“48 Million Miles.”

di thenightsonfire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


 Una delle canzoni che da sempre mi hanno più affascinato dei 30 Seconds to Mars è Buddha for Mary. Anche se Jared ha espressamente detto che non è una canzone riferita ad una persona specifica, ma ‘decisamente una metafora’, c’è qualcosa dentro di me che mi costringe a non credergli. Così ho pensato e ripensato a chi potesse essere Mary, e questo è ciò che ne è uscito fuori. Ex one-shot in quattro parti, tre fasi della storia di Jared e Mary più un piccolo epilogo.


 

Capitolo 1.

Settembre-Novembre.

 

«Tell me, did you see her face?

Tell me, did you smell her taste?

Tell me, don’t they all just look the same inside?

Buddha for Mary, here it comes.»


La Emerson Preparatory School di Washington D.C. offriva, tra gli altri, un interessante corso di Astronomia, ed era quello a cui Jared si era iscritto per primo. Considerando i sacrifici che aveva fatto sua madre per mandarlo in quella scuola privata, il minimo era che lui si impegnasse per prendere il diploma – poi, come aveva già deciso, non appena avesse compiuto diciotto anni sarebbe partito a Philadelphia per studiare Arte –, e partecipare ad almeno un corso che riuscisse ad entusiasmarlo era, tutto sommato, un buon modo per iniziare.

Così, il primo giorno di scuola, prese posto in una delle sedie (si sarebbe messo all’ultimo posto, normalmente, ma in quell’istituto i banchi erano disposti in semicerchio attorno alla cattedra dell’insegnante) e aspettò che i suoi nuovi compagni di corso facessero lo stesso. Prese ad osservare la cartina astronomica rappresentante il sistema solare attaccata ad una delle pareti, giocando distrattamente con la penna e sorridendo nel guardare Marte, il suo pianeta preferito.

La sua attenzione fu richiamata, però, da una ragazza che aveva appena preso posto di fronte a lui. Aveva i capelli biondi raccolti in una coda alta e due profonde occhiaie, ma Jared pensò che, pur con quella sua aria stanca, era comunque molto bella. Indossava una canotta bianca scollata che lasciava intravedere il reggiseno nero, e quando lei si accorse che lui la stava guardando si sporse leggermente in avanti, con un lieve sorriso, per fargli vedere meglio la scollatura. Jared si sentì arrossire e guardò altrove, sentendola ridacchiare mentre si rimetteva composta.

Mentre il professore cominciava ad illustrare il programma continuò a guardarla con la coda dell’occhio, cosciente che lei stava facendo lo stesso con un sorrisetto malizioso stampato in faccia.

«Lascia perdere» mormorò una ragazza occhialuta seduta accanto a lui.

«Scusa?» chiese, guardandola accigliato. Non erano nemmeno presentati.

«Sei nuovo» disse. Non era una domanda. «Lei, dico. Lascia perdere.»

«Perché?»

«È meglio non frequentarla. Viene dal peggiore quartiere della città – è qui per una borsa di studio. Dicono che vada con tutti (va davvero con tutti, in effetti), che si droghi... cose del genere.»

Jared avrebbe tanto voluto chiederle perché, esattamente, doveva sputare veleno in questo modo con uno che nemmeno conosceva, ma parlava in modo talmente veloce da non lasciargli il tempo di rispondere.

«... Dimmi, non hai visto il suo volto? Non le sei passato accanto, avendo il piacere di assaggiare l’odore di fumo che emanano i suoi vestiti?» sibilò, a denti stretti, per poi ghignare. «Fuori sono tutte belle in modo diverso, ma non sembrano solamente tutte uguali, dentro?»

La ragazza doveva aver sentito, perché li stava guardando con un’espressione strana, quasi ferita.

«Basta» sbottò Jared, con una smorfia. «Perché dovrebbe importarmi?»

«Leto! Vuole fare attenzione?» lo richiamò il professore, dalla lavagna.

«Sì, scusi» borbottò Jared, e rivolgendo l’attenzione al professore, alla sua sinistra, diede le spalle alla ragazza occhialuta come per chiudere la conversazione.

 

Alla fine della lezione, quando tutti gli altri erano già usciti dalla, Jared vide la ragazza inciampare e la sua borsa aperta cadere a terra, facendone rovesciare il contenuto sul pavimento.

Si avvicinò e mentre lei si inginocchiava per raccogliere tutto lui fece lo stesso senza dire niente. Ora che la vedeva da vicino, gli sembrò incredibilmente... fragile. Forse era lo sguardo vuoto, forse le gambe magre fasciate dai jeans stretti, forse le mani piccole e pallide che adesso stavano raccogliendo velocemente dei quaderni.

Tra le mani gli capitò un volume che gli fece aggrottare la fronte.

«Filosofie orientali?»

«Sì, buddhismo e cose del genere» rispose lei in modo brusco, e Jared rimase stupito dal cambio di atteggiamento rispetto all’inizio della lezione, così non disse niente.

Lei gli prese il volume dalle mani e lo rimise in borsa, andando via senza nemmeno salutarlo.

 

Non si sarebbero parlati di nuovo (o meglio, Jared non avrebbe più provato a rivolgerle la parola) fino a quando, qualche settimana dopo, il professore non li mise in coppia insieme per una relazione sul sistema solare. Era il mese di Novembre, e avrebbero dovuto scrivere, tra le altre cose, quali pianeti e costellazioni erano visibili nel cielo notturno durante quei giorni.

Nel tempo in cui Jared era rimasto ad osservarla in disparte la sua curiosità verso la ragazza – perché era solo quello, vero? Solo curiosità – non aveva fatto altro che crescere. Avevano ragione, l’aveva sempre vista con ragazzi diversi, sempre con abiti stretti e scollati, sempre con occhiaie profonde, sempre con un’aria più stanca di giorno in giorno. Eppure c’era qualcosa in lei che non lo convinceva, che si scontrava con ciò che dicevano di lei, il modo assorto in cui osservava il cielo fuori dalla finestra, il modo delicato in cui si stringeva nelle braccia quando aveva freddo, il modo in cui l’aveva guardato – quasi sollevata – quando il professore aveva nominato il suo nome accanto a quello di lui.  



Nota dell’autrice: Da brava stalker – ehm – quale sono mi sono documentata su Wikipedia sull’istruzione di Jared, che (ora so) ha frequentato la Emerson Preparatory School di Washington D.C., diplomandosi nel 1989. Sempre grazie a Wiki (onore e gloria nei secoli dei secoli) ho scoperto che sì, questo istituto, fra i tanti, offre un corso di Astronomia. Ho pensato, tra me e me, che sarebbe stato un ottimo modo per far incontrare lui e Mary, ed ecco qui.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Attenzione, gente, Echelon ed estranei capitati in questo fandom per puro caso. Ho aggiunto una nota finale al primo capito che vorrei leggeste. Citando Jared, “gratzia” a tutti! Adesso mi tolto dai piedi, cominciate pure la lettura.

 

Capitolo 2.

Dicembre.


  «Mary was a different girl

Had a thing for astronauts

Mary was the type of girl

She always liked to play a lot

Mary was a holy girl

Father wet her appetite

Mary was the type of girl

She always liked to fall apart.»
 

 

«Tu ce l’hai un pianeta preferito?»

Jared, sdraiato accanto a lei, inclinò la testa verso destra. «Marte» rispose. Un lieve sorriso gli increspò le labbra.

Pensò a quanto fosse incredibile quella situazione. Fino a poche settimane prima (fino alla fine di Ottobre, per l’esattezza, quando si erano incontrati per la prima volta per parlare di quella relazione) non avrebbe mai pensato che sarebbero finiti a parlare dei loro pianeti preferiti nella sua camera da letto, con quell’atmosfera intima, ma era lì che si trovavano in quel momento.

Avevano incominciato incontrandosi due pomeriggi a settimana nella biblioteca della scuola (lei si era rifiutata di andare nella casa di uno dei due, e Jared si era chiesto il perché), poi gli incontri pomeridiani erano diventati più frequenti e – il sorriso di lui si allargò –, anche dopo la consegna della relazione avevano continuato ad incontrarsi.

Se c’era una cosa che Jared non aveva ancora capito di lei, però, era in cosa fingesse. Se fingesse di essere la ragazza dalle occhiaie profonde che andava con chiunque per della roba, o quella che adesso stava osservando il soffitto con aria distratta, con le labbra rosee dischiuse e l’espressione serena.

Certo, capirla non era facile, e lui non ci era ancora riuscito. C’erano giorni in cui lei sorrideva tranquilla e lo guardava con occhi pieni di fiducia, con lo sguardo puro di una bambina, e allora chiacchieravano come se si conoscessero da secoli. Poi c’erano giorni – i peggiori – in cui anche quando erano assieme lei non faceva altro che stare in un silenzio assordante, con l’aria distrutta, i capelli raccolti in una coda fatta alla bell’e meglio, gli occhi gonfi – ed era come parlare con un muro di cemento, lei c’era, lo sfiorava (dio, se lo sfiorava), ma non esistevano argomenti di conversazione, e lei si limitava a sguardi lascivi, battutine saltuarie, allusioni. E Jared si chiedeva cosa volesse, perché sorridesse in quel modo, mordendosi il labbro, o perché si scoprisse la spalla proprio mentre lui era chinato accanto a lei, benché fosse Dicembre e in quella biblioteca non esistesse sistema di riscaldamento. Si scopriva a chiedersi con chi fosse stata con una punta di gelosia – e, cristo, lui di ragazze ne aveva avute, cos’è che la rendeva diversa? –, dov’è che andasse la sera , chi era che la stringeva la notte, quando lei non gliel’aveva mai permesso. Si chiedeva perché, mentre lui le aveva raccontato tutto, di lui, della sua vita, della sua famiglia, lei tenesse lontano il discorso dalla sua, di famiglia, dalla sua vita.

Una volta Jared le aveva chiesto se potevano incontrarsi a casa di lei, perché la sua era ancora incasinata per via del trasloco, l’ennesimo, e lei gli aveva urlato contro che avevano già deciso dall’inizio di non incontrarsi a casa dell’uno o dell’altra, e aveva buttato i libri di Astronomia sul pavimento, urlando quasi in lacrime che non avrebbe dovuto chiederglielo mai più. Il giorno dopo lo aveva abbracciato – non l’aveva mai fatto – e Jared aveva pensato che se avesse avuto quella ragazza occhialuta davanti le avrebbe risposto: «Ho assaggiato il suo odore, ed è meraviglioso». Poi lei gli aveva detto, un po’ rossa, che non le importava degli scatoloni, casa sua sarebbe andata benissimo. Lei adorava il disordine.

È inutile, pensò Jared socchiudendo gli occhi per un attimo, dovrò abituarmi a questi cambi di umore.

«Anche il mio.»

«Posso chiederti perché?» chiese Jared.

Lei non rispose subito. Stette qualche secondo in silenzio, come soppesando le parole, e Jared pensò che qualcosa nella stanza era cambiato, l’atmosfera era improvvisamente diventata più pesante, lo sguardo della ragazza più cupo.

«Marte è il quarto pianeta in ordine di distanza dal sole, l’ultimo dei pianeti terrestri» cominciò. «Per le sue caratteristiche fisiche è abbastanza simile alla terra, da cui è distante, in media, circa 48 milioni di miglia, tanto da esserne considerato il pianeta “gemello” – simile, ma non abbastanza da avere presenza di acqua, e senza acqua non c’è vita. In più, la mancanza di ozono permette alle radiazioni ultraviolette del sole, letali per ogni forma di vita, di raggiungere la superficie. Non c’è vita su Marte, non può esserci. È il gemello inospitale della Terra» I suoi occhi sembrarono velarsi di lacrime. «Gli orbitano attorno due satelliti, Phobos e Deimos, “paura” e “terrore”. A causa della sua gravità ancora non si capisce come abbia fatto ad attrarli a sé... » Fece una pausa, si portò le mani agli occhi. «Capisci, Jared? Marte respinge ogni cosa che non siano paura e terrore, paura e terrore, ogni cosa, eppure ancora non riescono a capire come abbia fatto ad attrarli a sé. Questa è la vita su Marte.»

Aveva già smesso da un pezzo di parlare solo di Marte.

Le scostò le mani dagli occhi. Guardava il soffitto, gli occhi rossi.

Erano sdraiati uno accanto all’altra, così vicini da sfiorarsi, ma lui la sentì lontana molto più di 48 milioni di miglia. Non c’è distanza fisica che possa descrivere quanto lontano e sfuggente può essere uno sguardo.

«Ehi... » sussurrò.

«Respingo tutti, Jared» rispose piano. «Anche te, respingo anche te, quando so che lei l’unico che dovrei stringere. Mi sento morta dentro, non c’è vita in me, non nutro amore, e non capisco quando sia diventata così. Respingo ogni cosa, respingo tutti, traggo a me solo paura e terrore, respingo il buono. Ecco perché respingo te. Tu sei buono.»

Si girò di lato, e si ritrovò a guardarlo negli occhi.

«Forse dovrei smetterla di guardarti negli occhi» mormorò.

«Perché? Cosa c’è di male?» chiese Jared.

«I tuoi occhi.»

Jared la guardò stupito. Poi qualcosa in lei cambiò – di nuovo, dannazione. Sorrise leggermente, in modo malizioso, si mise seduta e inclinò la testa. Poi, velocemente, si mise a cavalcioni su di lui, si tolse di dosso la maglietta, rimanendo in reggiseno, e gli bloccò i polsi sopra la testa.

In tutto quel lasso di tempo Jared aveva continuato a guardarla, stupito, senza sapere cosa fare. Perché?, si domandò.

«Guardami, Jared. Ti piaccio? Tanto lo so che ti piaccio. Piaccio a tutti.»

E Jared la guardò, rimanendo in silenzio. Era magrissima, aveva quasi le costole di fuori. Il suo sguardo passò dal volto, dagli occhi arrossati, al collo, alle scapole sporgenti, i seni piccoli fasciati dal reggiseno bianco, la pancia piatta – poi, e rabbrividì e desiderò guardare da un’altra parte, notò dei segni violacei e delle cicatrici, sull’addome, sui fianchi, sulle braccia.

«Quindi ti piace Marte. Sai, Jared» sussurrò lei, inclinandosi verso di lui. Era a pochi centimetri dalle sue labbra. «Mi sono sempre piaciuti gli astronauti

«Cosa ti è successo?» chiese Jared, sentendosi improvvisamente con la gola secca.

Lei sbarrò gli occhi, gli lanciò un’occhiata tagliente. «Perché dovrebbe importarti? Non importa a nessuno di loro.»

Jared sentì la rabbia montare dentro di lui. Si tirò seduto e la prese per i polsi, impedendole di muoversi.

«Loro chi?» chiese, quasi urlando. «Rispondimi!»

Lei fece per baciarlo, ma Jared si tirò indietro.

«Cosa c’è, Jared, non vuoi giocare?» chiese lei, con una risata amara. «A me giocare piace un sacco.»

Lo vedeva dal suo sguardo, che lei non c’era davvero, che non lo ascoltava – che non voleva ascoltarlo.

«Non ti ho chiesto questo.»

«Perché ti importa?» ripeté lei, con voce quasi inudibile.

Me lo chiedo anche io, pensò Jared. Fino a qualche mese prima avrebbe colto l’occasione al volo, non gli sarebbe niente dei lividi e delle cicatrici, non gli sarebbe importato niente di lei, ma ora...

«Rispondimi e basta» disse.

Lei chinò la testa, ma non disse niente, e allora Jared poggiò la fronte sul suo sterno, socchiudendo gli occhi. Doveva farla parlare.

«Marte fu chiamato così per l’omonimo dio della guerra romano. Dio della guerra...» fece una pausa di qualche istante, fece un respiro profondo. «Io, mia madre, mio fratello abbiamo dovuto sempre combattere per andare avanti. Siamo sopravvissuti lottando da quando mio padre ci ha lasciati. Nessuno ci ha regalato niente, niente, anzi, la vita è stata dura da sempre, per noi. Per questo mi ci rivedo, per questo Marte è il mio pianeta preferito. Combattere per ciò che desidero è l’unica maniera che ho per andare avanti.»

Lasciò i polsi della ragazza e la strinse.

Era così fragile. Aveva paura di spezzarla tra le sue braccia. «Combatti, non lasciarti andare in pezzi» mormorò. «Se vuoi, combatteremo insieme. Ma non puoi combattere se prima non ti arrendi all’idea di doverlo fare.»

Fu allora che lei ricambiò la stretta, seppur debolmente. «È colpa sua, è tutta colpa sua, di quell’uomo.»

Jared la fece scostare e guardandola negli occhi le prese il viso tra le mani. «Quell’uomo chi?»

«Ero una santa ragazza, qualche anno fa, andavo tutte le domeniche in chiesa a pregare. Mi inginocchiavo e pregavo» disse lei, poggiando le mani su quelle di Jared.

«Chi è quell’uomo?» ripeté Jared con veemenza, scandendo le sillabe.

«Mio padre» rispose lei con un filo di voce, tormentandosi le labbra. «Mio padre. È orribile. Mi fa passare l’appetito. Non abbiamo soldi. Mi costringe a...» non riuscì a finire la frase. «Anche lui, Jared. Mi ha avuta anche lui. Mio padre

Dio, no. Quanto avrebbe desiderato non sentire. Era troppo orribile anche solo da pensare, una prospettiva del genere, ma Jared si sforzò di non lasciar trapelare alcuna emozione, soprattutto la rabbia e l’odio cieco che sentiva crescere dentro di sé.

«Non puoi continuare così. Lascia che ti aiuti.»

«Non puoi aiutarmi, nessuno può» disse lei, sorridendo amaramente. «È così che va. Io do il mio corpo in affitto per pagare l’affitto.»

«No!» esclamò Jared. «Ragiona, diamine, è inumano, prima o poi crollerai, e allora non ci sarà più nulla da fare. Cos’è, ti piace l’idea di cadere a pezzi o cosa?»

«Forse mi piace» rispose lei. Tremava. «Forse mi piace sentirmi cadere in pezzi. Forse sentire dolore è meglio che non sentire niente, forse è l’unico modo per non sentirmi completamente morta.»

Jared scosse forte la testa, stringendola più forte il viso, quasi a farle male, poi lei sussurrò: «Se vuoi aiutarmi, baciami. Fammi sentire che anche Marte può essere vivo».

E Jared ubbidì. La baciò di slancio e lei ricambiò, passandogli le mani tra i capelli corti, e per i minuti e le ore che seguirono le 48 milioni di miglia sembrarono sparire, annullarsi, e – anche se Jared non lo sapeva – assieme a loro, per la ragazza, sparirono anche paura e terrore.


Nota dell’autrice: come avete visto, c’è stato un salto temporale: sarà così anche per i due capitoli successivi. Non essendo una long, ho dovuto stringere – e di molto. Inoltre, l’intento era proprio quelli di offrire solo dei momenti della storia tra i due.
Come avrete già capito, i versi iniziali saranno quelli di cui poi avrò dato una spiegazione all’interno del capitolo.
P.S. Grazie vivamente a coloro che hanno commentato. E ora mi tolgo dalle scatole, davvero.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.

Gennaio.


   «He said, “Can you hear me, are you sleeping?”

She said, “Will you rape me now?”

He said, “Leave the politics to mad men.”

She said, “I believe your lies.”

He said, “There’s a paradise beneath me.”

She said, “Am I supposed to bleed?”

He said, “You better pray to Jesus”

She said, “I don’t believe in God.”»

 

Se c’era una cosa che Jared non si aspettava, quella era ritrovarsi a sentire qualcuno bussare alla porta di casa alle tre di notte. Ma nel momento stesso in cui si era messo seduto a letto e si era passato una mano sulla faccia con fare assonnato, mentre fuori infuriava un temporale, aveva avuto un tremendo presentimento, come se in qualche modo avesse capito chi fosse. Era solo in casa. Sua mare faceva il turno di notte, quella sera, e sua suo fratello era a dormire da un amico. Balzò fuori dal letto, scese precipitosamente giù per le scale e una volta all’ingresso di casa sua aprì la porta d’entrata senza nemmeno chiedere chi fosse. Sapeva chi si sarebbe ritrovato davanti. Era già successo altre – spiacevoli – volte.

E difatti si ritrovò a guardare una ragazza che ormai conosceva bene – o almeno così sperava, con lei non era mai certo di niente –, completamente fradicia e tremante, che sotto la pioggia battente teneva le braccia incrociate, in un vano tentativo di riscaldarsi.

«Mary!» esclamò, spalancando gli occhi. La tirò dentro. «Dio, Mary, che ci fai in queste condizioni?»


L’abbracciò. Era gelida, e sembrava non riuscisse a reggersi in piedi. Lei non ricambiò la stretta.

«Ho freddo, Jared» disse in un sussurro roco.

Per un attimo lui rimase fermo a guardare come era – o meglio, non era – vestita. Indossava un vestitino bianco che lasciava scoperte gambe e braccia, dalla scollatura profonda, e sotto, ben visibile, un completo di pizzo nero. Aveva delle scarpe col tacco aperte ai piedi. Jared capì subito da dove veniva, e fece una smorfia, disgustato.

La prese sottobraccio e le fece salire le scale, fino a portarla nella sua camera. Lì la fece sedere sul letto e le tolse i vestiti bagnati – se non l’avesse fatto si sarebbe ammalata –, poi, dopo aver preso un suo maglione dall’armadio, glielo fece indossare e la fece distendere. Tremava ancora.

Si sdraiò assieme a lei e coprì entrambi con le coperte. La strinse.

«Mary, rispondimi» mormorò. «Che è successo?»

Eppure già lo sapeva. Doveva essere scappata da uno di quei festini a cui il padre la costringeva a partecipare per racimolare qualche soldo. Nonostante tutto, sorrise. Mary aveva cominciato a combattere.

Mary...

Non era nemmeno il suo vero nome. Era il nome che le aveva donato lui.

La prima volta che l’aveva chiamata «Mary», sussurrando, lei non si era nemmeno voltata. Poi lui aveva ripetuto quel nome chiamandola a voce più alta, e lei si era finalmente girata, guardandolo perplessa.

«Perché mi hai chiamata Mary?» gli aveva chiesto, aggrottando la fronte.

«Perché sei pura.»

 Era scoppiata a ridere. Lei, pura? La stava prendendo in giro?

«Io non sono affatto ‘pura’, Jared, e questo lo sai tu – lo sanno tutti.»

«Non importa in quanti abbiano avuto il tuo corpo, non mi importa. Tu sei tu, non il tuo corpo. Ciò che importa è che la tua anima, la tua mente siano ancora tue, e lo sono, perché nessuno le ha avute davvero, nessuno le ha conosciute» e l’aveva guardata dritto negli occhi, «nessuno ha conosciuto la vera te, quella che riesce ancora a sognare, a vedere il cielo sui muri di cemento contro cui è costretta a combattere, lo stesso cielo che cerca di raggiungere, quella che in fondo crede ancora nei suoi sogni. Nessuno ti ha avuta davvero. Ecco perché sei pura.»

Lei era rimasta in silenzio per qualche secondo, troppo stupita per dire o fare qualcosa. Poi si era avvicinata a lui e l’aveva baciato delicatamente, cosciente che chi lo stava baciando non era la ragazza che aveva baciato tutti gli altri, ma quella di cui solo lui conosceva l’esistenza.

 

Lui amava chiamarla così: quando erano insieme, sdraiati l’uno accanto all’altra, lui le ripeteva piano «Mary, Mary, Mary» all’orecchio, fino a quando lei non lo scostava, chiedendogli di smetterla. Ma sorrideva, quando lo faceva, e allora lui capiva che gli stava implicitamente dicendo che le andava bene.

Un giorno gli aveva contestato, però, che in fondo per lei non contava tanto.

«È per te che mi va bene essere chiamata così» gli aveva detto. «Tu ci credi ancora a quelle sciocchezze.»

«Sciocchezze?»

«Dio, Gesù, Maria e la sua purezza, tutte quelle cose» disse Mary. «Io non ci credo e basta.»

Jared ancora non sapeva che qualche anno dopo anche lui avrebbe finito per non credere più.

Era per quello che Mary teneva aveva comprato un libro sulle filosofie orientali. Voleva imparare a salvarsi da sola. 


E vedendola così tra le sue braccia Jared capì che, dopo tutto quel tempo in cui si era limitata a portarlo sempre con sé, finalmente aveva cominciato a lottare per salvarsi.

Non era completamente lucida, era ovvio, Dio solo sapeva quello che le avevano dato, ma era arrivata da lui, ed era questo l’importante.

Nel buio della stanza Jared si avvicinò a lei, i loro visi si sfioravano. Erano uno di fronte all’altra, sdraiati di lato, lei rannicchiata per il freddo.

 

«Mary... » la chiamò Jared, con un filo di voce. «Riesci a sentirmi? Stai dormendo?»

Mary ebbe un brivido quasi impercettibile. «Adesso mi stuprerai?»

Jared le passò una mano sul viso, la fronte aggrottata. «Sai che non lo farei mai.»

«Mi stuprerai adesso, papà?» ripeté Mary, ancora con gli occhi chiusi.

E Jared capì. La droga. Mary aveva le allucinazioni.

«Sono io, Mary» replicò, con calma. «Sono Jared.»

Mary aprì gli occhi, ma il suo sguardo era vacuo. «Lui risponde sempre di di lasciare le questioni di politica ai pazzi. Il sono il territorio che si contendono lui e i suoi amici, loro i politici pazzi che decidono il prezzo da pagare.»

Mary cominciò a piangere, e Jared prese un respiro profondo. Voleva farla parlare, voleva farle sputare tutto una volta per tutte.

«Ogni volta che mi costringe a darmi via mi dice che sarà l’ultima, che troverà un altro modo, ma so benissimo che non è vero» mormorò Mary, muovendo appena le labbra, tanto che Jared fece pure fatica ad udirla bene. «E io gli rispondo che credo alle sue bugie.»

Jared avvicinò il volto a quello di lei, e le baciò una lacrima.

«Sai, la prima volta che venne nel mio letto mi sorprese nel sonno. Disse che sotto di lui c’era il paradiso.»

Le baciò la fronte.

«Ancora il ricordo mi tormenta» continuò. «Ancora oggi, ogni volta che viene nel mio letto gli chiedo se devo sanguinare.»

Le baciò una guancia bagnata dalle lacrime.

«Io lo imploro, lo prego di non farlo, ma lui ride e dice che non riesce ad essere delicato. Mi dice che è meglio se prego Gesù.»

Le baciò l’angolo della bocca, con delicatezza.

«Ma tu lo sai, Jared» dice ancora Mary. «Io non credo in Dio.»


Aprì gli occhi e gli sorrise debolmente.

E Jared la baciò sulle labbra, ancora delicatamente, come per timore di farle male. Poi Mary lo strinse a sé, gli tolse la maglietta, gli baciò il volto, la mascella, l’incavo del collo.

«Sono scappata via. Oggi ho comprato un biglietto del treno» sussurrò tra un bacio e l’altro. «Ho la valigia pronta. Domani vado via una volta per tutte.»

Mary l’avrebbe lasciato. Jared ebbe un fremito e la baciò di nuovo, più profondamente, poi le sfilò il maglione e le passò una sulle cicatrici sulla pancia, ormai rimarginate.

«Anche quando diventerai famoso per la tua voce» disse Mary guardandolo in volto, col fiato corto, «mantieni questi occhi. Non cambiarli.»

«È il mio colore» rispose Jared, cercando inutilmente di sorridere, «non potrei cambiarlo nemmeno volendo.»

«Sai che non parlo del colore» sorrise Mary. «La tua voce e i tuoi occhi. Continua a parlare in questo modo e a guardare gli altri in questo modo, e salverai molte altre persone, Jared.»

Salvare le persone. Jared non se ne riteneva capace, e glielo disse.

«Tutto quello che cercavo era un Buddha per me, qualcosa o qualcuno che potesse salvarmi. Un Buddha per Mary, mi sono detta fino a ieri, un Buddha per Mary» rispose. «Oggi ho capito che l’ho trovato. Grazie per avermi salvata, Jared. Da domani lotterò io per salvarmi.»

Non si scambiarono altre parole. L’indomani lei sarebbe andata via, le parole non servivano. La pioggia fuori continuava a cadere, ed entrambi sentirono che il passato di lei stava venendo lavato via lentamente e che ora la ragazza era solo la Mary che Jared aveva scoperto – e che avrebbe tenuto per sé come un segreto.

 

Nota dell’autrice: Forse non dovrei nemmeno dirlo, ma non posso farne a meno. Questo è il mio capitolo preferito, tra quelli che ho scritto. Forse non per come effettivamente è scritto (questo dovrete dirmelo voi!), ma per ciò che contiene. Mi piaceva l’idea che Mary riuscisse a salvarsi – prima con l’aiuto di Jared, poi da sola.
Purtroppo, non conoscendolo di persona, non so se ho rispettato ho meno il suo carattere, ma anche su questo voi potreste darmi una personale opinione.
Grazie a chi recensisce, a chi ha inserito questa storia tra le seguite e – last but not least – ai lettori che seguono questa piccola fanfiction in silenzio.
Adesso manca solo l'epilogo. 

 

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Capitolo 4
*** Epilogo. ***


 

Epilogo.

Novembre.

 

«A simple fear to wash you away

An open mind canceled it today.»

 

Negli anni seguenti Jared avrebbe ripensato a quello come ad uno dei pomeriggi più sereni di quell’autunno del 1988. Era uno dei primi incontri che lui e Mary avrebbero avuto per la relazione di Astronomia, uno di quelli tenuti quando ancora lui non la conosceva fino in fondo.

Quel pomeriggio la biblioteca era chiusa, e l’unica aula libera era quella di musica, che rimaneva aperta per le prove del coro della scuola.

Jared arrivò in netto anticipo rispetto all’ora accordata per l’appuntamento, così posò lo zaino in un angolo polveroso della stanza, prese una delle chitarre acustiche e di sedette su una sedia, iniziando a pizzicare le corde dello strumento. Chiuse gli occhi.

La musica era una sua passione, ma non l’amava come amava l’arte o la recitazione: era qualcosa di molto più profondo, qualcosa che aveva sempre voluto fare – qualcosa che avrebbe voluto fare come lavoro. Era il sogno che voleva realizzare. La musica lo nutriva da dentro, lo faceva sentire vivo come nient’altro.

Cominciò a canticchiare qualcosa che aveva composto (scriveva canzoni, quando poteva), accompagnando la voce con la chitarra. Era così preso che si accorse dell’arrivo di Mary solo quando la sentì esclamare: «Non credevo suonassi. Sei bravo».

Spalancò gli occhi e la vide prima appoggiata allo stipite della porta, poi avvicinarsi e lasciare scivolare via la borsa, che finì abbandonata sul pavimento. Fece per posare la chitarra, ma lei (che si era nel frattempo seduta alla sua sinistra) lo incitò a continuare.

«Non smettere» disse.

Jared ubbidì. Ricominciò a pizzicare le corde, a improvvisare qualche melodia, poi si convinse e decise di suonare qualcosa che aveva composto. Mary teneva gli occhi socchiusi, e, con espressione rilassata, dondolava la testa al ritmo della melodia.

«Jared» disse ad un certo punto, aprendo gli occhi, «è meravigliosa. Farai grandi cose con la tua voce.»

«È quello che voglio fare» rispose Jared, girandosi verso di lei, «ma ho paura di non riuscirci.»

«Se non ti convinci, sarà questa semplice paura a portare via il tuo sogno.»

«Come faccio?» chiese Jared. « Anche se andassi a Los Angeles stesso, come posso essere sicuro di riuscirci?»

Quella ragazza non lo conosceva. Come poteva essere così certa di quello che stava dicendo, delle sue potenzialità?

Mary soppesò le parole prima di rispondere.

«La tua voce è una di quelle che fa stare bene le persone. Fa stare bene me, e nessuno può sapere quanto ho provato a stare bene in altri modi, prima» disse poi sinceramente, spiazzandolo. «Tieniti stretto il tuo sogno e punta verso l’alto, Jared, abbatti tutti i muri di cemento contro cui dovrai lottare. Credici. Io ci credo.»

Ci fu qualcosa, nelle sue parole (forse il tono con cui le pronunciò) che lo convinse.

Stettero in silenzio per qualche secondo, poi Jared esclamò, con un mezzo sorriso: «Allora scriverò una canzone su di te».

«Cosa? Oh, Jared, non avresti niente da scrivere. Sono banale.»

«Una con una mente così aperta non può essere banale. Tieni un libro su Buddha nello zaino, quante altre ragazze lo fanno? No, non sei banale» disse Jared. «E poi io sono un tipo strambo con molta fantasia, troverò qualcosa da scrivere.»

Lei borbottò un divertito: «modesto!», poi lanciò un occhiata alla borsa, qualche metro più in là.

«Però devi promettermi una cosa, anche se ti sembrerà assurda» disse.

«Dimmi.»

«Non rivelare a nessuno di questa me.»


«Questa te? Non capisco» ammise Jared, inarcando le sopracciglia.

«Questa me sentimentale, intendo. Non fare cadere la mia facciata davanti agli altri, o non riuscirei più a ricostruirla» disse. «Non farmi crollare, Jared. Dev’essere il nostro segreto. Promesso?»

Gli occhi chiari erano puntati lontano da lui, le labbra dischiuse, il volto chino e pallido semicoperto dai lunghi capelli biondi, la sua fragilità finalmente venuta a galla. Ancora non lo sapeva, ma avrebbe cercato le sue labbra, i suoi occhi, i suoi capelli nelle altre donne per molti, molti anni.

E dopo qualche attimo disse: «Promesso».

 

Anni dopo, dopo che le parole di lei furono diventate realtà e migliaia di persone ebbero cominciato a ringraziarlo perché la musica della band di cui faceva parte le aveva salvate, quando quell’intervistatore gli chiese se Mary fosse una metafora o una persona specifica, Jared Leto ricordò la promessa che aveva fatto, e non ebbe dubbi nel rispondere.

«Definitivamente una metafora.»

 


Finita. Questa fanfiction può essere definita conclusa, in questo modo.
Ne approfitto per dire che questo finale – come possiamo definirlo? – “zuccheroso” o “ottimista” cozza con i tre capitoli precedenti, ma al contrario del mio solito volevo far finire questa storia con un mezzo happy ending (‘mezzo’ perché in ogni caso Jared e Mary non si sono mai più rivisti, almeno nella mia fantasia): Mary si è salvata, le sue parole si sono avverate e Jared – a cui finalmente ho dedicato un po’ di spazio, ché è stata Mary fino ad ora la vera protagonista – mantiene ancora la sua promessa.
Vorrei davvero sapere cosa ne pensate – sì, lettori silenziosi, anche voi. Mi farebbe davvero, davvero piacere.
Last but not least, ringrazio (un momento, mi rimbocco le maniche): in primo luogo Terry, la mia gemella separata alla nascita, che ha letto questa fanfiction per prima, apprezzandola e incoraggiandomi a pubblicarla; poi, senza alcun ordine, le adorabili twitteriane che hanno seguito la storia: Anto, Saya, Simona, Jade__Echelon, taccah, Fran, Marija, ElectraGaunt, desiiish; tutti i contatti (Echelon e non) di Facebook che hanno voluto leggerla (Roberta, Alexander, Lucia, Sabrina, Rosanna, Shelter Lùcinda L., Deborah, Ilaria, Giada, Serena, Milla, Laura, Sara, Maria, Debora, Jenny); infine, gli utenti che hanno seguito questa fanfiction, chi l’ha messa tra i preferiti e chi l’ha semplicemente letta in silenzio (ecco, voi: fatevi vivi, su, recensite!).
Ehm, potrei aver dimenticato qualcuno, in caso fatemelo notare!
Grazie a tutti, davvero.
Alla prossima.
thenightsonfire / lanuitestenfeu su Twitter, per chi volesse chiacchierare con me.

 

 

 

 

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