Overboard

di Hiromi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A woman left lonely ***
Capitolo 2: *** So what?! ***
Capitolo 3: *** Kick Ass ***
Capitolo 4: *** City of blinding lights ***
Capitolo 5: *** What happens tomorrow ***
Capitolo 6: *** Numb ***
Capitolo 7: *** Butterflies and Hurricanes ***
Capitolo 8: *** Vindicated ***
Capitolo 9: *** Ironic ***
Capitolo 10: *** No more I love you's ***
Capitolo 11: *** Split Personality ***
Capitolo 12: *** Rocket Queen ***
Capitolo 13: *** Undisclosed Desires ***
Capitolo 14: *** Catch me if you can ***
Capitolo 15: *** This is the life ***
Capitolo 16: *** Heavy Cross ***
Capitolo 17: *** Damn Girl ***
Capitolo 18: *** You and I ***



Capitolo 1
*** A woman left lonely ***


All’inizio doveva essere un mix tra Sex and The City e Friends. Una commedia piacevole e gentile, qualcosina con cui svagarsi e bla bla bla.

Non avevo idea che i personaggi mi si sarebbero ritorti contro, come marionette petulanti che tagliano i fili a chi li sta muovendo, e che si sarebbero mossi  come pareva e piaceva a loro.

 

Una volta finitola ho deciso di rivederla, ricorreggerla, mettermi le mani tra i capelli e agire di conseguenza mettendo dei paletti che devo spiegarvi, onde evitare, poi, inutili lamentele, quindi partiamo pure in quarta.

 

Questa fanfiction è OOC: è lo è per i motivi esplicati sopra; ma ho il dovere di dirvi che i personaggi hanno dai diciannove anni in su. Questo non è il 4° campionato di beyblade da molti autrici descritto, e si suppone che i loro caratteri siano maturati, sviluppati, cambiati.

Malgrado la maggior parte di loro sia assolutamente IC, vi sono quei pochi che a mio avviso non sono nel personaggio – ve ne accorgerete – e ho preferito mettere quest’avvertimento per evitare di dar fastidio a qualcuno fan sfegatato del character;

 

Questa fanfiction è Lime e di rating arancione: prende pur sempre spunto da Sex and the city, vi sono alcune scene dove il sesso è ben camuffato ma lo si percepisce lo stesso, e il rating ho preferito alzarlo tanto – a mio avviso è fin troppo alto, ma non si sa mai – per proteggere tutti. Abbiamo occhioni delicati, qui…

 

Questa fanfiction è una commedia, benché talvolta il tono sia un po’ più serioso dei miei lavori precedenti, e ho posto sentimentale al posto di romantico per essere coerente con la trama della fanfiction.

 

 

DISCLAIMER (OBBLIGATORIO)

 

La band delle Cloth Dolls è stata inventata e realizzata ispirandomi a quella dei Pretty Reckless, realmente esistente. Le canzoni che inserirò sono specificatamente loro e immesse nella fanfic perché adatte al contesto e ideali nella situazione, non a scopo di lucro.

 

Ogni riferimento a persone o fatti realmente esistenti è puramente casuale; o quasi

 

 

 

 

E, ora, dopo tutto questo tono serioso e da maestrina, posso finalmente rilassarmi…

 

Overboard” (= ‘Alla deriva’) è nata a Febbraio 2011, prendendo spunto da una delle mie tante chiacchierate notturne con Avly – le nostre conversazioni sono sempre foriere di elucubrazioni mentali pazzesche o idee geniali – e, dai primissimi del mese, mi sono cimentata in questo nuovo progetto con entusiasmo e grinta, accantonandolo soltanto per i Missing Moments di RMA.

 

Avevo da subito chiaro che se non avessi stilato la scaletta e non mi fossi fatta aiutare da qualcuno sarei stata nei pasticci: Avly e Lily_92 mi sono state accanto, la prima correggendo come beta i capitoli, la seconda, come la più cara delle amiche, pronta a sostenermi e a supportami sempre, ogni qualvolta ne avessi bisogno, per infondermi il coraggio e lo sprint necessario per affrontare il tutto.

Senza di loro, sarei stata nei pasticci. (Per non dire qualche altra cosa. u_u)

 

Spero non vi siate annoiati a leggere tutta questa filippica ma, credetemi, è veramente necessaria al fine di capire alcuni punti della storia e di evitare, più in la inutili critiche (visto che ho notato che la maggior parte dei lettori non legge gli avvertimenti e poi si lamenta se in una fanfic ci sono certe scene… -____-‘’’’)

Detto tutto questo, vi lascio al primo capitolo,

Spero veramente vi piaccia,

 

 

 

 

 

 

A Lily_92:

Questa fanfic-telefilm non sarebbe stata la stessa

Senza i suoi flash mentali e i suoi scleri che hanno contribuito

Ad ispirarmi e ad entusiasmarmi anche quando tutto pareva scemare.

Il ringraziamento è d’obbligo, così come la dedica, che ci sta tutta!

 

 

 

 

Overboard

 

 

 

 

A woman left lonely will soon grow tired of waiting,
She'll do crazy things, yeah, on lonely occasions.
A simple conversation for the new men now and again
Makes a touchy situation, when a good face come into your head
And when she gets lonely, she's thinking 'bout her man,
She knows he's taking her for granted…

 

A Woman left Lonely – Janis Joplin

 

***********************

 

Rivestendosi in fretta, stette bene attenta a non svegliare il ragazzo che era stato preso da un colpo di sonno non indifferente.

Mordendosi le labbra, allungò le braccia per prendere la pochette che, se non ricordava male, era stata lanciata verso la poltrona ed era andata a finire contro il comodino non si sapeva bene come; la verità era che, in quei momenti, in quelle sere, non si sapeva mai di preciso cosa accadeva, specie con più di tre drink in corpo.

 

Non badando al leggero mal di testa che minacciava di non farla ragionare, ed imponendosi di dover andare all’università a tutti i costi, raccolse le sue cose, facendo sparire ogni traccia di sé  e del suo passaggio; sbuffò impercettibilmente al pensiero di non aver chiuso occhio quella notte: l’aveva semplicemente trascorsa a fare… Qualcosa di meglio.

 

Si chiuse la porta del monolocale alle spalle più piano che poté, e una volta fuori, si accinse ad andare alla ricerca del primo bar disponibile: un caffè e una buona colazione sarebbero stati l’ideale per darsi una bella svegliata, senza contare che doveva prendere l’autobus per arrivare a casa.

 

Le sei del mattino: per avere sonno ce l’aveva eccome, ma tanto, tempo due ore, e avrebbe ricevuto la telefonata giornaliera da parte di sua madre, ragion per la quale dormire sarebbe stato inutile. 

 

Non appena intravide l’insegna di un bar, vi si fiondò immediatamente, ordinando un caffè forte e un cornetto alla crema: a Tokyo, nel suo quartiere, non l’avrebbero nemmeno riconosciuta in quella mise da Venerdì sera, che avrebbe grandemente stonato in una tranquilla zona di Tokyo specie il Sabato mattina dove tutti erano a dormire; invece lì, a New York, nell’Upper West Side, nessuno la squadrava più di tanto.

Le persone erano abituate a vedere di tutto, e non era certo una ragazza che di prima mattina si presentava in un bar vestita come se dovesse andare ad un concerto rock, che poteva scandalizzare.

Quella era New York, la grande mela, la metropoli non dormiva mai, che ventiquattr’ore su ventiquattro era sempre affollata e caotica: non si poteva mai sapere con chi ci si sarebbe svegliato il giorno dopo, né cosa sarebbe avvenuto nelle ore successive; era imprevedibile, magica, capricciosa, ma non si poteva fare a meno di amarla. 

 

“Grazie.” esclamò, contenta, non appena il barista le pose dinnanzi caffè e cornetto; ebbe appena il tempo di zuccherare la bevanda, quando la tv dietro di lei annunciò un’edizione straordinaria.

 

“Notizie dal mondo dello sport.” fece il giornalista. “Si è da poco conclusa ad Atene la conferenza stampa che vedeva riunirsi le maggiori rispettabilità del mondo del beyblade: il presidente Daitenji, per la BBA, ha annunciato l’apertura di un nuovo campionato mondiale a New York, e l’inizio è previsto per la prossima settimana.”

 

La ragazza sgranò gli occhi castani per poi aggrottare le sopracciglia con fare sospettoso.

 

Di già? Ma prima ci sono le selezioni nei paesi d’origine, solo dopo poche settimane vi è l’effettivo inizio del torneo…

 

Ascoltò attentamente la parte restante della notizia, ma più il giornalista sproloquiava, meno era convinta; bevve il caffè tutto d’un fiato e scosse la testa, piluccando il cornetto.

 

C’è puzza di marcio. E poi perché avrebbero dovuto dare una notizia così alle sei e mezza della mattina?

 

Lasciò velocemente i soldi sul bancone ed uscì, decisa a prendere l’autobus: doveva tornare a casa e collegarsi ad internet: non c’era tempo per star lì a bighellonare.

 

 

 

 

 

La cenere cadde lentamente dalla sigaretta, e un paio di occhi verdi la osservarono severamente volare via, trascinata dal vento: incredibile come essere leggera talvolta pregiudicasse pregi e difetti, pro e contro.

Meglio essere come la cenere della sigaretta bruciata, che una volta che cadeva andava dove trascinata, in balia del vento e di tutti, oppure meglio stare con i piedi ben piantati per terra, e decidere per sé dove andare, e dove non voler andare?

 

Era sempre stata una ragazza ritrosa, Mariam: pungente, acida, riservata, erano più le persone con le quali si mostrava scostante che le persone che potevano vantare una vera e propria amicizia con lei.

Ma, nella vita, era sempre così: c’erano le persone che facevano amicizia anche con i muri, che amavano la gente, il rumore, gli imprevisti, la vita…

E c’erano quelli come lei.

 

Una misantropa schifosa. Ecco come l’aveva apostrofata Dunga in più di un’occasione, e lei non stava a crucciarsene: era vero.

Lei odiava la gente, preferiva i posti appartati e silenziosi a quelli chiassosi e pieni di confusione. Lei non faceva amicizia con il primo che passava; lei selezionava, scannerizzava, sondava e poi, soltanto poi, decideva se il gioco valeva la candela.

 

Le persone erano cattive, potevano ferire, e sin dalla più tenera età, mentre gli altri bambini si circondavano di amichetti e giocattoli, Mariam si era distinta dal gruppo per il suo guardo freddo e per il fatto che, oltre a suo fratello, non aveva legato con nessuno.

 

Cretina

 

Con un’altra boccata di fumo gettò fuori anche un altro insulto per se stessa: l’ennesimo. Mai si era fidata come si era fidata di lui, mai aveva dato tutto il suo cuore ad una persona quanto aveva fatto con lui… E il risultato qual era stato? Cuore spezzato e lei in lacrime. Lei, lei, lei che non piangeva mai.

 

Bastardo.

 

Una delle domande che si era sempre posta e alla quale non avrebbe mai trovato risposta sarebbe stato il perché. Tante cose.

Perché, tra tutti, si era innamorata proprio di lui; perché si era comportato così; perché più si riprometteva di non pensarlo più lo pensava.

E perché i ricordi dovevano necessariamente bruciare. Bruciare come fuoco.

 

 

“Il capo villaggio ci vuole vedere.” suo fratello le lanciò un’occhiata preoccupata, affacciandosi dalla porta di casa.

Mariam fece una smorfia, spegnendo la sigaretta ed alzandosi pigramente: da quando era tornata da Washington non aveva più voglia di fare nulla, era sempre apatica, spenta, e se punzecchiata era acida fino all’inverosimile.

“Hai sentito la notizia al telegiornale?”

 

La ragazza inarcò un sopracciglio. “Avrei dovuto?”

Jessie sospirò: sapeva che sua sorella stava passando un periodaccio, e sapeva anche che, nonostante spesso e volentieri si mostrasse apatica, nonostante potesse essere un’acida del cavolo, in realtà, interiormente, stava soffrendo, e tanto. Sperava solo che tutto questo finisse, e presto.

 

“Siete arrivati, finalmente.” la voce di Dunga attirò l’attenzione dei due fratelli: Mariam lo fulminò con lo sguardo, poi entrò in casa dell’autorità del villaggio senza curarsi di lui.

 

“Salve, ragazzi.” l’anziano capo li fissò sorridendo leggermente. “Come componenti degli Scudi Sacri, fin’ora avete svolto un ottimo lavoro, ed è giusto che continui ad essere così: oggi è stata annunciata l’apertura di un nuovo torneo di beyblade a New York, e sarebbe il caso che andiate.”

 

Bastarono quelle poche parole per far implodere il cuore di Mariam: improvvisamente sentì la testa vorticarle, le orecchie fischiarle e il sangue scivolarle via dalla faccia.

“Cosa?” emise un sussurro appena accennato, inghiottendo a vuoto.

 

“Ti senti bene, figliola?” l’anziano la fissò preoccupato, aggrottando la fronte.

 

“I-Io non posso.” lo sussurrò con gli occhi persi nel vuoto: i ricordi le si riversarono addosso con la prepotenza di un film a tutta velocità, e il respiro prese a farsi accelerato.

 

“Perché?” fu la domanda di Dunga a strapparla dai flashback e a portarla con forza alla realtà; si voltò un attimo a guardarlo, e in un attimo ritrovò tutta la sua compostezza. Non aveva senso. Il suo atteggiamento non aveva senso. Si stava comportando come una donnicciola spaventata dalla sua stessa ombra: possibile bastasse uno stupido ragazzo a ridurla in quel modo?

 

“Nulla.” Sbottò, ritrovando la sua proverbiale freddezza. “New York? E sia.” In fondo, esistevano cose peggiori e, dopotutto, c’era ancora una cosa che non aveva sperimentato: la vendetta.

 

 

 

 

 

“Non prenderai freddo vestita così?”

 

Ecco, era proprio così: le parole potevano fare peggio di una coltellata, ed era vero; Mao di sforzò di sorridere, ma tutto quello che le uscì fu una smorfia e, improvvisamente, si sentì ridicola.

 

Patetica’ era proprio una parola interessante: fino a quanto potevi spingerti a esserlo per colui che amavi?

 

“E’ quello che le ho detto io, ma non ha voluto sentire ragioni.” sbottò Lai, incrociando le braccia al petto; Mao chiuse lentamente gli occhi e, quando li riaprì, pochi minuti dopo, riuscì ad ostentare la solita espressione di sempre.

In fondo lei era Mao, la dolce Mao. Quella comprensiva, che non alzava mai la voce; quella energica e un po’ mammina. Magari poteva sopportare, giusto?

 

Pechino era proprio bella: luci, colori sovrastavano tutt’intorno. Era grande. Così diversa dal loro villaggio, così cosmopolita, un crocevia di culture e di popolazioni… Non vi era mai stata, e ne stava rimanendo pressoché affascinata.

 

“Potete dire quello che volete: Mao stasera è più bella del solito.” fu l’esclamazione di Mystel a farla arrossire e balbettare un ringraziamento sconnesso: incredibile come, talvolta, si sentissero certe parole da qualcuno, e si desiderasse ardentemente che provenissero dalla bocca di un altro.

 

In un abito rosso che faceva intravedere le sue gambe tornite e mostrava appena l’inizio del suo bel decolleté, la ragazza aveva speso ore a prepararsi: Pechino non era il villaggio, era la città, la capitale, la metropoli, e lei voleva andarci vestita di tutto punto.

Non appena Lai le aveva visto indosso quell’abito rosso aveva dato di matto, ma Mao aveva resistito, sperando in un qualche suo commento: che era stato praticamente uguale a quello di suo fratello.

 

L’amore bruciava, consumava, distruggeva.

Non sapeva come aveva fatto a convivere così a lungo con questo sentimento, ma era arrivata al limite, o quasi: si sentiva come se da un momento all’altro si stesse per spezzare in due, come se una mano le artigliasse lo stomaco.

 

Perché Rei si ostinava a far finta di nulla? Perché la teneva in bilico così, e non sopraggiungeva per farla stare in equilibrio? Se lo mandava al diavolo le faceva capire che doveva essere paziente, e che presto le cose si sarebbero sistemate, se si avvicinava troppo le faceva capire che non era pronto.

 

Vent’anni.

Nell’ultima telefonata Hilary aveva scherzato, sostenendo che solitamente le donne iniziano a piangere per i loro compleanni dopo i trentacinque, e questa frase le aveva strappato un sorriso tra le lacrime.

Ma non avrebbe mai pensato di passare il compleanno più brutto della sua vita, piangendo e disperandosi, capendo che aveva appena iniziato una nuova era della sua vita.

Aveva praticamente trascorso tutta un’esistenza dietro un ragazzo che non la considerava e che era troppo occupato con il beyblade per badare a lei.

Che vita era?

 

“Allora andremo a New York, c’è poco da fare.” la voce di Lai arrivò decisa, sicura alle sue orecchie. “Un nuovo campionato del mondo sta per iniziare, e non ci coglierà impreparati.”

 

New York…

 

Mao alzò il viso alla luna di Pechino, che sembrò, per un attimo, brillare solo per lei, dopodiché si morse le labbra.

 

 

 

 

 

Raùl!” la voce rabbiosa della rossa raggiunse il fratello, anche se a metri di distanza: era sempre così; lui combinava i danni e fuggiva, lasciando lei in balia degli eventi.

Raùl, ¿qué te pasò?” Julia raggiunse il gemello con due ampie falcate; era incredibile come, pur facendosi sovrastare in altezza, riuscisse comunque a mantenere un cipiglio da generalessa

 

“Non ho fatto niente…” il gemello inghiottì a vuoto: sapeva perfettamente che quando gli occhi verdi della sorella brillavano in quel modo c’era una sola cosa che gli bazzicava nella mente: si salvi chi può.

 

“Non puoi farti battere dalla prima ragazzina che ti si para davanti, joder!” Julia aveva i capelli scombinati, il viso a chiazze rosse e un’aria furibonda. “Habemos un campeonato del mundo, qué mierda!”

 

Il ragazzo abbassò lo sguardo con aria colpevole, mordendosi le labbra. “Lo so, mi dispiace.”

 

“Basta così.” con un battito di mani, il loro allenatore, Romeo, li richiamò all’ordine: “Raùl, ti sei fatto battere come uno sciocco, ed è disdicevole per il campione della Spagna; ma, Julia, un po’ più di elasticità?”

 

La rossa gli scoccò un’occhiata penetrante, dopodiché girò sui tacchi, andandosene; per quel giorno era stata anche abbastanza nervosa, suscettibile, isterica, prendendosela con tutti.

La verità era che non ce la faceva più.

 

Lei adorava suo fratello. Erano cresciuti insieme, erano gemelli, ma non potevano essere più diversi: se Julia era esuberante e vivace, Raùl era timido e riservato, tutto il contrario della tipica irruenza latina.

E questa cosa stava iniziando a pesare.

 

Pesava a lei, che si sentiva sempre più attaccata e legata, costretta, quasi, ed era sicura pesasse anche a lui, costretto all’ombra di una sorella sotto la quale non era facile vivere.

 

Due giorni e sarebbero partiti per New York: da lì, il nuovo, entusiasmante campionato di beyblade. Una nuova sfida, una nuova avventura, nuove emozioni. E nuovi litigi con Raùl.

 

Non vedo l’ora…

 

 

 

 

 

Rientrò nell’appartamento con in una mano quattro tomi di letteratura cinese, e nell’altra il pranzo: avrebbe dovuto smetterla di mangiare roba da take- away, o, prima o poi, le sarebbe stata ricoverata per una bella appendicite.

 

Ma, d’altronde, non ho scelta…

 

Rilasciò i volumi di letteratura da parte e iniziò a mangiare: aveva una fame assurda; era stata al college fino alle due per dare un esame – che aveva superato con il massimo dei voti – ed in quel momento si stava accontentando di mangiare qualcosa al volo perché poi doveva passare all’Avalon per provare con le ragazze.

 

Un altro non riuscirebbe a sostenere questa vita: io non riuscirei a reggere una vita noiosa.

 

Aveva appena iniziato a mangiare il suo pollo messicano che il cellulare aveva preso a squillarle insistentemente: possibile che fosse già Trisha? Era così tardi?

 

Mao?

 

“Ehi!” la ragazza inghiottì rumorosamente un boccone, salvo poi buttarlo giù con un po’ d’acqua.

 

“Ti disturbo, Hilary?” la voce pareva preoccupata ma, almeno, non più angosciata come quella di due settimane fa, quando compiuti gli anni, erano state lacrime amare buttate giù.

 

“Il mio harem è assolutamente contrariato, ma per un’amica posso zittirlo.” tra un boccone e l’altro, la ragazza si preparò all’ennesima sfuriata da parte di Mao all’indirizzo di Rei, ma, ormai, ci era abituata.

 

Invece, ci fu un lungo sospiro. “Inizia il campionato.” proferì la cinese, con voce incolore. “Sai che si terrà a New York e che inizia direttamente tra un paio di giorni?”

 

La bruna accavallò le gambe. “L’avevo sentito dire, e francamente, c’è qualcosa che mi puzza. Ma, fino a quando non vi vedrò chiaro in tutta questa faccenda, non dirò una parola.”

 

Si sentì un altro sospiro. “Dovrei chiederti un favore.”

 

Hilary sbuffò drammaticamente.“Oh, no, un altro! Sappi che lo metterò sul conto, e la tua anima sarà venduta al diavolo per un paio di Levi’s!”

 

Ma la cinese probabilmente non era nemmeno troppo in vena di scherzare. “Tra due giorni sarò lì e la mia squadra alloggerà all’hotel Plaza: tu mi potresti ospitare?”

 

 

 

 

 

Il ragazzo sorrise largamente non appena mise piede sul suolo americano: l’idea che un nuovo campionato del mondo iniziasse, con tutte le avventure ed i brividi che gli avrebbe trasmesso aveva il potere di iniettargli dritto nelle vene una carica di energia non indifferente; sentiva già l’adrenalina in circolo e l’entusiasmo viaggiare, prendendo possesso di lui.

Ormai erano anni che conosceva bene quelle sensazioni: giocava a beyblade sin da piccolissimo, e aveva iniziato a partecipare ai tornei mondiali da quando aveva dodici anni, non ci sarebbe stato mai nulla che lo avrebbe distratto dalla sua passione più grande.

 

“Ciao New York.” Fece con tono consapevole, fissando l’aeroporto che si stagliava attorno a lui e pigliando al volo la sua valigia.

 

Cacciò un urlo quando, però, si vide vicino uno zombie di fattezze non umane: stava per chiamare gli acchiappa fantasmi quando si accorse che… “Daichi?”

 

Il professore, accanto ai due, ridacchiò. “Lo sai che l’aereo fa brutti scherzi, su. Piuttosto, vediamo di trovare l’uscita.”

 

Il giapponese aggrottò le sopracciglia, salvo poi ricordarsi qualcosa, qualcosa di importantissimo: si diresse verso la porta sovrastata dalla scritta Arrivals, e una volta lì, prese a guardarsi intorno freneticamente, il cuore che batteva forte per l’emozione.

Doveva essere lì, doveva essere lì, doveva essere lì…

 

Ma dove..?

 

Quella zona era sistematicamente gremita di gente che aspettava i propri cari: tra abbracci, persone che si sbracciavano, teste e pelli di tutti i colori, il ragazzo stette un po’ di minuti ad allungare il collo freneticamente, l’attesa di un anno lungo lettere, e-mail e telefonate che si faceva sentire come non mai.

Fu all’improvviso che la vide: gli stava correndo incontro, e non era cambiata, era sempre la stessa, lo capì quando gli saltò in braccio e gli stampò un bacio sulla guancia.

 

“Mi sei mancato tanto.” Hilary lottò per ricacciare indietro delle lacrime di gioia, dopodiché si allontanò bruscamente da lui. “Ma guardati… Sei un gigante!”

Prese a ridacchiare, e mordendosi le labbra per l’emozione: quei dodici mesi non erano stati facili per nessuno dei due, e ora che si erano ritrovati vicini sarebbe stato difficili farli mollare per almeno un paio d’ore.

 

Lui annuì, pieno di sé e consapevole del suo metro e settantotto. “Sei tu che al confronto sei una margheritina di campo, tappetta.” prendendola per la nuca e soffiandole sopra, in un gesto che faceva sempre quando erano piccoli, scoppiarono a ridere entrambi.

 

Il professore e Daichi li raggiunsero poco dopo. “E’ partito a razzo e non c’è stato verso di fermarlo…” spiegò, ammonendo con un sospiro il suo amico. “Ciao, Hila, come stai?”

 

“Tutto bene, prof; vedrete, New York è…  Assurda.” fece, schiacciando loro l’occhiolino.

 

“Se le ochette hanno invaso pure l’America stiamo apposto.” Daichi, che stava sicuramente meglio, mise le braccia dietro la nuca in un’espressione altera.

 

Hilary scosse la testa, fissandolo divertita: quel ragazzino le era mancato, così come le erano mancati le loro scaramucce, i loro battibecchi…  Per quella volta gliel’avrebbe fatta passare.

“Prof, tu non hai notato nulla di strano nell’accennare il campionato del mondo di beyblade?”

 

L’interpellato la fissò profondamente. “Beh, sì, ma non mi sono crucciato più di tanto…”

 

La ragazza annuì, scrollando le spalle. “Magari esagero.”

 

 

 

 

 

L’hotel Plaza era esattamente come se l’era immaginato: luminoso, sfarzoso, lussuoso e degno di celebrities, non di rumorosi campioni del mondo che avrebbero fatto una confusione assurda.

Spense l’ultimo mozzicone di sigaretta per terra per poi entrare nell’atrio, snobbando il portiere. E chi se ne importava se i suoi abiti per quell’hotel a cinque stelle erano poco ricercati.

 

“Muoviti.” abbaiò Dunga. “Ci hanno già dato la stanza.”

 

Fulminarlo con lo sguardo fu naturale. “Chiudi il becco.” replicò, stizzita.

 

“Placatevi.” Ozuma sospirò brevemente, andando verso gli ascensori.

 

Mariam fece per rispondere male anche a lui, ma una voce molto conosciuta la bloccò all’improvviso. “Mari!” si voltò per ostentare la prima espressione rilassata da mesi: Julia era davanti a lei, pareva appena arrivata. “Chica, ¿qué tal? Creo qué-”

 

Eccola lì, la solita irruenza della spagnola: non si smentiva mai. Non l’aveva vista neanche da due secondi e già l’aveva sommersa di parole. Ma sapeva lei cosa ci voleva per farla smettere.

 

“Julia.” il suo nome. Solo il suo nome pronunciato alla spagnola, con la J aspirata, e bastava quello a farla sgonfiare come un palloncino.

 

“¡No me llamar asì!” sbottò infatti, divertendo Mariam.

Da quando due anni prima avevano scoperto che in realtà il suo nome andava pronunciato con la prima lettera risucchiata e non come si ostinava a farsi chiamare lei, alla maniera europea, le ragazze avevano concordato di accontentarla e chiamarla come la sua attrice preferita, la Roberts. La maniera ispanica sarebbe subentrata solo quando ne combinava una delle sue.

 

Meglio cambiare discorso, vah. “Le altre?”

 

“Mao dovrebbe essere atterrata ora, e Hila… Quella ormai, è parte integrante della Grande Mela.” fece, alludendo alla loro amica comune che, da un anno a quella parte si era trasferita nell’Upper West Side per frequentare la Columbia grazie ad una prestigiosa borsa di studio vinta all’ultimo anno di liceo.

 

 

“Chi è parte della Grande Mela?” il tono di voce che lo chiese fu ironico e divertito, e quando le due si videro venire incontro una ragazza dalla chioma castana ondulata, con stampato sulle labbra un gran sorriso, non poterono far altro che riflettere come uno specchio d’acqua: e sorrisero anche loro. “Un anno che non ci vediamo e le vostre facce che non cambiano mai: rinnovatevi per la miseria!” risero nuovamente, non ne poterono fare a meno, e Hilary le stritolò in un abbraccio caloroso, che tanto diceva dell’anno in cui non si erano viste.

 

Voy a esperar Mao en el bar del hotel: ¿vamos?” propose la spagnola.

 

“Guarda che il conto sarà stellare anche solo per andare lì e sedersi.” Mariam aveva le sopracciglia inarcate.

 

Julia e Hilary si scambiarono uno sguardo eloquente che la diceva lunga sul loro modo di vedere le cose. “E chi ti dice che devi pagare tu?”

 

 

 

 

 

Due Gin Fizz, due malibù, e due mohito dopo, le ragazze decisero di prendere, finalmente, anche qualcosa di analcolico.

 

“Mettere tutto sul conto di Ming Ming. Molto maturo.” Mariam sbuffò per l’ennesima volta, sorseggiando, però, il suo malibù con fragola.

 

“Lei l’anno scorso ce ne ha fatte di peggio: non è stato proprio il simbolo della maturità aprire il campionato del mondo di bey con un concerto e mettere come riquadro, in televisione, al posto del pubblico, le nostre facce.” Le ricordò Hilary, accavallando le gambe. “Questo è solo un piccolo risarcimento.”

 

“Per cosa?” una voce dietro di loro le fece voltare di scatto: Mao era dietro di loro, con tanto di valigie ed aria stanca, ma ciò che contava era che fosse lì, ed ora erano di nuovo tutte e quattro.

 

“Tesoro!” Hilary prese subito un’altra sedia e la pose accanto a sé. “Come ci hai trovate?”

 

La cinese scrollò le spalle. “Vi si vede da fuori.” Fece, alludendo alle grandi ed eleganti vetrate decorate con delle sontuose tende a baldacchino. “Ma ve li potete permettere tutti questi drink qui?”

 

Julia fece un gesto di noncuranza. “Oh, noi no; ma Ming Ming .”

 

Mao fece scattare la sua mano verso l’alto. “Cameriere! Un cosmopolitan!” e furono risate.

 

 

 

 

“Dichiaro ufficialmente conclusa la stagione dei drink, per stasera.” Mao si portò una mano alla testa. “Se ne bevo un altro mi dovrete portare a dormire in braccio.”

 

Mariam annuì. “Concordo.” fece, cacciando un sospiro. “Non che mi farebbe male ubriacarmi.” dichiarò, con una smorfia.

 

Le altre tre si voltarono contemporaneamente verso l’irlandese: sapevano che stava male, che aveva qualcosa che non andava, ma sapevano anche quanto fosse ritrosa e riservata la loro amica: decideva di confidarsi con i suoi personalissimi tempi e, se non l’aveva fatto a distanza di mesi e mesi, vi era qualcosa di grosso in ballo.

 

“Perché in questi mesi non ci hai scritto?” Mao articolò la domanda lentamente, capendo che stava per dar vita a quella genere di questione che, però, presto o tardi si sarebbe pur dovuta affrontare. “Che cosa ti è successo?”

 

La mora alzò i suoi occhi verdi al cielo, impedendo a tutti i costi ai flashback di sopraffarla, ma fu inutile; quando i suoi lineamenti si irrigidirono si morse le labbra, come a colpevolizzarsi di una debolezza troppo grande per potersela permettere. “Non posso più stare con la mia squadra.” Soffiò. “Gareggiare con loro è un conto, ma non voglio sentirmi addosso i loro…Sguardi assillanti e le loro battute; ne ho fin sopra i capelli.”

 

Julia annuì. “Te entiendo: adoro mio fratello, ma deve imparare a cavarsela da solo; il mio atteggiamento ha spianato la strada a lui in più di un’occasione… E l’ha resa difficile a me. Mi duole dirlo… Pero es una presencia incomoda.” sospirò, ravviandosi i capelli.

 

“A proposito di fratelli…” Mao di prese la testa tra le mani. “Non sopporto più il mio finto fratello: anche perché provo verso di lui sentimenti tutt’altro che… Fraterni.”

 

Ci fu un sospiro generale, dopodiché tutte si voltarono verso l’unica che non aveva parlato e che sorseggiava tranquillamente il suo Gin Fizz: Hilary non aveva fatto una piega, continuando ad ascoltare le amiche, ma, quando si era sentita troppo osservata, aveva inarcato le sopracciglia.

“Che c’è?”

 

“Tu non hai nulla di cui lamentarti?” mugugnò Mao. “Quelle occhiaie, ad esempio? Troppo studio?”

 

Hilary dapprima aggrottò la fronte, poi esibì un sorriso malizioso. “Queste, mia cara, non sono occhiaie da studio; sono occhiaie da sesso.”

 

Julia fischiò, facendo ridacchiare tutte. “La chicaNosotras aquì a lamentarci, e lei a scopare con i Newyorkesi.”

 

La brunetta rise. “Se c’è una cosa che ho imparato è che le lamentele non portano proprio a nulla.” con un’alzata di mano, richiamò l’attenzione di un giovane cameriere. “Un altro giro di Cosmopolitan, per favore.” quello annuì, deliziato dalla vista di tante ragazze in una volta sola, e gli alcolici arrivarono subito dopo.

 

“Patetico, a momenti ti si infilava nella scollatura.” brontolò Mariam, guardandolo male. “Morto di figa.”

 

La bruna scoppiò in una sonora risata. “Abitando a New York impari che certe cose sono all’ordine del giorno; che dietro ogni grande donna… C’è un maschio che le guarda il culo.” fece, con un tono di chi la sapeva lunga.

“Su, ragazze, brindiamo a noi che ci siamo ritrovate ed ai ragazzi che ci fanno disperare.” fece, alzando il bicchiere in aria. “Sia santo chi ha scoperto l’alcool: è questo che da anni aiuta le donne ad abbassare i loro standard.”

 

Julia scoppiò a ridere. “Ma allora brindiamo all’alcool!”

 

“All’alcool!” concordarono tutte, facendo scontrare i loro bicchieri in maniera che tintinnassero.

 

“Julia, mi dici come mai, il mese scorso, su facebook, ho visto che la tua relazione con Javier è terminata?” Mao stava sorridendo, ma aveva lo sguardo di chi la sapeva lunga.

 

La spagnola fece una smorfia. “¡Que tonto! Se vuoi la verità, non riuscivo a star dietro a lui y a mi hermano al mismo tiempo.”

 

“Niente principe azzurro?” non appena la cinese lo disse, Hilary e Mariam alzarono contemporaneamente gli occhi al cielo.

 

Si todos tienen un principe azùl… Il mio ha preso una strada sbagliata, si è perso ed è troppo testardo per chiedere indicazioni.” la rossa sospirò, finendo di sorseggiare il suo drink.

 

“Ma siccome non esiste…” Hilary sorrise.

“Ragazze, tornando al discorso di poco fa, mi sembra di capire che tutte e tre vogliate ovviamente gareggiare a questo campionato, ma vendereste un rene piuttosto che sopportare certe persone.” qui le ragazze ostentarono delle facce comicissime. “Okay, allora vi propongo una cosa: la mia coinquilina due settimane fa è tornata in Ohio; se ve la sentite di sopportarmi, potreste sempre venire a vivere con me: casa mia non è grandissima e staremmo strettine, ma è sempre meglio di nulla…” propose, stringendosi nelle spalle.

 

“Ci sto.” Mariam e Mao lo dissero in coro, Julia annuì in maniera frenetica.

 

“Possiamo cominciare a portare la nostra roba da te anche ora?”

 

Hilary sbatté gli occhi. “Che entusiasmo… Sì, certo che sì. Prima però non dovreste avvisare i componenti delle vostre squadre?”

 

E tutte fecero una smorfia: Mao sbuffò, sentendo già le urla di Lai e prevedendo i litigi, Mariam si alzò senza dire una parola, probabilmente andando direttamente dagli Scudi Sacri; Julia si prese la testa tra le mani: in quel frangente sì che erano dolori.

 

“Va bene, io vado: arrivo subito.” la cinese lo disse con un tono e uno sguardo che non ammettevano repliche, e sia Hilary che Julia capirono che si stava preparando psicologicamente ad affrontare sia la squadra che il fratello.

 

Voy tambien.” la spagnola si alzò dall’elegante poltrona di seta dell’hotel, e la bruna fece altrettanto.

 

“Vengo con voi: mica mi lasciate qui con il conto di Ming Ming, vero?!”

 

 

 

 

 

Mariam si stava portando da sola il suo zaino e la sua valigia, spostandola dal primo piano all’atrio, ma quando sentì delle voci che le diedero fastidio, le venne naturale andare a vedere cosa stesse succedendo; vi era una stanza socchiusa, e quando intravide una chioma chiara che conosceva bene, la collegò subito alla sua amica.

Mao era nella stanza, di certo ad ascoltare suo fratello urlare; ma possibile che quel ragazzo non sapesse fare altro?!

 

“I Bahiuzu fanno parte della tribù della Tigre Bianca, e la tribù non si disgrega! Mao! Andare a vivere da sola a New York! Che cosa direbbe il capo?”

 

“Se avesse un po’ di cervello vedrebbe che ha vent’anni, che deve fare le sue esperienze di vita e la lascerebbe andare.” non aveva potuto fare a meno di intromettersi: tono di voce acido, sguardo tagliente… Mariam non poteva farci nulla, detestava chi sparava cavolate, e il fratello della sua amica ne stava sparando in gran quantità.

 

“Tu cosa vuoi? Mao fa parte di una tribù, di un villaggio! Ha dei doveri, delle responsabilità!”

 

Mariam roteò gli occhi. “Anch’io faccio parte di un villaggio, di una tribù, eppure Ozuma si è mostrato più aperto mentalmente di te permettendomi di andare. Che poi la questione sarebbe andare a vivere con Hilary, l’immagine della correttezza, della trasparenza, e della puntualità, mica con una che si fa di cocaina battendo la strada!” sbottò, acida, incrociando le braccia.

 

“Che succede?” quando entrò nella stanza, Rei venne subito fissato male da Mariam; Mao, invece, si affrettò ad abbassare lo sguardo.

 

“Mia sorella vuole andare a vivere con Hilary e le sue amiche nell’Upper West Side, e a quanto pare ci andranno anche lei e non so chi altri, e se io non do il permesso non sono abbastanza aperto mentalmente!” eruppe Lai.

 

“Saremo io, Mariam e Julia nella casa di Hilary, non vedo che impiccio potrebbe darti!” ringhiò Mao, andando a prendere la sua valigia, facendo capire che aveva già preso la sua decisione e che nulla poteva farle cambiare idea.

 

Rei aggrottò le sopracciglia. “Hilary è una bravissima ragazza, e di Mao ci fidiamo, non è così, Lai?” quello borbottò un cenno d’assenso. “Se Mao promette di telefonare, di farci avere frequentemente sue notizie e di non farci stare in pensiero, le lasceremo fare quest’esperienza.”

 

Kon, sei un emerito coglione.

Mariam scosse la testa, inarcando le sopracciglia.

 

Mao strinse le labbra, mordendosele a forza, per poi atteggiarle forzandole in un sorriso triste: eccoli là… Il fratello geloso e il fratellone dolce. Ma sempre fratelli erano.

Che tristezza…

 

Un bussare deciso li fece voltare: erano Kiki e Gao: “Il presidente Daitenji ci vuole tutti nella sala conferenze dell’hotel; sembra urgente.”

 

 

 

 

 

Julia aspettava le ragazze tenendo loro il posto, era seduta su una delle poltrone della sala convegni dell’hotel, e ne aveva occupate altre tre per le amiche. Nell’attesa accavallò le gambe, prendendo la borsetta ed estraendo da essa lo specchietto, - dopo tante ore di viaggio e a malapena dieci minuti per andare in camera a rinfrescarsi, avere qualcosa fuori posto sarebbe stato il minimo! - ma un brusco movimento di qualcun altro fece cadere il tutto rovinosamente per terra.

“¡Vaya..!”

 

Questo qualcun altro si chinò a cogliere la borsetta e gliela porse e, quando si ritrovò a contatto con due occhi color ghiaccio, Julia si perse.

Si perse nella stanza, nei battiti accelerati del suo cuore, nella moltitudine di emozioni che quegli occhi stessi scatenarono.

 

Fernandéz.” Yuri Ivanov non sorrise: lo fecero quelle lame di ghiaccio per lui. “Ciao.”

Le pose la borsetta tra le mani e se ne andò, lasciandola stordita, semplicemente attonita a domandarsi perché, dallo scorso campionato, quel gelido ragazzo russo le facesse quell’effetto assurdo.

 

 

Le sue amiche arrivarono un istante dopo, e lei stette ben attenta ad accoglierle con un sorriso di trionfo sulle labbra, indicando loro dove sedersi. “Mio fratello non è stato molto contento, ma gli ho fatto capire che un po’ di distacco avrebbe fatto bene sia a me che a lui.” fece, partendo in quarta e rivolgendosi a Hilary. “Le mie valigie sono già state portate a casa tua da un taxi.”

 

La bruna sgranò gli occhi. “Ho la sensazione che entreranno i vostri bagagli e usciremo noi.” Tutte ridacchiarono.

 

Mao prese a guardarsi intorno, meravigliata. “Sapete mica cosa deve dirci il presidente? Non possono essere solo delle banali regole di campionato…Voglio dire, guardate: c’è la CNN! Qui la roba è grossa!”

 

Mariam strinse gli occhi verdi. Ho una brutta sensazione… “Speriamo non sia nulla di grave…”

 

Dovettero passare tre quarti d’ora prima che il presidente richiamasse l’attenzione su di sé, e immediatamente tutti notarono l’aria stanca e le occhiaie marcate sul viso dell’uomo.

“Andrò dritto al punto senza fare inutili giri di parole né convenevoli vari: la crisi mondiale finanziaria non ha risparmiato il mondo del beyblade, anche se per molto tempo ci siamo illusi che non fosse così. Abbiamo organizzato un campionato mondiale perché avevamo i fondi grazie agli sponsor, che da un giorno all’altro ci hanno abbandonato. Ora non possiamo far altro che annullare il campionato, ma posso dirvi solo una cosa: sto lavorando notte e giorno per trovare altri fondi, altri sponsor e per mettere in piedi un altro campionato, perché amo il mondo del beyblade quanto voi, e non mi arrenderò. Grazie per l’attenzione.”

 

La notizia fu accolta da qualche secondo di silenzio, per poi essere seguita dai flash dei fotografi e dalle domande dei giornalisti.

 

Hilary si ritrovò a fissare le sue amiche: avevano tutte un viso smarrito, spaesato. Era evidente che la notizia era pressoché assurda, ma era pure certa il fattore che tramite quella conferenza stampa il presidente avrebbe presto trovato quello che cercava.

 

Altrimenti chi lo sente Takao?

 

Di certo, per le sue amiche andare a vivere con lei per quel periodo non sarebbe stata certo una cattiva idea… Con quei visi spaesati e provati dai diversi periodacci che stavano affrontando, la giapponese con un sorriso consapevole si convinse che alla fine tutto quello che ci voleva loro era soltanto un po’ di quella vecchia, sconclusionata, stupenda, famigerata New York.

Niente fungeva più da scuola di vita che quella città stessa.

 

E io lo so bene.

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

 

 

Okay, avete letto gli avvertimenti – per forza, se no botte! e.e – avete letto il primo capitolo.

Prima di dire che vi passo la parola, lasciate che io mi stenda cinque minuti: sono stata sette mesi in fibrillazione ed ora la mia creatura sta a poco a poco nascendo! *_*

 

Sono patetica, lo so.

 

Ditemi che ne pensate, non risparmiatevi niente: adoro le recensioni. Quelle vere, quelle intense, quelle scritte con il cuore, e adoro anche le critiche. Ma devono essere costruttive. Se mi dite che una situazione è brutta e la finite lì – esempio – non ha senso, e la critica, oltre ad essere stupida, è infondata. Motivate le vostre recensioni, scrivete, scrivete e scrivete.

 

Sono un po’ su di giri e nessuno se ne è accorto. u___________u

 

Dopo questa ci sentiamo Martedì 13 con il nuovo capitolo: “So What?!”.

Si iniziano a pestare i piedi, guys, la domanda è: a chi, e come?

 

Lo scoprirete solo vivendo, quindi che nessuno muoia!

 

 

E dopo questo sproloquio da mezzanotte e passa di una che ha mal di pancia per la troppa paura, vi auguro la buonanotte.

 

Alla prossima.

 

Vostra per sempre,

Hiromi

 

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Capitolo 2
*** So what?! ***


Overboard

 

I guess I just lost my husband
I don't know where he went
So I'm gonna drink my money
I'm not gonna pay his rent
I've got a brand new attitude, 
And I'm gonna wear it tonight

 

So what?!- Pink

 

*************

 

Sospirando per l’ennesima volta si sforzò di non guardare più l’orologio, nonostante sapesse benissimo che fosse in ritardo e che, in pigiama e fuori dalla porta, potesse fare ben poco.

Querida.” ad alta voce, modellandola in modo mellifluo e dolce, malgrado fosse infastidita da morire, si rivolse all’usurpatrice spagnola che le stava intasando il bagno. “¿Yo soy loca?”

 

Dall’interno del bagno si sentì il rumore di phon acceso, e ciò servì a farla irritare ulteriormente. “Mi amor, tu no es loca.” La voce dell’amica era coperta dal rumore di utensili prettamente femminili che lei, e soltanto lei avrebbe dovuto usare, specie a quell’ora della mattina.

 

Y porqué, se tengo de ir a la universidad, ¿yo soy aquì y tu es en el baño?”

 

La mattina sapeva di essere più nervosa del solito, ma non era abituata a dividere il suo appartamento con tre pazze scalmanate che invadevano i suoi spazi: le adorava, avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro, ma quella settimana si era rivelata colma di imprevisti e compromessi che avevano dovuto affrontare.

 

L’usurpatrice uscì soltanto qualche minuto dopo vestita, profumata e truccata di tutto punto, come se nulla fosse successo.

No te preoccupe, eccoti il bagno.” fece, inarcando le sopracciglia, come a dirle di non esagerare.

 

Hilary scosse la testa, entrando a tutta velocità; la spagnola si accomodò in sala da pranzo, dove Mao stava sfornando dei dolcetti e Mariam stava sorseggiando il suo tè alla papaia.

 

“Dovresti lasciarle il campo libero, a quest’ora.” fece la cinese, ponendo i dolci su un vassoio. “Sai che ha lezione e non può arrivare in ritardo.”

 

Julia si morse le labbra. “Non lo faccio apposta, me sveglio sempre alla stessa ora.”

 

Mariam e Mao la fissarono inarcando le sopracciglia, come a farle capire che il suo era un comportamento errato, e quella sbuffò, accavallando le gambe.

“Piuttosto… ¿Esta manana por qué estabais descutiendo?”

 

La cinese sospirò, mordendosi le labbra sapendo che quella non era la prima volta. “Abbiamo chiarito, nulla di ché. Mariam e io ci alziamo presto, e io ho preparato una torta, lei ha acceso gli incensi… E stonano con la cucina, tutto qui.”

 

Julia sogghignò. Hay que estar a la ùltima, chicas.”

 

Non ebbero il tempo di pensare alla frase dolorosa ma veritiera della spagnola secondo la quale era tempo di abituarsi alle cose nuove: in quel momento Hilary uscì dal bagno vestita con una gonna svasata rossa stile Grace Kelly, una blusa nera, un foulard al collo in tinta e un paio di tacchi bassi molto eleganti.

“Sapete dove sono i miei punti luce?” chiese, acconciandosi i capelli con un semplice cerchietto nero.

 

Julia arrossì. “Ohi… Quelli che me sono messa ieri para salir con Peter?”

 

 “Julia Fernandéz.” La J venne aspirata talmente da far inorridire la spagnola, che alzò le mani in segno di resa.

 

Està bien, manos al aire: te li vado a cercare.”

 

Mao sorrise dolcemente. “Vuoi fare colazione prima di andare?” cambiò discorso, per distrarla e farle fare colazione.

 

La ragazza sospirò, avvicinandosi al tavolo. “Tanto, prima che me li trova…” prese un biscotto, iniziando a sgranocchiarlo. “Oggi sono nervosissima, non fate caso a me: ho una giornata strapiena non solo come al solito, ma anche peggio.” Fece, sbuffando. “Ah, per stasera c’è la serata all’Avalon: perché non venite?”

 

Mariam annuì soltanto, come fosse disinteressata; Mao invece sorrise. “Ne hai parlato così tanto che sarebbe bello vedere com’è.”

 

In quel momento che sopraggiunse Julia, con in mano i due famigerati orecchini. “Sotto il letto.” Spiegò balbettando quell’inglese che stentava ad imparare definitivamente ed ignorando l’occhiataccia che la bruna le lanciò.

 

“A stasera.” Hilary si chiuse la porta alle spalle, e sorrise quando udì il saluto delle sue amiche: la facevano impazzire, ma in fondo non sarebbe bastato quelle poche settimane di convivenza a minare l’affetto sconfinato che provava per loro.

Almeno, lo sperava.

 

 

 

“Splendore!” Sul pianerottolo del condominio, si voltò verso chi aveva parlato, ritrovandosi di fronte Carrie, la sua vicina dirimpettaia. “Università?”

 

“Come ogni mattina.” sistemandosi meglio i libri nell’elegante borsetta, sospirò. “Phoebe?” fece, riferendosi alla fidanzata della donna: quelle due erano state la prima coppia lesbica che aveva conosciuto, ed erano state tantissime le serate che avevano passato insieme per farla ambientare a New York, i primi tempi in cui non conosceva nessuno.

 

“Stamattina aveva il turno all’ospedale.” sospirò, con un teatrale gesto di noncuranza. “Piuttosto, dolcezza: sapresti per caso di qualcuno che cerca casa?”

 

La bruna si ritrovò a sgranare gli occhi. “Ve ne andate davvero, allora? Alla fine avete trovato casa nell’Upper East Side?”

 

Carrie annuì. “Sì, un delizioso attico esattamente come lo voleva Phoebe; andiamo via domani, ma è un peccato che questo appartamento resti vuoto, è così carino…”

 

Hilary fece una smorfia. “Hai ragione… Se vuoi posso chiedere a qualche collega dell’università.”

 

La donna incrociò le braccia. “Va bene, ma niente persone che si fanno o ragazze non particolarmente snob. Noi vogliamo gente di classe.”

 

La bruna scoppiò a ridere, sparando il naso in aria con fare fintamente altezzoso. “Come noi, tesoro; come noi.”

 

 

 

 

 

“Credo di aver bisogno di un lavoro.” Mao richiamò Galux, smettendo di allenarsi con Mariam, e si morse le labbra, tradendo con i suoi occhi color caramello un’espressione preoccupata. “Non sappiamo quando il presidente riuscirà a trovare i fondi, e io ho un budget limitato.” rifletté.

 

Julia storse il naso. “No es una mala idea...” Thunder Pegasus venne infilato dentro la tasca dei suoi jeans e quando si stiracchiò, portando in su le braccia, una cascata di braccialetti trillò con l’avanzare dei suoi movimenti. “Yo pero no sé hacer nada.”

 

Mariam estrasse una sigaretta dalla tasca e l’accese, incurante degli sguardi ammonitori delle altre due. “Un mestiere si impara, non è mica quello il problema.”

 

Mao annuì, pensierosa. “Spero di trovarne uno il prima possibile: essere indipendente economicamente dev’essere una gran cosa.”

 

Julia si scostò i capelli rossi da davanti, riflettendo. “Hilary qué hace? Vive qui da un anno, giusto?”

 

Mao annuì. “Quel concorso al liceo è stato un’occasione unica per lei: quanti possono vantare di studiare alla Columbia? E’ un biglietto da visita fenomenale.”

 

Mariam aggrottò le sopracciglia. “Ma si è pure spaccata il culo ai test. Non le ha regalato niente nessuno.”

 

Mao sorrise, concorde, un sorriso orgoglioso sulle labbra. “Quando ha annunciato che avrebbe studiato le nostre lingue non sapevo se ridere o… Altro: se non fa le cose in grande non è contenta.”

 

Julia scrollò le spalle con un sorriso fiero sulle labbra. “Pero sabìa los idiomas… Grazie a noi. Ha dovuto imparare l’arabo.”

 

Mariam buttò via la sigaretta. “Non è mica semplice.”

 

Podrà asesorar trabajos qué son para nosotras.” Julia aggrottò la fronte. “Lei canta in un pub nei weekend… Avrà degli agganci.”

 

Mariam era divertita. “Canta?”

 

Julia sgranò gli occhi. “Non lo sapevate?” le altre due scossero la testa, e la madrilena aggrottò le sopracciglia, chiedendosi come mai a nessuna delle due avesse detto alcunché.

 

Mao sorrise, certa che però nemmeno Mariam se la fosse presa, esattamente come lei. “Ah, stasera deve rimediare per forza! Non sfuggirà all’interrogatorio.”

 

 

 

 

“Ma come?” le rivolse uno sguardo a metà tra il disperato e lo sconcertato che la fece sospirare.

 

Sentendosi in colpa, si passò una mano tra i capelli, non sapendo che altro fare, che altro dire. “Mi dispiace, mi dispiace sul serio, Hila.”

 

Una terza ragazza dai corti capelli neri tenuti su con del gel, sbuffò. “Basta: non è colpa di Shannon: deve lasciare l’università, deve lasciare il gruppo… Suo padre è malato, deve tornare in Arizona!”

 

La bruna si sgonfiò come un palloncino, mordendosi le labbra. “Hai ragione, Trish: scusami Shannie. Il fanno è che… Non posso fare a meno di pensare alla serata, al fatto che la batteria sia fondamentale! Come si fa a trovare un altro batterista di talento che impari le note e i tempi entro stasera?” sbottò, nel panico più totale, per poi fissare colei che aveva davanti con occhi tanti. “Io ti parlo di queste cose e tu hai problemi ben più gravi, lo so…”

 

Shannon scosse la testa. “So che siete nei casini, Hils, e mi dispiace.” Tutte si fissarono tra loro, smarrite. “Devo andare all’aeroporto: mi terrò in contatto con voi e vi farò sapere.”

 

Un’altra ragazza dai capelli biondi con le punte arancioni le sorrise, abbracciandola. “Mi raccomando, Shan, non farci preoccupare.”

 

Quella annuì. “D’accordo Kassie.”

 

Hilary sospirò, sorridendo dolcemente. “Abbraccio di gruppo?”

Stava tentando di ostentare un atteggiamento che non fosse egoista né altro, ma non poteva mentire: era parecchio contrariata e anche piuttosto infastidita dalla nuova situazione venutasi a creare: quella sera si sarebbero dovute esibire, e senza Shannon erano come dei pesci arenati sulla sabbia. Morte.

 

La band delle Cloth Dolls esisteva da otto mesi, esattamente da quando si erano conosciute; cantavano e suonavano tutti i weekend all’Avalon, il pub più famoso del quartiere dell’Upper West Side, e cominciavano anche ad essere abbastanza conosciute all’università e dintorni. Senza dubbio, la partenza di Shannon, la batterista, stava mettendo a dura prova la resistenza del gruppo, che doveva trovare un sostituto, e in fretta.

 

“Potremmo dividerci per le selezioni.” propose Kassie qualche minuto dopo. “Io faccio dei provini a tutte le ragazze che conosco, tu Trish, pure, e lo stesso vale per te, Hil.”

 

La ragazza dai capelli corti aggrottò le sopracciglia. “Devono essere per forza ragazze? Non c’è tempo per queste discriminazioni.”

 

Hilary le lanciò un’occhiataccia. “Ci chiamiamo Cloth Dolls; credi che un ragazzo voglia far parte del nostro gruppo?”

 

Trisha scrollò le spalle. “Vorrà dire che cambieremo nome!” la bruna scosse la testa, nervosa, ed andò via per non risponderle male.

 

 

 

 

 

Con un sospiro, Mao aprì le finestre, cercando di far andare via l’odore d’incenso che lei proprio non sopportava: Mariam a quanto pareva ci viveva con quelle cose, e poi fumava come una pazza. Incredibile pensare che era passata solo una settimana di convivenza: pareva di più, molto di più.

Adorava le sue amiche, erano le migliori, ma c’erano certe loro abitudini che proprio non le andavano giù.

 

“Julia! Togli subito questo casino da qui!” esclamò, con una smorfia; la spagnola era una disordinata cronica, lasciava le sue cose dappertutto: nella sua stanza, che condivideva con Mariam, c’era un pandemonio; il bello era che non si limitava a lasciare le cose lì, no: lei voleva marcare il territorio lasciando una traccia di lei dappertutto, come i cani.

 

La madrilena sbuffò, iniziando a togliere i vestiti dalla sedia della cucina e le sue scarpe da terra. “Che mierda! Siete così noiose, chicas! Un po’ di disordine rende viva una casa! ¡Animateve!”

 

Mao fece per aprire bocca e replicare, ma un sonoro bussare alla porta la interruppe; si limitò a fissarla male e ad andare ad aprire. “Sì, chi è?”

Quell’appartamento, come tutti gli appartamenti americani, era dotato di spioncino e catena, ma lei, non appena riconobbe Phoebe e Carrie, le vicine dirimpettaie di Hilary che la loro amica aveva presentato loro la prima sera, aprì.

“Salve.” Sorrise, cordiale.

 

Salutarono immediatamente, gentili, dopodiché si guardarono intorno. “Hilary è tornata?” chiese Phoebe, aggrottando le sopracciglia.

 

“No, torna più tardi, è ancora al college.” Fece, scostandosi. “Ma prego, accomodatevi: posso offrirvi qualcosa? Tè? Caffè?”

 

Le due entrarono, salutando anche Julia e sedendosi al tavolo. “No, grazie nulla.” risposero educatamente.

 

La coppia si scambiò uno sguardo d’intesa, dopodiché una delle due donne partì in quarta con un discorso: “Ragazze, stamattina la vostra amica ha saputo che a breve ci trasferiremo nel quartiere dell’Upper East Side: volevamo dare in affitto il nostro appartamento… Sapete, ha tre stanze luminose, una cucina, un bagno… Potevamo farci pagare bene.”

 

“Potevate?” Julia inarcò le sopracciglia.

 

“Hilary ci ha sempre detto di avere difficoltà con la sua band, e di non sapere dove suonare, dove provare.” spiegò Carrie. “Abbiamo deciso di prestarle l’appartamento fino a quando non concluderà il college.”

 

“Beh, wow.” Mao era colpita.

 

“Quella ragazza ha fatto così tanto per noi, è davvero il minimo, e poi-” un rumore di chiavi interruppe il discorso di Phoebe: la diretta interessata entrò, l’aria stanca e provata, lasciando la sua borsa all’ingresso, e sorrise solo quando vide le amiche sedute al tavolo.

 

“Ehi, riunione?”

 

“Stavamo parlando di te.” sorrise Mao. “Siediti, ci sono novità.”

 

La bruna fece una smorfia. “No, ti prego, oggi basta novità. Ne ho fin sopra i capelli.”

 

Carrie sorrise. “Questa non potrà non piacerti.” ribatté, iniziando a spiegarle ogni cosa, e vedendo la sua espressione cambiare.

 

“Mi lasciate l’appartamento?!” ripeté, facendo tanto d’occhi.

 

“Così ti potrai esercitare con le Cloth Dolls in un posto decente, no?” Phoebe era entusiasta dell’idea.

 

La giapponese si incupì. “Già… Mi sa che io e le Dolls abbiamo chiuso.”

 

“Cosa?!” la coppia di donne lo disse con un tono insieme indignato e sorpreso insieme.

 

Shannon torna in Arizona, suo padre è malato; stasera e domani iniziano le serate e noi come facciamo? Io, Kassie e Trisha abbiamo passato una mattina intera a cercare una batterista di talento, altrettanto brava che azzecchi le note in tempo, e non vi dico gli elementi che abbiamo provinato… Siamo spacciate. Non ci resta che andare da Mitch e dirgli che-” Hilary si fermò di botto, sbattendo gli occhi e fissando davanti a sé. “Si può sapere che hai?” sbottò, in direzione di Julia, che la stava fissando come se le fosse spuntata un’altra testa.

 

“Una batterista?” la spagnola, lo disse con un tono di chi aveva ricevuto una grazia divina. “P-Pero cuanto Verrò pagata? Y qué tipo se suena? Y cuando comienzo?”

 

L’attenzione venne spostata su di lei: Hilary la fissò con tanto d’occhi. “Tu suoni la batteria?”

 

Julia sembrò quasi indignarsi. “Chica, io quando lavoravo al circo facevo ballare le tigri a suon de musica!” sbottò. “Mettimi alla prova!”

 

La bruna si umettò le labbra. Okay, cos’ho da perdere?

 

 

 

 

 

Le Cloth Dolls si esercitavano in un garage rimediato messo a disposizione dalla sorella di Kassie: era isolato acusticamente in modo da non dare fastidio a nessuno e si trovava in una stradina secondaria dove non vi erano troppe case, quindi era perfetto.

Quando Hilary, Julia e le altre giunsero lì, la bruna fece le presentazioni molto velocemente.

 

“Perché non hai provinato subito la tua amica?” sbottò Trisha, le mani sui fianchi.

 

“E’ una blader, non sapevo nemmeno che suonasse.” le rispose, per poi rivolgersi alla madrilena. “Ju, lo strumento è lì: suona la canzone di stasera, così vediamo subito come te la cavi.”

 

Quella, sicura di sé come sempre, ammirò per un attimo i pezzi: c’erano un microfono, una chitarra elettrica, un piano… E poi il suo.

Con un sorriso gli si avvicinò, studiando per qualche secondo le note rock dello spartito, dopodiché prese in mano le bacchette e le resse a mezz’aria; sapeva che la stavano guardando, che aspettavano solo lei, ma sapeva anche di potersi prendere ancora qualche secondo, per far sue le note.

 

E poi partì di colpo, facendo sobbalzare tutte quante, con una carica e un’energia di marca Julia Fernandéz.

 

Quando con la bacchetta batté un’ultima nota sul piatto, sorrise, soddisfatta, fissando le ragazze che erano letteralmente in visibilio: sapeva di essere andata bene, aveva azzeccato tutto, tranne qualche cosina molto trascurabile.

 

Trisha e Kassie si abbracciarono, Hilary scosse la testa, sorridendo e sillabando con le labbra stronza nella sua direzione. “Non ti credere” fece, avvicinandosi a lei. “Ora proveremo fino a quando non sarò assolutamente soddisfatta, e stasera dobbiamo far saltare in aria l’Avalon!”

 

Kassie la spinse via. “Ma ‘sta zitta!” tutte risero. “Non le dare ascolto: sei stata grande! Benvenuta nella band!”

 

 

 

 

 

“Sei sicura che non ti serva l’appartamento?” Phoebe era dubbiosa.

 

Hilary annuì. “Il garage sarà stretto, ma è isolato acusticamente, ed è una cosa fondamentale. Non preoccupatevi, davvero.”

 

“Julia, le tue mutande sul mio letto, no!” l’urlo di Mariam fece voltare le tre, e Hilary si ritrovò a sospirare.

 

“Quattro donne insieme talvolta sono letali.” rise. “Comunque-”

 

“Mariam, ‘sti cazzi di incensi!”

 

La bruna dapprima spalancò la bocca nell’udire Mao urlare una parolaccia, poi si umettò le labbra. “Stavo dicendo?”

 

“Io fumo quanto voglio!”

 

La voglia di strangolare le sue amiche era più forte che mai, e vedendo la sua faccia, le due donne si scambiarono uno sguardo eloquente. “Io credo che il nostro appartamento ti serva.” Carrie annuì, convinta. “Puoi lasciare un’amica da te, e far trasferire due da noi, tanto ce ne andiamo domani.”

 

Hilary sospirò. “Ragazze…”

 

“E’ un prestito che è come se fosse un ordine, e gli ordini vanno eseguiti!” Phoebe ridacchiò. “Parlane con loro, saranno d’accordo, non accettiamo scuse.”

 

“Non so che dire…”

 

“Julia, sistema questo porcile!!”

 

Le donne scoppiarono a ridere. “Noi diremmo che ti conviene accettare.”

 

Hilary annuì e, ringraziatele un’altra volta, rientrò in casa, dove trovò le ragazze con un diavolo per capello. Inarcò le sopracciglia e fece la cosa che avrebbe fatto qualsiasi altro generale dei marines: fischiò, e a lungo.

“Adesso basta.” Sbottò, fissandole una ad una. “E’ evidente che gomito a gomito non andiamo d’accordo, ci sono lati del nostro carattere che cozzano allegramente: pazienza. Ci vorremo bene a distanza. Carrie e Phoebe traslocano domani, e ci prestano l’appartamento. Una di voi resta qui e due vanno lì; dobbiamo decidere chi va e chi resta, onde evitare di ucciderci. Sarebbe un peccato rovinare la nostra amicizia per un periodo di convivenza. Obiezioni, proposte?”

 

Le ragazze la fissarono a lungo senza dire una parola, visibilmente colpite dal lungo discorso colmo di novità che le riguardava in prima persona, poi fu Mao a prendere parola. “Sono state molto carine a prestarci l’appartamento…” il suo tono era perplesso. “Se avessimo dovuto prenderlo in affitto chissà quanto sarebbe costato…” le altre convennero con lei, pensierose.

 

Permanezco yo con Hilary.” propose Julia. Tenemos un caracter similar.”

 

“Non vuol dire nulla.” rispose Mariam, inarcando le sopracciglia. “Tu le occupi sempre il bagno la mattina, le perdi le cose, e io do fastidio a Mao per il mio vizio del fumo e con gli incensi; si devono guardare anche queste cose.”

 

“Se io venissi con te?” suggerì Mao, nella direzione della giapponese.

 

L’irlandese aggrottò la fronte prima verso di lei, poi verso la spagnola. “Commetterei un omicidio.” Quando Julia spalancò occhi e bocca, indignata, Mariam scrollò le spalle. “Ti adoro, Carmen.”

 

Lo disse con un tono così apatico e neutro da far scoppiare tutte a ridere ed allentare la tensione. Il fatto, inoltre, di aver usato il secondo nome di Julia – da lei per altro odiato, dacché sosteneva non catturasse appieno la sua vera essenza – fece in modo di far pestare i piedi alla malcapitata e di far battere le mani alle altre due, ritrovando quell’atmosfera di allegria che aveva sempre caratterizzato il loro gruppo.

 

“Allora potremmo provare l’accoppiata Mao-Julia e me-Mariam.” suggerì Hilary. “Sia io che lei fumiamo – anche se io non molto – e a me non danno fastidio gli incensi, anzi, trovo che diano un tocco all’appartamento… Poi Mari si alza alle sei, e non mi occuperebbe il bagno quando mi devo preparare per l’università.”

 

Mao mise il broncio. “Ma io con questa qui impazzirò!”

 

“Conta pure che dovremmo arrivare a qualche compromesso.” obbiettò Mariam. “E poi che tu sei l’unica che la fa filare.”

 

Gracias,¡no soy una niña!” la spagnola incrociò le braccia al petto, mettendo il broncio e gonfiando le guancie sotto le risate di tutte.

 

 

 

 

 

“Sì, mamma, qui tutto bene.” scese dal taxi velocemente, porgendo una banconota al conducente. “Domattina andrò a controllare, ma sono sicura che siano arrivati, la banca è molto puntale. Ora devo salutarti, ti chiamo domani stesso, okay? Un bacio, salutami papà.”

 

Stringendosi nel cappotto bianco, entrò nell’hotel, sorridendo al portiere che le fece un cenno, e si diresse verso l’ascensore; Takao doveva alloggiare al secondo piano, assieme a Daichi e al professore, nella stanza centoventuno, se non ricordava male.

Il ragazzo addetto all’ascensore le sorrise, accompagnandola al piano da lei richiesto e, come tutti i maschi, fissandole il didietro fino a quando le porte non gli si chiusero sul naso.

Sorrise come la gioconda, per poi esibire un ghigno che una volta giunta nel cuore dell’hotel si affrettò a togliersi dalla bocca.

 

Arrivata davanti alla centoventuno bussò delicatamente e sorrise nel vedere il professore. “Hello!” esclamò, ridendo. “Come va?”

 

Il suo amico si spostò per farla entrare. “Che sorpresa! Tutto bene, tu?”

 

“Non c’è male; dov’è Takao?” chiese, guardandosi intorno.

 

“E’ sceso a fare uno spuntino un’ora fa…” mormorò sconsolato il ragazzo. “Dovunque vada si fa riconoscere…”

 

Hilary rise. “La frase ‘non cambierà mai’ è proprio per lui.” Fece, scuotendo la testa. “Daichi?”

 

“Ad allenarsi in palestra.”

 

“Prof, riguardo l’annuncio del presidente, ci sono novità?” chiese, tornando seria.

 

Lui scosse la testa. “No, ci hanno permesso di stare qui unicamente a spese nostre, il presidente sta lavorando giorno e notte.” fece, sconsolato.

 

Hilary strinse le labbra. “Per me quando è stato dato l’annuncio del campionato in mondovisione c’è stata una fuga di notizie.” fece, incrociando le braccia al petto. “Pensaci: gli altri anni, quando lo annunciavano, subito dopo intervistavano Daitenji, poi c’erano le selezioni delle squadre paese per paese… Era tutto diverso!”

 

L’altro annuì. “Mi trovi completamente d’accordo. Dobbiamo solo sperare che con la conferenza del presidente della scorsa settimana ci sarà nei prossimi giorni qualche sponsor disponibile.”

 

“Già.” Fece, aggrottando le sopracciglia come se l’idea definitiva potesse fulminarla in quell’istante; poi sorrise. “Cambiando discorso, stasera venite all’Avalon? E’ un pub famosissimo a Manhattan: questo è il biglietto da visita. Guarda: è la strada più famosa dell’Upper West Side.”

 

Quello le sorrise, sbattendo gli occhi e non riconoscendo nell’amica di un anno e mezzo prima la ragazza davanti a lui che gli proponeva locali notturni. “Ci saremo.” Scelse di dire.

 

“Ci conto! Vado, salutami tutti.” e con un cenno della mano si chiuse la porta alle spalle.

Decise di prendere le scale e, nel farlo, dopo qualche rampa, si ritrovò di fronte l’enorme bar dell’hotel, ma da subito una chioma scura attirò la sua attenzione.

Quatta quatta, si avvicinò alla persona, facendo cenno all’altra con cui stava parlando di far finta di nulla, dopodiché gli pose le mani sugli occhi, e rise. “Chi sono?” chiese, cercando di cambiare il tono di voce, imitandone una a mo’ di baritono.

 

Ma Takao non ci cascò: le prese le mani e, in un lampo, le fece fare una piroetta, abbracciandola. “La mia amica d’infanzia non la confonderei con nessun’altra al mondo, puoi camuffare la voce quanto vuoi!”

 

Hilary accettò il suo bacio fraterno sulla fronte ridacchiando, poi gli cinse le spalle con un braccio, venendo ricambiata. “Ciao Kai, grazie per avermi retto il gioco.” gli sorrise.

Il russo scrollò le spalle, come se non avesse alcuna importanza, e non le rispose nemmeno.

 

Takao non smise di stringerla a sé, e continuò a rivolgersi al russo continuando il discorso di prima. “Comunque, ti stavo dicendo che potremmo chiedere all’associazione spagnola di fare da sponsor, oppure mi sembra ce ne sia una francese… Insomma, qualcosa si deve fare, non possiamo stare con le mani in mano!”

 

Kai ostentò un’espressione impenetrabile. “Allora dovremmo informarci.”

 

Hilary sbuffò, non potendo fare a meno di intromettersi nel discorso. “Perché non ne parlate con Daitenji? In sport come il calcio, il tennis o roba simile, gli sponsor sono marche di vestiti, di bibite… Cose così! Chi si è occupato di tutto questo, fino ad adesso?”

 

Kai e Takao si fissarono. “Ehm… Non ci abbiamo fatto caso.” le rispose il giapponese.

 

La ragazza sospirò e scosse la testa, divertita. “Informatevi e agite.” Raccomandò, seria, per poi lanciare un’occhiata al suo orologio. “Ora devo scappare… Ah! Stasera, all’Avalon, il pub più famoso dell’Upper West Side, c’è una serata. Dovete venire, ci sarà una sorpresa. Spargete la voce.”

 

“Ehi, che sorpresa?” le urlò dietro Takao.

 

Hilary rise. “Ma se te lo dico che sorpresa è?” e andò via, imboccando la strada per l’uscita.

 

Takao la osservò andar via, aggrottando le sopracciglia per quell’improvvisata che sapeva di toccata e fuga: era cambiata quel tornado della sua migliore amica, e tanto; quando l’aveva vista all’aeroporto l’aveva riconosciuta subito, ma per un attimo – quando l’aveva fissata negli occhi – c’era stato qualcosa di assolutamente diverso che aveva percepito.

Non erano più gli occhi di una ragazzina, quelli. Erano gli occhi di una persona che aveva sofferto e che aveva detto basta.

 

 

 

 

 

Mao si sistemò i capelli chiari, lasciandoli liberi di ricadere sulle spalle: li aveva sempre avuti molto lunghi e luminosi, sarebbe stato un peccato legarli.

Si sistemò il vestito blu che aveva una leggera scollatura sulle spalle ed era molto morigerato sul davanti, ma che, in compenso, lasciava intravedere le gambe: era la prima sera che passava fuori a New York, era un po’ agitata, poi sarebbe stata la serata delle sue amiche: sarebbe stata senza dubbio da ricordare.

 

“Hai visto il mio profumo D&G?” Mariam entrò nella stanza vestita con una minigonna di pelle nera e con una blusa verde con la scollatura a barca che richiamava molto i suoi occhi.

 

“L’altra sera non l’ha usato Julia?” fece, aggrottando la fronte e indossando le sue tacco sette.

 

Mariam annuì, sbuffando, ma esibì una faccia perplessa nella direzione delle sue scarpe. “Ad un concerto non è opportuno andare con qualcosa di comodo?” e le indicò le ballerine che aveva ai piedi, facendola sorridere: lei era già alta, se avesse messo i tacchi, sarebbe diventata un gigante!

 

“Saremo sedute ai tavoli, Mari, al limite qualche sgabello lo troveremo, fidati.”

 

“Siete pronte? E’ ora!” l’urlo di Hilary le richiamò sull’attenti: presero le ultime cose e corsero all’ingresso dell’appartamento, e lì si ritrovarono a sgranare gli occhi.

 

Truccate finemente, con una pelle di porcellana, un rossetto rosso e un mascara che faceva sembrare le loro ciglia lunghissime, c’erano Hilary e Julia, che le fissavano soddisfatte della loro reazione.

La giapponese indossava dei pantaloni di pelle aderentissimi che mettevano in risalto le sue gambe tornite, sopra aveva un top monospalla blu scuro, e i capelli, da qualche anno ondulati, quella sera erano liscissimi.

Julia indossava una canotta bianca e una gonna, entrambi molto attillati. Dalla gonna partivano delle calze autoreggenti che, una volta sedute, si sarebbero di certo viste eccome.

 

“Beh, di certo siete delle bambole.” Osservò Mao, non sapendo come reagire, aggrottando la fronte.

 

Hilary non si scompose. “Bambole di pezza, per la precisione. Cloth Dolls.”

 

Mariam strinse gli occhi, osservandole con meticolosità, dopodiché si illuminò. “Geniale.” fece poi, sorridendo ammirata. “Una provocazione bella e buona contro il maschilismo e il sessismo della società mondiale. Vi chiamate Cloth Dolls come a dire che siete piccole e indifese – insomma, delle bambole di pezza sono innocue, no? – e vi presentate come tali, fingendo di esserlo. Ma la domanda è: quanto è vero tutto questo?”

 

Hilary sorrise, schiacciando un cinque all’amica. “Centrato in pieno. Mi dimentico spesso quanto tu abbia un occhio lungo, Mari.”

 

L’irlandese badò bene a non far notare quanto la frase della giapponese l’avesse fatta restare male.

Già, peccato non mi sia servito a tempo debito.

 

“Andiamo? Sono le undici e mezza: Takao è dalle dieci che mi manda sms per chiedermi dove diamine sono.” fece Hilary, fissando l’orologio appeso alla parete.

 

“Per non parlare di Raùl.” sbuffò Julia, alzando gli occhi al cielo.

 

“Possiamo andare: avete già chiamato il taxi?” Mao si mise il cappottino scuro, indossando anche la pochette abbinata al vestito.

 

Mariam prese a fissare la madrilena con le braccia incrociate. “Vorrei mettere una spruzzata del mio profumo.”

 

Ci pensò un po’ su, dopodiché annuì, come se si fosse ricordata improvvisamente di qualcosa. “In cucina, dietro il frullatore.” Mentre Mariam assottigliava gli occhi, riducendoli a due fessure, Hilary scoppiò a ridere e Mao si schiaffò una mano sul viso, pensando a chi l’aspettava come coinquilina.

 

 

 

 

 

“Dolcezze, dovete entrare dall’entrata principale.” Mao e Mariam fissarono Hilary confuse, ma la bruna sorrise loro in maniera incoraggiante. “Se vedete Takao e gli altri, siate vaghe: dite che ci avete uccise, date in pasto agli squali, o vendute per i vestiti che indossate.”

 

Mao sorrise e scosse la testa, ma l’irlandese corrucciò le sopracciglia. “L’ingresso è libero?”

 

Hilary annuì, scendendo dal taxi ed invitando Julia a fare lo stesso. “Ci vediamo dopo.” sussurrò, un sorriso emozionato sulle labbra.

 

“In bocca al lupo.” Mao sorrise loro e Mariam annuì.

 

“Che crepi.” Le due scesero in una stradina secondaria e semi illuminata, e il taxi, per loro, si fermò in una strada molto più grande ed affollata: c’era gente che fumava, che reggeva drink, e le ragazze riconobbero immediatamente la grande costruzione con la scritta Avalon.

 

Che fosse uno dei pub più famosi della zona, lo capirono immediatamente dalla quantità di gente, dalle luci, e dall’enorme fila che c’era in attesa di entrare. Si sentiva della musica assordante provenire dall’interno del locale, e fecero per mettersi in fila, quando i due buttafuori stanziati all’ingresso si avvicinarono a loro e fecero cenno di entrare. Le due si fissarono meravigliate e scrollarono le spalle.

 

“Ma questi gorilla non ci sono solo nelle discoteche?!” Mao lo urlò all’orecchiò dell’amica, tanto la musica era alta, che le poté rispondere solo con una scrollata di spalle, come a farle capire che ne sapeva quanto lei.

Dentro, il locale era assurdo: su due piani enormi, c’era un palchetto su cui gli artisti si esibivano, ma in quel momenti vi era soltanto il deejay e la sua musica, sparata a volume stratosferico, e le centinaia di persone sparse per il pub.

 

“Guarda: non è la Neoborg, quella?” Mariam ostentò una faccia sorpresa e, con un cenno, indicò alla sua destra.

 

“Sì, ed è in compagnia dei Blade Breakers Revolution, quindi non facciamoci vedere o partono le domande.” l’altra annuì, completamente d’accordo.

 

Oltre a loro, individuarono ben presto il fratello di Julia che stava tentando un penoso approccio con Mathilda; la squadra Europea seduta al tavolo del primo piano, i Baihuzu impegnati al bancone a guardarsi intorno – e Mao si fece piccola piccola – e poi lui.

I PPB All Starz si mescolavano tra tutti quei Newyorkesi per il fatto di essere americani anche loro, ma lui in particolare spiccava di per sé.

Il cuore di Mariam prese a battere a ritmi furiosi; girarsi e fuggire via fu naturale… Fino a quando non sbatté proprio contro Mao che, volontariamente, le sbarrò la strada.

 

“No.” le disse, severamente. “Non so cosa sia successo, ma se ritieni sia lui ad aver sbagliato, allora è lui a dover girare sui tacchi. Tu stai bene dove sei.” si fronteggiarono per un istante, dopodiché la mora annuì, sospirando come a prendere coraggio.

 

“Ehi, ragazze!” sudò freddo sentendo una voce allegra dietro di loro, poi si accorse che era Takao, e sospirò, sollevata. “Hilary? Sono ore che provo a contattarla, sembra sparita nel nulla!”

 

Mao si guardò in giro, poi scrollò le spalle con aria fintamente casuale. “Oh, è appena andata alla toilette.” fece, annuendo. “Ora scusaci, moriamo di sete, andiamo a pigliare un cocktail… Ci si vede in giro.” e si dileguarono, prima di poter subire altre domande.

 

Al bancone vi erano solo due baristi piuttosto indaffarati, e ci vollero venti minuti buoni prima di riuscire ad ordinare un margarita e un kir royal; quando fecero per andare a cercare un posto dove sedersi – ormai era questione di minuti – l’incidente che avvenne, in mezzo ad un locale dove vi erano persone da tutte le parti e pochi camerieri, poté essere chiamato quasi… D’obbligo.

 

Nel seguire Mariam che aveva individuato due sedie che si erano appena liberate, Mao urtò un cameriere che portava tre vassoi colmi di drink: la ragazza si voltò di scatto verso quei cocktail, e li vide quasi a rallentatore.

Si ricordò delle giornate al villaggio passate ad allenarsi a scalare le piccole colline che vi erano lì, a prendere al volo la frutta che i suoi amici le lanciavano, le piccole montagnette, gli alberi da scalare… Quello era proprio nulla.

 

Fu per la sua prontezza di riflessi e anche per la sua agilità che un secondo dopo li stava reggendo lei, perfettamente integri e persino in equilibrio.

Delle persone attorno, che avevano assistito alla scena scoppiarono in applausi, il cameriere sospirò sollevato, e si profuse in ringraziamenti sentiti.

 

“Notevole.” un uomo sui cinquant’anni, vestito elegantemente le si avvicinò. “Mitch Hannigan, proprietario di questo locale.” Pareva essere uscito da Casablanca, ma oltre la straordinaria somiglianza con Humphrey Bogart per la pettinatura e lo stile, non vi trovava altro.

 

“Mao Cheng.” Biascicò, porgendogli la mano che quello avvolse in una stretta sicura da tipico uomo d’affari.

 

“Stavo cercando una cameriera per il mio locale, e una ragazza che persino sui tacchi riesce a reggere dei drink credo sia l’ideale.”

 

All’inizio lo fissò con tanto d’occhi, non riuscendo a capire se dicesse sul serio o meno; quando realizzò che lui era sul serio il proprietario del locale e che si stava rivolgendo a lei – lei! – non poté fare a meno di esibire un sorriso elettrizzato, quasi squittendo per la gioia. “Accetto!”

 

Lui corrucciò le sopracciglia, perplesso. “Non ti interessa parlare di ferie, malattie e stipendi?”

 

Mao arrossì, e sorrise come a scusarsi. Apprese che inizialmente sarebbero stati ottanta dollari a serata per otto ore di lavoro al giorno – si staccava alle sette del mattino. Avrebbe cominciato l’indomani, e avrebbe dovuto passare a fine serata dalla cassa per i suoi dati.

 

Sorrise largamente, entusiasta. “Non se ne pentirà!” l’uomo le sorrise, e le fece un cenno di saluto, dopodiché andò via; la ragazza era felicissima: si trovava a New York, viveva con le sue amiche, e ora aveva pure trovato lavoro. La sensazione che quello sarebbe stato un periodo da cui avrebbe imparato moltissimo si faceva sempre più incalzante in lei.

 

Quando tornò da Mariam – che si era allontanata per permetterle di parlare in pace con il proprietario – non si accorse di sbattere proprio contro suo fratello, tanto aveva la testa sulle nuvole; Lai la rimproverò per non essersi fatta sentire, per essere andata a vivere da sola e per un paio di altre cose che nemmeno udì; quando la filippica terminò, l’orientale si rivolse all’amica con un sorriso enorme.

“Ho un lavoro!” esclamò, esibendo un sorrisone. “Comincio domani!”

 

L’irlandese le sorrise di rimando, sinceramente contenta per lei. “Barista?”

 

Lei scosse la testa e, raccontandole di come era avvenuto il tutto, dall’inizio alla fine, squittì di gioia, tanto che, alla fine del racconto, dimentica quasi di chi aveva davanti, la abbracciò, facendole fare tanto d’occhi.

 

“Mao.”la voce di Lai vibrava di rabbia. “Ora stai esagerando!” fece, prendendo ad urlare nuovamente sul fatto che fosse andata a vivere da sola e rimproverandola.

 

Mariam alzò gli occhi al cielo: se c’era una persona che non sopportava era proprio il fratello della sua amica, infatti non si meravigliò quando la cinese aggrottò la fronte con espressione minacciosa. “Lai.” sussurrò. “Vai a farti una vita.”

Ridendo per l’espressione del cinese, la mora seguì  la cinese che aveva sistemato il fratello alla perfezione, e insieme si andarono a sedere verso il palco, tra le prime file, dove solo un quarto d’ora più tardi e per puro miracolo riuscirono a trovare due posti.

Le luci si spensero un istante dopo essersi sedute, e il pubblico iniziò ad urlare, assordandole: che diamine stava accadendo?

 

Avalon, è Venerdì. Sapete dirmi cosa accade il Venerdì?” non appena Mitch, che aveva preso in mano il microfono, lo disse, tutto il locale cominciò ad urlare, in visibilio. “Arrivano loro: le CLOTH DOLLS!!” al suo urlo, seguì un boato: tra urla, fischi e applausi, Mariam e Mao dovettero coprirsi le orecchie per non divenire sorde.

 

Poco dopo il locale si oscurò interamente e il pubblico ammutolì; fu qualche secondo dopo che delle luci verdi e gialle illuminarono il palco di botto, rivelando Hilary sul davanti, con uno sguardo deciso dinnanzi al microfono.

Trisha era alla sua sinistra che reggeva la chitarra elettrica, e alle sue spalle, ma perfettamente visibile c’era Julia, seduta alla batteria, con un sorriso elettrizzato. Poi c’era Kassie, seduta al piano, alla destra della spagnola.

 

All’inizio ci pensò Julia a far saltare in aria il pubblico con qualche colpo ben assestato di batteria, dopodiché lei e Trisha formarono un mix eccellente dei loro strumenti, collaborando come se suonassero insieme da anni, e non da poche ore.

 

“I'm miss autonomy, miss nowhere,
I'm at the bottom of me.
I'm miss androgyny, miss don’t care,
What I've done to me?”

 

Hilary iniziò a cantare e, infine, vi si immise anche Kassie con il piano in qualcosa di eccellente.

Si capiva perché erano divenute così famose in tutta la Columbia: non erano la classica band femminile che ostentava il loro splendore e poi, sotto sotto, erano tutto fumo e niente arrosto. Loro erano belle, erano sensuali, ma cantavano anche canzoni hard rock che facevano ballare e saltare. Loro coinvolgevano il pubblico, lo animavano e tramite i loro testi miravano ad insegnargli qualcosa.

 

Avalon!” Hilary lo urlò nel microfono e in breve tutti i clienti le urlarono un ‘Yeah!!’ di risposta; la bruna sorrise, camminando con fare sicuro e spigliato sul palco e sorridendo.

“Julia è la nostra nuova batterista!” un applauso assordante si propagò per tutto il locale. “Non è stata magnifica?” Qualche gli applausi continuarono seguiti da qualche urletto derivante specie dal pubblico maschile. “E, adesso… Una sorpresa!” battendo il piede a tempo, fece cenno alle ragazze che le stavano dietro.

 

I'm not listening to you
I am wandering right through

Existence
With no purpose and no drive

'Cause in the end we're all alive, alive”

 

Era incredibile come il pubblico fosse ipnotizzato durante il concerto: non si voleva minimamente schiodare da dove si trovava, rideva alle battute di Hilary tra una canzone e l’altra, ballava, saltava, e solo e soltanto quando lei stessa diede la buonanotte, due ore più tardi, metà della gente se ne andò dal locale.

Mao si accorse di essere quasi senza voce: aveva urlato, riso e gridato tanto quanto il pubblico circostante, sperava solo di recuperare il tutto entro l’indomani.

Quando Hilary scese dal palco assieme alle sue amiche, venne praticamente assaltata dai fan: se non ci fossero stati due buttafuori alti e dallo sguardo minaccioso a proteggerle, sarebbero state sommerse dalla folla.

 

All’Avalon c’era un privee come nelle discoteche, che sin dall’inizio della serata era stato occupato prontamente dai Neoborg per stare un po’ in pace, ma quando le ragazze finirono di esibirsi, si rifugiarono lì il tempo sufficiente per riposarsi.

Hilary fece cenno a Mao e Mariam, e anche a qualche altro di seguirla; quando furono al sicuro Julia si sedette sul divanetto, stanchissima, e alzò lo sguardo solo per incontrare degli occhi di ghiaccio che si erano fissati sulle sue autoreggenti lasciate scoperte dalla gonna.

Semplicemente, inarcò le sopracciglia e accavallò le gambe, cercando di tirar giù l’indumento per quanto possibile e mettendosi ad ascoltare gli altri che stavano festeggiando Hilary, dando i loro pareri sulla serata.

 

“Che stronza!” Takao era elettrizzato, euforico, emozionato come se avesse cantato lui. “E’ stata una sorpresa meravigliosa, non potevo crederci! Sei stata fortissima, siete state fenomenali!”

 

Hilary rise, lasciandosi andare a sua volta sul divanetto, visibilmente stanca. “Ragazze, sedetevi!” fece, nella direzione di Kassie e Trisha.

 

Quelle scossero la testa. “No, noi andiamo, ti lasciamo con i tuoi amici. Piacere di avervi conosciuti.” E con un cenno se ne andarono, seguite dal saluto di tutti.

 

“Sono d’accordo con Takao.” aggiunse Max, sedendosi accanto alla bruna. “You’re wonderful!”

 

Raùl fissò la sorella. “E tu che ci facevi lì?”

 

Lo sabes quétocar la baterìa.” replicò quella, lisciandosi i capelli dai riflessi ramati.

 

Mao sorrise. “Per colpa vostra sono messa malissimo con la voce: domani al lavoro sarò nei guai.”

 

Diverse paia di occhi la fissarono, curiosi. “Lavoro?”

 

Annuì, entusiasta. “Ho urtato un cameriere, ho salvato diverse paia di drink, ho conosciuto il proprietario..! Lavorerò qui come cameriera!”

 

Dando voce ai pensieri di tutti che la fissavano attoniti, Hilary fischiò. “Non possiamo lasciarti sola un attimo che scateni il finimondo… La profezia maya è colpa tua, a questo punto!”

 

 

 

 

 

Il locale si svuotò solo un’ora e mezza dopo e, alle cinque meno un quarto di mattina, le ragazze poterono trasferirsi dal privee al locale vero e proprio. Mariam poté finalmente rilassarsi: era stata tesa come una corda di violino per tutto il tempo in cui aveva avuto Max nel raggio di un chilometro circostante, e Hilary e Julia poterono essere pagate.

La spagnola, ricevendo la sua prima piccola parte di stipendio si sentì felice ed appagata come non mai: quella sera aveva potuto scatenarsi, divertirsi, avere una di quelle serate come piacevano a lei, e in più stava ricevendo dei soldi che contribuivano ad alimentare il suo budget personale.

 

“Fenomenale come al solito.” Mitch sorrise nella loro direzione, per poi ritrovarsi a sgranare gli occhi. “Tu non sei la ragazza di prima?” Mao annuì. “La conosci, Hilary?”

 

“Hai fatto un affarone.” la bruna assunse l’espressione di chi la sapeva lunga. “Mao è una delle ragazze più sistemate, efficienti e in gamba che conosca.”

 

L’uomo richiamò dal bancone un ragazzo. “Non ne dubito: dopo anni di lavoro, certe persone le riconosco dallo sguardo.” il cameriere si avvicinò reggendo un taccuino. “Al, prendi le ordinazioni di queste ragazze; offre la casa, e non dimenticarti dei suoi dati: finalmente abbiamo la nuova cameriera.” Gli disse, riferendosi a Mao.

 

Il ragazzo, un moretto slavato e brufoloso, si esibì in un sorriso che faceva intendere abbastanza circa le sue intenzioni. “Non posso prendere i dati di quest’altra?” esclamò, nella direzione della ragazza dai capelli neri. “E’ piuttosto carina…”

 

Mariam inarcò pericolosamente un sopracciglio. “Accanto a te lo sarebbe pure Spongebob.” lo freddò, facendo scoppiare a ridere tutti e sbuffare il ragazzo.

 

“Ti è andata male, Al!” Lo prese in giro il capo, ancora divertito. “Dammi il taccuino, ci penso io.” il ragazzo se ne andò con la coda tra le gambe, non facendo smettere l’uomo di sorridere. “Che cosa vi faccio portare?”

 

Hilary si morse le labbra, pensando. “Un ultimo giro di sex on the beach, che è leggero e fruttato?” le altre scrollarono le spalle, annuendo. “Aggiudicato!”

 

“Arrivano subito.” Assicurò, dando il taccuino ad una cameriera che passava di lì, poi si rivolse a Mao. “Per caso oltre ad avere i riflessi pronti e un equilibrio notevole, sai fare anche la barista?”

 

Lei arrossì. “No, signore.”

 

Una smorfia che non poté evitare si fece largo sul viso dell’uomo. “Non importa, vorrà dire che ti limiterai a servire ai tavoli.”

 

Hilary intervenne immediatamente. “Se cerchi una brava barista, è qui: Mariam a sedici anni ha lavorato a Dublino per un anno in un pub; vero Mari?”

 

La mora non fece una piega. “Sì, ho imparato ad ottenere e shakerare tutti i tipi di cocktail.”

 

L’uomo fece un sorriso a trentadue denti. “Meraviglioso: in una serata ottengo barista e cameriera.” fece, in visibilio. Disse loro del compenso, delle ferie e degli orari, che le due mostrarono di poter grandemente accettare, dopodiché passarono i minuti seguenti a dettargli i loro dati.

 

“E basta, Mitch, voglio un attimo chiacchierare con le mie amiche, sparisci!” sbottò Hilary, ridendo. “E fai aggiungere all’ordinazione i cornetti caldi che tra un po’ sfornerete.”

 

L’uomo non poté far altro che sorridere e scuotere la testa. “Tra un’ora vi chiamo un taxi?” la ragazza annuì e gli fece cenno di andare.

 

“Avete molta confidenza.” notò Mao.

 

La bruna scrollò le spalle. “E’ molto alla mano, è negli affari da una vita, sa quando si può fidare di una persona solo avendoci a che fare due secondi.” e, mentre raccontava della prima volta in cui era entrata nel locale e gli aveva chiesto di cantare lì, arrivarono i drink. Accompagnati da una rosa.

 

“Per te, Hilary.” Spiegò la cameriera, una giovane donna sui ventotto anni. “Un ragazzo qui fuori ha insistito per fartela avere.”

 

Le amiche fischiarono, prendendola in giro. “Ammiratori, eh?”

 

La bruna sospirò, mettendola da parte. “Nient’altro che idioti.” Spiegò, con il tono di una che ha già catalogato il genere. “Incredibile quanto nella vita abbondino i maschi ma scarseggino gli uomini.” Scrollò le spalle, riprendendo a sorseggiare il suo drink.

 

Mao e Mariam ammutolirono, colpite dalla veridicità di quella frase mentre Julia aggrottò la fronte. “E da quand’è che hai iniziato a pensarla così?”

 

Posando il bicchiere, la bruna si morse le labbra. “Da quando ho aperto gli occhi, vuoi dire? Credo sia stata New York ad aprirmeli. Insomma, non si può dire che esista il vero amore né che ci siano santi, o che quando ti corteggiano abbiano buone intenzioni-”

 

Mao prese a fissarla male. “Ora stai esagerando.” Soffiò. “Secondo me il vero amore esiste. Stai facendo di tutta l’erba un fascio, e non so da quando tu abbia cambiato idea, ma esistono uomini, e uomini con buone intenzioni.”

 

Hilary evitò accuratamente di farle notare che stava parlando una che a vent’anni si ritrovava in una situazione di merda: sarebbe stato un colpo veramente basso. Scelse la diplomazia. “Dolcezza, ogni uomo ha cattive intenzioni.” Fece, accavallando le gambe e finendo definitivamente il drink. “E per forza faccio di tutta l’erba un fascio: loro sono così. Hai parlato di vero amore? E lui chi è? Il millantatore, quello che fa promesse o quello che implora la mamma?”

 

Prima che potesse scatenarsi una guerra intervenne Julia che batté le mani facendo risuonare le miriadi di braccialetti che aveva ai polsi. “Hemos descubierto muchas cosas nobre nosotros.” Esclamò, con un tono più allegro possibile.

 

Le altre tre si fissarono, consce che in quell’anno in cui erano state lontane, oltre alle lettere, alle mail, alle telefonate, c’erano altri fatti che ognuna di loro aveva tenuto nascosto alle altre.

“Io sono d’accordo con Hilary.” Disse Mariam, estraendo il pacchetto di sigarette per poi riporlo dov’era quando vide il cartello vietato fumare.

 

Mao non smetteva di fissare la sua amica giapponese: la conosceva dal terzo campionato mondiale, era sempre stata una ragazza energica, spontanea, a tratti timida, assennata, ma non aveva mai avuto idee strane per la testa. Di sicuro non aveva pensato che il vivere in una metropoli potesse pregiudicare un suo cambiamento così radicale; stava scoprendo, in quel frangente, un lato di lei che non era sicuro le piacesse. “Io continuo a dissentire.” Fece lentamente. “E alla fin fine credo che ognuna di noi sogni la storia d’amore ideale, anche a New York.”

 

Un enorme sbuffo provenne dalle labbra di Hilary che roteò gli occhi, per poi ridacchiare. “Tesoro, è finita l'era dell'anti-innocenza: qui le persone girano come delle trottole ventiquattr'ore al giorno per lavorare, studiare, e per fare sesso - hai capito bene: Sesso! – Cupido è volato via dal condominio sdegnato e il principe azzurro per la disperazione è diventato gay!”

“A parte che per me uno che gironzola in calzamaglia azzurra con addosso un cappello piumato su un cavallo bianco è gay-” Julia scoppiò a ridere, Mariam le strinse la mano. “Poi non esiste. Ci ho pensato, ripensato, e mi sono detta: ehi, io sono troppo, troppo egoista per i rapporti di coppia. Poi… Perché accontentarsi di uno quando posso averne più di uno?”

 

Julia scosse la testa. “Chica, ¡tu es la mi dea!”

 

Mao era sconvolta. “Ma così i ragazzi ti sfruttano… E poi diventi-”

 

Hilary sorseggiò tranquillamente il suo drink. “Oh, no: sei tu che sfrutti loro. Una cosa alla: ehi, bambino, ora devo andare, se fai il bravo ti richiamo. Sesso puro. Zero coinvolgimenti. E non si diventa niente.” Fece, guardandola negli occhi. “Siamo a New York, non in un villaggio chissà dove.”

 

Mao scosse la testa. “Io non sono d’accordo: è… E’ come diventare cattive.”

 

“Le brave ragazze diventano cattive perché i ragazzi le trascurano.” Mariam non si rese conto nemmeno di averlo detto, ma non appena l’attenzione si spostò su di lei, distolse lo sguardo.

 

Hilary percepì la riluttanza dell’amica a parlare della sua situazione, e prese in mano la conversazione. “Beh, è una mia filosofia di vita, e io mi ci trovo benissimo.”

 

Julia era entusiasta. “Posso farla mia?” chiese, rivolta all’amica che rise in risposta. A pensar bien, todas, aquìAvremmo un motivo per farlo.” Fece, continuando in inglese per l’occhiata che Hilary le lanciò. “Mariam è incazzata con Max per chissà quale oscuro motivo, Rei è un idiota che fa desesperar Mao, e yoMal de muchos, consuelo de tontosPara mi està bien.” lo disse con un’allegria fuori dal comune, battendo le mani, nemmeno fosse stato il giorno di natale.

 

Mao incrociò le braccia. “Solo perché ho… Qualche problema… Non mi sembra una buona ragione per adottare questo comportamento.” ribatté, quasi schifata.

 

Mariam la fissò, dura. “Te lo do io, un buon motivo.” replicò. “Hai passato vent’anni della tua vita dietro alla stessa persona, che a malapena si degna di chiederti come stai; se vuoi continuare così, padrona. Non venirti a lamentare se ti ritrovi a sessant’anni ancora nella stessa situazione, però.” le sue parole, gelide, dure e veritiere, ebbero il potere di far salire le lacrime agli occhi alla cinese.

 

“Oh, chica, ¡no lo hagas asì!” Julia finì il suo drink tutto in un colpo. “Le ragazzine piangono; le toste dicono vaffanculo!” la spagnola sorrise. “Diciamolo tutte: vaffanculo!” e mise una mano a mezz’aria, sorridendo.

 

Mariam ricambiò il sorriso: il discorso di Julia le aveva fatto dimenticare il nervoso accumulato. Non sapeva dove l’avrebbe portata quell’idea che in un altro contesto avrebbe definito malsana, ma sapeva che poteva essere un punto di partenza. “Vaffanculo!” esclamò, con aria complice, ponendo la mano dove l’aveva messa la spagnola.

 

Hilary era tutta un sorriso: non si aspettava che le sue amiche prendessero tanto sul serio questo discorso della sua filosofia di vita, ma già che c’era… Perché non appoggiarle?

“Vaffanculo!” la sua mano si andò a posizionare sopra quella di Julia e Mariam; dopo essersi fissate le tre, presero a guardare la cinese che, ad occhi sbarrati, ricambiava lo sguardo.

 

La capivano. Quella parola avrebbe significato rivoltare vent’anni della sua vita, cambiare modo di pensare, di agire… Non era semplice per lei, non lo era affatto.

 

Mordendosi le labbra e in una frazione di secondo fissando le sue amiche che a sua volta la fissavano, Mao si chiese se la loro era pazzia o coraggio; in entrambi i casi non le capiva. E non capiva nemmeno lei, che alla sua età stava nella sua situazione assurda.

Sentendo il suo cuore battere – il tutto in un lasso di tempo veramente minimo – davanti agli occhi le si parò un flashback di quand’era piccola, di quando si era dichiarata, e di quando aveva annunciata di andare a vivere da sola.

Una grande rabbia si impossessò di lei, e il suo cuore prese a battere in maniera frenetica, come impazzito.

 

Al diavolo. Anzi, no.

 

“Vaffanculo!” e, quando lo fisse, tutte e quattro sentirono di essere giunte ad una tappa importante della loro amicizia, a qualcosa di nuovo, di non semplice, di tutto in salita.

Che avrebbero affrontato. Rigorosamente insieme.

 

 

 

 

Continua.

 

 

Le due canzoni citate sono “Miss Nothing” e “Zombie” dei Pretty Reckless

 

 

 

Ed è il secondo aggiornamento che faccio a mezzanotte, prima di partire, solo che stavolta mi auguro di partire veramente e di non star cinque ore a far la fila per il rimborso.

Maledetti scioperi! D:

 

 

 

 

 

*parte nona sinfonia di Beethoven*

 

Ed è da qui che si aprono le danze, cari miei. Preparatevi a tutto.

Ovviamente accetto ogni tipo di critica eo dissenso su ciò che ho scritto – liberissimi di pensare come la volete – ma che sia con le dovute motivazioni.

 

Non so se questo capitolo vi si risultato pesante o veramente troppo lungo – alla nona pagina si poteva tranquillamente dividere – ma non l’ho fatto per motivi schematici. u___u

 

Bando alle ciance, ci vediamo Martedì 20 con il prossimo capitolo: “Kick Ass”.

Chissà di chi saranno questi “Ass”..! è.é Beh, non tarderemo a scoprirlo.

 

 

 

 

A presto! ;D

 

Hiromi

 

 

 

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Capitolo 3
*** Kick Ass ***


 Overboard

 

We are young
We are strong
We're not looking for where we belong
We're not cool
We are free
And we're running with blood on our knees

 

Kick Ass – Mika

 

****************

 

 

Fernandéz?” sobbalzò quando si rese conto di aver divagato decisamente troppo con la mente: doveva rendersi conto di dov’era, del fatto che non poteva pensare a niente meno che al motivo per il quale era in uno studio ginecologico; ma quella donna sulla cinquantina, dallo sguardo gelido la stava decisamente ammonendo per averle fatto perdere anche solo tre secondi di tempo.

“Allora, signorina Fernandéz; mi dica.” Lo sguardo della dottoressa era gelido nonostante il tono fosse pressoché neutro e non rivelasse tracce di freddezza.

 

Julia sbatté le palpebre, sforzandosi di trovare il punto della situazione. “Me gustaria… Un semplice controllo, ecco.” Balbettò, cercando di ricordarsi come si dicessero delle parole nell’altra lingua così diversa dallo spagnolo.

 

La donna annuì, fissandola, attenta. “Da quanto tempo non va da un ginecologo?”

Sgranò gli occhi, cercando una buona risposta che non suonasse proprio come un ‘Non avevo mai pensato di andarci’, ma che in realtà fosse più diplomatica. Peccato non le venisse in mente granché.

“Ho capito.” Fece quella, gelida, prendendo da una cartellina un foglio e inarcando un sopracciglio nella sua direzione. “Ha rapporti sessuali?”

 

Una miriade di flashback si proiettarono nella mente di Julia, potenti come pallottole, prontamente respinti dal suo sorriso forzatamente furbo. “¡Claro!” accavallò le gambe e batté le mani, facendo tintinnare i braccialetti che aveva al polso. “Escucha, yo-” s’interruppe solo per lo sguardo confuso che vide dinnanzi a lei. “Una visita e… Un consiglio di contraccezione. Ecco tutto.” Scrollò le spalle ed ostentò un sorriso incoraggiante.

 

Proprio non sapeva che diamine ci stava a fare, lì.

Anzi, lo sapeva: faceva parte del discorso fatto giorni prima con le sue amiche. In quel periodo erano tutte in fermento, più unite di prima e allo stesso tempo consapevoli che tra loro vi era qualcosa che aleggiava come un’ombra su ognuna.

Mariam era stata incaricata di andar a fare incetta di preservativi – e tutte avevano scoperto che prendeva già la pillola! – lei aveva prenotato quella visita per farsela prescrivere, e Mao ancora si stava gingillando, non del tutto convinta.

 

Quando vide la dottoressa davanti a lei sospirare e scoccarle l’ennesima occhiata di disapprovazione, accavallò le gambe in una posa differente per non stare ferma, volendo quasi urlare. Le sue amiche e le loro stupide regole!

 

 

“Farsi pigliare dall’entusiasmo è facile.” Hilary le aveva fissate severamente. “Viviamo in un mondo maschilista, che non esita a bollare gli uomini come playboy se scopano allegramente, e le donne come puttane se fanno altrettanto, quindi… La regola è discrezione.” Le guardò una ad una per poi ridacchiare subito dopo.  “E mai farsi due ragazzi nello stesso paesino, condominio o nel raggio di pochi chilometri: potrebbero conoscersi.”

 

Mao scrollò le spalle. “Ovviamente divieto per parenti, amici e… Beh-” arrossì.

 

Mariam alzò gli occhi al cielo. “Io pensavo fosse ovvio.”

 

“Poniamoli lo stesso.”

 

Hilary intervenne come se le si fosse accesa la lampadina, ricordandosi qualcosa d’importante. “Oh, preservativo e pillola. Contemporaneamente. Nessuna vuole beccarsi qualche malattia venerea o rimanere incinta, vero?”

 

“Contemporaneamente? Ora non esageriamo.” Mariam aveva le sopracciglia inarcate.

 

“Lo pensavo anche io. Poi una mia collega del corso di arabo è rimasta incinta usando il preservativo, e allora inizi a farti qualche domanda.”

 

“Okay, tutti e due.”

 

Julia intervenne, maliziosa. “Vestirse siempre con delle belle lingerie: non se può mai saber quando si è fortunate o quando se ha bisogno di un medico.”

 

“E che medico…” tutte scoppiarono a ridere.

 

 

 

 

 

Aveva ancora addosso la sua camicia quando si tolse da lui: lievemente frastornata, ma con un sorriso enorme sulle labbra, si lasciò sfuggire un sospiro; fece cadere la camicia a quadri sul pavimento con un gesto noncurante, rimanendo nuda, e prese subito a cercare le sue cose sul pavimento della stanza per vestirsi.

Lucas era ancora sulla sedia, in catalessi, e la guardava come fosse un alieno, con uno sguardo tra l’incredulo e il turbato.

 

“Te ne vai?” la sua domanda aveva un ché di sconvolto; curioso, perché Lucas Branson aveva la fama di playboy, di uno che, le donne, le seduceva e le mollava in poche ore. Un po’ quello che stava facendo lei con lui in quell’istante.

 

Battuto sul tempo, piccolo?

 

“Già.” Gli rivolse un sorriso dolce, finendo di rimettersi la maglietta. “E’ stato bello.” passandosi velocemente il lipgloss sulle labbra, gli schiacciò l’occhiolino, indossando cappotto e borsa. “Ti chiamo.” Solo quando si chiuse la porta del suo monolocale alle spalle si concesse di ostentare un sorriso soddisfatto.

 

Prendi un uomo e, prima che lui possa usare te, battilo sul tempo: cosa c’è di meglio, nella vita? Se poi ci si può aggiungere un po’ di shopping, allora si vola in paradiso, si raggiunge il nirvana…

 

 

 

Le ci vollero due ore e mezza per trovare piacere anche in quella celebre attività, e fu quando si sentì fin troppo carica di sacchetti per la sua portata, che decise di chiamare un taxi; cosa che non fece subito per colpa di un determinato qualcosa che attirò la sua attenzione.

Kai?”

 

Si voltò, fissandola e guardandola quasi male. “Come diavolo si fermano i taxi in questa città?”

 

Lei, per tutta risposta, scoppiò a ridere: se proprio lui era scoppiato così in fretta voleva dire che aveva avuto qualche piccolo problemino…

“Così.” con nonchalance, fece per attraversare la strada, e alzò una mano, lo sguardo deciso che incrociò quello del conducente. “Taxi!” due secondi dopo, un’autovettura gialla inchiodò accanto a lei, e la ragazza sorrise. “Prego.”

 

Lo vide inarcare le sopracciglia con fare criptico, dopodiché la fissò. “A questo punto, vieni.”

 

“Cos’è, un modo carino e gentile di dire: ‘Sali pure, condividiamo il tragitto, mi farebbe piacere’?”fece, ironica, posizionando però i sacchetti nel portabagagli, aiutata dal conducente.

 

Il moscovita non si scompose. “Come ti pare.”

 

Scosse la testa, alzando gli occhi al cielo; una volta partiti, però, non perse il sorriso confrontando l’atteggiamento di se stessa in quel frangente, con il suo anni prima quando, innamorata di lui, prendeva a balbettare o a parlare come una macchinetta.

 

Le persone cambiano.

 

“Novità riguardo Daitenji?” chiese, distendendo le gambe e soffocando uno sbadiglio.

 

Le lanciò una brevissima occhiata per poi riportare il suo sguardo avanti a sé. “Tecnicamente non dovrei dirtelo.”

 

“Sopravvivrò.” scrollando le spalle sbadigliò, ancora assonnata.

 

Gli occhi viola di lui la squadrarono attentamente, e lei ricambiò l’occhiata con tanto di sopracciglia inarcate come a chiedergli, implicitamente, che diamine avesse da guardare.

“Troppo studio?” la domanda fu fatta con la fronte aggrottata e un’occhiata attenta, cosa che fece stranire la ragazza.

 

Lei annuì, seria. “Anatomia.”

 

Kai non disse nulla per diversi secondi, poi si voltò a fissarla. “Non studiavi lingue?” chiese, quando il taxi inchiodò di fronte la prima fermata.

 

Hilary aprì lo sportello della vettura per poi voltarsi e rivolgergli un sorrisetto. “Più o meno è la stessa cosa, no?”

 

Il russo capì il doppio senso solo quando il taxi ripartì alla volta del Plaza.

 

 

 

 

 

“¡Maldita medica..!” Julia vibrò dalla rabbia, sorseggiando la sua birra al bancone del locale, e imprecando per l’ennesima volta contro la ginecologa.

 

“Guarda che è il loro mestiere far sentire uno schifo la prima volta.” Mariam stava lavando i bicchieri, predisponendoli con cura ai loro posti, preparandosi ad una serata tranquilla: da normale Martedì sera, non ci sarebbe stata tanta gente al locale, il che era meglio così. I suoi primi giorni al pub erano andati bene – certo, aveva incontrato certe persone che ci avevano provato con lei in modo vergognoso e indecoroso, ma aveva saputo come mandarli a cagare – se la era cavata egregiamente, e da quando lei e Mao lavoravano lì, ogni sera Julia e Hilary stavano lì con loro, cenando e ordinando un cocktail.

 

Quando le Cloth Dolls non cantavano, l’Avalon era un semplice pub, e la gente cominciava a circolare dalle dieci in poi.

Essendo appena le nove, il locale era quasi deserto, fatta eccezione per Julia, i baristi, i camerieri e una o due persone che avevano probabilmente deciso di avventurarsi dentro quel posto così conosciuto solo ad inizio serata.

 

“Metti il tg?” la spagnola sbuffò, indicando con la testa l’enorme televisore che vi era ad un paio di metri da loro che, tuttavia, si vedeva benissimo.

 

Mariam afferrò il telecomando, concordando silenziosamente che non sarebbe stata una cattiva idea sapere quello che accadeva nel mondo, ed accese la tv dove la notizia, già iniziata, dello sport, attirò l’attenzione di entrambe; immediatamente l’irlandese sparò il volume al massimo.

 

“… Il presidente ha dichiarato di essere riuscito a trovare gli sponsor grazie ad un insieme di fattori, come la provvidenziale conferenza, ma anche l’aiuto di alcuni blader che non hanno lasciato al caso questo campionato. E ora, sentiamo l’intervista da parte della nostra inviata.”

Mariam e Julia si fissarono, quasi sgomente, e Mao sopraggiunse correndo dal primo piano.

 

“Presidente Daintenji, come è riuscito a trovare gli sponsor in un periodo da lei definito ‘di crisi finanziaria netta’?”

 

L’uomo fissò la giornalista e la telecamera, e sorrise. “Lo è ancora, fondamentalmente, ma grazie alla richiesta d’aiuto, e a bladers che amano davvero questo sport e che hanno avuto ottime idee, i problemi sono stati presto risolti.”

 

“Come si svolgerà questo campionato?”

 

“La sede sarà New York, e le squadre quelle convocate. La BBA si sta organizzando per preparare tutto al meglio, ma tra una ventina di giorni – un mese al massimo – il torneo riaprirà i battenti. E’ una promessa.”

 

“Sulle regole che cambiano ad ogni campionato cos’è che può dirci?”

 

“Le stiamo elaborando tutt’ora, e le renderemo note quando saranno state decise.”

 

La giornalista si volse verso la telecamera. “Da New York è tutto, linea allo studio.”

 

 

Mariam spense il televisore con un gesto deciso. Mao e Julia si fissarono senza dire una parola, specchiandosi l’una negli occhi dell’altra; gli unici rumori erano il correre indaffarato degli altri baristi o camerieri che non fecero altro che rendere ancora più ovattato lo stato nel quale erano piombate.

 

“Ci dobbiamo muovere, tra un po’ arriveranno i clienti.” l’irlandese aveva un viso neutro, impassibile.

 

Mao incrociò le braccia al petto, sospirando. “La verità è che ci stavamo abituando talmente a questa vita frenetica da newyorkesi che questa notizia ci ha riportate alla realtà.” Analizzò, storcendo la bocca. “Esiste il campionato, esistono i nostri problemi che sono tutti racchiusi nelle squadre di bladers: nostre o meno.” le altre abbassarono gli occhi. “Questa notizia è servita semplicemente per ricordarci che li dobbiamo affrontare.”

 

Julia annuì, decisa. Tienes razòn, chica. E’ che New York è infernale, ti fa dimenticare tutto. Poi con questa cosa che avevamo deciso…” si strinse nelle spalle. “Il punto è: ce la faremo a far tutto? Lavoro, allenamenti, campionato… Sarà un casino.”

 

Mariam posò il bicchiere che stringeva tra le mani e si morse le labbra. “Ci proveremo.” commentò, lo sguardo deciso a non mollare per nessuna ragione al mondo.

 

 

 

 

 

Hilary non smetteva di ripetere la lezione di letteratura cinese, che quel giorno aveva spiegato la professoressa, mentre osservava Takao scontrarsi con Daichi, e il prof acquisiva dati.

Era questione di settimane e avrebbe avuto l’esame che doveva passare a tutti i costi, non poteva permettersi ritardi o imperfezioni nella sua carriera universitaria.

 

“Che pronuncia.” il professore sorrise, non smettendo di fare il suo lavoro. “Tra te e Mao quando parla con i Bahiuzu non ci sono differenze per ora.”

 

Hilary, prima di rispondergli, finì di ripetere un paragrafo. “Grazie, cerco di fare del mio meglio.” poi riprese con la lezione; andava a trovare Takao quando poteva, e a costo di star con lui e intanto studiare, faceva anche dei sacrifici.

 

Quella sera avevano cenato insieme, poi mentre lui si dedicava agli allenamenti, lei lo guardava – un po’ come ai vecchi tempi – e intanto ripeteva.

Avevano ascoltato insieme la notizia al tg della riapertura del torno mondiale di bey e, ovviamente, il suo migliore amico era stato felicissimo, gasato fino all’inverosimile. Le aveva raccontato che ci erano voluti i Blade Breakers Revolution e la Neoborg per convincere il presidente a provare con nuovi sponsor – gli stessi che aveva suggerito lei – e alla fine i risultati si erano visti.

 

“Ehi, basta con quel libro, ora dedicati un po’ al tuo amico!” Takao richiamò a sé Dragoon, andandole incontro; Hilary sorrise, facendogli cenno di aspettare, e di sedersi accanto a lei. Il ragazzo, per tutta risposta, le andò vicino e fece quello che avrebbe sempre fatto.

 

La bruna osservò il suo libro di cinese volare con tanto di sopracciglia inarcate. “Sei consapevole del fatto che non aveva un mantello e l’hai mandato allo sbaraglio, vero?”

 

“Bisogna essere coraggiosi, nella vita.” Rispose lui, annuendo solennemente.

 

“Parli tu che non ci hai provato con Yoriko Mori quando era il momento?”

 

La guardò di traverso. “Ehi, questo è un colpo basso, interprete dei miei stivali.”

 

Lei si finse offesa. “No, questo è un colpo basso, stupido… Sportivo!”

 

Il ragazzo finse di guardarla dall’alto in basso. “Rispondo alla domanda di prima solo se me lo dici in finlandese. Com’è il tuo finlandese?”

 

Mise le mani sui fianchi ed ostentò un’espressione tronfia. “Ottimo, solo che non lo mostro agli estranei!” quella battuta fece scoppiare a ridere entrambi, e il botta e risposta terminò in quel modo.

 

Era incredibile come negli ultimi due anni il loro rapporto si fosse evoluto: erano sempre stati come fratello e sorella e, come tali, dai tre ai quattordici anni, avevano passato fasi altalenanti di amore-odio – talvolta più odio che amore, soprattutto quando Hilary si era immessa nel gruppo dei Blade Breakers: questo lui non l’aveva proprio potuto sopportare! – ma, come tutti i fratelli e sorelle che si rispettino, se un fattore esterno faceva soffrire uno dei due, ecco che l’altro interveniva per distruggerlo senza pietà.

Negli ultimi due anni i battibecchi erano andati a scemare, ed il loro rapporto aveva subito un’impennata pazzesca, dovuto anche al fatto che, da quando lei aveva saputo che sarebbe stata trasferita a New York, lui ci era rimasto male, e molto, pur essendo ovviamente contento per lei. L’anno che Hilary aveva passato in America era stato difficile per entrambi, abituati ad aversi tra i piedi ogni giorno della loro vita da sempre, ma ce l’avevano fatta.

 

“Io adesso vado all’Avalon, le ragazze mi aspettano lì; vieni con me?”

 

Takao ci pensò su un istante, poi scrollò le spalle. “Ma sì, una birra in compagnia della cantante più famosa di Manhattan… Ho sempre desiderato essere un uomo invidiato.”

 

Lei indossò i suoi occhiali da sole con fare snob. “E allora pronto per i paparazzi.” Dopodiché scoppiarono nuovamente a ridere.

 

 

 

 

 

“Ehi, bellissima, stiamo aspettando te!”

A Mao il suo lavoro piaceva abbastanza: i colleghi erano gentili, il capo era mitico, le sue amiche erano lì, lo stipendio era buono, ma… C’era un ma. Un ma costituito dai cafoni che, puntualmente, si presentavano al locale.

 

Aveva sentito dire che quello della cameriera non era un mestiere esattamente facile, ma non pensava fosse così stressante: avere a che fare con gli uomini arrapati che, puntualmente, le rivolgevano frasi impronunciabili era, sempre e comunque, qualcosa di sopraffino.

Era per natura timida e dolce come una gattina ma, quando la si stuzzicava, sapeva sfoderare gli artigli. E graffiare.

 

Continuò a prendere le ordinazioni al tavolo delle tre coppie, ignorando gli ululati due tavoli più in là, che la stavano abbondantemente facendo spazientire.

“Okay, sono due birre scure, un gin fizz, due martini e un lemon soda.” riepilogò brevemente; quelli annuirono. “Arrivano subito.” assicurò, con un sorriso.

Attraversò il locale per andare a portare l’ordinazione al bancone: quella sera l’Avalon era pieno a metà: Hilary, Julia e Takao erano seduti al primo piano, stavano chiacchierando fitto fitto, e l’avevano invitata a sedersi ma, purtroppo o per fortuna, il lavoro era lavoro.

 

Facendosi forza e ignorando nuovamente gli ululati e le sottospecie di complimenti provenienti dallo stesso tavolo, si diresse verso un tavolo a muro, dove un ragazzo dalla capigliatura castana-rossiccia la stava fissando.

 

“Ciao.” fece, sbrigativamente. “Mentre aspetti ordini qualcosa?”

 

Lui le sorrise. “Non aspetto nessuno… Inizio con delle patatine e una birra.”

 

Gli sorrise velocemente. “Perfetto; arrivano.” e andò via, incurante dell’espressione di lui.

 

Quando si diresse al bancone dove i baristi stavano preparando cocktail il più velocemente possibile, si affrettò a distribuire gli ultimi ordini, ma venne trattenuta con un cenno da Mariam.

“Quello del tavolo dodici sbava su di te da quando si è seduto.” proferì, finendo di mescolare un intruglio.

 

La cinese sbatté gli occhi. “Eh?”

 

L’altra sbuffò, prendendo l’ordinazione e leggendola. “Quello delle… Patatine e della birra. Sa su chi puntare.”

 

Mao arrossì. “Ma finiscila.”

 

La mora le porse tre cocktail su un vassoio. “Tavolo due del primo piano.” fece con tono ironico, inarcando le sopracciglia. La cinese non disse niente, dirigendosi con i drink al tavolo prestabilito e cercando di non pensare a nulla.

Ma quando, subito dopo averli distribuiti, si ritrovò una mano sul sedere da parte dei cafoni che l’avevano tormentata da tutta una sera… Non ci vide più. E mollò un gancio destro tale che stese il malcapitato, facendolo imprecare.

 

Il locale ammutolì di botto; tutte le teste si voltarono verso di loro, rivelando una scena poco carina: il ragazzo con la mano alla guancia, e Mao con il pugno ancora alzato, livida.

Non sapeva se quel gesto le sarebbe costato il posto, certo era che non poteva permettere di farsi trattare così, ne andava del suo onore, della sua moralità, del rispetto che aveva verso se stessa.

 

“Mi hai spaccato la faccia!” tuonò il ragazzo, alzandosi in piedi e squadrandola con livore.

 

Julia, Hilary e Takao furono subito accanto a lei, e la spagnola fece una smorfia. “E ha fatto bene, brutto maiale schifoso!”

 

“Che succede, qui?” Mitch, come al solito elegantissimo nella sua camicia bianca e nei suoi pantaloni neri, fissò la scena che gli si presentò davanti con cipiglio severo.

 

“Mi ha dato un pugno!” protestò vivacemente il ragazzo. “E’ così che trattate i clienti?!”

 

“E’ tutta la sera che fate i porci!” una ragazza dal tavolo vicino fece una smorfia, squadrando lui e gli altri suoi amici con disgusto. “Non vi si poteva sentire, pezzi di merda!”

 

“Ha ragione.” intervenne una donna più grande. “Poi l’hanno visto tutti che le hai toccato il culo.”

 

Mao si sentì sollevata a mai finire: incurante delle proteste del ragazzo, delle minacce di querela e delle urla dei suoi amici, il gruppetto venne sbattuto fuori, e il groppo che le si era posto sullo stomaco parve sciogliersi.

 

“Preferirei che queste situazioni non si creassero.” le disse il capo, quando il tutto venne ristabilito. “La prossima volta, segnala il tavolo e interverremo in tempo, okay?” annuì, e Mitch, visibilmente stressato, le dedicò un breve sorriso.

 

La ragazza si voltò per riprendere a lavorare, ma venne circondata dagli sguardi preoccupati delle sue amiche. “Ehi, stai bene?” Hilary la squadrò come avesse qualche male incurabile.

 

“Sì, normale amministrazione.” cercò di minimizzare la cinese, sorridendo.

 

Chica, se qualcosa non va, dillo!” la spagnola tirò dei pugni all’aria, facendo ridere le altre due.

 

“E’ tutto a posto, sul serio: di clienti cafoni ne capitano in continuazione.” tentò di rassicurarle. “Riprendete la vostra serata.” e, senza dar loro tempo di replicare, andò al bancone, pronta per riprendere a lavorare; Mariam la stava osservando, ironica, ben tre vassoi colmi di drink pronti per lei. “Beh?” chiese, sospirando.

 

“Niente, ti sei difesa bene.” spiegò l’irlandese. “Solo… E’ stato divertente vedere il tizio del tavolo dodici provare a correre nella tua direzione e bloccarsi nel momento in cui hai risolto la cosa da te. Fossi in te gli darei una chance.” non appena lo disse, le porse il vassoio con la birra e le patatine, e diede gli altri due ad un’altra cameriera che, velocemente, passò di lì.

Mao osservò le patatine e la birra come fossero una bomba ad orologeria e, sentendo il cuore che le batteva forte al ritmo di un tamburo, a stento sentì le parole dell’amica ‘Mica te lo devi sposare!’; afferrò il vassoio e si diresse verso il tavolo dove il ragazzo, non appena la vide, le rivolse un gran sorriso.

Era carino, aveva una bella pelle abbronzata, dei bei capelli castano-rossiccio e, da vicino, dei begli occhi azzurri.

 

“Grazie.” anche una voce calda e gentile. Aveva un solo difetto: non era quello stupido, cretino, idiota, del suo amico d’infanzia.

Sentendo un macigno piombarle addosso, Mao avvertì una sincope all’altezza dello stomaco che le fece chiudere gli occhi un istante: gli rivolse un sorriso e andò via. “Aspetta!” fu solo per cortesia che si voltò; cortesia e nient’altro. “Io mi chiamo Dylan.” aveva anche un bel sorriso.

 

“Mao.” fece, telegraficamente. “Sto lavorando, scusami.” e girò sui tacchi, consapevole che liberarsi della presa che un paio di caldi occhi color caramello avevano su di lei non sarebbe stato semplice.

 

 

 

Mariam scosse la testa, sospirando impercettibilmente: in fondo lo sapeva che sarebbe andata così: la sua amica non era ancora pronta a fare questo passo più lungo della gamba, scommetteva che per lei significava tradire Rei, anche se non stavano affatto insieme.

Sospirò: certi uomini erano proprio tonti…

 

E certi bastardi nati

 

Aveva appena finito di formulare il pensiero che lo vide: i suoi occhi parevano fatti per captare la sua essenza: entrò nel locale abbarbicato ad una rossa – palesemente tinta – sui trampoli quindici e con un vestitino giallo canarino che più che vestito pareva un cerotto.

Il suo primo pensiero fu di non rompere il bicchiere che aveva tra le mani: cautamente lo lavò e lo posò, dopodiché si concentrò sugli ordini che continuavano ad arrivare a fiotti: doveva preparare drink, mescolare liquori ed ottenere cocktail, era pagata per quello: Max Mizuhara e la sua stupida rossa non esistevano, dovevano fuoriuscire dal suo campo visivo e dai suoi pensieri, o avrebbe commesso qualche sciocchezza.

 

Due Bloody Mary e un Aperol Peach; la ragazza si concentrò minuziosamente sulla preparazione dei tre drink, versando minuziosamente le dosi, mescolando e triturando il ghiaccio, per poi servire nei bei bicchieri targati Avalon.

Erano appena le undici e trenta, la serata sarebbe stata ancora lunga, ma a costo di farsi rodere da dentro non gli avrebbe mai, mai dato la soddisfazione di vederla dannarsi per lui.

 

“Lo dicevo io.” Mariam alzò lo sguardo: la sua visuale era stata oscurata da un ragazzo sui venticinque anni, dalla carnagione olivastra e i capelli scuri, piuttosto carino e sicuro di sé. “Ho chiesto chi era il barista che mi aveva preparato un Angelo Azzurro così buono… E non poteva essere altro che un altro angelo.”

 

Mariam alzò gli occhi al cielo: perché i ragazzi dovevano essere così scontati?

Stava per mandarlo a quel paese con un biglietto di sola andata, quando si ricordò di un fattore che la faceva stare molto male.

E che le era a pochi metri di distanza; con una rossa tinta abbarbicata al braccio.

E prese una decisione.

 

 

 

 

 

Julia era molto contenta di come si era evoluta la serata: l’aveva passata al pub con le sue amiche e, a parte l’inconveniente di quel maiale che aveva osato importunare Mao, aveva passato delle ore molto piacevoli, senza contare che aveva conosciuto Mike, un ragazzo della sua età che l’aveva riconosciuta come la batterista delle Cloth Dolls e le aveva chiesto di uscire.

 

Decisamente New York era una città frenetica, assurda, dove si poteva fare di tutto, e la definizione di grande mela calzava a pennello: succosa, uno non si stancava mai di assaggiarla in tutte le sue sfaccettature.

Qualcuno una volta aveva detto che era il posto in cui era impossibile dormire due notti di seguito con la stessa persona… E ora capiva il perché di quell’affermazione.

 

Mike aveva un buon profumo, le aveva cinto le spalle con un braccio, e a lei questa cosa non era dispiaciuta, non era dispiaciuta affatto: dopo due drink al pub erano passati in un altro locale, una piccola yogurteria aperta fino a tardi, e le aveva preso una piccola crêpe al cioccolato: galante era galante, sperava solo non si perdesse in inutili quisquilie.

 

“Descrivi la Spagna con un aggettivo.”

 

Inarcò un sopracciglio: questa non se l’aspettava: dove diamine voleva andare a parare? Per tutta la sera era stato attento, grazioso, garbato, un vero gentiluomo; ora all’improvviso stava iniziando a cambiare registro, a tentare di flirtare in maniera sottile… E lei cominciò a fare la birichina.

Caliente.” lo disse con uno sguardo che lasciava intendere cose per le quali, e che lo fece scoppiare a ridere.

 

“Non ne dubito.” fece, facendola fermare all’improvviso. “Qualcosa mi dice che sei l’essenza stessa della Spagna, che hai il fuoco nelle vene…” fece per baciarla, ma lei si spostò con una risatina e con un saltello, zampettando sul muretto in pietra di fronte.

 

“No. Se mi vuoi… Vieni a prendermi.”

 

Lui sorrise. “Non mi sono mai tirato indietro di fronte alle sfide.”

 

 

 

 

 

Rientrando in casa, le fece effetto, dopo tutti quei giorni di casino, trovarla straordinariamente vuota: erano le tre di notte, e un’altra serata brava si era appena conclusa.

Sbadigliando, mise sul fuoco la camomilla, sperando nel suo effetto immediato: l’indomani avrebbe avuto lezione dalle dieci alle sei del pomeriggio; sarebbe stata una faticaccia immane…

 

In più ho le prove con le ragazze…

 

Sedendosi, preparò la tazza, quando si accorse del cigolio della porta: voltandosi, fu sorpresa di ritrovarsi Mariam accanto a sé, visto che in teoria avrebbe dovuto essere ancora al pub a lavorare.

Sospirò, abbozzando un sorriso: c’erano quelle come la sua amica, stupende anche con un sacco della spazzatura addosso, e quelle come lei; quelle normali, di tutti i giorni, che dovevano curarsi, sistemarsi, truccarsi, altrimenti sarebbero parse degli spaventapasseri; il trucco era prenderla con ironia, altrimenti non se ne usciva più.

 

“Una tazza anche per me.” l’irlandese si sedette al tavolo, accavallando le gambe; aveva i capelli scompigliati come se li avesse sostituiti con una balla di fieno, l’aria stanca e provata, ma anche così era bellissima e affascinante.

“Ho appena mandato una mail a Dublino: mi manderanno la mustang nei prossimi giorni.”

 

“Sono contenta: immagino ti sia mancata molto.” Quando lei annuì, sorrise. “Dai che poi facciamo dei giri tutti e quattro; ma guiderai sempre tu, promesso.” All’annuire solennemente della sua amica, rise, andando poi a controllare quello che c’era sul fuoco.

 

La camomilla venne versata in due tazze, e Hilary si sedette accanto a Mariam, lasciando che la bevanda si raffreddasse. “Ho conosciuto un ragazzo.” Cambiò discorso. “Credo si chiamasse Tim, o forse Tom, non so.” ridacchiò. “Era una roba assurda: carino, ma appiccicoso da morire… Poi aveva un alito…” rabbrividì. “Non potevo fare altro che mandarlo a quel paese.” fece, scuotendo la testa. “Mao invece non si sente ancora pronta psicologicamente, eh?”

 

Mariam fissava la tazza di fronte a lei, seria. “La capisco. Quando si ha in testa una persona, uscire con altre e pensare alla stessa è da masochisti. E’ stupido.”

 

Hilary la fissò. “Probabile. Ma l’alternativa quale sarebbe?  Mao è innamorata di Rei da anni, e un mese fa ne ha compiuti venti; può solo aspettare ancora, fino a che a venti non se ne sommano altri venti e poi altri venti ancora…” sospirò, mordendosi le labbra.

“Io ho mandato affanculo Kai Hiwatari anni fa, e ora me ne sbatto. Single non vuol dire necessariamente sola, così come coppia non vuol dire per forza essere felici.”

 

Mariam si rabbuiò. “Questo lo so.”

 

Ci furono parecchi secondi di silenzio e, dopo aver finito la sua camomilla, Hilary provò a lanciare l’amo. “Era carino il ragazzo che ci ha provato con te.”

 

“Non ci ho fatto molto caso.” la voce dell’irlandese era roca. “Avrebbe potuto essere pure Babbo Natale.”

 

Hilary la fissò, nel dubbio se pronunciare le sue constatazioni o meno. “Max.”

 

Mariam si irrigidì. “I nostri ricordi mi stanno tormentando.” rivelò, con un filo di voce.

 

La bruna le si avvicinò, posandole una mano sul braccio, come a darle coraggio. “Siete stati insieme.” non era affatto una domanda; più una conclusione alla quale era arrivata.

 

Mariam chiuse brevemente gli occhi e, quando li riaprì, in quegli smeraldi c’era tutto il dolore di una fiducia conquistata e tradita. “Sono stata a Washington con Jesse e gli altri per una specie di concomitanza con la sede degli All Starz. E c’era lui. All’inizio non lo potevo soffrire, mi pareva così infantile, un bambino… Poi mi conquistò facendomi ridere, con allegria, simpatia, dolcezza… Mi baciò quando meno me l’aspettavo, un giorno in cui stavo ridendo perché ero riuscita a batterlo a bey; ero così felice…”

Hilary non interruppe l’amica nel suo racconto, ma era strabiliata nel notare quanto fosse immersa nei ricordi.

“Era sempre molto amichevole; non solo con me, ma anche con le altre… All’inizio non ci facevo caso, poi notai che mi dava fastidio; che io, la donna di ghiaccio, ero gelosa. Lui rideva, diceva che gli faceva piacere, che non mi dovevo preoccupare e cazzate varie… Ma la verità era che flirtava con tutte: compagne di squadra, fans… Ogni cosa che aveva la gonna lui pareva attrarla, dannazione!” Hilary ridacchiò allo sbottare dell’amica. “Resistetti fino a quando non lo vidi con i miei occhi baciare una biondina del cazzo. Feci armi e bagagli e tornai al villaggio.”

 

“Non gli hai chiesto spiegazioni?” la bruna era incredula: conosceva Max da anni, ed era tutto meno che un traditore.

 

“Oh, certo: ha negato fino a non avere più fiato.” laconicamente Mariam si accese una sigaretta, e Hilary sospirò stancamente, non sapendo cosa dire.

 

“Max è sempre stato un playboy, un tipo amichevole, come hai detto tu, ma è una persona leale. non tradirebbe mai un amico, figuriamoci la persona con cui decide di stare!” dichiarò, decisa.

 

Mariam la inchiodò con lo sguardo. “Intanto l’ha fatto. E io mi ritrovo a… Ad aver scopato con un tizio di cui non ricordo nemmeno la faccia, e a pensare a lui. Poi una non si deve incazzare.” replicò, aspirando un’abbondante boccata di fumo.

 

Hilary rovesciò la testa indietro, ridendo. “Tesoro, essere incazzati per le persone giuste è meglio che essere euforici per quelle sbagliate.” fece, prendendo a sua volta una sigaretta.

 

L’irlandese le porse l’accendino. “E in base a che criterio si dividono persone giuste e persone sbagliate?”

 

Quella scoppiò a ridere. “Okay, fregata.” buttando fuori un po’ di fumo, sorrise. “Ci pensiamo domani, vuoi? Sono le tre di notte e io sono stanca.”

 

“A chi lo dici.” Mariam gettò la cenere nel colorato posacenere, sbuffando laconicamente. “E ora che facciamo?”

 

“Quello che facciamo sempre: fumiamo.” Hilary le schiacciò l’occhiolino. “Solo che al posto di farlo dalle orecchie lo facciamo con le nostre amate sigarette.”

L’irlandese si ritrovò a ridacchiare e, mentre aspirava un’altra boccata, pensò che avrebbe avuto molto da imparare da quel periodo: vendette, calci nel didietro, intrallazzi che sarebbero stati all’ordine del giorno… Ma, sicuramente, quest’idea di distaccarsi ed andare a vivere con l’amica, non era stata poi così male.

 

Proprio per niente…

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

Che noia i capitoli di transizione… A conti fatti non dicono un’acca, però servono per la storia, quindi sono importanti, tutto sommato. u_u

 

Alla fine ad essere presi a calci non erano chi speravate voi, eh? Ma date tempo al tempo… *si tappa la bocca*

 

Oggi ultimo aggiornamento dalla sicilia *_* Dalla prossima volta si aggiorna dalla regione giuliana. *me tutta esaltata*

Ci vediamo il 27 con “City of blinding lights”; come al solito il titolo dice tutto, o quasi… ;D *me si dissocia dai suoi personaggi*

 

Bon, torno a far valigie, bagagli a mano, pacchi e roba simile… *esausta*

Un bacione a tutti, ci si rivede alla prossima! :D

 

Hiromi

 

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Capitolo 4
*** City of blinding lights ***


 Overboard

 

 

Neon heart dayglo eyes

A city lit by fireflies

They’re advertising in the skies

For people like us

And I miss you when you’re not around

I’m getting ready to leave the ground

 

City of blinding lights – U2

 

*****************



Galux parve risentire del grado di concentrazione della ragazza, tanto che quando venne attaccato, prese a vacillare paurosamente; Mao sbatté gli occhi, tentando di reprimere uno sbadiglio, e cercò di concentrarsi più che poteva: era lì da un’ora e, tra il turno all’Avalon e l’allenamento con i ragazzi, era stanca morta.

Quando Galion tentò un affondo – riuscito – al beyblade rosa, la ragazza non riuscì a far altro che sospirare, e Lai la fissò, furente. “Il campionato inizia tra due settimane –  due! Non tra due secoli! Mao! Ti strapazzi troppo con quel lavoretto, non-”

 

“Basta, su.” quella dannata voce ebbe il potere di far strizzare lo stomaco della ragazza in una morsa piuttosto piacevole. “Il tempo è prezioso, non dobbiamo perderlo a litigare.” quando le sorrise, incoraggiante, lei si sentì arrossire come una ragazzina e, dandosi della sciocca, non seppe far altro che girare sui tacchi per raggiungere gli altri.

 

“Dai, Mao, potresti prenderti qualche ora in più da dedicare al bey!” protestò Kiki, corrucciando le sopracciglia.

 

Gli sorrise stancamente, sentendosi a pezzi: erano le undici di mattina e stava praticamente dormendo in piedi. “Hai assolutamente ragione: ti prometto che farò del mio meglio.”

 

Gao si voltò a guardarla. “Vuoi che ti chiami un taxi? E’ inutile che ti sforzi se sei così stanca…”

 

Si morse le labbra, e il suo sguardo saettò da suo fratello al suo dannatissimo fratello acquisito: stavano combattendo l’uno contro l’altro, allenandosi; Rei pareva così preso, così concentrato, così…

Cercando di ignorare il magone che le era venuto all’improvviso, si costrinse a sorridere. “Sì, se non ti dispiace, sì.”

 

 

 

 

 

Non afferrando la nota della chitarra, si voltò verso Trisha, facendole segno di time out. Stavano provando da un po’ e aveva stonato più volte, si era incavolata prima con lei e poi con Kassie, per poi prendersela con il microfono che non funzionava, e infine stava tentando di calmarsi passandosi una mano tra i capelli.

 

“Calma, chica.” Julia fissò l’amica con aria interrogativa: quel giorno pareva che la brunetta fosse tutt’uno con il nervosismo. “¿Qué te pasò hoy?”

 

Quella sbuffò, tentando di aggiustare malamente il microfono. “Non ho niente oggi.” sbuffò, nervosa e irritabile, per poi mordersi le labbra. “Tra due giorni ho l’esame scritto e orale di arabo… E sono sclerata come se avessi sniffato vapori di colla.”

 

“Che novità.” Trisha si beccò una pernacchia che la fece ridere e che stemperò la situazione. “Sta’ lontana da tutto ciò che ti fa stressare, scusa.” Fece, con aria ovvia. “Se è il caso, questo weekend ce lo saltiamo e buonanotte.”

 

La giapponese scosse la testa. “Ho parlato con Mitch; mi ha fatto promettere di esserci stasera, e domani ce l’ha dato libero.”

 

“…Fatto promettere?” Hilary non poté ovviare alla domanda di Kassie, perché proprio in quel frangente qualcuno bussò alla saracinesca del garage in maniera alquanto nervosa.

 

Le ragazze si fissarono, chiedendosi implicitamente chi potesse essere, ma quando la pianista andò ad aprire, fu una vera sorpresa trovarsi davanti un arrabbiatissimo fratello di Julia.

“Sono ore che ti cerco! Avevamo le prove ore fa: perché non hai avvertito che non ci saresti stata?”

 

Hilary conosceva Raùl Fernandéz almeno da quanto conoscesse la sua gemella, ed era sempre stato un tipo affabile, gentile, molto cortese: per essere entrato come una furia e non aver nemmeno salutato, doveva essere veramente incavolato.

 

Julia rimase seduta alla sua postazione con un’aria alquanto annoiata. “¿Lo sabes qué me pareces una momia ansiosa?”

 

Capendo cos’aveva detto, fu indecisa se intervenire o meno – non scusarsi e definirlo una mammina ansiosa non era l’ideale – ma Raùl fu più rapido, perché dapprima arrossì di rabbia, poi strinse i pugni. “Fai quello che vuoi.” Sputò fuori, irato. “Sono stufo di venire a rimediare alle tue cazzate, intervenendo un attimo prima che tu le faccia. Vai dove vuoi, sposane un altro.” Ringhiò. “Ma non chiedermi più di aiutarti.”

 

Quando il ragazzo se ne andò, non si rese conto di aver lasciato tre ragazze con tanto d’occhi. Voltandosi verso la diretta interessata, si notava subito quanto la spagnola avesse stretto i pugni, o di quanto fosse arrossita.

 

“Riprendiamo?”

 

“Julia…”

Il tentativo di Kassie non servì a nulla: la spagnola si piantò addosso un sorriso quanto una casa e ci diede dentro con ciò che stavano facendo prima. Dopo parecchi secondi, le ragazze non poterono fare altro che imitarla.

 

 

 

 

 

“Vuoi smetterla di correre, dannazione?” Hilary imprecò contro se stessa per la scelta delle zeppe quella mattina e contro la sua amica che stava sfrecciando sulle scale alla velocità della luce.

“Julia!” vedere che la spagnola non si fermava nemmeno all’udire la J aspirata la fece spaventare più del dovuto.

Arrivate sul pianerottolo, fu solo grazie ad un’astuzia premeditata che riuscì a non farsi chiudere la porta in faccia, infilando la scarpa tra la porta e lo stipite. “Scappando non risolvi proprio nulla.”

La madrilena la fissò per una frazione di secondo prima di darle le spalle e dirigersi verso il piccolo salotto. Si accomodò sul divano, prese le riviste che vi erano, e le sfogliò velocemente, cambiandone una ogni trenta secondi, utilizzandole per farsi aria.

La giapponese, le diede qualche minuto, dopodiché mise le mani sui fianchi. “Devo travestirmi da giornale per farmi notare?”

 

Julia si ravviò i capelli con le mani, mordendosi le labbra. “Estoy bien.”

 

Hilary inarcò un sopracciglio. “Si vede. Risplendi pure, non so se lo sai.” Alla smorfia dell’ispanica pose una mano sulla sua. “Vorrei sapere cos’è che ha detto Raùl non perché sono una dannata pettegola, ma perché so fare due più due, e non mi piace ciò che la mia testa sta elaborando.”

 

“Cioè?”

 

“Ti avevo detto che Javier non mi piaceva, ma dopo quello che ho sentito oggi credo di aver paura per te e per quello che ti è successo.”

 

Per un lunghissimo istante Julia non disse niente: sorpresa per il fatto che l’amica avesse già capito di chi si stesse parlando, non sapeva dire se fosse sollevata o stranita nell’evocare diversi ricordi. “Non avere paura… Todo se resolvìa.” Il suo fu quasi un sussurro. “Tutte voi me dicevate de rompere con Javier… Pero no lo hice porqué fue adrenalina. Fue hermoso, guapo y... Con lui non ci si annoiava mai.”

 

Aggrottò la fronte. “C’era più di questo.”

 

“Oh, sì, il sesso era fenomenal.” Hilary all’inizio restò allucinata, dopodiché scoppiò a ridere in concomitanza con la spagnola, che colpì con una cuscinata.

“Mi ha travolta, ¿qué puedo hacer? Con lui ero sempre in giro per discoteche, localini… Conocía todos los lugares de diversión.”

 

Mi ricordo che influenza aveva.

 

Inmediatamente después de la temporada pasada sugirió que me voy por toda España, y ¿sabes qué? Lo hicimos L’abbiamo girata tutta su treni, autobus perché non potevamo permetterci aerei.” Vederla così seria e vederla sorridere così cinicamente era qualcosa di anormale. Ce levantamos por la mañana con un dolor de cabeza para la resaca de la noche anterior y hacer algo de mierda nueva en la ciudad.” Fece, scrollando le spalle. “Mi divertivo.”

 

“Quand’è che la situazione giunse al culmine?”

 

Prima di risponderle prese un lungo sospiro, mordendosi le labbra. “Chiedendomi di sposarlo. Ero troppo ubriaca quella sera, e… No sólo consintió, pero llamé a mi hermano dejar un mensaje absurdo.

 

Hilary sbatté gli occhi. “Raùl riuscì a scoprire dove ti trovavi e ad acchiapparti prima che tutto potesse accadere?” Quando la vide assumere un’aria colpevole, sgranò gli occhi. “Accadde?!”

 

Tienes una divorciada ante a ti.”

 

All’inizio rimase senza parole, praticamente sconvolta dalla storia assurda, e vi rimase per parecchi secondi, tanto che vide anche Julia avvicinarsi a lei preoccupata; all’improvviso, però – non seppe nemmeno perché - iniziò a ridere, ridere senza più fermarsi. In quella risata coinvolse anche l’amica che la abbracciò, baciandole la guancia, e insieme sghignazzarono per parecchi altri minuti.

 

Lo hablaré yo a las chicas en pocos dias.” La giapponese la fissò, attenta. “Sul serio, parlerò io loro.”

 

“Come vuoi, mi basta che tu stia bene.”

 

“Oh, come stiamo diventando giudiziosi…”

 

Hilary scrollò le spalle. “E’ l’età.”

 

Julia annuì con aria consapevole. “Creo qué si. Altrimenti non saresti diventata una dannata pettegola.” Fu allora che la giapponese le si lanciò addosso per un round infinito di solletico.

 

 

 

 

 

Squalo tornò tra le sue mani e, osservando in lungo e in largo la palestra nella quale lei e la sua squadra si erano appena allenati, Mariam girò sui tacchi, lasciandosi dietro, per quella mattinata, i suoi doveri come blader.

 

“Domani alla stessa ora.” Ozuma glielo disse con tono neutro, e lei non si prese nemmeno la briga di rispondergli: da quando viveva con Hilary, i rapporti con la sua squadra si erano ridotti al solo allenamento in vista dell’imminente campionato ma, per quel periodo che stava passando, andava bene così: non voleva persone che la opprimessero, che le dicessero cosa fare; aveva bisogno di sfogarsi, e di avere attorno gente che la facesse stare meglio, come le sue amiche: stare con loro era molto meglio di una medicina.

 

Pensandoci, sorrise brevemente: era incredibile che una come lei avesse stretto amicizia con una tipa dal temperamento focoso come Julia, con una ragazza dolce e romantica come Mao e con una vivace e volitiva come Hilary; la loro amicizia risaliva ai suoi diciassette anni, all’ennesimo campionato in cui lei e la sua squadra avevano partecipato.

Era sempre stata una che stava sulle sue, che non dava confidenza molto facilmente ma, prima con Mao, poi con Hilary e Julia, erano divenute un gruppo affiatato e armonioso e, pur nelle loro diverse nazionalità, nei loro caratteri opposti e assolutamente differenti, avevano trovato un’armonia fuori dal comune, e si sostenevano ogni qualvolta una avesse bisogno delle altre.

 

 

La metropolitana a Manhattan era costituita da una fitta via di comunicazione che, definire complicatissima, era un eufemismo: per raggiungere la zona dove stava l’appartamento di Hilary, doveva prendere una linea che l’avrebbe lasciata praticamente poco sopra. Era una questione di poco tempo prima di riavere la sua mustang, poi avrebbe potuto lasciare anche perdere tutti i mezzi di comunicazione: non vedeva l’ora.

 

La sua fermata arrivò dopo tre minuti esatti e, scendendo per successivamente salire le scale che l’avrebbero portata nella sua zona, si voltò di scatto verso la presenza ingombrante che l’aveva seguita ormai un po’ troppo abbondantemente per i suoi gusti.

 

“Hai finito di importunarmi?” l’aveva già visto con la coda nell’occhio, ed era un giovane che l’aveva adocchiata sulla metro, e ora la stava seguendo da un paio di minuti.

 

“Scusa, dolcezza, nessuna intenzione di darti sui nervi.” rise.

 

“Beh, lo stai facendo.” Sibilò, tagliente. “Sparisci.”

 

“Sei sicura di quello che vuoi? Potremmo andare un po’ in giro, io e te…” Alzò gli occhi al cielo, disgustata.

 

Che faccia tosta…

 

Una chioma rosso fuoco. Ricordi di qualche sera prima. Rabbia repressa.

Strizzò gli occhi, estraniandosi dalla realtà, non udendo nemmeno ciò che diceva l’idiota davanti a lei. “Sta’ zitto e vattene.” sibilò, riducendo gli occhi a due fessure.

 

Quello scoppiò a ridere, per tutta risposta. “Ma dai, è la fortuna che ci ha fatti incontrare!”

 

Lo trucidò con lo sguardo, girando sui tacchi. “Io direi più la sfiga.”

 

 

 

 

 

Fin dalla prima sera, ai Neoborg non era dispiaciuto un locale come l’Avalon; certo, il suo unico difetto, forse, era l’essere troppo popolare e ricercato, ma l’avere dei determinati privee era una cosa assolutamente ottima: Kai e Yuri potevano farsi dei bicchierini ascoltando musica decente e non commerciale mentre Boris e Sergey, oltre al fatto del bere, potevano provarci con più Newyorkesi contemporaneamente, il che, per loro, era un gran vantaggio.

 

Quel Sabato era una di quelle serate in cui il pub era stato allestito a discoteca: buttafuori, luci e casino facevano quindi parte del tutto. Erano le undici e avevano già incontrato tutte le persone che avrebbero animato l’imminente torneo mondiale di beyblade: nel locale c’era parecchio movimento, soprattutto attorno al palco dove si sarebbero esibite le Cloth Dolls.

 

Alla sua seconda vodka liscia, Kai osservò la sala dalla sua postazione, per poi inarcare un sopracciglio: pochi metri più avanti Sergey ci stava provando spudoratamente con un’avvenente mora, mentre Boris, al bancone, stava tracannando una pinta di birra.

 

Spero almeno che per gli allenamenti siano in forma

 

Le luci del locale si spensero di colpo.

Qualcuno ululò, altri fischiarono e, quando si vide Mitch salire sul palco, illuminato da brillii fatiscenti, dei gridolini eccitati si sparsero per tutta la superficie della sala.

Il proprietario del locale presentò il gruppo tra gli applausi e gli incoraggiamenti vari, per poi vedersi spegnere bruscamente la luce ed accendersi solo parecchi secondi più tardi.

 

Con i capelli che le ricadevano ad onde morbide sulla schiena, fasciata da un top lucido arancione, Hilary apparve di spalle, dei pantaloni neri e delle plateau lucide dello stesso colore che completavano il tutto; con un braccio alzato verso l’alto e la mano che ricadeva quasi abbandonata al suo destino, l’altra era appoggiata all’avambraccio, in una posa pressoché sensuale.

Kai udì molti fischi maschili da parte del pubblico.

 

La ragazza che suonava la chitarra partì in quarta con un assolo ben fatto, per poi essere subito accompagnata dalla Fernandéz, che fece una magistrale intro di batteria, e infine si aggregò la ragazza al piano; poi tutte e tre gli strumenti si fusero in qualcosa di unico, di assoluto.

Quando la cantante si volse lo fece di scatto, e il pubblico urlò, estasiato, ammaliato, affascinato da questa presenza così sensuale.

 

Well, hey there, Father,

There is just one other thing
I have a simple request:
I hear you know God

could you give him a nod in my direction
I would be in your debt

 

Non appena la canzone finì, Hilary, ringraziò le persone che le seguivano così appassionatamente; da ragazza divertente ed estroversa qual era, stare sul palco non costituiva un problema per lei, così come non lo era avere a che fare con la gente e con i fans.

 

“Niente da obbiettare, sono brave.” Yuri finì il suo drink e lo posò sul tavolo, non smettendo di staccare lo sguardo dal gruppo di ragazze sul piccolo palco.

 

Kai non rispose, anche perché la bruna riprese a parlare proprio in quell’istante. “Stasera non sapevamo proprio che canzone scegliere, visto che volevamo dare il meglio di noi, sapete?” Ridendo, Hilary parlava al pubblico come nulla fosse, come si trovasse ad una tavola imbandita con una ventina di suoi parenti. “Quindi abbiamo optato per una canzone alla quale siamo molto legate: la riconoscete?” Un sorriso, e chitarra e batteria partirono subito in quarta, insieme alla sua voce; il piano si aggregò in un secondo momento.

 

I have a tale to tell about a girl whose soul was screwed 
She was born into a life with everything to lose 
Her father sold her to the trade when she was just a child 
She was seventeen and never ever learned to smile
 

 

Fin dalle prime parole si sentì strano, e non solo perché si riconosceva in ciò che la ragazza cantava: aveva come una specie di sesto senso, ma per vederci chiaro decise che avrebbe aspettato di vedere come si evolveva la situazione a lungo termine.

 

What's the point of screaming out if no one gives a damn? 
What's the point of reaching out if no one lends a hand? 
She had passed the point where there was nothing left to give 
She was seventeen and never ever learned to live

 

“Bella canzone.” Yuri inarcò le sopracciglia. “Chiunque di loro l’abbia scritta, la sa lunga.” Lì non poté fare a meno di annuire.

 

 

 

 

 

Il pubblico quella sera era in delirio più del solito, e fu soltanto grazie ai buttafuori che le ragazze non vennero sommerse dai fans scalpitanti; Hilary e Kassie erano distrutte, avrebbero voluto soltanto buttarsi sotto le coperte e dormire una settimana, mentre Trisha era la più pimpante insieme a Julia, che stava ancora inveendo contro un ragazzo che aveva osato allungare una mano oltre il buttafuori e darle una leggera pacca sul sedere.

 

“Mi sa che io vado.” Kassie sbadigliò, esausta. “Distrutta, sono distrutta…”

 

“Aspetta che chiamiamo Mitch in modo da farci pagare le serate di ieri e oggi.” Trisha incrociò le braccia. “Io mi faccio un cocktail e me ne vado.”

 

“Io e Hila ce sediamo aquì e ce dividiamo una birra; la notte è giovane!” Julia le strizzò l’occhiolino, e la bruna ridacchiò.

 

“Più che di bere avrei bisogno di un caffè forte, altrimenti-”

 

“Hilary.” furono due persone ad esclamare il suo nome contemporaneamente: Takao, allegro e contento da un lato; Mitch, sorridente e orgoglioso dall’altro.

 

“A chi mi devo rivolgere prima?” la domanda ironica della ragazza ridacchiare un po’ tutti. Il suo amico scosse la testa, facendo un passo indietro e dando la precedenza al direttore del locale.

 

“Ragazze, posso avere la vostra attenzione?” Mitch era tutto un sorriso. “Innanzitutto congratulazioni: è stata un’esibizione superba, avete dato il meglio di voi; poi… Vorrei presentarvi Paul Christensen e Valery Hendrix. Li conoscerete sicuramente.”

 

Kassie e Trisha fecero tanto d’occhi. “I veejay di MTV?” a Trisha la voce uscì a scatti, e per lei, così energica e vispa, era strano.

 

“Ciao a tutte!” la donna, che doveva essere sui ventotto anni, alta, bionda e con un bel sorriso, le guardò attentamente. “Volevamo parlare proprio con voi.” Spiegò, con tono serio ma con sguardo vispo. “Giorni fa siamo stati contattati da diverse associazioni di beyblade: sapete, MTV è un canale molto quotato internazionalmente, e quello che ci hanno proposto… Beh, ci è piaciuto.”

 

Valery sorrise a Paul, che tossicchiò. “Ci hanno incaricato di trovare un cantante, o una band emergente che possa aprire degnamente il campionato del mondo di beyblade: conosco Mitch da tanto, e mi ha pregato di essere qui stasera per ascoltarvi e… Direi che ho fatto bene, perché io e Valery abbiamo scelto voi.”

 

Hilary si portò le mani alla bocca, Julia urlò, Trisha e Kassie si abbracciarono, mentre Takao scoppiava a ridere, scompigliando i capelli alla sua migliore amica.

 

“Mi raccomando, una canzone che spacchi.” Valery strizzò loro l’occhiolino. “Potete decidere di fare anche una cover, l’importante è che sia suonata e cantata in maniera magistrale, per far vedere chi siete e come cantate.”

 

Hilary sorrise, sentendo i battiti furiosi del cuore fin nelle orecchie. “Va benissimo.”

 

Mitch ci ha dato i vostri dati: vi richiameremo domani e vi diremo ogni cosa.” quando se ne andarono, in tutto quel marasma, non si resero conto dell’urlo di giubilo proveniente dalle ragazze.

 

 

 

 

Perché quella sera doveva esserci anche Rei, all’Avalon?

Mao sospirò, mordendosi le labbra e distribuendo i drink ad un tavolo da otto: come ogni Sabato, dire che c’era una folla assurda non avrebbe reso l’idea: in realtà il locale era così pieno che ci si poteva muovere a malapena. Lei volava, correva di qua e di là, faceva più che poteva, ma pareva che i clienti si moltiplicassero.

 

Era seduto al tavolo con i PPB All Starz dall’inizio del concerto di Hilary e Julia, piantato insieme a Max e pareva non volesse schiodarsi da lì.

 

Perché, perché, perché mi tormenta?!

 

“Mao, chiedono di te.” la sua collega Mitzy le fece un cenno con la testa verso dei tavoli, e fu con orrore che notò lo sguardo di Rei e di tutti i PPB All Starz su di lei.

Rassegnata, si stampò un sorriso sulle labbra, andando incontro al suo destino.

 

“Cameriera, vorrei due birre e un drink forte!” l’espressione boriosa con la quale Michael lo disse, fece scoppiare tutti a ridere.

 

Emily gli diede una gomitata. “Ma sta’ zitto!” esclamò, ridendo. “Non gli dare retta.”

 

Si sforzò di sorridere: se non ci fosse stata una certa persona, avrebbe riso e scherzato con facilità, ma in quel modo proprio non ce la faceva.

“Siete riusciti a vedere l’esibizione di Hilary e Julia?” cambiò discorso, tentando di distrarsi.

 

Rick fece un sorriso soddisfatto. “Brave.” commentò, annuendo.

 

Max sorrise largamente. “Aspetto solo che Hila si avvicini qui, ma penso di dover fare la fila.” e con un cenno indicò un gruppetto poco più lontano, dove stavano le Cloth Dolls, Takao, Mitch e altre due persone.

 

Lei cominciò ad essere sulle spine più di prima. “Ragazzi, scusate, ma è Sabato, e c’è un casino… Non so, posso portarvi qualcosa?”

 

Emily e Max scossero la testa, seguiti dagli altri, che stavano ancora sorseggiando i loro drink lasciati a metà.

“Che mi consigli?” con un sorriso dolcissimo sulle labbra e quegli occhi color caramello tatuati a dir poco nella mente della ragazza, Rei occhieggiò brevemente i cocktail degli altri. “Niente di troppo complicato o pesante. Non ho voglia di mal di testa e roba varia.”

 

La ragazza annuì brevemente. “Ti faccio portare un caipiroska: Mariam è una maga dei drink.”

 

Le rivolse un sorriso luminoso. “Mi fido di te.” un sorriso. Solo un sorriso, e il suo stomaco si strizzò in una calda, piacevole morsa che conosceva bene, e che da un po’ non sopportava più.

 

“Ohi, Mao!” Max alzò immediatamente lo sguardo. “Quando staccate tu e Mariam?”

 

Lei inarcò le sopracciglia in un’espressione poco amichevole. “Alle sette.”

 

“Se mi presentassi qui a quell’ora e le parlassi?”

 

Incrociò le braccia al petto, categorica. “Ti ritroveresti un buco in fronte.”

 

Il biondo sospirò. “Mi evita, non risponde ai miei sms, alle mie chiamate… Mi sono presentato davanti a lei, e a momenti mi insultava-”

 

Fu allora che lo fissò malissimo. “Che ti aspettavi, un mazzo di fiori?”

 

“Senti… Oltre al drink di Rei, falle preparare anche qualcosa per me, okay? Dille di scegliere lei, che mi fido.”

 

Le sopracciglia di Mao finirono fin nella frangetta. “Sì, ma se dentro ci trovi belladonna mischiata ad un po’ di cianuro, non ti dirò te l’avevo detto, okay?” tutti risero, impossibilitati a trattenersi. “A tuo rischio e pericolo.”

 

“Fallo lo stesso.” lo sguardo dell’americano era deciso; Mao sbuffò, poi scosse la testa, allontanandosi per andare verso il bancone.

Mariam era impegnatissima: aveva davanti a sé una caterva di foglietti e post-it di ordinazioni, e stava shakerando più liquori. “Come va?” l’orientale sospirò, facendo una smorfia.

 

L’irlandese dispose davanti a sé cinque bicchieri, e vi versò con un’abile manovra in ciascuno di essi l’angelo azzurro appena preparato. “Sabato è un casino, e lo sai.” sospirò. “Puoi portare questo vassoio al tre, e questi due al ventotto e al diciannove?”

 

“Sì.” Per un attimo mise da parte i vassoi, facendo una smorfia. “Mari…” le mostrò il post-it delle ordinazioni senza nemmeno sapere se fosse giusto o sbagliato.  

 

La ragazza, per reazione, si fece livida: strinse tra le dita quel foglietto giallo come se avesse voluto farlo a pezzi. “Che faccia tosta!” sputò fuori.  “Dov’è un po’ di veleno?”

 

“Prendila con calma, escogita una vendetta più semplice, ma ugualmente efficace.” Le consigliò, nel tentativo di calmarla. Gettò un’occhiata ai tre vassoi che cominciavano a pesarle. “Torno subito.”

 

Cercando di ricordarsi i tavoli, distribuì i drink accuratamente. Aveva fretta di tornare dalla sua amica essenzialmente per due motivi: perché c’era un sacco di lavoro, poi perché aveva paura fosse in condizione di commettere qualche impudenza.

 

“Ehi, ciao.” distribuendo velocemente l’ultimo paio di drink, Mao sbatté gli occhi quando si trovò davanti un ragazzo il cui viso non le era affatto nuovo. “Sono Dylan, ti ricordi?”

 

Quello della birra e delle patatine!

 

Mao arrossì e abbassò lo sguardo, pensando a come lo avesse trattato bruscamente pochi giorni prima. “Sì che mi ricordo.”

 

“Posso chiederti quando stacchi?” il suo sorriso era gentile, galante, sincero.

 

“Alle sette, mi sa.” con una smorfia dispiaciuta, Mao si scansò una ciocca di capelli che le era scivolata davanti agli occhi.

 

“Se ti portassi a fare colazione nel posto più bello che conosco? Ti andrebbe?” lo propose con un tale entusiasmo e una tale aspettativa che la ragazza non poté fare a meno di ridacchiare.

 

Non c’era nulla di male, ma si sentiva strana al sol pensiero. “Okay.”

 

Lui sorrise di un sorriso che gli illuminò il volto. “Perfetto. A dopo, allora.”

Guardandolo sedersi, non poté non pensare che, sin da quando potesse ricordare, era Rei ad averle fatto provare quella morsa allo stomaco e tutte quelle sensazioni con un solo, semplice sguardo. Tutte emozioni che con altre persone si sarebbe potuta dimenticare.

 

 

 

 

 

“Ehi, Ju!” Emily le sorrise, e la spagnola ricambiò abbondantemente. “Possiamo avere l’onore?” rise, facendole posto.

 

“¡Claro!” esclamò, rovesciando i capelli all’indietro in una posa volutamente pomposa e facendo ridacchiare un po’ tutti. “Allora: pareri?”

 

“Niente da dire.” Max le sorrise. “Una scarica di energia.”

 

Anche Rick annuì. “Non siete così male.”

 

Julia si gonfiò come un pavone. “Oh, ¡muy gracias!” stava per aggiungere qualche altra cosa, ma a quel punto arrivò una collega di Mao per portare due drink.

 

“Di chi è il caipiroska?”

 

“Mio.” Rei lo prese, sorridendo e ringraziando.

 

“Oh, il succo di frutta deve essere tuo.” la cameriera aggrottò le sopracciglia verso Max. “Biondo, aria infantile e da farfallone… Tieni.” fece, piazzandoglielo davanti. “Buona serata.”

Scese un silenzio assoluto e imbarazzato; gli sguardi di tutti saettarono da Max al succo di frutta al bancone, dove una Mariam parecchio indaffarata stava lavorando.

 

Vale, ¿qué pasò?” Julia accavallò le gambe.

 

Emily fece una smorfia. “Max ha detto a Mao, che ha preso le ordinazioni, di andare da Mariam a dirle: un drink apposta per me, mi fido di te.”

 

La spagnola si voltò verso il biondo. “Volevi morire e non sapevi como suicidarte?”

 

Lui aveva un cipiglio scuro sul volto, e si voltò all’improvviso. “Vado da lei, devo parlarle.”

 

“Fermo.” Julia sbuffò. “Non vuole vederti né sentirti, e poi devo dirvi una cosa.” tutti si voltarono a fissarla, curiosissimi a causa di quel tono carico di adrenalina.

“¡No tienes idea de qué pasó a nos Cloth Dolls!” esclamò, agitando le mani e facendo tintinnare le miriadi di braccialetti che aveva ai polsi. “Mitch è stato contattato da Christensen e dalla Hendrix-”

 

“I veejay di MTV?” la madrilena annuì con un sorrisone alla domanda di Emily.

 

“Hanno il compito de elegir qualcuno para abrir el campeonato de beyblade e…” batté ritmicamente i piedi e le mani, eccitata. “Hanno scelto noi!”

 

Emily la abbracciò di slancio. “E’ meraviglioso!”

 

“Complimenti!”

 

“Almeno non ci sorbiremo Ming Ming e le sue lagne…” il commento di Rick fece scoppiare a ridere tutti.

 

Fu festa: Michael ordinò una bottiglia di un alcolico che piaceva a tutti in onore della band che quell’anno avrebbe salvato le loro orecchie, e Julia brindò con chiunque, provando a canticchiare, ma le fu detto di pensare a suonare la batteria – cosa che la fece zittire un istante, tra le risate di tutti.

 

Quando Emily la abbracciò nuovamente, la spagnola si accigliò, ma capì solo dopo il senso del gesto, attuato in modo  da nascondere il fatto di sussurrarle qualcosa all’orecchio. “Due tavoli più in là c’è un tizio che non ti stacca gli occhi di dosso.”

 

L’ispanica si morse le labbra, poi decise in fretta. “Ragazzi, scusate ma è tardi, sono proprio distrutta, mi sa che piglierò un taxi. ¡Besos a todos!” con un sorriso smagliante, salutò tutti, e fece l’occhiolino ad Emily, che ridacchiò.

 

Voltandosi, si incamminò verso l’uscita del locale, e con la coda dell’occhio, oltre il privee dove stavano i Neoborg con Ivanov che la fissava in maniera strana per chissà quale motivo, vide un ragazzo alto e dal portamento fiero alzarsi dal tavolo e seguirla: sorrise.

Alle tre di notte i taxi, a New York lavoravano sempre e comunque, specie di Sabato; Julia finse di aspettarne uno e, quando udì dei passi fermarsi accanto a lei, sorrise, soddisfatta. “E’ pericoloso per una ragazza camminare da sola.”

 

Si voltò con lentezza studiata. “Dovresti rettificare: è pericoloso por una chica indifesa camminare da sola.”

 

Lui la fissò attraverso gli occhi blu. “E tu non sei indifesa?” lei gli lanciò un’occhiata che lo fece ridere. “Immagino che dovrò scoprirlo da solo.”

 

“Forse.” puntualizzò l’ispanica.

Il ragazzo ricambiò il sorriso: con quei lineamenti e quel sorriso, non sarebbe parsa innocente ed indifesa nemmeno ad un chilometro di distanza.

 

 

 

 

 

Fu stranita nel ritrovarsi davanti il suo conoscente moscovita quando andò fuori a fumare: lo salutò con un cenno, dopodiché estrasse le sue vogue, ne accese una e finalmente si rilassò, ringraziando mentalmente l’inventore delle sigarette.

“Piaciuto il concerto?” chiese nella direzione del ragazzo, ben sapendo che lui non avrebbe mai iniziato un qualsiasi discorso.

 

Il russo la fissò con i suoi occhi viola che parvero volerla inchiodare al muro, dopodiché scrollò le spalle. “Le canzoni sono state differenti.”

 

Hilary aggrottò la fronte, rilasciando un’altra boccata di fumo. “Rispetto a..?”

 

“…All’altra volta.” Spiegò il ragazzo, lo sguardo concentrato. Quando la giapponese si rivolse totalmente a lui, stupita che lui avesse fatto attenzione alle sue canzoni, continuò. “Non parlavano del tuo modo di vivere a New York, né di un misterioso ragazzo che ti rivuole con sé per attirarti nel buio della sua vita. Hai parlato di religione.” Fece, sicuro, fissandola nuovamente negli occhi.

 

Sorrise, ammirata per quell’analisi praticamente perfetta. “Sì.” Schiacciò la sigaretta sotto le plateau, per poi stringersi nelle spalle. “Sono state di tuo gusto?”

Quando lo domandò e lui inarcò un sopracciglio con aria di sfottò, arrossì; era una domanda stupida, e se ne accorse solo dopo. Se Kai era tornato nel pub, se le aveva fatto quell’analisi perfetta di tutto quello che aveva suonato, la risposta era assolutamente positiva.

 

Fece per aggiungere qualcosa, ma fu bloccata da due ragazzi che sopraggiunsero e la riconobbero, ricoprendola di elogi e complimenti, nonché provandoci spudoratamente. “Possiamo offrirti una birra, qualcosa?”

 

“Spiacente, ma ho già preso un drink, e non voglio esagerare, ma grazie del pensiero.” sorrise lei.

 

“Dan, magari è con il suo ragazzo…” lo rimbeccò l’altro.

 

“No, niente ragazzo.” si schermì lei, scrollando le spalle. “Comunque grazie, sul serio.”

 

I due continuarono a tessere le lodi della band e della sua cantante, facendo sfinire il moscovita per quante cose sdolcinate udì: certe persone non avevano un minimo di pudore riguardo al provarci.

Eppure la cosa incredibile era lei: gentilissima, continuava a sorridere e a rispondere pazientemente alle domande, e ad accettare i complimenti, declinando in maniera ferma proposte di uscita.

 

“Sei richiesta.” commentò il russo, non appena i due si tolsero dalle scatole.

 

“Un po’.” rise lei. “Ma la verità è che a New York qualsiasi cosa abbia la gonna è mangiata con gli occhi e non solo con quelli.” Fece, roteando gli occhi. “E’ una cosa incredibile: qualsiasi maschio viva qui sembra non abbia mai visto un essere femminile in vita sua.”

 

Ho notato. “Sono le tre passate, chiama un taxi.” Fece, con tono imperioso.

 

Lei si accigliò: non pensava che uno come lui potesse avere sonno, ma nemmeno, in fondo, che fosse fatto per le notti brave. “Okay.”

 

Ne arrivò uno pochi istanti dopo, e quando si fermò davanti a loro, il russo la fissò, le sopracciglia inarcate. “Sali o no?”

 

“Cos’è, un modo gentile per intendere mi piacerebbe accompagnarti a casa?” fece ironica, puntellando le mani sui fianchi.

 

“Come ti pare.”

 

Ridacchiò, non sapendo se urlare o prenderlo a calci. “Io salgo, ma sia chiaro, Hiwatari: vado a casa perché sono distrutta, non perché me l’hai detto tu; specie con questo modo di fare villano che hai.” sbottò, fissandolo dritto negli occhi.

 

“Come ti pare.”

 

Alzando gli occhi al cielo, Hilary sbuffò pesantemente. “Ma ti ci hanno mai mandato a quel paese?”

 

 

 

 

 

Un ragazzo piacevole: dolce, premuroso, gentile, affabile. Proprio quel genere che piaceva a lei. Mao sorseggiò il suo cappuccino e annuì alla frase del suo accompagnatore, riflettendo su quell’ora che era volata veloce come non mai.

Era rimasto sorpreso nell’apprendere che sia lei sia Julia, la batterista delle Cloth Dolls, erano bladers, e non avrebbe nemmeno scommesso su Mariam, visto che lui, il beyblade non lo guardava minimamente; aveva tessuto lodi sulla sua persona dicendole che la sua scelta di vivere per conto suo era ammirevole e coraggiosa, ma lei non la pensava così.

 

 “Come ti trovi, per ora, in città?”

 

“Bene. Sono qui per… Il campionato. Inizierà tra poco, e nel frattempo mi sono trovata questo lavoro.”

 

“Ne hai il tempo? Immagino dovrai allenarti parecchio, ho sentito che il torneo di beyblade inizierà a breve…” le rivolse uno sguardo perplesso.

 

Mao scrollò le spalle. “Cerco di fare quello che posso, ma voglio mantenere una mia indipendenza, fare le mie esperienze…” tergiversò, sorseggiando ancora un po’ la bevanda e cercando di non pensare al tipo di esperienze di cui aveva parlato fin’ora.

 

Le sorrise. “Sei in gamba.”

 

Lei si sentì arrossire, e abbassò lo sguardo. “Un sacco di ragazze fanno quello che faccio io, e anche di più; non è che sia nulla di così eccezionale…”

 

“Credo che tu lo sia, eccezionale, Mao.” il suo sorriso era dolcissimo, e quando con la mano andò a coprire la sua in un gesto del tutto spontaneo, la ragazza non poté prevedere l’avvicinarsi sempre di più delle sue labbra.

Sentì il suo respirò sul viso, e chiudere gli occhi fu automatico. Il contatto che ne derivò fu dolce, piacevole, gradevole, ma nulla che minacciasse di farla svenire, di darle i brividi o di farle girare la testa.

“Mi piaci, mi piaci tantissimo.” le sussurrò, carezzandole una guancia con il dorso della mano.

 

“No.” fu l’unica cosa che fu in grado di dire.

Quando lo vide sgranare gli occhi assumendo un’espressione ferita, si sentì un mostro; il senso di colpa si diffuse in lei a macchia d’olio, facendole aumentare i battiti cardiaci.

“…S-Sono sentimentalmente impegnata.” rendendosi conto della cavolata detta, aggrottò le sopracciglia, portandosi una mano alla fronte. “Non è del tutto vero, ma… C’è un ragazzo che amo, e che mi tiene occupata sentimentalmente, ma di fatto sono single, ecco.” rivelò, tutto d’un fiato. “Tu sei così dolce, vorrei tanto che mi piacessi, ma io…” mordendosi le labbra, cercò di non guardarlo mentre notava come gli occhi di lui si facevano sempre più seri. “Mi dispiace.”

 

La fissò malissimo, lo sguardo ferito ancora negli occhi. “Pensavo che una come te non fosse come tutte le altre: mi sbagliavo. Amate chi vi fa soffrire e ignorate chi vi tratta bene. Ma perché?” scuotendo la testa, si alzò, lasciando una banconota che bastava per pagare l’intera colazione.

 

 

 

 

 

Mariam tolse la catena alla porta quando udì un singhiozzo: si trovava nell’appartamento di Julia, l’aveva aiutata a mettere a posto le ultime cose – nessuna delle due aveva dormito quella notte, ma avrebbero sempre potuto recuperare – e intanto avevano parlato di come avevano trascorso quelle ore; ma quando aveva sentito dei passi bruschi oltre la porta, li aveva subito riconosciuti: Mao. Occhi rossi di pianto, capelli spettinati, e tanta voglia di essere coccolata e consolata.

 

L’irlandese si tolse di mezzo, facendola passare e spegnendo la sigaretta nel primo posto adatto che trovò, visto che, dopotutto si trovava nell’appartamento suo e di Julia. “Cosa c’è?” domandò, buttando fuori l’ultima boccata di fumo ed andando ad aprire la finestra.

 

Lei tirò su con il naso, andandosi ad accoccolare sul piccolo divano bianco. “Tu che ci fai qui?”

 

Julia spuntò dal bagno, più luminosa che mai. “Ohi, chica!” sbattendo gli occhi, le andò subito accanto. “¿Qué tal?”

 

La cinese si tuffò dentro l’abbraccio dell’amica, e scoppiò in lacrime. “Male, malissimo: sono una cretina.” singhiozzò.

 

“No, mi amor.” l’ispanica le accarezzò i capelli, baciandole la fronte. “Non dire così.”

 

Mariam si sedette su un bracciolo del divano, sospirando. “Che cos’è successo?”

 

Mao singhiozzò più volte prima di poter riuscire a parlare. “Sono uscita con quel ragazzo dell’altra volta: era carino, simpatico, ma…” scosse la testa, e una lacrima le rotolò giù dalla guancia.

 

La mora le porse un fazzoletto. “Forse dovresti smetterla di forzarti.” il suo tono era pacato, come se parlasse a se stessa più che all’amica. “Forse dovresti aspettare che il momento giusto arrivi da solo.” Mao scosse la testa facendo una smorfia. “Se sei innamorata-”

 

“L’amore è una forma di amnesia che ha una ragazza quando dimentica che al mondo ci sono altri 1,2 miliardi di altri ragazzi.” Mao tirò su con il naso.

“Ma non si deve fare sesso con altri ragazzi solo per fare un dispetto ad un lui… Non ha senso.”

 

Julia annuì, completamente d’accordo, e Mariam si morse le labbra, sentendosi presa in causa. “Sì, lo so. Sto cercando di buttarmi tutto alle spalle… Infatti stamattina quando ho incontrato un aitante infermiere che aveva appena finito il turno di notte…” il suo sguardo si fece malizioso, la spagnola batté le mani, fischiando, e Mao ridacchiò tra le lacrime, che si asciugò con il dorso della mano.

 

“Dettagli, dettagli!” ululò la ispanica.

 

Ssst, Julia!” la zittì l’irlandese. “Sono le nove di Domenica mattina: Hilary è nell’appartamento di fronte che dorme!”

 

La madrilena fece una smorfia di scuse. “Wow, tienes razonPobre.” poi assunse uno sguardo deciso. “Non cambiare discorso: ¡queremos detalles!” sibilò, aggrottando le sopracciglia.

 

Mariam sorrise, scuotendo la testa, e fece per aprire bocca, ma un deciso bussare le interruppe: si alzò per andare ad aprire, e tutte e tre, alla vista di una Hilary in pigiama e ciabatte scoppiarono a ridere, ululando e invitandola ad entrare a suon di risatine.

“Voi lo sapete, vero” iniziò la brunetta, squadrandole una ad una con aria fintamente minacciosa. “Che mi avete svegliata buttandomi giù dal letto l’unica volta in cui potevo dormire? L’unica volta in cui non ho scopato come un coniglio? Spero per voi ci sia un buon motivo.” minacciò, gonfiando le guancie e grugnendo, chiudendosi la porta alle spalle e andandosi a sedere tra Mao e Mariam.

 

“¿Quieren una buena razon? Migliore di sentire tutti i dettagli zozzi delle avventure notturne di Mari?” ridacchiò Julia, ricevendo una cuscinata in piena faccia.

 

Hilary si voltò verso l’irlandese, fischiando. “Ora voglio sentire anch’io.”

 

La ragazza scosse la testa, sospirando. “Niente, ho semplicemente incontrato un infermiere che usciva dal suo turno di notte, ci siamo piaciuti subito, ed è stato immediatamente sesso sulle scale di casa sua.”

 

La bruna inarcò le sopracciglia, assumendo un’aria contrariata. “Ora sono invidiosa: voglio fare un sacco di sesso prima di morire e ho sprecato una notte a dormire..!”

 

Contemporaneamente alla giapponese, Julia batté le mani nella direzione di Mariam. “Dilettante, chica!” accavallando le gambe, assunse un’aria di sfida. “Esto es nada: ti hanno mai fatto un cunnilingus su un taxi?”

 

Le altre tre si volsero di scatto verso la spagnola, che le fissava, tronfia. “Un taxi in corsa?” Mariam aveva gli occhi fuori dalle orbite.

 

“E come, se no?” ravviandosi i capelli ramati, la madrilena, sospirò al solo ricordo. “Dios mio, creo que mi avrà sentita tutta Manhattan… ¡Pero a quién le importa! Eravamo io e quello che mi aveva rimorchiato, pensavo che dovessimo andare a casa sua, invece si inginocchia e…”

 

Ascoltando la sua amica mentre raccontava la sua avventura vissuta in piena notte, Mao si strinse ancora di più tra Julia e Hilary, sospirando: in quel frangente la bolla di malinconia presente fino a prima si era dissolta e stava bene così.

 

Sgranando gli occhi ed applaudendo alla fine del racconto della ispanica, capì il senso del suo gesto all’inizio del campionato: lei aveva bisogno di stare con le sue amiche, di averle accanto, di vivere quel periodo così particolare con persone che sapevano capirla appieno, consigliarla adeguatamente, e tutto il resto.

Era tutto quello che chiedeva: qualcuno che sapesse cosa volesse dire essere lei, persone con cui affrontare il giorno, con cui far fronte a tutti i casini; qualcuno con cui avrebbe potuto sempre ridere…

E anche nel peggiore… Il miglior giorno da vivere era con loro: proprio come in quel frangente.

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

I testi sonoGoin’ Down” e “Where did Jesus go?” dei Pretty Reckless

 

 

 

 

 

 

 

 

Ed eccoci qua! In teoria questi capitol sarebbero capitoli preparazione, non dicono poi tanto – perlomeno non avete visto ancora niente! xD – quindi per me è sempre una preoccupazione postarli. Piaceranno? Non piaceranno? Mi tireranno pomodori? Stavolta li vedrò in rivolta?

Avete presente le paranoie? Ecco. u___u

 

Allora, devo chiarire una questione, prima che lo facciate voi: quanto lo spagnolo vi da fastidio? In questo capitolo ce n’è stato tanto e senza alcuna traduzione. Magari per i prossimi potrei mettere la traduzione a fianco – anche se l’idea non mi entusiasma – o non so. Ma non posso assolutamente rinunciarvi, è un tassello che ha la sua importanza per il grande puzzle della storia. =D

 

Poi, le protagoniste di questa fanfic potrebbero avere fortuna nei grandi interrogativi della vita, ma ricordatevi che la scelta della roba di MTV e blabla e stata fatta sostanzialmente per tre ragioni: 1) dove ci sono agganci ci sono possibilità, e questo nella vita è un dato di fatto U.U 2) i bladers non dovranno sorbirsi Ming Ming ad inizio campionato (volete mettere?! Ò.o); 3) più tasselli si incroceranno lì proprio per quel motivo, ma, ovviamente, non posso mica dirvelo ora… =D

Poi… Un gigantesco grazie per la fiducia che mi accordate… Il mio modo di ringraziarvi è scrivere al meglio delle mie possibilità, e io ci ho provato anche stavolta… Non ho idea del risultato, ma mi sono impegnata. La prossima volta andrà meglio, promesso!

 

Ci si risente con il prossimo capitolo “What happens tomorrow” (…Titolo misterioso… *.*)

Un bacio a tutti!

 

 

 

Hiromi

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Capitolo 5
*** What happens tomorrow ***


Overboard

 

 

 

Fighting coz we're so close
There are times we punish those we need the most
No we can't wait for a saviour
Only got ourselves to blame for this behaviour

 

What happens tomorrow – Duran Duran

 

******************

 

 

La canzone che apriva il campionato aveva come pezzo finale un lungo, poderoso assolo della chitarrista che se fatto bene poteva risultare favoloso, inebriante, coinvolgente; una scarica di adrenalina pura. Ma se fatto male, era come cadere prima di aver raggiunto la meta: una delusione assurda.

Trisha provò a non pensare alle aspettative di Kassie e Julia, al fatto che avesse fame e per colpa di quella pazza esaltata di Hilary avesse dovuto cenare solo con un trancio di pizza, o alle goccioline di sudore che le stavano imperlando la fronte.

Suonò; suonò e basta, cercando di far scorrere la sua energia attraverso la chitarra e di trasmetterla all’ambiente circostante.

 

Quando, però, steccò di brutto proprio sull’ultima parte, non poté fare a meno di cacciare fuori dalle labbra un’esclamazione colorita, per poi allontanarsi dallo strumento e fissare la cantante del gruppo con aria pressoché torva.

“Ora basta!” ruggì. “Sono stanca, ci vediamo domani.”

 

Hilary, stanca e visibilmente stressata, le si parò davanti. “Non sei stanca, devi solo imparare meglio il tuo assolo: è il pezzo forte della canzone.”

 

“Se portassimo al campionato una canzone delle nostre, io forse mi troverei meglio!”

 

La giapponese sbuffò, roteando gli occhi. “Non abbiamo canzoni adatte ad aprire un campionato di beyblade, okay? E il tempo che ci hanno dato è troppo poco per scriverne una.”

 

No queda ni nastro…” le due si voltarono verso Julia che aveva parlato distrattamente; quella, sentendosi osservata, alzò lo sguardo dal raccoglitore di spartiti che stava sfogliando. “Dicevo che non rimane niente… Questa canzone è veramente la più adatta, poi è così coinvolgente! Se tu riuscissi a fare quest’assolo, Trish…! Sarebbe una gran figata.” Esclamò.

 

Ancora visibilmente tesa, la ragazza dagli irti capelli neri provò comunque a sorriderle. “Vedrò cosa posso fare.”

 

La madrilena si rivolse alla giapponese, che si stava rinfrescando con una lattina di birra. Ohi, chica: okay que te levantaste con el pie izquierdo, pero non echar en cara a ninguno, eh?”

 

Hilary sospirò pesantemente prima di rivolgersi a lei, dopodiché si umettò le labbra. “Julia, io non me la prendo con nessuno. E non mi sono svegliata con il piede sbagliato; semplicemente, ci tengo che tutto sia fatto con la massima precisione.”

 

Quella inarcò le sopracciglia con aria scettica. “Sì, pero non te comer la cabeza.”

 

Lei scosse il capo. “Nessuno si romperà la testa qui, tranquilla.” E, ignorando Julia che la fissò con le sopracciglia inarcate, prese a studiare nuovamente gli spartiti.

 

 

 

 

 

Quando suo fratello le aveva detto ‘Ho una sorpresa per te’, lei gli aveva subito ricordato che non amava le sorprese: aveva sempre avuto un carattere scontroso, per niente facile con cui avere a che fare. Erano più le persone al di fuori della sua vita che quelle che potevano vantare (?) di farne parte.

 

Con Jesse aveva un rapporto cordiale, di rispetto reciproco e affetto: aveva accettato quel periodo che stava passando lontano da lui e dalla squadra con un cenno di capo e senza tante domande. Capiva che stava soffrendo e che era necessario per lei, quindi non ne aveva fatto una tragedia, anche perché non ve ne era motivo.

 

Quando si presentò sul luogo dell’appuntamento, fare una smorfia le uscì naturale: perché diamine le aveva spedito un sms raccomandandole assolutamente di presentarsi in quel posto a quell’ora e puntuale per giunta, se poi lui non c’era?

 

Ti do cinque minuti, Jess; dopodiché tanti saluti.

 

“Eccola.”

 

Si voltò di scatto, e non appena riconobbe la sua sagoma la trapassò con lo sguardo in segno di ammonimento: era accompagnato da un altro signore sulla quarantina che reggeva un foglio di carta, ma sulle prime Mariam non si chiese nulla.

 

“Sorellona, devi mettere una firma.” Il tono di voce del ragazzo era allegro, sembrava non vedesse l’ora di far accadere qualcosa.

 

“Perché?” fece, sulla difensiva.

 

“Ti fidi di me?” ribatté quello, sfidandola con lo sguardo. “Firma e basta.”

 

Lei gli scoccò un’occhiataccia e si rivolse all’uomo sulla quarantina, che le indicò il posto dove firmare, dopodiché fu quello stesso a condurli fuori, dove per poco Mariam non urlò dalla gioia.

La sua mustang rossa.

 

“E’ arrivata qui dall’Irlanda.” Le comunicò lui, fiero. “E non è finita mica qui.” Fece, sfoderando qualcosa.

 

La ragazza dagli occhi verdi si morse le labbra. “I miei cd dei Beatles!”

 

“Se li rivuoi fammi fare un giro!” A quel punto aveva proprio le mani legate.

 

 

 

 

 

Aprì la porta della palestra che il Plaza aveva messo a disposizione per i bladers in vista del torneo mondiale; i Blade Breakers erano lì, intenti ad allenarsi con la stessa grinta e passione che li aveva sempre caratterizzati. Takao si stava battendo contro Daichi, e il fatto che Dragoon e Gayadragoon si stessero battendo fino all’ultimo le fece venire in mente una miriade di ricordi e una nostalgia non indifferente.

Aveva adorato far parte dei Blade Breakers, scoprire il mondo del beyblade, e tutto quello che ne seguiva, con tutte le porte che le si erano spalancate poi. Ora che una parte di quelle cose erano finite, non poteva far altro che sospirare ed andare avanti.

 

Quando Dragon scagliò l’altro bey fuori dal campo, Takao esultò, alzando un braccio come per autoproclamarsi vincitore, mentre Daichi gli rimbrottava contro il fatto che fosse tutta fortuna.

Hilary sorrise, contenta, facendosi avanti ed applaudendo. “Mitici!” trillò, sorridendo, lasciando poi andare le mani lungo i fianchi. “Che ne dite, adesso, di una pausa?”

 

“Ciao Hilary.” il professore la salutò brevemente, impegnato a raccogliere dati con il suo fedelissimo pc portatile. “Possiamo pure fare un break, non c’è problema… Ci ritroviamo qui tra mezz’ora?”

 

“Io sto benissimo!” protestò subito Daichi. “Voglio la rivincita, altro che pausa! Ochetta, perché devi sempre rompere?”

 

La ragazza lo fissò brevemente, accontentandosi di dargli una bottarella sulla nuca, cosa che fece ridacchiare Takao e il prof. “E oggi ti è andata bene: sono vestita da gran dama.”

 

“Uh, lo vedo.” il suo migliore amico fissò il suo trench nero, la sua ampia gonna in stile anni ’60 con tanto di blusa rossa e plateau nere, divertito. “Posso fare una lista delle persone a cui somigli?”

 

Roteò gli occhi, grugnendo. “Ma vattene un po’ a quel paese.” sbottò, facendolo scoppiare a ridere. “Sono approdata qui per venirti a trovare, e magari per prendere un caffè insieme, ma se vuoi me ne vado.”

 

Lui scosse la testa, sempre con un sorriso ironico sul volto. “Okay, okay, perdono.” la fissò di sottecchi. “Rettifica: non ne capisco molto di moda e affini ma, a parte lo stile sorpassato, stai bene. Mi sembri quasi una ragazza.”

 

Lei scosse la testa, poi ridacchiò. “Detto da te è un gran complimento. Sono così commossa che credo metterò una ‘x’ sul calendario.”

 

 

 

Il bar dove i clienti dell’hotel Plaza prendevano un caffè, un aperitivo, un cocktail o, comunque, qualcosa di molto chic e signorile, era un posto molto lussuoso e ampio, che constava di tanti tavolini e poltrone rivestite di seta, centrotavola piccoli e minimalisti, tende color avorio a balze delle stoffe più rare… Tutto lì gridava il cinque stelle di cui era marchiato l’hotel.

Gli uomini d’affari vi andavano per discutere delle loro questioni, oppure vi erano le donne di mezz’età che si ritrovavano per, tra un pasticcino e l’altro, spettegolare sugli ultimi scandali dell’Upper East Side; Takao e Hilary, invece, si erano accontentati di sedere al bancone, distinguendosi da tutti, e di sorseggiare il loro caffè come se si trovassero a Tokyo, come se stessero ancora frequentando il liceo insieme e nulla fosse cambiato.

Non si curavano del fatto che le loro chiacchiere potessero risultare inopportune o le loro risate rumorose: erano semplicemente loro, e non avrebbero stonato da nessuna parte.

 

“Io non capisco perché tutto questo segreto di stato sulla canzone che porterete al campionato.” borbottò il ragazzo. “Sono il tuo migliore amico! O te lo devo ricordare che di me ti puoi fidare?”

 

“No, lo so.” Rispose la ragazza con un sorriso, posò la tazzina sul bancone. “Ma è una sorpresa, e le sorprese scatenano segreti: è una verità assoluta.”

 

“Ma dai: a che serve essere il tuo migliore amico se poi non so nulla?” si lagnò, assumendo uno sguardo da cucciolo.

 

Lei assunse un’aria pensosa. “Non saprei proprio. Che fregatura, eh?”

 

Takao incrociò le braccia al petto. “Fai schifo.”

 

“Già.”

 

“Molto schifo.”

 

“Schifissimo.”

 

“Hilaryyyyy!!” mugolò, lagnandosi come un bambino, e fissandola con occhi supplichevoli.

 

“Fammi un po’ pensare… Ah, ecco: no.”

 

Quello prese a lagnarsi come un bambino, pestando i piedi e incurante delle signore ai tavoli vicini che iniziavano a guardarli, scandalizzate. “Dai! Un’informazione: solo una! La scegli tu.”

 

Sbuffò, alzando gli occhi al cielo. “Okay, ma dopo, il discorso è chiuso ermeticamente fino a quando non canterò.”

 

“Promesso!”

 

Sapendo che lui rispettava sempre le promesse fatte, si concentrò su qualcosa da dire, pensandoci accuratamente per più secondi, dopodiché annuì. “Abbiamo richiesto una base in assi di legno sulla quale esibirci, perché era necessaria.”

 

“Assi di legno? Necessarie? Per cosa?”

 

Scoppiò a ridere: l’irruenza e la curiosità del di Takao non si smentivano mai. “Per tirarvele in testa! … Si era detto una sola informazione!”

 

Quello sbuffò. “Okay, okay… Uffa, però!”

 

Scosse la testa e ridacchiò, scendendo dallo sgabello per andare a pagare il suo caffè, seguita dall’amico, che prese in giro: tra risate e scherzi giunsero nella hall dell’hotel quasi tenendosi la pancia per il troppo ridere, e fu così che li vide Kai: abbracciati, ridenti, e con il suono delle loro risate che aleggiava per tutto l’ingresso dell’albergo: li squadrò, lanciando loro un’occhiata impossibile da decifrare.

La ragazza tentò di ricomporsi e salutarlo, ma a causa del troppo ridere le doleva la pancia, e tutto ciò che riuscì a fare fu un cenno con la mano; il russo fece a malapena un saluto con il capo.

 

“Simpatico come sempre.” Takao sospirò, sorridendo. “Se sull’enciclopedia cerchi le parole divertimento&sballo, ti spunta la sua foto.” Hilary sorrise, facendo per aprire bocca, ma fu bloccata da una voce alle sue spalle.

 

“Ehi, sei qui: ti cercavo.”

 

“Max, ciao.” rivolgendogli un sorriso, andò ad abbracciarlo. “E’ un po’ che non ti vedo, l’altro giorno non ho nemmeno potuto salutarti all’Avalon, mi spiace…”

 

Lo vide scuotere la testa. “Fa nulla. Quando il prof mi ha detto che eri qui, ho subito pensato di venirti a cercare...”

 

La ragazza annuì. “Sono tutta tua.”

 

Takao fissò prima una, poi l’altro, infine sospirò. “Va beh, io vado a riprendere la sfida con Daichi; ciao Max. Ciao belva.” ridacchiò, scompigliandole i capelli.

 

Lei gli dedicò una sonora linguaccia, cosa che lo divertì, quando poi sparì dalla loro visuale, si rivolse a Max. “Ho proprio voglia di un altro caffè: andiamo?”

 

 

 

 

 

Romeo osservò attentamente i gemelli Fernandéz con un cipiglio perplesso: conosceva quei due da una vita, e li aveva visti crescere, andare incontro a mille difficoltà, scontrarsi, litigare, fare pace, vincere, perdere, ma affrontare tutto insieme.

Julia e Raùl erano sicuramente le due facce della stessa medaglia: se una era solare, energica, battagliera, e decisamente estroversa, l’altro era più timido, chiuso, e insicuro talmente da aver vissuto l’infanzia e l’adolescenza all’ombra della sorella.

 

Il risultato di tutto quell’immenso pasticcio psicologico era che, a diciannove anni, i due fratelli necessitavano ampiamente di una pausa, di un distacco l’uno dall’altra: dovevano trovare loro stessi, intraprendere le loro strade, capire a fondo chi erano e su cosa vertesse la loro personalità.

Il fatto che già da un paio di giorni Julia fosse andata a vivere con delle altre ragazze aveva dato i suoi frutti, Romeo lo vedeva: in quel periodo i gemelli si stavano allenando con molta più calma, e la tensione di prima quasi non c’era.

Eccetto quel giorno.

 

Era entrato lì e li aveva beccati a discutere tra loro per un motivo che a lui non era dato conoscere; quando gli allenamenti erano iniziati la rabbia proveniente da entrambe le parti aveva colpito bladers e beyblade, tanto da generare uno scontro quasi apocalittico. Li aveva fermati, aveva fatto loro una lavata di capo come faceva sempre fino a mesi prima, ma la cosa era andata avanti fino a quell’istante, in cui Raùl batté la gemella con un affondo netto, generando le sue proteste.

 

“Benissimo.” Si intromise, cercando di prendere in mano la situazione. “Complimenti Raùl; e tu Julia, se non vuoi che ti battano non lanciare il beyblade mossa dalla rabbia.”

 

La ragazza nemmeno rispose al suo allenatore. Incrociò le braccia al petto,e si limitò ad osservare l’aria a lei circostante con sguardo furente: non capiva proprio cos’avesse suo fratello da recriminarle. Il suo comportamento, diceva lui. Ma lei si comportava sempre nello stesso modo!

No creo de tener nada de qué desculparme.” Sbottò, parandosi di fronte a lui. No lo sé qué no es bueno.”

 

Lui la fissò male. “Se non sai cosa c’è che non va, puoi anche girare sui tacchi. Tanto non hai niente per cui chiedere scusa, no?” alla sua frase ironico, Julia sbuffò. “E sarebbe bello se negli States parlassi inglese.”

 

“¿Puedo hablar español con mi hermano? Gracias.” In quel frangente non sapeva proprio come rivolgerglisi. “Escuchame… So che sei deluso. Che ti aspettavi una sorella migliore di me, ma-”

 

Lui inarcò un sopracciglio. “Da quella che tecnicamente sarebbe la mia sorella maggiore mi aspettavo stabilità, sì.”

 

Lei incrociò le braccia al petto, sbuffando. “Avrei voluto esserlo… Pero tengo mi difectos. Sé que me ves como una loca que vive su vida en manera no regulada, pero esta loca... *Sa bene che la sua famiglia sei tu. E’ per questo che ti ho chiamato quella volta, non per darti noie.”

 

Lui le lanciò un’occhiata quasi rassegnata. “Sei pazza.”

 

La ragazza sorrise, contenta. “Te l’ho detto.” Ribatté, quasi orgogliosa. “Escucha… Stasera vado all’Avalon, ¿vienes conmigo?”

 

“Come mai tutta questa disponibilità?” chiese, fissandola a dir poco stranito: sua sorella era una che si era sempre tenuta alla larga da lui, giudicandolo troppo imbranato. Non era normale che fosse lei a proporgli di fare qualcosa insieme… A meno che non si sentisse veramente in colpa.

 

“Perché provo da giorni con quella stronza stacanovista di Hilary, necesito de una excusa para estar fuera de la evidencia*¹.” spiegò, con un sorrisetto che di angelico aveva ben poco.

Raùl alzò gli occhi al cielo: Julia non sarebbe cambiata proprio mai.

 

 

 

*”So che mi vedi come una pazza che vive la sua vita in maniera sregolata, ma questa pazza…”

*¹ “Ho bisogno di una scusa per essere tagliata fuori dalle prove”

 

 

 

 

“Vorrei soltanto sapere se ti ha parlato di me e se ho ancora qualche speranza.”

 

Hilary conosceva Max da anni: era un ragazzo dolcissimo, molto premuroso, leale… Aveva un solo difetto: era un maschio.

Alzando gli occhi al cielo, la giapponese prese a contare fino a dieci, dopodiché puntò lo sguardo sul fondo di caffè della tazzina, infine accavallò le gambe.

“Secondo te dovrei prendere una camomilla? O meglio un tranquillante? No, se piglio un tranquillante mi sparo le dosi dei cavalli: in questi giorni sono nervosa come non mai, sarà che con questa storia delle canzoni-”

 

“Hilary!” Il biondo americano la richiamò all’ordine, guardandola dritto negli occhi. “E’ la terza volta che tergiversi, basta! Ho qualche speranza sì o no?”

 

“Non rendermi tutto più difficile…” passandosi una mano tra i capelli, la ragazza cercò nella borsa, trovando una scatola di gomme da masticare in assenza di sigarette. “Vuoi?”

 

L’americano sbuffò, contrariato, quasi perdendo la pazienza. “Va bene, ho capito: sei sua amica e non mi dirai niente. Dimmi almeno che dovrei fare… Come dovrei farmi perdonare… All’aeroporto, quando lei è partita, le ho preso un mazzo di fiori, e me li ha tirati dietro!”

 

La ragazza rovesciò indietro la testa, sbuffando. “Max..!”

 

“Ho provato di tutto! Sms, fiori, lettere, cioccolatini.”

 

Prendendo a masticare la chewing-gum come fosse lui, la giapponese scosse la testa, come delusa. “Sei un perdente.”

 

“Che cosa…?!” Max spalancò occhi e bocca, aggrottando la fronte. “Ma che altro dovrei fare, strisciare per terra? Ho sbagliato, lo so che ho sbagliato, ma adesso se vuole crocifiggermi-”

 

Lo sguardo di lei si fece livido, furente. “Voi uomini siete così… Stupidi! Così pieni di voi da non esplodere per pura grazia divina! Fate cazzate sparandole a mo’ di mitragliatrice, e pretendete che le perdoniamo con uno schiocco di dita, e che magari due fiorellini di campo possano bastare a rimediare!” accorgendosi di aver alzato troppo la voce e di esser divenuta paonazza, tentò di dominarsi, ponendo le braccia conserte.

“Tu hai ferito Mariam con il tuo atteggiamento sleale. Se l’avesse adottato lei, a quest’ora non ne avresti più voluto sapere: è vero, o non è vero?!” fece, brutalmente.

 

Il suo discorso ebbe il potere di metterlo a tacere per più secondo, e di fargli abbassare lo sguardo. “Ho torto. Non sto dicendo di avere ragione: ma sto anche dicendo che… Dannazione, avevo tutto quello che desideravo, e in pochi secondi l’ho perso.” la fissò negli occhi. “Hils, non importa quante porte sbattute in faccia, quante parolacce o insulti mi beccherò: se lei prova ancora qualcosa per me, ricostruirò qualcosa di molto più grande di quello che avevamo, e questa volta non sputtanerò tutto.”

 

La ragazza fissò attentamente i suoi occhi color mare: erano seri, seri come non li aveva mai visti.

Scese dallo sgabello, mantenendo un’espressione serissima. “Batti il ferro finché è caldo.” soffiò, dopodiché andò via.

 

 

 

 

I ritmi dell’Avalon non erano così difficili da capire: in due settimane di lavoro al pub, Mao e Mariam erano riuscite ad integrarsi perfettamente, interagendo e collaborando con gli altri colleghi in modo da creare una squadra che funzionasse perfettamente.

Mitch solitamente era quello che osservava tutto dal suo minuscolo ufficio, ma non c’era cosa che gli sfuggisse: pur lasciando fare e organizzare tutto ai suoi dipendenti, sapeva perfettamente tutto ciò che avveniva. Se tutto andava bene, lui rimaneva in quella stanza, sempre colmo di lavoro ed indaffarato, ma se c’era qualche discussione o qualcosa che non andava, ecco che si materializzava, pronto a sedare la cosa sul nascere. Come facesse ad essere sempre così presente costituiva un mistero per tutti.

 

Quel giorno al pub non c’erano tante persone, ma Mariam era tutta concentrata nel shakerare drink a tutta velocità come fosse Sabato sera: l’aiutava a non pensare.

Il cercare gli ingredienti, frullarli, mescolarli, aggiungere essenze, versarli nei bicchieri, aggiungere cannucce, talvolta decorarli con una fettina di limone o con altro la distraeva, e non poco. Era brava nel suo lavoro, era qualcosa – una specie di hobby – che coltivava oltre al beyblade; quando anni prima era andata a lavorare come barista a Dublino aveva imparato in fretta, ma pensava che dopo tutti quegli anni si fosse dimenticata. Era bello appurare che non era così.

 

Come Giovedì sera il locale era pieno a metà: un altro po’ di gente sarebbe sopraggiunta con l’avanzare della serata, ma niente a che vedere con le seratone che aspettavano lei e i suoi colleghi nel weekend: lì si che c’era da spaccarsi il sedere in quattro.

 

Mise i bicchieri nella lavastoviglie, accertandosi così, che fossero pronti quando ne avesse avuto bisogno; con un panno appena umido pulì un tratto del bancone, dopodiché la sua attenzione fu catturata da due sagome che conosceva bene: Julia e Raùl erano entrati dentro il locale, e si stavano guardando intorno. Incredibile: cosa ci facevano insieme?

Ridusse gli occhi in due fessure, allontanando il presentimento che si era fatto largo in lei – il presentimento che quella sera qualcosa di grosso sarebbe accaduto.

 

 

 

 “Julia, Raùl!” sorridendo, andò verso il loro tavolo, sbattendo gli occhi. “Che sorpresa!” era parecchio sorpresa nel vedere insieme i gemelli Fernandéz: in quel periodo, per loro, era meglio stare il più possibile alla larga l’uno dall’altra, quindi… Cosa ci facevano, insieme?

 

La sua coinquilina le schiacciò l’occhiolino. “Ho portato qui mio fratello perché il locale merita di essere visto in un giorno in cui è normale, e non con la confusione del Sabato.” Fece, parlando lentamente e non smettendo di sorridere.

 

Mao annuì. “Hai fatto benissimo; e che ne pensi, Raùl?”

 

Il ragazzo si guardò intorno, incerto. “E’ molto grande; bello. Nei giorni feriali fa molto più per me.” Quando i loro sguardi si incrociarono, il sorriso che ne derivò da entrambe le parti fu automatico.

Lo conosceva dal terzo torneo mondale di bey, ed era tutto un’altra cosa rispetto a sua sorella: più timido, più riservato, più insicuro, pareva non fosse bene a conoscenza delle sue qualità. Aveva vissuto all’ombra di una gemella più spigliata, giocherellona, e, sì, esibizionista, e si vedeva. Anche per quel motivo i Fernandéz necessitavano di un distacco tra loro.

 

“A chi lo dici: immagina di dover fare avanti e indietro dai tavoli al bancone nei festivi.” la cinese roteò gli occhi. “Credimi se ti dico che è un vero e proprio suicidio!”

 

“Ma te la cavi bene, no?” la fissò con i suoi occhi verdi, e Mao a stento si ricordò di star lavorando, stava quasi per sedersi e per rispondere, fino a quando lo schiarimento di voce da parte di Julia non la riportò alla realtà.

 

“Beh, lo spero, o mi avrebbero cacciata!” rise, e lui ridacchiò con lei. “Comunque, ragazzi, cos’è che vi posso portare?” Julia cominciò a fare la lista di tutti gli alcolici assolutamente divini che avrebbero potuto assaggiare, e Raùl si limitò a sceglierne uno, incoraggiato dalla gemella che pareva volerci dare dentro, quella sera.

Mao li fissò entrambi per l’ennesima volta, dopodiché – come avesse la testa per aria – sorrise. “Arrivano subito.” e con un occhiolino si diresse altrove, ricordandosi di dover riprendere il proprio lavoro e di non poter farsi distrarre.

 

 

 

 

 

“E’ inutile, la batteria è fondamentale per questa dannata canzone!” sentire Kassie apostrofare la canzone dei suoi adorati Queen come una cosa dannata fece capire al superio di Hilary che, probabilmente, con il suo atteggiamento oppressivo, ansioso, stacanovista e vagamente irritante, aveva superato ogni limite.

 

“Sarà pure fondamentale, ma dobbiamo provare e provare!” sbottò invece, facendo vincere il suo senso del dovere come al solito. “Al torneo dobbiamo rasentare la perfezione, dobbiamo essere sublimi, dobbiamo-”

 

“Vaffanculo!” Trisha si tolse di dosso la chitarra con un gesto brusco, scura in volto, non potendone evidentemente più. “E basta! Basta con questi orari impossibili, con queste prove del cazzo, con i tuoi ritmi assurdi!” eruppe, digrignando i denti. “Sai che ti dico?! Se ci tieni tanto esibisciti tu, e vattene pure a quel paese a che ci sei!”

 

La bruna strinse le labbra. “Scusa tanto se voglio fare bella figura davanti a mezzo mondo!”

 

A quel punto anche la dolce Kassie esplose. “Beh, la farai tu, la tua bella figura! Ma da sola!”

 

“Bene!” arrabbiata, stanca, e delusa, la giapponese prese le sue cose, andandosene velocemente da lì. Camminando spedita, raggiunse la strada principale di quel quartiere dopo dieci minuti, e fermò un taxi, dandogli di getto l’indicazione per il Plaza.

Takao, aveva bisogno di parlare con Takao.

 

Era furiosa, furibonda, nervosissima, aveva voglia di fumare, di prendere a pugni qualcuno, di fare qualsiasi cosa; in quei giorni stava persino tralasciando l’università per quel torneo; la voglia di non fare una figuraccia mondiale era tanta. Perché non lo capivano? Era così difficile?

Pagò il tassista, rimpiangendo di non essere vestita meglio: con un paio di jeans e una maglietta con la scritta since Cindy Lauper, girls just wanna have fun! non era proprio in tiro per un hotel a cinque stelle come il Plaza, ma fortunatamente poteva sempre coprirsi con il suo trench nero.

 

Entrò dentro, chiedendo della stanza dei Blade Breakers Revolution e salendo di getto, animata dall’adrenalina della rabbia; fu quando si ritrovò davanti il cartello do not disturb che si fermò di botto: erano le undici e mezza di Giovedì sera, Takao aveva avuto una giornata stressante, era ovvio dormisse.

Come se un incudine le fosse caduta tra capo e collo, si ritrovò a scendere le scale, mordendosi le labbra: aveva voglia di urlare, di distruggere qualcosa… Ma si sarebbe accontentata di fumare una sigaretta.

 

Cos’altro posso fare, in fondo?

 

Uscendo dall’hotel, la prima boccata fu quasi rilassante, una vera iniezione di positività, dopo tutto quel periodo di trituramento di scatole, e la seconda fu ancora meglio.

 

Ciò che non poteva minimamente prevedere, era che una mano le prendesse dalle dita la sigaretta. Voltandosi, fu ciò che vide, che la lasciò a bocca aperta: Kai era in piedi dietro di lei, reggeva la sua sigaretta tra le dita e, portandosela alle labbra, fece uscire il fumo dalla bocca con aria parecchio pensosa.

“Menta.” dichiarò, sicuro, annuendo un istante dopo.

 

Hilary non seppe far altro che scoppiare a ridere: generalmente, quando i suoi amici la vedevano fumare, partivano in quarta con una filippica su quanto il fumo facesse male e blabla. Lui invece aveva… Detto di cosa sapeva la sua sigaretta?

 

Cos’è, uno scherzo?

 

“Vogue alla menta, le mie preferite.” annuì infatti, con aria solenne, mettendolo quasi alla prova.

 

Lo vide inarcare le sopracciglia e rigirarsi tra le mani la sigaretta, come se la ispezionasse. “Devi essere vestita come questo pomeriggio per fumarle, però.”

 

Eh?

Sbatté gli occhi, perplessa. “Oggi pomeriggio?” le tornarono in mente i commenti di Takao sulla sua mise, e sorrise. “Mi stai dando della vecchia signora?”

 

Lui scrollò le spalle. “No. Queste sigarette sono solo… Lunghe, sottili… Da lady.”

 

Sorrise, divertita. “Allora starò bene attenta a vestirmi come tale.” fece, solenne, poi ridacchiò. “Cos’è che ci fai, qui in giro?”

 

“Mi stavo allenando.” le passò la sigaretta, e lei scosse la testa.

 

“Tienila, se vuoi, me ne accendo un’altra.”

 

Lui insistette per passargliela. “Non fumo, generalmente; solo quando sono arrabbiato o curioso.” lei, allora, la riprese.

 

“La gente, comunque, in genere, si allena in palestra.” osservò, con un sorriso.

 

“Io non sono la gente.” Hilary gli rivolse un sorriso divertito, aspirando lentamente un’altra boccata di fumo. “Nervosa?”

 

Gli rivolse un’occhiata curiosa: era raro che uno come lui facesse domande di sua spontanea volontà, e anche quella conversazione che stavano intavolando era… Strana. “Come fai a dirlo?” chiese, spegnendo la sigaretta poco lontano.

 

“Dal modo in cui sei entrata in hotel, in cui ne sei uscita e in cui hai iniziato a fumare, non ci voleva Einstein per capirlo.”

 

Si ritrovò ad annuire, più divertita che altro, infine scrollò le spalle. “Ero venuta qui per sfogarmi con Takao, ma stava dormendo, e non ho voluto disturbarlo.”

 

“Siete molto legati.” Notò, con espressione e tono neutro.

 

“E’ la mia vita, il mio tutto.” il sorriso che Hilary esibì, seguito dal sospiro, la dicevano lunga. “E quest’anno lontano da lui è stato un inferno, mi è mancato tanto…”

 

Kai scrollò le spalle. “Ora siete insieme.”

 

“Sì, e cerchiamo di passare insieme ogni istante possibile. Senza di lui non so cosa farei: è il mio fratello mancato, il mio amore platonico… Come se ci avessero separati dalla nascita.”

 

Lui sbatté gli occhi. “Andate molto d’accordo da un paio di anni a questa parte.”

 

“Oh, sì! Siamo come gemelli, spiriti affini; è il mio migliore amico, e gli voglio un bene assurdo e impossibile da quantificare.”

 

Lui annuì, sbattendo gli occhi come fosse perplesso. “E avevi bisogno di lui, stasera?”

 

La ragazza sospirò, mordendosi le labbra. “Ho litigato con le ragazze della mia band: a quanto pare sono una da orari impossibili e da ritmi assurdi.” raccontò, facendo una smorfia e incrociando le braccia.

 

“Una stacanovista rompipalle.”

 

Facendo una smorfia, la giapponese sbuffò. “Okay, forse sono pressante, ma dobbiamo aprire il torneo, diamine! Ci guarderanno milioni di persone, dobbiamo essere perfette!”

 

“Questo discorso a loro l’hai fatto?”

 

“Sì, certo.”

 

Kai la inchiodò con lo sguardo. “Intendo all’inizio: è sempre bene fissare gli obbiettivi insieme, in una squadra.”

 

La ragazza rimase senza parole, occhi e bocca spalancati, mentre i flashback le invadevano la mente: il russo aveva ragione, era stata lei a decidere, e lo aveva fatto anche per le sue amiche, dando tutto per scontato, non pensando che loro potessero avere altre idee, magari migliori delle sue. “Dio, che stronza!” si passò una mano tra i capelli, incredula. “Merda, merda, merda-”

 

Lui inarcò le sopracciglia. “Hai finito?”

 

Lei annuì e gli sorrise, raggiante; alzandosi sulle punte dei piedi, gli stampò un bacio velocissimo sulla guancia. “Devo correre, scusami! Grazie di tutto, e… Ti sono debitrice davvero, Kai.” E corse verso il primo taxi disponibile, incurante di un ragazzo che aveva lasciato con uno sguardo a metà tra l’attonito e il rassegnato.

 

 

 

 

 

La serata era andata avanti senza alcun tipo di intoppo, tutt’altro: aveva conosciuto un ragazzo molto carino, un certo Fred, che le stava dietro da due ore nette; le aveva offerto un drink, avevano parlato, ed era stato sul punto di baciarla, ma lei non era una tipa che si concedeva facilmente: i ragazzi, per averla, dovevano sorprenderla.

Ehi, que te pasò?” sfuggendo con un gesto calibrato al suo corteggiatore, Julia si diresse da Mao, vedendo che si stava prendendo una breve pausa. “Ti vedo giù…”

 

L’altra le sorrise. “No, sto bene, sono solo stanca…” sbuffò, ravviandosi i capelli. “Finalmente i clienti cominciando ad andare e non più ad entrare…”

 

“Beh, sono le due.” rise la spagnola. “Quel Fred è uno spettacolo, parola mia.” fece, lanciandole uno sguardo allusivo. “Se non avessi qui mio fratello…” si morse le labbra, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa.

 

“Non sei venuta con lui, Ju? Sei stata tutto il tempo in giro per il locale a rimorchiare!”

 

La madrilena fece un gesto di noncuranza. “E’ adulto e vaccinato, mica ha bisogno della mamma! Se vuoi parlaci tu, ma ti consiglio di puntare sui ragazzi che ti piacciono, oltre Rei.”

 

Mao si ritrovò ad arrossire. “Chiunque essi siano?”

 

“Ovvio, mi amor!” la prese per le spalle, guardandola negli occhi. “Non puoi più continuare a vivere alla sua ombra, come tu fossi una vedova o qualcosa del genere: basta!”

 

L’altra fece una smorfia. “Magari se fossi stata più esplicita… O se mi fossi dichiarata di nuovo…”

 

“Puoi passare minuti, ore, giorni, settimane o anche mesi analizzando la situazione; cercando di mettere insieme i pezzi, giustificando cosa sarebbe potuto accadere. O puoi solamente lasciare i pezzi per terra e andare avanti, cazzo.” Julia non sapeva se la sua frase era esagerata o meno, sapeva soltanto di essere partita in quarta, come al solito: vide l’amica sgranare gli occhi, fissandola quasi basita, per poi annuire lentamente, quasi fosse convinta all’improvviso di qualcosa.

 

“Sai cosa? Hai ragione; hai proprio ragione...” e, sorridendole, andò via, lasciando l’altra in balia del dubbio di cosa avesse voluto dire quella luce che aveva visto negli occhi della cinese.

 

“Julia?” una voce calda e sensuale la distolse dai suoi pensieri. “Vieni con me?” sentire il suo fiato sull’orecchio la fece rabbrividire di piacere; la spagnola sorrise, languida, e pensando che, dopotutto, il fratello era maggiorenne e vaccinato, seguì il bel ragazzo con aria sognante.

La notte, a New York, era fatta per fare di tutto; tranne che per dormire.

 

 

 

 

 

Hilary si fece lasciare proprio davanti il garage, e fu stupita di trovarle ancora lì: pensava se ne fossero andate, invece stavano parlando lì, dove le aveva lasciate quando avevano litigato.

Si avvicinò, decisa, e non appena la videro, la fissarono, sorprese. “Mi dispiace.” iniziò, smanettando. “Ho cominciato questa cosa partendo in quarta, decidendo tutto io e… Non ne ho il diritto. Mi scuso, e molto sentitamente.” fece, abbassando la testa. “Mancano dodici giorni al torneo, se volete… Cambiamo canzone! Ne scriviamo una noi! Va bene tutto… E gli orari, ovviamente, li decidete voi.”

 

Trisha e Kassie si fissarono, sbalordite, per poi iniziare a ridacchiare. “Che stronza che sei!” Quando la videro sbuffare, risero nuovamente. “Ah, la canzone non si cambia: è perfetta e stupenda.”

 

“E poi i Queen sono i Queen!” saltellò Kassie. “Altro che te che sei una stronzona.”

 

Hilary annuì, aggrottando le sopracciglia. “Lo so, lo so: stronza e prepotente.”

 

“Hai dimenticato oppressiva e rompipalle.”

 

Sbuffando, alzò gli occhi al cielo. “Altro?”

 

Trisha fece una smorfia poco convinta. “Può bastare.”

 

“Ti ringrazio, Patricia.”

 

“Non chiamarmi Patricia!”

 

“D’accordo, Patricia.” Kassie si ritrovò in breve ad essere considerata la ‘casa’ dove nascondersi quando presto una volle slanciarsi ad acchiappare l’altra per una seduta interminabile di solletico.

 

 

 

 

 

Quel Giovedì notte, il locale si era svuotato molto, molto prima – verso le tre. Mao finì di ripulire e di passare per terra, e ridacchiò alla battuta di Raùl: le stava facendo compagnia per tutte quelle ore e, da quando avevano scoperto che Julia se ne era andata senza dire niente a nessuno, era stato naturale mettersi a parlare senza mai finire.

 

“Mao, tutto a posto?”

 

La ragazza si voltò ad osservare il suo capo. “Sì; io ho praticamente finito.”

 

Quello annuì, dando un rapido sguardo a tutto il locale. “Perfetto. Visto che stasera si è finito prima, suppongo potremmo pure chiudere in anticipo, una volta ogni tanto.”

 

Sospirò, sollevata e contenta. “Meraviglioso. Allora ci vediamo domani per l’inizio del weekend.”

 

“Senza dubbio.” sorrise quello. “A domani.”

 

Avendo cura di posare gli strofinacci che teneva in mano, e facendo cenno a Raùl perché la seguisse, Mao si diresse da Mariam, che stava indossando il cappotto. “Mari, tu come sei messa?”

 

“Visto che abbiamo qualche ora libera, io esco con lui.” fu a dir poco sorpresa di vedere accanto all’amica un ragazzone alto dalle spalle larghe ma, si sapeva, con Mariam era un mai dire mai costante: non c’era nulla di programmato o scontato.

 

“Okay, a domani allora.” le rivolse un sorriso per poi voltarsi verso Raùl. “Come dite voi Spagnoli? Ah, già… Vamos!”

 

Lui rise brevemente. “Non dirmelo: stai imparando la mia lingua?”

 

Si ritrovò a scrollare le spalle mentre, in sua compagnia, usciva dal locale. “Con Julia è impossibile che qualche parola non ti rimanga impressa in testa, specie se sei sua coinquilina.”

 

“Immagino.” quando sorrise, la ragazza notò due file di denti bianchissimi che davano splendore ai suoi occhi verde prato, del tutto differenti da quelli di sua sorella. “Come al solito se ne è andata scaricandomi come un pacco, nemmeno dicendomelo poi.” Fece, scuotendo la testa. “E’ sempre la solita.”

 

Svoltando verso la strada principale, Mao scrollò le spalle. “Ha parecchi difetti da affinare, ma li abbiamo tutti, no?” al suo sguardo torvo non poté che sorridere. “Sono certa che rivedrà i suoi comportamenti in un’occasione importante.”

 

“Tipo a Natale?”

 

Lei scoppiò a ridere. “Ma no! Nel senso che capirà quanto sta sbagliando quando si spingerà troppo oltre: lei è una che vuol fare tutto, vivere la minima cosa, ma certi affetti li da per scontati. Tipo il tuo.”

 

“Beh, allora quando mi romperò le palle ci sarà da ridere.” L’orientale capì che era un discorso troppo grande per essere affrontato in quattro e quattr’otto, e si affrettò a cercare un altro argomento. Che non trovò. Alla fine fu lui a rivolgersi a lei con aria molto più serena di prima.

“Vi state divertendo voi ragazze a fare le alternative? In questo torneo avete portato parecchio scompiglio decidendo di emanciparvi.”

 

Se all’inizio del suo discorso si era un po’ risentita, finì poi per ridere, accompagnata da lui. “Non è una questione di fare le alternative, come dici tu.” fece, incrociando le braccia e scoccandogli un’occhiata fintamente severa.

“Tutte noi abbiamo un problema, e il fatto di vivere da sole, il lavoro, questi fattori… Beh, ci aiutano a crescere, a maturare, e ad evolverci in altri ambiti che non siano il beyblade.”

 

“Lo so; stavo scherzando.” fece, continuando a camminare al suo fianco. “Lo vedo che mia sorella da un po’ è diversa… Anche se, parlando di Julia, la strada è infinita.” risero entrambi e, quando sulla via che stavano percorrendo, videro un lunapark palesemente chiuso, si fissarono a vicenda. “Abbiamo una meta, per caso?”

 

La cinese non poté fare a meno di sorridere, complice. “Non lo so, ma non possiamo entrare.”

 

“Andiamo: tu sei agile, io sono agile… Mica rompiamo qualcosa! Dai!” il ragazzo la prese per mano, e a lei venne da ridere, e si chiese perché in sua compagnia si sentisse così euforica.

 

“Ma non eri un bravo ragazzo, tu?” chiese con aria di sfida, provando a fermarlo.

 

Lui parve pensarci su un istante. “Dipende dai punti di vista.” Rispose, serio, per poi schiacciarle un occhiolino; con un salto ben calibrato, fu presto al di là della rete, atterrando agilmente.

 

Mao scosse la testa, più divertita che contrariata. “Passeremo guai!”

 

“Muoviti!” la rimbrottò lui, per poi vedersi buttare, per tutta risposta, la borsa di lei a un centimetro dalla testa. Scoppiò a ridere, e la aiutò a sistemarsi, visto che l’atterraggio fu indenne ma che, con giacca e zeppe, la ragazza si ritrovava ad essere un poco impedita.

 

“Okay: è un lunapark, è splendido… Andiamo?” il suo tono non era per nulla convincente: lei per prima era curiosa.

 

“Dai, non ti lamentare: guarda, ci sono le autoscontro, lì!” quando lo vide correre verso il fondo del lunapark, Mao prese a sospirare divertita, per poi scuotere la testa e seguirlo.

 

“Aspettami!” rise, mettendosi a correre: lo raggiunse poco dopo, trovandolo disteso sulla pista delle autoscontro, intento a fissare qualcosa. “Raùl?” il suo tono era pressoché divertito, quasi gasato. “Che stai facendo?”

 

Lui si voltò lievemente a guardarla. “Sai… E’ comodo stare qui.”

 

Mao inarcò le sopracciglia, finendo poi per annuire solennemente. “Beh, buono a sapersi.”

 

“Dai, fammi compagnia.” fece, battendo con la mano lo spazio accanto a lui: la ragazza fece una smorfia, per poi alzare gli occhi al cielo e convincersi; si sdraiò accanto all’amico, tentando di capire cosa stesse osservando, ma non trovò nulla.

 

“C’è soltanto il soffitto di questa struttura, lo sai, vero?” soffiò, tenendo le sopracciglia inarcate e mantenendo il tono sarcastico.

 

Lui le rispose con una sorta di mugugno. “Talvolta fa bene fissare un punto.” la frase criptica fece sbattere gli occhi alla ragazza e, vedendo il suo viso accigliato, lo spagnolo ridacchiò. “Cioè, cerca di capirmi: sei pieno di casini, di complessi, di pensieri… E’ terapeutico fissare un punto e tentare di pensare solo a quello, svuotando la mente.”

 

Mao aggrottò la fronte, tentando di fare come aveva detto il rosso: fissò dritto davanti a sé, riducendo gli occhi a due fessure, osservando tutto di quella parte di soffitto: la piccola crepa, il colore, la trama della pittura color carta da zucchero che dava un effetto quasi calmante sul tutto… Ben presto si ritrovò a rimanerne incantata, ma non a causa del soffitto stesso, ma per la sua natura da sognatrice. I suoi occhi si sgranarono definitivamente e lei si perse in un mondo tutto suo, definitivamente: sia per l’ora, che per la stanchezza, sia per le cose che le aveva detto Raùl…

E il pensiero andò a Rei.

Quel giorno l’aveva visto e, come sempre, gli aveva dedicato pochi, fugaci sguardi; era andata al Plaza per allenarsi e basta, cercando di farsi trovare dagli altri un po’ più preparata delle altre volte, ma riguardo lui… Non gli aveva parlato per niente.

 

Fu un sospiro pesante che la fece sobbalzare: Raùl si era messo semiseduto, e sul viso gli era scesa un’espressione quasi scocciata.

“Ehi, che succede?”

 

Lo vide scuotere la testa. “Niente, una serie di pensieri. Tutto come al solito.”

 

Anche lei si alzò per abbracciarsi le ginocchia. “Ehi, se vuoi parlarne… Beh, mi hai di fronte a te.”

 

Lui ridacchiò. “Che ti devo dire, che sono il gemello scemo di Julia? Lei è una forza, e io quello che sta dietro…” fece, scrollando le spalle. “E’ così, è sempre stato così, è non è mai stato semplice. Julia è sempre stata prepotente, esibizionista, vivace, forte… E io quello messo in ombra.”

 

Mao si morse le labbra, salvo poi scuotere la testa, sospirando pesantemente: capiva che per lui – a maggior ragione acuito dal fatto che era un maschio – non era stato semplice. “Raùl-”

 

“No, Mao: questa cosa mi ha portato sfiga per tutto! Beyblade, vita, ora persino in amore!” esclamò, facendo una smorfia. “Mathilda non mi considera altro che un ragazzo carino. Niente di peggio di quando una ragazza ti dice che sei carino. Carino è il tuo animaletto da compagnia, non il tuo partner.”

 

Lei scoppiò a ridere nel tentativo di sdrammatizzare. “Okay, ora ascolta me: sei tu ad essere una forza, hai capito bene? Devi solo tirarlo fuori, questo carattere che hai.” fece, posando entrambe le mani sulle spalle di lui.

“Tu e Julia siete due persone diverse, e io voglio bene ad entrambi, ma avete bisogno di distaccarvi per un periodo e di trovare la vostra strada.” si inginocchiò per andargli più vicina, presa dal pathos del discorso. “Credimi: tu sei forte, sei divertente, sei geniale, sei protettivo, -” fu bloccata da un paio di labbra che si posarono con forza e dolcezza sulle sue, e da un paio di braccia che si posero sui suoi fianchi. Il bacio non fu altro che un semplice contatto timido di labbra, ma bastò a spaventare entrambi per ciò che significò, tanto che si allontanarono, e con tanto d’occhi.

 

“Scusami.” Raùl abbassò lo sguardo. “Sono mortificato, sul serio.”

 

Mao era talmente atterrita che sentiva i battiti cardiaci fin nelle orecchie ma, per la prima volta, non provava quel senso di freddezza o spaesamento che aveva provato le altre volte: era tra braccia amiche, braccia che le piacevano. E poi…

 

…O puoi solamente lasciare i pezzi per terra e andare avanti, cazzo.

 

Julia aveva ragione: era tempo di guardare avanti, al futuro, altrimenti tutte le decisioni che aveva intrapreso in quel periodo non avrebbero avuto senso.

 

Con un sorriso timido si avvicinò a lui, ponendogli una mano sulla guancia, poi sospirò. “Ti dispiace?” chiese, avvicinandosi sempre di più.

Fu lui a completare il bacio, che fu dolce, dolcissimo, e che crebbe rapidamente in una lotta per assorbire uno il respiro dell’altra: sapevano di non poter fuggire ai loro problemi, sapevano che il giorno dopo li avrebbero ritrovati lì, pronti ad accoglierli…

Ma per quelle poche ore, solo per quelle poche ore, si sarebbero accontentati di essere loro, soltanto loro e loro stessi.

E nessun altro al mondo.

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

 

Una promessa è una promessa, signori e signore! Avevo promesso uno scoppiettante (o almeno mi auguro che vi sia piaciuto, anche se si può sempre fare di meglio…) capitolo di inizio mese! Ma comunque vada una cosa ve la posso dire: non. Avete. Visto. Niente.

 

Quindi, ladies and gentlemen, diamo spazio al prossimo capitolo, che si intitolerà “Numb” Ò.o Largo alle speculazioni, ai flash, a tutto quello che volete. Avete una settimana di tempo! ;D

 

Ora devo andare, miei cari. L’università è severa e non vuol sapere niente se domani arrivo stanca morta (orario dalle 9.00 alle 19.00. Aiutatemi! O.O)

 

Un bacione, a risentirci! :*

 

Hiromi

 

P.s.= Spero sia piaciuta l’idea di mettere a fine paragrafetto l’asterisco per le parti di spagnolo non spiegate dagli altri personaggi… Se vi trovate bene sono molto contenta, se no segnalatemelo! U.U :*

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Capitolo 6
*** Numb ***


Overboard

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Can't you see that you're smothering me
Holding too tightly afraid to lose control
‘Cause everything that you thought I would be
Has fallen apart right in front of you

 

Numb Linkin Park

 

***********************

 

 

L’ex appartamento di Carrie e Phoebe era stupendo: spazioso, pulito, elegante, era arredato secondo il gusto postmoderno della pop-art, e ciò conferiva al tutto uno stile dinamico, grintoso e giovanile insieme.

Quando Julia e Mao si erano trasferite, l’unico problema era stato dove dormire, e visto che le due ex proprietarie avevano lasciato lì un letto matrimoniale – e che non vi era denaro sufficiente per sostituirlo con due letti singoli – avevano optato per lasciarlo lì: condividerlo non sarebbe stato un problema, tanto più che vigeva la regola del non portare a casa ragazzi.

 

 

Spalancando gli occhi, sospirò, mordendosi le labbra: mai avrebbe pensato che infrangere le regole potesse essere qualcosa di così bello. Tra le coperte, stretta nel rassicurante abbraccio di Raùl non poté fare a meno di sorridere. Sorrise anche quando la sveglia suonò – cosa che in genere la irritava da morire – per poi essere zittita subito dopo.

 

Cinque ore. Cinque ore di pura follia con il fratello di una delle sue più care amiche, un ragazzo che la entusiasmava, un tipo simpatico, gentile, divertente, geniale… Che non amava; ma a cui voleva bene. E che aveva scelto per abbandonarsi, a cui aveva dedicato la sua prima volta: senza rimpianti, senza ripensamenti, senza remore. Solo dolcezza, tenerezza, coccole… E basta.

 

Quando la sua mano le accarezzò il braccio, sorrise, elettrizzata: se non fosse già stata innamorata, sarebbe impazzita per lui tantissime volte nell’arco di quella notte.

 

“Ehi.”

 

“Come stai?” ancora una volta si chiese come una persona potesse essere così dolce. Doveva ricordarsi di scrivere una lettera a Mathilda e sottolinearle tutto ciò che si stava perdendo.

 

“Bene: mi sento un po’ strana… Però sto bene.”

 

Lo sguardo di lui si fece sospettoso. “Non ti sei pentita, o che so io-”

 

Gli posò due dita sulle labbra sorridendo come non mai. “Va tutto bene: eravamo noi che… Avevamo bisogno di un paio d’ore di ‘vacanza da noi stessi’. Le abbiamo avute. E alla grande, direi.”

 

Lui inarcò le sopracciglia per poi prendere a ridacchiare. “Sì.” Concordò, baciandole la guancia. “Ma forse è meglio che me ne vada, prima che venga Julia. Sarebbe strano se ci trovasse qui…”

 

Ci pensò un po’ su, incerta. “Non so… Ieri mi ha incoraggiata ad andare avanti con chiunque mi piacesse. E credo abbia notato che io e te andiamo piuttosto d’accordo.”

 

Lo vide aggrottare le sopracciglia e assumere una posa scettica. “Strano che, notandolo, non abbia cercato di dirottarti verso altre direzioni, o comunque di mettermi in ridicolo.” fece, storcendo il naso. “E’ così che fa.”

 

La cinese si morse le labbra. “Raùl…” si issò per mettersi semi seduta per poi fissarlo dritto negli occhi. “Se lo fa non è certo perché ha come passatempo quello di mortificarti, ma perché… Credo che nel suo carattere autoritario, dinamico ed esuberante, ci sia anche una certa iperprotettività nei tuoi confronti. Sbagliata, ma che comunque mira a proteggerti.” Vedendo le sue sopracciglia inarcarsi sempre di più, sbuffò. “Lo so, lo so: dopo quello che ha combinato pensare a una Julia protettiva è assurdo, ma lei sta capendo di sbagliare, altrimenti non si sarebbe presa questo periodo di lontananza tra di voi per capirsi un po’ di più. O no?”

 

“Sì, forse hai ragione.” mormorò lui per tutta risposta, tenendo gli occhi bassi. “Da come la conosco io, però, se entrasse ora da quella porta, urlerebbe come una matta.”

 

Mao sospirò. “E io invece ti dico che sarebbe imbarazzata, ma anche un po’ contenta, in fondo. Perché se io sono contenta, se tu sei contento… E io e te siamo due persone che lei ama… Perché dovrebbe essere così egoista da non essere a sua volta contenta per noi?”

 

Il ragazzo scosse la testa, alzandosi dal letto e stiracchiandosi. “Mi dici come fai ad essere sempre così ottimista?”

 

Lei gli sorrise dolcemente, scrollando le spalle. “Non lo sono; solo ho fiducia nelle persone che amo.” Talvolta anche troppa. “E ora dai, alziamoci. Preparo il caffè?”

 

 

 

 

 

Sesso sulla scrivania di uno dei docenti della Columbia: quel Fred era una bomba, un fuoco d’artificio, e Julia quella notte si era sentita via, viva come non mai… L’aveva portata in un parco e l’avevano fatto sull’erba, rotolandosi in mezzo al verde, poi l’aveva portata nella sua università e, dopo un breve giro turistico, l’aveva presa in braccio e sbattuta contro la scrivania del suo professore più odiato.

Le piacevano i ragazzi così decisi: li adorava assolutamente.

Si erano salutati davanti un caffè e un cornetto, senza tante storie: sapevano entrambi che non si sarebbero rivisti e andava benissimo così.

 

Sul taxi diretto verso il Plaza, estrasse cipria e specchietto: si sarebbe fatta perdonare velocemente da suo fratello per averlo messo da parte e avrebbe smesso di sentirsi in colpa. Si passò velocemente

il rossetto sulle labbra ed estrasse una banconota da dare al tassista.

Quando scese dalla vettura ed entrò nell’hotel, le signorine alla reception la fissarono con aria curiosa: con il tubino viola arricciato fino a metà coscia, le alte plateau nere e la pochette coordinata, pareva più pronta per una serata di gala che per le nove di mattina ma, con la notte brava che aveva passato, non aveva avuto nemmeno il tempo di passare a casa per cambiarsi.

 

Perdoname.” Fece, avvicinandosi alla reception e cercando di raccattare più inglese possibile. “Può telefonare alla stanza dove alloggia Raùl Fernandéz  e dirgli che sua sorella lo aspetta nella hall? Gracias.” Quella annuì brevemente, e Julia sospirò, appoggiandosi al bancone: le plateau tacco dieci, portate da ore ed ore cominciavano a farle dolere i piedi… Non vedeva l’ora di andarsene in modo da potersele togliere.

 

“Mi scusi, signorina… Ho provato a telefonare due volte; evidentemente suo fratello non c’è.”

 

Si accigliò: Raùl era un tipo mattiniero; che fosse sveglio era sicuro… Che fosse già in palestra? Eppure Romeo aveva dato loro appuntamento per le undici, non poteva essere…

 

“La chiave della 253.” Una voce fredda e secca la fece voltare di scatto per poi sbuffare. Era soltanto Ivanov che, evidentemente, si divertiva a dare ordini come sempre. Alto, imperioso, con quello sguardo distaccato che pareva fregarsene di tutto, Julia si ritrovò a storcere le labbra. Era in tenuta sportiva, magari poteva pure darle qualche informazione…

 

“Stai andando in palestra?” chiese, parandosi di fronte a lui.

 

I suoi occhi color ghiaccio si spostarono sulla sua figura; le sue labbra sottili si curvarono in un sorriso ironico, e Julia non seppe perché, ma qualcosa la incatenò al suo sguardo. A quegli gelidi occhi color ghiaccio che parevano voler sciogliere i suoi, infinitamente più caldi.

“No. In camera mia.”

 

L’allusione era più che evidente e, malgrado il tono assolutamente neutro, si ritrovò ad arrossire come una qualsiasi dodicenne, e non se ne spiegò il motivo.

C’era qualcosa, in quel ragazzo, che la intimidiva, che le metteva soggezione.

 

¡Estoy empanada!*

“Ma vieni dalla palestra.” Ribatté, puntando lo sguardo su un punto un po’ più avanti. “Quindi mi saprai dire se hai visto Raùl.”

 

Il russo scosse la testa, sorpassandola, per poi andarsene.

“Ah, Fernandéz? Lascialo un po’ in pace, tuo fratello. Forse non l’hai ancora notato, ma ha la tua stessa età.”

 

*Sono fusa!

 

 

 

 

 

“Muffin?” il viso del ragazzo era comico: tra incredulo e ironico, fissava la cinese come fosse impazzita.

 

Mao alzò gli occhi al cielo. “Qual è il problema? Guarda che sono un’ottima cuoca! E poi me ne è venuta voglia. Muffin con un ripieno alquanto denso e cremoso di crema al cioccolato.” Fece, le mani sui fianchi con aria di sfida.

Con il grembiule in vita e un sorriso sulle labbra, si sentiva come rivitalizzata: era stato Raùl a farle quell’effetto. Ora sentiva che, qualsiasi fosse stata la strada che avrebbe deciso di intraprendere, ce l’avrebbe fatta.

 

“Suona molto bene.” Ridacchiò quello per tutta risposta. “Ti aiuto. Che serve?” guardandosi intorno, notò poi che gli ingredienti stavano già in tavola, pronti per essere usati. “Farina, cacao, burro, zucchero, latte… Vaniglia? Perché vaniglia?”

 

Gli assestò una bottarella sulla nuca, facendolo sghignazzare. “E’ per l’essenza, scemo! E non sei autorizzato a fare quella faccia nella mia cucina!”

 

“Perdono.” Schioccando le labbra, prese in mano una scatoletta quadrata, rigirandosela tra le mani. “Che roba è?”

 

Sbuffando, ma sempre con aria divertita, gliela tolse dalle mani con una linguaccia. “Lievito!” gli buttò addosso il grembiule che lui prese al volo e con una risata. “Se vuoi aiutarmi, ricorda che io sono lo chef, e tu l’aiutante: ci siamo?”

 

“Sì, padrona.” Quando lo disse con tono solenne, non poté far altro che tirargli una gomitata e scoppiare a ridere con lui.

 

Iniziarono a mescolare gli ingredienti tra scherzi e risate, e la ragazza non poté non pensare a quanto le avessero fatto bene quelle ore con lui, a quanto fossero state terapeutiche: avevano fatto l’amore, avevano parlato molto, ed era servito ad entrambi. Il risultato, in quel momento, era un buonumore sconfinato ed una consapevolezza che sì, ce la potevano fare ad affrontare i loro problemi.

 

Raùl era conosciuto come un ragazzo timido e chiuso, il suo problema era essere cresciuto all’ombra di una sorella troppo esuberante e, arrivato a quel punto, si sentiva esplodere. Era stato incredibile invece, come con lei fosse venuto fuori un altro lato del ragazzo: un lato dolce, ma comunque più estroverso e sicuro di sé.

Sicuramente, ai gemelli Fernandéz, un po’ di periodo di separazione avrebbe fatto più che bene.

 

“Assaggia l’impasto e vedi com’è!” sorrise Mao, soddisfatta del loro operato: il forno era stato preriscaldato, e da come avevano cucinato, tutto sembrava andare per il verso giusto.

 

“E’ buono.” Annuì lui. “Ora possiamo metterlo nelle formine?”

 

Lei alzò gli occhi al cielo. “Sì, sì, Mr-non-posso-più-aspettare. Sì!”

 

Le passò la teglia per i muffin, dove lei versò accuratamente l’impasto in ogni stampino, e la infornarono.

Mao sospirò, per poi volgere lo sguardo alla terrina con i rimasugli di crema al cacao e tentare di raggrupparne quanto più possibile con il dito. Dito che, una volta tentato di portare alle labbra, venne abilmente dirottato da lui che se lo portò alla bocca, succhiandolo.

 

 

Dios. Mio.” Fu quella voce adirata e insieme sconvolta che fece sobbalzare i due: Julia era lì, e li fissava con la faccia di una che aveva appena ricevuto una botta in testa; bella forte, per giunta.

Il silenzio durò solo pochi secondi, dopodiché furono urla.

“¡Vosotros!” Julia aveva gli occhi delle dimensioni di due palline da tennis e il colorito di un rosso natalizio non molto bello da vedere. “¡Tu!” ringhiò, rivolta a suo fratello. “¡Y tu!”

 

Mao, pur sentendo i battiti del suo cuore accelerare, si sforzò di restare calma. “Potresti parlare in una lingua che conosco?”

 

Lei, per tutta risposta, si tolse le plateau, gettandole rumorosamente per terra. “Qual era la regola? Quale? Non portarsi a letto amici, ex, persone che piacciono alle amiche e… Parenti! E tu ti sei fatta mio fratello! Si vede lontano un miglio! Quest’appartamento puzza di testosterone e ormoni in maniera muy horrible! Mi hermano y mi amiga!”

 

Mao sbatté gli occhi, confusa da quel flusso di parole. “Julia, calmati: mi dispiace che la cosa ti imbarazzi, ma io pensavo che tu avessi capito che…” arrossì furiosamente, abbassando lo sguardo. “Non eri tu che, ieri sera, mi hai incoraggiato a farmi avanti con chiunque mi piacesse lasciando andare il passato?”

 

Dios, non con mi hermano!” tuonò l’altra, in risposta. “Poi dove l’avete fatto? Nel letto dove dormiamo? Brava, hai infranto due regole su tre!”

 

Abbassò lo sguardo, sentendosi in colpa, ma fu in quel momento che sentì accanto a lei la presenza di Raùl. “Si può sapere qual è il tuo problema?” colorito della faccia degno di un’aragosta, mani leggermente tremanti… Mao lo sapeva bene che in presenza della gemella il Raùl timido veniva fuori come non mai, ma sapeva anche che quella non era altro che l’inizio di una ribellione covata da tempo, solo non pensava che lui potesse esplodere proprio in quel frangente. “Le cose tra me e lei lasciale stare: sono unicamente fatti nostri!”

 

“Tu sta’ zitto, che ne puoi sapere? Io, lei e le altre avevamo fatto un patto, e lei l’ha infranto!” tuonò la madrilena, paonazza. “Se non ci si può fidare degli amici, e nemmeno dei parenti… Di chi ci si può fidare?”

 

“E’ la stessa cosa che mi sono chiesto io quando sono venuto a rincorrerti in giro per la Spagna!”

 

Il deciso bussare alla porta interruppe qualsiasi tentativo da parte della cinese di calmare le acque: Hilary e Mariam erano al di là dell’appartamento, scure in viso e parecchio accigliate. “Avete finito di fare casino? Non sono nemmeno le dieci, per me è l’alba!” sbottò l’irlandese, sbuffando.

 

Julia marciò a passo spedito verso la porta, livida. “Non è certo colpa mia!” eruppe, scostandosi brutalmente i capelli ramati dal viso.

 

Hilary era stanca: era stata a provare con le Cloth Dolls fino alle tre di notte, e aveva preso sonno solo alle quattro; il risultato erano cinque ore scarse di dormita, e una testa che aveva bene o male le dimensioni di una mongolfiera. Era stata svegliata, diversi minuti fa, dalle urla dell’amica, e ora ritrovarsi davanti una Julia che pareva una pazza scappata dall’inferno, Raùl e Mao che, con tanto di occhi bassi, parevano aver commesso un omicidio… Beh, la cosa la sconvolgeva leggermente.

 

Mmm… ” Mariam inarcò le sopracciglia, curvando le labbra in un sorriso leggermente malizioso. “Credo che Mao si sia decisa.” Le sussurrò.

 

Lei sgranò gli occhi, fissando la cinese e… Raùl?!

 

Oddio, il mondo deve aver cambiato asse di rotazione

“Julia, siediti.” Seppe articolare solo questa frase, prendendo l’amica per un braccio e portandola verso il divano del salotto.

 

“Chi ci racconta cos’è successo?” Mariam, all’ingresso, si sistemò distrattamente i capelli, per poi andare nella direzione delle ragazze con Raùl.

 

La giapponese bloccò ogni tentativo da parte dell’amica di esplodere ancora; diede, invece, la parola a suo fratello che, lanciata un’occhiataccia alla sorella, spiegò la situazione con un unico esaustivo periodo. “Io e Mao siamo stati insieme; è una cosa nostra, soltanto nostra. E lei, ci deve mettere il becco e farne una tragedia, se no non è contenta.”

 

“Ne faccio una tragedia perché non voglio essere l’unica, nel gruppo, a rispettare le regole!” tuonò quella, in risposta. “Si era detto alla larga da ex, amici e parenti! E si era detto di non scopare negli appartamenti!”

 

Hilary sospirò, accavallando le gambe e scambiandosi un’occhiata con Mariam che, evidentemente, la pensava come lei. “E’ davvero questo il problema?”

 

“¡Por Dios, si!” esclamò in risposta la ragazza, fuori di sé. “E poi sapete cos’è che mi diverte?”

 

Hilary aggrottò le sopracciglia. “Una tragedia greca?”

 

Mariam interruppe l’imminente vociare di entrambe le ragazze facendo una faccia strana. “Che buon profumo… C’è qualcosa nel forno?”

 

Mao che, con il viso piantato a terra e rosso dalla vergogna, era sempre stata zitta e con gli occhi bassi, saltò in aria. “Miseria ladra!” sbottò, volando in cucina.

 

Ci fu un attimo di silenzio quando se ne andò, dopodiché la giapponese prese parola con calma. “Julia, capisco il tuo punto di vista, perché in fondo se settimane fa abbiamo messo dei paletti e delle regole, è giusto che vengano rispettate. E sono sicura che, in caso contrario, se tuo fossi andata a letto con suo fratello, nemmeno Mao l’avrebbe presa tanto bene.” Esplicò, scostandosi una ciocca di capelli dal viso.

 

In quel momento sopraggiunse Mao, con un vassoio di muffin caldi appena sfornati ed elegantemente serviti; rossa in volto, gli occhi bassi, sorrise all’amica in maniera incerta. “Mi dispiace, Julia, non era mia intenzione ferirti.” Biascicò. “Ti prego di perdonarmi.”

 

La madrilena si scostò brutalmente dall’abbraccio di Hilary, procedendo a grandi falcate verso la porta. “Non bastano due dolcetti per addolcirmi.” Sbottò, livida.

 

“Ma un drink di troppo e una chiesa sì.”

La frecciata del gemello andò a segno: Julia si alzò, raccattò le scarpe e sbatté la porta.

 

Un silenzio gelido calò nell’appartamento, arrivando a stringere le interiora di tutti come mani ghiacciate, ma durò solo pochi secondi: Mao scoppiò in lacrime, prontamente consolata dall’abbraccio di Raùl, che le sussurrò di star calma; Mariam inarcò le sopracciglia, addentando un muffin… E Hilary mise le mani sui fianchi. Per poi rubare un dolcetto, correre fuori dall’appartamento e intravedere Julia che si stava infilando su un taxi.

 

“Julia Fernandéz!” urlò, arrabbiata. “Torna subito qui!” la spagnola si volse quel tanto che bastò per inorridire al suono del suo nome pronunciato con la J aspirata, e la vettura partì.

 

Hilary restò lì, in pigiama, pantofole, e muffin in mano, e le ci volle una mezza frazione di secondo per decidere: con un gesto dal piglio alquanto energico richiamò una vettura gialla, che inchiodò proprio accanto a lei. “Segua quell’auto!”

 

Il tassista ingranò la marcia, sorridendo come fosse il giorno di natale. “Ho sempre desiderato farlo!”

 

 

 

 

 

Non sapeva proprio perché di tutti i posti in cui sarebbe potuta andare aveva scelto proprio il Plaza; era stato istintivo. Scese dall’auto, arrabbiata e con un’adrenalina non indifferente, per poi entrare dentro l’hotel e scannerizzarlo, furibonda e avvilita insieme.

Beyblade, voleva giocare a beyblade: sentiva Thunder Pegasus bruciare attraverso la sua pochette e, con ampie falcate, si diresse verso la porta della palestra, che spalancò, decisa, trovandola vuota.

Con una sola eccezione.

 

“Vivi qui, Ivanov?” sibilò, infastidita. Generalmente non le dispiaceva la gente, la confusione, il mescolarsi con gli altri. C’erano momenti, però - rari, ma sussistevano – in cui preferiva di gran lunga estraniarsi dal mondo e star da sola con se stessa. E dovevano esservi solo lei e il suo Thunder Pegasus; nessun altro.

 

“Mi alleno.” Rispose criticamente quello, non guardandola nemmeno in faccia e focalizzando invece l’attenzione su Wolborg che saettava come una scheggia in giro sul campo.

 

“Lo vedo.” Brontolò, stizzita. “Ti dispiacerebbe andare e lasciarmi sola?”

 

Fu in quel momento che il russo alzò lo sguardo e, quando i loro occhi si incontrarono, deglutì a vuoto, imponendosi di sostenere quello sguardo con quelle iridi che parevano volerla mangiare viva. “Sulla base di che cosa?”

 

La spagnola batté le palpebre, confusa. “¿Como? Ti ho detto de dejarme en paz.”* Smanettò.

 

Lui scrollò le spalle. “Ho prenotato io la palestra per quest’ora, non tu.”

 

Stordita da quella verità semplice e logica, le guancie di Julia si ritrovarono a prendere fuoco. “¡Hijo de…!” si morse le labbra, facendo un breve giro su se stessa per tentare di ritrovare la concentrazione. “¡Vosotros hombres! No se puede confiar!”*¹  sputò fuori, indignata. “Hilary tiene razon!”

 

Yuri la fissò con le sopracciglia inarcate. “Te l’ha mai detto nessuno che dovresti parlare in una lingua che l’interlocutore conosce, se pretendi una risposta?”

 

Come conseguenza, Julia si ritrovò a ringhiare, facendolo sorridere. “Voi uomini siete semplicemente degli idioti!” sbraitò. “Non vi importa della gente che fate soffrire con le vostre azioni, perché la cosa che avete in mezzo alle gambe coincide con il vostro cervello!”

 

Il moscovita la squadrò brevemente. “Sergey ha ragione: le femministe sono proprio eccitanti...”

 

La ragazza stava ancora strepitando a destra e a manca, ma fu l’improvviso sostare del suo sguardo verso uno decisamente più freddo a farla smettere immediatamente. Fissò il ragazzo con aria sospettosa e incrociò le braccia al petto, mettendo su il broncio. “Poche ore fa… Mi hai detto quella frase su mio fratello: perché?”

 

Scrollando le spalle, Yuri si rassegnò alla buona azione quotidiana: non capiva come mai quella pazza fosse entrata in palestra iniziando ad urlare; sapeva solo che, se le faceva capire determinate cose, avrebbe potuto continuare ad allenarsi.

Era tutto egoismo, il suo.

Fernandèz, sei pesante… E non ti vorrei mai come sorella.” Fece, lanciandole un’occhiata che la diceva lunga. “So solo che tuo fratello non ha commesso un omicidio e che è un santo, perché sei veramente una lagna.”

 

Como te-”

 

“Lo vedi?” annoiato, Yuri sbuffò, roteando gli occhi. “Non ti si può dire nulla che esplodi; tratti lui come se avesse due anni… Forse è il caso di lasciarlo in pace, e che ognuno viva la sua vita.”

 

Julia ammutolì, gli occhi fissi nel vuoto: sapeva di essere troppo esuberante, e che suo fratello ci aveva sofferto parecchio in quegli anni, ma… Aveva sempre considerato la cosa dal suo punto di vista.

Fu solo capace di annuire lentamente e di sospirare. “Gracias…” articolò, stanca. “No, cioè, grazie Yuri.” Quello scrollò le spalle, incurante.

Uscì dalla palestra guardandosi attorno: aveva delle persone con cui parlare.

 

 

 

*“Ti ho detto di lasciarmi in pace”

*¹ “Voi uomini! Non ci si può fidare!” … “Hilary aveva ragione!”

 

 

 

Imprecando contro l’imbranataggine del tassista, il traffico di Manhattan, la pazzia della sua amica, il sonno che aveva, il fatto che non riuscisse mai a dormire più di sei ore, Hilary scese dal taxi a pochi metri dall’hotel, certa di trovare lì Julia.

Porgendo all’uomo una banconota ripescata nei meandri del suo reggiseno – se si viveva a New York il minimo che si doveva fare era avere un tot di soldi a portata di mano sempre! – e ignorando la sua occhiata sconvolta, corse verso l’entrata dell’hotel, non curandosi dei suoi capelli lievemente scombinati, del suo viso leggermente accigliato, del fatto che fosse in pigiama e pantofole, ma soprattutto che reggesse in mano un muffin ancora caldo.

 

La uccido: questa è la volta buona che la uccido… Julia Carmen Cabreira Fernandéz, questa volta hai superato ogni limite!

 

Incurante degli sguardi attoniti delle signorine alla reception, dei commenti di alcune signore chic in fondo che la occhieggiarono come fosse una pazza scatenata, la giapponese sfrecciò verso il lungo corridoio, facendo mente locale su dove potesse essere: era escluso che si fosse rintanata in camera di Raùl, se non aveva nemmeno la chiave, poi era illogico; dal bar ci era appena passata e non l’aveva minimamente vista…

 

Ma certo!

 

Cambiando direzione, corse verso la palestra, alzando lo sguardo solo quando trovò metà squadra della Neoborg intenta ad andare nel verso opposto al suo.

 

“Ciao ragazzi.” fece sbrigativamente, continuando ad andare dritta sparata verso un’unica destinazione, non accorgendosi dell’occhiata stranita che le venne lanciata da uno di loro.

 

La palestra si trovava poco distante da lì, e fu un colpo quando si vide uscire dalla porta una Julia che aveva tutta l’aria di avere fretta: accaldata, con gli zigomi arrossati, pareva sconvolta. “Hilary!”

 

“Ah, eccoti!” esclamò la bruna, di rimando. “Ora accetti questo muffin in segno di pace, e senza fare storie per giunta!”

 

L’altra fissò prima lei e poi il dolce, per poi prenderlo tra le mani con tutto il tovagliolino. “Està bien.” sospirò. “Lo mangio qui?”

 

Sbatté gli occhi: non si aspettava una resa così immediata da parte sua… Che avesse riflettuto da sola, che si fosse calmata? “Sì, dai, mangialo qui e andiamo.” Sbuffò, passandosi una mano tra i capelli. “Ti rendi conto che mi hai fatto correre in pigiama per mezza Manhattan?”

 

No te preoccupe… Sei arrapante anche così.” Hilary per tutta risposta prese a cingerle i fianchi facendole il solletico, e le risate delle due si sparsero per tutto il corridoio.

 

 

 

 

 

Bien: como hermana no do piè con bola.” iniziò Julia, non appena ebbe di fronte suo fratello: era nervosa, aveva  le guancie letteralmente in fiamme e stava camminando in cerchio davanti a lui, facendogli girare la testa.

 

“Origliare da dietro la porta: molto maturo.” Sbuffò Mariam, non perdendo tuttavia la sua postazione di fronte allo stipite della porta; Hilary e Mao la mandarono a quel paese con un gesto.

 

“Che sta dicendo, che sta dicendo?” sussurrò Mao nella direzione di Hilary, approfittando del fatto che, all’università, studiasse spagnolo.

Molto più tranquilla da quando Julia era entrata e le aveva chiesto scusa, la cinese era tuttavia in ansia per la possibile riappacificazione dei due gemelli, e quando erano uscite dall’appartamento non ci aveva pensato due secondi prima di porre orecchio alla porta.

 

“Che come sorella non ne azzecca una.” Spiegò la giapponese, tentando di sentire a sua volta.

 

No do el brazo a torcer, no tengo pelos en la lengua, esta soy yo.” Fece Julia, nella direzione di Raùl, tentando di farsi ascoltare e capire.

 

“Sono testarda, non ho peli sulla lingua, questa sono io.” tradusse Hilary. “Diamine, dev’essere difficile per lei fare questo discorso.”

 

“Qualsiasi cosa succeda, l’idea di origliare è stata vostra.” Borbottò Mariam; le altre la zittirono rumorosamente, in procinto di ascoltare, le orecchie ben spalmate sulla porta.

 

Qui Julia sospirò pesantemente, alzando gli occhi al cielo. “¡Vaya por Dios! Echame una mano, Raùl!”

 

Entrambe le ragazze si voltarono verso la giapponese, che strinse gli occhi. “Dopo un’esclamazione, gli ha chiesto di darle una mano.”

 

“¿Qué mano, Julia?” il ragazzo aveva un viso contrito e un’espressione lontana. “Soy siempre han el chivo expiatorio para ti.”

 

“Uh, ora lui dice che per lei è sempre stato un capro espiatorio …” riferì la bruna, ponendo le labbra a ‘o’.

 

Mao entrò di scatto, raggiungendo i due gemelli Fernandéz, che si trovavano ad una distanza di pochi metri da loro e facendo cadere le sue amiche che erano appoggiate bellamente alla porta. “Basta, ragazzi.” intervenne, incrociando le braccia al petto. “Non è così che risolverete i vostri problemi: né urlando” e qui fissò Julia “Né mortificandovi o facendo le vittime.” borbottò, occhieggiando Raùl. “Dovete parlare e venirvi incontro.”

 

La spagnola sbuffò pesantemente, passandosi una mano tra i capelli dai riflessi ramati, poi scosse la testa. “Forse è inutile.” commentò stancamente. “C’è un intero passato di cose non dette tra noi… Non possiamo risolverle ora.”

 

Raùl si rabbuiò, e Mao lo notò. “Se ti arrendi così non risolverai proprio un tubo.” l’apostrofò, dura. “Non sono cose che si risolvono con uno schiocco di dita, ma piano piano. Perché non iniziate a porre le basi, intanto?”

 

Hilary si alzò da dov’era caduta, aiutando Mariam mentre ridacchiava. “Mao ha ragione.” fece, andando verso il gruppetto. “Mettetevi comodi in sala da pranzo, sedetevi, preparatevi un caffè, i muffin ci sono ancora, e discutete con calma.” propose, scrollando le spalle.

“Non alzate la voce, non fate le vittime, non rivangate troppo il passato: ormai è andato via, non c’è nulla che possiate fare; potete solo imparare da quello per essere migliori l’uno con l’altra.” sorrise, incoraggiante. “¡Animo! ¡Vosotros lo valete!”*

 

Julia sorrise, poi incrociò le braccia al petto. “Va de mùsica.”*¹

 

Raùl sospirò, dopodiché si diresse verso il tavolino. “Io porto i muffin.”

Mao scosse la testa, sorridendo: quei due potevano essere diversi come il sole e la luna, i poli opposti come il positivo e il negativo, ma una cosa ce l’avevano in comune: erano proprio due idioti. Due idioti a cui voleva un mondo di bene. Ce l’avrebbero fatta a superare le loro difficoltà; ne era sicura.

 

 

 

Continua.

 

 

*“Coraggio! Voi lo valete!”

 

*¹ “Va benissimo!” “Va alla grande!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

…Se vi siete divertiti a leggere il capitolo tanto quanto io mi sono divertita a scriverlo, allora siamo a posto. xD

E’ tutto basato sui gemelli Fernandéz, e mi piace, mi piace tanto. La commedia si è mescolata all’introspezione nel miglior modo al quale ho potuto far fronte, e spero che sia stato di vostro gradimento, dalla prima all’ultima riga. =)

 

Per la ‘questione spagnolo’, avrete notato che ho posto gli asterischi e le traduzioni a fine paragrafo, ma non le ho messe per roba che giudico elementare del tipo estoy bien o y tu. Penso sia conosciuto il loro significato, ma se così non fosse, avvertitemi.

 

Beh, con questo capitolo si chiude una parte della storia e poi se ne aprirà un’altra. Anche perché il titolo come “Butterflies and Hurricanes” la dice lunga… :P

 

Per svelare il mistero ci vediamo Martedì 18, e guai a chi manca! e.e

Un bacione a tutti,

 

 

 

Hiromi

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Capitolo 7
*** Butterflies and Hurricanes ***


Overboard

 

 

 

 

Change everything you are 
And everything you were 
Your number has been called 
Fights and battles have begun 
Revenge will surely come 
Your hard times are ahead 


Butterflies and Hurricanes – Muse

 

******************

 

 

“Ho voglia di farmi una canna.”

 

La battuta di Trisha venne accolta da un coro di risate, e la situazione si stemperò un poco. Lì, nel camerino a loro riservato, tra vestiti, mal di pancia dovuti alla tensione, trucco ed acconciature, erano riuscite ad arrivare al risultato di essere quasi pronte, ed era un passo avanti enorme per la band che aveva l’arduo onore di aprire il torneo mondiale di beyblade.

 

Hilary si aggiustò i collant neri, infilandosi i tacchi e tentando di scacciare il timore di fare un ruzzolone davanti a milioni di persone; sentiva la paura strizzarle la bocca dello stomaco, impedendole quasi di respirare.

 

Calma. Calma; stai tranquilla.

 

Si sistemò la minigonna nera a balze, e osservò, perplessa, la camicia color avorio che aveva scelto: per quant’era pallida in quel momento, faceva tutt’uno con il suo viso; forse non era stata una grande idea…

 

“Dai, vieni qui che ti trucco.” Kassie la prese per mano e la fece sedere su una delle panchine che stavano nel camerino.

Chiudendo gli occhi e lasciando che la pianista del suo gruppo facesse il suo lavoro di estetista – Kas era una maga con i cosmetici! – la giapponese si ritrovò a pensare che Julia, che in quel momento stava indossando gli orecchini mentre canticchiava una canzone nella sua lingua, era l’unica ad essere davvero tranquilla; probabilmente perché lei era abituata ad esibirsi dinnanzi a milioni di persone.

 

Un leggero bussare le fece sussultare tutte. “Sì, avanti.”

 

La veejay Valery Hendrix fece capolino, piena di energia. “Ragazze, ci siete? Venti minuti e via.”

 

“Direi che siamo pronte.” Kassie scrollò le spalle, mettendo da parte i trucchi, Julia annuì, sorridendo enormemente, mentre Hilary e Trisha si scambiarono uno sguardo terrorizzato.

 

La bruna, si mise le mani in testa. “Ho il tempo di morire, giusto?”

 

“¡Animate, chica!” rise Julia. “Che devo dire io, che oggi devo pure battermi contro gli americani?”

 

“Ma come fai ad essere fresca come un quarto di pollo?” sbottò Trisha nella sua direzione, facendo ridere tutte.

 

Valery scosse la testa. “Vi abbiamo sentito alle prove ed abbiamo scelto bene, lo so.” fece, schiacciando loro l’occhiolino. “Dai, vi vengo a chiamare più tardi. Un bacione.”

 

Hilary scosse la testa, accavallando le gambe e cercando di focalizzare l’attenzione su qualcos’altro, ma l’unica cosa che le veniva in mente era quella folla che l’avrebbe guardata e la gigantesca figuraccia che ne sarebbe derivata se avesse sbagliato qualcosa.

“Credo di non ricordarmi più il testo della canzone.” mormorò, alzando lo sguardo. “E’ che la mia mente non fa che pensare più cose contemporaneamente, e ho paura che andrà in tilt…”

 

Trisha la fissò, dubbiosa. “Come fai a pensare più cose contemporaneamente?”

 

La giapponese la fissò con tanto d’occhi. “Mi metto la camicia arancione preferisco questa avorio perché quella arancione è in tintoria; il professore di arabo che ho incontrato in tintoria era in viaggio per Casablanca. Casablanca, bellissimo film; Casablanca- Casabianca, la casa di Obama… Le auto ibride? Mio padre ne voleva comprare una, io voglio la Kawasaki… Bicicletta, monociclo, acrobata, domatore, serpente… Scimmia! Ambarabàciccìcoccòtrescimmiettesulcomò.”

 

Le ragazze la fissarono con tanto d’occhi, inquietate, ma fu Kassie ad andarle vicino, prendendole una mano. “Stai tranquilla, okay? Respira.” fece, enfatizzando le parole con lunghi sospiri e facendoli fare anche alla cantante.

“Ci sei; andrà tutto bene, lo so, lo sento.” dichiarò, sorridendole e abbracciandola. “Abbiamo fondato questo gruppo mesi fa come passatempo. Chi se lo aspettava di arrivare ad aprire il torneo mondiale di beyblade?” ridacchiò, nervosa. “Ma ormai ci siamo: siamo qui, siamo insieme. E comunque vada, andrà alla grande. Perché ci siamo impegnate, facendoci il culo, e abbiamo talento.” dichiarò, cercando di trasmettere quanto più calma possibile.

 

Trisha sorrise con fare furbastro. “Andiamo lì: facciamogli vedere chi siamo.”

 

Va’ de musica.*” rise Julia. “In tutti i sensi.”

 

Hilary, che teneva la testa bassa, lasciando le ciocche dei capelli le oscurassero il volto, alzò lo sguardo, decisa. “Incendiamo la platea: abbiamo del rock da suonare.”

 

 

 

*“Va benissimo”

 

 

 

Mao e Mariam, pur avendo adocchiato le loro squadre, decisero di sedersi insieme, e una volta visto Raùl, la cinese fece cenno all’amica di seguirla, che scrollò le spalle in segno d’assenso.

“Ehi, tutto bene?” sistemandosi i capelli, che quel giorno non ne volevano sapere di stare al loro posto.

 

“Emozionato: ma ogni volta che inizia un nuovo campionato si è sempre pieni di adrenalina, no?”

 

Lei annuì, completamente d’accordo, togliendosi il nastro bianco e rifacendosi lo chignon basso. “Assolutamente sì. Dovrebbe essere tutte dietro le quinte, giusto?”

 

Mariam, vedendo la sua difficoltà nell’armeggiare con i capelli in assenza di uno specchio, la fece voltare per poi raccogliere le varie ciocche in un’acconciatura semplice ma d’effetto, che fermò con il nastro. “Sì, ormai ci siamo.”

 

 “Sono un po’ preoccupata per Hilary: non l’avevo mai vista così nervosa e agitata.”

 

La ragazza dagli occhi verdi accavallò le gambe, inarcando le sopracciglia. “A casa ha pure vomitato per la tensione. Spero riesca a dominarla.”

 

La cinese fece tanto d’occhi. “Che cosa? Oddio, no… E se si sente male? Se magari-”

 

Lo spagnolo pose una mano sulla sua, sorridendole, incoraggiante. “La tensione, per una persona estranea ad avere a che fare con il pubblico, è più che normale: lasciale fare le sue esperienze, lascia che si scontri da sola con questa realtà. Poi lei ha abbastanza polso per cavarsela.”

 

Mariam annuì, assolutamente d’accordo, e Mao sospirò, dopodiché sorrise. “Spero che non accada nulla di brutto.”

 

“Hanno talento: tutto andrà per il meglio.”

La cinese inclinò la testa, sorridendo e facendo per chiedergli da quando fosse così ottimista, quando le luci di tutto lo stadio si spensero all’improvviso, lasciando ogni cosa al buio più totale.

La gente cominciò a gridare, a fischiare, e i più presero a parlottare, chiedendosi che diamine potesse essere accaduto.  

Il buio durò per un minuto buono, e fu solo quando il pubblico si zittì totalmente che tutto iniziò.

 

Le luci si accesero all’improvviso e, contemporaneamente, fu il suono di una batteria a far saltare tutti in aria; una batteria che scandì il tempo con un ritmo molto, molto conosciuto…

Le Cloth Dolls erano su un’estesa pedana di legno, gli sguardi decisi e penetranti e, con i loro tacchi, stavano amplificando quel famosissimo suono.

 

Battere le mani e partecipare fu un’idea che non venne solo a Mao, ma praticamente a tutto il pubblico: quella canzone era troppo famosa e troppo coinvolgente per non prenderne parte, anche solo parzialmente.

 

Ben presto sopraggiunse Trisha con la chitarra, che si legò al suono della batteria di Julia in un modo preciso ed accattivante, e poi fu la volta di Kassie che, con il suo piano, si aggiunse alle altre due come fosse sempre stata con loro.

E poi fu il momento. Una mano verso l’alto e una verso le labbra a reggere il microfono, Hilary dimenticò ogni cosa; trasformò la paura in adrenalina, e la scagliò, potente e decisa, verso il pubblico. Come se si fosse trattato di un beyblade.

 

Buddy you're a boy make a big noise, playin' in the street gonna be a big man some day! You got mud on yo' face, you big disgrace, kickin' your can all over the placeSingin'…

 

We will, we will rock you!” il pubblico lo cantò assieme a lei, contento, gioioso, pieno di vitalità ed energia, e Hilary non seppe far altro che puntare verso la platea il microfono, e allora si sentì nuovamente un boato: “We will, We will rock you!”

 

Per tutta la canzone non ci fu altro che il ritmo battuto dalle ragazze lì sulla pedana, il ritmo battuto dalle mani del pubblico, e loro, soltanto loro, come fossero tutti insieme: non pubblico e cantanti, ma entità fuse che cantavano assieme una canzone che coinvolgeva, univa, piaceva.

 

We will, we will rock you! Sing it!” Camminando da un lato all’altro della pedana, Hilary sorrise, non pensando minimamente, con la testa sgombra da qualsiasi pensiero: c’erano soltanto la sua band e il suo pubblico.

We will, We will rock you, everybody!” dalla platea si alzò un urlo di giubilo, e fu allora che iniziò la parte finale della canzone; andando verso Trisha, pose il microfono vicino la chitarra elettrica, e la sua amica fece un assolo esemplare, che fece battere le mani e urlare tutti.

Bladers!!” era stanca, era stanchissima: ma doveva dire la frase finale. “You have to rock us!” il pubblicò applaudì definitivamente, e lei, scambiandosi uno sguardo di gioia con le sue amiche, capì che era il momento.

 

Julia ripartì con un breve attacco di we will rock you, e Hilary camminò in tondo, partendo da lei. “New York!” grida, urla, applausi. “Questo era un assaggio dell’adrenalina che proverete questo torneo mondiale!” rise, ravviandosi i capelli. “L’avete riconosciuta? La mia batterista era Julia Fernandéz!” la spagnola batté brevemente qualche colpo alla batteria e fu di nuovo un delirio.

“La nostra chitarrista è la bravissima Trisha Malone!” quando la ragazza dai capelli neri si cimentò in un brevissimo assolo, il pubblico impazzì nuovamente.

“E al piano… Kassandra Neal!” di nuovo, una cascata di applausi riempì lo stadio ma, senza che se ne accorse, le ragazze si alzarono dalle loro postazioni per andare accanto alla loro cantante che, una volta trovatosele vicine, sobbalzò, facendo ridacchiare il pubblico.

 

Tutte e tre si avvicinarono al microfono di lei, con aria birichina. “E, alla voce… Hilary Tachibana!” esclamarono, all’unisono: la ragazza non udì nemmeno le urla o gli applausi, perché si limitò ad abbracciare le sue ragazze, le sue amiche, coloro che la sopportavano e senza le quali tutto quello non sarebbe stato possibile.

 

DJman subentrò con un sorriso a trentadue denti, con il carisma e la simpatia di sempre. “Ed erano le Cloth Dolls! Un applauso per questa band tutta al femminile che ha saputo aprire questo campionato facendoci emozionare e donandoci un’energia fuori dal comune!”

 

Tra Kassie e Julia, Hilary fece un breve inchino, beandosi degli applausi entusiasti della gente, dopodiché sparì dietro le quinte: ce l’aveva fatta, e solo questo contava.

 

 

 

 

 

“Un mito, sei un mito!” Takao non stava nella pelle, girava per il camerino come impazzito facendo ridere Trisha e Kassie, e scuotere la testa al professore. “E poi quel tuo assolo… Mi sarei messo a ballare!” fece nella direzione della chitarrista.

 

“Meno male che non lo hai fatto, allora.” Hilary gli fece la linguaccia, sostituendo i suoi tacchi con un paio più comodi.

 

“Ma quanto sei stronza da uno a dieci?” borbottò il giapponese, facendo ridere tutti.

 

Un leggero bussare fece sbuffare Julia e voltare gli altri: erano già passati a complimentarsi praticamente tutti – dal presidente Daitenji alla squadra americana, a quella cinese, ai veejay di MTV che avevano avvertito le ragazze che subito dopo ci sarebbero state delle brevi interviste – quindi chi poteva essere?

Quando Kassie aprì, rivelando Mao e Raùl che, sorridenti ed entusiasti, si complimentarono con le ragazze, a Hilary venne in mente una cosa.

“Quando iniziano gli incontri?”

 

“Per ora c’è lo spareggio tra la squadra europea e quella russa.” spiegò Raùl. “Noi siamo tra un paio di turni, Julia.” fece, richiamando l’attenzione della sorella. “Spero tu non sia stanca.”

 

La spagnola sorrise. “No, sono… Elettrizzata.” fece, cercando la parola. “Ho talmente tanta adrenalina che potrei distribuirla ai bisognosi, oggi non è il giorno adatto per riposarsi.”

 

Mao le schiacciò l’occhiolino. “Bene, anche perché… Come si dice? Chi dorme non piglia pesci, no? E visto che è così noi andiamo, vi lasciamo alle vostre interviste e vediamo cosa si dice in giro. A dopo!” fece, sorridendo ampiamente e posando una mano sul braccio del ragazzo accanto a lei che, perplesso, la seguì fuori dal camerino.

 

“Perché siamo andati via?” i corridoi dello stadio erano tutti uguali: intricati, bianchi, talvolta stretti, parevano essere fatti apposta per confondere le persone; Raùl sbuffò, passandosi una mano tra i corti capelli rossi.

 

“Lì dentro si soffocava per quanto stavamo stretti.” Mao si guardò intorno. “C’è Lai che darà di matto perché tra un’oretta è il turno della mia squadra e io ancora non mi presento… Riesco a sentire le sue maledizioni da qui.”

 

Il ragazzo prese a ridacchiare. “Anche tu con tuo fratello… Non è che abbiate questo rapporto così rose e fiori, eh…”

 

Lei scrollò le spalle. “Ci vogliamo molto bene; il suo problema è che è troppo appiccicoso, ossessivo e dedito alle regole e tradizioni del villaggio. Mi sta troppo stretto. Troppo.”

 

“Se combinassimo un appuntamento tra lui e Julia?” non appena lo propose, lei scoppiò a ridere. “No, sul serio: lei e tuo fratello avrebbero più di una cosa in comune.”

 

L’orientale scosse la testa, facendo una smorfia disgustata. “Non si sopportano minimamente, si respingono come calamite dai poli identici… E poi il rapporto tra te e Julia si sta lentamente ricostruendo, dai.” sorrise dolcemente, assestandogli una leggera gomitata d’incoraggiamento.

 

Raùl sospirò stancamente. “Non lo so, è tutto così… Strano. E difficile. Non sono sicuro di voler riparare. A che mi serve riprendere con mia sorella, se rimarrò comunque all’ombra? Se rimarrò comunque meno di lei?”

 

Mao arrestò la camminata, fermandosi dinnanzi a lui e inchiodandolo con lo sguardo. “Devi lasciar perdere: non è possibile cancellare il passato, ma è necessario lasciarlo andare. Non è possibile modificare il ieri, è necessario accettare le lezioni che hai imparato, altrimenti sarà tutto vano.”

 

Il ragazzo la fissò, sorridendo dolcemente. “Hai idea di quanto tu sia fantastica? E di quanto Rei Kon sia idiota?”

 

Mao riprese a camminare, facendo una smorfia. “Non me ne parlare: meno lo vedo, meno lo sento, e meglio sto.”

 

Raùl le fu subito dietro, e le lanciò un’occhiata in tralice. “Hai detto una cazzata.”

 

“Grazie per avermelo ricordato.” sbuffò, incrociando le braccia al petto, ma aggrottò le sopracciglia quando si ritrovò di fronte la grande entrata dello stadio, di fronte alla quale stavano un bel po’ di gente. “Mi sa che l’incontro è finito…” mormorò, sospirando.

 

Raùl, improvvisamente paonazzo e con lo sguardo a terra, pareva essersi fatto tutt’uno con la parete. “Possiamo andare via?” sussurrò; al suo sguardo scocciato prese a serrare le mascelle. “Non ci tengo a vedere Mathilda che flirta amabilmente con Michel, grazie tante.”

 

Mao si voltò, vedendo che la ragazza, in effetti, aveva tutta l’aria di una che ci provava con il proprio capitano. “Tesoro, non puoi stare così per il resto dei tuoi giorni. Devi superare lo scoglio.”

 

Lui la guardò, esasperato. “Come? E’… Una cosa impossibile.”

 

La cinese fissò prima lui, poi i due componenti della squadra europea, infine una lampadina si accese nella sua mente. “Ti fidi di me?” sussurrò entusiasta allo spagnolo che, perplesso, poté soltanto annuire. “Fai tutto quello che ti dico. Tutto.”

 

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo: quando Mao si metteva in testa una cosa non si smuoveva nemmeno se la si pregava in ginocchio. “Controindicazioni?”

 

“Nessuna.” lo prese a braccetto e gli rivolse un sorriso, dopodiché gli sussurrò qualcosa all’orecchio che gli fece sgranare occhi e bocca.

 

“Sei pazza!”

 

“E tu mi ringrazierai strisciando.” replicò, con un sorriso dolce.

 

Raùl scosse la testa, sentendo i battiti del suo cuore aumentare man mano che veniva il momento della prima parte del piano; nell’avvicinarsi a Mathilda e a Michel, provò quel senso devastante di insicurezza che ormai faceva parte di lui, e stette bene attento a non arrossire o inciampare.

“Ciao ragazzi.” fece, provando a sembrare sciolto.

 

Gli europei si volsero verso lui e Mao, sorpresi di vederli a braccetto, e l’orientale sorrise dolcemente. “Com’è andato l’incontro? Scusate ma ce lo siamo persi… Eravamo a complimentarci con le ragazze… Julia è ancora carica di energia; il cielo sa come faccia!” ridacchiò.

 

Mathilda non riusciva a staccare gli occhi dalla mano di lei attorno al braccio di lui, e fu Michel a rispondere cordialmente. “C’è stato uno spareggio, poi però sono riusciti a batterci.” fece, scrollando le spalle. “Ma è stato un bellissimo scontro. Ci rifaremo.”

 

Raùl, notando che le cose andavano nella direzione prefissa da Mao, si sentì immensamente più sicuro. “Non ne dubitiamo affatto.” fece, scrollando le spalle. “Beh, ci si vede.” si salutarono con un cenno della mano, e andarono pochi metri più avanti, verso i distributori automatici, fingendo di voler prendere una bottiglia d’acqua o qualcosa di simile.

 

“Visto?” Mao stette bene attenta a non sorridere troppo. “Uomo di poca fede…”

 

Lui scosse la testa. “Sei una cosa assurda… E lei aveva uno sguardo tipo-”

 

La ragazza lo zittì all’istante. “Non ci stacca gli occhi di dosso.” Sussurrò, sorridendo maliziosa. “Ora sai che ci resta da fare? La mazzata, il colpo di grazia.”

 

Lui ricambiò lo sguardo, sorridendo furbescamente. “Vamonos.

Posando delicatamente le dita sulla guancia di lui, Mao lo baciò voracemente, venendo attirata per i fianchi in modo che il tutto potesse risultare più intenso e completo; gli circondò il collo con le braccia, sentendo le sue fare lo stesso con i suoi fianchi: fu un bacio che durò parecchi secondi e che attirò l’attenzione e le esclamazioni di molti bladers, lì.

Quando si sciolsero dall’abbraccio, seppero soltanto guardarsi negli occhi e ridacchiare, soddisfatti del loro operato.

 

Per poi intravedere una sagoma che li fissava, proprio dinnanzi a loro, con tanto d’occhi.

Pallida, incredula, sconvolta, quella sagoma.

Rei Kon era proprio lì, davanti a loro.

 

 

 

 

 

Appena terminata l’intervista con le Cloth Dolls, Julia andò di filato alla macchinetta per il terzo caffè della mattinata, e fu una sorpresa quando incontrò Mariam.

Si sorrisero e, senza nemmeno dire una parola, selezionò un caffè macchiato per l’amica, che accettò con un’occhiata di gratitudine.

“¿Qué te pasò?” chiese, mescolando e facendo sì che lo zucchero si sciogliesse. “Il vostro incontro con i giapponesi com’è andato?”

 

Mariam si sedette sulla panchina proprio accanto la porta dello spogliatoio maschile, e Julia le si accomodò accanto. “E’ stata una sfida avvincente, direi.” scrollò le spalle, finendo la bevanda e buttando il bicchiere nel cestino accanto. “Ci hanno battuto per poco.”

 

“Io sono proprio all’ultimo turno… Meno male che esiste la caffeina, altrimenti sarei a terra.” proclamò, finendolo tutto in un sorso, e facendo sorridere l’altra.

 

“Stavo iniziando a diventare invidiosa, ora ho capito qual è la tua fonte di energia.”

 

“Ebbene sì, mi hai scoperta.” le due ridacchiarono. Ahora vivimos a cuerpos de rey.” fece, stiracchiandosi.

Mariam inarcò le sopracciglia, per poi ridere brevemente, facendole intendere di non aver capito la sua ultima frase.

Oooh, chica..!” Julia scosse la testa, ridacchiando con lei. “Viviamo come delle pascià.” spiegò, e una volta accavallate le gambe, le schiacciò l’occhiolino. “Non so tu, ma io mi trovo benissimo in questo periodo…” fece, stiracchiandosi.

 

Quella annuì pigramente. “Non ci si può lamentare…”

 

“Questa stile di vita mi piace tanto...!” fece,  ridendo. “Chi l’avrebbe mai detto.”

 

Mariam inarcò ironicamente un sopracciglio nella sua direzione. “E dire che non avresti nemmeno motivi per agire così.”

 

La madrilena prese a ridere. Mal de muchos, consuelo de tontos.”* fece, scrollando le spalle. “Le amiche si vedono nel momento del bisogno, no?” ribatté, dedicandole una linguaccia.

 

L’irlandese scosse la testa, divertita. “Già, ovvio. L’hai fatto per non lasciarci sole.”

 

Julia rovesciò la testa indietro, poi annuì scherzosamente. “Eh, vedi che l’hai capito?” passò un braccio attorno alle spalle della ragazza che, dapprima si irrigidì, poi si lasciò andare all’irruenza dell’amica. “Dai chica, bene o male ci stiamo divertendo, e stiamo pure capendo molte cose.” concluse, con un sorriso amaro.

 

Mariam posò i suoi occhi verdi sulla spagnola, prendendo a fissarla attentamente: da quando c’era stata quella litigata epica con Raùl sapeva che il terreno tra lei e suo fratello era un campo minato e che i gemelli Fernandéz stavano provando, lentamente, a ricostruire il loro rapporto; ma sapeva anche che ce l’avrebbero fatta, se c’era la volontà, da parte di entrambi, di andare l’uno incontro all’altra. “Tutto bene con tuo fratello?”

 

Quella scosse la testa, prendendo a sbuffare. “Non so come comportarmi…” ammise. “No do pié con bola.” sussurrò infine; all’occhiata in tralice della ragazza rispose con una risatina. “Perdona: non ne azzecco una. In tutti i sensi.”

 

Vedere un uragano come Julia abbattuta per un qualsiasi motivo era qualcosa di allucinante, Mariam non credeva, in tre anni di conoscenza, di averla mai vista di un umore che non fosse energico e vitale: lei era Julia, era la Spagna in persona, era caliente, era passionale, era un uragano, un tornado di vitalità che contagiava tutti coloro che incontrava sul suo cammino.

“Magari il cammino non sarà proprio facile.” scelse di dire. “Però se ci credi allora qualcosa accadrà. Il destino non esiste, scordati quelle stronzate sul cammino scritto nelle stelle o roba simile: siamo noi stessi che decidiamo della nostra vita. Tu che vuoi fare?”

 

La vide annuire lentamente per poi sorridere ed acquisire sicurezza. “Voglio ricostruire il rapporto con mio fratello.”

 

L’irlandese scrollò le spalle, appoggiandosi al muro. “Allora è deciso.”

 

La fissò attentamente per poi scuotere la testa e infine ridere, ridere silenziosamente, e sospirare. “Dios, chica… Ora capisco perché hai così tanti corteggiatori: con questo caratterino mischiato a questi occhioni verdi, i ragazzi li fai secchi!”

 

Quella si ritrovò a sbuffare, assumendo un’espressione quasi nauseata. “Ma finiscila.”

 

Càrgate de razòn: convincitene.” annuì freneticamente l’altra. “Ora capisco come mai hai avuto tutti questi che ti morivano dietro…”

 

“Mi risulta che anche tu hai avuto il tuo bel popò di maschietti da accontentare.” Mariam inarcò le sopracciglia con aria scettica. “Non verrai a lamentarti che sei a corto di uomini…”

 

Quella rise. “Non sto dicendo questo, anzi: la vita che facciamo mi piace e anche tanto.” pensandoci su, sospirò, inclinando la testa da un lato. “Sai qual è il problema? A me piace conoscere nuova gente, nuovi ragazzi, vivere questo periodo che mi sta insegnando tante cose… Ma è un estrés!”

 

“Intendi dire uno stress?” Julia annuì freneticamente. “Definisci stress.”

 

“Dai, mi hai capita: devi sempre curarti, non puoi permetterti ti avere un pelo o un capello fuori posto, devi sopportare l’abbordaggio dei ragazzi che, lo sai, è pessimo…” qui l’irlandese sorrise, annuendo. “Vorrei qualcosa di un po’ più rilassante…”

 

Lo sguardo della ragazza si fece malizioso. “Una romantica storia d’amore…?”

 

“¡Vaya por Dios, no!” sbottò, facendo scoppiare a ridere colei che l’aveva provocata. “Uno che ci sia sempre, ma senza legami, solo… Sesso.”

 

Mariam scrollò le spalle. “Uno scopamico.”

 

Julia all’inizio rimase perplessa, poi annuì. “Sì. Ma dove lo trovo?” fece, sbuffando teatralmente.

 

L’altra si alzò dalla panchina, spingendola a fare lo stesso. “Bella domanda. Però mi han detto che avere uno scopamico è una cosa molto comoda; se sai come gestire la situazione, certo. Amici o amanti, il binomio è sempre un rischio. Ogni volta le regole cambiano, non sai in che modo cambieranno te.

 

“Credo che saprei come gestirla, se se ne presentasse l’occasione.” ribatté Julia, stiracchiandosi e sorridendo; andando verso l’uscita che dava sullo stadio con la sua amica,  la conversazione si spostò su altri piani, e le due tornarono a ridere, ignare dei due occhi color metallo che le osservavano da dietro la porta dello spogliatoio maschile.

 

 

 

*“Mal comune, mezzo gaudio”

 

 

 

Hilary scoppiò a ridere quando un giornalista, subito dopo una foto scattata con Takao, le chiese se fosse lui il suo fidanzato; non poté nemmeno rischiare di incrociare gli occhi del suo migliore amico, perché quel disgraziato stava ridendo forte almeno il doppio di quanto stesse facendo lei.

 

Il giornalista li fissò, perplesso. “Scusate, ma… Non so; credo che la signorina sia la ragazza che segue i Blade Breakers Revolution da anni, quindi è legittimo pensare ad una relazione, soprattutto dopo averla vista, adesso, tifare con tanto ardore per la squadra giapponese.”

 

La bruna cercò di ricomporsi e di non ridacchiare ulteriormente, ma una risatina le uscì ugualmente, soprattutto quando incontrò accidentalmente lo sguardo di Takao. “Sì, seguo i passi della squadra giapponese da anni, e conosco lui praticamente dall’asilo. Siamo amici, fratelli mancati. Lui è il mio universo, il mio tutto. Da quando mi sono trasferita a New York non c’è stato attimo in cui non mi sia mancato, ma… Dopo averlo avuto tra i piedi ogni momento per tutta la vita credo sia normale!”

 

Takao dapprima chiuse gli occhi melodrammaticamente, dopodiché li aprì di scatto. “Ti rendi conto, vero, che hai rovinato la più bella dichiarazione di sempre?”

 

Aaaah, sta’ zitto, scemo!” sbottò giocosamente, e lì seguì il loro classico botta e risposta che li aveva sempre caratterizzati: prendersi in giro senza mai offendersi.

 

“Okay…” l’uomo si scambiò una breve occhiata con il fotografo, dopodiché annuì. “Abbiamo finito. Grazie per la disponibilità.”

 

“Di niente, grazie a voi.” aggiunse educatamente Hilary, fingendo un faccino angelico per poi dare  al ragazzo una botta sul braccio per la sua ultima uscita.

 

“Già, grazie.” fece eco Takao, pizzicandole a sua volta il braccio e ridacchiando con lei. “Oggi siamo iperattive, eh?”

 

“Ah, non me ne parlare.” Prese a camminare accanto a lui, sospirando. “Ho bevuto un sacco di tè e caffè, credo che se l’attesa prima del concerto fosse durata un po’ più a lungo sarei andata in iperventilazione.”

 

“Perché sei scema ed emotiva.” rispose, scrollando le spalle. “Oh, c’è l’incontro della squadra di Max contro i gemelli Fernandéz: andiamo?”

 

Hilary annuì per poi fare una smorfia. “E’ in queste situazioni che non so per chi tifare.”

 

“Segui il filone del vinca il migliore e sei a posto.”

 

La ragazza annuì lentamente, incrociando le braccia. “Tu sì che sai come pararti il culo.” Scoppiarono subito a ridere, per poi ricomporsi alla vista dello stadio. “E’ rimasta un po’ d’acqua per caso?” cambiò discorso, voltandosi a guardare lo zainetto che si stava portando dietro.

 

“No, te l’ho finita tutta.” commentò, e quando lei lo fissò male si limitò a scrollare le spalle. “Avevo sete: sono uno sportivo!”

 

“Fanculo.” Hilary roteò gli occhi. “Non smettere mai di giocare a beyblade, o tempo qualche settimana e, per quanto mangi e bevi, ti ridurresti tipo una portaerei.” lui scosse la testa, ridacchiando. “Io vado a prendere una bottiglietta alle macchinette.”

 

Mmm… Troppa strada…” si lamentò il giapponese, rovesciando indietro la testa con un melodrammatico lamento. “E io devo recuperare le forze.”

 

La ragazza scosse la testa, facendo una smorfia. “Vai a cagare.” commentò e, andando verso il corridoio che portava ai distributori automatici, sentì soltanto le risatine del suo migliore amico.

Quella giornata era stata pesante e piena di adrenalina al tempo stesso: non aveva dormito tutta la notte, aveva cantato davanti a milioni di persone e, infine, era stata sballottolata di qua e di là con il suo gruppo per interviste et similia.

 

Che giornata pazzesca…

 

I distributori automatici erano parecchio più in là, ci arrivò solo dopo qualche minuto, e dovette aspettare che un ragazzo parecchio irresoluto si decidesse a lasciarle campo libero per la sua bottiglietta d’acqua, che selezionò velocemente.

 

“Ehi, tu sei la cantante!”

Si voltò verso chi aveva parlato, scoprendo che si trattava proprio del ragazzo di prima: alto, con una cresta rossa sui capelli neri, pareva starla squadrando dalla testa ai piedi, e quando arrivò ad incrociare i suoi occhi, un sorriso idiota si impossessò delle sue labbra.

“Ciao, bellezza.”

Inarcò freddamente le sopracciglia, decidendo di mandarlo a quel paese; si incamminò verso la direzione opposta, scocciata, ma quello non sembrava dello stesso avviso, perché la affiancò senza problemi, continuando a guardarla con un sorriso ebete.

“Volevo farti i complimenti: sei bravissima, una vera forza.”

 

“Grazie.” replicò, annoiata, svoltando l’angolo; lui non si arrese, continuando a camminare assieme a lei come se stessero avendo una normalissima conversazione.

 

“No, niente, volevo chiederti se ti andava di uscire… Qui fa caldo…” propose, ponendo una mano sul braccio di lei.

 

Hilary lo ritirò bruscamente, seccata. “Lasciami in pace.” ringhiò, fissandolo malissimo.

 

Lui alzò le mani in segno di resa. “Volevo soltanto essere gentile, fare nuove conoscen-”

 

“Farai la mia conoscenza, e in un’altra maniera, se non te ne andrai all’istante.”

Lo stomaco della ragazza si strinse al suono di quella voce così fredda e metallica; voltandosi, fu quantomeno sorpresa di vedere Kai procedere a passi misurati verso di loro. Con gli occhi stretti a due fessure che parevano voler incenerire quel tipo, Hilary pensò che non avrebbe voluto affatto trovarsi nella situazione di essere fissata in quel modo da quelle ametiste.

 

“Okay, okay, calma.” sbuffando e alzando gli occhi al cielo, quel tizio capì che non era aria, e fece due passi indietro. “Uno vuole soltanto essere gentile e non può…”

 

“Sparisci.” al sibilo di Kai, dire che l’altro se la diede a gambe fu un eufemismo, perché scomparve letteralmente.

 

Sbatté le palpebre più volte, incredula, dopodiché quando gli occhi di lui sostarono sulla sua figura, si ritrovò a sospirare leggermente. “Grazie di tutto.” Bofonchiò.

 

Il russo stava per borbottare qualcosa in risposta ed andare, ma qualcosa nel tono di lei lo incuriosì. “Che c’è?”

 

Parve pensarci un istante, dopodiché scosse la testa, dovendo decidere che non ne valeva la pena e sospirando. “Niente, pensieri stupidi.”

 

Le sopracciglia del ragazzo si aggrottarono. “Definisci stupido.”

 

Hilary fece una smorfia. “Niente, per un attimo ho pensato che ho… Avuto bisogno del tuo aiuto per scacciare via quell’idiota. Perché un ragazzone alto e ben messo fa paura, una ragazzina bassa e magrolina, pur essendo cintura marrone di karate, non suscita il minimo timore. La società è ingiusta.”

 

“Avresti potuto atterrarlo.”

 

Lei corrucciò le sopracciglia, pensierosa. “Se tu non fossi arrivato l’avrei fatto.”

 

Kai non replicò alcunché per parecchi secondi, accontentandosi di rimanere a fissarla, ma quando le sue iridi si posarono sulla figura di lei, all’apparenza timida e fragile, non poté che porle una domanda che aveva desiderato farle da tanto. “Questo atteggiamento alla Grušenka del nuovo millennio da dov’è che ti viene fuori?”

 

Rimase in silenzio qualche istante, per poi capire. “Grušenka, il personaggio dei Fratelli Karamàzov?” lui annuì brevemente, e per un attimo restò senza parole. “Perché proprio lei?”

 

Si limitò a scrollare le spalle. “E’ descritta come una donna cinica, indipendente, piena di rancore verso tutti gli uomini che le hanno fatto del male.”

 

“Ah.” il suo commento la fece sorridere.

“Credo che, comunque, crescendo si diventi per forza di cose un po’ più cinici, no?” si morse le labbra, pensosa, per poi tornare alla domanda iniziale. “Non ho letto Dostoevskij, ma più che alla sua Grušenka preferirei paragonarmi a Lizzie Bennet: una donna intelligente, di carattere, dotata altresì di sensibilità e fermezza.” fece, annuendo convinta. “Il suo: solo il vero amore potrà condurmi al matrimonio, ragion per cui rimarrò zitella, mi calza alla perfezione.”

 

“Ma lei incontrò Darcy, o come si chiama.” ribatté.

 

Lo fissò sorridendo. “Hiwatari… Leggiamo Dostoevskij e non la Austen?”

 

“E’… Diversamente leggibile.”

 

Pose le mani in fianco inarcando pericolosamente le sopracciglia. “Oh, certo, perché il tuo Fedor è scorrevole come un passamano.”

 

Kai trattenne a stento uno sbuffo. “Non è mio. Preferisco Proust.”

 

Hilary si finse pensierosa. “Non l’ho mai letto. Avrei sempre voluto, però; infatti, spesso mi assale un grande desiderio di dire qualcosa tipo questo l'avrebbe detto Marcel Proust, ma non ho idea di cosa abbia detto, quindi lascio perdere.” Kai alzò gli occhi al cielo, divertito.

“Ah, ma non mi lascio fuorviare! Non puoi dirmi che Jane è noiosa: lei analizza le sue eroine con ironia e arguzia, Virginia Woolf stessa la descrisse come l’artista più perfetta tra le donne! Lei riesce a far sì che il lettore inquadri un personaggio con facilità da poche, mirate battute e, credimi, non è un tratto di molti autori.” proclamò, scuotendo la testa.

 

“Questo lo so.” Kai fissò dritto davanti a sé per poi spostare gli occhi sulla figura della ragazza. “E’ tutto un altro genere rispetto a Dostoevskij: lui è nichilista, conservatore, e i suoi romanzi sono una sorta di teatro interiore, capisco che tu non ne condivida il pensiero.”

 

La ragazza inarcò le sopracciglia. “Ti riferisci ai temi che tratta?” lui annuì e lei fece una smorfia. “Per uno che ha dichiarato: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità…” scosse la testa., poi sbuffò. “Concepisco la fede in una persona, ma non al punto da porsi i paraocchi.”

 

Lui sogghignò. “Condivido.” disse soltanto. “Nei suoi libri ha sempre trattato temi morali, ma ha sempre tenuto a far vedere cosa fosse giusto per lui.”

 

“Per esempio?”

 

Ci dovette pensare un secondo prima di elencarne qualcuno. “L'isolamento contro le ipocrisie delle convenzioni imposte dalla vita comunitaria, la probabile sanità mentale contro la malattia, il socialismo contro lo zarismo, e, ovviamente, la fede contro l'ateismo.”

 

Ridacchiò, ritrovandosi a roteare gli occhi. “Ovviamente.” girarono l’angolo, per poi trovarsi di fronte l’entrata che dava sullo stadio; solo allora Hilary si ricordò dell’incontro degli americani contro la squadra spagnola, e del fatto che Takao la aspettava e che doveva averla data per dispersa.

 “Okay, io… Vado.” fece, indicando la panchina dove stavano seduti il professore, Daichi e Takao. uando Quando si volse non poté far altro che pensare che la era la più interessante e stimolante conversazione che aveva mai avuto da mesi a quella parte.

 

Attenta, Hils

 

 

 

 

 

 

Non sapeva proprio perché fosse lì; dannati sentimenti, dannato cuore e dannato stomaco con relativi esseri svolazzanti all’interno.

Non doveva essere lì, non avrebbe minimamente dovuto. Avrebbe dovuto essere da tutt’altra parte, magari a casa a riposarsi, magari in compagnia di una delle sue amiche, di certo in tutt’altra compagnia.

Non in piedi come una sagoma, con il cuore in gola, a visionare l’incontro RaùlVSMax e a fare il tifo inconsciamente per tutt’altra persona che per l’amico di Mao.

 

Fottutissimo cuore, quanto ti odio…

 

Mariam si appoggiò al muro, incrociando le braccia e lasciando che le ciocche di capelli neri le andassero a coprire il viso.

Che ci faceva lì impalata? Perché non se ne andava? Da qualsiasi altra parte, perché avrebbe dovuto essere ovunque, tranne che lì.

 

Un’incoerente, ecco cosa sono.

 

L’incontro si stava protraendo decisamente troppo: Max e Raùl stavano cominciando ad essere stanchi, e ad accusare gli sforzi di quella sfida che si stava svolgendo senza esclusione di colpi.

Il fratello di Julia era molto migliorato dall’ultimo campionato, e nel viso aveva un cipiglio più sicuro, fiero, grintoso.

E fu per poco – per pochissimo – che lo spagnolo perse; Max, con un’abile mossa, sfruttò a suo favore il terreno del campo di gioco per far andare fuori il bey dell’avversario.

I due sfidanti si strinsero la mano, facendo l’uno i complimenti all’altro, e Mariam fece per andar via quando la sua attenzione venne catturata da Julia che accolse il fratello con un abbraccio.

 

Che scema che sei…

 

Alla fine aveva ascoltato le sue parole: quei due non avrebbero avuto vita facile per ricostruire il loro rapporto, ma ce l’avrebbero fatta.

 

Era il momento di andar via, di recuperare le forze e di voltare le spalle a quell’inutile cosa che non avrebbe fatto altro che danneggiarla. Con il cuore in gola, si costrinse a rimettersi in piedi e a cercare con gli occhi la più vicina via di fuga prima che-

 

Mariam!” non poté far altro che voltarsi di scatto verso quella voce che, nonostante non sentisse da mesi, era ancora in grado di farle venire il magone. “Sei rimasta… ” il suo sorriso era quello di sempre, i suoi occhi color cielo erano quelli di sempre, le sue lentiggini erano quelle di sempre… Lui era quello di sempre.

 

Un gran bastardo.

 

Girò sui tacchi e se ne andò, subito affiancata da lui che la seguì all’istante per poi superarla, sbarrandole la strada. “Dobbiamo parlare! A Washington… Mi hai urlato addosso, sei scappata con il primo aereo, non ti ho più rivista.” esalò, stranito. “Perché non mi hai creduto?”

 

Lei chiuse gli occhi un istante, per poi riaprirli di scatto. “Perché ricordo ogni parola che mi hai detto: non riesco a smettere di pensarci.”

 

“E questo cosa-”

 

“Per me eri importante. La nostra storia era importante.” sibilò, perdendo le staffe. “Tu… Tu hai rovinato tutto…” esalò, scuotendo la testa e sentendo via via le lacrime farsi strada nei suoi occhi. “Hai rovinato ogni cosa, e io non potrò mai, mai perdonarti, mai.”

 

Prima che lui potesse vedere una lacrima rotolarle giù per la guancia, corse via, incurante dei suoi richiami, con la testa piena di pensieri e il cuore spezzato.

Ma non era l’unica.

 

 

 

 

 

“Sono stanchissima.” Hilary sbadigliò vedendo a malapena l’appartamento e beandosi dell’idea che, tempo pochi istanti, e lo avrebbero raggiunto. “Stasera ordiniamo una pizza o qualcosa al take-away arabo qui di fronte?”

 

Mao le rivolse uno sguardo stanchissimo e decisamente provato. “Io voto arabo.”

 

Mi también.” Julia sbadigliò. “Non vedo l’ora de ir a acostarme.”*

 

La giapponese ridacchiò. “Se persino tu dici che vuoi andare a dormire...” scosse la testa, prendendo il cellulare e componendo il numero del take-away per ordinare, ma lo posò immediatamente quando vide una mustang che conosceva bene parcheggiata sotto il loro condominio con la loro amica al posto del conducente.

 

Mariam aveva lo sguardo fisso nel vuoto, e gli avambracci sul volante.

 

Julia, Mao e Hilary entrarono nella vettura in silenzio, e la musica dei Beatles invase dolcemente le loro orecchie: erano legate a quel gruppo musicale per averle fatte conoscere e per essere quello che metteva d’accordo tutte, in quanto di gusti completamente opposti. Ma con musica come quella non si sbagliava mai; Yesterday, poi, non poteva essere più adatta per il momento.

 

Ci fu qualche secondo di silenzio in cui le tre ragazze si osservarono tra loro incerte sul da farsi; Julia non sapeva se dire qualcosa, Mao non sapeva se chiedere a Mariam se avesse fame e Hilary quanto l’umore della sua coinquilina fosse nero da uno a dieci; poi si ricordò che, in effetti, bastava poco per avvicinarsi.

Iniziò canticchiare piano, seguendo i cantanti originali della canzone e venendo guardata dalle amiche in maniera sorpresa, ma poco dopo venne seguita da Julia, ed infine dalle altre due.

La canzone si sposava esattamente con i loro stati d’animo e con le loro emozioni, cantarla tutte insieme le faceva sentire quanto più vicino fossero mai state.

 

Quando finì, si resero conto che era l’ultima del cd; con il cuore più leggero l’irlandese si appoggiò al volante, umettandosi le labbra e scrollando le spalle. “Il mondo è ingiusto.” Fece, piano.

 

Capendo che era un suo modo per esordire, Mao prese la palla al balzo. “Non me ne parlare: qualcuno mi sa spiegare perché oggi, per aver aiutato un amico sono stata messa alla gogna?”

 

Julia sbatté gli occhi. “Che intendi?”

 

La cinese sbuffò. “Niente, ero con Raùl e caso ha voluto che fossimo di fronte a Mathilda. Ho voluto provargli che cosa voleva dire fare impazzire una ragazza… Cioè, secondo me lui ha delle carte da giocare con lei, se le sfrutta bene… E prima siamo andate da lei a braccetto – dovreste vedere che faccia ha fatto! – poi l’ho baciato.”

 

“Hai baciato Raùl?” Hilary aveva occhi e bocca spalancati.

 

Julia roteò gli occhi. “Se lo è scopato! Un bacio in più o in meno… Che differenza vuoi che faccia?”

 

Mariam sorrise, e Mao, presa di coraggio da questo fatto, attirò la sua attenzione. “No, Mari, dimmi te se proprio mentre lo baciavo non doveva arrivare quel baccalà del mio fratello acquisito.”

 

“Rei ti ha vista baciare Raùl?!”

 

“Oddio, e che è successo?”

 

“Niente, che vuoi che sia successo? Pareva una statua di sale… Ma giuro – giuro – si permette ancora a fissarmi male così come ha fatto tutto il giorno e gli cavo gli occhi con le mie stesse dita.”

 

La mora abbozzò un sorriso, si morse le labbra, dopodiché scosse la testa. “I maschi sono degli idioti, ma le ragazze innamorate non scherzano…”

 

“Amore, amore… A cosa serve?” Hilary storse il naso. “E’ soltanto un gran cumulo di merda.”

 

Mariam annuì. “Non posso che darti ragione.”

 

“No, pensateci: l’amore genera bei momenti, che poi si tramutano in brutti momenti, che generano ricordi, per non parlare delle lacrime..!”

 

Julia fece cenno di volerla uccidere strangolandola. “E poi?”

 

Hilary svenne drammaticamente sul sedile. “E poi muori.”

 

L’irlandese si morse le labbra e sospirò profondamente. “Ho guardato Max disputare il suo incontro… E mi sono messa nei guai da sola; lui mi ha vista, mi ha parlato e io non ero preparata. Capite? Non mi aspettavo che dopo che lui mi avesse vista, mi volesse parlare! Ma dove vivo?” scosse la testa, digrignando i denti. “E ora sono qui, ridotta in lacrime per lui come una debole donnicciola. Bell’affare.”

 

Julia pose la sua mano sull’avambraccio dell’amica. “Le persone piangono, e non perché sono deboli. Ma perché sono state forti troppo a lungo.”

 

Furono queste parole a scatenare le ultime lacrime: quelle finali, quelle che la ragazza aveva dentro il cuore, piantate in fondo all’anima. Pianse senza ritegno, Mariam, ma sulla spalla della sua amica, e circondata dalle persone su cui sapeva di poter contare.

Perché, di tanto in tanto, c’erano anche delle cose sulle quali vale la pena puntare. E l’amicizia era una di queste.

 

 

 

 

*“Anch’io.” … “Non vedo l’ora di andare a dormire.”

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

Adoro las chicas! <3 Amo scrivere su di loro proprio perché sono quattro ragazze completamente diverse, che vengono da paesi – o magari da continenti – diversi, ma che si scontrano perfettamente e si vogliono bene. (Almeno, nei miei flash è così. ;D)

 

Ringrazio sempre le mie affezionate ragazze che mi seguono e hanno l’onore (per non dire onere!) di leggere e recensire tutto ciò che la mia mente partorisce °_° Veramente, chicas, vi amo tutte. <3

 

Allora se vedemo a ‘na semana, come direbbero qui a Trieste. (♥)

A tra pochi giorni, e ispiratevi.

Il titolo Vindicated dovrebbe darvi una spintarella nella giusta direzione. ;)

 

 

Un bacio,

 

Hiromi

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Capitolo 8
*** Vindicated ***


Overboard

 


I am selfish 
I am wrong 
I am right, I swear I'm right 
Swear I knew it all along 
And I am flawed 
But I am cleaning up so well 
I am seeing in me now the things you swore you saw yourself 

 

Vindicated – Dashboard Confessional

 

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“Lei è la signorina Tachibana.”

Quando il professor Makhlouf, di grammatica e glottologia araba, prese a fissarla intensamente, Hilary non seppe che fare; annuire le parve la scelta migliore.

“Mi ricordo di lei… Ha fatto uno scritto eccellente e…” si bloccò, facendola restare in attesa. “…E finalmente dopo un’intera mattina passata ad ascoltare un arabo impietoso, le mie orecchie trovano pace.” Qualcosa dentro di lei parve esplodere, e incurante del misterioso voto segnato sul libretto, tutta la tensione accumulata andò via.

 

Dietro di lei, un paio di ragazzi si ritrovarono a sgranare gli occhi; il docente aveva passato quelle ore a bocciare senza pietà una miriade di persone causando alla ragazza un mal di stomaco allucinante che poi si era risolto in una splendida interrogazione – e non poteva andare diversamente, visto e considerato quanto si fosse stressata a studiare in quei giorni.

“Beh, grazie.” emozionata e contenta, strinse la mano al professore e gli dedicò un sorriso.

 

 

Uscì dal campus leggera come una farfalla: tra le materie che studiava, arabo era senza dubbio quella che più le dava grattacapi, essendo estremamente complicata. La studiava dalla mattina alla sera, e quando vi erano esami vi si impegnava fino allo sfinimento; non avrebbe tollerato una decrescita per la sua media.

 

Fermò il tram, decidendo di andare al Plaza; aveva fatto dannare Takao fino al giorno prima, ripetendogli la lezione fino alla nausea e facendolo preoccupare tantissimo, talmente che le aveva raccomandato di farsi sentire non appena si fosse liberata dell’esame.

 

Vedendo il panorama di Manhattan scorrere fluido davanti ai suoi occhi, constatò quanto piacevole fosse rilassarsi dopo essere stata così in ansia per ore ed ore.

Scese a pochi metri dal Plaza, camminando a piedi fino alle scale che portavano all’hotel, non smettendo un attimo di sorridere.

Alla reception chiese subito della squadra giapponese; sapeva che avevano l’incontro con gli americani, quello che non sapeva era per che ora fosse stato fissato.

 

“No, signorina, non sono ancora tornati.”

 

All’affermazione della receptionist storse la bocca, pensando al da farsi; lo stadio era dall’altra parte di New York e visto che la città risentiva senza dubbio della febbre del beyblade, data dal torneo, per quell’ora i mezzi non avrebbero potuto arrivare fin lì. Troppa gente, troppa folla, troppa confusione. Le ci vollero un paio di secondi per decidere che era meglio sbollire l’adrenalina in quei metri, e ringraziò la donna con un cenno per poi incamminarsi.

 

Adorava il bar dell’hotel, e adorava soprattutto sedersi al bancone: da lì si aveva un’altra visuale, si poteva vedere gran parte di quell’edificio imponente e le cose che stavano accadendo, come le signorine alla reception, gli uomini d’affari che discutevano tra loro, le signore che bevevano il tè spettegolando… Era interessante.

 

“No..! Hilary?”

Voltandosi nel sentire il suo nome esclamato come fosse qualcosa di assurdo, spalancò gli occhi quando si ritrovò davanti una conoscenza vecchia otto mesi.

Si poteva dire quello che si voleva: talvolta New York era proprio piccola.

 

“Jamie.” sbottò, accavallando le gambe e puntellando i gomiti al bancone. “Un caffè, grazie.”

 

Quello si fece una risata fissando la sua uniforme da cameriere, dopodiché annuì, cominciando a prendere la tazzina. “Non cambierai mai, sarai sempre la solita stronza.”

 

Inarcò freddamente un sopracciglio, non scomponendosi. “Potrei direi lo stesso.”

 

Lui non si fece scoraggiare da quel tono gelido, perché continuò a sorridere quasi ghignando, beffardo. “Ho sentito che tu e le tue bambole avete fatto strada… Arrivare ad aprire il torneo mondiale di beyblade.” fischiò. “I miei complimenti.” Sorrise, sornione, mettendole davanti la tazzina di caffè e un bicchiere d’acqua.

 

Hilary sorrise freddamente, fissando lo sguardo sul bicchiere che poi portò alle labbra. “Già.” Replicò, gelida. “Come sta Mandy?”

 

Lui sbatté gli occhi, osando un tono casuale. “Chi è Mandy?” quando si vide arrivare in faccia il resto del contenuto del bicchiere, si ritrovò a boccheggiare, sconvolto. “Stavo scherzando, non c’è bisogno di reagire così!”

 

La giapponese lo fissò, livida. “Dovresti saperlo bene chi è, vi siete messi d’accordo! Lei mi ha tradito in amicizia, tu in amore… Mi avevi detto che mi amavi, che mi stimavi.”

 

Lo vide arrossire appena, palesemente imbarazzato. “Andiamo, sono cose che si dicono… Tu credi a tutto quello che ti si dice?”

 

Lo fissò sprezzante e disgustata, stringendo le labbra. “No. Appunto.”

Sorseggiò il caffè stringendo il manico della tazzina: sapeva di star dando una soddisfazione a quel verme, ma non si dava pace. Voleva di più, voleva…

 

“Non possiamo dimenticare tutto?”

 

Un’idea si fece largo nella sua mente, un’idea fattibile. Si prese un paio di secondi per riuscire a modellare il suo tono di voce in modo che risultasse calmo, pacato, anche se la sensazione di squallore era lì, e le attanagliava il petto. “Sì, in effetti sono io che la prendo male; troppo.” Affermò, roteando gli occhi. “Sto cercando di cambiare, ma non è semplice.”

 

“Ah, non preoccuparti piccola, ognuno ha il suo carattere.” rispose distrattamente quello, scrollando le spalle e mettendo i bicchieri a posto.

 

Hilary si morse le labbra. “No, guarda, mi sento troppo in colpa per l’acqua di poco fa… Talvolta ho questi scatti così improvvisi…” sbuffò, scuotendo la testa con disapprovazione; quando lui alzò lo sguardo per incontrare il suo, lei si sporse in avanti, umettandosi le labbra. “Ma se io mi facessi perdonare?”

 

Aggrottò le sopracciglia, sorpreso. “Cos’hai in mente?” la ragazza sorrise.

 

 

 

 

 

Galux stava sfrecciando lungo il particolare campo che quel giorno era capitato loro – una specie di foresta tropicale.

Thunder Pegasus era in difficoltà, e il bey di Mao gli dava parecchio filo da torcere. Lì da una buona mezz’ora, le ragazze stavano combattendo una partita alquanto avvincente e, stanche come non mai, erano arrivate alle battute finali.

All’improvviso lo scontro, svolgendosi su quel campo da gioco così particolare, fu sfruttato a proprio vantaggio dalla cinese che, con un lungo affondo, mise fuori gioco la spagnola, suscitando le urla di giubilo tra gli spettatori.

 

Mao alzò il pugno verso l’alto, contenta, per poi dirigersi verso Julia. “Mi sono divertita tanto!”

 

“¡Vaya..!” si lamentò la ragazza ispanica. “Voglio la rivincita… ¡Porqué yo lo valgo!”* protestò, lasciandosi abbracciare e facendola scoppiare a ridere.

 

“Come vuoi e quando vuoi.” ribatté, per poi tornare al proprio posto.

Si sedette sulla panchina, sorridente ed entusiasta, ed emise un risolino quando notò che Raùl si stava indicando la tempia in direzione della sorella facendole intendere che era una pazza.

 

Rimase, però, a dir poco sorpresa quando Rei si pose dinnanzi a lei, quasi a coprirle la visuale.

Braccia incrociate e cipiglio serio, il capitano della squadra richiamò subito gli altri componenti, mettendosi a discutere dell’incontro successivo e non calcolandola affatto.

Visto che il loro prossimo incontro sarebbe stato la volta successiva e avrebbe determinato un’importante passaggio, Rei diede loro indicazioni sulle tecniche di gioco e sui piani dove basarsi.

“…Avete capito tutti? Cercate di concentrarvi, non possiamo rischiare di perdere.”

 

“E tu cerca di rilassarti, o ti partirà la testa.” Le sue labbra si erano mosse prima di poterle controllare. Ora la fissavano tutti, allibiti. “Volevo solo dire che siamo a buon punto, abbiamo giocato delle ottime partite. Non occorre essere così tesi.”

 

La fissò per un paio di secondi senza dire alcunché, squadrandola come se avesse indirizzato le peggiori imprecazioni contro il beyblade, dopodiché si voltò, dandole le spalle. “Tutti i componenti della mia squadra devono essere più che preparati. Non possono mettere a repentaglio questa possibile vittoria distrandosi o mettendosi a ciarlare.”

 

Mao inarcò le sopracciglia, pressappoco sul sentiero di guerra. “E’ Raùl il problema?”

 

Lui parve non ascoltarla, perché si voltò verso gli altri continuando con la sua espressione profondamente seria. “Andate pure, ci vediamo domattina per gli allenamenti. Mi raccomando, siate puntuali.”

 

Serrò le mascelle, non volendosi schiodare da lì per nulla al mondo. “Rei?” il suo tono alquanto pericoloso tradiva un’agitazione crescente. “Qual è il problema?”

 

Vedendo la ragazza fissarlo con decisione e con aria corrucciata, capì subito che non vi sarebbero state vie di fuga. “La possibile distrazione dei componenti della squadra. Siamo a tanto così da-”

 

Lo interruppe, cupa. “E’ solo questo?”

 

“..Sì.”

Mao non notò il tono indeciso né la sua espressione confusa; si limitò a mordersi le labbra e ad annuire, lasciandolo poi da solo ad imprecare contro se stesso.

 

 

 

 

*“Accidenti..! Voglio la rivincita perché me la merito!”

 

 

 

 

Avevano dovuto aspettare che lui finisse il turno – giusto una mezz’ora – poi erano passati in uno dei corridoi dell’hotel, a correre verso una delle stanze libere: il Plaza aveva una moltitudine di corridoi, suite, sale tutti uguali, a tratti poteva essere un vero labirinto, ma fortunatamente aveva con sé qualcuno che sapeva destreggiarsi bene.

 

“Okay, è libera.” fece lui, sbirciando la stanza. “Non male, vero baby?”

 

Lei detestava nomignoli tipo baby e piccola, ma ricordava bene che con Jamie erano un must. “Sì, assolutamente perfetta.”

Entrando e guardandosi intorno, scannerizzò la suite lussuosa; oltre il letto matrimoniale e un immenso tappeto persiano, stavano un tavolino che aveva tutta l’aria di essere antico, due morbide poltrone bianche e un divanetto dello stesso colore.

 

La fissò, cominciando ad attirarla a sé. “Da dove cominciamo?” ma era una domanda retorica, perché ben presto attaccò le sue labbra a quelle della ragazza, per poi scendere più giù e baciarle il collo.

 

Trattenne a stento un gemito di disgusto e lo respinse dolcemente, scoccandogli un’occhiata divertita. Dirigendosi verso l’enorme letto matrimoniale, vi si stese sopra in una posa alla Paolina Bonaparte, umettandosi le labbra in maniera sensuale. “Perché non cominciamo da questo?”

 

Lui non se lo fece ripetere due volte. “Mi pare un’ottima idea.”

 

Studiando velocemente la testata del letto, si impresse sulle labbra un sorriso famelico, infine si mise a cavalcioni su di lui, prendendo a far scorrere su e giù sul suo petto le dita, e soffiandogli leggermente nell’orecchio cosa che, lo ricordava, lo eccitava parecchio.

Lui cominciò a baciarle l’incavo del collo, e lei ne approfittò per intrecciare le dita con le sue… E per legare la sua mano alla testata del letto con le manette che si era portata.

 

Bondage?”

 

“No, inculage.” replicò, sfoderando un sorriso vittorioso per poi scendere dal letto con passi volutamente eleganti e misurati. “Pensavi davvero che sarei venuta a letto con te dopo tutto quello che mi hai fatto passare? Idiota.”

 

Gli occhi di Jamie la fissarono, sbalorditi. “Che cosa?! Cosa cazzo-”

 

“Jamie, Jamie, Jamie.” la sua voce era miele puro. “Io non ti consiglio di urlare. Altrimenti ti sentiranno. E se ti sentiranno, tu sarai licenziato…” spiegò lentamente, schiacciandogli l’occhiolino. “Guarda, metto la chiave qui. Se riesci ad arrivarci, sei libero.” fece, ponendola dall’altra parte del materasso laddove il ragazzo poteva arrivarci – forse – solo dopo ore e con molto sforzo fisico.

 

Quando uscì dalla suite, il sentire le imprecazioni di lui (“Sei solo una grandissima stronza, Hilary! Mi hai sentito? Brutta figlia di..!”) fu un pretesto per sorridere.

 

Arrivando nella hall dell’hotel, si ritrovò a pensare a quanto quella fosse stata una grande giornata: aveva sostenuto un esame, l’aveva passato con il massimo dei voti, aveva ricevuto la stima di uno dei suoi professori più severi e, come se non bastasse, aveva pure avuto la sua vendetta su quel grandissimo verme bastardo di Jamie Blake.

Quella era una giornata stupenda: niente poteva rovinarla.

 

 

Quando qualcuno le venne addosso facendo cadere la sua borsetta e per poco anche lei, fu naturale cacciare un’imprecazione piuttosto colorita; specchietto, cipria, lipgloss, fazzoletti  e tutto il resto vennero sparpagliati per terra… Assieme ai suoi preservativi.

 

Fece per prenderli immediatamente, ma un’altra mano fu più veloce di lei. Alzando lo sguardo, si ritrovò ad arrossire quando si vide davanti Kai fissare prima lei e poi i suoi contraccettivi con aria pressoché divertita.

“Me li ridaresti?”

 

“Sicuro.” Le rispose, un barlume d’ironia nella sua voce. Stettero a fissarsi qualche istante, lui con uno sguardo divertito, lei con una punta d’imbarazzo, fino a quando non fu il russo stesso, incredibilmente, a rompere il silenzio. “Voglio un caffè, andiamo.”

 

Hilary si ritrovò a boccheggiare qualche istante: dapprima non capì assolutamente che cosa diavolo volesse dire con quella frase detta con un tono tra l’imperativo categorico e il laconico, ma fu quando lo squadrò per bene che si riservò di assumere un piglio deciso. “Come vuoi, ma pagherai per questa tua gentilezza offrendomi una cioccolata.”

 

 

 

 

 

Thunder Pegasus tornò tra le mani della sua proprietaria, e Julia rimase a fissarlo a lungo: doveva impegnarsi per quel torneo, e doveva farlo realmente. Lei e Raùl stavano ondeggiando sulla lama di un coltello, dovevano assolutamente darsi una mossa.

Rilanciò il suo beyblade, che schizzò lungo il campo, veloce e potente: tra rotazioni, giri e salti, la madrilena ebbe il tempo di provare a perfezionare anche uno dei suoi attacchi, cosa non sempre semplice, che richiedeva molto tempo e molta cura.

 

Sentì distintamente la porta della palestra aprirsi e chiudersi, ma non si voltò; semplicemente, inarcò le sopracciglia, provando a restare concentrata. “Ho prenotato io fino alla prossima mezz’ora.” disse, rivolgendosi a chiunque fosse.

 

“Lo so.” ribatté una voce strafottente. “E’ per questo che sono entrato.”

 

Si voltò di scatto, perdendo la concentrazione, e Thunder Pegasus smise tristemente di roteare, facendola imprecare contro quello strano ragazzo dai capelli color fiamma dal carattere indecifrabile. “¡Qué Planton!”* sbottò.

 

“Nervosetta?” domandò il ragazzo, avvicinandosi.

 

Lei si ritrovò a digrignare i denti. “Ivanov, ¿porqué no te callas?”*¹

 

Inarcando le sopracciglia, Yuri esibì un sorrisetto divertito. “Se vuoi che io ti risponda devi esprimerti in una lingua che io possa comprendere.”

 

Julia incrociò le braccia al petto: in sua presenza era sempre un fascio di nervi, e non riusciva a spiegarsi il motivo; tutta quell’elettricità era strana, irreale per due che in tutta la loro vita avevano condiviso soltanto qualche occhiata di fuoco e qualche conversazione sfuggente. “Non voglio che tu mi risponda: devi stare zitto, come ti avevo detto prima.”

 

Probabilmente quel giorno il moscovita era in vena di esibire quel sorrisetto sarcastico, perché gli rimase appiccicato sulle labbra. “Ma Fernandéz, io non parlo mai…”

 

Julia sbuffò, non riuscendo a capire come mai il tutto la rendesse così nervosa. “Te ne vai? Devo allenarmi un’altra mezz’ora.”

 

Lui non calcolò minimamente la frase da lei appena pronunciata: la squadrò dalla testa ai piedi lentamente, solcando con quelle iridi di ghiaccio, millimetro dopo millimetro, il suo corpo fasciato dalla canotta bianca aderente e dai pantaloni della tuta.

Julia improvvisamente sentì la secchezza della sua gola e lo scottare delle sue gote, perché ebbe assolutamente bisogno di uscire e di prendere quantomeno fiato.

“Ti va una sfida, Fernandéz?” il tono usato era misurato, calibrato, come attento a non sbilanciarsi troppo.

 

La madrilena di aggiustò l’alta coda alla bell’e meglio, poi incrociò le braccia. “Volevo allenarmi da sola.”

 

“Non mi sto riferendo al beyblade.” spiegò, avvicinandosi ulteriormente e squadrandola, quasi famelico: pareva un lupo pronto ad assaltare la preda. “Non amo i giri di parole, Julia. Ci attraiamo, è evidente.”

 

La ragazza non si accorse nemmeno di starsi facendo aria con la mano, ma all’improvviso in quella stanza pareva esservi troppo caldo. “Se llama attracciòn.”*² sibilò, agitata, parlando velocemente e in spagnolo, come faceva quand’era arrabbiata o nervosa. “E’ una cosa molto comune tra maschi e femmine di tutte le specie, sai?”

 

Lo beccò a ridacchiare, e fu strano: il suono della risata del russo era qualcosa di nuovo, di diverso, ma di molto, molto piacevole. “Sì, lo so.” rispose, annuendo. “E proprio perché lo so che riflettevo sui privilegi degli amici. Mai sentito parlare?”

 

Julia si ritrovò a boccheggiare, arrossendo. “I-Io… No!”

 

Yuri annuì, pensoso, per poi ritrovarsi a scrollare le spalle. “Sai, avere dei vantaggi ma comunque mettere dei limiti… Potrebbe essere un’ottima cosa. Molti lo chiamano essere amici con benefici.”

 

Le sopracciglia di Julia si inarcarono fino a raggiungere la frangetta. “Come sei delicato…Mi stai facendo una proposta indecente?”

 

Lui assottigliò lo sguardo per poi ghignare, beffardo. “Beh, sì.” allo sguardo sbalordito di lei il suo sorrisetto si fece ancora più marcato. “Non eri tu quella che si lamentava degli abbordaggi maschili e che avrebbe voluto un’occasione per trovare… Uno scopamico?”

 

Julia strinse le labbra, furente. “Mi hai spiata?”

 

Nah, ero semplicemente nello spogliatoio.” glissò lui. “E, detto tra noi, Fernandèz, la tua voce è dannatamente alta. Quando parli di certe cose dovresti sussurrare.”

 

La madrilena aveva voglia di cavargli gli occhi con le sue stesse mani ma, allo stesso tempo, era affascinata ed anche eccitata dalla proposta improvvisa. “E’ troppo strano.” sbottò. “Tra di noi… Poi io non posso andare a letto con te! Io e le mie amiche avevamo delle regole, e-”

 

Quello sbuffò. “Devono saperlo per forza?”

 

“No, ma-”

 

“Non c’è nessun noi.” chiarì immediatamente il russo, fissandola dritto negli occhi. “Se accetti, sarà solo sesso; niente fantasticherie, niente romanticherie, niente cazzate, niente io e te, e niente noi. Sesso.”

 

Julia resse il suo sguardo fino all’ultimo. “Accetto.”

 

 

 

 

*“Che merda!”

*¹ “Ivanov, perché non chiudi il becco?”

*² “Si chiama attrazione”

 

 

 

 

In quei giorni conciliare il torneo con il lavoro era, per Mariam e Mao,  qualcosa di assolutamente stancante e quasi impossibile: cercavano di fare tutto ciò che potevano, nonché di prendersi dei giorni di permesso soltanto quando si ritrovavano ad essere proprio stanchissime ma spesso si ritrovavano ad essere distrutte a causa degli orari assurdi.

 

Mariam si sdraiò sul divano, cercando di recuperare le forze; era da sola nell’appartamento, Hilary non c’era, e in quel frangente, dopo essersi preparata un caffè ed aver messo nello stereo il suo cd dei Beatles che era giunto a Let it be, stava fumando una sigaretta in santa pace.

Il torneo di beyblade stava procedendo senza inutili drammi: eccitante e pieno di adrenalina come sempre, si riservava sempre di sorprendere con qualche imprevisto, ma era bello così.

 

Quando era stata mandata per rappresentare il suo paese insieme alla sua squadra, non si era aspettata certo di condurre quella vita e di lavorare al tempo stesso come barista.

Sostenere quei ritmi era spossante, ma le piaceva molto come si erano sistemate le cose. Non avrebbe sopportato un periodo noioso.

 

Fu proprio quando si alzò per andare a versarsi un altro po’ di caffè nella tazzina, che bussarono alla porta. Inarcò le sopracciglia, curiosa: chi mai poteva essere, visto che Hilary aveva le chiavi dell’appartamento, e Julia e Mao erano ad allenarsi?

 

Controllò dallo spioncino della porta, e il cuore le si ribaltò nel petto, facendo un triplo salto mortale; lo stomaco le si strizzò all’improvviso e la gola le divenne secca.

Con la sigaretta a metà ancora stretta tra le dita, sentì quasi un lieve capogiro: si appoggiò allo stipite della porta, dopodiché chiuse gli occhi, e quando li riaprì fu solo per spegnere la cicca nel posto più vicino.

 

Poteva fare finta di non esserci: avrebbe potuto. Ma così facendo avrebbe risolto i suoi problemi? Se lo sarebbe ritrovato comunque tra i piedi, prima o poi, quindi-

 

L’ennesimo bussare la fece desistere da qualsiasi piano assurdo; fece scattare la serratura, e prese a guardare la persona sulla porta con sguardo truce.

“Che cosa vuoi?”

 

Max la fissò, facendo sprofondare le mani nelle tasche dei jeans. “Dobbiamo parlare. Lo sai.”

 

Lei inarcò freddamente le sopracciglia. “Non credo proprio.” ribatté, accendendosi un’altra sigaretta e andando a spalancare la finestra; per quante se ne sarebbe fumata in quell’istante avrebbe annebbiato l’appartamento.

 

Lui la guardò con disapprovazione. “Fumi ancora? Avevi smesso!”

 

La ragazza lo guardò di traverso, fissandolo talmente male da fargli pentire di aver aperto bocca. “Fatti i cazzi tuoi e togliti dalle palle.” chiarì, scandendo le parole una ad una.

 

Max sospirò, stringendo le labbra e sapendo di meritarsi quel trattamento e anche di più. “Voglio soltanto che ascolti quello che ho da dire: l’anno scorso ti ho conosciuta sotto un diverso aspetto… Ci siamo messi insieme e, credimi, è stata la cosa più importante che avessi mai avuto.” fece, in tono accorato. “Io mi ero innamorato di te, Mari… Lo sono ancora.”

 

Lei annuì, stringendo le labbra. “Hai finito?” il ragazzo fece tanto d’occhi, e lei, nonostante si sentisse il cuore battere impazzito come se volesse sfondare la gabbia toracica, si costrinse a mantenere uno sguardo gelido e un tono più distaccato possibile.

 

No, non ho finito.” doveva ricordarselo: una delle caratteristiche di Max era senza dubbio la testardaggine. “So che sono stato un idiota totale, che ho rovinato tutto, che ho disintegrato la fiducia che avevi in me… Ma tu dimmi cosa posso fare per rimediare: io lo farò.” il suo tono sincero e candido era probabilmente una delle cose che adorava in lui, e fu per questo che chiuse dolorosamente gli occhi, stringendo i pugni come a farsi forza, come a non cedere.

 

“Sai quando qualcuno ti fa sentire speciale, poi improvvisamente ti delude, e tu… Ti senti una deficiente perché gli hai permesso di sfondare le tue difese? Ecco, mi sento così.” sbottò, spalancando i suoi occhi verdi su di lui. “Ma non ricommetterò lo stesso errore.” dichiarò, incrociando le braccia al petto e fissandolo dritto negli occhi. “E ora va’ via.”

 

Max capì perfettamente cosa aveva voluto dirgli: quando si erano conosciuti lei aveva suo fratello come unico affetto, e lui l’aveva conquistata a poco a poco, per caso, inconsapevolmente. E, come un idiota, se l’era fatta scappare.

“Vado.” sospirò, dirigendosi verso la porta. “Ma mettiti in testa che tornerò; tornerò sempre. Non mi arrendo. So di aver rovinato tutto ma, costi quel che costi, riuscirò a ricostruire ogni cosa.”

 

 

 

 

 

“Stai scherzando, non è vero?” Hilary si passò una mano tra i capelli, tentando di calmarsi. “I Coldplay non hanno commesso nessun dannatissimo plagio in Viva la vida!”

 

Kai la fissò, non capendo come facesse la ragazza ad animarsi e metterci tanto pathos nei discorsi che faceva. “Quella canzone ha delle parti praticamente uguali a Foreigner Suite di Cat Stevens. E’ lui che ha deciso di non citarli in giudizio.”

 

“A volte capita che certi accordi risultino simili, ma non vuol dire nulla!” sbuffò la ragazza, accavallando le gambe e sgranocchiando una patatina: lei e Kai, ore prima, erano andati al bar del Plaza per prendere una bevanda ciascuno e avevano iniziato a chiacchierare, salvo scoprire che si era fatta ora di pranzo. Era stato con suo enorme stupore che lui stesso l’aveva invitata a rimanere. Beh, alla sua maniera, ovvio.

 

Lui roteò gli occhi, capendo quanto fosse una battaglia persa discutere con lei. “E gli accordi della tua chitarrista nella canzone dei Queen?”

 

La ragazza saltò su, gasata. “Fighi, vero?” lui abbozzò un sorriso, annuendo brevemente, e lei lo ricambiò. “I Queen sono i Queen, non c’è niente da fare, e Trisha – credimi – ha impiegato ore per imparare quell’assolo. Però… Ehi, è stata bravissima!”

 

“La canzone era molto adatta.”

 

We will rock you è un must.” fece, cominciando scherzosamente a battere il ritmo sul tavolo. “E io adoro la band, adoro Freddie Mercury, adoro Brian May, adoro rivedere i loro concerti su youtube… Li amo.” fece, scrollando le spalle.

 

Kai le rivolse un’occhiata curiosa. “I Queen e poi? Che altro ti piace?”

 

Assumendo un’aria sognante, la ragazza pose il mento sulla mano, sospirando. “Mi piace la musica.” fece, scrollando le spalle. “Spazio dal rock stravagante dei Muse, all’hard rock dei Queen al pop punk dei Green Day al pop anni ottanta degli ABBA, all’indie dei Killers…” Hilary mise le mani avanti, cominciando a ridacchiare. “No, Hiwatari, hai toccato un tasto sbagliato, potrei stare a parlare anche per ore, lo sai, vero?”

 

Lo vide inarcare brevemente un sopracciglio con aria sarcastica. “Non sarebbe così strano.”

 

Lei scoppiò a ridere. “Okay, colpita.” mangiucchiò le ultime patatine che aveva ordinato in quel fast food nei pressi dell’hotel, dopodiché alzò lo sguardo. “Va bene, ecco una domanda per te: impressioni, commenti e tanto altro della nostra esibizione dell’altra volta.”

 

Gli servirono uno o due secondi per riflettere, poi si accorse di specchiarsi in due iridi color cioccolato curiosissime. E lì si rese conto che sarebbe rimasto lì seduto a parlare con Hilary per molto, moltissimo tempo, e non per qualche stupida ragione, ma semplicemente per lei, per la sua compagnia, per la sua arguzia ed intelligenza.

“L’effetto sorpresa è stato ben calibrato, e sicuramente non è semplice realizzare una cover dei Queen in poco tempo ma… Direi che è una delle poche riuscite che io abbia ascoltato.” concesse.

 

Ridacchiò. “Detto da te è un gran complimento.” fece, innalzando il bicchiere di coca-cola, nella sua direzione; stava per domandargli cosa ne pensasse delle canzoni delle Cloth Dolls quando il suo cellulare si mise a squillare. “Scusami; sì?”

 

“Hilary, ma dove sei?” la voce di Takao pareva stanca ma gasata al tempo stesso: doveva aver finito in quel frangente con gli incontri.

 

“Mi trovo nel fast food che c’è girato l’angolo nella direzione dell’hotel; tu dove sei?”

 

“Sono appena sceso dal taxi e ho una certa fame… Sai cosa? Ti raggiungo.” dichiarò, mettendo giù.

 

Hilary inarcò le sopracciglia e scrollò le spalle in direzione di Kai per poi ridere. “Sta arrivando Takao.” annunciò, sorseggiando la sua coca-cola; il russo fece un cenno, come se non importasse. “Mh, ti stavo chiedendo una cosa.” con aria pensosa, scosse la testa. “No, due in realtà.” annuì, seria. “Cosa ne pensi delle canzoni delle Cloth Dolls e che gruppi ti piacciono.”

 

Lui aggrottò le sopracciglia. “E a quale devo rispondere prima?”

 

“Oh, fa’ pure testa o croce.”

 

“Ascolto gli ACDC, i Queen, i System of a Down, i My Chemical Romance, i Pink Floyd, gli Evanescence, gli Alter Bridge…” corrucciò le sopracciglia. “Mi scuserai, non me ne vengono in mente altri.”

 

La giapponese si fece una risata. “Mmm…Possono bastare; tu sei un tipo da ACDC, ma non pensavo ti piacessero gli Alter Bridge.”

 

Stava per chiederle cosa volesse dire, fu bloccato da una voce piuttosto rumorosa. “Hila! …Kai!” Takao era piuttosto sorpreso di vederlo, e lo fissò con tanto d’occhi. “Che ci fate qui, ragazzi?”

 

Lei scrollò le spalle. “Niente, ci siamo incontrati e stavamo parlando, parlando, parlando… Poi ci siamo accorti che avevamo fame e abbiamo scelto il posto più alla mano possibile per pranzare.”

 

Il giapponese si voltò a fissare il suo amico ed eterno rivale, e sogghignò scherzosamente. “Chi è che stava parlando, parlando, parlando? Tu?”

 

“No, lui no, non è molto loquace. Sai, fino ai due anni ha parlato così tanto che ora ha finito gli argomenti.” Alla battuta di lei il giapponese scoppiò a ridere e il russo roteò gli occhi, sbuffando.

“Dai, ora sparisci: noi dobbiamo finire un discorso che non puoi capire.”

 

Il giapponese alzò le mani in segno di resa. “Vado e torno. Sopportala tu se ci riesci, amico.” ghignò, ricevendo, per tutta risposta, una manata da parte della brunetta.

 

Lo divertiva sempre quando Hilary reagiva così: capiva che era un suo modo di fare o una specie di forma d’affetto: lei non era la tipica ragazza piagnucolosa o una donnicciola inutile. Lei era combattiva, energica, leale, e tanto, tanto altro ancora.

Sorridendo mentre andava a scegliere il menù da ordinare, Takao si ritrovò a pensare a quanto fosse fortunato ad avere una migliore amica del genere, e a come il loro rapporto si fosse evoluto negli ultimi anni.

 

Andando alla cassa e pagando, sgranò gli occhi quando sentì la risata di Hilary intrecciata ad un’altra che non conosceva: voltandosi, rimase piacevolmente stupito nel vederla ridere con Kai per qualcosa di misterioso.

Un sorriso assolutamente irritante si propagò sulle sue labbra mentre un certo pensiero si espandeva a macchia d’olio nella sua testa. Forse aveva torto, forse no… Ma quanto avrebbe dato per scommetterci sopra con qualcuno!

 

 

 

 

 

Continua

 

 

 

Una delle mie caratteristiche è senza dubbio la banalità. Ci riflettevo l’altra volta. .-. Da una parte è un bene, dall’altra un male. Per me, ovvio. xD

Ci sono autrici che spaziano da destra a sinistra con uno schiocco di dita e vi sono altre che preferiscono rimanere statiche (tipo la sottoscritta). Non mi vedo a scrivere di cose che non mi piacciono, d’altronde. Sono masochista fino ad un certo punto.

 

E dopo questa riflessione che non porta a niente (xD) parliamo pure del capitolo: come al solito spero vi piaccia, anche perché rivela – per buona parte – uno degli interrogativi che qualcuna di voi si è posta, relativa alla giapponesina della situazione.

Poi, ecco qui, pronti sul piatto d’argento, la spagnola che tutti noi amiamo così tanto (e braccialetti a seguito xD) con un certo russo di nostra conoscenza.

 

Mmm… Come si svilupperà questa situazione?

Ah, boh. u.u

 

Ma sapete cosa? Forse ne avremo un assaggio con Ironic, che come titolo non dice niente, o forse sì. =D

 

Beh, miei adorati, è tempo di andar via a fare la nanna (almeno per me). Quindi un bacione a tutti e ricordatevi che l’appuntamento è sempre questo giorno, sempre Martedì.

 

 

 

See you soon,

 

Hiromi

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Capitolo 9
*** Ironic ***


Overboard

 

Well, life has a funny way of sneaking up on you 
When you think everything's okay and everything's going right 
And life has a funny way of helping you out when 
You think everything's gone wrong and everything blows up 
In your face 

 

Ironic – Alanis Morrisette

 

 

*************************

 

 

Muy bien: ahora calmate, y… Por Dios,¡ golpeas a este puerto!*

 

Generalmente sicura di sé, Julia si ritrovò a sospirare, quando – per l’ennesima volta in dieci minuti –  si bloccò con il pugno a mezz’aria davanti la porta della suite della Neoborg. Aveva passato una notte insonne dopo la strana chiacchierata del giorno prima con un certo russo di sua conoscenza, e dopo tante torture mentali aveva preso la decisione di andargli a dire che non se ne faceva più niente.

Soltanto perché lui era così pazzo da provare a giocare con il fuoco, non voleva dire che doveva esserlo anche lei. Perché era una pazzia, un’assoluta cretinata, la cosa più insensata e idiota che avrebbero mai potuto fare, e sarebbe stato un suicidio, una follia.

Un’assoluta, incredibile, eccitante follia. Ma pur sempre una follia.

 

¡Estoy  fuera como un balcòn! 

 

Non si diede pace prendendo a camminare avanti e indietro come un’anima in pena, imprecando contro se stessa e tutti i santi che conoscesse; non era mica così complicato. Doveva solo entrare, dirgli che non se ne faceva più niente e basta.

 

¡Cobarde! *²

Respirò a fondo, per poi appoggiarsi alla porta, con l’intento di non staccarsi di lì fino a quando non avesse bussato; peccato che se la sua mente aveva già deciso di compiere l’azione, le sue mani parevano di tutt’altro avviso, restando tristemente lungo i suoi fianchi.

Sbuffò pesantemente, scuotendo la testa: perché non era in grado di bussare e di dire a Yuri Ivanov che non se ne faceva più niente?

 

Perché lo desiderava anche lei, ecco perché! Perché, nonostante quell’idiota russo fosse l’essere più noioso, irritante e gelido del pianeta, lei… Lo trovava attraente! E attraente non era altro che un eufemismo per riuscire ad inquadrare la maniera in cui si sentiva quando si ritrovava ad essere a pochi metri di distanza da lui.

 

Animo, Julia… Eso es… ¡Horrible! ¿Te va de buscar la quinta pata al gato? *³

 

Rovesciò la testa indietro, sospirando: era ora di finirla. Basta fare la stupida: avrebbe bussato e detto a quell’idiota russo che la sua idea era un’assoluta, definitiva, delirante-

 

Fernandéz.”

 

Cacciò un urlo che probabilmente non venne sentito soltanto a quaranta chilometri di distanza dall’hotel; Yuri Ivanov aveva aperto la porta di scatto e, sopracciglia inarcate, sguardo di ghiaccio e ghigno che si faceva largo sulle labbra solo all’osservarla, Julia realizzò con ulteriore nervosismo che bastava la sua sola figura a mandarla in crisi.

 

¡Odio mis hormonas! *’

 

Ivanov.” Ribatté, con tono di voce che voleva essere normale ma suonava più isterico che altro. “Potrei parlarti?”

 

“E’ una maniera elegante per farmi una proposta indecente?” la spagnola emise un ringhio e, prendendolo per la collottola, lo invitò ad entrare in maniera alquanto gentile e delicata nella sua stessa suite. “Che modi, era per dire!”

 

 

 

 

* “Molto bene. Ora calmati e… Per Dio, bussa a questa porta!”

*¹ “Sono fuori come un balcone!”

*² “Codarda!”

*³ “Eddai Julia… Questo è… Terribile! Ti va di svegliare il can che dorme?”

*’ “Odio i miei ormoni!”

 

 

 

 

“Siete sicura che vada bene o ve lo aggiusto ancora?” Hilary sorrise per l’ennesima volta e scosse la testa, dopodiché si riprovò il casco, sentendo l’adrenalina scorrerle a fiotti lungo tutto il corpo. “Vi dona molto, signorì.”

Ridacchiando del complimento si decise a sellare la moto, sentendosi quasi potente; ora capiva come mai i cosiddetti maschioni strombazzassero tanto per le vie di New York. Era quasi naturale mettersi a fare i fighi con una cosa del genere!

 

“Okay, è… Perfetto.” esalò, eccitata, quasi non tenendosi più per l’emozione. La Kawasaki nera, stava sulla kawasaki nera.

Aveva dovuto pregare i suoi genitori, accettare compromessi assurdi, ma alla fine ce l’aveva fatta.

 

“E’ tutto apposto, signorì.” fece il proprietario del negozio, un simpatico uomo di origini italiane che le aveva fatto recapitare la moto direttamente di fronte casa. “I suoi genitori hanno pagato tutto, e le hanno mandato un altro di questo per il secondo passeggero.” le fece notare, prendendo un altro casco.

 

“Ma è fantastico!” esultò, pensando a chi tra le sue amiche avrebbe per prima fatto fare un giro; Mao si sarebbe di certo spaventata, Mariam in quel momento non era nemmeno in casa, e Julia…

 

Chissà dov’è quella pazza spostata!

 

Scuotendo la testa si ritrovò a fare una smorfia, pensando che fosse un vero peccato che quella mattina – la prima libera da quando era iniziato il campionato – nessuna di loro potesse fare un giretto…

 

A meno che… Takao!

 

Con un sorriso grande quanto una casa, sistemò le ultime cose con il signore che la aiutò a prepararsi, dopodiché mise l’altro casco dentro il sellino, pronto per l’uso; il suo migliore amico era senza dubbio al Plaza ad allenarsi. Una mezz’ora – ma anche un’oretta! – per fare un giro non gli avrebbe fatto mica male…

 

Eccitata e piena di adrenalina, salutò il gentilissimo uomo che l’aveva aiutata, dopodiché partì alla volta dell’hotel a cinque stelle, con un sorriso enorme sulle labbra, sentendosi il cuore battere forte nel petto: guidare quella moto era sempre stato il suo sogno, fin da quando era una bambina ed abitava a Tokyo, ma con due genitori apprensivi come i suoi era sempre stato tutto un “No, scordatelo! Quella è una moto da ragazzi robusti!

Non poteva credere di avercela fatta: era a New York, e stava guidando il suo gioiellino, il suo sogno sin da quando aveva dodici anni.

 

 

Le strade di Manhattan erano immense, larghissime e che fosse giorno o notte avevano una caratteristica: il traffico assurdo. Ad un semaforo si ritrovò ad aspettare il verde e, quando si girò meccanicamente verso un paio di ragazzi che avevano preso a fare i buffoni per attirare l’attenzione di una ragazzina molto ben vestita, pensò soltanto a quanto fossero idioti prima che scattasse il verde.

Poi si sentì soltanto un guaito e un grosso rumore, e lì il suo cuore fece un triplo salto mortale.

 

I passanti di New York, abituati a vedere di tutto, nemmeno badarono a quella ragazza sulla moto che, all’incrocio aveva appena investito un cane: semplicemente continuarono per la loro strada, come se nulla fosse.

 

Sentì il suo respiro farsi accelerato e il sangue scivolarle via dalla faccia, tanto il suo essere sconvolta stava assumendo enormi proporzioni.

Non sapeva cosa fare, chi chiamare, o se quel cane che pareva respirare ancora fosse di qualcuno… Sapeva soltanto di non sentirsi molto bene.

 

“Ehi, togliti da lì, tu e il tuo cane!” le urlò un uomo, sorpassandola in auto.

 

Altri le strombazzarono dietro affinché si levasse di torno, e fu allora che si voltò, riacquistando tutta la sua glacialità. “Siete bravi solo ad usare il clacson?!” urlò, avvicinandosi alla Kawasaki e suonando con forza il suo; “Qualcuno mi aiuti a portare questo animale dal primo veterinario disponibile, così mi tolgo di mezzo!”

 

Dopo qualche secondo, tre auto più in là scese una signora di mezz’età che valutato il da farsi, le spiegò di poterla accompagnare in uno studio veterinario. “E’ a dieci minuti da qui. Te la senti di seguirmi?” Hilary annuì.

 

 

 

 

 

“Non puoi dirmi che avevi delle notizie bomba da darmi e poi liquidarmi con… Fa niente, te le dico più tardi!” Mao imitò il tono del ragazzo di fronte a lei, scocciata dal comportamento per nulla corretto del suo migliore amico, e incrociò le braccia al petto.

 

“Quante storie per averti tenuta sulle spine un po’...” all’occhiataccia dell’amica, non poté far altro che ridacchiare, per poi godersi l’espressione della ragazza. “Okay, apri le orecchie: ho chiesto a Mathilda di uscire.”

 

Sgranò occhi e bocca, facendosi aria con una mano. “Oh, cielo! Oh, santo paradiso!”

 

“Mi è venuta a cercare per farmi i complimenti per lo scontro dell’altra volta, poi ha tenuto a sottolineare che non frequenta né con Michel né con nessun altro.” All’occhiata maliziosa dell’amica, proseguì. “Già.” Esclamò, sorridente. “Dopodiché mi ha fatto una timida domanda su di te. Voleva sapere cosa fossimo.”

 

Lei sgranò gli occhi. “E che le hai risposto?”

 

“Che siamo amici.” Spiegò, scrollando le spalle. “E a questo punto lei ha sputato fuori una frase tipo: amici molto stretti a quanto vedo…”

 

Mao batté le mani, elettrizzata. “Doveva essere veramente nera per parlare così! Generalmente è così gentile e dolce…!”

 

Raùl le sorrise, lo sguardo improvvisamente lontano. “Poi sai cosa? All’improvviso in me è scattato qualcosa, qualcosa a cui non so dare un nome. Prima che potessi cambiare idea le ho detto tutto: di me e di te, dei miei sentimenti per lei… Tutto.”

 

Tutto?”

 

“Sì. In un nanosecondo ho pensato che erano anni che la conoscevo e anni in cui in sua presenza ho soltanto saputo balbettare ed arrossire. Voglio parlare con lei come faccio con te, voglio che lei conosca anche l’altro lato del mio carattere.”

 

Mao era sbalordita: questa proprio non se l’aspettava. Sapeva che in quelle settimane il suo amico stava facendo progressi, ma quello era un salto da gigante, non un passo! “Sono così felice per te! Non credevo-”

 

Raùl la fissò con un sorrisetto ironico. “Già, nemmeno io.” Disse, scrollando le spalle. “Mi sono sorpreso da solo. E’ stato come se l’avessi deciso senza pensarci poi troppo, e all’improvviso ecco che mi ritrovavo a sciorinare tutto in una volta… Era come se mi stessi guardando dall’esterno, è stato qualcosa di assurdo.”

 

“Lei come l’ha presa?”

 

Raùl arrossì. “Mi ha dato dello stupido, e mi ha detto che non c’era bisogno di fare quella scenetta con te perché le piacevo già… Ha detto che aspettava soltanto che credessi di più in me stesso.”

 

Mao accavallò le gambe, esibendosi in un sorrisone. “E quando vi vedrete?”

 

“Stasera a cena.” Il ragazzo all’improvviso sospirò accigliandosi, contrito. “Non ho la più pallida idea di dove portarla. Magari la serata sarà un flop.”

 

L’orientale sorrise, intenerita; Raùl sarebbe stato sempre Raùl, con tutte le sue insicurezze che lo rendevano quel ragazzo adorabile e gentile che si faceva benvolere da tutti. “Tesoro, ci sono un sacco di posti: dall’Avalon a quel ristorantino che io e te abbiamo provato l’altra sera, a quel locale di bowling a-”

 

“Non vorrei interrompervi.” una voce neutra e misurata fece impallidire entrambi: aria corrucciata, sguardo rannuvolato, Rei era davanti a loro e pareva si stesse più che dominando in quel frangente. “Dovremmo iniziare gli allenamenti.” Fece, iniziando ad incamminarsi.

 

La ragazza fissò prima Raùl poi il suo compagno di squadra, non sapendo proprio cosa fare, infine si alzò dalla sedia, mordendosi le labbra: era vicina ad esplodere.

 

 

 

 

 

“Ivanov, es claro qué tu estas estresado por el beyblade, pero no te preocupe: estoy yo a tomar cartas en esto asunto.” *

 

Yuri fissò la ragazza davanti a sé e non poté fare a meno di inarcare le sopracciglia. Subito dopo aver aperto la porta – perché vi era palesemente qualcuno che, fuori, stava camminando avanti e indietro da almeno dieci minuti – si era ritrovato davanti una furia a forma di pazza scatenata.

Julia Fernandéz era senza dubbio la persona più strana e senza senso che avesse mai incontrato. Ma era quello – insieme al suo corpo da sballo – a renderla eccitante.

 

Subito dopo aver aperto, lei lo aveva cacciato dentro la sua stessa suite – meno male che nessuno dei suoi compagni di squadra era presente – si era seduta sulla poltrona, poi si era alzata, poi aveva buttato la sua borsa per terra, e infine aveva iniziato a sbraitare in spagnolo. Cosa che stava facendo da almeno un quarto d’ora. In quell’istante, però, pareva aver finito.

 

La ragazza lo fissò, rossa in volto per l’ardore che aveva immesso nel discorso e in attesa della sua reazione.

Yuri la superò, avvicinandosi al tavolino immesso vicino alle due poltrone rivestite di seta e al divano. “Okay, ehm… Cosa?”

 

Julia spalancò gli occhi, ostentando un’espressione indignata e borbottando qualcosa tra i denti che aveva tutta l’aria di non essere proprio fine. “Senti, Ivanov: quello di cui abbiamo parlato ieri è una gran tontaria, okay? Non possiamo, sarebbe como… Mettere mierda davanti un ventilatore!”

 

Il russo si sedette comodamente sul divano, finendo il suo pezzo di torta. “Interessante scelta di parole.”

 

“¡Vaya, por Dios! …Sarebbe anche comodo avere una specie di… Amico.” cercò di spiegarsi, sedendosi accanto a lui sul divano e tentando di rimanere calma. “Ma ci sarebbe da nascondersi da tutti: dalle mie amiche, dai tuoi compagni di squadra, dai giornalisti che ci farebbero a fette organizzando gossip… Una mierda!”

 

Lui annuì brevemente. “Sarebbe difficile, sì.”

 

Julia scosse la testa, nervosa. “Quindi no se hace nada.”¹ esclamò, voltandosi verso di lui, per poi sobbalzare internamente quando si ritrovò il suo viso a due centimetri dal proprio; perse ogni briciolo di ragione, ogni minima parvenza di controllo, ogni proposito che si era data fino all’istante precedente. E, quando i suoi occhi incontrarono due lastre di ghiaccio… Fu perduta.

 

“Nada de nada.” soffiò lui sulle sue labbra, per poi divorarle in un impetuoso, famelico bacio che annullò definitivamente i sensi di entrambi.

 

 

 

 

* Ivanov, è chiaro che sei stressato per il beyblade, ma non ti preoccupare: mi occuperò io di tutto.”

*¹ “Quindi non se ne fa niente.”

 

 

 

 

Non reggendo allo stress aveva chiamato Takao, pregandolo di correre immediatamente lì; aveva disperatamente bisogno di qualcuno per sfogarsi, non poteva farcela da sola, non questa volta.

Camminava avanti e indietro nella sala d’aspetto della veterinaria da circa un’ora, lo stomaco strizzato in una morsa d’acciaio e la testa da un’altra parte.

 

Non appena giunta lì, il medico le aveva detto che il cagnolino aveva buone probabilità di farcela, ma solo se si interveniva all’istante; quindi aveva chiamato un suo collega per farsi aiutare, e ora stavano passando ad operare il cucciolo.

 

Ma quanto ci mettono?

 

Voltandosi verso la porta dove stava avvenendo il tutto, sperò che non fosse niente di troppo complicato e si maledisse ancora una volta, sobbalzando quando sentì la porta principale aprirsi.

Si voltò lentamente, cercando nella persona che era appena entrata nella sala d’aspetto gli occhi di quell’amico che l’aveva accompagnata tutta una vita, invece trovò soltanto due occhi che le fecero venir voglia di morire. E di piangere.

 

Che ci faceva lui lì?

Questo pensiero le attraversò il cervello in maniera fulminea, ma venne immediatamente accantonato, perché si portò le mani agli occhi, e scoppiò in un pianto a dirotto.

Non avrebbe voluto piangere davanti a qualcuno che non fosse Takao, ma non ce la faceva veramente più: il senso di colpa, la rabbia verso se stessa e la paura la stavano corrodendo a poco a poco.

 

E all’improvviso, sentire delle braccia avvolgersi attorno alla sua vita fu qualcosa di inaspettato e magico insieme: le diede calore, le diede sicurezza, stabilità, forza. E le fece incredibilmente desiderare di restare in quel modo per sempre – perché ci stava bene, perché tra quelle braccia sentiva che niente e nessuno avrebbe potuto farle del male, perché si sentiva invincibile.

 

“Va tutto bene.” La sua voce sicura ebbe il potere di farle distendere i nervi, e quando la fece sedere su una delle sedie della sala d’aspetto, poté soltanto scostarsi i capelli arruffati dal viso.

 

“Non va tutto bene.” Singhiozzò, prendendo un fazzoletto dalla sua borsa e asciugandosi brutalmente gli occhi. “Sono un’incosciente di merda, dannazione!” sbottò, e giù nuove lacrime.

 

“Sì, è l’unica cosa che Takao ha capito assieme al fatto che doveva correre.”

 

Al suo tono laconico e insieme sarcastico sorrise brevemente. “Come mai non è qui?”

 

Kai corrucciò le sopracciglia facendo una smorfia. “Ufficialmente doveva finire l’allenamento del professore quindi non aveva tempo-”

 

“Che cosa?”

 

“…Ufficiosamente credo mi abbia mandato apposta.” Fece annuendo.

 

Okay, io lo strangolo. “Mi dispiace.” Soffiò, arrossendo.

 

La fissò dritto negli occhi, senza dire una parola; il suo cuore fece inaspettatamente un salto, ma non poté continuare con le giravolte, perché lui prese a parlare. “Ti va di dirmi perché ti trovi qui?”

 

Abbassò lo sguardo, accavallando le gambe. “Sono andata a prendere la moto, i miei me l’hanno mandata da Tokyo. Volevo fare un giro, magari andare a prendere Takao; cose così… Idiote.” Si morse le labbra, cercando di ricacciare indietro le lacrime che stavano per farle nuovamente capolino dagli occhi. “Ero al semaforo, stavo aspettando che il verde scattasse, mi sono distratta, sono ripartita e… Ho investito un cane.” Respirò a fondo, tentando di mantenere il punto, inutilmente.

 

“Come sta ora?”

 

Lei scosse la testa nervosamente, smanettando. “Non lo so, non lo so! E’ lì dentro da quasi un’ora ormai, lo stanno operando! Avrei potuto investire un bel po’ di esseri inutili a questo mondo… Ce ne sono tanti..! Perché proprio un cagnolino innocente?” sbottò, mettendosi le mani tra i capelli.

 

Lui inarcò le sopracciglia. “In effetti.” Lei lo fissò male, e Kai sorrise per tutta risposta, per poi decidere di tornare all’argomento principale. “E’ grave?”

 

“No, la veterinaria ha detto che se la caverà.”

 

“Allora stiamo qui e aspettiamo.” Hilary annuì, in ansia, ed il silenzio scese tra di loro, scandito soltanto dai secondi battuti dall’orologio al muro. Lui la fissò mordersi le labbra, scansarsi i capelli dal viso, contorcersi le mani, respirare rumorosamente, e non poté fare a meno di aggrottare la fronte. “Non sentirti in colpa; certe cose accadono.”

 

“Sono stata una cretina.”

 

“Hai cercato di rimediare portandolo qui. E non l’hai mica fatto apposta.”

 

“Ci mancava solo questa.” Borbottò lei, passandosi una mano tra i capelli, “Ho passato degli attimi orribili, bruttissimi… Non voglio che un povero animale paghi per una mia distrazione.”

 

La fissò dritto negli occhi. “Non accadrà.”

E in quel momento Hilary si sentì che era vero: non sarebbe accaduto nulla. Non sarebbe accaduto nulla per il semplice fatto che era lui stesso a dirlo, e il fatto che si sentisse così sicura in sua presenza la calmava e spaventava allo stesso tempo.

 

Si appoggiò stancamente con la testa al muro, chiudendo gli occhi, e passò così i restanti minuti fino a quando una porta non si spalancò, rivelando i due medici che li osservarono con aria neutra. “E’ andato tutto bene.” Le comunicarono, soddisfatti. “Si rimetterà in una settimana o al massimo dieci giorni. Per ora sta riposando.”

 

Hilary si alzò di scatto, sentendosi molto più leggera. “Grazie al cielo...!” sospirò, contenta.

 

“Vuoi vederlo?” la frase, buttata lì quasi per caso, le parve di un’assurdità mostruosa; ma quando il medico la fissò, incoraggiante, non poté fare a meno di cercare Kai con lo sguardo, chiedendogli implicitamente aiuto e compagnia.

 

Nella stanza il cucciolo era adagiato sul lettino operatorio, bendato sul pancino. Carino e con un bel musetto, quando la ragazza lo vide respirare, fu automatico per lei sentire nuove lacrime farle capolino dagli occhi.

“E’ un incrocio, non ha microchip né vaccinazioni, ma  è molto piccolo, sui quattro mesi.” Le dissero. “Non ha microchip né altro, non si sa chi possa essere il padrone.”

 

Ma Hilary non ascoltava; stava immobile a fissare quel cucciolino piccolissimo, priva di ogni pensiero.

“Perché non lo prendi tu?”

 

“Io?!” La domanda di Kai le parve assurda, così come la possibile soluzione. “Non potrei mai: io sono l’essere orribile che l’ha investito…”

 

Lì il moscovita si ritrovò a sorridere: dopo aver scoperto, in quei giorni, la Hilary grintosa e dinamica che si divertiva a giocare a miss autonomia, era strano ritrovarsi ad avere a che fare con un altro lato della ragazza, più dolce e fragile… Delicato.

“Credo che sia davvero una buona idea, invece.” Ribatté. “Lo salverai dalla strada e in più ti riscatterai definitivamente.”

 

La sua osservazione, dopo qualche minuto di silenzio la fece capitolare. “Va bene, anche se non mi ci vedo alle prese con un cucciolo. Ma sia chiaro, Hiwatari, devi aiutarmi a scegliere il nome!”

 

 

 

 

 

Lai prese al volo il suo beyblade, soddisfatto, per una volta, di quell’allenamento. “Okay, per oggi può bastare.” Dichiarò, scrollando le spalle. “Domani manteniamo il ciclo che abbiamo deciso – io, Mao, Rei, Gao – e siamo apposto; va bene per tutti?”

 

L’unica ragazza del gruppo corrucciò le sopracciglia, riponendo il suo beyblade nella custodia. “Il nostro incontro per che ora è fissato?”

 

“Verso le dieci della mattina, perché?”

 

Mao fece un rapido calcolo mentale. “No, è okay.” Fece, incerta. “Va bene, d’accordo anche per me. Allora io sarò la seconda...”

 

“Domani avremo una sfida importante contro i Giapponesi, contro i campioni del mondo in carica: dovremo star qui e darci man forte, non possiamo andare a gironzolare senza motivo.”

Se uno chiunque le avesse detto che un giorno Rei avrebbe parlato con di queste cose, con quel tono, argomentando una questione che non stava in piedi, semplicemente non ci avrebbe creduto. Perché non era da lui.

 

“Ma Rei, se uno ha finito di combattere può andare dove vuole, è sempre stato così.” ribatté il piccolo Kiki, le sopracciglia inarcate.

 

“Invece no; dobbiamo studiare il modo di combattere dell’avversario, non… Parlottare con gli altri.”

 

Si voltò lentamente, inclinando la testa e sbattendo gli occhi. “Mi stai dicendo che dovrò stare qui per tutte e sei le ore della durata del torneo di domani?”

 

Il capitano della squadra si rivolse a lei con occhi severi. “Non solo questo! Tu… Non puoi venire qui ad allenarti soltanto sporadicamente! Poi dimentichi le nozioni acquisite!”

 

La ragazza schioccò la lingua, un gesto che faceva capire quanto fosse sul sentiero di guerra. “Prego?”

 

“Vedere gli incontri degli altri fa bene anche per vedere come se la cavano, quali sono i punti deboli e quelli di forza! Andar sempre in giro a parlottare non ti porterà a niente.”

 

Mao divenne livida. “E’ Raùl il problema?”

 

Rei arrossì appena. “L’hai tirato tu fuori! E comunque lui ti… Distrae troppo!”

 

“Cos’è, questa cosa? Una scenata, forse…?” cinguettò amabilmente, mettendo le mani sui fianchi.

 

I componenti dei Bahiuzu si fissarono tra loro, sconvolti: che diamine stava accadendo tra Rei e Mao, in quel periodo? Perché Rei, che in genere era il ragazzo maturo e saggio per la sua età, ora pareva aver perso completamente il lume della ragione?

E perché non aveva il buon senso di chiedere scusa all’istante? Non lo sapeva, forse, che quando Mao parlava con quella voce così dolce e zuccherosa e metteva le mani sui fianchi erano cazzi amari per tutti? Cos’era diventato, una specie di kamikaze? Voleva morire giovane, forse?

 

“S-Scenata?! E’ un rimprovero!” a quel punto Kiki si schiaffò una mano sulla faccia e Gao cominciò a pregare tutti gli dei che conoscesse, mentre Lai si limitava a sbattere gli occhi, tentando di collegare gli avvenimenti da lui risaputi sperando di capirci qualcosa. “Un rimprovero in qualità di capitano della squadra e capo della tribù.”

 

Lei roteò gli occhi. “Oh, ma fammi il piacere!”

 

Rei arrossì nuovamente, sentendosi sminuito. “Ti lamenti sempre che non assumo una posizione, ora ne sto assumendo una, okay?”

 

Mao incrociò le braccia al petto e inarcò le sopracciglia, sarcastica. “Certo, ti piacerebbe!” esclamò, ironica, prima di andar via, sbattendo la porta della palestra.

 

Le ultime cose che sentì furono le risatine dei suoi compagni di squadra e lui che sbottava: “Non c’è proprio nulla da ridere!”

 

 

 

 

 

Era giunta alla quarta sigaretta in due ore quando sentì bussare alla porta: aprendo, si ritrovò davanti Julia che, capelli scombinati come se le fosse esploso un petardo in testa, colorito luminoso come se si fosse andata a fare una lampada, occhi brillanti come se si fosse messa le lenti a contatto, pareva più su di giri del solito.

“Hilary?” chiamò ad alta voce. “¿Donde està?” fece, entrando nell’appartamento.

 

Mariam buttò fuori dalle labbra il fumo prima di rispondere. “Non è in casa.” Fece, scrollando le spalle. “Non ho idea di dove sia, veramente.”

 

Chica, non posso stare da sola. Ci ho provato, ma tutto quello che ho ottenuto è di strappare per sbaglio il mio vestito preferito. Non so che fare.”

 

L’irlandese annuì, spegnendo la sigaretta nel posacenere. “Giornatina interessante?”

 

Tienes mucho ojo, eh?”* Mariam allargò le braccia e Julia si andò a sedere sul divano. Quando, dall’appartamento a fianco, sentirono dei frastuoni allucinanti, si scapicollarono per andare a vedere cosa fosse successo, e rimasero basite nel vedere Mao buttare a terra tutte le sue scarpe con una rabbia tale da provocare un tale pandemonio.

“Mao?! ¿Estas loca?”

 

La ragazza le fissò, il respiro accelerato e gli occhi umidi. “I ragazzi fanno schifo!” urlò, buttando altre scarpe a terra.

 

Julia incrociò le braccia al petto, appoggiandosi allo stipite della porta. “Eccone un’altra! Mal de muchos, consuelo de tontos.” *¹

 

“Che cos’è successo?” Mariam si mise a raccogliere le scarpe soltanto quando lo fece anche l’orientale, e per i primi trenta secondi la cinese non disse nulla, dopodiché cominciò ad imprecare, continuando a borbottare insulti rivolti verso chissà chi.

“Chi è che stai maledicendo?”

 

Julia ridacchiò. “Yo tengo una vaga idea…”

 

“Oddio, ma che è successo qui?” tutte si voltarono nell’udire la voce sconvolta di Hilary, e sobbalzarono quando notarono in che stato era – capelli spettinati, colorito pallido, occhi rossi di pianto, pareva l’avesse investita un tram – cosa reggeva e con chi fosse.

 

Un poco de cosas…” Fece Julia lentamente, non riuscendo a staccare gli occhi dal cane che Hilary reggeva in braccio.

 

“Lo vedo.” La ragazza sospirò. “E’ il caso che mi metta seduta?”

 

Le ragazze fissarono prima il cane e poi Kai ripetutamente. “Potremmo chiederti la stessa cosa, sai?” Rispose Mariam, inarcando le sopracciglia.

 

La giapponese la guardò malissimo, poi sbuffò. “Okay, riunione: dove ci mettiamo?”

 

Mao si riavviò i capelli. “Entrate pure e scusate il disordine che non è abituale… Dovevo pur prendermela con qualcuno. Non potevo diventare una serial killer.” Spiegò, facendo loro strada verso il salotto.

 

Kai, entrando nella casa arredata in stile pop art e osservando il curioso quadro raffigurante un paio di slip femminili addosso ad una donna, si convinse che quella tela fosse assolutamente dell’altra sponda, e che ci fosse qualcosa che non andava.

 

“Questo appartamento era di due mie care amiche, e l’hanno momentaneamente prestato a Mao e Julia, visto che sarebbe servito loro.” Spiegò Hilary, vedendo il suo sguardo perplesso di fronte al quadro. Kai corrucciò la fronte, poi annuì, trovando un filo logico.

“Tornando a te, Mao?”

 

La ragazza, da brava padrona di casa, era sopraggiunta con una torta da lei preparata il giorno prima, e del succo di frutta. “Spiacente, abbiamo finito il gin tonic o la soda.” Sbuffò. “Preparo il caffè?”

 

“Va bene così.” fece sbrigativamente Hilary, invitandola a sedersi accanto a lei. “Allora?”

 

“Niente. E’ che presto tu-” fece, rivolgendosi a Kai. “Ti ritroverai senza migliore amico.”

 

Il russo sorseggiò un po’ di succo di frutta, dopodiché annuì. “Grazie per l’avvertimento.”

 

“Non gli faccio mai niente e lui è sempre a rompermi le scatole, sempre a dirmi quello che devo fare e quello che non devo fare! Oggi ha pure avuto la faccia tosta di avvertirmi che domani non devo assolutamente allontanarmi dalla mia panchina per andare a fare i miei giri…!” ringhiò, al ricordo. “E che me lo dice per prendere una posizione.”

 

“…Orizzontale?” alla battuta di Julia ridacchiarono tutti, e Mao scosse la testa, ravviandosi i capelli con le mani.

 

“Non lo so. Guarda, gliel’ho buttata anche io la cosa, ma non so davvero che diamine gli prende.”

 

“Credo che lui ti abbia sempre visto come una sorellina, e che questa nuova visione di te lo spiazzi.” Osservò Hilary. “Dagli tempo.”

 

“Se non lo uccido prima.” Minacciò la ragazza, sprofondando nel divano.

 

“Che ci dici tu di Fido?” chiese Mariam, indicando con un cenno del capo il cagnolino placidamente addormentato tra le braccia di Hilary.

 

“Oh, lui… Si chiama Freddie. L’ho investito con la moto, stamattina-” al loro sguardo interrogativo, Kai mostrò le chiavi della Kawasaki, e la ragazza sorrise. “I miei mi hanno mandato la moto che sognavo da anni, e cosa succede? Che la guido e investo lui. Bello, no?”

 

“Poverino…” sussurrò dolcemente Mao, accarezzandolo.

 

“Sono stata dal veterinario, è stato operato e sembra che tutto sia andato benissimo.” Spiegò, mettendo in ordine gli eventi e le informazioni. “Ha quattro mesi, è un incrocio tra due razze, gli ho fatto mettere il microchip, gli ho fatto fare il vaccino di base e il libretto sanitario.”

 

Mariam sgranò gli occhi. “Vuoi tenerlo?”

 

Hilary scrollò le spalle. “Mi ha convinta Kai. E poi voglio un po’ di compagnia.”

 

L’irlandese corrucciò la fronte. “Hai me.”

 

La bruna mise il broncio. “Tu non mi porti le ciabatte.”

 

Il russo scosse la testa e restituì le chiavi della Kawasaki alla legittima proprietaria, alzandosi dalla poltrona. “Devo andare.”

 

La ragazza lo fissò, dopodiché si rivolse alle amiche. “Sentite, Freddie è ancora sotto l’effetto dell’anestesia, si sveglierà tra qualche ora.”

 

“Devi andare da qualche parte?” chiese Mao, allibita da qualcosa che probabilmente, aveva notato.

 

“Sì, ma sarò subito di ritorno.” Poi si rivolse a Kai. “Se vai al Plaza vengo con te.” Quando si chiusero la porta alle spalle dopo un breve saluto, le tre ragazze si fissarono, sconvolte.

 

“Okay, sto diventando pazza io, o avete notato anche voi quello che ho notato io?”

 

 

 

 

 

La palestra che l’hotel metteva a disposizione era spesso impegnata e bisognava prenotarla in tempo, altrimenti si incappava nel rischio di trovarla impegnata, un po’ come gli era capitato in quel frangente, ma non importava: ciò che più stava a cuore a Rei era allenarsi.

Allenarsi per il campionato, allenarsi per distrarsi, allenarsi fino a non avere più energie, allenarsi per non pensare ad altro, allenarsi in modo da farsi notare.

 

Dire che era furioso sarebbe stato un eufemismo, decisamente qualcosa da poco, rispetto a come davvero si sentiva: se avesse potuto sarebbe andato a cercare quello spagnolo da strapazzo e gli avrebbe fatto rimpiangere di fare il cretino, sempre e costantemente, con Mao.

Ma Raùl Fernandéz, una volta, non era uno calmo e pacato, che stava sempre al suo posto e che non parlava se non interrogato? Beh, non pareva proprio!

Magari fingeva di essere così, e attirava a sé ingenue fanciulle con lo scopo di estrapolare i piani di ogni squadra per far vincere la propria.

Sì, doveva essere per forza in quel modo, altrimenti che diamine poteva volere da Mao?

 

Lei era una bellissima ragazza, ma fin troppo buona ed ingenua. Occorreva che intervenisse lui a proteggerla, anche a costo di farsi maledire ed insultare all’inizio.

Lo avrebbe ringraziato dopo, ne era certo.

 

“Eccoti.” Quando udì una voce che conosceva bene si voltò, curioso: che ci faceva lì Hilary?

 

“Ciao.” La salutò, sorpreso.

La bruna lo fissò con un sorriso ironico, quasi velato, come se ci fosse molto di più dietro quelle labbra: che fosse sopraggiunta per dirgli qualcosa era palese. Il problema era che cosa.

“Posso fare qualcosa per te?”

 

“Potrei essere io a far qualcosa per te, veramente.” Aveva un’aria stanca e il colorito pallido, ma gli stava sorridendo, incoraggiante. “A quanto pare hai perso la testa e non hai la minima intenzione di ritrovarla: magari potresti fare qualcosa, non so se mi spiego…”

 

Lui sbatté gli occhi, perplesso. “Veramente no.”

 

La ragazza incrociò le braccia al petto. “Andiamoci da un’altra parte: va tutto bene?” Rei non seppe cosa rispondere a quella domanda così schietta e improvvisa, gli parve semplicemente strana.

 

“Più o meno…” scrollò le spalle, incerto riguardo cosa rispondere.

 

“Volevo essere delicata, ma tu non capisci proprio.” fece la ragazza, ridendo. “Come va con Mao?”

 

Lui si irrigidì. “Non so che intendi. Come dovrebbe andare?”

 

Lei prese a camminare a passi lenti e misurati. “Te lo dico io: di merda. Perché tu l’hai sempre vista come una specie di sorellina, fino a quando non ci fu quel campionato dove lei si dichiarò, dove capisti che, sì, poteva esserci qualcosa di più, ma decidesti subito che il tuo primo amore sarebbe stato il beyblade, e che lei sarebbe stata ad aspettare.” lo fissò, ironica. “Non avevi calcolato nel tuo piano geniale che lei avrebbe potuto prendere baracca e burattini e trasferirsi da tutt’altra parte, eh?”

 

Conosceva Rei da anni, ma non lo aveva mai visto così rigido. “Non posso nasconderlo.” soffiò. Stette in silenzio parecchi secondi, riflettendo sulle sue parole o forse sul discorso di Hilary, prima di parlare nuovamente. “Non avevo previsto che si sarebbe stancata.”

 

Lei scosse la testa con fermezza. “Nessuno si stanca mai dell’amore. Ma tutti si stancano di aspettare, immaginare, di ascoltare promesse, scusarsi e di tutto quello che ferisce.”

 

Il ragazzo abbassò lo sguardo. “Ora lei sta con Raùl.”

 

Hilary inarcò le sopracciglia. “Forse. Non spetta a me chiarirti la sua situazione; posso soltanto dirti che continuare a sbraitare come una mamma in stile commedia italiana anni cinquanta non ti porterà da nessuna parte. Lei ha già un fratello, e quello non sei tu.” Rei annuì, lo sguardo lontano.

“Ora devo andare, sono stanchissima… Ma tu pensa alle cose che ti ho detto, okay?”

 

Il cinese annuì. “Okay… E grazie.” lei gli sorrise e lo salutò con un cenno della mano, sparendo come inghiottita dall’oscurità della sera.

Rei rimase in silenzio con i suoi pensieri per qualche secondo, riflettendo sulla chiacchierata costruttiva che aveva sostenuto fino a pochi istanti prima con l’amica, dopodiché si fece avanti un’altra figura. Una figura che conosceva bene.

“Mi chiedevo quando saresti uscito allo scoperto.”

 

Kai mantenne la sua espressione neutra. “Sono qui.”

 

“Dovrebbero mettere una legge che impedisce alle persone di leggere dentro alle altre.” Rei prese un lungo respiro per farsi coraggio. “Mi ha fregato.”

 

“Ho notato.”

 

Inarcando le sopracciglia, il cinese cercò di non sogghignare. “Bene, almeno non sono l’unico nei guai.” il russo lo fissò con aria interrogativa. “Perché sorridi quando ci si riferisce a Hilary?”

 

“Che diavolo dici?”

 

Ora passava ad essere incredulo; non sapeva se stropicciarsi gli occhi per appurare se fosse sveglio, darsi un pizzicotto, o non credere alle cose che vedeva. “L’hai rifatto!”

 

“Non dire cazzate.” borbottò Kai, visibilmente contrariato.

 

Okay, meglio finirla qui.

Rei non rispose, si limitò a far sprofondare le mani nelle tasche e ad alzare gli occhi al cielo, pensando a quanto fosse strana la situazione: c’era chi si ritrovava ad essere geloso, e chi si ritrovava ad essere steso sentimentalmente da una furia bruna cinica riguardo l’amore… Lontani i tempi in cui il primo e solo pensiero era il beyblade!

 

Ma forse la questione era che erano cresciuti, e che quel meraviglioso sport da solo non bastava più, che ci voleva altro. Sarebbe stato impensabile restare sempre all’età dei quindici anni.

Occorreva andare avanti: solo questo.

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

 

 

Innanzitutto mi scuso sentitamente per il ritardo – che poi ritardo non è visto che è Martedì; però ho aggiornato parecchie ore dopo rispetto al solito, lo so.

Beh, eccoci qua. Definirei questo il capitolo più OOC dell’intera storia, e per quanto io abbia cercato di limare alcune parti, sempre OOC resta, e me ne scuso sentitamente. :S

 

Come al solito spero che vi piaccia, anche perché racchiude degli argomenti non solo a me cari, ma che serviranno per lo sviluppo della storia successiva.

Siamo a metà fanfiction, miei cari! *w*

 

In questi giorni sarebbe festa, ma non per me che mi ritrovo a correre da un punto all’altro della città anche peggio di prima, quindi mi scuso tantissimo per le risposte alle recensioni, che scriverò più tardi – giuro, giuro, giuro!

Sappiate solo che vi adoro e che ogni recensione mi serve per affinare il mio modo di scrivere, che proprio perfetto non è.

Grazie a tutti, sul serio. =D

 

Ci vediamo Martedì prossimo con “No more I love you’s

 

 

 

Xoxoxo

 

 

Hiromi

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Capitolo 10
*** No more I love you's ***


Overboard

 

I used to be lunatic from the gracious days 
I used to be woebegone and so restless nights 
My aching heart would bleed for you to see 
No more "I love you's" 
The language is leaving me 
No more "I love you's" 
Changes are shifting outside the word 

 

No more I love you’s  - Annie Lennox

 

********************

 

 

“Sono due settimane che uscite e mi stai dicendo che ancora non sai cosa siete?”

 

Raùl abbassò lo sguardo, sentendosi un completo idiota. Mao aveva ragione ad usare quel tono, ma non poteva farci nulla: era nella sua indole essere insicuro. “Beh… Usciamo quasi ogni sera ormai, ci divertiamo tanto, ma non so se obbiettivamente io le piaccia.”

 

La cinese spalancò la bocca, prendendo a fissarlo malissimo. “Ma se giorni fa, all’inizio di tutto, vi siete dichiarati!” sbottò, ravviandosi i capelli con gesti nervosi. “Come diamine fai a dire che non le piaci se te l’ha detto lei?”

 

Lui arrossì. “Non lo so. E’ che dopo due settimane siamo arrivati a quel punto dove… Mmm… Dovrebbe scattare qualcosa, no?”

 

Mao sbuffò stancamente, appoggiando la testa sulla mano. “Ti prego, dimmi che l’hai baciata.” Quando il suo colorito divenne tutt’uno con i capelli, la ragazza non seppe se urlare o scoppiare a ridere. “Raùl! Si starà chiedendo che diamine c’è che non va, o se non hai cambiato idea su qualcosa..!” si passò una mano sulla faccia, avvilita. “Povera Mathilda..!”

 

“Lo so, sono un disastro.” Mugugnò lui. “Ma quando la vedo c’è qualcosa che mi blocca all’altezza dello stomaco… Io vorrei essere sciolto, disinibito, ma… Non ci riesco!” prese a sbattere la testa più volte contro il tavolino. “Odio la mia timidezza, la odio!”

 

All’ennesima testata, lo bloccò, mettendogli una mano sulla fronte. “Stasera vi vedete, giusto?” lui annuì, imbronciato. “Parlale: Mathilda è una ragazza dolce, ma sa quello che vuole. Credo che se continui così, presto ti scaricherà.”

 

Lo spagnolo roteò gli occhi. “Odio me stesso e il mio carattere.”

 

“E allora fai qualcosa al riguardo!” Raùl stava per rispondere quando Mao prese sistemarsi freneticamente i capelli, prendendo ad osservare un punto lontano. “Come sto, come sto?”

 

“Ehm… Molto bene.”

 

“Non te l’avevo detto, ma… Hilary è lì, si sta avvicinando con il suo collega con cui esco da poco. Adesso te lo presento.” Fece, parlando talmente veloce da mangiarsi quasi le parole.

 

Cosa?” lui ebbe solo il tempo di sibilare il suo disappunto, perché l’amica giapponese della ragazza si avvicinò, sorridendo; era accompagnata da due ragazzoni alti e belli, palesemente americani in due modi assolutamente differenti.

 

“Ehi, ragazzi!” Hilary sorrise ad entrambi. “Ciao Raùl, come stai?”

 

“Ehm… Non male.” Balbettò, cercando di non parere lo sfigato della situazione come al suo solito – cosa che pensava fosse più ardua che altro, di fronte ai due ragazzi. Uno aveva una certa somiglianza con Ken il fidanzato di Barbie, l’altro era tutto di un’altra pasta: era il classico bello e dannato che piaceva alle adolescenti, con uno stile assolutamente metal con tanto di borchie, piercing e tatuaggi a più non posso.

 

“Prendete una sedia e accomodatevi, forza!” sorrise Mao, spostandosi per far loro spazio. “Raùl, loro sono Chris e Kurt, due colleghi di università di Hilary. Ragazzi, lui è Raùl, il mio migliore amico.”

 

I due fecero un cenno di saluto piuttosto amichevole nella sua direzione, ma lui notò come Chris si fosse avvicinato a Hilary, che sembrava non essersene nemmeno accorta, totalmente impegnata a  versarsi un po’ di tè; quindi il ragazzo con cui usciva Mao doveva essere…

 

“Kurt è il solista che ci fa concorrenza.” Rise la bruna. “E’ appassionato di hip-hop e nel tempo libero suona in una band metal che si esibisce nell’Upper East Side.”

 

Mentre la conversazione verté amabilmente sulla musica e poi sul beyblade, Raùl aggrottò le sopracciglia osservando quel ragazzone alto tutto borchie e piercing: doveva avere perlomeno una decina di tatuaggi visibili, e quello che lo inquietava erano i suoi capelli blu e grigi… Faceva uno strano effetto ottico vederlo accanto a Mao.

 

 

 

 

 

Quando un gemito fuoriuscì dalle labbra di lei, per tutta risposta affondò il naso nella pelle del suo collo, aspirandone il profumo forte e deciso ma, allo stesso tempo, incredibilmente dolce e stuzzicante.

Fece scorrere le labbra su quella pelle liscia e morbida fino ad arrivare al suo orecchio, che prese a stuzzicare lentamente con i denti, come sapeva che le sarebbe piaciuto. Lei rovesciò la testa indietro, inarcandosigli contro, e fu allora che prese a succhiarle in maniera lenta e logorante il lobo dell’orecchio, facendole cacciare un gemito che lo fece esultare interiormente.

 

Non avrebbe mai creduto che il sesso con una persona potesse essere così. E vi erano decisamente diversi modi per definirlo – esaltante, grandioso, fantastico, incredibile… Esplosivo. – ma tutti i termini del mondo non avrebbero minimamente reso l’idea.

Julia era passionale, calda, eccitante, ed aveva il potere di trascinarlo in un vortice di libidine non indifferente. In quelle due settimane, dopo aver scoperto che insieme avevano decisamente un gran potenziale, si erano ritrovati a farlo ovunque, a qualunque ora del giorno e della notte.

 

 

Quando lei gli affondò le unghie nella schiena, inarcandosi definitivamente contro di lui, si ritrovò a stringere i denti per non cacciare un’imprecazione piuttosto colorita: quante volte le aveva detto di limarsele? E lei per tutta risposta lo provocava, lui le rispondeva a tono, ed andava a finire come sempre…

Peccato poi si ritrovasse ad avere la schiena tappezzata di graffi rossi, nemmeno tenesse nella suite una tigre addomesticata.

 

“…¡Vaya!”* con le gambe ancora strette attorno alla sua vita, Julia dapprima rovesciò la testa indietro, dopodiché si staccò da lui. Lo fissò per un istante, e il suo sguardo color prato tradì una certa lascivia in quegli occhi che erano fatti per essere solo ridenti e vitali.

“Non l’avevo mai fatto contro il muro di un ripostiglio.” Esclamò in maniera sognante, andando in cerca di qualcosa. “¿El mi sostén?” al suo sguardo interrogativo, lei si ritrovò a ridacchiare. “Il mio reggiseno dov’è?”

 

Yuri sbuffò, andando verso di lei e facendole fare tanto d’occhi, per poi allungare una mano oltre la sua persona, verso uno scaffale. “Qui.”

 

La ragazza inarcò le sopracciglia. “Come ha fatto a finire lì?” il russo scrollò le spalle, rimettendosi la maglietta. “Muy bien: ahora vado nel bagno che c’è qui vicino e vedo de darmi una sistemata…” disse, come ad organizzarsi mentalmente: mentre faceva il punto della situazione si passò una mano tra i capelli luminosi che le ricaddero sulle spalle abbronzate, con un sensuale contrasto, e non poté fare a meno di inarcare le sopracciglia quando si rese conto di starla osservando.

“Sei un poco arrabbiato, chico?” lui inarcò le sopracciglia e fece per rispondere, ma Julia lo precedette. “Ah, no: questa è la tua espressione di sempre.” Rise, facendogli roteare gli occhi.

 

“Com’è che dopo ti diverti sempre a prendermi per il culo?” chiese, aggrottando la fronte.

 

La ragazza scrollò le spalle, sorridendo largamente. “Sarà il tuo bel faccino che mi ispira. Ci vediamo, querido!”

 

Il moscovita la fissò con uno sguardo apparentemente neutro, ma parlò prima che lei potesse chiudersi la porta alle spalle. “Okay…” borbottò.

“Fossi in te mi sistemerei meglio la gonna: hai il sedere scoperto.” Quando Julia lo mandò a quel paese in spagnolo, riuscì soltanto a sogghignare, soddisfatto. Incredibile come si sentisse stuzzicato dalla sua sola presenza.

 

 

 

* “Accidenti..!”

 

 

 

A volte ciò di cui aveva bisogno era tentare di fuggire dalla realtà in cui si trovava; in una dimensione in cui il suo cuore si ritrovava ad essere sfracellato e fatto a pezzi, in cui non sapeva come reagire e se il modo in cui lo stava facendo era il più giusto e congeniale, la soluzione ideale era prendere lo zaino, mettervi le cose essenziali e tramite mustang andare alla ricerca – o almeno tentare – di quel qualcosa che, per pochi minuti poteva farla stare sospesa. Per poi farla cadere di nuovo.

 

Si era svegliata presto quella mattina, e la decisione di fare un giro nella New York che non conosceva le era venuta per caso, quasi all’improvviso: aveva semplicemente pensato al fatto che era lì da sei settimane e ancora non ne conosceva la City, quella di cui si parlava tanto nei film, nei libri, che veniva tanto decantata nelle canzoni. La New York pazza, sconclusionata ma assolutamente adorabile di cui tutti finivano per innamorarsi.

Così, tempo una colazione veloce e uno zaino preparato in fretta, aveva messo su un post-it per Hilary, lasciandole detto che sarebbe tornata in tempo per andare al lavoro.

Aveva comprato due cartine geografiche e chiesto un sacco di informazioni per uscire dall’Upper West Side, aveva voglia di vedere questo East Side così figo di cui tutti parlavano tanto.

 

In quel momento, seduta da Starbucks a sorseggiare un frappé, sospirò; per essere caotica era caotica, era rumorosa, vitale, energica, e anche così… Chiassosa. Non poteva dire fosse nella top ten delle sue città preferite, ma nemmeno che la odiasse. C’era qualcosa che la convinceva.

 

Hilary le aveva parlato così tanto dell’Upper East Side che alla fine era esattamente come se lo era immaginato: lussuoso.

I grattacieli, gli edifici, le strade, le persone che vivevano lì… Tutto urlava a gran voce questa grandiosa maestosità che circondava ogni millimetro del quartiere più in di New York. Era la zona delle grandi industrie, dei ristoranti più chic, delle famiglie più altolocate, delle scuole private. E la sensazione che senza dubbio le piaceva di più era quella di confondersi in quella massa di gente, tra il chiasso e la folla, e che quella grossa mandria di persone fosse così massiccia tanto da farla sentire piccola con i suoi pensieri e preoccupazioni.

 

Si alzò decisa a fare una passeggiata per le numerose Avenues di quella zona così grande ed immensa; tirar su le cuffie ed azionare l’I-pod le venne spontaneo, così come mettersi ad ascoltare la musica che si sprigionò da quell’oggettino che fino all’anno prima non aveva nemmeno tutto questo significato per lei.

Mordersi le labbra le venne spontaneo, soprattutto quando premette la riproduzione casuale e il primo brano fu proprio quello.

Everything.

 

Inaspettatamente ed apparentemente calma ma come se stesse vivendo la cosiddetta quiete prima della tempesta, cacciò fuori dalla tasca una sigaretta, che venne portata alle labbra con gesti misurati.

 

Nelle vicinanze di un parco, non rifletté nemmeno sull’idea di entrare e sedersi su una panchina: lo fece e basta.

Con la sigaretta tra le dita, la bocca piena di fumo e il cuore anestetizzato anche solo per un istante, le sole cose piene di ricordi erano le orecchie, che parevano volerla tanto trascinare e farla sprofondare nei ricordi tanto da farla annegare.

 

 

 

Posso essere la più grande stronza Posso nasconderlo come se stesse cominciando ad essere fuori moda Posso essere la più incazzata del mondo E non hai mai incontrato nessun altro Pessimista quanto a volte lo sono io*

 

 

“Che fai?” inarcò le sopracciglia quando le fu posta quella domanda apparentemente senza senso, ma che con Max era spesso ripetuta. Pareva che volesse sapere ogni cosa di lei, dal suo gruppo sanguigno alle sue fobie, al suo titolo di studio, e la domanda ‘che fai’ era volta a capire un po’ di cose, l’aveva capito osservandolo.

 

“Ascoltavo un po’ di musica, ma mi sono rotta e ora ho spento l’I-pod.” Rispose, curiosa della sua reazione: sapeva sempre sorprenderla con frasi o discorsi assurdi, ecco perché stare con lui era interessante, eccitante e divertente allo stesso tempo.

 

“Cosa? Ma come fai ad annoiarti?” il suo viso, con tanto di occhi azzurri spalancati, le fece venire voglia di ridere, ma si trattenne. “La musica è vita, la musica è ritmo, vitalità… Ispirazione!”

 

Non ce la fece; si fece scappare un sorriso mentre lo osservava sproloquiare. Ecco che, se si toccava un tasto che comprendeva qualcosa a lui caro, si infiammava. Erano così diversi loro due: lei così fredda, posata, metodica, e schematica, e lui così energico, spigliato, dinamico, vitale…

 

“Peccato che la pensi così sulla musica, sai?” concluse, mettendo su un broncio da bimbo adorabile. Con uno sguardo divertito, Mariam gli chiese il perché di quella strana frase, e lui la fissò, brandendo un sacchettino tutto ben impacchettato con tanto di nastrino. Con un’espressione divertita, la ragazza lo aprì, rivelando un paio di cuffie professionali per I-pod simili alle sue.

“Ti piacciono? Così ce le abbiamo uguali.”

Mariam scoppiò definitivamente a ridere, prima di annuire e venire baciata da lui.

 

 

Tu vedi tutto vedi ogni cosa vedi tutta la mia luce e ami il mio buio porti alla luce tutto ciò
di cui mi vergogno non c'è niente che non ti possa raccontare e sei ancora qui
*

 

 

 

Spense il mozzicone di sigaretta poco distante, pensando a quanto in realtà avesse sfruttato, dopo quell’episodio, sia cuffie che insegnamento. Molto spesso era stata la musica a consolarla, molto spesso pur di non sbottonarsi con la gente aveva preferito sparare a palla le sue canzoni preferite che non comunicare al mondo ciò che aveva dentro, che le era irrimediabilmente cresciuto, raggiungendo dimensioni spropositate.

 

Sapeva che con il suo atteggiamento schivo aveva spesso fatto soffrire le persone che amava, ma non era solita confidarsi immediatamente o ripetutamente. Lei aveva i suoi tempi, le sue modalità, ed era lei a decidere quando e con chi parlare.

Peccato che a volte le sembrasse di vivere intrappolata in una lunga ed apatica prigionia di se stessa.

 

 

 

* Traduzione di Everything- Alanis Morrisette

 

 

 

Julia lo fissò storto, non capendo perché diamine ci tenesse a farla arrabbiare; era stata via tutta la mattina, si era allenata con suo fratello, era andata alla sede americana che si occupava dell’organizzazione del torneo per chiedere a che ora fosse il suo turno l’indomani, e quando era tornata al Plaza per incontrare Raùl non l’aveva trovato, ma in compenso aveva trovato qualcun altro. Qualcun altro che le stava facendo saltare le scatole, a furia di provocarla sempre e comunque.

 

“Se sei nervoso per i fatti tuoi, non venire a rompere me.” Sibilò, accelerando il passo e richiamando l’ascensore. Ascensore che doveva essere occupato, perché non arrivò.

 

“Non sono nervoso.” Replicò lui, inarcando brevemente le sopracciglia. “Quante storie.”

 

Julia si voltò per fronteggiarlo, gli occhi verdi brucianti di rabbia. “Quando mi salutano, io ricambio il saluto, non guardo male la persona solo perché ho i coglioni che saltano!”

 

Yuri aggrottò la fronte. “Metafora interessante.”

 

Lei scosse la testa, quasi disgustata. “ ¡Vete a la mierda!”* sibilò, entrando nell’ascensore le cui porte le si erano appena spalancate davanti. Quello che non si aspettava, di certo, era che lui la seguisse dentro, volendo dimostrare chissà che cosa. “Beh, che vuoi?”

 

“Niente, Fernandéz: premi pure il pulsante del piano.” Rispose, con voce annoiata.

 

Julia batté con forza la mano sul tasto dove spiccava, luminoso e ben visibile, uno zero: non vedeva l’ora di andarsene da lì e di mandarlo a quel paese.

 

“Quando mando affanculo una persona lo faccio parlando in una lingua che possa capire.” Esordì, un secondo più tardi. “Non mi nascondo dietro lo spagnolo.”

 

Yo no me-” Julia si morse le labbra, fulminandolo con lo sguardo. “No sé hablar bien el ingles, okay?”*¹ sbottò. “Mi mancano le parole e quando non mi vengono uso quelle della mia lingua! E’ un problema?”

 

“No, figurati.” Fece lui, scrollando le spalle: quando le porte dell’ascensore si aprirono la ragazza scosse la testa, facendo per uscire. “Sei eccitante quando urli nella tua lingua.”

 

Si voltò di scatto, facendo tanto d’occhi, e non seppe né perché né come mai, ma si ritrovò ad attraversare le porte del mezzo di nuovo e a premere un tasto a caso, per farle chiudere. Mentre gli buttava le braccia al collo e lo baciava in maniera famelica e quasi arrabbiata, non si volle domandare come mai questo ragazzo così strano e diverso da lei aveva così tanto potere sulla sua persona. Non si volle chiedere niente.

Quando lo vide premere il pulsante di stop per bloccare l’ascensore e toglierle la camicetta con gesti veloci ed eccitanti, sorrise: non era tempo per pensare.

 

 

 

* “Vai a cagare!”

*¹. “Io non mi-”…“Non so parlare bene in inglese, okay?”

 

 

 

“Allora? Come ti sono sembrati?”

 

Raùl fissò con tanto di sopracciglia inarcate le figure di Chris e Kurt che si allontanavano, dopodiché scosse la testa. “Non posso credere che tu sia uscita già due volte con quel tizio.”

 

Mao fece tanto d’occhi. “Perché?”

 

Hilary sorrise in direzione dello spagnolo, capendo quello che voleva dire. “Diciamo che non è proprio il tuo genere, ecco.” Mao guardò male l’amica e Raùl decise di intervenire immediatamente per dirottare la conversazione a proprio piacimento.

 

“Non mi aspettavo che ti piacessero questi tipi. Diciamo che lui e quel… Chris? Si davano man forte come fossero alle elementari. Erano patetici.”

 

Hilary assunse un’espressione arrabbiata. “Senti un po’, tu...!” lui si ritrovò a sgranare gli occhi: aveva parlato con la massima franchezza, non pensava avesse davvero potuto offendere una delle due ragazze. “Ma noi abbiamo scelti apposta, vero Mao?” fece, ridendo e cambiando faccia. “Io il bravo ragazzo e lei il fattone, così poi ci diciamo come sono.”

 

“Hilary!” la rimproverò Mao, sdegnata.

 

“Ehi, è vero.” ribatté lei, scrollando le spalle. “E’ bello uscire con due persone uguali che non siano gemelli, fa senso! E poi Chris non è questa gran mente ma, diamo a Cesare quello che è di Cesare, ci sa fare, e parecchio nell’ambito...!” esclamò, maliziosamente. “Kurt no?”

 

La cinese arrossì furiosamente. “Non lo so! Mi ha solo… Baciata!” Quando lo spagnolo si scambiò uno sguardo con la bruna, sentì una rabbia cieca montarle su.

“Potrebbe essere importante! Potrebbe essere un’occasione che ho per dimenticarmi di Rei.”

 

“Con quello lì che puzza di droga da qui a quaranta chilometri?” alla battuta di Raùl, Hilary scoppiò a ridere della grossa.

 

Quei due si stavano coalizzando un po’ troppo contro di lei per i suoi gusti: piccata e nervosa, li fissò male, cercando di difendere il difendibile. “Kurt non è… Drogato! Lui è gentile, è premuroso… E quanto mi guarda con quegli occhi, io mi sciolgo..!” sbottò, rossa in viso.

 

Hilary incrociò le braccia al petto. “Chi è che stai descrivendo, adesso?”

 

Ora hai rotto!

“Sei una stronza!” sputò fuori la ragazza, le lacrime agli occhi. “Ti credi superiore agli altri perché presumi di non avere bisogno di queste cazzate, vero? Ma non è così! Non tutti sono James, non tutti ti tradiranno con la tua amica! E non tutti sono Kai, non tutti saranno troppo impegnati con lo sport per accorgersi di te!”

 

Il fatto che in quel frangente si trovassero al Plaza e che stessero dando spettacolo non importava a nessuna delle due, perché la giapponese si scaldò nella stessa maniera dell’amica.

“Ma che ne sai tu, di come mi sento io? Ti stavo solo dicendo che mettersi con uno alla stregua di Kurt non ha senso, perché tu meriti molto di più-”

 

“Merito sesso, vero?”

 

“Cosa c’è di sbagliato in questo?”

 

“Per piacere, prendere i maschi e scartarli come fossero caramelle non fa parte di me.” sibilò, prendendo la sua borsa e alzandosi.

 

Hilary la seguì, furiosa. “Ma fa parte di me, no? Perché-” la voce le morì in gola quando all’entrata della sala da pranzo si trovò di fronte Kai: gli occhi sgranati, la fissava come se si fosse trattata di una bomba ad orologeria.

Mao la superò, lanciandole un’occhiataccia, e scomparve dalla sua visuale.

 

Dopo qualche secondo il russo si schiarì la voce, trapassandola da parte a parte con quelle sue ametiste che sapevano farla sentire così male come in quell’istante. “Devi parlarmi, vero?”

 

 

 

 

 

“Perché mi hai portato qui?” Mariam si voltò nella direzione del ragazzo: non lo aveva mai visto così incerto e balbettante: pareva quasi… Emozionato.

Tutto il giorno era stato strano, ma incredibilmente meraviglioso. Non aveva fatto altro che portarla in posti che piacevano a lei, essere dolcissimo come solo lui sapeva essere, sorprenderla anche più del solito… E infine, la sera, si era ritrovata sulla grande terrazza della sede americana degli All Starz con tanto di cena su un tavolino a parte e cannocchiale professionale dall’altra.

 

“Perché sapevo che ti piacevano le stelle.” Rispose, scrollando le spalle e tentando di assumere una posa naturale. “Abbiamo patatine, filetto della migliore qualità, e persino pasta del ristorante italiano qui all’angolo.” Sorrise. “Maionese?”

 

Mariam gli si avvicinò. “Che succede?”

 

Il biondo scrollò le spalle con semplicità. “In queste settimane ho capito quanto sei importante per me, e voglio fartelo capire.”

 

La ragazza inarcò le sopracciglia. “E lo hai capito dopo settimane e settimane che ci frequentiamo?”

 

“Beh, sì. Sono tardo, che vuoi farci?” l’irlandese roteò gli occhi, ma non fece in tempo a ribattere che venne presa per gli avambracci ed attirata dal ragazzo fino ad essere ad un centimetro dal suo naso. “Ti amo, Mari.” Sorrise largamente, come se si fosse tolto un gran peso dallo stomaco. “Scusa, ma se non te lo dicevo scoppiavo.”

 

Lei prese a ridacchiare. “Sei proprio scemo.” Sussurrò ad un millimetro dalla sua bocca per poi provvedere ad azzerare la distanza.

 

 

Certe volte i ricordi avevano una lama molto più affilata di qualunque arma, e fu questo pensiero che spinse la ragazza a togliersi di dosso cuffie ed I-pod per metterli via. Non era giornata. Quando i flashback prendevano a tormentarla, la sola cosa che c’era da fare era chiudersi in casa oppure distrarsi, distrarsi a mai finire.

 

Si alzò, determinata ad andare in giro e a visitare vari ed eventuali monumenti e caratteristiche del quartiere quando delle voci piuttosto alte la fecero voltare inevitabilmente: poco lontano da lei c’erano un ragazzo e una ragazza, entrambi sui sedici anni, e stavano palesemente litigando.

 

“Questo è il tuo bracciale del cazzo! Riprenditelo e non farti più vedere!” urlò la ragazza, lanciandogli un oggetto non meglio identificato.

 

Beth, ci guardano tutti… Piantala!” sussurrò il ragazzo, rosso in volto e palesemente imbarazzato.

 

“Che guardino! Devono sapere che razza di verme tu sia!” ora la ragazza stava piangendo, disperata. “Tu e… Quella puttanella bionda da quattro soldi!”

 

Mariam inarcò le sopracciglia, pensando a quanto quella scena fosse familiare e a quanto capiva quella ragazza laggiù che, in quel momento pareva stesse per piangere tutte le sue lacrime.

Mentre osservava il ragazzo tentare di riavvicinarla, la ragazza schiaffeggiargli via la mano e fuggire via, lei si sentì paradossalmente un po’ meno sola.

Perché i comportamenti scorretti e sleali erano diffusi dalle alpi alle piramidi in tutto il mondo, e ora lei sapeva bene, finalmente, qual era la cosa giusta da fare.

 

 

 

 

 

Yo no estoy fuera come un balcon: ¡yo soy un balcon!*

 

Julia se lo disse mentre pigiava il tasto dell’ascensore, quello stesso povero mezzo che ne aveva viste di cotte e di crude, quel pomeriggio.

In un giorno si era ritrovata coinvolta in ben tre incontri ravvicinati del terzo tipo con Yuri Ivanov, e quella era la più assoluta normalità – niente di troppo esagerato o inopportuno come era capitato talvolta! – da quando avevano iniziato ad essere scopamici era come se non riuscissero a stare l’uno lontano dall’altra, a togliersi le mani di dosso. Bastavano un cenno, uno sguardo e… Boom! Esplosione in arrivo.

 

Ma quella volta… Quello era praticamente troppo. Giorni prima, subito dopo aver finito di fare sesso, il russo le aveva rivelato quanto sarebbe stato interessante – cioè eccitante – se lei si fosse vestita da principessa Leila, quella di Star Wars, con tanto di bikini dorato e capelli raccolti in due chignon.

Ma andare in un negozio che affittava abiti ad ore, prepararsi di tutto punto nemmeno stesse gareggiando per la più in delle sfilate, ed infine presentarsi al Plaza conciata in quel modo – le signorine della reception in quel periodo ne stavano veramente vedendo di cotte e di crude! – era veramente troppo.

 

Julia sbuffò, roteando gli occhi: rendere alla perfezione i due chignon era stato complicato, per non parlare del dannatissimo bikini che prudeva da morire, succinto e che lasciava all’immaginazione veramente poco.

 

Quando le porte dell’ascensore si aprirono, ringraziò mentalmente che non vi fosse nessuno nel corridoio, e individuò la suite della Neoborg. Bussò in maniera decisa, assumendo una posizione provocante, mettendo in mostra il decolleté.

“Vengo da una galassia molto, molto lontana.” Dichiarò nel suo inglese migliore, la voce roca.

 

“Scusa?” Probabilmente aveva parlato troppo presto, perché colui che aveva aperto la porta non era affatto Yuri, ma Boris, uno dei suoi compagni di squadra, che la stava fissando come se le fosse spuntata un’altra testa.

 

“¡Perdona!”*¹ esclamò, assumendo la stessa colorazione di un’aragosta. “Ho sbagliato stanza, sì!” balbettò, girando sui tacchi ed andando verso l’ascensore, sperando che la terra la inghiottisse o che un fulmine la centrasse in pieno proprio in quell’istante.

 

L’ascensore proprio non ne voleva sapere di arrivare, perché aveva premuto il tasto di richiamo due volte con zero risultati: probabilmente era impegnato o chissà che altro. Inveendo contro il mondo ma soprattutto contro Yuri Ivanov, Julia ripassò tutte le imprecazioni da lei conosciute in tutte le lingue da lei parlate.

 

“Ehi, Fernandez.” Roteò gli occhi nell’udire quella voce, e lo stomaco le si contrasse in una morsa piuttosto piacevole. “O dovrei chiamarti Skywalker?”

 

Le porte dell’ascensore le si spalancarono davanti, e si affrettò ad entrare, furiosa. “Fottiti.”

 

“So che avresti voluto farlo tu.” E qui avrebbe tanto voluto prenderlo a testate o comunque lapidarlo – tanto per essere gentile –  ma l’imminente chiusura del mezzo in cui era salita glielo impedì.

 

 

 

* “Io non sono fuori come un balcone. Io sono un balcone!”

*¹ “Scusami!”

 

 

 

“Per me?” il tono di voce usato era incerto, forse incredulo, due cose per lui nuove; abituato ad essere sul podio dei vincitori, non aveva mai avuto tempo per insicurezze o sbagli, e quando li commetteva li ammetteva a malapena a se stesso, preso dall’orgoglio, sua caratteristica da sempre.

Il fatto che quella ragazza lo svoltasse come un calzino spingendolo a provare emozioni che nemmeno pensava potessero essere sue, lo sconvolgeva, e nemmeno poco.

 

“Sì, per te.”

Kai la fissò: era sempre stato un tipo da poche, mirate parole ma che, se provocato, non esitava a dire la sua. Invece in quel frangente non sapeva cosa replicare: era senza parole, assolutamente sotto shock, e ce ne voleva per ridurlo in quel modo.

“E questo è tutto. Ciao.” Borbottò, alzandosi e prendendo le sue cose per poter andare via.

 

Ma nulla era terminato se non lo diceva Kai Hiwatari. “Non mi dirai che è a causa di una cotta presa a quattordici anni che ti sei messa a fare miss autonomy.”

 

Incrociò le braccia al petto con aria di sfida, sparando il naso in aria. “Si può sapere che hai contro le mie idee? E’ esagerato che una donna sia indipendente e sappia badare a se stessa? Forse in una società bigotta e maschilista come questa tutto ciò è considerato fuori dalla norma ma-”

 

“Stai tergiversando.” Incredibile come con una sola occhiata sapesse bloccarla e farla zittire, cosa che gli altri nemmeno si sognavano.

 

Hilary fece una smorfia. “Non stiamo parlando di me, stiamo parlando della cotta che da ragazzina avevo per te.” Fece seccamente. “Avevo quattordici anni, ero nell’età in cui ci si innamora dei belli ed impossibili; tu lo eri e io ti morivo dietro. Tutto questo fino a quando Takao non mi consigliò di dimenticarti perché eri tutto beyblade e nient’altro.”

 

Tacque un istante, soppesando accuratamente le parole dette dalla ragazza, dopodiché annuì con apparente indifferenza. “Aveva ragione.”

 

“Già.” 

 

“Coloro che hanno affittato la casa a Mao e Julia sono tue amiche?”

 

La vide sbattere gli occhi per il brutale cambio d’argomento. “Sì; Carrie e Phoebe sono grandiose, delle ottime amiche.”

 

“Sono una coppia, vero?” al suo sorriso, Kai annuì distrattamente. “Quel quadro è un po’ troppo vistoso e…” Con un aggrottamento di ciglia, lo invitò a continuare. “Troppo gay.”

 

Lei scoppiò a ridere per poi scuotere la testa. “E’ la prima cosa che ho detto loro quando l’hanno comprato, ma Phoebe mi ha risposto: ‘Ehi: questa è casa mia, questo è quello che siamo e questa è la prima fottuta cosa che voglio che tutti vedano quando entrano!’” lui inarcò le sopracciglia con aria divertita, e Hilary gli si avvicinò.

“Ma quando si sono trasferite Carrie ha fatto in modo di lasciarlo dove stava.”

 

“Ti sei integrata bene a New York.”

 

“Sì, anche se i primi tempi è stato difficile… Credo sia la città più caotica del mondo, e se non hai dei punti di riferimento è un casino. Io avevo Carrie, Phoebe e-” chiuse la bocca di scatto, irrigidendosi. Lì Kai capì di aver trovato il tasto dolente.

 

“Come le hai conosciute?”

 

La vide sospirare pesantemente, chiudere gli occhi e perdersi nei ricordi.

Le maschere di Hilary Tachibana stavano per cadere, almeno temporaneamente. Cadere come birilli, dettate dalla stanchezza di una persona che aveva giocato troppo tempo a fare la forte e che ora aveva solo voglia di rivelarsi.

Mandy fu la mia prima coinquilina, diventammo amiche strettissime. Mi insegnò i trucchi per uscire ed avere a che fare con la città, insieme a Carrie e Phoebe. Una sera incontrammo Jamie: mi chiese di uscire subito, e dopo tre appuntamenti eravamo una coppia.” Si arrestò e, lo sguardo lontano, prese a corrucciare le sopracciglia.

“Due mesi dopo tornai a casa in anticipo e trovai lui a montare lei sul mio letto. Fine.” La Hilary di prima tornò ad impossessarsi del suo viso, e la maschera dell’impenetrabile donna vissuta si pose sul suo volto, prendendone parte.

 

Fu una cosa incredibile il cipiglio crudele con il quale lo disse, quasi cattivo, consapevole.

Il pensiero che Hilary fosse una passionale che si nascondeva dietro un atteggiamento cinico e freddo lo sospettava da un po’, ma ora ne aveva decisamente la prova. Essere traditi in amore e in amicizia contemporaneamente doveva esser stato qualcosa di non bello da digerire,

 

“Certe persone è meglio perderle per non trovarle mai più.”

 

Si accese una sigaretta sotto il gazebo in cui si trovavano, lasciando che il fumo creasse quasi una nuvola eterea attorno alla sua figura. “Oh, non saprei.” aspirò una boccata dalla sigaretta, poi lasciò che le sue labbra si atteggiassero in un sorriso malizioso, quasi sadico. “L’ho rivisto due o tre settimane fa; è incredibile quanto voi uomini vi vantiate di essere più forti e resistenti di noi donne, e quanto, invece, basti una figa a farvi diventare nostri schiavi.”

Esibendo un sorriso soddisfatto, scrollò le spalle, buttando fuori dalle labbra il fumo appena aspirato. “Mi sono bastate due moine. Poi l’ho legato ad una stanza del Plaza.” Spiegò, annuendo. “Dici che è ancora lì?”

 

Ancora una volta si ritrovò senza parole e senza poter replicare: era evidente che dinnanzi a lui ci fosse una ragazza ferita, ma non pensava che una delusione potesse far cambiare tanto la gente. Specie se riguardava una cosa eterea e metafisica come l’amore. “Non tutti gli uomini sono come lui.”

 

Lei roteò gli occhi. “Sì, come no. Intanto più ne conosco più sembrano fatti in serie.” fece con aria annoiata, sbadigliando. “Sarà che maturate dopo…”

 

La fissò male. “Perché devi mettere anche me nel mezzo?”

 

“Sei un uomo.”

 

“Quindi sono sleale, cattivo ed infedele.”

 

Hilary sospirò pesantemente, per poi fissarlo. “Senti, a New York maschi ne ho conosciuto tanti, okay? Veramente tanti. Persone che hanno circondato me, le mie amiche, le mie colleghe, persone con cui lavoro, con cui studio, con cui collaboro… E ti assicuro – ti assicuro – che sembrano usciti da una fabbrica. Modi di fare, di agire, di pensare, di vivere… Dio, non un po’ di originalità.”

 

Takao però è originale.”

 

All’inizio non capì la frase buttata lì che all’apparenza non c’entrava nulla, poi si ritrovò ad affilare lo sguardo. “Lui fa parte di quello 0,5% che si distingue dagli altri, sì.”

 

Si ritrovò dinnanzi due ametiste pronte a fissarle in lungo e in largo. “Mi fa piacere che ce ne sia uno degno della tua stima, a questo mondo.”

 

“Non è questione di essere degni, è semplicemente che sono nel periodo della mia vita in cui non capisco gli uomini. E li rifiuto.”

 

“Allora prova con le donne: magari le capisci di più.” Sbottò, alzandosi e andandosene, non capendo perché quelle parole gli avessero dato così fastidio.

 

 

 

 

 

Alla sua collezione di sventure varie ed eventuali mancava soltanto di litigare con Hilary: era stata la ciliegina sulla torta, ci voleva come il cosiddetto cacio sui maccheroni.

Scuotendo la testa, Mao si affrettò ad andare alla fermata del bus per raggiungere al più presto l’appartamento e consolarsi a casa con qualcosa da mangiare: aveva voglia di cucinare; che fosse una torta, dei biscotti o un semplice uovo non importava. Dopo essersi allenata a beyblade nell’immenso spazio attiguo all’hotel, sfogando parzialmente la rabbia derivata dal litigio con l’amica, decise che era meglio di andare: quello era già un periodo di casini mentali, senza che lei ve ne aggiungesse già di ulteriori come aveva appena fatto.

Quando il bus che l’avrebbe lasciata a pochi isolati da casa si fermò davanti a lei, ne scese la persona che meno si aspettava di incontrare in quel periodo.

 

A proposito di casini.

 

“Ciao.” la salutò, non sapendo cos’altro fare e incrociando le braccia al petto, in imbarazzo.

 

Mathilda la fissò, dinnanzi a lei, rossa in viso e a disagio. “Ciao.” balbettò. “Dovevi prendere l’autobus, è passato…”

 

L’orientale scrollò le spalle con aria di noncuranza. “Figurati, tra due minuti ne arriva un altro.”

 

“Già.” replicò, annuendo lentamente e facendo calare un silenzio assoluto che si espanse tra di loro a macchia d’olio, arrivando ad angosciarle nel profondo: entrambe avrebbero voluto dire all’altra tante cose, ma l’una non trovava il coraggio di dire all’altra ciò che voleva, soprattutto perché non sapeva come fare né che parole usare.

 

Mao si morse le labbra, torturandosele. “Quindi oggi esci con Raùl?” si decise a chiedere, balbettando.

 

Quella scosse la testa. “No, non ci siamo messi d’accordo.”

 

“Ah.” Bell’argomento che hai scelto, Mao! “Uscirete sicuramente: lui è così timido-”

 

“Con te non lo è.” sbottò lei, inarcando le sopracciglia e fronteggiandola. Non l’aveva detto con aria di sfida, era semplicemente sincera, e l’aveva detto nel tono di chi mira a carpire un’informazione.

 

“No, ma perché siamo amici…” provò a spiegare, ma la motivazione sembrò debole alle sue stesse orecchie.

 

Mathilda storse il naso. “Anche noi siamo amici. Non siamo altro.”

 

“No!” alla sua esclamazione fatta con veemenza, si volsero un paio di passanti, e Mao prese a ridacchiare, dandosi della maldestra. “Ascolta: lui è molto timido, ed è anche goffo, okay? Mi risulta che all’inizio delle vostre uscite vi siate detti delle determinate cose. Ci sei?” quando la vide arrossire, capì di aver fatto centro. “Beh, tienile a mente queste cose, e capisci che lui di tanto in tanto ha bisogno di una spintarella.”

 

Vide i lineamenti dell’europea distendersi ma l’atteggiamento di lei rimanere sulle sue. “Okay. Grazie, suppongo.”

 

Mao scrollò le spalle, in imbarazzo. “Ma ti pare.”

 

Il silenzio tornò ad aleggiare tra loro, fino a quando Mathilda, vedendo l’autobus dell’altra star per arrivare, non la fissò un’altra volta. “Puoi andare dove ti pare e piace, vedere chiunque, ma il cuore e la mente saranno sempre le tue, e i problemi te li porti con te, non puoi cambiarli.”

 

Non capendo cosa volesse dire così all’improvviso, inarcò le sopracciglia. “Scusa?”

 

L’europea sospirò, allargando le braccia. “L'amore è una tragedia, siamo tutti attori su un palco instabile e spettatori su scomodi posti; è come un coltello senza manico e con cui non possiamo smettere di tagliarci, quindi siamo tutti masochisti.” spiegò, scrollando le braccia. “Siamo tutti sulla stessa barca, so cosa stai passando. E solo perché so che tu sei innamorata di Rei e che cosa avete combinato tu e Raùl mi spinge a non detestarti.”

 

 

 

 

 

Creo qué tu debba andare.” riuscì a dire tra una boccata d’aria e l’altra, ansimando a più riprese per cercare di tornare a respirare perlomeno normalmente, cosa non facile dopo quello che le aveva appena fatto.

 

“Rilassati Fernandéz: è così che si tratta un ospite?” Julia gli lanciò un’occhiataccia che venne ricambiata da un sogghigno glaciale.

 

Mai si sarebbe aspettata di ritrovarselo davanti il suo appartamento con tanto di bottiglia di vodka e bicchieri. ‘Non potevo certo farmi sfuggire così la principessa Leila’ aveva commentato, ed era bastata quella frase per farli dimenticare persino della bottiglia: si erano dati alla pazza gioia, dimentichi di ogni cosa attorno a loro come sempre: in quell’istante, però, la spagnola si rese conto dell’orario, e che le sue amiche sarebbero state di ritorno a minuti.

 

Lo fissò, facendo viaggiare lo sguardo dai suoi capelli rossi agli occhi color ghiaccio alla pelle lattea ricoperta di efelidi. Stoppò i suoi pensieri prima che se ne aggiungessero altri, molto più gravi e pericolosi, e si morse le labbra. “Le mie amiche saranno di ritorno tra poco.” balbettò, cercando le parole giuste. “Devi andare.” categorica, si alzò dal letto, iniziando a vestirsi. Si sciolse i capelli, arrotolati a due chignon di massa ormai informe e scompigliata, e quando le ricaddero sulla schiena, li pettinò cercando di ignorare e fermare tutti i pensieri che potevano accavallarsi in quel frangente nella sua testa.

 

“Ménage à trois.”

Si voltò talmente di scatto quando lo udì da rischiare il colpo della strega; quando ebbe appurato di aver sentito bene, si sforzò di restare calma e di ostentare il suo atteggiamento di sempre.

 

Caliente.” commentò. “Ci sto.”

 

Lui sorrise, soddisfatto. “Dobbiamo pensare alla terza persona, allora.”

 

“Oh, la troviamo… Facilmente.” fece, cercando la parola e anche il discorso per provocarlo. “Nella tua squadra ci sono tanti bei ragazzi: scegline uno che ti vada bene.” disse, con aria di noncuranza.

 

Lo vide sgranare gli occhi e divenire bordeaux: solo allora poté sogghignare, soddisfatta. “Io intendevo un ménage con un’altra ragazza!” sbottò. “Io non…!” Julia scoppiò a ridere, facendolo incavolare ancora di più. “E’ fuori discussione che io mi accoppi con gli uomini!”

 

La spagnola incrociò minacciosamente le braccia al petto. “Il pensiero di me a… Strusciarmi contro un’altra chica invece va bene, eh?”

 

“E’ eccitante, sì.” ribatté lui, con un sorrisetto.

 

Julia posò la spazzola che aveva in mano con un gesto secco, dopodiché lo fissò, infuriata. “E invece non ne ho alcuna intenzione.”

 

Lui la fissò, annoiato. “Perché devi sempre alzare la voce, Fernandéz? I menage a trois sono composti da un uomo e due donne, lo sanno tutti...”

 

“¡Por un tubo!” esclamò, inviperita. Es verdad qué tu-”* quando si vide fissare in maniera ironica e strafottente, dovette richiamare a sé tutto il suo autocontrollo – poco, in effetti – per non dare definitivamente di matto. “La verità è che vuoi decidere siempre todo tu, e se a me non va bene-”

 

“…Però poi ti va bene lo stesso; non so se mi spiego.”

 

Forse fu il tono sardonico con cui lo disse, o forse quelle labbra atteggiate a ghigno: fatto sta che Julia esplose e che, prima che se ne potesse rendere contro, Yuri Ivanov si ritrovò fuori dall’appartamento vestito delle sole mutande.

 

“Che cazzo significa Vete a tomar por el culo?!”

 

 

 

*. “Col cavolo!”... “La verità è che tu-”

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ultima frase in spagnolo è abbastanza complessa, e magari si potrebbe indicare con un ‘va a farti fottere’ ma in realtà Julia gli sta augurando di fare il passivo durante un rapporto anale. Ahahahahah! xDDD Adoro la nostra spagnolita focosa.

Ma la nostra madrilena si ritroverà intricata in qualcosa di più tosto e assurdo di lei, come ben vedremo nel prossimo capitolo “Split personality”.

 

Nei prossimi capitoli – a partire da questo – ci saranno riferimenti a cose o persone (Lexy90, sto guardando te!) soprattutto in chiave ironica, quindi non prendete le cose sul serio! U.U

 

Malgrado da un po’ latitate, vi adoro lo stesso anche perché il numero delle letture non è calato, ma qualcuno si è perso per strada. T.T  Che pigroni!

 

Ma vi abbraccio lo stesso salutandovi. Un bacione schioccoso,

 

Hiromi

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Capitolo 11
*** Split Personality ***


Overboard

 

 

 

 

 

Do not trust, so I cannot love
(can't no man be trusted)
And I would not dare to open up
Tell me what do they see when they look at me
Do they see my many personalities

 

Split Personality – Pink

 

*******************

 

 Se vi era una cosa che detestava, era aspettare. Se si parlava di aspettare qualcuno che ritardava apposta, allora la cosa la mandava in bestia.

 

Voleva bene a suo fratello, gliene aveva sempre voluto, ma quando accadevano cose del genere lo avrebbe volentieri preso a calci. Non esisteva che le desse appuntamento perché ‘doveva assolutamente parlarle’ e dopo venti minuti lei era ancora lì ad aspettare i suoi comodi. Aveva sempre sostenuto che il ritardo fosse una cafonata ogni oltre misura. Che diavolo ci voleva ad organizzarsi e arrivare per tempo?

 

“Dalla tua faccia suppongo tu stia pensando a quaranta modi diversi per farmi fuori.”

 

“Cento, in realtà.”

 

Il ragazzo ghignò, portandosi davanti a lei in modo che lo vedesse bene. “Rilassati Mary. Da vecchia ti verranno le rughe, lo sai?”

 

“Non chiamarmi così, Jesse.” Borbottò, incupendosi.

 

Lui fece un sorrisone. “Oh, è vero, devo chiamarti Mari, pardon.” Al viso rigido di lei mise le mani avanti, capendo di aver esagerato. “Era una battuta, relax.”

 

La mora sospirò lentamente, ricordandosi di quanto, una volta cresciuto, il fratello avesse mostrato un carattere spigliato e scanzonato, tutto il contrario di quand’era piccolo. “Allora, cosa c’è di così urgente?”

 

“Il tuo compleanno.”

 

Per poco Mariam non cadde all’indietro; fissò il fratello sbuffando, seccata. “Che è tra un sacco di tempo?”

 

“Solo due settimane, in realtà.” Si difese quello. “E poi non sei sempre tu a dire che bisogna organizzarsi per tempo? Noi della squadra volevamo farti un regalo-”

 

“Niente regali, odio il mio compleanno.”

 

“Odi anche un biglietto della prima dell’Olandese Volante al Metropolitan Opera?” vedendo la faccia di lei cambiare, sogghignò. “E’ un peccato, sai? L’opera di Wagner che desideravi tanto vedere… Rappresentato nel teatro più grande del mondo…” cinguettò prendendola in giro.

 

Mariam arrossì, incrociando le braccia. “Ho capito, ho capito.” Borbottò. “Beh… Grazie.” Sussurrò, facendo una smorfia.

 

“Ovviamente ne abbiamo presi due. Sai che detesto l’opera, ma dato che ultimamente per parlare un po’ con te uno deve fingere la catastrofe…”

 

A quelle parole un senso di colpa ogni oltre misura le artigliò le viscere, facendola arrossire: sapeva che, dato il periodo particolare che stava passando, aveva allontanato tutti eccetto le sue amiche, e sapeva anche quanto probabilmente tutto quello stesse spaesando il fratello, abituato ad averla sempre accanto. “I-Io… Sono contenta che tu venga.”

 

Capendo quanto quelle parole suonassero da scuse, Jesse decise di non pungolarla ulteriormente. “Beh, allora sono contento che ti piaccia il regalo. Se non fosse stato per Max non avremmo saputo che diavolo regalarti.”

Un nome, solo un nome che bastò a farla irrigidire ogni oltre misura. Non disse niente, ma i suoi lineamenti contratti parlavano per lei.

“Devi parlargli, lo sai.”

 

Inarcò freddamente un sopracciglio, mostrandosi sostenuta e rigida. “Credevo lo odiassi.”

 

Il ragazzo scrollò le spalle con noncuranza, assumendo un’aria pensosa. “Penso solo che la mia sorellona sia troppo bella per lui.” Al suo viso scettico scoppiò a ridere. “Ehi, è vero! E poi, se lo vuoi sapere, una chiacchierata tra uomini è stato quello che ci è voluto per capire tutto.”

 

“Buon per te. Io adesso vado, ricordati la clava, uomo.”

 

Sbuffò sonoramente, facendosi lanciare un’occhiataccia dalla sorella. “Ti dico solo di ascoltarlo. Poi potrai mandarlo a quel paese, ucciderlo, fare quello che vuoi. Ma sfuggire ogni volta non è la soluzione.”

 

“Perché dovrei farlo?” sibilò, gli occhi ridotti a due fessure.

 

“Perché vi amate ancora e non è finita tra voi. Nonostante i tuoi dubbi e il tuo astio, lo sai pure tu.”

 

 

 

 

 

Tra i suoi numerosi hobbies c’era senza dubbio il farsi bella: adorava truccarsi, specchiarsi, esaminarsi allo specchio e notare quello che non andava per poi essere più sensuale.

Vedere la sua immagine riflessa allo specchio, rifinirsi le sopracciglia, passare il fondotinta e disegnare il contorno delle sue labbra piene con un gloss era un must. Ombretto, eyeliner, mascara… Tutto quello che ci voleva.

 

Nella vita le era capitato di tutto; vivendo in una famiglia dalle tradizioni circensi non aveva pregiudizi ed era stata abituata a vedere il mondo nella sua totalità. Da quando poi aveva iniziato a fare la blader insieme a suo fratello, i suoi orizzonti si erano allargati ancor di più, facendole conoscere nazioni, gente, tradizioni, modi di vivere.

Ma non avrebbe mai immaginato che si sarebbe ridotta ad arricciarsi l’intera massa di capelli per una stupida litigata su un menage a trois.

 

 

Quando realizzò l’ultimo boccolo staccò la presa dell’arricciacapelli, mettendolo a raffreddare e stando attenta a porlo in un punto strategico in cui Freddie non potesse arrivare, dopodiché prese ad osservarsi: aveva sempre avuto bei capelli ramati come suo fratello; certo, erano spesso stati bistrattati, tinti ed acconciati nelle maniere più improbabili, ma avevano resistito.

Era passata dal periodo rosa a quello blu – come Picasso! – al periodo verde, fino a quando non se li era tinti metà biondi e metà castani (“Una vera porcata!” aveva commentato Hilary a suo tempo) poi aveva conosciuto Javier, e le aveva detto che stava bene esattamente com’era: capelli rosso mogano ed efelidi sulle gote.

 

Per non parlare di qualcuno che, in quanto a capelli era proprio infuocato, peccato non si potesse dire lo stesso del suo carattere.

 

Si voltò con la lacca a mezz’aria quando sentì dei passi sul pianerottolo e un rumore di chiavi. Freddie alzò il musetto di scatto e corse verso tutt’altra direzione, abbaiando; lei mollò lì l’occorrente sapendo bene chi fosse visto che il cucciolo faceva così, e quando aprì la porta facendo capolino con la testa, mettere le mani sui fianchi le venne spontaneo.

“¡Hola chica!”

 

La giapponese si voltò verso di lei, ma non appena il cucciolo le zompettò addosso, reclamando la sua dose di attenzioni, non poté far altro che sorridere. “Mao è dentro, per caso?”

 

La domanda la stranì. “¿Porqué?”

 

La castana sorrise per tutta risposta, passandosi una mano tra i capelli con gesto stanco. “Vieni tu da me, così posso fumare una sigaretta.” Rispose, conducendo Freddie dentro. Julia inarcò le sopracciglia, decidendo di rimandare di qualche secondo le domande, e di entrare un istante nel suo appartamento giusto il tempo per prendere la copia delle sue chiavi.

“Ti stanno bene i capelli così arricciati.” Quando entrò nell’altro appartamento, Hilary aveva già aperto le finestre, preso posacenere e sigaretta.

 

Creo qué la cosa qué-” si morse le labbra, sforzandosi di pensare correttamente a dei sinonimi nella lingua inglese. “Credo che il tuo slogan sugli uomini non sia falso.” Disse qualche secondo dopo, sedendosi accanto a lei sul divanetto.

 

Hilary si accese una sigaretta, fissando l’amica con sguardo curioso. “Intendi il mio dire sempre che i maschi sono idioti?”

 

“Sì. Tu tienes… Hai ragione.” Si corresse.

 

La giapponese accavallò le gambe. “Cambiando argomento un attimo, come mai tutto questo inglese? Se ti è complicato parliamo direttamente spagnolo, non ci sono problemi, lo sai.”

 

Julia scosse energicamente la testa. “No, no. Parlo troppo en esp-” si morse la lingua. “…In spagnolo. Sono io qué devo imparare el ingles, e non le persone a dover imparare la mia lingua.”

 

Hilary annuì, assolutamente sorpresa, chiedendosi che cosa e soprattutto chi ci fosse dietro il cambiamento della sua amica, ma pensò che comunque si sarebbe scoperto. “Senti, non è che Mao ti ha mandato un sms o qualcosa del genere?”

 

L’altra aggrottò le sopracciglia. “No, nada. Qual é il problema?”

 

“Guarda lascia perdere: ho litigato con lei e con Kai. È stata una giornata di merda.”

 

La madrilena si accigliò. “Come fate ad aver litigato, tu e Mao? Da quando uscite con quei due fighi non siete più unite?”

 

Mentre pensava, Hilary fissò lo sguardo su Freddie che si era addormentato sulla poltrona e Julia ne approfittò per alzarsi e prendere qualcosa da bere nel frigo. “Credo di avere esagerato io. La provocavo sul fatto che Kurt non è la soluzione ideale per dimenticare Rei.”

 

“Le hai detto questo? ¡Estas loca, chica! Magari non è l’amore della sua vita, ma è sicuramente un punto di partenza!”

 

La bruna sorseggiò l’aperitivo e quando rivide nella sua testa la cinese e il suo nuovo flirt non poté impedirsi una smorfia. “E’ così cretino…”

 

“Mica se lo deve sposare!”

 

“Okay, ho torto, va bene?” sbottò, allargando le braccia. “Vedrò di quanto prima.” Commentò, con una smorfia. “Ma non mi piace che mi abbia detto che non va come vivo: io sono fiera di aver fatto tutto questo sesso prima di morire!” Julia scoppiò a ridere, schiacciandole il cinque.

 

“Oggi me sono vista con quel chico.” Cambiò discorso, scrollando le spalle. “Ma abbiamo litigato e creo qué non lo vedrò più.”

 

“Ecco perché sei riccia.” Aggrottò le sopracciglia, pensando subito al misterioso ragazzo di cui l’amica aveva preso a parlare da un discreto periodo a quella parte senza mai rivelarne l’identità.

 

Julia roteò gli occhi. “Menage a trois! Con un’altra donna!” la giapponese rise. Che stronzo: un’altra chica , ma un altro chico no. Gli ho sbraitato ‘vete a tomar por el culo’ e l’ho buttato fuori di casa.”

 

Hilary sgranò gli occhi. “Gli hai augurato di fare il passivo durante un rapporto anale?” quando l’amica annuì, evidentemente fiera di se stessa, lei scoppiò a ridere, ed in breve risero entrambe dimenticandosi per un attimo dei loro problemi.

“Almeno non ti hanno augurato di diventare lesbica.” Alla faccia sorpresa dell’altra, annuì. “Kai mi ha detto che se non mi vanno bene gli uomini posso sempre provare con le donne.”

 

Julia spalancò occhi e bocca, quasi sdegnata. “¡Hijo de...!” si bloccò mangiandosi l’insulto, fulminata da un’idea. Osservò la sua amica come se la vedesse la prima volta, dopodiché le rivolse uno sguardo malizioso. “Che ne diresti di prenderlo alla lettera?”

 

 

 

 

 

Quando si era presentato all’appuntamento, non aveva detto molte parole. Le aveva sorriso, dato l’altro casco della sua Harley Davison e detto – a mo’ di promessa – di prepararsi per una serata che non avrebbe dimenticato.

 

In quel momento, dopo l’hot dog condiviso, le risate e gli scherzi – incredibile come uno all’apparenza così dark si fosse poi rivelato una delle persone più logorroiche che avesse mai conosciuto – stavano andando in questo famigerato posto che lui voleva farle vedere.

 

 

Oltre le vetrine, oltre i negozi di ogni genere e tipo, le ville, il lusso che caratterizzava quel quartiere di Manhattan di cui tante volte aveva tanto sentito parlare, vi erano, nascoste in vicoli bui tutto un giro che lei non avrebbe mai immaginato.

Una trentina di persone di ogni altezza e razza stavano interagendo tra loro, chi annoiato, chi con una discussione, chi con un sorriso ironico sulle labbra.

 

Mao si mosse verso Kurt chiedendo spiegazioni, e di colpo non lo vide più.

Fissò spaurita tutte quella gente: non era mai stata in un ambiente tale. Non capiva perché l’avesse portata lì-

 

“Ehi.” Una ragazza di colore la stava fissando con una smorfia. “Kurt ha detto che devo prendermi cura di te.” Fece, indicando con un cenno del capo il ragazzo, che in pochi secondi si era recato parecchi metri più in là. “Io sono Brianna.”

 

Mao aggrottò le sopracciglia. “Cosa..? Ma io e lui avevamo un appuntamento.” sbottò, non capendo se quello fosse il suo modo di scaricarla. “Perché mai dovresti prenderti cura di me?”

 

La ragazza di colore la fissò divertita, ponendo le braccia conserte. “Kurt non delega mai le sue faccende agli altri.” con un cenno le fece capire di seguirla. “Ho capito perché ti ha portata qui.”

 

“Io no.” Mao si ritrovò in mezzo ad un’altra decina di ragazze; bianche, nere o orientali che fossero, avevano tutte la stessa mise: una tuta da ginnastica.

 

“E’ una dolcezza, ma non si fa mettere i piedi in testa, la tipa.” Brianna la indicò, divertita, alle altre. “Ecco perché è arrivata al terzo appuntamento con Kurt.”

 

Una ragazza rossa con le efelidi sul viso si guardò intorno. “Sono andati, eh?”

 

Mao aggrottò la fronte. “Dove? A far cosa?”

 

Tutte la fissarono quasi con dolcezza, come fosse una bimba, e dopo secondi infiniti di assoluto silenzio fu Brianna a risponderle. “Kurt aveva un conto in sospeso con un tipo; sono andati a pareggiarlo. Se non lo pareggiano se lo contenderanno qui.”

 

L’orientale sgranò gli occhi. “A suon di botte?”

 

Una mora con gli occhi azzurri sorrise. “A suon di musica.”

 

 

 

 

 

L’assenza di Mao si notava ampiamente quella sera; come ogni Giovedì, ci si preparava al weekend, e il locale cominciava ad essere gremito non come nei tre giorni fatidici, ma quasi. Per ovviare all’assenza della cinese, le tre cameriere dovettero lavorare meglio e in maniera più efficiente del solito, e lei stessa decise che si sarebbe rimboccata le maniche, smistando cocktail e shakerando liquori alla velocità della luce.

 

Quella sera stranamente non c’era nessuno che conoscesse – in termini di clienti – ed era una cosa abbastanza insolita, visto che ogni volta Hilary e le altre venivano per prendere almeno una birra e per farle compagnia.

 

“Ciao.”

Alzò lo sguardo e fece un cenno di saluto alla chitarrista delle Cloth Dolls, che conosceva poco. Trisha era la ragazza alta e magra, con i capelli corti neri tenuti su dal gel; si faceva notare per quella cinquina di orecchini ad orecchio e due piercing visibili: al mento e al sopracciglio destro.

 

Finì di preparare dei cocktail che pose su due vassoi diversi e quando arrivò Mitzy con altre tre ordinazioni, se le mise tutte davanti, per organizzarsi. “Cosa desideri?” chiese alla ragazza, cercando di fare mente locale e di vedere che liquori avrebbe dovuto usare.

 

“Un lemon soda e un margarita.” Mariam annuì, segnandoseli mentalmente. “Oh, non mettermeli nei bicchieri di vetro, li porto fuori.” Quando glieli porse, la ragazza la ringraziò con un occhiolino e andò disperdendosi nella folla.

 

La serata procedette bene ed in fretta: le due di notte arrivarono immediatamente e, come ogni giorno feriale, il locale si svuotò, fatta eccezione per tre o quattro tavoli; il ritmo comunque a quell’ora era solitamente molto più calmo e rilassato.

“Ehi Mari, grande serata.” Le ammiccò una sua collega. “Hai lavorato come una matta.” Lei non replicò, ma sorrise; era vero, aveva lavorato in maniera quasi stacanovista ed esagerata, ma alla fine tutte insieme, come una squadra, ce l’avevano fatta ad ovviare all’assenza di Mao.

 

Lavò i bicchieri sentendo l’incessante e tranquillizzante scroscio dell’acqua riversarlesi sulle mani; passò la spugna sul bordo dei bicchieri in maniera precisa e lineare, fermandosi soltanto quando avvertì un profumo che conosceva bene arrivarle alle narici.

 

Fresie…

 

Alzò lo sguardo e si sentì improvvisamente immessa in un vortice di sensazioni: in un tunnel in cui amore, astio, rancore, speranza e mancanza si mescolavano tra loro fino a divenire parte integrante di un unico sentimento, Mariam si perse quando incrociò due occhi inconfondibili. E deglutì a vuoto non appena si accorse che i fiori erano azzurri.

 

 

“Non ci capisco niente.”

 

La ragazza alzò gli occhi al cielo. “Chissà come mai, l’avevo capito.” Replicò, passeggiando per il negozio di fiori, interessata in particolare ad un vaso di ortensie azzurre che annusò, estasiata.

 

Il biondo assunse un’espressione comicissima. “Io credevo che alle ragazze piacessero le rose rosse e che quando tu gliele regalassi loro le avrebbero lasciate marcire. Non è questo il destino dei fiori?”

 

Si voltò a fulminarlo con lo sguardo. “Se le trascuri, certo che sì.” Il tono di voce le si fece piccato. “Hanno bisogno di cura, attenzione, di essere messi al posto giusto, di tanta acqua quanto basta… Sono esseri viventi!” all’espressione divertita di lui si spazientì. “Che c’è?”

 

“Sei carina quanto ti innervosisci.”

 

Quel commento seppe farla arrossire come solo lui ne aveva il potere. “Ma smettila.”

 

Parve divertito di questa sua improvvisa timidezza, perché all’improvviso le si avvicinò, prendendo a giocherellare con una ciocca di suoi capelli e facendola irrigidire e divenire paonazza. “Quali sono i tuoi fiori preferiti?”

 

“Le fresie.” Rispose subito lei, veleggiando verso un vasetto poco lontano e mostrandogliele. “Ma impazzisco anche per le ortensie blu. ”

 

Lui parve deluso. “Niente rose?”

 

Mariam inarcò le sopracciglia. “Sono così scontate..!” fu a questo commento che lui scoppiò a ridere.

 

 

E, esattamente un anno dopo, eccolo lì: un fascio di fresie blu in una mano, il suo cuore nell’altra, e quel sorriso, il suo dannatissimo sorriso per il quale avrebbe fatto follie.

Preferì mettere via le cose frangibili ed asciugarsi le mani, onde evitare qualche incidente.

 

“Ciao.” La salutò con un tono di voce fermo e sicuro, che stupì la diretta interessata. “Stavolta mi sono presentato in un orario decente. Potresti assentarti qualche minuto?”

 

Il discorso del fratello aveva senza dubbio contribuito a farla riflettere un bel po’, ed era curiosa di conoscere la sua campana, quella versione che aveva acquietato persino la rabbia che Jesse aveva nei suoi confronti.

Sospirò, voltandosi verso un ragazzo che stava passando il panno sul bancone. “Se mi cercate sono fuori un attimo.” Non era da lei dire cose del genere, e la frase lasciò il collega di lavoro perplesso e basito, tanto che non poté che annuire.

 

 

Fuori dal locale c’era un po’ di freschino; l’irlandese prese la sua giacca e approfittò del fatto di essere all’aperto per accendersi una sigaretta, incurante del suo sguardo di disapprovazione. “Volevi parlare, parla.” Fece, piatta. “Ma io ho poco tempo.”

 

Max non poté che sospirare a lungo e profondamente. “Mi merito tutto questo, e so bene che fino a quando tu non deciderai che basterà me la farai pagare ancora. Ma è arrivato il tempo di chiarire. Non sopporto più di avere la parte del traditore. Se mi si deve accusare di qualcosa, almeno che sia di qualcosa di vero.”

 

Mariam strinse la sigaretta tra le due dita, serrando le labbra. “Il bello è che neghi tutto anche dopo che ti ho visto baciare quella-”

 

“Alt.” Trovandosi le dita di lui sulle labbra, non poté che tacere. Erano mesi che non si trovavano ad una distanza così ravvicinata. Il suo profumo inconfondibile le dava alla testa e le faceva venire voglia di gettargli le braccia al collo e baciarlo.

Ma si costrinse a dominarsi, fissando un punto oltre a lui e ritrovando il senno e la sua fredda logica, dopodiché Max le prese le mani, facendole afferrare il mazzo di fiori.

“E’ lei che ha baciato me, non il contrario, e questo te l’ho ripetuto un sacco di volte.”

 

“Certo, così come le altre si ritrovavano per caso abbracciate a te!”

 

Lui sorrise. “Devo partire dall’inizio, non me ne volere, ma è necessario.” Lì lo sguardo di lei si fece attento. “Io sono il più grande idiota del mondo. E questa è soltanto una premessa; ricordatela, perché ti servirà.” Gli occhi verdi di lei si strinsero come a dire di non aver capito nulla, ma lui sospirò, scrollando le spalle.

“Quando ci siamo incontrati, l’anno scorso, non avrei mai creduto che avremmo mai potuto fare coppia fissa. Tu sei così bella, siamo così diversi… Due mondi a parte.”

 

La sua frase le fece abbassare lo sguardo. “Già.”

 

“I primi mesi furono bellissimi, vero? Ma poi sopraggiunse la mia idiozia. A giocare con il fuoco si resta scottati, e io… Diciamo che ci ho giocato troppo.”

 

Si ritrovò a stringere gli occhi, fissandolo senza perdersi la minima sillaba. “Spiegati.”

 

“Le fans con me si sono sempre mostrate gentili, ma io non ci avevo mai dato peso… Insomma, sono tutte uguali! Non appena insieme notai che la cosa ti infastidiva e, credimi, vedere una come te gelosa di me è… Impensabile! Quindi iniziai a provocarti un po’; all’inizio era per ridere, per sentire il tuo brontolio dedicato a me. Peccato che non abbia tenuto presente la cosiddetta frase: il gioco è bello quando dura poco.”

 

Anche se con la testa per aria, si sforzò di restare lucida fino all’ultimo. “E la bionda?”

 

Lui fece una smorfia. “Ma chi, quella che hai visto prima di andartene? Una cretina che non riuscivo a staccarmi di dosso. Voleva foto, autografo e di testa sua ci aveva messo anche un bacio. E sei arrivata tu in quel preciso istante…”

 

Sembrava troppo assurdo per essere vero. Una cosa assolutamente idiota ma al contempo assolutamente da Max. Doveva credergli?

Lo fissò negli occhi, perdendosi in quel mare ceruleo e restando senza fiato: le sue iridi erano trasparenti, pulite, genuine, e le stava sorridendo fiducioso, come aveva sempre fatto.

 

“Tutto questo potrà anche essere vero, ma questi mesi hanno minato la fiducia e i sentimenti che avevo per te.”

 

“Li ricostruiremo.” Il suo tono era sicuro, sincero, incoraggiante. “Sarà difficile, ma non impossibile. Tutto dipende da se lo vuoi.”

 

La ragazza serrò le labbra. “Sono confusa.” Scosse la testa e la sola cosa che le parve sensato fare fu girare sui tacchi ed entrare nuovamente nel locale.

Portandosi le fresie, però.

 

 

 

 

 

“Dimmi che non l’ho fatto veramente.”

Stretta al suo accompagnatore, si sentì la testa sulle nuvole e un’adrenalina in corpo che fino a quell’istante aveva provato quando combatteva a beyblade o quando era stata con Raùl.

 

Lui inchiodò con il motore, posteggiando e rivolgendole un sorriso. “Se vuoi non te lo dico, ma… L’hai fatto.” Vedendo come la ragazza si prese la testa tra le mani e sorrise non poté fare a meno di slacciarle il casco per darle un piccolo bacio a fior di labbra. “Andiamo, Bunny Lee.”

 

Mao si riscosse, capendo che l’aveva apostrofata come la prima b-girl degli Stati Uniti. Non avrebbe mai pensato che vedendo gli altri ballare quella danza bellissima che a tratti metteva soggezione, Brianna l’avrebbe presa per mano e le avrebbe insegnato qualche passo.

Complice la sua agilità e anche la sua memoria, si era ritrovata senza nemmeno rendersene conto ad avere gli occhi di tutti puntati addosso, e presto Kurt si era unito a lei. Avevano ballato fino a quando non era finita la musica, poi tutti erano scoppiati in applausi, e lei si era sentita il cuore esplodere dall’adrenalina.

 

Più tardi lui le aveva spiegato che quello che avevano ballato era puro hip hop e che lui e i suoi compagni erano dei breakers; qualcosa di più complicato dacché la breakdance comprendeva anche lo stile hip-hop ma ne denotava altri.

 

Con la testa piena di informazioni, Mao non pensò nemmeno a chiedergli dove la stesse portando. Quando arrivarono davanti una porta lui le strizzò l’occhiolino e la affidò ad un ragazzo di media altezza con la cresta rossa.

Dall’interno di quel locale vi era un chiasso non indifferente: che diavolo stava accadendo?

 

 

 

 

 

Hilary scosse la testa, decisa, prendendo la penna e modificando la correzione di Julia. “Se aggiungi questa frase poi non ci sta nella nota e salta tutto.” Spiegò, accavallando le gambe. “Kas, puoi darmi la base un’altra volta?”

 

La bionda annuì e, con il suo fedele piano attaccò a suonare le note della nuova canzone; la giapponese prese a cantare e Julia osservò meticolosamente il tutto, quasi dovesse carpire segreti oscuri e mai detti.

“Uno stacco strumentale ci vuole. Por el gran pezzo.”

 

Hilary annuì. “Ma ci sarà comunque. La base ce l’abbiamo, dobbiamo solo lavorare sulla prima strofa che non mi convince granché.” Si rivolse a Kassie, che le ascoltava in silenzio. “Hai mandato un sms a Trisha? Ci serve lei per ultimare questa in poco tempo. Quella ragazza è un juke-box quando si tratta di comporre canzoni.”

 

Kassie annuì. “Gliel’ho inviato mezz’ora fa, e ha risposto che stava arrivando; stasera era uscita chissà dove.”

 

La giapponese sospirò. “Allora mi sorbirò una filippica su quanto io sia stronza e assolutamente priva di buon senso nel chiamarla quando non avevamo le prove. Ma me lo merito.”

 

La saracinesca del garage si alzò di scatto, facendo sobbalzare le ragazze, e una figuretta esile entrò, spavalda e sicura di sé. “Te lo meriti sì, brutta stacanovista di merda.”

 

“Grazie Trish, anch’io ti amo.” Ribatté pigramente la bruna.

“Qui c’è il testo, l’arrangiamento è completo, le parole pure, tranne quelle della prima-” s’interruppe sentendo in strada una suoneria di un cellulare talmente particolare da essere unica. Aggrottò le sopracciglia, alzando la saracinesca verso l’alto e cacciò un’esclamazione di sorpresa quando si vide davanti il suo migliore amico.

“Ma tu che ci fai qui?” esclamò, abbracciandolo.

 

Takao ricambiò il sorriso e scrollò le spalle. “Ma niente, sono uscito un po’ per prendere una boccata d’aria, sono passato da casa tua ma non c’era nessuno, e quindi sono venuto a vedere se fossi in tempo di prove.”

 

Quando rientrarono nel garage, trovarono le ragazze alle prese con delle birre ghiacciate mentre Kassie stava sussurrando alla nuova arrivata qualcosa circa la canzone e i piani della batterista e della cantante.

“Io e Julia abbiamo in mente un qualcosa di esplosivo per l’esibizione di domani.” Spiegò Hilary. “Abbiamo una canzone nuova, ma dobbiamo perfezionarla.”

 

“A proposito dell’esibizione di domani.” Il tono di Trisha era polemico. “Tu e tu.” fece, indicando Hilary e Julia. “Vi siete fumate il cervello.”

 

“Sei contraria?” la domanda di Kassie le fece fare un sospiro.

 

“No, ma non abbiamo bisogno di queste stronzate per attirare il pubblico.”

 

La bruna incrociò le braccia al petto. “Infatti non è per il pubblico.”

 

Takao aggrottò la fronte, reclamando la sua parte di attenzioni. “Non ci sto capendo niente.”

 

Hilary lo fissò, dopodiché si rivolse alle amiche. “Avete bisogno di me o posso assentarmi una mezz’ora?” quando Julia le fece un cenno come a voler scacciare una mosca, lei rise ed uscì dal garage accompagnata da Takao, che la fissava, curioso.

Raccontargli ogni cosa avvenuta in quel periodo fu naturale, così come lo fu farsi abbracciare da lui e sentirsi improvvisamente a casa. Lui era unico, era speciale, e insieme potevano averne passate di tutti i colori, o lei poteva essere brava a scuola e perfezionista quanto voleva… Era in quel frangente che si sentiva piccolina e fragile.

 

“Sarà interessante.” Commentò infine Takao, sorridendole. “E anche strano, se vuoi.”

 

“Beh, tu ci sarai.”

 

Lui annuì come fosse ovvio. “Sempre.”

 

Hilary gli sorrise, appoggiando poi la testa sulla sua spalla e sentendosi per un attimo in pace con se stessa e il mondo. “Non è strano il fatto che sappiamo tutto l’uno dell’altra? Ci siamo visti crescere, siamo insieme dall’asilo e siamo ancora qui.”

 

Non poté vedere la sua espressione, ma poté sentire un breve sospiro. “Perché è questa la differenza tra buoni e migliori amici. I buoni amici conoscono le tue storie migliori; i migliori amici le hanno vissute con te.” Qui la ragazza si alzò sulle punte per scoccargli un bacio sulla guancia; in quel momento sì che si sentiva più leggera.

 

 

 

 

 

Scese dalla Harley Davidson che erano le sei del mattino; si sentiva stanca, spossata, ma ancora con una grande energia dentro. Se pensava a tutto quello che aveva fatto quella notte, le veniva da ridere, eppure era vero. Nella sua vita non si sarebbe mai immaginata di partecipare in prima persona ad un ballo hip-hop, o di andare ad un concerto heavy metal senza che le orecchie le saltassero, eppure ce l’aveva fatta.

 

“Sono arrivata.” Sussurrò, fissando il ragazzo ed alzando la visiera del casco.

 

“Lo so.” Spense il motore e mise il cavalletto per dare stabilità al mezzo, dopodiché scavalcò il sellino per scendere. “Occhio che la prossima volta ti faccio fare bungee jumping.”

 

Mao scoppiò a ridere e mise le mani sui fianchi, fissandolo divertita per poi scuotere la testa. “I miei poveri nervi.”

 

“Coraggio nonnina, la tua pressione andrà benissimo.” Mentre lui le toglieva il casco, sentì le sue labbra forti sulle sue; si lasciò andare, alzandosi sulle punte, e gli passò le braccia attorno in un gesto naturale, che spesso aveva fatto quella notte.

 

“Come hai fatto tutto il tempo a stare con questo giaccone di pelle?” notò, improvvisamente. Lui parve turbato, quasi non sapesse cosa dire. “Anche durante il concerto lo avevi… Ma con le luci non c’era caldo?”

 

Ritrovando la sua proverbiale sicurezza la fissò, sogghignante. “Stai cercando di spogliarmi?”

 

Roteò gli occhi, cercando di sciogliersi dall’abbraccio. “Devo andare.”

 

“Che cattiva.” Per tutta risposta la baciò, mordendole apposta il labbro inferiore e facendola ridere, come spesso aveva fatto in quelle ore passate insieme.

 

 

 

Verso il suo piano, fu l’abbaiare di Freddie che la fece scoppiare nuovamente ma ridere: quel cucciolino era adorabile, riconosceva sempre tutte e quattro.

Stava per prendere le chiavi del suo appartamento quando la porta della casa di fronte si spalancò, rivelando una giapponese in pigiama e pantofole e un Freddie che, non appena la vide, le zompettò addosso, facendole le feste.

 

Buongiorno.” Probabilmente era questo che disse Hilary, tra uno sbadiglio e l’altro. “Sei tornata ora?”

 

L’orientale annuì. “Sì.” Non sapendo cos’altro dire fissò il cucciolo, che pareva disperatamente aver bisogno di andare a fare pipì. “Se mi dai il guinzaglio lo porto io fuori; tanto sono sveglia.”

 

Hilary sbatté stancamente gli occhi, entrando in casa e porgendole subito dopo l’affarino rosso che Mao collegò al collare del cucciolo. “Prima che tu vada… Volevo chiederti scusa per ieri.” Scrollò le spalle, appoggiandosi allo stipite della porta evitandosi di cadere. “Talvolta sono orribile, lo so. E’ che per le persone che amo vorrei il meglio, ma mi rendo conto che non sono io a dover sindacare per loro. Scusa.”

 

Tutta la rabbia che aveva covato in quelle ore si dissolse in un sorriso; non poté far altro che abbracciare l’amica, stringendola forte, e baciarle la guancia.“Ti voglio bene.” Soffiò.

 

“Anch’io, lo sai.” La bruna si ravviò i capelli con fare stanco, scrollando le spalle. “Va beh, andate a fare questa passeggiatina e poi tornate, che tu mi devi raccontare della tua notte brava. Ci conto!”

 

 

 

 

 

Trisha si morse le labbra, cercando di catturare il beat della canzone in modo che fare l’assolo con la chitarra non le venisse troppo difficile. Quella sera avevano l’esibizione all’Avalon e avrebbero presentato una nuova canzone – la prima dopo l’apertura del torneo – il che era rischioso ma doveroso insieme.

Kassie era accanto a lei e provava con il piano gli accordi, accertandosi che le note fossero azzeccate; Hilary la seguiva passo passo con la voce per far sì che la modulazione del suo timbro fosse corretto. 

Aspettavano la batterista, in modo da mettersi a suonare per almeno un’ora e prepararsi per quella sera.

 

“Prova ad alzare di più il timbro su questa nota.” Le suggerì Trisha, smettendo di avere a che fare con la chitarra. “Secondo me rende di più.”

 

Hilary annuì e, quando Kassie partì con il piano, seguito il consiglio della mora, si rese conto di come fosse vero, in effetti. “Okay, direi che è perfetta.” Sospirò, contenta.

 

La saracinesca si alzò ed abbassò in modo veloce e rumoroso tanto da farle sobbalzare, fissarsi dubbiose fu automatico. Julia Fernandéz era finalmente arrivata, ed aveva un’aria che definire furibonda sarebbe stato riduttivo.

Con i capelli mossi – che in quel frangente parevano più mossi dal demonio – la pelle a chiazze rosse, il respiro corto ed affannato, le ragazze non seppero cosa dirle se non allungarle un pouf dove si potesse sedere.

 

“¡Yo soy oficialmente lesbiana!” ringhiò, accavallando le gambe e stappandosi una bottiglia di birra.

 

Le ragazze si fissarono, confuse. “Okay…” provò Kassie, accondiscendente.

 

Es mas bonito ser lesbiana que eterosexual.” Fece, dopo il primo sorso di birra. “Yo no-”

 

Trisha si rivolse a Hilary. “Che cos’è che ha detto?”

 

La bruna sospirò. “Che è molto meglio essere lesbica che eterosessuale.”

 

“Ah, non sono d’accordo, a me scopare con un uomo mancherebbe.” La battuta stemperò la situazione e fece ridere tutte, Julia inclusa.

 

Chicas, no teneis idea.* I maschi sono così diversi da noi ragazze… Mentre noi rimuginiamo sul perché una cosa sia finita, loro sono già passati alla prossima.” Ringhiò, piena di rabbia.

 

“Non me lo dire: hai visto il tuo ex scopamico con un’altra.” Le sopracciglia di Hilary si inarcarono tanto da finirle tra i capelli.

 

 El gilipollas.”*¹ Sibilò, come rivolta a qualcuno che la potesse udire. Batté le mani, per poi alzarsi. “Su, chicas, stasera dobbiamo spaccare.”

 

 

 

* “Ragazze, non ne avete idea.”

*¹. “Quel coglione.”

 

 

 

L’Avalon si era preparato in grande al weekend: buttafuori, fila per accedere al suo interno, folla assurda faceva parte del tutto, ma il bello di quel locale era che fosse talmente particolare che non si poteva definire se non un incrocio tra un pub e una discoteca, specie nel weekend.

 

Dopo aver saputo come fare e come organizzarsi, i Neoborg nel weekend solevano prenotare un privee tutto per loro. Mischiarsi con la folla non era proprio nelle loro corde ma sentire musica non commerciale e bere qualche cocktail sì, quindi quel posto andava grandemente a genio a tutti i componenti della squadra.

 

Quando si presentarono di fronte alla fila, i due energumeni che facevano da buttafuori li riconobbero come clienti abituali e li fecero entrare immediatamente, aprendo loro il passaggio.

Come ogni Venerdì alle undici e mezza, l’Avalon stava iniziando a gremirsi di gente; per lo più vi erano i tipici americani tutti palestrati, abbronzati e sorridenti che ci provavano con bionde ammiccanti, poi vi erano le coppiette e i gruppi di amici. Infine, individuarono quasi tutte le squadre che partecipavano al torneo mondiale di quell’anno, ma il bello del privee era quello: nessun fan rompipalle poteva permettersi di avvicinarsi. Era come essere protetti da una bolla invisibile.

 

“Salve ragazzi.” Mao li salutò con un sorriso cordiale, taccuino e penna in mano e menù nell’altra, ma sapeva che non sarebbe servito; non per loro. “Avete già deciso?”

 

“Una birra scura.”

 

“Una vodka liscia.”

 

“Anche per me.”

 

Kai scrollò le spalle. “Per me niente.”

 

Mao appuntò tutto, ormai abituata sia alla loro decisione e prontezza, sia alle loro scelte. “Arrivano subito.”

 

Boris fissò Kai con aria leggermente sarcastica. “Da quand’è che non prendi niente?”

 

Lui gli riservò un’occhiata inteneritrice. “Da quand’è che non ti fai i cazzi tuoi?”

 

Sergey diede man forte al compagno di squadra. “E dai, magari Kai ha deciso di sperimentare la condizione dell’astemio. In fondo si devono sempre provare nuovi orizzonti, vero?”

 

Il russo dagli occhi viola decise di non replicare, chiudendosi in un ostinato mutismo, che fu solo interrotto da un commento di Boris. “Potevi anche fare a meno di prenderti la tua vodka.” Fece, rivolto a Yuri. “Devo ricordartelo io che ti è dannosa?”

 

Il rosso spalancò i suoi occhi su di lui, freddandolo con lo sguardo. “No.” Sillabò. “Ma mi pare avessimo chiarito che ci penso io.”

 

Non era una novità che all’interno della squadra ci fossero apprensioni da parte di Sergey e Boris per Kai e Yuri, che erano i due componenti più testardi e cocciuti: quando si mettevano in testa di perseguire un obbiettivo lo facevano, anche a scapito di loro stessi.

 

“Ecco qua.” Mao tornò pochi istanti dopo con i tre drink, che dispose velocemente sul tavolo. “Buon proseguimento.”

 

La vodka venne trangugiata in un istante, e fu incredibile come quel liquido di un colore così simile all’acqua, ma così denso e quasi cremoso, bruciasse e rendesse calda la gola di chi lo beveva. Dopo un solo bicchiere Yuri non poteva dire di essere né ubriaco, né brillo né altro; il suo limite di sopportazione era molto più in là, eppure ciò che avvenne progressivamente fu strano. Strano come le sensazioni che gli provocarono.

 

Le luci si spensero di colpo, e ciò fece presagire a tutti che lo spettacolo fosse iniziato o che, comunque, dovesse iniziare. Invece non si accesero per parecchio tempo, tra gli strilli e le urla derivanti dalle persone. Poi fu una luce fioca ad accendersi, che illuminò il soffitto del locale per poi andare di colpo verso il basso e sparire, inghiottita dal vuoto. Ebbe il potere di far zittire tutti.

 

Dei rumori di tacchi si avvicinarono verso il piccolo palco, scatenando delle piccole urla, dopodiché dei piccoli colpi di tosse uscirono dalle casse collegate al microfono, e iniziò l’assolo di chitarra.

Le luci si accesero improvvisamente, rivelando l’intero gruppo delle Cloth Dolls già pronto per esibirsi, tra le urla di benvenuto del pubblico.

 

Somebody mixed my medicine. Yeah, somebody mixed my medicine.C’erano soltanto Hilary e Trisha all’inizio, con un coinvolgimento tutto d’un pezzo di voce gutturale e chitarra elettrica.

Il pubblico capì subito che si trattava di una nuova canzone, perché rimase a fissarle, ipnotizzato, per poi esplodere quando Kassie e Trisha si gettarono nella mischia, con piano e batteria.

 

You hurt where you sleep
And you sleep where you lie
Now you're in deep and
now you're gonna cry
You got a woman to the left
and a boy to the right
Start to sweat so hold me tight

 

“Qualcuno le ha fatte incazzare, recentemente?” il tono di Boris era ironico, ma Yuri e Kai non poterono fare a meno di non rispondere e di fissarsi sulla scena, per evitare di essere colti in flagrante.

 

La canzone procedette coinvolgente ed attraente per il pubblico, con una cantante che ancheggiava sensuale come non l’avevano mai vista: con un semplice vestitino blu che le ricadeva largo sul corpo snello e i capelli ondulati e lunghi come lo erano di solito, era forse più bella quella sera che le altre volte in cui si era presentata ancora più precisa e di tutto punto.

Era come se flirtasse con il pubblico, come se li provocasse e poi li lasciasse andare, ecco perché loro la amavano e non ne potevano fare a meno.

 

La canzone procedette dopo il ritornello e, a sorpresa, Julia smise di suonare la batteria per affiancare Hilary e cantare nuovamente la strofa.

La madrilena non cantava male, ma la bruna era senza dubbio più brava, e la aiutava con la voce, reggendo le sue note. Si muovevano danzando in maniera sensuale e a tratti lasciva; qualcosa stava accadendo. Il problema era scoprire cosa.

 

“You got a woman to the left
and a boy to the right
Start to sweat so hold me tight”

 

Quando le due esclamarono insieme la parola tight, si sarebbe potuto pensare di tutto, tranne che si abbracciassero strette e si baciassero voracemente, come due amanti scatenate e vogliose tra le urla del pubblico, a metà sorpreso e a metà messo in agitazione da quella novità che nessuno si era aspettato.

 

 

Scombussolato.

Era così che si sentiva Yuri: frastornato, sconvolto, ma anche un filino eccitato. Maledettissima spagnola, e così era quella la vendetta che aveva meditato dopo il loro diverbio? Cosa voleva dirgli? Se vuoi me con un’altra donna la avrai… Ma a distanza? Gli avrebbe fatto vedere lui chi era Yuri Ivanov!

 

“Uhm… Kai, mi sa che ti conviene prenderla, quella birra.”

 

All’intervento di Boris, dapprima pensò che poteva grandemente starsene zitto e muto, dopodiché, fissando quella dannata ragazza strusciarsi contro la Fernandez, pensò che forse non aveva tutti i torti. Imprecando in tutte le lingue da lui conosciute, uscì dal privee, andando verso il bancone.

Altro che birra: lì ci voleva tutta una botte.

 

 

 

 

 

“Che facce!”

Hilary e Julia stavano ancora ridendo quando si diressero verso il privee che l’Avalon aveva messo a loro disposizione. La serata era stata meravigliosa: il pubblico aveva dato segno di apprezzare le loro canzoni, e nessuno si era grandemente scioccato per il loro bacetto – nessun bigotto, per lo meno.

 

Mitch venne verso di loro con un sorriso di resa e le mani in aria. “Se mi aveste chiesto il permesso non ve lo avrei mai dato, ma devo dire che come spettacolo ha avuto il suo perché.”

 

A Kassie trillò il cellulare, e non fece in tempo a rispondere che le staccarono la chiamata. “Ragazze, io devo andare, mi aspettano fuori. Ci vediamo domani.”

 

Trisha annuì, guardandosi intorno per poi focalizzarsi in un determinato punto. “Vado anch’io.” Disse, svelta. “Se ci sono novità, chiamatemi.”

 

Julia fece per dire qualcosa, dopodiché inarcò le sopracciglia. “Mitch, querido, me sa che dobbiamo andare.” Allo sguardo interrogativo dell’uomo lei fece un sorriso. “Si sta avvicinando a tutta velocità un tipo che vuol parlare con Hilary.”

 

I due fuoriuscirono da quella zona del locale, lasciandola sbigottita a domandarsi che diavolo stessero pensando tutti, quando qualcuno di molto più rumoroso – almeno dal passo – entrò, senza preoccuparsi di disturbare o altro.

“Hai seguito il mio consiglio.”

 

La voce tagliente di Kai era senza dubbio fuori luogo per Hilary in quel frangente, specie dopo una giornata come quella. “Sì, bisogna sempre dar fiducia alle persone.”

 

“Lo avessi scoperto prima magari avresti smesso prima di avercela con gli uomini.”

 

Lei roteò gli occhi. “Oh, non credo smetterò mai di avercela con loro.”

 

Lui inarcò freddamente un sopracciglio. “Non ti facevo infantile.”

 

“Non ti facevo ficcanaso.” Si alzò dal divanetto: in piedi non riusciva nemmeno a raggiungere il mento di Kai, ma il suo sguardo riusciva a sostenere perfettamente quello del moscovita. “Qual è il problema, esattamente?”

 

La fissò negli occhi, non distogliendo lo sguardo nemmeno per un attimo. “Credimi: se una persona che reputavi intelligente si mettesse a parlar male delle donne, anche tu avresti un problema.”

 

La bruna sbuffò, mordendosi le labbra. “E’ un discorso che faccio in generale, riferendomi a coloro che ho conosciuto! Non parlo né di te né di Takao né delle poche persone che si salvano! Non devi sentirti messo nel mezzo.”

 

“Ieri non lo ero?”

 

Lì perse le staffe: marciò verso di lui, fissandolo negli occhi e rivelando tutta la sua rabbia. “Vorrei dirti una cosa.” Ringhiò. “Ma forse vaffanculo potrebbe essere troppo gentile.” Poi uscì da lì, andando a disperdersi nella folla.

 

 

 

 

 

Un kir royal e un gizz fizz dopo, Julia si stava godendo i ritmi dell’Avalon, ridendo e scherzando tra gli European Dreamz e gli All Starz. L’avevano vista dirigersi verso il bancone e subito l’avevano chiamata, invitandola a sedersi tra loro. Le avevano fatto tantissimi complimenti e anche rivolto qualche battuta per il bacio saffico, ma poi la conversazione si era spostata su altri argomenti. Tra loro c’erano anche Mathilda e Raùl e lei si era scoperto contentissima di vedere il fratello mano nella mano con la dolce europea.

 

“Che ore sono?” chiese Emily, stiracchiandosi. “Meno male che domani non abbiamo incontri e che sono rimandati a Lunedì, altrimenti con il cavolo che ci alzavamo!”

 

“Le tre e mezza.” Mathilda osservò il suo orologio da polso. “Io sono un po’ stanchina.”

 

“Ti accompagno.” Si offrì subito Raùl.

 

Julia si alzò dal divanetto. “Io mi prendo un lemon soda, qualcuno mi fa compagnia?”

 

“Dacci un taglio, Ju. Sei al terzo.” La ammonì Emily, fissandola di sbieco.

 

“Solo questo.” Assicurò la spagnola, dirigendosi verso il bancone; il collega di Mariam, Al, non era male, ed era pure bravo come barista. Magari avrebbe pure potuto farci un pensierino.

Mentre osservava i suoi occhi azzurri slavati e i suoi capelli castani, si costrinse a dirsi che forse avrebbe pure potuto provarci…

 

Fernandéz.” Bastò solo quella parola per farle saltare lo stomaco e, quando si girò seppe solo serrare le labbra. Ma durò un istante. Il suo atteggiamento spavaldo fuoriuscì quando si ricordò tutti i suoi precedenti e cosa l’aveva portata per essere lì.

 

Incrociò le braccia al petto, fissandolo decisa. “Hola Ivanov, ¿que tal?”* il tono era piatto, ma nei suoi occhi verdi c’era tutto il tono provocatorio di una persona che sapeva di star punzecchiando l’altra.

 

Yuri inarcò brevemente le sopracciglia. “Non so cosa diavolo tu abbia detto, ma sappi solo una cosa.” Le si avvicinò pericolosamente, e sembrò di assistere alla sfida tra fuoco e ghiaccio.

Ma se il fuoco scioglieva notoriamente anche il ghiaccio più resistente, che ne era di quello proveniente da veri e propri iceberg?

Nessuno dei due diede cenno di voler distogliere l’uno lo sguardo dall’altra e se Yuri si avvicinò, Julia non arretrò minimamente di un solo passo, restando a fissarlo negli occhi, pur sentendo il cuore martellarle nelle orecchie.

“Hai osato sfidarmi, e sarai punita.” Il suo sussurro le accarezzò sensualmente l’orecchio, il collo, la spalla. Rabbrividì.

 

“Ah, sì?” inarcando le sopracciglia, si impuntò ad ostentare quell’espressione menefreghista che ormai aveva fatto sua.

 

Sulle labbra di lui si affacciò un sorriso voluttuoso, quasi lascivo. “Assolutamente.”

 

Ricambiò il sorriso. “Credo di voler scontare la pena ora. Sono sempre stata una che si prende le proprie responsabilità.”

Insieme si diressero verso l’uscita del pub, non pensando a niente, non curandosi nemmeno di salutare gli amici, entrambi l’uno a debita distanza dall’altra per evitare di essere visti.

 

 

 

 

* “Ciao Ivanov, come stai?”

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

Scusate il ritardo, ma ultimamente l’università sta prendendo il sopravvento, e mi trovo impelagata in un grande mare magnum. (Tradotto da mio linguaggio aulico: nella merda fino al collo)

Qui accadono tantissime cose, talmente numerose da non poter essere discinte l’una dall’altra, è tutto un miscuglio di un pandemonio assurdo.

Vedremo se con Rocket Queen si potrà cominciare a discernere qualcosa.

Un bacione a tutti!

 

Hiromi

 

P.S.= Questa è stata la settimana dei ricordi; RMA, i missing moments, IPC, Tanga party… Che nostalgia! T___T

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Capitolo 12
*** Rocket Queen ***


Overboard

 

If I say I don't need anyone
I can  say these things to you 
'Cause I can turn on any one 
Just like I turned on you 
I've got a tongue like a razor 
A sweet switchblade knife 


Rocket Queen Guns ‘n’ Roses

 

*****************

 

 

Quando finiva con gli allenamenti era sempre distrutto; se poi erano con Boris e Sergey, allora era un uomo morto: quei due erano delle macchine da guerra, delle autentiche furie combattive; allenarsi in loro compagnia era interessante, costruttivo e senza dubbio serviva per affinare le sue tecniche di gioco, ma dopo delle ore i suoi muscoli avevano bisogno di un certo riposo, e a ragione…

 

Dirigendosi verso il bar dell’hotel, decise rapidamente cosa voleva mangiare, onde evitare di perder tempo, ma fu bloccato pochi metri prima da una musica proveniente da una delle sale… Non era certo il suo genere, era più una di quelle danze latinoamericane che si ballavano in gruppo, ma ebbe il potere di farlo arrestare bruscamente.

 

Non si chiese nulla: si avvicinò alla porta socchiusa per poi sgranare gli occhi vedendo una ragazza che conosceva bene ballare al ritmo di quella musica che pareva prenderla fino in fondo.

Avvolta in un vestitino bianco bordato d’oro che lasciava veramente poco all’immaginazione e sottolineava invece la sua perfetta abbronzatura, Julia Fernandéz era bellissima, con i capelli raccolti in una coda scomposta da cui fuoriuscivano due o tre ciocche che le rendevano il viso ancora più selvaggio ed intrigante.

 

Incredibile il modo in cui sapeva ballare quella danza caliente ed appassionante come lei, assurdo come si muoveva, ed inconcepibile pensare come ogni volta sapesse sorprenderlo, giocandolo sempre in contropiede e scoprendo un lato di sé che non conosceva. Quante sfaccettature aveva la Fernandéz?

 

Osservandola, Yuri sentì una strana carica scorrergli vicino, e la riconobbe subito: era l’attrazione che la legava a lei, il calore che la spagnola sprigionava – forte, intenso, lacerante – che lui voleva e desiderava. Che pretendeva.

 

All’improvviso la musica cessò, e l’istante dopo la porta si aprì di scatto. “Non te l’hanno mai detto què no es bueno espiar las chicas que bailan?” la domanda fu posta con il suo classico sorrisetto furbo sulle labbra che tante volte le aveva visto indossare.

 

Possibile che quella ragazza lo mettesse sempre in difficoltà, non si curasse di niente, che fosse sempre con quel sorrisetto scanzonato e furbo sulle labbra, come a prendersi gioco di lui? Sorprendentemente la cosa lo attirava da morire; fossero state altre ragazze si sarebbe irritato, invece se si trattava di lei era tutta un’altra storia. Si sentiva sempre, perennemente attratto da quella tipa così diversa da lui, costantemente pronto ad ingaggiare una battaglia verbale che poi costantemente finiva in qualcosa di più…

 

“Scusa tanto, ma non potevo certo perdermi il tuo ultimo hobby.” Ribatté con voce glaciale e canzonatoria insieme, inarcando brevemente le sopracciglia.

 

Julia scoppiò a ridere, e fu come udire un trillo di campanelli: era rumorosa, una casinista implacabile, ma la cosa lo attraeva.

“Solitamente ballo con mio fratello, ma è da un paio d’anni che abbiamo smesso.” Spiegò, entrando in palestra e storcendo il naso. “Ti sembra? Tango es… ¡Pasion, calienza, ardor!” smanettò, facendogli capire con quel flusso di parole quanto fosse interessata anche a quel tipo di sport. “Non potevo mica avere tutte queste cose con mi hermano!”

 

Lui incrociò le braccia al petto con fare disinteressato e neutro. “Certo.”

 

Julia roteò gli occhi per poi sbuffare. “Ivanov, me das asco.”*

 

Lui ostentò un’espressione divertita. “Non so cosa voglia dire, ma-”

 

“Non è un complimento.” Lo interruppe la madrilena. “E ora sparisci. Me gustaria bailar.”*¹

 

Scrollando le spalle, si sedette in prima fila, ponendo una caviglia sul ginocchio e guardandola con aria di sfida. “Balla, allora.”

 

Lei puntellò una mano su un fianco, scuotendo la testa. “Nada de nada. O te ne vai o balli.”

 

“Non mi piacciono i ricatti.”

 

Lei sogghignò. “A mi non me gusta el lunes, ma la domenica arriva siempre.” *²

 

Trattenne un pesantissimo sbuffo: quella ragazza riusciva sempre a metterlo con le spalle al muro: come diamine ci riusciva? “Bene, allora.” Sibilò, alzandosi.

 

La spagnola esibì un sorrisetto sfrontato e di puro divertimento mentre lo fissava attraversare la stanza facendo per uscire. “Vai pure… Non mi aspettavo altro.”

 

Si bloccò di scatto, fissandola in maniera torva. “Cioè?”

 

“Sei sempre così… Prevedibile, noioso, scontato. C’è mai stata una volta in cui tu mi abbia sorpresa?” al sorriso malizioso di lui, fu costretta a schioccare le labbra. “Fuori dalla camera da letto.” Precisò. “Sei uno tutto d’un pezzo, incapace di emozioni forti a meno che non si parli di orgasmi, e io trovo tutto questo… Triste.”

 

“Non lo trovi triste quando siamo soli, però.” Obbiettò lui, piccato.

 

Julia scrollò le spalle, divertita. “Sarei una bugiarda a contraddirti, ma la verità è che ritengo che tu sia uno che si nasconda dietro quei silenzi arrabbiati e che, ancora peggio, si sfoghi con il sesso. ¡Que tristeza!”

 

Man mano che parlava, si sentì ardere dalla rabbia e il bello era che non se ne seppe spiegare il motivo: l’avevano spesso criticato, gliene avevano dette di tutti i colori, ma le cose gli erano sempre scivolate addosso; perché, in quel momento, in quel posto, con quella dannata spagnola davanti quelle parole acquisivano significato e spessore? Chi era Julia Fernandéz per sconvolgerlo in quel modo?

 

Furioso e spaesato – e non era da lui! – si avvicinò allo stereo sorprendendo prima di tutti se stesso. “Vediamo se sai essere una buona insegnante o sai soltanto criticare.”

 

Quando lo vide premere il tasto play, Julia spalancò occhi e bocca per una trentina di secondi, infine scoppiò a ridere. “Muy bien, Ivanov: uno ad uno. ¿Ma como se dicen? ¡Donde las dan, las toman!”*³ fece, ridacchiando, ancora incredula.

Si pose dinnanzi a lui con uno sguardo che era un mix tra altero e divertito, e gli pose le mani sulle braccia, facendolo posizionare adeguatamente. “Piedi uniti.” sussurrò; se avesse conservato la sua espressione divertita il russo si sarebbe spazientito ed indisposto, invece aveva tramutato il sorriso in uno decisamente più dolce e professionale.

 

Mossero i primi passi verso sinistra, con una madrilena che conduceva per fargli capire come doveva muoversi e un Yuri impacciato e poco a suo agio.

La musica era coinvolgente, i ritmi sensuali, lei era tollerante e pazientissima, pareva non curarsi delle volte in cui le pestò i piedi… Era lui a rendere tutto il quadretto storto.

 

Ma ad un certo punto le note si fecero ancora più sensuali di prima, più incalzanti, e la spagnola affilò lo sguardo, cominciando a fissarlo in maniera libidinosa; i suoi occhi verdi parevano essersi piantati in quelli color ghiaccio del russo, e ardevano in tutto il loro calore.

Una foresta che bruciava in balia del fuoco più intenso e selvaggio: potevano un semplice paio di occhi farlo sentire così? Come il fuoco che notoriamente scioglie il ghiaccio, il quel frangente le iridi di Julia lo stavano fissando in maniera così intensa da farlo sentire quasi scavato nel profondo.

Una sensazione che non seppe definire.

 

La musica si interruppe per un secondo con uno stacco, e la ragazza sorrise, maliziosa, alzando la gamba voluttuosamente piegata che andava a finire sul fianco di lui.

Il gesto di carezzare la pelle della coscia coperta da quel vestitino bianco gli venne naturale, spontaneo, così come quello di fissarla negli occhi non appena la musica ripartì, l’istante successivo.

 

Julia lasciò una sua mano e portò in alto l’altra, facendo una piroetta e finendo – per come lo aveva programmato lei – nella stessa identica posizione di prima.

Fu lui ad attirarla a sé con un brusco gesto del polso facendola finire a due millimetri da se stesso. Quello che successe, il perché un istante dopo si stessero baciando in maniera così furiosa, agitata e vorace, o perché quello successivo si stessero rotolando per terra strappandosi i vestiti di dosso come mossi da una furia che mai avevano sperimentato tranne quando erano l’uno in compagnia dell’altra, rappresentava un’incognita a cui, per il momento preferivano rispondere con il nome di attrazione.

 

 

 

* “Mi dai noia.”

*¹ “Mi piacerebbe ballare.”

*² “A me non piace il Lunedì, ma la Domenica arriva sempre.”

*³ “Chi la fa l’aspetti!”

 

 

 

Il giorno prima era stato una gratificante giornata di riposo, in cui aveva potuto partecipare al torneo in santa pace, tornare a casa e riposare per poi dormire, dormire, dormire.

Non era mai stata una persona pigra, ma era incredibile come si fosse ridotta a riposare circa quattro ore a notte – cinque se le andava di lusso. Delle occhiaie paurose avevano iniziato ad apparire, occhiaie che stonavano con la sua pelle nivea e facevano a pugni con i suoi occhi verde smeraldo. Sospirò, contrariata: probabilmente avrebbe dovuto iniziare a mettere uno di quei correttori che le altre sue amiche usavano tanto…

 

Si diresse verso la biblioteca della zona, una grande struttura che ancora non aveva visitato: se visitava una città, grande o piccola che fosse, doveva andarne a vedere le biblioteche antiche. Non quelle moderne, le multimediali con tutte quelle tecnologie che non sapevano più di nulla e rendevano la struttura spoglia ed insignificante, ma le biblioteche comunali, quelle dove ci si poteva imbattere in libri antichi e polverosi, tomi che avevano una loro storia, che magari avevano fatto scalpore…

 

Quando entrò, salutò le signore che stavano dietro la scrivania con un cenno, dopodiché si immerse negli scaffali, perdendosi in quei libri che sapevano di antico e di vissuto. Ne riconobbe molti, si emozionò quando ne trovò alcuni già letti, e ne prese uno che era bello pesante, ingiallito, e lo avvicinò al viso-

 

“Sei ancora una sniffatrice anonima, a quanto vedo.”

 

Spalancò gli occhi quando se lo ritrovò lì, sbattendo le ciglia per accertarsi di aver visto bene: che ci faceva in una biblioteca?

Non lo vedeva dalla sera delle fresie, e al torneo, il giorno prima, malgrado lo avesse incrociato, si era limitato a rivolgerle un sorriso e nulla di più. Invece in quel frangente eccolo lì, il sole in persona, con quei capelli biondissimi e quel viso tempestato di lentiggini che un anno prima si divertiva a contare fino alla confusione per poi iniziare da capo, sempre.

 

“Ogni libro ha un profumo proprio.” Ribatté, rimettendo quello che stava stringendo al suo posto.

 

“Ah, lo so. Me lo hai detto tu.”

 

 “Che ci fai qui?”

 

Max non smise di sorridere, ma stavolta le sue labbra si curvarono in una smorfia ancora più dolce. “Ti ho cercata dappertutto, come al solito.” Spiegò, avvicinandosi. “A casa non c’eri, all’Avalon non c’eri, sono andato al Plaza e tuo fratello mi ha detto che eri appena andata via… E ho cominciato a dannarmi, come al solito.” Sospirò, divertito. “Com’è che mi danno sempre, se ci sei tu di mezzo?”

 

Potrei farti la stessa domanda. “E’ una tua scelta.” Rispose, fredda, incrociando le braccia al petto.

 

L’americano annuì, come fosse completamente d’accordo. “Vero.” Si avvicinò ulteriormente e la vide sgranare gli occhi quando le ravviò una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio. “Buon compleanno, Mari.”

 

Il cuore di lei prese a battere alla velocità della luce, come volesse fuoriuscire dalla gabbia toracica, ma fu lei stessa a dominarsi e a dare l’impressione di un distacco che era ben lungi dal provare, nonostante l’improvviso tenue rossore delle guance. “Grazie.” Mugugnò, accettando di prendere il sacchettino che le porgeva. “Ma non dovevi. Odio il mio compleanno.”

 

 “Lo so, ma mi è venuto spontaneo.”

 

Gli lanciò una breve occhiata. “Non avevo dubbi.”

 

Lui, per tutta risposta, ridacchiò, divertito. “Ti lascio al tuo regalo, mi farai sapere cosa te ne è sembrato.” Con un cenno della mano la salutò, andando via e uscendo dal suo campo visivo.

 

Mariam si accigliò dello strano comportamento del suo ex ragazzo, ma decise di non darvi peso, uscendo da quella biblioteca e ritrovandosene fuori solo due minuti dopo.

Non era mai stata una ragazza dalla curiosità morbosa ed invadente, eppure quando si ritrovò fuori dall’edificio la prima cosa che fece fu aprire il sacchettino e vedere cosa vi era dentro.

Qualcosa che non fece altro che scatenare ricordi su ricordi. Come sempre.

 

 

“Si può sapere cos’è che cerchi così forsennatamente?” il tono del ragazzo era quasi annoiato, un po’ stanco, ma lei non gli diede peso: sapeva di averlo trascinato ininterrottamente in tutte le librerie, edicole e biblioteche di Washington per due giorni, ma pensava che in una città così grande ci fosse quello che cercava, e invece…

 

“Signorina, dobbiamo chiudere.” Dietro al bancone, il tizio lì seduto fu irremovibile. Mariam lo fulminò con lo sguardo, prima di uscire dalla libreria e sbuffare; Max le fu subito dietro, e il suo sguardo interrogativo la spinse a sorridere, se non altro.

 

Leabhar Gabhála na hÉireann.” Per la sua faccia quando pronunciò le parole in irlandese antico, scoppiò in una sonora risata. “E’ il titolo del libro.”

 

Max la fissò riducendo gli occhi a due fessure, in uno sguardo quasi solenne. “Ridillo.”

 

Leabhar Gabhála na hÉireann.Le braccia di lui la strinsero in un abbraccio sensuale, e fu assolutamente spontaneo per lei stringerlo a sé a sua volta. “Cos’è, ti piace la lingua irlandese?”

 

Max esibì un sorriso furbastro. “No, sei tu che sei sexy quando lo parli.” Mormorò, prima di baciarla. “Perché lo cerchi?”

 

E’ il titolo di una collezione di storie in poesia e prosa in medio irlandese; parla della storia dell'Irlanda e dei suoi popoli dalla creazione del mondo al Medioevo. E’ un'importante testimonianza riguardo la letteratura celtica; ce l’ho in inglese e vorrei avercela in lingua originale.

 

Lui rise. “Se nelle librerie ci sono libri in Indi e in turco, dovrebbero avere anche quello che chiedi.”

 

“E’ quello che dico io.” Mugugnò lei. “Ma prima o poi sarà mio.”

 

 

E lo era stato, esattamente un anno dopo. Eccolo lì, tra le sue mani, una copia del libro da lei più agognato e venerato, tutto per lei e solo per lei.

Emozionata e con il batticuore, aprì la prima pagina, trovandosi di fronte qualche riga scritta in corsivo.

 

 

“Ci eravamo incontrati perché doveva accadere, e anche se non fosse successo, ci saremmo comunque incontrati da qualche altra parte.”

Sei stata tu a leggermi questa frase, quel giorno, e io non l’ho mai dimenticata.

Ho spostato le montagne per avere questo libro e fare in modo che ti appartenesse, perché te lo meriti, così come ti meriti il meglio; sempre.

Max

 

Si appoggiò a muro, puntando gli occhi verso il cielo. Malgrado tutte le sue ritrosie, tutti i suoi tentativi di mostrarsi gelida ecco che c’era sempre qualcosa che mirava a sfondare tutte le sue difese. Poteva negarlo o meno, ma era consapevole che quei piccoli gesti mischiavano le carte in tavola.

 

 

 

 

 

Il non sapere cosa rispondere alla domanda di Rei gli fece pensare principalmente due cose: primo, che si era definitivamente fottuto il cervello; secondo, che anche il suo migliore amico non scherzasse in quanto neuroni fusi. Evidentemente, dopo una decina di gloriosi anni passati come bladers, ora si ritrovavano a scoprire che il troppo beyblade era dannoso.

 

“Non rispondi?” Rei incalzò con un sorrisetto quantomeno irritante che gli fece girare le scatole e fissarlo male. La domanda incriminata era, sostanzialmente, una: che te ne frega di che concezione ha Hilary del mondo, degli uomini? Non sarà che ti piace?

 

Inizialmente aveva subito risposto di no, ma era suonato falso alle sue stesse orecchie, e lui era tutto, tranne che un bugiardo.

Poi Rei aveva incalzato, chiedendogli se il suo fosse coinvolgimento mentale, fisico o entrambi, ed era stato allora che era calato il silenzio.

 

In quel frangente, il russo si sentì prendere da una rabbia cieca e controversa: perché quelle domande? Cosa ne sapeva lui stesso dei suoi sentimenti? Cos’erano, due dodicenni alla prima cotta? E perché il fatto – evidente – di non saper decifrare i propri sentimenti lo irritava da morire?

 

 

Rei capì il suo silenzio e decifrò all’istante quei lineamenti distorti dal nervosismo, decidendo di non chiedere altro: capiva di averlo messo abbastanza in crisi, e capiva anche che per Kai Hiwatari c’era un limite a tutto, nonostante lui stesso sostenesse di volerli superare e abbattere, questi limiti.

“Ci faranno impazzire.” Mormorò Rei, riferendosi alle ragazze in generale e cambiando cautamente discorso. “Lai è su tutte le furie perché Mao si frequenta con un ragazzo da un paio di settimane e non gliel’ha nemmeno presentato.”

 

Il russo lo fissò brevemente. “E tu?”

 

Il cinese fece una smorfia sgradevole. “Io… Ci ho pensato.” Fece, dosando attentamente le parole.

 

Kai conosceva Rei da otto anni: era sempre stato rivestito della carica di spartiacque, di saggio del gruppo, di persona matura, che prima pensa e poi parla. Rei faceva parte di quella cerchia ristrettissima di persone per la quale provava una stima sconfinata; il cinese non l’aveva mai abbandonato a se stesso, era sempre stato un amico sincero, leale, e l’aveva sempre capito con un solo sguardo.

Sapeva che in quel periodo, come lui d’altronde, si stava confrontando con sentimenti più grandi di quelli che pensava di provare, ma era una cosa nuova per lui. Il fatto di vederlo irascibile, nervoso… Geloso, era qualcosa di nuovo per chiunque, visto che lui non perdeva le staffe facilmente.

 

Gli chiese di continuare con uno sguardo e Rei fece un sospiro. “Ho pensato al mio comportamento ingiusto e ingiustificato, al fatto che ho totalmente perso la testa e non avrei dovuto, quindi-”

 

Chissà come mai aveva la sensazione che quello che stava per dire non gli sarebbe piaciuto. “Quindi?”

 

“Sta con un ragazzo, è contenta. Mi devo fare da parte.”

 

Kai inarcò le sopracciglia fino a farsele finire nei capelli. “Che stronzata.”

 

L’orientale assunse un’espressione pressoché confusa. “Che devo fare? Lei è passata avanti, ha fatto le sue esperienze, e se le facevo capire che magari-”

 

Lo freddò con un’occhiata per poi sospirare pesantemente. “Non devi farle capire. Devi agire. Dici che ti farai da parte, ma la domanda è: è davvero quello che vuoi?” al viso sconsolato dell’amico, il russo rispose inarcando le sopracciglia. “Infatti. Se vuoi una cosa, prendila.” Fece, incamminandosi per andarsene.

 

Rei sorrise, immediatamente più sollevato da quella chiacchierata che gli aveva schiarito le idee. “Kai?” il moscovita arrestò la sua camminata. “Lo stesso vale per te.”

 

 

 

 

 

Si era preoccupata non vedendolo arrivare, ma in quel frangente, esattamente due ore dopo, aveva lasciato ogni ansia dietro le spalle. Un po’ come Freddie che, con loro nell’appartamento, sonnecchiava placidamente nella sua poltrona mentre loro erano decisamente più impegnati.

 

Mao avrebbe potuto pensare al fatto che quando lui si era presentato da lei – in ritardissimo – si era a malapena scusato e poi l’aveva baciata spingendola sul divano; avrebbe potuto pensare alla sua pelle fredda e alla sua aria sconvolta.

Semplicemente, però, aveva trascurato ogni cosa: sdraiata sul divano, con lui intento a farle dimenticare ogni cosa, si ritrovò a roteare gli occhi quando sentì la bocca di lui scendere sul suo collo. Fece per togliergli quella fastidiosissima giacca di pelle, ma non appena mise le mani sopra e minacciò di tirarla un po’ più giù, ecco che l’atmosfera si ruppe, e bruscamente anche.

 

Lui si staccò di colpo da lei, come spaventato, e lei lo fissò con aria spaventata, smarrita. “Tutto bene?” chiese piano, fissando il non consueto pallore del ragazzo.

 

Le lanciò uno sguardo attonito: come se l’avesse vista per la prima volta in quel frangente, infine si tirò su, palesemente spaventato. “Devo andare.” Biascicò.

Prima che potesse accadere alcunché, la porta della casa venne sbattuta, e Mao si ritrovò sul quel divano da sola.

 

 

 

 

 

“E da quant’è che vi conoscete?”

Hilary fissò Chris, e le venne naturale sorridere: era un ragazzo bellissimo, alto, con due spalle larghe e con due occhi assurdi – non i più belli che avesse mai visto, ma erano belli. Poi era simpatico, divertente. Uscivano insieme da tre settimane ormai, ed era un record per lei. Un record assoluto.

 

“Dalle elementari: Kurt e io siamo sempre stati vicini di casa, ma dopo la scuola ci siamo persi di vista per poi ritrovarci all’università. È l’amicizia più vecchia che ho.”

 

Lei sorrise. “Io e il mio migliore amico ci conosciamo dall’asilo.”

 

Chris si voltò a guardarla. “Siete ancora in contatto?”

 

Hilary scoppiò a ridere. “Eccome! Ce l’avevo tra i piedi fino a ieri, quella testa di cavolo.”

 

“Gli vuoi bene.”

 

Lei scosse la testa. “No, lo adoro, il che è diverso.”

 

Chris la fissò attentamente, e se le sue labbra tradivano un sorriso, i suoi occhi erano serissimi. “Gli sembri molto legata… Ma oltre quest’unico uomo della tua vita potrà mai essercene un altro?”

 

Lei sorrise, furbetta. “Ma c’è.” Fece, spiazzandolo. “Il mio cagnolino Freddie.” E, dopo una risata, lo superò con un saltello, facendosi rincorrere.

 

“Ma così non vale!” anche rincorrendosi nel bel mezzo di Times Square, le persone non facevano caso a loro, proseguendo per il loro percorso ed andando verso la loro direzione, del tutto disinteressati a due ragazzi sorridenti che scherzavano e ridevano tra di loro.

“Ferma, è qui che dobbiamo entrare.” La stoppò all’improvviso il ragazzo, indicando un edificio alto sopra il quale si ergeva un’insegna luminosa.

 

Hilary fissò a bocca aperta prima il locale poi lui. “All’Hard Rock Café?”

 

“Ci eri mai entrata?” prendendola per il braccio la condusse dentro, e la bruna sospirò, riconoscendo tutto quello che mesi prima aveva visto.

 

“Sì, ovvio. Non puoi andare a vivere nella City se non vieni qui almeno una volta.” Bazzicando tra le magliette, i gadget e le chitarre miniaturizzate, presero a scherzare sui vari gusti musicali l’uno dell’altra, pressoché incompatibili. A Hilary piaceva musica che si spostava dal rock al light metal, mentre lui era più sul pop moderno – da Lady Gaga a Christina Aguilera fino a Shakira.

 

Mmm… Sono tutte belle e bionde.” Lo rimbeccò Hilary, con un accenno di finta serietà. “Mi domando se non sia un invito a tingermi i capelli.”

 

Lui la fissò con occhio critico. “Non staresti male.”

 

La giapponese annuì, convinta. “Giusto. Sembrerei un trans.” La loro risata si sparse per tutto il locale, facendo voltare alcune persone e facendo inarcare le sopracciglia specialmente ad una.

 

Chris si voltò leggermente, coprendole la visuale con fare protettivo. “Uhm. C’è un ragazzo che ci sta guardando male. Forse dovremmo andare.”

 

Hilary si voltò nella direzione in cui lui aveva guardato prima per restare basita: perché al sol vedere Kai lì una sensazione di puro senso di colpa le si era fatta strada nello stomaco? E perché lui li stava fissando come ad augurare loro le peggiori torture sulla faccia della terra?

“No, no, lui… Vieni.” In un momento di pura follia, arpionò il braccio del ragazzo, andando verso il russo. Non sapeva perché lo stava facendo – forse per il senso di colpa che non aveva fondamento, forse per provocarlo, o forse per qualche altro motivo che non riusciva a vedere – ma andò lì davanti a lui con un sorriso innocente stampato sul viso.

Kai, ciao. Come va?”

 

La fissò, gelido. “Bene.”

 

“Oh, scusatemi.” Fece, ridacchiando come agitata. “Chris, lui è Kai; Kai lui è Chris. Chris e io-”

 

“Ci stiamo frequentando.” Intervenne immediatamente il newyorkese.

 

Hilary lo fissò, interdetta, aspettandosi di tutto tranne quell’interruzione. “Sì… Esatto.”

 

L’americano parve soddisfatto della sua trovata, perché fissò Kai come se avesse qualcosa in più ed avesse chiarito esattamente come stavano le cose. “Mentre voi due siete amici?”

 

Il russo lo fissò come se al suo posto ci fosse letame anziché una persona vera e propria. Prima rivolse il suo sguardo a lui, poi spostò le sue iridi ametista verso la giapponese. “Sì. Siamo solo amici.” Fece, prima di andare via bruscamente, lasciandoli interdetti.

 

Hilary restò basita, scioccata, sconvolta, quasi inorridita: ce l’aveva con Chris perché aveva marcato il suo territorio come facevano i cani quando si trattava di fare pipì su qualcosa, e ce l’aveva con Kai per averla ferita in quel modo, sottolineando quasi in maniera crudele quel solo.

 

Ah, ma che mi importa!

 

 

 

 

 

Basito, fissò la ragazza che aveva davanti ravviarsi una ciocca ramata dietro l’orecchio e mescolare il brodo che stava cucinando.

Se si parlava di lati nascosti, non pensava che in una come lei ve ne fossero così tanti. Quando gli aveva mandato un sms con su scritto: ‘Vieni da me! Sorpresa. ;D’ non si aspettava certo di trovarla avvolta in un grembiule con i capelli legati come una perfetta massaia. Aveva già preparato e disposto i pesci, fatto il brodo, messo su tre padelle differenti e in quel frangente si stava dedicando a filtrare tutti i brodi che aveva preparato, in una operazione abbastanza complessa.

 

La fissava stordito, come a capire se quella di fronte a lui fosse davvero Julia Fernandéz oppure avesse qualche altra gemella sparsa per il globo…

Quando l’aveva incontrata, anni prima, aveva subito pensato fosse una di quelle ragazze dinamiche ed energiche che non hanno mai passato niente nella vita e che in fondo non hanno alcuno spessore. Che smacco scoprire che non era affatto così.

 

Quando smise di compiere l’operazione, lui sbuffò. “Fernandéz, devo andare via? Sai, non vorrei essere di troppo…” fece, sarcastico.

 

Lei roteò gli occhi, sorridendo. “Se te ho chiamato, tengo una razon, Ivanov.”

 

Il suo sguardo si fece scettico. “Cioè?”

 

“Sei palliduccio.” Spiegò lei, semplicemente. “E io ho pensato che era un po’ che non cucinavo la mi paella de Madrid. Tra un po’ è pronta.”

 

Lui rimase basito. Mentre la osservava trafficare con i vari ingredienti, mescolare il riso, aggiungere il brodo, i frutti di mare e le poche verdure, si chiese perché diavolo lei stesse facendo quello.

 

“Pronta!” La tavola era apparecchiata molto spartanamente, ma quando vi portò lì quel vassoio con quel piatto tipicamente spagnolo perfettamente decorato, tutto prese colore. “Adesso mi dici com’è.”

 

La fissò mentre distribuiva le porzioni, per nulla convinto, poi, quando lei si sedette, la guardò freddamente. “A che pro tutto questo?”

 

Julia accavallò le gambe. “Por qué era tantissimo tiempo que non la preparavo e volevo una cavia.” Fece, annuendo. “E ho falsificato il tuo testamento a mio favore, se tu dovessi morire.”

 

Yuri sbuffò, arrendendosi implicitamente e mettendosi a mangiare il piatto preparato da quella dannata spagnola, che si rivelò essere ottimo. Non pensava che lei sapesse cucinare, ma d’altronde prima di dirle che era stato di suo gusto si sarebbe morso la lingua con i suoi stessi denti.

 

“Allora?” lo sguardo speranzoso di lei era tutto un programma, e si divertì a rispondere con una scrollata di spalle indifferente. “Antipatico.” Soffiò lei, fissandolo, torva. “Comunque sono brava.” Altra scrollata di spalle.

Julia ridacchiò brevemente. “No se cocinar todo… Solo qualcosina. Paella es quello che mi viene meglio por qué mi madre la faceva siempre. Questa è una ricetta di famiglia, diciamo. So cocinar questa, la pasta – me l’hanno insegnato le mie amiche italiane – e la applepie. Poi basta.”

 

“Nient’altro?” chiese, con tono annoiato.

 

Lei scosse la testa. “No, soy terrible nel cucinare carne, la faccio bruciare, oppure la tiro fuori prima ed è cruda.” Scosse la testa. “Diciamo che ho i miei piatti forti.” Fece, deliziata. “¿Y tu?”

 

Si sentì a disagio a quella domanda: non era abituato a parlare di se stesso, ma se lei si era messa in gioco poteva farlo anche lui… No? “Io non ho mai cucinato.” Rivelò, a stento. “E’ Sergey che lo fa, è molto bravo.”

 

Lei annuì, come a prendere atto di quella informazione. “Deve esserci uno che cucina, o sareste morti di fame.” Ridacchiò. “Raùl è più bravo di me, ma lui ama tutto quello in cui può concentrarsi…” sospirò con sguardo lontano, pensando al fratello. “Ultimamente con lui va un po’ meglio, ma... Ti puoi scegliere un amico, non un parente.”

 

Inaspettatamente, Yuri non si perse nemmeno una parola di quel soliloquio, ascoltandolo con molta attenzione. “E una coinquilina?”

 

Julia lo osservò, stranita. “Beh, anche quella te la scegli tu.”

 

“Nessuna delle tue amiche è in casa?”

 

Lei scosse la testa, prendendo a sparecchiare. “No, Hilary aveva un appuntamento, Mariam e Mao ormai staranno lavorando.” Fece, gettando un’occhiata all’orologio.

 

Yuri si guardò intorno: quell’appartamento ordinato e palesemente femminile lo faceva sentire a disagio. “Questo appartamento è strano.” Dichiarò, guardandosi intorno.

 

Julia all’inizio aggrottò la fronte, non sapendo che cosa volesse dire, dopodiché scoppiò a ridere. “So io qual è il tuo problema.” Lo prese per mano, e il contatto generò in entrambi una piccola scarica elettrica che li fece separare bruscamente. “Seguimi.”

Nella stanza attigua vi era un piccolo salotto, con un divano e una poltrona bianca e un piccolo tavolino di vetro.

Alla parete, spiccava, come un pugno in un occhio, un quadro in stile pop art di un bacino femminile, in cui erano messi in evidenza gli slip, la burrosità dei fianchi e il candore di quella pelle.

 

Yuri sgranò gli occhi, fissando prima il quadro e poi lei, che, vedendo la sua espressione, scoppiò nuovamente a ridere. “Vedessi, Kai quando ha messo piede qui non è riuscito a togliere gli occhi di dosso da quel quadro!” esclamò, ridendo. “E tu non sei da meno.”

 

“Questo quadro è-”

 

“Gay.” Julia scrollò le spalle con noncuranza, poi sorrise. “Appartiene alle proprietarie di quest’appartamento. Lesbianas, lesbiche.”

 

Vedere il russo piegare il collo e fissarlo da un’angolazione differente fu ancora più divertente. “Ora si spiegano molte cose…

 

Con un’espressione divertita sul volto, Julia si andò a sedere sul divano, attirando a sé le ginocchia e fissando il ragazzo che stava ancora guardando il quadro. Quando pochi istanti dopo lui la raggiunse, sedendosi accanto a lei, gli rivolse un sorriso. “Vuoi che ti vada a prendere una birra?”

 

“Hai qualcosa di più forte?” chiese, dopo averci pensato un istante.

 

La spagnola si alzò pigramente dal divano, stiracchiandosi leggermente. “Vado a controllare.” Il ragazzo la fissò sparire dalla sua visuale e si concentrò per non sentire il senso di colpa invaderlo quando lei cominciò a trafficare con le bottiglie in frigo. “Abbiamo del rum, della vodka e della birra. Nient’altro di alcolico.”

 

Prese la sua decisione in maniera rapida ed indolore. “Vodka liscia.”

 

Il viso di Julia fece capolino dalla stanza in una smorfia. “Ci vai su pesante, chico…” qualche istante dopo tornò con il bicchiere per lui e con una bottiglia di birra per lei; si accoccolò sul divano con le gambe attirate a sé come prima e stappò la birra. “Da quando suono con il gruppo esta cerveza aquì es la mi favorida.”*

Yuri non la ascoltò per la prima volta nella serata: fissò il liquido ambrato con sguardo deciso, dopodiché lo bevve tutto d’un fiato, facendo restare la spagnola pressoché turbata.

“Non dovresti andarci giù così pesante.”

 

“Non è niente.” Ribatté lui.

 

La ragazza sospirò, decidendo di cambiare discorso. “Sai che comunque ti trovo più colorato in viso? Sarà la mia paella? Se mi dici che è la vodka mi incazzo.”

 

Lui si voltò a fissarla, deciso, e quando la prese tra le braccia la sola cosa che poté fare fu lasciar andare la birra sul tavolino ed abbandonarsi al suo bacio travolgente.

Adorava affondare le dita nei suoi capelli, adorava baciarlo ed emettere gemiti quando ci andava giù pesante – perché anche quello era un frangente in cui non conosceva mezze misure – così come adorava sentire le sue dita fredde scorrere sulla sua pelle, volte ad accarezzarla oppure a tentare di sganciare il reggiseno; impazienti, febbrili, smaniose quelle dita.

 

Lo aiutò a toglierle il reggiseno e lei gli tolse la maglietta, che volarono sul pavimento, così come vi andarono a finire il gilet, la maglietta di lei, e la sua cintura.

Quando prese a baciarle il collo, Julia non poté far altro che chiudere gli occhi e rovesciare indietro la testa, sentendosi trasportata a tre metri da terra.

Ma fu un rumorino stridulo ed acuto, piccolissimo e sottile proveniente dal ragazzo a farle sgranare gli occhi. Un’altra persona non se ne sarebbe accorta, ma lei che fin da piccola era stata abituata ad ascoltare il mondo attorno a sé, sì.

 

Quando alzò lo sguardo e trovò Yuri fissarsi come se qualcosa di terribile stesse accadendo, non seppe cosa fare: d’un tratto pareva esser divenuto di un pallore spettrale, e stava iniziando a respirare a scatti.

 

Non ebbe tempo nemmeno di chiedergli come si sentisse o se avesse bisogno di qualcosa, perché cadde in avanti e lei ebbe la prontezza di togliersi da lì, per non rimanervi incastrata.

Confusa, frastornata, con la stanza attorno a sé che ruotava, Julia chiuse per un attimo gli occhi, tentando di far mente locale.

 

Si rivestì in fretta e in furia ed acchiappò il cordless, chiamando l’ambulanza. Non osò fissare quel ragazzo steso sul suo divano non perché le avrebbe fatto impressione, ma proprio per paura. Dannata, dannatissima paura.

 

 

 

* “Questa birra qui è la mia preferita.”

 

 

 

Due taxi inchiodarono derapando nello stesso istante, nello stesso punto: da uno vi scese l’intera squadra della Neoborg meno un componente, dall’altro una Hilary Tachibana che, scarmigliata e paonazza, si diresse verso di loro palesemente sconvolta.

“Dove sono?” Kai notò immediatamente il suo rivolgersi a Sergey, ragion per la quale la freddò con lo sguardo e passò avanti, facendo ondeggiare la sua sciarpa bianca.

 

“Non lo sappiamo, ci ha telefonato la tua amica due minuti fa e siamo corsi.”

 

La bruna annuì, dirigendosi con la squadra verso il bancone dove un’infermiera diede loro le informazioni verso dove andare. I corridoi dell’ospedale erano simili gli uni agli altri, talmente da generare confusione, ma quando, dopo un paio di minuti, trovarono una Mao che abbracciava una Julia palesemente pallida e sconvolta, capirono di essere arrivati a destinazione.

 

“Cos’è successo?” Boris si rivolse alla madrilena, e la squadrò con la faccia di uno che ha fatto due più due.

 

La spagnola si morse le labbra. “¡No lo sé! Eravamo nel mio appartamento, gli avevo preparato la paella, poi abbiamo chiacchierato, ci siamo presi da bere-”

 

Quando lo disse, tra i russi vi furono reazioni differenti: Kai inarcò le sopracciglia, Boris imprecò e Sergey si diede una manata in fronte.

 

“Non mi vogliono dire niente.” Il tono di Julia era rabbioso. “Sono lì e non mi vogliono dire niente.” Ringhiò. “Io aspetto mezz’ora, dopodiché entro e li prendo tutti a calci nel sedere!” abbaiò.

 

Un rumore di passi li fece voltare tutti. “Se avevo qualche problema nel trovarvi, ora eccovi.” Mariam sorrise, e quando la vide, la spagnola si gettò tra le sue braccia. “Cos’è successo? Come mai sei qui?” le domandò dolcemente, stringendola.

 

La domanda fece ammutolire la diretta interessata e puntare gli occhi di tutti addosso a lei. “Yuri è sentito male e io l’ho accompagnato.” Balbettò, arrossendo.

 

“E’ lui il ragazzo misterioso con cui ti vedevi.” La frase di Mao diede voce ai pensieri di tutti che si fissarono, interdetti.

 

“Non mi vedevo!” saltò subito su la ragazza. “Noi eravamo…” e lì non ci fu bisogno di alcun continuo: il suo rossore fece capire a tutti molte cose.

 

Hilary fissò l’amica, non riuscendo a credere che lei e Yuri avessero condiviso qualcosa di più che un campo di beyblade. Cos’avevano in comune lei e Ivanov dei Neoborg? Assolutamente nulla. Eppure era lui il ragazzo da letto di cui Julia parlava fino allo sfinimento, quello che la faceva tremare di piacere con un solo sguardo.

“Vado a prendere un caffè.” Annunciò all’improvviso, sentendo l’estremo bisogno del magico binomio caffeina e nicotina.

 

 

 

Doveva smetterla di specchiarsi; ogni qualvolta si avvicinava ad uno specchio, per grande o piccolo che fosse, rabbrividiva sempre per il pallore della sua carnagione, per il contorno occhi degno dei più impressionanti film horror.

Uscì dal bagno delle donne ritrovandosi tra l’antibagno e la porta per uscire, frugando nella sua borsa alla ricerca dell’accendino e delle sigarette, ma sobbalzò quando si ritrovò qualcuno davanti.

“Mi stai sbarrando la strada.”

 

Lei lo guardò, torva. “Sempre una dolcezza infinita, tu.”

 

“Potrei dire lo stesso.” Ribatté Kai. “Chris l’hai già scaricato?”

 

Lei mise una mano sui fianchi, provocatoria. “No, è a casa che mi aspetta.”

 

“Buon per te.” Sibilò, trapassandola con lo sguardo.

 

Incrociò le braccia al petto, furiosa. “Se hai le mestruazioni non venirtela a prendere con gente che non c’entra niente. Risolvi i tuoi problemi per i fattacci tuoi.”

 

 

 

Boris e Sergey stavano parlottando tra di loro, mentre le ragazze si erano sedute in sala d’attesa, tentando di calmare Julia. Il suono dei tacchi di Hilary richiamò l’attenzione di tutti, un po’ per il rumore e un po’ perché quelle decolleté suonavano arrabbiate come la proprietaria: vedendola sfrecciare a grandi passi verso di loro, con lo sguardo che mandava lampi, non ci voleva un genio a capire che qualcosa doveva averla contrariata, per usare un eufemismo.

 

“Scusatemi tanto: gli idioti sono sempre qua e là.” Spiegò, sedendosi e ravviandosi i capelli. “Novità?” Julia scosse la testa, stanca e la bruna annuì per tutta risposta.

 

Dovettero passare due minuti prima che arrivasse Kai e un quarto d’ora prima che un medico si dirigesse verso di loro. Si rivolse a Boris, parlando piano e fitto fitto, dopodiché se ne andò.

“Sta bene.” Il russo chiuse un attimo gli occhi, tradendo la sua preoccupazione. “Se vogliamo possiamo vederlo.”

 

Julia si passò stancamente una mano tra i capelli, contenta, dopodiché si rivolse alle amiche. “Ragazze, se volete potete andare, sarete stanchissime… Io rimango qui, mi sentirei meglio se gli parlassi.”

 

Mariam si alzò, fissando l’orologio. “Te la senti davvero?” Julia annuì. “Allora non per essere scortese, ma ho dovuto chiedere un permesso a Mitch per essere qui… Se potessi andare…”

 

Hilary si alzò con lei. “Anch’io andrei, se non hai bisogno di me.” Si sentì un mostro quando lo disse: in un altro frangente non si sarebbe mossa da lì nemmeno se fossero state sotto le bombe, ma c’era qualcosa che la spingeva ad andarsene. Qualcuno.

 

Che codarda che sono

 

“No, sul serio, andate.” Si schermì Julia.

 

“Rimango io con lei.” Assicurò Mao.

La giapponese e l’irlandese si fissarono, insicure, ma una volta che le altre due insistettero non si fecero più pregare: ci fu un abbraccio di gruppo, delle raccomandazioni di saluti da portare a Yuri, e cenni di saluti alla squadra russa, dopodiché andarono via. Ma inaspettatamente la bruna al posto di sentirsi più leggera si sentì solo più pesante.

 

 

 

 

 

Dopo aver ascoltato la sfuriata da parte delle sue mamme su quanto si fossero preoccupate, quanto lui fosse irresponsabile e su quanto fossero state in pena, gli venne quasi da ridere se pensava che non erano altri che i nerboruti Boris e Sergey. Possibile che quei due non avessero niente di meglio da fare se non essere ansiosi per lui?

 

Che palle

 

Era svenuto come un allocco; era svenuto come un allocco per di più mentre stava per fare sesso con lei. Tutto per colpa di quel dannato, fottutissimo-

 

“Ehi.” Un lieve bussare alla porta e poi una testa ramata che conosceva bene; qualcosa nelle sue viscere prese a sciogliersi come burro quando in la vide e, due secondi dopo, quando entrò nella stanza senza nemmeno chiedere il permesso, gli parve quasi che tutto avesse assunto più colore nel giro di un istante.

 

Sono fregato.

 

“Eccoti qua.” Julia gli sorrise dolcemente, sedendosi sulla sedia accanto al suo letto. “Non sai che ansia, che ore di merda che ho passato lì.” Fece, mordendosi le labbra.

 

“Risparmiami il resoconto.”

 

Alla gelida stoccata del russo, la madrilena sospirò profondamente, ignorandolo. “Dovevi dirmi che non potevi mangiare e bere determinate cose, dovevi dirmelo accidenti… Io-”

 

Forse fu per il fatto di vederla così arrendevole e dolce, forse fu per i suoi occhi che divennero pericolosamente lucidi; o forse fu per come si sentì dentro – una miscela di emozioni mai provate né sentite.

Fatto sta che l’interruppe prima che potesse dire altro, fissandola quasi con astio.

“Per favore, Fernandéz, risparmiami i piagnistei. Hai fatto la tua parte mandandomi qui anziché all’obitorio, e questo è quanto. Ci vediamo la prossima volta.”

 

Dovette sbattere più volte le palpebre per accertarsi di aver sentito bene, ma quando il messaggio arrivò a destinazione, Julia sentì solo una grande rabbia montarle dentro, insieme ad una sconfinata delusione.

“Sei un ingrato e un incosciente! Non ti rendi conto di quello che hai, perché sei troppo preso dall’essere attaccato a quello che non hai! In queste ore ho visto soltanto un gruppo di amici morti di paura e… Io che a momenti me la facevo sotto! E per cosa? ¡Por un tonto cobarde ingrato y inconsciente!”* strillò, imponendosi di non piangere davanti a lui. “Il soffio al cuore maligno è grave nelle tue condizioni, specie se stuzzichi la malattia, anziché combatterla! Lo sai, vero, che se vai oltre non potrai più giocare a beyblade?” l’ultima frase fu detta quasi con astio, come se riguardasse lei in prima persona. “Se vuoi questo, allora continua pure così.” sputò fuori, prima di prendere la borsetta e andarsene, sbattendo la porta.

 

Avrebbe dovuto farci il callo a restare spiazzato dagli atteggiamenti di quella furia, invece era sempre, perennemente preso in contropiede.

Sprofondò con la testa sul cuscino, chiudendo un attimo gli occhi e ripensando a quello che la ragazza gli aveva urlato fino ad un attimo prima.

 

Sono fottuto.

 

 

 

* “Per uno stupido codardo ingrato e incosciente!”

 

 

 

Troppo nervosa per qualsiasi cosa, Hilary chiuse il libro di spagnolo, sospirando: quella giornata era stata anche troppo piena per i suoi gusti, come lo era la sua vita in quell’ultimo periodo.

Da quando era uscita con Chris, da quando aveva litigato con Kai, da quando lui si era comportato in modo così villano ed antipatico, da quando avevano scoperto con chi era che Julia aveva i suoi incontri ravvicinati del terzo tipo, la ciliegina sulla torta era stata soltanto litigare con quel russo pieno di sé in ospedale e fuggire via come se il torto ce l’avesse lei.

 

Stronzo, idiota, brutto figlio di..!

 

Alzandosi di scatto, andò in cerca delle sue sigarette, accendendosene una velocemente e aspirandone una piena boccata: perché il fatto di avere litigato con lui per l’ennesima volta la faceva sentire così…

 

Di merda? Mi sento una merda, dannazione! E non ho fatto niente di male… Tanto siamo ‘solo amici’! Oooh, lui e la sua testa di cazzo!

 

Imprecando e bestemmiando al pari di uno scaricatore di porto, andò in cerca di un portacenere, e quando lo trovò si sedette sulla poltrona del piccolo salottino accanto alla cucina, conservando la sua espressione accigliata fino a quando un brusco bussare alla porta non la fece saltare in aria.

 

Chi dannazione è, adesso?

 

Andando ad aprire, sbuffò perlomeno tre volte, contrariata: Mariam era al lavoro, Julia e Mao erano in ospedale, quindi… Chi era che osava interrompere il suo momento da ‘come uccidere Kai Hiwatari in quindicimila differenti maniere?’

 

 

Kai Hiwatari stesso.

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

*nona di Beethoven*

Una promessa è una promessa, signori e signore! Avevo promesso intrighi, casini e tanto altro da concentrare su questi capitoletti che leggerete.

Uno scoppiettante (o almeno mi auguro che vi sia piaciuto, anche se si può sempre fare di meglio…) capitolo di fine mese ci voleva, no? Allora, dopo aver incasinato ancora di più la vita dei nostri protagonisti e senza ulteriori indugi…

Passo a rispondere alle vostre bellissime recensioni che latitano sempre di più rendendomi triste. Sappiatelo.

Ma vi amo lo stesso, che posso farci?

 

A Martedì prossimo!

 

 

 

Hiromi

 

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Capitolo 13
*** Undisclosed Desires ***


Overboard

 

 

 

 

 

I want to reconcile the violence in your heart
I want to recognize your beauty’s not just a mask
I want to exorcise the demons from your past
I want to satisfy the undisclosed desires in your heart

Undisclosed Desires – Muse

******************

“E tu che diavolo ci fai qui?”

 

A quella frase acida Kai non poté far altro che fulminarla con lo sguardo e prendere con una manata la sigaretta di lei, che andò a finire tra le sue mani, uscendone irrimediabilmente spezzata. “Questa merda ti fa male.” Arrabbiato come mai lo aveva visto, entrò nell’appartamento senza che gli avesse detto niente. “Da sola? Finito con Chris?”

 

Hilary si sentì ribollire il sangue per la troppa rabbia: che diamine ci faceva lì? Era entrato nel suo appartamento come una furia, le aveva spezzato la sigaretta e ora stava insinuando cose per le quali: era arrivato a cercare rogne?

“Sì.” cinguettò, tentando di restare calma. “Tu hai finito di ringhiare, abbaiare ed essere nervoso?”

 

“Questo tuo atteggiamento mi rende nervoso.”

 

“Ho capito, Balto, ma ora stai un po’ esagerando. Renditi conto che la vita è mia e me la gestisco io, pensieri inclusi.”

 

“Non ne dubito affatto.” sibilò. “Ma non credevo che tu potessi diventare-”

 

Lo bloccò in quel frangente, posando i suoi occhi in quelli di lui e facendoli divenire due lame affilate. “Calibra. Le. Tue. Parole. Attentamente.” ringhiò. “Potrebbero essere le ultime.”

 

“Ti diverti a passare da un ragazzo all’altro senza preoccuparti di cosa potrebbe sentire la gente attorno a te?”

 

Hilary inarcò le sopracciglia ed emise una risata gutturale. “Per esempio? Tu?”

 

 “Sei una stronza.”

 

“Touché. Ma non vedo cosa possa interessarti.” ribatté. “Tanto siamo solo amici, no?”

 

Kai serrò le mascelle, annullando, in due falcate, la distanza tra loro. Attirarla a sé e baciarla in maniera famelica fu qualcosa di assolutamente naturale: era come se le loro labbra si conoscessero da sempre e fossero fatte per stare le une sulle altre, per incastrarsi, coincidere; era qualcosa di anormale e spaventoso insieme, ma… Bello.

 

Maledetto lui e la sua ignoranza in fatto di sentimenti; maledetta lei e l’aura di sensualità che sprigionava, quella coltre di charme ed eleganza che l’avevano attratto da quando si erano rincontrati. Avrebbero portato solo guai, nient’altro.

 

“Gli amici non si baciano.” obbiettò la ragazza in un rantolo, respirando a ritmi convulsi. Però gli pose una mano sulla guancia, carezzandogliela lentamente e scendendo oltre il collo fino ad arrivare al petto.

 

“Non fanno nemmeno questo.” replicò Kai, riprendendo a baciarla per poi spostarsi dalle sue labbra al collo. Hilary alzò gli occhi al cielo, sentendosi persa. Non pensò alle regole, alle sue amiche, o a qualsiasi altra cosa: semplicemente, lo sbatté contro il muro vicino e scosse la testa, facendo uscire dalla sua testa tutti i pensieri che non riguardassero lei, o il ragazzo che aveva davanti.

 

 

 

 

“Tutto bene, tesoro?” Julia sorrise quando Mao le porse la cioccolata calda probabilmente presa alla macchinetta; prima era uscita in fretta e in furia sulla terrazza, dove la fredda aria di Febbraio le aveva pizzicato le guancie e scompigliato i capelli, facendoglieli andare un po’ dappertutto. Si strinse nel cappotto e sorrise grata quando l’amica le si avvicinò, stringendola a sé per farle sentire meno freddo. “Bevi quella cioccolata; ti scalderà un poco.”

 

Julia annuì, cominciando a sorseggiarla più che altro per far contenta l’amica, visto che aveva lo stomaco completamente chiuso. “Non è tanto buona.” Gettò il bicchiere nel cestino poco distante e scosse la testa.

 

“E’ tutto quello che c’era. Non ci sono bar o fast food in zona.” Disse l’altra, con tono di scuse.

 

No te preoccupe. Non ho fame.”

 

Vedere Julia con un umore così basso non era cosa di tutti i giorni: la cinese la fissò, stralunata, chiedendosi cosa fare e cosa dire ma, soprattutto, come iniziare il discorso. “Sei uscita parecchio nervosa dalla stanza di Yuri.”

 

L’interpellata si morse le labbra, e i suoi occhi verde prato arsero per la rabbia. “Sì, ¡eso hijo de…!” mordendosi le labbra e facendo inarcare le sopracciglia all’amica, Julia ripartì con una sequela di imprecazioni nella sua lingua madre e lei, capendo che doveva sfogarsi, la lasciò fare. Quando la spagnola tacque, rossa in viso, capì che poteva fare cautamente qualche domanda.

 

“Da quant’è che va avanti?”

 

Spalancò gli occhi, capendo a cosa alludeva. “No, no, nosotros… Siamo amici.”

 

“L’avevo capito che tipo di amici siete. Mi chiedevo soltanto quand’era che fosse iniziato tra di voi, e come.”

 

No son preguntas que se fanno ad una coppia nascente? Dovrei farlo io a te, con el tu Kurt.”

 

“Ma se proprio vuoi saperlo ho visto parecchio interesse da parte tua nei suoi confronti.” Ammiccò la cinese, cambiando discorso e lanciando la frecciatina che andò a segno, visto che quella arrossì.

 

Tu alucinas.”* Borbottò. “Io e lui scopiamo. Anzi, mi ha talmente fatto incazzare che non credo lo vedrò mai più.”

 

Mao incrociò le braccia al petto. “Sbaglio o era la stessa cosa che avevi detto del misterioso ragazzo tipo qualche giorno fa? E chi sarà mai questo misterioso ragazzo?”

 

Vete a la mierda.”*¹ Borbottò l’imputata, facendola scoppiare a ridere di gusto; scese un silenzio che durò giusto qualche istante, prima che la spagnola si voltasse verso l’amica. “Todo bien con Kurt?”

 

Si morse le labbra. “Sì, direi di sì. È che oggi è successa una cosa un po’ strana, ma mi sa che io e lui ne parleremo domani.” Allo sguardo curioso dell’amica scosse la testa. “Niente, semplicemente atteggiamenti che vanno chiariti.”

 

“Chiariscili allora, querida. Non stare mai con i dubbi.”

 

Mao sospirò a lungo, e un silenzio pieno di pensieri scese tra le ragazze, che preferirono contemplare il panorama offerto da quello spicchio di New York e far finta di essere illese da loro stesse. Si avvicinarono senza dirsi niente, appoggiando l’una la testa sulla spalla dell’altra: non c’era bisogno di parole per dirsi che in quel momento di grande confusione e spaesamento il fatto di aversi vicine contasse molto reciprocamente.

 

 

 

* “Hai le allucinazioni.”

*¹ “Vai a cagare.”

 

 

 

“Ehi, sei di nuovo qui?”

Incredibile come nel corso della serata la presenza di Mitch non si sentisse affatto: non era il classico capo che stava addosso ai suoi dipendenti, ma li lasciava liberi di agire come meglio credeva. Eppure, se vi era qualcosa di nuovo o una parvenza di stortura, eccolo apparire dal nulla.

 

Mariam lo fissò, chiedendosi da dove si fosse materializzato, ma rinunciandovi in partenza: durante quelle settimane di lavoro al pub era stata abituata a scene simili; non poteva fare altro che annuire e rispondere. “Julia stava bene, abbiamo risolto in poco tempo e ho pensato di tornare direttamente.”

 

“Sono contento che non sia niente di grave.” Fece, sorridendo. “Salutami Julia.”

 

L’irlandese annuì, riprendendo il suo posto al bancone e visualizzando la situazione: essendo un giorno feriale non vi erano troppe persone, ma nemmeno poche. L’Avalon era sempre semipieno. Immediatamente una delle cameriere le portò due post-it con le ordinazioni. “Ehi, sta bene Julia?”

 

La ragazza preparò la grappa e i due martini in trenta secondi, porgendole il vassoio subito dopo. “Sì, non era lei a stare male.” Fece, telegrafica ma lieta che in quel luogo tutti si preoccupassero per lei e per la sua amica. Passò immediatamente a shakerare gli ingredienti per le ordinazioni del secondo post-it, che richiese più tempo, e nel frattempo arrivarono altre tre ordinazioni: essendo l’una di notte, il locale era nel punto del suo massimo fermento.

Preparò all’istante tre vassoi, che consegnò a due sue colleghe diverse, per poi sobbalzare quando si ritrovò dinnanzi due ragazzi che la fissavano come se si aspettassero qualcosa.

 

“Desiderate?” chiese, disponendo due bicchieri davanti a lei.

 

Uno dei due le sorrise, ammiccante. “La tua specialità.”

 

 “Non ho specialità.”

 

Ooooh, una come te deve saper fare tutto, vero bambola?” la battuta fece scoppiare a ridere entrambi e roteare gli occhi a lei.

 

“Sì, anche mandarti affanculo.” Chiarì con un’occhiata di fuoco. I due sghignazzarono per poi andarsene, ridendo come se si trattasse della battuta più divertente di tutti i tempi.

 

Mariam scosse la testa, spazientita: ne aveva incontrati anche troppe di persone così, e provava solo pena. Gente come quei due ragazzi erano solo personcine immature che non sarebbero mai cresciute, ed era inutile anche solo incavolarsi per dar loro soddisfazione.

 

“Hai tenuto loro testa.” Non si era nemmeno accorta di un ragazzo che si era seduto al bancone con la birra in mano; era molto carino, e non sembrava affatto il classico americano palestrato.

 

Scosse la testa. “Ci sono abituata.” Scrollò le spalle, continuando a preparare due drink che le erano stati richiesti per poi porli su un vassoio.

 

“Ho visto, non ti sei minimamente scomposta.” Fece, avvicinandosi. “Io sono Drew.”

 

Fece per parlare, per dirgli il suo nome – in fondo non costava mica nulla – quando nella sua testa risuonò un campanellino d’allarme: cosa stava facendo? Lui era Drew, okay. Ma c’era un’altra persona nella sua vita. O… No?

 

Il ragazzo, e vedendo il suo sguardo turbato inarcò un sopracciglio con un sorriso. “Ce l’hai un nome, ragazza misteriosa?”

 

Furono quelle due parole a scatenare una miriade di ricordi, che erano insiti in tutto ciò che la circondava, che la riguardava. Perché lui era dappertutto. Loro erano dappertutto.

 

 

 

Approdata a Washington da pochi giorni, Mariam non capiva proprio perché lei e la sua squadra dovessero collaborare con la sede della PPB All Starz. Si erano ridotti a passare lì ore ed ore, ad analizzare dati e a parlare con la dottoressa Mizuhara, parte cooperante per le loro ricerche. Lei era un punto distante dal gruppo, ma era sempre così, e per suo volere; detestava stare in mezzo alla folla, preferiva guardare cosa stesse accadendo da una sua ben precisa visuale, non stare in mezzo alla massa – che le dava ansia, quasi angoscia.

 

Eppure questo la faceva sentire osservata: osservata dalla squadra americana dei PPB All Starz, osservata soprattutto dal figlio della Mizuhara, che la fissava come se con i suoi occhi blu cercasse di scavarle dentro, e questa cosa la sconvolgeva.

Che poi potevano degli occhi essere blu? Non azzurri, non celesti. Blu.

 

Era noioso, quel ragazzo: aveva più volte tentato di attaccare bottone, ma lei lo aveva sempre stoppato, sbuffando; non sopportava quelli che tentavano di rimorchiarla solo per via del mix ‘bellezza+altezza’ che la distingueva dalle altre.

 

Quel giorno Jesse non era potuto venire con lei perché doveva andare con Dunga nell’altra sede nella città attigua, quindi erano solo lei e Ozuma.

Il leader degli Scudi Sacri stava parlando con la dottoressa di dati di computer che solo tra loro capivano, e Mariam ne approfittò per fare un giro intorno: quell’edificio era immenso e pieno di tecnologie, assurdo pensare di potersi allenare così a beyblade.

Loro usavano solo la natura e la loro forza di volontà. Incredibile quanto, da nazione a nazione, i punti di vista differissero.

 

“Quello è un caricatore: lo prendi in mano, inserisci il beyblade, premi il pulsante e te lo spara a razzo con traiettoria di lancio precisa al centimetro.”

Si voltò di scatto verso la voce che aveva parlato: Max era in piedi di fronte a lei e la fissava sorridendo – con quel sorriso dolce e cordiale che le dava sui nervi.

 

“Non te l’ho mica chiesto.”

 

Il biondo non si fece scoraggiare. “Stasera io e i ragazzi andiamo al cinema, vuoi venire?”

 

“No.” Non capiva perché si ostinasse ad essere sempre così gentile e cordiale nei suoi confronti: più lui lo era, più lei si sentiva in dovere di essere una stronza quando rispondeva.

 

“Peccato, il film è veramente bello, ma poi lo possiamo vedere in dvd se vuoi.”

 

Mise una mano sul fianco, sentendo la pazienza venir meno. “Non mi interessa.”

 

Anziché rispondere per le rime o ritirarsi con la coda tra le gambe, lo sguardo di lui si fece inaspettatamente attento. “E cos’è che ti interessa?”

 

Fu presa in contropiede per l’ennesima volta, e il fatto che fosse sempre quel dannato americano a farlo non era un buon segno. “… Fatti miei.”

 

“Come vuoi, ragazza misteriosa.” Fece, schiacciandole un occhiolino ed andando via. Con quelle parole apparentemente innocue, un muro era stato abbattuto.

 

 

 

Mariam si riscosse brevemente, scuotendo leggermente la testa, dopodiché fissò il ragazzo. “Non sono interessata, scusa.” Il tono che le uscì fu incerto e balbettante, ma un sorriso si dipinse sulle sue labbra. Un sorriso che sapeva di scoperta.

 

 

 

“Eccotelo qui il pupetto: tutta la notte non ha fatto altro che giocare e mangiare, non ha chiuso occhio.” Sbadigliò Hannah, la dog-sitter, quando venne a riportare Freddie ad una Mariam che la fissò con occhi stralunati.

 

“Perché lo riporti a me? Hilary non è in casa?”

 

La trentenne scrollò le spalle, ravviandosi il caschetto rosso. “Non saprei: alle due ha lasciato un messaggio in segreteria chiedendo di passare da qui e portartelo.”

 

Qui gatta ci cova… Mariam osservò il cucciolo che, come se le avesse letto nel pensiero, si rivolse a lei, offeso. Scusa, è un modo di dire.

“Io però posso pagarti con venti dollari perché è tutto quello che ho.” Si scusò. “Il mio salario è settimanale, e oggi non è certo Domenica.”

 

La donna fece un gesto di noncuranza. “Figurati, tieniti i soldi; con Hilary aggiusto il conto dopo.” L’irlandese annuì: visto che le quattro ragazze stavano spesso via e che a volte non tornavano nemmeno a dormire, una dog-sitter era d’obbligo.

 

Mariam si ritrovò, qualche secondo dopo, alle sette e dieci di mattina, a camminare per le strade di Manhattan da sola, in compagnia di un cucciolo di quasi cinque mesi che trotterellava felice. Era incredibile quanto riuscisse ad essere contento per ogni cosa che vedeva: un fiorellino sul prato vicino, una colombina che atterrava, un pezzo di carta che volava da chissà dove… Doveva annusare ogni cosa e scoprire cosa fosse.

Lo portò al parco, e mentre lui annusava la panchina sul quale si era seduta, lei accavallò le gambe, pensando a quanto le era successo quella notte.

 

Com’è strana la vita, con tutte le sue sorprese…

 

Quando sentì uno sbuffo si voltò verso la fonte del rumore per poi sorridere quando scoprì che si trattava di Freddie: si era messo a saltellare verso la panchina, voleva indubbiamente salire, ma era troppo piccolo per riuscirci.

Lo prese in braccio, ponendolo accanto a lei e sorridendo quando le si accoccolò accanto.

 

“Lo sai” sussurrò a voce bassissima. “Ci saranno persone che ti diranno di non innamorarti mai, che tutte le cagnoline sono uguali: hanno torto.” Bisbigliò, accarezzandolo. “Hanno torto perché non basta nascondersi dietro questa verità parziale per vivere; bisogna soltanto aspettare che venga fuori quella che ti faccia cambiare idea, quella per cui ne valga la pena, quella di cui tu ti senta fiero… E allora sì che l’amore ti stordisce. Stordisce tutti, sai?”

Quando lui sbadigliò, lei rise. “Mi ricordi qualcuno…”

 

 

 

 

 

Si svegliò di scatto, avvertendo improvvisamente le palpebre farsi pesanti e una sveglia che non era la sua segnare le otto e venti del mattino; sgranò gli occhi, pensando che lui era solito svegliarsi non più tardi delle sei. Generalmente con l’alba ancora in procinto di nascere, allenarsi con Dranzer o pensare per i fatti suoi erano le cose migliori da fare in solitudine. Molto meglio che poltrire.

Ma allora perché aveva dormito fino a quell’ora?

 

E la risposta era accanto a lui, ed ebbe il potere di fargli arrestare il respiro per una frazione di secondo: con i capelli morbidamente sparsi sul cuscino e la bocca lievemente dischiusa, Hilary dormiva, l’aria beata di chi fa sogni tranquilli.

Non poté fare a meno di notare quanto da addormentata avesse definitivamente abbandonato la maschera di donna di ghiaccio e autonoma, e fosse invece rilassata, con i lineamenti dolci e tranquilli, non tesi come durante il giorno.

 

In quel momento la sveglia passò dalle otto e ventinove alle otto e mezza, e suonò squillante facendo spalancare gli occhi bruni di Hilary sul mondo.

La fissò mentre si stiracchiava e sbadigliava, insonnolita: quando si girò, vederla saltare in aria fu qualcosa di quasi comico – avrebbe anche riso se non si fosse trovato nello stato in cui versava.

 

“Buongiorno.” Gli disse, con tono che andava dall’incredulo allo sbalordito. “Sei qui.”

 

Inarcare le sopracciglia gli venne automatico. “Dove volevi che fossi?”

 

La ragazza arrossì. “Non pensavo che… Fosse successo realmente, ecco.” Borbottò, alzandosi dal letto e raccogliendo velocemente i suoi indumenti.

 

La osservò vestirsi per il giorno e mettere a posto la stanza – ad esclusione del letto – in tempo record: era nervosa, si vedeva; si notava dal rossore sulle gote, dal suo non guardarlo negli occhi, dall’essere impegnata a far qualcosa per non parlare con lui. Ma, tempo dieci minuti, ne ebbe abbastanza: scese dal letto, e quando lei gli tirò i suoi indumenti, li indossò fissandola male.

“Se era un avvertimento per farmi capire che me ne devo andare, l’ho colto in pieno.”

 

Lei sbuffò pesantemente, non sapendo che dire. Ma in fondo, che doveva dire? Quella situazione era diversa dalle altre in cui si era trovata, non era mai andata a letto con un suo amico!

Stava per dire che avevano fatto uno sbaglio, che si erano lasciati guidare dall’attrazione che vi era tra loro, innegabile, ma chiuse la bocca di scatto. Quanto era vero tutto ciò?

“Non lo so.” Esalò, infine, mordendosi le labbra.

 

Kai la fissò, ostentando all’apparenza quella sicurezza e quella freddezza per le quali era famoso, ma dentro… Dentro si sentiva come rimescolato, frastornato, rivoltato come un calzino. “E’ meglio che io me ne vada.”

 

Lei si voltò a fissarlo, quasi attonita. “Sì, ma… Non lo so.”

 

“Visto che sembra essere la tua frase del giorno, ne riparliamo un’altra volta.”

 

Hilary annuì, credendo fosse la soluzione migliore, e lui si diresse verso la porta; entrambi si fissarono, spaesati e confusi, senza sapere che fare o che dire.

 

“Allora ciao.” Un cenno di saluto da parte sua e la bruna si chiuse la porta alle spalle, imponendosi di non pensare ad altro che alla colazione.

 

 

 

 

 

Mariam dirottò il guinzaglio di Freddie verso il portone del condominio e non fu sorpresa di sentire inchiodare una macchina dietro di sé. Anche se erano le nove del mattino e la gente era al lavoro, New York non riposava mai: ventiquattr’ore al giorno era sempre in fermento, sempre in pieno ingorgo.

 

“Ehi, querida!” Freddie abbaiò riconoscendo la voce della madrilena che, non appena scese dal taxi, venne subito assaltata dalle coccole del cucciolotto, così come Mao che la seguì l’istante successivo.

 

“Dove-” bloccò la domanda sul nascere, notando che indossavano ancora i vestiti della sera prima, e tacque: entrambe avevano l’aria stanca e provata; Julia, poi, aveva i capelli gonfi e scarmigliati e le occhiaie erano ben visibili sotto il fondotinta accuratamente steso sulla pelle. “Come sta Ivanov?”

 

La spagnola distolse lo sguardo, decidendo di dare una risposta consona ma telegrafica, cosa per lei inusuale. “Non è in pericolo.” Replicò, aprendo il portone ed entrando.

 

Mariam e Mao si scambiarono uno sguardo eloquente. Quando salirono e si ritrovarono al loro piano, Hilary stava già uscendo dall’appartamento: con i capelli raccolti in una coda sommaria e vestita con un’anonima tuta, pareva pronta a fare jogging, e se non fosse stato per il fatto che a lei non piaceva affatto correre, una persona poteva pure cadere nell’inganno.

Le amiche la fissarono non sapendo che dire: non era da lei uscire conciata in quel modo, per di più con un’aria palesemente spaesata ed allucinata.

 

Fu Julia ad inchiodarla con lo sguardo, fissandola attentamente come volesse leggerle il pensiero o entrarle nella testa. “Stanotte hai fatto sesso!” alla sua esclamazione Mao e Mariam sobbalzarono, Freddie abbaiò e Hilary impallidì.

 

“Julia.” La rimbeccò l’orientale. “Smettila di infastidirla.”

 

Es verdad.” Protestò la spagnola. “Guarda che occhiaie; e guarda che succhiotti. Da vero maestro. Sono quasi invidiosa.”

 

“Quasi?” Mariam aveva le sopracciglia inarcate.

 

Julia le lanciò un’occhiata maliziosa, tirando giù la vita bassa dei pantaloni. “Oh, sì. Propio aquì ne tengo-”

 

“JULIA!!” il suo nome pronunciato con la J aspirata da tutte e tre bastò a farla ricomporre, arrossire e porre le braccia conserte come una bambina piccola.

 

“Non c’era mica bisogno di fare così.” Borbottò, contrariata; sembrò in ogni modo dimenticare ogni cosa, perché si rivolse a Hilary come se nulla fosse avvenuto. “Perché quell’aria da zombie?”

 

La giapponese scosse la testa e, per tutta risposta spalancò la porta del suo appartamento, entrandovi e andando di filato a sedersi sulla poltrona. Le ragazze la seguirono immediatamente, e Freddie si accoccolò ai piedi della sua padroncina prendendo a dormire, beato.

Le altre tre si sedettero in fila sul divanetto accanto alla poltrona dove si era seduta Hilary, pronte ad ascoltarla, tutt’orecchie e, per quanto potevano, pimpanti.

 

La bruna accavallò le gambe, cercando un punto dove iniziare: solo dopo si accorse che era il caso di far scoppiare la bomba e basta. “Sono andata a letto con Kai.”

All’annuncio vi furono differenti ed uguali reazioni: Mariam non fece apparentemente una piega, Mao annuì lentamente, Julia sospirò, accavallando le gambe con un sorrisetto trionfante, ma scelse di non dire alcunché. Il silenzio calò quindi per un paio di minuti, fino a quando non fu la giapponese stessa a spazientirsi. “Non avete niente da dire?”

 

Mao si scambiò un’occhiata con le altre due, ed ottenne il lasciapassare per parlare liberamente. “Sinceramente, tesoro? Non ti offendere, ma… Ce lo aspettavamo.”

 

“Che cosa?”

 

Julia sbuffò, assumendo un’aria sardonica. “Vaya, quando sei venuta qui con Freddie la primera vez e lui era tutto preoccupato, mi sono detta: Hiwatari che soccorre una ragazza in ambulatorio, le fa compagnia per ore e la riporta a casa? Ma quando mai?!”

 

Mariam annuì lentamente. “Ne abbiamo parlato tra noi e pensavamo fosse questione di tempo. È che vi piaceste talmente tanto che fosse ovvio…” alla faccia palesemente sconvolta e assolutamente spaurita della bruna, l’irlandese non poté che arrestarsi. “Qual è il problema?”

 

“Avete torto! Avete torto marcio! Kai non mi piace! Lui è…” si bloccò, non sapendo che aggettivo porre in seguito ed arrossendo. La sola remota possibilità che le amiche avessero ragione non doveva minimamente esistere.

“Non lo so, va bene? Non lo so cos’è!” sbottò. “Ma ci conosciamo da sei anni, non possiamo mandare tutto a puttane per una scopata!”

 

L’irlandese annuì, calmissima, per niente sconvolta. “Ed è per questo che ci rifletterai su e capirai bene cosa rappresenta per te la sua persona. Nessuno ti mette fretta né i cappi al collo. Puoi decidere di affrontare la situazione o ignorarla; una cosa è certa: non andrà via se non la prendi di petto.”

 

Hilary balzò in piedi, afferrando la cartelletta dell’università e schizzando via, senza chiedersi altro; Julia fissò prima le ragazze, poi l’amica che aveva già chiuso la porta per poi urlarle dietro: “Tutto questo giusto in tiempo por San Valentino!”

Un Vaffanculo urlato per il corridoio le arrivò come risposta circa due nanosecondi dopo.

 

 

 

Mao e Julia entrarono nel loro appartamento, chiudendosi la porta alle spalle: avendo i prossimi incontri fissati per l’indomani, l’unica cosa che volevano era riposarsi per bene e tentare di dimenticare tutto il marasma di quelle ore che minacciava di sopraffarle, anche se non era per niente semplice: i pensieri parevano girare nei meandri della loro mente vorticosi come tornadi, per non lasciarle mai in pace, ed era senza dubbio motivo di spensieratezza perduta.

 

“Vuoi mangiare qualcosa ora o preferisci fare un pisolino, prima?” Mao appese il soprabito all’attaccapanni, per poi tastarsi i capelli che avevano senza dubbio bisogno di un bello shampoo.

 

“No, vado a buttarmi dritta sul letto, sono stanchissima.” Sbadigliò Julia, stiracchiandosi come un gatto e facendo sorridere l’altra.

 

“Anche tu a volte hai bisogno di ricaricare le pile.”

 

La spagnola si stava già togliendo i tacchi, buttandoli alla rinfusa sul pavimento. “Direi.”

 

L’orientale la imitò, ponendo le sue plateau nere nella scarpiera e prendendo il paio dell’amica e mettendo a posto con un sospiro rassegnato. “Oh, sai cos’ho notato?” Julia si voltò a fissarla. “In queste settimane sei migliorata parecchio con l’inglese. Ma proprio tanto.”

L’osservazione anziché farla contenta la fece rabbuiare. “Cos’ho detto?”

 

Nada.” Sospirò, andando verso il salotto. “E’ che all’inizio Yuri me diceva siempre de hablar en ingles, che era maleducato… Litigavamo, ci punzecchiavamo. Nemmeno mi ero accorta che avevo iniziato a seguire le sue direttive.”

 

Mao le sorrise dolcemente. “Tesoro, quando-”

 

Julia mise le mani avanti, fissandola torva. “Non dire niente.” Alla sua frase scontrosa all’inizio la cinese sgranò gli occhi, poi comprese ed annuì, decidendo di cambiare discorso.

 

“Ti dispiace mettere il vivavoce per la segreteria? Ci sono due messaggi.” Chiese, indicando l’apparecchio poco distante da loro che spiccava con un bel due rosso a tutto tondo.

L’altra annuì, andando verso il tavolino piccolo e tondo in legno dove stava il cordless e premette il tasto per azionare il vivavoce e fece il codice della loro segreteria.

 

Ieri sera ti sarò sembrato pazzo, ma… C’è una spiegazione al mio comportamento.” La voce di Kurt fece sgranare gli occhi a Mao, che non si aspettava minimamente quelle parole. “Vediamoci.”

 

La segreteria annunciò la fine del primo messaggio, e l’orientale si ravviò i capelli per riprendere il controllo di se stessa, ma fu in quel momento che partì il secondo messaggio, anticipato da più secondi di silenzio.

 

“…Sono io, Fernandéz.” Il cuore di Julia saltò, e Mao vide i suoi lineamenti irrigidirsi, notando anche come la voce di lui, suonasse quasi incerta per poi riprendersi subito dopo. “Mi trovo al Plaza, magari puoi raggiungermi.”

 

Il messaggio finì lì, lasciando le due rigide e stupite fino a quando non fu la stessa spagnola ad attraversare la stanza e, con due gesti decisi, a cancellare entrambi i messaggi in segreteria.

 

“Forse voleva parlarti.” Suggerì Mao. “Non ha specificato…”

 

“No, ha specificato.” Sbottò la madrilena. “Como credi che organizzassimo i nostri appuntamenti, prima? Era tutto un ‘Sono qui, vieni se puoi’. Lui non vuole parlare perché non sa farlo. Pensa de poter passare sopra il modo in cui mi ha trattato e sai una cosa? Pensa male.”

Detto questo l’unica cosa che fece fu andarsi a barricare nella stanza ed andare a dormire, alla faccia di uno stupido russo idiota.

 

 

 

 

 

Approfittando del fatto che vi fossero degli autobus che lasciassero direttamente dinnanzi al Plaza, ne sfruttò uno che passava proprio davanti la facoltà e la lasciò a pochi isolati dall’hotel. Non vedeva il suo migliore amico da giorni, voleva uscire un po’ con lui, parlargli, sfogarsi, ridere, scherzare… E poi poteva farlo solo ora, l’indomani Takao sarebbe stato impegnato con il torneo.

 

Scese dall’autobus entrando di filata nell’albergo a cinque stelle; salutò velocemente le signorine alla reception e volò verso l’ascensore che la lasciò al piano dove alloggiavano i Blade Breakers. Era mezzogiorno, di solito Takao finiva di allenarsi a quell’ora e pranzava all’una, quindi avrebbero anche potuto fare una piccola passeggiata e andare a mangiare qualcosina da qualche parte insieme. Sospirò e l’idea la rilassò all’istante.

 

Quando si ritrovò davanti la camera in cui stava appeso il cartello ‘Do not Disturb’, restò spiazzata: non poteva star dormendo fino a quell’ora, non se l’indomani vi erano le gare e lui si doveva allenare. C’era qualcosa che non andava.

 

Decise di bussare lo stesso, in modo che lo sentisse. “Takao, sono Hilary!” esclamò, attendendo una reazione. Che avvenne: all’interno della suite vi fu un frastuono atroce – talmente da farla sobbalzare bruscamente – e fu solo parecchi secondi dopo che lui venne ad aprire. Sembrava il solito Takao di sempre, ma con un velo di sudore in più.

 

“Tutto bene?” glielo chiese, cauta, come per accertarsi che nulla fosse successo.

 

Il ragazzo scrollò le spalle. “Figurati, mi è caduta la valigia addosso.” Rise, e i dubbi di Hilary si dissolsero. “Sono tornato due minuti fa dall’allenamento, che ci fai tu qui?”

 

Lei sorrise. “Pensavo di invitarti a pranzo: la pappa per un consiglio enorme.”

 

Lui finse di valutare attentamente la proposta. “Mi tenti, ma ci devo pensare…. Se poi il mio consiglio non vale il pranzo?”

 

Hilary assunse un’aria sibillina. “Ti dico che il pranzo te lo offro dove vuoi… E che devi darmi un consiglio su Kai.” Il giapponese si voltò a guardarla di scatto. “Abbiamo fatto sesso.”

 

“Che cosa?!”

 

 

 

 

 

“M-Ma tu… M-Ma come..?” Mao non si accorse nemmeno di avere gli occhi fuori dalle orbite. Sentiva solo i battiti furiosi del suo cuore e quella notizia che continuava a rimbombarle in testa.

 

“Già.” Il fatto che Kurt fosse tranquillo era un qualcosa di pressoché paradossale. Di certo le parole dette minuti prima ‘Mi drogo, avevano avuto un effetto bomba sulla cinese, che lo stava fissando con tanto d’occhi.

 

Perché?”

 

“Non lo so.”

 

“Ma cosa vuol dire?” accorata, si passò una mano tra i capelli, non sapendo nemmeno che fare, ma cercando una parvenza di autocontrollo. “Perché hai deciso di dirmelo?”

 

“Perché speravo che insieme a te potessi cavarmela.”

 

La risposta sincera di lui la spiazzò. Non seppe cosa fare né dire, si limitò a fissarlo con tanto d’occhi. “Cavartela? Cavartela come?”

 

Il ragazzo scrollò le spalle. “Tu mi fai stare bene. E io voglio solo questo.”

 

Lo fissò intensamente per qualche secondo, dopodiché scosse la testa. “Devi farti aiutare, devi dirlo ai tuoi.”

 

“No.”

 

La sua risposta dura non la fece affatto vacillare. Sapeva che quando si toccava l’argomento genitori Kurt diveniva spinoso come un riccio, ma era determinata a farlo capitolare. “Devi. Questa volta non c’è in ballo uno stupido pacco di sigarette o l’ennesima auto da distruggere. C’è la tua vita.”

 

Ciò che disse parve colpirlo molto, perché dapprima il suo volto si fece dubbioso e confuso, dopodiché si rabbuiò. “Te l’ho detto perché pensavo potessi capirmi. Se non si fa a modo mio non si fa niente, cazzo.”

Trattenendo a stento le lacrime, Mao si alzò e girò sui tacchi, il dispiacere che la pervadeva.

 

 

 

 

 

Una bella notizia in quel periodo era stata, indubbiamente, il sapere suo fratello e Mathilda insieme. Insieme erano una coppia che avrebbero fatto sospirare chiunque: belli, giovani, palesemente innamorati, dolcissimi, erano praticamente perfetti.

Certo, c’era quando Mathilda faceva stancare suo fratello perché troppo dedita allo shopping ed affini, o quando lei si stancava dell’imbranataggine del suo fidanzato, sbuffando ed alzando gli occhi al cielo, ma le liti e gli screzi non duravano più di qualche minuto. Bastava un sorriso o anche solo un’occhiata per farli tornare l’uno tra le braccia dell’altra, e beccarli in quei momenti era quanto di più dolce vi potesse essere.

 

Julia era appena sopraggiunta al Plaza in quel frangente: sapeva che Romeo aveva preso per loro la palestra per farli esercitare, e una volta tanto era arrivata in anticipo. Aveva fatto una dormita di una cinquina d’ore che era servita soltanto ad acuire le sue occhiaie e ad irritarla ulteriormente, per non parlare del fondotinta che non era per nulla riuscito a coprire alcunché dello stress.

 

Percorse il corridoio dell’hotel, avendo come meta soltanto la palestra, e stava quasi per arrivare a destinazione ma alla vista di una chioma rosso accesa che sarebbe spiccata anche con il buio si irrigidì. Lo stomaco le si strizzò in una morsa piacevole che preferì ignorare per quanto possibile, ma notò che lui le lanciò un’occhiata… Diversa. Non era uno di quegli sguardi freddi, ma nemmeno sarcastici o ironici. Erano più volti a sondare il campo, come a vedere lei, il suo umore, i suoi pensieri… Tutto tramite un’occhiata.

 

Julia lo freddò con uno sguardo gelido, il peggiore che avesse mai lanciato a chiunque sulla faccia della terra, dopodiché continuò per la sua strada, nemmeno lui si fosse improvvisamente dissolto.

Quando aprì la porta della palestra era in anticipo di dieci minuti, e le venne da sorridere per la scena che le si parò davanti: suo fratello era seduto per terra, sul parquet, e stava visionando qualcosa del suo beyblade mentre Mathilda era accoccolata sulla sua spalla; parlottavano piano e a tratti ridevano insieme, dicendo qualcosa inerente al bey di Raùl.

 

Non seppe per quanto tempo rimase sulla porta a guardarla mentre il cuore le si stringeva sia per la felicità e al contempo per la tristezza, ma ad un certo punto entrambi alzarono lo sguardo, sorpresi di vederla lì. “Ehi, sei in anticipo!” il fratello sbatté gli occhi. “Non è da te, l’appuntamento era per le tre del pomeriggio.” Fece, prendendola in giro.

 

“Lo so.” Julia gli rivolse una linguaccia, chiudendosi la porta alle spalle. “Ciao a tutti e due. ¿Romeo donde està?”

 

Raùl si alzò da terra, porgendo poi la mano a Mathilda che la accettò con un sorriso. “E’ andato a prendere gli schemi dell’allenamento per domani. Quindi mi dispiace, tu non puoi vedere.” Fece, rivolgendosi alla sua ragazza.

 

“Credo andrò a morire fuori di qui allora, come le api.” Tutti ridacchiarono alla sua battuta, e la ragazza prese il suo zaino, preparandosi ad andare; bacio brevemente Raùl sulle labbra e salutò Julia, per poi chiudersi la porta alle spalle.

 

Romeo arrivò due secondi dopo, e fece vedere loro gli schemi della partita dell’indomani, facendoli esercitare tramite gli ostacoli più complessi e arguti che lui stesso aveva ideato. Julia e Raùl dovettero dare il massimo in quelle due ore, faticando e sudando a mai finire, sapendo che l’indomani avrebbero affrontato delle squadre altrettanto forti che volevano la vittoria esattamente quanto la volevano loro.

 

Quando due ore dopo l’allenamento finì, Julia salutò Raùl e l’allenatore per andare di filato a prendere un caffè: ne aveva bisogno come l’aria. L’allenamento non era andato male, ma aveva troppo sonno, e stava per stramazzare al suolo.

 

Al bar del Plaza, con la tazzina in mano, fu per miracolo che non sputò la bevanda addosso al cameriere quando le sue narici avvertirono vicino a lei un profumo che conosceva bene.

“Non dovevamo vederci?” la sua voce era neutra, calibrata, e Julia decise di giocare al suo stesso gioco: continuò a bere il caffè con noncuranza, come se nessuno avesse parlato. Era una cosa che mai aveva fatto, ma avrebbe dovuto essere abituata anche al fatto che quel russo dei suoi stivali la spingeva a comportamenti che non le erano soliti.

Fernandéz, sto parlando con te.” Ora il tono si era fatto seccato; di nuovo come se nulla fosse scese dallo sgabello, lasciando sul bancone una banconota che pagava tutto e lasciava la mancia. Fece per andare via, mirando soltanto all’uscita del bar, ma non aveva calcolato la testardaggine del suo presunto interlocutore, che le si parò davanti, con cipiglio arrabbiato.

“Sto parlando con te.”

 

 “Ho notato.” Borbottò, facendo per sorpassarlo ed andar via, ma lui la afferrò per un avambraccio, portandola vicino a sé e facendole saltare il cuore.

 

“Non mi piace essere ignorato.” Sbottò, fissandola duramente negli occhi.

 

 “Non so che farci.” Ribatté, incrociando le braccia al petto. “A me no me gusta preoccuparme inutilmente por le persone e scoprire che questi sono…Zitelli acidi con problemi di vita sociale!” esclamò, nervosa, facendogli inarcare le sopracciglia. “E, per la cronaca, lo zitello acido saresti tu!”

 

Indeciso se sbattere la testa al muro o scoppiare a ridere, decise di ammutolire, per poi parlare lentamente. “Sì, l’avevo capito…”

Non seppe cosa fare: lei lo sconvolgeva, lo rivoltava come un calzino, per poi-

 

No, tu no entiendes! Non hai capito che io ti ho invitato a casa mia per farti passare una bella serata e che mi sono ritrovata a dover chiamare l’ambulanza!” esclamò, rossa in viso e fuori di sé. “E per tutta risposta mi hai dato addosso per essermi preoccupata, ma sai che cosa, Ivanov? ¡Vete a la mierda!”

 

…Per poi dargli la mazzata finale.

Incredibilmente quando lo mandò a cagare Yuri non si arrabbiò affatto, anzi, si ritrovò a sorridere di fronte a quella furia che gliene diceva di tutti i colori, e un istinto assolutamente primitivo mai provato prima verso nessuno di attirarla a sé e baciarla si fece largo in lui talmente potente e forte da spaventarlo.

 

“Hai ragione.” Fu solo in grado di dire, stordito da quelle emozioni a lui del tutto estranee.

 

Julia smise di parlare e lo fissò, sbattendo gli occhi. “Che cosa hai detto?”

 

Dirlo non era semplice, eppure non vedeva altra scelta, altra soluzione: lei si era comportata spinta da puro altruismo e lui per tutta risposta le aveva rimbrottato contro. Fosse stata un’altra non gli sarebbe importato di mandarla a quel paese… Ma era lei.

 

“Mi dispiace.” Ammise, parlando velocemente. Era la prima volta che diceva quelle parole, non era abituato, e il fatto che lo stesse dicendo ad una persona del tutto diversa da lui che non sapeva come classificare lo confondeva maggiormente.

 

Julia rimase senza fiato, incapace di dire alcunché; e se fu in grado soltanto di ostentare una parvenza di contegno, dentro di lei si fece largo una nuova consapevolezza che ormai non poteva più tenere a bada.

 

 

 

 

 

Le sue amiche, aveva bisogno delle sue amiche. Di una spalla su cui piangere, di una persona con la quale sfogarsi. Passandosi nervosamente le mani tra i capelli e guardandosi intorno Mao non seppe che fare. C’erano solo persone che correvano di qua e di là e le signorine alla reception. Si odiava per essere avergli dato un ultimatum, si detestava per non essere rimasta lì ad aiutarlo, ma sapeva anche di essere terrorizzata e di non sapere minimamente che fare di fronte ad una cosa così assurda e decisamente troppo grande per lei.

 

Per una volta in cui l’aveva cercato, Lai non c’era. E oltre suo fratello…

Si diresse verso la palestra di bey senza sapere nemmeno il motivo, probabilmente per poter piangere ininterrottamente senza farsi scoprire da nessuno. Lì, abbracciatasi le ginocchia, poté dar sfogo a tutto lo stress delle ultime settimane e a tutta la paura che aveva provato di lì a poco.

 

Perché mi sta succedendo tutto questo? Non sono capace di gestire niente, niente… Niente!

 

Singhiozzando ancora più rumorosamente, fu troppo impegnata a rimuginare sulle cose che le erano accadute per accorgersi della porta che si era aperta.

 

“Mao!” sobbalzò a quel tono di voce così accorato e, tempo un battito di ciglia, si ritrovò accanto alla persona che mai avrebbe desiderato avere accanto.

 

E, ancora una volta, sto mentendo.

 

“Sto bene, sto bene.” Balbettò, asciugandosi alla bell’e meglio il viso dalle lacrime. “Scusa, ora è meglio che-”

 

“Aspetta.” Quel tono di voce così dolce. Lo amava e lo odiava allo stesso tempo. “Ti va di dirmi cosa ti è successo?”

 

Le parole, quelle parole si insidiarono dapprima nelle sue orecchie, poi nel suo cuore. Come poteva essere così… “No, scusa.”

Andare via. Doveva andare via. Se il fato o qualcosa del genere aveva deciso che avrebbe dovuto affrontare le sue paure più grandi tutte in un giorno solo beh, aveva sbagliato persona.

 

“Ehi.” La presa sul suo avambraccio era morbida e per niente aggressiva, eppure bastava a trattenerla. “Cos’hai?”

 

E lì non poté più resistere. Le sue difese, sempre se c’erano mai state, crollarono in men che non si fosse detto, e buttargli le braccia al collo e singhiozzare fu davvero il minimo.

Sentì le sue braccia stringerla saldamente, le sue mani tracciarle dei disegni senza alcun senso sulla schiena, come a calmarla. Lei pianse senza ritegno, abbracciandolo forte e perdendosi in quel profumo che aveva sempre annusato, che sapeva di lui.

 

Scelse di distaccarsi solo diversi minuti dopo, quando riacquistò una parvenza di stabilità. “Grazie… Io non dovevo… Sono così-”

 

“Cos’è successo?”

 

Il suo tono di voce era dolce ma fermo allo stesso tempo, ed associato ai suoi occhi costituì un mix letale per il suo autocontrollo. “Niente, io… E’ che Kurt mi ha detto di star male, che ha… Qualcosa. E sono andata via come una scema.”

 

Rei annuì lentamente, cercando di ricostruire con gli esigui pezzi da lei forniti il puzzle. “Spaventarsi per qualcosa è normale, è umano. Non fartene una colpa.”

 

Lei scosse la testa. “Lui ha bisogno di me..! E gli ho dato un ultimatum e sono andata via!”

 

Con tutto quello smanettare in toni alterati, il ragazzo non poté far altro che prenderle le mani tra le sue e fissarla intensamente negli occhi. “Va tutto bene.”

 

Mao si perse in quelle iridi color oro che aveva così tanto osservato tempo addietro e, sentendo un calore lancinante e doloroso salirle su per la schiena assieme ad un brivido, si accorse solo dopo di essere a poca, pochissima distanza da lui. Troppo, troppo poca.

“Devo andare.” Il suo, più che un sussurro fu un rantolo.

 

Ancora una volta la fece voltare, confuso per quel cambio di espressione e di tono. “Aspetta.”

 

Ma quando la avvicinò a sé, lei prese a fissarlo con occhi disperati. Liquidi, tristi, quegli occhi. E poi fu soltanto un bacio dato dalla disperazione stessa e dal bisogno.

Di cosa, lo sapevano benissimo, ma si sarebbero morsi la lingua entrambi prima di ammetterlo.

 

 

 

 

 

Per San Valentino l’Avalon si era adeguato: aveva organizzato una serata a tema, con decorazioni e nuovo menù, e le coppiette si erano date tutte appuntamento lì: la maggior parte dei tavoli era stata organizzata per essere per due persone, e agli occhi di una persona abituata a vedere il locale negli altri giorni, quel giorno era stato addobbato in modo glam-rock bello ed affascinante. La sola cosa stucchevole erano le coppiette che tubavano ai tavoli, ma si poteva sempre sorpassare.

 

C’era un sacco da fare, era come fosse Sabato; Mariam sospirò, cercando di ragionare per avere un tipo di schema mentale. Per lei che non era tanto romantica, vedere quella scena che le si parava davanti agli occhi, era quanto di più stucchevole potesse mai essere visto: che senso aveva San Valentino, se una coppia in teoria doveva festeggiare il proprio amore tutti i giorni?

 

“Ehi, hai ben quattro post-it, qui.” Le sorrise Mitzy, prendendo al volo i vassoi che lei le porse.

 

L’irlandese sbuffò, cominciando a vedere cosa doveva fare ed organizzandosi di conseguenza: iniziò a disporre i vassoi e a mettervi sopra i bicchieri di vetro.

 

“Seratina impegnata?” al sol sentire quella voce sorrise: non poté fare altrimenti.

 

“Interessante, direi.” Diede due vassoi a Beth e due a Carla, dopodiché si rivolse a lui. “Desideri?”

 

Max si sedette sullo sgabello e scrollò le spalle. “Una birra andrà bene.”

 

Si voltò verso il frigobar e gliela porse, dopodiché attaccò con il frullatore. “Come mai qui?”

 

Lui scrollò le spalle. “Pensavo alle gare di domani, allo stress avuto, e volevo un po’ di spensieratezza.” Raccontò, con un sorriso. “Come te la passi?”

 

La ragazza stava accuratamente mettendo l’intruglio del frullatore nel pentolino per poi porlo sul minifornellino che aveva a disposizione. “Ho mille cose da fare.” Ribatté, con tono neutro. “Ma ci sono abituata.”

 

Lui aggrottò le sopracciglia. “Mao non c’è? Noto che siete più indaffarati del solito.”

 

Lei scosse la testa, mescolando con un cucchiaino il tutto. “No, ha chiesto la serata libera.”

 

Max inarcò le sopracciglia, poi fece una smorfia. “Credo che Rei non sappia più cosa fare. La loro è una situazione di merda.”

 

Spegnendo il fornellino, Mariam confermò con un sospiro. “Sono tutte delle situazioni di merda, sta a noi la volontà di aggiustarle.” Fece, prendendo una tazza e versandoci dentro l’intruglio. “Tieni.”

 

L’americano sbatté gli occhi, trovandosi davanti della cioccolata calda fumante. “E questa?” Vedere la ragazza arrossire e voltarsi bruscamente gli provocò un’ondata piacevolissima di mal di pancia, che durò poco: giusto il tempo di tuffare il cucchiaino nella bevanda. “E’ al peperoncino.”

 

“Già.” Borbottò l’irlandese, prendendo a shakerare gli ingredienti per un’altra ordinazione. “Ma non ti illudere: mi andava di vedere se ero ancora capace di prepararla e l’ho fatta, solo per questo.”

 

Lei distolse lo sguardo e lui nascose il sorriso dietro la tazza, cominciando a berne il contenuto: entrambi sapevano che non era affatto vero.

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

Lo so, lo so. Avevate pensato che non avrei aggiornato e invece… =D Le cose per me si stanno facendo pesanti in questo periodo, e faccio quello che posso.

Grazie, grazie infinite a tutti i bellissimi MP di incoraggiamento – ai quali non ho avuto tempo di rispondere. -.-‘

Vi adoro comunque.

 

Beh, qui qualcosa sta cambiando, e ve ne accorgerete con “Catch me if you can”. ;)

 

Un bacione, alla prossima settimana. :*

 

 

 

Hiromi

 

 

 

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Capitolo 14
*** Catch me if you can ***


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Too soon, to easy to give in
Just gotta trust what's within
Can you feel me crawling under your skin?
So catch me if you can

 

Catch me if you can – Ana Johnson

 

**********************

 

Sia lodato l’inventore dei mezzi di trasporto; cosa faremmo noi umani senza?

Hilary sorrise scendendo dal bus, giurando che senza, a quell’ora avrebbe percorso tutta New York in taxi, o a piedi. Arrivata davanti la villetta, non appena mise piede nel vialetto un certo abbaiare la fece sorridere. Hannah le aprì la porta ancor prima che potesse suonare, e il cagnolino sfrecciò verso di lei, volto a farle le feste.

 

“Cucciolo!” adorava quella creatura così piccola e dolce; sprizzava vitalità ed energia da tutti i pori, e tra lei e le altre era sempre strapazzato di coccole.

 

“Finalmente sei arrivata, è stato in pena tutto il giorno.” La dog-sitter le consegnò il collare e i due giochini che aveva portato; Hilary sorrise mentre gli attaccava il guinzaglio e Freddie le si buttò addosso, scodinzolando.

 

Pagò la donna rispetto a quello che le doveva, poi lei e il cagnolino proseguirono per la strada verso casa, non troppo distante da lì. Passeggiare con lui era divertente e buffissimo visto che non camminava ma saltava. Curioso come un gatto – il che avrebbe abbassato bruscamente il suo orgoglio canino – annusava tutto ciò che gli si parava dinnanzi, che fosse un sassolino o un filo d’erba. Riuscirono ad arrivare nell’appartamento dieci minuti dopo, e il cucciolo sfrecciò immediatamente lungo i gradini della scala, spingendola a correre per stargli dietro. Quando lo udì abbaiare sul pianerottolo, capì subito che in uno dei due appartamenti vi era qualcuno.

 

Qualche secondo dopo Julia uscì, e Freddie le si buttò addosso, facendola ridere. “Buenas, mi amor.” Chiocciò, accarezzandogli la testolina. “Hola chica.” Le sorrise, e rientrò nel suo appartamento, invitandoli ad accomodarsi. He llegado ahora; yo y Raùl ganemos.”*

 

Hilary si sedette sul divano del salotto, sorridendo. “Bravissimi!” fece, sorridendo. “In generale come sono andate le gare?”

 

Julia le si sedette accanto. “Muy bien; la prossima settimana ce sono le semifinali.”

 

La giapponese aggrottò la fronte, pensando che erano dieci giorni che non vedeva Kai: un po’ perché viveva tra università e band, un po’ perché aveva voluto prendersi il suo tempo per capirci qualcosa, si ritrovava ad aver saltato tutti gli incontri del torneo e a non saperne quasi niente di come fossero andati. Julia le raccontò ogni cosa riguardo le gare di quel giorno, in questo modo seppe chi aveva vinto, chi aveva perso, chi era stato eliminato; la ascoltò con attenzione, prendendo atto delle informazioni e pensando a quanto effettivamente si fosse persa in quei giorni.

 

“Io ho finito con la sessione di Febbraio.” Si stiracchiò. “Trenta in letteratura cinese, e si va avanti.”

 

La spagnola se la rise. “¡Viva! Mi raccomando lo spagnolo: ¡ay de ti!”*¹

 

Hilary annuì, ridacchiando. “Riguardo il resto ci sono novità?”

 

Julia accavallò le gambe, sbuffando. “Rei e Mao sono strani, Mariam e Max sono in avvicinamento e mio fratello e la sua ragazza hanno cominciato a stufare.”

 

La bruna si accigliò. “Perché dici così?”

 

“Si scambiano sguardi così melensi..!” sbottò, nervosa, roteando gli occhi.

 

“L’ultima volta che li ho incontrati erano dolcissimi, e bada che io detesto il troppo miele.”

 

Julia si alzò di scatto, cominciando a smanettare con gesti nervosi e rapidi. “E ora hanno rotto, va bene? Una storia d’amore dovrebbe essere privata, invece loro la sbattono sul muso a tutti!”

 

La giapponese la fissò negli occhi. “Sei sicura che il problema siano veramente loro?”

 

La madrilena arrossì. “E chi dovrebbe essere?” allo sguardo ironico dell’amica s’infuriò. “Quell’idiota di Ivanov non c’entra niente!”

 

Hilary accavallò le gambe e le fece un occhiolino. “Sei tu che l’hai nominato, non io.”

 

 

 

 

* “Ehi, amore mio!” “Ciao anche a te, ragazza.” “Sono tornata ora; io e Raùl abbiamo vinto.”

*¹ “Guai a te!”

 

 

 

 

Doveva chiarire, e doveva farlo subito. Era una cosa che andava fatta all’istante e di botto, un po’ come strapparsi una striscia di ceretta o farsi togliere un dente del giudizio.

 

Come si dice? Ah, sì. Via il dente via il dolore.

 

Era stata tre giorni senza farsi vedere, aveva approfittato del fatto che in mezzo vi fosse il weekend – quindi niente incontri né allenamenti – ma non poteva rimandare per sempre. Era o no un membro della tribù della Tigre Bianca? Avrebbe dovuto essere una persona coraggiosa proprio perché vi apparteneva, e anche perché era una blader. E poi figura ci faceva come sportiva?

 

Non è così che sarebbero dovute andare le cose con lui. Io sto uscendo con Kurt, e ha bisogno di me!

 

Il fatto che la persona che avrebbe dovuto essere il suo ragazzo si fosse confidato con lei, caricava sulle sue spalle un’enorme responsabilità. Che lei non sapesse gestire la situazione era poi un altro discorso, intanto doveva quantomeno essere leale.

 

Bussa. Bussa alla porta, sciocca.

 

Non si era mai accorta di quanto fosse grande e bianca. In quel momento, con quel turbine di pensieri e di sentimenti le pareva quasi che volesse sopraffarla, inghiottirla.

 

Via il dente via il dolore! Al tre bussi, capito? Uno, due e-

 

“Mao!”

 

La cinese sobbalzò bruscamente quando davanti le si presentò il dente in questione.

Peccato che sapesse mandarla fuori di testa come mai nessuno aveva fatto. Solo vedendolo ricordava perfettamente tutto quello che era successo: il pianto, l’abbraccio, i vari baci che si erano scambiati facendole raggiungere un paradiso che mai aveva pensato di poter toccare con mano, perché faceva parte solo dei suoi sogni, solo delle sue fantasie.

E in quel frangente eccolo lì il suo sogno ed incubo: stava davanti a lei e la fissava corrucciato, pensieroso, come a volerle chiedere con lo sguardo cosa volesse.

 

Ma posso dirti che… Non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio

“Ciao.” Non ricordava che la voce roca e la gola secca facessero parte del pacchetto, proprio no. “I-Io passavo di qui e… Beh, cioè…” respirò a fondo, tentando di calmare i battiti del suo cuore, cosa assolutamente impossibile. “Ero venuta a parlarti.”

 

Ce l’ho fatta!

 

Lui annuì, serissimo. “Ti ho cercata anch’io, ma il fatto che ti fossi volatilizzata la diceva lunga su molte cose.”

 

No, non parlarmi così…

“S-Senti io… Beh, per me non è stato semplice. Dovevo fare il punto della situazione, considerare tutto e… Beh, è un casino.” Borbottò, cercando di iniziare un discorso che avesse un senso ma non guardandolo negli occhi.

 

“E pensavi di risolvere tutto scappando?”

 

Questo è troppo!

“Ehi, credi che per me sia facile? Che mi diverta? Se lo pensi hai preso un granchio, perché non è così.” sbottò, rossissima in viso, cominciando a smanettare. “Ho vent’anni, sto crescendo, devo capire molte cose, ma una delle cose che so è che ho sbagliato.” Alla sua espressione ironica perse ogni controllo. “Ma che cosa ne sai tu? Cosa? Sono io che mi gestisco tra il lavoro e il beyblade, io che ho un ragazzo con problemi di droga, io che devo evitarti!” il suo urlo si stagliò sull’intera superficie del corridoio di quel piano.

“Tu ti sei interamente dedicato al beyblade, hai voluto fosse la tua vita, ed ecco: gestiscitela pure!” eruppe, continuando a gesticolare. “Ma non venirmi a dire che sono una codarda, che ho sbagliato perché sono scappata perché sono scappata da… Qualcosa che non deve nascere ora.”

 

Il suo sguardo ambrato ruggiva per lui, e il suo viso, serissimo, la diceva lunga. “Perché sei tu a deciderlo?”

 

Mao cacciò una specie di urlo sommesso, quasi di disperazione. “Perché è sbagliato, perché non è più il tempo, perché non è giusto!”

 

Sentirsi artigliare i polsi come quella volta fu stupefacente e terrorizzante insieme, e sentirsi addosso i suoi occhi fu una bomba per i suoi propositi ed il suo autocontrollo. “Sempre. Noi saremo sempre giusti.” E la baciò, la baciò famelicamente, lasciando che lei gli buttasse le braccia al collo e lo stringesse come quella volta.

 

Mao non pensò più a niente, il suo cervello mise da parte ogni pensiero. Si chiese soltanto come poteva riuscire a mantenere il punto se ogni volta lui la prendeva tra le braccia. Come poteva?

 

 

 

 

 

Prese Dranzer al volo, soddisfatto di quelle ore di allenamento: la settimana successiva si sarebbero aperte le semifinali, e la Neoborg doveva vincere a tutti i costi. Per quel giorno poteva bastare così, avrebbe ripreso l’indomani; aveva già in mente degli schemi di allenamento niente male…

 

“Ehi!”

 

Si voltò con cipiglio curioso all’udire quel timbro di voce che conosceva bene: gonna nera, camicia rossa con le maniche a palloncino, in una mano reggeva il soprabito e nell’altra la sigaretta. Curioso come ogni volta che la guardasse gli sembrava di esser stato catapultato in un altro decennio.

 

“Chi non muore si rivede.” Commentò, riponendo Dranzer nella tasca dei pantaloni.

 

La bruna se la rise, sedendosi sulla panchina poco distante. “Sono stata impegnata.” Fece, stiracchiandosi pigramente. “Ma la latitanza è finita.” Vedendo che lui la fissava senza dire alcunché, riprese. “Come sta Yuri?”

 

Kai si accigliò, non si aspettandosi quella domanda. “Bene.”

 

“Beh, beato lui.” Commentò, sospirando. “Non posso dire lo stesso di Julia.”

 

Il russo capì che lei doveva parlargli, e le si avvicinò. “Cioè?”

 

“So troppo poco della pseudo relazione tra lei e Yuri per parlarne, ma è evidente che per lei le cose si stanno evolvendo in un’altra direzione. Ti volevo chiedere se per il tuo compagno di squadra è lo stesso o se devo salvaguardare la mia amica facendola voltare verso altri orizzonti.”

 

Il moscovita tacque qualche istante, pensandoci attentamente: tra i suoi compagni di squadra non vi era calore o affetto, loro coesistevano in maniera singola, quasi individuale – cosa che poteva esser definita paradossale per un gruppo di persone che si definiva squadra. Ma erano così: non servivano abbracci o pacche sulle spalle; loro si capivano con un solo sguardo e con poche parole, e questo era l’ideale per lui.

“Qualcosa è cambiato.” Ammise. “Non è la prima volta che Yuri ha un’amicizia del genere, ma è la prima volta in cui vedo rispetto e anche l’esclusività, il che mi stranizza.”

 

Hilary inarcò le sopracciglia. “Una scopamicizia esclusiva? Ma da quando in qua?”

 

“Sono i loro casini.” Commentò lui, con una scrollata di spalle.

 

“Anche noi siamo nei casini.” Lui non disse nulla. “Quella mattina non abbiamo saputo fare altro se non balbettare, ma ora credo sia arrivato il momento di decidere se ignorare la situazione o meno.”

 

“Ignorarla sarebbe immaturo.”

 

“Cosa proponi?”

 

“Vedere dove ci porta.” Allo sguardo stupito della ragazza distolse lo sguardo, concentrandolo su un punto davanti a sé.

 

Hilary appoggiò il mento sul palmo della mano e sospirò. “Non sarà semplice, anzi.”

 

“Potremmo sempre fare con calma.” A quelle parole lei si ritrovò a sorridere, e lui stesso ostentò uno sguardo più disteso. Calò un pacifico silenzio in cui entrambi si persero nei propri pensieri; silenzio interrotto, a sorpresa, proprio dal russo. “…E Chris?”

 

A quella domanda Hilary scoppiò a ridere, facendogli inarcare le sopracciglia. “L’ho scaricato giorni fa. Non era niente di speciale.”

 

A quella sua ultima affermazione parve più ringalluzzito che altro. “Già.” Disse solo, un sorriso beffardo sulle labbra.

 

“E poi Chris è un nome stupido.”

 

Il sorriso di lui, tronfio ed ironico, era tutto un programma. “L’ho sempre pensato.”

 

Più divertita che mai, cercò di trattenere la risata per la stoccata finale, che avvenne con molta nonchalance. “Ma anche Kai non scherza, eh.”

 

Lo sguardo di lui si fece spaesato, confuso; ma durò solo una frazione di secondo. “Cioè?”

 

Hilary rovesciò la testa indietro e scoppiò a ridere della grossa, dopodiché si alzò, sorridendogli e facendo cozzare la punta del suo indice contro il naso di lui. “Scemo.” Sussurrò dolcemente, guardandolo con tenerezza.

E se ne andò senza dire altro, sentendosi leggera, tranquilla.

 

 

 

 

 

Vedere Thunder Pegasus sfrecciare lungo i nastri che lei stessa manovrava era qualcosa di assolutamente stupendo: ci voleva il doppio della concentrazione per far muovere in maniera sincronizzata beyblade e nastri argento, ma l’effetto che ne derivava era straordinario al punto da togliere il fiato a chiunque lo vedesse.

 

Yuri restò quasi senza parole quando dischiuse la porta della palestra: quella ragazza era vestita come un’odalisca, con tanto di ombelico scoperto e veli sul corpo che ingaggiavano un sensuale ‘vedo non vedo’ che aveva il potere di farlo andare in tilt… Vedere poi il suo beyblade percorrere il percorso tracciato da quegli oggetti che parevano così fragili ed instabili, che invece erano animati dalla passione e dall’energia che lei sprigionava da tutti i pori… Era strabiliante.

 

Ivanov, ¡que sorpresa!” il beyblade tornò dolcemente nelle mani della ragazza e i nastri vennero accuratamente messi via, ma Julia non staccò per un attimo gli occhi da lui. “¿Que tal?”

 

Lui inarcò le sopracciglia, fissandola con aria sostenuta. “Che dovrei rispondere?”

 

La spagnola sorrise, soddisfatta, avvicinandosi a lui. “No lo sé… Tu come stai? Mal, bien, muy bien… Ma osservandoti direi regular.”

 

La osservò attentamente, specchiandosi in quegli occhi verde prato che parevano privi da qualsiasi pensiero o turbamento: aveva una pelle liscia ed abbronzata che pareva pura seta, se lo ricordava bene per quante volte si era ritrovato ad accarezzarla o a baciarla. Quella stessa pelle che, in quell’istante, gli faceva venire voglia di avvicinarsi a lei.

“Sei impossibile, Fernandéz.” Borbottò, cercando di distrarsi. “Quando parli con qualcuno-”

 

Il tocco delle sue dita sulle labbra lo fece ammutolire di colpo; Julia lo fissava, contenta, per poi riprendere a parlare. “No, stavolta ho pensato anche a te: sai che mi sono informata sul russo?”

 

Le idee malsane di quella pazza scatenata non avrebbero più dovuto tangerlo, invece lo sorprendevano sempre e comunque. “Ma dai.” Replicò, laconico.

 

“Sì, sì!” la ragazza saltellò come fosse soddisfatta di sé. “So un paio di parole.” Annunciò, orgogliosa.

 

La voglia di emettere un sonoro sospiro era forte, ma si trattenne: la verità era che lei era una scarica di energia talmente potente da stordirlo volta per volta. Si facevano la guerra, si prendevano a parole, erano differenti come i punti estremi del firmamento, eppure avevano sviluppato un senso di dipendenza l’uno dall’altra. Al quale non sapeva dare un nome e che senza dubbio, al momento, preferiva non apostrofare.

“Cioè?”

 

Priviet!” quando esclamò il suo saluto imparato chissà dove con quella contentezza come se avesse scoperto l’acqua calda, lui fece tanto d’occhi. “Priviet, priviet, priviet!” esclamò con forza, convinta. “Sono brava?”

 

Era in quei momenti che lo riduceva senza parole. “Non sai dire altro?”

 

Julia ci pensò su. “Kak diela?” la frase inerente al ‘come stai’ venne pronunciata con un accento spagnolo talmente forte che non resistette: abbozzò un sorriso, per poi alzare gli occhi al cielo.

 

“Continua a dire ciao, Fernandéz.”

 

 

 

 

 

Quando si trovava in Irlanda la natura d’inverno pareva ghiacciarsi, cristallizzarsi in un’atmosfera quasi surreale per poi sciogliersi definitivamente, il tutto contornato da piogge ogni due per tre. Il mondo, però, doveva essere veramente piccolo se a New York gli inverni solevano essere freddi e piovosi.

Osservando la forte pioggia scendere giù dal cielo e colpire le strade ad un ritmo sostenuto e quasi furibondo, attivò i tergicristalli della sua mustang. Tra le canzoni dei Beatles e il riscaldamento che si stava attivando, avrebbe raggiunto il posto di lavoro in più o meno cinque minuti.

 

In quel momento le strade erano un turbine grigiastro di ombrelli, persone, automobili… Probabilmente fu per quello che lo vide: i suoi capelli biondissimi spiccavano su qualunque cosa.

Pareva avere determinati problemi con la pioggia, perché si guardava attorno titubante, e fu per quello sguardo che inchiodò accanto a lui.

 

“Sali.”

 

I suoi occhi si spalancarono, e quando incontrarono il suo sguardo scocciato ma anche il suo lieve rossore, annuì. “Grazie.”

 

“Dove devi andare?”

 

“In hotel.” La fissò sorridendo, e le sue dita veleggiarono sullo stereo che trasmetteva la musica a tutta forza. “Beatles… Sempre loro, eh?”

 

Dandosi dell’idiota non poté far altro che annuire, pensando a guidare oppure a concentrarsi su Lucy in the sky with diamonds.

 

“Come stai?” sulle labbra di un altro quella domanda sarebbe parso il classico convenevole idiota tra due persone, invece, sapendo che lui non chiedeva mai niente se non vi era un valido motivo, si voltò a fissarlo negli occhi.

 

“Direi bene.” Al suo cenno di continuare, lei pensò, esattamente come un anno prima, che pochi sulla terra avevano il potere di farla divenire logorroica, e quando accadeva era una tragedia. “E’ un periodo di transizione per molte cose: tra poche settimane il campionato terminerà, noi ce ne andremo da New York, e… Finirà questo periodo.”

 

Lui provò a pensarci. “Diciamo che ti senti… Nostalgica?” annuì, dubbiosa se quel termine fosse adatto a raffigurare le sue emozioni in quel frangente. “Non è da te; non eri quella che guardava sempre avanti?”

 

Sospirò, annuendo. “Vuoi la verità? Da un po’ di giorni non faccio che pensare a quando tornerò in Irlanda, a quando dovrò lasciare questa parte di New York che mi ha insegnato veramente tanto.” Sospirò, volgendo il suo sguardo alle strade e alle insegne maestose. “Le ragazze mi mancheranno da morire.”

 

Lui la fissò, ironico. “So che c’è anche un’altra parte che hai ponderato alla perfezione, ti conosco.”

 

Sorrise, non ne poté fare a meno. “…Poi penso che è la vita; persone che vanno, che vengono, periodi che ti insegnano più di quanto avresti mai pensato, e che inevitabilmente finiscono, anche quando non facciamo che ancorarci a questi. E non resta che lasciarli andare.”

 

“Mi mancava il tuo lato filosofico.” Ridacchiò lui.

 

E a me mancherai anche tu, stupido.

“Beh, è parte di me.” Fece, parcheggiando di fronte all’hotel con una manovra perfetta.

 

Il ragazzo la prese delicatamente per mano, minacciando di farle fuoriuscire gli occhi dalle orbite per quanto lei sgranò gli occhi. Il verde smeraldo di lei era confuso, spaurito, quasi incredulo quando lui si abbassò leggermente a baciarla sulla punta del naso. “Se potessi dirti con certezza che tutto andrà bene te lo direi, ma non ho questo potere. Tutto quello che voglio è che tu sia felice, ma vorrei anche che tu lo fossi con me.” Mariam restò senza parole di fronte a quella dichiarazione del tutto inaspettata: non sapeva né cosa rispondere né qual era il gesto giusto da fare, nonostante vi fosse il suo cuore che martellava come mai aveva fatto.

La fissò dolcemente, lasciandole la mano ed inchiodandola con lo sguardo. “Domani vorrei farti una sorpresa.”

 

Lei inarcò le sopracciglia. “Un’altra?”

 

“Sì, ma stavolta c’è il ricatto: se non esci con me non la avrai.”

 

Mariam incrociò le braccia. “E’ una minaccia?” quando lo vide annuire, convinto, non poté far altro se non ridere. “E va bene, ci sto.”

 

Sulle labbra del ragazzo si distese un sorriso enorme che gli illuminò il volto. “Non te ne pentirai.” Affermò, convinto, carezzandola con lo sguardo per poi rivolgerle un cenno di saluto.

 

Quando se ne andò, Mariam capì a fondo il significato di incollare i pezzi: era qualcosa di impossibile, di assolutamente inutile e doloroso. Ma quando in entrambi vi era la volontà di ricominciare, si poteva a poco a poco, sostituire i pezzi di prima con un qualcosa del tutto nuovo ed integro.

 

 

 

 

 

La prima cosa che cercò di notare, in quel miscuglio impossibile di persone, fu un viso conosciuto. Non vedendolo continuò a guardarsi intorno per un paio di minuti, fino a quando un braccio alzatosi al di là della folla le fece cenno di avvicinarsi. Cercò d ignorare la voragine che si era aperta nel suo stomaco e si piazzò sulle labbra un sorriso.

Kurt quel giorno non era solo; dopo aver passato con lei un intero weekend in cui avevano preso in considerazione le varie soluzioni, le aveva detto che avrebbe passato la mattinata con un suo amico. Probabilmente lo stesso che era accanto a lui in quel frangente.

 

“Come mai questo ritardo? Non è da te.” Alla giusta domanda arrossì, mostrando un sorrisetto di scuse e non rispondendo. “Lui è Jared, te ne ho parlato. Lei è Mao.”

 

Strinse la mano a quel giovane così differente dal suo ragazzo, un tipo alto e dal portamento signorile, che le sorrise come solo un inglese poteva fare. “Ciao.” La salutò, cordiale, dopodiché si rivolse ad entrambi. “Prendiamo un aperitivo, così possiamo parlare un po’ meglio?”

 

La ragazza lo osservò, imbarazzata. “Okay, ma tutto entro i prossimi tre quarti d’ora. Sapete, devo andare a lavoro…”

 

Jared annuì, cortese, e tutti insieme si incamminarono verso un pub non distante dal luogo in cui si trovavano, iniziando a parlare del più e del meno.

Impressionante la differenza tra i due, diversi come il giorno e la notte eppure amici per la pelle. Degna di nota fu anche la velocità con cui i drink arrivarono e il riguardo dei camerieri verso Jared.

 

Mao accavallò le gambe, dando una fuggevole occhiata al suo orologio. “Allora, cosa c’è di nuovo?”

 

Kurt scrollò le spalle, poi esibì un sorrisetto. “Vado a Miami.”

 

“Come?”

 

Jared posò il bicchiere sul tavolino davanti a loro, poi sorrise, trionfante. “Gli ho spiegato lì c’è un centro di cura dalla tossicodipendenza, l’ha fondato mio zio. Avrà tutti i riguardi e gli agi che vuole, in più potrà venire a New York ogni volta che lo desidera.”

 

Lei fissò prima uno e poi l’altro. “Fammi capire… Io ho impiegato un weekend a tentare di convincerlo, e tu ci sei riuscito in una mattina?”

 

Quello sorrise. “Un’ora, a dire il vero.” Mao ridacchiò, divertita. “Il potere di un’amicizia che dura da anni, che vuoi farci?”

 

Kurt sospirò a fondo, zittendoli e cercando lo sguardo di lei. “Tu che farai?” si vide arrivare uno sguardo interrogativo. “Vieni con me?”

 

 

 

 

 

Ultimamente il Plaza stava talmente divenendo luogo di incontri – segreti o meno – menage e liti che agli occhi dei ragazzi aveva quasi perso il suo lato esclusivo. Quasi, o del tutto.

Hilary entrò nell’albergo conoscendo la strada a memoria: se prima lo osservava con aspetto quasi reverenziale, messa in soggezione da tutto quel lusso e dallo stile, in quel frangente si ritrovava a non contare più le volte che era stata lì: quel luogo era stato teatro di battibecchi, vendette, abbracci, urlate furiose e tanto altro… Incredibile quanti segreti potesse nascondere un posto.

 

Salutò di sfuggita le receptionist chiedendosi quante ne avessero viste in quei mesi in cui vi era organizzato il torneo mondiale di beyblade, poi rilasciò il pensiero, dirigendosi verso le scale.

 

Si sistemò distrattamente i capelli ondulati e fissò l’orologio: tempo un’ora e avrebbe dovuto volare all’altro capo di New York per provare con le Dolls.

Sospirò, rassegnandosi sulle sue occhiaie coperte da strati di fondotinta, e sul fatto che dovesse imbottirsi di caffè per mantenere il ritmo di quella metropoli che pareva nutrirsi dell’energia delle persone che vi vivevano.

 

Arrivata dinnanzi la porta dove alloggiava l’intera BBA Revolution, bussò cautamente; non si aspettava certo che Daichi venisse ad aprire di scatto, quasi preso dal panico.

“Ehi, dove-” si bloccò all’istante, sorpreso. “Ochetta, sei tu.” Brontolò, deluso.

 

“Mi dispiace se ti aspettavi qualcun altro.” Replicò, sbattendo gli occhi.

 

“Dov’è? È arrivato?” rare volte aveva sentito la voce del professore raggiungere toni così alti, e normalmente quando succedeva, c’era qualcosa che non andava.

 

“No, è solo l’oca qui presente.” Brontolò Daichi, stizzito, beccandosi una botta sulla nuca da parte di colei che aveva apostrofato come tale.

 

Il professore li raggiunse, sul suo volto un misto tra ira e rassegnazione. “Ciao Hila… Scusa il casino, ma sono ore che non riusciamo a trovare Takao. Domani abbiamo l’incontro con gli europei, e dovremmo allenarci.”

 

Takao che scompare? “Da quant’è che non lo vedete?”

 

Daichi s’intromise nel discorso, adirato. “Da stamattina. La sua stanza è un casino e lui non c’è.”

 

Qualcosa non torna… “Io gli ho mandato un sms un’ora fa, dicendogli che sarei venuta a trovarlo, e lui ha risposto.” Fece, pensando però al fatto che la risposta consistesse in un insipido e breve ‘okay’ che pareva non scritto nemmeno da lui. “Sentite, io sondo tutto l’albergo, chiedo in giro… Voi potete andare ad allenarvi, non perdete altro tempo.” Senza aspettare risposta girò sui tacchi, scendendo le scale a tutta velocità. Dove poteva essere quel disgraziato?

 

La hall pareva in fermento come al solito, con gente che arrivava e che se ne andava; per un attimo la ragazza si sentì confusa: da dove doveva iniziare? L’hotel era grande…

Sospirando, uscì dall’albergo, estraendo il cellulare ed iniziando a chiamare l’amico: la linea era libera, c’era solo da-

 

“Ehi, sono qui!” si voltò di scatto al suono di quella voce: il ricercato era davanti a lei, tranquillissimo.

 

“Idiota, il prof e Daichi ti cercano da ore!” eruppe, fissandolo malissimo.

 

Takao sorrise, passandosi una mano sulla nuca. “Lo so, ma non puoi immaginare cosa mi sia capitato!” Hilary scosse la testa, rientrando in albergo e chiedendo ad una delle receptionist di chiamare la suite della BBA per far scendere Daichi e il prof.

 

Trenta secondi dopo un professore veramente adirato fece al capitano del suo team la più grossa sfuriata che si fosse mai potuta immaginare; Hilary lo conosceva da anni, ma mai avrebbe immaginato di potergli veder perdere le staffe – e a ragione.

Takao si scusò sentitamente, uscendosene con il fatto che aveva incontrato nei sobborghi di New York un gruppo di ragazzini che lo avevano sfidato: poteva tirarsi indietro, forse?

 

Hilary lo fissò, severa, un turbine di pensieri che si accavallavano nella sua testa pesanti come macigni: vi erano parecchie cose strane nel suo migliore amico in quel periodo, e il fatto che lui non volesse condividere cosa gli stesse accadendo con lei la feriva.

 

“Io vado.” Dichiarò, asciutta. “Buon allenamento.”

 

Il giapponese fermò all’istante il suo discorso con i due compagni di squadra e la raggiunse in pochi passi, sbarrandole la strada. “Sei arrabbiata.”

 

“No, sono delusa.” Gli rivelò, lo sguardo volto ad incenerirlo. “Oggi hai incontrato un gruppo di ragazzini, l’altra volta ti avevano fermato per un’intervista e quella prima ancora avevi perso il bus. Ma sai che c’è? Non ti credo. Non dico che tu sia tenuto a dirmi tutto quello che ti capita e ti passa per la testa, ma dopo sedici anni che ti conosco… Uno, capisco quando dici una balla, e due-”

 

Takao dovette rimanere sconvolto da quel fiume gelido di parole, perché sgranò gli occhi, colpito. “H-Hils, ci sono un po’ di casini…” balbettò. “Prima devo capire io come districarmi, e poi-”

 

“Due, ti ci vuole una bella rivisitazione del significato della parola amicizia, che un tempo conoscevi così bene.” Sibilò, andando via.

 

 

 

 

 

Kassie arrivò prima, quel giorno, per alzare la saracinesca del garage: tempo pochi minuti e le Dolls si sarebbero allenate a suonare, pronte per quel Venerdì sera.

Accese le luci, sistemò gli strumenti e fu sorpresa di vedere Trisha arrivare talmente contenta da saltellare, quasi. “Ehi, buonasera!”

 

La ragazza, per tutta risposta, prese la sua chitarra tra le mani, suonando a tutta forza l’assolo di ‘We will rock you’ che ormai aveva fatto così suo. Kassie le andò dietro battendo i piedi contro il pavimento, per poi unirsi a lei con il piano: era bello quando stavano a suonare così, per svago, senza regole o limiti.

 

“Ehi, avete già cominciato?” Julia attraversò il garage per andare a prendere la postazione davanti la batteria. “Perché vi siete fermate?”

 

“Stavamo solo suonando un po’ a cavolo.” Spiegò Kassie facendo spallucce.

 

La spagnola le fissò, ironica, poi prese le bacchette in  mano, iniziando a colpire i piatti della batteria ripetutamente; Kassie e Trisha si fissarono, incredule, per poi farsi un cenno con la testa e balzare ai loro posti: per un po’ furono solo loro tre e i loro strumenti, dopodiché accadde qualcosa. Dal semplice strimpellare si passò al suono vero e proprio, e dal suono individuale si passò a quello collettivo. Presto chitarra, batteria e piano collaborarono in qualcosa di unico e mai sentito prima, che poteva solo essere-

 

“Una nuova canzone?” Hilary entrò, sorpresa, sorridendo largamente ed avanzando verso di loro. “Continuate, il ritmo era stupendo!”

 

Accendendo il registratore, la giapponese appuntò su un foglio le note che riusciva a cogliere e anche il sound. Una nuova canzone era nata così, dal nulla, e non vi era niente di meglio per scacciare l’ira, la delusione o la stanchezza che rifugiarsi nella musica.

 

 

 

 

 

Mao pulì accuratamente i tavoli e le sedie del locale, pronta per iniziare un nuovo giorno – o una nuova nottata – di lavoro; i pensieri, però, di Rei e di Kurt si fondevano insieme nella sua testa fino a formarne uno unico. I sensi di colpa minacciavano di divorarla, nonché di farla star peggio di così.

 

“Non ti incazzare con i tavoli, non ti hanno fatto niente loro.” La voce di Mariam le arrivò dritta alle orecchie, facendola sobbalzare.

 

Diede una sistemata veloce ai posti restanti per poi armarsi di scopa e paletta e mettersi a spazzare per terra. Fare le pulizie l’aveva sempre distratta; era qualcosa in cui ci voleva olio di gomito, attenzione, cura… Solitamente funzionava. Ma non in quel frangente.

Rimise a posto gli strumenti da lavoro e fissò il locale in lungo e in largo: i suoi colleghi erano tutti indaffarati, preoccupati di rendere quel posto bellissimo ed originale com’era sempre stato; solo lei non aveva voglia di fare niente o, comunque, non ne vedeva l’utilità.

 

“Tieni.” Quando si avvicinò al bancone, Mariam le fece scivolare contro un bicchiere mezzo pieno di qualcosa che, non appena avvicinò al naso, si rivelò essere gin fizz.

 

Si voltò a guardare l’amica con aria imbronciata. “Credi che ne abbia bisogno?”

 

“Oh, sì.”

A quelle parole lo bevve tutto d’un colpo, sparandosi l’alcool in corpo come fosse qualcosa di innocuo ed innocente. Mariam non batté ciglio di fronte al suo comportamento; semplicemente ripulì il bancone con lo strofinaccio e la fissò il secondo dopo. “Ora vai a lavorare e dai il meglio di te. Siamo pagate per questo, non per piangerci addosso.”

 

Sentendo l’alcool confonderle la testa e i pensieri in maniera lieve ed accettabile annuì, alzandosi e dirigendosi verso il punto da ultimare: erano ancora le otto, la gente non sarebbe arrivata prima delle nove.

 

 

Un’ora dopo fecero la loro comparsa le Cloth Dolls al completo che, ordinando delle patatine e dei drink, dichiararono di voler festeggiare la nascita di una nuova canzone. Mao e Mariam chiacchierarono con loro, prendendole in giro per il fatto di essere venute lì con il taxi, ma loro si difesero dicendo che l’avevano dovuto fare per colpa di una pazza furiosa che ce l’aveva con Julia.

 

L’effetto dell’alcool si smaltì dopo poco, ma diede comunque tempo alla ragazza di carburare e di prendere l’energia sufficiente per affrontare la serata.

Essendo un giorno feriale non vi era molta gente e quel giorno ve ne era ancora meno, visto che un altro locale poco distante aveva organizzato una serata alternativa.

 

Passarono delle ore prima che i clienti se ne andassero e cominciassero a lasciare il locale; Mao rimase sorpresa di vedere, in tarda serata, l’intera squadra della Neoborg entrare nel locale ed accomodarsi al loro solito privee: solitamente venivano nel weekend, ossia quando non vi erano incontri il giorno dopo, e per godersi i concerti.

 

Sul tardi anche le Cloth Dolls se ne andarono, lasciando lì Julia, nonostante l’apprensione di Hilary. Noncurante, si affiancò a Mao iniziando a sproloquiare circa la bomba che stavano sfornando e su come si sentisse orgogliosa di aver scritto quel pezzo assieme alle altre.

La madrilena parlò anche troppo durante quelle ore, molto più del solito. Mao ad un certo punto alzò lo sguardo fino ad incontrare la sagoma di un ragazzo alto e rosso dagli occhi di ghiaccio che, da quando era entrato nel locale, non smetteva di fissare la sua amica.

 

“Come va con Yuri?” la domanda fu posta con tono assolutamente casuale, ma bastò per fare arrestare il tuono di parole della spagnola e farla irrigidire.

 

“Come al solito.” Commentò. “Ti stavo dicendo che-”

 

Decise di sedersi un po’: era l’una, aveva faticato tanto, non fermandosi nemmeno un attimo e cominciava ad essere stanca. “Nemmeno il lavoro ci può distrarre, vero?” davanti l’espressione sorpresa dell’amica, proseguì. “Ce l’ho con me in questi giorni per un sacco di motivi. Per Kurt, per Rei, per il beyblade…” di fronte al viso sorpreso dell’amica sorrise. “So che ci sono il 99% di probabilità che lui non mi ami; è quell’un per cento che mi tiene sospesa.”

 

Julia le mise una mano sulla spalla, volta a rassicurarla, quando un urlo lancinante proveniente dall’ingresso la fece voltare di scatto: una bionda ossigenata che pareva una di quelle cheerleader americane che si vedevano nei film sfrecciò a tutta forza verso di loro, con occhi fiammeggianti.

“Julia Fernandéz!” quando si sentì chiamare fu per riflesso che la spagnola si voltò, e la bionda dapprima la fissò con rabbia, poi le assestò una sonora sberla sulla guancia, talmente forte da farle girare la testa dall’altra parte.

 

Il locale ammutolì. Tutti avevano gli occhi puntati sulle due ragazze che dapprima si fissarono, una irosa e l’altra sconvolta; quando la bionda cominciò a strepitare insulti di bassa lega nella sua direzione, intervennero i camerieri del locale, pronti a sedare la probabile rissa tra le due ragazze, che presero la nuova arrivata da parte tentando di portarla via, inutilmente.

 

Mao, nel mezzo, era talmente sconvolta che fu per miracolo che non svenne sul colpo quando nella situazione si immise anche l’ultima persona su cui avrebbe mai scommesso.

 

Yuri Ivanov marciò a passo spedito verso di loro, ponendosi dinnanzi alla madrilena come a farle da scudo e fissando con astio quell’altra che aveva osato schiaffeggiarla. “Permettiti ancora una volta e ne subirai le conseguenze.” Sibilò, gelido.

 

“E’ una troia!” ululò la ragazza, fuori di sé. “Non ha esitato a farsi il mio ragazzo, pur sapendo che dovevamo sposarci!”

 

La diretta interessata fece tanto d’occhi. “¡Cuidado, querida!” sbottò, livida. “Non ci sto a farmi prendere a sberle e ad insulti nemmeno veri, ¿claro?”*

 

“Ora basta.” La voce baritonale e secca del proprietario del locale si fece sentire su tutte le altre, azzerando toni e timbri di voce. “Il mio locale non è luogo di risse.” Fece, gelido. “Nel mio ufficio, ora.”

 

Con il cuore che le batteva forte, Julia seguì Mitch nel suo ufficio; il cuore le batteva forte sia per la sorpresa sgradevole di quell’intermezzo sia per il gesto compiuto da Yuri. Non se lo aspettava, non da lui.

Quando si voltò brevemente, il locale stava parlottando circa quello che era appena avvenuto, e Yuri e Mao erano in piedi, davanti al bancone, in attesa che la situazione si risolvesse definitivamente. Incrociando lo sguardo di Yuri, non poté fare a meno di sorridere, e quando lui le rivolse un sorriso ironico, il suo cuore esplose.

 

 

Mitch fece una lavata di capo ad entrambe, scandendo bene le regole del suo locale e dicendo che non era un posto né di bassa lega né di poco conto. La spagnola lo ascoltò distrattamente, capendo che aveva tutti i motivi per essere arrabbiato almeno quanto lei.

 

“Io e il mio fidanzato dovevamo sposarci tra quindici giorni!” inveì la ragazza, strepitando a più non posso. “Se non fosse stato per questa sgualdrina non sarebbe avvenuto alcun intoppo!”

 

Julia sentì la rabbia prenderla di petto come sempre. “Se mi chiarisci chi diavolo è il tuo fidanzato forse posso aiutarti!”  esclamò con forza, battendo una mano sul tavolo di Mitch.

Al sentirlo nominare, all’inizio non le venne in mente proprio nessuno, fino a quando un flashback la colse, impreparata. “Il tuo fidanzato mi ha rimorchiata spassionatamente: credi che se avessi scoperto che era fidanzato ufficialmente ci sarei stata?!”

 

A quella rivelazione dapprima la bionda si stupì, poi se possibile si arrabbiò più di prima. “Visto le puttane che ci sono in giro una deve guardarsi le spalle, no?” urlò, incavolata nera.

 

Julia spalancò la bocca, facendo per risponderle come di dovere, ma fu interrotta da Mitch che la calmò con un solo gesto. “Va’ a farti dare del ghiaccio.” Disse categorico, facendo intendere che avrebbe trattenuto invece l’altra.

Lei annuì brevemente e si chiuse la porta alle spalle; un turbine di pensieri le ronzò in testa minacciando di farla confondere ulteriormente: di colpo quella serata si era ribaltata da così a così, non solo per l’umiliazione inflittale da quella ragazza davanti a tutto il locale, ma anche per il comportamento di Yuri nei suoi confronti: mai si sarebbe aspettato un simile agire da parte sua.

 

“Tesoro.” Mao le andò subito accanto non appena la vide, e Mariam si diresse verso il congelatore. “Vieni, siediti, coraggio.”

 

Estoy bien, no te preoccupe.” Bofonchiò, lasciandosi tuttavia condurre verso la sedia accanto ad un tavolino libero.

 

Mariam osservò prima Julia e poi il russo, dopodiché sorrise ironicamente: Yuri era a pochi metri di distanza, stava osservando la madrilena con attenzione, solcando con i suoi occhi di metallo tutta la sua figura; il viso era una maschera di ghiaccio, fredda ed imperturbabile, ma l’irlandese colse qualcosa in lui che non seppe decifrare. Non subito, almeno.

Si allontanò dal bancone un istante, parandosi a sorpresa davanti al moscovita che la fissò, sorpreso. “Julia ha la guancia gonfia; portale questo ghiaccio, così potrai chiederle come si sente.”

 

Lui inarcò gelidamente un sopracciglio. “Perché dovrei farlo?”

 

Mariam ricambiò lo sguardo non abbassandolo minimamente. “Perché lo vuoi.”

 

 

Sentendosi la guancia livida e gonfia come fosse stata sostituita con un pallone aerostatico, sbuffò, estraendo lo specchietto dalla sua pochette e rabbrividendo quando si vide un’area rossa che tendeva quasi al viola.

 

“Mettici questo: attutirà un po’.” Si voltò di scatto all’udire quella voce che aveva imparato a conoscere bene, e quando si vide davanti lui che le tendeva una confezione di ghiaccio, la prese, riluttante, ponendosela addosso.

 

“Pensavo que servisse un poquito de-”

 

Lo vide inarcare le sopracciglia. “Carne? No, lo so per esperienza: ghiaccio e successivamente una crema lenitiva.”

 

Julia annuì, sentendosi in difficoltà. “Gracias por… Grazie per aver preso la mia difesa, ecco.” Yuri scrollò le spalle e si alzò, andandosene.

 

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

Avrò cambiato questo capitolo un centinaio di volte, tagliando pezzi ed incollandone altri e… Il bello (?) è che ci sarà sempre qualcosa che non va. Ma miro alla perfezione. u.u

 

Come al solito posto in extremis, e se non lo faccio ora va a finire che mi salta il Martedì T.T quindi meglio farvelo avere adesso.

 

Ma siamo già al quattordicesimo capitolo? O.O Mi credete se vi dico che mi pare quasi impossibile? Praticamente stiamo finendo. Ne mancano una manciata e poi boh, fine. Oh, ma non disperiamoci adesso. Mi avrete con voi tutto il mese di Dicembre e una settimana a Gennaio (dite “Evviva!”)

Intanto noi ci sentiamo come al solito Martedì prossimo con “This is the life”, dove alcuni pezzi (tentano di) ricomporsi, altri restano fluttuanti nel vuoto. xD

 

Un bacione a tutti.

 

Hiromi

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Capitolo 15
*** This is the life ***


Overboard

 

 

 

 

 

 

 

And you singing the song thinking this is the life
And you wake up in the morning and your head feels twice the size
Oh where you gonna go, where you gonna go,

where you gonna sleep tonight?

This is the life Amy MacDonald

 

***************************

 

 

Sicuramente Marzo era per lei il periodo più impegnativo dell’anno ma, riuscendo a destreggiarsi tra i vari impegni e portandosi avanti con i cosiddetti compiti a casa, era riuscita a prendersi un giorno libero, che voleva assolutamente dedicare al maschietto che più adorava: Freddie.

Camminando per raggiungere il parco, si strinse nella sua giacca: quel giorno faceva abbastanza caldo, e in quel periodo in cui la primavera doveva arrivare da un giorno all’altro, non erano rari i casi in cui il meteo decideva di impazzire, scandendo giorni di pioggia e sole a fasi alterne. Fortuna che il suo cucciolo resisteva bene alle intemperie, o sarebbe stato un bel guaio.

 

Svoltando l’angolo notò immediatamente Raùl e Mathilda, ed era strano perché parevano parecchio stanchi e provati, tanto che non si accorsero nemmeno del suo saluto.

Inebetita, scrollò le spalle, decidendo di concentrarsi sulla passeggiata e pensando che probabilmente doveva esserci una ragione per il loro comportamento.

 

Lei e Freddie entrarono nel parco lì vicino, e il cucciolo si divertì subito a scorrazzare tra l’erba e a fare pipì ad ogni angolo che più gli piaceva, facendola ridere per come alzava la zampetta posteriore e si guardava intorno sospettoso.

Dopo qualche minuto si diressero verso quella parte dove stavano le panchine libere, intenti a cercarne una che fosse all’ombra. Trovatone una Hilary vi si sedette sopra, accavallando le gambe, e il cucciolo vi balzò su con un saltello agile, accoccolandosi accanto alla padroncina e poggiando il mento sul suo fianco.

 

Che dolce che sei…

 

Era parecchio tempo che non si godeva l’aria di New York, e non quella caotica, agitata e pressante che respirava ogni giorno, ma quella genuina, pacifica, vitale che non poteva assaporare se non stando ferma qualche minuto. E da quant’era che non stava ferma, lei?

 

 

Freddie  alzò il musetto di scatto, tendendo le orecchie come a captare suoni talmente fini e sottili che lei non poteva nemmeno sperare di sentire.

Prima di potersi anche solo guardare intorno, il cucciolo focalizzò lo sguardo davanti a sé, e tempo una frazione di secondo, partì a tutta velocità per una destinazione ignota, portando con sé il suo guinzaglio, facendo cacciare a Hilary un’esclamazione a dir poco colorita.

 

La ragazza si gettò al suo inseguimento, e incurante di calpestare le aiuole e le creazioni dei giardinieri, proseguì, ma si arrestò bruscamente quando vide la scena che le si parò davanti.

In uno spiazzale nascosto da quattro mura d’erba, Freddie stava abbaiando allegramente inseguendo una trottola blu, e poco distante un ragazzo alto lo osservava con un sorriso a metà tra il dolce e il divertito.

 

Kai

 

Non lo aveva mai visto sorridere in quel modo, eppure ciò che stava vedendo le causava uno sconvolgimento interiore non da poco. Pareva trovarsi perfettamente a suo agio in quella scena dove Freddie era il protagonista indiscusso, e quando Dranzer saltò delicatamente sulla fronte del cagnolino, non smettendo di roteare, quello abbaiò, spaventato, nascondendosi dietro le gambe del ragazzo, che per tutta risposta gli sorrise e lo accarezzò.

 

Non seppe per quanto tempo rimase lì, nascosta, con il cuore che batteva forte e le guance che scottavano, bollenti; sapeva soltanto che la scena alla quale aveva appena assistito l’aveva emozionata più di qualsiasi altra avesse mai visto prima.

 

 

…E poi Freddie abbaiò nella sua direzione, facendole cadere la faccia a terra e smascherandola. Uscì dal suo nascondiglio, cercando di mantenere il punto ed esibendo almeno una parvenza di dignità ed autocontrollo.

“Pensavo fosse scappato.”

 

Kai la squadrò come se volesse farla sciogliere. “Deve aver sentito il sibilo di Dranzer.” Spiegò, riprendendo con sé il beyblade.

 

“Gli piace parecchio, eh?” all’abbaiare del cucciolo, sorrisero entrambi, dopodiché si fissarono, pensando la stessa cosa nello stesso istante.

 

 

 

Hilary sospirò pesantemente, lanciandogli un’occhiataccia. “Sei un testone di prima categoria, Hiwatari.” Borbottò, raccogliendo con il cucchiaino parte del suo gelato.

 

“E’ una delle mie qualità migliori.” Ribatté lui, laconico, individuando una panchina ed indicandola a lei con un cenno del capo.

 

“La prossima volta offro io.” Puntualizzò, conducendo il cagnolino nella loro direzione; Freddie, però, non aveva occhi che per i gelati presi dai ragazzi e, non appena si sedettero sulle panchine, zompò su in loro compagnia, scodinzolando ed annusando rumorosamente per far capire che ne avrebbe gradito un po’.

“Stai giù!” esclamò la giapponese, fintamente severa. “Poi ti fa male il pancino e dobbiamo andare dal dottore.”

 

Il cagnolino mugolò in risposta il suo dissenso, poi, saltò via e si mise accovacciato come a voler esternare tutto il suo essere offeso. Hilary sbuffò, alzando gli occhi al cielo, e Kai fece del suo meglio per non sorridere; tirò fuori Dranzer e il suo caricatore e lo puntò verso un luogo sicuro. Quando il bey prese a correre, il cucciolo si rianimò, correndogli dietro e facendo morire dalle risate la bruna, visto lo spettacolo insolito che le si presentò davanti.

 

“Oddio, ci vorrebbe una digitale per immortalare il momento!” chiocciò, con tono di rimorso per averla dimenticata. “Guardali, sembrano Willy il coyote e Beep Beep!”

 

Kai inarcò un sopracciglio con aria sarcastica. “Che metafora....”

 

Hilary trangugiò un po’ del suo gelato per poi voltarsi a fissarlo con aria furba. “…Assolutamente perfetta? Lo so. Sono la donna che studia troppo, a qualcosa dovrà pur servire.”

 

“Come procedono gli studi?”

 

Lei annuì con aria metodica. “Dovrò dar fuoco alla Columbia.” Al suo sguardo incuriosito, scrollò le spalle. “Eh, sì, che vuoi farci? Il professore di arabo e quello di cinese non danno tregua a me e io ho deciso di vendicarmi. Ma d’altronde la vendetta può essere superba, non trovi? Voglio dire-”

 

Kai non seppe esattamente grazie a quale impulso del cervello decise di agire; forse fu solo spinto dalla consapevolezza che odiava le frasi troppo lunghe e le conversazioni a macchinetta senza un fondamento ben preciso.

Quando la attirò a sé e la baciò, non aveva nemmeno premeditato di farlo, e sentire il gusto del gelato sulle labbra di Hilary fu meglio di come avesse mai potuto ricordare da quella sera.

La bocca della ragazza si muoveva dolce contro la sua, e le sue dita si tuffarono nei suoi capelli, attirandolo a lei e minacciando di fargli perdere il controllo.

“Sai cosa stavo pensando?” mugugnò lei, ad un centimetro di distanza dalle sue labbra. “Che è una fortuna che abbiamo denti ordinati tutti e due.” Lui annuì, riprendendo a baciarla, cosa che durò poco meno di trenta secondi, perché un’espressione pensierosa si disegnò sul viso di Hilary. “Ci pensi se avessimo l'apparecchio?”

Talvolta non sapeva se definirla pazza o un genio. “Sarebbe stato un bagno di sangue.” ammise, riprendendo da dove aveva interrotto.

Si baciarono come due teenager alla prima cotta, e il bello era il fatto che non sussistevano pressioni di alcun genere né paure di alcun tipo, tranne quelle naturali e scontate. Vi erano loro, solo loro e i loro sentimenti che, man mano passava il tempo, crescevano sempre più. Non se la sentivano di dar loro dei nomi, non sarebbe stato naturale; a tempo debito, quando con precisione avrebbero capito cose più precise, tutto si sarebbe aggiustato, ma in quel frangente ogni cosa andava bene come stava.

Hilary lo fissò, sciogliendosi dal suo abbraccio, e sorridere le venne naturale. “Sai, forse come maschio non sei poi così male.”

Lui inarcò le sopracciglia, ostentando un’espressione divertita. “Beh, grazie, suppongo.”

La ragazza gli pizzicò il naso tra le dita. “Dai, che-” venne interrotta dall’esclamazione di due ragazzetti poco distante, che si avvicinarono a passo spedito verso di loro. La riconobbero come cantante delle Cloth Dolls e pretesero foto, autografo e anche una sottospecie di interrogatorio che in teoria doveva essere una specie di intervista per il giornalino della scuola.

Kai fissò nervoso Hilary che rispondeva pazientemente a tutte le domande che le ponevano quei tipi foruncolosi; erano sopraggiunti lì, li avevano interrotti e lei non faceva il minimo cenno per mandarli via. Cos’era, una congiura? Si voltò a fissare Freddie che sbadigliava, laconico, come a dirgli che lo capiva: beh, almeno aveva man forte da parte di qualcuno.

“Non mi ispiro, sono più le situazioni che ispirano me.” Rispose la ragazza all’ennesima domanda a lei posta. “Quando vedo che può uscirne qualcosa di buono, ecco in arrivo una canzone.”

Il ragazzino stava per aprire bocca e porre l’ennesima domanda, quando Kai intervenne. “Andiamo a pranzo o no?” la domanda fu posta con un tono così scontroso da farla arrossire fino alla punta dei capelli e  in modo da far guardare i ragazzini tra loro, a disagio.

“Okay, allora noi andiamo… Desolati per averti tolto tanto tempo.” Balbettarono, lanciando delle occhiate prima a lei e poi a Kai; infine girarono sui tacchi, andandosene. Hilary fece del suo modo per ricucire la cosa, essendo più gentile che poté, ma quando si voltò verso il responsabile, gli occhi le fiammeggiarono per la rabbia.

“Che cos’era quello?” sbottò, ponendo le mani sui fianchi. Allo sguardo interrogativo di lui, pestò i piedi per terra, livida. “E’ stato uno sbaglio trattarli così, erano solo dei ragazzini!”

Lo sguardo di lui si fece pericolosamente torvo. “Sbaglio? È così che lo chiami?”

“Beh, ho provato a chiamarlo Charlie, ma risponde solo se lo chiamo sbaglio.” Ribatté, a braccia conserte.

“Quei due ci avevano interrotti.”

“Quei due sono fans. Ora, non so come tratti tu i tuoi, ma io sono parecchio gentile con i miei.” Chiarì, scandendo le parole.

“Anche troppo.” All’ultima frecciatina di lui, Hilary ridusse gli occhi a due fessure, per poi piantare su un ghigno sarcastico volto a fargli perdere il lume della ragione.

“Sai cosa? Mi sembri un fidanzato geloso.”

Lui non perse il contatto visivo nemmeno per un secondo, lanciandole uno sguardo di puro fuoco. “Certo: ti piacerebbe.”

Lei inarcò le sopracciglia per poi cominciare ad incamminarsi. “Oh, no: a te piacerebbe.”

 

 

“Dovresti darmi una risposta. A preparare la valigia posso pure pensarci io.”

 

Alla stoccata di Kurt non poté far altro che arrossire e boccheggiare, tentando inutilmente di parlare. Ma cosa poteva dire se la risposta vera e propria, in realtà, era un diniego assoluto?

“Ma dai, non voglio che ti affatichi.” Borbottò, abbassando la testa e lasciando che i suoi lunghi capelli divenissero uno scudo con il quale ripararsi.

 

“Mao.” Il ragazzo incrociò le braccia, scocciato. “Non sei per niente credibile, lo sai, vero?”

 

La ragazza prese un profondo respiro. “E’ che credo che tutto questo sia così… Affrettato!” disse infine, mordendosi le labbra. “Ci conosciamo da meno di un mese, e io non credo che venire con te a Miami sia la soluzione ideale.”

 

Era pronta a sentirlo alterarsi nei peggiori dei modi, invece ciò che le rivolse fu uno sguardo curioso. “…Forse hai ragione.”

 

Davvero?

 

“Sì, dai, andiamoci piano.” Sospirò lui, sorridendo. “Sarai sempre la mia ragazza?” quella domanda tenera e dolce, che avrebbe fatto sciogliere qualsiasi essere femminile esistente sulla terra, ebbe il potere di provocarle una voragine nello stomaco e farla sentire un qualcosa di abominevole.

 

Si costrinse a piantarsi sulle labbra un sorriso forzato, cercando di sembrare quantomeno credibile. “Certo.”

 

 

 

Stette bene attenta a non bruciare il pollo che stava cucinando: non poteva mica dare al suo Freddie delle schifezze! Controllò più volte l’andamento del gas e le indicazioni che le aveva lasciato Mao su un post-it, pregando di non dover prendere un estintore per sedare il tutto. Quando tolse dal fornello la piccola padella, rovesciò il pollo nella ciotolina, lo fece a pezzetti, e lo condì con un filo d’olio per poi metterlo sotto il naso del suo cucciolo affamato, che dimostrò di gradire molto la sua cucina – almeno lui!

Si allontanò verso la portafinestra, che spalancò del tutto iniziando a prendere il suo posacenere e una sigaretta; aveva pranzato non appena tornata dal parco, e ne stava approfittando per restare da sola, cosa che di tanto in tanto non le dispiaceva affatto. Si appoggiò alla ringhiera del balcone, finendo comodamente la prima sigaretta della giornata e notando quanto in quel periodo stesse fumando di meno. Si ravviò i capelli, lasciando andare ogni possibile pensiero che potesse portarla ad un certo russo di sua conoscenza ed andò ad aprire quando sentì l’abbaiare di Freddie, segno che aveva appena bussato qualcuno.

…Mao.

“Io non ce la faccio più: prima Kurt, e sono decisa a rimanergli accanto, poi vedo lui e mi sciolgo! Voglio bene all’uno e amo l’altro, senza contare che… Ma hai fumato?”

Hilary incrociò le braccia con aria ironica. “Vedo che il tuo senso del dovere non se ne va a puttane nemmeno quando sei isterica.”

L’orientale entrò nell’appartamento della sua amica, con un diavolo per capello. “Hilary! Ho un ragazzo che ha bisogno di me e io mi vado a sbaciucchiare con l’amore della mia vita! Che persona di merda sono?”

La giapponese ostentò un’aria divertita. “Hai sniffato colla? Mi sembri un po’ sfasata…” quando l’amica le lanciò un’occhiataccia, la bruna alzò le mani con aria di resa. “Senti, secondo me per tutto questo tempo ti sei risposta da sola. Rei è l’amore della tua vita, non puoi accantonarlo per-”

“Lo so!” Mao la interruppe vivacemente, mordendosi le labbra. “Non so che mi prende, davvero, è solo che…” sbuffò sonoramente per poi scuotere la testa, decisa. “Io amo Rei, ma poi c’è Kurt che ha bisogno di me, che non fa altro che ripetermi quanto sia felice di avermi vicino, che mi vuole a Miami, che mi dice frasi dolcissime…”

Hilary roteò gli occhi. “Vado in attimo in cucina… A tagliarmi le vene.”

“E dai!” sbottò la cinese. “Vuoi aiutarmi o no?” la bruna alzò le mani in segno di resa, come a scusarsi. “Non so che cosa diamine devo fare, dove sbattere la testa”

“Tesoro, la situazione è molto meno complicato di quanto tu non possa pensare. Non devi rimuginare su quello che vuole Kurt, o quello che vuole Rei, o quello che voglio io. Tu cosa vuoi?”

Mao si morse le labbra. “E’ difficile.”

“Non lo è. Devi solo far chiarezza dentro te stessa.” Quando la castana la fissò con un’espressione indecifrabile, Mao ammutolì, non sapendo che altro dire. “Non so che dirti se non di scegliere, perché star sospesa così non ha senso.” Esordì, dopo qualche secondo di silenzio. “Puoi scegliere Kurt e andare con lui, dimenticando per sempre colui che rappresentò il tuo primo amore, come puoi scegliere Rei andando a parlare con lui e facendo chiarezza su ogni punto del vostro rapporto. Ma devi prendere una decisione.”

Mao annuì lentamente, dopodiché rilasciò un lungo sospiro. “Lo farò… Lasciami solo ponderare per bene la situazione.” Hilary annuì, sedendosi sul divano accanto a lei. “Hila?”

“Uh?”

“Stai facendo impazzire Kai Hiwatari?”

“E’ lui che fa impazzire me.” Allo sguardo interrogativo dell’amica non passò molto che le raccontasse l’episodio del parco, e una volta finitolo di narrare, Mao non poté far altro se non scoppiare a ridere, sotto lo sguardo interrogativo della giapponese. “Se mi spieghi, ti ringrazio.”

“Tesoro, devo farti una domanda, solo una.” Fece Mao, ricomponendosi. “Ti piace Kai?”

Vederla arrossire fu qualcosa di assolutamente impagabile, specie dopo anni che non lo faceva più. “Non ci ho mai veramente pensato.” Borbottò. “Cioè, fisicamente sì. Mentalmente anche.” Sbottò sbrigativamente, scrollando le spalle. “Oh, merda!” esclamò, coprendosi la bocca con le mani e facendo scoppiare nuovamente l’amica in grosse risate.

“No, tranquilla. Ti facevo questa domanda perché a me pare che tu gli piaccia, e anche tanto.”

La rivelazione parve colpirla alla velocità di un proiettile, perché restò senza fiato per poi aggrottare le sopracciglia e scuotere la testa, come se si fosse trattata di un’idea balorda. “Ma che dici?”

Mao non smetteva di sorridere. “Pensaci; credo che tu lo attragga molto, e che lui abbia cercato di fartelo capire – uno come lui non si dichiara di certo! – Ma stavolta, tesoro, hai esagerato.” Fece, scuotendo la testa. Ai suoi occhi allucinati Mao rise per l’ennesima volta. “E dai, flirtare amabilmente con quei tuoi fans sotto i suoi occhi per poi mandarlo a quel paese… Povero Hiwatari! Minimo, lo rivedi in fotografia!”

“Io non flirtavo: quelli erano ragazzini, avranno avuto sì e no quindici anni! Se lui si è innervosito, non posso farmene un cruccio, okay?” sbottò, livida. “Lo rivedrò in fotografia? Meglio!” sibilò, cercando di dare quel punto al suo tono di voce che lei stessa non si trovava.

 

 

Tutto ciò che si sentì di fare mentre affondava ripetutamente in lei fu chiudere gli occhi e concentrarsi sulla pelle tra la clavicola e le spalle, lambendola piano con le labbra per poi subito dopo alternare piccoli morsi. La sentì gemere sotto di sé, inarcarsi contro di lui, rovesciare indietro quella massa di capelli ramati tanto focosi come lei.

Con uno scatto repentino, di colpo le posizioni si invertirono, e lei  prese a fissarlo ironica dall’alto, quasi trionfante, per poi stenderlo e metterlo a tappeto.

C’era tutto in quel suo modo di fare che non lasciava spazio a nulla; tutto e niente: Julia lo confondeva, lo inibiva, lo trascinava in un vortice di pura follia dove poi, uscire, sarebbe stato un azzardo.

Il perché avesse corso – e perso – questo pericolo proprio con lei proprio non lo sapeva, ma era successo, e ormai l’unica cosa che poteva dire era che sindacare non sarebbe servito proprio a nulla.

Quando Julia premette delicatamente il suo seno contro il suo petto, la cosa lo mandò in visibilio a tal punto da spingerla contro di sé per baciarla voracemente; voleva stringerla a sé, sentirla fremere sotto le sue dita, voleva-

Non calcolò che la loro passione a letto era indirettamente proporzionale all’area del letto, perché quando si ritrovarono con il sedere sul pavimento e gli occhi sgranati, la prima cosa che fecero fu guardarsi; dopodiché Julia rovesciò la testa indietro e scoppiò a ridere della grossa, appoggiandosi al materasso ed attirando le ginocchia a sé.

“No, questa aquì ce mancava.”

Yuri la osservò alzarsi ed infilarsi gli indumenti intimi con gesti pigri e vagamente insonnoliti: quella mattina, quando le aveva detto che nessuno della sua squadra era in camera, erano stati rintanati per ore in quella suite, e in quel frangente, ad ora di pranzo inoltrata e probabilmente passata da un pezzo, la stanchezza si faceva sentire eccome.

Ahora è meglio que vado.” La spagnola nascose uno sbadiglio alla bell’e meglio, rivestendosi. “Ci vediamo.”

Ogni volta, ogni dannata volta i suoi compagni di squadra gli facevano notare quanto fosse freddo, calcolatore e schematico in tutto tranne che nei sentimenti e lui li mandava puntualmente al diavolo. Ma le occhiate maliziose di Boris, le frecciatine di Sergey, i sorrisini di Kai… Erano tutti rivolti a lui e stavano a significare qualcosa.

“Rimani.” Sorpreso da quella sua stessa parola, si ritrovò a fissare la ragazza che lo stava guardando come se si fosse bevuto il cervello. “Siamo stanchi, è meglio tu non vada a zonzo per la City, Fernandéz.” Borbottò, fissando con una certa intensità il muro davanti a lui. “E poi hai appena battuto la testa.”

E lì Julia sorrise.

 

 

Rimase ancora una volta senza parole dinnanzi quello che aveva di fronte e colui che aveva accanto. Non sapeva cosa dire, cosa esprimere, e a ragione. Da appassionata di storia dell’arte, aveva sempre desiderato visitare la storia inerente alla città di New York, ma conosceva bene il ragazzo con cui era uscita e sapeva che per i suoi gusti la storia dell’arte si poteva tranquillamente sopprimere, quindi non aveva fatto commenti.

Di tutto si sarebbe aspettata, tranne che essere portata in giro per tutta New York e, tra autobus e metropolitana, visitare i luoghi e i musei storici per poi arrivare lì.

Empire State Building.

Il più famoso grattacielo di New York e, probabilmente del mondo, era davanti a lei; non bastava alzare lo sguardo di tutta testa per osservarlo tutto. Lo aveva studiato, visto al cinema e in fotografia, ma mai così da vicino.

“Entriamo?” per esibire un sorriso così divertito, la sua espressione doveva essere impagabile.

Mariam annuì freneticamente, preparandosi alla fila da sostenere ed avanzando verso la folla di gente pronta ad acquistare i biglietti, quando Max la prese per mano, facendola andare da un’altra parte. Al suo sguardo interrogativo rispose con un sorriso, e ne ebbe risposta qualche secondo dopo quando, nel corridoio in fondo, trovarono una signorina in uniforme pronta a far fare loro il giro.

“Pronti?”

L’irlandese inarcò le sopracciglia. “E questo che significa?”

Max sorrise, furbo. “Che abbiamo la corsia preferenziale.”

La ragazza roteò gli occhi, sbuffando. “Raccomandato.” Lui rise.

La signorina si presentò e diede loro dei depliant da poter visionare mentre spiegava la storia di quell’importante struttura. “…E’ stato il grattacielo più alto del mondo fra il 1931 ed il 1973, quando furono inaugurate le Torri Gemelle del World Trade Center. In seguito al crollo di queste ultime negli attentati terroristici dell'11 settembre, è tornato ad essere l'edificio più alto della città ed il secondo più alto degli Stati  Uniti.”

“È stato proposto come una delle Sette meraviglie del mondo moderno, vero?” Mariam alzò lo sguardo, fissando quegli strani interni ed il panorama che si visionava dalle finestre.

“Esatto.” La signorina li condusse verso uno dei settantatre ascensori disponibili. “L'Empire State Building fu progettato in stile Art Deco dagli architetti Lamb e Harmon, iniziato nel 1930 e completato a tempo record, anche allo scopo di togliere all'elegante Chrysler Building il titolo di edificio più alto del mondo. ”

Max cercò a stento di trattenere uno sbadiglio. Sapeva quanto lui e Mariam fossero differenti – lui amava andare in giro a divertirsi con cose più pratiche, mentre lei era per quelle teoriche – ma sapeva anche quanto ci teneva a portarla lì.

“Il 24 giugno 2011, quando è stata approvata anche nello stato di New York la legge che legalizzava i matrimoni Gay, l'Empire State Building è stato illuminato con i colori della bandiera rainbow, simbolo della comunità Glbt.”

Quando la signorina lo disse, Mariam sgranò gli occhi, estasiata: adorava essere lì, aver avuto la possibilità di visitare quella struttura simbolo di New York e dell’America stessa.

“Dove stiamo andando?” chiese, vedendo che ormai avevano iniziato ad andare oltre il centesimo livello.

La signorina sorrise. “All’ultimo piano: la terrazza.”

Una cosa che senza dubbio l’irlandese non si aspettava, era che la dipendente dell’Empire State Building li conducesse fino all’ultimo piano per poi tornare indietro, lasciandoli lì. Mariam fissò il biondo americano con aria interrogativa; quello, per tutta risposta, scrollò le spalle, noncurante.

“Sai che da qui puoi vedere i confini di quattro stati differenti?” esordì, avvicinandosi di poco al panorama.

Mariam lo fissò, accigliata. “Sì.”

Max ridacchiò. “Che palle, mai che ti si possa sorprendere.”

La mora incrociò le braccia, con aria quasi di sfida. “Il punto è che tu mi sorprendi; forse troppo.” Al suo sguardo interrogativo, proseguì. “Non ti è sembrato un po’ troppo prenotare due posti qui solo per noi e addirittura portarmi all’ultimo piano?”

L’americano si strinse nelle spalle, ostentando un sorriso di scuse. “Mi dispiace, ma vedi… Ero pronto a tutto pur di farti passare una bella giornata, per ricordarci anche di quello che siamo insieme. Quello che contava più di tutto era ciò che pensavi di me: il sol pensiero che mi definissi alla stessa stregua di mesi fa-”

“Non ho mai cambiato il mio pensiero su di te.” Rivelò, mordendosi le labbra. “Ci ho provato, ma non ha mai funzionato. C'è qualcosa di te, sul quale non posso mettere mano. E c'è qualcosa dentro di me che non vuole lasciarti andare.” Scrollò le spalle, sbuffando. “Forse è per questo che ero tanto arrabbiata con me stessa e con te.”

Lui la fissò, serio. “Quello che è successo tra di noi è stato importante, ma non voglio che finisca. Definiscimi pure stupido-”

Mariam lo fissò per un istante, dopodiché si lasciò andare ad un sorriso. “Ma tu sei uno stupido.” Osservarono il panorama che si poteva vedere da quella terrazza per ancora un po’, dopodiché andarono via, richiamando l’ascensore. Dirottando l’argomento sul beyblade e sulla cucina, Max e Mariam potevano avere un bel po’ di cose in comune: entrambi erano degli sportivi e delle buone forchette; all’irlandese piaceva da morire sperimentare nuove ricette e all’americano… Mangiarle.

“E dopo questa me ne vado!” la mora si mise le mani in testa, roteando gli occhi. “La maionese sul cioccolato non me la dovevi fare, ora sì che voglio morire.”

Max se la rise: erano appena scesi dall’autobus che li aveva lasciati a due isolati dall’appartamento di lei, e si stavano dirigendo, a passi misurati, verso il suo condominio. L’irlandese, nonostante fosse di natura silenziosa e taciturna, non aveva fatto altro che ciarlare e ridere, ma era normale: quando erano insieme esplodevano come fuochi d’artificio, si completavano nel senso migliore che potesse esservi.

“Ti avevo mai detto che prima di conoscerti ero parecchio annoiato?” la mora arrestò il passo, fissandolo in maniera curiosa. “Le ragazze americane sono tutte così… Frivole, oppure cibernetiche, come Emily. Io ne sognavo una che fosse bellissima, sensuale, accattivante, che con una battuta mandasse in visibilio il mio essere.” Raccontò, prendendola per mano ed attirandola a sé dolcemente.

Mariam si sentì arrestare il respiro, ma cercò di darsi un contegno. “E poi?”

“E poi la mia anima ti vide ed esclamò: Oh, eccoti qui! Ti stavo aspettando.” Fece per diminuire la distanza tra le loro labbra, ma si sentì il naso stretto tra le dita di lei, e spingere indietro. Mariam gli sorrise, scosse la testa e andò di corsa a rifugiarsi dietro il portone di casa, a poco meno di due metri di distanza. Lui dapprima rimase allucinato, non aspettandoselo affatto, poi scoppiò a ridere e scosse la testa.

 

 

Era l’ennesima volta che non sapeva come diavolo avesse fatto a cacciarsi in quella situazione. Le guance arrossate, il cuore che le batteva forte, le labbra che si muovevano sicure contro quelle di lui, le mani allacciate dietro il suo collo… Probabilmente alla fine si sarebbe sentita come al solito – cioè una poco di buono, una traditrice – ma in quel frangente voleva solo assaporare quella sensazione di puro oblio che le piaceva tanto.

 

Quella volta era stato tutto un equivoco: si era recata al Plaza per incontrarsi con Raùl, che a quanto sembrava, le doveva dire qualcosa di importante. Peccato che dopo un’ora in cui era stata ad aspettarlo avesse deciso di mandarle un sms scrivendo che aveva avuto un impegno all’improvviso. Nell’andare via, in chi si era imbattuta?

 

“Non possiamo andare avanti così.” quando lui si sciolse delicatamente dal suo abbraccio, prendendo le mani tra le sue, poté giurare di aver sentito qualcosa far le capriole nel suo stomaco.

 

Mao si mordicchiò le labbra gonfie per i troppi baci, e per un istante non ebbe nemmeno il coraggio di guardarlo. “Lo so, è sbagliato.” Borbottò, non sapendo esattamente che cosa dire.

Lui la inchiodò con lo sguardo. “Non intendevo dire questo.” Nel fissare così apertamente quelle iridi dorate che conosceva a memoria, Mao si sentì sciogliere pezzetto dopo pezzetto. “Tra me e te non c’è nulla di definito.” Sussurrò, come se nemmeno lui sapesse esattamente cosa dire. “E tu stai con...”

Capì che aveva lasciato la frase in sospeso per permetterle di continuare, ma tutto quello che seppe fare fu ravviarsi i capelli, cercando qualcosa di intelligente da dire. “Non è una situazione comoda.” Borbottò. “Kurt ha bisogno di me, e mi sentirei una stronza a…” quando si rese conto che quelle parole non convincevano nemmeno lei, le venne da piangere.

 

Lui roteò gli occhi, fissandola seriamente. “E allora che si fa?”

 

La domanda la lasciò in sospeso per qualche minuti, fino a quando la risposta, giusta o meno, si fece largo nella sua testa con la velocità di un proiettile. “Io… Io potrei partire.” Saltò su, come punta da un’ape. “Posso andare a Miami, posso ricominciare da capo!”

 

Sentirla vaneggiare in questo modo circa la possibilità di trasferirsi all’altro capo del mondo rispetto alla Cina, era qualcosa di sconcertante ed assurdo insieme. “Perché trasferirti?”

 

Di colpo, Mao scattò a fissarlo, decisa. “Dammi una buona ragione per non farlo.”

 

E lì si ritrovò senza parole. Quella ragazza lo aveva sempre lasciato senza parole, eppure in quel momento non seppe dirglielo. Dirle quanto per lui contasse. “P-Per il villaggio, no?” balbettò, pentendosi delle parole dette non appena le pronunciò. “Tutti lì hanno bisogno di te.”

 

Gli parve di intravedere, in quegli occhi color caramello, rabbia e disillusione. Quando la ragazza si alzò, stizzita, capì di aver fatto centro. “Allora che imparino a cavarsela da soli.” Sibilò, prima di andar via.

 

 

Seduta sul tavolino più appartato di un caffè, Hilary badò bene a concentrarsi sulla nuova canzone: le note erano pronte e suonavano pure piuttosto bene. Il sound era qualcosa di puramente rock firmato Cloth Dolls, ma mancavano le parole. Per ispirarsi batté il beat con le dita, andando a tempo e cercando nella sua mente qualcosa che la ispirasse. Si irritò molto quando l’unica cosa che le venne in testa fu Kai Hiwatari e la loro lite.

Maledettissimo idiota!

Digrignando i denti, scosse la testa come se facendolo potesse scacciar via dalla testa quel pensiero, invece si ritrovò a pensarlo più di prima. Kai; Kai e la sua rabbia; Kai e il suo carattere che faticava a capire; Kai e i suoi occhi viola che lanciavano bagliori quando faceva qualcosa di sbagliato…

I suoi occhi

“Musicista, eh?” sobbalzò all’udire quella voce così vicina, e fu intimidita nel ritrovarsi un ragazzo a pochi centimetri da lei. “L’ho capito da come tieni il tempo. Che cosa suoni?”

Hilary accavallò le gambe, trattenendo a malapena uno sbadiglio. “Canto.”

“Avrai una voce splendida.”

No, mi fanno cantare per compassione. “Così mi dicono.” Replicò, annoiata.

“Conosco un piano bar veramente fantastico dove ci si esibisce in soul e jazz. Se ci stai, ti ci porto.” Fece lui, sorridendole largamente.

Lei inarcò le sopracciglia. “Non si può certo dire che tu perda tempo.” Stava per rifiutare seccamente quando il ricordo di una lite con un certo ragazzo le attraversò la mente, facendola inacidire. “Perché no?”

“Io sono Sam.” Hilary  gli porse la mano dicendogli il suo nome pensando che forse la sua idea non era malvagia.

 

Un’ora dopo, avrebbe voluto tagliarsi le vene il più lentamente e dolorosamente possibile, tanto per fare qualcosa: quel piano bar era un disastro, e la compagnia di quel ragazzo una noia mortale. Che poi vi si mettesse pure il suo cervello facendo continuamente paragoni tra lui e un altro russo di sua conoscenza, allora stavano a posto; certo, indubbiamente vi erano cose di quel Sam che non poteva dire di trovare sgradevoli: era molto più logorroico e di compagnia di Kai, e sapeva fare battute di spirito ma… Ma vi erano cose per le quali il russo lo batteva su tutto il fronte.

Non poteva immaginare di intrattenere una conversazione più intelligente e motivante di quelle che aveva intrattenuto con Kai: lui sapeva stuzzicarla con un solo sguardo, facendola andare in visibilio e cominciare a sproloquiare. Insieme erano capaci di parlare per ore, e la cosa era preoccupante, visto che di per sé lui era un tipo che non amava affatto parlare.

Ma, pensandoci bene, non è solo il fattore conversazione

Hilary si rese conto che Kai vinceva sugli altri ragazzi anche per come si sentiva lei in sua presenza: sicura, protetta, bellissima, assolutamente sicura di sé. Quando erano insieme era come se si fondessero, e prendessero ad essere invincibili.

Oddio, ma io… Da qualche parte tra le risate, le lunghe discussioni, gli stupidi scontri sconsiderati e le battute perse… Mi sono innamorata.

Alzandosi dal tavolino del piano bar dove stava, capì di non poter più restare lì con quel ragazzo sconosciuto, non poteva più prenderlo in giro. Gli sorrise appena, fornendogli una semi-spiegazione raffazzonata e volò versò l’uscita del locale, individuando la prima fermata autobus.

Takao. O Kai. O tutti e due. Non sapeva chi avrebbe trovato prima, ma non sarebbe stato così importante: aveva bisogno di entrambi in quel momento, e li avrebbe avuti. Voleva Takao per abbracciarlo e porre fine a quell’assurda lite che vi era stata, e voleva Kai per scusarsi con lui, per guardare dentro i suoi occhi viola e finalmente avere la conferma che sì, era per lui che aveva una cotta gigantesca.

Arrossì al suo pensiero, salendo sull’autobus; armeggiò con il cellulare mandando un sms al moscovita, dicendogli di dovergli parlare, dopodiché fremette per tutto il viaggio, contando le fermate che la separavano dal Plaza e quando scese, si diresse dritta sparata verso l’entrata dell’albergo, prendendo l’ascensore e dirigendosi verso la suite della BBA.

Il cartello “Do not Disturb” fece capolino spiaccicato lì di fronte a lei, ma decise di non badarvi: bussò in maniera testarda ed ostinata, e si stranì quando una serie di rumori all’interno della stanza le confermarono che, in effetti, c’era qualcuno che doveva essere parecchio impegnato.

Bussò nuovamente più volte, e sobbalzò quando una serie di passi le confermarono che qualcuno si stava dirigendo verso la porta per aprirle. Quando Takao spalancò la porta, sorpreso di trovarsela davanti, Hilary gli gettò le braccia al collo, sorridendogli. “Mi dispiace tanto per l’altra volta, ho reagito come una stupida facendoti una sfuriata e partendo in quarta come al mio solito.” Cominciò, sproloquiando e entrando nella suite prima che lui potesse fermarla. “Ma ero così arrabbiata, così nervosa, così preoccupata… Mi dispiace tanto.” Fece, voltandosi verso di lui e rimanendo stranita dal fatto che la fissasse come fosse una bomba ad orologeria. “Takao?”

“Ehm… Sì, okay, va tutto bene, Hila, tranquilla.” Balbettò il ragazzo, pallido come se lo stessero soffocando.

“Stai bene?”gli lanciò un’occhiata preoccupata, sbattendo le palpebre: mai lo aveva visto in quello stato, e probabilmente il suo pallore stava raggiungendo un livello tale da starlo facendo sudare.

“Sì, benissimo.” Annuì freneticamente, fissando un punto oltre lei come fosse spaventato, quasi terrorizzato. “Senti, ora io vorrei… Dormire, sì, sono parecchio stanco. Se non ti dispiace…”

La giapponese annuì lentamente, fissandolo in maniera strana. “Allora... Vado.” Lanciandogli delle strane occhiate, andò via, sotto lo sguardo quasi impaurito dell’amico. Scese le scale velocemente consolandosi con il fatto che, qualunque cosa fosse, l’avrebbe saputa a tempo debito. O almeno lo sperava.

Il vibrare del suo cellulare la fece sobbalzare ed arrestare: lo cacciò fuori e premette il tasto di accettazione messaggi automaticamente.

Accetterò di parlare con te ad un’altra condizione. Sai che non faccio mai niente per niente…

Sorrise istintivamente e fece per rispondere, ma sobbalzò quando sentì di passi dietro di lei. “Do ut des è il mio modus vivendi, dovresti saperlo.”

Ancora con il cellulare in mano, si sciolse in un sorriso. “Beh, ponimi la tua condizione e vedremo cosa si potrà fare.”

Le si avvicinò, fissandola con i suoi occhi viola; la ragazza ebbe la sensazione che lui volesse scioglierla con quelle ametiste. “Sarai a mia disposizione quando ti richiederò.” Alla sua fronte aggrottata sarcasticamente e in modo birichino, sbuffò pesantemente. “In senso buono.”

“Okay, ci sto. Ora posso parlare?” al suo cenno affermativo, proseguì. “Mi dispiace per stamattina.”

Lui scrollò le spalle in maniera neutra. “Fai bene a dispiacerti.”

“Ma guarda te che stronzo!”

Kai la fissò dall’alto in basso. “Può darsi.” Ribatté, con voce incolore. “Ma ricordati della mia condizione.” Hilary annuì, pensando che non avrebbe potuto dimenticarla nemmeno se avesse voluto.

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

Finalmente, avrò impiegato più tempo a correggere questo capitolo che a scriverlo! xD Siamo in transizione, miei cari, eppure anche qui succedono delle cosucce. *__* Senza contare che siamo arrivati a quota quindici capitoli. … Oddio, tempo tre settimane e smetterò di tartassarvi di fanfic. Non posso credere che Overboard stia per finire. T___T

Ma, vorrei fare un appello: oltre agli “Special thanks” che sono di dovere per le mie fedelissime, per così dire, grazie anche alle new entry che hanno fatto schizzare il numero delle letture così in alto e che, tra l’altro hanno aggiunto la storia tra preferiti-seguiti-da ricordare.

Avete tirato un sospiro di sollievo in questo capitolo (Almeno, me lo auguro)? Bene, perché il prossimo s’intitola ‘Heavy Cross’, perciò che si scatti sull’attenti! ;)

Alla prossima settimana, miei cari.

Un bacione,

Hiromi

 

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Capitolo 16
*** Heavy Cross ***


Overboard

 

 

We can play it safe, or play it cool,
follow the leader, or make up all the rules;
whatever you want, the choice is yours:
so choose!

Heavy Cross Gossip

**************

“Ho la sensazione che tu mi stia nascondendo qualcosa.” Disse, fissandola dritto negli occhi. “E il fatto che io parta questo pomeriggio non gioca a mio favore.”

 

Mao non seppe come replicare, pensando che il ragazzo avesse anche troppa ragione dalla sua parte. Era andata da lui per chiedere timidamente quando poteva raggiungerlo a Miami, non convincendo nemmeno se stessa ed ingaggiando una lotta verbale anche troppo lunga. Stavano lì da una buona mezz’ora, e sentiva di non aver concluso nulla.

Se da un lato vi era il bisogno di sentirsi desiderata senza maforse, dall’altro vi era la consapevolezza che i suoi sentimenti avrebbero deciso per lei.

Lo fissò negli occhi, dedicandogli uno sguardo dispiaciuto. Non sapeva cosa fare, cosa dire, proprio perché non sapeva da che parte andare.

 

Ho bisogno di un segno.

 

Finì appena di pensarlo che il vibrare del suo cellulare si fece sentire. Lo prese, guardando svogliatamente la novità arrivata… E si sentì svenire.

Era qualcosa di così assurdo e bellissimo insieme da avere il potere di farle tremare le ginocchia. Aveva bisogno di appoggiarsi a qualcosa, a qualsiasi cosa, e mentre una parte di lei le diceva che avrebbe dovuto riflettere, un’altra le suggerì di buttarsi.

“Io non… Posso.” Balbettò, la voce roca. “Hai ragione tu, sono stata incoerente.”

 

Stupito da quel repentino cambio di argomento in quattro e quattr’otto, Kurt la fissò allibito. “Scusa?”

 

“Forse è meglio che tu parta… Da solo.”  Gli comunicò, recuperando più coraggio possibile. “Io sono stata una cattiva fidanzata, non ti so sorreggere, sostenere come vorresti, come io vorrei.” Scosse la testa, dispiaciuta. “Scusa.”

 

Il ragazzo la fissò in tralice, sbattendo le palpebre. “Mi stai mollando?”

 

“…Sì.” Mao lo fissò a lungo, temendo quello che avrebbe potuto fare o dire. Kurt, invece, stette soltanto in piedi, lo sguardo vitreo come se stesse pensando a qualcosa di veramente molto complicato. Dopo un paio di minuti decise che, probabilmente, era meglio lasciarlo da solo per sbollire la cosa. Prese velocemente le sue cose e lo fissò un’ultima volta, sulle spine. “Mi dispiace tanto.” Sussurrò per poi chiudersi la porta alle spalle.

 

 

Fu una fortuna trovare Jared dall’altro lato del corridoio; Mao gli si avvicinò immediatamente, richiamandolo. “Credo che il tuo amico abbia bisogno di te, in questo momento.” Lui le riservò un’occhiata interrogativa. “L’ho appena lasciato.”

 

Da ragazzo con aspetto signorile qual era, non si scompose minimamente, né diede segno di alterarsi. “Sospettavo che l’avresti fatto.” Confessò.

 

Mao scrollò le spalle. “So di non essere stata la persona migliore sulla faccia della terra, ma… Credimi. E’ giusto così.”

 

Lui annuì lentamente, ostentando un breve sorrisino. “Quindi visto che hai scaricato il mio migliore amico poco fa… Sarebbe illecito se ti invitassi ad una festa la prossima settimana?” nel vederla strabuzzare gli occhi, ridacchiò. “Beh, dalla tua faccia, credo di sì.”

 

Mao rise, nervosa. “Io non posso accettare alcun invito. Non adesso.”

 

“C’è un altro?”

 

“No! … Cioè, per ora no.” Balbettò, arrossendo. “Il fatto è che non voglio fare più casini di quelli che ho già fatto.”

 

Lui annuì, cordiale. “E se ti procurassi un invito per due a questa festa? So che non rimarrai negli USA a lungo. Prendila come una scusa per salutarci.”

 

All’inizio non seppe che dire, ritrovandosi praticamente senza parole. “Invito… Per due?”

 

“Sì. Per te e per questa persona misteriosa. Ti andrebbe bene?”

 

Mao sorrise stupidamente, poi annuì. “Allora ci vediamo.” Disse allegramente, prima di andar via.

 

 

 

 

 

Eccolo lì, intento a combattere contro la squadra giapponese: determinato, fiero, orgoglioso, sicuro di sé… E lei invece lì, pronta a tifare per lui. Fosse stato possibile si sarebbe alzata in piedi e avrebbe urlato il suo nome insieme alle altre sciocche ragazzine che si stavano sgolando in tribuna, ma conservava ancora un briciolo di dignità. O almeno credeva.

 

Si morse le labbra, pensando che in fondo la parola testardaggine conservava un significato meno estrinseco di quanto in realtà si potesse pensare. Il testardo era colui che non si lasciava persuadere, il cocciuto, l’ostinato; se si voleva, si poteva pure legare il significato della parola con orgoglioso.

Lei e Yuri erano diversi come il giorno e la notte, differenti come il polo nord e il sud, distanti come le due cariche opposte, ma una cosa in comune ce l’avevano: erano testardi, cocciuti, ostinati.

 

Che qualcosa stesse accadendo tra loro – qualcosa di grosso, di inusuale, di assolutamente enorme – l’avevano capito tutti, tanto che le persone attorno a loro solevano fissare prima uno e poi l’altra facendo tanto d’occhi, studiando la situazione e tentando di carpire i segreti. Inutilmente.

 

Quel giorno i gemelli Fernandéz non erano al top della loro forma: Raùl era con la testa sulle nuvole per chissà quale motivo, fissava ansiosamente prima il campo e poi la sua fidanzata, e pareva che la testa gli dovesse scoppiare da un momento all’altro. Julia non stava tanto meglio: generalmente era quella più attiva tra i due, invece quel giorno pareva essersi proprio spenta per fissare per tutta la durata dell’incontro un punto del campo con aria sconsolata, nemmeno fosse accaduto qualcosa di irreparabile.

 

Improvvisamente l’incontro finì, e la madrilena scattò in piedi, come punta da un’ape: quei giorni erano parecchio strani per lei, tutti una miscela di situazioni e sentimenti che non sapeva discernere e catalogare. Voleva solo andare via, uscire da quello stadio e fuggire a casa sua, rintanarsi nel suo letto e dormire.

Si diresse verso gli spogliatoi della sua squadra: in quel frangente una doccia e un cambio di vestiti sarebbero stati l’ideale per lo stato in cui versava la sua mente. L’acqua della doccia avrebbe creato un nuvolone così denso da lavare via e portarsi dietro, almeno per un frangente, tutti i cattivi pensieri e le preoccupazioni.

 

Entrò nel camerino iniziando a prendere l’accappatoio e il ricambio, mettendoli alla rinfusa sulla panchina; si tolse le scarpe da ginnastica e sciolse i capelli dalla coda di cavallo in cui li aveva costretti, ma sobbalzò di scatto quando sentì un deciso bussare alla porta che la distolse da tutti i suoi pensieri.

 

…Yuri Ivanov e la sua faccia tosta.

 

Pose le braccia conserte, storcendo le labbra in una smorfia. “Sì?”

 

Il russo la fissò con quel suo sguardo gelido e penetrante che ormai pareva essere divenuto un suo brand, ed entrò all’interno del camerino senza nemmeno prendersi il disturbo di dire alcunché per essere invitato. “Hai perso l’incontro.”

 

Julia lo fissò con sguardo torvo. “E allora?”

 

Lui si guardò intorno, poi scrollò le spalle. “Sei un po’ fiacca ultimamente.”

 

La madrilena spalancò occhi e bocca con fare sdegnato. “¡Tienes mucha cara!” quando lui la fissò con sguardo interrogativo, bastò quello a farla esplodere di brutto. Non poner ed dedo en la llaga para ponerseles los dientes largos a alguien, no es-”*

 

“Sì, sì, certo.” sibilò, con fare irritante. “Hola anche a te.”

 

Lì Julia lo fissò come volesse ucciderlo. “¡No me enchar en cara nada! Yo hablo como-”*¹

 

Quando si sentì attirata a lui di scatto, a tutto poté pensare in quella frazione di secondo, tranne che lui l’avrebbe presa per poi baciarla.

 

Si erano baciati tante e più volte durante quei mesi che avevano passato come amici, ma mai era capitato che accadesse come in quel frangente: quando era avvenuto era sempre stato il preludio di qualcosa di più, mai era accaduto come un bacio e basta.

Julia tuffò le sue dita tra i capelli di lui, dischiudendo le labbra e lasciandosi andare, sentendo le mani di lui sui suoi fianchi; si sentiva come stesse veleggiando sulle nuvole, come se avesse tracannato tutto d’un fiato il più potente degli alcolici che le stava facendo avere una mente confusa e priva di pensieri.

 

Ma come quel contatto iniziò, bruscamente finì, e terminò quando lui si sciolse dalla stretta in cui aveva arpionato la ragazza e la fissò con sguardo vacuo e non troppo deciso.

“Bene. Io andrei.”

 

Julia fu in grado soltanto di annuire, gli occhi puntati sul vuoto e la testa piena di domande; quando lui si chiuse la porta alle spalle, però, non se lo volle chiedere affatto come mai le iridi le si fossero riempite di lacrime.

Una mezza idea ce l’aveva, però.

 

 

 

* “Che faccia tosta!”… “Non mettere il dito nella piaga per tentare d farmi diventare invidiosa, non è…”

*¹. “Non me ne frega niente! Io parlo come…”

 

 

 

 

 

Sfrecciando a tutta velocità tra i corridoi del Plaza, si sentiva come se avesse mangiato un elefante. Se non le avesse scritto quel messaggio, probabilmente non sarebbe nemmeno andata, ma quello cambiava ogni cosa.

 

Le scale, doveva prendere le scale.

Mao corse verso la prima rampa saltellando e facendosi gradini pure a due a due, tanta era l’agitazione che la scuoteva. Sentiva un misto di contentezza e paura, l’adrenalina era solo un fattore aggiuntivo.

 

Arrivò al piano incriminato solo parecchi secondi dopo, secondi che le parvero ore. Con il cuore in gola cercò la stanza alla quale nei giorni frequenti aveva bussato così spesso, e la trovò. Bussò con un tocco quasi ridondante ed isterico, che rifletteva la sua voglia di aggiustare ogni cosa.

 

…E quando le venne ad aprire lui, non poté fare a meno di sorridere, radiosa.

 

“Ciao.” Esalò arrossendo, ravviandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

 

Lui probabilmente non doveva aspettarsi quella visita, perché strabuzzò gli occhi per poi sorridere dolcemente. “Ciao.”

 

Con il cuore che scandiva i battiti furiosi del tempo e il respiro quasi mancante, Mao si morse le labbra, cercando di tirar fuori il coraggio necessario per affrontare quel discorso. “Ho letto il tuo sms.” Bisbigliò, sorridendogli. “Pensi davvero quello che hai scritto?”

 

“Sì.”

Quando quella sola sillaba le arrivò alle orecchie, bastò per scatenare una serie di emozioni talmente forti da non credere fosse possibile provarle tutte insieme. Gli sorrise, raggiante, e ricambiò ampiamente il bacio quando le labbra di lui si posarono sulle sue.

 

 

 

Quelle erano cose che avvenivano nei suoi sogni, non nella realtà. Eppure in quel frangente, sdraiati comodamente sul divano, esplorando sensazioni indescrivibili e puramente metafisiche, si stavano baciando. In realtà, da quando erano entrati nella suite non avevano mai smesso di farlo. Da quant’era che andavano avanti? Avrebbero potuto essere ore o giorni, nessuno dei due sarebbe stato in grado di dirlo Le uniche pause che avevano fatto tra un bacio e l’altro le avevano utilizzate per guardarsi negli occhi, per sorridersi e accarezzarsi a vicenda, per stringersi forte l’uno all’altra e poi via, giù di nuovo a baciarsi come se fosse una necessità maggiore del bisogno di respirare.

 

Mao sorrise contro le sue labbra, non credendo che tutto quel che stava vivendo fosse vero. Sentire il suo sguardo su di sé, tuffarsi dentro quel mare che pareva oro disciolto… Paradiso, paradiso e nient’altro.

 

Non si accorse nemmeno del suo cellulare che cominciò a squillare incessantemente, aveva prestato attenzione solo alle labbra di lui scese lungo il suo collo.

Ma poi vibrò nuovamente, facendola sbuffare. Rei la fissò e si tolse di mezzo, permettendole di recuperare il telefonino dalla borsa.

 

La ragazza sbuffò vedendo una chiamata ed un sms da parte di Jared. Le diceva che ci teneva alla sua presenza alla festa, raccomandandole di non mancare.

 

“Tutto bene?”

 

Mao annuì, sorridendogli. “Solo uno stupido sms.” Rispose, andando a sedersi vicino a lui. “Dove eravamo?” mormorò, ad un centimetro dalle sue labbra.

Ma il bacio non avvenne, e per il fatto che il cellulare si mise a vibrare nuovamente. Indispettita, la ragazza rispose tagliando la conversazione più che poté, e quando due minuti dopo lo spense, sbuffò. “Certa gente è più appiccicosa della colla.”

 

“Che succede?”

 

“Oggi ho mollato Kurt.” Rivelò, mordendosi le labbra. “E subito il suo amico ci ha provato con me invitandomi ad una festa. Ho assicurato che ci sarò, ma-”

 

Rei sbatté gli occhi, interrompendola. “Hai accettato l’invito?”

 

“Beh, sì, ma del tutto innocentemente. Poi lui è un tipo molto elegante, ha già capito che con me-”

 

“Mao.” Il ragazzo la fissava, serissimo. “Non credi che significa dargli false speranze?”

 

“No!” la sua esclamazione si spanse per tutta la suite. “Se una dice ad un maschio no, è no. Non è forse, ritenta.”

 

“Io credo che tu non conosca la maggior parte dei ragazzi là fuori.” Puntualizzò. “Dovresti-”

 

Mao cominciò ad alterarsi. “Non so cosa pensi, ma non sono un’ingenua. In questi mesi sono maturata molto più di quanto tu possa pensare.”

 

Rei sospirò. “Lasciamo perdere la questione dell’ultimo periodo-”

 

“Perché?” surriscaldandosi, incrociò le braccia al petto. “Dovremmo parlarne prima o poi, quindi parliamone.”

 

“Mao, questo è davvero un altro discorso.”

 

“No, è lo stesso!” esclamò, mentre una miriade di flashback le bombardavano la mente. “Tu non vuoi che io vada perché hai visto cosa sono in grado di fare.”

 

Le rivolse uno sguardo allucinato. “Scusa?”

 

“Ho passato gli ultimi cinque mesi a piangere e a cercare di essere una persona che non sono, ma tutto questo mi ha insegnato a tirar fuori le unghie, ad inseguire i miei veri sogni.” Accorata, lo fissò intensamente. “Ho fatto degli sbagli, ho azzeccato qualcosa, ma non cancellerei nulla. Se ripenso al lavorare all’avalon, ad essere andata a letto con Raùl, all’aver frequentato un tossicodipendente-”

 

“Sei andata a letto con Raùl?!”

 

“Di tutte le cose che ho detto hai sentito solo questo, vero?” replicò lei, stringendo le labbra. “Io non mi vergogno di niente, se tu ti fai condizionare dal mio passato sono solo problemi tuoi!” esplose, prendendo al volo borsa e cappotto per andar via e sbattere la porta.

 

 

 

 

 

Stasera alle 21.00 tieniti libera.

 

Non c’era che dire: i suoi sms erano schematici e freddi come lui, ma in fondo miravano all’essenziale. Hilary veleggiò da una parte all’altra dell’appartamento: erano le otto, e tra un’ora sarebbe passato a prenderla; doveva ancora fare una marea di cose, tra le quali portare Freddie da Hannah, visto che quella sera, a quanto sembrava, non vi era nessuna nei due appartamenti.

 

Sospirò, rimirandosi allo specchio e sorridendo quando si vide con i bigodini e l’accappatoio. In pieno stile anni ’50 indossò un paio di collant rossi, una gonna a campana blu elettrico, e una camicia dello stesso colore dei collant; si mise un paio di zeppe nere spuntate sotto la supervisione di Freddie che, scodinzolando, le ricordò quanto avesse fame.

 

Cominciò a preparargli la pappa in quattro e quattr’otto e, mentre lui cenava, iniziò a cotonarsi il ciuffo, facendosi ridere per quanto sembrasse uscita da un paio di vecchie fotografie retrò; ebbe appena il tempo di truccarsi leggermente che il campanello prese a suonare, deciso.

 

Sbatté gli occhi, incuriosita: Mariam era uscita con Max, quindi chi poteva essere, a meno che Mao o Julia non avessero dimenticato le chiavi? Erano solo le nove meno venti…

 

Kai.

 

Roteando gli occhi, divertita, aprì il portone, decidendo in fretta che borsa portare e tastando i bigodini, per rendersi conto che avrebbero avuto bisogno di ancora una decina di minuti.

 

“Dammi una macchina fotografica: non posso non poterti ricattare.”

 

Hilary alzò gli occhi al cielo. “Hiwatari, se non sai fare le battute, non farle, okay?” Freddie saltò addosso al nuovo arrivato facendogli le feste e prendendosi la sua dose di coccole. “E comunque, sei in anticipo.”

 

“Affatto; ti avevo detto che per le 21.00 dovevi tenerti libera; non ti avevo mai detto per che ora sarei passato.”

 

La giapponese incrociò le braccia al petto. “Ancora peggio: sei passato senza avvisare. Avrei potuto essere in posizione alquanto scomode, da sola o meno.”

 

Lui la inchiodò con lo sguardo. “Avresti potuto davvero?”

 

Sorrise, birichina. “Diciamo che per stavolta ti è andata bene.” Iniziò a prendere il phon per velocizzare il processo con i bigodini, poi si rivolse a lui. “Senti, per fare prima non è che porteresti Freddie dalla dog-sitter? Così tra due minuti usciamo.”

 

“No, lui viene con noi.”

 

Hilary sbatté gli occhi, incerta. “Sul serio?” Lui annuì, come se non fosse niente di particolare, facendola ridere. “Sentito, Fred? Così hai la compagnia tutta la serata.” Fece, facendo saltare di contentezza il cagnolino che scodinzolò, felice. Accese il phon e passò uniformemente l’aria calda su tutta la testa, in modo che si asciugasse per bene. Quando passò a toglierli a poco a poco, uno per uno, una cascata di serici capelli bruni ed ondulati le ricaddero sulla schiena, perfetti.

 

Kai la osservò, apparentemente neutro. “Direi che sei in linea con il posto nel quale andremo.” E, ignorando lo sguardo curioso di Hilary, passò a mettere il guinzaglio al cagnolino.

 

 

Poche cose, ormai, erano in grado di sconvolgere la ragazza: vivendo a New York erano più le cose che avevano visto che quelle che ancora mancavano alla sua esperienza; ma quando davanti a lei si stagliò la vista di un’auto che era indubbiamente una cabriolet, voltarsi di scatto verso di lui e fissarlo con tanto d’occhi fu qualcosa di normale.

 

“L’ho affittata.” Spiegò, scrollando le spalle. “Ci servirà per stasera.”

 

Freddie venne fatto salire sul sedile posteriore, e Hilary cercò di dominarsi, nonostante continuasse a sentirsi con quella strana sensazione interiore che la spiazzava. Per uscire con lei i ragazzi si inventavano di tutto, ne aveva sentite di cotte e di crude; dagli abbordaggi più kitch e scabrosi a quelli più sofisticati ed eleganti, fino ad arrivare agli appuntamenti, che erano della stessa pasta.

Aveva visto ragazzi che l’avevano portata dappertutto, sia con macinini che con auto chic del proprio paparino; ma mai nessuno, nessuno, si era spinto ad affittare un’auto proprio per la serata speciale che avrebbero passato insieme. E nessuno mai avrebbe portato con loro il suo cagnolino, ne era certa.

 

“Dov’è che andiamo?”

 

Quando si voltò a guardarla, colse subito il suo sguardo divertito e criptico insieme. “Vedrai.”

 

 

 

 

Fissando l’orologio sorrise nel realizzare di avere ancora due belle ore di tempo prima di dover andare ad allenarsi. Non sapeva bene come mai le fosse venuta in mente quell’idea, ma sapeva soltanto che quando c’era lui di mezzo la sua mente razionale e logica spariva per lasciare lo spazio ad un animo emozionale ed emotivo.

 

A differenza delle sue amiche andava al Plaza lo stretto necessario per raggiungere la sua squadra ed allenarsi: aveva capito che quell’hotel stava divenendo un posto assurdo, fonte dei più loschi altarini e dei segretucci più assurdi, ma lei non ne voleva avere niente a che fare.

 

Dopo essersi fatta dire alla reception che piano e che suite fosse quella degli americani, prese la via delle scale, preferendole senza dubbio all’ascensore – specie dopo un certo racconto di una sua amica spagnola.

 

Raggiunse il terzo piano poco dopo, bussando leggermente alla porta e aspettando: sapeva che il resto della squadra si trovava ancora allo stadio per vedere in che girone sarebbero stati messi tramite sorteggio e che lui era lì, che ronfava beatamente, preso dal colpo di sonno per aver passato in bianco la notte precedente.

 

Quando la porta si aprì, le venne spontaneo sorridere sarcasticamente alla vista dei suoi capelli arruffati e delle sue occhiaie. “I bravi bambini devono andare a letto presto.”

 

Lui inarcò le sopracciglia, soffocando uno sbadiglio. “Potrei rigirarti la stessa frase.” Borbottò, appoggiandosi allo stipite della porta, con nessuna intenzione di farla entrare.

 

Mariam sorrise, lasciva. “Chi è che ha detto che sono una brava bambina, esattamente?”

 

Il suo sospiro fece capire chi dei due aveva vinto la sfida verbale, e quando l’irlandese fissò dritto negli occhi il biondo americano, decisa, lui incrociò le braccia al petto. “Hai niente da dire, riguardo ieri?”

 

La mora ripensò al loro battibecco che li aveva fatti passare tutta la notte a litigare: lei era stata tutto il tempo all’Avalon a preparare drink e a sibilare nella sua direzione, così come lui era stato al bancone, di fronte a lei, a rispondere a tono, tutta la notte fino alle sette di mattina, fino a quando non si erano separati per andare in direzioni opposte; tutto questo per una frase sbagliata.

“E’ partito tutto dal fatto che sei un idiota.”

 

Max inarcò un sopracciglio. “Ma poi avevi rincarato la dose, mi pare.”

 

Lei annuì, convinta e un tantino rossa in volto. “Infatti. Perché è così.” Al suo sguardo incredulo, si avvicinò. “Sei un idiota, un perdente, uno stronzo, e sei così infantile che certe volte ti prenderei a testate… Però…” sospirò, mordendosi le labbra e incoraggiandosi ad andare fino in fondo. “Però ti amo; così tanto da amare anche i tuoi difetti, perché se non facessero parte di te non saresti la persona che sei.”

 

Le era costato fare quel discorso: le era costato tutto il suo orgoglio e la sua faccia, lo si notava da come arrossì e abbassò gli occhi a terra, ma capì che ne valse la pena quando sentì le sue braccia stringerle la vita e sollevarla da terra in un impeto di gioia per poi, a sorpresa, portarla in camera. Allora scoppiò a ridere, rovesciando la testa indietro.

 

Ma sì, abbiamo tempo

 

 

 

 

“Non ci credo.” Si guardò intorno facendo tanto d’occhi, e fissò il suo accompagnatore come fosse un alieno venuto dalla luna; Freddie scodinzolò in adorazione accanto ad entrambi, prendendo a zampettare e a fissare il posto in cui si trovava con curiosità mentre la giapponese fissava l’aria circostante come qualcosa di assolutamente etereo. “C’è una spia, non puoi aver fatto tutto da solo.”

 

Kai le lanciò uno sguardo furbastro. “Colpito.”

 

Hilary aggrottò la fronte. “Allora?”

 

All’entrata del parco giochi più grande di New York, Kai stette ben attento a tenere in mano il guinzaglio di Freddie e a fare in modo che la ragazza non pagasse i pop-corn né i biglietti. “Mi ha consigliato Takao.”

 

Scosse la testa, divertita. “Quell’idiota deve imparare a farsi i fattacci suoi.”

 

Lui scrollò le spalle. “Sei sicura?” fece, conducendola nel posto accanto al parco giochi, un prato dove si sedevano tutte le coppiette per mangiare pop-corn e per guardare film in bianco e nero. Hilary sorrise, estasiata. “Non so stasera cosa diano.”

 

Si accomodarono in un posto in disparte, accoccolati tra un albero e una siepe; Freddie si acciambellò tra loro due, prendendosi tutte le coccole possibili ed immaginabili, e quando iniziò il film, il solo titolo fece saltare in aria la ragazza. “Eva contro Eva.” Bisbigliò, sorridente. “Adoro Bette Davis.”

 

“Lo so.” Mormorò, neutro.

 

Si voltò di scatto. “Allora non è vero che non sapevi cosa dessero.”

 

Era serio, i suoi occhi viola non cedettero nemmeno sotto lo sguardo indagatore di quelli bruni di lei. “Sono bugiardo, che vuoi farci?”

 

Hilary scosse la testa e si voltò a guardare il film che procedette, bellissimo, appassionante e lineare, come lei lo ricordava.

 

Le luci si spensero, e sulla schermata apparve il ‘the end’ scritto elegantemente che caratterizzava la fine di ogni film in bianco e nero; la gente cominciò ad andare a poco a poco, spargendosi a macchia d’olio per tutto il resto del parco; loro, invece, rimasero lì, fermi nella loro postazione isolata.

 

La giapponese, rifocillata da quel film che le era sempre piaciuto e di cui conosceva ogni attore e persona che vi era nella regia, attirò le gambe a sé, estasiata. Quella serata stava procedendo in maniera anche migliore di come poteva andare e lei era contentissima.

“Come ti è sembrato il film?”

 

Kai conservava quell’aria indecifrabile che lo contraddistingueva, ma quando gli pose la domanda lo vide abbozzare una smorfia divertita. “Mh, interessante.”

 

Hilary strinse gli occhi, curiosa. “Spiegati.”

 

“Senza dubbio ha la sua morale nascosta – le occasioni perse, quelle prese al volo, il mondo dello spettacolo… Però ha i suoi punti deboli.”

 

La ragazza rifletté, stimolata dalle sue parole. “L’assunzione di Eva su due piedi?”

 

Lui annuì. “Eva è una fan e non è normale che presentandosi alla stella del cinema, lei l’assuma su due piedi.”

 

La bruna lo fissò ammirata per quella recensione imbastita in quattro e quattr’otto. “Non dimenticare che è grazie ad una serie di piccole attenzioni che riesce a farsi notare dalla diva e a farsi assumere.” Fece notare, attirando a sé le gambe. “A me piace, l’ho guardato molte volte.”

 

Lo sguardo di lui era un mix tra divertito e curioso. “Cos’ha di speciale rispetto a veri colossal?”

 

Lei sorrise, entusiasta. “Innanzitutto delinea un ritratto raffinato e mordace del mondo del teatro, se ne parla come fosse un vero ed autentico covo di serpi; la regia è di una classe sopraffina, i dialoghi sono brillanti e taglienti, la fotografia così fine e controllata che rende perfettamente l'idea dell'atmosfera teatrale, e le interpretazioni sono tutte di grande livello, specie quella della Davies.”

 

Lui fece una smorfia poco convinta. “E’ stata brava.”

Lei si indignò. “E’ stata fantastica, ha fornito un’interpretazione magistrale! Ha avuto la nomination agli oscar come miglior attrice non protagonista!” esclamò, con una sonora linguaccia.

 

Il russo le si avvicinò facendola ammutolire, e quando premette le sue labbra su quelle della ragazza, facendole annebbiare i sensi e dimenticare tutto quello per cui si stava ritrovando a rimbrottargli contro, le passò le braccia attorno ai fianchi, attirandola a sé. Si baciarono a lungo su quel prato dove erano rimasti praticamente da soli, fino a quando non fu qualcosa, o per meglio dire, qualcuno, a riportarli alla realtà.

 

Freddie, notando di esser stato lasciato solo, prese ad abbaiare, come a dire che non ci stava a fare la candela tra i due. I ragazzi lo fissarono per poi sorridere, infine lui si alzò in piedi e le porse la mano, che lei accettò con un sorriso.

Il cagnolino osservò la scena con sguardo allucinato, non capendo nulla di quello che stava accadendo, ma scodinzolando quando entrambi passarono a ricoprirlo di attenzioni e coccole.

 

 

 

 

Mao non seppe se essere allarmata e preoccupata, o ringraziare tacitamente Raùl per averle offerto, con quella chiamata dal tono urgente, la possibilità di allontanarsi, per un pomeriggio, dal rimuginare sulle cose avvenute.

 

A che gioco lui stesse giocando, avrebbe pagato oro per scoprirlo, eppure più ci pensava e meno riusciva a decifrarlo. Si contraddiceva, prima faceva una cosa e poi ne diceva una che era l’esatto opposto… Come tutti i ragazzi che si rispettino, rappresentava l’indecisione fatta carne.

 

Sbuffando, entrò nel bar dell’hotel, aspettandosi di vedere un volto – o anche due – a lei familiari. Quando riconobbe Julia, sorrise e le si avvicinò; la spagnola le fece un cenno e un po’ di spazio per farla accomodare accanto a lei.

 

Hola, querida.” Sorrise la madrilena, accavallando le gambe; dopo una ventina di secondi le rivolse uno sguardo smarrito. “Non dirmi che Raùl ha chiamato anche te.”

 

Mao si accigliò. “Ora posso iniziare a preoccuparmi.”

 

Entrambe avevano ricevuto una chiamata da parte del fratello della spagnola in cui il rosso diceva loro di farsi trovare al bar del Plaza per una certa ora perché si doveva parlare urgentemente.

Creo qué es una tontaria.” La madrilena lo disse, ma il suo tono rimase allarmato, quasi spaventato. “Sarà una scemenza, vero?”

 

Mao provò a sorridere: dentro di sé, però, si sentì preoccupata. “Ma sì, dai, non so cosa sarà ma vedrai che tra mezz’ora gli rimbrotteremo contro che ci aveva spaventato per niente.”

 

Julia tirò un sospiro di sollievo, molto più rilassata. “Visto che mancano ancora venti minuti… Che mi racconti?”

 

L’orientale aggrottò la fronte, sospettosa. “Dovrei rigirartela io, questa domanda: com’è che sei così in anticipo quando solitamente sei sempre in ritardo? Non me la racconti giusta, tu.” Julia strinse le labbra. “Ti sei vista con Yuri?”

 

La ragazza dai capelli ramati scosse la testa, poi sospirò. “No, sono semplicemente stata aquì… Nei paraggi.” Fece, sospirando. “Terrible, Mao, terrible: estoy pierdendo el control.”*

 

“Che intendi?”

 

Te sembra normal venire aquì para…” s’interruppe mordendosi le labbra e digrignando i denti, dopodiché emise un sospiro enorme, prendendo tempo. “Mao, no lo sé qué me pasò. So solo che mi ritrovo a venire improvvisamente qui senza un motivo, pensare a lui continuamente, e non era previsto!”

 

Un sorriso dolce ma assolutamente irritante per la spagnola si fece largo sulle labbra della cinese che sospirò. “Hai mai pensato che tu possa provare qualcosa di molto forte per questo lui?”

 

Una sonora, ironica, nervosa risata provenne dalle labbra di Julia, che scoppiò a ridere quasi con forza. “Chica,¡ tu alucinas!” sbottò, fissandola quasi con pena.

 

“Perché mai avrei le allucinazioni? Julia, in che ambito una persona pensa ad un’altra continuamente, perché mai dovrebbe parlare continuamente di quella, e per giunta con gli occhi che le brillano?”

 

La madrilena inarcò le sopracciglia. “Stizza?” all’inarcarsi di entrambe le sopracciglia da parte dell’orientale, sbuffò. “No lo sé.”

 

Mao fissò l’amica con decisione. “Visto che non lo sai, immaginatelo davanti; ci sei?” lei annuì. “Definiscilo. Ma sì, dai. Una definizione di lui.”

 

Julia si morse le labbra, poi guardò dritto fisso davanti a sé ed infine si concentrò, sospirando. “E’ noioso, è divertente, è il più grande coglione del mondo, mi fa venir voglia di urlare, mi rovina la giornata e ha il potere di salvarla all’ultimo minuto; mi fa diventare matta, non lo sopporto e come mi sta sulle scatole lui..!” arrestò il discorso, abbassando gli occhi e avendo appieno la consapevolezza di ciò che aveva detto.

“...Ma è anche tutto ciò che voglio.” Sussurrò, impallidendo ed esalando il discorso come fosse appena riemersa dall’acqua dopo essere stata a lungo sotto.

 

Mao osservò l’amica ammettere a stento i suoi sentimenti, e capì quanto per lei fosse stato difficile: era fin troppo facile far finta di nulla e nascondersi dietro un dito, far finta che quei sentimenti non esistessero e fingere che tutto andasse per il meglio. Non era così.

Con una mano ricoprì la sua, facendole capire che le era accanto, e la strinse, dedicandole un sorriso. Julia era ancora con lo sguardo fissò nel vuoto, i suoi bei occhi verdi che fluttuavano nello spazio circostante, ansiosi di cercare un qualcosa che avesse dato loro una giusta dimensione.

“Ehi, va tutto bene.” Le sussurrò, incoraggiante. “Comunque vada, andrà bene.”

 

La madrilena annuì meccanicamente, per poi battere le mani e forzare un sorriso. “¡Animo, chica! ¡Hay qué estar a la ultima!”*¹

 

Mao sorrise piena di ammirazione di fronte al coraggio e alla determinazione dell’amica, poi annuì. “Assolutamente sì.”

 

“Tu come va con i tuoi due pretendenti?” chiese, lanciandole uno sguardo ironico. “Mi pare che sei contesa, no?”

 

Mao sbuffò. “Non lo so, onestamente. Dopo aver scaricato Kurt-”

 

“¿Qué?”

 

“L’ho scaricato oggi e sono corsa da Rei. Guarda qui.” Fece, sbuffando tristemente ed allungandole il cellulare.

 

Non voglio che tu vada.

 

Julia si accigliò a quel messaggio letto sul telefonino dell’amica, e la fissò sconcertata. “Finalmente ha fatto un passo avanti… Era ora.”

 

“Già.” Borbottò l’altra, storcendo il naso. “Sono andata da lui, ci siamo baciati per ore… Sembrava una specie di paradiso.” Con lo sguardo, la madrilena la esortò a continuare. “Poi abbiamo avuto una discussione per uno stupido sms che un ragazzo mi ha mandato. Si trattava solo di una festa! E subito lui a dirmi cosa fare e cosa non fare; siamo passati all’argomento di questi mesi, e siamo esplosi entrambi. Me ne sono andata sbattendo la porta.”

 

Julia la fissò con serietà. “Fai attenzione querida, perché questa situazione è delicata, e sbilanciarla come hai fatto tu non è stata la mossa migliore. Stai camminando sulla lama di un coltello: potrai scivolare da un lato o dall’altro, sta’ a te decidere quando sarà il momento e da quale parte cadere; se non lo farai, la caduta sarà brusca e dolorosa per tutti ma, soprattutto, per te.”

 

La cinese aprì la bocca per poi richiuderla; il discorso dell’amica l’aveva colpita, e non sapeva cosa replicare. “Il fatto è che se io non fossi innamorata… So che se non avessi fatto l’esperienza di New York…” sospirò profondamente. “Non lo so, Ju. Non lo so.”

 

“Non puoi cambiare quello che è stato fatto, non puoi tornare indietro nel tempo, non puoi cercare di cambiare sentimenti o aggiustare i cuori infranti.” Replicò la madrilena, seria. “Tutto quello che puoi fare è imparare dai tuoi errori, e sperare di non rimpiangere mai niente.”

 

A quelle parole la cinese si sporse ad abbracciarla, trovando conforto in quel profumo dolce e forte che sapeva così di lei e che ormai adorava. Stettero strette l’una all’altra per parecchi secondi, infondendo l’una coraggio all’altra, sentendone il bisogno, fino a quando un sonoro schiarimento di voce non le fece voltare: Raùl e Mathilda erano davanti a loro.

I due ragazzi parevano stanchi, provati, spossati; presero posto accanto alle due facendo un brevissimo cenno di saluto e lasciando le amiche pressoché sbigottite.

 

“Ragazzi… Tutto bene?” Mao era basita: non aveva mai visto Raùl comportarsi così; per non parlare di Mathilda che pareva fuori dal mondo.

 

I due si lanciarono un’occhiata tesa, dopodiché si presero per mano.

Mathilda fissò entrambe le ragazze negli occhi, le labbra serrate dalla tensione. “Sono incinta.”

 

 

 

 

*. “Terribile, Mao, terribile; sto perdendo il controllo.”

*¹. “Coraggio, ragazza! Dobbiamo abituarci alle cose nuove!”

 

 

 

Continua.

 

 

 

Scusate il deplorevole ritardo! T______________T Non è colpa mia, non vorrei che pensaste che io sia diventata una persona poco seria che non rispetta gli impegni, vi assicuro che non è così. Amo questa storia e farò tutto quello che è in mio potere per rispettare sempre le scadenze.

Intanto, perdonatemi! T.T

 

By the way, definisco questo capitolo il più brutto della storia, perché ogni cosa è legata ad un filo, e dovrebbe trasmettere ansia – a parte la scena KxH – ma non so se mi è venuto bene, onestamente. .-.

Spero di rimediare con il prossimo “Damn Girl”, che sarà tra l’altro il penultimo.

In questi ultimi capitoli avrete molto da augurare, nel senso che: in questo dovrete augurarmi buone feste (è un’imposizione, perché con l’arrivo del natale e roba varia casa mia si trasforma in un’isola che accoglie parentame vario tipo naufraghi, e di conseguenza le mie scatole saltano allegramente), nel prossimo buon compleanno (cade il giorno prima. U.U) e nell’ultimo mi augurerete buona fortuna per gli esami *trema di paura*

 

Però così, tutti auguri spontanei. =D

 

Intanto sono io a farvi auguri di buone feste, rilassanti e piacevoli. Ingrassate, mi raccomando. ;) E, oh, se volete tenervi in allenamento senza dover andare in palestra… Basta che clicchiate la scritta in basso. Recensire è un allenamento per le dita! U_U

 

Un bacione,

Hiromi *sclerata*

 

 

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Capitolo 17
*** Damn Girl ***


Overboard

 

 

 

If you can take a chance
Find you that better man
Well, life seeps
From your quaint disease
You're giving all my lovin' away

Damn GirlAll American Rejects

*******************

Era bello passare la mattina con le amiche, era bello avere un po’ di tempo per se stesse, doveva tenerlo a mente.

Hilary sorseggiò placidamente il suo espresso, accavallando le gambe. “Tu e Max siete definitivamente tornati insieme, quindi?”

 

Mariam ostentò un’espressione casuale. “Beh, sì.” I sorrisi enormi delle sue amiche furono più di quanto potesse sperare, perché si sentì finalmente felice. “Ma non siamo certo l’unica coppia all’interno del gruppo.”

 

Arrossendo fino alla punta dei capelli, lanciò all’irlandese un’occhiataccia, capendo il trucco di sviare la conversazione su un altro argomento. “Beh… Non ne abbiamo mai parlato.” Farfugliò. “Diciamo che usciamo insieme.”

 

Querida, non farmi ridere.” Julia roteò gli occhi. “Ti ho vista tentare di staccargli le labbra dalla faccia proprio ieri sul pianerottolo.”

 

La bruna emise un ‘oh oh oh’ piuttosto ironico. “Da quando hai subito questo corso accelerato di inglese sei più simpatica, lo sai?” la rossa sorrise in maniera fintamente dolce. “E poi senti chi parla, il bue che da del cornuto all’asino.”

 

Questa volta fu Julia ad irrigidirsi spasmodicamente, tra le risatine delle altre. “Mao ha lasciato Kurt!”

 

La diretta interessata roteò gli occhi. “Lo sapevano già.”

 

“Bel tentativo.” Le concedette Mariam, annuendo.

 

“Paraculo.” L’apostrofò ridendo Hilary.

 

Julia s’imbronciò. “Se proprio lo volete sapere, non c’è nessun cambiamento nella mia vita, a parte che tra otto mesi diventerò zia. Non è male se ci pensate. Mi sono già sposata, sono una divorziata, e tra un po’ la famiglia Fernandéz si allargherà.”

 

Hilary assunse un’espressione preoccupata. “Raùl e Mathilda come stanno?”

 

Mao respirò a fondo prima di parlare. “Diciamo che sono abbastanza scossi. Non sanno ancora su quale decisione vertere.”

Per un minuto le quattro rimasero in silenzio, moltiplicando i loro pensieri fino a farli divenire enormi, fino a quando il vibrare del cellulare della ragazza non riscosse un po’ tutte.

E poi il messaggio che lesse fu talmente veritiero da farle accusare dei crampi allo stomaco. Semplicemente non rispose e mandò giù il resto del suo caffè.

 

 

 

 

“Insomma, siete tutte nei casini.” Concluse Takao, sentendo il racconto della sua migliore amica.

 

Hilary sbuffò, incrociando le braccia sotto il petto. “Più o meno. Però sai cosa? Mao e Rei la stanno facendo troppo lunga. Che cazzo, potrebbe essere così semplice per loro..!”

 

“Che vuoi farci? L’amore fa male.”

 

La bruna ridacchiò per la battuta dell’amico soprattutto per il tono usato. Piluccò un altro biscotto accompagnato al suo tè e gli sorrise. “Tu che mi racconti?” quando vide il suo sguardo incupirsi, si sentì a disagio.

“Sai cos’è strano? Il fatto che dopo un anno passato lontani l’uno dall’altra improvvisamente ci siano riserve tra noi.” Borbottò, mordendosi le labbra. “Devo ricordarti quanto ti adoro?”

 

La frase lo fece ridere e scuotere la testa. “No, tranquilla.” Ribatté, sospirando leggermente. “Certe volte ci sono cose che devi affrontare da solo, non puoi aggrapparti sempre agli altri.” Hilary fece per ribattere, ma lui la precedette. “Ci faccio portare dell’altro gelato.”

 

Mentre lo fissava alzarsi dalla sedia ed andare al bancone del bar, Hilary fu presa da mille pensieri contrastanti, che le suggerivano in maniera differente come affrontare la situazione.

 

E poi fu un sms.

 

Non ci pensò nemmeno due volte a prendere il cellulare del suo migliore amico e ad aprire il messaggio, era una cosa che aveva sempre fatto e che lui faceva anche con lei. Quando però lesse il contenuto, non poté impedire che una sonora imprecazione le fuoriuscisse dalle labbra.

 

Dove sei? Ho proprio voglia di te… xoxo, Trish

 

“Ti ho preso il gelato alla nocciola come piace a te! Vedi che amico-” al suo sguardo livido il ragazzo tacque all’istante, chiedendosi cosa, in due minuti, potesse aver fatto cambiare umore alla sua amica. “Che c’è?”

Hilary non disse nulla; semplicemente gli ridiede il suo cellulare dove spiccava, visibile, il messaggio di Trisha. “Oh, merda… Hila-”

 

La giapponese si alzò, rimettendosi il giaccone. “Capisco che tu possa volere il tuo tempo, capisco che possano accaderti delle cose… Ma tutto questo mi fa sentir inutile e non considerata.” Fece, asciutta. “E ora, scusami.”

 

 

 

 

 

“¡Ojalà!” sentire Raùl esclamare in spagnolo fu qualcosa di assolutamente comico. “Tu ti fidanzi e io divento padre!”

 

Mao lo guardò di traverso. “Io non mi fidanzo.” Puntualizzò. “Era un sms molto elegante che proponeva qualcosa di assolutamente accettabile. Per la verità gli ho detto che ci avrei pensato.”

 

Lui inarcò un sopracciglio. “Ci devi pure pensare?” fece, con tono mordace. “Mao, hai vomitato prima o dopo esser venuta via?”

 

Lei sbuffò pesantemente, fulminandolo con lo sguardo. “Dopo, va bene?” si passò una mano tra i capelli, con aria confusa. “E non so nemmeno cosa mi sia preso.” Borbottò. “Quella di Jared era una formale richiesta di accompagnarlo al ballo in maschera, niente di… Illegale.”

La sola espressione della faccia di Raùl bastò a mandarla in paranoia. “Lui non è male, okay? E’ così distinto, elegante, carino… Se solo non fosse così pressante...”

 

“Se solo non fosse così poco Rei.” Le fece il verso l’amico, scoccandole un’occhiata ironica e beccandosene una omicida. “Tu non hai un problema: la tua situazione è semplice; la mia lo è meno, capisci quello che voglio dire?”

 

L’orientale si voltò a fissarlo; quando quella mattina si era incontrata con l’amico, l’aveva visto già parecchio più consapevole e rilassato, ma ancora ben lungi dal sapere cosa avrebbero dovuto fare lui e Mathilda. “Con Julia come va?”

 

Il ragazzo fece una smorfia. “Lo sai com’è fatta mia sorella: all’inizio è uscita fuori di testa, poi ha riflettuto, e ci ha offerto tutto il suo sostegno. Mi chiedo se dietro il suo cosiddetto riflettere, non ci sia stato qualcuno.”

 

Mao inarcò le sopracciglia. “Qualcuno tipo Ivanov?”

 

“Eh.”

Non era un mistero che nei confronti della squadra russa Raùl nutrisse timore ed insieme ammirazione, per non parlare di sospetto. A cominciare dal rapporto fin troppo strano che legava il russo con la sorella. Che cosa c’era tra loro? Quello che si sapeva in giro era che, settimane prima, Yuri Ivanov era finito all’ospedale e che a chiamare l’ambulanza era stata Julia Fernandéz. Cosa fosse accaduto, però, restava per lui un mistero.

 

“Non saprei dirti.” Fece, riflettendo che, invece, era parecchio probabile. “Tu e Mathilda avete preso una decisione?”

 

Lui sospirò. “Lei è parecchio cattolica e lo siamo anche noi, quindi niente aborto; si era pensato alla possibilità di dare in adozione il bambino, ma al sol pensiero ha avuto una crisi di pianto.”

 

Mao si morse le labbra, dopodiché fissò attentamente il suo migliore amico. “Tu come ti senti?”

 

Lo vide sbuffare ed allargare le braccia, come in segno di resa. “Scombussolato. Non pensavo potesse accadere, mi sento confuso, spaesato e l’unica cosa che posso fare è restare accanto alla mia fidanzata perché capisco che per lei la questione è ancora più complicata e difficile.” Si passò le mani tra i capelli, stancamente. “Non so che fare.”

 

La cinese gli sorrise, abbracciandolo e pensando a quanto, in poche settimane, fosse cambiato e maturato quel ragazzo che aveva di fronte: da un timido ragazzino era passato ad essere una persona solida e con la testa sulle spalle, seppur con la stessa insicurezza. “Ti starò accanto, tesoro.”

 

Raùl ricambiò l’abbraccio, dopodiché la fissò negli occhi, scostandole fraternamente una ciocca di capelli dagli occhi per porla dietro l’orecchio. “Devi prendere una decisione.”

 

La ragazza si morse le labbra, come spaventata. “Io l’ho già presa.”

 

 

 

 

 

Posteggiando davanti il Plaza, Hilary si accinse a mettere per bene la catena alla sua Kawasaki, e a liberare Freddie dalla gabbietta in cui l’aveva messo per portarlo a spasso in moto.

 

Facendo si che il cucciolo trotterellasse verso il giardino dell’hotel, cercò di scacciare il pensiero che le parlava di Takao.

Sospirando, fece un giro largo, andando verso il giardino dove stava il gazebo, quello dove lei e un certo russo di sua conoscenza si erano ritrovati a parlare più volte.

Non appena Freddie vide una sagoma alta allenarsi a beyblade, incurante della padroncina che lo teneva al guinzaglio, cominciò a voler correre verso la persona conosciuta, spingendo la ragazza ad accelerare il passo per doverlo assecondare.

 

Sentendo tutto quel chiasso, Kai si voltò, ritirando Dranzer e sorridendo quando si vide assaltato da un certo cagnolino. Freddie era lì, e gli stava facendo le feste, scodinzolando allegro; Hilary era dietro di lui: sguardo divertito, aria di chi la sa lunga, il fatto che dietro quella sagoma da donna vissuta convivessero più volti lo stuzzicava da morire. Ogni volta si domandava quale piccola sfaccettatura avrebbe assaporato della giapponese, e la cosa buffa era che non ne era mai stanco.

 

“Credo tu gli piaccia molto.” Spiegò la ragazza, scrollando le spalle. “Ha insistito per venirti a trovare.” Usò un tono strafottente, quasi di presa in giro che gli fece inarcare le sopracciglia.

 

“Lo ringrazio per il pensiero, allora.” Fece, beffardo, incrociando le braccia e non volendo sbilanciarsi affatto.

 

Hilary gli lanciò un’occhiata divertita e si andò a sedere sulla panchina sotto il gazebo, facendogli venir voglia di seguirla; quando il cagnolino si frappose tra i due e si distese placidamente, la giapponese fissò dritto davanti a sé, per non cedere. “Con le Dolls stiamo preparando una sorpresa.” Cambiò discorso, accavallando le gambe. “Per questo weekend sarà pronta.”

 

Lui si voltò a guardarla. “Sorpresa per i fan?”

 

La ragazza scrollò le spalle. “Chi lo sa… Ma ricordati che vi saranno poche parole per un buon intenditore.” Sorrise, schiacciandogli l’occhiolino.

 

Il moscovita si confuse per quella frase criptica e decise che l’avrebbe studiata pensandoci più in là. “Come procedono le prove con il gruppo?” Hilary fece per rispondere, ma lui continuò. “Hai ancora intenzione di lasciar stare Takao?”

 

La ragazza s’irrigidì. “Non lo lascio stare. Sono solo confusa, okay?”

 

“Tu sei amareggiata perché non ti ha detto di Trisha, non sei confusa.” Ribatté, capendo dallo sguardo di lei di averci preso. “Fuggendo il confronto non risolverai niente, otterrai soltanto di esserti messa la testa dentro la sabbia. Inutilmente, aggiungerei.”

 

La ragazza fece una smorfia. “Probabilmente non voglio stargli davanti sapendo che quello che raffazzona sono soltanto palle. Non capisco perché non me l’abbia detto.”

 

“Probabilmente perché deve capirci lui prima.” Spiegò, con semplicità. “Sai bene quanto lui ti adori, e non mi venire a dire di non esserne cosciente.” Lei sorrise. “Va’ da lui e parlagli, digli come ti senti, litigaci… Ma prima ascolta quello che ha da dire, dopo sarai libera di mandarlo al diavolo.”

 

Hilary lo fissò con tanto d’occhi, basita: chi era quel ventenne maturo che le stava facendo quel discorso con un filo logico, e dov’era l’orgoglioso e superbo Kai Hiwatari quindicenne che aveva conosciuto anni prima? L’avevano rapito gli alieni, forse?

Improvvisamente una consapevolezza si abbatté su di lei come una secchiata di acqua gelida, solo molto più piacevole. Si avvicinò a lui e lo baciò premendo le labbra sulle sue, e all’inizio lo sentì irrigidirsi, sorpreso, per poi ricambiare il bacio con tutta la coscienza e la voluttà che vi erano sempre tra loro.

 

Quando si ritrasse a poco a poco, lui sbatté gli occhi. “Per che cosa era questo?”

 

Lei lo fissò, decisa ma anche emozionata. “Perché mi piaci. E perché ho capito che tutti gli uomini sono uguali a loro modo, nella loro forma, nel loro essere, ma… C’è l’eccezione. E che tu lo sei.” Sussurrò, arrossendo fino alla punta dei capelli.

 

Il volto di lui parve rischiararsi come il cielo quando sorge il sole, e quando i suoi occhi si posero su di lei, la ragazza avvertì una fortissima sensazione di calore. “Non sarà semplice; sono una persona complicata, ho una vita incasinata e talvolta starmi intorno è un’impresa.”

 

Hilary dapprima sorrise, radiosa, poi incrociò le braccia al petto e sbatté drammaticamente le palpebre. “Io invece sono Heidi, ho la casetta in Canadà, un gatto, un pesciolino e tanti fiori di lillà.” Canticchiò, prendendolo in giro; quando lo sentì sospirare pesantemente gli assestò una pacca sul braccio per poi mettersi a roteare gli occhi. “Siamo due teste troppo diverse, complicate, con una vita assurda e un carattere schifoso ma, ehi… Ci arrendiamo?”

 

Le rivolse uno sguardo a metà tra lo schifato e lo scandalizzato. “No.”

 

Hiwatari, ho detto arrendersi, mica mettersi a mungere i tori.” borbottò, alzando gli occhi al cielo. “Quindi, appurato che vogliamo andare entrambi avanti anche solo per la curiosità di vedere chi sarà ad uccidere prima l’altro… Non resta che accettare la sfida e scoprirlo.” Fece, con tono pratico e un sorrisone sulle labbra. “Ah, ovviamente sarò io ad uccidere te.”

 

Lui sospirò stancamente. “E’ ora di redigere testamento.”

 

 

 

 

Estoy con el agua al cuello; ¡ningun sentimiento por un tubo!*

 

Si morse le labbra, fissando il ragazzo dietro di sé che osservava, annoiato, il centro commerciale all’interno del quale gli aveva dato appuntamento. Quando gli aveva scritto l’sms era riuscita a pensare soltanto che dopo sole ventiquattro ore che non lo vedeva ne sentiva una mancanza disperata, e che, o gli parlava anche solo per un motivo banale, oppure sarebbe morta come una tossicodipendente alla quale manca la propria dose.

 

Estoy empanada.*¹

 

Dargli appuntamento in quel posto le era sembrato la cosa più giusta e sensata, visto che aveva ragionato per trovare un luogo neutro dove vedersi pochi minuti e via: il tempo sufficiente di acquietare la sua voglia disperata, il suo bisogno di vederlo, sentirlo… E basta.

 

Vale, me do asco.*²

 

Stava fingendo di essere interessata ai vari oggetti esposti in quel reparto, ma nel frattempo lo guardava fissare il negozio in lungo e in largo, impaziente, come a domandarsi che diamine ci facesse lì.

 

Non aveva tutti i torti: lo aveva trascinato lì, lo aveva a malapena salutato e in quel frangente si stava beando della sua vicinanza fingendo di essere interessata ad altro. La verità era che non sapeva cosa fare; la scoperta della volta scorsa l’aveva stordita miseramente e quasi atterrata, come se si fosse trattato di sfidare a colpi di karate qualcuno.

 

Fernandéz, se mi hai trascinato qui inutilmente, io toglierei il disturbo.” Aveva ragione, eccome se ce l’aveva, eppure non voleva che andasse via.

Era questo l’amore? Sentirsi esplodere il petto fissando l’altra persona e, nel frattempo, aver voglia di dirgli cose immensamente stupide e melense? Se sì, quanto si poteva divenire idioti da innamorati?

Mentre lo realizzava, Julia si sentì perduta e assolutamente spaesata; lei, che nella sua vita non aveva mai provato nulla se non l’affetto smisurato per le sue amiche e per i suoi familiari, si sentì persa, perché in fondo era colei che aveva giurato che non sarebbe mai potuta morire per un uomo se non dal ridere.

 

“No… Perché?” sorrise, e un’idea si fece largo nel suo cervello con prepotenza; con un sorriso accattivante gli fece cenno di seguirla verso le scale mobili.

 

Superati due piani, il negozio di beyblade più grande del mondo si stagliò in tutta la sua imponenza davanti a loro, e fu con tutta la naturalezza del mondo che Julia vi entrò, rivolgendogli un sorriso.

Quel negozio sarebbe stato una tentazione per qualunque vero appassionato di beyblade: dai pezzi di ricambio, alle riviste in stile News of the World, alle trottole vere e proprie, ad un piccolo campo da gioco, vi era proprio di tutto. C’erano appassionati dello sport che facevano la fila per comprare attrezzi che avrebbero permesso loro di esercitarsi al loro sport preferito, e lì, senza dubbio, non mancava niente.

 

“Ottima idea venire qui.” Borbottò lui, guardandosi intorno. “Così poi un branco di persone scatenate ci riconosceranno e noi saremo fottuti: sei un genio.”

 

Julia roteò gli occhi. “¿Por qué no te callas? Non vedi que son todos... Impegnati?*³ Basta non farsi notare. Se ti metti con quell’aria sostenuta, sfido io che ti riconosceranno all’istante.”

 

Yuri sbuffò, ignorando il commento poco carino nei suoi riguardi e continuando a camminare dietro quella spagnola pazza capace di trascinarlo nelle situazioni più assurde ed intrepide.

 

Il negozio era affollatissimo, pieno di ragazzini di tutte le età che, aiutati dai commessi, si sforzavano di migliorare grazie agli attrezzi e a tutte le diavolerie che vendevano per attirare la gente appassionata di quello sport che, da generazioni, era in grado di attirare veramente chiunque.

 

Il russo fissò con aria divertita la spagnola prendere da uno scaffale un paio di occhiali da sole e una sciarpa e indossarli con nonchalance; quando subito dopo lei gli mise in testa le stesse cose, facendogli fuoriuscire un borbottio non ben definito, capì cosa aveva in mente.

 

Poco distante stava il piccolissimo campo di beyblade, dove due ragazzini che non dovevano avere più di dodici anni si stavano sfidando e in maniera alquanto traballante: nessuno stava prestando loro attenzione, ma quando Julia, al di sopra dei suoi occhiali da sole, gli lanciò un’occhiata che lui interpretò al volo, sentì un brivido correre lungo la schiena; lungo, eccitante e sensuale.

 

Non ci volle molto prima che i due sgomberassero il campo, e allora, tempo un’occhiata famelica, vorace, assolutamente affamata l’una dell’altro, e Wolborg e Thunder Pegasus furono lanciati sul campo, pronti a combattere una battaglia che pareva fatta di sentimenti piuttosto che di sport.

 

 

 

* “Sono con l’acqua al collo! Nessun sentimento proprio per niente!”

*¹ “Sono fusa.”

*² “Okay, mi faccio schifo.”

*³ “Perché non chiudi il becco? Non vedi che sono tutti…”

 

 

 

Aiutando Hilary a porre il cagnolino dentro la gabbietta, si stupì di quanto gli potesse piacere quella nuova realtà; avevano passato un pomeriggio parlando di tutto e di più, passeggiando per quella New York che aveva imparato, per quanto potesse, a conoscere, e quando la ragazza gli aveva detto che per lei era ora di tornare a casa a studiare si era sentito quasi deluso, nonostante fosse lì con lei da un bel po’ di ore. La verità era che voleva sapere tutto di lei, non se ne sarebbe stancato mai.

 

“Perfetto, allora io vado.” Freddie abbaiò alla frase di Hilary, facendola sorridere; la giapponese sellò la Kawasaki togliendo il cavalletto ed infilando la chiave nel riquadro.

 

Si avvicinò a lei, fissandola, serio. “Sta’ attenta.”

 

Lei sorrise, reggendo il casco tra le mani. “Nessun cucciolo verrà investito stavolta, lo prometto.” Le labbra di lui sfiorarono le sue in un tocco dapprima timido ed innocente per poi farsi via via più deciso, e allora fu solo per uno schiarimento di voce che udirono da dietro, che lei non gli gettò le braccia al collo e non lo attirò a sé, dimenticando dove si trovavano.

“Rei.” Sussurrò, schiarendosi la voce ed allontanando l’altro ragazzo da sé.

 

Il loro amico aveva un sorriso sincero sulle labbra e si avvicinò a loro con l’aria di uno che ha appena scoperto qualcosa di magico. “Congratulazioni, ragazzi.”

 

Kai roteò gli occhi e Hilary arrossì per poi ridacchiare, e zittì il cagnolino che, da dentro la sua gabbietta, iniziò ad odorare rumorosamente per sentire chi diavolo era arrivato. La giapponese si scostò una ciocca di capelli dalla fronte, infine sorrise, indossando il casco. “Noi andiamo.” Fece, indicando Freddie. “Ciao a tutti e due.”

 

Quando Kai la osservò andare via, non poté fare a meno di chiedersi se non fosse andata via così bruscamente a causa di Rei, perché aveva percepito che lui volesse parlargli.

Qualche secondo dopo, il cinese sospirò profondamente, come uno al quale mancavano le parole, e allora capì che la sua ragazza ci aveva visto lontano un miglio. “Che succede?”

 

“Mao è andata a letto con Raùl.” Borbottò, lo sguardo tetro. “E’… E’ incredibile! Quella ragazza mi farà uscire pazzo. Un attimo prima stavamo alla grande, quello dopo stavamo litigando sul fatto che io avrei problemi con le sue decisioni prese qui.”

 

“E’ vero?”

 

“No!” esclamò, con tutta la forza possibile. “Non sono proprio entusiasta di quello che ha fatto o non ha fatto con Raùl, ma… Non mi importano o suoi errori o le sue scelte. Io voglio stare con lei.”

 

Kai lo fissò ironicamente. “E perché non vai da lei a dirglielo?”

 

 

 

 

 

Mmm… La tua padroncina ha esagerato come al solito, eh Fred?”

Hilary sbuffò alla frase detta da una persona di sua conoscenza: camicia messa alla rinfusa, capelli spettinati, aria beata, lentiggini sul volto…

Roteò gli occhi ed iniziò a ridere non appena si accorse che Freddie si era accoccolato accanto a lui.

 

“Sta’ zitto, Max; solo perché ti sei rimesso con la mia coinquilina non ti autorizza a startene qui a sputare sentenze.” Borbottò, fintamente accigliata ma in realtà divertita. “A proposito, dov’è?”

 

“Sotto la doccia.” Rispose pigramente l’americano, per poi prendere a fissarla in maniera seria.

 

“Non ti sembra di star esagerando con questa situazione di Trisha e Takao?” quando lei le rivolse un’occhiataccia, lui contrattaccò con uno sguardo limpido. “Hils, Takao non sa più che fare: quanti sms ti ha mandato? Mille? E quante volte ti ha chiamato? Duemila?” La vide mordersi le labbra ed appoggiarsi al frigo. “Mi ha dato questo.”

 

Quando toccò quella foto, fu come colta da un flashback troppo grande per essere quantificato.

 

Il karaoke…

 

“Era la festa dei sedici anni di una nostra compagna di scuola.” Spiegò, la voce gracchiante. “Avevano sfidato Takao al karaoke, e lui mi trascinò a cantare, dicendo che insieme eravamo imbattibili.” Nemmeno si rese conto di star sorridendo. “One…” bisbigliò, ricordando la canzone degli U2 che avevano cantato quella sera.

 

“Immagino che con la sua voce melodiosa abbia minimo rotto tutti i vetri in circolazione.”

 

Hilary rise. “Diciamo che ci è andato molto vicino.”

 

Max osservò l’aria trasognata dell’amica e sospirò. “Credo che te l’abbia mandato come simbolo del fatto che ne avete passate troppe per mandare tutto a puttane.”

 

In quel momento dal bagno uscì una Mariam con un accappatoio avvolto attorno al corpo; Hilary le lanciò una breve occhiata, prima di andar via.

Mariam guardò prima l’amica- coinquilina chiudersi la porta alle spalle, poi il ragazzo sbuffare, infine inarcò le sopracciglia. “Ti lascio cinque minuti e combini un disastro. Possibile che tu non sappia stare da solo?”

 

Max sorrise, sornione, prima di attirarla a sé, fregandosene del fatto che fosse grondante d’acqua. “Eh, no. Vedi che mi causi dipendenza?”

 

 

 

 

 

Non la capiva: non capiva perché diavolo quel giorno avesse deciso di trascinarlo in quel dannatissimo centro commerciale e lui, allocco, avesse accettato di seguirla.

 

D’accordo, sulle prime era stato pure divertente quell’intermezzo nel negozio di beyblade, specie quello scontro finito in parità, ma ora che cosa c’entrava il momento nel negozio di biancheria intima femminile, con quella musica pop assordante a tutto volume? Era violenza psicologica, altro che storie!

 

Sbuffando per l’ennesima volta, si ritrovò ad guardarla male, mentre la osservava scegliere reggiseni, slip, e altra biancheria di cotone, pizzo e diavolerie varie che al solo adocchiarla gli faceva venire voglia di sentirsi male un’altra volta.

 

Dannatissima Fernandéz.

 

Te stai annoiando, Ivanov?” cinguettò l’infernale spagnola, rivolgendogli di soppiatto un sorriso che non prometteva nulla di buono.

 

“No, figurati; è sempre stato il mio sogno circondarmi di reggiseni e mutande.”

 

Julia rise di una risata cristallina e puramente sua, per poi rivolgergli un sorriso sincero. “Ho quasi fatto.” Gli diede le spalle per, ancora una volta, mettersi a cercare altri capi intimi, e, quello che successe dopo, Yuri Ivanov, non lo poteva immaginare nemmeno nei suoi pensieri più torbidi.

 

Quando, con una quindicina di indumenti tra le mani, Julia si diresse verso il camerino, trascinandosi dietro lui, Yuri non poteva assolutamente immaginare che di lì a pochi secondi ci sarebbe stata una sfilata di intimo avente per protagonista una focosa spagnola che conosceva bene con indosso gli slip e i reggiseni più impalpabili che si potessero mai immaginare.

 

Indumento dopo indumento, Yuri capì come mai poco prima aveva avuto l’impressione che quella dannata madrilena fosse stata mandata direttamente dall’inferno per fargli scontare le sue malefatte: era audace, attraente, lasciva e in più pareva non lasciarsi prendere, leggiadra e impalpabile come quegli indumenti che portava.

 

Durante quella sfilata si era guardato intorno più volte per vedere se vi era qualche commessa nei paraggi che li stava fissando o se vi potessero essere delle dannate telecamere.

                                                                                                                           

MmmMe sa qué devi venire tu aquì.” Quando udì il commento della ragazza da dentro il camerino, inarcò il sopracciglio: entrare? E perché? “Animo, ¡Ivanov!” sbuffando, controllò che non lo vedesse nessuno, per poi chiedersi come mai fosse portato a dare corda alle idee strampalate di quella spagnola del cavolo, ed entrare di soppiatto.

 

Ciò che vide lo lasciò di stucco.

 

Julia era di fronte a lui, con un sorriso divertito; indossava un negligé che pareva di pizzo bianco, che con la sua pelle abbronzata creava un contrasto assolutamente sublime ed eccitante; la musica pop non aveva smesso un solo minuto di suonare, pulsando nelle loro orecchie e facendo loro pensare la stessa cosa nello stesso istante: nessuno li avrebbe sentiti.

 

 

 

 

 

Dopo essere stato battuto a carta, forbice e sasso, Max sbuffò, prendendo posto accanto al conducente ma mettendo il broncio, mentre una Mariam sorridente e soddisfatta apriva la portiera si immetteva al suo posto. Quando mise la chiave nel riquadro per accendere la mustang, l’americano le indirizzò uno sguardo deluso. “Perché non vuoi che io guidi?”

 

“Perché nessuno deve toccare la mia macchina.” Fece, accendendo la vettura e partendo alla volta del posto dove avevano deciso di andare.

 

Max non capiva come quella vecchia auto del ’73, rossa, vecchia e quasi andata potesse fare tanto breccia nel cuore della sua ragazza; ce l’aveva da un bel po’ di tempo, eppure si rifiutava di farsene comprare un’altra. Come mai, era un mistero.

 

Si ritrovò ad armeggiare con lo stereo dell’auto, chiedendosi se avesse ancora i cd di quei vecchi cantanti degli anni ’60 che le piacevano tanto; quando lei gli porse un cd che conosceva bene, scosse la testa, pensando che certe cose non sarebbero mai cambiate.

 

Le note di Helter Skelter si sparsero nell’abitacolo, e rimandarono Max all’anno di prima, a quando in quella stessa auto, a Washington, stavano ore ad ascoltare Beatles e a parlare di loro.

 

When  I get to the bottom, I go back to the top of the slide where I stop and I turn and I go for a ride ‘till I get to the bottom and I see you again.

 

Senza volerlo, si ritrovò a battere sul finestrino il tempo della canzone, e scosse la testa pensando a quanto in effetti i Beatles entrassero in testa e non uscissero più; un po’ tutto quello che riguardava Mariam era così.

 

 

La ragazza trovò posteggio per miracolo di fronte il centro commerciale; qualche ora prima si era informata per sapere dove fosse il negozio di beyblade più grande del mondo e con Max si erano organizzati per andarvi prima che lei iniziasse a lavorare; quel centro commerciale era senza dubbio immenso, e posizionato di fronte Seaside, la spiaggia dei Newyorkesi, il solo posto in cui un luogo del genere – così grande, quasi immenso – potesse avere luogo a New York; ma loro, in vista della finale di bey, volevano soltanto entrare in quel negozio per respirare un po’ aria di sport.

 

Una volta entrati, dovettero dirigersi verso la grande mappa posta davanti l’entrata per vedere dove si trovava quello che cercavano, ma fu una voce che conoscevano bene e un intenso rumore di tacchi a farli voltare entrambi.

 

“¡Gilipollas!”* capelli spettinati, rossa in volto, denti digrignati, era proprio Julia Fernandéz quella che procedeva spedita verso non si sapeva che meta, e pareva avercela proprio con colui che procedeva dietro di lei, le labbra strette e gli occhi assottigliati in due fessure, niente popò di meno che Yuri Ivanov.

 

Max aggrottò la fronte e si voltò verso Mariam con fare interrogativo, ma lei gli fece cenno di non fare alcunché; videro i due sibilare e ringhiare come due animali, fino a quando lui non disse qualcosa che gli valse un sonoro schiaffone e qualcosa di detto a denti stretti; dopodiché Julia se ne andò, intraprendendo l’uscita.

 

L’irlandese si rivolse verso il suo ragazzo e non disse niente, certa che avrebbe capito con un solo sguardo; rincorse la sua amica immediatamente e, non appena fu davanti a quell’idiota di Ivanov gli lanciò uno sguardo talmente gelido volto a farlo pentire di essere nato, dopodiché si accinse a vedere dove poteva essere finita Julia.

 

La fermata degli autobus era poco distante da lì, e per fortuna la beccò in tempo prima che potesse fare qualsiasi cosa: sapeva che la spagnola non era una piagnucolona, quindi quando le afferrò il polso e le vide il volto rigato dalle lacrime, la voglia di andare da quell’Ivanov del cavolo e andargli a spaccare la faccia fu ancora più forte.

 

“Mariam? ¿Qué estas haciendo aquì?”*¹ chiese, tirando su con il naso.

 

“Ero con Max, e ti ho sentita con Ivanov.” Spiegò, senza mezzi termini.

 

Lei scosse la testa, determinata.“E-Estoy asì por el tiempo.”*² Fece, mettendo il broncio e facendo ridere l’altra.

 

“Da quando sei metereopatica?”

 

Siempre. Soy sensible, ¡yo!” a quella frase Mariam scoppiò a ridere, facendo fare un sorriso anche a Julia che, poi sospirò pesantemente. “Da asco quando sai che devi lasciar perdere ma non puoi, perché stai ancora aspettando che l'impossibile avvenga.”

 

L’irlandese passò un braccio attorno alle spalle dell’amica, poggiando la testa su quella di lei. “Sì, fa proprio schifo.” Sussurrò, sorridendo e baciandole la testa. “Vieni, ho mollato il mio ragazzo all’entrata del centro commerciale; andiamo al bar a prendere qualcosa.”

 

Julia fece una smorfia. “No, no: siete venuti qui per stare in pace. Non vi voglio rovinare il pomeriggio!”

 

Mariam la fissò, sbattendo gli occhi. “La pianti di sparare cazzate?”

 

 

 

* “Coglione!”

*¹ “Mariam? Che stai facendo qui?”

*² “Sto così per il tempo”

*³ “Sempre. Sono sensibile, io!”

 

 

Davanti ad un caffè macchiato, che Julia chiamava cortado, un espresso e un frappé, Max e Mariam ascoltarono attentamente la spagnola sproloquiare circa il suo pomeriggio con un certo russo di sua conoscenza: la ascoltarono urlare, sibilare, la videro mordersi le labbra, passarsi le mani tra i capelli e bere di scatto il suo caffè macchiato, nonché battere violentemente una mano sul tavolo, facendo sobbalzare entrambi. I due si scambiarono un’occhiata veloce giusto per attestare che stavano pensando la stessa cosa, dopodiché i loro sguardi si focalizzarono nuovamente sulla spagnola.

 

“… ¡No lo sé como! La musica era altissima, in quel negozio non c’era ninguno, lo giuro! Ma quando siamo usciti dal camerino la commessa ci ha intimato di non farci rivedere mai più in quello stupido negozio.” Fece, con una smorfia. “Io l’ho presa iniziando a ridere, lui no.”

 

“Non è da Yuri Ivanov avere senso dell’umorismo, scusa se te lo dico.”

 

All’intervento di Max, Julia sbuffò, pensando a quanto avesse ragione. “Quando siamo usciti io stavo ancora ridendo, e lui ha iniziato a sibilare cose assurde. Ha detto che avevamo fatto una figura de mierda, che lui, Yuri Ivanov, non se era mai vergognato tanto, che solo quando era con me gli succedevano queste cose.”

 

Mariam capì. “Fammi indovinare: una parola ha tirato l’altra e-”

 

Julia annuì. “Eravamo davanti all’ingresso quando ha detto che non gli era mai capitato di esser cacciato da un negozio, e che si vergognava di andare in giro con me; a quel punto gli ho dicho de andar a tomar por-”

 

Mariam l’interruppe immediatamente. “L’hai mandato affanculo, okay.”

 

L’altra annuì. “Sì, gli ho detto che me dava asco e gli ho dato uno schiaffo.” Ammise, prendendosi la testa tra le mani.

 

Per un paio di secondi, nessuno parlò; i due osservarono la madrilena disegnare forme probabilmente geometriche sul bordo del tavolo, dopodiché Mariam cercò lo sguardo dell’amica, che ottenne solo dopo un paio di secondi. “Non è la prima volta che vi capita una cosa simile.” Allo sguardo perplesso della spagnola, la mora vide di spiegarsi meglio. “Nella vostra situazione particolare, nel vostro rapporto particolare di amici con benefici, avete… Beneficiato – diciamo così – in diversi luoghi, dovunque e comunque. E qualche volta è capitato che vi abbiano anche ammonito.”

 

Julia scosse la testa, evidentemente troppo seccata per qualunque cosa. “Non riesco a ricordare.”

 

“Sul bordo piscina dell’hotel, per esempio, quando vi scoprirono per la lezione di acqua-gym. Io non riesco a ricordare che Ivanov si sia arrabbiato – per lo meno, tu non me lo hai raccontato. O nel giardino pubblico dell’Upper East Side, per esempio, quando rischiaste la multa.”

 

Julia fissò l’amica sbattendo gli occhi. “No entiendo donde tu voglia arrivare.”

 

“Tu e Ivanov state camminando sul filo di un rasoio: basta un nulla per far scappare uno di voi due lontano mille miglia, in fondo i presupposti affinché questa situazione non funzioni ci sono tutti. Siete troppo diversi, la vostra storia sta iniziando da qualche scopata qua e là, e abitate a continenti di distanza.”

 

La Fernandéz impallidì. “¡El campeonato..! Yo…” si guardò intorno, respirando come se le mancasse l’aria, e gli occhi le si fecero lucidi; mai più di allora Mariam capì quanto in quel frangente Julia fosse fragile.

 

“Tuttavia credo che vi sia una cosa che stia alla base del vostro rapporto, per la quale valga la pena di continuare tutto questo.” Fece, seria. “I sentimenti che provate l’uno per l’altra.”

 

Julia fissò l’amica come se si fosse bevuta il cervello, spalancando occhi e bocca. “L’uno per l’altra? Mari, tornare con lui ti ha fatto male, perdoname!” sbottò, paonazza. “No, per niente, proprio per niente.” Borbottò, scuotendo la testa.

 

Max la osservò. “Non credi che lui ti ricambi?”

 

La madrilena serrò le labbra. “No. Potrò pure disgraziatamente essere fregata, provare qualcosa per lui, ma lui non c’è cascato. No, propio no.” Fece, amara, un sorriso sarcastico sulle labbra.

 

Mariam la fissò attentamente. “Il campionato finirà tra poco meno di due settimane e poi ognuno di noi tornerà da dove viene: tu non vuoi dirgli cosa provi?”

 

Julia fece tanto d’occhi per poi azzardare una risatina stridula, nervosa. “Non scherziamo, por favor. Non oso nemmeno immaginare cosa accadrebbe…” sussurrò, rabbrividendo.

 

L’irlandese la fissò seriamente negli occhi, e il verde smeraldo s’incontrò con il verde prato. “La più grande debolezza degli esseri umani è la loro esitazione nel dire agli altri quanto li amino finché sono accanto a loro. Chi ha tempo non aspetti tempo. Pensaci.”

 

 

 

 

La festa in maschera era fissata per le nove di quella sera, ed era già passata dall’Avalon per compiere il suo dovere: povero Mitch, in quel periodo aveva trascurato a dir poco il lavoro, ma non sarebbe più accaduto. Gliel’aveva promesso, dopo essersi sentitamente scusata.

 

In quel frangente, si stava recando al Plaza, pronta a fare un’altra cosa per la quale si sentiva pronta: aveva due ore e mezza di tempo prima di farsi trovare pronta da Jared, ma prima c’era qualcosa che doveva assolutamente, doverosamente fare.

 

In quei mesi aveva giocato a beyblade solo per dovere, e non per la passione che distingue una campionessa; i Baihuzu non erano stati uniti e compatti, facendosi eliminare alle semifinali forse anche un po’ per colpa sua, ed era suo dovere dopo mesi, chiedere scusa a chi di dovere.

 

Quando attraversò il corridoio con un po’ di pesantezza nel cuore, realizzò che erano mesi che non faceva quella strada, il che era strano; la porta le si spalancò davanti, e sorrise, mordendosi le labbra come soleva fare quando era piccola.

 

“Ciao, fratellone. Posso entrare?”

 

 

 

 

Quando ricevette l’sms di Mao, Hilary scosse la testa, non pensando a niente: ne aveva già avuto abbastanza in quei giorni per mettersi a pensare anche alla sua amica, quindi avrebbe fatto come voleva lei e le avrebbe ordinato sul letto il vestito per il ballo in maschera, i collant panna e le decolleté nere. Doveva solo vedere che tipo di pochette la sua amica poteva abbinarvi.

 

Mentre recuperava la chiave dell’appartamento della sua amica, andava a vedere le borsette che avevano in comune lei e Julia, capiva che non ne avevano nessuna adatta, rientrava nel suo appartamento e ne prendeva una in prestito a Mariam, dall’abbaiare di Freddie capì che era rientrato qualcuno. Quando si affacciò e vide che era proprio la mittente dell’sms, le sorrise e la invitò ad entrare nel suo stesso appartamento, facendole vedere cosa le aveva preparato.

 

“Grandioso.” La cinese si sedette stancamente sul divano; pareva sfinita. “Mi prendi una delle red bull che ci sono in frigo, per favore? Vorrei dormire ma non posso, è stata una giornata assurda e io devo ancora andare ad una festa in maschera.” Hilary si diresse in cucina e tornò con la bevanda che l’amica bevve tutta d’un fiato, dopodiché Mao si rivolse alla bruna con aria disperata. “Non ho avuto tempo di prenotare dal parrucchiere, mi devi aiutare.”

 

La bruna annuì. “Ci penso io.”

 

La cinese aveva degli splendidi capelli setosi e liscissimi che si potevano acconciare come si volevano; con l’aiuto di una piastra e di una spazzola mise su una pettinatura semplice ma all’apparenza elaborata, con una mezza coda fermata da un elegante nastro verde ed i restanti capelli cotonati a mo’ di boccoli.

 

Mentre apprendeva dell’asfissiante giornata dell’amica, Hilary restò senza parole quando sentì del messaggio di Jared e della chiacchierata che aveva avuto con Raùl e, dal suo canto, le raccontò di Kai e di Max che le aveva portato quella foto.

 

“Mi ha scatenato una serie di flash back.” Rivelò, mentre la truccava. “Non posso dire certo che non gli voglio più bene, chiaro; solo che non può sbagliare e subito dire… Ehi, scusa, facciamo pace?” fece, stizzita, mettendo via il make-up per poi andare a prendere i vestiti.

 

Mao si osservò, soddisfatta del risultato. “Io non credo, sai? Credo invece che Takao stia facendo di tutto per tornare ad essere tuo amico, e che si sia reso conto di aver fatto una grandissima cavolata. Correggimi se sbaglio: più del fatto stesso ti danno fastidio le bugie pietose che ti rifilava ogni volta, e sei arrivata al limite. Ti senti presa in giro volutamente.”

 

Hilary sbuffò, porgendogli i collant che la cinese si affrettò ad indossare. “Mi conosci troppo bene.”

 

“Dopo cinque anni, vorrei ben vedere.” fece, prendendo il vestito ed iniziando ad indossarlo.

 

La bruna non rispose, osservandola semplicemente ed aiutandola quando fu il momento di armeggiare con la lampo. Una volta indossate i tacchi, era pronta; indubbiamente bellissima, indubbiamente elegante ed aggraziata, avrebbe fatto impallidire chiunque l’avesse guardata. “Attenta, o stasera potresti ricevere anche una proposta di matrimonio.” Mao sgranò occhi e bocca, facendo per mandarla a quel paese, ma il campanello suonò: era l’ora della verità.

 

 

 

 

Quando la porta si spalancò, notò subito che c’era qualcosa che non andava: tanto per cominciare Gao e Kiki non c’erano, poi la suite era nel silenzio più assoluto, ed infine Lai era seduto al tavolo, come immerso nei suoi pensieri. Che poteva essere accaduto?

 

“Siediti.” Alla parola precisa e ben calibrata dell’amico d’infanzia, Rei si stupì, e fu con naturalezza che fece come richiesto; Lai aveva un cipiglio serio, ma non arrabbiato, tutt’al più neutrale. Che cosa gli potesse essere accaduto era un mistero, ma lo avrebbe scoperto di lì a poco. “Da quanto ci conosciamo, noi?”

 

“Da sempre.” Rispose meccanicamente; era impossibile quantificare il tempo. Lì al villaggio erano tutti un gruppo immessi l’uno ad interagire con l’altro praticamente ab eterno. Non avrebbe saputo dire né la data né il giorno di quando vide l’amico la prima volta.

 

Lui annuì. “E’ passata a trovarmi mia sorella, poco fa.” Rivelò, fissandolo negli occhi. “Abbiamo parlato molto. Mi ha rivelato molte cose, troppe che io ignoravo, e solo ora ho compreso il perché di molte sue scelte che l’hanno portata, mesi fa, ad allontanarsi dal gruppo.”

 

Nonostante stesse morendo di curiosità, non osò fare domande. “Mi fa piacere che vi siate ritrovati.” Fece, cauto.

 

Lai gli rivolse uno sguardo ironico. “Mia sorella a quel campionato, anni fa, si dichiarò a te, e tu dicesti di ricambiarla ma che al primo posto, per te, vi era il beyblade.” Quel repentino cambio di discorso fece sì che Rei si confondesse. “Te lo chiederò una volta soltanto, e vedi di non prendermi in giro, o non risponderò delle mie azioni.” Fece, severo. “Che cosa provi per mia sorella?”

 

Che cosa c’entra, adesso? Fece per chiederglielo, ma vedendo quelle iridi color caramello così simili a quelle di Mao fissarlo in maniera decisa, non poté far altro sospirare. “La amo probabilmente da sempre.” Sussurrò, osservando la reazione dell’amico che, fortunatamente, non batté ciglio.

 

“Non voglio sapere perché tu la desti per scontata; sono cose che dovrai spiegare a lei.” Fece, alzandosi e spingendolo a fare lo stesso. Rei sbatté gli occhi, non capendo. “Cos’hai intenzione di fare nei suoi riguardi? Restare qui e rimanere con il dubbio, oppure andare da lei?”

 

Sapendo che il suo amico non si sbilanciava mai sulla sorella per niente, sentì improvvisamente crescere in lui una adrenalina non indifferente. “Dov’è, ora?”

 

 

 

 

Tutto sommato, quella festa non era male: Mao sorrise quando l’orchestra attaccò a suonare l’ennesima ballata e Jared la fece roteare, facendole fare una piroetta che la divertì molto; era stata bene attenta a godersi quella festa dall’inizio alla fine, ben sapendo che era l’ultima del genere alla quale sarebbe mai andata.

 

Quando la ballata finì, Mao si accostò al muro della grande sala da ballo, decisamente stanca; gettando uno sguardo all’orologio notò che tra un ballo e l’altro si erano già fatte le undici, e che sarebbe già stata ora per lei di andare.

 

Sbuffò: quanti compiti ingrati le stavano capitando, in un giorno solo?

“Ehi, eccoti.” Jared la raggiunse nell’enorme terrazza, porgendole il coprispalle in tinta con il vestito. “Ti ho già ricordato quanto sei bella stasera?”

 

La ragazza si morse le labbra per non ridere, pensando a Julia e alla smorfia comica che avrebbe fatto al sol sentire quel discorso melenso e sdolcinato, dopodiché si voltò. “Devo parlarti.”

 

Lui si incupì per quel tono serio. “E’ a causa dei miei zii che hanno creduto stessimo insieme? Lo sai come sono fatti, hanno-”

 

Lei gli si avvicinò, un sorriso sulle labbra. “A causa di tutto.” Sussurrò, decisa. “Stasera mi hai dato tutto quello di cui io avevo bisogno, e per questo io ti sarò grata eternamente: sei dolce, bello, mi hai offerto una vera favola. Ma… C’è altro.” Alla faccia cupa di lui si morse le labbra, e scrollò le spalle. “Amo un altro; pensavo di poter riuscire a dimenticarlo, e non ci sono riuscita.”

 

Il ragazzo aggrottò la fronte. “Lo sapevo, ovviamente.”

 

Lei annuì, fissando il vestito non suo. “Mi dispiace. Ovviamente ti ridarò indietro tutto quello che tu hai insistito per comprarmi-”

 

Jared dapprima ostentò un’espressione ferita, dopodiché parve riprendersi, infine scosse la testa con decisione. “Mi hai detto che è sempre stato il tuo sogno partecipare a party di questo genere: se lo tieni, magari ti ricordi di me.”

 

Mao sorrise, dolce. “Ma io mi ricorderò sempre di te!” si abbracciarono da amici, e la ragazza accettò di buon grado quando lui le chiamò un taxi che si propose di stare ad aspettare assieme a lei, fino a quando non fu chiamato da un parente.

 

Dalla terrazza stessa, osservò il panorama, perdendosi nei suoi pensieri e lasciando che la sua mente si rimandasse a flashback come quando, con Julia, aspettò l’alba sulla terrazza dell’ospedale; anche lì con la sua amica si era persa in flashback assurdi ed elucubrazioni mentali non indifferenti. Per cosa, poi?

Fu il suono di una voce conosciuta a farla sobbalzare; si sporse dalla terrazza e, quando vide chi vide, per poco non si sentì mancare.

Che ci faceva lui lì?

 

 

 

 

Continua

 

 

 

 

Ce l’ho fatta!

Mi scuso sentitamente per il mostruoso ritardo, ma sembra che qualcuno mi abbia lanciato il malocchio per quante cose ho avuto da fare!

Parola mia, questo capitolo è stato un parto, ha avuto bisogno di modifiche su modifiche, e sinceramente non sono contenta nemmeno ora, ma accontentiamoci. U.U

 

 

Okay, momento delle lamentele finito: questo è il penultimo capitolo (che, tra l’altro, poteva tranquillamente chiamarsi “questione di sms” per quanto li ho citati, LOL) e beh… Siamo al capolinea! T.T

 

Spero abbiate passato un bellissimo natale, perché con questo io vi auguro buon capodanno e… Basta. e.e Siete voi che dovete augurarmi buon compleanno (notare il dovete) perché questa pazzoide che vi sta parlando domani fa vent’anni! T___T anzi no. U.U Faccio 2.0 anni. Così è molto più accettabile. *soddisfatta*

 

 

Va bene, la pianto. Noi ci vediamo la prossima settimana con il finale di Overboard. Non ve lo dico il titolo, se no che gusto c’è? Vi dico solo che questa è l’unica storia per la quale ho ideato due finali. La prossima settimana vedremo quale sarà, quindi badate a voi. *minacce vane*

 

 

Grazie veramente di tutto,  alla prossima.

 

 

Hiromi

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Capitolo 18
*** You and I ***


Overboard

 

 

You taste like whiskey when you kiss me

I’ll give up anything again to be your baby doll

Yeah, this time I’m not leaving without you

You said sit back down where you belong 
In the corner of my bar with your high heels on 

Sit back down on the couch where we

made love for the first time 

 

You and I Lady Gaga

 

*****************

 

Dalla terrazza osservò il panorama, perdendosi nei suoi pensieri e lasciando che la sua mente rimandasse flashback come quando aveva aspettato con Julia l’alba sulla terrazza dell’ospedale; anche lì si era persa in ricordi assurdi ed elucubrazioni mentali non indifferenti. Ma per cosa, poi?

Fu il suono di una voce conosciuta a farla sobbalzare; si sporse dalla terrazza e, quando vide chi vide, per poco non si sentì mancare.

Che ci faceva lui lì?

 

 

 

Quel vestito di pizzo che aveva indosso era elegante ma terribilmente scomodo, soprattutto se si dovevano percorrere decine di rampe a piedi.

 

Non inciampando solo per essersi tenuta al passamano, e reggendo la maschera veneziana che indossava sul viso, Mao svolazzò sui gradini toccandoli appena. Aveva troppa fretta, il cuore le stava battendo all’impazzata e l’unica cosa per lei sensata era, in quel momento, andare in giardino.

 

Qualcuno stava discutendo con i buttafuori che, appostati davanti il cancello, vietavano o acconsentivano l’ingresso a seconda che il nome di una persona fosse sulla lista o meno.

Sentendo la persona di cui aveva udito la voce cercare di farli ragionare, veleggiò verso la fine della villa, verso le ringhiere che disegnavano motivi intrecciati e, verso dove voleva andare.

 

“Che ci fai qui?”

Avrebbe potuto scegliere una domanda migliore, più accurata o elegante, ma le labbra le si erano dischiuse prima che potesse pensare.

 

“Mao.”

Rei la fissò attonito, con occhi sgranati, spostando lo sguardo dai suoi occhi alla sua intera figura.

 

Lanciandogli una breve occhiata, si rivolse agli uomini vestiti di nero. “Potreste lasciarlo entrare?”

 

Uno dei due scosse la testa, categorico. “Il suo nome non è sulla lista. Niente nome, niente festa.”

 

Capendo che quel buttafuori aveva ricevuto ordini precisi fu lei ad uscire, ponendosi proprio di fronte al ragazzo. “Che ci fai qui?”

 

La fissò negli occhi, poi prese un grosso sospiro. “Ci ho pensato, e ho capito che ti amo.”

 

Sgranando gli occhi per la frase inattesa, incrociò le braccia con fare omicida. “Beh, buongiorno.” Sibilò.

 

“No, fammi dire: l’avevo realizzato già prima, ma quando te ne sei andata, giorni fa, ho capito quanto sono profondi i miei sentimenti per te.” Spiegò, parlando veloce.

“Hai trascorso questo periodo lontana da me, e io non voglio che accada mai più. Sono stato male, ho sofferto come non mai, e non era perché sei importante per la tribù, per tuo fratello o chi altri. Tu sei importante per me.” La guardò negli occhi come se volesse farla sciogliere.

“Ti ho fatto soffrire in questi anni, e mi detesto per questo, ma ho capito – tardi, lo so – che non potrei mai stare senza di te. Non importa cosa tu abbia fatto in questi mesi, o quanto tu sia cambiata. Non mi importa delle cose passate; ciò che voglio sapere è se ho un posto nel tuo futuro.”

 

Non disse nulla per svariati secondi; si limitò a fissarlo, ostile e contrariata nemmeno fosse il più vile tra gli uomini. Lo guardò dall’alto in basso, imbronciata ed affilando lo sguardo, facendogli temere il peggio.

 

“Mao?”

 

“Ecco, lo sapevo.” Sibilò. Il ragazzo stava per domandarle cosa avesse senonché non intravide i suoi occhi lucidi e le labbra piegate in una smorfia. “Sei un dannatissimo paraculo!” Sbottò, scuotendo la testa. “Vieni qui, mi fai questo discorso e poi mi dici cosa dovrei dire, io?” singhiozzò, sistemandosi la maschera veneziana che aveva sul volto. “Ti aspetti che ti dica che ti amo? E invece ti odio, maledizione!” fece, scuotendo la testa. “E non sai nemmeno quanto!”

 

Sorrise, avvicinandolesi e prendendola tra le braccia. “Più o meno quanto io ti amo.” Le sussurrò, prima di toglierle la maschera e baciarla.

 

 

 

 

…Tre giorni dopo…

 

 

 

 

Incuriosito dalle voci oltre la porta della suite, dovette fare una faccia strana quando Sergey gli aprì la porta, perché il compagno di squadra non appena lo vide sghignazzò.

Nella suite della Neoborg Kai e Hilary erano seduti l’uno di fronte all’altra discutendo animatamente di qualcosa inerente alla musica e, nel frattempo, Boris era seduto quasi in disparte, sprofondato sul divano, intervenendo sporadicamente.

 

Da quando il russo di origini nipponiche e la cantante delle Cloth Dolls avevano annunciato di stare insieme non era raro vederli, come in quel frangente, tutti e due, magari l’uno a casa dell’altra,.

 

“Dimmi come fanno a cambiare i lineamenti.” Smanettò Hilary, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Tra i loro hobby preferiti vi era senza dubbio parlare – o, meglio, la bruna giapponese parlava e Kai rispondeva brevemente a tono – di tutto, dalla polvere nuova, alle noccioline, all’universo; giocare a beyblade – e lì era il russo a giocare e la ragazza a fare il tifo – e poi, senza dubbio, fare dei giri sulla Kawasaki, magari portando anche il cagnolino di lei.

“Paul McCartney aveva palesemente il naso dritto, era di altezza media per un uomo; dopo il ’65 il suo naso divenne curvo e la sua altezza si impennò. Come?”

 

Kai inarcò le sopracciglia quel tanto che bastava per far intendere cosa ne pensasse di tutto quello che la ragazza aveva appena detto. “Le leggende metropolitane si fomentano con un nonnulla; non è da escludere, poi che i Beatles abbiano giocato con la leggenda che stava nascendo.”

 

La bruna scosse la testa. “Non ci credo: se ascolti Eleanor Rigby ti vengono i brividi, soprattutto se pensi al fatto che Padre McKenzie doveva chiamarsi Padre McCartney.”

 

Boris sogghignò. “Si chiama humor nero.”

 

La ragazza fece una smorfia. “O cattivo gusto.”

 

Yuri prese a tossicchiare piuttosto rumorosamente, dopodiché quando tutti si voltarono verso di lui, si diresse verso il frigobar andando a prendere una birra. “E’ divertente lo humor nero.” Commentò, stappando la lattina.

 

Hilary sospirò. “Stavamo parlando della presunta leggenda Paul is Dead – PID, secondo la quale Paul McCartney dei Beatles è morto nel pieno del suo successo con il gruppo.” Il russo annuì brevemente, facendole intuire che comprendeva di cosa stava parlando. “Secondo me non è una leggenda, secondo Kai è una stronzata, Boris a grandi linee segue Kai, e Sergey non è interessato, vero?” fece, rivolgendosi all’altro ragazzo che per tutta risposta alzò il pollice verso l’alto, facendola ridere.

 

Capendo di essere stato indirettamente interpellato, Yuri sbuffò, trangugiando sotto lo sguardo ammonitore di Boris la birra e posando la lattina poi vuota sul frigobar. “Gli hanno dedicato una puntata dei Simpson, mi pare.”

 

La bruna si illuminò, prendendo a battere le mani. “Sì! Quello dove Paul versione Simpson dice: Oh, a proposito: sono vivo e ne sono sorpreso.” Alla sua imitazione convincente i russi si lasciarono sfuggire una breve risata, che terminò quando Sergey fece occhio a Boris, ed insieme annunciarono di dover andare ad allenarsi in palestra.

 

Yuri fu troppo impegnato ad andare a prendere un’altra birra per accorgersi dello sguardo d’intesa che si scambiarono Kai e Hilary. Quando tornò a sedersi sul divano dove prima era stato spaparanzato Boris, notò a malapena la ragazza del suo compagno di squadra alzarsi e dirigersi verso il bagno. Sentì su di lui gli occhi dell’unico componente dei Neoborg che era rimasto nella suite, e gli ci vollero uno o due secondi per capire che probabilmente era stato tutto architettato.

 

“Non è quella la soluzione.” Buttò lì il suo compagno di squadra. “È solo una birra.”

 

 “Alla mia salute ci penso io.” Sibilò, irrigidendosi.

 

“Si vede.” Ribatté, sardonico. “Sai, non pensavo tu potessi essere il tipo che si rifugia nell’alcool quando litiga con la sua donna, ma evidentemente…”

 

Quando Yuri scattò in piedi, i riflessi di Kai erano pronti. “Ripetilo un po’.”

 

“Cosa, la tua donna?” fece, ad un passo da lui, minaccioso ed ironico. “Se è bastato questo per farti saltare su, sei messo malissimo, fattelo dire.”

 

Si irrigidì fino allo spasmo, arrivando persino a digrignare i denti. “Non provo nulla per la Fernandéz.” Sibilò con tono quasi minaccioso.

 

Lo fissò con aria divertita, inarcando brevemente le sopracciglia. “Ah, stavamo parlando di lei?” chiese distrattamente.

Vinto, sconfitto e definitivamente deluso da se stesso, Yuri si lasciò andare sul divano, chiudendosi in un mutismo ostinato che durò diversi minuti, fino a quando non fu di nuovo Kai ad intervenire. “Il campionato finirà tra dieci giorni: devi parlarle.”

 

“Per dirle che cosa?”

 

Lo sai, che cosa.”

 

Alla frase del ragazzo, l’altro si richiuse nuovamente in diversi secondi di silenzio, non sapendo cosa ribattere, anche perché qualsiasi risposta sarebbe parsa inutile ed infantile.

Hilary uscì dal bagno con passetti misurati, e Yuri alzò gli occhi solo quando si accorse che la ragazza gli si era avvicinata impercettibilmente e che gli si era posta accanto.

“Sono passati tre giorni da quando avete litigato. Tu sei in stato catatonico e Julia pare affetta da iperattività: non si ferma un attimo, organizza le sue giornate in maniera da non avere tempo per la minima cosa – a malapena di dormire.”

 

Yuri inarcò brevemente le sopracciglia, mantenendo un’espressione gelida ma di colpo rischiarato in viso. “E’ sempre stata pazza.”

 

Lei sorrise. “Probabile, ma renditi conto di una cosa: state sprecando tempo. Siamo esseri mortali, gli attimi che viviamo non tornano indietro, ogni lasciata è persa irrimediabilmente.”

 

Al sorgere del suo sguardo sarcasticamente interrogativo intervenne Kai. “Tra dieci giorni sarete in due continenti diversi; se vuoi perderla, padrone. Spero che alla lunga lei non divenga un tuo rimpianto.”

 

Le parole dell’amico avevano fatto sgranare gli occhi al rosso moscovita che, fino ad allora, non aveva nemmeno realizzato quanto vicina potesse essere la fine del torneo che aveva visto l’intrecciarsi della sua vita con quella di una certa spagnola dal carattere focoso.

Il punto era: dopo tutto quello che avevano passato, lei come avrebbe reagito di fronte a quella novità? “Non posso.” Fece, scuotendo la testa. “Lei-”

 

Hilary inarcò furiosamente le sopracciglia, avendone abbastanza. “Non puoi?” sbottò, irata. “Se vuoi, puoi. C’è poco da fare.”

 

La fissò brevemente, come se osservandola potesse capire se valeva veramente la pena di dirle ciò che aveva in mente. “Tra me e… Lei c’erano delle regole. Se io-”

 

La bruna si domandò se ucciderlo seduta stante. “Fanculo le regole!” sbottò. “Se non insegui quello che vuoi, non lo avrai mai. Se non chiedi, la risposta sarà sempre no. Se non fai un passo avanti, sarai sempre nello stesso posto.”

 

Quelle parole parvero scuoterlo definitivamente; d’un tratto divenne persino più colorato del solito. E dallo sguardo che le rivolse, la giapponese capì che la stava ringraziando, e sorrise, soddisfatta.

 

 

 

 

 

Quando spalancò la porta fu travolto da un ciclone in piena regola, e non capì né come né perché, ma ad un certo punto si ritrovò con quattro sacchettini tra le mani e un tonfo dietro di lui che indicava la porta chiusa da un brusco scatto.

Gli ci vollero uno o due istanti per voltarsi e capire che era appena entrata sua sorella.

 

“¡Hola a todos!” trillò la ragazza, battendo le mani ed andandosi a buttare sul letto matrimoniale della suite senza paura di disfarlo. “Venite a vedere!” esclamò, tentando di rappresentare la gioia fatta persona. “Mathi: ¡animo!”

 

“Ciao Julia.” L’europea sorrise a fatica, ancora pallida e provata dalle nausee che quella mattina si erano ripetute frequentemente. “Scusami, ma non mi sento bene, e-”

 

Con un sorriso soddisfatto, la madrilena prese quella che aveva tutta l’aria di essere una busta di supermercato. “Ecco qua! Fette biscottate contro la nausea: prova!”

 

I due fidanzati scambiarono un’occhiata, perplessi, poi Mathilda si sciolse in un sorriso. “Ti ringrazio davvero.” Sussurrò, prendendo il pacchetto, scartandolo e iniziando a sgranocchiare qualche fetta. “Spero funzionino; ultimamente non riesco a tenere più niente.”

 

“Ma sì che funziona!” Julia ostentò un’espressione decisa che non ammetteva repliche. “Mentre mangi, guarda qui: le sorprese mica sono finite!”

 

Dalle varie buste tirò fuori un abito premaman con la scritta Greatest surprise is in here e la freccia indicante il futuro pancione, che fece sorridere tutti; un ciuccio verde – si giustificò con il fatto che, secondo lei, fosse un colore neutro, ma vi fu una disputa quando Raùl le chiese se fosse neutro per i cuccioli degli alieni o per quelli delle lucertole. Dovette intervenire Mathilda assicurando che verde era un colore assolutamente eclettico, originale e che il loro bambino si sarebbe quantomeno distinto dagli altri. – l’ultimo cd dei Lifehouse, il gruppo preferito di Mathilda e Raùl (“La musica fa bene al bimbo!”) e infine due vestitini: uno da piccolo cowboy e uno da fatina.

 

Julia stava per spiegare che li aveva comprati entrambi perché non sapeva quale fosse il sesso del bambino, quando il pianto della ragazza la fece restare senza parole: Raùl prese a fissarla malissimo, nemmeno volesse ucciderla, ma lei, senza curarsene, si avvicinò alla coetanea.

 

“¿Qué tal, Mathi?” fece, piano. “Non volevo farti piangere. ”

 

La ragazza scosse la testa, prendendo il fazzoletto e asciugandosi gli occhi. “E’ c-che hai tirato fuori tutte queste cose… C-Ci sei tu tutta contenta di diventare zia, io che ho deluso la mia squadra, che ho rovinato la vita a tuo fratello…” singhiozzò, riprendendo nuovamente a piangere.

 

Raùl le fu subito accanto. “Non dirlo nemmeno: ci è capitato e basta. E poi-”

 

Te dimentichi qué por restare incinta bisogna essere dos.” Intervenne Julia, aggrottando la fronte nel tentativo di raffazzonare un discorso decente che fosse meno spagnolo possibile. “Te è capitato a diciannove años, està bien; te è capitato nel bel mezzo de un torneo, vale.” proferì energicamente. “Ma hai due piatti della bilancia, e non è detto che uno sia migliore dell’altro per forza.”

 

L’europea, gli occhi ancora rossi per il pianto, la fissò confusa. “Che intendi?”

 

Julia la fissò serissima. “Por un lado dovrai dire adios ad alcolici, notti brave, parolacce, serate con le amiche e probabilmente sesso per almeno tre anni.”

 

Le sopracciglia del ragazzo si inarcarono talmente da finirgli nei capelli. “Non è detto.” Sbottò.

 

La gemella gli rivolse uno sguardo sadico. “Chi era che fino a tre anni, noche dopo noche, dormiva nel lettone de nuestros patres porqué aveva paura dei mostri e dei tuoni?” la frase lo zittì, e un’espressione di puro panico si tinse sul viso dello spagnolo.

“Ingrasserai come una mongolfiera, toda la tu vida ruoterà attorno ad un esserino di nemmeno cinquanta centimetri che dipenderà totalmente da ti.” Riprese, nella direzione della ragazza.

 

Mathilda trattenne a stento le lacrime e, mentre pensava alla sua vita da adolescente, tutta fatta di uscite con le amiche, con qualche ragazzo di tanto in tanto e beyblade, si domandò che fare. “Ma tu non eri contenta di star per diventare zia?”

 

Voy una cuñada hermosa, feliz e alegre. Le casalinghe disperate voglio stiano solo in televisiòn.” Fece, stiracchiandosi brevemente. “Ma hai pensato ai lati positivi?”*

 

Raùl le lanciò un’occhiataccia. “Io sto ancora pensando a dove vendono la cintura di castità.”

 

Mandandolo a quel paese con un gesto di noncuranza, si rivolse a Mathilda, fissandola negli occhi. “Non te dirò che avere un bambino es facil: non lo è. Pero creo qué che una persona che rinuncia possa pentirsene, e amaramente. Un bambino è una vita che porta moltissima gioia e alegria, è una parte di voi due, e se vi rinunciate rinuncerete alle risate, alle prime paroline, alla prima camminata, al ciuccio, ai biberon, e alle scommesse che farete tra qualche mese su chi assomiglierà di più.” Raccontò, accorata.

“Stai per donare un’altra vita, e non credo vi sia una cosa più bella: fare la madre non deve essere né un dovere né un obbligo por una mujer, ma un diritto.” Sillabò, convinta. “E poi non hai pensato che tu e Raùl potreste andare a convivere e che gli insegnereste il beyblade?”

 

A quella frase i due fidanzati si fissarono come stralunati, dopodiché si sorrisero, parzialmente increduli. “Potrebbe essere un blader…” biascicò Raùl, come se non riuscisse a realizzarlo.

 

Mathilda, invece, osservò il suo addome ancora piatto con un sorriso. “Quindi è a causa sua che mi verranno le smagliature e mi cadranno le tette?”

 

Julia scrollò le spalle con noncuranza. “Te le rifarai. Sai como la pienso yo: non credo al matrimonio; ma il botox, quello funziona sempre.”

 

 

 

 

*. “Voglio una cognata bella, felice e allegra. Le casalinghe disperate voglio che stiano solo in televisione!”

 

 

 

 

Sistemò per bene la pasta frolla nella teglia, facendo in modo che l’impasto aderisse alla perfezione con la sua superficie per non creare pieghe o dislivelli; una volta fattolo si voltò incontrando irrimediabilmente con lo sguardo colui che la stava aiutando: insieme versarono la crema al cioccolato sopra il primo livello del dolce per poi formare con ritagli di pasta frolla perfetti quadrati tra la pasta e la crema.

Misero la crostata nel forno, mettendosi d’accordo sul tempo e modalità di cottura, e quando la ragazza iniziò a trafficare con il timer, posizionandolo affinché suonasse al momento opportuno, sentì dei rumori sospetti provenire dietro.

Voltandosi, non poté che sorridere, rassegnata, alla vista di lui che, con un cucchiaino, raccoglieva i rimasugli di crema al cioccolato per poi mangiarla.

 

Avevano sempre cucinato insieme, sin da piccoli; quello di preparare deliziose ricette e poi di mangiucchiare gli avanzi era sempre stata una loro prerogativa, ma non poteva biasimarlo… Lo faceva anche lei!

 

Gli si avvicinò sfilandogli dolcemente il cucchiaino dalle labbra e posandolo sul tavolo lì vicino; gli cinse il collo con le mani, lasciando che i loro nasi si sfiorassero e poi, una volta affondata in quell’oceano d’oro, non riuscì a non trattenere il respiro: lo baciò delicatamente, lasciando che quel tocco divenisse presto più profondo, dolce, consapevole.

 

Si sciolse da quel contatto solo quando udì il rumore della segreteria telefonica; allora, solo allora sorrise, ricambiata, appoggiando la sua fronte su quella di lui.

“Sai di cioccolata.” Sussurrò, mordendosi scherzosamente le labbra.

 

Il ragazzo le carezzò scherzosamente una guancia. “Ed è un male perché..?”

 

“A me piace la cioccolata e piaci tu; chi ha parlato di male?”

Ebbero il tempo di darsi un breve bacio che qualcuno bussò alla porta; lei sbuffò impercettibilmente, chiedendosi se fosse quella pazza della sua coinquilina, ma si ritrovò davanti, invece, Max e Mariam che, a giudicare dall’enorme sacchetto che portava l’americano, erano appena stati in un negozio di musica.

“Voi non avete fatto spese, eh?”

 

“Sì, più o meno quanto voi non avete cucinato.” le rispose a tono l’irlandese, facendo sospirare il suo ragazzo. “Si sente profumo di dolci su tutto il pianerottolo.”

 

Da brava padrona di casa li fece accomodare in  salotto dove poco dopo vi giunse anche lui: Mariam notò, divertita, come gli occhi dell’amica si illuminassero al sol vederlo.

 

“Dove sono le altre?” Max posò il sacchetto contenente le casse da stereo sul pavimento, per poi stiracchiarsi. “E’ raro che questo pianerottolo sia tranquillo.”

 

“Almeno qualcosa è successa.” Ribatté Mariam. “Se Rei e Mao sono tornati a cucinare insieme, il pianeta ha ritrovato la sua asse di rotazione.” La cinese le tirò un fazzoletto appallottolato, schivato prontamente.

 

“Hilary è fuori per una passeggiatina con Freddie. Julia è in giro da qualche parte come al solito.” Spiegò Mao, facendo una smorfia. “Sono preoccupata per lei: ho provato a parlarle, a farla ragionare, ma è come impazzita.”

 

“Sta reagendo con la sua proverbiale grinta, non si sta ripiegando su se stessa.” Osservò Max, inarcando un sopracciglio.

 

“E’ una grinta fittizia.” Lo contraddì la sua ragazza, facendo annuire Rei. “Fa la parte della ragazza solare e grintosa per non farci preoccupare, ma non capisce che siamo suoi amici, le vogliamo bene, e lo capiamo se finge o meno.”

 

“La situazione di Raùl e Mathilda pensavo l’avesse presa peggio, invece devo dire che l’ha aiutata.” Rifletté Mao. “A questo punto deve solo risolvere questa faccenda.”

 

“Come Hilary e Takao devono risolvere la loro.” Intervenne Max, visibilmente preoccupato, facendo ammutolire tutti.

 

 

 

 

 

Nonostante fossero un paio di settimane che era con lei, si ritrovava ancora a ridere quando vedeva il suo cucciolo girare in tondo ed alzare la zampetta posteriore con aria sospetta, nemmeno fosse un detective privato che cerca indizi su qualcosa.

 

Era tornata dal Plaza mezz’ora prima, trovando Mao e Rei intenti a cucinare e Freddie pronto ad annusare qualsiasi cosa fosse succulenta – quant’era goloso, quel cane! – così aveva deciso sia per svagarsi che per distrarsi dall’ansia di quella sera, di portarlo fuori per lasciare un po’ da soli i due amici.

 

Da quando si erano messi insieme, giorni prima, ad un occhio poco attento sarebbero sembrati sempre gli stessi, con la solita routine eccezione fatta per il parlarsi e lo stare insieme, ma non era così: da tre giorni a quella parte Mao e Rei erano la felicità consacrata persona. Tutto pareva risplendere in loro: gli occhi, l’incarnato, il sorriso.

Vedere una delle sue amiche più care trovarsi in uno stato di estasi così profonda non poteva farle che piacere, ragion per cui Hilary aveva definito quel periodo uno dei più rosei della sua vita, o quasi. La situazione di Julia e quella di Takao veleggiavano su di lei come due nuvoloni neri.

 

“¡Hola!, ¿qué hacemos, pis?” si voltò di scatto, ma non rimase sorpresa nel vederla: fulgidi capelli ramati, pelle abbronzata, sorriso luminoso che spiccava su tutto… Tutto pareva perfetto in lei.

 

“Sì, sì; facciamo proprio pipì.” Le sorrise, conducendo Freddie verso l’altro lato del marciapiede. “Finiti i tuoi giri?”

 

La spagnola sorrise, soddisfatta. “Sono stata da mi hermano: ho convinto Mathilda a farme diventare tia!” annunciò, battendo le mani in segno di contentezza. “Era così a terra, pobreta, ma ho saputo tirarla su.”

 

“Meno male, almeno questo.” Sospirò, sinceramente sollevata. “Se eri al Plaza è stato strano non incontrarci; io ero nella suite della Neoborg.” Buttò lì con fare casuale, scrollando le spalle.

 

Julia si irrigidì impercettibilmente, dopodiché tornò ad ostentare il solito umore allegro di sempre. “¿Por qué? Eravamo in suite diverse, nemmeno nello stesso piano, mica è tanto strano.” Fece, fissando ostinatamente un punto davanti a sé. “Sai che ho comprato un vestito-”

 

Hilary la interruppe, decisa: in quei giorni era stata anche troppe volte testimone di cambiamenti improvvisi di umore, di discorso, tutto per una ragazza che non si decideva a prendere di petto una situazione, e che la affrontava nella maniera sbagliata.

“Alle sei c’è la prova finale nel garage di Kassie.” Sbottò bruscamente, fissandola in maniera quasi torva. “Alle undici e mezza ci esibiremo e sai anche tu che sarà la nostra ultima esibizione.”

 

Julia sbatté gli occhi, allucinata. “Porqué me stai dicendo questo?”

 

“Perché voglio che tu sia al massimo della forma, stasera e stanotte. Non trincerarti dietro questa stupida allegria, mi fai solo venire voglia di urlare.”

 

“¡Despacio, chica!” sbottò la spagnola, gli occhi verdi fiammeggianti di rabbia. “¡Modera el lenguaje!”*

 

Hilary la trapassò con lo sguardo. “Moderare il linguaggio? Non vedo perché, se ciò che sto dicendo è la verità.” Sibilò, volutamente velenosa come un serpente. “Che c’è, basta una lite con il tuo lui per metterti KO? Dov’è la Julia Fernandèz che conosco?” sentendo un impennamento dei toni e la tensione aumentare, Freddie abbaiò, calmato da una breve carezza sul dorso.

 

“¡Tu no sé nada!” sputò fuori la madrilena, irata. “Kai te quieres, te amas, ed è ampiamente ricambiato, si vede. Non lo sai com’è avere delle determinate idee riguardo gli uomini e l’amore e poi ritrovarsi fregata da queste idee stesse! Non lo sai com’è innamorarsi dell’ultimo ragazzo a cui pensavi che non fa altro che provocarti, farti saltare in aria, eccitarti e farti disperare! ¡Non lo sé! E non lo sai com’è vederlo completamente indifferente nei tuoi confronti e capire che tra dieci giorni sarete a continenti di distanza l’uno dall’altra… E che per lui non sarai altro che una delle tante..!”

 

Quando scoppiò a piangere, le braccia di Hilary si mossero da sole: circondò le spalle dell’amica dolcemente, accarezzandola con tutto l’affetto che provava.

Sapeva come si sentiva: si erano conosciute al terzo campionato di bey ed avevano legato immediatamente. Insieme erano sempre state i due cicloni, i due pericoli pubblici del gruppo, e la loro amicizia si era consolidata con davvero poco.

“So come ti senti.” Le sussurrò. “La mia Julia innamorata… Non c’è più mondo.” Disse melodrammaticamente, aspirando la J e beccandosi un pizzicotto sul fianco che la fece ridere.

 

La spagnola tirò su con il naso, rivolgendole un sorriso. “Me avevi provocato de proposito.”

 

La giapponese annuì stancamente. “Sì; qualcuno doveva pur farti reagire. E ora che ci sono riuscita ti invito nuovamente ad essere più forte di prima sia alle prove che all’Avalon.” Si fissarono negli occhi, sorridendo, e Hilary capì all’istante ciò che la sua amica le stava comunicando: ci puoi scommettere: sarò forte, forte come un leone. Talmente forte da farti essere orgogliosa di me.

 

Quando Freddie abbaiò, le due scoppiarono a ridere, abbracciandosi. Intrapresero la strada del ritorno insieme, sorridenti, parlando del più e del meno, ma fu un sms giunto all’improvviso sul cellulare della nipponica che le fece restare senza parole.

 

Hilary, ha telefonato Shannon: suo padre è guarito e lei è pronta a tornare.

 

 

 

* “Con calma, tesoro. Modera il linguaggio.”

 

 

 

“Vi licenziate davvero?” l’intero staff dell’Avalon, Mitch in testa, stava fissando in maniera contrita e dispiaciuta Mao e Mariam, che avevano appena sganciato la bomba.

 

La cinese fissò tutti con un pizzico di nostalgia: pareva il giorno prima che era stata assunta per caso, solo per aver preso al volo un vassoio, e invece proprio in quel momento si ritrovava in quella situazione che ai tempi le era parsa lontanissima.

“Mi sa di sì…” fece, stringendosi nelle spalle. “Tra pochi giorni dovremo ripartire, e…” osservando i volti di tutti i suoi colleghi che la osservavano rammaricati, ricordò tutti i bei momenti passati a servire ai tavoli, a ridere e scherzare tra un lavoro e un altro, e i flashback la inondarono per rischiare di farla commuovere da un secondo all’altro.

 

“Era provvisorio, e si sapeva.” Intervenne Mariam, ferma, dando man forte all’amica. “Sono stati dei bei mesi, ma tutto deve finire.” Fece, scrollando le spalle.

 

Mitch abbozzò un sorriso, realizzando di aver capito alla perfezione la personalità di quelle due collaboratrici tanto preziose. “Siete state parte integrante dello staff a tutti gli effetti, anche se per poco.” Iniziò. “Ci mancherete; la vostra scrupolosità, puntualità e meticolosità nel lavoro è stata notata, così come la vostra personalità, che ormai era parte del gruppo. Sappiate che, qualora decidiate di tornare da queste parti, avrete sempre un posto qui.”

 

A quelle parole, gli occhi di Mao si bagnarono di lacrime, Mariam abbozzò un sorriso sincero e gli altri, i colleghi con i quali avevano condiviso battute, risate, avventure in quei mesi, annuirono, fecero dei gesti che le fecero ridacchiare oppure si avvicinarono per abbracciarle.

 

Il padrone di quel locale stette cinque minuti ad osservare la scena, sorridendo compiaciuto e, ancora una volta complimentandosi con il suo fiuto di saper individuare brave persone ed eccellenti collaboratori.

Dopo qualche secondo batté le mani per richiamare l’attenzione di tutti, e solo quando fu sicuro che tutti lo stessero guardando, parlò: “Oggi è Venerdì, ed è l’ultima giornata di lavoro di queste due ragazze: lavoriamo sodo anche più degli altri giorni per renderla indimenticabile. Ho la sensazione che stanotte accadranno un bel po’ di cose!”

 

 

 

 

 

Con il cuore in gola di fronte la stanza dell’hotel, Hilary avrebbe volentieri gradito mangiarsi le mani. A volte non capiva da dove le derivasse tutto quell’orgoglio misto a paura. Un po’ come in quel momento.

Sospirando per l’ennesima volta, non seppe se ringraziare o mandare al diavolo quella titana della sua migliore amica, che l’aveva praticamente portata di peso di fronte al Plaza.

 

“Vuoi continuare così, chica? Tra un poquito de tiempo lui partirà, e voi sarete con lo stesso cuore spezzato a causa de una tontaria!”

 

Che Julia avesse ragione le ci era voluto un istante per comprenderlo. Non parlava con Takao da tanti giorni, troppi per quanto lei riuscisse a sopportare. Così con la loro foto in una mano e il suo cuore nell’altra, si apprestava ad andargli a parlare. Più o meno.

 

Che cacasotto che sono!

 

Bussò in un impeto di coraggio che le venne a mancare quando udì un gran fracasso al di là della porta. Sbattendo gli occhi, si fece forza a bussare ancora, e fu svariati secondi dopo che udì qualcuno avvicinarsi.

 

“Hilary!”

 

Prima che Takao potesse aggiungere qualsiasi altra cosa, lo fissò un istante ed iniziò a sproloquiare. “Mi dispiace, mi dispiace tanto!” esclamò, entrando nella suite. “Sono stata esagerata, fin troppo, ne sono consapevole; ma improvvisamente mi sono sentita come se per te non contassi più nulla, e era una sensazione più che sgradevole, credimi.” Fece, sospirando. “Ci siamo stati l’uno per l’altra praticamente tutta la vita, e ora che improvvisamente fuggi per fare chissà che con-” cacciare un urlo le venne spontaneo quando vide ciò che vide.

 

Trisha era praticamente nuda, e stava cercando di raffazzonare alla bell’e meglio i suoi vestiti per indossarli. Solo allora si accorse che Takao aveva una vestaglia stretta in vita alla men peggio e che lei doveva aver interrotto qualcosa.

 

“Oddio, copriti!” sbottò nella direzione del suo migliore amico, mettendo le mani davanti agli occhi. “Quella cosa non è assolutamente della tua taglia!”

 

Il ragazzo parve corrucciarsi. “Lo so.” Borbottò, andando in bagno e prendendo i suoi vestiti.

 

Trisha si era praticamente vestita, anche se indossava il top al contrario. “Che palle, sempre che ti lamenti!”

 

Nonostante lei e la chitarrista della sua band non si parlassero da giorni, Hilary ridusse gli occhi a due fessure. “Sono capitata tra capo e collo per venirmi a scusare, e voi-”

 

Il bacio che le arrivò sulla guancia la lasciò di stucco. L’altra le stava sorridendo, contenta e con un sorrisetto sul volto. “Mi sei mancata, stronza.”

 

La bruna sorrise, incapace di far altro. “Senti chi parla.” Fece, ponendo le braccia conserte. “Ehi, signorino, hai finito lì dentro?”

 

Il grugnito di Takao si udì anche se vi era una porta di mezzo. “Sì, sì.” Sbottò. “Sai che sei una palla anche quando devi scusarti?”

 

“Ma questa palla ti mancava.” Fece notare con tono furbastro.

 

Il ragazzo annuì come se si trattasse di una cosa di poco conto. “Beh, sì.”

Passarono due secondi prima che si slanciassero l’uno contro l’altra per avvilupparsi reciprocamente in un abbraccio di marca Kinomiya-Tachibana. “Sapessi quanto mi sei mancata, stronzona.”

 

Hilary roteò gli occhi. “Ho capito che sono stronza, ma potete smetterla di farmelo notare?”

 

Trisha sorrise. “No, è decisamente divertente.”

 

La giapponese ridacchiò per poi porre le mani sui fianchi. “Allora, non c’è nulla che mi dobbiate raccontare?”

 

I due interpellati si fissarono con un cipiglio angelico. “Noi?”

 

“Voglio sapere come, dove, quando, perché, e in che circostanza è scattato tutto.” Dichiarò, saltellando per l’eccitazione.

 

“Ti pareva che non si metteva a fare il terzo grado.” Borbottò Takao, inconsapevole della ciabatta di spugna che gli sarebbe arrivata sulla nuca due istanti dopo.

 

“Niente da dire.” Trisha scrollò le spalle. “Ci siamo incontrati per caso dopo il primo concerto a cui lui ha assistito, e da lì è iniziato tutto.”

 

“Perché tenerlo segreto?”

 

“Perché all’inizio era solo sesso.” Spiegò la ragazza con semplicità. “Quando si è tutto trasformato in qualcosa di più, volevamo vedere dove ci avrebbe portato.”

 

Hilary sbuffò nella direzione di Takao. “Solo tu ti cacci in queste situazioni.”

 

“Ma sta’ zitta, signora Hiwatari.”

 

La bruna ridusse gli occhi a due fessure. “Come mi hai chiamata?”

 

“Hilary e Kai! Kai e Hilary! Hilary Tachibana Hiwatari!” canticchiò Takao, con un sorriso che sapeva di sfida. “A quando le presentazioni ufficiali? E le nozze? E il banchetto? E i bambini?”

 

“Questo è troppo!”

 

Trisha rimase allibita quando li vide rincorrersi per tutta la suite come gatto e topo, eppure, dopo qualche secondo di sbigottimento colse le smorfie ironiche o fintamente arrabbiate, e capì quanto fosse grande e forte il loro legame. Allora sorrise.

 

 

 

 

 

“Desiderate?”

 

Emily sorrise nel trovarsi davanti l’amica in versione cameriera: sapeva che era la sua ultima serata lì al pub e sapeva anche quanto ci tenesse e cosa significasse per lei; nell’uniforme targata Avalon: Mao era più sorridente che mai, piena di energie e pronta per quel Venerdì sera che pareva voler risucchiare l’anima a tutti coloro che lavoravano lì, data l’affluenza anche maggiore degli altri giorni.

 

“Un caipiroska.”

 

“Un malibù alla fragola con ghiaccio.”

 

“Una birra.”

 

“Per noi tre Baileys. Mao, mi raccomando, una spruzzata di cacao sopra, eh.”

 

La cinese ridacchiò, appuntandoselo: eccoli là la squadra americana al completo più lui che le stava sorridendo. Onde evitare che il cervello le andasse in pappa, e per rimanere concentrata sul suo lavoro evitò il suo sguardo, focalizzando la concentrazione sul foglio. “Che rapidità, ragazzi: se solo fosse stati così decisi anche le scorse settimane..!”

 

“E’ il nostro regalo per la tua pensione anticipata.”

 

La battuta di Michael fece scoppiare a ridere tutti, Mao in testa, che con una manata lo mandò a quel paese; Max, dopo che le risate furono scemate, le fece cenno  di avvicinarsi e con un abile gesto le sottrasse il block-notes e la penna per riconsegnarglielo poco dopo. La ragazza rimase basita, ma quando vide ciò che aveva scritto sorrise.

Andò verso il bancone arrossendo quando ricevette un caldo sorriso da parte sua, ma dirottò immediatamente la traiettoria quando individuò due persone a lei care prendere un aperitivo con il gruppo degli europei.

“Ehi, ragazzi, dovete ordinare?”

 

Ralph annuì, cominciando a comunicare le ordinazioni per lui e per gli altri compagni della squadra, che Mao scrisse velocemente, dopodiché la sua attenzione si focalizzò su Raùl che ordinò una piña colada e su Mathilda che prese una coca-cola.

 

“Tutto bene?” chiese, un sorriso dolce sulle labbra; sapeva quanto i due stessero soffrendo all’idea di prendere una decisione consona alla situazione che si sposasse con le idee di entrambe e che facesse contenti entrambi, ma non era per niente facile, quindi quando tutti e due si voltarono a sorriderle, contenti, Mao rimase incredula e felice.

 

“Lo teniamo.” Sussurrò Mathilda, felice.

 

Mao si voltò prima verso di lei, poi verso il suo migliore amico che annuì, un sorrisone sulle labbra. “Non possiamo mica perderci un piccolo blader, giusto?”

 

L’orientale sorrise loro di rimando, felicissima. “Giustissimo.” Si morse le labbra per non urlare di gioia, dopodiché li abbracciò brevemente entrambi. “Aggiornatemi minuto per minuto tramite sms, e-mail, segnali di fumo… Tutto! Voglio sapere.”

 

Mathilda si carezzò la pancia con fare spontaneo. “Ma certo. Nascerà a Novembre, e il presidente ci ha detto che dopo Natale dell’anno prossimo è previsto un nuovo torneo: ti immagini portarlo e fargli respirare l’aria di beyblade già a pochi mesi?”

 

Mao e Raùl risero alla sola idea, immaginandosi un frugoletto con il cappellino pronto a tifare per la mamma e il papà che combattevano per il titolo mondiale.

“Ragazzi, sono così felice!” l’orientale era estasiata. “Mitch mi sta fulminando con lo sguardo, ma chi se ne frega: sapete che faccio? I drink ve li offro io!” esclamò, veleggiando verso il bancone.

 

Al sol sentirlo Andrew si voltò verso il compagno di squadra italiano inarcando un sopracciglio. “Hai sentito? Cocktail gratis! E tu mai che fai qualcosa di buono mettendo nei guai una ragazza!”

 

 

 

“Serata assurda.” Mariam si era legata i capelli e stava shakerando drink a tutta forza; quel giorno il pub era stracolmo come mai lo era stato; non le era mai capitato di non avere nemmeno il tempo di uscire a fumare una sigaretta.

 

“Già.” Fece Mao, ancora sorridente. “Credo avremo un attimo di pausa tra una mezz’ora, quando arriveranno le ragazze.” Fece, attaccandole i post-it sotto il naso.

 

L’altra annuì sbrigativamente, mollandole tre vassoi con drink già pronti, e la cinese partì alla volta dei tavoli ai quali consegnarli.

L’irlandese si scansò dal viso una ciocca di capelli, aspettando che il ghiaccio si frullasse per bene, dopodiché adocchiò distrattamente il foglietto che le aveva attaccato Mao, quando una cosa attirò la sua attenzione.

 

Sai che un uomo beve più volentieri se la barista è carina?

Max

 

Mariam ridacchiò, strappando quel pezzetto di carta e conservandolo per sé, dopodiché tornò al lavoro come rifocillata dopo una corsa enorme.

 

 

 

 

 

I buttafuori, come tutti i dipendenti dell’Avalon, erano selezionati direttamente dal capo del locale: Mitch. Erano dei ragazzoni alti con le spalle larghe, vestiti rigorosamente di nero con l’auricolare e lo sguardo minaccioso dietro gli occhiali da sole, pronto a far desistere i furbetti dal compiere qualsiasi bravata.

 

I Neoborg, per esempio, all’apparenza potevano avere l’aspetto di piantagrane, invece non vi era alcun problema se si trattava di loro; prima di tutto perché erano clienti fissi e ogni weekend erano lì, poi perché prenotavano sempre il privee più caro pagando in contanti, per non parlare delle notevoli consumazioni ad personam, quindi era naturale che una volta che giungevano lì, i buttafuori li lasciassero passare per la corsia preferenziale, come fecero quella sera, quando si presentarono alle undici e venti passate.

 

Come al solito passarono in mezzo alla folla del locale per poi raggiungere il loro privee: non amavano la gente, il chiasso, la confusione.

Quel posto era il più congeniale solo perché erano rispettati, gli alcolici erano preparati in maniera decente e la musica era molto buona – sapevano bene di non poter trovare un posto migliore, che rispecchiasse i loro canoni: a New York era impossibile star da soli.

 

Mao arrivò qualche secondo dopo, avendoli visti già in lontananza. Li salutò con un sorriso, e non si perse in chiacchiere, sapendo bene come fossero fatti: chiese semplicemente cosa volessero. Scrisse sul taccuino una vodka liscia, un assenzio, un Jack Daniels e un whiskey per l’Ivanov, dopodiché andò via, promettendo che le ordinazioni sarebbero arrivate quanto prima.

 

Kai notò come Boris e Sergey – che avevano notoriamente i ruoli di spartiacque e di supervisori degli altri due, generalmente più a briglia sciolta – non avessero detto alcunché di fronte alla decisione di Yuri di prendere quell’alcolico, né avessero fatto alcuna faccia strana. Evidentemente c’era qualcosa in ballo che lui non sapeva.

 

Pochi minuti dopo un’altra cameriera portò le loro ordinazioni, che si accinsero immediatamente a smistare. Con il suo assenzio in mano, Kai si guardò intorno, fissando i suoi compagni di squadra sorseggiare i loro drink: sapeva benissimo quanto fossero dediti a quei liquori che nelle gelide serate russe riscaldavano loro gola e stomaco, e sapeva anche quanto fossero pignoli, visto che era raro trovare un locale che li sapesse fare decenti, ed invece-

 

Le luci si spensero di colpo in tutto il locale, facendo urlare tutti; Kai sogghignò leggermente, prendendo nuovamente a sorseggiare il suo assenzio e preparandosi interiormente a godere la scena che gli si sarebbe presentata dinnanzi.

 

Una luce blu vagò apparentemente indisturbata per tutto il locale, facendo ululare tutti, e scontrandosi con una luce bianca, divenendo improvvisamente azzurra ed illuminando di colpo l’intero locale: le Cloth Dolls erano lì.

Tra schiamazzi, urla ed applausi, il pubblico si alzò in piedi, chi sorridendo chi saltando per la contentezza, esuberante per quell’effetto particolare mai utilizzato prima.

 

Trisha e Kassie iniziarono immediatamente a suonare, e in un secondo momento vi si immise Julia con la batteria: tutti riconobbero immediatamente la canzone dalle prime note. Era Goin’ Down.

Hey there Father, I don’t wanna bother you but I’ve got a sin to confess.” Cantò Hilary, piena di energia e seducente nel suo top blu e pantaloni di pelle.

 

La canzone finì tre minuti e mezzo dopo, tra le urla e gli applausi di tutti, e le Cloth Dolls si sorrisero, entusiaste. La cantante avanzò di qualche passo, ravviandosi con un gesto delle mani i capelli per quella sera resi liscissimi dalla piastra.

 

Avalon, ci siete mancati!” il consueto ‘yeah!’ risposta si fece sentire più delle altre volte, facendo sorridere la ragazza. “Stasera non è uno dei soliti Venerdì sera, però.” Iniziò, scrollando le spalle. “Si sa che le cose – belle o brutte che siano – finiscono, e che nulla, nulla dura per sempre. Fortunatamente, sfortunatamente? Decidetelo voi.” Disse, con un sorriso. “Noi sappiamo solo che a breve la nostra bravissima batterista ci lascerà per tornare in Spagna e che ci mancherà moltissimo. Vi prego: un applauso enorme per Julia.”

Una scrosciante ovazione provenne dal pubblico, talmente forte da ricordare un boato, e talmente commovente da fare mordere le labbra alla madrilena.

Hilary andò vicino all’amica, cingendole le spalle con un braccio per poi baciarle la fronte. “E ora godetevi un concerto molto speciale!”

 

Le ragazze iniziarono a battere i piedi a tempo, in un ritmo famosissimo che presto tutti riconobbero: era la cover con la quale avevano aperto il torneo di Beyblade.

Dapprima suonò Trisha, con dei movimenti precisi e meticolosi che fecero capire quanto avesse fatto sua quella canzone, poi vi si unì Julia con la batteria ed infine anche Kassie prese parte: osservandole Hilary non poté non realizzare quanto fosse orgogliosa di loro e quanto non avesse potuto ottenere di meglio.

Buddy you're a boy make a big noise, playin' in the street gonna be a big man some day! You got mud on yo' face, you big disgrace, kickin' your can all over the placeSingin'…

We will, we will rock you!” il pubblico lo cantò assieme a lei pieno di vitalità ed energia, e la bruna non poté far altro che puntargli contro il microfono, e allora si sentì un boato: “We will, We will rock you!”

Si succedettero altre canzoni che fecero andare in delirio tutto il pub: Zombie, Where did Jesus go?, Just tonight, My medicine, Miss Nothing – e qui Hilary strizzò l’occhiolino a Kai che, per tutta risposta roteò gli occhi – fino a quando non terminarono il loro repertorio, o quasi.

Ad un certo punto le luci si spensero per poi riaccendersi ad intermittenza, segno che le Cloth Dolls avevano una qualche sorpresa.

“E adesso, Avalon… Non potevamo assolutamente salutare senza una nuova canzone.” Soffiò Hilary sul microfono, sorridendo compiaciuta; fermò le urla e gli applausi nascenti con un gesto della mano. “Vi sono tanti tipi di occhi; occhi che possono ammaliare, occhi che possono stregare, lasciare indifferenti, inibire… Uccidere. Intenda chi ha orecchie per comprendere.” Sussurrò, sensuale, scatenando ulteriori applausi.

Le luci si abbassarono per concentrarsi sulla batterista, infine si estesero a tutto il gruppo: iniziò a suonare Trisha, esibendosi in un lieve, misurato assolo, per poi venire seguita a ruota da Julia e da Kassie. Il sound era ritmato e decisamente rock, di marca decisamente Cloth Dolls.

Take me I'm alive, never was a girl with a wicked mind, but everything was better when sun goes down.

Anche il testo pareva essere differente dal solito: mentre le altre canzoni solitamente parlavano di amori finiti male, di flirt che duravano poco o tutt’al più della concezione che avevano le ragazze della religione, questa sembrava parlare di tutto e di niente.

I had everything: opportunities for eternity, and I could belong to the night…La cantante chiuse gli occhi, abbandonandosi alla fine della seconda strofa, che fu accompagnata da un lieve assolo di batteria, e proseguì immediatamente con il ritornello che, sensuale e melodico, fece drizzare le orecchie a molti.

Your eyes, your eyes, I can see in your eyes, your eyes…

Qui Hilary spalancò il suo sguardo su un punto preciso del pubblico: il privee dei Neoborg.

You make me wanna die! I'll never be good enough, you make me wanna die: and everything you love will burn up in the light every time I look inside your eyesMake me wanna die!

 

Quando la canzone fu sul punto di finire, la giapponese andò verso Trisha, pose il microfono vicino la chitarra elettrica, e la sua amica fece un assolo finale esemplare, che fece battere le mani e urlare tutti. “Alla chitarra elettrica Trisha Malone!”

Avvicinandosi al piano sorrise alla bionda e fu per miracolo che non scoppiò a ridere quando la sentì intonare le note di We are the Champions. “Al pianoforte Kassandra Neal!”

Le servirono pochi passi per raggiungere la sua amica, la sua compagna di avventure e, scambiatosi uno sguardo, non rimase sorpresa quando fece saltare in aria il pubblico con qualche colpo di batteria, generando, poi, applausi scroscianti, ancora prima di poterla presentare. “E alla batteria la nostra Julia Fernandéz!”

 

Fu a sorpresa che la spagnola tolse dalle mani il microfono alla nipponica, facendo ridere tutto il pubblico e lasciando sbalordita l’amica. “Alla voce Hilary Tachibana!” esclamò, beccandosi uno schiaffetto sul braccio.

 

Posizionato il microfono sull’asta, bastò uno sguardo per mettersi d’accordo: le ragazze lasciarono i loro strumenti per avvicinarsi ed applaudire con il pubblico; si presero per mano, inchinandosi come attrici alla loro prima teatrale, e tra sorrisi e qualche lacrima di commozione salutarono tutti, guardando la gente che ora le stava applaudendo.

 

“Ed erano le Cloth Dolls!” era scontato che Mitch dovesse chiudere il loro concerto, ma in quel frangente erano talmente emozionate, prese dal momento che si ritrovarono a sobbalzare tutte e quattro, ed in seguito a ridere di loro stesse. “Un applauso a questa band che ci ha regalato weekend carichi di energia!”

Uno scroscio di urla, di applausi assordò le ragazze che emozionate, salutarono nuovamente coloro che stavano dimostrando loro così tanto affetto per poi iniziare a scendere dal palco quando Mitch fece loro cenno.

 

 

 

“Ti sei imbambolato?” Mai come in quel momento la frase di Sergey gli sembrò fuori luogo. Era già confuso di suo, la gente e il chiasso in quel locale non contribuivano in modo favorevole; vi erano troppe persone, troppa… Umanità.

 

A proposito dell’essere misantropi.

 

Yuri scosse leggermente la testa focalizzando l’attenzione sul palco, e sbattendo gli occhi si rese conto che colei che non aveva smesso un secondo di fissare quella sera era sparita.

Non gliele dovevano fare queste cose: già il locale era più affollato del solito – se non avessero avuto il loro privee sarebbe morto schiacciato – poi con quella maledetta giarrettiera infilata alla coscia sinistra aveva passato mezzo concerto ad elaborare pensieri molto poco casti su una certa persona, ed infine vi era una canzone che gli dava da pensare.

Se ci si metteva pure Sergey, stava davvero a posto.

 

Grandioso.

 

“Allora?” si voltò a fissare Boris che, come Sergey, pareva avercela proprio con lui.

 

“Che c’è?” sbottò, irritato.

 

“Presumo che il loro sia un modo per chiederti che diamine ci stai a fare ancora qui.” intervenne Kai, osservando il fondo del suo bicchiere con fare disinteressato.

 

Indeciso se irritarsi ulteriormente o scuotere la testa rassegnato, Yuri scelse di alzarsi, posando sul tavolino la bottiglia di birra. “Grazie per l’interessamento, mammine.” Sogghignò, facendo sbuffare tutti e tre.

 

Uscendo dal privee realizzò che in realtà sapeva di dover sbrigarsi per andare a parlare con una certa persona – parlare; lui non era affatto capace di parlare, interloquire con la gente et similia, non aveva la minima idea di cosa avrebbe detto una volta che l’avrebbe avuta davanti, ma non era importante – stava solo aspettando che la folla scemasse, anche se di poco. Infatti, come notò imprecando e borbottando in tutte le lingue che conosceva quando rimase più volte incastrato, la folla non si era diluita nemmeno un po’.

 

Dannazione a te, Fernandéz. Questa me la paghi con gli interessi.

 

La gente, le persone, si susseguivano una dopo l’altra, parevano non finire mai: ritrovandosi in quella situazione capì la ragione per cui preferiva non ritrovarsi per nessun motivo in circostanze come quella.

 

E poi la vide.

 

Una pelle abbronzata che conosceva bene, una chioma ramata, un paio di occhi verdi che osservavano l’ambiente circostante con allegria e sicurezza, e un paio di gambe accavallate l’una sull’altra che mostravano appena, in una circostanza di vedo-non-vedo molto sensuale, una fine giarrettiera che gli fece venire voglia di allentarsi il colletto della camicia.

 

“Julia.” non ebbe bisogno di alzare troppo la voce affinché lei lo sentisse.

 

La vide voltarsi nella sua direzione con occhi sgranati: si trovava con le ragazze del suo gruppo e con altri bladers, pronti a festeggiare il bellissimo concerto che avevano regalato al pub, ma quando i suoi occhi di ghiaccio affondarono nei suoi verde prato, mormorò qualcosa a Hilary per poi alzarsi ed avvicinarsi a lui.

 

Si spostarono nel posto meno trafficato di tutto il locale, e fissandolo Julia assunse un’espressione tremendamente seria. “Non mi aspettavo de vederti.”

 

Il russo trattenne a stento l’istinto di roteare gli occhi, anche perché capì perfettamente che quello era il suo personalissimo modo di fargliela pagare. “In quel caso sarei stato un idiota.” quando le sopracciglia di Julia si inarcarono, sospirò. “Okay, sono un idiota.” ammise. “Ma non sono abituato a perdere ciò che voglio.”

 

Sentendo i battiti del suo cuore accelerare, la ragazza si impose di non viaggiare con la mente e di rimanere con i piedi per terra; ma come si faceva al sol sentire quelle parole?

“Cioè?” gracchiò, la gola secca e la voce tremolante.

 

Lui inarcò un sopracciglio, facendo del suo meglio per non sbuffare pesantemente; quando si avvicinò e lei lo vide sogghignare in maniera sfrontata ma differente dalle altre volte – quasi dolce, rassegnata, sconfitta e… Romantica? – il cuore di Julia fece lo stesso doppio salto mortale che lei soleva fare quando aiutava i genitori con il circo.

Fernandéz, devo farti un disegnino o lo capisci da sola?”

 

Per non urlare a causa della troppa gioia che le stava esplodendo dentro fu costretta a mordersi le labbra, esibendo poi un sorriso birichino. “Soy piuttosto tarda, ¿me lo puedes explicar?”

 

Il russo sbuffò, scuotendo la testa e avviluppandola in un abbraccio che gli riuscì alla bell’e meglio. Quando le loro labbra si incontrarono, sentì solo il profumo che sapeva così tanto di lei entrargli nelle narici, e allora per la prima volta poté dire di aver trovato qualcosa che lo tenesse legato senza che gli desse fastidio. Julia era l’altra parte di sé, quella che lo faceva ammattire, disperare, ma anche la sua coscienza, quella che lo metteva di fronte alle realtà che lui non voleva vedere. Sarebbe stata una bella sfida. Niente che lui non amasse.

 

 

 

Poco lontano, le Cloth Dolls applaudirono fragorosamente assistendo alla scena, e Hilary sospirò, innalzando il suo cosmopolitan alla sua amica, bevendo alla sua salute.

 

Mao distribuì gli altri drink appena portati ed adocchiò la giapponese, vedendo immediatamente i suoi occhi lucidi. “Tesoro, va tutto bene?”

 

Quella sorrise, scuotendo la testa e mordendosi le labbra. “Stavo solo rimuginando…”

 

La cinese mise il broncio. “Non lo fare, per carità: il sol pensiero che tra un paio di giorni saremo tutte a continenti di distanza e dovremo dirci addio mi strazia.” Ammise. “Questi mesi da un lato sono volati, dall’altro mi sembra di essere approdata a New York ieri.”

 

“Sapevamo che dovevano finire.” La giapponese accavallò le gambe e scrollò le spalle. “Ma non dire la parola ‘addio’: la nostra amicizia durerà fino a quando lo vorremo e ci saremo l’una per l’altra, così come ci siamo state sempre.” Mao annuì, completamente concorde con quelle parole e le sorrise dolcemente, stringendole la mano con affetto.

Quando tornò al lavoro per forza di causa, Hilary passò dal lungo bancone del pub e, vedendo Mariam impegnatissima ne approfittò. “Tu tornerai in Irlanda prima, quindi approfitto di questo tuo momento occupato per dirti che ti voglio bene… Tanto non puoi replicare!”

 

La mora non smise di shakerare un drink per lanciarle un’occhiata che la trapassò da parte a parte. “Anche io te ne voglio, stronzona.” La giapponese scoppiò a ridere, dopodiché le strizzò l’occhio.

 

Uscendo dal pub, sorrise nell’adocchiare Yuri e Julia che si stavano già pizzicando come al loro solito, e scuotendo la testa realizzò che non sarebbero mai cambiati.

 

Le bastò solo un’occhiata, un’occhiata in una specifica direzione per essere compresa.

Fuori dal locale non vi erano molte persone: erano entrate tutte. Cacciò fuori dalla pochette una delle sue vogue alla menta e la accese con non poca difficoltà, visto il vento che tirava; quando buttò fuori il primo tiro, si sentì un pizzico più leggera. Non aveva mai fumato tanto, ma quando lo faceva la nicotina aveva il potere di estraniarla dal mondo.

 

Stava iniziando a pensare a che ore fossero quando qualcuno, da dietro, le scippò la sigaretta dalle dita senza tanti complimenti. Si voltò di scatto, e quando vide chi c’era, prese a fissarlo a metà tra l’irritato e il divertito.

 

“Chiedermene una no, eh?”

 

Kai buttò fuori una boccata di fumo e scrollò le spalle con fare noncurante. “Fregartela è meglio.”

 

Lei rise. “Vaffanculo.” Si sedette sull’alto marciapiede, recuperando la sigaretta e sistemandosi i pantaloni di pelle. “Quando partirete tu e i ragazzi?”

 

Le si sedette accanto. “Non appena finirà il torneo. Devo battere Takao.”

 

Un’altra risata si fece largo tra sue labbra e, mentre aspirava una boccata di sigaretta, non poté fare a meno di pensare a quanto la vita potesse essere strana. “Questa frase l’ho già sentita.”

 

Lui scrollò le spalle e con un abile gesto le prese quello che aveva tra le dita per poi spegnerlo sull’asfalto senza tanti complimenti. Lei non se ne fece un cruccio; osservò quella sigaretta fumata a metà con disinteresse e sospirò. “Le compro, sai?”

 

Il suo viso era neutro come sempre, i suoi occhi viola tradivano una serenità che non gli aveva mai visto. “Allora non comprarle.”

 

Hilary fece qualcosa che non aveva mai fatto: si appoggiò contro le sue spalle, accettando tacitamente la sua richiesta, e sorridendo. Non poteva fare a meno di ripensare agli ultimi mesi e dare la colpa al destino, o forse al fato, per tutto quello che era accaduto a lei e alle sue amiche.

 

Trasgressioni. Avventure assurde. Preoccupazioni. Patemi vissuti con il cuore in gola. Recriminazioni. Colpi di scena degni delle soap opera argentine più bestiali. Riappacificazioni. Innamoramenti segreti. Relazioni clandestine. Dichiarazioni d’amore. Punti di vista che erano cambiati da così a così nell’arco di mesi.

 

Era davvero colpa del destino? Magari lo si poteva chiamare fato..?

 

O sei semplicemente tu, New York? Dì la verità

 

Pochi mesi: erano bastati una manciata di mesi, di settimane per far succedere quello che a gente comune sarebbe accaduto un bel po’ d’anni. Ma era normale; a New York si aveva sempre l’impressione che le cose avvenissero più velocemente che altrove.

 

All’inizio le sue amiche erano approdate lì dai loro paesi quasi disperate, ciascuna con una storia complicata alle spalle e con tanta voglia di crescere e maturare, ricordava perfettamente la situazione iniziale di ciascuna di loro.

 

Mariam voleva lasciarsi dietro la sua storia di un anno con Max, e aveva finito per capire che, se consolidata, una relazione può riprendere con delle basi solide e stabili; Julia era approdata a Manhattan con un carattere difficile e non solo aveva recuperato il rapporto con il fratello, ma era pure riuscita a comprendere l’altra metà di sé: Yuri.

Infine Mao era venuta via per fuggire da una storia di vent’anni che la teneva accorata a se stessa, e aveva finito per comprendere che scappare non serve a nulla quando il nostro cuore è sempre irrimediabilmente da una parte.

 

E lei? Lei che si vantava di essere la cosiddetta miss autonomy, lei era invece quella che aveva imparato più di tutte che non serve classificare le persone a blocchi per difendersi, e sfruttarle per recriminare una vendetta contro qualcun altro.

In fondo, basta trovare un’unica eccezione.

La propria.

 

 

 

 

 

Fine.

 

 

 

 

 

 

Okay, chiedo assolutamente perdono per questo ritardo atroce che, lo sapete, non è da me. Sapete quanto io sia puntuale e ci tenga alle cose fatte bene, ma credetemi, in questi giorni me ne stanno capitando una dopo l’altra. .-.

 

Ma andiamo alle cose importanti: the end, people.

Mi mancherà tanto questa storia, frutto di lavoro persino sotto il sole – qualcuno ne sa qualcosa – e di tante disperazioni e contentezze.

E mi mancherete voi.

 

Purtroppo non ho una storia da sfornare, non subito almeno, quindi non posso dirvi con certezza che tornerò tipo tra due settimane o roba simile… Diciamo che dopo quasi un anno passato a pubblicare storie a random, mi prendo il mio periodo di pausa.

Una cosa devo dirla, però: è stato un anno fantastico.

 

Ho conosciuto persone squisite, fatto parte di questo mondo che credevo seppellito indietro nella mia infanzia, e… Beh, non potrei desiderare di più.

 

Quindi, grazie.

 

Ma, aspettate, voglio ringraziarvi un po’ meglio, come si deve, quindi facciamo le cose seriamente, perbacco! U___U

 

 

 

 

Grazie a…

 

 

 

…Alla mia amica Avly per avermi ispirato questa fanfic.

Le nostre chattate notturne sono costantemente foriere di novità e scleri, un po’ come questa trama che si è delineata a spezzoni procedendo, però, come un missile.

Grazie, Lula, per essermi rimasta accanto ed avermi tranquillizzata quando minacciavo di esplodere.

 

Lexy è colei che mi ha ispirato il personaggio di Kurt, che all’inizio voleva essere una parodia del Kai di Leggero, ma che alla fine ha preso simpaticamente parte del cast, almeno per un paio di capitoli. Visto che la mia vendetta alla fine mi si è rivolta contro? U.U

 

Sarei davvero un’ingrata se non citassi la divina persona che, con infinita pazienza, ha sopportato tutte le mie lagne dandomi invece preziosi consigli. Lily è stata preziosissima per la riuscita della fanfic, nonché la supporter ideale per una trama intrecciata come questa. Ogni fanwriter dovrebbe avere una persona come lei al suo fianco.

 

Infine, un gigantesco grazie va alle mie lettrici, che con le loro recensioni, con il loro supporto e le battute che mi fanno morire dal ridere, sanno ispirarmi più di quanto loro possano pensare. Love you all, girls. ♥

 

 

Hiromi

 

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