Salviamoci la pelle. di Schizophrenia (/viewuser.php?uid=113040)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. -Bruises. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. -Words. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6. -Open Wounds. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. -Happy New Year, soldier. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. -Who will take care of you? ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. -War. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10. -Liebe. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11. -Katjuša. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12. -Segreti. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13. -Come noi vorremmo che fosse. ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. ***
Ed ecco!
Giovini, non c'è voluto poco per scrivere ciò che vedete, anche se non è poi un granché xD
D'accordo, non sarebbe neanche il periodo adatto per pubblicare una storia del genere ma, in fondo, ne esiste davvero uno?
Esiste forse un momento per ricordare un periodo storico che ha sconvolto totalmente la storia?
Ah, io non lo so mica: lascio la risposta a voi.
Sentivo solo che dovevo scrivere questo perché... perché il nazismo e la Seconda Guerra Mondiale, a loro modo -modo assurdamente strano-, mi affascinano. Non ero presente all'epoca, quindi mi scuso ufficialmente con tutti i lettori. :3
Beh, non ho altre cazzate da sparare, per adesso.
Ah, una nota c'è ù.u
Il titolo di questa storia, “Salviamoci la pelle”, è ripreso da una canzone omonima assurdamente fantastica di Ligabue, vi consiglio di ascoltarla.
Schizophrenia.
Salviamoci la pelle
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
14 Dicembre 1943
10:32
Il rumore del grilletto, il proiettile che centra perfettamente il punto in cui dovrebbe esserci il cuore, l'adrenalina che sale nel ragazzo che alza e abbassa le spalle, al ritmo del suo respiro...
Da quante ore quel ragazzo era chiuso al poligono di tiro?
Forse da quando aveva ricevuto la notizia di essere riuscito ad entrare nell'SS.
Oh, non che non ne fosse felice: Mark Schreiber aveva versato sudore e sangue per il ruolo di soldato semplice. La cosa che lo irritava da morire, così tanto da rinchiudersi tutto il giorno a sparare ad una sagoma scura, era il fatto di non poter andare in guerra.
Mark Schreiber doveva rimanere lì.
Un nazista prigioniero in un lager; qualcuno lassù aveva un delizioso senso dell'umorismo.
Mark era alto, biondissimo, dalle spalle larghe, il perfetto tedesco se non fosse stato per il suo difetto più grande. Ciò che lo faceva stare male ogni giorno, ciò che gli faceva dubitare di appartenere alla razza ariana, ciò che faceva fare una smorfia di puro disgusto a suo padre ogni volta che lo vedeva: i suoi occhi color cioccolato fuso.
Il biondo sospirò afflitto e ripose la mitragliatrice, uscendo a passo veloce dal quell'edificio, percorrendo velocemente il campo, sentendo l'odore di carne bruciata entrargli nelle narici senza riuscire più ad uscire, ipregnandogli le vesti. I nazisti armati all'ingresso lo conoscevano: insomma, era il figlio del grande capo. Sì, certo, che merda.
Weimar, Germania.
14 Dicembre 1943
13:20
<< Non dovresti essere felice? >>, Walter riusciva sempre a vedere il lato positivo in tutto.
Mark assottigliò lo sguardo, osservando il suo migliore amico, << Potrei mai, adesso? >>
Certo che no. Aveva fatto tutte quelle stronzate... anni di addestramento solo per rendere fiero suo padre... aveva poi, col tempo, imparato anche ad odiarlo ed ora era costretto a rimanere lì, a dirigere il campo di concentramento di Buchenwald con lui. No, non con lui: sotto di lui.
Walter era l'apoteosi del perfetto tedesco: biondo, occhi azzurri. Forse un po' troppo magrolino.
<< Sì, non è così difficile, Mark: stai lì, fai il tuo lavoro e ti diverti ad ammazzare qualcuno quando la giornata inizia a diventare fiacca >>
A volte Mark Schreiber non credeva che quello lì fosse davvero il suo migliore amico: quegli scatti di strafottenza non erano da lui. Era nervoso... o preoccupato. In entrambi i casi era strano.
Il biondo scosse la testa, << Walter, non ho fatto tutto questo per restare lì >> sbottò, irritato, sprofondando nel comodo divano di casa Hoffmann.
Il giovane Hoffmann gli lanciò un'occhiata perplessa: conosceva Mark da troppo tempo per credere a qualunque cosa uscisse da quella bocca, << Vuoi partire o vuoi semplicemente allontanarti da tuo padre? >>
Una scrollata di spalle accompagnò lo sguardo 'improvvisamente diventato nero di Mark, << Voglio solo combattere per la mia patria, va bene? >>
<< Beh, adesso non puoi >> rispose, risoluto, Walter, andandosi a versare della birra in cucina.
Mark alzò il capo, stranito: Walter non era mai freddo. Mai. Soprattutto non con lui: non era riuscito a tenergli il broncio neanche quando la sua ragazza lo aveva lasciato per Mark. Ovviamente, ragazza che Schreiber aveva rifiutato, certo.
Il giovane si passò una mano tra i capelli sospirando: sì, sapeva cos'aveva il suo migliore amico; in fondo si conoscevano fin da quando entrambi abitavano a Berlino, prima della morte di sua... no, era meglio non pensarci. Fatto stava che Walter era un pacifista e odiava il nazismo. Tutti gli Hoffmann aveva le stesse idee di Walter, ma contraddire il governo non è mica cosa facile.
Mark dal canto suo non gli sparava alla testa solo perché senza il suo migliore amico si sarebbe suicidato, sicuramente. Gli era stato insegnato che tutto quello era giusto e naturale come respirare.
Si alzò dal divano, raggiungendo il suo migliore amico, << Senti... okay: hai ragione, sto esagerando >> si stava scusando? Forse; in maniera molto vaga. Era troppo orgoglioso per scusarsi davvero. << Ti va di venire con me, questo pomeriggio? Ti faccio vedere l'uniforme e tutto quello che mi hanno assegnato >> sorrise speranzoso, Mark.
Walter si voltò verso il biondo, osservandolo per alcuni minuti, fino a stendere le labbra in un lieve sorriso, << Certo >>.
Nonostante fosse un pacifista Walter sapeva che il sogno del suo migliore amico era sempre stato diventare un soldato dell'SS, per rendere fiero suo padre, probabilmente -anche se non l'avrebbe mai ammesso-; Mark era riuscito a realizzare il suo sogno.
Quindi, se il giovane Schreiber era felice, anche Walter Hoffmann lo era.
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
14 Dicembre 1943
19:30
<< Però, carina la tutina mimetica, Mark, hai intenzione di far colpo su qualche ragazza?! >> lo punzecchiò Walter.
Il biondo di fronte a lui non riuscii a trattenersi da una sonora risata: il malumore del mattino era decisamente scivolato via, grazie al suo migliore amico.<< Sai che amo solo te... come potrei pensare di tradirti?! >> rispose, con palese ironia.
No, Mark era così solo con Walter: quello era il vero Mark, e di certo non poteva essere il vero Mark con tutte le altre persone che conosceva; tutte le persone che si aspettavano sempre qualcosa da lui. No, non poteva.
Le risa del novello soldato furono subito accompagnate da quelle del giovane Hoffmann: << Attento, Mark, se tuo padre ti sente parlare così ti butta direttamente nelle camera a gas >>
E ancora giù con le risate, Mark gli rivolse un'occhiata divertita, << Per te, affronterei anche la morte >> lo prese in giro.
Erano sempre stati così legati Mark e Walter? Sì, sempre. Da quando si erano conosciuti in una scuola elementare di Berlino.
E risero, risero fino a sentir male allo stomaco: Walter seduto sul letto del biondo ad esaminare le nuove divise del soldato semplice Schreiber e quest'ultimo in piedi, con indosso una delle divise dell'SS, appunto.
Risero ancora, consci che quello era l'unico modo per sfuggire alla realtà di ciò che succedeva intorno a loro.
Risero, con le finestre chiuse per non sentire l'odore di carne umana che veniva bruciata nei formi crematori.
Risero, perché forse gli era rimasta solo la loro amicizia, in tutta quella merda.
Risero, finché non si sentì un bussare assiduo alla porta della camera di Mark, che subito si ricompose: assumendo un'aria da soldatino per bene. Perfetto, in ciò che perfetto non poteva proprio essere.
La porta si aprì e sull'uscio fece capolino un nazista, vestito con la sua bella divisa perfettamente in ordine. Mark e l'uomo si scambiarono il saluto di Hitler. Mark lo aveva riconosciuto: era un caporale; solo un gradino su di lui, certo, ma poteva sempre dargli degli ordini.
<< E' arrivato un nuovo carico di merce, soldato. Suo padre si aspetta di vederla all'ingresso con gli altri >> furono le parole del caporale. Semplici, sbrigative, fredde; prima che quest'ultimo sparisse dalla visuale dei due.
Mark rivolse lo sguardo verso il suo amico, << E così papà vuole mostrarmi come funzionano le cose... che carino... >> commento, con sarcasmo, aggiustandosi la divisa.
Walter intanto teneva un sopracciglio inarcato, << Merce? >>
Il nazista si strinse nelle spalle, << Sì, merce. Ebrei, prigionieri politici, omosessuali >> spiegò, sbrigativo. << Dio, lo odio. Cerca solo di mettere in chiaro che sono un suo sottoposto e che devo obbedirgli. Non potrò fare nulla di testa mia; continuo a chiedermi perché non mi abbiano mandato sul confine a comba... >>
Le sue parole furono bloccate dall'occhiata del giovane Hoffmann, << Sono persone, non merce >> puntualizzò.
Mark Schreiber sembrava irritato dal fatto che il suo migliore amico ritenesse più importanti le cose di cui la sorte era già stata scritta, esseri inferiori, piuttosto che i continui tentativi di suoi padre di umiliarlo. << Ha importanza? >> chiese, irritato.
Ricevette in risposta una scrollata di spalle e si ritrovò a seguire il suo migliore amico che si affrettava verso l'ingresso del campo.
Sapeva di averlo fatto arrabbiare ma era ciò che gli era stato insegnato sulle persone che venivano portate in quei campi di lavoro. Almeno lì si rendevano utili alla società e, quando non potevano più lavorare, era ovvio che venissero uccisi. Certo, questo secondo ciò che gli aveva detto suo padre, quando Hitler era diventato Führer della Germania nel 1934 e lui aveva solo undici anni. Ormai ne aveva venti, ma non riusciva a pensare che le cose potessero essere diverse.
Walter Hoffmann sembrava proprio non pensarla così.
Camminarono insieme, Mark dietro Walter, fino a quando non videro uomini e donne scendere da un tremo, accerchiati da soldati semplici, caporali, sergenti e tenenti. Erano tutti armati: beh, era ovvio, avevano di fronte una razza inferiore, oltre che malviventi di ogni tipo.
Mark era perfetto in quel momento: era in posa, come un soldatino, teneva in mano il fucile, pronto per l'utilizzo. Se non fosse stato per quegli occhi nocciola che lo facevano sembrare così poco tedesco. Continuò a tenere sotto controllo la situazione, osservando ogni deportato con particolare attenzione.
<< Ho qualcuno da affidarti >> sobbalzò alle parole del maggiore Schreiber, suo padre.
<< Di chi si tratta? >> Mark non lo guardava: teneva lo sguardo fisso sulla folla.
<< Una deportata un po' speciale >> suo padre stava ghignando, era evidente.
Uno sbuffò sonoro provenne dalle labbra di Walter, << Non fanno tutti ugualmente schifo? >>. Il ragazzo omise un "per voi" che però pensava da troppo tempo.
Il maggiore sorrise, un sorriso alquanto viscido, << Oh, salve, Walter, sei venuto a trovarci? Non me n'ero accorto. Comunque sì; ma questa persona ci, come dire? Serve >>
Mark sembrava curioso, ma non si azzardava a guardare suo padre negli occhi, << Per cosa? >> trovò il coraggio di chiedere.
<< Verrai a saperlo a tempo debito >> le parole di suo padre, prima che si avvicinasse ad un tenente.
Poi lei fece il suo ingresso, ma per Mark fu uguale a tutti quanti; ma Walter, oh Walter capì subito che il maggiore Schreiber, il padre del suo migliore amico, stava parlando di lei: era effettivamente speciale. C'era qualcosa di elegante nel pallore niveo e malato che le avvolgeva il corpo. I boccoli corvini le ricadevano setosi e lucenti lungo la schiena: sembrava non aver risentito del lungo viaggio, tra pulci e malati di ogni genere. Il nasino all'insù le dava un'aria anche un po' altezzosa. Era bassa: bassissima e minuta. Walter iniziava a chiedersi se con un corpo così gracile avrebbe resistito lì dentro ma i suoi occhi verdi rilucevano di pura sicurezza. Sicurezza e decisione, qualità che annebbiavano l'alone -ahimè, pur sempre presente- di tristezza.
"Noi l'ameremo, finché cadrà
perciò , dio voglia, ci piacerà
Ci piacerà, ci piacerà, ci piacerà
ci piacerà, ci piacerà, ci piacerà!
Cambiare stile, falciando teste,
Cambiare amore, cambiare veste,
Tradire tutti, per non star solo.
Qualunque cosa...
Se piacerà!"
[E' solo febbre, Afterhours]
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. ***
Ragazzi questo capitolo... è un capitolo. xD
Lo so, lo so: ci ho messo tempo ad aggiornare ma sono stata un pochino impegnata. Comunque adesso sono qui è cercherò di aggiornare in modo regolare. Diciamo intorno ai 5-6 giorni per capitolo.
Dovrei decisamente andare a studiare qualcosina, però un paio di minuti ve li dedico, ve li strameritate. *w*
Devo dire che mi ha veramente sorpresa ricevere tante visite per questa fanfic, non pensavo che ci fossero così tante persone, oltre me, a cui interessasse l'argomento di cui tratta.
Vorrei ringraziarvi tutti, davvero *-* Siete fantastici **
Ringrazio poi le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- Giulss
- kikka23
E infine le due magnifiche ragazze che hanno trovato il tempo di recensire:
- Lizzy_96
- Norine
Bene, detto questo, buona lettura, gente. *-*
Schizophrenia.
Salviamoci la pelle.
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
15 Dicembre 1943
6:02
Mark Schreiber aveva già visto belle donne, era a conoscenza di quanto fosse effimera la loro bellezza. Il soldato semplice aveva già conosciuto l'ebrezza che si prova al momento del piacere; ma il giovane Schreiber non aveva mai provato affetto o compassione per una donna. Per lui, donna era solo sinonimo di "oggetto sessuale", nel migliore dei casi, ed "intralcio", in tutti gli altri.
Suo padre sapeva bene quanto quel compito fosse ingrato non solo per suo figlio, ma per tutti gli arruolati nell'SS. Forse era proprio l'inutilità di quell'incarico, l'umiliazione che può provare un giovane ragazzo armato di fucile e pronto a morire per il suo paese nel vedersi affidata una mocciosetta di non più di sedici anni, ad aver convinto suo padre a scegliere il suo unico figlio come "prescelto". Stava cercando ancora una volta di sottolineare, ma stavolta dinnanzi a tutti quanti, la sua inettitudine.
Odiava quell'uomo dal profondo del suo cuore, e non era assolutamente intenzionato a farsi dare ordini di quel tipo. Che bisogno c'era di badare ad una mocciosetta?! Non sapeva nemmeno il motivo per il quale era lì: probabilmente era ebrea... e allora perché non l'avevano mandata a lavorare come tutti gli altri?!
No, quella ragazzina aveva avuto un trattamento speciale. Era stata portata in casa loro, ai limiti del campo e lui doveva occuparsi del fatto che non scappasse. Non era nemmeno sicuro che le avessero fatto la doccia... magari aveva qualche strana infezione addosso e gliela avrebbe passata: forse suo padre voleva farlo ammalare per toglierlo di mezzo.
Probabilmente era l'odio che nutriva verso il padre a fargli partorire idee simili, ma era visibilmente irritato in quel periodo, persino durante l'allenamento, quella mattina.
L'aveva vista solo la sera prima, per poi farla chiudere a chiave nella stanza che suo padre aveva fatto preparare per lei. Già, la sera prima. Quella ragazzina aveva l'aria più insolente che il ragazzo avesse mai visto.
Il soldato rifletteva, mentre si avvicinava all'aria di addestramento dell'SS.
Forse avrebbe dovuto controllare quella ragazza. Il suo dovere di soldato glielo imponeva, ma la sua mente gli impediva di fare qualunque cosa fosse stato ordinato lui dal padre. Odiava quell'uomo per come lo trattava e per tutto quello che faceva. Prima, prima che lei morisse però, era tutto diverso. Quanto gli mancava; ma non doveva pensarci. Ricordava quel periodo e non era stato affatto bello.
Era ancora indeciso. Andare o non andar a controllare davvero la mocciosetta arrivata da solo-Dio-sa-dove e ubbidire agli ordini, oppure far scappare la suddetta mocciosetta in modo da far arrabbiare suo padre? Difficile, molto difficile.
Ci meditò tutto il giorno, mentre si allenava.
Aveva adorato l'addestramento da quando era ancora un semplice allievo milite, e non sapeva neanche se sarebbe diventato un allievo ufficiale. Lo aiutava a scaricarsi e a migliorare il suo corpo, senza dar peso a tutto quello che succedeva intorno a lui. Senza dar peso a quelle persone che venivano uccise solo perché non appartenenti alla sua razza. L'allenamento gli faceva dimenticare persino suo padre... quindi, era assolutamente la cosa migliore che fosse mai capitata a Mark Schreiber in tutta la sua vita. Il soldato, in quel momento, però, avrebbe dato la vita per essere mandato su un fronte.
Ci rimuginò parecchio, arrivano ad una conclusione: forse, se si fosse dimostrato abile, rispettoso dei suoi superiori e pronto ad eseguire gli ordini, lo avrebbero promosso e mandato di certo con qualche truppa a combattere. Lontano da Buchenwald.
Presa questa decisione, Mark passò il resto della mattina concentrandosi sul suo corpo e di come reagiva ai duri allenamenti ed esercizi ai quali si sottoponeva ogni giorno. Anche dopo il normale allenamento insieme a tutti gli altri soldati, infatti, il ragazzo restava sempre almeno un paio d'ore ad allenarsi in completa solitudine, lasciando che la sua mente si svuotasse.
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
15 Dicembre 1943
18:46
Bea Gurtsieva era seduta sul letto, uno dei pochi mobili che arredava la stanza nella quale si trovava. A parte quello c'era un tavolino con sopra una lanterna e un armadio davvero in pessime condizioni; contenente qualche vestito vecchio e troppo largo per il suo esile corpo.
La ragazza se ne stava lì, ferma e immobile: osservava la finestra, piccola e troppo in alto, sebbene non pesasse più di 43 kg, non ci sarebbe mai passata; di lì a stento ci passava l'ossigeno che riusciva a respirare. Certo, sempre che si potesse considerare ossigeno ciò che inalava. Odorava molto più di sporco, terreno, umido e... bruciato.
Non sapeva esattamente cosa succedesse in quel luogo. Suo padre gli aveva parlato molto dei lager, ma non si era mai preoccupata più di tanto: la sua famiglia era sempre stata protetta. Suo padre era un Colonnello Generale dell'Amata Rossa e poi, anche in quel momento; era lì e non sapeva, per giunta, il motivo per il quale ci era finita? Perché comunista? Forse, questo suo padre glielo aveva detto: "Sono posti orribili. Ci portano chiunque sia diverso da loro e da loro ritenuto sbagliato. Ebrei, comunisti, invalidi, omosessuali e via dicendo".
Eppure c'era ancora qualcosa che non quadrava, per Bea. La ragazza non brillava certo dell'intelligenza di cui era dotato Einstein, però aveva ricevuto anch'ella una certa cultura, nonostante la giovane età; e sapeva che se fosse stata una prigioniera comunque, come tutti gli altri, l'avrebbero portata in quelle camere e le avrebbero dato uno di quei completi con le sottili righe verticali, probabilmente le avrebbero anche tagliato tutti i capelli come aveva visto qualche persona nel campo.
Invece no. Della sera prima ricordava ben poco. Ricordava tutto in modo così confuso. Probabilmente era dovuto al fatto che aveva passato tanto tempo in un treno dove c'era pochissimo spazio. Senza mangiare, né tanto meno bere. Aveva sentito il tanfo delle feci altrui e delle sue. Aveva visto anche delle persone morire, visto i loro corpi rimanere lì, in quei vagoni-merci. Erano stati dei giorni orribili.
Appena scesa dal treno, invece, un uomo la aveva afferrata in malo modo, trascinandola via dalla massa di gente che veniva fatta spogliare, sotto la neve tedesca di Dicembre e portata in delle stanze. Bea non aveva idea di cosa sarebbe successo loro, aveva però visto com'erano le persone che già c'erano, prima del loro arrivo, e temeva che quello sarebbe stato anche il suo destino.
Subito dopo aveva sentito delle voci; ma non vedeva bene le sagome di quelle persone: aveva la vista offuscata; era stanchissima. Le era stato chiesto qualcosa in tedesco: lei il tedesco lo conosceva, lo aveva studiato, ma le girava la testa e non riusciva a dire niente. L'avevano picchiata, ricordava, ogni volta che non parlava o rispondeva in russo. A Bea mancava l'accento russo, forse perché suo padre era di origini italiane e non aveva quell'accetto, o forse perché nelle donne era sempre stato più dolce e lieve.
In fine, era stata chiusa a chiave in una stanza, in quella stanza. Aveva talmente tanto sonno, era talmente stanca e priva di forze che si era addormentata subito. Sì, si era addormentata subito, ma il suo non era stato un sonno benefico. Quel tempo passato a dormire, al suo risveglio, era riuscito soltanto a metterle ancora più ansia addosso.
Non aveva più visto nessuno, dalla sera prima e stava iniziando ad avere paura, ma non l'avrebbe dimostrata a quei bastardi dei nazisti. Non sapeva perché l'avevano portata lì, riservandole un destino diverso da quello di tutti gli altri deportati, ma sicuramente non era nulla di buono, e la paura avrebbe soltanto fatto alimentare il loro potere su di lei.
Bea si alzò dal letto, iniziando a camminare in tondo per la stanza: fare qualcosa... fare qualcosa... tentare di fuggire sarebbe stato sicuramente un suicido, altrimenti le sarebbero giunte notizie di comunisti che ce l'avevano fatta. Forse avrebbe tentato ma non in quel momento: era troppo debole e il sonno leggero di quella notte non l'aveva di certo aiutata a ritrovare le energie perse.
Doveva decidere cosa fare, non che fosse una cosa facile: non sembravano esserci possibilità di fuga; né tanto meno di scappare in altro modo da tutto quello.
Bea Gurtsieva non aveva assolutamente idea di ciò che doveva fare per sopravvivere, ma decise ugualmente di affrontare quell'inferno, anche se forse volevano ucciderla: non aveva ancora visto un po' di pane o un goccio d'acqua da quando i soldati dell'SS la avevano portata su quel treno.
Eppure, nonostante tutto, lei sapeva che non sarebbe morta lì.
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
17 Dicembre 1943
22:01
Mark aveva passato due interi giorni a chiedersi se la decisione da lui presa fosse quella giusta. Ancora non si era fatto vivo nella camera della ragazza: l'orgoglio era troppo grande, non voleva ubbidire a suo padre; ma forse era l'unico modo per riuscire ad allontanarsi da lui, quindi un tentativo doveva pur farlo.
Il ragazzo sentii bussare alla porta della sua camera e scattò in piedi: si illuminò quando si trovò davanti Walter, << Ehi, ciao. A cosa devo questa visita? >> chiese, in tono ironico; ma era felice di vederlo. Walter Hoffmann era in assoluto l'unica persona che avesse mai desiderato vedere da quando lei era morta; soprattutto in momenti difficili come quello, ma Mark non sapeva che, senza neanche saperlo, Walter stava per dargli una mano a prendere una delle decisioni più difficili della sua vita.
Il giovane Hoffmann aveva l'aria triste, << Ehilà >>, salutò a sua volta l'amico, entrando nella sua camera. Era sempre triste quando entrava a Buchenwald e vedeva tutti i deportati: nessuno si meritava un trattamento simile, nemmeno il peggiore dei criminali: come facevano Mark e suo padre a trovare giusto tutto quello che stava succedendo? Certo, Walter non voleva certo che si mettessero contro Hitler, ma trovava impossibile condividere le idee di quel dittatore.
Il soldato Schreiber tuttavia non smise di sorridere e richiuse la porta alle spalle del suo migliore amico, << Non ti sto cacciando, Walter, lo sai che non lo farei mai e tanto meno voglio essere scortese con te... ma che ci fai qui a quest'ora? >> chiese ancora, raggiungendo l'amico che era andato a sedersi sul letto e spostando la sedia da vicino alla scrivania, sedendocisi sopra.
<< Sai che papà è medico in questo campo, no? >> gli chiese l'amico.
Mark annuii, senza interromperlo: come avrebbe potuto dimenticarlo?! Il padre di Walter era un medico dell'SS, curava i soldati feriti di ritorno dalle battaglie e da poco era stato spostato dal fronte al loro campo di concentramento, anche se viveva ancora a Weimar con la sua famiglia. Nel campo il signor Hoffmann curava gli ebrei, ma non era come gli altri medici: lui li curva davvero, senza fare esperimenti su di loro e senza ucciderli con qualche intervento rischioso. A volte portava anche del materiale comprato da lui, per curarli; Mark non credeva fosse poi tanto legale e che il medico potesse farlo ma non aveva mai detto niente: sia perché era il padre del suo migliore amico, sia perché non capiva perché ci tenesse tanto a curare quegli uomini che, come sapevano tutti, sarebbero morti lo stesso. Quindi che senso aveva darsi tante pene per loro?
Inoltre Mark vedeva il signor Hoffmann un po' come il padre che non aveva mai avuto.
Il solato ricordava quando andava a scuola, alle elementari, con Walter, a Berlino e il suo migliore amico diceva al padre di aver preso u buon voto. Ricordava il sorriso caloroso che il padre rivolgeva al figlio, tutto contento, prima di abbracciarlo... e poi sorrideva anche a lui, chiedendogli: "Invece a te com'è andata la giornata a scuola, eh, Mark?"
Suo padre non gli aveva mai chiesto com'era andata a scuola.
<< Bene, oggi tuo padre gli ha dato un compito strano... ha dovuto visitare una ragazza. Occhi verdi, capelli scuri... non è sicuro sia una deportata, mio padre. Ce ne ha parlato oggi a cena >> continuò Walter.
Mark ormai aveva capito che si trattava nella ragazzina chiusa nella stanza alla fine del corridoio. Forse era bene ascoltare Walter in quel momento: quella mocciosetta poteva avere qualche malattia altamente contagiosa. Il soldato conosceva abbastanza bene il suo migliore amico però da sapere che il ragazzo era perfettamente a conoscenza della persona di cui stava parlando, ma non voleva dare l'impressione di sapere troppo.
<< Comunque sembra abbastanza in salute. In treno non ha contratto malattie, però non si nutre da giorni. E' sfinita >> concluse il suo migliore amico.
Il soldato lo guardò stupito: quindi nessuno le stava portando da mangiare? Già, in fondo perché avrebbero dovuto... era soltanto una deportata e lui l'aveva fatta chiudere a chiave nella sua stanza: non poteva neanche uscire per andare a fare la fila come tutti gli altri ebrei e quant'altro che lavoravano nel campo. D'accordo, alla fine non gli interessava per niente della ragazzina in sé, ma lei rappresentava l'opportunità che aveva di farsi promuovere e di andarsene il prima possibile da quel campo e da suo padre. Non poteva decidere di morire proprio quando gli serviva.
<< Beh, nessuno qui al campo è nutrito come si deve, Walter, comunque ne parlerò a mio padre >> rispose Mark,fingendo indifferenza.
Desiderava davvero molto andarsene da quel posto, tanto da mentire al suo migliore amico: non lo aveva mai fatto in vita sua e di certo non aveva in programma di iniziare quella sera, così, per una ragazzina che non mangiava -o, peggio, che decideva di non mangiare-, né tanto meno bere, andando così incontro a morte certa. Già, era altamente stupida, ma in quel momento al giovane Schreiber quella ragazzina altamente stupida serviva per scappare da quel campo.
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
18 Dicembre 1943
23:01
Al soldato era servito un altro giorno per prendere una decisione quantomeno ragionevole. Alla fine aveva deciso di obbedire a suo padre, sebbene il suo orgoglio se risentisse.
Passò a prendere un po' di zuppa dalle cucine. La sua visita era unicamente a scopo di tenerla in vita, non sana, ma quanto meno capace di testimoniare, con la sua presenza, quanto il ragazzo fosse un ottimo soldato e, quindi, pronto ad andare in battaglia come tutti gli altri. Forse sarebbe servito a poco, ma valeva la pena tentare.
Il giovane Schreiber percorse frettolosamente i corridoi: non aveva mai parlato con un deportato prima di quel momento. A volte lì vedeva, passando per il campo, ma non si era mai fermato a salutarne uno o a dirgli qualcosa: che senso avrebbe avuto?
A lui, tutti quei prigionieri, neanche interessavano. Lui voleva solo fare carriera, ovviamente. Non gli interessa di quell'inutile razza richiusa lì dentro; non era affar suo. Gli avevano insegnato che quello era l'unico metodo plausibile. Gli era stato insegnato che Soluzione Finale era l'unico modo nel quale la razza ariana poteva assicurarsi rispetto e sottomissione da tutte le altre.
Oltre Walter e il padre di quest'ultimo, non aveva mai parlato con qualcuno di opinione diversa, ne tanto meno ascoltato le lamentele di uno di loro. Non si era mai fermato ad osservare un bambino, sporco di fuliggine, costretto a lavorare: sapeva che quello stesso bambino entro un paio di giorni sarebbe morto.
Si fermò davanti alla porta della ragazzina, indeciso se bussare o meno: cos'era giusto fare?
Sbuffò, spazientito. Non credeva che l'incontro con una persona tanto inutile potesse far crescere in lui tanta ansia.
Aprì la porta velocemente: quella era casa sua, non aveva bisogno di bussare, soprattutto non per annunciare il suo arrivo a una... come lei. Richiuse altrettanto velocemente la porta: non voleva rischiare che la mocciosa tentasse uno stupido tentativo di fuga. Non gli andava di sprecare proiettili per una donna.
La ragazza alzò gli occhi verso di lui.
Mark Schreiber aveva avuto tante ragazze, più che ragazze amiche di letto; ma mai aveva visto degli occhi come quelli. Il ragazzo non era stupido: lei non aveva paura.
Gli occhi erano verdi accesi, canzonatori. Sembravano solo... stanchi. Erano gli occhi di chi ancora sperava; di chi non era stato ancora annientato psicologicamente, come il resto dei deportati nel campo.
Era una sua impressione o quegli stessi occhi stavano... ridendo di lui?
Gli occhi cioccolato del giovane soldato erano freddi, in quel momento. Lui doveva essere un buon soldato e il suo ordine era di essere il carceriere di quella ragazza. Un carceriere non trattava bene quella che era solo merce di scarto o, se andava bene, di convenienza.
La ragazza si scostò una ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio, osservando il ragazzo in divisa da capo a piedi: era imponente, certo, e aveva l'aria cattiva.
Il soldato Schreiber non poteva restare lì, senza fare nulla. Ormai era entrato in quella stanza e doveva rompere quella specie di bolla che sembrava proteggerla. << Mangia >> disse, posando a terra, accanto ai suoi piedi, la ciotola con la zuppa.
Bea Gurtsieva guardò prima la zuppa e poi di nuovo lui. Stavolta il ragazzo non aveva dubbi: lo stava decisamente prendendo in giro. << E' un ordine? >> chiese, e nessuno gli aveva mai rivolto quel tono ironico, eccetto Walter.
Mark la fulminò con lo sguardo. << Sì >>, rispose telegrafico. Era ovvio che lo fosse. Non pensava avrebbe mai visto qualcuno disposto a deriderlo, o a mettere in dubbio un suo comando; quando era così chiaro, poi!
La russa scrollò le spalle. Stava sorridendo.
Il ragazzo si ritrovò a chiedersi a lungo, anche anni dopo quel giorno, come si potesse sorridere quando costretti in un lager, con occhiaie profonde, senza scelta e senza possibilità possibilità neanche di vedere la luce. Certo, per adesso era viva... ma come poteva essere allegra? Come poteva essere allegra lei, in un lager di cui era prigioniera, e lui era così... insoddisfatto?
Forse era semplicemente pazza.
<< Voi nazisti siete sempre così asociali? >> quella domanda gli era stata rivolta in modo così innocente che fu tentato dal desiderio di chiederle quanti anni avesse: cinque o sei? Sapeva che probabilmente aveva appena qualche anno in meno di lui... allora dov'era finita tutta la sua innocenza, quando nel viso della ragazza sembrava così... palese?
Invece si limitò a guardarla male, come era giusto che facesse. << Solo con chi non riteniamo degno di parlarci >> fu la sua risposta, fredda come una lama di ghiaccio puro.
Mark Schreiber ebbe la tentazione di prendere la pistola quando gli occhi verdi della ragazza si fissarono nei suoi. Stavano cercando qualcosa dentro di lui, perché nessuno lo aveva mai guardato in quel modo, come se non fosse poi così privo d'interesse; e al giovane Schreiber non piacevano quegli sguardi.
Poi la ragazza si alzò dal letto su cui sedeva. Era una bella ragazza, sicuramente, ma non aveva nulla di nemmeno lontanamente simile ad una ragazza tedesca.
Gli si avvicinò e gli porse la mano, << Bea Gurtsieva >> disse, facendo una cosa così strana nei confronti del suo nemico che Mark non poté non sfiorare quelle dita nivee e piccole, con le proprie.
<< Mark Schreiber >>
Con questa foto di pura gioia,
e di un bambino con la sua pistola
che spara dritto, davanti a sé.
A quello che non c'è.
[Quello che non c'è, Afterhours]
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. -Bruises. ***
Buona sera, gente. Sono passati esattamente sette giorni dalla pubblicazione del secondo capitolo quindi, sono perfettamente in orario. u.u
E' possibile che a volte pubblichi un po' prima ma vi prometto che, salvo imprevisti, aggiornerò una volta ogni sette giorni, se non prima. =D
D'accordo, questo capitolo è abbastanza particolare: potrebbe aiutarvi a capire il passato di Mark, ma di certo lo odierete molto di più.
Detto questo, vorrei ringraziare gli Aftehours che mi aiutano a scrivere capitolo dopo capitolo. Sempre. A chi non li conoscesse, consiglierei seriamente di ascoltarli perché sono qualcosa di fantastico. <3
D'accordo, posto e scappo a fare una versione di greco, che sono assai indietro sulla tabella di marcia per i compiti estivi. è.é
Vi amo tutti, ricordatelo. u.u!!!!
Ringrazio poi le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacare07
- Norine
- Prusskj_Lazur
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
E infine la magnifica ragazza che ha trovato il tempo di recensire:
- Norine
Peace & Rock,
Schizophrenia.
Salviamoci la pelle.
-Bruises.
Weimar, Germania.
19 Dicembre 1943
11:54
Un'altra fredda domenica d'inverno si era abbattuta sulla Germania.
Le strade erano ricoperte di neve; e proprio su una di quelle strade innevate passeggiavano Mark Schreiber e Walter Hoffmann.
<< Quindi, alla fine hai deciso di dare ascolto a tuo padre? >>, era strano che Walter glielo chiedesse. Quando non era lui a introdurre il discorso, non parlavano mai di suoi padre: non era un argomento piacevole da affrontare e a Walter non era mai stato simpatico più di tanto; ma quando Mark e Walter avevano deciso di essere amici, non conoscevano le rispettive famiglie.
Il soldato scrollò le spalle, << Non lo so, Walter. Diciamo che per adesso sto eseguendo gli ordini, ma la cosa non mi va più di tanto a genio >> fu la sua risposta, ovvia. Odiava assecondare suo padre, ma sentiva il bisogno di andarsene, quindi lo avrebbe fatto, c'era poco da decidere, purtroppo.
Hoffmann annuì, continuando a camminare, osservando le impronte che lasciava: qualcuno avrebbe spazzato la neve dalle strade, presto o tardi. Forse.
<< Sei proprio sicuro di voler andare a sparare addosso ai nostri nemici? >> fu la domanda del ragazzo dagli occhi azzurri. Da buon amico, non voleva che Mark partisse, anche se non glielo aveva mai detto espressamente. Tutti i soldati partiti per la Russia difficilmente facevano ritorno. Certo, i tedeschi erano più forti, ma il suo amico su un campo di battaglia vero non c'era mai stato.
Il figlio del maggiore si strinse nelle spalle. << Ho forse altra scelta? >>, la verità era che da un po' se lo chiedeva lui.
<< Ricordo che hai iniziato l'addestramento e tutto il resto per rendere tuo padre fiero di te, adesso mi pare che lo scopo non sia più questo... allora, qual è? >> chiese ancora Walter. Il ragazzo sapeva di avere valide argomentazioni dalla sua parte tanto quanto sapeva in che modo il suo migliore amico fosse testardo. Forse prima o poi sarebbe riuscito a convincerlo, però.
Mark scrollò le spalle, << Diciamo che, se prima lo facevo per lui, adesso lo faccio per allontanarmi da lui >> adduceva sempre quella scusa, alla fine, ma ci teneva tanto a partire? Non lo sapeva: sapeva solo che era stanco di rimanere lì, impotente, di fronte a tutto ciò che succedeva. Si sentiva...male.
Il giovane Hoffmann annuì, << Ho capito che vuoi andartene, Mark; allora perché sei ancora qui? >> chiese, in fine, guardandolo negli occhi. Walter a Mark difficilmente si mentivano, ma quando succedeva l'altro lo notava sempre. Era impossibile che uno riuscisse a fregare l'altro: si conoscevano da troppo tempo e troppo bene per cadere in quei giochetti, ormai.
Il soldato semplice si limitò a scrollare le spalle, in risposta, prima di distogliere lo sguardo dal volto del suo amico. Non sapeva perché non inviava la domanda di trasferimento, stava cercando di fare il possibile perché fossero loro a mandarlo su un fronte, ma lui non faceva niente per metterli a conoscenza della sua vocazione nel "morire per la patria". Si sentiva molto Ettore, quando pensava quelle cose.
Walter decise di non insistere, si sarebbe sfogato lui appena ne avrebbe avuto voglia. Non si aspettava che questo succedesse presto: il suo amico era un tipo molto. Il figlio del medico sapeva che il ragazzo ancora oggi, dopo poco quasi quattordici anni, non voleva parlare della morte di sua madre. Infatti non ne avevano mai parlato. Il ragazzo pensava che il suo migliore amico avesse difficoltà a parlarne perché non l'aveva mai fatto, come difficilmente parlava di ciò che provava davvero. Il tutto aveva provocato in lui una specie d'intolleranza ai sentimenti; con il padre che aveva, poi, non c'era da stupirsi.
Entrarono in un piccolo caffè, che avevano iniziato a frequentare abitualmente da quando si erano trasferiti lì. Dopo che la guerra era scoppiata, si era venuto a conoscenza del forte calo di economia, ma l'economia di guerra della Germania funzionava. Certo, Mark non era mai stato a contatto con degli operai, mai le famiglie benestanti che conosceva e tutti gli altri militari con famiglie, se la cavavano benissimo, quindi non pensava ci fossero gravi problemi. In fondo era ancora solo un ragazzo di vent'anni, gli venivano dette solo le cose positive di quel regime come, ad esempio, l'annullamento della disoccupazione.
Walter decise di cambiare totalmente argomento, senza più menzionare i loro genitori, la ragazzina, il campo di concentramento in generale, né tanto meno il futuro che Mark Schreiber voleva per se stesso. No, non era il caso di far chiudere ancora di più il suo migliore amico.
<< Tra pochi giorni è Natale >> constatò il ragazzo dagli occhi azzurri, rivolgendo un caldo sorriso al suo migliore amico, mentre entrambi si dirigevano verso uno dei pochi tavoli liberi verso il fondo del locale, sedendosi al loro preferito: quello nell'angolino, tra il muro e la finestra. Lo avevano scelto così, per caso, una mattina. Avevano solo quattordici anni e di Hitler, del nazismo e di tutto il resto a loro non fregava minimamente.
Il ragazzo dai profondi occhi color cioccolato annuì, << Non sarà diverso dagli altri >> minimizzò. << Mio padre lavorerà tutta la mattina della vigilia, la sera ceneremo fingendo di essere una famiglia che si vuole bene e il giorno dopo saremo a pranzo a casa tua. Papà mi regalerà il solito maglione o la solita sciarpa e io fingerò di gradire intensamente >>. Sbuffò. Non gli piaceva il Natale, non da quando non era lei a scegliere i suoi regali e a dirgli di vestirsi bene in occasione delle festività.
Walter sospirò. Probabilmente stava per dire qualcosa, magari nel vano tentativo di far cambiare radicalmente idea all'amico, ma venne fermato dalla cameriera: una donna alta, bionda, dagli occhi azzurri e la vita sottile, probabilmente aveva dai ventisei ai ventotto anni. << Posso prendere le vostre ordinazioni? >>, la voce era melodiosa, un coro di campane a festa. Doveva essere nuova, non l'avevano mai vista lavorare lì.
<< Un cappuccino >> disse Walter, sbrigativo, ordine che la donna annotò quasi distrattamente sul suo taccuino, come se l'avesse sentito come un rumore di fondo, inutile ed insopportabile. Probabilmente l'aveva sentito così perché si stava mangiando con gli occhi il giovane Schreiber, attendendo la sua ordinazione, << Un caffè, senza zucchero. Bollente >> e Walter credette che il giovane avesse pronunciato di proposito quelle parole, in quel modo, guardando la ragazza fisso negli occhi.
Ragazza che arrossì subito, << Subito >> rispose, prima di sparire verso il bancone, più imbarazzata che mai.
<< Devi assolutamente dirmi come ci riesci >> lo prese in giro il suo migliore amico, osservandolo con un cipiglio divertito. Walter era un bellissimo ragazzo ma sembrava che tutte cadessero letteralmente ai piedi di Mark, dotato di quegli occhi così anti-ariani. Non che Hoffmann prestasse ascolto a sciocchezze sulla razza pura e roba simile, però proprio non riusciva a spiegarsi il motivo di quella situazione.
L'altro si strinse nelle spalle, << Sarà il fascino della divisa >> scherzò. Almeno il tutto era servito a sciogliere la tensione creatasi dopo aver parlottato di quegli argomenti poco felici riguardanti Mark, le sue decisioni e la sua famiglia.
<< Ma adesso non hai la divisa... >> gli fece notare Walter, con una pesante nota d'ironia nel tono di voce.
<< Appunto >> ribatté l'altro, provocando una sono risata in entrambi, proprio mentre la ragazza poggiava le loro ordinazioni sul tavolo.
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
19 Dicembre 1943
22:57
Dopo cena, il soldato semplice era tornato in camera sua, a leggere, placidamente steso sul suo letto. Non prestava grande attenzione alle parole che scorrevano sotto i suoi occhi, stava ripensando alla chiacchierata con Walter di quella mattina. Forse il suo migliore amico nemmeno se ne rendeva conto, ma ogni volta che diceva qualcosa che preoccupava entrambi -sebbene evitassero poi l'argomento- rimaneva impressa a fuoco nella mente di Mark Schreiber, richiamando la sua attenzione ora dopo ora.
Era vero, tra meno di dieci giorni sarebbe stato il giorno di Natale, e forse lui avrebbe dovuto andare a comprare dei regali, ma non ne era certo. Dopotutto era solito farne solo a Walter e a volte a suo padre: tutti gli Schreiber erano a Berlino o come soldati dell'SS in altri campi di concentramento, alcuni erano a combattere sui fronti e il giorno di Natale non sarebbe tornati a casa, forse avrebbero addirittura rischiare la morte.
In fondo, in quel momento, in soldato fu felice di non essere stato mandato sotto le armi proprio durante il periodo natalizio.
Ricordava che adorava il Natale, quando era molto piccolo. Sì, era la sua festa preferita: piena di regali e tradizioni.
Berlino, Germania.
22 Dicembre 1928
19:30
Un bambino che correva per tutta la casa, con un sorriso allegro che gli illuminava il volto. I capelli biondi scompigliati fino all'inverosimile, ma lui non se ne preoccupava. Doveva aver avuto un forte litigio con la spazzola, quella mattina. A colpo d'occhio, non poteva avere più di cinque o sei anni.
Corse in cucina, deliziandosi del profondo odore di biscotti che emanava il forno. Oh, avrebbe voluto assaggiarne uno, uno soltanto. Mark era un bambino goloso.
Si fermo accanto ad una gonna, tirando leggermente il tessuto della donna per attirare la sua attenzione, ma non ce n'era bisogno: Agathe Becker -o no, ormai lei era da sei anni la signora Agathe Schreiber- adorava quel bambino di cinque anni che le stava di fronte e riconosceva i suoi passi frettolosi anche a due o tre stanze di distanza, da quando iniziava a scendere le scale.
Agathe Becker-Schreiber era una bellissima donna: alta, dal fisico snello sebbene la donna fosse molto forte. Aveva un viso dolcissimo, a forma di cuore, con i capelli biondissimi erano morbidi e mossi, probabilmente non erano molto lunghi ma in quel momento erano stati raccolti dalla donna in un elegante chignon che faceva sembrare il suo viso ancora più bello. Le labbra, piegate in un sorriso, erano rosse e piene naturalmente, senza bisogno dell'ausilio di cosmetici. Poi c'erano gli della donna, un paio di bellissimi occhi grandi, color del cioccolato, esattamente uguali a quelli del figlio. Erano stati quegli occhi cioccolato a far innamorare l'allora sottotenente Schreiber di lei.
<< Tesoro >> disse la donna, con una nota terribilmente dolce nella voce, prima di abbassarsi e prendere il figlio tra le braccia, sorridendo. Mark era il regalo più bello, insieme a Hans -suo marito, che Agathe avesse mai ricevuto e, per Natale, le bastavano loro due.
<< Hai scritto la tua letterina? >> chiese poi, la donna. Il figlio aveva solo cinque anni e, nonostante il sottotenente Schreiber si lamentasse che ormai era grande, e un uomo aveva bisogno di cose serie in cui credere, ad Agathe piaceva vedere suo figlio entusiasta del Natale, non sapevo che quei regali che tanto amava erano opera dei suoi genitori e familiari.
Il bambino annuì, rivolgendo alla donna un sorriso radioso, uno di quei sorrisi innocenti che sono soliti regalare i bambini; questi sorrisi che incantano chi lo osserva. << Sì, mamma >> rispose Mark. Sembrava toccare il cielo con un dito dalla felicità: la scuola era chiusa per e feste e tra pochi giorni avrebbe potuto scartare regali stupendi.
<< Biscotti! >> trillò, subito dopo, il bambino, sporgendosi dalle braccia della bella donna. I braccini tesi verso il forno, quasi volesse aprirlo e sfilarne la teglia di biscotti caldi che attendevano solo di essere gustati dal dolce palato di un bambino affamato.
Agathe rise, tirando via il bambino e poggiandolo a terra. Scosse il capo, prima di sorridere a suo figlio, << Stasera, quando tornerà papà, avrai tutti i biscotti che vuoi >> concesse la madre, cercando di essere severa, in realtà sperava che il bimbo non la guardasse con quegli occhi cioccolato disarmanti, altrimenti la povera donna avrebbe ceduto alle sue richieste. Quello era il bambino più bello di tutta la Germania anzi, secondo sua madre, del mondo intero.
Il piccolo mise il broncio. Chiaramente non ci teneva ad aspettare che arrivasse il padre e che cenassero, per avere i suoi biscotti. Era un marmocchietto tremendamente goloso, probabilmente tutta la dolcezza di cui era capace scaturiva dalla quantità industriale di dolci che mangiava o, semplicemente, dall'affetto dei suoi genitori, soprattutto da quello della madre, sempre così presente per il figlio.
Agathe si chinò accanto a lui e gli accarezzò una guancia, << Su, non fare così, amore >> gli disse, con estrema dolcezza, stampandogli un bacio in fronte, prima di girarsi nuovamente: stava cucinando una cena con i fiocchi per tutta la famiglia. Lei era un eccellente cuoca e Mark spesso l'aiutava... quando non finiva per mangiare il cioccolato che serviva per i biscotti o altri ingredienti di vario tipo. << Sai una cosa? Per farmi perdonare, dopo cena andiamo tutti a casa degli Hoffmann >> propose la donna. Avrebbe dovuto parlarne con il marito, ma ella era sicura che avrebbe accettato. << Li inviteremo per il pranzo di Natale, quest'anno >> concluse, annuendo, mentre girava con un mestolo di legno qualcosa in una grande pentola.
Gli occhi di suo figlio si illuminarono, << Verrà anche Walter? >> chiese, speranzoso ed innocente. Il signor Hoffmann era il medico di famiglia dalla nascita di Mark e suo figlio era nella stessa classe del figlio degli Schreiber. In breve i due bambini avevano stretto un legame indissolubile, e con loro due anche le loro famiglie si erano avvicinate, creando un ottimo rapporto.
Agathe sorrise, rivolgendo un'altra occhiata al figlio, << Certo, tesoro >> confermò, donandogli un altro radioso sorriso che incantò il bambino, che corse nuovamente a giocare nella sua cameretta, ormai completamente dimentico dei dolci biscotti al cioccolato che avrebbe potuto mangiare quel giorno.
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
19 Dicembre 1943
23:20
Mark si desterò di scatto dai ricordi, scuotendo velocemente la testa per non far sì che quelle immagini dolessero più del dovuto. Sapeva che tutto ciò che era successo era ingiusto e che lui non era più quel bambino tanto allegro. No, era cambiato tantissimo e gli faceva strano ricordare che un tempo suo padre gli aveva voluto bene sul serio.
Si alzò nervosamente dal letto: doveva scaricare la rabbia in qualche modo. Avrebbe voluto raggiungere il poligono di tiro, ma probabilmente a quell'ora ci sarebbe stato poco da fare o comunque suo padre non sarebbe stato molto contento di quella sua improvvisata. No, per niente, era meglio evita. Oh, quanto avrebbe voluto possedere uno di quei sacchi da pugilato. Aveva visto qualcosa del genere in camera del suo migliore amico: Walter gli diceva sempre che era così che lui riusciva a scaricare la rabbia e a non essere teso. Forse avrebbe funzionato anche con lui, ma ne dubitava. a lui non bastava l'allenamento militare e il poligono di tiro, per sciogliere i nervi.
Uscii dalla sua camera, decidendo all'ultimo momento di andare a controllare lo stato della prigioniera. Non gli interessava più di tanto, stava iniziando persino a dimenticare il suo obbiettivo di avanzare di grado e di essere mandato al fronte; ma era nervoso, aveva bisogno di fare qualcosa e di tenersi occupato e al momento fare una visitina a quella ragazza sembrava l'unica occupazione possibile nel campo.
Passò dalle cucine, rimediando un po' di zuppa. Non aveva fatto mai caso agli anni che passavano, e di solito preferiva ignorare ciò che succedeva nel campo, eppure si ritrovò a chiedersi, mentre versava della zuppa in una gamella e prendeva un cucchiaio, se a Natale servissero comunque quella roba schifosa. Non capiva come facessero ad ingerirla. Certo, neanche il cibo che ingerivano loro durante le guerra era buono ma quella roba... non si poteva neanche annusare. Disgustosa.
Si fermò davanti alla porta della ragazza e, senza bussare, entrò, << Ti ho portato da mangiare >> commentò, freddamente, mantenendo sempre quel tono di distanza che adoperava con quasi tutte le persone, eccetto ovviamente Walter e la famiglia di quest'ultimo, mentre richiudeva a chiave la porta alle sue spalle. Non voleva certo rischiare che la ragazzina scappasse da un momento all'altro, anche se non sarebbe andata lontano.
Poggiò la gamella sul tavolino, sul quale era posizionata una lanterna, accesa: l'unica fonte di luce della camera. Si voltò, cercandola con lo sguardo, dato che non l'aveva sentita fiatare, finché la vide.
Bea Gurtsieva era seduta sul letto, rannicchiata su se stessa. Lo guardava, ma i suoi occhi non erano gli stessi della sera precedente: sembrava impaurita, stavolta. Sembrava quasi stesse tremando. Sì, la sicurezza, la speranza e l'innocenza che aveva potuto vedere la sera prima erano sparite dal suo volto, lasciando posto ad una maschera di terrore. Cosa le era successo, e perché se ne stava lì, appiattita contro il muro?
<< N-non portarmi ancora da loro >> lo pregò la ragazza, e Mark non lo avrebbe fatto: solo perché non aveva capito chi fossero "loro" esattamente, e poi non aveva ricevuto ordine di portarla proprio da nessuna parte.
Il soldato Schreiber era intollerante alle persone che si lamentavano, anche se quella ragazza sembrava messa proprio male. << Loro? >> chiese scettico e ricevendo solo un'altra occhiata impaurita in risposta. Si avvicinò con passi lenti alla ragazza, osservandola più da vicino.
I capelli neri erano più disordinati della sera precedente. Gli occhioni verdi erano gonfi, arrossati, eppure non stava piangendo. Non voleva piangere. Le labbra prima rosee, morbide e gonfie, erano rosse e tumefatte. Sulla guancia destra faceva bella mostra di se un graffietto, che scendeva quasi fino al collo. Era troppo lieve perché le rimanesse la cicatrice dopo, Mark notò anche questo. Gli abiti che gli aveva visto vagamente portare la sera prima, non erano composti dalla normale divisa dei deportati, ma adesso non sembravano più nemmeno quelli: la camicia femminile e bianca, aveva le maniche ridotte a brandelli, era sporca ed impressa di sangue raffermo: puzzava anche di sangue raffermo, dalle maniche che non c'erano più spuntavano le braccia sottili e bianchissime, dove risaltavano così tanto tutti quei lividi neri e scuri. La gonna era stata tagliata, fino alle cosce: sulla coscia destra era inciso un taglio, lungo e profondo, da cui sgorgavano ancora fiotti di sangue che scendevano fino al ginocchio e alla gamba. Anche le gambe erano piene di lividi e sangue raffermo.
Dovevano averla torturata, ma non gli interessava: in quel momento quella ragazzina alta un metro e uno sputo che non pesava più di quaranta kg erano la creatura più bella che Mark Schreiber avesse mai visto. Bella, impaurita, innocente, vittima e ferita fisicamente da un coltello tanto lungo che era arrivato tanto in fondo da strapparle anche l'orgoglio.
E il soldato nazista era il suo carnefice.
Forse fu perché Mark non aveva mai visto un corpo così bello; forse fu semplicemente perché lo attirarono i lividi di cui era ricoperta la ragazza... ma il giovane Schreiber venne scosso da brividi profondi al basso ventre, prima di avvertire l'impulso pressante di prenderla, lì, con violenza; pur sapendo chi fosse.
Nonostante tutto quello che le era capitato, Bea Gurtiseva non stava piangendo.
Mark Schreiber si promise che l'avrebbe fatta piangere.
E urlare.
Si sedette sul letto, artigliandola per i fianchi e portandola su di sé. Non badò al dimenarsi della ragazza: lui era il triplo di lei e molto più forte; non si curò delle sue urla, quando la privò dei vestiti, con velocità, sfilandosi a sua volta la divisa nazista.
Non notò neanche la sua verginità quando sfogò i suoi bassi istinti su di lei, violandola e scaricandosi nel suo corpo, come se non fosse altro che una stupida bambolina di porcellana dai morbidi boccoli scuri.
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
20 Dicembre 1943
10:12
Mark Schreiber aprì gli occhi, completamente rilassato. Sentiva che il letto non era suo, ma non aveva mai dormito così bene. Si districò dal groviglio di lenzuola, tirandosi a sedere e lanciando uno sguardo alla sua destra: la ragazza stava ancora dormendo. Lei, al contrario suo, non sembrava stare bene per niente, ma al giovane Schreiber non interessava. Certo, avrebbe dovuto controllarsi: quella ragazzina era lavoro, non poteva giocarci come voleva.
Sorrise, divertito, e le scostò una ciocca di capelli dal volto, lasciando che continuasse a riposare, anche se non se lo meritava dopo tutti i calci che aveva tentato di assestargli quella notte. Oh, beh, ci era passato sopra.
Fare del sesso con quella mocciosa era servito a farlo stare meglio: non era più nervoso o arrabbiato, come la sera precedente.
Sì alzò velocemente dal letto: qualcuno avrebbe notato la sua assenza durante l'allenamento -perché dalla luce che filtrava dalle finestre quella mattina, non sembrava proprio che lui si fosse svegliato in tempo- e sarebbe andato a cercarlo. Si rivestii e si avvicinò alla porta con tutta l'intenzione di andare a farsi una doccia.
Prima di uscire, rivolse un'ultima occhiata alla sua vittima: aveva qualche livido in più e diversi segni rossi. Sorrise, attribuendosene il merito e uscì dalla stanza, avviandosi verso la sua. Lungo il corridoio, si fermò, con un dubbio: perché l'avevano torturata? Quella ragazzina, dopo tutto, era ancora un mistero.
Forse non è proprio legale sai,
ma sei bella vestita di lividi.
Mi incoraggi ad annullare i miei limiti,
le tue lacrime in fondo ai miei brividi.
Lasciami leccare l'adrenalina!
Lasciami leccare l'adrenalina!
Lasciami leccare l'adrenalina!
Lasciami leccare l'adrenalina!
Voglio cercare la mia alternativa!
(la mia alternativa!)
E' la scossa più forte che ho.
[Lasciami leccare l'adrenalina, Afterhours] |
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Capitolo 5 *** Capitolo 4. ***
Buona
notte gente! E' tardissimo e quindi sarò alquanto breve:
Scusatemi,
vi prego, per il ritardo di questi giorni, ma ho davvero avuto un sacco
di cose per la testa e adesso non mi metterò qui a parlare
dei miei problemi perché a voi, ovviamente non interessa
proprio e fate decisamente bene. xD
Sto
morendo di sonno, voglio solo andare a dormire quindi vi auguro buona
lettura del capito, vi prometto che settimana prossima
cercherò di essere più puntuale (compiti e
vacanze permettendo, ovviamente) e passo subito ai ringraziamenti.
Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
-
Bbw87
-
Fairness
-
Mareike Tiaycia
-
OlandeseVolante
-
Nadine_Rose
-
niacara07
-
Norine
-
Prusskj_Lazur
-
ChyoChan
-
la_regina
Coloro
che la hanno inserita tra le ricordate:
-
fedecaccy
-
Rayne
Coloro
che la hanno inserita tra le preferite:
-
chyo
-
xxGiuls.
-
kikka23
-
elly04
-
Karota
-
Luna_LoveDark
E
infine le due magnifiche ragazze che hanno trovato il tempo di
recensire:
-
Fairness
-
Norine
Al prossimo aggiornamento,
Schizophrenia.
Salviamoci
la pelle.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
20
Dicembre 1943
20:35
Il soldato con la divisa nazista si recò in sala da pranzo.
Non si era ancora cambiato: quella mattina non era andato
all'allenamento e aveva dovuto dare parecchie spiegazioni di vario
genere; ovviamente tutte false, ma non c'è nemmeno bisogno
di specificarlo. Insomma, non poteva certo dire in giro di essersi
scopato una deportata; certo, sapeva anche che molti ufficiali
approfittavano della loro posizione e delle ragazze giovani e belle che
arrivavano al campo. All'interno dei lager c'erano dei veri e propri
giri di prostituzione, ma a Mark non era mai interessato: aveva sempre
potuto avere tutte le belle donne tedesche che voleva e non si era mai
nemmeno impegnato sentimentalmente con una di loro, perché
divertirsi con una sporca polacca o ebrea quando poteva avere la pura
razza ariana tra le lenzuola?
Con quella
ragazzina era stato diverso. Qualcosa negli occhi verde smeraldo e tra
i lividi scuri che macchiavano la pelle nivea l'aveva convinto ad
avvicinarsi e a marchiarla definitivamente. Non sapeva nemmeno quanti
anni avesse, perché fosse lì e tra quanto si
sarebbero decisi a farla fuori, in fondo avevano già
iniziato a torturarla di brutto. Ad ogni modo, a lui non interessava,
lui aveva ottenuto ciò che voleva.
Si sedette,
di fronte a suo padre, << Buona sera >>
salutò, servendosi da mangiare carne e patate. La cameriera
aveva già portato tutto a tavola, quindi era in ritardo e
non aveva avuto nemmeno il tempo di farsi una doccia. Perfetto. Non
aveva nemmeno avuto la possibilità di raggiungere Walter e
chissà come aveva passato lui la giornata.
<<
Ciao. Mi hanno informato che stamattina non ti sei presentato agli
allenamenti, potresti spiegarmene il motivo? >>, la voce
del maggiore Schreiber era dura. Non sopportava che suo figlio facesse
qualcosa di sbagliato, lo considerava già abbastanza
sbagliato per il solo fatto di esistere e per quei dannati occhi
marroni così poco tedeschi. Voleva proprio farlo impazzire,
eh?!
Mark
notò l'irritazione, trattenuta con parole fredde, nella voce
del padre e si ritrovò ad abbassare il capo, iniziando a
tagliare la carne, come se non avesse nemmeno sentito la sua domanda.
Lo odiava dal profondo quando lo trattava così, come se
fosse un semplicissimo soldato che gli era stato affidato ventiquattro
ore su ventiquattro e non il figlio che aveva visto crescere e
trascinato da Berlino a Weimar e in fine in quello stupido campo di
concentramento.
<<
Allora? >> il maggiore iniziava seriamente ad
innervosirsi. Nervosismo dovuto al silenzio del figlio. Non sopportava
il carattere di quel ragazzo e stava iniziando seriamente a pensare di
mandarlo via, da qualche parte a fare qualcosa di utile alla
società tedesca.
<<
Avevo la febbre >> mentì il ragazzo, alzando
gli occhi e guardando quelli azzurrissimi del padre. Sapeva di essere
convincente: mentire era la cosa che gli riusciva meglio, subito dopo
sparare a qualcuno centrando perfettamente il bersaglio. Si stava
trattenendo dall'alzarsi in quel momento dal tavolo. Si stava
trattenendo solo perché stava morendo di fame.
<< Ieri sera ho portato da mangiare alla deportata
numero... >>, cambiò argomento e fece una
breve pausa alla fine, non ricordando il numero di serie. Adesso che ci
pensava, non ricordava nemmeno di averglielo visto un numero tatuato
sul braccio, ma non ci aveva fatto neanche particolarmente attenzione.
<<
Sì, ho capito >> lo interruppe il padre. Il
figlio avrebbe potuto portare da mangiare solo ad una deportata poi,
ovvero quella che alloggiava in una camera della loro residenza, tutti
gli altri potevano andare, quando suonava la campana, a sfamarsi in
mensa, e poi non credeva che suo figlio si interessasse a qualcosa che
non fosse un ordine impartitogli. << Non ha un numero, te
l'avevo detto che era una deportata speciale >> gli
ricordò il maggiore Schreiber, come se fosse ovvio.
I due non
avevano mai parlato di quella ragazza che forse in quel momento stava
dormendo. Non ce n'era stato bisogno: tutto ciò che doveva
fare Mark era portarle da mangiare ogni tanto e controllare che non vi
fossero vie di fuga. Gli pareva di farlo anche abbastanza bene, ma
molto probabilmente per il padre non era abbastanza. Pazienza, ormai ci
era abituato.
<<
L'avete torturata? >> buttò lì
Mark, continuando a consumare la sua cena. Era molto curioso di sapere
cosa fosse successo alla ragazza, anche se molto più
probabilmente la sua curiosità scaturiva dalla domanda:
perché quello che era successo alla ragazza le era successo?
Non ricordava avessero mai riservato quel tipo di trattamenti a nessuna
loro deportata, né tanto meno ad un deportato di sesso
maschile. Non che facesse molta differenza il sesso dell'uno o
dell'altra, a dire il vero.
Il maggiore
Schreiber scrollò appena le spalle, <<
"Torturata" è una parola un po' grossa, non pensi, Mark?
>> chiese il padre, in una ovvia domanda retorica. Non
gli piaceva che il figlio s'impicciasse di affari strettamente legati
ai deportati o a ciò che avveniva in quel campo. Lo aveva
educato per bene all'odio, questo era certo, ma pensava che non avrebbe
capito e, allora, probabilmente, avrebbe anche dovuto ucciderlo. Non
era una cosa che gli andava particolarmente a genio. Sua moglie non
sarebbe stata molto felice di sapere che avrebbe dovuto uccidere il
loro unico figlio, ma sua moglie non c'era più da tempo.
Il ragazzo
scrollò le spalle, << Allora cosa le avete
fatto? >> chiese ancora. La curiosità di quel
ragazzo era nota a tutti quelli che lo conoscevano bene, quasi quanto
il suo orgoglio e la sua testardaggine. Il fatto che il padre sembrasse
restio a parlargliene, poi, gli dava ulteriore voglia di scoprire il
mistero della mocciosetta, Bea. La ragazza a cui aveva tolto la
verginità.
<<
Ci servivano delle informazioni, Mark >>
sbottò il padre, scocciato. Stava capendo che, se non gliene
avesse parlato lui in prima persona, il suo adorato primogenito sarebbe
anche stato capace di andare a chiedere tutto a quel relitto della
società che era quella ragazza. << Pensiamo
sia in stretti contatti con le forze russe. La faremo parlare
>> concluse alla fine, l'uomo, minimizzando la cosa il
più possibile e cercando di alimentare l'odio del figlio dei
confronti della ragazza.
Il giovane
biondo lo guardò, confuso. Si era accorto dal nome che la
ragazza era russa, ma non pensava che una, che era ancora praticamente
una bambina, potesse avere delle informazioni sull'Armata Rossa, lo
reputava praticamente impossibile, ma sapeva anche che suo padre non
era solito sbagliarsi. Non su quelle cose, almeno, per tutto il
resto... beh, "tutto il resto" non gli interessava e basta. Compreso
suo figlio.
Campo di sterminio di
Buchenwald, Germania.
20
Dicembre 1943
23:04
Mark non era ancora riuscito a decidere se la verità sul
conto di quella ragazzina gli era piaciuta: l'importante in effetti era
solo che il padre non venisse a conoscenza per nessun motivo di
ciò che aveva fatto la notte prima con quella ragazza: era
russa e rappresentava per molti versi tutto ciò che loro
odiavano. Certo, era stata una consolazione sapere di non
essersi mischiato con sudicio sangue ebreo, ma comunque un disonore
ammettere di essersi portato a letto una come lei. No, si sarebbe
portato il segreto nella tomba. Forse, e solo forse, avrebbe potuto
parlarne solo con Walter Hoffmann, ma perché ne sentiva il
bisogno.
Non aveva
neanche parlato al padre del Natale, sapeva che non gli interessava poi
più di tanto e si chiese perché quell'anno
sarebbe dovuto essere diverso.
Il biondo
aprì la porta della camera dove alloggiava Bea Gurtsieva. La
ragazza era distesa, a letto, raggomitolata su se stessa e con il
leggero lenzuolo di cotone che la copriva fino al collo. Mark si
ritrovò a pensare che dovesse morire di freddo: era risaputo
che in Germania il freddo c'era, loro era addestrati a sopportarlo,
certo, ma avvicinandosi non riuscì a decidere se una pelle
tanto delicata come quella che aveva davanti avesse fatto altrettanto.
Il giovane
soldato sapeva che non stava dormendo: il respiro non era regolare,
né gli sembrava naturale la posizione in cui la ragazza si
trovava. Aveva spento anche la piccola fonte di luce che teneva in
camera, sì, ma non stava dormendo. Si perse ad osservare il
piccolo corpo della ragazza tremare, scosso da brividi, e solo dio sa
da cosa erano provocati quei brividi. Forse paura. Mark le si
avvicinò: non sapeva come comportarsi. Non aveva mai
socializzato con un deportato prima di allora, né aveva
visto altri doverlo fare. Perché a lui toccava? Non era
bravo nemmeno nelle relazioni interpersonali, figurarsi quelle
costrette. Quando mai, oltre Walter, aveva avuto un amico, lui?!
<<
Non stai dormendo >> non era una domanda, quindi non
necessitava di alcuna risposta, eppure quando l'aveva pronunciata si
era aspettato di vederla girarsi, o almeno di ricevere un cenno del
capo come conferma delle sue teorie, anche se ovviamente non ne aveva
bisogno. La ragazza, invece, non si mosse di un solo millimetro,
rimanendo a tremare nel piccolo letto che le era stato destinato quando
era stata condotta nel lager di Buchenwald.
Il ragazzo
sbuffò, passandosi una mano tra i capelli, capendo
finalmente dov'era il problema. Certo, come se non fosse già
un grandissimo problema il fatto di essere lì, ma questo lui
non poteva capirlo: se lì con lui non ci fosse stato il
padre, sarebbe stato qualcosa di molto simile ad un paradiso, per lui.
<< Credi davvero che, se volessi ripetere l'esperienza di
ieri sera, mi farei fermare da una ragazzina addormentata?!
>> sbottò. Lo prendeva come un insulto alla
sua intelligenza. D'accordo, farlo con una persona dormiente non doveva
essere il massimo, ma avrebbe potuto benissimo svegliarla,
sì!
Stranamente
però non aveva intenzione di torturarla, quella sera. Era
decisamente troppo stanco e anche abbastanza nervoso.
<<
Lascio la tua cena sul tavolo. Quando ne avrai voglia, potrai alzarti.
>>. Dover scendere a quegli stupidi ricatti per non farla
morire di fame ed essere quindi ucciso a sua volta per aver permesso ad
una deportata che nascondeva informazioni utili di non mangiare lo
irritava a morte. Poggiò la gamella contenente la zuppa sul
tavolino, accanto alla piccola luce spenta, prima di andarsi a sedere
in terra, contro una parete, quella più distante dal letto
della ragazza. La osservò per diversi minuti, attendendo che
si alzasse dal giaciglio, spinta dalla fame che sicuramente in quel
momento le attanagliava le viscere: le portava qualcosa da mangiare
solo la sera, durante il resto della giornata era occupato e dubitava
che il padre incaricasse qualcuno di fare altrettanto.
Quella fu la
seconda notte che Mark Schreiber passò, a dormire, in camera
di Bea Gurtsieva; solo che stavolta si era addormentato seduto sulle
assi di legno del pavimento della stanza.
Campo di sterminio di
Buchenwald, Germania.
21
Dicembre 1943
02:23
Mark Schreiber era solo un soldato semplice, lo sapeva bene, ma aveva
un udito finissimo ed il sonno molto leggero: qualità utili
per la carriera che andava ad intraprendere. Aprì gli occhi
di scatto quando sentì il materasso cigolare sotto il peso
di un corpo. Gli ci volle qualche secondo per partorire l'idea che la
ragazza si fosse alzata, colta dai crampi allo stomaco provocati dalla
fame.
Tentò
di mettere a fuoco la scena, ma stava osservando la stanza buia da
pochissimo, troppo poco perché i suoi occhi si fossero
già abituati alla luce del sole. Davvero troppo poco.
Però poteva sentire i suoi passi che percorrevano la
distanza tra il letto e il tavolino, e intravedeva un'ombra scura
muoversi per la stanza. Eppure non si mosse, non sapeva
perché ma voleva solo rimanere ad osservarla un po', per poi
strisciare a dormire in camera sua, sul suo comodissimo letto che poi
di comodo non aveva così tanto. Doveva essere tardissimo e a
lui stavano venendo i brividi di freddo. Chissà come doveva
sentirsi lei con quella veste di un tessuto così leggero da
far schifo,coperta da quel lenzuolo di cotone.
La vide
-più che altro la sentì- mangiare il misero pasto
che si era dato la pena di portarle, probabilmente la ragazza pensava
che il soldato stesse dormendo e che quindi poteva continuare a non
vederlo e ad evitarlo pur mangiando quello che le era concesso
mangiare: poco. La pelle di Bea aveva assunto un insolito pallore quasi
cadaverico, così diverso dal bel candore che gli illuminava
la pelle diafana in Russia; no, quel bianco sapeva di malaticcio.
Subito dopo aver poggiato la gamella, ormai vuota, a terra, la
sentì singhiozzare: era quello che voleva ma nessun sorriso
si dipinse sulle labbra di quel ragazzo. Realizzò solo in
quel momento che alla fine vedere (o sentire come nel suo caso) una
ragazza piangere non era bello come aveva immaginato.
Mark attese,
seduto in quell'angolo, con la schiena poggiata contro la parete, a
fingere di dormire. Ascoltò i singhiozzi, intravide le
lacrime rigarle il volto e Mark non era mai stato un tipo a cui le
lacrime piacevano molto. Sebbene fosse una stupida comunista, una
mocciosetta ed una deportata, gli era stato insegnato che non si doveva
mai portare una ragazza alle lacrime.
Non seppe
quanto tempo passò, prima che l'esile figura di Bea
Gurtsieva si adagiasse di nuovo tra le lenzuola e, poco dopo, il
ragazzo poté sentire il suo respiro regolarizzarsi, avendo
la certezza che fosse caduta tra le braccia di Morfeo, lasciandosi
cullare da quest'ultimo nell'immenso oblio del sonno. Si
alzò dal pavimento, riscoprendosi intorpidito in qualunque
parte del corpo e raggiunse il letto della ragazza, osservandola. Non
sapeva cosa gli era preso, quando l'aveva violentata, ma gli era
piaciuto:; questo era innegabile e probabilmente anche la ragazza era
riuscita a percepirlo. Allungò la mano destra in sua
direzione e le sfiorò delicatamente una guancia: adesso che
stava dormendo, che non lo osservava con quell'aria insopportabile e
che non aveva paura di lui sembrava... tremendamente bella. Bella come
Mark Schreiber non aveva mai visto una donna. Bella come non dovrebbe
assolutamente essere una ragazza piena di lividi e con il corpicino
malato.
Si riprese
qualche istante dopo, ritraendo la mano: schifato dai suoi stessi
comportamenti. Decise di tornarsene in camera sua, alla svelta.
Weimar,
Germania.
23
Dicembre 1943
13:12
<< Tuo padre non torna per pranzo, vero? >>
la domanda di Mark suonava tranquilla ed innocente e nascondeva
l'urgenza che aveva di parlare con il suo migliore amico, in privato.
Fortunatamente avevano casa Hoffmann tutta per loro, quel giorno: la
signora era andata a trovare sua sorella, a Berlino e sarebbe rimasta
da lei fino a tardo pomeriggio, mentre probabilmente il signor Hoffmann
stava ancora lavorando. Era solo giovedì, ma il soldato
semplice era riuscito a scompare ai suoi doveri alludendo alla scusa
che era il 23 dicembre e lui doveva ancora comprare un regalo di Natale
al maggiore Schreiber.
Walter
appariva quasi divertente, agli occhi del suo migliore amico, mentre
cercava di cucinare un pranzo decente per entrambi: Walter Hoffmann non
era una mago in cucina, sapeva fare pochissime cose, ma quando si
metteva in testa di imparare a fare qualcosa era un'impresa cercare di
fargli cambiare idea e, purtroppo, Mark si ritrovava ad essere la cavia
preferita per i suoi "manicaretti". << No,
papà torna verso le quattro del pomeriggio,
perché? >>
Il biondo
seduto a tavola si limitò a scrollare le spalle, con
disinvoltura, << Pensavo che non riuscirebbe a trovare
nemmeno lontanamente commestibile quello che stai facendo con quei
poveri spaghetti >> rispose, con ironia, anche se
probabilmente era vero: assomigliavano di più ad una massa
informe che giaceva nella padella che ad un pasto che un essere umano
avrebbe mangiato senza rigettare pochi minuti dopo; ma Walter non si
lasciava scoraggiare per così poco!
Walter rise,
<< Scommetto che li mangerebbe, e direbbe anche che sono
buonissimi! >> ribatté il ragazzo, scherzando,
anche se sapeva che quello non era il reale motivo della domanda del
suo migliore amico: lo conosceva da troppo tempo per credere a
qualsiasi minima balla raccontata da quest'ultimo. No, non poteva
crederci e basta, gli leggeva negli occhi che non era così.
<<
D'accordo, credo siano pronti... >> la voce del giovane
Hoffmann era alquanto insicura, mentre portava due abbondanti porzioni
di spaghetti/poltiglia in due piatti, piazzandone uno davanti al suo
migliore amico e sedendosi a sua volta, << Bene, buon
appetito! >> annunciò, fingendosi entusiasta
della propria creazione, come se quell'effetto disgustoso e molliccio
fosse voluto e non solo un esperimento venuto decisamente male
perché non aveva la minima idea di come si cucinasse e sua
madre non gli aveva lasciato nulla di già pronto da poter
riscaldare in un pentolino.
Schreiber
rigirò la sua forchetta nel piatto, << Domani
è la viglia >> disse, sorridendo in direzione
dell'amico, anche se gli risultava difficile, era ancora afflitto da
ciò che era successo sere prima: non vedeva la ragazza da
quella notte; passava a portargli la cena, apriva appena la porta, la
poggiava per terra e richiudeva la porta di scatto, tornando in camera
sua e facendo tutto quello che aveva sempre fatto a quell'ora prima
dell'arrivo di quella mocciosetta.
<<
Sì. A Natale siete a pranzo qui, no? >> chiese
Hoffmann, sorridendo calorosamente. Adorava quando la famiglia di Mark
veniva a pranzo dalla sua, il giorno di Natale, era una tradizione che
si portava avanti da quando la mamma di Mark era ancora viva, sebbene
il resto della storia non fosse esattamente felice. Beh, Walter ci
provava a far star bene il suo migliore amico, almeno in quel giorno,
senza che il ricordo della madre gli creasse troppi problemi.
Mark
annuì, velocemente, portandosi un enorme forchettata di
spaghetti alle labbra ed ingoiandoli senza protestare, quasi volesse
auto-impedirsi di parlare e di dire qualunque cosa. Voleva parlare con
il suo migliore amico di ciò che era successo, ma sapeva
benissimo com'era fatto e, francamente temeva il suo giudizio
più di quello di qualsiasi altra persona. <<
Cos'è successo, avanti? >>. Sì, lo
conosceva troppo bene e il soldato ne aveva appena avuto la conferma.
Scrollò
le spalle, senza riuscire in alcun modo a fissare i suoi occhi in
quelli del migliore amico, << Hai presente quella
ragazza? Vedi... tu, lo sai che è un periodo difficile per
me, no? L'altro giorno era stata davvero una brutta giornata. Ero
nervoso e sono andato a portarle da mangiare e lei era lì,
quasi sul punto di piangere ed io... credo di averci fatto del sesso
>> borbottò velocemente, dando la
possibilità a Walter di capire solo poche delle parole che
aveva appena finito di pronunciare ma, a giudicare dall'espressione che
mostrava, non gli piacevano per niente.
<<
Qualcosa mi dice che lei non era tanto d'accordo >>
borbottò Walter, alzandosi e lasciando perdere il suo piatto
di spaghetti, iniziando a lavare la padella utilizzata per cucinare:
quella era l'ultima cosa che si sarebbe aspettato dal suo migliore
amico e d'un tratto gli era passata tutta quella fame che aveva fino a
tipo cinque o quattro minuti prima. Chissà perché
poi.
Mark
sbuffò, passandosi una mano tra i capelli biondi,
<< D'accordo, Walter, ho sbagliato, ma non prendertela
così! In fondo è solo una come tutti gli altri e
non le ho fatto poi così male. Era già piena di
lividi, che differenza avranno fatto quelli che le ho procurato io?
>> no, non lo pensava davvero, ma era troppo orgoglioso
per ammetterlo e in più odiava sul serio litigare con Walter
Hoffmann e non vedeva il motivo per il quale il suo migliore amico
dovesse mettersi a difendere una ragazzina che nemmeno aveva mai visto.
Sì, l'aveva vista, d'accordo, ma non era questo il punto.
<<
Ti rendi conto di quello che hai fatto?! Forse non ci pensi, ma solo
perché sono stati portati qui da gente come i nazisti, non
vuol dire che non siano persone in carne ed ossa, che non soffrano, che
non sentano il bisogno di stare bene >> Walter stava
davvero per impazzire, per la notizia spiacevole datagli dal suo
migliore amico: mai si sarebbe aspettato che facesse così
con una povera ragazzina indifesa. << Non è
giusto trattarli come bestie >> concluse, alla fine.
Mark
scrollò le spalle, abbastanza offeso, anche se non voleva
davvero litigare con Walter. << Beh, si dia il caso che
io sia un nazista e che il nostro compito sia distruggerli
completamente >> borbottò, mandando
giù a forza un'altra enorme forchettata di quegli spaghetti
indigesti.
Un lampo
attraversò gli occhi di Walter << Chiedile
scusa >> pretese, voltandosi a fissarlo con quegli occhi
azzurri, così intensi e profondi; quegli occhi azzurri che a
lui, purtroppo erano sempre mancati.
<<
... Cos...? Stai scherzando, vero? >> no, Mark non
avrebbe potuto concepire il fatto che l'altro potesse fare sul serio,
probabilmente. << Se non lo fai, dopodomani non
scomodarti a venire >> sbottò ancora il suo
migliore amico e Schreiber decise che sì, odiava decisamente
Walter i suoi fottutissimi ultimatum del cazzo. << Lo
farò >> concesse, solo per volere divino.
Un
sorriso si dipinse sulle labbra di Walter, che tornò a
sedersi di fronte al suo amico. << La sai una cosa,
Walter? Questi così fanno davvero schifo >>.
So
che lo sai
Gabbie
di strategie
Fa
quasi impazzire
Fa
quasi impazzire
So
cos'è
Puoi
non assaggiare
Per
veder se il gusto se ne va
O
ti devasta, o ti devasta il prezzo
Che
si ha
[Strategie,
Afterhours]
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Capitolo 6 *** Capitolo 5. -Words. ***
Cazzo, ho tardato un po' D:
Mi spiace, vi chiedo
umilmente scusa, cercherò di farmi perdonare con le new
entry di questo capitolo *-*
Vi auguro buona lettura,
ovviamente *-* Sono felicissima che delle persone stiano seguendo
qu1esta storia, davvero, non le l'aspettavo *-*
Oggi sono dolciuosa *-*
Strano, visto che tra appena 21 giorni dovrò fare l'esame di
recupero di latino. lebvoultkebfhrbgsjaq
Sì,mi sto
mooolto lentamente abituando all'idea, se non si fosse notato. xD
Dudedum... vado a
fare la doccia *-*
Buon capitolo ...
awààà
Ringrazio le
persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
Coloro che la hanno
inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
Coloro che la hanno
inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- sarr
E infine le tre magnifiche
ragazze che hanno trovato il tempo di recensire:
- Nadine_Rose
- Fairness
- Norine
Al prossimo
aggiornamento,
Schizophrenia.
Caserma,
Leningrado, Unione Sovietica.
24
Dicembre 1943
08:26
Il colonnello generale Gurtsieva era in pensiero. I tedeschi stavano
guadagnando terreno e l'Armata Rossa stava cercando di rinforzarsi come
meglio poteva, anche se non era facile per nessuno di loro. Era seduto
alla sua scrivania, sospirando. Lui sapeva molto sull'Armata Rossa; era
per questo che sua figlia... era stata portata via da quei bastardi.
Non riusciva a darsi pace. Si chiedeva ogni giorno se fosse ancora
viva, ma non riusciva mai a darsi una risposta. Era troppo difficile
anche solo pensarci.
Era la vigilia di
Natale, ma non era riuscito a rimanere a casa. Avrebbe davvero voluto
rimanere lì, con sua moglie e con il fratellino di Bea, ma
non ci era riuscito. Boris Gurtsieva aveva trentotto anni e gli stessi
capelli corvini della sua primogenita, e adesso erano scompigliati,
sconvolti: voleva ritrovare la sua bambina, anche se ormai aveva paura
che, dopo appena nove giorni, i tedeschi l'avessero già
uccisa. Si sentiva sempre più colpevole di tutto quello che
stava succedendo e non era più nemmeno in grado di lavorare
in modo decente.
Sua moglie, Diana, era
sconvolta e aveva paura, si occupava del figlio minore, Sergeij.
Proprio Sergeij, dall'innocenza dei suoi cinque anni, quella mattina
aveva chiesto a sua moglie, saltando giù dal letto, "Mamma,
Bea aprirà i regali con noi, stanotte?". La voce innocente
di quel bambino era bellissima e melodiosa; ma sia Boris che Diana non
erano riusciti a trattenere una smorfia, sentendolo. Non gli avevano
detto cos'era capitato a sua sorella, non avrebbe potuto capirlo. Era
troppo piccolo per riuscirci.
Il colonnello era
convinto che l'avessero portata in uno di quei posti orribili dove
chiudevano gli ebrei, solo che quasi tutti erano camuffati come se
fossero fabbriche, era impossibile trovarli, e per un colonnello
dell'Armata Rossa entrare in Germania nel 1943 era un vero e proprio
suicidio.
In quel momento
entrò un giovane, sull'attenti, << Buon
giorno, colonnello >> esclamò, osservandolo.
Era alto, sul metro e ottantacinuqe. I capelli neri erano lisci,
portati un po' lunghi, aveva una leggera barbetta e gli occhi erano
dello stesso colore del petrolio. Aveva diciannove anni, anche se era
in grado di dimostrarsi molto più maturo della sua giovane
età. Era Dimitri Todorov, il migliore amico della figlia di
Boris Gurtsieva. Era innamorato di Bea Gurtsieva da quando lei aveva
appena dodici anni e lui quindici, ma non aveva mai avuto il coraggio
di rivelarle i suoi sentimenti.
<< Riposo,
tenente >> disse tranquillamente Boris, cercando di non
mostrare al giovane quanto fosse in ansia. Quello doveva essere un
felice Natale almeno per la famiglia Todorov, ma dubitava che sarebbe
stato così. Conosceva il padre di Dimitri da quando erano
piccoli, quindi il giovane che gli stava davanti era come se fosse
figlio suo. Era capace di provare amore ed era sicuro che il Natale non
sarebbe bastato a tenerlo allegro, dopo quello che era successo a sua
figlia.
Dimitri fece come gli
era stato ordinato, sospirando appena. Si passò una mano tra
i lunghi capelli neri, << Ha avuto qualche notizia di
Bea? >> mormorò, con la faccia più
disperata che il colonnello generale avesse mai visto stampata in
faccia ad un militare: gli avrebbe volentieri concesso la mano di sua
figlia, l'aveva sempre pensata così. Si ripeteva ogni giorno
"Non appena Todorov si deciderà a rivelare finalmente il suo
amore a mia figlia, gli permetterò di sposarla", ma questo
non avveniva e adesso Bea era stata rapita. Forse sarebbe morta presto,
se non lo era già.
Boris Gurtsieva scosse
il capo, << Ancora niente, Dimitri, mi dispiace
>> disse, aveva assunto un tono più
confidenziale. In fondo aveva visto quel ragazzo uscire dal grembo
della madre e si stava parlando di sua figlia, Beatrisa Irina Borisovna
Gurtsieva; che strano, adesso che ci pensava Dimitri Todorov era
l'unico che a volte chiamava la ragazza con il suo secondo nome,
trasformandolo nel vezzeggiativo Irishka.
Il tenente si
lasciò ricadere nella sedia posta di fronte alla scrivania
del colonnello. Aveva passato quei nove giorni nelle piene ricerche di
Bea, aveva persino chiamato il consolato francese per essere certo che
nessuno sapesse proprio niente; ormai era chiaro anche a lui che
l'avevano portata in Germania; ma non si arrendeva così
facilmente. Non era porprio il tipo, << Non
c'è nulla che possiamo fare, colonnello? >>
Boris osservò
il ragazzo, con un pizzico di compassione: lui aveva perso sua figlia,
ma il moro sembrava aver perso la donna che amava. Lui non avrebbe
saputo che fare se gli avessero tolto la sua Diana ai tempi della
gioventù. Voleva davvero ritrovare sua figlia, ma non era
così semplice: non poteva mettere a rischio tutta la santa
Madre Russia. << Dobbiamo solo aspettare notizie dai
tedeschi, Dimitri >> ma entrambi sapevano che non
sarebbero mai arrivate: se non l'aveva messa a lavorare con gli ebrei
non riuscivano a immaginare a cosa potesse servire loro una ragazzina
di appena sedici anni; ma qualunque cosa fosse, una volta che
l'avrebbero ottenuta lei sarebbe morta. << Purtroppo non
passerà il Natale qui, pare... >>
mormorò, osservando il volto contrariato del ragazzo,
<< Non guardarmi così, Dima: è la
mia bambina, nessuno desidera trovarla quanto lo desidero io
>>
Dimitri
sospirò. << Perché hanno preso lei?
Cosa vogliono? Non gli bastava un qualunque soldato semplice
dell'Armata Rossa?! >> sbottò il ragazzo,
alzandosi di scatto. Aveva sempre odiato i tedeschi e non si era fidato
di Hitler nemmeno quando il compagno Stalin aveva stretto un patto con
lui, ma da quando avevano portato via la sua Bea li sopportava ancora
meno, se solo fosse stato umanaente possibile.
<<
Dimitri, non parlare così dei soldati della santa Madre
Russia, se ti sentissero finiresti male >>
borbottò il colonnello generale Gurtsieva, anche se
probabilmente la pensava proprio come il ragazzo, ma come si dice? I
muri hanno le orecchie, no? << Hanno preso lei
perché è una ragazzina di sedici anni, pensano
che otterranno prima delle informazioni sul nostro conto: la credono
debole >> spiegò. Era molto intelligente, per
questo era stato promosso a colonnello generale: elaborava delle ottime
strategie militari, anche se contro i tedeschi nemmeno lui poteva
molto.
Il più
giovane ghignò, al solo sentire la parola "debole" in
riferimento alla sua Bea. << Allora non sanno con chi
hanno a che fare >> disse. Bea era, sì, una
ragazza ma non era affatto debole. Neanche un po'.
<< Hai
ragione >> concordò Boris, lasciandosi
sfuggire un piccolo sorriso: sì, su quello aveva proprio
ragione.
<< Ho un
piano per sapere dove la hanno portato! >> disse il
più giovane, serio e conscio del fatto che era qualcosa di
assolutamente folle, ma lui voleva farlo. Doveva tentare almeno di fare
qualcosa, non aveva assolutamente intenzione di starsene con le mani in
mano come avevano fatto tutti gli altri.
Il colonnello
inarcò un sopracciglio: scettico, conosceva i piani
partoriti dalla mente di quel ragazzo, era un soldato ma agiva un po'
troppo col cuore, senza pensare. Quando voleva fare qualcosa i suoi
piani assomigliavano molto più a missioni suicide.
<< Parla, Todorov >> gli concesse,
facendogli dono del beneficio del dubbio, per una volta.
<< Se
vogliono delle informazioni, potrei espormi. Catturare un solo soldato
russo non dovrebbe essere troppo difficile per loro. Mi farete seguire
dall'alto dagli aerei. Loro mi porteranno sicuramente dove hanno
condotto Bea e poi l'Armata Rossa potrà liberarci tutti
>> spiegò, brevemente, il ragazzo dai capelli
scuri.
Boris Gurtsieva si
rattristò. Sarebbe stato un buon piano per trovare sua
figlia, ma non poteva: era troppo rischioso. << No,
Dimitri, non possiamo mettere a rischio la santa Madre Russia. Dobbiamo
aspettare >> mormorò il colonnello, alzandosi
dalla sedia e dando le spalle al ragazzo. Sospirò, mentre
esaminava un quadro appeso alla parete del suo ufficio,
<< Può andare, tenente >> disse,
tornando formale.
Dimitri non si
sforzò di rispondergli e lasciò l'ufficio,
iniziando a camminare lungo il corridoio della caserma.
Infilò una mano nella tasca dei pantaloni della divisa e
accarezzò la carta ruvida, color marrone, di un pacchetto.
Era il suo regalo di Natale per Bea, ma non avrebbe mai potuto
darglielo.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
24
Dicembre 1943
23:42
Quel giorno Mark non aveva avuto troppe cose da fare, era la vigilia di
Natale, ma in un campo di concentramento sembrava un giorno qualsiasi.
Aveva visto i deportati lavorare tanto, come mai avevano lavorato
prima. Lui si era allenato tutta la mattina e anche tutto il
pomeriggio. Aveva cenato con suo padre, una cena veloce, nulla di
speciale. Il Germania non c'era l'usanza del cenone della vigilia, ma
di certo Mark non credeva che avrebbero mangiato ancora una volta pane
e formaggio, quella sera, visto che la cameriera si era presa la
libertà di partire per il Natale, quel mattino.
Subito dopo aveva preso
una gamella dalle cucine e aveva percorso il corridoio che lo separava
dalla camera della ragazzina. Per tutto il giorno aveva avuto in testa
le parole di Walter. Quella ragazza apparteneva ad una razza inferiore
e doveva odiarla sul serio, ma preferiva tenersi il suo migliore amico,
piuttosto che seguire l'opinione di Hitler, una volta tanto. Purtroppo
Hoffmann era duro di testa e niente gli avrebbe fatto cambiare idea,
una volta presa una decisione, quindi doveva adattarsi e chiedere scusa
a quella mocciosetta. Inoltre era davvero troppo stanco per fermarsi a
riflettere più di due minuti su quello che era giusto fare.
Si fermò
dinanzi alla porta. Avrebbe potuto non accettare le sue scuse, ma
questo non era importante, per Walter doveva solo fargliele. Il
problema più grosso era come fare queste scuse, lui non era
certo un esperto nello scusarsi, l'aveva fatto poche volte in vita sua
e dopo i suoi dieci anni, sempre meno spesso. Non era più un
bambino dolce e tenero, era un ragazzo con un orgoglio spropositato. Si
decise a bussare, qualche istante dopo, dicendosi che l'istinto avrebbe
fatto il suo lavoro. C'è sempre una prima volta.
La ragazza non
rispondeva e il biondo iniziava ad irritarsi, non sopportava che gli si
chiudesse la porta in faccia. D'accordo, questa volta non gliel'avevano
nemmeno aperta ma il punto non era di certo questo. Era casa sua e non
avrebbe nemmeno dovuto bussare. Abbassò la maniglia entrando
in camera. La ragazza stava ancora facendo finta di dormire, come la
sera precedente, lo capiva, ma si era scocciato di fare quel gioco,
quindi avrebbe parlato lo stesso, che la ragazza stesse dormendo o
meno, in fondo Walter non aveva specificato che dovesse essere
cosciente mentre le faceva le sue scuse... no?
Poggiò, come
la sera prima, la gamella sul tavolino, accanto alla lampada ma
stavolta andò a sedersi sul letto, accanto alle sue gambe
stese, poteva quasi vederle e ammirarle attraverso la stoffa leggera
del lenzuolo. Per la seconda volta il pensiero che la ragazza dovesse
morire di freddo in quelle condizioni attraverso la sua mentre, anche
se sapeva che non sarebbe dovuto interessargli. Non erano affari suoi
di come trattavano una deportata.
<<
Sappiamo entrambi che non stai dormendo, quindi rimani zitta e
ascoltami >> iniziò il biondo, borbottando.
Così non andava bene, sembrava palese che non avesse alcuna
voglia di parlarle davvero ma doveva farlo. Le poggiò una
mano sul fianco, da sopra il lenzuolo, quasi volesse trasmetterle con
quel solo gesto che quella notte non aveva intenzione di farle del male.
Quanto a Bea, stava
davvero fingendo di non dormire. Aveva paura: paura che la trattasse di
nuovo come aveva fatto quella volta, paura delle ferite che ricoprivano
ogni giorno di più il suo corpo, perché gli altri
soldati continuavano a torturarla nella speranza di ottenere
informazioni utili da lei. Tuttavia la curiosità la
opprimeva: voleva ascoltare ciò che aveva da dire; si
mordicchiava il labbro inferiore, ritenendosi fortunata a dargli le
spalle, così lui non avrebbe potuto vederla. Si
stupì notevolmente del tocco del soldato nazista: non era
abituata a tanta gentilezza da parte loro.
Il nazista
sospirò, cercando le parole adatte. Lui non era portato per
certe cose! << Volevo che tu sapessi che non ti
toccherò più >>, pensò
che quello fosse un buon inizio, era una delle parti che sentiva
davvero: in fondo a cosa gli serviva una deportata?! Lui poteva avere a
letto tutte le donne che voleva. << e quindi chiederti
scusa per l'altra volta, agisco troppo d'istinto, a volte
>> aggiunse, poco dopo, riuscendo chissà come
a pronunciare quelle parole. La cosa dell'istintività
però era vera, lo pensava anche lui, pur non essendo solito
ad ammettere i propri difetti.
Bea non rispondeva, ma
non riusciva a credere che si stesse davvero scusando con lei. Rimase
in silenzio, con il respiro diverso, quasi ansioso. D'altra parte, a
Mark non era mai capitato di avere qualcuno che lo ascoltasse,
rimanendo in silenzio. Anche Walter parlava troppo, per i suoi gusti.
<< E' dura
stare qui, lo so meglio di quanto tu possa immaginare, ragazzina
>> iniziò a parlare. Sapeva che non stava
davvero dormendo, ma il suo ascoltarlo lo spronava a parlare e ad
esprimersi, come non aveva mai fatto in vita sua, se non con il suo
migliore amico. << Tu sei convinta che ciò che
stai passando sia un inferno, vero? Beh, per ora ti hanno solo
torturata e violentata, dovresti ritenerti fortunata >>
era serio, mentre le accarezzava delicatamente il fianco con la punta
delle dita, solo sfiorandolo. Disegnava cerchi sempre più
piccoli sul corpo della ragazza, sempre attraverso le lenzuola.
La ragazza ancora non
riusciva a crederci: lo stava dicendo davvero? Si stava rilassando, ad
essere sfiorata in quel modo, senza che le mani del giovane la
toccassero davvero, come aveva promesso qualche istante prima.
<< Esiste forse di peggio? >> le
sfuggì dalle labbra, senza che lei volesse davvero.
Mark sorrise, tra
sé e sé. << Sapevo che non stavi
dormendo >> le disse, con una lievissima nota d'ironia,
appena udibile nel tono di voce, evitando di proposito la domanda fatta
dalla ragazza. La cosa peggiore era che voleva risponderle.
Sì, voleva dirle che esisteva di peggio, e lui lo sapeva
bene, ma non poteva. Non poteva perché lei era una delle
persone che doveva odiare; e che odiava. Ritrasse la mano dal fianco
della ragazza, poggiandosela sul ginocchio.
<< Cosa
può esserci di peggio? >> chiese ancora la
ragazza, sfiorandosi con l'indice la profonda ferita alla spalla che le
avevano provocato proprio quella mattina: ormai il sangue aveva smesso
di scorrere e si era incrostato tutto intorno, poi avvertì
una fitta al bassoventre al ricordo delle notti precedenti, molto
più psichica che fisica, a dire il vero.
Il biondo le rivolse uno
sguardo, pur sapendo che la ragazza era girata. Era una sguardo vuoto.
<< Non vorresti mai averlo provato >>
riuscì solo a mormorare, troppo impegnato a scacciare i
ricordi che gli impregnavano la mente fino a farlo star male. La testa
scoppiava, se sono si lasciava sopraffare dai pensieri che la
offuscavano, come se una nebbiolina nera e densa si cospargesse mano a
mano nella sua mente.
Beatrisa Irina Borisovna
Gurtsieva si tirò lentamente a sedere, votandosi dal lato
del nazista, incontrando uno sguardo che non gli era mai capitato di
vedere in nessuna persona che conosceva. Gli occhi color cioccolato del
ragazzo era freddi, quasi di ghiaccio, la ragazza avrebbe osato diro
che avessero preso una sfumatura più chiara, passando dal
marrone intenso con striature nocciola che aveva visto la prima volta
ad un iride completamente nocciola, quasi grigia attorno alla pupilla.
Era sofferenza? Forse, ma non era lo stesso tormento che stava provando
lei. Non era il dolore della tortura, era qualcosa di più...
malato; e, in quel momento, Bea seppe che aveva ragione: non avrebbe
mai voluto provare quel tipo di dolore.
Mark fu lievemente
sorpreso di non trovare compassione nei suoi occhi verdi. Era il motivo
per cui evitava di parlarne anche a Walter: odiava essere compatito, a
suo parere non esisteva cosa peggiore del fatto che qualcuno avesse
pena di lui. Perché lui era forte, e si era dimostrato tale
affrontando tutto quello da solo, senza mai chiedere aiuto
né appoggiarsi a qualcuno che non fosse il figlio del
signor. Hoffmann, che sapeva tutto, sebbene lui non gli avesse mai
parlato di niente.
Una mano della ragazza
si posò su quella del nazista, poggiata sul ginocchio di
lui. << In santa Madre Russia diciamo "chi è
scottato una volta, l'altra vi soffia su" >>
citò la ragazza. L'aveva sentito spesso, a Mosca. Non voleva
essere davvero gentile con quel ragazzo, né tanto meno
provava compassione nei suoi confronti, semplicemente sentiva di
doverlo rassicurare. Chi dice che sia sempre il fantomatico lui a
proteggere la fantomatica lei fisicamente, in fondo...?
Il giovane Schreiber
alzò lo sguardo verso di lei, osservandola perplesso.
Avvertiva come inappropriato il calore che la mano della ragazza
sprigionava poggiandosi sulla sua, però non gli dispiaceva
neanche un po'. << Cosa significa? >> era
confuso.
Un lieve sorriso si
dipinse sul volto di Bea, << Niente. Niente di importante
>> disse, sapendo che l'avrebbe capito, da solo. Non
c'era bisogno che glielo spiegasse lei.
Il biondo si
alzò, di scatto, confuso dal comportamento della ragazza e
dal suo. Non era logico, non doveva essere. << Devo
andare >>. No, non era vero, non doveva andarsene, voleva
andarsene, ne sentiva la necessità. Aveva bisogno di aria
pulita da respirare, perché non poteva rimanere
lì a parlare con lei senza sentirsi scottato dalle sue
parole, senza sentirsi umiliato dal come una persona che avesse
soltanto usato fosse capace di perdonare e di capire. Mark Schreiber
non conosceva quella ragazza, e lei non doveva conoscere lui, mai. Non
aspettò che lei rispondesse, per sgusciare fuori,
sbattendosi la porta alle spalle.
Weimar,
Germania.
25
Dicembre 1943
14:00
Mark e suo padre erano stati puntuali, ad arrivare dagli Hoffmann. Si
erano salutati e si erano scambiati i doni, fingendo di rimanere
sorpresi da qualcosa che, come tutti gli anni, si era rivelato essere
estremamente banale. Mark non aveva avuto nemmeno la forza di mentire
per bene: si vedeva che in realtà cosa gli avessero regalato
non gli interessava affatto, anche perché non era un gran
patito dei regali, ma in quel momento aveva tutt'altra cosa in mente.
Pensava alla sera prima, a quando aveva parlato con quella ragazza e
ancora non riusciva a capacitarsene. In quel momento si odiava da solo:
erano state poche frasi, certo, ma non avrebbe dovuto aprirsi
così tanto con qualcuno, era uno sbaglio che non avrebbe
ricommesso.
Walter si era accorto
del malumore dell'amico, ma non poteva farglielo presente
lì, davanti a tutti, davanti al padre di lui. Il signor
Hoffmann e il maggiore Schreiber parlavano tra loro, di politica, di
come andavano le cose nel lager di Buchenwald e di altre cose che hai
due giovani non interessavano. Certo, stavano anche parlando della
carriera militare di Mark, che da metà dicembre era
diventato ufficialmente un soldato semplice. La madre era in cucina,
preparava le ultime cose per il pranzo di Natale e si occupava di
apparecchiare per bene la tavola in sala da pranzo.
<< Faccio
vedere una cosa a Mark e siamo di nuovo da voi >> disse
Walter ai due genitori, sfoderando il suo miglior sorriso. Ovviamente
voleva rimanere da solo con il suo migliore amico per parlargli in
privato, non aveva assolutamente nulla da mostrargli, quel giorno.
Il signor Hoffmann
interruppe per un attimo la sua conversazione, mentre Hans Schreiber si
trattenne dal constatare che interrompere due adulti che parlavano era
da maleducati; ma non lo fece perché Walter Hoffmann in
fondo era come un figlio per lui, l'aveva visto crescere e passava
molto pomeriggi da loro già da quando Agathe era ancora
viva. << Non metteteci troppo, il pranzo ormai
sarà quasi pronto >> lì
congedò il medico, rivolgendo un breve sorriso ad entrami,
prima di buttarsi nuovamente nella conversazione con il signor
Schreiber.
I due amici salirono le
scale, lentamente, per non dare nell'occhio. C'era una strana atmosfera
nell'aria e Mark credeva fosse limitata a lui e a quello che gli era
successo e da cui ormai era impressionato, non capiva che anche Walter
la sentiva. Arrivati nella stanza, il soldato si butò a
sedere sul letto, forse un po' a peso morto, di certo mentre imparava a
fare il militare non gli avevano insegnato ad essere elegante. La
camera era ben arredata, secondo il gusto impeccabile della signora
Hoffmann che comprendeva un gran numero di mobili in legno di noce.
Fu Walter il primo a
parlare, << Si può sapere che hai?
>> chiese, quasi sbuffando, sedendosi sulla sedia accanto
alla scrivania. Era leggermente preoccupato, difficilmente il suo
migliore amico dimostrava così apertamente il suo malumore,
era strano e assolutamente non da lui. La cosa doveva essere abbastanza
seria.
<< Niente
Walter, niente. Ho chiesto scusa alla ragazzina comunista, come mi
avevi imposto di fare >> rispose l'altro, senza guardare
l'amico negli occhi. Tanto sapeva che l'amico avrebbe capito lo stesso.
Era inutile mentire in quel modo. Il fatto era che non sapeva nemmeno
lui cosa avesse esattamente. Sentiva il bisogno di parlargliene, ma era
troppo orgoglioso per farlo.
L'altro
annuì, tenendo gli occhi fissi sul volto di Mark: non stava
bene, si capiva subito. << D'accordo, cos'hai fatto di
tanto grave?! >> lo incitò a parlare Walter,
sembrava quasi divertito dalla cosa. Forse perché il suo
migliore amico combinava sempre danni, non era una gran
novità, soprattutto se si trattava di ragazze, che queste
ultime fossero tedesche o meno in effetti sembrava avere davvero poca
importanza per il suo migliore amico.
<< Ci
ho... parlato >> borbottò il ragazzo dagli
occhi nocciola, a bassa voce. Voleva sfogarsi, ma non voleva parlarne,
ma tanto sapeva che anche se non glielo avesse detto, Walter avrebbe
insistito così tanto da farlo scocciare, sputando fuori
tutta la verità, tanto valeva essere sincero con lui fin da
subito.
Hoffmann
capì, << Un momento... Tu... le hai detto
tutto?! >> era visibilmente stupito. Quella ragazza era
una sconosciuta e Mark odiava parlare di se stesso anche on le persone
che conosceva da anni. Quel ragazzo era un vero rompicapo: eri sicuro
che non avrebbe mai fatto una cosa in tutta a sua vita e tempo qualche
ora e tu stupida, facendola; ma di certo nessuno avrebbe mai pensato
che Mark Schreiber potesse parlare ad una deportata di sua madre o dei
problemi con suo padre... era troppo orgoglioso!
L'amico scosse la testa,
ancora senza guardarlo. Gli sembrava di essere dallo psicanalista; si
ritrovò a pensare che quello sarebbe stato un lavoro niente
male che il suo amico avrebbe potuto fare senza problema alcuno.
<< No, ma stavo per farlo >> ammise,
sembrava che la cosa lo infastidisse parecchio.
Walter annuì,
<< Secondo me non la odi poi così tanto
>> ipotizzò il biondo, prendendolo in giro.
Ovviamente non sapeva fino a quanto la sua affermazione potesse aver
colto nel segno, come al solito.
<< Io la
odio tantissimo >> ribatté Mark, alzandosi di
scatto dal letto e fulminando il suo migliore amico con lo sguardo.
<< Ah
sì?! >>
<<
Sì >>
<< E
allora perché stavi per dirle tutto di te? >>
<< Avevo
bisogno di sfogarmi con qualcuno >>
<< Potevi
parlarne con me >>
<< Walter,
senza offesa, non mi sono mai scopato te >>
<< Quindi
è una questione di con chi fai sesso, Mark? Eppure non mi
sembra che tu abbia mai parlato dei tuoi problemi con Ann o Elena... o
Liesbeth >>
<<
Fanculo, Walter >>
Il giovane Hoffmann
sorrise, ironico, all'ultima offesa del suo migliore amico, confermava
solo quanto in realtà avesse ragione, << Che
ne dici di andare a pranzare? >> chiese, ormai che aveva
ottenuto la sua vittoria.
<< E' una
buona idea >> accettò Mark, anche
perché il suo stomaco cominciava a brontolare. Le
discussioni con Walter gli mettevano sempre appetito e, anche se
quest'ultima cosa non l'avrebbe mai ammessa, allegria.
<< Ahn,
Mark? >> lo chiamò ancora il biondo,
voltandosi verso di lui, prima di iniziare a scendere le scale di
legno, diretto di nuovo in sala da pranzo.
Schreiber
alzò lo sguardo verso di lui, incontrando gli occhi azzurri
del suo migliore amico, << Sì? >>
<< Voglio
conoscerla >>
Luce
del mattino,
luce
di un giorno strano,
pensavi
di esser perso
che
cambia il tuo destino
Anche
il paradiso
può
essere un inferno,
era
tutto scontato
finché
non sei caduto
[Riprendere
Berlino, Afterhours]
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 6. -Open Wounds. ***
So
di essere fottutamente in ritardo. ç__ç
Mi
dispiace così tanto. Il mio ragazzo mi aveva fatto passare
la voglia
di scrivere, quel coglione, ma a voi non frega niente e io non
parlerò a vanvera. xD
D'accordo,
faccio un'introduzione breve così pubblico subito.
u.ù
Capitolo
più lungo del solito per farmi personare delle gravi
assenze. u.ù
Prometto
che cercherò di pubblicare il prossimo capitolo per il 2,
perché le
idee ci sono, ma la scuola è imminente. Devo trovar il tempo
per
metter tutto nero su bianco. Auguratemi buona fortuna, insomma. xD
Per
oggi niente Dimitri e PapàDiBea, ma non dimenticatevi di
loro, sono
importanti al fine della trama. u.ù
Beeene,
passiamo ai ringraziamenti, su. <3
Ringrazio
le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
-
Bbw87
-
Fairness
-
Mareike Tiaycia
-
OlandeseVolante
-
Nadine_Rose
-
niacara07
-
Norine
-
Prusskj_Lazur
-
ChyoChan
-
la_regina
-
Luc
-
thegreenlady
Coloro
che la hanno inserita tra le ricordate:
-
fedecaccy
-
Rayne
-
ElleBi
Coloro
che la hanno inserita tra le preferite:
-
chyo
-
xxGiuls.
-
kikka23
-
elly04
-
Karota
-
Luna_LoveDark
-
liz89
-
sarr
-
elly04
- orsetta17
-
Remedios la Bella
E
infine la magnifica ragazza che ha trovato il tempo di recensire:
-
Fairness
Ad
AppenaTrovoUnAttimoSoloPerRespirare,
Schizophrenia.
Salviamoci
la pelle.
-Open
Wounds.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
27
Dicembre 1943
21:30
Mark
non si era dato peso di portare ancora da mangiare alla deportata,
scosso dagli avvenimenti della Vigilia. Aveva affidato il compito ad
un allievo milite che aveva conosciuto per caso. Si chiamava Derek,
credeva di ricordare, sì, Derek Keller, era decisamente un
bravo
soldato, ma Mark era convinto che non sarebbe mai diventato un buon
nazista: impacciato, timido, gli occhi azzurri troppo grandi lo
facevano sembrare un ragazzino di sedici anni, e tendeva a riporre
troppa fiducia nelle persone. A Mark però stava decisamente
simpatico, non era come uno dei manichini al servizio di Hitler, con
la divisa in perfetto ordine e che era prono ad uccidersi per
obbedire persino a suo padre. Non era come stava diventando lui
stesso.
Il
ragazzo aveva accettato il compito, di buon grado e Mark iniziava a
sentire la sua vita come un qualcosa di tremendamente monotono, da
quando aveva smesso di portare cibo alla ragazza e di rimanere a
dormire sotto la finestra, con le spalle che premevano contro la
parete. Quel giorno si sentiva talmente vuoto che aveva evitato anche
di tornare in casa per cena: con un po' di fortuna il padre non si
sarebbe nemmeno accorto della sua assenza. Era rimasto al poligono di
tiro, tutto il giorno, dalle sei e mezzo di quella stessa mattina.
Decise che sarebbe andato a trovarla, dopotutto non gli costava
niente e non le doveva spiegazioni, se varcava quella soglia. Era
sempre casa sua, no?
Rifece
il percorso a grandi passi. Non aveva neanche fame, non aveva voglia
di chiedere alla domestica se era avanzato del cibo per lui, non ce
n'era motivo. Probabilmente anche Derek aveva portato del cibo alla
ragazza e se n'era tornato a casa. Anche lui avrebbe voluto tornare a
casa, a Berlino. Alla sua vera casa, ma probabilmente
quell'abitazione nemmeno ci sarebbe stata più dopo otto
anni.
Avevano lasciato Berlino quando Mark aveva appena dodici anni: aveva
vissuto a Dachau, nel campo di lavoro, da degli amici del padre che
faceva i soldati lì, mentre Hans Schreiber era a combattere
sui
fronti. Nel luglio del '37, avevano mandato il padre di Mark a
Buchenwald, come comandante e Mark lo aveva seguito, un anno prima di
arruolarsi a sua volta.
Si
fermò davanti alla porta, quando udì un piccolo
gemito di dolore.
Femminile: doveva per forza appartenere alla ragazza.
Avvertì un
moto di rabbia: la torturavano, sì, di giorno in giorno, ma
mai in
quella stanza. Mai sotto i suoi occhi. Gli diede inspiegabilmente
fastidio e aprì di scatto la porta, indossava ancora la sua
divisa
nazista e reggeva l'arma tra le mani, come un qualunque soldato.
Avrebbe anche potuto essere un caporale che si divertiva a giocare
con le deportate, ne conosceva molti, ma c'erano i bordelli per
quello. Di solito le detenute più belle erano mandate
lì, ma
fortunatamente a Bea Gurtsieva non era stato riservato lo stesso
destino. Mentre la porta si apriva, si chiese come mai di tanta
confusione mentale: non aveva forse abusato lui stesso del corpo
della giovane, torturandola psicologicamente?
Sbatté
le palpebre una, due e poi tre volte, per focalizzare bene la scena
che gli si parò davanti: << Scusa, non volevo
fare troppa
pressione, ma sei messa davvero male >>
commentò Walter, il
suo migliore amico, mentre piano avvolgeva una benda attorno alla
spalla della deportata che lo guardava. Mark stava esaminando
attentamente gli occhi verdi della russa: non c'era timore, quando
lì
posava su Walter. Non sembrava avere paura di lui. Come aveva fatto a
conquistarsi la sua fiducia così in fretta?!
Il
ragazzo dagli occhi chiari si accorse della presenza del suo migliore
amico e lo guardò, allargando le labbra in un sorriso,
<<
Finalmente sei arrivato. Prima è passato un certo ragazzino,
Keller,
ha portare da mangiare. Pensavo lo facessi sempre tu, quando sono
arrivato, alle quattro del pomeriggio, non eri nemmeno in camera tua.
>> lo stava rimproverando con lo sguardo, era palese, ma
c'era
anche un'altra cosa ad illuminare quegli occhi azzurri, un barlume
di... divertimento?
Mark
sbuffò, richiudendosi frettolosamente la porta alle spalle e
poggiando il fucile contro il muro, allontanandosi. Preferiva non
averlo a portata di mano, altrimenti avrebbe sicuramente deciso di
far fuori il suo migliore amico, e non era una buona idea, visto che
sembrava averlo aspettato tanto. << Ero ad allenarmi,
Walter,
come un qualsiasi soldato >> borbottò, in
risposta, prima di
raggiungere i due. Potrei sempre ucciderlo a mani nude,
pensò. Gli
sembrava l'unica soluzione possibile a tutto quello. << E
tu,
se permetti, cosa ci fai qui? >> chiese ancora,
palesemente
scocciato. La presenza del suo migliore amico non lo infastidiva, no
di certo, era il modo premuroso nel quale sfiorava la spalla della
ragazza con le bende che lo irritava da morire.
Walter
scrollò le spalle, sempre mostrando un gran sorriso, in
risposta
alla sguardo giusto un tantino infastidito del suo migliore amico,
<<
Ti avevo detto che mi avrebbe fatto piacere conoscere Bea
>>
rispose, come se non ci trovasse nulla di strano. Come se fosse
andato semplicemente a far visita ad una vecchia amica.
<<
Devi andartene, Walter. Ti avevo detto che ti avrei fatto entrare, ma
non adesso. Se mio padre ci vede ammazza prima me, poi te ed in fine
lei >> disse, indicando con un cenno del capo la ragazza
dai
morbidi boccoli neri come la pece. Walter le aveva medicato solo le
braccia, notò. Non sapeva se esserne felice o meno, forse
sotto
quegli abiti logoro c'erano ferite che necessitavano di essere
disinfettate più di altre. Non era affar suo, non avrebbe
dovuto
preoccuparsene e, sicuramente, Walter Hoffmann non avrebbe dovuto
preoccuparsene.
<<
Non mandarlo via >> gli aveva chiesto lei. Mark Schreiber
si
stupì di sentirla parlare, a parte la sera della vigilia non
avevano
mai veramente parlato, e quel tono lo faceva sentire male. Era
strano, caldo, dolce. Era un tono di parlare che nessuno gli aveva
mai rivolto, nemmeno Walter; e quegli occhi verdi sembravano di nuovo
pieni di speranza, quella sera, che il soldato biondo, in piedi, non
riuscì ad evitare di osservarlo, lentamente, mentre cercava
di
lottare contro quella voglia di sfiorarla.
<<
D'accordo, dieci minuti >> borbottò Mark,
incrociando le
braccia al petto ed andandosi a sedere in un angolo della stanza.
Adorava Walter con tutto se stesso, ma era piombato lì senza
nemmeno
avvertirlo, e questo gli piaceva un po' meno.
Aveva
promesso ai due dieci minuti, ma passarono due ore. Due ore durante
le quali Mark si era beato delle risa di Walter e di Bea, finendo
completamente disteso sulle assi di legno del pavimento. Il suo amico
parlava di suo madre che faceva il medico lì,
descrivendoglielo, e
Bea ascoltava; Walter raccontava qualche sciocchezza che avevano
fatto da piccoli, e Bea rideva; Walter guardava Mark e poi Bea, ma
nessuno rideva, quando faceva scorrere il suo sguardo attento sui due
giovani.
<<
Forse adesso è il caso che vada >> disse il
ragazzo dagli
occhi azzurri, alzandosi e sorridendo alla ragazza dai capelli scuri,
<< Tornerò a trovarti, il prima possibile, te
lo prometto >>
le disse e Mark sapeva, conoscendo Walter da praticamente una vita,
che lui manteneva sempre le sue promesse e quella fatta ad una
ragazza non sarebbe stata diversa. Soprattutto perché Walter
sembrava avere un debole per le persone in difficoltà, come
quella
povera ragazza. << Mi accompagni alla porta?
>> chiese
subito dopo a Schreiber, voltandosi verso quest'ultimo. Mark sapeva
che voleva parlargli da solo, non perché il suo amico
conoscesse la
porta quasi meglio di lui, ma glielo leggeva negli occhi.
<<
Certo >> rispose, quasi subito, seguendolo a passi lenti
fuori
dalla camera, senza dimenticarsi di chiudere la porta alle loro
spalle. Pochi istanti di assoluto silenzio e furono entrambi fuori di
casa. Davanti a loro si stagliava unicamente il campo di
concentramento di Buchenwald di notte: le anime che arrancavano per
sopravvivere, senza neanche un motivo reale per farlo. Non ce
n'erano: ogni giorno della loro vita sarebbe stato insulsamente e
orribilmente uguale all'altro, finché non sarebbero
diventati troppi
stanchi e quindi uccisi.
<<
Di cosa volevi parlarmi? >> chiese Mark, dando per
scontato che
comunque il suo migliore amico non ci avrebbe girato attorno
più di
tanto. Walter di solito non si faceva troppi problemi a parlargli in
faccia, con assoluta sincerità.
Walter
sospirò, non sembrava aver tanta voglia di scherzare.
<<
Quante volte viene torturata? >> gli chiese, come se ci
tenesse
davvero a saperlo, e forse era sul serio così.
Mark
scrollò le spalle, << Non ne ho la minima
idea, Walter >>
rispose. Lui non la vedeva spesso, nemmeno voleva vederla spesso,
dopo la Vigilia, ma anche prima, lui le portava solo da mangiare la
sera, quando capitava, e spesso gli sembrava di notare tagli e lividi
sempre nuovi, ma non si era mai messo a contarli. <<
Credo
spesso, comunque. In un tempo compreso tra mattina e pomeriggio
>>
aggiunse, stringendosi nelle spalle. Non era troppo abituato a
preoccuparsi per i deportati o a parlare di loro con il suo migliore
amico.
<<
Credo che potrebbe riportare gravi infezioni, se non viene curata
adeguatamente >> sospirò l'altro, lanciando
uno sguardo verso
l'esterno. Alla neve che ricopriva interamente il campo di
concentramento, sebbene ogni santo giorno i deportati fossero
costretti a spalarla.
Il
soldato semplice gli rivolse lo sguardo, inarcando un sopracciglio.
Aveva forse intenzione di aiutarla? Lui non poteva. << Lo
so,
Walter, ma morirebbe comunque. Sai ciò che succede a quelle
come
lei, vero? >> "E' già una fortuna che non
l'abbiano
mandata in quei luridi bordelli che allestiscono per le ragazze
più
carine", aggiunse mentalmente. Non aveva mai sentito la
necessità di frequentare quei posti. << Mi hai
già messo
abbastanza in difficoltà con mio padre. Se vede quelle
ferite
fasciate, mi caccerà di casa, ne sono convinto
>> continuò a
parlare, lo sguardo ancora rivolto fuori.
Walter
guardò nella sua stessa direzione ed annuì,
<< Ma tu non vuoi
che muoia, lei non è come "tutte quelle come lei", no?
>> sembrava sicuro delle sue parole, ma non stava
incolpando Mark,non
stava dicendo niente. Il suo tono di voce era calma mista a
preoccupazione, forse per le sorti del suo migliore amico o della
ragazza stessa.
<<
Non la conosco >> ammise l'altro, sospirando. Ed era
strano.
Era strano da parte sua. Era strano che la sua risposta non fosse
stata "E' solo un altro paio di braccia per la fabbrica del
campo". C'era qualcosa di strano anche nel suo tono di voce,
sembrava stanco.
<<
Potrebbe morire sul serio >> Walter rivolse nuovamente lo
sguardo all'amico, che cercava di dimostrarsi ancora impegnato ad
esaminare la neve centimetro per centimetro.
<<
Sei un medico? >> non voleva sembrare scocciato o
scettico, ma
lo fu.
<<
Mio padre lo è >> il tono della conversazione
stava prendendo
decisamente una piega ironica e questo non poteva che far bene ad
entrambi.
<<
Anche volendo aiutarla, dove le trovo le cose? >> non
poteva
cerco rubarle all'infermeria del campo: non avevano poi molto per
curare i deportati, non rispettava le norme igieniche, dopotutto loro
non erano importanti quanto un ariano che aveva bisogno di un medico,
proprio no. Erano solo feccia, no? Lui però forse stava
iniziando a
rifletterci su davvero.
Hoffmann
scrollò le spalle, << Se vieni a trovarmi in
questi giorni,
cerco di farti avere qualcosa >>. Poco dopo aver detto
queste
parole si avvicinò al suo migliore amico e gli
sfiorò la spalla,
prima di abbracciarlo. Mark non lo respinse, ma non ricambiò
il
gesto, considerandolo molto poco virile e da bravo militare nazista,
abbracciare un altro uomo. << Puoi farcela
>> cercò di
rassicurarlo Walter e forse quelle parole lo colpirono davvero,
perché il soldato dai capelli biondi sorrise, nel buio del
campo di
concentramento di Buchenwald.
Weimar,
Germania
28
Dicembre 1943
7:20
Mark
sospirò, davanti alla porta di casa Hoffmann, indeciso se
bussare o
meno. Stava davvero accettando di aiutare una sconosciuta, in cambio
della sua vita, oltretutto? Forse no, non lo avrebbero ucciso, ma
poteva scordarsi di rimanere un militare, se l'avessero scoperto.
Perché aiutare una comunista quando tutto ciò che
hai intorno ti
spinge a sorreggere il partito nazionalsocialista? Era davvero
giusto? Quale concezione avrebbe dovuto avere di giusto e sbagliato?
Erano gli altri ad essere sbagliati, per quello che erano, oppure
erano loro stessi quelli a sbagliare mettendo fine alla loro vita?
Non capiva, e non voleva capire. Voleva solo che Bea non morisse.
Non
pensava mai a lei con il suo vero nome, la cosa le dava una sorta
d'identità, non ci aveva mai fatto caso, ennesima stranezza.
Dalle
sue labbra fuoriuscì un altro sospiro, e si passò
una mano tra i
capelli biondi, prima di bussare. Ad aprire venne, poco dopo, la
signora Hoffmann. La salutò con un sorriso, chiedendogli se
Walter
era in casa, e la donna gli disse che poteva raggiungerlo al piano
superiore, nella sua camera: strano, Walter non era mai stato un
ragazzo mattiniero, era sicuro che lo avrebbe trovato sì,
nella sua
camera, ma a dormire.
Quando
fu dinanzi alla porta che lo separava dal suo migliore amico non
esitò come aveva fatto prima, la aprì, trovandosi
di fronte Walter
vestito e preparato, disteso sul suo letto ed intento a leggere un
libro. << Buon giorno >> lo
salutò, divertito, andando a
sedersi accanto a lui, sul letto. Stava sorridendo, di primo mattino:
era decisamente una giornata strana.
<<
Buon giorno, soldato, è martedì mattina... niente
allenamenti? >>
il suo tono di voce era stato alquanto ironico, ma aveva alzato gli
occhi dal libro, ancoraprima di richiuderlo e poggiarlo sul comodino
accanto a letto, catalizzando tutta la sua attenzione sull'amico che
gli si era seduto accanto.
Mark
scrollò le spalle, << Possono fare a meno di
me, una volta
ogni tanto, in fondo mi alleno molto più di tutti gli altri.
Potrò
anche prendermela una giornata di ferie >> rispose, con
ironia,
ritrovandosi a pensare che quel mese non era la prima volta che lo
faceva. Forse avrebbe dovuto smettere, ma quella mattina, mentre
osservava la sua divisa, prima di indossarla, si era affrettato senza
nemmeno capire perché accanto all'armadio, alla ricerca di
abiti
civili.
<<
Lo trovo giusto >> rispose l'altro, sorridendogli.
Sembrava
davvero felice di qualcosa che vedeva sul volto del suo migliore
amico, ma non riusciva nemmeno lui a capire di cosa si trattasse.
<<
Sul serio, sembravi davvero stanco in questi giorni, un po' di pausa
non può che farti bene >> aggiunse, tirandosi
a sua volta a
sedere accanto all'amico.
Schreiber
annuì, passandosi una mano tra i capelli, <<
Beh, non dovevi
darmi qualcosa? >>, se era riuscito a procurarsi
qualcosa.
Forse non sarebbe dovuto arrivare così presto, quella
mattina, c'era
la possibilità che non avesse avuto modo di fare proprio
nulla.
Forse non avrebbe dovuto esserne preoccupato, ma gli era difficile da
spiegare, e forse non voleva nemmeno capire.
<<
Oh, sì, certo >>, Walter sorrise e si
alzò dal letto, <<
Ne ho parlato con mio padre e ... >>
<<
Sei pazzo?! >> lo interruppe il soldato semplice,
sorpreso. Il
suo migliore amico non gli era mai sembrato così stupido.
<<
Tuo padre lavora nello stesso campo di concentramento dove lavora mio
padre, sono inoltre molto amici, quando credi che ci metterà
a farlo
sapere a mio padre e l'SS a fucilarmi insieme ad un carico di ebrei?
>> si stava arrabbiando, era evidente, e poi Mark era di
per sé
un tipo che si arrabbiava molto facilmente, non gli servivano troppi
motivi per farlo, ma stavolta li aveva sul serio.
Il
giovane Hoffmann inarcò un sopracciglio, <<
Conosci mio padre,
è stato soltanto felice che almeno tu avessi iniziato a
capire che
l'avversione verso altri esseri umani è completamente
inutile >>
sbottò, dandogli le spalle ed iniziando a cercare
ciò che gli aveva
promesso.
Mark
si passò una mano tra i capelli, lasciandosi ricadere steso
sul
letto. Ovviamente: conosceva il padre di Mark da quando aveva circa
quattro anni, come aveva potuto, anche se solo per un momento,
dubitare di lui? Stava diventando decisamente stupido, o era quella
giornata ad essere fottutamente strana.
Sentì
l'amico sedersi accanto a lui e alzò lo sguardo, notando che
gli
porgeva un sacchetto stracolmo di carta marrone, << Ci
sono
molte bende pulite, ovatta, disinfettante e qualche medicina che il
mio caro papà a consigliato di somministrarle
>> stava di
nuovo sorridendo, non sembrava avercela con lui nemmeno un po'.
Walter Hoffmann era così: si arrabbiava, metteva il broncio
per due
minuti e poi tornava a sorridere.
<<
Grazie, Walter. Cercherò di stare attento >>
rispose,
prendendo il sacchetto con entrambe le mani ed alzandosi dal letto.
Gli rivolse un sorriso, guardando ciò che reggeva tra le
mani. Come
avrebbe fatto ad evitare le domande impertinenti di tutti? Non gli
interessava.
<<
Wow... credo di non avertelo mai sentito dire durante .... beh,
molti, troppi anni. Sicuro di stare bene?! >> gli chiese,
con
evidente sarcasmo. Si alzò a sua volta, afferrando una
sciarpa che
aveva poggiato sulla sedia, << Dai, usciamo, cerchiamo
qualcosa
da fare, ti va? >>
Mark
sorrise ed annuì, non aveva voglia di tornare a Buchenwald
così
presto, quando gli altri soldati non avevano ancora finito di
allenarsi.
Erano
le nove di mattina passate, ormai, e Walter erano riuscito a farlo
entrare in uno dei suoi luoghi preferiti: una libreria. Anche a Mark
piaceva leggere, da ragazzo, ma da quando si era arruolato trovava
sempre meno tempo. A volte lo faceva ancora, la sera, prima di andare
a dormire. Lo faceva sentire bene, e lo aiutava ad estraniarsi da
tutto quello che non sentiva più come suo. Non dalla Vigilia
di
Natale, almeno.
<<
Hai visto qualcosa che ti interessa? >> chiese al ragazzo
dagli
occhi azzurri, che era imbambolato a fissare un romanzo rosa. Si era
sempre chiesto perché a Walter quella roba piacesse
così tanto; lui
quando leggeva puntava su altri generi.
L'altro
scrollò le spalle e gli sorrise, << Forse,
niente di sicuro, e
tu? >>
<<
Ancora nulla. Vado a fare un giro negli altri reparti. Ci vediamo
alla cassa tra mezz'ora >> propose, avviandosi
già dalla parte
opposta del negozio. Walter non passava mai meno di dieci minuti
buoni davanti ad un libro, per decidere se acquistarlo o meno.
Mark
Schreiber buttava un'occhiata su qualche copertina interessante, ma
non c'era niente che lo colpisse in alcun modo. Forse era soltanto
perché i suoi pensieri erano fissi sulla ragazzina, che
forse
stavano torturando proprio in quel momento. Era ormai un chiodo fisso
da quattro giorni, per lui, il pensiero di lei. Iniziava ad averne
seriamente abbastanza, ma sentiva il bisogno di parlarle, di vederla
ancora. Forse avrebbe dovuto fare un salto da lei, tornato a casa. In
quel momento, sentiva il bisogno di aiutarla, e si promise che
avrebbe fatto di tutto per riuscirsi e, alla fine, ce l'avrebbe
fatta, ne era sicuro. Dopotutto Walter era stato capace di farsela
quasi amica, perché lui non avrebbe dovuto? D'accordo, lui
era
iscritto al partito nazista da quando aveva dieci anni.
Forse
fu proprio il pensiero di Bea, che gli fece cadere gli occhi su di un
frasario tedesco-russo. Lo prese e se lo rigirò tra le mani:
era
scritto quasi tutto in alfabeto cirillico, ma decise di comprarlo lo
stesso. Avrebbe imparato. Sorrise: l'idea lo divertiva parecchio, non
si era mai avventurato in una lingua diversa, e forse quello era
proprio il momento giusto per farlo. Sapeva dire pochissime cose in
russo, e non ci aveva parlato molto con la ragazza,che sembrava
parlare bene il tedesco, solo che a volte sembrava non capire qualche
parola.
Raggiunse
Walter alla cassa e comprò il frasario, mentre l'amico aveva
preso
due libri di cui non era riuscito a leggere i titoli.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
28
Dicembre 1943
18:57
Mark
era molto cauto. Era rientrato in casa e aveva portato
frettolosamente tutto in camera sua. Non aveva idea di dove potesse
essere finito il padre, quindi si limitava a guardarsi incontro,
prima di girare ogni angolo. Probabilmente lo avevano anche avvertito
che non si era presentato agli allenamenti, ma lo avrebbe affrontato
quella sera, se fosse stato necessario. Sperava proprio di no,
avrebbe preferito essere mandato a combattere sul fronte, anche se
non ci pensava da un bel po'di tempo. Non aveva incontrato nessuno,
eccetto Derek, che aveva dimesso dal compito, riprendendolo per
sé.
Raggiunse
frettolosamente la cucina, portando il frasario tedesco-russo con
sé.
Si trovò di fronte proprio chi cercava: una donna sulla
quarantina,
alta, con la veste a righe che contraddistingueva i deportati, e
aveva un fazzoletto, a nascondere i capelli biondo chiaro. Era una
serva, lavorava in casa Schreiber da molto tempo, e non aveva mai
parlato troppo con lui, ma da quel poco, Mark aveva capito che era
russa, forse poteva aiutarlo. In quel momento la donna stava
preparando la cena. Mescolava qualcosa in una scodella, poggiandosi
al tavolo. Sembrava molto più vecchia e stanca dei suoi
anni, ma i
suoi occhi scuri ispiravano fiducia e, forse un tempo, dolcezza.
Il
ragazzo si sedette accanto al tavolo, osservandola, <<
Come ti
chiami? >> chiese, guardandola, finché la
donna non alzò, gli
occhi, sembrava sorpresa dal fatto che uno dei due membri della
famiglia gli rivolgesse la parola per una cosa così futile.
Sembrava
essersi quasi dimenticata del suo nome, dopotutto lei era solo un
numero. Un numero appuntato sulle vesti. << Yelena
>>
rispose, con un appena marcato accento russo nel tono. Pareva stanca,
stanca sul serio, mentre preparava la cena, ma a Mark quella donna
serviva, in quel momento, quindi avrebbe impedito che fosse uccisa,
così come avrebbe impedito che fosse uccisa Bea.
<<
Da dove vieni, Yelena? >> chiese ancora, aveva cercato di
assumere un tono di voce gentile e calmo. Beh, calmo lo era quasi
sempre; quanto alla gentilezza.. lasciava un po' a desiderare, ma
avrebbe potuto lavorarci. Forse, con un po' d'impegno.
La
donna corrugò la fronte, stava pensando. Forse si sforzava
di capire
da cosa venisse fuori tutto quell'interessamento. <<
Mosca >>
rispose alla fine, << Posso chiederle perché
le interessi
tanto? >> sembrava aver imparato a portare rispetto alla
famiglia tedesca. Forse perché quello era l'unico modo che
avesse
per sopravvivere.
Mark
scrollò le spalle, << Puoi insegnarmi la tua
lingua? >>
le mostrò il frasario, sperando che ne avesse scelto uno con
qualcosa di utile sopra. Dubitava però che ne avrebbe
trovati altri.
Di quei tempi, nessuno voleva andare di certo in Russia, non dalla
Germania.
Yelena
si voltò verso il soldato, osservandolo per qualche secondo
e
smettendo di fare ciò che stava facendo. Sembrava
visibilmente
sorpresa e forse anche confusa, e a Mark la cosa non sfuggì,
<<
E' per una... amica >> si affrettò ad
aggiungere, anche se non
era una sua amica. Forse avrebbe dovuto trovare il modo di far
sì
che diventasse tale, era una situazione difficile.
La
donna prese tra le mani il frasario, iniziando a sfogliarlo, curiosa,
<< Posso aiutarla, sì, ma ci vorrà
del tempo. Quando vuole
iniziare? >>
<<
Stasera stessa >>, il tono del ragazzo era deciso.
Lei
scosse appena il capo, << Cosa potrei insegnarle in poche
ore,
mentre preparo la cena? >>
<<
Il mio nome e Mark e ne ho un bisogno urgente. Ho anche bisogno che
prepari qualcosa di più per quest'amica, stasera. Puoi
farlo? >>
Yelena
lo osservò ancora e sembrò lasciarsi convincere.
<< Posso
insegnarti qualcosa adesso - sospirò - ma devi dedicare alla
lingua
almeno due ore al giorno, e promettere che un giorno mi spiegherai
perché hai bisogno del mio aiuto, Mark >>
concesse, pur non
sembrando troppo convinta. Chissà come era riuscito a
strapparle
quella concessione.
<<
Perfetto >>, Schreiber si lasciò sfuggire un
sorriso.
<<
Come si chiama quest'amica, lo sai, vero? >> a Mark
sembrava
strano che non gli avesse ancora rivolto tutte quelle domande, ma una
domanda del genere sembrava accettabile. Aveva chiesto il nome di
lei, non aveva chiesto effettivamente chi fosse lei, sarebbe stata
una domanda molto più difficile a cui dare una risposta.
<<
Bea >>
<<
E' il vezzeggiativo di Beatrisa. Davvero un bel nome, dovrebbe essere
portato da una persona che rende felici gli altri >>
Yelena
sorrise. Sembrava molto affezionata alla sua cultura russa, sebbene
non fosse in Russia da diversi anni.
Mark
l'ascolto attentamente, << Vezzeggiativo?
>> la
interruppe per qualche minuto, senza capirne esattamente il
significato.
<<
Sono come dei diminutivi, alcuni di loro perdono il significato,
perché vengono pronunciati da tutti, è come
un'abitudine, ma ci
sono dei modi in cui ti chiamano solo le persone care. Mio marito mi
chiamava Yelenushka >>, gli occhi le si riempirono di
lacrime,
sembrava persa di ricordi, non triste.
Il
soldato semplice annuì, ascoltandola attentamente.
Chissà Bea quale
funzione aveva assunto, per quella ragazza chiusa a poche stanza da
loro. La osservò attentamente, quando parlò del
marito, <<
Dov'è tuo marito, adesso? >> le chiese.
<<
Faceva propaganda comunista. E' stato portato subito a fare delle
docce, e non è più tornato. Questo non
è un campo femminile, ma mi
hanno tenuta a lavorare qui. Non so perché, ma nonostante
tutto,
credo che mi sia andata bene >>
Mark
ascolta, sembrava interessato alla vita di quella donna. Non era mai
stato ad ascoltare un deportato, ed effettivamente si era appena reso
conto che nessuno di loro avrebbe avuto una storia felice da
raccontare. Yelena aveva perso il marito, chissà tutti gli
altri chi
avevano perso. Sicuramente qualcuno di importante e di caro. Per un
momento, un lungo momento, lo trovò ingiusto.
Mentre
preparava la cena, la donna cercò di insegnargli qualche
breve frase
in russo e parte dell'alfabeto cirillico.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
28
Dicembre 1943
22:01
Mark
aveva affrontato il padre. Non era stato difficile quanto aveva
pensato, solo noioso come sempre. Dopo era tornato da Yelena, che
aveva preparato qualcosa di più sostanzioso del solito
brodino per
Bea. Era andato a prendere anche il sacchetto che gli aveva dato
Walter e si era diretto in camera della ragazza. Era entrato, senza
farsi troppi problemi. Senza bussare. Vedeva la ragazza distesa,
inerte, sul letto, stavolta le notava: nuove ferite sul suo corpo. Le
si avvicinò, porgendole la ciotola. << Dobroy vecher*
>>
la salutò, cercando di sorridere, pur notando il cattivo
stato della
ragazza. Aveva un forte accento tedesco comunque.
Lei
alzò lo sguardo verso di lui, palesemente sorpresa: non
sembrava
riuscire a credere che parlasse russo, ma ne sembrava anche
sollevata, << Ciao >> mormorò,
nella lingua del ragazzo,
sicuramente più comprensibile per lui. Gli prese la ciotola,
tirandosi lentamente a sedere.
<<
Tutto bene? >>, aveva ripreso a parlare tedesco. Aveva
imparato
davvero poco, quella sera, ma ci provava. Per adesso stava tentando
di fare conversazione con lei, ma sembrava un'impresa ardua, visto
che nemmeno lo aveva guardato in faccia. Il ragazzo si disse che
probabilmente lo odiava, ma avrebbe cercato di farle cambiare idea e
ci sarebbe anche riuscito, ne era sicuro.
<<
Sì. Walter non è venuto? >> la
ragazza non sembrava molto in
vena di parlare, ma appariva agli occhi di Mark come un cucciolo di
gatto, tremante, bagnato e impaurito. Si ripeté che era
normale: non
era mai stato gentile con lei, probabilmente ne era sorpresa. La
ragazza iniziò a mangiare, <<
Cos'è? >> chiese, poco
dopo, perplessa, riferendosi a ciò che la sua gamella
conteneva.
Mark
scrollò le spalle, << Walter aveva un po' da
fare... è
qualcosa di meglio rispetto a ciò che mangi di solito
>>
rispose l'altro, rivolgendole un sorriso appena accennato.
<<
Spasiba**
>>, non capì la risposta di lei, ma non disse
nulla,
osservandola mangiare lentamente. << Da quando parli
russo? >>
gli chiese ancora, lei, quando ebbe terminato di mangiare, poggiando
la ciotola vuota ad un lato del letto.
<<
Sto imparando >> disse, osservandola. Sembrava davvero
molto
debole. Pensò che forse Walter aveva ragione: forse stava
davvero
troppo male. Qualcuno avrebbe dovuto aiutarla, beh, era andato
lì
per quello. Non riusciva più a vederla come una stupida
mocciosa,
sebbene la cosa sembrasse strana persino a lui. << Vieni,
devi
lavarti e cambiare le bende >> disse, tentando di
mostrarsi
gentile. Non era una cosa che gli riusciva bene, ma almeno si
sforzava.
Lei
gli rivolse lo sguardo: i grandi occhi verbi apparivano a Mark come
deboli, stanchi e pieni di dubbio e scetticismo, << Sai
farlo?
>> gli aveva chiesto, quasi dubitasse delle sue
capacità; e
forse aveva le sue ragioni visto che il ragazzo passava tre quarti
della sua vita a giocare alla guerra.
Nonostante
tutto, il tedesco si lasciò sfuggire una sono risata,
<< Sei
incredibile >> commentò, osservandola: gli
occhi scuri pieni
d'allegria, una volta tanto, in quel buco polveroso.
<<
Perché? >>
<<
Non mi stai chiedendo se vogliono in realtà ucciderti, mi
stai
chiedendo se sono in grado di cambiare una benda! Sei incredibile
>>
ripeté lui, scuotendo il capo, ancora più
divertito, porgendole la
mano per aiutarla ad alzarsi. Lo pensava sul serio. D'accordo, non
aveva mai parlato con i deportati, ma dubitava seriamente che un
altro qualsiasi essere umano si sarebbe comportato nel suo stesso
modo.
Bea
sembrava ancora perplessa, apparendo fin troppo ingenua agli occhi
del soldato, << Beh, non so se nei sei in grado
>> gli
aveva risposto ancora, con una naturalezza disarmante anche per un
tipo come Mark Schreiber.
Lui
rise ancora, mentre la ragazza si alzava, appoggiandosi alla sua
mano. Il ragazzo la portò nel bagno che fortunatamente era
poco
distante, o almeno ilsuo baglio lo era, senza dimenticare di
trascinare con sé il pacco con le cose che gli aveva dato
Walter. Si
richiuse la porta alle spalle, << Prima laviamo le
ferite, poi
le disinfettiamo >> disse, alla russa, cercando un
asciugamano
pulito. Quando lo ebbe trovato, lo poggiò accanto al
lavandino,
prima di avvicinarsi a Bea, << Fammi vedere dove ti hanno
fatto
male >> disse, serio, osservandola.
Bea
abbassò lo sguardo, senza rispondere.
<<
Allora? >> stava iniziando a scocciarsi. Si arrabbiava in
fretta e non gli piace che non gli si rispondesse.
Esitò,
<< ...Ovunque >>
<<
Allora togliti i vestiti >>
Lei
abbassò lo sguardo, e lui capì. <<
Ti cambio le bende alle
spalle. A lavarti magari ci pensiamo domani >>, non lo
avrebbe
detto, con un'altra persona, ma non era riuscito a trattarla male.
Non come avrebbe fatto in altre situazioni.
Quella
giornata si era rotto qualcosa nel soldato semplice Mark Schreiber.
Era
troppo confuso per capire cosa, ma era successo.
*
Dobroy vecher: Buona sera. (russo)
**
Spasiba: Grazie. (russo)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo 7. -Happy New Year, soldier. ***
Salve,
sembro essere meno in ritardo
dell'ultima volta, comunque eccoci qui. xD
Spero
che questo capitolo sia di vostro
interesse, sebbene serva più come capitolo transitorio.
è.é
Però
succedono cose belle. *-*
Era
da ... sempre che non succedevano
cose belle. xD
Non
ho molto da dirvi. Cercherò di
essere puntuale con gli aggiornamenti, sì, ma purtroppo
sabato
inizio la scuola. ç__ç
Gnap.
Mi sono presa però un impegno e
porterò la storia avanti! Awà!
Ringrazio
le persone che hanno inserito
la storia tra le seguite:
-
Bbw87
-
Fairness
-
Mareike Tiaycia
-
OlandeseVolante
-
Nadine_Rose
-
niacara07
-
Norine
-
Prusskj_Lazur
-
ChyoChan
-
la_regina
-
Luc
-
thegreenlady
-
mau07
-
NemesiS_
Coloro
che la hanno inserita tra le
ricordate:
-
fedecaccy
-
Rayne
-
ElleBi
Coloro
che la hanno inserita tra le
preferite:
-
chyo
-
xxGiuls.
-
kikka23
-
elly04
-
Karota
-
Luna_LoveDark
-
liz89
-
hilaryd
E
infine la magnifica ragazza che ha
trovato il tempo di recensire:
-
Norine
A
presto, spero,
Schizophrenia.
Salviamoci
la pelle.
-Happy
New Year, soldier.
Leningrado,
Unione Sovietica
29
Dicembre, 1943
5:31
Ciao Bea,
E' la prima lettera
che ti scrivo. Sono
passati quindici giorni da quando ti hanno presa.
Vorrei poter sapere
dove inviarla, ma
non ne ho idea. Germania? Forse. Non sarebbe nemmeo sicuro inviarti
una lettera, né per te, né per l'Unione Sovietica.
Non posso mentire,
non a te, lo sai
bene. Le cose non stanno andando come speravamo a Leningrado. C'eri
quando a luglio ci hanno attaccato con i cannoni, no? Bene, le bombe
continuano a distruggere fabbriche e soviet e non riusciamo ancora ad
avere un contatto. I treni, a Leningrado, non partono e non arrivano.
Dovunque tu sia, spero che tu stia meglio che la gente qui: niente
bombardamenti, no? Spero che tu non finisca in un campo tedesco; non
so come si chiamino ma si dice che siano molto simili ai GULag dove
l'NKVD butta disertori e prigionieri politici.
Sai cosa sono i
GULag, Beatrishka?
Spero di no, e spero che tu non stia vivendo un inferno. Ad ogni
modo, non chiedere a nessuno, dei GULag, non ti diranno niente, ho
chiesto del loro utilizzo, qualche volta, a dei miei superiori. Non
so molto nemmeno io, ma tu cerca di salvarti la pelle.
Una speranza ce
l'abbiamo, lo sai? Ma
non posso ancora parlartene. E' solo una speranza, per adesso
dobbiamo lottare e cacciare i tedeschi. Tuo padre confida molto nella
vittoria di Leningrado: siamo riusciti a tener loro testa per tanto
tempo, dice, che sicuramente vinceremo. Tu ci credi, Bea, dopo quasi
tre anni di assedio?
Quando è
iniziata la guerra, tu avevi
quattordici anni e io stavo per farne diciassette. Volevo arruolarmi
da prima, e l'arrivo dei tedeschi non mi ha dato altra
possibilità
di scelta. Sai che sono stato mandato al fronte? Non adesso,
cioè,
ho avuto due giorni di congedo, riparto tra poche ore. So che non
approveresti, ma sto combattendo in prima linea, per te. Ho l'assurda
convinzione che se andrò avanti riuscirò a
salvarti, forse non è
così, ma almeno ci provo.
Hanno aumentato di
nuovo le razioni di
cibo, forse perché non c'è più tanta
gente da sfamare, tu che ne
dici? L'America ci manda scorte e medici, ma a me gli americani non
sono mai piaciuti, lo sai bene. Nell'Armata Rossa non piacciono a
molti, però ci facciamo curare; i nostri ospedali
scarseggiano
persino di infermiere, e non siamo solo noi militari a morire, giorno
dopo giorno, ma sempre più civili contraggono la
tubercolosi...
muore sempre più gente di TBC, ma sono fiducioso,
passerà tutto
presto.
Spero che tu possa
tornare presto, Bea.
Mi manchi.
Avrei dovuto
parlarti dei miei
sentimenti prima, forse.
Ti amo,
Dimitri
Todorov
Il ragazzo
sbuffò, carezzando la carta
macchiata d'inchiostro con la punta delle dita. Avrebbe voluto che
lei fosse lì a leggerla, o comunque avere un indirizzo a cui
inviarla. Non poteva e lo faceva solo arrabbiare e stare male. Non
aveva troppo tempo, prima di rimettersi in cammino verso il fronte.
Doveva difendere Leningrado, ma soprattutto doveva ritrovare Bea. Era
assurdamente convinto del fatto che non fosse morta: non poteva
esserlo, se lo sentiva.
Ripescò un
pacchetto di sigarette e un
accendino dalla tasca interna del cappotto. Estrasse una sigaretta,
portandosela alle labbra, ma prima di accenderla bruciò quel
pezzo
di carta che avrebbe tanto voluto fosse consegnato all'unica ragazza
per cui avesse mai provato qualcosa. Fumò, alzandosi e
buttando
qualcosa in uno zaino. Doveva uscire, ma non ne aveva voglia. La sera
precedente era stato a cena dai Gurtsieva, il Colonnello Generale
approfittava dei pochi giorni di congedo come lui, Sergeij giocava e
lo riempiva di domande come al solito; ma Diana sembrava preoccupata
almeno quanto lui. Preoccupata perché moriva davvero sempre
più
gente, e con se stesso non poteva far finta di nulla, come aveva
cercato di sminuire la cosa nella lettera destinata a Bea. E poi,
erano tutti preoccupati per Bea, tranne il suo fratellino
Leningrado,
Unione Sovietica.
28
Dicembre 1943
19:57
<<
Bea non passerà l'inizio del
nuovo anno con noi. Vero, Boris? >>, era stata Diana a
parlare.
Non era una vera domanda: quella donna era sicura almeno quanto era
sicura del fatto che in Unione Sovietica vi fosse il comunismo. Era
preoccupata, ma Diana Gurtsieva era la donna più decisa e
forte di
tutta Leningrado: sua figlia sarebbe tornata, ma doveva crescere
Sergeij, nel frattempo.
Diana
non assomigliava molto alla
figlia: i lunghi capelli erano biondi, ma da lei la ragazza aveva
ereditato gli occhi verdi. Era una bella donna, poco più
giovane del
marito e nessuno dei due era ancora arrivato a quarant'anni. Amava la
sua famiglia e teneva a loro più di qualsiasi altra cosa.
Era
indipendente, dopotutto doveva prepararsi ad esserlo, sempre: se un
giorno il suo Boris fosse morto, al fronte, avrebbe dovuto occuparsi
lei dei suoi figli. Ce l'avrebbe fatta, ma sarebbe stata dura. Solo
in quel momento si rendeva però conto di quanto soffrisse
per la
mancanza di una figlia.
Il
marito scosse il capo, << Non
credo, Dianushka, ma sai quanto lo spero >>
<<
Cosa vogliono esattamente,
dalla nostra bambina? >>, era sempre stata brava, Diana,
a
nascondere le sue emozioni, persino al marito, quando voleva e quando
si trattava di cose importanti. Come in quel momento.
Boris
stava fumando. Come tutti i russi
amava la vodka e il tabacco, ma mai si era lasciato corrodere dai
vizi: sentiva solo il bisogno di lasciarsi andare, quel giorno.
<<
Non lo so. Forse credono che sappia qualcosa dell'Armata Rossa
>>
<<
E lei sa qualcosa, Borja? >>,
quel particolare era importante, dopotutto.
<<
Sai com'è fatta tua figlia,
donna, ti assomiglia più di quanto pensi: anche se sapesse
qualcosa,
non parlerebbe mai >>
Dimitri
sospirò, spostando la
sigaretta dalle labbra. Non aveva parlato fino a quel momento, seduto
in un angolo della stanza, accanto alla finestra. La stanza era
ampiamente riscaldata, e non si stava troppo male. I Gurtsieva aveva
due stanze, sebbene il padre dormisse spesso in caserma. Il soviet
locale questo non lo sapeva, e per il suo ruolo di Colonnello
Generale si riteneva che avesse diritto a due stanze. In una
dormivano lui e la moglie in un letto matrimoniale, in quella stanza
c'era anche un tavolo, era la stanza più ampia e la usavano
anche
come sala da pranzo, c'era anche un'ampia libreria, si trovavano
lì
in quel momento; di giorno, e nelle notti solitarie di Diana
Gurtsieva, il letto spariva nell'altra camera, Dimitri sospettava che
una coppia sposata e relativamente giovane avesse bisogno
d'intimità,
quando il marito trovava occasione di rincasare. L'altra stanza era
per i bambini, i Gurtsieva se la passavano bene economicamente, c'era
un letto matrimoniale ed un lettino più piccolo, anche
quella stanza
era riscaldata, e vi era un grande armadio con gli abiti di tutta la
famiglia, una cesta per i giochi di Sergeij e i libri preferiti di
Bea ammassati in un angolo.
<<
E cosa potrebbe succedere, se
parlasse? Oppure se non parlasse per troppo tempo? >>, la
donna
conosceva già la risposta, ma forse voleva soltanto essere
rincuorata dal marito.
Dimitri
era l'ultimo che volesse
sentire parole come "Verrebbe uccisa" oppure "La
porteranno dove portano tutti". Non ce l'avrebbe fatta. Spense
la sigaretta e si alzò dalla sedia. << Vado a
vedere come sta
Sergeij >> aveva detto ad entrambi i genitori, alzandosi
e
sparendo oltre la porta. Richiudendosela alle spalle. Sperava che il
bambino non avesse sentito i discorsi dei due coniugi; sperava che
lui non li avrebbe sentiti ancora. Adorava i Gurtsieva, ma Beatrisa
sarebbe tornata. Presto.
Entrò,
il bambino era seduto per terra
e disegnare -o scarabocchiare- su un foglio di carta bianco. Gli si
avvicino. Sergeij Borisovic vantava una somiglianza impressionante
con la sorella: piccoletto, dai folti capelli nerissimi e gli
occhioni verdi. << Che disegni ? >> chiese,
ostentando
allegria, prima di sedersi sul pavimento, accanto al bambino e
gettando un'occhiata sul foglio. Sembrava una ragazza davvero brutta
che Dimitri non ricordava di aver mai visto, disegnata come erano
soliti a disegnare i bambini.
<<
Bea. Mamma dice che tornerà
presto, così capirà che non l'ho dimenticata
>>, la voce
infantile del bambino non era preoccupata.
Il
ragazzo si morse il labbro
inferiore. Sempre Bea. Affondò una mano tra i capelli scuri
del
fratellino minore della ragazza che amava. Avrebbe voluto dire
qualcosa, qualsiasi cosa per aiutarlo a credere sul serio che lei
sarebbe tornata. Perché era quello che volevano tutti, era
quello
che voleva lui. Non ci riusciva: lui non era abituata a queste cose,
però. << Lo vuoi un consiglio, piccolo?
>> mormorò,
allegramente, stendendosi completamente sul legno del pavimento.
<<
Sì? >>
<<
Non dipingere mai da grande,
non fa per te >>, finse una risata, che gli
riuscì bene.
Il
bambino mise su un broncio adorabile
e l'altro non poté fare a meno di ridere, stravolta sul
serio,
attirandosi il piccolo contro il petto. << Su, non fare
così
>> disse, ironico, iniziando a fargli il solletico.
Dimitri
Todorov adorava quel bambino, amava Bea, rispettava Diana e Boris e
loro lo trattavano come un figlio, perché la guerra si era
messa in
mezzo?
<<
Resti a dormire qui, stasera?
>> il bambino era riuscito a liberarsi dalle mani del
tenente.
Annuì,
alzandosi. << Certo >>
Dimitri
Todorov poteva vivere nel
soviet dei suoi genitori, poteva alloggiare nella sua stanza, in
caserma, con gli altri, ma preferiva rimanere a dormire a casa
Gurtsieva, dov'era sempre ben accetto. Sergeij fino a tre anni
dormiva nella culla, e lui poteva tenere Bea contro il petto e
guardarla addormentarsi, da quando avevano comprato un lettino per il
più piccolo, però, Bea dormiva lì,
quando Dimitri si fermava, e il
tenente e il fratellino nel letto grande. Ma c'era stato un periodo,
quando Diana e Sergeij erano andati a passare una settimana a casa
della nonna a Luga, in cui Boris era sul fronte e Dimitri e Bea
avevano avuto la casa tutta per loro; era stato appena quattro mesi
prima. Il tenente ricordava ancora il dolce odore di vaniglia della
pelle di Bea contro il suo petto. Non aveva dormito, se non due ore a
notte, per tutta la settimana. Aveva passato tutte le notti di quella
settimana a guardarla respirare piano, addormentata. Era dura non
poterla nemmeno sfiorare se non come il suo migliore amico, quando
sapeva di amarla. Attualmente Sergeij aveva paura di dormire in
quella camera da solo, e Dimitri si fermava lì, a fargli
compagnia,
dato che la madre non dormiva con lui quando Boris era in congedo.
Campo
di sterminio di Buchenwald,
Germania.
31
Dicembre 1943
18:40
<< Forse
è il caso di lavarsi >>
disse Mark, ironico, osservando la ragazza seduta in un angolo del
bagno. Assomigliava ad una bambina, se n'era accorto solo il giorno
precedente. Walter non era tornato a fare loro visita e Mark non lo
vedeva da un po', ma alle nove sarebbe andato con suo padre dagli
Hoffmann per capodanno; tuttavia il tedesco pensava che senza la sua
visita, quattro giorni prima, non avrebbe mai ... accettato quella
ragazza.
Lei non gli rispondeva,
continuando a
fissare come imbambolata la vasca da bagno. Mark non si
arrabbiò,
come probabilmente avrebbe fatto in altri momenti, ma si
lasciò
andare ad uno sbuffo divertito. Riusciva a farlo ridere, e anche lui
era riuscito a vedere un sorriso di lei, rimanendone effettivamente
incantato. << Allora? >> chiese,
incrociando le braccia
al petto. Gli occhi nocciola risplendevano, brillavano di
curiosità.
Aveva rimandato il bagno, per ciò che era accaduto un po' di
tempo
prima, ma sperava che quel giorno fossero entrati abbastanza in
confidenza... e di aver meritato almeno un briciolo della sua
fiducia.
La ragazza
indicò il fulcro delle sue
attenzioni con l'indice. << In Unione Sovietica non
abbiamo
questa cosa. >>, a Mark diede l'impressione di essere
scettica
sulla sua utilità.
Si lasciò
sfuggire un mezzo sorriso,
<< Si chiama doccia >> le disse, prima di
porgerle la
mano, che la ragazza sembrava esitare ad afferrare: non aveva paura,
ma più probabilmente provava un divertimento sadico nel far
esasperare il povero tedesco.
Schreiber le si
avvicinò, abbassandosi
accanto a lei, << D'accordo, stiamo facendo troppo
rumore, e tu
ti stai comportando come una ragazzina capricciosa. Se entra qualcuno
e ci scopre, sarai in pasto all'ira di mio padre >>
disse,
cercando di convincerla. Non aspettò molto: non era un tipo
troppo
paziente; la afferrò per i fianchi sollevandola e
poggiandola nella
vasca, in piedi.
<< Anche
tu lo saresti >>
lo corresse.
Mark sorrise, anche se
effettivamente
era vero. << Ma se uccidesse me, sarebbe accusato di
omicidio
>> le fece notare, allontanandosi di poco da lei e
incrociando
le braccia al petto, aspettando che si spogliasse.
<< E se
uccidesse me? >>
Mark si
bloccò, sentendo la sua voce
infantile, aveva capito dove volesse arrivare e in quei giorni stava
sfiorando l'idea che non avesse tutti i torti, ma preferiva non
parlarne: suo padre non sarebbe stato troppo d'accordo con quelle
idee. << E' davvero tardi, è il caso di
lavarsi >>
mormorò, avvicinandosi alla ragazza, anche se un po'
più cupo di
prima. L'aiuto a spogliarsi, lasciandole indosso l'intimo.
Non riusciva a spiegarsi
come il corpo
di una ragazza potesse attrarlo a tal punto, soprattutto se ridotto
in quello stato, fatto sta che evitava accuratamente il contatto
diretto con la sua pelle. Era meglio per lei, se non voleva essere
violentata di nuovo. Dedicò parecchi minuti ad ogni ferita e
ad ogni
taglio, alcuni probabilmente anche di quella mattina, almeno era
ancora viva, al ragazzo sembrava quasi strano.
Sentiva lo sguardo di
lei, forse era
preoccupata. << Walter ha detto che vorresti partire per
il
fronte, è vero? >> la domanda della russa gli
parve molto
simile ad una doccia gelida.
Non le rivolse lo
sguardo, continuando
lentamente le sue operazioni. << Non lo so più
>>, era
vero. Continuava ad odiare suo padre con ogni fibra del suo essere,
ma non sentiva più il bisogno di allontanarsi divorargli le
viscere.
Stava bene, era felice come non lo era da tempo. Era felice come non
lo era da quattordici anni. Si scostò, appena ebbe terminato
di
pulirle le ferite, << Continui da sola, no? Ti aspetto
fuori >>
disse, velocemente e, senza darle il tempo di rispondere,
uscì dal
bagno, sedendosi sul pavimento del corridoio, di fronte alla porta.
Due motivi principali lo
aveva spinto a
farlo: non aveva la minima intenzione di vederla ancora nuda,
perché
non aveva intenzione di violentarla, o almeno voleva provare a non
violentarla; inoltre non gli andava di parlare del fronte, di suo
padre e della donna che lo aveva messo al mondo, odiava quegli
argomenti e almeno con lei voleva evitarli. Perché?
Perché lei era
così bianca.
Bianca.
Pura.
E lui come si sentiva?
Colpevole.
Sporco. Vuoto.
Avevano provato tante
volte a dirgli
che non era stata colpa sua. Ci avevano provato a scuola, gli
insegnanti che lo credevano un bambino molto dotato, ci provavano
tutti i giorni i signori Hoffmann, Walter non l'aveva mai detto ma
cercava di farglielo capire. Suo padre... beh, forse quella era
l'unica cosa su cui padre e figlio erano d'accordo: Mark Schreiber
era stato la causa della morte di Agathe Becker-Schreiber.
Alcuni lo chiamano
"incidente",
ma se quella mattina sua madre non fosse uscita per andare a
riprenderlo da scuola -che bisogno ce n'era, poi? Non era distante,
tornava tutti i giorni a piedi, da solo -, non sarebbe stata uccisa
da un malvivente.
Il soldato
deglutì, passandosi una
mano tra i capelli biondi, cercando di scacciare il senso di colpa e
la tristezza che di colpo si erano presentati dentro di lui, a gelare
le vene, partendo direttamente dal cuore.
La porta del bagno si
aprì, alle sue
spalle, rivelando una dolce ragazza russa, con la pelle che odorava
di vaniglia e i capelli neri puliti. Mark doveva ammettere che non
era abituato a vederla così bella. Si alzò,
cercando di celare ai
suoi occhi il malessere interiore che provava e le fece cenno di
seguirlo. Velocemente, raggiunsero nuovamente la camera dove avrebbe
dovuto trovarsi Bea. Non era facile mettere da parte tutto
ciò che
provava, ma Mark tentava, tentava perché non poteva stare
sempre
così male. Il dolore era insopportabile.
Entrati, il ragazzo
richiuse
velocemente la porta alle sue spalle. << Allora, come ti
senti?
>>, sapeva che in quelle condizioni avrebbe potuto
ricevere un
solo tipo di risposta, ma ci provava lo stesso. Stava cercando di
aiutarla... e gli piaceva il sorriso di lei. Era carina sul serio.
Dio, stava diventando così stupido che sicuramente la
ragazza gli
avrebbe risto in faccia.
<<
Luchshe, spasiba* >>, e
gli regalò un sorriso. Probabilmente quelle parole sapeva
dirle
anche in russo, ma ultimamente si divertiva a farlo esercitare con il
russo. Mark non riusciva a pronunciare molto bene le parole e lei
rideva, ascoltando il pesante accento tedesco che lui non riusciva a
fare a meno di posare su ogni sillaba. Solo Mark pensava che il modo
di parlare una lingua altrui di Bea fosse tremendamente adorabile?
Lui tentò di
sorriderle, nonostante i
brutti pensieri che non aiutavano affatto. << Vado a casa
di
Walter, stasera >> le disse, mentre le cambiava le bende.
Era
il motivo per il quale quella sera era andato a trovarla prima.
<<
Abbiamo questa strana abitudine di andare sempre da loro, per le
feste >>, sorrise.
<< Vive
anche lui in una casa
come questa? >>, aveva sgranato gli occhi verdi,
accentuando
l'impressione infantile che già riusciva a dare normalmente.
Schreiber le rivolse lo
sguardo,
scostandolo per qualche istante dalle ferite e dalle bende.
<<
Beh, non proprio come questa. Diciamo che da lui non ci sono guardie
dell'SS ovunque >> cercò di scherzarvi su,
sebbene non
riuscisse a capire la sorpresa della ragazza. Avevano parlato molto
in quei giorni, ma non di tutto. << Tu dove vivi?
>>,
tentò.
Bea si portò
una ciocca di capelli
dietro l'orecchio. << Oh, al secondo piano del terzo
soviet.
Purtroppo le nostre stanze sono al centro del corridoio. Noi abbiamo
ottenuto due stanze perché mio padre fa parte dell'Arm..
>>,
la ragazza non aveva intenzione di dire niente, riguardo suo padre o
riguardo l'Unione Sovietica, ma le sembrava così facile
parlare con
quel ragazzo tedesco.
Non era ugualmente
riuscita a finire di
parlare: Mark le aveva poggiato con fermezza una mano sulle labbra,
per farla stare zitta. << Non dirmi mai più
cose del genere >>
sibilò, dimenticando completamente il tono gentile e dolce
usato
fino a quel momento. Per certe cose, come quella, non riusciva a non
essere duro, ma aveva le sue buone ragioni. Notò il volto di
lei,
sembrava spaventata; sospirò e scostò lentamente
la mano. <<
Non sono contro di te, forse mi piacerebbe far fuori qualche
comunista, ma non te. Sono fedele alla Germania e al Führer,
se tu
mi dici queste cose, io devo dirle a chi di autorità.
>>,
stavolta si era imposto un tono più gentile, anche se gli
sembrava
un po' difficile.
La russa
annuì, osservandolo. <<
Se sei fedele alla tua arma, perché non vuoi che ti dica
niente? >>
Mark si stupì
di quella domanda così
ingenua, come se realmente non capisse il pericolo che correva
semplicemente parlando con lui. << Se lo fai, non avranno
più
motivo per tenerti in vita >>, non gli sembrava stupida,
avrebbe capito cosa significava quella frase, ne era certo.
Non parlarono
più. Lui le avvolgeva le
bende attorno alle ferite e lei lo lasciava fare, immobile. Si
scostò, poco dopo. << E' tardi, devo andare,
ci vediamo
domani. E' festa, forse riuscirò a venire prima
>>, cercò
ancora di sorriderle.
<< A
domani >>, Bea
sembrava sorridere con più facilità.
< >, sembrò ricordarsi
improvvisamente di una cosa.
Mark s'interruppe, con
la mano ancora
sul pomello della porta e si voltò ad osservarla.
<< Sì? >>
<< Buon
anno, soldato >>
Weimar,
Germania.
1
Gennaio 1944
00:01
<< Buon
anno! >> fu un coro
comunque, di cinque persone. Sembravano tutti così felici,
mentre
bevevano lo champagne con cui avevano brindato. Anche Mark era
stranamente felice quella sera di gennaio, e solo Walter poteva
vagamente immagine il motivo, ma non lo avrebbe di certo espresso ad
alta voce, davanti al madre di Mark non era il caso, almeno. Non
voleva mettere nei guai il suo migliore amico, no.
Il signor Hoffmann
poggiò nuovamente
il bicchiere sul tavolo, << Bene, Hans, cosa dobbiamo
aspettarci dai nostri soldati - e qui poggiò una mano sulla
spalla
del giovane Schreiber- in questo nuovo anno? >>, Mark lo
sapeva
bene, non gli era mai interessato nulla di politica, ma di solito
erano sua moglie ed Agathe Schreiber a reggere le conversazioni, da
quando l'ultima non c'era più le due famiglie erano rimaste
in
contatto principalmente attraverso i figli.
Hans Schreiber
scrollò le spalle, <<
Che riescano a contrastare i sovietici, Alphons >>
rispose
l'altro, scuotendo appena il capo. Il figlio vedeva che ci credeva
sul serio, probabilmente sarebbe andato persino lui a combattere sul
fronte, pur di non darla vinta ai russi, ma gli avevano affidato il
comando del campo di Buchenwald. Non poteva allontanarsi da
lì, se
non per questioni ordinate da Hitler in persona.
<< Ci vedi
buone possibilità? >>
stavolta era stata la donna a parlare. Come il figlio e il marito,
non era pro-nazismo, ma avendo buonsenso non lo contrastava in alcun
modo. Tanto, secondo lei, una politica del genere non poteva durare,
prima o poi la gente si sarebbe accorta di sbagliare.
L'altro
annuì. << Certo. Abbiamo
affrontato di peggio, inoltre sto cercando di avere informazioni
sull'Armata Rossa dalla figlia di uno di loro >>
Mark rivolse lo sguardo
al padre,
improvvisamente più interessato all'argomento di
conversazione. Non
sapeva molto su ciò che accadeva a Bea durante quei
colloqui. Lui
non glielo aveva mai chiesto, né lei sembrava
particolarmente
intenzionata a parlargliene. Forse sarebbe stato meglio rimanere
nell'ignoranza, ma preferì continuare ad ascoltare.
Alphons Hoffmann
annuì, << Siete
venuti a conoscenza di qualcosa? >>
<< Non
troppo, ancora, ma forse
siamo sulla buona strana >> il modo in cui lo disse diede
fastidio al soldato, che incrociò le braccia al petto, prima
di
sedersi sul divano.
Walter cercò
invece di fare buon viso
a cattivo gioco, notando la reazione del suo migliore amico,
<<
E come se la sta cavando Mark, signor Schreiber? >>
chiese, con
tono allegro, come se pensasse che il biondo seduto sul divano fosse
un eroe. Beh, in parte lo era, stava aiutando una deportata, contro
tutti e contro i suoi stessi ideali nazisti.
L'altro sorrise,
<< Oh, bene,
bene. Devo dire che sembra mantenere in vita la ragazza senza
lamentarsi troppo, anche se non la vedo da quattro giorni. L'hai
uccisa, figliolo? >>, l'uomo sorrideva con sarcasmo, come
se la
morte non gli provocasse alcun fastidio.
<< No
>> la risposta del
figlio fu fredda, seria, distaccata. Perché?
Perché stava cercando
di allontanarsi dal burattino nazista che avrebbe dovuto essere.
<<
Non è quello il mio compito >> aggiunse, poco
dopo.
Hans Schreiber
annuì, <<
Continua così, e verrai presto promosso a caporale
>>
Campo
di sterminio di Buchenwald,
Germania.
1
Gennaio 1944
12:30
Mark Schreiber era
tornato tardi quella
notte, insieme a suo padre, ma aveva dovuto comunque svegliarsi
presto. I militari non perdevano tempo, come diceva suo padre. Era
appena tornato da un allenamento, ridotto ma pur sempre un
allenamento. Iniziava davvero a scocciarsi di quella roba. Stavolta,
al poligono di tiro, invece delle sagome, c'erano degli deportati
ebrei.
Avevano sparato quasi
tutti, obbedendo
agli ordini dei loro superiori. Anche Mark Schreiber aveva sparato,
non aveva paura di uccidere qualcosa, ma per la prima volta in tutta
la sua vita si sentì in colpa per aver fatto del male a
qualcuno
che, nel suo paese, gli era stato insegnato valesse quando le feci di
un cane. No, le feci di un cane ariano valevano di gran lunga di
più.
Derek Keller aveva
rifiutato di
sparare.
Sentiva ancora le sue
parole, mentre si
lavava: "Perché
dovrei farlo? I bersagli mi vanno
benissimo e loro non mi hanno fatto niente. Credevo che la guerra
fosse per questioni territoriali, non per un capriccio di
Hitler". Doveva ammetterlo, quel ragazzo aveva fegato,
probabilmente ne aveva di più di tutti i militari dell'SS
riuniti
quel giorno; e non era un burattino dello Stato, come praticamente
tutti. Come Mark temeva di diventare.
Un sergente lo aveva
preso a calci,
come presto avevano fatto altri membri delle truppe. Si era buttato
nella rissa, per difendere Derek. Erano due contro dieci, ovviamente
non si era messa bene per Schreiber. Era un buon tiratore, ma in
quello non se la cavava troppo bene.
Sospirò.
Mentre usciva dalla doccia e
si asciugava il corpo. Cercava di non pensarci, quel periodo era
tutto così... strano, quasi surreale.
Si rivestì,
conscio che dopo pranzo lo
attendesse un'altra lezione di russo.
*Meglio,
grazie. (russo)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo 8. -Who will take care of you? ***
*Si
presenta implorando perdono*
Scusatemi,
vi prego, Zeus ha passato
tutta la settimana ad abusare del mio corpo e non mi ha permesso di
scrivere. ç__ç
Seriamente
parlando, mi dispiace
dell'abnorme ritardo nell'aggiornate, e anche se a voi non interessa
proprio nulla, ho avuto una montagna da studiare tra greco, latino,
italiano e tutte quelle altre materie che formano il mio orario (che
mi hanno cambiato stamattina .-. tutto sballato).
Spero
che questo capitolo possa
piacervi. *-*
C'è
una sorpresina finale che vi
dimostra il mio sadismo. <3
Prometto
che stavolta sarò sul serio
puntuale nell'aggiornare! Anticiperò i compiti e
farò di tutto, ma
sarò puntuale!
Buona
lettura, vi amo tutti. <3
Ringrazio
le persone che hanno inserito
la storia tra le seguite:
-
Bbw87
-
Fairness
-
Mareike Tiaycia
-
OlandeseVolante
-
Nadine_Rose
-
niacara07
-
Norine
-
Prusskj_Lazur
-
ChyoChan
-
la_regina
-
Luc
-
thegreenlady
-
mau07
-
NemesiS_
-
Selena_
Coloro
che la hanno inserita tra le
ricordate:
-
fedecaccy
-
Rayne
-
ElleBi
Coloro
che la hanno inserita tra le
preferite:
-
chyo
-
xxGiuls.
-
kikka23
-
elly04
-
Karota
-
Luna_LoveDark
-
liz89
-
hilaryd
-
Fairness
-
Selena
E
infine alle magnifiche ragazze che
hanno trovato il tempo di recensire:
-
Fairness
-
Nadine_Rose
-
Norine
P.S. E ringrazio TE, Stratos,
che non mi caghi minimamente ma so per certo che leggi ogni singola
riga. <3
Si
spera presto,
Schizophrenia.
Salviamoci la pelle.
-Who will take care of you?
Campo
di sterminio di Buchenwald,
Germania.
1
Gennaio 1944
16:43
Mark sbuffò,
esasperato, cancellando
per l'ennesima volta ciò che stava scrivendo. Yelena non gli
aveva
dato molti esercizi, ma erano abbastanza difficili. In quei cinque
giorni aveva imparato non troppo, ma comunque molto più di
quanto
pensasse. Era interessante, a suo modo. << Avete una
lingua
troppo difficile >> si lamentò, ad alta voce,
consegnandole il
foglio esasperato. << Non ne posso più.
Vivrò anche sapendo
solo questo >> aggiunse.
Yelena scosse appena il
capo, <<
Abbiamo iniziato solo da un'ora e mezza, e comunque il tedesco non
è
più facile della mia lingua >>
borbottò la donna, leggendo
velocemente gli esercizi svolti da un ragazzo. <<
Migliori in
fretta, ma non credo che potrò insegnarti ancora per molto.
Qualcuno
potrebbe sapere, e non so se voglio morire subito >>
aggiunse,
mentre andava avanti e indietro per le camere. Yelena era veloce,
pratica e non si lamentava mai, probabilmente aveva contratto qualche
malattia non troppo grave, ma non andava di certo a farsi visitare,
Mark intuiva il perché: tutti sapevano bene che chi entrava
in buone
condizioni lì dentro, spesso non ne usciva più,
molti venivano
usati come cavie umane. Eccetto quello, però, la donna
sembrava
ancora abbastanza in salute, nonostante le condizioni igieniche e il
fatto che fosse costretta a mangiare poco e dormire ancora meno.
Certo, dimostrava vent'anni in più di quanti ne avesse in
realtà,
ma era ancora viva.
<< Certo
>> accettò il
soldato, anche se a malincuore: non sapeva molto di russo e
nonostante fosse faticoso aveva voglia di imparare. Era sempre stato
curioso. Da piccolo amava la scuola. Non poteva di certo mettere a
rischio quella donna, però, aveva già fatto tanto
per lui che
sarebbe stato poco... morale, da parte sua. Certo, era un nazista
arruolato nell'SS, ma sentiva che la sua coscienza reclamare, da
qualche parte poco identificabile nella sua testa. Forse stava
tornando bambino. << Magari potremmo fare lezione meno
spesso,
invece di interromperle del tutto, una volta a settimana
>>,
propose invece. Non voleva metterla nei guai, ma un paio d'ore a
settimana sarebbero passate inosservate.
La donna si
portò una ciocca di
capelli biondo chiaro dietro l'orecchio, era sfuggita all'accurato
sistema che preparava ogni mattina per non farli sfuggire dal
fazzoletto di stoffa. Lo guardava, stupito, ma alla fine distese le
labbra sottili in un sorriso stanco, << Potrebbe andare,
sì,
ma dovremo fare molta attenzione >> accettò
alla fine. Gli
impegni del ragazzo, dopotutto, sembravano ripagarla di tutto quel
lavoro in più che faceva. Non era vecchia, ma in quel
momento si
sentiva gli anni e i dolori tipici di una donna troppo anziana per
svolgere un lavoro pesante o semplicemente per fare la domestica;
aiutare Mark con il russo sembrava riuscirle invece molto
più
facile, dopotutto era il suo lavoro a Mosca: faceva l'insegnante, e
non avrebbe potuto chiedere di meglio. Era una cosa che aveva sempre
amato fare.
Mark le sorrise,
felice, << Pensi
davvero che potrebbe funzionare anche facendo lezione una sola volta
a settimana? >> le chiese, sbalordito ma entusiasta, era
decisamente la soluzione ai loro problemi, nonostante mettesse
comunque la donna a rischio. Beh, nel caso li avessero scoperti,
l'avrebbe difesa. Era una sua idea, alla fine.
L'altra
annuì, << Certo, dovrò
darti molti esercizi da fare durante la settimana, e dovrai
esercitarti molto di più da solo con quei dizionari ed il
frasario,
ma sono certa che riusciremo a mettere insieme qualcosa di
sufficientemente decente in russo in quella testa >>
acconsentì, lasciando che un altro sorriso si facesse largo,
senza
illuminarle però gli occhi. Quel paio di occhi nocciola
sembrava
destinato a non brillare più; ma forse Mark sarebbe riuscito
a
trovare un rimedio anche a quello, dopotutto lo stava aiutando,
voleva ricambiare il favore.
<< Oh, la
cosa non mi spaventa >>
scherzò Schreiber, che si stava improvvisamente rendendo
conto di
essere più felice, nell'ultimo periodo. Non sapeva bene
perché,
forse era stato riprendere a parlare dopo tanto tempo con qualcuno
che non fosse solo Walter gli aveva fatto bene (che questo qualcuno
fosse una comunista che veniva torturata ogni mattina e una deportata
russa che faceva da serva in casa sua, non aveva molta importanza),
forse era semplicemente "l'avere qualcosa da fare", visto
che si teneva occupato sia aiutando Bea, sia con le lezioni di russo,
forse era stato semplicemente il cambiamento in sé a portare
allegria.
Yelena
annuì, << Ne sono
convinta >> disse, sparendo fuori dalla stanza, per poi
tornare
solo qualche minuto dopo. << Vuoi finalmente dirmi
perché stai
imparando il russo? >> era la seconda volta che glielo
chiedeva. La prima era stata quando le aveva effettivamente chiesto
di insegnargli la sua lingua. Ormai sembrava troppo curiosa per
aspettare.
Il soldato
sospirò, passandosi una
mano tra i capelli. << E' ... complicato >>
disse,
facendo una piccola smorfia. Probabilmente di lei poteva fidarsi,
riguardo Bea, anzi, sentiva che con quella donna avrebbe potuto
seriamente parlare di tutto, ma non era così facile. Non
sapeva
nemmeno da dove iniziare, a dirla tutta.
<< Mi hai
detto che era per
un'amica >> gli ricordò lei. Ecco, forse
avrebbe dovuto
iniziare proprio da lì, ma Bea era davvero sua amica? No, ma
era
arrivato a concepire che fosse una persona nonostante il luogo di
provenienza e l'orientamento politico.
Lui sospirò,
<< Non è
esattamente un'amica. E' una ragazza, viene dall'Unione Sovietica.
Dovrei tipo non farla morire, mentre la torturano per avere
informazioni sull'Armata Rossa. >>. Forse però
ultimamente potrei davvero chiamarla amica. Non
aggiunse vocalmente quest'ultimo pensiero, cosa assai giusta da fare.
Vide Yelena annuire,
<< E' per
lei che mi chiedi di preparare più cibo, la sera?
>>, chiese
ancora. Sembrava iniziare a capire qualcosa.
L'altro
annuì, << Esattamente,
ma non dirlo a mio padre >>, aggiunse poco dopo Mark,
<<
anzi, non devi dirlo a nessuno. Sarebbe peggio di quello che
succederebbe se scoprissero me e te. Credo che potrebbero persino
considerarmi un traditore del paese >>,
sospirò, rendendosi
conto di quanto ciò che aveva appena detto probabilmente era
vero.
Yelena sorrise. Un
sorriso meno tirato
dei precedenti, e passò maternamente la mano tra i capelli
del
soldato tedesco. << Sei un bravo ragazzo, in fondo
>>
Mark pensò
che sarebbe stata un'ottima
madre, se non lo era già, << Hai figli,
Yelena? >>
Lei annuì,
<< Una bambina, Anya,
ma non è in Unione Sovietica. Sono riuscita a mettere in
salvo
almeno lei >>, sorrise, << Forse non la
vedrò mai più,
ma lei starà bene >>, sì, erano
decisamente le parole di una
madre.
<< Come
l'hai messa in salvo?
>>, sembrava stupido. Lui non era riuscito a mettersi in
salvo,
forse perché Agathe credeva che la Germania fosse il posto
perfetto
dove crescere un bel bambino, per due tedeschi. Forse all'epoca lo
era sul serio.
<< Mio
cognato, lavora in Canada,
è andato via tanto tempo fa, prima di terminare gli studi.
Ha
insistito per venire a prendere la sua famiglia, poco dopo l'arresto
di mio marito. Non sono andata con loro, pensavo che ci fosse ancora
una possibilità per mio marito, ma suo fratello ha preso con
sé
Anya e l'ha portata in Canada >>
<< Ti
mancano molto? >>
<< Oh,
sì, ma vivo nella speranza >>
Weimar,
Germania
1
Gennaio 1944
18:20
Subito dopo la
chiacchierata con
Yelena, Mark si era diretto a Weimar. Aveva bisogno di passare un po'
di tempo con Walter, possibilmente da soli. Era arrivato senza
problemi fino a casa del suo migliore amico e lo aveva letteralmente
tirato fuori, senza neanche avergli dato il tempo di coprirsi
adeguatamente per l'inverno gelido tedesco. Il povero Hoffmann era
riuscito ad afferrare a stento un cappotto e una sciarpa che in quel
momento stringeva ossessivamente, cercando di ripararsi dal freddo.
<<
Avresti potuto aspettare che
finisse di nevicare >> sbottò, infilando le
mani nelle tasche
del cappotto fino in fondo. Mark sapeva quando l'altro odiasse il
freddo, era l'unica cosa in grado di irritarlo. Era decisamente nato
nel posto sbagliato, per i suoi ideali. Decisamente nel posto
sbagliato.
L'altro gli rivolse
un'occhiata
ironica. A Schreiber la neve piaceva tanto, invece; piaceva molto
anche a sua madre, quando era piccolo e nevicava passavano tutto il
pomeriggio fuori a far compre e a bere cioccolata calda.
<<
Beh, allora sarei dovuto venire di domani, e domani devo riprendere
in mano un fucile. Vuoi che venga a casa tua con un fucile?
>>
Il broncio di Walter
non mutò in un
sorriso come aveva sperato il soldato, << Beh, non
sarebbe
stata una cattiva idea, almeno non mi avresti costretto ad uscire con
tutto questo freddo. Non potevamo starcene a casa mia, davanti al
camino?! >>, niente da fare. Di solito era il ragazzo
dagli
occhi azzurri quello più calmo tra i due, ma quando si
trattava di
basse temperature riusciva ad immedesimarsi alla perfezione nel ruolo
di bambino capriccioso.
<< Volevo
fare una passeggiata
>>, gli sorrise l'altro, camminando tra le stradine poco
affollate quel giorno. Era proprio una bella giornata, certo, stava
nevicando, ma non violentemente come era successo l'anno precedente:
i fiocchi scendevano candidi e con tutta la lentezza possibile,
posandosi sul suolo per essere raggiunti poco dopo da altri fiocchi
di neve.
Walter
sbuffò, tirando fuori le mani
dalle tasche e sfregandosele più forte che poté,
cercando di
riscaldarle, visto che neanche la stoffa del cappotto aveva avuto
effetti troppo positivi sulla sua pelle. << Qual
è il motivo
di tanto euforia? >> borbottò, aggiustandosi
la sciarpa,
cercando di farle coprire una zona maggiore, ma senza ottenere troppi
risultati.
<< Qual
è il motivo di tanto
nervosismo? >>
<< Quella
roba umida e bianca
sotto i nostri piedi. >>
<< Si
chiama neve >>
<< Come
fai a sopportarla? >>
<< E'
bella >>
Il ragazzo dagli occhi
azzurri scosse
il capo, in segno di diniego, non sembrava pensarla nemmeno
minimamente come il suo amico, ed aveva le sue ragioni: la neve
sapeva di bagnato. << Come vanno le cose con Bea?
>>
Mark sorrise alla
domanda, un sorriso
strano che Walter non ricordava di avergli mai visto. <<
Beh,
sto cercando di imparare un po' di russo. So qualcosa, certo non
riesco a parlarlo fluentemente ma me la cavo. >>
Walter si
lasciò sfuggire una risata,
<< Sei davvero il mio migliore amico?! >>
chiese, con
ironia.
Il soldato
inclinò appena il capo
lateralmente, non sembrava avere capito cosa volesse dire.
L'altro gli diede una
pacca sulla
spalla, << Amico mio, quella ragazza ti ha conquistato.
Ti
brillano gli occhi. >>
<<
Fanculo, Walter >>
Campo
di sterminio di Buchenwald,
Germania.
1
Gennaio 1944
22:07
<< Come
sta Walter? >> Bea
sorrideva, un sorriso innocente ma che Mark stava imparando ad
adorare. Era strano che un deportato sorridesse, non gli era mai
capitato di assistere ad una scena simile, ed il fatto che a
sorridere fosse lei e non qualcun altro non faceva che amplificare la
gioia che provava nel vedere la scena.
Le sorrise di rimando,
<< Bene
>>, non aveva niente in particolare da dire sull'amico,
che in
effetti stava piuttosto bene o, almeno non poteva lamentarsi: non era
nella sua stessa situazione un po'... complicata e rischiosa.
<<
Tu, invece, come stai? >>, Mark la osservava: era seduto
sul
letto, con le gambe incrociate, muoveva ritmicamente la testa e
sorrideva, come una bambina, bella come probabilmente l'aveva sempre
vista. Non era mai rimasto incantato ad osservare una ragazza per
tanto tempo: era lì da più di un'ora, seduto
dalla parte opposta
del letto.
Alla ragazza
sfuggì una leggera
smorfia, in effetti non era una domanda da fare ad una deportata, ma
lei se la passava meglio degli altri. Mark s'impegnava e metteva a
rischio la sua vita perché fosse così.
Abbassò lo sguardo,
smettendo di ciondolare con il capo e senza fornirgli una risposta.
Il soldato si
pentì immediatamente
della domanda: era stato un idiota. Le si avvicinò,
sospirando
appena. Non sapeva bene cosa fare, non gli era capitato spesso di
dover consolare qualcuno e non gli era mai capitato di dover
consolare una ragazza, soprattutto per argomenti del genere.
<<
Vuoi parlarne? Con me? >> mormorò, non troppo
convinto delle
sue stesse parole: potevano essere state quelle sbagliate e non
avrebbe saputo cosa fare, ancora di più.
Beatrisa
alzò appena lo sguardo: gli
occhi verdi erano pieni di lacrime; Mark l'aveva vista piangere solo
una volta, ma in quel momento era diverso. In quel momento non sapeva
se le voleva bene o cos'altro. Era troppo confuso, ma sapeva
perfettamente che non voleva vederla piangere. Annuì
leggermente,
anche se sembrava stesse per scoppiare in lacrime.
Il biondo la
osservò, facendosi ancora
più vicino a lei ed allargò le braccia: meno di
un minuto e lei si
fiondò tra di esse, ma non pianse, riuscì a
farcela e Mark ne fu
tremendamente sollevato: non era sicuro che sarebbe riuscito a
sopportare le lacrime di lei. Le sfiorò i capelli con la
punta delle
dita, accarezzandoli e stringendo appena la ragazza a sé.
Non
avrebbe saputo come consolarla con le parole, ma stava ugualmente
cercando di farle capire a gesti che c'era, era presente, sebbene
potesse sembrare così strano come in effetti era. Le
accarezzò
appena la schiena, sentendola respirare più velocemente,
impegnata
nel trattenere le lacrime, si chinò a baciarle delicatamente
i
capelli, rimanendo chinato su di lei. << Ti prometto che
sistemerò tutto >> non avrebbe dovuto dirlo,
ma lo fece. Forse
era una promessa irrealizzabile -molto probabilmente- ma voleva
crederci, e voleva che lei ci credesse.
<< Mi
mancano tutti così tanto
>> furono le prime parole che udì il ragazzo,
ma non
rispondeva: la lasciava sfogare; non voleva che piangesse a forse a
lei sarebbe servito come sfogo. Le accarezzava i capelli, lentamente,
aspettando che continuasse a parlare, cercando di trovare qualcosa da
dire per non sembrare stupido ed inutile.
Sentì le
dita sottili di Bea stringere
con più forza di quanto si sarebbe mai immaginato la camicia
che
indossava, smise di accarezzarle i capelli e avvolse entrambe le
braccia attorno alle sue spalle, stringendola più saldamente
a sé.
Poggiò delicatamente il viso sul suo capo, senza pesarle.
<<
Mio padre, mia madre, Sergeij >> buttò fuori
ancora la
ragazza, e sembrava di nuovo sul punto di piangere.
Mark Schreiber
sospirò, poggiando le
mani sulle spalle della ragazza e scostandola lievemente, avendo
così
modo di poterle osserva il volto: gli occhi gonfi, rossi e lucidi e
le labbra tremanti; le accarezzò una guancia con la punta
delle
dita, prima di parlare. << So come ci si sente
-iniziò,
guardandola negli occhi- so benissimo come ci si sente a perdere
qualcuno di caro, ma tu non perderai nessuno, ti assicuro che non
perderai nessuno e nessuno perderà te, Beatrisa. Qualunque
cosa
dovesse succedere, ti riporterò in Unione Sovietica
>>, le
promise, con stampata sul volto un'espressione talmente sincera che
sarebbe stato impossibile, per la ragazza, non credergli.
La mora
annuì, in risposta e si
asciugò gli occhi appena un po' umidi con il dorso di una
mano, <<
Chi hai perso? >> chiese, e all'altro sembrò
un po' più
calma: non tremava più.
Il soldato la
guardò, allibito: non
voleva rispondere a quella domanda. Non parlava mai di quello,
nemmeno con Walter, non voleva ricordare quello che era successo,
anche se sarebbe servito a distrarre un po' la russa.
Sospirò,
poggiando la schiena al muro e socchiudendo gli occhi. <<
Mia
madre. E' morta quando avevo sei anni... >>, non era
sicuro di
riuscire a dirle tutto. Riusciva ancora a sentire le parole di suo
padre, quel giorno. Doveva essere da poco iniziata la scuola.
Berlino,
Germania
13
Settembre 1929
15:23
<<
Grazie per avermi
riaccompagnato a casa, signor Hoffmann >> disse,
educatamente,
il bambino di sei anni, sull'uscio della porta di casa sua. Aveva
pranzato a casa di Walter, quel giorno e il padre di lui si era
gentilmente offerto di riaccompagnarlo a casa, prima di ripassare a
lavoro.
L'uomo
scompigliò i capelli biondi del
piccolo Mark e gli sorrise, << Di nulla, torna quando
vuoi e
salutami tuo padre >>, detto questo risalì
sulla sua auto e
ripartì, diretto all'ospedale dove lavorava all'epoca.
Mark
riusciva a vedere le luci accese
in casa: suo padre era tornato, e probabilmente anche la sua mamma,
poteva significare solo questo. Se il suo papà era
già in casa a
quell'ora voleva dire che non era all'ospedale con la sua mamma -a
cui era capitata una cosa molto brutta, gli avevano detto- e quindi
erano entrambi a casa. Il bambino di sei anni si avvicinò,
bussando
alla porta di casa, felice: aveva dovuto passare un'intera settimana
senza la sua mamma.
Quando
Hans Schreiber aprì la porta,
però, Mark capì che non doveva essere felice:
c'era qualcosa nel
viso del padre che lo preoccupava: angoscia, forse? Il biondo allora
era ancora troppo piccolo per comprendere il sentimento che poteva
vedere sul volto di quell'uomo che gli stava di fronte. Si
aprì
ugualmente in un sorriso e allargò le braccia per farsi
abbracciare.
<<
Vieni dentro, Mark, dobbiamo
parlare >> furono invece le fredde parole del padre, che
si
scostò dall'uscio, per permettere al piccoletto di passare
senza
troppi problemi.
Il
bambino fece una leggera smorfia:
non era abituato ad essere trattato in quel modo. Lo amavano tutti in
quella casa, e sua madre gli aveva promesso anche un cucciolo di cane
con cui giocare, per il prossimo Natale. Obbedì agli ordini
senza
fiatare, ascoltando il rumore della porta che si chiudeva alle sue
spalle, spinta dal padre. << Cosa c'è?
>> chiese, con la
tipica innocenza di un bambino, al quale le disgrazie della vita sono
ancora estranee.
Hans Schreiber
squadrò il figlio, <<
Tua madre è morta - iniziò,prendendo le distanze
dal discorso, come
se non lo toccasse - d'ora in poi dovrai cavartela da solo. E' ora di
crescere, ragazzino >>
Campo
di sterminio di Buchenwald,
Germania.
1
Gennaio 1944
22:20
Mark non ricordava
più niente, dopo
quelle parole. Non ricordava se aveva pianto o urlato, non ricordava
cosa aveva detto, neppure se era rimasto nell'ingresso con il padre
oppure era fuggito in camera sua. All'epoca aveva solo sei anni, ma
forse aveva iniziato a capire solo da ventenne che più della
morte
della madre, la persona più cara che avesse all'epoca, lo
avessero
annientato a livello psicologico ed emotivo l'anafettività
del
padre, la sua indifferenza, il suo buttarsi a capofitto nel lavoro
che, dopotutto, era solo un modo per scappare dal proprio dolore, e
dalla vista di un bambino che non serviva ad altro che a ricordargli
la donna che aveva amato e perso.
Forse Mark lo capiva,
ma non lo aveva
mai perdonato.
Sentì la
ragazza farglisi nuovamente
più vicino, appoggiarsi completamente a lui, posare la testa
sul suo
petto, << Ti fa ancora male? >> lo aveva
chiesto con tale
calma e preoccupazione da meravigliare Mark: non c'era
pietà, nel
suo sguardo. Era una sensazione assurdamente strana sembrare che
qualcuno capisse,
senza fingere o altro.
Le cinse le spalle con
un braccio, <<
Qualche volta, ma non tantissimo >> mentì: gli
faceva male,
sempre. Non era riuscito a superarlo, non andava bene e non era
normale. Certo, c'erano alcuni momenti in cui riusciva ad isolare
l'avvenimento in un angolo della sua mente: le ore che riusciva a
passare di nascosto con Bea, le chiacchierate con Walter... e poi
c'erano tutti i momenti in cui pur stando in una sala piena di gente
si sentiva completamente solo. E ci pensava, e tutto tornava ad
essere come quattordici anni prima.
L'occhiata che la
ragazza gli rivolse
gli fece capire che non gli aveva creduto, e aveva fatto bene, ma il
ragazzo non lo avrebbe detto. << Beatrisa?
>> la chiamò,
giocando con alcune ciocche more.
<<
Sì? >>
<<
Scusami >>
Lei lo
fissò, con quegli occhi verde
acceso, d'un tratto perplessa. << Io... >>,
non era così
facile. << Walter mi ha detto che vuoi partire per il
fronte >>
cambiò strategicamente discorso.
Mark lo
notò, ma non disse niente in
proposito: capiva benissimo quanto fosse difficile e frustrante per
lei: per la ragazza il soldato era al contempo l'unica persona con la
quale potesse parlare, e allo stesso tempo una di quelle che le aveva
inflitto una delle umiliazioni più grandi. <<
Walter dovrebbe
imparare a non divulgare i miei desideri >>
<< Quindi
è vero? >>
sembrava ancora più meravigliata.
Il soldato
sospirò, sfiorandole ancora
i capelli, e lasciando che si allontanasse quando ne mostrò
il
desiderio. << Era >>, non riuscì
a trattenersi dal
correggerla.
<<
Perché volevi andartene? >>
Mark sorrise, con
sarcasmo: a lui la
risposta sembrava tanto chiara. << Pur condividendo
questa
politica, non vuol dire che mi piaccia vedere gente che viene
annientata a livello di persona, né voglio esserne la causa
>>,
era il primo motivo, ma forse meno importante per il ragazzo.
<<
e non voglio stare qui, con mio padre >>, aggiunse. Forse
si
stava esponendo troppo, ma con lei sembrava così facile.
<< E cosa
ti lega a questo posto,
adesso? >>
Mark le
poggiò una mano sulla guancia
destra, fissandola dritto negli occhi: << Se io me ne
vado, chi
si prenderà cura di te? >>
Rimasero ad osservarsi
a lungo, con
quell'interrogativo nell'aria, che li rendeva irrequieti. A Mark
parve di vederla tremare, dopo un po', << Hai freddo?
>>
chiese, a bassa voce, portandole lentamente una ciocca di capelli
dietro l'orecchio.
<< Un po'
>> mormorò la
ragazza, in risposta.
Mark annuì,
stendendosi sul letto e
poggiando il capo sul cuscino. << Vieni qui
>> le disse,
aprendo appena le braccia. << Avanti >> la
incitò,
aprendosi in un sorriso rassicurante, quano la vide esitare.
Bea alla fine gli si
raggomitolò
accanto e Mark la abbracciò, cercando di riscaldarla, senza
troppa
fretta e parve riuscirci, almeno in parte. Sorrise, dolcemente,
quando la vida iniziare a riposare con tranquillità, con il
capo
poggiato sul suo petto ed il respiro più lento.
<< Buona
notte, soldato >> mormorò nel dormiveglia. Le
sfiorò i
capelli e rimase ad osservarla dormire per più di un'ora,
prima di
essere colto a sua volta dal sonno.
Campo
di sterminio di Buchenwald,
Germania.
2
Gennaio 1944
13:30
Quello era stato il
miglior risveglio e
la miglior mattinata che Mark Schreiber avesse mai avuto. Gli era
capitato già molte volte, di svegliarsi accanto ad una
donna, ma
nessuno di quei risvegli lo aveva sconvolto emotivamente come quello,
e non c'era nemmeno stato un rapporto sessuale la notte precedente,
era una cosa impressionante.
Si sentiva bene, come
se ogni pensiero
del giorno precedente fosse volato via, come se nessuno dei due si
trovasse in una situazione spiacevole. Come se fosse appena nato
qualcosa di cui non comprendeva a pieno l'entità e
l'importanza.
Raggiunse il padre, a tavola, sorridendo. Era una cosa strana: Mark
Schreiber non sorrideva mai al padre. Beh, tecnicamente, nei suoi
pensieri, non stava sorridendo al padre ma a se stesso e a Beatrisa
Gurtsieva.
<< Come
sono andati gli
allenamenti? >>
Seconda cosa strana
della giornata: suo
padre non si interessava mai alla sua giornata. << Bene,
come
al solito >> rispose, scrollando appena le spalle, mentre
Yelena serviva il pranzo. Non salutò la donna, non poteva ed
era
meglio che nessuno sapesse.
<< Beh,
congratulazioni, sei
stato promosso a caporale >> disse, serio.
Mark sorrise,
<< Ne sarei anche
felice... ma cos'ho fatto? >> chiese, un po' stupito. Non
aveva
fatto niente altro oltre a badare a Bea e ad allenarsi.
<< Non
è ciò che hai fatto, ma
ciò che la Germania è sicura che farai
>>
Una lieve smorfia si
dipinse sul volto
del ragazzo, << E cosa dovrei fare? >>
<<
Partire per Leningrado,
diretto al fronte >> spiegò il padre, come se
fosse
completamente normale.
Il soldat... capotale
Schreiber scosse
il capo, << Non posso... Se andrò a
Leningrado, morirò
sicuramente >>, la situazione in Unione Sovietica si
stava
mettendo male per i tedeschi, era noto a chi lavorava nell'SS.
Hans
Schreiber scrollò le spalle, <<
Non l'ho deciso io. Parti domani sera, forse è il caso che
tu inizi
a preparare le tue cose >>
Io
non lo so chi c'ha ragione e chi no
se
è una questione di etnia, di economia,
oppure
solo pazzia:
difficile
saperlo.
Quello
che so è che non è fantasia
e
che nessuno c'ha ragione
e
così sia,
[Il
mio nome è Mai Più - Ligabue ft. Piero
Pelù]
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 9. -War. ***
Dio
cane!
Credo
che questo sia il ritardo più grande che io abbia mai fatto!
Però almeno sono riuscita ad aggiornare entro oggi, avevo
seri dubbi anche su questa data, purtroppo.
Ci
stanno caricando di compiti a casa ed interrogazioni, e quindi sono un
bel po' impegnata, figurarsi che non esco quasi più.
Mi
dispiace davvero tantissimo e vi porgo le mie scuse,
cercherò di essere più puntuale, per il prossimo
capitolo, mi dispiace sul serio.
Ad
ogni modo, vi lascio in fretta al nono capitolo -molto importante, a
dire il vero- sperando possiate godervelo. :3
Come
sorpresina per farmi perdonare, ho anche trovato un'immagine che
sarebbe perfetta per Bea e Mark, ve la posto. <3
Passo
ai ringraziamenti. u.u
Ringrazio
le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
-
Bbw87
-
Fairness
-
Mareike Tiaycia
-
OlandeseVolante
-
Nadine_Rose
-
niacara07
-
Norine
- Prusskj_Lazur
-
ChyoChan
-
la_regina
-
Luc
-
thegreenlady
-
mau07
-
NemesiS_
-
Selena_
-
Ipazia
-
LadyGiulia
Coloro
che la hanno inserita tra le ricordate:
-
fedecaccy
-
Rayne
-
ElleBi
Coloro
che la hanno inserita tra le preferite
-
xxGiuls.
-
kikka23
-
elly04
-
Karota
-
Luna_LoveDark
-
liz89
-
Fairness
-
Selena_
-
lorenzablu
-
orsetta
E
infine alle magnifiche persone che hanno trovato il tempo di recensire:
-
Prusskij_Lazur
-
Nadine_Rose
-
Stratos
-
Ipazia
-
Norine
-
lorenzablu
Salviamoci
la pelle.
-War.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
3
Gennaio 1944
10:30
Camminava e sbuffava.
Era una situazione assurda: non poteva partire per l'Unione Sovietica
di punto in bianco, la sera dopo, per di più! Non lo avevano
avvisato, non avevano fatto assolutamente nulla per fargli capire che
avrebbe dovuto dirigersi al fronte. Non era ciò che voleva
nemmeno un mese prima? D'accordo, le sue priorità erano
cambiate, ma non gli sembrava una cosa sbagliata voler rimanere ancora
lì.
Si fermò ad
osservare il fucile: sapeva usarlo come pochi soldati della sua
età, era senz'altro una nota di merito e ne era sempre
andato fiero, perché quella qualità gli sembrava
tutto d'un tratto così insignificante? Sì, era
esattamente quello l'aggettivo giusto: cosa c'è di
significativo nel fermare la vita di una persona? La risposta, per il
ragazzo, in quel momento si fermava al: "dipende dalla persona a cui
appartiene"; non era ancora la risposta esatta, ma comunque
rappresentava un passo avanti.
Prese l'arma tra le
mani: avrebbe dovuto usarla molto presto e forse anche su civili. Non
gli era mai capitato di chiedersi perché fare tutto quello:
conosceva già benissimo la risposta, per la sua patria e la
sua razza, ma soprattutto perché era quello che gli era
stato detto di fare; da quando aveva iniziato ad eseguire gli ordini di
qualcuno? Forse dai suoi quattordici anni oppure, senza rendersene
nemmeno conto, ancora prima, alla morte di sua madre.
Rimise il fucile al suo
posto, dopotutto non avrebbe comunque potuto fare niente per rimanere a
Buchenwald, tranne tagliarsi un arto, ma quello non rientrava
esattamente nella sua lista di cose da fare prima di morire. Doveva
solo partire, e prendere le cosa come venivano. Non sembrava per niente
facile nemmeno a dirsi, figurarsi come sarebbe stato difficile partire
realmente per l'Unione Sovietica. La cosa che gli faceva più
male era la consapevolezza di aver finalmente trovato qualcosa per cui
lottare, per cui pensare senza eseguire gli ordini, ma non poteva
disertare.
Per prima cosa, avrebbe
dovuto parlare con Walter. Doveva salutarlo, lui doveva essere il primo
a sapere che se ne sarebbe stato andato; Hoffmann gli era sempre stato
accanto durante il lungo viaggio che rappresentava la sua vita. Lo
aveva incoraggiato quando aveva deciso di arruolarsi nell'SS, lo aveva
sorretto quando era morta sua madre, e lo aveva esortato a conoscere
Bea, a prendersi cura di lei. Forse era quello il motivo per Mark
Schreiber era sempre stato così legato al suo migliore
amico: il secondo aveva fatto in modo che il primo non fosse mai
davvero solo.
Era anche necessario
avvertire Yelena della sua partenza, era a lei che doveva chiedere di
portare la cena a Bea, era l'unica che potesse farlo; stavolta non era
il caso di affidare il compito ad un futuro nazista, nemmeno ad uno
come Derek, non era nelle loro mansioni fare ciò che lui
faceva abitualmente e non era certo che sarebbero stati all'altezza
della cosa, senza farsi scoprire da qualche superiore.
Magari Walter avrebbe
potuto tenere compagnia alla ragazza, qualche volta.
Sarebbe stato tutto
così difficile, e lui non era nemmeno sicuro di riuscire a
tornare in Germania, non vivo almeno. I russi erano dannatamente bravi
a combattere, avevano subito perdite enormi, ma si arruolavano ancora
tantissimo ragazzi -anche di giovanissimi-, Mark non c'era ancora
stato, ma sapeva che l'intera popolazione lanciava pietre e qualunque
cosa avesse a portata di mano contro i tedeschi. Il ragazzo era sicuro
di morire molto presto, si consolava pensando che almeno avrebbe potuto
rivedere sua madre.
Doveva fare tutto, e in
fretta: uscì dalla sua camera, sbattendo la porta e
dirigendosi verso la cucina. Aveva tante persone da avvertire ed
effettivamente non troppo tempo; sarebbe partito quella sera stessa,
alle diciotto, e mancavano appena sette ore e mezza alle diciotto.
Trovò Yelena
intenta nelle solite faccende domestiche: quella donna si affaticava
troppo, o almeno era ciò che il biondo aveva iniziato a
pensare da un po' a quella parte, era strano in effetti, non era solito
preoccuparsi per le persone, ma ormai non ci faceva nemmeno caso, tanto
gli capitava frequentemente. << Ciao >> le
disse, avvicinandosi con cautela. Ormai lei doveva aver imparato a
riconoscere la sua voce, o almeno pensava che fosse così.
<< Ciao,
Mark, se sei qui per imparare qualcosa di russo tempo che dovremo
rimandare >> la donna aveva pronunciato quelle parole
senza staccare gli occhi dal suo lavoro, mostrandosi tuttavia calma e
disponibile, << in questo momento ho molto lavoro,
potresti tornare tra un paio d'ore >> suggerì,
quasi per non scoraggiarlo.
Mark scosse il capo,
<< Credo che non m'insegnerai più il russo,
Yelena >>, c'era una nota amara nelle sue parole: la
scoperta di una nuova ed interessante lingua lo aveva entusiasmato in
quei giorni, e applicarsi su di essa lo distraeva dal pensare a suo
padre o ad altre cose che potessero arrecargli dolore, almeno
finché non arrivava l'orario in cui poteva vedere Beatrisa.
La donna rise. Una
risata semplice e chiara, che fece sorridere spontaneamente anche il
ragazzo, << Credi di essere già
così bravo? >> chiese, voltandosi per
osservarlo. Sembrò ricredersi sulle parole appena
pronunciate appena ebbe visto l'espressione dipinta sul volto del
ragazzo.
<< Mi
mandano sul fronte, a Leningrado >>. Abbassò
lo sguardo, non riusciva a reggere quello quasi materno della russa;
non quando rischiava di perdere tutto ciò che aveva da poco
scoperto di possedere.
<<
Bàtjuski!* >> esclamò la donna,
portandosi una mano alla bocca. Sembrava preoccupata, preoccupata come
Mark non l'aveva mai vista. << Tuo padre è
d'accordo? >>, era stata esitante nel chiederlo, lei
stessa non aveva esattamente un rapporto felice con quell'uomo, ma
doveva obbedirgli.
Lui si passò
una mano tra i capelli, biondo, << Credo sia stata una
sua idea, ma non posso saperlo, dopotutto >>
riuscì a dire. Non capiva cos'avesse spaventato tanto
Yelena, << Cosa c'è di tanto terrificante a
Leningrado? Un drago?! >> tentò di scherzarvi
su.
Yelena gli
lanciò uno sguardo di rimprovero molto chiaro, chiaro come
era il messaggio che gli stava mandando: non scherzare sulla guerra, ci
sei dentro fino al collo. << Russi difendono Leningrado
meglio di qualunque altro posto, so che lì sono morti molti
dei vostri soldati >> spiegò, una volta
riacquistata la calma.
<< Beh,
pensarci serve a poco; posso solo andare lì e cercare di
fare il mio meglio per salvarmi la pelle e tornare qui, anche se inizio
a dubitarne parecchio >>, sospirò, tenendo gli
occhi fissi in quelli della donna stavolta, immergendosi in quel mare
di protezione.
La donna scosse appena
il capo, << Sei un ragazzo coraggioso, ma immagino tu sia
venuto qui per qualcosa, no? >>,: capiva benissimo le
intenzioni altrui e dopo quei giorni quelle di Mark erano un mistero
solo in parte, aveva imparato a conoscerlo e ad ascoltare i suoi
silenzi.
Il caporale
annuì, << Esattamente. Devo chiederti un
favore enorme e pericoloso, Yelena >>
<< Come
se non fosse stato pericoloso tutto quello uscito dalle tue labbra fino
ad ora >>
<< Bada a
lei, assicurati che non le manchi niente e fa' in modo che stia bene
>> la pregò, fissandola con uno sguardo che la
donna riconobbe subito, ma che il ragazzo ancora non riusciva a
comprendere.
Lei annuì,
<< Farò tutto ciò che posso per
mantenere questa promessa >>
Weimar,
Germania.
3
Gennaio 1944
13:15
Aveva pranzato dagli
Hoffmann: i genitori di Walter fortunatamente non c'erano, anche se
stavolta il caporale non aveva la minima idea di dove si potessero
essere cacciati. Tutto sommato, non gli interessava nemmeno, era molto
meglio così, dopotutto doveva parlare a Walter di questioni
private e sarebbe stato senz'altro svantaggiato a farlo davanti a loro.
Anzi, probabilmente non avrebbe potuto e basta, trovandosi costretto a
trascinare via l'amico.
La tristezza aveva
completamente travolto Schreiber: aveva certo voglia di tornare vivo
dall'Unione Sovietica, ma dubitava seriamente di farcela. Non avrebbe
più visto Walter, né Bea, ne qualsiasi altra
persona. Forse avrebbe ritrovato sua madre, ma non poteva essere sicuro
nemmeno di questo. Non aveva certezze, in quel momento, e le poche che
aveva erano andate distrutte la sera precedente. Non era pronto a
lasciarsi tutto alle spalle. Non era pronto a morire per degli ideali
in cui ormai stentava a credere.
Ma doveva.
Doveva partire per
l'Unione Sovietica.
Doveva lasciare Bea.
Doveva dimenticare
tutto ciò che aveva realizzato nell'ultimo mese.
E, se
necessario, doveva
morire.
Cerco di non pensarci,
ma non era facile. Se da una parte c'era l'egoistica pretesa di
rimanere in vita ad appena vent'anni, dall'altra c'era la
consapevolezza che, vinta o persa la guerra contro i russi, Bea sarebbe
stata uccisa, ormai diventata completamente inutile per fini militari.
Non poteva sopportare nessuna delle sue preoccupazioni in quel momento,
ma doveva dire a Walter che sarebbe partito presto; non poteva
lasciarlo lì, ignaro di tutto.
<<
Allora, come mai hai fatto tutta questa strada in un giorno lavorativo?
Ti hanno concesso dei punti in più per aver ucciso
più persone, oggi? >> scherzò, il
suo migliore amico, mentre si alzava ed iniziava a sparecchiare tavola.
Era sempre stato portato nelle cose domestiche.
Mark tentò
di sorridere, ne uscì qualcosa di tirato ed incredibilmente
falso. << Non proprio >> rispose, alzandosi
a sua volta per aiutare l'amico, pur sapendo di essere un completo
disastro in quelle cose. << Sono venuto per salutarti, in
verità >> prese la cosa non troppo alla larga,
non ce l'avrebbe fatta a reggere una conversazione tanto lunga con una
persona che stava per lasciare lì.
L'altro non comprese a
pieno la gravità della situazione, ma si voltò
ugualmente a guardare il giovane Schreiber, inarcando un sopracciglio,
<< Visita di cortesia, quindi? Non credevo che me ne
avresti mai fatte, di solito sei pieno di problemi >>
tentò ancora con l'ironia, che stavolta riuscì a
strappare al ragazzo dagli occhi nocciola un sorriso quasi vero. Quasi,
eh.
<< Parto
per il fronte, Walter, stasera >> rispose, quasi subito,
fissandolo dritto negli occhi. Come avrebbe fatto a lasciare il suo
migliore amico da solo? No, non poteva morire, doveva tornare
lì, vivo. Per Walter, per Bea e per se stesso.
Il biondo
spalancò gli occhi e per un paio di minuti non
riuscì a dire assolutamente niente. Sembrava sconvolto, come
Mark non lo aveva mai visto. Come se gli avessero appena ucciso la
persona più cara che avesse, o come se avesse appena saputo
di avere una malattia terminale. Talmente stupido che probabilmente non
aveva mai davvero pensato -nemmeno per un momento- che il soldato
potesse realmente decidere di andare al fronte.
I secondi, i minuti
passavano, ma nella stanza non si udiva suono. Rimanevano immobili,
nella sala da pranzo, a fissarsi, senza proferire parola. Walter con
quell'espressione stupida, e Mark con una calmissima, che nascondeva in
realtà un profondo tormento.
<< Dove
vai di preciso? >>, Walter Hoffmann era ansioso, si
percepiva chiaramente dal suo tono di voce.
L'altro cercava di
continuare a mostrarsi calmo, sebbene stesse per scoppiare.
<< A Leningrado >>
<< Quando
tornerai? >>, il migliore amico del soldato cercava dir
raccogliere più informazioni possibili sull'imminente
partenza del suo migliore amico, stava anche cercando di pensare che
sarebbe andato tutto bene, da ottimista qual era sempre stato, ma
quella volta non gli riusciva tanto facile.
<< Quando
sarà finito tutto credo >> ma i suoi pensieri
dicevano più: forse mai.
Walter
annuì, non riusciva a pensare, né a dire molto.
<< Hai paura? >>, sarebbe sembrata a tutti
una domanda lecita. Era noto che Mark prima sarebbe partito di corsa
per il fronte, ma Walter era il suo migliore amico, ed era riuscito a
scorgere un profondo cambiamento in lui negli ultimi tempi.
Il caporale
esitò: non era sicuro della risposta. << ...
No >>, ma, anche se ti ostini a negarla, la paura
c'è sempre. E' lì, come un'ombra e non ti
abbandona mai; qualunque sia la tua preoccupazione, stai tranquillo che
non sarai mai completamente da solo nell'affrontarla, sarai sempre
vestito della paura, indosserai quelle vesti come il più
pregiato degli abiti, impregnato del suo odore.
Fu difficile credergli,
per il giovane Hoffmann, ma ci provò ugualmente. Gli si
avvicinò, poggiandogli una mano sulla spalla.
<< Sai che sarò sempre dalla tua parte, ma
questa è una cosa stupida e sono certo che te ne rendi conto
anche tu >> tentò di convincerlo a lasciar
perdere tutto.
<< Non
è una cosa stupida, era il mio sogno >>
replicò l'altro, con una smorfia. Era tutto ciò
che aveva voluto, per un periodo e anche se c'erano mille motivazioni,
forse sarebbero sparite, forse Bea era solo un capriccio momentaneo.
Sapeva che non era così, ma cercava d'illudersi.
Un paio di occhi
azzurro intenso lo fulminarono. << Appunto: era il tuo sogno.
Desideri ancora partire per il fronte? Per allontanarti da cosa? Mi
pare che emotivamente tu ti sia già allontanato molto dai
tuoi problemi >>, sbottò, con voce
più dura del solito. Troppo dura per appartenere davvero a
quelle labbra d'angelo.
Schreiber
sospirò, allontanandosi. << Non ho idea di
cosa voglio, Walter, ma sono comunque costretto a partire; sai cosa
significa disertare? >> era una domanda retorica,
tuttavia il figlio del signor Hoffmann fece cenno di sì con
un breve e veloce cenno del capo.
<< In
questo caso, buona fortuna. Sappi che sarò qui ad aspettarti
>>
<< E se
non tornassi? >>, c'era un filo d'ansia nella voce del
militare.
<<
Tornerai, ne sono sicuro >> tentò di
rassicurare sia se stesso, sia il suo migliore amico.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
3
Gennaio 1944
16:58
Gli erano rimaste
appena un paio d'ore prima della partenza. Doveva assolutamente
salutare Bea. Aveva pensato a tutto: i bagagli, anche se miseri -
dopotutto cosa si portava esattamente con sé quando non si
sapeva nemmeno se ci sarebbe stato un ritorno? -, aveva avvertito e
parlato con tutte le persone con cui sentiva il bisogno di farlo, e
aveva preso dei soldi. Quelli gli sarebbero sicuramente serviti, quelli
facevano girare il mondo, o almeno la parte di esso in cui si concentra
il potere.
Bussò piano
alla porta di Bea, ma non ricevette risposta; non si
meravigliò, la ragazza parlava poco, quando non era sicura
di essere sola con lui. Aprì lentamente la porta, trovandola
seduta sul pavimento di legno, a gambe incrociate: osservava il
soffitto come se fosse la cosa più interessante del mondo.
Attorno a lei aleggiava un'aria quasi magica, o almeno fu l'impressione
che ebbe Mar Schreiber osservandola.
<< Posso
parlarti? >> chiese, con un tono di voce stranamente
dolce e, per una volta dalla sera precedente, davvero calmo. Si
avvicinò lentamente, osservandole il viso infantile eppure
così puro. Le si sedette accanto, e solo in quel momento la
ragazza abbassò i grandi occhi verdi verso di lui.
Si aprì in
un sorriso, << Certo, dimmi >>, sembrava
che ormai la ragazza vivesse solo per quei piccoli momenti con il
soldato nazista.
E se per Bea era un
dubbio, per Mark era una sicurezza: mangiava, beveva, sparava,
respirava solo per quelle ore. Solo per vederla sorridere, per scrutare
i suoi occhi così intensi e profondi, per percorrere con lo
sguardo le linee del corpo, sulla pelle delicata e diafana. Schreiber
era profondamente turbato dalle reazione che le provocava quella
ragazza: non poteva essere semplice attrazione fisica, no, conosceva
bene com'era fatta quella e non comportava quegli atteggiamenti di
assoluta dipendenza. Si drogava di lei, ecco cosa faceva, tramutava il
suo odore in ossigeno.
Il ragazzo si
avvicinò cautamente a lei. La prima volta che si era
avvicinato così tanto era stato per violarla. Si sentiva
così stupido ad aver fatto una cosa tanto senza significato.
La osservò negli occhi per quale istante, senza decidersi a
parlare. Era stato facile dire a Yelena che se ne sarebbe andato, anche
se si era affezionato a lei. Era stato difficile dire a Walter che
stava partendo per l'Unione Sovietica e che forse sarebbe morto, ma non
era minimamente paragonabile alla dolorosa e rumorosa lotta in atto nel
suo petto e nel suo cervello.
Gli erano state
insegnate tante cose: aveva imparato ad odiare i comunisti, e a
considerare qualsiasi popolazione esistente come inferiore alla pura
razza ariana. Gli era stato insegnato che un bravo soldato non pensa
con la propria testa, perché rischierebbe di mandare in
crisi le ottime strategie di un generale; gli era stato insegnato come
idolatrare Hitler nel modo più assurdo, come con il saluto
nazista; gli era stato insegnato che quella bandiera significava
libertà e gloria per i tedeschi, ma nessuno gli aveva mai
insegnato come dire ad una ragazza: mi dispiace, sono costretto ad
abbandonarti.
Soprattutto quando non
era ciò che voleva davvero fare. Voleva solo rimanere
lì a fissarla ancora un po', fino al momento della morte.
Allungò una
mano, sfiorandole i capelli corvini e riportandogliene una ciocca
dietro l'orecchio. Li aveva lavati recentemente, ed erano ancora
più belli del solito: tutto in quella ragazza quel
pomeriggio e in quella camera sembrava urlargli di resta, che non ce
l'avrebbe fatta da sola; ma lui non poteva dare ascolto a quelle urla.
Bea Gurtsieva
posò una mano dalle dita lunghe e sottili su quella di Mark,
che era scivolata su di una guancia di lei. << Cosa
c'è, soldato? >> chiese e doveva esserci
qualcosa nello sguardo di Mark che l'aveva allarmata perché
in quel momento sembrava preoccupata a sua volta.
<< Sto
per partire >>
Fu un mormorio, un
rifiuto di credere alla realtà. Poche parole dette a mezza
voce, nella speranza che siano solo un incubo. Ripensò a
ciò che aveva detto a Walter: era il suo sogno partire per
il fronte; il suo amico aveva ragione, era il suo sogno, ormai aveva
altri sogni, altri obiettivi, altri motivi per andare avanti che non
fossero uno stupido fucile. Non stava rinnegando i suoi ideali nazisti,
no, non erano una cosa che si spazzava via così facilmente.
Semplicemente stava cercando di aprirsi alla ragazza, completamente.
Il volto di lei
mutò in un'espressione triste, << E dove
andrai? >> chiese, come se fosse una cosa ovvia farsi
quella domanda.
Mark
continuò ad osservarla negli occhi, mentre parlava,
<< Non è un viaggio di piacere: vado sul
fronte, a Leningrado >> tentò di spiegarle. La
reazione di lei lo stupì: gli si era gettata letteralmente
tra le braccia. Non piangeva, ma si stringeva contro il suo petto,
raggomitolandosi e cercando calore, cercando protezione, cercando tutto
ciò che lui non gli aveva ancora dato.
Mark Schreiber
sospirò, senza sapere esattamente cosa fare. Non si era mai
trovato a provare affetto per una ragazza, non seriamente almeno. Tutte
le volte che stava con una ragazza era solo per il sesso, ma ad ogni
modo ciò non capitava più spesso come un paio
d'anni prima, aveva totalmente rinunciato al rapporto con l'altro
sesso. L'unica fiamma era stata la violenza a Bea dopo così
tanti anni.
Le poggiò
una mano sul capo, iniziando a giocare con i capelli corvini di lei,
attorcigliandoli tra le dita, carezzandoli, seguendo le linee morbide
dei boccoli. Trovava i capelli di lei perfetti. Trovava gran parte
delle cose in lei, perfette, ma non avrebbe mai avuto modo di
dirglielo. Insomma, lui non era tipo da fare certe cose!
<< Non
andartene >> le sentì mormorare.
Non capì
subito il senso delle parole di lei: dopotutto non si era mai sentito
indispensabile per nessuno, ma dopo qualche istante riuscì
finalmente a rendersi conto di una cosa: lui era l'unica persona su cui
Bea Gurtsieva potesse davvero fare affidamento lì dentro,
nonostante tutto ciò che le aveva fatto e di cui si
vergognava. Le cinse le spalle con un braccio, mentre l'altra mano
continuava ad accarezzarle i capelli. Sospirò ancora, e
ancora. Quando lei gli era vicino, voleva davvero restare.
<< Non penso sia possibile >> rispose, e
purtroppo era vero. << se resto, mi
uccideranno>>, aggiunse.
Beatrisa si
scostò appena ed annuì, con sguardo forte,
deciso. Con fermezza ritrovata, con gli occhi che le brillavano di un
verde acceso diverso da quello che Mark le aveva sempre
visto. Poggiò nuovamente la schiena contro la
parete e sorrise, un po' in modo finto ma lo fece lo stesso, e il
ragazzo gliene fu grato. << Vai. Sono forte abbastanza,
vai; ma torna indietro, soldato, il prima possibile >>
gli intimò, fissandolo dritto negli occhi nocciola.
I loro sguardi si
stavano fondendo. Si guardavano come se fosse la prima, come se non
fosse in un lager e non ci fosse alcuna differenza tra di loro. Si
guardavano come due ragazzi che si erano conosciuti normalmente, che
avevano una vita normale e che non seguivano nessun preciso
orientamento politico. Erano solo Mark e Bea, due ragazzi che trovano
la forza l'uno nell'altra.
Il ragazzo si
avvicinò a lei. Aveva il viso rilassato e calmo, di chi non
ha assolutamente idea di ciò che sta facendo, ma avverte il
bisogno impellente di farlo. Poggiò una mano contro il muro,
appena sopra la spalla della ragazza. Era a pochi centimetri da lei e
riusciva a sentire il suo respiro, il suo odore. Riusciva a sentire la
pelle bruciare al contatto con il suo odore, una sostanza
così pura: sapeva di vaniglia. Era frastornato, ma
continuava ad osservarla, la osservò mentre chiudeva gli
occhi, vide le labbra di lei tremare lievemente. Chiuse a sua volta gli
occhi, avvicinandosi a lei, tanto da sfiorare il suo naso con il
proprio. Riusciva a respirare del suo stesso fiato, ormai, le loro
labbra erano ad un soffio, quando Mark capì effettivamente
ciò che stava succedendo: si allontanò di poco,
con il respiro veloce e poggiò la fronte contro la sua.
Non poteva baciarla,
era contro qualsiasi legge in vigore in Germania in quel periodo; e non
poteva perché non era il solito bacio, non era stato
semplice uso sessuale della persona deportata. Era qualcosa di
più, ma il ragazzo non poteva -o forse non voleva-
accettarlo. Preferiva pensare che fosse tutto frutto della partenza
imminente, e del fatto che non frequentasse davvero una ragazza da un
sacco di tempo.
Rimase con la fronte
contro la sua, finché lei non aprì gli occhi.
<< Tornerò il prima possibile, te lo prometto
>> disse solo il ragazzo, prima di alzarsi e sparire via,
preda del tumulto che si era formato dentro di lui.
Unione
Sovietica.
4
Gennaio 1944
22:43
Caro
Walter,
I
bombardamenti sono appena cessati e ho l'occasione di scriverti due
righe.
Non
avevo assolutamente idea di cosa pensavo, quando desideravo
ardentemente venire qui. Regna il caos, non ci sono regole al gioco: si
attacca anche di notte, si fanno delle imboscate. Tutto ciò
che può portare alla vittoria è lecito. Cosa vedo
da cui?
Fumo.
E' ovunque. C'è anche tantissima neve, sono convinto che
odieresti l'Unione Sovietica, Walter! E' divertente prenderti in giro.
Non so se riceverai mai questa lettera -sai, a causa della censura-, ti
parlerò di quello che succede qui, senza preoccuparmi di
farti sapere la verità, senza cercare di trasfigurarla, come
ci arrivano ti arrivano le notizie a Weimar, come credo arrivino in
tutta la Germania.
Non
hai idea di cosa sia la guerra finché non vedi le persone
che ti sono accanto morire. Finché non avverti il terrore
percorrerti la spina dorsale quando una bomba viene sganciata verso di
te. Non sono forti, in quanto ad aviazione, questi russi, ma resistono
benissimo. Sembra che qualunque cosa succeda siano sempre pronti sul
campo di battaglia. Ne hanno uccisi tantissimi solo oggi, eppure non
sembrano diminuire.
Noi
tedeschi siamo ormai ridotti male qui. Non so com'è la
situazione nel resto dell'Unione Sovietica, dato che continuando a
mentirci sul giornali di Hitler! Non hai mai letto che stiamo perdendo
tutti i nostri uomini, vero? Certo, solo i potenti e chi muore per la
Germania lo sa. Ci hanno sempre detto che la Russia sarebbe stata
territorio facile, e invece quest'assedio va avanti da tantissimo
tempo. Non so cosa pensare.
Ci
sono tantissimi ragazzi della mia età, molti anche
più giovani. Fa così male il pensiero che
moriranno anche loro, molto presto. Morirò anche io, presto,
Walter, lo so. Mi è bastato un giorno qui, per vedere i
cumuli di cadaveri. Perché è scoppiata questa
guerra, Walter?
Perché
mi sono arruolato?
I
tedeschi non si comportano nel migliore dei modi, inoltre. Gli aerei
lasciano cadere volantini sul territorio, con la proposta ad unirsi al
nostro esercito, poi ci sono l bombe, e alla fine vengono lanciati dei
regolari moduli di adesione. E' una cosa davvero stupida; se lo
facessero i russi, non mi unirei mai a loro, combatto per il mio paese,
non per quello che vince. E la Germania riuscirà a vincere,
Walter, te lo prometto. Tornerò a casa.
Pur
ammettendo che la censura non bruci direttamente la mia lettera, devo
capire come inviarla. Non dev'essere facile e sono nuovo qui. Non so,
comunque, se scriverò di nuovo. Potrei sempre non avere
più le mani, quando avrò un attimo di tempo per
scriverti un'altra lettera, non credi? Lo so, odi il mio sarcasmo,
conosco perfettamente la faccia che faresti leggendo quest'ultima
affermazione, ma la cosa non fa che divertirmi e c'è davvero
bisogno di sorridere quando punti un fucile contro militari e civili,
tra cui anche ragazzini di nemmeno diciassette anni che giocano a
lanciarci le pietre contro. Mi fa pena ucciderli, ma devo, e lo faccio.
Nella
zona dove sono stato messo, e dove dovrei dormire tra poco,
c'è un ragazzo, dell'aviazione, fuma. So che la cosa ti
infastidirebbe, quindi ho evitato di accettare la sigaretta che mi ha
offerto, sebbene tu sappia che il fumo mi rilassa tantissimo. Non fumo
una sigaretta da un anno e mezzo, avrei anche potuto concedermela, non
trovi? Ho evitato, amico mio, se la guerra vuole permettermi di vivere
ancora qualche decennio, non vorrei che un tumore o qualsiasi altra
cosa rovinasse i miei ultimi anni di vita.
Mi
ha spiegato parecchie cose. Stanotte lui deve bombardare la Neva, un
fiume che permette a Leningrado di ricevere cibo e all'esercito di
avere rinforzi. E' completamente ghiacciato, ma con qualche bomba il
ghiaccio verrà giù e i russi non potranno
più attraversarlo. Mi ha lasciato tutte le sue munizioni:
è sicuro di morire stanotte, mi ha detto che proprio per la
sua importante funzione i russi ci tengono a quel fiume.
Effettivamente,
se fossi in loro, anche io me lo terrei stretto.
E'
proprio il caso che ti saluti, probabilmente stanotte dovrò
riprendere in mano il fucile.
Tornerò
vivo con in alto la bandiera nazista,
Mark
Schreiber
Unione
Sovietica.
7
Gennaio 1944
5:02
C'è
un attimo di calma in questo venerdì mattina, Bea,
Non
sono riuscito a spedire la lettera che avevo scritto a Walter, di
conseguenza credo che non spedirò nemmeno questa, ma far
finta di parlarti mi fa sentire bene, come quando venivo a trovarsi
lì, nel campo di lavoro, in Germania.
Spero
che Yelena non si sia fatta scoprire. Mi fido di lei, ma ne va della
tua vita. Sono convinto che mio padre starà provvedendo a
te: torture e cose del genere. Credo che per questo dovrò
odiarlo più di quanto già non faccio normalmente.
Volevo
chiederti scusa per l'ultimo pomeriggio passato insieme, ma credo che
da vicino non lo farò mai, e lo sai anche tu. Non avrei
dovuto avvicinarmi così tanto a te, non so quale siano stati
i tuoi pensieri, ad ogni modo scusami, non avrei mai dovuto. Sei sempre
una di loro dopotutto, ed io non posso tradire il mio paese, per quanto
avrei desiderato farlo quel pomeriggio.
No,
non riesco a mentirti, nemmeno se in una finta lettera che non ti
invierò mai. Diserterei adesso stesso, se potessi trovare un
qualunque modo per salvarti.
Non
riesco a scriverti molte cose. Sento le bombe cadere poco distanti, non
ho paura. Pensarti mi mantiene attivo sul campo. Ho un motivo per
tornare a casa, tu non credi?
Il
ragazzo dell'aviazione che avevo conosciuto è morto sul
serio, aveva ragione. Non sono nemmeno riusciti a rompere la lastra di
ghiaccio che ormai è diventato il fiume Neva, e i rinforzi
per i russi continuando ad arrivare. Oltretutto mi pare che dalla loro
ci siano moltissimi medici americani.
Perdonami
per la brevità di questa missiva. Non c'è mai
tempo in guerra,
Con
affetto,
Mark
Schreiber
Unione
Sovietica.
9
Gennaio 1944
00:21
Bea,
Le
speranze tedesche stanno precipitando una ad una; ma io sto imparando
da quest'esperienza.
A
cosa serve in realtà la guerra? Ovunque mi giro sento solo
puzza di bruciato, cumoli di cadaveri, molti di
più di quanti ne vedevo nel campo. I nazisti che lavorano
nei campi di concentramento sono dei veri codardi: con quale coraggio
si spara ad un deportato disarmato, morente di freddo e senza alcuna
possibilità -credo che arrivati al punto in cui sono loro
non ce ne sia nemmeno la volontà- di difendersi. Sparare
contro chi ha un fucile più grosso del tuo è
molto più difficile.
Inizio
ad essere stanco, Bea, non è facile reggere questi ritmi.
Non è facile uccidere ogni giorno e vedere il sangue
scorrere come tanti piccoli fiumi. Non è facile stringere
dei rapporti e vederli morire il giorno dopo.
Qui
fa freddo, Walter ha ragione: inizio ad odiare la neve. Neve e sangue
è un composto schifoso.
Non
riesco a smettere di pensare a te,
Mark Schreiber
Unione
Sovietica,
13
Gennaio 1944
17:46
Le
cose si mettono sempre peggio per i tedeschi, Bea.
Ho
paura. Siamo rimasti davvero in pochissimi, nemmeno i russi sembrano
messi bene, ma se la cavano.
Scusa,
non riesco a scrivere, ho le mani congelate.
Mark
* Bàtjuski! (russo)
= esclamazione, non come traduzione letterale ma sarebbe qualcosa del
tipo "Oddio!" o "Santo cielo!"
E voglio il
nome di chi si impegna
a
fare i conti con la propria vergogna.
Dormite
pure voi che avete ancora sogni.
Eccomi
qua, seguivo gli ordini che ricevevo
c'è
stato un tempo in cui io credevo
che
arruolandomi in aviazione
avrei
girato il mondo
e
fatto bene alla mia gente,
fatto
qualcosa di importante.
In
fondo a me, a me piaceva volare...
C'era
una volta un aeroplano,
un
militare americano,
c'era
una volta il gioco di un bambino.
E
voglio il nome di chi ha mentito:
di
chi ha parlato di una guerra giusta;
io
non le lancio più le vostre sante bombe.
[Il
mio nome è Mai Più - Ligabue ft. Piero
Pelù]
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 10. -Liebe. ***
Eccomi!
Stavolta ho fatto meno tardi del solito, non siete felici?! xD
Bene,
scrivo giusto qualche parola e poi corro a studiare per il compito di
latino, per il quale oltretutto sono fottutamente terrorizzata. xD
Ad
ogni mooodo, questo capitolo riserva un sacco di belle sorprese. *-*
Mark
è sempre un coglione ma cosa ci volete fare, la gente non
cambia in soli dieci capitoli. xD Anche se è cambiato molto
dall'inizio della storia, un personaggio davvero dinamico, oserei dire.
u.u
Beeene,
vi lascio al capitolo subito subito dopo i ringraziamenti. <3
Ringrazio
le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
-
Bbw87
-
Fairness
-
Mareike Tiaycia
-
OlandeseVolante
-
Nadine_Rose
-
niacara07
-
Norine
-
Prusskj_Lazur
-
ChyoChan
-
la_regina
-
Luc
-
thegreenlady
-
mau07
-
NemesiS_
-
Selena_
-
Ipazia
-
LadyGiulia
-
sweetstar
Coloro
che la hanno inserita tra le ricordate:
-
fedecaccy
-
Rayne
-
ElleBi
Coloro
che la hanno inserita tra le preferite
-
xxGiuls.
-
kikka23
-
elly04
-
Karota
-
Luna_LoveDark
-
liz89
-
Fairness
-
Selena_
-
lorenzablu
-
orsetta
-
Prusskij_Lazur
-
Selena Marie
Salviamoci
la pelle.
-Liebe.
Leningrado,
Unione Sovietica.
14
Gennaio 1944
6:01
<< Stai
facendo un ottimo lavoro sul fronte, Dimitri, Leningrado dovrebbe avere
molti più uomini come te a difenderla >>, il
Colonnello Generale Gurtsieva era stanco, glielo si poteva leggere
benissimo in faccia: chiaro a chiunque, ai suoi amici quanto ai suoi
nemici, ma era tutto perfettamente comprensibile, quella guerra andava
avanti da troppo tempo.
Il giovane scosse
appena il capo. << La guerra sta andando bene, ma non
è tutto ciò che voglio >> ammise,
sebbene fosse una cosa ovvia. Era noto che tutto ciò che
desiderava era solo ritrovare Bea, desiderio impossibile da realizzare,
almeno per il momento; ma Todorov sentiva che qualcosa stava per
cambiare: non poteva essere tutto perduto. Combatteva principalmente
per se stesso, ma ogni volta che puntava il fucile contro un tedesco, i
suoi pensieri erano diretti sempre e solo alla ragazza che era sparita
dall'Unione Sovietica.
L'uomo
annuì, conosceva benissimo i pensieri del giovane di fronte
a lui, e non se ne stupida; aveva sempre notato il rapporto particolare
che c'era tra sua figlia e il figlio dei Todorov, non gli dispiaceva:
aveva sempre trattato Dimitri come un figlio. << Potreste
sposarvi, quando sarà tornata >>, voleva
dargli quella speranza, Bea sarebbe tornata. In quanto al matrimonio,
il colonnello aveva sempre sospettato che sarebbe andata a finire
così, tra i due.
<< Pensa
davvero che tornerà? >>, aveva esitato prima
di chiederlo, era la paura che lo tormentava da quasi un mese, come un
incubo che gli impediva di dormire, costretto a girarsi sul giaciglio
per tutta la notte, con la fronte imperlata da freddo sudore. Non
dormiva decentemente da tempo, ma fortunatamente questo non significava
che le sue abilità in battaglia calassero. Il ragazzo aveva
sempre eseguito gli ordini senza sbagliare, senza fare di testa sua e
questo era esattamente ciò che ci si aspettava da un soldato.
L'altro
annuì, cercando di mostrarsi convinto, per quanto potesse
risultare difficile. << Certo che tornerà,
troveremo il modo per rivederla, tenente Todorov >>
disse, mettendo in quelle parole tutta la convinzione che possedeva.
Volendo guardare in faccia alla realtà non c'erano
possibilità di rivedere Bea; ormai era sparita per sempre
dalle loro vite e dall'Unione Sovietica, che l'avessero già
uccisa o meno non era più di loro competenza, non avrebbero
mai sentito parlare di lei ancora, ma Boris Gurtsieva stava
rimproverando il ragazzo per la sua mancanza di fiducia,
perché voleva davvero credere di poterla ritrovare, pur
sapendo di quanto la cosa potesse essere impossibile da realizzare.
Il ragazzo
annuì, << Manca tanto a tutti, vero?
>> chiese, ma era una domanda retorica. Accese una
sigaretta, portandosela alle labbra ed offrendone una anche al suo
superiore. << Sergeij me ne parla sempre, non vede l'ora
di rivederla. Anche voi, ne sono sicuro, lei e sua moglie; ma avete la
minima idea di cosa possa passare io, adesso? Non voglio farmi
illusioni, Colonnello >> replicò, non
riuscendo nemmeno a guardarlo negli occhi. Non era intenzione di
Dimitri mancargli di rispetto, ma non voleva credere che la ragazza che
amava sarebbe tornata da lui, quando le probabilità erano
così basse.
Il Colonnello
sbuffò appena, accettando la sigaretta e accendendola.
<< Cosa provi per mia figlia, ragazzo? >>,
lo sapeva già benissimo, ovviamente, ma aveva bisogno di
conferme da parte di quel ragazzo, non per lo Stato, ma per sua figlia.
Dimitri Todorov
esitò su quella domanda, non lo aveva mai detto ad alta
voce, né ne aveva mai parlato con qualcuno: non era
esattamente una cosa che era possibile confessare al padre della tua
migliore amica, né tanto meno il ragazzo aveva mai avuto
amici così fidati, troppo concentrato a guadagnarsi
l'affetto dell'unica persona che aveva sempre considerato importante,
per se stesso; non gli interessava essere elogiato per le
abilità sul campo, e nemmeno stringere un legame
così stretto con i suoi compagni, voleva solo l'amore di
quella ragazza. Abbassò lo sguardo, incapace di reggere
quello dell'altro militare, << L'amavo, signore
>>
<< Ti
trema la voce, soldato >>, gli fece notare, mantenendo un
certo distacco professionale. Non poteva lasciarsi coinvolgere: si
trattava di sua figlia e del ragazzo che aveva sempre considerato come
un figlio. Sperava in una loro unione, certo, ma adesso gli sembrava
quasi impossibile da ottenere, se non del tutto.
Il tenente
alzò lo sguardo, << L'ho persa. Cosa pretende
che faccia?! >>, non aveva mai posseduto un
può temperamento, e la velocità con cui lasciava
che la rabbia prendesse il sopravvento lo dimostrava chiaramente.
<<
Preferirei che tu non parlassi dei tuoi sentimenti al passato, Todorov,
e la mia bambina e sono certo che sia ancora viva, da qualche parte, in
Germania >>. Non voleva chiudere il discorso, non poteva
parlare troppo di Bea a casa, anche se sentiva il bisogno di farlo: non
voleva che sua moglie e il figlio minore si preoccupassero ancora di
più per la ragazza, e non poteva scaricare su di loro i suoi
problemi; erano la sua famiglia, ed era suo dovere proteggerli.
Il più
giovane si trattenne dallo sbuffare, << Mi ha fatto
chiamare solo per parlare di Beatrisa? >> chiese, ansioso
di riportare la ragazza nell'angolino più remoto della sua
mente e chiudercela dentro, a chiave, in modo da potersi concentrare su
altro, su cose più importanti che stavano avvenendo, sulla
vittoria che finalmente riusciva a intravedere di Leningrado su quei
dannati bastardi dei tedeschi. Gli stessi tedeschi che gli avevano
portato via quella ragazza; no, non riusciva proprio a segregarla ai
margini dei suoi pensieri.
Boris scosse il capo,
<< Ovviamente no, ma pensavo che avrebbe potuto togliere
un peso ad entrambi >> rispose, leggermente infastidito
dalla domanda del ragazzo, ovviamente portava fede ai suoi impegni
militari, come sapeva che avrebbe dovuto fare quando si era arruolato,
parecchi anni addietro. << Volevo informarti che oggi
avrà inizio l'operazione Neva II, sai già
ciò che bisogna fare, vero? >>, ne avevano
parlato talmente tante volte che la risposta del ragazzo non poteva che
essere positiva.
<< E' un
attacco molto pericoloso, Colonnello, siamo sicuri di poter rischiare
così tanto? >>, però era un buon
piano, questo doveva ammetterlo.
<< I
tedeschi sono stremati, non si aspettavano che avremmo resistito
così a lungo. Stiamo combattendo contro i loro rinforzi!
Dobbiamo darci una mossa, se non vogliamo che arrivino dalla Germania
armi ancora più potenti di quelle di cui dispongono adesso
>> lo rimproverò l'altro. Bisognava essere
svelti e risoluti con quelle decisioni.
Dimitri
annuì, << Crede davvero che possa funzionare?
D'accordo, per adesso siamo in vantaggio, ma chi dice che non sia solo
una loro trappola per farcelo credere? >>, tento di
protestare il tenente. Voleva davvero credere che stessero davvero per
vincere quella guerra, ma combatteva da troppo tempo per farlo sul
serio.
<<
Dimitri, dobbiamo pur rischiare qualcosa se vogliamo definitivamente
salvare Leningrado e cacciare i tedeschi >> fu l'unica
risposta del Colonnello Generale. L'operazione Neva II aveva buone
possibilità di riuscita, ma non era sicura. Dipendeva dai
loro soldati, ma si contava soprattutto su quanto i nazisti fossero
stanchi; se Leningrado avesse fallito quella mossa, probabilmente
l'Unione Sovietica sarebbe stata facile preda della Germania, che
l'avrebbe considerata un bersaglio facile. Non si poteva
però più aspettare per mettere in atto quelle
manovre militari: i loro nemici avrebbero potuto riprendersi, se
aspettavano troppo, e inoltre stavano pianificando tutto quello da
parecchio.
L'altro
scrollò appena le spalle, non era alla guerra che stava
pensando, suo malgrado, in quel momento. << Ha detto che
tengono Bea come ostaggio, secondo lei >>
cercò di introdurre il discorso, sebbene fosse stato il
primo a non voler parlare della ragazza, appena una manciata di minuti
prima, << cosa pensa che le succederà, se
riuscissimo effettivamente a mandar via i tedeschi? Insomma a loro lei
-deglutì a vuoto, e si passò una mano tra i
capelli corvini, cercando le parole adatte per esprimere verbalmente i
suoi timori- non servirebbe più >>
riuscì a buttar fuori alla fine, anche se aveva
già in mente un sacco di risposte che non gli avrebbe fatto
piacere sentire.
Il Colonnello distolse
lo sguardo dal ragazzo, << Suppongo che in quel caso
dovremmo abituarci all'idea di non vederla mai più; avremmo
già dovuto farlo. Le speranze non vivono, in questo periodo
della storia, tenente >>, gli fece presente, iniziando a
percorrere il perimetro della stanza a grandi passi, fermandosi accanto
alla finestra. Si trattava pur sempre di sua figlia, la sua
primogenita. Non era un ragazzo, ma era forte come un ragazzo: sia
emotivamente che fisicamente, ed era ciò che suo padre
adorava.
Il tenente Todorov
guardò la schiena del suo superiore con uno sguardo di
fuoco. << Come può parlare di lei
così? >>
<<
Così come? >>, non si girò per
porgli questa domanda.
<< ...
come se fosse già morta >>
<<
Guarda, Todorov, sta nevicando, ancora. La Neva si
solidificherà ancora: l'inverno non è mai stato
d'aiuto all'Unione Sovietica come in questo momento; dobbiamo
attaccare. Prendi tutte le armi che ci restano e avvisa i tuoi uomini,
io parlerò con tutti gli altri >>, era il modo
che aveva Boris Gurtsieva di mettere fine alle discussioni che non gli
piacevano: dava ordini o sviava in qualcos'altro. Diede l'ultima
boccata alla sua sigaretta, prima di spegnerla.
Dimitri
sbuffò, << Come crede, Colonnello, ma non le
assicuro una vittoria, questa volta >>,
sbottò, uscendo velocemente dall'ufficio del suo superiore.
Sapeva accettare gli
ordini, di buon grado, anche, ormai ci si era abituato, e dopotutto si
trovava bene in quei posti. Prese un'altra sigaretta, dopotutto aveva
finito da poco, era vero, ma doveva assolutamente scaricare il nervoso
di quella giornata insostenibile. Ed era solo mattina. Riusciva a
sentire le bombe, poco lontano: provocavano un rumore assordante e
avrebbe dovuto stare attento a non prenderne una in testa. Gli mancava
Bea, più ti quanto fosse mai successo in quei giorni, lei
avrebbe saputo capirlo, ascoltarlo, gli avrebbe chiesto come si
sentiva. Da quanto qualcosa non gli chiedeva come si sentiva? Ma stava
bene, Dimitri Todorov si sentiva un vero uomo che combatteva per la
propria patria e, in un certo senso, per la propria donna; cercava di
star bene e di consolarsi come poteva. Non aveva mai detto che fosse
facile, ma dopotutto non aveva mai creduto che quella vita lo sarebbe
stata.
Forse c'era stato un
tempo in cui qualche illusione se la faceva, un tempo in cui immaginava
una vita felice in un soviet, nella quale Bea era sua moglie e avevano
tre o quattro splendidi marmocchi tra i piedi. Dimitri sapeva che
sarebbe stato un padre fantastico, ed aveva la convinzione che anche
Bea sarebbe stata un'ottima madre. Aveva bisogno di stringere la
ragazza, ma, se gli fosse andata bene, si sarebbe ritrovato al massimo
con un molto affascinante fucile tra le mani, ed ancora più
affascinanti uomini-biondi-e-dagli-occhi-azzurri in divisa davanti.
Leningrado,
Unione Sovietica.
14
Gennaio 1944
19:43
Non
so come riesco a trovare la forza di scriverti queste poche righe, Bea,
sono davvero distrutto. Dal gelo e da tutto quello che sta succedendo
qui.
I
russi sembrano di colpo più preparati, hanno attaccato,
questa mattina, eravamo impreparati e abbiamo perso un sacco di uomini.
Fuori sento tutte le armi da fuoco che ci siamo orgogliosamente portati
dalla Germania, sento odore di polvere da sparo e di sangue. Dicono che
il sangue sia inodore, ma io riesco a sentirne la puzza; forse
è solo la puzza di quello secco, ormai incrostato attorno
alle ferite di molti, che si staranno infettando.
Io
non riesco a sparare con la mano sinistra, non è un
problema, ovviamente non sono mancino, ma brucia. Sarei rimasto a farmi
curare un altro po' in quelle infermerie, ma è impossibile.
Un attacco così forte e improvviso davvero non ce
l'aspettavamo. Ho giusto due ore per dormire, insieme al gruppo con cui
sono venuto qui, ma non riesco a non scriverti, mi fa sentire
così bene e libero. Sei l'unica a cui potrò mai
raccontare tutto ciò che sta succedendo qui, sinceramente,
senza mentire; potrebbe esserci anche Walter, entrambi meritate di
sapere gli orrori della guerra, anche se credo che per vostra fortuna i
vostri rispettivi padri abbiano evitato di mentirvi, come invece
è toccato a me. Chissà, forse se mia madre non
fosse morta mio padre non mi avrebbe creato l'illusione di una vita
militare perfetta.
Magari
quando tornerò potrò consegnarti queste lettere
di persona, anche se sono orribili e scarabocchiate su un vecchio
quaderno scolastico. La cosa strana è che vi ho trovato
vecchi appunti, sopra. Avevo una grafia molto buffa e più
disordinata, potrei fartene leggere qualcuno: sono nozioni che avevo
completamente dimenticato! Non ho idea di cosa studiate in Unione
Sovietica, ma mi sono appena reso conto che stai perdendo del tempo
scolastico, non che nel tuo paese avresti potuto studiare per bene, con
la guerra in corso. Mi dispiace, in parte credo sia colpa mia, o almeno
è colpa di quelli come me che hanno sostenuto la guerra per
tutto questo tempo: non avevo la minima idea di ciò che
stavo facendo, probabilmente.
Non
ho idea di come considerarmi politicamente, adesso. Sono nazista,
credo. La razza ariana è sempre superiore alle altre, credo,
ma ormai non tanto: se fossimo stati davvero tanto superiori a
quest'ora avremmo previsto l'attacco a sorpresa dell'Armata Rossa, non
credi? Non mi piacciono gli ebrei, anche se in fondo a me non hanno
fatto mai niente. Forse la guerra aiuta le persone a ragionare,
Beatrisa, dovrebbe andarci un po' mio padre sul fronte, in questo caso,
magari potrebbe essere finalmente ciò che lo convince a
liberarti.
Forse
non ne sarei così felice. Se tu fossi libera e in grado di
scegliere, te ne andresti. Forse è la febbre a farmi
parlare, ma non voglio che tu vada via, sei l'unica ragazza per cui
provi qualcosa di diverso dalla pura e volgare attrazione fisica,
Milde*. Non so perché continuo a scriverti queste lettere,
perché ti sogno tanto spesso, ma sono sicuro di una cosa: ho
bisogno della tua presenza in modo costante, al mio fianco. Non posso
accettare che un giorno tu possa sparire dalla mia vita per sempre,
farò di tutto perché questo non accada,
farò di tutto per difenderti, perché proteggere
te è come proteggere me stesso, dal quando dipendo da te.
Ho
una folle paura che sia già troppo tardi, che quando
tornerò a casa -sempre che io riesca a tornare a casa dopo
questa guerra, mi sembra ovvio- tu non possa esserci già
più. E allora sarà niente la febbre, il gelo
dell'inverno tedesco, la ferita al braccio sinistro. Credo che potrebbe
definitivamente andarsene un pezzo di me. Tu non hai idea di quanto
vali, Beatrishka, non hai idea di quanto vali per me; proprio per
questi motivi ho appena deciso che se anche riuscissi a tornare non
leggerai mai questa lettera. Sto rinunciando alle ore di sonno per una
lettera alla persona credo più importante della mia vita che
non la riceverà mai, sembra una cosa stupida, ma per me non
lo è, serve a me: serve per chiarirmi con me stesso,
perché dopo tutto quello che è successo non avrei
assolutamente idea di cosa fare, se non fingere che tu sia qui, fingere
di parlarti, quando alla fine sto parlando da solo, sono solo. Le
persone che sono nella mia stessa tenda stanno dormendo beatamente, ma
io non ci riesco.
Vuoi
sapere la verità su una cosa, Bea? L'ultimo giorno che sono
stato lì avrei voluto davvero baciarti, avrei fatto di tutto
per portare a compimento quell'atto, ma avevo paura, una dannata paura
di essere rifiutato, perché avresti avuto tutti i motivi per
rifiutarmi, Beatrisa Gurtsieva. Sei la ragazza più bella che
abbia mai visto, anche quando sei ricoperta di lividi e graffi, emani
una luce ed una orza che credo di non aver mai visto in nessuna persona
al mondo, nemmeno in mia madre. Vorrei tanto poter passare tutta la mia
vita con te, Bea, ma non posso; magari in un'altra vita, se fossimo due
persone diverse, sarebbe una cosa accettabile. Forse se fossimo
semplicemente noi, ma in un'altra epoca, ti avrei addirittura chiesto
di provare a frequentarci. Avverto il bisogno della tua presenza, ma mi
trovo costretto a lasciarti andare, ad accettare che forse un giorno
verrai uccisa per mano mia. Dammi la forza di scappare da questo
incubo, perché non ne posso più.
Non
ho scelte a disposizione, ho esaurito le mie possibilità.
Sebbene
non capisca esattamente cosa in questo momento stia provando per te,
sappi che è grandissimo,
Mark
Schreiber
Leningrado,
Unione Sovietica.
17
Gennaio 1944
9:48
Ho
un po' di tempo per scriverti, mia dolce Bea,
Sono
bloccato in una brandina, una ferita alla gamba. E' ufficiale: odio il
paese che ti ha messa al mondo, ragazzina. Non riesco più a
credere nella guerra, ma credo anche che nessun russo possa spararmi
addosso e colpirmi senza venire ucciso subito dopo. Ovviamente, non
sono riuscito a farlo fuori, ma avrei potuto farlo, e mi
rifarò appena sarò nuovamente in grado di
correre: le infermiere dicono che ci vorrà del tempo,
è una bella ferita, ma aspetterò.
Ad
ogni modo, credo che morirò molto prima di guarire: ogni
tanto viene qualcuno a parlarmi, qualche soldato che riesce ancora a
farcela; i soldati tedeschi sono davvero in grossa
inferiorità numerica, e i russi sembrano sempre
più carichi, quasi stessero per vincere, e i nostri sono
stanchi: io sono qui da poco, ma loro da anni, Bea, vogliono tornare
dalle loro famiglie, vedono compagni morire e cadere molto
più velocemente di quanto facciano i nostri avversari; e
davvero la fine, hanno vinto. Hitler è un illuso a voler
ancora cercare di annientare Stalin, non adesso: credo che l'Unione
Sovietica sia un paese molto patriottico, mi piacerebbe visitarlo
qualche volta, magari in circostanze diverse. Scommetto che ci sono un
sacco di cose interessanti da vedere, non mi hai mai raccontato dove
passavi le giornate qui, beh, immagino che sia perché non ho
mai avuto il tatto di chiedertelo.
Ho
davvero voglia di dormire, adesso, ma non potrei nemmeno se non ti
stessi scrivendo: mi danno poca morfina e il dolore alla gamba
è lancinante, nemmeno il braccio è messo tanto
meglio. Le infermiere tedesche che arrivano dalla Germania sono brave,
ma non portano molto con loro, nemmeno l'esperienza, per lo
più sono giovani ragazze che hanno lasciato l'amore della
loro vita in divisa, che partiva per il fronte qui, a Leningrado;
arrivano qui e sperano di rivederlo, di incontrarlo, ma ormai i ragazzi
in cui lo avevano riconosciuto sono morti. I russi invece hanno gli
infermieri americani a loro completa disposizione.
Non
mi piace combattere qui, ma mi piace ancor meno dover rimanere fermo in
condizioni pietose, quando farei di tutto per un'oretta di sonno
tranquillo. Riesco a sentire le urla, un qualche brandina non troppo
distante, starà morendo qualcuno, capita spesso,
ultimamente. Le urla dei moribondi e di quelli che necessitano di
un'operazione riempiono le mie orecchie. Morire in fretta non sarebbe
una cattiva idea, in effetti.
Non
ho più paura, ormai. Prima ne avevo, credo di avertelo
già scritto, di recente è sempre più
difficile tenere a mente queste cose. Come ti dicevo, non ho
più paura, quando vedi accadere le cose peggiori, riesci a
non averne più, riesci a credere che se deve capitare anche
a te capiterà e non puoi farci assolutamente niente: per
quanto tu combatta, per quanto tu possa tentare di mettere in salva la
tua vita e quella dei tuoi compagni, non potevi lottare contro il
destino, è un avversario troppo forte.
Ormai
scriverti è l'unica cosa che mi fa andare avanti: mi illudo
che un giorno riuscirò a rivederti, magari potremmo
andarcene in Canada. Canada, sì. E' un bel posto, almeno
così dicono: ho fatto qualche ricerca; si parla francese e
inglese; pensavo al Québec: ho studiato francese e non avrei
problemi a parlarlo adesso. Sai, mia madre adorava il francese, me lo
ripeteva sempre, quando ero piccolo; forse perché sua nonna
era francese, non me lo spiegò mai bene, ma ero troppo
piccolo, probabilmente anche se ci avesse provato non avrei capito
assolutamente nulla.
Ci
troveremmo bene a Montréal, Milde*, sarebbe divertente. Il
Canada non è minimamente toccato dalla nostra guerra: per
me, è un qualcosa che ci stiamo inventando perché
i potenti giocano a battaglia navale e ci usano come pedine. Beh, io
non mi sto per niente divertendo. Montréal è
sicura, Bea! Nessuno cercherebbe di tenerti chiusa da qualche parte, e
nessuno cercherebbe di uccidere me per aver tradito l'esercito tedesco.
A nessuno importerebbe da dove veniamo, Beatrishka, ti rendi conto di
quanto potrebbe essere bello?! Dopotutto non ci rimarrebbero altre
soluzioni: se restiamo in Germania, tu morirai, se abbandono
l'esercito, sarò io a morire. Non ne posso più di
questa vita, Bea, e sono sicuro che non vada bene nemmeno a te, o mi
sbaglio?
Forse
non vuoi restare con me, e lo capirei benissimo, credimi, non ci
sarebbe scelta più ovvia da parte tua, ma non mi hai
respinto quella sera, prima che me ne andassi. Vorrei che scegliessi di
rimanere con me, per sempre, ma sai meglio di me che sarà la
cosa più difficile da realizzare. Se non mi vuoi, Bea,
cercherò di farti fuggire dalla Germania: potresti andare
via con Walter e la sua famiglia, il signor Hoffmann e un bravissimo
medico e troverebbe facilmente lavoro ovunque, e tutta la famiglia non
condivide le idee naziste. Sono certo che ti troveresti benissimo con
loro, meglio di quanto possa trovarti con me, ad ogni modo. Gli
Hoffmann ti adorerebbero, ne sono certo, e potresti tornare in Unione
Sovietica quando vorresti.
Montréal
è davvero un bel posto, spero che deciderai di rimanere con
me, se mai riuscirò a tornare lì, da te.
Cercherò
di dormire, adesso, voglio essere pronto per la mia morte.
Spero
di rivederti, nonostante tutto,
Mark Schreiber
Weimar,
Germania.
27
Gennaio 1944
18:21
Mark tossì
piano, cercando di rigirarsi nel letto, tra le coperte completamente
bianche, aveva la gola secca e stava morendo di sete, ma non riusciva
ad aprire gli occhi. Il suo cervello non connetteva molto, ma doveva
aver dormito. Chissà quant'era stato lungo quel sogno da
permettergli di sognare tutta una guerra. Gli era sembrato tutto
così reale che, mentre cercava di aprire gli occhi e di
articolare la voce, credeva di essere ancora sul fronte, a combattere
contro i russi, eppure sotto di sé avvertiva un materasso,
non troppo morbido, ma era pur sempre qualcosa di tremendamente
confortevole paragonato ai ricordi di quel orrendo sogno sulla guerra
che aveva fatto. Le sue narici erano invase da uno strano odore di
disinfettante, era terribile ed insopportabile.
<< Ehi,
finalmente ti stai svegliando >>, era un mormorio come se
quella voce tremendamente familiare cercasse di non svegliarlo, pur
volendo farlo. Non riusciva a capire a chi appartenesse, ma gli pareva
di non sentirlo da troppo tempo. Non riusciva a collegare ad essa
nessun volto. Cercò ancora di aprire gli occhi, ma le
palpebre erano pesanti: avrebbe tanto voluto dormire un altro po'.
Sorrise, anche se tirare gli angoli delle labbra verso l'alto era uno
sforzo tremendo: era Walter, era lì di fronte a lui ed era
in piedi.
Walter Hoffmann si
aprì un un enorme sorriso, appena vide il suo migliore amico
aprire gli occhi, << Potevi prendertela comoda un altro
po', mi hai fatto aspettare solo tre giorni, non preoccuparti
>> lo prese allegramente in giro, con quel tono che
utilizzava troppo spesso, e che a Mark sembrava essere mancato
così tanto, come se non avesse l'onore di ascoltarlo da
giorni e giorni, ma questo non era possibile.
Il caporale
tentò di tirarsi a sedere, ma non vi riuscì: la
gamba destra gli tirava in una maniera spaventosa, ed non muoveva
troppo bene il braccio sinistri, gli faceva male come se vi avesse
dormito sopra tutta la notte. << Tre giorni?
>> chiese confuso, trovandosi costretto a appoggiare
nuovamente il capo al cuscino, osservano l'amico seduto su una sedia
accanto al suo letto. Si guardò intorno per un momento: era
tutto bianco, il soffitto, le pareti: era su un lettino strano, e c'era
un'altra fila di lettini strani, lo conosceva, quello: l'ospedale di
Weimar, ci era già stato una volta, quando Walter si era
rotto il braccio, a lui incidenti del genere capitavano, ma suo padre
non aveva mai tempo di portarlo in ospedale, ci pensava il signor
Hoffmann a casa sua. << Perché sono qui?
>> chiese ancora, senza dare tempo al suo migliore amico
di rispondere.
Il giovane dagli occhi
azzurri sorrise, sembrava divertito e probabilmente lo era sul serio:
Walter trovava sempre un modo di divertirsi, in praticamente tutte le
situazioni possibili ed immaginabili, soprattutto quelle meno
opportune; questa era una delle tante cose che non capiva del suo
migliore amico, come il fatto che riuscisse a dormire ovunque.
<< Davvero non ti ricordi niente? Beh, in questo caso,
congratulazioni, sergente >>, rispose, con sarcasmo,
prendendo una medaglia dalla spalliera in ferro del letto d'ospedale
dove era finito Mark e lanciandola sul petto di quest'ultimo.
<<
Sergente? >>
<< Il
ventidue gennaio le nostre truppe hanno iniziato a ritirarsi dalla
Germania; tu sei stato portato un veicolo mobile perché
ancora ferito gravemente ad una gambe. Beh, congratulazioni, durante
quel viaggio -uno dei più sicuri per la ritirata- ti sei
preso un'altra bella pallottola nella stessa gamba ed hai battuto la
testa. Ti hanno ricoverato qui appena tornato in Germania
>> spiegò, osservando il suo migliore amico
con quegli occhi così chiari, quasi fieri ed orgogliosi di
lui, sebbene non fosse un sostenitore della guerra. Neanche un po'.
Mark ascoltò
tutto ad occhi chiusi, con la testa sprofondata nel comodo cuscino,
quasi senza respirare, tanto da dare l'impressione a Walter che si
fosse riaddormentato. << Quindi non ho sognato tutto
quello che è successo >>, sospirò,
parlando più con se stesso che con il ragazzo seduto accanto
al suo letto. La prima cosa che gli venne in mente fu Bea: non era una
bella notizia, se era stato via così tanto tempo potevano
essere accadute cose orribili a quella ragazza. Aprì
lentamente gli occhi, << Quindi adesso sono un sergente?
>> chiese, cercando di essere allegro della cosa,
nonostante non vedesse l'ora di tornare al campo di concentramento, per
vedere lei.
Walter Hoffmann rise,
<< Sembra proprio di sì. Wow, hai fatto
carriera in così poco tempo: Hitler sarebbe fiero di avere
nazisti così pronti a rischiare per la Germania nell'SS
>>, lo prese ancora in giro, ma non gli sfuggì
la smorfia di fastidio che si era appena dipinta sul volto del ragazzo
disteso sul letto: era un acuto osservatore, lui. << Cosa
c'è che non va? >> chiese, poco dopo.
Il sergente scosse il
capo in risposta. << Nulla, è solo che la
guerra non è un'esperienza che vorrei ripetere: ho sbagliato
a desiderare così ardentemente di andare a combattere per
delle idee non mie >> rispose, abbassando lo sguardo. Non
era solo quello: era qualcosa di più importante e
più serio; era il totale sconvolgimento delle sue idee, dei
suoi ideali, delle sue opinioni, ma non era ancora pronto a dirlo a
qualcuno. Voleva solo vedere Bea.
Hoffmann
annuì, << Finalmente l'hai capito
>> scherzò ancora, osservando il suo migliore
amico. << Come ti senti, la gamba fa molto male?
>>, si preoccupava per lui, lo aveva sempre fatto e aveva
buoni motivi: non c'era mai stato nessuno oltre lui che si preoccupasse
per quel ragazzo dai così teneri occhi nocciola. Non poteva
non volergli bene.
L'altro
scrollò appena le spalle, << Mi da un po'
fastidio, ma non è una cosa seria >> disse:
forse cercava semplicemente di auto illudersi: se stava bene con la
gamba voleva dire che poteva tornare presto a casa e quindi rivedere
Bea, gli mancava sul serio, e soprattutto voleva sapere se era ancora
viva e cosa gli avevano fatto. Ricordava come la trovava quando ancora
non si prendeva cura di lei. << Dov'è mio
padre? >> chiese, qualche minuto dopo. Non l'aveva visto,
quando si era svegliato, e pensava che forse, forse sarebbe stato fiero
di lui, vedendo la medaglia.
Il suo migliore amico
scrollò appena le spalle, cercando un soggetto che lo
imbarazzasse di meno da ammirare, << Beh, credo che sia
molto impegnato al campo, sai com'è fatto: ci tiene al suo
lavoro >> disse, cercando di distogliere dalla
realtà almeno il suo migliore amico: non era il caso che in
quelle condizioni pensasse che sì, forse suo padre non ci
teneva a vederlo nemmeno quando non si svegliava per due giorni
consecutivi, appena tornato dal fronte in Unione Sovietica.
Ovviamente il ragazzo
non si era preparato una buona scusa e Mark non gli aveva creduto
nemmeno un po': beh, era ovvio; suo padre non si era mai presentato per
qualcosa che lo riguardasse, perché avrebbe dovuto fare
un'eccezione, quella volta? Perché aveva fatto tutto quello
in modo che un giorno fosse fiero di lui? Beh, tanto non serviva a
molto. << Certo, Walter, grazie >>
cercò di essere abbastanza convincente, ma sorrise davvero
in modo sincero al suo migliore amico. << Sei andato a
trovare lei? Sai come sta? >>, chiese ancora, cercando di
portare il discorso sull'argomento che gli interessava di
più.
Il ragazzo dagli occhi
azzurri lo osservò, << Non l'ho mai vista, non
mi permettevano di entrare quando tu non c'eri, dopotutto non potevo
presentare nessuna scusa >> iniziò a dire,
passandosi una mano tra i capelli biondi e sedendosi meglio su quella
sedia scomoda tipica degli ospedali. << Però
ho chiesto notizie a mio padre, di tanto in tanto: è viva,
non è messa troppo bene ma è viva, presenta
ferite profonde, ma lui può curarla solo quel tanto da
permetterle di sopravvivere >> aggiunse, per non farlo
spaventare troppo: aveva capito fin troppo bene quanto l'amico tenesse
a quella ragazza, purtroppo.
Mark strinse i denti,
cercando di resistere, eppure non riusciva a non pensare che quei
bastardi avevano osato toccarla: li avrebbe uccisi uno ad uno molto
volentieri, ma ne andava della vita di entrambi; doveva trovare il modo
di andarsene da quell'ospedale il più presto possibile:
ormai Bea non serviva più ai tedeschi per i loro piani
contro Leningrado e c'erano davvero poche possibilità che
non la uccidessero perché ormai priva di alcuno scopo,
lì dentro. << Come sta la mia gamba? E' il
caso che torni presto, mio padre sarà felice di vedere la
medaglia ed il mio grado passato a sergente >> disse,
cercando di alzarsi, ma senza alcun risultato.
Walter fece una leggera
smorfia ed ignorò completamente la sua domanda: sapeva che
il vero scopo non era mostrare la medaglia al suo padre, ma correre
dalla deportata, e lui avrebbe sicuramente aiutato il suo migliore
amico a realizzare questo desiderio, se gliene avesse parlato per bene,
una volta tanto. Di solito era così bravo a far deviare il
discorso su un altro argomento, ma questa volta era sicuro di
ciò che diceva. << Quando sei arrivato
all'ospedale avevi uno zaino con te ...>>
Il sergente
spalancò gli occhi, d'un tratto preoccupato: c'era tutto
ciò che aveva con sé durante la guerra, in quello
zaino, non ci aveva minimamente pensato per tutto il tempo.
<< Walter, ti prego, dimmi che gli infermieri l'hanno
tenuto con loro in attesa che mi riprendessi >>
riuscì a dire, guardandolo supplicante, ancora preda di
quell'espressione impaurita: se qualcuno avesse saputo ciò
che provava per Bea, sarebbe stata ancora una volta la fine per
entrambi.
Hoffmann scosse appena
il capo, << No, però l'ho ottenuto io prima
che potesse chiedere di mandarlo a tuo padre >>
cercò di tranquillizzarlo il ragazzo, che capiva benissimo
le sue paure. << L'ho aperto, ci ho scavato un po' dentro
e... senti, lasciamo perdere la versione lunga delle mie "scuse" per
aver invaso i tuoi spazi, ho letto quelle lettere >>,
buttò giù, tutto d'un fiato: il figlio del medico
non era mai stato bravo a prepararsi dei discorsi, lui adorava
improvvisare e non sempre era una buona idea, ma si trattava del suo
migliore amico, quindi tanto valeva tentare.
Il sergente
aprì la bocca, per urlare, per aggredirlo, per accusarlo di
essere stato un idiota, perché quelle erano le sue cose e
lui non aveva nessun diritto di spiare nei suoi pensieri e nel suo
cuore, ma fortunatamente un'infermiera entrò nella sala,
salvando un'amicizia che durava da tutta una vita, avvicinandosi al
letto di Mark, << Oh, si è svegliato. Come si
sente? Sono qui per un'altra dose di morfina >> si
annunciò la donna, mentre velocemente adempiva al suo
compito.
Mark strinse i denti,
<< Sto bene >> sillabò, anche se
avvertiva la gamba andargli a fuoco. Non sentiva troppo dolore al
braccio, fortunatamente, ma nel complesso si considerava fortunato: era
sopravvissuto.
Appena la donna
andò via, Walter lo osservò. <<
Scusa >>
L'altro scosse il capo,
<< Non è questione di scuse, lo sai
>> rispose, senza aggiungere troppe cose. Era sempre
stato un tipo permaloso, ed il suo migliore amico lo sapeva, se la
prendeva quasi per tutto, ed era difficile convincerlo a fare pace, ma
quella era una cosa troppo seria, ed entrambi non volevano rinunciare.
Schreiber dal canto suo sapeva però che nn avrebbe avuto
alcun senso tenere il muso a Walter: ormai aveva letto quelle lettere,
non si poteva tornare indietro nel tempo per impedirglielo, non aveva
alcun senso fare l'offeso, non avrebbe cambiato niente, in quel
momento, quindi fece in modo di incontrare gli occhi azzurri dell'amico
con i propri. << Scuse accettate. Per questa
volta>>
Hoffmann sorrise,
felice di averla scampata, per una volta. << Adesso
però devi essere sincero, Mark: cosa provi per lei?
>>, era serio come non si era mai visto, quella era una
importante: il ragazzo che ora giaceva nel letto non aveva mai dato
segni di provare quei sentimenti per nessuna ragazza, era una
novità assurda per chiunque lo conoscesse almeno un po'.
Schreiber si
passò una mano tra i capelli. << Non lo so,
Walter. Mi manca, quando non c'è, sento il bisogno di
vederla, di sfiorarla, di baciarla... ho paura che le facciano del
male, ma non posso averla. Devo metterla al sicuro, non posso fare
altro, e già facendo questo rischio tantissimo
>> sospirò il ragazzo, abbassando lo sguardo.
<< Non ho la minima idea di come aiutarla ad andarsene da
questo posto, e non voglio che se ne vada >> aggiunse,
afflitto.
I pensieri del suo
migliore amico erano qualcosa di molto vicino al "dev'essere stata la
morfina a farlo parlare, non si è mai aperto così
tanto". Annuì, mentre lo ascoltava. << Credo
che tu ne sia innamorato, ma è un sentimento insano, lo sai
anche tu che non porterà a nulla di buono >>
lo mise in guardia.
<< Fammi
il piacere; l'amore è una cosa stupida >>
sbottò Mark, anche se gli si dipinse un sorriso sul volto,
che sapeva di dolcezza e tenerezza, al solo pensare che potesse provare
amore per la ragazza russa. Ovviamente tentò di reprimere,
di uccidere quel sorriso, ma vi riuscì solo in parte. Non
vedeva l'ora di guarire e quindi tornare a casa da lei;
perché lei lo faceva stare bene.
* Milde = Dolcezza, figurativo.
(tedesco)
Mi
stancherei, non crederei più a niente;
Ma poi c'è lei inaspettatamente
e certe volte non ci credo che è vera
tanto che non vedo l'ora che arrivi la sera
quando mi toglie i guantoni e mi cuce le ferite,
sorride ai problemi e dice che finché stiamo
insieme
lei è felice;
e io finisco anche al tappeto, altroché,
ma questa vita un po' la cambio
se quando torno ad aspettarmi trovo te,
io la mia casa la difendo
e si può credere alle favole anche se
fai a pugni con il mondo...
[A pugni con il mondo -Articolo 31]
|
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Capitolo 12 *** Capitolo 11. -Katjuša. ***
Ancora
un altro abnorme ritardo, spero che ci abbiate fatto l'abitudine,
ormai. xD
Pubblico
subito il capitolo e torno a studiare, che ho intenzione di offrirmi
per l'interrogazione di greco, tra un paio di giorni.
Spero
vi
piaccia. :3
Ahn,
ovviamente se vi va di lasciare una recensione non mi offendo, anzi,
mi farebbe molto piacere. Io continuerò a pubblicare anche
se non lo
farete, mi sembra ovvio. xD
Ringrazio
le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
-
Bbw87
-
Fairness
-
Mareike Tiaycia
-
OlandeseVolante
-
Nadine_Rose
-
niacara07
-
Norine
-
Prusskj_Lazur
-
ChyoChan
-
la_regina
-
Luc
-
thegreenlady
-
mau07
-
NemesiS_
-
Selena_
-
Ipazia
-
LadyGiulia
-
sweetstar
Coloro
che la hanno inserita tra le ricordate:
-
fedecaccy
-
Rayne
-
ElleBi
-
Dance
Coloro
che la hanno inserita tra le preferite
-
xxGiuls.
-
kikka23
-
elly04
-
Karota
-
Luna_LoveDark
-
liz89
-
Fairness
-
Selena_
-
lorenzablu
-
orsetta
-
Prusskij_Lazur
-
Selena
Marie
-
Medea91h
Salviamoci
la pelle.
-Katjuša.
Campo
di
sterminio di Buchenwald, Germania.
1
Febbraio 1944
19:20
Finalmente
poteva lasciare quell'ospedale. Ne aveva avuto davvero abbastanza:
Walter era sempre lì, accanto a lui, ma non gli dava tregua,
non
faceva altro che parlare di Bea e di chiedergli dei suoi sentimenti;
Mark cercava di convincerlo; cercava di fargli credere che quando
aveva scritto quelle lettere era semplicemente disperato e non in
grado di ragionare normalmente con la propria testa, ma non era del
tutto inutile. Il miglior amico del ragazzo era convinto di vedere
amore nei suoi occhi, e a volte il sergente temeva che avesse
ragione. Era tutto un enorme sbaglio. Qualunque cosa provasse per
quella ragazza -a meno che non fosse odio, ovviamente- era un enorme
sbaglio e non poteva permettersene: ne dipendeva la vita di entrambi.
Suo
padre era andato a prenderlo, quella fredda sera di febbraio, anche
se non sembrava troppo felice di vederlo. << Il dottore
ha
detto che dovrai stare a riposo per un po' >>
tentò di
iniziare una conversazione, mentre tornavano a casa.
Il
più
giovane annuì, << e dovrò usare
delle stampelle. Lo so, lo
so. Mi ha già parlato >> aggiunse alle parole
del padre,
passandosi velocemente una mano tra i capelli. Odiava immensamente il
fatto che non si fosse fatto vedere da quando era tornato in
Germania, presentandosi solo per riportarlo a casa. Certo, non
avevano avuto un bel rapporto, dopo la morte della madre, ma si
aspettava che almeno sarebbe stato felice di sapere che suo figlio
fosse tornato dall'Unione Sovietica sano e salvo, sebbene i nazisti
avessero perso, quella volta. Al sergente questi particolari non
interessavano più, non gli interessava più la
politica estera o
tedesca. Si era scocciato di tutto, voleva solo tornare a casa e
conoscere le reali condizioni di Beatrisa.
Hans
Schreiber annuì con poco interesse, come a confermare le
parole del
figlio, che in realtà non valevano poi così
tanto. << Sei
stato promosso a sergente, bravo >> disse soltanto,
riguardo la
promozione del figlio. Non si mostrò fiero di lui,
né cerco di
esternare qualsiasi altro sentimento; era semplicemente freddo, come
era sempre stato dalla morte della moglie.
Mark
annuì, << Lo so >>
confermò, non aiutando molto il
padre nel fare conversazione. Non si aspettava di certo una festa di
bentornato, né che gli dicesse che era fiero di lui, o che
era
felice che fosse tornato a casa con tutti gli arti al posto giusto,
né gli era mai passato per la testa che avrebbe potuto
abbracciarlo;
ma almeno pensava che avrebbe sorriso, nel vederlo con una nuova
medaglia e un nuovo ruolo, su quel letto d'ospedale. Non era morto e
si era procurato quelle ferite come eroe della padre, sebbene per lui
adesso non significasse molto.
Il padre
annuì, continuando ad osservare la strada davanti a
sé, <<
Ovviamente il tuo ruolo è cambiato. Adesso hai
responsabilità e
compiti maggiori >>
Il
biondino si voltò di scatto a guardare il padre, con
un'espressione
esterrefatta stampata sul volto: non era possibile. Gli stava per
caso dicendo che non avrebbe più dovuto -e potuto- portare
la cena a
Bea e avere così una scusa per passare del tempo con lei?
Cercò di
dimostrarsi poco sorpreso e soprattutto non infelice della cosa: non
doveva esporsi, soprattutto con suo padre. << E cosa
dovrei
fare adesso? >> chiese, moderando il tono di voce, ma
osservandolo con sospetto. Non era sicuro di voler conoscere la
risposta alla sua domanda, era sicuro che la fortuna non l'avrebbe
aiutato, quel giorno.
Il
maggiore scrollò le spalle. << Non ne sono
ancora sicuro;
finché non ti riprendi potrai rimanere con me al campo,
Hitler non
vuole uomini non sani tra le sue file >>
tagliò corto, e
sembrava volesse chiudere definitivamente quel tentativo di dialogo
appena avuto con il figlio.
Mark
sorrise in modo sarcastico, abbandonandosi completamente contro il
sediolino dell'autovettura. << Certo; e scommetto che ha
fatto
anche uno dei suoi bei discorsi su quanto sia dispiaciuto delle
perdite umane e di tutti i feriti >>, ovviamente quella
del
ragazzo era una presa in giro rivolta a tutto ciò verso cui
si era
sempre indirizzato, spinto; vero tutto ciò che aveva sempre
venerato
come un fedele religioso.
Hans
evidentemente non condivideva le opinioni del figlio, dato che si
voltò in direzione di quest'ultimo solo per fulminarlo con
lo
sguardo. << Cosa stai dicendo del Führer,
ragazzo? >>,
sbottò, frenando improvvisamente e assottigliando lo
sguardo. Non
riusciva a pensare che proprio suo figlio, che aveva cresciuto con
sani ideali nazisti, parlasse a quel modo. Nessun ragazzo tedesco
aveva il minimo diritto di parlare a quel modo.
Il
più
giovane scosse appena il capo, ancora leggermente divertito.
<<
Nulla >>, rispose, sebbene non fosse vero. Stava
semplicemente
cercando di distrarsi. Avrebbe tanto voluto chiedere al padre qualche
informazioni in più su Bea, ma sapeva che non sarebbe stato
affatto
facile, avrebbe dovuto rivolgere le domande come se non gli
interessasse davvero, come se fosse solo uno dei tanti argomenti di
conversazione per far passare il tempo. Socchiuse gli occhi,
pensando, o comunque sperando di addormentarsi. << Chi ha
fatto
il mio lavoro, mentre ero sul fronte? >> chiese in fine,
usando
un tono freddo, distaccato.
Il padre
continuò a guidare, e scrollò appena le spalle
alla domanda del
figlio. << Un soldato semplice, dopotutto non era una
cosa
importante >>, fu la semplice risposta che tuttavia
tranquillizzò moltissimo Mark: voleva dire che non avevano
ancora
pensato di ucciderla; ma ormai l'Unione Sovietica aveva vinto, che se
ne facevano di lei? << Ovviamente per adesso non saresti
in
grado nemmeno di fare quello >>, aggiunse poco dopo Hans
Schreiber, fulminando il figlio con lo sguardo, come se lo stesse
rimproverando di essere tornato ferito.
Mark
scosse appena il capo: << Bene, ne
approfitterò per riposarmi
>> cercò di tagliare quel discorso assurdo. Ne
aveva
abbastanza di stare ad ascoltare suo padre e tutte le sue pretese, ne
aveva abbastanza di non sentirsi mai alla sua altezza, ne aveva
abbastanza di quella guerra e di Hitler. Voleva solo tornare a
quindici anni prima, quando sua madre era ancora viva e tutto andava
per il meglio sotto ogni aspetto.
Rimasero
in silenzio per tutti il resto del viaggio. Non ci furono tentativi
di conversazione da parte di nessun altro. Quando arrivarono al campo
di concentramento, Hans Schreiber lasciò fuori l'auto e
aiutò il
figlio con le stampelle, prima di mostrare piastrine e documenti vari
agli ufficiali nazisti incaricati di controllare l'accesso al campo:
svolgevano bene il loro lavoro, questo era sicuro: mai nessuno, senza
permesso scritto o senza documenti, era riuscito ad entrare; a meno
che non si fosse trattato di Hitler in persona, ma quello era
completamente un altro discorso ed un'occasione rarissima.
<<
Puoi andare nella tua stanza, ti farò portare la cena
>>
furono le uniche parole che il maggiore Schreiber rivolse al figlio.
Il
sergente non disse nulla, iniziando a camminare verso gli alloggi
dell'SS, aiutandosi con le stampelle. Più camminava,
più si
guardava intorno, più non riusciva a credere a tutto quello
che
aveva intorno: i deportati sembravano essersi moltiplicati, dovevano
esserne arrivati troppi prima che il carico precedente fosse mandato
ai forni crematori. Continuava a camminare e vedeva donne e uomini
spaccarsi la schiena, al freddo di una Germania che aveva perso il
lume della ragione. Era da circa un mese che le donne venivano
mischiate agli uomini nel campo di lavoro di Buchenwald, forse era un
nuovo modo per togliere completamente loro ogni sorta di
individualismo. Cos'ha più a farle affermare di essere
donna, uno
scheletro con un pigiama a righe e senza capelli, che lavora vedendo
davanti a sé solo il buio della morte?
Vide
anche devi bambini. Aveva ucciso tante persone in Unione Sovietica e
un po' di violenza non avrebbe dovuto traumatizzarlo, ma fu peggio:
lo spaventò. Lo spaventò il fatto fosse proprio
la razza a
definirsi pura l'artefice di quello scempio. Si passò una
mano tra i
capelli, biondi, mentre rifletteva: non doveva essere giusto
accettare una situazione simile, ma cosa avrebbe mai potuto farci?
Disertare era un suicidio. Avrebbe solo voluto salvare Bea e, in un
modo o nell'altro, ci sarebbe riuscito.
Strinse
i denti, avvertendo una fitta alla gamba: l'effetto della morfina
doveva essere completamente svanito per ridurlo in quel modo, ma
aveva sopportato di peggio nemmeno un mese prima, adesso era
determinato a rivedere quella ragazza, quella ragazza a cui aveva
scritto delle lettere, che adesso erano custodite con attenzione nel
suo zaino, quella ragazza di cui -a detta di Walter- era innamorato.
Il
sergente Schreiber non aveva mai creduto nell'amore, non era come il
suo migliore amico e non pensava che quel sentimento avrebbe mai
potuto risolvere qualche problema, ma si ritrovò a chiedersi
cosa
provasse realmente per Bea. Non era solo un'amica, questo era inutile
negarlo, ma cosa sarebbe mai potuta diventare? Non poteva
immischiarsi in qualche sentimento o relazione strana con lei: se non
fosse riuscito a farla scappare, sarebbe sicuramente morta, e non
avrebbe sopportato di assistere alla morte di una persona per la
quale aveva ammesso di provare qualcosa di immenso. Per questo
motivo, Mark Schreiber si rifiutava di essere coinvolto in qualsiasi
modo in una relazione con Bea Gurtsieva.
Entrò
in quella casa, quella che non era casa sua, ma che gli aveva
riservato troppe sorprese per non esservici in qualche modo legato.
Sospirò, guardandosi intorno: il legno caldo del pavimento
era
invitante quasi quanto lo scoppiettio del caminetto acceso: avrebbe
tanto voluto sedersi sul tappeto e assaporare il torpore del fuoco a
meno di un metro dalla pelle gelata, ma voleva riposare.
Salì le
scale, senza troppa fretta e facendo attenzione a dove mettere le
stampelle. Raggiunto il bagno, si spogliò e prese un
asciugamano: la
bagno d'acqua calda e iniziò a bagnarsi e lavarsi via i
segni della
guerra, stando attento a non inumidire troppo le bende sul braccio e
sulla gamba.
Avrebbe
voluto correre da Bea, e si ripromise che lo avrebbe fatto, quella
notte stessa, quando nessuno avrebbe potuto notarlo; almeno per
quella sera, finché suo padre non si fosse addormentato,
doveva
mostrare indifferenza verso quella che era solo una ragazzina russa,
anche comunista.
Ad occhi
chiusi, riportò alla mente la figura di lei: il viso pallido
che
esprimeva dolcezza, dalla pelle morbida e delicata; gli occhi grandi,
di quel verde intenso che riusciva soltanto a fargli venire in mente
una vasta distesa d'erba, baciata dal sole, contornati dalle ciglia
lunghe; i boccoli lunghi che all'epoca le arrivavano a metà
spalle,
dovevano esserle cresciuti, doveva essere ancora più bella
con
quella massa di capelli corvini, lucidi e lunghissimi.
Ricordò la
figura piccola e delicata.
Si morse
il labbro inferiore, scuotendo il capo: non poteva perdersi in
pensieri simili e pretendere di mantenere il controllo quella notte,
con lei. Pensare che fosse così vicina lo scaldava, sia
all'interno
che all'esterno, ed il fatto che fosse inverno la diceva lunga.
Campo
di
sterminio di Buchenwald, Germania.
2
Febbraio 1944
2:48
Era buio
quando Mark si rigirò nel suo letto, incapace di prendere
sonno.
Controllò l'orario ancora due volte, prima di decidersi a
raggiungerla, ormai non sentiva provenire più rumori
dall'interno
della casa, suo padre doveva aver compilato anche gli ultimi affari
da ufficio. Scostò le coperte pesanti dal letto e si mise a
sedere,
stringendo i denti per il dolore alla gamba: i dottori si erano
raccomandati almeno tre volte perché stesse a riposo, ma
quella era
un'occasione importante, non poteva permettersi di ascoltarli, non
quel giorno.
Infilò
un paio di pantaloni ed una giacca prima di iniziare ad incamminarsi
lentamente e riuscì ad attraversare tutto il corridoio senza
fare
troppo rumore; non aveva mai pensato che quella casa di notte, senza
nessun rumore, potesse essere capace di metterlo così in
soggezione,
forse dipendeva dal fatto che lì non era mai sentito
propriamente a
casa, stava davvero meglio a casa di Walter, anche se erano un paio
d'anni che non rimaneva a dormire dal suo migliore amico. Con il
tempo aveva scoperto che era divertente passare la notte con una
ragazza, ma aveva rinunciato anche a quello da tempo, trovandolo
tremendamente insignificante e vuoto.
Come se
mancasse qualcosa.
Aprì
la
porta, lentamente, con la sua chiave: l'aveva nascosta in un cassetto
della sua camera prima di partire: era la sua copia delle chiavi
della camera designata a Bea, era l'unico modo che avesse di vederla.
La stanza era buia, e i riflessi della luna quasi assenti quella
notte: riusciva soltanto a vedere delle ombre, e i suoi occhi si
stavano abituando al buio. Andando a tentoni, con le stampelle, si
avvicinò a dove ricordava fosse il letto di Bea. Sorrise,
nel
riconoscere la familiare figura stesa sul letto. Aveva avuto ragione:
i capelli le erano cresciuto fino alla fine della schiena. Tremava,
nel sonno, probabilmente per il freddo.
Sorrise,
avvertendo qualcosa muoversi, dentro di sé. Sentiva il
calore
irradiarsi naturalmente dal proprio corpo e non riusciva più
a
togliersi quel sorriso stupido dal viso. Si sedette accanto a quella
che in fondo era soltanto una ragazzina. Le sfiorò
leggermente il
braccio, voleva svegliarla, voleva parlarle. Sentì dei brevi
mugolii
provenire dalla bocca della ragazza, prima che questa si voltasse,
infreddolita, dall'altra parte del letto.
<<
Beatrishka >> mormorò, passandole una mano tra
i capelli,
dolcemente, usando un tono che non utilizzava da quando era partito.
Non ricordava di essersi mai rivolto così a nessuno al
mondo, tranne
che a quella ragazza, così unica e allo stesso tempo
perfetta. Non
avrebbe mai creduto che sarebbe successo proprio quello, ad una
persona come lui.
Vide la
ragazza alzare piano le palpebre, per poi riabbassarle subito dopo.
Sembrava però che si stesse svegliando, infatti le
riaprì poco
dopo, cercando di tirarsi su a sedere su quel letto malandato. Vi
riuscì solo con l'aiuto di Mark, che la tenne delicatamente
per le
spalle, aiutandola a sedersi.
Gli
occhi di Bea lo osservarono a lungo e lui si aprì nel
più grande
sorriso che avesse mai fatto: avvertiva di nuovo, più forte,
quella
strana sensazione di pienezza all'altezza del petto. Si sentiva bene,
come se non avesse bisogno di nient'altro al mondo; persino i
problemi relativi a tutta la Germania e a loro due soltanto erano
spariti dalla mente del sergente; non esisteva più qualcosa
che
dovesse essere chiamato problema, nella sua mente.
<<
Ah. Sei tu >>, le parole della ragazza lo sorpresero, e
non in
senso positivo. Lo sorpresero tanto da fargli sparire un po' di quel
bel sorriso che aveva messo su.
Le
sfiorò una guancia con la mano, stranamente calda. Non
riusciva a
spiegarsene il motivo, qualche ora prima quelle stesse mani erano
freddissime; forse stare in casa aveva aiutato a renderle di una
temperatura più accettabile, o forse era semplicemente la
presenza
della ragazza a donare calore al suo corpo. << Sono
tornato un
po' di tempo fa, ma mi hanno tenuto in ospedale >>
rispose,
accarezzandole lentamente la pelle candida. Yelena doveva averlo
ascoltato: Bea era pulita e profumata.
La vide
ritrarre improvvisamente il volto, come disgustata da quel contatto,
<< Saresti potuto rimanere a combattere sul fronte, per
quanto
mi riguarda >> la voce era acida, e stranamente sembrava
essersi ripresa subito dal sonno in cui l'aveva trovata Mark.
Stavolta
l'espressione del ragazzo s spense del tutto, trasformandosi in un
immenso punto interrogativo, anche abbastanza deluso. Il pensiero di
lei era stata l'unica cosa a riuscire a tenerlo in vita tanto a lungo
da farlo tornare a casa, non si sarebbe mai aspettato una risposta
simile. << Che dici? La battaglia a Leningrado
è finita: i
russi hanno vinto >>, le annunciò, credendo
che la vittoria
della sua patria sarebbe riuscita a rallegrarla almeno un po'.
<<
Grazie per avermi avvertita, ma stavo dormendo >>, Mark
non
aveva mai visto il lato forte di Bea, ma era sicura che lo fosse,
stava solo aspettando che quella parte di lei salisse a galla, ma
adesso che era successo non sapeva se esserne felice o meno.
Soprattutto se si comportava così con lui, che le era sempre
stato
vicino.
Il
biondo la osservò per qualche istante, prima che lei
voltasse il
capo per non incontrare gli occhi di lui. << Vuoi che
vada via?
>> le chiese cautamente. Ovviamente non aveva alcuna
intenzione
di farlo, ma aveva bisogno di sentire una risposta a quella domanda.
Aveva sopportato ferite e dolore per lei; aveva ucciso delle persone
per tornare da lei, non aveva alcuna intenzione di andarsene, quando
era finalmente riuscito a tornare a casa quasi completamente intero.
Quella non era la sua casa, lo sapeva bene, ma ormai lei era
diventata la sua casa. Era il suo rifugio, il suo posto sicuro, la
sua fonte di calore e protezione; e una casa non era forse questo?
<<
Sì >>, non si voltò a guardarlo,
pronuncio solo quella
risposta monosillabica.
Mark la
guardò, parecchio stranito, prima di poggiarle una mano sul
mento,
costringendola a guardarlo, << E saresti anche
così gentile da
spiegarmene il motivo? >> quasi sbuffò, ma si
trattenne. Non
voleva mostrare la sua indole da ragazzino cocciuto proprio a lei,
proprio in quel momento.
Bea
abbassò lo sguardo, non reggendo quei occhi nocciola,
così intensi,
colmi di dolore e di qualcos'altro a cui non era ancora riuscita a
dare un nome. << Perché sei esattamente come
loro >>,
disse la verità. Non era così forte come voleva
far credere, ma per
lei sarebbe stato importante dimostrare il contrario.
Il
sergente Schreiber la osservò, e stavolta sbuffò
davvero,
arrabbiato. Si alzò dal letto, iniziando a camminare per la
stanza,
<< E cosa ti spinge a credere che sia come loro, eh? Mi
pare di
aver imparato abbastanza, dopo quella volta >> non stava
urlando, ma ci era molto vicino, si tratteneva solo perché
era notte
fonda e in quella casa dormivano tutti. Quell'incontro era segreto e
doveva rimanere tale, se non voleva altri problemi, oltre a quelli
già innumerevoli che erano improvvisamente tornati a fare
bella
mostra di sé nella sua mente. << ... mi pare
di averti sempre
rispettata e trattata come un essere umano; non ti ho mai obbligata a
far nulla, né preteso da te niente. Non ti ho mai insultata,
né
picchiata, non ti ho mai detto che sei una sporca comunista come
avrebbe fatto qualsiasi altro soldato in questo posto >>,
buttava fuori tutto come se fosse necessario farlo, senza riuscire
più a fermarsi, colmo di rabbia. Parlava velocemente e con
gli occhi
accesi da un sentimento che conosceva bene: il dolore, la sensazione
di essere stato rifiutato, ancora una volta, da una persona in cui
credeva, e soprattutto, tra tutte quelle emozioni, l'ira la faceva da
sovrana. << Non ti ho mai trattata come se fossi quello
che
sei... >> continuò, ovviamente tralasciando la
prima violenza
sessuale, per cui credeva di essersi già scusato abbastanza
in
precedenza.
Si
fermò
solo quando la sentì singhiozzare, alle sue spalle.
Sorpreso, si
volto verso di lei e la osservò, tremante e in preda alle
lacrime.
<< Mi hai abbandonata >>, la risposta lo
scosse
completamente, facendo sparire tutta la rabbia che lo aveva
tormentato nei minuti precedenti.
Colpevole,
Mark si avvicinò a Beatrisa, accucciandosi nuovamente sul
letto,
accanto a lei. Aveva provato talmente tante emozioni in così
poco
tempo che era arrivato a comprendere solo in quel momento il motivo
per il quale non lo volesse attorno. Avvolse quel corpicino fragile e
scosso dai singhiozzi tra le sue grandi braccia, sentendola poco dopo
sistemarsi meglio, contro il suo petto. Lui non riusciva a dire
niente, come se le sue corde vocali si fossero divertite ad
annodarsi, creandogli anche un forte fastidio alla gola. La sentiva
stringersi a lui, aggrapparsi alla camicia che usava per dormire e le
lacrime di lei che la bagnavano. Era incapace di fare qualcosa oltre
che darle piccoli baci sui capelli e stringerla ancora di
più tra le
braccia. << Non volevo abbandonarti >>
disse, in fine.
Aveva
capito perfettamente cosa era successo: quando lui se n'era andato,
lei si era ritrovata completamente sola, senza nessuno su cui fare
affidamento, senza nessuno da poter considerare vicino a lei come lui
stesso era stato. Era una cosa complicata da spiegare, ma mentre lui
si era fatto forza e aveva tirato avanti solo per tornare da lei, lei
non ci era riuscita; si era sentita come se fosse già morto
e
l'avesse abbandonata al suo destino, un destino che non la voleva
viva.
<<
Ho aspettato tanto per rivederti, Beatrishka >> le
sussurrò
ancora all'orecchio, stringendola a sé. Non riusciva a
credere di
starsi finalmente aprendo alla ragazza, ma doveva farlo: non riusciva
a vederla in quello stato, soprattutto se c'era anche solo un minimo
di ragione di pensare che fosse stata colpa sua. << Non
ho mai
smesso di pensarti >>, il fiato caldo del ragazzo
solleticava
la pelle gelida di lei, che aveva iniziato a calmarsi, limitandosi a
leggere e silenziose lacrime che scivolavano veloci dalla guance sino
al lenzuolo leggero che era poggiato sul materasso in maniera
disordinata.
Le
baciò
il capo, dolcemente, prima di scostarsi quel tanto che bastava da
permettergli di vedere quegli occhi verdi, sebbene al buio della
stanza, << Scusami >> mormorò,
prendendole il volto tra
le mani. << Ti prometto che non ti lascerò mai
più da sola.
Mi prenderò cura di te, sei l'unica cosa che m'interessi
>>
ammise, sincero come non lo era mai stato; i suoi occhi potevano
testimoniarlo: non c'era ombra di dubbio, non erano menzogne, e non
erano scuse campate in aria, lo sentiva sul serio.
Quando
si fu calmata del tutto, Bea di scostò, guardandolo negli
occhi, <<
Mi sei mancato >> ammise, sebbene avesse qualche
difficoltà a
parlare correttamente, dovuta al fatto di aver appena finito di
piangere.
Mark le
sorrise, con dolcezza estrema, prendendo una ciocca di capelli tra le
dita ed indiziando a giocarvi. << Come ti senti,
adesso?>>
le chiese, prima di invitarla con un cenno del capo ad accomodarsi
nuovamente tra le sue braccia.
Bea lo
ascoltò, lasciando che si stendesse, prima di raggomitolarsi
contro
il petto di lui. << Meglio grazie >>,
rispose, osservando
il soffitto, mentre poteva bearsi del respiro regolare dl ragazzo, e
del suo petto che si alzava ed abbassava seguendo un ritmo preciso.
<< Tu come stai? Com'è andata?
>>, chiese a sua volta,
allungando una mano sul materasso, cercando quella di lui.
La mano
di lui raggiunse in fretta quella della mora, intrecciando le dita a
quelle sottili e fredde di lei. << Sto bene, abbiamo
dovuto
combattere molto, anche se per un periodo non l'ho fatto: mi hanno
ferito alla gamba ed al braccio, ma alla fine l'Armata Rossa ha
vinto. Questa volta >> sintetizzò gli
avvenimenti: non aveva
voglia di parlare con le della guerra che aveva appena vissuto, non
era importante. Una cosa importante sarebbero potute essere le
lettere, ma non aveva voglia di parlarle nemmeno di quelle: stava
già
benissimo in quel momento, non c'era alcuna ragione di crearsi dei
problemi che non volevano presentarsi.
La russa
si voltò velocemente, lanciandogli uno sguardo preoccupato,
<<
E adesso come sta? >>, chiese, subito, con un tono che
fece
sorridere Mark.
<<
Cammino con le stampelle e dovrei rimanere un po' a riposo, ma sto
comunque molto meglio >>, rispose, allungando la mano che
non
era intrecciata a quella di lei per accarezzare e giocare con alcune
ciocche scure dei capelli della ragazza, che sembrò
tranquillizzarsi
alle sue parole.
Annuì,
<< Quindi Leningrado ha vinto? >> chiese
ancora, curiosa.
<<
Sì, esatto >>, Mark aveva forse intuito dove
intendesse
arrivare e sebbene non sperasse di affrontare quell'argomento subito,
ne avrebbero dovuto parlare, prima o poi.
Bea
annuì, << Quindi mi uccideranno?
>>
L'altro
sospirò, senza sapere esattamente cosa risponderle: anche
lui aveva
gli stessi dubbi, ma non sapeva con chi parlarne, tranne che con
Walter, e non era che lui se ne intendesse molto di questioni
politico-militari. << Non lo so, Milde, per ora vogliono
che tu
rimanga in vita >>, rispose soltanto, anche se non
conosceva
nemmeno lui il motivo. Continuò a giocare con i suoi capelli
per
alcuni minuti, stringendosela al petto di tanto in tanto.
Contemplavano
entrambi il soffitto di legno della camera, che probabilmente era
privo di alcun significato, ma erano troppo impegnati a tratte
piacere dalla rispettiva vicinanza per rendersene conto. Passarono
alcuni minuti, prima che il tedesco potesse nuovamente sentire la
voce dolce e melodiosa della ragazza russa intonare una canzone:
<<
Poplyli tumany nad rekoj / Vychodila na bereg Katjuša / Na
vysokij
bereg, na krutoj** >>
Mark non
capì tutte le parole della canzone -a dire il vero non
riuscì a
tradurne nessuna- ma adorò sentire il suono della voce della
ragazza, sebbene stesse canticchiando a bassa voce, essendo notte,
<<
Cos'è? >> chiese, interessato, smettendo per
un attimo di
giocare con gli splendidi capelli di lei.
La
ragazza sorrise, arrossendo appena, << Una canzone russa
>>
<<
Di cosa parla? >>
<<
Una ragazza, Katjuša, che soffre per la lontananza del suo
amato,
via per il servizio militare >>, rispose lei,
semplicemente.
Il
sergente Schreiber la osservò, incantato, <<
Continua a
cantare, dev'essere bellissima >> mormorò.
<<
Vychodila, pesnju zavodila / Pro stepnogo, sizogo orla / Pro tovo,
kotorogo ljubila / Pro tovo, c'i pis'ma beregla / Oj, ty pesnja,
pesenka devic'ja / Ty leti za jasnym soncem vsled / I bojcu na
dal'nem pogranic'e / Ot Katjuši peredaj privet / Pust' on
vspomnit
devušku prostuju / Pust' uslyšit, kak ona
poët / Pust' on zemlju
berežët rodnuju / A ljubov' Katjuša
sberežët*** >>
Campo
di
sterminio di Buchenwald, Germania.
5
Febbraio 1944
17:35
<<
Forse dovresti darle quelle lettere >>, gli
suggerì Walter,
rimanendo seduto sulla sedia, a sfogliare con poca attenzione un
libro trovato sulla scrivania di Mark. In realtà non gli
interessava
nemmeno molto, ma odiava dover rimanere fermo senza far nulla.
Mark
sbuffò, alzandosi le coperte fino a coprirsi anche il volto,
<<
Si può sapere chi ti ha fatto entrare, eh, Walter?!
>> sbottò,
irritato. Non poteva alzarsi e andarsene solo perché la gama
gli
arrecava troppo dolore, ma l'avrebbe fatto molto volentieri. Sentire
il suo migliore amico ripetersi le stesse cose almeno cinque volte di
seguito non era esattamente il massimo, nemmeno per un soldato
addestrato a morire per la propria patria.
Il
ragazzo dagli occhi azzurri sorrise, divertito dalle reazioni
dell'altro. << Mio padre >> rispose, con
sarcasmo. <<
e comunque non è colpa mia: sei innamorato, sarebbe evidente
anche
ad un cieco >>, gli fece notare ancora; non avevano
ancora
capito se quel sentimento sarebbe stato un male o un bene: era
felicissimo che l'amico l'avesse finalmente conosciuto, ma lo provava
per una ragazza impossibile da avere, non perché Beatrisa
Gurtsieva
non volesse ipoteticamente appartenere a Mark Schreiber, ma
perché
era decisamente sbagliato da parte di entrambi.
L'altro
sbuffò, cercando di coprirsi le orecchie con un cuscino,
<<
Sembriamo due ragazze di dodici anni che si confidano una cotta
>>,
sbuffò, irritato. << Perché non mi
racconti qualcosa di tuo,
invece? Sono stanco di parlarne di me e Bea >>, aggiunse,
subito dopo.
Walter
Hoffmann abbassò il capo, senza più riuscire a
guardare negli occhi
l'amico. Nonostante il gesto, Mark riuscì a vedere le gote
dell'altro tingersi di un rossore tenue. << Non ho niente
da
raccontarti >>, mentì. Era qualcosa di cui non
poteva
assolutamente parlare con lui, o con qualsiasi altro ragazzo o
persona.
Mark
abbassò appena le coperte per guardarlo, accigliato,
<< Cosa è
successo? >>, era abbastanza infastidito che non gliene
avesse
parlato subito. Di solito tra migliori amici si parlava di tutto,
anche delle cose che non si sopportavano, o almeno loro avevano
sempre fatto così, sin da bambini.
Walter
scrollò appena le spalle, << Davvero, non
è importante, solo
che non ho voglia di parlarne >>
Ma il
sergente Schreiber lo conosceva da troppo tempo per farsi ingannare
da quelle bugie; solo che Walter era sempre stato spontaneo, un po'
timido, certo, ma non con lui, non aveva mai esitato a raccontargli
niente, che fossero sogni o paura, come mai non voleva farlo quel
pomeriggio? Doveva essere sul serio una cosa grossa. Il biondo si
tirò lentamente a sedere, in modo da poterlo guardare bene,
<<
Sei sicuro di non volerne parlare? >>, almeno aveva
ammesso di
avere qualcosa, era già un passo importante, e Mark era
sicuro che
quando l'altro fosse stato pronto a rivelargli cosa mai potesse
essergli capitato, sarebbe venuto da solo.
L'altro
annuì, convinto. << Ne sono sicuro, Mark,
grazie >>
disse, prima di alzarsi dalla sedia dov'era ed iniziare a fare avanti
e indietro per la stanza. Adesso doveva solo trovare un modo per
risolvere la situazione -alquanto disastrosa- per Mark e Beatrisa.
<<
Mi fai venire il mal di testa, Walter >>
*
Milde
= Dolcezza, figurativo. (tedesco)
**
La
nebbia scivolava lungo il fiume / Sulla sponda camminava Katjusha /
Sull'alta, ripida sponda (Katjuša - Matvei Blanter &
Michail
Isakovskij, 1938)
***
Camminava e cantava una canzone / Di un'aquila grigia della steppa /
Di colui che lei amava / Di colui le cui lettere conservava con cura
/ O canzone, canzone di una ragazza / Vola seguendo il sole luminoso
/ E al soldato sulla frontiera lontana / Porta i saluti di Katjusha /
Fagli ricordare una semplice giovane ragazza / Fagli sentirla cantare
/ Possa lui proteggere la terra natia / Come Katjusha protegge il
loro amore (Katjuša - Matvei Blanter & Michail
Isakovskij, 1938)
|
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Capitolo 13 *** Capitolo 12. -Segreti. ***
Buon
capodanno!
Mi
avrebbe fatto tanto piacere donarvi questo capitolo come regalo per
le feste, ma non si può considerare proprio un regalo, dato
che sono
due mesi che non aggiorno. Lo so, sono tanto pentita, perdonatemi!
Purtroppo
negli ultimi due mesi ho avuto un blocco totale che sono riuscita a
superare solo negli ultimi giorno e quindi mi sono subito rimessa a
scrivere. Ho in programma di scrivere adesso futuri capitoli, in modo
da non annoiarvi più con inutili attese. Ancora non so con
quante
parole chiedervi infinitamente scusa, per farmi perdonare questo
è
il capitolo più lungo della storia e accadono molte cose
belle!
Ringrazio
tutti quelli che hanno inserito la storia tra le preferite, le
seguite, le ricordate o che hanno avuto solo il tempo di leggerla.
Spero di ricevere presto vostri pareri e consigli.
Se
mi è consentito dedico questo capitolo alla mia Ecchan, che
lo
aspettava con ansia. <3
Schizophrenia.
Salviamoci
la pelle.
-Segreti.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
7
Febbraio 1944
18:30
<<
Tra qualche giorno è il tuo compleanno >>, una
settimana
esatta, e Walter sembrava molto più eccitato del festeggiato
stesso.
Adorava la feste, e il Natale era la sua preferita, ma era sempre
stato compito suo organizzare il compleanno del migliore amico, e non
sarebbe stato differente per il giorno del suo ventunesimo
compleanno, era comunque una data importante, no? Dopo tutto quello
che era successo, poi, forse un giorno libero ci voleva.
Mark
scosse il capo, << Non è vero, ti stai
sbagliando >>,
rispose, con ironica, tirandosi a sedere sul letto. Odiava le feste
di compleanno, certo quelle organizzate da Walter erano più
che
accettabili, ma ne aveva davvero abbastanza. Voleva solo rimanere a
casa a mangiare qualcosa con il suo migliore amico, senza regali o
fidanzate momentanee. Voleva soltanto mollare tutto per un paio di
giorni e dimenticare di dover compiere gli anni, di ricevere auguri
da colleghi di suo padre e da parenti di cui nemmeno ricordava
l'esistenza. Voleva stare da solo con Walter.
<<
Devo ancora rivolgermi a tuo padre per la lista degli invitati? Hai
quasi ventuno anni e sei un sergente >>,
protestò, con un
adorabile broncio stampato sul viso. Si poteva dire che ormai
conoscesse molto più lui tutte le zie del suo migliore amico
che il
ragazzo stesso, ma capitava quando il festeggiato non si degnava di
lasciargli una lista di invitati nemmeno per il giorno del suo
compleanno.
Il
biondo sbuffò, riservandogli un'occhiata poco convinta.
<<
Potremmo non fare nulla, quest'anno. Se non glielo ricordassi ogni
anno, anche per mio padre sarebbe soltanto un giorno come un altro.
Non dovrebbe nemmeno lasciare il suo amato lavoro per correre a
comprarmi un regalo inutile che finirà in un angolo della
stanza >>;
quei regali non riuscivano a riempire il vuoto creato dall'affetto
mancato durante la sua infanzia. Inoltre erano molto più
belli
quando era sua madre a sceglierli, o forse era soltanto lui ad essere
molto più piccolo e ad adorare anche il più
piccolo pensiero quando
c'erano i suoi genitori a casa?
Walter
scosse il capo, per niente d'accordo con le intenzioni del suo amico,
<< Mi trattengo dal proclamare il 14 febbraio festa
nazionale
solo perché il giorno è già occupato
dal San Valentino >>
protestò, senza togliersi quel broncio dalla faccia.
<<
Ah, già, San Valentino >> fu il mormorio di
risposta di
Schreiber. La festa degli innamorati, perché qualcuno aveva
bisogno
di festeggiare una stupida festa che celebrava l'amore di due
persone? Non bastava dimostrarselo ogni giorno o cercare di essere
dolci giorno dopo giorno l'uno con l'altro? Il sergente proprio non
riusciva a capire a cosa servisse quel giorno. Eppure non se n'era
mai fatto un problema: quella festa era solito ignorarla tutti gli
anni, festeggiare il suo compleanno e spesso non se ne ricordava
nemmeno.
Walter
gli rivolse lo sguardo, << Cos'ha di strano San
Valentino? >>
chiese, esaminando per bene il suo migliore amico, al quale non era
mai importato assolutamente nulla della festa.
<<
Nulla, Hoffmann, è una festa senz... >> si
bloccò
nell'osservare l'espressione sbalordita del suo migliore amico. Aveva
gli occhi spalancati e si era fermato, con le mani ancora nelle
tasche dei pantaloni. Lo fissava come se avesse un polipo sulla
testa, e la cosa non era da tutti i giorni visto che il ragazzo dagli
occhi azzurri era solito prevedere quasi tutto ciò che lo
riguardasse. Allora riusciva ancora a stupirlo, qualche volte.
<<
Cosa c'è? >>
<<
Porca puttana. >> furono le uniche parole che
uscirò dalla
bocca di Hoffmann. Walter non imprecava. Mai.
<<
Walter, cos'hai? >>, stavolta era Mark quello sbalordito,
ed
anche un tantino preoccupato per la salute mentale del suo migliore
amico. Non diceva sempre paroline dolci con l'aria di un bambino
innocente, questo era più che ovvio, ma non ricordava di
aver mai
sentito quei termini provenire da quelle labbra piene.
La
successiva risata di Hoffmann sconvolse ancora di più il
sergente:
era un comportamento da pazzi, e di certo il ragazzo non si era mai
vantato di essere una persona normale, ma il comportamento del suo
migliore amico in quelle poche ore lo stava davvero facendo uscire
fuori di testa. << Non ci credo >>
sillabò il ragazzo
dagli occhi azzurri, non riuscendo apparentemente a smettere di
ridere nemmeno per pochi secondi.
Schreiber
sbuffò, inarcando un sopracciglio. Odiava che non lo si
informasse
di qualcosa, per quanto stupida potesse essere. << Ti
dispiacerebbe smettere di ridere per due minuti e spiegare anche a me
cosa c'è di divertente nel San Valentino? >>;
niente. Era una
stupida festa per persone stupide ed innamorate.
L'amico
si calmò solo alcuni minuti dopo: aveva le guance arrossate
e gli
occhi lucidi. Era quasi arrivato sul punto di piangere per le troppe
risa, ma fortunatamente si era trattenuto. << Mark
Schreiber è
innamorato >> sillabò, per spiegare la sua
ilarità. <<
E' cosa più divertente che abbia mai capito essere vera
>>,
aggiunse poco dopo, ed era vero. Non che non fosse felice per il suo
amico o pensasse che la relazione con Bea fosse d'un tratto diventata
più semplice da sostenere, semplicemente non l'aveva mai
visto darsi
tante pene per un sentimento, un sentimento che non aveva ancora
nemmeno concepito di provare, tra le altre cose.
<<
Io non sono innamorato >> tentò, distogliendo
però lo sguardo
dall'amico. Era un riflesso involontario: non riusciva a guardarlo
negli occhi quando mentiva, anche se non sapeva di star mentendo.
Cioè che credeva gli stesse accadendo era già
qualcosa di
incredibilmente strano; nutrire un sentimento forte quasi -o
più, ma
cercava di non valutare nemmeno questa possibilità che
avrebbe solo
confermato quanto in realtà soffrisse di problemi mentali-
quanto
ciò che provava per Walter nei confronti di una ragazza che
sì, era
sua amica, ma da quanto? Da quando si era accorto che no, non era
solo un'amica?
Hoffmann
scosse energicamente la testa, più che convinto delle sue
teorie. <<
Sì che lo sai, e non cercare di ingannarmi, ti conosco
meglio di
chiunque altro >> bloccò ogni suo tentativo di
fuga. Dopotutto
se avesse cercato ancora di rifilargli una bugia tanto banale e priva
di significato l'avrebbe sicuramente capito.
<<
Non ti sto mentendo, Walter, e poi non so nemmeno di chi dovrei
essere innamorato >>, d'accordo, questa forse era una
bugia, ma
solo perché voleva allontanare maggiormente i sospetti, per
quanto
potesse essere difficile. Non voleva nemmeno pensare che un ragazzo
come lui avrebbe potuto buttarsi in una missione suicida simile:
sergente dell'SS e innamorarsi di una deportata russa -pure
comunista!-. No, non riusciva neanche a concepire che una cosa simile
fosse possibile; non per lui.
Walter
scosse appena il capo, contrariato, << Dii una ragazzina
alta
un metro e uno spunto, con fluent capelli neri ed occhi verdi. Ti
ricorda per caso qualcuno? >> lo prese amabilmente in
giro, <<
Ah, inoltre è russa ed una comunista; sto sbagliando, forse?
>>,
aggiunse qualche istante dopo, convinto più che mai delle
sue stesse
teorie, doveva anche farlo capire all'altro, però.
Mark
Schreiber sbuffò sonoramente a quelle precisazioni
dell'amico, <<
Non sono innamorato di Bea Gurtsieva, è semplicemente una
deportata
che è mia amica >> tentò di
ribattere, per l'ennesima volta.
Non voleva discuterne, forse perché in quel momento sentir
parlare
di Bea riusciva a farlo sussultare, o a farlo sentire realmente in
difetto per l'imminente festa di San Valentino. Loro non erano
semplici amici, questo ormai per il sergente era chiaro e impossibile
da smentire, ma cos'erano allora? Non erano fidanzati, lui non
riusciva nemmeno a concepire il pensiero di essersi preso una stupida
cotta, né avrebbero francamente avuto
l'opportunità di passare del
tempo insieme. No, non era innamorato. Anche se... no, non poteva
nemmeno pensarci. Cercò di concentrare nuovamente
l'attenzione sul
ragazzo dai limpidi occhi azzurri che gli stava di fronte,
<<
Dopotutto sei stato proprio tu a consigliarmi di non ascoltare sempre
mio padre, di credere che potesse essere altro oltre che una sporca
comunista >>, voleva ancora avere ragione su quella
discussione
così importante.
Il
suo migliore amico aveva però letto i numerosi dubbi negli
occhi di
lui; era una chance per fargli capire quanto stesse sbagliando a
rifiutare i propri sentimenti che Walter non poteva proprio lasciarsi
scappare. << Allora cosa siete, eh? Rischi la vita per
un'amica
che non conosci da nemmeno così tanto tempo? Scrivi certe
lettere ad
un'amica come Bea Gurtsieva quando non ti ho mai visto fare la corte
ad una ragazza?! >> lo provocò, cercando di
insinuargli ancora
maggiori dubbi in quella bella testolina semi-bacata per via degli
anni trascorsi a seguire le idee del padre. << e no, non
ti
dirò mai che hai sbagliato ad aiutare una ragazza in
difficoltà >>
Il
sergente sbuffò, scuotendo il capo, << Non
capisci proprio la
situazione, vero, Walter? >> protestò,
irritato, cercando di
non alzare la voce. Non che non avessero mai litigato con toni un po'
più alti del normale, ma non era il caso che si venisse a
sapere di
certe dicerie quando fuori da quella stanza almeno una ventina di
soldati dell'SS camminavano tranquillamente per i corridoi,
controllando la situazione in ogni dove.
<<
Cosa c'è da capire? >> fu la semplice risposta
del giovane
Hoffmann,per lui era tutto così chiaro. Doveva esserlo anche
per il
suo migliore amico visto che si alterava tanto, probabilmente non
l'avrebbe fatto se si fosse trattato di una cosa da nulla o se
davvero non avesse provato niente per quella ragazzina russa; ma
quelle erano solo sue supposizioni, non riusciva mai a strappare
all'altro una confessione degna di questo nome.
Mark
scosse il capo, << Nulla, per favore parliamo d'altro
>>;
nessuna situazione, eccetto il fatto che ormai non sapeva
più cosa
fare, se consegnare quelle lettere alla ragazza dai lunghi capelli
corvini o lasciarla perdere del tutto, dimenticarla e convincersi che
tutto fosse stato solo un errore, doversi abituare all'idea che prima
o poi sarebbe stato anche il suo turno di entrare in una camera a gas
e morire, come aveva visto già capitare a molti comunisti,
ebrei e
prigionieri politici prima di lei.
<<
Lo so, sarebbe dura >> borbottò il suo
migliore amico, come se
gli avesse appena letto nel pensiero?
<<
Prego? >>
<<
Ehi, ormai viviamo in simbiosi. Sono nella tua testa >>
La
battuta di Hoffmann portò delle risate nella stanza di un
sergente
non ancora guarito e con il cuore a pezzi.
Mark
decise di cambiare argomento. Avrebbe voluto farlo da un po' a dire
il vero, ma gli era venuto in mente un particolare. <<
Non hai
nessuna con cui passare il San Valentino? >> gli chiese.
Era un
modo molto delicato per chiedergli se la sua testa fosse attualmente
occupata da qualche ragazza. Non lo aveva mai visto con una ragazza
in tutta la sua vita, eccetto una o due compagne di classe durante i
primi anni delle superiori. Non gli sembrava tanto normale: Walter
era il tipico bel ragazzo tedesco, di buona famiglia e con un futuro
già programmato. Tutto ciò a cui si potesse
aspirare.
Lui
abbassò lo sguardo, << Ci sarebbe una persona,
ma non sono
sicuro dei suoi sentimenti nei miei confronti >> era una
mezza
verità, come ne aveva sempre dette su quell'argomento. Non
poteva
sbilanciarsi troppo. Non doveva, nemmeno con Mark: rischiava di
perdere il suo migliore amico.
<<
E cosa aspetti?! Invita questa ragazza al mio compleanno e chiedile
di frequentarvi >> tentò d'insistere.
<<
No, non è il caso >>
Il
sergente si morse il labbro, << Come preferisci
>>; c'era
qualcosa che non andava: lo leggeva chiaramente negli occhi azzurri
del suo migliore amico e la situazione non gli piaceva. Non c'erano
mai stati segreti tra loro, cosa poteva essere così grande
da
allontanarli?
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
14
Febbraio 1944
21:03
C'erano
ufficiali con le loro mogli, c'era una musica lenta e sofisticata e
qualcuno diceva che forse sarebbe venuto anche Hitler in persona. Le
feste a casa Schreiber erano molto più eleganti di quella,
prima
della morte della moglie del Maggiore. Successivamente a quella, di
solito Mark passava il suo compleanno a casa Hoffmann, oppure a bere
una birra con Walter e qualche altro amico intimo, ma Hans Schreiber
aveva pensato che il ventunesimo compleanno del figlio fosse
l'occasione giusta per inserirlo maggiormente nell'esercito, renderlo
simpatico a gente che contava e magari trovargli la moglie giusta.
Dopotutto
non era stato difficile organizzare la cena: ci aveva pensato
un'amica del padre, Libeth. La donna aveva capelli biondo platino
corti, che sfioravano le spalle in morbide linee ondulate, stavano
certamente bene con il viso piccolo e truccato di rosa, illuminando
gli occhi azzurri. Indossava un vestito verde bottiglia per
l'occasione, al quale il giovane Schreiber non si premurò di
prestare nessun tipo di attenzione. Non aveva nemmeno mai visto
quella donna, e lei si era presa tanto disturbo da fargli addirittura
un regalo, che non aveva ancora scartato, tra l'altro.
Il
festeggiato se ne stava semplicemente seduto in un angolo, a guardare
il soffitto -ormai era guarito del tutto- a parlare con Walter e a
pensare alla ragazza chiusa solo quale camera più in
là. <<
Pensavo che il giorno di San Valentino nessuno accettasse di
venire... nemmeno pensavo che mi padre si ricordasse che fosse il mio
compleanno >> sbuffò. Le sue reali intenzioni
non le avrebbe
rivelate a Walter, per non finire in un'altra discussione senza fine,
ma sperava di passare un po' di tempo con lui, per poi stare un po'
più da Bea quella notte. Sarebbe stato sicuramente un degno
modo di
festeggiare il compleanno.
<<
Sbaglio o tuo padre ti sta presentando tutti i marescialli presenti?
>> lo prese in giro l'altro. Tra amici erano pur permessi
certi
atteggiamenti scherzosi, no? Seppur uno di loro due fosse scocciato
come il sergente.
Mark
spostò lo sguardo sul giovane Hoffmann, <<
Già, credo speri
di farmi promuovere senza fare niente, o cose del genere
>>
stava tentando di scherzarci anche lui, ma la cosa non gli riusciva
molto bene. Suo padre era un abile oratore e non si riusciva subito a
capire quali fossero le sue reali intenzioni, quando lo elogiava, ma
ormai lo conosceva da ventuno anni, sapeva bene come era fatto e come
era solito comportarsi. << Va in giro ad elogiare
ciò che è
successo a Leningrado, come se uccidere delle persone mi portasse
onore >> aggiunse, stavolta leggermente infastidito dalla
cosa
in sé. Non solo non gli andava di conoscere persone di quel
tipo, ma
non aveva nemmeno più voglia di avanzare di carriera,
continuando a
fare la marionetta.
<<
La salverei, sergente Schreiber, ma pare lei sia molto richiesto
questa sera e io non posso sottrarre alla sala la presenza del
festeggiato >> lo prese ancora in giro Walter, facendo un
cenno
con la testa verso il maggiore, che si avvicinava a loro con uno
strano sorriso. Hoffmann non ricordava di aver mai visto il padre del
suo miglior amico sorridere se non in modo cattivo o in rarissimi
momenti di pura gioia. C'era qualcosa che non andava in quel sorriso.
Il
padre del festeggiato sorrise, una volta raggiunto il tavolo dove i
tuoi amici si erano rifugiati. << Mark, ho una persona da
presentarti >> annunciò, ma sembrava ci fosse
qualcosa sotto
stavolta, qualcosa ben più grande del semplice "spero che tu
possa raccomandare mio figlio per un buon posto alla destra di
Hitler". Il biondo non conosceva bene suo padre come qualsiasi
figlio, ma lo conosceva come uomo e da quando il sopracitato uomo
aveva perso l'unica donna che amasse era diventato un uomo pessimo.
Il
sergente rise, << C'è qualche altro Capitano
che non può fare
a meno di conoscermi? >> canzonò il padre,
palesemente poco
interessato alla cosa. Non vedeva più l'arruolarsi come
qualcosa di
volontario, qualcosa di gratificante e per il quale avrebbe lottato.
Non si trattava più di difendere la propria patria e far si
che
l'interno mondo accettasse la sua supremazia. Adesso l'SS significava
non poter realizzare i propri sogni, non poter pensare con la propria
testa, non poter decidere nemmeno per sé.
<<
No, ma credo che questa persona sarà a te più
grata >>, non
si fece scalfire dal sarcasmo del più giovane, mentre
rivolgeva
un'occhiata al figlio degli Hoffmann, << Walter, se ci
scusi un
attimo >>; in fondo il Maggiore stimava Walter, aveva
ciò che
suo figlio non aveva: un paio di splendenti occhi azzurri che,
sebbene il ragazzo non vi provasse mai, era convinto potessero
diventare di ghiaccio. Un perfetto tedesco. Aveva accettato la
mancanza del figlio solo dopo quell'inaspettato avanzamento di
carriera.
<<
Faccia con comodo >>
Il
consenso divertito di Walter aveva fatto guadagnare al figlio del
medico un'occhiataccia da parte del neo-ventunenne. <<
Spero
sia una cosa importante, io e Walter stavamo affrontando un discorso
serio >>, bofonchiò. Certo, discorso serio;
probabilmente tra
qualche minuto sarebbero finiti a discutere sull'importanza delle
trappole per topi a causa della troppa noia. Il biondo non voleva
trovarsi in quella sala, travolto dagli invitati in quel momento.
Mark
venne condotto dal padre verso una donna elegante, sulla quarantina.
<< Lei è la moglie del capitano Von Hebel
>> gliela
presentò.
<<
Molto lieto >>, il sergente finse un sorriso alquanto ben
riuscito, mentre salutava la donna vestita a sua parere in modo poco
elegante e molto volgare, eccessivo.
La
donna gli rivolse un sorriso ancora più falso di quello del
giovane,
<< Buon ventunesimo compleanno, caro, lei è
mia figlia:
Barbara Von Hebel >> la presentò, scostando la
sua grasse
persona per mostrare quella snella e alta della figlia.
Barbara
Von Hebel era una splendida ragazza tedesca nel pieno dei suoi
diciannove anni. Aveva raccolto i capelli biondo platino in una
pettinatura che al festeggiato sapeva di troppo lavorato, ma molto
elegante. << Piacere, sergente >>
salutò, con dizione
perfetta e con voce educata, rispettosa. Il corpo era fasciato da un
abito rosa antico e la ragazza sembrava essere stata talmente
preparata per la sera da apparire modellata senza imperfezioni in
quel ruolo che le calzava a pennello.
<<
Il piacere è tutto mio >>, ma l'espressione
dura con cui Mark
Schreiber aveva detto quelle parole, con cui si era portato la mano
della ragazza alle labbra, per baciarne il dorso, la dicevano lunga
sui suoi pensieri. Aveva capito le intenzioni del padre, purtroppo
troppo tardi per fermarlo subito. Adesso che finalmente stava dando
il meglio di sé come membro dell'SS, doveva solo prendere
come
moglie una donna, per andarsene e lasciarlo in pace; ma tanto non
c'era bisogno di decidere nulla, era stato tutto organizzato, forse
quando lui era a Leningrado: suo padre e la signora Von Hebel avevano
già deciso che il sergente e Barbara si sarebbero sposati
presto. <<
Scusatemi, signore, devo andare, adesso >> si
congedò, con
tono scortese e poco educato.
Il
maggiore Schreiber si scusò per il comportamento del figlio,
giustificandolo con una scusa poco credibile: nervosismo dovuto al
dolore alla gamba, non ancora sparito del tutto. Subito dopo
seguì
il giovane, che si era rintanato nel suo ufficio, sbattendo la porta.
Il maggiore Schreiber aprì la porta, richiudendosela alle
spalle, <<
Non mi sembra di averti insegnato a comportarti in questo modo. Torna
subito da quelle donne e scusati con loro >>
ordinò, con voce
tremendamente calma e fredda.
Mark
si voltò verso di lui, fissandolo con rabbia, rancore e
disgusto. << Tu non mi hai insegnato proprio nulla. Tutto
ciò che so lo
devo a mia madre, non a te >> lo accusò. Non
aveva mai più
parlato con suo padre di Agathe Schreiber da quando la donna era
morta, ma si sentiva bruciare dentro; non poteva più
sopportare di
reprimere ogni cosa e di lasciare che il Maggiore decidesse per lui.
L'uomo
fu colpito dalle parole del biondo e si arrestò un secondo,
prima di
fissarlo con ira. << Non hai il diritto di parlarmi
così,
ragazzo >> lo ammonì, alzando di pocola voce.
Si sentiva anche
dalla porta chiusa la musica nell'altra sala, ma non aveva
assolutamente intenzione di rischiare che anche i loro invitati
potessero udire i loro battibecchi.
Il
sergente chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro, sentiva che
qualcosa dentro di lui stava per scoppiare e se fosse successo non
sarebbe stato un bello spettacolo. Diede le spalle all'uomo e si
poggiò alla scrivania, cercando di non cascarvi sopra.
<< Io
non conosco quella ragazza e non capisco perché tu me
l'abbia
presentata >> sibilò, cercando di ritrovare
una calma persa.
Ovviamente si era già fatto le sue idee, ma voleva che suo
padre le
confermasse, voleva la certezza della situazione di merda in cui era
stato cacciato di peso senza nemmeno essere stato informato in
anticipo.
Hans
Schreiber non chiese al figlio di girarsi, non si aspettava nemmeno
che se l'avesse fatto lui gli avrebbe ubbidito. Sembrava alquanto
sconvolto. << Non capisco proprio cosa ti meravigli,
figliolo,
hai ventuno anni, ormai e non potrai vivere per sempre qui
>>
iniziò il discorso; contrariamente al ragazzo che gli dava
le spalle
lui non aveva mai perso la calma, era razionale e freddo davanti a
qualunque cosa, che si trattasse di suo figlio o di una guerra
mondiale. << E' ora che ti accasi e per farlo ti serve
una
buona moglie. Barbara e una donna di ottima famiglia e con poche
pretese, oltretutto sua madre è d'accordo alla vostra unione
>>
concluse il suo discorso, e non sembrava intenzionato ad aggiungere
altro.
<<
E se io frequentassi un'altra? >> fu la lapidaria domanda
del
minore. Era un quesito legittimo, dopotutto qualunque soldato della
sua età arruolato tra le forze dell'SS aveva già
trovato l'amore
della sua vita, ma lui non si era mai sentito particolarmente
sfortunato a non aver mai visto una ragazza che si avvicinasse
minimamente ai requisiti ideali per essere il suo. Forse era vero: la
gente poteva pensar male di un soldato che non aveva una compagna, ma
lui non voleva di certo la figlia dei Von Hebel. Gente dal cognome
nobile, ma che di nobile aveva ben poco, per quanto quella giovane
donna potesse essergli sembrava aggraziata ed elegante.
Il
padre inarcò un sopracciglio, gli si leggeva in faccia che
non
credeva ad una minima parola di ciò che sentiva.
<< Se tu
stessi vedendo una donna, io lo saprei benissimo. Passi le tue
giornate diviso tra Walter e i tuoi impegni di soldato >>
replicò, come se fosse ovvio.
Mark
si voltò, lentamente, con la rabbia che gli ribolliva nel
petto e si
costrinse a guardare il padre dritto negli occhi, << Non
voglio
sposarla >>.
Perché
la prima persona a cui aveva pensato quando aveva capito le
intenzioni di suo padre e della signora Von Hebel era corso a Bea.
Perché
non avrebbe mai lasciato quella casa quando la figura più
bella e
delicata che conoscesse era rinchiusa lì.
Perché
doveva riuscire ad aiutarla, prima di pensare a qualsiasi altra cosa.
Perché
non aveva scritto quelle lettere sollo l'effetto dei pochi
milligrammi di morfina che riceveva a Leningrado.
Perché
Bea era la terza persona, dopo sua madre e Walter, a cui avesse mai
sorriso sinceramente.
Perché
non riusciva a concepire l'idea di dover passare la vita con una
donna che non fosse Beatrisa Irina Borisova Gurtsieva.
Il
giovane abbassò lo sguardo, sentendo improvvisamente un
vuoto al
posto del petto, quando si rese conto di tutto ciò che gli
stava
passando per la testa, e che tutte quelle cose erano basate su una
ragazza che era costretta a passare il resto dei suoi giorni tra
quelle mura ed una camera a gas. Non riusciva, e non poteva nemmeno,
accettera l'idea di provare qualcosa per lei, come se Walter avesse
sempre avuto ragione. Non riusciva a pensare in quel momento, sentiva
solo la prepotente voglia di vederla.
<<
Cambierai idea, Mark, Barbara sarebbe la ragazza perfetta per te
>>
cercò ancora di convincerlo.
<<
Adesso ho bisogno di un po' d'aria >> tagliò
corto il più
giovane dei due, uscendo dallo studio.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
14
Febbraio 1944
22:12
Mark
non impiegò molto per arrivare in camera di Bea, era l'unico
posto
in cui volesse trovarsi in quel momento. Colmo d'ira e di tutta la
confusione che ciò che era successo avrebbe mai potuto
portare. Non
aveva mai desiderato prendere in mano un fucile ed uccidere qualcuno
-suo padre, ad esempio- come in quel momento. Proporgli un
matrimonio, con una ragazza che non conosceva e di cui non conosceva
nemmeno l'esistenza era semplicemente ridicolo ed inappropriato, come
se si fosse mai interessato alla sua vita sentimentale oppure a come
apparissero alla gente. Doveva essere quella sua nuova compagna,
Libeth, a fargli un'influenza peggiore di quella che faceva lui.
<<
E' successo qualcosa? >> si sentì scrutare
dagli occhi della
russa, che gli rivolgevano uno sguardo preoccupato. Si era alzata dal
letto, andandogli incontro. Non capiva come quella ragazza riuscisse
a preoccuparsi così per uno come lui, dopo tutto il male che
le
aveva procurato.
Non
riusciva nemmeno a capire perché sotto quello sguardo
così... dolce
e preoccupato sentì qualcosa sciogliersi dentro.
<< Va tutto
bene, ho solo bisogno di stare un po' con te >>, sorrise
sincero,poggiandole le mani sulle spalle, quando lo ebbe raggiunto,
come a tranquillizzala, ad assicurarle che andasse realmente tutto
bene e che non ci fosse un reale motivo di essere preoccupata per
lui. Cercò ancora di sorriderle, nonostante tutto quello che
che era
appena successo. << Tu come stai? >> le
chiese
dolcemente, osservandola.
Lei
non rispose, ma in quel silenzio c'era tutto quello che non si erano
mai detti, tutto quello che era chiuso a chiave in un cassetto in
camera di Mark Schreiber, scritto frettolosamente su un paio di fogli
indirizzati ad una ragazza russa tenuta prigioniera in un lager
tedesco. Tutti avevano dei segreti nella Germania del 1944: Walter
Hoffmann aveva il suo enorme e indicibile segreto che avrebbe potuto
ucciderlo o confinarlo per sempre in un lager, se svelato; Beatrisa
Gurtsieva sentiva qualcosa di caldo, all'altezza del petto, ogni
volta che il biondo la sfiorava, o la guarda e avvertiva intorno a
lei un senso di protezione che non ricordava di aver vissuto nemmeno
con Dimitri Toforov, il suo migliore amico; Mark Schreiber portava
però il peso di tutto quello, oltre al suo segreto
innamoramento.
Nessuno avrebbe mai dovuto conoscere dei segreti altrui, ma Mark e
Bea, pur non sapendolo, condividevano lo stesso segreto e nessuno dei
due era intenzionato a guardarsi ancora negli occhi senza poter
rivelare nulla, senza poter fare nemmeno un cenno che facesse capire
ad entrambi che sì, provavano la stessa cosa.
<<
Buon compleanno >> esordì in fine, guardando
il sergente di
fronte a lei. << Io... io mi sono permessa di farti un
regalo
>> mormorò, arrossendo con enorme imbarazzo,
mentre abbassava
lo sguardo. In Unione Sovietica per i tempi che correvano era raro
persino tra fratelli scambiarsi dei doni per un'occasione simile; ma
quella sera Leningrado non esisteva, non esistevano le quattro pareti
che dividevano Bea dal resto del mondo, non esistevano le limitazione
di quel lager nazista. Non c'era più nulla, solo uno sfondo
bianco
dove galleggiavano insieme ai propri sentimenti.
Mark
la osservò dubbioso, << Come avresti fatto a
farmi un regalo?!
>> chiese, ma gli si era dipinto un sorriso sul volto che
andava da orecchio a orecchio. La risposta era ovvia, era stato
stupido da parte sua anche solo chiederlo, ma l'idea che la ragazza
avesse pensato di fargli un regalo per il giorno del suo compleanno
lo aveva reso felice oltre l'immaginario, facendogli completamente
dimenticare tutto ciò che era successo solo pochi minuti
prima. <<
Ti ha aiutata Walter, non è così?
>> chiese ancora, senza
farle nemmeno il tempo di rispondere alla prima domanda,
avvicinandosi a lei con cautela e sorridendole.
La
russa scosse energicamente la testa, quasi indispettita che qualcuno
pensasse avesse necessità dell'ausilio altrui anche per fare
un
regalo. Certo, doveva considerare che per un esterno era difficile da
credere: come avrebbe potuto uscire da quel lager e andare a comprare
un regalo al sergente senza che qualcuno venisse in suoi aiuto.
<<
No, ho fatto tutto da sola >> e la sua voce
risuonò fiera e
pienamente consapevole delle proprie capacità mentre diceva
queste
parole. La ragazza non si era mai vantata in vita sua, ma doveva
ammettere che il regalo che era riuscita a trovare per Mark era
perfetto sotto ogni punto di vista e piaceva anche a lei; la metteva
solo tremendamente in imbarazzo, ma questo era tutt'altro argomento.
Schreiber
allora inarcò un sopracciglio, completamente colto di
sorpresa anche
dal tono usato dalla ragazza. Ormai aveva imparato a conoscerla e
stava scoprendo un lato di lei così forte e adorabile che
difficilmente credeva che sarebbe ancora riuscito a tenerle nascoste
quelle lettere. Esprimevano tutto ciò che lui provava nei
confronti
di lei, tutti quei sentimenti senza un nome preciso che credeva di
non doverle rivelare mai, per non commettere nessun guaio.
<<
Beh, allora deve essere sicuramente qualcosa di molto speciale
>>,
non riusciva più ad essere freddo, non con lei. Ormai
Beatrisa era
diventata qualcosa di essenziale, qualcosa di talmente puro che non
aveva alcun senso fingere anche con lei, nascondersi dietro la solita
maschera. Con lei Mark sentiva di poter dire addio a tutti i suoi
segreti ed essere ciò che sentiva di essere.
Lei
annuì, << Allora chiudi gli occhi
>> mormorò all'altro
che obbedì subito ai suoi comandi, sperando di vedere presto
il suo
regalo così speciale.
Quello
fu sicuramente il momento più coraggioso della vita della
giovane
sedicenne. Aveva affrontato l'inverno russo e non avevano sempre
avuto il riscaldamento funzionante per bene a casa, aveva cucinato
per tutta la famiglia e aveva resistito ai piatti di sua zia che non
aveva mai saputo cucinare nemmeno della semplice pasta senza alcun
tipo di condimento; ma le ci volle una forza disumana per combattere
contro tutto quello in cui credeva, per far cadere tutti gli ideali
con cui era stata cresciuta, per dimenticarsi di Stalin e del suo
dannato Comunismo e per, rossa in volto, avvicinarsi al ragazzo
biondo che in abito da festa se ne stava fermo in mezzo alla stanza.
Bea prese un lungo respiro, forse per auto infondersi coraggio e
colmò la distanza che li separava. Non seppe nemmeno come
una sua
mano trovò il suo posto naturale sul petto del ragazzo
quando le
labbra di lei sfiorarono quelle di lui, scostandosi un istante dopo.
Il
suo primo bacio era il regalo più grande che Bea potesse
donare a
Mark, avvertendo a sua volta un gran bisogno di sentire le labbra del
ragazzo.
Mark
aprì di scatto gli occhi, poggiandole le mani sulle braccia
per
scostarla velocemente ed esaminarla con i suoi profondi occhi
nocciola. Non riusciva a capire cos'avesse spinto la ragazza a
baciarlo. Nella sua mente i fili si aggrovigliavano, tessendo una
tela di confusone che difficilmente sarebbe riuscito a sfilare da
solo. Poteva affermare con sicurezza che quello fosse il più
bel
regalo che avesse mai ricevuto in ventun'anni e che desiderava
poggiare le labbra su quelle di lei da quella sera in cui ci aveva
provato lui stesso o forse addirittura da prima; ma non potevano. Era
la cosa più sbagliata che avesse mai sentito: una comunista
e un
soldato dell'SS... non doveva accadere. << Bea ...
>>
sussurrò, cercando di restare fermo mentre le parlava, anche
con lo
sguardo.
La
ragazza scosse il capo, risoluta, << Non ho sbagliato,
Mark,
non tentare di farmelo credere >> quelle parole erano un
marchio di fuoco sulla pelle chiara di lui. Quella dannata ragazzina
era cocciuta oltre l'inverosimile non sarebbe mai riuscito ad
infonderle un po' di buon senso. Non conosceva quella parte del
carattere della figlia del colonnello dell'Armata Rossa; ma gli
piaceva come gli piaceva tutto di lei. Eppure in quel momento odiava
che avesse fottutamente ragione.
Il
tocco delle dita sottili e fredde di lei lo fecero totalmente
ribollire di rabbia. Le prese entrambi i polsi con violenza, una
violenza che credeva di non essere più capace di nutrire nei
confronti di lei. La portò contro il muro, lasciando che il
suo
corpicino piccolo e all'apparenza debole sbattesse contro di esso,
provocando un tonfo sordo. << E' il peccato
più grande che uno
di noi due possa commettere >> la rimproverò,
ritrovando
quella freddezza, amica d'anni.
<<
Peccato agli occhi di chi? >> gli chiese allora lei,
assottigliando lo sguardo e puntando gli occhi dello stesso colore
dello smeraldo in quelli di lui. Non riusciva a credere che stesse
negando tutto quello che gli si leggeva perfettamente negli occhi.
Stava ignorando la violenza che il ragazzo le aveva riservato,
benché
non se l'aspettasse più da lui, o almeno sperava
ardentemente di non
doverselo più aspettare.
Schreiber
cercò di allontanarsi, di lasciarla lì e
risolvere i suoi dubbi
lontano da tutti, << Agli occhi del mio paese, del tuo,
della
tua famiglia, di Dio >> cercò di farla
ragionare, mantenendo
un tono di voce calmo. Mark desiderava solo scoppiare insieme a tutto
quello che stava dicendo, voleva tornare a baciarla e sfiorarle i
lunghi capelli corvini, ma non poteva infilarsi in una relazione
senza via d'uscita, che non avrebbe mai potuto avere un futuro senza
ferire entrambi, come ormai era già successo.
Come
tutti nel suo paese Bea non si era mai affidata troppo a nessun dio,
ma non disprezzava i tedeschi per il loro credere, come non
disprezzava Mark dopo tutto il male che aveva fatto, avrebbe
volentieri visto crepare qualche nazista ma per gli ideali che essi
stessi rappresentavano, non per il colore della pelle. Forse anche
per vendetta personale, certo. << Il tuo Dio non dovrebbe
fare
distinzioni tra ebrei e tedeschi, né dividere due persone
come noi
>>
Stava
definitamente per esplodere. Il sergente tedesco non riusciva a
continuare quella conversazione senza senso. La guardò
ancora: gli
occhi accesi non sarebbero mai passati in secondo piano, la linea
sottile e morbida del collo in cui avrebbe voluto affondare i denti,
i boccoli dello stesso colore di una notte senza luna che ricadevano
quasi fino al fondo schiena; non sopportava la visione di tutto
quello che desiderava e il peso dei suoi stessi sentimenti.
<<
Un giorno io varcherò questa porta e tu non ci sarai
più >>
sputò quelle parole, come se fossero la più
grande bestemmia mai
pronunciata.
<<
E che senso ha rifiutare ciò che proviamo oggi per quello
che
accadrà domani? >>, Bea sentiva chiaramente il
suo tentativo
di allontanarsi, ma non glielo avrebbe permesso. Stava lottando
perché non fosse così. Si tratteneva dal gridare
ma era esausta.
Stanca di cercare di capirsi, perdonando solo tempo nel cercare di
attribuire un nome ad un sentimento così contorto e
masochista.
Mark
sospirò allontanandosi totalmente da lei e sedendosi su
quella
brandina adibita al letto, reggendosi il capo con le mani, confuso.
Quando riuscì a schiarirsi le idee... no, non
riuscì a schiarirsele
nemmeno un po', ma quando capì che forse un modo c'era, le
fece un
cenno con la mano, << Vieni >> disse,
semplice, battendo
appena con la mano sul resto del materasso, accanto a lui.
Bea
lo raggiunse, titubante. Non credeva che Mark gli avrebbe fatto del
male, né che l'avrebbe violentata, non quella notte, ma
aveva
semplicemente paura di quella conversazione che fino a quel momento
era riuscita a portare avanti con coraggio ma che non avrebbe mai
voluto realmente affrontare. << Cosa vuoi fare?
>> gli
chiese, sedendosi a debita distanza, sentendosi effettivamente
rifiutata dal ragazzo, pur comprendendo perfettamente che, fosse
stato per lui, sarebbero finiti su quel letto per fare ben altro in
quel momento stesso.
Lui
le si avvicino, sfiorandole il mento con delicatezza e sollevandole
il volto, in modo che i loro occhi si incatenassero nuovamente.
<<
Per quanto possa essere difficile, ti prometto che non ti
lascerò
morire e che se fosse necessario rinuncerò a tutto per
portarti in
salvo, ma non farmi venire mai più un colpo del genere
>>
sussurrò, una volta che il suo volto le fu talmente vicino
da
mormorare quelle calde parole direttamente all'interno dell'orecchio
di lei.
La
ragazza rabbrividì appena quando avvertì il
respiro dolce e
rassicurante di lui sulla pelle sensibile, << E tu non
dire mai
più che siamo una cosa sbagliata e impossibile
>> stipulò
quel patto, ammettendo senza riusce ad esprimersi meglio che quella
sera erano diventati ai suoi occhi una sola entità
indivisibile,
quando finalmente era riuscita a darsi forza per parlargli, per fare
quello su cui aveva riflettuto tanto mentre il biondo era a cercare
di farsi uccidere a Leningrado con molti altri giovani soldati.
<<
Te lo prometto >> furono le uniche parole di lui, che non
le
diede il tempo di aggiungere qualche altra condizione, firmando
l'accordo baciando la ragazza. Un bacio semplice, quello in cui basta
cercare le labbra dell'altro, sentire il loro sapore sulle proprie
per stare in pace con il mondo, per sentirsi parte integrante di
qualcosa di molto più grande di quanto ci si sarebbe mai
aspettati.
Loro erano questo e tutto quello che ancora c'era da scoprire. Il
biondo si scostò qualche minuto dopo, senza azzardarsi ad
approfondire il bacio; aveva notato il tremito di lei quando aveva
iniziato a mordicchiarle dolcemente il labbro inferiore. Le
sfiorò i
capelli, riportando una ciocca dietro l'orecchio, <<
Adesso
devo tornare in sala ... >> mormorò, con il
cuore pesante,
alzandosi. Si voltò un'altra volta, prima di uscire,
richiamato
dalle parole di lei:
<<
Sarà un nostro segreto, vero? >>
<<
Come sempre >>
Leningrado,
Unione Sovietica.
20 Febbraio 1944
12:53
<<
Grazie per essere venuto a pranzo da noi, Dima >>, Diana
trattava quel ragazzo come un figlio, e come non avrebbe potuto? Era
cresciuto accanto alla figlia e veva dormito con lei nelle notti
più
buie. Peccato che in quel momento non potesse starle accanto. La
signora Gurtsieva era certa che se Dimitri e Beatrisa fossero stati
insieme quella sera lei avrebbe avuto qualcuno su cui contare e si
sarebbe sentita protetta.
Il
marito della donna era seduto a tavola, mentre la moglie
apparecchiava. << Passami la vodka, Dina >>
ordinò,
distaccato da tutto ciò che accadeva nella camera.
Quell'atteggiamento era forse dovuto alla vittoria di Leningrado sui
tedeschi? Ovviamente no. Lui sapeva qualcosa riguardante qualcuno, in
quella tavola, che era meglio non svelare. << Qualcosa
non va,
Boris? >> chiese la donna, con grande apprensione,
portando
quanto richiesto al padre dei suoi bambini.
Regnava
un'atmosfera di assoluta tensione e tutti, persino il piccolo Sergeij
aveva notato che qualcosa non andava, ma ovviamente non aveva fatto
parola, continuando a disegnare su un foglio, steso sul legno della
pavimento del soviet.
<<
Chiedilo al tenente Todorov >> rispose semplicemente il
Colonnello, indicando con un cenno del capo Dimitri. Quando lo
chiamava in quel modo o era successo qualcosa di molto bello o di
molto brutto, ma a giudicare dall'espressione imbronciata di Boris
Gurtsieva era sicuramente la seconda opzione quella giusta.
Diana
Gurtsieva rivolse allora il proprio sguardo verso il ragazzo,
inarcando un sopracciglio, come se i due stessero nascondendo lei
quale enorme segreto di stato.
<<
Leningrado ha vinto ed io sono stato trasferito al fronte in Germania
>> spiegò, brevemente, guardando il suo
piatto, ancora vuoto,
non riuscendo a sopportare lo sguardo della donna che poteva
considerare quasi come una madre dopo quell'affermazione.
La
donna lo guardò, rassegnata. << Cerca di
tornare a casa sano e
salvo e con mia figlia >>
|
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Capitolo 14 *** Capitolo 13. -Come noi vorremmo che fosse. ***
Salve
a tutti!
Ecco a voi il nuovo capitolo! Non volevo farmi aspettare troppo e mi
dispiace di aver tardato di un giorno, ieri sera il capitolo era
già pronto ma ero seriamente in ansia per il ritorno a
scuola e stavo mettendo a posto le ultime versioni. :3
Ad ogni modo vorrei ringraziare come sempre chi legge la storia, la
commenta, la inserisce tra preferiti/seguiti/ricordate. Siete tutti
fantastici. *-*
Volevo anche avvisarvi che non ho intenzione di fare più
molti ritardi, ma come per molti di voi anche io oggi ho iniziato di
nuovo la scuola. Una bella botta di sicuro, non vedo l'ora di
collassare sotto le coperte. Ad ogni modo, ho un sacco di lavoro da
fare per recuperare latino. Quanto odio quella materia, mio dio; no, la
cosa davvero irritante è che non è vero che la
odio, mi piacerebbe anche se solo riuscissi a capirci una mazza.
D'accordo, inizio a mettermi sotto.
No, non è vero: come faccio a studiare quando ho messo su il
dvd di "Senza filtro"?! Gné.
Su, giuro che ci provo. Voglio passare l'anno.
Buon capitolo!
Schizophrenia.
Salviamoci
la pelle.
-Come
noi vorremmo che fosse.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
28
Febbraio 1944
23:56
I giorni passavano
così in fretta quell'inverno in Germania.
Così in
fretta da sembrare attimi, attimi in cui tutti riuscivano a prendersi
una pausa dal mondo esterno e dedicarsi ai propri problemi personali e
alle proprie gioie. Che di gioie in realtà ce ne fossero ben
poche effettivamente per molti tedeschi e persone residenti nel posto
era un'altra cosa; a Mark Schreiber sembrava che tutto girasse nel
verso giusto in quei mesi e che niente sarebbe potuto capitare di
abbastanza forte da rovinare quell'assurda perfezione che per la prima
volta era venuta a crearsi all'interno della sua complicata vita.
D'accordo, forse quando
si coricava sul letto oppure reggeva un fucile per i suoi quotidiani
allenamenti gli venivano in mente giusto una cinquantina di situazione
che se si fossero verificate avrebbero potuto spezzare quell'armonia,
ma ultimamente si era convertito al pensiero che essere ottimista ogni
tanto non faceva male a nessuno e quindi ci provava anche lui, pensava
positivo ed effettivamente andava tutto bene: Bea era ancora in vita
pur essendo stato perso definitivamente l'Assedio di Leningrado e
inoltre poteva finalmente definirla la sua Bea, almeno tra
sé e sé quando pensava a loro due insieme; non
era stato richiamato per combattere ancora dopo una ferita
così grave alla gamba e pur sapendo che quella lettera
poteva arrivare da un momento all'altro preferiva godersi la meritata
libertà; suo padre non gli stava ancora facendo pressioni
riguardo Barbara Von Hebel e questo era certamente da considerarsi un
bene.
C'era certo una macchia
in tutto quello: Walter. Secondo il sergente il suo migliore amico
aveva un enorme segreto che non rivelava a nessuno, ma più
si scervellava più non riusciva a venirne a capo quindi
aveva deciso di mettere da parte "la questione Walter" e chiuderla a
chiave, considerandola uno pseudo-pericolo per quello strano periodo di
serenità mentale.
Si avvicinò
alla porta di Beatrishka, senza bussare. Infilò le chiavi
nella serratura, ma non giro. Stesse semplicemente qualche minuto a
fissare prima il legno scuro della porta e subito dopo la maniglia
dorata; aveva sempre qualche minuto di esitazione prima delle sue
visite notturne a Bea: moriva dalla paura di aprire quella soglia e di
non trovarla oppure trovare semplicemente il suo cadavere ricoperto di
sangue. Non credeva che sarebbe mai riuscito a sopportare una visione
del genere e comunque tutti erano perfettamente in potere di eliminarla
da un giorno all'altro, la spiegazione sarebbe stata ovvia "non ci
occorreva più", tuttavia c'era una possibilità
più grande che dava a Mark motivo di panico e angoscia.
Qualunque persona che
non conosceva bene la gerarchia di un lager tedesco avrebbe pensato,
non trovando più la ragazza all'interno della camera a lei
designata, che ella sia stata uccisa, ma c'era un'altra triste
realtà e usanza: le belle e giovani ragazze potevano avere
una vita migliore socialmente in un lager, mantenere i loro bei capelli
proprio come era stato concesso a Bea se accettavano di prostituirsi ai
soldati. "Accettare", poi, è decisamente un bel termine
quando ti obbligano a fare qualcosa. Purtroppo
quest'eventualità terrorizzava Mark dato che Beatrisa
Gurtsieva era bellissima non solo ai suoi occhi, quella di lei era una
bellezza semplice e in fiore, di una ragazza che sta crescendo con la
pelle liscia e profumata di vaniglia, dai tratti leggeri e sofisticati,
l'unica cosa che scoraggiava l'ammissione di Bea in questi "bordelli"
per nazisti era il seno non troppo grande, caratteristica che molti
soldati che il sergente Schreiber aveva conosciuto trovavano
fondamentale in una donna. Eppure il ragazzo era attratto anche da quel
seno piccolo e per niente volgare. Si, stava sicuramente andando fuori
di testa.
Mark Schreiber alla
fine, come ogni sera, si era deciso ad aprire quella porta ed entrare
nella piccola stanza. Sorrise, nell'osserva che Bea era lì,
ad aspettarlo. Seduta in un angolino della stanza, quello
più distante dalla candela. Beh, non che vi fosse comunque
molto altro spazio in un buco di stanza poco pulito, per giunta. La
vide sorridere, appena si fu richiuso la porta alle spalle
silenziosamente. La schiena della ragazza era schiacciata contro la
parete e le gambe, pressate contro il petto, erano come protette dalle
braccia. Il ragazzo osservò i lunghi capelli corvini di lei,
che in quella posizione quasi sfioravano le assi del pavimento. Le si
avvicinò a passi veloci, salutandola con un lieve cenno
della mano. Quel giorno era stanco, ogni muscolo del suo corpo sembrava
urlarlo.
<<
Com'è andata la giornata, soldato? >> chiese
la ragazza, poggiando il capo sulle ginocchia, osservando e
memorizzando ogni suo movimento come se fosse vitale: l'avanzare
velocemente, il sedersi accanto a lei contro la parete, quello sfiorare
una ciocca di capelli come se fosse naturale, come se fosse come
respirare. Le sarebbero serviti quando non le sarebbe stato
più permesso di rimanere in vita.
Lui scrollò
le spalle, << Come tutti i giorni
>> le sorrise, un sorriso disarmante. Gli
sembrava di aver sorriso di più in quei pochi mesi
-trasferta a Leningrado sotto le armi compresa- che nel resto della sua
vita dai sei anni in poi. Quella ragazza aveva uno strano ascendente su
di lui, se ne rendeva conto perfettamente, ma sembrava non riuscire
proprio a farne a meno. << Sono andato ad allenarmi, ho
anche incontrato Derek Keller oggi. Non parla molto con nessuno, ma
sono convinto sia una brava persona, non ragiona come tutti gli altri.
Credo sia un punto a favore >> disse, con una velata
notare di ironia. Da quando faceva ironia sul nazismo? No, quello
decisamente non era il ragazzino che sognava di andare in guerra a
sparare addosso a qualche russo.
Beatrisa
annuì, alle parole del sergente, osservandolo incantata.
Riusciva ad incantarsi ogni volta che apriva bocca. <<
Chi è Derek Keller? >> chiese, appena l'altro
ebbe terminato la frase. Di solito non gli chiedeva mai spiegazioni, di
solito non c'era bisogno di farlo, ma quel nome non le diceva
assolutamente nulla.
L'altro si
bloccò, cercando qualche riferito. Era una morsa dentro non
poterle parlare come se fosse una comune ragazza tedesca, invitarla a
bere una birra una sera-seppure qualcosa nel suo sguardo gli
comunicava che non avrebbe mai accettato di bere una birra- o
presentarla ai suoi amici. Certo, stava diventato smielato fino
all'inverosimile, ma non riusciva a sopportare di non poter comportarsi
come una persona normale. << Ricordi la prima volta che
Walter è venuto a trovarti? Ci fu qualcun altro, quella
sera, che ti portò da mangiare. Quello è Derek
Keller >> borbottò, lasciando ciondolare il
capo contro il muro freddo.
Non gli andava più di
continuare quello stupido gioco, ma che altro poteva fare? Stava
cercando ad una soluzione per farla fuggire da quel postaccio, ma
perché? In fondo la compagnia di lei lo faceva sentire
così vivo e riusciva a farlo sorridere dopo anni in cui la
sua povera testolina aveva iniziato a credere che l'unico rapporto
umano decente che avrebbe mai potuto avere sarebbe stato sempre e solo
Walter. Eppure sapeva che prima o poi l'avrebbero uccisa, che qualunque
cosa avesse provato per lei il destino della ragazza era segnato da
tempo: era solo questione di aspettare un po' e poi sarebbe morta in
una di quelle camere a gas, con la scusa di una doccia; l sergente lo
sapeva bene.
La mora
annuì, poggiando il capo sulla spalla del suo soldato,
<< Adesso ho capito >> concesse, un po'
ironica, socchiudendo gli occhi. Moriva dal sonno e non dormiva
decentemente se lui era con lei. Aveva sempre troppa paura che qualcuno,qualcuno che non era Mark,
entrasse nel cuore della notte per portarla ancora in quelle terribili
sale di tortura che purtroppo aveva già conosciuto.
Schreiber le
accarezzò i lunghi capelli scuri, arricciandoseli ancora
attorno alle dita, mentre scrutava ogni suo movimento. Riusciva sempre
a stupirsi di quanto la ragazza fosse bella ed estremamente fragila.
Non era stata quella ragazza ad urlargli contro qualche giorno prima?
Quella che si imponeva, che pretendeva di aver ragione sul loro
rapporto, quando diceva che non c'era nulla di sbagliato? Era fragile,
sì, ma estremamente coraggiosa.
<<
C'è qualcosa che non va >> notò
lei. Non era una domanda, non aveva bisogno di una risposta, ma aveva
notato lo stato di inquietudine generale che aleggiava nell'aria e non
poteva fare a meno di comunicarlo anche al ragazzo. Ovviamente nemmeno
lei era tranquilla, ma cercava di illudersi che andava tutto bene, che
sarebbe andato tutto bene finché uno dei due non avesse
chiuso gli occhi per sempre, nel buio infinito dell'oblio che circonda
una morte serena.
Lui rise. Una risata
vuota, priva di divertimento o di qualsiasi emozione, nemmeno negativa.
<< C'è mai qualcosa che va come dovrebbe?!
>>, nemmeno quella di lui era una domanda, troppo cinica
e sarcastica per esserlo. Sapeva benissimo che no, non andava nulla per
bene, non c'era motivo di fingere davanti a Bea che non fosse
così. Voleva solo godersi gli ultimi giorni -o forse,
volendo essere davvero molto positivi, mesi- di tutto quell'inferno con
lei; magari rivelandole finalmente quali erano i suoi veri sentimenti,
cosa che non aveva ancora fatto per mancanza di chiarezza propria.
Bea scivolò
lentamente nello spazio vitale del biondo, accoccolandosi sulle sue
gambe, poggiandosi contro il suo petto e raggomitolandosi come un micio
su una qualsiasi fonte di calore in una giornata invernale.
<< Tu sei con me, adesso. Questo è come
dovrebbe essere >> mormorò, mentre socchiudeva
gli occhi, come se avesse detto la cosa più logica del
mondo, pronunciando quelle parole; e sentiva davvero che lei e Mark
fossero logici, ovvi, scontati. Nulla di più matematica che
sommare due cifre per unirle in un unico risultato. Non le passava mai
per la testa che fossero un'eccezione a qualche regola o che i suoi
sentimenti fossero qualcosa di nuovo, fresco.
Le labbra di Mark si
curvarono in un leggero sorriso. Era l'immagine più bella
che avesse mai visto in vita sua, osservò quella dolce
creatura addormentarsi tra le sue braccia e in quel momento lo
sentì: doveva proteggerla, senza badare alle conseguenze.
Doveva pensare prima alla salvezza di lei che alla propria,
perché vivere un'esistenza senza lei nella sua completezza
sarebbe stato molto peggio che subire l'ira di dio, ed essere
condannato a marcire per sempre all'inferno, guardando la morte in
faccia. Le sfiorò dolcemente il volto, non ricordava di aver
toccato mai nessuna donna in quello stesso modo; aveva consumato ogni
amplesso velocemente senza sprecarsi a coccolare mai nessuna di loro.
Sospirò: ancora gli risuonavano le parole di lei in testa.
<< Questo
non è come dovrebbe essere, Beatrishka, è come
noi vorremmo che fosse. >> soffiò, dolcemente,
ad un orecchio di lei quando fu sicuro che stesse dormendo.
Weimar,
Germania.
12
Marzo 1944
10:27
<< Sto
ancora cercando di capire perché hai preteso che mi alzassi
così presto di domenica mattina >>
borbottò Walter, davanti al suo cappuccino e al croissant
caldo, seduto al tavolo più isolato nel bar dove facevano
colazione prima di andare a scuola, un tempo. A volte quei piccoli
momenti gli mancavano e non solo perché vedeva Mark tutti i
giorni, ma perché non doveva pensare ad altro se non hai
compiti e ad essere felice giocando i soldati. Adesso il soldatino ce
l'aveva seduto di fronte, ma non era di plastica rosa.
Mark rise, scrollando
le spalle, << Perché non ci vediamo da
parecchio >> provò con la prima scusa che gli
venisse in mente, prendendo la tazza di espresso e bevendone un lungo
sorso. Forse non era proprio quello il motivo, ma non riusciva
più a tenere nascosto al suo migliore amico un segreto tanto
grande e importante per lui, era assolutamente qualcosa che non
riusciva e forse non voleva nemmeno fare. Era sempre Walter: era anche
merito suo se era riuscito a scavare dentro di sé e trovarci
un po' di buon senso, in dose sufficiente per non uccidere o
maltrattare una splendida ragazza russa per cui aveva completamente
perso la testa.
Hoffmann
addentò il suo croissant, senza distogliere i grandi occhi
azzurri dal biondo. << e per "parecchio" intendi due
giorni? >> chiese, scettico. C'era qualcosa che non lo
convinceva del tutto nello sguardo di Mark Schreiber quel giorno:
sembrava quasi felice. Vedere quel ragazzo biondo e dagli occhi
nocciola felice era una novità assoluta che si stava
verificando sempre più spesso ultimamente, ovviamente il
figlio del medico sapeva perfettamente che ormai il suo migliore amico
era perso in un plico di lettere scritte a Leningrado sotto le bombe,
ma in quegli giorni sembrava addirittura più rapito del
solito.
L'altro rise,
scrollando appena le spalle mentre finiva il suo caffè. Con
Walter le risate erano sempre state facili, figurasi quel giorno.
<< Non credo tu voglia davvero sapere cos'è
successo >> lo stuzzicò. Sapeva che dette
quelle parole la testolina bacata del suo migliore amico avrebbe
formulato tutte le ipotesi possibili per venire a capo di quel quesito,
dopotutto il ragazzo dagli occhi azzurri era un bambino troppo
cresciuto incredibilmente testardo.
<<
Dipende. Di cosa stiamo parlando? >>, Hoffmann iniziava
ad avere dei dubbi. Ormai quasi tutte le loro conversazioni erano
incentrare su una persona soltanto, ma le novità che Mark
poteva portare su ella non erano esattamente tutte rassicuranti. C'era
decisamente qualcosa che non quadrava.
Il sergente Schreiber
scrollò le spalle con un ghigno divertito stampato sul
volto, << Forse è meglio parlarne lontano da
qui >> suggerì. Il fatto che non volesse
essere udito da orecchie indiscrete confermata l'ipotesi che volesse
parlare della ragazzina russa; non sapeva se questo avrebbe dovuto
rassicurarlo o farlo spaventare ancora di più: conosceva i
momenti bui della vita del migliore amico e sapeva che essi di solito
si presentavano senza preavviso, poteva essere successo ancora.
Chiamarono una
cameriera e Walter pagò il conto. Quella mattina toccava a
lui, era un bel po' che facevano a turno ed anche se non si ritrovavano
da soli al bar per una colazione Hoffmann ricordava benissimo che
l'ultima volta era stato l'altro a pagare e ci teneva a rispettare la
tradizione. Forse per conservare quelle piccole abitudini che si
portavano dietro fin da bambini e che non avrebbero mai voluto lasciare
per degli sciocchi motivi.
Una volta usciti dal
locale, il figlio del medico rivolse lo sguardo al più alto,
<< Allora, cosa è successo? >>
chiese ancora, curioso. Si stava rodendo dentro per conoscere i segreti
che quella domenica mattina poteva nascondere per il suo amico e
probabilmente per la ragazza dai lunghi capelli corvini. Quando si
erano visti negli ultimi giorni non ne avevano parlato quasi per
niente, come se Mark evitasse l'argomento più del solito,
come se cercasse di preservare un segreto che non voleva condividere
con nessuno; il suo migliore amico era curioso e ogni tanto si
preoccupava anche per lui, ma aveva rispettato quell'assurda decisione
di chiudersi tutto a chiave dentro e aveva cercato di portare
l'attenzione su argomenti come le ultime notizie riguardanti la guerra
e la situazione della Germania in essa.
<< Shh
>> lo zittì il sergente. Si stava divertendo
ed era decisamente troppo allegro per tutto quello che stava
succedendo: le perdite degli eserciti tedeschi ammontavano ad un numero
abnorme che i cittadini non avevano né la forza
né la voglia di contare e un sergente come lui doveva temere
di essere il prossimo ad essere spedito sul fronte per morire.
<< C'è un posto particolare dove voglio
parlarne >> aggiunse, subito dopo, iniziando a camminare
per le vie della città, infilando le mani nelle tasche dei
pantaloni. Fuori da Buchenwald poteva anche indossare abiti civili,
anche se probabilmente il padre avrebbe preferito indossasse sempre la
divisa per onorare l'SS, Hitler e la razza ariana.
Walter lo
seguì e non parlarono per il resto della passeggiata.
Nonostante fosse quasi primavera il tempo non era migliora di molto.
Faceva ancora freddo e il vento fischiava violento, cosa testimoniata
anche dalle sciarpe che indossavano i due ragazzi: lana semplice e blu
per quella di Mark, uno sciarpone più pesante e degli stessi
colori dell'arcobaleno per l'altro. Non pioveva più, almeno,
e le nevicate erano molto più rare e leggere; la neve che si
era depositata per le strade si era tutta sciolta.
Mark aprì un
vecchio cancello di ferro battuto solo spingendolo, all'interno
sembrava deserto nonostante fosse una bella mattinata. <<
Eccoci >> sorrise. Era certo che Walter si ricordasse di
quel parco, era il primo che avevano visitato una volta ritrovatosi
entrambi in quella città, dopo i primi anni d'infanzia a
Berlino. Era tra l'erba di quell'area verde che Walter Hoffmann aveva
osservato Mark Schreiber soffrire in silenzio per la perdita della
madre, con il volto contratto in una smorfia orribile, ma senza versare
nemmeno una lacrima. Era stato lì che, distesi su un
lenzuolo, quello che allora desiderava ardentemente diventare un
soldato dell'SS per far sì che suo padre fosse fiero di lui,
aveva raccontato al suo migliore amico della sua prima esperienza
sessuale, come se non fosse troppo importante: era il tempo in cui Mark
cambiava giovani e bionde ragazze di buona famiglia almeno due volte al
mese senza riuscire a trovare "entusiasmante" nessuna di loro. Non
entravano lì dentro da almeno due anni, ma se Mark aveva
deciso di portarlo lì si trattava sicuramente di una cosa
seria.
<< E'
rimasto lo stesso posto di sempre >> mormorò
il più basso, iniziando a camminare seguendo Mark,
lasciandosi guidare tra gli alberi che avevano ripreso da poco le loro
foglie di un meraviglioso verde smeraldo e quelle staccate dalla
corteccia dall'autunno dovevano essere state spazzate via da parecchio
ormai. Il giovane Hoffmann si ritrovò a pensare che era
davvero un secolo che non pensava di tornarci.
<< Anche
noi siamo gli stessi di sempre >>, Mark sorrise
all'occhiata scettica di Walter, << le persone non
cambiano, Wal, tirano fuori il meglio o il peggio di loro con gli anni,
ma non cambiano mai. Sono i loro ideali, i loro pensieri che cambiano
ma sempre in base a ciò che sono e che hanno finalmente
deciso di far emergere con un po' di barba o una camicia nuova
>>, concluse come se fosse ovvio e addirittura scontato,
quel discorso, da parte sua.
Hoffmann lo
osservò, stupido, sedendosi di fronte all'altro che aveva
scelto l'ombra di un albero come rifugio dai pochi raggi di sole donati
da quella domenica mattina. << Beh, sicuramente qualche
forza della natura è riuscita a tirar fuori il meglio di te
>> mormorò, basito, stendendosi tra l'erba e,
al contrario dell'amico, accettò di farsi baciare la pelle
dalla luce che quasi scottava sul suo corpo congelato dal lungo inverno
tedesco. La persona che gli stava parlando era sicuramente ancora il
suo Mark, ma c'era una luce diversa negli occhi color cioccolato fuso,
tale da renderli più luminosi.
<<
Allora, vuoi sapere cos'è successo? >> lo
stuzzicò il sergente, sapendo che l'altro stava morendo
dalla curiosità. Poggiò il capo contro il contro
d'albero, socchiudendo gli occhi e godendosi l'aria quasi sopportabile
di quelle mattine di fine inverno. In fondo si divertiva a prendere un
po' in giro Walter.
L'altro
sbuffò, << Certo che voglio saperlo e se tu
non fossi così perversamente crudele me l'avresti
già detto >> borbottò, guardandolo
male. Grazie alla lunga attesa era stato capace di farsi venire in
mente almeno cinquecento possibili cose accadute negli ultimi due
giorni che potessero aver sconvolto il suo migliore amico a tal punto
da renderlo felice e da fargli fare il giro di mezza città
per arrivare in quel parco a raccontargli tutto.
La risata del sergente
risuono nel parco semi deserto. << Ci siamo baciati
>> sussurrò, come se fosse il segreto
più bello, dolce e naturale che fosse mai uscito da quelle
labbra; come se fosse la conclusione di una fiaba che in
realtà era appena iniziata, come se quell'evento
rappresentasse lo sbocciare di un fiore che apre lentamente i suoi
petali, uno dopo l'altro, trattandoli con estrema delicatezza.
Walter
sussultò, con un misto di sorpresa. No, in realtà
se lo aspettava dalla prima volta che aveva visto Beatrisa Gurtsieva,
ma non riusciva a credere che fosse accaduto realmente, che si fosse
finalmente realizzato l'impossibile; soprattutto perché non
aveva mai visto il suo migliore amico in quelle condizioni, era un
evento strano e allo stesso tempo affascinante. << Tu
e...? >> conosceva benissimo la risposta, ma voleva
essere sicuro, o forse si aspettava qualcos'altro. In fondo lui era
sempre stato in grado di scavargli dentro e si era reso conto dei
sentimenti dell'amico molto prima del sergente stesso.
Mark aprì
gli occhi ed inarcò un sopracciglio, osservando il suo
migliore amico in maniera indecifrabile << Bea
>> rispose, con sarcasmo, pensando che forse era il caso
di dargli la soddisfazione che si aspettava per non sentirlo fino al
ritorno a casa: lo aveva portato lì proprio
perché voleva che nessuno venisse a sapere di quello che si
erano detti e della sua quasi relazione post-bacio con Beatrishka.
<< e avevi ragione tu, fin dall'inizio >>
aggiunse, stavolta con ironia, osservando le foglie sopra di lui,
appartenuti all'albero al quale era appoggiato, che occupavano quasi
interamente la sua visuale.
Il povero Hoffmann
scoppiava di gioia, ma cercava di trattenersi. Osservò
l'amico con gli enormi occhi azzurri, quasi lucidi. <<
E... e... e... >> non riusciva a parlare. Quasi
balbettava, cercando le parole giuste per commentare tutto
ciò che aveva appena saputo, con risultati davvero scarsi.
<< Adesso? Tu la ami, no? >>
riuscì solo a chiedere, di getto, tirandosi di scatto a
sedere ed osservando il suo migliore amico come se fosse una fonte
importante di notizie che avrebbero potuto cambiare il corso della sua
esistenza. Beh, c'erano tantissimi problemi da considerare riguardo
un'eventuale relazione tra lui e la giovane ragazza sovietica, ma era
appena iniziato tutto: non era ancora arrivato il momento di pensarci,
rovinandosi il momento.
<< Amare
è una parola grossa, Walter >> rispose l'altro
e lo era davvero, soprattutto quando il soggetto in questione non aveva
mai pronunciato una frase come "Ti amo"; non ne aveva mai sentito la
necessità. Era anche vero che non aveva mai sentito il
bisogno quasi fisico e l'urgenza opprimente di vedere e sentire Bea
accanto a sé, ma lui non aveva idea di cosa fosse l'amore,
non l'aveva mai avuta e non era interessato a scoprirlo proprio quel
giorno. Voleva godersi il tempo con Bea, senza scavare troppo dentro di
sé. Cosa purtroppo inevitabile, si costrinse suo malgrado ad
ammettere.
Walter lo osservava,
sempre più meravigliato e per poco non si alzò in
piedi. << Guardati. Ti sei mai visto così? E'
ovvio che ne sei perdutamente innamorato, idiota! >>
sbottò, e lui non insultava mai nessuno: era l'unico essere
umano incapace di provare odio che il sergente Schreiber conoscesse.
<<
Evitiamo di parlarne, Walter, sono venuto qui per informarti un
avvenimento felice >>
Il più basso
socchiuse gli occhi, prendendo un lungo respiro che l'aiutò
un po' a tranquillizzarsi, << Quando vi siete baciati?
>> chiese, sereno, aprendo gli occhi.
L'altro sorrise e
alzò appena gli occhi al cielo: il suo migliore amico
riusciva a sembrare una quattordicenne in piena crisi ormonale, quando
voleva. << La sera del mio compleanno >> fu
la sua risposta, mentre tornava con la mente agli avvenimenti trascorsi
dal quattordici di febbraio a quel giorno. Forse erano stati davvero i
più belli della sua vita.
<< E, di
grazia, perché ti sei degnato di dirmelo solo adesso?
>> Wal mise il broncio. Il suo adorabile broncio da
bellissimo bambino di cinque anni e Mark scoppiò a ridere,
in una domenica mattina di una quasi primavera.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
15
Marzo 1944
9:40
Il sergente Mark
Schreiber era sgattaiolato dalla camera di una deportata russa poco
prima delle sei, si era lavato in modo veloce e aveva indossato la sua
nuova divisa per gli allenamenti: sebbene non lo avessero ancora
richiamato alle armi, il ragazzo era convinto che sarebbe successo e se
a Leningrado era stato fortunato non significava certo che sarebbe
successo ancora. Sperava solo di rimanere al campo in quei giorni e
mettere ordine tra i suoi pensieri e non pensava alla guerra, ma
seguiva i suoi allenamenti quotidiani insieme a tutti gli altri
arruolati nell'SS.
Venne poi chiamato
all'ingresso del campo di lavoro di Buchenwald, con la certezza di un
nuovo treno in arrivo. Lo sentiva già fischiare mentre
camminava percorrendo il filo spinato, chissà
perché da qualche mese a quella parte avvertiva l'arrivo di
un treno così giusto e frequente gli metteva quasi ansia;
vedere le persone scendere e venire spogliate e private di tutto
ciò che avevano non era più un avvenimento
gratificante, gli faceva solo desiderare di mandar via Beatrisa da
lì il prima possibile e magari di scappare con lei, verso
Montréal. Era sicuramente la scelta migliore.
Mentre osservava i
deportarti scendere dal treno, era rimasto fermo accanto al filo
spinato. Osservava i loro volti come se fossero state tutte persone
importanti per lui che in quel momento stava perdendo per sempre.
Un uomo, stanco, sulla
cinquantina quasi completamente calvo. Chissà che lavoro
faceva, con quante donne era stato, se preferiva un sigaro o un
bicchiere di alcool.
Una ragazzina di forse
dodici anni. Dov'erano le sue bambole e i quaderni con le lezioni di
matematica?
Un'anziana signora.
Chissà se sarebbe riuscita a vivere ancora, fuori di
lì, si e no quattro anni, sembrava già parecchio
malaticcia di suo. I suoi figli erano riusciti a salvarsi?
Un bambino che forse
aveva si e no quattro anni, capelli ed occhi chiari. E se l'avesse
sottratto alle docce e spacciato per un tedesco? Dopotutto non era
ancora stato segnato.
Una ragazza. Una bella,
meravigliosa ragazza dagli occhi verdi e i capelli arruffati di uno
splendido rosso chiaro. Probabilmente un uomo aveva chiesto la sua mano
a suo padre e lui aveva accettato perché solo un uomo per
bene può chiedere la mano di un tale fiore.
Quelli non erano gli
occhi della sua Bea, ma si disse che sicuramente anche lei aveva un
ragazzo a casa che la stava aspettando a braccia aperte. Non ebbe il
tempo di formulare un pensiero coerente che non risultasse troppo
ossessivo, che sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla. Si
voltò di scatto, sebbene sapesse che lì per lui
non c'era alcun pericolo e vide il volto di Hans Schreiber.
<< Vieni,
devo parlarti >>
"Ciao, papà.
Sto bene, grazie", ma i pensieri ironici non servivano se non espressi
ad alta voce. Lo seguì, allontanandosi dal gruppo di persone
sporche, stanche e tristi che si era formato. << Ti
ascolto >>
Il maggiore Schreiber
gli rivolse un'occhiata, senza smettere di camminare, <<
Non stai facendo molto, ultimamente >>, gli fece notare.
Mark Schreiber si
trattenne dallo sbuffare, << Sono appena guarito e
comunque continuo ad allenarmi. Cosa c'è che non va?
>>
<<
L'allenamento è un tuo dovere e non sei più
convalescente da un mese, pretendo che anche tu dia una mano, qui
dentro >> fu la risposta del padre. Non ammetteva
repliche, dopotutto non era colpa sua se il ragazzo era stato ferito
sul fronte e adesso non lo richiamavano alle armi. Di certo non poteva
sperare di venir pagato senza far nulla.
<< Dimmi
cosa vuoi che faccia >> si arrese, senza nemmeno
combattere troppo. Ultimamente non aveva davvero la forza di lottare
per qualcosa, nemmeno se vi credeva fermamente.
L'uomo si strinse nelle
spalle, << Il tenente Friedrich Heinrich è
morto la settimana scorsa, non ricordo di cosa. >> Il
ragazzo non se ne meravigliava: era un uomo anziano con i suoi
problemi. << Si occupava dell'appello all'entrata dei
forni e delle docce. Stilava lui stesso le liste e una volta compiuto
il lavoro me le portava. Credi di esserne capace? >>
Il sergente trattenne
una smorfia all'idea di un compito simile. Fortunatamente lui non era
il tenente Heinrich e non trovava piacere nello stilare liste simili. Ma qualche mese prima avrebbe
preso a calci negli stinchi qualsiasi essere appartenente ad una razza
inferiore. Scacciò via quel pensiero: doveva
accettare per forza, se non voleva che suo padre lo pressasse per
Barbara.
<<
D'accordo, devo iniziare domani? >>
<<
Perfetto >>
Se questo è il
tempo che si ha, mettiamo una distanza
dalla città,
dai numeri, dal freddo della stanza.
Voglio la tua bocca, ma
mi passerà
prima che si apra per me.
Per rimandare ancora
tutto a domani, amore
ed essere sempre quello
che vuoi,
e non finire mai.
Non finire mai.
Non finire mai.
[Tutto domani, Afterhours]
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