The Rose Red

di Alice Morgan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - prima parte - Premonizioni ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 - seconda parte - Come sabbia tra le dita ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 - prima parte - Salvami ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2 - seconda parte - Lasciar correre ***
Capitolo 6: *** Capitolo 3 - prima parte - Non essere soli ***
Capitolo 7: *** Capitolo 3 - seconda parte - Blaterando assurdità ***
Capitolo 8: *** Capitolo 4 - prima parte - Lacrima dopo lacrima ***
Capitolo 9: *** Capitolo 4 - seconda parte - Libertà ***
Capitolo 10: *** Capitolo 5 - prima parte - Fuoco e fiamme ***
Capitolo 11: *** Capitolo 5 - seconda parte - La bocca del Diavolo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


The Rose Red
di Alice Morgan (C)
 
Tutti i diritti riservati.
 
 
Just remember, in the winter
Far beneath the bitter snows
Lie the seed, that with the sun's love
In the spring, becomes the rose.
The Rose - Janis Joplin
 
L'inversione di aggettivo e sostantivo nel titolo è voluta.
 
 
***
 
Prologo
 
Ariel si alzò con le gambe ormai in fiamme e con una spinta di fianchi si costrinse ad avanzare giù per il sentiero scosceso. Le facevano male i polmoni e in bocca sentiva lo strano sapore del sangue. Non aveva idea di dove stesse andando e il debole chiarore della luna non le permetteva di vedere gran ché. D’altra parte, la sua vista iniziava a cedere, un po’ per la stanchezza, un po’ per la perdita di sangue provocata dal profondo squarcio sulla spalla destra. Obbligò se stessa a correre per quanto il suo corpo potesse concederglielo. I piccoli arbusti ai suoi piedi le graffiavano i polpacci e si sentiva come se ogni nervo, ogni particella della sua pelle, non potesse provare nient’altro che non fosse dolore. Iniziò a tremare e forti singhiozzi le rimbombarono nel petto. Il ronzio che sentiva in testa era assordante tanto da riuscire a cancellare ogni altro rumore, compreso quello dei suoi passi. Sentì qualcosa di caldo bagnarle le guance e si rese conto di stare piangendo. Le lacrime non fecero altro che offuscarle ulteriormente la vista. Tutto ciò era terribilmente straziante. Pensò di lasciarsi andare, di cadere, di stendersi per terra e aspettarla. Perché se c’era una cosa che ancora i suoi sensi riuscivano a percepire era la nausea, la raccapricciante consapevolezza che era vicina. La Morte. E questa volta non si trattava di giovani ragazze in vestiti succinti nascoste in vicoli sporchi, né tanto meno dei senza tetto che passavano le notti fra le strette strade che tagliavano, come piccoli fiumi, i vecchi magazzini abbandonati vicino casa sua. Ne era sicura, come era sicura del fatto che avesse gli occhi neri e non fosse brava in matematica. Stava morendo. Le balenò in testa un’ immagine: le gambe ormai insensibili che si afflosciavano, le ginocchia che toccavano il terreno ghiaioso, la pelle che si lacerava sotto di esse. Il piccolo corpo martoriato di una ragazza che si accasciava in mezzo a un mare di piccole piante spinose. Un conato di vomito la travolse quando l’agghiacciante certezza di essere in terra la investì come un carro armato. Era finita. Chiuse gli occhi in attesa di non sentire più niente, di porre fine al dolore. In mezzo al trambusto che aveva in testa percepì un rumore: passi. Quasi sospirò dal sollievo. Aveva smesso di tremare, ormai non le rimaneva nient’altro da fare che attendere. Mentre provava a controllare il respiro cercò di non pensare al suono dei passi che si facevano sempre più vicini e all’odore di morte che ormai le intasava ogni poro della pelle.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - prima parte - Premonizioni ***


© 2012 Alice Morgan. Tutti i diritti riservati.


Capitolo 1 – prima parte
Premonizioni
 

 

La morte è l'assoluta fantasia di ogni uomo.
Helen Morrison

 
 
 
Quel pomeriggio di febbraio Ariel era certa soltanto di tre cose. Primo, pioveva a dirotto da due giorni. Secondo, l’ultimo compito di trigonometria le era andato da schifo. Terzo, sua madre l’avrebbe ammazzata. Era ormai un anno che continuava a ripeterle quanto il suo rendimento scolastico fosse di vitale importanza per entrare in una buona università e Ariel, neanche fosse un mago, era riuscita a far svanire le sue possibilità di avere la sufficienza in matematica in meno di dieci minuti.
In effetti, sapeva che il test le sarebbe andato male prima ancora che il professor Campbell glielo consegnasse. Non c’era da stupirsi, in fin dei conti, giacché aveva trascorso il pomeriggio precedente riposando sul divano, anziché studiando.
L’uomo panciuto aveva attraversato la sinistra del suo banco appoggiandovi il foglio bianco degli esercizi. L’eco del fruscio che l’aveva accompagnato sembrava volerne sottolineare l’innocenza, ma le apparenze ingannano e si sa. Il professor Campbell, per esempio, non era una persona antipatica, nonostante la materia che insegnasse potesse suggerire l’esatto contrario. Prima di guardare la verifica, Ariel aveva fatto un gran sospiro.
Tredici esercizi.
Davanti ai suoi occhi le equazioni e disequazioni di trigonometria sembravano riderle in faccia. Aveva afferrato penna e foglio cercando di concentrarsi il più possibile, ma numeri e incognite non le suggerivano nulla.
Tabula rasa.
Come sempre, del resto.
Così aveva chiuso gli occhi e si era alzata dalla sedia, pronta per la consegna. Aveva incrociato lo sguardo poco sorpreso del professor Campbell - non era la prima volta che la vedeva consegnare un compito di matematica in bianco – che si era limitato a prenderle il foglio dalle mani e ad acconsentire, quando Ariel gli aveva chiesto di poter uscire dall’aula. Non che dovesse fare qualcosa, di fuori, ma l’osservare i suoi compagni indaffarati non le era parsa una prospettiva allettante. Ovviamente, nel momento esatto in cui si ritrovò sotto il diluvio, le sembrò una pessima idea.
Erano le due del pomeriggio e lo stomaco le brontolava violentemente. Sarebbe voluta entrare nel bar più vicino per stare al coperto e ingozzarsi di cioccolata, crogiolandosi nella disperazione, ma non aveva con sé un soldo.
Iniziò a frugarsi nelle tasche del cappotto alla ricerca del cellulare. C’era una sola persona alla quale avrebbe potuto rivolgersi in una situazione come quella.
L’unica persona, al di fuori della sua famiglia, cui voleva veramente bene.
L’unica che la capiva, che l’ ascoltava e che la trattava con dolcezza.
L’unica che …
«Che diavolo vuoi, Ariel?».
Ariel era talmente persa nei suoi pensieri che per un attimo rimase a chiedersi cosa stesse facendo con il telefono in mano.
«Ciao, Zac. Sto bene, grazie per avermelo chiesto» disse, sarcastica. «E tu? Stai meglio?».
L’uomo all’altra parte del cellulare grugnì. Evidentemente no.
Invece di rispondere alla domanda chiese: «Com’è che non sei a scuola?».
Ariel attese. Non voleva dire al suo migliore amico il perché non fosse in classe, né tanto meno raccontargli dei suoi disastrosi voti in matematica. Non che Zac non fosse a conoscenza del suo pessimo talento con i numeri, però farlo preoccupare non le sembrava una grande idea.
Zac riprese a parlare: «Ho capito, non vuoi dirmelo. Senti, non per essere scortese, ma stavo dormendo e … » sbadigliò, come a voler dimostrare la veridicità delle sue parole, « … beh, non è che sia proprio un fiore in questo momento, quindi, se non ti dispiace …».
«Posso venire a trovarti?», si affrettò a chiedere Ariel. Il ragazzo non disse nulla. Ariel lo conosceva abbastanza bene da potersi figurare la scena di lui, steso sul divano, mentre il suo cervello elaborava una risposta abbastanza gentile – o crudele, a seconda della giornata – per dirle di no: Zac non amava avere gente in casa. Ma con sorpresa della ragazza, disse: «Okay, vieni pure. Ma ti avverto, se domani hai la febbre la colpa non è mia». Riattaccò.
Non importa, pensò Ariel, la febbre l’avrei presa comunque, bagnata fradicia come sono.
 

***

 
La casa di Zac era fuori città, situata al limitare dei grandi boschi. Ariel vi aveva messo piede sì e no tre volte nei suoi diciassette anni e ritornarvici era sempre un po’ strano.
Zac viveva da solo con la nonna, ma quest’ultima, ormai troppo anziana, non era più in grado di prendersi cura di lui. D’altra parte, la ragazza sospettava che l’amico non avesse mai avuto veramente bisogno di aiuto: lo conosceva da una vita ed era sempre stato in grado di badare a se stesso. Ripensava con nostalgia alle volte in cui giocavano assieme a nascondino nei boschi o facevano a gara a chi inventava la storia di fantasmi più terrificante. Alcune le ricordava ancora.
La ragazza fu distolta dai suoi pensieri dal rumore dell’autobus che si fermava, imperterrito e incurante del mal tempo, proprio davanti a lei e apriva le sue porte.
«Ciao, Carl», disse all’autista mentre si issava sugli scalini.
Era un uomo di mezza età, basso e tarchiato e strani ciuffi di capelli color topo gli ricoprivano a chiazze la nuca. Ad Ariel non era mai andato molto a genio, ma sua mamma le diceva sempre che era buona educazione salutare anche chi non ti sta molto simpatico.
Carl rispose cimentandosi in un sorriso senza denti: «Ciao, Ariel. Finito prima oggi a scuola?». La ragazza si maledisse in silenzio per aver dato nell’occhio, ma si limitò a dire: «Già. Sai com’è … sciopero degli insegnanti». Prima che l’autista potesse chiederle qualcos’altro, prese posto in uno dei sedili in fondo e si calò le cuffie del suo vecchio mp3 sulle orecchie.
What I’ve Done dei Linkin Park rendeva muti tutti i suoni che la circondavano – i pettegolezzi delle vecchie signore sedute davanti, lo scrosciare dell’acqua piovana sui finestrini, le imprecazioni soffocate di Carl al volante – eppure era quasi certa di riuscire a percepire il forte brontolio che proveniva dal suo stomaco.
Con un po’ di imbarazzo, si accorse di stare morendo di fame. Frugò nello zaino alla ricerca di qualcosa lontanamente paragonabile a un pasto, ma tutto quello che ne uscì fu una caramella mou spiaccicata e dall’aspetto non propriamente commestibile. Non era molto, ma Ariel non era di certo una ragazza che si potesse definire schizzinosa. Mentre mangiava, pensò che almeno, una volta arrivata a casa di Zac, avrebbe potuto farsi offrire qualcosa da mettere sotto i denti.
Persa fra le immagini di grandi tazze di cioccolata calda, rimase quasi senza fiato quando una forte scossa di adrenalina le percorse tutta la schiena. Sapeva esattamente cosa sarebbe successo di lì a pochi secondi, ma, quando accadde, fu colta comunque alla sprovvista.
Era come se avesse fatto la doccia nell’acqua gelata; fitte di freddo e panico le attraversarono il corpo da cima a piedi. I Linkin Park tacquero, mentre nella sua testa prendeva spazio un forte ronzio e i contorni di Carl, delle vecchiette e dei sedili si facevano via via sempre più sfocati. Iniziò a mancarle l’aria e ci mancò poco, quando decise di alzarsi, che cadesse per terra. Aveva la nausea e avrebbe voluto vomitare nel grande cappello di piume, vecchio di secoli, che indossava una delle donne davanti a lei. Si tolse con uno strattone le cuffie dell’mp3 e, senza troppe cerimonie, le lasciò cadere con un tonfo.
La donna piumata, si girò per fissarla e per un momento assunse un’espressione che era un misto tra preoccupazione e terrore. «Stai bene, cara?», le chiese con un tono di voce che le ricordava vagamente sua madre. Ariel avrebbe voluto risponderle, ma un brivido raccapricciante la scosse impedendo alle parole di uscirle di bocca.
Stava sudando freddo e alcune ciocche dei suoi rossi capelli le si erano appiccicate in modo fastidioso alla fronte.
Conosceva troppo bene quella sensazione per non essere investita dal panico. La prima volta che l’aveva provata aveva cinque anni e stava guardando suo padre mentre veniva investito da un SUV a tutta velocità. Da allora non ci aveva messo molto a capire cosa stesse a significare. Per le vie sporche che si srotolavano dal centro cittadino, persino negli ospedali … ogni volta che qualcuno stava per morire, lei lo percepiva. A volte le sembrava addirittura di sentire il puzzo della Morte che giungeva silenziosa, pronta a spegnere la vita al malcapitato di turno: sospettava da un po’ che a provocarle i conati di vomito fosse proprio quell’odore nauseante.
Quasi non si accorse di aver raggiunto Carl e di avergli appoggiato la mano sinistra sulla spalla. Probabilmente gli stava facendo male perché l’autista si voltò verso di lei con il dolore disegnato in viso. «Ariel cara, che ne dici di tornare a sederti?», chiese sinceramente a disagio. Era ovvio che lo strano comportamento della ragazza lo disturbava. Ariel cercava di mettere a fuoco il profilo dell’uomo, ma con scarsi risultati. Per un momento, ebbe quasi il folle impulso di scoppiare a ridergli in faccia, tanto sembrava sorpreso.
«Ariel, mi stai facendo male! Ahi! Si può sapere cosa ti prende?». Carl era visibilmente e insolitamente irritato, mentre alzava la voce.
Ariel chinò il viso verso il suo, quasi volesse baciarlo, e con tutto il fiato che aveva in gola si limitò a sussurrargli all’orecchio: «Corri». Poi chiuse gli occhi e si accasciò sul sedile libero più vicino, incurante degli sguardi perplessi che la circondavano.
Insieme al ronzio assordante che aveva in testa, si accavallava una nuova voce che, per quanto potesse essere semplice e insignificante, in quel momento sembrava avere la potenza di un urlo.
Zac. Zac sta per morire.



Note dell'autore: 
Oh, beh, direi che la prima bomba l'ho sganciata :)
Ricapitolando: Zac è in pericolo e Ariel sembra essere l'unica a saperlo per via del suo potere. Riuscirà ad opporsi al destino dell'amico? E, nel caso contrario, cosa accadrà alla nostra protagonista?
Scopritelo nella seconda parte!

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Capitolo 3
*** Capitolo 1 - seconda parte - Come sabbia tra le dita ***


© 2012 Alice Morgan. Tutti i diritti riservati.

Capitolo 1 – seconda parte
Come sabbia tra le dita

 
 

La morte con tutta probabilità è la più grande invenzione della vita.
Steve Jobs
 

 

 
Il parere che Ariel aveva di Carl mutò drasticamente nei cinque minuti successivi. Se prima la ragazza lo trovava solo insulso e spregevole, adesso credeva proprio di odiarlo: nonostante il suo avvertimento e sebbene gli avesse fatto chiaramente capire di aver fretta, l’autista sembrava procedere in mezzo al traffico più lento che mai. Avrebbe voluto urlargli contro, dirgli di accelerare, di prendere una scorciatoia o qualcosa del genere, ma sapeva chiaramente di doversi concentrare su altro: la casa di Zac distava dieci minuti a piedi dalla fermata dell’autobus e Ariel avrebbe dovuto fare un bel pezzo di strada sotto la pioggia, una volta scesa. Con l’angoscia che a mala pena le permetteva di respirare, era conscia del fatto che sarebbe stata troppo terrorizzata anche solo per fare una ventina di passi.

Quando finalmente Carl si fermò e aprì le porte, rivelando il panorama scabro e verdastro dei boschi, la ragazza quasi si lanciò verso l’uscita. Non si sforzò neanche di rispondere all’autista, quando questo la salutò con un debole ciao.
In prossimità degli alberi il tempo sembrava, per quanto possibile, ancora più brutto e deprimente. Una debole scia di nebbia si era depositata alla base dei tronchi e un vento umido e freddo scompigliava i capelli già spettinati di Ariel.
Ancora attanagliata nella morsa della paura e del panico, la ragazza si costrinse a proseguire verso il piccolo cancello di ferro battuto, oltre il quale si dipanava lo stretto sentiero ghiaioso che portava a casa di Zac. Mentre allungava una mano per aprire il battente, sentì gli ultimi brandelli di coraggio che le rimanevano scivolarle di dosso, come sabbia fra le dita. Se da una parte desiderava con tutta se stessa fare dietrofront e darsela a gambe levate, il senso di dovere e l’agghiacciante preoccupazione che provava per l’amico, le davano la forza per andare avanti. Più avanzava, però, e più la nausea e il dolore si impadronivano di lei. Era la prima volta che si sentiva così disgregata e disfatta, quasi come se fosse sul punto di spaccarsi in due.
Pensò per un momento che la cosa più giusta da fare fosse chiamare qualcuno e chiedere aiuto.
Ma per cosa, poi? Come avrebbe spiegato un fatto così strano e particolare?
Ehi, gente, sento che il mio migliore amico sta per morire. Mi aiutate?
No.
Non le avrebbero creduto, né tanto meno dato retta. Nessuno lo avrebbe fatto. Persino sua madre l’aveva guardata come se fosse pazza quando aveva provato ad accennarle del suo dono particolare. Era una situazione che doveva sbrigare da sola.
La ghiaia sotto i suoi piedi scricchiolava man mano che procedeva lungo il sentiero e il respiro le si faceva sempre più pesante e irregolare. Maledisse se stessa per non essere nata più coraggiosa, quando una terribile scossa di panico la fece tremare forte, costringendola a piegarsi in due dal dolore.
La casa di Zac era a una quindicina di metri di distanza, le finestre chiuse e l’intonaco giallo pallido vecchio di anni che veniva via, quasi la pioggia fosse acido e avesse il potere di scioglierlo.
Ariel, ferma e ansante, non riusciva a trovare la forza per proseguire. Si sentiva male come non lo era mai stata e più si avvicinava alla meta, più la nausea e il dolore aumentavano. Era così frastornata che quasi le sfuggiva il motivo per cui si trovasse lì. Impose a se stessa di far luce nel buio che le annebbiava la mente e cercò di concentrarsi sull’immagine dell’amico: la zazzera di capelli chiari quasi sempre in disordine, il sorriso cordiale e sarcastico, gli occhi verdi acqua luminosi …
Doveva salvarlo e doveva farlo in fretta: gli voleva bene e non poteva lasciarlo solo mentre affrontava la Morte.
Con un colpo di reni si costrinse a procedere lungo la strada e a riprendere il controllo di se. Sapeva che era necessario sbrigarsi perché, per quanto sapesse di dover aiutare Zac, una vocina sempre più potente e inarrestabile la pressava e le ordinava di scappare, riducendo la sua forza di volontà in briciole.
 

***


Quasi senza accorgersene, qualche minuto dopo, impugnava tremante il pomello della porta della casa. Il suono dello scrosciare piovano era forte e sembrava sovrastare qualsiasi altro rumore. Gli alberi dai tronchi nodosi conferivano al paesaggio un’aura quasi claustrofobica, le fronde alte e verdi che andavano a formare una cappa opprimente sopra la testa di Ariel.
La ragazza suonò il campanello senza troppa convinzione. Non si aspettava di vedere l’amico correre ad aprirle la porta, ma quando ciò non accadde, venne comunque investita da una nuova e terribile ondata di panico.
La mano che teneva sul pomello si irrigidì. Devo entrare, si disse, in un vano tentativo di farsi coraggio. Devo farlo per Zac.
Chiuse gli occhi, inspirò profondamente e con uno strattone abbassò la maniglia. Lo schiocco con cui la porta si aprì la fece sobbalzare.
Troppo terrorizzata per spalancare l’anta, passò in rassegna tutti i pensieri che aveva in testa con l’unico scopo di trovarne uno che le desse il coraggio necessario per impedirle di tornare indietro. Non voleva pensare al peggio; in realtà, non voleva immaginare neanche lontanamente quello che l’aspettava dopo la porta.
Non seppe mai dove trovò la forza per entrare in casa, ma quando lo fece se ne pentì quasi immediatamente. La paura che aveva provato mentre percorreva il vialetto non era niente in confronto al panico che le gelava il sangue in quel momento. Le orecchie le ronzavano più forte che mai e sentiva le gambe molli, quasi fossero di gomma.
Dentro tutte le luci erano spente e un buio intenso intasava l’atrio. Se il tempo fuori fosse stato migliore, probabilmente Ariel sarebbe riuscita a vedere più distintamente i contorni delle cose che la circondavano.
Strizzò gli occhi: una piccola cassapanca di compensato stava immobile alla sua destra, sovrastata da una moltitudine di minuscoli oggetti. Diversi tappeti affollavano il corridoio davanti a lei. Uno di questi era stato spostato di recente. Un brivido le percorse l’intera schiena, facendola sussultare.
«Zac?», chiamò. «Sono arrivata!».
Silenzio. «Zac?».
Cercando di fare meno rumore possibile, avanzò nel piccolo corridoio puntellandosi con una mano sul muro. Sulla destra si apriva un salotto spoglio: a riempirlo, solo un vecchio divano in pelle, qualche poltrona e un piccolo tavolino sul quale era appoggiato un telefono. Probabilmente Zac aveva risposto alla sua chiamata da lì.
Ariel sentiva alcune gocce di sudore scivolarle sulla nuca e imperlarle la fronte, mentre piccoli brividi di terrore le percuotevano il corpo.
«Zac?», provò di nuovo a chiamare. Niente.
L’eco di un fruscio ruppe il silenzio tombale che aleggiava nella stanza. Ariel si voltò in direzione del rumore, il cuore che sembrava sul punto di scoppiarle. Una figura nascosta nell’ombra si sollevò imponente da dietro il divano. Era un uomo, senza ombra di dubbio – lo dimostrava la stazza delle spalle – e indossava una lunga veste che gli cadeva liscia e fluente sino alle punte dei piedi. Aveva il cappuccio tirato e scorgerne il volto era impossibile.
Fu come diventare un pezzo di ghiaccio. Ariel non sentiva più niente, né il battito cardiaco che pareva essere diventato un tamburo, né il respiro che le si era fatto irregolare e affannoso.
Gli occhi spalancati dall’orrore, cercò con lo sguardo la sagoma dell’amico, senza trovarla. Possibile che sia riuscito a scappare?
Mentre la nausea rimontava, più forte che mai, una nuova e terribile consapevolezza la risucchiava nel baratro della disperazione: si era sbagliata.
Non è Zac che vuole. Sono io.
L’istinto di conservazione fu più forte di qualsiasi altro timore.
Le gambe sembravano non rispondere ai suoi comandi quando si lanciò come un fulmine verso la porta da cui era entrata.
 
 
Note dell’autore:
Questa seconda parte è stata particolarmente difficile da scrivere. Ho dovuto riguardarla diverse volte per ritenermi lontanamente soddisfatta. Spero che a voi non dispiaccia :)
Ma bando alle ciance! Facciamo il punto della situazione: Ariel si è sbagliata; non è Zac ad essere in pericolo, ma lei. Riuscirà a cavarsela? A chi potrà chiedere aiuto? E che fine ha fatto Zac?
Scopritelo nel prossimo capitolo!

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 - prima parte - Salvami ***


© Alice Morgan
Tutti i diritti riservati.

 
 
Capitolo 2 – prima parte
Salvami

 
 

La morte non muore mai.
Delia Viscusi

 

 
 
La pioggia la stava inzuppando da capo a piedi e le sue gambe erano fredde e pesanti, ma ad Ariel non importava affatto. Mentre correva disperata, l’unica cosa cui riusciva a pensare era che doveva allontanarsi il più possibile da quella casa maledetta. Incredibile, come nel giro di pochi minuti il prezioso ricordo di quel luogo si fosse trasformato in una sottospecie di incubo. 
Il ronzio che le rimbombava in testa la disorientava: le pareva di essersi sintonizzata su un canale fuori onda, i sensi assopiti e le vertigini che sembravano essere diventati di routine nell’ultima mezzora. Non riusciva a percepire nient’altro che non fosse il suono assordante che le fischiava nelle orecchie. Le stuzzicava la memoria, quasi volesse suggerirle qualcosa, come una voce informe in attesa di assumere consistenza. E le ricordava esattamente quello che ogni cellula e particella del suo corpo le comandavano di fare.
Scappa.
Non si era resa conto di aver chiuso gli occhi e di aver iniziato a piangere. Le lacrime si confondevano con le gocce di pioggia, mentre la corsa frenetica nascondeva il tremore degli arti. Oltre ai rumori fragorosi che aveva in testa, adesso, avvertiva altri suoni, meno difficili da decifrare: passi.
L’uomo incappucciato la stava inseguendo. E, a giudicare da quanto distintamente riusciva a sentirlo, non era molto lontano.
Il panico, quasi come fosse una scossa di corrente elettrica, le attraversò tutta la spina dorsale, inducendola ad aprire gli occhi e a correre più veloce.
Si era inoltrata nei boschi e ormai non distingueva più il luogo in cui si trovava: a guidarla era solo l’istinto di conservazione che aveva tenuto stretto per tutti i suoi diciassette anni.
Le fronde degli alberi più alti creavano una sorta di cupola sopra di lei e gli arbusti ai suoi piedi le graffiavano le gambe. Si sentiva in trappola. E, forse, lo sarebbe stata davvero se non avesse riconosciuto le Grotte.
Lei e Zac non ci andavano spesso, e, apparentemente, non parevano essere gli unici: non in molti gradivano addentrarsi nelle piccole e buie cavità rocciose; forse perché erano situate nella parte più estrema e desolata della città, o forse a causa della perenne foschia che vi aleggiava attorno. Come se non bastasse ciò a tener lontane le persone, Ariel aveva sentito dire diverse volte che la zona era maledetta, infestata da strane presenze; che ogni tanto qualcuno spariva dopo esservi calato dentro. Il vecchio Sam, il suo vicino di casa, credeva a tutte le scemenze riguardanti quel posto ed era sempre ben disposto ad assillarla con le sue storie quando che ne aveva l’occasione. L’aveva così tormentata, che, per certi versi, era quasi riuscito a convincerla. 

Ma in quel momento incontrare un qualche tipo di spirito le sembrava il minore dei mali: portava ancora addosso il puzzo di morte e la nausea minacciava di farla vomitare. Per non parlare del fatto che era inseguita da un potenziale assassino.
Le Grotte sembravano ancora più inquietanti del solito, avvolte nella coltre di nebbia e pioggia di febbraio, eppure in quel frangente apparivano come la cosa più somigliante a un rifugio sicuro.
Ariel ne avvistò una bocca non molto grande e vi entrò senza troppi indugi. Non si soffermò a pensare ai pericoli cui sarebbe potuta incorrere una volta dentro. Persino l’essere aggredita e fatta a pezzi da un grizzly furioso era una prospettiva più allettante rispetto a quella che il suo istinto le suggeriva. E quest’ultimo le diceva chiaramente che l’uomo incappucciato era molto più pericoloso di un qualsiasi orso arrabbiato.
Una volta nella grotta, ad accoglierla fu soltanto un’ altra ondata di terrore. Lì dentro faceva, se possibile, ancora più freddo che in mezzo ai boschi e l’unica fonte di luce, proveniente dall’esterno, metteva in risalto alcuni strani graffiti nelle pareti rocciose. Pensò che tutto sommato quei luoghi venivano ancora frequentati da qualcuno se vi erano tracce umane all’interno.
Le ginocchia facevano fatica a reggerla e, quando inciampò in uno spuntone di pietra, le gambe l’abbandonarono, facendola crollare sul terreno roccioso. Sentì la stoffa dei jeans lacerarsi, mentre mani e ginocchia si graffiavano e una piccola traccia del suo sangue rimaneva impressa sul suolo. Ariel avrebbe voluto gridare aiuto, ma sapeva benissimo quanto le Grotte fossero lontane da qualsiasi cosa o persona la potesse udire.
Appoggiò la schiena contro la parete, chiuse gli occhi e cercò di regolare il respiro, ormai divenuto pesante. Il sapere l’uomo incappucciato a pochi passi da lei, la terrorizzava. A peggiorare le cose c’erano il mal di testa che pareva avere tutte le intenzioni di farla svenire e i singhiozzi provocati dal pianto.
Quasi senza accorgersene si ritrovò a serrare i denti e a stringersi le mani in grembo. Tremava così tanto che faticava a muoversi: ogni muscolo del suo corpo era teso e pronto a scattare, ma anche troppo debole per effettuare le più semplici azioni.
Le lacrime che le rigavano il volto come un fiume in piena, iniziò a pregare. Ariel non lo faceva da tempo: non era particolarmente credente e l’idea di affidarsi a qualcuno che non poteva nemmeno vedere non le era mai piaciuta. Eppure in quel momento le sembrava quasi la cosa giusta da fare.
Fa che non mi trovi, fa che non mi trovi!
Qualcuno mi salvi, dannazione!
Aiuto.
Aiuto.
Aiuto …

***
 

Accadde l’impensabile.
Lentamente, quasi senza accorgersene, panico e nausea le scivolarono di dosso e smise di tremare. Le voci che aveva in testa si decisero finalmente a tacere e all’adrenalina che le circolava in corpo si sostituì una lieve sensazione di vertigine dovuta al suo improvviso cambiamento d’umore. Con sua somma meraviglia si accorse di non provare niente: tutto, dalle sue emozioni al suo stato fisico, era tornato normale. Ariel dubitava persino di aver avuto realmente paura mentre attraversava i boschi, arrivava a casa di Zac e poi scappava. Ogni cosa le sembrava così surreale …
Attraverso le palpebre chiuse degli occhi quasi non si rese conto della repentina variazione di luce all’esterno.
Per un momento pensò che finalmente il brutto tempo si fosse deciso a lasciar spazio al sole, ma poi il rumore delle gocce di pioggia che cadevano sul terreno le fece accantonare l’idea. Aprì gli occhi.
Tutto quello che il suo cervello riuscì a cogliere fu l’incombente e caldo muro di fuoco che le si parava davanti.

 
***

 
Incendio.
L'uomo incappucciato ha appiccato fuoco all'intera foresta.
Ariel era ancora seduta contro la parete rocciosa della grotta e osservava il bagliore che le si parava davanti con un misto di terrore e meraviglia. Per quanto fosse consapevole di essere spacciata, di stare per morire di lì a pochi secondi bruciacchiata dal fuoco incombente, l'unica cosa di cui si rese realmente conto fu che le fiamme che le sfavillavano di fronte erano piacevolmente fredde al tatto. Quasi contro la sua volontà, si ritrovò ad accarezzarle, a giocarci con le dita. Per un certo verso quello strano contatto era confortante. Se la Morte stava venendo a prenderla, non avrebbe potuto farlo in modo migliore. Niente nausea, niente voci, niente di niente. Chiuse gli occhi mentre quella sensazione di sicurezza e protezione la invadeva da cima a piedi.
I suoi polpastrelli sfiorarono delicatamente una superficie morbida e liscia - non di certo le pareti ruvide e scabre della grotta - e per un momento Ariel si chiese se le fiamme potessero avere consistenza. Spalancò gli occhi.
Nel giro di qualche secondo, non si sa come, l'incendio era scomparso e al suo posto era rimasta una leggera luce verdastra. Le sue dita, anche loro ricoperte in qualche modo da quello strano bagliore, erano strette intorno a del tessuto. Quello di una soffice veste scura. La stessa palandrana che indossava l'uomo incappucciato e che adesso avvolgeva l'individuo che le stava davanti.
Ariel rimase per un momento immobile, la bocca spalancata, sentendosi completamente inerme di fronte alla confusione crescente e alla sensazione di sicurezza che l'abbandonava istante dopo istante. Poi lasciò andare il lembo del vestito che teneva in mano e barcollò all'indietro sbattendo violentemente la nuca contro la parete della grotta. Ma poco le importava del dolore fisico, perché una nuova emozione, più forte e più prepotente, le scorreva nelle vene. 
Rabbia.
Ora che nausea e panico non si facevano più sentire, le sembrava quasi di poter trovare la forza di urlare e, perché no, anche di muoversi.
Con uno slancio, si alzò in piedi e, invece di scappare, questa volta decise di affrontare la situazione. L'uomo che le stava davanti era suo nemico e per nessuna ragione al mondo gli avrebbe permesso di farle del male. Non adesso che non era attanagliata nella morsa del terrore e della paura che la costringevano alla fuga. Questa volta sarebbe stata coraggiosa.
Si scagliò contro l'uomo con la veste nera e, nel farlo, cercò di ricordare quelle poche mosse del corso di autodifesa che aveva imparato. La mano chiusa a pugno, affondò con tutte le sue forze le nocche nel naso dello sconosciuto.
Crack.
L'urlo agghiacciante che seguì la colse di sorpresa. Non voleva riconoscerlo, ma le sue capacità di combattimento si erano sempre dimostrate mediocri. E far urlare qualcuno dopo averlo colpito era più di quanto potesse sperare.
E in realtà era proprio così. 
Perché a gridare dal dolore era stata lei. Non l'uomo che, pur toccandosi convulsamente il setto nasale, le era rimasto fermo e impassibile di fronte.
La mano le pulsava e avrebbe giurato di essersi rotta qualche ossa. Me ne occuperò dopo, pensò. 
L'adrenalina che le scorreva nelle vene le comandava di colpire di nuovo. Si massaggiò le dita un'ultima volta e ripartì all'attacco.
Non seppe mai se il colpo sarebbe andato a buon segno, perché in quel momento l'uomo dalla veste nera parlò. 
O meglio, le urlò contro.
«Cosa diavolo credi di fare, ragazzina?», gridò. «Si può sapere che ti prende?».
La voce era indubbiamente maschile, giovane e fresca. Non avrebbe saputo dire il perché, ma non si immaginava che parlassero così gli assassini.
La mano ancora sollevata a pugno, chiese: «Come, scusa?».
L'uomo sotto il cappuccio, grugnì. «Per cosa era quello? Dico, non che mi aspettassi una festa di benvenuto, ma di solito la gente non picchia chi è venuto a proteggerla!».
Ariel era talmente confusa che la sua mente accantonò qualsiasi altro tentativo di violenza. Di cosa stava parlando?
«Pro... proteggerla?», domandò con un filo di voce. Cinque minuti fa mi stavi pedinando per ammazzarmi e ora vuoi... proteggermi? 
«Beh, mi hai chiamato tu, cosa credi. Non sarei di certo venuto se avessi saputo che mi avresti riservato questo trattamento!».
«Io non ho chiamato proprio nessuno!». La rabbia aveva cominciato di nuovo a ribollirle dentro e sembrava non vedere l'ora di esplodere. Per un certo verso, Ariel non aspettava altro che accendere la miccia che avrebbe innescato la bomba di furia che risiedeva dentro di lei. 
«Ti prego! Aiuto, aiuto», le fece il verso. «Chi credi l'abbia detto? Di certo non mi invoco da solo!».
Ariel rimase a bocca aperta. Possibile che il suo potere l’avesse ingannata?
Impossibile, si disse. Poteva sentire ancora alcune gocce di sudore imperlarle la fronte: il dolore e la paura erano stati reali. L’uomo che aveva di fronte aveva cercato di ucciderla, ne era certa. Ma allora perché l’istinto non le permetteva di captare le sue cattive intenzioni?
«Chi sei, tu?», sussurrò.
L'uomo con un gesto di impazienza si abbassò il cappuccio dal capo e si passò una mano fra i capelli. Ariel pensò che in una situazione diversa il gesto sarebbe apparso persino buffo, ma non era quello il caso. Perché il viso del ragazzo che aveva di fronte era la cosa più orribile e insieme più bella che avesse mai visto. Gli occhi grandi e grigi che la scrutavano sembravano non poter esprimere nient’altro che la verità più assoluta. E con lo stesso tono serio e pomposo che usava sua madre quando parlava del proprio lavoro, esclamò: «Che domande! Sono il tuo Genio».
 
Note dell’autore:
Quanto ho amato scrivere questa prima parte!!! Si tratta decisamente del mio capitolo preferito … e capirne il perché non è difficile :)
Chi si cela dietro questo nuovo e misterioso personaggio? E perché vuole proteggere Ariel?
Scopritelo nella seconda parte!
P.S. = Scusate immensamente per il ritardo! Non pensavo di metterci così tanto a pubblicare, ma tra scuola e impegni vari non trovavo mai il tempo :(

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Capitolo 5
*** Capitolo 2 - seconda parte - Lasciar correre ***


© 2012 Alice Morgan.

Capitolo 2 – seconda parte
Lasciar correre


 
È il destino dell'uomo, quello di morire una sola volta.
Francis Quarles

 

 
 
Ci sono cose che accadono e non te le riesci a spiegare. Devi lasciar correre e bastaIsobel, la madre di Ariel, glielo diceva sempre. Eppure la ragazza non resistette all’impulso di cercare disperatamente fra le sinapsi del suo cervello un collegamento razionale per dare un senso alle parole di quello strano ragazzo. Genio.

«Sei molto intelligente?», chiese, quasi senza pensarci.
«Mi prendi in giro?». Di certo l’espressione di Ariel non l’aiutava a dubitare del contrario: aveva l’abitudine di socchiudere le palpebre e corrugare la fronte, quando si immergeva in una riflessione. Un gesto apparentemente normale, ma che Zac trovava molto buffo per via delle fossette che le si formavano sotto le labbra. Diceva che sembrava sul punto di scoppiare a ridere anziché parere concentrata. «Qual è il problema?».
«Problema?», rispose lei. «Si può sapere chi diavolo sei?».
Il ragazzo la fissava tanto intensamente che Ariel sentì il bisogno fisico di distogliere lo sguardo e poggiarlo sulla terra ferma. Riusciva a percepire la tensione crescere tra loro due, quasi avesse la consistenza di un fluido e potesse scorrere nei loro corpi: una forza, simile all’energia elettrostatica, la trascinava senza sosta nella spirale dei suoi occhi. Era un comportamento insensato e ne era conscia, ma, guardandolo, non poteva fare a meno di ripensare a quanto si fosse sentita sicura e protetta nel momento in cui era apparso. Quasi faticava a credere che si trattasse di un assassino e, che, pochi minuti prima, la volesse uccidere.
«Okay, te lo ripeto per l’ultima volta: dimmi di cosa hai bisogno», disse l’altro, ostentando calma e continuando a fissarla con quello sguardo assurdamente grigio. La ragazza temeva di incrociarne le iridi e di non riuscire più a distaccarsene: erano troppo invasive, troppo prepotenti, quasi dietro di esse potesse risiedervi una qualche specie di calamità naturale. Se solo vi avesse indugiato più del dovuto, ne era certa, l’avrebbero trascinata con sé nel loro angolo di universo, per poi impedirle di andarsene.
«Non tenermi sulle spine», continuò il ragazzo. Non sapeva perché, ma le parve stesse cercando di tranquillizzarla, come se si trovasse di fronte a una pazza furiosa.
Sei tu quello che se ne va in giro con addosso una palandrana, razza di idiota.
Un moto di stizza la percosse. «Senti, ci deve essere stato uno sbaglio, okay? Non so davvero di cosa tu stia parlando! E ora…», disse, cercando di farsi spazio per uscire. «… se non ti dispiace, è meglio che vada. Si sta facendo tardi e devo incontrare … una persona». Credeva che fargli sapere di avere qualcuno che la stesse aspettando, impedisse al ragazzo di aggredirla, qualora non avesse avuto buone intenzioni. Era meglio non rischiare e andarsene da lì subito. Inoltre, doveva ritornare a casa di Zac per assicurarsi che stesse bene e non gli fosse capitato nulla di brutto. Nel caso contrario, non avrebbe potuto sopportare l’idea di averlo abbandonato.
Le gambe affaticate che si facevano spazio in mezzo al terreno impraticabile della roccia, si aspettava che il ragazzo avrebbe opposto resistenza. Ma quello la lasciò passare. Ne rimase stupita: quel tizio sembrava conoscerla o, per lo meno, era evidentemente convinto del fatto che lei dovesse conoscere lui, anche se il motivo di ciò le sfuggiva.
Proprio quando stava per immergersi nuovamente sotto l’acqua piovana, quello ricominciò a parlare. Adesso, però, l’osservava con un’espressione sinceramente confusa. « Davvero non hai idea di chi io sia?».
Ariel, un passo fuori dalla grotta, negò con convinzione. «No», disse. Poi si voltò per guardarlo meglio e, spinta da una curiosità cieca, chiese: «C’è qualche motivo per cui dovrebbe essere il contrario?».
L’altro chiuse gli occhi, si massaggiò la base del naso e si sedette sulla superficie dura e irregolare della pietra. «Beh, questo sì che è strano», sussurrò. «Non ha senso …».
«Cosa non ha senso?». Una voce, piuttosto petulante, insisteva nell’ordinare ad Ariel di andarsene e le solleticava ogni muscolo delle gambe spronandola a sbrigarsi. Ma un’altra parte di lei, decisamente più presente, le impediva di muoversi: continuava a ripeterle che il tizio che aveva davanti non voleva ucciderla.
Il ragazzo si limitò a sbuffare, visibilmente frustrato. Poi, improvvisamente, alzò lo sguardo su Ariel, un luccichio dorato nei grandi occhi grigi. «C’è qualcun’ altro con te?», chiese.
« No », rispose di nuovo lei, scuotendo impercettibilmente il capo.
Quello sembrò ritornare a brancolare nel buio. Tutto a un tratto si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per la grotta. Sotto la veste scura la ragazza poteva chiaramente vedere i muscoli delle braccia che si tendevano e si rilassavano, quasi fossero impegnati in una strana danza. «Non capisco!», esclamò e le puntò l’indice contro. Senza volerlo, Ariel arretrò di un passo. «Come cavolo faccio a essere qui se non mi hai invocato?». Le rivolse un’espressione sprezzante. Era sinceramente amareggiato, come se qualcosa fosse andato storto in un piano a lei oscuro. «No, certo che no!», cominciò. «Tu mi hai chiamato, eccome! Solo che …». Gli occhi che si spalancavano in preda a un terrore febbrile,  calò lentamente il braccio, mentre una nuova consapevolezza pareva stagliarsi sull’orizzonte delle sue idee per far breccia nella confusione crescente. «… non te ne rendevi conto». Lo sguardo ancora stravolto, mormorò: «Impossibile».
Ariel iniziò improvvisamente a sentire freddo. Non si capacitava neanche del motivo per cui stesse rivolgendo la parola a un perfetto sconosciuto. Si stava comportando da incosciente e sarebbe dovuta fuggire da lì il prima possibile. «Devo andarmene, mi dispiace», borbottò, poi si voltò verso l’uscita con un movimento teatrale - di cui probabilmente la sua insegnante di recitazione sarebbe stata fiera - e uscì sotto la pioggia torrenziale. Bastò una manciata di secondi perché si ritrovasse bagnata da capo a piedi.
Una mano l’afferrò per il braccio e la costrinse a voltarsi: il ragazzo l’aveva raggiunta e la teneva stretta.
«Mollami subito!», urlò in preda ad una rabbia improvvisa.
Quello che accade negli istanti successivi, la lasciò boccheggiante: una forza invisibile trascinò il ragazzo nella grotta, mentre si dibatteva e imprecava. Se non l’avesse visto con i propri occhi, Ariel avrebbe stentato a crederci.
«Stupida!», gridò quello. « Non hai idea di che errore stai commettendo!»
Ma la ragazza era arcistufa di sentirlo blaterare: aveva ascoltato già troppo. Senza degnarlo di uno sguardo, ritornò per i suoi passi.
Evidentemente, però, l’altro aveva deciso di non dargliela vinta. Si maledisse quando si ritrovò a pensare che, per lo meno, quel misterioso individuo possedeva una determinazione quasi sovraumana.
«Sei spaventata a morte, non è così?», sbraitò.
Fu come se l’avessero pugnalata in pieno petto. Il ricordo di quell’ombra inquietante e del suo inseguimento riaffiorò e sembrò sfociare quasi fosse un fiume in piena, rompendo tutti gli argini di protezione in cui si era rintanata fino a quel momento. Suo malgrado, si vide costretta a voltarsi di nuovo. L’attendeva un’espressione di sarcastico divertimento. «Ho ragione, vero?», chiese l’altro. «Lo sento. Riesco a percepirlo come la terra sotto i miei piedi e l’aria sulla mia pelle: tu hai paura. Puoi tenermi lontano quanto vuoi, ma scommetto che nel profondo te ne accorgi anche tu: hai bisogno di me». Inspirò forte. «Non so cosa o chi ti spaventi tanto, ma io posso aiutarti. Posso aiutarti a non aver più paura, se me lo permetti».
Rimasero così, fissando gli occhi di uno in quelli dell’altra. Il grigio delle tempeste autunnali contro il nero del vuoto. Ariel non avrebbe voluto ammetterlo, ma il pazzo che aveva davanti in qualche modo sapeva qualcosa. Non era ancora certa di quanto effettivamente fosse a conoscenza, eppure la possibilità di vederci chiaro – almeno una volta nella sua vita – era più che allettante. Corrugò la fronte in quello strano modo che solo lei sapeva fare, mentre la parte istintiva del suo cervello metteva a tacere qualsiasi tentativo di logica. «Qual è il tuo nome?».
Gli angoli della bocca del ragazzo si sollevarono impercettibilmente in un smorfia – un sorriso forse?
«Mitch», rispose. «Mi chiamo Mitch».
 
 
Note dell’autore:
Con mio sommo orrore, mi sono resa conto di aver commesso un bel po’ di errori di forma nella parte precedente! Ho corretto e spero di non aver tralasciato nient’altro. Se trovate imperfezioni, per favore, fatemelo sapere, così posso rimediare :). Come al solito, mi scuso per il ritardo nella pubblicazione. Ho dovuto riguardare diverse volte questi ultimi capitoli perché li avevo scritti piuttosto maluccio (non che adesso rasentino la perfezione, intendiamoci!).
Ma facciamo il punto della situazione: Ariel sta scappando quando, improvvisamente, incontra Mitch, uno strano ragazzo che si definisce “io suo Genio” e pare avere tutte le intenzioni di proteggerla. Peccato che, poco prima, il medesimo la stesse inseguendo per ucciderla. Possibile che la ragazza si sia sbagliata? E cosa sa di preciso Mitch di cui Ariel è completamente all’oscuro? Potrà davvero aiutarla con il suo potere?
Scopritelo nel prossimo capitolo! :)
P.s.= Scusate se questa parte è più breve rispetto alle altre, ma era necessario! La prossima sarà più lunga, promesso!^^

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Capitolo 6
*** Capitolo 3 - prima parte - Non essere soli ***


© 2012 Alice Morgan. Tutti i diritti riservati.

Capitolo 3 – prima parte
Non essere soli

 

Ogni uomo uccide una cosa che ama.
Anonimo

 
 

Mentre scostava i rami nel vano tentativo di non farsi male tra gli alberi, Ariel non riusciva a fare a meno di guardarsi continuamente alle spalle. Mitch stava dietro di lei e pareva non rendersi minimamente conto dei piccoli arbusti ai suoi piedi che continuavano a graffiarlo. Sembrava, invece, molto interessato alla ragazza, tanto che non le toglieva gli occhi di dosso un attimo. La scrutava avvolto nella sua veste scura, lo sguardo che guizzava sul suo viso ogni volta che Ariel si feriva. Lei, d’altra parte, iniziava ad innervosirsi per tutte quelle attenzioni e rimpiangeva di non essere scappata quando ne aveva avuto la possibilità.
Il silenzio, rotto solo dal suono dei loro passi, era inquietante ed opprimente. Di solito l’assenza di rumori riusciva a confortarla, ma in quel frangente le era impossibile immaginare di non fare al ragazzo delle domande.
Evidentemente Mitch la pensava alla stessa maniera. «Posso chiederti, di grazia, dove mi stai conducendo?», chiese, in un tono che fece ribollire il sangue ad Ariel. Si atteggiava in un modo fastidiosamente altezzoso, quasi starle a fianco lo annoiasse a morte.
«Stiamo andando a trovare una persona», rispose l’altra, cercando di tenere a freno l’irritazione che andava crescendo. «Ho bisogno di controllare una cosa».
In realtà doveva assicurarsi che il suo migliore amico stesse bene. Non riusciva a capacitarsi del fatto di aver lasciato la casa di Zac in quel modo, senza essersi prima accertata che non gli fosse successo nulla. Che razza di amica si comporta in questo modo?, pensò.
Mentre spezzava in due il ramo più basso di un pino, per farsi largo e aprirsi un sentiero nel bosco, notò quanto le sue mani stessero sanguinando. Troppo impegnata a scappare, non si era accorta delle ferite che il suo corpo aveva riportato durante la fuga. Il liquido viscido le imbrattava capelli e maglietta e le ginocchia non erano messe meglio: i jeans le si erano lacerati quando era caduta, e ora sangue e terra si mescolavano in uno strano intruglio grumoso e orripilante.
Mitch interruppe la corrente dei suoi pensieri. «Fa andare me, davanti», disse, cercando contemporaneamente di farsi spazio per precederla. Ariel rimase a fissarlo, incredula: non si capacitava di tutta quell’ improvvisa gentilezza. Insomma, poco tempo prima voleva ucciderla! «Perché tutta questa preoccupazione nei miei confronti?», chiese, non riuscendo più a trattenere la curiosità per sé.
Il ragazzo, che ora stava rompendo con un calcio un altro ramo, assunse un’aria decisamente perplessa. I suoi occhi grigi si fissarono in quelli scurissimi della ragazza, quasi stessero cercando qualcosa in quel vuoto. «Cercherò di semplificarti il discorso», iniziò.
Semplificarti, rifletté Ariel. Mica sono una stupida, dannazione!
«Sono qui per proteggerti», spiegò lui. «Non so come, ma sei riuscita a invocarmi: sono un Genio. Un protettore di anime, colui che conserva in sé i poteri originari dell’Universo. Una creatura potente …».
«Credo di essermi persa», ammise la ragazza. Okay, forse un po’ stupida lo sono.
«In realtà è più facile di quello che sembra».
«È facile, dici?», chiese Ariel con una punta di isteria.
Quella situazione diventava sempre più assurda: in primis, stava parlando di invocazioni con un tizio probabilmente affetto da qualche sindrome dello sdoppiamento di personalitàE – secondo - la cosa le iniziava a sembrare persino naturale: o era a un passo dall’ammattire, oppure la sua fantasia nelle ultime ore era diventata estremamente eccessiva.
Sicura, Ariel?, domandò una vocina nella sua testa. Chi sei tu, che sente quando qualcuno sta morendo, per decidere cosa è normale e cosa no?
«Io non credo proprio», continuò la ragazza, scuotendo il capo per cercare di far luce nella confusione crescente. «Tanto per cominciare, perché volevi uccidermi?».
Pessima mossa.
Si maledisse in silenzio: MAI accusare prematuramente un assassino di qualcosa.
Possibile che vedere tutti quei film polizieschi in TV non la facilitasse nell’interrogare un presunto criminale?
Rettifico: sono decisamente stupida.
Quello si voltò e sgranò gli occhi, mentre una moltitudine di domande inespresse gli affiorava sul viso. «Sei impazzita, per caso? Cosa ti fa pensare che volessi farti fuori?».
Ariel si morse la lingua. Come poteva spiegare a Mitch che le era bastato entrare nella casa di Zac per sapere che qualcuno stesse cercando di ucciderla? Non aveva proprio voglia di far la figura della pazza in quel momento, non con uno sconosciuto. Anche se, tutto sommato, Mitch non era da meno in quanto a stranezze. Tanto per cominciare perché se ne andava in giro vestito a quel modo? E quei dannati occhi! Non erano normali! Non che avesse avuto a che fare con cose normali, nella sua vita.
«Non importa», si limitò a rispondere Ariel. «Cosa stavi dicendo?».
Mitch la guardò di sbieco - evidentemente riluttante a cambiare argomento - e riprese a parlare, un ghigno malizioso stampato sul viso. «Cosa ne diresti di una dimostrazione pratica?», chiese.
La ragazza, senza volerlo, fece un passo indietro, i muscoli tesi e pronti alla fuga. Per poco non si prese a schiaffi da sola: come poteva essere stata così incosciente? Nemmeno la più stupida eroina del peggior film horror avrebbe avuto la folle idea di andarsene in giro con un presunto assassino! Eppure, eccola lì, intrappolata nei boschi mentre un pazzo furioso voleva farle unadimostrazione pratica.
Il ragazzo probabilmente notò la sua espressione scettica e terrorizzata e si affrettò ad aggiungere: «Oddio, no! Non ti voglio fare del male! Anche se dopo il tuo gancio destro, dovrei averne tutto il diritto, sia chiaro. Oh, merda …! », imprecò quando tastò l’effetto che le sue parole avevano avuto sulla ragazza. «… non intendevo quello! Senti, voglio solo farti vedere una cosa. Cerco solo di convincerti che non sono un pazzo, tranquilla». E prima che Ariel avesse il tempo di tirarsi indietro, quello alzò una mano al cielo e la chiuse a pugno.
Improvvisamente, l’aria attorno a loro cambiò. Alla scrosciare piovano si sostituì un rumore sordo e ovattato: ricordava vagamente ad Ariel il battito di un cuore, quasi sotto il fango ai loro piedi si nascondesse un tamburo. Poi, gli alberi che li circondavano parvero piegarsi in avanti, attratti da chissà quale forza di gravità. Le dita di Mitch si distesero e sul suo palmo apparvero di nuovo quelle strane fiamme che poco tempo prima avevano avvolto la ragazza nella grotta. Erano raggomitolate l’una sull’altra a creare una sfera perfetta che proiettava bagliori verdastri sui tronchi delle piante vicine a loro. Era uno spettacolo meraviglioso e allo stesso tempo terrificante. Pareva che la natura si stesse ribellando alla logica umana e avesse deciso di cambiare le regole dell’Universo nel giro di una manciata di secondi.
Il ragazzo fece un’aggraziata giravolta su se stesso e distese entrambe le braccia, i rami aggrovigliati fra loro come fossero rovi di fronte a lui. Con un debole fremito lanciò la palla di fuoco che, in un turbinio di schegge e suoni disarticolati, annientò tutto ciò che le si parava davanti. Sembrava farsi spazio fra gli alberi come Mosè aveva fatto con le acque. Ariel assisteva alla scena ammutolita.
Mitch si girò verso di lei, uno strano luccichio negli occhi e un sorriso sghembo a incorniciargli il volto. «Cosa ne pensi?», chiese con più di una punta di curiosità nel tono di voce.
Lei, ancora frastornata da ciò che aveva appena visto, cercò boccheggiante le parole che non riusciva a trovare.
«Penso che avresti potuto farlo prima», snocciolò infine, rendendosi a mala pena conto di cosa stesse dicendo e osservando distrattamente il sangue che le colava lento dalle mani.
 

***


La casa di Zac sembrava, se possibile, ancora più inquietante avvolta nella coltre di nebbia ed oscurità che pareva esservi insidiata da che Ariel ci aveva messo piede, poche ore prima. Quasi si aspettava di riprovare tutta la paura e l’orrore di cui era stata testimone. Per fortuna, e con un certo senso di gratitudine nei confronti della buona sorte, nulla di tutto ciò accadde. Ora che Mitch le stava a fianco, quasi poteva sentire il coraggio che sembrava animarla e costringerla a proseguire fino alla porta dell’abitazione. Entrò senza troppe cerimonie, facendosi largo tra la moltitudine di tappeti nel corridoio.
«Zac!», urlò per la terza volta in quella giornata. «Zac, rispondimi, dannazione! Sono, io, Ariel!».
Niente.
Il silenzio più totale.
«Stiamo cercando qualcuno?», intervenne Mitch alle sue spalle.
«Zitto!», gli fece segno la ragazza, portandosi l’indice sulle labbra. «Zac?», riprovò.
Stavano in piedi nel salotto, gli occhi che guizzavano alla ricerca di qualcosa nel buio intenso ed opprimente. Il cuore che le batteva forte, Ariel si avviò a passo incerto verso la cucina. Era piccola, di legno e vi aleggiava il delicato profumo dei pini del bosco. La ragazza si fermò sul tavolo di compensato sul quale Zac aveva consumato i suoi pasti miliardi di volte. Ora, vi era attaccato un post – it giallo fosforescente e sopra di esso, spiccava la scrittura raggrinzita e confusa di sua nonna.
 
Sono andata a trovare zia Agatha.
Torno tra qualche giorno.


Nonna.

Ariel leggeva poco sorpresa il biglietto: non era la prima volta che l’anziana donna lasciava solo il nipote. Era solita partire per le mete più strane appena ne aveva l’occasione, senza dargli alcun preavviso. Per avere quasi ottant’anni si comportava in un modo piuttosto improbabile e decisamente troppo avventuriero.
La ragazza si lasciò cadere sulla piccola poltrona in pelle accanto al tavolo e si prese la testa tra le mani, mentre la confusione sembrava innalzare muri invalicabili. Dove si è cacciato Zac?
Cercò di fare mente locale, ma qualsiasi cosa pensasse la portava inevitabilmente ad un vicolo cieco.
Avrebbe potuto percepire la morte dell’amico, nel caso qualcuno l’avesse ucciso? Di solito sì, ma ultimamente il suo potere pareva fare cilecca ogni tre per due. Per esempio, Mitch sembrava non avere alcuna intenzione di ammazzarla, a differenza di quanto poco prima le aveva suggerito l’istinto.
«Sei confusa», disse improvvisamente il ragazzo. Più che una domanda, la sua frase aveva il tono di una vera e propria affermazione.
Ariel si limitò a scrollare le spalle, quasi il gesto potesse farle scivolare i brutti pensieri di dosso. Le gambe incerte, si alzò e si diresse verso la porta da cui era entrata. Mitch la seguiva in silenzio, come un’ ombra petulante e spaventosa.
«Non sei obbligato a seguirmi ovunque, cazzo!», scattò lei, mentre un moto di stizza le faceva chiudere le mani a pugno, quasi volesse lanciarsi in una rissa.
«Oh, io credo proprio di sì, invece».
La ragazza gli puntò gli occhi addosso. Non aveva avuto molto tempo per farci caso, ma ora che lo guardava con più attenzione, si rese conto che Mitch era proprio un bel ragazzo. Questo se, ovviamente, non si considerava il pessimo carattere e l’attitudine allo stalking. Era alto, muscoloso - ma non troppo robusto -, con la zazzera disordinata di capelli corvini che gli incorniciava il volto dai lineamenti perfetti. E, poi, c’erano gli occhi. Quegli occhi intensi e così assurdamente grigi. Più li osservava e più si convinceva del fatto che potesse realmente avervi corso una tempesta, dietro.
«Fa quello che vuoi», rispose mentre si voltava di nuovo e cercava di ignorare, per quanto possibile, la sua presenza.
 

***


La ghiaia che scricchiolava rumorosamente sotto i loro piedi, ripercorsero il piccolo sentiero che portava vicino alla fermata dell’autobus. Ariel si guardava intorno come un’ossessa alla ricerca di minacce che, però, non comparvero.
«E ora dove andiamo?», chiese Mitch, un po’ perché gli interessava davvero saperlo, un po’ per mettere fine all’assurdo comportamento della ragazza.
«A casa. Per riflettere», rispose quella distrattamente, in modo quasi meccanico. Poi, lo guardò negli occhi, mentre coglieva a poco a poco il senso delle sue parole.«Andiamo?», domandò. «Noi non andiamo da nessuna parte».
«Ti devo proteggere».
Ariel scosse la testa, quasi a volersi schiarire le idee. «Non crederai davvero che ti porti a casa mia …», cominciò, ma una strana emozione stava impadronendosi di lei e le impedì, in qualche modo, di continuare con la sua arringa. Si trattava della stessa identica sensazione di profonda sicurezza che l’aveva investita la prima volta che Mitch le era apparso. Quello la guardava con gli occhi grigi spalancati, come se volesse trasmetterle una qualche sorta di messaggio telepatico. Pareva mormorarle di stare tranquilla e di fidarsi.
Che mi stia ipnotizzando?, ebbe il tempo di pensare, poi il suono dell’autobus che si faceva largo nel traffico ruppe quell’inaspettato contatto visivo.
I battenti spalancati, si issò sul mezzo mentre il ragazzo la seguiva silenzioso. Mentre si lasciava sprofondare nel sedile più lontano dal conducente, pensò di essere fortunata, dopo tutto: Carnevale era vicino e nessuno avrebbe fatto troppo caso alla strana veste scura di Mitch.
 

***
 

«Benvenuto nella mia umile dimora», disse Ariel scostandosi dall’uscio della porta, in modo da poter far entrare Mitch. Quello, un piede nell’atrio, si guardava in giro quasi stesse fiutando l’aria attorno a sé.
La ragazza non poté fare a meno di arrossire. Aveva immaginato un miliardo di volte come sarebbe stato portare un ragazzo – che non fosse Zac – a casa sua  e nessuna delle sue fantasie era lontanamente paragonabile a quello che stava accadendo.
«Carino», commentò Mitch.
Ci mancò poco che Ariel non gli scoppiasse a ridere in faccia. Casa sua non eracarina; a dirla tutta, non si rispecchiava nemmeno in uno dei tanti canoni che un’abitazione dovrebbe avere per essere definita rispettabile. Era piccola, sempre in disordine, con il soffitto basso e le pareti dei muri tinte di un azzurro slavato e triste. Improvvisamente la ragazza provò imbarazzo per il casino che dilagava nell’atrio e si maledisse in silenzio per non aver messo a posto le sue cose prima di uscire. Con la coda dell’occhio cercò il volto di Mitch in attesa di osservare la sua reazione di fronte a quel soqquadro. Ma il ragazzo pareva non rendersi minimamente conto di tutti i libri e i fogli sparsi sul pavimento. Sembrava, invece, interessato all’espressione sollevata della ragazza, quasi si ritrovasse ad assistere a uno spettacolo buffo e divertente e non avesse nessuna intenzione di perderselo. Ariel si irrigidì di fronte a quell’atteggiamento di ostentata curiosità: odiava quando la fissavano e detestava ancora di più il fatto che, a farlo, fosse un tizio strambo come Mitch.
Al ragazzo non sfuggì la tensione dei suoi muscoli. «Sei sempre così ostile?», chiese. La ragazza si limitò ad alzare le spalle, come per fargli capire che poco le importava di cosa pensasse di lei uno sconosciuto. Si avviò in cucina nella speranza di trovare qualcosa da mangiare: si era fatta sera e non toccava cibo dal giorno precedente.
«Dove sono i tuoi genitori?», domandò il ragazzo alle sue spalle.
«Vivo praticamente da sola», rispose, mentre rovistava tra gli scaffali. «Mia mamma torna a casa dal lavoro soltanto durante i week-end». Trovò un budino alla vaniglia nel frigorifero. Odiava la vaniglia e fece fatica a trattenere una smorfia di disgusto mentre apriva la confezione e prendeva un cucchiaino dalle stoviglie. Si voltò verso Mitch, che ora la guardava con un’ espressione indecifrabile. Ancora una volta, si vide costretta a distogliere lo sguardo: quegli occhi erano troppo prepotenti, troppo invasivi. Sembravano volerla spogliare di tutti i suoi segreti e travolgerla nel caos che si celava dietro di essi. «Ne vuoi un po’?», chiese, nascondendosi dietro una ciocca di capelli color fuoco.
«No. Tuo padre?».
Il budino le scivolò dalle mani e cadde a terra, spappolandosi. Ariel imprecò. Prese uno straccio e si inginocchiò nel tentativo di pulire, ma l’aria iniziava a mancarle e dovette correre ad aprire la finestra per fermare l’attacco d’asma. Mitch assisteva alla scena basito.
«È morto», riuscì infine a dire, mentre ansimava alla disperata ricerca di ossigeno. Pensare al padre le faceva provare sensazioni simili a quelle che l’avvertivano della morte imminente di qualcuno. Non aveva mai capito il perché, ma sospettava fosse per il fatto che il suo potere era nato esattamente il giorno della sua scomparsa. Il ragazzo non commentò. Ariel odiava il silenzio imbarazzato che seguiva ogni volta che parlava della morte di suo padre. Le era sempre sembrato inutile ed inadeguato. Non era il silenzio a portare indietro i defunti, né tanto meno le parole di conforto o le smorfie di compassione. Suo malgrado, non poté fare a meno di fissare lo sguardo in quello di Mitch. Anche lui, adesso, provava pena per lei? O si stava limitando a pensare a quanto sfortunata fosse stata? Se era così, non credeva di poterlo sopportare.
«Ho un milione di domande da farti», disse scostandosi dalla finestra, con la speranza di porre fine a quella tensione crescente. La sua voce era stranamente ferma e decisa e non poté fare a meno di esserne sollevata. Ripescò dal frigo un altro budino.
«Domani. Sei stanca adesso ed è meglio se prima ti riposi».
«Io non credo …», cominciò, ma il ragazzo la interruppe. «Sarò di nuovo qui, domani», disse. «E, allora, potrai chiedermi tutto quello che vuoi. Ma adesso vai a dormire».
Il suo tono non ammetteva repliche e Ariel dovette accettare il fatto di essere veramente esausta: era stata una giornata lunga e faticosa e aveva bisogno di recuperare le forze. E, poi, Mitch aveva ragione: il giorno dopo avrebbero avuto tutto il tempo di parlare.
Ancora un po’ riluttante, si avviò verso la camera da letto, quando si rese conto che il ragazzo la stava seguendo. Si voltò e lo guardò con aria interrogativa.
«Non ti lascio da sola», disse l’altro, senza scomporsi. Ariel impiegò un attimo a capire cosa significassero quelle parole. Arrossì violentemente, mentre le intenzioni di Mitch le apparivano sempre più chiare. «Tu non dormi in camera mia!», urlò, cercando di assumere un’espressione il più possibile scandalizzata. In realtà, mai come in quel momento aveva bisogno di aver qualcuno vicino. Ma questo, ovviamente, non poteva dirlo.
«E allora dove vado?», chiese l’altro di rimando.
«Non hai una casa?»
Il ragazzo sbuffò, visibilmente irritato. «No. E anche se l’avessi non potrei andare da nessuna parte: devo proteggerti».
Ancora con questa storia. Ariel liquidò la faccenda con un gesto della mano.«Okay. Per oggi dormi sul divano», disse infine. «E sarà meglio che non ti trovi in camera mia, quando mi sveglio».
E in quella si voltò, senza degnarlo più di uno sguardo. Mentre si chiudeva la porta alle spalle, non poté fare a meno di pensare a quanto fosse piacevole la sensazione di non sentirsi soli, per una volta nella vita.
 
Note dell'autore: 

Come promesso, questa parte è più lunga rispetto alle altre! Ecco perché ci ho messo un po’ di più a pubblicare :P Spero vi piaccia, perché per me scriverla è stato un piacere.
Riassumendo: finalmente Ariel e Mitch hanno fatto le presentazioni. Ma ancora molti misteri sembrano aleggiare intorno alla figura del ragazzo: chi è? E che cosa vuole in realtà? Ariel riuscirà a fidarsi di lui? E, infine, che fine ha fatto Zac?
Scopritelo nella seconda parte :)

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Capitolo 7
*** Capitolo 3 - seconda parte - Blaterando assurdità ***


© 2012 Alice Morgan. Tutti i diritti riservati.

Capitolo 3 – seconda parte
Blaterando assurdità

 

Vivere nei cuori che lasciamo dietro di noi non è morire.
T. Campbell

 

Il tiepido respiro che le spostava a ritmo regolare alcune ciocche di capelli dal viso, faceva sprofondare Ariel in una pace interiore che non provava da tempo. Era così raro sentirsi così, che volle crogiolarsi nel sonno finché una causa superiore non l’avrebbe costretta ad alzarsi. Il materasso non le era mai sembrato così morbido come in quel frangente ed immersa in quell’inaspettata tranquillità, ci impiegò decisamente più del dovuto ad identificare l’origine del calore che le inondava il volto.
Aprì gli occhi, sbattendo le palpebre per mettere a fuoco l’immagine che le si parava davanti.
C’era qualcosa di estremamente sbagliato nello scenario che riusciva a visualizzare: un mix di colori indistinti la circondava, impedendole di riconoscere il luogo su cui stava distesa.
Un bagliore verdastro catturò la sua attenzione. Andava e veniva, ricordandole vagamente i segnali ad intermittenza degli SOS.
Nonostante il carattere indeciso di quella strana luce, notò la presenza di una costante piuttosto particolare: due profondi crateri grigi sovrastavano la scena e sembrava stessero … ammiccando?!
Aspetta un attimo, da quando i colori ti fanno l’occhiolino?
Un senso di vertigine investì Ariel, quando si rese conto che ciò che aveva davanti non era altro che un enorme paio di occhi. E distavano dal suo naso la bellezza di massimo tre centimetri.
Senza riflettere, afferrò la prima cosa che il suo braccio riuscì a pescare e la scaraventò sull’individuo che le stava di fronte, urlando in preda ad un attacco di panico.
«Ahi!», esclamò la voce familiare di qualcuno, mentre con un tonfo sordo la sveglia della ragazza lo urtava in testa. «Che cavolo fai?».
Con un colpo di reni Ariel prese lo slancio in avanti, tenendo stretto con una mano il cuscino a mo’ di scudo e acchiappando con l’altra l’abatjour verde smeraldo sul suo comodino. Lanciò quest’ultima con una violenza spropositata addosso ad un Mitch sconvolto e confuso. La lampada si frantumò a contatto con la schiena del ragazzo.
Preda di un istinto incontrollabile, gli buttò addosso anche il cuscino e approfittò del caos per scappare. Scesa dal letto, però, scivolò sulla montagna di vestiti ai suoi piedi e finì a terra con un’imprecazione.
Si puntellò con il gomito sul pavimento e tentò di rialzarsi, ma due grandi mani dalla presa salda le impedirono di muoversi, facendole pressione sulle spalle.
«Calma!», disse il Genio. «Sono io. Soltanto io!».
Il fiato ormai divenuto pesante, cercò di parlare, ma tutto quello che riuscì a produrre fu un suono strozzato, simile a quello di una cornacchia. Tossì forte per liberarsi del groppo in gola.
«Ehi!», fece il ragazzo. «Va tutto bene».
Con un gesto estremamente tenero, che ricordava ad Ariel quei pochi e rarissimi momenti in cui sua mamma decideva di fare la dolce con lei, le accarezzò la testa. I suoi movimenti, però, erano così impacciati e imbarazzati che la ragazza, a sua volta, finì per sentirsi a disagio e dovette allontanargli la mano con uno schiaffetto.
Il Genio, quasi rispondesse a un comando silenzioso, si tirò indietro, l’espressione del volto impassibile.
«Mi … hai … spaventata!», riuscì a snocciolare infine Ariel.
«Non mi pare di essere così brutto».
«Ti avevo detto di … non entrare in … camera mia!», ribatté, senza badare all’ironia del ragazzo.
Con calma, si rimise in piedi e osservò per la prima volta da che si era svegliata la sua stanza. A regnare nella camera c’era – tralasciando il caos onnipresente – una luce flebile e soffusa che riusciva ad illuminare a stento l’ambiente. «Perché è così buio qua dentro?», chiese.
Mitch assunse un’aria colpevole, ma sì limitò ad osservarsi le punte dei piedi, ignorando bellamente la domanda.
Un presentimento poco piacevole attraversò la mente di Ariel.
Si fece spazio in mezzo a tutti i fogli e i vestiti sparsi sul pavimento e si piegò a raccogliere la sveglia che aveva lanciato addosso al ragazzo poco prima. Le lancette segnavano le quattro e mezza del mattino.
Dovette pizzicarsi il braccio per impedirsi di buttargliela in testa di nuovo.
«Ti rendi minimamente conto di che ore sono?!», urlò, cercando di assumere l’espressione più arrabbiata che riusciva a trovare. Il sonno non le permetteva di coordinare correttamente i muscoli del corpo, compresi quelli facciali, impedendole persino di aggrottare la fronte in modo naturale.«Si può sapere perché mi hai svegliata?».
«Ieri mi sono dimenticato di chiederti una cosa», ammise il ragazzo, cercando, per quanto possibile, di evitare lo sguardo furioso di lei.
«Sarebbe?».
«Il tuo nome», rispose Mitch, mentre le sue gote si tingevano di un rosa tenue. «Voglio sapere il tuo nome».
Con un certo senso di meraviglia, la ragazza dovette riconoscere di essersi completamente scordata di presentarsi.  Stavolta, toccò a lei arrossire.«Ariel», disse. «Ariel Green», aggiunse, senza un motivo ben preciso.
Il ragazzo annuì e le sorrise. «Ho pensato che non vedessi l’ora di scoprire qualcosa in più su di me. Insomma, chi non vorrebbe?».
«Non è un buon motivo per farmi alzare alle quattro e mezza del mattino. E, tra parentesi, sei un esaltato».
«No, sono soltanto mattutino», le rispose Mitch, un ghigno divertito sul volto, quasi stesse pensando a qualcosa di estremamente esilarante, ma non potesse dire esattamente di cosa si trattasse. «E, credimi, ci vorrà parecchio tempo per spiegarti tutto».
Ariel non desiderava altro che ritornare a letto, dimenticare quel breve scambio di battute e riprendere a dormire. La cieca curiosità che, però, nutriva nei confronti di quello strano ragazzo non l’avrebbe lasciata riposare, ne era certa. Non ora che aveva la possibilità di capire qualcosa, almeno.
«Ti avverto, ti conviene rivelarmi qualcosa di sostanzioso. Tu sarai abituato ad alzarti così presto, io no». E, in quella, si voltò avviandosi in cucina.«Seguimi».

 

***

 
Si accomodarono rispettivamente ai lati opposti del piccolo tavolino quadrato di legno scuro. La ragazza teneva le braccia allacciate al petto, come se si volesse proteggere da un eventuale attacco, mentre l’altro si tendeva in avanti e appoggiava i gomiti sul ripiano con finta nonchalance.
«Spara», cominciò Ariel.
«Forse sarebbe meglio se tu iniziassi col farmi qualche domanda».
La ragazza ci pensò un po’ su. Aveva in mente un trilione di cose da chiedergli e non aveva idea da dove cominciare. Alla fine optò per quella che le sembrava fosse la questione più ovvia. «Cos’è esattamente un Genio? Ha a che fare con quello della lampada?».
Mitch le fece un cenno d’assenso e assunse un’espressione insolitamente seria. «Noi Geni siamo creature antiche», spiegò. «Risaliamo ai tempi della creazione dell’uomo ed è per lui che siamo nati: nostro compito è proteggerlo e mettere la nostra vita in gioco per la sua salvaguardia. La storia della lampada ci riguarda relativamente: ogni Genio si incarna in un oggetto e lì vi rimane finché non viene invocato. Possiamo utilizzare come giaciglio qualsiasi cosa. Alcuni di noi, addirittura, prendono possesso degli animali, anche se farlo è molto difficile. L’unica eccezione è rappresentata dagli esseri umani: non ci possiamo servire di loro in alcun modo. Non per andare in letargo, almeno».
«Quindi», lo interruppe Ariel, «anche tu, prima che ti invocassi, “riposavi” dentro qualcosa?».
«Sì», rispose Mitch. «Il mio spirito era un tutt’uno con le pareti delle Grotte. Ogni roccia o spuntone che hai visto, beh, ero io».
Oh. Mio. Dio.
Improvvisamente tutte le strane storie che giravano sul conto di quel luogo non sembravano così insensate: c’era davvero qualcosa lì dentro.
Se solo lo venisse a sapere quel vecchio pazzo di Sam, pensò Ariel.
Deglutì, mentre cercava di assimilare ed accettare quella nuova informazione: era assurdamente considerevole la quantità di cose di cui non fosse a conoscenza.
«Perché sei così stupito del fatto che io sia riuscita a invocarti?», chiese, spinta ormai da un interesse incalzante. Una vocina nella sua testa le suggeriva che la domanda avrebbe avuto un certo peso all’interno della conversazione e, che, per certi versi, Mitch non aspettasse altro che sentirsela porre.
«Vedi, ci sono solo due cose che occorrono per invocare un Genio. Essere a conoscenza del suo giaciglio, è la prima. Ora, premesso che tu avessi saputo delle Grotte e di cosa realmente nascondessero all’interno, non avresti potuto in ogni caso soddisfare la seconda condizione.
«Che sarebbe?», domandò Ariel, più di una punta di malcelata curiosità nella voce.
«Realizzare di star invocando effettivamente un Genio. Mi spiego meglio: non serve solo chiedere aiuto, è necessario conoscere a chi lo si sta chiedendo. E, a quanto ho capito, tu non avevi nemmeno idea di cose fosse un Genio fino a pochi minuti fa».
«Esatto!», esclamò la ragazza. «Com’è possibile, quindi?».
«Non lo so», ammise Mitch. «Ma ho tutta l’intenzione di scoprirlo».
Ariel incrociò il suo sguardo grigio e, per l’ennesima volta, venne risucchiata in quella spirale coinvolgente e rassicurante. Quegli occhi esercitavano un effetto terapeutico su di lei e sui suoi pensieri cupi, quasi fossero in grado di farli sparire.
«Come ci riesci?».
«A fare cosa?».
«A farmi sentire così tranquilla», disse la ragazza, per poi maledirsi in silenzio un secondo dopo. Devo imparare a mettere dei filtri tra quello che mi passa per la testa e quello che mi esce dalla bocca. «Sì, insomma … è strano», mormorò, sentendosi il doppio in imbarazzo.
«Sei la mia protetta», fece lui, senza scomporsi. «Sono in sintonia con le tue emozioni e tu con le mie. Il fatto che tu ti senta così è solo un bene, credimi».
«In che senso?».
«Significa che ti stai fidando di me».
Oh, perfetto. Chi, se non io, può fidarsi di uno che va blaterando assurdità il 99% del suo tempo e l’altro 1% lo passa ad ipnotizzarmi?
Un forte prurito alle mani la distolse dalle sue riflessioni. Si osservò con aria critica: i tagli che aveva riportato durante la fuga stavano iniziando a rimarginarsi e, là, dove prima c’era il sangue, adesso spiccavano delle odiosissime e fastidiosissime croste rossastre.
«Come ti sei procurata quelle ferite?», domandò il Genio, incuriosito dall’espressione sofferente della ragazza.
«Sono caduta un paio di volte mentre correvo», rispose lei, arrossendo un po’ mentre realizzava di aver appena ammesso di essere estremamente goffa.
«Dove?».
«Sono quasi certa di essere scivolata sulla ghiaia del sentiero», disse, facendo mente locale. «E una volta nella Grotta, sì».
Ebbe appena il tempo di domandarsi il perché di tutto quell’interesse per delle stupide sbucciature, che Mitch si alzò dalla sedia con un salto, facendola sobbalzare. «Ti sei ferita nella Grotta?», urlò, cogliendo la ragazza completamente di sorpresa e facendo accelerare i battiti del suo cuore a velocità spropositata.
E adesso cosa gli prende?
«S-sì», balbettò, mentre la fronte del ragazzo si corrugava in un’espressione di puro stupore. «È per caso vietato cadere in presenza di un Genio?»,domandò, in preda alla confusione.
Quello rise di gusto, il suono della sua voce reso terrificante da una nota di gelido sarcasmo.
«Temo che spetti a me farti una domanda, adesso», disse in un tono che fece rizzare i capelli ad Ariel. «Che cosa ti ha spinto ad inoltrarti in mezzo ai boschi?».
La ragazza ammutolì, il cervello che setacciava le sinapsi alla ricerca di qualcosa da dire che avesse un minimo di senso.
«I-io … io stavo scappando, sì, stavo correndo e le Grotte mi sono sembrate un buon rifugio … io …».
Sparava parole a raffica, senza rendersi minimamente conto della portata di ciò che diceva, mentre un forte senso di vertigine la percorreva da capo a piedi. Non aveva alcuna voglia di parlare del suo potere, né di spiegare a Mitch il perché fosse scappata non appena il suo istinto gliel’avesse suggerito. C’era qualcosa di profondamente sbagliato nel rivelare il suo segreto. Qualcosa che le faceva tenere la bocca chiusa.
«Voglio sapere da cosa stavi scappando», specificò lui, gli occhi che sprigionavano scintille abbaglianti.
La ragazza strizzò le palpebre, intralciando l’incontro del suo sguardo con quello di lui: non avrebbe retto a lungo la pressione di quelle iridi.
«Ariel», la chiamò. «Apri gli occhi, devi dirmi perché fuggivi».
Due grandi mani la presero per le spalle, scuotendola forte. «Ariel!».
Fece in tempo a pensare a quanto fosse bello il suo nome pronunciato da quella voce supplicante, che le sensazioni del Genio la investirono come un carro armato. Un disarticolato alternarsi di terrore, aspettativa e sprazzi di speranza fluì in lei, con la stessa semplicità dello scorrere del sangue. Ecco cosa intendeva dire Mitch quando parlava di sintonia tra le emozioni: poteva percepire quello che provava lui nello stesso modo in cui avvertiva i suoi stessi sbalzi d’umore. Improvvisamente, sentì il dovere di dirgli la verità.
«Qualcuno voleva uccidermi!», urlò, stanca di sopportare tutti quei sentimenti e tappandosi le orecchie, quasi potesse mettere fine a quello scrosciare ininterrotto di voci miti. «Scappavo dalla Morte!».
Silenzio.
Se si fosse concentrata, avrebbe potuto captare il suono del frusciare delle foglie sulla strada.
Aprì gli occhi, titubante: si sarebbe aspettata di vedere il volto di Mitch attraversato da stupore, sorpresa, magari un accenno di ilarità, ma nonterrore. Perché quegli occhi grigi che l’avevano tanto messa in agitazione, adesso sembravano essere colti da una qualche sottospecie di spasmo interiore. Il ragazzo barcollò indietro, facendo cadere la sedia dietro di lui. Pareva sul punto di avere un infarto.
«Mitch!», fece Ariel, tendendo le mani verso di lui, ma quello le si allontanò con un rapido scatto.
«Oh, mio Dio», sussurrò, in preda a qualche riflessione di cui, molto probabilmente, non voleva rendere partecipe la ragazza.
«Lo sapevo che non te lo dovevo dire!», esclamò l’altra, mentre gli occhi iniziavano a pizzicarle forte. Per qualche insano motivo, la strana reazione del ragazzo la feriva nel profondo. Io mi confido e lui mi tratta neanche avessi la lebbra!
«Oh, mio Dio», ripeté Mitch, quasi fosse in trance. «Tu sei l’electa».
 
Note dell’autore:
Scusatemi per il ritardo nella pubblicazione! In questo periodo sono molto impegnata e il tempo per scrivere e correggere manca sempre :( Perdonatemi!
Che dire di questa parte? Ho cercato di rispondere alle domande che mi sono state fatte sulla figura del Genio. Spero che le risposte siano state esaurienti. Ovviamente, le cose da scoprire sono ancora moltissime, ma credo di avervi tolto qualche dubbio con questo capitolo ^^
Se avete voglia, lasciate una recensione. Mi fa sempre piacere sapere cosa pensate.

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Capitolo 8
*** Capitolo 4 - prima parte - Lacrima dopo lacrima ***


© 2012 Alice Morgan. Tutti i diritti riservati.

Capitolo 4 – prima parte
Lacrima dopo lacrima



 
Che, poi, non mi spiego perché se siamo creature a sangue caldo,
io senta dentro così tanto freddo.
Alice Morgan ©

 
 
 

«Una che?», domandò Ariel, mentre tentava invano di dare un significato alle parole del Genio. Ma quello stava fermo, gli occhi grigi spalancati e in preda ad un alternarsi confuso di emozioni.
«Oh, mio Dio», ripeté il ragazzo, ancora intrappolato in quell’assurdo stato di trance. Il suo volersi astenere dal parlare irritava Ariel oltre ogni dire. Le sembrava di rivivere uno di quegli incubi dove si cerca disperatamente aiuto, lo si chiede a chiunque, ma non lo si trova mai. Quella sensazione di perenne frustrazione e di impossibilità pareva volerla fare impazzire.
«Potresti piantarla, gentilmente, di fissarmi con quello sguardo da ebete?», domandò stizzita. «Inizio seriamente a pensare tu sia affetto da qualche strano disturbo mentale».
Mitch parve reagire al suo tono furioso e sbatté le palpebre, quasi si fosse risvegliato nel bel mezzo di un coma. Non ci impiegò molto a riprendere il controllo della situazione. «E tu potresti smettere di comportarti come un’isterica?», disse, più di una punta di ostilità nella voce. «Non so se l’hai notato, ma sto cercando di riflettere».
Ariel sembrò offendersi, ma non rispose, attendendo il momento in cui il ragazzo avesse deciso di confidarle cosa gli frullava per la testa.
Quello si guardava intorno spaesato, quasi fosse alla ricerca di parole impossibili da proferire, frasi per di più negate e mai dette, ma che ora avevano la necessità di farsi sentire.
Le sue dita affusolate si soffermarono svogliatamente sulla base del collo e ne sfiorarono le articolazioni in una carezza che pareva volergli trasmettere coraggio. «C’è una storia … una leggenda», iniziò il ragazzo, mentre con l’altra mano si massaggiava la base del naso. «È molto antica e, come tale, è possibile che nel corso degli anni sia stata mutata o compromessa … eppure tutti gli elementi combaciano alla perfezione».
«Mitch», fece Ariel. «Quale storia? Di cosa stai … ?».
«Una stirpe», la interruppe. «Narra di una stirpe dotata di un singolare potere. Un dono immenso e prezioso che si tramanda da generazione in generazione. Tale dono permette ai discendenti di percepire la morte imminente di chi gli sta attorno o, per meglio dire, fa in modo che essi possano captare quando la Morte è vicina. Si dice che dietro questa innata capacità si nasconda la magia di un clan segreto, i Red Rose. A quanto pare, furono loro a donare ad ogni discendente - gli eletti per l’appunto – questo potere».
«E perché l’avrebbero fatto?».
Mitch non rispose.
«Mitch?», lo chiamò quella. «Perché hanno fatto l’incantesimo sugli eletti?», insistette.
«Perché», disse lui, la voce leggermente tremante, «i discendenti sono anche gli unici esseri viventi adatti per diventare dei degni servitori della Morte. Da che si è creato l’Universo, la Morte è sempre alla ricerca di alleati che La possano aiutare nel suo compito».
Ariel lo fissava incredula non riuscendo a capacitarsi di ciò che le stava raccontando. Sono la discendente di una stirpe, realizzò.
«Compito degli eletti è appoggiare la Morte nella sua distruzione», spiegò Mitch.
«Non capisco», ammise la ragazza. «Io non ho mai fatto del male a nessuno e - accidenti! - quando cammino per strada sto persino attenta a non calpestare le formiche. Come faccio ad essere un’alleata della Morte se mi basta il solo pensiero di esserle vicina per farmi crollare nel panico?».
«È qui che interviene la magia dei Red Rose: ti impediscono di avvicinarti, così che la Morte … beh, non riesca a prenderti».
«Quando dici “prenderti” intendi dire …?».
Un piccolo brivido di terrore la fece sussultare. Improvvisamente le sembrava che la conversazione stesse prendendo una piega totalmente indesiderata: qualsiasi cosa il Genio avesse in mente di risponderle, lo sapeva, non sarebbe stata piacevole.
«Per adempire ai tuoi doveri di electa devi prima morire, Ariel», confessò il ragazzo con aria sinceramente dispiaciuta. «Da viva non servi a molto, alla Morte».
Questa volta toccò alla ragazza alzarsi dalla sedia. Picchiò forte i palmi sul piano del tavolo, mentre alcune scosse di panico le facevano tremare forte. La sedia su cui stava seduta cadde a terra con un tonfo. Gli occhi le pizzicavano forte e dovette impiegare tutta la sua forza di volontà per impedire alle lacrime di sgorgare come fiumi in piena. È così, dunque, pensò, sono condannata a diventare una sottospecie di schiava distruttrice.
«Come fai a sapere tutte queste cose?», riuscì a chiedere, mentre i singhiozzi che le rimbombavano nel petto le impedivano di respirare regolarmente.
«Temo dovrai ringraziare nuovamente il clan dei Red Rose per questo», affermò.
«Che intendi dire?».
«Il sangue che ti circola nelle vene ti permette di invocare i Geni senza per forza effettuare il rito di evocazione, Ariel. È da un bel po’ di tempo che la mia razza ha preso l’abitudine di proteggere voi eletti e questo grazie alle magie del clan: in qualche modo, sono riusciti a modificare il vostro sangue offrendo lui alcune proprietà che gli permettessero di svegliare i Geni. Quando ti sei ferita nelle Grotte, ho inconsciamente riconosciuto il tuo sangue. Per questo sei riuscita ad evocarmi, sebbene tu non fossi a conoscenza del rituale».
«Continuo a non capire a cosa serva tutto questo», sbottò la ragazza. «Quando morirò la Morte otterrà quello che vuole, no? Diventerò una sua serva!».
«Non esattamente», dichiarò Mitch. «Vedi, più l’eletto invecchia, più il suo “potenziale distruttivo” – chiamiamolo così – diminuisce».
«Quindi», lo interruppe Ariel, mentre una scintilla di speranza montava dentro di lei. «Se riesco a vivere, diciamo, abbastanza a lungo, non corro più  il rischio di venire ammazzata?».
«Sì, ma l’età è relativa: più il tuo potere è forte, più ci impiegherà a sfiorire».
«Beh, il mio non deve essere poi tanto potente», ribatté Ariel, convinta.
Il ragazzo inarcò le sopracciglia, un’espressione interrogativa stampata sul volto, mentre con gli occhi le chiedeva il perché di tanta sicurezza.
«Vedi», spiegò l’altra, «quando ti ho detto che scappavo, cinque minuti fa, non scherzavo. Ma prima di ritrovarmi a correre come una disperata per i boschi, sono passata a casa da un mio amico, Zac».
«Quello che cercavi prima?».
«Esatto! Ero convinta che la Morte volesse lui, eppure quando sono entrata in casa sua per controllare, Zac non c’era. In compenso, ho trovato un tizio vestito come te, che mi ha costretta a fuggire. Sai com’è», continuò, «l’istinto mi suggeriva non avesse buone intenzioni».
Una lampadina sembrò accendersi nella testa del ragazzo quando gli occhi gli si accesero di una sfolgorante luce verdognola. Il contrasto con il grigio era così intenso da togliere il fiato e Ariel dovette rendersi conto per l’ennesima volta di quanto il suo sguardo fosse capace di scuoterla dall’interno.«Ecco perché mi hai chiesto il perché volessi ucciderti! Pensavi fossi lo stesso che hai incontrato dal tuo amico».
La ragazza annuì. «Il mio potere non dev’essere un gran che, tutto sommato», ribadì. «Comincia già a fare cilecca».
«Temo di doverti contraddire».
«Come?».
«Il potere non sbaglia», affermò Mitch, il tono tanto lugubre e gelido da far venire i  brividi ad Ariel. «Mai», aggiunse, come specificando.
«Non è possibile», mormorò l’altra, mentre il sangue iniziava a congelarle nelle vene e uno spasmo di terrore la coglieva di sorpresa. «Zac non era in casa … non può essergli successo nulla …».
Le parole le uscivano a caso dalla bocca, senza che lei potesse fare nulla per fermarne la corrente. «Zac è vivo», disse, più per convincere se stessa, che per altro.
«Non ne dubito», rispose il Genio. «Ma il presentimento che hai avuto era reale e come tale non puoi dubitarne. Se l’istinto ti ha suggerito che il tuo amico era in pericolo, ci penserei due volte prima di affermare il contrario».
Mentre Mitch parlava, ogni parola pareva infliggere ad Ariel una coltellata al petto. La lasciavano esangue, mentre la consapevolezza di ciò che stava accadendo l’abbandonava ad uno stato di disperazione totale. Gli occhi ritornarono a pizzicarle con violenza, mentre le lacrime facevano a lotta per uscire. Una vocina nella sua testa le urlava di mantenere la calma, ma qualsivoglia tentativo di tranquillizzarsi eclissava d’innanzi alla certezza che, no, il suo potere non poteva fallire e che, sì, a Zac era capitato qualcosa di orribile. E io l’ho abbandonato.
Le gambe le cedettero e le ginocchia si abbatterono sul pavimento con un tonfo sordo e pesante. Il dolore fisico pareva insignificante, se confrontato alla ferita profonda che il senso di colpa stava andando incidendo nelle sue carni. Se gli è capitato qualcosa, io …
La sola idea che al suo migliore amico fosse stato fatto del male a causa sua, la uccideva e la lasciava immobile, con il tetro pensiero di aver commesso un errore terribile ed irreparabile.
«Alzati».
La voce di Mitch la fece sobbalzare. Avrebbe voluto tanto farlo, rimettersi in piedi ed affrontare la situazione, ma il pensiero di doverlo fare da sola e con un simile segreto alle spalle, non le permetteva di muovere un muscolo.
«Ariel, devi alzarti», ripeté il ragazzo.
Se solo avesse provato un briciolo delle emozioni che tormentavano lei in quel momento, ne sarebbe rimasto paralizzato, Ariel ne era sicura.
I nervi colti da spasmi feroci, provò a riprendere il controllo del suo corpo, ma proprio il cervello non glielo permetteva. O, forse, era il cuore il vero problema in quel momento, perché pareva essersi spaccato in due.
Le lacrime sciabordarono senza che nemmeno lei se ne accorgesse: presto si ritrovò il volto umidiccio e arrossato.
Mitch le si mise a fianco silenzioso e, con la stessa leggerezza di una piuma, le afferrò le mani, costringendola a voltarsi verso di lui. Quelle iridi così preziose parevano essere l’unica cosa capace di brillare davvero, in quella stanza. Ariel, per la prima volta, si decise a non distogliere lo sguardo, a fissare i propri occhi in quelli del Genio. In quel momento, erano i soli che non le permettessero di sentirsi persa.
Le braccia del ragazzo le scivolarono delicatamente attorno, accarezzando l’aria e producendone un breve mutamento. La circondarono, forti nel loro luccichio perlaceo, e la sollevarono. Mitch la tenne stretta a sé un momento, poi l’adagiò sul ripiano del tavolo. Ariel avrebbe voluto ribellarsi, dire lui di lasciarla da sola, di abbandonarla come lei aveva fatto con Zac, ma l’egoismo non le permetteva di pronunciar parola. Persino lei era abbastanza lucida da poter capire di aver bisogno di qualcuno, in quel momento. Isolarsi avrebbe soltanto peggiorato le cose.
I suoi occhi neri, ancora allacciati al grigio autunnale di quelli di Mitch, ne setacciarono le emozioni senza riuscirvi a decifrare nulla. Le mani che tremavano, chiuse le dita attorno alla veste scura del Genio, forse per cercare un appiglio per non cadere, forse perché doveva accertarsi della sua effettiva presenza - non lo seppe mai – e vi appoggiò la fronte, mentre la paura e la disperazione venivano travasate lacrima dopo lacrima.
Il corpo del ragazzo si irrigidì, sorpreso dall’improvviso contatto, ma non si scostò. D’altra parte, ad Ariel importava ben poco del disagio di lui, se questo significava poterla salvare da quello che sentiva.
I muscoli di Mitch si rilassarono, mentre la ragazza inzuppava la stoffa nera del suo abito di acqua calda e salata.
«Devi aiutarmi», singhiozzò infine, staccandosi da lui con un movimento debole e stanco, leggermente imbarazzata. «Ti prego».
Il barlume di un sorriso illuminò il Genio mentre chinava di lato il capo con un’ aria di finta nonchalance. Ariel si sorprese di come un tale e così semplice gesto potesse farlo apparire tanto umano – bagliori verdastri a parte.
 «Sono qui per questo», disse.
E le sue parole la pervasero, invadendo ogni singola cellula del suo corpo. Era come percepire un cambiamento nell’aria, solo che questa volta sembrava riguardare le viscere del suo corpo. Mitch non si era limitato ad acconsentire a una sua richiesta. No, aveva fatto molto di più.
Non si trattava di una promessa.
Aveva giurato.
«Dimmi cosa devo fare».

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Capitolo 9
*** Capitolo 4 - seconda parte - Libertà ***


Capitolo 4 – seconda parte
Libertà

 

Di fronte all'estrema nemica
non vale coraggio o fatica,
 non serve colpirla nel cuore
 perché la morte mai non muore.
Fabrizio De Andrè


Il cielo aveva assunto il colore intenso e opaco della pece, mentre Ariel cercava confusamente di dare una collocazione geografica al posto in cui si trovava. I suoi occhi scrutarono nel buio, alla ricerca di un indizio che potesse rammentarle il perché fosse lì, distesa sul gelido asfalto, in attesa del nulla. Suoni ovattati e confusi, provenienti da chissà dove, le davano l’impressione di essere all’interno di una bolla. 
Si massaggiò le tempie, come colta da un improvviso mal di testa e fece ricorso a tutta la sua concentrazione per cercare di ricordare come fosse giunta in quel luogo.
Uno sprazzo di luce, al di là del suo campo visivo, la fece sobbalzare. Osservò il cielo, ora costellato di minuscoli puntini luccicanti. Uno sguardo ingenuo avrebbe potuto scambiarli per stelle, ma ad osservarli bene si poteva notare quanto la loro lucentezza e trasparenza non fossero naturali. E, poi, con il passare dei secondi, sembravano ingigantirsi sempre di più. Sempre di più … 
Da piccolissime scintille quali erano, presto si trasformarono in tanti grandissimi Soli. La ragazza dovette chiudere gli occhi per impedire a quello straordinario bagliore di accecarla. La temperatura, dapprima così bassa da gelarle il sangue, mutò drasticamente in piccoli aghi di fuoco che parvero volersi insinuare nel suo troppo sottile strato di pelle. Urlò per il dolore, mentre il calore diventava insostenibile. Il corpo ormai brutalmente ustionato, aprì gli occhi: una figura avvolta in una casacca nera incombeva minacciosa su di lei e si stagliava prepotente contro la luce accecante che li circondava. 
 «Chi sei?», domandò lei in preda agli spasmi. Poteva sentire le forze venirle meno e la vista calarle precipitosamente. Si costrinse a non svenire, mentre attendeva impaziente la risposta dell’altro. Ma quello non parlò. Si portò, invece, le dita affusolate al cappuccio della veste, lo scostò e, finalmente, mostrò il suo viso. 
Gridò ancora – questa volta per il terrore - quando, ad incrociare i suoi occhi neri, furono quelli verdi di Zac.
 
 
La fronte imperlata di sudore, Ariel si svegliò ancora urlando. Il cuore le batteva contro la cassa toracica come fosse impazzito e non si sarebbe stupita se avesse sentito le proprie costole incrinarsi sotto la pressione delle sue pulsazioni. Si guardò intorno alla ricerca disperata di ossigeno, mentre l’ormai onnipresente disordine della sua stanza riusciva un po’ a calmarla.
Era soltanto un incubo, realizzò, le mani che sembravano non voler più smettere di tremare. Strinse le dita a pugno, affondando dolorosamente le unghie nei palmi. Quella piccola sofferenza, in qualche modo, la ridestò abbastanza da permetterle di ricominciare a respirare regolarmente.
Il ticchettio insistente di un paio di lancette calamitarono il suo sguardo verso la sveglia appoggiata sul comodino. Erano le sette esatte e soltanto una manciata di ore la separavano dall’ultima conversazione avuta con Mitch, quella stessa notte. Tutto, di lei, pareva avere intenzione di esplodere, oppressa dal senso di rimorso che pareva tormentarla da che aveva abbandonato Zac. Lei e il Genio avevano deciso che sarebbe dovuta andare a scuola quella mattina e raccogliere informazioni, sperando di incontrare qualcuno che avesse la minima idea di dove si fosse cacciato l’amico. Stava morendo di sonno e pregò affinché il cervello smettesse di pulsarle contro la scatola cranica: la stanchezza, improvvisamente, si faceva un macigno pesante sulla sua schiena.
«Ammetto di aver sentito urla migliori, ma anche tu non sei male».
Ariel sobbalzò, gli occhi puntati sulle travi del soffitto alla ricerca dell’origine di quel commento. Aveva ancora la vista appannata per le ore di riposo perdute, tuttavia, la sagoma che la sovrastava le risultava facilmente riconoscibile per via dei lampi verdastri che parevano avvolgerla.
Il Genio era disteso su una delle assi scure e guardava la ragazza dall’alto, un ghigno insolente dipinto sul volto perfetto, come se avesse appena assistito ad una scena esilarante.
Con un moto di stizza, Ariel raccolse il suo cuscino da sopra il materasso e, senza troppi preamboli, glielo tirò contro. Mitch lo schivò con un balzo, ma il gesto lo scosse abbastanza da farlo scendere dalla trave. Atterrò con grazia davanti al letto.
Per un istante la ragazza pregò si facesse male.
«Sul serio, dovresti smetterla con questo vizio di lanciarmi addosso le cose», disse lui, senza togliersi quel sorrisetto dalla faccia. Ariel avrebbe voluto avere una gomma a portata di mano per cancellarglielo definitivamente. Oppure possedere abbastanza forza per tirargli un pungo, il che avrebbe sortito il medesimo effetto. Incredibile, come labbra così … così belle potessero plasmare espressioni tanto fastidiose.
«E tu non dovresti entrare in camera mia senza permesso. E ringrazia Dio siano cuscini, anziché sveglie», gracchiò lei, la voce resa roca dalla stanchezza, ricordando di avergliene tirata una in testa giusto qualche ora prima.
«A proposito di sveglie», ridacchiò quello, «mi è venuto un bernoccolo». E, come a voler dimostrare la veridicità delle sue parole, si massaggiò la nuca, distorcendo con una smorfia di dolore i lineamenti cesellati del suo viso. «E, poi, piantala di dire che non mi vuoi intorno. Non lo pensi realmente».
Ariel strabuzzò gli occhi, le sinapsi che andavano scavando alla ricerca di una battuta abbastanza sarcastica per mettere a tacere l’ego spropositato di Mitch. Eppure, neanche a farlo apposta, si ritrovò ad arrossire. Abbassò lo sguardo, troppo impaurita di incrociarlo con quello magnetico del ragazzo, e maledisse in silenzio la propria attitudine all’imbarazzarsi senza motivo.
«Su, su», la sollecitò il Genio, il volto ancora illuminato da quel ghigno impertinente. «Non sei la prima a cui faccio questo effetto».
Le guance della ragazza, per quanto possibile, si tinsero di un rosso ancora più intenso, fino a farle prendere il colorito fiammeggiante dei suoi capelli. «Quale effetto?», chiese, sperando di essere riuscita ad assumere un’aria abbastanza irritata. «A me, metti solo i brividi».
«Vi sono brividi che esentano da freddo e terrore», fece lui, dirigendo maliziosamente gli occhi verso i suoi, come per intrappolarla nel vortice grigio del suo sguardo.
Il viso che si imporporava disumanamente, Ariel avrebbe voluto prenderlo a schiaffi.
«Evapora, Mitch».
«Per quanto i Geni siano tenuti a rispettare i desideri dei propri protetti, temo di non poter esaudire il tuo, spiacente», sentenziò il ragazzo con aria da so-tutto-io.
«Che intendi dire?».
«Intendo dire», specificò quello, «che sono obbligato ad eseguire qualsiasi tuo comando a prescindere dalla sua natura, purché tu lo voglia realmente. E, fidati - anche se magari non te ne rendi conto - tu vuoi che io resti qui».
«Non puoi sapere cosa desidero», replicò la ragazza.
Mitch sospirò, l’espressione esausta, quasi stesse ripetendo le medesime cose da decine di anni. «Il vincolo che unisce Genio e protetto è più forte di quanto tu possa immaginare», spiegò. «Trascende l’amicizia e l’amore, persino il legame tra una madre e il proprio figlio. Te l’ho già detto : le nostre sensazioni sono in simbiosi. Io sento … tutto di te. Capisco le tue paure, cosa non puoi soffrire e cosa ti piace. E, soprattutto, so cosa vuoi davvero».
Immersa in una potente sensazione di déjà-vu, ad Ariel venne in mente quello che era accaduto il giorno precedente, quando aveva evocato per sbaglio Mitch. Rivide la scena nella sua testa, in una sequela di immagini dapprima disarticolate, poi sempre più definite sino a formare un quadro perfetto: aveva detto al Genio di lasciarla andare e una mano invisibile era intervenuta per scostarlo, contro la sua volontà. Sei spaventata a morte, sei confusa … non  erano forse frasi che le aveva ripetuto più volte, quasi fosse a conoscenza di tutto quello le passasse per la testa?
«Quindi», fece lei, la voce cauta e leggermente tremante, mentre realizzava – scioccata - la portata del suo potere sull’arbitrio del ragazzo, «io posso chiederti qualsiasi cosa e tu sei tenuto ad obbedirmi, indipendentemente da quello che ti dico di fare?».
Il Genio annuì. «Fantastico, eh?».
«Al contrario», disse la ragazza. «È terribile».
Per la prima volta da che si erano incontrati, sul viso di Mitch sembrò affiorare un’espressione di profondo stupore. La bocca si dischiuse un po’, gli occhi parvero riverberare di uno splendore tutto loro mentre i bagliori verdastri, che tanto lo caratterizzavano, facevano brillare ogni singola cellula del suo corpo. Fece per dire qualcosa, ma Ariel lo interruppe: «Non avere margine di scelta, non poter decidere realmente … questo», specificò, «è terribile. La libertà è un dono prezioso, Mitch, ma è, prima di tutto, un diritto. C’è gente che ha combattuto e combatte tuttora per essa. Non credo di voler essere protetta da te, se ciò implica privarti di tutto questo».
In quella, lo guardò timidamente da sotto una delle sue ciocche rosse, in attesa di un suo commento. Il Genio la osservava, magnifico e spiazzante nella sua bellezza, con l’aria di chi vorrebbe tanto dire qualcosa, ma non ci riesce. Abbozzò un passo in avanti, ma si fermò, come colto da un’improvvisa constatazione.
«Non ti obbligherò a fare nulla contro la tua volontà», aggiunse l’altra, gli occhi per la prima volta alla ricerca di quelli di lui. Voleva, anzi,doveva sapere cosa provava il Genio: era frustrante sapere  che Mitch fosse in grado di carpirle qualsiasi informazione riguardo le sue emozioni, ma che lei non potesse fare nulla per comprendere appieno cosa si celasse dietro l’autunno del suo sguardo.
Gli angoli della bocca del ragazzo si incurvarono in un sorriso amaro. «Voi electi siete un vero spasso», sussurrò.
Ariel lo fissò, mentre le sue parole sembravano volerle lacerare qualche organo interno. Non avrebbe saputo dire cosa si fosse aspettata da lui, ma di sicuro non questo, non una triste riflessione su quanto si stesse dimostrando ridicola, dicendo quelle cose. Forse avrebbe dovuto limitarsi a comportarsi egoisticamente, come chiunque altro, e approfittare del fatto di avere una sorta di servitore tutto per sé. Imbarazzata e ferita, si promise di non presentarsi più debole e sensibile di fronte a lui.
«Non chiamarmi in quel modo», gli rispose, sperando che il loro legame fosse abbastanza potente da lasciare lui sperimentare la stessa delusione che, ora, provava lei.
«Come vuoi», disse, ma i suoi lineamenti lasciarono trasparire un accenno di tristezza. Decise che non le importava. Non era al Genio che, nelle ultime ventiquattro ore, era precipitato il mondo addosso, lasciandolo con un carico di zero certezze e duemila domande sulle spalle.
Ariel ancora non riusciva a credere di discendere da un’antica stirpe, di essere vittima di qualche strano incantesimo e che il suo destino fosse – ahimè – quello di morire prematuramente per divenire schiava della distruzione. Realizzò, improvvisamente, che la sua vita aveva assunto i contorni sfocati della vista di un miope: nulla le sembrava più sicuro, neppure la terra sotto i suoi piedi. Contro la sua volontà, si trovava calata in un mondo dove le leggi dell’Universo - quello normale – sembravano non contare più nulla. E la cosa peggiore era che la sua unica ancora di salvezza, la sola certezza rimastale, sembrava essere uno strano ragazzo dagli occhi grigi e in … jeans e maglietta?!
Con un certo stupore la ragazza si accorse che Mitch non indossava più la sua stramba veste scura. Al suo posto, ora, c’erano dei morbidi pantaloni che gli scendevano bassi sui fianchi e una T-shirt chiara che metteva troppo in mostra il fisico snello e muscoloso.
Ariel deglutì, la gola improvvisamente secca. Il ragazzo alzò un sopracciglio, forse ignaro dell’effetto che la sua presenza innescava nelle viscere di lei. Probabilmente no, visto che poteva sentire parte di ciò che provava lei. Dannazione, Ariel, si maledisse. Ti comporti come una pazza.
«D-dove hai preso quei vestiti?», domandò, recuperando chissà come la capacità di parlare e mettendo da parte, per un momento, il suo volersi astenere dal discutere con Mitch.
«Vuoi davvero saperlo?», rispose quello, l’aria di uno che non ha proprio voglia di dilungarsi in noiose spiegazioni.
«Sì».
«Li ho rubati».
Ariel sentì la mascella caderle da qualche parte, mentre le corde vocali elaboravano un’imprecazione abbastanza forte da fare concorrenza all’urlo che l’aveva svegliata quella stessa mattina.
Perfetto. Ora, oltre a dover pensare a come non finire ammazzata, devo pure preoccuparmi che il mio Genio non finisca arrestato per furto.
Stava per tradurre a parole la sua furia omicida, quando dei colpetti alla finestra la distolsero dall’uccidere Mitch.
Un corvo, appollaiato sul davanzale, stava beccando il vetro con una certa insistenza, quasi volesse entrare nella camera. Ariel si avvicinò, pronta a cacciarlo via, ma si fermò quando notò lo straordinario piumaggio dell’uccello. Era nero, ma delle sfumature violacee ne increspavano le piume, conferendogli un’aurea austera e allo stesso tempo incredibilmente strana.
La ragazza ebbe appena il tempo di pensare a quanto fosse meraviglioso, che quello volò via con una tale grazia da lasciarla senza parole.
«Non ne avevo mai visto uno così …», sussurrò. Poi, osservando distrattamente l’orologio sulla parete, si rese conto di quanto fosse tardi e iniziò a raccogliere le sue cose per andare a scuola.
«Mitch, ora è il caso che tu esca», disse. «Mi devo cambiare».
Quando quello non si mosse, iniziò a rimpiangere di avergli promesso di far di tutto per non compromettere la sua libertà.
Stava per ripetergli di andarsene, ma si bloccò, non appena notò quanto pallido e terrorizzato fosse il viso del ragazzo. Quasi avesse appena visto un fantasma …
 
Note dell’autore:
Colgo l’occasione per ringraziare chiunque abbia letto, recensito e amato questa storia: mi sembra sempre che “grazie” non sia abbastanza. Anche se non vi conosco, vi voglio bene.
Ringrazio in particolare REAwhereverIgo per la citazione e Giagiola per non aver dimenticato The Rose Red, nonostante l’assenza.
Ora, bando alle smancerie e passiamo al capitolo. Inizio dicendo che ho rasentato la follia, scrivendolo. Lo avrò corretto ventimila volte, eppure sono certa che da qualche parte si nasconde un errore! Stupide manie di perfezionismo D: È possibile che prossimamente lo modifichi, visto che – per ora – non mi convince nemmeno un po’. Scrivetemi per favore se trovate il racconto in alcune parti forzato o poco convincente, ve ne sarei immensamente grata.
Eeem … mi sto di nuovo dilungando.
Facciamo il punto della situazione: Ariel e Mitch, protetta e Genio, sono inesorabilmente legati l’uno all’altra. Lei è costretta a convivere con la sua stramba presenza, lui è obbligato a proteggerla. Ariel e Zac, migliori amici da sempre, si sono sempre voluti bene. Lei lo ha abbandonato, lui è scomparso. Ma la ragazza non ha alcuna intenzione di lasciarlo andare: potrà Mitch aiutarla in qualche modo?
Scopritelo nel prossimo capitolo :)
 
PICCOLE NEWS!
 
Ho deciso di aprire una piccola sezione MINI SPOILER a fine di ogni capitolo, per darvi una piccola anticipazione su quello che accadrà prossimamente. Ovviamente, non siete obbligati a leggere. Voglio soltanto togliere uno sfizio ai più curiosi.
Quindi, lo scrivo ora per non scriverlo più: ATTENZIONE. STANNO PER SEGUIRE SPOILER PIÙ O MENO CONSISTENTI. SE NON GRADISCI LEGGERE, EVAPORA. DILEGUATI. SPARISCI. CAMALEONTIZZATI. INSOMMA, VEDI DI ANDARTENE.
 
SICURO? VUOI CONTINUARE? OH, BEH, SE LO DICI TU :)

 
 
"Per essere una che si chiamava in quel modo, di guerriera non aveva proprio nulla: sul viso diafano spiccavano due grandi ed innocenti occhi azzurri e, giusto per conferirle un’aria ancora più angelica, una cascata di capelli dorati le incorniciava i lineamenti delicati e perfetti. La bellezza di quella ragazza era disarmante, al limite del disumano."

Chi riesce a indovinarmi il nome della tipa è un genio :)
Scrivete cosa ne pensate dell’idea. 

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Capitolo 10
*** Capitolo 5 - prima parte - Fuoco e fiamme ***




Capitolo 5 – prima parte
Fuoco e fiamme

 

Se un uomo non ha scoperto nulla per cui vorrebbe morire, non è adatto a vivere.
Martin Luther King
 

Le lancette del campanile accanto alla scuola segnavano le otto in punto, mentre Ariel attraversava il cortile di ghiaia, abbozzando passi scoordinati verso l’atrio ormai privo di studenti. Le possibilità di arrivare - almeno una volta - in orario sfumarono insieme alla consapevolezza che quella mattina non avrebbe potuto interrogare nessuno degli amici di Zac e scoprire dove si fosse cacciato. Si sarebbe dovuta accontentare del pomeriggio.
Entrò nell’aula di trigonometria proprio mentre il professor Campbell finiva l’appello.
«È un piacere che si voglia unire a noi, signorina Green», disse l’insegnante, con fare ammonitore.
«Mi scusi», balbettò la ragazza, mentre prendeva posto in uno degli ultimi banchi, decine di occhi improvvisamente puntati su di lei, quasi fosse in balia di un occhio di bue.
«Gradirei che domani mi portasse una giustifica», continuò l’uomo.
«Certo».
Il professore drizzò le spalle e prese a schiarirsi la gola. Le rughe d’espressione sul suo volto lasciavano trapelare una forte emozione, un misto di preoccupazione e aspettativa , e Ariel non poté fare a meno di chiedersi cosa – o chi – ne fosse la causa.
La ragazza si fece scappare uno sbadiglio, mentre attorno a lei i suoi compagni si scambiavano le ultime battute prima dell’inizio della lezione. Incredibile quanto ci si possa sentire soli in una stanza affollata.
La voce di Campbell ruppe quello scrosciare incessante di mormorii, zittendo la classe.
«Ragazzi», parlò. «Vi prego di prestarmi almeno cinque minuti di attenzione, prima che la lezione di trigonometria vi faccia addormentare, più di quanto non lo siate già questa mattina».
Alcuni ragazzi accanto ad Ariel ridacchiarono e, forse, avrebbe potuto sorridere anche lei se solo fosse stata dell’umore. Invece di ascoltare quello che aveva da dire l’insegnante, concentrò la sua attenzione sulle scritte incise maldestramente nel legno del suo banco, constatando quanto fosse ingente la quantità di dediche d’amore riportatevi. La ragazza si domandò il perché di tanto disturbo: non si capacitava del motivo per cui la gente sentisse il bisogno di gridare al mondo di amare qualcuno.
L’amore non fa rumore. L’amore è silenzioso, non ha bisogno di parole o di dediche scalfite in malo modo. L’amore non è superfluo, eppure in quella scuola parevano avere tutti la necessità di fare più del dovuto, di mettere in scena l’ennesima commedia sentimentale. Si promise che, quando – e se – si fosse innamorata, avrebbe conservato tutto quel pandemonio di emozioni per sé. Non vi avrebbe reso partecipe nessuno.
«Oggi è un giorno importante», dichiarò la voce del professore, giungendo quasi da lontano, un bisbiglio occultato dai mille brusii dei suoi compagni di classe che a quanto pare, proprio come lei, avevano deciso di ignorarlo. Era evidentemente felice, ma le motivazioni di tanta trepidazione le apparivano ignote. Poteva avvertire la stessa confusione nei profili distratti dei suoi coetanei. Probabilmente le loro menti erano tutte attraversate dal medesimo pensiero: era ora che Campbell se ne andasse in pensione.
«Ho l’onore di accogliere nel mio corso la campionessa nazionale delle olimpiadi di matematica», disse, picchiettando rumorosamente i polpastrelli in un applauso alla stregua del ridicolo, gli occhi che facevano a lotta per non far sgorgare lacrime di commozione.
Ecco svelato l’inghippo. Chissà perché, la ragazza non ne rimase stupita. Soltanto una cosa tanto sciocca aveva il potere di mandare fuori di testa il professore. Lo immaginava, la sera precedente prima di andare a dormire, mentre ripeteva lo stesso discorso decine di volte, onde non deludere le aspettative del nuovo genio matematico della classe.
Ariel, la sua concentrazione ancora volta a uno studio scrupoloso del piano del suo banco, poté a malapena percepire il respiro mozzato di decine dei suoi compagni, quando la novellina mise piede nell’aula.
«È un piacere averti con noi, Xena!», esclamò Campbell, il sorriso che metteva in mostra una fila di denti leggermente storti.
A quel punto Ariel non seppe trattenersi e dovette alzare lo sguardo per calamitarlo verso l’esile figura che apparteneva alla sua nuova compagna. Necessitava di sapere chi fosse stato tanto sfortunato da incappare in un nome così stupido. Eppure, di fronte alla ragazza dovette obbligarsi a non spalancare la bocca.
Per essere una che si chiamava in quel modo, di guerriera non aveva proprio nulla: sul viso diafano spiccavano due grandi ed innocenti occhi azzurri e, giusto per conferirle un’aria ancora più angelica, una cascata di capelli dorati le incorniciava i lineamenti delicati e perfetti. La sua bellezza era disarmante, al limite del disumano.
Xena, sottoposta allo sguardo indagatore di decine di occhi, abbassò lo sguardo, le gote che le si tingevano di un rosa tenue.
«Bene», proseguì Campbell. «Sono certo che ti troverai benissimo, qui», disse, ma pareva non esserne certo neanche lui. «Siediti pure dove vuoi».
La ragazza annuì timidamente e si fece largo in mezzo ai banchi scrutandoli alla ricerca di un posto libero.
Soffocando un’imprecazione, Ariel realizzò che, quello accanto al suo, era l’unico fra i soli due banchi rimasti vuoti. Non era brava a fare amicizia, il suo essere schiva non la faceva essere la compagna ideale e l’avere vicino la più – probabilmente - bella ragazza della scuola non avrebbe sicuramente giovato alla situazione. Pregò con tutta se stessa che non fosse una fissata con manicure e pedicure, mentre Xena, ignara di tutto, adagiava le sue cose sul banco a lei vicino e prendeva elegantemente posto sulla sedia.
«Ciao», disse.
«Ciao», rispose Ariel, sentendosi improvvisamente fuori luogo accanto ad una persona così fine ed incredibilmente affascinante.
«Piacere di conoscerti», fece quella, gli angoli della bocca carnosa che si incurvavano leggermente fino a plasmare un timidissimo sorriso. Ariel non poté fare a meno di notare quanto azzurri fossero i suoi occhi, con quelle iridi profonde quasi quanto l’oceano. Le sembrava persino vederle animarsi, squassate dalle onde che vi si celavano dietro. Eppure, rimase stupita nel trovare in mezzo a quel caos un tenue bagliore violaceo, che conferiva al suo sguardo un potere penetrante e allo stesso tempo tranquillizzante. Quelle iridi le ricordavano così tanto …
«Come ti chiami?», domandò, arrossendo un po’.
«Ariel», fece, alzando leggermente le spalle, come se la cosa avesse poca importanza.
«Che bel nome!».
«Mai quanto il tuo», ribatté lei, quasi senza pensarci.
Xena abbassò lo sguardo, mentre il viso le si imporporava violentemente.
Che idiota, si maledisse Ariel. Chissà quante volte i suoi compagni di scuola avevano avuto l’occasione di prenderla in giro per il suo nome e, adesso, ci si metteva pure lei con le sue constatazioni del cavolo.
«Ehm», riprese, sperando di rimediare a quella terribile gaffe. «Da dove vieni?»,  domandò, con la consapevolezza sempre più lampante di non essere per niente in grado di intavolare una conversazione.
«In realtà sono del posto. Ho sempre studiato da privatista, questa è la mia primissima esperienza a scuola», ridacchiò, quasi per schermirsi.
Oh.
Non seppe dire il perché, ma improvvisamente Ariel vide quella ragazza sotto una prospettiva diversa. E’ assurdo come la gente faccia così poca fatica a giudicare le persone. Xena poteva sembrare a primo avviso una biondina perfetta, probabilmente sempre sicura di sé e della sua bellezza. Eppure, osservandola meglio, sotto gli occhi chiari, le borse scure parevano evidenti, seppur celate da un velo di fondotinta. Le mani tremavano leggermente mentre cercava di farsi qualche amico, di non sentirsi sola ed emarginata, come probabilmente lo era stata fino a quel momento.
Ariel non era una gran chiacchierona, ma per quella ragazzina, così gentile e carina, avrebbe fatto uno sforzo. Era … okay. Come non lo era, invece, la maggior parte delle ragazze di quell’istituto. E il fatto che non si fosse ancora lamentata di qualcosa era da considerarsi alla stregua del miracoloso.
«Se studiare da privatista rende così intelligenti, probabilmente farei bene a ritirarmi, da questo liceo», disse, il tentativo di fare una battuta completamente rovinato dal suo tono di voce tirato e poco socievole.
Devo fare un po’ di pratica.
Xena, nonostante tutto, abbozzò un sorrisetto. «Se ti servono delle ripetizioni di trigonometria, io sono disponibile», si offrì.
Ariel si limitò ad annuire distrattamente, quasi dando la questione per persa. Temeva che per farle capire anche solo vagamente cosa fossero seno e coseno, ci volesse qualcosa di più che semplici ripetizioni.
Che so, tipo magia nera.
Per un momento ebbe la folle idea di chiedere a Mitch di farla diventare brava in matematica. Chissà se ci sarebbe riuscito … Già se lo immaginava con la sua stramba palandrana a scrivere con il gessetto formule di disequazioni impossibili.
Mmh … probabilmente si rifiuterebbe. Deve proteggermi e la trigonometria nuoce gravemente alla salute.
Il frusciare delle pagine la riportò al mondo reale, dove, in quel momento, Campbell aveva iniziato a spiegare e i suoi compagni, compresa Xena, aprivano il libro a pagina settantacinque.
Tirò svogliatamente il suo volume vecchio e ingiallito fuori dallo zaino e notò, non senza una punta di imbarazzo, che il testo della sua compagna era perfettamente intatto, in uno stato decisamente più decoroso del suo.
Il professore si cimentò in una lezione noiosa ed improponibile, quasi a non voler deludere le aspettative della nuova arrivata, mentre Ariel pregava affinché qualcosa ponesse fine alla sua vita seduta stante.
Durante il corso della spiegazione, notò più volte gli occhi chiari di Xena posarsi sui suoi, mentre un sorriso incoraggiante le spiccava gioviale sul volto, quasi volesse spronarla a tener duro: era ormai certo, quella ragazza le stava sempre più simpatica.
 

***

La giornata proseguì a rilento sino al suono della campanella dell’intervallo.
A quel punto, Ariel si costrinse ad assumere un’aria che non ricordasse l’espressione di una narcolettica e raccolse tutte le sue cose, mentre i suoi compagni facevano altrettanto e iniziavano a dirigersi verso la lezione successiva. Stava per salutare Xena, quando quest’ultima le porse un bigliettino. Su di esso spiccava la calligrafia di dieci elegantissimi numeri. «Nel caso in cui tu cambiassi idea», fece quella, gli angoli della bocca timidamente tirati all’insù. «Per le ripetizioni, intendo».
«Oh, grazie!», rispose e, questa volta, non dovette obbligarsi a ricambiare il sorriso.
 

***

Mentre saliva le scale che portavano all’ingresso, Ariel cercava le chiavi di casa imprecando sotto voce. Era passata da Tobia’s – il fast food in cui lavorava Zac – per chiedere informazioni sull’amico, ma la sua visita si era rivelata un totale fallimento. Pensò, non senza una certa nota di tristezza, che la sua carriera da detective era finita esattamente là dove era cominciata.
Aprì la porta con uno strattone e, nella fretta, non badò troppo all’ultimo scalino. La punta del piede non trovò terreno stabile e finì inevitabilmente per terra. Lo scontro delle ginocchia col pavimento la fece sussultare, mentre la borsa le cadeva dalle mani e tutti i libri si sparpagliavano con un sonoro tonfo .
Merda.
«Bell’atterraggio», fece una voce, evidentemente divertita. Ariel non dovette guardare per capire chi fosse.
«Taci, Mitch».
Si alzò barcollando e fece per rimettere le cose a posto quando notò qualcosa di strano. Un libro particolarmente lindo e intatto spiccava in mezzo agli altri, stropicciati e malconci. Lo prese tra le mani, rigirandone le pagine. Sulla prima era riportato il nome del proprietario: Xena Carter. L’ennesima imprecazione le uscì dalle labbra.
Tastando freneticamente le tasche del suo giubbotto, recuperò il bigliettino con le dieci cifre e compose il numero. Xena rispose al secondo squillo.
«Pronto?».
«Xena!», fece la ragazza, a mo’ di saluto. «Sono Ariel».
Dall’altra parte del telefono, la sua interlocutrice ridacchiò. «Accidenti, ci hai messo poco a cambiare idea!».
«No, non è per quello», spiegò l’altra. «Temo di aver scambiato accidentalmente il mio libro di trigonometria con il tuo».
Un istante di silenzio e, poi, il rumore del frugare in una borsa. «Hai ragione», rispose infine Xena. «Ho il tuo libro. È un problema se passo da te? Così te lo restituisco …».
«No problem!», fece Ariel e si cimentò in una breve spiegazione di dove abitasse e di come raggiungere casa sua.
Attaccò con un sospiro di sollievo. Per qualche strana ragione, si sentiva inquieta e terribilmente stanca, quasi quei pochi minuti di chiamata l’avessero prosciugata di tutte le forze.
«Chi stavi chiamando?», domandò Mitch alle sue spalle, facendola sobbalzare.
«Una mia compagna di classe», rispose osservandolo: ancora non si capacitava di quanto potesse apparire normale con quei vestiti addosso. «Per sbaglio, abbiamo scambiato i nostri libri di trigonometria. Sta venendo qui così ce li restituiamo», precisò.
Il ragazzo annuì distrattamente, quasi non gliene fregasse assolutamente nulla del libro. A chi importa di trigonometria, dopo tutto? «Hai scoperto qualcosa sul tuo amico?».
«Robert Collins non lo vede al lavoro da circa una settimana. Precisamente, da quando Zac ha preso l’influenza», disse, mentre un velo di inquietudine le attraversava gli occhi, appannandoli di lacrime. «Pensi che sia vivo?», domandò, senza un vero e proprio motivo.
«Non lo so», ammise Mitch. «Ma farò di tutto per trovarlo, te lo prometto».
E, per l’ennesima volta, le cellule del corpo di Ariel furono scosse da quella stessa certezza che aveva sperimentato da che lei e il suo Genio si erano incontrati: non era sola, era al sicuro e tutto sarebbe andato per il verso giusto. L’interagire con emozioni così positive, la sollevava da qualsiasi peso e tutto pareva trasformarsi in un gioco da ragazzi. Avrebbe voluto essere capace di esprimere a parole tutta la sua sorpresa e meraviglia nel trovarsi ad essere così spensierata, ma le frasi sembravano accavallarsi l’una sull’altra, incapaci di dare consistenza ad un pensiero coerente.
Il ragazzo fissò lo sguardo nel suo, certamente già a conoscenza di tutto, un piede portato in avanti e una mano tesa verso il volto di lei. Ariel si rese conto distrattamente di aver iniziato a piangere.
Il suono del citofono fece sobbalzare entrambi.
«Però!», disse la ragazza, improvvisamente imbarazzata. «Ci ha messo poco ad arrivare».
«Ci penso io ad aprire», fece Mitch. «Tu vatti ad asciugare il viso».
Quella stava per replicare, per dirgli che non era necessario, ma l’ondata di terrore che seguì la sua vergogna nell’ essere stata colta mentre piangeva, la paralizzò. Le ginocchia le cedettero mentre il suo corpo veniva percosso da brividi di terrore.
«Mitch!», gracchiò. Il Genio si voltò, la mano sulla maniglia pronto ad aprire la porta.
«Ariel?».
Ma probabilmente dovette percepire immediatamente quello che stava accadendo visto che sul suo volto si dipinse la stessa espressione nauseata che aveva la ragazza.
«È qui, Mitch!», riuscì a dire quella, quasi soffocandosi. «La Morte è qui!».
La risposta del Genio fu sovrastata dal rumore dei cardini della porta che saltavano in aria e dalle possenti lingue di fuoco e fiamme che inghiottivano imperturbabili la casa.
 
Note dell’autore:
Ho sempre meno scuse per giustificare il mio costante ritardo nella pubblicazione. La verità è che non avevo ispirazione e, a me – ahimè – l’ispirazione serve, altrimenti non riesco a scrivere nemmeno una sillaba. Oggi ho il cuore spezzato e, ironia della sorte, riesco a finire di scrivere la prima parte di questo capitolo. Ultimamente la vita non collabora. Dov’è finita la sua smania di voler cambiare le cose? Per me, rimane tutto lo stesso. #depressioneportamivia(?)
 
Bando alle ciance, parliamo della storia: finalmente un po’ d’azione uhuh. Ho deciso di aggiungere questa chicca alla storia pochi mesi fa, spero non vi spiaccia. Riuscirà Ariel a trovare Zac? Mitch la aiuterà? E chi è questa nuova e misteriosa ragazza che si è intrufolata nella vita della nostra giovane e balda protagonista? Scopritelo nel prossimo capitolo :) #stodelirandoloso
 
NEWS!
 
Probabilmente la prossima pubblicazione sarà una Slide Story completamente dedicata a Mitch. Affronterò l’episodio del suo incontro con Ariel dal suo punto di vista. Cosa ne pensate?
 
ANGOLO MINI SPOILER
[ATTENZIONE! STANNO PER SEGUIRE SPOILER PIÙ O MENO CONSISTENTI. SE NON GRADISCI LEGGERE, EVAPORA. DILEGUATI. SPARISCI. CAMALEONTIZZATI. INSOMMA, VEDI DI ANDARTENE].
SICURO? VUOI CONTINUARE? OH, BEH, SE LO DICI TU :)

 
All’interno del polso raggrinzito, spiccava flebile e rossastra una piccola macchia. All’inizio la ragazza pensò si trattasse di una leggera scottatura poi, però, osservandola meglio, ne dedusse il delicato disegno di una rosa: una minuscola cornice di petali si diramava dal fulcro del fiore in uno schema elegante e perfetto. «Cos’è?», domandò, più di una punta di curiosità della voce.
«Oh, questo?», rispose ***, indicando con il dito quella strana voglia. «Piccola mia, questo è il marchio»
”.

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Capitolo 11
*** Capitolo 5 - seconda parte - La bocca del Diavolo ***




Capitolo 5 – seconda parte
La bocca del Diavolo

    
La vita è un sogno dal quale ci si sveglia morendo.
Virginia Woolf

 

Tutto quello che Ariel riuscì a percepire nei successivi cinque secondi, fu un’infinita sequela di rumori assordanti che parevano volerle sfondare il cranio. Urlò, mentre la porta si disintegrava in milioni di affilatissime schegge di compensato che si dirigevano minacciose verso di lei.
«Giù!», gridò Mitch e la schiacciò a terra con tutto il peso, facendole da scudo, i pezzi di legno che si abbattevano in uno scrosciare disordinato su di loro. La ragazza si fece scappare l’ennesimo urlo di terrore, mentre il panico la teneva stretta in una morsa agghiacciante. Il Genio si inginocchiò e le afferrò il braccio. Aveva uno sguardo folle, un misto di eccitazione e terrore, e guardava Ariel con quei grandi occhi grigi quasi temesse di poterne dimenticare il volto. «Ascoltami bene», disse. Il suo tono di voce era fermo, eppure la ragazza poteva vedere la preoccupazione nei tratti improvvisamente duri del suo viso. « Tu adesso ti nascondi. E non esci finché non è tutto finito, hai capito?».
Le corde vocali come carta vetrata, Ariel non rispose. Lo shock, la nausea e la sensazione che stesse per accadere qualcosa di brutto – di veramente brutto – le impedivano di muoversi. Mitch, impaziente, la prese per le spalle e la scosse. «Ariel, guardami! Hai sentito quello che ho…».
Il rumore di migliaia di piccole schegge di vetro proruppe violento nella stanza. Quasi ci fosse stata una bomba atomica, tutte le finestre andarono in pezzi, provocando una pioggia di cristalli affilati e pronti a ferire. Il Genio lanciò un’imprecazione, mentre un bagliore verdastro si sprigionava dal suo corpo e lo avvolgeva in una sorta di involucro insieme ad Ariel. I vetri si scagliarono contro di loro, ma né Mitch, né la ragazza si fecero del male. Questa si ridestò giusto il tempo per capire cosa stessa succedendo. «Devi nasconderti», ripeté il ragazzo. «Subito!».
Ariel annuì, mentre si alzava e si faceva spazio verso il piano di sopra. Il cuore le batteva forte, i nervi che le bruciavano sotto il sottile strato di pelle che li ricopriva. Fece le scale il più velocemente possibile, spesso rischiando di perdere l’equilibrio e farsi male. Conscia di non potersi permettersi esitazioni, ritardi, mosse azzardate o checchessia, si chiuse la porta di camera sua alle spalle il più velocemente possibile. La schiena appoggiata al piano di compensato, strizzò gli occhi e tese le orecchie, in attesa di cogliere cosa stesse accadendo di sotto. Cercò di moderare il respiro in modo tale da poter sentire meglio, ma lì, intrappolata nella sua stanza, le mura della casa sembravano esser diventate impenetrabili. O, forse, il suo udito era disturbato semplicemente dal ronzio che le intasava le orecchie da quando qualcosa aveva buttato giù la porta d’ingresso. O qualcuno.
Un’ombra oscurò la finestra. Ariel spostò velocemente lo sguardo verso di essa, mentre il lampadario sopra la sua testa sfrigolava in minuscole scintille e si spegneva con un sospiro. Si concentrò sulle mattonelle del pavimento per impedirsi di urlare. Perché, se c’era una cosa che avrebbe voluto fare, era proprio gridare. Per la paura. Per il panico che le aveva reso carta vetrata la bocca. Per l’ossigeno, che in quel momento sembrava troppo poco. Per il possedere quello strambo dono. Per i Red Rose che gliel’avevano dato.
E per le urla di Mitch, che ora le arrivavano limpide e chiare all’orecchie, in un’unica, terrificante sinfonia. E le ordinavano quello che i suoi muscoli le impedivano di fare.
«Corri!».

***

 
Un bagliore violaceo proruppe nelle tenebre della camera. Tutto si tinse delle nuance dei ciclamini: le pareti, il soffitto, le ingenti quantità di libri sul pavimento. Solo, che ad accompagnare il colore, non era il profumo delicato dei fiori, quanto più la puzza di putridume e marcio della Morte. Le narici di Ariel pizzicarono e le fecero male, quando inspirò l’aria attorno a sé.
Dagli infissi della finestra, sottilissime lingue di vapore penetrano l’interno della stanza. Sfioravano delicate il pavimento lasciandosi dietro materiale fuso e maleodorante. E si dirigevano verso di lei, modellandosi in forme contorte e agghiaccianti nel tentativo di raggiungerla.
In un moto di terrore, la ragazza si girò e afferrò il pomello della porta, strattonandolo con forza per aprirla. Ma non appena le sue dita si posarono sull’acciaio, lanciò un grido. La maniglia era incandescente, come era diventata calda qualsiasi cosa, lì dentro. Dovette trattenere l’ennesimo singhiozzo quando si rese conto – e non senza una certa angoscia – che la porta si era completamente fusa con le mura della stanza, in un rivoltante agglomerato di legno e cemento.
Era in trappola.
Quella constatazione la fece quasi tranquillizzare. Stava per morire, dunque. La Morte aveva ottenuto quello che voleva e i Red Rose avevano fallito. Sperò, se non altro, in un qualcosa di rapido e indolore.
A smentire ogni sua speranza, un dolore lancinante le trafisse la gamba: il vapore – o qualsiasi schifezza fosse – l’aveva raggiunta. Con un misto di orrore e sorpresa, Ariel si accorse che la sua consistenza era più quella di una gelatina molle, che di un fluido e, quasi dotata di vita propria, l’agguantava in una presa forte e salda. Come a volerla scavare dall’interno, la cosa iniziò a … fonderla. Vide chiaramente la pelle divenire raggrinzita, come invecchiata di cent’anni, e sciogliersi in un mare di sangue e pus. Avrebbe voluto vomitare.
E, invece, iniziò a piangere.
Stupida sciocca, si disse. Reagisci.
Ma le lacrime cominciarono ugualmente a rigarle le guance, mentre il polpaccio sinistro si riduceva ad una poltiglia e ogni speranza che aveva di sopravvivere si affievoliva insieme alla sua vista. Quasi riuscì a sorridere mentre il buio la inghiottiva e perdeva i sensi.
L’ultima cosa che riuscì a percepire, fu il boato di qualcosa che andava in frantumi.
 

***

 
Riprese conoscenza troppo presto. Le immagini davanti a lei apparivano ancora sfocate, ma l’udito e – aimè – l’olfatto avevano ripreso a funzionare alla perfezione. La puzza di marcio la investì come un carro armato, provocandole l’ennesimo conato. Questa volta non si trattenne e rovesciò il contenuto pressoché inesistente dei suoi pasti.
Davvero disgustoso.
«Ariel».
Una voce, quella di Mitch, la costrinse ad aguzzare la vista e concentrarsi su quello che aveva attorno.
Quasi le venne da ridere.
Il Genio, sempre in jeans e maglietta, le stava davanti con l’espressione preoccupata e la teneva per le spalle, in modo da non farla scivolare. Era incredibilmente bello, si rese conto Ariel. Bello nonostante i tagli, i capelli arruffati e … il vomito sui vestiti.
Arrossì. A quanto pare aveva abbastanza sangue in circolo per permetterselo.
Buon segno.
«Riesci a camminare?», le domandò. Quella scosse la testa e, nel farlo, il mondo sembrò fare una capriola. Si guardò in giro. Si trovavano all’interno di quella strana bolla verde che Mitch aveva usato prima per proteggerli, però la stanza era diversa. La carta da parati rosa pallido era indubbiamente quella della camera da letto di sua madre.
«Dobbiamo uscire di qui», continuò il Genio. «Dovrò trasportarti, il che ci rallenterà».
«La mia gamba …», iniziò Ariel, la voce ridotta a un sussurro, improvvisamente consapevole del dolore che le percorreva a intervalli lunghi e regolari tutto l’arto sinistro.
«Guarirà», tagliò corto il Genio. «Ascoltami», e nel dirlo le afferrò il mento con una mano per calamitare lo sguardo di lei nel suo. «Usciti di qui, ci sarà parecchio casino. È una fortuna che tu viva fuori città, altrimenti la polizia avrebbe già circondato la casa. Fatto sta che, prima o poi, questo posto si riempirà di gente e a quel punto dovremo spiegare parecchie cose», alzò un sopracciglio, in un gesto eloquente.
E sexy.
Okay, smettila.
«E tu non vuoi raccontare quello che è successo, vero?», chiese Mitch, ovviamente retorico, ma Ariel scosse la testa in risposta, imprecando sottovoce quando la stanza iniziò nuovamente a girare.
«Perfetto», disse e si alzò, trascinando con sé la ragazza. La prese da sotto le ascelle, come una poppante, e con una torsione del braccio la sollevò, portandosela alla schiena. Con le poche forze che le rimanevano, Ariel allacciò le braccia al collo di lui, abbandonando la fronte sulla sua spalla. Inspirò forte. E arricciò il naso.
«Puzzi», si lamentò, prima di riuscire a trattenersi. Per un momento ebbe paura si potesse offendere, ma, non seppe perché, qualcosa le diceva che Mitch stesse sorridendo.
«È colpa della tua personalissima fragranza al gusto di vomito», rispose quello, confermando il sospetto della ragazza.
Che razza di bastardo.
«Vai all’inferno».
«Ci siamo già» e in quella, tirò un calcio alla porta, aprendosi un varco nella bocca del Diavolo.
 

***

 
Il montre molle di Salvador Dalì. Fu la prima cosa che venne in mente ad Ariel osservando le pareti liquefatte di casa sua, ormai divenuta un grottesco relitto di ciò che era stata in passato.
I brividi che le percorrevano la schiena, strinse più saldamente la presa attorno al collo di Mitch, probabilmente rischiando di strozzarlo.
Attraversarono i corridoi in silenzio. Spesso, anni prima, si era ritrovata a pensare a quanto fosse piccola la sua casetta se paragonata alle ville del centro. In quel frangente, le pareva persino troppo grande. Non vedeva l’ora di uscire da lì, osservare ancora una volta il cielo uggioso di febbraio, riabbracciare sua mamma …
Mia mamma!
Il pensiero di cosa le avrebbe raccontato una volta tornata per il week-end la paralizzò. Come avrebbe potuto spiegarle che la loro casa era andata completamente distrutta? Prima o poi l’avrebbe vista, avrebbe notato che quello che era accaduto non poteva essere il frutto di un banale incendio. E avrebbe fatto domande. Tante domande. Quesiti cui lei non poteva rispondere, anche perché Ariel stessa, per prima, non sapeva darsi una spiegazione. Si promise di chiedere a Mitch, una volta fuori di lì e di chiamare sua madre, sperando si bevesse la prima storiella le fosse venuta in mente.
Lo scricchiolio di qualcosa riportò la ragazza alla realtà. Sotto la maglietta, poté percepire i muscoli del Genio tendersi e allarmarsi, quasi fossero stati attivati da un interruttore invisibile.
Un capogiro la travolse quando si rese conto che la prospettiva del suo campo visivo era notevolmente distorta: il corridoio le sembrava troppo largo e le pareti che li circondavano parevano andando incrinandosi verso di loro, in un lugubre e terrificante movimento a moviola.
Il rumore assordante di qualcosa che si spezza e poi un boato minacciarono di farla svenire per la seconda volta.
Deglutì, mentre la consapevolezza di quella nuova minaccia le irrigidiva a uno ad uno tutti i nervi del corpo.
La casa stava per crollare.
E loro erano ancora all'interno.
 
Note dell’autore:
Non odiatemi se finisco sempre di scrivere sul più bello (o brutto, in questo caso) … mi piace creare suspense. O, almeno, ci provo.
Che dire? Lo so che vi avevo promesso una slide story, ma ho deciso di pubblicarla per il primo dell’anno, come regalo a chi mi segue :)
Spero di aggiornare il prima possibile. Perdonatemi, come sempre, per i mille ritardi! Un bacione e buon anno, nel caso in cui me ne dimenticassi!
Ellie.

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