Quello che la luna non dice.

di taemotional
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** You can't have a dawn without night. ***
Capitolo 2: *** In this never-ending world, I'm searching for you. ***
Capitolo 3: *** I remember, I remember I was born to meet you. ***



Capitolo 1
*** You can't have a dawn without night. ***


La mia prima ff postata qui! Non l'avrei mai detto ^^ Questa storia è stata molto difficile da scrivere per me ma spero che vi piaccia. Ditemi cosa ne pensate alla fine! Critiche ben accette :D
N.B. in fondo ci sono le eventuali note ^^
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~You can't have a dawn without night~
 

<< Intorno a me,
Il mondo continua a girare senza notare la mia esistenza.
Però ora,
Voglio credere a questo incontro. >>


 

Mi domando perché continui ancora a tornare in questo posto.

***

L’izakaya[1] si trovava nel distretto di Ōta, a cinque minuti di tram dalla Stazione Kamata.
A Jin Akanishi non piaceva particolarmente quel posto, era pieno di impiegati che trascorrevano le loro serate a disperarsi per il proprio lavoro fallimentare e di donne di mezza età poco interessanti intente ad inspirare grosse boccate di fumo. Jin andava là solo perché il locale si trovava sulla strada tra il campo di calcio e la stazione, tutto qui.
Non gli andava a genio nemmeno il dover allenarsi in quel quartiere al sud di Tōkyō. Il campo era troppo piccolo e il fatto che dovesse prendere il treno ogni giorno lo irritava. Ma la palestra della scuola doveva essere ristrutturata a causa di un problema alle tubature e, non avendo la possibilità di allenarsi nel campo all’aperto per via del campionato del girone inferiore, la squadra era costretta a tenere gli allenamenti in quel metro quadrato d’erba.
Alla fine, lui era un tipo che si abituava in fretta e già dopo la terza trasferta non fu poi così male. Il locale, invece, faceva sempre schifo. Si domandò se non fosse addirittura peggiorato dalla prima volta in cui ci era entrato. Gli izakaya non gli piacevano proprio. Lui preferiva le discoteche all’occidentale.
In quel suo spostamento serale, l’unica cosa che gli mancavano erano gli aperitivi a base di rum, la musica americana sparata a tutto volume nelle casse e la gente che si scatenava, che perdeva la propria identità in quel groviglio di corpi. Allenarsi ogni sera - incluso il finesettimana - in quel distretto distante quasi un’ora di treno dal proprio quartiere significava proprio dover abbandonare quell’abitudine che ormai andava avanti da almeno tre anni.
 
Una sera, una settimana precisa dall’inizio di quello strazio, pensava proprio a questo mentre era nello spogliatoio e si cambiava gli abiti zuppi di sudore. Chissà se la gente che frequentava assiduamente la discoteca come lui si era accorto della sua mancanza. Di sicuro il barman l’aveva notato, lui nota sempre tutto. Jin se lo immaginò e storse le labbra. Il sorriso radioso e l’aspetto di quel tipo gli mettevano i brividi.
“Akanishi, noi andiamo. Ci vediamo domani.”
Jin alzò una mano in segno di assenso mentre i suoi compagni di squadra uscivano dallo spogliatoio. Di sicuro andavano in qualche locale a divertirsi senza averlo invitato. Alzò le spalle, a lui non interessava uscire con loro. Semplicemente, trovava che quel comportamento fosse infantile, solo perché sono più bravo di loro.
Sbuffò e infilò maglietta e pantaloncini nel borsone. Non c’è bisogno che la competizione diventi un pretesto per spaccare la squadra. In effetti però, la squadra non era proprio divisa. Era solo lui ad esserne escluso.
“Akanishi?”
Jin alzò gli occhi e sorrise, solo il suo allenatore non gli aveva ancora voltato le spalle.
“Nakamaru-sensei[2], me ne vado subito.”
“No, no! Tranquillo,” commentò Yuichi, “Volevo solo sapere come vanno le cose... oggi abbiamo fatto più tardi del solito, non vorrei che vi stancaste troppo.”
“Già...” accordò Jin infilando il cappotto e attorcigliando la sciarpa di lana attorno al collo, “Ma dobbiamo continuare ad allenarci se vogliamo arrivare ai quarti di finale.”
“Sì, però non tralasciare lo studio.”
“Il liceo non mi interessa, mi manca solo un anno, e non mi importa quale punteggio otterrò nell’esame finale. Mi basta uscire con il minimo indispensabile.”
Yuichi annuì, sapeva benissimo che nella testa di Jin la scuola occupava, forse, il gradino più basso nella scala delle sue priorità.
“Allora, a domani sera,” lo salutò Jin.
“Buon rientro.”
 
 Come ogni volta, prese l’autobus e scese una fermata prima della stazione. Il resto lo avrebbe fatto a piedi, ma prima si sarebbe fermato al solito izakaya per bere una birra. Alla fine, la birra che servivano lì era l’unica cosa decente.
Entrò e il proprietario lo salutò come un vecchio cliente.
“La solita birra?” gli domandò e Jin annuì prendendo posto proprio davanti al bancone. Il proprietario, un uomo anziano che aveva perso quasi tutti i capelli, non si era mai domandato se lui fosse maggiorenne o meno. Venti anni non li aveva, ma il suo fisico e i lineamenti del viso erano piuttosto maturi. Nemmeno nelle varie discoteche avevano mai dubitato della sua maggiore età. Per non avere altri problemi, Jin aveva pure deciso di lasciarsi crescere i capelli, e, saltuariamente, li raccoglieva in un codino dietro la nuca. Quella volta, in più, non aveva nemmeno fatto la barba e quei peli radi sotto al mento davano proprio l’idea che avesse almeno venticinque anni.
Quando si sedette e lasciò cadere il borsone al proprio fianco non si era ancora guardato intorno. Cosa vuoi che ci sia di interessante da vedere in della gente che viene qui solo per dimenticare che la propria vita fa schifo?
Poi arrivò la birra, lui guardò per qualche secondo la schiuma in superficie e si rigirò il boccale tra le dita. Ed io? Perché consumo ogni mia energia in quella discoteca?
“Non ti piace?” chiese qualcuno seduto al suo fianco e Jin sussultò, “A me sembra buona...”
Jin non rispose subito ma guardò quella persona aggrottare le sopracciglia nello scrutare il proprio bicchiere di birra.
Quando era entrato non lo aveva proprio notato. Come si era potuto lasciare sfuggire una cosa simile?
“No, è buona infatti,” commentò portandosi la bevanda di malto alle labbra. Il ragazzo gli sorrise e finì il resto in un sorso, poi si mise a ridere: “Non la reggo proprio questa roba.”
Il contrasto che c’era tra la sua voce e il viso era sconvolgente. E, in effetti, a Jin era venuto un colpo nel momento in cui, dopo aver sentito quella voce profonda, si era ritrovato davanti uno dei visi dai lineamenti più dolci che avesse mai visto. Il taglio degli occhi non era troppo allungato e le iridi erano nerissime. Il naso all’insù seguiva armoniosamente la curva del mento.
Jin continuò a studiarlo un altro po’ senza che l’altro se ne accorgesse. I capelli corvini leggermente più corti dei propri gli circondavano dolcemente il viso finendo in delle punte bionde, e quando portò una mano per allontanare la frangia dagli occhi, Jin notò che le nocche erano un po’ rovinate. Come di chi pratica qualche sport simile alla boxe.
“Vieni spesso qui?” domandò ancora quello sconosciuto pagando il conto.
“Ultimamente.”
“Non ti ho mai visto qui prima d’ora.”
Il ragazzo dai capelli neri si alzò stirandosi. Il suo corpo non era affatto quello di un uomo e, se non fosse stato per la voce, Jin avrebbe potuto benissimo pensare che fosse una ragazza dai gusti particolari in fatto di vestiti.
“Abiti da queste parti?” domandò Jin trangugiando il resto della birra. Era davvero tardi, se non si sbrigava avrebbe perso l’ultimo treno.
“Ah, io no, ma la mia ragazza sì. E... ogni tanto vengo a trovarla.”
“L’hai detto come se fosse una costrizione!” esclamò Jin ridendo.
Il ragazzo fece una smorfia e si strinse nelle spalle.
“Comunque ora ho il treno...” commentò Jin guardando l’ora, era quasi mezzanotte e l’ultimo treno sarebbe partito di lì a pochi minuti.
“Ah, in effetti anche io.”
Jin lasciò i soldi sul bancone e disse al proprietario che poteva tenere il resto. Questi si inchinò ringraziandolo.
“Stazione Kamata?”
“Sì,” rispose il ragazzo guardando l’ora, “Ah! Ma è tardissimo!”
“Lo so!”
Si infilarono i cappotti ed uscirono all’aria congelata di Dicembre. Senza dirsi nulla, iniziarono a fare la strada assieme.
 
“Tu ce l’hai una ragazza?” domandò il ragazzo dai capelli corvini con aria noncurante. Jin si sistemò meglio la sciarpa attorno al collo e pensò ad una buona risposta. Non poteva certo dire: no, di solito vado con la prima che capita, ma uso sempre il preservativo.
Si schiarì la voce.
“No,” gli sembrava la risposta più adatta, e quella più vaga.
“Perché?”
Perché non voglio relazioni serie. E perché non le voglio?
“Perché... le donne non aspettano altro che il momento giusto per incastrarti,” rispose aggrottando la fronte. Il significato di quella risposta non lo sapeva nemmeno lui. Ma provava sempre questa sensazione ogni volta che una ragazza lo avvicinava sorridendo.
L’altro annuì come se avesse capito.
Jin tirò su col naso. Ma perché doveva mettersi a raccontare le proprie cose a questo sconosciuto androgino? Forse, proprio perché non lo incontrerò mai più, quindi va bene così.
“Credo che ci convenga iniziare a  correre.”
Jin vide la stazione a pochi metri. “D’accordo,” disse e, seguendo l’altro, accelerò il passo.
 
Si fermarono solo quando furono saliti sul treno e le porte si furono chiuse. Jin stramazzò su un sedile e iniziò a ridere senza motivo. L’altro ragazzo fece lo stesso.
“Ma... perché ridiamo?” domandò lo sconosciuto a un certo punto, quando il treno aveva ormai preso velocità.
“Non lo so, sembra una situazione comica.”
“Se lo dici te, ma forse è la birra.”
Jin scosse la testa e si guardò intorno. Il vagone era deserto come al solito.
“Io reggo di peggio,” constatò poggiando la testa sulla parete dietro di lui e chiuse gli occhi, “Forse è la stanchezza.”
Il ragazzo androgino si era seduto di fronte a lui.
“Ma hai preso il treno giusto?”
Jin annuì, andavano dalla stessa parte.
Il resto del tragitto trascorse senza che loro dissero altro. Quell’ondeggiare tranquillo e periodico era davvero invitante e il cervello si rilassò senza problemi.
 
“Hey!” lo scosse leggermente qualcuno. Jin riaprì gli occhi e ci mise un po’ a riconoscere quella persona che gli stava davanti. I suoi occhi erano davvero neri.
“Io scendo qui.”
“Ah...” Jin si tirò su nel momento in cui il capotreno annunciava il nome della stazione di fermata.
“Io alla prossima.”
Il ragazzo sorrise e annuì, poi scese dal treno non appena le porte si aprirono.
“Hey,” lo chiamò Jin alzandosi in piedi, “Non so come ti chiami.”
“Tatsuya Ueda! Puoi immaginare gli ideogrammi.”
“Veramente no...”
Le porte si chiusero in quell’istante e Tatsuya fece spallucce, poi, prima che il treno fosse ripartito, lo indicò e mosse le labbra: qual è il tuo?
Jin esitò un secondo, alitò sul vetro creando una patina di umidità e scrisse solo il proprio nome in hiragana[3] al contrario. Fortunatamente, da piccolo era solito divertirsi a scrivere in quel modo sui finestrini della macchina.
Tatsuya alzò i pollici nel momento in cui il treno ripartì con un fischio. Jin storse le labbra, il cognome sarebbe stato troppo lungo.
 
Quando, un anno prima, una ragazza piuttosto curiosa gli aveva domandato il nome dei propri genitori lui aveva semplicemente risposto che erano morti da quasi cinque anni.
Prima di passare a miglior vita, la madre di Jin era stata una doppiatrice piuttosto famosa. La sua voce era davvero corposa - come la definivano i media - e si adattava a qualsiasi tipo di personaggio. Il picco della sua carriera, però, lo aveva toccato doppiando la voce di una prostituta in un vecchio film venezuelano. Da quel momento in poi, i suoi fan erano aumentati a dismisura e le richieste di doppiaggio si erano moltiplicate all’inverosimile. Jin, non avendo ancora dieci anni, non ricordava bene di quel suo periodo d’oro. Però non aveva dimenticato la puzza dello sgabuzzino in cui la madre lo rinchiudeva ogni volta che uno sconosciuto si presentava a casa loro.
Il fatto che la madre tradisse il marito con il proprio direttore era una cosa che, una volta venuta allo scoperto, apparve su tutti i giornali nazionali e regionali e rimase sulla bocca di molti giornalisti per un lungo lasso di tempo. Quello fu solo l’inizio del declino della sua carriera ma, chissà perché, il suo stipendio non si ridusse mai di un singolo yen.
Il padre, invece, non si era scomposto affatto alla notizia. Lui era stato un politico piuttosto influente sulla scena internazionale ed era perennemente fuori di casa per lavoro. Probabilmente, la sua coscienza sporca non gli aveva permesso di chiedere il divorzio e ad entrambi andava bene così.
Dopo lo scandalo, però, il padre di Jin aveva iniziato a restare con la propria famiglia il più tempo possibile, cercando innanzitutto di mantenere intatta l’immagina di perfetto capo famiglia, che, addirittura, si mostrava benevolo nei confronti della propria moglie peccatrice.
La notizia improvvisa della loro morte a causa di un incidente stradale aveva sconvolto l’intero Giappone ma Jin, dopo un primo momento di smarrimento, si era ripreso in fretta.
A quel tempo, i suoi zii paterni si erano fatti avanti perché il ragazzo non ancora maggiorenne andasse a vivere con loro, ma lui si era opposto con tutte le proprie forze. Sarebbe rimasto in quella casa da solo e avrebbe continuato ad andare a scuola almeno finché non avesse finito il liceo. Dopodiché, non avrebbe dovuto fare altro che continuare ad inseguire il proprio sogno e infine diventare un giocatore di calcio a livello professionistico.
Quando, un anno prima, quella ragazza curiosa ebbe ricevuto la sua risposta non aveva fatto altro che sorridere e mormorare un flebile mi dispiace. Poi lo aveva preso sottobraccio e lo aveva portato fuori dal locale dicendo: conosco un buon motel, hai la protezione?
 
Al suono della campanella, Jin poggiò la fronte sul banco e chiuse gli occhi. Il risveglio quella mattina era stato traumatico e ancora non si era ripreso del tutto. L’allenamento, durato più a lungo del previsto, era anche stato uno dei più duri, e metà squadra non era nemmeno riuscita a venire a scuola.
Non studio, ma non posso permettermi di perdere le lezioni altrimenti rischio la bocciatura sul serio. E lui, in quella scuola, non voleva passarci un solo giorno in più del dovuto, figuriamoci ripetere l’anno.
“Akanishi,” lo chiamò in quel momento una voce che riconobbe come quella del suo compagno di banco, “C’è il professore.”
Jin alzò gli occhi verso la porta e vide Yuichi fargli un cenno con la mano. Si alzò veloce e lo raggiunse.
“Nakamaru-sensei,” lo salutò, “Buongiorno.”
“Buongiorno... ho visto che oggi molti dei nostri non ci sono.”
“Già,” rispose Jin, “Devono essere distrutti.”
“E anche le occhiaie sotto i tuoi occhi dicono lo stesso di te.”
Jin si stropicciò l’occhio sinistro, “No, è che questa notte ho avuto degli incubi e non ho dormito.”
“Ah, davvero...” commentò Yuichi riconoscendola come una bugia, “Comunque niente.”
“Cosa?”
“Volevo proporre alla squadra di allenarsi un po’ prima oggi ma mi hanno chiesto se per questa sera si poteva rimandare dato che c’è il compleanno di Tanaka.”
“Ah, ma io non ci vado,” commentò Jin venendo a sapere di quel fatto solo in quel momento. Non era stato invitato, poco male. “Io verrò all’allenamento. A che ora?”
Il professore socchiuse gli occhi, “Perché non vai?”
Jin alzò le spalle, “Non ho voglia.”
Ma chi prendo in giro, questa cosa mi fa davvero male.
“Akanishi... so che non vai molto d’accordo con loro... ma potresti almeno sforzarti un po’.”
Cosa sa lei? Lei non sa proprio un bel niente.
“Mi vuole allenare questa sera, o no?” domandò Jin con un tono decisamente troppo duro.
Il professore strinse le labbra. Jin aggrediva le persone in momenti del genere, Yuichi lo aveva notato anche sul campo da calcio.
Ogni volta che si toccava un qualche tema che lo metteva alle strette diventava violento e, una volta, aveva pure iniziato una rissa in piena partita. Non conosceva bene il motivo che aveva spinto Jin a prendere a pugni il suo compagno, e, in seguito, quest’ultimo si era definito completamente innocente al riguardo. Ma Yuichi era stato l’unico a non avergli creduto. In quegli anni aveva imparato a conoscere bene il proprio giocatore di punta e sapeva benissimo che Jin non attaccava briga senza un valido motivo.
Addolcì un po’ lo sguardo.
“Faremo qualcosa di tecnico questa sera, sarà stancante, te la senti?”
Jin annuì con convinzione.
“Ma finiremo prima delle undici,” concluse Yuichi, e la campana che annunciava l’inizio di una nuova lezione suonò.
 
Al contrario, l’allenamento di quella sera fu uno dei più rilassanti che avesse mai fatto. Il fatto di non avere gli sguardi giudicatori dei propri compagni gli permetteva di tenere la mente libera da qualsiasi impedimento e il corpo si muoveva più leggero e veloce.
“Oggi sembravi un’altra persona,” commentò Yuichi raggiungendolo poi nello spogliatoio. Insieme a lui c’era un uomo sulla quarantina che teneva sotto braccio una cartellina semitrasparente piena di fogli.
Jin osservò un attimo l’altro uomo poi annuì, si era sentito davvero un’altra persona. Per la prima volta, c’era stato solo lui e il proprio corpo sul campo.
“Sono convinto che diventerai qualcuno,” aggiunse poi il professore sorridendo, prima di dargli una pacca sulla spalla. Ma Jin continuava ad osservare lo sconosciuto.
“Ah,” commentò allora Yuichi con un sorriso enorme, “Questa persona è venuta a vedere il tuo allenamento. Dice che se farai un buon campionato potrebbe anche chiederti di entrare nella sua squadra.”
Jin sgranò gli occhi e la saliva gli venne a mancare di colpo.
 
Scese dal tram una fermata prima della stazione come fosse una cosa automatica. I suoi piedi avevano calcolato il tempo autonomamente e gli avevano permesso di scendere al momento giusto anche se la mente era da tutt’altra parte.
Entrò nell’izakaya e solo in quel momento si rese conto di dove fosse. Rimase un secondo imbambolato all’entrata e cercò di ricordare come fosse effettivamente arrivato fin lì.
“Buona sera,” lo salutò il vecchio proprietario e lui chinò leggermente in capo. Decise di lasciar perdere quel vuoto di memoria e si avviò all’interno cercando di non urtare nessuno col borsone, oggi c’è davvero tanta gente. Sarà che sono venuto prima del solito.
Qualcuno seduto al bancone si voltò e lo salutò. Jin riconobbe Tatsuya al volo. Lo aveva già notato all’entrata ma il cervello non aveva collegato subito. Anche lui notava sempre tutto, come il barman dalla capigliatura raccapricciante della sua discoteca abituale.
“Allora è vero che vieni spesso,” commentò Tatsuya una volta che Jin ebbe ordinato la solita birra.
“Ho gli allenamenti ogni sera...”
“Ah!” esclamò il ragazzo dai capelli corvini facendosi improvvisamente attento, “Fai sport?”
Jin annuì e prese il boccale che il proprietario gli aveva appena poggiato di fronte.
“E’ davvero palloso venire qui ogni sera per solo un paio d’ore di allenamento,” iniziò, poi gli tornarono in mente le parole di quel manager sconosciuto e un sorriso gli si formò sulle labbra.
“Comunque,” continuò Jin cambiando discorso, pensare a quella cosa lo proiettava involontariamente in un’altra dimensione e non voleva perdere il contatto con la realtà una seconda volta. “Come va con la tua ragazza?”
Tatsuya fece spallucce e si portò la tazza - apparentemente colma di tè verde - alle labbra. Jin constatò che, nella sua attenta analisi del giorno prima, non aveva notato quanto fossero carnose. Proprio come una donna.
“Non sono andata a trovarla oggi,” disse semplicemente.
“E allora che fai qui?”
Tatsuya si strinse ancora nelle spalle.
“Allora non hai nulla da fare questa sera, vero?”
“Nulla di programmato.”
“Vogliamo divertirci?”
Tatsuya alzò un ciglio e lo guardò interrogativo.
“C’è una discoteca vicino alla tua fermata. Ci vado spesso ma ultimamente non ne ho avuto il tempo...”
Tatsuya sorseggiò ancora il tè e sembrava stesse valutando l’offerta.
“Sarebbe la prima volta per me.”
“Eh!?” esclamò Jin scoppiando a ridere, “Ma come hai vissuto fin’ora?”
Tatsuya finì il proprio tè e rise pure lui. “Non lo so, ma se sono arrivato a venti anni senza andarci significa che non è poi così necessaria.”
Jin scosse la testa, “Non capisci, là dentro è come un altro mondo. E ti dimentichi di tutto il resto, sei solo tu e la musica e...” poi ci pensò su e si azzittì di colpo.
E...?”
Jin non rispose. Guardò la schiuma nel proprio bicchiere intatto scomparire lentamente.
Non sono uguale anche io a questa gente? Questi impiegati cercano una fuga dalla realtà. E così faccio io. Fumando, bevendo e cercando calore tra le braccia di ragazze sconosciute, non sono forse io il peggiore qua dentro?
Che incongruente.
“E...” iniziò poi cercando di riallacciarsi al discorso precedente, “Niente, vogliamo andare?”
Tatsuya fece spallucce come suo solito. Sembrava davvero un bambino che non sa prendere decisioni da sé e di conseguenza, per non contraddire gli adulti, li asseconda. “D’accordo.”
 
Jin restò in silenzio durante tutto il tragitto dall’izakaya alla stazione.
Durante quegli anni di solitudine non aveva mai messo in discussione il fatto che la discoteca fosse il suo habitat naturale. Quando entrava là dentro smetteva improvvisamente di essere il pessimo studente, il figlio ignorato, il calciatore escluso. In quella scatola insonorizzata, niente di tutto quello poteva penetrarvi e Jin riusciva finalmente ad essere chiunque volesse, nessuno lo avrebbe giudicato per questo. Ed era finito per diventare solo uno tra tanti. Ma non era forse questo ciò che volevo? Avere qualcuno attorno a me che mi consideri parte di qualcosa. Famiglia, squadra di calcio, discoteca. Andava bene qualsiasi cosa.
Non credeva di dover avere quel bisogno prima della morte dei suoi genitori. Fintanto che loro erano stati in vita Jin aveva amato la solitudine della propria stanza, come un mondo distaccato in cui non c’era nessuno a dirgli come doveva comportarsi, come doveva vestirsi e parlare. Modi diversi eppure simili di isolarsi dalla realtà, inframmezzati solo dalla morte inattesa di due persone.
 
“Cos’hai?” domandò ad un certo punto Tatsuya notando un’espressione disgustata sul viso di Jin. Quest’ultimo cercò di togliersi dalla mente immagini passate, e l’odore di muffa dello sgabuzzino si affievolì un poco.
“Niente,” disse lui precedendolo fuori dalla stazione. Quella zona era completamente deserta e la nebbiolina che era scesa e che si rifletteva nella luce soffusa dei lampioni stradali sembrava essere in grado di passare attraverso i tessuti e arrivare fin sotto la pelle. “Che freddo,” commentò sistemandosi la sciarpa di lana attorno al collo.
Tatsuya concordò e tirò la zip della giacca fino in cima, coprendosi il mento.
“Ho dimenticato la sciarpa,” commentò poi accelerando il passo per stare dietro all’altro, “E’ lontano?”
Jin scosse la testa ed indicò un vicolo, “E’ là, resisti,” disse, “Tu invece da che parte abiti?”
“Qua vicino,” rispose Tatsuya.
“E non sei mai andato in questa discoteca.”
“Mai.”
Jin non disse altro, qualcosa stava cambiando. Il vecchio Jin avrebbe detto ancora una volta: Ma come hai vissuto fin’ora? e invece era rimasto in silenzio.
 
La discoteca non era affatto appariscente dall’esterno e quando Jin si fermò, Tatsuya ci mise un po’ a notare una scritta al neon in fondo a una scalinata sulla sinistra.
“E’ al seminterrato,” commentò Jin facendogli strada lungo una serie di scalini che scendevano al di sotto del livello della strada, “Non si direbbe, ma i primi tre piani fanno sempre parte del locale.”
A vederlo dall’esterno, Tatsuya si era immaginato una discoteca da quattro soldi, come una di quelle bettole che si vedono nei vecchi film americani. Invece la vista della sala lo lasciò stupefatto. Non si poteva dire che quello fosse un locale d’alta classe, ma il divario che c’era tra le aspettative e la realtà era quantomeno ampio.
La sala in cui entrarono era piuttosto spaziosa ma talmente poco illuminata che le pareti, il soffitto e il pavimento non sembravano esistere. La luce proveniva principalmente da delle lampade disposte su piccoli tavolinetti e da alcuni tubi al neon che delimitavano il perimetro del soffitto -inframmezzati solo da qualche lampadina colorata - e del pavimento, creando inoltre una specie di passerella che arrivava fino al bancone. Al centro della sala, leggermente spostata a sinistra, si ergeva una scala trasparente che conduceva al piano di sopra. Se si alzavano gli occhi si notavano altre sale divise da solo vetro in cui la gente si scatenava a ritmo di R&B. In quel primo livello, invece, la musica era debole e creava un sottofondo abbastanza piacevole.
Jin si fece largo tra i tavolinetti lungo quella passerella al neon e Tatsuya ebbe l’impressione di camminare su una lastra di vetro sospesa nel vuoto. Se esci dal perimetro, cadi.
Non c’era molta gente ma, durante quella sfilata, molte teste di ragazze si girarono nella loro direzione per guardare Jin che avanzava sicuro e a testa alta. Quegli sguardi non erano affatto paragonabili a quelli dei suoi compagni di squadra e Jin non vi aveva mai fatto molto caso, eppure quella volta lo infastidirono. Si girò verso Tatsuya, “Stammi vicino.”
Il ragazzo non capì quelle parole. Perché? Di cosa avrebbe dovuto avere paura? E, se davvero c’era qualcosa di cui aver paura, perché allora lo aveva portato a divertirsi in quel posto?  
“Akanishi!” lo chiamò ad un certo punto qualcuno che usciva da una porta laterale, e un gruppo di ragazzi li raggiunsero. “Da quanto tempo! Avanti, vieni, ti faccio conoscere questa ragazza che...” e il resto venne coperto da schiamazzi generali. L’atmosfera tranquilla che c’era un secondo prima era stata inevitabilmente incrinata.
Jin cercò di spiegare qualcosa e lanciò uno sguardo a Tatsuya che era rimasto immobile a guardarlo mentre veniva trascinato via dai suoi amici.
“Aspettami al bancone!” gli gridò Jin, “E non far caso al tipo che c’è là!”
Tatsuya restò da solo sospeso in quel vuoto. Per lo meno, in poco tempo, l’atmosfera tornò alla normalità e solo una sonata al pianoforte rompeva il silenzio. Anche la maggior parte delle ragazze che si erano focalizzate su di loro tornò a chiacchierare allegramente per i propri fatti. Solo alcune continuarono a guardare Tatsuya che, lentamente, si diresse verso il bancone.
 
Dopo il dissolvimento del gruppo di amici di Jin, scomparsi chissà dove, restava solo un punto della sala piuttosto animato. Davanti al bancone, chi seduta sugli sgabelli, chi in piedi, si era radunato un gruppo di ragazze che squittivano cercando di attirare l’attenzione del barman.
Junnosuke Taguchi, il barista più ricercato della discoteca, le osservava compiaciuto e rispondeva alle loro domande con gesti teatrali. Era giapponese solo per metà e i suoi tratti fisiologici stranieri - tranne per i grandi occhi a mandorla - avevano da sempre attirato la clientela femminile del locale. I suoi capelli erano biondi e lunghi fino alle spalle - raccolti in un codino basso con un nastro rosso - gli occhi celesti e freddi come il ghiaccio. La sua altezza era decisamente superiore alla media giapponese e l’ampiezza delle sue spalle aveva fatto sognare decine di ragazze.
 
Mentre Jin veniva portato in un lato appartato della sala, riportò alla mentre il viso di quel barman e rabbrividì. Non sapeva bene dire il perché di quella sensazione, ma se pensava che gli occhi di Tatsuya avrebbero incontrato quelli privi di calore di Junnosuke si sentiva male.
La ragazza che si inchinò una volta che lui le fu davanti rispecchiava in ogni suo particolare il tipo di donna con cui era solito andare a letto.
“Ciao,” lo salutò con un sorriso perfetto, “Ho sentito molto parlare di te.”
Eh? Era la prima volta che qualcuno gli diceva una cosa simile. Cercò di sorridere di rimando.
Lei gli afferrò il braccio e si strinse a lui.
Beh, quella era la solita prassi di tutte le ragazze in cerca di mero del sesso gratuito che non portasse strascichi in seguito. E infatti lui usava sempre il preservativo. La solita routine, niente di nuovo. Però, questa volta, lui la allontanò piuttosto malamente.
“Cosa c’è?” chiese lei, gli occhi che lo scrutavano con attenzione.
“E’ che...” iniziò, non capendo lui stesso il perché del proprio comportamento, poi notò la porta del bagno alle loro spalle, “...devo andare un secondo in bagno.”
Lei rimase zitta e lui si infilò velocemente nella toilette. Anche il bagno era piuttosto appariscente ma era decisamente più illuminato. Si guardò nello specchio.
“Il fatto che quell’uomo ti abbia proposto di unirti ad una squadra di serie D ti ha dato alla testa?” disse sottovoce, quindi si pizzicò una guancia. Datti una svegliata.
Poi ebbe la visione di una ragazza che, nello stesso modo, abbordava Tatsuya. Ma lui era fidanzato, non avrebbe certo ceduto. Lui era fidanzato... allora c’era effettivamente qualcuno con cui andava a letto. Aggrottò la fronte, era anche lui un ragazzo, non c’era niente di male.
“Ah,” mormorò quella ragazza entrando nel bagno degli uomini, “Volevi farlo in un posto più luminoso?”
Akanishi sussultò e la osservò mentre si sfilava una spallina del vestito di raso rosso che le fasciava il corpo.
“Un’altra volta, okay?” commentò freddamente lui e, dopo averla scansata, tornò a passo svelto nella sala principale. Qualcuno al piano di sopra aprì una porta di vetro e una canzone house invase, per un secondo, anche quel piano. Poi cessò di colpo e tutto tornò alla normalità.
Non appena si fu portato più al centro guardò in direzione del bancone e vide Junnosuke servire qualcosa di trasparente nel calice di Tatsuya. Attorno, quelle galline avevano occhi solo per il barman.
Si avvicinò e si sedette sullo sgabello di fianco a quello dell’altro.
“Scusa, mi hanno intercettato,” commentò Jin, e Tatsuya lo guardò con una strana espressione, quindi scoppiò a ridere e trangugiò metà bicchiere in un sorso.
“Ma che diavolo stai bevendo?” domandò Jin. Junnosuke rispose che era semplice Martini.
“Nessuno ti ha chiesto niente,” commentò poi, mentre il barman si scioglieva il nastro rosso dai capelli - sotto gli sguardi estasiati delle ragazze - e si allontanava per servire una giovane coppia qualche metro più in là. Come i pulcini seguono sempre la chioccia, anche quelle ragazze gli andarono dietro squittendo.
“Dovresti smettere,” disse poi Jin ignorando quella scena ormai familiare e tornò a guardare Tatsuya.
“Mhn...” mormorò il ragazzo ondeggiando un po’ sullo sgabello, “...ma è solo il... terz...quart...” e iniziò a contarsi le dita aggrottando la fronte. Jin gli rubò il bicchiere di mano e finì il resto del liquido in un solo sorso.
“Hey...”
“Devi smaltire, hai gli occhi tutti lucidi,” commentò poi Jin sospirando, “Non lo reggi davvero l’alcol.” Lasciarlo nelle mani di Junnosuke era stato peggio che abbandonarlo nelle grinfie di qualsiasi ragazza in quel locale. Ma fu felice che non avesse attirato troppo l’attenzione. Magari l’avevano pure scambiato per una donna.
“Vediamo,” disse Jin mentre Tatsuya abbandonava la testa sul bancone, “Dicono che camminare fa bene per farsi passare la sbornia... magari proviamo a ballare?”
Tatsuya arricciò le labbra e chiuse gli occhi, “Ma cosa... io danzo solo sul ring!” esclamò ridendo.
“Ring?” Jin ne rimase sorpreso. Allora forse fa davvero boxe, poi sorrise. Quel ragazzo non reggeva l’alcol perché non era abituato a bere, quando fai sport non devi assolutamente farlo. Yuichi glielo ripeteva spesso, ma Jin se ne era sempre fregato. L’importante è che poi rendo durante le partite. Immaginò che, se voleva entrare in quella squadra a livello nazionale, prima o poi avrebbe dovuto fare come gli si diceva.
Tatsuya continuava a tenere la guancia premuta contro il marmo del bancone. Jin lo osservò, sospirando per la seconda volta. Che cosa gli era venuto in mente? Portare uno come lui in questo posto.
E da quando considero questo posto negativamente? Non è casa mia?
Poi non poté fare a meno di scoppiare a ridere: Tatsuya aveva iniziato a fare il verso del pesce con la bocca.
“Sembri proprio un bambino spensierato,” commentò Jin e l’altro si tirò su stropicciandosi gli occhi. Quella specie di sorriso ebete che aveva avuto fino a quel momento scomparve dal viso di Tatsuya.
“Perché, tu che pensieri hai?”
Jin esitò, poi si strinse nelle spalle. Di solito non amava parlare della propria vita, ma quella volta gli venne l’impulso irrefrenabile di farlo, di sputare fuori tutto quello che si era portato dentro dalla nascita. Eppure era restato in silenzio, e si era stretto nelle spalle.
“Almeno tu hai una ragazza,” commentò poi e si osservò il pollice sporco di rosso. Probabilmente si era macchiato con il trucco di quella donna. Arricciò il naso, nemmeno mi ha detto come si chiama - che sgualdrina - poi sbuffò e si pulì su un tovagliolo di carta.
Quando tornò a guardare Tatsuya lo trovò con il viso completamente bagnato di lacrime.
“Che diav-” mormorò Jin sorpreso, “Che hai ora?”
“N-non... riesco a s-smettere,” balbettò l’altro tirando su con il naso. Quindi provò a sorridere, ma gli venne fuori solo una smorfia.
Jin prese un tovagliolo pulito e scese dallo sgabello per avvicinarsi di più.
“Uno non piange perché gli va...” commentò poggiando la superficie di carta sulla sua guancia, “Ci sarà un motivo... ho detto qualcosa di sbagliato? O è l’alcol che ti fa quest’effetto...?”
Tatsuya non rispose e chiuse un occhio mentre l’altro ci passava sopra quel pezzo di carta ruvido.
“Avanti,” disse poi Jin iniziando a perdere la pazienza, “Ora smettila.”
Non aveva mai incontrato nella sua vita un tipo come lui. Era un adulto, aveva addirittura più anni di lui, eppure sembrava proprio un bambino.
“Ho lasciato la mia ragazza,” buttò fuori Tatsuya tutto d’un fiato, poi fece un’altra smorfia. Jin si fermò con il fazzoletto a mezz’aria.
“Ah! Ora capisco!” esclamò e gli diede una pacca sulla spalla, poi aprì la bocca per dire qualcosa di consolatorio quando Tatsuya lo fulminò con lo sguardo.
“No che non capisci,” disse serio e le lacrime sospesero la loro fuoriuscita. Jin rimase paralizzato da quell’improvvisa mancanza di vita nel suoi occhi. “E’ la prima volta che accade,” continuò Tatsuya, poi scoppiò a ridere di colpo e poggiò la fronte sul petto dell’altro. “Non mi sento molto bene...”
“Okay,” commentò Jin più che altro a se stesso. Non riusciva proprio a stare dietro alle sue emozioni e al filo dei suoi pensieri, “Devi vomitare?”
“Credo di no...”
“Ti gira la testa?”
“No, aspetta... forse ho la nausea.”
Jin fece per prenderlo per le spalle e allontanarlo ma Tatsuya afferrò la sua maglia con entrambe le mani e sprofondò di più il viso contro di lui.
“Non vorrai vomitarmi addosso!” esclamò Jin cercando di spingerlo via, ma quel ragazzo oppose una resistenza notevole.
“Se sto così poi mi sentirò meglio...” commentò Tatsuya senza mollare la presa. Poi riprese a singhiozzare.
Jin non sapeva più cosa fare. Iniziò a guardarsi intorno per vedere se avevano attirato l’attenzione. Essere in pubblico in una situazione simile con un ragazzo lo metteva indiscutibilmente a disagio. Ma tutto sembrava normale, le persone continuavano ignare a chiacchierare e i camerieri erano ancora intenti a svolgere il loro dovere per i tavoli. Anche la musica era ancora là, che faceva da sottofondo. 
Jin si rilassò un po’ e gli poggiò una mano sulla nuca. Alla fine, se si fossero trovati in un altro luogo - da soli - avrebbe anche potuto abbracciare quel corpo che continuava a tremare sotto gli spasmi del pianto. Invece, si limitò a muovere leggermente le dita e ad accarezzargli la testa.
Lentamente, Tatsuya si calmò e anche la pressione della fronte contro la maglia diminuì.
“Mi dispiace di averti portato qui,” mormorò Jin dopo qualche minuto, “Non è un posto per te.”
Tatsuya alzò il viso e lo guardò. Quegli occhi gonfi contrastavano così duramente con il resto del viso che Jin non poté fare a meno di incolparsi per quel mutamento innaturale.
Stava per scusarsi ancora quando Tatsuya allungò il collo e, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, gli baciò le labbra.
“Jin,” sussurrò poi il ragazzo portando le braccia attorno al suo collo, “Portami via.”
Jin restò pietrificato ma cercò di non darlo a vedere. Distolse lo sguardo. Ora perché diavolo arrossisco?
“Ah, Akanishi, sta attento,” disse una voce oltre il bancone, “Anche i miei occhi hanno errato credendolo una donna.”
Junnosuke se ne stava appoggiato alla parete e annuiva a se stesso, mentre i capelli biondi ondeggiavano sotto l’effetto di chissà quale vento inesistente.
“Se dici a qualcuno quello che hai appena visto ti ritroverai pelato in meno di un secondo,” sibilò Jin freddamente e si tolse di dosso Tatsuya.
Il barman rise educatamente e si allontanò a grandi falcate verso un cliente che aveva alzato una mano per chiamarlo.
“Non ci credo...” commentò Jin rivolgendosi a Tatsuya, “Ma che diavolo ti salta in ment-” ma si azzittì vedendo che l’altro era crollato sul bancone. “Hey!” lo chiamò scuotendolo per le spalle. Quello mormorò qualcosa di incomprensibile e si voltò dall’altra parte. Non vorrai mica che ti riporti a casa sulle spalle?
 
Una volta che furono fuori Jin cercò di far scendere l’altro.
“Sei pesante sai?” commentò, ma Tatsuya continuava a tenersi stretto contro la sua schiena, “Anche se non si direbbe...”
Alla fine Jin non aveva potuto fare altro che metterselo sulle spalle ed uscire dalla discoteca sotto lo sguardo di tutti. Quella passerella al neon aveva mandato in frantumi il suo desiderio di non dare nell’occhio. Ma era stato inevitabile, non poteva mica mollarlo là dentro in quelle condizioni. Non ne sarebbe uscito vivo.
“Allora, dove abiti?” domandò ancora Jin guardandosi a destra e a sinistra. Quella nebbia che li aveva accompagnati durante il percorso all’andata riprese ad avvolgerli, attutendo rumori e colori. Sembrava di essere precipitati in un luogo dove il tempo aveva deciso di prendersi una pausa.
“Non lo so...” commentò Tatsuya dondolando un po’ le gambe.
“Non ti muovere che finiamo a terra entrambi, idiota! E poi com’è possibile che non sai dove abiti? Un po’ di Martini non ti cancella mica la memoria. Avanti, destra o sinistra?”
Il ragazzo strofinò un po’ la guancia contro la schiena dell’altro, poi disse convinto:
“Sinistra.”
“Okay... ma sta fermo.”
Jin continuò a camminare per una decina di minuti seguendo le indicazioni dell’altro. Le nuvolette di respiro che gli uscivano dalla bocca divenivano mano a mano sempre più corpose. Se pensava alla situazione in cui si era cacciato gli veniva voglia di mollarlo lì con un bel calcio nelle coste come ringraziamento per quel bacio che gli aveva rubato e che, senza motivo, continuava a turbarlo in quella maniera.
Ma continuò lo stesso a camminare finché, a un certo punto, non si bloccò aggrottando le sopracciglia.
“Hey, tu, questa è la stazione, che significa?”
“Vengo a dormire da te, prendiamo l’ultimo treno.”
“Ma sei completamente rincoglionito?” domandò Jin smettendo di tenergli sorrette le gambe. Tatsuya, colto di sorpresa, fu costretto a scendere e, in meno di un secondo, perse l’equilibrio ritrovandosi con il sedere a terra.
“Ahi!” esclamò chiudendo gli occhi.
Jin sospirò e si grattò la testa. Poi lo aiutò a rialzarsi.
“Ti reggi da solo?”
Tatsuya annuì, poi iniziò a camminare deciso verso l’interno della stazione. Il treno era già arrivato, e riposava gli ingranaggi per qualche secondo.
“Dove vai?” gridò Jin raggiungendolo.
“Non ho voglia di tornare a casa, la mia ex-ragazza sarà sicuramente là fuori ad aspettarmi.”
“Ma non puoi venire da me!” esclamò Jin afferrandogli il braccio prima che potesse salire sul treno. La lucidità gli era tornata di colpo?
“Perché? Per me non ci sono problemi.”
“Per me sì!”
Il treno fischiò e il capostazione gridò che le porte stavano per chiudersi. Jin esitò un secondo, alla fine che problema c’era ad ospitare per una notte un amico che ne ha bisogno?
Tatsuya colse quel momento di esitazione e trascinò Jin sul treno con sé.
Safe!” gridò Tatsuya una volta che le porte si furono chiuse. L’unico passeggero seduto in fondo al vagone - una ragazza che probabilmente frequentava ancora le medie - li guardò incuriosita.
Jin continuò a scervellarsi ancora per qualche minuto, poi si arrese e si sedette accanto all’altro.
“D’accordo,” concordò evitando di guardarlo, “Ma tu dormirai sul divano.”
Roger!
 
In realtà, in casa, oltre alla piccola camera in cui dormiva Jin vi era anche un’altra camera, più grande. Ma quella era la stanza dei suoi genitori e lui l’aveva chiusa a chiave il giorno stesso in cui aveva deciso di rimanere ad abitare lì da solo. Se ne stava immobile in un angolo della casa, come se aspettasse il momento in cui qualcuno sarebbe andato a spolverare le sue superfici. Per Jin, invece, non rappresentava altro che il simbolo della propria colpa per aver causato la morte dei suoi genitori. Se lui non ci fosse stato, la questione del tradimento sarebbe andata diversamente e il padre non sarebbe dovuto tornare a casa ogni mese. Sua madre, quel giorno, non sarebbe dovuta andare a prenderlo all’aeroporto di Tōkyō.
Alla fine, dopo tutti quegli anni, quel sentimento autodistruttivo si era decisamente attenuato e Jin aveva capito che non aveva senso attribuirsi alcuna colpa. Ad ogni modo, la stanza era rimasta in quel punto, immobile, ed aveva preso il posto di quel santuario familiare che Jin si era rifiutato di allestire. Passava davanti quella porta tutte le sere prima di andare a letto, e chinava il suo capo.
 
Jin mostrò a Tatsuya il divano nel salotto e, senza troppe cerimonie fuggì nella propria camera. Chiuse la porta alle proprie spalle e si gettò sul letto.
“Dormi,” si ordinò senza troppi risultati. Prese il cuscino e se lo premette sul viso. Perché ora provava quel senso d’ansietà e non riusciva a rilassarsi?
Tatsuya era appena oltre quella porta e, senza alcun dubbio, stava già dormendo come un ghiro. Lui lo aveva detto che quel ragazzo non aveva pensieri. E allora perché era scoppiato a piangere in quel modo? Ebbe l’impressione che la rottura del fidanzamento non c’entrasse. Anzi.
Iniziò a rigirarsi alla ricerca di una posizione più comoda.
Devo calmarmi, era solo ubriaco. E lui non aveva mai avuto problemi ad andare con donne completamente brille. Il problema è che questa volta si tratta di un ragazzo.
“E’ un maschio, un maschio...” iniziò a ripetere come fosse una preghiera. Preghiera? Si alzò di scatto. Non aveva salutato i propri genitori quella sera. Ma non poteva rischiare di uscire e di trovare l’altro ancora sveglio, così tornò a poggiare la testa sul cuscino.
Però, chissà come deve essere fare sesso con un ragazzo.
“Cioè, finché sei tu l’attivo non dovrebbe cambiare molto,” mormorò. Dare voce a quel pensiero lo turbò. Chiuse gli occhi cercando di immaginarsi il corpo dell’altro.
Se faceva boxe doveva essere ben allenato. Con tartaruga e tutto il resto. Ovviamente niente seno, compensato da qualcos’altro. Arricciò i lati della bocca, non vale nemmeno la pena perlustrare un corpo tale e quale al mio. Non ci sarebbe divertimento.
“Però anche quello delle donne lo conosco a menadito,” sarò andato con mille ragazze ormai.
Restò qualche secondo immobile. Nella testa iniziarono a vorticare pensieri sconnessi, privi di logica, e Jin non si sforzò troppo di mettere ordine. Era stanco.
Fece scivolare una mano lungo il proprio petto, lentamente, fino a raggiungere il bottone dei pantaloni. Lo slacciò. Un rumore metallico e anche la zip venne calata. Sospirò.
Quella fu la prima volta che si masturbò pensando ad un ragazzo.



[1] L’izakaya (居酒屋) è il tipico bar giapponese.
[2] Professore in giapponese.
[3] L’hiragana è uno dei tre alfabeti giapponesi e, a dispetto dei kanji, la sua lettura è univoca.

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Capitolo 2
*** In this never-ending world, I'm searching for you. ***


Quando la mattina dopo si svegliò, aveva la bocca stranamente impastata. Cercò di tirarsi su e si accorse di avere pantaloni e mutande completamente sfilati.
Fece una smorfia ed iniziò a spogliarsi del tutto. Non era stata una buona idea quella di toccarsi nel letto. Ora, oltre a una doccia, gli toccava cambiare pure le lenzuola.
“Che seccatura...” commentò raggiungendo la porta. Poggiò la mano sulla maniglia e si bloccò. I pezzetti della sera prima iniziarono a tornargli alla memoria, susseguendosi come i fotogrammi di una pellicola cinematografica: Tatsuya, con tutta probabilità, era ancora in sala.
Tornò indietro e infilò a caso un paio di pantaloni di una tuta, non poteva certo uscire nudo. Vivere da solo per tutti quegli anni gli aveva modificato le abitudini in maniera irreversibile, e avere una presenza in casa che ti condiziona il comportamento era una cosa che aveva dimenticato.
Controllò di non aver tralasciato altri dettagli, quindi fece un respiro profondo ed uscì.
Come aveva sospettato, il ragazzo era sul divano e sembrava stesse dormendo profondamente. Senza fare rumore attraversò la sala ed entrò nel bagno. Cercò di lavarsi nel più breve tempo possibile e, in meno di un quarto d’ora, era di nuovo nella propria camera.
Scelse distrattamente cosa mettersi - un paio di jeans scoloriti e una maglia scura - poi tornò in sala.
L’espressione del viso di Tatsuya gli diede l’impressione che stesse sognando qualcosa di divertente. Gli punzecchiò una guancia e, dopo qualche secondo, quello aprì gli occhi e guardò Jin come fosse un estraneo.
“Ah!” esclamò poi mettendosi seduto con uno scatto, “Dove sono?”
“Ieri sera hai bevuto un po’ e non sapevo dove abitassi,” rispose Jin cercando di fare il vago. Voleva vedere fin dove si ricordasse.
“Davvero...?” commentò Tatsuya guardandosi intorno, “...allora grazie dell’ospitalità!”
“Non c’è problema, abito da solo.”
“Eh? In una casa così grande?”
“Già, i miei genitori sono morti quando avevo tredici anni,” ma non me l’ha chiesto. Perché ora mi metto a parlare dei fatti miei con uno sconosciuto?
Tatsuya restò in silenzio, poi gli sorrise. “Devi aver avuto una vita difficile.”
Jin distolse lo sguardo, gli occhi gli erano diventati lucidi senza motivo.
“Preparo la colazione...”
 
“A proposito,” commentò Tatsuya ad un certo punto con la bocca piena di riso, “Non avrò mica fatto qualcosa di strano ieri sera? L’ultima volta che ho bevuto un po’ troppo non è andata bene. I miei amici mi hanno detto che ero intrattabile e che cambiavo umore ogni tre secondi... ho pure preso a pugni uno di loro solo perché voleva impedirmi di bere altro sakè.”
Jin rise istericamente, “No, no, tranquillo. Avevo tutto sotto controllo.”
“Okay, meglio,” commentò l’altro finendo la ciotola di riso. “Grazie per la colazione, cucini molto bene.”
“Quando vivi da solo devi imparare ad arrangiarti, immagino,” ancora questo discorso? Ma cosa mi prende ultimamente? “Comunque, non vai a scuola oggi? E’ venerdì.”
Tatsuya guardò l’ora, “Oggi ho lezione in facoltà solo di pomeriggio. Tu, invece?”
“Ah... io sono ancora all’ultimo anno di liceo. Uno strazio assurdo.”
“Quindi non vai a scuola.”
“No, ci vado...” precisò Jin alzandosi per sparecchiare la tavola, “E’ solo che c’è il festival scolastico invernale.”
“Ah, io ho studiato da privato...” disse Tatsuya incuriosito, “Cos’è?”
Jin rimase sorpreso da quell’affermazione. I suoi genitori dovevano essere ricchi. Proprio come i miei. Solo che lui con quel patrimonio non ci faceva nulla, e allora perché non divertirsi un po’ pagandoci la discoteca? Dopotutto non si concedeva altri lussi e, di giorno, conduceva la vita di un normale ragazzo cresciuto in una famiglia agiata.
“Ogni classe allestisce la propria aula a tema, e, per due settimane, non si fa altro che lavorarci.”
“Ah, deve essere divertente! E la tua classe che tema ha scelto?”
Jin si strinse nelle spalle, “Credo che vogliano sistemare l’aula rendendola un prato. Il tema è il pic-nic... o il campeggio, non ho capito bene.”
A Tatsuya si illuminarono gli occhi, “Non sono mai andato in campeggio! E quindi una volta ultimati i preparativi?”
“C’è il festival, in cui la gente viene a scuola e gira per le aule. Niente di che.”
“Waaa!” esclamò Tatsuya come un bambino che scopre per la prima volta l’esistenza di Babbo Natale, “Voglio venire! Perché non aiuti i tuoi compagni?”
“E’ uno spreco di tempo, nelle prossime due settimane mi alleno piuttosto.”
Tatsuya mise il broncio e sembrò immergersi per qualche minuto nei suoi pensieri. Forse si stava immaginando come potesse essere un festival scolastico invernale.
Poi tornò alla realtà e guardò Jin.
“Credo sia ora di andarmene,” disse sorridendo, “E’ stato un piacere conoscerti.”
Eh?
“Cioè?” domandò Jin seguendolo fino alla porta.
“Sei una brava persona, non mi capita spesso di incontrarne... ecco cosa intendo.”
Jin annuì, “Sì, certo... ma ora?”
“Ora? Ora torno alla mia vita monotona,” sorrise Tatsuya con una nota di malinconia. “Anche se voglio provare a cambiarla. Incontrarti mi ha fatto pensare questo, ti ringrazio.”
“Hai ancora la boxe, no? Di sicuro non è monotona come la mia,” disse Jin mentre l’altro si infilava le scarpe. Tatsuya sembrò pensarci su.
“Come fai a saperlo?” domandò voltandosi verso di lui.
“Le tue nocche...”
“Ah, sei un osservatore allora!” esclamò ridendo, poi si portò le dita al mento, “Vediamo, sentendoti parlare di allenamenti e vedendo il tuo fisico... calcio?”
Jin annuì. Si era dimenticato che anche lui aveva ancora qualcosa per cui vivere. Ma non bastava più, da tempo gli era diventato insufficiente.
Tatsuya sorrise.
“Verrai all’izakaya questa sera?” domandò Jin.
“Ah... devo allenarmi, tra due giorn-” ma si interruppe. Il cellulare aveva iniziato a squillare, Tatsuya lo prese tra le mani e guardò lo schermo illuminato. Quindi lo spense.
“Per caso...” azzardo Jin, “...la tua ex?”
L’altro non rispose e si avviò fuori.
“Hey!” lo chiamò Jin rimanendo sulla porta, Tatsuya si voltò. “Perché ti sei messo con lei?”
“Perché? Perché me l’ha chiesto.”
Jin aggrottò la fronte.
“Mi sarò messo con mille ragazze...” continuò Tatsuya, “...solo perché me l’hanno chiesto. Non è buffo?”
Jin fece per dire qualcosa, poi cambio idea e annuì semplicemente. “Ci vediamo.”
Nella loro diversità, quelle solitudini non erano poi così differenti.
 
Il lunedì seguente, a scuola, i suoi compagni di squadra lo guardarono in modo strano.
Lui entrò nell’aula fingendo di non essersi accorto di nulla finché Tanaka non lo avvicinò. Jin assunse un’aria di sufficienza e gli chiese cosa volesse. Il compagno chinò un po’ la testa.
“Ecco... Nakamaru-sensei ha detto che giovedì scorso vi siete allenati lo stesso...”
“Già.”
“Mhn... mi dispiace non averti invitato alla festa, non è stata niente di che.”
“Non importa, so che non fa figo invitare uno come me alle feste di compleanno, non è colpa tua. E’ la società che fa schifo,” disse Jin guardandosi un po’ intorno per distrarsi.
L’aula era davvero irriconoscibile. I banchi e le sedie erano stati rimossi e alcuni fili di edera finta pendevano qua e là sui bordi delle finestre e della lavagna. Alla fine, che quello dovesse essere un campeggio o un prato da pic-nic poco importava, a Jin interessava solo passare l’anno.
“Pensavamo che non saresti venuto queste due settimane...” Tanaka cambiò discorso.
Jin lo guardò storto, perché improvvisamente quel tipo gli rivolgeva la parola? Possibile che sapessero?
“Non voglio venire bocciato per aver fatto troppe assenze, ecco perché verrò ad aiutare.”
Possibile che sapessero dell’offerta che aveva ricevuto?
“Comunque,” continuò Jin tenendo d’occhio gli altri della squadra, “Qual è il tema?”
Campeggio in una radura incontaminata,” rispose il capoclasse avvicinandosi ai due, “E’ questo che scriveremo fuori dall’aula, solo entrata a coppie!
Jin alzò un sopracciglio. “Non mi pare una buona idea.”
Il capoclasse scrisse qualcosa su un blocco che teneva in mano, poi alzò gli occhi, “Ecco perché io sono il responsabile della nostra classe e tu sei quello che tira calci a una palla di cuoio.”
Tanaka osservò il cipiglio minaccioso dei due e si allontanò discretamente. Non aveva dimenticato cos’era successo all’ultimo ragazzo che aveva provato a contrastare il pensiero di Jin. Ma Tanaka non sapeva che il capoclasse, Kamenashi Kazuya, era l’unica persona che sapeva tenere testa all’altro senza rischiare nulla.
Kazuya era stato il primo e unico amico di Jin in quella scuola sin dalle medie e, sebbene non si frequentassero più da qualche tempo, tra di loro restava ancora un legame di nascosta complicità. Inoltre, lui era l’unico in quella classe a conoscere vagamente quale fosse stato il passato di Jin ma, almeno fino a quel momento, sembrava voler custodire quella storia per sé. Jin si era domandato più volte quando la loro amicizia fosse finita, sfumando nel silenzio. Probabilmente da quando Jin aveva accettato la proposta di Yuichi di entrare nel club di calcio. O forse da quando aveva iniziato a diventare dipendente dalla discoteca.  
“Io intanto avrò un futuro assicurato, tu invece cosa farai?”
Kazuya storse le labbra, “Fare il calciatore di professione non è così facile come pensi, anche se dovessi lavorare duramente non è detto che tu abbia le qualità e, soprattutto, le conoscenze adeguate per poter-” ma il suo discorso - che iniziava seriamente ad infastidire Jin - si dovette interrompere a causa dell’arrivo del loro professore di turno.
Il capoclasse andò subito a riferire come procedevano gli allestimenti per le tende ma prima, per un secondo, tornò a guardare Jin con un’espressione nostalgica. L’altro gli sorrise impercettibilmente e distolse lo sguardo.
 
Non sapeva dire bene il perché, ma quel giorno era stato stranamente bene in classe. Per la prima volta si era accorto che non esistevano solo i suoi compagni di squadra, con i loro sguardi giudicatori, ma c’era anche una buona metà della classe di cui non si era mai reso conto. Dopo secoli, aveva parlato a lungo con Kazuya e, con una certa rassicurazione, lo aveva ritrovato identico a prima. Almeno lui è ancora a posto.
Ad un certo punto si era addirittura reso conto che la ragazza con cui condivideva l’allestimento di una tenda arrossiva ogni qual volta lui le rivolgeva la parola. Poteva dire di essersi sentito normale per una volta?  
 
Mentre quella sera prendeva il solito treno, si ritrovò a sorridere. Non vedeva l’ora di sedersi al bancone, con una bella birra in mano, e una serata libera davanti. Non aveva detto a Yuichi che non si sarebbe allenato, non se la sentiva, ma immaginò che non ce ne fosse il bisogno. In effetti, ora che ci pensava, non era nemmeno la prima volta che saltava un allenamento senza avvertire.
Non era più andato all’izakaya durante quel fine settimana, dopotutto Tatsuya gli aveva detto che per quei due giorni avrebbe avuto da fare. Cosa però? Allenamenti di boxe per un qualcosa che sarebbe successo dopo due giorni. Quindi ieri?
“Boh...” mormorò mentre scendeva alla solita fermata.
L’atmosfera era placida ma mancava quella solita nebbiolina fine che rendeva tutto della stessa consistenza di un sogno. La notte era nera, profonda, senza stelle, e i passi di Jin in quella strada deserta risuonavano in maniera sinistra. Qualcosa non quadrava.
Quando arrivò davanti al negozio capì. Ancora prima di entrare sapeva che non avrebbe trovato Tatsuya seduto al bancone che si girava salutandolo con quella sua aria innocente. Buonasera.
“Buonasera,” lo accolse il proprietario sorridendo. Jin restò immobile all’ingresso. Odiava gli izakaya.
“Ehm... mi scusi,” disse chinando il capo, poi uscì richiudendosi la porta alle spalle.
Doveva saperlo che non lo avrebbe più rivisto. Era chiaro, il fatto che se ne fosse andato in quel modo da casa sua, senza lasciare alcun contatto - e senza chiederne - non lasciava spazio a fraintendimenti. Era chiaro come la luna che lo osservava in alto nel cielo.
Si ritrovò appoggiato ad un muro, le mani in tasca e gli occhi che fissavano quel cerchio bianco e perfetto in cielo.
“Tu lo sapevi, eh?” mormorò con un sospiro, “Anche la prima volta tu eri lassù, solo che non ti riuscivamo a vedere per via della nebbia.”
Poi ebbe un brivido e pensò che avrebbe fatto meglio a rientrare. Perché ogni volta che qualcosa sembrava andare per il meglio, poi doveva necessariamente cadere a pezzi? L’ultima volta che aveva pensato sono felice era stato il giorno dell’incidente dei suoi genitori.
 
Durante le due settimane seguenti Jin continuò ad andare a scuola regolarmente.
I preparativi per il festival procedevano con rapidità e tutto sembrava andare per il meglio. A due giorni dalla data ufficiale mancavano solo i costumi.
Jin si oppose con forza ma, dopo l’intrusione di Kazuya, si arrese e lasciò che una sua compagna di classe gli prendesse le misure.
“Il fatto che ci siano tutte queste piccole tende separate immerse in una natura incontaminata concederà alle coppie una certa intimità,” aveva detto Kazuya come se stesse spiegando ad un bambino che le foglie sono verdi, rosse, gialle a seconda della stagione, “Ma dobbiamo anche pensare al loro stomaco. Noi saremo i loro camerieri pronti a questo scopo non appena ne avranno bisogno.”
“Non ho mai visto camerieri vestiti come pinguini aggirarsi per i boschi...” aveva obbiettato invano Jin.
A Kazuya era bastata un occhiata e l’altro aveva acconsentito in silenzio.
Naturalmente la sera continuava a frequentare anche gli allenamenti di calcio. Yuichi non aveva detto nulla sul fatto che Jin fosse mancato una volta e tutto era andato avanti come al solito. La partita seguente si sarebbe svolta durante uno dei tre giorni in cui si articolava il festival e non poteva permettersi altre assenze.
“Ragazzi,” disse Yuichi una settimana prima del festival, “Noi giocheremo il secondo giorno, alleniamoci per vincere.”
La squadra aveva acconsentito con entusiasmo e anche Jin si sentiva pronto. A lui non importava vincere, ma doveva impegnarsi e far vedere cosa valesse. A tutti i costi.
“Inoltre,” aggiunse l’allenatore prima di congedarli, “Potremo tornare nella nostra palestra una volta finito il festival. I lavori sono finiti.”
Jin schioccò la lingua e se ne andò prima di tutti. Come tutte le sere, dopo l’allenamento, tornava all’izakaya, ma ogni volta lo trovava vuoto. Non che mancassero i commensali, ma Tatsuya sembrava scomparso dalla faccia della terra. Che fosse tornato con la sua ex? O con una nuova ragazza? E allora perché Jin non ci riusciva? Se erano così simili come aveva pensato, perché lui non riusciva a tornare alla sua vecchia vita?
Ancora una settimana e gli allenamenti si sarebbero tenuti a scuola. Non aveva più scuse per continuare a frequentare quell’izakaya. Tutto sarebbe tornato alla normalità e lui avrebbe ripreso ad andare in discoteca. Non vedeva l’ora.
 
La sera prima dell’inizio del festival, sebbene non avessero l’allenamento di calcio, Jin si ritrovò con la mano sulla maniglia della porta dell’izakaya.
Mi domando perché continui a venire in questo posto.
Il cuore accelerò improvvisamente i battiti e Jin ritrasse la mano spaventato. La sudorazione aumentò di colpo e l’ossigeno non riusciva ad arrivare ai polmoni. Non ce la faccio, non devo tornare più. Tatsuya. Non verrà. Più.
E scappò verso la stazione.
La luna continuava a guardarlo, ma non poteva dirgli che, quella volta, Tatsuya c’era.  
 
Jin arrivò a scuola con il cambio d’abito in una busta. Il primo giorno del festival scolastico era, solitamente, anche quello più impegnativo. Decine di ragazzi erano arrivati da ogni dove per poter prendere parte all’evento, e gli studenti di ogni classe si davano da fare più che potevano per potersi assicurare il primo premio come ‘Classe più popolare dell’istituto’.
“Akanishi!” gridò Kazuya non appena lo vide entrare in classe, “Sei in ritardo! Cambiati!”
Jin non fece in tempo a dire nulla che quello era già sfrecciato dall’altro lato della classe - facendosi abilmente largo tra le piccole tende - per poi raggiungere un gruppo di ragazzi.
Sai, avrebbe voluto dirgli, questa notte non sono riuscito a chiudere occhio. Sospirò e lo osservò dare i primi ordini:
“Tu, và fuori e attira più clientela. Tu, inizia a far entrare le coppie. Tu, in cucina.”
Ha ragione, io non potrei mai organizzare una cosa simile. Jin sorrise debolmente e andò a cambiarsi d’abito.
Quel costume attillato da pinguino non gli piaceva affatto, da sempre aveva preferito gli abiti casual, ma ormai ci era dentro e non poteva più tirarsi indietro. E poi, il ricordo dell’ultima conversazione con Tatsuya era ancora vivo nella sua memoria. Ah! Deve essere divertente! Non sono mai andato in campeggio!  
Nemmeno lui era mai andato in campeggio, i suoi genitori erano occupati con il lavoro per 365 giorni all’anno e il massimo che avevano fatto insieme era stato andare un giorno al mare. Solo perché era capitato che, casualmente, sia sua madre che suo padre avevano delle faccende da sbrigare il quella località.
Ritornò in classe con una smorfia sul viso. Kazuya la ignorò e gli ordinò di prendere i vassoi con il tè.
“Addirittura il tè?” ma il capoclasse continuò ad ignorarlo e si allontanò di corsa.
Jin si prese un secondo per dare un’occhiata alla classe. In effetti, avevano fatto proprio un buon lavoro e, sebbene il poco spazio gli avesse permesso di installare solo una decina di tende, il concept in generale era più che buono. In più, erano riusciti a trovare rotoli d’erba sintetica da stendere sul pavimento e il soffitto era stato coperto da fogli celesti. Sorrise, non si sarebbe stupito se quell’anno avessero vinto loro.
Non appena le prime coppie entrarono nelle piccole tende, Jin iniziò a girare e a servire il tè a quelle che lo desideravano. Un altro ragazzo, invece, passava con i biscotti. Nemmeno si fossero trovati nella Londra del ‘700.
Ad un certo punto Jin sbuffò e tornò nella piccola cucina - allestita nell’adiacente aula di pianoforte - perché una cliente desiderava del tè un po’ più caldo. La ragazza ai fornelli gli rispose indignata:
“Possibile che non gli vada bene niente? E’ tutto il giorno che regolo la temperatura dell’acqua.” Jin fece spallucce, non era mica colpa sua. “Mah,” continuò la ragazza sbuffando, “Lascia qua il vassoio che sistemo il tè.”
Jin tornò verso l’aula trascinando i piedi e ignorando le facce curiose dei passanti. Era naturale che desse nell’occhio conciato in quel modo, ma lui ci era abituato.
Una volta arrivato davanti alla propria classe notò un certo trambusto provenire dall’inizio della fila di coppie. Si avvicinò.
“Vi dico che lo conosco!” diceva qualcuno ad alta voce.
“Akanishi non è qui al momento. La prego, si trovi una compagna e faccia la fila,” cercava di spiegare Kazuya.
“Ma non voglio entrare! Voglio solo sapere dov’è Jin,” disse Tatsuya.
Jin, a qualche metro da lui, restò immobilizzato e le mani iniziarono a sudargli.
Kazuya non voleva sentire ragioni e gli pregò di allontanarsi.
“Dov’è? Non è questa la sua classe?”
“Tatsuya...” mormorò Jin, poi scattò in avanti e gli afferrò un polso. Questi si girò di scatto e i due si guardarono per un istante. Erano proprio quei suoi occhi neri come la pece. No, in quel momento si illuminarono. Come se un faro si fosse acceso nel buio di quella notte.
“Eccoti...”
Jin non disse nulla, lo trascinò dentro l’aula e lo spinse in una tenda libera. Poi, poco prima di seguirlo, lanciò un occhiata a Kazuya, che capì al volo. Jin lo ringraziò muovendo le labbra, quindi si infilò dentro e chiuse la zip della tenda.
 
L’interno era molto piccolo e si poteva stare solo seduti. Jin prese posizione davanti all’altro. Sopra di loro, una piccola lampadina era l’unica fonte di illuminazione.
Restarono immobili e in silenzio per una decina di secondi, poi Ueda si mise a ridere.
“Non dici nulla?” domandò grattandosi una guancia.
Jin alzò un sopracciglio, “Cosa dovrei dire?”
“Non so...” cominciò l’altro guardando la piccola luce sopra le loro teste, “...magari ti sono mancato.”
Jin strinse le mani a pugno. “Se non ci siamo più visti è perché non ce n’era il motivo.”
“Eh...? Motivo?” fece Tatsuya ridendo, “Ma tu non li guardi mai i telegiornali?”
Il cameriere si aggiustò il soprabito. No, lui non aveva mai guardato la televisione in vita sua.
“Avrei dovuto?”
“Jin...” iniziò Tatsuya, “...non ci credo. E io pensavo che tu fossi preoccupato...”
“Per cosa?”
“Per me!”
“Non ti seguo,” sbuffò Jin, di cosa doveva essere preoccupato?
Tatsuya smise di fissare la lampadina e chiuse gli occhi, “Due giorni dopo che sono stato a dormire da te ho avuto un importante incontro di boxe. L’avversario lo sto studiando da più di un mese ed ero quasi sicuro di poterlo battere. L’incontro, però, trasmesso live in tutte le tv del Kantō e del Kansai[1], non è andato liscio come credevo e alla fine la trasmissione è stata interrotta.”
“Perché?”
“Perché io sono svenuto proprio nel bel mezzo del secondo round! Sono stato in ospedale fino a ieri mattina.”
Jin sbarrò gli occhi, “Ospedale?”
Tatsuya abbassò il capo, gli occhi ancora serrati gli mostravano immagini strane.
“Se continuo così,” disse con una nota tremante della voce, “c’è la possibilità che rimarrò ceco.”
Jin aprì la bocca ma non ne uscì nulla.
“N-non è la prima volta... ogni volta che ricevo un forte colpo alla testa... io... la boxe...” ma un tremito gli scosse il corpo e non riuscì a completare la frase. Portò le mani a coprirsi il viso.
“Scusa...” mormorò cercando di sorridere, “E’ la prima volta che mi metto a piangere davanti a qualcuno...”
Jin allungò un braccio. Non è affatto la prima volta, avrebbe voluto dirgli, ma restò in silenzio. Passò le dita dietro la sua nuca e lo tirò a sé. Tatsuya appoggiò la fronte sul suo petto. Come l’altra volta, piangi finché vuoi. Piangi anche per me.
“Mi dispiace,” sussurrò Jin carezzandogli i capelli neri. “Mi dispiace solo non averti domandato di più l’ultima volta. L’incontro lo sarei venuto a vedere, ti avrei accompagnato all’ospedale e sarei restato con te tutto il tempo...”
Tatsuya venne scosso da un singhiozzo più forte e gli strinse la maglia.
“N-non lo avresti fatto,” disse sorridendo, le lacrime gli bagnarono le labbra tirate, “Hai la scuola, l’allenamento... m-ma... sono contento che tu sia andato all’izakaya tutte le sere passate, tranne ieri... ma oggi saresti stato occupato... dovevi andare a letto dopo l’allenamento...”
“Come lo sai?” domandò Jin. Tatsuya si allontanò da lui, faticava a trattenere le lacrime.
“Me l’ha detto la luna, lei ti ha visto.”
“Non dirlo così serio che poi ci credo.”
Tatsuya rise. La pelle delle guancie iniziava a dargli fastidio per colpa del sale delle lacrime.
“E’ stato il proprietario...” spiegò Tatsuya, “E ieri sono andato... ma tu non c’eri...”
“Sei andato ieri...?”
Tatsuya annuì, poi gli accarezzò il punto in cui poco prima aveva poggiato la fronte. Jin si irrigidì.
“Ti ho bagnato il costume...”
“Ah...!” esclamò Jin allontanandogli le dita, “Non ti preoccupare, nemmeno mi piace.”
Tatsuya ritirò la mano e la strinse nell’altra. Quindi lo guardò serio, gli occhi ancora arrossati e gonfi di pianto.
“Io non capisco...” iniziò tirando su con il naso, “...non so cosa mi prenda.”
Jin non resse quello sguardo e volse gli occhi a terra, “So che non vuoi smettere con la boxe ma...”
“No, non è quello... per la boxe... non ho ancora deciso...”
“Allora cosa?” domandò Jin iniziando ad agitarsi senza motivo. I rumori di passi e le voci delle altre coppie al di fuori della tenda sembrarono cessare di botto. Un silenzio surreale li avvolse, come la nebbia fuori dalla stazione che cancellava ogni suono. Solo il loro respiro echeggiava in quello spazio limitato. Jin avrebbe voluto tapparsi le orecchie.
“Questo gilet... con la camicia...” sussurrò Tatsuya avvicinandosi all’altro, “...ti sta bene.”
Jin si spinse un po’ all’indietro, ma perché queste tende sono così piccole? Tatsuya poggiò la mano sulla sua coscia e strinse. E da quando fa così caldo?
Poi Jin lo prese improvvisamente per le spalle e lo bloccò. Per un secondo gli sembrò di sprofondare nel nero dei suoi occhi e di non poter più rivedere la luce del sole. Non poteva permettergli di fare una cosa del genere. Se lo baciava ora, che era sobrio, tutto sarebbe caduto a pezzi.
“Che vuoi fare?”
Tatsuya allentò la presa sulla sua coscia ma non arretrò di un solo millimetro.
“Te l’ho detto... non so cosa mi prenda.”
Jin volse il capo di lato. Doveva subito dire qualcosa, altrimenti...
“Non mi piaci,” disse senza pensarci, poi lo guardò di colpo. “No, cioè...”
“Ah certo, ovvio...” commentò l’altro tornando seduto dalla propria parte, un’ombra spaventosa gli copriva il volto, ma le labbra sorridevano. Jin stava per dire qualcosa quando l’altro fece per alzarsi.
“Ho saputo che domani hai la partita. Verrò a vederti,” disse, quindi aprì la zip della tenda e uscì in pochi secondi.
Passò un attimo, che gli sembrò un’infinità, in cui Jin rimase immobile a fissare un punto indefinito davanti a sé. Poi si portò una mano tra i capelli e sospirò. Sono un idiota, stai soffrendo a causa della mia insicurezza. Sospirò una seconda volta ed uscì pure lui: fuori il mondo aveva continuato a girare senza di lui.
Si affacciò in corridoio e intravide la sua figura sparire oltre l’angolo.
Ma va bene così.
Questo dolore ti proteggerà da me.
 
La sera, Jin si recò in un motel non troppo distante da casa sua.
“Buonasera,” lo salutò l’addetta alla reception, “Solita stanza?”
Jin annuì senza guardarla, quindi prese il cellulare e, rapidamente, mandò un messaggio.
“Ecco la sua chiave,” disse la ragazza con cortesia. Lui la prese senza troppe cerimonie e si avviò verso l’ascensore.
La solita stanza si trovava all’ultimo piano dell’edificio e a Jin era piaciuta sin dalla prima volta. Di per sé, la camera non era troppo grande, ma era l’unica a non avere le due pareti che davano sull’esterno. Al loro posto, c’erano due grandi vetrate.
Jin lasciò la giacca in un armadio ed iniziò a guardare fuori. Ciò che più gli piaceva di quella stanza all’ultimo piano era il panorama notturno di Tōkyō. La frenesia delle auto non poteva arrivare fin lassù e le luci quadrate delle finestre si andavano confondendo con quelle più tonde e assai più luminose delle stelle. Jin spostò leggermente gli occhi a sinistra e incrociò con lo sguardo la Torre di Tōkyō. In quel lasso di tempo era stata decorata a festa e rotoli di luci natalizie ne percorrevano tutta la lunghezza.
Oltre la torre, c’era la luna, quello spicchio quasi invisibile sembrava voler cadere da un momento all’altro. Jin la guardò con disprezzo.
“Ancora tu...” mormorò, “...guarda che, anche se rimpicciolisci, ti vedo lo stesso. Non c’è bisogno che mi spii. Non sto facendo nulla di male.”
In quel momento qualcuno bussò alla porta e Jin andò ad aprire.
“Da quanto tempo,” lo salutò la donna entrando nella stanza.
“Sono stato occupato, non pensare che tu sia l’unica con cui vada a letto.”
“Lo so, lo so,” commentò l’altra sedendosi sul letto, rivolta verso le vetrate. “Che strana la luna questa sera... sembra quasi che voglia nascondersi.”
“E’ come al solito.”
La donna lo guardò incuriosita e lo raggiunse, cingendogli la vita da dietro.
“Oggi sei strano,” commentò alzandosi sulle punte e baciandogli il collo. Jin ebbe un tremito e chiuse gli occhi.
Il buio lo avvolse, e quel nero si riempì di fantasie mai accadute.
 
“Akanishi!” lo chiamò la donna bussando ripetutamente nel bagno, “Cos’hai?”
Jin, seduto sul water, non rispose. Continuava a tenersi la testa tra le dita senza riuscire più a trattenersi. Piangeva come un bambino.
“Hey, avanti, vieni fuori!”
Jin si strinse di più i capelli e chiuse forte gli occhi. Come poteva essere così spaventato? Quel sentimento mai provato gli era nato in un punto indefinito nel petto ed era cresciuto fino a soffocarlo. Per la prima volta, mentre possedeva quella donna con una violenza che non gli apparteneva, aveva avuto paura. Paura di se stesso, paura di tornare alla sua vecchia vita, perché stava perdendo di vista cosa lui volesse veramente.
“Almeno rispondi!” continuò la donna, “Guarda che entro!”
Jin alzò di scatto il viso dalle dita e raggiunse la porta in meno di un secondo. Sbatté un pugno contro di essa.
“Vattene!” gridò con rabbia, e si afflosciò a terra trattenendo i singulti.
Silenzio, pochi secondi, poi una porta che sbatte. Jin rimase a terra, con il viso a pochi centimetri da terra. Una piccola pozza bagnata si andava formando nel punto in cui le lacrime abbandonavano con un tuffo le sue ciglia.
Perché era arrivato a quel punto di non ritorno?
Si alzò senza pensarci ed uscì dal bagno. Barcollando, raggiunse le vetrate e poggiò i palmi delle mani contro di esse.
Fuori era ancora notte fonda ma la luna aveva percorso un ampio tratto di cielo. Jin la cercò con gli occhi.
“Avanti,” mormorò guardandola, “Ora va a dirgli chi sono veramente!”
 
La mattina dopo, quando aprì gli occhi, si accorse di essersi addormentato per terra, con la testa poggiata sul tappeto di quella stanza fin troppo familiare.
Cercò di tirarsi su ma il corpo non voleva rispondere ai suoi ordini. Ebbe l’impressione che un carro armato gli fosse passato sulla schiena e che tutte le ossa si fossero inevitabilmente ridotte in poltiglia. Quando finalmente riuscì a raggiungere la posizione seduta si rese conto del luogo in cui si trovasse, e del perché fosse lì. Flash della notte appena passata gli offuscarono gli occhi e lui dovette chiuderli per trovare un minimo di pace. Restò immobile per qualche secondo, finché quel senso di nausea non si affievolì, quindi cercò di alzarsi da terra facondo perno con le mani sul letto.
Guardò fuori dalla vetrata rivelatrice ma non vide altro che un cupo cielo minaccioso. Quel coperchio grigio gli fece provare lo stesso sentimento di oppressione che lo aveva portato a chiudersi in bagno la notte prima. Si toccò gli occhi e li trovò gonfi e doloranti.
Da quant’è che non piangevo? Probabilmente dalla notte in cui quel poliziotto era andato a casa sua dicendogli:i tuoi genitori non ci sono più.
Fece un profondo respiro e cercò di focalizzarsi sulla realtà. Che ore sono?
“Cazzo...” mormorò rendendosi conto che ormai i suoi compagni di classe dovevano averlo dato per assente.
Ora doveva sbrigarsi se non voleva perdere anche la partita. Doveva riprendere il controllo della propria vita. Non era il momento per i rimpianti.
 
Quando entrò nello spogliatoio aveva il fiatone.
“Scusate...” mormorò. I suoi compagni di squadra lo guardarono di sbieco. Jin non sapeva dire da cosa lo avesse capito, ma sembrava proprio che avrebbero preferito che lui fosse stato assente.
Solo il capitano della squadra lo avvicinò. Gli porse la sua maglia. Numero 3.
“Grazie,” mormorò, poi si avviò ad una panca ed iniziò a spogliarsi.
Il capitano era un tipo abbastanza strano, taciturno e piuttosto timido, ma sapeva farsi rispettare dagli altri. Jin non riusciva a spiegarsi come facesse, con quel carattere da fallito. Eppure, se ci pensava bene, non si stupiva più di tanto di questo fatto: tutte le persone che aveva incontrato nella sua vita erano, chi più chi meno, strane. Non che lui sapesse definire cosa fosse la normalità, aveva solo questa sensazione.
“Buona sera!” gridò Yuichi entrando di colpo nello spogliatoio, “Allora siete tutti?”
Il capitano fece di sì con la testa poi si voltò verso gli altri che lo accerchiarono subito. Si diede un’occhiata in giro quindi allungò un braccio in avanti, e così fecero gli altri.
“Vinceremo!”
E tutta la squadra gridò.
Jin, che si stava ancora allacciando le scarpe, sorrise.
 
Quando la squadra uscì sul campo gli spalti esplosero.
Jin alzò il viso e rimase sorpreso dal numero di studenti e di tifosi che erano venuti a vederli. In particolare, la curva che portava i colori della loro squadra era la più numerosa.
Continuò a scrutare quella sezione attentamente. Magari lui non sa come ci si posizioni nella tifoseria... cercò anche nella curva avversaria, con scarsi risultati. Non era facile da quella distanza distinguere i volti, e gli striscioni e fazzoletti colorati non aiutavano certo la ricerca.
“Akanishi!” la voce di Yuichi che lo chiamava dalla panchina lo riportò alla realtà, “Che stai facendo?”
“Mi scusi!” gli gridò frettolosamente, poi raggiunse i propri compagni.
Era inutile, non si riusciva a vedere nulla da lì. Schioccò la lingua. Probabilmente non è nemmeno venuto. E lui, con quali occhi avrebbe guardato quelli dell’altro?
 
Dopo che la banda della scuola ebbe suonato il loro inno, i calciatori si misero in fila e la squadra della scuola avversaria fu pronta per stringere la mano ai giocatori di quella ospitante.
Jin osservò attentamente il viso degli altri, stringendo le loro mani con forza. Quella di studiare con zelo la squadra avversaria era un’abitudine che non aveva mai perso e nemmeno in quel momento di debolezza psicologica poteva permettersi di perdere la concentrazione. Sapere contro chi stai combattendo era una regola che Yuichi gli aveva detto durante l’allenamento di qualche anno prima, e Jin l’aveva assorbita come una spugna fino a che non era diventata parte di lui.
La squadra avversaria gli passava davanti veloce e, apparentemente, tutto sembrava procedere come di consueto. Jin era riuscito ad inquadrare la maggior parte delle fisionomie e, da come ricambiavano la stretta, si era pure fatto un’idea sulla loro determinazione.
Solo un ragazzo, il numero 3, attirò leggermente la sua attenzione. Inizialmente Jin pensò che fosse colpa del numero sulla sua maglia ma, in un secondo momento, realizzò che era stato il tempo: quel giocatore dai capelli biondicci si era attardato più del solito nello stringergli la mano, e i suoi occhi lo avevano scrutato con troppa insistenza. Era durato meno di un secondo, ma a Jin non sfuggiva nulla. Continuò a seguirlo con lo sguardo anche mentre continuava a stringere la mano ai propri compagni. Potrebbe essere qualcuno contro cui ho già giocato? Impossibile, me lo ricorderei.
All’improvviso un suo compagno di squadra gli diede un leggero pugno sul braccio.
“Che stai facendo?”
Jin lo guardò disorientato, “Eh?”
“Va a posizionarti, che aspetti...”
“Ah, sì.”
Doveva rimanere concentrato, e impedire ai suoi occhi di guizzare verso gli spalti.
 
La partita iniziò senza troppi problemi e Jin fu messo nella condizione di segnare un goal già nel primo quarto d’ora di gioco. Sorrise nel vedere la loro tifoseria esplodere e anche alcuni suoi compagni di squadra si congratularono.
“Bravo, Akanishi!” gli gridò Yuichi dalla panchina con uno dei suoi soliti sorrisi. Jin annuì non troppo soddisfatto, dopotutto quella era una squadra piuttosto debole per quanto riguardava la difesa. Non sarebbe stato difficile segnarne almeno un altro durante il primo tempo.
E invece ecco che gli avversari iniziarono a diventare violenti e Jin si ritrovò a terra con una caviglia dolorante. L’arbitro fischiò il fallo e assegnò un calcio di punizione alla squadra ospitata.
“Akanishi, tutto bene?” gli domandò il capitano raggiungendolo di corsa.
Jin cercò di mettersi in piedi con una smorfia, “Sì, dammi qualche secondo...”
“Hanno già capito chi è il nostro giocatore migliore,” commentò il capitano mentre Yuichi arrivava con il ghiaccio, “Sta attento d’ora in poi.”
Jin annuì. 
“Ce la fai a continuare?” chiese l’allenatore premendo la busta congelata sulla caviglia che iniziava a gonfiarsi.
“Ovvio,” rispose Jin secco, “Abbiamo un rigore da segnare,” poi si allontanò.
Yuichi guardò il capitano, che capì subito.
“Akanishi!” lo raggiunse.
Jin si voltò.
“Ecco,” mormorò il capitano, “Non lo batterai te il rigore.”
“Come?”
“Ti sei appena fatto male, Nakamaru-sensei ha detto che potrai continuare a giocare, ma il rigore lo batterò io.”
Jin schioccò la lingua e si avviò oltre la lunetta del campo. “Come ti pare.”
Strinse i pugni, come faccio a far vedere di cosa sono capace se non mi lasciano nemmeno battere i rigori? E questi idioti - e guardò alcuni giocatori della squadra avversaria - come si sono permessi?
“Ah!” esclamò qualcuno alle sue spalle e Jin si voltò, “Ora ricordo!”
Il giocatore numero 3 mosse qualche passo verso di lui. Il capitano intanto si preparava a tirare.
“Che vuoi?” domandò Jin scocciato.
“Hey, hey, calmo...” disse il ragazzo sorridendo.
“Non mi dire quello che devo fare.”
L’avversario si mise a ridere, “Ma come fanno le ragazze a sopportare uno come te? Si vede che l’unica cosa che gli interessa di te si trova nelle mutande.”
“Cos-”
“Tu potrai non riconoscermi, ma in discoteca non ci sono molti tipi come te, non ti si dimentica facilmente.”
Jin sgranò gli occhi, questo ragazzo... frequenta quello stesso locale che...
Il cervello smise di connettere. Era la prima volta che le sue due vite si intrecciavano in quel modo. Questo non andava affatto bene.
“Aah!” esclamò allora quel giocatore dalla maglia numero 3, “Allora ho capito perché hai deciso di fartela con i ragazzi ultimamente! Le donne non ti sopportano più!”
Jin non ci vide più. Lo afferrò per la maglia.
“Che cazzo vuoi.”
“Niente!” disse l’altro alzando le mani, “Ma la notizia che ora vai con i ragazzi si è diffusa rapidamente, sai?”
Jin aprì la bocca ma non ne uscì altro che un flebile: “Eh?”
“Anche se non sono un finocchio come te, quel ragazzino non era davvero niente male,” continuò l’altro, “Magari gli daresti il mio numero?”
 La presa si allentò leggermente.
 
“Akanishi!” gridò Yuichi entrando in campo di corsa. Jin se ne stava in piedi, trattenuto da due suoi compagni, e respirava con difficoltà. Gli occhi fissi davanti a sé sembravano scrutare il nulla.
Di fronte a loro, a terra, se ne stava il ragazzo avversario, con un labbro spaccato e il naso che sanguinava.
“Che diamine ti salta in mente!” gridò Yuichi afferrandolo per le spalle, “Non mi avevi promesso che non sarebbe più successo?”
Jin sembrò riacquistare lucidità e guardò il proprio allenatore come se non capisse perché si trovasse lì.
“Io... mi dispiace...” mormorò, poi si divincolò da quella presa e, correndo, andò a chiudersi negli spogliatoi. L’arbitro, in campo, aveva alzato il cartellino rosso.
 
Mentre infilava con foga i propri vestiti nel borsone tentò invano di non pensare a quello che era appena accaduto. Ma era impossibile, si vedeva ancora davanti la faccia di quell’avversario strafottente. Le sue parole gli ferivano i timpani, e gli venne voglia di prenderlo a calci, finché non avesse sentito le sue ossa spaccarsi sotto quei colpi. Era stato fortunato, se non l’avessero fermato sarebbe andata proprio così.
Uscì dagli spogliatoi a passo svelto ma, una volta fuori all’aria aperta si bloccò. E ora?
Mollò il borsone a terra e si lasciò andare sui gradini della scuola. Intorno a lui, il festival invernale continuava imperterrito ad andare avanti e nessuno si fermò a guardarlo. Sono tutti così presi a divertirsi. E io invece cosa ho fatto di male per subire tutto questo? Si passò una mano tra i capelli ancora leggermente umidi di sudore.
“Hey, ma quello non è Jin Akanishi?”
“Non avevano la partita per entrare nei quarti di finale oggi?”
“Forse è già finita.”
“Impossibile!”
Jin sprofondò il viso tra le braccia poggiate sui ginocchi.
 
Ormai era consapevole che il proprio corpo si spostava senza che la mente ne fosse conscia.
Quando scese dal treno non erano nemmeno le sei di pomeriggio, ma il sole era già calato oltre l’orizzonte, lasciando il posto alla notte.
Percorse il tragitto fino all’izakaya avvolto dalla solita foschia. Sembrava che amasse quella zona.
“Buona sera!” lo salutò il vecchio proprietario una volta che fu entrato.
Jin si trascinò fino al bancone e ordinò la solita birra. Quella sera non c’era molta gente, ma dal tavolo vicino alla porta provenivano schiamazzi insopportabili.
“Chi sono?” domandò Jin al proprietario.
“Non vengono spesso, ma oggi alcuni di loro hanno ricevuto una promozione in ufficio, quindi li lascio divertire. Spero che non ti diano troppo fastidio...”
Jin scosse la testa, “Si figuri,” e strinse forte il bicchiere. Doveva uscire da lì nel più breve tempo possibile o non avrebbe resistito. Odiava il se stesso di quei momenti, quando la razionalità abbandonava il suo corpo. In quei momenti, sarebbe potuto accadere di tutto.
Trangugiò la birra quasi in un solo sorso e tirò fuori un paio di banconote da 100 yen. In quel momento, il proprietario diede il benvenuto ad un cliente appena entrato. Jin alzò di colpo la testa dal proprio portafogli. Poteva essere che il suo intuito si sbagliasse una seconda volta?
Si voltò verso l’entrata e rimase paralizzato nel vedere Tatsuya che lo raggiungeva al bancone.
Era diverso dal solito, l’espressione del suo viso era diversa. O forse erano solo i capelli che, piastrati e accorciati fino ad eliminare tutte le meches bionde, gli circondavano il viso in maniera differente.
“Un tè nero,” disse al proprietario, che subito si mise al lavoro.
Jin continuava a guardarlo senza dire una singola parola. Era davvero irriconoscibile, un’altra persona.
Al tavolo vicino all’entrata intanto, le urla aumentavano e alcuni impiegati si alzarono per ballare, mentre altri cantavano canzoni d’epoca.
In quel momento, Tatsuya si voltò per la prima volta verso l’altro e lo osservò.
“Quel destro è stato formidabile! Hai mai pensato di fare il pugile?” domandò scoppiando di colpo a ridere.
Jin aggrottò le sopracciglia e i lati della bocca si stirarono leggermente in un sorriso.
“Hai visto la partita allora...”
“Te l’avevo detto che sarei venuto, no?”
Dopo quel primo momento di silenzio, Tatsuya sembrava essere tornato quello di sempre.
“Com’è andata a finire?” domandò Jin osservando la superficie scura del tè che il proprietario aveva appena portato. Tatsuya lo prese e ne bevve un sorso.
“Non lo so, non vedendoti tornare, me ne sono andato pure io.”
Jin si domandò se l’avesse capito che era stato espulso dalla partita.
“Comunque,” continuò Tatsuya guardando con attenzione il proprio bicchiere di ceramica, “Come va la caviglia?”
“Ah,” mormorò Jin. Si era completamente dimenticato del fallo subìto, ma, ora che si concentrava in quel punto del proprio corpo, lo sentiva pulsare con insistenza. “Tutto okay.”
“Meno male...”
“Mhn...”
Jin chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
“Senti Tatsuya,” iniziò facendo particolare attenzione alla scelta di parole, “Ieri non intendevo quello che ho detto.”
Tatsuya soffiò sul proprio tè sebbene fosse freddo ormai da un pezzo. Sembrava che cercasse solo un pretesto per non guardarlo negli occhi.
“A cosa ti riferisci?” la sua voce tremò leggermente.   
Jin si prese qualche secondo. Devo essere sincero, ormai è inutile negarlo. Il suo cuore lo dava per scontato da un pezzo e gli mancava solo dare a quel sentimento una forma socialmente comprensibile. Jin schiuse le labbra per rispondere quando qualcuno si intromise tra di loro. Era uno di quegli impiegati che poco prima ballavano senza senso dall’altra parte dell’izakaya.
“Hey, bellezza,” iniziò avvicinando il viso a quello di Tatsuya, “Shall we dance?
“Scusa, non so parlare l’inglese.”
Sentendo la sua voce profonda quell’uomo rimase un secondo interdetto. Poi sembrò trovare la cosa stranamente interessante, perché si mise a ridere.
“Significa, vuoi ballare?
Tatsuya alzò un sopracciglio, “Sono impegnato, non lo vedi?”
Quell’uomo scosse la testa.
“Avanti...” continuò portando una mano su un suo fianco, “Sarà divertente.”
Le dita scivolarono sempre più in basso.
“Ora basta!” gridò Jin saltando in piedi e allontanando bruscamente quell’individuo. Quindi lo afferrò per la cravatta. Il bicchiere di sakè sfuggì dalle dita dell’uomo e cadde a terra rompendosi in mille pezzi. Nel locale scese il silenzio e il proprietario si sporse allarmato dal bancone.
“Non ti ha già detto che non gli interessi?”
“Ehy... tu, marmocchio, che vuoi?”
Jin strinse di più le dita a pugno.
“Non lo devi toccare, capito?”
“E tu chi saresti per dirmelo?”
Jin lo strattonò più vicino e caricò un colpo.
“Akanishi.”
La voce di Tatsuya arrivò alle sue orecchie affilata come una lama. Le dita chiuse a pugno restarono immobili a mezz’aria.
“Andiamocene,” sentenziò Jin mollando l’uomo, “Prendi il cappotto.” Poi pagò il tè di Tatsuya e lo trascinò fuori con sé.



[1] Due regioni del Giappone in cui si trovano rispettivamente Tōkyō e Ōsaka.

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Capitolo 3
*** I remember, I remember I was born to meet you. ***


Dopo aver percorso pochi metri, Tatsuya si liberò dalla presa dell’altro.
“Dove mi stai portando?” domandò con quel tono di voce pungente.
Non appena il polso dell’altro gli era sfuggito dalla presa, anche Jin si era fermato. Ma era rimasto di spalle.
“Guarda che avrei potuto cavarmela anche da solo,” continuò Tatsuya secco. “Era solo un uomo ubriaco.”
Jin si voltò lentamente, lo sguardo inizialmente a terra si alzò per accarezzargli il viso. Tatsuya rimase paralizzato.
“C-che c’è?” mormorò, iniziando ad agitarsi.
“Non hai notato che anche oggi c’è la nebbia? Come quella sera...”
“Eh?”
Jin mosse un passo un avanti e tornò ad afferrargli il polso.
“Non ti ricordi proprio nulla di quello che successe quella sera, vero? Quando ti portai in discoteca...”
Tatsuya non rispose, gli occhi si posarono sul viso dell’altro e guizzarono agitati da una pupilla all’altra. Jin sorrise e gli prese anche l’altro polso.
“Ora te lo mostro,” mormorò e tirò l’altro verso di sé. Chiusero gli occhi.
 
Uno scatto e il portone della casa di Jin si chiuse. Nessun altro rumore se non quello emesso dalle labbra di Jin che, lentamente, succhiavano il collo di Tatsuya.
In un primo momento, gli era venuto l’istinto di portarlo nel solito motel, nella solita stanza di vetro. Ma qualcosa l’aveva bloccato. Eppure, come sarebbe stato bello aspettare l’alba sospesi nel cielo. Sorrise contro il suo collo, e lo morse con più foga. Tatsuya gemette e strinse la stoffa della giacca sulla sua schiena. Però non poteva portarlo là. O sarebbe stato come tutte le altre volte. E Jin non voleva essere spiato mentre assaporava quella terra inesplorata.
“Jin...” mormorò Tatsuya mentre l’altro iniziava a togliersi la giacca. “...non capisco...”
“Io invece capisco fin troppo bene...” sussurrò l’altro, poi gli slacciò il cappotto, “...finalmente.”
“Ma... hai detto che...” cercò di dire Tatsuya mentre Jin infilava le dita sotto la sua maglia e risaliva il petto. Ebbe un brivido e la voce gli si strozzò in gola.
“Non credere a tutto quello che dico,” disse Jin con un mezzo sorriso, mentre accarezzava quegli addominali perfetti e provava ad immaginarseli visivamente, “Devi imparare a capire quando sto mentendo.” Quindi gli prese le mani e le portò al proprio petto. “Toccami anche te.”
Tatsuya chiuse gli occhi con forza e Jin tornò sulla sua bocca. La lingua cercò avida quella dell’altro.
“Tatsuya...” ansimò poi allontanandosi leggermente per poterlo guardare negli occhi. Si specchiò un secondo in quella superficie acquosa, ma non ne ebbe paura. Era dolce perdersi nel mare nero delle sue iridi. “Mi piaci,” gli disse, “Capisci che non è una bugia, vero?”
“Non dirlo... in maniera così diretta...”
“Perché?”
Tatsuya abbassò lo sguardo e le dita scesero con esso. Lungo il suo petto, si fermarono all’altezza dell’ombelico. Poi le braccia caddero inerte lungo i fianchi.
“Io... non ce la faccio a dirlo.”
Jin sorrise e gli prese una mano. “Va bene, non c’è fretta.”
“Prima o poi te lo dirò!”
Jin soffocò una risata. Gli andava bene anche solo così.
“Vieni...” disse solo, facendogli strada all’interno della casa fino alla propria stanza. Lo spinse sul letto.
Tatsuya lo guardò spaesato. I suoi capelli neri e lisci sparsi sul lenzuolo bianco gli ricordarono l’immagine di un buco nero. La luce viene risucchiata e non si sa dove finisce. Jin gli morse il labbro inferiore con un sorriso. Avrebbe voluto vederla, la luna, alle prese con un buco nero. Così brillante e bianca, non avrebbe avuto scampo.
Quell’immagine nella propria testa lo eccitò. Quali sensazioni si provano ad entrare in quel buco?
Jin scese fino all’orlo dei pantaloni e li slacciò in meno di un secondo.
“Sai...” sussurrò Jin avvicinando le labbra all’orecchio dell’altro, “...quella notte in cui sei rimasto a dormire sul divano... io, in questo letto, mi sono eccitato nell’immaginare il tuo corpo nudo.”
Tatsuya avvertì le dita dell’altro scivolare nei propri boxer. Trattenne il fiato. Non riusciva a parlare, il suo cervello non era più in grado di formulare delle frasi sensate.
Schiuse le labbra ma ne uscì solo un gemito.
“Ti va bene?” chiese Jin, “Se ti tocco così?”
Tatsuya chiuse gli occhi lentamente, poi li riaprì. Va bene.
“Posso andare più in profondità?”
Nessuna risposta dalle sue labbra mute. Jin ci passò sopra un dito, lo bagnò con la saliva e lo infilò nella sua apertura. Fuori, era il novilunio.
 
Qualcosa continuava insistentemente a squillare. Jin cercò di voltarsi per raggiungere il cellulare sul comodino ma il braccio destro era stranamente bloccato. Con parecchia fatica, aprì gli occhi e vide Tatsuya addormentato tra le sue braccia. Poco a poco le memorie del giorno prima tornarono al loro posto e Jin sorrise, stringendo più forte quel corpo.
“Ora scusami,” mormorò, “Ma devo rispondere altrimenti impazzisco.”
Non fece in tempo a liberare il braccio dal peso dell’altro che il cellulare si azzittì. Tatsuya mugugnò qualcosa raggomitolandosi e tirò a sé il lenzuolo, lasciando l’altro completamente scoperto.
“Ah!” disse Jin a bassa voce cercando di non svegliarlo, “Ma guarda un po’...”
Poi volse la testa verso il comodino: sopra non c’era niente. Si guardò un po’ intorno cercando di ricordarsi dove potesse aver messo il cellulare la sera prima. Non ricordava nulla di quel particolare, eppure era abituato a rimettere la sveglia ogni sera, prima di addormentarsi. In effetti, era pure abituato a salutare il santuario di famiglia ogni sera. Guardò il viso addormentato di Tatsuya, semi-nascosto dal lenzuolo.
“E’ tutta colpa tua,” sussurrò sorridendo. Per colpa di quel ragazzo stava modificando ogni abitudine, e la sua vita aveva preso una piega da cui non si poteva più tornare indietro.
Tornare indietro, ultimamente mi ritrovo spesso a pensare a questa frase. Ma è inutile, il tempo non va all’indietro, procede inevitabilmente verso il futuro.
Si sporse oltre il letto e notò i propri vestiti sparsi a terra. Allungò un braccio e acciuffò i jeans. Il cellulare era ancora nella tasca anteriore. Lo prese e guardò la chiamata persa.
“Nakamaru-sensei?”
Ovvio, quello era l’ultimo giorno del festival ed era già mezzogiorno. Dopo quello che è successo ieri sarà sicuramente preoccupato.
Per una buona decina di minuti, Jin rimase seduto sull’orlo del letto, immobile. La pelle iniziava a lamentarsi per il freddo ma lui non ci faceva caso. Dentro di sé aveva troppi pensieri da rimettere a posto prima di potersi alzare e affrontare quella giornata.
Ricordò con una lucidità impressionante il sangue che usciva dal naso di quel ragazzo dalla maglia numero 3. D’ora in poi, cosa ne sarà del mio futuro? Quel cartellino rosso gli aveva inevitabilmente macchiato il presente. E di sicuro il manager ha visto tutto.
Non ha senso che il tempo continui verso il futuro, se io un futuro non ce l’ho più. Perché il tempo non si può fermare? Perché non si può tornare indietro? Guardò ancora una volta il viso dell’altro.
“Peccato,” disse, “Avrei voluto fare il bagno con te questa mattina. Mi dispiace, ma devo andare.”
Raccolse distrattamente tutti i vestiti da terra e prese un cambio dall’armadio. Si sarebbe fatto una doccia veloce. Se non poteva tornare indietro, allora avrebbe assecondato quel flusso inarrestabile, e sarebbe andato avanti con esso.
Mentre era in cucina e stava scegliendo a caso qualcosa da mettere sotto i denti, qualcuno suonò alla porta. Jin tirò fuori la testa dal frigo e, con aria interrogativa, andò ad aprire.
“Akanishi...! Sei a casa...”
“Sensei...”
Yuichi tirò un sospiro di sollievo. “Posso entrare?”
Jin annuì.
 
Il professore si sedette sul divano in salotto e si guardò intorno. La casa, in stile occidentale, aveva un solo piano, ma era piuttosto grande. In verità quello non è il posto in cui Jin era nato.
 Dopo che il padre ebbe ottenuto un aumento e un posto fisso in parlamento, la famiglia aveva deciso di trasferirsi a Tōkyō, lasciando la vecchia casa di campagna in affitto. Dalla morte dei genitori di Jin, però, nessuno si era più occupato di quella vecchia casa ed era ormai disabitata da tempo.
“Stavi uscendo?” domandò Yuichi continuando a guardarsi intorno.
Jin osservò il proprio professore su quel divano e gli fece uno strano effetto. Tranne Tatsuya, nessun’altro era mai entrato nella sua casa di famiglia, nemmeno Kazuya.
“Veramente... pensavo di andare a scuola.”
“Non è tardi ormai?”
“Ecco...”
Yuichi, dopo quel lungo peregrinare, posò lo sguardo sull’alunno. “Dove sei stato ieri sera?”
Jin si sedette su una piccola poltrona di fronte all’altro.
“Perché lo vuole sapere?”
Yuichi sembrò pensarci su, poi decise che forse era meglio essere chiari:
“Ho parlato con Kamenashi Kazuya.”
Jin alzò un sopracciglio. Quindi?
“L’ho costretto a parlarmi un po’ dei tuoi fatti personali - non prendertela con lui - e ho saputo della tua abitudine ormai radicata di andare in discoteca. Anche quel ragazzo a cui hai quasi spaccato il naso ha bofonchiato qualcosa al riguardo.”
Jin iniziò ad agitarsi, “Non sono stato in discoteca ieri, se è questo che vuole sapere.”
Non ci torno più da parecchio tempo ormai.
“Dove sei sparito allora? Sono venuto qui dopo la partita ma non c’era nessuno,” commentò Yuichi fissando il proprio allievo con insistenza.
“In un izakaya, poi son-” e si azzittì, il rumore di una porta che sbatteva lo fece voltare. Anche Yuichi tese le orecchie. Oltre al fatto della discoteca, Kazuya gli aveva pure detto che Jin viveva da solo da parecchio tempo ormai.
Tatsuya apparve nel salotto con indosso una vecchia tuta di Jin che gli stava visibilmente larga. I capelli erano completamente in disordine ed avevano perso quella piega liscia che aveva disorientato Jin la sera prima. 
“Ah,” mormorò con la voce impastata, “Buongiorno.”
Yuichi chinò leggermente il capo, poi si rivolse a Jin:
“Chi è?”
“Ehm...” iniziò Jin per prendere tempo. “Si chiama Tatsuya Ueda. E lui è il mio professore Nakamaru.”
Yuichi lo guardò un po’ meglio. “Io ti conosco...”
Tatsuya inclinò la testa, “Sì?”
“Sì... ma non è possibile...”
“Cosa?”
“Sarai forse... un boxeur?”
Tatsuya annuì con noncuranza.
“Ma non sei tu quello che dovrebbe essere in ospedale? I tuoi occhi non...?”
“Già, sono scappato da lì,” lo interruppe Tatsuya passandosi le dita tra capelli spettinati. Non avrebbe voluto dirlo in questo modo, lo avrebbe spiegato a Jin in maniera più consona prima o poi. Lo guardò - era seduto con le braccia incrociate di fronte al proprio professore - ma da quell’angolatura non riusciva a vederne l’espressione sul viso.
“Sensei,” disse Jin con uno strano tono di voce, “Ormai non credo di andare a scuola oggi. Da domani comunque iniziano le vacanze invernali, vero?”
Yuichi guardò i due e captò che, improvvisamente, qualcosa non era al posto giusto. Pensò che, forse, fosse opportuno andarsene.
“Ehm... sì... ma volevo parlarti di un’ultima cosa che riguarda la partit-”
“Non ora, professore,” sentenziò secco Jin, “La chiamerò questa sera. Mi scusi.”
Yuichi aprì la bocca per ribattere, poi osservò meglio il viso del proprio allievo e cambiò idea. Non aveva mai visto i suoi occhi così privi di vita prima d’ora.
“Allora scusate per essere venuto senza avvertire,” disse facendo finta di nulla e si alzò, “Akanishi, ricorda che ci sono gli esami al rientro. Arrivederci.”
 
Dopo che il portone si chiuse, la casa calò nel silenzio.
Tatsuya esitò qualche secondo, poi - con discrezione - si sedette di fronte all’altro, nel punto in cui qualche momento prima c’era stato il professore.
“Idiota!” esclamò ad un certo punto mettendosi a ridere, “Dovevi ascoltare quello che aveva da dirti sulla partita! Ne va del tuo futuro...”
“Non mi importa ora,” disse Jin freddamente, “Qui l’idiota sei te.”
Non stava guardando l’altro, aveva la testa leggermente chinata e i capelli - sciolti - gli avrebbero impedito di vederlo anche se avesse alzato lo sguardo. Li raccolse con le dita e li legò con un elastico che teneva al polso. Poi lo guardò negli occhi. Ma quale futuro.
“Non ti staranno mica cercando?”
Tatsuya evitò quello sguardo, “Immagino di sì.”
“Idiota.”
“Parli bene te!” scoppiò di colpo Tatsuya, le sopracciglia arricciate in un espressione di disperazione, “Non sei tu quello che sta perdendo la vista ad un occhio!”
Jin rimase immobilizzato. Strinse forte i pugni nel vedere le lacrime scivolare copiosamente sulle guancie dell’altro.
Tatsuya chiuse forte gli occhi, “Me n’ero già accorto che stavo peggiorando... ma... sentirmi dire apertamente che, se dovessi continuare a praticare la boxe, perderei sicuramente la vista dell’occhio, e che forse anche l’altro... io... non ce l’ho fatta a restare in quell’ospedale.”
Jin si alzò di colpo e si sedette sul divano di fianco all’altro. Gli prese un braccio e fece per avvicinarlo.
“Smettila! Lasciami stare!” gridò di nuovo Tatsuya cercando di divincolarsi, “Non volevo dirtelo per questo! Non voglio la tua pietà, lasciami!”
“Tatsuya,” disse Jin senza mollare la presa, “Non è pietà questa, è egoismo.”
L’altro si calmò un secondo e lo guardò. Solo le lacrime continuavano ad uscire.
“Vederti così mi fa star male,” continuò Jin, “Mi hai cambiato la vita, ormai non puoi più permetterti di dirmi: Lasciami stare, come se non fosse affar mio. Prenditi le tue responsabilità.”
Tatsuya socchiuse un po’ gli occhi e con le dita della mano libera si asciugò le guancie.
“Posso esserlo anche io, allora, un po’ egoista?”
Jin annuì e Tatsuya lasciò che l’altro lo abbracciasse. Pianse anche le ultime lacrime rimaste, poi si calmò e fu come se, da quel momento in poi, una sordina iniziò ad attutire ogni suono. Quando Tatsuya parlò di nuovo, la sua voce era flebile, quasi inudibile.
“Ho paura...”
Jin gli accarezzò la testa, “Cosa farai ora?”
Tatsuya tirò su con il naso e scosse la testa, “Non possono dirmi di smettere con la boxe...”
“Io vorrei vederlo, un tuo incontro di boxe...” disse Jin, con un sorriso amaro. Perché il suo futuro stava diventando nero, quando lui invece avrebbe voluto che fosse più bianco della luna? Possibile che a quell’età dovesse decidere una cosa così dolorosa? Ma forse non c’era già più la possibilità di scegliere.
“So che la tua carriera di boxeur è appena iniziata, ma lo capisci anche te che...” continuò Jin senza concludere la frase. Tatsuya non era affatto un idiota come gli aveva detto prima, sapeva benissimo quello che Jin stava cercando di dirgli. E infatti annuì.
“Ma se ti dicessi che,” iniziò Tatsuya sciogliendo l’abbraccio, “Voglio continuare lo stesso?”
Jin si rattristì di colpo. Lo sapeva. Lo sapeva che avrebbe risposto così, eppure...  
“Tatsuya...”
“Non mi capisci? Non posso mollare. Sarà difficile andare avanti così, per questo mi dovrò allenare ancora più duramente. E quando quel giorno arriverà, spero di aver già visto tutto quello che c’è di bello da vedere in questa vita.”
Perché un ragazzo di venti anni doveva dire una cosa simile? Non era giusto.
Tatsuya sorrise lievemente. “Va bene così, non c’è altro che voglio fare.”
Jin scosse la testa e poggiò la fronte sul piccolo petto dell’altro, avvertì quegli addominali che l’altro stava tentando di preservare a costo dei colori del mondo.
“Devo dirti anche un’altra cosa,” mormorò Tatsuya, “Ho parecchi piccoli incontri programmati per gennaio e febbraio, e, se li vincerò, dovrò affrontare un incontro decisivo in marzo. Ma... a questo punto, non so se riuscirò a resistere fino ad allora, per questo pensavo di andare a trovare i miei genitori per festeggiare il capodanno insieme.”
Jin annuì con il capo ma non disse nulla.
 
Rimasero così, abbracciati sul divano per l’intera giornata, senza fare nulla. Come se tutte le loro energie si fossero prosciugate, risucchiate da un vortice e scaraventate chissà dove.
Ogni tanto uno dei due si alzava per andare in bagno o in cucina. Poi tornava sul divano, riprendendo la posizione di prima. Non parlarono nemmeno molto. A turno - e ad intervalli piuttosto ampi - si ponevano l’un l’altro delle domande di carattere generale, poco impegnative.
“Dove abitano i tuoi genitori?” domandò Jin.
“A Chiba.”
“Uhn...”
“Ma non sono i miei genitori biologici, mi hanno adottato che io avevo solo due anni. I miei veri genitori hanno perso la vita in un incidente d’auto. Solo io sono sopravvissuto. E questa coppia, che era loro amica, ha deciso di prendermi nella loro famiglia.” 
Jin, che fino a quel momento stava pettinando i capelli di Tatsuya con le dita, si bloccò. La luce entrava debolmente dalle ampie finestre del salotto e, in base a quella, non si riusciva a dire che ore fossero. Il cielo doveva essere proprio cupo là fuori. Le previsioni, in effetti, avevano annunciato che avrebbe nevicato.
“Però devi volergli bene lo stesso.”
Tatsuya annuì e Jin riprese a pettinargli i capelli con le dita. Chissà come sarebbe stata la sua vita se avesse lasciato che i suoi zii lo avessero preso nella loro famiglia. Probabilmente, a differenza di Tatsuya, Jin era già troppo grande per poter ricominciare. O forse no.
 
“Ho una piccola casa nella prefettura di Shiga...”
“Ah, davvero?” domandò Tatsuya, gli occhi chiusi.
“Sì, magari, prima di capodanno possiamo andare a stare lì per un paio di giorni. Ci sono le terme a Kusatsu[1], no?”
“Ah... sarebbe bello.”
 
Non proveniva nessun rumore dall’esterno, come se la neve che effettivamente aveva iniziato a cadere all’esterno li avesse avvolti, e separati dal mondo reale. Sembrava proprio che i fenomeni atmosferici avessero deciso di proteggere quella strana coppia. Chissà se anche il sole, prima o poi, li avrebbe scaldati.
“Perché ti sei trasferito a Tōkyō?”
Tatsuya si strinse un po’ di più all’altro. Iniziava a fare freddo.
“Perché ho deciso di partecipare a questo campionato nazionale under 25... e gli incontri si sarebbero svolti tutti qui, a Tōkyō... quindi ho preso una piccola casa in affitto.”
“E l’università?”
“Ho ricevuto una borsa di studio... e posso frequentare la Tōkyō Daigaku[2] per un anno.”
Jin annuì. Questo significava che, a prescindere da come sarebbero andate le cose, finito questo anno scolastico Tatsuya sarebbe tornato alla sua casa natale. Sospirò. Iniziava anche ad avere fame ma i muscoli delle gambe sembravano non voler collaborare.
“Tu invece,” domandò Tatsuya allungando la testa all’indietro per guardarlo negli occhi, “Continuerai gli studi?”
Se gli avessero posto questa domanda appena il giorno prima avrebbe avuto la risposta pronta. In quel momento, invece, esitò.
“Le cose sono andate in maniera inaspettata...” iniziò Jin non sapendo bene nemmeno lui cosa avrebbe fatto.
“Se inizi a prendere a pugni la gente senza motivo è ovvio che le cose vadano in un certo modo!” esclamò l’altro ridendo. “Non è affatto inaspettato!”
“Hey, non l’ho fatto senza un motivo!”
Tatsuya si incuriosì e socchiuse gli occhi.
“Cioè?”
“Non lo sto a dire a te.”
“Eddai!” esclamò Tatsuya allungando le braccia all’indietro e gli pizzicò le guancie. “Dimmelo!”
Lentamente, stava tornando il bambino vitale di sempre. Jin sorrise.
“E’ stato sempre per egoismo.”
“Ehh?”
“Non voglio darti a nessuno, ecco perché l’ho picchiato.”
Tatsuya sembrò non capire.
“Non fa niente, ora è tutto apposto,” mormorò Jin e posò le labbra sui suoi capelli neri. “Comunque non credo che frequenterò l’università. Perché... sai, mi hanno offerto un posto in una squadra di calcio di serie D.”
Tatsuya lasciò stare la questione di prima e spalancò gli occhi, “Wow! Fico!”
“Già...” sorrise Jin, “Ma... dopo quello che è successo ieri...”
“Aspetta...” lo interruppe Tatsuya aggrottando le sopracciglia, “Mi stai dicendo che è colpa mia se non ti prenderanno nella squadra?”
“Eh? No! Non ho detto questo...”
“Dimmi con chi devo parlare, devono prenderti assolutamente nella squadra.”
“Calmati,” disse Jin ridendo, “E’ solo colpa mia se l’ho colpito, qualunque sia stato il movente.”
“Giusto, il professore voleva dirti qualcosa al riguardo, o sbaglio?”
“Ah, sì...” annuì Jin, me n’ero completamente dimenticato. “Poi lo chiamerò.”
Tornò il silenzio.
 
“Fuori deve essere già notte.”
“Già.”
“Sai, Jin, nella mia casa a Chiba ho un pianoforte a mezza-coda,” disse Tatsuya guardando verso un angolo del salotto dove un bianco pianoforte a coda iniziava ad adombrarsi per la mancanza di luce.
“Sì?”
“Mia madre mi ha insegnato a suonarlo, chissà se ancora mi ricordo...”
“Suonami qualcosa,” disse Jin.
“Prima mangiamo, ho fame.”
“Approfittatore, non hai una casa tu?”
Tatsuya si mise a ridere e fece la linguaccia, “Guarda che me ne torno in ospedale.”
Jin non ci trovava nulla da ridere, “Avanti, ti preparo dei soba[3].”
Gli venne voglia di chiedergli se sarebbe tornato in ospedale sul serio. Avrebbe voluto sapere se almeno avesse intenzione di fare qualcosa di concreto. Magari esisteva un qualche intervento per ripristinare la vista. Che ne so, siamo nel ventunesimo secolo! Entrò in cucina e iniziò a tirare giù dagli scaffali gli ingredienti. Se fosse stato necessario, avrebbe speso tutto il patrimonio familiare per salvare i suoi occhi.
 
“Ora mi suoni qualcosa?”
“Devi chiamare il tuo professore, gliel’hai promesso,” disse Tatsuya non appena ebbero finito il pasto.
“Ahh...” sbuffò Jin, “Hai finito di ricattarmi? Lo chiamo solo se resti a dormire da me anche questa notte.”
“Ehh? Guarda che devo andare in facoltà domani mattina verso le undici. A differenza tua ho lezione fino a dopodomani.”
“Ti sveglio io in tempo, tranquillo.”
Tatsuya sembrò pensarci su e la bocca si arricciò nello sforzo.
“Intanto chiama,” commentò avviandosi in sala.
Jin recuperò il cellulare e si sedette su di una sedia in cucina. Fece il numero di Yuichi.
“Professore...”
“Akanishi, tutto bene?”
“Sì, perché? Mi ha visto questa mattina, non è cambiato molto.”
“Ah, perché... quel ragazzo... vabé lascia perdere. Devo dirti una cosa che riguarda il manager.”
Jin chinò il capo fino a poggiare la fronte sul tavolo, “La ascolto.”
“Lui non era a vedere la partita.”
“Eh?” Jin alzò la testa di scatto.
“Se non facciamo trapelare la notizia che è interessato a farti entrare nella squadra, non credo che qualcuno glielo possa riferire. Se siamo fortunati leggerà solo il referto di gara. E gli spiegherò che sei stato espulso per un fallo lieve. Può succedere. Metterò comunque l’accento sul goal che hai segnato nei primi minuti.”
Jin annuì, “Sì! Grazie mille, professore!”
“Che non riaccada. Ci rivediamo il secondo semestre. Buone feste, Akanishi.”
“Buone feste anche a lei!” esclamò Jin, poi riagganciò.
“Mi sembri felice!” gridò Tatsuya dal salotto.
Jin spense la luce in cucina e si affacciò nella sala, Tatsuya si alzò dal divano e lo raggiunse.
“Allora?”
“Ha detto che il manager della squadra non era a vedere la partita e che non crede che verrà a sapere di quello che ho fatto.”
“Potrai ancora entrare in quella squadra?”
“Vedremo.”
Tatsuya sorrise, “Per festeggiare ti suono qualcosa al piano.”
 
Jin si lasciò andare sul divano e chiuse gli occhi. La melodia che Tatsuya aveva iniziato a creare non era troppo complessa, ma aveva un non so che di profondo, e dolce. Sembrava proprio una canzone d’amore.
Che strano, averlo in casa sembra la cosa più normale di questo mondo. Come se ci conoscessimo da sempre, come se Tatsuya abitasse qui da anni. Quel giorno il tempo sembrava essersi fermato, e solo il sole aveva osato lasciare che scorresse, tramontando e facendo sprofondare la casa nel buio. Non avevano nemmeno acceso le luci, e solo il tenue chiarore dei lampioni all’esterno conferiva un po’ di forma agli oggetti.
Tatsuya aveva continuato a passare le dita sui tasti per più di dieci minuti ormai, quando Jin si alzò e raggiunse il pianoforte. Poggiò le proprie mani su quelle dell’altro e la melodia d’amore si concluse con un accordo stonato.
Jin gli prese il mento tra le dita e gli alzò il viso. Si chinò a baciare le sue labbra con dolcezza.
Tatsuya chiuse gli occhi e schiuse la bocca. Le loro lingue si cercarono e si intrecciarono più volte con una lentezza estenuante.
Jin lo spinse di più verso il pianoforte e Tatsuya dovette appoggiarsi con i gomiti sui tasti. Un altro accordo sgradevole rimbombò nel salone.
“Questa situazione,” mormorò Jin, “Mi ricorda una storia... che mi leggeva sempre mia madre. E’ l’unico ricordo felice che mi rimane di lei.”
“Davvero?” domandò Tatsuya mentre le dita dell’altro si insinuarono sotto la maglia della tuta.
“Sì, la sua voce era davvero bella mentre leggeva.”
“Raccontamela.”
Jin smise di accarezzargli il petto e tornò sul divano, trascinando Tatsuya con sé.
“Era la storia di un pianista cieco. La sua villa era costantemente avvolta dalle tenebre, ma per lui non era un problema. Le forme, i colori... lui non sapeva cosa fossero. La bellezza, non l’aveva mai vista. Passava il suo tempo a suonare e ad impartire lezioni di pianoforte ai bambini. Un cane, invece, nero come la sua vita, lo aiutava a spostarsi al di fuori di quell’enorme villa. Non aveva amici al di fuori di quella cagna, di nome Aki[4].
Scrisse un pezzo però, Racconto d’Autunno[5], che fu proprio il mezzo che gli permise di incontrare l’amore. Successe d’autunno, in una giornata di routine come le altre.”
Jin rise, “Quando mia madre arrivava al punto in cui leggeva: Racconto d’Autunno era una canzone d’amore, io non capivo mai. Come si poteva comporre una canzone d’amore senza avere mai amato? Eppure aveva fatto incontrare quelle due persone. Non è strano?”
Tatsuya annuì, sorridendo tristemente.
“Quel ragazzo cieco... è stato fortunato. Oppure, aveva un desiderio così forte d’amare, che quella canzone conteneva gli stessi sentimenti di una persona veramente innamorata. Ed ha poi mandato quel pezzo all’esterno come suo messaggio d’aiuto.”
“Può essere,” commentò Jin.
“Io però... posso dire di essere stato più fortunato?” domandò Tatsuya. Jin lo guardò interrogativo.
“Niente, lascia stare,” concluse l’altro sorridendo.
“Qual è l’occhio...?” domandò Jin prendendogli il viso tra le mani.
Tatsuya si indicò il destro.
“Possiamo provare a fare qualche operazione? Conosco un buon chirurgo che...”
“Non ho abbastanza soldi,” lo interruppe Tatsuya voltando la testa.
“Io ce li ho!”
Tatsuya lo guardò freddamente.
“Ah...” iniziò Jin capendo al volo: non voleva la sua pietà, figuriamoci i suoi soldi. “Sarà un prestito, me li ridarai con calma.” Poi fece un grande sorriso, “Quando diventerai un campione non avrai problemi a farlo, no?”
Tatsuya scoppiò a ridere, poi gli diede un pugno sul braccio e si alzò dal divano.
“Idiota,” disse raggiungendo la porta del salotto, “Stai prendendo questa mia situazione troppo a cuore, pensa piuttosto a impegnarti per entrare in serie D. Jin restò in silenzio e Tatsuya, allarmato, si volse. Lo trovò immobile lì, sul divano, che lo guardava con una strana espressione del viso.
“Vederti con la mia tuta ha un che di erotico.”
Tatsuya sgranò gli occhi, “Idiota...”
“Resti, allora?” domandò Jin inclinando la testa.
L’altro sospirò. “Se domani non mi svegli in tempo ti farò vedere che sono già abbastanza campione per prenderti a calci.”
Jin si mise a ridere.
“Quindi,” mormorò ancora Tatsuya, “Il nostro... sarebbe un... Racconto d’Inverno?”
 

- 5 anni dopo -

 
Cosa poteva fare un boxeur cieco in una città come Tōkyō?
 
“Tatsuya! Sono a casa!”
Non appena Jin si fu richiuso la porta di casa alle spalle, le note che si erano diffuse per il salotto fino all’uscio cessarono.
“Jin?” chiese Tatsuya e si voltò verso l’ingresso.
“Sono tornato prima del previsto,” disse Jin mollando la valigia in un angolo e raggiungendo l’altro al pianoforte. Come suo solito gli accarezzò la testa.
“Com’è andata?” chiese Tatsuya allungando le mani fino al suo viso. Passò le dita sulle guancie e poi sugli occhi. “Sei stanco...”
“Il viaggio in aereo mi ha un distrutto... comunque abbiamo vinto.”
Tatsuya sorrise, “Come sempre.”
“Non dire così che porti sfortuna!” esclamò Jin ridendo, poi lo aiutò ad alzarsi.
 
Due mesi prima, l’intervento per salvare gli occhi di Tatsuya non aveva avuto successo e la sua vita era stata privata della luce per sempre.
Jin aveva fatto il possibile per convincere l’altro a sottoporsi all’intervento. Gli ci erano voluti cinque anni, e, alla fine, non era servito a niente.
“Mi dispiace,” aveva detto la dottoressa che si era occupata di Tatsuya durante il ricovero, “E’ ad uno stato troppo avanzato, non si può fare nulla con la medicina di oggi.”
Eppure Tatsuya era felice così. Quattro anni prima era riuscito a posizionarsi al primo posto del torneo under 25 e, in seguito, era andato avanti sulla la via del boxeur, riportando vittorie e sconfitte, finché aveva potuto.
Quando il dottore aveva chiamato Jin informandolo sull’esito dell’intervento, questi si era catapultato nella stanza dell’altro. E l’aveva trovato con la testa fasciata, gli occhi coperti da una benda bianca. Un colore che Tatsuya non avrebbe mai più potuto riconoscere. Le gambe gli avevano iniziato a tremare convulsamente, e aveva stretto talmente forte i pugni da conficcarsi le unghie nei palmi. “Tatsuya...”
Poi le lacrime gli avevano rigato il viso, silenziose, finché l’altro non ebbe voltato il suo viso, sorridendo: “Jin, non fa niente.”
 
“Tu come stai?”
“Bene,” rispose Tatsuya, “Ultimamente sono venuti più bambini a lezione.”
Jin lo condusse fino al divano, quindi Tatsuya allungò le mani, percepì la stoffa dei cuscini e si sedette.
“Cominci ad orientarti qui?” domandò Jin sedendosi al suo fianco. Dopo che Tatsuya aveva deciso che avrebbe potuto ripagare Jin impartendo lezioni di piano per principianti, Jin lo aveva costretto a trasferirsi da lui. Non poteva certo spostarsi ogni giorno per andare da lui a dare lezioni. E i suoi genitori sarebbero stati pure più tranquilli sapendo che Tatsuya non avrebbe vissuto da solo.
Jin lo tirò a sé, poi lo avvolse con le braccia e chiuse gli occhi, come cinque anni prima.
“Sì,” rispose Tatsuya, “Ma non riesco ancora a cucinare... i miei genitori sono venuti spesso per portarmi cibi da scaldare al microonde.”
Jin sorrise, “Ora c’è la pausa campionato e non avrò trasferte per un bel pezzo, cucinerò io.”
Tatsuya sospirò.
“Sei triste?”
“Un po’.”
Jin lo strinse più forte. “Domani sera non hai lezioni vero? Ti porto in un posto.”
“Dove?”
“Segreto.”
“Ehhh!” si lamentò Tatsuya, “Dimmelo!”
“No,” rispose Jin ridendo, poi gli passò le dita sul petto. Quegli addominali perfetti iniziavano a sparire. Scese fino al bordo dei pantaloni.
“Vieni a fare il bagno con me?” 
 
Sotto la prima neve dell’anno, camminavano in direzione dello Shiba Park[6].
Mentre avanzava, Tatsuya teneva stretto il braccio dell’altro. Sul viso, un grosso paio di occhiali da sole marroni gli copriva gli occhi.
“Non capisco dove siamo... sento solo un sacco di chiacchiericcio.”
“Proprio in questo momento stiamo passando sotto la Tōkyō Tower, c’è un sacco di gente!”
Tatsuya alzò meccanicamente il viso verso l’alto. “E’ sempre decorata con le luci?”
“Come ogni anno,” rispose Jin rallentando il passo. Sentiva che l’altro faticava a tenere quell’andatura.
Poi, improvvisamente, si ricordò della discoteca. Di come il pavimento nero sembrasse invisibile. Solo che ora Tatsuya non aveva dei tubi al neon ad indicargli la strada. C’era solo il vuoto, e la voce di Jin come guida. “Parlami,” di diceva spesso Tatsuya dal salotto, sebbene sapesse che lui era là, a pochi metri da lui. In cucina magari. E allora Jin lo raggiungeva e gli recitava di nuovo il Racconto d’Autunno, aggiungendo ogni volta un particolare nuovo, che la volta prima non aveva ricordato.
Quando un passante gli andò a sbattere ad una spalla, Tatsuya strinse di più il braccio di Jin.
“Tranquillo, ci siamo.”
“Dove?” domandò Tatsuya volgendo il viso verso l’altro. Jin sorrise.
“Ascolta.”
La neve era finissima e si posava sul viso scoperto dei due come goccioline di pioggia. Jin gli sfilò lentamente gli occhiali.
“Pattini?” domandò Tatsuya trattenendo il fiato.
“Esatto,” rispose Jin con un grosso sorriso, “Hanno istallato nel parco questa pista di pattinaggio all’aperto solo da qualche settimana.”
“Ehh?” si agitò Tatsuya, “Ma io non so pattinare!”
“Non c’è problema, ti porto io. Ti fidi?”
Tatsuya chinò il capo e sorrise, “Come potrei non fidarmi.”
 
La luna era sempre lassù, come una vecchia amica, e non appena i due entrarono in pista Jin la notò tra le nuvole bianche. Chissà, dopotutto, potresti pure aver vegliato su di noi durante questi anni.
Di colpo Tatsuya si mise a ridere e si aggrappò quasi di peso al braccio dell’altro.
“Hey!” esclamò Jin cercando di tenerlo in piedi, “Non riesci nemmeno a stare dritto?”
Tatsuya continuava a ridere e cercò di concentrarsi sulle gambe per non cadere.
“Scusa, ma...”
“Mi stai strangolando un braccio!” esclamò Jin, ridendo pure lui.
“Okay, okay,” commentò allora Tatsuya, “Dovrei esserci.”
Jin iniziò a pattinare lentamente e l’altro si lasciò trascinare.
“Muovi le gambe a zig-zag!” esclamò Jin dopo aver fatto il giro di mezza pista. Tatsuya provò a staccare i pattini dal ghiaccio ma perse l’equilibrio e cadde a terra. Jin invece rimase in piedi per miracolo.
“Niente da fare,” disse Tatsuya mettendosi a ridere, “Sono negato!”
Jin scosse la testa sorridendo e lo aiutò a rialzarsi.
“Tieniti,” disse, e fece un altro giro. Sebbene fosse quasi natale non c’era molta gente sulla pista, e la maggior parte di queste erano coppie felici. Jin si guardò intorno, poi rallentò fino a fermarsi in un angolo.
Tatsuya si voltò verso di lui e aprì la bocca per domandare quale fosse il problema. Jin lo precedette e gli rubò un bacio.
“Jin!” esclamò Tatsuya arrossendo di colpo, “Siamo in pubblico!”
“Non importa. Senti,” disse, quindi gli prese le dita e le portò ai propri occhi. Erano chiusi.
Tatsuya non capì.
“Ora non li vedo nemmeno io,” disse Jin stringendogli i fianchi, “Ci siamo solo tu e io in questo momento.”
Tatsuya si lasciò baciare una seconda volta. Questa volta, più intensamente. Poi si abbracciarono.
“Sono in astinenza,” gli sussurrò Jin ad un orecchio con tono lascivo.
“Devi sempre rovinare l’atmosfera!” esclamò Tatsuya dandogli un pugno. Jin si mise a ridere e gli passò le dita nei capelli.
“Si sono allungati parecchio.”
“Già.”
“Domani metterò a frutto le mie doti da parrucchiere e te li spunterò un po’.”
“Non ci provare nemmeno!” disse Tatsuya arricciando le labbra, “I miei poveri capelli...”
Jin si mise a ridere e lo tirò di nuovo a sé.
“Hai ancora gli occhi chiusi?”
“Uhn...” annuì Jin. Intorno a loro, il mondo continuava a girare senza notare la loro esistenza, ma ormai non importava più.
“Grazie...” mormorò Tatsuya con voce talmente flebile che Jin stentò a sentirla. Poi fece un respiro profondo.
“Anche tu mi piaci.”
Sul volto di Jin comparve un sorriso: il buio non era mai stato così luminoso.
 “Lo so.”

***

Mi domando se colui che ci ha fatti incontrare quel giorno in quell’odioso izakaya di periferia,
non fosse proprio il destino.



[1] Città della prefettura di Shige. Le sue terme risalgono all’era Edo (1603-1868) e sono conosciute per essere le terme in cui scorre la maggior quantità d’acqua termale del Giappone: in particolare, 32.300 litri al minuto.
[2] L’Università di Tōkyō.
[3] I soba sono un piatto della cucina giapponese consistente di sottili tagliatelle di grano saraceno, serviti caldi d’inverno e freddi d’estate. Data la loro lunghezza, sono simbolo di longevità e per questo, solitamente, si mangiano a capodanno.
[4] Aki, in questo caso, significa autunno.
[5] (n.d.a) Racconto d'Autunno è una storia di Eos_92. Mentre decidevo quale sarebbe stato il destino di Ueda ho voluto rileggerla. In quel periodo avevo pure rivisto Yuuki, ma questa è un'altra storia xD
[6] Lo Shiba Park è un parco pubblico che si trova a Minato - uno dei quartieri speciali di Tōkyō - che è stato costruito intorno ad un famoso tempio buddista, lo  Zōjō-ji. Da ogni viale del parco è inoltre possibile avere una vista della Tōkyō Tower, una torre televisiva che, con i suoi 322,6 metri d’altezza, è la più alta struttura d'acciaio autoreggente del mondo.

Commento:  Come??? Come? E’ finita? O.O PARTY HARD!!!
Era ora!!! Ma che cavolo! 20 mila parole O.o Scritte in un mese e un giorno! (Le “un mese e una notte” xD) Devo essermi fusa il cervello... l’università mi fa male, l’ho sempre detto xD (nevvero!)
Comunque *coff coff* Questa volta i ringraziamenti sono fondamentali:
Prima di tutti, ringrazio la mia editrice Vittoria!! Della casa editrice LaBetti x°D Davvero grazie per averla letta pagina dopo pagina e per avermi rotto le pall- scatole fino a cinque minuti fa xD Speriamo che ti piaccia anche la fine perché non c’ho intenzione di rifarla! A meno che tu non abbia un’idea concreta xD
Poi, grazie anche a Raky che ha ascoltato i miei riassunti orali schifosi e che mi ha aiutata con l’ultima scena. Great idea :P Chu!
Infine ringrazio le altre che l’hanno letta a pezzi e bocconi, soprattutto Koko-chan ^^ Spero che il finale piaccia anche a voi!
Dal canto mio, mi sono divertita molto a mettermi alla prova con questo racconto. A questo punto si può solo scendere di livello! Ahah xD Sìsì, direi che questa è di gran lunga la mia ficci preferita ^^ E solo una scena hot poi!!! E nemmeno tanto hot!! No, no, non va bene .-.
Basta chiacchiere, vado a nanna! Un bacio a tutti e buone feste!! <3 Mata ne!

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