Slices of Life. di DreamWanderer (/viewuser.php?uid=74149)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 3. Piccola Confessione. ***
Capitolo 2: *** 10. Amiche. ***
Capitolo 3: *** 11. Lite di Mezzanotte. ***
Capitolo 4: *** 15. A Te. ***
Capitolo 1 *** 3. Piccola Confessione. ***
Eeeeeeeeeeeed
eccomi qua! Con un giorno di ritardo rispetto a quanto avevo promesso in Bottled
Up Inside. (colpa
del computer, GIURO!!!), ma mi faccio perdonare! Infatti, questo non
è il secondo "capitolo" della serie Shards and Shades
ma......... è il TERZO! Il secondo, che si intitola "Una
Storia Senza Lieto Fine." lo trovate nella storia Of Dream and Desire. nella
categoria Romantico della sezione Originali :D
Vi
ricordo che la saga Shards
and
Shades è composta di quattro diverse storie
parallele
aggiornate a rotazione.
Adesso
vi lascio alle vostre letture! Ci risentiamo in fondo :D
3.
Piccola
Confessione.
Karen’s
PoV
Scuote la testa,
Melanie, quando finisco di raccontarle quella storia… una
storia che pare assurda persino a me che l’ho vissuta, tanto
la sfortuna ci si è accanita fino all’inverosimile.
Poi mi sorride. --Beh,
direi che adesso facciamo una bella croce sopra a Ryan!--
Le sue parole mi
arrivano all’improvviso, come una frustata, e reagisco
istintivamente.
--No.--
Mi pento subito della
veemenza, della testardaggine con cui mi è uscito quel
rifiuto. Non volevo essere brusca.
Mel mi guarda un
momento, e mi sorride ancora. Ed è un sorriso triste, forse
perché a visto il tormento nei miei occhi.
--Perché no,
Karen?--
Domanda
da un milione di dollari.
Come spiegare
l’inspiegabile, quando nemmeno io comprendo
l’incomprensibile? Come posso anche solo tentare di dare un
senso logico all’irrazionale? Come faccio a dirle
perché, nonostante tutto, mi senta ancora legata a lui?
Scrollo leggermente le
spalle, mentre chino la testa e comincio a torturare la malcapitata
panna montata della mia cioccolata calda. Anche se dubito che
martoriare quel povero dolce possa in alcun modo aiutarmi a trovare il
senso di tutta questa storia.
--Non lo so.-- aggiungo
con un filo di voce, come se i miei gesti non fossero riusciti a
rendere il concetto.
--Lo ami?-- mi chiede
ancora, facendomi l’occhiolino.
Siamo sempre state
delle inguaribili romantiche, tutt’e due. Il principe azzurro
è sempre stato il nostro sogno, il sogno di tutte. E anche
se la vita cambia tante cose, i sogni mutano raramente. Eppure di nuovo
la risposta mi esce automatica…
Ed
è un altro diniego.
--No.--
Metto in bocca un
cucchiaio di panna montata, anche se m’è passata
la voglia. Ma il sapore dolce è molto piacevole, e copre in
parte l’amarezza che ho sentito invadermi la bocca a quella
piccola verità.
--Non credo di
amarlo.-- ribadisco, senza alzare gli occhi dalla cioccolata.
--Però ti
è entrato dentro.-- obietta lei, e stavolta non posso
ribattere nulla.
Perché
ha ragione lei.
--Ascolta
Karen… non pensi che sarebbe meglio andare avanti? Prova a
cercare qualcun altro magari. Non ti sto dicendo di andare col primo
che capita, chiaro_-- aggiunge in fretta, notando l’ombra che
mi ha sicuramente attraversato il viso. --_ma magari dovresti cercare
di dare fiducia ad altre persone. Potrebbe aiutarti almeno a levartelo
dalla testa.--
Chiodo scaccia chiodo.
Sì, c’ho pensato anche io. Ma non sono capace.
Con un sospiro mi alzo
e mi allungo per prendere la sua tazza, ormai vuota. L’avevo
fatta mezz’ora fa, quella cioccolata. E la mia è
ancora lì.
--Non sono
un’illusa. Lo so che non potrebbe essere in ogni caso, che
c’era _c’è_ ben poco di romantico o di
sentimentale tra noi. Ma mi fa sentire speciale.--
E io,
speciale, non mi
sono sentita mai. Diversa, quello sì. Ma non in senso buono.
Speciale,
invece, mai.
E lui mi ha fatta
sentire speciale, mi ha fatto prendere confidenza con quel lato
più intimo e ardente di me che prima non avevo mai avuto
nemmeno l’occasione di conoscere. E mi ha voluto bene.
Il rumore di una sedia
che gratta il pavimento, e due braccia esili che mi stringono. Mel, la
mia amica, mi abbraccia, cercando di confortarmi almeno un
po’.
--Lo sogni ancora?-- mi
chiede, mentre torniamo a sederci.
E io le confesso tutto,
in un sospiro. --Qualche volta. E ogni tanto, mentre sono in
dormiveglia, mi sembra di averlo accanto a me, di sentire la sua voce o
la sua risata, di sentire le sue mani che mi accarezzano.--
Peccato che ogni volta
che cerco i suoi occhi mi ritrovi a fissare la parete.
Butto giù un
sorso della cioccolata, ormai quasi fredda, ma ancora buona.
Non so cosa darei
adesso per condensare tutte quelle pazzie che non ho mai fatto in una
singola follia: correre a prendere un’aereo, e volare subito
da lui.
Per avere quel tempo,
quell’occasione, che la sfortuna mi ha rubato
quest’estate.
Vorrei poter mettere un
punto a questa storia, sorridere ai ricordi per metterli in un
cassetto, e andare avanti. Ma non ce la faccio. E non perché
io mi senta persa senza di lui, ma perché ho il terrore che
lui possa essere l’unico a volermi bene.
Non sono una sciocca,
anzi. Sono un’ingenua, quello un po’ sì,
ma sono anche capace di far funzionare la testa. Non sono una bellezza
folgorante, ma a curve e tratti sto messa bene, anche a detta degli
altri. Porto gli occhiali, ma ormai non è più un
marchio d’infamia. Sono timida, sempre troppo buona, ma so
anche farmi valere all’occorrenza. Ho una tendenza alla
malinconia, ma ho anche un bel sorriso. Non sono niente di speciale,
certo, ma non sono nemmeno uno schifo.
Eppure, forse, ho
qualcosa di sbagliato.
Perché
altrimenti sarebbero troppe le cose che non so spiegare. Per esempio,
perché io sia tanto brava eppure io non abbia la minima idea
di cosa farne della mia esistenza. Oppure perché, nonostante
io abbia una bella vita, io riesca ad odiarne ogni cosa, me stessa in
particolare. O perché, nonostante io non sia da buttare,
tutti quanti guardino sempre la sorella o l’amica di turno, e
mai me.
Ryan è stato
il primo a notarmi, a farmi trovare un po’ di pace dalle
continue torture e dai ricorrenti rimproveri a cui sottoponevo me
stessa.
E
io ho il terrore che possa essere l’unico.
Sento gli occhi
inumidirsi, il collo scaldarsi, la gola chiudersi. Ma le mie ciglia non
lasciano scappare nemmeno una lacrima.
Mi sento sola in questo
momento, sola come non mai. Vorrei riuscire a scrivere un
po’, almeno per sfogarmi o per distrarmi, ma le parole non
vengono. Manca anche la voglia di leggere, e l’MP3 non fa
altro che propormi la musica sbagliata. In questo momento, sono davvero
l’ombra di me stessa.
Sempre che io sia mai
stata qualcosa di più.
Sento Mel sospirare,
probabilmente irritata dal mio silenzio assente.
--Andiamo a mettere su
un DVD?-- mi propone.
È
un’amica, Mel. Ha capito che non riesco a dirle altro, che il
mio piccolo momento di confidenza è finito, così
cerca almeno di distrarmi. Mi alzo e l’abbraccio forte,
cercando di trasmettere in quel gesto tutta la riconoscenza che un
semplice “grazie” non potrebbe mai esprimere.
Ci sediamo sul divano
morbido, prendendo il telecomando e ci accoccoliamo sotto la trapunta
calda. Cominciamo a spulciare la pila di DVD, cercando qualcosa di
coinvolgente da guardare. La mia tazza di cioccolata, invece, rimane in
cucina.
Mezza
vuota.
In quel momento si apre
la porta d’ingresso, e mia madre entra in casa. Ci
assomigliamo molto, ce lo dicono tutti: stesso colore di capelli,
stesse labbra, stessi tratti, occhi simili.
--Ciao ragazze!-- ci
saluta con un bel sorriso allegro, le guance arrossate
dall’aria frizzante delle giornate d’inverno.
--Siete state in casa?--
--Sì, fuori
fa troppo freddo!-- rispondo, con un sorriso.
Un sorriso falso, che
si tiene alla larga dai miei occhi. Non che importi comunque, visto che
le lenti spesse impediscono a chiunque di guardarli davvero quando
indosso gli occhiali.
--Stavamo per guardare
un film.-- spiega Mel.
--D’accordo.
Io sono di sopra a leggere un po’ se avete bisogno.-- ci
ricorda, sempre disponibile, prima di appendere la giacca e salire su
per le scale.
Noi annuiamo.
--Che ne dici?-- mi
chiede poi la mia amica, mettendomi sotto il naso una custodia.
Film
d’azione? Perché no.
Lo prendo, e lo metto
nel lettore DVD. Poi le immagini riempiono lo schermo, e io le lascio
invadere anche la mia mente.
Le mie preoccupazioni
non sono scomparse, ma per il momento se ne stanno zitte. Domani
torneranno, lo so, ma adesso non riesco a darci peso. Forse stanotte
non riuscirò a dormire, ma adesso non ci penso. Adesso ci
sono solo la mia amica, un bel film da commentare in compagnia e un
po’ di dolce nello stomaco.
E,
ora come ora, questo basta.
Angoletto!
Già,
Ryan non ha mantenuto la sua promessa, e non è riuscito a
rivedere Karen. Infatti, Karen odia le promesse. Qualcuno di voi si
aspettava che l'avrei fatta andar male tra loro? :D
Che
altro dire... spero di leggere un commento, e spero che qualcuno di voi
abbia voglia di seguire tutte le storie :)
Vi
lascio qui i titoli e dove trovare le storie (se dovesse essere
confusionario, potete sempre cercare la serie Shards and Shades sul mio
profilo :D)
1. Bottled Up
Inside.:
Originali > Introspettivo
2.
Of Dream and Desire.:
Originali > Romantico
3.
Slices of Life.:
Originali > Generale
4.
From a Friend's Eye.:
Originali
> (o Introspettivo o Generale, non ho ancora deciso ^-^''')
Il prossimo capitolo della saga lo troverete in Bottled Up Inside.
E... questo è tutto!
Ultima
nota personale: se qualcuno ha voglia di essere sempre aggiornato sugli
sviluppi delle mie storie, ecco il link della mia pagina-autore su
Facebook:
DreamWanderer
Un
bacio a tutti!
;*
|
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Capitolo 2 *** 10. Amiche. ***
10.
Amiche.
(Cheer
Up, My Friend)
Karen’s PoV
Inspira, espira.
Me lo ripeto in continuazione, mentre stringo con forza le mani sul
volante. Cerco di stare tranquilla, ma guidare… anche su
questa autostrada dritta e sgombra, non mi fa impazzire. L’ho
passata bene la patente, ma mi devo ancora abituare a sedermi dietro a
un volante.
--Karen, rilassati! Stai andando bene.-- mi rassicura Selene,
ridacchiando.
Io sbuffo, ma sorrido mio malgrado. --La fai facile te, guidare ti
piace!--
La mia amica ride al tono semi-isterico della mia voce, trascinando
anche me.
--Metti un po’ di musica va’, così penso
meno alla paura.-- le dico, e lei subito si mette a scartabellare tra i
CD per scegliere qualcosa da infilare nel lettore.
Riesco a intravedere velocemente la scritta sul disco: HIM. Sorrido
mentre la musica parte, pensando che me lo sarei dovuto immaginare. Sel
si rilassa contro il sedile, godendosi le note che riempiono
l’abitacolo.
--Ancora non so come hai fatto a convincermi.-- borbotta per
l’ennesima volta, ma lo vedo che è contenta.
--Mia cara, non potevo lasciarti tornare a spaccarti la schiena come se
niente fosse dopo che a momenti mi svieni nel bel mezzo di Piazza
Garibaldi.-- obietto, senza durezza.
Per un secondo rivedo i suoi occhi blu farsi grandi, mentre si porta
una mano alla testa e trema leggermente. Il palo dietro di lei era
stato provvidenziale, altrimenti mi sarebbe finita lunga distesa sul
marciapiede della piazza. Per fortuna era stato solo un calo di
pressione, dovuto alla stanchezza e allo stress a cui era stata
sottoposta negli ultimi giorni. Ci ho messo una vita, a convincerla che
doveva staccare un pochino. E adesso, approfittando di questa settimana
di vacanza interamente fortuita, dopo aver trovato qualcuno che potesse
prendersi cura delle cose a casa sua per questi pochi giorni, la sto
praticamente costringendo a staccare.
--Ma almeno adesso me lo dici, dove mi stai portando?--mi chiede di
nuovo, come ha fatto per mezz’oretta ormai.
Ha cominciato quando ho fatto una tappa a Pontremoli, per andare due
minuti in pasticceria a prendere qualche amorino.
--Ti porto al mare, Sel.--
Al mare, dove ho una casetta. Dove per una settimana scarsa potremo non
pensare a famiglie dispotiche o cuori spezzati. Dove potremo
comportarci tutt’e due come le ragazze giovani che in fondo,
molto in fondo, siamo.
Selene’s
PoV
Mi piace questo posto. Lerici. È una piccola
città sulla costa ligure, in una zona chiamata Golfo dei
Poeti. Ci sono tante casette a schiera arroccate sul mare, tutte
colorate. Il castello, più una rocca che un castello in
realtà, si erge a un estremo del lungomare e si specchia con
una seconda rocca, quella di San Terenzo, il paesino
dall’altro lato della baia.
Karen ha un piccolo appartamento, ed è qui che mi ha
portata. Ha parcheggiato la macchina in piazza, nella zona
carico-scarico, e abbiamo portato i bagagli di sopra. La casa
è veramente piccina: due stanze da letto, un bagno,
soggiorno unito alla cucina, e un corridoio.
La prima cosa che ho fatto, non appena ho messo piede nel piccolissimo
appartamento, è stata correre sul balcone. La vista
è bella, mozzafiato. La casa è a breve dalla
spiaggia, come tutte le case di qui del resto, e si vede il mare. Si
sente il mare, anche nel profumo un po’ salato che impregna
la fodera del divano.
Karen nota il mio entusiasmo, e sorride. Poi prende la mia valigia,
bloccando sul nascere tutte le mie proteste, e mi accompagna oltre la
prima porta del corridoio.
--Ti sta bene dormire qui?-- mi chiede, appoggiando i miei bagagli sul
grande letto a due piazze che occupa la stanzetta.
Annuisco distrattamente mentre osservo gli intarsi nel legno
dell’armadio, l’unico elemento di arredamento a
parte la mensola sopra il letto.
--È la stanza dei miei, e quella in cui non
c’è nemmeno un po’ di
umidità.-- mi spiega, sorridendo. --Ho pensato che ti ci
saresti trovata bene.--
La guardo con gratitudine, e lei scrolla le spalle con leggerezza.
Anche dalla finestra della stanza si vede il mare. Socchiudo appena le
imposte e subito un refolo di vento fresco e morbido mi sfiora il viso,
come una carezza. Mi volto, e vedo che la mia amica si sta gustando il
contatto con l’aria forse anche più di me.
--Metti pure la roba dove vuoi, tanto qui è tutto vuoto.--
mi dice, riprendendosi dal momento di tranquillità. --Il
bagno è infondo al corridoio. Io vado a litigare con la
caldaia!--
La mia risata accompagna la sua uscita.
Svuoto le valigie in fretta, riempiendo un po’ il nulla che
occupa le mensole e i ripiani dell’armadio. Le lenzuola del
letto sono fresche e pulite, per niente umide, e sorrido quando vedo le
stampe dei delfini che le ricoprono.
Poi noto i pochi piatti appesi alla parete, proprio sotto il punto in
cui si attacca al soffitto. Devono essere i
“famosi” Piatti del Buon Ricordo, quelli che Karen
detesta in modo così aperto e cordiale.
Torno nel salottino all’ingresso, e trovo la mia amica che
sta sistemando alcuni bagagli con un’espressione soddisfatta
sul viso.
--Com’è andata con la caldaia?-- le chiedo,
prendendo l’amorino che mi offre.
Sono buoni questi dolcetti. Quadrati biscotti wafer, un po’
più piccoli del palmo di una mano, riempiti da uno strato di
crema pasticciera. Lei ne va matta, tanto da aver messo in programma
una sosta a Pontremoli solo per passare a prenderne un
po’.
--Ha fatto i capricci come al solito.-- sbuffa, mentre attacca la presa
delle casse del suo iPod. --Questa casa sarebbe tutta da rifare, ormai
ha vent’anni rotti.--
Rido ai suoi borbottii, ricordando quello che mi stava dicendo in
macchina; i suoi hanno comprato la casa ancora prima che lei nascesse,
quindi ormai gli elettrodomestici hanno il loro tempo. Hanno dovuto
già ricomprare il frigo appena qualche mese fa
perché era completamente andato.
Karen si abbraccia le spalle da sola, facendo scivolare le mani lungo
le braccia con fare infreddolito.
Nonostante sia già aprile e l’aria stia
cominciando a scaldarsi, qui in casa fa ancora freddo. I muri sono
gelidi, perché è da quando è stato
cambiato il frigorifero che nessuno è più venuto
qui a riscaldare un minimo queste piccole stanze. Mi ha detto che
sarebbe dovuta venire sua sorella Jen il mese scorso, ma ha avuto dei
contrattempi e non ce l’ha fatta.
--Ti senti di andare a mangiare fuori?-- mi chiede. --Così
intanto la casa si scalda un po’ e noi mettiamo sotto i denti
qualcosa di più di quella miseria che
c’è in frigo.--
Sorrido alla sua espressione stizzita a causa del freddo, ma in
realtà nemmeno io mi sento molto a mio agio.
Perché si tratta di quel freddo umido e sgradevole, quello
che impregna sia i vestiti che le ossa, e che fa sembrare appiccicosa
persino la pelle.
--Per me va bene.-- affermo mentre un sorriso furbo si disegna sulle
mie labbra. --Ho visto un posto che si chiama “Fuoco e
Fiamme”… pensi che potremmo andare lì?--
Lei ride di gusto assieme a me, rallegrata dai miei occhi che si stanno
sicuramente accendendo di entusiasmo solo per il nome di quel posto.
Annuisce col capo. --Certo che sì! È un bel
ristorante: la pizza è buona, la pasta non è
affatto male, e costa poco. Dammi solo il tempo di accendere il
deumidificatore e alzare il riscaldamento al massimo che poi andiamo!--
Ci sistemiamo appena, chiudiamo il tutto e ci fiondiamo nel ristorante
prescelto. In effetti il posto è bello. Le sale dove si cena
al chiuso danno sulla piazza, con finestre enormi chiuse da grandi
vetri puliti, sorretti da intelaiature di caldo legno rossiccio.
L’intonaco è di quell’ocra scuro, reso
ancora più suggestivo dalle lampade aranciate. La pizza
è buona, e ci riempie talmente tanto che decidiamo di fare a
meno del dessert; ci mangeremo gli amorini a casa più tardi.
Poi Karen mi porta a fare quattro passi sul lungomare, un ampio
marciapiede di un chilometro e mezzo che collega Lerici a San Terenzo.
Costeggia tutte le spiagge, e il profumo del mare e la risacca delle
onde non abbandona nemmeno un momento della nostra passeggiata. Il
posto è ben illuminato, e entrambi i castelli arroccati a
strapiombo sul mare sono un tripudio di luci dorate che si riflettono
sulle acque morbide che invadono ritmicamente le spiagge che abbiamo
intravisto durante questo giro.
Chiacchierando, arriviamo fino al castello da l’altro lato
della baia, e lei mi porta a vederlo. Sono solo un paio di rampe di
scale per accedere alla prima delle tre torri, e le facciamo con calma
visto che in teoria sarei ancora convalescente. Ma questa passeggiata,
presa con tanta calma e accarezzata da questo bel venticello salmastro,
ha un non so che di rinvigorente.
E la vista è una meraviglia. Nel buio della sera, il
castello di Lerici spicca contro la coltre scura del cielo. Le casette
a schiera dei due paesini brillano come una via lattea di stelle
luminose, e anche i lampioni che bordano il lungomare proiettano un
flebile, tremulo riflesso sulle onde avvolgenti.
--Voglio portarti anche dietro i castelli, ma quello lo facciamo
domani.-- mi dice, una volta tornare a Lerici.
--C’è troppo buio adesso, non ti godresti la
vista.--
Annuisco sorridente mentre lei gira le chiavi nella serratura. Oggi
è stata una giornata di viaggio e passeggiate, e non mi
sento nemmeno io di mettere troppo alla prova questo maledetto corpo
traditore.
Entriamo in casa, e mi godo la lieve carezza del delicato tepore che ci
accoglie. Temevo un forno, contando che il riscaldamento è
stato al massimo fino ad ora, e invece non si sta affatto male.
Appoggio una mano sui muri e li trovo freschi, ma non più
umidicci e gelidi come prima di cena. Karen regola il termostato,
soddisfatta come un gatto con un gomitolo di lana, e mi lascia il primo
turno del bagno mentre lei va a disfare la sua valigia.
Karen’s
PoV
--SONO LE UNDICI MENO UN QUARTO!!!--
Lo strillo di Sel mi fa sobbalzare sul divano, tanto che mi cade il
libro dalle mani. A malapena cinque secondi dopo, il tornado rosso che
è la mia amica fa irruzione nel soggiorno, ancora in
pigiama, con un’espressione confusa e assolutamente sconvolta
sul viso affilato.
E io scoppio a ridere come una perfetta idiota.
--Che ti ridi, iena?! È quaranta minuti che mi rigiro
pacificamente nel letto! Quaranta minuti!! Poi mi sono alzata, ho
guardato l’orologio e ho visto che segnava le undici meno un
quarto! Le undici meno un quarto!!-- sbotta. --Perché non mi
hai chiamata?--
Io ovviamente rido ancora di più. Ormai ho le lacrime agli
occhi, il che in realtà è un vero sollievo visto
che ho addosso queste cavolo di lenti a contatto che oggi non ne
vogliono sapere di far pace con l’aria salmastra di qui.
--Hai dormito bene allora.-- dico tra una crisi di ridarella e
l’altra, e lei mi fulmina con lo sguardo. --Rilassati Sel!
Sei qui in vacanza, ricordi? Non me ne frega niente se ti alzi alle
undici meno un quarto. Se ti va adesso possiamo andare a fare
colazione.--
--Ma ora che scendiamo saranno le undici passate! Non hai ancora
mangiato?!--
Questa donna è in crisi isterica.
Alzo gli occhi al cielo. --Va beh, se non ti va di fare colazione
possiamo vestirci con calma e poi a mezzogiorno andiamo a farci un
brunch. So che “Al Borgo” di San Terenzo hanno
qualche brioche anche a quell’ora.--
Mi guarda stralunata come se avessi appena detto un’eresia. E
a me torna la crisi di ridarella.
--Dai Sel, tranquilla! Lo so che sei abituata a ritmi più
serrati, ma ti ho trascinata qui per rilassarti, non per buttarti
giù dal letto alle otto di mattina!--
La sua espressione sconvolta evapora lentamente fino a diventare un
sorriso tenero e intenerito insieme.
--Su, adesso vai in bagno mentre io mi vesto così poi ti
faccio vedere le spiagge dietro i castelli come ti ho promesso ieri
sera!-- dico, accompagnando un gesto di
“sciò” con la mano per enfatizzare il
concetto.
Tre quarti d’ora e passa dopo questo divertentissimo modo di
iniziare una giornata, siamo entrambe sedute davanti al borgo con due
belle tazze di tè caldo, due brioches a testa, biscottini, e
un paio panini leggeri in stile toast da mangiare più tardi
con calma.
--Non ti facevo così golosa.-- mi punzecchia sorridendo,
accennando alle mie brioches con crema di riso e cioccolato fondente.
Io sfodero la mia faccia di bronzo migliore. --Non ho mai il tempo di
fare colazione fuori, queste sono praticamente le mie scorte per
l’inverno.--
E Sel scoppia a ridere, non so bene per cosa. Forse per la mia
espressione menefreghista, praticamente introvabile sul mio viso, o
forse per la frase da perfetta cretina, o forse per
l’allegria che le mette addosso quest’atmosfera
rilassata.
Spazzoliamo come si deve la colazione, lasciamo un po’ di
mancia a quella povera cameriera disgraziata che si è subita
i nostri scleri durante questo sostanzioso brunch, e poi la porto
dietro il castello di San Terenzo.
Qui c’è un’insenatura con tanto di
spiaggia e bar arroccato sulle pareti scoscese, il
“Vertigo”. Saliamo per prenderci qualcosa di fresco
da bere per accompagnare i panini-piadina di prima, e poi la porto
ancora oltre l’insenatura. C’è una
piccola scogliera, che qui chiamiamo “la torretta”.
Non è altro che una grande roccia a strapiombo sul mare, che
dista un tuffo di un paio di metri circa dalle onde forti ma non
violente. Ci sediamo lì appena all’inizio della
scogliera, apprezzando il calore della roccia scura sotto le nostre
mani e quello del sole d’aprile sul viso.
--È uno dei miei posti preferiti.-- le dico, la testa ancora
reclinata all’indietro per godermi sia i raggi delicati che i
ricordi. --Con i nostri amici ci venivamo spesso, prima che la
compagnia si sfaldasse. Una volta mi sono tuffata anche io. Una sola
però, perché per salire bisogna o farsela a nuoto
fino alla spiaggia o scaldando quello scoglio là.-- le
spiego, indicandole uno scoglio a strapiombo sul mare con i bordi
ricchi di appigli, ma anche molto irregolari. --È
praticamente impossibile venirne fuori senza tagli. E visto che io ero
riuscita a risalire con due graffi leggeri non ho voluto ritentare la
sorte.--
Sel ascolta il mio racconto, gli occhi blu come l’oceano
persi a cercare di dare una forma alle nuvole di panna montata che
attraversano occasionalmente il cielo limpido.
Prima di tornare al lungomare facciamo due passi sulla spiaggia,
sentendo tra le dita le onde lunghe del mare primaverile.
Quando arriviamo dietro al castello di Lerici, la guardo sorridere
incantata alle insenature che si intravedono dalla spiaggetta sassosa
sul lato della rocca. Approfittiamo del resto del pomeriggio per
cercare qualche conchiglia e mettere ancora i piedi in acqua, e poi
andiamo a comprare due cose per riempire il frigo.
Il supermercato è vicino per fortuna. È piccino,
essenziale, ma riusciamo comunque a fare provviste per sopravvivere qui
per una settimana. L’unico neo è che dovremo
razionare gli amorini. Quando glielo dico scoppia giustamente a ridere
di gusto.
Più tardi, giusto prima che cali la sera, vedo che osserva
con disappunto il cielo leggermente annuvolato.
--Dovrebbe venire un po’ grigio per i prossimo tre o quattro
giorni, anche se le previsioni mettevano variabile.-- le dico, e la
guardo imbronciarsi.
--Vengo al mare e s’annuvola.-- sputa tra i denti, un
po’ piccata. --Niente giro alle Cinque Terre, se
c’è brutto i traghetti non vanno.--
--Vorrà dire che ripeteremo la gita a Lerici.-- sorrido io.
--Comunque, ho portato il lettore DVD. Poi abbiamo anche i Piatti del
Buon ricordo da tirare, la tombola, il monopoli e le carte da gioco.
Per non parlare del telefono.--
Mi guarda perplessa, senza capire che diamine c’entri il
telefono in questo elenco di giochi d’emergenza. Il mio
sorriso si allarga, diventando quasi un ghigno furbo.
--Visto che stai qui una settimana, perché non chiami
qualcuna delle tue amiche e vedi se può raggiungerci?--
Quando mi salta addosso per la contentezza, io ringrazio di essere
seduta sul divano; perché se fossi stata in piedi, ora come
ora sarei stata trasformata in una polpetta di gatto spiattellata sul
pavimento!
Angoletto!
Sarò
breve, perdonatemi, ma è colpa del mal di testa fulminante
che mi trascino dietro da stamane :'(
Prima di
tutto mi scuso, mi scuso immensamente per tutto il tempo che
è passato dall'ultima pubblicazione di Shards &
Shades. L'unica cosa che posso dire è che, tra tempo e
meritatissima depressione post-vacanze, non ho davvero avuto voglia di
riprendere questa serie in mano. E, a dirvela tutta, non ci sono
nemmeno riuscita. Ci sarebbe dovuto essere un altro capitolo prima di
questo, ma dopo 4 mesi senza essere riuscita a scriverlo ho deciso di
posticiparlo. È solo rinviato, promesso :)
La seconda
cosa è una dedica: ranyare, questo
è tutto tuo, anche se lo sapevi già <3
Risponderò a tutte le recensioni per lo scorso capitolo, "Incanto
di Neve.", domani appena ho un minuto, perché ci
tengo a ringraziare quelle parole che mi avete lasciato.
In ultimo, vi ricordo come al solito la mia pagina:
DreamWanderer
~EFP
Chicos, vi
saluto, e vi lascio con una promessa: non passerà
più tanto tempo tra un aggiornamento e l'altro! Il prossimo
capitolo lo troverete sempre qui, a "Slices
of Life.", domenica prossima. E presto tornerò
anche a farmi viva nelle recensioni :)
Un grazie a
chi è arrivato fin qui.
;*
|
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Capitolo 3 *** 11. Lite di Mezzanotte. ***
11.
Lite di Mezzanotte.
Karen’s PoV
È capodanno, e stiamo festeggiando. Siamo tutti nella casa
di campagna di Luke, e la prima cosa che ho fatto è stata
piantarmi di fronte al fuoco scoppiettante nel camino.
Tutto sommato, la festa è tranquilla.
C’è un po’ di buona musica, tanto spazio
sia per ballare che per sedersi e rilassarsi, una porta isolata che i
fumatori possono attraversare nel caso abbiano voglia di una sigaretta,
un bel camino acceso e il riscaldamento al massimo. L’unica
abbondanza è rappresentata dall’alcol, ma nemmeno
quell’elemento è poi così eccessivo:
dopotutto, è capodanno.
Personalmente, sto
detestando ogni minuto di questa festa.
Ci sono tutte, ma proprio tutte le persone con cui avrei evitare di
dover interagire. A parte Luke, che non credo riuscirò mai a
perdonare del tutto, ci sono anche Mary e Judith. Ovviamente, Andrew
non poteva mancare al quadretto, e la sua espressione rispecchia tutto
il disagio che probabilmente ha attraversato i miei occhi non appena ho
realizzato il casino della situazione in cui mi ero andata a cacciare.
Ma ormai ci sono dentro, quindi tanto vale ballare.
--Vuoi qualcosa da bere?--
Mi volto di scatto, e mi trovo davanti un ragazzo dai capelli biondicci
che mi porge un bicchierino. Ha un vassoio in mano, quindi immagino che
sia uno degli amici di Luke che si occupa di tenere alto il morale di
tutti gli invitati.
L’odore dell’alcol mi arriva subito alle narici,
inconfondibile: vodka pesca, la mia preferita. Soppeso lo shot con lo
sguardo, inclinando appena la testa di lato.
Perché no, in fondo?
Accetto il bicchiere e ringrazio il tipo con un mezzo sorriso di
circostanza. Quello ricambia ampiamente, e se ne va a scocciare
__pardon, a tirare su di morale__ qualcun altro. Io mi volto di nuovo
verso le fiamme, mentre mi bagno appena le labbra con il corto drink
alcolico.
È pure buona. A me piace il modo in cui si mescolano il
sapore pungente dell’alcol forte e quello fruttato della
pesca dolce. E poi, io reggo meglio gli shot piuttosto che i drink.
Una volta, mi ero bevuta pian piano una bella mezza bottiglia di vodka
ma stavo bene. Avevo pure bevuto un po’ di acqua calda e
limone per scongiurare la nausea, ed era andata giù come
tè caldo. Mi era bastato un bicchiere di coca-cola e rum per
avere vertigini, vista annebbiata, scarso controllo sul
corpo… inutile dire che neanche mezz’ora dopo
avevo rimesso anche l’anima. L’alcol leggero, o
mescolato con roba normale, mi dà fastidio. Quello puro
invece mi fa pure sentire bene. Meno male che in generale bevo poco e
molto raramente, sennò il trapianto di fegato era
già da mettere in agenda. Butto giù quello che
resta della vodka, e sospiro per svuotarmi i polmoni
dall’aroma dell’alcol.
--Come va?-- mi chiede Andrew, affiancandomi nella mia vacua
contemplazione delle braci.
Io nemmeno mi giro a guardarlo. Con la coda dell’occhio vedo
che si tiene un po’ a distanza da me. Non mi offendo, anzi,
condivido la mossa e la trovo saggia. Considerando il casino che il mio
aver bisogno di un suo consiglio aveva scatenato, è meglio
se ostentiamo una certa distanza.
--Potrebbe andare peggio, immagino.-- rispondo moderando il tono di
voce, giusto quanto basta perché lui possa sentirmi e
perché il chiacchiericcio copra le mie parola a chiunque
altro possa passare per caso.
Ho la tendenza a parlare forte, me lo dicono spesso. Mi viene naturale,
e spesso non me ne accorgo. Qualche volta, tra me e me, ci rido su: ho
letto una storia in cui si raccontava che quando si alza la voce,
significa che il proprio cuore si sente distante da quello
dell’interlocutore; magari vuol dire che il mio cuore si
sente distante da tutto il mondo.
--Vedo che ti diverti.-- mi canzona Andrew, accennando al sorrisetto
ironico che mi è fiorito sulle labbra.
Io ghigno, ricordando una delle nostre tante chat alle due di notte.
--Sai benissimo che i miei pensieri sanno essere parecchio divertenti.--
Lo sento ridacchiare, probabilmente ha seguito lo stesso filo dei miei
ricordi.
Si schiarisce appena la gola. --Sai, mi dispiace vederti qui sulle tue.
Perché non ti siedi con noi? Almeno stai un po’ in
compagnia.--
Il mio sorriso muore.
--Non penso sia il caso.-- mormoro, sospirando.
--Judith ormai non ci pensa più, e Mary non è
così stupida da mettersi a fare una scenata supportata solo
dai castelli che si è fatta da sé.-- mi rassicura.
Non riesco a controllare la smorfia che altera i tratti del mio viso.
--Non sarei a mio agio. Non mi piace fingere cordialità, mi
sembra sempre di essere falsa e ipocrita.--
Lui storce la bocca con disappunto. --A Judith non farà
piacere.--
--Doveva pensarci prima di pugnalarmi alle spalle.-- ribatto,
scrollando le spalle.
C’è tanto di quell’astio, nella mia
voce, che non mi stupirei se il fuoco cominciasse a morire.
--A te invece come va?-- gli chiedo, per cambiare discorso.
--Sto facendo del mio meglio per sopportare.-- replica lui, e uno
scatto nervoso delle sue dita mi fa capire quanto poco si senta a suo
agio. --Avevo promesso ai miei amici di passare capodanno con loro,
quindi quando si sono uniti alle due oche per venire alla festa di Luke
non mi sono voluto rimangiare la parola.--
È molto corretto Andrew, come me. Sono convinta che questo
pregio sarà la nostra rovina, prima o poi…
perché alla fine i bastardi se la godono, e gli onesti si
prendono i rimproveri per aver cercato di fare le cose come si deve.
Così va il mondo, immagino.
--Tu piuttosto, che ci fai qui?-- mi chiede sorpreso.
Io scrollo le spalle. --Non mi andava di stare a casa da sola. I miei
sono andati fuori a cena, mia sorella è in montagna con
amici e fidanzato… insomma, ho accettato l’invito
per disperazione. E poi, non mi andava di sorbirmi le domande di
Judith.--
È stata proprio lei, a invitarmi qui. Da quando le ho
mandato quella lapidaria mail di scuse per un fraintendimento che
avevamo avuto __e che lei ha interpretato come un chiedo venia per
tutto quello che pensava avessi fatto__ sta cercando di tornare a fare
l’amicona con me e a impicciarsi dei fatti miei.
Io cerco di tenerla alla larga il più gentilmente possibile,
ma a volte diventa talmente insistente che sono costretta a concederle
qualche piccola verità.
Un’unica perla di verità, in mezzo a tutte le
bugie che le racconto per tenerla lontana dalla mia vita. Mi sento un
rifiuto tossico ogni volta che lo faccio, e allora mi ripeto che ne va
della mia sanità mentale. Il che, probabilmente,
è anche vero.
--Sai, le feste a cui ero andato per disperazione poi sono state quelle
a cui mi sono divertito di più.-- mi dice confortante,
porgendomi un altro shottino di vodka pesca.
Io lo accetto con un cenno di ringraziamento, sorvolando discretamente
sul fatto che non mi ero nemmeno accorta che si fosse allontanato un
momento, tanto ero presa dal mio rancore.
Stavolta, lo butto
giù senza tentennamenti.
L’alcol mi scende lentamente nella gola, caldo. In
realtà, quando bevo non lo faccio per bisogno o per sete: lo
faccio unicamente per questa lieve scia di calore e per il breve
giramento di testa che mi causa il bere qualcosa a goccia. Per un
momento, mi concentro solo su quelle sensazioni e riesco a scordarmi
dei miei pensieri.
Mi lascio sfuggire un mugolio soddisfatto dalle labbra, prima di
buttare il bicchiere di plastica vuoto nel cestino lì
accanto. Mi stampo un bel sorriso sulle labbra e mi volto verso Andrew.
Lui sembra spaesato dal mio cambio d’umore, e la cosa mi
diverte.
Sono un po’ lunatica, lo ammetto, ma in realtà
voglio solo difendere la mia reputazione di ragazza solare. Mi sono
concessa questo momento di malinconia davanti al caminetto, ma adesso
è il momento di rientrare in scena indossando la mia
maschera migliore: un bel sorriso.
--E ora, con permesso, vado a fare un giro di danza!-- trillo con voce
serena, e mi avvio quasi saltellando verso lo spazio che è
stato sgomberato per fare da pista da ballo.
Sento Andrew borbottare un “che tipa!”, e mi viene
da sorridere ancora di più. Mi piace comportarmi con questa
semplicità, perché so che mette allegria. Sia al
mondo, che a me: è più facile portarsi dei
pensieri cupi sulle spalle se si ha un bel sorriso stampato in volto.
Andrew’s
PoV
Quando balla, Karen
cambia radicalmente.
E la cosa migliore, è che non se ne accorge nemmeno.
L’avevo già vista lasciarsi andare una volta,
quando stavo ancora con Judith, e ricordo di essere rimasto parecchio
sorpreso.
Karen è poliedrica, strana. Quando balla, è come
se la parte donna e quella bambina che si contendono un pezzo della sua
personalità trovassero un modo per fondersi. I suoi
movimenti sono sempre semplici, eseguiti con un candore che incanta, ma
allo stesso tempo le morbidezze del suo corpo tutt’altro che
infantile attirano come una calamita.
È bella, lei, anche se non si rende minimamente conto
dell’effetto che può fare certe volte.
È quel tipo di bellezza semplice, quasi banale, eppure
impreziosita da un’innocenza di fondo che lascia spiazzati.
Lei non si sforza di sedurre, quando balla: semplicemente, ha un bel
corpo e le piace muoverlo bene. Non pensa, ai pensieri indecenti che io
invece vedo tratteggiarsi nei lineamenti di chi la fissa.
Quando balla, Karen
balla sola.
Si muove aggraziata al centro di un cerchio impreciso disegnato da quei
morti di __sonno, per non dire volgarità__ che la stanno a
guardare, che ogni tanto la spingono appena per esortarla a non
smettere, sempre con gesti abbastanza controllati, mai violenti, anche
se un po’ invadenti.
Nessuno osa avvicinarsi a lei più di tanto, interrompere i
suoi movimenti modellati sulla musica in cui cerca di immedesimarsi con
tutta sé stessa. Perché per quanto possa essere
invitante, con le curve piene e i vestiti attillati,
c’è un candore strano in lei, un candore gelido,
che allo stesso tempo spinge a volerle stare alla larga. Il paradosso,
è che invece è una persona gentilissima,
sorridente per la maggior parte del tempo, brillante, timida, e tanto
buona.
Tutti le danno spesso della piccolina, della bimba, e tutte le volte
lei alza gli occhi al cielo. Lo fa scherzando, addirittura è
la prima a ridere di questi epiteti carini, ma qualche volta mi sembra
quasi che… le pesino. Forse, perché una parte di
lei, quella più matura, non apprezza tanto di non essere mai
riconosciuta.
Quando balla, Karen
ricorda al mondo quanto sia donna.
Karen’s PoV
Mi lascio cadere su un divanetto, ancora sorridente. Distendo le gambe
affaticate, e appoggio la testa all’indietro.
Mi piace ballare, anche se non sono molto brava. Intendiamoci, mi so
muovere a tempo, ma le mie doti di danza si esauriscono lì.
Mi piacerebbe essere brava davvero, e poter fare passi veri e
coreografare brevi canzoni, ma la verità è che
non ci sono proprio tagliata!
Rialzo la testa e scorgo Andrew mimare un applauso silenzioso. Io lo
ringrazio con un cenno del capo.
Lui è uno di quelli convinti che io sia una grande
ballerina. A voler guardare in faccia la realtà, sono una
semplice ragazza che ha preso qualche lezione di danza moderna e che sa
fare i movimenti giusti per valorizzare il proprio fisico.
Gli altri dicono che mi sminuisco. Personalmente, penso che dare a me
della ballerina significhi sminuire il concetto stesso di danza intesa
nel senso di arte.
Punti di vista, immagino.
--Complimenti, sei una vera ballerina!-- esclama un ragazzo.
Io rispondo con un cenno di cortesia, molto distaccato, ma dentro di me
rido: se mia sorella Jen sentisse questi qui che mi danno della
ballerina, comincerebbe a tirare le sue scarpette da danza, quelle con
la punta… fa danza classica da dieci anni, come darle torto?
Personalmente mi considererei offesa anche io!
Considero per un attimo l’idea di andarmi a prendere un altro
sorso di vodka per ritemprarmi un po’, ma rinuncio. Non mi va
di bere, e ora come ora sto bene così. Non ho voglia di
esagerare, ho già ingerito alcol a sufficienza tra i
bicchierini di prima e quelli sorseggiati mentre ballavo. Mi sento
allegra, anche se ancora lucida, e tanto mi basta.
--Ti vedo stanca. Che ne dici di fare un giro, tanto per cambiare un
po’ aria e schiarirti le idee?-- chiede qualcuno.
Si tratta dello stesso ragazzo che mi aveva offerto la vodka prima,
quello con i capelli biondicci. Considero un momento la sua offerta,
prendendomi il tempo per valutarla: l’impulsività
mi fa sempre fare danni.
È il sentirmi addosso gli sguardi di diversi ragazzi, a
convincermi ad accettare la proposta: mi va di allontanarmi per un
po’.
Faccio un breve cenno al biondino, e mi alzo con calma. Lui annuisce
contento, e mi porta al piano di sopra della casa.
Nella mia maledetta ingenuità, non do il minimo peso al
sorrisetto che vedo passare sul volto di Luke.
Il ragazzo mi indica una porta infondo al corridoio che parte dal
pianerottolo in cima alle scale.
--Quella lì è la stanza degli ospiti.-- mi
spiega. --Se vuoi stare lì per riprendere fiato un momento,
fai pure.--
Io annuisco sollevata, e lui mi sorride per poi tornare al piano terra,
dove la festa non accenna a freddarsi. Mi avvio verso la camera che mi
ha indicato e la raggiungo in pochi passi.
Quando socchiudo la porta alle mie spalle, tiro un sospiro di sollievo.
In effetti la stanza è molto tranquilla, e della musica non
arrivano altro che echi ovattati. C’è anche un bel
letto dall’aspetto morbido, quindi se al massimo mi viene
voglia di stendermi posso farlo. Ora come ora, però,
preferisco bere un bel sorso di semplice acqua.
Vado nel bagno collegato alla camera e apro il rubinetto. Prendo
qualche sorso dalle mani a coppa, e comincio a sentirmi già
un po’ meglio: più lucida, quasi rinfrescata.
Mi lascio distrarre da quello che mi sembra il rumore di una porta che
si chiude. Mi sporgo appena, ma l’armadio a muro mi copre la
visuale e mi impedisce di vedere chi è entrato. Mi stampo in
volto un sorriso di cortesia e ritorno nella stanza degli ospiti per
vedere chi c’è; probabilmente, qualcun altro un
po’ intontito che vuole riprendere fiato per un momento.
Quando i miei occhi si
fissano sulla persona, però, mi gelo sul posto.
Di fronte a me, davanti alla porta, c’è Luke.
Luke’s PoV
La guardo bloccarsi all’improvviso, e ghigno come un idiota.
Ha un sorriso cristallizzato sul viso, ma le emozioni che si alternano
rapidamente nella tensione dei suoi lineamenti palesa quanto fosse una
semplice espressione di cortesia. Ha le mani strette a pugno, le spalle
irrigidite. Persino le pieghe dei vestiti che aderiscono perfettamente
al suo corpo morbido, quel corpo che poco fa ha saputo incantare mentre
ballava, sembrano essersi congelate.
Quanto era bella, quando ballava. L’avevo già
vista, quando Judith cercava di farmi mettere con lei, e io
l’avevo fissata con lo stesso sguardo trasognato con cui
l’ho guardata prima. Né oggi, né
allora, ho avuto il coraggio di avvicinarmi a lei più di
tanto, di toccarla. Vedevo i suoi occhi che brillavano, completamente
persi nella musica da discoteca che riecheggiava in modo assordante.
Ora, ha gli occhi cupi.
Non sono mai riuscito a leggerli, quegli occhi, e non ci riesco nemmeno
ora che le lenti a contatto hanno sostituito gli occhiali spessi.
È un po’ frustrante.
Ma è rimasta bella, delicata. Non riesco a capire come possa
quel visetto angelico celare tutte le emozioni che si alternano
velocissime nei suoi occhi. È come se non mostrasse nulla,
assolutamente nulla, e io mi ritrovo disposto a pagare non so quale
cifra per riuscire a leggerle nella mente. Quando volevo stare con lei,
a volte, non so cos’avrei dato per sbatterla con forza contro
un muro e prenderla fino a farle male, fino a spezzare quella maschera
dolce con cui cela ogni altro sentimento, per poterla finalmente
capire, per poterle finalmente leggere dentro. Mi rendo conto di essere
stato, e di essere, al limite dell’insofferenza verso
quell’atteggiamento posato. Avevo cercato di fare le cose con
calma, perché si fidasse di me. E cosa avevo ottenuto?
Picche.
Mi arrabbio di nuovo, se ci ripenso, e ora come ora non va bene: ora
come ora, devo cercare di mantenere la calma.
--Cosa vuoi da me?-- sibila, e la temperatura sembra scendere
all’improvviso tanto è il gelo che spira da lei.
--Ciao anche a te.-- ribatto con ironia, ma lei non coglie minimamente
la provocazione. --Sto cercando solo di fare un po’ di
chiarezza. Non c’è bisogno di mettersi sulla
difensiva.--
Il suo sguardo si fa più sottile, affilato come una spada.
--Non hai imparato che a voler fare chiarezza si incasinano le cose?
Perché se vuoi ti ricordo cos’è
successo a me quando ci ho provato.--
Sbuffo, e alzo una mano verso di lei per accarezzarle i capelli e
sminuire la situazione a cui si riferisce. Lei indietreggia di due
passi buoni.
--Sta’ lontano da me, Luke. È colpa tua, se adesso
per loro sono una puttana.-- sputa, velenosa come una vipera, gli occhi
che potrebbero uccidere.
Puttana. Non mi piace quella parola, e so che non piace nemmeno a lei,
ma in questo momento mi fa capire una cosa: è ancora
arrabbiata, addolorata per tutto quello che è successo.
E io non riesco a capire
perché.
Karen’s
PoV
Sento l’ira e il rancore scorrermi nelle vene, peggio di un
veleno che infetta rapidamente tutto il corpo diramandosi attraverso il
sistema circolatorio.
Sono furiosa, con lui e
con me stessa.
Con me stessa, per la mia maledetta ingenuità.
Con lui, perché è anche colpa sua se ho perso
tutto quello che avevo in questa città, è colpa
della sua incapacità di capirmi. Per un semplice
tentennamento, ha cercato di farmi arrabbiare per avere una mia
reazione. Non aveva pensato, che ci sarei rimasta male. Non aveva
pensato, che avrei rifiutato categoricamente i suoi ossessivi tentativi
di rifilarmi le sue patetiche scuse. Immagino che non avesse
minimamente considerato anche quanto avrei potuto sentirmi usata quando
sono venuta a sapere che appena una settimana dopo si era messo con
Mary.
E io non avevo pensato che proprio Mary, la mia amica Mary, mi avrebbe
dato della puttana per aver tentato di parlare con lui e appianare
l’imbarazzo che lui si sentiva ogni volta che ci
incrociavamo. Non avevo messo in conto che Judith, qualche mese dopo,
avrebbe dato ragione a Mary, lasciandomi sola.
Alzo lo sguardo su di lui, arrabbiata per tutto quello che ha causato
la sua infantile presa di posizione, e trovo le sue iridi scure che
cercano di leggermi nel volto e negli occhi, che cercano di carpire i
miei pensieri e violare i miei sentimenti.
Io non mi sento
minimamente toccata, da quello sguardo.
Lui non ci può arrivare, dentro di me. Non ha gli occhi
abbastanza intensi. Non ha gli occhi abbastanza affilati, perspicaci,
acuti. Semplicemente, non ha gli occhi giusti.
--Cosa vuoi?-- ripeto, cercando di controllare il tremito delle mie
mani, in un patetico tentativo di non mostrarmi eccessivamente
sconvolta da questo confronto.
--Voglio solo cercare di capire.-- ribadisce, guardandomi dritto in
viso.
Il mio atteggiamento si ammorbidisce un po’: mi sembra
sincero, e decido di concedergli il beneficio del dubbio.
--Bene.-- dico, decisa. --Allora chiedi.--
--Cos’è successo con Andrew?-- comincia, e io
m’irrigidisco di nuovo.
Domanda sbagliata.
--Ma a te che ti frega?-- sbotto, di nuovo irritabile: diciamo che, se
potessi scegliere, questo non è un argomento di cui vorrei
parlare con lui. Cominciamo malissimo…
--Voglio sapere se sei davvero diventata una… poco di
buono.-- si spiega, allarmato dalla mia reazione stizzita.
Ah ecco. Mi pareva che fosse strano che fosse mosso da genuino
interesse. Piuttosto, è mosso dalla curiosità che
gli è venuta dalle voci che ha sentito, quelle messe in giro
da Judith e Mary.
Una piccola parte del mio cervello coglie il suo tentativo di mantenere
un registro di conversazione più cauto, più
formale. Peccato che in questo momento, tra un po’
d’alcol nel sangue, la rabbia nel cuore e
l’imprevedibilità di questa conversazione, io non
sia in grado di regolare il mio atteggiamento su questa lunghezza
d’onda.
Sento gli angoli della mia bocca sollevarsi in un ghigno piccolo
piccolo, poco rassicurante. Vedo lui irrigidirsi alla mia reazione, e
le sue labbra si stringono per la stizza che gli provoca il mio
sorrisetto.
--E se anche fosse?-- soffio con arroganza, del tutto incurante della
sua scarsa stabilità emotiva, in quel momento.
È un attimo, e mi ritrovo sbattuta con forza contro il muro
alle mie spalle.
Dannazione. Mi sono lasciata prendere dal rancore al punto da scordarmi
quanto questo mio atteggiamento indifferente e trasognato lo faccia
infuriare. Soprattutto, non ho minimamente tenuto conto del fatto che
non è nemmeno lucido: l’ho visto bere, prima, non
tanto da stare male, ma abbastanza da essere piuttosto brillo. E Luke
tende a diventare cattivo, quando non riesce ad avere con le buone
quello che vuole in un determinato momento. Mi è
già successo una volta, ma allora mi aveva ferita a
distanza, con parole mirate a farmi arrabbiare, facendomele arrivare
per conti terzi. Adesso, non credo che me la caverò con
qualche offesa.
Cerco di divincolarmi, ma sono infinitamente più debole di
lui. Lo vedo sorridere soddisfatto, mentre mi immobilizza alla parete
con una mano sola, schiacciandomi con il suo corpo. Mi guarda negli
occhi, ma purtroppo so benissimo che non riuscirà a leggermi
dentro, che non riuscirà a trovare né il timore
né la verità che risiede in essi.
Purtroppo per me.
E infatti lo vedo stringere le labbra, irritato. E quando sento la sua
mano libera premere contro il mio fianco, tanto da farmi male, capisco
che ha intenzione di pretendere con le cattive le risposte che cerca.
--Karen, adesso rispondimi. Mi sto alterando.-- mi avverte, la voce che
trema.
Sarebbe meglio se parlassi, se ingoiassi l’umiliazione e gli
raccontassi la verità. A fermarmi, però, non
è l’orgoglio: è lo shock, è
la paura, a chiudermi la gola. Non riesco ad emettere il minimo suono,
nemmeno volendolo: la mia voce è rimasta intrappolata
chissà dove.
--Karen.-- ripete, il tono più alto, e mi stringe tanto
forte da farmi un male assurdo.
Gemo, gemo per il dolore che mi provoca la sua presa, tanto salda da
bloccarmi quasi la circolazione. Miseria se è forte.
Ma è grazie a quel gemito che la mia voce finalmente si
sblocca. Sento la gola secca, le parole mi escono lievi e stentate
quando cerco di raccontare. Ma almeno escono, e questo basta.
--Con Andrew è stato tutto un malin_-- inizio, ma mi scuote
con violenza, facendomi urtare la testa contro la parete.
--Voglio la verità!-- sibila.
Mi interrompe, non mi permette di spiegare. Non mi crede, non mi
crederebbe nemmeno se riuscissi a dirgliela, la verità. Non
gli importa davvero di quello che ho da dire, vuole solo una conferma
delle voci che ha sentito dagli altri. Si fida più di loro,
che della diretta interessata.
Una lacrima mi scivola lungo la guancia, una lacrima di frustrazione e
di dolore, una lacrima che vorrebbe giustizia.
Luke la nota, e mi guarda confuso: non capisce. È quella
incomprensione, più di tutto, a farmi arrabbiare di nuovo, a
spingermi ad urlargliela in faccia, la verità, in totale
contraddizione con quella che lui ha già dato per scontata.
--LUKE CAZZO, SONO VERGINE!--
Finalmente, la presa si allenta un po’. Altre lacrime, che
ricalcano il solco della prima, scendono a rigarmi il viso senza
lasciare possibilità di dubbio riguardo a quello che ho
appena affermato.
--Sei… vergine?-- balbetta, completamente incredulo.
Io riesco solo ad annuire, senza riuscire a fermare questo pianto
lieve, senza singhiozzi, e lui mi lascia andare. Mi faccio scivolare
contro la parete, sorprendentemente spossata dalla confessione che gli
ho urlato, finché non mi ritrovo seduta a terra. Lui
è ancora in piedi, davanti a me, con
un’espressione stupita in volto.
--E… loro lo sanno?-- s’informa, imbarazzato.
--A… a Judith l’avevo detto.-- tentenno appena nel
rispondere, rossa in viso, mentre altre lacrime colano lungo le mie
guance: sono lacrime di dolore per i ricordi, e di sfogo per lo
spavento che mi sono presa.
--Ma perché ti danno della puttana, allora?-- mi chiede,
confuso.
La voce esce da sola, debole, stanca di tutta quella storia. --Avevo
chiamato Andrew perché avevo un po’ di pensieri, e
volevo il suo parere perché quello di Judith non mi bastava.
Loro si erano già lasciati, e quando mia sorella ha detto a
Judith che eravamo usciti lei ha pensato che il mio fosse un tentativo
di mettermi con il suo ex. Mi ha scritto qualche mail di insulti. Io
allora l’avevo rimossa dal mio social network e lei si
è offesa, e per non peggiorare la cosa le ho mandato una
mail dicendo che l’avevo fatto per sbaglio. Mi ha risposto
tutta trillante dicendo amiche come prima, e io le ho mentito dicendo
che era tutto a posto perché ero stanca di tutto questo
casino.--
--Ma la voce era già andata in giro, e lei non
l’ha mai smentita.-- completa lui per me. --Per questo
continui a starci male per tutta questa storia, per questo non vuoi
stare in nostra compagnia: non perché ti senti in colpa, ma
perché soffri…--
E la voce gli muore, al pensiero di quanto possa pesarmi
quest’ingiustizia, al pensiero di quanto possa pesarmi la
decisione di non dire nulla per non ricombinare un casino completamente
superfluo.
Sì, soffro.
Io nemmeno annuisco, tanto l’affermazione è
retorica, e comunque sembra che stia parlando più con
sé stesso. Lo sento inginocchiarsi di fronte a me, senti il
suo respiro sui capelli.
--Karen, mi dispiace tantissimo, non volevo farti male, davvero, io
pensavo_-- balbetta, e mi sfiora piano la testa.
Apro gli occhi di scatto, mi ritraggo al contatto, scaccio la sua mano,
e lo spingo lontano da me. Non voglio che mi tocchi, voglio che se ne
vada, voglio che mi lasci in pace. Detesto quando si comporta in questo
modo, quando fa del male e dopo dieci minuti appena ritratta ogni suo
singolo gesto, e non riesco a tollerare di averlo vicino in questo
momento, con questo suo atteggiamento così infantile.
Lo guardo, e vedo che è tornato in sé stesso,
vedo che adesso è calmo. Tanto meglio, anche se non fa poi
tutta quella differenza.
--Karen…-- tenta ancora, ma io lo blocco con un cenno della
mano.
--Va’ via.-- dico, lapidaria.
Lui cerca di avvicinarsi, di confortarmi, di scusarsi, ma io ripeto le
stesse identiche parole che ho appena pronunciato. Lo vedo ritrarsi,
dispiaciuto, e mi ci vuole un secondo per capire perché
sembra anche un po’ sconvolto.
Perché ho
urlato.
La porta si apre, e vedo Adrew sulla soglia. L’effetto
dell’intrusione è immediato: abbandono i
singhiozzi, blocco le lacrime che ancora cercano di sfuggire alle mie
ciglia, asciugo quelle che già l’hanno fatto,
liscio con un gesto le pieghe della gonna mentre mi alzo.
--Meno male che le serate a cui si partecipa per disperazione sono
quelle a cui ci si diverte di più.-- ironizzo. --Se mi
diverto un altro po’ finisce che mi butto dalla finestra.--
Andrew alza un sopracciglio, un po’ divertito dalla mia
uscita, mentre fa scorrere lo sguardo da Luke a me.
--Tutto a posto?-- chiede, insospettito dai miei occhi arrossati.
--Certo.-- risponde immediatamente Luke. --Stavamo solo chiarendo due
cose.--
Andrew mi guarda di traverso, poco convinto.
Io annuisco, e faccio un gesto leggero con la mano per fargli capire
che non mi va di parlarne.
Non ho voglia di altri casini stasera, ne ho avuti già
abbastanza. Ci manca solo una sfuriata tra questi due, più
una faida tra loro, Mary e Judith. No, non credo di avere la forza per
affrontare tutto questo nel giro di poche ore.
Perciò,
semplicemente, taccio.
Tanto lo so che ne riparleremo, Andrew non è per niente
convinto che vada tutto bene. Onestamente, mi chiedo come potrebbe non
notarsi visto che ho sicuramente un aspetto piuttosto turbato, per non
dire sconvolto. Ma non stasera. Domani forse, o dopo. Basta non stasera.
--Adesso vattene, Luke.-- sputo con rancore, cercando di fermare quel
gioco di sguardi colpevoli e indagatori, un gioco che mi porterebbe
solo altri guai.
Lui annuisce, l’espressione ancora contrita, e se ne va. Io
tiro un sospiro di sollievo quando la porta si chiude, e mi lascio
cadere sul letto morbidissimo. Qualche secondo dopo mi sento affondare,
e capisco che Andrew si è seduto a poca distanza da me.
--Karen, è davvero tutto a posto?-- mi chiede. --Hai una
faccia…--
--Ho sempre la mia solita faccia.-- scherzo io, poi mi volto verso di
lui --Abbiamo solo discusso un po’.--
Lui capisce le mie reticenze, non insiste. --Ti lascio stare solo se mi
assicuri di stare bene.--
Lo guardo negli occhi. --Sto bene.--
Annuisce. --Va bene allora. Perché adesso non ti riposi un
po’? Sennò ti riaccompagno a casa.--
Lo fermo con un cenno. --Mi riposo. Tanto ho detto ai miei che dormivo
qua insieme a Judith.--
--Vuoi che resti?--
Lo osservo di sbieco, già in guardia, ma nei suoi occhi
scorgo solo una genuina preoccupazione.
Scuoto il capo. --No, non c’è bisogno. Anzi,
è meglio se vai giù. Se qualcuno ti chiede
qualcosa, dì che sto morendo dal mal di testa per un goccio
d’alcol di troppo.--
Lui mi sorride, complice, poi se ne va. Io mi stendo per bene sul letto
e allungo un braccio per spegnere le luci. Scalcio via le scarpe e mi
intrufolo sotto le coperte, completamente vestita. Mi accoccolo per
benino e chiudo per un po’ gli occhi.
Sola, finalmente.
Non mi piace starmene sulle mie, ma adesso mi serve. Ho bisogno di
calmarmi, per ricostruire la mia maschera a forma di sorriso prima di
tornare di sotto. Mi sono presa un bello spavento prima, ma tutto
considerato non mi dispiace di essermi chiarita con Luke. Almeno adesso
c’è qualcun altro che sa la verità, e
io sento di aver ottenuto un po’ di quella giustizia a cui
tengo tanto.
Stasera va bene così. Potrebbe andare meglio, certo, ma
stasera va bene così. È questo ciò che
mi ripeto, mentre soffoco il pensiero che Luke abbia deciso di
affrontarmi solo perché volesse fisicamente prendermi, per
avere la sua rivalsa.
Angoletto!
Aaaaah, ritardo ritardo ritardo!
Chiedo perdono ^^'''''' ho
vissuto questi giorni scorsi tra treni e valigie (e piume, ma
sorvoliamo) e proprio il tempo di mettersi lì a sistemare
questo capitolo proprio non l'ho avuto.
Comunque, ecco a voi: a pochi
giorni di distanza da Halloween, un bel capitolo su una festa di
Capodanno! Che dire, sono un mostro di tempismo -.-
Come tanti altri, questo
è un capitolo vecchio, scritto lo scorso capodanno, quando
le ferite di Luke e Judith ancora bruciavano come sale nel petto della
mia Karen. Vi tranquillizzo subito, Luke non l'ha mai sbattuta contro
un muro, non le ha mai fatto del male fisico: questo capitolo salta
fuori esclusivamente dalla mia immaginazione. Per viso di quel tesoro
di Andrew, che ritroveremo più volte, vi rimando come al
solito alla mia pagina su FB:
DreamWanderer
~EFP
Beh, non c'è molto
altro da dire. Il prossimo capitolo lo troverete su una nuova storia
che va a comporre il quarto elemento di questa saga, "From a Friend's
Eye.", ovvero Karen vista da un PoV particolare, in cui la voce
narrante pare rivolgersi a lei usando il tu, quasi le stesse parlando.
La cosa che vi anticipo: si va a un concerto!
Spero che questo capitolo
(bello lungo *o* soddisfazione personale!) vi piaccia :)
Un bacio a tutti voi, che siete arrivati sin qui.
;*
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Capitolo 4 *** 15. A Te. ***
15.
A Te.
Karen’s PoV
Quando ho
letto il titolo della canzone e ho sentito le prime note, ho capito che
tutta quella storia sarebbe finita male. Sia per me che per lui. Mi
sono sentita uno schifo a liquidarlo, mi sono sentita ancora peggio
quando l’amico a cui ho scritto per farmi coraggio non
riusciva a inquadrare la situazione, e ho pianto chiudendo i singhiozzi
in gola fino a… non me lo ricordo nemmeno, che ora ho fatto.
So solo che i
due giorni successivi sono stati un supplizio. Mi sentivo in colpa, mi
sentivo a disagio, e lui non mi aiutava. Si vedeva che cercava di
trattarmi con i guanti, e di mantenere una certa distanza allo stesso
tempo. Si vedeva che stava male.
Maledizione,
Nick.
La rabbia
è venuta dopo. All’improvviso quasi, ha cominciato
a crescere lentamente dietro tutto il senso di colpa che ho covato per
quel paio di giorni. E poi è esplosa, facendomi sentire
sì in colpa, ma anche umiliata, in un certo senso, e offesa.
È esplosa, quando ho risentito per caso quella canzone.
A te che sei l'unica al mondo
L'unica ragione per arrivare fino in
fondo
Ad ogni mio respiro
Quando ti guardo
Dopo un giorno pieno di parole
Senza che tu mi dica niente
Tutto si fa chiaro
Io e Nick
viviamo lontani, lontanissimi. Come può considerarmi il
motivo di respirare quando non mi ha mai nemmeno baciata? Come
può dire che la sua giornata ha senso quando mi vede, se ci
vediamo a malapena due volte l’anno?
Insensato.
A te che mi hai trovato
All'angolo coi pugni chiusi
Con le mie spalle contro il muro
Pronto a difendermi
Con gli occhi bassi
Stavo in fila
Con i disillusi
Tu mi hai raccolto come un gatto
E mi hai portato con te
Sarà
anche un ragazzo disilluso nei confronti dei sentimenti, Nick, ma io di
sicuro non ho mai fatto nulla per dimostrargli che esiste una ragione
per credervi. E di certo non mi sono mai presa cura di lui come se
fosse stato un micio. Anzi. Non ci vediamo quasi mai, e ci sentiamo
ancora meno. Come diamine avrei fatto a trattarlo come se fosse il mio
gattino, quando sto a chilometri di distanza senza nemmeno scrivergli
una volta al mese?
Illuso.
A te io canto una canzone
Perché non ho altro
Niente di meglio da offrirti
Di tutto quello che ho
Prendi il mio tempo
E la magia
Che con un solo salto
Ci fa volare dentro l'aria
Come bollicine
L’avesse
almeno cantata, questa canzone. Che squallore, quella sera…
dopo avermi presa da parte e aver passato un mezz’ora a
tentennare borbottando di continuo “te lo dico, no, non te lo
dico, no no aspetta, te lo dico, no, scusa, non ce la faccio”
si è alzato e mi ha allungato il suo lettore musicale
dicendo solo “questa mi fa pensare a te”. Che
idiota, santo cielo.
Infantile.
A te che io
Ti ho visto piangere nella mia mano
Fragile che potevo ucciderti
Stringendoti un po'
E poi ti ho visto
Con la forza di un aeroplano
Prendere in mano la tua vita
E trascinarla in salvo
Quando mai,
quando mai, lui ha visto la mia debolezza o la mia forza? Ha visto la
mia rabbia e la mia serenità, d’accordo, ma mai ha
anche solo intravisto una mia lacrima. Perché io non mi
faccio mai vedere davvero da chi incontro poco. Lui ha visto il mio
riflesso, ha visto solo quello che voleva vedere, e ha deciso che ero
io.
Superficiale.
A te che mi hai insegnato i sogni
E l'arte dell'avventura
A te che credi nel coraggio
E anche nella paura
A te che sei la miglior cosa
Che mi sia successa
A te che cambi tutti i giorni
E resti sempre la stessa
Cosa ne sa
lui, di come cambio io giorno per giorno, se nemmeno ci sentiamo ogni
sera? Non sa quello che passo giorno per giorno, non sa né
quello che faccio, né quello che penso. Non mi ha mai
chiesto qualcosa sui miei gusti musicali, non sa che scrivo, non sa
nemmeno cosa mi fa soffrire e cosa invece mi fa piacere. Dà
per scontato che io sia ancora la ragazzina che ha conosciuto tanti,
troppi anni fa.
Prepotente.
A te che non ti piaci mai
E sei una meraviglia
Le forze della natura
Si concentrano in te
Che sei una roccia sei una pianta
Sei un uragano sei l'orizzonte che mi
accoglie
Quando mi allontano
Non sa niente
di me. Forse nemmeno gli importa saperne tanto, altrimenti sarebbe
stato più delicato. Altrimenti non avrebbe ammesso lui
stesso che sapeva perfettamente che la storia tra noi non era
possibile, ma che per quei giorni voleva comunque provarci. So io, cosa
voleva lui da me. E sono quasi certa che non fosse qualcosa di
sentimentale.
Menefreghista.
A te che sei l'unica amica
Che io posso avere
L'unico amore che vorrei
Se io non ti avessi con me
A te che hai reso la mia vita
Bella da morire
Che riesci a render la fatica
Un immenso piacere
Non mi vuole
bene. Mi vuole e basta. Perché se mi avesse voluto bene, non
mi avrebbe convinta ad andare a stare in montagna da lui con
l’inganno, mentendomi dicendo che avrebbe dato una festa con
i suoi amici. La festa c’era, ma si è scordato di
dirmi che non era più la sua, bensì una cena con
degli amici dei suoi. Se mi avesse voluto bene, sarebbe stato leale e
non mi avrebbe messa a disagio in quel modo. Mi sono sentita in
trappola.
Codardo.
A te che sei il mio grande amore
Ed il mio amore grande
A te che hai preso la mia vita
E ne hai fatto molto di più
A te che hai dato senso al tempo
Senza misurarlo
A te che sei il mio grande amore
Ed il mio amore grande
Certo. Sono il
suo grande amore. Talmente grande che ha cominciato a guardarmi quando
mia sorella si è messa con un ragazzo fisso. Prima, io
nemmeno esistevo, ero solo “la sorella di Jen”.
Adesso che Jen si fidanza, lui comincia a vedere anche me. Quale grazia
divina, ora sì che mi sento proprio lusingata.
Falso.
A te che sei
Semplicemente sei
Sostanza dei giorni miei
Sostanza dei sogni miei
A te che sei
Semplicemente sei
Compagna dei giorni miei
Sostanza dei sogni miei
Spero di non
averti rovinato i sogni, caro Nick. Tu non provi davvero ciò
che invece trasmette “A Te” di Jovanotti. E io sono
rimasta offesa, quando mi sono resa conto che mi hai dedicato una
canzone del genere senza averla ascoltata con il cuore, senza che ci
fosse identità tra le parole e i tuoi sentimenti nei miei
confronti, non per davvero. Tu ti sei fermato alla mia apparenza, alla
mia somiglianza con Jen, e hai pensato che bastasse.
Sbagliato.
Io non sono
una bambola. Sono una persona. Sono complicata, sono lunatica, e so
anche diventare lievemente venefica se mi si infastidisce nel momento
sbagliato. Ho dei sentimenti, dei quali a te evidentemente non importa
altrimenti ti saresti preoccupato di come mi sarei sentita una volta
scoperta la presa in giro con cui mi hai costretta qui, o di quanto
sarei stata male sapendo di causarti dolore. E non sono particolarmente
incline a diventare la ragazza-surrogato scelta con
superficialità a causa di una somiglianza di uno che non
riesce nemmeno a interessarsi di come sto giorno per giorno.
Perciò
adesso sto seduta qui, a fare i conti con rabbia e dolore, con
risentimento e dispiacere. Perché a prescindere da come sia
andata, io ho dovuto lasciare alle ortiche un’amicizia, forse
leggera, che in realtà non mi dispiaceva.
Sto seduta
qui, a fare i conti con un mondo che non capisce. Che pensa che la mia
reazione sia completamente fuori luogo, che invece dovrei sentirmi
lusingata e accettare la tua proposta. Non ce ne importa niente, del
fatto che tu non mi piaccia affatto in quel senso.
Che vada tutto
a quel paese, il mondo.
Angoletto!
Già,
scommetto che ormai non ci speravate più... Onestamente, non
ci speravo più neanche io.
Non
vi abbandono, people.
Stay tuned
;* |
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