we found love (in a hopeless place).

di 31luglio
(/viewuser.php?uid=123101)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** it's like you're screaming and no one can hear. ***
Capitolo 2: *** yellow diamonds in the light. ***
Capitolo 3: *** and we're standing side by side. ***



Capitolo 1
*** it's like you're screaming and no one can hear. ***


we found love (in a hopeless place).

              it's like you're screaming and no one can hear.
 
«Destiny!», mi chiamò mia madre, non appena fui entrata in casa. La sua voce veniva dal piano di sopra, così come quella di Hope che stava giocando con il cane, o con il gatto, o con qualcuno dei nostri novecento animali. Mia madre aveva una vera e propria fissa: pesci, criceti, conigli, cani, gatti, porcellini d’india, tartarughe, avevamo di tutto in casa. Sembrava uno zoo. Per esempio, appena entravi dalla porta d’ingresso, c’era un acquario marino a parete coloratissimo con dentro circa sette pesci diversi: Tina, Neon, Cosmo, Wanda, Patrick, Flipper, Nemo, Dori e Mea. Sì, tutti i nostri pesci avevano dei nomi. Ogni volta che mia madre portava a casa un nuovo animale, tutta la famiglia – ossia io, lei ed Hope – si riuniva per decidere il nome. Ogni tanto qualche povero animale si ritrovava ad avere un nome ridicolo da cartone animato, ma questo era il prezzo da pagare per tenere una bambina di tre anni in casa.
Guardai in direzione dell’acquario; perché era sparito? Perché non c’era nessun animale in giro per casa, o nessuna gabbia? Non c’era niente. Era tutto vuoto. Salii le scale, esaminando ogni singola stanza, per poi trovare Hope e mia madre nella camera da letto di quest’ultima. «Mamma, dov’è tutto? Mobili, animali… tutto?», le chiesi, agitata. Niente porcellino d’india, né gatto, né tantomeno i conigli e tutto il resto. C’era solo Swami, il nostro Bulldog Inglese di quattro mesi, che ciondolava attorno ad Hope.
Mia madre si alzò da terra, guardandomi, seria. «Tesoro… devo dirti una cosa», iniziò, sospirando. Riprese dopo qualche secondo:«Dobbiamo trasferirci. Ho provato a dirtelo varie volte, ma non vieni a casa da quanto, cinque giorni? Non mi hai mai risposto al telefono».
«Non potevi dirmelo prima di cinque giorni fa?».
«Hai ragione, tesoro, ma ho preferito fare tutto tranquillamente. Ho deciso da poco, comunque, sarà un mese e mezzo. Ho comprato una casa, ho cercato lavoro e tutto e… ecco, dobbiamo partire domani».
«Cosa?», chiesi, incredula. Non sapevo se essere felice o arrabbiata; insomma, sognavo da quando avevo quattordici anni di andarmene, da quando mi era successo quello. Non avevo voglia di ricordare, però, perché faceva troppo male. Sapevo solo che volevo andarmene, perché quelloaveva rovinato la mia vita da spensierata quattordicenne, brava a scuola, che non aveva mai bevuto, né fumato, né tantomeno aveva mai toccato una droga.
Ora, tre anni dopo, ero totalmente cambiata: bevevo quasi ogni sera fino ad ubriacarmi e droga e fumo erano ormai i miei migliori amici. Non ne andavo fiera, sognavo di poter tornare quella di prima, ma il posto – e la compagnia che frequentavo – non me lo permettevano. Mia madre aveva provato decine di volte a farmi allontanare dai miei ‘amici’, mettendomi in punizione, ma io ero sempre scappata. Era come se non potessi farne a meno.
«Destiny?», mi chiamò mia madre, «mi stai ascoltando?».
«Mi ero persa nei miei pensieri».
«Ho notato», ribatté, divertita. «Dicevo, in questi giorni ho fatto portare tutti gli animali nella nuova casa; quando arriveremo, andremo a comprare un’altra cagnolina, va bene?», chiese. Hope batté le manine, felice. Lei amava gli animali, esattamente come mia madre, esattamente come me. «L’aereo partirà alle 9 di domattina. Preferirei che tu non andassi a salutare la tua compagnia, sai come la penso».
La guardai incredula, senza nemmeno rendermene conto. Era stato un riflesso incondizionato, come se volessi andare ad avvisarli. In verità, me ne fregava veramente poco di tutti loro, da Savannah, che avrebbe dovuto essere la mia migliore amica, ma non lo era mai stata, a Jake, che in teoria era il mio ragazzo. Non l’avevo mai sentito tale: era il responsabile di quello e lo odiavo. L’unico peccato era che mi teneva come prigioniera. Non potevo fare niente, se a lui non andava bene. Ricorreva spesso a minacce, alzava le mani, sia con me che con tutti gli altri, era stato denunciato varie volte per furti. A mia madre non era mai piaciuto e sapevo che, se fosse stato qui, non sarebbe piaciuto nemmeno a mio padre. Ma lui non era più con noi da poco più di tre anni. Era stato investito da Jake, e da lì era iniziato tutto. Fu quella sera che successe quello.
«Non preoccuparti, mamma, non ho voglia di salutarli; piuttosto, come faccio ad avvisarli? Insomma, non che mi interessi, sia chiaro, ma potrebbero rintracciarmi… e non voglio che lo facciano».
«Ascoltami, D», mi disse lei, venendomi vicino. «Quando arriveremo ad Atlanta, dove ci trasferiremo, compreremo un nuovo telefono, scheda telefonica inclusa». 
«Davvero? Grazie, mamma!», urlai, abbracciandola. Sapevo che nuovo telefono stava a significare ‘iPhone’, perché sapeva che era il mio sogno da sempre. Non perché volevo farmi figa, ma perché mi piaceva. Lo sognavo da quando ero una piccola tredicenne, e mai me lo avevano regalato, perché ero troppo piccola. Ora, che di anni ne avevo diciassette, quel meraviglioso telefono stava per essere mio.
Stavamo bene con i soldi, mio padre faceva il chirurgo, perciò in eredità ci aveva lasciato un bel po’ di soldi; stessa cosa mio nonno, che aveva sempre fatto l’avvocato, ma di quelli che difendono solo le persone ‘giuste’; non aveva mai difeso assassini, ladri, imbroglioni, e mai l’avrebbe fatto. Comunque, eravamo una famiglia abbastanza ricca, ma comunque molto umile. Anche senza il bisogno di lavorare, mia madre ogni mattina alle otto e mezzo era in studio; anche lei, seguendo le orme di suo padre, aveva studiato per fare l’avvocato, ed era riuscita a diventarlo. Era sempre ricercatissima in città, sapeva fare il suo lavoro e sapeva ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Per questo aveva sempre cercato di farmi smettere di frequentare la mia compagnia: perché era sbagliato essere così, come Jake, come Savannah, come tutti loro.
«Pappa!», gridò Hope, battendo le manine. Quella bambina aveva sempre fame, mangiava a qualsiasi ora, eppure era sempre stata magra. Non era malata perché, quando l’avevamo portata dalla pediatra, qualche settimana prima, questa aveva confermato che era sana come un pesce. Aveva detto solamente che era magra perché aveva un buon metabolismo.
La presi in braccio e scesi in cucina. Aprii il frigo e la credenza, ma entrambi erano vuoti. Effettivamente, ricordai che l’ultima volta che ero tornata a casa e avevo cercato da mangiare mi ero lamentata che non c’era quasi niente da mangiare; evidentemente avevano mangiato anche le poche cose che c’erano, per non buttarle nella spazzatura; in casa mia non si buttava niente.
«Prendiamo la pizza, eh?». Mia madre era la salvezza. Mentre la piccolina batteva le mani – le piaceva particolarmente farlo – lei prese in mano il telefono e compose il numero della pizzeria. Ordinò tre pizze, una ai quattro formaggi per lei, una piccola con i wurstel per Hope e una con le patatine per me, poi restò a parlare per qualche minuto con il pizzaiolo; era simpatico.
Dopo aver riattaccato, ci informò che la cena sarebbe arrivata venti minuti dopo, così io ed Hope andammo in salotto a giocare un pochino. Quella bambina era tutta la mia vita. Sì, lei era l’errore, ma era l’unica cosa che mi rendeva felice, oltre a mia madre. Il suo sorriso era stupendo, ti metteva allegria; i suoi occhi erano azzurrissimi e i capelli rossi, come i miei. Era la mia fotocopia. Non aveva preso niente dal padre, se non le labbra, grazie a Dio. Era la bambina più bella del mondo. Era sempre stata allegra, vivace ed intelligente. Aveva solo un difetto, però: impazziva per Justin Bieber. Non sapevo chi era quella maledetta persona che gliel’aveva fatto ascoltare, però lo amava. Il 99% delle volte mi chiedeva di mettere una sua canzone e le conosceva tutte a memoria. Qualche tempo prima mi ero accorta di conoscerle tutte a memoria anche io, e mi ero accorta che mi piacevano parecchio, ma non l’avrei mai ammesso.
Per me era un ragazzo che si dava tante arie perché era famoso, niente di più. Non l’avevo mai sopportato e mai l’avrei fatto, ne ero sicura; col tempo, qualcosa cambiò e lui divenne una delle mie tre ragioni di vita. Questo, però, allora non lo sapevo ancora.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** yellow diamonds in the light. ***


         yellow diamonds in the light.
 
Arrivammo ad Atlanta il giorno dopo, verso l’ora di pranzo. Non appena fummo scese dall’aereo presi Hope in braccio, perché avevo paura si perdesse. Probabilmente era un motivo stupido, ma io preferivo stare sicura. Lei continuò ad indicare ogni singola cosa: gelati, pupazzi, braccialetti, bambole, succhi di frutta. Le comprai un lecca-lecca a forma di cuore, tutto colorato.
Mentre il taxi ci portava a casa, passammo di fianco a un parco. Era pieno di giochi: scivoli, altalene, giostre, di tutto e di più. Come mi aspettavo, Hope lo indicò ed io le promisi che ci saremmo andate. Volevo renderla felice a tutti i costi, perché lei rendeva felice me, anche se non lo sapeva.
«Quando ci andiamo?», mi chiese, una volta arrivate a casa, due minuti dopo. Era talmente impaziente, mi faceva sorridere. Per me, lei era un totale mistero. Ogni giorno scoprivo qualcosa di nuovo.
Guardai la casa, prima di risponderle: era enorme. Tre piani, una piscina, un’altalena, una decina di alberi. La amavo già. «Non so Hope, ci andremo più tardi…».
«No! Adesso! Ti prego!».
«Tesoro, mi hai appiccicato tutti i capelli con quel lecca-lecca, vado a lavarmi due minuti e andiamo, okay?».
La bambina annuì e io mi precipitai in bagno, infilandomi sotto la doccia, per fare presto. Non volevo fare aspettare Hope, avevo paura di deluderla. E non potevo permettermelo, perché lei era la mia vita.
Mi lavai in dieci minuti e mi asciugai i capelli in meno di un quarto d’ora, lasciandoli umidi. Indossai un paio di jeans neri con sfumature più chiare, una canottiera rossa con scritto ‘keep calm and party on’ in bianco, delle Converse rosse, un paio di occhiali da nerd neri e una collana con il ciondolo a forma di baffi. La amavo.
Scesi in sala, chiedendomi se avrei dovuto portare o meno il passeggino di Hope. Ma no, dai, l’avrei presa in braccio, se necessario. La bambina era in cucina con mia madre e aveva finito di fare merenda con un budino al cioccolato. Si era sporcata tutta la faccia. La portai in bagno e la pulii, rimproverandola leggermente. Non l’avevo mai sgridata veramente, non me l’ero mai sentita. Comunque, nemmeno mia madre l’aveva mai fatto. Sia io che lei pensavamo che fosse meglio educare insegnando, e non urlando.
Prima di uscire di casa, per mia grandissima fortuna, Hope afferrò nuovamente il lecca-lecca. Dopodiché, mi trotterellò di fianco, finché non arrivammo al parco. Lì, cominciò a correre di qua e di là, andando sullo scivolo, poi dentro la vasca con la sabbia, a giocare con altri bambini, poi su un cavallino che ciondolava avanti e indietro. Ad un certo punto, la vidi parlare con una bambina bionda, che avrà avuto all’incirca la sua età. Le due mi vennero incontro, mano nella mano.
«Mamma!», mi chiamò Hope. «Questa è Jazzy», mi spiegò. «È qui con suo fratello per le vacanze».
Io sorrisi all’altra bambina. «Che bel nome che hai!». Lei sorrise timidamente, poi venne trascinata via da Hope. Cominciarono a giocare a qualcosa di strano, poi presero una palla, poi andarono sullo scivolo. Infine, decisi di non badare più a quello che facevano loro.
«Hey». Una voce maschile mi stava chiamando. Non alzai il viso. «la bambina che sta giocando con mia sorella è con te?». Annuii, presupponendo che fosse il fratello di Jazzy. «Sono carine, non è vero?». Strinsi gli occhi per vederle, poi le adocchiai nei pressi di un altro scivolo. Annuii nuovamente, abbozzando un sorriso. «Come ti chiami?», mi chiese infine.
«Destiny», risposi, sussurrando. «Tu?».
«Justin».
«Sì, Bieber».
«Esatto».
Alzai lo sguardo d’un colpo e lo guardai. Justin Bieber. Lo stesso Justin Bieber che non sopportavo, e che Hope amava. Lo stesso Justin Bieber che ero stata costretta ad ascoltare in aereo. Lo stesso Justin Bieber di cui sapevo tutte le canzoni a memoria. Incrociai il suo sguardo per un secondo, poi lo squadrai dalla testa ai piedi: portava una maglia nera aderente, che faceva vedere i suoi muscoli; un paio di jeans neri gli arrivavano sotto il sedere, scoprendo i boxer viola; non potei fare a meno di guardarli per qualche secondo. Okay, dovevo calmarmi. Era Justin Bieber, era montato, lo ricordavo ancora?
«Hai intenzione di guardarmi i boxer ancora per molto? Tra poco mi eccito», mi disse, con un sorriso malizioso sul viso.
Lo fulminai con gli occhi. «Ma vaffanculo, montato».
«Scherzavo, Destiny, dai».
«Vaffanculo Bieber, se non fosse per Hope ti odierei a morte».
La mia frase sembrò smontarlo, infatti il suo bellissimo sorriso scomparve. Cazzo. «Oh», disse solamente. Perché respingevo le persone? Perché ero così cogliona? Merda, lui era stato gentile da subito con me. Tirai fuori dalla tasca l’ultimo pacchetto di sigarette che mi era rimasto e lo aprii: ce n’era solo una. La presi, la misi tra le labbra e la accesi.
«Tu… tu fumi?», mi chiese, con voce tremante.
Feci un tiro. «A te che sembra?».
Lui me la prese, la buttò in terra e la spense. «Ecco, da oggi non fumi più. Hai altri pacchetti?».
Lo guardai incredula. «No, ma… ma che cazzo fai? E poi, se io voglio fumare posso comprarmele, le sigarette, sai?».
«No, Destiny. Fumare fa…»
Lo interruppi. «male», continuai, «lo so. Ma è stato più forte di me fino ad ora, okay? Tu non sai nulla della mia vita».
«E perché non me la racconti?».
«Perché tu sei uno sconosciuto, Justin. Sì, sei famoso, e sì, conosco tutte le tue canzoni a memoria, alcune le amo, quando sono sola immagino di raccontare a te, oltre che a mio padre, quello che mi succede, ma io non ti conosco realmente!».
«Ora mi conosci, però».
Annuii.
«Senti, ti leggo negli occhi che non hai nessuno, oltre ad Hope, e che hai bisogno di qualcuno che ti stia vicino. Ebbene, tu mi affascini, sei misteriosa, io adoro il mistero, quindi… vabbè, penso che diventeremo amici, se vuoi. Che dici, ti va?».
Annuii nuovamente.
«E poi Jazzy ed Hope sembrano già unite, vedrai che vorranno presto andare a casa l’una dell’altra».
«Oppure sembrano unite. Non sappiamo nemmeno se ci rivedremo ancora».
«Io sono sicuro di sì, Destiny», sorrise.
Mi venne spontaneo sorridere di rimando.
«E poi…»
«La smetti di parlare?».
«Okay».
Restammo qualche secondo in silenzio, poi ricominciò a parlare: «Destiny?».
Alzai gli occhi al cielo, con l’umore a metà tra l’esasperato e il divertito. «Sì?».
I nostri occhi si incrociarono. I suoi sembravano dei diamanti, tanto splendenti erano. Trattenni il respiro. «Hai degli occhi bellissimi».
Gli sorrisi. Mai quanto i tuoi, credimi.
Merda. L’avevo veramente pensato? No, no, no. Era il primo sintomo, merda.
































buongiorno!
ho finito di scrivere il capitolo ieri sera,
però non mi andava di postarlo.
stamattina l'ho riguardato e ci ho aggiunto un pezzo uu
beh, vabbè, non vi interessa :o
vorrei ringraziare acciohermione_, xbelouder e RebeccaOlga
per le recensioni, e grazie anche a chi già l'ha messa
tra le seguite o le preferite :')
sono fiera di me jkhdkshfa
vi amo tantotanto,
andreah.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** and we're standing side by side. ***


        and we’re standing side by side.
 
Me l’aveva detto centinaia di volte mia madre, sia da piccola, sia adesso che ero cresciuta. Continuava a dirlo anche Hope, e lei continuava ad ascoltarla interessata. Era sempre la stessa storia, ma sia io che la bambina eravamo felici di sentirla ancora e ancora. Ci raccontava come si erano conosciuti lei e mio padre, come si erano innamorati ed infine diceva che capisci di esserti innamorata quando ti rendi conto che ami gli occhi di una persona.
Eravamo tornate a casa dal parco da qualche ora e avevamo già cenato. Hope era di sotto con mia madre, stavano giocando a inseguirsi, insieme a cani e gatti. In quanto a me, ero in camera che pensavo. In realtà, mi stavo odiando. Non mi ero mai innamorata di nessuno, da quando era successo quello. Mi ero ripromessa di non farlo, perché amore significava dipendenza, e io non volevo dipendere da nessuno. Non dipendevo dalle sigarette, dalla droga, dall’alcol, figuriamoci da una persona. E allora perché continuavo a pensare a quel dannatissimo biondino? Io non lo sopportavo, cazzo, lui non era niente per me, era solo un montato. Però era stato così gentile con me, quel pomeriggio…
«Destiny?», mi chiamò una voce. La sua voce. Ora sognavo anche la sua voce? Ma io stavo male, seriamente. «Destiny?», di nuovo.
Mi girai. Okay, non me l’ero sognata, stavo bene. Justin stava in piedi sulla soglia della porta di camera mia, sorridendo. «Cosa ci fai qua?», gli chiesi, confusa.
«Mia sorella ha insistito tanto per venire da Hope», rispose, sempre sorridendo. «E, beh… io non vedevo l’ora di rivedere te».
Il mio cuore fece una capriola. Bieber, Justin Bieber, un diciassettenne famosissimo, l’idolo di mia figlia, che non vedeva l’ora di rivedermi? Rivedere… me? Eravamo sicuri?
Gli sorrisi. «Non sono niente di eccezionale…», accennai. Voltai lo sguardo verso la finestra, per non incrociare i suoi occhi. Il mio respiro si faceva sempre più affannato. Avrei voluto mandare via quel ragazzo, mi faceva sentire troppo strana, ma più il mio cervello voleva allontanarlo, più il mio cuore voleva averlo vicino.
«Scherzi, vero?».
Mi voltai istintivamente verso di lui. I suoi occhi color miele incrociarono i miei, azzurri. Non potevo essermi innamorata di lui, non potevo, non potevo. Ci conoscevamo da poche ore. Non esisteva l’amore a prima vista. Non poteva esistere, non per me.
«Destiny?», mi chiamò.
«Dimmi».
«Desidero conoscerti meglio».
Lo guardai: era sincero? Sì, decisamente. Sorrisi. «Anche io».
Ci sedemmo su due delle poltrone che facevano parte della mia immensa camera, l’una di fronte all’altra. Io mi rannicchiai sulla poltrona anche con le gambe.
«Colore preferito?», mi chiese.
«Nero».
«Oh. Il mio il viola. Cibo preferito?».
«Pizza».
«Anche il mio, con gli spaghetti. Canzone preferita?».
«We Found Love, Rihanna».
«Halo, Beyoncé. Cantante preferita?».
«Femmina?».
«Sì».
Ci pensai un po’ su. «Adele, credo».
«Beyoncé».
Sorrisi. «Chissà perché lo immaginavo».
«Cantante preferito? Maschio, ora».
«Uhm, fammi pensare… Direi un certo Justin Bieber».
«Stessa cosa vale per me».
«Sei modesto!», esclamai, divertita.
«No, va bene, mi piace molto anche Usher. E Chris Brown».
«Tuttavia, preferisci te stesso».
«Avevi dubbi? Sono il migliore!», rispose, scherzando.
Ci guardammo per qualche secondo, poi entrambi scoppiammo a ridere. Aveva una risata bella, era spontanea. Ero proprio sicura che fosse montato? Non l’avevo mai seguito, d’altronde. Quel pomeriggio aveva portato al parco sua sorella, senza mettersi occhiali né altro. Si era addirittura fatto avanti con me. No, non poteva essere un montato. I montati non erano così.
 
Una volta io e la mia compagnia eravamo in giro per il nostro quartiere, a Las Vegas. Ad un certo punto, svoltato un angolo, incontrammo Lexie, la mia migliore amica ai bei tempi. Era una bella ragazza, con i capelli lisci e biondi e gli occhi verdi. Era brava a scuola e impazziva per Miley Cyrus, Jonas Brothers, One Direction e, ovviamente, Justin Bieber. Era acqua e sapone, non si truccava quasi per niente, ma non le serviva. Era bellissima così com’era.
Lei mi guardò, indecisa se salutarmi o meno, e io feci lo stesso. I nostri sguardi si incrociarono per una decina di secondi, finché sentii Jake dire, rivolto a Lexie: «Che cazzo vuoi?».
Lo guardai incredula. «Non vuole niente, non ha detto niente, lasciala stare». A quella risposta mi arrivò uno schiaffo in piena faccia. Subito dopo capii che più tardi, tornati a casa, avremmo fatto veramente i conti. Infatti, non appena varcammo la soglia dello schifoso appartamento di Jake, lui cominciò a picchiarmi. Poi mi sbatté contro il muro e cominciò a spogliarmi a forza. Ogni volta che facevo qualcosa che per lui non era giusto faceva così. Mi picchiava, mi spogliava e, chiaramente, mi stuprava, mentre io piangevo, senza la forza di ribellarmi. Nessuno aveva mai avuto la forza, o il coraggio, di farlo.
 
«Hey, cosa è successo?». La voce di Justin mi riportò alla realtà. Lo guardai, con le lacrime agli occhi. Scoppiai a piangere prima di rendermene conto, così mi alzai e mi diressi verso il bagno. Non feci in tempo ad arrivare alla porta di camera mia, perché quel ragazzo mi aveva già presa tra le sue braccia. Mi sentii protetta come mi sentivo solo tra le braccia di mio padre. Non mi sentivo così da più di tre anni. Per la prima volta dopo tutto quel tempo, mi lasciai andare e piansi davanti a qualcuno a cui importava davvero di me. E quel qualcuno fu proprio l’idolo di mia figlia.


















ceeaaao a tutte coloro che ancora mi seguono!
no, non sono morta, belle donne, solo non avevo voglia.
scusatemi çç ora sono tornata più bella (?) di prima kjesdjkeds
lo so che questo capitolo non è uno dei migliori, ma l'ho scritto
in millemila giorni diversi çç
capitemi, o almeno provaeci ee
grazie mille alle sei donne che hanno recensito lo scorso capitolo.
siete beddisssimeee!
love yoooou,
andddss.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=902811