Inchiostro e sabbia

di Smollo05
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nascita ***
Capitolo 2: *** Le lacrime e l'abbandono ***
Capitolo 3: *** Il vecchio e la fenice ***
Capitolo 4: *** Rivelazioni ***
Capitolo 5: *** Lo scrittore ***
Capitolo 6: *** La villa ***
Capitolo 7: *** Il collegamento ***



Capitolo 1
*** Nascita ***


Non ricordo con precisione i miei primi giorni sull’Isola. Le mie memorie del “giorno zero” erano il frutto di un minuzioso collage di racconti e aneddoti che avrei fatto negli anni a venire. Il mio giorno zero fu il 3 gennaio 1990. Fui trovata in lacrime sulla battigia antistante il Borgo. Non era la prima volta che si trovava un povero diavolo sulla spiaggia- dissero- né sarebbe stata di certo l’ultima. Spinti da quella effimera solidarietà che li lega, volenti o nolenti, tutti gli esseri umani si muovevano sempre per aiutare il nuovo arrivato ad entrare nella comunità e dimenticare il triste posto da cui era giunto. Nessuno si mosse a raccogliere me quel giorno. E’ troppo piccola. Soffrirebbe di meno se lasciata a morire. Chi si sarebbe preso la responsabilità di un neonato per sempre? Portiamola al vecchio- dissero.”Non ne ho mai viste di così minuscole” mormorò quello che mi aveva preso in braccio. Il vecchio era il capo, era stato il primo ad arrivare, il primo a costruire ed il primo a capire. Il vecchio si chiamava Yusuf. Mi guardò con gli occhi di chi ha visto tutto e, suo malgrado, si trova davanti un nuovo enigma. “Le sia dato lo stesso diritto che è stato dato a tutti voi”-disse- prima di rientrare in casa. Così avevo scoperto di avere un diritto e, statene certi, vi avrei fatto leva fino all’ultimo.
Andai a vivere con una donna che imparai a chiamare per nome: Lydie. Imparai a rispondere quando mi chiamava, “Aneh”. Mi carezzò con la mano scura e mi spiegò che voleva dire qualcosa nella sua lingua madre. Volli conoscere il significato della parola “madre”, ma l’africana mi liquidò con un sorriso strano. Vissi bene con lei, oserei dire che tra noi si era creato una specie di legame. Quando le riferii questa mia fantasia, la donna scoppiò a ridere. 
“Non esiste nulla del genere, Aneh”
“Come sarebbe a dire?”
La donna abbassò il viso fino a potermi guardare dritto negli occhi, inginocchiandosi davanti a me . “Sarebbe la fine se ci fossero queste cose: niente funzionerebbe a dovere, la loro esistenza implicherebbe anche una mancanza e sarebbe il caos. Sull’Isola funziona così” e mi premette l’indice sulla fronte. “Tienilo bene a mente!” Ogni nostra conversazione finiva irrimediabilmente così. Ed io lo tenni bene a mente: da quel giorno non ne feci più parola, nonostante continuassi a volere un gran bene alla mia mamma scura. I giorni passavano, diventavano anni e la paura negli occhi di Lydie aumentava. Le chiedevo il perché, mi mettevo a piangere e strepitavo. Dovevo forse essere nera? Dovevo essere più alta, più grande? “No, Aneh, va bene così come sei”- mi ripeteva- ma penso lo facesse più per se stessa che per me. Ma mi bastava. In quei momenti, pensavo perfino che mi avesse mentito riguardo ai suoi sentimenti. Desideravo tanto fosse una bugia.
Imparai ad occuparmi delle faccende domestiche mentre Lydie era via, a divertirmi con i pochi oggetti che la donna mi regalava. Un giorno le chiesi di uscire. Mi guardò come se le avessi chiesto la luna o un orso come animaletto domestico. No, peggio. Richiuse la porta e mi fissò per una manciata di secondi,mordendosi il labbro inferiore: nervosismo. 
“Non è il caso,Aneh!”
“Perché?”afferrai la sua gonna.
“Non riesci davvero a capirlo da sola?” mi prese le mani nelle sue, con una dolcezza di cui non la ritenevo capace. Io scossi la testa, le lacrime mi bagnavano le gote. 
“Sei diversa,Aneh. Come dice il tuo nome. Questo posto è pericoloso per te.”
Non capivo. Mi aveva portato in giro, dapprima al seno, poi sulle spalle. Mi aveva teso la mano, aveva stretto la mia in una presa forte, sicura, salda. Allora perché? Cosa diamine era cambiato? In un lampo divenne vivido il ricordo di Lidye che distruggeva tutti gli specchi presenti in casa, un’ immagine riflessa nella pioggia di vetro. L’ immagine di una bambina spaventata. Io. La verità mi colpì dura e crudele come uno schiaffo, facendomi vacillare sulle gambe malferme. Ero io quella ad essere cambiata. “Sei diversa da loro, Aneh. E sono stupidi, non capirebbero.”. Riflettei. Mi ero accorta dei cambiamenti che avvenivano nel mio corpo e ne avevo trovato tacita conferma nel terrore visibile negli occhi di Lydie. Ma lei mi aveva accettato, ed era questa l’unica cosa che mi importava. “Mi dispiace, Aneh”. Mi diede un buffetto sul capo e si diresse alla porta. Asciugai in fretta e furia le lacrime e attesi alla finestra finché non mi fu più possibile seguire con lo sguardo la figura sinuosa della donna che si allontanava.
Mi impressi il ricordo di lei bene in mente, poi mi diressi alla porta e uscii nella tiepida mattinata di aprile.

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Capitolo 2
*** Le lacrime e l'abbandono ***


Le vie erano piuttosto affollate per gli standard dell’Isola. L’aria era piena del profumo denso e croccante del pane appena sfornato.. Mi venne l’acquolina in bocca. Il sole pennellava delicato i profili delle cose e della case. Mettevo un piede davanti all’altro, come un equilibrista su una corda immaginaria, mentre giravo la testa da un lato e dall’altro per cogliere tutti i particolari. Immaginai di passeggiare mano nella mano con Lydie, immaginai la sua voce calda, mentre mi spiegava tutte le cose nuove che osservavo. Chiusi gli occhi e mi lascia guidare dagli altri sensi. Sulla lingua sentivo il delicato sapore della libertà, sentivo la ghiaia scricchiolare sotto i piedi. Poi, il rumore delle campane. Era lo stesso che sentivo da casa mia! Gli stessi rintocchi ritmati che si spandevano nelle strade quando il sole era nel punto più alto del cielo. Come un solerte muezzin chiamavano tutti a raccolta, ognuno abbandonava la propria attività pregustando già il pasto. Adesso correvo, inciampando ogni tre passi, pensai che non avevo mai corso in quel modo se mai l’avessi fatto. Mi piaceva l’aria sul viso, il vento che mi scompigliava i capelli, le figure schizzavano via più veloci di un cinematografo impazzito. Ero mai stata più felice? Guardai finalmente in su. Dritta davanti a me si ergeva la grande Torre dell’orologio. “La casa delle campane”- esclamai, piantandomi a gambe larghe in mezzo alla strada. Ero decisa a non lasciarmi sfuggire neppure un singolo insignificante particolare di quell’edificio. Ne avrei fatto un bellissimo disegno, così da farmi perdonare da Lydie per la mia fuga. Osservai la torre, soffermandomi sull’orologio meccanico. Rimasi a contemplarlo in estasi, pensai di non aver visto nulla di più bello.
Improvvisamente, la lancetta dei minuti si mosse, come se il meccanismo fosse inceppato, rimase a ticchettare sullo stesso numero, ignorando la mia attesa trepidante. Vibrò un po’ e infine compì un mezzo giro all’indietro. Spalancai la bocca meravigliata,davvero funzionava così un orologio? Mi sentii colpire sulla nuca. “Ahi!”. “Stai occupando il passaggio, ragazzina!”..L’uomo vestito di nero mi scansò stizzito, guardandomi dall’alto in basso. Pensai si fosse già allontanato di un centinaio di metri, quando mi sentii afferrare per il polso. La stretta era talmente forte che mi sembrò di sentire il flusso sanguigno fermarsi. “Lasciami andare!”, tentai di divincolarmi, ma il dolore mi impediva anche il più semplice dei movimenti. L’uomo mi guardò in volto e parve meditare per qualche secondo, poi si riscosse e si rivolse al capannello di curiosi che aveva assistito alla scena. “Qualcuno conosce questa bambina?”. Mi tirò davanti a sé,come a mettermi più in vista. Tutti gli sguardi si concentrarono sul mio volto.. Vidi parecchie teste scuotersi. “Forse è una nuova” , mormorò una donna che non conoscevo.

“Impossibile! Conosco ogni singola persona giunta qui, sin dall’alba dei tempi. Tu, come ti chiami?”. L’avesse chiesto più gentilmente, probabilmente sarei stata tentata di risponderle , ma riuscii solo a mormorare “Lasciami andare!”, mentre continuavo a combattere contro la sua presa. “Chi mai sentirà la mancanza di qualcuno senza neanche un nome?” sorrise. “Per favore, lasciami andare!”- chiusi gli occhi, impaurita.

“Si chiama Aneh. E’ stata registrata da te stesso sei cicli fa”.
“Lydie!” Non ero mai stata tanto felice di vederla. Lo sconosciuto mollò la presa, come se fossi un batterio o un insetto e disgustato si rivolse a lei.
“Sai cose può succedere a coloro che ne nascondono uno, laide garce?”
“Sì.”
“Oseresti quindi ripeterlo?”
“E’ la verità, lo giuro!”. Lydie cadde a terra,quasi implorando. Vederla così, faceva più male del braccio livido. Dovevo fare qualcosa. Non sapevo quale fosse la pena, forse la famosa Morte di cui tanto sentivo parlare? “Non ha fatto niente, lasciala stare!” 
“Sta tranquilla, non le succederà niente”. L’uomo mi strattonò per il polso, costringendomi a seguirlo. Rivolse un’ultima occhiata di fuoco alla donna accovacciata nella polvere e le sputò addosso. Mi voltai disperata. Qualcuno con un po’ di fegato in più la stava aiutando a rialzarsi. La stavano sostenendo, mentre si allontanava. La chiamai, urlai il suo nome e ogni lettera sembrava mandarmi a fuoco la gola. Poi scoppiai a piangere: erano le lacrime più amare che un bambino possa mai piangere, quelle dell’abbandono. Quando le voltai infine le spalle, mi parve di vederla girarsi, ma forse erano solo le mie stupide fantasie da ragazzina.
Volevo solo credere di aver contato almeno un po’ per quella donna.
Tutto qui.

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Capitolo 3
*** Il vecchio e la fenice ***


Dopo qualche ora, la rassegnazione prese il posto delle lacrime. Avevamo camminato ininterrottamente, sin da quanto avevamo lasciato il borgo, e per quanto continuassi a chiedere al mio compagno la nostra meta, non ottenni mai risposta. Ci inerpicammo, infine, su per un sentiero scosceso, seguiti da qualche curioso del posto. La strada era talmente ripida da costringere l’uomo a tirarmi a più riprese, per costringermi ad avanzare. “Siamo arrivati?”. Quella che a prima vista avevo creduto una collina,era in realtà un promontorio che ospitava una casa in rovina e che dava a strapiombo sull’acqua scura del mare. La sottile striscia della spiaggia era pressoché inesistente. Tremai. “Tu, va a chiamare il vecchio”. Fino a quel momento non mi ero accorta del codazzo di persone che ci seguiva. Cercai, inutilmente, con lo sguardo Lydie. “Sono già qui”. Probabilmente era il più anziano tra gli abitanti dell’isola, ma il termine vecchio non è appropriato per descriverlo. I capelli erano ancora venati di nero,benché radi sulle tempie, la barba era ben tenuta. Gli occhi esprimevano una personalità forte e decisa, ed erano, senza dubbio, dell’azzurro più chiaro che io avessi mai visto. Quando parlò, lo fece con una voce calda e profonda. 
“E’ raro vederti da queste parti, Gilbert. A cosa devo il piacere della tua visita?”. Osservò curioso tutti i presenti, soffermandosi più di una volta su di me. La seconda –avrei potuto giurarci- mi fece l’occhiolino. “Sono qui per la giustizia. Guarda!” Gilbert mi spinse avanti a sé. “Lo sai cos’è, vero? E’ un abominio! Non possiamo tollerarlo”. Non avevo capito quasi nulla delle sue parole, ma il tono fu sufficiente a mandarmi in bestia. 
“Suvvia, non c’è bisogno di essere così categorici” -il vecchio saggiò con la punta del piede un piccolo cumulo di terra - “potresti osservare la faccenda da un altro punto di vista”.
“Non ne vedo altri”.
“Ogni problema ha almeno due punti di vista: il nostro e quello giusto”. 
Gilbert scoppiò a ridere. “Conserva le tue parole da oracolo per il tuo epitaffio, vecchio! Sappi che non ho intenzione di prendere in considerazione il tuo punto di vista. E’ pericolosa. Punto.”
“Fa come vuoi”, il vecchio sospirò rassegnato.
“E’ proprio ciò che farò.” Gilbert sguainò la spada che gli pendeva dal fianco ed io serrai istintivamente gli occhi. Era questo quello che viene chiamato terrore? Poi sentii un urlo di dolore, qualcuno della folla si dileguò lungo il pendio. Mi voltai. L’uomo che fino ad un momento prima mi aveva minacciato di morte, aveva preso fuoco, simile ad un’araba fenice, era diventato un torcia umana. “Acqua, serve dell’acqua” gridò qualcuno. La fenice aveva preso a dibattersi a terra nel tentativo di far spegnere le fiamme. Nel trambusto, il vecchio mi si era avvicinato e mi aveva posato delicatamente le mani sugli occhi. “Non è un bello spettacolo”, mi sussurrò. Poi si rivolse all’uomo in agonia. “Torna a casa.” Così come erano venute, le fiamme sparirono, sul suo corpo non rimase nessuna traccia di ustione. Fu scortato giù dalla rupe da coloro che avevano assistito, loro malgrado, al falò. Uno alla volta, tutti i presenti se ne andarono e la ressa si sciolse. Rimasi lì, impalata e ancora con gli occhi chiusi. “E’ tutto finito, puoi aprire ora”. Lo feci. Il “vecchio” - da quel momento non l’avrei mai più chiamato così- era in piedi davanti a me, con un caldo sorriso stampato sul volto. “Perché mi hai aiutato?”, gli chiesi.

“Diciamo che è il modo per espiare le mie colpe. Che ne dici di dirmi il tuo nome?”. Probabilmente avrei dovuto comportarmi diversamente con l’uomo che mi aveva appena salvato la vita, ma crude e ostinate mi tornavano davanti agli occhi le immagini di quel corpo che bruciava tra le fiamme. Scossi lentamente la testa e lui parve molto deluso. “Va bene, ricominciamo daccapo, io sono Yusuf”, mi porse la mano , attendendo trepidante la mia risposta. Nonostante ciò che aveva fatto, in un modo o nell’altro, il suo sorriso dolce mi rassicurava, nonostante ciò che avevo visto, non riuscivo a provare paura di quell’uomo. Così, dopo un attimo di tentennamento, la accettai. “Aneh, mi chiamo Aneh”. “E’ un bellissimo nome.” Non lasciò la stretta, mentre mi conduceva dentro, né mentre mi offriva da mangiare e nemmeno mentre mi procurava un giaciglio per la notte. E fu con la mano nella sua che piombai nell’incoscienza del sonno. Nel dormiveglia, mi soffermai ad osservare la finestra che dava sul buio della notte e –ci avrei scommesso- c’era una donna nell’oscurità che mi osservava commossa. Baciò il vetro che ci separava e poi corse via, veloce. Mi addormentai. L’indomani, il volto di Lydie era diventato solo un altro tassello dei miei sogni confusi e agitati.

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Capitolo 4
*** Rivelazioni ***


Mi svegliai all’alba e mi dedicai all’esplorazione della mia nuova casa, sotto lo sguardo compiaciuto di Yusuf. Mi accorsi che il buio mi aveva ingannato la sera precedente: quella che avevo creduto un vecchio rudere era in realtà una casa perfettamente incastonata nell’ambiente naturale. Il legno e la pietra viva la facevano assomigliare ad un albero troppo cresciuto. E come avevo fatto a non accorgermi della presenza del grande pianoforte a coda? L’uomo notò il mio sguardo curioso e si sedette al piano, facendomi cenno di avvicinarmi. “Vuoi sentire?”. E senza aspettare alcuna risposta, cominciò a suonare. Era oblio puro, la più dolce delle melodie che il mio orecchio abbia mai ascoltato. Immediatamente, la casa venne avvolta dalla musica ed io capii come facesse quell’uomo solo e stanco ad essere felice. Lo guardavo incantata: poteva davvero un uomo produrre suoni così magnifici? Mi accostai di più a lui. Le sue mani che volteggiavano sulla tastiera erano il più bello degli spettacoli. L’ultima nota si mosse con misurata lentezza sul bordo della tromba d’Eustachio, come un condannato a morte e poi cadde, spegnendosi insieme col suono delicato della Suite Bwv 812. Si voltò verso di me raggiante: “Bach”. Lo guardai con aria interrogativa. “Non conosci Bach?”.. Scossi la testa, ma lui non sembrava molto sorpreso. “A tutto c’è rimedio!”. Si diresse spedito verso la libreria all’angolo e prese a scorrere i titoli, in preda ad una strana frenesia, poi tornò da me con un libro dall’aria pesante. “Ecco qui, biografie di grandi compositori. Leggi anche gli scritti su Chopin: più tardi ti farò ascoltare il Preludio numero 16”. Si accorse del mio sguardo impaurito. “Ovviamente , se non vuoi …”. Certo che volevo! Ma ero una bambina senza alcun tipo di istruzione, cosa pretendeva con i suoi libri!? Benché sapessi di non aver nessuna colpa, provai improvvisamente vergogna della mia condizione. “Yusuf, io non so leggere.” Sputai fuori la verità, arrossendo e pregando che non mi cacciasse via. In fondo chi ha bisogno di una bimba piagnucolona, analfabeta e che per giunta cresce? Mi rassicurò, accarezzandomi il capo. “Ti andrebbe di imparare?”.

Così cominciammo a dividere le nostre giornate: al mattino, imparavo a leggere, a scrivere, i primi rudimenti dei calcoli, mentre il pomeriggio Yusuf mi faceva sedere con lui al piano e mi raccontava dei suoi compositori preferiti. Ecco, ora sono una signorina della nobiltà che ascolta musica da sala nell’intimità della propria casa, sono Maria Anna e sto suonando a quattro mani con mio fratello Wolfgang Amadeus, ecco ora sono l’Elise, a cui Beethoven ha dedicato la sua celebre aria, tutto al chiaro di luna suonato da Debussy. Ben presto,Yusuf mi permise di toccare i tasti del suo amato piano, promettendomi che, se ci tenevo davvero, mi avrebbe insegnato a suonare. Imparavo e crescevo, crescevo imparando. A cena discutevamo solitamente dei miei progressi, di cosa avrei suonato l’indomani e del nuovo libro che avrei cominciato a leggere.

Una sera, parlammo dell’Isola. Mi portò fuori a vedere il tramonto, cosa che avevamo preso a fare spesso, ma stavolta non continuammo a passeggiare sul lungomare. Yusuf si sedette, lo sguardo perso all’orizzonte e io lo imitai. “Cosa siamo?”. Non aveva mai staccato gli occhi dal sole che affondava e non ero certa si rivolgesse davvero a me. “Uomini.”Non ne ero tanto sicura, a volte le bestie si comportano in modo più umano di noi. “Forse”,l’uomo si grattò distrattamente il naso, “o forse no. O forse lo siamo stati e non ne abbiamo memoria”. Non ero sicura di capire, né tantomeno ero sicura di voler davvero sapere la verità. L’avevo capito dal nostro primo incontro. Lui sapeva. Tutto. Lui conosceva la verità su quel posto, sull’Isola, la verità sulla mia diversità. Ma io sarei stata abbastanza coraggiosa? Yusuf prese il mio silenzio come un tacito invito a continuare. “Tutti coloro che vivono qui, non esistono. O almeno non più”. Le parole rimasero sospese nell’aria, facendosi beffe di me. Li avevo visti bere, mangiare,parlare. Non era possibile. “Siamo qui, perché non è rimasto nulla di noi nel mondo. Dimenticati, ecco cosa siamo. Non abbiamo ricordi che ci tengano in vita. Anche i libri che hai letto non esistono. Sono libri dimenticati, sotto al letto, in una borsa. Meno male che esiste gente tanto sbadata!”.Rise, ma era una risata amara, che non si estendeva agli occhi. “E lo sai qual è la cosa peggiore? Non ricordiamo nulla del posto da cui proveniamo. Siamo prigionieri di questo luogo. Prigionieri del tempo. Intrappolati nell’unico singolo instante di cui abbiamo memoria: quello che avrebbe potuto salvarci dall’oblio, quello di una decisione fondamentale. La scelta che ci avrebbe fatti ricordare in eterno.”. Sospirò. “Una volta ti dissi che salvarti era un modo per espiare le mie colpe. Il mio Istante, l’unico ricordo che mi è dato avere e rivivere è quello in cui perdo mio figlio. E’ morto affogato,ancora bambino. Io non ho potuto salvarlo perché non sapevo nuotare. Se mi fossi buttato comunque, forse …”,la voce gli si spense. “Ti considero come una figlia,sai?”. Lo sapevo, ma non me l’aveva mai detto così apertamente. “Ed io come un padre”. Era la verità, Yusuf era di quanto più vicino ad un padre avessi mai avuto. “Devi andartene di qui.”,la voce gli tremava ancora, ma si sforzò di tenerla salda. “Tu sei diversa. Non appartieni all’Isola, puoi avere cose che noi continueremo solo a sognare. Per favore, vattene e diventa una donna e sii felice.”Yusuf mi baciò la fronte e aggiunse: “Quando verrà il tempo.”

Non ne parlammo più. Io continuai la mia vita, imparai molte cose del mondo. Lessi Tolstoj,Stendhal,Shakespeare,lessi delle paure, dei sogni, dell’amore. Pensai che il mondo dovesse essere un gran bel posto. 

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Capitolo 5
*** Lo scrittore ***


Avevo preso l’ abitudine di fare una breve passeggiata dopo cena, a volte accompagnata da Yusuf, che mi offriva allegro il braccio. Quella sera uscii da sola. Scesi in spiaggia togliendomi le scarpe, inspirai l’aria salmastra. Affondai i piedi nella sabbia fredda … amavo quella sensazione. Feci per mettere i piedi in acqua, ma fui costretta a bloccarmi: a pochi metri da me, sul bagnasciuga giaceva svenuto un uomo. Un altro. Mi feci forza e coraggio, lo afferrai per le braccia e lo trascinai a terra. Tossiva. Cominciò a lamentarsi con una voce debole e fioca, delirava. Gli poggiai istintivamente la mano sulla guancia per tranquillizzarlo.. Era gelata. “Shh, sei al sicuro. Sta’ tranquillo! ”Chiamai Yusuf e attesi accanto all’uomo che ci raggiungesse. “Sofia, Sofia stanno arrivando!” , aveva preso ad urlare all’improvviso. Gli strinsi la mano, pregandolo di stare calmo, ma fu del tutto inutile. Furono solo i sedativi a tranquillizzarlo. Non smise di pronunciare quel nome finché non piombò nell’incoscienza del sonno. Lo portammo dentro e lo adagiammo sul divano. “Domani starà meglio”, mi rassicurò Yusuf, uscendo dalla stanza. Chiunque fosse stata Sofia, doveva essere una donna davvero molto fortunata. Senza accorgermene, accarezzai i riccioli dell’uomo addormentato.

Misi da parte gli studi per dedicarmi al nuovo arrivato, sentivo gli sguardi di disapprovazione di Yusuf perforarmi la nuca, ma non mi importava. Prendermi cura di lui era un bisogno fisico, frenetico. L’uomo non parlava, Yusuf ipotizzò fosse muto, ma io scuotevo la testa. Avevo sentito la sua voce, non potevo essermi sbagliata. La sentii di nuovo, un pomeriggio, mentre ero sola in casa. Avevo preso un libro a caso dalla libreria e avevo iniziato la lettura. “Grazie”, disse. La sorpresa fu tale da farmi cadere di mano il libro. Lo raccolsi, cercando qualcosa di gentile da dire, ma mi uscì un semplice “Di niente”. Poi mi rituffai nella lettura. L’iniziale antipatia di Yusuf verso il nuovo arrivato andò via via scemando. Una volta passata la febbre, cominciò ad aiutarlo nei lavori più pesanti e sembrava che in lui riconoscenza e resistenza non avessero limiti. Gli chiesi se avesse bisogno di un nome e mi rispose che aveva già il suo: Giosuè. Per quanto mi stupii del fatto che lo ricordasse, lo fui ancora di più quando mi confessò che quel nome non era l’unica cosa che ricordava del proprio passato. Anche se tentava di disfarsene, i ricordi tornavano sempre a bussare alla sua porta. Col passare del tempo cominciò ad aprirsi, raccontava con la voce che tremava, quasi il solo parlare gli costasse uno sforzo immane. Ascoltai le storie del suo paese, della sua infanzia. Diceva di essere cresciuto e di essere stato felice, aveva una bella moglie, una bella casa e abbastanza soldi per dedicarsi a tempo pieno alla stesura dei suoi romanzi. Poi la guerra cambiò tutto e lui finì come tanti altri della sua etnia, con un grazioso tatuaggio azzurro sul braccio a spaccare pietre. Restavo in silenzio, senza parlare. Pensavo a qualcosa da dire, poi mi rendevo conto che qualsiasi parola sarebbe stata superflua. Allora, quando il silenzio si allargava, Giosuè cambiava irrimediabilmente discorso. “Allora … vuoi veramente andartene.” Non era una domanda e neanche un’ affermazione. “Più o meno..” Prima del suo arrivo, Yusuf ed io avevamo provato in vari modi a lasciare l’Isola, ma senza risultato. Ogni qualvolta prendevamo il largo e già credevamo di avercela fatta, una forza misteriosa sembrava ricondurci a terra, come una sorta di magnete. Per quanto navigassimo, l’orizzonte era sempre lo stesso.
“Mettiti l’anima in pace. Non c’è modo di scappare”.Si alzò, dirigendosi alla finestra. “ Non mi arrendo, non ho intenzione di rimanere qui a marcire.” “Il mondo fuori non è come te lo immagini, te l’assicuro. Non c’è modo di andarsene.” “Non puoi saperlo …”, fece un gesto stizzito, interrompendomi. “Invece si. Quest’Isola, questa gente li ho creati io. Alla macchina da scrivere, più di settant’anni fa.

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Capitolo 6
*** La villa ***


 
Christopher von Galn si autodefiniva un free-lance in attesa di essere “lanciato”, un modo più poetico di dire che era uno spiantato – disoccupato, senza un soldo in tasca. Non perché venisse da una famiglia povera, anzi. Suo padre Hans von Galn era uno degli imprenditori più in vista di Berlino. Potete dunque immaginare il colpo che gli venne quando il suo unico figlio gli comunicò l’intenzione di diventare giornalista. Cos’altro poteva fare il suo vecchio se non bloccare i conti a lui intestati e negargli l’accesso alle cassette di sicurezza, per costringerlo a ritornare sulla retta via? Così fece: una telefonata e via, davanti al ragazzo si chiusero a doppia mandata tutte le porte del mondo del lavoro. Diversamente dalle aspettative paterne, aveva resistito più di un anno, ma poi si era rassegnato al fatto che senza soldi né raccomandazione, fare strada sarebbe stato alquanto impossibile. Quando al suo ritorno, il padre gli aveva poi offerto un lavoro, non aveva potuto far altro che accettare. Quello che non accettava era l’essere pagato una miseria per fare gli inventari delle proprietà di famiglia prossime alla vendita, ma non era certo nella posizione adatta a lamentarsi e poi adorava viaggiare. Christopher si infilò le cuffiette dell’ I-Pod e salì sul Taxi, poi con un italiano dal forte accento tedesco ordinò all’autista di portarlo a Villa Sofia, vicino Firenze. Lui annui e ingranò la marcia, mentre il ragazzo sprofondava nel dormiveglia dovuto alla mancanza di sonno.

“Sono 30€”, l’autista gli stava battendo sulla spalla. Batté le palpebre e si riscosse: era arrivato. Nonostante i finestrini sudici, riusciva a vedere distintamente il profilo della villetta immersa nel verde. Allungò due banconote al tassista e scese dall’auto trascinando il pesante borsone fino al cancello corroso dalla ruggine. Armeggiò con una grossa chiave e il ferro si mosse cigolando.. Quello che gli si presentò davanti agli occhi, doveva essere stato, una volta, un giardino ben curato, ma il tempo non aveva avuto pietà del lavoro del giardiniere e neanche le erbacce. Camminò su quello che doveva essere stato un vialetto di ghiaia, dirigendosi alla porta. Girò la seconda chiave nella toppa e spinse il legno massiccio. Subito l’odore di muffa e di vecchio lo investì: era il primo a mettere piede lì dentro da decenni. Perché suo padre aveva aspettato così tanto per buttare giù una casa abbandonata? Cercò inutilmente l’interruttore, la corrente era staccata ,probabilmente era inutilizzata da quando la sua famiglia aveva acquistato la villa. Christopher si rassegnò e afferrò la torcia a dinamo che aveva previdentemente portato. Il fascio di luce si diffuse immediatamente per l’ambiente. L’ingresso dava direttamente nel grande soggiorno. Al centro troneggiava un piano coperto di polvere. Il ragazzo alzò la torcia, illuminando il lampadario di cristallo e il soffitto affrescato, poi il corridoio buio. Lì dovevano esserci le altre camere, ma non si fidò di controllare nell’oscurità. Stese una coperta nell’angolo meno in vista e decise che avrebbe cominciato l’ispezione l’indomani, con la complicità della luce del sole. Con questi pensieri si stese sul suo giaciglio improvvisato e scivolò in un sonno profondo, curandosi prima di lasciare la torcia accesa ad illuminare l’ingresso.

Avevo ascoltato impassibile le parole di Giosuè, impassibile avevo accettato le sue scuse. L’avevo ascoltato dire che era stato ingiusto a parlare così, che gli dispiaceva molto e che forse c’era ancora qualche possibilità di fuga, annuivo ad ogni parola che usciva dalla sua bocca, ma era più per inerzia che per convinzione. Quando alla fine lasciò la stanza,a notte inoltrata, per andare a riposare, rimasi sola. Mi passai ossessivamente le mani sulle orecchie, sugli occhi, sulle tempie. Mi sforzai di non pensare a niente, ma per quanto tentassi, la verità pendeva sempre come una spada di Damocle sulla mia testa, minacciando di schiacciarmi. Mi alzai e mi diressi al pianoforte, nonostante fossero le tre del mattino, nonostante in casa stessero tutti dormendo. Sapevo che quello era l’unico modo per placare le mie inquietudini. Inspirai profondamente e scoprii i tasti. Il panno scivolò silenziosamente a terra, era nudo. Immaginai di spogliarmi anch’io, di svestirmi dai cappotti di paura, dalle camicie di forza. E immaginai di volare via. Lentamente cominciai a suonare. 

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Capitolo 7
*** Il collegamento ***


Non poteva esserselo immaginato. Non era una paranoia delle sue. Christopher tastò il pavimento accanto a lui alla ricerca della torcia, scarica. Prese ad agitarla furiosamente per caricare la dinamo, col cuore in gola.. Non poteva esserselo immaginato. Le note del piano gli rimbombavano ancora nelle orecchie, mentre illuminava il piano col fascio di luce. Non poteva esserselo immaginato. “Chi c’è?”, si era alzato in piedi, i sensi tesi al massimo. “C’è nessuno?”. Magari la villa era diventata la dimora notturna di qualche senza tetto, oppure – anche se non era superstizioso, sentì un brivido lungo la colonna vertebrale- era infestata dai fantasmi, il che avrebbe spiegato perché fosse rimasta disabitata per tanto tempo. Si guardò attorno. Il chiavistello era al suo posto e non c’era segno di scasso. Non bastò a rassicurarlo. Si avvicinò al mobile ed afferrò il candelabro di argento ossidato, frugò nelle tasche alla ricerca dello Zippo, benedicendo il fatto di aver ricominciato a fumare e accese ad una ad una le candele. Poi, con la torcia salda in mano, esaminò il pianoforte, premette qualche tasto a caso, cercando di ricordare la melodia. Non era un musicista, ma ricordava vagamente di aver già sentito quel motivo. Provò ancora qualche nota, ma gli ultimi tasti sembravano rotti: non emettevano alcun suono . Premette con più veemenza. Niente. Illuminò le macchine, chiedendosi quale fosse il problema. Senza capire granché, riuscì a individuare il problema in un pacchetto rettangolare che bloccava i martelletti. Lo rimosse con cautela e lo rigirò tra le mani. Era un plico di fogli ingialliti dal tempo, tenuti insieme da un filo cucito alla bell’e meglio. Sulla prima pagina, era stato battuto con la macchina da scrivere il nome “Giosuè Cardelli”. Christopher diede una scorsa veloce alle pagine poi, pregando che il suo italiano lo aiutasse, cominciò a leggere alla luce tremula delle candele. Lesse tutta la notte, ignorando le palpebre che minacciavano di chiudersi ad ogni frase e fu sorpreso dalla luce del mattino ancora con quei fogli in mano, seduto ai piedi del piano. 

“Dobbiamo andare via,qui crolla tutto!”. Si guardò intorno. Tastò le pareti. Non c’era via di fuga. Sarebbe morto lì, lo sapeva. “Non c’è modo!”. La figura indistinta ricoperta di polvere e calcinacci gli aveva teso la mano, ma per quanto lui tentasse di afferrarla, era sempre più lontana. “Non ci riesco,scappa!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Ma lei era ancora lì, non lo stava ascoltando. “Giosuè, corri!”. Si voltò e capì. Non stava chiamando lui. Nella foga della corsa, Giosuè non si era accorto che c’era qualcuno sulla propria traiettoria,Chris si accorse troppo tardi del suo arrivo, ma nel momento esatto in cui i corpi avrebbero dovuto cozzare l’uno contro l’altro, lo scrittore gli passò semplicemente attraverso, senza essersi accorto di nulla. “Ma che cazz…!”, il ragazzo si toccò istintivamente il petto. Che diamine stava succedendo? Improvvisamente un pezzo di cemento si staccò dal soffitto. Chris si gettò all’indietro per evitarlo, ma nel polverone aveva perso gli altri due. Aveva perso la sua unica possibilità di uscirne. Solo, si inginocchiò a terra. 

Chris si svegliò madido di sudore. La testa gli faceva dannatamente male e si maledì per non aver portato un’aspirina: perdere così tante ore di sonno non si era rivelata una grandissima idea dopotutto. Si massaggiò le tempie, cercando di tornare alla realtà, lui non era su un ‘Isola, lui non era un’invenzione, era reale. Sbadigliò guardando l’orologio da polso di plastica azzurra. Aveva perso già troppo tempo. Per prima cosa ispezionò la stanza nella quale si era addormentato, raccattò tutti gli oggetti di valore(a dirla tutta davvero pochi e Chris ebbe l’impressione che qualcuno l’avesse già razziata) e sistemò tutti i libri che aveva trovato in un grosso scatolone. Per buona misura ci mise anche tutte le pagine del manoscritto. Continuò controllando nel mobiletto all’ingresso: era vuoto tranne che per una vecchia macchina da scrivere semi arrugginita. Il ragazzo sussultò, aveva avuto sempre una passione smisurata per quegli arnesi e nonostante il laptop sul quale lavorava di solito, a volte riscopriva il piacere di scrivere alla vecchia macchina appartenuta a suo nonno. La tirò fuori con dita tremanti e l’appoggiò sul tavolo . “Chissà se funziona ancora …”, scrisse il suo nome, pensando che l’inchiostro si fosse seccato con gli anni. Per qualche assurdo motivo non era così. Si chinò a controllare sul foglio ingiallito. “Christopher von Galn”. Sorrise sotto i baffi e fece per allontanarsi e continuare il proprio lavoro, quando notò un’altra frase sul foglio. Qualcuno aveva già scritto prima di lui.

 “L’equilibrio era diventato instabile,mai nessuno aveva tentato con tanta intensità di andare via. Per quanto tentassi di frenarla,non riuscivo a dissuaderla. Sapevo che l’Isola sarebbe affondata e noi con lei. La sola possibilità era che …”.

  Una macchia d’inchiostro interrompeva bruscamente la frase. Girò il foglio cercandone la fine, ma le uniche altre parole sulla pagina erano quelle del suo nome, appena due righe più sotto. Era diventato parte del romanzo.

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