Oltre le ombre

di Sylphs
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Neve ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Un salto nel passato ***
Capitolo 4: *** Il Fantasma è tornato! ***
Capitolo 5: *** Sulle tracce della Dimora nel Lago ***
Capitolo 6: *** Intrusione ***
Capitolo 7: *** La cappella dell'Angelo della Musica ***
Capitolo 8: *** Responsabilità ***
Capitolo 9: *** La musica oltre le ombre ***
Capitolo 10: *** La prova della Sfinge ***
Capitolo 11: *** Convivenza forzata ***
Capitolo 12: *** Masquerade ***
Capitolo 13: *** Dove una sinfonia solitaria si trasforma in un accordo conveniente ***
Capitolo 14: *** The world will never find you ***
Capitolo 15: *** Passo falso ***
Capitolo 16: *** Assonanza ***
Capitolo 17: *** Mezzanotte sulla Senna ***
Capitolo 18: *** Amore o morte ***
Capitolo 19: *** Rosso Eden ***
Capitolo 20: *** Apparenza ***
Capitolo 21: *** Ego te absolvo? ***
Capitolo 22: *** Dannazione reciproca ***
Capitolo 23: *** La strega ***
Capitolo 24: *** Due esseri umani, migliaia di mostri ***



Capitolo 1
*** Neve ***


Capitolo 1

 
 
 
 
 
La neve scricchiolava sotto gli stivali foderati di pelliccia che fasciavano i piedi di Vivian e il gelido vento invernale che soffiava irruento su Parigi le arrossava le guance e strappava lacrime ai suoi grandi occhi color nocciola, costringendola a strizzarli per potersi agevolmente guardare intorno e ad abbassare ancora di più il cappuccio sulla fronte pallida e tirata.
Dal basso della sua esigua statura, la ragazza osservava quella città grande, oscura e puzzolente e faticava a trovarle un particolare gradito, abituata com’era ai selvaggi panorami di Annecy, sua terra natale. In quel momento dell’anno alla sua cittadina la neve era una bianca distesa purissima che s’ammucchiava sui tetti delle case e scivolava lungo i pendii, ed era a tal punto soffice che non occorrevano neanche le muffole per fabbricarne palle con cui giocare. Lì, invece, non era altro che una fanghiglia grigiastra e molle spinta agli angoli delle strade dal passo sostenuto degli abitanti frettolosi.
“Sporca” fu il primo pensiero che le attraversò la mente: “Parigi è molto sporca”.
Fortunatamente avevano oltrepassato i quartieri poveri in carrozza e le era stata risparmiata l’ordalia d’aggirarsi in mezzo alle bancarelle del pesce e della carne cruda, tra il lezzo di tutti quei corpi disabituati al lavaggio che s’accalcavano nei vicoli e il fetore dei topi che sgattaiolavano furtivi in cerca di cibo. La zona prestigiosa, come l’aveva definita Madame Lefevre, era costituita da imponenti palazzi circondati da giardini ormai inutilizzabili (le nevicate non erano state clementi) e da negozi dalle insegne dorate e dalle vetrate ricoperte di ghiaccio. La gente che s’aggirava a piedi era abbigliata con ricchi soprabiti di seta o di velluto e portava sul capo elaborati cappelli di moda, adornati da piume variopinte e da nastri multicolori. Gli uomini avevano pesanti orologi d’oro allacciati alle giacche e le signore portavano guanti di pizzo che difendevano le loro mani rese morbide dalla crema di latte dal rigore invernale. Il profumo che ognuno di loro s’era abbondantemente spruzzato mascherava abilmente il fatto che puzzavano quanto e più dei poveri.
Vivian abbassò lo sguardo sulla propria giacca di lana non tinta consumata dal troppo uso, con il primo bottone che pendeva sbilenco, e sulla semplice veste di cotone che portava sotto, la gonna ostruita dal peso ingombrante degli stivaloni invernali. La sua indisciplinata massa di riccioli corvini, che aveva sempre lasciato sciolta, era arruffata a causa del lungo viaggio e guardandosi intorno s’accorse che tutte le donne, anche quelle giovani come lei, s’erano date la pena di raccogliere i capelli con nastri e forcine. Arrossì e si strinse nei suoi abiti miseri, provando un forte senso di inadeguatezza e di vergogna. Chiunque si sarebbe accorto che era un’orfana.
“Non preoccuparti, ma chére” la voce sussiegosa di Madame Lefevre le arrivò soffusa attraverso il turbinio della neve e del vento e un attimo dopo la sua attuale tutrice la affiancò, prendendole la mano avvolta nel guanto senza dita: “Dopo che ti sarai ben inserita nell’ambiente, nessuno farà più caso al tuo abbigliamento. Soprattutto quando avranno modo di ammirare la tua indiscutibile abilità con il pianoforte!”
Il suo tono stucchevole e visibilmente falso infastidì non poco la giovane, che sottrasse la mano alla sua stretta e alzò lo sguardo, strizzandolo per impedire che i fiocchi di neve le entrassero negli occhi: la sontuosa e imponente costruzione dell’Opera svettava sopra di lei come un faro nella notte. Non aveva mai veduto nulla di simile: il portone riccamente ingemmato, sovrastato da marmoree statue di angeli e di divinità, s’apriva su di una scalinata candida che conduceva ad un mondo di colori e di luci, e una cupola luccicante come un gioiello scintillava sulla cima del teatro, esaltandone l’aspetto tipicamente barocco. Tutto in quell’enorme edificio suggeriva magnificenza e fastosità, ma se persone come Madame Lefevre si lasciavano incantare dal suo splendore, Vivian e tutti coloro che preferivano la sostanza all’apparenza non potevano che provare diffidenza per quel posto. Sì, era bellissimo, non c’erano dubbi in proposito, ma…che genere di regole e compromessi si celavano dietro quelle mura di marmo, e quale ambiente l’attendeva oltre il grande portone, nel tepore e nella luce che regnavano all’interno del teatro? Sarebbe stata costretta ad adeguarsi ai giochi di potere dei ricchi per ingraziarseli e ottenere un miserevole ruolo in quel tempio della divina arte della musica, e avrebbe dovuto faticare tre volte più di loro per essere accettata?
No, in quanto a questo, non si sarebbe comportata come tutti si aspettavano da lei. Aveva ottenuto il permesso di seguire lezioni di piano in quel luogo così prestigioso unicamente per il buon nome della sua defunta madre, che la precedeva di un quarto d’ora ovunque andasse e che sempre la confinava nel ruolo ingrato di sua pallida ombra, e aveva accettato perché le stava veramente a cuore la sua preparazione, ma non si sarebbe mai messa a fare i salamelecchi alle ricche signorine che si esibivano nel coro e nel corpo di ballo. Piuttosto preferiva rimanere nell’orfanotrofio per tutta la vita. Se la apprezzavano per ciò che era, bene, se avevano da ridire su di lei e sui suoi vestiti, bene uguale. Tutto quello che le interessava era migliorarsi e dimostrare di non voler seguire le orme di quella magnifica cantante che era stata sua madre. A lei piaceva suonare. Non cantare. Suonare. E non le faceva nessun effetto sapere che la grande Amélie Carré, prima di ritirarsi in isolamento ad Annecy, avesse imperversato sul palcoscenico dell’Opera cantando a gola spiegata.
“Voi insegnate qui, Madame Lefevre?” si volse a guardare la sua tutrice con i denti che le martellavano per il freddo: “Ci venite tutti i giorni?”
La donna accontentò con piacere la sua curiosità: “Proprio così. Sono maestra di canto. Probabilmente non avremo occasione di lavorare insieme, ma posso assicurarti che gli altri insegnanti sono tutte persone molto preparate” ebbe una leggera esitazione, e non resistette all’impulso di fare un ennesimo tentativo: “Lo sai, vero, che mi farebbe molto piacere se tu seguissi anche le mie lezioni. Ne saresti perfettamente in grado. D’altra parte, con un cognome come il tuo, non avresti difficoltà a…”
“Madame, credo di essere stata piuttosto chiara al riguardo” le uscì una voce dura e aspra che probabilmente non avrebbe dovuto usare con la sua anziana e austera educatrice, ma ne aveva proprio abbastanza di quella storia: “Non ho nessuna intenzione di perfezionare le mie capacità canore. Sono venuta qui soltanto per il pianoforte”.
“Ma tua madre…”
“Mia madre è stata una bravissima cantante, non lo nego, ma sappiano tutte e due che non potrò mai eguagliarla” gli intensi occhi marroni della ragazza, che dominavano un viso ovale dalla carnagione olivastra e dalle labbra così rosse da apparire dipinte, si piantarono con risolutezza in quelli sbiaditi dell’anziana donna: “Sarei soltanto un suo pallido ricordo, una sua goffa imitazione, e credetemi, questo non è certo il mio sogno”.
Finse di non notare l’occhiata di profonda disapprovazione che le lanciò la sua tutrice e si diede una vigorosa scrollata per togliersi di dosso tutto il nevischio che l’aveva ricoperta mentre sostava immobile al centro del piazzale dell’Opera: “Ora, Madame, non per mettervi fretta, ma se rimango qui in piedi solo un minuto di più, dovranno usare i picconi per scongelarmi”.
L’altra ebbe un sussulto: “I…picconi?”
Vivian emise un pesante sospiro, che si condensò in una piccola nuvoletta di vapore. Ecco una caratteristica degli agiati che proprio non sopportava: non erano capaci di cogliere il sarcasmo, o almeno, lo coglievano ma erano talmente radicati nelle regole della loro società bigotta che si sentivano in obbligo di fingere sconvolgimento o perplessità. Insomma, erano del tutto privi di senso dell’umorismo, proprio come sua madre, che sveniva ogni volta che risuonava una canzone scollacciata o un’imprecazione. Fortunatamente lei aveva ereditato lo spirito del padre (che tutti rammentavano come un miserabile ubriacone caduto in disgrazia) e sapeva cosa voleva dire farsi una sana risata e sdrammatizzare le sventure.
“Lasciate stare” intensificò il battito dei denti e si circondò con le braccia in un’irriverente caricatura di congelamento: “Consigliavo semplicemente di sbrigarsi, vista la temperatura non troppo clemente”.
“Oh!” gli occhi acquosi di Madame Lefevre si spalancarono leggermente e le conferirono quell’aria da pesce in agonia che ormai la ragazza aveva imparato a riconoscere: “Oh, certo, c’est vrai! Ti staranno aspettando. Coraggio, andiamo”.
Si avviarono incontro all’alta costruzione affondando le calzature nella neve fresca e Vivian percepì i primi sintomi di nervosismo attanagliarle la bocca dello stomaco. E se l’avessero derisa? Se la fama di sua madre non fosse bastata a cancellare le miserevoli origini paterne e la sua natura provinciale? L’avrebbero certamente squadrata dall’alto in basso, bisbigliando tra di loro, e sarebbero echeggiate critiche sulla scarsa cura con cui si abbigliava e acconciava e sul suo modo di camminare, così diretto e deciso, quasi militaresco, che assolutamente non si addiceva ad una signorina. Le sembrava di vederle, le sue future compagne di corso, impeccabili statue di gesso con il volto incipriato e i corpi che annegavano in una montagna di tulle e di velluto, pronte ad esibirsi al meglio delle loro capacità e a penare come delle dannate per risaltare e ottenere una posizione di rilievo. Sapeva come funzionavano certi giochetti. A lei per fortuna sarebbe stata risparmiata una così feroce competizione: forse nel mondo del canto il suo cognome le avrebbe permesso di entrare a far parte del gruppo di raccomandate, ma la sola idea la disgustava e nell’ambito in cui aveva deciso di specializzarsi sarebbe stata semplicemente l’orfana Vivian, sola e fornita dell’unica protezione di una vecchia maestra di canto, troppo insignificante per sperare d’essere notata.
Non che questo le creasse problemi. Non ambiva a far impazzire il pubblico dell’Opera, composto proprio da quel particolare ceto sociale che odiava, desiderava soltanto uscire di lì diversa, migliore, con una preparazione che le avrebbe consentito di potersi definire una vera esperta di pianoforte. Sua madre, Madame Lefevre e la maggior parte degli artisti che lavoravano in quel teatro trovavano che l’arte fine a se stessa fosse inutile, ma per Vivian possedeva un fascino che raramente aveva avvertito nei confronti d’altre cose. Come le sarebbe piaciuto sentirsi chiamare Maestra Carrée impartire lezioni private a giovani e promettenti talenti, componendo nel frattempo opere che sarebbero appartenute a lei e a lei soltanto e che nessuno avrebbe mai potuto insozzare.
Diavolo, aveva bisogno di quelle lezioni! Non si sarebbe lasciata intimidire da una manciata di oche parate a festa la cui unica abilità particolare consisteva nello sparlare a oltranza!
Si mordicchiò una ciocca di capelli come era solita fare quando voleva trovare coraggio e raddrizzò la schiena, marciando incontro al suo futuro a testa alta e a gambe larghe…
….ma con una paura dannata lo stesso!
 
Nei camerini che le giovani allieve dell’Opera condividevano risuonava un cicaleccio frivolo e ininterrotto, inframmezzato da risatine acute e dai fruscii dei tutù che le aspiranti ballerine indossavano con eleganza quasi magica, sostando semisvestite per un lasso di tempo maggiore del dovuto con lo scopo di farsi ammirare (e, probabilmente, invidiare) dalle compagne. Membra esili e ancora acerbe si stiravano in una serie di esercizi di riscaldamento, pronte a dare il meglio di sé a lezione, e affusolate dita dalle unghie curate raccoglievano le fluenti chiome in stretti chignon, fermandoli con una gran quantità di forcine che prendevano dal ripiano su cui erano appoggiate. Le coriste, più robuste ma non per questo meno sofisticate, si esibivano in una serie di gorgheggi di prova e indugiavano su ciascuna nota, la gola fremente e il petto che incamerava aria in preparazione all’acuto successivo. Chi tra le ragazze era sufficientemente sicura di sé da non avere bisogno di allenarsi e chi, al contrario, trascurava i suoi doveri pur di poter spettegolare era raccolto in un angolo, stretto a crocchio e già vestito di tutto punto, e discuteva con la massima libertà, senza farsi scrupoli di volume. Le voci leggere echeggiavano sulle pareti marmoree e ridevano spensierate.
“Quindi Christine si è ritirata?” domandò una giovanissima ballerina dai capelli rossi e il viso lentigginoso, alzando il sopracciglio con fare interrogativo. Una biondina al suo fianco si irrigidì, ma una vistosa cantante con una gran testa di boccoli dorati assentì con divertimento famelico, un lampo di malignità negli occhi chiari e affilati: “Proprio così. È scomparsa dall’Opera subito dopo la notte del Don Juan, e nessuno ha più avuto notizie di lei”.
“Strano” commentò una brunetta grassottella intenta ad allacciarsi senza troppo successo le scarpette da ballo, eternamente condannata dal suo peso ad essere sempre sopravanzata dalle compagne: “In fondo era all’apice della sua fama qui, o sbaglio? Finalmente i direttori le avevano concesso di ottenere la parte più importante e di farsi notare, e quella cosa fa? Si ritira! Si può essere più stupidi di così?”
Le ragazze diedero in una risata maligna e sovreccitata. Evidentemente l’oggetto della loro discussione non riscuoteva molta popolarità tra di loro, e il godimento che le accumunava per la sua carriera mancata era più che mai palese. L’unica ad ostentare un’espressione seccata era la ballerina bionda e gracile appoggiata alla parete di fianco alla rossa, i denti che mordevano ansiosamente il labbro per il fastidio e il nervosismo. Intervenne con l’audacia di chi difende qualcosa di caro: “Non era sua intenzione abbandonare l’Opera, ma alcune…circostanze…l’hanno costretta a farlo”.
La corista dai boccoli impeccabili le scoccò uno sguardo di evidente compatimento: “Oh, lo sappiamo di quali circostanze si tratta…è stata rapita dal temibile Fantasma dell’Opera!”
Una seconda, fragorosa risata riecheggiò per i camerini, ma stavolta diverse tra le fanciulle restarono in silenzio e si guardarono intorno con timore malcelato, come se covassero la paura che parlando di quella spaventosa figura, essa si sarebbe magicamente materializzata davanti a loro. L’esile bionda intervenuta a difesa della vittima di quel pettegolezzo si tinse d’un deciso rossore: “Sono soltanto leggende” borbottò in fretta.
“Eppure quell’uomo l’abbiamo visto tutte!” ricominciò implacabile Boccoli d’Oro: “Christine si deve essere compromessa con lui, ecco perché è scomparsa”.
“Smettila di sputare veleno, Colette!” alzò la voce l’indifeso “avvocato”: “Christine si è felicemente sposata con il Visconte Raoul DeChagny ormai sei mesi fa ed è divenuta Viscontessa DeChagny” fece una pausa e, con astuzia acida: “Un titolo che ben poche di noi potrebbero mai ambire a ricoprire, dico bene?”
Colette incassò la frecciata e serrò le labbra: “La difendi solo perché era tua amica, Meg” ribatté appoggiando la voce su quell’era: “Ma non capisco proprio perché lo fai. Si è più fatta sentire dopo i presunti avvenimenti della notte del Don Juan? No, ovviamente appena ha trovato il suo Visconte e il suo palazzo nobiliare, ha fatto in fretta a dimenticarsi di te, anche se siete state come sorelle fin da piccole! Un comportamento crudele, non trovi?”
Un’espressione di dolore si diffuse sul viso di Meg e i suoi occhi grigi si volsero altrove, come se non avessero la forza di sostenere lo sguardo trionfante di quelli affilati della compagna. Non riuscì a replicare nulla a quella spietata verità e finse di doversi chinare per un allungamento, perdendo la discussione. La rossa al suo fianco, che non aveva osato interrompere Colette e che come la maggior parte delle ragazze la contemplava con timore reverenziale, si reinserì nella conversazione con tono di disprezzo: “È stato un bene che la Daaé se ne sia andata. Quell’arietta angelica sempre stampata sul suo odioso faccino, quel suo sorriso modesto…a volte avrei voluto darle un pugno! E poi, chissà cosa ci trovavano i direttori in lei…non era certo più intonata di te, Colette!”
La destinataria di quel servile complimento lo accettò senza che alcun tipo di gratitudine alterasse la smorfia compiaciuta dei suoi lineamenti perfetti, aureolata di quell’aria indefinibile di chi è sempre stato adorato e riverito in ogni più piccola cosa: “I direttori sanno quel che fanno” rispose con falsa modestia: “Se ritenevano che Christine Daaé meritasse quel ruolo, evidentemente era vero…sempre che in questo non ci fosse lo zampino di qualche spirito soprannaturale!” continuò con un ghigno furbesco.
La brunetta grassoccia non dissimulò la confusione: “Che intendi dire?”
“Non lo sospettate anche voi? Io ho sempre avuto la sensazione che dietro quel suo falso candore si nascondesse una serpe astuta e raccomandata” sibilò la bionda Colette, colma di risentimento verso colei che le aveva usurpato la posizione che le spettava di diritto: “Quella Daaé non era altro che…”
“Ehm…salve?”
La potente voce femminile che pronunciò questo saluto con tono esitante impedì alle fanciulle di scoprire cosa fosse in realtà Christine Daaé e mozzò le parole in gola a Colette, che si girò prima di tutte le altre nella direzione da cui era venuta, le labbra atteggiate in una smorfietta di fastidio che i gentiluomini dovevano trovare adorabile ma che spesso le sue coetanee detestavano con tutto il cuore. Ritta sulla soglia nel suo ingombrante soprabito invernale, gli stivali bagnati di neve sciolta che gocciolavano sul pavimento e i riccioli scuri più scarmigliati che mai, c’era Vivian, un sorriso di circostanza dipinto sul volto e uno sguardo prudente negli occhi castani. In quel momento si sentiva come un pesciolino appena entrato nella tana degli squali, ma si sforzò di racimolare il sangue freddo e di accettare le spietate regole degli esseri umani, che da secoli e secoli avevano l’abitudine di mettere a disagio il famoso “ultimo arrivato”.
Occhi azzurri, verdi, castani, neri e grigi si volsero in contemporanea su di lei e la squadrarono per un lunghissimo istante nel silenzio più totale, scandagliando ogni minimo particolare del suo abbigliamento e del suo viso con precisione meccanica ed emanando ondate di muta diffidenza che quasi la scaraventarono fuori dai camerini. Li sostenne con ammirevole coraggio, imponendo ai propri lineamenti di comporsi in una posa amichevole ma sicura, ed esaminò a sua volta il gruppo di ragazze assiepato di fronte a lei, pronto per recarsi a lezione. Evitò abilmente lo sguardo di una bionda statuaria dalle azzurre iridi affilate e vagò tra quelle facce chiuse alla ricerca di una buona samaritana che si mostrasse un poco più aperta. C’era una ballerina dai capelli chiari e la costituzione esile che appariva meno letale delle altre, ma stava guardando altrove e non sembrava che il suo arrivo l’avesse colpita più di tanto, così passò oltre e finalmente individuò un mezzo sorriso: apparteneva ad una fanciulla che dimostrava diciotto anni, la sua stessa età, castana e magrolina, con l’aria d’essere timida e scarsamente accettata. Si rifugiò nella dolcezza dei suoi occhi verde scuro e si presentò rivolgendosi unicamente a lei: “Mi chiamo Vivian Carré” fu lieta che la sua voce, a dispetto dello stato d’animo, suonasse alta e sicura: “Sono qui per la mia prima lezione di piano. Sapete dirmi dove devo andare?”
Loro continuarono a scrutarla felinamente, storcendo il naso dinnanzi al suo vestiario poco consono ad una frequentatrice del teatro dell’Opera. Fu Colette, ovviamente, a riprendersi per prima: “Carré?” ripeté aggrottando la graziosa fronte liscia: “Come Amélie Carré?”
Vivian sospirò. Aveva sperato di dover discutere di sua madre unicamente con gli insegnanti, che per ovvie ragioni avevano sentito parlare di lei (Madame Lefevre, sua maestra di canto vent’anni prima, se ne era a lungo vantata e alla sua morte era venuta a prenderla all’orfanotrofio per rispettare una promessa che aveva fatto alla sua cara allieva poco prima che partisse per Annecy, già incinta), ma a quanto pare quel malefico spettro non le avrebbe dato pace nemmeno con le coetanee. Assunse un tono poco vivace, che invitava a troncare l’argomento il più in fretta possibile: “Sì, sono sua figlia”.
“Davvero?” l’acuto falsetto con cui Colette se ne uscì gliela rese immediatamente sgradita. La bionda sbarrò gli occhioni azzurri in modo teatrale, coprendosi la bocca con la mano: “Mon Dieu! I miei genitori adoravano tua madre! Non si perdevano neanche un’opera in cui appariva nel ruolo di solista” fece una pausa e le labbra si tesero a scoprire i denti candidi: “È stato un vero peccato che sia scomparsa dalla scena a soli venticinque anni. Ma d’altra parte, lo scandalo…essersi data ad un uomo, ad un lurido fainéant prima di sposarlo…i giornali non le avrebbero lasciato pace. Mi pare che apparve persino un articolo sull’Èpoque, che i miei hanno conservato”.
Vivian strinse gli occhi, percorsa da un fremito di bollente rabbia che s’irradiò dal centro del suo petto e scese a riempirle il ventre e le gambe tremanti. Quella sciocca ragazzina non s’era lasciata sfuggire l’occasione…della fuga della Carré da Parigi si era a lungo speculato, con dovizia di particolari, ma l’accoglienza degli insegnanti l’aveva illusa che non le sarebbe ricaduta addosso, non a lei, che non ne aveva alcuna colpa, che era stata concepita fuori dal matrimonio senza poterci fare nulla. Inghiottì un sorso di bile amara e rivolse a Colette un sorriso non privo di gelida furia: “Eh sì, un vero scandalo” commentò gaia: “Ma come biasimarla? I piaceri della carne hanno sempre affascinato tutte, siamo sincere…e con un uomo desiderabile come mio padre…chi avrebbe resistito?”
Un fremito d’orrore scosse il gruppo di eleganti fanciulle e più d’una distolse il viso come se la nuova avesse pronunciato una disdicevole oscenità, le guance paonazze per il pudore e lo choc. Colette impallidì, dilatando le pupille, e Vivian si godette con intima soddisfazione l’effetto della sua “sconveniente” frase, per nulla turbata dalla consapevolezza che le avrebbe alienato sul nascere le simpatie delle compagne. Ma come avrebbe potuto trattenersi? Soltanto guardarle, così sofisticate e impeccabili, così profondamente influenzate dalle regole, la spingeva ad andar loro contro. Lei non era cresciuta così, non si era imposta di distogliere automaticamente la mente da pensieri troppo audaci, e suo padre l’aveva sempre spinta a parlare di ciò che più le aggradava. Lo consideravano un lurido buono a nulla, osannando per contrasto la sua povera madre sedotta, ma lei l’aveva stimato in vita come lo stimava ora che era morto, e sapeva che al suo posto si sarebbe comportato esattamente nello stesso modo.
Colette recuperò una certa padronanza di sé e quando sollevò il bianco viso, i suoi occhi ardevano di puro veleno: “Devi frequentare lezioni di canto?”
“No” ribatté Vivian con sfida, facendosi avanti per non sgocciolare ulteriormente sul pavimento lucente e sfilandosi con un sospiro di sollievo il pesante soprabito zuppo: “Cantare non fa per me, non ho l’aspetto adatto a quest’arte. Quando m’impegno a non stonare, assumo l’aria e le movenze di un uccellino in agonia. Ve lo immaginate con le piume arricciate e le ali strette strette intorno al corpo?” ridacchiò: “Ecco, io sono uguale”.
A giudicare dalla sua espressione, si sarebbe detto che Colette la reputasse una compagnia decisamente poco raccomandabile, e il gesto sprezzante con cui le voltò le spalle per cercare qualcosa a terra confermò questa impressione. La maggior parte delle ragazze la imitò non certo perché condivideva la sua visione della nuova arrivata, ma per puro e semplice desiderio di farsi apprezzare da lei, e in men che non si dica Vivian si trovò sola in mezzo ad una gran quantità di schiene deliberatamente voltate. Ostentò stoicismo. Sapeva che sarebbe andata così, l’aveva previsto fin da quando era partita da Annecy. Ma almeno non si era arresa al loro gioco, non si era piegata per ottenere la loro approvazione, e tanto le bastava.
Una mano le batté un timido colpetto sulla spalla: “Scusa?”
Si girò, sinceramente sorpresa che ci fosse ancora qualcuno disposto a parlare con lei. La ragazza castana dall’aria riservata che le aveva sorriso al suo ingresso si era spostata accanto a lei, le mani che si torcevano nervosamente sull’abito di scena che le ricopriva l’esile corpo, e le stava offrendo un’espressione gentile e bendisposta: “Avevi chiesto dove dovevi andare per le lezioni di piano…Vivian, giusto?”
Ricambiò con un largo sorriso. Non nutriva alcuna antipatia per lei, e le fu grata per la sua disponibilità: “Sì, grazie. Questo teatro è davvero immenso e ho paura che senza la minima indicazione mi perderei e vagherei senza meta per i corridoi come una lugubre anima tormentata…mi hanno detto di cercare monsieur Brochet, ma…”
“Oh, sì, lo conosco” il viso tondo della sua salvatrice si illuminò: “Insegnava anche a me qualche tempo fa, prima che incominciassi con le lezioni di canto. Sta attenta, è molto rigido! Se vuoi posso accompagnarti, in effetti questo posto è un vero e proprio labirinto, ed è davvero difficile orientarsi”.
“Se lo facessi, mi salveresti la vita” disse Vivian con entusiasmo: “Soltanto per oggi, comunque. In realtà ho un buon senso dell’orientamento, credo che già dopo una volta riuscirei a memorizzare parte del percorso”.
“Buon per te! Non è molto lontano da qui. E Colette, beh…” la ragazza abbassò lo sguardo e si accanì nel tormentare la stoffa della gonna tra le corte dita nervose: “So come ci si sente ad essere presi di mira da lei, ecco”.
Vivian liquidò la faccenda con un secco gesto della mano: “Di quello che dice quel ratto maleodorante me ne infischio ampiamente, se non l’hai notato è capace solo di squittire”.
L’altra emise una risatina fievole, quasi avesse timore di venire udita da orecchie indiscrete: “Hai uno strano modo di parlare”.
“Mi esprimo come mio padre. Pensala come vuoi, ma diavolo” calcò apposta su quella parola: “A volte è proprio il linguaggio giusto all’occasione!”
Non ne era del tutto certa, ma ebbe la sensazione di aver fatto una buona impressione a quella che, non c’erano dubbi, sarebbe ben presto diventata la sua unica amica al teatro dell’Opera. Le porse la mano sottile e si presentò con tono maggiormente rilassato: “Adesso ti accompagno. Comunque mi chiamo Emma”.
Vivian gliela strinse vigorosamente: “È un piacere, Emma”.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 
 
 
 

Capitolo 2

 
 
 
 
La sottile bacchetta di legno stretta nel pugno grassoccio di monsieur Brochet si abbatté sulle mani di Vivian con vigore sadico e il rimprovero giunse compunto e petulante: “Mademoiselle Carré, quante volte devo ripetervi che non potete fare strane aggiunte alle melodie?”
La ragazza digrignò i denti, sferzata da una stilettata di dolore acuto alle dita ormai scarlatte, e fulminò il suo maestro con un’occhiata d’odio inespresso, costringendosi a non gemere. Se era quello il modo in cui intendeva insegnarle, dubitava fortemente che avrebbe fatto progressi, anzi, era probabile che a furia di bacchettate le sue povere mani sarebbero rimaste menomate a vita. Erano già due ore che sopportava i suoi continui rimbrotti in una piccola saletta della musica ai piani alti dell’Opera, seduta su un morbido sgabello foderato di velluto rosso dinnanzi ad un pianoforte a coda bello come non ne aveva mai visti, ed era risultato chiaro fin dall’inizio che il suo rapporto con “uno dei migliori insegnanti che l’Opera Populaire potesse vantare” aveva preso una piega niente affatto amichevole. Quel signore distinto e pomposo ricoperto di fronzoli e gioielli, con la parlata altisonante e una ridicola parrucca settecentesca ad incorniciargli il grasso viso incipriato, l’aveva accolta con la benevolenza compassionevole che merita una povera orfana priva di protezione e senza nemmeno domandarle il suo livello (bene o male, non era una novellina alle prime armi!) aveva preteso che ricominciasse da zero, facendole ripetere fino all’isteria la scala di do e imponendole goffi brani per principianti che le sue agili dita suonavano con fin troppa facilità.
Ogni suo tentativo di convincerlo a imporle prove più ardue non aveva dato frutti: Brochet si era limitato ad annunciare con consumata nonchalance che quelli erano i suoi metodi e che così avrebbe fatto. Ma non era insito alla sua natura chinare la testa di fronte ad un così evidente sfruttamento della sua povera condizione e ad una tale perdita di tempo, perciò, trascorsa una mezz’ora, aveva trovato da sola il modo di rendere più gradevole quella prima lezione. Peccato che il suo maestro non si fosse rivelato d’accordo.
“Avreste dovuto suonare un la maggiore, non un si” la rimbeccò, seccato, puntando il dito carnoso sullo spartito appoggiato al leggio: “Sono sicuro che ve ne eravate accorta, mademoiselle”.
“Beh, sì” ribatté lei massaggiandosi le mani, un sorriso di falsa cortesia dipinto sulle labbra: “Però, maestro, se mi è concesso dirlo trovo che un si ci starebbe molto meglio. È più acuto, più straziante, e conferisce una nota di maggiore intensità alla Serenata Triste” quelle ultime due parole non erano scevre di ironia. Sotto il compatto strato di cipria, le guance dell’uomo si imporporarono: “Non ho intenzione di giocare con voi, mademoiselle. Se desiderate cominciare al meglio il vostro tirocinio presso questo tempio della musica, dovete attenervi allo spartito, vous avez compris?”
“Oui” disse aspramente: “Ma il fatto è, monsieur, che l’autore di questi esercizi era palesemente privo di immaginazione, come dimostrano la prevedibilità e la banalità dei suddetti, perciò non ci vedo nulla di male ad aggiungere un tocco personale al suo scarso lavoro”.
Quello di farsi detestare doveva proprio essere un suo vizio, pensò osservando la smorfia livida di Brochet. Era assai poco saggio entrare di propria volontà nella lista nera del suo insegnante di piano già dalla prima lezione, peraltro dopo essersi alienata le simpatie delle altre allieve, ma qualcosa nel suo carattere, nella sua mente, forse la visione che aveva del mondo e delle sue ingiustizie, delle raccomandazioni e di quell’apparenza che sempre trionfava sulla sostanza, la spingeva a ribellarsi a chiunque si prestasse a quei giochi, e certo lo faceva a sue spese, ed era soltanto una ragazzina vanesia e piena di sé, lei per prima lo affermava, ma segretamente coltivava la convinzione che con un poco più di allenamento avrebbe potuto superare Brochet senza alcuna fatica. E odiava, odiava essere trattata da nullità solo perché le sue origini non erano onorevoli e perché sua madre si era compromessa prima del matrimonio.
“Smettetela di dire assurdità” sbottò l’insegnante: “Non avete né l’esperienza né il diritto di giudicare l’operato di altri, dal basso della vostra…”
“Della mia cosa?” la giovane si volse di scatto a guardarlo e nei suoi grandi occhi nocciola si accese una breve scintilla di rabbia: “Che cosa intendete dire, monsieur?”
Brochet distolse lo sguardo: “Nulla, nulla. Volevo semplicemente farvi capire che la modestia è una delle qualità più ammirevoli, in un’artista”.
“Davvero?” fu uno sforzo notevole reprimere l’impulso di insultarlo. Non poteva essere scacciata il giorno del suo arrivo. Strinse forte i pugni e si calmò un poco, ma non rinunciò alla sua battaglia: “Modestia o no, ad Annecy mia madre mi ha impartito qualche lezione quando ero piccola. Non era la maestra ideale, certo, tutta la sua abilità risiedeva nel canto, ma i suoi insegnamenti mi hanno permesso di raggiungere un livello che supera abbondantemente quello di tali esercizi”.
Brochet non parve dare peso eccessivo alle sue parole: “Comportandovi in questo modo, mademoiselle, non fate altro che convincermi ancora di più della maniera in cui vi sto offrendo il mio sapere. Essendo cresciuta fino a pochi giorni fa in un ambiente sperduto e isolato in cui avevate scarse occasioni di misurarvi con altri musicisti, senza dubbio vi siete persuasa di possedere un’abilità particolare, e dunque di ambire ad un programma di studi avanzato. Ma qui, a Parigi, all’Opera Populaire, uno dei più celebri teatri mai esistiti, non siete altro che una principiante con qualche rudimento alle spalle, e prima vi renderete conto della cosa e farete come vi dico, meglio sarà per voi”.
Avrebbe desiderato strozzarlo. Porre fine alla sua miserevole esistenza, o almeno illuminarlo su quanto egli stesso fosse mediocre nel suonare il pianoforte (le aveva dato una breve dimostrazione prima di iniziare, e l’aveva trovata piatta e scolastica, priva di verve e di sentimento). Non aveva affatto annunciato di possedere un’abilità particolare, era vissuta fin troppo a lungo all’ombra di sua madre per sperare un giorno di ottenere una fama simile alla sua, semplicemente aveva espresso il desiderio di esercitarsi su melodie un po’ più impegnative. Ma quando un individuo era sordo, parlare non sarebbe servito ad alcunché, né aveva la possibilità di lamentarsi con Madame Lefevre, vista la già enorme disponibilità con cui l’Opera l’aveva accolta. Si vedeva costretta a tenersi ciò che le aveva donato la sorte.
Brochet, a fronte del suo silenzio, si rassicurò leggermente: “Adesso ricominciate dal principio, mademoiselle”.
Lei posò le dita sui tasti con un’espressione arresa. Ma arrivata al punto in cui era stata interrotta poco prima, suonò nuovamente un si.
Il colpo di bacchetta fu quasi una benedizione.  
 
“Allora, come è andata?”
La timida Emma, con il suo debole sorriso incerto e le sue spalle curve sotto il peso dell’insicurezza, l’aveva attesa sulla sommità della sontuosa scalinata di marmo che conduceva ai piani bassi dell’Opera, illuminata in pieno dalla luce dorata di un immenso lampadario e un po’ rauca di tono a causa della lezione di canto appena terminata, e scorgendola mentre usciva dalla saletta, Vivian provò una sincera gioia. Aveva proprio bisogno di una presenza amica dopo un’esperienza tanto umiliante, e la fragilità mista a gentilezza di quella “piccoletta” le ispirava tenerezza e simpatia. Accanto a lei si sentiva grande e protettiva e aveva la sensazione di poterla avvolgere e tenere al sicuro.
“Puoi vederlo da te” allargò le dita ricoperte di tagli e contusioni con fare melodrammatico e torse la bocca in una smorfia ironica: “Quello spaventapasseri incipriato mi ha massacrata!”
I dolci occhi verde scuro di Emma si spalancarono leggermente: “Oh, cielo! Mi dispiace” c’era una sincera costernazione nella sua voce. Vivian scrollò le spalle con falsa disinvoltura, ansiosa, come suo solito, di sdrammatizzare: “Oh, non fa nulla, sai, io vengo presa a vergate quasi ogni settimana”.
Per una brevissima manciata di secondi ebbe il timore che Emma non avesse compreso che la sua era una battuta, perciò si produsse in un ghigno allusorio. A quel punto l’altra si rilassò e rise: “A quanto pare non deve essere stata una lezione piacevole”.
“Puoi dirlo forte! Quel tipo sembra non capire che non sono affatto una novellina. Mi ha costretta ad eseguire la scala cinque volte di seguito e se solo mi azzardavo a metterci del mio…” si esaminò le dita con una smorfia: “Beh, puoi immaginarlo”.
Emma le rivolse un goffo sorriso di incoraggiamento: “Dovete soltanto abituarvi l’uno all’altra, Vivian. Sono sicura che domani andrà meglio”.
“Io no” commentò, tetra, la giovane: “La verità è che sono un’anima intollerante alla compagnia. Capisci cosa intendo? È come se qualcosa mi obbligasse ad andare contro alla gente per qualsiasi sciocchezza, ma il problema è che…non so cosa”.
“Io ti invidio” ammise Emma con una vampata rosea che le pervadeva le pallide guance: “Dici sempre quello che pensi, il che è una virtù invidiabile, dato che perfino quelle come Colette si mascherano in pubblico. Io invece non ci riesco neanche se mi costringo. Ho una paura terribile del giudizio degli altri”.
Vivian le prese la mano con dolcezza mentre procedevano, affiancate, giù per la scalinata, sollevando le ampie gonne per non averne impiccio. Emma ebbe un breve sussulto all’improvviso contatto e diede l’impressione di volersi ritrarre, ma alla fine accettò la stretta. La ragazza le sorrise: “Sai cosa penso per rassicurarmi, quando ho paura di esprimermi?”
“Cosa?”
“Che gli altri hanno ancor più paura di me”.
Emma la fissò intensamente negli occhi, e Vivian ricambiò con serenità, decisa a dimostrarle la verità delle sue affermazioni. Si era sempre considerata una persona fondamentalmente intuitiva, e l’atteggiamento della sua nuova amica l’aveva sufficientemente edotta. Abbassò la voce nel domandare: “Hai difficoltà ad integrarti in questo ambiente, non è vero?”
L’esile fanciulla distolse lo sguardo con il viso che le avvampava. La sua suonò come una confessione strappata con riluttanza: “Il fatto è che provengo da una famiglia…non troppo rispettabile. E questo…questo fa sì che le altre si tengano alla larga da me”.
“Capisco cosa vuoi dire” sospirò Vivian, amara.
“Quelle come Meg e Colette, ricche e dotate di presenza scenica, non si soffermano a riflettere su quanto sia difficile adeguarsi alle regole di questo posto provenendo da un ambiente come il mio. Ho dovuto faticare il doppio di loro per risaltare nella massa, mi sono impegnata con tutta me stessa perché non c’è nulla che equipari la gioia che provo quando canto” la passione nel racconto di Emma era forte, inossidabile, e sorprese la ragazza, che la reputava un’anima quieta e sottomessa: “E anche così, tra due sere, durante la rappresentazione, non sarò altro che una semplice corista”.
Vivian sollevò un sopracciglio bruno: “Quale rappresentazione?”
“Eseguiremo “Il re degli elfi” di Shubert, e Colette sarà la solista” non c’erano dubbi sui sentimenti di Emma in merito a quest’ultima notizia. Vivian rifletté per qualche istante: “Io ovviamente non sono inclusa”.
“Sarebbe magnifico se così fosse, ma purtroppo sei appena arrivata! Però mi farebbe molto piacere se venissi ad assistere, sarebbe la mia prima esibizione in pubblico e so già che avrò una delle mie solite crisi di panico” Emma parve farsi ancora più piccola e curva. Vivian le circondò audacemente le spalle con un braccio: “Ti offrirò tutto il sostegno morale possibile, Emma. Non sono aliena all’ansia da prestazione. Mia madre, ad esempio, ne soffriva terribilmente, quando doveva esibirsi nello scalcinato teatro di Annecy. Pensa che si portava dietro una boccetta di sali in caso di svenimento e che rifiutava di indossare il corsetto, per timore di smettere di respirare!”
Emma spalancò gli occhi: “La grande Amélie Carré? Non ci credo!”
“Credici. La verità nuda e cruda, amica mia, è che non esistono idoli. Li crediamo tali perché è questa l’immagine che vogliono darci, ma sotto la superficie non sono altro che comuni esseri umani, come me e te”.
Camminarono per un poco in silenzio, le scarpe che risuonavano sul pavimento intarsiato e le gonne che frusciavano al suolo, circondate da lussureggianti stucchi, quadri dal valore inestimabile e decorazioni che avrebbero fatto invidia al palazzo del re. Emma, maggiormente avvezza a girovagare per l’Opera, avanzava a testa bassa e con passo rapido, Vivian al contrario si soffermava su ogni particolare, affascinata dalla prospettiva di prendere dimestichezza con quel luogo tanto mistico e labirintico. Aveva la curiosa impressione che quel fasto e quel tripudio di ori e pietre preziose nascondessero qualcosa di gran lunga più interessante per lei, e che nell’aria, nei muri, nel pavimento su cui stavano camminando scorresse una corrente di ipnotica magia, un vento di segreti che non riusciva a cogliere ma che percepiva nella sua interezza. Questo le riportò alla mente il discorso che le altre fanciulle stavano portando avanti prima della sua comparsa e quel poco che era riuscita a udire.
“Scusa, Emma…”
“Sì?”
“Prima ho sentito Colette e le altre parlare di una ragazza di nome Christine Daaé” corrugò la fronte: “Il nome non mi dice nulla, e non è mia abitudine farmi i fatti degli altri, ma a giudicare dalla loro foga, sembrava un argomento molto interessante. Sai dirmi di chi si tratta?”
L’altra impallidì leggermente. Rallentò il passo, costringendo Vivian a fare lo stesso, e si guardò intorno con fare furtivo, come ad assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi. Un simile atteggiamento la incuriosì ancora di più: “Che ho chiesto?”
“Davvero non lo sai?” bisbigliò Emma intimorita. La segretezza aveva sempre causato grande fastidio a Vivian, amante della stabilità e dell’indole diretta, e ogni qualvolta si presentava un’atmosfera enigmatica, veniva colta dal bruciante impulso di risolverla. Assunse un tono piccato: “Come posso saperlo? Sono appena arrivata!”
Emma distolse il viso, alla maniera di qualcuno costretto ad affrontare una questione sporca e compromettente: “Sì, perdonami…il fatto è che se ne è tanto chiacchierato a Parigi che non sono abituata a discorrere con qualcuno che non è a conoscenza di quei fatti”.
“Io vivevo ad Annecy, ricorda. Ma insomma…chi è questa Christine?”
Emma rispose con riluttanza: “La migliore amica di Meg”.
Vivian batté le palpebre: “Qual è Meg?”
“Marguerite Giry, la figlia di Madame Giry, una delle più rinomate maestre di ballo dell’Opera. È bionda di capelli e oggi portava un costume verde”.
A Vivian sovvenne la vaga rimembranza della fanciulla esile e serica che non l’aveva degnata di mezzo sguardo. Annuì per mostrare di aver capito, ma comprese che Emma non le aveva detto tutto: “E che fine ha fatto la Daaé?”
La ragazza emise un pesante sospiro: “Si è ritirata dalla scena sei mesi fa a seguito di una serie di…misteriosi eventi verificatisi durante una sua interpretazione da protagonista, e ha preso per marito il giovane Visconte Raoul DeChagny, con cui condivideva un’intesa fin dall’infanzia”.
A Vivian interessavano assai poco le unioni degli aristocratici, anche se immaginava bene che un simile matrimonio doveva aver destato l’invidia delle fanciulle, che vedevano in Christine la beneficata dalla sorte che loro non erano state. Lei, da parte sua, era rimasta colpita soltanto da un particolare: “Cosa intendi con misteriosi eventi, Emma?”
L’amica le dedicò uno sguardo curiosamente intenso. Non si stava comportando come una fanciulla che condivide un pettegolezzo succulento con un’altra, non c’erano tracce di frivolezza o di eccitazione in lei, anzi, affrontava la questione con la serietà venata di paura che di solito viene usata in circostanze gravi o dolorose. Quando si decise a parlare, lo fece con un tono molto basso, quasi cospiratorio, e con una certa enfasi: “Hai mai sentito nominare il Fantasma dell’Opera?”
Vivian alzò un sopracciglio. Doveva ammettere che le premesse l’avevano portata ad immaginare qualcosa di più concreto: “No. Questo nome non ha significato per me, più di quanto non l’abbiano il lupo cattivo o la strega fattucchiera”.
Malgrado il suo tono scettico, Emma non abbandonò il suo fare cospiratorio: “È una leggenda, un mito che governa questo posto ormai da anni, e senza il quale l’Opera Populaire perderebbe la sua anima. Fino a poco tempo fa, non era altro che un flebile mormorio ripetuto dagli artisti se si verificava un incidente o se qualcuno si faceva male senza apparente motivo, ma da quando Christine è scomparsa dal teatro nel bel mezzo del Don Giovanni Trionfante, ha acquisito un rilievo di gran lunga superiore”.
Fece una pausa ad effetto. Vivian la fissò. Si chiese se scoppiarle a ridere in faccia. Non aveva nulla contro di lei, ma credere nelle favole alla loro età era semplicemente ridicolo, e sprecare tempo dietro a simili fantasticherie…beh, non ne vedeva lo scopo. Per quale motivo la gente aveva sempre bisogno di attribuire un’origine soprannaturale ai fenomeni che non sapeva spiegarsi? Come per la religione, le catastrofi naturali e le misteriose sparizioni infantili prese per crudeli scambi operati da fate maligne, quella leggenda altro non era che un modo di spiegare una faccenda altrimenti irrisolta.
“Aspetta, fammi indovinare…” disse infine: “Questo fantasma ha trovato l’esibizione di Christine talmente stomachevole da piombare sul palcoscenico nel bel mezzo della rappresentazione e portarla nel suo regno incantato per punirla?”
Emma trasalì come se avesse pronunciato una terribile bestemmia: “Ti sto dicendo la verità!”
“Certo” Vivian si permise un sogghigno asciutto: “Non ho dubbi in proposito, d’altro canto ho sempre pensato che esistessero gli spiriti. Andiamo, Emma! Non vorrai credere a questa storia come tutte le altre? Non c’è alcun fantasma al teatro dell’Opera!”
“E tu che ne sai?” la fanciulla si arrestò di botto e le piantò addosso uno sguardo trepidante: “Non eri presente la notte del Don Juan, non hai visto quel che è successo! Il Fantasma, uomo o spettro che sia, si è palesato ai nostri occhi per reclamare l’anima di Christine, che gli apparteneva da tempo, e l’ha condotta con sé nel suo rifugio sotterraneo per farne la sua sposa!”
“Ma davvero? E come mai allora ciò non si è verificato? Se non ricordo male, la giovin fanciulla si è maritata con un Visconte sei mesi orsono, senza che nessun fantasma facesse irruzione nella chiesa gridando ”.
Le gote di Emma si tinsero di un violento rossore: “So che non mi credi, probabilmente non mi crederei neanch’io se non avessi assistito alla scomparsa di Christine, ma quella notte c’ero, e ti giuro che…che qualcosa…ho visto”.
“Se anche fosse” osservò Vivian con tono pratico: “Ci doveva essere di sicuro una spiegazione razionale, che la paura del momento vi ha impedito di trovare. In ogni caso, mi è molto difficile accettare la versione del fantasma…tanto per saperlo, che fine avrebbe fatto, poi?”
“Quella stessa notte, un nutrito gruppo di uomini è riuscito ad aprirsi la via per la sua Dimora nel Lago, nei più oscuri recessi dei sotterranei dell’Opera, e l’ha depredata di tutti i terribili marchingegni che il proprietario vi aveva posto. Sfortunatamente non c’era traccia di lui e Christine si è rifiutata di fornire spiegazioni su quel che era accaduto, ma da quel giorno gli incidenti al teatro sono cessati, e tutti sono stati d’accordo nel ritenere di averlo messo in fuga”.
Vivian non l’avrebbe ammesso neanche al proprio cuore, ma quella vicenda assurda e senza senso, in una maniera oscura e segreta, le era penetrata nella mente come una droga e l’aveva colpita più di quanto si sarebbe aspettata. Congetturò ad alta voce: “C’è qualcun altro che conosce la strada per questa Dimora nel Lago?”
“Non che io sappia” rispose Emma: “E poi, è un luogo maledetto”.
Vivian fece un brusco gesto: “I luoghi non sono maledetti. Diventano soltanto quello che vuole il proprietario, e si rinnovano in un eterno ciclo, divenendo teatro di avvenimenti fasti e nefasti a seconda del caso. Perdona la mia presunzione, ma non comprendo: vi arrovellate sull’esistenza effettiva del Fantasma dell’Opera, ma nessuno di voi cerca di penetrare nei suoi domini per scoprirlo di persona. Che logica c’è in tutto questo? Mi viene da pensare che sotto sotto siate spaventati dalla prospettiva di affrontare le vostre superstizioni…come se ne aveste bisogno”.
“Io non so come la pensano gli altri” mormorò Emma, desolata: “Da parte mia, non ho alcun desiderio di indagare su questa storia. Colette e le sue amiche possono dire tutto ciò che vogliono, ma Christine era una ragazza gentile e dolce, e la sua scomparsa è stata una terribile sventura. Non voglio sapere in quali circostanze si sia verificata”.
Vivian rimase in silenzio, celando un’improvvisa insoddisfazione dinnanzi a quella risposta modesta e sincera. Le era inconcepibile chiudere gli occhi di fronte ad un mistero, accettare per buona un’assurda versione superstiziosa senza andare in fondo alla faccenda e comprenderne tutte le implicazioni. Non aveva mai veduto il teatro dell’Opera prima di quel giorno e non aveva avuto modo di assistere agli eventi di cui parlava Emma, ma solo udire quella storia aveva fatto scattare nella sua mente una leva di cui ancora non conosceva la natura. Se quel luogo nascondeva qualcosa e se nessuno si prendeva la briga di scoprirlo, addirittura dopo quella fantomatica “notte del Don Juan”, allora occorreva porre rimedio al più presto.
Sospirò. Che sciocchezza. Cosa mai poteva fare, lei? Aveva ben altro a cui pensare in quel periodo, dare retta ad una ridicola leggenda per compiacere il suo desiderio di avventura era un comportamento puerile e stupido. D’altronde, il “Fantasma” se n’era andato, o no? Non avrebbe potuto comunque svelarne la natura, nemmeno se le fosse venuto il ghiribizzo di farlo. Però, restava fermamente convinta che i miti dovessero essere sfatati, soprattutto a fronte di omicidi e incidenti. Sorvolare sulla questione attribuendola all’intervento di uno spirito soprannaturale era una via troppo semplice.
Emma, osservando l’espressone assorta che era comparsa sul viso olivastro di Vivian e la posa corrucciata e pensierosa delle sue labbra scarlatte, le sfiorò timidamente il braccio: “Sei rimasta affascinata da questa storia, non è vero? Io ho sempre pensato che in essa ci fosse qualcosa di…magico”.
La fanciulla si accigliò: “Devo ammettere che ha un certo fascino, ma non nel modo che dici tu. La magia non esiste, almeno secondo me. La trovo interessante perché nasconde un segreto, e di solito sono peggiore d’un gendarme, quando si tratta di misteri. Vorrei che la verità fosse nota a tutti e che la nebbia di menzogne e superstizioni venisse dissipata”.
“Allora sei arrivata tardi, temo. Altri prima di te hanno già fatto un tentativo, riuscito solo a metà”.
“Forse sì…forse no” sembrava quasi che Vivian parlasse rivolta a se stessa.
Ma intanto avevano finito di scendere la scalinata ed erano giunte nell’atrio, dove le altre fanciulle, nuovamente abbigliate per uscire, sostavano a scambiarsi qualche ultima parola prima di dileguarsi nelle vie innevate di Parigi. Vivian intercettò subito la Meg che aveva nominato Emma, avvolta in un prezioso soprabito rosso col cappuccio e intenta a discorrere a mezza voce con una donna anziana e distinta, dotata dei suoi stessi occhi grigi e gentili. Doveva essere Madame Giry, la maestra di ballo. Malgrado le rughe che le solcavano la pelle, il suo viso conservava ancora le tracce di una perduta bellezza, e c’erano screziature ramate nella sua chioma raccolta, ma ciò che più di tutto impressionò Vivian fu la sua espressione profondamente umana e dolce, quasi ieratica, e la maniera placida e prudente con cui si guardava intorno. Decise che quella donna le piaceva, ma che sua figlia era troppo graziosa e impeccabile. A queste considerazioni interiori seguì una netta impressione d’essere osservata, che la indusse a voltarsi e a spostare altrove la propria attenzione.
Un giovane d’una ventina di anni circa, alto e dal fisico asciutto, ritto di fianco al portone chiuso come se vi si fosse bloccato nella mossa di andarsene, la fissava con deliberata insistenza, esplorandole il corpo con un paio di occhi dall’iride d’un azzurro glaciale, non scevri di superbia e di una certa dose di disprezzo nei confronti del mondo. Il suo volto dalla morbida pelle color latte aveva lineamenti cesellati e fieri, lievemente aguzzi, ma non per questo meno fascinosi: ad una fronte ampia e ad un mento importante s’accompagnavano due morbide labbra accese e un naso diritto e ben disegnato, e la maniera in cui teneva spianate le spalle e larghe le gambe evidenziava un’elevata sicurezza di sé. Senza dubbio un giovanotto assai piacente. Indossava un’elegante giacca di seta rosso scuro, sotto una camicia dalla stoffa d’un bianco purissimo, e un paio di aderenti calzoni inguainati in costosi stivali di pelle. I folti capelli biondo chiari, terminanti in impeccabili basette, gli conferivano un’aria di falsa innocenza, smentita dalla supponenza dello sguardo. Non s’era fatto problemi a mostrarle il suo interesse, e la curiosa mescolanza di gelida impassibilità e audace intensità nei suoi occhi color ghiaccio rendeva impossibile decifrarne i pensieri.
Sicuramente molte fanciulle si sarebbero lasciate invadere dall’emozione avvedendosi d’essere osservate da un simile giovane, il cui vestiario ne indicava peraltro le origini nobili, ma Vivian era reduce dall’errore di sua madre e sapeva bene che la bellezza dilagante era proprio parte della trappola. Nella scala sociale, lei per quel ragazzo non era altro che feccia, feccia interessante, certo, e magari anche desiderabile, ma niente più di questo, e ricambiò il suo sguardo a testa alta, senza mostrare disagio. Non era sua abitudine chinare il capo con verecondia femminile e arrossire come una timida fanciullina. Il giovanotto, però, non diede segno di voler nascondere la sua strana curiosità e si ritrovarono impegnati in una battaglia di sguardi, entrambi ansiosi di vedere chi l’avrebbe abbassato per primo. Nelle sue pupille, sotto la superbia e la sicurezza, a Vivian parve di intravedere un accenno di malizia astuta e perfino una vena di malevolenza, che le fece scorrere un brivido lungo la schiena. Diavolo, di trappole da disonore ne aveva vedute parecchie, ma quella le superava abbondantemente tutte quante!
Fu lui a perdere, ma non per propria colpa. Una voce acuta e impostata, il tono seccato e infastidito, interruppe brutalmente la loro battaglia esclamando con forza: “Antoine! Antoine! Sono stanca, vogliamo andare?”
Il giovane staccò lo sguardo da lei, e fu come se un filo invisibile venisse reciso. Si volsero tutti e due al punto da cui era provenuto il richiamo, e Vivian rimase sinceramente sorpresa nel vedere Colette in piedi accanto a quel guardone, i biondi capelli raccolti sotto un cappellino e le mani affusolate che si infilavano spazientitamente i guanti di pizzo. Aveva notato anche lei il loro scambio d’occhiate, e la smorfia sul suo viso rendeva palese la sua scarsa gioia riguardo alla faccenda: “La carrozza è in attesa da molto, Antoine” soggiunse stizzita: “Voglio tornare a casa!”
Il giovane alzò uno dei chiari sopraccigli arcuati in una posa infastidita, ma ubbidì alla scortese esortazione e aiutò la fanciulla ad indossare un prezioso mantello di seta azzurra, che le infilò con gesti poco delicati. Mentre faceva scivolare le braccia nelle maniche, Colette scoccò a Vivian uno sguardo velenoso, che assolutamente non meritava e che la spinse a domandare a Emma: “Chi è quel giovanotto biondo?”
La sua amica diede al soggetto una rapida sbirciata e subito si distolse, arrossendo, come se avesse fatto qualcosa di proibito. Si tese su di lei e le bisbigliò all’orecchio: “È il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau. Suo padre è pieno di soldi, vivono in un enorme palazzo che si affaccia direttamente sulla Senna. Quando ne erediterà il titolo, sarà uno degli uomini più influenti di Parigi!”
“Caspita” commentò Vivian con sarcasmo, seguendo con gli occhi l’elegante coppia che, a braccetto, usciva nel clima impietoso che regnava fuori dal teatro: “E che cosa ha a che fare con Colette?”
“Lei è sua sorella, la Marchesina Colette. Viene a prenderla ogni sera in carrozza quando terminano le lezioni. È la più raccomandata della compagnia, si mormora che il Marchese abbia pagato Firmin e André per farle ottenere il ruolo di solista, dopodomani. È per questo che ce l’ha tanto con Christine, non riesce a concepire il fatto che abbiano favorito la figlia di un violinista squattrinato a sue spese…ma non è solo questa la ragione. Aveva messo gli occhi sul Visconte Raoul fin dalla prima volta che era venuto all’Opera ed era sicura che il suo rango le avrebbe permesso di sposarlo, ma anche in quell’ambito si è vista sopravanzata da Christine”.
“Oh, beh, posso capire perché la odi, in effetti, sebbene non condivida le sue idee” poi, con tono giocoso e leggero: “Hai notato come mi fissava quel bellimbusto? Sembrava che volesse spogliarmi con gli occhi!”
Una violenta vampata arroventò il volto della pudica Emma: “Vivian! Devi stare attenta. Quel giovane è un dissoluto. Si da ai piaceri più trasgressivi, forte del suo rango e della protezione che esso gli concede, e ha tentato di sedurre quasi tutte le ragazze di qui…beh, non me, comunque. Io non corrispondo al suo ideale di donna” era impossibile capire se la cosa le dispiacesse o la rassicurasse. Vivian scosse il capo: “Sta tranquilla, ho la testa sulle spalle, so quanto sia pericoloso impigliarsi in una relazione clandestina con un aristocratico. Per giunta c’è qualcosa in lui che non mi va giù, sono al sicuro”.
Fuori dal teatro, all’interno di una sontuosa carrozza trainata da quattro cavalli purosangue, due fratelli discutevano. Il maggiore, avvolto in un cappotto di pelliccia che costava mezza Parigi e munito di bastone da passeggio, stava chiedendo alla minore: “Chi è la ragazza dai riccioli scuri che parlava con quel topolino spaurito della tua compagna di corso?”
L’interpellata si produsse nella sua abituale smorfietta di disprezzo e rispose un po’ più aspramente del necessario: “Nessuno, Antoine. Una stracciona, una miserabile poverella venuta dalla campagna. È l’orfana della Carré”.
“Ti riferisci per caso ad Amélie Carré, la celebre cantante caduta in disgrazia?”
“Bien sur. Quella fuggita ad Annecy per sfuggire allo scandalo. È morta di febbre polmonare poco tempo fa e la figlia è stata adottata da Madame Lefevre” fece una piccola pausa, poi guizzò sul giovane un’occhiata inquisitoria: “Ma perché ti interessa tanto, mon frére?”
Lui scrollò le spalle: “Tanto per saperlo. Non c’è un motivo particolare”.
Ma il sinistro luccichio nei suoi occhi diceva tutto il contrario.
 
 
 

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Capitolo 3
*** Un salto nel passato ***


Un salto nel passato

 


 
Sei mesi prima
L’oscurità lo avvolgeva in una cappa soffocante, che con lentezza maniacale si stringeva intorno al suo corpo immobile e gli toglieva aria ai polmoni e sangue al cuore debole e dolorante. Ma aveva forse un cuore, lui? Non aveva affermato, alcune settimane prima, d’essere fatto solo e interamente di morte, dalla testa ai piedi, e che dunque nelle sue vene non scorresse sangue, dalla sua specie di bocca non uscisse fiato e il suo cuore non battesse mai?
Eppure…eppure nel petto, proprio al centro, qualcosa percepiva. Un dolore sordo, costante, che anziché diminuire si moltiplicava, traendo forza dalle tenebre perpetue della sua Dimora sul Lago e dall’opprimente, terribile consapevolezza di essere ormai totalmente solo, fino alla fine dei tempi, solo, disprezzato, fallito in ogni suo intento, anche il più fuggevole.
Solo. Ma solo nel più profondo dei suoi significati. Non avrebbe più sentito la morbidezza di una carne estranea alla sua (non che in passato avesse vantato spesso un simile privilegio), non avrebbe più conversato con un altro essere umano (se poteva considerarsi lui stesso un essere umano) e nemmeno, probabilmente, ne avrebbe visti. Sarebbe rimasto per sempre nel suo covo sotterraneo, lì in mezzo al freddo degli antichi candelabri, alla polvere dell’organo e alla bara in cui s’era abituato a dormire (“perché nella vita ci si deve abituare a tutto, anche all’eternità”) e sarebbe appassito così com’era appassita la rosa rossa che aveva regalato alla sua piccola Christine dopo la sua prima esibizione da protagonista per dimostrarle la sua approvazione e, nascostamente, il suo amore. Lei l’aveva portata sul seno, questo lo rammentava chiaramente (poiché non aveva dimenticato neanche un particolare riguardante la fanciulla) ma quando era arrivato l’Altro, quando si era intromesso nei loro affari e aveva allungato quelle sue eleganti mani di damerino sulla cosa alla quale più teneva, l’aveva gettata con sprezzo nella neve e allorché lui, Erik, s’era chinato a raccoglierla, i petali delicati si erano disfatti proprio come il loro amore, volando lontani nel vento e lasciandogli in mano un pugno di ceneri appassite.
Ceneri. Ecco cosa gli era rimasto in mano, dopo tutti i suoi sforzi, dopo tutti i suoi folli discorsi, la sua genialità e il suo contegno da signore del male: nient’altro che ceneri. A cos’era servito, dunque, continuare a vivere malgrado la sua maledetta ed eterna deformità, malgrado nemmeno sua madre avesse mai osato guardarlo (era stata lei stessa a fargli dono, piangendo, della sua prima maschera), malgrado l’umanità l’avesse sempre scacciato nelle viscere della terra, come i vermi, nonostante sotto la sua putredine anche lui avesse avuto un cuore? A cos’erano serviti i delitti, maledizione, i delitti di cui si era macchiato per il solo gusto di dare alla gente quel che voleva, un mostro, e tutte le ingegnose e fantastiche opere di cui si era vantato d’essere l’artefice (non a caso lo chiamavano Signore delle Botole, oltre che Fantasma dell’Opera e Figlio del Diavolo)? Ma soprattutto a cos’era servito il suo lungo, articolato e disperato piano di conquistare l’amore che gli era stato negato, a cos’erano servite le lezioni che aveva impartito a Christine allo scopo di donarle la fama che desiderava (e portarla quindi a nutrire nei suoi confronti una fedeltà e una riconoscenza senza eguali) e il primo rapimento, durante il quale aveva cercato di incantarla con le sue composizioni e la potenza passionale della sua voce?
Per quanto avesse penato, per quanto avesse architettato la cosa con l’acume e la cautela che meritava (Christine era stata l’unica creatura che mai avesse amato, l’unico essere umano degno di condividere il suo genio) la giovane non aveva ceduto alla sua geniale bravura e le sue affusolate mani diafane, spinte dalla curiosità femminile, gli avevano strappato a tradimento la maschera dietro cui si nascondeva, svelando ai suoi begli occhi inorriditi lo sfacelo che era la sua faccia e distruggendo completamente l’opera a cui Erik aveva dedicato buona parte dell’ultimo periodo.
La ragazza era indietreggiata, lo ricordava bene, aveva cercato rifugio nella parete e s’era coperta il volto implorandolo di sottrarre quell’orrore alla sua vista. S’era infuriato allora, e come s’era infuriato! Era stato addirittura sul punto di farle del male, alla sua amata, al suo tesoro, al bene più prezioso che possedeva! Il suo orgoglio e la sua speranza però non avevano ceduto alla disperazione per il piano infranto e rapidamente aveva escogitato un altro modo di conquistare la giovane (poiché nonostante fosse un mostro, era anche vanesio e arrogante come un bambino, in numerose occasioni) e s’era convinto, irreparabilmente e senza porsi condizioni, che la causa del suo allontanamento non era certo dovuta al disgusto per la sua deformità, bensì all’arrivo indesiderato e nefasto dell’Altro, di quel bel giovane ricco che pretendeva di essere il suo fidanzato. In fondo, prima che lo incontrasse, Christine s’era data a lui corpo, cuore e anima, gli aveva giurato eterna fedeltà e più di una volta gli aveva dedicato un tenero sguardo che era andato a smuovere in lui recessi che non credeva di poter raggiungere, stimolando un’emozione che non aveva mai conosciuto, la tenerezza. Dunque, se adesso gli rifuggiva ed era atterrita da lui, era senz’altro a causa del giovanotto, che doveva averlo messo in cattiva luce agli occhi di lei facendole credere orribili calunnie sul suo conto.
Ma Erik non esita a sbarazzarsi dei suoi ostacoli, era sempre stato così. Per avere Christine era disposto a tutto, al supremo sacrificio e al più efferato omicidio, aveva già ucciso, in fondo (perché quegli idioti dell’Opera inizialmente si erano rifiutati di offrire alla fanciulla il ruolo che le spettava) e la cosa gli avrebbe dato ancora più piacere se la vittima fosse stata il maledetto giovane. Non gli avrebbe permesso di violare la sua dolce Christine con la sua libidine, soffocando la purezza della sua voce angelica e sporcando il suo corpo casto e irradiante verecondia.
Perché Erik era sicuro, assolutamente e senza dubbio, che quella che il giovane provava per Christine fosse comune e banale lascivia. Nessuno avrebbe mai potuto amarla come l’amava lui, Erik, incondizionatamente e follemente (“fino al delitto”), tantomeno quel bamboccio ricoperto di fronzoli che passava le sue mattinate acconciandosi la pettinatura e spruzzandosi fasulle boccette aromatiche sui guanti. Forse s’illudeva di provare amore per lei, o si convinceva di ciò per attribuirsi intenzioni onorevoli, ma certo se l’avesse avuta in suo totale potere (com’era stato per Erik quando l’aveva rapita) non avrebbe esitato un attimo a deflorarla.
Lui, al contrario, per quanto non le fosse indifferente (era pur sempre un uomo, malgrado le apparenze) non aveva mai neppure preso in considerazione l’idea di privarla della sua sacra purezza. Per lui Christine era un angelo, troppo buono e diafano per avere a che fare con le sozze cose degli uomini, ed era deciso a trattarla con il riguardo che merita un simile idolo almeno finché non fossero stati uniti nel sacro vincolo del matrimonio, che avrebbe cementato il loro amore e li avrebbe legati per sempre, cancellando la solitudine e il dolore dei suoi lunghi anni di mostro. Avrebbe reso felice la sua amata, donandole la sua musica e dedicandole il resto della sua vita in ogni suo infinitesimo secondo, e certamente a lungo andare le avrebbe fatto dimenticare il suo aspetto orrendo e si sarebbe fatto amare a sua volta. La soluzione non era vantaggiosa solo per lui, ma anche per lei. Aveva bisogno della protezione del suo “Angelo della Musica”, aveva bisogno di un rifugio ritirato e gotico che la tenesse al sicuro dalle insidie del mondo.
Cosa mai avrebbe potuto darle il giovane, invece? Certo apparteneva ad una famiglia aristocratica (anche Erik era di nobile nascita, sebbene i suoi genitori si fossero disfatti di lui in fretta e furia affinché lo scandalo non diventasse pubblico) e possedeva la sua tenuta, i suoi servitori e il cospicuo patrimonio dei Visconti DeChagny, ma niente di quelle ricchezze pacchiane e di quelle sontuosità scintillanti si sarebbe adattato al carattere semplice e modesto della fanciulla. Christine proveniva da una famiglia povera, era orfana di madre fin dall’infanzia e il padre in vita aveva rivestito il ruolo d’un violinista squattrinato, e non poteva mancarle quello che non aveva mai avuto. Lentamente, tra gli ori e le decorazioni di palazzo DeChagny, si sarebbe spenta come una rosa appassita, avvizzendo nella solitudine e nei doveri d’una moglie di un Visconte (che, preso ad amministrare i suoi possedimenti, non le avrebbe concesso la minima attenzione) e avrebbe terminato i suoi anni rimpiangendo i tempi in cui faceva impazzire l’Opéra di Parigi.
Con lui, invece, non si sarebbe mai annoiata e soprattutto non sarebbe stata trascurata. Erik non aveva tenute da amministrare, né balli da frequentare, né tantomeno doveri a cui riferirsi. Per quanto spinosa, vantava la libertà assoluta dei paria, priva di obblighi, aspirazioni sociali e compiti da svolgere (anche se spesso gli dava la sensazione d’essere invisibile, nient’altro che uno scarto che il mondo aveva espettorato) e avrebbe trascorso la futura vita matrimoniale escogitando sempre nuovi modi di divertirla e compiacerla, dandole tutto il suo immenso amore e donandole ogni cosa gli avesse chiesto (le ricchezze le avrebbe rubate, la fama l’avrebbe pretesa con le minacce, i nemici della giovane li avrebbe uccisi).
Insomma, per Christine sarebbe stato senz’altro migliore scegliere lui, Erik, anziché l’Altro, e questo era un motivo già di per sé sufficiente a toglierlo di mezzo e a costringerla ad accettarlo.
Aveva tentato, oh, se aveva tentato! Ora che era solo nel modo più irreversibile e soffocante, ora che la Dimora che gli aveva offerto protezione dai malevoli occhi della gente era divenuta la prigione della sua disperazione, una risata che grondava sofferenza, amarezza e macabro divertimento gli uscì dai polmoni insieme alle lacrime, rimbombando sulle pareti umide, sulle torbide acque del lago Averno e sui drappeggi che ornavano il letto su cui la fanciulla aveva dormito (e su cui lui si era rotolato per non perdere neppure una stilla del suo dolce profumo).
E ci era riuscito! Ci era riuscito! Non era forse un genio? Non possedeva un’abilità che rasentava il miracolo, non era dotato dell’eleganza e dell’imprevedibilità d’un fantasma? Li aveva avuti tutti e due nelle sue mani, sì, nelle sue orrende mani che spiravano un alito di morte, la sua amata Christine e l’altro (che stoltamente aveva cercato di sottrargliela) e la situazione si era volta del tutto a suo favore: lui era rimasto inchiodato alla parete irta di sbarre arrugginite, la gola vincolata da un cappio, e la fanciulla si era trovata oltre le scure acque del lago, impotente e terrorizzata per la sorte di quel bamboccio.
Erik sapeva che lei credeva di amare il giovanotto (credeva, attenzione, poiché in realtà lui l’aveva sedotta con la sua bellezza ordinaria e aveva fatto pressioni sulla sua povera e provata mente affinché accettasse la sua corte) e così le aveva promesso la di lui salvezza, in cambio d’un consenso alle loro prossime nozze. Sicuramente Christine avrebbe acconsentito, spinta dal dovere che avvertiva nei confronti dell’Altro (che le aveva rubato un bacio che aveva scatenato in Erik un lamento pieno di furia e di sofferenza allo stato puro) e, una volta sola con lui e con l’amore che le portava, avrebbe compreso d’essere stata soltanto salvata da una vita infelice e l’avrebbe amato andando oltre al suo aspetto. Avrebbe curato le ferite che il passato gli aveva aperto nell’animo, salvandolo dalla solitudine che lentamente l’aveva condotto alla follia, e lui avrebbe trovato finalmente una ragione per vivere e un essere da proteggere e da amare legalmente e liberamente, senza timori. Con Christine al suo fianco la Musica della Notte sarebbe cessata una volte per tutte e con essa le putride tenebre in cui era vissuto durante anni di abnegazione. Avrebbe avuto un’esistenza normale, ma era poca cosa se confrontata all’immensa gioia d’avere accanto l’essere che più amava al mondo. In fondo lo meritava. Aveva patito troppo, e aveva diritto ad un po’ di sollievo, tanto più che anche per lei sarebbe stata la soluzione migliore...no?
“Ma non avevo capito nulla dell’amore” la sua bocca sfregiata, in mezzo alla faccia stroncata a metà da un male che ne aveva contaminato solo la parte destra, si contrasse in un sorriso amaro, se si poteva chiamare sorriso: “Nulla, nulla, nulla! Io la idealizzavo perché mai, prima, ero stato preso d’interesse per una donna, mai avevo toccato le loro bianche carni…neanche mia madre…mi rifuggiva, pregandomi d’indossare la maschera…neanche…e lei era così bella e dolce e aveva una voce così sublime e perfetta che…io…credevo…sognavo…ma non l’amavo come l’amo ora. Io amavo…ciò che rappresentava…nient’altro… un ideale…l’idea di qualcuno che sarebbe appartenuto a me e a me soltanto, qualcuno che scacciasse la mia solitudine…che mi desse…un po’ di affetto…oh, non tanto! Ma un po’…una moglie tutta per me…con cui andare a passeggio la Domenica…che avrei potuto proteggere…che avrebbe cantato la sera per farmi addormentare e avrebbe ascoltato le mie composizioni…e lei…si fidava di me sopra ogni altra cosa…bramava il mio aiuto…mi considerava il suo angelo custode, il suo benefattore…e allora…
“Ma non avevo compreso nulla. Quando ha giurato sulla sua anima…quando…abbiamo pianto insieme e per la prima volta l’ho guardata negli occhi e l’ho veduta veramente…non la cantante, non l’angelo, ma soltanto lei, Christine Daaé…nient’altro che Christine Daaé…oh, allora ho capito, finalmente, che cos’era l’amore vero! E quando mi ha preso la mano…sì, la mia mano! Tra le sue, e ha detto…non sei più solo! e intanto piangevamo insieme…io…l’ho baciata. E lei si è lasciata baciare! Allora…finalmente…ho capito. Nessun fraintendimento …nessuna convinzione che potevo costruirmi…aveva senso. E lei…lei…poteva sposare quel giovane quando più le sarebbe aggradato, perché si era lasciata baciare, senza ritirare le labbra dalla mia bocca! E aveva detto non sei più solo! Non me n’è importato più niente…i miei progetti…i miei presunti diritti…le mie trame…solo lei…mi importava…solo la sua felicità…
“E se diceva di amare quel giovane…che sia vero o no…io l’ho accettato. E… li ho lasciati andare. A costo della mia solitudine, della mia sofferenza…ho rinunciato alla mia piccola Christine…ma non avevo alternative…perché lei mi aveva preso la mano, e aveva detto non sei più solo! E…adesso…mi rimangono ceneri. Solo ceneri. La mia Christine…non c’è più. Nemmeno il suo profumo…il suo splendido profumo…nemmeno…è tutto finito. Non c’è speranza ormai. Non c’è speranza”.
Erik abbassò la testa informe e malfatta e si rannicchiò sul pavimento umido dei sotterranei, come un verme che cerca conforto tra il fango per sfuggire alle fauci impietose dell’esterno. Era quello, in fondo, il suo posto. Le tenebre, il putridume, il marciume più schifoso…l’habitat più adatto ad un cadavere! E per la seconda volta nella sua vita, pianse…rimpiangendo di lordare la bellezza delle lacrime che sarebbero colate su un simile orrore…pianse senza rumore, stringendo al petto la veste bianca che Christine aveva indossato durante il suo primo soggiorno alla Dimora nel Lago e affondandovi il viso nel disperato tentativo di aggrapparsi a qualche traccia di lei. E intanto biascicava il suo nome tra i denti serrati, dondolando avanti e indietro, come un mantra…sapendo che non sarebbe venuta a placare il suo dolore…perché ora aveva il suo bel giovane e certo l’aveva dimenticato. Era facile dimenticarsi delle cose scomode e sgradevoli. Era facile dimenticarsi di un rifiuto che getti via, non curandoti se possa andare distrutto o se qualcun altro possa romperlo, per sostituirlo con qualcosa di più adatto allo scopo.
E tuttavia l’amava, e tutto il suo organismo martoriato, sofferente e deforme gridava la parola amore a squarciagola in un silenzio che l’avrebbe assorbita senza attribuirle un significato. Non l’amava più per la sua voce, per la sua bravura celestiale, per l’ideale della compagna perfetta che aveva rappresentato ai suoi occhi i primi tempi…l’amava solo perché era lei, Christine. La sua dolce Christine…il suo piccolo, ingenuo angelo…non era riuscito a farsi perdonare, al momento dell’addio, perché piangeva troppo e rischiava di soffocare se avesse tentato di articolare qualche parola comprensibile. Lei l’aveva baciato sulla bocca…sulla sua bocca di cadavere…e i suoi lunghi capelli castani gli avevano accarezzato la carne un attimo, prima di svanire insieme alla sua bianca figura, sottile come un fiammifero.
Conficcò le unghie rovinate sul pavimento irregolare e se le spezzò, incurante del sangue scuro e denso che sgorgava copioso lungo le sue braccia nude. Allora poteva…era in grado di sanguinare…dopotutto c’era vita, in quel suo corpo da morto vivente.
“E se sono vivo per davvero” concluse con la disperazione sollevata di chi non ha più speranza, di chi ha perso tutto e non ha più alcuna ragione per andare avanti: “Allora significa che posso anche morire”.
Uno scalpiccio di passi lievi, che si rifrangeva sulle pareti umide della Dimora sul Lago segnalandogli in anticipo la venuta d’un eventuale visitatore (un visitatore che doveva conoscere molto bene i suoi domini, visto che era riuscito ad oltrepassare le numerose trappole che aveva sistemato dappertutto e a giungere indenne oltre la Sirena) penetrò a fatica la cappa di dolore e di disillusione in cui s’era rinchiuso e lo spinse ad alzare gli occhi per un futile, meccanico riflesso condizionato. Soltanto il giorno prima si sarebbe munito immediatamente d’un arma, un laccio per strangolare, magari (poiché non aveva dimenticato le ore rosa di Mazenderan) e avrebbe provveduto senza esitazione a disfarsi dell’indesiderato seccatore. Nessuno, a parte Christine (che ora non sarebbe più tornata) aveva il diritto di immischiarsi negli affari di Erik, se non Erik.
Ma ormai che importanza aveva tutto ciò? Erano serviti a qualcosa, i suoi affari? Avevano cambiato forse il modo in cui era vissuto e l’avevano reso qualcosa di diverso da un mostro? E se dunque non avevano rilievo, perché mai avrebbe dovuto importargli se qualcuno li avesse scoperti? Che venissero pure, che lo linciassero e buttassero nel lago per cancellare l’orrore della sua esistenza, sarebbe stato unicamente un sollievo.
Christine gli aveva giurato che sarebbe tornata allorché si sarebbe sparsa la notizia della sua morte (poiché sentiva che era vicina) per dargli una degna sepoltura e tributargli quel poco di affetto che credeva di dovergli a causa delle fatiche che aveva speso per portarla a risplendere nel mondo dello spettacolo. Perciò, se l’avessero ucciso, lei sarebbe venuta! ….e l’avrebbe baciato di nuovo, così, sulla bocca…come una vera fidanzata…malgrado ormai fosse la moglie dell’Altro…
Si alzò in piedi sulle sue gambe di cadavere, oscillando a causa di un’improvvisa e fatale debolezza (le ferite morali erano in grado di distruggere un uomo molto più a fondo di quelle fisiche) e si strinse contro al viso la morbida veste di Christine, perché voleva morire con l’illusione di tenerla tra le braccia come aveva potuto fare solo quando era priva di sensi, immerso nel suo fatale profumo, con le dita appoggiate sulla sua carne soffice che gli accendeva il sangue di desiderio e le guance affondate tra le onde brune della sua lussureggiante capigliatura. Abbassò le palpebre bagnate di lacrime e gli parve d’averla dinnanzi come se ci fosse stata per davvero, in carne ed ossa, con l’abito di purissima seta bianca che le scivolava sul corpo esile mettendone in risalto la carnagione nivea, e la cascata di capelli castani che le cadeva pudicamente sul piccolo seno, inondando di riflessi di pallido mogano il chiarore della sua silhouette ed evidenziando la dolcezza dei grandi occhi marroni e tristi.
“Christine” invocò tra i singhiozzi con la sua voce baritonale, scoprendo il petto muscoloso come se si stesse offrendo all’esecuzione dell’intruso misterioso: “Christine, Christine!”
I passi azzerarono la distanza che separava la presenza dal mostro che piangeva senza ritegno, e una voce fragile ed esitante, arrochita dall’età avanzata, risuonò debolmente nel profondo e insondabile silenzio di quei domini sotterranei: “Erik?”
L’uomo cessò bruscamente di singhiozzare e spalancò gli occhi, girandoli nella direzione da cui era venuta la voce. Soltanto tre persone conoscevano il suo nome, e due di esse probabilmente ormai si trovavano molto lontano, felicemente coniugate. Di conseguenza…
Torse la bocca, per un misto di amarezza e di vergogna nel farsi sorprendere in quelle misere condizioni (era pur sempre il Fantasma dell’Opera!) e disse con tono secco: “Madame Giry. Benvenuta”.
L’anziana donna avanzò con timore, non dimentica del fatto che il suo ospite recentemente aveva scatenato in numerose occasioni tutta la sua furia e la sua sete di vendetta, e si tenne lontana dalle scure acque del lago, sollevando l’ampia gonna dell’abito di velluto marrone per salvarla dalla sozzura che ricopriva il pavimento. Il suo viso dai tratti gentili, un tempo molto bello, era segnato da poche rughe di espressione (il tempo era stato clemente con lei) ed era mascherato da un’abbondante dose di cipria che donava all’incarnato una compattezza e un biancore chiaramente fasulli. I capelli ingrigiti, con ancora qualche traccia di rosso qua e là, erano raccolti in una crocchia ordinata e lasciavano scoperta la linea aggraziata della mascella e la pesante collana di preziosi che le circondava il collo. Si sforzava di mostrare il contegno imposto ad una signora della sua età e del suo stato sociale, ma non riusciva a mascherare del tutto la paura e il rimorso e i suoi occhi chiari lanciavano occhiate nervose tutt’intorno, senza trovare nulla fuorché Erik, che tentava con ogni energia di non guardare.
D’impulso, egli fece scattare una mano e tastò freneticamente le lastre fredde e dure del suolo alla ricerca della sua maschera bianca, del rifugio dietro al quale aveva nascosto per anni la sua deformità, rifuggendo l’orrore della gente. Perfino adesso che non aveva più nulla da perdere e che era destinato a rimanere un mostro in ogni caso provava il bisogno incontrollato di celare il volto allo sguardo della donna che conosceva più di se stesso, e si sentiva scoperto e vulnerabile. Ma la maschera non c’era, probabilmente l’aveva lasciata nella camera Luigi Filippo al momento di accommiatarsi per sempre dalla sua Christine, e l’orrore della sua faccia di mostro era dolorosamente percepibile ad entrambi.
“Erik…” ripeté ansimando Louise Giry, con le mani che tormentavano il velluto della gonna e gli occhi puntati su uno dei candelabri per non incontrare il volto del mostro: “Erik…”
“Ripetere il mio nome vi servirà a ben poco, Madame Giry” Erik si stupì di non aver perduto il suo perpetuo e arrogante sarcasmo, che era rimasto radicato in lui malgrado le sventure subite e le umiliazioni che l’avevano straziato negli anni: “Perché siete venuta qui? Dovreste saperlo meglio di tutti che la Dimora sul Lago appartiene a me e a nessun altro”.
“No” si corresse subito mentalmente: “No, io l’avrei condivisa con Christine e con lei soltanto, se avessi potuto. Ma oramai è vuota e non è altro che una prigione di desolazione e di rimpianto…”
La donna fece una smorfia, osando fissarlo dritto negli occhi (era l’unica a mostrare un simile coraggio, a parte Christine, naturalmente) e gli parlò con un’intonazione aspra che si sforzava ammirevolmente di celare la paura che aveva sempre nutrito nei suoi confronti: “Che cosa ne hai fatto del Visconte Raoul DeChagny e della giovane Christine Daaé, Erik? Esigo immediate spiegazioni e saprò se mi stai mentendo! Come ti sei permesso di rapirla una seconda volta, e davanti a tutti? E cosa credevi di ottenere con un gesto tanto folle quanto plateale? La tua arroganza mi lascia senza fiato!”
Un rigurgito della suprema rabbia che un tempo avrebbe provato dinnanzi a quell’accusa temeraria nacque nel suo petto spezzato e lo spinse a serrare minacciosamente i denti. Nessuno, dal giorno in cui s’era appropriato del Teatro dell’Opera, aveva mai osato rivolgersi a lui in quel modo perentorio, e certo non ne aveva l’autorità quella donna vigliacca e tremebonda che aveva furbescamente atteso un ragionevole lasso di tempo prima di andare da lui, tanto per assicurarsi che il peggio fosse passato. Per quanto ne sapeva, il Visconte DeChagny e la bella Daaé potevano essere già morti da tempo a causa della sua inazione. E se credeva di avere qualche diritto su di lui per il semplice fatto d’essere stata sua complice nell’inganno operato a spese di Christine e per essersi assunta di sua spontanea volontà il ruolo di una specie di governante timorosa ma permissiva, non aveva capito assolutamente nulla di lui, nonostante la loro conoscenza fosse ormai datata. Nessuno dava ordini a Erik, e il fatto che ormai non avesse più alcuna ragione di vita non aveva cambiato le cose in tal senso. L’avevano privato di tutto, anche della possibilità di amare, ma non gli avrebbero tolto la dignità.
“Come mai vi interessa a tal punto la loro sorte, Madame Giry?” sibilò, assumendo un tono maligno apposta per aumentare il suo rimorso: “Mi pare di ricordare che in passato non vi siete fatta tanti scrupoli a cedere Christine a me, senza curarvi che avrei potuto farle del male o abusare della sua virtù”.
Un intenso rossore si diffuse sulle guance incipriate della donna e le sue labbra sottili si serrarono, sforzandosi di nascondere la mortificazione e la vergogna: “Mi fidavo di te!” un poco del suo contegno scomparve e una scintilla d’ira si insinuò nel suo portamento: “Pensavo che Christine fosse al sicuro in tua compagnia perché mi avevi assicurato che l’amavi e che avresti taciuto i tuoi sentimenti fintantoché lei non ti avesse permesso di dichiararti! Non erano forse state queste le tue esatte parole? E se ti ho concesso una possibilità con lei è stato anche perché credevo, scioccamente, che la meritassi, e che la vita fosse stata sufficientemente ingiusta con te senza che anche un mio rifiuto si aggiungesse alle tue sventure! Ma evidentemente avevo sopravvalutato le tue intenzioni, come sempre. Non intendo continuare a guardare impotente le tue malefatte. Cosa ne è stato di quei poveri giovani?”
Erik strinse gli occhi, irritato e divertito insieme dall’improvviso coraggio dimostrato dalla donna. Non l’aveva mai reputata un problema, e mai avrebbe creduto che si sarebbe ribellata ai suoi ordini, sapendo meglio di ogni altro che era una cosa assai poco raccomandabile. Per il bene di Christine e di parecchi membri della razza umana, le decisioni di Erik non andavano messe in discussione, Louise Giry non aveva mai avuto il minimo dubbio in proposito. Dunque, per quale motivo sceglieva proprio quel terribile momento per deporre la sua codardia ed espiare dai peccati commessi? E perché lui avrebbe dovuto soddisfare le sue domande, adesso che non gli era rimasto nulla fuorché un amore disperato e impossibile per un fragile e delicato ricordo? Era ancora il Fantasma dell’Opera, il Signore delle Botole, e tale sarebbe restato fin oltre la morte. Il suo era un titolo ben più importante di quello dell’acerbo Visconte DeChagny o di uno qualsiasi di quei nobili che spesso si recavano all’Opera per assistere ad un modesto capolavoro di Verdi o ad un’altra delle rappresentazioni in programma, e benché non si estendesse oltre il perimetro del teatro, lì, in quei corridoi sotterranei e in quelle sale sontuose era indiscutibile e insopprimibile, e tutti gli dovevano obbedienza, i direttori e le coriste, l’orchestra e le ballerine, gli insegnanti e la Prima Donna. Ciò che comandava era giusto e non era tenuto a dare motivi a nessuno, soprattutto ad una semplice maestra di ballo.
Quel potere non aveva alcun valore per lui se non c’era Christine con cui condividerlo, ma non per questo sarebbe morto come un miserabile verme che il mondo non aveva voluto.
“Non sono obbligato a rispondervi” ribatté con la stessa asprezza usata da lei: “Vi ricordo che vi trovate nei miei domini senza che io vi abbia invitata e che di conseguenza la mia autorità è sacra e non potete fare nulla per minarla. Potrei uccidervi semplicemente con uno schiocco di dita o cacciarvi a mio libero piacimento e non ci sarebbe nessuno ad impedirmi di farlo”.
Un leggero tremito attraversò il corpo di Madame Giry, ma la donna lo scacciò e prese un profondo e tremulo respiro: “Dunque non conta niente per te l’aiuto che ti ho dato in tutti questi anni?” sussurrò a voce bassa, come se sperasse di intenerirlo (ma come si poteva raddolcire un cuore spezzato?): “Saresti disposto a togliermi la vita senza alcun ripensamento come se fossi un qualsiasi visitatore incauto? Ti ricordo, Erik, che ti ho concesso di tentare con Christine malgrado qualsiasi buonsenso mi gridasse di non farlo, perché credevo nell’intensità dei tuoi sentimenti per lei. Questo non conta nulla?”
Il volto del mostro venne alterato da una lieve smorfia di fastidio ed egli si rimproverò rabbiosamente per il barlume di senso di colpa che le parole della donna avevano scatenato dentro di lui. Lei non meritava il suo rimorso né tantomeno la sua gratitudine, e dopo che aveva rinunciato a Christine non si sarebbe fatto rammollire a causa di un debito che sicuramente non aveva verso di lei!
In fin dei conti, se Madame Giry gli aveva offerto il suo appoggio e se era stata gentile con lui non si era trattato certo di bontà d’animo, né come lei affermava d’un desiderio di concedergli una possibilità. Erik rammentava alla perfezione l’accordo che avevano stipulato diversi anni prima, quando si era stabilito all’Opera, e che era stato l’unica ragione del loro rapporto (l’esperienza degli zingari aveva preferito rimuoverla ben presto, o almeno la parte che la riguardava): le aveva promesso che avrebbe aiutato la sua giovane figlia Meg ad ottenere un ruolo importante nella società e solo per questo la madre si era dichiarata disposta ad essere sua complice. Dunque non l’aveva sostenuto per affetto o pietà, ma solo per vedere ricoperta di celebrità la sua graziosa rampolla. Di conseguenza lui non le doveva né mai le avrebbe dovuto nulla, soprattutto adesso, e aveva ogni ragione di trattarla con durezza.
Rincuorato da un tale ragionamento, ricompose l’espressione minacciosa che amava sfoderare con chiunque non fosse Christine e non cedette d’un millimetro alla sua accorata supplica: “Non ho alcuna ragione di riferirvi i miei movimenti, Madame Giry, perché mi sembra di aver assolto da tempo ai miei doveri nei vostri riguardi. La giovane Meg è diventata corifea non appena voi l’avete chiesto e non vi ho promesso altro”.
La donna gonfiò le guance per l’indignazione e parve farsi più imponente: “Oh, certo, in quanto a questo non ho di che lamentarmi!” insorse con acredine: “Mi hai già raggirata abbastanza con la storia di Meg, usandomi per portare a termine i tuoi scopi e giurandomi sempre nuove promozioni per lei. Ma l’unica conseguenza di questa storia è che mia figlia ha perduto la sua più cara amica in una maniera terribile e scioccante e non riesce a credere che non la rivedrà mai più! Sai che sto parlando di Christine, non è così? Se non vuoi rispondere per me, spero lo farai per lei. Ha tutto il diritto di conoscere la sorte della sua migliore amica”.
Erik scoppiò a ridere. Era una risata disperata, che faceva paura, e che non conteneva la minima traccia di letizia: “E perché mai dovrei abbassarmi a soddisfare l’ansia di quella ragazzina? Vostra figlia è giovane e superficiale, come ho avuto modo di vedere, e dimenticherà presto la sua migliore amica, come la chiamate. Sfacciata com’è, ne troverà un’altra il più in fretta possibile”.
Se Madame Giry poteva sopportare gli insulti riferiti alla sua persona (e nel corso della sua relazione con Erik ne aveva ricevuti così tanti da aver perso il conto) l’idea che quell’essere spregevole, per quanto infelice, desse giudizi malevoli su sua figlia la fece ardere di un sincero sentimento di sdegno e, a suo rischio e pericolo, replicò sapendo di andarlo a colpire dritto al cuore: “Ora capisco perché Christine era così terrorizzata da te, perché non ti ha mai concesso una possibilità. Credevo che la tua deformità fosse solo apparente, ma la vera mostruosità ti sta incollata all’animo! Crudele e insensibile come sei, non c’è da stupirsi se tu non sia mai riuscito a conquistare l’amore di uno spirito puro come il suo. Per tutto questo tempo non hai fatto altro che pensare a te stesso, al tuo benessere e ai vantaggi che tu avresti potuto ottenere, attribuendoti scuse sinceramente patetiche! Hai costretto quella povera ragazza a condividere la tua solitudine e il tuo marciume, tenendola rinchiusa nelle viscere della terra contro la sua volontà, e quando finalmente ha trovato nel giovane Visconte una ragione di tranquillità e di dolcezza, anziché rispettare la sua decisione hai fatto di tutto per renderla infelice! È forse amore, questo? La verità è che sei soltanto un egoista, senza scrupoli e senza morale!”
Si interruppe, ansimando, e rimase sinceramente stupefatta d’essere riuscita a gridare in faccia al temibile Fantasma dell’Opera tutto quello che pensava di lui, esternando parole che custodiva dentro da quando era nato il suo amore per la bella cantante. Tuttavia comprendeva la propria avventatezza, e sapeva che lui l’avrebbe punita in un modo che non poteva nemmeno immaginare per vendicarsi di quelle accuse assolutamente fondate. Nessuno aveva la capacità di insultare Erik senza incappare in un terribile castigo, e la donna sapeva bene che la Dimora sul Lago era colma di trappole, camere di tortura e marchingegni che le avrebbero procurato molto dolore, se lui avesse deciso di usarli.
“Sia come vuole” concluse con ammirevole coraggio: “Ho difeso mia figlia, come era giusto”.
Erik la fissò con uno sguardo vuoto, senza dir nulla e senza accennare una mossa contro di lei. S’era fatto all’improvviso completamente immobile, con le braccia che gli ciondolavano inerti lungo i fianchi e gli occhi spalancati e fissi, scintillanti di un riflesso dorato nell’oscurità del rifugio sotterraneo, ed era come se le parole sentite della donna avessero spento il disprezzo, il fastidio e l’irritazione che aveva provato fino a pochi istanti prima. Se gli si fosse rivolta in quella maniera prima dell’abbandono di Christine, si sarebbe adirato, l’avrebbe rinchiusa nella Camera dei Supplizi e ascoltando le sue grida avrebbe convenuto con se stesso che nulla di quanto affermava era vero.
Ma ora non ne aveva la forza e, scoprì, nemmeno il desiderio. Per quanto assurda fosse la cosa, provava gratitudine per lei, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Era stata l’unica, in tutta la sua vita, a trattarlo con il riguardo che si usa con un altro essere umano e gli aveva mostrato gentilezza, una cosa che Erik non aveva mai conosciuto. Forse non l’aveva fatto in modo completamente disinteressato, ma gli aveva dato più di quanto avrebbe fatto una normale dipendente, e non poteva farle del male. A che sarebbe servito?
“Avete ragione” sussurrò con voce atona, e nessuno fu più stupito di lui da quell’inaspettata confessione di colpevolezza: “Non sono altro che un mostro”.
Madame Giry spalancò gli occhi, lo stupore che si imponeva prepotente sui suoi lineamenti irrigiditi dall’età, e aprì la bocca senza che alcun suono ne uscisse. Da lui ci si poteva aspettare qualsiasi cosa, l’atto più efferato e la crisi più profonda, ma mai, mai avrebbe immaginato che di fronte a quelle accuse avrebbe reagito con quella calma disperata, con quell’umiltà remissiva. Lo fissò, senza sapere come comportarsi, e la tensione che le attanagliava le membra andò attenuandosi, poiché nessuno in quel momento l’avrebbe reputato capace di fare del male a chicchessia.
Erik alzò lo sguardo su di lei ed era uno sguardo senza veli, come quello di un bambino, sperduto e addolorato e pronto per la prima volta ad accettare la verità così com’era, che fosse sgradevole o meno: “Quando mi sono accorto che Christine seguitava a desiderare il fievole amore del Visconte DeChagny, ho provato a convincermi che la causa fosse il mio aspetto e che la mia vista fosse troppo insopportabile per suscitare affetto. Ma non era così” scoppiò nuovamente nella sua terrificante risata, che fece scorrere un brivido lungo la schiena della donna: “Non era così! Se Christine non mi amava la colpa era unicamente della mia condotta nei suoi riguardi e di tutte le sofferenze che le avevo arrecato solo per vedere coronato il mio sogno di averla come moglie. Solo che io, capite, non avevo mai avuto un sogno. Era un lusso troppo grande per uno come me. E pensavo che fosse mio diritto realizzare almeno questo. Ma qui sta il punto. Christine non è un sogno. Christine è Christine. E io non avevo alcun pretesto di trattarla come l’ho trattata, costringendola ad accettarmi con le minacce e con false convinzioni. Mi sono negato da solo il privilegio di averla accanto, e adesso…”
Non poté continuare. Ammetterlo ad alta voce avrebbe reso l’addio ancor più reale e definitivo, e nelle sue condizioni un colpo simile avrebbe anche potuto ucciderlo. Distolse il volto, celandosi allo sguardo attonito e compassionevole della sua dipendente, e si sforzò con tutte le forze di non rammentare i dolci occhi marroni di Christine e la loro espressione riconoscente mentre le rendeva la libertà che le aveva tolto. Era stata l’unica volta, quella, in cui gli aveva dimostrato qualcosa che andasse al di là dell’orrore e della paura, e questo solo perché le aveva permesso di ricongiungersi al Visconte e andarsene con lui lontano dal buio in cui li aveva confinati.
Louise Giry si rese conto, con suprema meraviglia, che il mostro stava piangendo. Il contrasto di quelle lacrime perlacee che scorrevano sul volto deturpato era repellente e affascinante insieme e la sua figura emanava un’aura di dolore così potente che la donna se ne sentì sinceramente toccata e provò l’impulso, mai avvertito in precedenza, di stringerlo a sé e consolarlo, malgrado il suo aspetto demoniaco. Un poco dei suoi timori circa la sorte dei due giovani si rassicurarono e congetturò che se Erik aveva finalmente compreso i propri errori (cosa mai accaduta prima) probabilmente era successo qualcosa di benigno che l’aveva portato ad una simile consapevolezza.
“Mi dispiace, Erik” disse con sincerità: “Non volevo essere così dura”.
“Non dovete dispiacervi per aver detto la verità” proruppe lui con voce sorda. Si asciugò bruscamente le lacrime, orgoglioso come sempre, e cercò di riprendere il controllo della voce e dei gesti: “Non merito la vostra pietà e non la voglio nemmeno”.
Madame Giry abbassò gli occhi: “Perdonami se insisto, ma devo sapere che ne è stato del Visconte Raoul DeChagny e di Christine Daaé. Sono morti?”
“Morti!” ruggì lui in un improvviso impeto di energia che le strappò un sussulto. I suoi occhi infossati mandavano lampi: “Morti, dite! Se venissi a sapere che qualcuno ha torto anche un solo capello a Christine…no, non sono morti” fece una pausa e aggiunse, pianissimo: “Li ho lasciati andare”.
Se Madame Giry provò sollievo, fu molto abile a nasconderlo. Un evento che per l’intera razza umana era motivo di gioia, per Erik significava sicuramente una fonte di inesauribile dolore, e non intendeva accrescerlo mostrandosi eccessivamente lieta della notizia: “Hai compiuto un gesto molto altruista, Erik” disse dolcemente: “Sono orgogliosa di te”.
In un’eco minacciosa della sua antica crudeltà, lui le indirizzò un’occhiata glaciale e rabbiosa: “Credete che me ne importi qualcosa del vostro orgoglio? Ho perso tutto. Non mi rimane più nulla, neanche l’amore. Christine non tornerà più, e se mi rivedrà sarà soltanto dopo la mia morte, quando non potrò più godere della sua compagnia. Se ne sarebbe andata molto prima, se glielo avessi permesso, e certamente sarebbe stata ben felice di dimenticarsi di me”.
“Sei ingiusto, Erik!” protestò Madame Giry: “Sai che Christine ti si è affezionata ed ha sempre seguito i tuoi consigli prendendoli per oro colato. Nonostante quel che è successo, rimarrai sempre il suo Angelo della Musica”.
Un ghigno amaro si impresse sulla bocca deforme del mostro: “Lo ero prima che mi vedesse in volto. Da quel momento in poi ho rappresentato unicamente il Diavolo ai suoi occhi, e le sue reazioni in merito sono state molto eloquenti. Se non l’avessi tenuta con me con la forza, non avrebbe passato neppure un minuto del suo tempo in mia compagnia e si sarebbe recata immediatamente dal suo giovanotto per amoreggiare con lui”.
Madame Giry rimase in silenzio per un po’. Poi aggiunse: “Tuttavia tu l’ami”.
“Sì” mormorò lui: “Sì, l’amo, anche se sarebbe molto più semplice per tutti evitarlo. Ma non ho avuto voce in capitolo in questa faccenda, né alcuna possibilità di frenare le mie emozioni. L’amo senza una ragione e le sono riconoscente perché mi ha mostrato dolcezza, nonostante tutte le pene che le avevo inflitto. È una cara ragazza, Madame Giry. Voglio che sia felice con il suo Visconte…anche se io non lo sarò mai…”
“Eppure avevi affermato che sarebbe stato un errore per lei sposarlo”.
Erik contrasse il busto, come se un’ape fastidiosa l’avesse punto: “Devo ammettere che a suo modo, in una certa misura, quel giovane l’ama…” dire questo gli costava un’enorme fatica: “Ha attraversato le insidie dei miei domini per andarla a cercare e ha rischiato di morire per lei. Si prenderà cura di lei e la farà felice. Forse le offrirà una vita più monotona di quella che avrei potuto donarle io, ma credo che il carattere di Christine si accosti di più alla semplicità delle abitudini. D’altra parte, che alternative ho?”
La donna allungò una mano: “Erik…”
Con uno scatto fulmineo, egli respinse il suo tocco e le volse brutalmente la schiena, ponendo fine a quel momento di sfogo e di comunione: “Andatevene adesso, Madame Giry” proruppe cavernoso, stringendo i pugni tanto forte da conficcarsi le unghie nella carne: “Andatevene e non tornate mai più alla Dimora sul Lago”.
Louise Giry ebbe una leggera esitazione: “Che farai?”
Erik rise senza allegria: “Temete per la sorte del teatro? Di vostra figlia?”
“Temo per te, Erik”.
L’uomo avvertì una sensazione strana. Nessuno aveva mai avuto a cuore la sua sorte, anzi, si poteva affermare che i pochi a conoscenza della sua esistenza speravano fortemente che morisse il più in fretta possibile, liberando Parigi dalla sua nefasta presenza. Nel corso dei suoi anni aveva incontrato persone che gli avevano augurato ogni male, e persino la sua Christine, allorché le aveva fatto capire che la sua morte era prossima, non aveva mosso obiezioni né si era dispiaciuta. Dubitava che una volta perito le avrebbe strappato una delle sue dolci lacrime, e la giovane era l’essere umano che più aveva amato e quello che più era stato con lui (a parte Madame Giry, ma lei gli si era accostata per affari e non per piacere). Nessuno si era mai addolorato per lui, né aveva espresso preoccupazione nei suoi confronti.
Scorgendo sul volto benevolo di Madame Giry una traccia di apprensione e persino di affetto, provò l’impulso di seppellire la sua orrenda faccia di morto sul suo petto caldo e piangere tutte le lacrime che gli restavano, ma sarebbe stato un comportamento decisamente poco degno del Fantasma dell’Opera, e non avrebbe sopportato un eventuale rifiuto. Come poteva quella donna dimostrargli riguardo, quando l’aveva sempre e solo usata, quando le aveva fatto fare i lavori sporchi e l’aveva costretta a consegnargli la migliore amica di sua figlia? Certamente doveva avere un fine, che in quel momento gli sfuggiva, e che giustificava un simile comportamento! Certamente nel suo fosco cervello aveva escogitato un modo nascosto di ingannarlo e tradirlo e quella messinscena aveva lo scopo di fargli abbassare le difese e…
“Smettila” lo rimbeccò una voce interiore: “Chi vuoi prendere in giro? Se si comporta in questo modo, è perché le stai a cuore”.
“Non so cosa farò” confessò in uno slancio di sincerità: “Credo che troverò un luogo pacifico in cui trascorrere il tempo che mi resta, e sono certo che vi starò per un periodo molto breve”.
Madame Giry sbiancò: “Non devi pensare simili cose. Chiunque ha la possibilità di gettarsi il passato alle spalle e ricominciare a vivere”.
“La si può chiamare vita la mia?”
Si guardarono negli occhi per un lungo momento, ritti l’uno di fronte all’altra nell’oscurità della Dimora sul Lago, e nei loro sguardi c’era rispetto, una cosa che non si erano mai concessi durante gli anni della loro relazione d’affari. Erik si sentì d’improvviso molto più bendisposto nei confronti di lei e molto meno desideroso di conservare il suo contegno sarcastico, così si lasciò sfuggire una parola che mai aveva pronunciato: “Grazie, Louise” era la prima volta che abbandonava la forma di cortesia per rivolgersi alla donna con il nome proprio: “Grazie per l’aiuto che mi hai dato”.
Lei gli sorrise con sincera partecipazione: “Non perdere la speranza, Erik. Nella vita capitano cose inaspettate”.
“Non ad un cadavere. Un cadavere conduce un’esistenza molto monotona”.
“La dimenticherai”.
“E com’è possibile?” alzò la voce lui: “Era l’unica persona che amassi al mondo, l’unica per cui mi sono sacrificato e che ho considerato degna di trascorrere gli anni avvenire al mio fianco come consorte. L’unica che abbia mai baciato e che mi abbia baciato…mia madre, Louise, durante quel poco tempo che abbiamo passato insieme non ha mai voluto che la baciassi…fuggiva via, gettandomi la mia maschera e gridandomi di celare l’orrore…mentre Christine…Christine ha lasciato che la baciassi e ha capito cosa significava per me. Non la dimenticherò, Louise, né ora né mai, se avrò un futuro…e ne dubito assai”.
Madame Giry scosse la testa: “La dimenticherai”.
Erik la guardò con fastidio, ma non si prese il disturbo di ribattere oltre. Lasciò vagare lo sguardo per la desolazione della sua dimora (non desiderava incontrare lo sguardo pietoso e fiducioso della sua dipendente) e lo bloccò sulla sua immagine riflessa sulle torbide acque del lago Averno, tremolante nelle tenebre come quella di uno spettro. I suoi occhi di brace, che emanavano un bagliore dorato unicamente di notte, al buio completo, luccicavano fiocamente nella penombra e fiammeggiavano in mezzo al viso sfigurato, concentrando l’attenzione di chi lo guardava su di essi. Addosso portava ancora gli abiti rovinati che s’era messo per celebrare le sue nozze con Christine (e che s’erano orribilmente insozzati quando era dovuto entrare in acqua per attentare alla vita dell’Altro) e tra le dita della mano destra stringeva la veste candida della fanciulla, una macchia di luce su un corpo che promanava oscurità. Istintivamente se la portò al viso, ma scoprì che il profumo della ragazza era quasi totalmente svanito, e che la traccia restante non gliela riportava più alla mente.
S’accorse dello sguardo di Madame Giry e, imbarazzato, gettò a terra l’abito, incrociando risolutamente le braccia sul petto come per negare quel gesto, inammissibile indice di debolezza da parte sua.
“Ti prego, Louise” rantolò con voce soffocata: “Lasciami solo”.
Non era una minaccia, né un ordine. Era la supplica accorata di un miserabile, e Madame Giry la accettò come tale. Si avvicinò alla sua sagoma tremante senza mostrare paura né disgusto, gli occhi grigi che esaminavano il suo volto privi di qualsiasi forma di ribrezzo, e con le dita gli sfiorò una spalla. Il tocco ebbe su di lui l’effetto di una striscia di calore che gli scivolava nelle vene e rilassava un poco della sua tensione. Chiuse gli occhi e li strinse, per non mostrare a quella maestra di ballo quanto gli avesse fatto bene quella carezza. Per quanto lei fosse l’unica a non odiarlo, voleva che lo ricordasse come un uomo che non cede mai al dolore e che conserva in ogni situazione la sua dignità.
Erik prese un profondo respiro e si preparò all’ennesimo commiato. Concedendosi per un attimo di esternare le sue emozioni, sorrise alla donna di un sorriso profondamente triste e le tese la mano, aspettandosi che la respingesse disgustata o che la sfiorasse rapidamente e poi si pulisse sul vestito: “Posso salutarti, Louise, ora che nessuno ci vede? Sono contento di averti conosciuta, anche se abbiamo attraversato un periodo molto travagliato”.
“Ed io lo sono altrettanto” replicò Madame Giry con sua grande sorpresa. Gli strinse la mano senza segni apparenti di turbamento (Christine, al contrario, si era ritratta con un grido, trovandola di una freddezza innaturale) e la trattenne tra le sue per un lasso di tempo maggiore del dovuto, pelle calda contro pelle gelida: “Potrò rivederti un giorno?”
Turbato dalla naturalezza con cui aveva accettato il contatto, Erik cercò di darsi un contegno e guardò altrove: “Ne dubito molto. Se la mia esistenza dovesse protrarsi, credo che non tornerò più a Parigi. È stata teatro di ricordi troppo dolorosi e se rimanessi, i miei giorni sarebbero un supplizio e un inutile ricordo di Christine…ho bisogno di cambiare aria”.
Madame Giry annuì, capendolo, e gli lasciò andare la mano senza cercare di pulire la propria: “Addio, amico mio”.
Erik prese il coraggio a due mani, incitato dalla gentilezza con cui lei l’aveva toccato, e fece ciò che un qualunque gentiluomo dell’alta società avrebbe fatto, ma che lui non aveva mai osato fare: si chinò e le baciò la mano, velocemente, raddrizzandosi poi in fretta e furia nel caso il gesto fosse stato troppo sgradevole per lei: “Addio, Louise” balbettò: “Ora và”.
 
Sei mesi dopo, in una notte scura e gelida, sotto un cielo che lacrimava fiocchi di neve e dinnanzi al luminoso teatro dell’Opera Populaire, una lugubre ombra scrutava il paesaggio tanto conosciuto da dietro la protezione di un palazzo, avvolta in uno spesso mantello che la celava completamente agli sguardi degli indaffarati passanti.
Non aveva resistito. Non aveva tenuto fede alla parola data, non era riuscito a rimanere lontano da quel luogo che era l’unico ad aver rappresentato una casa per lui più di qualche mese di agonia. Alla fine, ignorando i ricordi dolorosi legati a esso, l’affetto che gli portava l’aveva spinto a ritornare alla dimora perduta. Perché aveva compreso che se non era stato amato come Erik, almeno sarebbe stato eternamente temuto come Fantasma dell’Opera. Quello era un titolo che nessuno gli avrebbe mai tolto, e che indiscutibilmente lo rendeva qualcuno. Svanire, consumarsi fino alla morte nel rimpianto e nel dolore non era servito ad allontanare l’ira bruciante e il senso di ingiustizia che sempre gli attanagliavano le viscere.
Perciò avrebbe ripreso a vagare per quei corridoi di cui solo lui conosceva la perfetta ubicazione, e avrebbe dato agli abitanti motivo di considerarlo. Ma non si sarebbe più arrischiato a palesarsi a loro, non avrebbe mai lasciato intravedere la propria umana identità, incappando nello stesso errore commesso con Christine. Erik era morto la notte del Don Juan, si era rammollito al tocco delle morbide labbra della cantante e aveva rinunciato al suo unico sogno, adesso rimaneva solo il Fantasma, il Signore delle Botole, il Figlio del Diavolo, e sarebbero stati questi gli unici nomi con cui il mondo l’avrebbe rammentato.
Era un nuovo inizio, o per meglio dire, un discorso ripreso dopo una pausa di dolore, e se lo sarebbe goduto fino all’ultima goccia.

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Capitolo 4
*** Il Fantasma è tornato! ***


Il Fantasma è tornato!

 
 
 
 
 
China alla fioca luce di una candela che proiettava ombre incerte e tremolanti sulle pareti della piccola stanza da letto offertale da Madame Lefevre, Vivian stringeva un’elegante pennino ed esitava con la punta appoggiata ad un foglio di carta marmorizzata trovato sul suo tavolino da lavoro. Il ripiano da toletta, poco discosto, era munito unicamente di una spazzola dal dorso d’argento appartenuta a sua madre e di una manciata di forcine raccolte in una scatola di velluto, e il modesto letto ingombro di piumoni era intatto e pronto ad accoglierla quando, diverse ore più tardi, ci si sarebbe coricata. Non era abituata al fatto che la domestica della sua tutrice glielo rifacesse ogni mattino, all’orfanotrofio e nella dimora di suo padre si era sempre occupata personalmente delle faccende di casa.
Era la sera della rappresentazione, e mancava poco al momento in cui si sarebbe dovuta recare all’Opera per assistervi. La giornata era stata faticosa come la precedente, costellata dall’ennesima sfuriata di monsieur Brochet, adirato per le continue libertà che si prendeva, e dalle occhiate velenose di Colette, che si era fatta ancor più odiosa da quando aveva sorpreso il fratello a fissarla. Per fortuna c’era Emma, che però era precipitata in uno stato di ansia da prestazione e non era stata capace di articolare mezza parola comprensibile. Vivian l’aveva convinta a cantarle qualche brano del programma di quella sera e aveva appurato che la sua amica era dotata di una voce pura e dolce, ma la sua tensione rischiava di diventare un ostacolo alla buona riuscita dell’impresa.
Sospirò scostandosi un ricciolo bruno che, monello, le era ricaduto sulla fronte. L’abito che era stata costretta a indossare per l’occasione, un modello di fine organza bianca che contrastava con la carnagione abbronzata e i colori scuri, aveva una generosa scollatura che lasciava intravedere la curva dei seni e una scomoda gonna che s’allargava a guisa della corolla di un fiore intorno alla sua vita, conferendole un’andatura da papera sollecitata, purtroppo, dalle strette scarpette col tacco. Ma più di tutto detestava il corsetto, una prigione di stoffa che le impediva una normale respirazione e la obbligava a risparmiare il fiato. Possibile che una ragazza per sembrare rispettabile dovesse agghindarsi a quel modo sadico? Tutto, nel suo abbigliamento, sembrava fatto apposta per causarle sofferenza. Non fosse stato per Madame Lefevre che bene o male l’aveva accolta in casa sua ed era la diretta responsabile della sua condotta, si sarebbe presentata con uno dei suoi soliti abiti di cotone grezzo.
Cielo, quanto poco desiderio aveva di andare! L’alta società parigina si sarebbe senz’altro raccolta al teatro dell’Opera e avrebbe dovuto fare gli inchini a tutti quei signori pomposi che avevano distrutto la reputazione di sua madre, sorridente e amabile come una perfetta signorina. Un ruolo che le andava tremendamente stretto. Doveva ripetersi in continuazione che lo faceva per Emma, e che sarebbe stato molto egoista da parte sua negarle il proprio appoggio per sprezzo della nobiltà. In fondo la ragazza le era stata vicina a dispetto della sua scarsa popolarità presso le allieve dell’Opera, aveva un debito nei suoi confronti.
Intinse il pennino nella boccetta dell’inchiostro e aggiunse qualche altra nota alla melodia che stava componendo. Non era niente di speciale, solo qualche rigo in cui aveva riversato delle note balenatele alla mente mentre ripensava al mistero del teatro dell’Opera e alle superstizioni che gravitavano intorno ad essa. Era il principio di una canzone, cantata e suonata, di cui ancora ignorava il seguito e il titolo ma che si era sentita in obbligo di mettere su carta, e mentre prendeva forma nelle linee d’inchiostro color pece, la ragazza tamburellava le dita sul tavolino immaginando di eseguirla al pianoforte, le labbra che sillabavano la melodia.
“Vivian!” Madame Lefevre, pronta per partire, aprì la porta della sua stanza e le scoccò uno sguardo di disapprovazione: “Vivian, mon dieu, sbrigati, dobbiamo andare! Non aspettano noi! Coraggio, ma chére, metti il soprabito”.
Lei levò gli occhi al cielo. Era bastato quel richiamo per spezzare la sua concentrazione. Si costrinse a sorriderle: “Certo, Madame, arrivo subito”.
Soffiò sull’inchiostro fresco per seccarlo e richiuse la boccetta, maledicendo le chiazze nere che le imbrattavano le dita. Avrebbe dovuto pensarci prima, dannazione! Si guardò intorno con foga nervosa, sventolando le mani incriminate senza alcun successo, e afferrò il paio di eleganti guantini di pelle che Madame Lefevre le aveva imprestato per quella sera. Se li sarebbe fatti bastare, sicuramente non avrebbero fatto caso ad una fanciulla che teneva i guanti anche in ambiente chiuso, soprattutto se quella fanciulla era lei. Li infilò con gesti bruschi e coprì l’unica pecca alla sua mascherata da mademoiselle parigina, indossando un mantello di foggia semplice e spegnendo l’unica candela accesa nella stanza semibuia. Avrebbe ripreso il suo lavoro il giorno dopo, sempre che l’ispirazione le suggerisse come farlo continuare.
“Eccomi, Madame!” scese le scale a rotta di collo, goffa e barcollante a causa dei tacchi alti e dell’ingombrante gonna, e trovò la sua tutrice che l’attendeva nell’atrio, un copricapo di lussureggianti piume nere poggiato sulla complicata acconciatura: “Sei pronta, ma chére?”
Niente affatto.
“Prontissima, Madame!”
Fuori infuriava, come al solito, una nevicata fitta e implacabile, che offuscava le vie ricoperte di coltre bianca e tramutava i passanti in frettolose ombre scure che, intirizzite, si affrettavano verso casa. La luna era già salita nel cielo oppresso da un’emorragia di fiocchi e cristalli di rocca, piena e argentea come un disco di mercurio, e il suo debole chiarore investiva i tetti del teatro dell’Opera, alti sopra le altre residenze e visibili dalla casa di Madame Lefevre. Le due donne corsero dentro la carrozza in attesa accanto al portone per non guastarsi gli abiti e si collocarono sui sedili, una davanti all’altra.
“Questo è un momento importante per te, ma chére” disse la sua tutrice con alterigia, prendendole le mani inguantate e stringendole: “Entrerai in società per la prima volta, e avrai modo di assistere ad una vera rappresentazione, come quelle in cui appariva tua madre prima del trasferimento”.
Forse si sarebbe aspettata da lei una reazione di qualche tipo, magari un fremito di emozione, uno sguardo trepidante, oppure un attacco di nostalgia per la sua compianta madre, ma Vivian deluse le sue aspettative. Guardava Parigi fuori dal finestrino, assorta dalla danza dei fiocchi e dalle luci dietro le pesanti tende delle case, e i suoi pensieri vagavano liberi, distogliendosi con sincero sollievo da ciò che l’attendeva. Ad un certo punto domandò: “Madame, voi siete a conoscenza della vicenda del Fantasma dell’Opera?”
La donna si irrigidì immediatamente. La sua espressione mutò dalla cortese partecipazione alla fredda diffidenza, e le sue labbra truccate di rosso si strinsero in una smorfia acida: “Come conosci questo nome?” suonò quasi come un rimprovero. Percependolo come tale, la ragazza si mise sulla difensiva: “Ne parlavano le altre nei camerini. Pare che sia un argomento di grande rilievo all’interno del teatro”.
“Un tempo, forse” sibilò Madame con reticenza: “Ma adesso, grazie al cielo, le persone serie non perdono tempo dietro a questa sciocca leggenda. E non dovresti farlo nemmeno tu. Una fanciulla nella tua stessa condizione sociale si è ritirata proprio a causa di questa storia, spero che comprenderai cosa è meglio per te”.
Vivian trattenne a stento una risposta brusca. Neanche avesse nominato Satana in persona! Cosa diavolo avevano tutti con quel Fantasma, e perché si chiudevano a quella maniera ogni volta che si accennava a lui? Se era davvero solo una sciocca leggenda come Madame affermava, perché aver tanta paura di parlarne?
L’Opera aveva un aspetto completamente diverso quella sera. Dalle finestre riccamente decorate promanava un’intensa luce dorata che esaltava le statue angeliche e lo splendore della cupola soprastante, e un tappeto d’un rosso carminio si srotolava al suo interno ed era percorso da un flusso costante di persone sontuosamente abbigliate, coppie a braccetto, fanciulle nubili accompagnate dalla famiglia, o anche solitari amanti della musica che volevano concedersi qualche ora di beatitudine. Il loro vociare riempiva l’aria di una melodia primordiale e festosa, e a guardia dell’ingresso due impeccabili lacché distribuivano il programma e indicavano la strada da seguire. Vivian, che pure non gradiva l’ostentazione e l’estetica, rimase sinceramente ammirata da quel clima che sapeva di evento importante, e tale fu la sua brama di accostarsi al magnifico quadro che commise il suo primo errore e uscì impetuosamente dalla carrozza non appena s’ancorò nel piazzale, anziché attendere come da protocollo che il guidatore le aprisse lo sportello.
Non aveva mai visto nulla del genere. Era difficile resistere ad un simile fascino, osservare tutto quanto con occhi imparziali senza lasciarsi suggestionare da quello splendore barocco. Ovunque volgesse lo sguardo, nuove meraviglie le colmavano il cuore di silenzioso timore, a cui però gli altri invitati dovevano essere avvezzi, a giudicare dalla tranquillità sofisticata con cui entravano nell’imponente costruzione. Sfiorò il marmo liscio di un muro e pensò che sua madre si era esibita lì, che aveva preso parte a quel mondo colorato e fastoso e che molte volte l’avevano allestito in quella maniera appositamente per lei, per la sua bravura e la sua fama.
“Non sarò mai abile come lei, vivrò sempre con la sua ombra sopra la testa” quella consapevolezza era come un macigno, che le gravava sulle spalle e la schiacciava al suolo. Lo spettro che la perseguitava in ogni luogo, lì si era fatto ancora più opprimente, ancora più reale, e provava una confusa mescolanza di terrore e ammirazione. Le fu consegnato il programma, che prese quasi senza rendersene conto, e lasciò semplicemente che la fiumana di persone la sospingesse all’interno del teatro, in quegli inestricabili corridoi che ormai conosceva. In ogni volto intorno a lei, rivedeva quello di sua madre, i suoi occhi scuri che aveva ereditato, i suoi capelli ramati, il corpo imponente da cantante e il petto sempre pronto a incamerare aria. Una parte di lei desiderava fuggire, un’altra era stata inevitabilmente catturata e non poteva fare a meno di avanzare.
“Mademoiselle?”
La voce maschile dietro di lei dovette ripetere l’invocazione tre volte prima di attirare la sua attenzione. Si volse, disorientata, e riconobbe un volto noto: era Antoine Baptiste Rappenau, il Marchesino dai capelli biondi e dai lineamenti cesellati ed arroganti che l’aveva fissata con tanta insistenza due sere addietro. Era ancora più elegante della volta precedente, abbigliato com’era di un completo scuro che gli metteva in risalto il fisico asciutto e forte, un bastone con una testa d’aquila in cima stretto nella mano affusolata, e le stava offrendo un sorriso non scevro di sottintesi, fissandola con i suoi occhi azzurro ghiaccio. Lei si ricordava di lui, ma la malevolenza che gli leggeva in viso la spinse ad adottare un tono di fredda cortesia: “Ci conosciamo, monsieur?”
Lui scoppiò in una risata bassa e suadente: “Non di persona, ma so che vi chiamate Vivian Carré e che siete arrivata da poco a Parigi. Io sono il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau, per servirvi” si tolse il cappello ed eseguì una riverenza perfetta, infliggendole un sorriso lampeggiante di denti candidissimi.
Bravo forse ad irretire le oche del pollaio, ma non lei. Non permise al suo sguardo di ammorbidirsi, né alla sua espressione di mostrare sentimenti: “Un titolo importante” osservò, ironica: “E a cosa devo l’onore, Marchesino?”
Lui non si fece scoraggiare dalla sua freddezza: “Ho sentito parlare di voi da mia sorella Colette. Vostra madre era una cantante straordinaria”.
“Sì, lo so” era scioccamente convinto che farle i complimenti su sua madre fosse l’arma vincente per rompere il ghiaccio, come tutti, d’altronde, invece cominciava ad essere sinceramente stufa di sentirsi rivolgere sempre le stesse frasi: “E dov’è vostra sorella adesso?”
“A prepararsi per l’esibizione, naturalmente. Canterà da solista, credo lo sappiate”.
Lei annuì e lanciò un rapido sguardo agli ingressi da cui la folla confluiva nella sala dove si sarebbe tenuta la rappresentazione: “Spero allora che non stoni, monsieur”.
Lui parve stupito: “Cosa?”
“Dicevo, spero che non stoni. Perché per stonare stonava, l’ho sentita io”.
Al giovane crollò il sorriso: “Ma…”
Lei gli scoccò un sorriso d’acciaio: “Vogliate scusarmi ora, Marchesino, ma ho urgente bisogno di fare una visitina ad un’amica nei camerini prima che inizi lo spettacolo, e se mi intrattengo ulteriormente in questa esaltante conversazione” lo pronunciò con chiaro sarcasmo: “Rischio di non riuscirci”.
Tutta la sicurezza e lo charme che lui aveva mostrato fino a pochi secondi prima svanirono a gradi, fino a lasciare la sua faccia un’allibita maschera di sconcerto e di incapacità di accettare d’essere stato congedato come un lacché. Vivian non aveva nessuna intenzione di ascoltare eventuali lamentele, così gli fece un rapido cenno del capo e si infilò tra due altolocate signore a forza di gomitate, svanendo nella folla e sollevandosi la gonna per non averne impiccio. Soltanto il seduttore aristocratico le mancava! Quel giovanotto era rimasto chiaramente attratto dalla novità e avendo conquistato la maggior parte delle compagne della sorella, le si era avvicinato sicuro del suo fascino infallibile. Ma ci voleva ben altro per sdilinquire una come lei, che aveva fatto voto di eterno nubilato. Non aveva bisogno della protezione di nessun uomo, se la cavava benissimo da sola, e li considerava un branco di teste calde persi dietro a sogni di onore e di ricchezza, troppo affamati di sesso e di piaceri per capire cosa era davvero importante. Si teneva alla larga da loro e loro avrebbero fatto meglio a tenersi alla larga da lei, soprattutto il bell’Antoine.  
Il salone era impressionante, talmente enorme che erano stati collocati un gran numero di ingressi per permettere al pubblico di entrarvi da diverse sezioni dell’Opera. Poltroncine di velluto rosso costituivano la platea e da balconi sopraelevati, gli ospiti più benestanti si sporgevano per guardare, accostando agli occhi binocoli d’oro. Il palcoscenico, marmoreo e luccicante, era celato completamente da un’immensa tenda bordeaux rifinita d’oro che si srotolava fino a terra, avvolgendosi in volute di tessuto ripulito da ogni granello di polvere. Candelabri attaccati alle pareti da supporti di metallo illuminavano l’ambiente prima di essere spenti per la rappresentazione, e tutto era ancora un caos di gente che cercava il proprio posto e salutava qualche conoscenza. Alzando lo sguardo, Vivian rimase a bocca aperta nel contemplare un gigantesco lampadario dorato che troneggiava sopra le loro teste, emanando una luce intensissima. Chissà quanto tempo era occorso per costruirlo!
Si fece strada fino al palcoscenico a fatica, scostando corpi avvolti in abiti costosi e pestando accidentalmente qualche piede, accaldata dalla pesantezza dell’abito e con i piedi intrappolati in quegli strumenti di tortura, e lì fu costretta ad intraprendere una tremenda discussione con un macchinista che non voleva lasciarla accedere ai camerini.
“Frequento delle lezioni qui, vi dico!” insistette per l’ennesima volta, frustrata: “Conosco una delle coriste! Avanti, siate buono, lasciatemi passare!”
“Il regolamento vale per tutti, non posso fare favoritismi” rispose quello inamovibile: “Se permettessi a voi di passare, mi ritroverei sommerso di spettatori che pretendono di ottenere la stessa cosa. Credete forse che tra quelle persone non ci sia qualcuno che conosce le ragazze, mademoiselle? Un gran numero di famiglie gradirebbe augurare la buona fortuna alla propria figliola prima della sua entrata in scena, ma le regole sono regole”.
Vivian avrebbe voluto scaraventarlo nella sezione sottostante al palco, dove l’orchestra accordava i propri strumenti: “Vi prego” la sua indole orgogliosa si ribellò a quell’implorazione, ma si costrinse a rammentare il volto impaurito di Emma: “La mia amica ha bisogno del mio sostegno. Non starò molto, due minuti per farle coraggio e torno al mio posto, giuro”.
Non colse alcun accenno di cedimento sul viso di lui: “Mi dispiace, mademoiselle. Non posso”.
“Oh, maledizione!” prevedeva che sarebbe esplosa, e non riuscì a contenere l’ira: “Cosa devo fare per convincerti, pagarti?”
Lui restò a bocca aperta: “Come osate…”
“Ora basta, Jacques!”
La voce femminile, risuonata all’improvviso nel bel mezzo del loro alterco, li indusse a girarsi in simultanea verso la sua proprietaria. Una donna in età avanzata, abbigliata elegantemente per l’occasione, con i capelli screziati di grigio raccolti in una crocchia ordinata e una dolcezza innata nello sguardo. Bastò che il macchinista la riconoscesse perché tutta la sua tracotanza se ne andasse: “Madame Giry!” sussurrò, servile: “Sto soltanto adempiendo ai miei doveri. Il regolamento parla chiaro: nessuno può disturbare gli artisti mentre si preparano ad entrare in scena”.
“A volte è bene fare un’eccezione, in certe circostanze” lei parlò con tono calmo e ragionevole: “So chi è questa giovane, e credo di poter affermare con sicurezza che sia proprio il caso di glissare sulle regole. Mi assumo ogni responsabilità riguardo alla faccenda”.
Jacques non sembrava affatto convinto, ma chinò il capo in segno di ossequio e si spostò da una parte per far passare Vivian, a cui rivolse un muto sguardo di antipatia. Lei, intimorita dall’inaspettato aiuto datole da quella figura ieratica e placida, esitò ad avanzare, ma quando la donna le tese la mano con un sorriso gentile, la accettò e lasciò che la conducesse dietro le quinte. Il suo sarcasmo, la sua ironia, parevano evaporare di fronte a Madame Giry, per cui nutriva un’incomprensibile ammirazione.
“Perché l’avete fatto?” bisbigliò. Lei sorrise come una ragazzina: “Sono stata giovane anch’io, Vivian, e capisco cos’è l’amicizia. Emma ha bisogno di te per farcela stasera, l’ho visto chiaramente”.
“Allora…” arrossì leggermente: “Grazie, Madame”.
“Chiamami pure Louise, ma chére. E, se accetti un consiglio…”
Sorprendendo se stessa, Vivian annuì subito: “Prego!”
Madame Giry incurvò le labbra in un sorrisetto divertito: “Quando desideri essere ascoltata, non gridare per farti sentire, perché spesso la gente non ha orecchie per farlo, ma dì la cosa giusta” si fermò e le fece un ampio gesto di benvenuto: “Eccoci arrivate. Coraggio, và dalla tua amica, e fa in fretta! Manca poco all’apertura della tenda!”
Nel camerino delle coriste, era tutto un insieme di gorgheggi di prova e di fruscii di vesti che venivano indossate in fretta e furia. Le ragazze correvano di qua e di là con agitazione, i piedi nudi che urtavano il pavimento, i volti pesantemente truccati, e domandavano a gran voce dove fosse questo o quello, se il costume stesse loro bene o quanto tempo mancasse al momento di entrare in scena. Vivian si guardò intorno in cerca di Emma, non trovandola in mezzo a tutte quelle adolescenti sovreccitate, spostandosi bruscamente se qualcuna minacciava di travolgerla e ricevendo con indifferenza qualche sguardo sospettoso, e finì per tirare la manica di una delle più innocue: “Scusa, dov’è Emma?”
Quella, infastidita d’essere stata interrotta, le indicò un punto vuoto e isolato.
La sua amica sedeva sola su uno sgabello, già pronta per lo spettacolo, con la gonna che formava una pozzanghera intorno a lei e il viso coperto dalle mani incrociate a mo di barriera, e tremava violentemente, le spalle sussultanti come se stesse piangendo. Nessuna si preoccupava di lei, in quel caos, nessuna si accorgeva del suo stato, erano tutte prese dalla loro ansia e dalla loro paura e certo non dedicavano attenzione alla più timida del gruppo, che da parte sua non osava richiamarne l’attenzione. Vivian si sentì assalire dalla pietà, un sentimento che assai raramente le accarezzava l’animo, e la raggiunse a piccoli passi, timorosa di spezzare il suo raccoglimento in modo troppo traumatico. Ma Emma era talmente presa dal suo scoramento che non s’accorse di lei neanche quando le giunse accanto. Esitando, Vivian le appoggiò una mano sulla spalla: “Ehi…”
La fanciulla ebbe un sobbalzo, come se le avesse sparato un colpo, e alzò la testa di scatto, un lampo di panico negli occhi. Riconoscendola, si rassicurò un poco e accennò perfino un sorriso debole, ma la disperazione e il terrore non abbandonarono i suoi lineamenti irrigiditi: “Vivian! Sei venuta!”
“Avevi dubbi, forse?” sedette accanto a lei e le prese le mani tremanti: “Non potevo certo mancare alla tua prima esibizione! Come và?”
Emma rimase in silenzio per un poco. Il cuore le batteva tanto forte che Vivian riusciva a sentirlo. Lasciò vagare per il camerino uno sguardo vuoto, assente, e le sue spalle si aggobbirono: “Malissimo. Non ce la faccio, Viv. Sono…sono troppi” ansimò: “Li hai visti lì fuori? Sono una marea! Non credevo che…che fossero…non ci riuscirò mai. Sverrò sul palcoscenico e rideranno di me. Dico a Madame Giry che mi ritiro”.
“Sei impazzita per caso?!” Vivian le strinse le mani come una tenaglia e alzò la voce, incurante che le altre potessero udirle: “Questa è la tua sera, Emma, è la tua occasione di dimostrare al mondo quanto vali! Non puoi permettere all’ansia di portartela via!”
L’amica sembrava sul punto di piangere: “Tanto sono solo una corista. Non si sentirà la mia mancanza”.
“Sì che si sentirà invece, diavolo! Hai una voce stupenda, ti ho sentita questa mattina ed ero a bocca aperta. Non lascerò che tu perda la tua occasione”.
Emma si prese la testa tra le mani: “Tu non capisci, tu non hai paura di cosa pensano gli altri, ma io sì! Il solo immaginare tutte quelle persone che mi fissano mi blocca completamente. È inutile che ci provi. Farò solo sfigurare le altre”.
“Le altre sfigureranno se non sarai al loro fianco! Non lo sto dicendo perché mi sei simpatica, sai che sono diretta, se davvero pensassi che tu non sia in grado di sopportarlo, non mi farei problemi a dirtelo. Ma non lo penso. Tu sei brava davvero, Emma, e la cosa migliore che puoi fare è dimostrarlo al pubblico e alle altre. Se ti ritiri, se getti la spugna, dai loro ciò che vogliono. Fa la tua parte e tieni alta la testa, perché puoi, te lo assicuro, puoi!”
La guardò dritta negli occhi, le calde iridi nocciola che emanavano rassicurazione, decisione e coraggio, e lentamente percepì il suo tremito che scemava, il pallore che si colorava un poco di rosa e il panico nelle pupille che faceva a lotta con l’intraprendenza. Emma non desiderava davvero andarsene, aveva soltanto una crisi di panico, e proprio come aveva suggerito Madame Giry, una parola buona da parte sua era tutto ciò che serviva. Le sorrise, scanzonata, e le scostò una ciocca di capelli sudati dal viso: “E poi, ma non è la ragione meno importante, sono venuta qui, addobbata di questo abito maledetto e di queste scarpette da voglio-avere-le-vesciche, apposta per sentirti cantare, e se non lo fai, come è vero Iddio, ti darò la caccia fino ai confini del mondo e ti farò pentire della tua scelta”.
Emma fece una risatina isterica. Inspirò profondamente, massaggiandosi le tempie e asciugandosi gli occhi lucidi, e lasciò andare l’aria come se le costasse uno sforzo immane: “…d’accordo” mormorò: “D’accordo, lo faccio”.
“Finalmente!” Vivian la abbracciò con impeto: “E sta tranquilla, con tutte le stonature di Colette, le tue passeranno inosservate”.
Riuscì a farla ridere di nuovo, e con quella risata se ne andò una piccola parte della sua tensione.
 
Nel salone si fece buio e un sonoro squillo di tromba segnalò l’inizio dello spettacolo. Chi stava discutendo con il suo compagno di posto, fece silenzio, chi restava immerso nei suoi pensieri prestò attenzione a quanto stava succedendo, e Vivian, raggiunta la sua tutrice nella platea e accomodatasi sulla sua poltroncina, accostò al viso il binocolo e venne colta da una lieve morsa di emozione: era la prima volta che assisteva ad un’opera, e intendeva godersela per tutta la sua durata.
L’orchestra, prontamente raggiunta dal direttore, si preparò a suonare. Gli archetti furono avvicinati ai violini, le dita si appoggiarono ai tasti del pianoforte, le bocche aderirono a trombe, flauti e tromboni, le corde dell’arpa fremettero in attesa d’essere pizzicate e le bacchette si levarono sopra ai tamburi. Un attimo di attesa, e una melodia si diffuse per la sala, prima tenue, poi sempre più ispirata.
Scostandosi dolcemente, le tende rivelarono la splendida scenografia che raffigurava una foresta tenebrosa e oscura, dai rami aguzzi e dalle fronde intricate. Il corpo di ballo, già messo in posizione al centro del palcoscenico, si mosse come un’unica, fluida entità e cominciò a scandire con piroette e volteggi le note della sinfonia, il tempo che non veniva mai perduto e le scarpette che urtavano il palco senza produrre alcun rumore. Scorrendo con lo sguardo le file di leggiadre ballerine, Vivian scorse Meg in mezzo a loro, i biondi capelli compressi in uno chignon e il corpo esile che si tendeva come un giunco. Era brava, sicura di sé, e non perdeva mai il tempo. La ragazza era affascinata da quel gioco di giravolte e di complicati arabeschi, e il solo immaginare di poter sollevare una gamba all’altezza raggiunta dalle ballerine le causava vertigini. L’eleganza e la snodabilità delle loro membra erano frutto di anni di duro esercizio e di allenamenti spietati.
Ipnotizzata dalla leggiadria delle ballerine, ne seguì l’esibizione finché non terminò e applaudì con sincero entusiasmo, imitata prontamente dal resto del pubblico. Senza abbandonare la grazia, le fanciulle chinarono leggermente il capo e, saltellando, entrarono in quattro quinte diverse, lasciando il palcoscenico curiosamente vuoto. Ma non per molto ancora: il coro prese subito il loro posto, gli abiti di un verde intenso e ricco che brillavano nel buio del salone, e si mise in posizione. Emma era in prima fila a causa della sua bassa statura, le mani congiunte in grembo e il volto pallido, ma aveva uno sguardo fermo e sembrava padrona di se stessa. Vivian le augurò silenziosamente buona fortuna.
Partirono piano, quasi sussurrando, le voci di soprano che si scontravano con quelle di contralto, per poi salire in un’utopia sempre più grandiosa e sonora, che celebrava l’arte della musica con magnifico struggimento e trascinava il pubblico in un delirio di disperazione, gioia, commozione e paura. Vivian non si era mai sentita così partecipe a qualcosa. Fremeva insieme alle coriste, si lasciava trasportare lungo vari stadi di esaltazione e veniva afferrata da una gelida morsa di oscuro presagio quando la melodia acquisiva toni angoscianti e le voci si abbassavano di tono. Nessun accenno di emozione, tuttavia, alterava i volti composti delle coriste (neanche quello di Emma), e da loro promanava soltanto una profonda e terribile concentrazione. Capolavori del genere, pensò Vivian, avrebbero dovuto essere capaci di frantumare il mondo e far cadere l’universo, oppure di unire il genere umano come mai era accaduto prima, soffocando le differenze e rendendoli uguali agli occhi del cosmo.
Fu in quest’atmosfera di grandiosità che fece il suo ingresso Colette. Emerse da dietro le quinte con andatura solenne e aggraziata, addosso un abito dalla stoffa argentea che le rivestiva il corpo come un manto di stelle, i capelli biondi sciolti fino in vita, e prese posto davanti a tutte, le braccia allargate a comprimere la sala, le spalle spianate e il viso privo della solita malignità, ma raccolto e ispirato. Senza dubbio era dotata di una notevole presenza scenica. Aprì la bocca per intonare la sua parte, nel silenzio profondo e denso della platea ipnotizzata, ma proprio in quel momento che il suo organismo era un tutt’uno con la musica, Vivian avvertì uno strano presentimento.
Era un pizzicore sulla nuca, una stretta gelida alle viscere, un vago malessere che sembrava volerle suggerire qualcosa che le sfuggiva. Non aveva motivo di sentirsi tanto angustiata ed era irragionevole da parte sua cedere a quella sensazione assurda, così si sforzò di ignorarla e di concentrarsi sulla musica. Era un momento troppo serio e importante perché lo guastasse con le sue paure immotivate, non era una sciocca superstiziosa!
Colette, dopo essersi dondolata da una gamba all’altra, schiuse le labbra e fece risuonare nella sala la sua forte voce di contralto, la gola pulsante e i capelli che la ricoprivano come un mantello d’oro zecchino:
 
Chi cavalca così tardi per la notte e il vento?
È il padre con il suo figlioletto;
se l’è stretto forte in braccio,
lo regge al sicuro, lo tiene al caldo.
 
“Figlio, perché hai paura e il volto ti celi?”
“Non vedi, padre, il re degli Elfi?
Il re degli Elfi con la corona e lo strascico?”
“Figlio, è una lingua di nebbia, nient’altro.”
 
“Caro bambino, su, vieni con me!
Vedrai i bei giochi che farò con te;
tanti fiori ha la riva, di vari colori,
mia madre ha tante vesti d’oro.”
 
Era terminata ormai la terza strofa e ancora il presentimento non si era deciso ad abbandonare l’animo di Vivian, anzi, pareva addirittura aver acquisito forza, a causa delle angoscianti parole del lied e dei toni cupi e bassi della melodia che lo accompagnava. Si sfregò le braccia, infreddolita senza apparente motivo, e girò intorno uno sguardo spaventato, ma ciò che la circondava era tranquillo e rassicurante, nessuno degli altri spettatori sembrava condividere il suo stato d’animo. Era una paturnia, niente di più!
 
“Padre mio, padre mio, la promessa non senti,
che mi sussurra il re degli Elfi?”
“Stai buono, stai buono, è il vento, bambino mio,
tra le foglie secche, con il suo fruscio.”
 
“Bel fanciullo, vuoi venire con me?
Le mie figlie avranno cura di te.
Le mie figlie di notte guidano la danza,
ti cullano, ballano, ti cantano la ninna-nanna.”
 
“Padre mio, padre mio, in quel luogo tetro non vedi
laggiù le figlie del re degli Elfi?”
“Figlio mio, figlio mio, ogni cosa distinguo:
i vecchi salici hanno un chiarore grigio.”
 
“Ti amo, mi attrae la tua bella persona,
e se tu non vuoi, ricorro alla forza.”
“Padre mio, padre mio, mi afferra in questo istante!
Il re degli Elfi mi ha fatto del male!”
 
Stava per accadere qualcosa di terribile, Vivian se ne rendeva conto con violenza. Forse era qualcosa nell’aria, una corrente di invisibile tensione, un universo di sussurri privi di suono che le aveva accarezzato la coscienza consentendo a lei sola di prevedere il prossimo futuro, o forse un segno inviatole da un Dio in cui troppo superficialmente credeva, ma non poteva continuare a ignorarlo. Erano tutti in pericolo e per colmo di sfortuna non sapeva cosa li minacciasse, quale presenza avesse avvertito e in che modo si sarebbe manifestata. Afferrò il braccio di Madame Lefevre, ansimando, e le bisbigliò: “Dobbiamo andarcene da qui!”
“Cosa?” la donna aggrottò le sopracciglia: “Che dici, ma chére?”
“Dico sul serio!” grosse gocce di sudore le colavano lungo le tempie e i suoi occhi si sbarravano nel buio nel tentativo di comunicare alla tutrice la foga che la opprimeva: “Siamo in pericolo!”
“Smettila di dire assurdità, ragazza” Madame si liberò dalla sua presa con fastidio: “E fa silenzio, piuttosto”.
Vivian la fissò impotente e disperata, comprendendo, malgrado la propria ansia, le ragioni del suo comportamento, e si guardò intorno come un animale braccato, concentrando lo sguardo prima su Colette, sprofondata nel suo raccoglimento canoro, poi sul gigantesco lampadario che pendeva su tutti loro. Le parve, ma non ne fu del tutto sicura, che fosse attraversato da un tremolio.
 
Preso da orrore il padre veloce cavalca
il bimbo che geme stringe fra le sue braccia,
raggiunge il palazzo con stento e con sforzo,
ma nelle sue braccia…il bambino…era morto!
 
Accaddero due cose contemporaneamente: il lampadario, con un cigolio infernale e roboante, perse il proprio appiglio sul soffitto e venne privato da una mano invisibile della corda che lo teneva sollevato sopra la platea, e Vivian, che l’aveva fissato nel corso di questa ultima e terribile strofa, capì prima di tutti gli altri quel che stava per succedere e reagì per puro istinto di sopravvivenza, gettandosi su Madame Lefevre e scagliandola di lato con un vibrante: “Giù!”
Il pubblico non ebbe tempo neanche di urlare. Coloro che si trovavano sotto al mastodonte in caduta libera, oscurati dalla sua immensa ombra simile al dito giudicatore di una crudele divinità, riuscirono a malapena ad alzare gli occhi prima d’essere travolti. Quella tonnellata di oro, acciaio e ferro precipitò verso il basso stridendo il suo ultimo grido alla vita per tutto il salone e rovinò al suolo in una tremenda esplosione di marmo, candele e calcinacci, sotterrando una buona sessantina di esseri umani nel suo oscuro grembo. Vivian si salvò per miracolo, trovandosi poco discosta dal suo raggio d’azione, ma vide tutta la scena dall’inizio alla fine come se scorresse al rallentatore, e quando il lampadario trovò l’impatto col pavimento e seppellì quelle persone, un grido muto di orrore le attraversò tutto l’organismo, un grido che nessuno avrebbe ascoltato ma che le scosse ogni singola terminazione nervosa. Non c’era tempo per pensare lucidamente in situazioni del genere, né per accettare pienamente quel che era appena accaduto, c’era spazio soltanto per l’orrore e la sorpresa e per il panico che, malevolo, sopraggiunge subito dopo la tempesta.
I superstiti, paralizzati per un attimo intorno al cadavere mutilato del lampadario, incominciarono a urlare con tale animosità da far risuonare tutta la sala della musica del loro terrore, e ogni cosa si tramutò in un caos di corpi che correvano frenetici verso l’uscita, urtandosi, calpestandosi, spingendosi, l’egoismo e la paura resero brutale l’animo umano e ogni sorta di cameratismo svanì, sostituita dalla gelida volontà di vivere. Fidanzati abbandonavano le loro signore per cercare la salvezza fuori dal luogo maledetto, giovani respingevano vecchi dal loro cammino e bambini venivano spintonati deliberatamente indietro dagli adulti. Alcune delle coriste si erano lanciate giù dal palcoscenico strappando i loro abiti, e altre, tra cui Emma, sostavano come automi, lo sguardo fisso nel vuoto e le braccia ciondoloni lungo i fianchi.
Se qualcuno oltre a Vivian si stava domandando chi avesse fatto cadere il lampadario, trovò ben presto la sua risposta nelle grida della folla in fuga:
“È il Fantasma dell’Opera!”
“Proprio come l’altra volta!”
“Il Fantasma dell’Opera è tornato!”
“Siamo perduti!”
La ragazza scosse la testa, tossendo, stordita e rintronata. Intorno a lei un delirio infernale, un assembramento di bestie che si scannavano pur di guadagnare l’uscita. Madame Lefevre, stesa al suo fianco, aveva nascosto il viso nella piega del braccio e singhiozzava senza ritegno, immobile come una morta. Una mano pallida e insanguinata emergeva dalle rovine del lampadario e si muoveva debolmente negli ultimi spasimi dell’agonia.
“No” quello di Vivian fu appena un sussurro: “No, no, no”.
Uno strillo acuto la indusse a girarsi verso il palcoscenico. Una delle coriste, la ragazza dai capelli rossi e le lentiggini che si comportava come la schiava di Colette (la bionda si era volatilizzata subito dopo la caduta) indicava un punto sopra di sé con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Vivian seguì la direzione del suo sguardo e fu presa dall’orrore: la scenografia si stava staccando dai suoi supporti e, con lentezza esasperante, iniziava ad oscillare pericolosamente verso il basso, sulle ragazze ancora rimaste sul palco e su Emma, pietrificata come se la minaccia non fosse esistente. La vista della sua amica ferma sotto quella massa che minacciava di rovinarle addosso da un momento all’altro fece un’improvvisa chiarezza tra i pensieri di Vivian, restituendole una sorprendente lucidità.
“Emma!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola: “Emma, spostati!”
Ma la fanciulla non diede segno di averla sentita e rimase dov’era. La scenografia si inclinò nella sua direzione, una foresta fasulla e gigantesca in procinto di divorarla.
Vivian scattò come se avesse le ali ai piedi, mossa solo dall’istinto e dal cieco desiderio di salvarla. Corse freneticamente verso il palcoscenico, zigzagando tra le poltroncine vuote e calpestandosi la gonna con le scarpette eleganti, gridando il nome di Emma con tutta la sua voce, gli occhi colmi della visione della scenografia che le si avvicinava sempre di più, e balzò sul palco come una gatta selvatica, boccheggiando, ansimando, pregando qualsiasi divinità fosse in ascolto di salvare lei e la sua amica. Non potevano morire in quel modo, non sarebbe stato giusto, non sarebbe stato corretto!
L’afferrò per la mano gelida e docile come quella di un cadavere, consapevole dell’enorme peso che franava contro di loro, e la strattonò con foga selvaggia: “Emma, Emma, dobbiamo andarcene!”
Il volto della sua amica era bianco come una tonda luna piena, gli occhi sbarrati e lontani e la bocca semiaperta. Non le sarebbe stata di nessun aiuto, né le sue parole avrebbero mai raggiunto il posto distante e segreto in cui era andata a rintanarsi per sfuggire all’orrore. Le diede uno spintone violento, buttandosi su di lei a peso morto, la scenografia che ormai quasi poteva toccarle, e caddero giù dal palco come un piombo, atterrando, avvinghiate, sullo spazio occupato dagli strumenti che i musicisti avevano abbandonato per fuggire e rotolando come una confusa massa di carne e stoffa. Finirono contro all’arpa e Vivian si districò in fretta dal groviglio che avevano formato, alzando lo sguardo sulla scenografia che franava sul palco e ancora una volta scagliava ovunque calcinacci.
Era un incubo. Un terribile incubo.
Ma qualcuno rideva. Sì, un uomo rideva sguaiatamente di quella distruzione e di quell’orrore e la sua risata infinita e quasi disperata sovrastava le grida del pubblico, il fragore dei loro passi e i lamenti dei feriti, scuotendo tutta la sala con il suo tremendo trionfo. Vivian ruotò su se stessa con i capelli al vento, gli occhi simili a saette fiammeggianti, e intravide un’ombra che si dileguava rapida nell’intrico di corridoi che costituivano il soffitto del palcoscenico, abbandonando la postazione da cui aveva fatto cadere la scenografia. Nessuno, in quella confusione, la notò oltre a lei.
“È lui il responsabile” digrignò i denti: “Il presunto Fantasma dell’Opera!”
Lasciò Emma là dov’era e si gettò ad un inseguimento disperato, decisa a trovarlo, decisa a punirlo, decisa a svelare la sua identità e a sfatare il mito che lo riguardava, e intanto urlava a gola spiegata: “Torna indietro, vigliacco! So che sei reale, non mi fai paura!”
Ma prima che potesse salire dove l’ombra era scomparsa, qualcuno le arrivò alle spalle e la cinse in una stretta tenace, premendola contro di sé: “Mademoiselle Carré, è pericoloso”.
Senza nemmeno curarsi di chi fosse, lei incominciò a dibattersi selvaggiamente: “Lasciami, devo trovarlo! Non devo lasciarlo scappare!”
“Siete sconvolta, lasciatevi condurre fuori” la voce apparteneva, adesso se ne rendeva conto, ad Antoine Rappenau, e le sue braccia la stringevano con curiosa intensità, facendola aderire al suo torace. Si divincolò con violenza e gli mostrò i denti: “Levami le mani di dosso!”
Lui indietreggiò con le mani alzate: “Calmatevi!”  
“No! Non mi calmo! Come posso calmarmi?” le lacrime le sgorgarono dagli occhi e le rigarono le guance sporche di polvere. Cadde in ginocchio, le forze che l’abbandonavano tutte insieme, e si nascose il volto fra le mani, singhiozzando in modo incontrollato: “Come posso non essere sconvolta dopo quanto è successo?!”
Perfino lei, la razionale, la sarcastica Vivian, aveva un’unica risposta a quell’orrore, una risposta che la lasciava insoddisfatta e amareggiata.
Il Fantasma dell’Opera era tornato. E aveva voluto celebrare l’evento con una piccola “festa di bentornato”.  
 

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Capitolo 5
*** Sulle tracce della Dimora nel Lago ***


Sulle tracce della Dimora nel Lago

 
 
 
 
 
Era trascorsa una settimana. Una settimana e nessuno si era dato la pena di indagare sull’artefice del disastro che si era abbattuto sul teatro dell’Opera durante la sera del “Re degli Elfi”. Calcinacci, detriti e rovine erano stati spostati ed eliminati, tutte le rappresentazioni in programma cancellate e la vicenda coperta malamente con una spiegazione tecnica, dovuta alla mediocre organizzazione del salone. Le lezioni e l’andamento abituale erano ripresi normalmente dopo tre giorni e malgrado i sussurri e i mormorii ripetuti di continuo (a parere di tutti, il teatro era stato infestato di nuovo dal temibile Fantasma dell’Opera), abituatisi ormai alla sua nefasta presenza, tutti si sforzavano di comportarsi in maniera tranquilla ed erano risoluti nel ritenere che bastasse evitare le rappresentazioni per non incappare in un altro attacco da parte sua.
L’unica a non pensarla così era Vivian. Per lei, il mistero che riguardava quell’individuo (perché di questo si trattava, non aveva alcun dubbio in proposito) era divenuto una sorta di ossessione, e ovunque si recasse, qualsiasi occupazione trovasse, non riusciva mai a scacciarlo dalla mente, mille domande e mille dubbi la opprimevano ed era consumata da una sorta di fuoco interiore, da una smania insoddisfatta che pretendeva una soluzione al più presto. Emma aveva rischiato di morire, lei aveva rischiato di morire, ed era necessario capire chi fosse il responsabile! Non se la beveva la storia del Fantasma, così come non se l’era bevuta all’inizio. Egli era un uomo, come i tanti che vedeva in strada, e abitava da qualche parte sotto di loro, tramando la loro rovina e la loro umiliazione, e più i giorni si srotolavano l’uno all’altro, più la fanciulla bramava di scovare la misteriosa “Dimora nel Lago” di cui le aveva parlato Emma.
Purtroppo l’amica non sembrava condividere il suo desiderio di arrivare alla verità. Non si era ripresa del tutto, sebbene fosse emersa dallo stato di choc in cui era precipitata durante il crollo del lampadario, e ogni qualvolta si accennava alla faccenda, si irrigidiva tutta quanta e cambiava bruscamente discorso. Nel giro di poco tempo, Vivian aveva compreso che sperare in un aiuto da parte sua era inutile, così come era inutile sperare nell’aiuto di chiunque altro: temevano il Fantasma dell’Opera così come si teme un demone creduto erroneamente esorcizzato, e la loro unica soluzione era evitare in tutti i modi di contrariarlo per non sollecitare un’altra volta la sua ira.
Ma lei non aveva paura. Malgrado ciò a cui aveva assistito, malgrado avesse toccato con mano di cosa era capace quell’enigmatica figura, gli unici sentimenti che provava erano rabbia e curiosità. Aveva provato a scendere ai piani bassi un giorno che aveva finito presto la sua lezione, ma il teatro aveva una struttura a labirinto ed era stata costretta a desistere per non perdersi tra i corridoi.
Le era impossibile destreggiarsi in quel luogo inestricabile senza una guida che le indicasse la strada. Ma dove trovare una simile guida? Né gli insegnanti né le allieve erano propensi a parlare di quella storia, nessuno voleva immischiarsi in quella torbida e paurosa questione.
Possibile che fossero tutti tanto pavidi? Dov’erano finiti gli uomini che la notte del Don Juan avevano organizzato il linciaggio? E dov’era Christine Daaé, l’unica persona al mondo che sapeva qualcosa sul conto del Fantasma? Le domande che aveva posto in merito avevano ottenuto sempre la stessa risposta: fuori Parigi, con suo marito il Visconte, a fare un viaggio.
“Ma perché ti scervelli tanto?” Jeanne, la corista dai capelli rossi a cui si era rivolta in proposito, le aveva scoccato uno sguardo infastidito: “Non è la prima volta che succede, è da anni e anni che il teatro è infestato da quello spettro. Terribile, d’accordo, ma il fatto non cambia. È inafferrabile come il vento e feroce come una fiera”.
“Gli spettri non esistono, Jeanne. Deve esserci una spiegazione razionale”.
“Come ti pare”.
Gli altri potevano convincersi quanto volevano che la presenza che era tornata a minacciarli fosse un fantasma imprendibile, lei non aveva la forza né la pazienza di rimuovere le loro sciocche superstizioni, ma sapeva quello che aveva visto e non aveva dimenticato la fugace ombra scorta con la coda dell’occhio mentre si dileguava nei meandri del teatro. Quell’ombra era reale e solida. Ed apparteneva indiscutibilmente ad un uomo. Un uomo che in passato si era macchiato di delitti e che era stato capace di seminare caos e terrore ridendoci sopra con euforia parossistica.
Avrebbe scoperto chi era. Forse non si era recata all’Opera inutilmente, forse c’era un disegno premeditato: che il suo compito fosse quello di svelare definitivamente l’identità del Fantasma, rendendola nota al mondo? Christine Daaé aveva seminato dubbi e aveva gettato le prime basi di verità, lei poteva renderle solide!
“Tu sei pazza, Viv” Emma esprimeva totale disapprovazione: “Dovresti pensare alle tue lezioni di piano, non a quel…quel…mostro e a ciò che ha fatto. Così finirà che non riuscirò mai a dimenticarlo!”
“Infatti non dobbiamo dimenticarlo, Emma! Delle persone sono morte, è stato un evento terribile, e non può rimanere impunito! Se sorprendessimo quell’individuo nella sua tana quando meno se l’aspetta…”
“Ho l’impressione che tu stia delirando. Non voglio parlarne più!”
La ragazza si sentiva incompresa. Ma non era la prima volta che si trovava sola a fronteggiare un pericolo, la sua esperienza di vita la diceva lunga in merito, e se la sarebbe cavata anche senza Emma. Il problema era capire da dove cominciare. Se non poteva arrivare alla Dimora nel Lago da sola, se nessuno era disposto a darle qualche informazione e se non esisteva uno straccio di pista, dove avrebbe trovato ciò che le serviva?
Forse l’occasione buona si sarebbe rivelata a tempo debito, e adesso occorreva unicamente aspettare. Ma l’attesa per lei era una vera ordalia, uno stillicidio di giorni trascorsi nella più totale nullafacenza, e la sola idea le metteva in brividi. Cosa poteva fare per cogliere in flagrante quel maledetto?
Peraltro, la presenza di Antoine Rappenau stava divenendo un elemento fisso nella sua vita, un ostacolo che quasi ogni giorno la costringeva a distogliersi dalle sue ricerche. Il giovanotto, per nulla scoraggiato dalla sua riluttanza, aveva incominciato a mandarle dei doni presso l’abitazione di Madame Lefevre, gioielli dal valore inestimabile che una come lei non avrebbe potuto nemmeno sognare e mazzi di fiori rari, e ogni volta che si recava all’Opera, riusciva sempre a incontrarla con un pretesto. Il suo era un corteggiamento in piena regola, il primo corteggiamento che Vivian riceveva, ma a dispetto della sua costanza e della sua dedizione, il fastidio e l’astio che gli nutriva crescevano di giorno in giorno. Cosa doveva fare per indurlo a capire che non desiderava le sue attenzioni? Dimenticare l’educazione e gridargli contro? Perché insisteva tanto? E perché era convinto che regalarle Parigi in oro e farle eleganti riverenze potesse rappresentare per lei una spinta a considerarlo?
“Oh, la risposta è semplice” pensò il settimo giorno, esasperata, opponendo l’ennesimo rifiuto al servitore che era venuto a consegnarle il dono, un braccialetto di brillanti che catturava ogni sfumatura di luce: “Pensa che io sia solo una povera orfana senza protezione buona per essere comprata con i regali, nella stessa maniera in cui ha comprato tutte le altre sue conquiste”.
Antoine, poco abituato alla perseveranza che la fanciulla dimostrava nel rifiutarlo (tutte le altre ragazze su cui aveva posato gli occhi, di qualsiasi levatura sociale fossero, erano state ben liete di cadergli tra le braccia) non si capacitava dei continui fallimenti che si accumulavano l’uno all’altro e, incrociandola, non riusciva a nascondere la rabbia e lo sconcerto che gli si dipingevano in viso. Lei volgeva sempre altrove lo sguardo, sdegnosa, e s’affrettava a trovare qualcuno con cui discorrere. Prima o poi, pensava, si sarebbe arreso e l’avrebbe finalmente lasciata in pace.
Non s’arrese. Anzi, perse la pazienza.
La sera del settimo giorno, mentre indossava il mantello e si preparava a entrare nella carrozza che l’avrebbe riportata a casa, sconfortata per gli scarsi progressi che faceva con le sue indagini, si sentì toccare la spalla un po’ troppo bruscamente e si volse, il sopracciglio alzato, incontrando un viso aguzzo e fiero, dalla fronte ampia e il mento interessante, dominato da occhi azzurro ghiaccio che parevano ancora più freddi. Antoine serrò le labbra: “Buonasera, mademoiselle Carré”.
Vivian si disse che se voleva liberarsi di lui, quello era il momento. Gli fece un cenno del capo: “Buonasera, monsieur Rappenau”.
“La vostra lezione è stata piacevole?” risultava evidente che il suo era solo un tentativo di rispettare le regole di buona creanza, prima di parlarle di ciò che l’aveva spinto a richiamarla. Lei soggiacque con riluttanza al gioco: “Non troppo. Monsieur Brochet ama usare la bacchetta. Dovete dirmi qualcosa?”
Il giovane strinse gli occhi: “Perché continuate a rifiutare i miei doni?” suonava come un’accusa: “Non li avete graditi?”
“Al contrario, monsieur” ribatté Vivian con calma: “Li ho molto graditi. Una ragazza come me raramente riceve doni tanto preziosi”.
“E allora perché li avete rimandati indietro?! Desiderate offendermi?” la voce di Antoine era minacciosamente alta, ma lei non si fece intimorire e rimase ben salda davanti a lui, la schiena dritta e lo sguardo fermo: “Non mi permetterei mai di offendere una sì nobile figura” riuscì ad occultare il sarcasmo: “Semplicemente, non reputavo opportuno accettarli. Ai vostri occhi, avrebbe rappresentato qualcosa che non esiste”.
Le guance di lui si imporporarono: “Ho fatto forse qualcosa che mi ha sminuito ai vostri occhi, mademoiselle? Mi sono comportato male in vostra presenza?”
“Certo che no! Perché mi ponete una domanda simile?”
“Cerco solo di capire cosa non vi piace di me. Ho la presunzione di affermare di essere stato cortese sotto ogni punto di vista, e di aver adempiuto con successo ai miei doveri di gentiluomo. Eppure voi non mi avete concesso neppure un minuto del vostro tempo, a parte nelle occasioni in cui ero io a salutarvi per primo. Gradirei molto conoscerne il motivo”.
Una bella presunzione, pensò Vivian. Il giovanotto aveva bisogno che lei gli spiegasse come mai non apprezzava le sue attenzioni, come se ciò fosse raro e bizzarro. Le sue parole esprimevano, indirettamente, una dilagante vanità e una scarsa abitudine ad incontrare ostacoli, e peraltro le si rivolgeva con una certa supponenza, come se lei, povera orfana dalle origini disonorevoli, stesse dimostrando una riconoscenza troppo scarsa a lui, nobile affascinante ed elargivo che l’aveva degnata della sua considerazione.
Il suo tono assunse una sfumatura aspra: “Deve esserci per forza un motivo, monsieur? Non mi piacete, tutto qui”.
Lui arretrò come se l’avesse colpito con uno schiaffo, il volto ancor più rosso e gli occhi chiari dilatati. Dopo qualche istante di silenzio, esibì una smorfia sgradevole: “Non vi piaccio” ripeté lentamente: “E c’è qualcosa che posso fare per cambiare ciò?”
“Non credo. Non è per voi, ve l’assicuro. È solo che non desidero un uomo accanto”.
Le rivolse uno sguardo obliquo: “Spero non diciate sul serio. Qualunque donna ha bisogno di un uomo accanto”.
Tipica affermazione maschilista. Quella conversazione non li stava portando da nessuna parte, specialmente perché erano obbligati a mantenere la reciproca facciata di cortesia. Sapeva bene cosa si sarebbero detti, se avessero avuto la libertà di farlo.
Lui: “Non concepisco che una povera ragazza senza futuro rifiuti l’interesse di un ricco e avvenente nobile come me, che potrebbe farle vivere qualche settimana di agio a prezzo del suo cuore e del suo corpo. D’altra parte, quali altri giovanotti attirereste mai? Vostra madre si è comportata da sgualdrina ed è noto a tutti, certo il biasimo non vi ricadrebbe addosso, se faceste la stessa cosa”.
Lei: “Penso che voi siate uno sciocco ragazzino viziato a cui non è stato negato nulla dalla vita e che crede di avere il diritto di possedere qualsiasi cosa lo attira, per poi gettarlo via e sostituirlo con qualcosa di ancor più mirabile. Della miseria, del dolore, voi non sapete nulla, perciò levatevi dai piedi una volta per tutte!”
Sfortunatamente la società impediva loro di essere chiari l’uno con l’altra, perciò esprimere il concetto che li aveva portati a parlarsi si stava rivelando un’impresa assai più ardua.
“Ascoltate” sospirò, rassegnata: “Sono venuta a Parigi per frequentare delle vere lezioni di piano e per affinare la mia tecnica, ma non è mai stato nei miei piani rimanervi più del dovuto. Non è proprio il caso che mi faccia coinvolgere in una relazione, di qualsiasi tipo”.
“Davvero?” sibilò lui con astio: “Dunque non c’è proprio speranza che cambiate idea?”
La giovane scosse la testa con fermezza: “No, mi rincresce. Ripeto, non si tratta di voi. Sono io. Io…ricerco altro dalla vita. Ma sono sicura che altre fanciulle saranno ben liete di ricevere le vostre attenzioni”.
Lui inspirò a fondo. Il boccone che stava cercando di mandar giù, a giudicare dall’espressione, era assai pesante. Stirò le labbra piene in un sorriso a denti stretti: “Se questa è la vostra ultima parola…”
“Addio, monsieur” Vivian si piegò in una goffa riverenza: “Devo andare”.
Non desiderava uscire dal teatro al suo fianco, così finse di aver dimenticato qualcosa nei camerini e s’affrettò sulla strada percorsa, sollevata di aver finalmente eliminato quella fastidiosa presenza. Dopo una dichiarazione così sincera e definitiva, non l’avrebbe più importunata. Era riuscita ad essere chiara senza ricorrere alla maleducazione, un gran successo. Senza dubbio, poi, Colette avrebbe molto approvato: era gelosa del fratello e non gradiva neppure un po’ il suo interesse per lei.
“Se lo farà passare” convenne lietamente: “Troverà subito un’altra preda più disponibile di me, e finalmente…”
“Maman, ti prego, non andare, è pericoloso!”
L’esile voce femminile che pronunciò queste parole con tono accorato e supplichevole interruppe brutalmente il corso dei suoi pensieri e le strappò un sussulto. Scattò istintivamente dietro la parete dei camerini ormai vuoti, il fiato corto e l’animo in subbuglio, e si tese a sbirciare la coppia che discuteva sottovoce a pochi metri da lei, ignara d’essere ascoltata. Perché c’era qualcuno che aveva atteso che il teatro si svuotasse per conversare con aria cospiratoria? E perché quella voce le risultava tanto familiare?
Allorché i suoi occhi si posarono con viva curiosità sull’oggetto del suo interesse, quasi le scappò un grido. Madame Giry e sua figlia Meg? Che cosa ci facevano lì a quell’ora tarda? E perché avevano il volto così grave, lo sguardo così assorto, l’espressione così seria?
“Devo farlo” stava dicendo Madame Giry con solenne gravità: “Ho atteso già sette giorni, un periodo fin troppo lungo. È mio dovere capire per quale motivo è tornato e perché ha fatto quel che ha fatto”.
Vivian trattenne il respiro.
“È troppo rischioso!” ansimò Meg angosciata, aggrappandosi al braccio della madre con disperata sollecitudine: “Quel che è successo dovrebbe confermartelo! Evidentemente non ha affatto compreso i suoi errori, anzi, la sua ira deve essersi addirittura accresciuta! Vuoi dargli l’opportunità di farti del male, maman? Non posso permettertelo!”
“Tesoro” sussurrò la donna teneramente, prendendo il delicato viso della figlia tra le mani e alzandolo per incontrare i suoi occhi velati di lacrime: “Per il bene di questo teatro sono tenuta ad andare da lui. Non oserà aggredirmi, non me, te l’assicuro. Qualunque siano i suoi progetti, io sono l’unica che può ricondurlo alla ragione”.
“Davvero?” la fanciulla si ritrasse con una risata aspra e priva di letizia: “L’hai forse fermato sei mesi fa, maman? Non mi risulta. Quel…mostro è pazzo. Ha distrutto la vita di Christine e ha compiuto le peggiori nefandezze credendo di averne il pieno diritto!”
“Ma alla fine l’ha lasciata andare, ha dimostrato pietà”.
“E con questo? Un’unica buona azione non lo redime dalle altre, ben più numerose e crudeli.  Crede forse che dopo tutto il male che ha portato nella nostra vita basti una sola buona azione a ravvederlo? Ha lasciato andare Christine, il che mi pare assolutamente scontato, ma in cambio l’ha terrorizzata per mesi, costringendola a dargli l’amore che gli era stato negato e ammantandosi della sua falsa identità di fantasma per spingerci a temerlo! Questo, almeno ai miei occhi, lo rende un mostro fatto e finito!”
“Tu non l’hai visto quella notte, Meg. Era così addolorato…così pieno di rassegnazione…in lui c’è del buono. Ne sono sicura. Bisogna solo…farlo venire fuori. Devo almeno tentare, prima che le sue azioni degenerino!”
“Maman…” la ragazza scosse lentamente il capo: “Hai un animo troppo sentimentale. Quell’essere non si pentirà mai davvero. Il crollo del lampadario ne è una prova sufficiente. È talmente alieno al genere umano da non avere alcuna remora nei nostri confronti. Forse un tempo l’amore che provava per Christine ha potuto restituirgli una parvenza di ragione, ma adesso non c’è nulla che abbia il potere di fermarlo, tantomeno tu”.
“Devo farlo comunque. Non ho scelta”.
“Come? Farai appello alla sua compassione e alla sua grande umanità per il prossimo?” il tono di Meg trasudava sarcasmo: “Non funzionerà. Si lascerà rimbalzare addosso le tue suppliche senza esserne minimamente toccato. Le uniche cose che gli importano sono Christine, che ormai per lui è perduta, e il suo odio per tutti gli esseri umani, che l’hanno sempre scacciato e ripudiato. Nessuna argomentazione da parte tua lo priverà della convinzione di avere il diritto di prendersi la sua rivincita”.
“Non ho altra scelta” ripeté sottovoce Madame Giry.
Vivian premette la schiena contro la fredda parete di marmo, distogliendo gli occhi dalla coppia, e batté le palpebre nella penombra che la nascondeva, la mente invasa da un rimescolio di pensieri sconclusionati. Madame Giry, la placida, inossidabile Madame Giry, conosceva di persona il Fantasma dell’Opera?! Sapeva dove era localizzato il suo rifugio e non l’aveva rivelato a nessuno? Tra tutti i possibili sospettati, non le sarebbe mai venuta in mente lei, così gentile e umana, così calma in qualsiasi situazione! Possibile che si fosse tenuta un simile segreto dopo quello che era successo? E a giudicare dalla sua conversazione con la figlia, si poteva dedurre che la sua incredibile conoscenza fosse perfino datata. Quale genere di relazione la legava al fantasma? Anzi, da come ne parlavano, la sua teoria veniva avvalorata: egli non era affatto uno spirito soprannaturale, ma una persona vera! Una persona localizzabile con cui si poteva parlare e interagire, che sei mesi prima aveva amato la talentuosa cantante Christine Daaé. Ma lei aveva sposato quel Visconte…dunque la presenza, chiunque fosse, doveva essere davvero furiosa e vendicativa.  Potevano aspettarsi di tutto, altro che lampadario! E Madame Giry non confessava alla giustizia ciò che sapeva, non lasciava che quel maledetto venisse arrestato come meritava. La simpatia che aveva provato per lei, l’ammirazione, si mutarono in un misto di astio e delusione.
Peraltro, anche Meg non sembrava propensa a parlare, sebbene fosse assai più morigerata della madre. Dovevano essere convinte entrambe che il “Fantasma” fosse in grado di liberarsi con estrema facilità di qualsiasi gendarme, e che nessuna creatura vivente avesse il potere di sconfiggerlo. Ma se era così, occorreva trovare un’altra maniera di metterlo nel sacco, una maniera più subdola, ma più efficace! Laddove la forza bruta non otteneva risultati, era il caso di impiegare il cervello.
“Rifletti, Vivian!” la straordinaria portata della sua involontaria scoperta rischiava di offuscarle la mente e condurla sulla strada sbagliata: “Hanno già provato a linciarlo la notte del Don Juan, senza riuscirci, ed erano un gruppo numeroso. Evidentemente il tipo sa come difendersi. L’unico modo di prenderlo di sorpresa, allora, è scoprire la sua identità umana e individuare il suo punto debole! Ma come, maledizione? Come?!”
Doveva seguire Madame Giry. Ispezionare la sua dimora senza esser vista le avrebbe dato l’occasione di imparare qualcosa su di lui (una casa rispecchiava sempre alcuni tratti caratteristici del proprietario) e di comprendere più a fondo con chi aveva a che fare. Sarebbe stato difficile, se ne rendeva conto, ma se aveva fortuna, la maestra di ballo l’avrebbe tenuto impegnato abbastanza a lungo da permetterle di farsi un’idea del posto. Non si sarebbe certo azzardata a portar via qualcosa, non era una sprovveduta, avrebbe dato solo una rapida occhiata e avrebbe memorizzato il percorso.
Un brivido di eccitazione la attraversò. Non ci aveva mai creduto, non fino a quel momento, ma adesso stava per fare qualcosa di veramente concreto. Stava per vedere coi propri occhi il luogo proibito, e forse addirittura il Fantasma dell’Opera in persona! Com’era fatto? L’ombra intravista durante la rappresentazione era stata troppo fugace e rapida perché lei avesse potuto coglierne qualche dettaglio, ma senz’altro si figurava un uomo inquietante, probabilmente molto vecchio (non sapeva da quanto tempo terrorizzasse il teatro, ma doveva esser tanto) e indurito dal rifiuto di Christine. Un rifiuto che lei comprendeva alla perfezione: come si poteva voler trascorrere il resto della vita al fianco di un individuo che aveva compiuto le azioni più orribili, i crimini più mostruosi, senza pentirsene neanche un po’?
Uno scalpiccio di passi le segnalò che le due donne si stavano avviando all’uscita dei camerini e s’affrettò a scivolare dietro la statua di un angelo che soffiava in una tromba, spaventata dall’eventualità di venire scoperta. Cosa le avrebbero fatto, in quel caso? Si sarebbero spiegate? E come spiegarsi, dopotutto? Il loro discorso era stato inequivocabile. Per fortuna non la notarono, prese com’erano dal dramma che le vedeva come protagoniste, e si separarono con uno sguardo angosciato e lucido, stringendosi in un rapido abbraccio. Poi Meg si incamminò verso l’uscita, curva sotto il peso della sua paura, e la madre si volse a fronteggiare l’intrico di corridoi che costituiva l’interno del teatro, le labbra tremanti e l’espressione titubante. Emise un forte sospiro, un sospiro di rassegnazione e di ansia, e parve venire a patti con se stessa. Prese da un ripiano un pesante candelabro d’oro, la luce di tre fiammelle che le illuminava la via, e si immerse nel buio.
Vivian le venne dietro il più silenziosamente possibile, attenta a non produrre il minimo rumore. Era consapevole di doversi muovere con la massima attenzione e di non dover fare un solo passo falso. Se Madame Giry si fosse avveduta di lei, non le avrebbe mai permesso di seguirla, non aveva alcun dubbio in proposito. Risultava evidente che desiderava agire in segreto e che non gradiva l’intromissione di nessuno, quasi nemmeno della figlia. Le intenzioni erano buone, cercava, sicuramente, di proteggerli dal Fantasma dell’Opera, che per qualche sconosciuto motivo aveva deciso di condividere i suoi segreti con lei, ma Vivian aveva bisogno di venirne a conoscenza. Il suo intero essere le gridava di farlo. Soltanto così la sua ossessione sarebbe cessata, soltanto così giustizia sarebbe stata fatta fino in fondo.
Dovette presto arrendersi alla cruda realtà e deporre le sue speranze circa la possibilità di memorizzare il percorso segreto: un paio di curve, una svolta a sinistra e già non aveva idea di dove fossero finite e come ci fossero finite, la struttura a labirinto di quell’edificio era talmente inestricabile che perfino un senso dell’orientamento efficace come il suo ne usciva del tutto a pezzi. La stessa Madame Giry, che doveva averlo fatto già decine di volte, aveva qualche difficoltà ad orientarsi e spesso si fermava per riflettere, il candelabro all’altezza del viso e le fiammelle che oscillavano nella penombra. Si erano mosse su un solo piano, questo l’aveva compreso, ma seguendo una strada talmente complicata e difficile che rammentarsene ogni fase sarebbe stata un’impresa impossibile. Madame girava improvvisamente a destra e a sinistra, attraversando un corridoio del tutto identico a milioni di altri, affrontava bivi e biforcazioni, si immergeva in sale a lei astruse o tornava indietro. Lo scopo di quel percorso, era lampante, doveva essere quello di confondere le idee al malaugurato visitatore e spingerlo a desistere dai suoi propositi. Senza Madame Giry che le fungeva da gomitolo di Arianna, indubbiamente anche Vivian si sarebbe arresa.
Ma nessun male viene solo per nuocere. I nascondigli e le zone d’ombra abbondavano e le permettevano di trovare ogni volta un rifugio diverso, che esorcizzava gran parte del rischio di essere sorpresa. Ora era una sontuosa tenda di broccato, ora il busto di marmo di un rinomato musicista, ora un cantuccio avvolto nell’oscurità. La ragazza sgattaiolava agile come un gatto, la gonna sollevata per evitare eventuali cadute, e scattava da un nascondiglio all’altro ogni volta che Madame Giry appariva particolarmente assorta. La donna non diede mai segno di avvertire in qualche modo la sua presenza: la sua angoscia era tale da tenerle la mente completamente chiusa nei confronti dell’esterno, e non erano rari i sospiri sconfortati.
Ad un certo punto, Vivian non avrebbe saputo dire con esattezza quanto tempo fosse passato, la sua guida si arrestò dinnanzi ad una liscia parete di pietra. Lei si nascose dietro una tenda e sbirciò il tutto con curiosità. Perché fermarsi di fronte a un vicolo cieco? Perché camminare tanto a lungo e offrire riposo alle gambe affaticate solo alla vista di un muro nudo? Cosa avrebbe fatto adesso quella donna misteriosa e silente, che aveva sempre celato i suoi segreti dietro quel sorriso gentile e quell’espressione innocente?
Senza lasciare il candelabro, Madame Giry tastò la parete in più punti, con le mosse di una che cerca qualcosa, e fece scorrere le dita sulla pietra dura e liscia finché non parve individuare qualcosa. Premette, una spinta appena percettibile, e una piccola porzione del muro si spostò da una parte con un lieve rombo, rivelando un’angusta apertura che si immergeva nelle tenebre più fitte.
Il cuore di Vivian tremolò come un uccellino in gabbia. Un passaggio segreto! Non credeva che simili cose esistessero, tantomeno al celebre teatro dell’Opera. A quanto pare quella costruzione tanto famosa era ben più complicata di ciò che credevano i suoi abitanti, ed erano arrivati a esplorarne solo una parte. L’altra, quella che stava scoprendo adesso, era assai più tenebrosa e ambigua. Osservò la donna che, incurante del gelo che permeava dall’apertura con potenza, vi passava attraverso a passo sostenuto. Un attimo, e la sua figura scomparve, inghiottita dall’oscurità.
Scattò prima che il muro potesse richiudersi, comprendendo che se avesse indugiato, se avesse permesso al timore di impadronirsi di lei avrebbe perso per sempre la sua unica occasione. Entrò nel passaggio, l’istinto a guidare i suoi passi, e subito la parete tornò al suo posto dietro di lei, addensando ancor più il buio e imprigionandola in quel luogo sconosciuto. Una morsa di paura le strinse le tempie e le braccia corsero a incrociarsi sul seno, in un inutile tentativo di riscaldare il corpo dal freddo improvviso.
Si trovava sulla sommità di una stretta e angusta scala di pietra che scendeva nei sotterranei del teatro avvolgendosi in una chiocciola vertiginosa, i muri che trasudavano muffa e umidità e alcune torce rosseggianti appese in punti chiave ad offrire un’illuminazione molto scarsa. Zampettii sinistri denunciavano la presenza di topi e rumori metallici in lontananza facevano risuonare il posto di echi infiniti. La sporcizia si annidava ovunque senza trovare ostacoli, così come gli insetti, e la corrente gelida invitava chiunque a tornare indietro di corsa. Ma anche se avesse voluto, non ci sarebbe mai riuscita: non aveva idea di come azionare il meccanismo nella parete, e non ci teneva affatto a rimanere lì a tempo indeterminato, col rischio di essere scoperta da un momento all’altro.
Si era cacciata in un guaio. Non avrebbe dovuto essere così avventata.
No! No, aveva fatto bene! A volte rischiare era necessario, se si voleva arrivare alla vittoria, e sarebbe stato vile rinunciare ad un’occasione tanto saporita per puerile paura dell’ignoto. In fondo, se Madame Giry aveva affrontato quella discesa e ne era uscita incolume più di una volta con tutti i suoi anni a pesarle sulle spalle, non c’era motivo per cui non dovesse esserne in grado anche lei. Ce l’avrebbe fatta. Bastava solo che seguisse la sua guida.
Scorse i riverberi gialli del candelabro che si proiettavano sulle pareti di pietra un po’ più in basso del punto in cui si trovava e scese i primi gradini, colta all’improvviso dalla smania di non perdere la donna. Restare soli in quel luogo minaccioso e oscuro non era un’idea allettante per nessuno, neanche per lei, abituata a cavarsela in numerose situazioni. Calciò via le scarpe coi tacchi per evitare che risuonassero sulla pietra e la tradissero (le avrebbe recuperate poi, avendo l’accortezza di arrivare prima di Madame Giry) e un brivido le si propagò per tutto il corpo quando appoggiò i piedi nudi sul suolo gelido. Si affrettò giù per la scala, notando distrattamente che la sua guida pareva seguire una sorta di schema, saltando alcuni gradini  e tenendo le braccia sempre al livello degli occhi.
Doveva assolutamente velocizzare il passo, altrimenti l’avrebbe…
Il suolo le sfuggì da sotto ai piedi. Il gradino su cui era scesa si aprì di colpo, rivelandosi per ciò che realmente era, una botola, e lei precipitò in un baratro oscuro con un piccolo strillo di terrore, capendo in un lampo che quel posto era pieno di trappole e che lei era appena caduta in una di esse, come una perfetta idiota. Punita in un batter d’occhio per la sua insana curiosità.
Non ci sono proprio dubbi, la curiosità uccide il gatto. Come poteva competere con il geniale Fantasma dell’Opera?
Atterrò con un sonoro schiocco in un’acqua scura e gelida, che si chiuse su di lei come una tomba, e si ritrovò completamente immersa in un mondo nero e ovattato, in cui tutti i suoni svanivano e in cui regnava una quiete quasi mortuaria. Il gelo le penetrò nelle vene, ghiacciandole, e le trafisse il corpo come mille lame, spingendola a contrarsi su se stessa. Piante biancastre e atrofizzate galleggiavano pigramente sul fondale di pietra, tendendosi verso di lei come braccia supplicanti, e piccole concrezioni calcaree si accumulavano negli angoli di quella caverna subacquea. Si costrinse a riprendersi dallo choc della caduta e diede due forti bracciate, che finalmente la portarono a infrangere la superficie.
Galleggiava in un tunnel avvolto dalle tenebre, rischiarato unicamente dai bagliori insani provenienti dalla maledetta acqua in cui era immersa fino al collo. Un’enorme parete fatta di sbarre d’acciaio ricoperte di piante mollicce e funghi incolori le impediva di passare oltre, intrappolandola dov’era, e alzando lo sguardo scorse un soffitto fatto a imbuto, che si restringeva verso l’alto e le mostrava il punto da cui era precipitata. Non vedeva riva dove potersi dirigere, poiché la galleria era totalmente sommersa, né modo di tornare indietro, e non aveva neanche la capacità di andare avanti, considerate le sbarre. Quel luogo era stato concepito con lo scopo preciso di far morire assiderato chi vi cadeva, e lo scheletro che galleggiava a qualche metro da lei a braccia e gambe larghe, il teschio dalla mascella spalancata in una buffa espressione di sconcerto, rendeva palese la sorte di un qualche malcapitato che aveva avuto la sua stessa splendida idea di recarsi nei sotterranei senza invito.
Si era condannata con le sue stesse mani. E tutto per inseguire uno sciocco desiderio di avventura.
Un grido le salì spontaneamente alle labbra, un impulso che la esortava a invocare aiuto con tutto il fiato che aveva in corpo, pregando affinché qualcuno venisse a salvarla. Ma nessuno sarebbe venuto a salvarla, nessuno l’avrebbe udita nel fondo di quel gelido buco. Avrebbe soltanto consumato energie che potevano esserle utili per cavarsi da quella situazione. Inspirò a fondo, aggrappandosi alle sbarre ricoperte di viscidume per tenersi a galla, e si strofinò convulsamente il viso bagnato. L’abito lungo le si era appiccicato pesantemente addosso e la impacciava nei movimenti.
“Coraggio, Vivian, non farti prendere dal panico” sussurrò a se stessa per rassicurarsi, i denti martellanti per il freddo: “Deve esserci per forza un modo di uscire da qui. Tutto sta nel trovarlo in fretta”.
Odiava la sensazione di cattività che provava imprigionata in quel tunnel. Non avere una via d’uscita, non potersi muovere le metteva la foga in corpo e le impediva di ragionare con l’acume necessario. Doveva riflettere. Riflettere.
Innanzitutto occorreva togliersi il vestito, che la limitava troppo nel nuoto. Fece la lotta con le varie stringhe, imprecando tra sé, e finalmente riuscì a uscirne dopo vari tentativi, scagliandolo lontano. La sua stoffa pesante e zuppa d’acqua rimase a galleggiare in superficie, mentre la ragazza veniva colta da un brivido violentissimo, la pelle olivastra e nuda che luccicava nell’oscurità del tunnel. Indossava soltanto i mutandoni e il corsetto, un abbigliamento decisamente indecente, ma non era proprio il caso di fare le pudiche.
“E adesso?”
La maggior parte di quel tunnel era sommersa dall’acqua. Dunque, doveva andare sotto e vedere se trovava qualcosa. Fortuna che suo padre, nella selvaggia Annecy, l’aveva portata spesso in estate a fare il bagno nel fiume vicino, e che lei aveva imparato a nuotare discretamente fin da quando era piccola. Numerose fanciulle che conosceva non avrebbero vantato un simile privilegio, e sarebbero probabilmente colate a picco nel giro di pochi minuti.
“Ecco uno dei pochi vantaggi di essere povera” perfino in quella tragica situazione non rinunciava alla sua ironia.
Sforzandosi di ignorare la presenza dello scheletro (i pochi stracci di abiti che gli ricoprivano la salma, quel che restava di una giacca di velluto blu e di un paio di calzoni marroni, rendevano noto che era stato un uomo di una certa levatura sociale), la ragazza si riempì i polmoni più che poteva e si tuffò nell’acqua scura e gelida senza ulteriori rinvii, consapevole del freddo che pian piano faceva il suo dovere e del limitato tempo che aveva a disposizione.
Intorno a lei si stendeva un universo buio e illimitato, dal fondale tenebroso e dalla superficie che proiettava lame di luce nell’acqua immobile, in cui le uniche abitanti degne di nota erano le piante atrofizzate che oscillavano debolmente in ciuffi disordinati. I capelli le volteggiavano sopra la testa in ciocche fluttuanti, allisciati dal contatto con l’acqua, e la pelle le brillava di un biancore innaturale. Non le sarebbe affatto dispiaciuto avere una torcia in quel momento: l’oscurità era talmente densa che non riusciva a vedere nulla al di là di qualche braccio.
Si spinse in avanti con agili bracciate, facilitata dall’assenza dello scomodo vestito, e scese a profondità maggiori, avvertendo un fastidioso ronzio nelle orecchie. Scoprì che la galleria non era troppo profonda quando toccò il fondale pietroso con la punta delle dita. Un buon segno? Si avvicinò alle sbarre che le impedivano di passare battendo ritmicamente le gambe, i polmoni che si svuotavano rapidamente, ed esaminò con attenzione il punto in cui si congiungevano con il fondale. Gli occhi le bruciavano delicatamente, ma era sopportabile.
Le parve che in punto una delle sbarre fosse leggermente piegata all’insù e che tra essa e il suolo ci fosse un piccolo spazio libero. Mentre il bisogno di respirare si faceva sempre più urgente, costrinse il suo corpo riluttante ad andare ancora più vicino. Un debole sorriso le incurvò le labbra: non si era sbagliata, effettivamente l’apertura esisteva…il problema era che era troppo stretta per permetterle di passarci attraverso. Doveva trovare il modo di allargarla, Dio solo sa come. Intanto avrebbe preso una boccata d’aria.
Risalì in superficie e divorò l’ossigeno con la stessa veemenza di quando l’aveva fatto la prima volta, uscendo dal ventre materno. Incominciava ad avvertire davvero il freddo, le sue membra tremavano e il suo viso era bluastro e irrigidito. Frammenti di brina le adornavano gli scuri capelli bagnati, e ogni volta che buttava fuori l’aria, con essa emergeva una nuvola di vapore. Era una sua impressione, o la temperatura là sotto si era ulteriormente abbassata? Un altro scherzo di quel dannato fantasma, forse? Gliel’avrebbe fatta vedere lei, una volta uscita di lì!
Sempre che fosse riuscita a uscire di lì…cosa alquanto improbabile, dal momento che la sua unica via di fuga le era inaccessibile!
Emise un gemito di sconforto e di nuovo percepì l’impulso di gridare aiuto. Come poteva fare in modo che una sbarra di ferro si sollevasse quel poco che bastava a farla passare? Lei, un metro e settanta di statura, cinquantasette chili?! Era impossibile, ecco la verità. La condanna a morte sul suo capo era ormai sicura, ed era destinata irreversibilmente a fare la fine dello scheletro.
Un attimo…lo scheletro! Ma certo! Se anche lui si era trovato nella sua stessa situazione, doveva aver tentato di uscirne, sì o no? Qualsiasi essere umano l’avrebbe fatto! E certo, alla fine non era stato premiato dei suoi sforzi, ma c’era la speranza che avesse escogitato qualcosa, prima di morire, che il corpo traditore non gli aveva permesso di mettere in atto…o che aveva messo in atto solo a metà! E se era stato proprio lui ad alzare la sbarra, ed era stato interrotto dal decesso prima di farlo a sufficienza? D’altra parte, le riusciva molto difficile pensare che l’artefice di una tale dimenticanza fosse il Fantasma dell’Opera.
Se le cose stavano così, se la sorte aveva deciso di assisterla, allora il malcapitato, per compiere il suo infruttuoso lavoro, doveva essersi servito di qualcosa. Neanche l’uomo più possente sarebbe riuscito a piegare un metallo simile ai suoi voleri senza un poco di aiuto. Doveva frugarlo e vedere se l’oggetto misterioso era ancora con lui. Sarebbe stata la fine nel caso in cui la corrente l’avesse strappato al suo proprietario, ma preferiva non soffermarsi su quell’eventualità. Il pessimismo, l’aveva appreso da tempo, era inutile.
Nuotò fino alla carcassa putrescente arricciando il naso a fronte del terribile puzzo che emanava, un puzzo di marcio, melma e decomposizione. Fortuna che i vermi non sapessero nuotare, altrimenti sarebbe stato pieno di esemplari affamati. Si aggrappò a lui per mantenersi a galla, rabbrividendo (il compito era davvero ripugnante e poco adatto ad una ragazza, ma per sopravvivere sarebbe stata disposta perfino a baciarlo) e subito gli spezzò il braccio sinistro, che si separò dalla clavicola con un orrendo suono bagnaticcio e si disfece in una manciata di polvere maleodorante.
“Dannazione! Questo imbecille cade a pezzi!” imprecò Vivian ad alta voce, ansimante e gelata dal freddo. Perché doveva complicarle così le cose?! Non poteva fare il bravo e permetterle di salvarsi, compiendo una buona azione almeno da morto, dato che da vivo a quanto pare non era riuscito a fare granché?
“Santo cielo, me la prendo con uno scheletro! Non sono più in me!”
Scosse la testa nel tentativo di schiarirsi le idee, ma pensare diveniva sempre più difficile e logorante, via via che il gelo prendeva possesso di ogni singola parte del suo corpo. Doveva fare più in fretta, più in fretta! Era chiaro, adesso, che cadendo aveva azionato un curioso meccanismo che faceva sì che la temperatura si abbassasse a gradi, e se non trovava una soluzione al più presto, avrebbe fatto compagnia nel giro di qualche minuto a quel povero diavolo.
Gli frugò in ciò che restava della giacca con frenesia, ansimando, le dita ormai prive di sensibilità e le mani che non rispondevano ai suoi comandi, e rivoltò la stoffa zuppa e melmosa da tutte le parti, non trovando traccia dell’oggetto della sua ricerca. No, no, no…si era ingannata? Non esisteva affatto, quell’oggetto? E come sarebbe sopravvissuta, senza? Come sarebbe tornata in superficie?
Infilò la mano brancolante in un comparto interno e percepì i contorni di una superficie dura e liscia. Sì! Le sue dita si avvolsero istintivamente intorno al manico dell’oggetto, che pareva fatto apposta per essere impugnato a quel modo, e lo tirarono fuori dal tessuto disfatto. Catturò un bagliore e scintillò fiocamente nell’oscurità del tunnel.
Era un pugnale. O, per meglio dire, un signor pugnale. L’elsa era in oro filigranato con intarsi elaborati e fregi sinuosi e aveva incastonato, laddove si congiungeva con la lama, un grosso rubino. Ma quest’ultima era percorsa da una ragnatela di ruggine e aveva il filo un po’ smussato, come se fosse stata usata per fare leva su qualcosa. Il povero diavolo doveva essere stato un ricco Lord o qualcosa di simile.
Vivian si rigirò tra le mani l’arma, ipnotizzata dalla sua letale bellezza. Era la prima volta che ne impugnava una, e doveva ammettere che le faceva un certo effetto. Passò il polpastrello dell’indice lungo il filo della lama rugginosa e avvertì un dolore acuto. Una goccia di sangue si formò rapidamente nel punto ferito e si affrettò a leccarla via, rabbrividendo. Non aveva tempo per restare ad ammirare il pugnale, doveva uscire di lì prima di finire congelata!
Si rituffò. Sentiva talmente freddo che le pareva di muovere un ammasso di arti irrigiditi e gonfi di acqua, che le obbedivano con riluttanza, facendolo in maniera insopportabilmente lenta. Se non riusciva a sollevare la sbarra al primo tentativo, sarebbe stata costretta a tornare su per una boccata e a ripetere il tutto una seconda volta, e non era affatto sicura di farcela, in quelle condizioni. La temperatura doveva essere di parecchi gradi sotto lo zero. Buona per foche ed orsi polari, ma non certo per una ragazza sola e terrorizzata.
Raggiunse il punto in cui le sbarre si distanziavano dal fondale di pietra e lo studiò da varie angolazioni, cercando di decidere in che modo fosse migliore far leva col pugnale. Provò a infilare la punta della lama contro il profilo irregolare delle sbarre, ma il filo smussato scivolò goffamente. Digrignò i denti, rafforzando la stretta sull’elsa per non farselo portar via dalla corrente che la sospingeva contro l’acciaio invalicabile. Era costretta a utilizzare l’elsa, ma in quel caso avrebbe dovuto impugnarlo al rovescio.
Ne era in grado?
Ne era in grado. Era arrivata a un punto in cui non esisteva abisso in cui non fosse pronta a immergersi.
Spostò le dita bluastre e rigide sulla lama e la strinse con la disperazione del condannato a morte, percependo il morso dell’acciaio che le penetrava nella carne. Una nube rosso cupo fluttuò a poca distanza dal suo viso, ma tanto era il gelo che sentiva, che quasi non avvertì dolore. Anzi, quest’improvviso segnale di vita da parte di un corpo rigido e arreso la riempì di nuova energia e le fece danzare l’adrenalina nelle vene. Ce la poteva fare!!
Premette l’elsa contro quella parte di sbarra che si sollevava dal suolo e spinse, spinse con tutte le sue forze, i polmoni che bruciavano reclamando ossigeno e le mani che urlavano mentre si squarciavano sulla lama crudele, intorno a sé soltanto acqua tinta di sangue e bolle dei suoi respiri inutili, e pregava la sorte di aiutarla, di perdonarla per la sua supponente curiosità, di fare in modo che fosse valsa a qualcosa, quella follia…
E la sbarra, miracolosamente, si sollevò. Fu un cedimento appena percettibile, ma a Vivian non occorreva altro. Infilò il pugnale dentro al corsetto, non osando guardarsi le mani martoriate, e si spinse contro l’apertura, agitandosi come una forsennata nel tentativo di passarci. Il suo corpo, a differenza di quello del malcapitato che aveva tentato prima di lei, era esile e smagrito da una vita di stenti, e sforzandosi al massimo riuscì a scivolare oltre la barriera della sua morte, finalmente libera. Ma fu tale il sollievo, il senso di trionfo, che commise l’imperdonabile errore di aprire la bocca in un grido di vittoria.
Stupida e ingenua! La frase che suo padre le ripeteva spesso prima di accompagnarla al fiume le risuonò chiara nella mente: “Quando sei sott’acqua, bada bene di non aprire mai la bocca. Saresti perduta!”
I suoi polmoni si riempirono di quell’acqua maledetta. Macchie di luce le apparvero davanti agli occhi, accecandola, e un tremendo bruciore, un’arsione terribile le ghermì il petto, portandola ad artigliarselo furiosamente per liberarsi dall’oppressione. La corrente la trasportava su, la spingeva in direzione di una biforcazione lontana…
Seguila! Seguila!
Ormai allo stremo, la giovane si spinse debolmente nella direzione decisa dal canale sotterraneo. Bastò questo.
Il suo volto paonazzo emerse dal pelo dell’acqua con la bocca ancora spalancata, incredulo di sentire nuovamente il vento freddo che le accarezzava la pelle, e l’ossigeno purificatore lenì il bruciore che la devastava dall’interno, restituendole lentamente la stabilità e la ragione. Se ne imbevve fino ad esserne satura, tossendo e sputacchiando, e si sollevò a fatica, i capelli gocciolanti, accorgendosi con stupore che l’acqua le arrivava soltanto alla vita.
Ma ciò che la fece gridare piano, ciò che più di tutto ebbe il potere di strapparla allo stordimento fu la visione che la attendeva.
Aveva raggiunto la famosa Dimora nel Lago.
 

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Capitolo 6
*** Intrusione ***


INTRUSIONE






Era il luogo più strano e meraviglioso che avesse mai visto. Non sarebbe mai stata capace di concepirne uno uguale, né di trovare le parole adatte per descrivere appieno la sensazione che provava osservandolo.
L’illuminazione era prodotta unicamente da una serie di candele disposte senza apparente ordine un po’ dappertutto, le fiammelle esili che tremolavano nelle tenebre e spargevano riverberi fiochi sulle pareti scavate nella roccia, abbellite da drappi di velluto e di damasco e da specchi frantumati da un intervento brutale, sul pavimento sfaccettato e sulle torbide acque di quello che, ora finalmente comprendeva, altro non era che un lago sotterraneo. Un lago convogliato in una serie di condotti nei quali era finita, e che l’avevano portata nel punto in cui s’allargava nelle sue dimensioni naturali. Gran parte del salone ne era sommerso, anche se per poche braccia, ma una parte trovava collocazione su una sorta di pedana rialzata che non permetteva all’acqua scura di seguitare a espandersi. Era da lì che proveniva la luce fioca delle candele, che andava affievolendosi lentamente via via che ci si allontanava verso le profondità del lago.
La ragazza si avvicinò con una sorta di timore reverenziale, camminando con le gambe immerse nell’acqua e i capelli bagnati che le si appiccicavano pesantemente al viso. Si sarebbe aspettata di trovare qualcosa di vivo, magari il Fantasma dell’Opera in persona che era stato avvertito della sua intrusione e l’attendeva per punirla, ma intorno a lei non vi era nulla, né si udivano rumori di sorta. Il silenzio era denso, quasi assordante, e procedeva non senza un pizzico di paura. Le sembrava di violare un luogo sacro, d’essere indegna di poggiare i piedi fuori dal lago. In quell’architettura inusuale e folle vi era una bellezza selvaggia e incontenibile alla quale non si poteva restare indifferenti. L’impressione che se ne ricavava era che quel luogo non fosse affatto una dimora, bensì un nascondiglio dal mondo, un rifugio buio e segreto in cui si era rinchiusa un’anima bramosa della solitudine e oppressa da una disperazione, un’ira, una disillusione tale da spingerla a cercare casa nel fondo di una caverna sotterranea. Un’anima geniale e folle allo stesso tempo, ma non priva di senso estetico. Dal salone principale si diramavano una serie di altre stanze lasciate spalancate dagli uomini che avevano frugato quel luogo sei mesi prima.
Perché, non se lo doveva scordare, il Fantasma dell’Opera vi aveva fatto ritorno da ben poco, e i segni della devastazione inferta dai linciatori erano ancora visibili, ne rimaneva il marchio sui drappi squarciati e flosci, sugli specchi frantumati e sui mozziconi di candela gettati a terra, galleggianti in pozze di cera solidificata. Uscì dall’acqua con sollievo, le braccia strette sul petto per riscaldarsi (la temperatura, a quelle profondità, era estremamente bassa) e girò il capo a contemplare il luogo da entrambi i lati cogli occhi sgranati e le labbra dischiuse, intimorita e impressionata. Capì, in una folgorazione fulminea, che ciò con cui aveva a che fare era ben più complesso di quel che aveva creduto all’inizio, e che non le sarebbe stato affatto facile trovare una soluzione.
Allungò una mano e sfiorò il damasco rosso scuro di un drappo. Il tessuto era pregno di umidità e sollevò una nube di polvere che la fece tossire. Si sarebbe presa senz’altro un bel raffreddore, dopo la nuotata nel lago gelido e quell’ispezione condotta in corsetto e mutandoni fradici. Ma era un rischio da correre, una complicazione da nulla in confronto al trionfo riportato in quei minuti di apnea: raggiungere la Dimora nel Lago non doveva essere un’impresa facile per nessuno, e lei ce l’aveva fatta, correndo un serio pericolo di morte, questo era vero, ma trionfando sulle avversità e raggiungendo la meta della sua folle ricerca.
L’unico problema erano il silenzio e il vuoto che pervadevano la caverna scavata nella roccia. Avrebbe dovuto ritenersi fortunata per aver trovato la dimora priva del proprietario, invece la sua inquietudine e il suo timore parevano essersi addirittura decuplicati. Se non era lì, allora dov’era, quel maledetto fantasma? E quando sarebbe tornato? Aveva il tempo di ispezionare il posto e farsi un’idea di esso? E se anche l’aveva, quant’era?
Era un salto nel vuoto. Un azzardo bello e buono.
“Sono arrivata fin qui, ho rischiato di rimetterci le penne, non posso mollare adesso” si disse per farsi coraggio. Preferiva non soffermarsi su come sarebbe tornata indietro, dal momento che non ne aveva idea. Decise che avrebbe posticipato il problema a quando sarebbe divenuto insostenibile, e che per il momento si sarebbe accontentata di raccogliere i frutti della sua vittoria. Tanto, non aveva nulla da perdere, o no? Il tempo delle esitazioni era trascorso da un pezzo, forse addirittura da quando aveva scelto di seguire Madame Giry. Oramai ci era dentro. E non ne sarebbe uscita senza risultati concreti.
Staccò il drappo da ciò che restava dei suoi supporti e se lo avvolse sulle spalle per asciugarsi, riscaldarsi e, al contempo, esorcizzare il pericolo di ipotermia. Forse il Fantasma dell’Opera non se ne sarebbe accorto, considerata la quantità di stoffe che adornavano il suo rifugio, ma se anche fosse successo, non avrebbe mai saputo chi era stato a trafugare quell’oggetto di scarso valore per lui primo. Le membra rigide la ringraziarono immediatamente rilassandosi in maniera rassicurante. Ma, insieme a quel sollievo, sopraggiunse un dolore atroce alle mani ferite, che il freddo le aveva impedito di avvertire finora.
Fu costretta ad abbassare gli occhi su di esse. Soffocò un grido. Erano coperte di sangue scuro e fresco, che sgorgava da tagli e abrasioni, e le infliggevano staffilate ogni volta che provava a muovere le dita. Eccolo, il vero prezzo del suo trionfo. Sarebbe stato un guaio bello e buono, se si fossero infettate.
Strappò due lembi di stoffa dal drappo che usava come coperta e li utilizzò per bendarsi strettamente entrambe le mani, mummificandole in una fasciatura di fortuna che avrebbe sostituito più tardi con qualcosa di consono. Madame Lefevre non l’avrebbe mai notato, presa com’era dai suoi impegni giornalieri, e se l’avesse fatto, avrebbe risposto che le bacchettate di monsieur Brochet l’avevano tagliata in profondità (cosa in linea di massima vera).
Bene. Era pronta a dedicarsi alla sua ispezione.
Prima di dare un’occhiata alle varie camere comunicanti, occorreva farsi un’idea del salone principale. Le candele accese avevano un significato inequivocabile, ma non le fornivano ulteriori indizi a parte quello a cui già era arrivata da una settimana. Procedette ad un giro attento e minuzioso, scostando i vari drappi che erano stati sistemati per celare la nudità delle pareti ma, ne era certa, anche per nascondere oggetti personali del Fantasma dell’Opera.
E non si sbagliava affatto: ad un certo punto, scagliando da un lato una pezza di velluto rosso, le apparve un volto umano che la fissava nelle tenebre e il suo cuore diede in un soprassalto di terrore, che la portò a premersi una mano sulla bocca e a incespicare goffamente nella propria coperta di fortuna, cadendo sul freddo pavimento di pietra. Arretrò in preda ad un terrore cieco, maledicendosi con tutte le imprecazioni che conosceva e facendosi scudo al viso col braccio per difendersi dall’attacco della presenza che si nascondeva dietro al drappo, ma s’accorse, superato lo spavento iniziale, che quella non accennava una mossa e che la sua immobilità era troppo marcata per appartenere ad un essere umano. Allora si fermò, battendo le palpebre, il viso pallido e il cuore ancora in tumulto, e la mise maggiormente a fuoco.
Era una bambola. Spaventosamente ben riprodotta e a grandezza naturale, sostenuta da un piedistallo su cui poggiavano i suoi piedi nudi. Per un attimo, trovandosela davanti in quella situazione di tensione, l’aveva presa per una persona vera. Il sollievo giunse in un’ondata impetuosa, e con esso una vampata di vergogna. Si sentì presa in giro, beffata crudelmente dagli inganni di quel luogo ostile, e s’alzò con fare stizzito e piccato, ricomponendosi quei pochi abiti che le erano rimasti.
A quel punto studiò la bambola dalle sembianze umane.
Aveva l’aspetto di una giovane fanciulla nel fiore dei suoi anni, dal viso dolce e fresco, dominato da un paio di occhi marroni e malinconici. Le labbra piene e rosate spiccavano sulla carnagione candida, piegate in un lieve sorriso colmo di bontà, e una cascata di morbidi riccioli color mogano le scendeva pudicamente sul seno, stretto in un abito bianco che le cadeva sino ai piedi.  Le sue braccia di cera erano leggermente aperte come se volessero stringerla in un abbraccio e la posizione delle gambe, diritte come fusi, ne rivelava l’origine artificiale.
Vivian ebbe un brivido. Lo trovava uno spettacolo insolito e macabro, quasi come se il fantasma avesse tenuto con sé un cadavere conservato, e si domandò chi fosse quella ragazza, e se la sua identità non corrispondesse proprio a quella di Christine Daaé, la cantante tanto odiata. In tal caso, rifletté soffermandosi sulla dolcezza del suo volto immobile e sulla piega pudica delle labbra, non c’era da stupirsi se avesse rifiutato la discutibile corte di quell’essere: aveva proprio l’aria della fanciulla beneducata e gentile d’animo, capace di turbarsi alla minima avversità. Perché gli uomini impazzivano tanto per quel genere di donna? Lei, da parte sua, avvertiva sempre l’impulso di afferrarle per le spalle, dar loro una bella scrollata e gridare con forza: “Svegliati!”
Con un secco scuotimento di testa, lasciò che il drappo ricadesse davanti alla bambola inanimata e che tornasse a celarla al suo sguardo inquisitore. I gusti amorosi del Fantasma dell’Opera non erano certo affar suo, e non si era recata nella sua dimora per giudicarlo in quel senso. Però, e questo le sollecitava una maligna soddisfazione, per quanto si mostrasse originale e imprevedibile, almeno in una cosa egli era banale e uguale a mille altri uomini: non si poteva assolutamente affermare che la Daaé fosse qualcosa di diverso da una dolce fanciulla dal viso grazioso e dal cervello pieno d’aria. Davvero un genio capace di creare simili meraviglie si sarebbe accontentato di una compagna tanto statica e mediocre nel discorrere di ogni genere di argomenti? Lei non era nessuno per giudicare, ma osservandone il volto e collegandolo a ciò che aveva udito dalle altre ragazze, era convinta che, a parte la bella voce e l’aspetto visibilmente affascinante, Christine non possedesse nessuna delle qualità che lei avrebbe reputato preziose.
Evidentemente al Fantasma dell’Opera bastava la sua bravura nel canto, ma in tal caso, le doleva ammetterlo, non ne era veramente innamorato. Ossessionato, attratto, questo sì; ma non innamorato. Non nell’accezione che lei dava alla parola. Per amare veramente qualcuno occorreva conoscerlo a fondo, condividere con lui un’affinità, una comprensione che andava al di là dell’uguaglianza o differenza di carattere: in un duetto al pianoforte non occorreva sempre che le note fossero le stesse, anche quando si differenziavano totalmente le une dalle altre creavano, unite, una sinfonia, un’utopia che colmava di estasi il cuore e i sensi. E in tal modo lei immaginava il vero amore. Come qualcosa che trascendeva dal corpo ed era legato unicamente allo spirito, come un sonetto a due mani che, sia se esse si rassomigliavano nell’esecuzione sia se non lo facevano, era capace di dar vita a qualcosa di…giusto. Perfetto. Non stonato. E se due delle mani non conoscevano a fondo le altre, se non si erano allenate a sufficienza a suonare insieme, inevitabilmente una di esse cadeva sulla nota sbagliata e la melodia ne era rovinata per sempre.  
C’erano duetti che, spinti dall’inesperienza, partivano come il rombo dei tuoni durante un temporale, come le onde dell’oceano che si infrangevano sulla riva, celebrando la passione, la voluttà, il desiderio in un glorioso rimbombo di suoni assordanti…ma troppo forti erano le note, troppo irruento il principio di una melodia, ed era facile che, arrivati ad un certo punto, gli esecutori si stancassero e perdessero ogni slancio…per tutto o niente, a volte solo perché s’accorgevano che le note suonate dal compagno non erano più in accordo con i loro gusti, sia nell’apparenza, sia nella sostanza. E allora s’allontanavano dallo strumento che li aveva uniti, ne cercavano un altro più adatto, e quello che restava seguitava a suonare da solo una melodia solitaria, finché non sarebbe giunto un nuovo compagno, o l’età e gli acciacchi avrebbero privato le sue dita della loro destrezza.
Chissà se il Fantasma dell’Opera continuava ancora ad eseguire una messa funebre in onore della sua amata perduta, o se il ricordo l’aveva infine lasciato andare…
Vivian si strappò brutalmente al corso che avevano preso i suoi bizzarri pensieri e si riconcentrò sul compito che si era imposta. Non aveva tempo per certe cose, i sentimentalismi le erano sempre stati alieni ed era raro che si concedesse di indugiare sull’amore. Certo non era quello il momento adatto per farlo! Volse le spalle al punto in cui era nascosta la sosia di Christine, quasi a voler negare coi gesti le sorprendenti riflessioni che le aveva ispirato, e procedette ad ispezionare alcune delle stanze collegate a quell’enorme salone.
Due di esse erano camere da letto. Una era occupata nel suo intero perimetro da un baldacchino che in quanto a fattura non sarebbe mai stato riprodotto in nessun’altra residenza: la testiera imitava il profilo elegante e leggiadro di un cigno d’ebano nero, le cui ali spalancate parevano proteggere un morbido giaciglio coperto da guanciali di seta e da coperte di spesso velluto. Cortine nere a balze ricadevano fino a terra tutt’intorno, ammantandolo di una barriera impalpabile, e vi era, in un angolo, un piccolo bagno con il necessario per provvedere ad un’attenta toletta personale. Impressionata favorevolmente dalla maestosità del letto, Vivian constatò che non vi era nulla di interessante o di sospetto e passò nella stanza vicina.
Era di dimensioni più esigue e d’aspetto maggiormente spartano. Un giaciglio costituito da drappi ammonticchiati e da cuscini impilati uno sopra l’altro aderiva alla parete frontale e su un comodino erano sistemati alcuni fogli scritti in una calligrafia rossa e affilata, che riproduceva note su pentagrammi minuziosamente riprodotti. Vivian gli diede una rapida occhiata, ma persistette a non trovare nulla. Lasciò vagare lo sguardo per la stanza e lo fermò su un curioso oggetto che era stato sistemato su di un tavolinetto elegante, in una posizione di evidente rilevanza.
Era la riproduzione di una scimmietta con addosso una giubbina rossa e un piccolo cappellino rifinito d’oro, rassomigliante a quelle vere che lei aveva veduto alcune volte in compagnia dei suonatori di organetto, alle fiere di Annecy. Il muso prognato era curvato in una specie di sorriso furbo e nelle zampe l’animale stringeva saldamente due piatti d’oro, mentre sul retro aveva assicurata una piccola leva su cui lei posò timorosamente le dita. Non sapeva per quale motivo, ma la presenza di quel buffo giocattolo, nella tetra e fredda dimora del fantasma, la invitava a dedicargli un’attenzione particolare, proprio per la sua incongruenza. A che scopo quella personalità folle e geniale si era procurata un balocco tanto banale, un divertimento tanto puerile? E perché l’aveva posta in quella posizione d’importanza?
Con delicatezza, poiché sentiva come se quell’oggetto fosse qualcosa di fragile, squisito e prezioso meritevole di un trattamento di riguardo, girò la piccola leva quattro o cinque volte e fece un passo indietro per vedere cosa sarebbe successo. La scimmietta prese vita con movimenti grevi, quasi si stesse risvegliando da un lungo sonno, e cominciò a battere i piattini con regolarità, mentre dal suo interno scaturiva una melodia giocosa e triste insieme, un motivetto che le parve d’aver già sentito e che la catturò in una istupidita contemplazione.
Un meccanismo legato al giocattolo si azionò e segnalò la sua incauta presenza, ma agì tanto silenziosamente che la ragazza, colpita dalla melodia, non s’accorse assolutamente di nulla.

Erik si era reinsediato nella Dimora nel Lago senza riscontrare alcuna difficoltà, ritrovando tutti gli oggetti tanto amati che aveva abbandonato sei mesi orsono e avvampando di un’ira cieca a fronte dello sfacelo causato dagli stolti che avevano creduto erroneamente di poterlo stanare. Come si erano permessi, come avevano potuto insozzare l’opera alla quale aveva dedicato buona parte della sua vita, il rifugio che gli apparteneva da tempo immemorabile?!
“Tutto a suo tempo, tutto a suo tempo” aveva mormorato a se stesso alla maniera di un mantra rassicurante: “Moriranno tutti, dal primo all’ultimo, così come sono morti qualche giorno fa”.
Il suo futuro si delineava con spietata chiarezza nella sua mente finalmente lucida, libera dai rimpianti del passato e dalla bruciante umiliazione che era stata capace di prostrarlo e di spegnere per un attimo tutto il suo entusiasmo, riducendolo ad un essere patetico, miserabile, abbandonato e singhiozzante. Era fuggito cospargendosi il capo di cenere, accettando il proprio triste destino di mostro e preparandosi ad una dipartita rapida e indolore, che gli avrebbe permesso di dimenticare tutte le gioie che gli erano state negate ma soprattutto lei, Christine, sempre Christine…
Ma la morte non era giunta. L’aveva attesa, oh, se l’aveva attesa, invitandola in tutti i modi che gli erano venuti in mente, a volte addirittura supplicandola con pianti e lamenti di strapparlo al suo corpo ingrato e deforme e di condurlo in un luogo di oblio, ma neanche la più accorata delle implorazioni era stata capace di accontentare il suo fatale desiderio, e la vita aveva preteso ben presto da lui un’attenzione che mai, mai avrebbe voluto concederle. Si era visto costretto, trascorsi mesi di abnegazione e vergogna, a guardare in faccia la realtà e a fare i conti con la consapevolezza che il decesso non sarebbe arrivato a salvarlo e che il Fantasma dell’Opera un fantasma non lo sarebbe ancora diventato. Era vivo, nonostante tutto, e aveva dinnanzi a sé un magma confuso e sconosciuto, che avrebbe dovuto riempire in qualche modo.
E a cosa sarebbe servito indugiare per l’eternità sul ricordo di una fanciulla che non era stata capace di andare oltre le apparenze? Di vedere dietro alla deformità del suo viso e di penetrare, con l’aiuto del suo sentimento, nei recessi più profondi della sua anima, dove riposavano quella bellezza e quella maestosità che il fato crudele non gli aveva permesso di sfoggiare? L’aveva amata in una maniera che nessuno avrebbe mai potuto comprendere, era vero, e aveva sognato, per qualche tempo, che il suo sguardo gentile avrebbe risparmiato il suo volto sfigurato e avrebbe visto oltre le piaghe, ma questo non era successo, e lei l’aveva abbandonato per rifugiarsi, spaventata e atterrita, tra le braccia della bellezza dell’Altro, dimostrandogli ancora una volta quanto il mondo fosse ributtante e perduto, e quanto la razza umana non meritasse la minima compassione, la minima salvezza, la minima redenzione.
Erano tutti uguali. Gli zingari che l’avevano brutalizzato da piccolo, gli artisti del teatro, Madame Giry, perfino Christine…tutti quanti degli insetti travestiti da signori dalla vista troppo fioca per poter vedere davvero. Si ergevano sopra alla pozza di letame in cui era immerso lui, gravando su di essa col loro peso, e continuavano a ridere, a vantarsi, e a fare tutte le altre cose che tanto li tenevano impegnati e che lui non aveva mai provato. Ignari della sua esistenza, della sua rabbia, del suo dolore, e prigionieri della loro stessa mente frivola e pregiudicata. Erik aveva appreso, dopo anni di oscurità, che l’unica maniera di far comprendere qualcosa agli esseri umani, l’unico momento in cui una breve luce di consapevolezza accendeva i loro occhi, era quando dava loro la morte. Solo allora tutte le finzioni e le bugie della loro vita cadevano per rivelarsi per ciò che erano ed essi, con lo stesso istupidimento del maiale che subisce il colpo d’ascia del macellaio, comprendevano appieno la miserevolezza in cui avevano sempre vissuto.
L’unica salvezza in cui il genere umano poteva sperare era la morte. E poiché non era riuscito a far parte della loro sozza comunità, poiché gli avevano sempre negato un simile “privilegio”, si sarebbe assunto il compito di salvarli da loro stessi, e di tendere la mano della giustizia sul teatro dell’Opera, il suo territorio di dominio. L’avevano eletto idolo che nei meandri dell’edificio faceva cadere lampadari e provocava incidenti misteriosi, e questo sarebbe diventato per l’eternità. Un messaggero di entità superiori, un freddo e spietato giustiziere che, privo di ogni sentimento, privo di rimpianti, avrebbe mondato Parigi dagli insetti che la assediavano, succhiandole la vita come parassiti e gonfiandosi di falso prestigio. D’ora in poi, sarebbe stata la fine, per l’Opera e per parecchi membri della razza umana. Non avrebbe dato motivazioni a nessuno, né se ne sarebbe cercate: un fantasma agisce senza alcun motivo apparente, per pura brama di distruzione. Li avrebbe cancellati, vaporizzati, estirpati, e si sarebbe trascinato fino al giorno della morte lungo una scia di cadaveri e di sangue, con la quale riempire il vuoto incolmabile che aveva dentro.
Se non poteva amare, allora avrebbe odiato con tutta la forza possibile. Se non poteva proteggere l’oggetto del suo amore, allora avrebbe distrutto completamente quello del suo odio. Se non poteva essere un uomo, allora sarebbe stato solo un mostro. Erano stati loro a volerlo. Loro lo avevano costretto a nascondersi in quel buco, loro lo avevano rinchiuso in una gabbia e picchiato a sangue perché il suo viso li faceva inorridire, loro lo avevano irriso e sbeffeggiato, loro gli avevano ributtato in faccia il suo amore, per la sola ragione che proveniva da un corpo troppo orribile da guardare. Erano più colpevoli di lui e meritavano che la sua mano giudicatrice li trascinasse nel nero oblio della morte.
Anche Christine…anche lei probabilmente era degna di fare la stessa fine. Quale fraintendimento, quale terribile malinteso era stato il suo amore! L’aveva idealizzata fino a farne una dea dalla voce capace di raggiungere le più alte vette del cielo, l’aveva indorata di pregi e perfezione sotto l’influsso malefico dei suoi dannati sentimenti, e perfino quando la sua deformità l’aveva indotta a rifuggire si era lasciato commuovere dalle sue lacrime e dalla sua tristezza, e le aveva permesso di salvarsi e di vivere a fianco di quell’insetto. Sarebbe stato meglio, mille volte meglio ucciderla senza farla soffrire, per salvarla da se stessa e dalla vita infelice e mediocre che avrebbe condotto, cancellando la menzogna della sua esistenza con un semplice gesto. Allora avrebbe reso felici lei e se stesso, si sarebbe comportato nell’unico modo possibile e avrebbe cominciato la sua opera di purificazione con la vittima maggiormente adatta, quella ragazzina sciocca e superficiale incapace di guardare oltre un viso sfigurato e di riconoscere, dietro l’orrore delle piaghe, l’immenso amore che provava per lei.
Ma ormai era tardi, troppo tardi per questo! Aveva perduto la sua occasione quando ancora credeva che non avrebbe mai potuto causarle sofferenza, rintronato dalla malevola intensità di quell’enorme beffa che era ciò che gli uomini chiamavano amore (e che in realtà non avevano mai saputo provare). Tuttavia, non si sarebbe certo fatto fermare da questo piccolo errore. In ogni essere umano c’era una parte di lei, e uccidendone ognuno, avrebbe ucciso lei. Aveva riso del ridicolo terrore di quegli insetti la sera del “Re degli elfi”, contemplando dall’alto del suo nascondiglio la loro frenetica fuga fuori dalla sala e il loro affannarsi a guadagnare l’uscita, constatando, con un misto di disprezzo e di sarcasmo, l’egoismo che ognuno di loro dimostrava, e per qualche giorno era rimasto appagato. Ma già l’insoddisfazione e l’odio tornavano a pretendere attenzione dalla sua mente, già nuovi propositi prendevano forma sotto l’azione geniale del suo splendido intelletto. Si sarebbe fatto vedere molto presto, e non se ne sarebbero dimenticati facilmente. Sapeva come vivacizzare una noiosa giornata d’inverno.
Non era forse un magnifico artista nel suo genere?
Madame Giry, la povera, compassionevole Madame Giry, era scesa da lui per cercare di ricondurlo alla ragione. Non poteva dire d’esserne sorpreso, conosceva perfettamente come funzionava la mente di quella donna ed era sicuro che ella, stoltamente, avesse creduto di trovarlo nelle stesse condizioni in cui l’aveva sorpreso subito dopo l’addio di Christine. Che infantile ingenuità! Egli era naturalmente rinsavito da quella follia, e anzi, non era mai stato più lucido di così!
L’aveva accolta con estremo fastidio, deciso a troncare i rapporti con lei una volta per tutte sfruttando il suo antico tradimento (aveva aiutato il Visconte a penetrare nei suoi domini), e alle sue suppliche, alle sue frasi accorate, ai suoi tentativi di rabbonirlo aveva risposto con risate e commenti sarcastici, rifiutandosi di fornirle la benché minima spiegazione e consigliandole caldamente di sparire dalla sua vista, se desiderava che le cose non precipitassero, per Meg e per parecchi membri della razza umana. La sua presenza, che per un attimo l’aveva confortato, adesso lo irritava profondamente, proprio a causa del suo ultimo cedimento (una debolezza che gli aveva strappato in un momento in cui la mente non gli funzionava bene), e perché il solo posare gli occhi su un essere umano ormai sollecitava in lui il fortissimo impulso di vomitare.
Alla fine la donna aveva ubbidito, guardandolo come se desiderasse disperatamente aiutarlo a sfuggire ad un vortice in cui s’era infilato di sua volontà, e lui era tornato ai suoi progetti con intima soddisfazione, lieto d’essersi liberato di quella zavorra e di non aver più fastidi da parte sua. Un fantasma non ha amici, non ha conoscenti, non ha nemmeno dipendenti. Un fantasma è capace di attraversare i muri e penetrare nell’animo delle persone, e non ha alcun bisogno di aiuti esterni. Aver scacciato colei che per anni interi era stata il suo unico contatto col mondo era un passo decisivo verso la sua totale acquisizione di questa identità.
Erano trascorsi soltanto pochi minuti dalla sua scomparsa, ed Erik aveva appena abbassato il capo sulla piantina del teatro, disegnata di sua mano, che stava esaminando in uno studio un po’ isolato che aveva prescelto per completare i suoi progetti, quando una campanella situata in un punto chiave delle pareti diede un trillo stridente, che lo strappò alla sua concentrazione e lo spinse a drizzare la testa di scatto con gli occhi sfolgoranti e le labbra troncate a metà serrate in una smorfia di furia. Chi osava disturbarlo una seconda volta nei suoi domini?! Madame Giry non poteva essere, dal momento che era uscita tramite una porta ben lontana dall’oggetto che aveva innescato l’allarme, ma nessun altro conosceva la strada per la Dimora nel Lago, dunque si trattava sicuramente di un intruso incauto, di una presenza capitata lì per caso o per intenzione.
Bene, l’avrebbe accolta come si conveniva. Forse quella novità avrebbe rappresentato una piacevole distrazione dal lavoro a cui si stava dedicando anima e corpo, e gli avrebbe permesso di godersi qualche minuto di divertimento. La sua mano scattò verso una spessa corda che lui chiamava abitualmente “laccio del Penjab” e l’arrotolò con un movimento agile, mentre si alzava in piedi.

Vivian aveva trovato l’organo.
Dopo aver distolto l’attenzione dalla scimmietta suonatrice di piatti, era uscita dalla camera da letto ed aveva vagato per i sotterranei senza una meta precisa, notandone lo stato di degrado e lo spesso strato di polvere che ricopriva ogni cosa di una cortina grigia. Ogni particolare di quel luogo, ogni dettaglio la attraeva e la catturava, ma nessuno di essi le suggeriva un’informazione o un indizio, anzi, si sentiva sempre più confusa via via che la sua ispezione proseguiva, e in definitiva non riusciva a decretare se il Fantasma dell’Opera fosse un genio o un pazzo. Possibile che le due cose potessero convivere? E se era così, come lo si poteva sconfiggere, come si poteva vincere l’imprevedibilità di un folle, mescolata al calderone di risorse d’un genio? Aveva affrontato la morte e l’oscurità per scoprire che il suo avversario era invincibile? Che lei era troppo insignificante, troppo povera e sciocca per avere la meglio su di lui? Che avevano avuto ragione Emma e Madame Lefevre?
Era stato allora che i suoi occhi si erano posati sul magnifico strumento. La visione si era presa in ostaggio all’istante ogni suo pensiero, mutandone bruscamente il corso, e tutto quanto, dubbi e paure, era svanito per lasciar spazio unicamente a quel capolavoro meravigliosamente gotico.
In tutta la sua vita, mai le era capitato di ammirare un organo così ben fatto. In esso si mischiavano la professionalità di un buon modello e l’ottimo senso estetico del suo ben conosciuto costruttore (non dubitava, infatti, che si trattasse dello stesso Fantasma dell’Opera) ed era una tentazione quasi irresistibile poggiare le dita bendate sulla doppia tastiera e provare a suonarlo. Si fermò a pochi passi da esso, ammutolita dall’ammirazione, e fece scorrere un tocco lieve sul legno dipinto di nero, costretta ancora una volta a inchinarsi di fronte all’indiscusso genio del fantasma.
“Sei un assassino e un pazzo, è vero” mormorò a se stessa: “Però le tue mani sono capaci di piegare ogni materiale al tuo volere”.
Come se con una tale frase avesse invitato il diavolo a far spuntare le proprie corna, percepì con violenza soffocante che c’era una presenza alle sue spalle, e che quella presenza non aveva buone intenzioni. Simili intuizioni spesso non hanno alcun significato razionale, ma proprio per questa ragione, a volte, decretano una verità indiscutibile. Ed è parere comune che interessino maggiormente l’universo femminile rispetto a quello maschile.
Vivian sapeva, senza che il suo aggressore avesse fatto il minimo rumore o sospiro, che le era alle spalle. E sapeva che stava per farle del male.
Reagì nel modo più ovvio: la sua bocca si spalancò istintivamente per gridare e i suoi muscoli si tesero, preparandosi allo scatto della fuga. Ma la presenza, che doveva aver previsto una tale reazione, non le lasciò il tempo di emettere il minimo fiato e in mezzo battito di ciglia la ragazza si sentì premere con forza terribile contro un petto muscoloso e chiaramente maschile, e avvertì un braccio aggressivo che le circondava la vita da dietro e un altro braccio che le serrava il collo in una morsa, passandovi intorno un laccio simile ad un malevolo serpente. Il tutto accadde in maniera talmente fulminea che la sua mente non riuscì a stargli dietro in ogni sua fase, e il terrore sopraggiunse con intensità animalesca, avviluppandole il corpo in una tenaglia e mozzandole il fiato in gola. Ne era talmente invasa che non pensò più neanche a urlare, e la nuova portata dei suoi sensi, in ogni caso, avvertiva che non sarebbe servito a nulla.
La presenza dietro di lei, tenendola avvinta a sé in modo tanto tremendo da non permetterle di compiere il minimo movimento, avvicinò il viso al suo orecchio e la ragazza riuscì a sentirne il respiro caldo tra i capelli, una sensazione che le strappò un brivido.
“Che cosa ci fate qui?” sussurrò una voce maschile, melodiosa e tranquilla, con un tono che nascondeva un’evidente minaccia. Le scivolò nelle vene come un veleno urticante, scendendole lungo la curva del collo e insinuandosi nella giugulare che pulsava a un ritmo forsennato, e gliele ricoprì di uno strato di ghiaccio, impedendole di ribattere. I battiti frenetici del suo cuore iperventilato le sfondavano le orecchie e la paura le si agitava dentro come un animale selvaggio, scalpitando e reclamando una salvezza impossibile.
La presenza attese qualche minuto per darle il tempo di rispondere, quindi la strinse ancora più forte e aumentò la pressione del laccio intorno al suo collo, quel tanto che bastava a farle sentire un senso di soffocamento: “Che cosa ci fate qui?” ripeté, più incalzante. Vivian boccheggiò disperatamente, cercando una soluzione che in quel momento non aveva, una qualsiasi giustificazione, e frugò dentro di sé alla ricerca del coraggio che l’aveva mossa fino a pochi minuti prima e che era stato risucchiato dall’intervento di quell’uomo misterioso.
“Siete il Fantasma dell’Opera?” quello che le uscì dalle labbra fu appena un sussurro. Ansimò come una bestiola in trappola allorché il laccio si strinse ancora di più. La voce che giunse qualche attimo dopo era dura: “Chi vi ha indicato la strada per i miei domini? Madame Giry?”
La fronte della ragazza era coperta di sudore gelido: “Ci…ci sono arrivata… da sola” si detestò per quel discorso smozzicato e inframmezzato da gemiti, ma era il meglio che era riuscita a trovare, e comprendeva che se fosse rimasta in silenzio la creatura alle sue spalle avrebbe aumentato ulteriormente la pressione del terribile laccio. Già così respirava affannosamente per non soffocare e avvertiva una sgradevole oppressione al petto.
“Da sola?” disse il fantasma con quel suo tono calmo e atono, denso di elettrica pericolosità. La stretta sul suo corpo si fece ancora più tenace e dolorosa: “Credo che voi stiate mentendo”.
“Non è così!” pian piano le forze le ritornavano, nel terrore e nella paura ritrovava la voglia di vivere e di combattere, e la sua voce assunse una sfumatura più risoluta. Cercò di divincolarsi da quell’abbraccio mortale per vedere il volto del Fantasma dell’Opera, ma egli si avvide all’istante del suo tentativo e subito il cappio le vincolò la gola, costringendola a desistere e a tossire convulsamente. Era alla sua completa mercé, colta in flagrante come una bambina con le mani nella marmellata, e poteva imputarne la colpa soltanto a se stessa. Quanto era stata stupida e ingenua, quanto incautamente si era avventurata in quel territorio a lei precluso sperando di passare inosservata agli occhi del suo proprietario!
Tutto ciò che poteva fare era affrontare le conseguenze della sua stupidità con ritegno.
“Non sto mentendo” disse distintamente, non provando più a girarsi per guardare il suo aggressore: “Sono arrivata qui per conto mio”.
“Una ragazza coraggiosa…” risultava evidente il sarcasmo. La mano che la stringeva alla vita la fece aderire ancora di più a quel torace muscoloso, e con una lieve scrollata lasciò cadere al suolo il drappo con cui si era coperta, rivelando il suo abbigliamento indecente. Una vampata le arroventò il volto e venne percorsa da un tremito mentre quella bocca invisibile tornava ad accostarsi al suo orecchio: “…o stupida. Quale vi si addice meglio?”
Si irrigidì da capo a piedi: “Lasciatemi” sussurrò.
Lui scoppiò in una risata che le gelò il sangue: “Mademoiselle, non vi ho certo invitata io. Perché siete venuta a disturbarmi? Io domando forse a chi passa che ore sono? Non avevate nulla di meglio da fare? Volevate vedere se le leggende erano vere? Se qui sotto c’era un fantasma?”
Un secondo brivido le attraversò la schiena. Deglutì, sforzandosi di ricacciare giù un bolo di terrore e saliva: “Voi non siete un fantasma”.
Il laccio diede un guizzo che quasi la soffocò.
“Certo che sono un fantasma” l’uomo era contrariato: “Sono il Fantasma dell’Opera”.
“No” disse lei coraggiosamente: “I fantasmi non hanno corpo, voi invece sì. Io…lo sento”.
La presenza emise una risatina bassa e suadente: “Avete mai visto un fantasma, mademoiselle?”
“N…o”.
“Dunque, come fate a sapere come sono fatti?”
Era una tortura. Una beffa. Si prendeva gioco di lei, approfittandosi del suo terrore e della sua posizione di svantaggio, ma Vivian conosceva la verità. Il petto contro cui era adagiata aveva muscoli sodi e un cuore che batteva poderoso, ed era il petto di un uomo. Il fiato caldo che le accarezzava la nuca testimoniava che la vita scorreva ancora nelle membra dell’essere che la minacciava in quel modo. Poteva terrorizzarla quanto voleva, ma non le avrebbe tolto la sua verità.
“Lo so e basta” disse infine.
Il Fantasma dell’Opera rimase in silenzio per un poco, godendosi l’odore della sua paura e il suono dei suoi ansiti che risuonava nella solitudine della Dimora nel Lago. Vivian si torceva invano nella morsa del laccio che le serrava la gola, sperando di allentarlo o di liberarsene, ma la maniera in cui era stata immobilizzata la impediva totalmente nei movimenti, e ogni volta che provava ad accennarne uno, la stretta su di lei aumentava.
“Dovrei uccidervi per la vostra intrusione, lo sapete?” ricominciò infine la voce melodiosa, con un fare quasi rammaricato, come se dovesse prestarsi a qualcosa di spiacevole ma necessario.
Vivian impallidì. Per un attimo, l’odio che provava per lui divenne tanto forte che credette che sarebbe stato in grado di corrodere la sua carne come acido.
“Fatelo, allora” nessuno fu più stupito di lei dall’audacia di quelle parole: “Ho già avuto modo di vedere che non siete capace d’altro”.
Perfino l’uomo che giocava a travestirsi da fantasma parve interdetto da quell’ultima uscita, ma si riprese ben presto: “Forse avete ragione. In effetti, proprio per la mia abilità nell’arrecare la morte di chi mi contraria, ho fornito la mia dimora di una serie di stanze che forse vi farebbe molto piacere visitare. Mi permetterete di farvi gli onori di casa? Potrei organizzare una gita nella Camera dei Supplizi…o andare a dire alla Sirena di cantare per voi…che ne pensate, mademoiselle? L’idea vi aggrada?”
Vivian digrignò i denti: “Siete un mostro”.
La risata di lui le scompigliò i riccioli: “Non più di tanti altri, mademoiselle” le parve di cogliere una nota amara in quella risposta, ma svanì all’istante: “Io, almeno, non maschero la mia putredine di falsa bontà. Sapete come mi chiamano? Il Signore delle Botole, perché nessuna porta è mai chiusa per me! E un’altra mia grande abilità, è senza dubbio quella di parlare solo con il ventre. Potrei farvi gracidare come una rana, se lo volessi. Ma forse sarebbe uno spreco…” il laccio cominciò a stringere: “…forse dovrei farla finita subito. Perché sapete, mademoiselle…se voi mi cercate…allora gli altri là sopra si chiederanno cosa stiate cercando…verranno a sapere che cercate me…e vorranno cercarmi anche loro. La qual cosa, soprattutto adesso, mi disturba molto”.
La giovane boccheggiava, semisoffocata dalla pressione del cappio, ma si costrinse a tirare fuori la voce: “Se dovete…uccidermi…allora…smettetela di posticipare il momento…con i vostri deliri…e agite!”
Dietro di lei ci fu una piccola pausa. Era logico che quel mostro rimanesse colpito, sicuramente s’era aspettato una reazione isterica e terrorizzata, condita da grida, suppliche e singhiozzi, ma tanto era ormai condannata e non gli avrebbe concesso quest’ultima soddisfazione.
Poi ci fu un sospiro, e la morsa del laccio si allentò, permettendole di tirare il fiato.
Il Fantasma dell’Opera si chinò su di lei: “Non tornate più qui. Non intendo sprecare il mio laccio per voi, ho ben altro di meglio da fare che assassinare una ragazza impicciona. Ma non sarò altrettanto clemente una seconda volta”.
Lei sgranò gli occhi: “Che cos…”
Un colpo alla nuca, preciso, esperto.
Poi il buio.

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Capitolo 7
*** La cappella dell'Angelo della Musica ***


La cappella dell’Angelo della Musica
 

 
 
 
 
Antoine Baptiste Rappenau sedeva stravaccato su una montagna di cuscini dai colori sgargianti e portava alla bocca, pigramente, il beccuccio del narghilè caricato ad erba rilassante sistemato accanto alla sua persona, aspirando profonde boccate e buttando fuori dense nuvole di fumo biancastro che gli nascondevano il volto in una cortina appannata. Il locale in cui si era recato era pervaso da una calura quasi insopportabile ed egli era in maniche di camicia e brache di velluto, i piedi nudi che riposavano su un divanetto persiano di grossolana fattura. Drappeggi variopinti decoravano le pareti spoglie e sudicie, liquori dai nomi esotici e dal sapore atroce circolavano tra i gruppetti raccolti in vari angoli della sala e l’aria era pregna di un pungente odore di muschio e di oppio. Fanciulle dalla pelle scura e dagli abiti che lasciavano poco spazio all’immaginazione danzavano al ritmo di tamburi e di sitar e lanciavano sguardi provocanti agli ospiti, ancora poco numerosi a quell’ora del pomeriggio.
Il giovane Marchesino era in compagnia di due amici della sua stessa età, anche loro figli di famiglie nobili e annoiati dalla loro vita di agi e di comodità, sistemati ai suoi lati come se egli fosse il capo della cricca e loro due semplici sottoposti bramosi di non rubargli la scena. Erano assidui frequentatori di quel luogo d’infamia (sebbene lo tenessero accuratamente nascosto) e Rashid, il proprietario, li aveva accolti con un abbraccio confidenziale e una battuta sgradevole, lieto di rivedere clienti che non si facevano il minimo problema a spendere i loro averi in droga, alcol e prostitute. Solitamente, Antoine considerava quelle visite un piacevole diversivo dall’andamento monotono delle sue giornate ed era gradevolmente lusingato dalla gioia che Aysha, la più giovane e bella tra le ragazze di Rashid, mostrava ogni volta che entrava nel locale. Fare l’amore con lei era un piacere lento e sensuale che si concedeva in abbondanza, lasciandole quasi sempre una piccola mancia extra: la fanciulla sedicenne era disponibile a qualsiasi tipo di pratica, ma la eseguiva con una dolcezza, un candore che ne occultava totalmente i risvolti volgari. Era l’unica tra quelle sgualdrine a sembrare ancora pura, ancora innocente e intoccata dalla miseria in cui viveva, e per questo Antoine la prediligeva.
Ma quel pomeriggio, con suprema irritazione, non riusciva a ritrovare il piacere in cui tante volte si era crogiolato. L’oppio che aspirava dal narghilè era della stessa qualità di quello degli anni passati, importato direttamente dalla Persia (Rashid glielo aveva assicurato), ma ai suoi polmoni risultava troppo leggero, troppo tenue, troppo poco intenso per dargli lo stordimento che ricercava. Perfino Aysha, accoccolata con la testa di lunghi capelli bruni appoggiata sulle sue ginocchia e le gambe nude sensualmente accavallate, non era più in grado di accendergli il sangue come le altre volte. La vicinanza del suo esile corpo bruno e flessuoso, dei suoi seni piccoli e sodi e dei suoi fianchi da danzatrice non scatenava in lui alcuna reazione, anzi, lo irritava quasi. Avrebbe voluto spingerla lontano da sé con violenza, scagliare dall’altro lato della sala l’inutile narghilè e andarsene come una furia.
Me nemmeno all’esterno il fuoco bruciante dell’umiliazione gli avrebbe dato pace.
“Come ha potuto fare una cosa del genere?” parlò con voce bassa e tetra, i biondi capelli sudati che aderivano all’ovale perfetto del suo viso e gli occhi appannati dalla droga che luccicavano pericolosamente nella penombra del locale, rischiarata soltanto da alcuni lumini colorati sistemati sul soffitto: “Come ha potuto rifiutarmi?”
Uno dei suoi due amici, un giovanotto bruno e prestante di nome Pierre, batté le palpebre per vederlo meglio attraverso la cortina di fumo e si sforzò di raccogliere le idee per articolare una risposta che avesse un senso: “Che cosa ti importa, Antoine? Di sceme come lei puoi trovarne cento”.
L’altro, rosso di capelli e noto come il Contino Claude Lourdelle, era troppo preso dalla prostituta che aveva scelto, una formosa dal corpo voluttuoso e dalle labbra ingombranti, per star dietro alla conversazione.
Antoine strinse le labbra, serrando il tubetto del narghilè in una morsa talmente tenace da farlo scricchiolare: “Non aveva alcuna ragione di rifiutarmi!” sibilò, ancora più astioso del normale sotto l’effetto della potente droga che stava assumendo. Ammettere l’onta che gli era stata fatta il giorno prima davanti ai compagni che conosceva dall’infanzia era stato ai limiti dell’impossibile, e le parole erano venute fuori a fatica, intrise di rabbia e di sconcerto.
Non riusciva a smettere di pensare a quella maledetta Vivian Carré, a quella miserabile stracciona dalle origini infamanti che aveva osato, nella sua immensa boria, nella sua dannata vanità, opporre un rifiuto alle sue avances. Com’era possibile che una ragazza povera e senza protezione, una ragazza che nessun uomo di una certa levatura sociale avrebbe mai sposato, potesse dire di no alla proposta fattale dal Marchesino Rappenau in persona? Com’era possibile che quella creatura affascinante, sì, ma perfettamente nell’ordinario, si fosse negata ad un uomo avvenente, generoso e popolare quale lui era? Le aveva messo gli occhi addosso fin da subito, certo che non si sarebbe fatta pregare proprio come le altre sue conquiste, e l’atteggiamento risoluto e freddo di lei l’aveva trafitto come un pugnale di ghiaccio, un pugnale che aveva penetrato la scorza della sua indistruttibile sicurezza e gli aveva raggiunto il cuore, tramutandogli il sangue in acqua gelida.
Ma avrebbe anche potuto sopportarlo, questo. Avrebbe anche potuto dimenticare la vergogna del rifiuto, per annegarla nelle grazie di una fanciulla più assennata di lei. Se solo quella strega, quella meretrice di Satana, non l’avesse incantato.
Perché di un incanto si trattava, ormai non aveva più dubbi al riguardo.
Era perseguitato dall’immagine di lei. Gli appariva dinnanzi agli occhi dell’anima nei momenti più impensati e nelle situazioni più disparate, distogliendolo dalle sue occupazioni e facendolo precipitare in un torbido delirio erotico da cui usciva con fatica estrema, strappandosi in uno sforzo disperato alle sue ardenti spire, e scivolava languida e pericolosa nelle sue arterie stregate, facendole ribollire di lussuria sfrenata e di insoddisfazione cieca. Ogni volta che apriva un libro per distrarsi dall’ossessione, lei emergeva dalle pagine con i riccioli neri sparsi sulle spalle e i grandi occhi bruni che gli ammiccavano con malevola astuzia e danzava tra le righe, annebbiandogli la mente. Quando discorreva con qualcuno e tentava di concentrarsi sulle sue risposte, dietro di lui la vedeva incombere come un’ombra onnipresente, rivestita dell’abito rosso e tentatore che indossava l’ultima volta che si erano incontrati e intenta a ridere di lui e del suo dramma. Nel sonno arrivava a tormentarlo con falsa accondiscendenza, abbandonandosi tra le sue braccia bramose e permettendogli di toccarla finché, proprio sul più bello, la veglia non la faceva svanire come un’illusione di cristallo frantumata dal pugno crudele della realtà. Era con lui in ogni momento, in ogni situazione, bellissima eppure così terribilmente lontana e irraggiungibile, e il giovane fremeva di un violento parossismo di lascivia ogni volta che rammentava l’unico episodio in cui era riuscito a toccarla, la sera del “Re degli Elfi”, quando l’aveva stretta a sé per pochi istanti prima che lei si divincolasse crudelmente, spietata come solo una strega poteva essere.
Lui, che aveva posseduto decine di fanciulle, che le aveva abbandonate senza il minimo scrupolo e che mai aveva permesso loro di esercitare qualsiasi forma di controllo sulla sua persona, adesso era ridotto ad un patetico animale in calore che inseguiva l’oggetto del suo desiderio con le fauci sbavanti e l’occhio infiammato, facendosi distanziare facilmente da esso che lo beffava divertito, lasciandolo a macerare.
Era insopportabile. E non aveva neanche senso. Pierre aveva ragione, di fanciulle come Vivian avrebbe potuto averne a bizzeffe. Per quanto graziosa, la ragazza non era certo avvenente come tante sue coetanee, ma c’era qualcosa, in lei, un fuoco interiore, una forza che lo avvinceva totalmente, che lo incatenava in un viluppo di erotiche fantasticherie e che si serrava sul suo cuore con maggior forza ogni giorno che passava. Era fiera e indomabile come una tigre, schiva e ostile come una lupa, e l’idea di soffocare il suo ardore, di far suo quell’essere tanto sdegnoso e scostante, assaporandone l’arrendevolezza e l’impotenza, lo faceva impazzire. Resistere ad un tale maleficio, ad una fattura così ben eseguita era impossibile perfino per una personalità forte come la sua. La odiava per ciò che gli aveva fatto, al punto che sarebbe stato capace di ucciderla e di eliminare così il controllo che aveva su di lui, ma allo stesso tempo la desiderava come un disperato, e sarebbe stato pronto a concederle tutto ciò che voleva, qualsiasi genere di ricchezza o favore, purché gli si donasse.
Il che era inammissibile da parte sua. Non sarebbe caduto così in basso, non si sarebbe fatto spogliare dei suoi averi da una strega com’era accaduto a tanti aristocratici attempati invaghitisi di giovani ballerine da avanspettacolo e altezzose prostitute di alto borgo. Non lui, il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau, erede di una fortuna che avrebbe fatto invidia alle più alte autorità parigine e destinato ad un futuro glorioso e dorato. Se c’era una cosa che non era disposto a cedere, era la sua inossidabile reputazione: tutti, nei salotti della buona società, erano d’accordo nel ritenere che il giovane si sarebbe dimostrato un degno erede di suo padre e che avrebbe amministrato con saggezza e senso pratico i suoi possedimenti, comportandosi come ci si aspettava dal Marchese Rappenau.
Cosa avrebbe pensato l’attuale detentore di quel titolo, l’insuperabile Jean Roland Rappenau, della sua vergognosa ossessione erotica? Antoine non osava nemmeno pensarlo. Sapeva perfettamente che anche suo padre non era alieno ai piaceri della carne e alle scorribande trasgressive (era anch’egli cliente di Rashid, sebbene utilizzasse un nome falso, e non era raro che si trovasse un’amante, anche tra le mogli dei suoi parigrado) ma era sempre stato estremamente attento a che la sua vita privata e la sua vita lavorativa non si toccassero, e aveva mantenuto pura e immacolata la sua immagine. In pubblico mostrava di amare sinceramente la Marchesa Angelique, che nella sicurezza domestica ignorava completamente, ed era considerato un padre attento e un marito invidiabile. Il figlio l’aveva sempre visto come un modello da emulare in tutto, e avrebbe desiderato, in quel momento di tribolazione, chiedergli consiglio riguardo al suo problema, ma avevano un rapporto troppo freddo e distante perché potesse trovare il coraggio di affrontare una questione tanto personale.
“Suvvia, Antoine!” con un sorriso dolce e giocoso, Aysha gli scostò una ciocca di capelli dal viso fiero e arrogante e giocherellò con i bottoni della sua camicia, premendo il seno duro e voglioso contro i muscoli del suo torace: “Smettila di rimuginare sui cattivi pensieri. Manchi per così tanto tempo e non approfittiamo nemmeno di questa occasione? Come mai non mi hai portato un regalo come le altre volte?” sporse in fuori il labbro inferiore in una smorfietta di fastidio, ma il tono scherzoso sminuiva il significato delle sue lagnanze.
Era soltanto una maniera innocente di civettare con lui, ma Antoine si inacidì, e non gli era mai capitato in sua presenza. La fanciulla aveva una vocetta acuta e fastidiosa simile al cinguettio insistente di un uccello molesto e un corpo ingombrante e frettoloso, che si appiccicava al suo con insistenza. Il suo odore, un misto di sudore, muschio, tabacco e alito da bevitrice, gli giunse alle narici in un’ondata rivoltante e gli venne istintivo irrigidirsi, tormentato da una rabbia e da un’insoddisfazione che non la smettevano mai di cingere d’assedio la sua mente. Perfino con una ragazza desiderabile come Aysha, nei suoi pensieri c’era solo lei, Vivian, la sua pelle olivastra e invitante, il suo morbido seno stretto nel corpetto, le sue lunghe gambe slanciate e allenate.
La prostituta attese invano una qualche reazione, poi sospirò, gli si fece più vicina e spostò la manina delicata dal petto al cavallo dei pantaloni, con quei suoi movimenti candidi, naturali e infantili che un tempo lui aveva sempre trovato eccitanti, ma che adesso si scopriva a detestare: “Posso distrarti io se vuoi…”
Antoine ebbe uno scatto di rabbia e la respinse da sé con uno strattone, gettandola tra i cuscini come un sacco di patate: “Non toccarmi!” senza volerlo gli uscì un ruggito furibondo, e per una breve manciata di secondi i suoi amici e parecchi dei clienti vicino a loro lo osservarono con stupore, immobilizzati nelle loro indecenti posizioni. Poi, troppo indaffarati per continuare a spiare, tornarono ognuno al suo narghilè, alla sua ragazza, al suo boccale di liquore.
Aysha si raddrizzò a fatica, massaggiandosi il braccio. Doveva averle fatto male. Alzò su di lui due occhi addolorati e pieni di lacrime: “Ma che ti prende?!”
Antoine distolse rabbiosamente il viso. Non si pentiva di ciò che aveva fatto, non provava tenerezza per la ragazza prona ai suoi piedi come un fiore calpestato, anzi, era ancor più frustrato di prima, ancor più cieco di un desiderio che, ora se ne rendeva conto, non avrebbe potuto sfogare su di lei, né su nessun’altra. Frugò nelle tasche dei calzoni, trovando improvvisamente insopportabile la calura del locale e il penetrante odore di droga che lo intontiva e gli contaminava i polmoni, e ne trasse alcune monete che gettò con disprezzo contro la fanciulla, la quale si protesse col braccio come se temesse d’essere colpita.
Il giovane si rivolse agli amici senza degnarla più di uno sguardo: “Me ne vado. Questo posto non è più come una volta”.
Afferrò la giacca che aveva gettato su un divanetto, non aspettando la loro risposta, e si avviò all’uscita infilando le braccia nelle maniche, il petto che si alzava e abbassava ad un ritmo frenetico e negli occhi uno sguardo fosco, disperato e smanioso. Udì i deboli singhiozzi di Aysha dietro di sé e le esclamazioni stupefatte di Pierre e Claude e li eliminò dalla mente come avrebbe eliminato un tarlo fastidioso che lo rodeva dall’interno.
Ma c’era un tarlo che non se ne sarebbe mai andato tanto facilmente. Perfino quando uscì nella neve gelida e il freddo gli rischiarò un poco le idee, Vivian danzava provocante nella sua anima vinta, di cui aveva fatto il suo giaciglio e il suo maniero, e scuoteva la testa con falso rammarico, irridendolo per il suo tentativo fallito.
Strinse i pugni così forte che le unghie affondarono nella carne. Non poteva continuare così. Doveva liberarsi dal maleficio della strega, e in minor tempo possibile. Forse, se avesse sentito davvero il sapore di quelle labbra su cui tanto disperatamente si arrovellava, se avesse posato le mani formicolanti su quel morbido seno, la sua ossessione sarebbe cessata e, consumandola, se ne sarebbe liberato per sempre. Forse, per smettere di desiderare quel piatto di delizie irraggiungibili, avrebbe dovuto avventarsi su di esso e divorarlo fino all’ultimo brandello.
La sola idea gli fece girare la testa. Sì! Ecco, infine, la soluzione, il semplice stratagemma che per qualche futile motivo la sua mente aveva ignorato! Affamato com’era di Vivian, solo gustandola si sarebbe finalmente saziato!
Rise sguaiatamente nel vento gelido, una risata sconclusionata e felice. Quanta sofferenza vana, quanti problemi inesistenti. E la chiave ce l’aveva a portata di mano!
Sollevato nell’animo da quel fardello malefico, si avviò di buon passo nell’unico luogo in cui sperava di trovarla.
 
Vivian era rimasta per gran parte di quella giornata in uno stato di istupidito torpore. Qualsiasi cosa le dicessero, non la udiva, e a ogni domanda che le veniva posta rispondeva con uno sguardo perso e disorientato, simile a quello d’una bambina che non comprende del tutto il senso di un discorso da adulti. Quando era rinvenuta dallo svenimento causatole dal colpo alla testa vibrato dal terribile Fantasma dell’Opera, quando s’era ritrovata distesa su una panca nella solitudine dei camerini vuoti, avvolta in un drappo che celava la sua biancheria intima rovinata, s’era alzata in piedi come un automa, i pensieri che turbinavano confusamente e l’animo troppo sopraffatto per fare i conti con ciò che le era avvenuto, ed era tornata a piedi fino a casa, dove si era fatta un lungo bagno caldo e aveva indossato abiti puliti, celando le macchie violacee sul collo con una sciarpa trovata nell’armadio. Aveva chiuso a chiave la porta della sua stanza, rifiutandosi di spiegare a Madame Lefevre il motivo del suo mostruoso ritardo e disdegnando la cena che la domestica le aveva portato su un vassoio, ed era rimasta per tutta la notte e per gran parte del giorno seguente sdraiata immobile sul letto, senza dormire, senza pensare, fissando un punto nell’oscurità con gli occhi spalancati e vacui.
La sua tutrice le aveva bussato al mattino per esortarla ad andare alla sua lezione, ma si era limitata ad affondare il volto tra i cuscini e a tapparsi le orecchie, così, dopo una lunga attesa, la donna era partita senza di lei e aveva pensato di dire che s’era sentita poco bene. Vivian aveva provato un piccolo sollievo, ma nulla di più. Il solo pensiero del cibo le dava la nausea e trovava faticosissimo scendere da quel letto, così aveva nuovamente rifiutato la colazione e non aveva provveduto alla propria toletta personale.
Gli avvenimenti della sera prima erano avvolti da una nebbia spessa e invalicabile, che la proteggeva dal loro tremendo calibro. Se cercava di ripensare all’accaduto, rammentava candele accese, un lago gelido e tenebroso, una scimmietta che suonava i piatti sorridendo e quella voce (quella voce!) che le sfiorava l’orecchio con parole di minaccia. Erano ricordi confusi, sensazioni, per di più, che non voleva approfondire. Però il Fantasma dell’Opera l’aveva risparmiata, e questa era una cosa che ancora doveva assorbire del tutto. Non era interessato, dunque, all’omicidio segreto e anonimo, ma ricercava una distruzione che fosse più plateale ed esteticamente gloriosa, un qualcosa che potesse appagarlo nel suo gusto per la pompa e il fasto. Il disastro del “Re degli Elfi” ne era la prova evidente. Egli voleva che tutto il genere umano si inchinasse di fronte al suo genio insuperabile, e ucciderla nella solitudine dei sotterranei, strangolandola con un laccio, probabilmente non avrebbe rappresentato ai suoi occhi una fatica degna della sua persona. Ecco perché l’aveva condotta fuori dai suoi domini senza farle del male.
Ma questo, forse, era persino più umiliante per lei. Il suo nemico, quell’uomo maledetto che si nascondeva dietro la sua falsa identità di fantasma, le aveva dimostrato, risparmiandola, che non la considerava affatto un’avversaria temibile, e che anzi, non voleva neanche prendersi la briga di eliminarla. La sua spedizione, la sua avventura pericolosa e intraprendente, era stato un fallimento sotto ogni punto di vista. Lui si era preso gioco di lei con la sua voce insinuante e le sue false minacce e le aveva aperto gli occhi su quanto folle fosse stata la sua idea.
Non sarebbe mai potuta tornare alla Dimora nel Lago, neppure volendolo (e per il momento non ci teneva affatto). Aveva compreso che un uomo del genere non lo si poteva ingannare.
“Dunque è così che finisce?” le parole erano cadute come macigni nel silenzio della stanza semibuia: “Terrorizzerà il teatro per l’eternità, seminando morte e distruzione, senza che nessuno trovi il coraggio di fermarlo?”
No. No, non sarebbe stato giusto. La vita di ogni essere umano, anche del più crudele e depravato, era un bene prezioso che non andava né rifiutato con il suicidio, né tolto con l’omicidio. Nessuno, nemmeno il più infelice della Terra, aveva il diritto di disporre della vita e della morte dei suoi simili. Suo padre, un uomo dalla pessima reputazione, un ubriacone, un buono a nulla, un cialtrone da marciapiede a malapena capace di mantenere la sua famiglia, era stato capace di crescerla con dei sani principi, l’aveva amata, era stato presente, aveva perfino tollerato i malumori della moglie. Chiunque aveva del buono dentro di sé, di questo era convinta. Eppure, nonostante questo, una notte di otto anni prima in una taverna di infimo ordine, aveva avuto un diverbio con un altro ubriaco e quello, munito di coltello, gli aveva vibrato un colpo all’addome che l’aveva portato a morire sputando il suo sangue. Se la ricordava perfettamente, quella tremenda agonia durata cinque ore, quei deliri privi di senso, quella faccia cadaverica e lucida di sudore, quel lezzo penetrante di sangue e di morte.
L’omicidio non le era sconosciuto, e ne conosceva alla perfezione l’orrore. Non era mai rifuggita a fronte di esso, non s’era evitata il suo terribile peso: all’epoca aveva solo dieci anni, e la morte per lei era ancora un mistero lontano e indefinito su cui non s’era mai soffermata con attenzione, ma era rimasta al capezzale paterno fino alla fine, trasportando fuori le bende sporche e tamponandogli il viso con pezzuole imbevute d’acqua, assumendosi un compito che la sua povera, debole madre, crollata svenuta non appena avevano trasportato in casa il marito moribondo, non aveva potuto portare a termine. Era stata presente, quando i respiri rantolanti e spezzati erano cessati, quando il sangue aveva smesso di colare e quando la luce si era spenta in quelle iridi dilatate come sotto la tremenda pressione di due dita che soffocavano lo stoppino di una candela. Aveva guardato la Morte in faccia e le era penetrata nell’animo.
E chi ne era portatore, chi si nominava ingiustamente suo messaggero, non poteva rimanere impunito.
La giovane s’alzò impetuosamente dal letto, colta da un’improvvisa e impellente voglia di uscire dall’atmosfera soffocante di quella stanza. Aveva bisogno di sentire il vento freddo tra i capelli, i fiocchi di neve sul viso e quella coltre candida che scricchiolava sotto i suoi stivali. Indossò rapidamente un abito color pesca, di fattura piuttosto semplice, e raccolse la capigliatura in una crocchia morbida annodata all’altezza della nuca. Non desiderava spiegare alla domestica dove si sarebbe recata e perché, così usò la porta sul retro e sgattaiolò furtivamente fuori dalla dimora di Madame Lefevre, nel gelo di quel tardo pomeriggio invernale.
Parigi scintillava nella luce violacea del crepuscolo dei suoi mille tetti d’ardesia e di mattoni, imbiancati dalla neve che cadeva dal cielo denso di nubi a profusione, e la Senna scorreva lungo i suoi argini con un rumore calmo e riposante, per metà ghiacciata e per metà libera dalla prigione invernale. In lontananza svettavano le torri bianche di Notre Dame e suonavano le campane del vespro. C’erano pochi passanti in giro per le strade, per lo più si trattava di artigiani e bottegai che, chiusi i loro negozi, si affrettavano nel caldo delle loro case.
Vivian si passò più volte la lingua sulle labbra per evitare che si screpolassero e si permise, mentre camminava lentamente nella direzione decisa dai suoi piedi, di indugiare con la mente sul ricordo del padre defunto. Lo faceva raramente, poiché non sopportava di crogiolarsi nel dolore, ma in quel momento sentì che aveva bisogno di indulgere in un poco di nostalgia.
Si ricordò di quando, ancora bambina e inconsapevole, attendeva ansiosamente la prima nevicata per poter partecipare insieme al padre ad un rito in uso tra loro fin dai suoi primi anni di vita. Uscivano nel cortile della loro casupola tenendosi per mano, lei che strillava eccitata alla vista del manto bianco che aveva ricoperto e purificato ogni cosa, e si fermavano esattamente al centro. Suo padre le strizzava l’occhio, contava un, due, tre e si buttavano tutti e due supini nella neve fresca, facendo l’angelo. Poi si allontanavano di qualche passo e ammiravano quelle due sagome alate stese vicine nella coltre spessa, una grande e massiccia, l’altra più piccola ed esile.
Era stato lui ad insegnarle a fabbricare i pupazzi di neve. Le aveva mostrato come formare la palla principale, facendola rotolare nella neve, e avevano lavorato entrambi di buona lena, lui dedicandosi al corpo, lei alla più semplice testa, incrociandosi e allontanandosi mentre si trascinavano dietro le loro incerte costruzioni. A fine inverno, il cortile era affollato di una fila di otto pupazzi di neve, di entrambi i sessi, poiché, come diceva suo padre, “nessuno doveva rimanere solo”.
E per il suo ottavo compleanno le aveva costruito, con le sue stesse mani, uno splendido slittino di legno chiaro, con la cordicella rossa (il suo colore preferito) e un piccolo fiocco per dargli un tocco femminile. L’avevano collaudato lo stesso giorno, arrampicandosi fin sulla vetta di una massiccia altura, ed erano andati giù ridendo come pazzi, lei davanti, lui dietro che la teneva ben stretta per i fianchi.
Quello era un lato di suo padre che le avrebbe fatto sempre compagnia, che l’avrebbe sempre sostenuta nei momenti difficili. L’altro lato, l’unico che gli altri gli avessero riconosciuto, era un qualcosa in cui era precipitato quasi senza volerlo, una spirale che l’aveva risucchiato a causa della sua insoddisfazione e della sua scarsa autostima, merito dell’eterna difficoltà che sempre aveva riscontrato nel trovarsi un impiego. Perché c’erano sere, e anche questi erano ricordi assai vividi, in cui spalancava la porta di casa nel cuore della notte, barcollante e intirizzito, con gli occhi iniettati di sangue, il viso alterato e l’alito puzzolente di whisky, e parlava con voce strascicata e gutturale, irritandosi per la minima cosa e gridando orrende bestemmie.
Era andata sempre peggio col passare degli anni, il suo vizio non aveva fatto altro che intensificarsi. Lei ne imputava la colpa a sua madre. Forse, se gli avesse dimostrato amore e fiducia, se l’avesse sostenuto nella sua battaglia contro il bere, si sarebbe salvato, sarebbe emerso da quella spirale e non sarebbe incappato nell’incidente mortale. Ma lei non aveva mai cercato di aiutarlo, non gli aveva mai fatto avvertire la propria vicinanza.
“Sei soltanto un poveraccio” gli diceva con disprezzo totale: “Un lurido buono a nulla che mi ha presa quando ero ancora giovane e ingenua e mi ha costretta a rinunciare alla mia carriera, per cosa? Per starmene qui a lavarti le calze e a badare a tua figlia! Non era questa la vita che volevo! Io volevo sfondare come cantante, andare ai balli e alle feste, indossare bei vestiti e conoscere l’alta società parigina. E che cosa ho avuto dal nostro matrimonio? La mia emicrania, il disonore per me e per i miei genitori e un marito che quasi ogni sera si fa bere il cervello dal suo boccale di whisky!”
Vivian aveva pensato, e pensava tuttora, che fosse stata lei a portare suo padre alla fine. Ma non glielo aveva mai detto. Ogni volta che aveva provato a parlarle, lei l’aveva sempre scacciata adducendo la scusa della sua eterna emicrania. Quando era morta, tossendo l’anima in un attacco particolarmente violento di febbre polmonare, aveva finto tristezza per dare agli abitanti di Annecy ciò che volevano, ma dentro di sé si era sentita sollevata.
Si arrestò nel riconoscere un luogo noto e sgranò impercettibilmente gli occhi, sorpresa. Dove l’avevano condotta i piedi, mentre si smarriva nel passato e in meste riflessioni? Ma al teatro dell’Opera, ovviamente. Si era ripromessa di stargli lontana per qualche giorno, dopo l’esperienza vissuta nei sotterranei, e invece il suo inconscio ve l’aveva ricondotta. Forse c’era un legame, tra lei e quell’edificio, un filo invisibile che l’attraeva ad esso. Forse era parte di lei, un pezzo che la completava, e non poteva farne a meno.
Entrava o no? Ma tanto ormai era arrivata, a che scopo girare i tacchi e tornare indietro? In fondo, se si fosse tenuta alla larga dal passaggio segreto che conduceva ai sotterranei, il Fantasma dell’Opera non avrebbe avuto motivo di importunarla.
Salì rapidamente la scala, sfregando le suole degli stivali imbottiti sul marmo per liberarle dalle zolle di neve rimaste appiccicate, e provò un fremito di piacere autentico quando il tepore che regnava all’interno del teatro le riscaldò i muscoli irrigiditi. Non era in vena d’incontrare Emma, Colette e le altre ragazze, che di sicuro stavano per uscire dai camerini e raggiungere l’atrio, così scelse un corridoio isolato che non s’apriva su nessuna stanza e lo percorse a passo rapido, slacciandosi il mantello di pelliccia che l’accaldava. Avvertiva una profonda brama di solitudine e di raccoglimento, e ricordava, adesso che era giunta all’Opera, di un’occasione in cui Emma le aveva mostrato una pianta del teatro e le aveva indicato i luoghi più importanti, confessandole d’essere particolarmente attratta dall’arte del tipografo e che non le era stato difficile più di tanto memorizzare l’ubicazione delle varie alee dell’edificio. In particolare si rammentava di una piccola cappella isolata di cui l’amica le aveva parlato, utilizzata un tempo dagli ospiti più devoti per pregare le anime dei defunti e trascorrere qualche momento di comunione con Dio.
Lei non si poteva definire una fervida credente e si recava a messa unicamente perché sarebbe stato disdicevole non farlo, ma l’idea di chiudersi in uno stanzino raccolto in quel magnifico teatro l’allettava, così si avviò nella direzione che le sembrava di aver appreso guardando la cartina di Emma.
Gli stucchi e le decorazioni che abbellivano l’ala più rinomata dell’Opera Populaire, l’unica che lei avesse visitato a fondo, lasciarono il posto ben presto a semplici corridoi di pietra dove il soffitto, le pareti e il pavimento non presentavano alcun tipo di ornamento. Perfino l’illuminazione, costituita da abbaglianti lampadari di cristallo e da deliziose lampade a muro di vetro colorato, adesso si riduceva ad una serie di lumini a gas che gettavano all’intorno un lucore fioco e malaticcio. Vivian rabbrividì, notando che il freddo aumentava, e constatò che quella era una sezione del teatro ormai scarsamente visitata, a giudicare dal suo stato di abbandono. Lo strato di polvere che ricopriva il pavimento era talmente spesso che le rimaneva attaccato alle calzature. Ricordava in maniera inquietante i sotterranei, e la giovane affrettò il passo, ansiosa di raggiungere la sua meta.
Finalmente, alla fine di uno di quegli angusti corridoi, apparve una modesta porta ad arco che si apriva su una ripida scala a chiocciola. Vivian la scese velocemente, sostenendosi al corrimano (un alone scuro le imbrattò la palma) e sbucò proprio nella cappella di cui le aveva parlato Emma, le cui dimensioni erano alquanto misere.
Era di pietra come il resto ed aveva forma circolare. Di fronte all’apertura da cui lei era entrata, saltava all’occhio una splendida vetrata con dipinto sopra un angelo dalle ampie ali, luminoso nella semioscurità come un faro nella notte. Al lato, invece, era posizionato un piccolo altare di legno scuro, accanto al quale erano fissate alcune candele spente, che avevano sparso cera sul pavimento. Come posto era decisamente tetro e poco ameno, e Vivian, da parte sua, non l’avrebbe mai usato per appellarsi al Signore. Ma per le sue intenzioni andava benissimo; nessuno l’avrebbe mai trovata lì dentro.
Camminò verso l’altare con lentezza, scostando dal proprio cammino una ragnatela che sembrava un drappo di finissima seta, e si chinò sull’inginocchiatoio in un gesto che le parve appropriato per un posto simile. Non le importava che la polvere e la sporcizia le lordassero il vestito, o che gli occhi dell’angelo sulla vetrata paressero fissarla. Esaminò l’oscillante fila di candele storte e consumate e si ammantò di quel buio, tramutandolo in una barriera che la tenesse al sicuro dai cattivi pensieri e dall’inquietudine che la tormentava ormai da un giorno, assaporandone l’abbraccio pastoso e la sensazione di oblio che dava entrandole in bocca, negli occhi e nelle orecchie.
“Se accendi una candela e reciti una preghiera per qualcuno di caro” le aveva detto Emma: “Si racconta che Dio la ascolti e ne tenga conto”.
Ma Vivian non credeva in Dio. Immaginava la morte come un lungo tunnel in cui si veniva inesorabilmente trascinati, al fine del quale ogni cosa, pensieri, emozioni e ricordi, svaniva in un ultimo bagliore, lasciando solo il nulla. Ed era così che si sentiva in quel momento: piacevolmente vuota e piena di aria pura e impalpabile. Chiuse gli occhi, per addensare quel torpore benevolo.
“Mademoiselle Carré?”
Un sussulto di spavento la strappò al suo raccoglimento. Si volse di scatto, assumendo, quasi senza volerlo, una posizione di difesa, e vide un’ombra scura ritta sulla soglia della cappella, con una torcia stretta nella mano destra e un paio di occhi che luccicavano nel buio come quelli di un felino. Un terrore soffocante, nero, implacabile le agguantò il cuore come una mano dotata di artigli e fu rapida ad alzarsi in piedi, indietreggiando da quell’inaspettato visitatore: “Chi sei?” chiese ad alta voce, con una nota di paura.
L’ombra fece un passo avanti ed uscì dalla coltre di oscurità in cui si era nascosta. Ora che la luce proveniente dalla vetrata dell’angelo la colpiva in pieno e che quella della torcia ne rivelava metà viso, la giovane riuscì a riconoscerlo, e un subitaneo sollievo giunse a lenire il terrore, mescolato però ad una sorta di sospettosa inquietudine: “Monsieur Rappenau? Che cosa ci fate qui?”
Il giovane piegò le fredde labbra altere in un sorriso sarcastico: “Potrei farvi la stessa domanda”.
Vivian arrossì, furiosa con lui per averla sorpresa in un momento tanto intimo, per aver turbato con la sua presenza ingombrante quella specie di serenità che credeva di aver raggiunto: “Come sapevate che mi trovavo qui?”
“Vi ho seguita, mademoiselle. Per combinazione mi ero recato anch’io all’Opera e vi ho vista mentre vi dirigevate in corridoi oscuri. Ho pensato che sarebbe stato assennato assicurarmi che steste bene”.
C’era qualcosa di strano, di diverso in lui, nel suo portamento. La sua giacca turchina, che in ogni occasione aveva sempre portato in maniera impeccabile, adesso era sbottonata e sbilenca e rivelava la camicia sotto, anche quella alquanto stropicciata. Il volto del Marchesino, illuminato obliquamente dalla luce della torcia, era pieno di zone d’ombra e aveva le guance rosse come per la febbre e gli occhi appannati e famelici, privi di lucidità. I folti capelli gli cadevano in ciocche arruffate sulla fronte ampia. Vivian conosceva bene quell’espressione, quella postura non completamente salda, l’aveva veduta molte volte in suo padre in uno dei suoi momenti peggiori: era chiaro indice di scarso controllo sulla propria mente, di stato alterato dal vino o da qualche altra diavoleria ammaliatrice.
Messa in allarme da una tale consapevolezza, cercò di ampliare le distanze tra sé e il giovane nobile arretrando fino alla vetrata luminosa e stringendo convulsamente la veste tra i pugni chiusi: “Desidero rimanere da sola, monsieur” disse in un soffio.
Lui non diede segno di aver compreso. Avanzò nella cappella con passi grevi, senza staccarle di dosso quello sguardo annebbiato, lucido e bramoso, simile a quello del leone che, nascosto nella macchia, scruta la gazzella un attimo prima di carpirla tra gli artigli, e si fece scivolare la giacca fuori dal busto, rimanendo in camicia malgrado il freddo intenso: “È ora di finirla, Vivian” pronunciò quelle parole con inquietante calma: “Questa pantomima è durata fin troppo”.
La ragazza venne percorsa da un brivido e premette la schiena contro la vetrata, girando tutt’intorno uno sguardo da animale braccato. Erano soli in un luogo isolato e lontano dalle alee principali del teatro, distanti da qualsiasi aiuto, e quel giovanotto che tanto freddamente aveva rifiutato pochi giorni prima adesso le incuteva un profondo terrore, un panico soffocante. Era andato subito al dunque, sotto l’effetto della sostanza che aveva assunto, e lei avvertiva la minaccia che emanava da lui, dal suo corpo scattante e muscoloso, dalla sua superiorità fisica. Perché era voluta andare in quella cappella?! Perché era sfuggita al Fantasma dell’Opera, per incappare adesso nelle mire del Marchesino Rappenau?
“Vi prego, monsieur” cercò disperatamente di imporsi un tono normale: “Non siete in voi”.
“Al contrario” ribatté lui con una risata da felino, continuando ad avvicinarsi al topo Vivian: “Non sono mai stato più in me di così. Vedi, Vivian, prima di incontrarti, io ero felice. Ma potrò tornarlo ben presto, se solo starai al tuo posto e mi darai ciò che ti chiedo”.
Un pallore mortale si diffuse sul viso della ragazza appiattita alla vetrata: “Io non…”
“Shh!” Antoine si portò un dito alle labbra con un sorriso complice, azzittendola, e le esplorò il corpo con uno sguardo torbido e fiammeggiante, fissandola con intensità tale che lei si sentì più a disagio che se fosse stata nuda: “Io ti voglio” nella voce del giovane si insinuò un grugnito animale e le dita della mano libera si strinsero a pugno: “Devo smetterla di desiderarti”.
Il cervello di Vivian lavorò freneticamente, cercando una via di uscita, un qualsiasi stratagemma che potesse difenderla dalla lussuria mortale del Marchesino bello come un angelo, ma diabolico come un demone. Lui allungò un braccio nella sua direzione e le sue viscere si tramutarono in un viluppo di serpi furiose, che si agitarono con foga in attesa del tocco…che non venne. La torcia che egli reggeva in mano le passò ad un soffio dal volto, tanto che ne avvertì il calore sulla pelle, e venne sistemata con gesti calmi e misurati in un gancio in ferro attaccato alla parete. Subito dopo, il giovane lasciò scorrere le dita affusolate della mano ora libera tra i rigogliosi riccioli scuri della ragazza, prendendole una ciocca e avvicinandola al naso per annusarne il profumo, e lei rimase assolutamente immobile, tremante, stagliata contro l’immagine di un angelo che non l’avrebbe mai protetta, gli occhi fissi in un punto alle spalle del suo assalitore, che sembrava deciso a rendere la sua sofferenza più lenta e sadica che poteva.
Con la propria presenza mascolina la costrinse in un angolo cieco, sempre molto pacato, e fece scivolare la mano che le aveva immerso tra i capelli fin sulla sua nuca, circondandole contemporaneamente la vita con l’altra e inchiodandola alla vetrata. Tenendola in questo modo, chinò il capo sull’incavo della sua spalla e le depositò un bacio ardente sul collo nudo, strappandole un brivido di terrore e raccapriccio. Con le labbra protese, disegnò una scia di baci che andava dalla giugulare fin sugli angoli della bocca e premette il torace contro al suo seno, facendo aderire completamente i loro corpi. Vivian era pallida, inerte, palpitante.
Ma quando Antoine posò la guancia contro la sua e si ritrovò vicinissima al suo orecchio destro, agì con l’imprevedibilità della tigre e glielo azzannò ferocemente. Lui ululò di dolore; la giovane insistette, affondando i denti in profondità nella carne morbida del lobo, avvertendo il sapore dolciastro e metallico del sangue e avvampando di sdegno, rabbia e umiliazione. Le braccia del giovane si sciolsero dal suo corpo e le due file di denti arrivarono a toccarsi. Si ritrasse con la bocca sporca del sangue di lui, sputando il lobo mozzato sul pavimento, e si lanciò in avanti con perdizione, diretta verso l’uscita della cappella, verso la salvezza, verso la libertà…
Una mano brutale la agguantò per i capelli e la sbatté con violenza dove stava prima, lasciandola senza fiato per il dolore. La vetrata dell’angelo andò in frantumi con un suono assordante, spargendole addosso una coltre iridescente di pezzi di vetro colorato, e una stilettata di sofferenza le avviluppò tutto il corpo, facendole gemere.
Antoine, la mano premuta contro l’orecchio sanguinante, l’espressione stravolta da una follia omicida, la fissò con odio e libidine: “Puttana!” gridò. Le afferrò lo scollo dell’abito e glielo lacerò con un colpo secco, mettendole a nudo il seno, poi la fece girare e strappò anche la parte che le rivestiva la schiena. Tramortita dal colpo che l’aveva portata a rompere la vetrata, Vivian gridò e tentò freneticamente di sollevare i lembi dell’indumento per coprirsi, ma lui era troppo forte, troppo avvantaggiato, e la sopraffaceva senza difficoltà, incombendo sopra di lei con quel viso orribilmente bello e con quel ghigno lascivo stampato sulle labbra.
Non s’arrese. Alzò su di lui le dita incurvate ad artiglio, cercando di graffiarlo sulle gote infiammate, e scalciò coi piedi in maniera convulsa, decisa a resistere fino alla morte, a non soggiacere a quell’orrore. Antoine le afferrò i polsi e glieli torse, schiacciandola sul freddo pavimento di pietra, ansimando come un mantice e soffiandole contro il suo alito denso e penetrante, e la tenne ferma con forza terribile, l’orecchio tagliato a metà che sgocciolava sangue sul suo seno ansante.
Vivian gli sputò un fiotto di saliva in faccia, poiché era incapace di muovere ogni altra parte del corpo. Antoine lanciò un’orrenda imprecazione e le fece sbattere violentemente la testa contro il pavimento.
Una manciata di stelle le esplose dinnanzi agli occhi, accecandola. I suoi sensi si spensero, cedendo a quel finale colpo.
Ma un attimo prima che la sua comprensione svanisse, vide, o le parve di vedere, una sagoma oscura che incombeva improvvisamente alle spalle del mostro che la violentava, terribile come un angelo vendicatore, e si chiese se in quel luogo, dopotutto, non ci fosse davvero qualcosa di sacro.
Poi le tenebre si chiusero su di lei una seconda volta.

 

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Capitolo 8
*** Responsabilità ***


Responsabilità

 
 
 
 
 
Erik aveva abbandonato la solitudine della Dimora sul Lago per dedicarsi all’antico piacere di girovagare non visto nei meandri del suo teatro dell’Opera, riappropriandosi, con il solo passaggio, di tutti quei corridoi, quelle sale, quei cunicoli, quei nascondigli che per troppo tempo aveva dimenticato e che adesso ritrovava con la commozione affettuosa di un padre che rivede i figli a seguito di un viaggio lungo e travagliato. Era stato lieto di scoprire che nulla era cambiato, e che ogni cosa era esattamente come la ricordava, ammantata da un velo di polvere che era l’unica testimonianza del tempo trascorso. Le sue dita avevano sfiorato i luoghi amati e gli era parso che con quel tocco gli stesse infondendo nuovamente la vita e che il teatro si ridestasse improvvisamente grazie alla sua presenza, che la sua struttura si raddrizzasse di colpo e venisse percorsa da un fremito di magia. Anche lui, d’altro canto, si sentiva pervadere da nuove energie e da nuovo entusiasmo via via che riacquistava il controllo sul suo regno, e questa specie di resurrezione reciproca gli dava la conferma che quello era il suo posto e che lui e l’Opera Populaire non potessero esistere senza l’altro.
Troppo a lungo erano stati lontani, troppo a lungo erano rimasti incompleti. Adesso, il teatro aveva di nuovo un’anima e lui era pronto a ricominciare, gettandosi il passato alle spalle. Molte di quelle sale gli parlavano di Christine, c’era da ammetterlo – era passato per il camerino in cui la giovane si era preparata a entrare in scena la sera del suo debutto, per i corridoi in cui l’aveva trascinata con forza la notte del Don Juan e si era concesso persino una visita al tetto, il posto maledetto in cui, non visto, aveva spiato la sua dolce conversazione con il Visconte e aveva assistito al bacio che i due si erano scambiati, una ferita che gli aveva fatto ancor più male di quelle ricevute nel corso della sua ingrata esistenza ma che adesso, per miracolo, non gli doleva più – eppure non un’emozione negativa lo molestava durante la sua passeggiata, non un pensiero sgradito si infilava nella sua mente fredda e lucida. La cantante era cosa vecchia e dimenticata, uno spettro che l’aveva perseguitato per mesi con il suo carico di ricordi ma che l’omicidio, l’odio e il furore avevano infine esorcizzato. Egli non era una creatura fatta per amare, né tantomeno per amare inutilmente.
Compiangeva quegli stupidi gentiluomini che, anche dopo esser stati rifiutati dalla donna amata, seguitavano a professarle eterna devozione e a struggersi per lei. Adesso che aveva infine dimenticato la sua antica musa, stava assai meglio di prima, anzi, non era mai stato più appagato di così, appagato, soddisfatto e pieno di nuovi progetti per il futuro. Stava macchinando di provocare un incidente mortale durante uno dei balletti di prova delle danzatrici, per eliminare la figlia di Madame Giry, l’unica, a parte la donna, a conoscere la sua identità mortale (alla madre, malgrado la decisione di troncare i rapporti, non sarebbe riuscito a far del male, poiché persino lui non aveva scordato d’esserle debitore della vita). Se tutto andava secondo i suoi piani, una trave sarebbe disgraziatamente caduta dall’alto mentre le giovani danzavano e avrebbe travolto soltanto Meg, lasciando incolumi le altre.
Non era uno sprovveduto, sapeva bene di non dover esagerare. Se la lista delle sue vittime si fosse ampliata troppo rapidamente, i direttori del teatro non avrebbero più potuto chiudere un occhio e sarebbero tornati a dargli noia. La cautela veniva prima di tutto. Non era da escludersi l’ipotesi che potesse tornare a ricattarli con lettere minatorie, ordinandogli di mettere in scena solo e soltanto le sue opere e di renderlo una sorta di padrone anonimo che agiva attraverso le loro mani.
Sì, gli si prospettava proprio un glorioso futuro come Fantasma dell’Opera. Nessuno l’avrebbe più umiliato, nessuno l’avrebbe più ridotto in uno stato pietoso. Il teatro dell’Opera per come quella gente lo conosceva era ormai scomparso per sempre…e se la notizia fosse giunta alle orecchie della Viscontessa de Chagny, tanto meglio. Si sarebbe resa conto che non bastava certo il rifiuto di una fanciulla superficiale a fiaccare nell’animo il Signore delle Botole!
Si fermò in uno di quegli stretti e angusti corridoi di cui solo lui conosceva l’accesso, un po’ affaticato dopo aver camminato per l’immenso teatro ormai da ore, e appoggiò la schiena alla parete in cerca di sollievo. I suoi pensieri, meravigliosamente chiari e limpidi dopo mesi in cui avevano sfiorato la follia, il suicidio e la disperazione, indugiarono pigramente sul ricordo della stolta ragazza che il giorno prima era penetrata incautamente nei suoi domini. Sciocca! Aveva forse creduto di poter mettere in atto una cosa simile senza che egli se ne accorgesse? Evidentemente non lo conosceva bene, e a ragione, dato che non l’aveva mai vista prima all’Opera. In ogni caso l’aveva subito edotta sulla sua ingenuità e le aveva dato una prova talmente netta di ciò che era capace di fare, che era sicuro che non sarebbe più tornata a dargli fastidio. Perché, poi? Cosa sperava di ottenere da sola? Le donne erano così curiose! E a lui non piacevano le donne curiose. Quella ragazzina avrebbe fatto bene a non ficcare più il naso nei suoi affari, se desiderava conservarlo!
Un grido acuto, non troppo lontano dal punto in cui sostava, lo strappò alle sue turbinose riflessioni e lo fece scattare in posizione d’attacco in un riflesso inutile, dal momento che intorno a lui tutto taceva e nessuno osava minacciarlo. Chi era stato a urlare, dunque?! Dal timbro, risultava evidente che si trattava di una donna, ma chi, a parte lui, avrebbe mai potuto aggredire una donna in un luogo tanto elegante e rinomato? L’idea che qualche membro della razza umana seminasse terrore nel SUO teatro dell’Opera senza che lui ne fosse a conoscenza, che gli stesse usurpando il suo unico diritto e che risuonasse un grido che non era stato lui a provocare gli sollecitò un autentico urto di fastidio. Lui solo poteva terrorizzare gli abitanti del teatro, lui solo collezionava strilli e gemiti di orrore, e non accettava neanche la più piccola concorrenza, soprattutto adesso.
Aveva programmato di fare ritorno alla Dimora sul Lago per curare meglio i dettagli della sua prossima malefatta, ma decise di concedersi un piccolo strappo alla regola e si avviò con eleganza mortuaria nella direzione da cui era provenuto il grido. La sua espressione era ancor più cupa di un temporale e il lungo mantello nero in cui era avvolto lo seguiva strisciando, rendendolo ombra tra le ombre. Era geloso dell’Opera Garnier così come un amante trascurato è geloso della sua dama, e si sentiva tradito da essa proprio quando si erano ritrovati dopo un periodo di insopportabile separazione. Come si permetteva di concedere ad un altro ciò che finora aveva concesso soltanto a lui? E quel famoso altro, quello sciocco, non lo sapeva che il teatro era suo? Come gli era venuto in mente di agirvi indisturbato, senza temere ritorsioni?
“È proprio vero che ormai il mondo è popolato da immensi imbecilli” rimuginò tetramente. Bene, avrebbe rimediato subito all’incresciosa questione. Non era dell’umore adatto per mostrare clemenza.
Giunto dinnanzi ad una biforcazione, fece per prendere il passaggio di destra, convinto che i rumori provenissero dalla sezione in cui erano collocati i camerini degli artisti, ma un secondo grido, più fievole e soffocato, arrivò a mostrargli l’errore quasi al momento giusto e gli fece sollevare un sopracciglio castano mentre si girava verso il cunicolo di sinistra. Possibile che l’aggressione stesse avendo luogo nella cappella dell’Angelo della Musica? In quella cappella in cui aveva conosciuto Christine, quando lei era una bambina povera e sconvolta dalla morte del padre e lui un ragazzino indurito dai soprusi e dalle percosse ricevute dagli zingari, e in cui per tanti anni l’aveva istruita sotto le mentite spoglie dello spirito benevolo inviatole dal defunto papà Daaé, forgiando il loro legame? Se era così, allora la cosa era ancor più grave di ciò che aveva pensato all’inizio! La cappella era sua quasi nello stesso modo in cui lo era la Dimora sul Lago e quel maledetto imbecille, quell’aggressore sconosciuto la stava dissacrando sotto al suo naso!
Non era furioso perché una scena di violenza si stava manifestando nel luogo in cui aveva conosciuto il suo perduto amore e in cui entrambi erano diventati adulti, vivendo di musica e di inganni, non era a causa dei ricordi legati a essa che si attaccava alla cappella, semplicemente la considerava un suo possesso indiscusso e nessuno, nessuno aveva il diritto di portargliela via. Affrettò notevolmente il passo, il mantello che gli fluttuava dietro le spalle come una cupa nube nera, e oltrepassò una porticina rimpiattata sotto un grande contrafforte come un nido di uccelli sotto un ramo aprendola con la semplice pressione delle dita. Il Signore delle Botole non ha bisogno né di chiavi né di leve, qualsiasi apertura era prona ai suoi ordini.
Fare ritorno nel nascondiglio nel muro dal quale aveva spiato e istruito Christine per tutti quegli anni gli provocò soltanto un vago malessere, che scacciò con fastidio. Quei tempi non gli appartenevano più, e dietro la grata che gli fungeva da finestrella non avrebbe visto la bambina spaurita e persa, e poi la giovane donna fiduciosa e dotata, che non era mai mancata a nessuno dei loro appuntamenti. Si era spogliato della sua identità di Angelo della Musica addirittura prima che lo rifiutasse, stanco del loro legame platonico, e non sarebbe mai rientrato in quel ruolo che gli era sempre andato stretto e che mai aveva sentito proprio.
Incollò il volto mascherato alla grata, gli occhi fiammeggianti, e il suo sguardo allenato notò subito che la vetrata dell’angelo era andata in frantumi e che il pavimento era disseminato dei suoi frammenti. Vestigia del passato che si rompevano, pensò con amarezza, passando alle candele spente e consumate e alla polvere che ricopriva ogni cosa. Senza dubbio, la cappella non era più come una volta…
Una serie di ansiti e di grugniti spostò bruscamente la sua attenzione sull’oggetto della sua rabbia ustionante. Un giovane impeccabilmente vestito, in maniche di camicia e con gli stivali che giacevano pochi passi più in là, era chino su una fanciulla di cui non riusciva a vedere il volto, stesa tra i luccicanti frammenti della vetrata con l’abito strappato a mostrarle il seno e la cascata di morbidi capelli che le cadeva sui lineamenti come una cortina, tramortita e palpitante, la quale si divincolava con forsennata inutilità nella sua stretta ardente. Il giovanotto, che doveva essere un nobile, possedeva quella bellezza arrogante, fiera e scultorea che avrebbe potuto avere anche lui, se solo la parte destra del suo viso non fosse stata contaminata dall’orrore delle piaghe, e contemplava la preda inerme e indifesa con lo stesso sguardo di uno sparviero che osserva il topolino dibattersi tra i suoi artigli, consapevole di avere in mano la situazione e godendo però nel contemplare i suoi sforzi.  Il suo orecchio destro, tuttavia, era stato defraudato del lobo e perdeva sangue scuro e denso che colava in gocce copiose sul seno ansante della fanciulla. Entrambi ansimavano, lei per il terrore, lui per il desiderio, e si esibivano in una danza oscena e brutale a cui Erik non era sconosciuto: nel campo degli zingari in cui era vissuto da piccolo, non era raro che si usasse violenza su una donna e a volte aveva assistito a scene come questa senza volerlo, constatando come sempre si ripetessero uguali.
Adesso, occultato dal suo nascondiglio nel muro, immobile come una statua, fissava i due giovani che lottavano sul pavimento con occhi vuoti e asciutti e un turbinio di emozioni contrastanti si agitava dentro di lui.
Da una parte, c’era qualcosa che lo attraeva in quel ributtante spettacolo, un richiamo carnale che sempre aveva percepito e che sempre era rimasto insoddisfatto. Per quanto lontano dall’idea dello stato sociale e ormai più spettro che vivente, era anche lui un uomo, fatto di carne e di sangue, e la sua spina dorsale non era cieca ai fremiti della lussuria e della brama sessuale. Aveva spesso fantasticato, durante lunghe notti di solitudine e oscurità, di far scorrere quelle sue mani fredde e forti sul corpo morbido di una donna, assaporando il profumo della sua pelle e il calore del suo seno, e non aveva mai potuto tramutare simili brame in realtà a causa della sua maledetta ed ingrata deformità, una spada di Damocle perennemente sospesa sopra al suo capo. L’unica creatura da lui amata, poi, non l’avrebbe mai sfiorata neppure con un dito contro la sua volontà, fintantoché lei non avesse acconsentito a diventare la sua sposa, e tutto ciò che aveva ottenuto dalla sua abnegazione era stato un bacio dato controvoglia al solo scopo di salvare la vita dell’odioso Visconte. Certo, avrebbe potuto ottenere ciò che voleva come stava facendo il giovanotto nella cappella, ma malgrado sostenesse spesso che la parola non avesse alcun significato per lui, aveva un innato senso dell’onore e gli sarebbe parsa una cosa disgustosa, umiliante e per nulla gratificante ricorrere a simili metodi per colmo di disperazione. Aveva preferito soffocare dentro di sé il desiderio e la voluttà piuttosto che sfogarli in quella maniera bestiale.  
Ma c’era una parte di lui, aliena a qualsiasi canone morale (non che fosse solito rispettarli) che avrebbe desiderato trovarsi al posto di quell’uomo avvenente, malgrado non conoscesse neppure il volto della ragazza da lui concupita.
D’altro canto, era anche profondamente indignato e indispettito dallo scempio che era stato fatto alla sua cappella (era chiaro, infatti, che erano stati loro a frantumare la vetrata dell’angelo) e tremava di sdegno e di furia nel vedere come quel luogo tanto importante per lui venisse dissacrato senza alcuna remora. Tutto questo, unito all’invidia cocente che lo divorava dall’interno e al desiderio di impedire che il giovane ottenesse quello che lui aveva solo potuto sognare nel SUO teatro, gli fece prendere la decisione di uscire allo scoperto e interrompere la violenza. Nella cappella c’era buio a sufficienza perché non potessero distinguerlo bene, e aveva allenato la voce a tal punto che poteva renderla a suo piacimento celestiale come quella di un angelo e roboante come quella di un demone. Si sarebbe presentato come Fantasma dell’Opera e a nessuno dei due sarebbe venuto il sospetto che l’apparizione funerea appartenesse invece ad un comune essere umano.
Ora che aveva preso una risoluzione, allontanò dalla mente ogni pensiero di lussuria e di dubbio come faceva sempre prima di mettere in atto uno dei suoi piani e si riempì di quella spietatezza da macchina che gli era divenuta ormai cara. La sua mano coperta dal guanto di pelle nera si appoggiò delicatamente sulla parete che lo nascondeva e premette in un punto segreto, facendo sì che si spostasse di lato, aprendosi un passaggio che mai, con Christine, si era permesso di oltrepassare. Il giovane, nel frattempo, aveva sollevato di appena qualche spanna il corpo palpitante della sua vittima e le aveva fatto sbattere la testa contro il duro pavimento di pietra, probabilmente perché non si stava dimostrando un ostaggio passivo e andava resa innocua.
Era spietato e brutale almeno quanto lui, con l’unica differenza che non ne aveva alcun motivo: era bello, era ricco e le donne non gli mancavano certo. Prima di trasformarsi del tutto nel fantasma, Erik aveva ucciso per difendere se stesso e per vendicarsi dei torti subiti, una cattiveria giustificata, di cui gli unici responsabili erano agenti esterni. Si avvicinò tanto silenziosamente che se anche il giovanotto non fosse stato preso dalla ragazza alla sua mercé, non si sarebbe mai accorto della sua presenza, gli occhi fissi sulla sua schiena magra curva sul corpo inerte della vittima e sulla sua testa bionda che depositava baci da vampiro sul seno nudo e abbronzato. Un’ira rovente gli crebbe in petto, un’ira di cui non si seppe spiegare bene la causa, e lasciò che l’istinto prendesse il sopravvento.
Afferrò il ragazzo per le spalle muscolose e lo sentì sussultare e irrigidirsi. Sollevandolo come se pesasse non più di una foglia, Erik lo allontanò dalla ragazza stesa sul pavimento e lo sbatté rudemente contro l’altare pieno di polvere, il volto gelido e impassibile dietro la mezza maschera bianca e le labbra serrate in una linea sottile. L’altro gridò, di sorpresa e paura, colto nel momento meno opportuno da quell’inaspettato intruso, la camicia semiaperta, i capelli arruffati e la cintura slacciata, e alzò sulla sua figura che lo sovrastava due occhi carichi di rabbia, esclamando, ancor prima di metterlo a fuoco: “Sangue di Dio! Chi siete?!”
Ammutolì all’istante non appena intravide nell’oscurità della cappella la sagoma che lo fissava. Erik lo vide impallidire, mentre cercava di indietreggiare e veniva fermato dalla solida superficie dell’altare, e sorrise sarcasticamente pensando a quanto più forte sarebbe stato il suo terrore se si fosse tolto la maschera. Gli si avvicinò di un passo, circondato del suo lungo mantello, e gli parlò con voce sepolcrale: “Strano che me lo chiediate, monsieur! Io sono il Fantasma dell’Opera!”
A quel nome, gli occhi azzurri del giovane si dilatarono e la mano corse sull’elsa del fioretto che portava alla cintura: “Il Fantasma dell’Opera” ripeté in un soffio: “Che cosa volete da me?”
“Nulla, a parte che te ne vada da qui per non fare più ritorno” sibilò Erik: “Questo è il mio teatro e nessuno può permettersi di farci ciò che gli piace senza il mio permesso. Perciò, se non vuoi accompagnarmi nell’abisso, vattene, chiunque tu sia!”
Il giovane, rianimato dal trasalimento che l’aveva lasciato senza parole per un attimo, scrutò da capo a piedi l’uomo mascherato in piedi davanti a lui e scoppiò in una risata isterica: “Voi non siete un fantasma!” gridò: “E io ho il diritto di fare quello che voglio, dovunque voglio!”
Lo sguardo di Erik divenne cupo: “Per il vostro bene, monsieur…”
“No!” gli si gettò contro in un impeto temerario e incauto, il fioretto levato e pronto a colpire, e mirò al ventre con tutte le sue forze, deciso ad infilzarlo.
Erik non si fece cogliere impreparato.
Intercettò il braccio armato dell’avversario afferrandolo saldamente per il gomito e fermò la lama del fioretto ad un soffio dalla propria carne, senza che la sua fisionomia mutasse nel minimo modo. Incredulo che avesse evitato il suo affondo così facilmente, il giovane cercò di vincere la sua stretta e di liberare il braccio dalle dita artiglianti, ma Erik glielo torse, con un movimento che parve manifestarsi nel tempo di un lampo (il grido lacerante del giovane risuonò per tutta la cappella) e gli strappò di mano l’arma, gettandola sul pavimento con un sonoro clangore metallico. A quel punto, vedendo che l’altro accennava la mossa di allontanarsi, lo afferrò per la collottola con forza terribile e lo sollevò da terra, inchiodando i suoi settantadue chili contro il muro e puntandogli addosso uno sguardo di gelida furia.
“Stammi bene a sentire, moccioso” ringhiò a voce bassa, stringendo la presa sul suo collo fino a colorare il suo volto cianotico di terrore di un viola paonazzo: “Forse non hai capito con chi hai a che fare. Rammenti la sera del Re degli Elfi? Bene, vedo che rammenti. Hai presente il lampadario, quello che è disgraziatamente caduto, spiaccicando la folla? Sono stato io a farlo cadere, io ho reciso la corda che lo teneva attaccato al soffitto e ho provocato il disastro. Nessuno è riuscito a vedermi, nessuno ha capito che c’ero io dietro a tutto quanto, perché sono capace di attraversare i muri e aprire serrature invalicabili con il solo tocco”.
Il giovane, boccheggiante, lo fissò emanando terrore puro, i piedi nudi che si dibattevano convulsi nell’aria e il volto angelico sconvolto in una smorfia, ed emise un rantolo patetico, impossibilitato di parlare.
“Se lo volessi, se mi venisse il capriccio di farlo, potrei ucciderti qui e ora e nessuno sarebbe capace di impedirmelo, tu per primo” proseguì Erik con implacabile calma: “Perciò, se hai a cuore la tua miserabile esistenza e se ti resta ancora un po’ di raziocinio in testa, sparisci dalla mia vista all’istante e non farti rivedere in questo teatro mai più. Metti piede qua dentro e ti giuro che sarà l’ultima cosa che farai!”
Si fissarono negli occhi per un lungo momento, quelli gelidi e impassibili di Erik che cercavano una conferma in quelli dilatati e lacrimanti del giovane, e quelli del giovane che supplicavano i suoi di lasciarlo respirare.
“Sono stato chiaro?” domandò infine. L’altro annuì con foga, tutto il suo orgoglio e la sua superbia svaniti in un lampo, pronto, per un attimo, ad ubbidire a qualsiasi comando pur di potersene andare di lì. Erik sciolse le dita dal suo collo e fece un passo indietro, studiandolo con disgusto mentre scivolava a terra e tossiva, le mani alla gola violacea e il corpo sussultante. Poi, ansioso di liberarsi dalla sua presenza: “Vattene”.
Il giovane riuscì, non si sa come, a tirarsi in piedi, e fuggì dalla cappella come se il diavolo lo inseguisse, senza voltarsi indietro neppure una volta. Solo a quel punto l’uomo mascherato si rilassò leggermente, passandosi una mano guantata sulla parte del viso che la maschera lasciava scoperta. Fortuna che era riuscito a liberarsi di quel moccioso arrogante senza essere costretto a ucciderlo! Da quello che supponeva d’aver capito, doveva trattarsi del viziato rampollo di una ricca famiglia aristocratica, e se fosse stato ritrovato il suo cadavere al teatro dell’Opera e si fosse sparsa la voce che il suo assassino altri non era che il misterioso fantasma, avrebbe avuto guai seri con i suoi illustri parenti. A volte perfino lui era costretto a tener conto di certi particolari.
La breve lotta, seppur gratificante, che aveva condotto contro il Marchesino Rappenau l’aveva stancato, e si volse quasi subito per tornare nella sua dimora e sedere sul divanetto Luigi Filippo con un buon bicchiere di scotch, avvertendo il forte bisogno di fare ritorno nei cupi e oscuri sotterranei…ma con la coda dell’occhio, mentre dava le spalle alla cappella, colse una sagoma esile rannicchiata accanto ai frammenti della vetrata e si ricordò improvvisamente della fanciulla che il nobile aveva cercato di violentare, una presenza alla quale aveva attribuito assai scarsa importanza. In fondo l’aveva salvata non certo per farle un favore, bensì per punire il suo aggressore d’essersi appropriato ingiustamente della cappella che gli apparteneva. Ma ora lei giaceva sul pavimento, probabilmente svenuta, ed Erik indugiava sulla soglia, indeciso sul da farsi. Doveva lasciarla lì? Fare in modo che qualcuno la trovasse? Prestarle aiuto? E perché mai, in fondo? Non era niente per lui.
“Potrebbe essere morta, o ferita” sussurrò una voce dentro di lui: “Quel moccioso le ha fatto sbattere la testa proprio forte, prima”.
In tal caso, doveva andare a controllare. Riconosceva di essere un assassino e di non far più parte del genere umano, ma non avrebbe gradito affatto di essere incolpato di quel delitto, che senza alcun dubbio avrebbero attribuito a lui. Profondamente attaccato alla sua immagine com’era, non intendeva guastarla facendo trovare il cadavere di una ragazza seminuda e coi vestiti strappati. Che non si dicesse mai che il Fantasma dell’Opera era capace di una simile nefandezza!
Infastidito dal contrattempo, tornò indietro fino alla finestra da cui entrava a fiotti l’argenteo chiarore lunare, evitando gli scintillanti pezzi di vetro sparsi sul pavimento di pietra, e si chinò in ginocchio accanto alla ragazza priva di sensi, distogliendo doverosamente lo sguardo dalle sue forme esposte. Non era certo un uomo simile a quel nobile, incapace di controllare i suoi bollenti spiriti e di resistere alla visione di una fanciulla ferita e semisvestita! Tuttavia conosceva bene la natura maschile e la tentazione di indugiare con lo sguardo su quel bel corpo giovane era quasi insostenibile, così si tolse il mantello e la coprì per smorzare parte di quelle brame inammissibili. Desiderava farsi fantasma fino in fondo, e ricadeva in simili debolezze umane?! A quanto pare si era sopravvalutato, un errore che, ahimè, aveva più volte commesso in passato.
La figura slanciata e flessuosa di quella ragazza in qualche modo gli era familiare. Quella massa di indomabili riccioli corvini (così diversi dalla ondulata e malleabile capigliatura di Christine), quell’incarnato olivastro…allungò una mano, incuriosito, e le scostò le ciocche dal volto per metterlo a nudo.
Un’esclamazione di stupore echeggiò per tutta la cappella.
Era la ragazza del giorno prima! Quella che si era introdotta furtivamente nei sotterranei e che lui aveva minacciato nella stanza dell’organo, tenendola in modo tale da non permetterle di scorgerlo in viso. La ragazza che sorprendentemente era riuscita a farsi strada nelle gelide acque del lago Averno fino alla sua dimora e che si era messa in testa la folle idea di appurare la verità sull’esistenza del Fantasma dell’Opera. A quanto pare, quella di attirare i guai doveva essere una sua caratteristica. Era sfuggita per miracolo ad un’uccisione da parte sua, e già nel giro di poche ore s’era cacciata in una situazione di analoga pericolosità, che sarebbe sconfinata nella violenza se lui non fosse intervenuto. Non pensava mai alle conseguenze delle sue azioni?
Osservò con attenzione quel naso diritto, quelle sopracciglia folte e quelle labbra rosso vivo, lievemente dischiuse nello svenimento. Il petto della ragazza si alzava e abbassava con irregolarità, assecondando il moto del respiro, e una piccola pozza di sangue si allargava intorno al cuoio capelluto. Doveva essersi tagliata picchiando la testa. Non era nulla di speciale, graziosa sì, ma coi lineamenti un po’ troppo duri e il naso un po’ troppo aquilino perché la sua potesse essere chiamata bellezza. Le labbra, certo, erano notevoli; un cuore scarlatto che invitava i baci e che aveva gli angoli piegati all’insù in una specie di sorriso. Ma, per il resto, era assolutamente comune, troppo comune, per quello che era stata in grado di fare il giorno prima.
Che cosa doveva farne di lei?
La cosa più saggia sarebbe stata portarla in un luogo più frequentato di quella cappella e lasciare che qualcuno la trovasse e le prestasse soccorso. Tuttavia il teatro era solito svuotarsi quasi del tutto a quell’ora di sera se non c’erano rappresentazioni in corso (e dopo il disastro dell’ultima i direttori si sarebbero astenuti dal proporne un’altra per lungo tempo) e sarebbero potute trascorrere diverse ore, prima che qualcuno notasse la ragazza. Forse addirittura una notte intera. Ma se l’avesse lasciata nell’atrio o in uno dei corridoi in cui i macchinisti si attardavano fino ad un’ora tarda, non l’avrebbe esposta ad un pubblico disonore? Avvolta nel suo mantello, pressoché nuda sotto, con il capo sanguinante e gli abiti strappati…chiunque si sarebbe accorto di cosa era successo. No, qualsiasi uomo al suo posto si sarebbe fatto carico della poveretta e l’avrebbe portata in casa sua e curata.
Ma lui era il Fantasma dell’Opera. E aveva giurato solennemente che mai, mai avrebbe agito per il bene di qualsiasi essere umano. Non sarebbe stato un chiaro indice dell’antica debolezza raccogliere quella sconosciuta che peraltro aveva violato i suoi domini e concederle di tornare nella Dimora sul Lago una seconda volta?
D’altro canto, non aveva in fondo già compiuto una buona azione nei suoi confronti salvandola dagli appetiti del giovane nobile? L’aveva fatto per motivi che non avevano nulla a che vedere con lei, questo era vero, ma il risultato restava uguale. E poi la ragazza aveva già visto la sua dimora e probabilmente si era fatta una vaga idea di com’era lui. Avrebbe potuto minacciarla di morte, se solo si fosse azzardata a parlare con qualcuno dell’accaduto…e cacciarla via non appena si fosse ripresa. In tal modo avrebbe concluso in bellezza la catena di eventi che l’avevano portato in quell’indesiderata situazione e sarebbe potuto tornare ai suoi progetti di morte.
Perché non doveva dimenticare che, anche se era il Figlio del Diavolo, il mostro e l’assassino, si era sempre considerato un perfetto gentiluomo. Non era a sua volta una caratteristica nota del Fantasma dell’Opera? Quella ragazza non era niente per lui, anzi, probabilmente avrebbe dovuto considerarla una nemica, ma soltanto un furfante della peggior specie l’avrebbe lasciata in quelle condizioni e se ne sarebbe andato per i fatti suoi.
Tenerla con sé finché non avesse riacquistato un certo controllo su se stessa sarebbe stata soltanto un’altra azione degna del suo ruolo, educato e bestiale allo stesso tempo.
Sorrise, sinceramente rassicurato dalla piega presa da quell’impiccio, e si chinò a sollevare tra le braccia il corpo inerte della fanciulla.

 

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Capitolo 9
*** La musica oltre le ombre ***


La musica oltre le ombre
 

 
 
 
CIAO! STO POSTANDO ASSAI IN FRETTA, CMQ X CHI AVESSE LETTO IL CAP DELLA CAPPELLA, QUESTO NON è QUELLO DOPO, MA QUELLO ANCORA DOPO! AU REVOIR ;)Vivian era immersa totalmente, completamente nell’oblio. Intorno a lei si stendeva un universo di ombre, fitto e denso, che la avvolgeva al modo di una coperta pastosa e quasi soffocante, e vaghi brandelli di ricordi, fugaci accenni di pensiero rischiaravano il buio solo alla lontana, subito inghiottiti dal suo peso immane. Le sembrava di non avere più un corpo, d’essere fatta solo e interamente di oscurità, e che il suo intero essere ne trasudasse da tutti i pori, dalla bocca, dal naso, dalle orecchie e dagli occhi. Non c’era nulla a cui potersi aggrappare, nulla che la aiutasse a risalire dall’abisso in cui era sprofondata. E forse non voleva neanche risalire. Aveva la sensazione che se avesse invitato la consapevolezza a tornare, ad aspettarla avrebbe trovato una verità che non desiderava apprendere, una verità che l’avrebbe segnata per sempre.
Ma c’era…una musica. Una musica…dissimile da tutte quelle che aveva udito finora, una musica troppo celestiale, intensa e terribile per poter essere definita con quello sciapo, anonimo aggettivo che è “bella”.  
Anche perché non era bella. Era…non trovava parole per descriverla. I suoi nervi, il suo sangue, le sue ossa, i suoi muscoli fremevano insieme alle note violente e terribili della melodia che la richiamava dall’oblio e ne era contaminata, così come sarebbe stata contaminata da un veleno che le entrava con lentezza studiata nell’intero sistema circolatorio. Mai, in tutta la sua vita, le era capitato di sentire qualcosa di così straziante ma allo stesso tempo di così sublime, un incredibile mix di angoscia e disperazione allo stato puro che si mescolavano, in una maniera che non avrebbe mai creduto possibile, a suoni talmente paradisiaci da riuscire a vincere la cappa di oscurità che incombeva sulla sua mente e a risvegliare la coscienza intorpidita e riluttante. Cieca alla luce come Euridice, prigioniera di un mondo di buio, ascoltava il canto di Orfeo che le giungeva da un luogo oltre le ombre (perché, insieme alla musica sublime, risuonava anche una voce d’uomo, una voce d’angelo, perfetta come se Dio stesso la stesse ispirando) e la seguiva brancolante e ammutolita, desiderosa di afferrarla, di farne parte, di fondersi con essa fino ad esserne invasa completamente. Una voce del genere, pensò, doveva essere capace di richiamare gli spiriti dal mondo dei morti e di sciogliere il cuore più crudele, e il fatto che lei, proprio lei, da sempre ostile nei confronti dell’arte canora, potesse goderne, la riempiva di vergogna e di disagio. Simili cose erano troppo perfette, troppo sublimi perché le orecchie umane potessero sopportarle, e forse sarebbe morta, il suo piccolo, debole cuore avrebbe ceduto a quell’utopia di suoni e di timbri strazianti.
Aprì gli occhi sulla consapevolezza che il canto aveva risvegliato e lo trovò ancora lì, poco lontano da lei. Non era stato un sogno, non era stato Dio a mandarle quella musica di paradiso per richiamarla dalle tenebre perpetue. Essa era reale, e proveniva da una persona reale.
Ma per un attimo parve offuscarsi, confondersi in una nebbia rossa come il sangue, allorché tornarono i ricordi, perle restituite ad una collana di cui avrebbe preferito non conoscere mai il contenuto: la vetrata dell’angelo che andava in frantumi spargendo ovunque frammenti scintillanti, il volto bestiale e lussurioso di Antoine che incombeva sopra di lei, le sue mani impudiche e brutali che le strappavano gli abiti con foga violenta e il colpo alla testa, il tremendo colpo che aveva provocato il suo svenimento.
Un terrore cieco, folle, opprimente montò dentro di lei con la potenza di un cocchio trainato da demoni e le mancò del tutto il respiro. L’aveva violentata?! Era riuscito nel suo disgustoso intento, mentre lei giaceva priva di sensi e pressoché impotente? Le era stato strappato il suo fiore prezioso dal colpo di falce di quella bestia, che contro la sua volontà l’aveva abbattuto e colto per poi distruggerlo e gettarlo via? Ma perché, in quel caso, non avvertiva alcun tipo di dolore o di cambiamento dentro di sé? Simili orrori devono per forza lasciare un segno, si diceva, non è possibile che capitino così, senza che quasi me ne renda conto! E dov’era allora il Marchesino?
La sua mano tremante si infilò sotto il morbido tessuto adagiato sul suo corpo (una coperta?!) e tastò freneticamente il punto in cui erano allacciati quei pochi brandelli di abiti rimastole, scoprendo, con suprema meraviglia, d’essere completamente avvolta in un ampio mantello nero come la notte, in cui s’era rannicchiata nell’incoscienza a causa del freddo. Di sicuro un simile indumento non apparteneva ad Antoine (quando aveva provato a usarle violenza indossava una giacca turchina, lo ricordava bene) e non era nemmeno suo, avendo una taglia visibilmente maschile. Ma allora chi…
Un grido soffocato le sfuggì dalle labbra quando vide dove si trovava.
Era sdraiata su di un baldacchino che dominava una stanza da letto assai singolare, illuminata soltanto dalla fiammella di una candela e dotata di un piccolo bagno con il necessario per provvedere ad un’attenta toletta diversi giorni. Le pareti erano di pietra, così come il soffitto e il pavimento, abbellite da drappi rosso porpora laceri e polverosi, e il letto sul quale giaceva era circondato da cortine di un nero impalpabile e provvisto della statua in legno di un cigno dalle ali spalancate. Una corrente gelida penetrava fino a lei attraverso una tenda che pareva costituire l’unico accesso all’esterno e da essa proveniva quella musica sublime, straziante e terribile che l’aveva richiamata alla veglia.
Conosceva quel posto. Era la Dimora sul Lago.
Ma non era assolutamente possibile che lei si trovasse lì, stesa su quel letto e avvolta in quel mantello! Chi ce l’aveva portata? Un solo nome le giungeva alla mente, tuttavia si rifiutava di credere ad un’eventualità tanto assurda e fantastica, all’idea che il Fantasma dell’Opera potesse averla…
D’altro canto, chi altri poteva essere stato? Nessuno a parte Madame Giry conosceva la strada per la Dimora sul Lago, e certo se la donna l’avesse trovata in quelle condizioni l’avrebbe condotta a casa propria, anziché in un luogo per lei tanto pericoloso. Il responsabile doveva essere per forza il Fantasma dell’Opera. Anzi, probabilmente l’aveva persino salvata da Antoine, dal momento che adesso sapeva, senza ombra di dubbio, di non essere stata posseduta da lui. Ma perché l’aveva fatto? Quale oscuro motivo l’aveva spinto a giungere in soccorso della stessa ragazza che il giorno prima aveva provato a ficcanasare nei suoi domini? Forse aveva cambiato idea sul fatto di risparmiarla? Si era pentito di averla lasciata andare, e l’aveva condotta lì per eseguire la sentenza? E se era così, che cosa era peggio, quella situazione di incertezza e di dubbio, o gli appetiti mostruosi di Antoine?
Le domande erano troppe, e la maggior parte di esse non aveva risposta, così Vivian si sforzò di fare chiarezza tra i pensieri e di decidere la prossima mossa con un po’ di senso pratico. Era stata portata nella Dimora sul Lago dal misterioso Fantasma dell’Opera, per una ragione che le era oscura, e collocata in quel letto dove adesso si era ripresa. Antoine l’aveva aggredita come un brigante, non curandosi del suo rifiuto, e se fosse uscita da lì si sarebbe trasformato in un problema davvero enorme, ma per il momento era meglio non pensarci. Si disse che, se voleva apprendere almeno i motivi per cui era stata condotta nei sotterranei, doveva alzarsi e cercare il “fantasma” che solo il giorno prima aveva minacciato di ucciderla. La cosa non la allettava affatto, ma non aveva altra scelta, e posticipare il momento della verità avrebbe soltanto accresciuto la sua angoscia e la sua incertezza.
Scostò le cortine nere che circondavano il letto e si mise in piedi con una certa fatica, il corpo dolorante per la lotta sostenuta contro il Marchesino. Aveva un sapore metallico in bocca, e quando vi passò la mano con disgusto, s’accorse che agli angoli era sporca di sangue rappreso. Si ricordò di aver staccato il lobo dell’orecchio di Antoine a morsi e rabbrividì per un misto di raccapriccio e di oscuro compiacimento. Almeno l’aveva marchiato e gli aveva impresso sul corpo un segno indelebile della sua resistenza. Guardandosi allo specchio l’orecchio martoriato, il giovane si sarebbe sempre ricordato di lei e dei suoi denti che gli affondavano con ferocia nella carne. E se lo sarebbe meritato.
Ma non voleva pensare ad Antoine o a quello che aveva tentato di farle. Era un’esperienza che avrebbe preferito con ogni forza cancellare, per quanto l’umiliazione e la vergogna le gravassero addosso come un macigno. Come si era permesso?! Solo perché lei era povera e senza protezione, si era sentito in diritto di fare ciò che più gli piaceva per dimostrarle di sapersi prendere quello che voleva, con o senza il suo consenso?
“Lo ucciderò” sussurrò a se stessa con gli occhi scuri luccicanti di una collera sanguinosa, felina, mortale: “La prossima volta che ci incontreremo, lo ucciderò”.
Si fece spazio spostando di lato la tenda che bloccava l’ingresso della camera da letto e sbucò nell’immensa sala sotterranea che costituiva il grosso della Dimora sul Lago, illuminata macabramente dalle fiammelle tremolanti delle candele e semisommersa da quelle acque scure, torbide e nebbiose. La ragazza si strinse nel mantello, colta da un brivido (aveva dimenticato quanto lugubre fosse quella visione) ma, suo malgrado, socchiuse gli occhi per il piacere nel sentire la voce angelica che cantava nell’oscurità e le note penetranti che accompagnavano i suoi mesti e intonati lamenti.
Quella musica era talmente intensa e trascinante da far sbiadire l’orribile rifugio sotterraneo  per trasformarlo in qualcosa di luminoso, splendente e puro. Quella musica squarciava i veli dell’apparenza e degli inganni e rivelava ciò che c’era oltre le ombre. Avrebbe potuto perdersi dentro di essa, annegare nelle note che addensavano l’aria di incanto e abbandonarsi in un’estasi delirante ai voleri della voce maschile che celebrava con quella passione la perfetta armonia dei suoni…
Ma all’improvviso tutto tacque, come se la sua presenza avesse spezzato una magia di cui quel luogo tracimava, e lei sbatté le palpebre, barcollando e sostenendosi alla tenda come se l’avessero schiaffeggiata, ritrovandosi in mezzo alle nebbie dell’incantamento. Possibile che una persona razionale come lei si facesse stordire da un po’ di musica?! Che bastasse questo a privarla di tutta la sua stabilità e il suo raziocinio e ad annebbiarle gli occhi di false illusioni di bellezza?
Certo, però, se quella era soltanto “un po’ di musica” allora…
“Vi siete svegliata, dunque”.
Trasalì a quella voce gelida e aspra, risuonata nell’improvviso silenzio come una sentenza di morte. Era la stessa che poco prima cantava la disperazione e la solitudine con quella deliziosa intensità, lo capiva, eppure i toni, gli accenti erano così diversi, così snaturati…come se si fosse imposta di relegare unicamente nel canto quel timbro angelico di cui la natura aveva voluto fornirla, per parlare con l’accento brusco e roco di un demone. Era la voce di un assassino e di un nemico, di un individuo che si era ripromessa di odiare finché avesse avuto respiro, tuttavia l’estasi indotta dalla musica di cui era l’artefice non l’aveva ancora abbandonata del tutto, e si volse nel punto da cui proveniva con una stupida espressione sognante. Fu sciocco da parte sua, ma si aspettava di trovare una creatura dalla bellezza ultraterrena, perché soltanto qualcuno dall’apparenza magnifica e pura poteva possedere una tale abilità nel canto…
Gli occhi le caddero sullo splendido organo che aveva ammirato durante la sua sciagurata visita precedente. Un uomo alto e muscoloso sedeva sullo sgabello foderato di velluto rosso, le dita guantate che indugiavano sui tasti immacolati, e la fissava con gelida impassibilità da dietro una curiosa mezza maschera bianca che gli copriva soltanto la parte destra del volto, lasciando esposta la sinistra. La sua età era indefinibile (gli diede tra i trentacinque e i quarant’anni) e vestiva completamente di nero, un abbigliamento che sembrava scelto appositamente per essere in sintonia con lo stile della dimora. Capelli folti, castano scuri, gli incorniciavano il viso fino alla nuca e le sue iridi erano di un azzurro scuro come il mare in inverno, due laghi che nascondevano un brulicare di emozioni sconosciute e selvagge.
Si fissarono per un lunghissimo istante, immobili nelle loro posizioni, illuminati dalla sola luce delle candele, Vivian accanto all’ingresso della camera da letto, i riccioli scarmigliati, lo sguardo impaurito e guardingo e le mani che si torcevano nervosamente sul mantello in cui era avvolta, e l’uomo seduto accanto all’organo, minaccioso e ambiguo soprattutto a causa di quella strana maschera. La giovane avrebbe voluto strappargliela, per avere un quadro completo della sua faccia che, almeno sulla parte sinistra, presentava tratti nobili e abbastanza regolari. Ma, sebbene non ne conoscesse il motivo, sentiva che quella era una cosa da non fare assolutamente.
Era dunque lui il famigerato Fantasma dell’Opera? Il demone che aveva riso sguaiatamente della loro disfatta la notte del “Re degli Elfi”, la presenza che l’aveva minacciata il giorno prima, l’individuo che l’aveva condotta in quel luogo chissà per quale motivo? Il proprietario della voce d’angelo? Quell’uomo cupo e taciturno dagli occhi ingannevolmente freddi e dall’espressione impassibile, troncato a metà da una patina di cuoio bianco?
“Vi siete svegliata” ripeté con quel tono curiosamente aspro, come se la sua presenza lo irritasse (eppure era stato lui a portarla lì!) e alzandosi dallo sgabello per volgere su di lei lo sguardo calmo e selvaggio di quegli incredibili occhi azzurro scuro. Vivian deglutì, rimproverandosi severamente per essere rimasta a corto di parole, e sostenne il suo esame ottico senza batter ciglio, tenendo la schiena dritta e la testa alta. Non gli aveva fatto alcun torto, quella volta, non si era introdotta lì di sua volontà, e non gli avrebbe permesso di condurre il gioco come nel loro precedente incontro, impugnando sempre il coltello dalla parte del manico. La vista del suo corpo umano e della maschera dietro cui si nascondeva avevano scacciato la magia della sua musica celestiale e in lei si erano riaccesi tutto l’odio e la sete di vendetta.
“Perché mi avete portata qui?” sibilò, inquisitoria, rafforzando la stretta sui lembi del mantello.
Un sorriso privo di allegria si disegnò sulle labbra del fantasma: “Siete alquanto sgarbata, mademoiselle” commentò con cortesia pericolosa: “In fin dei conti vi ho salvato la vita. Sareste finita davvero male, se non vi avessi tolto di dosso quell’immenso imbecille”.
Gli occhi di lei si strinsero minacciosamente: “Dunque è questo che avete fatto? Mi avete salvata?” intrise di una particolare enfasi l’ultima parola, lungi dall’idea di ringraziarlo. Una sola buona azione non lo redimeva certo da tutte quelle malvagie, e sospettava che non l’avesse compiuta affatto per prestarle aiuto, anzi.
Lui parve contrariato dal suo tono visibilmente ironico: “Lo credete così assurdo, mademoiselle?”
“Al contrario” ribatté lei, radunando il suo coraggio: “Lo troverei scontato, se si trattasse di qualsiasi altro essere umano…ma nel vostro caso, lasciate che ve lo dica, mi sembra ai limiti dell’impossibile”.
Una pausa di silenzio si dilatò nell’atmosfera tesa dei sotterranei, durante la quale risuonarono soltanto il mormorio del lago e lo zampettio di qualche topo solitario.
Alla fine, il Fantasma dell’Opera si decise a parlare: “Mostrate un bel coraggio rivolgendovi a me in questo modo. Ben pochi esseri umani oserebbero tanto. Confido che la mia fama sia giunta anche alle vostre orecchie…”
“Non la chiamerei certo fama!” Vivian alzò la voce, indignata da quella superbia, incapace di frenare le sue emozioni persino in quella pericolosa circostanza: “Ho assistito di persona ad una delle vostre gesta, monsieur Fantòme, e mi è bastato per capire quanta oscurità vi portiate dentro e quanto sia profonda la perdizione della vostra anima!”
Gli occhi chiari di lui la inchiodarono, con una tal forza da schiacciarla quasi contro il muro di pietra: “Voi non avete idea di cosa sia la perdizione, mademoiselle”.
Lei cercò di reprimere un brivido. Era consapevole della propria posizione di svantaggio e non avrebbe mai creduto di dover essere debitrice all’individuo che più detestava a parte Antoine, tuttavia non era il caso di sfidare troppo la sorte: “Perché mi avete portata qui?” ripeté, con tono più incalzante.
Lui sospirò – sospirò davvero! – e si avvicinò al punto in cui si era fermata con passi eleganti e silenziosi, lo sguardo che scivolava oltre il suo viso come se lo reputasse poco importante o troppo poco interessante per perdersi nei giochi delle ombre della Dimora sul Lago: “Vi ho portata qui perché non sono il genere di mostro che lascia una ragazza seminuda e priva di sensi alla mercé di chiunque. Forse siete convinta che non agisca in base ad alcun canone morale, e magari avete anche ragione, ma questo è il mio teatro e soltanto io posso decidere chi far soffrire e chi no”.
Vivian gli lanciò uno sguardo obliquo: “E immagino che tali decisioni siano spesso in balia dei vostri umori e dei vostri discutibili calcoli, monsieur”.
“Non devo dare motivazioni a nessuno, tantomeno a voi” il tono brutale con cui vennero pronunciate queste parole la invitava a chiudere l’argomento: “Vi ho sottratta a quel ragazzo malgrado la vostra intrusione di ieri, cosa di cui dovreste essermi grata, e mi aspetto almeno che non mi infastidiate con le vostre inutili domande”.
“Allora non mi conoscete bene. Voi non sarete anche il genere di mostro che usa violenza su una povera donna indifesa, ma io non sono il genere di ragazza che china la testa solo perché un assassino l’ha risparmiata da una sentenza di morte e l’ha salvata da un’aggressione. Avrete anche potuto difendere la mia vita, ma ne avete troncate molte di più in passato e questo, almeno ai miei occhi, vi rende indegno di qualsiasi forma di gratitudine”.
S’era aspettata una reazione furibonda, invece lui non parve dare troppo peso alle sue accuse. Dall’espressione che traspariva attraverso la mezza maschera, si sarebbe detto che simili parole non gli fossero affatto sconosciute, e che anzi, avesse fronteggiato innumerevoli volte la sua stessa posa di indignato terrore. Aveva un’aria stanca, disillusa, indurita, e la barriera che si era costruito intorno era ormai troppo dura perché il suo concitato discorso potesse penetrarla e giungere fino al fondo della sua anima nera.
Il suo tono pacato e atono rispecchiava la sua espressione: “Bene, non intendo dissuadervi dalle vostre convinzioni, mademoiselle. Ho progetti ben più importanti che mi reclamano, altrimenti, credetemi, avrei ascoltato con piacere la vostra saggia predica”.
La giovane si sentì punta nel vivo: “Progetti, monsieur?” disse, disgustata: “Posso immaginare alla perfezione di che progetti si tratti. A quando il prossimo incidente?”
Per un attimo Erik la studiò con interesse, soffermandosi sulla sua piccola figura che, nonostante la paura e il disorientamento di trovarsi in quel luogo isolato e sconosciuto, se ne stava ritta e fiera sul pavimento di pietra. Indugiò sulla massa di ribelli riccioli neri, ancor più indomabili a causa dell’aggressione subita, sui piccoli pugni stretti convulsamente sul mantello che le aveva prestato, sulla posa decisa e arrabbiata delle labbra accese e sullo sguardo ardente e orgoglioso degli occhi scuri. Quella ragazza era stata vittima di una tentata violenza sessuale appena qualche ora prima ed era stata condotta nella dimora sotterranea del temibile Fantasma dell’Opera, eppure non cedeva ai nervi come avrebbero fatto tante sue coetanee, non s’abbandonava all’isteria e al terrore. Il dolore, la paura, il senso di inferiorità fisica che, in quanto donna, doveva sicuramente provare, non l’avevano spezzata. E questo era notevole, dal momento che nemmeno Christine era riuscita a mantenersi salda di fronte ai pericoli.
L’insicurezza, i piagnistei, le suppliche lo avevano sempre infastidito. Era un sollievo vedere, dopo tanto tempo, un’anima coraggiosa e determinata che non cedeva facilmente alle avversità.
“Questi” proclamò infine, raggiungendola sul ballatoio sopraelevato dove erano collocate la sua stanza da letto e quella in cui aveva deposto Christine sei mesi prima: “Sono segreti noti a me solo, mademoiselle…?”
“Carré” sbottò lei: “Vivian Carré”.
“…mademoiselle Carré. Ma se posso darvi un consiglio, non tornate più al teatro dell’Opera, se ci tenete alla vita. Ho intenzione di rivoluzionare le cose, e in grande stile!”
“Perché?” la parola le venne fuori come un ringhio soffuso: “Che cosa vi abbiamo fatto, monsieur Fantòme? Per quale motivo ci perseguitate?”
Lui le rivolse quello sguardo torbido, dannato e fiammeggiante che già una volta aveva intravisto, nel corso del disastro del “Re degli Elfi”, quando aveva alzato lo sguardo sul palcoscenico in fiamme e aveva colto un’ombra furtiva che svaniva nel buio con un’ultima risata di demoniaco trionfo. Suo malgrado, un brivido freddo le percorse tutta la colonna vertebrale e allorché lui le venne incontro con passi misurati, arretrò fino a sbattere contro la parete, avvertendo lo stesso senso di cattività provato mentre Antoine l’aggrediva. Si era imposta disperatamente di mantenere un’espressione ferma e decisa, ma le tracce di ciò che era accaduto nella cappella erano ancora dentro di lei, e temeva l’uomo-fantasma così come aveva temuto il giovane nobile, perché sapeva che dietro quell’apparenza pacata e atona si nascondeva un essere folle e imprevedibile, disposto al supremo sacrificio e al più efferato omicidio.
Erik sorrise amaramente nel vedere una paura malcelata che cominciava a dominare il viso pallido della ragazza appiattita contro al muro, e riconobbe in lei i sintomi dell’ansia: le brillanti gocce di sudore che le cospargevano la fronte, gli occhi leggermente sgranati, il petto che si alzava e abbassava con ritmo frenetico, il tremito ininterrotto e la maniera in cui le sue dita sottili torturavano la stoffa del mantello. Le giunse talmente vicino da poter sentire l’odore della sua paura, un misto di sudore e di dolce frenesia, e appoggiò entrambe le mani contro la parete ai lati della sua testa, in modo da tagliarle ogni via di fuga.
Vivian ansimò forte. Appena pochi centimetri separavano il suo corpo da quello alto e muscoloso dell’uomo, i loro volti erano ad una spanna di distanza l’uno dall’altro e la vicinanza era tale che riusciva a cogliere il suo odore personale, una fragranza selvaggia come una foresta in pieno inverno, come un mare in tempesta, come un lupo selvatico. Non si era mai trovata in una posizione tanto intima con un uomo fino a quel momento, a parte con Antoine, ma allora era stata soltanto una lotta frenetica e brutale, dove c’era spazio solo per il terrore. Adesso si trattava d’una cosa totalmente diversa: il Fantasma dell’Opera non l’aggrediva, non la toccava, ma faceva in modo che il disagio e l’agitazione si impadronissero di lei poco a poco con mille astuti dettagli, probabilmente con lo scopo di sottometterla al suo volere e farla cadere in ginocchio ai suoi piedi in preda a singhiozzi isterici. Nessuna fanciulla con un minimo di senso del pudore avrebbe sopportato oltre un certo limite quell’indecente postura. E doveva ammettere che lei stessa fremeva, di terrore, sì, ma anche di qualcos’altro. Avrebbe dovuto spingerlo via…colpirlo… ma…se si fosse infuriato? Ed era davvero questo, ciò che la frenava?
Si impose di ritrovare una parvenza di controllo e sollevò arditamente gli occhi, incrociando quelli ardenti e bui del suo aguzzino. Era come gettarsi a capofitto in un oceano che nascondeva segreti e mostruosità di cui le sfuggiva il significato. Quelle iridi azzurro scuro erano profonde e illimitate come pozzi in cui lei precipitava a capofitto e conducevano nel mezzo di qualcosa di terribile ma, in un certo perverso senso, anche di fascinoso. Sì, la dannazione che emanava da esse la attraeva e la respingeva al tempo stesso, accrescendo, in una bizzarra contraddizione, l’orrore e l’interesse che gli portava, e se non avesse staccato subito lo sguardo l’avrebbero inghiottita per non lasciarla andare mai più, ipnotizzandola al pari della sua voce celestiale e facendole dimenticare l’intero, orribile retroscena.
Non gli avrebbe permesso di incantarla.
Mise a fuoco il volto che conteneva quegli occhi pericolosissimi, per quanto fosse un’impresa assai ardua, vista la strategica vicinanza, e gli chiese a voce bassa: “Perché portate quella maschera?”
L’espressione di lui si indurì all’istante. Guardandola con viso nuovamente inespressivo e duro, quasi la sua resistenza l’avesse sminuita ai suoi occhi, le si rivolse con tono ugualmente basso, scandendo ogni parola: “Questo non lo saprete mai, mademoiselle”.
Si allontanò di scatto da lei, privandola del suo odore, della sua presenza, della sua prossimità tanto fulmineamente da causarle una sorta di trauma, e le volse le spalle con un movimento brusco mentre lei vacillava appena, confusa e sconvolta, e cercava di riaversi in fretta. Mai, mai si sarebbe aspettata quel modo di fare insolente e pericoloso, la maniera in cui il Fantasma dell’Opera si serviva del linguaggio del corpo e dei toni della voce era la stessa di un attore consumato e quasi era riuscita a vincerla, a farle smarrire ogni ragione. Possibile che fosse così debole? Che le sue risorse fossero tanto misere?
Erik, da parte sua, si stava chiedendo con improvvisa irritazione perché mai avesse prolungato quell’inutile conversazione oltre i limiti che si era imposto. Non aveva forse concordato con se stesso, mentre la portava nei sotterranei, che ve l’avrebbe tenuta solo finché non si fosse ripresa? Adesso la ragazza era cosciente, stava bene, non aveva più bisogno di aiuto. Dunque, era necessario mandarla via e tornare ad occuparsi dell’unica cosa importante al mondo, i suoi progetti di fantasma. Si era negato il privilegio d’avere compagnia quando aveva scelto di tornare all’Opera, non sarebbe ricaduto negli stessi errori passati. Tutti gli esseri umani erano crudeli e meritevoli di morire, e anche lei, come gli altri, non era per lui altro che una nemica.
“Andatevene” proruppe con voce sorda, continuando a darle le spalle: “Prendete quella barca” le indicò la gondola che aveva costruito con le sue mani e che era attraccata su un piccolo molo, oscillante nelle acque del lago Averno: “E remate finché non arriverete in un corridoio che vi condurrà dritto in superficie. Dimenticate ciò che avete visto quaggiù, e dimenticatevi di me, se non volete costringermi a farvi del male”.
Passò una mano sul cuoio liscio e lucido della maschera, rassicurato dalla sua perpetua presenza, e attese di udire i passi lievi della ragazza che si avviavano a fare quanto le aveva ordinato, ben lieti di potersene andare da quel luogo maledetto.
Ma dietro di lui non si mosse nulla, malgrado il tono di superiore comando con cui aveva pronunciato l’esortazione. Stupito e nervoso per quell’inaspettato contrattempo, non poté fare a meno di girarsi verso la sua indesiderata ospite, e la trovò nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata quando si era allontanato da lei, con la medesima espressione determinata e il medesimo brillio nei grandi occhi scuri. Non era abituato ad essere disobbedito, specialmente da chi usufruiva dei suoi rarissimi e assai poco disinteressati favori, e ricordava benissimo che Christine, ai tempi, aveva chinato la testa ad ogni suo comando, finché ancora lo credeva il suo Angelo della Musica. Che questa ragazzina impicciona e supponente, questo niente, osasse ignorare un ordine venuto da lui, il Fantasma dell’Opera, era a dir poco assurdo! E per di più le aveva chiesto di andarsene, una cosa che lei doveva aver sperato con tutta se stessa!
“Cosa state aspettando?” mantenne la calma a stento, dicendosi che forse la giovane non era riuscita a credere che l’avrebbe lasciata andare e si stava ancora riprendendo dallo sconcerto: “Andatevene! Siete libera!”
Il volto di Vivian conservò la sua espressione serena, e la sua voce suonò decisa e tranquilla quando rispose: “Mi dispiace, monsieur, non posso farlo”.
Gli occhi di Erik si spalancarono: “Che cosa?”
“Dico sul serio” quella figuretta sembrava pervasa da una determinazione assoluta: “Non intendo andarmene da qui”.
Riuscì nell’impresa impossibile di lasciarlo a corto di parole per una buona manciata di secondi. Aveva vissuto, viaggiato e visto abbastanza da aver appreso alla perfezione tutti i fatti della vita e tutte le sfumature di cui gli esseri umani davano sfoggio, e di solito era in grado di prevedere quasi sempre cosa sarebbe accaduto e come qualcuno avrebbe reagito ad una minaccia o ad un favore, pregio che gli aveva permesso di mantenere un assoluto controllo sulla situazione e un lieve margine di vantaggio che lo favoriva a spese di coloro che volevano catturarlo. Ma questo, anche se fosse vissuto altri cent’anni, non l’avrebbe mai potuto prevedere. Era esterrefatto.
“Il punto è, mademoiselle” sussurrò dopo essersi leggermente ripreso: “Che non conta affatto ciò che volete o non volete fare. Vi ho condotta qui per lasciarvi il tempo di riprendervi, e adesso vi siete ripresa. Perciò tornate in superficie, dai vostri cari!”
“Cari non ne ho” replicò lei: “Non più. E quello che vi siete proposto di fare, monsieur, è una vigliaccata bella e buona”.
Fu impossibile per Erik dissimulare lo stupore e la collera che una simile presunzione aveva scatenato in lui: “Come sarebbe a dire?” la sua voce s’arrochì pericolosamente, prossima a deporre ogni forma di cortesia, ma Vivian non si lasciò turbare dalla sua rabbia stupefatta: “Non potete portarmi in casa vostra e poi abbandonarmi al mio destino senza alcuna remora”.
Lui fece scattare la mascella: “Mademoiselle Carré” mise insieme le parole a fatica: “Che cosa volete da me? Vi ho salvata da quel ragazzo. Vi ho offerto un rifugio in cui riprendervi senza che altri si accorgessero dell’onta che vi era stata fatta. Ho arrecato danno a molti, questo è vero, ma non devo renderne conto a voi come a nessuno. Adesso vi sto addirittura permettendo di tornare alla vostra vita. La mia pazienza con voi è stata prodigiosa, ma francamente non comprendo il vostro comportamento, e potrebbe esaurirsi presto, se non sparite dalla mia vista seduta stante”.
Nessun accenno di timore parve sfiorare la fanciulla, sebbene la sua fosse stata una chiara minaccia: “Monsieur Fantòme” gli fece eco, usando il medesimo tono: “Sono io a non comprendere voi. Sapete chi era il giovane da cui mi avete difesa nella cappella?”
“Mi vanto di non aver mai conosciuto gente di tale risma” rispose Erik con fastidio e scarso interesse. Lei aggrottò le sopracciglia, ma proseguì: “Era il Marchesino Rappenau, una delle figure più prestigiose a Parigi in questo periodo. Si è incapricciato di me e ha provato a farmi delle avances, ma le ho rifiutate. Arrogante e viziato com’è, non ha potuto sopportare che mi fossi negata a lui e ha deciso di prendermi con la forza, nel modo che avete potuto vedere anche voi”.
“La dinamica della vostra aggressione non mi interessa” la interruppe lui brutalmente: “Ho faccende di gran lunga più importanti che mi attendono e sono ben diverse dagli intrighi amorosi di due ragazzini”.
Questa volta fu Vivian a lanciargli un’occhiata carica di veleno. Oh, aveva compreso subito che non l’aveva salvata perché gli stava a cuore il suo benessere, ma trattarla in quella maniera, dopo quello che le era capitato… però cosa poteva aspettarsi di meglio dal Fantasma dell’Opera?
“Non era mia intenzione tediarvi” riprese, sarcastica: “Sono consapevole che le vostre trame assassine esercitino su di voi un fascino assai più potente, ma volevo semplicemente farvi capire la situazione. Io sono una ragazza povera, senza protezione, orfana di entrambi i genitori e sola in una città che quasi non conosco. Non avrei alcuna chance contro di lui, se decidesse di riprovarci, e sono certa che lo farà. So bene come sono fatti i giovanotti di quel tipo. Ho bisogno di un luogo in cui rimanere nascosta per un po’, finché non si sarà distolto da me e non avrà spostato altrove la sua attenzione. Se tentassi di denunciarlo alla giustizia, nessuno mi crederebbe, o penserebbero che l’ho sedotto io e che sto cercando di scrollarmi di dosso il disonore per accollarlo a lui. Purtroppo il mondo va in questo modo…” soggiunse amaramente.
Erik capì subito dove voleva andare a parare con quel discorso, e inarcò un sopracciglio castano a fronte di tanto coraggio e tanta presunzione: “Voi” disse lentamente: “Voi mi state chiedendo di ospitarvi nella mia dimora?”
Il tono con cui pronunciò questa domanda avrebbe fatto tremare uomini ben più forti e avvantaggiati di Vivian, ma la ragazza sostenne senza batter ciglio il suo fiammeggiante sguardo e rispose, con semplicità: “Esatto”.
Non era impazzita di punto in bianco, ovviamente. Non c’era nemmeno un briciolo di verità nel discorso che aveva sostenuto con fare tanto sicuro e accorato. Nessuna persona sana di mente si sarebbe rinchiusa in quella gelida tomba in compagnia del terribile Fantasma dell’Opera, solo per sfuggire alle mire di un aristocratico invaghito. Piuttosto preferiva barricarsi in casa di Madame Lefevre. La ragione per cui aveva preso quella drastica decisione, per cui si stava negando le lezioni di piano, gli incontri con Emma, la luce del sole e il lucore della neve era in realtà ben diversa da quella che aveva appena addotto, e le era balenata alla mente mentre il fantasma la invitava ad andarsene.
Quale modo migliore esisteva di metterlo nel sacco e scoprire il suo punto debole, aveva pensato, se non quello di vivere a contatto con lui per giorni, conoscendo a fondo i segreti della sua anima e i suoi progetti per il futuro? Di sicuro, se si fosse stabilita a tempo pieno nella Dimora sul Lago e se avesse agito in maniera tale da conquistarsi la sua fiducia, sarebbe venuta a conoscenza di fatti noti a lui solo e magari, prima o poi, gli avrebbe strappato un’informazione di troppo, un particolare che le avrebbe permesso di presentarsi alla giustizia con prove sufficienti a farlo arrestare. Sarebbe stato difficile, quasi impossibile penetrare la barriera di diffidenza e di astio di cui si circondava, e avrebbe dovuto tenere un occhio sempre aperto per evitare che si accorgesse dei suoi reali propositi (in quel caso non osava pensare alle conseguenze), ma il rischio non l’aveva mai spaventata più di tanto, e un’impresa del genere, per quanto folle e mortale, la affascinava. Sarebbe stato un modo perfetto di mettersi alla prova, di vedere quanto sarebbe riuscita a recitare e a carpire. E, in effetti, le avrebbe garantito anche di stare lontana da Antoine per un po’.
“Spero, mademoiselle” commentò Erik in tono caustico: “Che voi non crediate davvero di poter vivere qui!”
“E perché mai dovreste sperarlo?” lei non riuscì a nascondere l’irritazione. L’uomo sembrò stupito: “Prego?”
“Voi mi avete salvata. Forse non l’avete fatto per me, ma le cose non cambiano. Siete giunto in mio aiuto e vi siete arrogato il diritto di punire il responsabile e condurmi nella vostra dimora, facendovi carico del mio benessere. Scacciarmi adesso che ho un disperato bisogno di mercé vi rende il più ributtante e insensibile dei banditi…perché è in netto contrasto con la vostra precedente azione. Se la mia presenza vi infastidiva a tal punto, come mai siete intervenuto? Non potevate lasciarmi in balia di quel mostro?”
Lui sbatté le palpebre, disarmato dinnanzi al discorso logico della giovane: “Io…”
“Ma invece siete intervenuto” riprese lei, implacabile: “E adesso avete delle responsabilità nei miei confronti. Salvandomi dalle violenze del Marchesino, vi siete autonominato mio protettore, ed io vi sto chiedendo protezione. Cercare di negarlo o passarci sopra è soltanto un’offesa verso di me e una prova della vostra codardia”.
Erik digrignò i denti. Quella ragazza credeva davvero di poter vincere il suo rifiuto facendo appello al suo discutibile senso dell’onore e alla fredda logica del galateo? Non aveva mai rispettato un solo giuramento in vita sua, giudicandolo solo un modo di gabbare gli stolti, e l’unica creatura che aveva reputato degna della sua protezione, Christine, l’aveva buttata via con negligenza, calpestandola per cercare rifugio in quella ben più lieve e superficiale del Visconte. No, non si sarebbe fatto carico anche di Vivian, non avrebbe avuto quella zavorra che lo tratteneva nel mondo reale, quella presenza che senz’altro avrebbe interferito con i suoi piani e i suoi affari. Aveva chiuso con quel genere di cose, e non ci sarebbe entrato di nuovo, nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Il problema era che lei sembrava ugualmente determinata a stabilirsi nella sua dimora. Avrebbe dovuto trascinarla in superficie con la forza? Farle del male per convincerla? Al momento non ne aveva il minimo desiderio, anzi, era ansioso di tornare nel suo studio e riprendere il lavoro interrotto.
Però…un momento! Forse esisteva la maniera di liberarsi di lei, senza esserne il responsabile, e di dimostrarle quanto folle fosse stata la sua idea di accostarsi a lui…un ghigno malefico si impresse sulle sue labbra pallide. Mademoiselle Carré sosteneva di voler restare a tutti i costi? Bene, le avrebbe proposto di fare qualcosa di impossibile, che ella avrebbe rifiutato con sgomento, o nella quale sarebbe morta, e a quel punto si sarebbe dimenticato di lei e di tutte quelle inutili complicazioni. Non sarebbe stato neanche colpevole di una sua eventuale morte, dal momento che se la sarebbe cercata da sola!
Sapeva perfettamente quale delle sue geniali camere era adatta a lei…
“Bene, dunque” osservò con un’inflessione giocosa, gli occhi azzurro scuro che emanavano uno scintillio inquietante: “Forse mademoiselle è disposta a giungere ad un compromesso? Forse mademoiselle se la sente di affrontare una prova?”

 

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Capitolo 10
*** La prova della Sfinge ***


La prova della Sfinge
 

 
 
 
 
“Forse mademoiselle è disposta a giungere ad un compromesso?” chiese Erik con inflessione ironica, uno scintillio inquietante nelle iridi azzurro scuro: “Forse mademoiselle se la sente di affrontare una prova?”
L’accento con cui venne pronunciata tale proposta, e soprattutto il ghigno luciferino che l’accompagnava suscitarono in Vivian un brivido di timore. L’uomo mascherato era pieno di un nuovo trionfo adesso che aveva trovato la maniera di liberarsi di lei, e la contemplava da dietro il foro di quel pezzo di cuoio bianco con l’ingordigia del gatto che ha appena chiuso in un angolo un topolino indifeso. Nondimeno la ragazza, stretta nel lungo mantello nero che le aveva prestato, nuda sotto di esso e reduce da avvenimenti di potente calibro, era pallida e tremante e lasciava scorrere uno sguardo paurosamente interrogativo sulla figura del suo interlocutore, soffermandosi sui bottoni della sua giacca scura per non essere costretta a precipitare nelle sue iridi.
“Che…che genere di prova?” bisbigliò infine con chiara inquietudine, arretrando di un passo per mettere una maggiore distanza tra sé e il Fantasma dell’Opera. Il sogghigno di lui divenne ancora più ampio, mentre osservava il pesce che girava intorno al suo amo: “Una prova delle più semplici, mademoiselle” spiegò vivacemente: “Talmente banale che ne rimarrete perfino delusa. Voglio che voi troviate il modo di uscire da una stanza”.
Lei batté le palpebre. Uscire…da una stanza? Non lo trovava un compito difficile, ma aveva la sensazione terribile che in realtà le stesse tenendo nascosto qualcosa di importante, e che quella frase apparentemente volta a rassicurarla fosse un pericoloso raggiro. Non aveva certo dimenticato le disperate manovre che era stata obbligata a mettere in atto per uscire dalla trappola in cui era caduta nel tentativo di raggiungere la Dimora sul Lago; sospettava che ciò che lui le avrebbe chiesto in cambio della sua ospitalità fosse simile, se non analogo a quella tipologia di impresa. E se allora l’ingegno e la buona sorte l’avevano favorita, era molto probabile che adesso non sarebbe stata altrettanto beneficata da essi.
“Tutto qui?” tirò fuori le parole a stento, sforzandosi di suonare scettica: “Debbo uscire da una stanza chiusa a chiave?”
L’uomo ridacchiò piano: “Oh, beh, naturalmente dovrete fare qualcosa per riuscire in quest’intento. Le cose non capitano certo così, dal nulla!”
Lei affilò lo sguardo: “Cosa, nello specifico?”
“Come siete curiosa!” la rimbeccò con allegria, ancor più inquietante sotto l’influsso di questo brusco cambiamento d’umore: “Ma d’altronde è normale, siete una donna! Però dovreste fare attenzione a ciò che succede alle donne troppo curiose…vi basta pensare a Barbablù!”
“Non voglio giocare con voi, monsieur Fantòme” rianimata dallo sdegno e dal dispetto, lo afferrò per il bordo della manica e gli diede una lieve scrollata: “Il mio era un discorso serio!”
Lui si divincolò con fastidio, respingendo la sua mano come se fosse stata un immondo parassita: “Anche il mio lo è, mademoiselle” sibilò, di nuovo glaciale e impassibile: “La mia ospitalità ve la dovete guadagnare. Perciò fate una scelta, e in fretta: affrontate la prova, o ve ne andate adesso. Basterà che voi diciate no, e non vedrete questo luogo finché avrete vita. Ma al contrario, un sì vi condurrà subito nel fulcro della vostra impresa, e se ne uscirete vittoriosa, potrete rimanere presso la mia dimora per…” non dedicò alla cosa troppe fatiche, dal momento che quella era un’eventualità che non si sarebbe mai verificata: “…dieci giorni. Allora, cosa rispondete? Prendere o lasciare!”
Vivian iniziò a torturarsi nervosamente le dita, gli occhi indecisi e spaventati che guizzavano da un punto all’altro dell’ampio salone sotterraneo. Era stata messa con le spalle al muro e non vedeva alcuna via d’uscita, alcun modo di ottenere ciò che voleva in circostanze meno definitive: non dubitava, infatti, che il Fantasma dell’Opera imponesse condizioni sicure e inossidabili, e che fosse assai poco insito alla sua natura ritrattarle. Perciò era costretta a scegliere tra una sicura e codarda ritirata e un totale abbandono dei suoi propositi, e un salto nel vuoto che avrebbe potuto condurla alla realizzazione del suo piano, o ad una completa disfatta. Senza dubbio una decisione ardua da prendere. La scelta più saggia, glielo avrebbero detto tutti, sarebbe stata rispondere no e chiudere la faccenda una volta per tutte.
Però un simile atto di vigliaccheria avrebbe potuto condannare decine di innocenti che sarebbero morti per mano di quel mostro. Doveva agire per se stessa o per loro? E poi, insomma, cosa le sarebbe potuto accadere di male? Se anche non fosse riuscita a portare a termine la prova, la cosa si sarebbe risolta con una semplice ammissione di impotenza. Bruciante per l’orgoglio, ma indolore per il fisico. Non aveva niente da perdere…o no?
“Monsieur” alzò lo sguardo su di lui con un’esitazione, poco abituata a conversare con un volto celato per metà da quella liscia maschera bianca: “Quali saranno le conseguenze di una mia eventuale sconfitta?”
Lui sollevò il mento con fare sprezzante, i lineamenti che non le concedevano di intravedere nulla: “Le conseguenze non si possono mai sapere” proclamò, con freddezza mortifera: “Ma ovviamente ve ne saranno”.
La ragazza rabbrividì. Soppesò le proprie possibilità per qualche silenzioso minuto, le mani che non smettevano di torcersi sul mantello e il capo girato di lato perché egli non potesse indovinare il suo sconforto, e si disse che se era stata capace di raggiungere la sua dimora, un’impresa reputata impossibile da molti, allora doveva pur avere i requisiti necessari a farcela anche stavolta. E poi, la sua ricompensa sarebbe stata veramente enorme, se l’avesse ottenuta. Dieci giorni a contatto con il Fantasma dell’Opera e con i suoi preziosi averi! Sicuramente avrebbe appreso una quantità di informazioni tale da permetterle quantomeno di offrire alla giustizia una buona pista da seguire. Sì, occorreva rischiare.
“Affronterò la prova” la sua voce, malgrado la determinazione con cui si era decisa, suonò tremante.
Erik nascose a fatica un’ondata di delusione. Aveva sperato vivamente di poter risolvere lì la questione, con un rifiuto da parte della fanciulla e una sua rapida uscita di scena, invece lei aveva dannatamente accettato (si poteva essere più stupidi?) ed era costretto a ritardare ulteriormente i suoi impegni e a dedicarle ulteriore attenzione. Quell’essere umano era veramente fastidioso e ostinato! Le offriva la libertà su un piatto d’argento, le faceva capire che le conseguenze di una sua sconfitta sarebbero state terribili, e che cosa faceva? Diceva di sì! Che cosa ci trovava di rassicurante in lui e nella sua dimora? Cosa la induceva a pensare che lì sarebbe stata al sicuro? Qualsiasi altra persona avrebbe preferito affidarsi ad un avanzo di galera piuttosto che a lui, il Fantasma dell’Opera! Senza dubbio, aveva a che fare con un soggetto assai singolare.
Che però lo stava tenendo lontano dai suoi progetti. Sarebbe stata una gioia assistere alla sua prevedibile disfatta, ai suoi tentativi disperati di venire a capo del guaio in cui si era cacciata con le sue stesse mani e all’attimo finale, in cui sarebbe stata punita per la sua presunzione. Perlomeno avrebbe ricavato qualcosa, da quell’inutile perdita di tempo.
“Bene” disse con un falso sorriso accondiscendente: “Non si dica mai che non sono un uomo di parola. Avete fatto la vostra scelta, e adesso ne affronterete il prezzo. Seguitemi”.
Senza darle il tempo di ribattere o di procedere al suo fianco come si conveniva, si voltò in direzione delle scure acque del lago e le fece un cenno brusco e superiore della mano guantata, come se stesse ordinando al suo lacché di andargli dietro ad una debita distanza, affinché la differenza fra di loro si vedesse in ogni momento. Vivian si indignò di un trattamento così scortese e insensibile, ma ingoiò la sua protesta e si costrinse a seguirlo, dicendosi che stava agendo per una giusta causa, e che se voleva conquistarsi la sua fiducia avrebbe fatto meglio a non contrariarlo per qualsiasi cosa.
Però, restava comunque il fatto che aveva a che fare con un soggetto rozzo, narcisista e totalmente privo di sensibilità umana, il quale, per giunta, si serviva di una maschera patetica per, lei supponeva, rendere ancora più inquietante e misteriosa la sua immagine.
Giunsero sulle rive dell’immenso lago che circondava il rifugio sotterraneo e lì egli si fermò, tanto improvvisamente che la ragazza rischiò di rovinargli addosso. Si arrestò in tempo, confusa, e gli rivolse un’occhiata interrogativa che lui parve non notare. Guardava dritto in direzione del lago, e seguendo la direzione dei suoi occhi, Vivian si trovò a contemplare l’elegante gondola in legno scuro che avrebbe dovuto ricondurla in superficie. Un tremendo sospetto si insinuò all’improvviso in lei: e se il fantasma la stava ingannando, e intendeva portarla fuori dai sotterranei senza una sua opposizione? Se tutta quella storia della prova non era altro che una beffa crudele?
Ma perché avrebbe dovuto esserlo, in fondo? L’uomo era perfettamente in grado di caricarsela sulle spalle e costringerla a seguirlo con la forza, e per fare ciò avrebbe impiegato assai meno tempo che proponendole quell’ambiguo compromesso. Sarebbe stato totalmente illogico dilungarsi così tanto per poi limitarsi a condurla a casa. No, sicuramente non era andata così.
“Salite” ordinò Erik seccamente, senza accennare la mossa di aiutarla.
Stavolta Vivian non riuscì a trattenersi, e si girò a guardarlo con un lampo d’ira negli occhi: “Non c’è alcun bisogno di rivolgersi a me con quel tono!”
Il volto di lui si adombrò pericolosamente: “Prego?”
“Non sono una vostra serva!” soggiunse la ragazza con fervore: “Mi avrete anche salvato la vita, ma questo non vi da alcun diritto di trattarmi in maniera così ignobile, tanto più che mi sto prestando a questo vostro giochetto…”
“…questo mio giochetto?!” le fece eco Erik, senza fiato per la definizione che era stata data al suo geniale escamotage. Lei continuò come se non avesse parlato: “E un per favore non ha mai fatto male a nessuno!”
Gli passò accanto a testa alta, lieta di essersi ribellata a quella palese ingiustizia, e si accomodò all’interno della gondola disponendo i lembi del mantello intorno a sé in modo che le coprissero le gambe raccolte. Erik restò ancora qualche secondo immobile sulla riva del lago, paralizzato da un’incandescente mescolarsi di rabbia e di stupore, e si trastullò per un folle attimo con l’idea di rinchiuderla nella più terribile delle sue invenzioni, la Camera dei Supplizi (che, a dir la verità, aveva evitato poiché riteneva che la ragazza ne fosse indegna), per farle vedere di cosa fossero capaci i suoi “giochetti”. La sola parola lo spingeva a contrarre la mascella. Ma tu guarda cosa era costretto ad udire…una ragazzina povera e ignorante, forte di una falsa supponenza, che liquidava le sue mirabili creazioni con quel termine infantile e diffamante…oh, ma se ne sarebbe pentita subito, e allora sì che avrebbe compreso il proprio errore!
Ricacciò nell’animo tutta la sua indignazione e si issò sulla gondola con volto nuovamente impassibile, impadronendosi del remo e sistemandosi a prua, nella posizione che più gli era congeniale per quell’attività. Prima di far ciò, aveva avuto l’accortezza di sciogliere la corda che assicurava l’imbarcazione alla riva, e si allontanarono dal salone principale della sua dimora oscillando leggeri sul pelo di quell’acqua nebbiosa e infernale, avvolti in una foschia sempre più densa e in un’oscurità che si rafforzava via via che le fiammelle delle candele venivano distanziate. Ben presto, a Vivian fu impossibile distinguere ogni cosa del paesaggio che aveva intorno, a parte la nebbia e il lugubre sciabordio dei flutti su cui la gondola scivolava incerta, e si avvolse più stretta nel mantello, come se quel semplice indumento avesse potuto difenderla dall’atmosfera isolata e inquietante in cui erano precipitati. La presenza di Erik ritto a prua nei suoi abiti scuri e con la sua mezza maschera bianca, silenzioso come una tomba e intento ad affondare il remo nell’acqua recalcitrante, non la rassicurava affatto, anzi, il suo animo era oppresso pari a quello di un dannato che viene traghettato nella “città dolente” (non a caso il lago aveva nome Averno), e la figura nera del suo accompagnatore ricordava in maniera inquietante quella del terribile nocchiero, Caron dimonio dagli occhi di brace.
“In quale abisso mi sono cacciata?” pensò con la rassegnazione quieta del condannato a morte: “Se avessi dato retta al buonsenso, adesso sarei già tornata da Madame Lefevre, al sicuro!”
Erik si era accorto fin dall’inizio, poiché nulla sfuggiva ai suoi occhi acuti, del repentino accrescimento delle paure che assalivano la mente provata della ragazza, e con sadico compiacimento l’aveva vista deporre tutta la sua aria di altezzosa sicurezza e rannicchiarsi sulla gondola come un gatto impaurito, le dita aggrappate spasmodicamente ai bordi in un patologico timore di cadere in acqua. Forse aveva compreso, finalmente l’entità del pericolo in cui si era cacciata, e stava iniziando a pentirsi d’averlo sfidato e disturbato! Non le chiese, tuttavia, se aveva cambiato idea e se desiderava essere ricondotta a casa. Una decisione, per lui, era unica e irrevocabile, e oramai era troppo tardi per tornare indietro e rimangiarsela. La risposta era stata “sì”. Quindi, la signorina avrebbe dovuto affrontare le conseguenze di quel “sì”.
Incapace di sopportare oltre quel silenzio tenebroso e soffocante, Vivian abbassò lo sguardo sulla panca sulla quale sedeva, e disse la prima cosa che le veniva in mente: “Non ho mai visto una barca come questa”.
L’uomo le rispose senza staccare lo sguardo da un percorso che solo lui poteva distinguere: “Si chiama gondola. Mi sono ispirato a queste imbarcazioni dopo averle vedute a Venezia, una città italiana che di certo conoscerete”.
“È…bella” sussurrò lei, non trovando nulla di meglio da dire.
A questo, il Fantasma dell’Opera scelse di non rispondere.
In lontananza, al di là della fitta cortina di nebbia, si incominciò a intravedere la luce rossastra di una torcia, un unico punto saldo in quel mondo di ombre e di nulla. Vivian si sentì vagamente rassicurata, poiché non amava affatto essere totalmente all’oscuro del luogo in cui si trovava, e notò con sollievo che il suo accompagnatore remava proprio in direzione di quella luce e che la loro inquietante traversata sembrava giungere a termine. Scivolò istintivamente accanto all’uomo, sulla prua della gondola, e si sporse con viva ansia in avanti, verso quella che, ora non aveva più dubbi, era proprio una torcia assicurata ad un muro di pietra da un gancio in metallo. Erano prossimi ad approdare su un molo sotterraneo di dimensioni assai scarse, che conduceva soltanto ad una piccola porta chiusa da un lucchetto.
Erik, ritrattosi leggermente per far spazio alla ragazza, piegò all’insù un angolo della bocca vedendola che si sporgeva così incautamente sul bordo della gondola. Confidava così tanto nella sacralità della sua parola? Se egli fosse stato un comune furfante, non avrebbe esitato un attimo a spingerla in acqua, e lei non avrebbe potuto fare nulla per impedirglielo. Sotto quel contegno sicuro e vissuto, mademoiselle Carré era ingenua proprio come tante altre fanciulle e questa sarebbe stata la sua rovina.
Non appena la barca giunse accanto al molo, il Fantasma dell’Opera saltò agilmente a riva e fece passare la fune che aveva precedentemente sciolto intorno ad un anello di ferro, in modo che la gondola restasse ferma dove l’aveva lasciata. A quel punto, con un gesto assai sprezzante, tese la mano guantata alla sua ospite, e non fu senza riluttanza che lei la accettò, raggiungendolo a fatica sul terreno solido. Si guardò intorno con nervosismo, consapevole che il suo senso di isolamento, in quella sezione dei sotterranei, si era decuplicato: “Dove siamo?”
“In una zona della mia dimora che visito assai di rado” rispose lui con l’aria del padrone di casa intento ad elogiare il mobilio del salone da pranzo: “Io la chiamo la Stanza della Sfinge”.
“La Stanza…della Sfinge?” ripeté lei stupidamente. Erik esibì una smorfia di superiore sarcasmo: “Sapete che cos’è una sfinge, mademoiselle?”
Vivian gli lanciò un’occhiataccia: “Non sono così ignorante, monsieur”.
“Perdonatemi” dal tono, non sembrava affatto rammaricato: “Il fatto è che se ne sente parlare assai di rado in Francia, e credevo che…”
“Credevate male” la ragazza distolse rabbiosamente il viso, facendo sì che i capelli lo nascondessero, umiliata di essere trattata con condiscendenza perfino da lui: “So leggere e scrivere fin da quando ero piccola, e m’è capitato di incontrare il termine varie volte. Se non ricordo male, ha a che fare con l’Egitto e le piramidi, e si riferisce ad un monumento che ha corpo leonino e testa di donna”.
“Molto brava” il commento dell’uomo fu alquanto acido, quasi fosse stato un professore che assiste alla prima interrogazione positiva della sua allieva peggiore: “Ma si racconta una leggenda circa questa figura mitica che vive da migliaia di anni. Secondo la tradizione egiziana e greca, la sfinge si metteva a difesa dell’ingresso di città, fortezze e regni e a chi desiderava passare proponeva un indovinello. Se la persona interrogata dava la risposta giusta, la sfinge la lasciava passare, ma in caso contrario la uccideva”.
A quest’ultima uscita, la ragazza si sentì la gola secca. Proprio come Erik aveva predetto, stava iniziando  pentirsi di aver accettato il suo gioco sadico ed era finalmente consapevole che per lei le conseguenze sarebbero state assai più drastiche di un’ammissione di sconfitta. Se non avesse portato a termine la prova, sarebbe morta. Il solo pensiero la fece vacillare.
“Vi sentite bene, mademoiselle?” il tono di Erik non era privo di una certa dose di sadismo. Vivian lo odiò con forza terribile, esattamente come l’aveva odiato quando le era scivolato alle spalle il giorno prima e l’aveva vincolata con il suo cappio, e dovette compiere un titanico sforzo di volontà per impedirsi di avventarsi su di lui con un urlo. Egli era dunque un vero mostro, e dei più crudeli! In fin dei conti, gli aveva chiesto soltanto ospitalità per qualche tempo…meritava di morire per questo?
Ingoiò tutta la sua disperazione e annuì seccamente: “Sto benissimo”.
“Meglio così, perché dovrete mostrare carattere nel corso della prova che vi attende” indicò la porta collocata innanzi a loro con un gesto vago. Vivian la fissò con timore muto: “Che cosa devo fare?”
“Oh, il vostro obiettivo è semplicissimo. Adesso voi entrerete in questa stanza e verrete educatamente chiusa dentro. Non avrete modo di utilizzare la stessa porta per uscirne, perché io la sbarrerò con una delle chiavi di cui dispongo. Tuttavia non disperate: dall’altra parte della camera c’è un altro ingresso, che vi condurrà direttamente al salone principale della Dimora sul Lago”.
Questa semplicistica spiegazione non aveva rassicurato affatto la ragazza, anzi, la sua inquietudine era addirittura cresciuta. Nel mezzo di quelle parole suadenti si nascondeva la trappola mortale, l’impedimento che non le avrebbe permesso di utilizzare l’ingresso secondario, e se quella camera era stata chiamata Stanza della Sfinge, un motivo doveva pur esserci!
“Non abbiate quell’espressione atterrita, mademoiselle Carré” il suo tremendo accompagnatore le portò dietro l’orecchio un ricciolo ribelle che le era caduto sulla fronte, provocandole un sussulto di sorpresa, e le fece un sorriso da lupo: “Non vi accadrà nulla di male, se saprete agire con saggezza e senso pratico”.
“Siete un bugiardo” bisbigliò, furiosa e sull’orlo delle lacrime, ritraendosi bruscamente dal suo tocco: “Mi avete portata qui sapendo dal principio che avrei perso”.
Gli occhi di lui brillarono: “Vi arrendete?”
“Niente affatto” fronteggiò la porta con i pugni stretti e le labbra distorte in una smorfia: “Non è nella mia natura, monsieur”.
 
La Stanza della Sfinge era di pianta quadrata ed aveva un soffitto molto alto e una pavimentazione accidentata, che costrinse Vivian a rimboccare l’orlo del mantello e a procedere a fatica. Tutto era in pietra nuda e disadorna, senza un solo drappo a coprire quelle pareti pregne di umidità e quel suolo pieno di sfaccettature, e i rumori, compresi i suoi passi, ne uscivano amplificati, echeggiando ovunque come ruggiti. Il tonfo della porta che veniva richiusa alle sue spalle, accompagnato subito dopo dallo scatto secco di una chiave che girava nella serratura, si ripercossero dolorosamente nel suo cuore e si fece avanti timorosa, cercando con frenesia di racimolare il suo sangue freddo.
Si trovava lì perché l’aveva scelto, non perché il Fantasma dell’Opera l’aveva costretta. E stava per affrontare una prova grazie alla quale si sarebbe conquistata un biglietto d’ingresso per la Dimora sul Lago, della durata di dieci giorni e compreso di una discreta possibilità di mettere nel sacco il suo avversario.
Ma se avesse fallito, se non fosse riuscita a portarla a termine, l’attendeva la morte. E non aveva alcun dubbio sul fatto che sarebbe stata lenta e dolorosa. Il suo ospite non era tipo da lasciare niente di intentato. Chiuse gli occhi, poiché le era quasi impossibile distinguere alcunché di quella stanza avvolta dalla più completa oscurità, e si appoggiò pesantemente al muro, posando la fronte sudata sulla pietra gelida e liscia e imponendosi dei profondi respiri. Forse era troppo, per lei. Forse si era sopravvalutata. In fondo, aveva subito un’aggressione appena qualche ora prima e non aveva chiesto di meglio che cacciarsi in un’altra situazione pericolosa. Cosa avrebbero pensato quelle poche persone che avevano a cuore la sua sorte, se non fosse più tornata? Madame Lefevre non si sarebbe addolorata troppo…non si era fatta il minimo problema a mostrarle quanto la considerasse strana e inopportuna. Ma Emma… la sua dolce, piccola Emma…la sua amica…come si sarebbe sentita?
“Dio, mi dispiace” sussurrò al nulla con voce rotta, nascondendosi il volto fra le mani: “Mi dispiace…devo farlo!”
“Ascolta attentamente, ragazza”.
La voce che risuonò con potenza inaudita nel profondo silenzio provocò alla poverina un autentico soprassalto di terrore, spingendola a saltare sul posto con un piccolo strillo e ad inciampare nell’orlo del mantello troppo lungo. Cadde sul didietro sul pavimento irregolare e le sue mani si abbatterono dolorosamente nel mezzo dei lastroni frastagliati, graffiandosi. Tuttavia non avvertì quasi il dolore della caduta, presa com’era da quel nuovo e terribile pericolo, e alzò immediatamente gli occhi sbarrati sul punto da cui era scaturita la voce tonante e gutturale. Si fece ancor più pallida di quanto già non fosse e la mano corse a coprire la bocca, in un moto di orrore e di meraviglia insieme.
Dinnanzi a lei, piazzata a difesa di una porticina del tutto uguale a quella che aveva appena oltrepassato, c’era l’impressionante riproduzione di una sfinge egiziana.
Il monumento, in pietra chiara e dell’altezza di circa dieci metri, occupava l’intera parete di fronte all’ingresso principale e la ostruiva con la sua mole, le possenti zampe leonine piantate con risolutezza ai lati dell’uscio che custodiva. Il corpo da leonessa, accovacciato in una posizione di languido riposo, sosteneva la grossa testa di una donna umana dalle labbra tese in un sorriso enigmatico e dai capelli raccolti sotto uno splendente copricapo. Due rubini erano stati incastonati laddove erano collocati i suoi occhi  e uno smeraldo di dimensioni più piccole le faceva da naso, facendo sì che il suo volto scintillasse vivacemente nell’oscurità. La bocca era spalancata, come se la creatura stesse per divorare qualcosa, e la voce ne era uscita amplificata e innaturale, ma riconoscibile perfino così deformata.
Il geniale e terribile Fantasma dell’Opera, attraverso un gioco di suoni che Vivian non riusciva a comprendere, prestava la propria mutevole voce all’enorme sfinge e tutta la stanza vibrava sotto la potenza di quelle tonanti parole, intensificandone la gravità.
Superato il primo istante di assoluto stupore, la ragazza s’accorse che a destra e a sinistra del monumento erano stati collocati due piccoli piedistalli sui quali erano poggiati dei morbidi cuscini di velluto rosso. Il particolare curioso, notò con spaventato interesse, era che sopra questi cuscini risaltavano due statuette in ebano veramente ben costruite, che ritraevano, con precisione inquietante, uno scorpione e una cavalletta. Le bestiole, tanto innocue all’apparenza, parevano ammiccarle con malignità dai loro piedistalli di marmo, e se non fossero state così vicine alla tremenda sfinge, probabilmente Vivian si sarebbe arrischiata a toccarle.
Sapeva d’avere davanti un semplice monumento, sapeva che era stato il suo ospite a parlare attraverso la sua bocca, ma la visione dell’enorme leonessa dalla testa umana l’aveva paralizzata completamente e la vedeva ormai come una vera figura mitica, al punto che non avrebbe osato accostarsi alla porta che custodiva, ovviamente sbarrata. Che però costituiva la sua unica via di uscita da quella stanza: se non avesse trovato il modo di aprirla, avrebbe perso la prova, e le conseguenze non avrebbero tardato troppo a verificarsi. Ma come…
“Ascolta attentamente” ripeté la voce tonante e amplificata che scaturiva dalla bocca spalancata della sfinge, tanto alta da portarla a turarsi le orecchie con le mani: “Hai già avuto modo di vedere che accanto a me sono state collocate due graziose statuette fabbricate in Giappone, due imitazioni che ai miei occhi corrispondono, lo scorpione ad un sì, la cavalletta ad un no”.
Non c’erano dubbi, a parlare era proprio il Fantasma dell’Opera. Doveva essersi recato in un punto segreto a lei ignoto e da lì, tramite un’apparecchiatura complessa, discorreva attraverso la bocca della sfinge. Quei toni possenti e innaturali dovevano esser stati progettati sia per terrorizzare la vittima che cadeva preda del Gioco della Sfinge, sia per conferire al monumento un’aura ulteriormente mitica, particolare, quello, che evidenziava ancora di più l’innata passione per la pompa del folle musicista. Vivian, atterrita dinnanzi al suo genio sorprendente e ineguagliabile, fissava la gargantuesca sfinge con gli occhi sbarrati nel viso livido e le mani convulsamente congiunte sul seno, come se si stesse appellando ad una divinità chiedendo salvezza, e gemeva ogni volta che quei potenti suoni emergevano dalle fauci spalancate. Solo adesso comprendeva davvero in che guaio si era cacciata, solo adesso si rendeva conto d’aver superato, definitivamente e senza possibilità di tornare indietro, il punto di non ritorno. E tutto per un puerile capriccio, per una maledetta ossessione!
Intanto la sfinge proseguiva: “La porta che custodisco è chiusa e invalicabile, ma se risponderai correttamente ad un semplice indovinello e girerai la statuetta che corrisponde alla soluzione giusta, il meccanismo cesserà di funzionare ed essa si aprirà per te”.
La poverina ansimò, indietreggiando lontano dal mastodonte per cercare rifugio dall’altra parte della spoglia stanza. La sua schiena scossa da tremiti incontrò la superficie solida della porticina da cui era entrata e la sua mano si avvolse istintivamente intorno alla maniglia, provando a girarla. Ma ovviamente non si aspettava davvero di poter uscire da quella trappola mortale in maniera tanto semplice, e infatti le rispose solo lo scatto sadico della serratura sbarrata. Gemette, ripiegandosi sotto il peso del più nero sconforto e chinando la testa in modo che i capelli le ricadessero sul viso come una cortina. In quella posizione di profonda prostrazione, con la schiena curva e il collo piegato in avanti, la si sarebbe potuta scambiare per la personificazione della Paura, atterrita dinnanzi a quella dell’Orrido.
I due scintillanti rubini che costituivano gli occhi della sfinge parevano studiarla con altezzosa superiorità, simili a quelli di una bestia immensa ed enorme che, accovacciata nella sua tana, s’accorgeva con placido fastidio dell’ingresso incauto di una pulce sciocca e cieca, e che consapevole delle proprie infinite risorse non si preoccupava di abbatterla subito con una zampata ma si dilettava a torturarla con false speranze di salvezza: “Tuttavia non devi sbagliare” continuò, roboante: “Perché se toccherai la statuetta sbagliata, saranno guai per te e per parecchi membri della razza umana”.
Quella postilla, più di tutte, fece sì che una scossa di sorpresa la portasse a riprendersi e si drizzò come un toro punto da un tafano, gli occhi castano scuri illuminati da un bagliore di orrore sconcertato e rabbioso: “Che cosa?!” la voce le uscì orribilmente deformata dalla suprema forma di terrore, gutturale quasi quanto quella della sfinge: “Non erano questi i patti! Avevate detto che ci avrei rimesso soltanto io, se avessi perso la prova! Non potete condannare degli innocenti accollandone a me la colpa!”
Nessuno le rispose, né il Fantasma dell’Opera che senz’altro assisteva ad ogni fase della sua impresa disperata e rischiosa, né il monumento che la sovrastava in tutta la sua mole. L’inganno, la presa in giro di cui era stata fatta oggetto era tanto ingiusto ed orrendo da lasciarla priva di fiato…egli aveva fatto in modo di mettere nelle sue mani la vita di altri esseri umani e di renderla colpevole di una loro eventuale morte, annunciandoglielo quando era troppo tardi per tornare indietro. Era sì pronta a mettere a repentaglio la propria vita nel tentativo di liberare Parigi dalla nefasta presenza di quell’essere, ma non quella di Emma, non quella di Meg e Madame Giry! Adesso che sapeva quanto gravi sarebbero state le conseguenze di una sua sconfitta, sarebbe stata capace di non muovere un muscolo e di rimanere lì per l’eternità, fino a divenire scheletro decomposto e verminoso. Sarebbe stato sempre migliore di provocare la distruzione delle persone che aveva conosciuto e stimato.
“Un’ultima cosa” era una fortuna che la “voce” della sfinge avesse toni tanto disumanizzati, almeno le era impossibile indovinare il divertimento sadico dell’uomo che parlava attraverso di lei: “Hai a disposizione un tempo limitato per dare la tua risposta”.
Un fascio di luce proveniente dal soffitto si accese all’improvviso, ferendole gli occhi abituati dall’oscurità come una lama e portandola a schermarseli con un braccio, e cadde su un tavolinetto celato in un angolo buio, rivelando una splendida clessidra di onice appoggiata sul piano di legno e percorsa da eleganti incisioni, la bolla di vetro superiore piena di una fine sabbia rossa bloccata da una patina impalpabile piazzata nel mezzo. Sarebbe stato un oggetto da ammirare con meraviglia e piacere, ma il cuore di Vivian, nel vederlo, cessò quasi di battere, intuendo il suo significato.
“Quando la sabbia sarà passata tutta nella bolla inferiore, si verificheranno le stesse conseguenze di una tua risposta errata” la informò la sfinge con tranquillità: “Perciò non perdere un solo minuto di tempo, e ascolta con attenzione il quesito che ti pongo”.
La ragazza scosse con violenza il capo, rifiutandosi di accettare le condizioni di quella prova mostruosa e avvampando dentro di una rabbia ustionante e terribile che, purtroppo, non poteva riversare sull’artefice di quel gioco sadico. Si volse verso la porta oltrepassata in precedenza e incominciò a picchiarci contro i pugni chiusi, gridando a squarciagola: “Ho cambiato idea, fatemi uscire di qui!! Non avevate il diritto di propormi una cosa del genere, maledetto assassino, ignobile individuo senz’anima, aprite questa dannata porta! So che siete lì, so che mi state ascoltando! Vi ucciderò! Giuro che vi ucciderò!”
Per quanto stesse mettendo il cuore e l’anima in quelle frasi concitate e in quei colpi che disperatamente abbatteva sull’uscio inamovibile, non convinse il suo aguzzino ad esaudire le sue suppliche minacciose e non ottenne di rinunciare alla prova, anzi, era sicura che lui, ovunque si trovasse, stesse gongolando di piacere nel vedere quanto adesso si pentiva di aver accettato il suo compromesso e che nulla di ciò che avrebbe potuto fare sarebbe stato in grado di muoverlo a compassione. Era ormai troppo lontano dall’umanità per comprendere l’orrore di ciò che le aveva proposto. Eppure era lui stesso un uomo, in fondo! Doveva pur esserci un barlume di ragione, una scintilla di pietà nel suo cuore indurito e insensibile!
“Vi prego, fatemi uscire!” lo sconforto e la disperazione della poverina erano giunti ad un livello tale che sembrò sgonfiarsi di tutto l’ardore e la rabbia e le percosse che vibrava al legno si ridussero a delle lievi carezze, mentre le lacrime prendevano a gonfiarsi nei suoi occhi e si lasciava scivolare a terra, sconfitta e arresa, disposta a tutto pur di non dover decidere della vita degli abitanti del teatro: “Farò tutto quello che volete…me ne andrò…partirò da Parigi…potrei…addirittura…” ebbe un’esitazione, sconvolta da ciò che le era balenato alla mente, ma il pensiero di Emma abbatté l’ultima barriera di resistenza: “…fare delle cose…per voi…concedervi…di toccarmi…”
Il suo volto si arroventò a fronte di quell’umiliazione terrificante, di quell’affronto alla sua dignità di donna, ma ancora il fantasma non si fece sentire, e questo silenzio da parte sua, addirittura dopo che gli aveva concesso una cosa del genere, le fece ancor più male della rivoltante prova che aveva architettato. Si era infangata per lui, e non l’avrebbe mai dimenticato.
Non aveva alternative. Doveva affrontare la prova.
Si alzò sulle gambe che quasi non la sorreggevano, un sapore di bile in bocca e negli occhi lo sguardo spento e rassegnato di chi ha perduto ogni speranza, del naufrago che affonda lentamente nel gelido oceano, e si disfece del mantello che il Fantasma dell’Opera le aveva prestato con disgusto, gettandolo sul pavimento e rimanendo con quei pochi brandelli di vestito che a malapena la coprivano. Le sembrò più dignitoso del continuare a tenere addosso un indumento che apparteneva a quel mostro. Annuì in direzione della sfinge, un impercettibile moto del capo, e si passò le mani tra i ricci come se desiderasse schiarirsi le idee, allontanandoli dal viso pallido.
Subito l’enorme fiera, con tono roco e cadenzato, a guisa di una bambina che recita una filastrocca, fece risuonare la stanza dell’indovinello scelto per lei:
 
La mia stagione preferita è senz’altro l’estate,
il mio cuore è di pietra ma non disperate,
se mi taglio piango lacrime rosse come il sangue
e alla lunga se non m’ami divengo esangue.
Dimmi, ragazza, dolce io sono?
Sì o no; se sbagli non perdono!

 
“Sì o no?” Vivian si ripeté nella mente quelle due parole con istupidita isteria, al punto che persero pian piano il loro significato e si limitarono a martellarle il cranio con la ferocia dei becchi dei corvi mangiatori di carogne. La sua mente sconvolta dallo choc le tramutò rispettivamente nello scorpione e nella cavalletta e le parve di averceli davanti in carne ed ossa, non sotto forma di statuette d’ebano, e che saltellassero malignamente intorno a lei canticchiando il primo la risposta corrispondente a sé medesimo, il secondo l’altra. Era troppo sconvolta, troppo consapevole delle conseguenze della sua scelta per ragionare come si deve, le veniva da ridere e da piangere e da rotolarsi sul pavimento e sul palato avvertiva il gusto salato delle lacrime. Allo stesso tempo, però, percepiva ogni accadimento all’intorno, e colse subito un lieve clac dalle parti della clessidra e la sabbia rossa che iniziava, granello per granello, a scivolare nel ripiano inferiore, scandendo il tempo che le era stato concesso.
I suoi occhi fecero la spola tra essa e le due riproduzioni appoggiate sui piedistalli varie volte, le pupille dilatate al punto che le iridi erano divenute invisibili e gli zigomi cosparsi di grosse gocce di sudore che le colavano con lentezza esasperante dalle tempie al mento, e poi dal mento ai seni semiscoperti. Il suo cuore batteva a tempo con la sabbia nella clessidra, pompandole sangue nelle orecchie con violenza forsennata, e il cervello le ronzava come un’ape, oscillando tra la follia e la disperazione. Aveva paura per se stessa, per Emma, per il modo in cui sarebbero tutti morti, a lei sconosciuto, ed era sicura che, se ciò si fosse verificato, avrebbe trovato aperte le porte dell’inferno. Un’assassina, seppure involontaria, non meritava di finire in paradiso.
“Calmati, calmati. Non è ancora detta l’ultima parola. L’indovinello deve portare ad una soluzione semplice, una sola parola, che poi ti condurrà a decidere se è dolce o meno. Sono tutti così. Devi solo concentrarti e vedrai che ci arrivi”.
“No, non ci arriverò. Il tempo è troppo poco. Non sono brava a risolvere gli indovinelli. Per le faccende pratiche sono portata, ma quando si tratta di impiegare il ragionamento intuitivo cado miseramente. Moriremo tutti”.
“No, invece! Non gli darai questa soddisfazione, non gli permetterai di farti questo! Ne va della tua dignità!”
“La mia dignità l’ho persa nel momento esatto in cui ho accettato di partecipare a questa follia”.
Il suo monologo interiore stava divenendo sempre più sconclusionato e privo di senso. La sabbia rossa, nel frattempo, proseguiva la sua discesa senza tener conto dell’angoscia che la divorava, e la bolla inferiore ne era piena ormai per metà. La sfinge taceva, le zampe ancorate accanto alla porta della sua salvezza, e le statuette parevano attendere lei, ammiccandole dai cuscini.
“Maledizione, devo pensare!” si afferrò la testa tra le mani, esercitando una pressione tale sulle tempie che il sangue prese a colarle sulle dita, e richiamò alla mente le parole dell’indovinello, astruse e malevole, che facevano il girotondo dentro di lei prendendola in giro.
“La sua stagione preferita è l’estate…ha il cuore di pietra…piange lacrime rosse come il sangue…se non lo ami diventa esangue…che cosa sei, piccolo bastardo?!”
“Io sono io”.
Niente, il suo sconvolgimento era troppo profondo.
“Ha il cuore…piange…una persona? La Madonna, forse?”
“Lei non ha il cuore di pietra”.
“Oh, sì…giusto”.
“E poi, il Fantasma dell’Opera non ti proporrebbe mai un indovinello che ha come soluzione qualcosa legato alla religione”.
“È vero…ma allora…la regina delle nevi? Nella favola che mi raccontava mio padre, aveva il cuore di ghiaccio ma poi, quando condannava a morte l’uomo di cui era innamorata, le usciva una lacrima che lo scioglieva…”
“Buona idea, ma non c’entra nulla con l’estate. Lei viveva in un regno in cui c’era un inverno perenne, non avrebbe mai potuto prediligere una stagione in netto contrasto con quella a cui era abituata”.
Ansimò come una bestia in trappola. Tutto intorno a lei era sospeso, in bilico su un filo di spago pronto a rompersi da un momento all’altro, e la sfinge, il Fantasma dell’Opera, le stesse statuette aspettavano pazientemente che si decidesse a fare la sua scelta, mentre la clessidra adempiva alacre al suo compito, rendendola frenetica e incauta. Lei, da parte sua, era in un bagno di sudore ed aveva raggiunto uno stadio in cui non si è più esseri umani, ma creature avide e bestiali pronte a qualsiasi cosa pur di sopravvivere.
“Non è una persona, sto seguendo la pista sbagliata! Se solo quella dannata clessidra andasse più piano! Mettiamo il caso che la risposta sia sì, che è dolce…cosa può essere dolce? Un bacio? Una carezza? Una morte gloriosa?”
“No, stupida. Un cibo”.
Negli occhi apatici della giovane si accese un vago barlume di speranza e le sue membra contratte parvero espandersi leggermente, trarre energia dal risultato del suo frenetico ragionamento. I granelli cadevano in uno stillicidio di secondi sadici nella bolla inferiore, ne rimanevano pochi, il tempo correva, non la aspettava…
“Il cuore di pietra…non è veramente ciò che sembra, ha senso figurato. È il nocciolo di un frutto. Un frutto dal succo rosso come il sangue…che, se non viene colto, avvizzisce e perde tutta la sua bellezza. Sì! Forse ci sono! Ma che frutto è? Ce ne sono così tanti di questo colore…una fragola? Una prugna? Però, aspetta…la sua stagione preferita è l’estate, quindi matura durante quel periodo”.
Il suo cervello girò intorno all’interrogativo per una manciata di secondi, lo analizzò, poi completò il puzzle in un ultimo sforzo.
“Una ciliegia! Una ciliegia è dolce!”
Si lanciò in avanti con l’impeto del naufrago che ha appena visto una corda lanciatagli da una nave e, mentre ciò che rimaneva della sabbia rossa passava da sopra in giù e si domandava febbrilmente se “ciliegia” fosse l’effettiva soluzione all’indovinello, e se avrebbe salvato se stessa e parecchi membri della razza umana, afferrò lo scorpione e lo girò sul suo asse con un colpo secco, pregando che la porta si aprisse, che avesse portato a termine la prova, che da ora in poi sarebbe venuto il suo turno di far soffrire il maledetto Fantasma dell’Opera…
Per un piccolissimo, interminabile istante, non successe nulla, e si udirono solamente i rumori lontani delle altre alee dei sotterranei e gli ansiti di Vivian. La sfinge la fissava con i suoi occhi scarlatti, immobile e maestosa, lasciandola in trepida attesa.
Poi, reagendo al meccanismo che, ruotando lo scorpione, aveva innescato, accadde ciò che doveva accadere.
 
Erik, nel salone principale della Dimora sul Lago, dal punto in cui era stato in grado di prestare la propria voce al monumento della sfinge, era totalmente sopraffatto dallo stupore e dallo sgomento, e le sue mani guantate, appoggiate sulle ginocchia immobili, erano strette in due pugni talmente violenti che le nocche avevano perduto tutto il sangue.
La ragazza…la ragazza era riuscita a…
Il rumore di una porta che si apriva lo indusse a girarsi con un sussulto quasi, sì, quasi di timore.
Lei entrò dall’ingresso che si era guadagnata con le sue sole forze e si fermò ad una certa distanza da lui. Non superava il metro e settanta ed era in condizioni pietose, tra l’abito ridotto a brandelli, i capelli aggrovigliati e il viso congestionato e lucido di sudore, tuttavia aveva un aspetto talmente imponente, talmente vittorioso che pareva altissima, gonfia del suo trionfo e della prova portata a termine, terribile con quegli scintillanti occhi scuri e quel sorriso feroce e rabbioso, simile a quello di una Valchiria o di una guerriera senza scrupoli. Il suo stato disordinato, in quel momento, non faceva altro che conferire ulteriore magnificenza alla sua figura, e per pochi secondi Erik la rispettò, la rispettò davvero, e non fu capace di articolare un suono.
Fu lei a parlare per prima, scandendo ogni parola con quella sua bocca rossa e feroce: “Ho vinto, monsieur Fantòme. Vi ho battuto. E adesso, se non vi dispiace, gradirei che procuraste immediatamente degli abiti decenti e un buon bagno caldo, se non è di troppo disturbo”.

 

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Capitolo 11
*** Convivenza forzata ***


Convivenza forzata
 

 
 
 
Vivian si era ufficialmente stabilita nella Dimora sul Lago, e se non fossero insorte complicazioni ci sarebbe rimasta per dieci giorni, al termine dei quali, come l’aveva informata il suo rabbioso ospite, “sarebbe dovuta scomparire per sempre, non facendo parola con nessuno di ciò che aveva visto nei sotterranei”. Aveva dovuto minacciarla fino all’esasperazione che le ripercussioni di un suo eventuale tradimento sarebbero ricadute su di lei e su parecchi membri della razza umana prima di ritenersi soddisfatto, ed aveva anche aggiunto che, essendo divenuto con il suo beneplacido suo protettore, l’avrebbe tenuta in casa sua nelle condizioni che desiderava e secondo regole stabilite da lui.
Vivian questo non se l’era aspettato, ma per evitare di far crollare definitivamente la labile pazienza del Fantasma dell’Opera aveva accettato, covando dentro di sé il risentimento e l’odio cresciuti in lei dopo che l’aveva sottoposta alla prova della Sfinge. Era evidente, infatti, che egli era stato colto alla sprovvista dal corso degli eventi e che l’ultimo dei suoi desideri era tenerla con sé, e se voleva conquistarsi la sua fiducia e fare in modo che si svelasse, avrebbe fatto meglio a non rendere ancora più forzata quella convivenza e a compiacerlo in tutti i modi per ottenere da lui una maggiore libertà.
Perché al momento, in effetti, non gliene aveva accordata neanche un po’.
Le aveva ceduto la camera da letto in cui si era ripresa dallo svenimento e l’adiacente bagnetto, dove aveva tutto il necessario per provvedere ogni giorno alla sua toletta personale. Però aveva il divieto assoluto di girovagare per i sotterranei (per il suo stesso bene, poiché erano pieni di trappole) e di mettere il naso nella stanza di Erik, vicino alla sua. Egli avrebbe fatto in modo di procurarle tre pasti al giorno, colazione, pranzo e cena, e glieli avrebbe lasciati davanti all’ingresso della sua camera ad orari prestabiliti. Lei avrebbe dovuti prenderli, consumarli e porre nello stesso posto il vassoio vuoto, che lui sarebbe passato a ritirare. Non doveva rivolgergli la parola se non era lui a farlo per primo (ciò, a sua detta, sarebbe stato assai improbabile) né infastidirlo con la sua presenza mentre componeva o lavorava.
In definitiva non era affatto un’ospite, ma una prigioniera, e avrebbe dovuto trascorrere le sue giornate sola nella camera da letto, senza poter uscire e parlare con qualcuno.
“Questo è ciò che vi offro, mademoiselle” aveva sibilato astiosamente il fantasma: “Se non vi aggrada non avete che da dirlo e sarò ben lieto di lasciarvi andare”.
Lei non avrebbe mai potuto cambiare idea dopo aver affrontato la prova della Sfinge. Ma aveva compreso subito che riuscire nel suo piano sarebbe stato assai arduo: per farlo, era necessario avere una maggiore libertà di movimento e numerose occasioni di conversazione con il proprietario della Dimora sul Lago, invece le erano preclusi entrambi.
Esattamente come il carcerato condannato all’ergastolo, se li sarebbe dovuti guadagnare con la buona condotta.   
In ogni modo, cercò di incominciare il suo soggiorno con lo stato d’animo più positivo e i propositi più solidi e venne fornita di biancheria intima pulita e di qualche abito dal suo silenzioso ospite, uscito un attimo a comprarglieli e presentatosi con la solita espressione cupa e l’immancabile mezza maschera bianca sulla soglia della sua camera. Glieli aveva gettati contro con disprezzo, senza guardarla, ed era subito andato via dicendole gelidamente: “Indossateli”.
Abituarsi ai suoi terribili modi di fare sarebbe stato difficile anche per un’anima mite, dolce e accomodante, ed era pressoché impossibile per la focosa Vivian, la quale doveva continuamente trattenersi dal rispondergli a tono o dall’esprimere il suo risentimento. Taceva, indignata, ricordandosi appena in tempo che se avesse agito con coscienza gli avrebbe inflitto un colpo dei più duri, vendicandosi dei torti che le aveva fatto. Doveva pensare al futuro, ingoiare la bile e sperare. Perciò si era presa i vestiti che, sospettava, egli doveva aver rubato (ora che era ricercato e con quell’aspetto insolito non sarebbe potuto entrare naturalmente in un negozio) e li aveva sistemati nella polverosa cassaforte ai piedi del letto a baldacchino. Odorava di vissuto, la stanza divenuta adesso la sua cella, e la prima notte, coricandosi con una certa riluttanza tra le lenzuola rifinite di pizzo e le pesanti coperte, aveva avvertito su di esse un profumo femminile, una di quelle fragranze che, anche se non ne conosceva la proprietaria, la induceva a credere che fosse una donna giovane e molto bella. Dunque le era stata assegnata la camera in cui aveva dormito Christine Daaé, l’antico amore del Fantasma dell’Opera! Come si sentiva, lui, ad avere un’altra ragazza di quell’età nella Dimora sul Lago?
Ovviamente non osò domandarglielo. La cantante era una delle tante cose non dette che gravava su di loro, e quell’innato sesto senso nascosto in ognuno di noi suggeriva a Vivian di evitare accuratamente l’argomento, tabù quasi quanto quello del mistero della maschera che l’uomo indossava a tempo pieno. Non aveva più fatto osservazioni in proposito, abituandosi a quel particolare bizzarro, ma era profondamente incuriosita e avrebbe voluto vedere cosa il suo ospite nascondeva con tanta scrupolosità. In un primo momento aveva supposto che egli si servisse di quell’oggetto come di un costume, per rendere più credibile la sua mascherata da fantasma, ma adesso, notando che non se la toglieva nemmeno nella solitudine dei suoi domini, aveva accantonato l’ipotesi. Perché era così morbosamente attaccato a quella patina perlacea? Quella parte di volto costantemente scoperta non era affatto male, per quello che Vivian riusciva a giudicare, per quale motivo doveva dimezzarlo?
I misteri che lo circondavano erano numerosi e affascinanti, e lei aveva solo dieci giorni a disposizione per venirne a capo. Poi, se non voleva condannare a morte certa se stessa e parecchi membri della razza umana, non sarebbe più potuta tornare alla Dimora sul Lago.
 
I primi tre giorni, in effetti, furono un fallimento sotto ogni punto di vista.
Purtroppo per Vivian, il suo temperamento era per natura amante della libertà e degli spazi aperti e scalpitava come un animale in gabbia nell’atmosfera soffocante della camera, accrescendo la sua noia, il suo fastidio e la sua indolenza e rendendole quasi impossibile l’idea di dover trascorrere la settimana a venire in quella maniera terribile. Non viveva bene circondata da quattro mura, e le capitava spesso di pentirsi d’essersi imbarcata in quell’impresa e di indugiare con nostalgia sui ricordi delle sue scampagnate ad Annecy, sui bagni nel fiume irruento, sulle battaglie a palle di neve, sulle passeggiate al chiaro di luna per i sentieri campagnoli. Quel luogo le era rimasto nel cuore, le provocava sensazioni assai più piacevoli di Parigi e le mancava ancora di più adesso che viveva come una prigioniera.
Nella sua attuale sistemazione, non aveva molti svaghi con cui passare il tempo e soffriva per la mancanza di compagnia. Non che vantasse molti amici all’esterno, ma le sarebbe piaciuto poter parlare con qualcuno per confidargli tutte le peripezie che le stavano capitando, e il silenzio tombale che imperversava perpetuamente nella Dimora sul Lago le pesava come un macigno; non si poteva dire che il Fantasma dell’Opera, di cui non conosceva neanche il vero nome, fosse un tipo chiassoso. Non lo vedeva e non lo sentiva quasi mai, si chiudeva per quasi tutta la giornata nel suo studio e vi rimaneva fino a sera, dedicandosi a progetti che non avrebbe mai voluto apprendere. Agli orari che aveva scelto per consegnarle i pasti le lasciava un vassoio pieno di cibo sulla soglia della stanza da letto e si eclissava prima che lei andasse a ritirarlo, sfuggente come uno spettro. La qualità del nutrimento, doveva proprio ammetterlo, era ottima, anche se non riusciva ad immaginare dove potesse procurarsi pietanze così prelibate.
A colazione aveva tè caldo con biscotti al miele, frittelle, riso soffiato, pane con burro e marmellata e latte riscaldato, a pranzo poteva gustare una deliziosa ala di pollo innaffiata con del Tokai e circondata da gamberetti freschi e a cena aveva soufflé, stufato bollente e torta ai mirtilli. Ripuliva tutto quanto da cima a fondo, non curandosi del galateo che prevedeva che una signorina non fosse mai ingorda (suo padre le aveva insegnato ad apprezzare le poche cose che la sorte le aveva concesso), e non disdegnava il vino, offertole in un bicchiere, né il cordiale che quasi sempre accompagnava la sua cena per aiutarla a digerire. Il menu del giorno veniva deciso dal Fantasma dell’Opera, ma almeno in quello, la ragazza non ebbe mai di che lamentarsi, poiché anche i piatti più complicati le risultavano graditi. Gli unici sprazzi di luce in quella prigionia oscura erano proprio i momenti in cui si apprestava a mangiare. Ed era una fortuna che fosse sempre stata una buona forchetta.
Ma per il resto conduceva un’esistenza piatta e monotona e si atteneva alle regole impostele dal suo ospite, allo scopo di dimostrargli che quando voleva sapeva essere accomodante e degna di fiducia. Purtroppo, però, lui non le dedicava quella giusta dose di attenzione che avrebbe potuto favorire il suo piano e trascorreva il tempo adempiendo alle solite faccende, comportandosi come se lei non esistesse e tenendosi costantemente lontano dalla sua stanza da letto. Si sarebbe detto che la stesse evitando, se solo non lo avesse fatto con tale naturalezza e tranquillità.
Di questo Vivian era sbalordita. Sapeva fin dall’inizio di non contare nulla per lui e di avergli estorto controvoglia quell’ospitalità, ma aveva pensato, in un primo momento, che egli cercasse comunque di approfittare della presenza di una fanciulla mediamente attraente, dato che a quanto pare per lui era un evento raro. Un uomo era pur sempre un uomo, e le loro camere erano separate da appena qualche passo…non che lo sperasse, ma si era aspettata di vederlo reagire in qualche modo a quella situazione. Invece non pareva dare troppo peso alla cosa e non mostrava alcun segno di turbamento. Da una parte ne era rassicurata, sarebbe stato spiacevole fronteggiare delle molestie, ma dall’altra la sua autostima s’era un po’ abbassata. Era davvero così poco desiderabile da non indurre un uomo che si era tenuto lontano dalle donne per anni a reagire alla sua presenza perpetua? A meno che non si fosse convinto di volersi scindere definitivamente dal resto dell’umanità e, quindi, anche dalle brame carnali. Da certi suoi discorsi e da brandelli di frasi colti nel mezzo di quelle poche conversazioni che avevano sostenuto, era tesa a propendere molto per quest’eventualità.
Un’eventualità patetica. Non si poteva abbandonare la propria identità per tramutarsi in una figura mitica, per quanto forte potesse essere la convinzione di non essere più un umano, la natura non cambiava. Egli era un povero illuso, se credeva davvero di riuscire a strapparsi di dosso emozioni e desideri umani per convertirsi totalmente al suo oscuro lato di fantasma. Non sarebbe sfuggito al suo passato rifiutandolo in blocco. E nella sua corazza di spettro vendicatore, nel suo glaciale contegno doveva esserci una crepa, una falla in cui lei si sarebbe potuta infilare…un segno di debolezza umana…
La cosa migliore da fare era attendere il momento giusto e colpire quando la vittima era più vulnerabile.
Perciò, frugando l’unico posto in cui le era permesso muoversi liberamente, aveva trovato in un cassetto interno del tavolino accanto al letto una serie di immacolati fogli di carta da lettere, una boccetta di inchiostro e un pennino luccicante. Il giorno in cui era stato messo in atto il “Re degli Elfi” aveva iniziato a comporre una canzone di sua invenzione e aveva trascritto delle note su un diario custodito in casa di Madame Lefevre. L’atmosfera in cui viveva adesso era ottima per quel genere di occupazione, la sua fantasia correva più fervida che mai e in assenza di altri svaghi, decise di continuare quello che era partito come un semplice, ozioso gioco.
La melodia partiva con toni allegri e spensierati, descrivendo l’ingenuità e il candore di un’anima che del mondo non aveva visto alcunché e che non aveva idea di cosa fossero l’amore, la paura, l’odio e le ingiustizie, ma poi, di punto in bianco, assumeva una sfumatura d’angoscia, quasi di disperazione, allorché un evento inaspettato sconvolgeva le certezze della suddetta anima, precipitandola in un baratro di dubbi e di timori. Essa cercava freneticamente un’ancora che le permettesse di risalire, di affrontare l’oscurità che aveva intorno, ma era sola in un mare di guai e non riusciva a squarciare il velo di ombre che nascondeva la verità e a portarla alla luce.
Tracciare note su quei pentagrammi le risultava più facile di quanto si sarebbe aspettata. Non era lei a muovere la penna sul foglio, era la penna stessa ad essersi impossessata della sua mano e a spostarla con frenesia su e giù, dando vita ad un’armonia di suoni e di accordi che, Dio la aiutasse, non erano affatto male! Tanto era presa dall’estasi musicale che sembrava averla posseduta da non rendersi conto del tempo che passava, e continuò a scrivere note su note fino ad avere le dita doloranti, intingendo la punta del pennino nell’inchiostro a intervalli regolari e chinandosi immediatamente per riprendere il lavoro. Ben presto fu necessario accendere almeno cinque candele (non a causa di un accrescimento del buio, dal momento che nei sotterranei vigeva una notte perpetua, ma perché i suoi occhi erano più stanchi di prima) ma la giovane non cessò di comporre, avvolta in una camicia da notte bianca a maniche lunghe e con i capelli sciolti sulle spalle in preparazione al sonno, accesi di riflessi rossastri sotto i riverberi delle fiammelle. I suoi intensi occhi scuri, abbassati sul quinto foglio, avevano le cornee arrossate dalla stanchezza e le sue lunghe ciglia corvine le ombreggiavano le gote, mentre la mano che stringeva il pennino, chiazzata di inchiostro, tracciava note con volontà propria. Alla fine si fermò, rossa in volto, e sollevò i fogli con ambedue le mani per osservarli con stupore, quasi non credesse di esserne l’artefice.
“Mi prenda un colpo se non è vero” sussurrò a se stessa: “Ma sembra un buon lavoro”.
Era un po’ presto per dare giudizi, c’era da ammetterlo. La canzone era solo a metà e un’opera andava valutata nella sua totalità, però…però la parte che aveva composto quel giorno, il secondo nella Dimora sul Lago, era più che il delirio solitario di una ragazza prigioniera nelle viscere della terra. Poteva essere chiamata vera musica.
In tutta la sua breve vita, sebbene avesse appreso a suonare discretamente il pianoforte, aveva sempre saputo d’essere priva di quel talento musicale in cui sua madre si era tanto distinta. Era lei la stella, lei la diva che aveva fatto impazzire l’Opéra Garnier, lei quella meritevole di onori e di applausi. Vivian non era altro che la sua sbiadita copia, il frutto della sua scandalosa relazione con l’uomo che le aveva preso la verginità e l’onore, la poveretta alla quale una signora gentile aveva fatto la carità di introdurla in quel celebre teatro ma che mai avrebbe eguagliato l’insormontabile talento materno. Non sarebbe mai riuscita a superare la linea di demarcazione tra semplice musicista e vero artista e nessuno avrebbe ricordato il suo nome, seppellito sotto quello ingombrante e prestigioso di sua madre.
Ma quell’abbozzo di canzone…quelle note scaturite d’istinto, senza logica, in un afflusso continuo e ininterrotto…non erano il goffo addestramento di una pianista di mediocre bravura. Erano qualcosa di più. E lei…
Le possenti note di un organo si infilarono nella sua stanza silenziosa e la distolsero dai suoi pensieri, spingendola a nascondere con strana paura i fogli densi di note nel cassetto del comodino, come se avesse avuto il timore di perderli o di farseli portare via. Erano suoi, la sola cosa che le apparteneva completamente, e ne avrebbe custodito l’esistenza con cura, senza lasciarli vedere a nessuno. Chiuse il pennino in fretta e furia e si strofinò inutilmente le mani nel tentativo di eliminare gli aloni scuri che le avevano imbrattate, arrossendo come se l’avessero sorpresa a fare qualcosa di illecito. La musica che scivolava nell’aria fino a lei era indubbiamente quella sublime e straziante del Fantasma dell’Opera, ma se la volta precedente aveva eseguito un pezzo di sua invenzione, adesso suonava e cantava l’aria dell’Otello, celebrando con intensità quasi dolorosa il furore, la gelosia, la follia omicida del moro di Venezia. L’intera dimora pareva vibrare insieme al lamento incontrollabile di quell’anima impetuosa e passionale pronta ad avventarsi sulla timida Desdemona e la ragazza non poté che rimanere catturata da quell’esibizione solitaria.
Il fantasma metteva un tale sentimento nelle note e nella voce da indurla a credere che avesse sfiorato gli stessi stati d’animo del personaggio che andava a interpretare, e l’astio dell’innamorato geloso e disperato con cui si scagliava contro la moglie indifesa era tanto sentito che temette che potesse riversare la sua furia su di lei, e che sarebbe caduta sotto quella gragnola di colpi invisibili inferti solo con la musica. Si alzò lentamente dalla sedia sulla quale era rimasta seduta tanto a lungo, accompagnata dal sommesso fruscio della camicia da notte, gli occhi fissi sulla tenda di broccato che la separava dal salone in cui nasceva quella musica ultraterrena, e senza deciderlo razionalmente, senza che la mente le ordinasse di farlo la scostò da una parte, legata alle note strazianti da un filo impalpabile che la tirava inesorabilmente alla loro fonte. Aveva bisogno di vedere Otello, di implorare il suo perdono per addolcire la sua magnifica voce alterata oltre i limiti del possibile, perché non poteva che essere il moro colui che in quel momento cantava in quel luogo dimenticato da Dio.
Individuò, palpitante e rapita, l’angolo nel quale era collocato l’enorme organo e la figura del Fantasma dell’Opera, girata di spalle e stagliata in controluce, cosicché appariva soltanto come un’ombra scura. Avvolto nell’ampio mantello nero che s’era ripreso e con quei lucidi capelli castano scuri che, fermandosi all’altezza della nuca, non lasciavano intravedere neanche una striscia di pelle, assomigliava davvero al moro di Venezia e le sue membra erano scosse da visibili tremiti mentre le dita pestavano furiosamente i tasti e la voce saliva e scendeva in un’imitazione perfetta di ira allo stato puro, mescolando amore e odio, delusione e incontrollato furore. Egli era talmente assorto dalla musica che andava a plasmare da non notare il silenzioso ingresso della sua ospite, la quale, con un timore muto e reverenziale, si fermò a pochi passi dalla propria camera da letto, per non disturbarlo e per godere appieno di quella magnifica esecuzione.
Sua madre le aveva spesso raccontato del successo ottenuto quando aveva interpretato Desdemona durante una replica dell’Otello, e della candida intensità con cui aveva reso onore al celebre personaggio della povera fanciulla innocente e devota, che persino a fronte dell’ingiusta rabbia accusatoria del consorte chinava la testa e non muoveva obiezioni, cadendo come un fiore reciso sotto la pressione insopportabile di quel famoso cuscino. Amava soffermarsi sulla reazione entusiastica del pubblico, sulle rose che erano piovute da ogni parte e sulle eccellenti critiche, e provava un gusto competitivo nel rimarcare il fatto ch’aveva ampiamente superato il tenore che vestiva i panni di Otello, più vecchio e allenato di lei, ma privo del suo talento naturale.
Che cosa avrebbe mai potuto dire, la grande Amélie Carré, di quell’interpretazione? Il suo talento naturale, il suo candore non avrebbero potuto nulla contro il furore meraviglioso del Fantasma dell’Opera, contro quella voce angelica capace di ridurre al silenzio persino i canti dei serafini, e Vivian non aveva dubbi sul fatto che chiunque, persino lei, sarebbe fuggito o svenuto dinnanzi ad una personificazione così realistica del furioso Otello. Una musica così, se assaporata in eccesso, era capace di logorare l’anima e cambiare per sempre i pensieri, di far deperire le guance e smagrire le membra, e lei, avendone goduto solamente due volte, già si sentiva mancare e venir meno le forze.
“Dio mio” pensò, fremendo sotto la camicia da notte insieme alla voce del moro: “Costui non è certo un semplice essere umano!”
Quando la romanza raggiunse il punto culminante, quello in cui Otello, superato ogni stadio di ragione, s’avventava sulla moglie atterrita e piangente e le copriva il povero viso con il bianco guanciale, qualcosa in Vivian si spezzò ed ebbe la certezza che non sarebbe riuscita a sopportare una bellezza così terribile: “Fermatevi…vi prego!” disse senza pensare, e il suo tono non era quello d’un’ascoltatrice rivolta ad un musicista, bensì di una persona decisa a tutti i costi ad impedire un omicidio: “Vi prego!”
Egli reagì con riflessi sorprendenti. Le sue dita si bloccarono di colpo, facendo cessare le note ardenti e angosciose, il canto si spense come se non fosse mai esistito e si drizzò in piedi con un movimento felino, girandosi nella sua direzione con quegli incredibili occhi azzurro scuro accesi da un lampo d’ira: “Vi avevo detto di non disturbarmi mai mentre lavoro!”
Appariva adirato, ma la giovane non mostrò alcuna paura. Appena la musica aveva smesso di addensarsi nell’aria che lei respirava, si era rilassata, con un sospiro lieve e rassicurato e tuttavia una stretta al cuore, sollevata e triste insieme che quel furore si fosse interrotto e che l’infelice Desdemona fosse salva. S’appoggiò alla parete di pietra, le braccia incrociate sul petto in un curioso atteggiamento d’autodifesa, il capo reclinato in avanti, e ritrovò il fiato con fatica, annaspando: “Scusatemi, io…” non riuscì a finire. Non avrebbe mai potuto spiegargli che s’era lasciata trascinare al punto ch’era stata sicura che egli avrebbe ucciso davvero l’innocente Desdemona.
Erik la studiò con freddezza, chiedendosi il motivo della sua postura atterrita e sconvolta. La ragazza aveva cercato rifugio nella parete alle sue spalle, i fluenti riccioli bruni sciolti fino a metà schiena e il viso leggermente girato di lato nella maniera di una che teme l’arrivo d’una percossa, e aveva le gote rosse e gli occhi lucidi di lacrime che cercava di non lasciarsi sfuggire, il corpo rivestito dalla spessa camicia da notte candida che le aveva procurato due giorni addietro. Oh, sapeva bene che la sua musica bruciava e che era in grado di rimescolare un’anima e consumare un volto fresco, ma il trasporto che le lesse nello sguardo era qualcosa di più profondo di ciò a cui era abituato. La sua ospite l’aveva scambiato davvero per Otello, influenzata dal potere ammaliante delle sue note, ed aveva paura di lui, esattamente come l’aveva avuta la sventurata Desdemona.
…il che, in fondo, era solamente un bene. La sua presenza lì era un fastidio, un inutile ostacolo alla buona riuscita dei suoi piani, e più l’avesse temuto e aborrito, più avrebbe avvertito il desiderio di andarsene, liberando entrambi da un vano fardello. Forse, se fosse riuscito a terrorizzarla sul serio, l’avrebbe persino indotta a tornare in superficie prima del tempo. Conosceva molti modi per farlo; togliendosi la maschera, ad esempio, o costringendola ad ascoltare le sue musiche più terribili e furiose, in cui aveva riversato tutta la disperazione, l’infelicità, il desiderio insoddisfatto e la rabbia della sua lunga vita di mostro. Allora quella vaga paura che le aveva scatenato adesso si sarebbe mutata in qualcosa di assai più concreto e le avrebbe soffiato via dall’animo il suo scomodo ardore, svuotandola con la sua musica e riempiendola solo di orrore, angoscia sofferenza.
Però qualcosa lo frenava. La semplice riluttanza a plasmare una seconda volta l’animo di una fanciulla a suo piacimento, ma con l’intento contrario, dopo ciò che era successo con Christine? Oppure una curiosa stanchezza, un non volersi opporre al destino che aveva voluto sobbarcarlo di quella creatura per dieci giorni?
No, impossibile. Lui non poteva essere stanco, né tantomeno arrendersi al destino che avrebbe voluto lasciarlo in quel buco a marcire per l’eternità. Era il Fantasma dell’Opera, il Figlio del Diavolo, e avrebbe mondato Parigi dalla feccia che la popolava, trionfando sulla crudeltà della gente e ridendo della loro totale disfatta. E l’esperienza di Christine era ormai cosa superata, non veniva certo preso dall’esitazione solo perché allora aveva fallito. Il motivo della sua riluttanza a terrorizzare Vivian era assai più semplice: ella era soltanto un insetto molesto, una sciocca cosuccia incapace di arrecargli il minimo danno, e non meritava neppure un briciolo della sua attenzione e del suo tempo. Impiegando le sue energie nel tentativo di mandarla via, le avrebbe dimostrato considerazione, azione inammissibile da parte sua. Ecco come stavano realmente le cose.
“È tardi, mademoiselle” disse con tono più calmo, tastandosi inconsapevolmente la maschera per assicurarsi che fosse sempre al suo posto: “Sarete senz’altro stanca. Tornate nella vostra camera”.
Lei non diede segno d’averlo udito. Si staccò dal muro sul quale aveva appoggiato la schiena, le labbra tremanti e lo sguardo ancora avvinto dal fascino della celebre ira di Otello, e dovette tentare varie volte prima d’essere in grado di articolare qualche parola: “La vostra musica…la vostra musica è…” scosse la testa, incapace di trovare un aggettivo adatto a descrivere ciò che aveva appena sentito, i respiri affannosi che le sollevavano l’esile torace: “…terribile. Cioè, è…è…terribilmente meravigliosa”.
Erik sollevò un sopracciglio, divertito suo malgrado. Terribilmente meravigliosa? Nessuno, finora, aveva mai definito in quella maniera il parto della sua geniale mente. Né Christine, che si era servita di lui per migliorare le sue capacità canore e che aveva permesso all’orrore per il suo volto sfigurato di cancellare gli incanti che traeva da ogni strumento, né Madame Giry, la quale, in proposito, s’accontentava di osservare con una sorta di mesta desolazione “è un genio”. La ragazza che adesso lo contemplava combattuta tra diffidenza e ammirazione gli stava facendo senz’altro un complimento, ma non si prese la briga di ringraziarla. Era più che naturale che la sua musica fosse riuscita a stregarla.
“Perché non l’avete mostrata a qualcuno?” insistette Vivian, riprendendosi gradualmente e chiedendosi perché quell’individuo, anziché regalare al mondo la sua celestiale bravura, si fosse rinchiuso in quella caverna sotterranea e s’accontentasse del suo ruolo di spettro assassino: “Potreste essere un compositore e un musicista di fama internazionale, monsieur! Verrebbero ad assistere alle vostre esibizioni da ogni parte del mondo!”
Lui sorrise amaramente, lasciando scorrere le dita guantate sui tasti dell’organo: “Non credo proprio, mademoiselle. A volte neanche il talento più evidente può mutare l’opinione che il mondo ha di te”.
Lei tacque, assimilando il significato di quelle parole. Esaminandolo con attenzione, si disse che c’era qualcosa che egli nascondeva dietro al suo atteggiamento freddo e spietato, un sottofondo che tradiva un dolore e una disillusione talmente potenti che ben pochi avrebbero potuto comprenderli appieno. E non era affatto giustificato, ma forse la sua storia era più complicata di ciò che aveva creduto in un primo momento.
“È per via…” esitò: “…è per via della vostra maschera?”
Erik sussultò, come se una serpe l’avesse morso a tradimento sulla caviglia. La ragazza era intuitiva, pericolosamente intuitiva, e conversare con lei era un rischio che non si sarebbe dovuto permettere. Se le avesse lasciato indovinare parte dei segreti che custodiva gelosamente e brandelli del passato che l’aveva tanto ferito, sarebbe stato costretto a ucciderla, e non era un’azione di cui desiderava macchiarsi. Ella era sì fastidiosa e imprudente, ma non al punto da meritare la morte. L’unico atteggiamento che andava preso in quelle circostanze era un modello di arroganza e di freddezza, affinché la sua ospite si scoraggiasse e non cercasse più di interagire con lui.
“Non provateci, mademoiselle” le rispose con quel tono di beffarda superiorità che ormai Vivian aveva cominciato a riconoscere: “Non potreste mai capire. Come, d’altra parte, non capite nemmeno la musica. Cosa ne può sapere del valore di un pezzo una provinciale ragazza di campagna a malapena capace di leggere e scrivere, che non saprebbe distinguere un mi minore da un fa diesis?”
Con una violenta inspirazione, la giovane indietreggiò come se l’avesse schiaffeggiata e voltò il capo di lato, nascondendosi dietro la cascata di indisciplinati ricci corvini. Quella frase volta a ferirla, s’accorse con rabbia, le aveva fatto più male di quanto si sarebbe aspettata, e aveva avuto su di lei l’effetto di una pugnalata dritta al cuore. Non che fosse per lei una novità essere irrisa a causa delle sue origini; solo poco tempo prima, la Marchesina Colette le aveva fatto pesare il modo in cui era venuta al mondo, frutto di una relazione fuori dal matrimonio, e suo fratello Antoine s’era arrogato il diritto di provare a violentarla proprio perché era in una botte di ferro a causa della sua levatura sociale. Ma che persino quell’assassino, quel mostro, quel reietto che viveva nelle profondità della terra osasse disprezzarla per qualcosa di cui non aveva alcuna colpa era il colmo, e poteva essere dotato e sublime quanto voleva, ma per il resto non era altro che una bestia.
Erik attese una risposta che tardò più del dovuto ad arrivare. Vivian rimase immobile a lungo, stretta in quella modesta camicia da notte, con il capo girato di lato e il viso nascosto dai capelli, e le spalle le fremettero come per un singhiozzo muto. Gradualmente, egli avvertì una strana sensazione di disagio nel petto. Non rimorso, ovviamente non poteva provare rimorso, ma una specie di fastidio simile alla puntura di un ago. Le si era rivolto con villania e indelicatezza, verissimo, ma per quello che credeva d’aver capito di lei, aveva pensato che si sarebbe lasciata rimbalzare addosso la sua frecciata senza attribuirle importanza. Non lo considerava, in fondo, un pericoloso assassino? Cosa contava per lei l’opinione di una sì tremenda figura? Quel silenzio ferito, quelle spalle sussultanti, erano una sgradita novità.
“Ehi” disse, più piano, ma senza ingentilire la voce: “Non vi metterete mica a piangere, mademoiselle?”
“No” il ringhio di lei, un concentrato di veleno e di orgoglio, giunse inaspettato. La ragazza drizzò il capo di scatto, scrollandosi la chioma sulla schiena e puntandogli contro i grandi occhi scintillanti di furia e di fierezza, e strinse le labbra in una smorfia di disprezzo: “Non credo che sprecherò una sola lacrima per voi, monsieur Fantòme. Sono avvezza alle critiche rivolte alle mie origini non troppo…rispettabili. Solo, non mi aspettavo che un genio come voi dovesse ricorrere al solito vecchio repertorio, peraltro senza alcun apparente motivo. Avete ragione, cosa può saperne di musica una poveraccia come me, costretta ad usufruire dell’ospitalità di un mostro per sfuggire alle mire di un nobilotto affamato della sua virtù? Niente, naturalmente, infatti avrebbe fatto meglio a non farvi alcun complimento e a restare al suo posto, questa stracciona patetica”.  
Colpito dall’acredine che traspariva dall’espressione e dal tono di lei, Erik non riuscì a ribattere alcunché, limitandosi a battere scioccamente le palpebre. Vivian era l’unico membro della razza umana ad avere il coraggio di ribellarsi al suo comportamento e di dirgli in faccia ciò che pensava, e non essendo abituato ad incontrare un’opposizione così incrollabile, si trovava impreparato a sostenere una discussione.
Lei continuò: “Sarò anche una miserabile poverella, monsieur, ma a differenza di voi, che siete colto e senz’altro più erudito di me, non lo nego, ho degli amici e delle persone che mi vogliono bene, e una casa calda e accogliente con finestre da cui entra la luce del sole. Anni fa avevo un padre, un uomo che tutti chiamavano ubriacone e fallito, ma ai miei occhi era l’individuo più onorevole e affettuoso che esista al mondo e mi ha insegnato cos’è l’amore, una parola che per voi non ha avuto, non ha e non avrà mai alcun significato” il concitato discorso della giovane acquistava foga andando avanti, diveniva uno sfogo ardente diretto in generale contro tutti coloro che l’avevano derisa per le sue origini, e in quel momento la sua figuretta emanava dignità, un qualcosa che raramente una vittima era riuscita a mostrare di fronte al proprio persecutore: “Perciò potete anche definirmi ignorante e provinciale, ma non avrete mai, mai un rapporto che si avvicina solo lontanamente a quello che condividevo con mio padre!”
Tacque, ansimando. Erik le restituì lo sguardo in silenzio, senza dir nulla.
Poi sembrò ritrovare un certo controllo. Staccò gli occhi dai suoi, le guance accese di improvviso rossore, le mani che le stringevano addosso la camicia da notte in un gesto di pudore e di vergogna, e gli volse le spalle con un movimento rapido, sollevando la tenda che conduceva alla sua stanza: “Buonanotte, monsieur”.
L’uomo osservò con vacuo stupore la stoffa rosso porpora che ricadeva a nascondere la sagoma curva della fanciulla, sottraendola al suo sguardo. Non accennò la mossa di spostarsi dal punto in cui sostava immobile, con le braccia lungo i fianchi e le labbra leggermente aperte a dire qualcosa che non sarebbe mai scaturito all’esterno, e si trovò, per mezza frazione di secondo, nella fastidiosa incapacità di decidere cosa fare.
Scrollò il capo, passandosi una mano sul viso per scacciare la sgradita sensazione. Aveva faccende di grande importanza che lo reclamavano, non poteva perdere tempo dietro alle proteste offese della sua fastidiosa ospite. Cosa gliene importava, dopotutto? Non si sarebbe certo scusato con lei, dopo tutti i torti che aveva dovuto subire nel corso della sua esistenza. E se la ragazza, con la sua rabbia, intendeva rendersi il soggiorno lì ancor più difficile, peggio per lei. I suoi sentimenti e la sua sensibilità non erano affar suo.
Sempre ammesso che li avesse nella stessa quantità in cui li vantava lui, cosa alquanto improbabile, dal momento che nessuno era in grado di provare emozioni forti come le sue.
Prima sarebbero trascorsi i dieci giorni, meglio sarebbe stato per tutti.

 

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Capitolo 12
*** Masquerade ***


Masquerade

 
 
 
 
 
Il volto inanimato di Christine gli sorrideva con dolcezza nelle tenebre dell’angolo in cui era posizionata la bambola che, con le sue mani, aveva costruito allo scopo di avere sempre davanti agli occhi l’immagine della sua musa, per trarre ispirazione dall’armonia dei tratti e dallo sguardo puro dei grandi occhi malinconici. Era bella come un angelo, solo la metà di quanto riusciva ad esserlo in carne ed ossa, con quella diafana carnagione color latte, quelle labbra piene e rosate, quel piccolo naso all’insù e quei morbidi riccioli perfetti che le scendevano orgogliosamente fino alla vita. Le sue braccia snelle, lasciate scoperte dall’abito bianco che, secondo lui, metteva ancora più in risalto la sua purezza, erano tese nella sua direzione in un abbraccio illusorio e la sua espressione, aperta e spontanea, non gli riservava alcun disgusto, alcun orrore.
Chissà perché non si era ancora disfatto di quel pupazzo. In fondo apparteneva ad un’altra epoca, forse addirittura ad un’altra vita. Una vita in cui gli bastava contemplare il sorriso di una bambola per sentirsi in pace con se stesso, in cui cadeva talmente in basso da interagire con una sagoma inanimata, piuttosto che con la vera Christine. Adesso che quel tempo era scivolato alle sue spalle per sempre, che aveva sancito l’inizio di un nuovo periodo come Fantasma dell’Opera, quasi si era dimenticato di possedere quella statua di cera. L’aveva riscoperta per caso, la mattina del quarto giorno che la sua indesiderata ospite viveva con lui nella Dimora sul Lago, staccando dai suoi supporti un drappo particolarmente malridotto per sostituirlo con una stoffa più pregiata e ritrovandosi davanti lo spettro del suo antico amore. Con suo enorme fastidio, il cuore aveva avuto un sobbalzo allorché era apparso nell’oscurità lo splendido viso sorridente, e aveva involontariamente lasciato cadere il drappo in un moto di stupore. Poi, con quei meccanismi affascinanti e sconosciuti, la memoria era corsa in suo aiuto e si era rammentato della sua umiliante creazione.
Era rimasto immobile dinnanzi ad essa per lungo tempo, studiandola nei particolari con i suoi fiammeggianti occhi azzurro scuro e cercando invano di limitare gli spasmi di rancore e di vergogna che gli agitavano i lineamenti mezzo disfatti dalle piaghe. Credeva di esserle diventato completamente indifferente, di aver preso quella storia e averla gettata via, ma non poteva ignorare la calda incandescenza che danzava nelle sue vene e nelle sue ossa, né il sapore amaro che gli riempiva la bocca. Quella piccola serpe, quel demonio, era ancora dentro di lui, lo torturava con la sua tintinnante risata, con i suoi sorrisi riservati, con il gesto d’orrore con cui s’era gettata a terra in ginocchio allorché aveva veduto per la prima volta la sua faccia. E si prendeva gioco di lui, sorridendogli in quel modo gentile e falso con la sua bocca di cera, tendendogli braccia che avrebbero preferito esser mozzate piuttosto che stringere lui, splendendo nella sua perfetta e incorruttibile beltà. Per anni e anni aveva desiderato invano di poter affondare le mani in quella lussureggiante capigliatura, di poter baciare quelle labbra rosee e di serrare al suo petto quel corpo flessuoso e scolpito, ma adesso, indugiando sulla levigatezza delle membra e sul lungo collo candido, provava soltanto un risentimento totale, un’acredine spaventosa, un odio che sarebbe stato in grado, addirittura, di sciogliere la cera e deformarla fino a farla divenire pozza fredda sul pavimento. La sola immagine della donna che aveva amato più di se stesso gli causava un tremendo ribrezzo, ed era sicuro che se si fosse trovato davanti Christine Daaé in carne ed ossa, si sarebbe avventato su di lei con un urlo e l’avrebbe dilaniata con le unghie e con i denti, sfogando tutto il dolore che gli aveva riversato nel cuore abbandonandolo al suo destino.
Perché il mondo era governato da leggi così ingiuste ed ipocrite? Perché un uomo come lui, esempio di sventura e di prostrazione, era costretto a patire le pene dell’inferno nel fondo di un buco mentre lei, lei, incapace persino di amare un’anima celestiale nascosta dietro le rosse cicatrici, si godeva le bellezze della vita nel palazzo de Chagny? Certo, si sarebbe preso la sua rivincita a spese dei malaugurati frequentatori del teatro dell’Opera, ma la verità nuda e cruda, una verità che si era negato, era che era lei l’unica che voleva davvero. L’aveva lasciata andare, le aveva reso la libertà, ed era stato l’errore più grande della sua vita.
Se l’avesse uccisa, se avesse fatto terminare la sua infausta esistenza sulla terra, la sua ira e il suo dolore sarebbero cessati, ne era sicuro. Era suo il sangue che bramava, sua l’anima da barattare con la propria. E tuttavia, Christine era proprio l’unico essere umano a lui precluso. Non si sarebbe mai recata all’Opera di nuovo, non dopo ciò che si era consumato lì. Erik avrebbe trascorso il resto dei suoi anni sapendo che da qualche parte nella Francia la responsabile delle sue più atroci sofferenze rideva e scherzava, felice e spensierata e dimentica del miserabile che aveva rifiutato.
“Maledetta” disse in un sibilo imbevuto di odio puro, percorrendo la figura della bambola con uno sguardo che sembrava emanare invisibili lingue di fiamma: “Io ti amavo più di qualsiasi altra cosa…ti avrei offerto la luna, se me l’avessi chiesta…ti avrei reso una stella che avrebbe brillato per l’eternità… e tu…tu…mi hai annientato…calpestato…rinnegato…per…Lui…”
Lei continuò a sorridere placidamente dall’alto della sua diabolica bellezza, insensibile al suo dolore come lo era stata anche in passato, quando si era tolta l’anello che le aveva regalato e glielo aveva messo in mano senza una sola parola di commiato, voltandogli le spalle e scomparendo per sempre dalla sua vita.
Possibile che l’avesse davvero amata? Che avesse sacrificato la sua felicità e il suo futuro per lei? Di quell’amore, adesso, non era rimasto nulla, la furia e la brama di vendetta glielo avevano strappato nel corso di quei sei mesi e avevano riempito di odio il vuoto che aveva lasciato dentro di lui.
Non riusciva più neanche a sopportare la sua vista.
All’improvviso, senza alcun motivo apparente, si scagliò sulla bambola di cera con un ringhio da animale selvaggio e le afferrò i boccoli posticci, strappandoli brutalmente dal cranio e gettandoli a terra in ciuffi disordinati, lacerando la stoffa dell’abito che aveva confezionato con le sue mani, ispirandosi al modello sfoggiato dalla vera Christine durante il suo debutto,  e che con tanta cura aveva fatto indossare alla sua sosia. Le vene gli ribollivano di una collera sanguinosa e mortale, il suo organismo gli gridava di distruggere almeno l’immagine di quella serpe per ricavarne, anche se effimera, una certa soddisfazione, e la somiglianza di quest’ultima con la ragazza che rappresentava era tanto marcata da aiutare la sua fantasia per natura già molto fervida. Una delle braccia si staccò dal busto, rotolando sul pavimento, e dalla stoffa lacerata del vestito emerse un mostruoso corpo ermafrodito, con seni privi di capezzoli e un pube privo di sesso, ma egli non si fermò, in preda ad una parossistica furia omicida, e le graffiò il volto sorridente più e più volte, stravolgendo i dannati lineamenti perfetti e storcendole le labbra in una smorfia grottesca. Intanto rideva, sguaiatamente, come un folle, le gote paonazze e l’espressione alterata di chi ha lasciato ogni freno, e seguitava a devastare il viso che aveva tanto amato ignorando la cera che gli penetrava nelle unghie e invadeva il suolo di pietra. Il pupazzo afflosciato tra le sue braccia, pressoché distrutto, era ridotto ormai ad un ammasso informe dalle sembianze vagamente umanoidi, nudo, con il cranio semipelato, le orbite vuote e la faccia conciata come un insieme di strisce che la solcavano in profondità. Ma per Erik era ancora Christine, o almeno ciò che rappresentava per lui, e le staccò la testa dal collo con furore incontrollato.
“Maledetta ingrata!” gridò senza riflettere, a cavalcioni sopra il corpo distrutto: “Eri la mia musa, la luce del mio canto, ti ho ceduto la mia musica, i miei insegnamenti, tutto quello che avevo!! Senza di me saresti rimasta un niente, un’insignificante ballerina di fila, una nullità in questo teatro! Sono stato io a tirarti fuori dal buio in cui vivevi, a rendere la tua voce un mezzo di comunicazione tra uomini e dèi, a fare in modo che quel bastardo si interessasse a te! E tu mi hai tradito! Mi hai rinnegato! Come hai potuto farlo?! Come?!”
Si bloccò di colpo, alla maniera di un uomo colpito da una folgore, e girò il capo di lato con un movimento veloce, avvertito dai suoi sensi che non fallivano mai della presenza di uno sguardo estraneo puntato sulla sua persona. Per pochi attimi s’era dimenticato completamente del resto del mondo, un qualcosa che non gli era mai successo, e aveva permesso alle emozioni e ai più biechi impulsi di emergere, soppiantando l’atteggiamento gelido e distaccato divenuto ormai il suo marchio di fabbrica. Il suo aspetto, in quel momento, differiva totalmente dal solito, e senza che si fosse tolto l’onnipresente maschera bianca: vestito solo di calzoni e camicia, i piedi inguainati in robusti stivali di pelle, l’aveva aperta sul collo e la sua fluente chioma castana, abitualmente pettinata all’indietro senza scriminatura, era scarmigliata e scomposta e ricadeva sulla parte di viso che aveva scoperta, rossa e contratta dalla rabbia. Senza dubbio, uno stato in cui nessuno sarebbe voluto apparire.
Si girò a mezzo busto in direzione della presenza che aveva percepito e le sue ardenti iridi azzurro scuro incrociarono, a qualche metro di distanza, quelle scure e ammutolite di Vivian.
Rimase gelato al suo posto.
La giovane sostava accanto alla tenda che conduceva alla sua camera da letto, esattamente come due giorni addietro, quando aveva risposto alle sue provocazioni con quell’ardore (da allora non s’era più fatta vedere) e teneva tra le mani il vassoio vuoto che aveva contenuto, fino a poco tempo prima, la sua colazione. Doveva aver già provveduto alla sua toletta personale malgrado l’orario assai mattiniero, infatti indossava un abito verde con le maniche a sbuffi e la gonna che s’allargava intorno alla vita a guisa della corolla di un fiore e aveva nastri dello stesso colore tra i capelli, negligentemente raccolti sulla nuca. Lo guardava battendo le palpebre, le labbra dischiuse per un misto di sbalordimento e di incomprensione, e non accennava a spostarsi da dove si era fermata, assorta, apparentemente, dallo strano spettacolo a cui aveva involontariamente assistito. Quando lui si volse verso di lei, gli restituì lo sguardo senza nascondere d’averlo spiato in quel momento poco consono e nelle sue pupille lesse una domanda muta, un interrogativo impossibile da trascurare.
Erik non avvampò, perché lui di certo non poteva avvampare. Il calore che avrebbe dovuto affluirgli sulle guance, entrambe (anche quella sfigurata) lo avvertì invece dentro di sé, un’ondata incandescente che gli ricolmò il centro del petto e lo privò, senza che potesse opporsi, di qualsiasi giustificazione plausibile. Divenne conscio all’improvviso di come doveva apparire in quel momento, scarmigliato e ansimante, curvo su un manichino informe e circondato da ciocche di capelli, frammenti di cera e brandelli di seta, e distolse automaticamente gli occhi da quelli perplessi e incuriositi della sua ospite, volgendoli in direzione del lago Averno. Maledizione. Giurava solennemente di non mostrare mai più il fianco a chicchessia, e si lasciava sorprendere in quelle condizioni come un bambino colto con le mani nella marmellata. Che razza di idiota.
Si aspettava che la ragazza dicesse qualcosa, magari che lo deridesse per vendicarsi delle frasi sprezzanti che le aveva rivolto due giorni prima, ma lei non ruppe il silenzio né scoppiò in una risata. Non poteva coglierne l’espressione a causa della sua ostinazione nel non guardarla, ma consapevole com’era di tutto ciò che aveva intorno, sapeva che era ancora immobile con il vassoio tra le mani e che non gli aveva staccato gli occhi di dosso. Al primo afflusso di vergogna l’uomo sentì succedere una repentina e potente irritazione, e si trovò a rimpiangere, ancora una volta, la solitudine di cui s’era tanto lamentato in quegli anni. Ecco uno dei numerosi svantaggi ad avere un’estranea dentro casa; era costretto a dominarsi perfino lì, nell’unico luogo in cui aveva il diritto di comportarsi come più gli aggradava. In fin dei conti, come si permetteva lei di giudicarlo?! Cosa ne sapeva del dolore? Del rifiuto? Dell’umiliazione che aveva dovuto subire? Di Christine? Non sapeva nulla e mai l’avrebbe saputo, perciò avrebbe fatto meglio a tornarsene nella sua stanza e a non causargli imbarazzo con la sua detestabile presenza. Si trovava nella sua dimora e se aveva voglia di fare a pezzi una bambola e gridare al vento, nessuno glielo avrebbe impedito.
“Che avete da guardare?” le chiese con tono brusco e scortese, senza muoversi dalla sua posizione inginocchiata. Guardandosi le mani che ora giacevano, inerti, in mezzo ai brandelli del manichino, notò che le unghie erano incrostate di cera e che vi erano rimasti incastrati nugoli di capelli aggrovigliati. Se le pulì sui pantaloni senza successo, nervoso senza un motivo preciso.
“Niente” la risposta che arrivò da lei era fin troppo calma e serena: “Ero venuta a riportarvi il vassoio”.
“Ah, sì?” egli lasciò vagare lo sguardo sulle fiammelle delle candele, risoluto ancora a non incontrare gli occhi della sua ospite: “Mi pare di avervi spiegato che dovevate lasciarlo sulla soglia e che io l’avrei poi ritirato al momento opportuno” gli uscì una voce più dura e aspra di quanto avrebbe voluto, ma la rabbia che la vista di Christine aveva scatenato in lui non se n’era andata e aveva pur bisogno di prendersela con qualcuno.
“Sì, lo so” commentò Vivian, sorprendentemente remissiva: “Perdonatemi. Ho pensato soltanto che sarebbe stato carino riportarvelo di persona”.
Certo pensò Erik con un lieve sorriso sarcastico. Era uscita dalla sua stanza per fargli una gentilezza. Le cose erano andate assai diversamente: la dannata impicciona aveva udito le sue grida e i rumori inequivocabili di una colluttazione ed era andata a vedere cosa stesse accadendo. Credeva davvero di ingannarlo con trucchi così dilettanteschi?
“Capisco” lasciò trapelare tutto il suo scetticismo: “La colazione è stata di vostro gradimento?”
“Oh, sì!” il tono della ragazza assunse una sfumatura di sincera soddisfazione: “Le…com’è che si chiamano? Le acciughe in vinaigrette erano deliziose. Fresche al punto giusto”.
“Non le avete trovate pesanti, a quest’ora del mattino?”
“Al contrario. Quando vivevo ad Annecy, mio padre a quest’ora mi portava con sé alla taverna di Pierre Boeuff e condividevamo focaccia accompagnata da carne allo spiedo e latte di capra appena munto. La panna era talmente spessa che riuscivo a tagliarla con il coltello…” c’era della nostalgia in quel discorso: “Sono abituata alle colazioni sostanziose, monsieur”.
Ancora quel maledetto padre. Aveva fatto il suo nome anche durante la loro precedente discussione, tirandolo in ballo per difendersi dalle sue accuse rivolte alla sua bassissima levatura sociale. Rassicurato dalla piega presa dal discorso, Erik si voltò finalmente a guardarla e colse sul suo volto un sorriso trasognato, perso, una certa ombra malinconica negli occhi che gli fece supporre, nel caso lei non lo avesse mezzo informato con quei verbi al passato, che il famoso padre doveva essere deceduto.
Lui non aveva mai conosciuto il proprio. Sapeva che era di nobile nascita, e che la sua faccia doveva averlo disgustato fin dal primo istante, a giudicare da come l’aveva in seguito abbandonato per non farsi più vedere. Pareva proprio la storia della sua vita…una lunga sequela di abbandoni. Grazie al cielo non bastavano certo simili cose a fermarlo o a farlo vacillare. Ci voleva ben altro, per fiaccare una volontà come la sua.
“Allora in futuro cercherò di accontentarvi come ho fatto oggi, mademoiselle” le disse smentendo il significato gentile di quelle parole con un accento scortese e alzandosi in piedi per recuperare una parvenza di dignità. Quella rivoltante bambola l’aveva imbrattato tutto quanto di cera e aveva ciocche dei suoi capelli posticci impigliate nei bottoni della camicia. Si chinò a cercare di rimuoverli e, mentre si dedicava a tale infruttuoso lavoro, il suono di una risata fresca e contagiosa, un suono che mai era echeggiato nella Dimora sul Lago, giunse del tutto inaspettato alle sue orecchie. Alzò i grandi occhi azzurro scuro, sorpreso e infastidito, e vide Vivian che rideva di cuore, gli occhi luminosi e un bel sorriso aperto sulle labbra, e che lo guardava con un’espressione di maliziosa ilarità. Non si poteva certo dire che si contenesse, né che la sua risata assomigliasse solo lontanamente a quella di Christine, un melodioso trillo di campane…era sgangherata e potente, inframmezzata da singhiozzi e grugniti, e sembrava non finire mai. L’acustica della sua dimora faceva sì che riecheggiasse ovunque con migliaia di echi e dava l’impressione che un’intera folla di fanciulle non troppo beneducate si stesse abbandonando al divertimento.
“Cosa avete da ridere?!” la mano scattò immediatamente a tastare la mezza maschera bianca, trovandola al posto consueto. Ormai, per lui, quel gesto era divenuto inconscio: “Mi trovate ridicolo?”
“No, no…” ansimò lei, riprendendosi un poco. Si asciugò una lacrima che le era spuntata all’angolo dell’occhio e si coprì la bocca con la mano, soffocando un risolino soffocato: “È solo che…stavate tentando di uccidere una bambola, monsieur”.
Erik aggrottò le sopracciglia, senza capire: “E che cosa c’è di tanto divertente?”
“Niente, ma…vedervi tutto coperto di cera, con l’aria di prenderla terribilmente sul serio…di solito siete così controllato!”
“Quel che faccio non è affar vostro”.
“Sì, ma l’ho trovato comunque uno sfogo…geniale. Che poi è superfluo da dire, trattandosi di voi” scosse la testa e rise nuovamente, stavolta di se stessa.
Erik seguitava a non comprendere. Pur ammettendo che per lei doveva essere stata una visione inconsueta, non si spiegava quella risata priva di cattiveria o di derisione, quel sincero buonumore…chiunque altro si sarebbe subito spaventato, avrebbe avuto paura di trovarsi da solo con un uomo dai comportamenti così incontrollabili…invece, da lei emanava tutto fuorché il timore. Anzi, pareva addirittura a suo agio, come se averlo sorpreso in quella maniera l’avesse rassicurata sul suo conto.
“Voi siete una ragazza alquanto strana, mademoiselle Carré” osservò con tono asciutto, ma non scevro della solita malevolenza: “Ve l’hanno mai detto?”
“Senti da che pulpito!” la pronta replica, come al solito, lo stupì. Vivian non smetteva mai di sorprenderlo: “Non ero io quella che si accapigliava sul pavimento con un manichino informe, monsieur Fantòme. Ammetto di non assomigliare molto alle signorine francesi che abitualmente frequentano l’Opera, ma a certi livelli, sia ringraziato nostro Signore, non arrivo”.
Erik non poté impedirsi di sgranare impercettibilmente gli occhi di fronte a tanta audacia. Mademoiselle Carré non l’aveva mai trattato come gli altri, con quella paura velata di disgusto e di servilismo, fin dal loro primo incontro, quando le aveva passato intorno al collo il laccio del Penjab e le aveva fatto credere che l’avrebbe uccisa, aveva interagito con lui da pari a pari, replicando ad ogni sua stoccata e abbassando solo raramente gli occhi in sua presenza. L’aveva persino affrontato, allorché l’aveva tanto sprezzantemente definita una “provinciale ragazza di campagna”. E nulla di ciò che lui aveva fatto, né la prova della Sfinge, né le frasi gratuitamente crudeli, né le regole tiranniche l’aveva indotta a cambiare atteggiamento, le aveva scagliato contro tutte le armi di cui disponeva, deciso a mettersi in cattiva luce ai suoi occhi, a sollecitare in lei il dovuto rispetto nei riguardi del Fantasma dell’Opera, ed esse si erano miseramente scontrate sulla barriera di cui la fanciulla si era circondata, inutili. Poteva dire o fare qualsiasi cosa, ma non le avrebbe strappato dal volto quell’espressione fiera e determinata.
Però, a proposito di volti…forse, se l’avesse visto in faccia, avrebbe finalmente distolto quello sguardo impudente da lui! La stessa Christine, durante il suo breve soggiorno nella Dimora sul Lago, aveva ignorato di cosa lui fosse realmente capace finché le sue mani non gli avevano tolto la maschera a tradimento. Soltanto allora la malefica curiosità, l’interesse inopportuno avevano abbandonato i suoi lineamenti, sostituiti da una tragica smorfia d’orrore e paura. Doveva comportarsi allo stesso modo con Vivian, ma stavolta essere lui stesso a scoprire le piaghe? Mettere a nudo il suo segreto più terribile, la fonte delle sue disgrazie, l’orrore che induceva le donne a distogliere lo sguardo con un brivido? L’avrebbe finalmente dissuasa dal tentare di conversare con lui?
….no. No, meglio di no. Lo incuriosiva vedere come mademoiselle avrebbe reagito alla vista delle cicatrici che gli deturpavano la carne, e quanto il suo comportamento si sarebbe avvicinato a quello di Christine, ma la vergogna e la riluttanza avevano radici ben affondate nel suo cuore ed erano più forti di qualsiasi altra cosa. Era un’ipotesi da non prendere neanche in considerazione.
“Monsieur…monsieur Fantòme?” mentre sprofondava nelle sue riflessioni, Vivian aveva pian piano smesso di ridacchiare e l’ilarità dipintasi sul suo viso aveva lasciato il posto ad una specie di timoroso disagio. Pronunciando quest’invocazione s’avvicinò a lui di qualche passo, ma si fermò ad una distanza di sicurezza. Non aveva paura di lui, tuttavia non era tanto stupida da provocarlo troppo quand’era di quell’umore.
Erik mise a fuoco lo sguardo con una certa fatica, tornando presente alla situazione: “Cosa?”
Vivian chinò il capo, torturando con le mani la ricca stoffa verde del suo abito da giorno. Appariva…mortificata. Come se ciò fosse possibile! Forse trovava scomodo il vestito, dato che in passato gli era capitato di vederla solamente nuda, seminuda o in camicia da notte…aveva una curiosa concezione del pudore, per essere una ragazza. Christine, e parecchie altre, ci avrebbero pensato due volte prima di presentarsi ad un uomo con addosso solo la camicia da notte, senza disturbarsi nemmeno di indossare una vestaglia. Invece lei non aveva mostrato alcun accenno di imbarazzo.
Sicuramente era dovuto alle sue deprecabili origini.
“Mi dispiace di aver riso, monsieur Fantòme” gli si rivolse con tono franco e sincero, lasciando in pace l’abito, e incurvò le labbra in un sorriso di scuse che riuscì a farlo ammutolire per diversi minuti: “Non volevo mancarvi di rispetto. Probabilmente non sarei dovuta neanche uscire dalla mia stanza. Però… non vivo bene circondata da muri di pietra. Mi sento come un animale in gabbia”.
Adesso la sua incomprensione era totale. Era dispiaciuta di aver urtato la sua sensibilità? Si scusava con lui dopo che l’aveva quasi lasciata morire nella Stanza della Sfinge e che l’aveva insultata in tutti i modi possibili? Quale oscuro incantesimo la opprimeva per far sì che gli mostrasse quell’improvvisa gentilezza? E che razza di logica c’era nelle sue azioni in netto contrasto l’una con l’altra? Erano tutte così, le donne? No, naturalmente, Christine l’aveva trattato con lo stesso orrore terrorizzato fin da quando le aveva mostrato la sua identità umana e non era mai venuta meno alla sua decisione.
Ma perché crederla migliore di Vivian, in fondo? Forse era più coerente, più pudica e dotata di maggiore bellezza e talento, ma aveva donato il suo cuore ad un bamboccio ricomparso da un passato dimenticato senza neanche conoscerlo a fondo e non aveva esitato neppure un attimo a strappargli la maschera dinnanzi a tutta l’alta società parigina, nel corso della notte del Don Juan, rendendo nota all’intera città la sua maledetta deformità. Le urla femminili, le esclamazioni di orrore e i mormorii concitati lo perseguitavano tuttora.
Ancora non la conosceva bene (e neanche voleva conoscerla, ovviamente), ma era sicuro, e non aveva motivo di dubitare di una simile intuizione, che Vivian non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. Non avrebbe mai finto di ricambiare il suo amore, spingendolo ad abbassare la guardia, per poi tradirlo in maniera tanto palese, svelando all’aristocrazia francese il suo terribile segreto. Possedeva un animo troppo franco e diretto per avere il coraggio di compiere un’azione così viscida e ingiusta.
S’accorse con immenso fastidio di averle appena fatto un complimento mentale. Non aveva giurato di disprezzare qualsiasi essere umano? A quanto pare s’era ciecamente illuso, s’era ingannato di aver recuperato le forze, se permetteva ad un “mi dispiace” pronunciato con accento più cordiale di quelli a cui era avvezzo di elevare la sua opinione riguardo alla sua mittente. Non era altro che una stracciona sola e disperata, un essere indegno di respirare la sua stessa aria installatosi con presunzione in casa sua. Ed era una donna. Crudele e fatua come tutte le sue simili, incapace di provare vere emozioni e creata con lo scopo apposito di tentarlo.
Tentarlo? Non si lasciava certo tentare da una grazia così insignificante e poco incisiva! Christine era stata un vanto per la sua razza, sia fisicamente che vocalmente, ma questa qui, in merito a ciò, non era degna neanche di allacciarle le scarpe.
“Non dispiacetevi, mademoiselle” disse freddamente, chinandosi a raccogliere i resti della bambola distrutta: “La vostra risata non mi ha fatto né caldo né freddo, se può consolarvi”.
Lei scelse di ignorare quell’ultimo commento. Dava l’impressione di cominciare ad abituarsi ai modi del suo ospite e aveva preso la saggia decisione di passarci sopra, senza perder tempo a ribattere. Gli venne incontro, invece, sollevando la gonna verde per non averne impiccio (era scalza; un classico) e si inginocchiò a sua volta sul pavimento di pietra, raccogliendo un vacuo occhio di vetro finito vicino ad uno dei drappi che abbellivano le pareti: “Aspettate, vi aiuto”.
“Non ce n’è bisogno” scattò lui, messo a disagio dalla sua presenza: “Faccio da me”.
“Lasciatevi aiutare, santo cielo!” sbottò la giovane: “Stavo per morire di noia in quella camera. Non ho nulla di meglio da fare, perciò non negatemi di raccogliere brandelli di cera”.
Erik lo avvertì come un insulto rivolto alla sua ospitalità, e il suo tono si abbassò di qualche ottava, inasprendosi: “Vi avevo avvertita che sarebbero state queste le condizioni del vostro soggiorno presso di me”.
“Lo so. Ma non sono un cane, monsieur, non potete pretendere che me ne resti buona in una stanza per dieci giorni senza uscire a prendere aria nemmeno una volta”.
L’uomo alzò espressivamente le folte sopracciglia castane e alluse al salone sotterraneo con un largo gesto della mano: “Vi sembra il luogo adatto in cui prendere aria?”
Una smorfia divertita si impresse sulle labbra di lei: “Sempre meglio della stanzetta in cui mi avete confinata. Una prigione resta una prigione, ma è sicuramente più confortevole di una cella”.
A questo, egli non seppe cosa ribattere. Rimase immobile mentre lei percorreva in ginocchio il pavimento, ammucchiando tra le braccia parti smembrate del corpo della bambola, e notò che il suo abito si stava vistosamente chiazzando di scuro. Ma non glielo fece notare. Una fanciulla che si presentava a piedi nudi non prestava certo attenzione allo stato del suo vestito. Decise, invece, ch’era venuto il momento di frenare la sua lunga lingua, e che non le avrebbe più concesso il privilegio di spiazzarlo.
“Monsieur” ricominciò Vivian, rilassata come chi aveva ormai rotto il ghiaccio: “Posso sapere come mai avete scelto di sistemarvi proprio nei sotterranei? Non li definirei un locus amenus”.
Egli venne meno ai suoi propositi, spiazzandosi l’ennesima volta: “Conoscete il latino?” era una lingua in uso tra le classi più alte, che aveva ovviamente appreso poiché compariva spesso anche nella musica, ed era davvero sorprendente che la figlia di un “ubriacone fallito”, come lei stessa aveva descritto il padre lo conoscesse.
Si volse verso di lui con un sorriso furbesco, gli occhi brillanti, e chinò il capo con falsa modestia: “A dire il vero no, affatto. Mio padre diceva sempre che il latino andava bene per i morti e che sapeva di cimitero. Però la mia tutrice, Madame Lefevre, borbotta sempre in questa lingua, trova che sia di moda, e alla lunga, ascoltandola, se hai un minimo di orecchio, qualcosa lo memorizzi”.
“Oh…” fu tutto quello che Erik ebbe la forza di tirar fuori. Una pausa di silenzio si dilatò nell’atmosfera viziata del salone principale della Dimora sul Lago, durante la quale il Fantasma dell’Opera contemplò gli scuri mulinelli dell’acqua con occhi vuoti, e Vivian continuò la sua meticolosa raccolta, fissandolo in attesa d’una risposta alla sua originale domanda. Vedendo che egli non accennava a dargliela, lo sollecitò con un colpetto di tosse.
“Io…” l’uomo non poteva rivelarle il vero motivo per cui s’era isolato là sotto, perché in tal caso avrebbe dovuto renderle noti tutti i suoi segreti e l’avrebbe trasformata in una testimone: “L’ho costruita nel luogo che più si adattava alla mia indole. Qui nessuno viene a seccarmi, nessuno interrompe le mie faccende” evitò di pronunciare il nome di lei, l’eccezione alla regola: “E posso vivere in pace con me stesso e con i miei averi”.
La giovane piegò la testa da un lato, gli occhi vispi e attenti che lo studiavano con sincero interesse: “Credo che non siate in pace con voi stesso, monsieur”.
Lui si irrigidì: “Voi non sapete niente di me, mademoiselle”.
“Forse. Ma mi basta quello che vedo. Una persona che brama la distruzione di tutte le altre, che semina caos e confusione nel bel mezzo di una tranquilla rappresentazione, che salva una sconosciuta e poi rimpiange d’averlo fatto quando ne deve pagare il prezzo…non è una persona felice”.
Erik evitò di risponderle. Se l’avesse fatto, le avrebbe urlato contro. Cosa ne sapeva, lei, dell’infelicità?! Con che diritto assumeva quell’aria saccente e catartica in sua presenza? Credeva di conoscere tutto solo perché aveva vissuto in condizioni di degrado ed aveva quindi appreso quanto la vita fosse ingiusta? Aveva la metà dei suoi anni, era una bambina, in confronto a lui (che a pesargli sulle spalle ne aveva solo trentasette, ma il loro calibro faceva sì che ne avvertisse ottanta), e la sorte finora era stata sin troppo clemente con lei, l’aveva fatta vivere in un piccolo, confortevole microcosmo fatto di abitudini e di dispiaceri talmente lievi da assomigliare a punture di spillo che svanivano in confronto ai suoi, pugnalate inferte al cuore. Se avesse conosciuto appieno il marciume e l’orrore della sua esistenza, tutti i delitti di cui s’era macchiato e i sacrifici compiuti per un falso amore, sarebbe crollata svenuta al suolo, il suo animo fragile non avrebbe mai potuto tollerarli.
Ma era inutile tentare di spiegarlo ad una diciottenne impudente e saputa, perciò ingoiò tutta la sua rabbia e s’impose l’abituale freddezza: “Avete le idee molto chiare, vedo”.
Lei dovette cogliere la nota aspra nel suo tono di voce. Abbandonò per un attimo la sua pulizia, raddrizzandosi, e si posizionò davanti a lui, vicina come solo una volta era stata, senza che alcun accenno di timore alterasse i suoi lineamenti irregolari ma, allo stesso tempo, affascinanti. Cercò d’incontrare il suo sguardo ed Erik glielo permise, rifiutandosi di abbassare la testa di fronte a lei. S’accorse, non senza sorpresa, che in una maniera segreta e riservata era dotata di una sua bellezza. Ovviamente non era abbagliante e visibile come quella di Christine, che irretiva tutti quanti e illuminava la notte con il suo splendore. Era una bellezza più offuscata, più profonda, che si coglieva con il tempo e con la buona volontà e si nascondeva, schiva, dietro una nuvola, e che spesso e volentieri sbiadiva a confronto con quella del suo antico amore, scintillante in mezzo al cielo. Le sue iridi, di un anonimo marrone finora, alla luce delle candele brillavano di riflessi dorati e c’erano sfumature bluastre nei suoi riottosi riccioli bruni. Forse, se avesse incontrato un giovanotto tanto sensibile da cogliere certi particolari, avrebbe avuto anche lei il suo bel marito aristocratico e il protettore che tanto bramava, e non avrebbe avuto bisogno di rinchiudersi nelle viscere della terra insieme al Fantasma dell’Opera.
“Monsieur” disse piano. Per la voce non c’era nulla da fare: troppo volitiva, troppo secca per modularsi in dolci intonazioni e gorgheggi. Andò avanti con rispetto: “Non vi sto giudicando. Ben pochi esseri umani potrebbero definirsi felici, ed io certo non rientro nella loro categoria. Ho dovuto scavarmi un tunnel per pulirmi dal disonore della mia nascita e tuttora che ho trovato una tutrice ricca e agiata e un posto di allieva in uno dei teatri più celebri al mondo, sono perseguitata dallo spettro di una donna che, per un motivo o per un altro, ha reso la mia vita un’eterna lotta. Ho accettato di inserirmi in un ambiente di gran lunga più elevato di quelli a cui ero abituata, consapevole dei rischi che ciò comportava, e neanche due settimane dopo il mio arrivo a Parigi mi ritrovo perseguitata da un nobilotto viziato che non riesce a concepire il mio rifiuto. Per giunta, al contrario di voi, non sono certo un genio né vanto alcuna abilità particolare. Sono solo…Vivian. E a volte parlo troppo”.
Tacque, arrossendo leggermente, e ascoltò l’eco delle sue parole che aleggiava intorno a loro. Non lo aveva detto per compiacerlo o per conquistarsi la sua fiducia. Pensava davvero tutte quelle cose, e una parte di lei, nuova e totalmente incoerente, lo ammirava per la selvaggia perseveranza con cui andava avanti e per le sue straordinarie doti musicali, che di sicuro doveva aver perfezionato da solo poiché dubitava molto che avesse ricevuto insegnamenti di sorta. E averlo sorpreso a distruggere la sosia dell’ormai Viscontessa de Chagny le aveva provocato una sensazione strana, una repentina comprensione. Non aveva forse lei stessa desiderato ardentemente di bruciare tutti i ritratti di sua madre quando ancora la sua stella brillava fulgida, di cui la casa di Madame Lefevre abbondava? Sapeva fin troppo bene cosa voleva dire vivere con un’ombra sopra la testa, o cosa significasse amare e odiare contemporaneamente una persona. Era un sentimento che ti rodeva dall’interno come un tarlo, che ti consumava, che ti portava alla follia e alla disperazione, alle suppliche e all’omicidio…quando sua madre era morta, s’era sentita liberata da un peso immane, ma allo stesso tempo era corsa piangendo fuori dalla loro casupola e aveva maledetto tutti i santi per quell’evento. C’era forse logica in questo? Per tale motivo la spaventosa vista dello sfogo dell’uomo non l’aveva scandalizzata.
Erik, da parte sua, non seppe come sentirsi di fronte a quella sorprendente dimostrazione di umiltà. Gli occhi color miele della ragazza erano sinceri, erano gentili, e affondavano nei suoi senza vergogna, emanando franchezza e comprensione. Non era dunque tipo da inutili giri di parole…finora, tutte le volte in cui s’erano parlati, aveva indugiato solo al principio in oziose frasi di circostanza e subito s’era immersa nel succo del discorso. In quello si assomigliavano, anche lui amava andare in fondo alle questioni e non perdersi in chiacchiere. Ma era anche un atteggiamento pericoloso. Se non avesse fatto attenzione, gli avrebbe estorto prima o poi qualcosa di proibito e forse non se ne sarebbe neanche accorto.
“Ehm…” imbarazzata dal suo silenzio, Vivian distolse lo sguardo e fece un passo indietro, le braccia ancora cariche dei brandelli di seta del vestito della bambola: “Credo che…sia arrivato il momento di tornare in camera. Avrete senz’altro da fare e non voglio tediarvi ancora. Questi…” alluse al suo fardello sollevandolo leggermente verso di lui: “…questi vorrei tenerli, se non vi dispiace. Ho trovato una scatola con il necessario per cucire e pensavo che con questa stoffa potrei realizzare qualcosa. Siete contrario?”
“No. Teneteli pure” rispose Erik d’impulso, chiedendosi perché avesse acconsentito così rapidamente.
Lei sorrise: “Grazie. Vado, allora”.
Era arrivata sulla soglia della sua camera da letto, quando lui la richiamò improvvisamente, mosso da un folle e fulmineo istinto: “Aspettate!”
Vivian si fermò, le dita strette sul tessuto della tenda per scostarla dal suo cammino e i ricci che formavano una nuvola intorno al suo capo, e si voltò lentamente dalla sua parte, dubbiosa: “Sì?”
Erik la fissò in silenzio per diversi minuti. Quello che aveva deciso di fare, così, sull’onda di un’emozione momentanea, era pura follia. Era il massimo esempio di incoerenza.
Ma allora perché avvertiva il dovere di mostrare a quella ragazza l’origine di ogni cosa? La causa, e non il motivo, delle sue azioni?
È proprio vero che l’essere umano è quanto di più imprevedibile esista al mondo.
Senza una parola, posò la mano destra sulla liscia superficie della maschera che gli copriva il volto e indugiò un istante, gli occhi azzurro scuro intensamente fissi in quelli interrogativi e calmi della sua ospite. Le orbite ambrate di lei si spalancarono appena, intuendo ciò che lui stava per fare, e lasciò la presa sulla tenda con repentino disinteresse, girandosi del tutto verso di lui. Egli notò gli esili muscoli delle braccia che le si irrigidivano e ne percepì con forza il nervosismo e la tensione. Forse un tempo, prima di Christine, sarebbe bastato questo a farlo desistere da quell’insano proposito.
Ma adesso non gli importava più. Cos’aveva da perdere? Quell’improvvisa comprensione dimostrata da lei? Non se ne faceva nulla d’un sentimento ispirato da cause sbagliate; ella, in fondo, era una donna, proprio come Christine. Alle donne interessava unicamente l’aspetto esteriore, la loro mente superficiale non era capace di accettare un volto tragicamente segnato dai giochi del fato, e in un certo senso, voleva sfidare Vivian, che sembrava tanto diversa dalle altre, e dimostrarle quanto in realtà la sua fosse tutta una recita. Il disgusto che si sarebbe dipinto sul suo viso segretamente bello gli avrebbe dato la conferma che anche gli esseri umani più sensibili erano in realtà feccia della peggior specie. Ci avrebbe pensato lui a demolire quella sua aria di falsa sicurezza.
Si sfilò la maschera dal volto, con una sorta di rabbiosa e ardente soddisfazione nello scoprirsi in tutto il suo orrore, e la gettò a terra senza riguardo, ributtando indietro i capelli castani in modo che i suoi lineamenti fossero perfettamente illuminati dalle candele. Non temeva più la reazione di un altro a quella vista, aveva contemplato troppe volte quell’espressione di inorridito ribrezzo per farne ancora un dramma. Che gridasse pure, che si voltasse di scatto con la mano premuta sulla bocca, la cosa non l’avrebbe intaccato minimamente.
Gli occhi di Vivian si posarono sulla parte destra del volto dell’uomo che l’aveva accolta di malavoglia in casa sua e un pallore improvviso si diffuse sulle sue guance olivastre. Inspirò bruscamente, senza, tuttavia, arretrare o distogliere il viso per godersi uno spettacolo più piacevole di quel reticolo di piaghe e cicatrici, e le sue labbra si dischiusero appena, conferendole un’espressione di stupore e di angoscia. Molti altri, Christine compresa, avrebbero preferito chiudere le palpebre su quella deformità un secondo dopo averla assaggiata la prima volta, invece lei si imbevve di un tale, crudele marchio con rispettosa attenzione, scorrendo uno sguardo angosciato sulle ferite che gli percorrevano il volto dalla fronte alla mandibola e riprendendo gradualmente colore. Erik restava immobile sotto quell’esame accurato, ma non morboso, e aveva le labbra serrate e gli zigomi raggrinziti in una smorfia di orgogliosa sfida. Attendeva che lei fuggisse nella sua stanza per non dover vedere più la sua condanna, e che si dileguasse dietro la tenda per non riapparirvi se non dopo che il suo periodo presso la Dimora sul Lago fosse terminato. Era la reazione più scontata, e non s’aspettava niente di meglio da lei.
Ma Vivian non accennò né ad andarsene, né a manifestare il disgusto a cui, dopo tanti anni, era assuefatto. Allungò una mano, come se volesse sfiorare le orribili piaghe che rovinavano completamente l’armonia dei suoi lineamenti, perfetti sul lato sinistro del volto, poi la ritrasse e se la nascose dietro la schiena. Sembrava incapace di distogliere gli occhi da lui; le cicatrici esercitavano sul suo animo un fascino analogo a quello che una contorta opera d’arte suscita in uno spettatore abbastanza sensibile da coglierne il vero significato, e il suo atteggiamento incominciava a diventare maleducato.
“Come…” mormorò, la voce appena un soffio: “Come è successo?”
Erik si mosse, a disagio. In lui si faceva strada pian piano l’antica vergogna e stava rimpiangendo con tutto se stesso d’aver gettato lontano la sua diletta maschera: “Sono sempre stato così” disse, con un tono che appariva inespressivo per quanto era in realtà carico di emozioni.
“Io credevo…”
“È quello che credono tutti. Ma non ho avuto alcun incidente, mademoiselle. Il buon Dio, se esiste” il suo accento si riempì di scetticismo: “Ha deciso di rendermi omaggio con questo difetto comune solo a me”.
Lei ne prese atto in un silenzio teso e angosciato. Ma che cosa la angosciava?
“È per questo che voi…” le parole le sgorgarono dalla gola concitate, ma s’interruppe quasi subito, arrossendo, e non completò la frase. Abbassò lo sguardo sulla testa mozzata della bambola che giaceva, semipelata, sul pavimento di pietra del salone sotterraneo, e lo alzò quindi nuovamente sul suo viso sfigurato. Un bagliore le illuminò le pupille, indecifrabile per Erik.
“Mi dispiace davvero molto, monsieur” disse infine, un po’ impacciata, consapevole di quanto suonavano banali e lievi le sue parole.
Lui spalancò leggermente gli occhi chiari, incredulo dinnanzi a quella reazione imprevista.
“Ma vedete…” continuò Vivian a fatica. Adesso aveva distolto lo sguardo da lui, ma non per una forma di ribrezzo o di orrore, cercava soltanto di non fissare in modo inappropriato le piaghe e di non metterlo troppo a disagio: “Essere diversi non è per forza una brutta cosa”.
Le labbra di Erik, piene e morbide sul lato sinistro del viso e storte e arricciate sul destro, si piegarono in una smorfia amara: “Voi non potete capire”.
“No…in effetti no…” l’imbarazzo s’imponeva prepotente nella fisionomia della ragazza: “Ma non vi sto raccontando frottole. Avete una bellissima voce e le vostre mani alitano vita in qualsiasi strumento. La natura non è stata dunque tanto malvagia nei vostri confronti, se ha voluto donarvi una simile abilità. E che cosa sono delle cicatrici, paragonate alle utopie che sapete creare?”  
L’uomo alzò su di lei uno sguardo talmente straziante da farle tremolare il cuore dentro al petto come un uccellino in gabbia: “Vorrei che tutti la pensassero come voi, mademoiselle” per un attimo la sua voce tremò, ma con una brusca ispirazione, si riprese da quell’inappropriato cedimento. Eppure gli occhi marroni di Vivian non erano orripilati come aveva creduto in un primo momento, non lo condannavano e aborrivano per la sua deformità…a lei dispiaceva. Un’esperienza totalmente nuova per lui.
Maledizione, l’aveva battuto per l’ennesima volta, e peraltro in una sfida che era stato Erik stesso a lanciarle! Che cosa doveva inventarsi per averla vinta su di lei?
“Io bella non lo sono mai stata” stava dicendo Vivian nel frattempo: “Ma naturalmente posso a malapena immaginare cosa si provi nella vostra situazione. Non sono brava in queste cose, però…vi ringrazio per avermi concesso questa fiducia. Deve essere stato molto difficile per voi mostrarmi…” gli accarezzò con lo sguardo la parte deturpata del volto e si umettò le labbra.
Ringraziarlo per averle concesso quella fiducia? Non le aveva certo fatto vedere il suo volto per dimostrarle che si fidava di lei, bensì per cancellare con il disgusto il suo assurdo desiderio di avere un contatto con lui. Prima di quel giorno glielo avrebbe subito detto, ma adesso scelse invece di tacere. Gli sembrava così meschino ricambiare il suo garbo con la malignità! Portò lentamente una mano a coprire le piaghe e chinò il capo, sentendosi all’improvviso molto stanco.
La fanciulla raccolse da terra la sua mezza maschera bianca, quasi avesse compreso il suo disagio, gli si accostò a passi lenti e misurati, senza sembrare spaventata o disgustata da quella vicinanza, e gliela tese proprio come aveva fatto Christine sei mesi orsono, quando l’aveva incontrato in carne ed ossa per la prima volta. Ma al contrario della sua antica musa, che aveva compiuto un tale gesto per pena e timore, ella lo fece per lui, per non protrarre ulteriormente la tortura di rimanere a volto scoperto innanzi a lei.
Erik la prese, muovendosi con tale agilità da non sfiorare la mano che gliela porgeva neppure con un dito, e si volse a mezzo per sistemarsela al posto consueto. Allorché il cuoio aderì rassicurante alla parte piagata della sua sventurata faccia, i suoi muscoli si rilassarono, sollevati che quella prova fallita fosse cessata. Si sentiva stranamente svuotato. Si era smascherato alla sua ospite per tormentare un essere umano con il suo aspetto diabolico e per svelare la superficialità nascosta dietro al suo apparente ardore, e invece lei si era dispiaciuta per lui. Probabilmente aveva smesso persino di disprezzarlo con tanta forza.
Il fruscio della tenda rosso porpora gli segnalò che la ragazza doveva essersi eclissata in camera sua, e il profondo silenzio calato sulla Dimora sul Lago gli pesò d’improvviso assai più di prima, gravandogli sulle spalle come un macigno. Levò uno sguardo torbido sulla gondola ormeggiata sul molo e avvertì il desiderio di allontanarsi dai suoi domini per qualche tempo e di ritrovare la calma abituale nel rumore dell’acqua gorgheggiante, nella caligine infernale che tutto avvolgeva e nella solitudine di Rue Scribe, perfettamente raggiungibile dal lago Averno. Anche lui, dopotutto, aveva bisogno di prendere aria.
Una volta ripulito l’animo da quelle strane sensazioni, sarebbe ritornato freddo e lucido come prima, ne era sicuro.
Doveva soltanto scomparire nella nebbia impenetrabile e lasciarsi alle spalle lo sguardo comprensivo e rammaricato di Vivian Carré.

 

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Capitolo 13
*** Dove una sinfonia solitaria si trasforma in un accordo conveniente ***


Dove una sinfonia solitaria si trasforma in un accordo conveniente
 

 
 
 
 
La tenda color porpora ricadde alle spalle di Vivian con un fruscio, occultando il salone principale della Dimora sul Lago, e l’imponente letto a baldacchino protetto dalla riproduzione del cigno in volo la accolse nel suo morbido abbraccio, proteggendola dal freddo. Si avvolse nelle coperte come in un bozzolo e tirò la cordicella che pendeva alla sua destra, lasciando che le cortine nere si srotolassero intorno a lei.
Che cosa l’aveva tanto colpita del volto del Fantasma dell’Opera?
Non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di quelle piaghe che gli deturpavano orribilmente la parte destra del viso, partendo dalla mascella e arrampicandosi come una tenace edera avvizzita fino all’ampia fronte, dove crescevano le ondulate ciocche castane. Non aveva mai contemplato, prima d’ora, dei lineamenti così sciaguratamente segnati dal fato, e una deformità a tal punto crudele e bizzarra: su di lui faceva l’effetto di un tumore maligno che gli aveva corrotto soltanto un lato di una faccia che, se fosse stata integra e sana, sarebbe apparsa avvenente, distinta e fiera. Egli aveva un fisico alto e muscoloso, occhi che sembravano di zaffiro e una pelle che, laddove non era contaminata dall’orrore, risultava liscia e morbida, senza un solo accenno di ruga. Sarebbe stato bellissimo, se solo il malevolo difetto non l’avesse oppresso.
Ecco dunque svelato l’arcano, il motivo per cui compariva in pubblico con l’onnipresente maschera bianca a coprirgli le orrende cicatrici: non la indossava per incutere paura, per rendere più netta la sua somiglianza con un essere soprannaturale o per completare il suo travestimento…egli si vergognava di mostrare al mondo il proprio aspetto demoniaco. E aveva tutte le ragioni per farlo, in effetti, poiché la maggior parte della società si sarebbe convinta che una tale mostruosità, peraltro radicata in lui dalla nascita, fosse un marchio che il Diavolo aveva voluto lasciare a quell’uomo per farne un suo discepolo. Tutto, in lui, sembrava suggerire un’origine diabolica: quelle piaghe, l’inumana bravura nel mescere le note e creare meravigliose sinfonie, la voce d’angelo che toccava i recessi più profondi dell’anima, le iridi scintillanti pari a quelle dei gatti…al volgo sarebbe bastato questo per linciarlo e bruciare sul rogo lui e le sue ardenti composizioni.
Tuttavia Vivian, suo malgrado, pensava che uccidendolo il mondo avrebbe perduto più di quanto avrebbe guadagnato. Egli era sì un genio folle e una creatura che si nutriva dell’oscurità e della solitudine di quella caverna sotterranea per sopravvivere, ma non era Satana colui che gli aveva fatto dono di quella voce celestiale e di quella destrezza innata nel musicare i sentimenti più profondi e potenti. Esse erano troppo intense, commoventi e trascinanti per non rivelarsi un’opera di Dio.
Se la sua faccia fosse stata tutta quanta sana e orgogliosamente affascinante, nessuno l’avrebbe mai chiamato “Figlio del Diavolo”, ma sarebbero accorsi da ogni parte del mondo, dall’Italia, patria delle belle arti e dall’Oriente, terra delle spezie e del caldo perenne, per ascoltare il suo canto e godere del suo dono divino. Il suo nome, che la ragazza neanche conosceva, sarebbe stato motivo di reverenza e di ammirazione, avrebbe fatto il giro del pianeta e sarebbe stato sulla bocca di re, ministri e aristocratici…ed era sicura che lui, in quel caso, non si sarebbe mai trasformato in un crudele ed efferato assassino, non sarebbe ricorso alla sua falsa identità di fantasma per vendicarsi dei torti subiti…sarebbe stato un uomo ricco e normale, con un bel palazzo, una schiera di servitori e magari una moglie graziosa e soddisfatta a cui avrebbe dedicato il frutto della sua mente geniale. Non sarebbe stato costretto a rapire una bellissima cantante e a trascinarla là sotto con la forza per ottenere da lei un minimo di considerazione, non si sarebbe ridotto a tenere in casa una sua perfetta riproduzione in cera, in assenza della Christine in carne ed ossa. Sarebbe stato un’artista di fama internazionale e un uomo felicemente sposato, con dei principi, se la Natura incomprensibile l’avesse ricoperto di bellezza completa, anziché di putredine.
Ma perché si scervellava ad immaginare ciò che sarebbe potuto essere, ma che non era stato? A cosa serviva indulgere in ipotesi che non si sarebbero mai potute verificare? Il Fantasma dell’Opera era sì infelice e sventurato a causa della sua deformità, ma questo non lo assolveva certo dai suoi crimini. Credeva d’avere il diritto di uccidere tutti coloro che lo intralciavano o che disprezzava, solo per l’aspetto della sua faccia? Vivian detestava ammetterlo, ma averlo veduto com’era realmente aveva sbollito parte della rabbia e dell’astio che gli portava, però non doveva dimenticare che restava comunque un assassino, e che un assassino meritava d’essere punito. I motivi per cui aveva compiuto i suoi delitti non erano importanti; le sue vittime non avevano alcuna colpa di ciò che gli era accaduto. E lei avrebbe portato a termine l’obiettivo che si era prefissata senza lasciarsi rammollire da sciocca compassione.
Lo scroscio dell’acqua del lago che veniva smossa dal remo e il cigolio della gondola che si staccava dal molo l’avvertirono che il Fantasma dell’Opera aveva appena abbandonato la sua dimora sfruttando la via meno intricata. Era sola in quel luogo oscuro per la prima volta da quando vi si era stabilita e credeva di intuire il motivo per cui il suo ospite aveva deciso di allontanarsi per qualche tempo: senza dubbio, quella di poco prima era stata un’esperienza nuova anche per lui. Doveva interpretarlo come un segno di fiducia, come un passo avanti nella buona riuscita del suo piano? Forse no. Forse era assai più plausibile che egli le avesse mostrato il suo volto per sfidarla e vedere come avrebbe reagito. In quel caso, si era comportata bene? Lo aveva colpito positivamente? Un mistero. L’uomo per lei restava tuttora un enigma, i suoi modi controllati e folli allo stesso tempo la confondevano e le rendevano arduo farsi un’idea concreta su di lui.
Ad Annecy le era capitato più di una volta d’incontrare uno storpio o un individuo oppresso da menomazioni fisiche, ma nessuno di loro assomigliava solo vagamente al Fantasma dell’Opera. Per lo più si trattava di disperati senza casa né denaro, di mendicanti tutt’ossa che chiedevano la carità agli angoli delle strade e bruciavano il guadagno giornaliero alla taverna locale, e non si curavano minimamente di loro stessi e di come apparivano. Il geniale musicista era tutto il contrario: malgrado la condanna delle piaghe, si indovinava perfettamente, osservandolo, che teneva al proprio aspetto. I suoi capelli erano quasi sempre pettinati e acconciati, il suo abbigliamento era costoso e ricercato e si sbarbava con cura ogni giorno. Quando le si era avvicinato molto, ormai quattro giorni prima, aveva perfino avvertito su di lui una fragranza assai piacevole, non eccessiva e pacchiana come certi profumi di cui si cospargevano pomposi gentiluomini, ma discreta e ammaliante. Senza esagerare nella cura di se stesso, l’uomo riusciva a sembrare elegante in maniera affascinante e ricercata.
Forse s’era persuaso a voler diventare del tutto un mostro, ma tale mostruosità non risiedeva all’esterno. E questo era un punto a suo favore: se per disgrazia Vivian si fosse rovinata il viso allo stesso modo, molto probabilmente si sarebbe lasciata andare del tutto. Quella del Fantasma dell’Opera era una maniera come un’altra di affrontare la cosa. E la gran quantità di libri che affollava la sua dimora, unita agli splendidi strumenti che egli aveva costruito di suo pugno e ai rotoli di pergamena per scrivere, le faceva supporre che con quei pochi averi aveva cercato di crearsi un suo piccolo, notevole mondo privato.
Sarebbe stato un individuo degno di ogni ammirazione, se solo non avesse permesso all’odio e alla sete di vendetta di corrompergli l’animo.
Appesantita dalle proprie elucubrazioni e congetture, la ragazza si alzò dal letto e tirò fuori dal cassetto interno del suo tavolino da lavoro le pagine che aveva riempito con la sua prima vera composizione. Leggendo distrattamente il loro contenuto, uscì dalla sua stanza senza timore, rassicurata dall’assenza del Fantasma dell’Opera (doveva assolutamente scoprire il suo nome) e si mise a passeggiare nell’ampio salone principale, i piedi nudi e infreddoliti che si appoggiavano sulla pietra umida e liscia e la gonna dell’abito verde che la seguiva frusciando. Era contenta di potersi aggirare liberamente per la Dimora sul Lago senza incappare nell’ira del suo proprietario, inghiottito insieme alla gondola dalla fitta cortina di nebbia che aleggiava sulle acque oscure.
“Mi farei volentieri un bagno, se solo la temperatura non rasentasse l’ipotermia” pensò con rammarico. Malgrado ciò, discese sulla riva di quello che il suo ospite chiamava “lago Averno” (aveva notato che si riferiva più volte al regno di Satana e a tutto quello che vi era legato) e sollevò la gonna di appena qualche centimetro, immergendo i piedi. Il freddo artico le bloccò la circolazione e le sollecitò un lungo brivido simile alla puntura di uno spillo, ma gradualmente si abituò alla morsa dell’acqua e smise di soffrirne tanto. Anzi, il gelo che essa le trasmetteva alle ossa irrigidite la aiutava a ridefinire la realtà in tutte le sue sfumature e a scacciare la confusione che la vista del volto dell’uomo aveva scatenato in lei.
Chiuse gli occhi, senza smettere di camminare con l’acqua che le lambiva le caviglie e le inzuppava l’orlo del vestito, e si rammentò con una morsa di nostalgia del fiume che scorreva nei pressi di Annecy e delle tante gite che insieme al padre aveva fatto nei paraggi. Avrebbe voluto averlo vicino, ora più che mai. Domandargli cosa avrebbe fatto al suo posto, e come sarebbe venuto a capo di quell’impiccio senza che si tramutasse in un’arma a doppio taglio. In quei giorni le era spesso accaduto di cadere preda di improvvise crisi di sconforto e di perdere fiducia in ciò che stava facendo; come poteva una semplice ragazza di campagna come lei riuscire a ingannare il Fantasma dell’Opera? E se lui l’avesse smascherata, cosa le avrebbe fatto? Non aveva dimenticato il divino furore con cui l’uomo aveva cantato l’ira di Otello e il sentimento che aveva messo in quei lamenti mentre il moro si avventava sull’indifesa Desdemona, e non aveva dubbi sul fatto che avrebbe potuto facilmente dirigere quella stessa furia su di lei, se si fosse scoperto tradito… il ricordo dei suoi ardenti occhi stravolti di rabbia e delle sue eleganti mani che laceravano la bambola con le sembianze di Christine era più vivido che mai.
Per quanto si mostrasse in ogni situazione padrone di se stesso e delle sue azioni, le aveva dimostrato che quell’apparente freddezza poteva mutarsi, sotto l’influsso del dolore e della rabbia, in una bestialità da predatore.
Doveva muoversi con cautela scrupolosa e impedire con ogni risorsa di trasformarsi nella sua preda inerme. In caso contrario, la sua fine sarebbe stata analoga a quella dell’infelice Desdemona e del pupazzo di Christine.
Riaprì gli occhi, passandosi una mano sulla fronte per allontanare quelle paure, e vide il pianoforte.
Non l’aveva mai notato in precedenza, il che era insolito. Ma forse, camminando sulla riva del lago con le palpebre abbassate, era penetrata in quella sezione del salone in cui le candele scarseggiavano e in cui l’oscurità era più profonda. Era collocato su di una pedana rialzata, di modo che l’acqua non potesse sfiorarlo, ed era notevole quanto e più dell’organo, con tasti di avorio che sembravano attendere unicamente il tocco di abili dita e pedali dallo scintillante colore dorato. Uno sgabello foderato di velluto rosso era accostato alla tastiera e il leggio non presentava alcuno spartito.
Vivian si fermò nei pressi, titubante, e toccò il legno verniciato di nero di cui era fatto con timore reverenziale. In mano teneva ancora, ben stretti, i fogli su cui aveva scritto note balenatele alla mente in seguito agli insoliti avvenimenti di quei giorni. Sarebbe stato tanto brutto, se avesse…
…ma d’altronde il Fantasma dell’Opera se n’era andato, quindi non si sarebbe potuto né arrabbiare né indispettire se lei avesse utilizzato per qualche minuto il suo strumento. Non si sarebbe trattenuta più di un quarto d’ora, e se ne sarebbe tornata in camera subito dopo. Che c’era di male, in fondo? Erano più di quattro giorni che non toccava più un tasto; le mancava la sensazione di piacere che accompagnava le sue suonate e la lieve pressione del piede sul pedale quando voleva enfatizzare alcuni passaggi. E sarebbe stato interessante suonare per la prima volta la sua composizione e vedere cosa ne sarebbe venuto fuori.
Rompendo gli ultimi indugi, appoggiò i fogli ricoperti della sua disordinata calligrafia sul leggio e sedette sul morbido velluto dello sgabello, sistemandosi la gonna nella maniera più comoda per lei e facendo scorrere le dita con timore sulla tastiera, senza indugiare su alcuna nota. Il contesto, c’era da dirlo, era il migliore che si potesse immaginare per un’esibizione importante: intorno a lei regnava il silenzio più assoluto, ogni cosa pareva congelata nell’attesa che la musica s’insinuasse nell’aria e gli archi di luce delle candele rilucevano sulle pareti e sull’acqua del lago, riempiendola di riflessi. Poteva perfino immaginare d’essere una pianista di gran fama e d’avere dinnanzi, poiché non distingueva quasi nulla, una platea gremita di volti rapiti e di sguardi assorti. Sarebbe stato un sogno, nulla più, dal momento che l’unica vera artista in famiglia era stata sua madre, ma perché non comportarsi infantilmente, per una volta, e concedersi di assaporarlo proprio perché era tale? Non era forse, tutta quell’assurda situazione, una sorta di sogno?
Godiamocelo, quindi. Lei era la più celebre pianista mai esistita al mondo, Vivian Genévieve Leroix (era quello il suo vero cognome, quello ereditato da suo padre, ma a Parigi s’era stabilito che dovesse chiamarsi Carré come Amélie per sfruttarne l’antica fama), non aveva alcuna rinomata cantante in famiglia e stava per esibirsi in un pezzo inventato di fresco, uno dei suoi ultimi successi. Era arrivata gente da tutto il mondo, nobili, borghesi, politici ed ecclesiastici per avere l’onore di ascoltarlo per la prima volta ed era della massima importanza non commettere alcun errore e non sfigurare davanti a loro. Avevano grandi aspettative circa la sua esibizione; Vivian li sentiva bisbigliare nell’oscura platea ed elogiarla per il suo glorioso passato, per la sua stupefacente bellezza e per le sue onorevoli origini. Già, perché suo padre, Vincent Leroix, nativo di Annecy, aveva sposato una ricca contessa e ne aveva ereditato il titolo, e dalla loro felice unione era nata lei, pupilla di entrambi i genitori e talento naturale per tutto ciò che riguardava la musica. Il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau aveva speso una fortuna per poterla ascoltare quella sera, ma lei aveva fatto sapere con sdegno che non avrebbe suonato se il giovane si fosse trovato nel pubblico, ed era stato rimandato bruscamente al mittente.
Le risultò più facile di ogni previsione calarsi in quel ruolo da sogno e persuadersi d’essere davvero una famosa pianista. Non che una parte di lei non avvertisse un pizzico di vergogna, e persino pena per quella specie di gioco, ma aveva deciso di metterla a tacere per qualche tempo e aveva lasciato campo libero all’immaginazione.
Arrivò al punto di alzarsi con un radioso sorriso dipinto sulle labbra e di accennare una riverenza in direzione del lago oscuro, nel punto in cui aveva stabilito dovesse esser collocato il pubblico. Le rispose lo scroscio dell’acqua, un applauso entusiastico e impaziente, e s’affrettò a tornare al piano, ansiosa di compiacere i suoi trepidanti spettatori. Diede un’occhiata alle note che lei stessa aveva tracciato sul pentagramma e posò le dita sui tasti giusti, preparando la punta del piede sul pedale di destra e assumendo quell’espressione serena, sicura e placida che aveva veduto sui volti degli orchestrali la sera del “Re degli Elfi”. Attese che un cardinale in terza fila avesse tossito, poi incominciò.
In effetti fu qualcosa di…molto stimolante. Le sue dita allenate danzavano sulla tastiera d’avorio con grazia e tempismo perfetti, diffondendo nel salone sotterraneo l’aria che aveva composto alcuni giorni prima, e la consapevolezza delle aspettative che il pubblico aveva su di lei faceva sì che mettesse nelle note tutto il sentimento e l’impegno di cui era capace, affannando e sudando in un parossismo di concentrazione e di esaltazione. Il pezzo prevedeva un accompagnamento canoro, ma sfortunatamente il tenore che avrebbe dovuto fare coppia con lei s’era ammalato all’ultimo momento e non era stato possibile sostituirlo. Per questo era della massima importanza suonare al meglio delle sue capacità: il compito di rendere speciale la romanza gravava unicamente sulle sue spalle. Dipendeva tutto da lei, e se fosse riuscita a conquistare la platea, sarebbe diventata sul serio la più grande pianista del diciannovesimo secolo.
Era una visione alquanto curiosa quella della ragazza seduta al magnifico pianoforte a coda, vestita di verde e con i riccioli scuri disordinatamente raccolti sulla nuca da alcune forcine, paonazza e ansimante come se si stesse dilettando in una corsa, che pestava a tutto andare i tasti d’avorio e accompagnava i passaggi particolarmente intensi con aggraziati movimenti del capo e dondolii del busto, gli occhi socchiusi in un’espressione di concentrata estasi e il sudore che le scorreva dalle tempie fino al seno ansante. Era troppo presa a suonare per giudicare oggettivamente se la sua composizione fosse buona o meno, ma senza dubbio aveva ripreso la sua passione senza che il periodo di inattività appena trascorso la danneggiasse in alcun modo. Le sue dita trovavano le note con facilità e il fatto che lei stessa avesse composto la canzone faceva sì che non incontrasse particolari ostacoli nell’esecuzione. Tutto intorno a lei era svanito, la Dimora sul Lago, quella storia assurda e senza senso, le preoccupazioni e le angosce, per lasciare spazio unicamente allo strumento e alla melodia che ne scaturiva potente e furiosa.
Più di una volta, monsieur Brochet l’aveva rimproverata dicendole che suonava in maniera troppo violenta e sonora e che non era capace di affievolire le note e spargere delicatezza su un brano. Vivian non condivideva il suo pensiero: era il suo stile, il suo marchio di fabbrica, perché avrebbe dovuto cambiarlo solo per adeguarsi agli altri? Lei non era né mite, né delicata, né tantomeno dolce, di conseguenza non avrebbe mai potuto esprimere con la musica sensazioni di tal genere. Era irruenta, focosa ed energica, impulsiva ma capace di guardare le cose in faccia e di chiamarle col loro nome. Poco importava che il suo antico insegnante considerasse il suo modo di suonare “indigeribile”.
D’altro canto, aveva sempre coltivato la convinzione che con quell’aggettivo non volesse definire soltanto il suo stile, ma lei in generale. Strinse le labbra e aumentò ulteriormente la potenza delle note, gridando, con ciascuna di esse, i vincoli che la trattenevano, le angosce che la tormentavano, i desideri irrealizzabili…
Do: Sarò sempre la brutta copia di mia madre…
Re: Nessuno potrà mai apprezzarmi per quello che sono…
Mi: Forse morirò in questo sotterraneo…
Fa: Perché mi sto autocommiserando?
Sol: Vorrei uccidere Antoine Baptiste Rappenau…
La: Se solo mio padre tornasse in vita…
Si: Vorrei che il Fantasma dell’Opera si fidasse di me…

Aveva appena cessato di indugiare nell’ultima nota e nel suo inaspettato significato, che una voce emerse dalle tenebre del lago, proprio nel punto in cui era collocato il suo pubblico immaginario, e domandò, con evidente stupore: “Voi suonate il pianoforte?”
Vivian sobbalzò come se le avessero sparato un colpo e per lo spavento rovesciò a terra i fogli con sopra la sua canzone, portandosi una mano al cuore e girandosi di scatto in direzione del suo molesto ascoltatore, il viso pieno di diffidenza e di imbarazzo e le guance che avvampavano pari a quelle di una pudica damigella. Suonare il piano era senz’altro un’attività più normale e consona del fare a pezzi una statua di cera, ma la vergogna che provò fu analoga a quella del suo ospite poco tempo prima, poiché per lei tale momento era ugualmente intimo e importante.
Il Fantasma dell’Opera, ritto sulla prua della gondola che galleggiava oscillando sulla riva del lago, il remo in pugno e l’ampio mantello che lo rivestiva come un sudario, la scrutava con un misto di sbalordimento e di prudente interesse dalla zona d’ombra in cui aveva scelto di fermarsi e i suoi brillanti occhi azzurro scuro passavano da lei allo strumento a intervalli regolari, quasi dovessero conciliare due immagini completamente diverse. La sua abilità nel dissimulare qualsiasi tipo di emozione non lasciava intravedere nulla dietro alla posa composta del suo viso mascherato, tuttavia qualcosa, nella sua postura, rivelava ch’era rimasto colpito dall’esibizione di Vivian.
Lei si chinò subito a raccogliere i fogli sparpagliati a terra e se li strinse al petto in un istintivo gesto di autodifesa, gli occhi bassi e le orecchie bollenti per il modo in cui era stata sorpresa. Da quanto tempo la ascoltava mentre diffondeva nell’aria la sua romanza goffa e dilettantesca? Dall’alto della sua celestiale bravura, doveva considerarla senz’altro una mediocre novellina da quattro soldi, un affronto alla divina arte della musica.
“Perché non avete palesato la vostra presenza?” le uscì un tono vagamente accusatorio, e non poté che rimanere divertita da quel sorprendente scambio di ruoli. Finse di dover riordinare le carte sul leggio per avere il pretesto di voltargli le spalle.
La risposta che arrivò da lui era asciutta: “Anche voi non l’avete fatto, poco fa”.
Il rossore sul volto di Vivian aumentò: “Era diverso”.
“Davvero? In cosa?”
Aprì la bocca, ma la richiuse senza dir nulla. In effetti non vi era alcuna differenza tra le due situazioni. Entrambi, se avessero saputo che l’altro li stava osservando, non si sarebbero lasciati andare alle emozioni in quel modo, e adesso era il suo turno di pagarne le conseguenze. Rimase in un silenzio imbarazzato, detestandosi per non mostrare l’abituale prontezza di spirito in quella situazione di svantaggio. Era lei a doverlo analizzare, non il contrario.
L’uomo scese dall’imbarcazione con quei movimenti sicuri, agili ed eleganti che lo contraddistinguevano da tanti suoi simili e la legò alla riva senza staccarle di dosso lo sguardo intenso e penetrante: “Non avevo idea che sapeste suonare il piano” scelse le parole con cura, ben attento a non lasciar trapelare un interesse eccessivo, dal momento che era la prima volta che gliene mostrava: “Perché non lo avete detto?”
Vivian continuò a non guardarlo, sentendosi sgradevolmente indagata. Le succedeva sempre, quando si trattava di lei e del suo talento. Era troppo disincantata per credere di essere davvero dotata: “Voi non l’avete chiesto, monsieur” disse a bassa voce: “E non volevo…ecco, non volevo sembrare presuntuosa vantandomi di qualcosa che faccio per puro e banale divertimento”.
Lui sollevò un sopracciglio: “Non si direbbe proprio che suoniate per divertimento, mademoiselle Carré. Anzi…”
“Leroix” lei lo disse d’impulso.
“Come?”
“I-io sono mademoiselle Leroix” un attimo dopo averlo rivelato, se ne pentì. Mai, mai entrare in confidenza con l’oggetto della propria indagine. Essere gentili sì, compiacerlo sì, ma evitare qualsiasi riferimento alla propria vita e ai propri segreti. Significava abbassare la guardia, tracciare confini meno netti, assumere un atteggiamento confidenziale che avrebbe potuto ritorcerle contro il suo stesso giochino e tramutare lei nella vittima e lui nel carnefice. Il suo avversario era pur sempre il Fantasma dell’Opera, era un maestro dell’inganno e del camuffamento, nonché un uomo di gran lunga più maturo ed esperto di lei, se gli avesse aperto la propria anima si sarebbe consegnata da sola nelle sue mani, e non dubitava che lui l’avrebbe spezzata seduta stante. Se fosse stata una brava spia, si sarebbe dovuta limitare a sorridere e ad essere carina.
Ma non era abile in nessuna delle due cose, e il fatto che lui le avesse mostrato il suo volto, che avesse messo a nudo la sua deformità…magari aveva agito in tal modo al solo scopo di terrorizzarla, ma era stata comunque una mossa audace, e sentiva di doverla ricambiare. E poi, a parte tutto, ormai il danno era fatto.
Sulle labbra del suo ospite danzò un sorriso obliquo e stranamente divertito, e un luccichio gli illuminò le iridi feline: “Mademoiselle Leroix, eh?” si rigirò il nome in bocca con palese godimento, trapassandola con uno sguardo beffardo: “Dunque non sono solo io ad avere segreti qui, dico bene?”
Vivian girò il capo di lato, sforzandosi di recuperare il manico del coltello: “Non ho nessun segreto, monsieur” la frase le uscì disgraziatamente esitante e poco convinta: “Mio padre si chiamava Vincent Leroix e ne ho ovviamente ereditato il cognome. Sono mademoiselle Leroix. Beh, a dire il vero non sono neanche una mademoiselle” rise, amara: “Sono solo Vivian” fece eco a parole già pronunziate in precedenza, ma con un significato meno profondo.
“Posso azzardare una domanda?” l’uomo non aveva abbandonato il suo atteggiamento beffardo e sardonico e le si avvicinava lentamente, come un leone che s’accosta all’ignara gazzella, senza che lei se ne rendesse conto: “Perché allora avete detto a tutti di chiamarvi Vivian Carré?”
La ragazza si sostenne al pianoforte come per cercarvi un soccorso. Era evidente quanto più debole fosse di lui: qualcosa la obbligava a rispondere, qualcosa di invisibile ma di potente che invece non aveva rappresentato un ostacolo per il fantasma quando era stata lei a porgli delle domande. Avrebbe potuto emularlo ed esortarlo a farsi gli affari suoi, ma il modo in cui la esaminava con quei grandi occhi azzurro scuro e il genuino interesse che per una volta sembrava nutrire per lei bastavano a sconfiggerla. Si era messa in trappola.
“Conoscete…” prese un profondo respiro, tirando fuori quel nome come se fosse stato un getto di bile: “Conoscete Amélie Carré?”
Lui aggrottò l’ampia fronte e si aggrondò in viso, poi scosse il capo: “Mai sentita nominare”.
“Davvero?!” senza volerlo le uscì un mezzo grido. Si premette una mano sulla bocca, avvampando, e recuperò una parvenza di normalità: “Dite sul serio, monsieur Fantòme?”
“Certamente” l’uomo aveva un tono a metà tra il perplesso e il contrariato: “Cosa c’è di strano?”
“Niente, ma…vent’anni fa è stata la cantante più rinomata di Parigi, e dato che voi eravate probabilmente un adolescente a quei tempi, immaginavo che ne aveste sentito parlare”.
“Mademoiselle, molte dive si sono contese il titolo di primadonna qui all’Opera e la metà di loro non valeva più del mio lucido da scarpe” commentò il fantasma con elegante disprezzo: “L’ultima, Carlotta Giudicelli, assomigliava più ad un baccalà che ad un essere umano. Non spenderei neppure un minuto del mio tempo ad ascoltarne i gracidii, e presumo che se non sono a conoscenza della donna di cui parlate, era probabilmente dello stesso stampo di questa, perché se avesse avuto talento per come lo valuto io, sarei stato ben lieto di assistere alle sue esibizioni dal palco numero cinque”.
Gli angoli della bocca di Vivian si curvarono all’insù e nel suo petto si levò un grido di vittoria che quasi la assordò. Era la prima volta, la prima, che qualcuno osava criticare e addirittura insultare la grande Amélie Carré. E non si trattava d’un critico qualunque o di un ecclesiastico pomposo, era il Fantasma dell’Opera in persona, indiscusso genio della musica e dotato di una voce formidabile, a metterne in discussione il talento! Avendone udito le splendide melodie, aveva ragione di fidarsi dei suoi giudizi, e non riusciva a dare nome all’intima esultanza che danzava dentro di lei. Era un comportamento orribile e indegno di una brava figlia, ma non riusciva a impedirselo.
“Sembrate alquanto soddisfatta, mademoiselle Leroix” Erik l’aveva studiata attentamente mentre un tumulto di gioia prorompeva nelle sue vene e l’aveva raggiunta accanto al piano: “Chi è questa Carré di cui parlate?”
“Mia madre” mormorò lei tra sé e sé. Era troppo assorta dalla propria reazione alla critica rivolta a quella maledetta donna che evidentemente ancora la tormentava dall’oltretomba per notare il lieve sorriso sorpreso dell’uomo che con tanta leggerezza l’aveva criticata: “Vostra madre” le fece eco, divertito: “È per questo che vi siete appropriata del suo cognome? Per avere delle raccomandazioni?”
Fu una pugnalata inaspettata e dolorosa. Si irrigidì da capo a piedi, l’esultanza e la gratitudine che svanivano nella calda incandescenza della rabbia, e si volse a guardarlo con un movimento rapido, ritrovandosi con il volto vicinissimo al suo e con il corpo che quasi toccava quello di lui. Ma a differenza della prima volta in cui si era verificato un evento simile, non palesò alcun tipo di disagio o imbarazzo e lo guardò dritto negli occhi penetranti, i lineamenti distorti in una smorfia d’ira: “Non ho bisogno di alcuna raccomandazione” sibilò: “Io sono un fantasma, come voi. Lo spettro di una musicista di gran lunga più dotata di me. Quando mi guardo nello specchio, è lei che vedo…lei, con meno bellezza e talento” allungò una mano a sfiorare la liscia superficie della maschera che copriva le piaghe sul volto di Erik e sorrise vedendo che s’irrigidiva a sua volta: “E voi che cosa vedete nello specchio, monsieur Fantòme, qualsiasi sia il vostro, di nome?”
L’uomo arretrò leggermente, stringendo le labbra, gli occhi che si muovevano a scatti dentro ai suoi come se fosse lui, per una volta, a non riuscire a staccarsene. Le prese il polso, allontanandole la mano e accompagnandola delicatamente fino al fianco, e parlò in un sussurro freddo e malsicuro: “Non sapete rispondervi da sola?”
La bocca di lei prese una piega torva: “Non vi conosco quasi per niente, monsieur. Non so nulla di voi, neanche come vi chiamate. Come potrei decretare chi siete veramente? E come voi potete giudicarmi, dal momento che non sapete nulla di me? Non mi stimate neanche”.
S’aspettava che il fantasma si ritraesse come era solito fare o che ribattesse a tono, invece rimase immobile accanto a lei, tenendole il polso in una stretta ferrea e indugiando nel suo sguardo franco con le mosse di qualcuno che aveva scoperto qualcosa che credeva inesistente. Da parte sua, Vivian non tentò di divincolarsi e non finse un pudore che non le apparteneva. Christine Daaé era povera quanto lei, ma si sarebbe senz’altro scostata con le gote paonazze e il bellissimo viso scandalizzato e avrebbe trovato repellente il contatto di quella mano guantata che le stringeva il polso e di quegli occhi intensi che esploravano i suoi.
Trasalì, accorgendosi di ciò che aveva appena pensato. Perché si era messa a far paragoni con l’antica musa del suo ospite?
Lui la lasciò andare all’improvviso, staccandole la mano dal polso come se si fosse scottato e volgendo altrove il suo fiammeggiante sguardo, e mise tra loro una prudente distanza di sicurezza, indietreggiando di almeno tre ampie falcate. Appariva a disagio, vacillante sotto il fardello di una nuova ed inaspettata insicurezza, o forse quel qualcosa che aveva scorto negli occhi di Vivian l’aveva turbato più di quanto volesse ammettere. Indugiò sul pianoforte, soffermandosi sui fogli che lei aveva appoggiato sul leggio e dando una rapida scorsa alle note, e tornò alla questione che aveva affrontato per prima con la fretta di chi è imbarazzato: “Dunque sapete suonare il piano. E neanche troppo male, oserei dire”.
Lei sollevò entrambe le sopracciglia e piegò il capo di lato in una perfetta rappresentazione di scetticismo, ma non colse alcun segno di menzogna o di canzonatura nella fisionomia del fantasma: “Voi vi burlate di me, monsieur” sussurrò, con un’esitazione che tradiva la sorprendente speranza di aver impressionato favorevolmente il più grande musicista mai esistito al mondo (dopo averlo sentito, non aveva avuto dubbi nel definirlo così). Possibile che proprio lui la apprezzasse? Che la reputasse brava, quando né sua madre, né monsieur Brochet, né madame Lefevre lo avevano fatto? Se la stava prendendo in giro, l’avrebbe ucciso.
Lui fece un sorriso sghembo: “Che motivo avrei di burlarmi di voi, mademoiselle?”
“Lo avete già fatto molte volte”.
“Vero, ma non è mia abitudine scherzare quando si tratta di musica, credetemi” c’era del sincero buonumore sulle sue labbra: “Ho udito soltanto la conclusione della vostra esibizione, ma direi che siete…molto intensa e passionale. Ovviamente avete ancora molto da imparare e si sente, in alcuni passaggi, la vostra inesperienza, però…avete già un vostro stile. Ed è questo che fa la differenza tra un banale musicista e un vero artista”.
Vivian scosse la testa con stolida ottusità, come per negare quelle parole che le giungevano totalmente inaspettate, dalla persona che in passato aveva dimostrato di disprezzarla pienamente. No, la stava ingannando, voleva solo farle del male con false illusioni, si rifiutava di credere che un genio di quel calibro pensasse davvero che lei aveva del talento. Aveva deciso di apprendere a suonare il piano soltanto perché, considerata la storia di sua madre, era l’unica strada percorribile per lei, ma sapeva fin dall’inizio che non avrebbe fatto la differenza…di non essere speciale in nulla. Una “speciale” come Amélie non lasciava spazio ad altri.
“Smettetela di prendermi in giro!” prima che potesse trattenersi, le sgorgò dalla gola un grido rabbioso e rimase sinceramente inorridita dalla scarsa capacità di autocontrollo che aveva appena dimostrato. Non si sarebbe dovuta comportare così. Non avrebbe dovuto lasciarsi andare alle emozioni e all’angoscia con l’uomo che voleva consegnare alla giustizia. Che cosa diavolo le saltava in mente?! Gli volse le spalle, non sopportando di mostrargli la propria debolezza, e strinse forte le palpebre, respirando pesantemente per recuperare la calma.
Dietro di sé avvertì lo sconcerto di lui, la lunga pausa carica di perplessità che riempiva lo spazio che li separava. L’uomo tese una mano, lasciandola sospesa sopra la sua spalla nelle mosse di appoggiarvisi, poi la ritrasse, guardandosela contrariato, come se avesse agito con volontà propria, e finì per infilarsela goffamente dentro al mantello: “Ma…mademoiselle Leroix?” la chiamò con cautela, addolcendo la voce solitamente fredda e aspra: “Ho detto qualcosa che vi ha offeso?”
A lei scappò quasi una risata isterica: “No, non questa volta, monsieur Fantòme”.
“E allora…” esitò, trattandola con curioso riguardo: “Allora cosa avete?”
Sarebbe stato troppo complicato spiegarglielo, e non voleva dare a quell’uomo la capacità di farle del male. C’erano alcuni segreti che custodiva nel fondo della sua anima da anni, piaghe interne orribili e marce come quelle che lui aveva sul viso di cui non voleva svelare l’orrore, e aveva nascosto la chiave che li teneva imprigionati ormai da tanto tempo che non ricordava più dove fosse. Aveva costruito la sua intera esistenza sulla base della determinazione, dell’impudenza e dell’orgoglio, poiché erano cose che nessuno avrebbe potuto portarle via o biasimare, e non intendeva farseli demolire dalla voce suadente del Fantasma dell’Opera per mettere a nudo l’insicurezza, l’odio e il rancore sepolti sotto di essi. La vera Vivian era mostruosa assai più del suo volto sfigurato.
Si assicurò che sui suoi lineamenti ci fosse la solita espressione calma e irriverente prima di girarsi a guardarlo. Vacillò appena quando s’accorse che la freddezza, il disprezzo e l’arroganza lo avevano temporaneamente abbandonato, per lasciare spazio ad una sincera mortificazione, di cui forse lui stesso era inconsapevole. I suoi occhi…i suoi bellissimi occhi azzurro cupo… erano ancora più luminosi quando non si scurivano di rabbia, dolore e risentimento. A Vivian parve di annegarci dentro, e senza volerlo gli barcollò più vicina, cercando una fermezza che stentava a trovare.
“Mademoiselle…” Erik parve misurare le parole: “Voi avete del talento”.
“Non è così!” avrebbe voluto girare il capo di lato con sdegno, ma era intrappolata nelle sue iridi scintillanti. La mortificazione sui tratti di lui si incrinò un poco, mescolandosi al fastidio d’essere così ostinatamente corretto in un ambito in cui peraltro non aveva rivali: “No, mademoiselle, sono serissimo. Quello che ho sentito…era buono. Lo avete composto voi?”
La giovane digrignò i denti. Era adirata con lui senza alcun motivo razionale, perché si incaponiva nel rimarcare una cosa assolutamente falsa e illusoria. E perché una parte di lei desiderava credergli con tutte le forze e riconoscere che in fondo non era soltanto una poveretta di media bellezza, di origini campagnole, con una mediocre attitudine per la musica e nessuna dote da offrire, ma una persona che aveva qualcosa da dare, che nella sostanza contava quanto tanti altri più ricchi di lei.
Il problema era che questa era la realtà, e aveva cessato da tempo di credere nelle favole. Poteva sognare d’essere una grande pianista, ma ciò non si sarebbe mai verificato. Ed era scorretto da parte del fantasma mentirle, dicendo che era qualcosa che non era affatto.
“Una volta” sussurrò: “Avevo composto una piccola ballata in chiave di sol. Ci avevo lavorato giorno e notte, mettendoci tutto l’impegno possibile. L’avevo dedicata a mia madre…ma quando gliel’ho fatta sentire, ha detto che l’unico luogo in cui me l’avrebbero lasciata suonare era un bordello e che era buona solo per fare da sottofondo alle danze delle sgualdrine”.
Erik ne prese atto in silenzio. Vivian, al contrario, ascoltò stupefatta il suono di quelle parole che non aveva mai rivelato a nessuno che indugiava nell’aria intorno a loro. Era un fatto stupido e puerile, ma era stata l’umiliazione più tremenda della sua vita. L’espressione di benevolo compatimento di sua madre e il tono di elegante disprezzo con cui aveva liquidato la sua ballata a volte la torturavano ancora, infliggendole staffilate di dolore nel petto. Eppure averlo raccontato, aver buttato fuori quell’evento la faceva sentire adesso più leggera e meno oppressa, come se si fosse liberata di un fardello pesantissimo che da tempo le gravava sulle spalle e lo avesse gettato in un dirupo, disfacendosene. Poco importava che si fosse mostrata debole.
“Mademoiselle” disse l’uomo al termine di una lunga pausa muta: “Non avete mai pensato che vostra madre si sia comportata così perché era invidiosa di voi?”
La ragazza trasalì, alzando su di lui uno sguardo sinceramente sbalordito: “Cosa?! Mia madre invidiosa di me? Siete pazzo?”
Lui sorrise, come se quella frase concitata avesse dato conferma a certe sue supposizioni. Le prese con delicatezza il mento volitivo tra le eleganti dita guantate, strappandole un piccolo sussulto per quell’improvviso contatto, e le alzò il capo finché non ebbero gli sguardi perfettamente allineati. Per la prima volta da quando lo conosceva, Vivian si sentì in balia di lui, sommersa dal suo profumo selvaggio, dalle sue iridi brillanti, dall’aura di percepibile sicurezza che sempre gli gravitava attorno, e quella sconvolgente miscela di sensazioni le inculcò la paura d’essere diventata improvvisamente inerme e indifesa, e che se lui avesse continuato a guardarla negli occhi in quel modo, gli avrebbe rivelato tutto quanto, il suo piano, i suoi propositi, il reale motivo per cui si era insediata nella Dimora sul Lago, e si sarebbe condannata con le sue stesse mani. Era prigioniera come il serpente che esce dal suo nascondiglio irretito dalle note dell’incantatore.
“Non sono niente in confronto a lui” si trovò a pensare: “Ha sempre avuto tutto quanto sotto controllo”.
Erik si avvicinò ancora di più e il cuore della ragazza aumentò i battiti in modo vertiginoso, pompandole sangue nelle vene ad un ritmo forsennato e tramutandole il corpo in un ammasso tremante, malsicuro e instabile. Che cosa le stava succedendo? Cos’era quel fiotto caldo che s’irradiava dal ventre e allungava mille propaggini nel petto, nelle gambe e nel cervello? Una semplice reazione a quella posizione fin troppo intima? Eppure aveva veduto il suo volto appena poche ore prima, sapeva quale orrore si celava dietro la liscia superficie della maschera…avrebbe dovuto provare disgusto, raccapriccio per la vicinanza di quella faccia deturpata. Invece…
“Voi siete una brava pianista, mademoiselle Leroix” quelle parole fluirono dalle labbra affilate di Erik con la massima calma e tranquillità, evidenziando il maggiore autocontrollo del fantasma a fronte di quella ambigua prossimità, e le indirizzò tale complimento con freddezza sincera, senza scomporsi: “Non permettete ad uno spettro di dire il contrario”.
Si scostò da lei con un movimento fluido, prendendo i fogli dal pianoforte, e fece scorrere le pagine con attenzione mentre i suoi occhi leggevano interessati le note scarabocchiate nella disordinata calligrafia della ragazza: “È notevole. Anzi…molto notevole. Dove avete trovato l’ispirazione?”
Vivian si circondò il busto con le braccia e batté le palpebre con aria allibita e confusa. Era naturale per lui ignorare completamente l’altrui fisicità e comportarsi poi in maniera del tutto normale, come se niente fosse accaduto? Oppure era lei ad avere qualcosa di sbagliato, a custodire senza saperlo una vena di follia? Egli era un assassino e un mostro…non un aristocratico avvenente e fiero come Antoine. Perché aveva provato soltanto un ribrezzo totale e completo quando il secondo l’aveva inchiodata alla vetrata dell’angelo, ed aveva reagito in quella maniera assurda alla vicinanza del primo?
Per tutti gli angeli del paradiso, adesso non poteva fidarsi neppure di se stessa? Si lasciava ritorcere contro le sue trame come una qualsiasi novellina, mutando il suo piano in un’arma a doppio taglio? No, se l’avesse permesso, avrebbe perso quella poca autostima racimolata finora! L’aveva capito perfettamente, il bastardo: voleva sedurla, farle abbassare la guardia e impadronirsi della sua anima come un tempo aveva tentato di fare con Christine. L’unica differenza stava nel fatto che la talentuosa cantante l’aveva amata, mentre nei suoi confronti nutriva soltanto un vago interesse. Maledetto!
Gli si rivolse con tono freddo e duro, nascondendo abilmente il tumulto che infuriava dentro di lei: “Potete arrivarci anche da solo. Ultimamente la mia vita è stata alquanto…movimentata. È naturale che queste note mi siano balenate alla mente”.
“È un lavoro…interessante” non poté fare a meno di notare quanto elegantemente si muovesse Erik mentre poggiava sul leggio i fogli e indugiava sulla tastiera in un’amorevole carezza, e come gli fluttuava intorno il mantello ad ogni scossone: “Desidererei che lo suonaste una seconda volta, se non vi è di troppo disturbo”.
Vivian indietreggiò, sulla difensiva: “Come?”
“Mi avete sentito. Penso che lavorandoci potrebbe venir fuori qualcosa di davvero buono” egli era già lanciato in quel nuovo progetto musicale e, benché la composizione fosse opera della sua ospite, ne parlava come se se ne fosse appropriato, vista la sua maggiore esperienza e il suo talento di gran lunga migliore: “Poiché dovete rimanere qui ancora qualche giorno, forse sarebbe il caso di impiegarlo in qualcosa di costruttivo. Potrei darvi qualche lezione e aiutarvi a perfezionare lo scheletro della vostra canzone”.
Lei non era certa di aver sentito bene: “Voi volete farmi da insegnante?”
“In un certo senso. Voglio ripulirvi dalle imperfezioni che vi portate appresso e tramutare il vostro talento naturale in qualcosa di completo. Qualche giorno è un periodo decisamente troppo esiguo per trasformarvi in una vera musicista, ma vi permetterà di sicuro di affinare la vostra tecnica. Cosa ne dite, mademoiselle?”
Vivian temeva una trappola. Perché aveva cambiato idea così improvvisamente? Fino al giorno prima le aveva ordinato di restare in camera sua e non infastidirlo con la sua presenza, e adesso si dichiarava pronto a darle lezioni di piano? Lo studiò attentamente nell’inutile tentativo di decifrare qualcosa dietro alla sua espressione impassibile, ma captò soltanto, forse, un accenno di confusione e un pizzico di sbalordimento, come se egli stesso fosse sorpreso dal proprio invito. E in effetti l’aveva pronunciato d’impulso, sull’onda di un entusiasmo nuovo e inaspettato, sorprendendo tanto lei quanto se stesso. Insegnare ad una giovane allieva…aveva fatto la stessa cosa con Christine Daaé tempo prima, e Vivian sperava con tutta se stessa che non le avesse proposto di usufruire del suo sapere sotto l’influenza del passato e dei ricordi. L’odio con cui aveva fatto a pezzi la sosia della sua amata era stato atavico e assoluto…l’ultima cosa che desiderava era trasformarsi nella sua immagine, sebbene non si assomigliassero affatto.
Però qualcosa sul suo viso, nel suo sguardo, le suggeriva che ciò non sarebbe successo. Egli non aveva pensato a lei neppure una volta come ad un’immagine di Christine. E poi, aveva forse scelta? Se voleva portare a termine il suo piano, rifiutare la sua gentilissima offerta sarebbe stata la mossa peggiore da farsi. Era tenuta ad accettare, e a confidare nel proprio raziocinio e nelle motivazioni che la spingevano a consegnarlo. Doveva fidarsi di se stessa…altrimenti sarebbe stato tutto vano.
“D’accordo, monsieur” mormorò, stupita dal proprio tono di resa: “Ne sarò molto lieta”.

 

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Capitolo 14
*** The world will never find you ***


“….the world will never find you”

 
 
 
 
 
Finalmente aveva smesso di nevicare. Il cielo s’era aperto sopra i tetti d’ardesia e gli imponenti monumenti di Parigi e un timido sole gettava raggi giallastri su Rue de Seine, la bianca Notre Dame e Place de Grève, da secoli fulcro di esecuzioni pubbliche e di spettacoli che avevano stimolato i più biechi istinti umani, adesso ingannevolmente purificata dal candore della neve depositatasi sui ciottoli e sui balconcini delle case. Una colomba, mimetizzata dalla coltre, si scrollò di dosso alcuni fiocchi in un frullo d’ali e s’alzò in un volo leggiadro, girando tutt’intorno all’Ile de la Cité, virando su Saint Germain de Prés e innalzandosi poi ad un’altezza considerevole che le concesse una veduta libera del centro di Parigi. Appesantita dal freddo e dalla vecchiaia, s’abbassò sul tetto intarsiato dell’Opera Garnier e andò a posarsi sopra la testa di un angelo di marmo, ripiegando le ali sul dorso con un movimento elegante e scrutando con placida stupidità il viavai di esseri umani che sciamava sotto di lei. 
Una giovinetta usciva in quel momento sull’ampio piazzale, stringendo un ombrellino nero che avrebbe dovuto ripararla dalla nevicata e che s’apprestava ad aprire. Accorgendosi, tuttavia, che il cielo s’era aperto, lo abbassò fino ad immergerne la punta nella coltre di ghiaccio e si calcò sulla fronte il cappellino, stringendosi in un cappotto di modesta fattura che, unito all’assenza d’una carrozza accorsa a prenderla, ne rivelava le origini non proprio rispettabili. Doveva essere la figlia d’un borghese scarsamente arricchito o di un artigiano che aveva fatto fortuna, alta non più di un metro e cinquantacinque e pressoché priva di forme, con un visetto da roditore e due occhietti inquieti che scrutavano il mondo dal basso in alto in cerca di eventuali pericoli. Era pallida in modo preoccupante e le mani le tremavano visibilmente mentre si infilava i guanti, e la smorfia che le torceva le sottilissime labbra era un chiaro indice d’una divorante angoscia. Passò in mezzo ad un gruppo di bambini impegnati in una battaglia a palle di neve con rapide falcate, impaurita d’essere accidentalmente centrata da qualcuno di quei proiettili candidi, e si diresse senza esitazioni in Boulevard des Capucines, tenendosi sotto le tettoie delle case per camminare laddove non c’era ghiaccio e lanciando occhiate desiderose alle vetrine luccicanti delle pasticcerie.
Una carrozza riccamente decorata, con ruote impreziosite d’oro e quattro cavalli purosangue a trainarla, si staccò dalla sua comoda immobilità in Place de l’Opéra e imboccò la stessa strada presa dalla ragazza, le tendine di velluto rosso completamente tirate cosicché i passeggeri erano ben nascosti al suo interno. Il cocchiere, interamente avvolto in un ampio pastrano e in una spessa sciarpa, si tenne ad una certa distanza da lei, procedendo lentamente apposta per non superarla e seguendo, apparentemente, dettagliate istruzioni.
Lei non parve accorgersene, ansiosa, così sembrava, di raggiungere la sua meta il più in fretta possibile e assorta in meste riflessioni, gli sporgenti denti davanti che mordicchiavano il labbro inferiore e le guance scarne arrossate dal freddo. A metà del viale, entrò in una bottega che vendeva generi alimentari di ogni tipo e la carrozza accostò sul bordo di un marciapiede, sostando pazientemente in attesa che terminasse le sue compere. Attraverso il vetro, la si vedeva in fila al bancone, un foglio con su scritto ciò di cui aveva bisogno stretto al petto e un atteggiamento di timidezza per la gran quantità di gente affollata all’interno. Faceva la spesa da sola: non proveniva da una famiglia borghese. Se così fosse stato, avrebbe avuto almeno qualche domestico. A questo punto si poteva facilmente presumere che il padre fosse nel ramo del commercio. Giunto il suo turno porse la lista al garzone dietro al banco e lo salutò con la familiarità del cliente abituale, scambiandoci qualche chiacchiera leggera. Lui infilò quattro uova, un sacchetto di zucchero, una busta di farina e alcune patate in una busta e la diede alla ragazza, che se la mise in spalla e lo pagò facendo un cenno di congedo con la mano. Tornata in strada, i suoi occhi verde scuro sfiorarono per un attimo la magnifica carrozza, ma non parvero attribuirle particolare importanza e si rimise in cammino di buona lena.
Il cocchiere le fece fare circa venti passi, poi frustò i dorsi possenti dei cavalli e li esortò a muoversi. Una voce maschile, forte e giovane, emerse da dietro le tendine e ordinò seccamente: “Adesso”.
Erano ormai abbastanza lontani dall’Opera da non rischiare d’esser visti.
La ragazza aveva appena raggiunto il punto in cui s’incrociano Boulevard des Capucines e Boulevard de la Madeleine quando la carrozza divorò il tratto che li separava e si fermò in uno stridio di ruote accanto a lei, scagliando lontano zolle di neve grigiastra e strappandole un sobbalzo di sorpresa. Balzò all’indietro nel timore d’essere investita, sollevando la busta con dentro il cibo come se fosse stata uno scudo e rannicchiandosi su se stessa come una tartaruga nel suo guscio, e sbarrò gli occhietti impauriti nel viso pallido, lasciandosi sfuggire un gemito. Il cocchiere tirò le redini con forza, facendo arrestare i destrieri, e la trapassò con un’occhiata fredda e disinteressata da dietro la sciarpa: “Siete Emma Boisson?”
Lei batté le palpebre, confusa e disorientata, e aprì la bocca per lo choc, ma senza che alcun suono ne scaturisse. L’uomo sbuffò e assunse un atteggiamento più scortese: “Vi ho fatto una domanda. Siete Emma Boisson?”
Guardandosi attorno come se non si capacitasse di ciò che le stava succedendo, la ragazza riuscì a fare un impercettibile cenno d’assenso con il capo. Osservò la splendida carrozza con ammutolito stupore, chiedendosi, di sicuro, cosa potesse volere da lei il proprietario di una tale meraviglia, per poi guardare il cocchiere con un’espressione a metà tra l’impaurito e l’esterrefatto: “Chi…chi siete?”
Lui non si prese la briga di rispondere. Indicò lo sportellino con un brusco gesto della mano e grugnì: “Salite”.
“C-come?” d’impulso Emma indietreggiò, stringendosi la busta al petto e guizzando una rapidissima occhiata agli altri passanti nella speranza d’avvistare un gendarme a cavallo che avrebbe preso atto della situazione, si sarebbe avvicinato e le avrebbe domandato gentilmente se andava tutto bene. Sempre che avesse il coraggio di aiutare la figlia di un bottegaio importunata da un uomo a bordo di una carrozza tanto sontuosa…a volte le regole del mondo erano tutto fuorché giuste e imparziali. Purtroppo per lei, non s’era mai trovata in una situazione simile in passato e ciò, unito alla sua naturale timidezza, faceva sì che fosse completamente impreparata a fronteggiare l’ostacolo indesiderato. Sapeva, però, che non era abitudine degli uomini far salire a bordo del loro mezzo una fanciulla poco attraente come lei per approfittarsene. Il motivo doveva essere differente.
Certo non poteva assolutamente entrare dentro la carrozza di uno sconosciuto solo perché il suo cocchiere glielo aveva comandato. Sarebbe stato un comportamento indegno di una signorina con un minimo di senso dell’onore.
Come se avesse compreso la sua riluttanza, la presenza che si celava dietro lo sportello scostò le tendine scarlatte di appena qualche centimetro, quel tanto che bastava a mostrarle una mano forte e mascolina, con la carnagione liscia e bianca di un giovanotto nel fiore degli anni e le unghie curate di un ricco. In particolare protese nella sua direzione il medio, facendo scintillare l’anello che portava a quel dito. Era d’oro zecchino e aveva incastonata una grossa pietra rossa con scolpita in rilievo una figura minuziosamente riprodotta: un drago rampante con dietro una spada.
Il viso scarno di Emma si riempì di stupore e i suoi occhi spaventati si spalancarono appena, riconoscendo quell’immagine nota perfino a lei.
Era il blasone dei Marchesi Rappenau.
Non poteva ignorare l’ordine di un membro di quella antichissima e celebre famiglia. Osava a malapena immaginare cosa le avrebbero fatto, se avesse voltato le spalle con sdegno a quella mano inanellata. Tanto più che aveva la Marchesina Colette in persona come compagna di corso.
Senza più alcuna esitazione, lasciò che il truce cocchiere le aprisse lo sportello e si chinò per entrare nello spazio ampio e confortevole, accomodandosi su un morbido sedile rivestito di stoffa bordeaux. Alzò uno sguardo timoroso e atterrito sul proprietario dell’anello e vide un volto arrogante e fascinoso, con il mento importante, i lineamenti cesellati e una folta chioma di capelli biondi e curati che gli ricadeva sui glaciali occhi celeste chiaro. Una vampata salì a riscaldarle le guance e un’esclamazione di stupore fece per scaturirle dalle labbra: “Marchesino Rap…”
Lui le appoggiò la mano sulla bocca, mettendola a tacere, e le rivolse un sorriso seducente che mise in risalto denti candidi e in ottime condizioni: “Non pronunciate il mio nome qui, mademoiselle Boisson” disse con voce suadente e modulata: “È nel mio interesse lasciare…segreto il nostro incontro. Spero che capirete”.
Lei lo fissò con l’aria sperduta e vergognosa di un topolino spaurito, le labbra che sembravano fremere sotto il tocco delle sue dita come se cento millepiedi ci stessero strisciando sopra. Fino a quel giorno non l’aveva degnata d’una seconda occhiata, anzi, l’aveva trattata con tale indifferenza che s’era persuasa d’essere invisibile al suo sguardo di ghiaccio e di fiamma, e l’aveva osservato da lontano, abbassando subito la testa se si voltava nella sua direzione e celando alle compagne, anche a quelle con cui era più in confidenza, l’amore prorompente e infelice che aveva coltivato per lui negli anni. Egli era così avvenente e fiero, così sicuro di se stesso e delle sue capacità come lei non era mai stata, ed emanava una luce calda e benefica che riscaldava chiunque gli stesse vicino…laddove cadeva il suo sguardo, sembrava splendere il sole. Non aveva mai nutrito la patetica speranza che potesse interessarsi a lei: tra tutte le belle ragazze che c’erano a Parigi, perché mai si sarebbe dovuto innamorare di un tipo bruttino e introverso come lei? Era troppo realistica per desiderare che il suo sentimento potesse essere ricambiato, e in ogni caso lui non avrebbe mai ottenuto dal padre il permesso di sposare la figlia d’un commerciante ebreo. Da quello che ricordava, in quei tre anni che entrambi avevano frequentato l’Opera le si era accostato solo una volta, mentre era diretto al guardaroba, urtandola accidentalmente sulla spalla e pronunciando un freddo: “Scusatemi” senza nemmeno guardarla.
Eppure adesso la stava guardando…e c’era un sincero interesse nei suoi magnifici occhi, una nuova intensità sul suo bellissimo viso. Per la prima volta da quando si incrociavano, la stava trattando come un vero essere umano, e non come un elemento di arredamento. L’aveva persino invitata nella sua carrozza! Perché? Cosa poteva volere da lei? E che cosa significava quell’atteggiamento di intima complicità? Le domande affollavano la mente confusa di Emma e il cuore le sfarfallava impazzito dentro al petto minuto, indeciso tra un’esaltazione pericolosa e un terrore atavico. Forse avrebbe preferito persino che avesse continuato ad ignorarla. A questo…a questo non sapeva come reagire. Finora non s’era mai trovata sola con un uomo.
“Non abbiate timore, mademoiselle Boisson” Antoine, che naturalmente si era avveduto del suo imbarazzo (era opinione comune che le si leggesse tutto in faccia), ampliò il proprio sorriso allo scopo di metterla a suo agio, ma ottenendo l’unico risultato di confonderla ancora di più: “Vi assicuro che non ho cattive intenzioni. Mi spiace di avervi incontrata così, ma non vedevo altra maniera di farlo”.
“N-no” balbettò lei pateticamente, consapevole del suo cappotto sgualcito, dei capelli raccolti in una crocchia severa e del profilo scarno e aguzzo del suo viso. La sua totale mancanza di fascino era palese: “No, mio signore, capisco perfettamente…voi siete un personaggio così importante, e io…”
“Vorrei comunque rimediare ai fastidi che vi reco” la interruppe lui, senza dar mostra d’aver ascoltato veramente i suoi farfugliamenti incomprensibili: “Ditemi dove abitate e sarò ben lieto di accompagnarvi a casa, mentre parliamo”.
“Dove…dove abito?” gli fece eco la fanciulla con crescente disorientamento. Lui inarcò un sopracciglio biondo, un’espressione divertita e affascinante che gli si dipingeva sui nobili tratti, e annuì: “Esatto”.
“Oh” lei cercò freneticamente di recuperare il controllo: “E-ecco, i-io… vivo in Rue…in Rue…”
“Sì?”
“In Rue Cambon, numbre 15”.
“Bene” egli alzò la voce in modo che il cocchiere potesse sentirlo e, con evidente autorevolezza, ordinò: “Gerard, accompagniamo mademoiselle in Rue Cambon 15!”  
Emma si passò le mani guantate sul viso per schiarirsi le idee e, allo stesso tempo, accettare del tutto quella sorprendente situazione che non avrebbe mai immaginato possibile. Il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau l’aveva seguita mentre usciva dalla sua consueta lezione all’Opera, l’aveva invitata nella sua carrozza personale e adesso l’accompagnava a casa come se fosse stata una gran dama, e non una timida ragazzetta figlia d’un gioielliere. Era troppo per lei, troppo per chiunque. E non osava sperare che si fosse comportato così perché dietro a quella messinscena c’era un interesse amoroso nei suoi confronti. La bellezza amava solo la bellezza. Era una regola che aveva appreso ormai da tempo. Se mai si fosse sposata, suo marito sarebbe stato un collega di suo padre di mezz’età, onesto e probo ma privo del benché minimo fascino, ebreo come lei e pronto ad offrirle una casa pressoché identica a quella in cui viveva ora, con la famiglia e i quattro fratelli. Gente della sua risma e gente della risma di Antoine non erano fatte per intendersi, ma solo, nel caso dei primi, per servire i secondi.
Non avrebbe dovuto amare ciò che non poteva avere. Né, probabilmente, si sarebbe dovuta prestare ai progetti di Antoine nei suoi confronti, se le avesse fatto delle avances. La sola conclusione possibile di una storia del genere sarebbe stata il disonore per lei e nessun cambiamento per lui. Si proibiva di accettare questo, solo perché lo desiderava.
“Monsieur” assunse un tono più fermo e meno insicuro, sebbene non le fosse ancora possibile guardarlo direttamente in faccia. Per comodità, esaminò i complicati ricami tessuti sulla sua giacca rosso porpora: “Posso chiedervi, adesso, la ragione di questo incontro?”
“Naturalmente. Ne avete il pieno diritto. Sappiate che non è mia abitudine fermare oneste damigelle per strada e farle salire sulla mia carrozza con la forza”.
“Non l’ho mai pensato” replicò lei con foga, malgrado tra le ragazze del suo corso circolasse la voce che il bel Marchesino era solito condurre l’amante di turno nel suo rifugio in Rue Saint-Honoré proprio con quella particolare carrozza: “Avete senz’altro un motivo, mio signore”.
“Sono lieto che comprendiate. Molte ragazze si sarebbero sentite a disagio in una situazione analoga a questa. In tal caso, ci tengo a precisare che il mio ultimo desiderio è recarvi fastidio con profferte amorose. Non mi sarei comportato così, se fossero stati questi i miei piani”.
“Oh” mormorò Emma. Si rimproverò per la fitta, breve ma intensa, di delusione che le aveva ghermito il cuore come un artiglio rapace. Era più che logico che lui non l’avesse invitata là dentro perché era interessato a lei. Egli gradiva donne di gran lunga più attraenti, o che perlomeno sapevano come sedurre un uomo. Si afflosciò un poco sul sedile e si sentì all’improvviso molto stanca, e assai desiderosa di chiudere quella faccenda in fretta. Sua madre la stava aspettando con ansia, avevano una cena da preparare e, in quanto figlia maggiore, doveva comportarsi con responsabilità.
“A dire il vero” riprese Antoine animosamente, protendendosi verso di lei e assumendo un atteggiamento cospiratorio: “Volevo parlarvi di una questione alquanto spiacevole. Si tratta della vostra amica. Mademoiselle Vivian Carré”.
Emma alzò su di lui gli occhi verde scuro, una smorfia di angoscia che le pervadeva il viso insignificante: “Vivian?”
La giovane era scomparsa misteriosamente ormai da cinque giorni. Nessuno l’aveva più vista, né all’Opera né in casa della sua tutrice, Madame Lefevre, ed era stata cercata in lungo e in largo per tutta Parigi, senza alcun risultato incoraggiante. Sembrava essersi volatilizzata nel nulla, evaporata dalla città come se un paio d’ali le fosse spuntato dalla schiena permettendole di volare via. La notizia avrebbe destato uno scalpore assai maggiore se fosse stata di nobile nascita, ma aveva ugualmente portato caos e confusione a molti: se era scappata, qual era la ragione di un gesto tanto sconsiderato e disonorevole? Non vi era alcun motivo apparente, dal momento che non aveva riscontrato insormontabili difficoltà nella sua nuova vita a Parigi, né s’era lamentata di alcunché. L’unica avvisaglia della sua sparizione, a detta della sua tutrice, era stata un comportamento bizzarramente assente e depresso l’ultimo giorno che era stata vista in casa. A quanto pareva, la ragazza s’era chiusa in camera, rifiutando cibo e assistenza, e non si era recata alla sua lezione di piano senza addurre alcuna giustificazione.
La sera stessa era scomparsa.
In un primo momento Madame Lefevre aveva creduto che le fosse accaduto qualcosa di terribile e che fosse stata aggredita da qualche furfante da vicolo, ma a smentire queste ipotesi era giunta una stranissima lettera di Vivian stessa, recapitata alla sua tutrice da “un’ombra”, come l’aveva definita la domestica che l’aveva rinvenuta per prima, e vergata di parole ambigue e pressoché incomprensibili:
Chére Madame Lefevre,
vi prego di non angosciarvi se non mi troverete nella mia stanza questa mattina e le altre nove che seguiranno. Per ragioni che non posso spiegarvi mi vedo costretta a lasciare la vostra casa e i miei impegni all’Opera per qualche tempo, ma confido nella vostra comprensione e in un perdono che questa figlia ingrata non merita affatto. Siete stata gentile e disponibile ad accogliermi con voi ed immagino che questa mia azione vi sconvolga e vi offenda. Non me la sento di biasimarvi. Ma sappiate che, nonostante non possa rivelarvele per cause di forza maggiore, ho ottime ragioni di rimanere fuori dalla circolazione per un po’. E che il mio onore, e il vostro, di conseguenza, sono al sicuro: parlando chiaramente, non sono fuggita con un amante. Vi invio questa missiva perché non vi preoccupiate per me, sto bene e non corro alcun pericolo.
Salutate Emma, Madame Giry e le altre ragazze da parte mia e perdonatemi, se potete.
La vostra umile e devota figlia adottiva,
Vivian Carré
Quando aveva terminato di leggere la lettera, Madame Lefevre era svenuta.
“Non vi angustiate, mia cara signora” le aveva detto il capo della gendarmeria dopo aver esaminato a sua volta la breve missiva: “Probabilmente si tratta di una ragazzata. Alla sua età, le fanciulle spesso mettono in atto fughe di questo genere. È un segno di ribellione, un modo per farsi notare. Vedrete che ritroveremo la vostra pupilla e ve la riporteremo sana e salva”.
“Si è compromessa, vi dico!” strillava lei sventolando convulsamente un ventaglio ricamato per farsi aria: “Se n’è andata con un giovanotto!”
“Lei dice di no”.
“Quella piccola ingrata dice tante cose! Se penso a quello che dirà la gente io… io…”
“I sali, presto!”
In merito a quella storia, Emma pensava soltanto che Vivian avesse realmente delle buone ragioni per essersene andata di casa. Si conoscevano da poco tempo, ma presumeva di averla capita abbastanza bene, grazie soprattutto ai suoi modi diretti e sinceri, e sapeva che non era tipo da tagliare la corda solo per capriccio o per una cotta passeggera. Ella aveva dimostrato d’essere una ragazza assennata e fin troppo consapevole della stupidità di certe azioni, non si sarebbe mai smentita in maniera tanto palese. Ma tale conclusione preoccupava ancora di più la giovane corista: se la sua amica aveva i suoi validi motivi per scomparire dalla circolazione, quali erano? E quanto grande era la loro gravità? Per arrivare ad un atto simile, dovevano essere davvero terribili e privi di scampo! Soltanto una situazione seriamente rischiosa avrebbe indotto una fanciulla onesta a rischiare la reputazione e ad abbandonare un tetto sicuro per recarsi…chissà dove.
“La vostra espressione vi tradisce, mademoiselle” Antoine l’aveva scrutata attentamente mentre reagiva al nome dell’amica. Le sue pupille ebbero un guizzo, un fremito impercettibile: “Immagino quanto siate in pena per la vostra sodale”.
Lei si circondò le gambe con le braccia, incapace di nascondere l’angoscia: “Darei qualsiasi cosa per sapere dove si trova”.
“Dunque non vi ha rivelato nulla, prima di andarsene?”
“No…” sollevò le mani con i palmi rivolti all’insù in un gesto di rassegnata desolazione: “Sono stata colta di sorpresa esattamente come tutti gli altri”.
Il giovane rimase in silenzio per un poco, meditando sulle sue parole, le labbra appena distorte in una smorfia di vago fastidio come se avesse dovuto rinunciare alla via più semplice e rapida per arrivare alla sua sconosciuta meta. Si guardò l’anello con aria torva, scintillante nella semioscurità della carrozza, e le sua spalle si spianarono all’improvviso: “Però voi siete la persona che ha frequentato mademoiselle Carré più di tutte le altre, in questo ultimo periodo. Deve avervi sicuramente confidato qualcosa, lanciato un allarme…a chi, se non a voi?”
“Ve l’assicuro, non è così”.
“Io invece sono certo che se riflettete intensamente vi accorgerete di possedere un’informazione che potrebbe portare a lei” insistette Antoine. Le si fece più vicino, ogni traccia di impassibilità svanita dai suoi lineamenti perfetti, una convulsa trepidazione nella voce e nelle iridi cerulee: “È possibile che la vostra amica vi abbia accennato a qualcosa che la preoccupava, o che aveva destato il suo interesse?”
“Non…non so” Emma si nascose nell’ombra del cappellino, a disagio. Non comprendeva la ragione di quella specie d’interrogatorio, e non le pareva affatto un comportamento da gentiluomo, quello che il Marchesino stava sfoggiando con lei. Si sarebbe offesa, se la sua timidezza non l’avesse frenata per paura di indispettirlo con le sue lamentele: “Non credo…”
“Pensateci!” l’esortazione gli sfuggì di bocca secca e perentoria, un ordine che il padrone indirizza al servo sciocco e inefficiente, un ringhio infastidito per la scarsa utilità che ricavava da quel colloquio. Emma trasalì, come se fosse stata sferzata da un colpo di frusta. L’indignazione per l’ingiustizia che stava subendo le infuse un po’ di coraggio e si volse a fronteggiarlo stringendo le palpebre in un’espressione di sospetto: “Ma a voi che cosa importa, monsieur?”
Ovviamente era a conoscenza del tentato corteggiamento che Antoine aveva fatto a Vivian, dei doni che le aveva inviato nella casa di Madame Lefevre, delle poste in Place de l’Opéra, degli ammiccamenti segreti all’ombra di vicoli o dietro le spalle della sorella Colette. L’erede dei Rappenau aveva messo gli occhi sulla sua amica poiché era nuova, attraente e sicura di sé e aveva provato a sedurla come gli era abituale, ma lei aveva rifiutato le sue profferte con freddezza esemplare e aveva più volte ripetuto in presenza di Emma di considerarlo un ragazzino viziato innamorato di se stesso. E se lui non era stupido, cosa di cui la fanciulla era sicura, se n’era certamente reso conto. Perché tutta quell’ansia di scoprire dov’era finita Vivian? Cosa avrebbe guadagnato se l’avesse ritrovata? E cosa lo spingeva a trascinare nella sua carrozza un’onesta damigella solo per ricavare da lei qualche informazione su un’altra damigella, che gli aveva fatto capire chiaramente di non gradirlo?
Parve preso in contropiede dalla sua domanda e per qualche attimo fu lei ad avere in mano la situazione, ma si riprese ben presto, riacquistando la sua freddezza ed occultando la tensione convulsa che per un attimo era affiorata dietro la maschera da gentiluomo: “Perdonatemi. Non volevo forzarvi la mano. È solo che…io…” una sfumatura rosea si dipinse sulle sue guance, un fenomeno assai raro, e distolse il viso come se s’imbarazzasse.
Emma lo incalzò: “Sì?”
“Ecco…” la sua aveva l’aria d’essere una confessione: “Vi è mai capitato di amare senza alcuna speranza di venire ricambiato? Di provare angoscia e preoccupazione per una persona che preferirebbe essere buttata nella fossa dei leoni, piuttosto che avervi intorno?”
Al sentir ciò, fu il turno di Emma di arrossire violentemente. La situazione era piena di una disgustosa ironia. Se il giovane diceva la verità, provava per la sua migliore amica ciò che lei da anni sentiva per lui…poiché in effetti un ricco ha tutto il diritto di amare un povero, se la cosa gli piace. E la trepidazione emersa dal suo animo per una brevissima manciata di secondi era di per sé un indizio di uno scoramento molto forte. Tuttavia non era gelosa di Vivian e non le invidiava la fortuna che aveva sempre ambito per sé. Aveva soltanto trovato la conferma che i sogni non s’avverano, e che le ragazze come lei non si conquistano l’interesse dei giovanotti come Antoine.
“Capisco cosa volete dire” bisbigliò.
Lui sorrise speranzoso: “Dunque mi credete se vi dico che è il mio più ardente desiderio trovare Vivian e offrirle, se le occorre, tutto l’aiuto possibile? Che mi accontenterei di saperla sana e salva?”
La fanciulla annuì, ammutolita. Oh! Rifiutare questo! Come poteva Viv voltare le spalle al dolore sul viso stupendo del Marchesino, alle lacrime che gli luccicavano negli occhi? Pazza, pazza!
“Vi prego, quindi, di riflettere sugli ultimi momenti che avete trascorso con lei e di ricordare ciò che vi ha detto. Qualsiasi cosa può essere un indizio. E so che la sua sorte vi sta a cuore quanto sta a cuore a me”.
Emma si concentrò, portandosi una mano alla fronte e rievocando i giorni passati insieme all’amica. Vivian per natura era molto loquace e avevano discusso di varie questioni in maniera approfondita ed esaustiva, confrontando le loro opinioni e le rispettive idee. A differenza di molte ragazze, la sua amica non amava soffermarsi sulle frivolezze e i pettegolezzi locali ed era invece portata a conversare di argomenti fin troppo seri, con dovizia di particolari e senza esclusione di colpi. Se le altre cicalavano su una certa giovane rimasta incinta prima del matrimonio, Vivian era capace di affrontare, una volta sola con lei, lo spinoso tema dell’aborto e di domandarle in tutta franchezza cosa ne pensava, e se la suddetta giovane avesse dovuto risolvere il problema acquistando da un erborista la giusta pozione. Emma aveva scosso con vigore la testa, distogliendo automaticamente i pensieri da quell’argomento compromettente, ma l’altra aveva annunciato, con sincerità disarmante, che in determinate circostanze è meglio rinunciare da subito all’idea d’un figlio, anziché farlo soffrire in seguito con una condotta da pessimo genitore.
Lei la ammirava molto per la sua audacia, ma a volte non poteva fare a meno di supporre che avesse ricevuto un’educazione alquanto discutibile. Se sua madre avesse conosciuto la natura delle loro conversazioni, le avrebbe senz’altro vietato di vederla!
Ma a pensarci bene, negli ultimissimi giorni in cui s’erano viste Vivian s’era mostrata troppo distratta e assorta per discutere come in passato. E ciò che tanto la intrigava era…
“Il Fantasma dell’Opera!” le sue labbra sillabarono quel nome quasi senza emetterlo, mentre la strabiliante ipotesi che la sparizione della sua amica fosse legata a quella figura inquietante prendeva forma in lei per la prima volta. Possibile? Eppure già una volta una fanciulla era scomparsa dal teatro per mano di quello spirito assetato di sangue…la maledizione si era dunque ripetuta, e proprio a spese della povera Vivian? Oh, l’aveva avvertita di non giocare col fuoco, l’aveva messa in guardia sui rischi che comportava la sua insana ossessione!
“Cosa avete detto?” il suo interlocutore saltò su, rianimato, come se fosse riuscito finalmente a estorcerle l’informazione che desiderava, e ricacciò indietro a fatica un sorriso di trionfo: “Di quale fantasma state parlando?”
Emma si portò una mano al cuore. Forse si sbagliava…forse era solo una sua fantasia…in fin dei conti, era stata sul punto d’insinuare in presenza del Marchesino che la sua amica era da qualche parte, prigioniera di uno spettro dalla reputazione tutt’altro che onorevole…che figura le avrebbe fatto fare? Per colpa d’un’intuizione impulsiva, avrebbe fatto nascere sul conto della sua scomparsa ipotesi analoghe a quelle circolate intorno all’ormai Viscontessa de Chagny. E non voleva che gli altri all’Opera parlassero di lei allo stesso modo in cui parlavano di Christine. Antoine era fratello di Colette, la notizia sarebbe sicuramente passata dall’uno all’altra e, conoscendo la Marchesina, ella non avrebbe esitato neppure un attimo a diffonderla a tutte le sue conoscenze. Doveva proteggere la sua Vivian…proteggerla dalle maldicenze.
“Io…non ricordo cosa ho detto” balbettò, furiosa per la sua evidente incapacità di mentire: “Deliravo, senza dubbio”.
Una smorfia di fastidio alterò il volto regolare di Antoine. Egli aveva lo sguardo di un pescatore che ha preso il pesce all’amo, sicuro di avere la sua piena disponibilità nel farsi catturare, e che l’ha visto all’improvviso dibattersi nella morsa e accennare a liberarsi. Con un impercettibile sospiro di frustrazione le prese il viso fra le mani, avvicinandolo leggermente al proprio, e cercò i suoi occhi sfuggenti finché non li trovò. Li fissò con un’intensità magnetica che aveva ormai perfezionato da anni, con prede assai più riottose di lei: “Emma” sussurrò, straziato: “Ti prego, Emma, collabora con me. Sai quanto sono potente, sai di quali risorse posso disporre…sono l’unico in grado di prestare soccorso alla povera Vivian. E se tu non mi aiuti a ritrovarla, rimarrà nei guai. Perché è nei guai, non è così?”
La ragazza s’imporporò, le guance che scottavano a contatto con le affusolate mani del Marchesino. Era confusa, non riusciva a ragionare bene, né ad accettare pienamente quella situazione, in lei lottavano sentimenti contrastanti e avrebbe voluto prendere una boccata d’aria, o quantomeno che lui abbandonasse quella posizione insopportabilmente intima, affinché potesse schiarirsi le idee. Però in fondo il giovane non aveva torto. Che cosa era meglio, che la reputazione di Vivian si macchiasse un poco, o che restasse prigioniera del fantasma a tempo indeterminato? Nella lettera aveva affermato di non correre alcun pericolo, ma poiché ora Emma era certa che fosse stato lui a consegnarla, era anche possibile che l’avesse costretta a scrivere quelle parole per togliersi di dosso qualsiasi sospetto. E in tal caso la sua amica aveva un serio bisogno di aiuto! Cosa importavano le chiacchiere della gente?
Iniziò a parlare farfugliando, ogni parola inframmezzata da esitazioni e da rimorsi: “Dopo la notte del Re degli Elfi, Vivian si era…come dire… appassionata alla storia del Fantasma dell’Opera, e allora…”
Gli raccontò della decisione della ragazza d’indagare su quella figura misteriosa, dell’interesse insano che era cresciuto in lei nei giorni e dei comportamenti incoscienti che aveva assunto allo scopo di scoprire dove lo spirito si nascondeva, odiandosi per ogni frase pronunciata, ma dicendosi anche che stava aiutando la sua amica. Ella detestava Antoine e non avrebbe gradito affatto che fosse proprio lui a salvarla, ma se non c’era nessun altro disposto a farlo, doveva accontentarsi dell’insperata bontà d’animo del Marchesino. Lui l’ascoltò con attenzione famelica durante tutto il racconto, gli occhi simili a due laghi nelle cui profondità gorgogliavano segrete macchinazioni e oscuri pensieri, senza apparire particolarmente stupito da ciò che gli veniva rivelato, e parlò un attimo dopo che lei ebbe chiuso la bocca: “Credete quindi che Vivian si sia cacciata nei guai mentre indagava sul fantasma?”
“Non mi viene in mente nient’altro” rispose la fanciulla, ormai vinta: “Non pensava che a quella vicenda, giorno e notte”.
“Voi…” ebbe un’esitazione, prevedendo l’esito della sua domanda: “Voi non sapete dove si trovi questo fantasma, vero?”
“Secondo la leggenda abita nei sotterranei del teatro, in quella che chiama la sua Dimora sul Lago” spiegò Emma rendendosi conto di quanto suonava fantastica tutta quella faccenda: “Ma nessuno è mai riuscito ad attraversare l’insidioso percorso che conduce ad essa, a parte gli uomini che l’hanno danneggiata la notte del Don Juan, ma erano persone di basso ceto e dubito che siano facilmente rintracciabili…a meno che…”
“A meno che?”
Qualcosa dentro di lei le gridò d’interrompersi. Coinvolgere anche qualcun altro nella ricerca della sua migliore amica? Stava agendo davvero per il suo bene? Quella convocazione in carrozza, quelle domande voraci, tutto quanto aveva un che di strano e di ambiguo…forse…
Le dita del giovane, ancora serrate con delicatezza sul profilo ossuto della sua mandibola, le accarezzarono quasi inconsapevolmente le labbra e un fremito di piacere peccaminoso le fece perdere il filo della riflessione. Aveva sentito da qualche parte, forse da una delle sue compagne di corso sempre ben informate, che sulle labbra si concentravano una quantità inusitata di stimoli nervosi e che bastava stuzzicarle nel modo giusto per far impazzire di desiderio…proprio la stessa cosa che accadeva pizzicando il lobo dell’orecchio. E in effetti…
Le parole le sfuggirono rapide come uccellini spaventati: “Madame Giry sa qualcosa sicuramente, monsieur. È stata lei la notte del Don Juan ad indicare al Visconte de Chagny la strada da prendere per salvare la sua amata dalle grinfie del fantasma”.
Egli aggrottò le sopracciglia: “Madame Giry? La maestra di ballo?”
“Proprio lei. Vive quasi attaccata al palazzo dell’Opera, in Rue Auber 25. Frequenta il teatro fin da quando era molto giovane ed è a conoscenza di ogni fatto che lo riguarda da vicino”.
Il Marchesino ripeté a fior di labbra il nome che gli era stato rivelato e proprio in quel momento, come se la cosa fosse stata calcolata con minuzia, giunse da fuori la voce roca del cocchiere Gerard: “Monsieur Rappenau, siamo arrivati!”
Emma si riscosse come se fosse stata scrollata con forza. Le mani di Antoine, così calde e morbide, si staccarono dalla sua pelle bollente con eleganza serpentina e scostarono un poco le tendine scarlatte. Un raggio di sole s’insinuò all’interno della carrozza e gli cadde sul magnifico viso, svelando alla giovane un particolare che nella penombra non aveva notato.
Il suo orecchio destro. Per un attimo, sbirciandolo a quella nuova luce, le era apparso deforme e troppo piccolo…come se gli mancasse qualcosa. Il che era alquanto bizzarro, dal momento che avendolo osservato in segreto decine di volte, non le era mai capitato di carpire un particolare tanto incongruo. Prima che potesse però registrarlo appieno egli se ne avvide con la coda dell’occhio e s’affrettò a sistemarsi i capelli dorati in modo che gli coprissero le orecchie, con un gesto brusco e infastidito: “Credo che dobbiate andare, mademoiselle. I vostri parenti vi staranno aspettando, e non intendo trattenervi oltre. Vi ringrazio per avermi aiutato”.
Lei batté le palpebre, confusa: “Ma il vostro orecchio…”
“Orsù, andate a casa” le prese un braccio, improvvisamente sbrigativo, e le aprì lo sportello perché uscisse, quasi spingendola fuori: “Vedrete che ritroverò la vostra amica più in fretta che potrò”.
“Io…”
“Grazie ancora!” il metallo arricchito d’oro e di decorazioni si richiuse davanti all’espressione sperduta e pentita di Emma Boisson e le fu negata bruscamente qualsiasi occasione di capir meglio quel che era accaduto in quella scarsa mezz’ora. Antoine la studiò dalle lievi fessure nelle tendine mentre restava qualche minuto ferma accanto alla carrozza, le calzature affondate nella neve e il visetto ombreggiato dal cappellino, per poi girarsi barcollando verso la bottega di oreficeria alle sue spalle e arrancarvi con fatica e con evidente spaesamento.
Una risata aspra e divertita gli sgorgò dai polmoni e Gerard, udendola, gli chiese: “Che cosa vi suscita tanta ilarità, mio signore?”
“Niente, niente” ribatté lui con uno scuotimento di capo: “Pensavo solo a quanto sia immensa la stupidità umana, mio buon Gerard”.
Sapeva perfettamente che Vivian si trovava in quel momento con il presunto Fantasma dell’Opera, che del fantasma aveva in realtà ben poco. Ciò che ignorava e che faceva crescere dentro di lui una rabbia e una frustrazione terribili era invece il motivo che aveva spinto il suddetto a strappargliela quando era stato sul punto di prendersi quel che gli spettava. La sconfitta che aveva subito per sua mano e la disonorevole fuga con cui aveva abbandonato il teatro e il suo meritato premio erano una ferita aperta, in suppurazione, uno squarcio nel suo orgoglio e nella sua vanità che sanguinava copiosamente e lo teneva insonne e tormentato. Cosa aveva a che fare l’uomo che si faceva chiamare Fantasma dell’Opera con la sua Vivian? Per quale ragione, dopo averla salvata da lui, l’aveva rapita? E in quei giorni che l’aveva tenuta prigioniera, che cosa le aveva fatto? L’idea che il piatto di delizie che tanto minuziosamente s’era preparato fosse toccato invece ad un altro era per lui insopportabile. L’ossessione per la ragazza, che con la violenza aveva sperato di scacciare, era cresciuta ulteriormente…era perseguitato notte e giorno dal profumo ardente e selvaggio della sua pelle, dalla luminosa morbidezza dei suoi capelli e dalla deliziosa impotenza che le aveva letto sul viso mentre la teneva inchiodata sul pavimento di pietra della cappella. E si mescolava ad essa una feroce sete di vendetta, al ricordo dei suoi piccoli denti che gli affondavano nella carne e gli strappavano il lobo in uno spruzzo di sangue vermiglio…ella doveva pagare, per questo e per parecchie altre cose. Non era assolutamente ammissibile che rinunciasse a prenderla, solo perché nel quadro s’era inserita l’ambigua figura dell’assassino senza volto. Si sarebbe liberato anche di lui, in un modo o nell’altro. Niente era impossibile ad un membro della famiglia Rappenau.
Ma poiché ignorava l’ubicazione della dimora del folle che aveva osato togliergli la strega da sotto, si era visto costretto ad inscenare quella commedia con la sciocca amichetta per ottenere da lei qualche informazione. Malgrado ella non sapesse niente di rilevante, convincerla a parlare era stato fin troppo facile: sapeva bene che genere di effetto faceva alle donne, soprattutto a quelle bruttine e insignificanti come quella. Un paio di carezze e un tono suadente, ecco tutto ciò che serviva per farle ballare come voleva… ne aveva persuase di assai più attraenti e ritrose a rinunciare alla verginità per lui, era stato un gioco da dilettanti. Un altro po’, e quella sciocchina avrebbe cominciato a sbavare come il cagnolino di Colette.
Fortunatamente aveva ricavato un nome da quella seccatura. Madame Giry. Bene. Sarebbe andato da lei il giorno dopo, appena avesse avuto un minimo di tempo libero (doveva pur sempre adempiere ai suoi doveri di Marchesino). Alla fine sarebbe arrivato a Vivian e al suo ambiguo rapitore…e una volta avvenuto ciò, avrebbe fatto pentire il secondo di averlo interrotto in un momento tanto importante e avrebbe concluso il lavoro con la prima.
E saziatosi di ogni brama, vendicativa o sessuale che fosse, avrebbe recuperato la sua antica serenità e sarebbe andato avanti nel suo glorioso futuro, vincitore per l’ennesima volta.  
Arrendersi era l’ultimo dei suoi pensieri.
“Ti troverò, Vivian” sussurrò, guizzando un’occhiata rapace ai brillanti tetti dell’Opera che svettavano sopra le altre case: “Il mondo forse ignora dove ti nascondi, ma io ti troverò”.

 

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Capitolo 15
*** Passo falso ***


Passo falso
 

 
 
 
 
In quei sei mesi di vagabondaggio solitario, Erik aveva viaggiato quel tanto che gli concedeva un così esiguo lasso di tempo e si era trovato spesso di fronte qualche essere umano, molto pochi, in verità, poiché aveva scelto mete isolate e fuori di mano in cui trascorrere giorni di disperazione e di brama di morte, ma era a tal punto prostrato dal dolore che non si era minimamente lasciato scalfire da quegli incontri fugaci ed aveva girato addirittura a volto scoperto, la barba lunga e le occhiaie profonde, rivestito di stracci sudici e simile ad un triste mendicante sfigurato che si trascinava per strade dimenticate da Dio. Erano state, quelle, settimane di completa oscurità, di oblio tanto profondo che ne conservava ricordi assai confusi, più che altro vaghe impressioni, in cui non gli era importato nulla del mondo e dell’opinione della gente, assorbito com’era dalla perdita della sua amata e quasi incapace di pensare. Aveva mangiato tutto quello che gli capitava a tiro, animaletti morti, bacche selvatiche, erbe striscianti e altro nutrimento esistente in natura, e si era riempito i polmoni inesperti della pungente aria pura delle montagne francesi, dormendo in caverne anguste, macchie di cespugli e rifugi di cacciatori abbandonati.
Prima di rinsavire e di ritrovare nella nebbia il suo io di Fantasma dell’Opera, o anche solo di Erik, aveva rischiato di trasformarsi in un patetico eremita magro ed emaciato, e aveva attirato sguardi colmi di intimorita pietà, anziché di disgustata avversione. Una vecchia, addirittura, vedendolo rannicchiato in un lurido cortiletto interno dirimpetto ad una bettola di terz’ordine, gli aveva dato alcune monete e un pezzo di pane e gli aveva detto che avrebbe pregato per lui. Tale era il suo stato che aveva perfino accettato i doni.
Adesso tutto era diverso. Il suo orgoglio, che l’abbandono di Christine aveva, per un periodo, abbattuto di netto, era rinato ancor più forte di prima e aveva giurato solennemente che non avrebbe mai più suscitato compassione, per nessun motivo. Uscendo dai sotterranei, quella mattina, e lasciando la sua ospite addormentata in attesa che incominciasse la loro prima lezione, fissata per le undici, si era calato sulla fronte il cappuccio del mantello e si era immerso nelle vie innevate di Parigi a testa bassa e con passo sostenuto, senza guardare negli occhi nessuno e senza fermarsi per dar loro modo di intravedere i suoi lineamenti all’ombra della stoffa. Ogni tanto, malauguratamente, si vedeva costretto ad uscire dalla sua dimora per procurarsi cibo e l’occorrente per ricostruire ciò che i linciatori avevano distrutto, e dire che queste sortite erano per lui un vivissimo fastidio era troppo superfluo. Le detestava. Non aveva più alcuna intenzione di mescolarsi con il genere umano.
Ma non poteva neanche affidare a Madame Giry tali incombenze, avendo troncato i rapporti con lei. Non la vedeva dal giorno in cui era scesa da lui nella speranza di ricondurlo alla ragione, e la sua assenza non gli pesava affatto. Una donna era già fonte di abbastanza fastidi, senza che se ne aggiungesse anche un’altra.
Chissà perché aveva proposto a Vivian di impartirle delle lezioni di piano… l’esperienza di Christine non l’aveva sufficientemente edotto sull’inutilità di trasmettere il suo sapere ad una sciocca giovinetta che non ne meritava neppure un briciolo? Probabilmente aveva agito così per capriccio, o per noia. Non era tipo da sprecare tempo solo per fare una gentilezza ad una pianista di medio talento. Quella ragazza era una continua sorpresa; vedendola la prima volta, aveva creduto che fosse a malapena capace di leggere e scrivere, e invece sapeva suonare addirittura il pianoforte. Peraltro, a differenza della sua antica musa, era completamente ignara della propria bravura e aveva reagito con sorprendente violenza allorché le aveva fatto notare quanto in realtà fosse dotata. Aveva senz’altro un complesso di inferiorità verso la defunta madre, egli per primo era ben consapevole della crudeltà di certi genitori, ma forse era un bene che non si rendesse conto d’essere così abile. Il suo scopo, in quel frangente, non era affatto di portarla alla fama e alla celebrità…a dire il vero, non era chiaro neanche a lui stesso.
Ma ne aveva per forza bisogno? In fin dei conti, a volte far qualcosa solo per capriccio poteva essere gratificante.
Abbassò lo sguardo sul giornale “l’Èpoque” acquistato di fresco, l’unico quotidiano decente in circolazione a Parigi, e scorse rapidamente i titoli con interesse assai scarso. Di norma non lo toccavano affatto le beghe dei cittadini o le loro disgrazie, sebbene queste ultime fossero di gran lunga più piacevoli, ma per tendere loro degli agguati adeguatamente efficaci era raccomandabile essere sempre informati sui loro movimenti e le loro intenzioni e, quando usciva a fare provviste, non rinunciava alla sua copia giornaliera. Il più delle volte lo infastidivano terribilmente alcune notizie, del genere “Tra due settimane si terrà il matrimonio del conte Louis de Laurent e della duchessina Isabelle de Guiche”, o “Il ministro Jean Paul Améris lascerà la città  per una visita alla famiglia”. A chi diamine poteva interessare chi avrebbe sposato chi o dove un politico idiota si sarebbe recato in vacanza? Forse a qualche comare annoiata, ma per il resto, se veniva stipulato un accordo di nozze, coloro che desideravano saperlo sarebbero stati comunque invitati alla cerimonia e avrebbero raggiunto un risultato analogo. La gente aveva davvero poco gusto in fatto di letture.
Mentre sfogliava il giornale, scelse di penetrare nei corridoi che conducevano alla sua dimora tramite una porticina nascosta in Rue Scribe, della quale teneva la chiave in un grosso mazzo che portava abitualmente infilato al sicuro nel giustacuore. Vivere in un luogo come i sotterranei rendeva necessario possedere un’enorme quantità di chiavi, poiché ognuna di esse apriva una delle sue geniali camere o uno degli studioli che utilizzava per elaborare le sue trame. Da ragazzino rammentava di aver esplorato quella sezione del teatro da cima a fondo e di aver immaginato, come se il progetto fosse già stato completato, come avrebbe potuto trasformarla nel suo rifugio perfetto. Adesso, a molti anni di distanza, aveva preso dimestichezza con i suoi domini in modo tale che gli bastò sentire la chiave giusta al tatto per infilarla nella serratura. Si chinò ed entrò nell’oscurità, il cappuccio ancora calato sul viso.
La porta s’era appena richiusa alle sue spalle, quando un nome, scritto a caratteri cubitali sulla pagina e nel suo cervello, si materializzò come un demone maligno e ormai esorcizzato ai suoi occhi disinteressati e lo indusse a bloccarsi sulla cima della scalinata con un sussulto e una brusca inspirazione, le mani tremanti che avvicinavano il quotidiano alla faccia per appurare che non si fosse trattato d’uno scherzo ottico, d’un malaugurato sbaglio. Ma le lettere non sbiadirono, non lo rassicurarono assumendo un diverso significato, erano lì, scritte in una calligrafia perfettamente chiara, e campeggiavano in cima ad un breve articolo, su cui il suo sguardo frenetico si era già gettato con ansia alterata:
 

La viscontessa Christine de Chagny tiene un piccolo concerto in onore
della sua prima gravidanza

 
Nella memoria di molti resta impressa certamente la giovane soprano che fino a qualche mese fa ci aveva dilettati con la sua voce angelica e la sua evidente bellezza, l’allora Christine Daaé, adesso divenuta la moglie del visconte Raoul de Chagny e residente nella loro dimora di campagna, lo chateau de Chagny, scomparsa dalla scena per amore del marito e ben decisa a non tornare più all’Opera. In occasione della sua prima gravidanza, tuttavia, hanno organizzato un piccolo concerto a cui sono invitati solo intimi amici nel quale la donna si esibirà nel Nabucco, onorando gli ospiti con la sua miracolosa bravura.
Una delle personalità più in vista di Parigi e un noto amante della musica, il marchese Jean Roland Rappenau, in occasione di una visita allo chateau de Chagny ha domandato alla viscontessa chi mai le avesse insegnato a rendere la voce degna delle più alte vette del cielo, ed ella, garbata e meritevole di ogni simpatia come è sempre stato, ha risposto: “Devo tutto ai miei insigni maestri dell’Opera, coloro che mi hanno formata durante l’infanzia e l’adolescenza e che hanno condiviso con me e con le mie compagne le loro conoscenze. In particolare ringrazio Madame Valerius, sventuratamente incorsa in un decesso improvviso pochi mesi fa, pace all’anima sua, e Madame Giry, che è sempre stata gentile con me. Non avrei guadagnato quella fama senza il loro sostegno e ausilio”.

 
Non poteva più continuare a leggere altro. Le sue mani stringevano il giornale con tale vigore che le nocche erano sbiancate e il suo volto, dietro la doppia protezione di maschera e cappuccio, era livido di rabbia e di un dolore che, se ne accorse subito, non derivava affatto dall’aver ricevuto notizie della sua antica amata per la prima volta da quando s’erano detti addio, bensì dall’assoluta ingratitudine che ella gli aveva così palesemente dimostrato con quelle ignobili bugie. I suoi “insigni” maestri all’Opera, i responsabili del suo talento? Coloro che l’avevano vista crescere negli anni e che avevano fatto scaturire dal suo petto la voce degli dèi, sempre più forte e limpida via via che le piatte forme infantili si arrotondavano nelle curve di una giovane donna? Come si permetteva, quella strega diabolica, a mordere la mano che l’aveva aiutata? Aveva dunque nutrito una serpe in seno, una vipera malefica che aveva prosciugato avidamente tutto il latte del suo sapere per poi abbandonarlo con un ultimo morso mortale, il veleno del suo tradimento? Se le rammentava benissimo, le parole che gli aveva rivolto l’infausta notte del Don Juan, il bellissimo viso angelico pieno di orrore per la sorte del suo dannato visconte, inchiodato alle sbarre con il collo stretto in un cappio: “Come puoi tradirmi? Io ti ho dato tutta me stessa, mi fidavo di te!”
Eppure adesso i ruoli si erano ribaltati, il destino crudele aveva invertito completamente il corso degli eventi ed era stata lei stessa a rinnegare la protezione e i favori che le aveva sempre offerto, difendendola da quel mondo di convenienza e di materialismo che era il teatro e donandole, senza alcun ripensamento, tutta la sua genialità, tutti i trucchi e i poteri che aveva perfezionato da solo, facendone un tesoro esclusivo. Non s’aspettava certo che Christine attribuisse il merito al Fantasma dell’Opera, sarebbe parso alquanto strano e disonorevole, ma aveva sperato, scioccamente, che rievocasse la storia dell’Angelo della Musica e che osannasse lui come suo maestro. Sarebbe stato comunque un modo appropriato di mostrargli la dovuta gratitudine per tutto ciò che aveva fatto per lei, compreso quel finale atto di pietà che le aveva permesso di divenire viscontessa e, adesso, madre. Era lui che l’aveva formata, lui che aveva tramutato quella gracile bambina sperduta in un angelo puro e bellissimo, lui che l’aveva protetta, tenendola al sicuro sotto la sua ala! Ma non c’era nessuno a cui gridarlo, nessuno disposto a scrivere un articolo su di lui, Erik, che non fosse una sentenza di morte o un avvertimento per i cittadini, l’ingiustizia non sarebbe stata mai vendicata con mezzi leciti e ora più che mai si sentiva in diritto d’essere assassino.
Quale altra maniera aveva di far sentire la sua protesta? Per la gente non esisteva, era solo uno spettro spaventoso, un demone malvoluto che soffiava incubi nelle loro menti atterrite, il Figlio del Diavolo, Dio, quanto odiava quell’appellativo che ancora adesso, la notte, gli risuonava nelle orecchie e lo induceva a destarsi di soprassalto con la sensazione dello scudiscio sulla pelle e del sangue che spruzzava, nero e viscoso, sui visi ridenti della folla. Alla fine dei fatti, essere buoni non portava altro che delusione e sofferenza. I destinatari delle azioni benevole non ripagavano mai, non concedevano il loro affetto al Figlio del Diavolo, per quanto si fosse mostrato clemente nei loro confronti…le uniche occasioni in cui era stato rispettato e obbedito erano quelle in cui aveva ucciso e terrorizzato.
E adesso questo finale voltafaccia. Dall’unica donna che mai avesse amato. Troppo debole e paurosa per ammettere di essere stata collocata tra gli allori in cui adesso si crogiolava da un mostro. Da un reietto. Da un assassino.
L’umiliazione gli velava gli occhi, glieli accecava di una patina acquosa che non avrebbe mai, mai tramutato in lacrime, mentre scendeva con passo forsennato nelle profondità dei sotterranei, obnubilato dalla terribile verità di quell’articolo, dall’ennesimo tradimento da parte di Christine, dopo quello sul tetto, quando aveva promesso eterno amore al visconte e aveva gettato in terra la rosa rossa, simbolo del loro legame, e quello del Don Juan, dove aveva collaborato con gli avvoltoi che lo volevano morto inebriandolo con il suo bianco e splendido corpo e strappandogli poi la maschera davanti a tutti. Lo aveva ormai tante volte deluso, tante volte colpito che quasi non la odiava più. Né, forse, aveva il pretesto di odiarla: ella non aveva mai dato ad intendere di agire così per crudeltà, aveva mantenuto in ogni situazione quell’espressione spaurita, innocente e indifesa che la rendeva superiore ad ogni accusa. Immaginava perfettamente il tono con cui doveva aver risposto al marchese, candido e pulito, ignaro del torto di cui si stava macchiando.
Non era cresciuta affatto. Era rimasta una bambina, una sciocca bambina insensibile e cieca, pronta a buttare via i giocattoli che le venivano a noia. Pensò addirittura che ucciderla non sarebbe servito a nulla, che non le avrebbe aperto gli occhi sull’errore commesso. Lei non voleva capire. E niente le avrebbe fatto cambiare idea. Che cos’era la sua splendida voce? Solo l’eco del mare in tempesta, della dolce risacca che proveniva da una conchiglia bella e vuota che si appoggia all’orecchio. Le bellezze che scaturivano da lei erano il riflesso di altre meraviglie, e non le erano proprie. Si era innamorato di una conchiglia. Si era innamorato di essa e non del mare che le echeggiava all’interno, cadendo vittima di un inganno minuzioso e invisibile.
Abbassò violentemente le braccia, lasciando cadere il giornale incriminato, folgorato da questa rivelazione inaspettata, e gli parve di aver finalmente trovato la soluzione che cercava da mesi, il risultato che nel dolore, nell’odio e nell’umiliazione non aveva mai voluto vedere. Era Christine, la vera maschera, la beffa, colei che con la sua bellezza e il suo tono dolce (che era stato lui, in realtà, ad innalzare con parole partorite dalla sua mente e non da quella di lei) aveva ingannato tutti loro facendogli credere d’essere un angelo. Ella era in realtà meno della bambola di cera che aveva distrutto il giorno prima, era il vero costume che lui aveva usato per far arrivare al mondo la sua musica, nient’altro che un’apparenza…ma vuota. Senza il soffio vitale che le aveva infuso, senza ripetere a pappagallo i suoi insegnamenti nessuno si sarebbe accorto di lei, e sarebbe rimasta per sempre un’insignificante ballerina di fila, bella, sorridente e apatica.
Tutto ciò che aveva amato, venerato e ammirato era solo un miraggio. Senza di lui, non si sarebbe trasformata in un’ammaliante cherubina. Non l’aveva forse il visconte notata solo quando aveva cantato? Tutto era chiaro, finalmente, tutto era chiaro!
Ma una tale illuminazione, un ragionamento tanto inaspettato che distruggeva completamente ciò che era stato per più di dieci anni fu troppo per lui, gli annebbiò gli occhi e i pensieri e gli impedì di rammentare un trucco che egli stesso aveva elaborato, secondo il quale, per attraversare indenni i sotterranei, bisognava tenere le braccia rigorosamente al livello del viso. In quel momento le aveva invece diritte lungo i fianchi, percorse da fremiti di eccitazione. E fece un passo di troppo.
Forse era vero ciò che si diceva. Non appena l’essere umano giunge a quello che considera il significato della sua intera esistenza, viene sbranato dai suoi stessi pensieri e dalle sue stesse volizioni e muore.
La scala, la sua scala, si aprì come un abisso infernale sotto ai suoi piedi e lo colse totalmente di sorpresa. Perché ai tradimenti di Christine e dell’umanità era abituato, ma non si sarebbe mai aspettato d’essere ingannato dal suo rifugio, dal suo nascondiglio, dalla sua eterna amante, l’Opera Garnier. Credette addirittura, in un primo momento, che gli si fossero aperte le porte per l’Averno, che ora che si era liberato dall’amore, l’unico sentimento benigno che mai avesse provato, l’oscurità lo avrebbe divorato nelle sue spire ardenti e sarebbe precipitato per secoli in abissi di tenebra e di dannazione, irriso da diavoli cornuti e dagli spettri di coloro che aveva ucciso, dal grasso zingaro che lo picchiava incessantemente, dal macchinista che aveva impiccato e gettato al centro del palcoscenico, dalle decine di parigini che aveva sotterrato sotto la mole di due lampadari. E nessuna Dimora sul Lago gli avrebbe offerto protezione da loro, nessuna musica lo avrebbe salvato dal furore e dalla sete di vendetta. I morti non perdonano.
Ma perfino a fronte di una tale consapevolezza il corpo, addestrato dalla natura a sopravvivere come può in qualsiasi situazione, agì prima della mente. Era precipitato, per colmo di sventura, in una delle sue trappole più semplici e tuttavia più letali, un precipizio frastagliato che si incuneava in un pozzo di oscurità e terminava vari metri sotto, su una superficie irregolare e costellata di stalagmiti su cui sarebbe finito impalato sicuramente. Cadendo a piombo nell’aria fredda e rarefatta, con il mantello nero che gli si apriva intorno a ventaglio e svolazzava dietro di lui come le ali di un enorme pipistrello, perse il cappuccio e i capelli gli frustarono furiosamente il viso, irrigidito in un’espressione di stupore assoluto.
La sua mano destra scattò. Ventosa frenetica e decisa a conservare una vita che nei mesi addietro aveva tanto disperatamente sperato di perdere, si avviluppò su una sporgenza di roccia larga non più di tre braccia e scarsamente lunga e interruppe la caduta mortale. Il peso del suo stesso corpo gli si scaricò tutto quanto sul braccio con cui si reggeva e avvertì una fitta tale che quasi urlò, aggrappandosi anche con l’altra mano per avere maggiore stabilità. I suoi costosi abiti da fantasma, a lui cari in ogni sua malefatta, erano divenuti di una pesantezza esasperante e lo trascinavano giù, facendo perdere l’appiglio alle dita contratte. La mezza maschera bianca si era inclinata pericolosamente da un lato e rivelava metà della sua parte deforme, penzolandogli dall’orecchio. I piedi sbattevano in aria, convulsi, avvertendo la profondità del precipizio che li chiamava, la morte che li attendeva al di là della cortina di buio. Il punto da cui era caduto non era altro che una piccola finestrella vagamente illuminata dalle torce, troppo lontana per essere raggiunta da dove si era arrestato.
Ansimò. Tutto era avvenuto fin troppo in fretta, l’illuminazione, la caduta, la presa sulla sporgenza di roccia. Aveva scoperto di non amare davvero più Christine, e subito dopo era stato colto in fallo dalla sua stessa trappola, per una crudele ironia della sorte. Forse che il destino aveva decretato che senza di lei, senza la sua musa, egli non meritasse di vivere, di ricominciare? Che fosse giusto lasciarsi avvolgere dall’abisso e trovare la morte su un’appuntita stalagmite, in un ultimo spruzzo di quel sangue che troppe volte era stato versato? Immaginò, per un attimo, se stesso precipitare leggiadramente nel vuoto dell’oscuro cunicolo, circondato dalle falde svolazzanti del mantello e roteante nell’aria gelida, immaginò il momento in cui il suo torace, o la sua schiena sarebbero stati trafitti da parte a parte dal pugnale di ghiaccio, lasciandolo penzoloni nel fondo di un buco, immerso in un lago di sangue rappreso, prima cadavere, poi marciume, poi scheletro, poi polvere. La putredine che gli contaminava solo il lato destro del viso si sarebbe presa pian piano anche tutto il resto del suo corpo, facendone un suo maniero, e l’avrebbe infettato dalla testa ai piedi, mangiandogli la carne e, in seguito, le ossa.
No. No, non poteva morire così, non poteva arrendersi in quel modo! Non avrebbe esalato l’ultimo respiro per mano di una delle sue trappole, quasi suicidandosi! Non l’avrebbe data vinta al mondo e al destino, che lo volevano sconfitto e consumato in una caverna senza uscita. Se fosse morto, sarebbe morto alla luce del sole, accarezzato dai suoi tiepidi raggi, prima di riposare per l’eternità nell’oscurità di una tomba. Non si sarebbe consegnato alla sorte e a Christine, eternamente di loro possesso esclusivo. Lui era Erik Destler, il Fantasma dell’Opera, e per tutti gli inferni, non sarebbe morto quel giorno!
In un erculeo sforzo di volontà, tentò di sollevare il proprio corpo e di caricarsi sull’esiguo spazio consentitogli dalla sporgenza, ma a differenza del braccio sinistro, i cui muscoli si fletterono con efficienza, la spalla destra, probabilmente lussatasi quando si era aggrappato con una mano sola, mandò una fitta di atroce dolore e lo fece ricadere pesantemente penzoloni, le dita che si stringevano ai bordi dello sperone di roccia con frenesia per non scivolare. Dentro ai guanti, le sue mani sanguinavano. Ed era un classico, che fosse proprio la sua parte destra a tradirlo.
Non era altro che un essere umano, in fondo. Un essere umano che da solo non sarebbe mai risalito da quel buco.   
Imprecò furiosamente tra i denti serrati, consapevole della debolezza che pian piano lo avvolgeva, dell’approssimarsi del momento in cui le sue dita avrebbero perso ogni energia e l’avrebbero lasciato precipitare.
Era la prima volta che si trovava in una situazione fuori dalla sua portata.
Ma una voce lontana, una voce angosciata, ruppe la cortina di tenebre gridando da qualche parte sopra di lui un appellativo che una sola persona aveva usato per definirlo: “Monsieur Fantòme!”
Non era una voce melodiosa o angelica, non aveva nulla della dolcezza di quella di Christine, tuttavia in quei secondi fatali, in quell’oscuro e illimitato precipizio gli parve la più bella del mondo, la sola capace di illuminare il buio in cui era rinchiuso e di aprire nella sua mente frenetica uno spiraglio, un pertugio, una porta di speranza e di salvezza. Le sue mani, insensibili e martoriate, tremanti nello sforzo di rimanere aggrappate allo sperone di roccia, acquisirono una nuova ondata di energia allorché il richiamo echeggiò per i sotterranei ed egli riuscì, con vigore insospettato, a tirarsi su quel poco che gli consentiva di fare presa coi gomiti e di tenersi più saldamente al suo unico appiglio. Alzò lo sguardo sulla finestrella di luce sopra di lui, desiderando per la prima volta con tutto se stesso di vederne emergere quel volto olivastro e volitivo, quella massa di indisciplinati riccioli scuri e quei vispi occhi color ambra, e un nome mai pronunciato prima gli salì spontaneamente alle labbra, sonoro e angosciato: “Vivian!”
I suoi sensi, acuiti dal pericolo mortale in cui era incorso, captarono con precisione assoluta dei passi lievi e frenetici che si fermavano di botto sui gradini di pietra, che giravano in tondo, disorientati. Un attimo dopo, di nuovo quella voce vivace e potente, inutile nel canto, meravigliosa in quella terribile circostanza: “Monsieur Fantòme? Dove…dove siete?”
Quanto tempo aveva perso leggendo l’articolo, attardandosi nelle sue contorte elucubrazioni? Sicuramente le undici dovevano essere trascorse da almeno venti minuti, se la ragazza era andata a cercarlo fuori dalla Dimora sul Lago, affrontando i pericoli e le insidie dei sotterranei per ritrovare il suo ospite scomparso. La solita impulsiva incosciente; non aveva messo in conto che si sarebbe potuta perdere, che sarebbe potuta cadere in una trappola mentre attraversava luoghi a lei tanto oscuri? E perché diamine la biasimava?! Se non lo avesse fatto, sarebbe certamente morto.
“Sono qui!” gridò, lacerato, distrutto, esausto dalla scomodissima posizione in cui era costretto a rimanere. La spalla destra doleva da impazzire, e i guanti erano già a brandelli, stracci di cuoio che rivelavano la pelle sanguinante e ulcerata sotto. Non poteva resistere ancora a lungo, e quella sorta di balsamo benefico che l’aveva rafforzato allorché aveva udito il richiamo di lei si stava esaurendo: “Sono qui sotto, Vivian!”
I passi tornarono indietro, piccoli echi che scendevano fino al buio artigliante in cui penzolava e gli riscaldavano il sangue ghiacciato, promettendogli speranze che non avrebbe mai creduto esistenti. La vide, avvolta in un abito color prugna, i capelli sciolti e scarmigliati sulle spalle e il viso pallido e angosciato, le braccia sottili ben alzate al livello degli occhi e i piedi nudi tremanti di freddo. Venne colto da un terrore istantaneo e soffocante e temette che, non avvedendosi della botola spalancata, ella vi precipitasse dentro a sua volta: “Fermati!” ogni forma di gelida cortesia era svanita dinnanzi alla pericolosità della situazione.
Lei si arrestò di botto, si guardò intorno, frenetica, quindi abbassò lo sguardo sul pozzo di tenebra che si apriva sotto di lei, una bocca irta di affilatissime fauci che attendevano impazientemente il cedimento dell’uomo che vi era caduto all’interno. Egli scorse i grandi occhi marroni ingigantirsi per l’orrore, la bocca spalancarsi a metà in un’espressione di ammutolito sgomento, il pallore sulle guance intensificarsi. Era consapevole di lei come mai in passato, ma allo stesso tempo percepiva orribilmente anche le dita che scivolavano goffe sui bordi della sporgenza, il sudore che colava in grossi rivoli e rendeva incerta la presa, i muscoli che gli incidevano la carne di stilettate di dolore e la maschera che piano piano si inclinava all’ingiù, perdendo l’appiglio sull’orecchio.
“No!” il grido scaturì dalle labbra della giovane con sincera disperazione. Sembrava quasi che sperasse di cancellare l’orrore di un tale spettacolo con esso, di poter fermare tutto, di cambiarlo, rendendolo per lei più sopportabile. Erik non aveva mai veduto in nessuno tanta orripilata costernazione, e ne fu stupito, in modi più profondi e segreti dei precedenti. E di nuovo un’ondata di forza montò dentro di lui, le sue mani si conficcarono sulla roccia sporca del suo sangue, riscaldate da un qualcosa che non identificava. Era come se il trasporto della ragazza e le sue grida angosciate gli entrassero dentro, riempiendolo di energie insospettate.
“No, no, no!” scuotendo violentemente la testa come un cane che desidera liberarsi da un guinzaglio, Vivian cadde pesantemente in ginocchio sul bordo del precipizio e si sporse fino alla vita verso di lui, la disordinata capigliatura che scivolava in avanti e gli occhi gonfi di lacrime di totale sconforto: “Monsieur Fantòme! Monsieur Fantòme!”
“Vivian, ascoltami!” malgrado il pericolo che correva, malgrado il dolore alla spalla lussata e la fatica di mantenersi sospeso tra la vita e la morte, Erik parlò con sorprendente lucidità, pregando di vincere l’isteria della sua ospite: “C’è una leva sul muro, attiverà un meccanismo e una catena sul soffitto scenderà sino a me, permettendomi di risalire. Devi tirarla”.
Lei lo fissò con l’aria di chi non capisce, completamente dominata dal terrore, il corpo attraversato da un tremito incessante: “Q-quale leva?”
“Alla tua destra, sul muro! Sbrigati, tirala verso di te!”
La giovane si volse, le spalle che non la smettevano di fremere sotto l’abito viola, i singhiozzi che riecheggiavano nel profondo precipizio in cui lui lentamente annaspava nel tentativo di non precipitare incontro alla morte: “È grigia?” la voce solitamente ironica e sicura era terrorizzata, ma si sforzava di racimolare il sangue freddo. E non era da poco, in quella circostanza.
“Sì!” il sangue e il sudore che gli imbrattavano le mani rendevano la roccia scivolosa: “Sì, è grigia!”
Una serie di movimenti confusi, degli ansiti, delle imprecazioni soffocante, un “ahi” acuto e sconfortato, poi Vivian si girò con i lineamenti distorti in una smorfia di orrore e di impotenza: “Non ci riesco! Fa troppa resistenza!”
Erik lanciò un urlo di frustrazione, scagliandolo fuori dal precipizio con tutta la forza che aveva. Logico che la ragazza non ce la facesse…egli aveva progettato quella leva perché lui solo potesse tirarla, e mai aveva messo in conto la possibilità di cadere dentro ad una delle sue trappole. Ma senza la leva era spacciato, condannato alla solitudine eterna delle più basse viscere della terra, impossibilitato di salvarsi dal proprio genio. Schiacciato dalla consapevolezza della propria sorte allentò la stretta sullo sperone di roccia, i suoi gomiti slittarono sulla superficie incrostata di sangue rappreso e sudore isterico mentre le mani ferite si graffiavano ulteriormente sulle sfaccettature appuntite.
“No!” ripeté improvvisamente Vivian. Al suono della sua voce, l’uomo cessò di scivolare, si bloccò come anche prima si era bloccato, sollevando gli occhi spenti in una sorta di riflesso incondizionato. Lei aveva teso una mano nella sua direzione e gli teneva puntato addosso uno sguardo di un’intensità quasi folle: “No, non lasciarti andare!” gli diede del tu con la massima naturalezza: “Ti tirerò fuori da lì, adesso vado a vedere se trovo qualcosa e poi torno ad aiutarti!”
Una morsa di terrore gli strinse le tempie. Lei era un fastidio, una zavorra indesiderata, un’intrusa insediatasi con la forza nella sua dimora. Ma al pensiero di rimanere solo con la morte, di vederla svanire come un’illusione di cristallo, di non sentire più la sua voce che lo chiamava come se le stesse davvero a cuore il suo destino e i suoi occhi lucidi di lacrime fissi su di lui si sentì impazzire, sentì che ogni cosa perdeva i suo contorno: “No!” se avesse potuto, avrebbe evocato rampicanti invisibili con cui trattenerla dov’era: “No, non te ne andare, dannazione, non te ne andare!”
“Tornerò, te lo giuro, tornerò” sembrava sincera in modo totale e assoluto, ma lui non si fidava, era una donna, era un essere umano, era debole e fragile e nel fondo della sua anima lo odiava come tutti gli altri, lo voleva morto e l’occasione si era presentata su un piatto d’argento: “Non posso aiutarti se rimango qui, ma sono sicura che se trovo…” lei scattò in piedi, rammentando il limitato tempo che aveva a disposizione: “Ti prego, non lasciare la presa, io torno presto!”
“Non farlo!” Erik urlò così forte che gli si colorò il viso di rosso e le vene sul collo gli si gonfiarono, tese fino a scoppiare: “Non andare!” la sua voce sapeva di minaccia, di morte, ma chi mai gli avrebbe dato credito, in quel frangente? La vide infatti uscire dal suo campo visivo, svanire nell’oscurità dei sotterranei, e gli esplosero dentro follia e furore e disperazione e angoscia e ingiustizia e abbandono, coagulatisi in un grido senza forma umana che si perdette in mille illimitati echi, in un verso bestiale e tradito. Lei l’avrebbe abbandonato, ne era sicuro. Perché salvare la vita di un fantasma, di un nessuno, di uno spirito malefico e inesistente vivo solo per sbaglio? Perché non lasciarlo invece scomparire tra le altre ombre, nel posto che gli spettava?
La mezza maschera perdette definitivamente il precario equilibrio finora mantenuto e cadde, svolazzando come una farfalla, nell’abisso putrido e infernale in cui presto sarebbe finito anche lui, ammiccandogli nel buio per pochi secondi e poi perdendosi del tutto nel nero.
 
Vivian correva come non aveva mai corso in vita sua, divorando i metri a grandi falcate, percuotendo la pietra gelida e spietata con piedi veloci e leggeri e scandendo il tempo della sua traversata frenetica con forsennati battiti di cuore e disperati ansiti di fatica. Mentre scendeva sicura nel salone principale della Dimora sul Lago, le sue braccia la difendevano svettando parallele agli occhi e il suo cervello gridava follemente per la paura e la disperazione, pregando di farcela, di tornare in tempo, di salvare l’uomo che desiderava consegnare alla giustizia.
Perché lui non poteva morire. Era una certezza, un ordine, un comandamento. Non gli avrebbe permesso di precipitare, non avrebbe consegnato alle ombre voraci quell’individuo geniale, unico e mai sostituibile. Allorché l’aveva cercato, preoccupata, non vedendolo comparire alla loro lezione, allorché s’era arrischiata a percorrere gli insidiosi sotterranei e allorché l’aveva trovato sospeso tra la vita e la morte in un abisso di tenebra, l’anima e la mente erano sfuggite al suo controllo e avevano decretato, in barba alla ragione e alla logica, che l’avrebbe salvato ad ogni costo, forse persino a costo della vita. Era in balia del suo istinto, dei suoi impulsi più reconditi ed inconsci, di una smania divorante che le metteva le ali ai piedi e le urlava a squarciagola di andare più veloce, di affrettare il passo, di vincere la debolezza del suo fragile corpo. Non l’avrebbe lasciato morire. Avrebbe pagato per i suoi crimini, ma non così. Non così.
Stava piangendo. Lacrime perlacee le rigavano le guance pallide e le riempivano la bocca del sapore salato del dolore, incomprensibili alla sua mente razionale e pratica, fin troppo giustificabili al suo cuore folle di paura. Perché piangeva per un assassino? Perché si feriva le piante dei piedi sulla frastagliata superficie della pietra e si lacerava l’abito nel tentativo di strappare alla morte un individuo che ne aveva dispensata a proprio piacimento appena poche settimane prima? Che ne era stato dei suo propositi di vendetta, dei suoi piani? Li aveva dimenticati? Li aveva azzittiti per un poco, sostituendoli con un marasma di sensazioni inspiegabili? Che cosa la spingeva a quella volontà ferrea di salvarlo?
“Io non lo so. Ma non deve morire. Non deve morire!”  
I drappi che abbellivano le pareti. Per appenderli ad esse il fantasma s’era servito di una serie di cordoni di canapa che gli permettevano, se ne aveva voglia, di scostare la stoffa di lato e di relegarla in un angolo. Se fosse riuscita ad impadronirsi di uno di quei serpenti di tessuto, avrebbe potuto utilizzarlo per calarsi nel precipizio e portare su l’uomo. Era l’unica soluzione. O almeno, l’unica che le venisse in mente. Non c’era tempo per architettare un piano più articolato. Ogni minuto, ogni secondo poteva significare la sua morte. Anzi, forse era già precipitato. Ma non voleva pensarci. Non voleva nemmeno immaginare una simile eventualità.
Perché non aveva proprio idea di come avrebbe reagito alla sua morte.
“Ci penserò poi” affondò i denti nel labbro e lo morse finché non avvertì il sapore del sangue: “Non adesso”.
Non si sbagliava. Le corde erano dove aveva supposto, avvolte ai drappi scarlatti. Si gettò sulla più vicina con l’impeto della leonessa che si avventa sulla preda e la staccò dalla parete con foga convulsa, barcollando sotto il suo peso e pulendosi il volto dal sudore e dalle lacrime. Aveva agito più in fretta che poteva, attraversando la strada che in teoria avrebbe dovuto seguire il giorno in cui era caduta nella trappola dell’acqua e della porta irta di sbarre, ma adesso doveva invece risalire, con il peso della corda a gravarle sulle spalle e la consapevolezza della situazione disperata sospesa sopra al capo. Si sentì in procinto di urlare a squarciagola.
“No, Vivian, non cedere adesso, non arrenderti! Tu non ti arrendi mai! Puoi salvarlo, puoi farcela, devi solo volerlo!”
Si buttò in spalla il pesante cordone, un masso che la opprimeva, che la schiacciava al suolo, e a testa bassa tornò sui suoi passi, lasciando impronte insanguinate sul pavimento con i piedi pieni di vesciche e sentendo i folti riccioli bruni che le sobbalzavano sulla schiena, spargendo ovunque brillanti gocce di sudore. Come diavolo ci era finito in quel precipizio? Cosa l’aveva scosso al punto da farlo cadere in una delle sue trappole? Sicuramente era stato qualcosa di veramente orribile o sorprendente, per giustificare una così clamorosa disattenzione da parte dell’infallibile Fantasma dell’Opera. Perché era uscito a far compere? Perché non era rimasto con lei, ad impartirle le lezioni promesse? Tutto sarebbe andato bene, tutto si sarebbe svolto con la tranquillità dei giorni passati…e quell’incubo non si sarebbe mai profilato all’orizzonte.
“Non finirà bene anche stavolta. Io sono solo una ragazza. Non ho la forza di sopportare tutto quest’orrore e queste insidie. Sono scampata all’annegamento, ho risolto l’indovinello della Sfinge, ma non lo salverò, non vincerò di nuovo”.
“Stupida! Devi salvarlo”.
“Perché?”
“Perché lui…perché lui…”
Non le era chiaro. Per capriccio, forse? Sì, doveva essere così, per forza. L’avrebbe salvato per capriccio e perché nessuno meritava di fare una fine così orrenda. E poi aveva bisogno di lui. Ci teneva davvero, ai suoi insegnamenti, all’ammirazione con cui aveva letto la sua sciocca canzonetta e all’indulgenza con cui le aveva detto di trovarla talentuosa. Era stato gentile con lei, a suo modo, e le aveva offerto il suo sapere. Il minimo che poteva fare per sdebitarsi era salvargli la vita.
Avrebbe tanto desiderato conoscere il suo vero nome, per gridarlo, per sentire che suono aveva sulle sue labbra, ma un simile privilegio le era stato negato, così, mentre saliva la scalinata a rotta di collo, esausta e senza forze, invocò a squarciagola il suo soprannome: “Monsieur Fantòme! Monsieur Fantòme!” per dirgli che non l’avrebbe abbandonato, che era lì. L’avrebbe tirato fuori dalle fauci del mondo, avrebbe costretto quella buca oscura a vomitarlo, con tutti i mezzi possibili. Non sarebbe stato suo, non sarebbe divenuto possesso delle ombre e del sottosuolo.
“Lui è mio!” aveva uno sguardo di una ferocia spaventosa, mentre formulava questo pensiero.
“Tuo?”
“Devo essere io a incastrarlo!”
“….” la voce della sua mente tacque, poco convinta.  
Raggiunto il punto in cui la scalinata s’interrompeva per fare spazio alla cavità profonda e nera, quasi aveva timore di guardar giù, perseguitata dall’immagine di un vuoto assoluto e di pochi brandelli di guanti sulla sporgenza di roccia. Ma lui era lì, aggrappato allo sperone ora solo con una mano, orribilmente fragile e solo su un abisso di morte che lo chiudeva da ogni parte in una trappola fatale, il sangue scuro e denso che gli scorreva dalle dita straziate e cadeva giù in grosse gocce e il viso privo di maschera, chino sul petto, incorniciato da lunghe ciocche di capelli arruffati. Il cuore di Vivian quasi scoppiò per il sollievo: “Monsieur Fantòme!”
L’uomo sollevò la testa con fatica esasperante, quasi gli pesasse una tonnellata. Nella luce fioca delle torce appese ai muri, la carne deturpata era ancor più terribile di come la rammentava, ma non provò alcun disgusto per quei lineamenti guastati, alcun fastidio. Vedeva solo il luccichio dei suoi lucenti occhi azzurro scuro, ancora vivi, ancora coscienti, non ancora sconfitti, che la fissavano come se stentassero a riconoscerla, come se mai si sarebbero aspettati un suo ritorno. Egli provò a dire qualcosa, ma dalle labbra pallide emerse solo un gemito roco.
“Non parlare, non perdere le forze!” dal tono sembrava che avesse in mano la situazione e che fosse sicura di se stessa, ma il suo animo tremava e si sentiva sul punto di vomitare: “Ora vengo giù da te, sta tranquillo!”
Svolse freneticamente la lunga corda, facendo la spola con lo sguardo tra essa e la mano martoriata con cui il suo ospite si teneva avvinto allo sperone di roccia, e la legò ad una delle torce collocate in ganci di metallo fissati alle pareti, giudicandolo l’appiglio più stabile per un’operazione tanto delicata. Dubitava che monsieur Fantòme, in quelle condizioni, sarebbe riuscito ad arrampicarsi fino in cima al precipizio, ma se anche ne era in grado, non poteva permettersi di rischiare. Sarebbe scesa personalmente nell’abisso e gli avrebbe offerto il suo appoggio nell’ascesa alla luce. Non sarebbe stato tanto più difficile di scalare le alture del Plomb du Cantal con suo padre, nel periodo in cui si erano recati lì in gita. Forse non era capace di cantare, di stregare cuori maschili o di sorridere con dolcezza, ma aveva numerose esperienze alle spalle e valevano più di qualsiasi sguardo languido.
“Sto arrivando, monsieur F!” si passò la corda intorno alla vita e l’assicurò con il nodo scorsoio che le aveva insegnato suo padre durante una delle loro escursioni. Il Fantasma dell’Opera, nel frattempo, era scivolato ulteriormente in basso e solo poche delle sue dita si reggevano ancora alla roccia sporca di sangue, sudore e muco. Qualcosa di bianco gli spuntava dalla spalla destra… ma cos’era?
“Mio Dio” la consapevolezza le squarciò la mente come un colpo di coltello: “È la sua…clavicola”.
Chiuse gli occhi e si impose dei profondi respiri, sentendosi mancare per il raccapriccio. Quel poveretto stava letteralmente cadendo in pezzi…come se già non avesse abbastanza problemi con il proprio corpo! Era incredibile che gli restassero ancora abbastanza forze per non precipitare nel vuoto. Ma in fondo era il Fantasma dell’Opera, e qualcosa di soprannaturale doveva averlo per forza.
Saggiò la resistenza della fune con un paio di strattoni e, assicuratasi che non avrebbe ceduto trascinandola nell’oblio, poggiò un piede sulla gonna e con un colpo secco la lacerò, rovinandosi il vestito. Per riuscire nel suo intento, era necessario avere le gambe libere. Poco importava che fossero nude. Non aveva dopotutto dato fin troppo spettacolo davanti a lui? Adesso non le importava più di niente, tutto era passato in secondo piano. Doveva soltanto tirarlo fuori da lì, restituire la gelida sicurezza che tanto ammirava alle sue iridi azzurre e offuscate dalla sofferenza.
Si calò con prudenza, ma non con la lentezza che le avrebbe garantito una discesa sicura e priva di pericoli, messa in ansia dalle circostanze e dall’aspetto stravolto del suo ospite. Immediatamente il vuoto del precipizio la chiamò a sé e il suo stomaco sobbalzò, privato di un sostegno su cui appoggiarsi e di un solido pavimento. Tentando di rimanere lucida e concentrata e di non farsi vincere dal panico, Vivian inchiodò i piedi nudi sulla parete fetida e frastagliata del buco e si rannicchiò, sollevata dalla presenza della corda avvoltolata sui suoi fianchi, benevolo baluardo di salvezza che la tratteneva saldamente sopra la morte. Per sua fortuna, il fantasma era precipitato solo per pochi metri e si era aggrappato ad una distanza non troppo eccessiva.
“Un piede e poi l’altro, destra e sinistra” sussurrò tra sé e sé, facendo eco alle parole di suo padre e scendendo nelle profondità della grotta come il naufrago che si lascia avvolgere dall’oceano. Non aveva motivo di temere per sé, la corda l’avrebbe salvata dalla caduta e non le avrebbe permesso di andare giù, doveva invece sbrigarsi se voleva salvare monsieur Fantòme, esausto e pressoché spezzato, privo della sua maschera onnipresente e imbrattato di sangue e di polvere. Chi l’avrebbe mai detto, che sarebbe finita ad affrontare il gelo e la solitudine di una caverna per trarlo dall’abisso? E che avrebbe messo nell’impresa così tanta passione?
Minuscoli sassolini sfuggivano alla parete di roccia quando vi passavano sopra i suoi piedi nudi, una corrente insidiosa s’infilava tra i suoi capelli e le asciugava il sudore dalla pelle ed era ormai così vicina all’oggetto del suo salvataggio da poter avvertire l’odore metallico e aspro del suo sangue. Santo cielo, era ridotto in condizioni pietose…le maniche della giacca erano strappate fino al gomito, la pelle era lacerata da squarci e tagli aperti, e la candida clavicola gli devastava la spalla, sporgendo grottescamente dalla carne martoriata. E il suo volto, stravolto di fatica e di dolore, scoperto, vulnerabile, sfigurato. Qualsiasi fanciulla sarebbe inorridita a quello spettacolo, sarebbe svenuta, ma se anche avesse avuto mille deformazioni, Vivian non avrebbe esitato neppure un attimo ad andare avanti.
“Monsieur Fantòme” disse, con voce limpida e determinata: “Sono qui”.
Gli occhi di lui, prosciugati del tutto del loro brillio, si volsero con stanchezza mortale nella sua direzione e la percorsero da capo a piedi, vuoti e assenti. Forse la vedevano, forse no. Forse egli era giunto in quello stadio in cui realtà e allucinazione si confondono e in cui niente ha più un senso. Non disse nulla.
“Adesso dovete aggrapparvi alla corda, monsieur Fantòme” gli aveva dato del tu spinta dalla disperazione e dall’angoscia, ma ora che aveva la situazione sotto controllo, le sarebbe parso bizzarro continuare a farlo: “E dovete tirarci su. Io sono troppo magra per farlo con entrambi. Non preoccupatevi, se vi sentite cadere, aggrappatevi a me. Legata come sono, non ho la possibilità di precipitare”.
Lui sbatté le palpebre, il viso pervaso da uno stordimento umano, uno stordimento doloroso: “Christine…conchiglia…”
Udendo quel nome, Vivian s’irrigidì, avvertendo una curiosa stretta al cuore. Ancora quella maledetta Christine! Era lei che compariva nella sua mente, quando cadeva nel delirio? Era lei che invocava, che desiderava? Forse avrebbe preferito essere salvato dalla sua antica e bellissima musa, piuttosto che da lei, stonata e dura di lineamenti, poco femminile e scarsamente incline alla dolcezza. Che cosa gliene importava, di lei, in fondo? Non avrebbe mai potuto competere con la sua amata del passato.
“Christine non è qui, monsieur F” le uscì un tono aspro e secco: “Lei ha preferito una testa vuota di visconte. Ma non dovete morire a causa sua. Voi valete cento volte lei, ve l’assicuro”.  
Lo afferrò per i fianchi, una stretta tenace, che non ammetteva repliche, che voleva infondergli vita ed energia, e lui parve tornare un poco in sé a quel contatto. Una vaga luminosità comparve nelle sue pupille, un istinto di sopravvivenza sopito, ma non domato, lo spinse a circondarle a sua volta la vita e a stringere con la mano meno malridotta la ruvidità della canapa. La ragazza non gli era mai stata così vicina senza che lui portasse la maschera, e poteva contargli le piaghe e le cicatrici una ad una, poteva vedere come la deformità gli piegasse l’occhio all’ingiù e come gli storcesse le labbra, ma dietro all’orrore di tutto questo c’erano la bellezza e la nobiltà dei suoi lineamenti normali, quelli sul lato sinistro, e sotto al lezzo del sangue e del sudore aleggiava il suo profumo selvaggio, intenso come lo ricordava. Per un attimo le sue percezioni fisiche si intensificarono ed ebbe l’impressione di poter sentire la sua pelle sotto i vestiti, di percepire i muscoli sodi sfregarle contro il seno e di avvertire come non le era mai capitato prima i capezzoli turgidi che fremevano dietro la stoffa dell’abito, insopportabilmente sensibili.
“Maledizione, che mi succede?!” scosse con foga la testa, tradita dal suo stesso corpo: “Non può essere un capriccio, questo”.
Possibile che si trattasse di pura e banale libidine? Di brama carnale? Sì, era così, non c’erano altre spiegazioni, ed era già abbastanza assurdo che si sentisse attratta da un uomo del genere, specialmente ora che si presentava in simili condizioni. Qualcosa nel suo cuore, nel suo sangue, non funzionava per il verso giusto. Ma non poteva lasciare che lui se ne accorgesse.
“Va tutto bene, monsieur Fantòme, va tutto bene” con tono dolce e rassicurante, un goffo tentativo di negare all’uomo e a se stessa ciò che aveva appena provato, gli accarezzò i capelli sudati e appoggiò la guancia sul suo petto ampio e muscoloso, mentre lui, quasi senza energie, trascinava entrambi in superficie, arrampicandosi sulla corda e permettendole, adesso che era ferito e debole, di stringerlo così, di annusarlo così, di cedere alla propria lussuria, poiché di questo si trattava, di sola lussuria. Anche se non riusciva a staccarsi dal suo petto e i suoi seni mandavano crampi inaspettati e dolorosi, non significava che non aveva la forza di opporsi al buio che l’aveva posseduta. Non aveva dimenticato i suoi propositi, non aveva dimenticato niente. L’aveva salvato, ma sarebbe stata lei a rovinarlo.
Avvicinò le labbra al suo orecchio sfigurato e ripeté, come una cantilena: “Va tutto bene, tutto bene, tutto bene”.
Non ne era affatto sicura.

 

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Capitolo 16
*** Assonanza ***


Assonanza

 
 
 
 
 
Erik vagava in un magma inconsistente, dove ogni respiro era di fuoco e ogni battito di cuore irrorava sofferenza nelle sue vene. Non era completamente incosciente, ma non si poteva neppure dire che fosse consapevole della realtà che lo circondava. Ogni cosa era confusa, squarci neri e immensi devastavano la sua memoria e in lontananza risuonava un gemito continuo e ininterrotto, un rantolo grottesco che egli avrebbe voluto far cessare, se solo non fosse stato lui stesso ad emetterlo. Alternava momenti in cui la testa e il corpo gli scoppiavano, prendendo in ostaggio la sua mente, e momenti in cui l’incoscienza lo rapiva nelle sue spire, trascinandolo all’oblio. Aveva perduto tutto, la sua identità e i suoi ricordi, la sua percezione del tempo e dello spazio. Poteva avere i suoi effettivi trentasette anni allo stesso modo in cui sarebbe potuto essere un bambino o un adolescente imberbe.
Sedeva a gambe incrociate su un mucchio di paglia giallastra e maleodorante, le narici piene del fetore rivoltante dei suoi escrementi sparsi all’intorno e del sangue secco spillatogli in un passato non troppo lontano. Regnava la penombra, ma fuori dal luogo in cui era relegato, fuori dalla cerchia di possenti sbarre che gli ammiccavano luccicando nel buio, riecheggiavano risate sguaiate, scoppi e rumore di passi e di chiacchiere, un brusio cacofonico, tutt’altro che melodico, che lui sperava con tutte le forze di sentire allontanarsi. La solitudine era la sua unica salvezza, e se qualcuno giungeva, voleva dire sofferenza, voleva dire vergogna e umiliazione. Si stringeva al petto le ginocchia ossute, sorpreso dalla spaventosa magrezza delle sue membra; sul torace si contavano le ossa del costato e i polpacci erano di una sottigliezza inquietante. Sembrava che non mangiasse da mesi, eppure rammentava vagamente d’essere più alto e molto, molto più muscoloso, temprato da un gran numero di anni e di esperienze di vita. O no? A giudicare dalle proporzioni attuali, si poteva facilmente dedurre che egli fosse invece un ragazzino di non più di undici o dodici anni. Ma se aveva davvero quell’età, dov’era la sua scimmietta? Il pupazzo che aveva costruito con le sue mani, il compagno di ogni sventura, il morbido corpo da stringere la notte, nell’attesa degli incubi, con le orecchie colme delle voci e delle risa dissolute dei suoi carnefici? Perché non era con lui? E perché d’un tratto si sentiva così fuori luogo in quella gabbia, immerso nei suoi escrementi e nel suo sangue, protetto da un ruvido sacco di tela e rannicchiato come un cane tremante? Non aveva deciso di imporsi, di ordinare anziché obbedire, di tenere alta la testa?
Non capiva, non capiva nulla, la prigione era sfocata e si confondeva in qualcosa di rosso, dei drappi forse, o degli arazzi.
Adesso intorno alla gabbia c’erano delle persone. Non erano affatto entrate nel tendone in cui era collocata, non s’erano raggruppate pian piano, divenendo prima capannello, poi folla. Erano semplicemente…apparse, quasi dal nulla. Un attimo prima era solo sulla paglia secca e scomoda, a domandarsi quanti anni avesse e dove fosse finita la sua scimmia giocattolo, e quello dopo era invece circondato da visi umani, sommerso dal loro odore e dalla loro eccitazione famelica, dal passato e dal presente. Avevano importanza in quel luogo?
Gli pareva di riconoscere alcuni di quei volti. I due uomini sulla destra erano senz’altro Firmin e André, i direttori del teatro dell’Opera. Il primo era mascherato da tigre, il secondo da sciacallo. Che cosa ci facevano lontani dai loro compiti, e abbigliati in quella maniera ridicola? E perché accanto a loro, indifeso e protetto dal fulgore della sua avvenenza, era in piedi il visconte Raoul de Chagny, il quale teneva saldamente per la vita Christine, la sua Christine, bella in sogno ancor più di quanto lo era stata nella realtà, con i boccoli castani liberi di ricaderle fino alla vita e i grandi occhi malinconici pieni di accusa? Lo guardava, al di là delle fitte sbarre lucenti, le piccole mani appoggiate sul petto magro del visconte, e aggrottava le sottili sopracciglia, distogliendo sdegnosamente il viso: “Perché mi hai tradito? Mi fidavo di te”.
Una vertiginosa sensazione di deja vu lo assalì. Ella gli aveva già rivolto più o meno le stesse parole, ma in un contesto totalmente differente.
Gli fecero male come se gli avesse inferto una pugnalata nelle viscere. Il suo corpo era quello scheletrico e basso d’un ragazzino, tuttavia la sua voce era cupa e baritonale come quella d’un uomo adulto: “Perché dici questo? Non ti ho tradito!”
Firmin gli puntò contro un dito accusatore, le sue movenze e quelle degli altri accanto a lui erano le medesime di una giuria raccoltasi intorno alla gabbia in cui era rinchiuso l’imputato, inerme dinnanzi alle aguzze stelle della legge: “Sì, invece!” squittì alla sua fastidiosa maniera: “L’avete tradita!”
“Fareste meglio a confessare” André sputò fuori le parole con assoluto disprezzo: “Non siate vigliacco”.
Erik s’alzò in piedi, travolto da un’ondata d’astio e d’incomprensione per quella situazione di cui non comprendeva il senso. Le accuse gelide e perentorie che gli venivano mosse non avevano né capo né coda, loro si sbagliavano, mentivano per confonderlo, per accrescere il dolore che continuava a invaderlo, per sporcare l’onore della sua vita adulta con la lordura disgustosa della sua infanzia, relegata in un cantuccio della sua mente e mai più emersa, se non in sogno: “Smettetela! Io sono innocente! Non ho tradito nessuno!”
Raoul scosse la testa con rammarico, guardandolo in una maniera triste e compassionevole che gli incendiò le vene di rabbia e gli sollecitò il desiderio di distruggere le sbarre che lo separavano da loro per colpirlo su quel volto da brav’uomo. Gli sconosciuti, anch’essi raccolti intorno alla gabbia, forse i testimoni che immancabilmente si presentavano ai processi per aver qualcosa da raccontare, ridevano sguaiatamente, le stesse risa che innumerevoli volte avevano accompagnato le sue ignobili esibizioni in veste di “Figlio del Diavolo”, sonore e invadenti. Erik lasciò scorrere sulle loro facce paonazze e grottesche uno sguardo che implorava aiuto, dicendosi che da qualche parte, in quella moltitudine, si nascondeva Louise Giry, la sua salvatrice, la sua nume tutelare, la buona samaritana disposta a prenderlo per mano e a portarlo via da se stesso e dai suoi peccati, ma la donna, in quella situazione ragazzina come lui, non era da nessuna parte, non la trovava in mezzo alla folla vorace e si sentiva sempre più indifeso e a disagio, una sensazione orribile, umiliante, per un animo vendicativo e orgoglioso come il suo. Era tutto sbagliato, tutto sbagliato! La gabbia, la folla in preda al riso convulso, non aveva alcun collegamento con Raoul de Chagny, i direttori dell’Opera e…Christine. Un qualche dio di cui non conosceva il nome s’era divertito a mutare il corso della sua esistenza e a mescolare tutto quanto a suo libero piacimento.
Così gli spettatori ridevano, il visconte scuoteva la testa con pietà, Firmin e André borbottavano ripetendo la sua colpevolezza e Christine gli teneva incollato addosso quello sguardo truce, indignato e accusatorio: “Tu mi hai tradita”.
“Non è vero!” cercò di avvicinarsi all’immagine della sua amata, scintillante come una stella in quella marmaglia volgare e dissoluta, ma intorno alla gabbia vi era una barriera, un confine invalicabile, e veniva continuamente respinto indietro da forze invisibili, che gli colpivano come artigli rapaci la spalla destra, strappandogli gemiti acuti. Cadde in ginocchio nella paglia lorda di sangue e di sterco, dilaniato dall’impotenza e dallo stordimento, e levò sul magnifico viso uno sguardo di disperata supplica: “Credimi, Christine, io non ti ho mai tradito”.
“Davvero?” la voce di lei, quella splendida voce che aveva modellato e perfezionato sino a renderla perfetta e cristallina, gli giunse imbevuta d’un sarcasmo assoluto, d’un’aria di maligna presa in giro. I dolci lineamenti erano trasfigurati dal rancore, tutta l’innocenza e la purezza l’avevano abbandonata per fare spazio ad un ghigno diabolico e ad uno sguardo che sprizzava scintille incandescenti: “Non prendere in giro te stesso, Erik! Sai benissimo di non amarmi più! Ti sei già dimenticato tutto quanto? Io ero la tua musa, la sola capace di rendere giustizia alle tue note, la tua sposa, il tuo unico e vero amore. Non le rammenti più, le promesse, gli inganni, i segreti che abbiamo condiviso? Era dunque un sentimento passeggero? Un amore fatuo e moribondo? Così presto è cessata la dolce musica per noi?”
Lui tacque, travolto dalla verità di quelle parole. Un ricordo sperduto, un frammento di memoria gli sovvenne vagamente, riportato in vita dalla smorfia rancorosa della sua amata di un tempo, dallo scintillio malevolo nei suoi occhi di calda cioccolata. Era il ricordo d’un articolo di giornale, un articolo di cui non rammentava il contenuto ma che l’aveva condotto, tramite un lungo ragionamento, all’illuminazione: l’amore per Christine, un amore che per anni e anni aveva determinato il corso della sua esistenza, era cessato. E nonostante lei non lo avesse mai ricambiato, nonostante fosse sposata e  incinta, l’immagine che conservava dentro di sé, la stessa immagine che ora gli ammiccava al di là delle sbarre, si sentiva tradita dal suo cuore debole e superficiale, incapace di rimanere legato per sempre ad un’unica anima, un’unica voce, un unico sorriso. Aveva ragione, avevano ragione tutti. L’aveva tradita.
“Credi che sarai felice, adesso?” non gli era mai capitato di desiderare che la fanciulla tacesse. Anzi, l’aveva sempre esortata a cantare per lui, a riempirgli il corpo di quegli acuti lunghi e mozzafiato, a dimostrargli la validità dei suoi insegnamenti. Ma adesso, torturato dal tono di risentita canzonatura, dall’accento aspro, avrebbe voluto gridarle di star zitta: “Credi di esserti liberato di un peso? Senza di me non sei nulla, sciocco! Tutti al teatro ti ricordano per un’unica vicenda in particolare, il mio rapimento, la notte del Don Juan! Non hai fatto altro che esistere per me, per tutti questi anni, e adesso che non m’ami più, che vuoi lasciarmi andare, svanirai come il rifiuto che sei. Hai bisogno di me. È inutile tentare di negarlo”.
Erik mosse la testa in su e in giù, annientato, annichilito dal significato di quelle frasi terribilmente vere, pronto ad ammettere qualsiasi conseguenza della sua infedeltà. Lei diceva il giusto, non era nulla senza l’amore che li aveva legati, nulla senza il suo ricordo, che gli aveva stimolato affetto e odio a seconda dei casi. L’aveva perduta, aveva lasciato andare la sua musa, uccidendo con lei anche se stesso. Quale orribile errore! Ella era stata la sola fiammella di luce nell’oscurità della sua vita, la sola cosa capace di mantenerlo salvo sopra l’abisso…e alla fine l’aveva soffocata di sua volontà, aveva spento il suo fuoco, restituendo al buio il dominio assoluto sulla sua anima.
“Monsieur Fantòme!”
Trasalì, levando il capo di scatto e volgendo all’intorno due occhi divenuti improvvisamente frenetici e lucenti. Quel richiamo…conosceva quel richiamo. Non assomigliava neppure un poco al dolce strumento che era la voce di Christine, celestiale persino quando si colorava d’odio e di rancore, tuttavia era entrato in lui come un balsamo benefico, aveva riscaldato il suo corpo gelato dallo sconforto e aveva mutato bruscamente il corso dei suoi pensieri. Dov’era la proprietaria? Come mai non l’aveva notata tra gli spettatori riuniti intorno alla gabbia? Sicuramente, se fosse stata tra la folla, si sarebbe avveduto di lei! Perlustrò i volti deformati dall’ilarità e i corpi sussultanti per le risate alla ricerca di quella massa di riccioli scuri e di quel viso tondo e deciso, indispensabili come mai prima.
Eccola! L’aveva finalmente individuata! Era esattamente al lato opposto di Christine, aggrappata alle sbarre con ambedue le mani, un’espressione di angoscia, ansia e trepidazione sui lineamenti volitivi e uno sguardo scevro di qualsiasi malignità: “Monsieur Fantòme!” ripeté, incalzante, tentando di infilare la testa nell’acciaio. Pareva ansiosa di raggiungerlo dentro alla gabbia, di separarsi dalla moltitudine impazzita: “Sta tranquillo, ti tirerò fuori di lì, ti salverò!”
Di nuovo una sensazione di deja vu sfiorò i margini della sua coscienza. La ragazza aveva già pronunciato quelle parole…ma anche lei in circostanze diverse. Percorse bruciandola in sé la sua assoluta determinazione, il fuoco ardente e inestinguibile che riposava nel fondo delle sue iridi ambrate, i ricci fitti e rigogliosi che le carezzavano come un vortice di fiamme nere il profilo del collo. Fuoco, fiamme…non aveva pensato la stessa cosa a proposito di Christine, poco prima? L’aveva paragonata ad un lampo di luce nell’oscurità dei suoi giorni. Tuttavia il suo aspetto non evocava affatto quell’elemento feroce, fiero e capace di scaldare come di consumare, piuttosto, guardandola, si poteva pensare all’aria pura e impalpabile, o all’acqua calma e profonda. Ma né l’aria, né l’acqua erano in grado di dissipare il buio che si portava dentro. Il fuoco, invece…
La scena parve sfumare ai suoi occhi, disgregarsi in una moltitudine di luci bianche che cancellarono la gabbia, il viso incollerito di Christine, gli spettatori ridenti e l’angoscia di Vivian, ma non il fetore del sangue fresco, né le fitte di dolore alla spalla destra. Tossì, i polmoni pieni di un qualcosa di maligno e di bruciante che gli impediva di respirare con agio, e sollevò le palpebre pesanti e cispose, la mente offuscata dalle immagini del sogno, il corpo un fardello insostenibile che riposava sotto calde coperte di lana. Non era stata un’allucinazione, il color rosso intravisto di tanto in tanto tutt’intorno. Drappi consunti e cortine di quella tonalità celavano la nudità delle pareti di pietra della stanza in cui riposava, e la sola illuminazione era costituita da tre candele accese sistemate sul tavolinetto alla sua sinistra. Udiva, in maniera smorzata ma distinta, il dolce scroscio del lago Averno da qualche parte nello spazio vicino.
Era tornato a casa. Alla Dimora sul Lago. Ma perché giaceva debole sul suo letto, con un sapore rivoltante nella bocca e una sofferenza atroce all’altezza della spalla? Che cosa era…
I ricordi lo assalirono tutti insieme, chiari e nitidi malgrado la confusione che gli ottenebrava il cervello. Era caduto in una delle sue trappole, un’onta che non avrebbe mai dimenticato, un inammissibile errore che quasi gli era costato la vita, dopo aver letto l’articolo di giornale che l’aveva informato sull’assoluta mancanza di gratitudine di Christine. Si era aggrappato appena in tempo ad una sporgenza di roccia, e aveva udito la voce di Vivian che lo chiamava e invocato il suo nome perché tirasse la leva che gli avrebbe consentito di salvarsi. Ma lei non era stata in grado di farlo…oppure sì? No, no, aveva tentato, ma inutilmente…e gli aveva detto…gli aveva detto…che sarebbe tornata…dopo aver trovato qualcosa di adatto ai suoi scopi. Lui le aveva gridato di rimanere, ma la giovane era corsa via, lasciandolo solo e agonizzante a penzolare in quel buco.
Dopo ciò, la sua memoria diveniva fallace. Un velo di dolore sbiadiva i colori dei ricordi, un approssimarsi sempre più forte del delirio gli rendeva impossibile determinare con sicurezza il corso degli eventi. Se si trovava al sicuro nella Dimora sul Lago, anziché spiaccicato nel fondo del precipizio, allora la sua ospite doveva essere riuscita a trarlo dall’abisso. Però non conservava alcuna traccia dell’accaduto. L’unico sottile filo di memoria era debole e impercettibile ed era la voce della ragazza, quella voce bassa e forte, che sussurrava con tono rassicurante: “Va tutto bene”.
Ma dov’era adesso? Sollevò la testa dal cuscino, cercando di mettersi a sedere, perseguitato dalla nuova e attanagliante paura che ella se ne fosse andata, tornando in superficie. Fino a poco tempo prima questa era stata la sua speranza più grande, ma adesso, per qualche assurda ragione di cui gli sfuggiva il senso, era terrorizzato da una simile eventualità. Aveva bisogno della presenza forte e dinamica di Vivian, della sua passione, del sentimento che metteva in tutto ciò che faceva. Non avrebbe sopportato una sua uscita di scena, specialmente adesso che era in quelle condizioni. E la sua spalla… cos’aveva la sua spalla? Impulsivamente, allungò l’altro braccio per toccarsela.
“No!” l’ordine, chiaro e perentorio, giunse con tempismo perfetto, e un attimo dopo si materializzò la figura di Vivian, avvolta in una vestaglia che s’era infilata in fretta e furia, senza neanche allacciare in vita il cordone di stoffa, e alquanto in disordine. I capelli erano ancora più riottosi del solito e il suo viso, riempito di ombre dai riverberi delle candele, era pallido e sbattuto, le palpebre circondate da occhiaie evidenti. Doveva aver vegliato incessantemente su di lui, negandosi il sonno e il cibo, per chissà quanto tempo. Con quei modi spontanei che lui aveva imparato a riconoscere e ad apprezzare, gli prese la mano che stava per tastare la spalla e l’accompagnò sul giaciglio: “È meglio non andarsi a stuzzicare lì”.
Erik la fissò, sconvolto dall’ondata di sollievo montata in lui quando gli era apparsa davanti. Era così…bella in quel momento, sicura di sé e con la situazione in mano, ma una constatazione del genere non si basava su alcun motivo logico, dal momento che aveva invece un aspetto stravolto ed era in condizioni ben peggiori rispetto ad altre occasioni in cui avevano parlato. Però quelle occhiaie, quel colorito pallido, quei lineamenti tirati, quella chioma aggrovigliata…erano state causate dall’ansia che la ragazza provava per lui? Nessuno aveva mai mostrato un analogo coinvolgimento nei riguardi della sua sorte, tantomeno Christine, che l’aveva abbandonato in pasto ai cani che volevano linciarlo per fuggire con il suo visconte. Il volto stanco e angosciato della sua ospite gli riscaldò il cuore, attenuando un po’ delle fitte che s’irradiavano dalla spalla. 
“Che cosa è successo?” dalle labbra riarse scaturì una voce roca e affaticata che non riconobbe. Si era appena destato, ma già avvertiva il desiderio di ricrollare nel sonno, con la speranza che stavolta fosse privo di sogni.
Lei si lasciò sfuggire un sospiro e si portò un ricciolo ribelle dietro l’orecchio, prendendo dal tavolinetto una brocca piena d’acqua e chinandosi sul suo capezzale: “Prima bevete, poi vi spiegherò”.
Erik distolse il viso scontrosamente, per nascondere il crescente disagio che gli causava quella situazione tanto anomala. Non era abituato ad essere accudito da chicchessia, nel corso della sua vita se l’era sempre cavata da solo e quelle premure gli risultavano quasi incomprensibili: “No, prima spiegate. Ho il diritto di sapere cosa mi è accaduto” con la coda dell’occhio, notò di avere la spalla avvolta da bende pulite e avvertì una stretta di paura nelle viscere. Se si era danneggiato in qualche maniera il braccio destro, avrebbe potuto cantare, ma non suonare almeno per una settimana, e tale restrizione era quanto di più terribile riusciva ad immaginare. La musica era tutto per lui, senza di essa non aveva alcuno scudo a difenderlo dall’oscurità e dalla perdizione, alcuna distrazione dal peso dei pensieri e dei ricordi, immane e crudele, onnipresente, malgrado i suoi sentimenti fossero mutati. Si poteva rimuovere l’amore per una persona, ma non il dolore di un suo antico abbandono. Quello rimaneva, subdolo e inamovibile, radicato nei decenni.
Ma Vivian non aveva mai chinato la testa di fronte ad un suo ordine, non aveva mai ceduto al suo tono di comando, allo sguardo d’avvertimento delle iridi azzurro scuro, alla smorfia del suo volto dolorosamente nudo, terribile nella sua deformità. Posò l’orlo della brocca sulle sue labbra serrate e s’approfittò della sua momentanea debolezza, costringendolo a non voltare la testa: “Poche storie. Se volete riprendervi in fretta, dovete assumere molti liquidi, stare a riposo e non agitarvi. Perciò calmatevi, bevete la vostra acqua e copritevi bene, qui sotto si gela. Per vostra tranquillità, vi dico che non vi sarà alcuna conseguenza importante a seguito di questo incidente”.
Un poco della tensione di Erik evaporò a quell’ultima frase, ma continuò a percepire dentro di sé un presagio di sventura. Non poter suonare per svariati giorni era, dal suo punto di vista, una grave conseguenza, e coltivava la seria convinzione che alla fine di quei preamboli, avrebbe saputo proprio questo. Tuttavia non ricavò dalle brusche esortazioni di lei l’irritazione che avrebbe dovuto e con grande sorpresa bevve docilmente l’acqua della brocca, prosciugandola in pochi secondi. Non s’era accorto d’avere così tanta sete. Il bisogno era urgente a tal punto che, terminato il contenuto del calice, se ne sarebbe bevuto volentieri un altro. Leccò avidamente le ultime gocce dalle labbra secche, cercando di volgere al lato oscuro della camera la parte deturpata del suo viso. Urgeva procurarsi un’altra maschera al più presto, si sentiva troppo esposto senza, malgrado Vivian non palesasse alcun tipo di disgusto o di turbamento.
Ella, dal canto suo, aveva deposto la brocca vuota sul ripiano dove stava prima e s’era accomodata placidamente su un mucchio di guanciali di seta, poco lontano dalla scimmietta con i piatti che suonava quando si sentiva particolarmente solo o disilluso. La seguì con gli occhi, notando improvvisamente una sorta di segreta preoccupazione sul suo volto, un’ombra nel suo sguardo franco e sicuro, e non osò muoversi, per evitare di incorrere in ulteriori rimproveri: “Adesso volete dirmi cosa è accaduto?”
“Prima di tutto” commentò lei con tono pratico: “Che cosa ricordate?”
“Ricordo di essere caduto in un precipizio. Ricordo che siete venuta a cercarmi e che non siete riuscita a tirare la leva. Ricordo che ve ne siete andata giurandomi di tornare. Ma da quel momento in poi…” scosse la testa, frustrato dal buco nero in mezzo al mosaico della memoria: “È tutto confuso. Credo che a un certo punto mi abbiate detto che andava tutto bene, ma forse l’ho sognato”.
Un curioso rossore le imporporò le guance: “No” bisbigliò: “Non l’avete sognato”.
Ci fu una piccola pausa. Sembrava che quella parentesi nel discorso avesse significato per la ragazza più di quanto Erik si sarebbe aspettato, e per qualche minuto stette seduta sui cuscini, le braccia intorno alle ginocchia, guardando il vuoto con aria assente. Fu costretto a riscuoterla con un colpo di tosse e si riebbe con un lieve sussulto: “Ho mantenuto il mio giuramento, monsieur Fantòme. Sono corsa fin qui il più velocemente possibile, ho prelevato una corda e l’ho usata per calarmi nel precipizio. Voi eravate ferito e in uno stato visibilmente confuso, ma siete riuscito a trasportare entrambi in salvo e io vi ho sostenuto durante il tragitto verso la vostra camera. Barcollavate ed eravate incerto sulle gambe, ma eravate cosciente, altrimenti non ce l’avrei mai fatta, a mettervi a letto. Appena vi siete sdraiato sotto le coperte, avete mollato ogni freno e vi siete abbandonato ad un lungo svenimento. Al principio la vostra fronte scottava, ma adesso và meglio. Avete una tempra invidiabile, monsieur!”  
Egli già non l’ascoltava più. Attraverso le palpebre semiaperte, studiava la sua magra figura raggomitolata contro il muro e stentava a credere che quella creatura fragile e snella, quella donna che aveva involontariamente salvato da una tentata violenza avesse affrontato il pericolo di un precipizio per portarlo al sicuro. Se l’immaginava mentre pendeva nel vuoto con la fune legata intorno ai fianchi e un moto di silenzioso stupore trasfigurava il suo volto appoggiato sul cuscino. Chi altri avrebbe osato tanto per salvare la vita del Fantasma dell’Opera? Nessuno, neanche Madame Giry. C’era qualcosa di soprannaturale in Vivian, qualcosa di sorprendente nell’incoerenza delle sue azioni.
“Perché?” la parola fu appena un soffio. Lei ostentò noncuranza: “Perché cosa?”
Erik era certo che avesse capito e che stesse solo prendendo tempo, ormai la sua opinione di lei era troppo elevata per prendere in considerazione l’ipotesi che non avesse colto il senso della sua domanda: “Perché l’avete fatto? Avete rischiato di perdere la vita. Cosa ve ne veniva, dalla mia salvezza?”
Vivian si strinse con maggior vigore le gambe al petto. Se fosse stata in piedi, di sicuro avrebbe cominciato a tormentare con le dita il bordo della vestaglia come faceva sempre quando era nervosa. Egli iniziava a conoscerla sul serio, a memorizzare ogni suo gesto o cambiamento d’espressione, e la perspicacia con cui notava i suoi sorrisi, le vampate che le salivano alle guance, i cipigli e le smorfie lo inquietò. Normalmente considerava gli esseri umani indegni del suo sguardo, e sorvolava con piacere sulle loro pose.
Era ormai giunto alla conclusione che non avrebbe ottenuto alcuna risposta, quando lei parlò, scegliendo le parole con cura e seguitando a fissare il vuoto: “La verità è che non ne sono ben sicura io stessa”.
Era ciò di cui aveva bisogno. Se la ragazza si fosse lanciata in una complicata spiegazione sui motivi che l’avevano spinta a rischiare così tanto per lui, asserendo di non voler perdere la sua protezione o di esserglisi affezionata nel corso di quei giorni, non avrebbe creduto ad una sola delle sue giustificazioni e avrebbe pensato che l’aveva salvato perché le tornasse utile in futuro. Ma quella sperduta desolazione, quella sincera ammissione di ignoranza erano invece, ai suoi occhi, veri totalmente. Capiva alla perfezione il contrasto interiore che stava avvenendo in Vivian, poteva accettare d’essere stato soccorso per ragioni che sfuggivano a lei stessa. Indubbiamente la disavventura era un qualcosa che entrambi dovevano ancora ben assorbire.
“In ogni modo…” disse come esitando a concludere: “…grazie”.
Gli occhi scuri di lei deviarono dal muro al suo volto privo di maschera e lo studiarono con intensità, accesi da un brillio di emozione. Erik avrebbe voluto seppellire i suoi dannati lineamenti piagati nel guanciale perché lei non potesse più osservarlo, ma rimase invece fermo al suo posto, ricambiando lo sguardo penetrante della ragazza. Quanto fastidio aveva ricavato dalla sua presenza, quanto si era detestato per averle promesso quei dieci giorni di ospitalità. Ma se l’avesse scacciata quando ne aveva avuta la possibilità, se l’avesse caricata sulla gondola con la forza, sarebbe probabilmente morto nel precipizio, dissanguato su una delle affilatissime stalagmiti che scintillavano sul fondo. Che facesse tutto parte di un disegno premeditato? Non aveva mai creduto in alcuna divinità, tuttavia si domandò, per la prima volta, se fosse il caso di confidare nell’esistenza del destino. Era destino, il suo incontro con Vivian? Era destino che si fosse trovato nei paraggi della cappella la sera che il nobile aveva provato a violentarla e che l’avesse salvata, decidendo poi di condurla nella sua dimora?
“Non dovete ringraziarmi” mentre si smarriva in tali ipotesi, lei era rimasta concentrata sul suo grazie: “A vederla da una certa ottica, non ho fatto altro che pareggiare i conti. Voi mi avevate difesa dal marchesino Antoine, e io mi sono solo… sdebitata”.
“Credevo che quella vicenda non contasse” osservò l’uomo, sollevandosi con fatica sui gomiti per proseguire la conversazione con più agio. Era stanco e intorpidito e il suo corpo chiedeva a gran voce riposo, ma più forte era il desiderio di parlare con Vivian: “Credevo che mi riteneste indegno di ogni forma di gratitudine”.
Lei arrossì di nuovo, più profondamente: “Mi sbagliavo”.
Stavolta fu lui a fissarla con intensità: “Davvero?” si sorprese che nel suo petto qualcosa si fosse mosso, qualcosa di debole e di indurito e di troppe volte trafitto da pugnalate di vario genere.
“Vi ho giudicato male, monsieur F. E mi dispiace di aver ignorato tante implicazioni della vostra vicenda, basandomi solo sulle apparenze. Mi illudo di essere diversa dagli altri, di ricercare la vera essenza delle cose, ma forse sono cieca e bigotta come loro” nel tono della giovane vi era una grande umiltà, un’umiltà da adulta, che per qualche secondo cancellò dal suo viso ogni traccia di frivolezza o frenesia adolescenziale per lasciare spazio all’espressione stanca e paziente di una donna. Parve sorpresa, come se una presenza estranea si fosse infiltrata nel suo corpo e avesse pronunciato quelle parole al suo posto. Ma era stata sincera, e a lui bastava aver compreso questo. Guardandola, così rannicchiata sui cuscini con quella nuvola di capelli arruffati e quell’incarnato reso pallido dalla preoccupazione, avvertì il desiderio improvviso e incomprensibile di alzarsi, attraversare la distanza che li separava e stringerla tra le braccia, facendo eco alle parole che gli aveva rivolto nel precipizio dicendole che sarebbe andato tutto bene. Volle proteggerla, tenerla al sicuro dalla crudeltà del mondo e dei potenti che già le era ricaduta addosso, proponendole di restare a lungo, di condividere con lui il peso della solitudine (poiché ormai sapeva che anche lei era una creatura triste e sola) e del rimpianto. Non sarebbe stato un favore mai ripagato, con lei lo scambio era equo: avrebbero dato e ricevuto in pari misura, rispettandosi e comprendendosi.
Ma naturalmente ciò era impossibile, e non avrebbe dovuto nemmeno ricamarci sopra. Per colpa della ragazza aveva interrotto i suoi progetti di vendetta, si era arreso a posticiparli a quando non sarebbe più stata lì ad accusarlo in silenzio, e se le avesse concesso di restare più a lungo sarebbe stato costretto a rimandarli ancora. Si proibiva di farlo. L’umanità doveva pagare il fio, i conti andavano regolati. Non poteva ignorare i torti subiti in passato a causa della gentilezza di una fanciulla che forse era migliore di Christine, ma che comunque avrebbe stimolato in lui quel senso di colpa e quella ragione che, fuorché al termine della notte del Don Juan, aveva sempre tenuto celati sotto una nera coperta mentale. Sapeva che c’erano, a volte quasi ne avvertiva l’odore, ma preferiva cullarsi nell’illusione che non esistessero e che avesse tutto il diritto di comportarsi come si comportava, lasciandoli ben sepolti sotto strati di oscurità. La presenza di Vivian, così solare, così diretta, rischiava di sollevare la sua preziosa coperta e di svelare i vermi schifosi che vi brulicavano sotto.   
E non c’era niente al mondo che lui temesse allo stesso modo in cui temeva quei vermi. La sola occasione in cui li aveva intravisti, quando le morbide labbra di Christine erano penetrate in lui annidandoglisi nella mente e lacerando la loro copertura, quasi era morto di dolore e di angoscia. Se ciò si fosse ripetuto, ne sarebbe rimasto segnato in eterno, l’avrebbero perseguitato ogni notte della sua vita.
(e io non voglio non voglio non voglio vedere i vermi venefici che vivono in me)
“Posso farvi una domanda?”
Sussultò, accusando la stessa sensazione che prova un naufrago sperduto in mare aperto quando s’imbatte in una solida ancora. La voce di Vivian l’aveva distratto dalla pericolosità di quelle riflessioni e aveva spento quel muscolo del suo cervello consapevole della coperta nera e del suo contenuto. Occhi gialli e corpi viscidi non gli ammiccavano più oltre le ombre. Si strinse di più nelle coperte, colto da un brivido di freddo, prima di volgersi dalla sua parte: “Quale?”
Lei soppesò con cautela la frase successiva. Appariva esitante, come se non fosse sicura di voler apprendere quel che le era oscuro. Ma alla fine, ovviamente (si trattava pur sempre di Vivian!) si buttò: “Cosa vi spinse a salvarmi da Antoine, quella sera nella cappella?”
In effetti non s’aspettava una domanda simile, specialmente dopo i giorni trascorsi dalla disavventura avvenuta nella cappella. Perché la giovane aveva atteso tutto quel tempo prima di chiederglielo? Al principio aveva preteso spiegazioni sulla sua presenza nella Dimora sul Lago, naturalmente, ma non aveva indagato sui motivi che l’avevano indotto a strapparla alle grinfie del marchesino. Probabile che all’epoca (era passato poco tempo, ma a lui tali vicende sembravano lontane di eoni) non le fosse importato alcunché della cosa. Adesso, invece…adesso nei suoi occhi c’era un deciso bisogno di fugare quel dubbio, ed era la verità che voleva, non facili menzogne o un racconto che lo facesse apparire eroico come anche lei era stata nel precipizio.
Rispose con tutta la franchezza possibile: “Non si trattava di voi. Non vi avevo neanche riconosciuta, all’inizio. Ma quella cappella era per me teatro di numerosi ricordi, lì avevo conosciuto Christine” non si fermò neppure un attimo a notare che era la prima volta che pronunciava quel nome di fronte alla sua ospite: “E lì l’avevo istruita. Non ho sopportato che venisse dissacrata in quella maniera ignobile”.
Aveva previsto di vedere affiorare sul viso di Vivian un’espressione di biasimo, o di delusione, o di amara conferma a supposizioni elaborate in passato, ma con sua sorpresa lei accettò quella versione dei fatti senza mutare in alcun modo la propria posa riflessiva e non rovinò la nuova atmosfera di complicità instauratasi tra di loro: “Ditemi una cosa…” distolse leggermente il volto, avvolgendosi più stretta nella vestaglia per una repentina insicurezza: “Com’era la vostra Christine? Era bella?”
Erik si ritrasse appena, con le mosse di chi si difende da un colpo basso. Prima di aver letto l’articolo di giornale quella questione l’avrebbe troncata subito e con irosa brutalità, rifiutandosi di mostrare la stessa debolezza vulnerabile con cui l’aveva sorpreso Madame Giry quel lontano giorno immediatamente successivo all’addio della sua amata. Ma ora che i sentimenti che le nutriva erano scomparsi, lasciando dietro di loro solo una fievole traccia dolorosa dell’antica grandezza, e che Vivian l’aveva tanto altruisticamente salvato, non volle negarsi di affrontare l’argomento: “Bellissima. Come un mattino di primavera, un tramonto sul lago o la passione di un’opera ben eseguita. Ma il suo aspetto era superfluo, confrontato alle meravigliose utopie che era capace di creare con il canto”.
Appena ebbe chiuso la bocca, gli sovvenne un bizzarro particolare su cui all’inizio non s’era soffermato. Vivian conosceva già le sembianze di Christine, avendo veduto la bambola di cera che le riproduceva alla perfezione. Perché fargli quella domanda, allora? E perché s’era rattrappita nel suo angolino, chinando la testa in modo che i lunghi riccioli le coprissero il viso e reprimendo a fatica una smorfia? Forse avrebbe preferito sentirgli dire che Christine era brutta e sgraziata? O che oramai non la considerava più avvenente? Certo non l’amava, ma riconosceva ugualmente la sua magnifica bellezza e le sue straordinarie capacità canore. La sua ospite, tuttavia, sembrava in qualche modo in difficoltà a fronte di quella descrizione.
“L’amavate molto?” disse infine, incerta. Erik non vide alcuna ragione di negare l’evidenza: “Sì. Ma ne è passata di acqua sotto i ponti”.
“La riaccogliereste, se tornasse e vi dichiarasse amore?”
Rimase spiazzato. Era un qualcosa che non aveva mai preso in considerazione, un’eventualità che s’era proibito di formulare i primi mesi, quando il ricordo di lei era una presenza perpetua e molesta e vagava smarrito in abissi di sofferenza e di furia. Messo davanti ad un’ipotesi così bizzarra e inverificabile, si trovò nell’incapacità di fronteggiarla. Non amava più Christine, ma rammentava tutto, ogni cosa, ogni momento trascorso insieme, ogni canzone o bacio negato…se fosse tornata a bussare alla sua porta, implorando il suo perdono e la sua protezione, chiedendogli tra i singhiozzi d’essere nuovamente il suo buon Angelo della Musica…che cosa avrebbe fatto? Le avrebbe sbattuto la porta in faccia, tenendo fede ai progressi fatti in quei mesi, o il suo cuore avrebbe ceduto alle suppliche del suo antico amore, ritrovando nel suo pentimento un poco di calore e di gioia?
Lo ignorava. Erano cambiate tante cose, soprattutto recentemente, ma Christine era Christine, e faticava ad immaginarsi mentre opponeva un deciso rifiuto alle sue preghiere e voltava le spalle al suo dolce volto rigato di lacrime e alla sua voce cristallina spezzata dai singhiozzi.
Vivian parve intuire la lotta interiore che stava infuriando dentro di lui e chinò bruscamente il capo. Una frazione di secondo prima che lo facesse, tuttavia, Erik riuscì a cogliere un’espressione addolorata dipintasi repentinamente sui suoi tratti, e non se la seppe bene spiegare. Cosa importava a quella ragazza dei suoi intrecci amorosi con Christine Daaé? E cosa la disturbava tanto di quella faccenda?
“Non sono mai stata innamorata” la confessione, totalmente fuori luogo, venne pronunciata con semplicità, senza rimpianto né invidia, da una Vivian ancora a capo chino. Con l’indice, si mise a tracciare linee oblique sul cuscino che le era più prossimo. Erik, stupito dalla frase, finì per rispondere con un asciutto: “Buon per voi”.
Avrebbe voluto aggiungere che l’amore altro non era che un modo più elegante di chiamare la lussuria, una bugia raccontata dagli uomini per spargere un alone di falsa bontà su una razza crudele, egoista e votata al male, che non portava altro che dolore, umiliazione e follia, che la sua esperienza era stata negativa in tutto e per tutto, malgrado al principio le cose paressero tanto splendide e irripetibili, ma si frenò. Tutti avevano diritto ad amare, o almeno a convincersi di amare, specialmente all’età di Vivian, e non voleva negarle un qualcosa di tanto naturale solo perché in futuro sarebbe rimasta sicuramente delusa. Ella era ancora giovane, ancora inconsapevole della malvagità intrinseca alla natura umana, non meritava di aprire gli occhi così presto, di perdere fiducia nei sentimenti sulla soglia dell’età adulta. A meno che, forse, non avesse capito tutto quanto da sola, dopo la tentata violenza che aveva subito nella cappella. Al ricordo del suo corpo bianco e vulnerabile che si contorceva invano nella stretta brutale del giovanotto e della sua testa che picchiava forte sul pavimento, l’uomo si conficcò le unghie nella carne. Se avesse ripescato quel bamboccio arrogante a girovagare nel suo teatro, l’avrebbe fatto pentire di ogni singola stilla di sofferenza inflitta alla sua ospite. E, peraltro, ne avrebbe avuto tutto il diritto; ella stessa aveva affermato d’essere divenuta la sua protetta.
“È strano” sussurrò lei, persa. Erik si distrasse dai suoi progetti vendicativi e la guardò, accorato. Per la prima volta, dopo aver ripensato all’aggressione da lei subita, incominciava a osservarla con occhi protettivi: “Cosa?”
“Che io non sia mai stata innamorata. Neanche da piccola. Neanche nella pubescenza, quando di solito nascono le prime infatuazioni. Forse è stato il mio modo di reagire alla situazione dei miei” sembrava quasi che la giovane parlasse a se stessa: “Mia madre era la contessina Amélie de Bougainville. Oltre alla cospicua dote che i genitori le avevano attribuito, era famosa a causa del canto e compariva a tutti i balli e i ricevimenti più importanti, passando da un uomo all’altro, da una civetteria all’altra, senza mai compromettersi. S’innamorava e si disamorava con la stessa velocità con cui una bettola si riempie di clienti la sera e viveva di passione, di nuove esperienze e di divertimenti trasgressivi. Ma che cosa le ha portato, la sua propensione a correr dietro agli uomini? Il disonore, il disprezzo dei suoi, la perdita della dote, della carriera e del suo titolo. A ventisei anni, non era nessuno. La moglie di un ubriacone, incinta prima delle nozze e solita lanciare sguardi cupidi a qualsiasi uomo incontrasse persino quando passeggiava con il marito. Basandomi sulla sua esperienza, pensavo che l’amore fosse una beffa, un compromesso, una trappola addobbata di false meraviglie…e non volevo concedere a nessuno potere su di me”.
“Avete agito saggiamente” replicò Erik, colpito dalla straordinaria maturità della ragazza: “Quando doni il tuo cuore a qualcuno, è quasi scontato che egli lo calpesterà, negandogli per sempre la possibilità di tornare intero”.
Gli occhi di lei si alzarono di scatto: “Ma non deve essere per forza così”.  
L’uomo alzò un sopracciglio: “Prego?”
“Pensavo…deve esistere il vero amore. Per quanto sciocco o infantile possa sembrare. Deve succedere prima o poi che un unico uomo incontri l’unica donna a cui è destinato, e che stabiliscano un rapporto equo, dando amore e ricevendo amore”.
Forse non era così matura come aveva pensato poco prima. Il vero amore era la favoletta in cui credevano i bambini che leggevano le fiabe di Perrault, privi della consapevolezza necessaria a vedere oltre la superficie e a cogliere i particolari che persino nelle favole rendevano palese l’assenza di una simile utopia. Nessuno aveva mai scoperto il seguito di tali storie, nessuno si era soffermato ad immaginare come sarebbero proseguiti quegli amori che iniziavano e finivano con il primo incontro, il primo bacio, e la successiva e prorompente proposta di matrimonio. Se avessero indagato sulla continuazione delle favole, avrebbero appreso che anche quelle illusioni di amore si sarebbero presto frantumate, lasciando amarezza e rimpianto.
La sua favola con Christine, in cui ella era la principessa dalla voce cristallina e lui l’angelo tenebroso che le prestava aiuto dall’oscurità, ora era verde di marciume e di degrado e aveva perso tutto il suo fascino. Lui era un mostro. E lei una conchiglia graziosa e vuota che cantava le bellezze di altri.
“Quello di cui parlate è solo un sogno, mademoiselle” affermò piano, sorpreso dal proprio tono amaro: “Un’illusione di vetro. Forse esiste un amore del genere, poiché io ho provato qualcosa di assai somigliante, ma non viene mai condiviso da entrambi. Il più delle volte, colui che ne cade vittima resta deluso, poiché i sentimenti dell’altro sono invece lievi e fragili, pronti a volar via alla minima avversità. Sarebbe troppo bello credere in un incontro in cui l’uomo e la donna sono accomunati dallo stesso tipo di amore”.
“Ma dobbiamo crederlo” ribatté lei, scrollando con un gesto deciso la chioma sulla schiena e fissandolo con iridi scintillanti di rabbiosa decisione: “Dobbiamo, o vivere sarebbe inutile!”
Le sorrise tristemente: “Io ci ho creduto, per un poco. Vi sembra la mia una vita utile?”
“Sì. Voi siete il più grande musicista mai esistito al mondo. Potreste sciogliere il cuore dell’umanità con la vostra voce e la vostra destrezza nel mescere le note. Ed è vergognoso, assolutamente ingiusto” mise una particolare enfasi su quell’ultimo aggettivo, rimarcandolo: “Che il vostro aspetto vi impedisca di ottenere la fama che meritereste. Che vi costringa a vivere nella solitudine e nell’isolamento, in questa caverna senza sole, mascherandovi da talpa e celando la vostra vera natura di cigno!”
Erik batté le palpebre. Non c’era neppure un briciolo di falsità nel tono e nell’espressione di Vivian, la sua indignazione era sincera e mentre s’accalorava nel discorso era scattata in piedi, i pugni serrati e le labbra strette, dardeggiando sguardi infuocati per tutta la camera. Un groppo inaspettato gli occluse la gola, un groppo che ricacciò indietro con fatica, sentendo di colpo il peso della sua esistenza ingrata e infelice, il dolore delle mille delusioni che gli erano ricadute addosso gravargli sulle spalle e schiacciarlo al suolo. Se avesse cercato a fondo dentro di sé, forse avrebbe trovato lacrime perdute dopo che Christine era scomparsa e avrebbe pianto di fronte agli occhi solenni e rispettosi della sua ospite, ma l’orgoglio si oppose e si limitò a bisbigliare: “Lo pensate sul serio?”
Lei sollevò la testa, fiera: “Certo. Io vi rispetto e vi ammiro, monsieur. E non provo alcun fastidio guardandovi. Quelle piaghe…sono parte di voi, vi completano e vi rendono quel che siete, vi condannano, ma vi fanno diverso da qualsiasi altra creatura. E la diversità, si sa, esige sempre un prezzo. Ma voi l’avete pagato. Non dovreste portare quella maschera. Non dovreste nascondervi per paura del giudizio di una massa di idioti pregiudicati. Sappiate che con me non avrete mai motivo di coprirvi. Anzi, se anche voi mi rispettate, vi prego di girare a volto scoperto”.
Lui distolse bruscamente il viso, girandolo di lato e fissando la parete con la vista appannata e offuscata. Aveva la sensazione che nel suo cuore si fosse liberato qualcosa, che un nodo si fosse sciolto, restituendogli parte dell’ardore e della leggerezza che l’abbandono di Christine aveva estirpato. Per la prima volta da mesi, si sentiva vivo, si sentiva umano, e sapeva che ciò non andava bene, che se voleva farsi fantasma doveva liberarsi anche dai sentimenti, ma nessuno gli aveva mai detto cose simili, neanche Madame Giry, e non credeva che sarebbe riuscito a sopportare tutto quanto. La sua spalla era rotta, ferita, l’aveva intuito malgrado quel discorso fosse ormai caduto da tempo, ma non tenne minimamente conto di quel particolare e disse parole che giungevano dal centro della sua anima nera di rancore e di peccati: “Io vi aiuterò a rendere significativa la vostra canzone, mademoiselle. Farò in modo che il vostro messaggio giunga al mondo e che in tal modo anche un po’ del mio riesca ad uscire da queste mura. Trasformeremo la vostra creazione in qualcosa di…vero”.
Il volto di lei tremò, trasfigurato da una mescolanza di emozione e di stupore. Le maschere di entrambi erano cadute, s’erano mostrati per quel che erano veramente, e quel patto solenne e commosso era ben più importante dell’accordo stipulato accanto al pianoforte, poiché era sentito in egual misura, in egual misura avrebbe portato sforzo, ma un finale beneficio.
“Grazie” gli fece eco dopo essersi ripresa, un tremito nella voce sicura: “Ma ti prego, dammi del tu…e chiamami Vivian”.
Erik parlò prima che la sua mente razionale e algida potesse fermarlo, prima che la sua vera maschera tornasse ad occultare quell’improvviso sgorgare di emozioni e di parole: “Io sono Erik”.
La ragazza lo guardò, spaventata e colpita.
Le aveva rivelato il suo nome…la sua identità umana.

 

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Capitolo 17
*** Mezzanotte sulla Senna ***


Mezzanotte sulla Senna

 
 
 
 
 
Vivian non avrebbe mai potuto supporre di raggiungere uno stato d’animo di sincera serenità nei sotterranei d’un teatro, immersa in un buio perenne e quasi sospesa in una dimensione parallela, in cui il tempo e lo spazio non esistevano e in cui non c’erano astri a scandire il giorno e la notte, ma solo le fiammelle delle candele, perpetuamente accese, e la fitta caligine ad aleggiare sulle acque del lago. Aveva sempre amato l’aria aperta e le gite nella natura incontaminata, poiché quelli erano gli unici luoghi che l’avidità umana non era riuscita a corrompere, e la sensazione del vento tra i capelli, degli steli d’erba sotto i piedi nudi e dei baci del sole sulle guance.
Ma col passare dei giorni, nel periodo successivo alla disavventura nel precipizio, s’accorgeva che non le mancavano le foreste vergini, i fiumi irruenti e le alte montagne esplorate in passato. La stanza in  cui dormiva e l’ala centrale della Dimora sul Lago, in cui si recava a suo libero piacimento grazie all’insperata concessione del Fantasma dell’Opera – no, Erik – erano divenuti per lei posti graditi e accoglienti, intoccati dalle intemperie e immobili nelle viscere della terra. Le piaceva pensare che sopra la sua testa si consumavano le abitudini e i riti giornalieri del teatro, che i suoi abitanti si muovevano per sale e corridoi, ignari di calpestare il soffitto della sua nuova casa, e di prendersi una pausa dalle mille incombenze e le mille preoccupazioni che avevano determinato il corso della sua vita, per trascorrere ore tranquille e contemplative con il suo ospite. Aveva deciso di stabilirsi presso la sua dimora con lo scopo di carpirgli informazioni utili a consegnarlo alla giustizia, ma via via che il tempo passava, i suoi propositi originari s’erano fatti sempre più sbiaditi e superflui, e aveva abbandonato, senza esserne consapevole, la morsa di tensione e di ansia che le aveva attanagliato lo stomaco nel primo periodo, considerando il suo soggiorno come una sorta di vacanza che l’avrebbe tenuta lontana dai problemi e dalla malevolenza della gente. Ogni volta che il suo io calcolatore le rammentava il reale motivo della sua presenza lì, scuoteva la testa e si affrettava a pensare ad altro, incapace di far fronte alla questione.
Avrebbe riflettuto su di essa una volta trascorsi i dieci giorni. In effetti, la impauriva il sopraggiungere della fine del suo soggiorno nei sotterranei. L’atmosfera di rispetto e di riconoscenza che si era instaurata tra lei ed Erik era un qualcosa che non aveva mai conosciuto, un rapporto da pari a pari di cui non aveva potuto godere in passato che non desiderava lasciare andare. Tuttavia non aveva il coraggio di chiedergli se era disposto ad allungare il periodo stabilito. Malgrado egli fosse divenuto di gran lunga più gentile e accomodante (entro i limiti che gli concedeva la sua indole arrogante e brusca) c’erano aspetti della sua personalità che le erano ancora oscuri, e non voleva forzarlo troppo a manifestarli. Attendeva, col cuore in gola, e sperava che prima o poi sarebbe stato Erik stesso a porgerle un simile invito, tormentata dal timore di non essere una compagnia piacevole per un uomo così disabituato ad interagire con gli altri. Era vivace e chiacchierava con agio di questo o di quello, informandolo di cosa accadeva nel mondo e trovando aneddoti arguti per qualsiasi argomento, ma a volte aveva l’impressione che una parte di lui non la ascoltasse fino in fondo e che la sua mente complicata e bizzarra seguisse ragionamenti che la escludevano totalmente. Perlomeno non la interrompeva più per fare qualche commento acido e la lasciava parlare finché ne aveva voglia, tenendole puntati addosso quegli occhi luccicanti che trovava di giorno in giorno più belli.
Si sarebbe fidato di lei, prima o poi, al punto da metterla a parte dei suoi pensieri più foschi e delle sue macchinazioni?
Al mattino consumavano insieme la prima colazione, in una saletta da pranzo che la ragazza non aveva mai visitato in precedenza e che lo stesso Erik doveva usare assai di rado, a giudicare dalla quantità di polvere e dallo stato di evidente abbandono. L’uomo le aveva chiesto formalmente perdono per le condizioni di degrado della sala e le aveva detto che aveva ogni diritto di mangiare il suo pasto in camera, se provava troppa repellenza a farlo lì. Alle volte si comportava in un modo terribilmente serio e compito, quasi fosse stato un gentiluomo algido e lei una graziosa damigella in visita. Ma forse era dovuto soltanto all’età (era un uomo maturo, non doveva dimenticarlo) e ai dispiaceri che l’avevano indurito negli anni, strappandogli ogni slancio e ogni desiderio di lasciarsi andare. Non sorrideva mai, conservando un cipiglio fosco per quasi tutta la giornata, e teneva una postura rigida e controllata, senza farsi sorprendere da lei in atteggiamenti naturali come ridere, sbadigliare e grattarsi. C’erano momenti in cui si domandava addirittura se ne fosse ancora capace, o se avesse lavorato su se stesso con tanta minuzia da averli estirpati completamente.  
Però lei aveva veduto l’uomo che si nascondeva dietro all’impassibile fantasma, il selvaggio brulicare di emozioni sepolto nel fondo delle sue iridi e scolpito nelle piaghe che gli deturpavano la carne, e sapeva che le sue erano solo delle pose, dei sistemi di autodifesa, che un giorno forse sarebbe riuscita ad abbattere. Le quarantotto ore che Erik aveva trascorso a letto, la spalla rotta strettamente bendata e i tagli sulle braccia puliti e disinfettati con alcol etilico, era apparso sudato e pallidissimo, oppresso da una mortale stanchezza e da una sofferenza umana che Vivian aveva ammirato finché non aveva ripreso il controllo di se stesso e non aveva preteso di alzarsi, nuovamente invincibile e gelido. La ragazza aveva provato un sincero piacere a prendersi cura di lui, nonostante il suo paziente non si fosse lasciato sfuggire un gemito e avesse mostrato riluttanza ad essere accudito, e aveva svolto il suo compito con una solerzia che aveva lasciato entrambi sbalorditi, tamponandogli la fronte sudata con pezzuole imbevute dell’acqua del lago e cambiandogli la bendatura ad orari prestabiliti. All’inizio Erik non aveva voluto mostrare la propria infermità, ma poco prima della brusca ripresa le aveva chiesto, con evidente impaccio e vergogna, se poteva leggergli qualcosa e Vivian era stata ben lieta di andare a prendere il libro che le aveva indicato e di declamarlo ad alta voce, poiché il ferito provava troppa nausea a farlo da sé.
Era un tomo voluminoso e pesante, intitolato “Delitto e castigo” e scritto da un autore contemporaneo di origini russe, a giudicare dalla data di pubblicazione, 1866. La storia era introspettiva e malsana e si soffermava sul concepimento, l’elaborazione e infine la messa in atto d’un omicidio, da parte di un giovanotto povero in canna che viveva in una lurida pensione e che, per motivi poco chiari al suo stesso cervello, voleva liberarsi di una vecchia strozzina per rubare il suo denaro. Dopo aver commesso il delitto, tuttavia, nascondeva gli averi della vittima e non se ne curava più, precipitando in una voragine di panico, rimorso e follia. Vivian non aveva letto molti libri nel corso della sua vita, poiché nella loro catapecchia ce n’erano ben pochi e per lo più erano manuali o saggi, ma la vicenda del romanzo la catturò all’istante e si portò il volume in camera, risoluta a finirlo e a scoprire quale sarebbe stato il “castigo” del giovane assassino. Senz’altro, era una maniera interessante di entrare nell’ottica di chi aveva ucciso, e non si stupiva che il libro fosse tra i più preziosi che Erik possedeva.
Intanto lavoravano incessantemente al progetto su cui s’erano accordati quando l’uomo era rinvenuto nella sua stanza, la canzone che Vivian aveva immaginato e scritto e su cui nutriva un’infinità di riserve. Si fidava in modo totale e assoluto dei consigli e delle correzioni del suo “maestro”, ma provava sempre una morsa di imbarazzo vedendolo concentrato su un brano tanto mediocre e dilettantesco. Le quattro ore in cui sedevano vicini al pianoforte, muniti di pennino e di boccetta d’inchiostro, egli le faceva notare imperfezioni ed errori che da sola non sarebbe mai stata in grado di riconoscere e annotava una nota al posto di un’altra, accenti significativi o lievi a seconda del caso e alcune sorprese melodiche di cui lei ignorava l’esecuzione.
“Sta tranquilla” l’aveva rassicurata con tono mite, probabilmente ricordando quanto delicato fosse per lei l’argomento e quanto fosse facile allo scoraggiamento: “È assolutamente normale che tu non ci riesca subito. Ma sei brava, hai un tocco esperto, vedrai che alla fine non commetterai più errori”.
Era un tipo di insegnante completamente diverso da quelli che Vivian aveva avuto in passato. Mescolava la severità all’indulgenza ed era molto paziente, una caratteristica, questa, che l’aveva enormemente stupita, dal momento che per tutte le altre questioni si infastidiva per un nonnulla. Era palese che la musica fosse la sua passione. La correggeva con gentilezza quando sbagliava un accordo e ascoltava con attenzione le sue timide proposte e le sue giustificazioni (“la canzone è tua, Vivian, sei tu che devi scriverla, io sono qui solo per aiutarti”) ma si spazientiva rapidamente se insisteva sullo stesso errore o se si mostrava indolente e svogliata (“non siamo qui per perdere tempo, se non hai fiducia nel progetto, gradirei essere informato”) e riassumeva all’istante il suo tono aspro e duro. Ma era proprio il genere di maestro che serviva a lei, la incoraggiava a non perdere la speranza nelle sue capacità e la costringeva a dedicare al lavoro una concentrazione costante, al punto che terminata la lezione crollava sul suo letto, stravolta ma soddisfatta.
Per la prima volta nella sua vita, si sentiva considerata, si sentiva talentuosa. L’oscurità in cui s’era ostinata a vivere quegli anni, la rassegnazione con cui s’era inchinata all’apparente superiorità dello spettro di sua madre le apparivano di colpo delle umilianti dimostrazioni di vigliaccheria e di debolezza, un facile pretesto in cui s’era rifugiata per non sforzarsi davvero nella sua vocazione. Con l’accompagnamento delle nozioni impartitele da Erik, Amélie Carré svaniva nell’oltretomba, cessava di rimbeccarla con la sua voce di soprano e si dissolveva nell’aria fredda lasciando solo il vuoto rassicurante d’un ricordo lontano. Le sembrava quasi d’ascoltarsi per la prima volta, di intravedere un talento mai notato prima e costantemente frustrato, di dedicare anima e corpo alla sua composizione. Lei ed Erik l’avrebbero resa magnifica, un capolavoro, un grido di libertà e di sollievo con cui si sarebbero disfatti di parte della loro infelicità.
Avrebbero dato vita a qualcosa che sarebbe stato di loro dominio esclusivo, che nessuno, né Antoine, né Christine, né Amélie, né Raoul avrebbe potuto portargli via. Con quelle note, sarebbero esistiti per l’eternità, immortali e legati dalla passione che li aveva accomunati nel progetto.
Ma non erano solo ausilio e insegnamenti che voleva da lui, era inutile mentire a se stessa. Nel corso della seconda parte del suo soggiorno presso la Dimora sul Lago, aveva incominciato ad assumere degli atteggiamenti assai bizzarri che non le erano mai stati comuni e che la irritavano e impaurivano al tempo stesso. La mattina, anziché scegliere il primo abito che le capitava sotto mano e raccogliere frettolosamente i capelli sulla nuca con qualche forcina, sostava parecchio tempo dinnanzi alla cassaforte aperta e si mordicchiava ansiosamente il labbro, domandandosi quale colore le avrebbe donato di più e rimpiangendo l’assenza d’uno specchio vero e proprio, dal momento che il piccolo esemplare nel bagno le concedeva di rimirare solo testa e busto, anziché la figura intera. Premeva le delicate stoffe ornate di ricami contro di sé e tentava di immaginarsi con addosso quei pochi vestiti che aveva a disposizione, scegliendo quasi sempre un modello color vino con una generosa scollatura e ampie maniche, o la morbida seta verde che aveva indossato il giorno in cui aveva sorpreso Erik a distruggere la bambola di cera. Si pettinava i riccioli con cura, frustrata dalla maniera in cui si aggrovigliavano e si ribellavano al suo volere, e annodava nastri sgargianti sulle ciocche più in vista o si cimentava in una serie di acconciature complicate che in passato aveva aborrito con tutta se stessa.
Non si riconosceva in quella smania di comparire al suo ospite abbigliata e pettinata in guisa seducente. Non le era mai interessata l’opinione degli altri in merito al suo aspetto, né aveva mai perduto tempo nella scelta del vestito o nel compito di creare una pettinatura raffinata, aveva sempre lasciato i capelli sciolti e liberi di arricciolarsi sulle sue spalle e il corpo comodamente racchiuso in vesti modeste e poco articolate. Perché perdeva tempo e dignità in un’occupazione che, in ogni modo, non avrebbe cambiato assolutamente nulla? Erik non l’aveva mai degnata d’uno sguardo ammirato o colpito, era insensibile al suo aspetto così come era insensibile a tante altre cose, e pareva non accorgersi minimamente dei suoi recenti sforzi di apparirgli carina. La salutava con il suo solito tono formale e le versava il tè, distogliendo lo sguardo dal suo viso acceso di aspettativa per posarlo sulle pietanze collocate sul tavolo.
Certo, lui aveva la perfezione di Christine Daaé come metro di paragone, come avrebbe potuto trovare belli il suo naso aquilino e i suoi lineamenti marcati? Perlomeno condivideva il suo disagio estetico. Dopo che gli aveva fatto comprendere di non provare alcun orrore per le sue piaghe, aveva smesso di portare la maschera in sua presenza, ma era fin troppo semplice avvedersi di quanto scarsamente fosse avvezzo a mostrarsi in viso e tendeva spesso a poggiare una mano sulla parte sfigurata per celarla in un gesto casuale, o a contorcersi imbarazzato quando lei lo guardava. Vivian evitava di parlarne per non urtare la sua sensibilità, ma egli non aveva alcun bisogno di irrigidirsi così. Al principio, ovviamente, era stato arduo abituarsi a quella faccia spaccata a metà e a quel male che ne aveva contaminato solo un lato, ma col passare del tempo aveva cessato totalmente di farci caso. Era, per lei, un uomo come gli altri.
Un uomo molto affascinante con un’abilità musicale che rasentava il miracoloso e con un profumo, uno sguardo, una postura che la ammaliava sempre più profondamente e che sempre più profondamente la induceva a dimenticare i delitti di cui s’era macchiato. Quando sedevano vicini sullo sgabello del piano, si protendeva casualmente verso di lui per assorbire parte del suo calore corporeo, e quando le prendeva una mano e l’accompagnava sui tasti per aiutarla in un passaggio particolarmente difficile, il suo sangue si accendeva al tocco delle sue dita e una corda vibrava dentro di lei. Di norma, affrontava con coraggio le proprie emozioni e non si negava verità scomode, ma la Presenza che da qualche giorno si era insediata al centro del suo petto, quella Presenza che la faceva reagire ad ogni sfioramento di Erik e che le gridava di deporre le armi una volta per tutte e riconoscere la sconfitta, era un mostro malevolo e insidioso e ne era troppo terrorizzata per strappargli la maschera e scoprirne il nome.
Erik le era grato per il salvataggio nel precipizio ed era convinto, per motivi che tuttora le erano ignoti, che avesse del talento nel suonare il pianoforte, ma i suoi sentimenti non si spingevano al di là di questo. Christine Daaé era stata troppo importante per lui, l’aveva amata per più di dieci anni, accompagnandola durante le difficili fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, ed aveva avuto tutto il tempo di conoscerla e di apprezzarne i pregi. Un amore così struggente e assoluto non lasciava spazio ad una ripresa, e quando egli se ne era liberato, aveva fatto terra bruciata dei suoi sentimenti. Nel suo cuore, nella sua anima sarebbe rimasto per sempre il ricordo della sua antica musa, di un futuro insieme a lei che era sfumato per sempre. La consapevolezza di una tale verità l’aveva colpita con la violenza di uno schiaffo quando gli aveva domandato se l’avrebbe riaccolta e negli occhi di lui era balenato un lampo. L’avrebbe fatto. Le avrebbe lasciato la porta spalancata e l’avrebbe attesa a braccia aperte.
Vivian la odiava per questo. Ella non meritava quella dedizione e quell’amore, né alcun perdono. Aveva buttato via con indifferenza un sentimento per cui lei sarebbe stata capace di uccidere e aveva voltato le spalle al suo angelo, al suo protettore, al suo amico lasciandolo al furore sanguinario degli uomini accorsi a linciarlo e scappando con un moccioso non tanto diverso da Antoine. Perché dunque Erik l’aveva tanto adorata, al punto da raccogliere le ceneri della sua devozione nell’ipotesi di un suo ritorno e a plasmarle in un secondo amore? Che cosa aveva di tanto meraviglioso, oltre all’evidente bellezza e alla  bravura nel canto di cui egli era stato l’artefice? Avrebbe voluto con tutto il suo cuore che non fosse mai esistita…o che al suo posto ci fosse stata lei, ben più pronta ad accogliere Erik nella sua anima. Se ci fosse stato anche un solo modo di strappare il suo ricordo dalla mente oscura e indurita del fantasma, l’avrebbe utilizzato immediatamente e senza alcun ripensamento.
“È inutile amare una causa persa, tesoro” suo padre le aveva rivolto quelle parole cariche di amarezza appena era cessato un litigio particolarmente violento con la moglie, che gli aveva rinfacciato l’ennesima volta d’essere un fannullone buono a nulla e aveva maledetto tutti i santi d’essersi data a lui: “Non trarrai alcun beneficio da un sentimento così sventurato e infelice. E non arrenderti mai, mai ad essere un banale contentino”.
Avrebbe dovuto andarsene da lì. Rinunciare sia al suo piano, sia alla canzone e pregarlo di lasciarla andare prima del tempo. Quella storia non avrebbe mai avuto una conclusione felice, e doveva allontanarsene prima di subirne troppo a fondo le conseguenze. Ma la Presenza dentro di lei si opponeva, era indissolubile nella sua inutilità, e le sussurrava all’orecchio parole ammalianti e comode, menzogne dal suono gratificante in cui avrebbe tanto voluto credere. La esortava a rammentare il tono di commossa gratitudine con cui Erik le aveva parlato dopo essersi svegliato, lo sguardo protettivo di cui per un attimo l’aveva degnata e la rivelazione finale, il suo nome, la sua identità umana. Egli non aveva rivelato a nessuno quell’informazione, fuorché a Christine e a Madame Giry…e se l’aveva ritenuta meritevole di custodirla, significava che almeno si fidava di lei.
Una magra consolazione, ma sempre meglio della gelida indifferenza di prima.
Avrebbe voluto possedere una maggiore capacità di leggere nell’animo delle persone, per scoprire cosa si celava dietro al volto composto e corrucciato del suo silenzioso e solitario ospite. Forse si sbagliava, s’ingannava dicendosi che durante i pasti, quando sedevano in sala da pranzo, l’ascoltava con orecchio distratto e intanto si smarriva nelle sue riflessioni. Forse era soltanto un tratto caratteristico del suo temperamento, e per natura era poco incline alla chiacchiera e al riso. Mentre lei discorreva animatamente, non le staccava mai gli occhi di dosso e si portava alla bocca forchettate di cibo con gesti lenti e misurati. Ciò poteva significare una scarsa partecipazione, ma anche, al contrario, un’attenzione muta e profonda. Perché voler mangiare con lei, se aveva intenzione di intrattenersi alla stessa maniera di quando era solo? Evidentemente la sua compagnia non gli era sgradita, non lo infastidiva il suo cicaleccio continuo e animato. Lo conosceva abbastanza bene da sapere che se non avesse gradito ascoltarla parlare, glielo avrebbe detto subito.
Ma non desiderava che nella loro convivenza fosse soltanto lei a “parlare”, ad esprimersi, aveva stabilito con se stessa che avrebbe provato ad instaurare con lui un rapporto equo e gli chiese, con molta insistenza, di cantare per lei, poiché solo con la musica Erik si lasciava andare totalmente, abbandonava i vincoli e le pose assunte in ogni altro momento e gli si dipingeva in viso un’espressione di estasi e di pace che rendeva i suoi lineamenti quasi gradevoli. A causa della frattura alla spalla, era impossibilitato di suonare qualsiasi strumento, ma la giovane lo esortò caldamente a cantarle dei brani con la sua voce d’angelo oscuro e si immedesimò completamente negli stati d’animo che l’uomo attraversava durante le sue esibizioni, assorta dalla felicità che si ripercuoteva su di lui, attenuando l’orrore delle piaghe, e dal suo volto disteso e pacificato, magnifico nel suo trasporto.   
Avrebbe voluto ammirare quell’espressione in ogni momento, esserne la causa assieme alla musica.
Il nono giorno, il penultimo prima della fine di ogni cosa, Vivian non riusciva a star ferma per quanto era forte il suo nervosismo. Le attese erano state per lei fonte di orribile fastidio da tempo immemorabile. Stranamente, avvertiva di più il peso di un evento incombente due giorni prima che uno; l’ultimo era solo un soffio di vento, un addio in preparazione alla partenza dove non c’era spazio che per la rassegnazione, il penultimo invece era ancora intriso da una speranza, dal folle desiderio che nel tempo rimasto accadesse qualcosa di imprevisto e lo spettro dell’abbandono non incombeva ancora così visibilmente. Aveva passato la notte in bianco, girandosi e rigirandosi instancabilmente sotto le coperte troppo calde, tormentata da brevi incubi privi di senso in cui Antoine la inseguiva lungo corridoi attraversati da vetrate con raffigurati sopra angeli e diavoli e in cui lei invocava inutilmente il nome di Erik, che la guardava impassibile nell’oscurità e le diceva che i dieci giorni erano trascorsi e che non poteva più aiutarla. A colazione non era riuscita a mandar giù nulla ed era rimasta in un silenzio teso, riducendo in briciole la sua fetta di pane alle noci e mescolando meccanicamente il tè nella tazza. Erik, che aveva ripulito invece il suo piatto come ogni mattino (a differenza di lei, teneva le emozioni chiuse a doppia mandata dentro di sé e ragionava con la mente, mentre il corpo ostentava una tranquillità perpetua) le aveva lanciato di tanto in tanto qualche occhiata inquisitoria, ma non aveva fatto alcun commento.
La canzone aveva subito numerose modifiche in quel periodo, e avrebbe dovuto eseguirla dall’inizio alla fine (l’aveva ultimata con l’aiuto del suo maestro) per vedere se tutto filava liscio, ma tale era il suo stato che sbagliò quasi tutte le note e andò fuori tempo nella parte centrale dell’opera, irritandosi ancora di più e trattenendo a stento l’impulso di afferrare gli spartiti e lanciarli via. Era sul punto di ricominciare da capo, il peso di lacrime non versate ad opprimerle gli occhi, quando Erik la prese per un braccio e le domandò, calmo: “Cosa c’è che non và?”
Il sangue le affluì impetuosamente sulle guance e sulle orecchie. Dunque se ne era accorto. Chissà di quante cose si era accorto a sua insaputa, mentre la guardava con occhi freddi e immobili e la lasciava discorrere a tutto andare nel silenzio denso della Dimora sul Lago. Forse, da bravo osservatore impassibile, aveva appreso sul suo conto ciò che lei avrebbe voluto apprendere di lui e l’aveva inquadrata alla perfezione. Fu tentata di rispondere bruscamente, dato che di sicuro egli sapeva benissimo cosa la metteva tanto in ansia, ma non voleva sprecare il poco tempo che restava loro a litigare, così si morse la lingua: “Niente. Non ho dormito molto stanotte”.
“Se è per questo, neanch’io” commentò l’uomo con freddezza vaga, deciso a sminuire tutto ciò che lo riguardava e che avrebbe aiutato Vivian a capire un po’ di più quale comportamento doveva assumere con lui. Accostò le dita alla tastiera, credendo che la sua menzogna avesse troncato l’argomento, ma la mano di Erik le serrò il gomito con maggior vigore e la bloccò. Non aveva voglia di guardarlo in viso, ma percepiva il peso dei suoi occhi magnetici puntato addosso. Alla fine, lui disse: “So riconoscere quando qualcuno mente, Vivian. Hai sbagliato note che un bambino alle prime armi avrebbe trovato senza problemi e hai volutamente ignorato tutte le modifiche”.
Avvampò ancora di più: “Beh, te l’avevo detto di non essere davvero dotata”.
“Non giocare con me. Sei brava e l’hai dimostrato. Che cosa ti preoccupa oggi? Parla, perché attualmente non sei assolutamente in grado di suonare”.
Sembrava facile per lui, ma non lo era affatto. Non poteva svelargli che la causa del suo nervosismo era l’approssimarsi dell’addio tra di loro, e non perché non era riuscita a trovare le prove necessarie a farlo arrestare, ma perché non l’avrebbe mai più rivisto e una prospettiva del genere era diventata, da auspicabile, insopportabile. La sua reazione sarebbe stata completamente imprevedibile e lei avrebbe detestato essere trattata con condiscendenza. Ma se avesse persistito nel mentirgli, non se ne sarebbe reso conto comunque? I suoi occhi azzurro scuro a volte la guardavano come se potessero leggerle l’anima.
“Sono soltanto infreddolita” le parve una scusa patetica e visibilmente falsa, ma non le era venuto in mente niente di meglio. Da quando la Presenza si era installata nel suo corpo, mentire ad Erik le era risultato sempre più arduo e meschino e in numerose occasioni era stata lì lì per confessargli tutto, liberandosi da un fardello che sarebbe sempre aleggiato su di loro se lo avesse tenuto nascosto. Si era addirittura preparata un discorso modello nella mente, correggendolo e modificandolo un’infinità di volte mentre ci rifletteva a letto.
“Infreddolita?” ripeté lui sorpreso. Annuì con un breve scatto del capo: “Forse non sto molto bene”.
Era la verità. Se ricordava cosa sarebbe successo tra due giorni, provava una sensazione di dolore fisico, come se una mano dotata di artigli le avesse afferrato il cuore e le viscere e li avesse strizzati sadicamente.
Erik si tolse il mantello con un movimento elegante e glielo assestò sulle spalle, circondandola per un attimo con le braccia muscolose e attirandola al suo petto ampio e tiepido. Vivian sussultò, rammentando che già una volta aveva indossato quell’indumento, subito dopo l’aggressione nella cappella, e che se ne era disfatta con disgusto. Adesso si avvolse istintivamente nel ricco tessuto color ebano e annusò l’odore selvaggio del suo proprietario, tanto intenso da darle l’impressione di essersi fusa con lui. Avrebbe voluto posare la testa sui muscoli del suo torace e premere il seno contro l’addome compatto, ma l’uomo si allontanò dopo averla imbacuccata premurosamente nel mantello e le scrutò il volto con occhio clinico: “Sei un po’ pallida” fu la diagnosi. La ragazza chiuse gli occhi, accarezzata nel punto più intimo del suo corpo dalla preoccupazione sincera che gli leggeva nella voce: “Forse dovresti prendere un po’ d’aria”.
Li riaprì, confusa: “Come?”
Era assurdo parlare di prendere aria nella Dimora sul Lago, ma Erik era fin troppo serio. Parve arrivare ad una decisione rapidamente e si alzò dallo sgabello, offrendole la mano: “Vieni con me”.
Vivian si strinse più forte nel mantello, confusa dall’inaspettato invito: “Dove?”
“Fuori”.
“Fuori?”
“Sono nove giorni che vivi qua sotto. Hai bisogno di uscire” non c’era un briciolo di incertezza nelle movenze del fantasma, mentre avvicinava ancora di più le dita protese alle mani che teneva raccolte in grembo: “Ti fidi di me?”
“Sì” rispose lei impulsivamente. E non mentiva; per quanto fosse da pazzi avere fiducia nel Fantasma dell’Opera, era proprio ciò che provava. Forse non era abbastanza abile da captare la natura dei suoi sentimenti per lei, ma sentiva che non le avrebbe mai fatto del male. Non più. Era al sicuro, con lui, molto più che con il mondo esterno. Ed era sotto la sua protezione, ovunque desiderava condurla, non ci sarebbe stato Antoine ad aspettarla famelico. E poi, la incuriosiva quella novità.
Esitante, accettò la grande mano calda che le veniva offerta e le sue dita esili si intrecciarono d’istinto a quelle di Erik, che la tirò a sé con gentilezza e le fece strada in direzione del lago, un lieve sorriso enigmatico dipinto sul volto e un luccichio negli occhi luminosi. A Vivian sembrò che le accarezzasse il dorso della mano in un gesto istintivo e incontrollato, ma forse era stata solo la sua immaginazione. Ricordava che in passato l’aveva seguito ad una certa distanza, come un servitore con il suo padrone, ma adesso procedevano fianco a fianco e lui l’aiutava quando il terreno era particolarmente dissestato.
“Vuoi portarmi sulla tua gondola, Erik?” azzardò piano, assaporando il suono del suo nome sulle labbra. Lui si volse a metà, offrendole la vista di un profilo divertito: “In effetti, sì. Ma non ci sarà alcuna Sfinge stavolta, te lo garantisco”.
Gli restituì il sorriso: “Debbo aspettarmi qualcosa di peggio?”
Lui si fermò di colpo. Fu un movimento così inaspettato e fulmineo che la ragazza rischiò di andare a sbattergli contro, ma i suoi riflessi allenati la indussero ad arrestarsi in tempo. Alzò su di lui uno sguardo interrogativo e timoroso, domandandosi la ragione di quel brusco cambiamento, e sui suoi lineamenti trovò un’improvvisa e sentita mescolanza di rimorso e di vergogna. Senza la maschera ad occultargli metà viso, era assai più facile individuare la sua espressione e ricercarne i sentimenti dietro l’orrore delle piaghe. Egli la guardò dritto negli occhi, stringendole la mano con più vigore, e le parlò in un sussurro, come se avesse paura d’essere udito da qualcuno: “Mi sono comportato come un mostro” dal tono, sembrava che se ne fosse reso conto solo in quel momento, e che in passato non ci avesse minimamente fatto caso. Vivian aggrottò la fronte, le dita che quasi dolevano nella stretta convulsa e tenace di Erik, ma tutt’altro che incline a ritirare la mano: “Non capisco”.
“Parlo della Sfinge. Eri stata appena aggredita da quel nobile, eri ferita e terrorizzata. Mi hai chiesto aiuto e protezione, ed io, anziché concederteli subito come si conviene, ti ho sottoposta ad una prova in cui saresti potuta morire”.
Oh. Allora era questo. La battaglia che aveva affrontato e vinto nella Stanza della Sfinge era un evento ormai lontano e pressoché dimenticato, una delle tante prove in cui aveva dovuto cimentarsi nelle ultime settimane. Il rancore e l’odio che aveva provato all’epoca per colui che l’aveva costretta a giocare con la vita e con la morte di se stessa e di parecchi membri della razza umana erano evaporati a fronte degli avvenimenti dei giorni successivi e non gli serbava più alcun risentimento. Alle volte, era necessario saper perdonare: “Non te ne voglio affatto, Erik. Tutti sbagliano”.
“Ma il mio sbaglio sarebbe potuto costarti la vita” un’ombra calò sul volto dell’uomo, le sue labbra si strinsero per il disgusto che provava di se stesso: “Non ci ho mai pensato in questi nove giorni, e ciò non fa che rendermi ulteriormente colpevole”.
“Non dovresti essere così severo con te stesso”.
“Sì, invece. Anzi, dovrei esserlo ancora di più. Ma credevo…di averne il diritto. Adesso capisco di essermi solo guadagnato il tuo rancore” le ardenti iridi azzurro scuro cercarono quelle ambrate della ragazza e la supplicarono in silenzio, straziate e furibonde: “Ma io non voglio il tuo rancore. Non lo voglio!”
Egli aveva compreso l’ignominia del suo comportamento solo perché questo gli aveva, secondo lui, attirato contro l’odio di Vivian. Ma non era mai stato un buon cristiano, e perlomeno appariva sinceramente pentito delle sue azioni. La giovane gli accarezzò il palmo con dolcezza, piegando le labbra piene in un sorriso pacifico: “Credimi, non te ne serbo neanche un po’. Vorrei…vorrei tanto che non ci fossero tutti questi segreti”.
“Davvero non mi odi?” Erik sembrava titubante.
“Davvero” non aveva alcun dubbio in merito.
“E…” ebbe una leggera esitazione. La mano libera si mosse appena verso la parte destra del suo viso: “…il mio aspetto non ti ispira repulsione?”
Vivian conosceva molti modi per dimostrarglielo. In un lampo, si figurò mentre si metteva in punta di piedi e depositava un bacio lieve sulla carne sfigurata del suo ospite, rendendosi conto che non avrebbe provato alcun disgusto nel farlo, ma solo un sincero affetto. Naturalmente però non poteva fare una cosa del genere senza rivelare l’esistenza della Presenza, così s’accontentò di annuire vigorosamente: “Mia madre era molto bella, ma nell’animo era mostruosa e corrotta dai vizi e dai peccati del mondo. Non sarei stupita se venissi a scoprire che aveva ottenuto la sua fama grazie ad un patto col Diavolo. Quando le stavo vicino, mi dava i brividi, mi repelleva il solo pensiero di toccarla. Credevo che mi avrebbe contaminata col suo disprezzo e la sua cattiveria. Ho imparato che non è l’aspetto a fare di una persona un mostro”.
Le labbra di Erik tremarono. Con l’indice, le sfiorò la guancia in una sorta di gesto di gratitudine e le palpebre della ragazza si socchiusero per il piacere, mentre nello stomaco nasceva un rimescolio di desiderio. L’uomo mormorò qualcosa tra sé, una litania triste e melodica che spinse Vivian ad accostarglisi di più per distinguere le parole.
“Masquerade!
Paper faces on parade,
masquerade!
Hide your face so the world will never find you”. 
“La scimmietta!” sussurrò, sbalordita, alzando appena il capo per guardare il viso malinconico di Erik: “La scimmietta nella tua stanza. Suona lo stesso motivo…”
Lui fece un sorriso amaro: “Vorrei non averla mai costruita”.
Una crepa si era allargata nel suo contegno algido e un dolore vivo, autentico, straziante s’imponeva adesso in tutta la sua figura. Le ampie spalle, diritte in qualsiasi situazione, erano incurvate come a sostenere un pesante fardello e le piaghe violacee parevano più profonde, più incisive, divoravano la freschezza della sua pelle liscia e incontaminata e lo avvolgevano in una cappa di oscurità. Le mani di Vivian dolevano per la brama di afferrarlo per le gote, costringerlo a guardarla negli occhi per esclamare, con tono alto e fermo: “Non sprofondare, Erik. Non colare giù. Ci sono io”.  
Invece disse soltanto: “Non dovevi condurmi sulla tua gondola?”
Lui si riscosse prontamente, e fu come se un sipario fosse calato sulla sua fronte. Trasse da un comparto interno della sua giacca una mezza maschera bianca del tutto uguale a quella che aveva perduto nel precipizio e se la sistemò con fare esperto. Vivian avrebbe voluto protestare, chiedergli di non farlo; ma egli l’aveva senz’altro indossata perché aveva intenzione di portarla fuori dai sotterranei e non si sarebbe mai mostrato all’esterno con la deformità perfettamente visibile. Era però infastidita dalla presenza di quella patina perlacea, che le impediva di godere appieno dei suoi rari sorrisi e smorzava la fredda bellezza delle sue iridi. Iniziava quasi a convincersi che fosse più gradevole, più vero senza.
“So che ti sembrerà una richiesta insolita” mentre parlava in questo modo, egli teneva lo sguardo fisso sulla gondola ormeggiata nei loro pressi: “Ma vorrei che tenessi il cappuccio del mantello calato sulla fronte. Fuori è notte, ma non si è mai abbastanza prudenti, e…sarebbe rischioso che qualcuno ti riconoscesse”.
Aveva ragione da vendere. Era scomparsa dalla circolazione ormai da nove giorni e, conoscendo Madame Lefevre, tutta la gendarmerie stava rivoltando Parigi da cima a fondo per trovarla. Le aveva scritto una lettera che Erik aveva in seguito consegnato per non farla preoccupare troppo, ma per paura di lasciarsi sfuggire la verità aveva detto poco niente e aveva ottenuto certo l’effetto di confonderla ancora di più. Tuttavia all’epoca contava ancora di fare un ritorno trionfale a Parigi, munita di informazioni compromettenti sul Fantasma dell’Opera, e si era data un gran daffare nel tentativo di esorcizzare i pettegolezzi su una sua eventuale fuga con un amante. Di norma non prestava attenzione alla sua condotta, ma non avrebbe gradito avere la reputazione rovinata. Era meglio non farsi sorprendere sola su una barca in compagnia di un uomo mascherato.
Abbassò il cappuccio sul viso e le venne da sorridere, pensando a come dovevano apparire all’esterno; senz’altro una coppia alquanto strana. Un uomo alto e abbigliato di nero, metà della faccia coperta da una maschera in una stagione in cui il carnevale era ancora lontano e in cui non c’erano feste che la richiedevano in programma, e una fanciulla avvolta in un lugubre mantello, anch’essa con i lineamenti nascosti sotto il cappuccio. Caronte che traghettava sulle acque la Morte. D’altra parte, una parte di lei gradiva quell’atmosfera di segretezza. Voleva sentirsi come lui, comprenderlo in ogni suo gesto, a cominciare dall’occultare il volto. Si provava la stessa sensazione di quando scruti una via affollata dall’alto di una finestra: lei poteva sbirciare nelle vite degli altri, ma loro non avevano la capacità di identificarla.
La scimmietta diceva il vero. Il mondo non avrebbe mai potuto trovarla, finché si nascondeva dietro una “maschera”.
“Cos’hai?” Erik, chino a sciogliere la corda che assicurava l’imbarcazione alla riva, la guardava con occhi preoccupati. Vivian tornò in sé con un certo imbarazzo. Assorta com’era da quella nuova esperienza, era rimasta ferma immobile per un lasso di tempo maggiore del dovuto, concentrata ad assimilarla in tutte le sue sfumature. Si avvicinò lentamente: “Niente…io…” distolse lo sguardo, posandolo sulle candele: “Volevo sentire…quello che senti tu”.
Lui non rispose. L’improvvisa intensità con cui la fissava le fece scorrere un brivido lungo la spina dorsale. Avrebbe voluto cadere ai suoi piedi, afferrare i bordi della sua giacca nera e scoppiare in lacrime, accettando una volta per tutte di aver perso la sfida, di aver trasformato il suo giochetto astuto in un’arma a doppio taglio. Le si era ritorto contro, il manico le era sfuggito dalle dita, sostituito dalla punta acuminata della lama, e l’aveva colpita dritta al cuore, iniettandole nelle vene la Presenza. Non poteva mentire a se stessa in eterno, non poteva chiudere la porta in faccia alla realtà dei fatti. Se avesse desiderato davvero punirlo per i suoi crimini, l’avrebbe lasciato precipitare nel burrone…sarebbe stata comunque una fine più auspicabile di un’esecuzione pubblica, grondante dell’odio dei parigini, o di un’esistenza trascorsa in una gelida prigione. Invece l’aveva salvato. Gli aveva steso la mano nell’abisso e l’aveva aiutato a risalire, in un gesto assai più simbolico di quello che aveva creduto all’inizio. Non avrebbe mai potuto tradirlo ora che le cose avevano superato il punto di non ritorno.
Egli dovette leggere parte di quel tumulto interiore nel suo viso ombreggiato dal cappuccio, perché la raggiunse, silenzioso, e le disse con dolcezza: “Andiamo?”
Lei annuì. Cos’altro poteva fare? Se si fosse inginocchiata ai suoi piedi chiedendogli perdono, sarebbe stata troppo forte la paura di veder brillare sopra la sua testa una spada di angelo vendicatore, che gliela avrebbe mozzata di netto, castigandola per il suo piano serpentino.
 
Erik remava con la sola forza del braccio sinistro nell’oscurità dei tunnel sotterranei in cui il lago allungava le sue propaggini, sepolto in una fitta cortina di nebbia e sospinto in avanti dall’acqua scura e gelida, che la gondola cavalcava con ritmo oscillante, beccheggiando e spargendo ovunque spruzzi di goccioline. Seduta a pochi metri da lui, imbacuccata nel mantello che le aveva ceduto, Vivian aveva il volto nascosto dal cappuccio, ma non per questo la sua vista acuta non era capace di penetrare la stoffa e intravederne i lineamenti nell’ombra. Aveva paura? Lo scenario che li circondava non era affatto ameno, ma se la prima volta in cui l’aveva invitata sulla sua barca aveva goduto della sua ansia, adesso desiderava con tutto se stesso che si fidasse di lui e che comprendesse che non l’avrebbe mai, mai messa in pericolo. Era suo amico e suo protettore, sua guida e suo ospite, era suo dovere e piacere impedire con ogni risorsa che si angosciasse.
Ma non colse tracce di timore nell’espressione della ragazza. Ella teneva gli occhi castani puntati nella direzione in cui la gondola arrancava e, di tanto in tanto, immergeva la punta delle dita nell’acqua fredda e spietata, scomponendola in decine di anelli sempre più piccoli. Avrebbe dovuto immaginare che non sarebbe rimasta atterrita; era ben più coraggiosa e intraprendente di tante altre fanciulle. Però…qualcosa la tormentava. Minuscole rughe di preoccupazione le segnavano la fronte liscia, le lunghe ciglia corvine, abbassate a gettare un’ombra sulle gote, fremevano sopra le iridi in tumulto. Erik avrebbe voluto domandarle la natura del suo stato d’animo, ma non voleva neanche forzarla a rivelargli qualcosa di sgradito. Negli ultimi giorni, lei era stata fin troppo discreta nei suoi riguardi. Conoscendola, se era sua intenzione confidarsi l’avrebbe fatto da sé, senza sollecitazioni da parte sua.
Era sorprendente quanto cara gli fosse divenuta la sua presenza in quegli ultimi giorni, quanto conforto ricavasse dalla vista della sua gonna frusciante che svolazzava dietro l’angolo e dalla sua forte risata, sempre pronta a risuonare. La notte, sdraiandosi sotto le coperte, la consapevolezza che dietro al muro Vivian riposava sul baldacchino a forma di cigno teneva lontani gli incubi che solitamente tormentavano il suo sonno e al mattino si ritrovava a desiderare ardentemente che lei lo raggiungesse a colazione, riempiendo il silenzio che era gravato per anni sula sua esistenza con il suo chiacchiericcio vivace e ininterrotto. Non ascoltava tutto ciò che diceva, ma gli piaceva molto guardarla parlare e infervorarsi, contemplare le espressioni mutevoli che si susseguivano sul suo viso tondo. La ragazza si indignava per le ingiustizie, piangeva per le morti, rideva di gusto per la stupidità di alcuni pettegolezzi e si aggrondava quando discorreva di argomenti seri. La sua forte emotività si imponeva con prepotenza mentre parlava animatamente ed Erik si godeva in silenzio uno spettacolo tanto unico e raro, liberato, inoltre, dall’onere di dover commentare o intervenire. Vivian era ben disposta a portare avanti la maggior parte del discorso per proprio conto.
Si era talmente abituato ad averla intorno che non riusciva più ad immaginare la vita nella Dimora sul Lago senza di lei.
Il chiarore della notte parigina li accolse mentre emergevano da un’imboccatura che collegava Rue Scribe con la Senna, e avvezzi com’erano alla malsana oscurità dei sotterranei, strizzarono gli occhi al lucore improvviso della luna, piena e immensa come un disco di mercurio, e delle stelle che la circondavano come ancelle solerti. La gondola, sospinta in avanti dalla corrente, si allontanò dalla nera bocca di tenebra da cui era appena uscita e si inoltrò nel centro della città, passando sotto lussureggianti ponti di marmo e facendo sfilare a destra e a sinistra le abitazioni addormentate. Non c’era nessuno in giro a quell’ora tarda, le vie e le piazze erano divenute di possesso delle ombre e le altre imbarcazioni oscillavano dolcemente sulla riva, incatenate all’argine per mezzo di funi e gomene. Gli occhi allenati di Erik colsero il profilo sbiadito delle due torri di Notre Dame e la buia costruzione dell’Opera dietro di loro, rassicurante e opprimente al tempo stesso. C’era sempre qualcosa di magico in Parigi quando era notte fonda, qualcosa di… eterno. Non era mai mutata, a differenza di tante altre città, era rimasta uguale nel tempo e tuttora i ponti, le cattedrali, i palazzi e le botteghe erano gli stessi dei secoli precedenti.
Anche Vivian non era rimasta immune al fascino della città al chiaro di luna. Un’espressione di estatica meraviglia le aveva addolcito i lineamenti all’ombra del cappuccio e la sua fronte piena di rughe di ansia si era spianata, come se la bellezza del paesaggio intorno a loro avesse liberato la sua anima oppressa da tutti i suoi fardelli. Ciocche di capelli scuri spuntavano fuori dalla stoffa e, alla luce della luna, brillavano di decisi riflessi azzurrini. I suoi occhi erano tempestati di pagliuzze verde smeraldo di cui non si era mai accorto, la sua carnagione, olivastra e mediterranea, era divenuta candida come porcellana. La prima volta in cui l’aveva osservata con attenzione, quando giaceva svenuta nella cappella, l’aveva giudicata graziosa ma assolutamente comune, priva della benché minima fonte di attrattiva. In seguito, aveva colto in lei fuggevoli segni di una bellezza nascosta che solo raramente appariva visibile al mondo.
Adesso la trovava…bellissima. In senso profondo e autentico. Era come se una Cenerentola vestita di stracci si fosse trasformata al tocco della bacchetta magica di una benevola fata madrina e fosse diventata una splendida damigella dalle labbra rosse come il sangue e dai capelli color del cielo a mezzanotte. Quando era avvenuto un tale mutamento, e come mai non se ne era accorto prima? Aveva sempre saputo che Christine era molto bella, d’altronde era noto a tutti…quella di Vivian, invece, era stata una metamorfosi del tutto inaspettata. Una metamorfosi inesistente: ella era la stessa ragazza dalla bella bocca e dal naso aquilino che aveva salvato ormai dieci giorni prima. Ma ai suoi occhi, era totalmente diversa.
Ignara della confusione che infuriava nell’animo di Erik, Vivian continuò a contemplare con muta ammirazione i palazzi nobiliari e le abitazioni dei borghesi che si susseguivano lungo il corso che seguiva la traballante gondola. Non fece alcun commento banale sulla bellezza del paesaggio o sulla beatitudine che l’aveva ricolmata quando egli ve l’aveva condotta. Era evidente e non c’era alcun bisogno di dirlo. Invece, parlò con voce fatale ed esitante, una melodia aspra e primordiale che a sua volta era mutata, dagli sgangherati versi di una cornacchia fastidiosa, allo scroscio selvaggio del mare in tempesta: “In tutto questo tempo, ho avuto modo di narrarti le vicissitudini del mio passato in ogni particolare. Ma il tuo mi è quasi sconosciuto. Mi hai detto di essere…” venne colta da un’esitazione e parve soppesare attentamente la frase successiva, lo sguardo perso nel biancore delle torri di Notre Dame investite dall’argenteo chiarore lunare: “…menomato dalla nascita. Ed io pensavo che…forse…uno dei tuoi genitori…”
Erik completò il suo pensiero con una calma stanca che stupì entrambi in pari misura: “Lo fosse a sua volta?”
Vivian arrossì, a disagio. Il color rubino diffusosi sulle sue guance candide di luna la rese ancora più bella agli occhi di Erik. Sicuramente, si disse, era vittima dell’incanto della notte parigina, che spargeva un alone di magia su ogni cosa e la trasfigurava totalmente, rendendola scintillante: “Non è così. A quanto ne so, i miei genitori erano del tutto normali”.
“A quanto ne sai?”
Un profondo sospiro gli sollevò il petto: “Mio padre non l’ho mai conosciuto. Io sono…”
Si interruppe. Disturbato dallo splendore emanato dal corpo di Vivian, appoggiò il remo in verticale dinnanzi a sé e sedette vicino a lei, lasciando la barca libera di girare lentamente in tondo nel bel mezzo della Senna turchese. Si sentiva stranamente appesantito dai propri pensieri, e desiderava liberarsene, condividere con quella creatura che la sorte gli aveva messo vicino il dolore e l’umiliazione dei suoi primi anni. Le parole non sarebbero cadute tra di loro come macigni, fondamenta di una barriera che l’avrebbe allontanata per sempre da lui, anzi, la luna benevola e le stelle lucenti le avrebbero rese leggere e poco impegnative, uccelli ansiosi di librarsi in volo per non tornare mai più. Abbassò gli occhi sulla sua immagine tremolante stampata sul pelo dell’acqua scura e indugiò sull’innegabile avvenenza dei suoi lineamenti sani, sul volume della sua chioma castana e sulle sue iridi color zaffiro. Anche lui, investito dal raggio magico della luna, non sembrava altro che un elegante cavaliere che si godeva una piacevole gita in barca.
“Sono un bastardo” le sue labbra pronunciarono l’odioso appellativo con apatica rassegnazione. Il passato, i torti, i tradimenti, apparivano tanto lontani in quel contesto. Andò avanti senza alcun indugio: “Mia madre era domestica in casa di mio padre e lui si è approfittato di lei”.
Vivian lo fissò, con i suoi occhi che mescolavano ambra e smeraldo: “Un nobile, eh?”
“Esatto”.
“Capisco questa situazione. Mi sarebbe accaduta la stessa cosa, se non ci fossi stato tu”.
Un brivido profondo squassò le sue membra stanche. Il marchesino che aveva tanto intrepidamente respinto dalla cappella era stato davvero sul punto di frantumare quella fanciulla esile e bianca e di distruggerne lo splendore di cui solo in quel momento si rendeva conto. Maledetto, maledetto!
“Quel moccioso non ti importunerà più, Vivian” parlò con tono incalzante e convinto: “Non glielo permetterò!”
Lei scrollò le spalle e sorrise per rassicurarlo: “È passato ormai. Ti prego, continua”.
Erik chiuse gli occhi e si passò una mano sul volto per scacciare i troppi pensieri: “Rimase gravida, e lui la buttò fuori. A volte credo di comprendere il suo odio nei miei confronti. Le avevo portato via mio padre e il mestiere, l’avevo costretta a mendicare il cibo agli angoli delle strade e a sopportare i fastidi di una gravidanza indesiderata. E quando nacqui…”
“Sì?”
“Conosci le superstizioni popolari. Ero il frutto di uno stupro ed avevo il volto deforme. Agli occhi di mia madre rappresentavo il Diavolo reincarnato”.
Non aveva mai raccontato a nessuno quelle memorie che custodiva a fondo dentro di sé e che avevano alimentato il fuoco della vendetta, dell’odio e della diffidenza. Nemmeno a Christine, nemmeno a Madame Giry. Era il suo io più umano, le origini di una persona costretta a farsi fantasma per sopravvivere, e se avesse rivelato ogni cosa, la sua falsa identità sarebbe crollata per sempre. Ma Vivian…Vivian già da tempo aveva scorto l’uomo dietro al mostro, colui che bruciava all’inferno ma ambiva al paradiso.
Il ricordo lo attraversò con la velocità del lampo:
“Stranger than you dream it, you learn to see to find the man behind the monster…”
Christine Daaé non ci era mai riuscita, nonostante l’amore che le aveva posto ai piedi e la cieca devozione che le aveva sempre dimostrato. Questa ragazza, al contrario, aveva tirato fuori l’umanità che c’era in lui senza che alcun obbligo o sentimento la obbligasse a farlo. Ed egli ancora non aveva deciso se di questo le era grato, o se la odiava per aver mandato in fumo i suoi piani.
“Tentò di ucciderti?” al suono della sua voce, una corda fremette nel suo stomaco. No, non avrebbe mai potuto odiarla. Forse un tempo, quando ancora non aveva visto il suo volto pieno di angoscia mentre lo chiamava nel mortale precipizio, ma adesso, senza ombra di dubbio, non le serbava alcuna emozione negativa. Distolse lo sguardo dalla propria immagine riflessa sul fiume e scosse la testa: “No. Strano, vero? È proprio quello che ci si aspetterebbe da lei. Invece mi lasciò in vita. Avrebbe potuto affidarmi alle cure della chiesa perché venissi esposto, ma aveva il terrore che nella casa del Signore la mia origine demoniaca si sarebbe manifestata e che l’avrebbero processata come meretrice di Satana”.  
Il viso di Vivian era intento e concentrato: “Tu questo come lo sai?”
Si produsse in un accenno di sorriso: “Non ho una spiegazione razionale da darti. Ma mi chiamava spesso Figlio del Diavolo e non mi portava mai in chiesa, non mi è difficile indovinare i pensieri di una mente tanto bigotta. Le facevo orrore. Si era rifiutata di allattarmi e se la sfioravo per caso, trasaliva. Quando fui abbastanza grande mi fece dono della mia prima maschera e le giurai che non l’avrei mai tolta davanti a lei”.
Un guizzo di choc agitò i tratti della giovane, un trasporto che gli riscaldò il petto gelato: “Ma è mostruoso! Eri solo un bambino!”
“Tu non conosci la cattiveria umana. Se non avesse avuto paura della dannazione eterna, mi avrebbe affogato. Voleva liberarsi di me senza sporcarsi le mani, e in effetti alla fine ci riuscì”.
“Come?” la parola venne fuori come un dardo sprezzante rivolto contro quella donna sconosciuta e senza cuore incapace di donare il suo affetto al figlio deforme. Erik conservava pochi ricordi che la riguardavano. Un viso magro e scavato dalla fame, abiti laceri e cenciosi, una voce aspra e cattiva, un tenere il capo voltato in sua presenza per non essere costretta a guardare la sua faccia ripugnante. Non avrebbe saputo dire nemmeno di che colore fossero i suoi capelli, o i suoi occhi…non aveva nulla che lo riportasse a lei, alla prima donna che l’aveva rifiutato.
“Ci eravamo stabiliti in una casupola al centro di un piccolo villaggio vicino Reims. La gente ci evitava. Mia madre era trattata come una sgualdrina ed io non mostravo il volto a nessuno, alimentando sospetti e timori. All’epoca avevo…non più di sei o sette anni. Lei cominciò ad amoreggiare con il signorotto del luogo, un uomo con il doppio dei suoi anni che passava sempre davanti alle nostre finestre sul suo corsiero baio. Mirava a portarla a vivere nel suo palazzo, ma io costituivo un ostacolo: lo spaventavo e non mi voleva intorno. Così mia madre escogitò un piano”.
La voce del Fantasma dell’Opera si incupì visibilmente, diventando fredda e tagliente: “In quello stesso periodo al villaggio era arrivato un circo gestito da zingari, e mi promise che ci saremmo andati. Ero fuori di me dall’emozione. Quei colori, quelle risate, quelle figure grottesche e sorridenti, tutto era nuovo per me. Lei mi lasciò davanti alla gabbia del leone, esortandomi ad ammirarlo, e si allontanò con il capo degli zingari. Non sospettai nulla, neanche quando lo vidi passarle un sacchetto di monete. Tornarono con il sorriso sulle labbra. Lui aveva una scimmietta appollaiata sulla spalla. Mi affascinò molto. Ma la sua faccia era scura e maligna e mi inquietava. Mi mise un braccio intorno alle spalle, con un po’ più forza del necessario, e mi condusse lontano dagli altri spettatori. Mia madre ci seguiva a breve distanza, silenziosa.
“Mi furono addosso non appena fummo fuori vista. Uno mi afferrò da dietro, tappandomi la bocca e smorzando il mio grido, gli altri accorsero con funi e legacci. La maschera mi fu strappata. Lottai. Ero cieco di terrore come un cervo nelle grinfie dei levrieri. Strappavo ciocche di capelli, graffiavo, mordevo e invocavo mia madre affinché mi soccorresse. Ma lei era immobile, calma, e mi guardava con freddezza calcolatrice. Completamente insensibile alle mie urla disperate. Solo la scimmia strillava più forte di me…”
“Basta!” Vivian scagliò quell’esclamazione con veemenza e strazio, balzando in piedi sulla gondola e rischiando di cadere in acqua. Orrore, pietà e qualcosa di molto più forte le avevano trasfigurato il viso in una smorfia tormentata, e gli premette una mano sulla bocca con istintiva foga, per interrompere il terribile racconto. Le sue dita erano morbide e calde contro le labbra gelide di Erik, e sollecitarono nella sua carne offesa centinaia di piccoli brividi senza senso. Erano così vicini, così vicini…tanto vicini che riusciva a cogliere il suo profumo, un profumo selvaggio, autentico, ricco come la sua personalità. Giungeva a ondate fino alle sue narici, trasportato da una brezza notturna che scompigliava i capelli bruni di Vivian.
Lei gli staccò lentamente la mano dalla bocca, senza tuttavia scostarsi da lui. Le campane di Notre Dame squassarono Parigi con rintocchi argentini, annunciando la mezzanotte, e il suo sussurro filtrò nell’aria non appena ebbero cessato di suonare: “Basta, ti prego”.
“È un tradimento, Vivian” rispose lui in un bisbiglio: “Il primo, l’ennesimo, della mia vita”.  
Lacrime perlacee e trattenute si gonfiarono negli occhi fissi nei suoi: “Io non ti tradirò mai”.
Erik rabbrividì. Perché una parte di lui stava aspettando quelle esatte parole, le aveva bramate, le aveva desiderate, se le era lasciate scivolare nelle vene come un liquido, e voleva credere al loro significato con tutti i residui della sua anima lacerata: “Non fare promesse che non puoi mantenere”.
“Ma io voglio mantenerla!” quello della ragazza fu quasi un grido. Gli afferrò d’impulso entrambe le mani, stringendole con energica sollecitudine, i piccoli palmi che quasi sparivano in quelli grandi dell’uomo, e ripeté con solenne sicurezza: “Io voglio mantenerla!”
Per un attimo le mani di Erik accolsero quelle di Vivian, divennero un rifugio premuroso e attento che le avrebbe difese dalle insidie del mondo ed egli venne percorso da un fremito impalpabile che s’irradiò dal cuore alle ossa, pulsandogli perfino nella spalla fratturata. Qualcosa si gonfiava dentro di lui, qualcosa di insopprimibile e incontrollabile che aveva scambiato al principio per avversione, una corrente caldissima che nasceva e si alimentava nelle iridi di Vivian e che lo faceva impazzire di insoddisfazione e di brama negata.
No!
Le lasciò andare le mani di scatto, come se scottassero. L’elettricità, evolutasi fino a divenire un’ondata ustionante, si dissolse in un crepitio morente ed Erik volse le spalle alla sua fonte, al rame che aveva attirato il fulmine, negando a se stesso e a quella notte di aver perso il controllo e di aver voluto per qualche secondo fondersi con quel calore e farlo suo. Non c’era niente di vero in quella scena, in quel discorso, in quegli sfioramenti casuali…era tutto una conseguenza dell’atmosfera notturna, della magia di Parigi e della Senna illuminata dai raggi lunari, capace di avvincere chiunque nelle sue spire e trasportarlo in allucinazioni eterne. Feromoni, incanti delle tenebre…nient’altro che questo.
Afferrò il remo, conficcandovi dentro le unghie per ancorarsi a qualcosa di solido e reale e ritrovare il controllo nella nebbia dell’incantesimo, e gli uscì una voce roca e strana, deformata da un tremito evidente: “Dovremmo andare”.
Lei batté le palpebre. La sua confusione era per lui ovvia, ella non aveva familiarità con la tenebra e i suoi mille tranelli, non conosceva il potere della Musica della Notte che si manifestava nei momenti più impensati e sfuggiva al controllo di chiunque…aveva cercato di impadronirsene per sedurre Christine, ma la forza gli era sfuggita e aveva agito per vie nascoste e imperscrutabili. Per fortuna di entrambi, aveva spezzato il suo effetto prima che raggiungesse il punto di non ritorno.
“L’aria è diventata gelida” sussurrò, gli occhi ostinatamente decisi ad evitare il contatto con quelli di una mortificata Vivian, la mano sinistra che spingeva il remo tra i flutti per fuggire dalla situazione ingannevole.
Ma qualcuno aveva visto e udito ogni cosa, aveva assistito agli sguardi fugaci, alle mani che si cercavano, ai visi rivolti alla pallida luna. Questo qualcuno, nascosto nelle ombre di un vicolo, aveva colto in fallo la protezione della maschera e del cappuccio e aveva riconosciuto i due gitanti, seguendoli con occhi algidi e azzurri mentre tornavano indietro verso Rue Scribe.
Un raggio di luna penetrò solitario nella cappa di buio e illuminò i capelli dorati, l’orecchio mozzato del marchesino Antoine Baptiste Rappenau.

 

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Capitolo 18
*** Amore o morte ***


Amore o morte

 
 
 
 
 
Vivian sedeva sola al pianoforte, circondata da abissi di silenzio e di isolamento perpetuo, minuscola nell’immenso salone sotterraneo della Dimora sul Lago mentre pestava sui tasti furiosamente e schiacciava il piede sul pedale con frustrazione tormentata. La sua canzone, la loro canzone, si srotolava nell’aria al tocco delle sue dita sullo strumento, riecheggiava negli angoli, nelle alcove, sulle acque gelide del lago Averno, facendo tremare ogni cosa insieme a lei. La giovane non avrebbe saputo dire da quanto tempo la suonasse, terminandola e ricominciandola da capo con ostinazione testarda, ma certo dovevano essere trascorse alcune ore, a giudicare dalla fatica che sentiva alle mani indolenzite e dal sudore che le bagnava la fronte e i capelli disordinatamente sciolti sulle spalle e sul petto. L’abito che indossava, di un ricco color porpora con guarnizioni dorate, aveva uno stretto corpino rigido e una gonna composta da veli impalpabili, strati di tessuto leggerissimo che le accarezzavano le gambe nude e tornite e che ricadevano ai suoi piedi per qualche braccio, formando una pozzanghera di fuoco intorno a lei. L’assenza di gioielli e di acconciatura otteneva l’effetto di renderla ancora più selvaggiamente attraente, unita all’espressione furiosa, tormentata e fremente diffusasi sui suoi lineamenti contratti. Gli occhi le ardevano e le labbra carnose erano serrate al punto da sembrare sottili.
Non aveva bisogno di leggere le note scritte sullo spartito, né di voltar pagina quando l’esecuzione lo richiedeva. Conosceva ormai la canzone a memoria, trovava le note giuste con il solo ausilio dell’istinto e riversava su di esse la singolare, potente frustrazione insoddisfatta che si era impossessata di lei quando erano tornati dalla gita in gondola. Erik non le aveva rivolto la parola per tutto il tragitto, evitando perfino di guardarla in faccia, e dopo averla aiutata a scendere si era congedato da lei con fretta nervosa, annunciandole che si sarebbe recato sul tetto del teatro per godersi un po’ di solitudine e lasciandola sola nei sotterranei per gran parte dell’ultima giornata che avrebbero passato insieme.
Che cosa gli era preso, la notte precedente, sulla superficie turchese della Senna? Finalmente le aveva dimostrato di fidarsi di lei, di avere la forza di raccontarle la triste storia del suo passato, di aprirle i segreti e i dolori della sua torbida anima nera, e quando ella, commossa dal gesto e influenzata dal chiarore lunare, gli aveva preso le mani giurandogli di non tradirlo mai, aveva perfino ricambiato la stretta, accogliendole nelle proprie e guardandola in volto in una maniera che per un attimo le aveva fatto credere che provasse qualcosa nei suoi riguardi…
Ma improvvisamente, senza che nulla lo giustificasse, si era scostato da lei con un’espressione di paura e quasi di orrore che l’aveva ferita quanto una pugnalata in mezzo alla schiena e le aveva miseramente voltato le spalle, gettandola in una confusione ancor più forte della precedente. E in seguito l’aveva trattata come se fosse qualcosa di pericoloso e immondo da maneggiare con cautela, negandole la sua compagnia nel giorno meno propizio per un simile atteggiamento. Che cosa aveva fatto di male? L’aveva esortato a confidarsi, certo, ma con tutte le buone intenzioni del mondo; si era persuasa che se avesse condiviso il suo fardello con lei un poco dell’oscurità che si portava dentro si sarebbe dissipata, che i suo occhi cupi e ombrosi sarebbero divenuti limpidi e pregni di luce. E le prime reazioni di lui lo confermavano.
Perché, allora, si era allontanato da lei come se lo avesse spinto a fare qualcosa di immorale e vergognoso? Perché l’aveva deliberatamente ignorata, scortandola nella sua stanza e dileguandosi subito dopo, malgrado ella avesse mostrato pienamente il suo smarrimento? Non era stata lei a determinare il corso degli eventi, anzi, ne era stata travolta contro la sua volontà, facendosi trascinare in un vortice da cui ormai non poteva più fuggire, Erik non aveva alcun motivo di scappare in quella maniera. Era disgustato da lei?
No, non era possibile. L’aveva guardata come se la considerasse bellissima e preziosa, nei primi momenti sul fiume, tanto che il sangue le era affluito sulle gote e si era sentita lusingata e considerata. Ma d’altra parte…
La situazione la coglieva impreparata. Non c’erano stati uomini nella sua vita, si era negata per scelta le loro attenzioni e aveva promesso a se stessa che mai avrebbe fatto la fine di sua madre, mai avrebbe posto la sua anima nelle mani di uno di loro. Aveva voltato le spalle agli sguardi cupidi che talvolta, nelle occasioni importanti, cadevano su di lei e aveva rifiutato senza appello la corte di Antoine, nonostante egli fosse giovane, bello e molto ricco e tante altre fanciulle lo trovassero un compagno appetibile. Non c’era da fidarsi delle promesse maschili; gli uomini fiutavano l’inconfondibile profumo del suo seno e del suo sesso, della sua inviolata verginità, e accorrevano lesti per berlo fino all’ultima goccia e per abbandonarla svuotata e, nel peggiore dei casi, recante in grembo una traccia tangibile del loro intervento. La violenza operata da Antoine e l’ingenuità di sua madre ne erano la prova inconfutabile.
Tuttavia Erik non era un semplice uomo, non assomigliava agli individui che raramente l’avevano avvicinata. Aveva in sé qualcosa di ultraterreno, di superiore, di misterioso e oscuro che forse, benché non se ne fosse accorta mai, l’aveva attratta fin dal primo momento, quando le aveva stretto intorno al collo il laccio del Penjab e le aveva accarezzato la pelle con il suo caldo fiato minaccioso. Nei giorni in cui avevano vissuto insieme non aveva mai approfittato del potere che ella stessa gli aveva conferito, non aveva mai mostrato l’intenzione di importunarla e abusare della sua presenza. Per prenderla gli sarebbe bastato scostare la tenda che conduceva alla sua camera da letto o allungare una mano mentre sedevano al piano l’uno accanto all’altra, ma non l’aveva mai fatto. Per questo motivo, per il rispetto e l’interesse puro che, almeno negli ultimi giorni, le aveva dimostrato, se ne era innamorata.
Sì, era inutile fingere, negarsi la verità, condirla con sciocchi alibi: era innamorata di Erik Destler. La tensione nata tra loro sulla gondola aveva squarciato i veli della menzogna e le aveva rivelato la vera natura della Presenza che da qualche tempo aveva preso possesso del suo corpo e della sua anima. Sapeva, adesso, che era amore. Il disastro del “Re degli Elfi” non era svanito dalla sua memoria, ogni particolare di quella tragedia era scolpito in profondità nel suo cervello e rammentava benissimo il crollo del possente lampadario, le grida terrorizzate del pubblico in fuga, la mano martoriata che spuntava grottescamente dalle macerie, Emma, immobile e traumatizzata, in procinto d’essere travolta dalla scenografia in caduta libera, la risata demoniaca risuonata al culmine della morte e della distruzione…era stato Erik a farlo. Decine di innocenti avevano trovato il decesso per sua mano, svanendo sotto la mole dello strumento della sua vendetta.
Non le importava. Egli aveva commesso un errore imperdonabile, ma non era realmente crudele. Le ingiustizie, le sventure, i tradimenti di cui era stato fatto oggetto fin dall’infanzia avevano pervertito la sua formazione e lo avevano indotto a crescere con principi totalmente sbagliati, con regole che andavano contro ai canoni morali della maggior parte degli esseri umani. Era una vittima, esattamente come quelle sepolte dal lampadario. E lei voleva aiutarlo. Non si illudeva che sarebbe cambiato totalmente grazie alla sua influenza e che avrebbe intrapreso un cammino di bontà e sacrificio, ma era sicura che se Christine l’avesse accettato, egli avrebbe cessato di uccidere e tormentare. Aveva solo bisogno di sentirsi amato per abbandonare i suoi propositi assassini. E lei avrebbe potuto…avrebbe potuto…
Una piccola goccia d’acqua cadde sull’immacolata tastiera del pianoforte, seguita, subito dopo, da una gemella identica, e da un’altra ancora. Le note sonore e argentine che avevano coperto il silenzio dei sotterranei si spensero con una serie di aspre dissonanze e la piccola mano della ragazza, esile ma forte e vigorosa come una roccia, scagliò di lato lo spartito con un gesto fulmineo e violento, facendolo cadere sul pavimento. Appoggiò i gomiti sullo strumento, producendo un suono cupo e cacofonico, e si prese la testa fra le mani, infilando le dita tra i riccioli corvini.
Non avrebbe potuto fare nulla. Quella non era la sua storia, la sua favola, non era suo il ruolo della bella principessa che aveva sciolto il cuore di ghiaccio di un angelo delle tenebre e che l’aveva sollevato sulle ali dell’amore. Lei era soltanto un’intrusa indesiderata che aveva usurpato con la forza una posizione appartenente ad una fanciulla che se ne era disfatta con disgusto, una nullità, una sguattera che ambiva invano a vestire i panni dell’eroina romantica d’uno dei tanti romanzi che le aveva letto suo padre. Erik non sarebbe mai stato suo, non avrebbe mai ordito alcun piano per conquistare il suo cuore che già gli apparteneva.
Però doveva amarla! Sulla Senna le aveva stretto le mani con una delicatezza e un affetto che non aveva mai conosciuto, il suo volto gelido e duro si era addolcito e i suoi occhi di zaffiro avevano cercato i suoi quasi con disperazione. Queste, almeno secondo Vivian, erano prove tangibili di un coinvolgimento emotivo, di un sentimento. Se Erik non avesse provato nulla per lei, avrebbe continuato a trattarla con la gelida cortesia dei primi giorni. Non l’avrebbe mai guardata…così.
Si sentiva impazzire. L’amore si agitava dentro di lei come un animale selvaggio e le sue vene ribollivano di irata insoddisfazione. Nulla in quel momento le importava, fuorché Erik. Doveva scoprire qual era la natura dei suoi sentimenti per lei, prima che la giornata giungesse a termine, prima che il loro tempo cessasse per sempre. E, impulsiva e frenetica com’era, avrebbe portato a termine un tale intento con ogni mezzo possibile, data l’esigua quantità di ore rimastale. Domandare francamente non sarebbe servito a nulla, conosceva abbastanza il Fantasma dell’Opera da sapere che avrebbe eluso con facilità qualsiasi quesito diretto. Arrivare alla verità tramite una serie di inganni e di tiri mancini era ugualmente inutile, dal momento che egli era maestro di entrambi.
Non le restava che giocare l’ultima carta….metterlo sulla graticola con il suo stesso trucco. Così ogni falsità, ogni tabù sarebbe caduto e avrebbero affrontato, il decimo giorno, la realtà nella sua forma più cruda. Una volta per tutte.  
 
Il sole aveva ormai compiuto metà della sua discesa e si era appoggiato, con leggerezza impalpabile, sull’orizzonte celato dai palazzi di marmo, dalle abitazioni di pietra e catrame e dalle chiese dalle guglie aguzze, tingendo il cielo all’intorno di mille sfumature rosate, arancione, rossastre e azzurrine. Un bagliore viola cadeva obliquamente su una Parigi che si preparava a chiudere le palpebre sull’oscurità incombente e la neve perdeva quella luminosità argentata che faceva scintillare la città quando era giorno inoltrato. Raggi intrisi dell’aranciato lucore del tramonto cadevano sul tetto dell’Opera Garnier e rivelavano le statue angeliche appollaiate sul parapetto con le ali spalancate e una figura più scura, dall’analoga immobilità, che si appoggiava alla balaustra con i gomiti, lasciando cadere lo sguardo sull’oceano di tetti sottostante.
Erik scrutava gli esseri umani, deboli creature cieche al buio che si apprestava a calare su Parigi, che si affrettavano ognuno alla propria casa, pregustando, con ogni probabilità, una cena calda e sostanziosa, una moglie sorridente pronta ad accoglierli a braccia aperte e una notte d’amore e di piacevoli sogni. Aveva conosciuto ben pochi individui, se non quasi nessuno, che condividevano con lui il viscerale amore per le tenebre: esse erano pregne di un fascino, di una bellezza che sfuggiva alla maggior parte dei cittadini e che solo chi era avvezzo a girare nel buio riusciva a cogliere. Zone che alla piena luce del sole non presentavano alcuna via di fuga, con il favore della luna si riempivano di nascondigli e di pozze d’ombra, luoghi affollati e intrisi del ributtante odore della folla si svuotavano e acquisivano il loro pieno valore. I suoi occhi attenti e freddi, trafitti dai raggi solari e indeboliti dal brillio dell’astro rovente, pian piano tornavano a vedere con chiarezza ogni particolare della città che si srotolava sotto di lui e riconoscevano a memoria le varie vie e vicoli: avrebbe saputo indicare con precisione la posizione di Rue Auber, Rue Meyerbeer e Rue Scribe, e quale genere di persone vi si aggirava a notte fonda. Un mendicante cieco strisciava con lentezza esasperante sino ad un muro sudicio e scrostato e vi si appoggiava, tendendo la mano scarna e sperando in un poco di carità. Una prostituta di alto borgo, dai capelli biondi come il grano e dal viso sfatto da una vita dal sapore amaro, usciva da una casa al comparire di una carrozza e vi entrava in fretta, probabilmente per incontrarsi con un cliente che non voleva render nota la sua identità.
Si potevano carpire tanti segreti di notte, quando la massa superflua e l’anonima mescolanza di esseri umani si dileguava dalle strade tanto conosciute.
Ma quella sera, la mente di Erik non desiderava strappare alla cortina di tenebre ciò che tanto gelosamente teneva nascosto, e il suo sguardo vagava da un punto all’altro del paesaggio senza concentrarsi su nulla in particolare, le pupille soggette a quella vacuità offuscata che contraddistingue coloro che si smarriscono nei loro pensieri. Il suo volto coperto dalla maschera, chino sulle braccia incrociate sul parapetto, non mostrava l’abituale espressione impassibile: c’era, nella piega delle labbra e negli zigomi contratti, un’evidente traccia di tormento. Egli era in quel momento talmente immobile che lo si sarebbe potuto scambiare per una statua, sennonché a volte, assai di rado, in verità, alzava una mano per scostarsi dalla fronte i capelli mossi dal vento o emetteva un lungo, rumoroso sospiro.
Aveva coltivato la vana speranza che allontanarsi da Vivian e cercare rifugio laddove l’aria più pura poteva ripulirgli i polmoni fosse il rimedio giusto per scacciare le ingombranti e incomprensibili sensazioni che l’avevano assalito a seguito della gita in gondola, ma nulla di ciò era successo. L’immagine di lei così come gli era apparsa sotto l’ingannevole chiaro di luna, con la pelle candida come la neve che imbiancava i tetti, i capelli sfumati degli stessi riflessi bluastri che adesso adornavano i più alti strati di cielo e gli occhi tempestati di bagliori smeraldini era penetrata nelle sue ossa come un marchio di fuoco e non si decideva ad andar via. Se chiudeva gli occhi, riusciva addirittura a sentire il suo profumo, trasportato al suo animo vinto dalla brezza notturna. Aveva tenuto fra le sue le mani snelle e forti della ragazza ed ella non aveva palesato disgusto per la vicinanza neppure per un istante, anzi, gli si era fatta da presso come se quel contatto le fosse gradito. Le sue dita affusolate si erano appoggiate con risolutezza sulle sue labbra offese e i suoi occhi ambrati lo avevano guardato veramente, eludendo la presenza della maschera. Per un fuggevole istante, aveva provato ad immaginare ciò che sarebbe potuto essere…
Avrebbe potuto condividere con lei la sua solitudine.
Avrebbe potuto proteggerla.
Avrebbe potuto fare per lei ciò che non aveva potuto fare per Christine.
Ma la sua familiarità con gli inganni delle tenebre lo aveva fatto rinsavire mentre indugiava su propositi tanto folli e irrealizzabili ed era scappato da quelle mani, da quel viso, da quegli occhi per non essere costretto a subirne gli effetti ancora. Era stato assolutamente sciocco e sconsiderato da parte sua cedere alla situazione. Non era certo un giovanotto imberbe, un ridicolo moccioso che si faceva disarmare dal sorriso di una damigella e dal chiarore pallido della luna. Era un uomo maturo, un uomo che dal mondo non aveva ricevuto altro che menzogna e tradimento, perfettamente capace di guardarsi da simili tranelli.
Perché, allora, aveva permesso all’atmosfera di coglierlo di sorpresa?
Forse c’entrava soltanto il fatto che Vivian era una donna…e lui si era privato per tanto, troppo tempo, di un contatto con esse. Ne aveva spiate parecchie, ammirando quelle membra sinuose ed eleganti e seguendo con lo sguardo il fruscio di una gonna di seta, aveva invidiato, talvolta, quei galantuomini che le portavano a passeggio la Domenica, conducendole a braccetto e toccandole con una naturalezza che lui non aveva mai conosciuto, ma la paura di essere dileggiato per il suo aspetto demoniaco e il trauma legato all’abbandono della madre l’avevano sempre frenato dal tentare un approccio. Christine era stata l’unica eccezione, e non era che una bambina, quando l’aveva conosciuta. Tuttavia una tale mancanza gli era pesata negli anni della sua maturità, il desiderio frustrato e insoddisfatto aveva scandito il ritmo dei suoi giorni e le fantasie che rifuggiva durante la veglia lo avevano spesso aggredito in sonno, concretizzandosi dapprima in incerti e nudi profili femminili, quindi nel corpo di Christine, bianco e abbagliante nella sua perfezione. Tuttora riconosceva pienamente che, malgrado si fosse negato di accedere all’universo sessuale tramite un rapporto a pagamento, che era, per il suo animo romantico, un insulto alla purezza dell’amore, si ritrovava completamente frustrato in quell’ambito cui non osava pensare.
E Vivian aveva vissuto al suo fianco per ben dieci giorni, separata da lui da un unico muro, fiduciosa nel suo autocontrollo e nel suo senso dell’onore. Mai una volta aveva colto in lei segni di imbarazzo o di timore, in numerose occasioni gli era comparsa davanti in camicia da notte, senza alcun accenno di turbamento. Se ne era rallegrato, al principio, ma adesso in lui si era insinuato il dubbio che un tale comportamento fosse stato, in realtà, un affronto alla sua virilità. Ella pensava forse che essendo deforme e facendosi chiamare fantasma, egli fosse meno di un uomo? Che fosse incapace di provare lussuria?
Era lussuria, l’incandescenza che gli danzava nelle vene, il bisogno incontrollato di contemplare i suoi occhi e il suo sorriso, di udire la sua voce stonata, di toccare la sua pelle morbida e annusare il suo intenso profumo?
Buttando fuori l’aria con pesantezza disperata, Erik posò la fronte sul gelido marmo del parapetto e chiuse gli occhi. Non poteva andare avanti così. Quando l’aveva accolta nella sua dimora, certo non avrebbe mai potuto prevedere che la sua presenza avrebbe influito così tanto su di lui, né che si sarebbe ritrovato, dopo l’esperienza di Christine, a struggersi per una di quelle creature fascinose e ammaliatrici, curiose come Pandora e subdole come una vipera, comunemente chiamate donne. Aveva riposto un’eccessiva fiducia in se stesso, aveva creduto che il dolore della notte del Don Juan avesse strappato dal suo animo ogni sentimento, lasciando solo vuoto e odio. Ma così non era stato…egli era un essere umano, nonostante i suoi simili non l’avessero mai voluto con loro. Ed era soggetto a debolezze umane.
Vivian doveva andarsene. Immediatamente. I dieci giorni erano trascorsi, non aveva più alcun dovere nei suoi confronti. Sarebbe sceso da lei, forte della sua consumata abilità nel dissimulare le emozioni, e l’avrebbe esortata a preparare le sue cose e a tornarsene a casa. Una volta separatosi dalla ragazza, dal richiamo carnale che emanava, tutto quel tormento sarebbe cessato. Non le avrebbe permesso di portare a termine il suo giochetto, non si sarebbe lasciato sconfiggere dalle sue arti femminili. Forse ella non aveva operato quelle trame volontariamente, ma era una donna…lo tentava con la sola presenza, con il solo odore…lo chiudeva in una gabbia che si faceva di giorno in giorno più stretta. Sarebbe stato un bene per entrambi, se si fossero congedati l’uno dall’altra. Forse era persino il caso di mandare una lettera minatoria a Firmin e André, consigliando loro caldamente di negare alla fanciulla un posto di allieva all’Opera, così sarebbe scomparsa del tutto dalla sua vita.
….no, era troppo eccessivo. Vivian era stata gentile con lui, gli aveva salvato la vita nel precipizio e lo aveva curato con dedizione. Senza contare che insieme avevano realizzato una canzone che necessitava della ragazza per gridare al mondo il suo messaggio. Se se ne fosse andata, anch’essa sarebbe caduta nel dimenticatoio, e ciò avrebbe vanificato tutti i loro sforzi. Non le avrebbe tolto la sua posizione lì. Era abbastanza forte da resistere alla tentazione di vederla.
Una parte di lui ne dubitava. E dubitava anche che la canzone fosse il reale motivo della sua riluttanza a mandarla via da Parigi. Era portata piuttosto a pensare che non volesse privarsi della possibilità di rincontrarla in maniera così drastica. Ma non aveva tempo per impigliarsi in una ridicola battaglia interiore. Aveva scelto il minore dei mali, ed era questo ciò che contava. Una corda dentro di lui gridava insoddisfazione, ma era irrilevante. Si era sempre considerato una persona concreta e risoluta, capace di prendere le decisioni più terribili, pur di raggiungere i suoi intenti; a causa di Vivian, era già venuto meno abbastanza a quest’immagine di sé.
Sprofondò nel teatro con passo sostenuto, rassicurato dalla soluzione a cui infine, dopo ore di riflessione, era giunto, e avvertì in corpo una fretta inconsueta. Se voleva liberarsi di Vivian, doveva farlo subito, senza alcun indugio. Gli errori passati l’avevano sufficientemente edotto sui propri limiti, e sapeva che se avesse aspettato troppo prima di mandarla via, avrebbe finito col convincersi che non era assolutamente la soluzione più vantaggiosa. La logica lo aveva condotto a rifugiarsi in quella facile scappatoia, ma come ormai sapeva bene, l’essere umano è una creatura d’istinto, e spesso assume comportamenti del tutto irrazionali. Sulla gondola, la notte prima, era stato sul punto di perdere il controllo e di spogliarsi di ogni arma, soggiogato dal potere della luna e del volto di Vivian. Non intendeva trovarsi in una situazione di analoga vulnerabilità mai più. Perciò avrebbe eliminato dalla sua esistenza la responsabile di quel cedimento. E lei non avrebbe potuto protestare in alcun modo. L’accordo che avevano stipulato parlava chiaro, sarebbe stata sua ospite per dieci giorni esatti, non uno di più. Forse il marchesino sarebbe tornato a importunarla, una volta perduta la sua protezione…ma in quel caso... lui cosa avrebbe fatto?
A rigor di logica, nulla. Vivian non era né sua allieva, né sua parente, né tantomeno sua…fidanzata. Egli non aveva alcuna responsabilità nei suoi confronti e non aveva il diritto di avanzare pretese su di lei a spese di un terzo. Se il nobile l’avesse assalita fuori dai confini del teatro, non avrebbe potuto aiutarla, per quanto continuasse a desiderare di proteggerla. Ma occorreva per forza che tra di loro ci fosse qualche legame riconosciuto? Indubbiamente in quel periodo era andato formandosi un rapporto di equità, e questo era qualcosa che valeva più di qualsiasi promessa o giuramento. Si sarebbe preso cura di lei nell’ombra, senza che se ne accorgesse, tenendola lontana dai pericoli. Nessuno aveva l’autorità o il fegato di sfidare il Fantasma dell’Opera! Tantomeno il bamboccio dal sangue blu che era scappato dalla cappella come un cane tremante, dando un’umiliante dimostrazione di codardia.
Sì, in quella maniera si sarebbe allontanato da lei e, allo stesso tempo, l’avrebbe difesa dalle insidie della sua precaria posizione sociale. Era il miglior compromesso che avesse mai raggiunto, e acquietò un poco quel senso di indefinibile riluttanza che gli attanagliava le viscere, senza tuttavia eliminarlo del tutto. Poco male. Era abituato a sopportare il tormento.
Ma lei era Vivian. Troppe volte si era dimenticato di questo piccolo particolare, troppe volte ci era passato sopra con simulata indifferenza, ignorandolo, per poi subirne le conseguenze in seguito. La ragazza non aveva mai chinato la testa di fronte ad una sua decisione, e aveva manifestato, fin dal suo arrivo, una sconvolgente bravura nel mandare a monte i suoi piani e nello stravolgere i suoi programmi. Avrebbe dovuto immaginare che non si sarebbe lasciata cacciare con facilità…ma se anche avesse preso in considerazione la più infelice delle ipotesi, non avrebbe mai potuto prepararsi allo spettacolo cui assistette una volta tornato alla Dimora sul Lago.
Si aspettava di trovare la sua ospite in camera da letto, intenta in una piacevole lettura serale, o magari seduta al pianoforte, le dita agili ed esperte che danzavano sui tasti e suonavano le note della loro canzone. Ma lei non era né nella sua stanza, né accanto al piano. Era salita in piedi sullo sgabello dello strumento, trascinandolo accanto ai muri ricoperti dai drappi, e il modo in cui teneva dritta la schiena e spianate le spalle rivelava le morbide curve del suo corpo, malamente celate da un lussurioso abito rosso porpora guarnito di ricami dorati, con un corpino che le esaltava la linea generosa del seno e una gonna di veli che serpeggiava fino a terra, circondandola come lingue di fuoco. I capelli neri, sciolti nella loro pettinatura più selvaggia, le ricadevano liberamente fino a metà schiena, e il suo volto aveva la stessa espressione feroce, determinata e terribile di quando era emersa vittoriosa dalla Stanza della Sfinge. Gli occhi le brillavano, le guance erano scarlatte.
E il laccio del Penjab, una delle sue armi più letali, che egli custodiva nella sua camera e che non si era premurato di nascondere poiché non era di alcuna utilità per la ragazza, era avvolto come un serpente intorno al morbido collo ed era stato assicurato, tramite un abile nodo, ad una delle sbarre di metallo su cui erano appesi i drappi sgualciti.  
 
Erik rimase paralizzato, mentre una sensazione di gelo assoluto si impadroniva di lui e gli ghiacciava il sangue nelle vene. Vivian era lì, davanti a lui, ritta sopra lo sgabello, grondante la solita incrollabile forza, e aveva un cappio stretto e letale attorcigliato intorno al collo. Se fosse caduta dallo sgabello, se avesse mosso un solo passo, sarebbe ricaduta pesantemente appesa alla corda e ne sarebbe stata impiccata. Malgrado questo, il suo volto, i suoi occhi, non mostravano altro che una feroce determinazione.
Perché, era palese, era stata lei stessa ad annodarsi il laccio sulla gola e a salire su quell’incerto supporto.
Ma la ragione che l’aveva spinta a quel folle gesto, la causa della sua espressione di sfida e delle fiamme che eruttavano dalle sue iridi ardenti, era completamente ignota al Fantasma dell’Opera, ed egli, che non aveva mai tentennato di fronte a nulla e che mai aveva provato paura per qualcosa, si ritrovò, in men che non si dica, del tutto dominato dalla suprema forma di terrore. Un attimo prima si rallegrava per la stabilità che aveva prontamente riconquistato ed era ben deciso a celare dietro al suo viso impenetrabile quei dubbi che non era riuscito a scacciare, e adesso, dinnanzi ad un tale, inaspettato spettacolo, tutti i suoi propositi, tutte le sue manovre erano svanite e avevano lasciato al loro posto una confusione, un panico, una frenesia che rischiavano quasi di sopraffarlo. L’immagine della sua ospite in procinto di impiccarsi era tanto assurda e mostruosa che le sue palpebre si chiusero d’istinto, nella speranza di aver focalizzato male la scena e di aver veduto qualcosa di inesistente. Ella non poteva avergli preso il laccio del Penjab per esporsi ad un pericolo così grande…non ne aveva alcun motivo…né, certamente, alcuna intenzione…si era trattato certamente di un malinteso, di uno scherzo ottico, che sarebbe svanito in un attimo…
Ma non svanì. Ella era ancora sullo sgabello, bellissima e perduta, l’orrido canapo che le scalfiva la delicata pelle del collo. Le punte dei piedi nudi sfioravano l’orlo dello sgabello e gli occhi scuri lo guardavano dritto in viso con evidente sfida, come se lo stessero incitando a dire qualcosa. Se Erik avesse avuto la capacità di guardarsi dall’esterno, sarebbe senz’altro rimasto sorpreso dal pallore improvviso che si era diffuso sul suo volto mascherato e dai suoi occhi lievemente sgranati, accesi da una scintilla di puro terrore. Ma tutto quello che egli percepiva in quel momento era il tumulto di sensazioni che la sorpresa aveva scatenato in lui, e gli scaturì dalle labbra un ringhio soffuso, imbevuto di panico: “Cosa diavolo stai facendo?!”
Lei parlò con voce salda e sicura, per nulla alterata dal pericolo a cui si era esposta: “Quello che va fatto”.
“Di che stai parlando?!” l’uomo accennò un passo nella sua direzione, ma si bloccò subito dopo, folgorato dal timore che ella si sarebbe lasciata cadere, se avesse sospettato un suo tentativo di liberarla dal laccio. Avvezzo com’era a privare della vita gli esseri umani, si trovava per la prima volta a volerne invece salvare uno da morte certa, senza secondi fini (come era invece accaduto nella cappella) ed aveva l’impressione di muoversi su un sottile filo di spago, pronto a spezzarsi al minimo passo falso: “Scendi subito! E sciogli quella corda, se cadi…”
“Mi strangolerà?” la giovane sorrise, serena: “Lo so, Erik. E immagino che tu ricordi di che corda si tratta. È la stessa con cui mi hai aggredita nel corso della mia intrusione. Buffo, vero?”
Lui digrignò i denti. Al sicuro dietro la liscia superficie della maschera, la sua fronte era imperlata di sudore: “Non so a che gioco stai giocando, ma adesso devi smetterla!”
Il sorriso scomparve e lo sostituì un cipiglio di una serietà maniacale: “È un gioco che conosci bene. Si potrebbe dire che è proprio il gioco che piace a te” Vivian parlava lentamente, assaporando il suono delle insensate parole che cadevano nel salone sotterraneo come macigni gravidi di orrore: “Quando ti ho chiesto ospitalità, mi hai sottoposta alla prova della Sfinge. Adesso è il tuo turno. Tocca a te fare una scelta”.
Gli occhi azzurro scuro dell’uomo sfolgoravano al pari di due tizzoni ardenti, incapaci di nascondere il panico crescente: “Tu sei pazza!”
Un sogghigno amaro sfiorò le labbra rosse della giovane: “Vorrei che fosse così, ma credimi, sono più che lucida. Sono i sentimenti…solo i sentimenti… ad essere irrazionali”.
“I sentimenti?”
“Non hai capito?”
“Cosa c’è da capire?!” la rabbia, la preoccupazione e la foga lo indussero ad avanzare leggermente, senza che Vivian mostrasse di temere un suo eventuale assalto o che si irrigidisse in alcun modo. Il corpo alto e muscoloso di Erik era attraversato da un tremito evidente e un muscolo gli fremeva sopra al sopracciglio: “Scendi da lì, subito! Ci sono persone che ti aspettano, che…”
“Non mi importa niente di loro” lo interruppe brutalmente: “Io voglio il tuo amore”.
Un silenzio opprimente calò in quella cappa di tensione e di paura.
Erik fissò il volto acceso e feroce di Vivian, cercando di assimilare quanto aveva appena detto. Voleva…il suo amore? Aveva sentito bene? Ma come era possibile che lei…che si fosse…era così giovane, ingenua ed inesperta…così... bella e piena di voglia di vivere…perché mai avrebbe dovuto scegliere, tra i tanti uomini che aveva a disposizione, proprio lui? Un assassino, un reietto, un orribile individuo sfigurato che viveva isolato nella solitudine perpetua di una catacomba? Sotto quale incantesimo doveva essere per pronunciare una simile assurdità con quella convinzione, per avere uno sguardo tanto limpido, mentre rischiava di morire soffocata e professava affetto ad un mostro? E perché diavolo si sentiva mancare?! Barcollò, stupito e furioso dalla debolezza poco virile che stava dimostrando, e fu costretto a cercare sostegno sul più vicino muro, portandosi una mano al volto pallidissimo. Non gli era mai capitato, in trentasette anni di vita, di sentirsi tanto vulnerabile e disarmato. E aveva affrontato uomini e creature ben più grossi e temibili della diciottenne che aveva di fronte.
Un sorriso di una dolcezza che pareva esserle del tutto estranea si allargò sulle sue labbra scarlatte, addolcendole i lineamenti duri, e per pochi secondi, sotto l’influsso del suo sentimento, sembrò divenire un’altra persona: “Io ti amo, Erik” la sua voce era tenera e sincera in modo quasi insopportabile: “È inutile continuare ad ignorarlo. E quando tengo a qualcosa, lotto per averla…anche a costo di morire. In questo siamo simili, non credi?”
Lui scosse la testa lentamente, incapace di accettare quello che provava, di comprendere che la dichiarazione di Vivian stava sollevando la coperta sotto cui teneva nascoste le sue colpe più terribili, proprio come era successo quando Christine l’aveva baciato: “Sono solo un mucchio di sciocchezze folli”.
“No!” il corpo della ragazza si tese, fremendo di indignazione sotto l’abito rosso, ed Erik venne colto dalla paura attanagliante e fulminea che potesse, involontariamente, perdere l’appiglio sullo sgabello, ma riuscì a rimanere eretto: “Non ti permetto di sminuire quello che provo! Non l’ho deciso, non l’ho previsto, anzi, avrei preferito evitarlo, ma è successo. E credo che…che anche tu provi qualcosa per…me”.
Replicò con un tono gelido che non corrispondeva al suo reale stato d’animo: “Ti sbagli”.
“Davvero? Sul fiume il tuo sguardo ti tradiva…ho visto amore nei tuoi occhi!”
Una vampata di calore salì a imporporargli le gote. Ovvio, la ragazza si stava approfittando di quell’imperdonabile momento di debolezza che l’aveva colto sulla Senna, usandolo contro di lui per proseguire con il suo folle giochetto: “Parli come la bambina che sei. Pensi che questa sia una favoletta? Era a questo che portavano i tuoi discorsi sul vero amore? La vuoi sapere la verità, quella che ho appreso a mie spese? Il vero amore non esiste! È solo un’illusione degli uomini, il più grande dei loro inganni! E tu lo proveresti per me? Mi vedi come un affascinante principe delle tenebre, come colui che ti aprirà le porte per un mondo magico e fantastico? Sei proprio come Christine. Anche lei non amava che il suo prezioso Angelo della Musica”.
Il suo discorso esprimeva disprezzo, ma nessuna di quelle parole velenose turbò la serenità che pervadeva il viso di Vivian, né diminuì l’assoluta determinazione che dominava i suoi occhi. Attese che avesse finito, poi ribatté, con candida onestà: “Io ti amo per quello che sei, Erik, non per quello che rappresenti”.
Lui fece un gesto brusco con la mano, negandosi di comprendere appieno il significato di tali rivelazioni, di perdersi nello sguardo dolce e fermo della ragazza: “Non lo sai nemmeno, quello che sono”.
“Sei un assassino. Un figlio illegittimo. Il Signore delle Botole. Ma questi sono solo appellativi. Dentro, sei molto di più. Mi piace guardarti pensare. Mi piace come mi ascolti e, contemporaneamente, rifletti su ciò che dico. Mi piace il tuo sorriso, perché è raro e quando si manifesta…mi da un senso di trionfo. Mi piace l’intensità dei tuoi occhi, come mi ci perdo dentro, diventando cieca a tutto il resto. Mi piace…tutto di te. Anche i tuoi difetti. Vorrei poterlo esprimere in modo migliore, ma…non ci riesco. Non posso esistere senza di te, non ora che le cose sono arrivate a questo punto. Per questo ti propongo questa prova. Se mi ami, se non lascerai che io muoia, mi terrai con te per sempre” la sua voce assunse le vibranti tonalità di un giuramento: “E non accetto compromessi”.
Ora finalmente credeva di capire a cosa servisse quel cappio. Vivian aveva messo la propria vita nelle sue mani, pur di poter restare con lui…avrebbe dovuto esserne sconvolto, ma era proprio un atto da lei. Stupida, ingenua impulsiva convinta dell’esistenza di quello spirito effimero e ingannevole del vero amore…pronta a sacrificarsi per esso, per farne parte…esattamente allo stesso modo in cui lui stesso aveva dato tutto ad un tale sentimento, abbattendo di netto ogni ostacolo posto sul suo cammino. Disposto ad uccidere tutti, e anche se stesso con gli altri, pur di avere accanto l’oggetto della sua smania febbrile e tormentosa. Era dunque il destino dell’umanità, quello di battersi a tal punto per un niente?
Obiettò con una vena di disperazione: “Smettila con questa pazzia, togliti di dosso quella dannata corda e torna a casa, come era stabilito!”
Vivian sollevò fieramente il mento: “La mia casa è questa. Non mi farai cambiare idea, presumo che ormai tu mi conosca. Se vuoi liberarti di me, dovrai lasciare che mi uccida”.
Erik la odiò per l’assoluta fiducia in se stessa che traspariva da ogni poro della sua pelle, per le reazioni che gli suscitava: “Se è questo che hai deciso…”
Gli occhi marrone lo scavarono in profondità: “Dici sul serio? Leggo paura in te, Erik! Tu mi ami”.
Un’immotivata sensazione di panico lo assalì. Aveva a che fare con quello che lei continuava ad affermare, con qualcosa che non intendeva ammettere a se stesso, e tantomeno a Vivian, e le sue labbra formularono parole frenetiche: “Non è così! Non conti niente per me, esattamente come gli altri! Credi che mi terrei accanto una ragazzina fastidiosa e immatura, una nullità?!”
Si aspettava di provocarle dolore o rabbia, delusione o perlomeno un lieve dispiacere, ma tutto quello che ottenne dalla sua negazione fu un piccolo sorriso triste: “Cerchi di convincermi che non ne vale la pena?”
Non l’avrebbe costretto a sollevare quella maledetta coperta, non si sarebbe insinuata nelle sue vene e nella sua pelle! Il suo vero io non sarebbe emerso grazie al suo gioco fatale, non avrebbe tirato fuori dalla sua fredda parvenza le cose segrete e innominabili che vi erano celate, o tutto quello che si era prefisso di essere in quei sei mesi sarebbe crollato per sempre, e ogni alibi, ogni progetto, sarebbe sbiadito a confronto della cruda e reale verità. Contro di lei aveva perso fin troppe volte, questa volta il trionfo sarebbe stato suo.
Piegando la bocca in un sogghigno sardonico, si costrinse ad adottare un tono di scherno: “Non avrai il coraggio di saltar giù dallo sgabello”.
Un bagliore le illuminò le pupille: “Mi sottovaluti, e sopravvaluti te stesso… come sempre”.
Ruotò su se stessa, con un movimento talmente veloce da manifestarsi nel tempo di un secondo, e si lasciò cadere giù dal suo supporto senza alcuna esitazione, senza nemmeno un gemito.
   
 

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Capitolo 19
*** Rosso Eden ***


Rosso Eden

 
 
 
 
 
Vivian ruotò su se stessa con un movimento dalla leggiadria fatale, i veli rosso porpora della gonna che le svolazzavano intorno come fiamme lingueggianti, i riccioli scompigliati simili a piume corvine che spiccavano sul vermiglio, e saltò giù dallo sgabello foderato di velluto con il volto composto in un’espressione serena e sicura, la quiete del condannato.
Il laccio del Penjab si tese con un tremolio appena percettibile e il cappio che le vincolava la gola si strinse con un fruscio disgustoso, frenando bruscamente la sua caduta e mantenendola sospesa con i piedi nudi distanti di appena qualche centimetro dal pavimento. Il suo corpo alto e snello si irrigidì, sfuggendo con un guizzo alla volontà della mente salda e sicura, ed ebbe un primo, violento sussulto: le mani scattarono istintivamente e si avvinghiarono alla corda soffocante, i piedi si inarcarono in un potente spasimo e contrassero le dita, un soprassalto di sorpresa e di dolore le agitò i lineamenti composti e li trasfigurò in quella che viene comunemente ricordata come “la tragica smorfia dell’impiccato”. Gli occhi si sbarrarono fin quasi ad uscirle fuori dalle orbite, un rossore violaceo si diffuse come una reazione virale sul rosa sano delle gote e la bocca si aprì completamente nel tentativo di assimilare aria, mentre dalla gola emergevano gorgoglii mostruosi senza forma umana.
La giovane donna che pochi istanti prima torreggiava sopra lo sgabello come la reincarnazione di una splendida divinità scarlatta, con lo sguardo ardente di determinazione e la schiena dritta e orgogliosa, adesso penzolava appesa alla corda come un pesce fuor d’acqua, ed analogo a quello d’un tale animale era lo stupore dipintosi repentinamente sul suo viso paonazzo e congestionato, uno stupore che sarebbe parso quasi comico, se le circostanze non fossero state tanto tragiche. Le membra fremettero in una serie di sussulti e di spasimi sempre più forti e la lingua le spuntò ad un angolo della bocca, gonfia e violacea per l’asfissia. Gli occhi dilatati si erano rovesciati nelle orbite ed erano bianchi e inespressivi come chiare d’uovo.
Ella era divenuta, in quel momento, la grottesca caricatura di un essere umano, la mostruosa via di mezzo tra un cadavere e un vivente.
Erik, immobile a qualche metro di distanza, pallido quanto lei era paonazza, avvertì il suo cuore, per la prima volta da quando Christine lo aveva ridotto in pezzi, che si risvegliava prepotentemente dinnanzi all’orrido spettacolo e che diveniva un’entità a sé, separata dalla mente fredda e disincantata e altrettanto pressante e persuasiva. Era una creatura di istinto e di sentimenti, un lato di se stesso che credeva di aver perduto per sempre e che l’aveva spinto, anni prima, a rivelarsi alla piccola Christine sotto un’identità fittizia malgrado il buonsenso gli gridasse di non farlo, e in seguito a portarla nella sua dimora, una volta cresciuta. Adesso rinacque dalle ceneri con l’ardore convulso di una fiera in procinto di avventarsi sulla preda e riempì il suo corpo gelido e indurito di un calore sconvolgente e doloroso, di un fuoco che gli incendiava le vene ad ogni battito di cuore e che lo legava, indissolubilmente, all’altrettanto rovente fuoco che scorreva in Vivian. Tutto il suo essere palpitava di quella forza ritrovata nel momento di maggiore tensione e gridava a squarciagola il nome della ragazza, il cui calore rosso (adesso, finalmente, riusciva a vederlo) si affievoliva sempre di più, abbandonandole il corpo ancora in preda agli spasmi dell’agonia e lasciandolo freddo e inerte come era stato lui dopo la notte del Don Juan.
Sarebbe dunque stato necessario il sacrificio di Vivian, per riportarlo alla vita? Avrebbe dovuto donargli il suo fuoco, la sua forza vitale, e rimanere vuota e inanimata come la bambola che aveva fatto a pezzi?
“No!” dai polmoni gli fuoriuscì una primordiale esternazione della disperazione e dell’angoscia montati in lui con intensità dirompente e si lanciò sulla giovane con le mani tese verso di lei e gli occhi accesi da un luccichio di follia che ammiccavano da dietro la maschera.
Non gli importava di nulla, in quel momento. Le malefatte che avrebbe messo in atto, i brani che avrebbe composto e cantato, le migliorie che avrebbe apportato alla sua dimora, i torti che avrebbe raddrizzato, tutto era scomparso dalla sua anima, sostituito da un unico imperativo, un unico ordine: non perdere Vivian. Se l’avesse perduta, sarebbe stato tutto vano. Il suo amore per Christine, il suo odio per gli esseri umani, i suoi delitti, i suoi ricatti, gli abusi che aveva subito, i dieci giorni di novità e di pace appena vissuti, il tradimento di sua madre, l’orrore e il marciume della sua esistenza miserabile e gretta…
(…ho ucciso delle persone che non mi avevano fatto alcun male l’ho fatto senza motivo per pura brama di vendetta per mero sadismo le ho guardate negli occhi mentre morivano e…)
Raggiunse il corpo penzolante ansimando come un mantice, i capelli, il volto grondanti di sudore e la bocca che gridava parole senza senso, cercando di ignorare l’espressione grottesca che l’agonia le aveva conferito e il modo in cui le piccole mani che tanto dolcemente avevano sfiorato le sue la sera prima si artigliavano la gola, lacerando lo scollo dell’abito e scoprendole impudicamente i capezzoli rosa e la pienezza dei seni sussultanti, e l’afferrò per le gambe che scalciavano, nel tentativo disperato di sollevarla e attenuare il soffocamento.
(…mi è piaciuto vedere la luce che svaniva dalle loro pupille e la speranza che abbandonava i loro bei volti morbidi e ho impiccato un uomo proprio come lei si sta impiccando con questo laccio qui che le sta togliendo la vita l’ho inseguito nelle quinte dandogli il tempo di scappare anche se sapevo benissimo di poterlo acciuffare quando volevo e lui aveva paura di me e non mi aveva neanche visto in faccia…)
Strinse tra le braccia il corpo morbido e familiare della sua ospite, valutando quale fosse la maniera più rapida di caricarlo sullo sgabello, ma esso si ribellava con furore incontrollato alla sua presa e si dimenava convulsamente contro di lui, colpendolo, inavvertitamente, con calci e schiaffi vibrati a vuoto e mugolando rantoli strozzati che gli scivolavano, caldi, lungo la schiena. Ella non poteva aiutarlo, non poteva collaborare con lui e abbandonarsi al suo abbraccio, la sua mente e il suo corpo erano stati separati da una forza occulta che lui non era in grado di comandare e agivano ognuno per conto proprio. La serrò al petto con tutte le forze, sperando di sopraffarla e di impedirle di contorcersi così, mentre ripeteva come una lugubre cantilena: “No, Vivian, no, no!”
(…poi l’ho preso e gli ho passato intorno al collo questo laccio e l’ho lanciato sul palcoscenico senza alcuna esitazione e l’ho visto cadere ho visto le sue braccia e le sue gambe che si dimenavano e che poi ricadevano di colpo quando la corda terminava di svolgersi e tutti hanno urlato ma io sorridevo ed ero felice di quest’orrore di questa morte terribile…)
Cercò freneticamente con le dita della mano destra il profilo ruvido e pungente della corda stretta intorno al collo violaceo e continuò, come meglio poteva, a tenere alto il corpo che si contorceva sempre più debolmente, ringraziando la scarsa abilità della giovane nel fare i nodi, che le aveva impedito di compiere un’opera perfetta, grazie alla quale sarebbe morta all’istante. Il cappio non era troppo stretto e la stava soffocando lentamente. Afferrò il maledetto laccio, suo compagno e amico negli anni, sua mirabile creazione, adesso avversario potente e mortale, strumento capace di portargli via colei che l’aveva riportato alla vita e che gli aveva trasmesso il suo fuoco, e giurò a se stesso che non se ne sarebbe servito mai più, che l’avrebbe distrutto, scagliandolo nelle profondità del lago.
(…sempre con esso ho inchiodato il visconte ad un muro di sbarre e stavo per strangolare anche lui e l’unica mia preoccupazione era il tempo che Christine avrebbe impiegato a decidersi ma lui non aveva colpe fuorché quella di amarla era lei ad averlo scelto lei ad averlo preferito a me ma io non volevo accettarlo non volevo ammettere che era stata tutta una decisione della mia musa e me la sono presa con quel ragazzo)
Sciolse il nodo al quale Vivian era avvinta, combattendoci con tale furia da aprirsi tagli e graffi sulle mani tremanti, e le snelle membra di lei si abbandonarono all’improvviso alla sua presa, accasciandosi mollemente tra le sue braccia. Egli la sostenne prima che toccasse terra, prendendola sotto le gambe e circondandole le spalle, e la sollevò con viva ansia, stravolto e grottesco quanto lei: “Vivian!”
La ragazza non reagì. Il suo volto, divenuto cianotico, era disteso e inespressivo come quello di un cadavere e le labbra rosse, leggermente dischiuse, non producevano alcun respiro. Gli ampi squarci che s’era aperta nell’abito risaltavano tragicamente e le mettevano a nudo il seno, semicoperto dalla capigliatura arruffata. Grazie al cielo, gli occhi erano chiusi; il bianco fisso e assoluto della cornea era troppo arduo da sopportare.
“Vivian, no!” la voce gli venne fuori come un rantolo strozzato, e si volse con impeto verso la camera da letto che la giovane aveva occupato in quei dieci giorni, continuando a reggerla in braccio. Nella sua mente la rivide in quei momenti di serena tranquillità domestica, con le guance rosee, il viso acceso e divertito, gli occhi brillanti e passionali. Risentì la sua risata squillante e sgangherata, la sua voce forte e sicura, si figurò il suo sorriso, caldo e aperto, che mostrava tutta la dentatura e le illuminava il volto, provocando in lui un calore cui non era stato capace di dare nome. Ella aveva portato nel suo mondo freddo e buio luce e allegria, speranza e fiducia nel futuro, ma lui non aveva voluto capire, aveva preferito restare legato ad uno spettro, costringendola ad uccidersi per dimostrargli il suo amore. Invece di scaldarsi al calore del suo fuoco, l’aveva soffocato, l’aveva spento, negandosi il sogno di una possibile felicità, di un nuovo inizio, più luminoso, più leggero, più umano.
Scagliò da un lato la tenda di broccato che richiudeva l’ingresso della stanza, entrandoci con un’espressione insensata, con movenze quasi folli, e adagiò Vivian sul baldacchino a forma di cigno, deponendole con delicatezza la testa riccioluta sui guanciali. Ella non poteva essere morta. Se fosse morta, l’ancora che lo teneva legato al mondo, alla vita, ai sentimenti, alla ragione, si sarebbe spezzata bruscamente in due parti, l’avrebbe privato del suo sostegno, di un motivo per continuare a esistere, facendo volare la sua mente in un luogo fantastico e introvabile. Sarebbe impazzito…non avrebbe sopportato quella perdita, di cui egli era l’unico responsabile, non sarebbe riuscito, adesso che si era squarciata, a ricostituire la coperta e a nascondervi sotto quest’ultima, orribile colpa…il solo indugiare sulla sua pesantezza, sull’effetto che esercitava sulla sua anima (sempre che ne avesse una), provocò un tremito evidente nel suo equilibrio e fece vacillare qualcosa dentro di lui.
Intanto, la fanciulla continuava a non dare segni di vita. Un braccio nudo pendeva mollemente fuori dal letto, le dita inerti rivolte verso il basso, l’altro era appoggiato sul petto immobile, sul quale ricadevano lunghe ciocche di capelli neri, che le incorniciavano il volto bianco e inespressivo. Orride chiazze violacee le deturpavano il collo, rassomigliando ad una sciarpa maltessuta, e nessuna traccia del suo fuoco affiorava sui lineamenti distesi.
Erik le accarezzò convulsamente i capelli morbidi, scostandoli dal tenero viso e indugiando su di esso in una tremante, frenetica carezza, e le percorse le membra immobili con uno sguardo talmente allucinato da metter paura, le iridi di zaffiro dilatate al massimo: “Non sei morta” sussurrò su se stesso alla maniera di un mantra rassicurante: “Non puoi essere morta. Ce la farai, starai bene adesso. Ne sono sicuro. È stato solo un incidente, un dannato… indesiderato incidente. Ti riprenderai. So che ti riprenderai”.
Prese una caraffa d’acqua dal tavolino da notte, maledicendo la presa incerta con cui la induceva a tremare, e ne appoggiò l’orlo sulle labbra di Vivian, dandole da bere qualche sorso d’acqua.
Lei rimase immobile.
Qualcosa di bagnato si era ammassato sul viso mascherato di Erik e gli impediva di respirare con agio. Stava piangendo. Niente, dall’addio di Christine, era riuscito a strappargli una lacrima, eppure adesso gocce salate di quel liquido doloroso colavano dagli occhi stravolti e si impigliavano nelle piaghe della sua deformità, formando un contrasto affascinante e grottesco. Perché piangeva, dal momento che ella non era morta?! Si sarebbe ripresa, gli avrebbe sorriso come prima, aprendo i suoi meravigliosi occhi sbarazzini e mettendosi a sedere con l’antica energia. Doveva succedere ciò!
(…no, ti sbagli. È morta. E l’hai uccisa tu).
In un moto di rabbia e di dolore, gettò la caraffa contro il muro e la mandò in frantumi, provocando un frastuono che turbò il mortuario silenzio della Dimora sul Lago. Ciò che restava del contenuto si sparse a terra in una pozzanghera di lacrime e di sangue, e fu come se anche in lui si spezzasse qualcosa, forse l’ultimo vincolo che gli impediva di impazzire, l’ultimo brandello di ragione rimastogli. Si strappò la maschera dal volto, poiché soffocava e non resisteva più con quella indosso, ed emise un ruggito furibondo, afferrando Vivian per le spalle e scuotendola violentemente: “Svegliati, maledizione! Non puoi lasciarmi adesso! Non puoi abbandonarmi qui da solo! Hai detto che mi amavi, che mi volevi accanto! Hai promesso che saresti rimasta con me!”
Le lacrime gli rotolavano lungo gli zigomi deformi, gli entravano in bocca, riempiendola del gusto salato del dolore, rimanevano appese sul mento e poi cadevano, delicate e leggere, sul volto pallido di Vivian, bagnandole le palpebre abbassate, le labbra semiaperte, le guance defraudate del loro colorito acceso. Se fossero state magiche gocce di un prezioso elisir medicamentoso, non avrebbe esitato a piangere per giorni interi su di lei per guarirla, ma purtroppo non lo erano, si trattava soltanto dell’improvvisa, patetica manifestazione di umanità di un mostro, che non riusciva ad accettare di aver perduto l’unica creatura capace di risvegliare l’uomo dentro di lui. Anzi, probabilmente la stava contaminando, con esse, stava insozzando il suo corpo bianco e puro con quel liquido dannato e velenoso, che ricopriva in pari misura il volto di entrambi.
Le prese un braccio, sollevandolo dal giaciglio, quindi lo lasciò e lo osservò ricadere. Le diede un’altra piccola scrollata, meno convinta della precedente, e cercò inutilmente di metterla seduta: il corpo si accasciava puntualmente sul letto ogni volta che smetteva di sorreggerlo.
(…sto tentando di rianimare un cadavere).
Venne scosso da un tremito violento e indietreggiò incespicando dal baldacchino su cui giaceva il guscio vuoto della sua ospite. Era attonito, svuotato. Talmente vacuo, che pareva a sua volta un cadavere tenuto in vita da chissà quale oscuro incantesimo.
Cominciò a flagellarsi senza che nulla lo lasciasse supporre, con la stessa insensatezza che l’aveva spinto a distruggere la bambola di Christine e a frantumare gli specchi dopo che ella l’aveva abbandonato. Urlando come un forsennato e abbandonandosi al più cieco furore, conficcò le unghie nel suo maledetto viso deforme e si aprì tagli e ferite profonde e sanguinanti, lacerando la carne gelida e ossuta e desiderando, con quel gesto, di punirsi adeguatamente per i suoi crimini, di infliggersi il giusto castigo per aver fatto morire quella ragazza la cui unica colpa era stata amare l’uomo sbagliato, di strapparsi di dosso la lordura da cui si sentiva oppresso. Aveva diretto quell’odio, quella violenza, quella follia contro degli innocenti, contro un fantoccio di cera, protetto dalla coperta mentale, ma adesso essa era stata cancellata, e aveva compreso che il solo a meritarli era lui stesso, e che voleva ridursi proprio come la bambola, un ammasso informe e incapace di provare dolore. Così affondava più e più volte le unghie incurvate ad artiglio nella parte sana e nella parte piagata della sua faccia, trasformandole in un’uniforme maschera di sangue, la maschera più adatta a lui, si strappava ciocche di capelli castani che poi gettava a terra e faceva a brandelli gli abiti costosi. Voleva frantumarsi, fare a pezzi ciò che era e ciò che era stato, dividere gli orrori che, uniti, componevano la sua vera essenza, martoriarsi fino a morire per un colpo.
E, contrariamente a molti, era lieto di farlo da sé: in lui era rimasto ancora abbastanza orgoglio da aborrire la prospettiva di essere giustiziato da un altro. Morire per propria mano era la fine migliore che potesse immaginare.
Una vita cominciata col sangue non poteva che terminare allo stesso modo.
“Ma Vivian avrebbe potuto tenermi insieme” il pensiero lo ossessionava: “Avrebbe potuto impedire alla mia anima di andare in pezzi”.
Come evocata dall’intensità dei suoi desideri distrutti, ella gli apparve all’improvviso, afferrandogli la mano con cui seguitava a martoriarsi prima che potesse aprire altre ferite e pronunciando un deciso: “Basta!”
Erik si pulì freneticamente il sangue che gli aveva imbrattato il volto, folgorato dall’allucinazione, dal bellissimo miraggio giunto in suo aiuto sotto l’influenza della sofferenza e della follia, e scoprì con gioia infinita che era identico alla Vivian in carne ed ossa, che ogni particolare corrispondeva perfettamente alla vera ragazza, dal colore corvino dei capelli alla splendida risoluzione negli occhi. Ella era in piedi di fronte a lui, piccola ma fortissima come prima dell’incidente che l’aveva uccisa, il viso corrucciato e il seno che spuntava dalla veste rovinata, e l’uomo avvertiva il tocco delle sue dita sul polso come se fosse stato reale, tanto che tutto il suo sangue sembrava concentrarsi in quel punto.
Accolse il delirio della follia a braccia aperte. Non gli importava che quell’immagine fosse fittizia, che fosse tutto soltanto un sogno dai contorni sfocati: se gli dava la possibilità di vedere e toccare Vivian, era bendisposto a precipitarvi anche per sempre, a vivere in un mondo inesistente fino a morire di fame o di fatica. L’oblio di una mente insana era preferibile alla cruda consapevolezza della ragione.
Si immerse con languida beatitudine nella profondità delle sue pupille irreali e un sorriso di una felicità immensa e insensata si allargò sulla sua bocca piagata: “Vivian…”
Il miraggio strinse la presa sul suo polso, la mano tiepida ed eccitante contro la sua pelle indegna, e gli rispose, con il tono di qualcuno che ordina ad uno spirito disperato di fermare la sua brama di distruzione: “Erik”.
Egli chiuse gli occhi, assaporando il suono del suo nome pronunciato da lei. Gli dava un senso, lo rendeva tutto quello che avrebbe voluto essere che non era mai stato…lo risvegliava. Avrebbe voluto far ripetere al miraggio la parola fino allo sfinimento, per fondersi con essa, per sentirsi qualcuno il più a lungo possibile, e avvertì dentro di sé una smania improvvisa, irrefrenabile, una marea che cresceva, che si ingrossava, che abbatteva qualsiasi vincolo o catena.
“Ti amo, Vivian” non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo viso accigliato: “Mi hai sconfitto”.
Lei lo fissò intensamente, seria come non era mai stata, e le sue labbra si schiusero, forse per dargli una risposta irreale che Erik non desiderava ascoltare. Temeva che il miraggio sarebbe scomparso, che la sua follia non fosse tanto eterna da farlo vivere per giorni in quella dimensione onirica, e doveva dunque approfittarne finché lo percepiva nella sua interezza, assecondare, per la prima volta, la marea di sentimenti e di impulsi che troppo a lungo aveva represso.
Immerse le dita ferite tra i rigogliosi riccioli scuri di quell’immagine fittizia, attirandola a sé con un piccolo strattone, e chinò il volto su quello di lei, premendo le labbra sulle sue con impeto disperato e vorace. Non lo aveva mai fatto, in passato, perfino con Christine, era stata lei a servirsi di quell’incontro di respiri per salvare il suo fidanzato: per la prima volta, voleva godersi il momento senza che alcuna minaccia o compromesso lo guastasse, e assaporarlo in tutte le sue sfumature, per quanto fosse fittizio.
Vivian emise un gemito di sorpresa e di piacere allorché la bocca bramosa di Erik incontrò la sua, smorzando una risposta che non avrebbe mai potuto dare, ma non si irrigidì, non lo spinse via, non mostrò il timore classico di una fanciulla al suo primo bacio. Sicuramente, era dovuto alla sua natura di miraggio.
Gli circondò invece impetuosamente il collo con le braccia, facendo aderire i loro corpi frementi e desiderosi in un tutt’uno, e dischiuse prontamente le labbra, insinuando la lingua nella bocca di lui. Sapeva cosa doveva fare senza aver ricevuto alcun insegnamento di sorta, spinta dalla marea che li aveva avvinti entrambi, dalla forza di un sentimento che davano e ricevevano in egual misura.
La lingua di Erik la esplorò alla ricerca di un rifugio tiepido al freddo che sentiva dentro e le sue dita scivolarono sulla sua pelle bollente con desiderio disperato, dita che non avevano mai osato sfiorare una donna, saziarsi di lei, esprimere appieno il dolore della sua eterna solitudine. Vivian non palesava alcun accenno di disgusto, le sue carezze parevano accenderla ancora di più, risvegliare il suo sangue e la sua lussuria, farla tremare di piacere. Lo baciava con frenesia, le labbra rosse e doloranti, in una maniera totalmente diversa da quella che egli aveva sperimentato con Christine. Allora c’era stato solo un insipido incontro di labbra obbligato dalle circostanze e dal ricatto che aveva ordito, adesso nessuno dei due agiva per un motivo preciso e le loro mosse non avevano alcunché di sensato.
Lei gli lacerò la camicia, mettendogli a nudo il petto. Passò le piccole mani sui suoi muscoli ed Erik gemette, travolto da una felicità così grande, così insopportabile, che temette di morire. Non doveva reprimere ciò che volevano il suo cuore e la sua anima, non doveva temere il dolore di un rifiuto: capiva, dalla dolce bramosia con cui Vivian lo baciava e dal prorompente desiderio con cui lo toccava, che ricambiava i suoi sentimenti ed era pronta ad accoglierli.
Le sue labbra la ricoprirono di baci grati e frenetici, che andarono a posarsi sulle palpebre, sulla punta del naso, sugli angoli della bocca, sulla tenera carne del collo e infine sul seno, morbido e ansante, i capezzoli turgidi per il desiderio. Ella aveva le contusioni provocate dal laccio all’altezza della gola: com’era possibile? Come poteva averla immaginata provvista del segno tangibile della sua colpa? Si ritrasse, confuso e spaventato, ma lei lo attirò nuovamente a sé, carezzandogli i capelli e le piaghe: “Shh, va tutto bene, tutto bene”.
“Tu non…”
“Sono qui, Erik” Vivian parlò con voce leggermente roca, posando un bacio lungo e profondo sulla parte piagata del suo viso: “Sono qui con te”.
Egli comprese. Non era un miraggio. Non era un’immagine fittizia partorita dalla follia e dal dolore di averla persa. La ragazza abbandonata tra le sue braccia, il corpo nudo e fremente curvo sul suo petto, era la vera Vivian, viva, calda, nuovamente colma del fuoco che adesso condividevano entrambi. Il destino gliel’aveva restituita, gli aveva concesso di rimediare agli errori del passato, di salvare entrambi dai loro demoni…se avesse creduto in qualche dio, in quel momento l’avrebbe ringraziato con tutto il suo cuore.
“Sei qui” sussurrò tra i suoi capelli, chinandosi così tanto su di lei da confondere le lacrime di tutti e due in un unico pianto: “Sei viva!”
Lei sorrise, prendendogli una mano e posandosela sul seno: “Ho vinto. Adesso mi terrai con te”.
Erik non voleva più resisterle. Era pronto ad ammettere la sconfitta più dolce della sua vita, a lasciare che il liquore bollente e inebriante dell’amore gli entrasse in circolo, sbiadendo ogni cosa intorno a loro. Gli occhi di Vivian brillavano di una luce calda ed intensissima, entravano nei suoi fino a raggiungere un’anima di cui finalmente era consapevole, lo invitavano a scoprire un universo di delizie che non aveva mai conosciuto prima, in cui c’era spazio per la felicità, il riso, il sole e persino…il vero amore.
Lo esplorarono insieme, scrutandosi da principio come due belve affamate  e scegliendo strategie di attacco e di difesa che avrebbero portato ad una sola conclusione, perché l’attacco era invincibile e la difesa non aspettava altro che crollare. Tutto venne accantonato e dimenticato per far spazio al loro desiderio selvaggio e incontenibile, celebrato sul pavimento, sul letto, in piedi o aggrappati ai drappi…il fuoco che li alimentava e che divampava ad ogni bacio, ad ogni carezza, ad ogni languida parola sussurrata contro la pelle, li arse fino a consumarsi del tutto e per la prima volta nella loro intera, buia e amara esistenza, compresero cosa volesse dire essere davvero amati.

 

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Capitolo 20
*** Apparenza ***


Apparenza

 
 
 
 
 
Calma.
Dopo tante notti trascorse tra mille paure e ansietà, dopo tanti incubi, Vivian cadde in un sonno profondo e senza sogni, un sonno riposante e tranquillo che la trascinò in un limbo oscuro e ve la tenne durante le ore del riposo, meravigliosamente quieta e pacifica. Il baldacchino era morbido sotto il suo corpo e le braccia di Erik che la avvolgevano protettive la riscaldavano piacevolmente. Aveva appoggiato la testa sul suo petto ampio e tiepido, cullata dal poderoso battito del suo cuore, e lui le aveva accarezzato dolcemente i capelli finché non si era addormentata, deliziosamente esausta dopo le ore di sfrenato amore appena trascorse. Nel ventre era rimasto un fremito caldo così dolce da annullare il lieve bruciore in mezzo alle gambe.
Era piena di Erik, satura del suo corpo e del suo respiro caldo, delle sue carezze e dei suoi baci che avevano risvegliato una femminilità mai creduta esistente e che l’avevano portata a dimenticare ogni cosa che non fosse lui, i muscoli saldi della sua schiena, la sua lingua bollente nella bocca, la soffice consistenza dei capelli a cui le sue dita si erano avvinghiate, il color zaffiro dei suoi occhi che la fissavano bramosi. Si era unita a lui non soltanto carnalmente, mentre i loro corpi si congiungevano in una gioia incontenibile anche le loro menti avevano trovato la pace, si erano capite in modi tanto profondi e autentici che non ne avrebbe potuto spiegare la dinamica, sapeva soltanto di aver percepito improvvisamente lo scorrere dei suoi pensieri come se le fossero propri e di aver condiviso con lui tutta se stessa. Si erano offerti all’altro completamente, e l’atto sessuale aveva suggellato qualcosa di eterno e indissolubile.
Come aveva potuto rinnegare una simile felicità? Come aveva potuto rifuggire la gioia di un rapporto così completo e gratificante, in cui nessuna delle finzioni di sua madre trovava spazio? Era stata una folle a negarsi l’amore, a giudicarlo in base ad una sola esperienza, ma ringraziava il cielo di aver evitato di caderne vittima in passato, perché in quel caso non avrebbe mai incontrato Erik. E una parte di lei aveva l’assoluta certezza d’essere destinata a lui e a lui soltanto, a quell’uomo unico e geniale che aveva scacciato i demoni del suo passato e l’aveva riportata alla vita e al desiderio con un semplice bacio, con un respiro soffiato in bocca che l’aveva liberata da tutti i suoi vincoli. Le apparteneva e lei apparteneva a lui. Nessuno l’avrebbe messo in discussione, e se per caso ci avessero provato, li avrebbe costretti a rimangiarsi tutto. Christine Daaé poteva andare gentilmente al diavolo.
Il profumo selvaggio e salato della sua pelle fu la prima cosa che percepì al risveglio. Erano nudi sul baldacchino devastato, ai cui piedi ricadevano le coperte stropicciate e calpestate, i guanciali strappati dalla forza della loro passione, stretti l’uno all’altra sul materasso bollente, e i capelli corvini di Vivian si spargevano sul petto di Erik come scampoli di seta, intrisi di sudore e adornati da qualche piuma. Puntò i gomiti contro il suo torace, sperando di coglierlo nella vulnerabilità del sonno, ma incontrò invece le sue iridi azzurro scuro, sveglie e dolci come non erano mai state, che la guardavano come se fosse stata un tesoro di inestimabile valore, capitato inaspettatamente tra le sue mani indegne.
Lusingata e imbarazzata insieme, tirò fuori un piccolo sorriso: “Buongiorno”.
Lui glielo restituì immediatamente e con sincera gioia. Non si era rimesso la maschera, un gesto assai significativo; probabilmente il fastidioso oggetto era da qualche parte lì intorno, scagliato lontano da loro con tante altre futili cose: “È bello guardarti dormire”.
La giovane arrossì: “Tu non lo hai fatto?”
“Non volevo che i ricordi di questa notte sbiadissero tanto presto”.
L’uomo aveva parlato un po’ goffamente, rivelando senza volerlo la scarsa familiarità che aveva con la situazione, ma il suo imbarazzo suscitò in Vivian un’ondata di prorompente tenerezza. Il freddo, controllato Fantasma dell’Opera cercava di esprimerle i suoi sentimenti, di mostrarle il suo amore, e cadeva vittima di un’insicurezza che non aveva mai palesato prima. D’impulso, avvicinò il volto al suo e lo baciò impetuosamente sulle labbra, ritrovandovi quel delizioso sapore di cui si era riempita durante la notte. Egli approfondì immediatamente il bacio, serrandola al petto e insinuando le mani tra i suoi capelli, e il corpo di Vivian reagì all’impetuoso abbraccio, accendendosi. Avrebbe voluto sentirlo dentro di sé di nuovo, sfogare un fuoco che non si era affatto chetato, ma si costrinse ad allontanarsi da lui. Le braccia di Erik la lasciarono andare con riluttanza.
La ragazza si chinò e raccolse una coperta da terra, avvolgendosela sulle spalle. Sentiva addosso lo sguardo dell’uomo, intenso e penetrante, e finse di pettinarsi i capelli con le dita per non essere costretta a guardarlo e a cedere al desiderio: “Erik, io…”
“No” lui la interruppe con impeto, alzandosi dal letto dopo essersi infilato i calzoni alla spicciolata e raggiungendola rapidamente. Vivian dovette forzarsi a guardarlo in volto, poiché la tentazione di abbassare lo sguardo era insostenibile come mai prima. Lui era…bellissimo. Il suo corpo alto e muscoloso le ispirava un senso di protezione, la spingeva a cercare rifugio tra quelle braccia lisce e possenti e a seppellire il viso sull’ampio torace, i suoi capelli lucidi la invitavano ad immergerci le dita e i suoi occhi fiammeggianti la catturavano, facendo crollare ogni difesa. Le piaghe, l’orrore della deformità, erano ormai svanite dalla sua considerazione: c’erano, ma non le percepiva più. Era capace di questo, l’amore? Di chiuderle gli occhi e di farla guardare con l’anima? Di renderla indifferente a qualsiasi orrore?
“Ascolta, Vivian” Erik parlò con sorprendente fermezza, prendendole le mani e stringendole con affetto disperato. Per quanto il suo tocco fosse ardente, era mitigato da un curioso timore, quasi lei fosse stata qualcosa di delicato, squisito e prezioso, che egli temeva di rompere da un momento all’altro: “Non voglio legarti a me senza che tu sia consapevole di chi sono veramente. Ho commesso questo sbaglio con Christine e non intendo ripeterlo con te. Ho ucciso delle persone. A mia discolpa posso dire di averlo fatto, nella maggior parte dei casi, per difendere me stesso o per vendicare qualche torto, ma non è andata sempre così. A volte, ho tolto la vita a degli innocenti, perfino a delle donne”.
Ecco dunque la confessione che tanto fortemente aveva desiderato quando si era stabilita nella Dimora sul Lago. Ripensando al proprio piano di allora, alla smania di punire il fantasma per i suoi crimini e di consegnarlo alla giustizia, provò una sorta di amara ironia. Adesso sarebbe stata disposta a vendere tutto ciò che aveva di più caro, pur di tenerlo lontano da coloro che lo volevano morto o rinchiuso: “Il mondo non è stato buono con te, Erik. Si può dire che le ingiustizie e i soprusi di cui sei stato fatto oggetto abbiano giocato una parte fondamentale nelle tue azioni successive”.
“Ma il risultato non cambia” le sfiorò il viso, come se non riuscisse ad allontanarsi da lei, e chiuse gli occhi in un’espressione rabbiosa e sofferente: “Presumo che tu sappia benissimo di avere la possibilità di scegliere un uomo più degno di me con cui trascorrere la vita. Qualcuno che non sia sfigurato, e che non abbia idea di cosa vuol dire guardar morire un essere umano”.
“Sprechi fiato e basta” la giovane sbuffò, esasperata: “Io mi sono innamorata di te, Erik. E non ti amerei se non fossi indisponente, freddo, arrogante, volubile e geniale. Non ho nessuna intenzione di lasciarti per uno di quegli idioti là fuori. Sono tutti così…uguali” fece una smorfia di ripugnanza, immaginandosi a letto, nuda come adesso, tra le braccia di un giovanotto come Antoine: “Il mio posto è al tuo fianco, monsieur F!”
Egli fece un piccolo sorriso, sentendosi chiamare con l’antico soprannome: “Sei sicura che la mia deformità non avvelenerà mai il nostro rapporto?”
“Conosci già la risposta. Credo di avertela data piuttosto esplicitamente stanotte, ma se non ti basta posso benissimo…” tenne a freno la sua lingua impudente appena in tempo, mordendosela con ferocia. Era sicura che lui la amasse, ma non aveva cessato di far paragoni con la pudica Christine e non voleva sembrargli una sfacciata, sebbene bruciasse dalla voglia di toccarlo.
Erik reagì facendo qualcosa di sorprendente: scoppiò a ridere. Da che ricordasse, Vivian non aveva mai udito la sua risata in dieci giorni di convivenza, né qualcosa che le assomigliasse anche solo lontanamente, e si sentì ridicolamente felice e soddisfatta d’essere riuscita, infine, a strappargliene una. Aveva un suono magnifico: era forte e melodiosa come uno strumento.
“Dovresti ridere di più” la sua lingua non ne voleva sapere di star zitta: “È bello”.
Lui scosse la testa: “Siete una ragazza alquanto strana, mademoiselle Leroix” fece eco, scherzosamente, a parole già pronunciate in un passato che appariva così lontano: “Ve l’hanno mai detto?”
“Senti da che pulpito!” Vivian si prestò volentieri al gioco: “Non sono io quella che continua ad avere dubbi dopo aver passato la notte a far l’amore!” finse di volergli dare uno schiaffo, che egli evitò afferrandole il polso, mentre entrambi ridevano, creando una melodia più bella di qualsiasi canzone, e si guardavano con occhi brillanti e allegri. La ragazza si sentiva piacevolmente leggera, viva e autentica per la prima volta. Non provava più alcun rimorso per aver macchinato di tradirlo, poiché le sue opinioni in merito erano cambiate in modo così radicale che non c’era alcun bisogno di indugiare inutilmente nel passato. Avevano un intero futuro per rimediare ai loro errori, una valanga di nottate da trascorrere come la precedente e di momenti in cui giocare così dolcemente, come se, proprio loro, non avessero alcuna preoccupazione al mondo. Non aveva intenzione di rovinarseli rammentando i motivi che l’avevano spinta ad accostarsi all’uomo che amava.
“Promettimi che mi terrai con te, Erik” sussurrò quelle parole con i suoi ultimi residui di timore, il corpo ad una spanna da quello di lui, le mani strette alle sue nella foga della lotta scherzosa, gli occhi dentro a quelli azzurro scuro: “Giurami che mi amerai come adesso, che non sono per te…un contentino”.
Se l’aveva accettata per quel motivo, per avere accanto un pallido riflesso di Christine, se aveva ricambiato i suoi baci e le sue carezze poiché non aveva nessun’altra con cui poterlo fare, le si sarebbe spezzato il cuore. Voleva essere amata per quella che era, per il suo carattere e le sue stranezze, e non avrebbe tollerato che questo. Se Erik l’aveva salvata solamente per sentirsi meno solo, sarebbe scomparsa per sempre dalla sua vita, anche se lo amava con tutta se stessa. Si proibiva di calarsi in un ruolo che non le apparteneva.
Lui reagì con inaspettato vigore. L’afferrò per il mento, costringendola a guardarlo dritto in viso, ed ella si stupì moltissimo vedendo sui lineamenti di Erik un’espressione rabbiosa e decisa: “Nessuno a parte te sarebbe mai riuscito a riportarmi in vita e a farmi apprezzare delle gioie che avevo abbandonato per sempre. Prima di incontrarti, Vivian, ero un morto che cammina. Un fantasma nel vero senso della parola. Dopo che Christine…dopo che se n’era andata con il suo visconte, persi me stesso. Non avevo più un nome, non rammentavo più la mia identità…” rise amaramente: “Il mio nome…sai che sono stato io stesso a darmelo? Ho scelto il nome Erik a caso. Se mia madre mi chiamava in altro modo, non lo ricordo. Gli zingari, d’altronde, usavano solo l’espressione Figlio del Diavolo. Ma in quei mesi…in quei mesi avevo dimenticato perfino questa specie di identità. Ho vagato in lande che non riconosceresti mai, mangiando cibo senza sapore e dormendo dove mi capitava, nella lordura, tra le bestie, in gelide caverne sulle montagne. Ero a pezzi, lacerato, consumato in modi che neanche immagini.
“Il Fantasma dell’Opera, la mia dannazione e la mia salvezza, giunse in mio aiuto nell’oscurità e mi rimise insieme, saldando i brandelli con l’odio e la sete di vendetta. Si impossessò completamente di me e mi indicò una strada nella desolazione che mi circondava, ingiungendomi di seguirla e di fidarmi di lui. Trascinando il mio corpo pesante, obbedii alla sua voce insinuante e mi diressi dove voleva, facendomi strada a fatica nella nebbia e nella macchia intricata di foreste intoccate da mano umana. Camminai per giorni, incitato da lui, consapevole solo della direzione che mi indicava con un lembo del suo immenso mantello, e alla fine riconobbi, nel chiarore della neve, Parigi e il teatro dell’Opera. Cercai di oppormi. Non volevo che la tragedia si ripetesse, non avevo la forza di ricominciare tutto daccapo, ma ero…debole. Così debole. Ero riuscito a scacciarlo dalla mia anima quando avevo lasciato andare Christine e il suo fidanzato, lacerando la cortina delle menzogne che mi sussurrava all’orecchio per giustificare le azioni che mi spingeva a compiere, ma lo sforzo era stato troppo grande. E quel demone…non muore…mai”.
Mentre raccontava queste cose, Erik era avvolto da un tormento così forte che se Vivian avesse avuto un copricapo, se lo sarebbe senz’altro tolto in segno di rispetto per quell’uomo che, scrollando le spalle, con le mani sul petto, pareva combattere contro un lato di se stesso che gli gridava di fermarsi.
“Mi disse che la nostra mano giudicatrice doveva calare sul teatro dell’Opera e salvare l’umanità da se stessa. Che era nostro dovere, e non piacere, recidere gli esemplari appassiti, per sollecitare la nascita di altri più degni…sempre che esistessero. Che la vendetta sarebbe stata la nostra compagna di letto. Era così facile credergli, e senza Christine…senza amore…come potevo resistere?!” la sua voce crebbe di volume, gli occhi che si sollevarono su di lei bruciavano come tizzoni ardenti: “L’ho ascoltato. No, è diverso…gli ho ceduto letteralmente il posto. In questo modo, non avevo neanche bisogno di motivi per proseguire con la mia opera. E non dico questo per discolparmi dai miei crimini, per apparire ai tuoi occhi come una vittima innocente. Presumo che tu conosca la credenza secondo la quale il male lo devi sempre invitare a entrare. E io gli avevo lasciato la porta spalancata. All’epoca ero solo un ragazzino, è vero, ma non sai cosa significa essere percosso ogni giorno incessantemente, essere esposto allo scherno generale, vedere gli esseri umani solo come una massa di facce grottesche che ridono…ridono…ridono…
“Il Fantasma dell’Opera è stato con me da allora. Oh, mi portava anche numerosi vantaggi, è innegabile. Le mie creazioni più mirabili e crudeli mi sono state ispirate da lui, tu hai avuto persino il privilegio di provarne una sulla tua pelle, la Stanza della Sfinge. Ma anche la Camera dei Supplizi, il trucco della Sirena, la cavalletta e lo scorpione, è stato tutto concepito da lui…da me…da noi. Soltanto nella musica, la più pura forma di arte, mi liberavo completamente di lui ed ero solo con me stesso”.
Vivian non poté fare a meno di ricordare l’espressione calma e pacificata che si diffondeva sui tratti di Erik quando suonava o cantava.
“La notte del Re degli Elfi, lui ha mosso il mio corpo e mi ha fatto recidere la corda che teneva il lampadario appeso al soffitto. Io glielo permettevo, attenzione, non opponevo alcuna resistenza. Ha riso quando quei corpi terrorizzati sono stati sepolti dalla sua mole, e ridevo anch’io con lui. Era mio diritto, diceva, era ciò che meritavano quei parassiti. Ero talmente svuotato da non aver bisogno di altro. Ma con te è stato diverso, fin dall’inizio, tu hai rappresentato senza volerlo l’ostacolo più grande per quel demone. Forse è per questo motivo che mi infastidiva così tanto l’idea di vivere con te per dieci giorni…forse, in fondo, avevo paura…chi può dirlo? Ma ti ho lasciata andare. Rammenti? Quando ti sei introdotta senza permesso nella mia dimora e ti ho colta sul fatto, non ti ho uccisa, anche se lui mi imponeva di farlo. Eri alla mia mercé, completamente indifesa, potevo strangolarti da un momento all’altro, e in effetti era ciò che voleva la mia mente. Ma quando, con quel disprezzo, mi hai spronato a portare a termine quanto avevo cominciato, quando hai detto che non ti aspettavi niente di meglio da me…ho desistito. Avrei dovuto capire allora cosa avresti rappresentato per me, quanto ti avrei amato.
“Ma il Fantasma dell’Opera ti odiava, Vivian. Con tutto il cuore. Ti odiava perché sapeva perfettamente che miravi alla sua rovina, alla distruzione totale delle menzogne e degli alibi che mi propinava ogni giorno. E il Fantasma dell’Opera è una parte di me. Perdonami per tutte le occasioni in cui ti ho derisa e trattata ingiustamente, per averti sottoposta alla prova della Sfinge e per aver lasciato che ti facessi…questo” gli tremò la voce, mentre sfiorava, con delicatezza timorosa, i segni violacei sul collo: “Ho voluto tenermi accanto il Fantasma dell’Opera fino all’ultimo, negando cosa provavo per te. E forse sarebbe riuscito perfino a vincere, a farti morire, ma tu ti prendevi gioco di lui, chiamandomi monsieur Fantòme, tenendomi testa ogni volta… non pensare mai che ti voglia accanto per avere ciò che Christine non mi ha dato. Lei non è mai stata capace di contrastare i miei demoni, era troppo ingenua, troppo cieca, troppo spaventata. E quando mi baciò, non fu per lei che ritrovai la ragione, ma per il suo canto, per le dolci parole che intonò prima di incontrare le mie labbra…forse amavo solo la sua voce, poiché solo quella risvegliava il mio cuore.
“Ma tu non hai avuto bisogno di nulla, né della musica né delle belle parole, per fronteggiare il mio lato oscuro. Lo hai fatto in quanto Vivian, utilizzando tutte le tue caratteristiche, ed è per questo che ti amo davvero. Probabilmente più di quanto tu ami me…ma ti prego di credermi”.
La ragazza non sapeva cosa dire. Una nebbia acquosa le aveva offuscato la vista, e l’asciugò prima che potesse tramutarsi in lacrime. Dunque, aveva realmente dato qualcosa ad Erik, aveva rappresentato per lui la salvezza, la luce, il bene…non era sicura di esser degna del ruolo che le aveva conferito. Sarebbe riuscita, in futuro, a rimanere per lui una speranza, a dimostrarsi la giusta compagna per quell’uomo complicato e diverso da ogni altro? Spesso si era sentita più adulta della sua età, ma adesso avvertiva addosso i suoi miseri diciotto anni, la sua giovinezza, la sua immaturità, la sua incapacità di comprendere appieno le dinamiche di una mente stanca e antica.
Ma non era, in fondo, ciò di cui Erik aveva bisogno? Gli slanci di una maturità precoce, mescolati però all’allegria e alla spensieratezza dei suoi diciotto anni? L’aveva fatto ridere, aveva giocato con lui con estrema naturalezza ed aveva avuto l’impressione di averlo liberato da un peso, di aver rimosso dal suo cuore parte dell’oscurità che si portava appresso. Non doveva farsi donna del tutto per portare avanti efficacemente il loro rapporto, poiché era della sua giovinezza che egli necessitava.
“Il Fantasma dell’Opera non se ne andrà mai del tutto, Vivian” Erik le strinse le spalle con forza, nel tentativo di imprimerle il messaggio in testa: “Ci saranno momenti in cui sarai costretta a combatterlo insieme a me, ed io mi conosco fin troppo bene, so già che…” chiuse gli occhi, i lineamenti distorti in una smorfia di dolore: “So già che sarò estremamente geloso di te e che sarò tentato di tenerti tutta per me, che temerò in ogni momento di perderti e che capterò segni di un imminente abbandono anche dove non ve ne saranno affatto. Queste rivelazioni potrebbero allontanarti da me, lo so bene, ma è giusto che tu sappia. Vuoi ancora essere la mia compagna?”
Non osava guardare in volto la ragazza. Ma non c’erano tracce di paura, di orrore o di incomprensione negli occhi castani di lei, nell’espressione del suo viso rotondo. Scosse appena la testa, curvando le labbra in un sorriso sincero e consapevole, e prese tra le mani le guance di Erik, quella liscia e quella frastagliata, scostandogli dolcemente una ciocca di capelli da davanti agli occhi: “Io sono estremamente lunatica”.
Lui alzò un sopracciglio, disorientato dall’inaspettata risposta: “Come?”
“Sì, lunatica. Mi sveglierò al mattino con un umore magnifico e ti trascinerò a fare lunghe passeggiate e a provare nuove esperienze, poi per un qualsiasi motivo, magari un pasto scadente, o un battibecco con un passante, o anche solo un piccione che mi intralcia la strada, crollerò di punto in bianco in un nervosismo ingiustificato e me la prenderò con te, oppure ti costringerò a tornare a casa perché ho deciso che non mi piace più la nostra destinazione. Ci saranno momenti in cui chiacchiererò senza interruzione per ore, per poi zittirmi di colpo e piombare in uno stato passivo. Peraltro dovrai cucinare tu, non sono capace nemmeno di cuocere un uovo, e sono una pessima massaia. Queste cose possono sembrarti stupide in confronto al tuo dilemma interiore, ma ti assicuro che hanno il loro calibro. Per me, penso che lo scambio sia equo. Che ne dici?”
La risata squillante di Erik fu una risposta sufficiente, ma se anche la giovane avesse avuto dubbi, scomparvero totalmente quando la prese tra le braccia e la baciò.
“Vestiti” le sussurrò all’orecchio dopo aver staccato le labbra dalle sue: “Voglio portarti a fare un giro in gondola, come l’altra sera”.
Lei sorrise e gli baciò i palmi delle mani, incapace di separarsi da lui in modo troppo traumatico: “D’accordo”.
L’uomo uscì dalla stanza per lasciarle un po’ di intimità e Vivian lo seguì con occhi sognanti finché non voltò l’angolo, ogni fibra del corpo desolatamente attratta da lui e da ciò che lo riguardava. Non se ne era mai accorta in passato, ma aveva un meraviglioso modo di camminare, sostenuto ma silenzioso ed elegante, con un fascinoso ondeggiare delle braccia. Ed era suo. La parola le risuonò nel cervello varie volte, talmente assurda, talmente bella, che quasi non ne accettava completamente il senso. Non amava più quella smorfiosa boccoluta dalla voce di sirena, amava lei. Lei! Improvvisò una goffa piroetta, ridacchiando tra sé e sé, si scompigliò i capelli già scompigliati in un inconsulto gesto di eccitazione gioiosa e si lasciò cadere all’indietro sul letto, sollevando un polverone di piume candide. Si rotolò sulle lenzuola bollenti dimenando allegramente le gambe e si passò la punta delle dita sulle labbra che solo pochi minuti prima avevano provato il vanto di incontrare quelle di Erik, delusa che non ci fosse qualcuno, lì intorno, a cui rivelare la stupenda verità, ossia che lo amava più di ogni altra cosa e che finalmente erano insieme davvero.
Tirò fuori dal baule un abito bianco e se lo infilò dalla testa, lasciando che il lino purissimo le scivolasse sino alle caviglie. Di solito detestava il bianco, era convinta che conferisse un aspetto troppo sacrale, ma quella era proprio l’occasione giusta per vestirsi di quel colore. Si pettinò vigorosamente i capelli finché non li ebbe domati a dovere e se li legò con un nastro candido in una coda fluente, districando alcuni riccioli e sistemandoseli ad incorniciare l’ovale del volto. Voleva essere bellissima per Erik, lasciarlo a bocca aperta, e in quel momento lo era davvero, illuminata dalla gioia, dalla radiosità e dall’amore, che donavano ai suoi lineamenti un fascino nuovo e le facevano brillare gli occhi come non mai.
Egli la stava aspettando sulle rive del lago Averno, nuovamente abbigliato dei suoi indumenti di seta e pelle nera e con la maschera a coprirgli metà del volto. La giovane si lasciò sfuggire un sospiro esasperato, riflettendo che quella sua mania di girare nascosto dietro la bianca patina sarebbe stata assai più restia a scomparire. Indubbiamente non temeva più di disgustarla o atterrirla con il suo aspetto, dal momento che in sua presenza aveva evitato di coprirsi, ma il suo approccio con la gente in generale era ben diverso. In ogni caso, avrebbe utilizzato ogni mezzo per persuaderlo a mostrare orgogliosamente le sue sembianze in giro e a gettare definitivamente l’odiosa maschera. Non aver paura del giudizio degli altri era il primo passo verso l’accettazione da parte del mondo. Certo non si sarebbero mai potuti presentare ai balli o alle feste e avrebbero dovuto fare attenzione a non menzionare il loro passato, ma entrambi non amavano affatto la vita mondana e ne avrebbero fatto a meno di buon animo.
Allungò una mano ed Erik la prese immediatamente, osservandola con sincera ammirazione: “Sei bellissima”.
Lei simulò un cipiglio severo: “E tu un bugiardo coi fiocchi”.
La aiutò ad issarsi sulla gondola e stavolta si accomodò al suo fianco, passandole un braccio intorno alla vita con una certa esitazione e avvicinandola a sé. Vivian accettò la prossimità di buon grado, posando la testa sulla sua spalla: “Remeremo insieme, stavolta”.
Lui parve contrariato: “Non se ne parla. Farei una pessima figura come gentiluomo se ti lasciassi svolgere una simile incombenza”.
“Erik” la ragazza levò gli occhi al cielo: “Se vuoi andare d’accordo con me, mettiti in testa fin da subito che non ho intenzione di essere trattata come se fossi di vetro. Sono una donna forte e sana perfettamente in grado di aiutarti a manovrare questa barca, o di fare qualsiasi altro lavoro manuale, chiaro?”
Egli aprì la bocca, ma la richiuse senza dir nulla. Lo sguardo di Vivian era così risoluto, le sue piccole mani così salde sul remo di cui si era prontamente impadronita, che ogni possibile obiezione morì sul nascere e venne sostituita da un rassegnato cenno d’assenso col capo: “Come preferisci. Lo dicevo per non farti affaticare”.
Lei si ammorbidì: “Lo so. Ma voglio che non ci siano differenze tra noi. Anche nelle conversazioni. Se esprimerò le mie idee, gradirò che tu le prenda in considerazione e che non le giudichi sciocche o insensate”.
“L’ho mai fatto?”
“Di solito apri bocca molto raramente”.
La strinse di più, godendo del calore del fianco morbido nella sua mano e del profumo dei suoi capelli: “Va bene. Ma sappi che non ho mai fatto distinzione tra uomini e donne. Non mi considero affatto superiore mentalmente a voi”.
Lei gli diede uno scherzoso colpetto sul naso: “Buon per te”.
Reggendo un remo per uno, lo affondarono nell’acqua scura e gelida e la gondola si staccò dal piccolo molo con un cigolio, imboccando gli stessi tunnel sotterranei che l’avevano condotta fuori dal teatro due notti addietro, nella solitudine di Rue Scribe. Le torce appese ai muri di pietra erano l’unica fonte di illuminazione che permetteva loro di orientarsi (in realtà, Erik sarebbe riuscito a ritrovare la strada anche nella completa oscurità) e Vivian si affidava totalmente al suo compagno, remando quando egli remava e voltando la barca ad una sua indicazione. L’acqua che andava a domare era assai recalcitrante e i muscoli delle braccia le dolevano un poco, ma non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura, ed era contenta di contribuire all’incerto viaggio della splendida gondola. Il timore e il disagio provato in passato in quell’atmosfera di immobilità fuori dal tempo, in quella caligine pressante e in quel buio costellato di piccole luci rosse, avevano cessato di opprimerla ed era tranquilla come lo sarebbe stata in uno scenario più ameno.
“Stavo pensando…” Erik, che non le aveva tolto il braccio dai fianchi e che si serviva della sola mano sinistra per svolgere il suo compito, ebbe una leggera esitazione nel rompere il silenzio dei tunnel, e Vivian lo sollecitò con tono animato: “Sì?”
“Ti…ti piacerebbe fare un viaggio?”
Smise di manovrare il lungo remo e l’andatura della gondola rallentò a poca distanza dall’uscita dei sotterranei: “Un viaggio?”
Lui distolse leggermente il viso, come se una simile proposta lo imbarazzasse: “Sì, un viaggio. Al mondo esistono tanti luoghi degni di essere visitati e sarebbe un delitto restare confinati per anni nei sotterranei. Parigi è molto bella, certo, anzi, è una delle più belle città che abbia mai visto, ma perché negarsi la possibilità di operare un confronto con Roma, Vienna, San Pietroburgo o Barcellona? Sono sicuro che trarresti un godimento immenso dall’ammirare queste meraviglie, e potremmo perfino spingerci nel lontano Oriente”.
La ragazza sgranò leggermente gli occhi, il cuore che batteva forte nell’esile cassa toracica. Non era mai uscita dalla Francia, il suo basso ceto sociale non lo aveva reso possibile. Suo padre aveva spesso affermato che se avesse avuto il denaro necessario, non avrebbe esitato un attimo a girare il mondo e a recarsi nei panorami più selvaggi, raggiungendo persino il Nuovo Mondo, e lei si era fatta influenzare ben presto dal suo istinto di viaggiatore, fantasticando su savane popolate da minacciosi turchi, fiordi argentati e piramidi egizie. Poter ammirare tutto questo insieme ad Erik, realizzare un sogno che suo padre non aveva mai potuto tramutare in realtà sarebbe stato così…
“Sarebbe…” sussurrò: “…magnifico. Dici sul serio?”
L’esitazione di lui si dissolse in un sorriso e si curvò a baciarla sulla fronte: “Certo. Temevo che avessi paura di recarti così lontana dal tuo paese di origine”.
“Assolutamente no!” le venne fuori un mezzo grido, mentre si drizzava con impeto, il viso acceso di eccitazione: “Anzi, desidero partire al più presto! Quanto tempo abbiamo a disposizione per il viaggio?”
“Tutto quello che vogliamo” ribatté l’uomo, ugualmente preso dal progetto: “Anche anni, se così ci aggrada”.
“Anni!” la giovane si portò una mano alla bocca, tremante: “Ma allora potremo visitare moltissimi luoghi! Dobbiamo senz’altro recarci in Italia, pare sia la patria delle belle arti, poi in un paese nordico, l’Inghilterra, forse? Oppure l’Austria? La Russia? Non riesco a decidermi! E mio padre mi parlava in toni così entusiasti del Nuovo Mondo…so che la distanza è molta, ma…”
“Nessuna distanza sarà insormontabile. Viaggeremo quanto vorremo, ovunque vorremo, finché non ci stancheremo e non faremo ritorno a Parigi… sempre che nel corso della nostra traversata non ci capiti di trovare una casa più adatta di questa”.
“Ricominceremo da capo…” mormorò Vivian. Stentava a credere nell’esistenza di una simile felicità. E anche Erik rabbrividì, incredulo che una prospettiva del genere fosse per lui possibile: “Ricominceremo da capo”.
Una voce aspra interruppe brutalmente quei progetti audaci: “Fermi dove siete!”
Restarono paralizzati dalla sorpresa e dallo sgomento, colti completamente di stucco nel momento meno propizio, mentre si abbandonavano a sogni mai concessi prima e non erano consapevoli di nulla, fuorché dell’altro. Erik, che non permetteva mai a nessuno di avvicinarglisi senza che se ne accorgesse con largo anticipo, prendendo i dovuti provvedimenti, che aveva un udito e una vista di gran lunga superiori a quelli di qualsiasi altro essere umano, si era concesso per un attimo di abbassare la guardia, rassicurato dal silenzio e dalla pace circostanti, e di concentrarsi totalmente sulla giovane al suo fianco, perciò la secca esortazione ebbe su di lui l’effetto di una doccia fredda e lo portò ad irrigidirsi da capo a piedi e a volgersi tempestivamente con un ringhio roco che gli sfuggiva inavvertitamente dalle labbra. Vivian, dal canto suo, si lasciò scivolare la voce aspra nelle vene, il cervello che tentava disperatamente di registrare quel nuovo avvenimento, e fu assalita da un’improvvisa sensazione di panico e di orrore, che le chiuse la bocca dello stomaco ed eliminò il colore dalle sue gote. Conosceva il proprietario di quella voce. Non osava neanche pronunciare il suo nome.
“No!” avrebbe voluto gridarlo a squarciagola, ma le uscì un miserevole bisbiglio.
Erano circondati da soldati.
 
La gondola era emersa dall’imboccatura che collegava il tunnel con Rue Scribe nella potente luce del sole parigino ed aveva trovato ad attenderla un vastissimo “comitato di benvenuto”. Su entrambe le rive della Senna, appostati con le balestre puntate verso di loro e con le frecce impeccabilmente incoccate, uomini abbigliati della rigorosa divisa della gendarmerie di Parigi scrutavano le loro due prede con occhi implacabili e sprezzanti, aspettando con ansia, o almeno così sembrava, l’ordine di tirare la loro selva di dardi da parte del comandante, un cinquantenne imponente che montava un corsiero bianco con tanto di speroni e che esibiva con orgoglio il tipico cappello a tesa larga da cui spuntavano due folte basette. A differenza dei suoi subalterni, egli impugnava un moschetto, anch’esso puntato nella loro direzione, ed era inoltre fornito di un lungo fucile appeso sulla schiena.
Ad un suo cenno imperioso, un gendarme posizionato accanto all’entrata del tunnel girò a fatica una grossa manovella in ferro e il passaggio venne ostruito da una parete irta di sbarre che s’abbassò con clangore metallico e ricadde pesantemente alle spalle della gondola, inondandola di schizzi. Erik ebbe un sobbalzo e si voltò con un movimento felino verso la fonte del tonfo, le movenze analoghe a quelle di un leone che non concepisce di essere caduto nella trappola dei cacciatori, Vivian invece non si mosse; giaceva nella barca con il volto pallidissimo e lo sguardo assente e pareva incapace di far fronte alla situazione, lei sempre così audace e risolutiva.
La voce piena di malcelato trionfo che li aveva apostrofati prima tornò a farsi sentire, elevandosi sfacciatamente in quel clima di terribile immobilità: “Sorpresa!”
Vivian chiuse gli occhi, travolta da una disperazione così grande, così assoluta, che sentì scemare dalle membra tutte le sue energie. Quel demonio non poteva averla raggiunta in quel momento di pura felicità, non poteva averle rovinato l’unico rapporto che per lei contava davvero…come ci sarebbe riuscito, dopotutto? Non sapeva nulla degli ultimi avvenimenti, nulla di quanto era accaduto tra lei ed Erik, e col passare dei giorni aveva preferito dimenticarlo, relegarlo nell’oscurità delle cose spiacevoli e indigeste che non avevano più la capacità di farle del male. Cosa lo spingeva ad essere così costante nel tormentarla?
Il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau era in piedi accanto al comandante dei gendarmi, avvolto in un ricco completo di seta rossa come il sangue che evidenziava il candore della sua carnagione e l’oro dei folti capelli, e li scrutava con gli occhi del rapace che ha appena catturato la preda, le iridi cerulee scintillanti, dando mostra di un sorriso colmo di compiaciuta malevolenza e tenendo il capo inclinato in modo da rivelare (apposta? O involontariamente?) l’orecchio mozzato. Quando la ragazza incontrò il suo sguardo, squassata da un brivido di ribrezzo e di terrore allo stato puro, il giovane le esaminò il corpo con bramosia, guardandola come se la considerasse uno squisito giocattolo che gli era ingiustamente sfuggito, e che finalmente aveva recuperato. Non c’era un briciolo di pietà sul suo bellissimo volto, neanche una traccia di riconciliazione nel suo sogghigno crudele. Egli non aveva dimenticato e si era preso la sua rivincita.
“Proprio come vi avevo detto, comandante” si rivolse all’uomo al suo fianco con il solito tono di insopportabile soddisfazione, accennando ai due nella gondola con un gesto della mano: “Il Fantasma dell’Opera in persona e…” i suoi occhi si posarono sulla ragazza e vennero animati da un luccichio pericoloso, pieno di folle godimento: “...la nostra agente”.
Tanto Erik quanto Vivian trasalirono, risvegliati bruscamente dallo stato di stupore in cui erano caduti. Il primo, che aveva reagito alla presenza dei gendarmi armati con una sorta di sbalordito furore, guizzando uno sguardo incredulo e rovente sulle frecce incoccate, sulla parete che gli impediva di tornare indietro, sull’impressionante quantità di soldati appostati per catturarlo e sul comandante a cavallo, i denti digrignati e il viso mascherato contratto in una smorfia animalesca, parve tornare leggermente in sé e per la prima volta si girò in direzione del marchesino, dilatando le pupille: “Che cosa?”
Vivian avvertì una stretta gelida alle viscere. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo percepiva nella stessa misura in cui aveva percepito l’imminente crollo del lampadario, e lei non poteva fare nulla per impedirlo esattamente come allora, il demonio senza un orecchio aveva sicuramente ideato un piano e, qualsiasi fosse, non le avrebbe certo portato del bene: “No!” ripeté.
Anziché rispondere ad Erik, Antoine continuò a guardare lei, le soffici labbra che le sorridevano gentili mentre gli occhi (erano lo specchio dell’anima, non potevano fingere) brillavano del sadico luccichio: “Sei stata davvero meravigliosa, ma chére. Una missione così difficile, così rischiosa! Ben poche fanciulle avrebbero avuto il coraggio di osare tanto” appoggiò una mano sulla gamba del comandante e assunse un tono confidenziale: “È tutto merito suo, monsieur, ve l’assicuro!”
“Che cosa significa?!” la voce di Erik era un ruggito sonoro in cui si mescolavano in pari misura stupore e rabbia, intuizione e disperazione. Vivian lo vide allontanarsi improvvisamente da lei, mutare sguardo ed espressione, e uno scoramento terribile si impossessò in pochi secondi di tutto il suo essere: “No!” era consapevole di quanto inutile suonasse la parola, ma Erik doveva captare lo strazio che conteneva, la sincerità che vi aveva posto: “No, non è vero!”
“Infiltrarsi nella dimora del Fantasma dell’Opera per rivelarcene gli ingressi e la maniera di coglierlo di sorpresa era considerata un’impresa pressoché impossibile” continuò imperterrito Antoine: “Ma fortunatamente, la nostra squisita Vivian vi è riuscita con successo”.
“No!” la ragazza si alzò in piedi, incapace di credere a tanta malvagità. Erik la fissava immobile, e nelle sue pupille c’era qualcosa che le spezzò il cuore: “Sai che non è vero, sai che mente!” gli tese le mani, supplice: “Ha cercato di violentarmi, vuole vendicarsi, non capisci?”
“Forse la situazione le è sfuggita di mano e si è fatta coinvolgere troppo” concesse Antoine, che dava l’idea di trarre un selvaggio godimento dall’intera faccenda: “Ma il suo intento iniziale era senza dubbio quello di consegnarvi a noi, caro Fantasma. Non è forse così, Vivian? Sei pronta a negare di esserti avvicinata a quest’assassino per venderlo a questi uomini che vedi qui riuniti?”  
“È così?” sussurrò Erik, con un tono impossibile da decifrare. La sua pelle era bianca come il marmo e il suo corpo era prigioniero di un’immobilità assoluta, i pugni tanto serrati che le nocche avevano perso tutto il sangue. Vivian si prese la testa fra le mani, cercando disperatamente le parole giuste, la frase che avrebbe rimesso tutto a posto e che avrebbe restituito calore agli occhi di lui: “Io…io…sì, all’inizio io…ma poi…è naturale che io…però dopo quanto è successo…dopo…dopo…”
Il suo patetico balbettio si innalzò, solitario, in un silenzio che aspettava da lei una spiegazione di gran lunga più efficace ed esauriente. Ascoltandosi mentre si impappinava in un discorso vano, provò un immenso disgusto per se stessa e non riuscì neppure per un attimo ad incolpare Antoine. Alla fine, nonostante i suoi sforzi, nonostante i baci e le promesse, i nodi erano venuti al pettine.
“Visto?” il marchesino avrebbe potuto benissimo tacere, dal momento che la sua vittoria era evidente, ma non era famoso per l’umiltà o la delicatezza dei modi e non resistette alla tentazione di mettersi ulteriormente in mostra, affondando il dito nella piaga: “La sua è una chiara ammissione! E non valgono nulla i suoi attuali sentimenti, perché si è insediata in casa vostra con lo scopo di tradirvi e sedurvi!”
Erik non sembrò ascoltarlo davvero. Non lo guardò neppure. Guardava solo Vivian. Con delusione. Con sofferenza. Con disperata rabbia. Con stanchezza immane. Non aveva la forza di superare l’ennesimo rifiuto, l’ennesima rivelazione sgradevole, l’ennesimo tradimento. Stava andando in pezzi.
E Vivian sapeva perfettamente di esserne la responsabile. Antoine aveva dato il suo contributo, certo, ma se si fosse chiarita con lui quando era ancora in tempo, spiegandogli a fondo la situazione e chiedendogli perdono, non avrebbe mai favorito i piani del marchesino. Egli non voleva semplicemente la cattura di Erik: egli voleva spezzargli il cuore, rovinare il suo rapporto con lei, distruggere totalmente la felicità che per un attimo li aveva sfiorati. E la ragazza non aveva la possibilità di giustificarsi o di farsi comprendere dall’amato, poiché effettivamente era andata da lui per tradirlo, e non lo aveva ammesso quando se ne era innamorata.
“È vero, mi sono stabilita nella Dimora sul Lago per consegnarti alla giustizia” ormai era inutile negare. Ignorò il sorriso compiaciuto dipintosi sul viso di Antoine e tenne lo sguardo fisso in quello vuoto e apatico di Erik: “Non ho scuse per il mio comportamento. Ma non ti conoscevo, Erik. Non sapevo nulla di te, mi era noto solo il Fantasma dell’Opera…sai cosa intendo. Però adesso è tutto diverso!” sorrise disperatamente e si arrischiò a prendergli le mani, che rimasero totalmente inerti nelle sue: “Adesso so chi sei veramente! E ti amo!”
Lui reagì alla dichiarazione con una smorfia di completo disgusto, orribile e disumana, che tolse ogni barlume di coscienza al suo aspetto e rese gli occhi color zaffiro gelidi come schegge di ghiaccio, che le si conficcavano spietatamente nella carne. Ritrasse le mani con uno strattone e parlò in un sibilo imbevuto di odio e di dolore: “Dovevo immaginarlo, che saresti stata come tutti loro”. 
Gli occhi di Vivian si riempirono di lacrime. Non fece nulla per trattenerle. Lei lo amava, era così difficile da credere?! Il suo amore aveva annullato ogni precedente macchinazione! Voleva soltanto andare con lui in un paese lontano, dove né Antoine, né la gendarmerie, né i loro peccati avrebbero potuto importunarli, ed essere felice per un poco. Perché tutto doveva rovinarsi così?
“Erik, credimi!” la sua voce smozzicata dai singhiozzi suonò teatrale alle sue stesse orecchie. La smorfia rancorosa e disumana sui lineamenti di lui non mutò di una virgola: “Credevo che fossi diversa. Credevo che le tue belle parole fossero sincere, che mi avessi chiesto ospitalità perché desideravi che ti proteggessi. Ma l’umanità non si smentisce mai” scoppiò in una risata incontenibile e grondante disperazione, talmente insana da strapparle un brivido: “L’umanità non si smentisce mai. Falsi, siete tutti falsi. Avrei dovuto ucciderti quando ne avevo la possibilità…avrei dovuto uccidervi tutti”.
“No!” la ragazza piangeva senza controllo: “Ti prego, devi ascoltarmi! Io ti amo! Io…”
“Sta zitta!” fu un ruggito. Gli occhi di Erik erano quelli di una bestia. Non era più se stesso, era il Fantasma dell’Opera, un Fantasma dell’Opera che non aveva più la forza di opporsi al proprio destino, ma che non per questo aveva cessato di odiare: “Sono stanco delle vostre menzogne, delle vostre falsità. Mi hai battuto, mi hai fatto catturare. Sei contenta adesso? Questo spettro malefico non vi tormenterà più. Sono stato uno stolto a credere di meritare un posto in questo mondo”.
“Basta così!” il comandante della gendarmeria intervenne con secca autorità, segnalando ai suoi uomini di prendere il bersaglio: “Seguiteci senza fare storie, monsieur, e non vi verrà fatto alcun male”.
Erik si produsse nuovamente nella sua risata di folle disperazione: “Oh, sicuro! Non mi è stato fatto alcun male!”
Vivian si rese conto soltanto in quel momento dell’obiettivo di quel gruppo di uomini. Erano lì per rinchiudere il suo Erik. Per condurlo in una prigione e sottoporlo ad un processo. Il popolo avrebbe chiesto a gran voce la sua morte, ed era la condanna comune per aver commesso un omicidio. L’avrebbero impiccato in Place de Grève, o messo alla gogna, o decapitato! E lei aveva voluto questo per lui? Aveva macchinato per consegnarlo nelle mani di quegli avvoltoi che lo odiavano e lo aborrivano, i quali non aspettavano altro che averlo tra le mani per sbranarlo?
“Non potete farlo!” gettò quell’esclamazione con sgomento, mentre Erik saltava sulla riva con docilità rabbiosa e porgeva le mani unite, in un gesto non scevro di amara ironia, all’autoritario comandante, che gliele legò con una corda di canapa: “Non potete prenderlo!”
“Suvvia, Vivian” Antoine si inginocchiò e afferrò la gondola per la fune con cui solitamente il proprietario la assicurava al molo sotterraneo, tirandola a sé: “Non c’è motivo di dare spettacolo in questo modo, dal momento che lo stesso Fantasma dell’Opera intende collaborare. Sarò ben lieto di accompagnarti dalla tua tutrice, era terribilmente in pena per te”.
“Perché mi hai fatto questo?” Vivian parlò tenendo lo sguardo fisso su Erik, che si avviava con le spalle curve, ridendo sguaiatamente e con abbandono, in mezzo ai suoi carcerieri: “Perché te la sei presa con lui? Non ti aveva fatto alcun male”.
“Au contraire, ma chére” ribatté il giovanotto con galanteria, levandosi il sontuoso copricapo di piume rosse dalla capigliatura dorata in una sorta di ironico saluto: “Mi aveva tolto ciò che mi spettava di diritto. E mi sorprende che tu sia coinvolta a questo punto…a proposito, eravate carini l’altra sera. Abbiamo atteso a lungo che ripeteste la gita, ma si trattava pur sempre del Fantasma dell’Opera, erano tutti ansiosi di catturarlo. E adesso che è nelle mani della giustizia, poi…puoi bene immaginare”.
Gli occhi della ragazza si ridussero a due fessure: “Sei un mostro”.
Antoine sollevò le mani, ridendo: “Modera i complimenti, tesoro. In effetti, considerato il tuo apprezzamento per i mostri, lo prendo come tale. Come puoi sopportare anche solo di toccarlo? Girano certe voci relative al suo viso…pare sia completamente devastato!” fece un gesto di ripugnanza: “In ogni modo, ti conviene seguirmi dalla tua tutrice. I Rappenau sono una famiglia influente e, guarda caso, mio zio è anche un giudice…te lo saresti mai immaginato? Capisci, dunque, che la sentenza a carico del tuo fantasma dipende molto da una buona parola da parte mia. Sei una ragazza intelligente, Vivian, presumo che tu abbia colto il messaggio”.
Il disgusto e l’odio quasi la soffocavano. Egli la stava ricattando utilizzando la sorte di Erik come mezzo per ottenere da lei ciò che voleva, intuendo benissimo che sarebbe stata disposta a tutto pur di salvarlo. E dato che nella cappella aveva tentato di violentarla, probabilmente…
Con un piccolo grido disperato, si accasciò sulla gondola, nascondendo il volto tra i capelli, e maledisse con tutta se stessa quel rivoltante individuo che aveva frantumato i suoi sogni e quelli di Erik per soddisfare il suo ego e la sua lussuria, e che lei adesso avrebbe dovuto accontentare…dal momento che le era impossibile lasciare che Erik venisse condannato a morte.
Antoine si chinò sul suo orecchio e vi premette le labbra: “Io vinco sempre, ma chére. È inutile ignorarlo”.
 

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Capitolo 21
*** Ego te absolvo? ***


Ego te absolvo?

 
 
 
 
 
Si era risolto tutto quanto nel migliore dei modi per il marchesino Antoine Baptiste Rappenau. Il suo mostruoso rivale era stato condotto tra le grida e il furore del popolo di Parigi al Palazzo di Giustizia e rinchiuso in una delle celle migliori, la quale era stata inchiavardata e incatenacciata alla perfezione per evitare un linciaggio, circostanza quella estremamente verificabile, dal momento che tutti in città erano a conoscenza delle malefatte del “Fantasma dell’Opera” e tutti avevano un valido motivo per detestarlo con tutto il cuore. Se le guardie che lo accompagnavano non avessero tenuto a bada la folla con la minaccia di moschetti e balestre, essa si sarebbe senz’altro riversata come un ciclone mortale sul prigioniero inerme e lo avrebbe fatto a pezzi, dopodiché, non sazi, i suoi giustizieri avrebbero divorato i suoi resti, tale era la loro ira per quel figlio di Satana che non solo era un efferato assassino, ma era anche, soprattutto, deforme.
E non v’è nulla che la gente odi più di una faccia sfigurata. Quei miserabili poveri, affamati, frustrati da un lavoro che rendeva poco e da una quantità di figli da mantenere, avvertivano l’ovvio bisogno di scaricare la rabbia contro quelli ancora più in basso di loro, e chi se non gli storpi e i brutti era il degno capro espiatorio per i “bravi e onesti” parigini? Necessitavano di avere qualcuno a cui imputare tutte le loro sventure, un mostro crudele di dentro e di fuori (poiché Dio distribuiva la bellezza solo a coloro che la meritavano), ed Erik Destler si prestava perfettamente ad un tale ruolo. Ancora adesso, a due giorni dalla sua cattura, una moltitudine urlante era assiepata ai piedi del Palazzo di Giustizia e chiedeva inutilmente di vedere il prigioniero, o almeno di annunciare la data della sua morte.
Al momento, una sola data era stata decisa: quella del processo, che si sarebbe tenuto il giorno dopo alle nove in punto. Per prevenire eventuali assalti, l’imputato si sarebbe recato nella sala delle udienze circondato da un folto drappello di gendarmi armati, i quali avevano l’ordine rigoroso di intimidire chiunque si fosse avvicinato eccessivamente. Su richiesta del giudice Guillaume Rappenau, fratello minore del padre di Antoine, non sarebbero stati ammessi testimoni fuorché i direttori del teatro dell’Opera e qualche macchinista che aveva assistito al crollo del lampadario, ma la loro era una funzione puramente di facciata, poiché i capi d’accusa erano sicuri e, a quanto diceva il carceriere, il prigioniero era risoluto a confessare tutti i suoi crimini. Ben presto, i corvi avrebbero avuto la loro carogna da spolpare.  
E Antoine avrebbe inflitto a Vivian Carré un dolore che l’avrebbe segnata per sempre.
Finalmente il giovane era del tutto in pace con se stesso. La vista della ragazza e del mostro che si guardavano languidamente negli occhi sulla gondola aveva destato in lui una gelosia feroce ed era stato sul punto di estrarre la pistola dalla cintura e di ucciderli entrambi, ma il raziocinio, benedetta manna dal cielo, era giunto in suo aiuto in un momento di totale confusione e l’aveva spinto a restare nell’ombra. Ucciderli subito sarebbe stato troppo semplice, troppo pietoso. No, era meglio attendere, elaborare un piano più efficace, con il quale recidere il loro rapporto e lacerarli nel profondo dell’anima…la vittoria non rideva forse a chi sapeva aspettare? E così era stato, per sua fortuna; coinvolgendo la gendarmerie, era responsabile della cattura di una delle figure più temute a Parigi e aveva privato Vivian del suo innamorato, tenendola in pugno con il ricatto.
Poteva andare meglio di così? No, naturalmente. Presto, molto presto, avrebbe potuto concludere ciò che aveva cominciato nella cappella. Avrebbe potuto far suo il bel corpo giovane e forte della ragazza e piegare ai propri desideri la sua ferrea volontà, una prospettiva, questa, che lo eccitava persino nella solitudine. Non avrebbe posseduto Vivian con la forza, ingaggiando con lei una lotta che, certo, avrebbe vinto in quanto maschio ma che li avrebbe visti comunque come avversari, piuttosto ella gli si sarebbe arresa, avrebbe sollevato le gonne e slacciato il corpetto pur di ricevere i suoi favori. Sarebbe stata la sua concubina, la sua amante…non una poveretta senza protezione da violentare mentre era svenuta. Meglio, molto meglio così. Era nelle sue mani, angosciata per la sorte di quel mostro…poteva indurla a fare tutto quello che voleva, le pratiche più esotiche e sfrenate, le prestazioni più umilianti…
La mano gli corse all’orecchio morsicato, nel punto in cui una cicatrice frastagliata sostituiva il lobo che gli era stato rubato. Avrebbe dovuto pagarla, per questo. L’avrebbe fatta mettere a quattro zampe come un cane e finalmente avrebbe scoperto, dopo essercisi arrovellato per così tanto tempo, di cosa erano davvero capaci le sue rosse labbra. Oh, sì…
“Signore?”
Il deferente richiamo del suo maggiordomo, Thibaut, lo riscosse dalle sue scandalose fantasie. Era seduto comodamente su una sontuosa poltrona di velluto scarlatto nel suo salottino privato, arredato quasi nella sua totalità di quel colore, il suo prediletto in assoluto. Le preziose tende che ornavano le finestre erano rosso carminio, gli arazzi fittamente intessuti erano dominati da tonalità di quel tipo, il tappeto persiano svolto sul pavimento in legno di noce era bordeaux chiaro e sul tavolino posizionato accanto al marchesino era posato un vaso di rose vermiglie. Egli stesso era abbigliato di una veste da camera rossa e teneva tra le mani una coppa di vino ben invecchiato. Voltò il capo in direzione del servitore fermo sulla porta con una leggera smorfia di fastidio. Era stato interrotto proprio nel bel mezzo di un’erotica visione di Vivian accovacciata su di lui, piangente e arresa: “Sì, Thibaut?”
L’anziano maggiordomo chinò servilmente il capo: “Signore, una ragazza è qui per vedervi. Una certa mademoiselle Vivian Carré. Credo sia di bassa estrazione, il suo abbigliamento è terribilmente provinciale. Stavo per mandarla via, ma ha detto che l’avreste sicuramente ricevuta”.
La bocca ben disegnata del giovane marchesino si curvò in un ghigno sardonico. Si parla del diavolo, ed ecco che spuntano le corna…l’aveva attesa, ovviamente, dopo averla riportata dalla sua tutrice, non dubitava che ella avesse compreso benissimo la sua minaccia e che avrebbe tentato con ogni mezzo di salvare il suo innamorato da morte certa, e si era stupito che avesse lasciato passare due giorni prima di presentarsi nel suo palazzo. Era davvero ostinata a non cedergli, a non ammettere di essere stata sconfitta. Ma sarebbe rimasto deluso se si fosse arresa immediatamente, il gioco era di gran lunga più interessante se la mosca si dibatteva nella ragnatela.
“È così” si rivolse al maggiordomo con la tracotante autorevolezza che era solito mostrare ai servi: “Falla accomodare, Thibaut”.
“Volete riceverla in questo stato, marchesino?” l’esclamazione sgomenta sfuggì al vecchio prima che potesse trattenersi. Normalmente era un servitore bravo e discreto e, proprio per il suo silenzio, si era guadagnato un posto fisso allo chateau Rappenau, ma era anche terribilmente ligio alle regole e si era preso cura di lui fin da quando era un bambino capriccioso e viziato che gli sputava la minestra in faccia pur di non mangiarla, dunque era stato colto da un sincero stupore nell’apprendere che il suo padrone intendeva incontrarsi con una signorina vestito solo dei suoi abiti da camera, con i capelli umidi per il bagno recente e le gambe nude distese su un poggiapiedi di broccato.
Antoine lo punì subito per la sua insubordinazione trafiggendolo con una di quelle occhiate che, nel suo gergo, significavano vergate in arrivo: “Esatto. Hai qualcosa in contrario, forse?”
Il maggiordomo colse al volo il segnale e si affrettò a scuotere la testa, rattrappendosi in un atteggiamento sottomesso e remissivo: “Certo che no, signore”.
“Bene” sibilò il giovane nobile: “Allora te lo scandisco: falla-accomodare”.
“Come desiderate, marchesino” Thibaut si affrettò ad eseguire l’ordine.
Antoine emise un pesante sospiro, preparandosi all’imminente incontro con la sua vittima. Era così frustrante, doversi giustificare non soltanto con gli esseri umani, ma anche con i ratti da vicolo. Da quando in qua erano divenuti così impiccioni e poco professionali? E suo padre li pagava fior di quattrini! Egli, dal canto suo, li avrebbe sostituiti immediatamente e senza batter ciglio con le ancelle d’oro che Efesto, il dio greco del fuoco di cui aveva letto da piccolo col precettore, aveva fabbricato affinché lo servissero in un perpetuo silenzio, senza esigere alcun compenso e con eterna sottomissione. Delle bellissime bambole vive sarebbero state di gran lunga più utili di quell’idiota buono a nulla che meritava solo di finire in mezzo alla strada. Avrebbe potuto farsi massaggiare da loro, ordinargli di aiutarlo a fare il bagno, utilizzarle a scopi sessuali…
Uno scalpiccio di passi proveniente dall’entrata del salottino lo indusse a levare il volto con un largo sorriso di falsa benevolenza. Il solerte Thibaut aveva introdotto l’ospite nel palazzo e si era spostato da una parte per lasciarla accedere agli appartamenti del marchesino, la fronte corrugata per una malcelata disapprovazione. Sapeva ormai da tempo che il rampollo del suo padrone frequentava assiduamente i bordelli, ma era inconcepibile che una prostituta osasse presentarsi addirittura nell’onorato maniero dei marchesi Rappenau…che stesse ricattando il giovanotto?  
Per sua fortuna, Antoine era troppo preso da Vivian per accorgersi del suo cipiglio. La ragazza era infagottata in un consunto mantello marrone scuro che copriva totalmente il suo abbigliamento sottostante e che le cadeva sino ai piedi ed aveva il cappuccio calato sul volto, alcuni riccioli monelli a ricaderle sulla fronte pallida e sudata. Erano trascorsi solo due giorni dalla notte in cui lei ed Erik si erano dichiarati l’un l’altra e avevano scoperto la vera felicità, eppure tutta la sua radiosità, tutta la sua gioia e la sua energia erano svanite, come se un’angoscia divorante, una preoccupazione eterna l’avessero prosciugata di ogni forza. Le sue gote erano pallide e smunte, occhiaie pesanti e scure le deturpavano la pelle e i lineamenti erano disfatti da una stanchezza mortale che non aveva, tuttavia, abdicato completamente all’antico ardore. Era pressoché impossibile, ma al giovane parve addirittura dimagrita.
Un sommo compiacimento gli montò nel petto. Era stato lui a ridurla così. Lui le aveva strappato il sorriso dalle labbra e aveva diffuso sulle sue fresche guance quel mortale pallore. La palandrana che aveva indossato impediva al suo sguardo avido di penetrare la stoffa e indovinare le morbide forme che vi erano celate, ma non era un grave problema. Pochi minuti, e gliel’avrebbe squarciata a morsi.
“Puoi lasciarci, Thibaut” disse distrattamente, continuando a fissare la ragazza. Il maggiordomo si inchinò in segno di ossequio ed uscì richiudendosi la porta alle spalle, non prima di aver lanciato un’occhiata in tralice all’ospite in palandrana. Non appena si fu levato di torno, Antoine tolse le gambe dal poggiapiedi, senza tuttavia alzarsi dalla poltrona (era necessario render chiaro fin da subito chi è che comandava) e sorrise alla sua ospite con fare mellifluo: “Bene, Vivian. Ti aspettavo con ansia”.
Lei fece una smorfia carica di odio e di disperata rabbia, che rese gli occhi ancora più scuri e il volto ancora più selvaggiamente attraente. Era davvero seducente, quando si arrabbiava: “Lascia perdere i convenevoli. Sono qui per Erik”.
Il marchesino non si scompose in alcun modo di fronte a quella brutale accoglienza. D’altra parte, non si aspettava niente di meglio. Un’altra fanciulla l’avrebbe temuto per il suo potere e le sue risorse e  si sarebbe recata al suo palazzo cospargendosi il capo di cenere e giurando di servirlo fino a sfiorire, ma Vivian non era così, e forse proprio per questo aveva sollevato quel vespaio per tenerla in pugno. Si limitò ad alzare espressivamente le sopracciglia bionde e a mascherare un mezzo sorriso nella coppa di vino rosso: “Dunque il mostro ha anche un nome?”
Un lampo di furia omicida le passò nelle pupille ardenti e un fremito le squassò il corpo magro, mentre avanzava d’un passo, i pugni stretti e il viso sconvolto dall’ira, e si dominava a fatica, riservando la bile alle sue parole: “Lui non è affatto un mostro! Il solo mostro, qui, è seduto davanti a me!”
Antoine ridacchiò ironicamente. Ci voleva ben altro per rovinargli l’umore, adesso che tutto stava andando per il verso giusto: “Sei venuta solo per omaggiarmi con il tuo disprezzo? Dovresti stare attenta a come parli, se vuoi essere di aiuto al tuo fantasma. Se non vado errato, il suo processo avrà luogo domani mattina alle nove in punto”.
Un’ombra di sofferenza le oscurò il pallido viso seminascosto dal cappuccio del logoro mantello. La sua pantomima supponente non lo ingannava, era palese che si trovava nella più totale disperazione, che era consumata da un’angoscia e da un’impotenza mortali. Chi non era a conoscenza di tutta la storia, avrebbe supposto che fosse malata. Malgrado l’aspetto sciupato e lo sguardo dolente, tuttavia, la sua voce non aveva perduto l’antico vigore: “Perché non posso fargli visita? Al Palazzo di Giustizia sono stata scacciata dalle guardie anche se ho presentato la somma richiesta per vedere un prigioniero! Mi è negato persino di portargli un cesto di viveri?”
Ma che carina. Aveva cercato di far arrivare al mostro un tozzo di pane nero (il “pane dei poveri”) e qualche mela vizza. Gli sarebbero venute le lacrime agli occhi, se solo il soggetto non fosse stato così indegno e rivoltante. Era davvero caduta in basso: “Mia cara Vivian, io sono un nobile, non una guardia carceraria. Ma, se proprio vuoi saperlo, nessuno ha la possibilità di fargli visita: egli è una figura profondamente odiata e non vogliono correre il rischio che qualcuno provi a linciarlo. È per il suo bene”.
Un sorriso profondamente sarcastico le sfiorò le labbra a quell’ultima frase. Non aveva ancora accennato ad accomodarsi su uno degli squisiti divanetti foderati di seta e velluto di cui era provvisto il salottino privato di Antoine, né a levarsi dalle spalle la cappa cenciosa, se ne stava ritta accanto all’uscio chiuso, immobile e salda come una colonna corinzia, senza tremare, e i suoi grandi occhi ombreggiati dalle ciglia scure lo studiavano con un misto di rassegnazione, disgusto e quieta accusa: “Che cosa ti ho fatto, Antoine?” lo pronunciò con tono molto calmo, ma proprio per una tale pacatezza, risaltava ancor più la sua immensa disperazione: “Perché mi tormenti così? Ti appaga così tanto la mia sofferenza?”
Egli rispose con analoga tranquillità: “Sei stata tu stessa a cacciarti in questa situazione. Se ti fossi data a me di tua spontanea volontà…”
“Se mi fossi data a te?!” un improvviso rossore le imporporò le guance smunte e il furore che doveva probabilmente tenere nascosto sotto quel finto contegno remissivo fuoriuscì dalla corazza una seconda volta, violento e incontrollabile. Il suo accento quieto si riempì di collera e di ribrezzo e crebbe di volume, mantenendosi appena sotto l’urlo (in caso contrario, Thibaut o un altro servitore sarebbe subito accorso): “Preferirei baciare un rospo piuttosto che sfiorarti! Tu mi disgusti! Sei l’uomo più ributtante che abbia mai…”
“Non parlarmi di disgusto!” il giovane si alzò impetuosamente dalla poltrona, punto sul vivo nella sua vanità, infastidito dall’oltraggioso paragone appena formulato dalla ragazza, ed elevò a sua volta la voce: “Non dopo aver fatto la puttana di quel mostro! Che cos’aveva, lui, che a me mancava? Non dicevi di non aver bisogno di un uomo? Hai cambiato idea molto in fretta, vedo…e hai scelto un assassino sfigurato. Sì, ammetto che può essere eccitante crogiolarsi in certe perversioni, soprattutto per una come te. Ma ne sei davvero innamorata?”
Ella non si lasciò spaventare dall’inaspettato scatto d’ira e rimase ferma al suo posto. Malgrado le sofferenze che le aveva inflitto e i sogni che aveva infranto, non aveva paura di lui, non aveva imparato a temerlo o a rispettarlo: “Non mi aspetto che tu capisca dei sentimenti così nobili e alti, o quale sia la differenza tra apparenza e sostanza. Ma Erik è mille volte migliore di te” ogni volta che pronunciava quel nome, la sua voce brusca si addolciva: “Non sei degno neanche di allacciargli le scarpe!”
Antoine risedette in poltrona e prese la coppa di vino con gesto infastidito, suggendone un sorso. Doveva mantenere la calma. Quella sgualdrina dalla lingua velenosa non meritava di trascinarlo al suo livello e di costringerlo a sostenere una discussione con lei. Lui era il marchesino Rappenau, lei poco più di un gatto di strada deflorato da un assassino recidivo. Probabilmente si era guadagnata la fiducia del mostro con favori sessuali, vista la sua palese mancanza di abilità nel compiacere un uomo con le parole. Se avesse parlato con lei, l’avrebbe annegata nel suo lago sotterraneo dopo poche frasi. Sì, la puttanella che aveva fatto tanto la preziosa con lui non aveva esitato un attimo ad alzare la gonna per l’altro! Ma l’avrebbe punita per i suoi peccati. Proprio come Acab aveva castigato Jezebel nella Bibbia, lui avrebbe liberato il mondo da quella strega tentatrice che si era congiunta con il figlio del Diavolo…dopo essersela goduta, ovviamente.
“Può darsi che sia migliore di me” disse lentamente: “Ma morirà presto. Il processo è solo una facciata, la sua condanna è già praticamente decisa. E tu lo sai bene, non è così? Altrimenti, perché saresti venuta da me?”
Una smorfia sprezzante danzò sul volto incappucciato della strega: “Non credere di avermi in pugno solo perché mi sono presentata al tuo palazzo. Non hai ottenuto niente con i tuoi ricatti. Puoi chiedermi tutto quello che vuoi, certo, e forse ti sentirai soddisfatto dopo che te l’avrò dato. Ma quale uomo degno di questo nome ha bisogno di ricorrere al ricatto per conquistare una ragazza? Senz’altro uno privo di dignità e onore!”
Il giovane scoppiò in una risata sguaiata e malevola. La meretrice di Babilonia aveva l’ardire di parlargli di onore e dignità? Lei, che aveva venduto le sue grazie ad uno stregone in combutta con Satana e con le sue forze demoniache (la putrefazione che gli aveva attaccato il lato destro della faccia era una prova evidente delle sue origini infernali, nessuno aveva dubbi al riguardo), si permetteva di accusare un buono e fedele cristiano quale lui era, che si recava puntualmente a messa la domenica e confessava senza remora i suoi lievi peccati? La lussuria per il Diseredato l’aveva evidentemente resa folle.
“Battagliera come sempre!” assunse di proposito i toni di una maligna presa in giro: “È proprio per questa tua forza che mi attiri, Vivian. Mettiamola così… intralciarti è un mio piacere personale. E forse quest’esperienza ti servirà di lezione. Il mondo non gira come vuoi tu. Ci sono i ricchi, come me, e ci sono i poveri, come te. Quando uno come me si interessa ad una come te, è tuo  dovere chinare la testa e compiacermi”.
“Compiango la donna che diverrà tua moglie” replicò lei, guardandolo con pena impietosa: “Sei talmente abile a distruggere ciò che ti attrae che si impiccherà dopo la prima notte di nozze”.
Egli liquidò la faccenda con un’indolente sventolata della mano impreziosita con l’anello blasonato: “Vorrà dire che ne troverò una migliore. C’è dell’altro?”
Il disprezzo di Vivian scomparve e al suo posto sopraggiunse una feroce determinazione. S’avanzò di diversi passi, il mantello a fluttuarle intorno, simile ad una nera monaca nell’atto di maledire, e fissò Antoine negli occhi con gelida furia: “Voglio che Erik sia rilasciato. Voglio che tuo zio dica che hanno preso l’uomo sbagliato”.
Lui tenne per sé la propria esultanza. Sapeva che si sarebbe arrivati a quel punto, Vivian non si era certo presentata alla sua porta solo per rimproverarlo e insultarlo. Dunque aveva ceduto, infine. Aveva compreso che l’unico suo possibile benefattore era lui e che non le restava altra scelta se non quella di implorare la sua misericordia. Percorse il corpo imbacuccato nella cappa con lasciva bramosia, immaginando come sarebbe stato lasciar scorrere le mani sulla sua pelle e stringerle i seni fino a farle male, e sorvolò sulla sua espressione risoluta e per nulla arresa. La giovane aveva lo sguardo di chi non si sta affatto sottomettendo, bensì di qualcuno obbligato a fare qualcosa di spiacevole ma necessario, e ad Antoine ciò non piaceva affatto. L’avrebbe montata da dietro, così da non vederla in faccia: “Ti rendi conto di quanto sarà arduo dimostrare una cosa del genere?” osservò in tono sibillino: “L’imputato è deciso ad ammettere la sua colpevolezza”.
Vivian tagliò corto, intuendo che quelle riserve non erano altro che una sadica perdita di tempo: “L’ho già visto succedere, Antoine, e so che la tua famiglia è abbastanza potente da riuscirci”.
“Può darsi. Come può darsi di no. Che cosa mi darai in cambio?”
Lei sorrise amaramente. Le sue mani, in una sorta di gesto istintivo, si incrociarono sul petto e sfiorarono i fianchi nascosti dalla grezza tela marrone scuro: “Il mio corpo ti darà tutto quello che chiederai” si appoggiò tre dita sul cuore: “La mia anima, nulla. Non potrai toccarla in alcun modo. Se ti basta un simile compromesso…”
Non gli importava nulla della sua anima. Per quello che lo riguardava, poteva andare benissimo al diavolo (ma probabilmente ci era già). Anzi, era lieto di non avere a che fare con quello spirito nero di peccato e di sozzura, con gli orrori che la strega teneva nascosti dentro di sé. Tutto quello che voleva da lei era il suo seno e il suo sesso, le sue mani e la sua bocca per dargli piacere. Se la sarebbe presa centimetro dopo centimetro, avrebbe rivendicato il giovane corpo come suo e poi avrebbe trovato il modo di liberarsi di lei. Un buon cristiano non poteva assolutamente permettere ad una strega di restare in vita.
“Togliti il mantello” ordinò con un sogghigno libidinoso, gettando la coppa vuota sul tappeto persiano e iniziando ad armeggiare con i bottoni dei calzoni da camera. Chissà se avrebbe mantenuto quell’espressione risoluta e orgogliosa durante tutto il tempo in cui l’avrebbe fatta sua…
 
Nel Palazzo di Giustizia, vi erano sotterranei non meno profondi e labirintici di quelli del teatro dell’Opera Populaire. L’unica differenza stava nel fatto che i primi erano prigioni, i secondi poco più che oscure catacombe. La caratteristica peculiare di tali prigioni era la loro struttura a girone, secondo la quale i piani più alti erano abitati da criminali di bassa lega, ladruncoli, mercenari, prostitute e tagliaborse, e si discendeva a bassezze di volta in volta più putride e inospitali sino a raggiungere un punto in cui era pressoché impossibile avere il minimo collegamento con il resto del mondo.
In quel punto sepolto nella viscere della terra, tra i topi affamati, i vermi striscianti e la pietra gelida e incrostata di sudiciume, erano rinchiusi di solito i condannati a morte, e in una di quelle celle era stato sistemato Erik Destler, il Fantasma dell’Opera. La mole del Palazzo di Giustizia gravava su di lui, un freddo umido e impietoso s’avvinghiava con ferocia alle sue ossa intorpidite e all’intorno aveva solo oscurità, un’oscurità talmente densa, talmente assoluta, che persino i suoi occhi abituati alle tenebre non riuscivano a penetrarla con l’adeguata precisione. Muri solidi come roccia lo chiudevano da ogni parte e una pesante porta in legno irrobustito da puntelli di ferro sbarrava la sua cella, gettandovi raramente qualche fioco raggio di luce quando una fessura vi veniva aperta e da essa era spinto nella sua direzione un vassoio con sopra un pezzo di pane duro e grigiastro e un bicchiere di acqua torbida.
Egli giaceva lì, in mezzo al sangue rappreso di qualche povero diavolo che aveva vantato d’essere ospite di quel buco fetido e isolato, a rimasugli di cibo e a pozze di umidità, vuoto, apatico, pressoché spezzato nel corpo e nell’animo, l’occhio fisso nel buio ottenebrante e le braccia intorno alle ginocchia strette al petto, addosso stracci sudici di quelli che un tempo erano stati i suoi vestiti, e chi l’aveva temuto quando era ancora all’apice del suo trionfo, terribile ed elegante come un angelo vendicatore, sarebbe rimasto profondamente colpito dall’aspetto miserevole e arreso di cui dava sfoggio in quel momento. La maschera gli era stata strappata nel corso della sua incarcerazione, una sentinella giovane e particolarmente audace l’aveva gettata alla folla che premeva per poterlo fare a pezzi e tutti quei corpi furibondi e insani vi si erano gettati sopra tra urla e schiamazzi, dando fuoco al “premio di consolazione” e distruggendo “il camuffamento del demonio”. Il suo volto devastato dalle piaghe era ancor più spaventevole ora che aveva subito il regolare pestaggio delle guardie, che omaggiavano di un tale trattamento ogni prigioniero di sesso maschile introdotto nelle carceri del Palazzo di Giustizia. Lividi violacei ed ecchimosi umide gonfiavano i suoi zigomi e in alcuni punti aveva grumi di sangue rappreso. I capelli, scarmigliati, gli cadevano in ciocche luride e stoppose sulla fronte.
Una catena assicurata ad un angolo della cella serpeggiava sul pavimento coperto di paglia sozza di sangue ed escrementi di uomini e topi e si avvoltolava come un luccicante serpente intorno alla sua caviglia, scorticandogli la pelle e aumentando la sua sofferenza. Ma egli non dava segno di avvertire dolore né al piede ferito, né al viso coperto di lividi: i suoi occhi azzurro scuro erano spenti e scollegati come quelli di un folle ed aveva un contegno totalmente inespressivo. Lo si sarebbe detto un fantoccio malridotto dimenticato lì per sbaglio. Non rabbrividiva nemmeno, e aveva lasciato il vassoio con il suo pasto accanto alla porta, senza toccarlo. Se i passi di una sentinella si avvicinavano alla cella, si girava dall’altra parte, facendo cigolare la catena, e rimaneva così finché non si erano allontanati.
Quando hai assaporato la felicità, quando hai potuto toccarla, sentirne l’odore e il gusto, quando ti sei crogiolato nella speranza di averla finalmente fatta tua, di averla meritata, ed essa va in frantumi all’improvviso, rivelandosi un inganno crudele, macchiandosi di verde, scivolando tra le dita come sabbia smossa dal vento, solo allora raggiungi uno stadio di disperazione talmente profonda da addormentare il cuore e i sensi. Erik si rotolava nella putredine e nelle tenebre di quel sotterraneo, l’unica dimora che gli uomini avevano reputato adatta a lui, sopportava il fetore di putrefazione e il freddo pungente a cui era ormai avvezzo e non aveva la forza di continuare a sforzarsi di essere qualcosa che non era. Si era sollevato innumerevoli volte per poi essere rigettato tra i vermi, era troppo adulto, troppo stanco e disilluso per tentare ancora. Essendo il Signore delle Botole, avrebbe potuto forzare la serratura, e forse persino evadere dalle segrete, grazie alla sua dimestichezza con quel genere di luoghi; ma non voleva. A quale scopo?
“Potresti farli gridare di terrore” dall’altra parte della cella, seduto con la schiena appoggiata al muro di pietra e il corpo avvolto in un ampio mantello nero, il Fantasma dell’Opera lo guardava con i suoi ardenti occhi dorati, che si accendevano di un bagliore giallastro solo nella completa oscurità, e il suo viso di cadavere, scheletrico e scarnificato come quello della Morte, identico ad un teschio, ghignava con la sua bocca senza labbra: “Potresti ancora vendicarti. Eri tornato a Parigi per questo, non è vero?
Un sorriso amaro e disperato si allargò sulla vacuità fissa e apatica che pervadeva i tratti di Erik: “Vendicarmi non risolverà niente”.
“Ma servirà di lezione a loro” insistette il fantasma, sollevandosi leggermente. Le sue mani scheletrite trasudavano un alito di morte: “Servirà di lezione a lei”.
Il prigioniero si irrigidì, come se un fendente traditore lo avesse colpito dritto al petto: “Non nominarla”.
“Perché non dovrei? Ci ha ingannato. Ci ha venduto alla fame degli uomini, si è infiltrata nella nostra dimora e ha fatto sì che nutrissimo una serpe in seno. È anche peggiore di Christine. Ma non deve essere per forza così…potremmo suonarle una messa funebre…Kyrie Eleison (Signore, pietà)!”
Ripeté altre quattro volte quel roboante “Kyrie Eleison” ridendo come un demonio esaltato, fin quando Erik, che si era turato le orecchie per eludere il frastuono, non  lo mise a tacere con un violento: “Taci!”
Egli tacque, ma per poco: “Potremmo far cadere qualche altro lampadario. Non è difficile.  Sono davvero logori, i lampadari dell’Opera…davvero logori! Una spintarella e cadono da sé! Fanno bum! Potremmo comporre una messa da requiem in onore di tutti i bravi parigini che in questo momento stanno implorando per la nostra morte. Allora sì che sarebbero guai seri, per parecchi membri della razza umana!”
Un tempo quelle parole avrebbero acceso una scintilla nel suo cuore, avrebbero fatto vibrare una corda dentro di lui, ci si sarebbe riconosciuto. Ma adesso non avevano alcun significato. Erano solo i deliri sguaiati e privi di senso di un folle solo nell’oscurità di una cella sepolta nelle viscere del terreno. E il luccichio degli occhi dorati del Fantasma dell’Opera, così ipnotico, così inquietante, era solo fastidioso e gli feriva le pupille disabituate alla luce: “È finita, ormai”.
“Non devi soffrire per un’innamorata morta!” continuò quel teschio ghignante e grottesco: “Forse per un’innamorata viva…ma non per un’innamorata morta! Ed è ciò che è Vivian! Prima che la scoprissimo, nei suoi occhi leggevamo un’innamorata viva…ma quando abbiamo svelato il suo inganno, abbiamo visto solo e soltanto un’innamorata morta. E non abbiamo bisogno di questo”.
“E se invece ne avessimo bisogno?” Erik si drizzò a sedere improvvisamente ritto, una nuova, dolorosa determinazione nello sguardo e sul volto. Il Fantasma dell’Opera piegò il capo di lato, interdetto: “Come?”
“E se non mi restasse altro che la mia sofferenza e il mio cuore che piange per il suo tradimento? Se mi bastasse sentirmi umano, perfino nella più atroce forma di patimento? È vero, Vivian mi ha ingannato, mi ha tradito come tutti gli altri. Ma…se non mi restasse altro che il mio amore per lei?” quelle frasi parevano spaccargli il cuore: “Troppe volte ho affrontato un dolore rifugiandomi nel mostro che è in me. Ma forse…dopo tutto questo tempo… voglio morire da uomo, anziché vivere…da mostro”.
“Morire?...Morire? Perché mai dovremmo morire? Siamo sulla soglia del nostro più glorioso trionfo, vecchio mio! Stiamo per divenire un don Giovanni Trionfante! Potremmo farla pagare a tutti quelli che ci hanno disturbato! Ne abbiamo di spazio per loro…vogliamo andare a dire alla Sirena di aprire? Vogliamo aprire il sacchetto della vita e della morte? Vogliamo far saltare la cavalletta? Oppure aprire la Camera dei Supplizi? E cosa c’è nella Camera dei Supplizi? Ovviamente…una forca!”
Il Fantasma dell’Opera rideva della sua risata da demonio esaltato, dondolando le braccia come una scimmia e scagliando scintille dalle iridi d’oro fuso, ma Erik s’accasciava pesantemente sul freddo pavimento della cella e non progettava con lui le meraviglie che avrebbero potuto compiere, l’unica immagine a sorreggerlo nell’oscurità, l’unico pensiero a stimolargli un dolore puro, umano, dolcissimo, era Vivian, la traditrice, la menzognera, ma la sua amata Vivian. Il cadavere aveva torto, per lui ella era ancora viva…non era morta! Esisteva nei suoi ricordi…nel suo cuore…sulle sue labbra, che conservavano il sapore dei suoi baci. Forse non corrispondeva a quella in carne ed ossa, forse era soltanto un personaggio di invenzione, ma se riusciva a fargli provare amore, ben venga ogni falsità! Si sarebbe tenuto accanto quell’ideale nel corso del processo, fino a Place de Grève, dove ogni cosa sarebbe giunta finalmente a termine. Avrebbe spirato non con il cuore pieno di odio, ma con il cuore pieno di amore. E avrebbe vinto sugli esseri umani! Loro lo volevano crudele e colmo di risentimento, volevano un animo che corrispondesse al suo aspetto mostruoso…ma lui li avrebbe battuti tutti quanti, perché sarebbe morto da uomo, puro e innamorato, e avrebbe passato a loro quel ruolo ingrato e rivoltante. Un essere umano sarebbe perito, e centinaia di mostri avrebbero conservato la vita. Questa era l’unica conclusione.
Aveva smesso di credere in un futuro per se stesso quando erano state rese note le vere intenzioni di Vivian.
Il rumore di una chiave che girava nella serratura lo spinse a sollevare la testa con pesante fatica e a strizzare gli occhi allorché un fascio di luce penetrò nell’ambiente sudicio e degradante. Una guardia in divisa, armata di alabarda, fece capolino nel buio e cercò con lo sguardo la sua sagoma curva e spezzata: “Mancano pochi minuti alle nove, monsieur” affermò con voce rude: “Il vostro processo è imminente”.
“Bene!” le labbra pallide e screpolate di Erik si curvarono in un ampio sorriso che non aveva nulla di allegro: “Vediamo di farla finita presto, signor gendarme. Sono ansioso di udire la mia messa funebre!” e si produsse in una risata alta ed echeggiante, talmente folle e disperata da provocare un brivido nella sentinella incaricata di condurlo al processo.
 
La sala era vasta e avvolta dalla penombra. L’autunno che opprimeva Parigi in quei mesi di neve e di tempesta rendeva particolarmente tardiva e lenta la salita del sole nel cielo e dalle finestre ogivali penetrava un lucore rossastro e fioco, troppo scarso per illuminare completamente l’ambiente; a questo scopo, erano state accese candele in ogni dove affinché la corte al completo potesse seguire le evoluzioni del processo con agio. Di fianco alle porte arricchite di bassorilievi tramite le quali si entrava nella sala, erano posizionati a destra e a sinistra tavoli a cui sedevano cancellieri chini su bianche pergamene, i pennini pronti ad intingersi nelle boccette di inchiostro. In fondo, su un palco sopraelevato, vi erano invece i giudici, abbigliati delle tradizionali toghe nere e presieduti da un uomo di mezz’età, ancora ben portante, con occhi di colore azzurro ghiaccio e un che di arcigno, che nascondeva la capigliatura sotto una fluente parrucca bianca. Era, costui, Guillaume Rappenau, cadetto del marchese Jean Roland. Firmin e André, vestiti elegantemente per l’occasione, non erano troppo lontani dai suddetti giudici e si guardavano intorno nervosamente, poco abituati al clima di solenne gravità che gravava quasi sempre su simili tribunali. In realtà, i direttori dell’Opera Garnier, come parecchi altri parigini, nutrivano per il Palazzo di Giustizia una sorta di timore reverenziale.
Quando l’imputato fece il suo ingresso, circondato da un corteggio di guardie armate di alabarde, il silenzio si fece ancor più denso e tutti gli occhi si levarono su di lui, scrutandolo con un misto di curiosità e repulsione. Ci fu chi, addirittura, accennò il segno della croce, quasi egli fosse stato un demone maligno e infernale che avrebbe potuto contaminarli con la sua aura di peccato. Ed era, questo, ciò che pensavano la maggior parte degli uomini presenti in sala. Il giudice Guillaume esibì una smorfia di ripugnanza dinnanzi al volto sfigurato del miserabile e si coprì la bocca con un fazzoletto di pizzo, sussurrando qualcosa all’orecchio del vicino.
Il prigioniero, da parte sua, non sembrò dar peso alle reazioni costernate e inorridite della corte e seguitò a camminare con calma, strascicando un po’ i piedi, racchiuso in una bolla di dolore e di apatia che non poteva certo essere infranta da uno sguardo d’orrore. Una coppia di manette d’acciaio congiunte da una sottile catena gli vincolava i polsi e zoppicava leggermente a causa del piede ferito dalla loro gemella, sciolta nel momento del trasferimento. Teneva il capo chino, la foresta di capelli sporchi a spiovergli in avanti, e non lo alzò neanche quando ebbe raggiunto il suo posto dinnanzi al palco dei giudici e si fu seduto. La maggior parte dei suoi accompagnatori si ritirò, ma due di essi rimasero e si posizionarono ai suoi lati come due truci guardie del corpo.
Il giudice Guillaume si schiarì la voce e batté tre colpi con il martelletto di legno: “Dichiaro aperto questo processo!”
Gli fu presentato il verbale dell’accusa contro l’imputato e lo sfogliò con attenzione, i chiari occhi affilati che scattavano rapidi da una riga all’altra. Come ogni Rappenau che si rispetti, aveva un temperamento assai teatrale e aveva scelto quella professione proprio per mettersi in mostra, perciò si era fatto il punto di onore di dare ad ogni seduta un’ottima immagine di sé e di drammatizzare ogni avvenimento. Considerando l’identità dell’imputato, poi, si trattava probabilmente del suo processo più importante, e benché la corte avesse stabilito di comune accordo di affrettare i tempi il più possibile per non provocare ulteriori tumulti nel popolo, era ovviamente propenso a renderlo una sorta di pièce teatrale. Rivolgendosi quindi al prigioniero con tono impostato e tonante e con cipiglio severo, domandò: “Vi chiamate?”
Egli sollevò lentamente la testa, rivelando un’espressione vacua e due occhi fissi e assenti. Rispose con apatica remissione, pronunciando un nome che non desiderava più tenere nascosto: “Erik Destler”.
Guillaume annuì solennemente, quasi egli gli avesse detto qualcosa di estremamente intelligente o rilevante: “Bene. La vostra età?”
Anche stavolta la risposta fu immediata e atona: “Ho trentasette anni”.
“Cancelliere, scrivete tutto” il giudice si rivolse un attimo ad un omino sottile ed effeminato seduto poco lontano dal palco e, dopo aver ottenuto da lui un servile cenno d’assenso, tornò a girarsi verso l’imputato: “Siete stato condotto di fronte a questa corte per rispondere a tali capi d’accusa. Primo, di aver terrorizzato il tempio della divina arte della musica, l’Opera Garnier, sotto le mentite spoglie del cosiddetto Fantasma dell’Opera, facendovi beffe dei suoi direttori e degli onesti lavoratori che hanno lì un impiego. Secundo, di aver partecipato ai sabba e alle maledizioni dell’inferno con le lamie, i diavoli e i vampiri. Tertio, di aver fatto combutta con la Bestia di cui siete figlio e, con il suo aiuto, di aver assassinato settanta parigini, tra cui il celebre cantante Ubaldo Piangi, in data 2 Aprile 1870 e di avere in seguito rapito mademoiselle Christine Daaé, nonché di aver ripetuto il delitto in data 24 Ottobre 1870 a spese, stavolta, di novantacinque persone. Come vi dichiarate?”
“Colpevole”.
Un mormorio concitato percorse l’uditorio. Una confessione totale e gettata con simile noncuranza era, per la corte, un evento assai raro e benedetto, dal momento che la maggior parte degli accusati, presentati dinnanzi al banco dei giudici, perfino quelli ritenuti colpevoli di crimini non punibili con la morte, professava con fervore la propria innocenza. Se tutti i processi si fossero svolti in quella maniera, con la piena collaborazione dell’imputato di turno, la tortura a cui venivano immediatamente sottoposti coloro che persistevano a negare sarebbe stata deposta completamente e i truci signori in toga nera sarebbero tornati ogni giorno a casa in tempo per il pranzo. In ogni modo, tentarono di recuperare il loro contegno solenne e il cancelliere effemminato s’affrettò a copiare la confessione dell’imputato, che non aveva mutato né atteggiamento né espressione.
Guillaume, non meno colpito dei suoi colleghi, batté un paio di volte le palpebre: “Confessate dunque d’essere stato partorito da una femmina di sciacallo, animale caro a Lucifero, di essere il suo unico figlio prediletto e di possedere poteri infernali?”
Un sorriso amaro fu l’unica reazione di Erik: “Tutto quello che volete, monsignori”.
“Confessate di non avere origine umana ma diabolica, di aver ordito maledizioni contro il popolo di Parigi e di aver ottenuto la vostra celebre abilità di musicista tramite un patto col Diavolo, durante il quale avete compiuto il sommo atto blasfemo, recitando al contrario il Pater Noster?”
“Sì”.
“Di aver sputato sulla croce di Cristo e di esservi accoppiato con le larve e le fattucchiere sotto l’influsso del plenilunio?”
“Sì”.
“Confessate infine di aver operato, sei mesi fa, un sortilegio diabolico con il quale avete stregato l’allora cantante Christine Daaé, adesso viscontessa de Chagny, per farne la vostra concubina e per piantarle nel grembo un discendente del Diavolo vostro padrone, e di aver fallito i vostri intenti a causa dell’intervento salvifico del visconte de Chagny?”
L’accusato chiuse gli occhi, il viso disfatto dalla sconfitta. Mosse le labbra pallide e sussurrò, piano: “Sì”.
Aveva evidentemente abbandonato ogni speranza.
“Procediamo alla votazione” Guillaume accennò agli altri giudici di proseguire ed essi si chiusero a consiglio, confabulando a bassa voce. Mentre deliberavano sulla sorte del reo confesso, una figura alta e prestante si fermò sulla soglia della sala e attirò l’attenzione del fratello del marchese. Era abbigliata di rosso ed aveva un copricapo di piume sui capelli biondo chiari.
Antoine Baptiste.
Lui e lo zio si fissarono negli occhi per un lungo istante, poi il giovane sorrise, i bianchi denti lampeggianti simili a zanne aguzze e affilate, e annuì con il capo impercettibilmente. L’altro dovette comprendere quel muto segnale, perché restituì il cenno e il sorriso. Dopo che i fogli con l’opinione dei giudici furono passati nelle sue mani e che restò il suo voto a decidere il verdetto finale, si raddrizzò, sistemò la parrucca voluminosa e trafisse l’imputato con occhi severi e falsamente benevoli: “Erik Destler, il giorno 15 Novembre 1870 all’ora di mezzogiorno sarete condotto in una carretta, vestito solo di camicia, a piedi nudi, in Place de Grève, dove sarete bruciato sul rogo purificatore finché morte non sopravvenga. Prima di questa data vi sarà portato un prete e potrete fare ammenda per i vostri peccati e chiedere perdono al Signore, poiché Lui, nella sua immensa misericordia, accoglie l’anima penitente in purgatorio e le evita di languire in eterno nelle fiamme dell’inferno. Che Egli abbia pietà della vostra anima!” batté un colpo secco con il martelletto: “La corte si aggiorna!”
Erik mantenne un’espressione vacua e indifferente e si lasciò portare via dai suoi carcerieri.
Antoine, sulla porta, sorrise nuovamente. Povera, ingenua Vivian. Davvero aveva ritenuto possibile che chiedesse la grazia per quel mostro?
Aveva vinto. Era innegabile.

 

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Capitolo 22
*** Dannazione reciproca ***


Dannazione reciproca

 
 
 
 
 
 
Antoine si era preso gioco di lei. Gli aveva ceduto il suo corpo, facendosi promettere in cambio il rilascio di Erik, ed egli le aveva voltato le spalle, ignorando l’immenso sacrificio compiuto per salvare l’amato e lasciando che la corte lo condannasse a morte. Quando era stata annunciata la data dell’esecuzione, tra le grida di gioia furiosa e di soddisfazione del popolo, lei era ormai tornata alla casa di Madame Lefevre e si era preparata un bagno bollente con il quale lavar via dalla pelle la sozzura che si sentiva addosso, mista all’odore del marchesino e al fastidio che sentiva alle mani, costrette a piegarsi a umiliazioni che non avrebbe mai creduto possibili. Aveva gettato nel fuoco il logoro mantello e il modesto abito di tela grezza con il quale si era presentata da lui e si era strofinata il corpo con furia, passandosi una saponetta sulle cosce violate e sul seno e bisbigliando tra sé imprecazioni e oscenità che la aiutavano a mantenere il contatto con la realtà e a non impazzire.
Ma poi la voce della condanna si era sparsa, era serpeggiata nei vicoli, nelle piazze, sulla Senna, fino a raggiungere le sue orecchie, ed erano state così grandi la sua rabbia e la sua stupefatta sofferenza che aveva lanciato un urlo lancinante e aveva brandito, in un impeto di disperazione, le forbici con le quali la sua tutrice si limava le unghie, risoluta, sull’onda della terribile notizia, a togliersi la vita come già una volta aveva tentato di fare. Non poteva esistere in un mondo in cui Erik non c’era, avrebbe preferito essere odiata da lui fino alla fine dei tempi, piuttosto che vederlo morto, bruciato, sbeffeggiato da una folla urlante. Oh, era a conoscenza dell’opinione comune…Madame Lefevre ed Emma la condividevano…pensavano che egli fosse il figlio del Diavolo, uno stregone deforme che aveva ottenuto la sua bravura di musicista con mezzi infernali e che partecipava abitualmente alle agapi e ai sabba. Quale ridicola superstizione! Era ancor più assurda della leggenda del Fantasma dell’Opera! Non sarebbe stato assai più credibile ammettere che il condannato era soltanto un comune essere umano con una straordinaria propensione per la musica e una deformazione congenita?
No, naturalmente. Quei villici ignoranti e superstiziosi avevano bisogno di un demone da esorcizzare e avevano reso tale l’uomo che amava, condannandolo a bruciare sul rogo che, secondo loro, lo avrebbe purificato dai suoi peccati. A cosa era servito, tutto quanto? Il suo amore per lui, i dieci giorni nella Dimora sul Lago, la canzone che avevano composto insieme e che lei aveva terminato dopo la sua cattura, oscurando i fogli con lacrime di dolore, i baci, le carezze, i sogni, la voluttà? Sarebbero arsi con il suo Erik, trasformandosi in polvere, sarebbero svaniti come un sogno di cristallo rivelatosi una volgare finzione di colla e vetro? Antoine aveva infine vinto sul loro sentimento? Li aveva schiacciati e distrutti, uccidendo l’uno e violando l’altra? Sarebbe rimasta in quella stanza che le risultava così estranea, accasciata tra i guanciali del baldacchino, fino al momento in cui le grida giubilanti della folla non sarebbero penetrate attraverso le tende, terribili e assordanti, annunciandole la morte dell’amato? Non mancavano che poche ore, ormai…entro poche ore, Erik sarebbe stato condotto a Place de Grève in una carretta, schernito e disprezzato dal popolo di Parigi, lo avrebbero legato sopra una catasta di legna da ardere che era stata già preparata e avrebbero atteso con ansia famelica le sue urla, i suoi ruggiti.
E lui avrebbe urlato? Avrebbe dato ai suoi aguzzini ciò che volevano, o il suo incrollabile orgoglio, presente in ogni situazione, lo avrebbe indotto a resistere persino a fronte di una sofferenza così grande? Che cosa si provava ad avere il corpo in fiamme, a vedere la propria carne annerirsi e consumarsi, gli arti deformarsi in umidi monconi e i capelli strinarsi in una vampata rossa e accecante? A percepire l’orrendo fetore di pelle e capelli bruciati e a sapere che erano le tue stesse membra a promanarlo? Tutto quel che amava di Erik sarebbe stato vaporizzato. I suoi meravigliosi occhi azzurro scuro si sarebbero sciolti in un fluido biancastro, le morbide labbra che aveva baciato avrebbero perduto per sempre la loro forma, la chioma in cui aveva affondato le dita si sarebbe tramutata in cenere.
Non sarebbe rimasto nulla di lui…nulla su cui potesse piangere. Al mondo non v’è niente di più letale e distruttivo del fuoco. Se avesse trovato la forza di recarsi a Place de Grève dopo la fine dell’esecuzione, allorché tutti sarebbero andati via con noncuranza, pronti a dimenticare, non avrebbe rinvenuto altro che un mucchio di cenere puzzolente, con cui forse si sarebbe aspersa il corpo per tenere in vita qualche traccia di lui.
Lanciò un urlo. E poi un altro. E un altro ancora. Urlò finché il suo volto si colorò di un rossore malsano e sul suo collo si gonfiò la vena giugulare, artigliandosi con furia cieca le guance e il petto e rotolandosi tra le lenzuola sudate e impregnate della sua sozzura. Nessuno di quegli urli leniva la sua sofferenza, e probabilmente Madame Lefevre o le sue domestiche si sarebbero spaventate, ma niente aveva importanza in quel momento. Voleva che si avvedessero del suo tormento, voleva essere messa in relazione con il condannato. Sul conto del loro rapporto erano state diffuse varie chiacchiere, la maggior parte delle quali la vedeva nel ruolo di strega e complice. Ma loro non  potevano capire, non potevano comprendere. Nessuno poteva. La gente vede quel che vuol vedere. È troppo difficile provare pietà e comprensione per una faccia deturpata, infilarsi nella tragica vicenda del passato di un uomo costretto a uccidere per guadagnarsi un posto nel mondo. Egli non era come loro, e perciò lo chiamavano mostro e progenie del Diavolo. Neanche un’anima buona si era dispiaciuta per lui…lei stessa, all’inizio, aveva creduto d’avere a che fare con un semplice assassino senza morale.
Ma il vero mostro, il vero demone, era Antoine. E, ironia della sorte, nessuno se ne accorgeva! No, lo chiamavano eroe, gli battevano pacche sulle spalle, lo omaggiavano, erano pronti a baciare le sue disgustose scarpe tirate a lucido e a riconoscergli il pieno merito della soppressione del malefico stregone. I suoi lineamenti regolari, la sua chioma bionda e i suoi occhi azzurri erano talmente puri e innocenti, che mai nessuno avrebbe potuto intravedere il marciume che vi era celato. Per colpa della sua crudeltà un uomo sarebbe morto e un amore sarebbe stato spezzato, lasciando solo cenere e rimpianto.
Afferrò la bottiglia di cognac che aveva prelevato quella mattina dall’armadietto dei liquori e la stappò con tale furia da rovesciarne sul pavimento qualche schizzo. Bevve gettando indietro la testa, un sapore atroce e bruciante nella gola che si mischiava a quello salato delle lacrime di rabbia e di dolore che le rigavano le guance. Voleva stordirsi, perdere la lucidità, la consapevolezza dell’imminente esecuzione, cadere in uno stato in cui è l’istinto a comandare, e non la ragione. Il cognac le scorreva in grossi rivoli ai lati della bocca, le gocciolava sul seno malamente coperto dalla camicia da notte spessa, colava fino ai capelli, arruffati e intrisi di sudore. Dopo che ne ebbe tracannata una buona metà, scagliò la bottiglia per terra e chiuse gli occhi, sostenendosi alla struttura del letto per ritrovarsi nell’improvvisa confusione che aveva colto i suoi sensi. Aprendoli nuovamente sulla stanza oscillante, colse una fugace immagine di sé sul modesto specchio da parete sistemato dinnanzi a lei.
Aveva un aspetto impressionante. I ricci erano una massa scarmigliata e selvaggia simile alla criniera di un leone, la grezza camicia da notte bianca era macchiata di liquore e piccole vene rossastre risaltavano sotto la delicata pelle del viso, concentrandosi in particolar modo intorno agli occhi, gonfi e irritati dal pianto. Lucidi com’erano, i riflessi verdi erano ancora più in risalto, ma quel colore intenso e penetrante la rendeva ancora più malsana, più inquietante. Il suo riflesso ondeggiava, andava fuori fuoco, assumeva contorni indefiniti, forme in continuo mutamento che le ricordarono all’improvviso…
“Padre”.
Abbassò lo sguardo sulla bottiglia di liquore in terra, quindi nuovamente sulla sua immagine sfocata. E così avevano finito per condividere anche questo. Per essere trascinati nello stesso vizio, nella stessa voragine, l’unica maniera di anestetizzare il dolore, di metterlo a tacere per delle ore. Era venuta meno ad ogni suo giuramento, ad ogni sua promessa personale. Aveva giurato che avrebbe imitato soltanto il lato migliore di suo padre, che avrebbe fatto tesoro della sua tragica esperienza con l’alcol, e a fronte della sofferenza si era palesemente smentita, andandolo a cercare come solo rimedio. Si era ripromessa di non lasciar mai che un uomo si approfittasse di lei, e aveva venduto il suo corpo ad Antoine senza ottenere niente in cambio. Aveva fallito sotto ogni punto di vista, aveva calpestato la sua dignità e il suo nome.
Non era niente.
Non valeva la pena di essere niente. Non senza Erik. Non senza la sua splendida voce che accompagnava il suo sonno e il suo risveglio, non senza le sue grandi mani che le accarezzavano la pelle con delicatezza esemplare, non senza i suoi buffi cambiamenti d’umore e le sue espressioni esasperate quando era costretto ad accettare le sue bizzarrie. Aveva bisogno di lui, fisicamente e spiritualmente. Mai nella vita aveva percepito una necessità così stringente, così assoluta, nei confronti di una persona. Lui la capiva, la ascoltava come nessuno aveva fatto in passato, non la giudicava né condannava per gli errori e le mancanze che aveva commesso, ed era la stessa cosa per lei. Il sentimento che provava per Erik era così forte, così puro, che se anche avesse avuto l’intera faccia coperta di piaghe, se fosse stato un mostro nel vero senso della parola, l’avrebbe amato esattamente allo stesso modo, semplicemente perché era…lui. Sarebbe stata capace di gettarsi nel rogo purificatore e di avvinghiare le braccia al collo di ciò che rimaneva del condannato, incollando le labbra alle sue e piangendo su di lui…con lui…fino a consumarsi a sua volta.
Scivolò a terra, priva di forza, circondata da lembi della sua camicia da notte macchiata, e si strinse al petto i fogli con su scritta la loro canzone, quei fogli che lui aveva toccato, modificato, perfezionato, scritto nella sua elegante e affilata calligrafia. Il suo odore selvaggio aleggiava ancora sulla carta bagnata di lacrime e di strazio, e se chiudeva gli occhi e avvicinava al viso gli spartiti, le sembrava quasi d’averlo vicino, severo e indulgente al tempo stesso, gentile nelle correzioni e rigido nei rimproveri. Quelle note stropicciate erano tutto quel che restava di lui, del loro rapporto che aveva squarciato i veli dell’apparenza e rivelato ciò che c’era oltre le ombre. E tale era il titolo che infine aveva scelto. “Oltre le ombre”. Un nuovo inizio…un viaggio mancato…l’occasione di riscattarsi e lavarsi dai peccati…
“Erik” sussurrò con estrema fatica, serrandosi contro la canzone e dondolando su se stessa, con insensata continuità, il volto chino nascosto da una cascata di capelli arruffati: “Erik”.
“Vivian?”
Sussultò. La sua mente, vacillante e spezzata dal peso dell’umiliazione subita e della condanna ormai vicina, si distolse dai pensieri sconclusionati in cui aveva vagato finora e la spinse a levare il capo di scatto e a sbarrare gli occhi gonfi e rossi sulla figura che aveva aperto la porta senza bussare, una chiazza rossa nella penombra circostante. Un freddo glaciale penetrò nel suo animo e una bestia addormentata si destò con un soprassalto di fastidio, agitandosi nel suo stomaco.
Antoine Baptiste Rappenau.
Ogni particolare di quell’essere umano venne registrato con la precisione dell’odio e la bruciò all’interno, il piccolo naso all’insù, le labbra piene e rosse come quelle di un bambino, il viso regolare e sbarbato alla perfezione, l’oro mielato dei folti capelli, le basette curate e gli occhi, cerulei e astuti, fissi su di lei con trionfo, malevolenza e libidine. Un mantello bordeaux lo rivestiva da capo a piedi e sotto di esso si intravedevano un panciotto ornato di complicati ricami e calzoni di morbido camoscio, inguainati in costosi stivali di pelle. Si era abbigliato a festa…per celebrare la morte dell’uomo che amava.
Dal lampo di compiacimento che gli aveva attraversato le pupille rapaci, suppose che anche il giovane l’avesse esaminata con cura, e che avesse trovato il risultato estremamente gradevole. Si fece avanti nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle, e si tolse il copricapo con gesto elegante, gettandolo sul suo letto sfatto: “La tua tutrice mi ha fatto entrare. È appena uscita con la sua domestica per comperare qualcosa per la cena. Mi dispiace di sorprenderti in queste condizioni, non volevo recarti fastidio”.
Aveva un tono pieno di falsa cortesia. Con la superbia del vincitore, sicuro di averla distrutta, si mostrava comprensivo e compassionevole nei suoi riguardi e si recava da lei, trovandola in uno stato disumano, per compiacersi ancor più dei risultati ottenuti. Perché non l’aveva uccisa? Perché non aveva atteso che uscisse dal teatro dell’Opera per afferrarla, trascinarla in un vicolo, strapparle i vestiti di dosso e concludere quel che aveva iniziato nella cappella? Era lei che odiava e amava allo stesso tempo, non Erik. Perché essere sadico fino a quel punto, e privarla della sola persona a cui teneva, della sua salvezza, lasciandola priva di ogni cosa? Cosa gliene sarebbe venuto, dalla morte di Erik? Se l’era presa con lui…glielo aveva strappato…come un malevolo e schifoso serpente che attaccava a sorpresa, iniettandole nelle vene la più atroce forma di sofferenza.
La bestia acquattata nel suo petto levò un ruggito e incominciò a soffiare, irrequieta.
“Sono venuto a spiegarti” stava dicendo intanto Antoine, accomodandosi al suo tavolo da lavoro senza chiederle il permesso. La sua espressione era un mirabile esempio di sincera sollecitudine, ma gli occhi, gli occhi lo tradivano. Erano lo specchio attraverso il quale il mostro scrutava il mondo e le sue vittime, e scintillavano di un bagliore felino, inquietante: “Ho cercato di rispettare il nostro patto, ma non c’è stato niente da fare. L’imputato ha confessato ogni cosa, graziarlo avrebbe significato una rivolta in piena regola, il popolo avrebbe assaltato il Palazzo di Giustizia e l’avrebbe fatto a pezzi. Sarebbe stato sparso sangue inutilmente e non sarei comunque riuscito a salvarlo. Mi dispiace, Vivian”.
Menzogne, solo menzogne. Forse c’era una parte di verità nelle sue parole, ma non aveva mai voluto arrischiarsi a chiedere la grazia per Erik. Non ci aveva neanche provato. E lei, ingenuamente, gli aveva dato fiducia. Ma quando ogni speranza cade, quando non si ha niente a cui aggrapparsi, ci si attacca ai compromessi più orribili, ai patti più mostruosi…avrebbe voluto tapparsi le orecchie e smettere di sentire la voce fintamente gentile che la riempiva di facili bugie. Erik sarebbe morto, e tutta la colpa andava ad Antoine.
Il giovane forse avrebbe voluto avvicinarsi e metterle una mano sulla spalla, ma qualcosa nell’espressione di lei lo persuase a restare dov’era, e s’accontentò di sorriderle con atteggiamento colpevole: “Mi duole il cuore a vederti così, credimi. Ma starai meglio senza di lui. Non avresti guadagnato nulla di buono da questa relazione, e sono sicuro che quando sarà morto e cesserà di dominarti con i suoi poteri diabolici, te ne renderai conto a tua volta. Lui ti aveva stregata, Vivian, proprio come aveva stregato la sua antica amante, Christine Daaé. Non ti amava davvero, poiché il figlio del Diavolo è incapace di provare amore, come tutte le creature infernali. È scritto nella Bibbia. Voleva soltanto una compagna con la quale condividere il peso della sua solitudine e del suo marciume, un’adepta da plasmare a sua immagine e somiglianza e da iniziare alle pratiche demoniache. Lo sai che aveva ottenuto la sua abilità di musicista con un patto satanico? Si era recato in una delle grotte sotterranee in cui ama tanto girovagare e si era bagnato con gli umori di una donna gravida, pronunciando al contrario il Pater Noster! Nel giro di poco tempo avrebbe costretto anche te a fare lo stesso, ti avrebbe tramutata in una strega in combutta con le forze del male! Ma io ti ho liberato! Ti ho salvato, proprio come il visconte de Chagny salvò la sua amata sei mesi fa!”
Infervorato dalla propria dichiarazione di eroismo, il marchesino si drizzò in piedi, sfavillante nei suoi abiti scarlatti, il capo dorato alzato in atteggiamento di trionfo e gli occhi azzurri scintillanti, e s’appressò impetuosamente alla ragazza semiseduta sul pavimento, inerte, pallida, sciupata, che lo fissava con uno sguardo molto scuro e molto fisso. Le parole gli rotolavano fuori dalla bocca come un fiume in piena: “Sì, Vivian, io ti ho salvata. Ti ho steso una mano nell’abisso e ti ho tirata fuori prima che fosse troppo tardi. L’adepto del Demonio ti ha fatta sua, ma non è riuscito a renderti uguale a lui. Credevo che fossi dannata…che ti avesse cambiato. Ma quando noi…quando hai cancellato il precedente peccato congiungendoti con me, messaggero di Dio, ho compreso che non eri stata marchiata per l’eternità. Io ti amo, Vivian”.
Gli occhi muschiati della giovane si sgranarono ancora di più, le orbite venate di rosso che vagavano sulla figura tremante e appassionata di Antoine mentre il viso conservava un’espressione vacua e inespressiva, impossibile da decifrare. Egli, dal canto suo, per quanto la stesse ricoprendo di bugie con cui sperava di ammansirla, aveva lo sguardo di chi ha appena dichiarato una verità. Non la amava davvero, era convinto di amarla, e la sua imitazione di quel sentimento era verde di odio, lascivia e possesso, era un aborto mostruoso che le ricadeva addosso con le fauci spalancate e la divorava: “Sei la mia ossessione, il mio desiderio, la mia condanna e la mia salvezza allo stesso tempo. Da quando ti sei offerta a me, non ho fatto altro che rivedere nella mente il tuo corpo nudo, i tuoi capelli morbidi, il tuo seno. Rinnegherei qualsiasi cosa per averli. Avevo deciso di liberarmi di te…ma non posso. Ti amo troppo. Voglio averti al mio fianco, Vivian”.
Il volto di lei era una maschera di gesso, talmente bianco da avere un aspetto mortuario: “Che cosa?” quelle parole vennero pronunciate in un bisbiglio appena udibile. Antoine annuì vigorosamente, gli occhi sempre più sfavillanti, le gambe che divoravano la distanza che separava i loro corpi. Sembrava incapace di starle lontano: “So che mi odi. So che vorresti vedermi morto. Ma è solo l’influenza di quel demonio. Non appena ci saremo disfatti di lui, ti sarà chiara ogni cosa. Capirai che lui ti avrebbe offerto solo la dannazione eterna, mentre io sono disposto a darti tutto quel che una donna può desiderare. Vuoi splendidi vestiti di stoffe colorate e luccicanti, gioielli orientali dal valore inestimabile? Chiedili, ed io te li concederò immediatamente. Vuoi un letto di piume su cui addormentarti la sera, vuoi la considerazione e l’apprezzamento degli eletti? Posso fare in modo che l’alta società parigina si inchini al tuo passaggio, che siano costretti a discorrere con te. Sparleranno, questo è certo, ma è un rischio superfluo. Vieni con me, al mio palazzo, diventa la mia amante, e ti aprirò le porte per la vita vera”.
Tacque, ansimando un poco, e attese con trepidazione convulsa la sua reazione.  
Vivian chiuse gli occhi e s’appoggiò con tutto il peso alla struttura del letto, le movenze di chi è nell’atto di rigettare. Era così…stanca. Di tutto quanto. Di ciò che la gente voleva da lei, dei soprusi di cui era fatta oggetto, della sua incapacità di difendersi adeguatamente. Era sola in pasto al mondo e alle sue cattiverie, separata da Erik, dall’amore, dalla salvezza. Ogni cosa era andata distrutta, ogni sogno, ogni speranza, ogni progetto. Era di nuovo la figlia bastarda di una famosa cantante, mediocre sotto tutti i punti di vista e priva di ancore a cui aggrapparsi. Molte ragazze, nella sua situazione, avevano gettato la spugna, avevano preso quel che offriva la sorte, anche se era orrendo e disgustoso.
Sapeva cosa doveva fare. Le conseguenze sarebbero state fatali, ma era l’unico modo di sfuggire all’oscurità che la circondava con sempre maggior voracità.
Fissò il volto infiammato e possessivo di Antoine e pronunciò distintamente: “Verrò”.
Egli assunse un’espressione incredula. Malgrado la sua sicurezza, il suo trionfo, quella reazione tradiva che si era proposto a lei senza sperare davvero in un consenso. Anzi, conoscendo il temperamento della ragazza, aveva messo in conto di doverla minacciare, di costringerla con la forza a seguirlo, di sostenere l’ennesima lotta. Quel “verrò” che lei aveva pronunciato con tono sicuro e impassibile gli giungeva totalmente inaspettato. Batté le palpebre, fissandola con assoluto stupore, e sussurrò: “Dici…dici sul serio?”
Lei si alzò in piedi. I capelli color della notte le ricadevano sul petto e davanti al pallido viso, circondandola di un’aura di buio, e al di sotto di quelle fronde voluminose le iridi ambrate erano fisse sul marchesino, accese da un fuoco eterno che era stato sopito solo temporaneamente. Avanzò, accompagnata dal sommesso fruscio della camicia da notte, e il giovane la lasciò avvicinare con circospezione, esitando ad abbandonarsi alla speranza di aver risolto tutto nel modo migliore. Non appena la ragazza si fu fermata dinnanzi a lui, gli passò le braccia snelle intorno ai fianchi, facendo aderire i loro corpi, e disse, senza sorridere: “Non c’è bisogno di aspettare la morte del fantasma. Le tue parole mi hanno aperto gli occhi. Ti amo anch’io, Antoine”.
Lui boccheggiò: “Mi…mi ami? Davvero? Io credevo…”
“Credevi che volessi trascorrere la vita con un mostro legato a filo doppio a Lucifero?” lo interruppe lei. Il cuore mandò una fitta a quella definizione di Erik, ma lo zittì con rabbia. Era l’unico modo, l’unico: “Tu sei come un principe delle favole, mio signore. Sei bello, valoroso e ricco. Sono stata un’inetta a contrariarti, ma ti prometto che mi impegnerò a rimediare. Anche subito”.
Egli era in preda alla confusione, ma un senso di vittoria incominciava a penetrare attraverso le crepe della sua maschera stupefatta: “Non avrei mai pensato che tu fossi forte abbastanza da liberarti dal suo incantesimo prima di vederlo bruciare”.
“Non ce l’avrei mai fatta, senza il tuo aiuto. Tu mi hai liberato. E intendo mostrarti appieno la mia gratitudine, amor mio”.
Immerse le dita tra i fluenti capelli biondi del marchesino e appoggiò le labbra sulle sue, premendosi con foga contro al suo corpo magro e asciutto. Egli emise un grugnito animalesco dal profondo della gola e reagì con prontezza entusiasta, afferrandole i seni e strizzandole i capezzoli fino a farle male. Vivian, tuttavia, gli impedì di tenere le redini di quel convulso scambio di baci e di sfioramenti come era accaduto quando gli si era offerta e gli intrappolò i polsi in una stretta salda, forzandogli la bocca fino ad aprirla e insinuando la lingua tra i suoi denti. Lo baciò con furia, con rabbia, avvinghiando le mani ai suoi capelli, sottomettendolo con la sua stessa lussuria e il suo stesso stupore, sfuggendo con destrezza felina al suo tocco. I sommessi mormorii che sfuggivano al giovane testimoniavano che egli doveva gradire molto quell’assalto, e la lasciava fare senza opporsi. Le selvatiche erano le migliori, quando erano state domate.
Continuando a incontrare con frenesia la sua lingua eccitata, a girarle intorno, aggredendola poi con scatto rapace, Vivian lo spinse di peso accanto al camino dove il fuoco scoppiettava allegro, sbattendolo contro al muro. Aprì i bottoni del panciotto ricamato con tal foga da staccarli dal morbido tessuto e ritirò la bocca dalla sua, depositandogli tanti, piccoli baci sul collo, sulla fronte e sul petto messo a nudo: “Voglio farlo adesso” disse con voce rauca.
Egli aveva lo sguardo ardente di gioia e di libidine: “Non potrei essere più d’accordo”.
Lo costrinse a stendersi sul pavimento di legno, appoggiandogli entrambe le mani sul torace e facendo forza, e si mise in ginocchio sopra di lui, infilandogli nuovamente la lingua in bocca. Il marchesino chiuse gli occhi e si concentrò sul bacio, le mani che scivolavano sul grezzo tessuto della camicia da notte alla ricerca dell’allacciatura.
Mentre i corpi aderivano l’uno all’altro in una danza convulsa e animalesca, le dita di Vivian, agili come zampe di gatto, serpeggiarono fino al crepitante camino e si avvolsero intorno al manico dell’attizzatoio dalla punta incandescente, estraendolo dalle braci nerastre. Antoine, troppo preso a spogliarla, neppure se ne accorse, e fu la sua rovina.
L’arma venne levata, il bagliore rossastro della punta rovente scintillò per un attimo nella semioscurità della stanza, quindi calò con forza terribile sul volto angelico del marchesino Rappenau e descrisse una mortale parabola che terminò in un suono disgustoso e in un grido bestiale e lancinante, talmente disumano, talmente straziato, da indurre i brividi al più temerario. Vivian si ritrasse agilmente dal corpo del giovane, l’attizzatoio sempre in pugno, il davanti della camicia lordato da uno spruzzo di sangue, gli occhi scuri ardenti di mille fiamme e l’espressione stravolta dalla ferocia e dall’odio, e lasciò Antoine a contorcersi pateticamente al suolo, le mani premute sull’ammasso informe che un tempo era stata la sua faccia e la bocca che emetteva mugolii raggelanti, indefessi. Il colpo era stato vibrato con violenza e aveva distrutto per sempre la sua bellezza, mangiandogli il naso, deformandogli la bocca, accecandolo. Non riusciva neanche a parlare, ma se avesse potuto, l’avrebbe senz’altro riempita di maledizioni e di bestemmie.
Ella fissò, diritta, salda, l’essere patetico che si dimenava ai suoi piedi. La punta dell’attizzatoio gocciolava sangue fresco, sangue che pian piano colava sul pavimento e si raggruppava in una pozza umida e viscosa. Non provava orrore per quel che aveva fatto, non provava nulla. Anche Erik si era sentito così, svuotato e apatico, dopo aver ucciso lo zingaro che tanto a lungo lo aveva torturato? Anche Erik aveva agito con aggressività meccanica?
Ma intanto il marchesino si riprendeva. Nessun essere umano si è mai arreso alla morte senza lottare, ha ceduto immediatamente al volere del suo assassino. Muovendosi con scatti innaturali, da verme, con la goffaggine dei ciechi, allungò una mano nella sua direzione e le afferrò la caviglia in una presa convulsa, tentando di farla cadere.
Lei agì con fulmineità impassibile e abbatté nuovamente l’attizzatoio su di lui, vibrandoglielo sul torace con tal violenza da frantumargli almeno un paio di costole. Il suono terribile delle ossa frantumate invase l’aria stantia della camera e dalla bocca senza labbra di Antoine sfuggì un secondo grido, più esile e smorzato, una sorta di gorgoglio liquido. Sangue copioso fiottò dalla sua bocca e gli scivolò sul mento, tuttavia non cedette. Trascinandosi con la forza delle braccia, cercava di strisciare, di allontanarsi, mostro di dentro e di fuori, creatura spregevole e corrotta sconfitta, infine, dalla sua eccessiva sicurezza, dal suo stesso disprezzo per gli altri. Vivian lo guardava dall’alto, invasa da una gelida determinazione, da un odio ustionante e violento, e non provava alcuna pietà per lui, per lo stato in cui lo aveva ridotto. Aveva mandato Erik a morire senza alcun ripensamento, l’aveva umiliata, e infine si era beffato di lei, offrendole un posto al suo fianco dopo averle portato via l’amato. Non meritava altro che questo.
Per la terza e ultima volta l’attizzatoio venne sollevato, le braccia snelle che lo sorreggevano accumularono le forze necessarie al colpo di grazia e lo diressero con precisione dritto sulla fronte della creatura in preda ai contorcimenti, spaccandola, liberando una perdita di sangue e cervella, rovesciandola a terra mentre egli emetteva l’ultimo gemito, forse una preghiera a Dio, un segno di rimorso, o, più probabilmente, un grido d’odio.
Infine, ci fu silenzio. Un silenzio quieto, pacificatore. L’arma scivolò dalle dita di Vivian e cadde a terra con un tonfo sordo. L’aveva ucciso. Aveva ucciso un uomo. Il cadavere abbandonato in una posizione innaturale accanto al camino, bloccato nell’atto di strisciare e ridotto ad una poltiglia rossastra che perdeva sangue dalle ferite al volto, al petto e alla testa, era stato creato da lei. L’enormità di quanto aveva compiuto le gravò sulle spalle tutta insieme, incurvandogliele, modificando la sua postura, prima ben eretta grazie all’innocenza dell’animo, ma ancora non giunse alcun rimorso, alcun biasimo verso il suo crimine. Aveva passato il punto di non ritorno. Adesso, lei ed Erik condividevano davvero ogni cosa. Ma aveva fatto la cosa giusta. L’unica cosa giusta. E se questo agli occhi di Dio significava dannazione, bene, sarebbero stati dannati insieme. Poteva fare qualsiasi cosa, in quel momento.
Un urlo acuto e penetrante spaccò l’aria e la strappò alle sue turbinose riflessioni, inducendola a voltarsi in direzione dell’uscio.
Madame Lefevre era immobile sulla soglia, le mani premute sul viso pallidissimo, gli occhi strabuzzati in un’espressione di orrore e di paura, e fissava alternativamente il cadavere straziato e la figura curva della ragazza dalla camicia da notte macchiata di sangue e dallo sguardo vuoto e deciso. Arretrò, tremando da capo a piedi, scuotendo più volte la testa come a negare ciò che aveva visto, e seguitò a gridare con voce terrorizzata: “Strega! Strega! Assassina!”
Un sorriso amaro danzò sulle labbra di Vivian. La gente vede quel che vuol vedere. Se una ragazza dalle povere origini e dalla cattiva reputazione viene sorpresa nella sua stanza con il cadavere martoriato di un ricco e amato marchesino, è certo che chiunque penserà di avere a che fare con una crudele meretrice di Satana, con una strega malefica e folle che aveva diretto la furia dei suoi poteri infernali contro un ragazzo innocente. Nessuno si sarebbe fermato a pensare ai motivi che l’avevano spinta a quell’atto fatale, nessuno avrebbe creduto alla tortura di cui era stata fatta oggetto, esattamente come era successo quando Erik era stato scoperto ad ammazzare lo zingaro. Tutto era apparenza, tutto era superficie.
E lei ne aveva abbastanza di cercare di dimostrare il contrario. Volevano una strega? Bene, li avrebbe accontentati. Non aveva bisogno di un volto sfigurato per meritarsi una simile nomea, era una donna. Alle donne basta poco per essere odiate e aborrite.
Si chinò sul cadavere di Antoine e afferrò l’elsa tempestata di gemme del suo fioretto, sfilandolo dal fodero appeso alla cintura e brandendolo con espressione così insensata, così furiosa da indurre la sconvolta tutrice ad attaccare la schiena al muro, in un ridicolo tentativo di sfuggire al suo assalto. Stupida donna superstiziosa e sprezzante. L’aveva sempre compatita, l’aveva accolta in casa sua per dimostrare d’essere una donna buona e pietosa, detestandola in tutto ciò che faceva. Premette la punta della spada sul suo collo, strappandole un rantolo terrorizzato, e sibilò: “Non una parola di più, maledetta megera. So che possiedi un calesse. Dov’è?”
Gli occhi acquosi dell’anziana donna la fissavano con orrore bigotto: “Tu sei la sgualdrina del demonio…ho accolto in casa una…”
Vivian aumentò la pressione della lama e scalfì la tenera carne della gola, smorzando quei balbettii: “Non ti ho chiesto di insultarmi. Ho ucciso il marchesino Rappenau, lo vedi? L’ho colpito con l’attizzatoio rovente finché non è crepato, l’ho spedito all’inferno. E farò la stessa cosa con te, se non mi rispondi”.
La sua minaccia non era veritiera, non avrebbe mai potuto uccidere la debole Madame Lefevre, ma la vista del corpo martoriato e del suo sguardo incandescente dovettero persuadere la donna di avere a che fare con una completa folle, così sussurrò, bisbigliando: “Giù…nella stalla…”
Bene. Scostò l’arma dalla gola della sua tutrice, reggendola con la mano sporca di sangue, e le rivolse un’occhiata intensa e penetrante: “Non seguirmi, signora. Non avresti mai dovuto farti carico di una ragazza che disprezzavi. Addio”.
Si volse, lasciandola a singhiozzare contro il muro. Ogni cosa, finalmente, le appariva chiara, cristallina. Il pensiero di Erik, che nelle ultime ore le aveva causato unicamente dolore e rimpianto, adesso era la luce che la sorreggeva nell’oscurità, la meta da raggiungere a tutti i costi.
Sapeva cosa doveva fare. E l’avrebbe fatto.

 

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Capitolo 23
*** La strega ***


La strega

 
 
 
 
 
 
Erik aveva deciso di morire in grande stile, assecondando il suo carattere orgoglioso e la sua innata passione per la pompa e il fasto. Probabilmente il popolo si aspettava di vederlo abbattuto e patetico nella sua disperazione, ridotto ad un essere tremante e terrorizzato dal rogo imminente, più animale che uomo, ma li avrebbe delusi dal primo all’ultimo. Ora che aveva perduto ogni speranza di ricominciare daccapo, di meritarsi un futuro felice in cui c’era spazio per le risate, il sole, la gioia e persino il vero amore, non gli restava altro che la sua dignità, e nessuno gliel’avrebbe portata via. Considerava la condanna come l’ultimo appuntamento importante a cui si sarebbe recato, e di conseguenza, poco prima che lo preparassero al tragitto in carretta, era uscito dal suo stato di apatia e aveva chiesto, con franchezza e senza umiltà né sottomissione,  di poter fare un bagno.
Le guardie si erano scambiate sguardi straniti, ma non si rifiuta l’ultimo desiderio di un condannato a morte, per cui avevano acconsentito e l’avevano condotto in una putrida latrina dove era stata portata una tinozza piena di acqua gelida. Le ossa e i muscoli avevano protestato allorché si era immerso, ma aveva stretto i denti e serrato i pugni e il suo fisico temprato da sforzi e disavventure aveva sopportato quel freddo artico. Era stato un sollievo lavar via dalla pelle la sporcizia, il sudore e il sangue secco, restituire ai capelli la loro lucentezza e il loro volume. Se avesse potuto indossare una maschera, si sarebbe ritenuto l’uomo più soddisfatto del mondo, ma naturalmente quella era una cosa che non gli avrebbero mai concesso; per schernirlo e disprezzarlo a dovere, la folla aveva bisogno di vederlo in faccia, di additare con orrore la sua deformità, la reazione sarebbe stata furibonda se l’avesse tenuta nascosta. Non si sarebbe evitato schiamazzi e dileggi, insulti e maledizioni. Ma andava bene così. Non gli importava dell’opinione della gente. Non si erano mai intesi, nemmeno una volta nella sua vita. L’unica persona che per lui contava, poi, lo aveva tradito, gli aveva voltato le spalle, consegnandolo nelle mani del boia. Il fatto che non si fosse degnata di fargli nemmeno una visita quando la notizia della sua morte si era sparsa per tutta Parigi, avvalorava ancora di più la sua colpevolezza.
Era quello l’unico rimpianto rimastogli, l’unico dolore capace di incrinare il suo contegno impenetrabile. Amava Vivian e si sarebbe tenuto accanto il suo ricordo, traendo forza da esso, fino al momento del decesso, ma non essere ricambiato da lei, esser stato tradito per l’ennesima volta, rovinava tutto, lordava ogni cosa, ogni dolce rimembranza, ogni frammento di memoria. Credeva che l’esperienza di Christine l’avesse edotto a sufficienza sulla crudeltà delle donne, sulla loro natura tentatrice e serpentina, invece c’era cascato come un idiota, come un ragazzino imberbe, facendosi sedurre da una ragazza che aveva finto di amarlo e di volerlo salvare, per farsi la fama di colei che aveva messo nel sacco il Fantasma dell’Opera. Era stato tutto solo un immenso, inutile sbaglio. Si illudeva di saper decifrare l’animo delle persone, di cogliere menzogna e verità sui loro volti e nelle loro parole, ma in realtà ignorava tutto, gli erano estranei esattamente come era estraneo a loro, l’inganno più palese era capace di indurlo a deporre ogni difesa se era accompagnato da un sorriso gentile e da un bacio appassionato.
Sarebbe venuta all’esecuzione? Da una parte lo sperava disperatamente, per vederla un’ultima volta, per morire con l’immagine del suo volto stagliata nella mente, ma dall’altra si augurava con tutto il cuore di no, poiché la sua presenza, in quella delicatissima circostanza, avrebbe potuto mandare in fumo tutti i suoi propositi di dignità e orgoglio e fargli perdere quel contegno che tanto faticosamente aveva impostato. Non temeva affatto la morte, anzi, la bramava, poiché solo lei avrebbe potuto dargli l’oblio e la pace che cercava (non credeva alle stupide storie di inferno e di diavoli sussurrate dai preti e dai loro patetici adepti), dunque era sicuro di avere la forza di affrontarla con coraggio, ma se Vivian lo avesse dileggiato e maledetto con gli altri…se, nella moltitudine inferocita, avesse colto la sua indisciplinata capigliatura e il suo sguardo accusatorio…avrebbe continuato a mostrare impassibilità? Oppure i dannati sentimenti che seguitava a provare per lei si sarebbero messi in mezzo e lo avrebbero reso ridicolo perfino nei suoi ultimi istanti di vita?
No, sicuramente non si sarebbe presentata, non era sadica e crudele fino a questo punto. Forse era troppo ingenuo per accorgersi di un piano diabolico celato da un’espressione dolce e tenera, ma si rifiutava di prendere in considerazione l’ipotesi che ella fosse totalmente diversa dalla ragazza che credeva di aver conosciuto in quei dieci giorni. Ovviamente gli aveva mentito, aveva tramato per vederlo morto…ma non era possibile che il tempo trascorso insieme e le vicissitudini che avevano affrontato non l’avessero sciolta neppure un po’. Fino a prova contraria, aveva rischiato la vita per salvare la sua, e aveva tentato di suicidarsi per indurlo ad avvedersi dell’amore che provava per lei…sempre che non facesse tutto parte del suo piano. Magari era così determinata a riuscire nei suoi intenti da mettere a repentaglio la sua stessa sicurezza per farlo, magari si era lasciata cadere dallo sgabello sapendo dal principio che lui l’avrebbe salvata, che si sarebbe strappato i capelli e piantato un pugnale nel petto, piuttosto che vederla morta. Magari adesso gongolava, compiacendosi della sua sconfitta, festeggiando con i suoi amici la buona riuscita dell’impresa, e si preparava ad assistere alla sua morte, a colpirlo e a disprezzarlo con gli altri parigini.
Perché aveva fatto in modo che si innamorasse di lei, che si concedesse il lusso di sperare in un futuro luminoso e felice? Perché non si era limitata a conquistarsi la sua fiducia e a consegnarlo alla giustizia con un qualsiasi pretesto? Chi era Vivian veramente? Cosa si celava dietro al suo viso volitivo e ai suoi franchi occhi ambrati? Ed era davvero così importante? L’immagine che lo avrebbe accompagnato sul rogo sarebbe stata quella che aveva scelto di mostrargli durante la loro convivenza, la sua maschera ingannevole, non aveva bisogno di altro, per morire come essere umano. Perché, dunque, continuava a porsi tutti quei maledetti interrogativi?!
La dignità era più importante di tutto, l’avrebbe conservata anche nella peggiore delle ipotesi, anche nel caso in cui la fanciulla si fosse posizionata in prima fila, abbigliata a festa, e lo avesse bersagliato con frutta marcia e parole di disprezzo. Avrebbe guardato da un’altra parte, rispettando la sua immagine di fantasma freddo e impassibile, e avrebbe tenuto bene a mente il sorriso di amore che gli aveva rivolto un attimo prima di incontrare le sue labbra. Non le avrebbe permesso di metterlo in ridicolo, di sporcare la perfezione dei ricordi che li vedevano come protagonisti. Mai e poi mai.
Non c’era un solo specchio nelle carceri del Palazzo di Giustizia, probabilmente temevano che un prigioniero potesse frantumarlo e utilizzarne i frammenti per uccidersi o per provare ad evadere. In ogni modo, era contento di non avere la possibilità di guardarsi. Era pulito e aveva un aspetto piuttosto adeguato, ma sarebbe uscito alla luce del sole senza niente a coprirgli le piaghe, e non voleva pensare alla reazione degli astanti. Si passò una mano trai capelli, lisciandoli con gesto nervoso, e si sistemò la modesta camicia bianca che gli avevano dato le guardie quella mattina, completata da sciupati pantaloni pieni di buchi. I piedi erano nudi.
“Monsieur Destler” la stessa guardia che alcuni giorni prima era venuta a scortarlo al processo comparve sulla soglia della sua cella. Tutti i suoi colleghi lo avevano trattato con un misto di disgusto e paura, picchiandolo con una buona dose di godimento personale e brutalizzandolo senza motivo, ma quell’uomo lo guardava con pietà, soffermandosi sul suo viso sfigurato con fare quasi rammaricato: “Monsieur Destler, è l’ora”.
“Oh” mormorò lui. Chiuse gli occhi, concentrandosi su se stesso, e si domandò se era pronto a morire. C’era qualcosa di innaturale, di sbagliato, in quella procedura: un uomo non dovrebbe mai prepararsi a svanire dal mondo a poco più di trentacinque anni, non dovrebbe raccogliersi in meditazione prima di bruciare su un rogo fino a divenire cenere. Le condanne a morte erano ancor più terribili degli omicidi di cui si era macchiato, perché la vittima sapeva fin dall’inizio cosa la aspettava, e non aveva alcuna speranza di sfuggire al supplizio. Era preparato ad affrontare la potenza distruttiva del fuoco? O, se la Bibbia e i religiosi dicevano il vero e se era lui ad essere in errore, a languire per l’eternità nelle caverne dell’Averno, ben più profonde e terribili di quelle in cui aveva vissuto fin da ragazzino? Un patetico prete grasso era sceso nella sua cella il giorno prima per “accogliere la sua confessione”. Tremava come una foglia nella sua tonaca marrone e i suoi occhietti spauriti guizzavano da un punto all’altro dell’ambiente angusto, pur di non incontrare il suo volto deturpato, come se la deformità si potesse trasmettere al pari di un morbo contagioso (era, questa, una delle tante superstizioni popolari). Aveva parlato di perdono, di purgatorio, di penitenza.
Lui, per tutta risposta, gli era scoppiato a ridere in faccia. Se un Dio esisteva, non l’avrebbe mai accolto tra gli eletti, poiché si era disinteressato di lui fin dalla sua nascita, condannandolo in ogni maniera umanamene possibile. Troppe volte si era rivolto ad un’entità superiore sperando in un poco di aiuto e compassione, in un sussurro gentile nell’oscurità e nel silenzio della solitudine, e troppe volte nessuno lo aveva ascoltato, le sue preghiere e le sue suppliche erano state ignorate. Non si sarebbe piegato al maledetto Dio cristiano implorandolo di evitargli l’inferno, non avrebbe più pregato nessuno. Allorché la sua risata era echeggiata nella cella, il pallore sul volto del prete si era intensificato ancor più ed egli si era fatto subito il segno della croce, volgendogli le spalle e ripetendo a guisa di una litania esorcizzante: “Figlio del Diavolo, figlio del Diavolo!”
Le guardie lo avevano guardato andar via annuendo come se le loro supposizioni si fossero rivelate fondate e una tra le più crudeli aveva commentato, prima che la pesante porta venisse richiusa: “Corrotto fino al midollo, nell’animo e nell’aspetto!”
Si girò lentamente verso l’uomo fermo sulla soglia della cella. I suoi occhi azzurro scuro luccicarono debolmente nel buio, come fari di segnalazione: “È lungo il tragitto fino a Place de Grève?”
Ora che il momento era arrivato, desiderava morire il più in fretta possibile, concludere quella storia assurda e senza senso nel giro di poco tempo, affinché la sua dipartita fosse indolore e non dovesse tollerare oltre il necessario il dileggio della folla. La guardia pietosa gli legò le mani dietro la schiena con una fune di canapa, stringendo poco il nodo per non fargli male, e curvò le ruvide labbra in un rapido sorriso: “Vi condurranno velocemente, monsieur, questo ve lo posso assicurare”.
Erik buttò i capelli in avanti, di modo che gli coprissero alla meno peggio la parte piagata del viso: “Bene, allora. Sono pronto”.
 
Tutto il popolo di Parigi era venuto ad assistere all’esecuzione del Fantasma dell’Opera.
Classi sociali che normalmente si sarebbero evitate a prima vista sostavano in tutta Place de Grève e in parecchi isolati vicini l’una accanto all’altra, mescolandosi in un arcobaleno di colori composto da uomini, donne, vecchi e bambini. Nobili abbigliati sontuosamente per l’occasione sedevano comodamente su palchi sistemati appositamente per consentire loro di seguire con agio le evoluzioni della condanna, popolani dalle misere sembianze tenevano i figli a cavalluccio e rumoreggiavano spintonandosi a vicenda per guadagnare i posti più vicini al rogo, borghesi dall’aria supponente accompagnati dai servi tirati a lucido commentavano il grande evento. C’erano, addirittura, alcuni venditori di arance e di focacce che passavano qua e là offrendo la loro mercanzia ed elogiando la qualità delle leccornie.
Uno spettacolo decisamente insolito per una società civile, onesta e discreta quale era quella del diciannovesimo secolo. Di norma, i parigini non coltivavano più l’usanza di recarsi alle esecuzioni come avveniva comunemente nel medioevo, sempre che il condannato non fosse un personaggio di gran rilievo, e il fantasma di certo lo era. Ma quel giorno nessuno era rimasto in casa, ogni singolo cittadino aveva avvertito il bisogno di assistere alla morte del figlio del Diavolo e di non perdersi neanche un attimo del suo supplizio. Il marchese Jean Roland Rappenau, accompagnato dalla moglie Angelique e dalla figlia Colette, si era guadagnato grazie al suo titolo i posti migliori e dardeggiava sguardi infastiditi in mezzo alla folla, domandandosi che fine avesse fatto il suo amato primogenito. Non si sarebbe mai perso lo spettacolo, era indiscutibile. Eppure il giovanotto non si vedeva da nessuna parte.
Vi erano persino Emma e la sua famiglia, spauriti nella fiumana rumoreggiante e sospinti, quasi per caso, accanto ad una pallida Madame Giry e ad una interdetta Meg. La giovane Boisson non riusciva a nascondere una certa dose di ansia che si era ritrovata addosso fin dal risveglio. Aveva cercato di vedere Vivian dopo che ella era miracolosamente tornata sana e salva, ma l’amica l’aveva fatta cacciare dalla casa di Madame Lefevre e si era rifiutata di parlare con lei. Non le era ben chiaro il motivo di un simile comportamento, ma sentiva che qualcosa non andava. Anche Louise Giry era in preda all’agitazione e all’angoscia: si era presa cura di Erik fin dalla giovinezza e lo aveva aiutato come poteva, le era quasi impossibile sopportare l’odio e il furore con cui la folla acclamava la sua disfatta. Rammentava l’unica altra occasione in cui aveva veduto lo sventurato così palesemente disprezzato dall’umanità, al circo degli zingari, quando il suo torturatore lo aveva gettato a terra a suon di bastonate, e il suo cuore era stretto in una morsa dolente e feroce. Non c’era nessuno, in quella moltitudine di facce accese di aspettativa, che provava compassione per lui, che si rammaricava per la sua sorte. Forse non sarebbe dovuta nemmeno venire, ma aveva ceduto ad uno strano istinto che le imponeva di esserci.
“Dove diavolo è finito quel buono a nulla di Antoine?” in quella lamentela la marchesina Colette aveva posto tutto il suo dispetto, e la sua voce acuta e tintinnante venne fuori come un fastidioso falsetto. Per festeggiare appieno l’occasione, aveva indossato un abito celeste dai morbidi sbuffi sulle spalle che le lasciava scoperto un collo bianco di latte e una buona porzione di torace e i voluminosi capelli biondi erano raccolti sotto uno spropositato cappello di moda, che le ombreggiava il visetto imbronciato: “Prima si compiace di quest’esecuzione, ci costringe ad assistere in mezzo a questa marmaglia di villani ignoranti, e poi nemmeno si presenta? Ho freddo, sono stanca, e mi fa orrore la sola idea di veder bruciare quell’uomo deforme. Se è davvero così ripugnante, perché dobbiamo guardarlo?”  
“Porta pazienza, mon petit fleur” la blandì il marchese, sfiorandole la guancia liscia in una carezza indulgente. Era difficile resistere alla bellezza ammaliante della fanciulla: “Non si perderebbe lo spettacolo per nulla al mondo. Verrà”.
Colette emise uno sbuffo di esasperazione, scoccando occhiate disgustate alla folla in visibilio: “Ma almeno urlerà? Cercherà di liberarsi? Il mostro, intendo. Ci sarà da divertirsi, insomma?”
“Non lo so. In molti lo fanno”.
“Beh, sarebbe di pessimo gusto da parte sua trascinar qui mezza Parigi e poi non farci la grazia neanche di un urlo!” l’espressione scolpita sul dolce volto della marchesina era quella di un laido e sanguinario nobile romano ansioso di osservare un combattimento tra gladiatori degno di questo nome: “Spero vivamente che non si dimostrerà così maleducato…oltre che brutto. Peraltro, non mi è mai capitato di scorgere un uomo sfigurato” un sorriso malevolo danzò sulle sue labbra piene e rosee: “Potrebbe essere interessante, in effetti”.
“Ma certo che lo sarà, papillon” intervenne con sussiego la marchesa Angelique: “Potrai schernirlo e dileggiarlo quanto vorrai”.
La fanciulla si risollevò un po’. I genitori sospirarono di sollievo. Ella era capace di divenire davvero pesante, quando s’annoiava. E s’annoiava quasi sempre. Adesso aveva l’aria d’una tigre indolente a cui è stato appena lanciato un pezzo di carne cruda.
Le campane di Notre Dame, bianca e altissima contro il limpido cielo, suonarono in quel momento, sonore e argentine, e annunciarono il mezzogiorno. Tra la folla raccolta intorno al palco sopraelevato dove era stata accatastata la legna da ardere incominciarono a serpeggiare mormorii, gomitate e richieste di silenzio. La condanna era stata fissata per quell’ora precisa, il prigioniero sarebbe giunto a momenti. Molti tra i parigini non lo avevano mai visto prima, ne avevano solo sentito parlare, e allungavano il collo, con curiosità feroce, nel tentativo di avvistarlo e di mettere a fuoco quella deformità che aborrivano ma che, in un certo senso, conquistava tutti quanti. Se egli fosse stato un uomo comune, un trentasettenne onesto o perfino bello, probabilmente non li avrebbe appagati allo stesso modo, non avrebbe corrisposto così perfettamente all’immagine di “figlio del Diavolo”. Essi lo disprezzavano, ma erano attratti dalla sua particolarità. I bambini perché avevano bisogno di un mostro che li perseguitasse nel sonno e che potessero combattere, gli adulti, come prima citato, per rassicurarsi pensando che qualcuno soffriva più di loro, che sarebbe potuta andargli peggio.
Puntuale come un orologio, una carretta si profilò all’orizzonte allorché le campane cessarono di suonare, avanzando in direzione del centro della piazza tra sobbalzi e scossoni. La folla, in preda ad un silenzio mistico e timoroso, alla quiete prima della tempesta, si aprì in due ali per far passare il traballante mezzo di trasporto, fissando ad occhi spalancati la figura curva rannicchiata al suo interno.
Erik era stato accorto e intelligente a farsi un bagno prima di apparire per il suo ultimo rendez vous. Se si fosse mostrato ai suoi torturatori con il volto gonfio e sanguinante, con i capelli sporchi e arruffati, con gli abiti a brandelli, si sarebbe probabilmente prestato senza condizioni al ruolo che gli avevano affibbiato. Ma con la sua camicia lisa e pulita, con i capelli lucenti e con le ferite asciugate e semi rimarginate, con quello sguardo fiero e orgoglioso e quell’espressione dura e impassibile, egli non assomigliava affatto al mostro che tutti attendevano, egli era un uomo, un uomo sventurato e maledetto dalla sorte che aveva avuto la sfortuna di nascere con metà faccia coperta di piaghe. E in quel momento aveva persino una sua bellezza, una sua nobiltà, malgrado l’abbigliamento misero, la magrezza del digiuno e la deformità visibile a tutti. Squadrava a testa alta la società che l’aveva sempre bandito, fulminava con occhiate di disprezzo tutti quegli individui belli, trepidanti e feroci che attorniavano la carretta, ed era lui ad aver orrore di loro, lui a schernire la massa patetica e insoddisfatta che affollava la Grève. Un sorriso amaro, profondamente scoraggiato, piegava le sue labbra divise a metà, un luccichio inestinguibile gli ardeva nelle iridi bluastre, la camicia male allacciata si apriva sui muscoli compatti del suo torace, e parecchi tra gli spettatori ammutolirono dinnanzi ad una miseria così orgogliosa e incrollabile. Si erano immaginati in molti modi lo stato del Fantasma dell’Opera il giorno della sua morte, ma certo non così.
L’uomo riluceva di un’aura di fierezza e potere ben più evidente di quella dei tanti nobili accorsi ad assistere all’esecuzione, e riusciva ad emanarla senza ostacoli con indosso una semplice camicia bianca e con quello sventurato volto marchiato dalla sorte. Se non fosse stato assassino, ma eroe, probabilmente sarebbero esplosi in acclamazioni e applausi, lo avrebbero osannato in ogni modo, e tutti, dai più poveri ai più ricchi, si sarebbero rivisti in lui, poiché la deformità, la sfortuna, suscita a seconda dei casi orrore e rivalsa, ma anche immedesimazione e benevolenza. Avrebbero pensato, con improvvisa rinnovata speranza: “Se lui ce l’ha fatta, anche io posso farcela!”
Sarebbe divenuto il loro simbolo, il loro beniamino, dopo aver rappresentato per tanti anni l’estrema miseria della società.
Ma non era stato condotto in quella piazza grazie alle sue imprese eroiche. Al contrario, aveva ucciso con freddezza esemplare decine di parigini innocenti, i cui parenti si trovavano adesso in mezzo alla folla, e aveva terrorizzato da tempo immemorabile il teatro dell’Opera e l’animo dei cittadini, sollecitando la nascita di leggende e superstizioni. Purtroppo per lui e per il suo aspetto fiero e formidabile, le sue azioni erano troppo efferate perché potessero mutare l’opinione dell’umanità nei suoi confronti.
Gli spettatori si ripresero dunque ben presto dalla meraviglia che li aveva colti alla sua comparsa e si prepararono a mettere in atto la tortura, un po’ più forzata di quel che voleva essere nelle intenzioni originali. In effetti, lo sguardo di Erik era talmente sprezzante e terribile che l’impulso dei più poveri sarebbe stato quello di chinare umilmente il capo, non di schernirlo. Ma lo superarono, traendo forza l’uno dall’altro. Egli era un condannato a morte, quindi il gradino più basso della società.
Si levarono intorno alla carretta mille grida furibonde, mille insulti e maledizioni pronunciati con ira incontrollata, mille sfoghi che andarono a scontrarsi, con un impatto tale da mozzargli il fiato, sulla sua durissima corazza:
“Mostro!”
“Maschera dell’Anticristo!”
“Assassino, spettro demoniaco! Ci hai perseguitati abbastanza con la tua crudeltà, brucia come il diavolo che sei!”
“Emissario di Satana!”
“Figlio del Diavolo! La tua faccia spaccata a metà corrisponde alla perfezione al tuo animo lacerato dal peccato!”
Erik tenne duro coraggiosamente sotto quella grandinata di grida e di maledizioni, che lo assaliva da ogni angolo di Place de Grève e lo sommergeva con intensità mostruosa, provocandogli un senso di soffocamento. Non era più abituato al furore di cui era capace una folla inferocita, a quell’orrendo mescolarsi di divertimento, sadismo, disgusto e odio, alla maniera in cui un insulto si sommava all’altro sino a formare un’onda impetuosa e cacofonica che gli si rovesciava nelle orecchie e strideva insopportabilmente, assordandolo, a quel mare di facce contorte e grottesche a circondarlo. Gli parve di esser tornato bambino, di non aver guadagnato nulla in tutti quegli anni, di riallacciare un discorso che non aveva mai chiuso. Era tutto esattamente come allora, anzi, peggio, poiché adesso sapeva cosa voleva dire avere orgoglio personale e dignità, non era più disposto a subire così tanto in un silenzio stolido e sottomesso. Era cresciuto, era maturato, e tutta l’indifferenza che si era sforzato di nutrire per i parigini nel corso della sua prigionia si mutò in una rabbia senza confini, in un dispetto e in un odio che lo corrosero nel profondo e gli fecero girare tutt’intorno uno sguardo carico di minaccia. Se non fosse stato legato e impotente, forse i suoi torturatori avrebbero tremato dinnanzi ad un’espressione di avviso così palese, ma egli era visibilmente incapace di nuocere a chicchessia e un riso convulso accolse quell’ostinata dimostrazione di orgoglio maschile, mettendola in ridicolo. L’intenso rossore che imporporò quel volto sfigurato accrebbe ancor più il divertimento della folla, poiché significava che egli era sensibile ai loro insulti e non era alieno all’onta e alla vergogna.
D’altra parte, per quanto deforme, non si era mai arreso a capo chino ad un trattamento ignobile, fuorché nell’infanzia, ma anche allora, raggiunta l’ultima goccia, si era presto vendicato.
Per sfuggire alle grida che gli si infrangevano addosso lacerando la sua dignità e alla folle gioia che pervadeva le facce che attorniavano la carretta, lasciò spaziare uno sguardo disperato per tutto il perimetro di Place de Grève e lo fermò su un bizzarro particolare in netto contrasto con l’uniformità del paesaggio circostante. Un calesse con il telaio giallo limone e i cerchioni rossi, trainato da una robusta giumenta pezzata, era emerso da un vicolo laterale da pochi istanti e si era fermato a breve distanza dal punto in cui era collocata la pedana per le esecuzioni, tra le proteste di coloro che si erano visti costretti a farsi da parte per lasciargli spazio. Caricato su questo calesse c’era un fagotto avvolto da lenzuola bianche rifinite di pizzo, pressoché indistinguibile, e un solo passeggero sedeva in cassetta, nascosto dietro ad un cencioso mantello nero che lo copriva dalla testa ai piedi e che terminava in uno spesso cappuccio calato sul viso. Così infagottato nel mantello e con una postura decisamente curva, lo strano passeggero aveva l’aria di un mendicante anonimo a bordo di un mezzo di trasporto troppo lussuoso per lui.
Erik guardò il calesse e la figura incappucciata tanto per guardarli, perché quest’ultima era l’unica creatura animata nella piazza a non irriderlo o disprezzarlo. Gli parve, ma era impossibile dirlo in quel caos, che il “mantello” ricambiasse la sua occhiata, scrutandolo enigmaticamente con occhi invisibili dietro al cappuccio. In ogni modo, non parlò e non scese dal mezzo, e avendo le guardie scelto proprio quel momento per trascinarlo giù dalla carretta, distolse lo sguardo e lo volse all’alta catasta di legna raccolta intorno ad un unico palo, il suo letto di morte. Si domandò addirittura, sotto l’influenza della terribile atmosfera, se non fosse per caso la Morte, che gli aveva camminato a fianco per tanti anni e di cui lui si era fatto messaggero, dispensandola a questo o a quello, che adesso tornava per osservare pazientemente la sua fine e venirlo poi a prendere nel suo immenso mantello. Bene, se era così, se la figura a bordo del calesse era la personificazione dello scheletro con la falce (il fagotto poteva essere, per caso, la famosa arma?) non l’avrebbe delusa. Se ne sarebbe andato a testa alta, non gli si confaceva un destino migliore. Che quei maledetti omuncoli urlatori andassero al diavolo, non gli avrebbe permesso di incrinare il suo contegno.
Le due guardie che l’avevano tirato giù dalla carretta lo sospinsero su per la scala strattonandolo per le braccia. Erik le incenerì con uno sguardo incandescente. Perché non capivano che aveva gettato le armi? Che non avevano alcun bisogno di usare la forza, dal momento che era disposto con tutto se stesso a collaborare? Che le avversità, i tradimenti, le ingiustizie e i dolori l’avevano infine annientato, e che non desiderava altro che morire? Lo volevano terrorizzato e piagnucolante? Volevano un mostro patetico che si dibattesse e che ringhiasse alla folla per liberarsi? Non conoscevano Erik Destler. Forse il Fantasma dell’Opera li avrebbe stupiti, si sarebbe dilettato in una delle sue scene madri…ma non Erik Destler.
Fu spinto contro al ligneo palo, in mezzo ai ciocchi umidi e scortecciati, e lasciò fare. Passò addirittura le braccia dietro la schiena, abbracciando l’alta asta, di modo che potessero legarlo con più facilità. Funi ruvide e pungenti vennero avvolte intorno al torace muscoloso, al bacino e ai gomiti smagriti, nodi che egli avrebbe saputo fare cento volte meglio lo assicurarono alla pedana sopraelevata e gli uomini della guardia si allontanarono, cedendo il posto al loro capitano, un quarantenne avvenente e fiero, dall’elmo piumato, che reggeva nella mano destra una torcia accesa di un fuoco vivo e scoppiettante. Gli occhi di Erik ne furono immediatamente catturati e si sorprese a fissare con intensità le fiamme lingueggianti che presto gli avrebbero lambito la carne. Suo malgrado, rabbrividì al pensiero. Non temeva la morte, ma la sofferenza, sì. Ne aveva sopportati abbastanza, di patimenti, non intendeva subirne altri. Ce l’avrebbe fatta, a mantenere il silenzio perfino mentre il fuoco impietoso gli ustionava il corpo?
Rovesciò la testa all’indietro, contemplando l’uniforme limpidezza del cielo di mezzogiorno. Stormi di colombe bianche volavano nell’azzurro infinito e il sole baciava con calore gentile il suo volto deforme, quel sole che l’aveva sempre scacciato con sdegno. Voleva perire con il creato negli occhi, in essi non c’era neanche un briciolo di spazio per le facce disgustate raccolte intorno alla pedana. Si rammaricava che fossero troppo lontani dall’Opera perché gli fosse possibile ammirarne i tetti marmorei. Con la coda dell’occhio, colse il bagliore della torcia che s’avvicinava inesorabile alla legna sotto ai suoi piedi e contrasse istintivamente i muscoli, irrigidendosi. Era pronto. Non aveva paura. Che il fuoco venisse pure. Non ne aveva orrore. No. Aveva vissuto per anni tra le fiamme dell’inferno, erano in lui ed erano sue sorelle. Ma se solo avesse potuto…se gli avessero concesso un giorno in più, un solo giorno…se avessero scelto una morte meno…la ghigliottina…Christine…il lago…la maschera…il lampadario…Vivian…
“Fermi!”
Il tempo smise di scorrere.
La folla, protesa avidamente verso la fiamma ormai prossima al mucchio di legna, trasalì, attraversata da un unanime mormorio di stupore, e si girò come un’unica entità nella direzione da cui era venuta quell’esortazione, pronunciata con una forte voce femminile.
Il capitano delle guardie, pronto ad eseguire il suo compito, allontanò la torcia dal rogo e incespicò.
Madame Giry, che si era coperta il volto con un fazzoletto per non guardare, scostò precipitosamente il pezzo di stoffa e sbatté le palpebre umide di lacrime, incredula.
Erik, legato al palo, sudato, spezzato, delirante, ormai avvinto dalla più nera foga, aprì lentamente gli occhi e riprese colore. Conosceva quella voce. Il nome della sua proprietaria bruciava al solo ricordo, era lava fusa nelle sue vene e nel suo cuore, era la presenza che avrebbe potuto rovinare tutto, e che aveva interrotto il compimento del suo destino proprio quando raggiungeva il punto culminante. Levò lo sguardo frenetico e allucinato, più o meno insieme a tutti i parigini presenti in Place de Grève, e si ritrovò a fissare lo strano calesse che aveva esaminato in precedenza e la figura incappucciata che aveva scambiato per la Morte e che adesso era ritta sopra al mezzo, formidabile come una divinità, una mano tesa impetuosamente nella sua direzione. Quella figura, pressoché invisibile all’interno del pesante mantello, aveva gridato con un tono così concitato e tonante da bloccare tutto e tutti nella posizione in cui si trovavano in quel momento, da piegare ogni cosa al suo volere, da paralizzare le membra e gelare il sangue. Nel giro di pochi secondi, tutti gli occhi erano puntati su di lei, colmi di stupore e di incomprensione, ogni singolo individuo era voltato verso il calesse. Erik stesso, che di fronte all’immagine della torcia era stato preso da un tremito convulso, vantava adesso un’immobilità statuaria, un pallore inquietante.
Portandosi fulmineamente una mano alla testa, la donna in piedi sul calesse si tolse il cappuccio e una cascata di riccioli neri come ali di corvo si riversò selvaggiamente sulle spalle e sul petto, rivelando un volto duro e feroce, dominato da fiammeggianti occhi color miele.
Il brusio concitato crebbe di volume ed Emma, strabuzzando gli occhi, sussurrò: “Vivian!”
Era, infatti, la giovane pianista.
Lasciò scorrere sulla folla ammutolita uno sguardo selvaggio e vendicativo, le labbra serrate in una linea sottile, senza guardare in direzione di Erik neanche una volta, e parlò con lo stesso tono imperativo di prima, ogni parola che echeggiava nell’improvviso silenzio calato sulla Grève: “Avete preso la persona sbagliata, monsieurs. Non è lui” indicò il condannato, continuando a scrutare la moltitudine: “Il figlio del Diavolo che cercate. Sono io, la vera strega”.
Le rispose un mutismo denso e soffocante, centinaia di respiri trattenuti in gola. Qualcuno, probabilmente tra le file dei nobili, commentò con cautela: “È pazza”.
“Siete venuti qui per veder morire il Fantasma dell’Opera” continuò Vivian con sicurezza sconcertante, indifferente, o almeno così sembrava, alle reazioni stupefatte degli astanti: “Per compiacervi della dipartita di un demone, di uno spettro che tormentava le vostre notti e vi uccideva nel sonno. Ma siete in errore. Perché se ucciderete lui, vi farò morire uno dopo l’altro con le mie arti magiche, corroderò la vostra carne come voi avete corroso la sua e vi ridurrò ad un ammasso informe e patetico”.
“Che cosa sta dicendo?!” sgomenta, Emma afferrò il bordo della manica di una altrettanto sconvolta Madame Giry, strattonandola: “Cosa ha in mente?”
Erik fissò sulla ragazza uno sguardo attonito e inespressivo, il viso invaso da un pallore mortuario.
Lei dardeggiava occhiate fiammeggianti a destra e a manca, circondata dalla fluente capigliatura corvina, lambita dalle falde svolazzanti del mantello: “Proprio così, monsieurs. Sono io, la strega. Una donna. Come poteva essere diversamente?” scoppiò in una risata che grondava amarezza, alta e disperata, e più d’uno rabbrividì, facendosi il segno della croce: “Forse che gli uomini hanno abituale commercio con il Diavolo? Quel prigioniero, quel condannato, agiva per compiacermi. Ha ucciso i vostri parenti, i vostri amici, su mio ordine. Non è per caso vero che vi aveva lasciati in pace, che era scomparso dalla circolazione allorché la Daaé lo aveva lasciato? E che appena sono arrivata a Parigi ha ricominciato a seminare caos e distruzione? Sono io la causa di tutto. La straniera. La sgualdrina del demonio. La meretrice di Babilonia. È me che volete, non lui”.
Sulla piazza continuò a imperversare un silenzio di tomba. Tutti erano immobili, pietrificati.
“Sono io, che ho ordito maledizioni e trame diaboliche contro di voi. Soltanto la mente di una donna poteva escogitare simili orrori, non è così? Lui era solo il mio adepto, il mio compagno. Senza l’influenza malefica di una ragazza, non farebbe del male a una mosca. E non è tutto…” un ghigno senza speranza contorse il volto ardente di Vivian: “Lui non è il solo ad aver subito la mia seduzione. Immagino che voi tutti conosciate il marchesino Antoine Baptiste Rappenau”.   
Il marchese e la sua famiglia, dalla loro agevole posizione sui palchi, si irrigidirono a quell’ultima uscita. Che cosa c’entrava adesso Antoine? E come mai persisteva a non farsi vedere? Il suo ritardo, che al principio avevano visto come una disattenzione, assumeva contorni molto più foschi adesso che Vivian lo aveva nominato, e non fu senza spavento che Jean Roland circondò la moglie e la figlia con un braccio, attirandole a sé.
La ragazza ritta sul calesse intanto proseguiva: “Era senz’altro un giovanotto degno di ogni ammirazione” il tono era impassibile, ma all’interno di quelle parole albergava un sarcasmo, uno scetticismo velato da falsa sincerità: “Un modello di onore e integrità. Eppure non ha potuto nulla contro al mio potere seduttivo. L’ho stregato, l’ho irretito, e infine l’ho ucciso” esclamazioni di orrore da ogni parte: “Sì, madames e monsieurs. Io ho ucciso il marchesino Antoine Baptiste Rappenau!”
Mentre annunciava l’assurda notizia, si chinò sul fagotto avvolto nelle lenzuola, gliele strappò di dosso con furia e lo rovesciò giù dal calesse con una spinta, facendolo atterrare in mezzo alla folla urlante. Gemiti inorriditi e grida risuonarono ovunque mentre i parigini indietreggiavano dal cadavere piovuto come una meteora sul selciato, orribile nelle sue tragiche condizioni. Malgrado avesse il volto, il petto e la testa ridotti ad una poltiglia, al medio scintillava, perfettamente riconoscibile, l’anello blasonato, il sigillo che lo identificava come membro della famiglia Rappenau. Il marchese, alzatosi freneticamente in piedi allorché Vivian aveva spinto a terra il corpo, riconobbe all’istante il gioiello e intravide gli amati lineamenti del figlio dietro alle orrende ferite che li avevano sepolti, trasformandoli in un ammasso simile a carne macinata. Sbiancò, colto da una fitta fortissima che quasi lo abbatté, e al suo fianco la moglie, che a sua volta aveva riconosciuto il giovane da quella distanza (l’amore di un genitore arriva a questi livelli) gettò un urlo acutissimo, uno di quei lamenti che non sembrano umani.
Colette si premette una mano sulla bocca, squassata da un tremito impressionante di sorpresa, repulsione e dolore, e crollò su se stessa come un fiore calpestato, perdendo i sensi.
Fu come un segnale. La folla, stravolta dalla vista del cadavere martoriato e dal significato delle parole di Vivian, si gettò su di lei con l’aggressività e il furore di una mandria di sciacalli e la strappò dal calesse ruggendo e gridando per tutta la Grève, dimenticando il condannato, il motivo che li aveva condotti lì, la leggenda del Fantasma dell’Opera, per dedicarsi solo e unicamente a quel linciaggio feroce e improvviso. La ragazza, da parte sua, non cercò neanche di difendersi. Si limitò ad accucciarsi sul selciato, coprendosi la testa con le braccia, un attimo prima che il mare di corpi la sommergesse, nascondendola alla vista e assalendola con cento mani e mille unghie. Era spacciata, condannata come un topo aggredito da migliaia di gatti affamati, destinata a cadere sotto quella gragnola di colpi e graffi, ad essere smembrata dalla violenza del popolo in rivolta contro la strega, e lo sapeva.
Era ovvio che lo sapeva. Era venuta a Place de Grève, aveva tenuto quel discorso, aveva mostrato il cadavere, al solo scopo di arrivare a quel punto. Aveva distratto i predatori trasformandosi in una nuova preda, aveva attirato su di sé lo sfogo della folla, ed aveva scelto di morire. Il modo rassegnato e docile con cui aveva lasciato che la travolgessero ne era la prova. Non la si scorgeva più, era sepolta nella moltitudine di linciatori, viva, morta, ferita, illesa…impossibile dirlo, nell’assoluto caos.
Ma in quel momento Erik, che tutti avevano dimenticato, che aveva assistito alla scena nel mutismo più totale, che nessuno calcolava più, diede in un grido terrificante: “LASCIATELA STARE!”
E con un movimento agile e inumano, un solo, rapidissimo movimento, sciolse le funi che lo vincolavano al palo.

 

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Capitolo 24
*** Due esseri umani, migliaia di mostri ***


Due esseri umani, migliaia di mostri

 
 
 
 
 
 
 
Il banchetto aveva avuto inizio. Sulla tavola era stato posto un unico pezzo di carne, i mostri affamati e ringhianti che se lo contendevano erano migliaia, e tutti diversi tra di loro. V’erano mostri che nascondevano le loro orrende fattezze sotto stoffe pregiate e luccicanti gioielli, mostri dignitosamente vestiti che si erano fatti da soli, dando vita ad aziende e promuovendo cantieri, e mostri che sguazzavano nel letame e nel sudiciume e che, calpestati dalle prime due categorie in ogni momento della vita, adesso rivendicavano i loro diritti e lottavano con ferocia disumana, in uno spasmodico desiderio di affondare zanne e artigli nella preda inerme. Place de Grève risuonava di ruggiti e di ringhi, di grugniti e di colpi, si era svuotata agli angoli e si era riempita sino all’esasperazione al centro, dove i corpi grotteschi e folli si spintonavano, si mordevano, si strappavano i capelli nel tentativo di raggiungere l’oggetto della loro voracità, pressoché invisibile nella moltitudine. Umili lavandaie cavavano gli occhi a nobildonne agghindate, floridi borghesi si accapigliavano con aristocratici pomposi, graziose fanciulle graffiavano con unghie di gatto macellai, tessitori e verdurai. Il labbro superiore di ognuno si era sollevato a mostrare i denti scintillanti al modo di una scimmia che vuole intimidire l’avversario, le dita erano curvate ad artiglio, la schiena era piegata in posizione d’attacco.
Non erano uomini, ma leoni, tigri, sciacalli, orsi, serpenti, aquile, squali e ogni tipo di predatore esistente nel mondo. Si scannavano tra loro pur di assaporare un morso di quel banchetto insufficiente, di quella giovane e temeraria gazzella arresasi alla propria evidente inferiorità numerica e chinatasi ad offrire alle loro fauci il collo morbido e bianco perché lo squarciassero, lordando il selciato della Grève con il suo dolce sangue di strega. Se non fossero stati così impegnati ad impedirsi di raggiungerla, forse l’avrebbero fatta a pezzi nel giro di una manciata di secondi, ma l’istinto animale non accetta concorrenza né collaborazione e quel loro lottare furibondo si era in realtà rivelato un ostacolo al compimento del linciaggio.
Né il marchese Rappenau né la figlia Colette vi avevano preso parte. No, non erano stati loro, quell’uomo corrotto e mellifluo e quell’arpia malefica, a cercare vendetta per il parente ammazzato a sangue freddo. Colei che si era gettata nella mischia con ferocia incontrollata, l’ultima persona che ci si sarebbe aspettati di veder scendere in campo, era la raffinata ed elegante marchesa Angelique, trasfigurata in una folle posa di brama omicida e avvolta nella nuvola della bionda capigliatura arruffata. I suoi denti affilati di dolore materno penetravano nella carne altrui lacerandola con strappi raggelanti, le sue gonne sventolavano furiosamente intorno al corpo esile, i suoi occhi scintillavano di una smania mostruosa: “È mia!” perfino la voce non aveva più nulla di umano: “Devo essere io ad ucciderla! Ha ammazzato mio figlio, quella puttana diabolica mi ha portato via il mio Antoine!”
Un uomo le impediva di passare. Raccolse da terra il forcone di qualche caduto, lo roteò sopra la testa con l’elegante agilità di una leonessa e glielo conficcò nella giugulare con un ringhio felino. Egli gorgogliò, il sangue vermiglio che usciva a fiotti dalla gola tagliata, e si accasciò pesantemente sul selciato, gli occhi dilatati in un’espressione di terrore e di stupore assoluto. Brandendo la sua rozza arma come un condottiero invincibile, la marchesa lo scavalcò e continuò a farsi avanti in modo inesorabile.
La timida Emma non capiva più nulla. L’improvvisa avanzata della folla l’aveva separata dalla sua famiglia e si era ritrovata sperduta nell’occhio del ciclone, circondata da quelle facce animalesche, da quei combattimenti all’ultimo sangue, da quella corsa che vedeva come traguardo la sua migliore amica. Ovunque si volgesse, non scorgeva altro che unghie, denti e iridi indemoniate, persone che cadevano a terra negli ultimi spasmi dell’agonia, creature dagli abiti lordi di sangue che si facevano strada tra i cadaveri, feriti che si contorcevano implorando aiuto. Il suo piccolo, debole cuore di ragazza di famiglia che non aveva mai visto il mondo e i suoi orrori non sopportò quell’inferno simile ad un rito bacchico e andò in pezzi, riempiendola di un cieco terrore. Ogni cosa era dimenticata, ogni barlume di coscienza era volato via da lei. Urlando tutto il suo tenero terrore di bambina mai divenuta donna, si nascose il volto fra le mani come a proteggerlo e tentò di guadagnare la salvezza, muovendosi con goffaggine fatale controcorrente alla massa di mostri ingordi e invocando, con tono puro, inconsapevole e desolato: “Mamma! Mamma! Papà!”
Uno spintone violento le mozzò il respiro e la proiettò a terra, in mezzo ai cadaveri e ai feriti. Da quella prospettiva, la visuale era ancora più terrificante: le lunghe gambe dei predatori che la sovrastavano assomigliavano a massicci tronchi d’albero, ed ella aveva l’impressione d’essersi smarrita in una foresta di carne e di sangue, in una selva viva che si muoveva selvaggiamente intorno a lei e la soffocava, oscurando la rassicurante solidità dei palazzi di Parigi, possibili rifugi in cui nascondersi. Ansimando rumorosamente, scuotendo il viso rigato di lacrime, strisciò tra i tronchi umani, cercando qualcosa a cui aggrapparsi, un’anima buona disposta ad aiutarla e a portarla via dall’inferno. Ma un ginocchio la colpì alla tempia, una stilettata di dolore esplose nel suo cervello terrorizzato e si ritrovò distesa in posizione fetale, il sangue che le gocciolava sugli occhi e la mente pulsante di sofferenza. Forme e colori in movimento lampeggiavano a destra e a sinistra e le ferivano le pupille.
(…no aiuto non riesco a respirare ho paura mamma papà buon Dio aiutatemi qualcuno mi aiuti vi prego…)
Piedi avvolti in robusti stivali di pelle le calpestarono spietatamente la schiena e urlò, avvertendo le vertebre che scricchiolavano e che cedevano alla pressione. Il corpo non le rispondeva più, era lacerato, spezzato, distrutto. Braccia e gambe si dibattevano convulse nel vano tentativo di risvegliare la spina dorsale fratturata, lo scorrere convulso dei suoi pensieri la assordava. Intravide nella foresta sfocata un lembo marrone che assomigliava alla casacca di suo padre e istintivamente vi avvinghiò le dita, trattenendolo e sforzando disperatamente le labbra per tirar fuori quella poca voce che le restava: “Aiuto…”
Un volto estraneo, la maschera feroce di un lupo, s’abbassò con fastidio verso di lei e le riservò uno sguardo di disgusto. L’uomo al quale si era aggrappata sollevò la mano destra, la calò violentemente sul suo viso e la colpì con un manrovescio che la lasciò senza fiato e ruppe gli ultimi legami. Ebbe la sensazione che tutti i denti le stessero saltando via dalle gengive e percepì il sapore intenso e salato del sangue.
(…no no vi scongiuro qualcuno mamma mi fa tanto mal…)
Il capo le ricadde pesantemente sul selciato. Bastò questo. La luce terrorizzata che le animava le pupille si spense come lo stoppino di una candela e sulle labbra pallide restarono intrappolate suppliche che non avrebbe mai più pronunciato. Qualcuno, un po’ più umano degli altri, provò a sollevarla. Crollò nuovamente a terra. La maggior parte passò sopra al suo corpo esanime con assoluta indifferenza, devastandolo.
Erik, con la sua camicia bianca aperta sul petto, la sua chioma scarmigliata e i suoi occhi fiammeggianti, le corde da cui si era liberato strette tra le mani e pronte a divenire un’arma in suo potere, si gettò tra le bestie senza alcun indugio ed entrò in una realtà che conosceva fin troppo bene, in una lotta per la sopravvivenza che aveva sostenuto per tutta la vita, a livello simbolico, e non fisico come in questa circostanza. Per lui la razza umana era sempre stata questo, un branco di avvoltoi in balia del loro istinto pronti ad avventarsi su chiunque si fosse dimostrato diverso da loro, e sapeva come far fronte alla loro aggressiva ferocia, sapeva come difendersi. In più, stavolta l’oggetto del loro furore non era lui, ma Vivian, e questo solo particolare sarebbe bastato a dargli la forza di mille colossi. L’adrenalina danzava impazzita nelle sue vene e il suo animo ardeva di un fuoco interiore e inestinguibile. Non l’avrebbero divorata. Non gliel’avrebbero portata via. Gli avevano già tolto troppe cose, Vivian non sarebbe divenuta una di queste. Per lei sarebbe stato disposto ad ammazzarli tutti, a dannarsi per l’eternità, a perdere ogni ragione.
La sua voglia di vivere e di combattere, che il presunto tradimento della giovane aveva distrutto, si era ridestata prepotentemente dinnanzi a quel gesto altruista ed encomiabile, a quella commovente e fatale dimostrazione di amore, e niente l’avrebbe fermato, adesso che aveva compreso, senza ombra di incertezza, d’essere stato ingannato dal Marchesino, di aver accusato Vivian di qualcosa di falso. Ella lo amava ed era sincera, e come al solito la sua diffidenza e la sua scarsa autostima per tutto ciò che concerneva l’universo sentimentale avevano rovinato tutto, facendogli perdere quell’occasione di felicità. Ma avrebbe rimesso a posto le cose.    
Si mosse nella fiumana impazzita, uomo tra i mostri, agitando le corde e spingendo violentemente tutti quelli che gli sbarravano la strada, frugando spasmodicamente l’occhio del ciclone con lo sguardo nella speranza di intravedere qualcosa di Vivian. Ma ella non si vedeva da nessuna parte, né si lasciava sfuggire grida o lamenti grazie ai quali lui avrebbe potuto appurare ch’era ancora viva. Ciò aumentò vertiginosamente la sua foga e decuplicò l’occulto potere che gli scorreva nelle membra. Era più forte di un uragano, nulla poteva resistergli. Afferrava mostri sbavanti e voraci, li sollevava senza sforzo e li scagliava contro i loro simili, facendoli cadere, passava le funi con agilità fluida intorno a colli gonfi e rossi e strozzava i proprietari con ridicola facilità. Era divino, inarrestabile. Il suo volto ardente sussultava di una serie di spasmi di frenesia, furore e amore, le piaghe si muovevano con esso dandogli ora un aspetto orribile, ora un aspetto di inumana regalità, le iridi incenerivano i suoi avversari fiammeggiando dietro alla scomposta capigliatura. Era bellissimo, spaventoso, meraviglioso in modo terribile. Le sue mani giudicatrici pescavano nel mare di assassini e li giustiziavano uno dopo l’altro, ammucchiando cadaveri su cadaveri.
Ma essi uccidevano per puro istinto omicida, lui per salvare la sua amata e per sopravvivere. E qui risiedeva la differenza fondamentale.
Non parlava, non gridava, non li malediceva. La sua avanzata era accompagnata da un silenzio duro e determinato e un solo nome echeggiava nel fondo della sua anima nera, laddove risiedeva ciò che di buono era in lui, scandendo i suoi gesti ed iniettandogli dosi di adrenalina: “Vivian Vivian Vivian”.
Non pensava a nient’altro, non vedeva nient’altro, non sentiva nient’altro, non odorava nient’altro. Era ebbro di lei, della sua immagine, ne tracimava dagli occhi, dal naso e dalle orecchie, penetrava la folla con lo sguardo sino al punto in cui giaceva, frantumava gli strati umani che gli impedivano di raggiungerla. I sentimenti di un uomo arrivano a certi livelli, a volte. In quel momento, non esisteva abisso in cui egli non fosse pronto ad immergersi: se l’avesse trovata morta, smembrata dai suoi aguzzini, per Parigi sarebbe stata la fine. Avrebbe creato un congegno talmente potente da distruggerla fino alle fondamenta, e non avrebbe provato rimorso. Ma non avrebbe agito con la vendicativa mostruosità del passato. Avrebbe agito perché senza di lei non valeva la pena di vivere né di essere in pace con gli altri. Sarebbe morto, e avrebbe trascinato tutti con sé nell’abisso.
Ma una forza analoga alla sua aveva raggiunto per prima il premio bramato da entrambi, per motivi totalmente differenti, una calamità ugualmente inarrestabile e distruttiva si era disfatta da tutti i possibili avversari e incombeva adesso sopra la preda, nascondendola con la propria schiena ritta e impugnando alto nell’aria un forcone gocciolante sangue fresco. La marchesa Angelique, un donnino esile, timoroso, sottomesso, una moglie devota e una madre impeccabile, che tuttavia qualcosa doveva aver covato nei suoi anni di femminile sopportazione, aveva il volto, i biondi capelli e l’abito rosa macchiati di vermiglio e contemplava con occhi implacabili il corpo ai suoi piedi. Anche lei aveva avanzato sorretta da un solo nome, da una sola emozione, anche in lei era risuonato l’unico essere che in quel momento contava: “Antoine”.
Il giovane primogenito, insieme a Colette, era stato l’unica luce nell’oscurità dei suoi giorni, l’unico incentivo ad andare avanti, a sopportare i continui tradimenti del marito, le umiliazioni, le segregazioni, i trattamenti sprezzanti e tutt’altro che romantici. Aveva consacrato la sua esistenza alla propria prole, perduta ogni speranza d’un matrimonio appagante, aveva dato ad essi ogni parte di se stessa, e avrebbe preferito un buco nei suoi intestini ad un graffio sui loro corpi che avevano succhiato latte dal suo seno (aveva insistito affinché fosse lei in persona ad allattarli, e il marchese aveva acconsentito con fastidio). Non le importava nulla che fossero malvagi e viziati, che vivessero per la sofferenza degli altri e che agissero in base a principi totalmente ingiusti e incivili, li aveva portati in grembo, li aveva baciati, li aveva allevati, e tanto le bastava. Antoine in particolare, le cui opinioni sulle donne erano assai basse, ne aveva risparmiata una dal suo disprezzo e l’aveva trattata con un rispetto e una devozione pari a quelli che nutriva per la Madonna: sua madre. Spesso, perfino nell’adolescenza, era venuto da lei nei momenti di tribolazione e le aveva appoggiato in grembo il capo dorato, ricercando la sua comprensione e i suoi baci, e più volte aveva affermato che se mai si fosse sposato, sua moglie sarebbe stata una copia perfetta di Angelique. La donna appena trentacinquenne, commossa dalle lusinghe del suo beneamato figlio, si era figurata una vecchiaia tranquilla e felice in cui, finalmente nonna, accudiva e vezzeggiava gli splendidi nipotini biondi che egli le avrebbe dato.
Ma adesso questi sogni erano andati in frantumi, erano stati squarciati, insieme a quella poca felicità che la vita le aveva concesso. Il suo Antoine era morto e non sarebbe mai più andato da lei in cerca di conforto, non avrebbe mai più udito l’adorata voce spavalda che esclamava, con impeto: “Maman!”
Era insopportabile. E la colpa era di quella cagna, di quella sgualdrinella, di quella serpe disgustosa che lo aveva stregato e ridotto ad una poltiglia senza forma umana. Il suo odio aveva un’intensità inconcepibile, il suo desiderio di veder scorrere il sangue della fanciulla pretendeva d’essere soddisfatto. L’avrebbe fatta a pezzi, l’assassina del suo Antoine. Non meritava di meglio. E nessuno avrebbe potuto impedirglielo.
Si rammaricava soltanto che ella non le offrisse una qualche resistenza, che avrebbe reso il suo omicidio un po’ meno efferato. Malgrado tutto, non era una donna cattiva, i figli non avevano ereditato da lei la crudeltà e l’egoismo, aveva una sua solida concezione dell’onore e dei canoni morali ed era in grado di distinguere tra giusto e sbagliato. Di conseguenza, sebbene accecata dal dolore per la perdita del primogenito e dalla sete di vendetta, sarebbe stato per lei più facile calare il forcone se la sua vittima avesse mostrato di volersi difendere. Ma la ragazza accucciata sul selciato non accennava il minimo movimento, la guardava da basso con i suoi grandi e vacui occhi scuri e la invitava silenziosamente a portare a termine quanto aveva cominciato. L’assalto della folla aveva ridotto a brandelli il mantello nero e parte dell’abito verde che indossava e, laddove la stoffa era lacerata, si intravedevano tagli e graffi sanguinanti. Sulla fronte, una ferita umida le impastava i riccioli di sangue e il sopracciglio sinistro era aperto. Le sue condizioni non erano troppo gravi, considerata la portata dell’aggressione, e tutto questo lo doveva allo sciocco accapigliarsi dei linciatori, che si erano uccisi tra di loro e solo raramente avevano avuto occasione di colpirla.
Angelique, respirando forte, sollevò il forcone sopra Vivian. Lei seguì con sguardo assente la lenta salita dell’arma e chinò in avanti la testa, offrendo la nuca delicata alla giustizia della sua aguzzina. Non palesava paura, né rimpianto per la fine che le toccava, piuttosto appariva rassegnata al proprio destino e serena come chi sa di aver fatto la cosa giusta. In qualche modo, quell’arrendevolezza infuse nuove energie alla vendicativa marchesa: l’atteggiamento di Vivian era quello di una donna supplice che la implorava di metter fine alle sue sofferenze, e vederla in tali termini rafforzò la sua vacillante determinazione. Con un grido selvaggio, abbassò il forcone sul collo proteso sotto di lei e si preparò ad udire un rumore liquido e tagliente, la sua vittoria.
Ma la mano grande e vigorosa di un uomo scattò nel bel mezzo di quella parabola mortale e afferrò con una presa tenace il polso sottile della nobildonna, bloccando la traiettoria dell’arma e salvando la vittima da morte certa. Angelique strabuzzò gli occhi, incredula dinnanzi all’ostacolo indesiderato, e Vivian aprì lentamente i suoi, alzandoli con immensa fatica sul suo salvatore.
Erik Destler incombeva accanto alla madre di Antoine, ansimante, insensato, ardente della sua invincibile risoluzione, il volto contratto in una smorfia e la mano avvinghiata con violenza sul rotolo di corde, e le sue dita di fantasma si serravano sulle carni della donna con tale vigore da impedirla totalmente nei movimenti. Le labbra deformi vibrarono, si strinsero un attimo, poi sibilarono, con tono forte e chiaro: “No”.
Ella restò immobile, pietrificata.
L’uomo abbassò lo sguardo, lentamente, sulla figura accovacciata di Vivian. L’espressione feroce e risoluta dei suoi lineamenti si ammorbidì all’istante, le piaghe parvero comporsi in maniera quasi gradevole e la cupa nube che gli gravava sul viso si rischiarò, illuminandogli le iridi fosche e piegando la bocca ad un sorriso caldo, pieno di sollievo e di amore. Vivian rispose a quello sguardo illuminandosi a sua volta e la sua felicità si riflesse negli occhi di lui, rendendoli per un attimo inconsapevoli dello scenario tragico che li circondava. Erano persi nelle pupille dell’altro, increduli di essersi ritrovati vivi e pressoché illesi nel bel mezzo di quell’inferno, sopraffatti dalla forza dei loro sentimenti.
La ragazza, con un sorriso esausto, stremato, ma pieno di pace, si asciugò goffamente le prime lacrime: “Erik”.
Egli si accorse d’avere a sua volta un groppo in gola e un peso che gli gravava sugli occhi e tirò fuori la voce a stento, tutta incerta e tremante: “Vivian”.
“No!”
Lo strillo gli ghiacciò il sangue nelle vene e spezzò brutalmente quel momento di beatitudine trasognata.
Angelique, compreso in un attimo che l’intervento del Fantasma dell’Opera le avrebbe strappato la preda, incapacitata di utilizzare il polso intrappolato nella sua morsa, si impossessò con la mano libera della torcia di uno dei linciatori, trafugandola con mossa fulminea e con un bagliore di follia sul viso, e diresse la fiamma sulla ragazza gridando tutto il suo odio e il suo dolore. Vivian si riscosse con un soprassalto di paura allorché avvertì il calore rovente del fuoco e rotolò su un fianco per schivare l’attacco, ma troppo tardi: la fiamma rosseggiante le sfiorò la rigogliosa massa di riccioli bruni e presero fuoco all’istante, tramutandosi in una corona lucente e letale.
Erik trasalì e un furore sanguinoso gli trasfigurò nuovamente i lineamenti, mentre ruggiva, come se avessero fatto del male a lui: “No!!”
Sbatté con tutte le forze il corpo di Angelique contro la scala su cui tanto rassegnatamente era salito poco tempo prima e la marchesa vi cozzò con forza, lasciandosi sfuggire un fioco grido. Dal naso le uscì un rivolo di sangue e stramazzò, senz’altro priva di sensi.
Ma l’uomo già non le badava più. Si gettò su Vivian, coprendola col proprio corpo, seppellendole la testa in fiamme nei propri vestiti nel disperato tentativo di spegnerlo, boccheggiando, pregando, ardendo, lacerandosi al suono delle sue grida di dolore, e per la prima volta in vita sua rivolse un’implorazione a qualsiasi entità potesse esistere: “Non farla morire, non farla morire! Io l’amo!”
Un tremendo fetore di capelli strinati gli giunse alle narici e si sentì impazzire. Era lui che doveva bruciare, lui che doveva consumarsi, non Vivian! Possibile che il fato fosse così crudele, così mostruoso? Che condannasse lei alla sorte che gli uomini avevano scelto per lui? No, no, no! Non poteva essere, non poteva andare così, lui l’avrebbe salvata, l’avrebbe portata al sicuro, si sarebbero trovati un angolo di mondo in cui vivere il resto delle loro vite e sarebbero stati felici, sarebbero stati in pace! Non avrebbe accettato nulla di diverso!
Mani brutali lo staccarono dalla sua amata. Le lasciò fare, colto per un attimo da un’ondata di disperazione avvilente e mortale. La folla, che aveva seguito in silenzio le ultime evoluzioni delle vicende, era tornata all’attacco coalizzandosi, stavolta, in un battaglione compatto e imbattibile e aveva separato il Fantasma dell’Opera dalla strega, completamente avvolta negli abiti di lui, per vedere quale era stato infine l’esito dell’assalto da parte della marchesa. L’aveva uccisa? Ferita? Danneggiata irreparabilmente?
L’urlo lancinante che ella emise allorché sentì che la dividevano da Erik confermò ai parigini che non era morta, e che egli era riuscito a soffocare le fiamme. Ma la sua riottosa capigliatura era bruciata, solo qualche ciocca fine le spuntava dal cranio coperto di bruciature, e lacrime di dolore rigavano il suo viso illeso, le sue guance risparmiate da un elemento che l’amato era riuscito a domare prima che potesse compiere a fondo la sua opera. Le ciglia corvine vibravano, ombreggiando solo in parte l’immensa rabbia che pervadeva quella piccola creatura determinata, ancora più bizzarra senza i suoi indisciplinati capelli, ed ella ringhiò contro la folla un verso disarticolato, una manifestazione di disgusto, di disprezzo, di orgoglio che li indusse a rabbrividire, ma non a demordere. Chi avesse voluto interpretare quel verso, avrebbe probabilmente pensato ad un: “Che cosa vi abbiamo fatto di male?!”
D’altronde, la sofferenza e lo choc di quell’aggressione erano ancora troppo forti per permetterle di parlare comprensibilmente.
La torcia usata da Angelique come arma era caduta sul selciato e la fiamma aveva perduto intensità e vigore, riducendosi ad un piccolo fuocherello spaventato. Ciononostante, la ragazza la raccolse, brandendola con la stessa selvaggia ferocia con cui aveva impugnato l’attizzatoio, e divenne un tutt’uno con l’elemento che dalla nascita aveva condizionato le sue azioni e che per un attimo le si era ritorto contro. Ma adesso lo aveva nuovamente fatto suo, lo aveva portato dalla sua parte, ed esso non la combatteva più. Scagliò la torcia sui parigini che trattenevano Erik e quelli arretrarono urlando e coprendosi con le braccia, lasciando libero il suo compagno, protettore e protetto. Allora si fece avanti, indifferente allo stato dei suoi capelli e alle pulsazioni sorde che s’irradiavano dalle ferite aperte, e gli afferrò la mano come avrebbe afferrato l’ancora di una nave o una fune in un precipizio, tirandolo con decisione verso il calesse fermo dove lo aveva lasciato.
L’uomo capì all’istante il suo piano. Intrecciò le dita alle sue, incredulo e disarmato di fronte all’incrollabile determinazione di quella ragazza esile come un giunco e dura come l’acciaio, al suo ardore che non moriva mai, e percorse imprimendosela dentro la sua bellezza, che in quel momento le mancava, che il fuoco aveva dimezzato, ma che egli percepiva con la stessa intensità della sera in cui l’aveva portata sulla Senna, forse anche di più. Era radiosa, abbagliante, selvatica. E se le circostanze non fossero state così tragiche, probabilmente glielo avrebbe detto. O l’avrebbe baciata sulle labbra furiose e corrucciate.  
Saltarono a bordo del calesse mentre le guardie, i più temerari e ostinati si riprendevano, e fu Vivian ad accomodarsi al posto di guida, fu Vivian a stringere le redini e a dare un secco strattone alla giumenta perché li conducesse via. L’animale, che aveva scalpitato furiosamente in preda all’agitazione, ma che fedelmente era rimasto al suo posto, finalmente ricevette l’ordine agognato e partì al galoppo con tempismo perfetto, investendo gli esseri umani che si ponevano sciaguratamente sul suo cammino e trascinandosi dietro il traballante mezzo su cui era seduta quella coppia strana, bizzarra, forse folle, ma unita da un sentimento così selvaggio e assoluto, così violento, che nessuno avrebbe potuto comprenderlo. Era quello, il vero amore? Quello che Vivian aveva sognato nel corso del suo soggiorno e in cui Erik aveva perso totalmente fiducia? Quella mescolanza di affetto e pazzia, di sacrificio e di fiamma? Quel duetto in perfetto accordo? Quella cecità ad ogni cosa che non fosse gli occhi e l’animo dell’altro?
Li inseguirono. Erano troppo diversi da quella gente, troppo strani e spaventosi, avevano gettato la maschera e si erano rivelati per quello che erano, e questo costituiva per loro una condanna a vita. Non li avrebbero mai accettati, non avrebbero mai tollerato il loro amore. Li temevano come si può temere qualcosa di enorme e sconosciuto, e li volevano morti per poter dimenticare. Volevano trascinare nell’oblio il Fantasma dell’Opera e la Strega, affinché non li tormentassero più con il loro sguardo limpido e le loro espressioni brucianti. Ed erano tanti, troppi, giungevano da ogni direzione, salivano a cavallo, caricavano i fucili, scoccavano frecce, gridavano, bestemmiavano, li maledicevano, si dividevano per chiuderli in trappola, facevano risuonare dietro e davanti a loro passi e fragore di zoccoli, minacciavano, promettevano morte e tortura, prigione e oscurità, ignari d’essere totalmente invisibili ai due sul calesse, di non rappresentare per loro né un pericolo né una sciagura, sebbene li circondassero da ogni lato e si avvicinassero rapidamente.
Il calesse non sarebbe mai riuscito a dileguarsi per le vie della città, e se avesse cercato rifugio sull’Ile de la Cité, avrebbe fatto la fine del topo in trappola. Perlomeno, approfittandosi del caos, era riuscito a fuggire dalla Grève, a farsi spazio violentemente tra la folla, e si trovava adesso all’imbocco di uno dei marmorei ponti che collegano Parigi all’isola di Notre Dame, accerchiato da gendarmi e da cittadini che arrivavano dalla terraferma e dalla zolla di terra galleggiante, ugualmente bellicosi. Il clamore era assordante, lacerante. Pochi istanti e li avrebbero catturati, li avrebbero mangiati.
Vivian si volse verso Erik ed Erik si volse verso Vivian. Gli occhi d’ambra smeraldina incontrarono quelli di zaffiro e tra di essi passò un messaggio, un tacito accordo, una decisione ferma e incrollabile, determinata dall’orgoglio, dalla fierezza e dall’amore. Non ebbero bisogno di parole, bastò quello sguardo. Egli cercò la mano della fanciulla, la strinse e lei fece altrettanto, un contatto pieno di tenerezza e di affetto. Vivian venne colta da un’esitazione, rafforzò la stretta sulle redini, ma Erik annuì serenamente e l’esitazione si dissolse. Le labbra dell’uomo si mossero e sillabarono, senza dir nulla: “Ti amo”.
E lacrime di vera felicità brillarono negli occhi di Vivian mentre rispondeva, allo stesso modo: “Anch’io ti amo”.  
I gendarmi, i nobili, i borghesi, i popolani, ogni singolo individuo si bloccò al suo posto brandendo armi vere o improvvisate, spalancando la bocca in bestemmie e maledizioni, immaginando già di affondare le unghie nelle due prede. Lo stupore li avvinse tutti, li ipnotizzò, li agguantò in una morsa.
Il calesse volava.
Si lanciò oltre la balaustra del ponte con eleganza quasi magica, con mollezza dolce e fatale, le ruote vorticanti, il telaio gonfiato dal vento, la giumenta costretta a trovare la fine da un colpo di redini, che scioccamente si era fidata della guida dei suoi passeggeri, e restò per un attimo sospeso nell’aria come un enorme uccello, oscurando il sole, diffondendo sbalordimento e choc nella folla, svettando sopra ai tetti e ai lastricati. In cassetta si scorgevano le sagome di due corpi avvinti in un forte abbraccio, le labbra fuse in una soltanto, i capelli castani dell’uomo svolazzanti nel vento terso, ciò che restava dell’abito della donna che li avvolgeva in un verde vortice, un bianco plico di fogli scagliato lontano da loro da un colpo d’aria e proiettato in salvo sul ponte. Non gridavano, non erano impauriti da quel volo mortale. Il volto di lui era sfigurato dalle piaghe, i capelli di lei erano bruciati e pressoché inesistenti, ma erano bellissimi come gli eroi dei poemi epici, come gli innamorati dei drammi teatrali. Bellissimi e perduti.
L’acqua della Senna li avvolse dolcemente, come una madre pietosa e affezionata, circondandoli in un abbraccio azzurro e infinito e inghiottendoli nelle sue profondità, salvandoli dalla crudeltà degli uomini, dai loro intenti di morte, da tortura, prigionia e dolore. Si richiuse sopra al calesse in onde irruente e protettrici e li tenne al sicuro, al caldo…insieme.
E Parigi tacque, ammutolita, sconvolta, finalmente raggiunta da un briciolo di ragione, da un barlume di consapevolezza. Armi sporche di sangue caddero a terra in una cacofonia di clangori metallici, amici che si erano percossi a vicenda per guadagnare una posizione di rilevanza si guardarono strabuzzando gli occhi, famiglie separate si misero subito a cercare ogni membro. In silenzio. Nessuno s’avvicinò al ponte, al fiume, ai cerchi sempre più piccoli che increspavano la superficie.
Soltanto una fanciulla esile e bionda, una ballerina di fila di nome Meg, si avvicinò al plico di fogli che il vento aveva strappato agli amanti abbracciati e lo raccolse, studiandolo con un misto di rispetto e di incredulità.
Era una canzone. Si intitolava “Oltre le ombre”…
Si portò lentamente i fogli pentagrammati al petto e chiuse gli occhi. Il loro messaggio al mondo. Il loro grido all’amore e alla libertà. La sola traccia che restava della loro esistenza sulla terra…del loro sconvolgente e selvaggio rapporto.
È strano come alcune cose rimangano e altre no. Calesse e giumenta furono recuperati nelle ore successive alla caduta, ma non si trovò traccia dei corpi di Erik e di Vivian, in nessuna parte della Senna. Erano svaniti, volatilizzati, evaporati dalla città lasciandosi alle spalle solo la loro canzone, un dono d’addio all’umanità. Forse questo avrebbe sollecitato domande, incertezze, ma fu dimenticato. Erano morti, si erano lasciati precipitare volontariamente verso la fine. E tanto bastava.
Ma Meg, rimasta inginocchiata sul ponte con la canzone stretta al petto, sorrise quando apprese la notizia. Un ricordo danzava nella sua mente, il ricordo della maschera che aveva rinvenuto nella Dimora sul Lago quando la folla di linciatori vi aveva fatto irruzione, il segno della scomparsa del Fantasma dell’Opera. Ma egli era tornato, non s’era arreso, e aveva trovato l’amore. 
Guardò la Senna, le sue acque limpide e benevole, la sua fedeltà ad Erik Destler, il piacere del fiume d’essere stato l’unico testimone di un momento di tenerezza tra lui e Vivian, i volontari che si prodigavano invano nella ricerca degli amanti scomparsi, l’orizzonte tinto dei caldi colori del tramonto. Ripensò alla determinazione assoluta che aveva letto negli occhi di entrambi, allo sguardo che si erano scambiati prima di saltare: forse un addio, ma forse invece qualcosa di diverso, un progetto, una via di fuga, un tragitto che li avrebbe condotti alla felicità e alla pace.
E si sentì invadere da un sentimento che rischiarò il marciume che gravava su Parigi e sui suoi abitanti, da qualcosa che era insito alla natura umana e che per un attimo lavò via il sangue da quella giornata buia e disperata: la speranza.
 
FINE
 
 
 
Note dell’autrice:
 
Eccoci dunque alla fine di questa avventura ;_;
È venuta da sé, si è scritta da sola, non ho programmato nulla, e mentre scrivevo piangevo. Sul serio. So che parecchie di voi si aspettavano un “per sempre felici e contenti” e in effetti è questo il finale che sin dall’inizio ho prescelto per Erik e Vivian. Ma essendo poco incline ad una scena romantica in cui i due veleggiano verso un futuro meraviglioso, dato che la fantastica storia del Fantasma dell’Opera secondo me deve comunque mantenere un velo della sua tragicità, eccovi una conclusione aperta. Io, da parte mia, per quello che vale, so che i miei due pupilli ce l’hanno fatta, che sono insieme, che partono per il loro viaggio e che se lo godranno da soli, senza di me : )
Perciò rinfrancatevi, perché io per prima desidero che abbiano la loro felicità, che trovino una casa, e conoscendoli, ci riusciranno di sicuro!
Voglio ringraziare tutte coloro che mi hanno accompagnato nelle difficili fasi di questa storia con il loro sostegno, la loro gentilezza, i loro consigli e i complimenti, vale a dire Enril, Puliksweet, Kikari, Serenity, Niglia, Moira Riordan eArizona Temnaya (scusate se non mi ricordo i numeri dove ci sono) e anche tutti gli altri gentilissimi recensori. Senza il vostro aiuto non ce l’avrei mai fatta, spero di avervi trasmesso qualcosa perché a parer mio è questo che una vera storia deve fare e che vi ricorderete di me e di Vivian.
Forse tornerò a scrivere qualcosa su questo fandom, forse no, per ora devo ancora riprendermi dalla fine di “Oltre le ombre”, comunque non lo abbandonerò di sicuro e mi calerò con piacere nella veste di lettrice e recensore, qualora aveste lavori in corso o voleste cominciarne uno, ci sarò ;)
Un bacione a tutte quante, ancora grazie,
Ellyra

 

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