Because you were carried to paradise... di Emi Nunmul (/viewuser.php?uid=138947)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Wakaremichi ***
Capitolo 2: *** Guren ***
Capitolo 3: *** Bathroom ***
Capitolo 4: *** AVVISO ***
Capitolo 1 *** Wakaremichi ***
Ovviamente
i personaggi descritti non m'appartengono, e il tutto è
frutto della mia testolina che si fa bei filmini mentali.
Diciamo che Wakaremichi non
c'entra molto con questo capitolo. Il punto è che con quella
canzone lì è iniziato il sogno dei the GazettE,
no? Quindi, appunto, sta solo ad indicare un inizio. In ogni caso qui c'è una traduzione
del testo della canzone. Buona lettura. (:
Because
you were carried to paradise...
1. Wakaremichi
«Reila-chan!
Reila-chan!» Dovetti
alzare la voce per attirare la sua attenzione. Beh, effettivamente mi
trovavo
decisamente lontano rispetto a lei, seduta su quella panchina, sotto
uno dei ciliegi
di Ueno. Ma non potevo trattenermi, quando la vedevo. «Oh,
Takanori-kun» S’alzò,
già sorridente, rimanendo in piedi ad aspettare che la
raggiungessi. Mi
salutava anche con la mano, accennando appena il movimento. Portava la
divisa
scolastica primaverile: la camicia a maniche corte, un gilet
marroncino, la
gonna blu scuro come le calze. E poi il fiocco rosso sul petto. «Tutto
bene?» domandai sorridendo, probabilmente come un beota, ma
non potevo farci
nulla. «Sì,
Takanori-kun. E tu?» Si
chinò iniziando a coccolare la piccola Sabu-chan, la mia
cagnetta dal manto
bianco e color caramello. Mi
passai una mano fra i capelli rosso fiammante. Dovevo ammettere che il
caldo
iniziava a farsi sentire e probabilmente avrei anche potuto valutare
l’ipotesi
di tagliare il frangettone. Non troppo, però. Dovevo anche
iniziare a
sbarazzarmi dei polsini borchiati in più. «Tutto
a posto»
Iniziammo
a camminare per il parco. Parlammo a lungo. Mi raccontò del
suo passato, di
come era sempre stata difficile la sua situazione con i suoi genitori.
Suo
padre era molto ricco, davvero tanto, che io, facente parte di una
famiglia
media giapponese, svenivo al solo pensiero di quanti contanti potesse
avere fra
le mani ogni mese. Ricco di denaro, povero di sentimenti. Povero
d’anima.
Reila, raccontava, aveva solo sua madre. Ma non stava bene e doveva
badare ai
suoi due fratellini più piccoli mentre il padre era ogni
giorno più assente. Dal
canto mio, non riuscivo a far altro che essere letteralmente incantato
dalla
sua persona. Normalmente qualcuno che passa momenti tanto difficili
dovrebbe
avercela con il mondo. In fondo io mi lamentavo dei miei,
così rigidi e duri,
ma dovevo riconoscere d’esser stato fortunato, nonostante
continuassi a
chiudermi in me stesso, ad essere sempre scostante e scontroso. Lei
no. Lei sorrideva ogni giorno, ogni attimo. Era come se fosse molto
più adulta
rispetto ai nostri coetanei. Era così responsabile e matura.
Pareva quasi una
saggia madre, a volte. E la luce nei
suoi occhi inspiegabilmente di un azzurro profondo, esprimevano tutta
la sua
voglia di continuare a sorridere alla vita, nonostante dovesse sempre
far
fronte a situazioni poco piacevoli. Mi
chiedevo realmente come facesse.
«Rei-chan» «Mh?» «Come
fai ad essere felice?» Mi
guardò a lungo, seduti su quella panchina, di fronte al lago
al centro
dell’immenso parco. Poi voltò il viso verso il
cielo dalle sfumature rossastre. «Non
la sono. Non sono felice realmente. Basta... solo provarci, tentare di
vedere
il bello in tutto» Non
proferii parola, ma la fissai stupito. «Non
voglio essere triste. Triste come tutte le altre persone che non vivono
più,
ormai, ma esistono soltanto. Voglio tentare di raccogliere il bello di
ogni
momento che trascorro, accantonando ed ignorandone i lati
spiacevoli»
Quella
volta capii che non ero riuscito ad evincere ogni sfaccettatura di
ciò che era
lei. Forse non avevo capito proprio niente, tanto sono idiota. Ma
volevo farlo.
Le parole che m’aveva detto al parco avevano iniziato a farmi
riflettere.
Volevo essere in grado di comportarmi come lei, anche per non recare
più danno
ai miei. Ma fallivo miseramente. Intanto
m’ero reso conto che felice lo ero davvero solo quando ero
seduto ad una
batteria, con un microfono in mano, o mentre ascoltavo
l’ultimo pezzo degli X-Japan
e i Luna Sea. La
musica mi faceva felice.
Allo
stesso tempo mi resi conto come, in quei due mesi il suo sorriso
iniziasse a
contribuire alla mia felicità. Il sorriso di lei, Reila.
Sinceramente non
riuscivo a ricordare quante altre volte avevo riso prima di iniziare ad
uscire
così spesso con lei. Le
vacanze estive erano iniziate da quasi due settimane. Avevamo iniziato
a
vederci ogni sera. A momenti non passavamo insieme giornate intere. A
volte
andavamo in sala giochi, altre volte in biblioteca, poi al karaoke o a
dei
concerti. Ma potevamo anche fare un qualsiasi passatempo insulso come
scattarci
foto nelle cabine per gli stickers fotografici. Ma era davvero
come un
sogno.
Era
l'otto luglio. Lo ricordo bene. Fu
il giorno in cui ci mettemmo insieme, finalmente. Fu
durante i festeggiamenti del Tanabata. Avevamo seguito tutta la fiera
organizzata nell’immenso parco di Ueno, lo stesso dove
avevamo parlato così
tanto per tutta la primavera. Era
bellissima, quella sera, col suo kimono rosa. Un rosa antico, con delle
decorazioni floreali delle stesse tonalità. Portava i
capelli biondi legati in
uno chignon, mantenuti da un fermaglio a forma di loto bianco. Io ero
vestito
esattamente come tutti i giorni, ma quella sera m’ero anche
truccato. Nulla di
troppo pesante, solo della matita sugli occhi. Girammo
ogni attrazione delle vie affollate, fino alle undici, quasi
mezzanotte. A
breve sarebbe iniziato lo spettacolo pirotecnico, quindi ci
allontanammo verso il
solito lago, lontano dalle luci, in modo da goderci meglio i fuochi
colorati.
«Taka-chan» Eravamo
seduti sull’erba tagliata a regola d’arte e lo
spettacolo era già iniziato da
un paio di minuti. In risposta le presi una mano. «Sei
felice?» Attesi,
prima di rispondere, nonostante non
avessi dubbi su cosa dirle. Quella era felicità. «Sì,
Rei-chan» Note: Mmmh... Non so che dire,
esattamente ._. Cioè, non voglio neanche appesantire con
tutta la storia che c'è dietro a questa fic, ma in ogni caso
spero riusciate ad apprezzarla senza badare troppo ai personaggi e
senza prenderla troppo sul serio, davvero. Il mio intento, comunque,
è davvero di descrivere le vicende che hanno convolto il
pocket-vocalist dei Gazetto prima della loro carriera musicale. Vicende
che poi influenzeranno i suoi testi, e la sua persona (almeno per come
la vedevo
io). Mata nee !~
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Capitolo 2 *** Guren ***
Ovviamente
i personaggi descritti non m'appartengono, e il tutto è
frutto della mia testolina che si fa bei filmini mentali.
2. Guren
Era
febbraio. Era giunto l’ultimo febbraio che avrei passato alle
scuole superiori. Era anche l’ultimo febbraio di Reila, in
quella scuola. Ma non c’importava. Ci lasciavamo dietro solo
l’adolescenza, così. Nulla di più,
nulla di meno. Perché eravamo certi del nostro futuro. Di
me e di lei.
Procedeva tutto nella
serenità. Nella felicità. Avevo ripreso anche a
studiare come si deve. Ero entrato in una nuova band e ricoprivo la
parte del vocalist. Penso di non aver mai conosciuto persone
più pazze del chitarrista e del bassista con cui
l’avevo fondata, questa band. Ma erano comunque persone
splendide.
Addirittura con i miei sembrava filare
tutto liscio. E poi amavano Reila. Erano contenti che avessi una
ragazza come lei, diligente e matura. Per la prima volta parevano
soddisfatti e non mi considerarono un fallito. Così
aveva preso a frequentare regolarmente casa mia, ed io la sua, da
quando il padre era definitivamente sparito. Il fratello più
grande aveva iniziato a lavorare da un anno, e la nonna di Reila
aiutava la madre con la sua pensione, quindi erano decisamente
più sereni tutti quanti. Stavo iniziando ad essere
felice e non la vedevo semplicemente in determinati momenti, la
felicità.
Non so bene come
fosse successo, quella notte. So solo che i miei erano fuori casa, come
spesso accadeva, ed io e lei eravamo soli, dopo la festa di un nostro
compagno di classe. Facemmo l’amore. Dormimmo
insieme. Tutto normale, come sempre. Tutto parte della nostra
tranquillità, tant’è che non riuscivo a
spiegarmi perché continuasse ad evitarmi, una settimana
dopo. Appena entrati in classe mi salutava appena, alle chiamate
rispondeva una volta sì e tre no. Non era mai
successo. E perché questo cambiamento, così
all’improvviso? Passai notti insonni a capire quale
fosse il motivo della sua devastante freddezza. Era stata colpa mia?
Avevo fatto qualcosa di sbagliato? In fondo non ero una persona facile,
ma a lei sembrava essere andato bene tutto di me. Magari aveva
avuto problemi in famiglia. Ma me ne aveva sempre parlato. Dovevo
prendere in mano la situazione e rivoltarla. Ma ci
pensò lei prima di me, quel sabato notte. “Domattina alle 10 di
fronte scuola. Ho bisogno di parlarti”. Mi
sentii in un certo senso sollevato, ma anche angosciato, per qualche
motivo.
Non tardai di un secondo, quella mattina. La
vidi arrivare ai cancelli blu della scuola con una lunga gonna bianca,
un giubbotto azzurro, sciarpa e cappello. Io ero uscito praticamente
solo con una maglietta. «Come stai?» le
chiesi, avvicinandomi un po’ di più a lei che
teneva il viso abbassato. «Bene. Tu?» «Che
ti prende?» Passai subito al sodo, saltando i
convenevoli. Sospirò, iniziando a guardarsi in
giro, quella luce negli occhi spenta, per un motivo a me sconosciuto. «Non
so quando, né come... però...» «Cosa?» «Te
lo dico solo perché è giusto che lo faccia.
Comprenderò qualsiasi decisione tu prenda...» «Rei,
dimmi qual è il problema...» Prese a
fissare un punto sul marciapiede. Non avevo mai provato tanta
agitazione come in quel momento. Quando la vidi aprire bocca sentii il
mio cuore perdere un battito. «Qui» la
vidi indicarsi il ventre «Sta crescendo una nuova vita. Ed
è anche tua, ovviamente» Non so bene cosa
mi balenò in testa in quel momento, ma iniziai a ridere. A
ridere come un pazzo isterico, pochi istanti dopo a piangere, come uno
stupido. «Taka...» La vidi che
iniziò ad avvicinarmisi evidentemente preoccupata, poi
continuò a parlare «Io voglio tenerlo» Probabilmente
fui così veloce nell’aver valutato tutti i pro e i
contro che presi la mia scelta in meno di mezzo secondo. La
strinsi. La strinsi forte. Non so come avremmo fatto, ma nonostante
fossimo ancora così giovani, mi parve
l’avvenimento più bello di tutta la mia vita.
E
passarono ancora due mesi. Era fine aprile. Era tornata la
tranquillità di sempre. Avevamo trovato l’appoggio
dei nostri genitori, nonostante non me l’aspettassi per
nulla. I giorni erano passati normalmente, fra scuola, casa e le visite
che doveva fare lei regolarmente. «Taaaaka-san!» Ero
seduto su un banco della classe a parlare con degli amici, quando un
altro ragazzo mi chiamò. «Dimmi,
Jun» «La professoressa d’inglese
ha ottenuto di farti fare dei corsi pomeridiani per recuperare in
matematica senza che quell’arpia ti bocci a priori» «Scherzi?!» Saltai
giù dal banco. Dovevo sicuramente avere gli occhi
scintillanti. A momenti non piangevo per la felicità. Era
risaputo che la nostra insegnante di matematica non nutrisse molta
simpatia nei miei confronti, e nonostante in quella materia tentassi
d’impegnarmi più di altre, continuavo ad ottenere
insufficienze. Fortunatamente la nostra professoressa di
inglese era ormai diventata per me una sorta di
“mamma”, di confidente, più che altro.
Una splendida donna che non si smentiva mai.
Così,
quel pomeriggio rimasi a scuola due ore in più per quel
dannato corso. In teoria avrei dovuto pranzare con Reila, in qualche
locale della città, ma dovemmo spostare
l’appuntamento al tardo pomeriggio, quando sarei uscito da
quel carcere. Non vedevo l’ora.
“Come potete
vedere vi è una cerchia di persone sul luogo
dell’accaduto. Un pazzo alla guida di una moto stava
attraversando la strada a tutta velocità prendendo in pieno
un mezzo pesante ed un pedone”. Mi
chiedevo cosa avessero in testa certi elementi mentre seguivo il TG nel
locale dove stavo aspettando Reila.
Aspettai un
quarto d’ora. Mezz’ora. Un’ora. La
chiamai più volte. Sentii rispondere solo
all’ottavo tentativo. «Takanori?» Riconobbi
la voce della madre, diversa dal solito. «Takanori,
siamo in ospedale»
Tornai a casa
tardi, quella notte. Avevo gli occhi che mi bruciavano per via del
pianto, e sentivo che le lacrime stavano già ricominciando a
salire non appena avevo chiuso la porta alle mie spalle.
Nell’immenso salone di quella casa filtrava solo la debole
luce della luna dal finestrone. Tutto ciò che
m’avvolgeva era il buio. Il buio e il silenzio. Non sentivo
neanche i miei singhiozzi, o veri e propri vagiti. Ginocchia a terra,
testa fra le mani, gocce che scorrevano giù dalle guance
come un fiume in piena, pensavo che avevo rischiato di perderla ed era
la cosa che mi faceva più terrore. Invece, ciò
che mi dilaniava l’anima, era sapere che il nostro piccolino
non c’era più.
Note: Bene. Datemi della
psicopatica, lanciatemi addosso quello che volete, non vi
dirò nulla contro 8DDD Per il resto non ho nulla
da dire. Voglio ringraziare la mia NipotaH e __Sunshine per aver
recensito il capitolo precedente. ^w^ Mi gratifica molto, l'ho
già detto u_ù Kisu Michan
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Capitolo 3 *** Bathroom ***
Se siete propensi a
commuovervi facilmente, vi prego, scusatemi T__T
3. Bathroom
Sette
luglio. Mancava un solo giorno, ormai. Era stato un anno di
felicità travolgente ed inaspettata tragicamente spezzata
quasi tre mesi prima del nostro anniversario. Ed era come se fosse
iniziato un nuovo ciclo. Eravamo passati dalla prima vera
all’inverno in un batter d’occhio. Il tempo che ha
una moto per investire un passante, per prendere un esempio a caso. E
penso che da quel dannato giorno, che cancello –o ricordo-
sul calendario ogni anno con un pennarello rosso, abbia iniziato a
tornare come prima; più chiuso e scontroso di prima,
probabilmente. E lei... non era lei.
«Posso
presentarmi?» Voltò il viso verso
di lei, Takanori, verso la sua nuova compagna di classe e di banco. Era
una ragazza sorridente, dagli occhi azzurri –che non riusciva
a capire se avessero quel colore per via delle lenti o fossero
naturali- e capelli biondi mossi. A momenti non pareva una giapponese. «Certo. Piacere,
Takanori» «Reila» Ed un altro sorriso inaspettato,
sorriso che, in qualche modo, non pareva contaminato dal dolore del
mondo esterno e dal loro rigido sistema.
Camminava per le strade di
Tokyo, Takanori, nel pomeriggio del suo sedicesimo compleanno. Portava
Sabu-chan a fare una passeggiata, stringendosi nel lungo e scuro
cappotto e portando la sciarpa all’altezza di naso e bocca.
Nonostante trovasse il suo compleanno un giorno qualunque e ogni giorno
lo trovasse monotono, quella mattina, a scuola, quel sorriso aveva
scosso qualcosa, qualcosa per cui aveva iniziato a non fargli
così tanto schifo quello che lo circondava. In un’altra
mezz’ora di camminata il moretto arrivò presso un
piccolo parco, con grandi alberi che, una volta seduti ad una panchina,
sotto le fronde, avrebbero potuto celare il cielo grigio di febbraio. Eppure, tutto quello su cui si
concentrò, una volta entrato nel parchetto, fu una ragazza
che teneva fra le braccia un bimbetto piangente con le mani
insanguinate e un ginocchio sbucciato, visibile per via dei jeans
strappati. E quella era la stessa ragazza che aveva seduto accanto a
lui quella mattina. Teneva quel ragazzino fra le braccia, seduta a
terra, vicino ad una panchina, come solo una madre può fare.
E tutto quello che desiderò Takanori in quel momento, fu
voler essere il suo bambino.
Tutto
questo era stato spazzato via. Tutto quello che avevo conosciuto di
Reila in quei tre anni si era dissolto, lasciando solo un alone. Un
alone indelebile. E mi chiedevo ancora se avrei rivisto quel
sorriso innocente e radioso, e se sarei stato avvolto dalle sue
braccia, come quel bambino quel primo febbraio, ancora una volta. Tutto
quello che vedevo era una persona irriconoscibile; una ragazza pallida,
schifosamente magra, dagli occhi spenti. Non era più in
grado di trasmettere l’amore per la vita, né la
felicità più semplice e rara. E io ne venivo
inevitabilmente influenzato. «Rei...» «Che
vuoi?» Indugiai «Vuoi mangiare
qualcosa?» «Takanori, ho detto
no»
Quella notte lei rimase a dormire a
casa mia. Nel letto mi aveva dato le spalle tutto il tempo e io non
avevo fatto altro che fissare il soffitto ricordando di sbattere le
palpebre di tanto in tanto. Non chiusi occhio. Spesi
la nottata a pensare a come il nostro futuro era scivolato via dalle
nostre mani, come tutto quello che avevamo costruito era crollato, come
colei che mi aveva salvato aveva preso a vacillare, ad essere distrutta
e ora ad autodistruggersi. Passeggiavo dal letto al balcone dove finii
tutte le sigarette che avevo comprato la mattina precedente. Non
riuscivo neanche a vedere le stelle, durante quella umida e nuvolosa
notte di luglio. Così si presentava il nostro primo
anniversario. Il punto è che come stava il cielo, come stava
Tokyo, così stranamente spenta, stavo io. Non riuscivo a
sostenere più nulla. Un’unica cosa mi sollevava:
la band.
La mattina seguente mi svegliai prima di
lei, verso le 9 circa. I miei erano già andati via;
sarebbero rimasti fuori Tokyo per una settimana. In ogni caso ci
sarebbe stato mio fratello, a casa con me, nonostante fosse anche lui
impegnato con la sua band. Preparai la colazione con cura ed
amore, soprattutto. Iniziato un nuovo giorno mi sentivo un
po’ più positivo. E non passò molto
tempo prima che riuscissi a vederla entrare in cucina, ancora
evidentemente assonnata. Mi feci coraggio e, portando il
caffè, il latte e i biscotti a tavola, mi chinai di poco di
fronte a lei che aveva preso posto a capotavola. Presi coraggio, tentai
di sorridere; in fondo non erano da me certe uscite «Buon
anniversario, amore» Portò lentamente lo
sguardo verso di me. Osservai bene il suo viso la cui immagine
è rimasta ben impressa nella mia mente, da quella volta. Era
pallida, sempre di più, gli occhi cerchiati ed infossati ed
ancora inevitabilmente spenti. In un attimo li vidi diventare lucidi,
per un istante sorridenti quasi come prima. «Grazie,
Taka-chan» E portò la sua attenzione al
caffè.
Reila passò tutta la
giornata a casa mia a studiare per gli esami di ammissione
all’università di Waseda. Io, invece, insieme agli
altri della band, provai tutto il tempo nel garage del chitarrista, il
“Biondino”, come lo chiamavamo noi, nonostante ora
avesse tinto i capelli blu-azzurro. Si faceva chiamare Kyoki, ora che
eravamo nei Kar+te=zyAnose, ma da quando io, lui e Reiki ci eravamo
conosciuti per entrare nei Ma’die Kusse aveva cambiato nome
un’infinità di volte, come me, del resto. Io ero
batterista, loro due sempre fissi al posto di chitarrista e bassista.
Certo è che a volte mi risultava difficile realizzare che
davvero avessi avuto il privilegio di conoscerli. In fondo, iniziavo a
sentire come se pian piano noi tre, se non con i Kar+te ma con qualche
altra band, saremmo riusciti ad arrivare da qualche parte; ne ero
certo. La loro presenza era così incoraggiante, che anche in
quel periodo riuscivo a vedere ancora qualcosa di buono intorno a me.
Ma questo, ovviamente, non lo sapranno mai...
Tornai
a casa per le nove. Avevo fretta di distogliere l’attenzione
di Reila dai libri per qualche minuto, per raccontarle di come stavano
procedendo le prove e di quanto la batteria mi stesse finalmente dando
soddisfazioni. Quella mattina l’avevo vista. Una flebile luce
nei suoi occhi l’avevo vista. Ero certo che se le fossi stato
accanto passo dopo passo entrambi saremmo riusciti a tornare sereni
come prima. Eppure...
Mi accolse
Sabu-chan. Abbaiava insistentemente, saltava di qua e di là
come impazzita, come se qualcosa l’agitasse. Un terremoto?
Ricordo che non ci badai molto. Posai la tracolla sul divano e mi
diressi in cucina. Lei non era lì, ma aveva lasciato i libri
sul tavolo. «Rei-chan, sono tornato!» Tornai
in salotto per raggiungere il corridoio. Mentre ero intento a camminare
verso la mia stanza, con la coda dell’occhio riuscii a vedere
che dalla porta del bagno filtrava della luce, quindi doveva essere
sicuramente lì. Bussai «Rei, sono a
casa» e di nuovo «Rei-chan?» Aprii
la porta.
Diciamo solo che passai mezz’ora
buona seduto in bagno, sul pavimento, nell’angolo che formava
la vasca col muro, con lei fra le braccia, in attesa di
un’ambulanza che non arrivava mai. La tenevo stretta, stretta
a me, come forse non avevo fatto durante quell’anno.
Desideravo quasi di poter essere con lei una sola cosa, di non
dividerci mai, di non dover rinunciare ai suoi occhi, al suo sorriso,
ai suoi abbracci. A lei. Non avevo fatto nulla di buono,
l’avevo lasciata andare alla deriva ed ora sgorgava sangue,
dalle sue braccia. Vernice di un rosso vivo. Piangevo, ma non fiatavo.
Volevo sentire il suo respiro evidentemente lento. Ero sul punto di dar
di matto. Qualcuno lassù aveva deciso di portarmi via tutto
ciò che di più bello potessi desiderare ed in
maniera crudele e dilaniante.
La portarono via
dopo poco più di trenta minuti che l’avevo trovata
lì a terra. Cercarono di farmi alzare ma opposi resistenza.
Rimasi seduto senza neanche piangere più. Avevo
già capito che le ultime parole e l’ultima volta
che avrei visto i suoi occhi sorridenti, sarebbe stata quella mattina.
Desiderai realmente di poter abbandonare anche io il calore del mio
corpo, in quel momento. Raggiungerla. Tutto qui. Ciò
che feci, invece, fu tracciare tre hiragana sul muro, col sangue che mi
ero ritrovato sulla mano.
«Grazie,
Taka-chan»
Note: Allora, bene. *Si guarda
intorno per qualche motivo profondamente angosciata* ... *Schiarisce la
voce* In questo momento mi sento una perfetta mongola (ed
anche un genio perché ho capito come andare a capo senza che
NVU mi sballasse tutta la struttura e la formattazione, FUCK YEAH!).
Gastematemi, se volete .-. No, perché davvero, io non so da
dove mi escono certe cose, giuro °A°" Cioè,
non è colpa mia! Ok, basta, la smetto. In
ogni caso... mmh... è un capitolo che... beh, sì,
mi sta molto a cuore, devo dire (datemi della pazza e fate bene XD). E,
ovvimente, non mi soddisfa. Mi pare così povero... Boh...
Come
al solito non trovo null'altro da dire, quindi passo alle pulzelle che
hanno recensito *^*
Ally Mew: Nuova
lettrice... AAAAAAAAAAAH! *Super emozionata* Millemila grazie per i
complimenti che hai fatto! *^* Beh, sicuramente ho ancora molto da
imparare, ma qualche anno fa, quando scrivevo, facevo dei miscugli
assurdi, ed il fatto che mi venga detto che ora tutto pare abbastanza
ordinato mi rende felicissima. ♥ E addirittura fra le
seguite *^* Onore *^* Spero di non deluderti ^ ^/ Bacioni.
Maayatan: Son
riuscita ad angosciarti, nee? ^ ^" Non volevo davvero... Non
è che sia una fic leggera. Cioè, insomma, non
è da leggere in qualunque momento. E comunque sì.
Quello su cui volevo marcare è come questi avvenimenti lo
abbiano cambiato e, come hai potuto leggere, in questo capitolo lo
specifica. Ma probabilmente i miei erano solo filmini mentali per
giustificare il suo modo di essere. Ma qui inizio a divagare ed
è meglio se evito ^^" Grazie mille del sostegno,
amour. ♥ E' importantissimo (: Mii tu ti voglio
bene. (._.) ♥ Chu ♥
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Capitolo 4 *** AVVISO ***
AVVISO
Son
passati
diversi mesi dall’ultima volta in cui ho aggiornato questa
fanfiction, e me ne
vergogno terribilmente. Credevo che sarebbe stata la prima long-fic che
sarei
stata in grado di terminare, ed invece…
Avevo
quasi
terminato il quarto capitolo, ma per un motivo o per l’altro
non riesco ad
andare avanti. Spero di poter concluderla presto, e pongo
quest’avviso in modo
che chi s’è ritrovato a leggere -e magari voleva
arrivare fino alla fine-,
sappia che non l’ho abbandonata.
Porgendovi
le mie
scuse, vi saluto.
Michiyo.
|
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