo a correre, mentre ricomincio a piangere. Mi fiondo nella sua auto, inserendo le sicure appena in tempo. Steve cerca di aprire la portiera, ma non può. Inserisco le chiavi ma non parto. Sto immobile a fissare il volante piangendo, mentre lui continua a battere i pugni sul vetro cercando di convincermi a scendere. Mi volto a guardarlo e solo allora si ferma, coi palmi delle mani attaccati al vetro e il suo solito sguardo pieno di preoccupazione. - Mi fai schifo. - Glielo regalo e mi sento più libera.
Avvio il motore e in retromarcia esco dal viottolo. Mi insegue correndo, ma appena arrivo in strada ci sto poco a distansiarlo. Vedo Teddina dondolare appesa allo specchietto retrovisore. Inchiodo l'auto, slaccio il nastrino e la prendo in mano. Steve mi raggiunge. Abbasso il finestrino a metà.
- Ti sei convinta che è una follia? -
- No. - Lascio cadere Teddina sull'asfalto e do gas di nuovo.
Mentre correndo mi allontano, lo fisso dallo specchietto. E' rimasto immobile, fermo al centro della strada, con Teddina in mano. Lo vedo farsi sempre più piccolo, fino a scomparire. Ed è questo quello che dovrà fare, sparire. Sparire dalla mia vita, dai miei ricordi, dal mio cuore. Facile a dirsì, no? Ma non è per niente facile, no. Come non è facile adesso smettere di piangere. La vista mi si appanna spesso per le lacrime, ma non riesco a smettere di correre. Ho bisogno di togliermelo dalla testa, di cancellare le immagini che si sono formate di lui mentre mi tradisce con Rachele, con quella che 'non significa niente per me'.
Macino chilometri, su chilometri. Accendo la radio e canto a squarciagola tra le lacrime mentre la strada mi porta fuori città, alla scogliera. Un altro posto maledetto, un'altra perdita, un altro tradimento. Se è vero che il destino si diverte a giocare, con me si sta dimostrando un sadico.
Fermo la macchina nello stesso punto in cui ci fermammo con Evan, spengo la radio e scendo. Mi siedo sul cofano e fisso lo sguardo in cielo, a quelle stelle che mi hanno visto crescere. Posso sentirle ridere di me, se mi concentro. Stanno ridendo senz'altro di una povera cogliona che si è lasciata abbindolare da un paio di occhi verdi, che per l'ennesima volta ha creduto ciecamente a qualcuno che le ha piantato un pugnale tra le scapole alla prima occasione. Non starò qui a farmi prendere in giro da degli stupidi ammassi di gas incandescente. Rientro in macchina e riparto. Faccio inversione per tornare a casa. Riaccendo la radio e parte lei, la canzone che ha sempre accompagnato i nostri viaggi in macchina e che ha fatto da sottofondo alle nostre mille confessioni. Sì, il destino è decisamente il più sadico enigmista che esista. Non ho più nemmeno la forza di dedicarmi a un pianto disperato, ma lascio che le lacrime scorrano al loro ritmo sul mio viso annebbiandomi la vista a tratti.
No, non ce la faccio più. Devo cambiare canzone. Non posso ascoltarla ancora, non adesso. Cerco il pulsante da premere e ne provo un paio. Inizio a picchiare la radio che non vuole ascoltarmi. Sento il suono di un clacson suonato insistentemente. Riporto gli occhi sulla strada. Oddio. La luce di due enormi fari mi circonda completamente. Pianto il piede sul freno ma non serve a nulla. Chiudo gli occhi per istinto di protezione. Sento un boato, un botto incredibile, rumore di ferraglia che si accartoccia come fosse la carta che avvolge una caramella. Urla, mie e non solo. Apro gli occhi, ho le mani sporche di sangue. Dolore alle tempie, urlo ancora. Poi, nulla più.

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Capitolo 67
*** 67 ***


Un fischio prolungato nelle orecchie. 
- Libera. - Qualcuno grida in mezzo a una forte confusione. 
Una scossa elettrica. Apro il occhi, inspirando talmente forte da sollevarmi dal lettino. Un uomo vestito di verde, con una mascherina bianca sul volto, mi spinge di nuovo giù ripetendomi di calmarmi. Inizio a guardarmi intorno. - Cos'è successo? Ditemi cos'è successo! -
- Bree, calmati. - La Collins è accanto a me e adesso mi stringe la mano. La confusione inizia a sciogliersi. L'uomo vestito di verde si toglie la mascherina, rassicurando tutti dello scampato pericolo. La Collins mi accarezza i capelli, mentre mi da le spiegazioni che cerco. - Sei stata ritrovata svenuta nella tua auto e ti hanno subito portato qui. Mentre cercavamo di farti rinvenire hai avuto un'asistolia ventricolare. -
- Asisto-cosa? - 
- Il cuore si è fermato per qualche attimo. Fortunatamente alla prima scarica si è subito riattivato. -
- Il mio cuore? -
- Bree non pensarci più. Adesso ti sei ripresa ed è questo che conta. - Continua ad accarezzarmi i capelli. - Ti portiamo in stanza. Ricordi cosa è successo prima di svenire? - Mi poggiano un lenzuolo addosso e poi il lettino inizia a muoversi per uscire dalla sala emergenze del pronto soccorso. La Collins mi segue tenendo ancora salda la mia mano.
- Sì. Stavo guidando e mi sono sentita male, così ho accostato l'auto. -
- Poi sei svenuta? -
- Credo di sì. E penso di sapere anche perché. -
- Dimmi pure. -
- Ho ricordato. Il mio ultimo fulmine. Ho ricordato l'incidente. -
- Ah. - La Collins diventa seria un attimo, poi torna a sorridere. - Meglio, no? Sei perfettamente guarita adesso. Questo significa che dopo l'osservazione di stanotte potrai andare a casa. Sei felice? -
- Una pasqua, proprio. - 
- Non sei felice di tornare a casa? Di essere guarita? -
- Sì. Ma... -
- Ma cosa? -
- Dottoressa, non voglio parlarne. Grazie. - Mi ammmutolisco e lei mi segue, con piacere credo, dato il sospiro che le sfugge. 
Arrivo in camera dove trovo mia madre in lacrime e Gigì, Debby e Cristina che si abbracciano. Saltano in piedi appena vedono il lettino entrare. Si fiondano su di me riempendomi di domande. 
- Fatela respirare, per favore. - La Collins le costringe a lasciarmi un po' di spazio. - Lo svenimento è stato causato dall'ultimo ricordo di Bree. Sospettavamo potesse succedere perché questo significava che la guarigione si sarebbe finalmente completata del tutto. Come vi abbiamo detto spesso, qualsiasi movimento nel cervello, positivo o negativo, comporta una reazione fisica che può essere anche molto dura. Adesso, però, sta bene. La teniamo in osservazione stanotte. Devo parlare col dottor Benussi, ma credo che domani mattina potrà tornare a casa. Definitivamente. - Sorride. 
Mi madre la abbraccia ancora in lacrime ringraziandola di tutto quello che ha fatto per me. - Alberta, non fare così. Ci rivedremo sicuramente fuori dall'ospedale, ricordi? -
- No. - Secco, deciso. Non si direbbe proprio che pochi minuti fa il mio cuore si sia fermato per qualche istante. Tutti si voltano a fissarmi incuriositi. - O meglio, potrete vedervi quanto volete, ma se si riferisce al fatto che io e suo figlio stiamo insieme, devo informarla che non è più così. -
- Cosa? - La dottoressa Collins e mia madre sembrano non capire, mentre le ragazze ammutoliscono fissandosi. 
- Già. - Stringo il lenzuolo tra le mani. 
- Scusate il ritardo. - Claudio si precipita dentro la stanza interrompendo la scena. - Sono venuto appena ho potuto. - Si fionda a baciarmi la fronte. - Ci stai prendendo gusto a farci spaventare, eh? - 
- Spero sia l'ultima volta. - Sorrido. - Niente fiori stavolta? - Metto il broncio finto.
- Sapevo che qualcun altro stava provvedendo. - Sorride indicandomi la porta della stanza.
Un enorme mazzo di strani fiori che non riconosco entra in stanza sorretto da uno Steve imbarazzato e col viso segnato da lacrime. Nemmeno un briciolo di pena si fa sentire in me, no. Solo rabbia, soltanto rancore. Li poggia sul tavolo e si avvicina nel silenzio generale. - Giacinti porpora. - Si siede sul letto. Si sporge verso il mio viso, arrestandosi solo a pochi centimetri. Come quella sera, quando non ha avuto nemmeno il coraggio di dirmi che mi aveva tradito. - Sai cosa significano? -
Scuoto la testa piano, concentrandomi per non far uscire dagli occhi il fuoco che ho dentro. Si avvicina al mio orecchio e sussurra. - Significano: perdonami. - Torna a guardarmi. 
Fisso quegli occhi di nuovo rossi, di nuovo allagati di lacrime. Come quella maledetta sera, esattamente come quella maledettissima sera. Finalmente lo faccio, mi libero, non mi trattengo più. Uno schiaffo, dritto in pieno viso, forte e preciso, riassunto di tutto l'inferno che ho dentro. Tutti ci guardano sbigottiti. - E ora vattene. - Gli ordino con un tono di voce talmente calmo che supisce anche me. 

- Sei proprio sicura che non vuoi parlargli? - Sono a casa ormai da due settimane. Mamma sta preparando la cena, mentre io sono raggomitolata sul divano ad accarezzare Black che finalmente ha avuto il permesso di restare in casa anche quando c'è lei.
- Non ha nulla da dirmi. - 
Quel giorno in ospedale raccontai a tutti cosa avevo ricordato. L'incidente l'ho fatto io, è vero. Io mi sono distratta per cercare di cambiare la canzone. Ma ero sconvolta, in crisi. Con che coraggio poi ha finto per queste settimane di amarmi e proteggermi, dopo avermi tradito. E con chi poi? Con una sciacquetta biondona coscia lunga. Le ragazze hanno cercato di convincermi a parlare con lui, insistendo sul fatto che può spiegarmi tutto e che niente è realmente come sembra. Ma non ho voluto sapere nulla. Dopo tutto cosa avrebbe potuto dire a loro? Cosa avrebbe potuto fare se non aspettare di costruirsi un abili credibile, una scusa ricamata perfettametne per poi uscirla fuori nel momento più appropriato? Fingersi disperato ed in pena per convincerle, per lasciare che gli permettessero di starmi vicino, di continuare il suo schifosissimo piano. Eppure... eppure c'avevo creduto. In lui, intendo. L'ha recitata bene la parte del bravo ragazzo innamorato e geloso. 
- Dovresti dargli una seconda opportunità secondo me. Sembra un così bravo ragazzo. E poi continua a chiamarti in continuazione. -
- Non mi interessa se continua a chiamare. -
- Ma almeno senti che ti vuole dire. -
- Mamma non insistere! Sono due settimane che va avanti sta storia. Ti ho detto che non voglio sapere niente di lui. - Mi alzo avvicinandomi a lei, lasciando Black a rifarsi le unghie sul divano. - Ti rendi conto di cosa ha fatto? -
- Ma magari neanche è vero! -
- Che stai dicendo? Non mi credi? -
- Certo che ti credo. Ma magari è stato un equivoco. - Infila la teglia con le patate in forno e si ferma a guardarmi con uno sguardo tenero e compassionevole.
Scruto i suoi occhi, senza credere alle mie orecchie. - Hai parlato con lui, vero? - 
- No! - Nega immediatamente, troppo in fretta.
- Non dire bugie, mamma. Ti ha chiamato. -
- Una volta sola, giuro. -
- Mamma! - La rimprovero. - Ti avevo chiesto di stare fuori da questa storia! -
- Ma lui è così insistente che non riesco a credere che sia colpevole. -
- Mamma basta! - 
- Ti chiedo solo di parlarci. Una volta. -
- Basta! - Prendo Black in braccio e scappo in camera. 
Mi getto sul letto evitando di schiacciarlo. Black suona il campanellino che gli ho messo al collo. Ancora non si è abituato ad essere un gatto di casa e cerca spesso di toglierselo. Si sposta sul letto e va verso Teddina. Le si avvicina e le si struscia addosso facendo le fusa. Sorrido prendendola in braccio e fissandola. Mi viene in mente il momento in cui l'ho regalata a Steve. Com'ero felice quella sera! La gita in barca, il primo 'ti amo', sentirmi chiamare 'amore' per la prima volta. Ricordo lui. I suoi baci, le sue carezze. Come riusciva a farmi saltare il cuore ogni volta che mi fissava con quei suoi meravigliosi occhioni. Non abbiamo mai fatto l'amore. Un segno del destino oserei dire adesso. Ma desideravo così tanto di averlo mio, di sentirlo, di unirmi a lui completamente per almeno un attimo. Sarebbe stato stupendo, lo so. Ma non sarebbe stato vero, a quanto pare. Non per lui. Mi chiedo solo quando. 
Quando? Quando ha fatto l'amore con Rachele? 
No, non è vero. Non mi chiedo solo quando. Mi chiedo milioni di altre cose. 
Perché? Perché mi ha preso in giro?
Come? Come ha potuto guardarmi in faccia dopo e fingere di essere follemente innamorato di me?
Cosa? Cosa avrei potuto fare per evitare di finire abbandonata per l'ennesima volta? 
Domande vuote, che resteranno senza risposta. 
- BreeBree, posso entrare? - La voce di mio padre proviene da fuori la porta. 
- Papà? -
- Posso entrare? -
Mi alzo dal letto, seguita da Black che ormai è diventato la mia ombra. Apro la porta. - Ciao papà. -
- Ciao principessa. - Sorrido imbarazzata. - Posso chiamarti così? -
Non so perchè, ma mi viene da piangere. - Sì, papà. - 
- E posso anche abbracciarti? -
Non rispondo. Mi limito a gettargli le braccia al collo e a stringerlo forte. Sento le sue braccia stringermi a sua volta. Respiro forte quell'odore che non sentivo da troppo. L'odore di mio padre, della sua protezione, del suo amore. 
- Che ci fai qua? - Gli chiedo sciogliendo il nostro abbraccio e guardando in alto per far retrocedere le lacrime che vorrebbero venir fuori. 
- Volevo vederti. -
- Solo questo? -
- In realtà no. -
- Cos'altro c'è? -
- Io e mamma dobbiamo parlarti. -
- Di cosa si tratta? Non dirmi che volete tornare insieme? - Sembra strano ma non ne sarei affatto felice. La mamma ha trovato serenità da quando si sono lasciati. A parte in queste ultime settimane, ovviamente. 
- No, no. Tranquilla. Io e tua madre ormai in comune abbiamo solo un tipo di amore. Quello per te. - Sorride, ma torna subito serio. - In realtà, riguarda il tuo incidente. -
- Il mio incidente? -
- C'è una cosa che ancora non sai. -

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Capitolo 68
*** 68 ***



In cucina il tavolo è apparecchiato per tre persone. Non lo vedevo così da quando papà è definitivamente andato via. I miei genitori mangiano in silenzio evitando il più possibile di guardarsi. Ferma, con la forchetta in mano e la cotoletta intatta nel piatto, li osservo.
- Papà, non avevi detto che dovevate dirmi qualcosa? -
- Avevamo deciso di parlarne dopo cena, non è così? -
Taglio un pezzo di carne e lo infilo in bocca. Mastico velocemente e mando giù. - Finito. Adesso mi dite cosa succede? -
Si guardano in silenzio. Mamma si alza e porta il suo piatto vuoto al lavandino. Poi esce dalla cucina. - Mamma, dove vai? -
- Lasciala andare Bree. - Mio padre mi afferra la mano. - Non credo che voglia di nuovo sentire questa storia. -
- Quale storia? -
- Quella che ti sto per raccontare. -
- Non hai detto che è qualcosa che riguarda il mio incidente? Che storia dovrebbe esserci? -
- In effetti centra col tuo incidente, ma inizia molto tempo fa. -
- Papà, non capisco. -
- Ascoltami. - Si avvicina strisciando la sedia per terra. - Tu sai che io e mamma abbiamo sempre avuto problemi nel nostro matrimonio. -
- Sì. -
- Quello che non sai è che io ho tradito tua madre. -
- Certo che lo so! Ti ricordo che sei andato via con quella sotto i miei occhi. E ho anche saputo che adesso hai una bambina. -
- Sì, Luce. Ha compiuto due anni da poco. Ti assomiglia tantissimo sai? Ha i tuoi stessi riccioli e la tua stessa dolcezza. - Sorride. - Mi piacerebbe che tu la conoscessi. E' tua sorella, dopo tutto. - Si schiarisce la voce un attimo, tornando serio. - Non parlavo di Iside, comunque. -
- C'è stata qualche altra? -
- Un'altra, sì. Una sola. -
- Mamma avrebbe dovuto mollarti molto tempo fa. -
- Tua madre non avrebbe dovuto nemmeno sposarmi. Non ero abbastanza maturo. L'unico motivo per cui ringrazio che l'abbia fatto è perché altrimenti non avrei mai avuto te. -
- Stai divagando. Continua. -
- Scusa. Moira si chiamava. Era una ragazzina in confronto a me. Io avevo già trent'anni, una moglie e una figlia stupenda appena nata, te. Lei aveva appena la tua età, ventidue anni. Era stata assunta nel mio ufficio come tirocinante e l'avevano affidata a me. Persi la testa, completamente. Lei non ci provò mai con me, non fece mai delle avance, ma io mi ero completamente rincretinito per lei. Era fidanzata e doveva sposarsi. Lavorò nel mio ufficio per tre anni e per tre anni le feci una corte spietata. Non cedette mai. -
- Mi spieghi dove vuoi arrivare? -
- Un giorno, due settimane prima del suo matrimonio, successe qualcosa. Aveva già dato le dimissioni perché non voleva più lavorare dopo essere diventata una donna sposata. Avevamo raggiunto, però, un obiettivo importante. Così, dopo tre anni di corteggiamento e quindici giorni prima del suo matrimonio, accettò di uscire a cena con me. Dissi a tua madre che avevo un'importante riunione d'affari fuori città e che sarei mancato tutto il week end, invece avevo già prenotato una camera nell'hotel in cui avrei portato a cena Moira. Innaugurammo diverse bottiglie di vino rosso per festeggiare il nostro successo come coppia professionale e il suo abbandono della carriera in favore della famiglia. Accettò di salire in camera con me. Non guardarmi in quel modo, Bree! Non mi sono approfittato di una povera ragazza ubriaca. Lei non era affatto ubriaca e sapeva benissimo fin dall'inizio cosa voleva fare. Mi disse che ero il suo regalo di addio al nubilato. -
- Eri sposato e avevi una bambina piccola. -
- Tre anni, avevi tre anni e mezzo. -
- Fai schifo comunque. -
- Bree, ti prego. Non ne vado fiero. Non vado fiero di nulla di ciò che ho fatto. Dirtelo è un modo di ammettere le mie colpe, è un modo per tentare di rimediare. -
- Devi dirmi qualcos'altro? -
- Sì. -
- Allora continua. -
- Mi saltò addosso in ascensore e lì consumammo per la prima volta. Poi andammo in camera e... -
- Puoi saltare la parte in cui mi racconti le tue scopate? Grazie! -
Mi guarda dispiaciuto ancora una volta. - La mattina seguente ci salutammo, ci dicemmo addio. Ma non fu un addio. -
- Vi siete visti altre volte? -
- Non nel senso che intendi tu. Non dissi nulla a tua madre. Gliel'ho detto solo qualche giorno fa quando le ho chiesto di poter venire qui a parlare con te. -
- Non devi chiedere a lei il permesso per parlare con me. -
- Per parlare con te no, ma per entrare qui sì. E' giusto. E' casa sua e se non vuole avermi qui ne ha tutti i sacrosanti diritti. Ed io volevo parlarne qui. E poi, te l'ho detto, per me è una sorta di espiazione. Voglio ricominciare da capo, pulire la mia coscienza. -
- Stai divagando ancora. -
- Scusa. -
- Quando vi siete rivisti? Perché? -
- Circa un mese dopo del suo matrimonio venne a trovarmi in ufficio. Ero molto sconvolto di rivederla. Credetti che volesse chiedermi di diventare amanti. Invece mi disse che era incinta. Le feci le mie congratulazioni, ma non capii perché venisse a dirlo a me. Mi disse che il marito non voleva avere figli al momento perciò, dato che lei non poteva prendere la pillola, aveva continuato ad usare il preservativo anche dopo il matrimonio. L'unica volta in cui aveva fatto sesso senza preservativo era stato con me. -
- Oddio. - Mi sfugge spontaneo. Porto subito entrambe le mani a coprire la bocca. Mi stavo rivedendo in quella ragazza.
- Ero sconvolto. Non capivo cosa voleva da me. Io avevo una famiglia, tua madre, te. Non potevo tornare a casa dicendo che avevo messo incinta un'altra donna. Le chiesi cosa avesse intensione di fare. Mi disse che il marito non lo sapeva ancora e che non poteva rischiare un divorzio a solo un mese dal matrimonio per una sbadataggine avvenuta prima. Così aveva deciso di abortire. -
- Dimmi che glielo hai impedito, ti prego. - Anche questo mi viene spontaneo.
- Ti dirò la verità principessa. Non ci provai nemmeno. Ero felice, anzi. Era la cosa migliore. Se ne andò via dal mio ufficio. Credevo che non l'avrei più rivista, finalmente. Due anni dopo, però, quando tu avevi ormai quasi sei anni, riapparve nel mio ufficio. Aveva con sè un bambino. Un maschietto di quasi due anni. Aveva i suoi stessi occhi color ghiaccio e i capelli neri come la pece, la pelle chiara e le guance rotonde. Indovina un po'? -
- No! -
- Sì. -
- Non aveva abortito? -
- No. Era andata in clinica per farlo, ma non ne aveva avuto il coraggio. Aveva detto a suo marito che un preservativo doveva essersi rotto e non gli disse mai che non era figlio suo. Che era mio figlio. Entrai di nuovo nel panico. Con tua madre eravamo riusciti a trovare un equilibrio e non volevo rovinarlo. Le dissi di andarsene via lei e il bambino. Mi disse che non voleva niente da me, ma avrebbe desiderato che il figlio conoscesse il vero padre, anche se sotto forma di zio. Accettai, a patto che la mia famiglia non ne venisse mai a sapere niente, che nessuno venisse mai a sapere niente. -
- Quindi ho anche un fratello. -
Un'espressione strana, quasi di dolore, appare sul suo viso. - Fammi continuare, Bree. Iniziai a frequentare il bambino, ma soltanto una volta all'anno. Gli dissimo che ero un vecchio amico di famiglia che abitava lontano. Così vedetti crescere mio figlio senza di me. Quando arrivò Iside tre anni fa, lui aveva ormai quindici anni e la sua vita da vivere. Fuggii da tutto, da te e anche da lui. -
- Hai abbandonato completamente anche lui? -
- Sì. E sbagliai, come ho fatto con te. -
- Con lui sbagliasti dal primo momento. -
- Hai ragione, Bree. Solo che con lui non posso più recuparare. - Abbassa lo sguardo.
Sorrido. Gli accarezzo la schiena. - Si può sempre recuperare. -
- No, Bree. Con lui no. - Alza lo sguardo, in lacrime.
Cancello il mio sorriso. - Perché? -
- Perché è morto, Bree. -
- Cosa? - L'ennesima pugnalata in pieno stomaco. Ho appena scoperto di avere un fratello che non conosco. Ho appena scoperto di avere un fratello che non potrò mai conoscere. - Come? Quando? -
Mio padre continua a guardarmi piangendo. - Non credo di farcela. - Sbatte i pugni sul tavolo accasciandovisi singhiozzante. Piango anch'io.
Vedo mamma rientrare in cucina. E' seria, ma nel suo sguardo non c'è rabbia. C'è compassione, c'è dolore, c'è tristezza. - Te l'ha detto? -
- Mi ha detto quasi tutto. -
- Non ce la faccio Alberta, non ce la faccio. - Papà continua a piangere.
Mamma si avvicina a me e mi accarezza le spalle.
- Come è morto mamma? Tu lo sai? Dimmelo, ti prego. -
- Sì, Bree, lo so. Non ti piacerà saperlo, però. -
- Non può fare più male di così. -
- Sì, Bree. Può. -
La fisso negli occhi. No, non ci credo. Non può essere successo quello che penso io. - Mamma vuoi forse dire che... - Non riesco neanche a dirlo.
Mamma si limita ad annuire.
- Dillo, mamma. Dimmelo. - Le lacrime si moltiplicano in un crescendo di dolore.
- La macchina con cui hai fatto l'incidente aveva a bordo tre ragazzi. Due sono rimasti del tutto illesi. Uno è morto sul colpo. -
- L'ho ucciso io? -
- No, Bree. -
- Ho ucciso mio fratello? - Sento qualsiasi vigore abbandonare il mio corpo. Mamma mi abbraccia per sorreggermi. Mi getto su di lei con tutto il mio peso, piangendo, disperandomi. - Ho ucciso mio fratello. - Continuo a urlare.
- No, Bree. -
- Sì, mamma. L'incidente è stata colpa mia. Io ero distratta, ero sconvolta, non avrei dovuto guidare. -
- Bree tu eri distratta ed eri sconvolta, ma non hai causato l'incidente. Il ragazzo che guidava era ubriaco. La strada in cui vi siete scontrati era a senso unico e lui l'ha imboccata in controsenso a piena velocità. -
Non l'ho ucciso io, ma fa male comunque. - Non avessi preso quella strada, forse lui... -
- Forse loro avrebbero fatto un incidente con qualcun altro o da soli. Non puoi sapere come sarebbero andate le cose. -
Piango, continuo a piangere. Mio padre riesce a frenare il pianto e viene a sostituire mia madre. Mi abbraccia forte. - Capisci perché ho bisogno di recuperare con te? -
Lo guardo annuendo. - Voglio recuperare anch'io. -
Mi bacia le lacrime e mi asciuga il viso. Respiro profondamente finché non riesco a smettere di piangere. - Non mi hai detto come si chiamava. -
- Daniel, si chiamava Daniel. -

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Capitolo 69
*** 69 ***


Passi corti e lenti. Cammino osservando intorno a me questa strana sensazione di pace e nostalgia. Una leggera brezza mi accarezza il viso e solletica le fronde degli alberi che costeggiano il viottolo. Guardo in silenzio le lapidi che mi scorrono accanto, quasi tutte appartenenti a persone che sono state strappate alla vita troppo presto. La foto di un bambino sorridente mi costringe a fermarmi per osservarla. Aveva solo quattro anni. Mi si stringere un nodo in gola. Sotto la foto la solita frase incisa 'Dio aveva bisogno di un angelo'. Cazzate. Dio di angeli ne ha a miliardi e non c'entra niente con la sventurata morte di una povera creatura. Come può una frase del genere consolare una madre? Una lacrima mi riga il volto mentre riprendo a camminare continuando ad osservare quelle fredde lastre addobbate di fiori. Qualche lapide è un po' più vecchia e meno curata delle altre. Madri, padri, figli, zii, nonni. Tutte queste persone che ora riposano beatamente sottoterra sono state almeno una di queste cose e avranno lasciato chissà quanti vuoti nel cuore e nella vita di chi è rimasto.
Raggiungo la cappella che mi ha indicato mio padre.
- Non puoi sbagliarti. - Mi ha detto. - L'unica con le pareti di vetro è quella della famiglia della madre di Daniel. -
In effetti è l'unica ad essere così discretamente particolare nella sua semplice eleganza. Resto ad osservarla senza il coraggio di entrare. Si distinguono chiaramente le quattro nicchie laterali, due delle quali sono purtroppo già occupate. Al centro del pavimeno di marmo bianco, una lapide di vetro sovrasta un rettangolo di cemento fresco. Non riesco a leggere il nome scritto a lettere dorate nè a distinguere il viso raffigurato nella foto, ma in cuore mio sono già sicura che quella sia la tomba di Daniel. La piccola cappella non è vuota. Una donna è seduta sul pavimento ed accarezza il vetro della lapide. Un uomo sistema dei fiori rossi, viola e bianchi in un vaso per poi poggiarlo davanti alla lapide ed andare ad abbracciare la donna. Devono essere i genitori di Daniel. O meglio, sua madre e l'uomo che gli ha fatto da padre.
Mi asciugo il viso, respiro profondamente facendomi coraggio ed oltrepasso la soglia. I miei passi fanno sussultare la coppia che si volta a guardarmi in lacrime.
- Salve. - L'unica cosa che riesco a dire.
Mi avvicino alla lapide anch'io e mi accovaccio per vedere meglio. La scritta dorata urla il suo nome: Daniel Ricceri. Fisso nella foto i suoi stupendi occhi color ghiaccio. Li accarezzo chiudendo i miei e ritornando con la mente al giorno in cui ci siamo conosciuti. Un sorriso mi affiora sulle labbra, ma presto inizia a tremare. Non riesco a frenare le lacrime, nè i singhiozzi, nè le mani che tremano. Sento due mani calde afferrare le mie e qualcuno accarezzarmi la testa.
- Eri sua amica? - Mi chiede una voce calda e dolce.
- Una specie. - Mi alzo in piedi e cerco di ricompormi. Come posso piangere in questo modo davanti ai suoi genitori che stanno provando almeno il triplo del mio dolore?
Guardo sua madre. Moira dovrebbe chiamarsi, no? Papà aveva ragione. Ha gli stessi occhi di Daniel. I suoi capelli sono rosso rame. Ha la pelle chiara che non dimostra gli anni che possiede. Suo marito è alto, coi capelli brizzolati e profondi occhi neri. Assomiglierebbe quasi a mio padre se non fosse molto più alto di lui e il suo viso non fosse così magro. Entrambi mi guardano sorridendo, ma con occhi arrossati e pieni di dolore.
- Non lo conoscevo da molto in realtà, però eravamo comunque molto legati. - Non mi viene in mente altro modo per scusare il mio essere qui oggi.
- Daniel è un bravo ragazzo. - Sua madre parla come se in realtà non capisse dove si trova. La sua voce è flebile e distratta. - Non doveva andarci a quella festa. Doveva studiare per gli esami della patente. - La voce le si spezza in gola.
Guardo suo marito abbracciarla e capisco quanto sia sbagliata la mia presenza. - Scusate. Non avrei dovuto venire qui. Non avrei dovuto disturbarvi. Scusatemi ancora. - Mi avvio all'uscita.
- Non hai sbagliato a venire qui. - Le parole del marito di Moira mi bloccano. - Noi siamo contenti quando altri lo vengono a trovare. Ci ricorda quanto di buono ha lasciato nelle persone. Anche in chi lo conosceva da poco come te. - La pacatezza nella sua voce mi stupisce.
Mi avvicino a lui senza pronunciare una parola.
- E' stata una maledettissima disgrazia e non è colpa di nessuno. - Le sue parole mi trafiggono nel profondo e risvegliano tutti i miei sensi di colpa. Colpa per essere la sorellastra di suo figlio senza che lui ne sappia nulla. Colpa di essere stata al volante della macchina contro cui suo figlio è andato a schianatrsi. Colpa di averlo respinto per uno stronzo che ha messo incinta la sua collega coscialunga.
- Come ti chiami? -
Questa domanda mi spiazza. E se il mio nome rivelasse loro chi sono? Se sapessero che ho avuto la mia parte nell'incidente? Se Moira capisse che sono la figlia del vero padre di Daniel? Cerco di scegliere in fretta cosa fare, ma infine rischio. - Brigida, ma tutti mi chiamano... -
- Bree. - Moira completa la frase al mio posto. Si volta a guardarmi. - Giusto? -
- Sì, signora. - Il cuore inizia a battermi più forte. Ho paura. Non so di cosa, ma ho paura.
Moira si alza in piedi spolverandosi i pantaloni con le mani. Prende il braccio di suo marito. - Amore, andresti a prendere la macchina? Avvicinala qui alla cappella. Non me la sento di camminare. -
- Vuoi andare a casa? -
- Sì, non mi sento molto bene. -
Suo marito annuisce. Viene a stringermi la mano sorridendo. - E' stato un piacere conoscerti. Puoi venire qui quando vuoi. Gli amici di Daniel sono sempre i benvenuti. -
- Ancora condoglianze signore. -
Mi lascia la mano, infila gli occhiali scuri e va via.
- Vado anch'io, dato che state andando via. -
- No. - Mi afferra il braccio prima di poter fare un passo. - Resta a farmi compagnia finché Filippo non torna. -
- Certo. - Le sorrido imbarazzata.
- So chi sei, Bree. -
L'imbarazzo si ritrasforma in paura. - Cosa intende? -
- So di chi sei figlia, Bree. Anche a quei tempi tuo padre ti chiamava così. -
Abbasso gli occhi a fissare la punta sporca delle converse nere. - Capisco. -
- Bree. - Mi alza il mento poggiandoci sotto due dita. - Non è un rimprovero. Da quando lo sapevi? -
- Ho conosciuto Daniel quasi un mese fa ormai. Il giorno... il giorno dell'incidente. - La voce mi si interrompe per un attimo. - Ma ho saputo solo oggi quello che gli era successo e che... che era... -
- Tuo fratello. -
- Già. -
- Mi dispiace che tuo padre non te l'abbia mai detto. Avreste potuto diventare ottimi amici. -
Mi sorge spontaneo un sorriso pensando a come Daniel ci abbia provato dal momento in cui ci siamo incontrati la prima volta. - Credo di sì. -
- Come ha detto mio marito, gli amici di Daniel possono venire a trovarlo quando vogliono. Tu, ovviamente, potrai fare altrettanto se vorrai, dato che il vostro legame era molto più stretto. Anche se nessuno dei due lo sapeva. -
Sento di doverglielo dire. So che sbaglio, ma devo farlo. - Signora io devo dirle una cosa che non credo che lei sappia. -
- Cosa devi dirmi? -
- Quella sera, la sera dell'incidente, io.. beh io... -
- Cosa Bree? -
- Io... - Fisso i suoi occhi ghiaccio, così incredibilmente simili agli occhi di Daniel. Non riesco a sostenerne lo sguardo. - ...io guidavo l'altra macchina. -
- Tu? -
- Sì. -
La vedo impallidire ancor più di quanto non sia naturalmente pallida. I suoi occhi si riempiono di nuovo di lacrime. Inizio a balbettare milioni di scuse mentre le mie gambe cedono e mi ritrovo in ginocchio abbracciata alle sue gambe. Lei è rigida, immobile. La sento respirare profondamente e poi venir giù in ginocchio anche lei. Mi afferra il viso. Il suo è ormai totalemente bagnato di lacrime, ma ornato di un bellissimo sorriso. Un triste sorriso.
- Non è colpa tua. - Scandisce le parole quasi fossero la benedizione di un prete. Poi si alza ed esce dalla cappella.
Non trovo ancora la forza di alzarmi, perciò mi volto restando a terra.
- Vai pure via senza preoccuparti di chiudere. Ci penserà il custode. - Mi dice dalla soglia della cappella. Poi esce e sale in macchina.
- Siamo soli adesso, eh? - Mi rivolgo alla lapide. Mi avvicino, abbracciandola. Quasi questo abbraccio potesse ripagarmi dei diciottanni persi non sapendo di avere un fratello che girava in città. Quasi potesse confortarmi.

Non so quanto tempo sia passato. Sono ancora qui, abbracciata alla lapide di mio fratello a parlargli come se potesse sentirmi, come se potesse rispondermi, come se fosse qui. Dalle pareti di vetro la luce del sole è diventata già rossa, sintomo che il tempo di andare è proprio arrivato. Mi alzo da terra. - Allora, che dirti? Ciao fratellino. - Mi bacio la mano e la poggio sul vetro che fino a qualche attimo fa abbracciavo. Quasi stessi baciando lui, fraternamente.
Esco dalla cappella con un senso di pace e di serenità che mi riempie. Mi volto ancora a guardare quella piccola cappella in cui ho passato chissà quanto tempo. Riprendo il sentiero che mi porterà all'uscita dell'enorme e silenzioso cimitero. Assaporo ancora un po' questa strana sensazione che non sa più di tristezza. Respiro il profumo dei gelsomini che adesso si fa sentire più forte. Osservo tutto dipingersi del rosso del tramonto. Oltrepasso il cancello. In mezzo alla piccola folla che insieme a me esce dal cancello distinguo che in strada c'è qualcuno che aspetta. Qualcuno con in mazzo un enorme mazzo di fiori che non è destinato ad ornare una tomba. Qualcuno che non avrebbe dovuto essere qui.
- Ciao Bree. - Mi dice portandomisi davanti a fermare i miei passi.
- Steve che diavolo ci fai qui? -

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Capitolo 70
*** 70 ***


- Sono andato a casa tua. Volevo provare a parlarti dato che non rispondi alle mie chiamate. Tua madre mi ha detto che eri qui. - 
- Non hai pensato che magari non rispondevo alle tue chiamate perché non volevo parlarti? -
- So che è così, ma so anche che non posso evitare di provare ancora. -
- Cosa dovresti provare? -
- A convincerti ad ascoltarmi. -
Il senso di serenità che provavo è scomparso del tutto. - Sai perché sono qui Steve? -
- Tua madre mi ha accennato qualcosa. -
- Sono qui perché nella macchina che ha sbattuto contro la mia è morto un ragazzo ed era Daniel. Te lo ricordi, vero? - Annuisce. - Certo che te lo ricordi, è ovvio. E sai qual è la cosa più buffa? Che lui ci provava con me, ma nessuno dei due sapeva che eravamo fratelli! -
Steve sgrana gli occhi guardandomi stupito.
- Sì, hai sentito bene. Era figlio di mio padre. Ed io l'ho saputo solo oggi. Arrivo al punto dato che non credo che tu l'abbia afferrato. E' morto mio fratello. Credi che mi interessi ascoltarti? - 
Lo oltrepasso senza permettergli di rispondermi e vado spedita verso la macchina. Lo sento seguirmi. Si mantiene a pochi passi da me senza tentare di fermarmi. Mi blocco di colpo, voltandomi. Lo fisso in cagnesco. - Cos'è che non hai ancora ben compreso? Non voglio vederti mai più. Fai schifo! Mi hai mentito per tutto il tempo. Come se non fosse stato sufficiente tradirmi e mettere incinta quella troia. - 
- Bree non è come pensi. -
- Non è come sembra, giusto? Un po' scontata come scusa, non credi? - 
- Ma non è una scusa, Bree! Tu devi credermi, devi lasciarmi spiegare. Ti prego. -
- No. - Riprendo a camminare. Stavolta non mi segue.

Mamma è appallottolata sul divano a godersi le fusa di Black guardando in TV un vecchio film d'azione. Asciugo i piatti appena lavati osservandoli. Da quando papà è andato via ho sempre creduto che, nonostante noi due da sole stessimo bene, mancasse qualcosa a completare la nostra famiglia. Non avrei mai pensato che fosse una palla di pelo nero miagolante.
Suonano alla porta. 
- Vado io. - Dice mamma. Va verso l'entrata. Dopo poco torna. - E' per te. Rachele. - 
- Chi? - Faccio quasi cadere un piatto dallo stupore.
- Non la conosci? -
- Purtroppo sì. - Poggio il piatto ormai asciutto e lo strofinaccio ormai umido. - Che cacchio vorrà ora questa troia da me? -
- Bree! Modera il linguaggio. -
- Sì, mamma, sì. - Sapesse chi è alla porta, non me lo avrebbe detto. 
Rachele è sulla porta di casa ed espone la sua pancia, un po' troppo tonda per essere di un mese soltanto, in un vestitino premaman.
- Ciao. - Mi parla quasi timidamente, senza la sua solita spavalderia.
- Che cazzo ci fai qua? -
- Sono venuta a scusarmi con te. -
- Sai cosa mi ci pulisco con le tue scuse? Anzi no, non sono buone neanche per quello! -
- Sei incazzata ed è giustissimo. Ma non prendertela con Steve. Lui, lui non centra niente. -
- E quello sarebbe niente? - Indico la sua pancia respingendo indietro il magone che mi fa venire pensare che non molti mesi fa anche io avevo un bimbo dentro di me. 
- Non è di Steve. -
- Che significa? -
- Bree sono stata una stronza. Volevo farlo stare male, volevo fargliela pagare. E l'unica cosa che potevo togliergli, l'unica perdita che lo avrebbe fatto davvero soffrire, eri tu. Ma ti giuro che non pensavo di scatenare una cosa del genere. -
- Mi spieghi che cazzo stai dicendo? -
- Steve non ti ha mai tradito. Sono stata io a farglielo credere. - La ascolto mentre la confusione nella mia testa cresce in maniera esponenziale. - Una sera di circa due mesi fa il locale era totalmente vuoto. Il capo ha deciso di chiudere in anticipo e tutto lo staff è rimasto a passare la serata lì. Abbiamo bevuto come i dannati, eravamo tutti completamente persi. Steve non ricorda nulla di ciò che è successo, anche se in realtà avrebbe poco da ricordare. Si è addormentato sul bancone e Joshua l'ha portato a casa sua. Sono andata con lui per dargli una mano. E fortuna che c'ero! Durante il tragitto in macchina Steve ha vomitato quattro volte. -
- Arriva al punto! -
- Io ero già incinta. L'ho scoperto la settimana dopo, ma non ho detto nulla al lavoro perché mi avrebbero licenziato immediatamente. Nessuno vuole una ragazza incinta a servire alcool in una discoteca. Guardavo Steve ed ero rosa internamente. La gelosia e la rabbia mi distruggevano. Non sopportavo l'idea che mi avesse sempre rifiutato. Non sopportavo l'idea di vederlo schifarmi ed essere felice. Così quel giorno lo raggiunsi a mare per dirgli che dovevo parlargli di una cosa molto seria e molto importante che era successa la sera in cui ci eravamo ubriacati. La sera lo avevo chiamato per parlargli. Gli dissi che quella sera noi avevamo fatto sesso e che ero rimasta incinta. Era sconvolto. Molto più di te adesso. Mi disse di andare a casa sua e portare un test di gravidanza perché finché non l'avesse visto coi suoi occhi non mi avrebbe creduto. E quando sono arrivata tu eri lì e tutta la mia rabbia e la mia gelosia si sono scatenate. Ho pensato che era un'occasione d'oro da sfruttare, per affondarlo definitivamente e totalmente. Giuro che se avessi saputo tutto quello che ha scatenato, non lo avrei mai fatto. -
La guardo stupita. - Stai scherzando, vero? -
- No. Purtroppo no. -
- Hai inventato tutto? -
Annuisce, senza il coraggio di guardarmi in faccia. 
- Sai che sei una troia pezza di merda, vero? Che l'essere più ripugnante e schifoso sulla faccia della terra si offenderebbe se lo paragonassi a te, vero? -
Continua ad annuire. Stavolta mi guarda. Sta piangendo. Che siano lacrime vere, lacrime da attrice, lacrime di circostanza o lacrime da ormoni della gravidanza non mi interessa. - Rachele, ringrazia la vita che porti in grembo perché se sto riuscendo a non metterti le mani addosso è solo per lui. Ma adesso devi sparire. -
- Bree, io... -
- Sparisci! - Urlo con quanto fianto ho in corpo. Convoglio in quest'urlo tutta la rabbia, tutta la tristezza, tutto quello che ho dentro. Sbatto la porta prendendola quasi in piena faccia. 
Tutto quello che è successo, l'incidente, la perdita della memoria, la morte di Daniel, la separazione da Steve, tutto è stato generato da rabbia e gelosia, da una stupida oca che voleva vendicarsi di un ragazzo che non ha voluto cederle. L'idiozia di una persona ha causato una serie di reazioni a catena ed è andata ad intaccare la vita di persone che nemmeno la conoscevano. Sa molto di "The butterfly effect", un battito d'ali di farfalla che scatena un uragano dall'altra parte del mondo. Solo che io non ho il potere di tornare indietro e comportarmi in modo diverso. Non scapperei quella sera, non causerei l'incidente, non avrei perso la memoria, starei ancora con Steve e Daniel sarebbe ancora vivo. Non avrei fatto pace con mio padre, è vero. E chissà quante altre cose sarebbero andate diversamente. Inutile congetturare adesso. Il passato non può essere modificato. E' storia scritta che rimarrà immutabile. Ma il futuro no. Quello è ancora tutto da decidere. E stavolta lo deciderò io. Ehi tu, destino! Hai smesso di prenderti gioco di me. Da oggi comando io.
- Mamma, io esco. - Le urlo.
- Dove vai? - Non le rispondo. Ho già preso le chiavi e corro verso la macchina. Destinazione? Il mio futuro.

Viene ad aprirmi di nuovo il fratello di Steve, sempre con la console tra le mani. 
- Steve è a casa? -
- Cazzo, ma usateli i cellulari! - 
Sta per richiudermi la porta in faccia, ma stavolta non glielo permetto. La blocco con il piede e faccio pressione con la spalla per forzarla ad aprirsi di nuovo. - Senti, nano, ora mi dici dove è Steve oppure una bella dose di botte non te la toglie nessuno. Intesi? -
Mi guarda stupito. Alle sue spalle arriva una ragazzina. Il volto incredibilmente simile a quello della madre, così come il suo gemello, una lunga coda bionda e gli occhi verdi di Steve. - Bebo, chi è alla porta? -
- Una ragazza che cerca Steve, Beba. -
Odio i nomignoli tra gemelli! - Mi dite se è a casa? - Sto inizando a innervosirmi. 
- E' nella sua stanza. - Mi dice la ragazzina prima di scomparire nuovamente.
Non ringrazio, non saluto. Gli volto le spalle e mi dirigo verso la depandance. Busso piano, col cuore che arriva in gola. - Chi è? -
- Sono io. - Parlo così piano che sarebbe quasi impossibile sentirmi attraverso la porta. 
Lo vedo affacciarsi da dietro la tenda bianca. Vedendomi, resta impietrito. Viene ad aprirmi che è ancora palesemente sorpreso. - Cosa ci fai qui? -
- Non mi fai entrare? - Chiedo sorridendo imbarazzata. Mi sento in colpa per averlo trattato così male senza dargli la possibilità di darmi la sua versione. So che non gli avrei creduto comunque probabilmente, ma avrei almeno dovuto ascoltarlo. 
- Sì, certo. Scusami. - 
Entro nella sua stanza, osservandola quasi non la vedessi da anni. Le valigie di Alex non ci sono più. - Alex si è trasferito? -
- Sì, da qualche giorno. Ha trovato un monolocale con un affitto abbordabile ed è andato via. -
- Meno male. -
- Già. - 
Il silenzio imbarazzato è riempito solo dai nostri sguardi che si intrecciano. - Rachele è venuta a casa mia. - La butto lì così, senza preavviso. 
- Cosa? Che ti ha detto? -
- Tutto. Mi ha detto tutto. - Mi avvicino a lui che ha già gli occhi lucidi.
- E tu? -
- Io cosa? - Sorrido. Fermo le mie mani che vorrebbero gettarsi ad accarezzarlo. 
- Come hai reagito? - Non sa che dire. Glielo leggo in faccia.
- Secondo te? - Ridacchio. Ho il cuore che sta per impazzire. Una lacrima mi riga il viso mentre lo guardo rivedendo in lui ciò che è sempre stato. Non dice una parola, non riesce a smettere di torturarsi le dita. Ed io non riesco più a stare lontana da lui. Gli getto le braccia al collo, sorprendendolo ancora. Premo le labbra contro le sue. Pochi attimi, il tempo di realizzare che sta accadendo davvero. Poi ricambia il mio abbraccio e si getta anche lui in questo bacio, bacio di pace, bacio di amore. 

Abbiamo fatto l'amore. Sul serio stavolta. Ed è stato come volare, ma sul serio lo dico. Non è una frase fatta come tante altre. Era il momento perfetto. E' stato come la sottoscrizione di un patto, un patto che ci faceva tornare insieme, che consolidava tutto quello che abbiamo passato, che confermava il nostro appartenersi a vicenda. Abbracciati nel suo letto, avvolti da lenzuola fresche, sudati d'amore. Ci guardiamo negli occhi non riuscendo a smettere di sorridere.
- Sai che è proprio bello chiamarti Bree? -
- Perché? -
- Perché mi ricorda il suono di breath, respiro. E tu sei il mio respiro, il battito del mio cuore, la forza che mi fa andare avanti. -
- Mi fai arrossire. - 
- Sei ancora più bella così. -
Lo bacio ancora, assaporando la sicurezza che da oggi in poi ho in mano non solo il mio destino ma anche la mia felicità.
- Ti amo, Steve. -
- Ti amo, Bree. -
 

Fine

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