La leggenda di sir Gregory

di Beatrix Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Liber I ***
Capitolo 3: *** Liber II ***
Capitolo 4: *** Liber III ***
Capitolo 5: *** Liber IV ***
Capitolo 6: *** Liber V ***
Capitolo 7: *** Liber VI ***
Capitolo 8: *** Liber VII ***
Capitolo 9: *** Liber VIII ***
Capitolo 10: *** Liber IX ***
Capitolo 11: *** Liber X ***
Capitolo 12: *** Liber XI ***
Capitolo 13: *** Liber XII ***
Capitolo 14: *** Liber XIII ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo



Rientrare a casa quella sera fu veramente piacevole. Un sole debole, ma sufficientemente fastidioso, aveva illuminato Dublino per tutta la giornata. Era ormai tardi quando avevo finalmente smesso di lavorare e calcolare dati di fisica e avevo chiuso il laboratorio per tornare a casa.

Adoravo il buio e la calma che scendeva su villa McGregor al calar del sole. Infilai la chiave nella toppa e la girai un paio di volte. Osservai accigliato l'enorme portone: era arrivata l'ora di cambiare la vecchia serratura con qualcosa di più moderno e sofisticato. In America si parlava di nuovissimi rilevatori di impronte digitali che magari avrei potuto modificare personalmente. Sarebbe stato comodo usare il proprio pollice come chiave; senza dubbio non si correva il rischio di restare chiusi fuori.

«Ciao, amore» sussurrò Maryon che era stata attirata dal suono delle chiavi e mi aveva accolto sull'uscio. Mi baciò delicatamente. «Hai fatto tardi questa sera» sussurrò, lasciando un'occhiata alla pendola in ingresso.

Appoggiai le chiavi sul tavolo e mi levai la giacca. «Sto finendo di lavorare ad un progetto» risposi, facendo il sorrisetto a metà che le piaceva tanto. Maryon indossava una camicia da notte bianca, tirata sul ventre. Appoggiai delicatamente il palmo della mano sul suo pancione e un sorriso spontaneo mi si disegnò sulle labbra. Fra meno di un mese sarei diventato padre. Il bimbo si mosse e scalciò proprio mentre accarezzavo con dolcezza il ventre di Maryon.

«L'hai sentito muoversi?» mi domandò con un sorriso, che non potei non ricambiare.

«Sì, è forte il nostro piccolino» risposi.

«O piccolina» mi corresse Maryon. Avevamo deciso di non chiedere il sesso del bimbo, perché fosse una sorpresa alla sua nascita. Ma io sapevo che era un maschio. E l'avevo detto parecchie volte anche a Maryon. «Sei così cocciuto. E dire che sei un genio... dovresti saperlo che il sesso si determina in modo casuale. Vedrai che sarà una femmina».

«Fidati, è un maschio. Quasi mille anni di dinastia McGregor e tutti i primogeniti sono maschi» risposi, pur sapendo che questa non era una prova scientificamente valida per sostenere la mia tesi. Poi pensai che fosse giunto il momento di leggere a mia moglie la vita del mio capostipite, sir Gregory di Scozia.

«Ti va di sentire una storia?» le chiesi dirigendomi in salotto, verso la biblioteca.

Maryon mi guardò perplessa, poi decise di seguirmi e ripeté incuriosita: «Una storia?»

Presi dal quarto scaffale un libro rilegato con una copertina di velluto rosso. «Sì, una storia. Quella di sir Gregory di Scozia. In realtà il manoscritto originale è in latino ed è del mille e cento, per questo si trova nella biblioteca di Dublino. Ma questa è la traduzione modernizzata che ne avevo fatto una decina di anni fa» risposi sedendomi sul divano e aprendo il libro.

Maryon si accoccolò al mio fianco, con la testa sulla mia spalla e le mani che cingevano dolcemente il grembo. «Leggi, ti ascolto» sussurrò con un sorriso.

Così cominciai il racconto.



Queste sono le memorie di Sir Gregory di Scozia, un uomo di singolare intelligenza e di grandissimo onore.

Le narrerò così come lui me le raccontò sul letto di morte e come io stesso le vidi con i miei occhi, affinché anche i posteri abbiano memoria di questo grande cavaliere.

Cormac, il chierico




Bonjour a tutti! Eccoci qui con la storia che inaugura la mia nuova serie fantasy che prenderà il nome di “Ciclo di Faerie”.

Attenzione al personaggio di Christopher Alfred McGregor perché qui compare poco, ma presto o tardi lo vedrete all'azione! È uno dei miei primi personaggi originali (il primo racconto di questa serie, “I segreti rubati”-presto su questi schermi- è del lontano 2006!), nonché il mio preferito. Questa storia in particolare è dedicata al capostipite della sua famiglia... pieno medioevo, vecchie biblioteche, intrighi di corte e strane leggende. Spero che vi piaccia!

A martedì prossimo,

Beatrix B.


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Capitolo 2
*** Liber I ***


Liber I





Non era affatto semplice la missione che dovevo portare a termine per conto del mio signore, ma non mi preoccupavo più di tanto: avevo dalla mia parte una cultura approfondita e accurata, il favore delle stelle e soprattutto una buona dose di astuzia.

Me ne stavo seduto sul ciglio di una strada polverosa: non so bene cosa mi spinse a sollevare gli occhi proprio in quel momento, ma subito il mio sguardo fu rapito da un giovane chierico che stava spingendo al trotto il suo mulo, proprio nella mia direzione.

«De profundis clamavi ad te, Domine: Domine, exaudi vocem meam. Fiant aures tuae intendentes in vocem... in vocem?» stava recitando, ma arrivato al secondo verso del salmo si bloccò sovrappensiero. Io ero avvolto nel mio mantello di lana, anche se eravamo in piena estate; tuttavia non fu quella bizzarria ad attirare l'attenzione del viandante nei miei confronti. Fu la mia voce.

«Deprecationis meae» dissi con un sorriso.

Il chierico si voltò verso di me con l'aria sorpresa. «Prego?» domandò, scioccamente, osservandomi come se non avesse mai visto un uomo con un mantello prima di allora.

«Deprecationis meae, è la parola del salmo su cui vi siete bloccato» gli risposi, con un breve cenno del capo.

Il giovane parve illuminarsi: probabilmente la sua memoria gli aveva tirato un brutto scherzo e il mio suggerimento l'aveva sbloccato. «Grazie, buon uomo» annuì con riconoscenza.

Fu allora che mi alzai da terra e levai il cappuccio dal capo, rivelando il mio volto. Certo, non dovevo essere molto più vecchio del mio interlocutore, ma lui, al mio confronto, pareva tanto ingenuo e infantile. Dopotutto, io ero un uomo maturo.

I suoi occhi si soffermarono per un attimo sulla mia feluca -il cappello a punta che portavo calato sugli occhi- e sul mio mantello scuro, ma poi mi rivolse un gran sorriso. «Dove siete diretto?» gli chiesi, cercando di apparire gentile.

«A Dublino, buon uomo. E voi?»

Mi avvicinai a lui e presi ad accarezzare il muso del suo mulo, sovrappensiero. «Dove mi porta il vento» risposi dopo un attimo. Infine gli rivolsi un sorriso enigmatico, nel tentativo di destare la sua curiosità. Quel monaco poteva fare al caso mio: si stava recando proprio dove mi interessava e inoltre era sufficientemente dotto, visto che sapeva il latino, da essere inserito negli alti ambienti della città, il vescovado, di sicuro, e forse anche la corte regale.

«Accompagnatemi fino a Dublino, allora. Il vento tira in quella direzione» propose con giovialità. Io sorrisi: avevo colto nel segno.

«Il mio nome è Gregory. Vengo dalla Scozia» mi presentai con un breve inchino.

«Servo vostro» rispose il chierico, chinando il capo. «Io sono Cormac, un umile canonico della Cattedrale di Christchurch».

«Umile, ma istruito» commentai con un sorriso, incamminandomi lungo la via.

Cormac rimise al trotto il suo mulo con un colpo di tacco. «Anche voi siete istruito» rispose poco dopo, scrutandomi con i suoi profondi occhi nocciola, come se sperasse di scoprire chissà quale verità.

Il mio sorriso si fece nuovamente enigmatico. «Ho viaggiato molto».

Parlare con il giovane Cormac era piuttosto piacevole: era istruito, conosceva non solo le Sacre Scritture ma anche gli autori latini, sapeva le Arti Liberali e il canto gregoriano. Tuttavia la sua cultura non l'aveva reso meno ingenuo e innocente: avevo come l'impressione che fosse manovrabile al punto giusto. Proprio ciò di cui avevo bisogno per il mio piano.

«Che cosa vi ha portato nella verde Irlanda, sir Gregory?» mi domandò ad un certo punto Cormac, incuriosito dalla mia bizzarra figura.

Certo non potevo essere un uomo d'armi, un soldato di ventura, visto che la mia unica arma era un corto pugnale appeso alla cintola. Inoltre ero dotto e istruito: non si poteva sicuramente pensare che fossi un vagabondo o un saltimbanco. Non restavano tanti altri motivi per viaggiare a quell'epoca, soprattutto non in una terra marginale come l'Irlanda dove non c'era nulla che avrebbe potuto attirare dei viaggiatori, se non distese di prati lussureggianti. «Sono uno studioso» risposi in modo vago.

«E che siete venuto a studiare, qui?» domandò Cormac sorpreso, visto che Dublino non era certo un famoso centro di cultura.

Mi strinsi nelle spalle. «Non lo so nemmeno io» sussurrai in un tono che voleva apparire affranto. «Cercavo solo un posto che mi ricordasse la mia amata Scozia».

«Cosa vi tene lontano dalla vostra patria?» mi chiese allora Cormac, incuriosito da quelle poche informazioni che avevo sparso appositamente qua e là nelle mie vage risposte.

Accennai un sorriso dolente, poi cominciai a narrare: «Il clan dei Whiskervilles. Sono spietati e affamati di terre: si spingono sempre più a nord, sospinti dall'espansionismo di re Henry II, nel sud dell'Inghilterra. Gli è bastato poco per strappare i possedimenti alla mia pacifica e onesta famiglia, uccidendo mio padre e i miei fratelli».

A quelle parole, feci una pausa, per aumentare la drammaticità del racconto, poi ripresi: «Da allora girovago per l'Europa, mettendo la mia conoscenza a servizio di cattedrali e corti. Sono stato nel nord della Francia per molti anni, ma le desolate brughiere della Scozia invocavano il mio nome e mi richiamavano a casa. E così eccomi qui, a sognare la mia terra attraverso i verdi prati irlandesi».

Alla conclusione del raccolto, avrei voluto inchinarmi per raccogliere gli applausi di un pubblico immaginario, tanto era stata commuovente la mia interpretazione, ma mi trattenni. Sbirciai di sottecchi la reazione del giovane chierico: sembrava profondamente commosso e turbato dalle mie parole. Bene, significava che ero stato convincente.

«Cormac!» esclamò proprio in quel momento una voce squillante. Entrambi ci voltammo verso il pendio dei una collina al nostro fianco: una ragazza ci stava correndo incontro. Aveva una cascata di capelli rosso fuoco che ondeggiavano al vento e una semplice casacca di lino. Le scarpe di cuoio erano coperte di fango, i capelli arruffati e il vestito sporco. Appena fu sufficientemente vicina al chierico, gli gettò le braccia al collo.

«Sacco di sterco! Dove sei stato tutto questo tempo?» strillò, stritolandolo in un abbraccio.

«Feamair» bofonchiò quello, con il fiato mozzato. «Sono stato...» cominciò a dire, ma alla ragazza non importava nulla di dove fosse stato l'uomo: era solo contenta di averlo ritrovato.

«Non voglio sapere dov'eri... Voglio solo che non sparisci più a questo modo!»

«Non sono sparito, è che al monastero...»

Non fece in tempo a concludere la frase, che la ragazza gli aveva dato uno spintone tale da farlo cadere dal mulo. E poi scoppiò a ridere.

«Che avete da guardare?» si rivolse poi a me, in tono aggressivo.

Io sollevai un sopracciglio e le rivolsi un sorriso indecifrabile. Nonostante i modi rozzi e gli abiti sporchi, capii che non si trattava di una semplice pastorella, perché al collo aveva una crocetta d'argento e la fibbia d'oro della sua cintura era finemente elaborata secondo il gusto dei popoli del nord. «Milady» dissi nel prendere la sua mano infangata per baciarla.

«Chi vi dice che sono una Lady?» rispose quella, sottraendo la sua mano alla mia presa e guardandomi con aria di sfida.

Non persi quell'occasione di competizione. Le feci un veloce inchino e risposi: «Ogni donna è una dama».

«Ma non ogni uomo è un cavaliere» rispose Feamair con sguardo eloquente.

Io sollevai un sopracciglio, sorpreso. La ragazza non era certo istruita, anzi probabilmente non sapeva né leggere né scrivere, eppure aveva appena enunciato un principio della Logica aristotelica sostenuto dal filosofo aravo Avicenna, certamente ad intuito. Buffo, ma avevo come l'impressione che avrei dovuto guardarmi le spalle da quella giovane con i capelli color del fuoco.

«Lo sa tua zia che sei qui a badare alle capre?» intervenne Cormac, sistemandosi la veste da monaco e ripulendola dalla polvere della strada.

La ragazza fece una smorfia di disgusto. «Non è affare di mia zia quello che faccio o non faccio. La moglie di Rudy, il barcaiolo, mi ha chiesto di guardarle le capre, mentre lei andava dagli O'Flannel per aiutarli con il parto della figlia» spiegò con naturalezza. Sarebbe stata una cosa normalissima, se solo non avessi avuto la certezza che il rango della giovane dama doveva essere ben più elevato di quello di una pastorella.

Il giovane chierico scosse la testa rassegnato. «Finirai per cacciarti in guai seri» commentò in tono fatalista, come se avesse appena annunciato una catastrofe naturale.

La ragazza scoppiò a ridere con tanta intensità che le gote spruzzate di lentiggini si arrossarono, dandole un'aria ancora più rustica e di una graffiante bellezza. «Lo so, Cormac. È proprio quello che spero» rispose alla fine, mentre i suoi occhi verdi brillavano di furbizia, luminosi come uno specchio d'acqua in mezzo ai monti. Dopodiché fece una piroetta e si avviò saltellando verso il pascolo. Tuttavia, prima di essere troppo lontana, si voltò verso di noi e gridò: «Ah, comunque, se vedi mia zia, dille che molto probabilmente 'sta notte dormo fuori. Non credo che la moglie di Rudy tornerà in tempo e certo il gregge non può essere abbandonato».

Cormac rispose con un sospiro rassegnato: evidentemente era ormai abituato al carattere ribelle della ragazzina. Rimase per parecchio tempo immobile ad osservare la sua figura che correva per il prato, con i capelli rossi al vento. «Siamo cresciuti insieme: per me è come una sorella» confessò, più che altro rivolto a se stesso. «Solo che a volte temo per lei e per il suo futuro: non può continuare a comportarsi così».

Per un attimo anche io mi persi via ad osservare la figura di Feamair, come se ne fossi rapito. «Mio giovane amico, credo che con un carattere come il suo, se la saprà cavare in ogni situazione».



Ecco qui il primo capitolo della nuova storia. Spero che abbia stuzzicato la vostra curiosità...

nel frattempo, qualche immagine: QUI fratello Cormac, QUI sir Gregory e QUI lady Feamair.

Alla prossima,

Beatrix


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Capitolo 3
*** Liber II ***


Liber II





La locanda che fratello Cormac mi aveva consigliato non era eccelsa, ma nemmeno squallida. Sicuramente si pagava poco. In fondo, per raggiungere il porto di Dublino, avevo viaggiato su una nave mercantile, passando le due notti più traumatiche della mia vita, perché il mare che avevamo attraversato era sconvolto da una tempesta terrificante. Certamente, potevo sopravvivere ad una locanda non particolarmente lussuosa.

Aver incontrato sulla strada fratello Cormac era stata una vera benedizione: quando gli avevo espresso il desiderio di presentarmi al cospetto del re, per offrire i miei servigi, lui non aveva avuto un attimo di esitazione. Sembrava quasi felice di potermi introdurre a corte e, dopo un paio di giorni che ero arrivato in città, mi disse che si era presentata l'occasione giusta.

Il castello di Dublino, dove aveva sede il re del Leinster, non era nulla più che una piccola fortificazione a sud del fiume Liffey, che attraversava tutta la città e si gettava nel mare d'Irlanda. Aveva una corte interna con un pozzo e una torre sul lato est, ma per il resto non era tanto dissimile dai numerosi castelli che avevo visto disseminati in ogni dove nelle campagne di tutta Europa. A giudicare dall'imponente Cattedrale di Christchurch dove viveva e lavorava il giovane chierico, gli irlandesi dovevano essere più preoccupati della propria fede che del governo della città.

Nell'insieme Dublino era una cittadina piacevole, ma io che avevo visto le maggiori capitali europee, mi rendevo conto di come fosse lontana dalla modernità. Era un'appendice del mondo, l'angolo in alto a sinistra della carta geografica. Nulla di più.

Cormac mi condusse all'interno della corte, dove poche guardie annoiate girovagavano e tenevano la situazione sotto controllo. Calpestando la terra battuta, sollevavano nuvole di polvere che si innalzavano soffici nell'aria per poi ricadere docilmente sul terreno.

Cormac si avviò verso la torre, senza che nessuno si preoccupasse di lui, ma prima di entrare si voltò a guardarmi. «Forse è meglio se vi spieghi un paio di cose sul Leinster» disse, guardandosi in giro con aria circospetta. «Vedete, teoricamente il Leinster è governato da re Gilbert de Clare, ma in pratica è sua madre Aoife che detiene il potere. Gli Inglesi non vedono di buon occhio questo governo e stanno cercando di infiltrarsi a corte per prendere il controllo del regno, mentre il re supremo d'Irlanda tenta di osteggiare ad ogni costo la dinastia de Clare. Per questo la situazione è piuttosto tesa...»

«Non vi preoccupate» lo interruppi, mettendogli una mano sulla spalla con fare rassicurante. «Saprò come comportarmi».

Cormac annuì brevemente, leggermente rincuorato, poi aprì il pesante portone della torre e mi condusse all'interno.

Non mi sembrava vero di essere già penetrato nella corte dei de Clare dopo soli due giorni che ero giunto a Dublino. Le informazioni che il chierico mi aveva fornito erano molto interessanti e si sarebbero rivelate utili per la mia missione.

Lo seguii lungo le scale a chiocciola che portavano al piano superiore della torre, fino ad una porta in legno massiccio. Dall'altra stanza provenivano delle voci soffocate e un acre odore di carne bruciata: evidentemente si stava svolgendo un banchetto.

«Lasciate che vi introduca io» mi consigliò Cormac, entrando nella sala.

Un tavolo disposto a semicerchio occupava quasi tutto il posto disponibile, mentre in un braciere centrale scoppiettava un allegro fuoco che illuminava l'ambiente ma lo rendeva estremamente fumoso. Un paio di finestre poste una di fronte all'altra erano l'unica via di fuga per il fumo e ciò impediva l'entrata di aria fresca dall'esterno. La stanza era troppo calda e soffocante per i miei gusti.

I commensali seduti a tavola erano intenti a chiacchierare tra di loro, ma quando io e Cormac facemmo il nostro ingresso, molti si voltarono a guardarci. Io indossavo imperterrito il mio mantello di lana, nonostante il caldo, e certamente dovevo essere una curiosa attrattiva per quella altrimenti monotona serata.

«Mio signore, milady» proruppe Cormac, con un inchino, rivolto al ragazzo seduto al centro della tavolata.

E dunque era quello il re del Leinster? Un ragazzetto che dimostrava sì e no dodici anni, smunto e pallido, con un paio di profonde occhiaie che gli conferivano un'aria malaticcia, era il re del più importante regno d'Irlanda?

Re Gilbert osservò con gli occhi stralunati l'inchino del chierico e non accennò nemmeno ad alzarsi. L'unica cosa che fece, fu di voltarsi in modo apatico verso la donna alla sua destra, che invece si levò da tavola e ci osservò a lungo. Dunque doveva essere lei la regina Aoife, la reale detentrice del potere sulla contea. Aveva uno sguardo tagliente che contrastava con l'eleganza dei suoi gesti posati e la linearità del vestito. Il capo era coperto dal velo, ma un ricciolo ribelle di colore rosso fuoco ne fuoriusciva, come se la sua vera natura fosse insofferente a quella costrizione.

«Sir Cormac, è un piacere rivedervi a corte» disse la donna, ma i suoi occhi erano puntati su di me. «Chi è l'ospite che ci hai condotto?»

«Questo è sir Gregory di Scozia, un uomo dotto che ho pensato di condurre alla vostra corte, milady» mi presentò il chierico, facendomi cenno di venire avanti.

Io feci qualche passo in direzione della regina, poi accennai ad un inchino con il capo.

Lady Aoife continuava ad osservarmi, come se volesse cogliere qualche dettaglio strano che le era sfuggito ad una prima occhiata. «Cosa ci dite di voi, sir Gregory?» mi domandò infine, con sguardo penetrante.

Io feci un altro inchino, poi risposi: «Milady, sono solo un viandante, ma la Provvidenza ha voluto che incontrassi sulla mia strada il giovane Cormac. Chi siamo noi per contrastare il volere di Dio?»

«Gli stranieri che giungono in Irlanda, di solito si portano dietro un esercito» commentò in tono tagliente.

Io mi concessi un sorriso. «Milady, se avessi avuto un esercito, non sarei venuto a bussare umilmente alla vostra porta».

La regina rimase un attimo in silenzio, poi accennò un segno con il capo. «Molto bene, sir Gregory» disse infine. «Sappiate che siete al cospetto di Gilbert, re del Leinster» continuò indicando il ragazzino seduto alla sua sinistra; dopodiché indicò una giovane con un viso da cornacchia e un paio di acquosi occhi cerulei e aggiunse: «Questa invece è Isabel de Clare, principessa del Leinster».

La ragazza mi lanciò uno sguardo, ma non sembrava particolarmente interessata alla mia presenza.

Io, tuttavia, le presi una mano e la baciai. «Milady»

«Sedetevi qui, al fianco di sir Cormac» mi ordinò la regina Aoife. Non era affatto una donna a cui si potesse disobbedire.

Io e il chierico prendemmo posto dove ci aveva indicato, sull'ala destra del semicerchio. Ci servimmo della carne alla brace che era stata portata su un grosso vassoio di ceramica. Io mangiavo in silenzio, ascoltando i discorsi dei commensali, nella speranza di captare informazioni che potessero tornarmi utili.

Dopo un po' di tempo mi ritrovai ad osservare i giochi di luce delle fiamme che scoppiettavano nel braciere, troppo annoiato dalle banali conversazioni della tavolata.

Fu proprio in quel momento che entrò nel salone una giovane dama. Ci impiegai parecchio tempo a riconoscere in quelle fattezze delicate la ragazza amica di Cormac, tanto era irriconoscibile. Indossava una semplice casacca azzurra di lino e una sopraveste di colore rosso, ma per una volta i suoi abiti erano puliti e ordinati. I capelli, pettinati e raccolti in due trecce, non sembravano più una chioma indomabile; inoltre aveva un leggerissimo velo di lino che le copriva il capo, come si conveniva ad una dama del suo rango. Non c'era più traccia della Feamair selvaggia che pascolava le capre, nella madonna che si presentò ai nostri occhi.

Le lanciai delle occhiate incuriosite, ma lei non si fece affatto intimidire, anzi mi rispose con uno sguardo altezzoso.

«Lady Feamair» esclamò lady Aoife, alzandosi da tavola. «Vieni a sederti, qui, vicino al nostro ospite» disse, indicandole il posto libero al mio fianco.

Feamair non ebbe un attimo di esitazione nell'eseguire gli ordini della regina.

«A quanto vedo siete proprio una Lady» le sussurrai, quando questa si sedette con altezzosità al mio fianco.

I suoi occhi verdi saettarono dei fulmini nella mia direzione. «Siete sorpreso di vedermi a corte?» mi provocò.

«Quanto sarei sorpreso se un uomo ordinasse al sole di fermarsi» risposi con un sorriso divertito, ben sapendo che la ragazza non poteva notare la citazione biblica che avevo inserito tra le righe.

Feamair sbuffò. «Statemi a sentire, straniero. Io sono la principessa del Leinster».

Le sorrisi. «Isabel è la principessa del Leinster, a quel che mi risulta» risposi, con l'intento di provocarla.

Gli occhi verdi di Feamair si fissarono nei miei. «Isabel è mia cugina. Il regno è passato a quel ramo della famiglia solo perché mio padre non è vissuto a sufficienza da ereditarlo» sibilò a denti stretti. Per un attimo si bloccò, indecisa se continuare, ma alla fine sussurrò: «Né per veder nascere sua figlia».

Il sorriso provocatorio mi si gelò sulle labbra e improvvisamente mi sentii vicino a Feamair: nemmeno lei aveva mai conosciuto suo padre. Non potevo che condividere il suo dolore, io che ero cresciuto da orfano. Forse non eravamo poi così diversi. «Come morì?» le chiesi con un tono delicato che non era da me.

Feamair abbassò gli occhi, fino a fissarsi le mani accoccolate in grembo. Poi cominciò a raccontare: «Quando mio nonno Diarmait MacMurchadha era re del Leinster, venne spodestato e mandato in esilio dai re delle altre contee. Lui si rifugiò in Inghilterra, dove ottenne l'aiuto di re Henry Plantageneto e di Richard de Clare per la riconquista del Leinster. Tornò in Irlanda con un esercito, ci fu una battaglia e mio padre Conchobhar MacMurchadha cadde prigioniero del supremo re d'Irlanda Ruaidri Ua Conchobair, che non ebbe pietà di lui né degli altri catturati e...»

La voce le morì in gola, ma capii immediatamente come fosse finita quella storia.

«Mi dispiace» le sussurrai, poggiandole una mano sulle sue, nel tentativo di rincuorarla. Era strano, non avevo mia avuto particolare sensibilità nei riguardi altrui, né mi ero mai sentito emotivamente coinvolto nelle disgrazie di altre persone, ma quella volta mi sembrava quasi di riuscire a percepire il dolore della giovane principessa.

Lei alzò gli occhi su di me e fece un timido sorriso.

Da quel poco che avevo visto di lei, non mi sembrava affatto il genere di ragazza che sorridesse dolcemente: al di là della sua apparizione in veste ufficiale di quella sera, ero certo che la sua vera natura coincidesse con l'energica pastorella che avevo incontrato il primo giorno. Eppure riservò a me quel suo gesto di ringraziamento.

Improvvisamente mi sentii a disagio e levai le mani dal suo grembo. Perché si era aperta proprio con me? Dopotutto non sapeva niente di me, e niente avrebbe mai dovuto sapere. Non doveva riguardarle il motivo per cui ero venuto in Irlanda. E io non avrei mai dovuto farmi coinvolgere così scioccamente. Non ero il tipo che si lasciava prendere dai sentimentalismi. Che mi era saltato in mente? Avevo un compito da svolgere e l'avrei portato a termine senza lasciarmi distrarre dagli occhi luminosi di una ragazza qualsiasi.




A riprova del fatto che la tecnologia mi odia, oggi ho serie difficoltà a far funzionare internet... ma sono riuscita comunque ad aggiornare! Cominciamo ad addentrarci nella storia... spero di avervi incuriositi!

Intanto, QUI re Gilbert, QUI lady Aoife (pronunciato all'inglese è Eve!) e QUI lady Isabel... sono tutti personaggi storici, ovviamente, così come lo è Diarmait MacMurchadha.

Grazie a tutti,

Beatrix

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Capitolo 4
*** Liber III ***


Liber III





La mattina successiva mi recai a visitare la Cattedrale di Christchurch, un'imponente basilica la cui costruzione era terminata pochi anni prima. La magnificenza della sua facciata e la grandiosità dell'interno riuscirono a strapparmi un sospiro di ammirazione. Camminai lentamente sul pavimento di marmo, mentre i miei passi risuonavano nell'immensa navata centrale.

Non sapevo bene che cosa mi avesse spinto a visitare la chiesa, ma fui attratto da una strana effige sulla destra, che rappresentava un uomo maturo dall'aspetto regale. Un'epigrafe in latino, posta sul lato, recitava: “Richard de Clare, detto Strongbow, secondo conte di Pembroke”. Doveva essere il luogo in cui l'uomo era stato seppellito.

Improvvisamente ricordai che avevo già sentito quel nome: l'aveva nominato proprio la sera prima Feamair, quando mi aveva raccontato della riconquista del Leinster da parte di suo nonno Diarmait. Richard de Clare era uno dei nobili che lo aveva aiutato a riprendere il potere. Evidentemente Draimait lo aveva ricompensato con qualcosa, terre o beni, qualsiasi cosa che avesse potuto trattenerlo in Irlanda fino alla morte. Chissà quali rapporti avevano tenuto legati i due uomini...

«Sir Gregory» esclamò la voce di Cormac alle mie spalle. «Stavate osservando la tomba di Strongbow?» mi domandò.

Io ero troppo rapito dalla sua immagine sul sarcofago per riuscire a rispondere, così mi limitai ad annuire. Per chissà quale motivo, ero convinto che avesse un ruolo particolare nella storia del Leinster.

Cormarc mi rivolse un sorriso, rispondendo gentilmente alle mie tacite domande. «Era venuto dall'Inghilterra insieme a Diarmait, per riconquistare il Leinster. Morì sette anni fa e fu seppellito nella cattedrale» mi spiegò, ma l'informazione migliore la tenne per ultima. «Era il marito di lady Aoife».

«Il marito di Aoife?» ripetei scioccamente.

Mi bastò un attimo per rimettere in ordine tutti i tasselli del mosaico: Richard de Clare era venuto in Irlanda con il suo esercito pronto ad aiutare Diarmait nella riconquista del potere e il re del Leinster l'aveva ricompensato con la mano di Aoife, certo senza sapere che il figlio Conchobhar, legittimo erede al trono, sarebbe morto in prigione, lasciando il regno nelle mani del cognato di origini normanne.

«Non era poi così male» si intromise una voce sottile.

Sia io che Cormac ci voltammo verso Feamair. Aveva il capo coperto da un velo color cremisi e una tunica semplice ma ordinata.

«Chi non era male?» le chiese Cormac.

Gli occhi di Feamair indugiarono sull'effige di Strongbow.

Capii che doveva essere stato quasi come un padre per lei che era cresciuta senza nemmeno conoscere il suo. Vedevo l'angoscia riflessa nei suoi occhi verdi che si soffermavano sull'immagine dello zio e per un attimo ebbi il folle impulso di afferrarle la mano e stringerla tra le mie per infonderle sicurezza, ma per fortuna mi trattenni.

«Strongbow... era un uomo forte e giusto» sussurrò Feamair, sovrappensiero. Allungò una mano verso l'effige, come per volerla accarezzare, ma poi si interruppe bruscamente. «Non fa niente!» esclamò di getto, facendo un passo indietro e tirandomi appositamente una gomitata. Sembrava che si fosse vergognata di quel momento di debolezza, soprattutto perché l'aveva avuto davanti a me. Non sapevo bene che genere di rapporto ci fosse tra lei e Cormac, ma ero certo che si conoscevano sufficientemente bene da non aver vergogna di mostrarsi per quello che erano. Ma di fronte a me...

«Che avete da fissarmi a quel modo?» ridacchiò Feamair, vedendo che la stavo osservando da parecchio tempo.

«Oh, nulla,» farfugliai imbarazzato. Che diavolo mi era preso?

Feamair lanciò uno sguardo divertito a Cormac, poi si passò una mano sul velo con un sorrisetto nella mia direzione. Io presi a guardare l'architettura della chiesa come se ne fossi improvvisamente attratto. Non sapevo perché, ma ero certo di non voler guardare Feamair in volto.

«Sir Gregory» mi chiamò la ragazza. I suoi occhi luminosi ridevano nella mia direzione. «Questa sera c'è una festa per le vie della città. Perché non venite?»

«Una festa?» ripetei scioccamente, senza bene afferrare il significato di quelle parole.

Feamair mi afferrò il braccio estasiata, senza accorgersi che quel semplice gesto mi provocò un brivido lungo la schiena. «Sì, una festa, sir Gregory. Voi ballate?» mi chiese ridacchiando.

Considerato che non avevo mai ascoltato una musica diversa dal canto gregoriano dei monaci, chiedermi se sapevo ballare era una domanda davvero sciocca. Tuttavia non mi fu lasciato il tempo per rispondere perché Feamair sembrava assolutamente entusiasta della sua proposta e decise che io mi sarei recato alla festa, nolente o volente.

Anzi, recarsi è un vocabolo troppo riduttivo. Quella sera fui letteralmente trascinato in piazza.

Feamair, che doveva essere riuscita in qualche modo a sfuggire al controllo della zia, si fece dire da Cormarc la locanda dove alloggiavo. Senza farsi intimidire troppo, si piazzò davanti alla moglie paffuta e rossiccia dell'oste e le chiese quale fosse la mia stanza. La donna, complice di quel misfatto, le indicò la porta e Feamair si catapultò dentro senza troppi complimenti.

«Allora, sir Gregory, siete pronto per divertirvi?» mi domandò, interrompendo la mia meditazione solitaria.

«Milady, dubito che la vostra idea di divertimento coincida con la mia» risposi, appoggiando il breviario sul letto con aria rassegnata.

Feamair mi afferrò per la manica e mi trascinò letteralmente fuori dalla stanza. «Oh, avanti! Non vorrete passare la sera a leggere un noioso libro quando in piazza si sta svolgendo una festa?» protestò la ragazza, con un sorriso malizioso.

«Stavo meditando sulla Sacra Scrittura» mi lamentai, liberandomi dalla sua presa e tornando in stanza per recuperare il mio cappello.

Feamair, ferma sull'uscio, pestò i piedi con impazienza. «Forza, sbrigatevi, o ci perderemo le canzoni migliori».

Sbuffando e alzando gli occhi al cielo, fui costretto a seguire la mia carnefice fino in piazza. Non avevo mai assistito ad una festa popolare, tanto meno in un paese dalle ricche tradizioni come l'Irlanda. Saltimbanchi, giocolieri, musici, mangiafuoco e soprattutto gente, tanta gente, che ballava, saltava, rideva, beveva vino speziato e si agitava in ogni modo possibile.

Per me fu un trauma. Io ero abituato al silenzio dei monasteri, alla tranquillità delle chiese; il luogo più rumoroso che avessi mai frequentato era la biblioteca di Cluny. Tutte quelle persone che mi vorticavano attorno, quelle risate che rimbombavano nelle orecchie, la musica ritmica...

Fui costretto a ritirarmi in un angolo della piazza, mentre Feamair veniva risucchiata dalla folla. Dopo i primi minuti di disorientamento, quasi ci presi gusto ad osservare la festa: sembrava che quella gente si accontentasse di poco. Bastava un flauto e un tamburello, qualche botte di ippocrasso -un vino bollito con i chiodi di garofano- ed era già baldoria. Le ragazze si agitavano in mezzo alla piazza e invitavano i compagni più ritrosi a ballare. Vidi una bimba con due lunghe trecce bionde che si metteva dei fiori nei capelli e poi ammiccava in direzione di un ragazzetto poco più grande di lei. Una donna, senza nemmeno sapere chi fossi, mi passò davanti e mi offrì una pinta di birra.

«No, grazie» declinai l'offerta con un mezzo sorriso.

«Straniero, questa è la migliore birra irlandese. Non si rifiuta mai una buona pinta» rispose quella, senza lasciarsi scomporre dalla mia rinuncia.

«No, davvero» fui costretto a ripetere, vista l'insistenza della donna. Non ero un assiduo bevitore e una pinta di quella birra così forte avrebbe rischiato di stendermi in meno di due sorsi: non sarebbe stato un bello spettacolo assistere alla mia ignominiosa ritirata in locanda, sorretto da lady Feamair, quando la ragazzina in fianco a me si era già scolata due boccali di ippocrasso senza dare segni di cedimento.

Proprio in quel momento il mio sguardo fu attirato dalla figura minuta di Feamair che danzava in mezzo ad un cerchio formato da altre dame. Portava in testa un leggerissimo velo bianco e aveva sostituito la treccia di tessuto con cui lo teneva fermo con una corona intrecciata di fiori. I suoi capelli rossi ondeggiavano al vento in modo sinuoso, mentre lei piroettava e ballava in mezzo al cerchio. Riconoscevo finalmente una dama aggraziata nella ragazza che danzava, ma non aveva perso del tutto il suo fascino rustico. Sembrava una ninfa dei boschi o un'antica divinità dei campi pagana. La sua stessa figura emanava una forza di un'intensità tale che ne ero come stato rapito. La fissavo vorticare nel centro e non riuscito a pensare ad altro.

Finita la musica, le altre dame applaudirono e l'incanto si ruppe.

Che diavolo mi era preso? Chiusi gli occhi e mi afferrai la testa con le mani, nel tentativo di chiarirmi le idee: era come se una nebbia fumosa mi avesse invaso il cervello. Dovevo tranquillizzarmi: avevo una missione da portare a termine e non potevo fallire.

«Oh, sir Gregory, pensate di passare la notte a sorreggere il muro di quella casa?» trillò una voce.

Quando riaprii gli occhi, una sorridente lady Feamair stava ammiccando in direzione della festa.

«Non si sa mai, potrebbe cadere» risposi con audacia, accennando al muro a cui ero appoggiato.

«Dai, avanti, venite a ballare» mi propose la ragazza, afferrandomi per il mantello.

«No, meglio di no».

«Non potete venire ad una festa e non ballare» protestò Feamair strattonandomi verso il centro della piazza.

«No, davvero» risposi, prendendo la mano della ragazza per liberarmi dalla sua presa sul mio mantello.

Fu un grosso errore. Lady Feamair mollò immediatamente il tessuto e afferrò la mia mano per condurmi a ballare. Tutte le mie proteste furono vane, perché Feamair mi tirò letteralmente nel centro della piazza.

Il contatto con le sue dita sottili ma forti mi provocava degli strani brividi lungo la schiena e alla fine fui costretto a cederle. Inizialmente lei mi piroettava intorno trascinandosi dietro il mio braccio e poi il mio corpo inerme.

«Lasciatevi andare alla musica, sir Gregory!» mi consigliò Feamair, ridendo della mia goffaggine.

Per me non era affatto facile dimenticare la rigida disciplina che mi ero sempre imposto per dondolare in modo ridicolo ad una festa di paese. Eppure, alla fine, l'intensità della musica, il vorticoso gioco dei capelli di Feamair, i suoi occhi illuminati da quel sorriso divertito riuscirono a coinvolgermi e mi ritrovai a volteggiare nel bel mezzo di una piazza affollata.

Solo quando la musica finì, mi accorsi che stavo stringendo lady Feamair tra le braccia. Improvvisamente lucido, la lasciai andare e mi allontanai di un passo.

«Avete ballato, sir Gregory!» esclamò lei, con un sorriso furbo. Io scossi la testa, incredulo e Feamair nel vedermi scoppiò a ridere. «Direi che per questa sera può bastare: per voi è fin troppo».

E con una strizzata d'occhio mi condusse via dalla festa.




Ecco qui il nuovo capitolo!

Povero sir Gregory, trascinato in piazza contro la sua volontà! Cercate di capirlo, non è un tipo molto mondano! ^^

Quanto a Strongbow (letteralmente, “arco forte”), è un personaggio storico realmente esistito, seppellito appunto nella cattedrale di Christchurch (QUI un'immagine della chiesa, QUI la pagina di wikipedia dedicata a Strongbow).

Alla prossima occasione e grazie a tutti!

Beatrix

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Capitolo 5
*** Liber IV ***


Liber IV




La figura di lady Feamair si stagliava nel buio della sera, i capelli mossi dal vento e il volto illuminato dalla pallida luce della luna. Rimasi incantato per parecchio tempo a guardarla, come stregato dalla sua immagine. Non sapevo che diavolo mi prendesse tutte le volte che la guardavo, perché non mi era mai accaduto prima nulla di simile, ma ero come attratto dai suoi occhi e mi tremavano le gambe. Una reazione davvero stupida, a pensarci bene, anche perché non riuscivo a capire cosa significasse. La mia vita era passata tra Bibbia, libri di teologia, manoscritti di s. Agostino e canti gregoriani della cattedrale di Canterbury. Ero un dotto, abituato a discutere di esegesi e allegoria, di teologia e cosmologia. Non avevo la più pallida idea di cosa significasse innamorarsi.
«Sir Gregory» mi chiamò Feamair, voltandosi indietro e vedendo che la stavo guardando.
Io mi limitai ad un sorrisetto tirato nella sua direzione.
«Venite, osservate il cielo con me... com'è meraviglioso» sussurrò la ragazza, alzando il naso verso il firmamento.
Io mi avvicinai cauto, ma me ne pentii subito: quando fui sufficientemente vicino, Feamair mi prese il braccio e appoggiò la testa sulla mia spalla, provocandomi un brivido freddo lungo la schiena.
«Milady... io non credo che sia conveniente» farfugliai a disagio, accennando alla sua presa sul mio braccio.
La ragazza mi lasciò andare imbronciata. «Siete sempre così... freddo» protestò, tirandomi una gomitata al braccio.
Io mi massaggiai il punto dove mi aveva colpito, ma non mi lasciai offendere così facilmente. «Sbaglio o prima ho ballato con voi?» la provocai.
«Vi ho praticamente dovuto trascinare!» rispose Feamair, scoppiando a ridere.
Era strano come riuscisse ad averla vinta sempre lei nelle nostre dispute, nonostante io fossi più istruito e colto. Doveva avere qualche strano potere che riusciva a intossicarmi la testa e mi impediva di pensare lucidamente.
«Perché non mi dite qualcosa di voi?» sussurrò Feamair tutto d'un tratto.
Mi sentii colpito nel profondo, come se quella domanda dovesse andare a sondare il mio animo. «E cosa volete sapere?» chiesi a disagio.
Feamair mi osservò per un poco, infine i suoi occhi si illuminarono. «Perché non vi togliete mai quel mantello?»
Quelle parole mi strapparono dalla realtà, trasportandomi indietro nel tempo.

È quasi Natale: fiocchi candidi volteggiano nell'aria con grazia, fino a depositarsi sul manto di neve.
Ho circa nove anni. Cammino per le strade di Canterbury con il capo chino, osservandomi i piedi. Ho il naso e le guance congelate e per il freddo mi stringo nella mantellina. Trotterello dietro ad un uomo con un lungo mantello di lana scura che avanza speditamente. «Sir Thomas...» balbetto con le labbra violacee.
L'uomo si ferma e si volta verso di me con un sorriso benevolo.
«Mi dispiace... ma ho freddo, signore».
«Gregory» sussurra l'uomo, chinandosi verso di me e mettendomi una mano sulla spalla. «Tu porti il nome di uno dei migliori pensatori della Santa Chiesa e sono certo che un giorno diventerai un grande uomo. Ma ricorda, sarai sempre un uomo! Non ti dispiacere se hai freddo, è un impulso naturale».
Io sono troppo piccolo per capire fino in fondo quel discorso e mi limito ad annuire.
Sir Thomas allora si toglie il lungo mantello e me lo mette indosso, sebbene sia talmente grande che tutto l'orlo inferiore striscia per terra, lasciando una scia nella neve appena caduta. Io sorrido timidamente e sir Thomas mi tira su il cappuccio e me lo cala sugli occhi ridacchiando.
«Signore, non vedo, così!» mi lamento e sollevo un lembo del cappuccio per spiare fuori. Vedo sir Thomas che sorride divertito della buffa immagine di me infagottato nel suo mantello.
«Dai, muoviamoci, o la messa comincerà senza di noi» ridacchia l'uomo, incamminandosi verso la cattedrale.
«Non credo che sia possibile, signore. Voi celebrate la messa!» protesto io, innocentemente, rincominciando a trotterellare alle sue spalle.
Sir Thomas Becket è l'arcivescovo di Canterbury. È lui che mi ha cresciuto, dal momento in cui ha trovato un piccolo fagotto di un neonato abbandonato davanti alla porta della sua canonica. È con lui che ho passato la mia infanzia in Francia, quando re Hendy lo costrinse all'esilio. Ed è con lui che sono tornato in Inghilterra da ormai qualche mese.
Una volta arrivati alla cattedrale, sir Thomas si prepara per la messa mentre io sgattaiolo verso il coro dei monaci e mi acquatto a terra, stringendomi nel mantello di lana. La celebrazione procede tranquilla, fino alla consacrazione del pane e del vino.
Dalla mia posizione privilegiata dietro l'altare riesco ad osservare tutta l'assemblea e così noto subito che c'è qualcosa che non va. Degli uomini armati si stanno avvicinando frettolosamente all'abside. Li vedo estrarre le spade, li vedo puntare le loro lance contro di noi.
«Sir Thomas!» faccio in tempo a gridare.
Lui si volta verso l'assemblea. Sì, li vede, vede gli uomini che si avventano contro di lui. Alza semplicemente le mani perché sa che non c'è tempo per scappare.
Solo una lancia.
Una lancia che lo trapassa da parte a parte e sir Thomas si accascia al suolo.
Scoppia il caos, in chiesa tutti urlano e scalpitano, ma intorno a me cala il silenzio. Corro disperato verso l'unico uomo che abbia mai considerato come un padre e mi getto in ginocchio al suo fianco. Il suo corpo è ancora caldo, ma i suoi occhi sono fissi e vitrei.
È morto.
Ho nove anni.
Ho visto la morte in faccia e piango come un bambino. Ma io sono solo un bambino. E ora ho perso tutto ciò che avevo.
Mi resta solo un mantello di lana troppo grande per me.

«Sir Gregory?»
La voce di Feamair mi strappò dai meandri della mia mente per riportarmi alla realtà. La ragazza stava ridacchiando, osservando la mia espressione ebete.
Io distolsi gli occhi imbarazzato e cominciai a fissare i lembi del mio mantello.
«Allora, perché non lo levate mai?» insistette Feamair, dandomi una gomitata sulla spalla.
Io feci un profondo sospiro, ma alla fine mi decisi a rispondere: «Era di una persona molto importante per me».
Non mi andava di parlarle di sir Thomas, della mia infanzia da orfano, della morte del mio mentore e della mia adolescenza tra volumi polverosi delle biblioteche capitolari di tutta l'Inghilterra e la Francia.
Feamair non insistette oltre, anche se ero convinto che non fosse affatto soddisfatta dalla mia semplice risposta.
«Oh, guardate!» esclamò subito dopo, afferrandomi il braccio per attirare la mia attenzione. Indicò il cielo proprio quando una luce lo attraversò lasciando una scia argentea dietro di sé. Era uno spettacolo magnifico.
«Cosa credete che sia?» mi domandò incantata.
«È un astro del cielo» risposi, con il naso rivolto verso il firmamento.
«No!» protestò Feamair, tarandomi un altra gomitata. «È così poco romantico. Secondo me è un angelo che viene a visitare la terra» propose con entusiasmo. «Oppure una fata che sta correndo a portare un messaggio alla regina degli elfi».
«Non esistono quelle cose. Gli elfi e le fate...» commentai, tornando a guadare Feamair. Mi sembrava che i suoi occhi brillassero più delle stelle del cielo.
Lei mi lanciò un'occhiataccia. «Certo che esistono» protestò assestandomi un pugno sulla spalla.
«Ahia! Smettetela di picchiarmi!» esclamai, massaggiandomi il punto dove mi aveva colpito ripetutamente.
Feamair scoppiò a ridere, ma poi mi diede un piccolo bacio sulla spalla.
Quel gesto innocente mi fece avvampare come se fossi stato gettato nel fuoco. Feamair non parve essersi accorta dello scompenso che aveva provocato nel mio animo.
«Le fate e gli elfi, esistono» sentenziò la ragazza, osservandomi come per sfidarmi a contraddirla. «Abitano un regno incantato di nome Faerie, dove c'è un grandissimo esercito di elfi sempre pronti a combattere per il loro re, che deve continuamente lottare contro le forze del male. Le leggende parlano di passaggi tra la nostra terra e il regno fatato. Ce n'è uno vicino a Lough Derg, un piccolo lago che si trova nell'Ulster. Lì c'è una grotta e gli antichi druidi dicono che ci sia un passaggio per arrivare a Faerie» spiegò Feamair eccitata.
«Il pozzo di s. Patrick è una porta per il purgatorio» si aggiunse una voce alle nostre spalle.
Cormac ci aveva raggiunto e evidentemente non condivideva l'entusiasmo di Feamair sull'esistenza di Faerie.
La ragazza aprì la bocca per ribattere, ma il giovane chierico la interruppe: «Si dice che alcuni pagani non credessero all'esistenza dei regni dell'aldilà e allora il san Patrick pregò Dio di mandare un segno a quei miscredenti. Dio ascoltò le sue preghiere e aprì una porta che conducesse al purgatorio. Così i pagani credettero e si convertirono, ricevendo il battesimo» Cormac fece un attimo di pausa, poi concluse: «Faerie non esiste».
Feamair si imbronciò, ma non rinunciò a ribattere. «E allora come li spieghi i racconti della tradizione? Tutte frottole?» lo provocò con un sorrisetto soddisfatto.
«Sono il frutto di un popolo la cui cultura era arretrata» rispose con semplicità Cormac.
Feamair allora gli si avvicinò di un passo. «Stai forse dicendo che il popolo da cui tu ed io discendiamo è un popolo arretrato?»
Cormac fece per dire qualcosa, ma evidentemente non aveva modo di ribattere a quella domanda. Ancora una volta Feamair aveva zittito qualcuno che era molto più colto di lei. Non riuscivo proprio a capire come fosse in grado di farlo.
«Comunque questa discussione su Faerie è inappropriata adesso» tagliò corto Cormac.
«Perché?» si informò Feamair, probabilmente avvertendo aria di guai.
Bastò che Cormac nominasse una sola persona, per far incupire la ragazza. «Aoife» disse semplicemente e tutti capimmo di essere in grossi guai. «Ha mandato delle guardie a cercarti».
Feamair non disse nemmeno una parola, né tanto meno si degnò di salutare. Semplicemente si allontanò a grandi passi, lasciandoci lì impalati come due idioti.




Eccomi qui con il nuovo capitolo! Spero che vi sia piaciuto... si comincia ad intravedere qualcosa del passato di sir Gregory, che, come avrete intuito, non è proprio stato tutto rose e fiori.
Ovviamente, sir Thomas Beckett (santo della Chiesa Cattolica) è un personaggio storico (c'era bisogno di dirlo?). Arcivescovo di Canterbury, Lord Cancelliere del Regn d'Inglilterra, venne mandato in esilio in Francia e poi richiamato dallo stesso re Henry II Plantageneto che, pochi mesi dopo il suo rientro, lo fa assassinare mentre celebra la messa nel 1170 (qui per maggiori informazioni).
QUI, invece, l'immagine che rappresenta il giovane Gregory con Thomas Beckett.
Quanto all'accenno di Feamair sull'esistenza di un regno fatato di nome Faerie... be', scoprirete se è vero andando avanti a leggere! ;-)
Grazie a tutti, alla prossima!
Beatrix

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Capitolo 6
*** Liber V ***


Liber V




Non seppi mai quali conseguenze dovette affrontare Feamair per essere scappata dalla corte per andare alla festa popolare, ma non la vidi per i due giorni successivi. Ero certo che lady Aoife non approvasse per niente il carattere ribelle della nipote, eppure avevo come l'impressione che un tempo fosse proprio come lei. Forse il matrimonio con Richard e il conseguente peso del potere che le era piombato addosso dopo la sua morte, l'avevano obbligata a cambiare il suo stile di vita e ad assumersi tutte le responsabilità che derivavano dal governo di un regno.
Durante i due giorni in cui non vidi Feamair, né fui chiamato a corte, decisi di dedicarmi alla lettura dei manoscritti della biblioteca della Cattedrale di Christchurch. Cormac mi introdusse ai canonici, ovvero i sacerdoti che assistevano il vescovo nelle sue funzioni all'interno della diocesi, formando un assemblea detta Capitolo. Sapevo che le biblioteche dei Capitoli erano tra le più fornite e l'idea di poter frugare con calma tra manoscritti vecchi di due secoli o tra nuovi libri della filosofia scolastica mi attirava verso la cattedrale come una falena è attratta dalla luce di una candela.
A Dublino erano conservati anche strani manoscritti che non aveva mai letto, racchiusi in casse impolverate e piuttosto malridotti. Erano scritti in una grafia diversa da quella gotica e spesso riguardavano opere di autori latini mai sentiti o parti sconosciute di autori già noti.
Un altro tipo di libri che non avevo mai visto erano quelli riguardanti le leggende su Faerie. Qualche monaco si era preso la briga di mettere per iscritto la tradizione orale che girava intorno a quella terra incantata.
Persi buona parte della mattinata a leggerne uno piuttosto interessante sulle creature che popolavano Faerie. L'autore, un certo Adalbertus di Wexford, si era concentrato a descrivere gli sidhe, esseri bellissimi e simili agli angeli, le fate e i folletti, i leprecani e tutta una serie di creature oscure, quali i tuatha, eterni avversari degli sidhe, o i goblin, le benshee e i dulladhan. Ero assolutamente convinto che tutta quella schiera di esseri magici fosse frutto della sfrenata fantasia di Adalbertus. Chi avrebbe mai potuto credere all'esistenza di cavalieri senza testa, maledetti perfino dal demonio, che scorrazzavano per l'Irlanda alla ricerca di anime malvagie da trascinare all'inferno per saldare un vecchio debito? Era tutto così assurdo!
Un manoscritto in particolare attirò la mia attenzione. Parlava dei portali, una specie di contatto tra il nostro mondo e quello delle creature incantate. Per un folle attimo mi immaginai che avrei potuto attraversarne uno per vedere con i miei occhi Faerie, poi realizzai che non esisteva nulla del genere.
Come aveva detto anche Cormac, le leggende su Faerie erano sicuramente frutto della cultura popolare che ancora non conosceva le verità del Cristianesimo. Certo la tradizione pagana era estremamente interessante, ma dovevo stare attento a non confondere la realtà con la fantasia.
In nessun campo. specificò una vocina malvagia dentro la mia testa. Non mi erano concessi lussi del genere, con la delicata missione che dovevo portare a termine. Nemmeno se si trattava di giovani dame dai capelli rossi.
«Sir Gregory, vi ho trovato finalmente!» esclamò fratello Cormac.
Chiusi di scatto il volume che stavo leggendo e mi alzai per riporlo negli armaria, gli imponenti armadi che contenevano i manoscritti. «Come mai mi cercavate?» domandai con un tono che fingeva indifferenza: ero convinto che il giovane chierico non approvasse la letteratura a cui mi ero dedicato nelle ultime ore.
«Re Gilbert vi sta aspettando a corte».
Accolsi la notizia con una tranquillità inaspettata: parte del mio piano, forse, stava per realizzarsi eppure non sentii nessuna particolare ansia o eccitazione. Semplicemente annuii con il capo e mi lasciai condurre da Cormac al castello del Leinster.
Come avevo immaginato, nel salone dove fui accolto, re Gilbert era seduto sul trono, ma al suo fianco stava ritta in piedi lady Aoife.
«Lasciateci soli, sir Cormac» ordinò la donna, quando vide che il chierico mi aveva accompagnato fin dentro al salone. Non appena la porta si fu chiusa alle sue spalle, lady Aoife cominciò a scrutarmi con intensità, come se volesse carpire qualche mio segreto.
Re Gilbert, in compenso, non smetteva di fissarmi con quello suo sguardo vacuo e terrorizzato: pareva che avesse perfino paura di me.
«Mio signore» dissi, inchinandomi al suo cospetto.
Il ragazzino allora si voltò titubante verso la madre, attendendo ordini su come avrebbe dovuto comportarsi.
«Sir Cormac ci ha detto che siete un dotto, un sapiente» cominciò la donna, senza nemmeno preoccuparsi di fingere che il potere fosse detenuto dal figlio.
«È così, milady» risposi con un breve inchino del capo. Avevo già intuito dove volesse andare a parare quel discorso, ma non volevo dimostrarmi troppo impaziente.
Lady Aoife girò intorno al trono per venire a posizionarmi direttamente davanti a me. «Sapete leggere e scrivere, no?» mi domandò, senza smettere di fissarmi con quei suoi occhi taglienti e affilati.
Quella domanda era pretesto, me ne rendevo conto, che mirava solo a saggiare le mie reazioni di fronte al suo sguardo indagatore. Voleva una riprova della mia lealtà nei confronti dei de Clare. Per quel motivo non abbassai il capo, non sbattei le palpebre, non esitai a rispondere.
«Certo, milady».
«Anche in latino?»
«Soprattutto in latino, milady. È per me come la lingua madre» risposi con sicurezza. Dopotutto, non ero molto lontano dalla verità: essendo cresciuto negli ambienti monastici più prestigiosi, avevo imparato a padroneggiare il latino ancora prima di imparare a leggere in volgare.
Lady Aoife annuì compiaciuta. «E quante altre lingue conoscete, sir?» mi chiese, tornando lentamente al suo posto dietro il trono.
Evidentemente avevo superato l'esame: lady Aoife aveva appurato che la mia fedeltà era sufficientemente salda. Io mi concessi un debole accenno di sorriso. «Lo scozzese, il franciano e l'anglonormanno*».
«E la nostra lingua, il gaelico?» indagò la donna, ma in tono più molle e rilassato.
«Come vedete la so parlare, ma posso imparare a leggerla e scriverla in poco tempo» risposi in tutta onestà: non avrei avuto sicuramente difficoltà ad apprenderla, vista la somiglianza con lo scozzese.
Lady Aoife si lasciò sfuggire uno dei suoi rari sorrisi. «Molto bene» sentenziò, posando una mano sulla spalla del figlio. «Gilbert, caro» lo invitò a parlare.
Il ragazzino lanciò un fugace sguardo di terrore verso la madre, poi tornò a guardare me. «Sir Gregory di Scozia» cominciò a dire, con la voce tremante.
Avevo come l'impressione che la madre gli avesse fatto imparare a memoria il discorso da pronunciare.
«Io, re Gilbert del Leinster, vi nomino segretario della corte di Dublino, con l'incarico di redigere i documenti ufficiali» recitò con voce per nulla convinta. Non c'era un minimo di autorevolezza in quegli occhi sfuggenti, nella sua posizione china, nel corpo rannicchiato sul trono. Sembrava il fantasma di se stesso e non era difficile capire come ogni sua decisione di governo fosse in realtà presa dalla madre.
Tuttavia, era verso di lui, verso Gilbert de Clare, re del Leinster, che veniva richiesta la mia fedeltà. Chinai il capo a terra e mormorai: «Ne sarei onorato, mio signore».
E con quell'inchino veniva suggellato il mio patto e il mio tradimento.

Ero penetrato nella corte di Dublino e con uno dei maggiori incarichi di palazzo in meno di una settimana. Il mio signore non poteva essere più soddisfatto di me e del modo brillante con cui stavo svolgendo l'incarico che mi aveva affidato.
In cambio dei servigi resi a corte, come sostentamento, re Gilbert mi aveva assegnato un piccolo appezzamento di terreno a sud della città, poco fuori le mura. In realtà non era un gran che, e se la mia sopravvivenza fosse dipesa solo da quei pochi ettari, avrei mangiato pagnotte e fagioli e avrei vissuto in una capanna per il resto della mia vita. Non era da me concedermi lussi eccessivi e forse il mio giudizio sul feudo che avevo ottenuto era piuttosto drastico, ma trovavo che la generosità di re Gilbert (e della madre) lasciasse un po' a desiderare.
Nell'appezzamento che mi era stato affidato, viveva una famiglia di contadini che lavorava la terra e viveva dei frutti che essa produceva. Prima era stata sotto le dirette dipendenze regie, perché il territorio apparteneva al re, e come tale era costretta a pagare le tasse e a offrire servizi di corveé, ma ora che il feudo era stato concesso in beneficio, io ne ero l'usufruttuario, o almeno lo sarei stato fino alla mia morte.
Il capofamiglia, un semplice ma bonario contadino di nome Loihal, mi accolse come nuovo signore con mille ossequi, portandomi in dono un cesto di cavoli e una gallina. Io, che non ero mai stato molto avvezzo con questo genere di cose da vassallo, avrei gentilmente declinato l'offerta se Feamair non mi avesse avvertito che sarebbe stato un segno di estrema scortesia. Così mi ritrovai con una gallina e dei cavoli in mano e un appezzamento di terreno da governare.
Inizialmente non avevo la più pallida idea di come si portassero avanti quel genere di cose, ma grazie all'aiuto sapiente di Feamair, nonché alla sua rustica spontaneità, che creava un'affinità con i contadini e le aveva attirato le simpatie della famiglia di Loihal, riuscii ad imparare piuttosto velocemente.
Parte del raccolto restava alla famiglia, il resto veniva venduto al mercato locale e gli incassi andavano a riempire le mie magre finanze. A volte investivo i soldi guadagnati in piccole migliorie, come il canale di irrigazione o il nuovo aratro per Loihal.
Al contrario, le mie mansioni a corte erano molto semplici e per nulla impegnative, rispetto alle mie capacità. Si trattava per lo più di redigere documenti ufficiali della corte, come diplomi militari o concessioni ai vari signori locali; oppure dovevo trascrivere sotto forma di atti i responsi del re in questioni giuridiche. Prima, tali incarichi erano stati svolti da fratello Cormac, ma in modo sporadico, perché ufficialmente lui era solo il rappresentante dei canonici del Capitolo della cattedrale presso la corte reale. Tutti i suoi compiti erano dunque passati in modo più sistematico a me, ed io ero perfettamente in grado di portare a termine.
Questo mi lasciava il tempo di occuparmi dell'altra importante missione che mi era stata affidata dal mio signore. Una missione delicata che mi sarebbe costata più di quanto allora immaginavo.




*Il franciano è la varietà di lingua d'oïl (antico francese) parlato nella zona di Parigi e nell'Ile de France. L'anglonormanno è il ceppo invece parlato nel sud dell'Inghilterra; va considerato infatti che re Henry II della dinastia dei Plantageneti è discendente dei normanni e come tale parla una lingua simile al francese con influenze sassoni.

Eccomi qui con il nuovo capitolo! Spero che vi sia piaciuto... sir Gregory sta cominciando ad infiltrarsi a corte, ma la vera domanda è: quale compito gli è stato affidato dal suo signore? E chi è il suo signore? ^^
Intanto, godetevi QUI l'immagine di Loihal, con in braccio uno dei figli, il piccolo Eoin (irlandese, pronunciato "Owen").
Ah, i libri che non sono scritti in gotico e parlano di autori latini strani, sono semplicemente quelli di epoca carolinga (IX-X secolo), scritti in carolina (qui per maggiori informazioni), che verranno riscoperti dagli umanisti a partire dal XV secolo.
Grazie a tutti, alla prossima!
Beatrix

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Capitolo 7
*** Liber VI ***


Liber VI




Lady Feamair fissava il suo bersaglio con uno sguardo profondo e concentrato. Il suo dito sfiorò delicatamente il piumaggio della sua freccia poi, con un movimento fulmineo e impulsivo, alzò l'arco, tese la corda e scagliò il dardo.
Il sibilo della freccia che tagliava l'aria al suo rapido passaggio, mi costrinse a chiudere involontariamente gli occhi.
Quando li riaprii, la punta era perfettamente conficcata al centro dello scudo che stavo reggendo e io ero miracolosamente incolume.
«Deo gratias!» mi lasciai sfuggire, tentando, senza riuscirci, di estrarre la freccia dallo scudo.
«Dubitavate delle mie doti di cacciatrice?» domandò Feamair, fingendosi offesa. «Riesco a centrare un cervo da cento metri».
«Non ne dubito, ma mi preoccupo più della mia incolumità che di quella di un cervo, se non vi dispiace» risposi con una certa aria scocciata per la freccia che non riuscivo ad estrarre dallo scudo.
«Lasciate fare a me» propose Feamair, scansando delicatamente la mia presa inferma. Con poche e mirate mosse, riuscì nell'impresa che mi aveva risucchiato tante energie; dopodiché mi sventolò il trofeo davanti al naso con un'irritante espressione soddisfatta. «Dovremmo rimediare alle vostre pessime qualità di lord, sir Gregory».
«Quali pessime qualità?» protestai, piuttosto offeso.
Feamair ridacchiò e mi strappò di mano lo scudo per appoggiarlo al tronco di un albero. «Oh, avanti. Siete un signore vassallo del re del Leinster. Vi potrebbero essere richiesti anche dei servigi militari».
A quelle parole scoppiai a ridere.
A me? Servigi militare?
Ma se non ero nemmeno in grado di reggere in mano una spada!
Nessun re sano di mente avrebbe mai chiesto a me di partecipare a una qualsivoglia impresa militare, a meno che non avesse voluto condannare me a morte certa e l'impresa stessa al fallimento.
Feamair però non volle sentire ragioni. Mi afferrò per il braccio e mi trascinò poco lontano dal bersaglio. Ormai farmi trascinare in assurde imprese (tipo andare ad una festa di paese o mettermi a tirare con l'arco) da lady Feamair era diventato per me un piacevole passatempo. La ragazza continuava a osservarmi con uno sguardo divertito e un accenno di sorriso sulle labbra, mentre mi spiegava come mi sarei dovuto posizionare.
«Così, sir Gregory» sussurrò, sistemando la mia presa sull'arco con un tocco improvvisamente delicato. Per un attimo, incrociando il suo sguardo, mi parve di vedere un lampo di passione nei suo occhi verdi, ma lei si voltò subito verso il bersaglio.
«Dovete sentire il potere della freccia e scoccare istintivamente il colpo» spiegò con voce sottile.
La sua mano destra scivolò sulla mia, insieme accarezzammo l'impennaggio, tendemmo l'arco e con un veloce sguardo d'intesa, mollammo la corda nello stesso momento. La freccia si inchiodò vibrando nello scudo.
«Bel colpo, sir Gregory» si complimentò Feamair, con un sorriso. La sua mano era ancora appoggiata sulla mia, alzata a mezz'aria.
I nostri sguardi si incrociarono.
I suoi occhi erano così verdi, così intensi, così profondi che ne fui rapito. Da quel preciso momento non mi importò più nulla di tutto il resto, di dove ci trovavamo, della mia missione... nulla aveva più importanza oltre a quegli occhi in cui mi ero perso.
E fu così, senza rendermene conto, che le misi il braccio intorno alla vita e la strinsi a me per baciarla. Le nostre labbra si sfiorarono per una frazione di secondo, poi anche Feamair rispose al bacio.
E furono gli istanti più belli della mia vita. Per una volta non c'era posto nella mia testa per null'altro che non fosse quel secondo di gioia rubata all'ombra di un albero; nessuna preoccupazione, nessuna speculazione teologica, nessun piano complicato. Solo noi, in mezzo alla campagna, e nient'altro.
«Sir Gregory, signore!» esclamò una voce infantile, che ruppe l'incantesimo dal quale eravamo stati rapiti.
Io e Feamair ci separammo di scatto e vidi le sue gote spruzzate di lentiggini arrossire leggermente. Ma quando arrivò da noi di corsa il piccolo Eoin, uno dei figli di Loihal, entrambi avevamo un'espressione così indifferente che nemmeno il più sospettoso degli uomini avrebbe potuto insinuare nulla.
«È tornato Lucciola, sir Gregory signore» esclamò Eoin, saltellando estasiato. «Posso dargli i semini, signor Gregory signore? Posso?»
«Lucciola?» domandò Feamair, con aria sorpresa.
Io mi lasciai sfuggire un sorrisetto divertito. «È il mio piccione viaggiatore, ma il nome non l'ho scelto io. L'ha scelto lui» spiegai, scompigliando con affetto i capelli già di per sé piuttosto arruffati del piccolo Eoin. «Dai, vai a dargli da mangiare, che adesso arrivo» aggiunsi rivolto al bimbo, che mi rispose con un sorriso smagliante e poi scappò via per correre a nutrire il piccione.
«Vi siete affezionato alla famiglia di Loihal» commentò lady Feamair, con un tono amorevole, osservando la figura del ragazzino che attraversava il campo.
Aveva ragione: non me ne ero nemmeno reso conto, ma mi ero realmente affezionato a quella famiglia e soprattutto al piccolo Eoin.
Era davvero assurdo. Per un attimo pensai che avrei potuto lasciare perdere tutto il resto per passare ciò che restava della mia esistenza a coltivare il mio piccolo appezzamento di terreno insieme alla famiglia di Loihal e con al fianco lady Feamair come mia legittima sposa. In fin dei conti, di che altro avevo bisogno?
Ma una parte di me lo sapeva: non avrei mai potuto farlo. Avevo degli obblighi da portare a termine, un signore a cui rispondere, una corte che valutava il mio agire. Non potevo fuggire da ciò che mi circondava. O, almeno, non potevo farlo impunemente. Abbandonare il mondo per ritirarsi in quell'idilliaca pace era una forte tentazione, ma Lucciola che mi aspettava alla capanna, con un messaggio del mio signore legato alla zampa, mi ricordava che un tale lusso non mi era concesso.

La vita a corte, dopo i primi mesi, cominciò a diventare monotona. Appena riuscivo a liberarmi dai vari impegni e incarichi, mi ritiravo nel mio appezzamento, dove passavo le giornate a disquisire di teologia con fratello Cormac o a passeggiare nel bosco insieme a Feamair. Mi bastava anche solo tenere la sua mano tra le mie, annusare il rustico profumo dei suoi capelli sempre arruffati al vento, osservare le lentiggini che le colorivano le gote, accarezzare le sue guance, baciare le sue labbra.
Ma sapevo che quella vita in campagna era solo una vana illusione. Io avevo un compito da portare a termine e quando lo avessi compiuto, l'incanto si sarebbe rotto. Feamair non mi avrebbe mai più rivolto la parola, quando avesse scoperto il vero motivo che mi aveva portato alla corte del re del Leinster.
Il mio obiettivo era quello di carpire i più intimi segreti della vita al castello, per poi riferirli con dovizia di particolari al mio signore. Per questo, mio malgrado, cercavo di passare a palazzo più tempo di quando chiedessero i miei incarichi da segretario. Solo quando credevo di aver raccolto informazioni sufficienti, mi ritiravo nella tranquillità della campagna.
Per il resto, lady Aoife mi aveva lasciato completa libertà di movimento all'interno del castello. E questo, oltre ad essermi utile per il mio compito, mi permetteva anche di vedere Feamair più spesso di quanto sarebbe stato conveniente per un'onesta fanciulla di corte.
Quel giorno mi stavo aggirando tranquillamente per le stanze del castello, quando un debole pianto proveniente da dietro una porta socchiusa, richiamò la mia attenzione. Poggiai una mano sul legno e la porta cigolò lentamente.
Nella stanza, seduto sul letto con il capo chino e la schiena curva, si trovava re Gilbert.
Feci per andarmene il più silenziosamente possibile, ma proprio in quel momento il ragazzino si voltò e mi vide. Un lampo di puro terrore attraversò i suoi occhi cerulei e la paura si disegnò sul suo volto. Si alzò di scatto del letto e balbettò: «Sir Gregory, voi... io non stavo...»
«Mio signore, io non ho visto niente» lo rassicurai, chinando leggermente il capo in segno di sottomissione.
Re Gilbert tirò su con il naso, ma rimase in silenzio.
Tutto d'un tratto, mi fece pena: non era certo fatto per comandare, sebbene vi fosse stato costretto dall'improvvisa morte del padre. Il peso del potere doveva averlo schiacciato.
Dopo una manciata di secondi, durante i quali nessuno dei due osò dire nulla, ritenni che fosse giunto il momento di defilarmela. Ma quando mi voltai per andarmene, re Gilbert pigolò: «Mi fa male la schiena».
«Mio signore?» domandai piuttosto perplesso, senza sapere bene cosa fare.
«Mi fa male la schiena» ripeté il ragazzino, con il labbro inferiore che cominciava a tremare per il pianto represso.
Io rimasi immobile dov'ero, incapace di reagire.
«Sono malato, gobbo e il medico dice che il mio cuore è troppo debole... sono un inetto. Mamma dice che dovrei stare dritto con la schiena, ma mi fa male» piagnucolò, inframezzando il discorso con numerosi singhiozzi.
«Mio signore, non credo che sia appropriato» farfugliai, ma in quel preciso istante re Gilbert scoppiò a piangere.
Io mi guardai intorno, completamente a disagio. Non avevo la più pallida idea di come si consolasse qualcuno, tanto meno un re, la cui madre, se ci avesse beccati, sarebbe stata capace di squartarci vivi. Ma, in fin dei conti, avevo davanti agli occhi un ragazzino in lacrime e il mio primo istinto fu quello di abbracciarlo. Il piccolo Gilbert soffocò i singhiozzi nel mio mantello, affogando la testa tra le pieghe dei miei vestiti. Io mi limitai ad accarezzare i suoi riccioli castani con imbarazzo.
Dopo qualche minuto di silenzio, re Gilbert si sciolse dall'abbraccio. Tentò di asciugarsi in qualche modo le lacrime con il dorso della mano, poi mi rivolse un timido sorriso che ricambiai a disagio.
«Vorrei non essere costretto a governare» sussurrò, levandosi la corona dal capo. Se la rigirò in mano per qualche secondo, poi la tese verso di me. «Voi lo sapreste fare molto meglio» disse, porgendomi la corona come se sperasse con quel gesto di investire me dei poteri regali.
Io indietreggiai di un passo, quasi spaventato. «Mio signore, questo compito è stato affidato a voi» risposi, tentando di incoraggiarlo.
Re Gilbert rimase con le braccia tese verso di me ancora per qualche secondo, poi le ritrasse a sé, sconfortato e rassegnato.
«Avete ragione» sussurrò in tono dimesso. «Ma vorrei tanto che questo fardello non fosse toccato a me».




Ecco qui il nuovo capitolo!
Momento romantico e momento patetico... il bacio, penso che ve lo aspettavate dalla prima comparsa di Feamair! Quanto al povero Gilbert, mi ha sempre fatto molta pena la sua figura e credo che per lui sarebbe stato facile pensare di potersi liberare del peso della corona scaricandolo su una figura molto più carismatica come quella di sir Gregory.
Inoltre, è stato rivelato il compito di Greg: fare la spia... ma la domanda ora è: per conto di chi lavora? mhuahahah!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Alla prossima,
Beatrix

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Capitolo 8
*** Liber VII ***


Liber VII




Quando lasciai la stanza di re Gilbert ero piuttosto turbato. In un certo senso mi sentivo quasi in colpa a tradire quel piccolo reuccio indifeso, troppo debole per governare qualsiasi cosa, tanto più un regno che stava crollando su se stesso. Incontrai Feamair quasi per caso, senza nemmeno accorgermi di dove stavo andando.
«Sir Gregory» sussurrò lei, prendendomi per mano e conducendomi in una stanza lontana da occhi indiscreti. Mi sfiorò le guance e si avvicinò a me per baciarmi, ma io ero troppo perso nei miei pensieri, per reagire. «Mio signore, cosa avete?» mi domandò allora la ragazza, in tono preoccupato.
Io smisi di fissare la venatura nel legno del pavimento e presi a guardare i suoi luminosi occhi verdi.
«Ho parlato con vostro cugino» rivelai infine.
A quelle parole, lady Feamair si irrigidì e i suoi muscoli del viso si contrassero in una smorfia. «È solo un inetto, non sa reagire». «Forse non ci riesce» azzardai, guardando Feamair di sottecchi. Lei scrollò le spalle con decisione.
«Ha nelle sue mani tutto il potere del regno. Lui potrebbe far risorgere il Leinster all'antico splendore dei nostri antenati e invece... non si rende nemmeno conto di ciò che ha e continua a piangere su se stesso» commentò in tono amaro.
Avevo come l'impressione che in quella critica forse troppo aspra fosse nascosto un velo di rimpianto. In fin dei conti, il regno sarebbe dovuto passare a suo padre Conchobhar, facendo di lei la legittima principessa del Leinster, e invece lui era morto lasciandola orfana e consegnando il potere nelle mani della sorella, lady Aoife.
Forse Feamair aveva ragione: re Gilbert non aveva saputo reagire quando il peso del regno gli era piombato sulle spalle, mentre lei sembrava nata per comandare. Mi ricordava tanto Boudicca, la regina dei celti che, alla morte del marito, aveva preso il comando della sua gente e li aveva portati a marciare contro i romani per respingerli dall'Inghilterra. Ero convinto che anche Feamair sarebbe stata in grado di farlo, se solo le avessero dato l'occasione.
Forse Feamair intuì i miei pensieri dall'espressione del mio volto, perché si avvicinò a me con fare accattivante. «Sapete che farei, se fossi io la regina?» mi chiese sorridendo. I suoi occhi brillarono di furbizia.
«Che cosa?» la incitai, cingendole la vita.
Lei mi baciò.
Ma non seppi mai cosa avrebbe fatto, se fosse stata regina, perché proprio in quel momento un gridolino isterico ci fece trasalire e fummo costretti a separarci di scatto.
Lì, ritta in piedi davanti a noi, con l'aria scandalizzata, stava lady Isabel de Clare, principessa del Leinster. I suoi occhi cerulei, così simili a quelli del fratello, saettavano tra me e Feamair, ridotti a due fessure.
«Isabel, ti prego...» cominciò a dire Feamair. Non l'avevo mai sentita usare quel tono: stava supplicando sua cugina. A quanto pareva, la reazione di sua zia Aoife alla scoperta della nostra storia d'amore doveva realmente terrorizzarla.
Isabel alzò le sopracciglia, con un malcelato disinteresse. «La regina non sarà per niente contenta» commentò in tono acido.
Feamair strinse la mia mano con maggiore forza e fece un passo titubante verso Isabel. «Non lo farai...» sussurrò, scuotendo lentamente la testa.
Sapevo che tra le due cugine non correva buon sangue: Isabel invidiava Feamair che, oltre ad essere decisamente più graziosa, aveva un carattere tanto forte e indipendente da concederle una certa libertà dalla vita di corte; Feamair, dal canto suo, invidiava solo una cosa alla cugina: il suo status di legittima principessa del Leinster.
Mi chiedevo solamente fino a che punto le avrebbe spinte l'odio che provavano l'una per l'altra.
«Che cosa dovrebbe impedirmi di spifferare tutto?» la provocò lady Isabel, arricciando quel suo naso a punta che la faceva somigliare ad una cornacchia.
Feamair deglutì: non aveva una carta vincente da giocare contro la cugina, per proibirle di fare la spia e questo lo sapeva benissimo anche Isabel.
Non era un peccato tanto grave quello di cui ci eravamo macchiati io e Feamair, ma era proprio di quel genere che destavano tanto di quello scalpore ipocrita da suscitare il biasimo di chiunque all'interno della corte e far meritare ai colpevoli qualche esemplare punizione.
Anche questo Isabel lo sapeva e pareva gongolare all'idea di infangare l'onore della tanto odiata cugina.
«Isabel, ti prego» la supplicò un'ultima volta Feamair.
Vidi un lampo di folle malizia attraversare gli occhi azzurri di lady Isabel. «Non ci sono preghiere che tengano» rispose con un tono quasi malvagio. Poi, senza smettere di fissare con uno sguardo di sfida la cugina, chiamò a gran voce: «Guardie!»
Fu allora che Feamair lasciò andare la mia mano e si scagliò contro Isabel come una furia, ricoprendola di insulti. Non feci nemmeno in tempo ad accorgermene, che le due ragazze erano a terra in un groviglio di corpi e vesti. In poco tempo Feamair ebbe la meglio: strappò il diadema dalla testa della cugina e poi la afferrò per i capelli, strattonandola con foga. Isabel si difendeva a suon di calci e graffi, ma con il suo fisico gracile non poteva competere con la cugina.
Quando arrivarono le guardie, si trovarono di fronte una scena alquanto insolita: due lady che rotolavano sul pavimento come due ossesse, mentre io cercavo in vano di separarle.
«Feamair!» tuonò una voce imperiosa.
La ragazza si immobilizzò all'istante, ancora con una ciocca di capelli di Isabel tra le mani.
«Lasciala andare, immediatamente» ordinò lady Aoife; quando entrò nella stanza, sembrò che ogni spazio libero fosse stato occupato dalla sua presenza, tanto era ingombrante e pesante la sua autorità.
Feamair liberò lentamente dalla sua presa lady Isabel che si affrettò a ricoprirsi il capo con il velo, fermandolo con il diadema. Aveva un labbro gonfio e sanguinante e un piccolo ematoma sotto l'occhio destro. Anche Feamair si alzò da terra: ciò che maggiormente mostrava lo scontro appena avvenuto, non erano tanto i graffi lasciati dall'avversaria, quanto lo sguardo furente simile a quello di una bestia feroce ricacciata a forza nella gabbia.
«Cos'è successo qui?» domandò lady Aoife, in un tono che faceva passare qualsiasi voglia di disobbedire.
Fu lady Isabel a rispondere, con un tono di voce acido e scontroso: «Mi ha aggredito lei!»
Lady Aoife si voltò lentamente verso Feamair, per riceverne una spiegazione sensata, ma la ragazza non smetteva di digrignare i denti verso la cugina, gli occhi verdi infiammati da un sentimento di puro odio, così la donna fu costretta a rivolgersi nuovamente alla figlia. Quel patetico teatrino stava cominciando ad attirare l'attenzione degli altri membri della corte, che facevano capolino alle spalle delle guardie.
«E perché l'avrebbe fatto?» chiese lady Aoife con un tono neutro, che sembrava non voler propendere per nessuna delle due contendenti.
Ma io sapevo che la bilancia della giustizia pendeva nettamente a favore di Isabel, che poteva vantare non solo una vita di corte pienamente onesta, ma anche un notevole ascendente sulla madre. Feamair, al contrario, aveva dei notevoli precedenti negativi che le avevano procurato lo sfavore di tutta la corte, zia Aoife compresa.
Lady Isabel scoccò uno sguardo di sfida alla cugina e tentennò per qualche secondo, ma capii subito quali sarebbero state le sue intenzioni, quando la vidi arricciare il naso in quella sua smorfia disgustata. «Perché non lo chiedete a lei, madre?» suggerì in un tono che perfino a me parve veramente odioso, benché non avessi nulla contro di lei.
Ecco che finalmente, anche a me lady Isabel apparve sotto la stessa luce con cui la vedeva Feamair: quel volto da cornacchia, con il nasino a punta che si torceva ogni volta in smorfie di disgusto o indifferenza, coronato da un paio di inespressivi occhi cerulei, era tanto più sgraziato quando più odioso era il comportamento della lady a cui apparteneva. Si sarebbe anche potuto soprassedere sul suo aspetto spigoloso e così poco leggiadro, se solo avesse compensato con una naturale freschezza e spontaneità di carattere. Cosa che, a quanto pare, non le riusciva affatto bene.
Lady Aoife si voltò nuovamente verso Feamair, ma questa continuava nel suo ostinato silenzio, puntando lo sguardo furioso sulla cugina.
La mancanza di risposte surriscaldò l'animo della regina. «Allora, si può sapere che sta succedendo?» proruppe con il suo tono più autoritario e terribile.
Lady Isabel, forse spaventata dallo scatto d'ira della madre, si affrettò a rispondere con una vocetta acuta: «Ho scoperto lady Feamair in atteggiamenti lascivi con...» Isabel fece una breve pausa, che provocò un improvviso innalzamento della tensione.
Ecco, stava per arrivare il mio nome. Ero spacciato.
Chiusi gli occhi.
«Sir Gregory!»
Quando li riaprii, mi sembrò che improvvisamente fosse comparsa in quella stanza tutta la corte del Leinster, tutta concentrata sulla mia figura ammantata, come se sperasse di scorgervi chissà quale diabolico aspetto che fino ad allora era rimasto nascosto. Là, che sbucavano da dietro la figura della madre, gli occhi sbarrati e increduli di re Gilbert, quelli di biasimo di tante dame e cavalieri; il capitano dei soldati che ci scrutava con aria di superiorità, l'arcivescovo della cattedrale, Lorcan Ua Tuathail, che scuoteva la testa.
Eppure là, in mezzo a tutti quei severi giudici, c'era la figura di un giovane chierico, con il volto straziato dalla preoccupazione: fratello Cormac, l'unico seriamente angosciato da ciò che sarebbe potuto succedere.
«È un'accusa molto grave, la tua, Isabel» commentò in tono neutro lady Aoife. Sembrava che non volesse ancora esprimere il suo giudizio, ma gli occhi saettavano in modo inequivocabile tra me e Feamair. «Non dici niente per difenderti?» chiese poi, rivolta alla nipote.
Feamair finalmente distolse lo sguardo dalla cugina per puntarlo su lady Aoife, ma il sorriso beffardo che le increspò gli angoli della bocca non lasciava presagire nulla di buono. «Oh, sì. Dico che Isabel è una vipera inacidita dall'invidia!» esclamò con un tono provocatorio.
Ormai il danno era fatto, tanto valeva goderci dentro, per quanto possibile, e prendersi la propria meritata vendetta.
Questa era la filosofia di Feamair, io sarei stato di tutt'altro parere. Ma con la sua battuta sarcastica nei confronti della cugina, trascinò anche me sul fondo.
Fu l'ultimo affronto che lady Aoife fu in grado di sopportare. «Guardie, scortare lady Feamair nella sua stanza e fate in modo che non ne esca» ordinò con la voce leggermente incrinata dall'ira repressa.
Due uomini si fecero avanti per apprestarsi ad eseguire il comando.
Feamair si lasciò condurre fuori a testa alta, passando in mezzo ad un corridoio di cortigiani scandalizzati. Prima di sparire completamente dalla mia vista, si voltò impercettibilmente verso di me e per una frazione di secondo lessi nei suoi occhi una sfumatura di angoscia.
E poi un oceano di ipocrisia ci separò definitivamente.
«Quanto a voi, sir Gregory» continuò lady Aoife.
Quasi non mi interessava nemmeno scoprire quale sarebbe stata la mia punizione: ora che Feamair se n'era andata, la stanza mi sembrava improvvisamente vuota e fredda. «Re Gilbert vi dispensa dal vostro incarico di segretario e vi prega di non farvi più vedere qui a palazzo».
Poco dietro, vidi re Gilbert che si stingeva nelle spalle a mo' di scusa, come se si ritenesse colpevole di quell'ordine che lui non aveva mai dato.
Ma, sinceramente, accolsi la notizia con la più completa indifferenza: non mi importava nulla di tutto il resto se non potevo avere Feamair al mio fianco.




Ecco che è successo il casino!
Ma se pensate che le cose si stiano mettendo male, sappiate che il peggio deve ancora venire! Sono sadica, lo so!
Non ho molto da dire su questo capitolo... spero che vi sia piaciuto!
Alla prossima,
Beatrix

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Capitolo 9
*** Liber VIII ***


Liber VIII




«Ho fatto questo per voi, sir Gregory signore» pigolò il piccolo Eoin, offrendomi una focaccina salata. Aveva uno sguardo tanto commuovente, con quei suoi liquidi occhioni spalancati e il visino smunto, che non potei evitare di sorridergli.
Quando vide che il suo dono aveva provocato l'effetto desiderato, si aprì in un sorriso sdentato che gli illuminò il volto.
Io allora gli scompigliai i capelli e lo presi in braccio, facendolo sedere sulle mie ginocchia. Addentai la focaccina e poi ne offrii un morso anche a Eoin.
Erano passati quattro o cinque giorni da quando io ero stato cacciato dalla corte del Leinster e Feamair rinchiusa nella sua stanza. Sapevo da Cormac, che aveva richiesto di vederla, che la zia non le aveva più permesso di uscire e potevo immaginare come si sentisse frustrata e in trappola. Io, al contrario, senza di lei, mi sentivo sperduto nell'immenso mondo esterno.
Ufficialmente mi era solo stato levato l'incarico di segretario curiale, mentre il beneficio rappresentato dall'appezzamento di terreno era ancora mio. Per questo motivo, mi ero ritirato presso il cottage con il tetto di paglia dove viveva la famiglia di Loihal. Tuttavia, la piacevole vita di campagna, non mi sembrava più tanto piacevole ora che non potevo condividerla con la donna che amavo.
Era precipitato tutto in modo così drastico, nel giro di una frazione di secondo: Isabel che entrava nella stanza, la sua sfida aperta a Feamair, la lotta tra le due, l'arrivo di lady Aoife... ogni cosa si era sgretolata sotto i miei piedi. Quei mesi erano stati i migliori della mia vita, da quando era morto sir Thomas: finalmente avevo trovato un posto che aveva portato un po' di pace nella mia esistenza.
Avevo vissuto in modo tormentato la mia adolescenza, nutrendomi di oscuri libri di teologia che infamavano il corpo come veicolo di peccati, convinto che il mio unico posto fosse tra i polverosi volumi delle biblioteche dei monasteri. Dalla morte di sir Thomas, ero rimasto nuovamente orfano: era stato Richard di Scozia, priore del convento di San Vittore vicino a Parigi, ad accogliermi alla sua abbazia, non seppi mai se per pietà nei miei confronti o per riconoscenza verso verso l'oramai defunto amico Thomas Becket. Durante gli anni in cui soggiornai a San Vittore, sir Richard cercò più volte di convincermi a prendere gli ordini minori, ma io rifiutavo sempre: c'era qualcosa di oscuro che mi spingeva ad ingigantire il mio peccato e a sentirmi indegno di servire il Signore.
E poi, alla morte di sir Richard, tre anni dopo, il mio ingegno e astuzia, svelati dalla mia febbrile ricerca della verità e della conoscenza ultima, non erano passati inosservati ai più grandi abati dell'Europa. All'età di dodici anni cominciai a viaggiare per il mondo, attirato e richiamato da importanti monasteri o signori e sovrani dei regni più sperduti.
Filosofo mi chiamavano, teologo, profondo conoscitore dei misteri del creato. Io, in realtà, non sapevo bene chi ero. Non capivo dove mi stesse conducendo la mia insaziabile sete di conoscenza e vagabondavo senza meta, stanco di ogni cosa, ma instancabile nella ricerca di qualcosa di meglio. Ero uno spirito inquieto, che non riusciva a trovare la sua collocazione nel mondo.
L'ultimo signore per il quale avevo lavorato, per me, non era che uno dei tanti. Mi aveva assegnato quell'incarico e, con la prospettiva di mettermi nuovamente in viaggio, avevo accettato di buon grado. Certo, non mi sarei mai aspettato che proprio in quell'angolo di mondo, dimenticato perfino dal sole che non riusciva quasi mai a bucare la spessa coltre di nubi, avrei trovato la pace tanto anelata.
E l'avevo trovata in una rustica casa di contadini, in un bimbetto sdentato che mi regalava focaccine, in un giovane chierico dall'aria ingenua e soprattutto in una ragazza dai luminosi occhi verdi, spontanea come il vento che soffiava sulla brughiera, fresca come una goccia di rugiada, eppure illetterata.
La pace non l'avevo trovata nell'affannosa lettura di testi filosofici, ma nella tranquillità di una vita semplice.
Ce ne stavamo lì, io e Eoin, in silenzio, seduti su un ceppo di un albero, ad osservare il panorama, quando fratello Cormac comparve alle nostre spalle. «Sir Gregory, ho un messaggio per voi» mi annunciò, in un tono tale da farmi capire subito chi fosse il mittente.
Presi Eoin sotto le ascelle e lo feci scendere dalle mie ginocchia, per potermi alzare dal tronco. «Ditemi, fratello Cormac» lo supplicai con voce accorata, stringendo le sue mani tra le mie.
«Feamair vi prega di recarvi oggi, al calar del sole, al vecchio albero dove avete imparato a tirare con l'arco» mi sussurrò Cormac, con un tono complice.
«Oggi?» ripetei scioccamente, troppo entusiasta all'idea di poterla rivedere, di stringerla a me, di baciarla.
«Oggi» confermò Cormac, annuendo con il capo.
In quel preciso istante ogni alta cosa perse importanza. Alzai lo sguardo ad osservare il cielo, per vedere a che altezza si trovasse il sole e cominciai a contare le ore che mi separavano dal riabbracciare Feamair.
Non appena il sole fu calato lontano, oltre le colline, mi recai a quello stesso albero dove non solo avevo imparato a tirare con l'arco, ma anche ci eravamo scambiati il primo bacio. Dovetti aspettare parecchio tempo, un'ora o forse più, non lo sapevo. Ogni volta che sentivo un fruscio mi voltavo verso la provenienza del suono, nella speranza di veder comparire Feamair, ma venivo sempre deluso. L'attesa divenne snervante e cominciai a temere che Feamair non sarebbe venuta: poteva non essere riuscita a sfuggire alla sicurezza che sua zia aveva posto intorno alla sua stanza.
«Sir Gregory!» esclamò tutto ad un tratto una voce trillante alle mie spalle.
«Feamair» sussurrai voltandomi per stringerla in un abbraccio. Per un attimo non esistette nient'altro oltre a noi due e quell'albero sotto il quale avevamo nascosto i nostri amori.
«Oh, sir Gregory, mi siete mancato così tanto!» prorompette lady Feamair, appoggiando la sua testa sulla mia spalla.
Io accarezzai i suoi capelli arruffati, vi immersi il volto e mi lasciai inebriare dal loro profumo campestre. «Anche voi mi siete mancata, milady».
Nell'accarezzarle la testa, le trovai nei capelli una sospetta spiga di grano. «Come siete uscita dal castello?» le domandai, sventolandole davanti al naso la spiga. Avevo qualche idea su come doveva essere successo, ma preferii lasciare che fosse lei a raccontarlo.
Feamair ridacchiò deliziata. «Ho finto di aver bisogno di be'... insomma, avete capito no? E poi mi sono nascosta nel carro del fieno» rispose con una scrollata di spalle, come se fosse normale per una dama di corte fuggire dal castello in mezzo a mucchi di fieno.
«Vi ha maltrattata lady Aoife, in questi giorni?» le chiesi, accarezzandole dolcemente il volto.
Improvvisamente Feamair si fece seria. «Oh, sir Gregory, è per questo che sono qui» mi sussurrò apprensiva. «È successa una cosa terribile».
Il tono di voce che utilizzò, mi fece capire che doveva essere qualcosa di molto importante. Smisi di accarezzarla e la guardai dritta negli occhi. «Lady Feamair, che è accaduto?»
Lei si tormentò un ricciolo di capelli che le ricadeva al lato del viso e distolse lo sguardo per puntarlo su un punto non meglio precisato dell'orizzonte. «Lady Aoife ha promesso la mia mano a re Gilbert» annunciò alla fine, in tono lugubre.
Per un attimo non riuscii a recepire l'informazione, poi qualcosa dentro di me si ruppe e fui come inondato da un fiume in piena di emozioni. Non era possibile! Quella era l'ultima e peggiore vendetta che lady Aoife potesse tramare contro sua nipote: costringerla a sposare quell'inetto del figlio per portarla via da me e relegarla a corte, costretta alla vita formalmente asfissiante della legittima consorte del re. Era come se lady Aoife stesse riversando su Feamair tutto ciò che lei stessa era stata costretta a subire da giovane, alla morte del fratello maggiore Conchobhar, con il matrimonio con Richard de Clare e il conseguente peso del regno che le era piombato sulle spalle quando era rimasta vedova. E ora Feamair sarebbe stata condannata a vivere a fianco di suo cugino a vivere senza gli onori della corona, ma costretta a portarne il peso al posto del marito inetto.
Ma soprattutto, a vivere lontana da me.
«Milady...» fu l'unica cosa che riuscii a sussurrare.
Non avevo parole da dirle, non con quel peso mortale che mi attanagliava il cuore. Non c'erano frasi da mormorare all'orecchio come conforto, gesti che potessero alleggerire l'onere di quella decisione che altri avevano preso sul nostro futuro.
«Sir Gregiry, un modo ci sarebbe per impedire che tutto questo accada» sentenziò Feamair, con un tono di voce nuovamente deciso.
Per un attimo, un briciolo di speranza squarciò il velo del mio cupo orizzonte.
La ragazza si guardò un attimo in giro, come se temesse che qualcuno, oltre ai gufi e alle cicale, potesse udire i nostri discorsi. «Quanto pensate che possa resistere ancora il regno nelle mani di re Gilbert? Gli inglesi hanno già puntato i loro occhi sul Leinster e non ci mancherà molto prima che tentino di impossessarsene. E gli altri regni irlandesi non vedono di buon occhio la corte perché il sangue di Gilbert è per metà inglese» fece una brevissima pausa, poi mi guardò con intensità e riprese con una voce ancora più bassa: «È ora di riportare la corona del Leinster nelle mani di chi legittimamente dovrebbe tenerla».
Capii immediatamente dove voleva andare a parare quel discorso e fui costretto ad interromperla: «Milady, non direte sul serio?» Il tono della mia voce era preoccupato, ma non quanto il mio cuore.
«Sir Gregory, voi ed io sul trono potremmo governare questo paese meglio di quanto non faccia mio cugino Gilbert e potremmo salvarlo dall'invasione inglese, rassicurando nel contempo gli altri re irlandesi».
«Ma io con che pretese potrei mai...?» mormorai, sempre più allarmato. Ero spaventato da quella prospettiva, non solo per ciò che avrebbe potuto comportare una congiura ai danni di re Gilbert, ma per l'ipotesi stessa di ritrovarmi sul trono, io che avevo sempre agito nell'ombra.
Feamair, invece, aveva un tono di voce eccitato. «Sarete mio marito, sir Gregory, e io ho tutte le pretese di ambire al trono. Sono lady Feamair MacMurchadha, principessa del Leinster» rispose, e finalmente vidi brillare nei suoi occhi verdi quello scintillio regale che avrebbe dovuto caratterizzarli da sempre, viste le sue origini.
«Ma con quale esercito?» domandai, scuotendo la testa a quel sogno impossibile.
Il sorriso che illuminò il volto di Feamair non mi piacque per niente. «Con quello di Faerie».
«Quello di Faerie?» le feci eco come uno sciocco.
Feamair mi afferrò per le maniche della tunica. «Sì, quello di cui parlano le leggende: un intero esercito di sidhe sempre pronti a combattere per il proprio re contro le forze del male».
Per un attimo mi lasciai incantare da quella prospettiva, ma tornai bruscamente alla realtà: un'idea del genere non avrebbe mai funzionato. «Io non credo che...» provai a dire.
Come avrei potuto spiegarlo? Era assurdo!
Stavamo progettando una congiura contro il re del Leinster nel cuore della notte, basando i nostri piani su un esercito leggendario che avrebbe dovuto allearsi con noi. Quella storia non stava in piedi.
Non avrei dovuto lasciarmi coinvolgere nelle questioni della successione del regno; non avrei mai dovuto lasciarmi coinvolgere da Feamair, innamorarmi di lei. Era stato il più grande sbaglio. Chi avevo voluto prendere in giro? Non sarebbe mai potuta funzionare tra di noi.
Dovevo dirglielo, non potevo continuare a fingere.
Forse ora era tardi, ma questa storia doveva finire. Solo che... quanto era difficile da spiegare!
Presi un profondo respiro e guardai lady Feamair dritta negli occhi. «Io non sono chi credete che sia» sussurrai alla fine, con un peso mortale suo cuore.
Feamair, ancora tutta presa dal suo progetto per prendere il potere del regno, ci impiegò qualche secondo a realizzare la cosa. «Come sarebbe?» mi domandò, scuotendo la testa senza capire.
«Io non vengo dalla Scozia: sono nato a Londra, ma non so chi siano i miei genitori. Fui abbandonato davanti alla porta della canonica e fu sir Thomas Becket a prendersi cura di me, fino a quando non fu ucciso dai sicari di re Henry, una fredda sera di dicembre, mentre stava celebrando la messa» rivelai con un tono di voce sommesso.
Feamair mi fissava incredula, come se non riuscisse ad afferrare neanche una parola di quel discorso. «Ma allora perché avete detto di essere scozzese?» domandò in un sussurro, temendo di sapere già la risposta.
Io chinai il capo. «Perché se avessi rivelato di essere inglese, non mi avreste mai accolto a corte».
Sarebbe potuta finire lì, con quella confessione di una colpa reale, ma non poi così grave. Invece non era finita. Dovevo dirle tutta la verità, per una buona volta. Poi mi avrebbe sicuramente odiato, forse non mi avrebbe più rivolto la parola, ma io dovevo dirgliela. Ero stanco di mentire a lei e di mentire a me stesso, fingendo che avremmo potuto amarci e vivere insieme in quel podere di campagna.
«Lady Feamair, io sono un vassallo del re d'Inghilterra, Henry II Plantageneto, e sono stato inviato in Irlanda dal mio signore per spiare le mosse della corte del Leinster».
Fu un'ammissione dolorosa, soprattutto per la smorfia di incredulità prima e di rabbia poi che aveva deformato il bel volto di Feamair. Lei scosse la testa, incapace di accettare la cosa e si allontanò da me di qualche passo, come se avessi la peste. «Non è possibile» mormorò.
Io chiusi gli occhi, non riuscendo a sopportare la vista del suo cuore spezzato. «Dopo che è fallita l'impresa militare di suo figlio John*, re Henry ha pensato di infiltrare qualcuno a corte, per scoprirne i punti deboli e sfruttarli a suo vantaggio» spiegai, nel tentativo di giustificare il mio orribile tradimento. «Avete ragione, il regno del Leinster ha i giorni contati. Gli inglesi se ne impossesseranno prima o poi, non possiamo farci niente».
«State zitto!» strillò allora Feamair, realizzando improvvisamente che l'avevo ingannata, tradita e avevo approfittato di lei.
Mi sentii un verme quando vidi l'effetto che il mio comportamento aveva avuto sull'unica persona che avessi mai amato davvero.
Lady Feamair si asciugò violentemente le lacrime con un gesto della mano, come se per uno come me non valesse nemmeno la pena di piangere. «Io vi odio!» gridò.
E poi corse via.
Improvvisamente mi resi conto che l'avevo persa per sempre: non c'era modo di rimediare al mio errore, di cancellare quello che era stato. Non avrei mai dovuto permetterle di innamorarsi di me perché solo così non l'avrei fatta soffrire.
Io, io ero fatto per stare solo, per vivere relegato in una buia biblioteca, lontano da tutti, lontano dal mondo.



*Si tratta di John Lackland, ovvero Giovanni Senza Terra, fratello di Riccardo Cuor di Leone, portato alla ribalta dalla leggenda di Robin Hood. Alla morte di Richard de Clare (che Henry II aveva riconosciuto come legittimo re del Leinster), nel 1177, John fu nominato signore d'Irlanda dal padre, con gli obblighi di un vassallo, ma di fatto non detenne mai il potere. Nella primavera del 1185 aveva tentato di conquistarla militarmente, senza successo.


Ebbene sì, Greg è una viscida spia di re Henry II... tra l'altro, lo stesso uomo che avea fatto uccidere il suo mentore sir Thomas! Per Gregory, comunque, "lavorare" per re Henry non significa tradire il suo mentore, perché è sempre stato disposto a essere vassallo di chiunque, purché gli venisse concessa libertà di movimento e possibilità di ricerca. Ok, non ha una gran tempra morale ma, ehi, che vi aspettavate da uno come lui?
Povera Feamair! Costretta a sposare il cugino dopo che ha scoperto che l'uomo che l'amava è un traditore doppiogiochista che si è approfittato di lei...
Ma... allegria, brava gente! Io sono per gli happy ends! Solo, dovremo far penare ancora un po' i protagonisti! ;-)
Alla prossima,
Beatrix

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Capitolo 10
*** Liber IX ***


Liber IX




Non avevo più niente tra le mani, se non un pugno di terra poco fuori Dublino. Il mio compito in Irlanda era finito: avevo riferito a re Henry tutto ciò che avevo appreso sulla corte del Leinster e non c'era più nulla che mi tratteneva in quella terra.
Lady Feamair mi odiava e dalla sera in cui gli avevo rivelato la mia vera identità non avevo più notizie di lei. Il suo sogno di strappare il Leinster dalle mani di re Gilbert per liberarlo al contempo dal dominio inglese non aveva avuto successo perché io ero proprio uno di quegli orribili conquistatori che avrebbe voluto scacciare dalla sua terra. L'avevo tradita, mi ero rivelato uno dei tanti nemici che lei odiava, uno subdolo che aveva utilizzato la propria astuzia per penetrare fin dentro la corte e ingannare tutti.
Ma, cosa forse ancora peggiore, avevo ingannato me stesso, credendo che sarebbe stata possibile una storia d'amore tra di noi. Sapevo fin dall'inizio che ogni passo che facevo verso di lei mi allontanava dalla mia missione, alla quale non potevo rinunciare.
Avrei dovuto essere onesto fin dall'inizio, non solo con Feamair, ma soprattutto con me stesso: se avessi portato a termine il mio compito senza cedere alle distrazioni, non avrei fatto soffrire Feamair e non mi sarei ingannato.
Ma ormai era tardi per tornare indietro: avevo compiuto un errore al quale non c'era rimedio. Se fossi stato più onesto, me ne sarei tornato subito in Inghilterra, ora che non avevo più niente che mi trattenesse in Irlanda. Me ero un codardo e non me ne volevo andare. Mi illudevo che Feamair tornasse da me. C'era come un filo di speranza che mi legava a quella terra dove, seppure per poco tempo, avevo conosciuto la pace.
Me ne stavo seduto sempre sullo stesso ceppo, a fissare l'orizzonte. Loihal si preoccupava per me e cercava in ogni modo di coinvolgermi nella loro vita: una mattina mi chiedeva di accompagnarlo a prendere le uova, o mi proponeva di cuocere sul fuoco le focaccine che impastava sua moglie. Diceva sempre che lavorare mi avrebbe fatto bene, perché l'uomo che lavora non ha tempo di perdersi in pensieri tristi. Con la sua rustica filosofia, la sua semplicità, riusciva a raggiungere una pace che io avevo sempre solo desiderato. Un tempo pensavo che l'ignoranza fosse nemica della felicità, ma Loihal mi aveva insegnato che gli uomini avevano già dentro di sé un istinto naturale che poteva portarli sulla via della serenità. La spontaneità di Loihal mi aveva fatto arrivare ad una certezza: non era nell'affannosa ricerca delle verità ultime ma nel tranquillo godimento di ciò che Dio mi aveva offerto che avrei trovato la pace.
L'unico problema era che avevo afferrato questa verità quando ormai era troppo tardi, quando avevo perso Feamair.

Quel giorno Loihal mi aveva affidato un semplice lavoro nell'orto.
Così, quando fratello Cormac comparve alle mie spalle, io ero accucciato al suolo, coperto di terra dalle testa ai piedi in un modo quasi indecente.
«Cosa state facendo, sir Gregory?» non poté evitare di chiedermi, soffocando una risata.
Io osservai per un attimo le mie mani, più simili ormai a due vanghe arrugginite, e poi posai gli occhi sul misero lavoro che avevo svolto: i cavoli che avevo cercato di piantare, ora sembravano galleggiare in uno stato di incoscienza su un letto di terriccio.
La terra l'aveva vinta anche sulla mia buona volontà.
«Sinceramente... non lo so» risposi, alzandomi dal suolo. «Sono in grado di discutere sulla composizione dei cerchi celesti e sul significato allegorico di qualsiasi passo delle Scritture. Ma non so piantare dei cavoli» commentai in tono amareggiato.
Cormac mi mise una mano sulla spalla con fare rincuorante. «Sir Gregory, non sono venuto qui per parlare di cavoli».
Lo disse con un tono così grave che fui costretto a mettere da parte i miei vaghi pensieri sugli ortaggi per concentrarmi sul suo volto, improvvisamente serio.
«Sono qui per Feamair» mi annunciò il giovane chierico.
Bastò quel nome per farmi annodare le viscere.
Forse Cormac percepì la mia tensione dalla smorfia sofferente che mi attraversò il viso.
«Lei mi odia» sussurrai dopo un attimo di silenzio.
«Io credo che dovreste almeno provare a parlarle» mi consigliò fratello Cormac, ma io lo interruppi subito.
«Non può funzionare, io...»
«So cosa è successo, Feamair mi ha raccontato tutto» intervenne Cormac, annuendo con il capo.
Fu allora che distolsi lo sguardo e presi a fissare due corvi che si inseguivano nel cielo. Mi sentivo messo a nudo davanti a Cormac: ora anche lui conosceva il mio segreto e sentivo il suo giudizio che mi pesava sul capo. Tuttavia, quando tornai a guardare i suoi occhi, non vi lessi nessun rimprovero, ma solo angoscia.
«Sir Gregory, vi prego di ascoltarmi» mi disse in tono serio. «Vi ho detto che per me Feamair è come una sorella e ora soffro vederla in queste condizioni. È chiusa in se stessa, silenziosa, ma soprattutto rassegnata. Non potete lasciare che sposi suo cugino Gilbert senza fare nulla. Voi la amate, no?»
Quella domanda mi bruciò addosso peggio del fuoco vivo. Esitai solo una frazione di secondo, poi risposi di getto: «Sì».
Fratello Cormac fece un accenno di sorriso. «E allora non permettete che sposi re Gilbert».
«Ma lei mi odia» proruppi, interrompendo il discorso del giovane chierico. Ero spaventato, terribilmente spaventato. Avrei davvero voluto che tutto tornasse come prima, ma sapevo che era impossibile. Se anche avessi trovato il modo di impedire le nozze, di strapparla a Gilbert senza ripercussioni, non sapevo come lei avrebbe reagito. In fin dei conti l'avevo consapevolmente tradita.
Fratello Cormac mi afferrò per le spalle, con impeto. «Sir Gregory, conosco Feamair da una vita e so che non sta aspettando altro che una scusa per perdonarvi. Tornate da lei».

Tornare da lei.
Era diventato un chiodo fisso, da quando avevo parlato con fratello Cormac. Era un rischio che era necessario affrontare: dovevo sapere se mi avrebbe davvero perdonato. Non avrei potuto accettare di vivere il resto della mia vita nel rimpianto di sapere come sarebbe andata se solo fossi tornato da Feamair.
Avevo deciso che avrei impegnato tutte le mie forze in quel progetto. Non mi importava più di tornare in Inghilterra, di servire il mio re, di venir tacciato di fellonia per essere venuto meno ai miei doveri. Sinceramente, chi se ne importava.
Avrei potuto sempre imparare a coltivare cavoli.
Ma ora, il problema principale era come riuscire ad impedire le nozze, senza che lady Aoife scagliasse contro di noi ogni maledizione che la mente umana potesse concepire. Avrei potuto tornare in Inghilterra e chiedere aiuto al mio signore, re Henry Plantageneto, così come aveva già fatto Diarmaid quasi quindici anni prima, ma ero certo che il prezzo richiesto dal sovrano sarebbe stato molto alto e c'era sicuramente il rischio che quell'inetto di suo figlio John sfruttasse la situazione per prendere il potere sul Leinster; e questa era l'ultima cosa che volevo.
No, avevo bisogno dell'aiuto di qualcuno che non fosse interessato al regno, né che avesse mire espansionistiche o sete di potere. Qualcuno di estraneo ai meccanismi di successione della corona del Leinster. In sostanza, qualcuno a cui chiedere aiuto senza che in cambio chiedesse un prezzo che non potevo pagare.
Ci riflettei sopra per dei giorni interi, ma alla fine capii che l'unica soluzione possibile era quella che Feamair stessa aveva proposto a me: chiedere soccorso all'esercito fatato di Faerie. Era una prospettiva assurda, il piano di un disperato, ma era l'unico che avevo.
Ma per raggiungere il pozzo di s. Patrick avevo bisogno dell'aiuto di una persona: fratello Cormac.
Lui però non prese particolarmente bene la mia proposta. «Quando vi dissi di tornare da Feamair, non intendevo consigliarvi di farlo con un esercito di creature mostruose, che forse nemmeno esistono!» protestò quando gli spiegai il mio piano.
Sapevo che disapprovava completamente tutte quelle leggende legate a Faerie, ritenute erronee rispetto alla verità di fede, ma speravo di convincerlo ad accompagnarmi facendo leva sull'affetto che provava per Feamair.
«È l'unico modo per salvare Feamair dal matrimonio con re Gilbert» gli dissi, fissandolo negli occhi con intensità.
Lui distolse lo sguardo e quando tornò a posarlo su di me, aveva un sorriso amaro che gli incrinava le labbra. «Sapete come ho conosciuto lady Feamair?» mi domandò in un sussurro.
Io scossi lentamente la testa.
Fratello Cormac prese un lungo respiro, poi cominciò a raccontare: «Mia madre morì di parto dandomi alla luce. Mio padre, sir William, era il primo cavaliere alla corte di re Diarmaid. Quando si trattò di combattere per riconquistare il regno, lui era in prima fila a fianco di Conchobhar e con lui venne catturato da re Ruadri e...» la voce gli morì in gola, ma avevo capito benissimo quale fosse la conclusione di quella storia.
Nel tentativo di consolarlo, gli posai una mano sulla spalla.
Fratello Cormac mi rivolse un breve accenno di sorriso, come se volesse ringraziarmi di quel piccolo gesto. Poi riprese a raccontare: «Da allora vissi a corte e la madre di Feamair mi crebbe come fossi suo figlio, fino alla sua morte. Per questo io considero Feamair come mia sorella: abbiamo passato insieme tutta la nostra infanzia, finché io non sono entrato in convento».
Fratello Cormac fece una breve pausa, ma il suo tono di voce di era raddolcito. «Lei è la persona più importante che mi è rimasta e farei qualsiasi cosa per vederla felice».






Eccoci ad un punto di svolta nella storia: Gregory ha deciso di andare alla ricerca dell'esercito di Faerie!
Povero fratello Cormac, trascinato contro la sua volontà in un impresa da cavalieri e eroi d'altri tempi più che per un fraticello e un intellettuale incapace di fare qualsiasi lavoro!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Grazie a tutti quelli che seguono e in particolare a Julia Weasley che recensisce tutti i capitoli!
Alla prossima,
Beatrix

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Capitolo 11
*** Liber X ***


Liber X






Il viaggio per raggiungere il pozzo di san Patrick, che si trovava nel regno dell'Ulster, fu piuttosto tranquillo. Io e fratello Cormac attraversammo la campagna irlandese, lui sul suo mulo, io su un baio vecchiotto che avevo comprato a Dublino. Ci fermavamo nelle locande o nei piccoli paesi per passare la notte; solo quando non riuscivamo a raggiungere un posto per dormire, ci accampavamo all'addiaccio.
Avevo portato come me un bastone, su cui facevo una tacca ogni giorno, per non perdere il conto. Era essenziale mantenere una tabella di marcia, perché il matrimonio di Feamair era stato previsto per la notte di Natale, a cui mancava poco più di un mese.
Arrivammo a Lough Derg una piovosa mattina di fine novembre.
«La grotta dovrebbe essere qui da qualche parte» disse Cormac, legando il suo mulo ad un albero.
Con quell'acquazzone che riduceva la visibilità, poteva rivelarsi un'ardua impresa riuscire a trovare il pozzo. Anche io scesi da cavallo e cominciai a guardarmi intorno, ma il cappuccio impregnato di pioggia mi ricadeva sugli occhi, impedendomi di vedere bene. Pensai che più bagnato di così non potevo essere, quindi tanto valeva levarsi il cappuccio. Mi avvicinai cauto alla sponda del lago, guardandomi intorno con circospezione, anche se la pioggia rendeva i contorni sfumati e l'orizzonte una tremula linea che pareva ballare sinuosamente sotto i nostri occhi.
Feci un altro passo incerto in direzione della riva, quando misi un piede in fallo e il terreno bagnato scivolò sotto i miei piedi. Franai sul fango verso la sponda per una decina di braccia, fino a che non riuscii ad afferrare uno sperone di roccia e a fermare la mia caduta. Ad un pelo dal finire direttamente nel lago.
«Sir Gregory!» esclamò fratello Cormac, vedendo la mia impietosa scivolata.
Io mi rialzai a fatica da terra, attento a non cadere un'altra volta. «Tutto bene, tutto bene» gli dissi per tranquillizzarlo, sebbene mi doleva vagamente il fondoschiena ed ero ricoperto di fango da capo a piedi. Ma quando mi guardai in giro per trovare il modo di risalire dove si trovava Cormac, vidi alla mia sinistra una fenditura nella roccia che aveva proprio l'aria di essere l'ingresso di una caverna. Da dove si trovava il chierico (esattamente dov'ero stato io prima di scivolare) non si riusciva a vedere l'entrata che dava verso il lago, perché era coperta da un picco di roccia.
«Fratello Cormac, credo che abbiamo avuto fortuna» gli rivelai, con un sorriso soddisfatto.
Quando Cormac riuscì a raggiungermi, ci scambiammo uno sguardo d'intesa e poi entrammo nel pozzo.
L'ingresso era piuttosto angusto, ma dopo pochi passi la caverna si allargava in un ampio spazio. Attaccate ad una parete vidi delle crocette fatte con metalli poveri, qualcheduna in bronzo o in altre leghe, una in quello che sembrava argento.
«Doni votivi» commentò fratello Cormac, osservando anche lui le croci. Qualche pellegrino doveva essere giunto fin lì per richiedere una grazia a san Patrick, o per ringraziarlo di una ricevuta.
«Siamo nel posto giusto» asserii, annuendo con convinzione e avvicinandomi alla roccia. Appoggiai la mano alla parete, come attratto da una forza soprannaturale e, non appena sfiorai la roccia, sentii uno strano brivido percorrermi la schiena. Forse Feamair aveva ragione: in quel luogo c'era davvero qualcosa di... magico.
Ci spingemmo fino al fondo della caverna, guardandoci intorno con circospezione, ma in realtà non trovammo nulla che potesse indicare la presenza di passaggi per altri mondi, che fossero il purgatorio o il paese degli elfi.
«Qui non si va più avanti» osservò Cormac, ispezionando la rocca davanti a noi.
Eravamo in un vicolo cieco.
«Feamair forse si sbagliava» azzardò il chierico, scuotendo la testa.
Sapevo che era sempre stato scettico riguardo a quella storia di Faerie e forse una parte di lui era sollevato dall'idea che non avessimo trovato nulla. Certo, il pozzo di san Patrick non si era rivelato una porta per il purgatorio come sostenevano le leggende cristiane, ma, almeno, neanche l'esistenza di Faerie era stata provata. Eppure avevo come l'impressione che ci fosse qualcosa di strano in quella caverna.
E poi accadde: la crepa davanti a noi si aprì in uno squarcio dal quale fuoriuscì un orribile essere verde con gli occhi sporgenti e due enormi orecchie a punta.
«Che ci fate qui? Chi diavolo siete?» ci aggredì.
Sia io che Cormac indietreggiammo spaventati. Quella creatura era... reale? Il suo corpo sgraziato, la sua pelle verdastra, quel volto mostruoso... che cosa diavolo era?
Il mio tempo di reazione fu piuttosto breve, in realtà, considerato che avevo appena visto apparire da una crepa nel muro un essere disgustoso.
«Tu parli la nostra lingua?» chiesi incerto, osservando meglio la creatura. Non fu una domanda particolarmente felice.
«Di', umano, ti sembro un folletto dislessico, io?» mi aggredì il pelleverde con un grugno orribile nella mia direzione.
«Ehm... no?» farfugliai, senza bene capire dove volesse andare a parare la creatura, che non pareva affatto ben disposta nei nostri confronti.
«Ma allora Faerie esiste davvero?» si intromise Cormac, scuotendo la testa incredulo.
L'essere si voltò verso di lui con l'aria stralunata. «Ma siete tutti idioti, voi umani?» ci chiese. «Per tutti i bubboni di sua Maestà il Re, avete appena visto un goblin uscire da un portale e mi domandate se Faerie esiste davvero?»
Io e Cormac ci scambiammo uno sguardo perplesso.
Dunque era vero, il regno degli sidhe esisteva realmente. E quella creatura, quel goblin, o qualsiasi altra cosa fosse, ne era la prova tangibile. Significava che avrei potuto salvare Feamair e liberare il Leinster con l'aiuto dell'esercito fatato. Il mio piano si sarebbe attuato, ora ne ero certo.
«Cormac, io devo andare» dissi con ritrovata sicurezza, mettendogli una mano sulla spalla.
Lui mi guardò con gravità, poi annui. «Verrò con voi».
«Fermi, fermi. Dove pensate di andare?» ci interruppe il goblin con la sua voce gutturale.
Entrambi ci voltammo verso di lui.
«A Faerie» gli risposi, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
La creatura scoppiò a ridere e la sua catarrosa ghignata rimbombò nella caverna. «Ma siete proprio stupidi, voi due!» ci derise, appoggiandosi alla parete per non perdere l'equilibrio. Le nostre facce perplesse lo costrinsero a spiegarsi meglio: «Quando un umano entra a Faerie, non può più uscirne».
«Che cosa significa che non può più uscire?» ripeté scioccamente Cormac.
Il goblin si avvicinò a noi con sguardo eloquente. «Che nel momento stesso in cui i vostri piedi puzzolenti toccheranno il suolo di Faerie, non avrete più modo di riattraversare i portali per tornare in Irlanda».
Quella notizia ci spiazzò: nessuna leggenda parlava di un divieto del genere. Ma, in effetti, Feamair mi aveva detto che nessuno, tra quelli che avevano raggiunto il regno fatato, era mai tornato indietro.
Questo significava che avevamo fatto tutta quella strada per niente e che non avrei mai potuto strappare Feamair dalle grinfie della regina Aoife. Quel piano era la mia ultima possibilità e ora che la vedevo sgretolare tra le mie mani mi sentivo impotente.
«Ma io devo parlare con l'esercito fatato!» proruppi con foga, incapace di accettare la sconfitta.
Il goblin mi guardò con aria stralunata. «Esercito fatato?» ripeté dubbioso.
Avevo come l'impressione che mi considerasse un completo demente.
«Senti, umano. Se vuoi io ti posso andare a chiamare il capo della guarnigione più vicina e te la vedi con lui, va bene?» mi propose il pelleverde. Improvvisamente mi si aprì uno spiraglio di luce davanti agli occhi. «Lo faresti?» gli chiesi speranzoso.
La creatura sorrise maligna. «Dovrai darmi qualcosa in cambio».
«Che cosa?» chiesi cauto, ben conscio che non avevo nulla di valore da poter scambiare. In realtà nemmeno riuscivo a capire cosa potesse volere il goblin da me, ma la sua faccia non prometteva niente di buono.
La creatura si avvicinò con un sorriso inquietante. «Voglio la tua vista».
«La mia vista?» gli feci eco scioccamente. Non capivo quella richiesta cose volesse dire. Come poteva avere la mia vista e... cosa se ne sarebbe fatto?
Ma il goblin sembrava parecchio convinto di quella sua richiesta. «Sì, da un occhio soltanto... il sinistro, dai» propose, come se stessimo facendo un semplice scambio di prodotti della terra.
Il pelleverde voleva forse strapparmi l'occhio sinistro? In che modo? Ma soprattutto, perché?
«Io...» farfuglia, incapace di prendere una decisione.
Il goblin mi fissò per un attimo con uno sguardo provocatorio, poi sorrise. Mi fece solo una domanda: «Quanto sei disposto a perdere per ottenere quello che vuoi?»

Quella domanda mi perforò la mente. Già, quanto ero disposto a perdere? In fin dei conti, avevo fatto tutta quella strada, e mi ero dimostrato pronto a scendere a patti con un goblin per una ragazza che conoscevo da qualche mese!
Dovevo essere un folle. Io, poi, che non mi ero mai legato a nessuno da quando era morto sir Thomas. Ma chi volevo prendere in giro? Avevo sempre e solo pensato a me stesso, ero un egoista. E ora volevo farmi strappare un occhio per salvare che cosa? In realtà volevo solo riscattare il mio onore, dimostrare a Feamair che non ero un codardo, che non l'avevo usata solo per raggiungere i miei scopi. Non potevo credere che mi fossi innamorato veramente di lei. Non volevo crederlo.
Quella storia era veramente assurda. Avrei fatto meglio a tornarmene dal mio signore in Inghilterra e occuparmi delle terre che mi aveva affidato, lontano dai problemi dell'Irlanda e della corte del Leinster.
Eppure... cercavo solo di ingannarmi. Ogni volta che pensavo a lei mi sentivo avvampare il volto e gelare il cuore. Era vero, ero sempre stato un egoista, ma non mi era forse concesso di innamorarmi? Non riuscivo sopportare l'idea che Feamair fosse data in sposa a suo cugino, che qualcun altro, oltre a me, potesse metterle le mani tra i capelli, baciare il suo collo o anche solo stringerla a sé. Ero furiosamente geloso.
L'avevo tradita, l'avevo ingannata, ma avevo assolutamente bisogno di lei. Dovevo essere certo che sarebbe stata mia, per sempre. E per questo ero disposto a pagare qualsiasi prezzo.
«Quello che vuoi» sussurrai debolmente, guardando dritto negli occhi la creatura, che mi sorrise soddisfatta.
«Sir Gregory!» intervenne con foga Cormac, facendosi avanti a frapponendosi fra me e il goblin.
Io gli misi una mano sulla spalla con fare rassicurante, sebbene dentro di me fosse esploso l'inferno.
Il goblin mi si avvicinò con un ghigno sul volto che non mi piaceva per niente. Tese le mani verso di me e poi cominciò a recitare versi inquietanti in una lingua che non conoscevo.
Improvvisamente sentii un dolore lancinante all'altezza dell'occhio sinistro, che presto si espanse a tutta la testa. Mi portai una mano al volto e fui costretto ad appoggiarmi alla parete alle mie spalle, per non cadere a terra. Vidi una luce azzurrina che partiva dal mio occhio e finiva dritta negli artigli del goblin, che rideva soddisfatto. Fratello Cormac arretrò di un passo, atterrito, afferrando con una mano la croce d'argento che portava al petto. Poi, il dolore si fece insopportabile tanto che anche la poca luce mi feriva gli occhi come una spada e mi costrinse a chiuderli.
D'un tratto, così come era cominciato, il tormento cessò. Sbattei le palpebre un paio di volte, ma per quanto mi sforzassi di vederci meglio, c'era qualcosa che non andava nel mio campo visivo... e poi realizzai: non ci vedevo più dall'occhio sinistro. Mi portai le mani alla faccia, allarmato, ma non vi trovai nulla di strano. Semplicemente l'occhio aveva smesso di funzionare. Portai in avanti le braccia, come un cieco, perché non avevo più la percezione della distanza.
«Sir Gregory?» mi chiamò titubante fratello Cormac. Prima il chierico rientrava nella mia visuale, ora invece alla mia sinistra ero completamente orbo e la sua voce mi sembrava provenire da un qualche luogo oscuro alle mie spalle. Il goblin mi aveva tolto la vista da un occhio.
«Che mi hai fatto?» lo aggredii con foga.
Il pelleverde stava ammirando con soddisfazione una sfera di luce che reggeva nel palmo della mano. «Mi pagheranno un bordello di soldi per questa, sapete? Io sono un mercante, so come vanno queste cose: un oggetto magico così raro ha un prezzo da far girare la testa» spiegò gongolante, riponendo la sfera luminosa in una ampollina di vetro che aveva nella saccoccia.
«Che mi hai fatto?» ripetei per la seconda volta.
Il goblin si voltò verso di me. «Ragazzo, ho semplicemente preso quello che mi spettava» rispose in modo molto pacato. «Ora, come promesso, ti andrò a chiamare il capo della guarnigione più vicina» e con quelle parole si avviò verso la crepa nel muro dalla quale era comparso.
«Aspetta, chi mi dice che posso fidarmi di te?» lo fermai, mentre uno spiacevole dubbio mi si insinuava nella mente.
Il goblin mi rivolse un ghigno. «Nulla. Ma se mi hai dato la tua vista in cambio, significa che sei davvero disperato e allora non hai altra alternativa che fidarti».
E poi sparì risucchiato dalla roccia.

Le ore seguenti furono le peggiori della mia vita.
Io e Cormac ci sedemmo sul fondo della caverna, ad attendere il ritorno di un essere fatato mostruoso a cui avevo ceduto un occhio senza sapere se avrebbe tenuto fede al nostro patto. Nel frattempo sperimentavo la mia nuova vista limitata: non solo avevo un campo visivo circoscritto, ma anche non riuscivo ad avere percezione delle distanze. Per afferrare un oggetto posto davanti a me, più che altro, gettavo in avanti le braccia finché non lo sentivo sotto le mie dita.
Fratello Cormac era troppo scioccato per parlare. Prima l'apparizione del goblin, poi quell'assurdo rito magico a cui mi ero sottoposto, per lui andavano al di là di ogni immaginazione. Ogni tanto lo vedevo che mi lanciava sguardi preoccupati, ma più che altro sentivo il suo spasmodico borbottare qualche Ave Maria e Pater Noster.
Finalmente, dopo un lasso di tempo incalcolabile, la crepa nella roccia si allargò di nuovo. Quasi non credevo ai miei occhi, quando vidi comparire il goblin, seguito da un altro essere fatato dall'aspetto meraviglioso. Indossava una luccicante armatura di una fattura straordinaria, con uno scudo bianco con fregi blu e una spada alla cintola la cui elsa elaborata faceva intuire la preziosità della lavorazione; aveva la pelle diafana e dei fluenti capelli color dell'oro, gli occhi azzurri e penetranti. A coronare il tutto, un paio di spropositate orecchie a punta. Sembrava un angelo, una creatura celeste che viveva nella mente di Dio e si cibava di luce ed eternità.
Ricordando il manoscritto di Adalbertus di Wexford mi venne in mente un nome: sidhe, gli elfi di Faerie.
«Spero sia qualcosa di importante, giovanotto» Lo sidhe si rivolse a me con queste parole, ma a giudicare dal suo tono di voce, non sembrava particolarmente ben disposto nei nostri confronti.
Io mi feci avanti di un passo e alle mie spalle sentii che fratello Cormac faceva lo stesso. «Sono sir Gregory di Scozia e ho bisogno del vostro aiuto» mi presentai. L'elfo mi guardò con aria interrogativa, ma non disse una parola, così fui costretto a proseguire: «Ho bisogno che l'esercito fatato si schieri al mio fianco nella conquista del Leinster».
Le mie parole furono seguite da una manciata di secondi di silenzio.
Poi il goblin scoppiò a ridere. «Ve l'avevo detto che questo era tutto matto!» esclamò, dando uno spintone amichevole all'elfo.
Lo sidhe, dal canto suo, mi fissava con intensità, apparentemente impassibile. Dopo qualche attimo di silenzio, rispose: «Senti, noi non ci immischiamo nelle faccende di voi umani. Ma se mi porti qualcosa di prezioso in cambio, posso darmi alcuni soldati della mia guarnigione di confine».






Surprise e colpi di scena!
Immagino che molti si aspettavano di fare un bel viaggetto tuistico a Faerie ma.. be', non si può! Non chiedetemi come mi sia staltata in mente questa regola perché risale a seeeeecoli fa (quando ideai questa saga) e l'ho sfruttata spesso nei vari racconti che ho scritto. Anche qui, come vedete, mi è tornata utile. ;)
QUI il link della pagina web dedicata al Lough Derg e al pozzo di San Patrizio (per onore di veridicità, non mi sono inventata nulla!), mentre QUI il disegno del rito del goblin, per il quale mi sono ispirata al detto "costa un occhio della testa"! ^^
Dai, il povero goblin è anche simpatico, no? Ritiene Greogry un po' stupido, ma... non ha tutti i torti! Un umano che si presenta ad uno dei Portali con idee strampalate su Faerie non deve essere tanto a posto con la testa!
Nel prossimo capitolo andremo alla ricerca di una merce di scambio... nuovo personaggio e nuove avventure!
A presto e grazie a tutti!
Beatrix

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Capitolo 12
*** Liber XI ***


Liber XI






Il castello del re del Connacht non aveva nulla a che fare con quello del Leinster. Questa era una vera e propria cittadella fortificata, dotata delle più moderne e sofisticate tecniche difensive. Due portoni d'ingresso, in curva, in modo tale che il secondo fosse nascosto dall'angolatura, conducevano ad un cortile interno, al cui centro si trovava una cisterna sotterranea con un pozzo. Un mastio piuttosto imponente proteggeva il lato su cui si trovava l'entrata, mentre un altro paio di torri difendevano gli altri versanti. Nel cortile, una piccola chiesetta e qualche bottega, tra cui quella del fabbro e quella del fornaio, rendevano il luogo autosufficiente e pressoché inespugnabile.
Ciò che aveva condotto nel regno del Connacht me e il mio inseparabile compagno Cormac era il lontano profumo di una leggenda: si diceva che nei più nascosti anfratti del castello fosse custodito un potente artefatto magico, una pietra che rivelava profezie se veniva toccata da un re giusto. Quanto ci fosse di vero in quella storia, non potevamo saperlo, ma era la nostra unica speranza per recuperare qualcosa che fungesse da merce di scambio.
Quello che mi preoccupava realmente non era solo la possibilità che quella leggenda fosse totalmente falsa, ma anche la prospettiva di incontrare il re del Connacht: Ruaidri Ua Conchobair, re Supremo d'Irlanda. Da ciò che avevo sentito di lui, non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di un crudele tiranno. Era lo stesso uomo che aveva combattuto contro Diamaid MacMurchadha, una volta che questi era tornato in Irlanda con l'aiuto degli Inglesi. Lo stesso uomo che aveva catturato e fatto uccidere il padre di Feamair e quello di Cormac.
Non sapevo come il mio amico avrebbe reagito alla vista di colui che lo aveva reso orfano, ma la proposta di andare nel Connacht era stata sua.
Avevamo viaggiato per poco più di dieci giorni, sotto un tempo davvero inclemente: novembre si era trasformato in dicembre portando con sé neve e freddo. Il mio mantello di lana, ora, non era quasi sufficiente per proteggersi dal vento pungente che soffiava senza sosta, scuotendo le cime degli alberi imbiancate dalla neve e facendo turbinare i fiocchi come dei ribollenti gorghi di un torrente in piena.
Non avevamo ideato un vero e proprio piano per penetrare a corte: semplicemente, volevamo presentarci al re come due studiosi e pellegrini, venuti a visitare la biblioteca di Dún Bhun na Gaillimhe*, il “forte alla foce del Gaillimhe”, come veniva allora chiamata la cittadella. In realtà la piccola chiesetta di san Nicola, accolta all'interno delle mura, non aveva una biblioteca particolarmente fornita, ma non avevamo una scusa migliore.
Fu così che una fredda notte di dicembre bussammo alle porte della città e una guardia piuttosto scorbutica ci intimò di presentarci e solo quando vide che eravamo due innocui pellegrini ci permise di entrare all'interno della corte.
Ci venne incontro un uomo piuttosto rude, dai modi rozzi e sbrigativi. «Che volete?» ci aggredì, poggiando la mano sinistra sul pomolo della spada, come per far vedere chi comandava lì dentro.
«Sir Gregory di Scozia e fratello Cormac del Leinster. Ci puoi introdurre al tuo signore?» domandai con cautela, ben sapendo che genere di comportamento conveniva tenere con tipi come quello.
L'uomo sembrò soppesare le mie parole, scrutando quanto potessimo essere pericolosi io e il mio compagno, poi scatarrò a terra e ci fece segno con la testa di seguirlo. Io e Cormac ci lanciammo uno sguardo d'intesa, poi ci affrettammo a pedinare il tizio.
Il salone dove ci condusse il capitano delle guardie era spoglio ed essenziale, illuminato da un fuoco che scoppiettava placidamente nel camino. Un lungo tavolaccio di legno, con un paio di panche e una sedia a capotavola, erano l'unico mobilio della stanza. Seduto a tavola, che consumava in silenzio il pasto scarno, stava re Ruaidri Ua Conchobair, re supremo d'Irlanda.
L'idea che mi ero fatto di lui non coincideva per niente con l'uomo che si presentò ai miei occhi: re Ruaidri aveva i lineamenti del volto duri, il corpo nervoso e forte, l'abbigliamento semplice ma regale. Era di un'età indefinibile, certo non giovane ma non si poteva dire nemmeno che fosse vecchio. I suoi occhi erano un pozzo nero che attirava il mio sguardo, un ipnotico e profondo vortice di sicurezza, giustizia, onestà. Emanava una naturale aurea di carisma e tranquillità: improvvisamente pensai che se avessi dovuto affidare la mia vita nelle mani di qualcuno, sarebbero state senza dubbio quelle forti e paterne di re Ruaidri. Il suo aspetto possente e vigoroso unito ad una sensazione di protezione che permeava chiunque fissasse i suoi occhi scuri, lo facevano apparire come l'uomo migliore in cui riporre la propria fiducia. Pensai che un vero re avrebbe dovuto avere il suo aspetto, non quello di Gilbert.
«Che cosa vi conduce qui, giovani pellegrini?» ci chiese re Ruaidri, alzandosi da tavola per accoglierci nella sala.
«Lo studio, mio signore» risposi, con un piccolo inchino.
«Di alcuni manoscritti della biblioteca di san Nicola» completò fratello Cormac, nel tentativo di ricoprire con una patina di verità quella pietosa bugia.
«Dunque siete uomini di lettere» commentò re Ruadri, tornando a sedersi e indicando a noi di fare lo stesso.
Io e Cormac prendemmo posto su una delle due panche.
«Sarete affamati, immagino. Venite da lontano?» ci domandò il re, in tono affabile. Sotto i suoi gesti posati e tranquilli, però, riuscivo ad intravedere con quanta attenzione ci stesse osservando e studiando.
«Io sono originario della Scozia e il mio compagno del Leinster, ma il nostro viaggio ci ha portati qui dall'Ulster» spiegai, mentre ci veniva servita una porzione di minestrone da un servo. Mangiai con calma il piatto che mi era stato messo davanti, anche se avrei voluto trangugiare il tutto in pochi sorsi, vista la fame che avevo.
Cormac sorseggiava la sua minestra con altrettanta tranquillità; non aveva fatto una piega, quando avevo asserito di venire dalla Scozia, sebbene sapesse anche lui che quella era una pietosa bugia, perché io ero nato a Londra.
Re Ruaidri ci fece molte altre domande quella sera, sui nostri studi, su ciò che conoscevamo e sul motivo che ci aveva portato sulla costa occidentale dell'Irlanda, in quel regno che era quasi al confine del mondo. Le sue richieste erano pacate e cortesi, sebbene avessero l'aria di un interrogatorio a cui era saggio non mentire. Ma noi, che saggi non eravamo, o, al contrario, ci consideravamo tanto saggi da riuscire a ingannare il re supremo, raccontammo senza battere ciglio la versione della storia che ci eravamo preparati lungo il viaggio.
Finalmente, ormai a notte fonda, re Ruaidri si alzò da tavola. «Mi piacerebbe ancora conversare con voi, ma si è fatto tardi. Vi posso offrire una stanza del mio castello, per il tempo che intenderete trattenervi qui a Gaillimhe» ci propose, in tono gentile.
«Ne saremmo onorati» risposi io, con un breve inchino del capo. La prospettiva era perfetta per il nostro piano, ma avevo come l'impressione che dietro quella offerta ci fosse la volontà di controllarci. In fondo, i suoi sospetti non erano poi così infondati, visto che eravamo arrivati da lui come pellegrini e intendevamo andarcene da ladri.
La permanenza al cestello del Connacht fu in realtà quasi piacevole, se non fosse che ogni nostro pensiero era concentrato nella ricerca della pietra magica. La corte di cui si era circondato il re non aveva niente a che fare con quella un po' frivola e parassitaria del palazzo del Leinster: qui c'erano prevalentemente uomini d'armi analfabeti, con i quali non era certo piacevole conversare, oltre a qualche dotto dall'aria un tantino ammuffita. L'unico personaggio davvero interessante era Conchobar Maenmaige, il figlio di re Ruaidri: aveva ereditato dal padre, senza dubbio, l'aurea carismatica, ma a differenza di questo, pareva molto più impulsivo e senza scrupoli.
Certo la mancanza di lauti banchetti in cui il pettegolezzo la faceva da padrone non aiutava me e Cormac a carpire informazioni che potessero tornarci utili nella ricerca della pietra.
Un giorno provai ad intavolare l'argomento con quello che doveva essere il segretario della corte, ma a giudicare dalla sua espressione stralunata, non aveva la più pallida idea di cosa stessi parlando.
Più fortuna riuscimmo ad averla intromettendoci nelle discussioni dei popolani e dei servi, ma ognuno raccontava una versione diversa e sempre oltremodo fantastica della storia, quindi non riuscimmo a capire quale fosse la verità. C'era chi parlava di una segreta sotto la torre sul versante nord, protetta da guardie giorno e notte, chi ipotizzava che fosse invece nascosta nella stanza privata del re, chi fantasticava sul fatto che fosse incastonata nella sua corona, o addirittura nel trono ligneo. In realtà, nemmeno sulla stessa pietra c'erano opinioni concordi: si passava da una minuscola perla color della luna, ad un menhir nascosto nel folto della foresta fuori dalla cittadella.
Stavamo navigando in un mare troppo vasto per la nostra piccola nave.
Quando stavo cominciando a disperare sulla possibilità di trovare la pietra, finalmente la fortuna girò dalla mia parte.
Re Ruaidri era un uomo pragmatico, con una mentalità improntata al comando. Al tempo stesso, però sembrava particolarmente affascinato dalla poesia e dalla teologia speculativa: mi chiedeva spesso di spiegargli la teoria dei corpi celesti o di narrargli i versi dei trovatori che avevo imparato durante i miei viaggi per l'Europa. Era uno spirito curioso, interessato alla conoscenza non solo come passatempo e distrazione, ma come strumento per migliorare la sua umanità. Un uomo davvero singolare.
Una sera venne a bussare alla porta della nostra stanza, quasi cautamente, come se fossimo noi i signori e lui il sottoposto. «Sir Gregory, fratello Cormac» ci salutò, con un breve inchino.
«Mio signore» rispose Cormac, alzandosi da terra, dove si era inginocchiato per recitare le sue preghiere quotidiane.
«Vorrei mostrarvi una cosa, se volete seguirmi» disse il re, aprendo la porta e indicando il corridoio con un gesto cortese.
Io e Cormac ci scambiammo uno sguardo veloce, poi ci affrettammo a seguirlo.
Re Ruaidri ci condusse verso il mastio, ma invece di entrare per la porta principale, aprì una botola in un angolo della corte e cominciò a scendere per una scala a chiocciola piuttosto impervia, prendendo una torcia dal muro. Avevo sempre immaginato che quella apertura conducesse alla cisterna e alle dispense, invece ci ritrovammo in un'angusta stanzetta con una sola porta, davanti alla quale stava ritta in piedi una guardia. Con un solo cenno del capo di re Ruadri, l'uomo si spostò di lato e ci fece passare.
La stanza dove entrammo era circolare, semibuia e piuttosto umidiccia: dovevamo trovarci sotto il mastio. Al centro del locale si trovava una colonna monolitica, alta circa un metro, sopra la quale stava poggiato un piccolo scrigno di legno.
Re Ruaidri fece qualche passo avanti e sfiorò il bauletto con un dito. «Voi siete dei dotti, no?» ci domandò, quasi sovrappensiero, mentre i suoi occhi erano puntati sullo scrigno.
«Sì, mio signore» risposi con voce tranquilla, sebbene fossi vagamente eccitato dall'idea di scoprire che cosa contenesse. Anche Cormac, a giudicare dallo sguardo esaltato che mi lanciò di sfuggita, doveva pensare la stessa cosa: lì era custodita la pietra magica.
«Qui dentro c'è...» cominciò a dire re Ruaidri, interrompendosi proprio sulla rivelazione, come se stesse soppesando le parole. «Un oggetto particolare» sospirò infine.
Sia io che Cormac ci avvicinammo impercettibilmente alla colonna, come attratti da una forza soprannaturale.
Finalmente re Ruaidri distolse gli occhi dal piccolo forziere e fissò il suo sguardo profondo sui nostri volti. «Voi siete dei dotti. Forse potete davvero spiegarmi che genere di oggetto sia questo».
E con quelle parole aprì lo scrigno.
Se avevo immaginato una favolosa pietra di fattura straordinaria, ciò che vidi mi lasciò piuttosto deluso: si trattava di una piccola sfera nera, con delle sottili venature grigie. Poteva sembrare un banale oggetto di marmo.
«Non lasciatevi ingannare dal suo aspetto» commentò re Ruaidri, vedendo le nostre facce, da cui forse trapelava la nostra delusione. «Questa pietra mi fu donata da mio padre, che a sua volta la ricevette dal suo. Ha qualcosa di davvero speciale, che io non so spiegarmi» ci rivelò il re, indugiando con la mano sopra la sfera. Ci rivolse un sorriso tirato, quasi come se un certo qual sentimento di modestia gli impedisse di parlare. «Tradizione vuole che riveli delle profezie quando un re giusto la tocca».
Si bloccò per qualche secondo, poi soggiunse: «Giudicate voi stessi».
Con quelle parole, sfiorò delicatamente la pietra e subito questa cominciò a fremere, poi a tremare sempre più velocemente, finché non esplose in un arcobaleno di colori, riempiendo la piccola stanza di luce tanto forte che fui costretto a socchiudere gli occhi per non restare accecato. Il volto di re Ruaidri fu attraversato da una strana smorfia, poi tornò sereno. Nel momento stesso in cui staccò la mano dalla pietra, tutto cessò.
Nella piccola sala circolare calò il silenzio.
Stranamente fu proprio Cormac a interromperlo per primo. «Non ha parlato, la pietra» commentò in un tono strano, quasi cattivo, che non gli avevo mai sentito usare.
«Ha parlato, sì, nella mia testa» spiegò il re con tranquillità, senza accorgesi dell'accusa di fratello Cormac.
«E cosa vi ha detto?» continuò il chierico, come se volesse mettere in dubbio la magia alla quale avevamo appena assistito.
«Di stare attento in chi ripongo la mia fiducia».
Non sapevo dire se si trattava effettivamente di una profezia, ma visto che io e Cormac progettavamo di rubare quello stesso oggetto custodito tanto segretamente dal re, non potei evitare di pensare che quella frase era pericolosamente vicina alla verità.
Ma Cormac sembrava che avesse dimenticato la sua abituale cautela, sembrava quasi non aver sentito ciò che il re gli aveva risposto. «È per questo che avete ucciso Conchobhair MacMurchadha e tutti gli altri prigionieri che erano con lui? Perché ve l'ha detto la pietra?» domandò con voce amara.
Era la resa dei conti.
Capii solo allora che Cormac si portava dentro quella domanda da giorni, o forse addirittura da una vita intera. Voleva sapere, doveva capire, doveva sentire dalla bocca dello stesso uomo che l'aveva reso orfano il motivo per cui suo padre era morto. Doveva sapere se l'odio sarebbe stata una vendetta sufficiente o se invece avesse dovuto perdonarlo e andare avanti.
Re Ruaidri chiuse lo scrigno con un colpo secco. «No, la pietra non c'entrò in quella occasione. Fu una scelta sofferta, ma sono un re e devo agire nel modo migliore per proteggere il mio popolo» rispose con tranquillità.
Non capivo se non riusciva a comprendere il tono astioso con cui gli si rivolgeva Cormac o se semplicemente aveva deciso di controbattere con pacatezza.
«Se fu una scelta così sofferta, avreste potuto comportarvi diversamente» replicò Cormac, sempre più cupo.
Re Ruaidri esitò solo un attimo, poi rispose: «Eravamo in guerra. Quando Diarmaid MacMurchadha era stato scacciato dal Leinster, si era rivelato per il traditore che era sempre stato, portando nella nostra isola invasori stranieri. Dovevo stroncare le sue mire espansionistiche e soprattutto quelle di re Henry d'Inghilterra. Minacciai Diarmaid dicendo che avrei ucciso gli ostaggi se non si fosse arreso, ma nemmeno questo lo fermò. Mi dispiace, ma io dovevo proteggere la mia gente e la mia terra dall'invasione straniera» la sua voce divenne fioca.
Fece una piccola pausa, poi aggiunse: «In realtà fu un sacrificio inutile, visto come vanno le cose adesso nel Leinster: gli Inglesi sono dappertutto e prima o poi si prenderanno tutta l'Irlanda, per colpa di Diarmaid».





*È la moderna città di Galway, capoluogo dell'omonima contea e una delle più importanti città dell'Irlanda.


Ebbene, eccoci giunti nel regno del Connacht. Re Ruadri è, come sempre, personaggio storico: QUI la pagina di Wikipedia a lui dedicata (vi consiglio di guardarla anche in inglese che è più completa), QUI invece il mio disegno.
Si tratta, come al solito, della mia interpretazione di una figura storica: ho sempre pensato che Diarmait fosse un re impulsivo e poco lungimirante, mentre mi immagino re Ruadri come un uomo giusto e retto, forse solo un po' troppo severo.
Quanto alla pietra di Fal, è un oggetto magico leggendario che ho riciclato per i miei racconti. Ciò che dice al re (di stare attento di chi si fida), riguarda non solo i nostri due giovincelli che vogliono rubare la pietra, ma anche il figlio Conchobair che lo spodesterà nel 1186 (un anno dopo rispetto a quando è ambientata la mia vicenda).
Povero Ruadri! ^^
Alla prossima,
Beatrix

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Capitolo 13
*** Liber XII ***


Liber XII






Da quando re Ruaidri ci aveva mostrato la pietra magica, io e Cormac non ci eravamo più scambiati parola. Sapevo che stava meditando su quanto aveva detto il re del Connacht a proposito di re Diarmaid e pensai che fosse più saggio lasciargli il tempo di rielaborare le informazioni.
Dopotutto, nemmeno io avevo mai analizzato la situazione dal punto di vista di re Ruaidri: agli occhi di tutta l'Irlanda, re Diarmaid doveva apparire come un traditore che aveva permesso agli stranieri di infiltrarsi nella loro amata patria per prenderne il possesso. Certo, non era la vita di mio padre ad essere in gioco, ma io non me la sentivo di condannare re Ruaidri per l'atroce gesto che aveva commesso. In fin dei conti, aveva ragione, erano in guerra.
Finalmente, dopo un paio di giorni, fratello Cormac si alzò dalla posizione genuflessa in cui aveva recitato la sua preghiera serale e mi chiese: «Avete voglia di parlare?»
Io gli rivolsi un sorriso sincero. «Certo, Cormac».
Lui allora si sedette sul letto al mio fianco, rigirandosi tra le mani la croce d'argento che portava al collo. «Non sono mai riuscito ad odiarlo davvero, re Ruaidri» cominciò a dire. «Mio padre sapeva a che cosa andava incontro, quando si schierò a fianco di re Diarmaid. Sapete, lui era un uomo rigido, che preferiva essere temuto piuttosto che amato. Un tiranno per i propri sudditi, odiato dagli stranieri; la sua mano era contro chiunque e la mano di chiunque era contro di lui. Eppure mio padre era un suo vassallo e non si tirò indietro quando gli fu chiesto di mettere la sua spada al servizio della riconquista del Leinster» fece una piccola pausa, in cui vidi un amaro sorriso balenare sulle sue labbra.
Forse riteneva che tutti quei giochi di potere fossero assurdi e io non potevo che condividere quell'idea.
«Re Ruaidri, alla fine, fece una scelta che avrebbe preso chiunque al posto suo. Re Diarmaid, quando morì suo figlio Conchobhair, sembrò abbandonare ogni volontà di combattere e cedette il regno a Richard de Clare. Penso che non fosse sua intenzione quella di condurre gli Inglesi in Inghilterra, ma sta di fatto che la sua smania di potere lo rese cieco».
«Fratello Cormac» sussurrai, posandogli una mano sulla spalla. «Lasciamo che il passato sia passato. Non ha senso angosciarsi per esso, quando abbiamo un futuro da vivere» tentai di rincuorarlo. Almeno, non erano parole vuote: chi meglio di me poteva sapere che cosa significava lasciarsi il passato alle spalle?
Finalmente il volto di Cormac ritornò sorridente e i suoi occhi ripresero la loro consueta luminosità innocente. «Avete ragione, sir Gregory. Andiamo a rubare questa pietra e liberiamo Feamair. Ora come ora, è tutto quello che conta».

Entrai nella bettola senza troppe esitazioni, nonostante il puzzo che ne usciva, mentre Cormac restava immobile fuori dalla porta, a metà tra il disgustato e lo spaventato. Lo vidi entrare solo alla fine, calandosi il cappuccio del mantello sul volto per non essere riconosciuto.
Io nel frattempo mi ero seduto al bancone con in mano una sacchetta di monete. Fissai dritto in faccia l'oste con i miei penetranti occhi azzurri. «Io entrerò questa sera con un uomo e ti ordinerò dell'ippocrasso*: tu dovrai servire all'uomo l'ippocrasso mentre a me servirai solo boccali di acqua, tutto chiaro?» gli sussurrai, facendo tintinnare sul bancone lercio qualche moneta.
L'oste osservò per un attimo i soldi, poi li raccolse e fece un cenno di assenso.
Solo quando mi fui allontanato, lo sentii commentare malevolo con la donna corpulenta al suo fianco: «Che scemo quell'uomo! Mi paga per servigli boccali d'acqua al prezzo dell'ippocrasso!»
Il piano che io e Cormac avevamo ideato non era per nulla perfetto e, anzi, era pieno di imprecisioni, ma non eravamo riusciti ad elaborare nulla di meglio. Avevamo prestato particolare attenzione ai turni delle guardie che vedevamo infilarsi nella botola e avevamo individuato il tipo che poteva fare al caso nostro, un ragazzone grande e grosso che passava le sue ore libere alla locanda.
Quella sera entrai nel pub con un'aria baldanzosa e, nel vedere il soldato seduto ad un tavolo, esclamai: «Ehi, ma guarda chi si vede!»
L'uomo mi rivolse un'occhiata interrogativa, ma io sapevo come recitare la mia parte in modo convincente.
«Come? Non ti ricordi di me?» gli chiesi, sedendomi al tavolo con lui. «Lascia che ti offra da bere, così magari ti tornerà la memoria».
La prospettiva di scolarsi una pinta di ippocrasso senza sborsare un centesimo doveva essere tanto allettante che il soldato non si preoccupò del fatto che un perfetto sconosciuto si sedeva al suo tavolo. «Ci vorrà un bel po' di vino prima che mi torni la memoria» mi disse, mostrando con il suo sorriso una serie di denti giallastri.
«Sarò disposto a pagarti quello che servirà» risposi in un tono che voleva sembrare affabile, ma che in realtà avrebbe mostrato le mie vere intenzioni ad un ascoltatore più attento.
I primi quattro giri di vino passarono velocemente, mentre mi facevo raccontare dal soldato come aveva passato gli ultimi anni della sua vita, continuando a fingere di essere amici di vecchia data. Arrivati alla quinta pinta, l'unico effetto che avevo ottenuto era quello di gonfiare a dismisura la mia vescica, riempiendola di acqua. «Aspettami qui, eh!» esclamai d'un tratto, fiondandomi in bagno. Non ero abituato a bere così tanto liquido in una sola volta. Le latrine della locanda erano quanto di più disgustoso potessi immaginare, ma la mia necessità era tale che per quella volta decisi di soprassedere sulla qualità dei servizi.
Quando tornai nella locanda, decisamente più sollevato, mi bloccai in mezzo alla stanza non appena mi accorsi che il soldato non c'era più. «Dov'è andato? L'uomo che era con me, dov'è andato?» chiesi all'oste, in tono agitato.
«Non lo so, ha detto che cominciava il suo turno ed è barcollato via» rispose quello, con una scrollata di spalle, mentre stava spillando della birra. Io feci per fiondarmi fuori dal locale, ma l'oste mi richiamò.
«Ehi, mi devi pagare!» mi urlò dietro.
Gettai una manciata di monete sul bancone, senza nemmeno preoccuparmi di quante fossero, poi mi affrettai ad inseguire il mio uomo.
Fuori dalla locanda, mi imbattei in fratello Cormac, che mi correva incontro con gli occhi sgranati. «Il soldato... lui... hanno appena fatto il cambio della guardia!» esclamò, con la voce rotta dal fiatone.
Io guardai in direzione della sagoma scura e imponente del castello che si stagliava contro il cielo. «Lo so, ma se siamo fortunati avrà bevuto vino a sufficienza da addormentarsi durante il suo turno».

Non so se fu davvero fortuna, Provvidenza divina o favore delle stelle. Sta di fatto che, dopo aver lasciato fratello Cormac di guardia vicino alla botola, mi ero calato giù lungo la scaletta a chiocciola, attendo a non fare rumore. Davanti alla porta, sonnecchiava con l'aria stralunata la stessa guardia a cui avevo offerto quasi tre litri di vino.
«Ehilà, amico...» biascicò l'uomo, con la vista annebbiata dall'alcol.
«Non è che mi faresti entrare?» gli chiesi in un tono di voce gentile e persuasivo.
Quello mi si avvicinò come se dovesse rivelarmi un segreto e la puzza del suo alito mi investì in pieno. «Eh... questo proprio no» mormorò con un sorrisetto dispiaciuto.
Io storsi il naso, ma cercai di ignorare il tanfo. «Ma ti ho offerto cinque pinte di ippocrasso» gli dissi in tono ragionevole. «Non lo verrà a sapere nessuno, promesso. Do solo una sbirciatina e poi me ne vado».
Vidi che l'uomo cominciava a tentennare.
«Nessuno?» mi chiese, barcollando verso la porta.
«Nessuno» confermai con un sorriso incoraggiante.
Finalmente il soldato cedette e aprì la porta per permettermi di entrare.
Io scivolai dentro silenziosamente e mi affrettai a mettere il piccolo scrigno nel sacco di iuta che mi ero portato dietro. Veloce e muto come un ladro, ricomparsi sul pianerottolo. «Grazie, amico» sussurrai al soldato, anche se ormai non poteva più sentirmi: con la testa appoggiata alla parete e la bocca semiaperta, russava sonoramente, perso nel mondo dei sogni. Io mi strinsi nelle spalle e cominciai a risalire la scala a chiocciola verso l'uscita e verso la libertà.
«Ehi, che ci fai tu qui?» esclamò la voce burbera di un uomo, la cui testa faceva capolino dalla botola.
Rabbrividii.
«Io...» cominciai a dire, ma non mi venne in mente una scusa sufficientemente buona.
Dove diavolo si era cacciato Cormac? Avrebbe dovuto controllare!
Il soldato, che evidentemente doveva essere giunto per fare il cambio della guardia con l'altro uomo, capì al volo che c'era qualcosa che non quadrava. Si portò la mano all'elsa della spada ed esclamò al contempo: «Fermo dove sei!»
Io cercai di analizzare velocemente la situazione per vedere se c'erano delle vie di fuga, ma prima che potessi elaborare un piano, il soldato strabuzzò gli occhi, li rivoltò all'indietro e poi rotolò di peso giù dai primi gradini.
Dietro di lui si stagliava la figura stralunata di fratello Cormac, ancora con il bastone con cui aveva colpito la guardia sollevato a mezz'aria. «Ho picchiato un uomo» sussurrò in tono apatico.
«Sì, siete stato grandissimo, fratello Cormac» risposi con un sorriso, scavalcando il tizio tramortito a terra.
«Ho picchiato un uomo!» ripeté Cormac, questa volta con voce eccitata, sorpreso della sua stessa audacia.
«Sì, fantastico, ma ora muoviamoci!» replicai in tono più sbrigativo, afferrandolo per il braccio e trascinandolo via dalla botola, che avevo richiuso con un calcio.
La notte era tranquilla e non c'era nessuno nella corte, ma sapevo che non poteva andare tutto liscio. Infatti, il soldato di guardia alla porta, non sembrava avere nessuna intenzione di lasciarci uscire. «Sentimi giovanotto, è passata la mezzanotte e nessuno entra o esce dal cestello dopo mezzanotte» sbraitò con foga.
Le sue urla richiamarono il capo della guarnigione, lo stesso uomo rude che ci aveva accolto al nostro arrivo. «Che succede qui?» domandò con un tono di voce imperioso.
«Questi due vogliono uscire» spiegò il soldato, indicandoci con un cenno del capo.
Cormac mi lasciò uno sguardo ansioso, sicuro che le cose si stessero mettendo davvero male.
«Chi siete? Sir Gregory?» chiese il capo, riconoscendo il mio cappello a punta e il mantello scuro.
Accennai un breve cenno di assenso, mentre i miei occhi saettavano veloci per la corte, alla ricerca di una via di fuga. Un paio di cavalli stavano placidamente bevendo dall'abbeveratoio alle nostre spalle, ma per il resto la fortezza era inespugnabile: non si poteva entrare, ma non si poteva nemmeno uscire.
«Va bene, lasciateli andare» ordinò infine il capo delle guardie.
Sentii al mio fianco Cormac che tirava un impercettibile sospiro di sollievo. Ma proprio quando i soldati avevano ormai aperto il portone, l'uomo che Cormac aveva tramortito spalancò di botto la botola ed esclamò: «Fermate quei due!»
Reagii in modo piuttosto rapido, in fin dei conti. Corsi verso i cavalli e saltai in groppa a uno, con un'agilità che non era da me. Poi afferrai Cormac per una manica e lo issai in sella. «Tenetevi forte» gli suggerii, visto che non avevo mai governato un cavallo in corsa. E poi ci lanciammo fuori dal castello.
Solo quando fummo sufficientemente lontani, al riparo nella foresta, mi azzardai a rallentare il passo.
Al sicuro, dentro la sacca di iuta, stava la pietra magica che avremmo utilizzato per lo scambio.
«Sir Gregory?» si azzardò a chiedermi Cormac, in un tono di voce sottile.
«Sì?» gli domandai, preoccupato.
«È stato grandioso!» esclamò invece lui, con un gesto di esultanza. «Rifacciamolo!»





*L'ippocrasso è un vino rosso speziato, tipico del medioevo.


Ecco il nuovo capitolo, in cui sir Gregory e fratello Cormac si danno al furto con scasso, come antesignani di Arsenio Lupen! XD
Il piano non è molto elaborato, in realtà, e se è andato tutto liscio è stato solo per una grossa botta di culo! Ma, ehi, non poteva andare sempre tutto male al povero Greg! ;)
Ci stiamo avvicinando alla fine della storia: il prossimo sarà l'ultimo capitolo, poi un epilogo bello farcito!
Grazie a tutti, a presto
Beatrix

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Capitolo 14
*** Liber XIII ***


Liber XIII






Il viaggio di ritorno verso Lough Derg fu più veloce, ma ci stavamo inoltrando sempre di più nel mese di dicembre, pericolosamente vicino alla vigilia di Natale e al matrimonio tra Feamair e re Gilbert. Cercavo di non pensare a quell'eventualità, ma c'era il rischio reale che non arrivassimo in tempo. Questo dubbio mi dilaniava, soprattutto pensando a tutto ciò che io e fratello Cormac avevamo fatto per salvare Feamair.
Arrivammo al pozzo di s. Patrick una fredda sera di dicembre. Se la prima volta che l'avevamo visto, il lago si era presentato ai nostri occhi in un paesaggio spettrale, ora sembrava appartenere ad un altro mondo: una neve candida ricopriva ogni cosa, rendendo sinuosi i profili delle colline circostanti e caricando di un morbido manto i rami delle piante, tesi verso il cielo.
Io e Cormac legammo il cavallo che avevamo rubato dalle scuderie del castello ad un albero, poi scendemmo con cautela verso la grotta. Il capo degli elfi mi aveva lasciato uno strano oggetto magico, una specie di fischietto, dentro il quale avrei dovuto soffiare per avvertirlo che ero tornato con qualcosa di valore da scambiare. Non ero certo che quella cosa funzionasse davvero, ma, dopotutto, in quell'ultimo mese avevo assistito a cose anche più impensabili. Così, scrutando per un attimo gli occhi eccitati di Cormac, soffiai dentro il fischietto. Non ne uscì alcun suono.
«Sicuro che funzioni?» domandò il chierico, strizzando le sopracciglia in un'espressione perplessa.
Io mi strinsi nelle spalle e riprovai a soffiare, ma non funzionò nemmeno questa volta. «Aspettiamo e vediamo» proposi, riponendo lo strano oggetto nella sacca.
Vidi che Cormac stava trattenendo a stento un sorrisetto divertito e non riuscii ad evitare di ridacchiare pure io: stavamo come due idioti sul fondo di una grotta ad aspettare che venissero a salvarci degli elfi. Davvero assurdo.
Invece, contro ogni previsione, gli elfi arrivarono davvero. Dopo circa un'oretta di attesa, la crepa nel muro si aprì e ne fuoriuscirono una manciata di esseri fatati. Tutti avevano delle armature luccicanti, spropositate orecchie a punta e i capelli color dell'oro o dell'argento. Parevano un armata di angeli celesti.
«Cosa mi hai portato, umano?» domandò il capitano, avvicinandosi a me.
Io estrassi dal sacco di iuta lo scrigno contenente la pietra magica e glielo passai.
L'elfo lo aprì con circospezione, ma dal suo sguardo capii immediatamente che ciò che avevamo recuperato io e Cormac doveva essere un artefatto molto prezioso.
«Ma questa è la Pietra di Fàl...» sussurrò uno dei soldati alle spalle del capitano.
Uno strano mormorio si diffuse nella piccola schiera di sidhe lì radunati. Però, quando il capo tornò a fissarci, il suo sguardo non era molto benevolo. «Non so dove avete recuperato questo oggetto magico, ma esso spetta di diritto al popolo degli Sidhe. Non è un pagamento, è una restituzione» disse con una voce tagliente.
Nella caverna scese un ondata di gelo, come se un rivolo di vento freddo fosse penetrato dall'entrata.
«Ma...» provai a dire, scioccato da quella presa di posizione, anche se le parole mi si bloccarono in gola.
Proprio in quel momento, si fece avanti uno degli sidhe che il capitano aveva portato con sé. Non pareva tanto diverso dagli altri, con i suoi capelli argentei, il viso ovale e le orecchie a punta. Ma il suo sguardo aveva qualcosa di particolare: sembrava che i suoi occhi, di una strana sfumatura di grigio, esprimessero al contempo una certa qual distaccata superiorità unita a una potenza quasi divina. Se le forze della natura avessero avuto degli occhi, sarebbero stati quelli dell'elfo che avevo di fronte.
«Io credo che potremmo offrirgli un aiuto, anche solo per averci riportato la Pietra di Fàl» disse, con una voce profonda e incantatrice.
«Nefeleis...» lo chiamò il suo capo in tono di rimprovero.
«Cinque elfi signore, me incluso. Non chiedo di più» disse l'elfo che portava il nome di Nefeleis. Il capitano sembrò soppesare l'ipotesi per qualche tempo, alla fine acconsentì con un cenno del capo.
Cinque elfi.
Ma mi stavano prendendo in giro? Io avevo bisogno di un esercito per conquistare il Leinster non di un gruppetto di allegri compagni con cui andare a fare una passeggiata in campagna! Non avrebbe mai funzionato. Scossi la testa e mi lasciai cadere a terra, abbattuto.
«Sir Gregory!» esclamò Cormac, vedendo che mi accasciavo sulla roccia.
Quando tornai a guardarlo, avevo uno sguardo disperato. «Non funzionerà mai. Non riusciremo mai a salvare Feamair».
«Sentite, sir Gregory. Nell'ultimo mese sono state messe in crisi tutte le mie convinzioni, prima con il goblin e l'esistenza di Faerie, poi con quelle diavolerie magiche, il furto e tutto il resto. Ma l'unica cosa che mi spingeva ad andare avanti era la certezza che lo stavo facendo per salvare Feamair. Non mi arrenderò proprio ora che siamo quasi arrivati alla fine» sentenziò il chierico, con una determinazione che non credevo possedesse.
Gli rivolsi un sorriso amaro. «Ma cosa volete che possiamo fare con cinque elfi?» domandai, in tono sconsolato.
«Non lo so!» proruppe Cormac, preso dal fervore. «Ma voi siete un uomo astuto, sir Gregory! Ideate un piano!»
«Anche se riuscissi ad ideare un piano, oggi è la vigilia di Natale. Feamair si sposerà tra poche ore, nella cattedrale dalla parte opposta del paese!» protestai, mostrando a Cormac il bastone sul quale avevo segnato le tacche per contare i giorni. Se avessi avuto un esercito, avrei potuto attaccare in forze la contea del Leinster, anche dopo il matrimonio di Feamair, ma che cosa avremmo potuto fare in sette?
«A quello posso pensarci io» intervenne Nefeleis con un tono di voce sicuro e tranquillo.
«In che modo?» domandò Cormac, sospettoso.
Lo sidhe gli rivolse un mezzo sorrisetto. «Sono un mago. Mi basterà un semplice incantesimo per trasportarci tutti nel luogo che più desiderate».
Quelle informazioni squarciarono il velo di disperazione che mi era calato intorno e una timida stella di speranza si affacciò nello strappo. «Davvero lo potreste fare?» domandai, sorgendo da terra come se qualcosa mi avesse improvvisamente ridato la vita.
L'elfo annuì con il capo, fissando i suoi potenti occhi grigi nei miei.
E allora mi venne un'idea.

Per attuare il mio piano, mi era richiesta una sola cosa davvero difficile: avrei dovuto togliermi il mantello di sir Thomas Becket. Era essenziale, perché senza di quello non mi avrebbero riconosciuto, o almeno non subito. Era assurdo come quel semplice gesto mi richiedesse più fatica che credere all'esistenza di esseri fatati: eppure un semplice pezzo di lana era l'unica cosa che mi legasse al ricordo del mio mentore, che mi ricordasse la mia infanzia felice passata insieme a lui.
«Sir Gregory, lasciamo che il passato sia passato» sussurrò Cormac al mio orecchio, rivolgendomi un sorrisetto ambiguo.
Quelle parole mi colpirono come una frusta: sì, Cormac aveva ragione. Thomas Becket apparteneva al passato e il mio futuro ora prevedeva una sola persona: Feamair.
Rivolsi un sorriso luminoso al mio amico e poi insieme ci prendemmo per mano e ci unimmo al cerchio di elfi.
Nefeleis ci aveva ordinato di formare un circolo, che sarebbe stato necessario per compiere la magia. Quando tutti ebbero preso posizione, lo vidi cominciare a recitare strane formule a bassa voce, come una specie di nenia. Aveva gli occhi chiusi, ma sembrava quasi che avessero cominciato a brillare di una strana luce azzurrina. Pian piano la litania di Nefeleis divenne sempre più potente e penetrante, finché non mi esplose in tesa. Un fascio di luce potentissimo investì la figura del mago e fui costretto a chiudere gli occhi per non essere accecato. Sentii una penetrante sensazione di gelo che pareva non aver niente a che fare con l'inverno, ma non lasciai la mano di Cormac e quella dell'elfo che avevo al mio fianco.
Quando riaprii gli occhi, capii immediatamente che non ci trovavamo sulla riva del Lough Derg: quello era il mio appezzamento di terreno alle porte di Dublino. «Meraviglioso...» sussurrai estasiato. «E ora prepariamo il piano».
Il matrimonio si sarebbe svolto durante la messa per la notte di Natale. La mia idea era semplice, in realtà, ma facevo conto sull'effetto sorpresa. Mi levai il mantello di sir Thomas e lo ripiegai con cura, passandolo a Cormac perché lo mettesse nella sacca.
A quel semplice gesto, lui mi rivolse un sorriso incoraggiante. “Avete fatto la scelta giusta” sembrava che mi dicessero i suoi occhi.
Tolto il mantello, mi feci aiutare ad indossare l'armatura di uno degli elfi e poi mi calai sulla testa l'elmo. Rimirando il mio riflesso nella spada che ora portavo alla cintola, pensai soddisfatto che nessuno mi avrebbe riconosciuto ad un primo sguardo.
«Perfetto, sapete tutti cosa fare» dissi, osservando una ad una le facce dei miei compagni. Con un ultimo profondo respiro, saltai in groppa a un cavallo che avevamo comprato in una locanda e insieme ci avviammo verso la Cattedrale di Christchurc, nel cuore di Dublino.

La messa era già a metà, quando ci fermammo davanti all'imponente portone della chiesa. Cercai di tranquillizzarmi, stringendo la presa sullo scudo bianco e azzurro che ero stato costretto a portare. Poi, con un ultimo sguardo d'intesa lanciato a Nefeleis, spalancai le porte della cattedrale.
Fu un'entrata ad effetto. Esattamente come avevo progettato.
Nefeleis creò con la magia un raggio di luce molto potente, che investì la navata principale della chiesa. Al centro del flusso, la mia figura a cavallo rompeva la luce, creando un effetto apocalittico. Puntai gli speroni nel dorso dell'animale e lo feci alzare sulle zampe posteriori; nel contempo levai la spada al cielo. L'Apocalisse era arrivata.
«L'arcangelo Gabriele è stato mandato da Dio a impedire queste nozze!» gridai con foga e la mia voce rimbombò sinistra per tutta la chiesa. Tra i presenti si diffuse il terrore. Puro terrore.
Due elfi apparvero ai miei fianchi, sguainando le loro spade luccicanti. La loro comparsa dissipò ogni dubbio: creature come quelle non potevano che essere angeli dell'esercito di Dio. Approfittando dello scompenso che avevamo creato, lanciai il cavallo al galoppo lungo la navata centrale, fino all'altare. Rinfoderata la spada, allungai la mia mano verso lady Feamair, invitandola a salire a cavallo.
La ragazza spaventata, indietreggiò di un passo. Vidi lady Isabel che si copriva la faccia con le mani, la regina Aoife che si guardava intorno, cercando di riportare la calma. L'arcivescovo Lorcan Ua Tuathair era fuggito dall'altare, terrorizzato dall'apparizione di un messaggero di quel Dio da cui temeva una punizione per il suo operato. Re Gilbert, invece, si stava tenendo il braccio sinistro come se fosse stato colpito da un dolore improvviso. Ansimò per qualche secondo, poi crollò a terra scosso ad violenti spasmi.
«Gilbert!» esclamò lady Feamair, accorrendo al fianco del cugino. Credevo che lo disprezzasse, ma a quanto pareva si era affezionata a lui. Sicuramente fu l'unica a soccorrerlo, quando lo vide accasciarsi al suolo. Re Gilbert si contorse per una manciata di secondi, poi rimase immobile, gli occhi cerulei spalancati verso il cielo. Morto.
«Assassino!» gridò lady Aoife, finalmente realizzando ciò che aveva osservato. I suoi occhi verdi penetrarono i miei e dal lampo che li attraversò, capii che mi aveva riconosciuto.
Nello stesso momento anche Feamair si voltò verso di me: per una frazione di secondo la sua espressione rimase attenta, come se non riuscisse a capire chi avesse di fronte. Infine sussurrò incredula: «Sir Gregory?»
Fu allora che allungai nuovamente la mano verso di lei e per una terribile manciata di secondi pensai che non l'avrebbe presa, che non mi aveva perdonato. Si voltò alle spalle con uno sguardo ansioso, per vedere cosa avrebbe lasciato, ma quando tornò a guardare me era di nuovo piena di determinazione. Con uno slancio si alzo da terra, afferrò la mia mano e si lasciò portare via al galoppo, fuori dalla Cattedrale di Christchurc, lontana dal suo destino di regina del Leinster.

«Oh, sir Gregory, credevo che non sareste mai tornato» proruppe lady Feamair, gettandomi le braccia al collo.
Ci eravamo ritirati di nuovo nel mio piccolo appezzamento fuori Dublino, al sicuro.
«Non avrei mai potuto lasciarvi» sussurrai all'orecchio di Feamair, stringendola al petto. Nel momento stesso in cui potei riabbracciarla, mi sembrò di aver trovato finalmente la pace dopo mesi che brancolavo nel buio.
Quando mi sciolsi dall'abbraccio, passai qualche secondo ad ammirare il suo viso, i suoi luminosi occhi verdi, i capelli rossi raccolti nel bianco velo da sposa.
Feamair mi sorrise, ma poi si liberò teneramente dalla mia presa per abbracciare anche Cormac. «Ero disperata quando sei sparito, sai?» esclamò dopo averlo stretto a sé, tirandogli un pugno affettuoso alla spalla. «Sono stati i giorni peggiori della mia vita, rinchiusa al castello, con la terribile prospettiva di sposare mio cugino, senza sapere che fine avesse fatto il mio migliore amico».
Ma prima di poter continuare quella lamentela, si accorse che con noi c'erano anche delle creature che di umano aveano ben poco. «E questi chi sono?» domandò scioccata, osservando ora me, ora Cormac.
«Sono sidhe, ovviamente. Avevate ragione sul pozzo di s. Patrick e su Faerie» spiegai con un sorriso, come se si trattasse della cosa più normale del mondo.
Feamair accolse la notizia piuttosto tranquillamente, per la verità. «Lo sapevo che esisteva!» esultò, alzando il pugno al cielo. Poi mi guardò con aria perplessa, come se mi vedesse solo allora per la prima volta. «Ma sir Gregory... e il vostro mantello?» mi domandò, incredula.
Io mi strinsi nelle spalle. «Non ci stava sotto l'armatura» risposi con semplicità.
Lady Feamair tentennò solo per qualche secondo, poi mi gettò nuovamente le braccia al collo e mi baciò con passione.
Sì, ora lei per me era decisamente più importante di un vecchio cimelio di lana.
Quando ci sciogliemmo dall'abbraccio, lo sguardo di Feamair era dolce e amorevole. «Oh, sir Gregory, che ne sarà ora di noi?» mi chiese, con infinita dolcezza.
Io le risposi sorridendo. «Ci sposeremo e vivremo qui nel nostro piccolo appezzamento, insieme alla famiglia di Loihal. E ci costruiremo una casa tutta nostra e coltiveremo la terra...» cominciai a dire, ma Feamair mi interruppe.
«E che ne sarà degli altri? Mia zia Aoife, Isabel, il regno del Leinster, ora che Gilbert è... morto?» chiese con voce angosciata.
Io abbassai gli occhi a terra. «Mi dispiace per re Gilbert, non volevo che finisse così. È sempre stato una vittima innocente, prima di sua madre, poi del peso del regno che non riusciva a sopportare e ora...»
«Non vi angustiate per lui. Avete detto bene, era innocente e, anche se non sapeva reagire alle sue disgrazie, sono convinta che ora Dio lo tiene con sé e lui è in un posto migliore» mi rispose con dolcezza Feamair, accarezzandomi una guancia.
«Quanto al regno del Leinster, temo che il suo destino sia segnato, ormai. Non ci resta che tentare di vivere al meglio la nostra vita» soggiunsi poco dopo, con un sorriso amaro.
Feamair annuì, rassegnata. Purtroppo, non potevamo fare più nulla per salvare il regno dalle mani degli Inglesi.
Nefeleis si avvicinò a noi e richiamò la mia attenzione mettendomi una mano sulla spalla. «Per noi è giunta l'ora di andare» disse con la sua voce tranquilla e possente.
Io mi voltai verso di lui con uno sguardo riconoscente. «Non saprò mai come ringraziarvi».
«Non dovete farlo. Ho letto il vostro cuore e ho visto che è puro: avete venduto un vostro occhio, avete affrontato tanti pericoli e ci avete riportato la Pietra di Fàl solo per liberare questa donna che tanto amate. È stato un piacere aiutarvi» mormorò, facendo sembrare le mie sciocche avventure come eroiche imprese degne di essere raccontate dai cantastorie. «Io vi benedico, perché i primogeniti della vostra famiglia siano sempre maschi, affinché la vostra discendenza sia numerosa come i fiori di un campo in primavera».
E con quelle parole soffiò su di noi un alito di vita.
Sì, avevo davvero trovato la pace.







Ebbene, siamo giunti alla fine di questa storia! Martedì prossimo pubblicherò l'epilogo.
QUI, intanto un'immagine di Nefeleis, lo shide mago che aiuta Gregory.
Ah, mi dispiace tantissimo per Gilbert, ma è stata una scelta indipendente dalla mia volontà: Richard de Clare ha avuto un solo figlio maschio morto in giovane età nel 1185 (anno in cui è ambientata questa storia). Il destino di Gilber era segnato non da me ma dalla storia... il resto (matrimonio e infarto), è frutto della mia fantasia!
Grazie a tutti, e a martedì prossimo!
Beatrix

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Capitolo 15
*** Epilogo ***




Così si concluse l'avventura di sir Gregory di Scozia. Avevamo davvero affrontato ogni genere di pericoli per arrivare a quel traguardo tanto meritato: un'esistenza di pace.
Sir Gregory e lady Feamair si sposarono l'anno successivo e vissero per tanti anni felici nella piccola fattoria che avevano costruito vicino alla capanna della famiglia di Loihal. Ebbero otto figli, ma, così come aveva detto Nefeleis, il primogenito fu un maschio. Lo chiamarono Iasperius, in onore proprio all'amico sidhe che allo stesso modo aveva chiamato il proprio figlio. L'elfo, infatti, non perdeva mai occasione di attraversare i portali per venire in Irlanda a trovare sir Gregory.
E io? Che ne fu di me?
Io passai il resto della mia vita tra i canonici della Cattedrale di Christchurc. Passai il resto della mia vita a scrivere le memorie dell'uomo più straordinario che avessi mai incontrato, del dotto più sapiente con cui avessi mai parlato, ma soprattutto dell'amico più caro che abbia mai avuto: sir Gregory di Scozia.
Ora che lui è morto e anche io mi avvio ormai alla più tarda vecchiaia, dedico questo manoscritto a suo figlio, l'eccelso cavaliere noto con il nome di Iasperius MacGregory, e al suo piccolo primogenito, Ronan Ua Iasperius MacGregory.
Perché nessun discendente di questa gloriosa famiglia abbia mai a dimenticare la leggenda del suo capostipite, il coraggioso sir Gregory di Scozia.
Cormac, il chierico







Epilogo




Richiusi il libro e guardai Maryon con dolcezza.
Lei mi sorrise, ma prima di poter dire qualsiasi cosa, una smorfia di dolore attraversò il suo volto.
«Amore, che succede?» le domandai preoccupato.
«Mi si sono rotte le acque...» riuscì solamente a dire.
«Oddio!» esclamai, preso dall'ansia. «Oddio... ODDIO!»
«Christopher, smettila!» sbraitò Maryon, in un tono talmente fermo che riuscì a tranquillizzarmi almeno un poco. Non mi chiamava mai con il nome intero, se non quando c'era qualcosa di importante. Oddio, e c'era qualcosa di importante: stavo per diventare padre!
«Vai a prendere la macchia» mi ordinò Maryon.
«La macchina, giusto» ripetei scioccamente, alzandomi dal divano per dirigermi verso il garage. In uno stato di semi trance, riuscii a raggiungere l'automobile e a guidarla fino alla porta di casa, dove c'era già Maryon ad aspettarmi. Avevo le mani ancorate al volante e uno sguardo stralunato, tanto che mia moglie mi guardò con aria preoccupata.
«Chris, vuoi che guidi io?» mi chiese, mentre si reggeva il pancione con le braccia, come se avesse paura che scappasse.
«No, certo che no!» esclamai di rimando, riprendendo un po' il controllo. Santo cielo, che uomo ero? Mia moglie stava per partorire e io non riuscivo nemmeno a portarla fino in ospedale?
Il viaggio fu piuttosto traumatico, in realtà, perché ad ogni minimo gemito di Maryon mi voltavo verso di lei, terrorizzato di vederla partorire in auto. Arrivati in ospedale, per fortuna, un'infermiera si accorse di quanto fosse urgente la nostra situazione e ci fece condurre direttamente in sala parto.
Medici e infermieri accorsero nella stanza, un viavai di gente, il puzzo di candeggina, sangue, flebo, aghi... aghi, io avevo il terrore degli aghi.
L'emozione fece il resto.
«Infermiera!» gridò Maryon con una tale potenza di voce che fece congelare tutti nella sala.
Il mio cuore saltò un battito.
«Che succede?» domandò allarmata una donna piuttosto corpulenta.
«Mio marito» fu l'unica cosa che riuscì a dire, prima che una contrazione le togliesse il fiato.
Tutti si voltarono contemporaneamente verso di me, dimenticato in un angolo della sala.
E io svenni.

Quando ripresi i sensi, avevo come la sensazione di essermi perso qualcosa di importante. C'era una quiete innaturale intorno a me. Mi misi lentamente a sedere, anche se la testa mi girava parecchio.
«Ecco che si è risvegliato il tuo coraggioso papà» sussurrò al mio fianco una voce insieme dolce e divertita.
Papà.
E poi realizzai: ero padre! Era nato mio figlio!
Mi catapultai direttamente giù dal lettino d'ospedale, per fiondarmi al capezzale di mia moglie. Tra le sue braccia sonnecchiava placidamente un fagottino minuscolo, da cui sbucava una piccola testina coronata da tanti ciuffetti di capelli neri come la pece. Era la cosa più bella che avessi mai visto.
«Oddio, fammelo prendere» sussurrai, tendendo le mani verso di lui, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime.
Maryon me lo adagiò tra le braccia con amore.
«Come vuoi chiamarlo?» le domandai, perdendomi a fissare quella piccola creaturina così fragile ma così bella.
Il mistero della vita tra le mie braccia.
«Mi piacerebbe... Jasper» rispose Maryon, con un sorriso commosso.
Io le lanciai uno sguardo fugace e nel momento stesso in cui i nostri occhi si incontrarono capii che non esisteva felicità maggiore di questa.
«Benvenuto al mondo, Jasper McGregor».







Ecco l'epilogo... doppio, uno per la storia di sir Gregory, uno che si riallaccia al prologo.
Lo so, sono stata cattiva con Christopher, ma voi non lo conoscete: ha una fobia terribile (e totalmente irrazionale) degli ospedali e degli aghi! Però, prometto che presto o tardi farete la sua conoscenza, con il resto dei racconti della serie di Faerie.
A proposito di questo, fra due settimane, il primo di maggio, sempre di martedì, comincerò a pubblicare "La promessa del folletto", nuovo racconto della serie: cambiamo completamente tempo e ambientazione... ci trasferiamo negli anni Settanta e Ottanta, per parlare delle disavventure di un giovane Alborgeth; con ovvio condimento un po' di Faerie e qualche McGregor! ;)
Infine, ringrazio tutti quelli che hanno seguito e commentato questa storia, in particolare Julia Weasley e Piccolo Fiore del Deserto.
Un saluto e alla prossima,
Beatrix

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