Levana

di MeliaMalia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.

Sua madre la fece accomodare su una delle sgangherate sedie in legno e paglia della cucina; erano otto, le sedie, circondanti un vecchio tavolo in legno scuro. Una sedia per ogni abitante della loro piccola casa, due riservate ai genitori e le restanti per i sei figli, due femmine e quattro maschi. In quella bella cucina dalla finestrella affacciata sull’orto, ogni pasto era un’occasione di incontro, di riunione – e di lotta per porzioni più abbondanti delle altre – per tutti i membri di quella grande famiglia.
Levana adorava quei momenti. Era una felicità, per lei, condividere l’angusto spazio di quel locale con gli altri, conversare e ridere assieme a loro; anche se spesso rinunciava a parte del suo piatto, irrimediabilmente intenerita dagli occhietti degni di un cucciolo abbandonato che i suoi fratellini le puntavano addosso, affamati anche dopo aver divorato la parte che gli spettava.
Non che fossero poveri. Vivevano dei profitti della terra, ed essi erano un guadagno giusto: come un’amorevole Madre, essa li nutriva, garantendo il necessario e spesso tentennando un po’ sul superfluo. Ma non abbandonandoli mai.
La terzogenita dagli splendidi occhi grigio azzurri e lunghi capelli biondi, che di nome faceva Levana, sedette obbediente, senza domandarsi di cosa la genitrice avesse intenzione di parlarle. Era un gran donnone, sua madre, una creatura bassa e tozza, dai placidi occhi castani e capelli biondo cenere. Pacata, riflessiva, buona e gentile; anche se il suo aspetto poteva farla apparire poco elegante, ella, colla sua pelle cotta dal lavoro sui campi, sembrava quasi un’estensione vivente della terra, un sapiente albero secolare.
“Levana, sai che ti voglio bene?” cominciò, dopo aver rilasciato l’aria inalata poco prima in un profondo respiro.
Levana sorrise radiosa. “Sì, lo so!” Era bellissima, anche se ancora acerba, una cucciola di circa tredici anni compitamente seduta in quella cucina illuminata da un freddo sole invernale; presto sarebbe calato, spingendo i contadini ad abbandonare i campi. Presto i suoi fratelli e suo padre avrebbero fatto ritorno, come ogni sera. “Anche io te ne voglio, mamma.”
Lei sorrise. Sedette dalla parte opposta del tavolo, ed allungò su di esso le braccia, stringendo tra le sue mani quelle più piccole e delicate della figlia. Una figlia non sua figlia, che non aveva partorito, ma trovato all’estremità di un campo, in fasce e lacrimante. Ecco perché, pur così giovane, Levana era già più alta di lei; ecco perché fisicamente somigliava così poco ai fratelli. Ma non erano differenze plateali, e nessuno aveva mai sospettato nulla. Solo lei e suo marito sapevano la verità; una verità che sarebbe stata inutile alla piccola, che le sarebbe costata solo amarezza e delusione; e che, quindi, avevano badato a tenere per loro.
“Vorrei parlare dei tuoi sogni.” buttò infine lì la donna, aumentando la stretta sulle mani della figliola. “Continui ad averne, vero?”
Levana, assolutamente all’oscuro di ogni accezione negativa della faccenda, annuì con un lieto sorriso.
Quando aveva rinvenuto quel fagotto che si era rivelata la sua Levana, Kaileen era in attesa del secondo figlio; aveva un pancione enorme, che riempiva d’orgoglio la sua anziana madre. Così, forse per la sua naturale inclinazione alla bontà, forse per l’istinto materno portato dalla gravidanza quasi al termine, l’aveva raccolta, e tenuta con sé. Ma se avesse immaginato il segreto di quella bambina… beh, forse non l’avrebbe lasciata lì, ma certamente ci avrebbe pensato due volte, prima di diventarne madre.
Però ora Levana, da sconosciuta rinvenuta tra l’erba alta, era in tutto e per tutto sua figlia e per lei Kaileen provava una pena enorme. Gravi guai pesavano su quella fanciulla dal fisico esile; guai a cui lei proprio non poteva porre rimedio.
Tutto era cominciato quando aveva ancora cinque anni: era una trottolina come tante altre, che amava seguire il padre sui campi, saltando in groppa ad un paziente ariete ed urlando “al galoppo!” senza ottenere validi risultati. Una bambina sana e felice, senza nessun segno particolare; sino a che non si addormentava.
“Mamma non deve essere triste per la morte della nonna” aveva mormorato un mattino, stando a piedi nudi sul legno della stanzetta che, in attesa di una sorellina del suo stesso sesso, ancora non condivideva con nessuno; indossava una corta veste da notte, che le arrivava alle ginocchia perennemente sbucciate, e parlava quasi con le lacrime agli occhi. “Perché poi è triste anche Levana”
“Mamma non è triste per la nonna” Kaileen l’aveva osservata con stupore. Sua madre era mancata da circa sei mesi, eppure non aveva permesso a nessuno dei figli di vederla piangere. Perché Levana se ne usciva con quella storia ora, proprio il mattino dopo una brutta notte di incubi sulla defunta?
“Mamma non deve più vedere la nonna che cammina nell’orto, Levana ha paura!” la piccolina era scoppiata in singhiozzi, stropicciandosi gli occhi con paffute dita. La donna, impaurita, l’aveva raccolta più per istinto che per reale intenzione, mentre un brivido freddo le era corso lungo la spina dorsale: Levana aveva descritto per filo e per segno il suo incubo. Ma come…?
“Ho paura.” aveva sussurrato la piccolina, nascondendo il volto nell’incavo tra la spalla e la testa della madre. Kaileen, riscossa delle proprie riflessioni, si era voltata, stampandole un enorme bacio ricolmo d’amore sulla testolina bionda.
“Hai ragione, non dobbiamo più pensare alla nonna.” decise, archiviando immediatamente la questione come una banale coincidenza; era una donna pratica, Kaileen. “Hai fatto bene a dirmelo” aveva sussurrato, non sapendo che altre parole trovare.
“Davvero?”
“Davvero.”
E non l’avesse mai detto.
Quello di Levana era un potere; la cosa divenne via via più evidente, con la piccola che, crescendo, penetrava nei sogni dei fratelli e del padre. Ma questo sarebbe stato il meno. Purtroppo, grazie alla consolatoria osservazione fatta da Kaileen a quella Levana di cinque anni, la piccola aveva concluso che parlare con le persone dei problemi che vedeva nei loro sogni fosse cosa buona e giusta. I fratelli, spaventati, cominciarono a prendere le distanze da lei; il padre, rassegnato, dormiva con un pentolino in testa, sperando che questo fermasse il potere della figliola; cosa abbastanza inutile, che però lo preservava da capocciate contro la testata del letto.
Dato che al peggio non c’è mai fine, ad un certo punto il potere di Levana si era ampliato; il suo spirito, forse stufo dei problemi dei soli abitanti di quella casa, aveva appreso ad elevarsi, sempre più alto, spiando nei sogni dei vicini di casa. E nei vicini dei vicini di casa. Nessuno di loro poteva avvertire queste intrusioni, non avendo poteri magici, ma a questo lei rimediava velocemente: gambe in spalla, bussata alla porta, e consigli su come migliorare la propria esistenza.
Lo faceva solo per il loro bene, in fondo. Come rimproverarla?
“Continuo ad averli” ammise felice la fanciulla, puntando occhi onesti in quelli della madre. “Ma la gente non apprezza i miei sforzi…” aggiunse, con tono più amaro. Kaileen ripensò ai forconi, alle torce e ai “bruciamo quella strega!” che spesso avevano rischiato e si sentì in diritto di annuire. Quindi, cercando maggiore forza, decise di parlare francamente alla bambina.
“Il tuo è un dono, piccola mia.” disse, non lasciandole andare le mani. “Ma qui è sprecato. Dovresti andare dove ti permetterebbero di farlo fiorire.”
“Oh, non potrei mai andarmene, madre. Amo troppo voi, ed i miei fratelli…”
“Sarebbe ingiusto tenere questo dono solo per noi, però.” le fece notare Kaileen, sentendosi un po’ un verme; ma questa dolce bugia sarebbe stata certamente meglio della triste realtà: i fratelli maggiori temevano Levana; ed un po’, l’odiavano. Cercavano di non farlo notare, ma la cosa era avvertibile nell’aria, come un pesante fardello. “C’è un tempio, non molto lontano da qui. Un tempio di sacerdotesse.”
“Un tempio dedicato alla Dea?” a Levana la Dea piaceva. Le piaceva il concetto di una Madre, di uno spirito di vita e di morte, giusto e benevolo, anche se spesso freddamente determinato. Credeva nella Dea, fermamente. “Le sacerdotesse sono sempre molto gentili ed utili” rifletté, ricordando le rare visite ricevute nella loro fattoria. Nella sua mente, i ricordi le mostrarono donne dagli abiti viola, dalle lunghe chioma sciolte e delicati sorrisi, perennemente pronte ad una magia benevola, o ad elargire un saggio consiglio.
“Cosa ne diresti? Potresti provare a mettere a frutto le tue capacità, come sacerdotessa.” sua madre trattenne prepotenti lacrime, ed impedì alla sua voce di incrinarsi: era giusto così. “Potrai tornare a trovarci ogni volta che vorrai, Levana. Ti piacerebbe?”
Sì, le sarebbe piaciuto.



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Capitolo 2
*** 2. ***


Spero che il primo capitolo sia stato chiaro per tutti. Ho scritto la storia di Levana per persone che già conoscevano le sue particolarità, e spero che essa sia comprensibile anche a chi non ha mai sentito il suo nome.






2.

“Signora Gran Sacerdotessa, con tutto il rispetto” Maheera, una splendida sacerdotessa dai lunghi capelli color fiamma, non aveva mai avuto uno sguardo tanto infuriato; e dire che la Jazham, la Gran Sacerdotessa, la conosceva da anni. “Con tutto il rispetto” ripeté, voltandosi e cercando sostegno nelle altre sorelle, riunite dietro di lei. “Ma dovete sbatterla fuori.”
“Sbattere fuori?” la Gran Sacerdotessa diede le spalle all’enorme, splendida statua raffigurante la dea, ai cui piedi erano state deposte molte e generose offerte. “Dove hai appreso questo linguaggio, Maheera?”
La sacerdotessa non si fece intimidire dal tono di Jazham; sapeva di essere dalla parte della ragione, e tutto il buon cuore della Gran Sacerdotessa non avrebbe impedito l’espulsione di quella scheggia impazzita che era Levana. “L’ho appreso, mia Signora, dalle imprecazioni delle altre vittime di quella…”
“Maheera!”
“… gentile novizia.” completò, con un sorriso innocente. Alcune, alle sue spalle, ridacchiarono, anche se nervosamente. Erano sull’orlo della crisi di nervi, le dolci donzelle dedite alla Dea. Dopo quattro anni di forzata convivenza con Levana, dopo quattro anni passati a tentare di scacciarla dai propri sogni, nessuna di loro desiderava che quella terribile situazione continuasse.
“Non è solo per i sogni.” precisò Maheera. “Non mi sembra adatta alla vita sacerdotale, ecco. Gli uomini la guardano. Lei sorride loro. Dice che sono fratelli anch'essi.”
La Gran Sacerdotessa si prese la testa tra le mani, ponderando. Che la novizia non fosse una buona futura sacerdotessa era una menzogna, bella e buona. Da che comandava quel tempio, Levana era sempre stata un modello di generosità e di bontà; forse un po’ troppo entusiasta ed ingenua, sì, ma pur sempre una creatura assolutamente priva di malvagità e malizia. Se non fosse stato per quel maledetto potere… potere di cui le sue compagne, dotate di sufficiente magia, potevano rendersi conto, avvertendo la propria vulnerabilità. Ed odiandola.
“Le parlerò” decise infine, con un sospiro. Maheera, trionfante, si volse verso le altre cospiratrici, sorridendo.

Levana fu introdotta nella sala, e fece un elegante inchino.
“Lunghi giorni e piacevoli notti, mia Signora” salutò con la formula tradizionale, trillante ed allegra come sempre. “Che la Dea baci le tue palpebre al mattino e le richiuda ad ogni sera, illuminando il tuo volto di…”
“Ehm, sì, cara. Va bene così.” la Gran Sacerdotessa mosse una mano, invitandola ad interrompere ogni cerimonia. Era agitata, rattristata; e colpevole. Il peso sella sua coscienza sembrava un fardello insostenibile; eppure avrebbe dovuto agire come si era prefissata: se non altro, per proteggere Levana dall’odio delle sorelle, odio che, incredibilmente, sembrava non concepire appieno.
“Volevi parlarmi?” Levana alzò lo sguardo su di lei, le iridi che brillarono di ammirazione: entrare nel tempio, apprendere la filosofia che reggeva la religione delle altre sorelle e, soprattutto, apprendere quanto potesse essere grande la bontà d’animo della Gran Sacerdotessa, le aveva immediatamente confermato di essere giunta nel luogo giusto: essere una sacerdotessa era lo scopo della sua vita. E lo perseguiva, mille volte più entusiasta delle altre.
“E’ una questione… delicata.” ammise la donna, invitandola ad avvicinarsi ulteriormente. No, decise all’ultimo momento, non avrebbe potuto mentirle. Levana era grande e giudiziosa, e meritava di conoscere la verità! Si fece coraggio. “Ecco…”
Levana sorrideva con infinita fiducia ed ammirazione.
“Io…”
Levana piegò il capo di lato, osservandola con affetto e tenerezza.
“Il fatto è che…”
Non parlò, Levana, ma attese paziente e felice ciò che lei aveva da comunicarle.
“Oh, insomma!” la Gran Sacerdotessa scosse il capo, esasperata. E infine, decide di ricorrervi: di ricorrere alla menzogna pura. “Levana, come saprai, ogni novizia ha il compito di portare a termine una missione!” parlò tanto velocemente, da mangiarsi cinque o sei parole. Non era abituata alle bugie. Ma era una cosa per il bene di quell’adorabile fanciulla, e decise di farla a modo.
“No, non ne sapevo nulla…” ammise candidamente ed ingenuamente la fanciulla, sbalordita. “E’ strano, ho studiato a memoria le Sacre Pergamene, e non ho trovato traccia di alcuna missione…”
“Ah, no?” azzardò la povera Gran Sacerdotessa, sudando freddo.
“Questo vuol dire che…” Levana si portò le mani al capo, disperata. “Vuol dire che non le ho studiate come si deve! Chiedo umilmente perdono, mia Signora! Merito una punizione!”
La Gran Sacerdotessa, per motivi solo a lei noti, emise un flebile sospiro di sollievo. “Nessuna punizione, Levana. Voglio che tu mi ascolti attentamente, ora.”
Levana scattò prontamente sull’attenti.
“Tutte le sacerdotesse devono… ah, devono portare a termine una missione. Una missione a tre tappe.” la sua mente elaborò velocemente, e la sua voce cercò di non tradire la menzogna. “Bisogna… ehm, seguire l’ordine delle tappe. E rispettarle alla lettera. Capisci?”
“Capisco.” Levana annuì, attenta.
“Molto bene. Che la Dea sia con te. Puoi partire oggi stesso.”
“Mia Signora?”
“Sì?”
“Credo di non aver udito la precisa descrizione su queste tre tappe. Chiedo perdono.”
“Ehm” alla Gran Sacerdotessa parve di sentire il rumore delle sue stesse unghie che raschiavano sugli immaginari specchi ove lei stava inutilmente tentando di arrampicarsi. “Sono tre obiettivi nobili, ovviamente. Devi… eh… devi… far innamorare una coppia.”
“Splendido!” esclamò la bionda, applaudendo con fare entusiasta.
“E… ehm, e sposarne un’altra!” quasi ci stava prendendo gusto.
“Che cosa bellissima!” Levana, anziché accusarla d’essere una pessima mentitrice, sembrava sempre più elettrizzata.
“E battezzare il bambino di una terza!” sparò infine, pensando: a questa non crederà mai…
In effetti, Levana tacque. La sua espressione divenne improvvisamente seria. La Gran Sacerdotessa deglutì a fatica.
“E’ una missione dalla straordinaria importanza.” decantò la bionda, con voce vibrante di sorda d’emozione. “Non la deluderò.”
“No… sono certa di no…” lei cadde a sedere, felice che quella commedia fosse finita. Levana sarebbe uscita dal tempio, avrebbe viaggiato… e certamente avrebbe compreso che non era adatta a stare chiusa tra quattro colonne, ponendo pezzi di cibo ai piedi di un’inanimata statua di marmo, per quanto bella che fosse. Era speciale, quella fanciulla. “Levana?”
“Sì?”
“Non sono molte le novizie che possono compiere questo tipo di missione. E’ una cosa… speciale.”
“Ne sono più che onorata!”
La Gran Sacerdotessa annuì, osservandola mentre, uscendo, intonava una dolce canzone, un salmo dedicato alla speranza.
“Levana?”
“Sì?”
“Quelle cose circa la castità delle sacerdotesse…” fece un vago gesto, di quelli che lasciando intendere tutto. “Per te non valgono. Non più.”
“E perché?” si sbalordì la giovine, arrossendo un poco.
Perché non sei più una novizia. “Perché sei una novizia speciale. Devi essere libera di amare appieno. Ed ora, vai pure.”
Levana, sorridendo radiosa, s’inchinò, ed uscì. Partì quel pomeriggio stesso, stranamente non salutata da nessuna, tranne che dalla Gran Sacerdotessa.






Ecco, e così finisce - o meglio, inizia - la storia della mia sacerdotessa. Come avete notato, Levana è la quintessenza della bontà; e vagherà per il mondo, tentando di unire in matrimonio qualsiasi tipo di coppia. Devo dire che, pur essendo io abbonata a soggetti sempre più oscuri, adoro la mia Levana. E voi? ^^

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.

Levana scostò silenziosamente un cespuglio, spiando le due donne. Zia e nipote, sì. O, ascoltando la dolce vocina della piccola, Tia e Sigil.
La più giovane era una bellissima fanciulla dai morbidi capelli castani ed occhi verdi perennemente persi nel vuoto: da quel che aveva capito Levana, era cieca dalla nascita. Ma aveva una voce cristallina ed un sorriso puro e sincero, che la rendevano a dir poco adorabile. Tutto il contrario della sua tutrice, una mercenaria dai freddi occhi azzurri e lunghi capelli corvini.
Fu quest’ultima a voltare il capo di scatto, spiando in direzione della nostra sacerdotessa; Levana, spaventata, si ritrasse più velocemente che poté, nascondendosi alla sua vista e dandosi della stupida. Quella donna aveva i sensi di un gatto, non le sarebbe stato difficile individuarla. Doveva agire con maggiore cautela.
Ormai viaggiava da un paio di mesi. Sola, indifesa, ma piena di buona volontà. Per quanto avesse tentato di indurre casuali coppie a premature e – almeno dal loro punto di vista – illogiche relazioni, ancora non aveva ottenuto risultati tangibili: la sua missione non aveva compiuto passi avanti. Trovare persone disposte ad amarsi, a sposarsi e ad avere figli solo per farle un favore si stava dimostrando più difficile del previsto.
E poi c’erano i sogni, a cui badare.
Ogni volta che sostava in qualche rifugio, entrava nella mente di qualcuno. Ne conosceva i problemi, le paure, le colpe, e, una volta sveglia, zampettava beatamente dai diretti interessati, per esporre le sue teorie sulle loro esistenze e tentare di guidarli con amore e pazienza verso la felicità pura. Il che la portava inevitabilmente ad essere cacciata a calci, senza capire dove avesse sbagliato.
Dato che era una fanciulla che difficilmente apprendeva lezioni dall’esperienza, era nuovamente proprio a causa di un sogno che ora stava spiando quelle due donne. Aveva dormito nella loro stessa locanda, un paio di notti prima, ed era entrata negli incubi della mercenaria. Uscendone in lacrime.
Quella donna aveva avuto una vita orrenda. Aveva sofferto, aveva combattuto, aveva perduto l’amata sorella e l’unico amore della sua esistenza. Ora, sola, piegata dal peso dei fantasmi del suo passato, conduceva quella piccola – la figlia della sorella barbaramente uccisa, la delicata ed innocente Sigil – per il mondo, come una pallida ombra di sé stessa. Levana, angosciata, aveva cominciato a seguirle garbatamente, non sapendo come aiutarle, come riportare un po’ di sole nella loro vita.
La mercenaria era una creatura diffidente: non avrebbe accettato con sé una ragazza capace di spiare nei suoi pensieri; e non avrebbe approvato la sua improvvisa compagnia, qualunque scusa Levana avesse inventato. Pur nella sua ingenuità, la sacerdotessa era riuscita ad inquadrarne il carattere; le aveva conosciute, osservandole da lontano, affezionandosi a loro senza neppure accorgersene. Aveva avuto l’onore (o forse l’onere) di entrare anche nella mente della piccola, piangendo degli orrori del suo passato, tremando di quegli incubi interminabili. E la sua volontà di aiutarle si era fatta sempre più forte.
Avrebbe riportato loro un po’ di gioia, le avrebbe maritate e, con una sola buona azione, avrebbe compiuto passi da gigante nella sua missione! Un piano meravigliosamente astuto, sì. Solo che il problema rimaneva: come prendere civilmente contatto con una donna abituata a parlare solo il linguaggio delle armi?
Fu così, in quel pomeriggio assolato e tiepido, che il suo piano prese forma. Un piano stupido, forse, e folle, certo, ma era pur sempre un piano. Si allontanò silenziosamente dalle due donne accampate per un veloce e frugale pranzo, cercando ciò di cui avrebbe avuto bisogno. Fortunatamente, non ebbe bisogno di vagare molto: quel bosco rappresentava un punto di congiunzione tra due villaggi e, soprattutto durante le ore diurne, era piuttosto affollato di viandanti. Non troppo lontano da Tia e Sigil ne trovò un gruppo di tre, grandi e grossi, dalle facce a dir poco spaventose, e fu davvero orgogliosa di sé stessa: la sua idea poteva finalmente essere messa in atto.
“Buongiorno!” esordì, emergendo all’improvviso dal folto dalla vegetazione. Quelli sobbalzarono, spaventati, e la osservarono con un cipiglio minaccioso. Proprio quello che desiderava. “La Dea accompagni i vostri spiriti ed innalzi i vostri cuori!” augurò, giungendo le mani.
“Non abbiamo soldi da darti, mocciosa.” ringhiò uno dei tre, intimidatorio. Li aveva proprio scelti bene, sì.
“Non voglio soldi, assolutamente no.” lei scosse il capo, sorridendo angelicamente. “Ho solo un piccolo favore da domandarvi.” non vi fu risposta da parte loro, e la sacerdotessa interpretò quel silenzio come un invito a proseguire. Non si fece desiderare: “ Potreste… aggredirmi?” azzardò educatamente.
I poveri uomini si guardarono a vicenda, non comprendendo bene se fosse una pazza isterica, o più semplicemente, solo una pazza. “In che senso?” indagò il secondo, inarcando un sopracciglio.
“Nel senso… con urla, armi, e tutto quello che avete, ecco. Insomma, aggreditemi.” spiegò pazientemente Levana. Come un sol uomo, le diedero le spalle, avviandosi per la loro strada.
“Questo posto pullula di idioti.” borbottò quello che ancora non avevo aperto bocca; fu il primo a venire colpito da un sassolino, direttamente sulla testa. Altri seguirono, tutti lanciati contro di loro con precisione. “Ehi, ma…!”
“Non è che chieda tanto, nel nome della Dea!” Levana raccolse un’altra manciata di pietruzze, scagliandogliele contro. “Non ho certo piacere a prendervi a sassate, sapete? Aggreditemi e facciamola finita, no?”
“Ragazzina, mi stai innervosendo…” cedette alla tentazione uno di loro, girando i tacchi e andandole incontro minaccioso.
“Oh! Vuole aggredirmi?” cinguettò Levana, gli occhi luccicanti di felicità.
“SI!” alzò uno dei suoi massicci pugni, e le fu quasi addosso quando lei, con fare affabile, gli mise una mano davanti al viso, chiedendogli cortesemente di aspettare qualche minuto. Quello fu tanto sbalordito, da attendere per davvero. Levana si schiarì la voce, come una cantante; giunse le mani, aprì la bocca e gridò:
“AIUTO! AIUTO! AGGREDISCONO! MI AGGREDISCONO, AIUTO!” le sue urla si elevarono fino alle chiome degli alberi, percorrendo la foresta… raggiungendo le orecchie della mercenaria e della nipote.





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