Nothing Else Matters

di Esaul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cuore Distorto ***
Capitolo 2: *** Maschere e Subconscio ***



Capitolo 1
*** Cuore Distorto ***


Nothing Else Matter Credo che ognuno di noi dovrebbe avere qualcuno o qualcosa per cui dare la vita. Aaron "Esaul" Loar ne aveva due: La prima era una Paul Reed Smith 1663 con il corpo in mogano, un top d'acero e il manico in palissandro, capotasti sintetici, ponte stop-tail intonabile e humbucker HFS.

Aaron ripeteva sempre questa stessa descrizione, quando parlava di quella straordinaria chitarra. Nessuno sapeva come l'aveva avuta nè chi glie l'avesse data. Nessuno, tuttavia, poteva immaginare ciò che avrebbe fatto insieme a lei.

Era un chitarrista, Aaron. Un chitarrista con le contropalle. Magari adesso voi v'immaginate un tipo metallaro con i suoi assoli veloci e martellanti. Beh, come direbbe stesso lui, "I metallari preferiscono le Ibanez, non le PRS", e comunque la sua forza non stava nella velocità, né nelle ore di lezioni teoriche alla quale si sottoponeva abbastanza ossessivamente. No, la sua forza stava nella pura passione. Quando suonava era capace di farti ridere, piangere e commuovere come se niente fosse, come se fosse nato per fare quello. Ecco cosa faceva.

Penso che questa storia possa piacere un po' a tutti. Però se siete anche voi dei rockettari musicisti alle prime armi, allora questo racconto spaccherà proprio. Oppure no, vi farà schifo e leggerete a stento questo capitolo. Non mi offendo mica se lo fate.

Comunque, dovremmo tornare un po' indietro nel tempo, vero? Oggi è 6 Luglio 2032, dobbiamo tornare indietro di venti anni, quindi arriviamo al 2012. Anzi, il giorno prima del 2012, il giorno di capodanno. A Liverpool per quella data si teneva sempre un concerto. Io vivevo lì, quindi ovviamente partecipavo. Ero una cantante, una brava cantante dicevano, ed ero appena stata appesa dal mio ragazzo, così avevo tanta voglia di partecipare a queste manifestazioni per superare la timidezza eccetera eccetera. Non che ci tenessi tanto a quel tipo, solo che ci ero rimasta un po' male, ecco tutto.
 

Ah, mi sono scordata di parlare di me! Il mio nome è Katrina Wakesky, all'epoca avevo sedici anni, capelli rossi e corti, occhi castani e viso "Pacioccoso". Io mi vedo grassoccia, anche se Aaron mi dice il contrario da due decenni. Vedendo le foto, però, sembro davvero magra. E anche bella, aggiungerei.

Me ne stavo lì sul palco per il sound check. Avevamo fondato una piccola band tutta al femminile: Io cantavo, ovviamente. Alla chitarra ritmica c'era la co-fondatrice Marie, al basso Miley, alla batteria Scarlett e alla chitarra solista Orianthi. A dirvela tutta, eravamo un bel vedere, tutte e cinque. Soprattutto Orianthi, che era una biondona, ed essendo chitarrista era molto sexy. Eh, i chitarristi sono sempre molto attraenti quando fanno quei loro assoli.

Eravamo una band un po' sul metal più moscio, quello che non piace ai metallari ma ai rockettari sì. Per quel concertino ci eravamo preparate una canzone nostra, Wake and Run Away, e lo stavamo provando proprio in quel momento.

Il palco era dentro un teatrino che al massimo doveva contenere cento-duecento posti. Ero una timida, quindi per me era difficile cantare davanti a tutta quella gente. Durante le prove però non c'era quasi nessuno: i due organizzatori che facevano avanti e indietro, qualche addetto ai lavori ed un'altra band che parlottava e strimpellava da parte.

Suonammo lo stesso pezzo un paio di volte, ma io ero poco convinta. C'era qualcosa che non andava nell'assolo, e Orianthi se ne era accorta. Io non sapevo praticamente nulla di chitarra, aspettavo che lei o Marie risolvessero il problema, ma non sembravano esserne capaci.

Alla terza prova andata male persi un pochino la pazienza. "V'avevamo detto di organizzarvi al meglio la canzone, però!".

"E' difficile, non troviamo la scala giusta, la pentatonica non va".

Scala? Non ci capivo niente.

"Scala blues in Mi bemolle!".

Era una voce calma e rilassata. Ci voltammo tutte e vedemmo che un tizio dell'altra band si era allontanato del gruppo per assistere alla nostra conversazione. Me lo ricordo perfettamente, c'aveva i capelli nerissimi, era di media statura, molto magro. Gli occhi grigi ci scrutavano con semplicità quasi disarmante, come se avesse detto una cosa ovvia. Aveva dietro alla schiena una chitarra, avvolta da un fodero imbottito.

"E' un pezzo hard rock, non ci c'entrerà mai la scala blues. E poi la tonalità è sbagliata" obbiettò Marie.

"La tonalità dell'assolo non è per forza quella della ritmica, e poi che sia blues o metal, l'importante è che vada" rispose lui pratico.

"Ma cosa c'entra il blues con 'sta canzone?".

"Nulla, per questo varrebbe la pena di provare". Era convintissimo delle proprie idee.

"Come fai a sapere che andrà bene?" gli chiesi.

"Non saprei. Tu sai perché vivi? No. E' la stessa cosa".

"Non ha senso" tagliò corto Marie. "Se pensi di aver ragione, perché non vieni qui a dimostrarcelo?".

"Proposition légitime, avec plaisir" rispose lui inchinandosi. Salì sul palco e si tolse dalle spalle il fodero imbottito, lo aprì.

Quando estrasse quella PRS blu elettrico lo sguardo di Orianthi s'indurì.

"Lo conosco!" mi sussurrò Marie all'orecchio. "Si chiama Esal o qualcosa del genere".

"Esal? che nome è?".

"Il mio soprannome sarebbe Esaul, non Esal" intervenne all'improvviso lui. Doveva averci sentito, e ciò ci gelò non poco, perché il sussurrio era appena percettibile.

"E il tuo vero nome è?" domandai.

"E così, qualcuno che non si ferma al nulla. Aaron" mi rispose. Ma che era, pazzo?

Collegò la chitarra all'amplificatore e suonò un accordo. Aveva un suono fantastico, quella chitarra. Poi, lui semplicemente accordò la chitarra, senza sentire il suono delle singole corde. Andava a caso per farsi figo, pensai.

"Possiamo cominciare" disse lui attaccandosi il distorsore.

Le altre cominciarono con la sezione ritmica precedente e contemporanea all'assolo. Io stavo a guardare cosa sarebbe successo.

Aaron cominciò lentamente. Picchiettò sulle corde con le dita delle mani, producendo prima un suono basso e delicato, poi sempre più alto.

Quando prese a suonare sul serio, fu sorprendente.

Era, a tutti gli effetti, perfetto. Dannatamente perfetto. Suonava un assolo lento, caldo e avvolgente su una base veloce e martellante, eppure aveva fatto sua l'intera canzone in maniera impressionante. Cominciò ad accrescere la sua velocità fino a livelli molto alti, arrivò al top con un tapping alla Van Halen, riscese e risalì di nuovo. Il suo suono... mi strappava l'anima, mi faceva provare tutto ciò di cui parlava la canzone, mi sembrava... bah, potrei descriverlo in tutti i modi del mondo senza trovare un solo aggettivo adatto.

Per un attimo, pensai davvero di amarlo, di voler passare tutta la vita con lui solo per sentirlo suonare. Ma durò troppo poco.

La canzone cessò, sostituita dagli applausi dei compagni di Aaron che, intuii, erano sia divertiti dalla scena sia impressionati da quel modo di suonare. Lui gettò lo sguardo su ognuna di noi, a turno, per valutare la reazione che avevamo avuto. Poi tolse il jack, ripose la chitarra nel fodero e intascò il plettro.

"La prossima volta non escludete nessuna possibilità. La vita saprà sempre ricompensarvi se avrete fiducia in lei".

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Capitolo 2
*** Maschere e Subconscio ***


Nothing Else Matter

Alla fine Orianthi dovette cedere alle ragioni di Aaron. Era troppo abile per essere ignorato, e ci aveva messo davanti la verità con una forza impressionante.

Seguimmo il suo consiglio, ma per quanto ci provassimo non riuscivamo ad emularlo nemmeno minimamente, non riuscimmo a provare le stesse sensazioni ascoltando noi stessi.

Il concerto andò bene, tutto sommato. Fummo applaudite eccetera eccetera, però dentro di noi non ci sentivamo pienamente soddisfatte. Esaul ci aveva colpito nel profondo, scosso. Ci aveva fatto capire che dovevamo rivedere tutti i nostri metodi, tutto. Eppure, non sapevamo da dove cominciare.

La band di Aaron si esibì dopo di noi. Preferimmo non vedere la loro esibizione. Ricordo solo che alla fine un boato eruppe dal pubblico, e il gruppo seguente preferì rimandare la sua prova di un'ora per evitare di perdere inevitabilmente il confronto. Mi raccontarono che i quattro compagni di Esaul non erano poi granché migliori di noi, ma lui era pazzesco.

Le altre della band se lo tolsero presto dalla testa, riprendemmo a fare tutto come al solito. Io però non riuscivo a non pensarci. Per un paio di mesi fu il mio chiodo fisso, rievocavo appena potevo il ricordo di quella prova, di quando aveva preso una nostra canzone e l'aveva resa perfetta. Volevo riuscire a capire il suo segreto, la sua formula speciale, ma non riuscivo a capire dove fosse, da dove tirasse fuori quel fuoco di passione, come riuscisse ad avere questo impatto sugli spettatori.

E poi avevo sempre nella mente i suoi occhi color ghiaccio. Mi fissavano nella notte, e io ricambiavo il loro sguardo, chiedendogli perché. Perché quegli occhi mi avevano colpito così tanto, perché emanavano quell'aura di diversità, come se scrutassero il mondo da un'altra dimensione. Perché, oltre quegli occhi, s'intravedeva un dolore immenso. Qualcosa di estremamente sbagliato.

Nel frattempo la scuola riprese a rompermi le palle che non ho. Per prima cosa, i professori ci riempivano di compiti (più del solito, intendo). Secondo, era un periodo in cui non avevo voglia di fare niente. Non saprei neanche dirvi perché, sentivo che mi mancava qualcosa. Comunque, il fatto era che i miei vecchi si erano incazzati perché non facevo nulla. Per loro non contava perché succedeva qualcosa di negativo. Quella cosa accadeva e bisognava risolvere, punto. Ma dico io, come si fa a risolvere un problema se non si capisce da cosa è causato?

 

 

 

Faceva freddo, troppo freddo.

Era una limpida mattina invernale a Liverpool, una di quelle che porta con sé un vento freddo e tagliente quanto un pugnale, nonostante la giornata fosse senza nuvole. Alla fermata del pullman, una coppietta si era abbandonata agli istinti, al desiderio. I due si scambiavano passionali effusioni. Lei aveva a tracolla una borsa che emanava un leggero odore di carta stampata, portato lontano dalle correnti, le sue mani erano eleganti e precise, sicure di non sbagliare un colpo. L'abbigliamento lasciava intendere che proveniva da una famiglia molto ricca, di quelle che spendono molti soldi per cose inutili e pochi per quelle utili, come gli studi di chirurgia della figlia.

Anche il compagno era vestito in modo analogo, come un maschio che vuole mettersi in mostra. Aveva la mascella insolitamente serrata e le sopracciglia abbassate, quasi a confondersi con le ciglia. Tremava, ma non dal freddo. Una piccola macchia di calce bianco gli rovinava in modo impercettibile le scarpe, cucite troppo in fretta per essere opera di un'attenta marca internazionale come il ragazzo voleva far credere. La cosa peggiore era che alcune cose che lui, operaio in un cantiere a Old Swan, portava e vestiva non se le sarebbe potute permettere. Il suo insano desiderio di possedere il corpo della ragazza lasciava presagire il resto.

A pochi metri da loro, in piedi, c'era Aaron Loar. Osservare, esaminare e capire le persone era la sua specialità. Soprattutto quando era annoiato, diventava incredibilmente perspicacie. Insomma, più del solito.

In quel momento, per esempio, stava aspettando il pullman e non aveva molto altro da fare. Ecco una cosa che odiava: l'inattività. Piuttosto che aspettare avrebbe preferito farsela a piedi fino a scuola, ma il freddo glaciale l'aveva dissuaso da questo intento, così si era messo ad osservare quei due ragazzi, senza però fissarli. Aveva preferito basarsi sull'unica volta che li aveva guardati con gli occhi, quando era arrivato alla fermata. Almeno così sarebbe stato più difficile e meno noioso, per quanto quei due tizi non rappresentavano dei soggetti particolarmente interessanti.

Aaron pensava che qualsiasi nostro gesto, volontario o involontario, racconta degli uomini più di quanto non lo facciano le parole, e grazie a questa sua idea mentirgli era diventato quasi impossibile.

In effetti, l'aspetto e i gesti di Aaron parlavano chiaro, eppure nessuno aveva mai tentato di capirli.

Era minuto, di media statura e molto magro, ma la fermezza e la decisione delle sue mani lasciava intravedere una forza interiore dura a morire. Si sentiva protetto dalla sua solitudine, consapevole che nonostante fosse da solo, rimaneva pericoloso. I capelli lunghi fino alla base del collo, neri come l'inchiostro, erano mossi dal vento. Ma erano i suoi occhi color ghiaccio a confondere i più. Se non bastava l'abbigliamento rock, jeans strappato e felpa verde a lasciar intuire che si trattasse di una persona diversa, quei due occhi circondati da profonde occhiaie eliminavano ogni dubbio. Erano intelligenti e profondi come due pozzi, pieni di un dolore che, forse, nessuno sarebbe mai riuscito a riempire. Nessuno, forse, tranne la musica.

La musica che da, la musica che si lascia modellare, la musica che si ama e, nel caso di Aaron, ti ama.

Ecco cosa rendeva "Esaul" un chitarrista straordinario.

Lui amava la musica e la musica amava lui. Se volete capire veramente qualcosa di quel ragazzo, ascoltate.

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