Every rose has its thorn.

di turnright
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The ferris wheel. ***
Capitolo 2: *** The beginning. ***
Capitolo 3: *** You don't know me. ***
Capitolo 4: *** Don't worry about me. ***
Capitolo 5: *** I'm not a cover girl. ***
Capitolo 6: *** I'm not strong enough. ***
Capitolo 7: *** If you let me, i'll take care of you. ***



Capitolo 1
*** The ferris wheel. ***


«Hai mai avuto la sensazione di vivere in un luna park? Ci sono i giochi noiosi, quelli che però da piccolo trovavi divertenti, quelli eccitanti ma che allo stesso tempo ti incutono paura e poi c'è la ruota panoramica. Ci sali sopra e riesci avere una panoramica di tutto il parco giochi. A volte si ferma e riesce a farti osservare ed amare cose che forse non avresti mai notato. Ti ci affezioni e poi quando la ruota è costretta a ripartire senti un vuoto al cuore perché saresti rimasto ad osservare quel panorama per tutta la vita. Credo che con te sia la stessa cosa ma vedi ho la sensazione che la ruota abbia iniziato a girare di nuovo e che tu stia sfuggendo dalla mia vista, dal mio tocco, dalla mia vita. Avrei giurato che non sarebbe mai successo eppure eccoci qua. Sei scappata dalla mia vita esattamente come ne sei entrata, da fuggitiva.»





E dire che questa volta ci aveva davvero creduto in quel "per sempre" ma in fondo sapeva che per lei quelle due parole erano e saranno in ogni caso una menzogna.

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Capitolo 2
*** The beginning. ***


«Mi sono stancato di te e del tuo lavoro da troia» si sentì uno schiocco non troppo forte, John la stava picchiando di nuovo.
«E tu invece? Vogliamo parlare del tuo di lavoro?» Alicia sbattè la mano sul tavolo in segno di protesta. 
«È grazie a quello che non ho sbattuto fuori te e quell'altra troia di tua figlia» urlò di nuovo John. 
Cassie prese le chiavi di casa, una borsa e uscì sbattendo la porta. Casa sua da quando se n'era andato suo padre era diventato un inferno. Sua madre non faceva altro che cambiare fidanzato ogni due mesi, vale a dire il tempo in cui un uomo si stancava di lei, e ogni volta ne portava a casa uno peggiore. A volte pensava che suo padre avesse fatto bene ad andarsene, a scappare da quella casa, da sua madre e da lei. Gli aveva promesso un per sempre che non si sarebbe mai avverato, era sicura che lui l'avesse già dimenticata. Ricordava ancora quando una mattina di dieci anni fa suo padre si avvicinò con la valigia in mano, le diede un bacio sulla fronte e le disse «Ti vorrò per sempre bene Cassie». «Dove stai andando papà?» le chiese lei trattenendolo a se «Tornerò presto» gli rispose lui. Detto questo uscì dalla porta e non tornò più. Rivivendo una delle scene più brutte della sua vita Cassie iniziò a correre. Si faceva largo tra la gente indaffarata che occupava la strada lanciando di rado qualche scusa. I pensieri le si affollavano in mente e tutte le domande che teneva dentro di se da circa dieci anni le si ripresentarono. Corse, come se stesse fuggendo da qualcosa, finché non sentì che qualcuno le era arrivato addosso. La sua borsa aperta rovesciò tutto il contenuto per terra.
«Mi dispiace» disse chinandosi per raccogliere il tutto, lui fece lo stesso. Le loro mani si sfiorarono e i due si guardarono per la prima volta. I suoi capelli erano coperti da un cappello che sembrava quasi un preservativo ma lei non si soffermò su questo. Si soffermò sui dolci lineamenti del suo viso, su quegli occhi color nocciola e sulle sue labbra che sembravano disegnare un cuore.
«Grazie» disse prendendo il cellulare dalle sue mani che glielo porgevano e alzandosi.
«Scappavi da qualcosa?» chiese alzandosi anche lui da terra.
«In un certo senso» rispose Cassie cercando di allontanarsi il più possibile da quel meraviglioso ragazzo per riprendere la sua "fuga".
«Dove stai andando?» continuò lui seguendola.
«A fanculo» rispose lei fredda, aggressiva come faceva sempre per allontanare le persone, anche se lui era l'unica persona che non avrebbe mai voluto lontana.
«Mi hanno detto che è un bel posto» disse anche lui freddo e con un accenno di ironia.
Forse era quell'aria gelida dei primi di gennaio che congelava l'animo delle persone o forse era lei e il suo stupido atteggiamento. Cassie non rispose si limitò ad andare avanti per la sua strada ignorando lui e il suo bel faccino. Non si presentarono ma lei sapeva già il suo nome, era scritto su tutti i cartelloni in città. Non era stato, però, questo a colpirla ma quel poco del suo carattere che aveva intravisto quei due minuti. Aveva provato a fare quello a cui molti ormai avevano rinunciato, aveva provato a intraprendere una conversazione con lei. Prese il cellulare per vedere che ore fossero e si accorse che non era il suo. Quello che teneva tra le mani era un iphone ultimo modello nero il suo invece era un piccolo cellulare di non so quale marca. Ripercorse quello che era successo mentalmente e si accorse che doveva essere di quel ragazzo. Lei gliel'aveva preso dalle mani come se fosse il suo e lui l'aveva lasciata fare. Compose il suo numero e lo lasciò squillare.
«Pronto?» era lui.
«Credo che tu abbia il mio cellulare dato che sono certa di non avere un iphone» disse lei mostrando un po’ di cordialità.
«Ti va bene se ci vediamo domani alle dieci al Times Square?»
«Possiamo vederci adesso?» chiese lei, avrebbe preferito di gran lunga togliersi quel pensiero.
Mugugnò qualcosa e poi disse «Va bene tra mezz’ora sempre al Times Square?»
«Okay, a dopo» rispose lei. Riattaccò e chiamò un taxi. Passarono una decina di minuti prima che l’autista suonò il clacson chiedendole se era lei che l’aveva chiamato.
Erano quasi le dodici e mezza quando arrivò al Times Square, giusto in tempo. Esaminò la piazza attentamente finché non lo riconoque proprio sotto uno dei mega cartelloni con la sua faccia. Prese il cellulare e glielo porse «Eccolo». Lui fece lo stesso.
«Piacere mi chiamo Nick» le porse una mano, lei gliela strinse cercando di sembrare il più cordiale possibile. Voleva in qualche modo riparare all'atteggiamento di prima.
«So già come ti chiami, la tua faccia ricopre mezza New York» disse Cassie. Per quanto si sforzasse non riusciva a parlare senza usare quell'ironia scontrosa che la caratterizzava.
«Volevo solo essere gentile» disse ciò e si incamminò verso la macchina posteggiata qualche metro più avanti.
«Mi chiamo Cassie» urlò lei andondogli dietro.
«Ti va di mangiare qualcosa?» chiese lui accennando un sorriso soddisfatto. Lei annuì e si lasciò guidare per le strade di New York.

 
«Posso sapere da chi o da che cosa scappavi?» le chiese Nicholas dopo un po' che pranzavano.
«Non credo tu voglia saperlo davvero. È una storia noiosa» rispose lei mettendosi in bocca un'altro pezzo di pollo.
«Se proprio non vuoi dirmelo okay»
«Parliamo d'altro» disse lei con uno sguardo implorante. Non aveva nessuna voglia di parlare di suo padre e di tutta quella storia deprimente che l’affliggeva.
Nicholas accontentò la sua richiesta e iniziarono a parlare del più e del meno, come se non fossero una pop star famosissima e una ragazza che invece era tutt’altro.
Finito di mangiare Nick si oppose per pagare il conto e dato che ne aveva abbastanza di litigi e scenate Cassie lo lasciò fare.
«Grazie» gli disse quando arrivarono alla sua auto. Aprì bocca come per chiederle qualcosa quando una massa di fans urlanti lo assalirono e lei si incamminò non curante verso casa sua. Lo aveva creduto un ragazzo normale per quelle due ore che avevano passato insieme ma sapeva benissimo che non lo era ed eccone la prova. Camminò per le strade di quella città che aveva visto fin da piccola e cercò di trovare un buon motivo per il quale il grande Nick Jonas aveva deciso di passare due ore della sua vita con lei. Aveva continuato ad essere scontrosa, cercando di tenersi sulla difensiva non lasciando trapelare neanche un filo dell’immensa debolezza che nascondeva eppure lui aveva continuato ad essere gentile. Tutti cercavano di starle alla larga lui invece sembrava volerla conoscere. Quando arrivò a casa si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi cercando un po’ di riposo dalla sua mente. Non capiva perché continuava a riflettere su di lui, possibilmente non l’avrebbe più rivisto. E se anche fosse successo a chi importava? Beh, forse a lei.

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Capitolo 3
*** You don't know me. ***


UNA SETTIMANA DOPO.
 

"Una macchina, due macchine, tre macchine.." erano le nove e Cassie per cercare di non sentire le urla di sua madre contava le macchine che passavano sotto la finestra. Questa mattina presto lei e John avevano litigato di nuovo, lui aveva fatto i bagagli e se ne era andato. Da allora continuava a gridare senza che nessuno l'ascoltasse. "Tranquilla mamma tanto entro domani ne avrai un altro, magari anche più stronzo, proprio come piace a te" avrebbe voluto dirle, ma non lo fece. Stette sdraiata sul letto finché non sopportò più l'isteria di sua madre e decise di uscire per prendere un cappuccino allo starbucks non molto lontano da casa sua. Si vestì e uscì di casa senza dire nulla, tanto anche se avrebbe detto qualcosa non sarebbe importato a nessuno.
«Hey Cassie, il solito?»
«Si Meg». Andava talmente spesso in quel posto che ormai sapevano la sua ordinazione a memoria, daltr'onde prendeva sempre la stessa cosa.
Stava per uscire dal bar quando Meg, la ragazza al bancone, urlò «oddio, ma tu sei Nick Jonas!» Cassie si voltò verso di lui e rimase a guardarlo mentre ringraziava per i complimenti della ragazza. Nicholas si voltò nella sua direzione e finirono per guardarsi negli occhi. Lui le sorrise. “E’ impossibile che si ricordi di me” si disse tra se e se. Le era capitato di domandarselo ma aveva sempre dato una risposta negativa e si era anche convinta che era meglio così. Una popstar non aveva niente a che fare con una ragazza come lei.
La gente si affollava nel bar come se stessero regalando soldi gratis. Cassie si girò di scatto per cercare di uscire quando ancora le era possibile e il cappuccino che teneva in mano si rovesciò sulla maglia di un estraneo. Quest’ultimo iniziò a imprecare farneticando su quanto quella maglia costasse, che gliela aveva rovinata e che come minimo avrebbe dovuto pagargli la tintoria.
«Cazzo è solo una maglia.» sbottò alla fine Cassie, non l’avesse mai fatto. Lo sconosciuto che sembrava aver fermato quelle sue lamentele aveva ricominciato ma a voce più alta. Non l’aveva fatto apposta e comunque trovava che quella macchia di caffè la rendesse più bella dato che più che una maglia sembrava un campo da dodgeball per quanti colori c’erano.  
«Tieni con questi ti paghi la tintoria» disse qualcuno alle sue spalle porgendogli quaranta dollari. Cassie si voltò e vide che era stato Nick.
«Sai dovresti smetterla di andare a sbattere contro le persone» le disse quando lo sconosciuto si allontanò con i soldi.
«Perché l’hai fatto?»
«Perché non smetteva di urlare» rispose sorridendole.
«Ti restituirò i soldi, per ora prendi questi» gli disse dandogli i dieci dollari che le erano rimasti in borsa.
«Non li voglio» disse scuotendo la testa.
«Non voglio avere debiti con te» rispose Cassie mettendogli i soldi in mano con la forza.
Lui glieli restituì e disse «C’è un altro modo per sdebitarti» fece una pausa e continuò «Vienimi a vedere a Broadway questa sera, non devi neanche pagare il biglietto»
«Non posso darti i quaranta dollari e basta?» disse lei cercando di corromperlo con un sorriso smagliante.
«No» rispose lui secco. Cassie sbuffò e accetto l’invito controvoglia. Nicholas le diede il suo numero facendole promettere che arrivata a teatro, alle sette, l’avrebbe chiamato per farla entrare gratis. Lei annuii a tutte le sue raccomandazione e istruzioni, esattamente come faceva una bambina con il padre prima di uscire. «Ho capito Nicholas, so badare a me stessa. Ci vediamo lì alle sette» disse alla fine quando Nick stava per ripeterle le stesse cose per la centesima volta. Lui le sorrise e lei si voltò dall’altro lato riprendendo la sua passeggiata mattutina. Continuava ad essere scontrosa con lui, qualunque cosa facesse. Era come se scattasse uno strano meccanismo di difesa dentro di lei che le impediva di essere cordiale. Continuò a camminare per New York, quella città era l’unica cosa che le piacesse della sua vita. Nel corso degli anni aveva imparato a conoscerla, aveva giocato per le sue strade molte volte da piccola e non si stancava mai di contemplarla. Ad uno straniero può fare paura, molti furti e omicidi, veniva presentata un po’ come la città dal tasso alto di criminalità ma per lei non esisteva città migliore. Quando ci vivi impari le strade da evitare e riconosci i posti più belli, non credeva che ci si potesse mai stufare di quella città. Gironzolò per la città tutta la mattina e con i dieci dollari che le erano rimasti aveva deciso di comprarsi un altro cappuccino dato che il primo aveva avuto una brutta fine.
Tornata a casa sprofondò nel suo armadio alla ricerca di un vestito adatto per la sera, non trovò nulla. Sua madre non c’era, probabilmente era ad elemosinare un fidanzato nuovo, quindi setacciò anche il suo armadio. Tra le cose di quando era giovane trovò un vestito di pizzo blu, tra i tutti era quello più adatto così lo prese e lo provò. Prima di uscire di casa si guardò allo specchio vicino alla porta. Aveva abbinato al vestito un paio di stivali che aveva trovato in giro per casa. I lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle contornandole i lineamenti del viso. Gli occhi azzurri, invece, erano risaltati da una leggera matita nera. Qualsiasi altra persona avrebbe detto che era bellissima ma lei no. Odiava incredibilmente se stessa, il suo corpo e quello che la sua personalità rappresentava: una ragazza odiosa che non era riuscita a tenersi stretto neanche il padre. Prese una piccola porchette che trovò su di un mobile del salone, vi mise dentro il cellulare e qualche dollaro e uscì. Scesa dal taxi, che l’aveva portata davanti all’ingresso del teatro, chiamò Nick come aveva promesso. Fuori dal teatro vi era un sacco di gente, tutti attendevano il proprio turno per entrare. Ragazzine in preda al panico e sul punto di piangere per l’emozione urlavano eccitate, quelle erano sicuramente le fan di Nick. Qualche minuto dopo si sentì chiamare da dietro il teatro e si avvicinò alla porta sul retro, era Nicholas. Il ragazzo si soffermò un attimo su di lei prima di aprire bocca «Non posso farmi vedere dagli altri quindi vieni con me in silenzio, ti faccio vedere dove devi sederti». Lui la prese per mano per mostrarle il teatro e quando le loro mani si unirono Cassie sentì una piccola scossa e si staccò dalla sua presa.
 «Che c’è?» le chiese lui.
«Ho preso la scossa».
«Sarà stato un colpo di fulmine» Nick rise da solo alla sua battuta e la riprese per mano conducendola al suo posto in prima fila.
«Perché mi hai messo in prima fila?» chiese lei sentendosi abbastanza a disagio in quel posto.
«In modo che tu sia costretta a guardare lo spettacolo e non potrai accasciarti sulla poltrona e dormire» le rispose lui con un cenno ironico.
«Non sarei riuscita a farlo comunque, so già che farete troppo casino tra canzoni e balletti per poter dormire» rispose Cassie con un sorriso forzato.
«Non muoverti da qui, a fine spettacolo cenerai con me e il resto del cast»
«Non se ne parla, questo non faceva parte del patto» protestò lei. Non aveva nessuna intenzione di andare a cenare con quei ragazzi pieni di talento e fan che con lei non c’entravano nulla. Sapeva già come si sarebbe svolta la serata, lei seduta in disparte alla fine del tavolo e il resto della compagnia a scherzare e a fare battute idiote. No, assolutamente no.
«Beh adesso fa parte del piano» rispose lui tornandosene in camerino senza darle il tempo di replicare. Avrebbe preferito trentamila volte tornargli quei quaranta dollari.
Pian piano il teatro si riempì di gente e i posti accanto al suo da liberi diventarono occupati. Circa mezz’ora dopo lo spettacolo iniziò, erano davvero bravi. Le era capitato qualche volta di sentire una sua canzone alla radio ma non l’aveva mai ascoltata con tanta attenzione. Adesso, invece, per qualche motivo ne era rimasta colpita. Rimase attenta per tutto lo spettacolo e le piacque anche. Quando, finito il musical, tutti si alzarono per uscire dal teatro lei fece lo stesso sperando di riuscire ad evitarsi la cena. Stava per salire sul taxi che l’avrebbe portata a casa quando si accorse di aver scordato la porchette a teatro. Vi corse dentro cercando di fare il prima possibile e sperando di non scontrarsi con Nick.
«Avrei giurato che te ne saresti andata con gli altri» disse lui alle sue spalle.
“cazzo” mormorò tra se e se Cassie.
«Veramente me ne ero andata, avevo solo scordato la borsa».
«Beh per una volta la tua testa sulle nuvole è servita a qualcosa» disse scoppiando a ridere.
«Che divertente che sei» disse fingendo una risata «Comunque non ho intenzione di venire a cena, il patto era che venivo a vedere lo spettacolo e l’ho fatto. Adesso me ne torno a casa»
«Ti  è piaciuto lo spettacolo?» chiese lui ignorando l’ultima parte del discorso
«E’ stato meraviglioso, fantastico, grandioso» disse tutto velocemente e con quel tono ironico che non mancava mai. «Adesso posso andare?» continuò Cassie.
«No» rispose secco trascinandola verso i camerini. Cassie sbuffò e rassegnata smise di opporre resistenza.
«Lei è Cassie e mi ha pregato di venire a cenare con noi, quindi eccola qua» disse Nick presentandola al cast che stava di fronte a lei.
«Non è vero, io volevo andarmene a casa» replicò lei. Il grande gruppo dinanzi a loro iniziò a ridere e a fare commenti che Cassie volontariamente ignorò. Tra questi vi erano due ragazzi che era sicura di non aver visto in scena. Solo quando uno dei due chiamò Nick “fratellino” capì che dovevano essere i fratelli. Entrambi indossavano un smoking scuro e delle scarpe eleganti. Uno dei due, sicuramente il più grande, aveva i capelli ricci e degli occhi di un verde incantevole. Il secondo, invece, aveva i capelli lisci e degli occhi marroni così profondi da trasmettere mille emozioni in un solo sguardo.
L’immenso gruppo si divise in diverse macchine che si diedero appuntamento in un locale di cui Cassie ignorava l’esistenza. La ragazza andò in macchina con Nick e i fratelli.
«Mi sto ancora chiedendo perché ti abbiamo lasciato guidare» disse il ragazzo che doveva chiamarsi Joe.
«Semplice perché se guidavi tu eravamo già finiti contro una parete» replicò Nick rimanendo pur sempre concentrato sulla strada.
«Dovevate far guidare me, così eravamo sicuri di arrivare salvi» si intromise il riccio che doveva chiamarsi Kevin.
«Mi sembra che con me alla guida siate arrivati sani e salvi» rispose Nick compiaciuto parcheggiando davanti al locale.
In macchina Cassie si era già sentita abbastanza a disagio e sapeva che avrebbe provato quella sensazione per tutta la sera. Non era brava a rapportarsi con le persone, non era simpatica o spiritosa né tanto meno estroversa. Era scontrosa e spesso antipatica, non aveva nessun talento particolare ed era incapace di ambientarsi in contesti di quel genere. Pregava che la fine di quella serate giungesse presto.
I ragazzi avevano affittato il locale per la serata, non era molto grande ma vi entravano tutti abbondantemente. Le pareti erano dipinte con dei bei colori che difficilmente si vedevano in quei tipi di locali. Al centro della stanza vi era un tavolo grande di legno e i muri infondo alla stanza erano occupati da una serie di divanetti in stoffa. Il menù prefissato era già sul tavolo pronto per essere mangiato.
«Sono arrivati, possiamo mangiare» disse entusiasto Michael catapultandosi sul cibo. Gli altri lo imitarono e nel giro di poco la metà della cena era scomparsa. Cassie mangiò lentamente per non far notare la piccola quantità di cibo che stava ingerendo. Cercò, inoltre, di non escludersi totalmente dalle molte conversazione che si erano create.
«Piaciuto lo spettacolo?» le chiese Rose, la ragazza seduta accanto a lei nonché coprotagonista del musical. Cassie annuì e Rose prese a parlare con un altro ragazzo della compagnia. Poteva aggiungere questo alla lista dei tentativi di conversazione falliti.
Finito di mangiare si sedette su uno dei divani, ci provava gusto ad isolarsi.
«Hey» le disse Joe sedendosi accanto a lei.
«Hey»
«Non hai mangiato molto»
«Grazie ma non ho bisogno di una badante» rispose lei guardandolo negli occhi.
«Scontrosa la ragazza» disse cercando di nascondere il sorriso che implorava di esplodere sul suo viso.
«I baffi non sono abbastanza folti per nascondere il tuo sorriso»
«Hai ragione» rispose mostrando un sorriso a trentadue denti. «E poi non vedo perché dovrei nascondere il mio meraviglioso sorriso, vero?» continuò Joe.
«Eh si, sicuramente» rispose Cassie ricambiando il sorriso.
Era la prima volta che riusciva a intraprendere una conversazione con tanta facilità e l’aveva fatta sentire... bene.

 
Era già passata la mezzanotte quando abbandonarono il locale. Aveva parlato per quasi tutta la serata con Joe e successivamente si era aggiunto Kevin. Nick sembrava, invece, che si fosse scordato della sua presenza.
«Nick noi torniamo con Michael» disse Kevin entrando nel macchinone seguito da Joe.
Cassie fece per andarsene quando si sentì chiamare «Dove vai?» le chiese Nick.
«Oh e io che pensavo di essere diventata invisibile» fece una pausa e rispose alla sua domanda «Dove vuoi che vada? A casa»
«E come hai intenzione di andarci?»
«Con i piedi» rispose continuando a camminare.
«Non fare la stupida e sali in macchina»
Cassie l'ignorò. Nick l'afferrò per il polso e la fece entrare in macchina.
«Devi dirmi dove abiti» disse mettendo in moto la macchina.
«Abito due palazzi più avanti allo starbucks dove ci siamo incontrati oggi» rispose allacciandosi la cintura di sicurezza. Il viaggio durò poco, il locale non era troppo lontano da casa sua e le strade erano stranamente libere. 
«Beh, ciao» disse fermando la macchina proprio davanti al suo palazzo.
«Sai io non ti capisco. Mi hai praticamente obbligato a venire al tuo spettacolo e trascinato alla cena con i tuoi amici per poi non rivolgermi neanche la parola e adesso mi accompagni a casa come se fossimo grandi amici, a che scopo tutto ciò?» disse Cassie lasciando che i suoi pensieri si trasformassero in parole. Nick si limitò a guardarla negli occhi senza proferire parola. Rassegnata a non avere una risposta scese dall'auto e sbatté violentemente la portiera.
«Pensavo non ti interessasse nulla di quello che faccio o penso» rispose alla fine fermandola dall'entrare nel palazzo.
«Quando un tuo pensiero o una tua azione interferisce con la mia serata mi interessa»
«In ogni caso non avresti avuto niente di meglio da fare»
«E tu cosa ne sai?»
«Non hai amici» fece una pausa ad effetto da buon attore e continuò «Non perché tu non possa averne ma perché non vuoi. Ti rendi così antipatica e scontrosa che nessuna persona sana di mente ti starebbe vicino» Erano soli in quella strada e ogni parola sembrava più accentuata perché tutti erano in grado di sentirla. Per questo preferiva stare al centro della città, lì questi momenti di silenzio non si verificavano mai. C'è sempre un modo per fuggire alle parole quando attorno a te c'è il caos. Quando, però, attorno a te scende il silenzio e anche il vento sembra desideroso di ascoltare fuggire alle parole, qualunque esse siano, è difficile. Con quelle parole si sentì come una spia a cui veniva scoperta la copertura, come un mago a cui venivano scoperti i trucchi.
«Tu non mi conosci»
«Neanche tu. Tu, però, a differenza mia, cerchi tutti i modi possibili per non farti conoscere»
«Perché ti interessi a me Nicholas? Perché continui a parlarmi pretendendo di essere mio grande amico solo dopo un paio d'ore passate insieme? Perché non ritorni semplicemente alla tua meravigliosa vita da superstar?» Era esausta di quella discussione, di lui e dei suoi atteggiamenti.
«Non lo so». A queste parole Cassie entrò nel palazzo chiudendo il portone con un grande tonfo. Due minuti dopo sentì il rombo del motore e la macchina allontanarsi. Si guardò allo specchio e con la mano si asciugò la lacrima che le scendeva sulla guancia. Da quando suo padre se n'era andato non aveva mai pianto e forse aveva sbagliato. Non era mai riuscita a sfogarsi come si deve perché fino ad allora l'aveva sempre fatto con lui. Era suo padre che la faceva sfogare quando da piccola era arrabbiata o delusa per qualsiasi piccolezza. Adesso, però, che era lui la sua più grande rabbia e delusione con chi avrebbe potuto sfogarsi? In quel momento si accorse che non piangeva per gli amici inesistenti o per le parole di Nick che le sbattevano la verità in faccia, piangeva per l'unica cosa che l'aveva davvero ferita. L’amore e  l’odio che provava verso quell’uomo si scontrarono dentro di lei creando una tempesta, esattamente come quando l’aria fredda e l’aria calda si incontrano formando i tuoni. Così per la prima volta pianse per suo padre.

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Capitolo 4
*** Don't worry about me. ***


Dicono che il lunedì è il giorno peggiore della settimana, il che probabilmente è vero ma, abolito il lunedì, il martedì prenderebbe il suo posto. Non è quindi meglio affrontare subito l’inizio della settimana che continuare a rimandarlo? Con questi pensieri Cassie convinse il suo corpo ad alzarsi dal letto e a vestirsi per andare a scuola. Andava in un liceo pubblico in centro che comprendeva cheerleader altezzose e dal fisico perfetto, squadra di football dai giocatori “tutto fumo e niente arrosto” e i classici rappresentanti d’istituto che predicavano tanto, anche troppo.
Alle sette e trenta salì sullo scuolabus, si sedette su uno sei primi posti che trovò liberi e aspettò che il mezzo arrivasse a destinazione.
Nonostante fosse tra i primi attese che il resto degli studenti uscisse, evitandosi la solita gara di spintoni e manate. Era un po’ un controsenso, odiavi andare a scuola eppure facevi a gare per uscire prima e catapultarti tra banchi e professori.
Cassie attraversò lo spazio del cortile che separava lo scuolabus dalla scuola e arrivata all’entrata teneva in mano circa una quindicina di volantini, ognuno per un’attività diversa. Li buttò nel cestino e si avviò verso il suo armadietto.
L’ora di pranzo era forse quella che più odiava. La fila chilometrica per prendere la propria razione di cibo immangiabile, gli occhi puntati addosso quando, alla ricerca di un tavolo libero, vaghi attraverso la mensa e le ragazzine senza speranza che non facevano altro che inventarsi piani inutili per sedersi al tavolo dei “popolari” erano cose che Cassie non tollerava. Si sedette su uno dei tavoli ancora liberi e iniziò a girare la forchetta di plastica in quell’intruglio misterioso che alcuni avevano il coraggio di mangiare. Quella circonferenza creata dalla forchetta la isolò dal chiasso che vi era nella stanza e la immerse in pensieri di cui neanche lei conosceva la provenienza.
«Posso sedermi?» chiese un ragazzo moro con gli occhiali da Harry Potter.
«Fai pure» rispose alzandosi dalla sedia e lasciando lì il cibo intatto. In quel lunedì mattina di ritorno a scuola desiderava tutt’altro che fare nuove conoscenze.
Volente o non volente la giornata passò e, dopo essere stata richiamata almeno una volta per lezione, fu libera di uscire.
Arrivata a casa vide una macchina ferma sotto il suo palazzo ma non gli prestò più di tanta attenzione.
«Cassie» disse Nick uscendo dall’auto. Lei si girò e rimase a guardarlo senza proferire parola. «Volevo solo chiederti scusa per ieri, non avrei dovuto dirti quelle cose»
«Non ti capisco Nick» rispose alla fine.
«Non mi sembra di fare niente ci così ostrogoto»
«Hai detto che nessuna persona sana di mente avrebbe voluto essermi amica e adesso vieni qui a chiedermi scusa»
«E quindi?»
«Nick ti stai dando del pazzo da solo» sbottò Cassie voltandosi per aprire il portone.
«Voglio aiutarti»
«Aiutarmi? Non sono un animale ferito che ha bisogno di cure, sto benissimo. Non ho bisogno dell’aiuto di nessuno».
«E’ questo l’atteggiamento che ti frega Cassie, allontani qualunque persona che provi a conoscerti»
«Eccolo il buon samaritano» disse gesticolando con le mani.
«Ok, perfetto. Io ci rinuncio» Nick si voltò e fece per salire in auto.
«Non avresti niente da guadagnarci ad essermi amico»
«Chi te lo dice?» si avvicinò di nuovo a lei e la guardò negli occhi.
«Non riuscirai ad ipnotizzarmi e a farmi cambiare idea» sorrise, scordandosi un attimo di interpretare la parte della dura che non voleva nessuno attorno.
«Ti va di fare un giro?» Cassie annuì e iniziarono a camminare senza una meta precisa.
Non parlarono di cose essenziali o con un senso particolarmente alto, dicevano, per la maggior parte delle volte, quello che gli passava per la mente facendo considerazioni su ciò che li circondava. Dopotutto nessuno parla ventiquattro ore su ventiquattro di come Pitagora è arrivato a formulare il suo teorema o di fisica quantistica.
«Posso farti una domanda?» chiese lui rompendo il silenzio che si era creato.
«Risposta sincera o cordiale?»
«Scelgo la cordiale» disse aspettandosi una risposta affermativa.
«No, grazie»
«Quale sarebbe stata la risposta sincera?»
«No»
«La differenza?»
«In una ho usato il grazie» Cassie gli rivolse un espressione che sottolineava quanto la cosa fosse scontata.
«Certo, come ho fatto a non pensarci» disse ridendo.
«Perché hai questo atteggiamento verso tutti?» chiese dopo qualche minuto voltandosi verso di lei.
«Avevo detto niente domande» Cassie si alzò dalla panchina dove erano seduti e si allontanò.
«Dove vai adesso?» disse alzandosi e afferrandole il polso. Cassie si svincolò dalla presa e si girò di scatto.
«Pensi davvero che sia così disperata da raccontare la mia vita al primo che passa?» disse guardandolo negli occhi color nocciola.
«Credo solo che parlarne con qualcuno ti farebbe bene»
«Ritorniamo sempre allo stesso punto. Se stai con me per fare il buon cittadino che aiuta una ragazza con dei problemi a rapportarsi con le persone puoi anche tornare a fare la superstar» dicendo ciò i centimetri che li separavano da cinque diventarono venti.
«Ok, come preferisci» disse non riuscendo a smettere di guardare quegli occhi azzurri che gli stavano davanti.
«Ti va di continuare a camminare?» gli chiese Cassie pentendosene subito dopo. Nick era la prima persona che non era riuscita ad allontanare e qualcosa dentro di lei cercava di convincerla che non voleva più farlo. Allo stesso tempo, però, non voleva che lui distruggesse lo scudo che era riuscita a costruirsi in dieci anni. “Non abbassare mai la guardia” si direbbe durante una guerra. Con quella domanda Cassie si sentì vulnerabile come un guerriero senza armatura, anche se in fondo aveva fatto una domanda che 97865 persone al mondo fanno ogni giorno senza nessun problema.
«Mi piacerebbe» rispose Nick compiaciuto.
Camminarono passando da via a via e da marciapiede a marciapiede. Spesso la gente si voltava e li guardava parlare e ridere, alcune sussurravano alle amiche “quello è Nick Jonas”. Cassie cercava di non badargli, di non pensare a quello che avrebbero potuto dire o pensare ma era più forte di lei.
«Attenta!» urlò Nick prendendole la mano e tirandola a se sul marciapiede. Il taxi giallo che stava per investirla le passò accanto.
«Grazie» disse Cassie rivolgendogli un sorriso. Le sue mani si poggiarono sul suo petto e lo allontanarono lentamente facendo scivolare via le mani del ragazzo dai suoi fianchi.
«Sai non sarebbe l’ideale per la mia fama che la ragazza con cui cammino venga investita» disse mentre insieme attraversavano la strada.
«Ah, ah» fece una risata forzata «Certamente» rispose girandosi a guardarlo mentre osservava la strada di fronte a lui attento ad evitare la gente che mano a mano affollava i marciapiedi correndo chissà dove.
Girarono per la città finché, guardando l’ora, decisero che era meglio tornare indietro.
«Sei più piacevole di quanto mi aspettassi» disse in fine Cassie.
«Modestamente non avevo dubbi» rispose imitando un finto inchino di ringraziamento. Lei sorrise ed entrò nel portone di casa sua. Salì le scale e dalla finestra del pianerottolo sentì la macchina allontanarsi.
«Cassie sei tu?» chiese sua madre dalla stanza da letto quando sentì la porta aprirsi.
«Si» rispose gettando le chiavi di casa nello spazio apposito.
Alicia uscì dalla camera mezza nuda e si avvicinò a Cassie «Figlia mia» le spostò una ciocca dei capelli biondi e gliela mise dietro l’orecchio «Ti dispiace uscire per un altro po’?»
Il suo alito puzzava terribilmente di alcool.
«Alicia che stai aspettando? Vieni qui» urlò John con il suo vocione da camionista mezzo ubriaco prima che Cassie potesse rispondere alla domanda della madre. Alicia rise compiaciuta e supplicò la figlia di andarsene come una bambina supplica la mamma di comprarle il giocattolo preferito. Cassie prese l’i-pod incluso di cuffie, il libro di chimica e uscì dalla porta.
«Fate pure con comodo eh» disse prima di chiudersi fuori. Si sedette per terra sul pianerottolo, si mise le cuffie e aprì il libro con l’intenzione di studiare qualcosa per l’indomani. Era abituata a queste situazioni ma avrebbe voluto volentieri non esserlo. Eccola ritornata alla realtà. Suo padre inesistente, sua madre ubriaca che scopava col suo attuale fidanzato, se così si poteva chiamare, e lei seduta da sola fuori casa con la musica al massimo nelle orecchie e un libro nel tentativo di ignorare tutto ciò che la circondava. Sapeva che un giorno sarebbe andata meglio, o almeno sperava.
«Arrivederci Cassie» le disse John togliendole le cuffie dalle orecchie e allacciandosi la cintura dei pantaloni. Cassie non rispose e continuò a leggere quello che aveva iniziato un’ora fa quando era stata sbattuta fuori di casa.
«Ho detto arrivederci Cassie» insistette avvicinandosi a lei e prendendole il viso tra la mani rovinate e sporche.
«Arrivederci John» rispose con tono schifato.
«Non ti conviene usare quel tono con me, lo sai» fece un sorriso che lo fece assomigliare spaventosamente a Joker. Cassie respirò profondamente per quello che le mani strette sul suo viso le permisero di fare e rispose allo stesso modo cercando di sembrare più gentile. «Ecco così va meglio» John le diede una pacca sulla testa e si avviò giù per le scale. Rientrò in casa senza dire nulla. Dal silenzio che vi era in casa presupponeva che sua madre dopo essersi data si fosse beatamente addormentata. Si chiuse in camera e finse di studiare finché esausta non si addormentò sui libri.

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Capitolo 5
*** I'm not a cover girl. ***


La mattina seguente si svegliò nella stessa posizione in cui si era addormentata. La sveglia sul comodino lampeggiava le sette e quarantacinque. Saltò in piedi dalla sedia e corse a lavarsi. Era sempre stata autonoma da quando viveva solo con sua madre, all’inizio per non aggravare su di lei adesso semplicemente perché preferiva non avere eccessivi rapporti con quello che sua madre era diventata. Spesso quando un genitore non c’è il figlio e il genitore restante finiscono per avvicinarsi più di quanto sia possibile, ognuno fa forza sull’altro. Cassie, invece, si era limitata a scomparire. La sera le capitava di sentire i singhiozzi della madre dalla sua camera e voleva poterla aiutare, nella sua ingenuità voleva poterle dire che papà sarebbe tornato e che niente era cambiato ma ogni volta che si avvicinava lei finiva per piangere di più. Mi ricordi tuo padrele aveva urlato un giorno. Da quel momento lei si era resa invisibile, quelle poche volte che sua madre cercava un dialogo lei lo rifiutava. Più passavano gli anni più Alicia peggiorava e Cassie ne era testimone. A volte aveva il desiderio di aiutarla, di allontanarla da quello che fin da piccola le era stato insegnato fosse il male. Alla fine, però, non faceva mai niente, era convinta che tutto questo fosse anche colpa sua perciò si limitava ad essere passiva. Alicia fece lo stesso. Tra le due vi era forse uno dei peggiori sentimenti al mondo, l’indifferenza. Quel giorno, però, avrebbe davvero gradito che sua madre fosse entrata nella sua camera per svegliarla e per non farle perdere l’autobus. Infilò i libri che si trovavano sulla scrivania nello zaino e, avendo già perso lo scuolabus, uscì di casa e iniziò a correre in direzione della scuola. Per strada si sentì come una corritrice di corse ad ostacoli e come a suo solito prese più ostacoli di quanti ne evitò. Arrivata a destinazione si precipitò in classe, balbettò un “mi scusi” al professore che aveva già iniziato la lezione e si sedette al suo posto.
«La sveglia esiste per un motivo signorina Parker»
«Se proprio insiste me la può regalare lei signor Sanchez»
«Per ora ho un altro regalo per lei» rispose il professore porgendogli un fogliettino rosa con su scritto “PUNIZIONE” aggregato di motivazione.
«Dovrebbe farsi aiutare in fatto di regali, questo non è esattamente uno dei migliori» la classe scoppiò a ridere ma Cassie non aveva nessuna intenzione di fare il pagliaccio.
«Vogliamo prolungare il regalo da un giorno ad una settimana?» disse con voce severa, deciso a porre fine a quella discussione.
«Beh è lei che vuole farmi il regalo, deve decidere lei da brav’uomo» rispose Cassie. Il professore ritirò il foglietto appena dato, prolungò i giorni di punizione e glielo restituì.
«Dopo questo spettacolo offertoci gentilmente dalla vostra compagna possiamo ritornare allo spagnolo» si avvicinò alla lavagna e riprese a fare ciò che stava facendo prima che Cassie entrasse.
«Mi sei piaciuta col professore oggi» disse una ragazza avvicinandosi a lei con due amiche. Tutte e tre indossavano la divisa da cheerleader e una di loro teneva in mano una rivista di gossip.
«Non avevo nessuna intenzione di farvi ridere o risultare simpatica né tanto meno richiamare la vostra attenzione» rispose Cassie. Prese i libri e uscì dalla classe avviandosi verso la prossima aula.
Un’ora alla volta arrivò anche quella di pranzo. Fece la fila, prese quello che trovava più commestibile e andò alla ricerca di un tavolo libero.
«Hey Cassie» la chiamò qualcuno con una voce abbastanza irritante da uno dei tavoli. Si girò alla ricerca di quella voce. La capo cheerleader le fece segno con la mano di avvicinarsi «Vieni a sederti qui!»
Nella colazione delle cheerleader oggi avranno messo qualche droga di troppo” pensò Cassie sedendosi al tavolo vuoto in fondo alla mensa. Provò a mangiare qualcosa senza successo.
«Il lato buono di avere cibo così immangiabile è che si riesce a dimagrire più in fretta» disse la cheerleader sedendosi al suo tavolo. Cassie la guardò, l’ultima cosa che doveva fare era dimagrire. Probabilmente a forza di diete le si era ristretto anche il cervello.
«Sai Cassie mi hanno raccontato quello che è successo col professor Sanchez, sei stata formidabile»
Avevano decisamente messo qualche droga di troppo nella colazione delle cheerleader oggi. Quella col professor Sanchez non era la prima discussione né sarebbe stata l’ultima. Fin dall’inizio del liceo i due si erano trovati a discutere per diverse “divergenze” ma nessuno aveva mai riso o reagito in questo modo.
«Okay» rispose Cassie infine imponendosi di evitare altre discussioni inutili.
«Sul serio, sei stata una grande» continuò la cheerleader.
«Dopo questa grande leccata di culo che mi stai facendo e che le tue amiche mi hanno fatto prima per non so quale motivo puoi anche tornare al tuo favoloso tavolo e lasciarmi in pace» rispose Cassie volendola allontanare del tutto.
«Potresti venire a sederti anche tu, Cassie, al mio tavolo favoloso» rispose scherzando sulle ultime tre parole.
«Toglimi un dubbio come fai a conoscere il mio nome?»
«Ho le mie fonti e poi è bene sapere i nomi di certa gente. Sicuramente tu saprai il mio» disse sicura di se come lo poteva essere un matematico che 2+2 facesse 4.
«Sinceramente no, non ho la più pallida idea di come ti chiami e neanche mi interessa. Non mi interessa neanche entrare nel tuo piccolo mondo di fama e sedermi al tuo tavolo. Non mi interessa niente di ciò che mi stai dicendo e non penso me ne importerà mai qualcosa»
«Oh avanti, a tutti interessa» continuò imperterrita. Quello che Cassie le diceva le entrava da un orecchio e le usciva dall’altro, probabilmente perché in mezzo non c’era niente a cui aggrapparsi. Cassie si alzò dal tavolo lasciando il vassoio col cibo intoccato e uscì dalla mensa. Passò il tempo rimanente dell’ora di pranzo in giro per i corridoi, almeno non aveva più quella voce irritante nelle orecchie.
«Hey Cassie» la salutò una voce dietro di lei, non aveva idea di chi fosse ma per fortuna non indossava una divisa da cheerleader.
«Ciao Cassie» la salutò un’altra voce pochi minuti dopo.
Più quella giornata andava avanti più si domandava se per caso quella mattina, prima che lei arrivasse a scuola, ci fosse stata una festa con droga e alcool.
Finite le ore di scuola si ritrovò chiusa nell’aula della punizioni insieme ai tipi più disparati di ragazzi.
«Cassie, Cassie» la chiamarono due ragazzine esaltate avvicinandosi a lei con una rivista in mano, dovevano essere del primo anno.
«Puoi consegnare questa lettera a Nick da parte nostra? Noi lo adoriamo!» continuarono uscendo dalla rivista un foglio accuratamente piegato in una busta da lettera con su scritto “Nicholas Jerry Jonas” a mano.
«Avete sbagliato persona» riuscì a dire Cassie tra un urlo e un altro.
«Guarda che è tutto scritto qui» disse una delle due indicando la rivista che aveva in mano.
«Fammi vedere» rispose strappando la rivista dalle mani della ragazza.
Nick Jonas e la sua presunta nuova fiamma” recitava il titolo a caratteri cubitali in copertina. Nella foto lei e Nick sembravano più vicini di quanto in realtà fossero mai stati. Cassie aveva le mani poggiate sul suo petto e Nick teneva le mani su i suoi fianchi. Doveva essere stata scattata quando l’aveva salvata dal taxi.
Aprì la rivista e lesse quanto c’era scritto a proposito della loro “storia d’amore”
Secondo alcune fonti sicure i due escono insieme già da un po’, tant’è vero che lui l’ha pure portata a cena con l’intero staff di How To Suceed In Business Without Really Trying. La ragazza si chiama Cassie Parker e frequenta uno dei licei al centro di New York. A quanto pare quando la giovane popstar diceva che sarebbe potuto uscire anche con una ragazza normale diceva sul serio.
Chiuse di colpo la rivista e la ridiede alle due ragazze che le stavano ancora davanti.
«Cazzate. Non esco né uscirei mai con Jick Nonas o come cavolo si chiama» disse invertendo le iniziali di proposito. Era, forse, il modo più squallido per far capire che non ricordava il suo nome quando invece di quante volte lo aveva letto e sentito ormai lo sapeva alla perfezione.
«Puoi comunque dargli la lettera» insistettero le ragazze.
«Non sono un fattorino e come ho già detto non lo conosco»
«Perfavore» supplicò la ragazza con indosso una collana simile a quella che aveva Nick.
«Io non lo conosco» disse scandendo bene ogni singola parola come se stesse parlando con dei sordi. Le due si allontanarono arrese e Cassie si sedette su uno dei banchi appoggiati al muro. Passò una buona mezz’ora prima che un’altra ragazza le si avvicinasse. Stava per allontanarla proponendole le stesse frasi che aveva detto prima ma la sconosciuta le diede uno schiaffo in piena faccia prima che Cassie potesse parlare.
«Nick è mio e tu non puoi toccarlo» le urlò in faccia.
«Fatti curare» rispose Cassie sconvolta da quello che era appena successo. Non avrebbe mai creduto che qualcuno sarebbe potuto arrivare a questo livello per una persona che neanche conosceva. Sentendo le urla il professore responsabile dell’aula rientrò. «Dato che non sapete stare zitti mi tocca stare qui tutta l’ora.» si lamentò sedendosi alla cattedra e iniziando a sfogliare una rivista che aveva requisito a delle ragazze nell’ora precedente. Sembrava una ragazzina con l’aspetto di un sessantenne assetata di gossip. Si guardò in torno e disse «Guardate chi abbiamo l’onore di avere oggi in aula punizioni, Cassie Parker l’ormai celebre ragazza di Nick Jonas»
Una volta i professori si limitavano ad insegnare e se era il caso a metterti in punizione, adesso oltre a questo si intromettevano nella tua vita ogni volta che ce n’era l’occasione. Tutti si girarono verso di lei come se ad un tratto fosse diventata la ragazza più bella e popolare della scuola. È incredibile come un articolo su una stupida rivista o una telecamera puntata addosso possa stravolgere il comportamento delle persone.
«Non sono la sua ragazza» scandì ad alta voce ogni parola. E’ dura far capire qualcosa a chi non ha la minima intenzione di capire. Si alzò in piedi, prese la rivista dalle mani del professore ed uscì dall’aula nonostante l’ora di punizione non fosse ancora finita. Aveva intenzione di risolvere quella situazione e l’unico modo che aveva per farlo era parlare con Nick. Si precipitò a teatro dando per scontato che fosse lì. Sarebbe stato più ragionevole telefonare e chiedere dove si trovasse e se potevano parlare ma Cassie non badava molto ai convenevoli. Arrivata lì fece vedere la foto nella rivista alla guardia che stava davanti alla porta che la fece entrare come se gli avesse appena mostrato un tesserino di riconoscimento. Almeno una cosa buona in tutta la giornata quella rivista l’aveva fatta. Ciò, però, non cambiava il fatto che se avesse potuto avrebbe bruciato il paparazzo e il giornalista insieme a tutte le copie del giornalino che erano state stampate molto volentieri.
«Nick?» disse interrompendo le ultime prove prima dello spettacolo.
«E’ in camerino, dritto ultima porta a destra» rispose uno dei ballerini rimettendo la musica dall’inizio. Cassie seguì le indicazioni e si trovò davanti ad una porta con scritto “Nick”. Aprì senza preoccuparsi di bussare.
«Dobbiamo parlare» disse sbattendo la rivista su un tavolino.
«Ciao Nick. Come stai? Tutto bene? Oh mi fa piacere» rispose imitando come sarebbe dovuta essere l’inizio della conversazione secondo lui.
«Preferisco andare dritta al punto» gli rivolse un sorriso falso.
«Potevi almeno bussare, sarei potuto essere nudo»
«Per mia fortuna non lo sei» rispose cercando di chiudere il poco importante discorso dei convenevoli.
«Volevi dirmi qualcosa?» disse sedendosi sul divanetto sommerso dai vestiti.
«Guarda un po’ qui» rispose lanciandogli il la rivista.
«Passerà» disse noncurante.
«So che per te può essere difficile pensare che una ragazza non voglia essere la tua fidanzata anche solo per un giorno ma per me è così»
«Cosa vuoi che faccia? I paparazzi sono fatti così, inventano storie su storie»
«Fai un comunicato stampa o che so io basta che dichiari pubblicamente che non sono la tua ragazza»
«Prendi il lato positivo magari con questa storia potresti diventare popolare» disse ridendo.
«Preferisco rimanere nell’anonimato, grazie» Sembrava che Cassie prendesse troppo seriamente questa storia ma in meno di un giorno aveva visto distruggersi tutta la barriera che si era creata in dieci anni per colpa di quattro inutili paparazzi.
«Oh andiamo, tutti vogliono essere popolari»
«Non sono una ragazza da copertina, Nicholas. Non mi interessa avere gli occhi puntati addosso ventiquattr’ore su ventiquattro. Non voglio essere riconosciuta per strada e analizzata per ogni mio comportamento. Voglio essere libera di sfogarmi senza che nessuno ne faccia un problema di stato quindi no, non voglio essere famosa»
«Cosa vuoi che dica allora? Che non ti conosco e che non siamo mai usciti?»
«Esatto» disse dopo averci pensato su qualche secondo.
«Bene. Vuoi dirmi qualcos’altro?» La situazione tra i due era più tesa di un fil di ferro, era come se ogni volta che si vedessero sentissero l’infrenabile bisogno di discutere prima di poter stare bene insieme.
«Si» fece una pausa di qualche secondo prima di continuare a parlare «Per colpa di questa storia una fan impazzita mi ha mollato un ceffone in piena faccia.»
Nick rise di gusto e le fece segno di sedersi accanto a lui.
«Non vedo cosa ci sia da ridere» disse sprofondando nel piccolo divano.
«Al posto mio rideresti anche tu» rispose smettendo di ridere. Si avvicinò alla sua guancia e la esaminò attentamente, con la mano sfiorò la parte che era rimasta leggermente rossa.
«Che stai facendo?» chiese Cassie.
«Esamino la scena del crimine» rispose con un sorriso da idiota. Cassie scoppiò a ridere quasi involontariamente e gli diede un spintone facendo in modo che si allontanasse. Rimasero seduti su quel divano finché uno dei produttori non annunciò l’imminente inizio dello spettacolo.
«Io vado» disse Cassie alzandosi per prima.
«Dirò ai giornalisti quello che mi hai chiesto» ribadì Nick prima che lei uscisse dal camerino. Cassie gli sorrise e chiuse la porta alle sue spalle. Sapeva che dire ai paparazzi di non conoscersi significava interrompere la loro amicizia prima che potesse veramente nascere e stranamente la cosa le dispiaceva. Non avrebbe mai ammesso, però, una cosa del genere neanche a se stessa. Senza farsi vedere uscì dalla porta sul retro e si incamminò verso casa. Durante il tragitto per circa trenta secondi l’idea di tornare indietro per riprendere tra le mani l’inizio di quella relazione le passò per la mente. Sarebbe stata pronta, tuttavia, a negarlo anche ai suoi stessi neuroni se fosse stato necessario, solo per non ammettere che quel ragazzo era l’unica persona sulla faccia della terra che le aveva strappato un sorriso dopo dieci anni di tragedie.

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Capitolo 6
*** I'm not strong enough. ***


«Cassie porta qualcosa da bere al tuo nuovo paparino» urlò John seduto sul divano a guardare il football in televisione. Odiava quando si definiva “nuovo paparino” solo per ricordarle che quello “vecchio” non c’era più. In realtà odiava il fatto che osasse solo pronunciare la parola “papà” riferito a lui. Non poteva definirsi uomo figuriamoci papà.
«Alza il culo dal divano» gli urlò Cassie dall’altra stanza. Trovava sempre un pretesto per stare fuori casa quando dentro c’era lui ma da quando John si era attaccato a sua madre, o per meglio dire al suo televisore, peggio di una fan scatenata al suo idolo la cosa le risultava quasi impossibile. Alicia spesso stava seduta nel divano accanto a lui nell’intento di elemosinare qualche attenzione e quello, come segno quasi di carità, le metteva un braccio intorno al collo. Lei lo prendeva come un bellissimo segno d’affetto, in realtà John voleva solo farla stare zitta per seguire meglio la partita.
«Cassie» la richiamò con voce severa. Lei lo ignorò ma John imperterrito continuò a chiamare. Quando si alzò i suoi passi rimbombarono nella casa come potevano rimbombare i passi di un gigante in un villaggio di nani. Aprì la porta della camera di Cassie e questa sbatté violentemente contro il muro. John aveva il tipico aspetto da camionista, era rozzo e il 50% del suo corpo era ricoperto di tatuaggi privi di senso.
«Ti avevo detto di portarmi da bere»
«E io ti avevo detto di alzare il culo» disse Cassie continuando a tirare sul muro una pallina rossa che aveva riportato alla luce nell’immenso casino della sua camera. John intercettò il lancio, strinse la pallina nella mano e la lanciò fuori dalla finestra. Cassie lo guardò attentamente, John si fece fare spazio nel letto e si sedette esattamente di fronte a lei. 
«Ti ho chiamato varie volte, bambina» disse accarezzandole il volto con le mani sporche.
«Riserva pure questi soprannomi per mia madre» rispose allontanandogli la mano dal suo viso con forza.
«Pensi di essere talmente bella e forte da respingermi? I capelli biondi lunghi fin sotto il culo e gli occhi azzurri non cambieranno il fatto che non ti si può guardare per quanto sei grassa» disse con tutta la cattiveria che aveva in corpo. Cassie era in realtà più magra di quanto non fosse mai stata, anche troppo. Il suo viso era sciupato e più che mettersi a dieta avrebbe dovuto ricominciare a mangiare. Nonostante tutto John non perdeva occasione per rinfacciarle quanto lei non andasse bene, quanto lei fosse sempre in sovrappeso anche se continuava a dimagrire. Avrebbe voluto essere abbastanza forte da fregarsene delle sue parole, da dire che quello che la gente diceva sul suo conto le scivolava addosso come se le loro parole fossero acqua e lei una sostanza impermeabile ma non lo era. Ogni parola sul suo aspetto fisico colpiva la sua corazza rendendola ancora più fragile e ogni volta lei si ritrovava a dover prendere gli attrezzi per rinforzarla e aggiungere un altro strato promettendo a se stessa che la prossima volta non sarebbero arrivate così infondo, che non l’avrebbero più ferita.
John le diede un schiaffo facendole diventare il pezzo di guancia colpita di un rosso vivo. L’uomo uscì dalla stanza sbattendo violentemente la porta. Cassie istintivamente portò la mano sulla parte colpita. Si alzò dal letto tenendo ancora la mano sulla guancia e si posizionò davanti allo specchio che si trovava all’altro capo della camera. In quel momento avrebbe preferito essere un vampiro per non vedere il suo riflesso. Continuava ad odiarsi e il desiderio di dimagrire l’assaliva come se fosse un demone. Era capace di non mangiare per giorni e giorni e ogni volta che ingeriva un boccone di qualsiasi cosa si sentiva in colpa come se avesse commesso il peggiore dei crimini.
Rassegnata prese dall’armadio una maglia larga e un paio di jeans. Si vestì, si mise ai piedi le converse che erano sotto il letto ed uscì per recuperare la palla rossa che le piaceva far rimbalzare sul muro imitando dottor. Hause nei suoi momenti di riflessione. Chiuse la porta alle sue spalle e si infilò le chiavi di casa in tasca. Uscita in strada trovò la palla ferma in un punto del marciapiede opposto. Attraversò non curante delle macchine che passavano e si chinò a recuperarla. Quando si rialzò la testa le girava spaventosamente, si appoggiò al primo muro che riuscì a toccare e aspettò che passasse, come passava ogni volta. Pian piano i palazzi attorno a lei smisero di girare e tutto ricominciò ad avere un senso, i piedi erano sul terreno e niente girava senza motivo. “Avanti, Cassie, dopo quasi due settimane che non mangi praticamente niente dovresti aspettartelo qualche giramento di testa” disse tra sé e sé. Odiava svenire e dopo le prime volte che le era capitato si era ripromessa di non arrivare più a quel punto, di mangiare e di riacquistare le forze almeno per continuare ad avere il controllo di se stessa. Continuò a camminare sapendo di dover fermarsi da qualche parte e rispettare quello che aveva detto ma più incontrava ristoranti o bar o qualsiasi altro posto con del cibo commestibile più si rifiutava di entrare. Era come avere due opinione opposte sulle spalle. L’una, che doveva essere il grillo parlante della situazione, le diceva di entrare e che se avrebbe continuato così invece di sentirsi meglio con se stessa si sarebbe solo sentita peggio. L’altra, invece, urlava forte nella sua testa in modo da coprire tutto il resto, urlava che mangiare quando si era come lei era sbagliato, che lei era sbagliata, urlava tutto quello che si era sentita dire o che aveva pensato che gli altri dicessero di lei in tutti questi anni. Continuò a vagare per le strade usando la pallina rossa che teneva in mano come anti-stress, decise, infine, di entrare nel suo solito starbucks in cui non metteva piede da quando vi aveva incontrato Nick. Meg era sempre lì al bancone che distribuiva le ordinazioni e non era cambiato una virgola da quattro mesi e mezzo fa. Non aveva intenzione di tornare a casa e non aveva più voglia di camminare quindi optò per sedersi ad uno dei tavolini liberi e aspettare la sua ordinazione. Si guardò intorno per qualche minuto finché due tavoli davanti al suo vide un volto conosciuto, stringeva la mano della ragazza seduta di fronte a lui mentre lei continuava a parlare, la fermò e gli stampò un bacio sulle labbra. Qualche minuto dopo lo sguardo del ragazzo incontrò quello di Cassie come la prima volta che si erano incontrati solo che adesso erano un po’ più lontani.
«Che stai guardando?» gli chiese la ragazza voltandosi. I capelli neri le arrivavano fin sotto le spalle e il viso roseo era illuminato da degli occhi verdi a cui nessuno avrebbe resistito.
«Niente» rispose distogliendo lo sguardo e posandolo sulla sua ragazza per poi qualche minuto dopo ritornare a guardare in direzione di Cassie.
Erano passati quattro mesi dall’ultima volta che lo aveva visto. New York è grande ma quando due persone sono destinate ad incontrarsi ancora e ancora nonostante sia meglio non farlo alla fine si incontrano sempre. È una forza indistruttibile quella che li lega, sono fili comandati da qualcosa di più grande, fili che sono nati per intrecciarsi in un periodo preciso, senza fretta. Se due punti sono destinati a toccarsi l’universo troverà sempre un modo per metterli in collegamento. Attraverso lo spazio, il tempo, lungo percorsi che non possiamo prevedere la natura trova sempre una via.
Cassie distolse lo sguardo e si affrettò ad alzarsi decisa a non mangiare. Si alzò talmente in fretta che tutto intorno a lei cominciò a girare di nuovo, perse l’equilibrio e cadde a terra sbattendo violentemente la testa sul pavimento freddo. Nick come di scatto corse verso la ragazza facendosi spazio tra la folla che le si radunava attorno. «Chiamate un’ambulanza» urlò.




PUBBLICITA': okay è la prima volta che scrivo qualcosa oltre il capitolo, wow. ammetto di essere un tantino in ritardo ma colpa della scuola, adesso con l'estate credo di riuscire a postare più frequentemente. detto questo spero vi piaccia e che non iniziate a tirarmi i pomodori, se vi va potete andare a leggere anche la FF che sto scrivendo con itsasiaJ (@xthebesthing) 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1022666 per concludere se vi interessasse su twitter sono @xsaysabotage :)

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Capitolo 7
*** If you let me, i'll take care of you. ***


«Non mangia da giorni» gli disse il medico con in mano le analisi di Cassie. «Soffre di disordini alimentari, è sottopeso». Nick girò la testa per guardare verso la ragazza, la piccola finestra sulla porta chiusa la lasciava intravedere sdraiata sul letto. Finito di parlare con il medico entrò nella stanza chiudendosi la porta alle spalle.
«Ciao» disse buttandosi di peso nella sedia vicino al letto.
«Sto bene» rispose dopo qualche secondo. Non riusciva a sostenere il suo sguardo neanche per un nanosecondo, si sentiva scoperta dei suoi segreti, delle sue paure. Lui non sapeva niente di lei eppure adesso era come un libro aperto che non voleva essere letto né aperto ma che non riusciva a chiudersi.
«Cassie..» pronunciò solo il suo nome lasciando il resto della frase all’immaginazione.
«In ogni caso non sono cose che ti riguardano» rispose cercando di mettersi a sedere senza risultato.
«Non riesci neanche a metterti seduta e vuoi dirmi che stai bene? Sei svenuta, non stai bene» disse Nick alzando la voce.
«Non sono affari tuoi, limitati a goderti la tua vita da superstar con la tua bellissima ragazza» disse con l’intento di sputargli addosso le parole come fossero proiettili.
«Ti ho portato io all’ospedale, ho parlato io col medico, sono diventati ufficialmente affari miei» rispose, più calmo questa volta. Cassie continuò a guardarlo in silenzio, si aspettava che continuasse a parlare, si aspettava le domande, i perché e i come che lei conosceva alla perfezione ma che non aveva mai detto a nessuno. Per alcune persone parlare di se stessi, confidarsi è facile come bere un bicchiere d’acqua, per altre è difficile come ingoiare un mattone. Parlava sempre di se stessa con se stessa, si confidava da sola, si teneva ogni piccolo dolore per sé e chiunque si sarebbe chiesto come faceva a tenersi tutto dentro. Le persone per natura hanno bisogno di parlare, lei semplicemente ignorava questo bisogno fino a sopprimerlo del tutto. Col tempo alcuni dolori avevano finito per logorarla dentro ma lei faceva finta di niente e ci riusciva bene. Quando si creava un buco nel vestito che la sua anima era si metteva semplicemente seduta con ago e filo e cercava di rattopparlo, senza l’aiuto di nessuno. Prendeva precauzioni adatte per non fare cadere la toppa e indossava un bel cappotto pesante in modo che nessuno si accorgesse di quello che stava accadendo dentro. Non l’aiutava o faceva stare meglio ma almeno era consapevole di non aver bisogno di nessun’altro, non dipendeva da un’amica o da un ragazzo e aveva giurato di non dipenderne mai.
«Devo chiamare i tuoi genitori» disse d’un tratto. Era l’ultima cosa che si sarebbe aspettata di sentire.
«Non è il caso» rispose cercando di sembrare il più tranquilla possibile, immaginava già John venirle addosso mentre si lamentava perché per colpa sua aveva perso qualcosa di importante alla televisione e sua madre assecondarlo in tutto pur di non perdere ancora qualcuno.
«Sei in ospedale, io dico che è il caso»
«NO» ribattè Cassie alzando la voce prima che potesse dire altro. Nick la guardò con sguardo severo per qualche secondo ma subito dopo si arrese, avrebbe voluto fare delle domande ma sapeva che per ognuna di queste non ci sarebbe stata nessuna risposta. Rimase, quindi, seduto sulla poltrona in silenzio mentre qualunque cosa le stessero somministrando tramite la flebo le faceva riacquistare un minimo di forze che comunque non bastavano. Era come se tra i due ci fosse una corda di violino tesa, bastava un movimento sbagliato per farla rompere ma quando l’archetto toccava il punto giusto questa suonava alla perfezione, una melodia unica nel suo genere. In questo momento di silenzio assoluto in cui l’unico rumore era il “bip” della macchina che segnava il continuo battito del cuore di Cassie il violinista si scervellava su quale punto fosse meglio poggiare l’archetto. Il primo violinista si buttò lasciando suonare l’istinto.
«Puoi andare se vuoi, non sei obbligato a rimanere» nel tono della sua voce c’era solo stanchezza.
Passarono un paio di minuti prima che la risposta uscisse dalle sue labbra «Rimango».
Non era suo amico, né il suo ragazzo, né un medico, né una persona irrimediabilmente affezionata a lei eppure passò la notte d’osservazione lì a tenerle compagnia. Non erano più di due conoscenti che il caso aveva fatto incontrare più e più volte, niente l’obbligava a passare la notte in ospedale seduto su una scomoda poltrona ma lo fece. Nel silenzio dell’ospedale Cassie si addormentò facilmente, sicuramente meglio di come avrebbe fatto se fosse stata a casa sua. Nick la seguì a ruota pochi minuti dopo e la notte passò.
La mattina seguente il profumo dei dolci di starbucks introdotti nella sua stanza la svegliò, le sembrava di essere ritornata piccola quando ogni domenica suo padre la svegliava così, portandole la colazione a letto. Sentì qualcuno sedersi ai piedi del letto. Aprì gli occhi e una parte di se stessa si sarebbe aspettata davvero di svegliarsi in quello che una volta era la sua camera confortevole con suo padre ai piedi del letto che le mostrava la busta con la colazione ma quando si rese conto di dove si trovava tutti i suoi sogni svanirono accompagnati da uno di quei sonori “bip”. Invece di suo padre il posto ai piedi del suo letto era occupato da Nick che come il suo olfatto suggeriva teneva in mano la colazione appena comprata.
«Hey» disse lui vedendo i suoi occhi aprirsi.
«Hey» rispose con un filo di voce. Cercò di mettersi seduta e sta volta ci riuscì, ieri l’avevano nutrita endovena per ridarle un po’ di forze e soprattutto perché avevano paura si potesse rifiutare di mangiare o rigettare il tutto, cosa che non escludeva avrebbe potuto fare.
«Ho portato la colazione» posò la busta contenente i dolci sul vassoio apposito e lo trascinò vicino al letto in modo che tutti e due potessero mangiare usufruendone.
«Non ho fame» mentì spingendo la busta verso di lui e allontanandola il più possibile da se. Nick ignorò del tutto la sua affermazione e le porse un brownie su un tovagliolo. «Mangia» disse infine quando si accorse che Cassie non aveva intenzione di toccarlo neanche con la punta delle dita. Avrebbe fatto di tutto purché lui la smettesse di fissarla in quel modo, come una malata con un bisogno disperato di aiuto. Prese, quindi, il dolce tra le mani e gli diede un morso. Con un sorriso compiaciuto Nick addentò il suo. Dentro Cassie la voce che l’aveva fin’ora indotta a non mangiare le urlava di smettere, che stava mandando a puttane tutto il lavoro fatto fin ad adesso, mentre la voce più debole sorrideva compiaciuta, esattamente come faceva Nick davanti a lei.
«I medici sono convinti dovresti entrare in riabilitazione, almeno per un po’ e non nego di esserne convinto anche io» disse lui interrompendo il silenzio che la colazione aveva procurato.
«Non ho nessun problema per cui occorra andare in riabilitazione, posso cavarmela» disse questo con tutta la convinzione che aveva in corpo.
«Questo dimostra solo quanto tu invece ne abbia bisogno» rispose pulendo il vassoio dalle briciole e buttando il tutto nel cestino.
«Ho passato la notte in osservazione, ho mangiato, non accadrà più quello che è successo ieri» disse alzando il tono della voce, voleva mettere un punto definitivo a quella storia.
«Non ti credo» rispose rimettendosi seduto nella poltrona che l’aveva ospitato quella notte.
«Non importa, che tu lo voglia o no oggi torno a casa» disse alzandosi dal letto in cerca dei suoi vestiti.
«Ti hanno fissato un consulto con lo psicologo dell’ospedale, prima non puoi andare da nessuna parte» disse. Al suono di quelle parole Cassie fermò la ricerca dei vestiti, parlare con uno psicologo non era lontanamente nei suoi programmi. Non capiva come le persone potessero affidare con tanta naturalezza la loro intera vita, fatti personali e non, ad un estraneo. Era come andare in giro con una scatola contenente tutta la propria vita, momenti brutti e belli, per poi consegnarla ad un semplice estraneo con tanto di ricompensa monetaria per tenerla in custodia. Consegnare quella scatola per lei sarebbe significato ammettere che non poteva farcela da sola, che aveva bisogno di parlare, e non l’avrebbe fatto neanche se fosse stato lo psicologo stesso a pagare lei. Aveva passato anni a nascondere la sua scatola in un posto sicuro, dove nessuno sarebbe arrivato, protetto da tutto e tutti e non vedeva nessun motivo valido per disseppellirla adesso, con un estraneo possedente una laurea. Quei discorsi continuavano a girare nella sua mente inutilmente, cercando una soluzione alternativa a ciò che stava per fare che se c’era era nascosta fin troppo bene.
«Facciamo in fretta» disse infine sedendosi di nuovo sul letto. Varie storie credibili le comparsero in mente, andavano bene tutte, tranne la sua. Immaginò la storia che aveva scelto passo per passo, anno per anno, in modo da essere il più credibile possibile. Si immedesimò nella parte come ci si aspetta da un’attrice di Hollywood. Era pronta per aprirsi e raccontare ogni istante della sua non-vita. Nick non fece in tempo a dire che sarebbe arrivato a momenti che la porta si aprì.
«Posso parlare con lei da solo?» disse il medico dagli occhi azzurri, Nick annuì e uscì dalla porta esattamente come era entrato qualche ora prima con in mano la colazione.
Passati i convenevoli, lo psicologo fece a Cassie delle domande specifiche, quelle che aveva sempre avuto paura qualcuno le ponesse ma con la più totale naturalezza la ragazza impersonò il personaggio prescelto nella sua testa. A volte si bloccava guardando quegli occhi così simili a quelli del padre, ripensava a quante volte li aveva guardati con ammirazione e gioia. Quegli occhi che per sette anni l’avevano accompagnata in giro per New York, che l’avevano guardata e consolata, quegli occhi che erano stati testimoni delle ultime parole e di quel “per sempre” irreale. Lo psicologo la riportava sempre alla realtà ripetendo la domanda o facendole un piccolo segno per mostrarle che si trovava su un altro universo. L’ora passò, le domande finirono e con queste anche le risposte inventate.
«Puoi portarla a casa anche se va comunque controllata» disse lo psicologo a Nick uscendo dalla stanza. Cassie si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. “Sono davvero una brava attrice” sussurrò tra sé e sé. Dopo una breve discussione col medico Nick rientrò in camera e porse a Cassie i vestiti.
«Come ho detto prima, oggi torno a casa» disse Cassie avviandosi verso il bagno della camera per rimettersi i suoi vestiti. Nick le si avvicinò e da dietro le spalle le sussurrò piano in un orecchio «Credi di aver vinto, ma il gioco non è ancora finito».

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