Varlam

di Alkibiades
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** Cesare. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Osp

Stanza asettica, bianco sulle pareti, sul cuscino, sul pavimento. Piastrelle bianche, stoffa bianca, intonaco bianco. 

Silenzio.

Il ronzio delle lampade a neon, obsolete, contrastava con i silenziosi dolori che ognuno portava in sé.

Le uniche note di colore, se si poteva usare una parola così armoniosa, si notavano solo sulle lenzuola, sbiadite dai troppi lavaggi, acquerellate, sfilacciate, di un verde stanco.

Bianco e verde, verde e bianco.

Cuscini bianchi, intrisi di lacrime, con le anime intere entravano, svuotati, gusci vuoti ne uscivano; era un ottimo modo, il guardare i cuscini, per capire quali erano i nuovi arrivati, i nuovi ospiti, o meglio, era un metodo funzionante solo per le donne, o ragazze: il trucco. 

Il trucco sul bianco, nero, colore bandito, l'insieme di tutti gli altri, per questo proibito. Entravi lì e tutto era soffuso, apatico, oggettivo, già, per la soggettività dovevi cercare da altre parti, non là, no di certo.

Quando piangevano la loro sorte, il loro trucco per l'appunto, colava. Mica gli colava da solo, colava con la loro anima, fino a farsi via via sempre più grigio, sempre più chiaro, fino a diventare un fiume di lacrime, incolore, bianco nel bianco.

Smettevano di volersi bene, non si pettinavano, non si truccavano, non si vestivano nemmeno più secondo la loro volontà.

Per gli uomini, ti dovevi arrangiare.

Gli inservienti, o meglio, gli ospitanti, entravano una volta ogni due giorni nelle stanze. Passi leggeri, movimenti esperti, aprivano le finestre prima chiuse a chiave, le richiudevano dopo un po', se ne andavano, passi leggeri, com'erano arrivati, in silenzio, nessuna parola.

Gli ospiti passavano le loro giornate fissando le finestre chiuse, il riflesso del mondo nei loro occhi in via di spegnimento, il riflesso degli occhi in via di spegnimento nel loro mondo in un tripudio di colori abbacinante.

Se c'era una cosa snervante nelle lunghe, lunghissime notti lì dentro, era il ronzio delle lampade al neon: un ronzio asfissiante, senza tregua, in una luce fredda, senza calore, senza gioia.

Odiavi la notte, odiavi il giorno, odiavi le lacrime, odiavi gli ospitanti.

Quotidianamente un ospite, saltava letteralmente addosso a un ospitante, giusto per fargli capire chi viveva in quelle camere, giusto per il gusto di toccare qualcuno che ancora aveva un'anima calda.

Gli inservienti quindi facevano corsi di autodifesa, qualche volta, dicevano, c'era pure scappato il morto, quindi vai, vai a farti un corsetto di arti marziali, che non si sa mai.


Il 15 dicembre, sotto una caduta incessante di pioggia e neve abbracciate tra loro, Varlam entrò dentro a quella che sarebbe stata la sua casa per il resto della sua vita.


Per entrare in quel luogo, in mezzo al nulla, o meglio, il nulla in mezzo a qualcosa, dovevi aver proprio fame, bisogno di soldi, oppure un cuore grande, enorme, e voglia di rischiare l'omicidio da parte di persone con turbe mentali, idee diverse, sognatori.

In altre parole, per entrare in quel luogo, bisognava essere masochisti.

D'estate era caldo, asfissiante l'umidità, zanzare in sciami innumerevoli, malattie tra gli ospiti che diventavano delle piccole pandemie, d'inverno era freddo, secco, non riscaldavano troppo gli ambienti, arti che si scurivano, arti che andavano tolti, anime che partivano.

Fumo.

Sognatori.


Il 15 dicembre, sotto una caduta incessante di pioggia e neve abbracciate tra loro, un pazzo, masochista,  di nome Varlam, per scappare da tutto e tutti, entrò dentro a quella che sarebbe stata la sua casa per il resto della sua vita.


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Capitolo 2
*** Cesare. ***


25-1-12

Sarebbe stato facile aspettare un messaggio.

Come lasciare che il presente entrasse nella propria vita, la pervadesse, giusto per quei minuti necessari a farti capire che sì, davvero, eri rimasto solo.

Lacrime di pioggia, come le navi erano gl'occhi del mare, le nuvole eran quelli del cielo.

Lacrime.

Nient'altro che lacrime; pensieri, stupidi pensieri, inneggianti a un passato in continua metamorfosi all'interno della testa.

Tanto poi t'andavi a convincere che il passato che avevi in testa, era identico a quello delle cose che erano successe sul serio.

Come mentirsi da sé in mille e uno modi.

Era entrato lì per sfuggire, al passato, solo perché aveva un grande futuro alle spalle. Un futuro perso, disperso, in un mare di complicazioni, urli, pianti, urti, rimpianti.

Perso ma non sconfitto.

A zaffate resuscitava come quei personaggi degli horror di second'ordine che non muoiono mai; onnipresente, onnisciente.

Doloroso.

Sempre, ogni volta, sempre; com'essere su d'un'onda, del resto.

Te ne stai lì, in mezzo al mare della tua tranquillità, e d'un tratto, vieni alzato, sollevato, per tuo volere o no, certo, ma te ne vieni via, strappato e strattonato qua e là con acqua in continua risalita, sperando che qualcuno ti fermi.

Non che non sia divertente, ma si sta meglio con i piedi per terra, o in acqua, è la stessa cosa a quanto dicono.

Finché sei lì sopra, tutto è bello, vedi anche la terra che tanto agognavi perso nella piattezza del tuo mare, e immaginarsi a quale sensazione e sorpresa deve portare l'esserci schiantato apposta, da quell'onda che tanto ti faceva sognare, cosa vuol dire naufragare su di una spiaggia, disperso, alla deriva, su un manto di insignificanti, minuscoli granelli, di stupida, stupidissima sabbia.

In fondo il mare è questo. Acqua, sabbia. Il resto ce lo vede la gente.

Mostri, sirene, fantasmi, navi di pirati, pesci enormi, terre promesse, morti che camminano - che magari nuotano in mezzo al mare anche -, tutte cose così.

E, in realtà, è solo acqua. Acqua e sabbia.

È la gente che vede miraggi dove non c'è nient'altro che semplicità.

E così entrò lì dentro, nel silenzio, in mezzo alla neve abbracciata alla pioggia.

Perché se dici ciò che non pensi, ti dicono ipocrita.

Perché se dici ciò che pensi, sei insensibile.

Perché se non dici ciò che pensi ti dicono bugiardo.

Perché se non dici niente, di marchiano come disinteressato.

Allora cosa potevi fare? Scappare.

Come aveva fatto lui.

Ora si ritrovava in mezzo a gente un poco particolare.

La mattina, si alzava, si vestiva, faceva colazione. 

Il tutto con una colonna sonora, gracchiante e raschiante.

Milites, i Galli sono vicino a noi! Preparatevi alla battaglia che il sole sta per sorgere di nuovo!, al che potevi anche cercare di spiegargli, a quell'uomo, che i Galli erano già stati sconfitti duemila anni prima, Cosa dici stupido optio? Ti farò accusare di insubordinazione, rientra tra i ranghi! È un ordine di Cesare!, e lì, capivi che lui, un ometto di sessant'anni suonati, che a stento si reggeva in piedi, era Cesare: quello dei libri di storia.

Alla battaglia!, e tu rimanevi là a fissarlo, con aria sconsolata. Lui, nel frattempo, si ammantava con le coperte sdrucite e logore, se me metteva a mo' di mantello militare, prendeva un bastone di legno, e usciva.

Aveva dietro di sé, nella sua mente, un esercito invincibile.

E te lo vedevi lì, Soldati resistete! Non possono sconfiggere gl'invitti romani!, volteggiare con un bastone di legno, danzando con una coperta usata da chissà quante altre persone, Siete molto valorosi, o Galli, ma i miei soldati vi schiacceranno!, e là continuava a mulinare fendenti, e più lo faceva, più la tua testa si abbassava e voleva cominciare a pensare.

Ogni sera, poi, tornava dalla sua campagna; Soldati! Un'altra vittoria per Roma! Cuoco, diceva rivolgendosi a te, doppia razione di cibo!, e tu gli spiegavi che per mangiare avrebbe dovuto arrivare prima, perché gli altri avevano già finito anche la sua parte; allora Cesare ridiventava l'omino insignificante di sessant'anni, tutto rattrappito che si stringeva le braccia alle ginocchia sussultando per il freddo e battendo i pochi denti rimastigli, appoggiando il mento sulle ginocchia, piangendo.

Era sempre così.

Avevano Cesare, Napoleone, Ramses, Pericle, Cortés, Von Wallenstein, c'erano un po' tutti.

Uno a turno schizzava e andava a combattere nel prato, incurante del gelo.

Poi, pensavi, questi c'han pure delle famiglie anche, no? E invece no.

Erano abbandonati a se stessi, e te ne stavi lì, a sentire i loro sconclusionati racconti di guerra, dove all'epoca di Ramses usavano le baionette montate sui fucili, dove Cesare girava con la jeep, e loro non sapevano nemmeno di vivere in un sogno.

E lui li ascoltava.

Lui ascoltava sempre, non c'è altro da fare a volte, ascoltare gli altri, ingoiando le proprie parole.

Ascoltava, silenzioso.

Non si ricordava molto bene dell'ultima volta che aveva detto addio, ma ne ricordava il silenzio assordante, e pregava in ginocchio, di non dover più essere trascinato via da quella tristezza imperante, di non dover riprovare tutto quello per una persona.

Curando gli altri, avrebbe curato se stesso.

Anche se non si credeva un generale, uno stratega.

Curando se stesso, avrebbe curato gli altri.

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