Non serve un'arma per uccidere di Glenda (/viewuser.php?uid=27907)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il trasferimento ***
Capitolo 2: *** L'interrogatorio ***
Capitolo 3: *** Presunto colpevole ***
Capitolo 4: *** Il profilo dell'S.I. ***
Capitolo 5: *** 1999 ***
Capitolo 6: *** Il dolore del mondo ***
Capitolo 7: *** Doppia Identità ***
Capitolo 8: *** Morire d'innocenza ***
Capitolo 9: *** Quale S.I. ? ***
Capitolo 10: *** D'incoscienza e d'eroismo ***
Capitolo 1 *** Il trasferimento ***
Dal quaderno dei deliri di Glenda:
Il trasferimento
Mervin Hudson era stato per diversi anni lontano
da Quantico, ma non aveva perso familiarità con quegli uffici, benché le facce
fossero tutte cambiate. Dell’unità a cui era stato assegnato non conosceva
nessuno: era una squadra la cui età media era spaventosamente bassa, e questo
turbava il capo sezione, che aveva caldeggiato il suo trasferimento.
Una ragazza sulla trentina aveva alzato la testa
ad osservarlo non appena lui aveva messo piede là dentro, e lo guardava con
l’espressione di chi aspetta che l’interlocutore apra bocca per primo.
“L’agente Tee Murphy?” chiese Mervin
La donna si alzò dalla sua postazione
“Chi lo cerca?” fece, con aria di
sufficienza.
C’era troppo vai e vieni, quel mattino, negli
uffici dell’Unità Analisi Comportamentale; c’era un nuovo caso a cui lavorare e
Tee era ancora chiuso in ufficio al telefono, Tobias aveva una di quelle
mattinate in cui era meglio non parlargli e Risa era in ritardo: questo bastava
a rendere Avril Spencer nervosa.
“Sono l’agente speciale…”
Non fece in tempo a finire. La porta dell’ufficio
del supervisore si aprì, e un alto uomo dall'aspetto atletico e lo sguardo
vivido si incamminò tra i separè con passo veloce.
“Tutti in sala riunioni, ragazzi. Cinque minuti”
fece un gesto con la mano e lanciò qualcosa in direzione di una delle scrivanie
“Al volo, Tobias!”
Uno ragazzo seduto di spalle fece scattare il
braccio in aria e afferrò l’oggetto che gli era stato indirizzato.
“Fondente amaro: ottimo modo di iniziare la
giornata. Grazie Tee”
Continuando il suo giro tra le scrivanie, sbatté
davanti ad Avril un corposo fascicolo.
“Questa è roba tua” fece, frettoloso “mentre
Risa...” posò lo sguardo sullo scomparto vuoto, e fu quello l’attimo
d’esitazione che Mervin colse per imporre la propria presenza.
“Agente Tee Murphy” scandì, con un tono che
richiedeva attenzione.
Tee si fermò, lo guardò, lo riguardò, e non gli
parve di riconoscerlo.
“Con chi ho il piacere…?”
L’uomo gli porse un paio di fogli con la
sinistra, mentre la destra si
tendeva verso di lui.
“Agente speciale Mervin Hudson” disse “Pare che
da oggi io e lei lavoreremo insieme”
“Mervin Hudson!” esclamò Avril, balzando in piedi
“Quello che ha catturato il mostro di Meridian!?”
Egli annuì, con un sorriso compiaciuto. Notevole
che si ricordasse di un caso così vecchio: erano passati almeno 15 anni!
Intanto Tobias, che aveva finito di mangiare il
cioccolatino, si era alzato e, seduto sul bordo della scrivania, fissava con
attenzione il nuovo arrivo, come se volesse fargli una radiografia.
“E’ un piacere, agente Hudson” fece Tee, poco
convinto “ma non mi è stato comunicato nessun trasferimento...”
L’uomo accennò ai documenti che gli aveva
passato, con sguardo sicuro di sé.
“Gliel’ho appena comunicato io” dichiarò “Da
oggi, la affiancherò nella supervisione di questa unità. Con effetto immediato”
Quell’uomo non gli piaceva.
Dal primo momento in cui l’aveva visto e si era
presentato.
Che diavolo voleva dire con effetto immediato?
Come se quella non fosse più la sua squadra…!
Tee lo invitò a entrare nel suo ufficio. Chiuse
la porta dietro di sé e i due rimasero a scrutarsi.
Che cosa poteva aver condotto quell’agente,
chiaramente avanti negli anni, a tornare in pista? Forse l’avevano chiamato i
suoi superiori? In tal caso: perché? Credevano che lui non fosse più in grado di
gestire l’unità? O c’era dell’altro?
“Agente Murphy, lieto di fare la sua conoscenza:
ho sentito parlare di lei” Tee si schiarì la voce “con effetto immediato
eh?”
Il sorriso si spense sul volto di Hudson.
“Già” fece per tutta risposta, prendendo tempo e
volgendo il suo sguardo per tutto l’ufficio “…si è sistemato bene qui”.
Tee si appoggiò alla scrivania
“Mi dica, chi è stato ad approvare il suo
trasferimento? Mackey? Lemansky? Sa, glielo chiedo perché non ne sono stato
informato e la cosa è quantomeno curiosa”
Hudson glissò la domanda puntando la sua
attenzione sull’ufficio esterno. Lì, alle loro postazioni sedevano gli altri
agenti.
“Quell’uomo, l’agente…Rendall…”.
Tee si irrigidì.
Cosa voleva da Tobias?
E soprattutto come si permetteva di arrivare lì,
senza preavviso e di fare i suoi comodi?
Se c’era una cosa che Tee non tollerava era
l’autorità imposta.
“Agente Murphy…?”
“Sì…” riprese Tee, attento. Con quell’Hudson, lo
aveva capito al volo, doveva guardarsi le spalle e qualunque parola avesse
pronunciato, l’avrebbe detta con molta, molta cautela “Tobias Rendall è uno dei
nostri…”
Hudson fece un segno con la mano, non gli
interessavano quelle cose.
“Ok, va bene, non è questo il momento giusto…sono
tutti molto giovani non trova?”.
“Sì ma molto capaci” sottolineò subito Tee,
guardandolo negli occhi e sfidando a provocarlo su quel terreno. L’aria era
elettrica. Sarebbe bastata solo una scintilla per scatenare non un incendio, ma
qualcosa di altrettanto devastante.
Inaspettatamente fu Avril a rompere la tensione:
Tee aveva insegnato ai suoi agenti a non bussare. Era un’inutile perdita di
tempo.
La porta si spalancò “Capo, noi siamo…”
La giovane si interruppe notando qualcosa di
strano nella stanza.
Tee si volse verso di lei.
“Arrivo subito, lasciamo all’agente Hudson il
tempo di acclimatarsi”.
Quando Hudson entrò in sala riunioni, la prima
cosa che notò fu la nuova arrivata: una ragazza dai tratti orientali di
incredibile bellezza, ma dall’aspetto decisamente inappropriato ad un luogo di
lavoro, e men che meno ad un agente dell’FBI. Era vestita di nero, indossava una
gonna decorata di pizzi e merletti inguardabili, e un paio di stivali con zeppe
che le regalavano almeno dieci centimetri d’altezza. Una simile ostentazione
della propria individualità poteva voler dire due cose: profonda insicurezza e
desiderio di affermare il proprio io, o ricerca di un’identità ancora non
definita. Si disse che con qualche scambio di frasi con lei, lo avrebbe capito.
In ogni caso, il suo non era un atteggiamento che denotava la stabilità
psicologica richiesta nel loro lavoro: solo Tee Murphy poteva aver reclutato un
personaggio del genere.
Stando alle informazioni ricevute, la ragazza si
chiamava Risa Michyo, era uscita solo tre anni prima dall’accademia e, dopo un
anno di brillanti successi nella omicidi, era stata trasferita all’unità analisi
comportamentale come addetta alle relazioni. Adesso faceva esperienza sul campo,
ma stava seguendo ancora i corsi per diventare una profiler a tutti gli effetti.
Tee cominciò a parlare:
“Sand springs,
Oklahoma. Tre morti, nel giro di un mese, tutti per un colpo di pistola,
senza apparente collegamento tra loro. Dalle analisi balistiche risulta che
l’arma del delitto è la stessa. Per l’ultimo omicidio abbiamo un sospettato,
attualmente trattenuto presso il dipartimento di polizia, ma durante la
perquisizione del suo appartamento non è stata trovata traccia dell’arma. Il
nostro primo compito sarà parlare con quest’uomo. Avril…”
La ragazza si alzò in piedi e si diresse al
tabellone, dove collocò la prima fotografia.
“Trisha Chatterly, 52 anni, nata e cresciuta a
Sand Springs, vedova, madre di due figli, in pensione, faceva la donna delle
pulizie per arrotondare. E’ stata trovata morta in casa propria il 20 marzo
2008: nessun segno di lotta. E’ stata trovata legata, uccisa da un colpo di
pistola al cuore. Non ci sono segni di effrazione, tuttavia i figli hanno
dichiarato che dalla casa mancano diversi preziosi. Sono stati interrogati
parenti e conoscenti: Trisha non aveva alcun nemico, era una donna amata da
tutti, madre amorevole e volontaria presso una casa di riposo. Non aveva vita
sociale al di fuori della chiesa e del ricovero: dopo la morte del marito aveva
dedicato la propria vita ai figli e al volontariato”
Seconda foto.
“Alex Zarosky, 40 anni, di Oklahoma City,
invitato in città per una lettura animata con gli alunni della scuola elementare
della città. Autore di un ciclo di libri per l’infanzia. Trovato morto nello
stesso modo, in una stanza dell’Hotel Libonne, dove soggiornava. L’uomo veniva a
Sand Springs per la prima volta nella vita. Nessuno lo conosceva, se non per
sentito dire”
Terza foto
“Mary Summers, 20 anni. Morta per un colpo al
petto: l’arma è la stessa, ma il modus operandi cambia. Non è stata legata, è
stata trovata riversa a terra. Nell’abitazione ci sono segni di colluttazione,
pare che la donna si sia difesa dal suo aggressore. E’ stato incriminato il
fidanzato, Malcom Denver, 23 anni: aveva un livido sul braccio destro e una
escoriazione in cui sono state ritrovate delle schegge. Le analisi della
scientifica dicono che provengono da una delle sedie della cucina
dell’appartamento, luogo dove è avvenuto l’assassinio. Il ragazzo ha precedenti
per ubriachezza molesta e spaccio di marijuana. Si cerca di collegarlo anche
alle altre vittime, ma l’arma del delitto non è stata trovata, né in casa sua
c’è traccia della refurtiva sottratta alla prima vittima”
“Nessuna preferenza di sesso” cominciò Risa
“questo ci renderà difficile stabilire se l’S.I. sia uomo o donna...”
“E nessun segno di tortura. La pulsione sessuale
probabilmente non c’entra”
Tobias si alzò ed andò a staccare l’ultima delle
foto che lei aveva cos’ accuratamente sistemato, portandosela al proprio posto.
Poi cominciò a guardarla intensamente: la avvicinò quasi fino al naso, poi la
allontanò quanto la lunghezza del proprio braccio, poi si tolse e si rimise gli
occhiali, poi cominciò a ruotarla in più direzioni, ripetendo il procedimento da
capo, come in uno di quegli psichedelici giochetti ottici. Hudson si chiese che
stesse facendo, e si sorprese che nessuno dicesse niente. Ad un tratto Tobias
posò la fotografia sul tavolo e con le mani ne coprì alcune porzioni, fissando
tra gli spicchi delle dita quello che ne rimaneva.
“...il fidanzato...direi di no...”
Murphy non fece una piega: guardava con un certo
compiacimento il ragazzo svolgere quella sua analisi che tanto spesso gli aveva
visto fare.
“Lei...” con le mani coprì tutta la foto,
lasciando scoperti solo gli occhi della vittima “non si sentiva minacciata, nel
momento in cui è morta. Quindi...o lui ha finto di riappacificarsi dopo la
colluttazione e poi l’ha uccisa...o è stato qualcun altro. Vedi questo sguardo,
Tee?” invitò con la testa il supervisore a guardare, senza togliere le mani
dall’immagine “non si muore con questi occhi, se si sospetta di essere in
pericolo o ci si sta difendendo. Questi sono occhi...” ci pensò un attimo su “di
una persona triste. E non si può essere tristi e al tempo stesso in ansia per la
propria vita, perché lo spirito di sopravvivenza sopraffarebbe la tristezza. Si
dice che negli occhi resti focalizzata l’ultima immagine che si vede in vita:
quella che ha visto Mary Summers certamente non era un uomo che voleva
ucciderla...”
Mervin alzò un sopracciglio.
Che razza di approccio alle indagini era? Stava
facendo il profilo di una morta guardandole gli occhi in fotografia? D’un tratto
ad Hudson fu chiaro cosa intendeva dire il capo sezione Calligh parlando con
sarcasmo di “metodi da sciamano” anziché da profiler.
“Se è capace di vedere questa immagine, ce la
stampi a colori, agente Rendall: così avremo bello e pronto per l’arresto il
nostro S.I.”
Tee fece un cenno infastidito con la mano, che
voleva chiaramente dire “Non interrompere”. Amava ascoltare Tobias analizzare
foto: come al solito si
era lanciato in uno dei suoi commenti
così particolari per acume e prontezza da lasciare senza fiato. Gli
affari interni o chi per loro avrebbero potuto dire qualsiasi cosa, ma lui
restava uno dei migliori agenti che la sua sezione avesse
avuto.
Tobias, da parte sua, non
aveva colto la malizia del nuovo collega. Si sistemò la cravatta variopinta che
cozzava in modo fastidioso con la camicia a scacchi che aveva indosso, e lo
ignorò, continuando la sua osservazione: “Il colpo è diretto al cuore. Questo ha
senso: fa pensare alla passionalità. Ma una pistola...non è l’arma giusta per un
delitto passionale...La pistola è fredda, distaccata, non implica contatto
fisico. Quando si ama, o si odia, è il corpo che veicola i sentimenti. Se io
fossi stato lui...l’avrei strangolata, credo. O forse l’avrei pugnalata e avrei
aspettato che si dissanguasse, perché attraverso il sangue si placa la
rabbia...è come se attraverso le ferite sgorgassero emozioni
represse...”
“Bello sentirti parlare come
un omicida poco dopo aver fatto colazione, Rendall!” lo interruppe Avril, che
detestava il modo indelicato di Tobias di calarsi nei panni dei killer. Risa,
invece, seguiva il discorso interessata.
“...Sì, però, Tobias...chi ti
dice che sia un “delitto passionale”?”
Il giovane aggrottò le ciglia,
si stropicciò la fronte
“Beh... era il suo
fidanzato...”
La ragazza scoppiò a
ridere
“Sei buffo! Hai idea di quanti
‘fidanzati’ stiano insieme senza amarsi affatto? Magari voleva liberarsi di lei
perché aveva un’altra, o per denaro...e la passione non c’entra
niente!”
Tobias ci pensò su,
perplesso
“...Non esattamente. Quando
hai un legame fisico con una persona, sei fisico anche nell’ucciderla. Non credo
c’entri l’amore. E’ più una questione di...confidenza
corporea!”
“Troppo macchinoso. Se
premediti un omicidio, te ne sbatti della ‘confidenza corporea’: miri a fare in
fretta!”
“In questo caso, ne dubito. Se
voleva solo spararle, così, freddamente...perché avrebbero avuto una lotta, poco
prima? Uno scontro fisico, dove vola una sedia, implica passionalità…ed
anche confidenza corporea...!”
Avril fece un fischio
arrotondando le labbra
“Questo ha senso! Un punto per
Rendall!”
Tee interruppe il vivace
confronto dei suoi tre agenti.
“Non possiamo escludere
nessuna pista” disse “finché non parliamo con Malcom Denver. Solo quando ci avrò
parlato, vi saprò dire se l’ipotesi di Tobias regge o
meno”
“Solo quando ci avrà parlato?”
la voce di Hudson intervenne provocatoria “Agente Murphy, lei pensa che saprà
dire se il sospettato è innocente solo dopo averci
parlato?”
“Ho detto questo?” Tee si alzò dal tavolo
e cominciò a radunare le sue carte “Affatto. Quando ci avrò parlato saprò
semplicemente dire se questo ragazzo sarebbe o meno il tipo da uccidere la
propria donna usando una pistola anziché un pugnale o le proprie stesse mani. Il
mio agente sostiene che la mancanza di fisicità gli suscita dei dubbi...Parlerò
al sospettato, e valuterò se questi siano fondati o meno”
“Lei è molto sicuro di sé,
Murphy. Sono ansioso di vederla al lavoro”
Lui parve ignorarlo, e si
rivolse ai colleghi.
“Ragazzi, partiamo fra due
ore. Andate a prepararvi” poi lanciò una breve occhiata al nuovo acquisto
“Hudson, dammi del tu”
Geniale e
presuntuoso –
pensava Mervin mentre infilava in valigia le sue cose - la definizione di
Calligh per ora calzava a pennello. Tee Murphy, soli 37 anni, non era solo il
più giovane supervisore di un’unità che si fosse mai visto, ma era anche
unanimemente considerato un prodigio. Il suo curriculum era sorprendente: laurea
in psichiatria e in legge nonostante le difficoltà economiche della sua
famiglia, primo del suo corso all’accademia dell’FBI, si era distinto fin da
novellino per le sue brillanti deduzioni, mostrando da subito una forte
propensione all’analisi comportamentale. Mente eccellente e eccellente uomo
d’azione: nel corso di uno scontro a fuoco era riuscito, pur con una ferita alla spalla, a
catturare il criminale e a salvare la vita di un collega. Entrato nel BAU a 27
anni, era emerso per le sue doti ed era entrato nelle grazie dell’allora
supervisore, che lo considerava una specie di genio. Aveva conseguito una
promozione per aver risolto brillantemente il caso di un serial killer di
prostitute, e a soli 33 anni gli era stata affidata la responsabilità di una
squadra. Era stato da allora che aveva cominciato a farsi notare non solo per la
sua eccezionalità, ma anche per la sua irruenza: scelte avventate, violazioni
del protocollo, testardaggine nel selezionare i collaboratori affidandosi solo
alla sua valutazione personale...Eppure, erano stati 4 anni di successi, e
nessuno aveva potuto obiettare che, nonostante le sue intemperanze e la sua
incapacità di accettare compromessi, Tee Murphy fosse un ottimo agente e un
ottimo leader. Ma i suoi colpi di testa preoccupavano le alte sfere, e l’età
media della squadra li aveva spinti ad auspicare l’inserimento di qualcuno
capace di fare da contrappeso a Murphy, e di tenere un occhio sui suoi
giovanissimi collaboratori. Quel compito era toccato a lui. Era l’occasione che
ci voleva per tornare in pista, per occupare la propria mente, e per poter,
finalmente, dimenticare...
FAN FICTION SCRITTA DA GLENDA E REM: SE VI PIACE
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Capitolo 2 *** L'interrogatorio ***
Dal quaderno dei deliri di Glenda:
Capitolo 2
L’interrogatorio
Sand Spring era una città come tante altre. Non era sua abitudine farsi
idee preconcette, ma se c’era una costante nel suo lavoro, quello era il fatto
che delitti di una certa natura potevano accadere ovunque, anche in cittadine
dall’aria pacifica a tranquilla come quella. Ad accoglierli, all’interno del
solido edificio dallo stile ottocentesco, c’era una donna, con grandi occhi
verdi nascosti da una frangetta fin troppo lunga. “Buongiorno” fece Tee
stringendole la mano “Sono l’agente Murphy…” “Molto piacere, detective Claire
Harris” fece la donna con un sorriso. “E questi sono...” Tee proseguì con le
presentazioni “c’è un posto dove i miei uomini possono sistemarsi?” “Certo.
Simon” fece la donna chiamando a sé uno degli agenti in divisa “metti a loro
disposizione la sala riunioni“
“Se non le dispiace, vorrei cominciare subito l’interrogatorio del
sospettato” esclamò Tee deciso. La donna annuì “prego, da questa parte...non
vi nascondo che aspettavamo con ansia il vostro arrivo...”
Tee fece cenno agli altri di seguire il poliziotto, ma Hudson non volle
cogliere il messaggio e andò con lui.
La stanzetta era mal illuminata, una lampadina che diffondeva un riverbero
molto debole era appesa al soffitto. L’agente Murphy si fermò per un momento
lì fuori. Il giovane era rannicchiato su di sé, le braccia intrecciate sul
tavolino, la fronte nascosta. Non gli si poteva scorgere il volto. Aveva già
studiato anticipatamente il fascicolo che era pervenuto loro dalla polizia di
Sand Spring. Quello che se stava semiraggomitolato senza degnare di uno sguardo
quanto lo circondava era Malcom Denver, il fidanzato delle vittima. “Da
quanto tempo se ne sta così?” domandò l’agente Murphy alla detective. “Da
quando l’abbiamo portato qui...non ha voluto rispondere a nessuna domanda, ma
non ha nemmeno chiesto un avvocato”. “Cosa ne pensi?” fece Hudson osservando
anche lui il giovane attraverso il vetro della stanza. Tee scrollò le spalle
“potrò dire qualcosa solo dopo averci parlato”. Si accorse che forse era
stato un po’ troppo tagliente con Hudson, ma non gli importava. Era entrato
in quello stato che precedeva ogni interrogatorio, in cui gli era necessaria
completa concentrazione. “E va bene...”mormorò Tee muovendosi verso la porta
della stanzetta dov’era custodito Malcom. “Non dovresti prima...”ma Hudson
non finì la frase. Bene bene, pensò, e adesso vedremo in azione il
famoso Tee Murphy. Tee entrò con calma, curandosi di chiudere la porta
alle sue spalle. Fece un breve segno alla guardia che lasciò la stanza e
prese posto di fronte al sospettato. “Ciao Malcom, sono l’agente Murphy”
cominciò in tono pacato. Il giovane non diede segno di essersi accorto che
c’era qualcun altro lì con lui. “So che devi essere spaventato e confuso e
che probabilmente vorresti essere in qualsiasi altro posto tranne che in questo
luogo” proseguì Tee tranquillamente, come se stesse tenendo una conversazione
con vecchio amico. Dietro la vetrata Hudson era in ascolto. “...però devi
sapere che noi siamo qui per capire come sono andate le cose...vogliamo sapere
cos’è successo esattamente...” Ancora niente. “Capisco che la perdita di
Jane per te dev’essere stata devastante” Tee si concesse una breve pausa “
...Mary...Lei era unica no? Una ragazza speciale”. Nessuna reazione. Tee
continuò imperturbabile “lei aveva un gran cuore vero? So che era impegnato in
opere di volontariato…si faceva carico dei problemi degli altri ….era in gamba…e
si occupava anche di te giusto?” fece Tee sporgendosi verso il giovane “ti
sosteneva e ti dava fiducia…anche quando nessun altro lo faceva…” l’agente
Murphy abbassò la voce impercettibilmente “perché è sempre stato così vero? Fino
a quando non hai conosciuto Mary…” A poco a poco il giovane tirò su la
testa. Aveva gli occhi rossi e gonfi, i capelli appiattiti contro la fronte e
un lieve accenno di barba non rasata. Sembrava visibilmente sconvolto. “Lo
so, lo so” fece Tee con un mezzo sorriso rassicurante “la tua non è stata
un’infanzia felice. Sei stato abbandonato quando eri molto piccolo, ma non
troppo per non ricordare...e sei rimasto con tuo padre...al quale richiamavi
costantemente alla memoria il suo fallimento, forse beveva un po’ troppo ed era
incapace di prendersi cura di te”. Il giovane continuava a tacere, ma seguiva
il discorso di Tee prestandogli molta attenzione. “e così ti sei allontanato
da lui. Appena hai potuto te ne sei andato...hai vagabondato per le grandi
città...sei vissuto di espedienti, piccoli furti, magari un po’ di spaccio.
Credevi che la tua vita fosse inutile, priva di valore, che senso aveva in fondo
vivere così?” Tee lo osservò mesto. “...però un giorno hai incontrato Mary.
Lei ti ha fatto capire che anche tu eri importante, che qualcuno teneva a
te...che anche tu potevi essere amato” finì in un sussurro. Il ragazzo annuì,
passandosi frettolosamente una mano davanti agli occhi. “So che desideri
andartene il prima possibile, ma aiutaci. Aiutaci a capire cos’è successo e...”
Tee non ebbe bisogno di andare avanti. “Lei...Mary...ama molto i bambini”
fece il giovane con un sorriso che si spense subito sulle sue labbra “cioè
amava...amava molto i bambini, le piaceva stare con loro, faceva l’animatrice in
ospedale...lei oh...” il ragazzo chiuse gli occhi per un breve
istante. “Stavi andando bene Malcom” lo incoraggiò l’agente
Murphy. “...era felice, stavamo bene insieme...io-io...credevo che...lei
volesse metter su famiglia e invece...” “Non era così “ finì per lui
Tee. Il ragazzo fece no con la testa “m-mi ha detto...che voleva partire,
voleva aiutare la gente e non-non poteva farlo qui...voleva partire capisce?”
fece Malcom sporgendosi verso Tee “voleva lasciarmi, fare la
missionaria...lei...” Le parole gli morirono in gola. Malcom
abbassò la testa, poi la rialzò improvvisamente “chi può aver fatto una cosa
simile a una ragazza così?” esclamò accorato. Poi si prese la testa fra le mani,
scuotendola incredulo. “Lo so, lo so...” sussurrò Tee al ragazzo. “Lei non
ha mai fatto del male a nessuno. Mai...” “Ne sono convinto” mormorò Tee “va’
avanti”. “...quando mi ha detto che voleva andare via io mi sono arrabbiato,
le ho detto che non poteva comportarsi così, non poteva decidere tutto da
sola...non era giusto!” esclamò il giovane con foga. Tee annuì. “Le cose
mi sono sfuggite di mano, l’ho colpita, ma non volevo farle male!“ gridò Malcom
“Lei...si spaventata...si è messa a urlare e mi ha lanciato contro una sedia! Mi
ha detto che ero un pazzo ed io...io sono scappato! Non capivo più niente,
volevo solo andare via, ma quando l’ho lasciata lei stava bene, ve lo giuro! Voi
mi credete vero? Dovete credermi vi prego, vi prego. Trovate l’assassino di
Mary!” “Va bene, sta’ tranquillo”rispose Tee alzandosi, ma prima di uscire si
voltò nuovamente verso il giovane “un’ultima cosa, Mary era molto religiosa
vero?”. Malcom annuì tirando su col naso. “Allora cosa ne pensi?” lo
investì subito Hudson non appena mise piede fuori dalla stanzetta. Tee sapeva
che era una domanda inutile, che anche Hudson si era già fatto una sua idea, ma
non aveva nessuna intenzione di sbilanciarsi. “Per me ha detto la verità”
rispose Tee con un’alzata di spalle. “...Aveva un movente” ribatté Hudson
tornando a fissare l’interno della piccola saletta “e poi lo sai meglio di me
che gli assassini metodici e organizzati, mentono con estrema facilità e sanno
rendersi molto credibili...”
“Esatto. Noi cerchiamo un assassino metodico e organizzato. Un uomo capace di
scegliere due vittime, entrare nelle loro case, legarle e poi ucciderle. Sembra
quasi l’esecuzione di una condanna a morte. Quest’uomo non è lucido, è
disturbato, ha picchiato la propria donna, e si è lasciato colpire alla
sprovvista da una sedia. Non è lui...”
La sala riunioni del dipartimento non era esattamente come un ufficio, ma
Avril si era già ritagliata il suo angolo occupando la sola scrivania singola
che c’era e appoggiandoci il suo portatile.
Tobias continuava a fissare fuori dalla finestra: quella sala era troppo
spoglia, e le pareti disadorne erano troppo bianche, di quel bianco trascurato
che lo infastidiva. Gli occhi facevano la spola tra il panorama cittadino che
appariva al di là dei vetri ed i colori della propria camicia.
“Perché non sei andato con lui?” chiese una curiosa e indisponente Risa “Non
sei tu l’esperto di interrogatori?”
“Esperto?” il ragazzo giocherellò con le dita, distratto “No, no...io
relaziono con gli psicopatici” spiegò con candore. “E questo posto, non mi
piace”.
Non c’entrava niente, ma Tobias a volte diceva cose strane. O anche non
strane, ma fuori posto, inopportune. E le buttava lì, non per essere ascoltato
ma solo per dare un suono al suo pensiero: il suono con cui esso usciva, lo
chiarificava a se stesso.
“Rendall è specializzato in dinamiche relazionali con soggetti affetti da
patologie della psiche” intervenne Avril, col solito tono da cattedra “sapevi
che ha trattato col dinamitardo di Boston? E’ andato da lui disarmato, ci ha
parlato, ha fatto liberare otto ostaggi e se lo è portato fuori tenendolo per
mano, docile come un bambino...! Sono passati quasi due anni e lui ancora non ci
racconta che gli ha detto!”
Tobias si era voltato verso la finestra, estraniandosi dalla conversazione.
Ma Risa non glielo permise.
“WOW!” si avvicinò a lui e lo prese forzatamente sottobraccio, strattonandolo
“Che carino! Avrei voluto proprio esserci!”
Lui sobbalzò.
“T-ti sbagli. N-non avresti affatto voluto esserci. Nessuno vorrebbe
esserci. E...e non c’è niente di carino in un uomo malato!”
Lei non colse affatto il rimprovero, per altro detto con quel suo tono
esitante che gli faceva perdere ogni incisività, e, senza mollare il suo
braccio, si alzò sulla punta delle grosse scarpe e gli stampò un bacio sulla
guancia.
“Non lui, scemo! Tu sei carino!” ed esplose in una trillante
risata.
Appena fu libero, Tobias fece un passo di lato. Non riusciva a convivere con
quella espansività: che si violasse la sua sfera fisica lo metteva a
disagio.
“Ma perché, invece di parlare del nostro Rendall, non mi chiedete nulla sul
nuovo arrivato? Nessuno vuol sapere chi è? Nemmeno un po’ di curiosità?”
“La mia sola curiosità è come mai lo abbiano mandato da noi con compiti di
supervisione. Non è Tee il nostro capo? Lui basta e avanza!”
“Ah, questo non so dirtelo, ma so fare due più due: qualcuno agli alti
livelli diffida della nostra efficienza, e non è la prima volta che accade”
“Non è la prima volta? Davvero? E quando...”
“Beh, quando il capo sezione Nodd andò in pensione e fu sostituito da Neil
Calligh, per esempio. Nodd aveva un vero debole per l’agente Murphy, ha
sponsorizzato la sua carriera...e quando se n’è andato un bel po’ di gente ha
sospettato che quel ruolo non fosse pienamente meritato...”
“perché. sono. una. mandria. di. idioti.”
Il secco intervento di Tobias colse di sorpresa Risa, che non era abituata a
sentirlo sputare simili sentenze.
“Eh?”
“Neil Calligh è frustrato sessualmente e rassicura la propria virilità
esercitando pressioni psicologiche sugli altri: il controllo è l’unico strumento
attraverso cui riesce ad appagarsi. Hans Mackey è un succube: sicuramente sua
moglie è una dominante e lui soffre di una rabbia repressa che sfoga sugli
oggetti e sui colleghi; Arthur Lemansky invece è un insicuro: non riesce ad
affermare se stesso se non nella competizione, probabilmente ha un fratello o
una sorella con cui la madre lo ha continuamente confrontato. Ma tutti –
tutti – farebbero meglio a cambiare mestiere. E Tee, è mille volte
superiore a ciascuno di loro!”
Accompagnò quella dichiarazione con un ampio gesto della mani, e poi infilò
la porta dirigendosi alla macchinetta del caffè. Segno che per lui
quell’affermazione per lui era un assioma e non avrebbe accettato che fosse
contraddetta.
Le due ragazze si scambiarono un’occhiata, cui seguì un imbarazzato
silenzio.
“Emh…mpf…ma torniamo a noi!” ruppe il ghiaccio Risa “quali altre volte
l’agente Murphy è finito nel mirino dei superiori?”
Avril si accertò che Tobias fosse ancora intento a lottare con il
distributore, che non pareva convinto di dargli il resto.
“Vuoi saperlo?” fece, sottovoce “beh...quando ha voluto in squadra
Rendall!”
“Ah.”
La voce del ragazzo interruppe la conversazione.
“Volete qualcosa?”
Risa gli rivolse il suo sorriso più smagliante.
“Un caffè anche per me, tesoro!”
Intanto Avril si era di nuovo chinata sul computer, spappolando sui
tasti.
“Insomma, torniamo a noi! Ho svolto un paio di ricerche sul nostro Mervin
Hudson...e francamente,ciò che mi sorprende è che su di lui non si riesca a
sapere granché!”
Tobias le comparve alle spalle con due tazzine fumanti
“Mpf...la donna-so-tutto non trova informazioni? Grave...molto grave...”
“Sì. Grave...” ammise Avril stropicciandosi il mento “perché se io non riesco
ad accedere ad informazioni su di lui, significa che si tratta di informazioni
molto, molto riservate...”
“O semplicemente non c’è nulla da sapere, non è più semplice?” fece Risa
“Impossibile. Non inserirebbero mai nel BAU un signor nessuno! Noi siamo la
crem de la crem dell’FBI!”
In quel momento, un bip dal computer fece sobbalzare la ragazza.
“Ehi, ehi! Qua c’è qualcosa!”
I tre fecero ressa attorno allo schermo
“Mmm...Mervin Hudson, nato a New york nel 1951...”
Gli occhi di Avril scorrevano il testo con una velocità a cui gli altri due
non riuscivano a star dietro.
“Membro della omicidi dal 1980...riceve una promozione nel 1982 per aver
catturato George Finnigan, Killer che terrorizzava il Bornx...nel 1985 dirige
una squadra...entra nella comportamentale nel 1990, uno dei primi a far parte
dell’unità, e cattura brillantemente il mostro di Boston...Uffa, tutta roba che
sapevo già!”
“La sapevi? Ma che fai, tu: ti impicci negli affari degli alti per
professione?”
“Avril ha studiato i curriculum di tutti i profiler che hanno messo piede al
BAU...” commentò Tobias con aria assente
“Uh! Uh! Un momento! Lo sapevate che ha lavorato per due anni con Douglas, il
più grande pioniere nel campo dell'elaborazione di profili criminali? Caspita,
una bella testa il nostro Hudson!”
In quel momento, dei passi sopraggiunsero dal corridoio.
Tobias riconobbe subito la camminata di Tee.
“Non pensiamo sia stato lui” esordì sbrigativamente, agguantando una sedia e
buttandocisi su con malagrazia “Ma abbiamo un indizio per ricostruire la
vittimologia”
L’attenzione di tutti era concentrata sul supervisore.
“Due delle vittime erano in qualche modo legate all’ambiente religioso.
Scommetto che se Avril fa una ricerca, scopre che frequentavano la stessa
parrocchia”
Prima che Tee avesse finito di parlare, la ragazza si era già messa
all’opera.
“Quindi l’S.I. le ha conosciute lì...”
“Non è detto, ma di certo è un luogo dove raccogliere informazioni“
“Resta fuori lo scrittore...non era di Sand Spring...”
“Parrocchia di Saint Jaques, washington square” trillò la voce di Avril
“Ottimo” fece Murphy “Adesso mettiti al lavoro, e procurati i libri di Alex
Zarosky. Devi leggerli entro domani”
“Cosa...?”
“Il modo più rapido per conoscere uno scrittore è leggere i suoi testi...”
disse la sua Tobias.
Tee confermò con un gesto del capo.
“Tu invece vai alla parrocchia di Saint Jaques e fatti un’idea. Parla col
parroco, con i parrocchiani, anche con i mendicanti della domenica, se
necessario. Dobbiamo sapere tutto di queste due donne e di cosa altro avessero
in comune, oltre il frequentare la stessa chiesa. L’S.I. è organizzato,
programma i suoi delitti, mette in posa le vittime: è improbabile che le scelga
per puro caso...”
“P-perché io?”
Tobias era perplesso: di solito non veniva mandato da solo a investigare, non
era un buon parlatore, se si trattava di interagire con gente relativamente
normale.
“Perché...?” Tee si alzò e fronteggiò il ragazzo “Perché hai la faccia più
innocente di tutti noi, e questa cravattina a scacchi...” gli sistemò
paternamente il nodo della cravatta “...ti rende adorabile!” fece una mezza
risata e gli allungò uno schiaffetto sulla guancia “Dì un po’, non vorrai mica
mandare Risa in una chiesa...?”
Hudson squadrò nuovamente la dark e fece una chiara occhiata di disgusto.
“Mervin” fece a quel punto Tee, del tutto inaspettato “Ti affido Rendall.
Tienimelo d’occhio: non è un asso in difesa personale!”
FAN FICTION SCRITTA DA GLENDA E REM: SE CI VOLETE BENE, RECENSITE!
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Capitolo 3 *** Presunto colpevole ***
Dal quaderno dei deliri di Glenda:
Capitolo 3
Presunto colpevole
La casa era composta da poco più di quattro stanze, un bagno la cucina, due
camere da letto e un piccolo atrio adibito a salotto. Alle pareti erano
appese le foto dei figli: due, un maschio e una femmina. In un altro angolo,
invece, sopra una mobile adibito a credenza vi era una piccola candela funebre
posta davanti alla foto che ritraeva una coppia felice: i genitori
evidentemente. La casa era pulita, in ordine. Tee e la detective Harris si
accomodarono sul divano, davanti a loro i figli della prima vittima: Trisha
Chatterly. “So che sarete stanchi di sentirvelo chiedere, ma vogliamo essere
sicuri che la ricostruzione dei fatti che avete già fornito alla detective
Harris sia il più attendibile possibile” cominciò Tee. I due giovani
annuirono. La ragazza stringeva tra le mani un fazzolettino di
cotone. “Noi...io sono tornata a casa per prima, quel giorno avevo un
corso...alla scuola Middleton, mentre Todd...” la ragazza si voltò brevemente
verso il fratello che prese la parola al suo posto. “Io ero di turno
all’officina”. “Sono stata io a trovarla” proseguì Meg, con gli occhi
leggermente arrossati “lei era era…” si interruppe, scoppiando in
singhiozzi. La detective Harris le posò delicatamente una mano sul
braccio. “Fai un respiro profondo “le suggerì la donna. “Lei era lì...” e
indicò un punto della stanza, vicino alla foto col lumino che Tee aveva notato
entrando “legata…e c’era sangue...il sangue era dappertutto...” si interruppe di
nuovo, asciugandosi gli occhi. “Sei stata brava Megan” esclamò Tee
sorridendole incoraggiante “e durante questo periodo avete provato a pensare se
c’era qualcuno che poteva avere qualcosa contro vostra madre? Magari qualcuno
che si era lamentato del suo lavoro...o un vicino qualsiasi cosa”. “Chi
poteva avercela con lei? Era una donna così mite...si occupava di noi e...andava
in chiesa solo questo...e faceva anche del volontariato con gli
anziani”. “Non avete notato nient’altro?” suggerì di nuovo Tee offrendo alla
ragazza un fazzoletto pulito. Lei annuì “...io e Todd ci siamo accorti che
mancavano alcuni oggetti della mamma...poco cosa in realtà, però noi ci eravamo
affezionati...” “Che cosa precisamente?” domandò Tee interessato. “Una
collana d‘oro, due anelli, un paio di orecchini e anche un crocifisso
d‘argento”.
***
La parrocchia di Saint Jaques si affacciava su una piazza inondata da
piccioni e sole. Tobias la trovò bella e si stiracchiò allegramente le braccia,
allungandole verso il cielo. Hudson guardava con curiosità quello strano ragazzo
che a momenti sembrava così cupo e a disagio, e a tratti sembrava perdersi in un
altro mondo e non accorgersi di chi gli stava attorno. Gli avevano detto cose
interessanti di lui: pareva che fosse cresciuto in una casa famiglia e riuscisse
a tenere a bada i peggiori elementi solo con le espressioni del viso. Nel
descriverglielo, Calligh gli aveva spiegato che si metteva in relazione con gli
psicopatici risvegliando il loro lato affettivo, e aveva commentato con poca
delicatezza che il confine che lo separava da loro era estremamente sottile! Del
resto, con il passato che si ritrovava, Hudson riteneva già molto il fatto che
quel ragazzo non fosse impazzito: non c’era proprio ragione di biasimare la sua
stranezza. Chi era da biasimare era semmai Tee Murphy, che si era impuntato per
averlo in squadra, senza avere alcuna certezza che un elemento simile sarebbe
stato in grado di gestire lo stress psicologico a cui quel ruolo lo avrebbe
sottoposto.
Tobias era ancora in mezzo alla piazza con lo sguardo per aria: lo superò,
avviandosi verso la chiesa, ma quando vide che lui non lo seguiva, si voltò
indietro e lo chiamò.
“Vogliamo andare Rendall?”
Il giovane si riscosse e fece un sorriso che lo stupì: da quando era arrivato
non lo aveva mai visto ancora sorridere una volta.
“S-scusa...” disse “stavo...”
Si interruppe. Quello non era Tee.
Ma Hudson tornò indietro di un passo e insisté
“Stavi...?”
“Memorizzando” spiegò allora Tobias “Memorizzando il colore del cielo. E i
suoni di questo posto. Se li associo ad un colore, mi viene più facile mandare a
mente le sensazioni di un luogo. E le sensazioni a volte mi aiutano nelle
indagini...”
“Mi hanno detto che fai profili alla gente partendo dalle voci. E’ così?”
Tobias si strinse nelle spalle
“No, non è così. Dalle voci deduco con una buona approssimazione gli stati
d‘animo momentanei. So dire se un uomo mente, se è spaventato, se nasconde
qualcosa, se si sente a disagio e qaunt’altro. Sebbene dall’impostazione della
voce si possano capire certi aspetti del carattere, la voce è comunque una
variabile. Ci descrive un sentimento, non un profilo. La tua, ad esempio, mi
dice che tu mi stai studiando...”
Mervin alzò le sopracciglia, con aria interrogativa: non aveva intenzione di
smentirlo, solo di saperne di più.
“Tu hai modulato la voce per mostrare curiosità professionale nei miei
confronti. Ma non ti è riuscito bene, e quello che io ho letto non è stato
curiosità professionale ma curiosità psicologica. Tu pensi che analizzando le
mie risposte saprai qualcosa di me che prima non sapevi, perché sei un famoso
profiler e per te queste sono cose da nulla...”
Hudson abbozzò un sorriso d’apprezzamento
“E tu credi di volermi dimostrare che sei in gamba, mi in realtà mi stai
mandando a dire che non si viola il tuo spazio personale senza autorizzazione”
Il ragazzo abbassò gli occhi.
“Tee lo dice spesso” commentò, ma senza assentire o negare.
Hudson non aggiunse altro.
***
“Cosa ne pensi?” domandò la detective Harris quando i due
rimasero soli. “E’ strano...insomma il fatto che non ci siamo segni di
effrazione suggerisce che la signora Chatterly conoscesse la persona che ha
fatto entrare, oppure che questa si sia presentata in modo da ispirarle
fiducia…”. “Era una donna sola, faceva una vita piuttosto ritirata…” osservò
Claire riflettendo ad alta voce. Tee annuì “giusto, non aveva molte relazioni
sociali …ad ogni modo c’è qualcosa che non…” Tee mosse qualche passo nella
stanza, guardandosi intorno, come se avesse dimenticato qualcosa di
importante. “Che cosa…” “Hai notato che questa volta il nostro s.i. ha
portato via alcuni oggetti appartenenti alla vittima?” “Trofei?”buttò lì la
detective Claire. Tee la guardò come se la vedesse davvero per la prima
volta. Claire Harris scosse le spalle “ho solo fatto i compiti a
casa”. Tee sorrise “può darsi, ma quello che non torna è…perché solo qui?
Insomma mi risulta che non ci siano stati altri furti nei successivi omicidi.
Giusto?” Claire Harris annuì. Tee continuò a camminare per il piccolo
salotto, concentrato. Claire Harris non aveva la minima idea di che cosa gli
passasse per la testa. “Lui è entrato da quella porta” fece Tee indicando
l’entrata principale, costituita da una porticina piuttosto stretta che non
avrebbe mostrato particolare resistenza persino al più incapace degli
scassinatori. E’ riuscito a farsi aprire, lei lo ha fatto entrare, magari lo ha
anche invitato ad accomodarsi, non aveva nulla da temere da lui. Lui ha
aspettato, non ha agito in fretta, ha atteso pazientemente che lei si sentisse
completamente a suo agio e non appena si è distratta…” si voltò verso un angolo
del salotto. “Non dev’essere stato molto difficile sopraffare una donna
minuta, come Trisha” aggiunse il detective Harris. “Già” ammise Tee
pensieroso “e molto probabilmente la teneva d’occhio da un po’, conosceva i suoi
orari, sapeva quanto era a casa da sola…e poi…” Tee chiuse brevemente gli occhi
e per un attimo vide la stessa scena che avrebbe continuato a turbare i sogni di
Megan. “Forse prima l’ha stordita, poi ha preso una corda e l’ha legata, ma
la donna non era completamente incosciente, perché lui non voleva che lo
fosse…”Tee fece una breve pausa, guardandosi attorno, poi si mosse vicino al
luogo dove era stata ritrovata Trisha. “Avrà implorato, avrà chiesto di
risparmiarle la vita?” Claire Harris si schiarì la voce. “Avrà chiesto
pietà, perché madre di due figli?” “Agente…” “Oppure gli avrà detto di non
toccare Megan e Todd? Qualsiasi cosa, purché non si avvicinasse ai suoi
figli…” “Agente Murphy…”mormorò Claire Harris, avrebbe voluto fermarlo, ma
c’era qualcosa, qualcosa di affascinante e contemporaneamente oscuro in quello
che stava dicendo. Poi Murphy si fermò e, come se non fosse successo niente
esclamò deciso “ma se aveva soddisfatto tutte le sue fantasie, allora perché i
gioielli?!” Claire Harris scrollò le spalle, leggermente turbata da quel
repentino mutamento. “E se non fosse stato lui a…sottrarli?”buttò lì Tee
passandosi una mano tra i capelli. “Io non…” “E’ stato così astuto da non
lasciare tracce, perché rischiare di farsi scoprire così? Per poche centinaia di
dollari, quando sappiamo benissimo che il motivo che lo spinge ad agire non è la
rapina?”. La detective non seppe cosa rispondere, ma sentì un brivido
passarle lungo la schiena. Alle spalle dell’agente Murphy, il lumino funebre
di Trisha Chatterly si era spento.
***
“Innanzi tutto cominciamo a parlare col parroco. Dobbiamo
scoprire se le due vittime avevano un legame, un qualunque legame. Poi ci faremo
dare un po’ di nomi e cominceremo a fare un’indagine a campione sui
parrocchiani: anche un pettegolezzo può essere d’aiuto. E comunque dobbiamo
chiedere se qualcuno ha notato la presenza di persone estranee, che non avevano
frequentato la parrocchia fino ad allora: un mendicante, un nuovo
arrivato...”
“E poi c’è lo scrittore...Magari qualcuno lo conosceva. La
parrocchia avrà un oratorio: se Zarosky faceva letture animate per la scuola,
molti dei bambini potrebbero aver assistito e, di conseguenza, anche le
famiglie...”
“Quindi l’S.I. potrebbe aver adocchiato la Chatterly e la Summers
in chiesa e lo scrittore alla scuola del...figlio? Nipote? Possibile...Ma ci
servono elementi: gli assassini seriali difficilmente scelgono a caso...”
“Tanto meno coloro che portano avanti un assassinio
rituale...”
“Ma il rituale non ricorre, nel caso della Summers. Che qualcosa
lo abbia interrotto?”
Tobias si fermò un attimo in piedi sulle scale della chiesa
“Interrotto...” rifletté “no, io non credo. Lei aveva...”
“Gli occhi non spaventati? Sei così certo di questa tua ipotesi,
Rendall?”
Il ragazzo ci pensò su un attimo
“Tee si fida delle mie ipotesi...”
Hudson non capì il senso di quella risposta, ma la frequenza con
cui il ragazzo chiamava in ballo il nome del supervisore non era sensata e
neppure sana. Quasi che il nome di Murphy fosse una forma di mantra per
rassicurare se stesso.
Il buio della chiesa ferì i loro occhi, che si ridussero a piccole
fessure.
Nell’aria c’era odore d’incenso, benché, a quanto risultava,
l’ultima funzione fosse stata la sera precedente.
D’un tratto, dal fondo del corridoio, sbucata dalla sacrestia,
schizzò fuori una ragazza: si mosse a passo veloce verso l’uscita, tenendo il
capo basso e le mani raccolte una sull’altra all’altezza del cuore. Passò
accanto a loro, e Tobias avvertì lo stesso odore d’incenso esalarsi dai suoi
capelli: folti e rossi, lunghi oltre le spalle, dolcemente ondulati.
“Signorina...”
Tobias si voltò di novanta gradi e tornò sui suoi passi, sotto lo
sguardo stupito di Hudson
“Aspetti, signorina!”
Lei si bloccò, immobile come una statua di sale: aveva gli occhi
offuscati, cerchiati da occhiaie profonde, ma i suoi lineamenti erano belli e
delicati.
“Cosa vuole?”
Tobias non disse niente, e la guardò fissa per qualche attimo.
“Lei non sta bene. E’ turbata, ha tensione nelle braccia, sente un blocco
all’altezza del diaframma e fa fatica a respirare...” avvicinò le mani alle sue
spalle, ma non le appoggiò per qualche attimo, come se aspettasse un consenso da
parte di lei “adesso viene un attimo all’aperto, si siede, e io le dico come
fare a sentirsi meglio...”
Solo allora, non avendo ricevuto segnali di rifiuto, permise alle sue mani di
posarsi sulle spalle dell’interlocutrice. Lei rilassò le braccia e le lasciò
cadere lungo i fianchi.
Hudson osservava la scena affascinato: Tobias Rendall - all’apparenza un
sociopatico con grossi problemi di relazione - aveva appena stabilito un
contatto intimo con una sconosciuta, che si stava fidando di lui come se lo
conoscesse da sempre.
***
Claire Harris inchiodò la vettura in un vicolo di Amsterdam street,
proprio di fianco al negozio di Harper Goodman. “Lui?” Claire Harris annuì
“può essere solo lui, gli altri…non sono abbastanza abili”. “Ok” fece Tee
infilandosi gli occhiali da sole. “Sicuro che non…” Claire Harris
esitò. “Non preoccuparti, così è più semplice”. Da Harper era un
monolocale stretto e scuro, malamente illuminato solo da alcune lampare alogene
concentrate particolarmente intorno al bancone. Il clik metallico della porta
d’entrata aveva segnalato l’arrivo di un nuovo cliente e Harper Goodman, ex
galeotto sulla cinquantina fece il suo ingresso. “Buongiorno, in che cosa
posso esserle utile?” esordì l’uomo allegramente. “Mah, non saprei” rispose
Tee osservando il banco con i gioielli esposti ”che cosa si regala per farsi
perdonare?”. “Dipende da cosa va perdonato…” Harper Gooodman gli strizzò un
occhio lisciandosi i baffi. “Giusto, bè…” continuò Tee passandosi una mano
tra i capelli “ad esempio…mi vergogno un po’ a dirlo, ma e se si trattasse di un
anniversario dimenticato?” . “Oh, quello le costerà caro!!” esclamò
allegramente Harper Goodman. “Peccato che in questo momento non navighi
esattamente nell’oro, sa…questi sono bellissimi” Tee indicò una coppia di
orecchini esposti in bella vista al centro del bancone “ma credo siano un po’
troppo per le mie tasche…se lei ecco…” Tee lo guardò speranzoso “vede io tengo
molto a Christina, ma…” “Oh” fece Harper Goodman con un gran sorriso
mellifluo. Gli fece segno di aspettare e si diresse verso la porta d’entrata.
Girò il cartello dove comparve la scritta torno subito. Poi, invitò Tee
dietro il bancone. Si trattava di un ripostiglio coperto di povere, pieno di
scatole di cui non era visibile il contenuto. Lì, Harper Goodman gli mostrò
una coppia di orecchini in finto oro, ma molto ben contraffatti. Tee
sorrise. Anche Harper Goodman sorrise. Tee estrasse qualcosa dalla
giacca. Harper Goodman smise di sorridere.
“Ok. Bene così. Adesso
tieni la testa bassa e segui il mio respiro...”
Tobias aveva fatto sedere la donna sui gradini, e poi si era seduto dietro di
lei, un gradino più su, in modo che la sua schiena fosse in contatto col suo
petto.
“Segui il mio respiro...” ripeté con voce calma, inspirando ed espirando
profondamente in modo che la ragazza potesse percepire i movimenti del suo
torace.
Hudson, in piedi, in dietro di un paio di scalini, lo osservava: la sua
formazione da psicologo era evidente, aveva riconosciuto al volo i segni di un
attacco di panico e aveva soccorso la sconosciuta in tempi record, prima che la
crisi si manifestasse. Era sorprendente la confidenza che era riuscito a farsi
concedere, tanto da permettersi una simile vicinanza fisica; lei, infatti, aveva
tutte le caratteristiche della classica ragazza di parrocchia: riservata,
timida, con un uovo prossemico grosso quanto una casa.
“Va meglio?”
Tobias estrasse dalla borsa una bottiglietta d’acqua, e gliela offrì. Lei
rifiutò con un cenno della mano.
“Come ti chiami?”
“Helena”
“Helena, ti farà bene bere qualcosa...”
Si alzò, ed andò a risedersi sul suo stesso gradino, porgendole di nuovo la
bottiglia. La ragazza la prese timidamente e bevve qualche sorso.
“E’ successo qualcosa in chiesa, Helena? Qualcosa che ti ha fatto male?”
“No, no!” scrollò il capo.
Troppa fretta nel negare, pensò Hudson.
“Tranquilla, non ti sto chiedendo di raccontarmi i fatti tuoi. Puoi
tranquillamente rispondere ‘non mi va di parlarne’. Hai appena avuto un
attacco di panico e capire cosa l’ha provocato è semplicemente un passo per
prendere le distanze. Spesso gli attacchi di panico sono immotivati...anzi, no:
hanno cause che non riusciamo a razionalizzare, che giacciono nell’inconscio. Ma
il tuo sembrava proprio una fuga. Quando ti ho vista sbucare nella navata
centrale della chiesa, stavi chiaramente scappando. Da cosa, non ho idea. Da una
persona, da una parola, da un sentimento, da un’immagine di te che non ti è
piaciuta, che so, una reazione inconsueta, o una situazione in cui non avresti
mai voluto vederti...”
La ragazza ora lo guardava con occhi sbarrati.
“Ehi, non voglio che tu me lo dica, ok? Voglio solo che tu adesso
razionalizzi e prenda le distanze, ti guardi dall’esterno e pensi ‘va tutto
bene’...” le rivolse un sorriso rassicurante “fidati di me: ho lavorato come
psicoterapeuta un paio di anni, e so come funzionano queste cose. Ma anche tu lo
sai, vero? Sono sicuro che ti è già successo altre volte...”
E’ intelligente - riflettè Mervin dall’alto delle scale - Ha tirato in
ballo la competenza scientifica per annullare la sua diffidenza.
“Sì” ammise lei “Ma non molto spesso. Mi era già accaduto...qualche anno fa.
Quando ho avuto un...” deglutì “...intervento”
“Ho capito. Quindi era molto tempo che non ti capitava. Forse dovresti
parlarne con un medico...sempre che tu non lo abbia già fatto. Non si muore per
un attacco di panico, ma nella vita pratica è decisamente invalidante...”
“Già...” la ragazza riuscì ad abbozzare un sorriso “E’ vero...”
Il suo viso aveva ripreso un po’ del suo colore: il peggio era passato.
“Incontri spesso gente nuova in chiesa?” chiese d’un tratto Tobias.
La ragazza si sorprese.
“N-no...Perché?”
“Perché sono uno sconosciuto, e tu non mi hai ancora chiesto chi sono e cosa
ci faccio qui...”
“Ah...emh...I-io...”
Lui la anticipò.
“Mi chiamo Tobias Rendall, sono dell’Unità analisi comportamentale
dell’F.B.I: io e il mio collega” fece cenno ad Hudson “stiamo indagando su un
omicida seriale, e crediamo che possa scegliere le sue vittime in questo
ambiente...”
Mervin spalancò gli occhi: Rendall era impazzito? Che gli saltava in testa di
spiattellare così, davanti ad una completa sconosciuta, le loro ipotesi
sull’indagine?
“Q-qui..? N-nella casa di Dio? N-non...”
“Non è possibile? Già. Penso anche io che questo non sia il terreno di caccia
migliore per un serial killer, ma ci sono due donne morte tra cui non riusciamo
a trovare altro legame tranne il fatto che entrambe frequentassero questa
parrocchia. Ma forse siamo semplicemente poco informati su di loro. Tu conoscevi
Trisha Chatterly?”
La ragazza annuì piano
“S-sì...beh...n-no...Non ci avevo mai parlato, ma la vedevo sempre alle
funzioni...Io...passo qui...molto tempo...”
“Davvero? Allora, tu potresti essermi di grande aiuto, Helena. Ascolta: anche
Mary Summers veniva spesso in chiesa, come te?”
“M-mary...?”
Ci fu un attimo di silenzio.
“Mary Summers. La conoscevi?”
Helena esitò, e a Tobias parve un esitazione troppo lunga per essere motivata
da un semplice attimo di smarrimento.
“D-di vista. Noi...a volte...tornavamo a casa insieme...”
“Capisco. Pensi che qualcuno potesse avercela con lei?”
“Con Mary? Oh, no! Lei...é troppo buona!”
Tobias annuì, poi le sorrise amichevole.
“Stai meglio? Te la senti di alzarti?”
Helena gli fece cenno di sì, e il ragazzo si mise in piedi per primo, per
darle una mano a sollevarsi.
“Non trascurare i tuoi attacchi di panico” le disse, porgendole un biglietto
da visita “e se pensassi di rivolgerti a qualcuno, chiamami: conosco degli
ottimi terapeuti qui in zona”
La ragazza prese il biglietto e lo ripose con cura in una tasca della
camicetta.
“Lei è molto gentile, Tobias. Grazie...”
“Ah, finalmente ti sento pronunciare il mio nome!” sorrise lui “Non c’è di
che, Helena. Un dovere e un piacere...”
La accompagnò per alcuni gradini, poi la salutò con un gesto della mano.
Mervin gli fu accanto in pochi istanti.
“SI PUO‘ SAPERE CHE DIAVOLO TI E‘ SALTATO IN MENTE???”
***
Claire harris controllò l’orologio. Dieci minuti. Tee Murphy stava per
perdere la scommessa. Non si era ancora fatta un’idea su di lui. Da una
parte c’era la sua fama, che era giunta anche alle sue orecchie, in parte
comprovata nel corso delle due ore trascorse con lui, dall’altra… Claire
Harris ricontrollò l’orologio “meno quattro, meno tre…”. Poi qualcuno bussò
allo sportello “maledizione!” Fine della scommessa. Tee Murphy aveva
impiegato una decina di minuti e una manciata di secondi per avere il nome di un
uomo implicato nelle indagini. Molto meno di quello che avrebbero impiegato per
farsi dare un mandato di perquisizione. Niente di male, infondo, sennonché
l’agente Murphy l’aveva anche convinta a scommettere sulla riuscita del suo
piano. Tee Murphy però non sembrava soddisfatto. “Cosa c’è? Hai scoperto
chi è stato a rubare i gioielli della signora Chatterly?” Tee annuì
pensieroso, mostrandole parte della refurtiva. Mancava solo il
crocifisso. Tee compose in fretta un numero di telefono. “Pronto Avril?
Puoi inviarmi le foto della casa di Mary Summers?” Pochi istanti dopo il suo
cellulare trillò. L’agente Murphy osservò il contenuto del messaggio: diverse
foto scattate nell’appartamento di Mary Summers “maledizione” borbottò tra
sé. “Qualcosa non va?” tornò alla carica la detective Harris. Murphy parve
accorgersi di lei solo in quel momento “temo che dovremo andare a parlare con
Malcom Denver”.
***
“Le è successo qualcosa, là dentro. Ci sono migliaia di
possibilità che non sia nulla di collegato al nostro caso, ma una donna che esce
da una sacrestia sull’orlo di un attacco di panico non è un fatto da lasciar
passare inosservato. Si va in chiesa perché sia ha bisogno del conforto di
Dio...se questo conforto non funziona - e per l’appunto nel luogo dove si
suppone possa muoversi un S.I. che ha commesso 3 omicidi - ovviamente è il caso
di approfondire”
Hudson era piuttosto nervoso.
“Non lo metto in dubbio, Rendall. Approfondire era la mossa giusta. Ma in
questo approfondimento rientrava anche il dirle su chi stiamo indagando e
perché? Non c’è stata una conferenza stampa, non abbiamo diffuso ipotesi, i
particolari delle indagini non sono stati resi pubblici: come ti sei permesso di
rivelare elementi riservati senza prima consultarti con me?”
Tobias lo guardò con stupore: non aveva previsto quella reazione.
“Lei avvertiva le intenzioni...” spiegò “leggeva i sottotesti. Me ne sono
accorto quando ha percepito il mio interesse per conoscere cosa le fosse
successo e si è chiusa in se stessa. Per ottenere la sua fiducia, ho dovuto
aggiustare il tiro e distogliere veramente me stesso da quell‘interesse.
Ho dovuto essere autentico, perché lei mi vedesse come un possibile
interlocutore. Desidera parlare, ma per qualche ragione non può, ed io sono
sicuro che mi cercherà. Poi, magari, non ci rivelerà nulla di significativo per
il caso...Boh, magari il parroco la molesta, o in sede di confessione ha detto
qualcosa che si è pentita di dire...o viceversa non l’ha detta e si sente in
colpa...che ne so! E’ probabile che da lei avremo solo indizi inutili. Ma mi
richiamerà.”
“Che ti richiami o non ti richiami, Rendall, è un’altra faccenda! Quello che
non va bene è che tu devi concordare le strategie di interrogatorio col tuo
collega, specie quando occupa una posizione superiore alla tua! E’ stato forse
l’agente Murphy a insegnarti a prendere questa iniziative personali?”
Tobias si irrigidì.
“Perché tiri in mezzo l’agente Murphy?”
“Perché fino a prova contraria è il responsabile di questa squadra”
Le mani di Tobias ebbero un lieve tremito e una delle due prese a gingillarsi
con un lembo dei pantaloni: era diventato d’improvviso nervoso, e quel cambio di
umore non sfuggì a Hudson.
“T-tee non è responsabile di me” sentenziò
Tutto d’un tratto, sembrava estremamente a disagio, ed era evidente che stava
cercando di gestire faticosamente quello stato emotivo. Questo non era un bene.
“No, non è responsabile di te” si corresse Mervin “ma diventa responsabile se
ti insegna a compiere azioni che violano i protocolli. Intesi?”
Tobias annuì seccamente.
“I-intesi”
“Adesso andiamo ad interrogare il parroco, ma stavolta fai parlare me. Tu
presterai attenzione al linguaggio non verbale e al tono della voce: mi pare di
capire che sia la tua specialità”
“L-lo è...” ammise il ragazzo, allentando la tensione delle sue mani.
Entrarono nuovamente in chiesa, ma quando furono a pochi passi dall’altare,
Tobias si fermò di nuovo.
“Agente Hudson...” il suo viso si era fatto vagamente inquieto, pensieroso
“La ragazza...Helena...ha usato il presente...”
“Cosa?”
“Ha detto...lei è troppo buona. Come se Mary Summers fosse viva.
Questo significa...”
“Che avevano un legame affettivo...!” esclamò Mervin, come svegliato da un
sonno “Per la miseria! Probabilmente facevano ben più che la strada
insieme!”
Il ragazzo confermò con un cenno della testa.
“Rendall, augurati di aver visto giusto. E‘ assolutamente necessario che lei
ti richiami!”
***
L’abitazione di Malcom era appena fuori città. “Lo fate
spesso?”. Tee si riscosse improvvisamente dai suoi pensieri “scusa?” “Se
lo fate spesso…quello che hai fatto con Goodman… Cos’è un giochino in voga tra
voi cervelloni del B.A.U.?” Tee si concesse una breve risata “potrei proporlo
come incentivo ai fini di una promozione in effetti…hai avuto una bella
idea…”. “Allora è stata un’anteprima?” tornò alla carica l’agente
Harris. Tee scosse la testa “no…però non sei andata molto lontano…era un
gioco che facevo da ragazzo”. “Scommetto che vincevi sempre tu!” esclamò
allegramente Claire Harris. “Nient’affatto. Ho avuto questo privilegio solo
una manciata di volte, però non c’era in palio nessuna promozione. Una volta
convincemmo lo sceriffo locale che l’ultima vincitrice di America Idol aveva
deciso di fare un giro proprio a Carvel, in Arkansas e lui si diede da fare per
preparare l’accoglienza. Non ti dico la sua delusione quando, dal fondo della
Main street vide comparire il trattore di Jeff Sinclair, invece che la limousine
di J.A.”. “Devi...ah ma quello non è...”
Claire Harris inchiodò l’auto e scivolò fuori dall’auto in un batter
d’occhio. Era stata una frazione di secondi, ma era bastato. Come li vide
avvicinarsi Malcom Denver prese il volo. Claire Harris era veloce e ben
allenata. Amava tenersi in forma e ogni giorno correva per un’ora almeno sui
sentieri intorno alla sua città. Tee Murphy frequentava regolarmente la
palestra dell’Accademia e,quando il lavoro glielo consentiva, si concedeva
un’escursione in qualche parco nazionale. Malcom Denver invece era un
ladruncolo che aveva vissuto di espedienti fin dalla più tenera infanzia. Non
c’era di che stupirsi se li aveva già distanziati parecchio, col vantaggio che
aveva fin dall’inizio. Inoltre Malcom non si curava di non travolgere
ambulanti, passanti, e qualunque cosa di presentasse lungo il suo
cammino. Zigzagava con collaudata esperienza tra il traffico cittadino,
mentre le auto impazzivano a suon di clacson e brusche frenate risuonavano
ovunque. “Così si farà ammazzare!” gridò Tee dando voce ai suoi
pensieri. “O farà ammazzare noi” gli fece eco Claire Harris “tu continua a
seguirlo io provo a tagliargli la strada”. Claire Harris deviò per una
stradina laterale. “Malcom vogliamo solo farti qualche domanda!!”gridò Tee
con il poco fiato che gli era rimasto, sperando di farsi udire al di sopra dei
clacson. Svoltarono in un vialetto, Tee saltò due o tre bidoni
dell’immondizia lasciati indietro da Malcom. Intravide in lontananza una
rete, Malcom avrebbe dovuto rallentare, ma eccolo scalare la rete metallica con
l’agilità di un acrobata. Se in quel momento avesse estratto la pistola e
sparato un colpo in aria, forse Malcom si sarebbe spaventato e non sarebbe
successo niente. Poteva farlo… Ma gli era già addosso. Lo prese per le
gambe, cercando di tirarlo giù “vogliamo solo farti qualche domanda!!” gridava
Tee. Finalmente riuscì a staccarlo dalla rete ed entrambi caddero
all’indietro. Malcom gli mollò un calcio allo stomaco e cercò di liberarsi,
ma Tee fu lesto a riafferrarlo. Lo strattonò un po’ cercando di farlo ragionare
“siamo stati da Harper Goodman”. Il giovane si immobilizzò per una frazione
di secondo guardandolo allarmato. “Ora devi dirmi se hai regalato questo a
Mary!”
Tee gli mostrò la foto del crocifisso. Lui lo osservò sbalordito. “Non
–non…”. “Shh tranquillo, so che non sei stato tu a ucciderla…”si lasciò
sfuggire Tee.
Forse era un bene che si trovassero lì da soli. “...devi lasciare che ti
aiuti. Ehi mi stai ascoltando?” gli diede un altro strattone, forte “se vuoi
salvarti devi ascoltarmi , quando ti chiederanno…” “Fermo!!”. Dall’altra
parte della rete Claire Harris puntava la pistola sul sospettato. “Claire...”
fece Tee rivolto alla collega. Malcom Denver approfittò di quella breve
distrazione per spingere di lato l’agente Murphy, colpendolo ai reni, per poi
scavalcarlo. “Malcom No!” “Fermo o sparo!” gridò l’agente Harris. “No!”
dal tono della sua voce Tee aveva capito che di lì a pochi istanti, qualche
secondo forse, Claire Harris avrebbe sparato. Non perse tempo a riflettere,
perché avrebbe dovuto? “Che diavolo! Agente Murphy si sposti! Si sposti, ho
detto!” gridò la detective Harris. La sua traiettoria di tiro era occupata
proprio dall’agente che avrebbe dovuto contribuire all’arresto del
sospettato. Tee si voltò indietro vedendo Malcom che girava l’angolo. Solo
allora si tolse dalla linea di tiro dell’agente Harris e prese a rincorrere
nuovamente il ragazzo. “Agente Murphy!!!” Prima ancora di raggiungere
l’angolo si sentì un forte stridore di freni, qualche breve urlo. Poi
niente. “Malcom!” gridò Tee facendosi largo tra la gente. Ed eccolo lì,
ammanettato e riverso sul cofano di un’autopattuglia, mentre una colonna di fumo
usciva da tre auto ormai definitivamente bloccate all’incrocio.
***
“Sono in questa parrocchia solo da un anno, e non conosco nel
profondo tutti i miei parrocchiani...”
Padre Rayan Tamas era un uomo dall’aspetto pacato, mite, ma gli occhi erano
intelligenti e indagatori. Dal momento in cui si erano seduti di fronte a lui,
aveva continuato ad osservarli con quello sguardo vagamente diffidente, che
incuriosiva Tobias, tanto che non riusciva a smettere di fissarlo.
“Non le ho chiesto se conosce tutti i suoi parrocchiani, padre” fece Hudson
“ma se conosceva le due vittime...”
“...Trisha e Mary: due anime tornate a Dio” lo corresse, con una certa
decisione “non mi piace che sentirle chiamare vittime”
“Trisha e Mary” ripeté Hudson “Dunque, che sa dirci di loro?”
“Trisha era una gran brava donna. La conoscevo bene, ed anche i suoi figli.
Venivano in chiesa ogni domenica, e lei dedicava il suo tempo alla casa di
riposo. Inoltre, insegnava anche catechismo ai bambini...”
“A Mary piacevano i bambini” intervenne Tobias “insegnavano per caso anche
lei?”
“No, Mary no. Ma faceva animazione nell’oratorio. Insieme a Trisha, una
volta, ha animato una festa. Nulla di più. Certo, in parrocchia si vedevano, e
di certo si conoscevano, come si conoscono un po‘ tutti coloro che non si
limitano ad assistere alle funzioni, ma supportano la chiesa con le loro opere.
Però, non credo fossero amiche, o, se lo erano, io non ne sono a conoscenza.
Abitavano distanti, ed avevano interessi diversi. Trisha era in pensione, madre
di famiglia: passava molto del suo tempo in casa o qui. Mary era diversa. Era
un‘anima pura e gentile, ma la maggior parte del suo tempo la dedicava al
fidanzato...un povero ragazzo, una pecora smarrita...Non so come facessero a
stare insieme: non avevano nulla in comune. Ma lei era buona, e non voleva
abbandonarlo al suo destino”
“Cosa sa di lui?” chiese Hudson “perché lo ha chiamato ‘pecora
smarrita’?”
“Beh, aveva avuto brutte esperienze. Precedenti penali, risse...si ubriacava
spesso e...” si interruppe.
“E...?”
“Non posso violare il segreto del confessionale. Lei non lo vorrebbe”
“Ma Mary è morta”
“E’ salita a Dio. Questo è ciò che accade alle persone come lei”
“E’ salita a Dio” fece eco Hudson, un po’ seccato “Dunque, lei sa qualcosa su
Malcom Denver ma non può dirlo”
“No, non posso”
Mervin rifletté: non poteva elaborare un profilo dopo pochi minuti di
conversazione, ma doveva ugualmente trovare una strada per farlo parlare. Denver
era il principale indiziato, ma Tee lo aveva ritenuto innocente...ed anche lui,
tutto sommato, era giunto alla stessa valutazione. Ogni indizio poteva essere
determinante per scagionarlo. O, nella peggiore delle ipotesi, per
condannarlo.
“Lei credeva in ciò che Mary stava facendo? Apprezzava i suoi sforzi di
redimere Malcom, e di non abbandonarlo?”
“Certo che la apprezzavo. Gliel’ho detto: una creatura rara!”
“E non crede che ci sia stata la mano di Dio nel farli incontrare? Non crede
che Mary sia stata un dono di Dio nella vita di Malcom, affinché anche lui
avesse un’opportunità? Dio gli ha dato Mary, perché lui potesse seguirla, e
tornare sulla giusta strada...”
“Lei dice una cosa molto bella...” ammise padre Tamas, sorridendo
debolmente.
“Dunque, se anche lei lo crede...le confiderò una cosa” disse Hudson in tono
grave “noi dell’unità analisi comportamentale abbiamo interrogato Malcom, e
crediamo sia innocente. Forse è vero, aveva eccessi d’ira, ma non al punto di
uccidere. Però...in mancanza di altri indizi, lo incrimineranno...e tutto il
lavoro di Mary verrà vanificato. Quando uscirà dal carcere, se ne uscirà, la sua
vita sarà rovinata...Il carcere non redime gli uomini, lei lo sa bene. Li
incattivisce e li rende aggressivi ed antisociali. Non rivelarmi ciò che sa, è
come...togliere a Malcom tutto ciò che Dio gli aveva donato, mettendo Mary sulla
sua strada...”
L’uomo rimase un istante in silenzio. Poi, d’improvviso, ebbe uno scatto: si
alzò e corse fuori dalla sacrestia, andando a inginocchiarsi ai piedi
dell’altare.
Tobias e Mervin si scambiarono un’occhiata d’intesa: quell’uomo aveva un
problema.
***
“Dimmi perché l’hai fatto? Avanti!” Claire Harris, anche senza una
pistola in mano, sapeva essere molto minacciosa. “E sappi che dovrai essere
molto convincente...” Fece la donna sterzando sulla Main Street. “Dovrò fare
rapporto lo sai?!” continuò la detective fermandosi per lasciar passare una
donna col passeggino. “Ma che ti è saltato in mente? Non so come siate
abituati a Quantico, ma qui...”. “Accosta” esclamò Tee. “Cosa?
Perché...” “Accosta un momento per favore” insisté lui. Sbuffando, Claire
Harris accostò.
“Hai due minuti agente Murphy!”gli intimò.
“Ti fidi di me?” Lei ci pensò su un momento, non che non si fidasse,
però...
”Cosa c’è sotto” Chiese con un accenno di diffidenza nella voce. “Vorrei
che al rientro alla centrale tu lasciassi gestire a me le cose...” “Dovrò
fare rapporto” esclamò automaticamente Claire Harris. “Sì certo...” “Senti
Murphy, parliamoci chiaro” lo interruppe lei “se intendi omettere qualcosa
io...” “Claire, quel ragazzo è innocente!” Non fu tanto la convinzione con
cui rivendicò l’innocenza di Malcom a colpirla, quanto il tono
confidenziale. “Ci sono molte cose che non funzionano, che non rientrano nel
profilo dell’s.i. in Malcom. Ad esempio la refurtiva: cosa se ne fa uno che
prova piacere nel legare le proprie vittime, uccidendole in casa propria e
sparando loro al cuore, cosa se ne fa di qualche stupido monile da rivendere al
mercato nero? Sono persone molto astute quelle di cui parlo Claire, non
farebbero mai qualcosa che potrebbe pregiudicare le loro azioni future...e ti
ricordo che solo in un caso si è verificato un furto. Ma l’hai guardato bene? Ti
sembra un tipo così sveglio da riuscire a studiare un piano così nei particolari
da poter farla franca per così tanto tempo? No...” Tee scosse la testa e
continuò “Malcom non riuscirebbe ad architettare niente di simile,
senza...” Claire Harris alzò una mano per fermarlo. “Cosa vuoi fare?”
domandò chiedendosi quanto in là l’agente Murphy intendesse spingersi per
Malcom. “Bè, non vedo perché, ad esempio, aggravare la sua posizione
raccontando della sua piccola aggressione” esclamò Tee stiracchiandosi con le
braccia dietro la testa. “Tu sei...” il detective Claire Harris si fermò
osservandolo sorridere piuttosto compiaciuto e scosse la testa, sconsolata
“sappi però che ti ritengo responsabile di qualunque cosa quel ragazzo farà...”
minacciò infine, ingranando la prima. Tee Murphy annuì serio.
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Capitolo 4 *** Il profilo dell'S.I. ***
Dal quaderno dei deliri di Glenda:
CAPITOLO 4
Il profilo dell’S.I.
Tee Murphy era preoccupato. Non era solito farsi coinvolgere dai casi, ma
quel ragazzo era solo un povero sbandato, non un assassino, e purtroppo le prove
sembravano inchiodarlo. Non sarebbe stato semplice convincere una giuria - né
tanto meno la polizia locale - del contrario.
“Malcom Denver si drogava” sentenziò Hudson, seduto accanto agli altri al
tavolo principale della sala riunioni “Mary lo aveva scoperto, e lo aveva
convinto ad entrare in un gruppo di supporto. Aveva già rubato una volta, Mary
lo aveva rivelato padre Tamas in confessione”
“Per questo gli servivano i soldi” fece Tee “per la droga...”
“Sì, ma era su DUE delle tre scene del crimine” sentenziò Claire “Non so dove
abbia rubato la prima volta...meglio non saperlo: va a finire che lo ha fatto a
casa dello scrittore!”
“Ha rivenduto la refurtiva...” mormorò Tobias, quasi tra sé.
“E allora?”
Tee venne in soccorso alla detective.
“Un killer seriale non rivende i suoi trofei...”
“E Malcom Denver non risponde al profilo” precisò Risa “Cerchiamo un uomo
metodico, organizzato, che segue un rituale, mette in posa le sue
vittime...”
“Non nel caso di Mary Summers” gli obiettò Claire
“E’ vero. Ma in tal caso, dovremmo supporre che Malcom abbia ucciso solo
la sua fidanzata, e questa teoria è smentita dalla coincidenza dell’arma del
delitto. Non solo, Tobias è certo che Mary fosse serena, nel momento in cui è
morta...e questo contrasta con il fatto che i due avessero avuto una
colluttazione”
Tee annuì al sommario fatto dalla ragazza: se la cavava bene. Si rivolse a
Tobias e Mervin.
“E voi? Cosa avete da riferire?”
“Oltre al fatto che l’agente Rendall diffonde informazioni riservate per
‘guadagnarsi la fiducia’ della gente che interroga?” fece Hudson con sarcasmo
“Beh, il prete non ha detto molto, ma deduco che abbia taciuto qualche elemento”
cambiò tono e divenne tecnico, espositivo “Il nostro dialogo è stato molto
breve, dunque ho potuto notare solo alcuni tratti salienti della sua
personalità. E’ diffidente, poco collaborativo, non ha fiducia nell’autorità.
Penso che abbia visto in noi un ‘di troppo’ che in qualche modo vuole
affiancarsi alle leggi di Dio: ho dovuto scendere nella sua dimensione per avere
il suo rispetto; fino a quel momento mi ha studiato, come per valutare se fossi
degno di essere lì. Sembra pacato e mite, ma il suo modo di parlare e le
espressioni del suo viso mi fanno supporre che sia invece un uomo rissoso,
pronto agli scatti d’ira. I suoi atteggiamenti sono un contenimento che lui
stesso si impone...e forse l’abito che indossa ha avuto, un tempo, la stessa
funzione. E’ distaccato e in rivalità nei confronti del maschile, e
probabilmente molto più aperto verso il femminile. Parlava con me, ma con i
gesti e gli sguardi si rivolgeva a Rendall: lo percepiva più mite, meno
aggressivo, dunque la sua presenza gli era più gradita. Prova sensi di colpa,
profondi e dolorosi: ha un rifiuto della società e cerca di compensare la
solitudine con la fede. Direi che ha qualche tratto dello psicopatico
dissociale”
Tobias era rimasto con la bocca semi aperta e gli occhi fissi su Hudson. Era
pazzesco! Gli aveva fatto il profilo in pochi minuti, notando particolari che
neppure lui, così istintivo e rapido nell’osservare certi atteggiamenti, aveva
colto.
“Uau...” si limitò a sussurrare, ammirato.
Tee lo guardò, e diede in una debole risata.
“Calligh ce li manda bravi, eh?” ammiccò.
L’espressione del ragazzo, che annuì vigorosamente, strappò un sorriso anche
a Hudson.
“E i parrocchiani? Qualche collegamento?”
“Le due donne si conoscevano di vista. Dello scrittore, non sapeva niente. Ma
Rendall ha parlato con una ragazza, e ritiene che abbia qualcosa da
dirci...”
Tobias fece un cenno con il capo
“Una ragazza con un disturbo da panico amplificato da qualcosa di non detto.
Forse un senso di colpa. Conosceva la vittima, ma in modo superficiale. Le ho
lasciato il mio numero, vedrai che mi chiamerà”
Tee non fece commenti: evidentemente non metteva neppure in dubbio che la
strategia del suo giovane collega funzionasse.
“Avril? A che punto sei?”
La ragazza sospirò
“Al sesto libro. Per ora nulla di interessante. Sono solo favolette. Non
potrei...” azzardò “fare pausa e partecipare alle indagini?”
Il supervisore ci pensò su.
“Perché no. Vai con Hudson e Risa: serve un sopralluogo alla scena del
crimine in albergo. Io mi recherò a casa di Mary Summers. Tobias: insieme a
me”
***
Quell’appartamento era triste, pensò Tobias Rendall dopo essersi guardato in
giro, vagando a passi lenti tra le tre stanzette perfettamente ordinate. Erano
tristi quelle mensole linde e ordinate, quei santini sul comodino e sulla
scrivania, quelle tende così innocenti, candide con ricami azzurrini, che
sembravano quelle della casa delle bambole. Ed era triste quel puzzle di ritagli
di giornale, dove si potevano leggere le disgrazie del mondo.
“Era una donna infelice”disse “insoddisfatta di sé e incapace di una
comunicazione profonda. Si sentiva vuota ed incompleta, e cercava di riempire il
vuoto colmandolo di presenze da accudire: era il suo modo di scacciare la
tendenza a chiudersi in se stessa e cadere nella depressione, ma i suoi rapporti
erano a senso unico; dava agli altri ascolto e attenzione, ma non era disposta a
dare se stessa. Probabilmente non ha mai confidato a nessuno un suo problema,
una sua sofferenza. Non credo che amasse veramente Malcom Denver: era innamorata
di ciò che poteva fare per lui, non di lui. Viveva relazioni disfunzionali con
il prossimo, ed in particolare con chi gli era più vicino...”
Claire, che già aveva avuto modo di stupirsi di fronte alle tecniche di Tee,
ascoltava il ragazzo con tale attenzione che sembrava voler fissare il suo
ragionamento nella mente.
“Cos’è una relazione disfunzionale?” chiese, approfittando di una pausa.
“E’ una relazione in cui non si mantengono i ruoli che per convenzione -
intima, o sociale - ci si è assunti” spiegò Tee “e in cui si rischia quindi di
rompere quel patto implicito che rende i rapporti sani: in un rapporto di
amicizia e d‘amore, i ruoli dovrebbero essere paritari. Se uno dei due si
riveste di un ruolo di salvatore, non solo non concede se stesso all’altro, ma
svaluta l’altro, quasi imponendogli un aiuto prima che venga richiesto. Il
messaggio che Mary trasmetteva a Malcom con le sue cure era recepito da lui come
amore, ma in realtà ci si legge un sottinteso: ‘tu non sei in grado di farcela
da solo’...”
“E quando lei lo ha abbandonato, lui ha sentito che non sarebbe stato capace
di andare avanti...“ proseguì Tobias “dunque ha reagito come se gli venisse
sottratta la propria fonte di sopravvivenza. Per un depresso drogato, incastrato
in una relazione di questo tipo, il suo scatto d‘ira era normale. Ma non
l’avrebbe mai uccisa, perché ucciderla corrispondeva all‘auto annientamento...”
“Avete dedotto tutto questo da una...casa?”
Tee sorrise
“Vedi quelle mensole? Cos’hanno di strano?”
Claire ci si avvicinò: erano piene di fotografie, foto normalissime che
ritraevano Mary ora in mezzo ai bambini, ora a ridipingere la facciata di una
casa, ora insieme al fidanzato, ora con padre Tamal ad una vendita di
beneficenza, e così via...Ognuna con una data.
“Ha bisogno di rassicurarsi sulla sua utilità” spiegò Tee “qua dentro non ci
sono foto di famiglia, foto di una vacanza al mare, di una festa...Solo foto di
situazioni in cui la vittima svolgeva l’unica funzione che la faceva sentire
viva. E poi c’è il modo di disporre gli oggetti: quelli che acquistano risalto
non rimandano mai a se stessa. La casa non parla di Mary, ma di ciò che Mary è
in grado di fare per il prossimo...”
“Tranne questo...”
Tobias aveva preso una sedia, e vi era salito per arrivare a prendere un
libro da uno scaffale.
“Questo ci rivela qualcos’altro...”
“Perché proprio quello?” chiese Claire
“Beh, perché era fuori posto” rispose il ragazzo “Questa casa è lo specchio
dell’ordine...tutto ha una collocazione, e anche i libri sono tutti disposti in
ordine di altezza, vedi? Ma questo esce dallo schema...è il primo della fila,
anche se più alto degli altri...probabilmente lo legge spesso, e quindi è
possibile che ci dica qualcosa di lei...”
Lo aprì. Sulla prima pagina c’era una dedica scritta a mano.
A Mary, perché possa calmare la sua anima inquieta.
Tee si affacciò sopra la spalla di Tobias per leggere.
“Forse abbiamo trovato la sola relazione autentica di Mary Summers. Dobbiamo
scoprire chi le ha dato questo libro...è certamente qualcuno che la conosce
meglio di altri...”
Claire era letteralmente incantata.
***
Hudson, Avril e Risa fecero la loro comparsa sulla scena del
crimine. All’entrata dell’ Hotel Libonne una guardia indicò loro di salire
fino al terzo piano, dove avrebbero trovato l’appartamento in cui era stato
compiuto il delitto. I tre agenti presero l’ascensore. Quando le porte si
chiusero davanti a loro, Avril esclamò allegramente “Sapete che il 30% delle
persone che rimangono bloccate in un ascensore riceve soccorsi in media solo
dopo 20 minuti a partire dalla chiamata di allarme?”. Risa le concesse un
sorriso forzato. “E non solo, considerando lo spazio che ci circonda, la
densità d’aria e il fatto che siamo in tre, se dovesse succedere
qualcosa…” “Perché dovrebbe succederci qualcosa adesso?” domandò Risa
leggermente inquieta. “Abbiamo il 50% di possibilità di rimanere bloccati,
stando agli ultimi dati che...”. “Siamo arrivati” tagliò corto Hudson dando
loro le spalle e uscendo per primo dal piccolo abitacolo. “Ah per
fortuna!”esclamò Risa contenta. “La fortuna non esiste...” attaccò subito
Avril, zittita però da un’occhiataccia della collega. “Eccoci!” fece Hudson
fermandosi poco distante dall’appartamento “ora vi pregherei di concentrarvi,
non so come siate abituate con l’agente Murphy, ma io...” “Le assicuro che
sappiamo comportarci a dovere, se è questo che intende” ribatté Risa con una
certa foga. “Tee non ha mai dubitato della nostra professionalità!”
intervenne Avril. Hudson sembrò non aver nemmeno sentito le loro
risposte. Si girò e proseguì dritto per il corridoio. Le due ragazze si
guardarono perplesse. “Bene, chi delle due può riassumermi brevemente...”
Hudson non riuscì a finire la domanda che Avril cominciò ad esporre i
dettagli. “Dunque la vittima è Alex Zarosky, un uomo di 40 anni. Non è di
queste parti. Infatti è originario di Atlanta. Non è sposato, ed è uno
scrittore. Autore di libri per l’infanzia, per la precisione” continuò sicura
“Morto per un colpo alla testa. La finestra presenta segni di scassinamento,
però la scientifica non ha rilevato alcuna impronta”. Hudson annuì
pensieroso, guardandosi intorno con attenzione. “Segni di scassinamento eh?”
mormorò più rivolto a sé stesso che non alle due giovani agenti. “Già” fece
Risa. Mervin ispezionò meglio la stanza. Per essere quella di uno
scrittore per bambini, bisognava ammettere che Alex Zarosky si trattava
piuttosto bene. “Sui documenti riportati dalla polizia locale, hanno scritto
che non sono stati portati via oggetti preziosi” esclamò Risa leggendo il
rapporto. “Il fatto che la finestra sia stata scassinata indica che il signor
Zarovsky non conosceva il suo assassino, presumibilmente” aggiunse Avril “il
rapporto della scientifica indica che l’uomo aveva subito il colpo di un corpo
contundente alla testa...” “Il colpo alla testa potrebbe indicare che l’s.i.,
per qualche ragione non è riuscito a sparargli subito, oppure...” commentò
Hudson dal soggiorno. “E se avesse lottato?” ipotizzò Risa passando in
rassegna diversi oggetti presenti sul comodino di Zarosky. “Zarosky era un
uomo in piena forma fisica, credo che avrebbe lottato, se gliene fosse stato
dato il tempo. No...era proprio questo che l‘S.I. voleva evitare. Lui deve
legarli prima di ucciderli. Lo ha colpito per stordirlo...” “Ma
allora…” “Venite un po’ a vedere” fece Hudson dal piccolo soggiorno
dell’appartamento. Le due giovani agenti si precipitarono da
lui. “Guardatevi intorno. Cosa notate?” Hudson indicò due punti sul
tappeto. “Io non vedo niente…” azzardò Risa. “Non c’è niente che non vi
torna? Guardate bene” le incoraggiò Hudson. In realtà era un modo per metterle
alla prova. Avril e Risa ispezionarono meglio la stanza: un tavolino da thé,
una piccola scrivania sulla sinistra...un vaso di fiori e... “Il quadro!”
gridò Avril elettrizzata. Hudson le scoccò un’occhiata di ghiaccio. “Mi
scusi”. Risa ci mise qualche secondo in più
“Santo cielo!” fece eco alla collega. “Il tavolino in origine era qui”
spiegò Hudson, vedete questi segni lasciati sul tappeto? Proprio sotto questo
quadro. E c’era anche una sedia. Qualcuno li ha spostati, appositamente”. Il
quadro rappresentava uno degli episodi della Bibbia: Santo Stefano
lapidato. “Voglio dire che, stando alle modalità degli altri omicidi,
potremmo supporre che il signor Zarosky sia stato ucciso qui. Come una sorta di
rituale, vedete? Proprio davanti a questo quadro. Qui e solo qui. Non poteva
essere in un altro luogo” proseguì Hudson osservando meglio il
dipinto. “C’era un crocifisso tra la refurtiva presa in casa della
Chatterly...” sussurrò Risa. Hudson annuì: afferrò il telefono e composte il
numero dell’agente Murphy
“Dobbiamo sapere se il crocifisso rubato si trovava appeso alla parete di
fronte alla quale è stata trovata la prima vittima” disse, mentre aspettava che
il collega rispondesse “Questo ci porterebbe ad un profilo”
Risa guardò Avril, con aria interrogativa.
“Giustiziere con motivazione religiosa” fece lei, didascalica
“Chiamiamo così gli psicopatici che credono di agire per un bene superiore,
seguendo la volontà di Dio”
***
Claire Harris li aveva invitati a prendere un caffé, ma Tobias era rimasto
fuori.
Il sole stava tramontando.
Fu raggiunto da Tee poco dopo, mentre se ne stava appoggiato al cruscotto
della macchina.
“Posto troppo piccolo e bianco per te?” gli disse, comparendogli da dietro e
appoggiandogli entrambe le mani sulle spalle “Potevi provare...era solo per
pochi minuti, e c‘ero io con te.”
Le molte fobie di Tobias non erano un mistero: non riusciva a rimanere troppo
tempo con le mani ferme, si ripeteva frasi e poesie ad alta voce quando era
nervoso, aveva reazioni incontrollate se si invadeva il suo spazio fisico senza
il suo consenso...ma la più evidente delle sue ossessioni era quella per
l’assenza di colore. Il bianco asettico, in particolare, lo rendeva ansioso: se
esso poi era associato ad uno spazio stretto, letteralmente lo terrorizzava.
“All’interno non era così come lo vedi. E tu non dovresti mai smettere di
fare un po‘ di terapia comportamentale”
“Non ha mai funzionato” buttò là il ragazzo, senza tono.
“Funziona con il tempo. E con la costanza...”
Tee fece un sorriso paterno.
“Ti ho portato qualcosa...”
Tirò fuori un paio di gelatine alla frutta dalla tasca.
“Non c’erano cioccolatini. Squallido. Ma è un bar da due soldi...”
Tobias sforzò un sorriso, e prese una delle caramelle scartandola con
delicatezza.
“Non è che non ho costanza...è che...Non sono dell’umore giusto...”
Il collega annuì e non chiese niente. Sapeva bene come comportarsi col suo
giovane amico. Non gli si doveva mai chiedere qualcosa di personale, se non era
lui a parlare per primo: recepiva le domande dirette come un’aggressione, e si
bloccava completamente.
“Quella donna...la vittima. E’...è molto triste che abbia vissuto così. E
io...E questo mi fa paura...”
Tee non aveva bisogno di altre spiegazioni: conosceva Tobias da tre anni e
sapeva di che genere fossero le sue relazioni con il prossimo. Non una
confidenza, non una concessione di fiducia, mai uno spiraglio lasciato aperto
sulla sua interiorità...mai una sola, anche minima, richiesta d’aiuto. Tobias
“studiava” gli altri, ma non li capiva e non si lasciava capire.
Paradossalmente, gli S.I. erano forse coloro a cui aveva concesso la maggiore
visuale su se stesso.
“Scusa...” disse, ad un tratto “mi sono deconcentrato” e mise in bocca la
caramella, masticandola con soddisfazione.
“Non male, per un ‘bar da due soldi’” commentò “E senti...di Hudson che mi
dici?”
L’improvviso cambio di discorso non spiazzò Tee, che ci era abituato: quello
era il modo di Tobias di chiudere una finestra perché non voleva che ci si
occupasse più di lui.
“E’ bravo. Perché me lo chiedi?”
“Lo hai mandato con le ragazze. Come mai?”
“Banale strategia di team-building. Voglio che si affiati con la squadra”
“Bugia”
Tobias sfoderò quel sorriso intelligente che Tee amava tanto.
“Ce lo hai mandato perché vuoi che noi lo ‘studiamo’! Prima tu, poi io, ora
Risa e Avril. Ma non ci chiederai cosa ne pensiamo, perché tu non fai il profilo
ai colleghi...”
Tee diede in una mezza risata, e calò la mano sulla testa del ragazzo
scompigliandogli i capelli.
In quel momento l’agente Harris uscì fuori.
“Ehi, ecco dov’eri...lo hai bevuto al volo, quel caffé!”
“Ero curioso” scherzò lui “volevo sentire se Rendall ti aveva fatto il
profilo..!”
La donna sorrise
“Ah, e dunque tu mi avresti fatto il profilo?”
Tobias si strinse nelle spalle
“Direi di sì” fece, in tono assolutamente serafico “Lei è una donna ansiosa
che ha sempre temuto che gli uomini la considerassero inferiore, e questo l’ha
portata a sviluppare un’indole forte e talvolta anche aggressiva”
Tee si rese conto che aveva aperto un discorso che era meglio evitare:
accidenti, possibile che non tenesse mai abbastanza in considerazione quanto il
suo collega sapesse mancare di tatto?
“Ciò la svantaggia sul lavoro” continuò Tobias “rendendola poco precisa:
l’ansia di risolvere un caso può portarla a commettere errori. Tuttavia è
saggia, e sa tornare sui suoi passi. Prova anche insofferenza verso le
formalità, perché sente di essere valutata non per il suo effettivo valore ma
per la divisa che porta: politicamente, direi che è democratica e pacifista, il
che contrasta con le posizioni della maggioranza dei suoi colleghi. Infine, è
visibilmente affascinata dall’agente Murphy!”
La donna spalancò la bocca, visibilmente risentita, e Tee si mise le mani tra
i capelli. Se come profiler Tobias era geniale, come savoir faire era un
disastro su tutta la linea.
Fu allora che il telefono squillò. “Abbiamo nuovi indizi” esordì secco
Hudson, dall’altro capo della cornetta “Zarosky è stato messo in posa davanti a
un quadro con un episodio biblico. Non ci sono dubbi, si tratta di un caso di
delirio di natura religiosa. Crede che Dio sia dalla parte e non si
fermerà...” “Ho capito” esclamò Tee, asciutto, dall’altro capo del telefono
“devo parlare con Malcom”. L’agente Hudson chiuse delicatamente il
telefono. Dall’interno dell’appartamento giungeva il vociare delle
ragazze. Possibile che non riuscissero a comunicare con un tono di voce
appropriato?
***
Le pareti della cella in cui era stato confinato Malcom erano umide e
tetre. Chissà che paura avrà lì dentro, si trovò a pensare l’agente
speciale Murphy,mentre percorreva veloce uno dei corridoi della prigione di
Sand Springs. Non poteva farne a meno, aveva provato subito un’istintiva simpatia per
quel goffo ragazzo invischiato in una faccenda più grande di lui. Sapeva anche
che non avrebbe dovuto provare simili sentimenti. Durante le indagini le
opinioni personali non contavano, contavano solo i fatti e adesso, si sarebbe
confrontato con Malcom. Udì la guardia annunciare il suo arrivo. Dal canto
suo Malcom sedeva sulla brandina all’interno della cella, appoggiato al muro e
con le gambe tirate sù ad appoggiarvi sopra il mento. Malcom alzò appena la
testa a veder entrare Tee. “Come va?” chiese Tee rimanendo in piedi al centro
della sala. Il giovane scrollò le spalle, abbattuto. “Malcom
ascolta...”cominciò l‘agente, poi si interruppe. Non c’era tempo per lunghi
discorsi o parole d’incoraggiamento, che comunque non sarebbero valse a molto
“ci sono novità nelle indagini”. Anche questa parola non riuscì a destare
l’attenzione del giovane. Tee fece qualche passo verso di lui
“Ora hai la possibilità di aiutarmi. Sappiamo che hai rubato quel crocifisso
dall’appartamento della signora Chatterly e sappiamo anche perché l’hai
fatto”. Il giovane si raggomitolò ancora di più su se stesso, se era
possibile. “Devi dirmi una cosa, Malcom, fallo per Mary…”. A quel nome il
ragazzo alzò appena la testa a annuì impercettibilmente. “Bene: ora
concentrati, quando sei stato dalla signora Chatterly, hai notato in che
posizione era il cadavere?” Malcom annuì controvoglia. “Benissimo Malcom”
sussurrò Tee “e dimmi: dove…” “I-io non volevo, solo...” borbottò il
giovane. “Lo so” fece Tee piano. E improvvisamente avvertì il desiderio di
confortare quel giovane, ma non poteva, non in quel momento. Tutto quello che
riuscì a fare fu di posargli una mano sulla spalla e inginocchiarsi alla sua
altezza. Dei passi risuonavano nel corridoio: la guardia stava
tornando. “Malcom, dov’era rivolto lo sguardo della signora
Chatterly?” “Lei...lei” la voce gli tremò, ma fece uno sforzo per proseguire
“ lei era davanti al crocifisso, oddio...” esclamò portandosi le mani al volto e
coprendosi “oddio, non volevo!” Tee si alzò sollevato. “Tornerò Malcom, te
lo prometto” esclamò poco prima di andarsene.
Fan Fiction scritta da Glenda e Rem: se vi piace
lasciateci una recensione di incoraggiamento!!! ^_^
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Capitolo 5 *** 1999 ***
Dal quaderno dei deliri di Glenda:
Ed eccoci al quinto capitolo...siccome fra breve ci aspetta una
trasferta vacanziera, io e Rem avremmo modo di delirarci il gran finale...Ma voi
commentate, se ci volete bene! ^_^
Capitolo 5
1999
C’era un momento del giorno che Mervin odiava, ed era quel momento in cui,
chiuso il bilancio di una giornata, ci si stende a letto aspettando di cadere
nel sonno.
Da tanti anni, ormai, quel momento era troppo lungo, e il passaggio dalla
veglia al riposo si riempiva di fantasmi. I tempi in cui tornava dal lavoro e si
addormentava esausto erano così lontani che non riusciva a ricordare di aver mai
goduto di uno stato simile, ed aveva sperato che tornare in pista avrebbe
risolto il problema almeno un po’. Invece quella sera, pur se era sfinito e col
cervello ingombro di tanti pensieri, di mille nodi da sbrogliare, ancora il
sonno tardava a venire, e alle preoccupazioni presenti si sostituivano angosce
lontane.
Nemmeno ottenere ciò che si era proposto le avrebbe cancellate. La vendetta
non riporta in vita i morti, e non alleggerisce il peso delle colpe.
E allora, perché aveva voluto ricominciare?
Forse sperava solo che il lavoro, quel lavoro che amava e che aveva sempre
assorbito le sue energie fino all’ultima goccia, lo aiutasse a distrarre la
mente. Un disperato divertissemant pascaliano per non consumare nella rabbia e
nei rimpianti quello che rimaneva della sua vita.
Guardò l’orologio: le due di notte.
Niente da fare, non riusciva a chiudere occhio.
Decise di uscire a fare due passi nella hall: magari il portiere aveva voglia
di far due parole, e, comunque, respirare l’aria aperta di solito gli faceva
bene.
“Allora è vero che voi agenti dell’FBI non dormite finché non avete risolto
un caso!”
Esordì un ciarliero giovane coi capelli rossi al bancone della reception.
Hudson fece un mezzo sorriso che sembrava più una smorfia.
“Avevo semplicemente voglia di fumare...” disse.
Gli era d’un tratto passata la voglia di chiacchierare con quel banale
ragazzetto.
“Capisco, capisco” fece lui “il suo collega invece se ne è proprio
andato...”
“Il mio collega...?”
“Sì. Quello giovane, con gli occhiali.E’ uscito quasi un’ora fa...Ma io
glielo avevo detto che non c’era niente da vedere, in giro. I locali migliori
aprono nel week end, e...”
Mervin lo interruppe con un cenno della mano, e prese la via del portone.
Chissà che faceva Rendall in giro in piena notte. Che soffrisse d’insonnia
anche lui? Dopotutto, più di altri ne aveva le ragioni. A momenti, continuava a
chiedersi con quale forza fosse riuscito ad arrivare fino all’unità di analisi
comportamentale, e con quale incoscienza Murphy ce lo avesse lasciato entrare
senza riserve.
Fece un giro dell’isolato, nel piazzale dell’albergo, finché non vide il
collega seduto su una panchina un po’ in disparte, alla luce di un lampione.
“Buongiorno Rendall...emh...Buonanotte” fece un sorriso e sedette vicino a
lui “anche se è chiaro che questa non è una buona notte per te”
“Nemmeno per te...” fece Tobias, con un’alzata di spalle.
“Per me non lo è mai. Ma ho fatto l’abitudine a dormire poche ore”
Il ragazzo fece un cenno con la testa, ma non disse niente. Fu allora che
Hudson notò l’oggetto che teneva appoggiato sulle ginocchia: la custodia di uno
strumento musicale.
Questa era veramente bella! Mervin ne aveva viste di stranezze in vita sua,
ma un collega seduto nel giardino dell’hotel alle due di notte, con uno
strumento in braccio, era una curiosa novità.
“C’è una pistola nascosta, o è quel che penso?”
Tobias ebbe un attimo di dubbio prima di capire a cosa Hudson si riferisse,
poi, con un movimento lento, avvicinò l’oggetto a sé.
“E’ il mio violino”
Ad Hudson scappò un mezzo sorriso ironico.
“Non ho mai visto un agente mettere in valigia un violino, Rendall”
“Mi rilassa. Mi serve per far ordine nelle idee e dormire più tranquillo.
Dovresti trovare un sistema anche tu. Riposare poco fa male“
Mervin comprese facilmente che Tobias non gli stava dicendo la verità.
“Il caso non ti fa prendere sonno?”
“Può darsi...”
Tobias si strinse nella spalle, evasivo.
“Ora mi stai di nuovo dicendo che non devo violare il tuo spazio...”
“E’ vero...”
“Tra colleghi di una squadra, specie come la nostra, dovrebbe esserci una
certa empatia. Con Murphy parli?”
“Sì. Quando...non me lo chiede...”
“Ti fidi di lui?”
“Molto”
Hudson gli posò una mano sulla spalla.
“E’ bene che ti fidi di qualcuno. Ma ricorda di conservare obiettività e
indipendenza di pensiero...”
“L-li conservo” fece Tobias, come turbato da quella affermazione.
“D’accordo, Rendall. D’accordo. Dovresti dormire. Domani c’è molto da
fare”
“Dovresti anche tu...”
Si guardarono per un attimo, e nessuno dei due disse niente.
“Torni...insieme a me?”
Hudson fece cenno di sì. Si avviarono verso l’ingresso senza scambiarsi una
parola.
****
Claire Harris guidava come una pazza. L’albergo era solo a pochi chilometri
dal dipartimento di polizia e le strade erano deserte. In pochi minuti sarebbe
stata là.
Voleva essere lei ad avvertire l’agente Murphy, e voleva farlo di persona:
una telefonata sarebbe stata troppo gelida e lei...
E lei, stava correndo al suo hotel per riferirgli quella brutta notizia
sperando che lui non la prendesse troppo a cuore. Non lo avrebbe fatto con
qualsiasi collega, e il pensiero, per un attimo, le diede fastidio: odiava dover
confermare a quel Rendall che le aveva fatto proprio un bel profilo. Era stato
veramente fastidioso sentirsi spiattellarle in faccia con candore aspetti di sé
che riteneva privati, tanto di più quando si trattava di sentimenti! Quel
ragazzo era proprio maleducato!
Ma era vero, Tee Murphy la affascinava. Ed era vero anche che non c’era mai
stato un collega che lo avesse fatto, perché era abituata a vedere in ogni
collega uomo un rivale.
Tee era diverso dagli altri: non avvertiva sfida, da parte sua, ma solo
collaborazione. Doveva essere la sua preparazione da profiler a farlo apparire
tanto ben disposto nei rapporti interpersonali: magari, nella vita privata, era
un bastardo come tanti altri, eppure era attratta da lui e non poteva farci
niente. Anzi, questa sensazione le piaceva, la faceva sentire più grintosa,
desiderosa di dare il massimo, come se, dopo anni di torpore in quella cittadina
così priva di stimoli, una nuova energia fosse venuta a scuoterla.
Parcheggiò in divieto di sosta davanti al passo carrabile dell’hotel, e si
precipitò dentro mostrando il tesserino al portiere di notte.
“La stanza dell’agente Murphy!” esclamò.
Tee dormiva, quando udì i colpi sulla porta.
Si svegliò di soprassalto.
Aveva il sonno leggero forgiato da un sacco di trasferte, per molti giorni
all’anno, per tanti, tanti anni.
Con un gesto veloce accese la lampada sul tavolino accanto al letto e afferrò
la pistola che teneva nel cassetto, a portata di mano.
Anche questa era un precauzione che aveva adottato da molto tempo.
Si portò vicino alla porta e guardò attraverso lo spioncino: Claire
Harris.
Aprì subito.
“Claire cosa…”
“Tee” cominciò la donna. Era visibilmente turbata per qualcosa che era
successo. Ma non doveva essere un avvenimento legato alle indagini, come la
scoperta di un altro cadavere. Doveva essere qualcosa di più profondo.
Senza accorgersi Tee fece un passo indietro, mentre Claire avanzò nella
stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
“Mi dispiace…” sapeva che, come tutte le brutte notizie, non c’era un modo
indolore per farle ingerire, quindi decise di comunicargli quanto accaduto,
senza ulteriori esitazioni “…ho appena saputo che Malcom si è tolto la
vita…”
Il resto della frase non lo sentì.
Era come stare in un incubo. Le stesse cose si ripetevano sempre,
inesorabili, senza possibilità di cambiamenti.
Non importava quanto lui si sforzasse, inevitabilmente qualcosa andava storto
e allora…
“…una guardia..alle tre, non c’era più nulla da fare…”.
Tee annuì piano. Poi avvertì il freddo della parete alle sue spalle. Non
c’era più alcun posto dove rifugiarsi.
“Ti senti bene?” domandò Claire preoccupata.
“S-sì” mormorò per tutta risposta, ma dalla sua bozza uscì solo un verso
strozzato. Si passò una mano sul mento, leggermente intontito.
“Non preoccuparti” mormorò Tee con un filo di voce “passerà…”
“Io invece mi preoccupo, eccome” ribattè decisa la donna. Non aveva idea che
l’agente Murphy potesse prenderla così. Certo, credeva nell’innocenza di Malcom
ed era riuscito anche a convincerla a passare sopra a molte cose, ma
questo…no.
“C-come come è successo?” focalizzarsi sui dettagli l’avrebbe aiutato,
pensava. Era la sua unica via d’uscita.
“Non credo che vorresti sentirlo” sussurrò Claire abbassando lo sguardo,
involontariamente.
“Dimmelo”.
Non era una richiesta, Claire lo intuì dal tono della voce. Questo non era
l’agente Murphy che aveva appena iniziato a conoscere.
C’era qualcosa…qualcosa che non riusciva ancora ad afferrare.
Preferì assecondarlo, seppur con estrema riluttanza.
“Soffocamento, o almeno, così sembra, ma senti Tee…” fece la donna
avvicinandosi. Non sapeva nemmeno lei cos’avrebbe fatto, ma doveva fare
qualcosa, perché quello che vedeva sul volto dell’uomo che le stava di fronte
non le piaceva. Possibile che avesse preso così a cuore quel ragazzo? Era questo
che facevano i profiler di Quantico?
“Gli avevo detto che sarei tornato…” e la guardò con un’espressione così
addolorata, che le sembrò quasi insostenibile.
Lo abbracciò di slancio.
“Che buon profumo” pensò per un istante Tee, poi le sorrise “Grazie”.
Claire gli sorrise impacciata di rimando.
“Credo che adesso dovremmo muoverci” esclamò vivacemente Tee.
Claire osservò stupita il repentino cambiamento dell’uomo.
****
Avril era di nuovo immersa nella lettura dei libri di Alex Zarowsky.
Risa, invece, aveva passato la mattinata al telefono con la casa editrice
cercando di raccogliere notizie sulla vita dello scrittore, ed ora studiava con
cura i dati che aveva ottenuto, ma era deconcentrata. Non riusciva a smettere di
guardare Tobias con la coda dell’occhio e provava il desiderio di avvicinarsi a
lui e dirgli qualcosa, frenandosi solo al pensiero delle sue strane reazioni
quando si invadeva il suo spazio. Era spaesato e confuso: da quando erano
arrivati alla centrale non aveva fatto che mordersi le nocche della mano o
scarabocchiare nervosamente strani disegni sul suo blocco notes ed era chiaro
che non aveva neppure iniziato a svolgere il lavoro che gli era stato assegnato.
Ma quella non era la sola stranezza che Risa aveva notato quel mattino. Innanzi
tutto, dal momento in cui avevano avuto la notizia della morte di Denver da un
visibilmente turbato agente Murphy, non si era separato un attimo da lui,
seguendolo per ogni angolo dell’ufficio come un’ombra, senza però mai dire una
parola. Secondariamente, aveva risposto in modo brusco ad Hudson solo perché si
era permesso di dire a Tee che non era necessario che lui lo affiancasse
nell’interrogatorio di padre Tamas. Infine, non aveva ancora scartato il suo
cioccolatino quotidiano...
“E questo era l’ultimo...!” sospirò Avril posando sul tavolo l’ennesimo libro
illustrato “Adesso conosco la bibliografia completa del nostro scrittore, dalle
Fiabe per dormire alle Avventure di Jhonny il guastafeste!”
“Beh, e hai notato qualcosa di interessante?” chiese Risa.
“Eccetto il fatto che sono tutte storie di impianto didascalico - quindi
compatibili con un impostazione educativa di tipo religioso - niente di strano.
Del resto, avere una morale è una delle caratteristiche della fiaba
tradizionale, anche se nel tempo questo aspetto è andato perso. Se dovessi dire
che nei suoi testi c’è anche una sola riga che lo collega al nostro caso, dovrei
dire di no. Tuttavia, c’è qualcosa che mi incuriosisce...”
“Davvero? Che cosa?”
“Beh...le date. Tutti i libri sono pubblicati negli ultimi 5 anni. E’ strano
che un uomo cominci a scrivere all’improvviso, a questa età, e prima non abbia
mostrato questa passione in alcun modo. Non c’è niente di lui, prima del 2003:
non un articolo di giornale, una recensione, né alcun elemento che lo colleghi
al mondo della letteratura. Non escludo che possa capitare, tuttavia...”
“Tuttavia è strano che capiti ad una persona che nella vita ha sempre fatto
il rappresentante...” concluse Risa, dati biografici alla mano “Non solo...è
come se...qualcosa non tornasse...”
“Ossia?”
La ragazza mostrò a Avril una cronologia dettagliata della vita di
Zarowsky.
“Guarda...per quanto io abbia scavato nella sua esistenza, non riesco proprio
a trovare cosa abbia fatto negli anni tra il 1999 e il 2002. Un buco di ben 3
anni in cui non ci sono tracce di lui. Non ha lavorato, non ha avuto vita
sociale...insomma, è come se fosse sparito...”
“Esattamente prima di cominciare a scrivere. Che ne pensi, Rendall?”
Il ragazzo non rispose: stava facendo uno strano movimento con le dita, e
sembrava tutto assorto in quel giochetto di destrezza. Avril si alzò e gli
piazzò le mani sulle spalle.
“Rendall? Sei tra noi?”
Come una molla, il ragazzo fece un balzo sulla sedia, e il movimento brusco
fece cadere rovinosamente a terra tutti i fogli che c’erano sulla scrivania.
“V-v-vuoi evitate di disturbarmi così?!?” sbottò, ansimando.
“Non mi pare di averti disturbato” fece lei, calma, e non troppo turbata
dalla reazione “Dopotutto, non stavi facendo niente, ed un parere sarebbe il
minimo indispensabile”
“Non è compito tuo sorvegliare ciò che sto facendo o non facendo!” esclamò
Tobias “è compito di Tee!”
Era palesemente a disagio ed evitava il contatto visivo.
Risa lo guardò con tenerezza. Lo trovava così carino!
“Tobias...” gli chiese con dolcezza “stai bene?”
Fece per avvicinarsi a lui, ma egli si ritrasse, ponendo la barriera delle
proprie mani tra loro.
“Non. mi. toccare.” disse “per. favore.”
Poi infilò la porta, e sparì nel corridoio.
“Che...cos’ha?” mormorò Risa, inquieta.
Avril sospirò.
“E’ Rendall. Se fosse una persona normale, forse non sarebbe il
fenomeno che è, in questo lavoro.”
“Pensi che sia turbato dal suicidio di Denver?”
Lei scrollò il capo.
“Nah! Non è Rendall ad essere rimasto turbato, ma l'agente Murphy. Lui è
così. Si assume sempre la colpa delle cose che vanno storte, anche se lo
nasconde bene. E Rendall...beh...è come..la sua eco: entra in risonanza
con le sue emozioni e ne risente. Ma non cercare di capire che tipo di legame ci
sia tra loro: è troppo difficile.”
****
Non aveva alcuna voglia di parlare di quello che era successo quella
notte. Con nessuno e tantomeno con Hudson. Era ben consapevole di non
avere la sua simpatia. Non che ci tenesse particolarmente. Non era mai
stato dell’idea che, dovendo lavorare insieme, dovessero essere tutti amiconi.
Né aveva la pretesa di piacere a tutti, in particolar modo a un tipo come
Hudson. L’agente Murphy però intuiva che il collega più anziano lo stava
studiando, fin dall’inizio, fin dal primo momento in cui si erano incontrati e
che alla fine, avrebbe esposto le sue opinioni senza mezzi termini. Ma non
era questo che lo preoccupava al momento. Tee riteneva di non essere il tipo
da lasciarsi coinvolgere nei casi, era convinto infatti che un buon profiler
dovesse mantenere sempre un certo grado di distacco e oggettività per far meglio
il suo lavoro. Il caso di quel ragazzo però, di Malcom, aveva risvegliato in
lui spiacevoli ricordi. Forse era stato questo, forse era stato il suo vano e
fallimentare tentativo di tenere Malcom fuori dai guai a causare quello che era
successo. Non riusciva nemmeno a pensarci, anzi non voleva pensarci. Forse
non avrebbe dovuto essere lì in quel momento, non lui, chiunque altro ma non lui
e invece eccolo pronto per un interrogatorio, o qualcosa di molto simile, visto
che padre Tamas non era propriamente tra i sospettati. Se non era tra i
sospettati però, il reverendo Ryan Tamas di sicuro ne sapeva molto di più di
quanto non avesse ammesso a un primo incontro. La loro pista volgeva
chiaramente verso un ambiente religioso. Tee valutò addirittura se non fosse il
caso di far pedinare il sant’uomo, ma declinò immediatamente l’idea. Almeno
per il momento non era il caso di scomodare le alte sfere, per ottenere un
permesso. Con la coda dell’occhio osservò Hudson che guidava composto, come
se nulla potesse turbarlo. L’uomo fermò la macchina davanti alla chiesa e
fece per dire qualcosa. In quel momento Tee aprì la porta e schizzò
fuori. “Agente Murphy!” lo richiamò Hudson “non dovremmo concordare
una...”. Inutile, Tee era entrato dritto in chiesa e questo già gli dava suo
nervi. Era un caso delicato, che avrebbe potuto risolversi in fretta oppure
degenerare, se già non l’aveva fatto. Il suicidio di Malcom Denver, nel
migliore dei casi, avrebbe procurato un’indagine interna e lui...beh, di sicuro
non condivideva l’attaccamento che Murphy aveva dimostrato verso quel giovane,
né tanto meno, i suoi modi. In realtà si stupiva di come la squadra avesse
funzionato per così tanto tempo, senza subire nemmeno un’inchiesta. Non che i
suoi elementi fossero degli incompetenti, a parte la vivacità delle ragazze, non
si poteva accusare nessuno di aperta negligenza se non... Ad ogni modo c’era
soprattutto una cosa che non gli tornava: il legame tra Murphy e Rendall. Ci
sarebbero state tante cose da discutere nell’operato di Murphy, ma di sicuro
quell’aspetto sarebbe stato il più controverso. “E adesso dove diavolo è
finito?” si domandò ad alta voce l’agente Hudson lasciandosi anche lui alle
spalle i battenti della chiesa di St. Jacques. L’interno dell’edificio era
immerso nel silenzio. Mervin Hudson era un uomo abituato alla disciplina. Lo
era stato fin dall’infanzia, cresciuto nella casa di un militare di riserva,
primo di cinque fratelli. Aveva frequentato l’Accademia militare in Virginia
risultando come miglior cadetto della sua annata. Le sue esperienze
all’estero per il governo, spesso in zone molto delicate o sull’orlo del
tracollo politico, gli avevano insegnato a mantenere il sangue freddo. A volte,
l’unico modo per gestire una situazione di crisi era solo la ferrea disciplina,
il rispetto delle regole e degli ordini. Cosa che Tee Murphy, con il suo
comportamento leggero e avventato, tendeva a trascurare. Ma non erano solo
queste le pecche dell’agente Murphy. Con un gran sospiro Hudson si guardò
intorno per capire dove fosse andato a cacciarsi. Decisamente poco
professionale, pensò tra sé e sé Hudson, se in quel momento fosse successo
qualcosa, non conoscendo la posizione del suo partner, lui non avrebbe potuto
intervenire. Ma evidentemente questa era la prassi seguita dall’uomo che
doveva guidare un’intera squadra.
****
Risa si chiedeva dove fosse scappato Tobias. Avrebbe desiderato alzarsi e
andare a cercarlo...ma non lo poteva fare. Lui non le aveva mai concesso la sua
confidenza.
“Senti Avril...L’altro giorno mi hai detto...che i superiori hanno contestato
l’assunzione di Tobias...” esordì, ad un tratto.
“Ah...ho detto questo? No, beh...Non hanno esattamente contestato,
ma...qualcuno ha avuto dei dubbi sulla sua capacità di fare questo
mestiere...”
“Perchè?”
La ragazza fece un’espressione scontata, come se la collega le avesse posto
una domanda del tutto inutile.
“Non gli ho fatto il profilo” fece Risa, seccamente.
“Non si tratta di fargli o no il profilo. Per chi fa questo lavoro, certe
osservazioni sono automatiche. Attieniti a ciò che hai notato. E‘
sufficiente...”
“Beh, ha la fobia del bianco e a volte ha reazione inopportune col prossimo.
E’ solo questo il problema? Lui capisce la gente, e sa trovare strade per
entrare in contatto con loro che nessun altro trova. E’ profondo e geniale. Non
vedo quale altro lavoro potrebbe fare meglio di questo”
“E’ vero. Ma per far parte di un’unità di analisi comportamentale, il primo
requisito che viene richiesto è l’equilibrio psicologico. Sono necessari
chiarezza di pensieri, capacità di controllare emozioni, lucidità in situazioni
che metterebbero in crisi la maggior parte dell’umanità, coordinazione tra la
mente e l’istinto, autocontrollo, auto-consapevolezza. E Rendall...lui non è
niente di questo. E’ la negazione del “profilo” che si richiede ad un
“profiler”. Lui è emozionale, affettivo, nelle situazioni critiche non agisce
col convincimento ma con l’empatia...non padroneggia e non usa le tecniche di
interrogatorio ufficiali, non segue i ragionamenti, ma gli indizi che attinge
dai suoi sensi: udito, vista, tatto...Non ha autocontrollo emotivo: si lascia
coinvolgere, scende nella mente degli S.I e si appropria del loro mondo...ci
vive dentro. Per fare un buon profilo, è necessario “pensare” con la mente
dell’assassino, ma lui non fa questo: lui sente con l’assassino e avverte
cosa lui desidera nell’inconscio più profondo, cosa vuole sentirsi dire, di cosa
ha bisogno...E’una dote, è vero. Ma anche un’arma a doppio taglio difficile da
gestire. Hai visto anche tu Tobias svolgere un interrogatorio, una volta. Ne
esce come...”trasformato”, e fa fatica a tornare quello di sempre. E’ come se
ogni contatto con un S.I. gli imprimesse qualcosa, e questo non è bene. Quando
Tee lo ha voluto con insistenza nella squadra, in molti lo hanno disapprovato.
Solo che Tee Murphy è Tee Murphy: il genio del profiling che non sbaglia un
colpo. Non gli si poteva dire di no. Alla fine, l’ha
avuta vinta, e Tobias, da parte sua, ha dimostrato di valere anche più di
quanto Tee avesse stimato. Ha fatto confessare un pluri-omicida che aveva tenuto
in scacco agenti tra i più esperti nel mestiere, è riuscito a far parlare uno
psicopatico sadico con doppia personalità portandolo a svelare dove teneva
prigioniera la vittima, con il dinamitardo di Boston, ha salvatola vita a otto
ostaggi...per non contare i casi che ha risolto da quando lo conosci. Ma nessuno
può negare che lo abbia fatto in modi discutibili e non
esattamente...professionali”
“Ci è riuscito. Che importa?”
“Importa. I superiori hanno paura che si trovi in situazioni che non riuscirà
a controllare, e che metta a rischio la sua vita e quella dei suoi colleghi. Per
questo hanno chiesto a Tee di fargli una valutazione psicologica. Solo che lui
si è rifiutato”
“E perché? Bastava che dicesse che Tobias è all’altezza di lavorare con
noi”
“Non capisci. Tee non scende a queste bassezze: non fa il profilo ai suoi
colleghi, e men che mai lo farebbe con Rendall, per quanto credo che lui glielo
abbia persino chiesto. Il capo è così. Non vuole imporsi nelle nostre vite. Non
ha letto i fascicoli di nessuno di noi”
“Cosa...?” quella fu una sorpresa. Dunque, Tee Murphy non sapeva niente di
lei? E come faceva a comprenderla come se la conoscesse da sempre? “Ma
dai...”
“Te lo assicuro. Non sa nulla, oltre a ciò che gli raccontiamo. E’ cosa
risaputa. Anche quando deve fare una valutazione di qualcuno, non vuole sapere
niente del soggetto: dice che non vuole essere influenzato. Vuole credere solo a
ciò che la persona gli trasmette. Figurati se lo farebbe con un
collega...soprattutto considerando che il fatto che Tee punta le sue carte
migliori sull’affiatamento del team...”
“Hai molta stima del supervisore...”
“E’ un leader senza cui questa squadra non avrebbe senso di esistere. Ci
capisce, legge le nostre esigenze, ci supporta...ma non vuole andare a scavare
dove non siamo noi a farlo entrare spontaneamente. Per questo Tobias si fida
ciecamente di lui. E Tobias non concede la sua fiducia con facilità”
*****
“Non può che essere qualcun legato alla Chiesa. A questa chiesa” pensò Tee
dirigendosi a lunghe falcate verso i battenti dell’edificio
ecclesiastico. Così indicava il profilo, qualcuno di molto osservante, che
credeva di avere un legame speciale con Dio. E quella era l’unica Chiesa
della città, se c’era stato qualcosa di strano il sacerdote locale doveva averlo
notato. Quante volte l’aveva fatto? Quante volte aveva interrogato qualcuno a
proposito di un crimine, per cercare di carpire più notizie possibili,
facendogli ammettere cose a cui quella persona non aveva mai pensato, che non
aveva mai notato prima. Lavoro. Era sempre stato il lavoro a salvarlo,
anche se era proprio questo che rimproverava a Tobias. La chiesa era aperta,
ma nel vestibolo centrale non c’era nessuno. Chissà se qualcuno pregherà per
lui? Pensò fuggevolmente percorrendo uno dei transetti laterali. Chissà se
qualcuno avrebbe pianto per lui...quel giorno. Dietro l’altare non c’era
traccia di anima viva. Tee si diresse verso la sagrestia. “É permesso?”
domandò muovendo qualche passo all’interno della stanzetta dove venivano stipati
paramenti sacri e altri oggetti per la celebrazione dei riti. Nessuna
risposta. Tee intravide una porta leggermente socchiusa, che dava su un altro
locale. “C’è qualcuno? FBI, sono l’agente Murphy...” . Niente. Con un
brutto presentimento Tee portò una mano alla pistola d’ordinanza. In quel
momento dalla stanza adiacente udì giungere un sommesso bisbigliare, una sorta
di melodica litania. Tee riconobbe subito l’atto di dolore che spesso veniva
imposto come forma di penitenza, dopo la confessione. Si avvicinò alla
porta. Era strano, era come se chi stesse recitando quelle parole non si
soffermasse sul loro significato. Varcò la soglia con circospezione. Al
centro della stanza c’era una persona inginocchiata che gli dava le
spalle. “Reverendo...”. L’uomo però era in una specie di trance, incurante
di quanto gli accadeva intorno. Tee aveva già visto altre persone cadere in
uno stato simile, da ragazzo. A quel tempo si erano trasferiti in una
sperduta località del Montana ai piedi delle montagne. Lì i fedeli della chiesa
locale si trovavano per celebrare cerimonie e riti a lui sconosciuti. Spesso i
predicatori, infervorati dai loro sermoni, cadevano in una specie di estasi
mistica. Tee Murphy osservava quelle manifestazioni affascinato, mentre
Connor, impaurito, si stringeva al suo fianco. Anche suo padre, per un breve
periodo, era stato seguace di un simile credo, un’altra delle sue bizzarre idee
che avrebbero dovuto riportarlo sulla via della redenzione, almeno fino alla
successiva bottiglia di Jack Daniels. “Mi perdoni padre, sono l’agente
Murphy” esclamò Tee ad alta voce. Non aveva voglia di aspettare che il
reverendo Tamas finisse la sua omelia che, per quanto ne poteva sapere lui,
sarebbe potuta andare avanti anche per giorni. L’uomo sussultò
impercettibilmente, si fece il segno della croce e si voltò verso l’agente
Murphy. “Mi dispiace disturbarla a quest’ora...” “Il mattino ha l’oro in
bocca, non l’ha mai sentito?” fece per tutta risposta il reverendo. Tee
decise di non dare importanza a quell’uscita. Non aveva tempo per le
citazioni. “So che ha già ricevuto la visita di alcuni agenti della mia
squadra”. “Sì, ho avuto il piacere di incontrare l’agente Rendall e
Hudson”. Era forse il suo tono troppo mellifluo a infastidirlo? Tee non
avrebbe saputo dirlo. “Ma vorrei farle ancora alcune domande, se non le
dispiace...”continuò l’agente dell’FBI. “C’è stata qualche novità nelle
vostre indagini? É successo qualcosa?” esclamò il reverendo con un certo
sussiego che Tee non mancò di notare. “Niente che…” “Oh capisco
perfettamente, non è di mia competenza essere al corrente di cose simili...non
bisogna peccare d’arroganza”. Tee ne aveva già abbastanza di quell’uomo,
tuttavia doveva porgli alcune domande. “Vorrei sapere se lei ha mai notato
strani comportamenti in qualcuno dei suoi parrocchiani...qualsiasi cosa o se
qualcuno è venuto da lei con qualche problema particolare…” “OH, lei non sa
quante persone si rivolgono a me, perché ritengono che io sia in gradi di
aiutarli ed io, quale ministro di Dio, provo a fare tutto il possibile”. “No
lei non capisce, le sto chiedendo se ha visto qualcuno che improvvisamente ha
cominciato a comportarsi fuori dalla routine, non so a venire tutti giorni, c’è
una persona in particolare di cui…” Di nuovo il reverendo non lo fece finire
“la devozione dei parrocchiani è tutto, è la dimostrazione della loro fede, se
non ci fosse, saremmo perduti”. “E lei crede davvero che basti? Che basti la
fede, come dite voi a muovere le montagne? Cosa mi dice di un ragazzo che ha
perso tutto nonostante…”Tee si morse un labbro, per evitare di proseguire. Stava
andando tutto storto. Il reverendo Tamas lo guardò incuriosito “ stà parlando
di qualcosa in particolare agente Murphy? Perché sa, tutti noi abbiamo i nostri
demoni e la confessione può aiutare a...” “Al diavolo la confessione!!” gridò
Tee “Posso entrare?” la voce volutamente pacata, l’atteggiamento dimesso, di
chi fosse capitato lì per caso, quando in realtà non era affatto così, Mervin
Hudson fece la sua comparsa nella piccola sagrestia. “Buongiorno reverendo”
esclamò Hudson, facendo finta di non notare la tensione che si era accumulata
nella stanzetta e presentando la sua veste più seria e
professionale. Somiglia a un politico, pensò distrattamente Tee. In quel
momento capì molte cose. “Spero di non aver interrotto niente” continuò
Hudson con il suo tono più mellifluo, avvicinandosi ai due. Tee non riuscì a
non cogliere un’occhiata gelida rivolta verso di lui, ma fu questione di un
attimo, ed ecco che Mervin Hudson stringeva la mando di padre Tamas e lo
informava che sì, a loro dispiaceva molto disturbarlo di nuovo, ma le indagini
rendevano necessario un ulteriore approfondimento del colloquio
precedente. Tee nascose un ghigno sardonico e si scostò leggermente.
Quell’uomo ci sapeva fare. In un battito di ciglia aveva rabbonito il prete,
rendendolo molto più collaborativo di quanto stesse facendo lui. “...per
questo motivo vorrei chiederle se conosce una certa Helena, è una sua
parrocchiana o sbaglio?” Tee stava giusto osservando l’esibita austerità di
quel luogo, al di là di un piccolo crocefisso e di un parco inginocchiatoio di
legno, la stanza era completamente vuota. “Oh mi piacerebbe conoscere tutte
le pecorelle che popolano il mio gregge” affermò padre Tamas afflitto “purtroppo
non mi è possibile, come vedete siamo una piccola parrocchia, con risorse
limitate, nonostante la buona volontà della gente di cuore”. “Senta padre”
esclamò Tee voltandosi nuovamente verso l’uomo di chiesa “due delle sue
parrocchiane sono state orrendamente uccise e i delitti evidenziano
un’indiscutibile matrice religiosa, ora lei può dirmi che non conosce tutte le
anime belle della parrocchia di St Jacques, ma…” “Agente Murphy!” Il
richiamo fu inutile. “Agente io non…”balbettò il parroco arretrando di
qualche passo “non capisco...io”. “Vuole sapere come è stata uccisa Mery
Summers? Quella cara ragazza che Dio l’abbia in gloria come direbbe
lei?” “Agente Murphy!” strillò Mervin Hudson. “L’ hanno legata, le hanno
sparato al petto e poi...” “Oh Signore” padre Ryan Tamas si fece velocemente
il segno della croce. “Non contenti..” continuò Tee imperterrito. “Agente
Murphy, basta!” tuonò Hudson. L’eco delle parole di Hudson non si era ancora
spento che il reverendo Tamas cominciò a salmodiare dondolandosi avanti e
indietro con le punte dei piedi. “Padre nostro che sei nei cieli” .
Arrivò persino a inginocchiandosi davanti al piccolo crocifisso di legno
“sia santificato il tuo nome e venga il tuo regno...”. Davanti a quello
spettacolo Tee si fermò. Padre Tamas era completamente assorbito nella sua
preghiera. Mervin Hudson guardava l’agente Murphy come se avesse voluto
incenerirlo, trattenendo a stento la rabbia. Dopo un’ultima occhiata a Tamas,
Tee si voltò e uscì all’aria aperta.
****
“1999...1999...”
Mentre Risa continuava a guardare la porta da cui era appena scappato fuori
Tobias, Avril continuava a spremersi il cervello. Quella data l’aveva appena
vista ma non ricordava dove.
“TROVATO!”
La ragazza in un balzo fu giù dalla sedia e si era precipitata nella sala
vicina, dove avevano archiviato le prove: ne tornò con un libro in mano.
“Cos’è?”
“La via della felicità, di Don Harper” e le mostrò la copertina, dove
campeggiava una croce ai cui piedi stava rannicchiata una figura in ombra
“Trovato in casa di Mary Summers. Rendall sostiene che colui che lo ha regalato
alla vittima avesse con lei un legame speciale...”
“Sì, lo ricordo. Ma cosa c’entra?”
Avril voltò il libro, e lesse il profiletto biografico sul retro.
“Don Harper, nato a Dallas nel 1968, trascorre l’infanzia sulla strada,
conducendo una vita precaria e difficile, finché, dopo l’incontro con la
religione cattolica, non entra in contatto con i frati domenicani, presso i
quali conduce gli studi. Laureato in filosofia, comincia a scrivere le sue prime
opere, dense di profondo senso mistico trasposto in uno stile fiabesco e
accessibile a tutti. Autore di...” Avril cominciò ad elencare una lista di opere
“scrive il suo ultimo libro nel 1999, prima di scomparire
misteriosamente...”
“Per la miseria!”
Avril rispose a quell’esclamazione con uno sguardo furbo e allusivo
“Nati nello stesso anno. L’uno sparisce e l’altro comincia a scrivere. Di uno
si sa poco o nulla prima del 1999. Dell’altro non si sa più nulla dopo il
1999. Vogliamo scommettere che il nostro Don Harper e Alex Zarowsky sono la
stessa persona?”
****
Fuori il cielo era limpido, un bambino sfrecciava veloce sulla sua
bicicletta facendo suonare il campanello. Dall’altra parte del marciapiede
una signora sulla trentina spingeva con calma una carrozzina. La calma però
non sarebbe durata, non poteva durare, là fuori c’era qualcuno... “Agente
Murphy!” il tono perentorio, di chi è abituato a comandare e a farsi rispettare.
Tee si preparò ad affrontare un Mervin Hudson dall’aspetto particolarmente
inferocito. Evidentemente Hudson era riuscito a sopire momentaneamente
l’ansia di contrizione del prete o almeno a convincerlo di posticiparla alla
fine del loro colloquio. In quel momento un grido proruppe dall’interno della
chiesa. Tee e Hudson estrassero le pistole e corsero nella direzione da cui
proveniva l’urlo. Attraversarono nuovamente la navata e rallentarono solo in
prossimità della stanza dove avevano lasciato padre Tamas. Hudson aprì la
porta in silenzio e gli fece segno di entrare. Sulla parete laterale c’era
una scritta rossa “Nessuno può indossare una faccia da mostrare a se stesso e
un'altra da mostrare a tutti gli altri, senza alla fine trovarsi nella
condizione di non capire più quale possa essere la vera”. Il reverendo Tamas
la fissava tremante e visibilmente scosso. “Nathaniel Hawthorne” sussurrò Tee
a fior di labbra.
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Capitolo 6 *** Il dolore del mondo ***
I desideri dei morti
Capitolo 6
Il dolore del mondo
“A cosa pensi che si riferiscano?” domandò Hudson accendendosi una
sigaretta. Si trovavano in auto. Guidava Hudson, come al solito. Tee
fece spallucce. Poteva essere tutto o nulla…che qualcuno cercasse di
intralciare le loro indagini? “Forse il reverendo ha qualcosa da nascondere”
buttò lì Murphy. Hudson non rispose. Per il buon proseguimento delle
indagini si erano dati una tacita tregua. Usavano un tono colloquiale, ma la
tensione era ancora palpabile. Tee sapeva che prima o poi sarebbero giunti
alla resa dei conti…l’unica incognita era il quando. Ripensò all’espressione
assorta di padre Tamas che pregava poco prima che arrivasse e poi al suo volto
nell’accorgersi che qualcuno aveva osato insozzare la sua preziosissima
Chiesa. L’avevano lasciato in compagnia di una fedele parrocchiana
sopraggiunta poco dopo l’avvenimento che aveva sconvolto il prete. Alle sue
urla erano accorsi anche altri parrocchiani, una piccola folla
peraltro. Probabilmente quanto accaduto quel giorno sarebbe diventata la
notizia più discussa dall’intera cittadina. Era sempre così nei piccoli
paesi, si disse Tee. E anche questa era un certezza, così come lo era il
fatto che non si sarebbe più fatto coinvolgere così tanto da quanto successo la
sera prima. Doveva concentrarsi sul caso, solo su quello. Doveva pensare e
anche in fretta o ci sarebbero state altre Mary e Trisha o altri Malcom
Denver.
Davanti alla centrale di polizia, Tobias li aspettava, in piedi,
all’ingresso.
“Novità?” chiese subito Tee, ancora con una mano sul volante
“Novità” fece eco il ragazzo.
Li precedette silenziosamente fino alla sala riunioni, un passo avanti a
loro, come se volesse scortarli in quel breve percorso. Poi aspettò che si
sedessero, e, appena ognuno ebbe preso posto, andò a prendere una sedia e si
sistemò alle spalle del supervisore, un po’ in disparte.
“Dunque, ecco qua un bello scoop!” esordì Risa, alzandosi in piedi e
proiettando sulla parete una slide che schematizzava cronologicamente le
biografie dei due scrittori.
“Come potete vedere” proseguì Avril, mente la collega indicava con una stecca
la data 1999 sulla proiezione “Analizzando le vite della vittima e dell’autore
del testo ritrovato in casa di Mary Summers, si può evincere un dato di fatto:
l’anno in cui sembrano esaurirsi le notizie biografiche sull’uno, è lo stesso
prima del quale si fatica a trovarne dell’altro...”
“Consultando le case editrici per cui lavoravano i rispettivi
scrittori...”
“E svolgendo una ricerca approfondita dei dati anagrafici di entrambi...”
“Siamo giunte ad un‘unica, possibile conclusione: Don Harper e Alex Zarowsky
sono un solo uomo”
“Ovvero, Zarowsky è il nome che Don Harper ha cominciato ad usare dal momento
in cui ha cominciato a pubblicare per la Hastra, la casa editrice di Oklahoma
City. Ma non si tratta di uno pseudonimo, come avevamo pensato all’inizio:
Zarowsky, infatti, è registrato con questa identità anche all’indirizzo di
residenza, mentre di Don Harper non si sa più nulla: ha pagamenti in sospeso dal
1999, nella sua residenza di Dallas sono stati staccati luce, gas e telefono. La
piccola casa editrice per cui lavorava, la York, non esiste più, è fallita due
anni fa: si occupava di teologia, occultismo e filosofia. Ho svolto anche una
perizia calligrafica sulle firme dei due autori: possono certamente appartenere
alla stessa persona”
Hudson ascoltava compiaciuto: gli avevano parlato bene dell’agente Spencer,
era dotata di una cultura vastissima, e, a quanto pare, era esperta anche
nell’analisi della scrittura. Almeno qualcuno, in quella squadra, sembrava avere
la testa completamente sulle spalle.
La ragazza continuò
“Mi sono informata sui parenti di Harper ancora in vita: non era sposato e
non aveva figli, i genitori sono morti in un incidente quando era ancora un
bambino. Ma ha uno fratello, Jhon Harper, che vive a Dallas. Il fatto che non ne
abbia mai denunciato la scomparsa è sospetta, non trovate?”
“Direi proprio che dobbiamo farci una chiacchierata...” fece Tee “Fai
preparare il volo, Avril. Si va a Dallas, domattina. Io e Tobias ci occuperemo
di Jhon Harper; tu rintraccia il titolare della vecchia casa editrice e fissa un
appuntamento con lui. Non solo: procurati tutta la bibliografia di Harper:
dobbiamo leggere quei libri”
Avril annuì
“Già fatto. Sono solo tre testi, ma sono fuori catalogo ed è difficilissimo
reperirli”
“Ragione di più per contattare l’editore”
Si rivolse a Risa
“Tu rimarrai con l’agente Harris. Voglio che indaghiate sul passato di padre
Tamas: voglio sapere tutto di lui. Ha ricevuto una minaccia, oggi. Devo sapere
se ha dei nemici, degli scheletri nell’armadio, qualunque cosa che possa
fornirci una pista. Qualcosa da aggiungere?”
La domanda era rivolta a Hudson.
No, non aveva nulla da aggiungere. Tee pareva aver ripreso tutta la sua
lucidità, e teneva in mano la situazione con quel suo atteggiamento volitivo e
sicuro di sé.
Ma qualcosa non andava.
La disinvoltura, la grinta...erano solo apparenti. Lo nascondeva bene, ma
quel giorno Tee Murphy era emotivamente instabile. E Rendall...così
strano...così ostentatamente silenzioso, che sedeva dietro di lui come un’ombra
e sembrava quasi voler assorbire quel disagio, come se la sua presenza-assenza
potesse fargli contenitore...
Ecco, ecco cosa non andava in quella squadra.
Tutto ruotava intorno a Tee Murphy, e Tee Murphy si era circondato di
individui di grande intelligenza emotiva, ma non ancora in possesso degli
strumenti necessari a mantenere quel distacco e quell’autocontrollo che un buon
profiler deve avere.
“Se tutto vi è chiaro, facciamo uno stacco. Lavorate al caso
ininterrottamente dall’alba: avete tutti bisogno di una cena tranquilla e di
riposo”
***
Era appoggiato allo stipite della finestra, lievemente inclinato, con le mani
in tasca. Guardava fuori. Non avevano preso alloggio in centro. Forse
non c’era nemmeno un hotel in centro, per quanto si potesse definire tale il
cuore di quella cittadina dell’Oklahoma. Tee Murphy era intento ad allungare
lo sguardo sul paesaggio circostante, al di là dei tetti spioventi delle case
coi loro balconcini ricoperti di fiori e ancora oltre, là dove si accennava
qualche macchia di verde, la campagna. Aveva sempre trovato rilassante
osservare il panorama offerto dalla natura, o da quello che ne restava. Così
come lo incantava rimanere ore a guardare la varia umanità che si avvicendava
sotto il suo sguardo, al riparo dietro una finestra. Gli capitava di farlo
spesso, da ragazzino; lo trovava divertente, come un gioco che poteva anche non
finire mai. Suo padre, quando c’era, lo trovava strano Il suo appartamento
a Washington si trovava all’incrocio di due strade. Non era una
caso. Qualche volta, la sera, gli capitava di sostare sul balcone, godendosi
il momento in cui la città si moltiplicava in mille luci colorate e le persone
schizzavano ovunque, dirette verso una meta che solo loro conoscevano. E
anche adesso era lì intento a volgere il suo sguardo verso qualcosa che non
poteva afferrare. Non si sentiva come quando era successo a Connor. No,
non era quella sensazione. Era diverso. Come sempre, come ogni cosa. Era
diverso. Forse aveva ragione Claire. Forse, semplicemente, l’aveva presa
troppo sul personale. E questo non era mai un bene. Aveva educatamente
declinato l’invito a cena col resto della squadra col pretesto delle scartoffie
da compilare. Loro avevano capito e non avevano detto niente. Non era da
lui comportarsi così, solo aveva bisogno di tempo per riflettere, anche se non
aveva ancora ben chiaro su cosa esattamente. Non era il caso a preoccuparlo,
cioè anche quello, ma non solo. Si rendeva conto che c’era altro, qualcosa
che veniva da lontano e forse nemmeno riguardava quanto accaduto a Sand Spring,
qualcosa che non avrebbe mai ammesso. Si stiracchiò un po’ le braccia,
rimanere in quella posizione gli aveva fatto formicolare il braccio. Si voltò
verso il tavolino al centro della stanza dove aveva appoggiato gli incartamenti
del lavoro. Alle sue spalle vi era appeso un quadro a olio piuttosto
dozzinale di una fattoria immersa nella campagna. Tipico paesaggio del luogo,
gli hotel dovevano essere pieni di quel tipo di oggettistica. In quel momento
bussarono alla porta. Aprì. “C-ciao!” “Tobias...” Il ragazzo si fece
largo nella camera, senza aspettare che lui lo invitasse ad accomodarsi, ed andò
a posare sul tavolino della televisione una bottiglia di Wiskey. Tee riconobbe
l’etichetta: J & B la sua preferita. “Hai mai bevuto in servizio?”
domandò, tirando fuori da un sacchetto di plastica due bicchieri e il cavatappi
(aveva pensato proprio a tutto!) “I-io...ho assunto psicofarmaci in servizio.
Più...di una volta. E tu me lo hai lasciato fare...“ Era strano quella sera,
Tobias. Era strano tutte le volte che l’emotività era più forte di lui: come
quando lo aveva invitato per la prima volta a entrare nella sua strana casa
piena di colori, come quando si era presentato alla sua scrivania per rassegnare
le dimissioni, e lui le aveva stracciate sotto i suoi occhi. Era strano tutte
le volte che si metteva in gioco: tutte le volte che abbassava le difese per
permettere a lui - a lui soltanto - di entrare nel suo mondo. “Un giorno mi
hai detto che il wiskey per te è un modo per staccare la testa, ricordi?” gli
porse uno dei due bicchieri “Io credo...che a volte siamo troppo deboli di
fronte alle cose. Lo siamo per natura, per condizioni, o per eventi che ci sono
capitati nella vita. Non è giusto doverci imporre di essere forti a tutti i
costi. Bisogna anche poter accettare di essere tristi...accettare che va bene
così...che...non ci si può fare niente...e poterlo dire...e dirlo
forte...” Il bicchiere era sempre sospeso a mezz’aria, e tremava lievemente
nella sua mano “...se vuoi...puoi dirlo a me...forte quanto vuoi. E se non
vuoi...puoi bere questa bottiglia...Non so se serva a star meglio. Ma questa
notte sarà passata, e qui ci sarò io...” Tee non riuscì a reprimere un breve
sorriso. J & B per tuttì, pensò distrattamente, passandosi una mano sulla
nuca. Poteva aspettarsi di meglio di un buon whiskey e un amico con cui
trascorrere la serata? “Vedo che sei organizzato” esclamò accennando al
bicchiere nella mano tremante del giovane. Probabilmente ha deciso questa cosa
tutta d’un colpo, pensò Tee invitando Tobias ad accomodarsi sulla sedia di
fronte al tavolo. Poi prese posto anche lui afferrando la bottiglia e
versando il liquido caldo nei rispettivi bicchieri. Tacque per un po’
osservando le increspature del liquore attraverso il vetro trasparente, poi
guardò di nuovo Tobias ed esclamò “ e per rispondere alla tua domanda, no, non
ho mai bevuto in servizio...questa potrebbe essere la prima volta, ma non
diciamolo ad Hudson, ok?”. Dopo di che, con un breve schiocco del bicchiere
contro quello dell’agente Rendall, diede una lunga sorsata.
Sì, decisamente era contento che Tobias fosse lì con lui, whiskey o non
whiskey. Non era nella sua natura, crogiolarsi troppo a lungo in quello stato
d’animo. Dopotutto non era il solo responsabile di quello che era successo a
Malcom. Posò il bicchiere con cautela
“ti ringrazio sai” cominciò a dire “prima di adesso nessuno aveva cercato
di..uhm consolarmi con una bottiglia di whiskey. Hai avuto proprio una bella
idea” fece una breve pausa “sono sicuro che...”
Si bloccò all’istante vedendo Tobias vuotare il bicchiere di un fiato e
diventare più o meno del colore di un pomodoro maturo. Istintivamente si alzò
con un balzo, senza sapere bene nemmeno lui cosa fare in quel caso.
Il collega tossì più volte, strizzò gli occhi che erano diventati tutti
lucidi, e rise:
“Scusa!” esclamò “Non ho mai bevuto prima...tranne lo spumante a
capodanno!”
Tee sollevò le sopracciglia: effettivamente, già diverse volte Tobias aveva
declinato l’invito ad un brindisi e si era accontentato di una delle sue tisane,
che - diceva - lo rilassavano. Avrebbe dovuto pensarci.
“E come mai hai deciso di darti al tuo primo wiskey proprio in servizio, e in
un postaccio come questo? Avresti potuto almeno approfittare di un’occasione più
importante!”
Tobias sorrise, versando il secondo giro nel bicchiere di Tee.
“Perché volevo farti ridere” disse, con una naturalezza disarmante. Tee lo
fissò per un momento interdetto e poi scoppiò in una sonora risata. Almeno
era riuscito nel suo intento: questo era sicuro! Quando si fu ripreso, sempre
col sorriso sulle labbra esclamò
“Oh Tobias…” ebbe un altro eccesso di risa “...sei davvero incredibile!” e
nel dirlo battè forte con la mano sul tavolo, un gesto che aveva visto fare
tante volte ai banconi dei pub di origine irlandese...un gesto che ormai gli
veniva abituale.
“Incredibile...” fece eco Tobias “...ma esistono cose incredibili? La sola
cosa davvero incredibile è pensare che si possano trovare cose incredibili. Gli
uomini, quando li analizzi troppo, sono banali. Anche nelle crudeltà. Il nostro
S.I...è solo una delle tante schegge impazzite che ci camminano intorno. La
pazzia è la cosa più banale che esista...”
Buttò giù un altro bicchiere, pieno fino all’orlo, stavolta con maggior
disinvoltura.
“Mi dispiace” disse, d’un tratto “Mi dispiace per Malcom. No, scusa. Non sono
le parole giuste. Mi dispiace per l’eco che questo fatto ha avuto in te, e mi
dispiace anche per quello che ha avuto in me, perché in realtà a me non
interessa, davvero, per me è solo uno sconosciuto come un altro, ma quando sento
che tu soffri per il dolore del mondo, io non riesco a non sentirlo
gridare...”
“Il dolore del mondo...?”
“Sì. Il dolore del mondo, che, quando non è mio, mi passerebbe accanto
inosservato se non avesse una risonanza dentro di te. Tu non sei un poliziotto
come gli altri, che riesce a stare distante, ad adattarsi al fatto di svolgere
un lavoro. Tu sei presente al dolore del mondo. No, anzi. Tu esisti per
il dolore del mondo. E’ come se tutto il dolore del mondo facesse eco in te,
e tu lo lasciassi risuonare finché non defluisce, risuonando sempre più
piano...“
Tobias buttò giù il terzo bicchiere.
Sentiva di non essere molto lucido. Ma andava bene. Andava bene così.
“Una volta, ti ricordi, mi hai mostrato la medaglietta che porti al collo:
San Giuda, patrono delle cause perse. ‘Per ricordarmi che le nostre non lo sono’
hai detto. Ma non è così. A te importavano proprio le cause perse. Ogni
causa persa, ogni sofferenza abbandonata per strada: tu gli dai un posto, ed è
sempre il posto giusto, perché tu non sei solo presente al dolore del mondo, ma
era anche capace di gestirlo senza farti sopraffare“
La testa girava intorno alle pareti della stanza. Le pareti della stanza si
chiudevano su di lui.
“Sei strano...” cantilenò, stendendosi sul letto, con le braccia allargate e
gli occhi annebbiati “Sei strano...! Perché sei venuto qui? Perché hai deciso di
lavorare nell’FBI...? Tu non hai la faccia da FBI. Potevi fare mille cose: il
medico, il missionario, l’insegnante, il difensore della gente che
soffre...Perché proprio l’FBI?”
Perché proprio l‘FBI.
Quella era una bella domanda. In realtà, se ci pensava bene, non c'era
nient'altro che avrebbe voluto fare o desiderato di fare. Certo, quando aveva
otto anni aveva sognato di fare il pompiere, ma una volta cresciuto... “Sai”
cominciò Tee “quand'ero all'accademia ci facevano spesso questa domanda, i
superiori...e la risposta invariabile era...” si prese un attimo di pausa e poi
con un finto tono baldanzoso esclamò “per servire e proteggere...!
Già...” Bevve un sorso, poi proseguì
“in realtà, dopo tutto questo tempo non so più...” si interruppe , come per
sforzarsi di ricordare qualcosa, inutilmente “..buffo sai, ora che me lo chiedi,
dopo tanti anni in indagini e casi, non ti saprei dare una risposta
....” Osservo per in momento Tobias che combatteva contro i fumi dell'alcol
“forse sono io che non sarei più in grado di fare altro, tu sei giovane...”
gli diede ancora un'occhiata, non ben sicuro che lo stesse seguendo “forse,
dopotutto non lo faccio per qualche nobile scopo, ma solo per me” terminò con un
lungo sospiro.
“Non, non per te...“
La voce di Tobias era lenta, distante
“...tu ti prendi cura...tu hai cura di...” chiuse gli occhi, ci si appoggiò
sopra le mani a coppa, come per proteggersi dalla luce “...Ti ricordi quella
notte? Tu mi hai guardato e hai visto la parte di dolore del mondo che c‘era in
me...e non te ne sei più andato. Ma sei strano. Sei strano...”
Anche quella notte era così annebbiato, ma non era stato per colpa del
wiskey.
Quella notte, era stata l’angoscia che si portava dentro da tutta la vita a
avvolgergli il cervello. E lui, invece di indagare, invece di fargli domande,
gli aveva confidato la propria, e allora aveva saputo che Tee Murphy - il
supervisore che sapeva prendere tutti per il lato giusto, e che sapeva trovare
il lato giusto di tutte le situazioni - da un certo momento in poi della propria
vita, aveva portato con sé la morte come un bagaglio. Un bagaglio da cui
aveva scelto di non separarsi, e che gli aveva aperto gli occhi sul
dolore del mondo.
“...Tu soffri per ciò di cui non puoi prenderti cura, ed io mi ubriaco
insieme a te perché non ti ho fatto il profilo, e senza farti il profilo non
riesco a starti vicino...“
Tobias aveva gli occhi offuscati: sfumato come una dissolvenza, guardava Tee
sorridere.
“...io sono bravo a fare i profili. Perché tutti siamo pazzi. E la pazzia è
banale. Ma tu forse non sei pazzo. Per quello sei strano. E non vuoi che ti
faccia il profilo e quindi io...” sollevò una mano e la mosse su e giù, in un
gesto di noncuranza “...non lo so. Ho bevuto troppo, Tee. Ti voglio bene.”
Si girò su un lato e nascose la faccia tra l’infossatura dei due cucini.
E tutto ad un tratto Tee pensò che forse gli avevano assegnato una camera
doppia immaginando che potesse cercare compagnia, e lui si ritrovava lì come un
rimbambito a guardare il suo collega crollare al terzo bicchiere.
Forse era così, forse era “strano” come sosteneva Tobias, posto che le parole
di un ubriaco fossero attendibili. Ad ogni modo su una cosa si
sbagliava. Quella notte l'aveva aiutato perchè...ma ci doveva essere una
spiegazione per tutto, in fondo? “Hai ragione, sono strano. Ora dormi”
sussurrò piano, poi si alzò, prese una coperta dall'armadio e gliela posò sulle
spalle.
****
Tobias sedeva sul sedile del Jet, massaggiandosi le tempie.
Avril si accomodò accanto a lui.
“Anche stanotte non hai dormito” constatò. Nella squadra, tutti
conoscevano la difficoltà dell’agente Rendall ad adattarsi alle stanze
d’albergo, se non erano fatte come diceva lui. Di solito, si attivava per avere
una camera con la carta da parati ai muri: gli bastava per riposare tranquillo.
Ma se le pareti erano spoglie, specie se imbiancate di fresco, passava
regolarmente le notti insonni.
“Ho dormito” la rassicurò lui “Ho solo mal di testa”
La sbronza della sera prima pesava sulla sua fronte come il
piombo. Ed era pensieroso. Perché Tee non era ancora arrivato? Quando si era
svegliato nella sua stanza, quel mattino, non lo aveva trovato: aveva creduto
che avesse preceduto tutti, come faceva quasi sempre. Invece non c’era.
“Ha il telefono spento” Hudson era innervosito: avrebbero dovuto partire già
da mezz’ora “Dove diavolo si è cacciato? Non è responsabile che un supervisore
non sia reperibile...!”
“Vedo che lei non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che possa
essergli capitato qualcosa” fece Avril, seccamente. Il suo intento era solo
quello di provocare, ma le sue parole fecero impallidire Tobias.
“Chiamo l’agente Harris!” esclamò, saltando in piedi e cercando in fretta il
numero. Aveva visibilmente cambiato espressione “e
dai...rispondi...rispondi...”
Mervin sbuffò in modo sonoro.
“E’ sempre così nevrotico?”
Si sentiva davvero a disagio di fronte alle stranezze di quella improbabile
squadra.
“Solo quando non c’è Tee...” spiegò Avril.
“Quando non c’è Tee...” fece eco Hudson, atono, sprofondando, rassegnato, sul
sedile “C’è almeno un agente, qui dentro, dotato di autonomia in assenza di
supervisore?”
Avril stava per ribattere, quando la voce di Tobias la fermò.
“Agente Harris! Sono Rendall! Lei per caso...” intaccò “...l’agente Murphy è
lì? Dobbiamo partire per Dallas. Lo ha visto?”
Gli occhi dei colleghi erano rivolti a lui, mente attendeva la risposta.
“Ah...Sì...”
Annuì e il suo viso si rilassò.
“Ho capito. Stamattina...” una lunga pausa “Lei non pensa? Io credo proprio
di sì, invece...”
Attaccò.
“Allora?”
“Allora vado”
Avril sollevò un sopracciglio. Hudson li incurvò entrambi.
“Vai dove, Rendall?”
“A prendere Tee” disse il giovane agente con tranquillità “C’è stata la
sepoltura di Malcom Denver, stamattina. Lo ha saputo poco fa...”
“E lui...” Mervin stentava a credere a quello che aveva appena sentito “E LUI
SE NE VA AL FUNERALE DELLE VITTIME DURANTE IL SERVIZIO?”
Ma Tobias stava già scendendo la scaletta e non rispose.
*****
L’officiante aveva terminato la breve cerimonia funebre che aveva
accompagnato la sepoltura di Malcom.
Ad assistere al rito non c’era nessuno all’infuori di Tee, dell’uomo che
stava finendo di leggere qualcosa dal suo libricino e dell’addetto del
cimitero.
L’agente Murphy non si aspettava che sopraggiungesse nessun altro e forse era
meglio così.
Non avrebbe saputo come dire ai genitori di quel ragazzo che il loro figlio
si era suicidato mentre era sotto la sua custodia.
Già sarebbe stato abbastanza duro dir loro che era morto…
Non che fosse un novellino in questo genere di cose. Di brutte notizie ne
aveva date e tante anche, forse persino peggiori di questa, ma restava il fatto
che si sentiva responsabile.
E nessuno sarebbe riuscito a fargli credere il contrario.
Con un breve cenno del capo l’uomo che poco prima stava parlando lo lasciò ai
suoi pensieri.
Se non altro almeno quello era un posto tranquillo.
“Starai bene qui” mormorò con un filo di voce.
In quel momento sentì sopraggiungere qualcuno.
Tee sorrise. Era Tobias.
Doveva aspettarselo.
Aspettò una sua parola, una domanda, ma lui non disse niente e si avvicinò
alla fossa dove era stata da poco calata la bara. Solo allora Tee si accorse che
aveva la custodia del violino con sè.
Tirò fuori con lentezza il suo strumento e cominciò a suonare.
Una melodia limpida, delicata, triste.
Bellissima.
Chiuse gli occhi per assaporare quelle note.
E a quel punto arrivarono.
Non aveva pianto al funerale di Connor.
Lo shock e il dolore per la sua perdita si erano tramutati subito nei
dettagli per la cerimonia, negli amici che venivano a portargli conforto e poi
di nuovo nel lavoro. Questo l’aveva tenuto in piedi, più o meno.
Pensava che se fosse riuscito a dimenticare, non avrebbe più fatto così
male.
E invece adesso piangeva e non c’era niente che potesse impedirglielo. Ma
non aveva voglia di andarsene, anche se sapeva che presto avrebbe dovuto
farlo.
C’erano indagini da svolgere, luoghi dove andare, gente da interrogare...il
suo lavoro.
Quello che l’aveva tenuto lontano da casa.
Il pretesto che aveva usato quando le cose avevano cominciato a mettersi
davvero male.
Appena la melodia cessò, trasse un profondo sospiro.
“Avevo un fratello, forse te ne ho già parlato...” lasciò in sospeso quella
breve affermazione “Malcom mi ricordava un po’ lui”.
Scrollò le spalle “credevo, insomma, di aver superato la cosa” si passò una
mano sulla nuca velocemente, un po’ imbarazzato “e invece eccomi qui, sulla
tomba di un ragazzo morto perché...non sono stato abbastanza bravo”.
Alzò una mano per fermare qualsiasi protesta di Tobias “no, non dire niente,
è così”.
“Sai, non...non credevo che mi sarei trovato di nuovo in una situazione
simile. A dover seppellire un ragazzo così giovane...” si fermò indeciso se
continuare o meno.
Cominciava a sollevarsi una leggere brezzolina.
Tacque a lungo, ma Tobias non chiese nulla.
“Vuoi sapere cosa c’entra Connor con tutto questo?” domandò ad un tratto,
velocemente, voltandosi verso di lui “vuoi ascoltarlo?” e nella sua voce e nel
suo sguardo c’era una muta richiesta che voleva solo essere esaudita.
E prima ancora di rendersene conto stava già parlando “Vivevamo vicino a
Pasadena, almeno per un po’...non ci fermavamo mai in un posto preciso troppo a
lungo, cioè lui non riusciva a tenere un lavoro troppo a lungo...mio padre” per
un momento si guardò le mani, poi riprese “ogni tanto se ne andava. Scompariva
per giorni, così, senza una parola. Allora Connor veniva a svegliarmi tutto
impaurito...io gli dicevo che non era successo niente, che sarebbe andato tutto
bene e...sai una cosa?” fece una breve pausa “lui mi guardava con gli occhi
spalancati e mi diceva bugiardo... bugiardo”.
Si concesse un sorriso amaro e si accese una sigaretta “proprio così...e
quando Connor ha cominciato a stare male sul serio, non sono stato capace di
aiutarlo. Ero troppo preso dal mio lavoro e non volevo vedere. Non ho voluto
vedere niente finché non è stato troppo tardi. E lui è morto ”.
Era la prima volta che lo diceva ad alta voce. Fece un profondo sospiro “e
adesso è accaduto di nuovo. Non riuscirò mai a perdonarmi per quello che è
successo a questo povero ragazzo, così come non riuscirò mai a perdonarmi per
Connor. Questa è la verità. Tu ieri sera hai detto un sacco di belle cose
Tobias, ma non me le merito. Se le meritassi davvero ora non ci troveremmo
qui”.
A quel punto fece per andarsene. Cominciò a discendere la piccola collinetta
che portava al vialetto, quando sentì la voce di Tobias alle spalle.
“Purtroppo non siamo abbastanza per tutti” disse, percorrendo in pochi
rapidi passi la discesa sdrucciolevole “E non siamo nel destino di tutti. Io
credo che tu sia abbastanza per parecchia gente. Purtroppo non è nostra
facoltà decidere per quale, e spesso finiamo per non esserlo per quelli che si
amano. Magari, proprio perché sia amano, chissà. In ogni caso, se non altro sei
abbastanza per me...”
Gli appoggiò una mano sulla spalla, sorrise.
“Hudson è arrabbiatissimo, sai?”
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Capitolo 7 *** Doppia Identità ***
Doppia identità
La
casa di Jhon Harper era un bugigattolo di periferia: quando Hudson parcheggiò
davanti all’edificio, quella vettura lucida attrasse subito l’attenzione di un
paio di ragazzetti.
“Rendall, dietro di me” disse Mervin.
Tobias obbedì.
Avrebbe preferito essere con Tee, ma Hudson aveva fatto
un buon ragionamento: visto lo stato d’animo di Murphy, non era certo la persona
più adatta per dare ad un uomo la notizia che il fratello era stato ammazzato.
Tee, all’inizio, aveva opposto una debole resistenza, ma il collega era stato
irremovibile: a interrogare Harper sarebbe andato lui, e siccome Avril doveva
occuparsi dell’editore, Rendall sarebbe stato il suo
partner.
La
porta si aprì con un cigolio, e sulla soglia comparve un ometto dalla dentatura
sgangherata, sulla cinquantina.
“Jhon
Harper? FBI. Dobbiamo farle delle domande”
Hudson esibì il suo tesserino, e aspettò che uno
sbigottito Jhon li fecesse passare
all’interno.
La
casa da dentro era lo specchio di ciò che si vedeva fuori: buia, piccola,
maltenuta, con odori di muffa e di stantio che emanavano dai mobili e dalle
pareti. Il proprietario non era da meno: sembrava ammuffire anch’egli insieme al
divano sdrucito su si lasciò andare a peso morto.
Tobias lo trovò triste, e vagò con gli occhi intorno alla
ricerca di una nota di colore che lo facesse respirare. La trovò sulla copertina
rossa di un libro. La sacra bibbia, versione tascabile. Anche
qui.
Ovunque ci si girasse, in quel caso si finiva sempre con
l’incappare nella religione. Non che la cosa lo infastidisse; lui non ci
credeva. Ma gli S.I legati a motivazioni religiose erano più pericolosi degli
altri: erano convinti di agire per un fine superiore, e questo li rendeva
insensibili ad un approccio emotivo. Tobias ne aveva già incontrato uno: gli
avevano sparato per evitare che compisse una strage...l’intervento della squadra
comportamentale aveva contribuito a trovarlo, ma non certo a salvarlo: non
avevano potuto farlo ragionare.
“Da
quando non vede suo fratello Don?”
L’uomo fece un lungo mugolio, e rovesciò la testa
all’indietro.
“Mio
fratello? E’ morto...”
“Già.
Lui è morto” fece eco Hudson “Da quanto
tempo?”
“Molti, molti anni
fa...”
“Come
è morto?”
“E’
morto. Morto”
Ridacchiò, passandosi le mani tra i capelli unticci.
Tobias si scambiò con Mervin un’occhiata
d’intesa.
“Non
sa in che modo?”
L’uomo ripeté la sua risata
delirante.
Tobias si alzò dalla poltroncina e andò a sedersi accanto
a lui: il divanetto cigolò tristemente.
“Lei
crede in Dio, Jhon?”
“Ho
la faccia di chi ci crede?”
No.
Aveva la faccia del povero diavolo che ha ben altro da fare che pensare al
trascendente. E con qualche rotella saltata inesorabilmente dal suo
meccanismo.
“Ha
la bibbia in casa, per questo glielo chiedo...” e il ragazzo indicò la costola
rossa.
“Ah.
Quella. Non è roba mia. La libreria è di Don, io non mi ricordo più nemmeno come
si legge!”
“Perché usa il presente, parlando di suo fratello morto?”
incalzò Mervin
“Perché, perché...” diede di nuovo in una risataccia
stridula “e che cazzo ne so? Andate via, andate via! Lasciatemi in pace! Io sono
Lo Scemo: qua nessuno perde tempo con me!”
Con
Tobias e Hudson presso John Harper, a Tee non rimaneva che darsi da fare per
continuare le indagini e scoprire qualcosa di più su Don. Nel tempo che lui
aveva trascorso a compiangere la dipartita di Malcom i suoi colleghi avevano già
fatto tanto. Si rimproverava di non essere stato con loro. Avril l’aveva
ragguagliato in fretta sugli ultimi sviluppi. Forse potevano trovare qualcuno
che avesse conosciuto Don Harper quando era ancora Don Harper. “Allora,
andiamo alla casa editrice?” azzardò Avril emergendo dal suo pc. Mentre
Tobias e Hudson erano impegnati col fratello quella poteva essere un’ottima
occasione per trovare una via alternativa. “So che non lo proporresti mai
senza aver prima trovato tutte le informazioni al riguardo” osservò Tee con un
sorriso. Avril arrossì. “Avanti dammi l’indirizzo” esclamò l’agente
Murphy. Quel pomeriggio avrebbero avuto un interessante colloquio con l’ex
direttore amministrativo della casa editrice
York.
“Harper? E’ lo scemo del quartiere! E’ sempre stato un
po’ fuori di testa”
Mervin e Tobias erano al bancone di uno squallido pub, e
quella era la terza birra che l’uomo seduto con loro si sgolava a spese
dell’FBI.
“Suo
fratello non lo era, però. Era laureato”
“Sì.
O almeno pare. Qui veniva poco, dopo che gli prese il pallino della religione.
Veniva solo per portare soldi a Jhon, stava qua un mesetto, chiuso quasi sempre
in casa, e poi spariva di nuovo”
“Era
autore di libri di successo. Lo sapeva?”
“Ehi,
fratello, ma dove pensi di stare? L’ultima cosa che ho letto è Tutto Motori, e
questi mocciosi” indicò un paio di bambini che scorrazzavano per strada “non
sanno nemmeno come è fatto un libro!”
“Jhon
ci ha detto che Don è morto”
“Jhon
è matto. Lo state anche a sentire? L’ultima volta che ho visto Don uscire da
quella casa, era vivo e vegeto...Il fratello urlava come un pazzo, come se fosse
terrorizzato da qualcosa, e gli ha sbattuto la porta dietro. Era notte fonda ed
ha svegliato mezzo quartiere: chiedete a chi volete, se ne ricorderanno in
parecchi! Poi non l’abbiamo più visto, e lo credo: non ci sarei tornato nemmeno
io da un pazzo che mi sbatte per la strada
così!”
“E
non avete saputo più nulla di lui?”
“Nulla. Ma che me ne poteva
fregare?”
“All’epoca la sede operativa era in Atlanta Avenue, poi
la momentanea recessione economica, mista a una serie di investimenti sbagliati
ha causato il fallimento della York, qualche anno dopo la cosiddetta scomparsa
di Don Harper” fece Avril snocciolando le sue informazioni a Tee che nel
frattempo guidava. “Dal mio pc si evince che comunque la York non navigasse
in buone acque già da qualche tempo, diversi cambiamenti in fatto di
amministrazione, un fatturato in drastica perdita, guarda qui, un buco di 500
mila dollari nel 1997, una gran bella cifra per una casa editrice di quelle
dimensioni. Ah le cifre parlano chiaro se avessero...” “Avril...” iniziò
Tee, ma la ragazza sembrava non dargli ascolto, presa nel suo elenco delle gravi
mancanze di un’amministrazione che la giovane aveva appena definito
scellerata. “Se solo no” “Avril...” ricominciò Tee paziente, sapeva per
esperienza che quando era in quello stato, era difficile farla tornare in
sé. “E’ ridicolo come...” “Avril” ripetè alzando lievemente il tono,
giusto per farsi sentire. Finalmente Murphy riuscì a catturare l’attenzione
della collega. “Siamo arrivati”. “oh sì, scusa, non” Tee fece un gesto
con la mano per intendere che era tutto a posto. Forse Burton Falling,
amministratore delegato della York nel 1999 avrebbe potuto dare loro qualche
spiegazione circa la misteriosa “sparizione” di Don
Harper.
“Don
non è morto”
Hudson stava appoggiato allo stipite della porta,
impedendo a Jhon, preso alla sprovvista da quel loro ritorno, gli chiudesse
l’uscio in faccia.
“Don
non è morto, e tu ci hai mentito. Intralcio ad un indagine federale. Adesso ci
seguirai in centrale e ne parleremo in sala
interrogatori”
Hudson spinse contro la porta: Jhon fece resistenza. Poi,
con un guizzo improvviso, quest’ultimo lasciò la presa e scattò nel corridoio,
mentre l’agente, ceduta la forza che lo contrastava, rovinava all’interno della
casa.
“Bastardo!” sibilò “Randall, sul
retro!”
Tobias non si mosse.
“Rendall!” urlò Hudson
“Muoviti”
Il
ragazzo fece qualche passo all’interno della casa, incurante degli ordini del
suo superiore. Seguì il corridoio e li trovò lì: Mervin in piedi sulla porta,
Jhon sul pavimento della camera da letto che
piangeva.
“Volevo dirtelo che non stava scappando...” sussurrò
Tobias, e andò a sedersi sul tappeto polveroso, di fronte a Jhon “...lui non può
uscire di qui...”
“Non
può...” solo in quel momento Hudson si rese conto della disattenzione in cui era
appena caduto “Cazzo...agorafobia...”
“Me
ne sono accorto appena ho visto come guardava fuori, alle nostre spalle. E il
buio...la disposizone dei mobili...Beh, a essere troppo presi dai fatti
si trascurano gli individui, agente
Hudson”
Mervin non sopportava sentirsi dare lezioni da un
ragazzino che, quando lui si era accostato al profilng, giocava ancora coi
soldatini: ma la diagnosi di Rendall era stata veloce ed efficace, c’era poco da
dire.
“Lei
ha paura che noi la portiamo fuori di qui, vero?” diceva intanto il giovane,
tenendo una mano sulla spalla del proprietario di casa “Ma io non voglio farla
uscire. Davvero. Alzi la testa e mi guardi negli occhi...”
Aspettò qualche minuto in silenzio prima che l’uomo
facesse il gesto di sollevare il volto. Ognuno ha i suoi tempi - sembrava dire
ad un impaziente Hudson.
“Adesso” disse “lei mi parlerà di suo fratello, e mi dirà
quello che sa. Non importa se sa poco, o se non sa niente. Ma mi dica la verità
ed io non la costringerò a fare un solo passo fuori di qui. Mi guardi, per
favore. Lei sa benissimo che sono sincero: chi ha grandi paure acquista una
capacità straordinaria di distinguere chi mente da chi non lo fa, e di percepire
il pericolo...”
Ci fu
un secondo, lungo silenzio.
Hudson sedette sul bordo del
letto.
“Mio
fratello...” buttò fuori l’uomo “Don...ha ucciso un uomo. Me lo ha detto. Ha
detto io ho ucciso un uomo. E poi mi ha detto...che
forse aveva fatto bene...che era giusto che quell’uomo fosse morto perché era
tanto innocente...ed era bene che un innocente morisse, perché Dio lo avrebbe
accolto subito nel suo regno...”
Tobias non lo interruppe: continuò a tenere la mano ferma
sulla sua spalla. Sapeva che gli avrebbe detto tutto...doveva solo avere la
pazienza di aspettare.
“Ha
detto...” Jhon distolse lo sguardo, come colto da una paura improvvisa “Che
forse avrei dovuto morire anche io...perché...io ero matto...e i matti sono
innocenti...”
“Ed
ha cercato di ucciderla, Jhon?” intervenne
Hudson.
Lui
scosse il capo.
“No.
Voleva portarmi via. Ha detto che in questa città...io ero in
pericolo...”
“E
lei che cosa ha fatto...?”
“Io...ho gridato...ho gridato...e lui è
scappato...”
“Non
lo ha più visto?”
Tobias scosse la testa per
lui.
“No.
Non lo ha più visto”
Burton Falling era un uomo
corpulento.
Sedeva dietro la sua scrivania su una sedie in pelle
nera.
Pelle
vera.
Per
parlare con lui avevano dovuto far valere la loro autorità presso la segretaria
all’ingresso: Burton Falling non era un uomo a cui piaceva essere
disturbato.
Li
aveva accolti piuttosto freddamente e fatti accomodare in tutta
fretta.
Dopo
le presentazioni di rito Falling rivolse loro un sorriso di circostanza ed
esclamò “bene signori e signorine, per quale motivo ho
l’onore…”.
“Don
Harper” lo interruppe subito secco.
”Ah!”
fu il commento di Falling, che strinse leggermente le labbra, forse per
costringersi a non aggiungere altro.
Dopo
qualche secondo di silenzio però si decise a dire qualcosa “se è solo per questo
potevate parlare con la mia segretaria che
…”
“Ci
piacerebbe sentirlo da lei” lo interruppe Tee con un sorriso serafico stampato
in faccia.
Il
direttore inspirò profondamente “va bene, cosa volete che vi dica?! Don Harper
era un pazzo, un pazzo vero insomma, ha scritto un libro, un buon libro, noi
l’abbiamo pubblicato e poi tutto d’un tratto, perdonatemi l’espressione, ma gli
è andato letteralmente di volta il cervello. Un giorno è piombato nel mio
ufficio gridando che dovevamo ritirare dal commercio il suo libro, che era
necessario e altre farneticazioni simili che non sto a riportarle. Io ho cercato
di spiegargli che non era possibile che, anche volendo non si poteva fare e
così…” Falling lasciò in sospeso la frase.
Era
un uomo a cui piaceva stare al centro
dell’attenzione.
“e
così alla fine ..quell’uomo” e qui Falling calcò la voce sull’ultima
espressione. Tee notò che non lo chiamava più nemmeno per nome “quell’uomo, non
so come abbia fatto, mi ha dato fuoco al magazzino” e qui Falling chiuse gli
occhi per una frazione di secondi e inspirò
profondamente.
Poi
li riaprì ed esclamò “contenti adesso?”.
“anche dalle mie ricerche risulta l’episodio
dell’incendio” asserì Avril con
convinzione”.
“Quel
bastardo!!” si lasciò sfuggire Falling, negli occhi gli brillava una fiamma che
Tee non mancò di riconoscere col nome di odio. Puro e semplice. L’uomo si alzò e
si avvicinò a un armadio da cui prelevò una piccola tabacchiera. Si accese un
sigaro guardandoli come se fossero
invisibili.
Era
giunta l’ora dei saluti, Falling non avrebbe aggiunto altro se non in presenza
di un legale a sei cifre. Gli uomini di quel genere erano tutti
così.
E Tee
non aveva nessuna intenzione di scatenare un putiferio in quel momento, dove il
tempo era il fattore primario.
Certo, avrebbe potuto alzare il telefono, chiamare la
centrale, chiedere un mandato, ma quanto avrebbe
impiegato?
L’agente Murphy amava i modi spicci e rivoltare una casa
editrice e tutto il loro archivio per giorni non era esattamente quello che
avrebbe definito una procedura veloce.
Lui e
la collega erano a metà del corridoio quando da un angolo spuntò una testolina
ricciuta.
“V-Voi siete gli agenti dell’FBI
vero?”
“Per
la precisione siamo...” attaccò immediatamente Avril che non poteva resistere
alla tentazione di mettere i puntini sulle
i.
“Sì
siamo noi, con chi abbiamo il piacere di...” fece Tee osservando la ragazza che
teneva in mano un libro rilegato di blu.
“Mi
chiamo Beth, ecco, conoscevo il signor Harper quando lavorava per noi e...” la
giovane si mordicchiò un labbro, come indecisa sul da farsi, poi trasse un
profondo respiro “so che il signor Falling vi ha parlato di lui, ma non è vero
quello che ha detto, lui...” di nuovo la ragazza si guardò intorno quasi
pensasse di essere spiata “era un brav’uomo, ma dopo quella cosa cambiò
completamente”
Tee
ed Avril si scambiarono un breve sguardo. La faccenda si faceva molto
interessante.
“Ci
parli meglio di questa cosa, come la chiama lei” la incitò
Tee.
La
giovane annuì “sì, ma non qui, usciamo”.
“Quell’avvenimento lo sconvolse, lo cambiò radicalmente,
ma non voleva parlarne...si vedeva che c’era qualcosa che non andava e infatti
poco dopo scomparve...che peccato, era un autore così
dotato!”
Beth
sembrava davvero rimpiangere le passate doti artistiche di
Harper.
“Purtroppo non ne so molto di più, ecco, solo che il suo
cambiamento coincise con quel caso, ne hanno parlato anche i giornali all’epoca.
Non so perché la cosa l’avesse toccato così, che io sappia lui non conosceva
nemmeno la vittima....tenete, questo è l’ultimo libro che ha scritto, un libro
così bello, così visionario...” e con un ultimo sospiro la giovane si
dileguò.
“Credi alla sua versione? Pensi che Don harper sia un
assassino, e per questo motivo abbia cambiato
identità?”
Tobias si strinse nelle
spalle
“No.
Abbiamo steso il profilo di Harper, non era uno psicopatico e solo uno
psicopatico avrebbe potuto uccidere e poi andare dal fratello a metterlo in
guardia da se stesso. No, non funziona. Se Harper fosse un assassino e avesse
cambiato lucidamente identità per coprirsi, perché recarsi dal fratello e
confessare l’omicidio che voleva nascondere? Io penso, piuttosto, che Jhon fosse
molto confuso...che non lo abbia capito...”
“Rendall...e se Don Harper fosse stato, anziché l’assassino, il
testimone di un assassinio? Questo spiegherebbe il
mettere in guardia il fratello, la fuga, il falso nome...Forse non voleva essere
trovato...”
“Funziona...” riflettè Tobias “Certo...funziona. Resta
quella storia sull’innocenza...”
“Deliri di una persona sapventata” tagliò corto Hudson
“Dobbiamo farci dare i fascicoli di tutti gli omicidi irrisolti avvenuti nel
1999, partendo dai più vicini all’ultimo giorno in cui Jhon ha visto suo
fratello...”
Non
c’era niente da dire, avevano una bella gatta da
pelare.
Per
riordinare le idee decisero i fermarsi su una panchina, nel parco poco
distante.
La
tranquillità di quel luogo forse li avrebbe aiutati a riordinare le
idee.
Avril
prese subito a sfogliare il libro.
Tee
nel frattempo rifletteva, le teorie più svariate gli riempivano la testa, uno
scrittore fallito e attualmente scomparso era legato a un’incredibile catena di
omicidi.
E
quell’accenno a un caso sepolto nel passato, la ragazza, Beth, sembrava sincera,
in fondo, perché non crederle?
Forse
la chiave risaliva al passato appunto, a quell’incidente che aveva
definitivamente mandato fuori di testa il povero
Harper.
L’agente Murphy diede un’occhiata all’orologio, le tre
“Avril hai con te il pc vero?”
La
ragazza annuì incapace di distogliere l’attenzione dal libro che stava
leggendo.
“Ok,
allora dovresti fare una ricerca per me”.
Non
ci volle molto, dopotutto il caso non risaliva al secolo passato e ormai le
informazioni venivano largamente condivise in rete. Non era più come una volta,
quando bisognava spulciare nei polverosi archivi
centrali.
Harper si era dato alla macchia nel novembre del 1999 e,
guarda caso proprio ad alcuni giorni prima risaliva l’omicidio di una certa
Susanne Hillman, residente a Dallas, tranquilla signora sulla quarantina, un
omicidio inspiegabile, violento per il quale era stato arrestato Arthur
Greenblack, il postino, successivamente deceduto in carcere per attacco
cardiaco.
Quello che saltò subito agli occhi di Tee fu il modus
operandi, fin troppo simile a quello di uno degli omicidi della loro lunga
lista.
Nel
frattempo Avril, con il naso immerso nel libro di Harper prendeva
appunti.
Forse
era giunto il momento di ricongiungersi agli altri e mettere insieme i pezzi i
un puzzle che sembrava sempre più inquietante.
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Capitolo 8 *** Morire d'innocenza ***
Capitolo 8
Morire d’innocenza
Erano
tornati a Sand Spring in tarda sera, e Tobias, disteso supino sul letto della
camera d‘albergo, proprio non riusciva a prendere sonno, anche se la stanchezza
gli appannava la vista.
Ad un
tratto sentì il telefono squillare.
“Sì...” mormorò, assonnolito, aspettando di sentire
rispondere uno dei suoi colleghi.
“Tobias Rendall?”
Riconobbe la voce al volo. Aveva una dote naturale per
ricordare le voci.
“Helena...?”
Silenzio di tomba.
“Helena, sei tu?”
“Scusami...!”
Dall’altro capo del telefono sentì
singhiozzare.
“Ehi,
ehi...aspetta...Non riattaccare!” Tobias balzò a sedere sul letto “Aspetta...”
ripeté, calmando la voce, in modo che apparisse piana e
rassicurante.
La
ragazza continuò a piangere.
“Non
volevo disturbarti ora...ma non sapevo proprio chi chiamare! Sto...così male!
Così male!”
“Stai
calma. Dimmi cosa senti. Provi le stesse cose dell’altro
ieri?”
“N...no...”
Che
domanda stupida, pensò Tobias. Non l’avrebbe chiamato piangendo, se fosse stata
in preda ad un attacco di panico. Forse, non lo avrebbe chiamato affatto. Quello
che Helena stava chiedendo, in quel momento, era qualcuno a cui poter rivelare
qualcosa. Quella cosa che lui gli aveva lasciato intuire di poter accogliere, di
essere disposto ad ascoltare.
“Dimmi dove sei”
La
ragazza parve trattenere per un attimo il
pianto.
“Alla
chiesa...”
“Non
muoverti di lì. Ti raggiungo”
In un
altra stanza, qualche ora dopo, un altro cellulare squillò.
A
tentoni, Tee cercò con la mano il telefono sul
comodino.
“E’
un perfetto manuale per psicopatici, Tee!” ruppe nella cornetta la voce di Avril
“Il libro che ha segnato la scomparsa di Harper, e che lui stesso voleva
distruggere, è una vera e propria guida per serial killer con motivazioni
religiose! Non so con che coraggio una casa editrice abbia potuto permettere che
lo pubblicasse!”
Tee
si tirò su a sedere, e posò lo sguardo sulla figura distesa vicino a lui. Quel
lavoro, a volte, non concedeva nemmeno una notte di pace e di sano calore umano,
pensò.
“Di
cosa parla, Avril?” chiese, a bassa voce, incerto se valesse la pena svegliare
la donna che gli dormiva vicino.
“All’apparenza sembra una storia surreale, ma, di fatto,
il contenuto di fondo è questo: c’è un angelo della morte che uccide la gente
‘buona’ prima che possa commettere un peccato, perché questo garantisce loro la
via d’accesso per il paradiso! E non è tutto: lo scrittore è chiaramente in
empatia con questo personaggio molto più di quanto non lo sia coi suoi
protagonisti...lo giustifica, lo apprezza...insomma, è lui il portavoce di chi
narra...”
“Dunque Harper corrisponderebbe al nostro profilo...”
riflettè Tee “ma Harper è Zarowsky, e Zarowsky è una
vittima...”
“Una
vittima che forse sapeva troppo, perché aveva dato all’assassino le motivazioni
per uccidere...”
Ci fu
un attimo di silenzio. Un attimo in cui la donna accanto a lui si mosse,
socchiuse gli occhi, e accese la piccola abajour sul
comodino.
“D‘accordo, Avril: ha senso. E questo potrebbe voler dire
che c’è un serial killer in giro dal 1999. Ci troviamo tutti la commissariato
tra dieci minuti”
“Devo
informare la Harris?”
Tee
ebbe un attimo di imbarazzo. Si voltò e guardò Claire che sorrideva con dolcezza
mentre con la mano gli accarezzava la
spalla.
“No”
disse “La avverto io”
Helena stava inginocchiata sulle scale. Tobias le salì
fino all’ultimo gradino e si sedette di fianco a lei senza dire niente. Faceva
freddo, era piena notte: il cielo era scuro, con una piccola falce di luna
avvolta dalla foschia.
“Tu
hai un buon cuore” mormorò ad un tratto la ragazza “Tu hai l’anima
gentile...”
L’aveva già detto quando si erano incontrati, ma stavolta
gli aveva dato del tu, ed aveva spostato il discorso dal piano delle convenzioni
sociali a quello intimo e religioso. Aveva parlato di cuore, di anima: era un
modo per permettergli di entrare nel suo
mondo.
“Non
sono migliore di te né di altri. Sono solo bravo ad
ascoltare”
Le
appoggiò una mano sull’avambraccio, ma piano, sfiorando solo la manica della sua
camicia.
“Voglio essere sincero con te, Helena. Io penso che tu
desideri dire qualcosa di importante, e finché non riuscirai a dirlo
soffrirai...So che lo hai già detto a Dio, ma non basta, e sai perché? Perché tu
sai che Dio è misericordioso, che comprende ogni cosa e ti ama senza condizioni.
Invece, quello di cui senti il bisogno è mettere alla prova gli uomini, perché è
tra gli uomini che vivi...e vuoi sapere se loro sono capaci di accettare ciò che
tieni nascosto...”
Helena deglutì, e alzò la testa verso di lui. Aveva
veramente un volto disfatto e le pupille dilatate: Tobias dedusse che
probabilmente aveva assunto qualcosa. Psicofarmaci, forse. O aveva anche lei un
problema di droga?
“Io...” buttò fuori di colpo “Io l’ho uccisa!”
Un
brivido passò lungo la schiena del giovane
agente.
“D-di
chi parli?”
“Di
Mary!” ruppe di nuovo in singhiozzi “Della mia amica! L’ho uccisa io! E’ colpa
mia!”
Si
morse le nocche delle dita con forza, provocandosi una ferita che prese a
sanguinare.
Tobias le bloccò il polso, e con fermezza le allontanò la
mano dalla bocca.
“Helena” disse, con la voce più calma che poté “Helena,
così ti fai male”
Non
le chiese niente: la situazione era delicata, la ragazza non era completamente
lucida, e una parola di troppo poteva gettarla nel baratro del delirio, o
spingerla a chiudersi di nuovo in se stessa.
Prese
la mano tra le sue, e tamponò il segno del morso col
fazzoletto.
“Tu
sei...davvero, davvero una bella anima...” ripeté
lei, con uno sguardo vagamente perso.
“N-non...” Tobias ricordò gli insegnamenti di Tee: a
volte bisognava scoprire delle carte per entrare in empatia con una persona “non
sempre è così. Ho messo nei guai il mio migliore amico...un sacco di volte.
Spesso, io faccio cose sbagliate...cose che non vanno bene nel mio lavoro...e
lui mi difende...e si prende le mie colpe. Io so che non va bene, so che
basterebbe che stessi più attento, che mi controllassi, che...che facessi uno
sforzo su me stesso...Ma poi, quando mi trovo nella situazione...succede
qualcosa, ed io...”
Helena non lo lasciò andare avanti. D’improvviso, lo
afferrò per la camicia e lo strinse a sé. Tobias per un attimo rimase spiazzato:
poi sentì la testa di lei appoggiarsi sulla sua spalla e le lacrime cominciare a
scendere di nuovo.
“Sono
stata io a convincerla a partire! Io, io le ho detto che una persona come lei,
una persona così pura, con un’anima così grande, doveva portare la sua bontà in
tutto il mondo! Io le ho detto che in quell’opera missionaria in Brasile avevano
bisogno di lei...e lei ha accettato, perché non poteva sopportare l’idea di
restare indifferente alla gente che soffre. Io...io avrei voluto che rifiutasse!
Lo giuro, Tobias, io volevo davvero che
rifiutasse...!”
Tobias non capiva. Dunque, Helena conosceva le ragioni
della lite tra Malcom e Mary? Questo voleva forse dire che sapeva anche che il
colpevole era lui? Il profilo di Tee portava in un’altra direzione, e Tee
difficilmente sbagliava in modo tanto clamoroso un
profilo.
“Pensi che Malcom l’abbia uccisa per
questo?”
La
ragazza scostò di colpo la testa dalla sua spalla, sciogliendosi da
quell’abbraccio.
“Malcom?” sussultò, con gli occhi spalancati “Il povero
Malcom? Oh, santo cielo, no, NO!” giunse le mani, in un gesto di preghiera
“Malcom non l’avrebbe mai, mai uccisa, ed io sono stata crudele, perché l’ho
spinta ad abbandonarlo!”
Adesso, Tobias era davvero
confuso.
“Ma...ma allora...di cosa ti senti colpevole,
Helena?”
Lo
sguardo di lei si fece fermo, intenso.
“Tobias, non capisci? Dio l’ha messa alla prova
attraverso di me! L’ha chiamata a sé perché era troppo buona, e Lui la voleva in
paradiso!”
Disturbo ossessivo-compulsivo
religioso, diagnosticò Tobias.
All’improvviso gli venne un sospetto.
“Sei
stata tu a regalare a Mary La via della felicità?”
Helena annuì.
“Pensavo che l’avrebbe guidata. Lei era così buona,
eppure si sentiva infelice...”
“Sapevi che forse tu...eri l’unica vera amica che
avesse?”
Lei
abbassò la testa, e, con voce bassa e profonda,
disse:
“Chi
ha Dio, così come aveva lei, non ha bisogno di
altro...”
“Tu
invece...” Tobias le appoggiò una mano sulla spalla “Tu hai bisogno di aiuto.
Hai un problema, Helena...”
La
ragazza si ritrasse.
“AIUTO?” scattò “IO NON HO BISOGNO DI ALCUN
AIUTO!”
Aveva
improvvisamente cambiato espressione: si alzò in piedi, con lo sguardo
folle.
“Io
ho solo bisogno del perdono di Dio, non della compassione degli uomini!” e si
battè con violenza, più volte, la mano sul
petto.
“Helena” Tobias rimase calmo: restò seduto, fermo, in
modo da non farla sentire minacciata “quello degli uomini e quello di Dio sono
due piani immensamente diversi. Nessun uomo può darti l’aiuto che viene da Dio.
Nessuno. Non voglio sostituirmi a qualcosa di tanto superiore. L’aiuto degli
uomini serve per essere più sereni qui, nel nostro passaggio sulla terra, in
modo da essere anche più stabili e più forti, e poter essere più utili a chi ha
bisogno di noi. Dio non comanda forse di amare il prossimo? Non puoi farlo, se
tu stessa non ti ami...”
Helena rivolse la testa al rosone della chiesa, dietro
alla quale stava cominciando a sorgere
l’alba.
“Hai
ragione, Tobias...” sussurrò “non posso amare gli altri, se io stessa non mi
amo. E per tornare ad amarmi...ci sono...ancora delle cose che devo fare...Delle
colpe che devo espiare...”
Delirio religioso, senso di colpa, rifiuto della società
e della possibilità di trovare in essa un supporto o una possibilità di
realizzazione...ed era intima amica della vittima: troppi aspetti
corrispondevano al profilo. Però...quella ragazza era confusa, disorganizzata.
Non gli sembrava capace di compiere un omicidio rituale. Tobias non sapeva come
comportarsi: desiderò che Tee fosse lì con
lui.
“Grazie di essere venuto” disse lei ad un tratto “adesso,
devo andare”
“Ti
accompagno” si offrì, alzandosi.
“NO”
si allarmò lei, indietreggiando di un passo.
“No”
ripeté, più calma “Vado da sola, Tobias. E’...è
meglio...”
Tobias fece un piccolo sospiro. Non potava trattenerla.
Ma doveva trovare il modo di non perderla di vista di
nuovo...
“Potresti...lasciarmi il tuo numero? Mi...piacerebbe
chiamarti, qualche volta”
Helena non rispose: prese un pezzo di carta dalla sua
piccola borsa e ci scrisse su qualcosa. Poi glielo lasciò in mano e corse giù
lungo le scale.
Lui
non la seguì: guardò il foglietto che gli aveva lasciato, su cui era segnato il
suo indirizzo. Perché? Le aveva chiesto il numero di telefono...Perché gli aveva
dato l’indirizzo di casa? Voleva parlarne subito a Tee.
Doveva parlarne a Tee.
Portò
la mano alla tasca, cercando il cellulare.
Non
c’era.
Maledizione, l’aveva lasciato in
albergo!
Niente. Suonava a vuoto. Con uno scatto secco l’agente
Murphy richiuse il cellulare, lievemente stizzito. Tobias non rispondeva. Il che
significava che doveva avvertirlo di
persona.
“Mi
spiace Claire, ma dobbiamo fare una piccola deviazione. Rendall non
risponde”.
La
Harris scrollò le spalle
“Se
prendi la seconda s sinistra, Gloucester avenue potresti risparmiare 8
minuti”.
Tee
prese nota mentalmente.
Quanto a lui, avrebbe volentieri tirato il collo a Tobias
che non rispondeva al cellulare, proprio quando erano così vicini a una
soluzione, a un dunque.
Inchiodò in un vicolo
laterale.
“Aspettami qui” disse a Claire. Non c’era bisogno che
scendesse anche lei.
Alla
reception chiese di fare uno squillo alla camera di Tobias. Niente neppure
lì.
L’agente Murphy salì le due rampe di scale che portavano
alla stanza del collega. Giunto davanti alla porta controllò di avere l’arma di
servizio a portata di mano.
La
porta era chiusa. Tee domandò all’uomo della reception di aprire col
passpartout, poi gli fece silenziosamente cenno di
allontanarsi.
Entrò
con cautela. Niente lasciava intendere una colluttazione o una lotta. Era tutto
in ordine, le sedie, il letto. Poi notò il cellulare di Tobias sul comodino e
sbuffò. Ripose l’arma.
Ma
dove diavolo si era cacciato?
Al
commissariato Hudson li accolse con un’occhiata torva. Sul suo volto c’era
stampata una domanda, leggibile anche per chi non fosse un
profiler.
“Dov’è finito
Rendall?”
Fu la
volta di Tee di scrollare le spalle.
In
breve gli spiegò quello che era successo.
“Ma
porc…” Hudson si trattenne a stento.
“Non
possiamo farci niente, almeno non adesso, probabilmente è uscito e semplicemente
si è dimenticato di portarlo con sé” spiegò Tee
calmo.
Mervin lo guardò dubbioso “e tu ci
crederesti?”
“Qui
non è questione di crederci o meno” sbuffò
Tee.
“Non
vedo come tu possa prenderla in questo modo, così, alla leggera” incalzò
Hudson.
“Si
farà sentire, non appena…” Tee non sapeva come spiegarlo, soprattutto a un tipo
come Hudson.
Aveva
fiducia in Tobias più che in chiunque altro, ma Hudson questa semplice
constatazione di fatto non l’avrebbe mai
accettata.
“Ah
maledizione, parlare con te è impossibile! Dicendo così Hudson uscì dalla stanza
sbattendo la porta alle sue spalle.
Tee
la fissò per qualche istante, poi uscì anche
lui.
Fu in
quel momento che videro Rendall entrare di corsa,
trafelato.
Non
salutò, non si scusò, semplicemente corse in direzione di Tee e disse: “Abbiamo
un problema!”
L’agente Murphy tirò fuori dalla tasca il cellulare del
ragazzo, e lo sbattè su una scrivania, proprio sopra il libro di Don Harper, con
un gesto che non necessitava altri commenti, almeno non tra
loro.
“Abbiamo più di un problema,
Tobias”
“Il
libro di Zarowsky...emh...di Harper...” intervenne Avril, col suo fare da
professoressa in cattedra “E’ praticamente un libro per aspiranti serial killer
e prescrive che...”
Tobias la interruppe.
“Helena” dichiarò perentorio “l’amica di Mary, è una
psicopatica”
Hudson alzò un sopracciglio. Si avvicinò. Ricordava
quella donna, ed aveva subito avuto il sospetto che avesse qualcosa che non
andava.
“Bhe?” chiese, attendendo un
seguito.
“Crede di essere responsabile della morte di Mary per
averla incoraggiata a partire per la missione. Ritiene che la sua morta sia una
chiamata di Dio, che voleva con sé Mary per la sua troppa bontà. Penso che
sappia chi l’ha uccisa, ma la sua mente lo sta rimuovendo e sostituisce questo
qualcuno con Dio in persona. Forse lei...”
I
volti dei presenti lo stavano fissando, improvvisamente catturati dalle sue
parole in un modo che il ragazzo non si aspettava. La fronte di Tee si era
contratta: lo guardava turbato.
“Tobias...” lo interruppe, spostando gli occhi da lui ai membri della
squadra radunati attorno alla scrivania “...Helena non conoscel’S.I:
lei è l’S.I”
“Lei...cosa?” stavolta era stato Tobias a rimanere di
sasso. Ci aveva parlato quasi un’ora, ma quel pensiero non lo aveva toccato...e
non gli era mai capitato - da quando svolgeva quel lavoro - di non nutrire alcun
sospetto per un potenziale serial killer.
“Ora
dov’è?” incalzò Hudson
“A...a casa sua...credo...” balbettò il giovane
“...abbiamo parlato...era molto turbata, in stato confusionale...Non ha voluto
che la accompagnassi...ad un certo punto, ha avuto una crisi di panico alla mia
vicinanza. Ho pensato che non fosse opportuno
forzarla...”
“HAI
LASCIATO ANDARE IN GIRO UNA PAZZA PSICOPATICA?” eslcamò Hudson “Come minimo
dovevi trattenerla, chiamare un’ambulanza...o
noi!”
Tobias abbassò lo sguardo,
mortificato
“Non
avevo il...”
“...il telefono” gli completò Mervin con un gesto
esasperato delle braccia “per la miseria! Ma chi vi ha insegnato a lavorare?!”
Tee
cercò di placare gli animi.
“Beh,
non perdiamo tempo. Bisogna rintracciare questa ragazza, scoprire dove
abita...”
Tobias estrasse dalla tasca un foglietto
sgualcito.
“...veramente...dove abita me lo ha detto. Anzi...mi ha
stupito che mi abbia lasciato il suo indirizzo, così...quando io le avevo
chiesto solo il numero di telefono...”
Tee
prese il foglio dalla mano del collega.
Era
vero, quella non era una mossa che corrispondeva al profilo di un S.I
organizzato e metodico, come quello che avevano elaborato. Ma neppure quella
donna corrispondeva al profilo, Tobias in questo non aveva commesso un errore. E
allora...allora...
“Io
penso che voglia essere fermata” disse ad un tratto “Io credo...che questo non
sia l’indirizzo della sua abitazione. Credo che sia l’indirizzo della prossima
vittima”
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Capitolo 9 *** Quale S.I. ? ***
Capitolo 9 Quale S.I.? “Ci abita Mandy Brown, trentacinque anni, sposata, un figlio. E’ commessa in un negozio di abiti, frequenta la comunità parrocchiale assiduamente, il marito è Frank Brown, medico geriatra e lei è impegnata da sei anni come volontaria ospedaliera. E’ una persona molto amata dalla comunità: eletta l’estate scorsa ‘mamma dell’anno’ nella festa scolastica dedicata ai genitori...” La voce di Avril risuonava nel viva voce. Stava fornendo loro indicazioni in tempo reale mentre raggiungevano l’abitazione della donna. “Stando al profilo, è decisamente una potenziale vittima” constatò Hudson. Tobias si mordeva nervosamente l’unghia del pollice. Non riusciva a darsi pace di non essersene accorto, e, tuttora, non riusciva a trovarlo completamente convincente. Chi aveva ucciso lo scrittore era chiaramente una persona lucida e metodica: Helena era una disturbata. Eppure, quando fermarono la macchina davanti alla porta, la voce che risuonò dall’interno era chiaramente quella della ragazza. “Non vi avvicinate! NON VI AVVICINATE...E’ DIO CHE VUOLE COSI’!” La porta principale era socchiusa, avrebbero potuto fare irruzione anche subito, ma c’erano troppe probabilità che Helena uccidesse subito l’ostaggio. “Voglio andare da lei...” disse Tobias, sottovoce “La posso fermare. So come fermarla” Hudson lo guardò in tralice “Tu non vai da nessuna parte. Non prima che abbiamo trovato il modo di avere una visuale sull’interno della casa e posizionato i cecchini. E comunque, sei un agente della comportamentale, non un negoziatore” “Sono migliore di un negoziatore” disse il ragazzo, con un’insolita sicurezza “So entrare in risonanza con i disturbati mentali nel modo in cui una persona sana non saprebbe fare: neppure se fosse il più esperto dei negoziatori” “Agente Rendall, secondo il protocollo...” Tobias cercò lo sguardo di Tee. Sì, sapeva benissimo che non era così che si lavorava, e l’agente Murphy lo sapeva ancora meglio. Eppure, già altre volte se ne era assunto la responsabilità, e aveva lasciato la situazione nelle sue mani. Hudson si voltò verso Tee e quello che vide non gli piacque nemmeno un pò "non se ne parla nemmeno, non provare a..." Tee non rispose subito, non perché non si fidasse di Tobias, al contrario...Prendeva tempo perché forse si fidava troppo. E il guaio era che di tempo non ce n'era nemmeno un po‘. Hudson gli stava dicendo quello che anche una parte di sè, una vocina, cercava di dirgli, da molto lontano. Ma Hudson era decisamente era più rumoroso. "Posso, lo sai..." continuò Tobias convinto. Tee non ne dubitava nemmeno un pochino, tuttavia esitava. Ma in fondo cosa c'era di speciale in quella situazione? Cosa c'era che già non avessero affrontato? Un tempo forse non avrebbe esitato a lanciarlo in quella casa senza pensarci un secondo. Non si trattava solo delle perentorie obiezioni di Hudson, peraltro giustificatissime. "Vai" disse d'un tratto e Tobias non se lo fece ripetere, schizzando fuori dall'auto. Hudson provò a stendere una mano per fermare il giovane, ma fu troppo lento e comunque non ci sarebbe riuscito: allungando il braccio sul petto del collega più anziano Tee l'aveva inchiodato al sedile. Mervin lo guardò in cagnesco, nessuno si era mai permesso una cosa simile con lui. Tee però non era preoccupato dalla sua reazione: attraverso il finestrino dell'auto stava osservando Tobias avvicinarsi lentamente all'abitazione. Era una palese violazione del protocollo, Hudson gliel'aveva urlato fino a sgolarsi e lo sapeva anche lui, ma se c'era una cosa che Tobias sapeva fare bene era quella. "Lui ne è capace Hudson" sussurrò Tee senza guardarlo "lui è in grado" ripetè con convinzione, rivolto più a se stesso che al collega furente di rabbia. Tobias non era nemmeno un po’ preoccupato. Non in quella prima fase, almeno. Era sicuro che lei lo avrebbe lasciato entrare, lo aveva percepito dalla sua voce e da tante altre piccole cose. Era il suo dono, sapeva di non sbagliarsi, e se c’era qualcosa che lo spaventava era, piuttosto, proprio quella sua dannata sicurezza. Non aveva mai fallito in una situazione del genere. Tuttavia, ciò che sarebbe successo una volta varcata quella soglia era un tuffo nel vuoto. Bisognava solo accettare di tuffarsi in quel vuoto, ed era la scelta che faceva tutte le volte, quando apriva la sua mente a quel contatto profondo con la follia. “Hai fatto bene a lasciarmi entrare, Helena...” disse con dolcezza, senza che il suo lieve sorriso subisse alcun turbamento di fronte alla vista della signora Brown legata, imbavagliata e piangente, posizionata con cura su una sedia rivolta verso una piccola immagina della madonna. “N-non...avresti dovuto venire, Tobias...” balbettò lei, mentre la mano che stringeva l’arma tremava visibilmente. “Perché no?” disse lui, rimanendo a distanza, e rivolgendo lo sguardo all’icona sulla parete “Eri tu che lo volevi. Tu mi hai lasciato questo indirizzo, perché Dio te lo ha suggerito. E’ questo che è successo, giusto? Tu chiedi dei segnali, e Dio ti risponde...” Helena deglutì, osservandolo con gli occhi spaventati. “Non eri sicura di star facendo la cosa giusta...non eri certa di dover restituire un’altra anima a Dio...o almeno non eri sicura che fosse questa...” e con un piccolo gesto della mano indicò la donna, che prese a gridare e dimenarsi, terrorizzata, nonostante il bavaglio lasciasse uscire solo un mugolio sommesso. “Così hai cercato dei segnali...qualcosa che ti indicasse la strada...proprio come quando sei andata da Mary. Tu non eri andata lì con l’intento di ucciderla...non eri tranquilla...temevi di aver interpretato male i messaggi di Dio. Certo, Mary era buona, dolce, una specie di angelo per te...amava i bambini, aveva tirato fuori il suo ragazzo dalla strada e lo stava rendendo un uomo migliore...Ma non eri certa che fosse lei l’anima che Dio desiderava avere vicino a sé. Allora prima le hai regalato il libro...e poi...hai inventato la storia della missione, per vedere come lei avrebbe reagito. Dovevi essere veramente sicura di non sbagliare. E‘ così, vero?” La mano di Helena tremò più forte “Era la mia amica!” singhiozzò “non volevo perderla! Avevo desiderato che lei mi dicesse di no! Ho peccato: ho desiderato che lei mi dicesse che non le importava di quei bambini, che voleva solo Malcom e che i bambini del terzo mondo valevano meno della sua felicità con lui! Ma lei non lo ha detto, capisci? Perché lei era veramente un’anima pura, luminosa...e meritava di raggiungere subito il paradiso prima che il mondo potesse corromperla! Anche se questo voleva dire rinunciare a lei!!!” Tobias annuì lentamente. “Ho capito. Ma questa volta, Helena...sei altrettanto sicura?” Lei esitò un attimo, poi annuì. “Te lo ha detto qualcuno...?” fece Tobias. Poi si accorse di aver forzato la mano, infatti la mano di Helena divenne più sicura, tese il braccio e puntò la pistola alla testa della donna. “Lo faccio perchè ti voglio bene, Mandy...” Tempo. Tobias avrebbe voluto un secondo in più di tempo. Ma non ne aveva. “HA TRADITO SUO MARITO!” esclamò “Lo ha fatto sei anni fa, è stata una debolezza, perché lui era sempre a lavoro e lei si sentiva sola! Per questo subito dopo ha cominciato a fare volontariato in ospedale: per rimorso, senso di colpa nei confronti del dottor Brawn, non certo per spirito di solidarietà!” Mandy, al sentir questo, sbarrò gli occhi, ma Tobias gli rivolse una veloce occhiata d’intesa. Era la sua sola possibilità di salvezza. “C-come...lo sai...?” balbettò Helena. “Sono un profiler dell’FBI. E’ il mio lavoro. Prima di venire qui, ci siamo fatti dare tutte le informazioni possibili sulla signora Brawn. Non abbiamo certo trovato notizie di
un tradimento, ma l’improvvisa dedizione per il volontariato ci aveva sorpreso. Del resto, abbiamo preso notizie anche sul dottore: medico generoso, assiduo, sempre dedito ai suoi malati...e per questo meno dedito alla sua famiglia...” Stava inventando senza ritegno: sperò che Helena fosse abbastanza ingenua da caderci. “Quando sono entrato in questa casa me ne sono accorto subito. Vedi la fotografia?” ne indicò una sul comodino, che ritraeva la famiglia in vacanza “Il marito la sta abbracciando...ma lei si ritrae, è distaccata. E a giudicare dall’aspetto del figlio, questa foto è proprio di quegli anni” Helena aveva abbassato la pistola: le labbra le tremavano. Era come se le parole di Tobias avessero distrutto di colpo ogni sua certezza. “Levale il bavaglio, te lo confesserà lei stessa...” disse lui “Mandy vive nel peccato. Se la uccidi, la condanni per l’eternità...” La ragazza obbedì, e con la mano libera sciolse la stoffa che copriva la bocca della donna. Mandy respirò ansimando, guardò Helena con occhi dilatati, e poi Tobias, come a cercare un suggerimento, una speranza di salvezza. “Mandy...” disse allora lui “racconti ad Helena la verità. Lei ha tradito Frank, è così...?” Vi fu un lungo silenzio, per Tobias decisamente insostenibile. Poi, però, la donna prese fiato. “Sì...” ammise “Io l’ho tradito con Gregory Boe, il mio fornitore...” Tobias si trattenne dal tirare un sospiro di sollievo, e tra sé ringraziò la signora Brawn di aver capito ed essere rimasta nella parte. Fu allora che, col calcio della pistola, Helena colpì con violenza il muro, in un’esplosione di violenza. “PUTTANA!” gridò “Come hai potuto? Frank è un uomo buono e devoto, e tu gli hai fatto questo!!!” “Mi sono pentita! Chiedo perdono a Dio!” urlò Mandy tra i singhiozzi, terrorizzata. Ma in quel momento Tobias fece alcuni rapidi passi avanti, e si mise tra Helena e lei. Il volto di Helena era rosso di rabbia e rigato di lacrime: era veramente fuori di sé. Tobias le parlò con dolcezza, con la sua voce più calma. “Lascia che se ne vada...” disse “...Dio non è un giudice, e capisce la debolezza umana. Dio...ha fatto in modo che ti fermassi in tempo...” Allungò una mano verso il suo viso. “Non si deve mai togliere a qualcuno la seconda opportunità. E’ un dono prezioso che tutti hanno diritto ad avere. Tutti. Buoni e cattivi. Onesti e non. Sani e pazzi. Helena, ti prego...” Hudson stava ancora gridando alcuni improperi diretti alla sua persona, ma lui aveva occhi solo per la casa. “Mi stai ascoltando almeno??!” ululò Mervin. Era chiaro che Tee non aveva udito nemmeno una parola delle sue ultime frasi. “Ma che...” Hudson, che dava le spalle all’abitazione si voltò all’improvviso. Mandy, la vittima presa in ostaggio, stava uscendo a passi lenti e incerti. “Ce l’ha fatta” sussurrò Tee a fior di labbra “maledizione, quel ragazzo ce l’ha...” In quel momento uno sparo secco squassò l’aria tranquilla di quella cittadina di provincia. Tee e Hudson si guardarono negli occhi, fu solo per un istante, ma per un momento entrambi sembrarono provare le stesse emozioni. Poi Tee partì dritto verso la casa. Giunto davanti alla porta entrò con circospezione, ma non dovette cercare a lungo. La scena del crimine era lì, in salotto, proprio davanti a lui. Tobias era a terra, in un lago di sangue che, piano piano, stava formando una rosa sotto di lui. Helena era poco più in là, la pistola abbandonata a poca distanza, intenta a muovere le labbra sommessamente, in trance. Fu Hudson a scuoterlo. “Centrale, abbiamo un 414, agente a terra, ripeto, agente a terra, mandate subito un’ambulanza”. “Che cosa ho fatto..” fece in tempo a mormorare Tee prima di ricevere una spinta da Hudson. “Prendi questo e premi forte lì” urlò il collega. Nel frattempo lui allontanò la pistola da Helena che non sembrava essersi accorta di nulla. Tee premeva, ma il sangue non cessava di uscire, anche le sue stesse mani ne erano già lorde. “Sono stato io...” Non riusciva a smettere di pensarlo. Tobias si mosse e, inaspettatamente, cercò di parlare. “Che cosa...” Tee non capiva, probabilmente non voleva dire niente, ma non ebbe il tempo di stare a pensarci. L’ambulanza e i colleghi arrivarono in un lampo. Era la prassi in quei casi. Gli infermieri lo misero da parte senza molto cerimonie. Trasportarono Tobias sull’ambulanza. “Lei cosa fa? Sale?” domandò uno dei paramedici, che non poteva avere più di vent’anni. “Allora?” ripetè il giovane intento a chiudere le porte del veicolo. Tee annuì e salì a bordo. Era un incubo, doveva essere un incubo. Tee non faceva che ripeterselo. Come poteva essere stato così ingenuo? Come poteva essere stato così stupido?. Non riusciva quasi a guardare Tobias che, irriconoscibile, giaceva avvolto da fili e tubi. “La pressione è in calo, forza, forza, quanto manca?” esclamò uno dei paramedici, armeggiando con una siringa. Dopo qualche istante il veicolo frenò bruscamente, i due paramedici balzarono a terra, liberarono la lettiga e la spinsero all’interno del pronto soccorso. All’interno era il caos. Medici e infermieri rimbalzavano qua e là come palline da ping pong, mentre un’umanità quantomeno dolente sostava in attesa di un po’ di attenzione. Qualcuno gli afferrò un braccio, cercando di trascinarlo via, ma lui se lo scrollò di dosso. “Agente Murphy!” Tee si scosse dal suo torpore alla vista di Hudson che cercava di portarlo con sé. I due sostarono in uno dei corridoi del pronto soccorso. “Cosa dicono?” sussurrò Tee, quasi timoroso della risposta. Mervin si prese qualche secondo prima di rispondere e fissò il collega sconvolto e sporco di sangue. “Non si sbilanciano, non sono stati colpiti organi interni, ma la pallottola è molto vicina a un polmone, non sanno...”. Tee annuì, quando invece avrebbe voluto gridare. “Ehi Tee? Mi senti?”. In realtà no, non lo sentiva più, non voleva più ascoltarlo. Aveva bisogno d’aria. Hudson lo trovò nel giardinetto dietro all’ospedale, intento a fumare una sigaretta. “Ti cercano tutti” esordì. Tee rispose con una scrollata di spalle. “Ci sarà un’indagine...” Ovvio che ci sarebbe stata, ma non gli importava. Avrebbe risposto con sincerità alle domande. E se volevano il suo distintivo, bè potevano averlo. “Che cosa ti è saltato in mente eh?” proseguì Hudson tagliente “pensavi davvero che sarebbe filato tutto liscio? Con quale diritto hai...” si interruppe, pieno di rabbia. “L’aveva fatto altre volte...Io” Tee cosse la testa e, dopo qualche instante esclamò “mi sono sbagliato”. “Ti sei sbagliato? Ti sei sbagliato?! Hai una minima idea di quello che è costato a quel ragazzo?! Tu...Tu non hai il diritto di dire che ti sei sbagliato, sei il suo superiore, sapevi benissimo quello che facevi, e hai deciso di fare comunque di testa tua! Hai sorpassato qualsiasi limite Tee Murphy e adesso cosa fai? Te ne stai qui, senza nemmeno il coraggio di entrare, mentre Rendall sta rischiando la vita ed è colpa tua!” “Ma che cosa vuoi che ti dica?” sbottò Tee ad un tratto “mi dispiace! Io...” “Ah no, non credere di potertela cavare così...” intervenne nuovamente Hudson. “Lo so che è colpa mia e mi prenderò tutte le responsabilità, non c’è bisogno che tu venga qui e...Ah maledizione” Tee spense la sigaretta e la gettò da parte con un colpo secco. Hudson tacque per un momento, poi riprese “Sei solo un irresponsabile: io te lo avevo detto, e ora lo sapranno tutti, anche quel ragazzo che adesso è in sala operatoria. Se lui muore...”. Aveva sentito abbastanza, spinse Hudson da parte e corse via attraverso il parcheggio. Risa ancora non era ancora un’esperta profiler, ma non c’era bisogno di conoscere l’analisi comportamentale per
leggere i segni sul volto di Avril al telefono. Non era una novità: capitava spesso nel loro mestiere. Io telefono squilla, e qualcuno ti dice che uno dei tuoi colleghi non tornerà a casa. Ma a lei non era mai successo direttamente, non con qualcuno che conosceva. “Chi...?” domandò, e si sentì crudele nel pensare che, se avesse potuto scegliere, avrebbe desiderato che fosse Hudson, per soffrire di meno. “Rendall” rispose invece Avril, quasi meccanicamente, mentre si alzava e indossava la giacca “L’assassina gli ha sparato a bruciapelo. E’ in ospedale” Risa rimase per qualche attimo immobile, come se le parole dell’amica gli fossero arrivate in un codice sconosciuto e ci volesse del tempo per rimettere le parole in ordine e rielaborare il messaggio. “E’...è vivo, però...” fu l’unica cosa che gli uscì dalla bocca. La collega la prese per mano. “Sì. Ma non si sa altro. Andiamo là anche noi. La Harris ha detto che qui pensa a tutto lei” Risa si lasciò quasi trascinare e imboccarono il corridoio: fu allora che videro Claire e un altro agente scortare verso la sala interrogatori Helena ammanettata. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, vuoti, le labbra immobili: sembrava una vecchia bambola di porcellana, di quelle col viso dipinto, senza espressione. Si poteva uccidere con quella faccia? Si poteva uccidere e rimanere così, apatici, quasi che nulla fosse accaduto. Forse sì. Forse i suoi colleghi ne avevano visti tanti. Forse anche Tobias ne aveva visti. Ma lei non lo poteva accettare. Prima che Avril potesse impedire il peggio, Risa si gettò su di lei e fece per prenderla a schiaffi. Si fermò con la mano a pochi millimetri dal suo viso. “Perché non vedo cosa senti, stronza? Perché non mi fai vedere cosa senti adesso?” Avril e un agente balzato fuori da una porta laterale, la placcarono e la tirarono indietro. Helena mosse per un solo attimo lo sguardo per incrociare quello della ragazza che l’aveva appena aggredita. Poi abbassò gli occhi e, con una inaspettata, spaventosa sicurezza, disse: “L’ho fatto per lui. Quelli come lui...in questo schifo di mondo non ci possono stare...” Risa si sentì percorrere da un lungo brivido per tutta la schiena. Il medico si era sbottonato in un ottimistico “E’ andato tutto nel modo migliore”, ciò nonostante l’intervento era stato serio e la prognosi restava riservata. “Dicono sempre così...” spiegò Avril, cercando di essere rassicurante “Non possono darti garanzie per paura di ipotetiche complicazioni, ma quando un chirurgo ti dice che è andato tutto liscio, di solito si può stare tranquilli. Inoltre il centro di terapia intensiva di Oklahoma City è ottimo: hanno una percentuale di successi quasi del 90%...” Si bloccò quando vide che Tee non la stava nemmeno ascoltando. In quel momento il cellulare di Hudson si mise a suonare. Mervin si allontanò di qualche passo, quasi a non voler disturbare l’angoscia condivisa dei suoi tre colleghi, ma tornò pochi minuti dopo, rivolgendosi all’agente Murphy con tono decisionista. “Non sono riusciti a farle dire una parola. C’è bisogno di noi. Vado io ad interrogarla” La reazione di Tee lo sorprese. “No. Voglio parlarci io” Anche Risa e Avril lo guardarono stupite. Che si allontanasse dall’ospedale e non volesse rimanere ad assistere Tobias era veramente inaspettato. Ci fu un momento di silenzio, poi Tee andò avanti. La sua voce era meno decisa, quasi assente, dispersa. “...Quando l’abbiamo trovato, lui...” socchiuse gli occhi “Tobias ha cercato di dirmi qualcosa. All’inizio ho pensato che fosse solo un lamento...ma no...non è da lui dire cose inutili. In qualche modo...le cose che dice...che cerca di dire...hanno sempre un senso...” Rimase zitto di nuovo, e nessuno dei presenti ebbe il coraggio di contraddirlo, benché Hudson pensasse tra sé che la concezione che aveva del collega fosse veramente irrealistica e distorta. A maggior ragione in quel momento. “C’era qualcosa che aveva capito” concluse Tee “O che lei gli ha detto. Devo scoprire cosa” Hudson lo attendeva fuori dalla saletta interrogatori, appoggiato alla parte. “Tu non ti smentisci proprio mai eh?”. Non era per testardaggine o per un eccesso di orgoglio che voleva essere lui a condurre l’interrogatorio a Helena. E sapeva benissimo che Hudson lo disapprovava. Poteva leggerglielo negli occhi. “Le mie minacce non serviranno a niente vero?” Dal vetro trasparente Tee gettò un’occhiata all’interno della stanza. Helena non dava segni di nervosismo. “Non sono l’unico a pensare che non dovresti essere tu a condurre questo interrogatorio. Riflettici, non sei la persona più indicata per entrare in quella stanza. Perché non torni in ospedale? Tobias dovrebbe risvegliarsi tra poco. Che effetto gli farebbe trovarsi circondato da sconosciuti?” “Possono andare le ragazze” sussurrò Tee. Hudson scosse la testa...quella testa dura di Tee Murphy! Fosse per lui, l’avrebbe già mandato al diavolo, ma c’era caso che potesse essere Murphy stesso a scavarsi la fossa da solo. Se avesse fatto fiasco con quell’interrogatorio, i superiori non avrebbero potuto chiudere gli occhi ancora a lungo. Tee fece un respiro profondo. Doveva mettere Tobias da parte, Tobias, l’ospedale, Hudson. Doveva avere la mente sgombra per concentrarsi su Helena, perché tutto non risultasse vano. “Ciao Helena” fece Tee prendendo posto davanti alla ragazza. Lei non rispose, limitandosi a fissare un punto qualsiasi verso la parete. “So che quelle devono darti parecchio fastidio” continuò lui, accennando alle manette ai polsi della giovane “purtroppo è la procedura standard”. L’agente Murphy si schiarì la voce. Gli sembrava che ogni minuto fosse prezioso e mentalmente si intimò di rimanere calmo e concentrato. “Helena” proseguì cercando di catturare l’attenzione della giovane “ti ricordi che cosa è successo nelle ultime ore?” Lei finalmente lo degnò di uno sguardo “io..io ho fatto una buona cosa. Ho mandato una persona da Dio”. Tee rabbrividì. Non era la prima volta che sentiva simili ammissioni dai sospettati, ma questa volta era diverso. “Lui, lui era così buono...io non potevo, non potevo non farlo, capisci?” e benché avesse i polsi ammanettati Helena tentò di afferrare le mani dell’agente, che si ritrasse istintivamente. Tee capiva fin troppo bene, la ragazza era completamente immersa nel proprio delirio, niente poteva scalfirla, tuttavia lui doveva provare. “Helena tu...pensi di averlo ucciso vero?” esclamò Tee cercando di guardarla negli occhi. “Io gli ho sparato. Così andrà in cielo prima di poter essere corrotto dal peccato”. Tee scosse la testa, ancora quella storia, come poteva riportarla nella loro dimensione? Oh se solo fosse riuscito a parlare con Tobias prima che lo portassero via. Ma no, pensarla in questo modo non l’avrebbe aiutato, come sempre era consapevole che le prove, la soluzione erano lì davanti a lui, bisognava solo trovare il modo. Decise di cambiare tattica “sai, Tobias, il ragazzo a cui hai sparato, è un mio amico”. “Ma che diavolo sta combinando?!” esclamò Hudson che seguiva il penoso interrogatorio dall’esterno. Solitamente, nel tentativo di far confessare una fanatica religiosa non si rilasciavano informazioni personali. L’uomo più anziano scosse la testa con veemenza, sebbene volesse vedere Tee rotolare nel fango, teneva di più a che quest’ultimo ottenesse qualche risultato: l’indagine doveva proseguire, questo era più importante degli screzi personali. Helena parve non udirlo nemmeno, continuò a dondolarsi scandendo a bassa voce parole senza senso. “Tu pensi di averlo mandato in un posto migliore, ma non è così” riprese Tee. “Oh sì, invece lui...” gli fece eco Helena “Tobias si trova in ospedale, si riprenderà...tutto ciò che hai fatto è stato solo fargli del male...” “NO!” scattò Helena, come presa dall’isteria, gridando con
quanta forza aveva in corpo “NOOOOO!!!“ Se non fosse stata legata avrebbe anche potuto rovesciare il tavolo e la sedia, tanta era la sua furia. Tee non si scompose “Helena, Helena, Helena!” L’urlo della ragazza si spense in un gemito “lui...lui...Ah!! Mio Dio, perdonami! Altissimo signore, abbi pietà di me!” “Fantastico la nostra sospettata è fuori controllo” esclamò Hudson sempre più irritato. Fosse stato per lui avrebbe sostituito immediatamente l’agente Murphy, ma c’era qualcosa che lo tratteneva. E come aveva cominciato, Helena si fermò di colpo, facendo cadere la stanza degli interrogatori nel silenzio più assoluto. “Lui...Tobias è ancora vivo?” sussurrò la ragazza con un filo di voce. Tee annuì. “...non volevo fargli male...” “lo so” Ci fu un lungo silenzio. “Hai agito credendo di fare del bene giusto?” La ragazza annuì. “Mary era mia amica..." sussurrò tra i denti Helena "questo posto, questo mondo, tutto quanto è uno schifo, non lo pensa anche lei? Bene, ora io ne sono certa, adesso loro sono in un luogo migliore e il Signore me ne renderà credito quando mi presenterò davanti a lui, un giorno...”. “...ed è per questo che li hai messi alla prova, tutti loro, Mary, la signora Brawn, la signora Chatterly, tutti quanti...li hai messi alla prova, e poi, quando hai capito che erano degni del paradiso, li hai uccisi...“ Fu in quel momento che accadde quello che Tee aspettava. Helena alzò la testa e strinse le labbra, le sopracciglia si contrassero, distolse gli occhi da lui. Al sentire pronunciare i nomi delle altre vittime si era confusa, aveva dato un segnale...Il suo corpo voleva dire la verità, anche se consciamente la donna la stava nascondendo. “...ma tu non eri sola” Fece Murphy, con voce calma, per quanto quell’ipotesi rendesse tutto più drammatico. “...hai ucciso solo Mary: gli altri non li hai uccisi tu” Ecco cosa cercava di dirgli Tobias: c’erano due S.I. e Helena - era evidente - era la personalità debole. L’assassino dominante era ancora fuori, pronto a proseguire il suo folle piano. La voce di Tee si fece dura, decisa. “Helena, chi ha ammazzato i tuoi compaesani? Chi ti ha convinto ad uccidere la tua migliore amica?” La fissò con sguardo penetrante, come se volesse leggerle la mente. La ragazza si morse un labbro a sangue. E per la prima volta, con voce rotta, disse qualcosa di talmente lucido e sensato che era chiaramente estraneo a lei: qualcosa che le avevano insegnato a dire, se fosse stata presa: “Voglio un avvocato” Tee uscì dalla stanza, senza guardare il collega negli occhi. Fu Hudson a parlare. “Due S.I: siamo praticamente da capo” L’altro si strinse nelle spalle. In quel momento l’agente Harris fece il suo ingresso nella sala. “Abbiamo l’esame del DNA della sospettata” disse “e c’è qualcosa che dovreste vedere...”
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Capitolo 10 *** D'incoscienza e d'eroismo ***
Capitolo 10
D'incoscienza e d'eroismo
C'è qualcosa che dovreste vedere è la frase che ogni poliziotto in un momento di totale stallo del caso ha piacere di sentirsi dire. E così sarebbe stato anche per Tee se la sua mente non fosse stata divisa tra l'essere lì adesso e il sentirsi completamente staccato da sé.
Hudson in compenso si affrettò a chiedere alla Harris di spiegarsi.
“Circa un anno fa, in un cassonetto in un vicolo fuori mano, fu ritrovato il cadavere di un neonato. Poiché in quei giorni stavamo lavorando al caso dell'omicidio di una prostituta, furono fatti i test del DNA, che quindi sono in archivio. Indovinate un po'...?”
“...è quello di Helena” fece Tee, atono.
“Già. Ho consultato il fascicolo del vecchio caso: il bambino è morto per soffocamento. Dunque...la donna probabilmente ha partorito in casa...dopodichè ha ucciso il neonato e se ne è sbarazzata”
“Ed ecco il fattore di stress” commentò Mervin “Forse non poteva tenerlo, forse era stata abbandonata dal padre di suo figlio, o forse, data la forte cultura religiosa da cui evidentemente proviene, non desiderava il bambino e l'ha famiglia ha fatto pressioni per impedirle di abortire. Visto il suo evidente squilibrio psichico, forse non ha neppure lucidamente pensato l'omicidio: forse è stato un attacco di panico come quello di cui ci ha parlato Rendall”
Ci fu un attimo di silenzio, in cui tutti rimasero pensierosi, come a cercare ciascuno da solo il bandolo della matassa.
“Devo parlare ancora con lei” dichiarò ad un tratto Tee, alzandosi.
“Dovremo farlo in presenza di un avvocato. Si è appellata ai suoi diritti”
“Non me ne frega un cazzo dei suoi diritti” rispose l'agente, con una freddezza disarmante “E sapete cosa vi dico? In realtà, non frega un cazzo nemmeno a lei”
Si diresse di nuovo nella sala interrogatori. La ragazza era immobile, esattamente come l'aveva lasciata.
“Tobias lo sapeva” esordì l'agente, spostando la sedia e accomodandosi con serenità “aveva capito che tu non eri la principale responsabile. Anzi, penso che sia entrato in quella casa per fermarti, credendo ancora che fossi innocente, che ci fosse qualcun altro dietro di te”
Helena lo fissò negli occhi. Ma non ripeté di volere un avvocato.
Lo sguardo di Tee si fece dolce.
“Sappiamo del bambino. Sappiamo che non volevi farlo...”
La ragazza emise un gemito soffocato, come se un dolore acuto l'avesse colpita in qualche parte del corpo.
“...e so che hai bisogno di parlarne, che non vuoi più tenerti dentro tutto questo...”
Allungò una mano, ed andò a posarla sui polsi ammanettati di lei.
Di tutto il discorso, Mervin colse solo quella frase: il collega aveva colto un punto fondamentale, il solo, vero collegamento che li avrebbe portati al secondo assassino! Una madre che ha ucciso il proprio figlio non poteva essersi tenuta tutto dentro! E a chi mai raccontare una tragedia simile? A chi se non a qualcuno che per voto non lo avrebbe mai rivelato?
Come sospinto da una folata di vento, l'agente si alzò, e piombò dentro la sala interrogatori prima che Harris potesse anche solo provare a fermarlo.
“So chi è l'altro S.I!” esclamò, senza riguardo per la rabbia sul volto di Tee e lo spavento su quello della ragazza “E' il prete, padre Tamas! E' lui che le ha messo in testa queste fandonie dei puri che vanno direttamente in paradiso! Ha fatto leva sul suo senso di colpa, ha trasformato il suo gesto di madre folle in un gesto d'amore, e alla fine l'ha convinta a rifarlo ancora!”
Tee non fece alcun cenno, il suo volto divenne quasi inespressivo.
“Nessuno può indossare una faccia da mostrare a se stesso e un'altra da mostrare a tutti gli altri ” recitò “senza alla fine trovarsi nella condizione di non capire più quale possa essere la vera”
Helena cominciò a tremare, a tremare forte, finché i tremiti divennero convulsioni.
L'agente Harris irruppe nella stanza.
“UN MEDICO!” gridò “chiamate un medico!”
La macchina sfrecciava per le piccole vie di Sand Spring.
“Sì, è proprio come pensavi tu, Tee” cantilenava la voce di Avril al telefono “Rayan Tamas nel 1999 viveva ad Oklahoma City, poco distante dalla casa di Harper! Abbiamo già fatto prelevare il fratello per interrogarlo e sapere se Tamas avesse legami col Don. In caso affermativo, attendo autorizzazioni per richiedere la riesumazione del corpo di Susanne Hillman. Se troveremo su di lei il suo DNA, l'abbiamo incastrato!”
Hudson diede in una brusca frenata che sollevò la polvere del selciato: Tee balzò fuori prima ancora che Mervin potesse aprire la propria portiera.
“PADRE TAMAS!” esclamò, saltando due gradini alla volta e puntando l'arma nell'oscurità incensata della chiesa “FBI! ESCA CON LE MANI ALZATE!”
Hudson udì un colpo di pistola.
Raggiunse Tee con pochi istanti di ritardo, e lo trovò seduto sui gradini dell'altare, col viso disteso, quasi rasserenato, di chi si ferma a riprendere fiato dopo un lungo cammino.
Riverso, ai piedi del tabernacolo del sacramento, c'era padre Tamas, con un buco di proiettile nella tempia, e il sangue che si mescolava con la vernice che si era sparsa sul pavimento dal secchio rovesciato.
La scritta rossa campeggiava sul marmo bianco in lettere chiare: “...E ricordate, bambini: Dio non è venuto solo per i belli, ma anche per i brutti; non solo per i buoni, ma anche per i cattivi. Chi dimentica questo, e giudica al posto di Dio, non sarà salvato. Alex Zarosky”
Mollemente, Mervin sedette accanto a Tee.
“Anche lui doveva essere stanco di tenersi dentro tutto questo” disse.
“Già. Peccato che prima di stancarsi abbia distrutto la vita di quattro persone”
In quel momento il cellulare squillò: era Avril.
“Il sospettato è morto” la informò meccanicamente Tee “Suicidio. Notizie dall'interrogatorio di Harper?”
“No” rispose la ragazza “Ti chiamo per Tobias. Il medico ha detto che se la caverà”
L’agente Murphy si fermò davanti alla stanza 307.
Fece per girare la maniglia, ma si bloccò.
“Ha bisogno di qualcosa.. ehm signore?”.
Tee sobbalzò, voltandosi di scatto verso una graziosissima infermiera che lo osservava pensierosa “ha bisogno di aiuto?”.
“Un mio amico…lui” cominciò incespicando sulle parole l’agente Murphy.
“Non sa dove si trovi? Posso darle una mano a cercarlo…” rispose la ragazza.
“No è che… non so se… vuole vedermi, sono successe un sacco di cose e…” per la prima volta Tee si rese conto che stava parlando con una perfetta estranea. La cosa, in realtà, non lo disturbava più di tanto.
“Sono certa che questo suo amico sarà contento della sua visita, mi creda…”
Tee annuì e, dopo un lungo sospiro, entrò.
Tobias era a letto, circondato da tubi e monitor che ne registravano battito, pressione e altre diavoleria mediche.
Sentendo avvicinarsi qualcuno, aprì gli occhi e fece per parlare.
“Ssh, non sforzarti” sussurrò l’agente Murphy “sono passato solo per un saluto, io… sono contento di vedere che stai bene…”.
Avrebbe voluto mordersi la lingua: ovvio che Tobias non stesse propriamente bene.
Ma lui abbozzò sorriso e sussurrò qualcosa, con una voce così bassa che Tee fu costretto ad avvicinarsi molto per distinguere le parole.
“…la parete…” bisbigliò “...grazie...”
Tee si guardò intorno, capì al volo e scoppiò a ridere.
Sul muro dirimpetto al capezzale era appesa un'improbabile coccarda di pizzo rosa confetto bordato di nero e, sull'armadietto, un mazzo di gerbere di vari colori.
“E' stata opera di Risa” disse “Secondo me ha staccato quel fiocco da uno dei suoi terribili cappelli. Dovrei impedirle di venire a lavoro così...”
Il ragazzo sforzò un altro sorriso “Dovresti impedirlo anche a me...”
Poi l’agente Murphy tornò serio “mi dispiace Tobias, mi dispiace per quello che è successo con Helena, in quella casa...io...non avrei dovuto agire così d’impulso, ora lo riconosco e se non mi fossi comportato da stupido ora non saresti qui”
Tobias lo osservava sereno.
“E' un'idea di Hudson? Perché questo, sai...non dovrebbe essere un pensiero tuo...”
Tee rimase in silenzio.
“Te lo dissi già una volta, ricordi? Dare o chiedere fiducia, comporta un'assunzione di responsabilità. Non è stato uno sbaglio: è stata una normale implicazione dell'avermi dato fiducia. E sono felice che tu me l'abbia data”
Socchiuse gli occhi, stanco.
Non era il momento di contraddirlo, pensò Tee.
Sempre che, tutto sommato, avesse davvero voluto farlo.
Qualche giorno dopo, fu Mervin Hudson a recarsi da Tobias per riepilogargli come si fosse concluso il caso. Rayan Tamas – si era saputo – conosceva Don dai tempi della scuola. Avevano vissuto esperienze di strada insieme, finché Don non aveva scoperto la fede e trovato la sua strada. Si erano rincontrati dopo molti anni, e per Rayan la conversione di Don e il conseguente successo come scrittore erano stati come un'illuminazione. Aveva maturato una vera e propria ossessione per il vecchio compagno d'infanzia e per la sua distorta concezione di fede e aveva divorato tutti i suoi libri...fino a voler arrivare a superare lo stesso “profeta”, rendendo reale ciò che aveva scritto. E così, appigliandosi al libro la via della felicità, aveva commesso il suo primo omicidio. Don probabilmente lo era venuto a sapere, se non ne era stato addirittura testimone oculare, e ne aveva maturato il senso di colpa che lo aveva spinto a bruciare il magazzino della casa editrice. Forse temeva che Rayan si sentisse rinnegato dal proprio mentore, o forse aveva ricevuto delle minacce...per questo poi aveva preferito far perdere le proprie tracce. Rayan Tamas, invece, libero da ogni sospetto grazie alla condanna del postino, era stato libero di coltivare il proprio fanatismo, facendosi prete ed andando in cerca di fedeli per la propria missione: ma quando aveva scoperto che Don scriveva ancora, sotto un altro nome, e che aveva rinnegato io loro credo comune, aveva dovuto ucciderlo. Helena Torres, invece, giovane spiantata e con seri disturbi mentali, era fuggita di casa incinta, insieme ad un uomo che l'aveva abbandonata ormai a gravidanza avanzata. Il senso di colpa per l'omicidio del neonato aveva distrutto la sua psiche già molto fragile, e Padre Tamas era stato il suo solo appiglio. Aveva commesso l'omicidio di Mary Summers , mentre era, almeno alle prime indagini, estranea agli altri tre omicidi, benché ne fosse a conoscenza. Il suo avvocato avrebbe richiesto l'insanità mentale.
“...spero che...” Tobias scosse il capo “...ma no, non spero nulla. Quando la mente decide di perdere la strada...puoi solo...rimanere a guardare. Mi auguro che accanto a lei ci siano persone che sanno guardare dall'angolazione giusta.”
D'un tratto cambiò espressione e sorrise.
“Hai dello zucchero? Ho molta voglia di zucchero!”
Mervin si frugò nelle tasche ed estrasse una scatola di mentine.
“Da quando sapevi che lei era coinvolta?” chiese a bruciapelo.
“Non lo sapevo”
“...”
“Quello che sapevo con certezza era che aveva gli occhi di chi sa di non aver salvato qualcuno”
“Mai sentito parlare di un tipo di sguardo simile, Rendall: nemmeno nelle teorie più avanguardistiche”
Tobias finì di masticare la caramella, poi buttò lo sguardo alla tenda colorata che Tee aveva fatto mettere alla finestra, e poi ancora fuori, sfocando la vista all'infinito.
“Lo so. Infatti non si tratta di teorie. Qua conta molto di più l'istinto, e quell'istinto io ce l'ho. Anche tu lo sai”
Hudson aggrottò leggermente le sopracciglia.
“Il giorno che il tuo istinto sbaglierà, non avrai pezze d'appoggio con cui proteggerti. Ne sei consapevole?”
“Sì. Ma di non seguire quell'istinto mi è accaduto una volta sola...e dato che hai letto il mio fascicolo, sai quanto mi sia costato...”
Mervin non si aspettava un riferimento così esplicito. Per un momento ne fu quasi imbarazzato.
“Non puoi basare il tuo lavoro su un senso di colpa infondato, Rendall”
“Non si tratta di senso di colpa. E, al tempo stesso, non si tratta di qualcosa di infondato. Ho imparato a conoscere le mie sensazioni...so dove vanno...Sono molto più affidabili di mille studi”
“Questo è presuntuoso. E incosciente, anche”
Tobias tornò a guardarlo, sereno, quasi allegro.
“Hai ragione, è incosciente. Ma non presuntuoso. Coraggioso, semmai. O almeno, così mi trovo a viverlo, e lo sento la sola forma di coraggio di cui io sia capace, tra mille cose che, invece, mi spaventano. Dopotutto, credo che sia questo che fa sì che ci sia tanta fiducia tra Tee e me, dato che questa sarà la prossima domanda che mi farai. O che farai a lui. Tee Murphy si fida di me, e non sa nulla di me. O sa molto meno di quanto ne sappia tu, dato che non ha letto il mio fascicolo. E questo io lo chiamo incoscienza, e lo chiamo coraggio. Accogliere nella propria squadra una persona di cui non sai niente, e trovarti con lei in situazioni un cui ti toccherà di affidargli la tua vita, è, certamente, un'incoscienza. Ma guardare la gente non per ciò che è stata, ma per la sua potenzialità di essere, è eroico”
Fece un largo sorriso, un sorriso che, in quel momento, a Mervin parve che desse luce a quella desolante stanza d'ospedale. E, in retrospettiva, un po' anche a tutta la desolante vicenda di cui erano appena stati testimoni.
“Lavorare con te sarà pieno di sorprese” disse
“ Può darsi di si. Sorpresa è una parola a colori”.
Mervin Hudson si avviò per il corridoio dell'ospedale ridacchiando.
Non aveva mai immaginato una parola a colori. |
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