25-1-12
Sarebbe stato
facile
aspettare un messaggio.
Come lasciare
che il presente entrasse nella propria vita, la pervadesse,
giusto per quei minuti necessari a farti capire che sì,
davvero, eri rimasto
solo.
Lacrime di
pioggia, come le navi erano gl'occhi del mare, le nuvole eran quelli
del cielo.
Lacrime.
Nient'altro che
lacrime; pensieri, stupidi pensieri, inneggianti a un passato
in continua metamorfosi all'interno della testa.
Tanto poi
t'andavi a convincere che il passato che avevi in testa, era identico
a quello delle cose che erano successe sul serio.
Come mentirsi da
sé in mille e uno modi.
Era entrato
lì per sfuggire, al passato, solo perché aveva un
grande futuro
alle spalle. Un futuro perso, disperso, in un mare di complicazioni,
urli,
pianti, urti, rimpianti.
Perso ma non
sconfitto.
A zaffate
resuscitava come quei personaggi degli horror di second'ordine che
non muoiono mai; onnipresente, onnisciente.
Doloroso.
Sempre, ogni
volta, sempre; com'essere su d'un'onda, del resto.
Te ne stai
lì, in mezzo al mare della tua tranquillità, e
d'un tratto, vieni alzato, sollevato, per tuo volere o no, certo, ma te
ne vieni via,
strappato e strattonato qua e là con acqua in continua
risalita, sperando che
qualcuno ti fermi.
Non che non sia
divertente, ma si sta meglio con i piedi per terra, o in acqua,
è la stessa cosa a quanto dicono.
Finché
sei lì sopra, tutto è bello, vedi anche la terra
che tanto agognavi
perso nella piattezza del tuo mare, e immaginarsi a quale sensazione e
sorpresa
deve portare l'esserci schiantato apposta, da quell'onda che tanto ti
faceva
sognare, cosa vuol dire naufragare su di una spiaggia, disperso, alla
deriva,
su un manto di insignificanti, minuscoli granelli, di stupida,
stupidissima
sabbia.
In fondo il mare
è questo. Acqua, sabbia. Il resto ce lo vede la gente.
Mostri, sirene,
fantasmi, navi di pirati, pesci enormi, terre promesse, morti
che camminano - che magari nuotano in mezzo al mare anche -, tutte cose
così.
E, in
realtà, è solo acqua. Acqua e sabbia.
È la
gente che vede miraggi dove non c'è nient'altro che
semplicità.
E
così entrò lì dentro, nel silenzio, in
mezzo alla neve abbracciata alla
pioggia.
Perché
se dici ciò che non pensi, ti dicono ipocrita.
Perché
se dici ciò che pensi, sei insensibile.
Perché
se
non dici ciò che
pensi ti dicono bugiardo.
Perché
se non dici niente, di marchiano come disinteressato.
Allora
cosa potevi fare? Scappare.
Come
aveva fatto lui.
Ora
si ritrovava in mezzo a gente un poco particolare.
La
mattina, si alzava, si vestiva, faceva colazione.
Il
tutto con una colonna sonora, gracchiante e raschiante.
Milites, i Galli
sono vicino a noi! Preparatevi alla battaglia che il sole sta per
sorgere di nuovo!, al che potevi anche cercare di spiegargli, a
quell'uomo, che i Galli erano già stati sconfitti
duemila anni prima, Cosa dici stupido optio? Ti
farò accusare di insubordinazione, rientra tra i ranghi!
È un ordine di Cesare!, e lì, capivi che lui, un
ometto di sessant'anni suonati, che a stento si reggeva in piedi, era Cesare: quello
dei libri di storia.
Alla
battaglia!, e tu rimanevi là a fissarlo, con aria
sconsolata. Lui, nel frattempo, si ammantava con le coperte sdrucite e
logore, se me metteva a mo' di mantello militare, prendeva un bastone
di legno, e usciva.
Aveva
dietro di sé, nella sua mente, un esercito invincibile.
E
te lo vedevi lì, Soldati resistete! Non possono sconfiggere
gl'invitti romani!, volteggiare con un bastone di legno, danzando con
una coperta usata da chissà quante altre persone, Siete
molto valorosi, o Galli, ma i miei soldati vi schiacceranno!, e
là continuava a mulinare fendenti, e più lo
faceva, più la tua testa si abbassava e voleva cominciare a
pensare.
Ogni
sera, poi, tornava dalla sua campagna;
Soldati! Un'altra vittoria per Roma! Cuoco, diceva rivolgendosi a te,
doppia razione di cibo!, e tu gli spiegavi che per mangiare avrebbe
dovuto arrivare prima, perché gli altri avevano
già finito anche la sua parte; allora Cesare ridiventava
l'omino insignificante di sessant'anni, tutto rattrappito che si
stringeva le braccia alle ginocchia sussultando per il freddo e
battendo i pochi denti rimastigli, appoggiando il mento sulle
ginocchia, piangendo.
Era
sempre così.
Avevano
Cesare, Napoleone, Ramses, Pericle, Cortés, Von Wallenstein,
c'erano un po' tutti.
Uno
a turno schizzava e andava a combattere nel prato, incurante del gelo.
Poi,
pensavi, questi c'han pure delle famiglie anche, no? E invece no.
Erano
abbandonati a se stessi, e te ne stavi lì, a sentire i loro
sconclusionati racconti di guerra, dove all'epoca di Ramses usavano le
baionette montate sui fucili, dove Cesare girava con la jeep, e loro
non sapevano nemmeno di vivere in un sogno.
E
lui li ascoltava.
Lui
ascoltava sempre, non c'è altro da fare a volte, ascoltare
gli altri, ingoiando le proprie parole.
Ascoltava,
silenzioso.
Non
si ricordava molto bene dell'ultima volta che aveva detto addio, ma ne
ricordava il silenzio assordante, e pregava in ginocchio, di non dover
più essere trascinato via da quella tristezza
imperante, di non dover riprovare tutto quello per una persona.
Curando
gli altri, avrebbe curato se stesso.
Anche
se non si credeva un generale, uno stratega.
Curando
se stesso, avrebbe curato gli altri.
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