Come di mandorle amare di Alkimia (/viewuser.php?uid=47113)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Overture ***
Capitolo 2: *** Il diario ***
Capitolo 3: *** L'Angelo della Musica ***
Capitolo 4: *** Il teatro ***
Capitolo 5: *** Gustave ***
Capitolo 6: *** Graziana ***
Capitolo 7: *** Il gorgo di imbuto ***
Capitolo 8: *** Incontri ***
Capitolo 9: *** Fuoco ***
Capitolo 10: *** Fantasmi ***
Capitolo 11: *** Al buio ***
Capitolo 12: *** Lucia ***
Capitolo 13: *** Ricordi ***
Capitolo 14: *** Mastro Pulcinella ***
Capitolo 15: *** Ferite ***
Capitolo 16: *** Carte scoperte ***
Capitolo 17: *** Parole ***
Capitolo 18: *** La notte dei miracoli ***
Capitolo 19: *** Verità ***
Capitolo 20: *** Sotto la polvere ***
Capitolo 1 *** Overture ***
COME DI MANDORLE AMARE
Overture
~ Parigi, 7 febbraio 1871~
La facciata del teatro dell'Opera si stagliava maestosa contro un cielo
privo di stelle.
Erano più di due anni che il duca Mariano Giusso mancava
dalla Francia. Vi era tornato per un viaggio di piacere e gli era parsa
mutata.
La Nazione che aveva riscritto il destino dell'Europa stava tentando di
mandare via il sapore amaro della sconfitta militare contro la Prussia
e la voce del cambiamento soffiava nell'aria come il fumo dalle
ciminiere delle fabbriche. Il duca lo sapeva, poteva quasi sentirlo,
dopotutto egli stesso proveniva da un Paese che in quegli anni ancora
tentava a fatica di tenere insieme i pezzi di una bandiera che a volte,
a qualcuno, sembrava essere costata più di quanto valesse.
I rintocchi delle campane di Notre Dame batterono le otto di sera e il
duca ricacciò indietro quei pensieri. Luisa, sua figlia, si
strinse un po' più forte al suo braccio e gli
indicò un manifesto che la pioggia aveva cominciato a
scolorire.
«Oh, c'è un nuovo spettacolo stasera all'Opera, il
Don Juan Trionfante. Non ricordo di averne mai sentito
parlare» commentò il duca, lanciò una
lunga occhiata alla fila che si era accalcata davanti all'ingresso del
teatro e scrollò le spalle.
Sua figlia lo strattonò leggermente per la manica del
cappotto e additò l'Opera Populaire. Luisa aveva dodici
anni, non parlava, era muta dalla nascita, ma sapeva come farsi
intendere.
«Vuoi andarci?» chiese suo padre. «Ma,
cara, non troveremo posto, ormai».
Luisa sorrise con fare incoraggiante.
«Tentar non nuoce, hai ragione» convenne l'uomo.
«Ma questa volta, per amor del cielo, stammi
vicino».
La giovinetta annuì con un energico cenno del capo. Il duca
la scrutò di sottecchi mentre attraversavano la piazza e lei
tentava di affrettare il passo.
«Non so se avremo il piacere di imbatterci di nuovo nel
nostro strambo amico» aggiunse l'uomo. Luisa finse di non
aver sentito.
Come il duca aveva previsto, non c'era più posto. La
biglietteria aveva chiuso, esibendo un cartello che avvisava del tutto
esaurito i numerosi spettatori ancora accalcati davanti all'ingresso.
La folla cominciò lentamente a disperdersi.
«Sarà per la prossima volta, magari»
disse il duca.
Luisa sospirò e si diresse comunque verso l'ingresso del
teatro.
In quel momento una fila di gendarmi armati di baionetta
salì le scale ed entrò con discrezione da
un'entrata secondaria. Il duca aggrottò la fronte perplesso,
non pensava che l'agitazione cittadina fosse giunta fino a quel segno.
Ammesso che fosse quello il motivo della presenza dei gendarmi ad uno
rappresentazione teatrale.
Luisa trascinò suo padre fin dentro al foyer, pieno di
persone che attendevano di poter prendere posto.
Il duca posò una mano su quella della bambina, rinnovando
tacitamente la raccomandazione di stargli vicino. Non gli piaceva
quella confusione e non era certo che sua figlia avesse imparato la
lezione riguardo al non andare in giro da sola in luoghi affollati e
sconosciuti.
«Credo che potremmo anche andarcene» disse lui, con
una punta di apprensione nella voce. Luisa gli rivolse uno sguardo
quasi implorante. Ah, se fosse stato un po' meno incapace di resistere
a certi sguardi di sua figlia! Non aveva ben capito cosa lei si
aspettasse da quella visita, ma all'improvviso scorse una figura in
nero che si muoveva tra la calca, scivolando senza fatica tra i crocchi
di signore imbellettate e le file di gentiluomini in doppiopetto. Dopo
qualche minuto la figura imboccò la porta e uscì
all'aperto.
Non ci fu bisogno di attendere che Luisa lo trascinasse. L'uomo e la
bambina si fecero strada a fatica per uscire. Fuori il freddo sembrava
essersi fatto un po' più pungente.
La figura in nero era appoggiata a una delle colonne di marmo, sembrava
quasi che sperasse di confondersi con le ombre del porticato e sparire
nel nulla in mezzo al buio della sera. Respirava con un certo affanno e
il respiro le si condensava in fugaci boccate di fumo.
«Madame Giry» chiamò il duca.
La donna sobbalzò con così tanta veemenza che
l'uomo quasi temette di ricevere uno schiaffo in viso.
«Monsieur Giussò?»
disse la donna con un filo di voce, portandosi una mano al petto.
«Perdonate, non volevo spaventarvi. Io e mia figlia vi
abbiamo vista...».
Lei spostò nervosamente lo sguardo tra l'uomo e la ragazzina,
«Voi e vostra figlia assisterete alla
rappresentazione?» domandò dopo qualche istante di
silenzio.
Al duca parve curiosamente allarmata. Era anche un po' più
vecchia di come la ricordava, i due anni trascorsi dall'ultima volta
che l'aveva vista sembravano aver lasciato un segno eccessivamente
pesante sul bel viso della direttrice del balletto dell'Opera
Populaire, come se il tempo fosse stato scandito da preoccupazioni e
problemi.
«Oh no, madame. Non abbiamo trovato posto» le
rispose in un ottimo francese. Dal rapido cenno di assenso che madame
Giry gli rivolse, gli parve quasi che ne fosse sollevata. E comunque,
cosa stava facendo lì fuori al freddo?
«Vi sentite bene?» aggiunse il duca.
Madame Giry restò a guardarlo per lunghi secondi, come se
lui le avesse rivolto una domanda troppo complicata.
Era il freddo che le aveva inumidito gli occhi, o la donna stava per
piangere?
«Oh, monsieur... sta per accadere qualcosa di
terribile!» dichiarò infine madame Giry, agitando
le mani in un gesto colmo di disperazione.
Luisa ebbe un fremito e mosse le labbra come a voler pronunciare un
nome che sembrava esserle rimasto incastrato in gola.
«Sì... si tratta di...»
farfugliò la donna.
«Di Erik» terminò il duca per lei in
tono grave.
*******
~ Parigi, 24 maggio1869 ~
Luisa si era chiesta più volte se Dio potesse ascoltare lo
stesso le sue preghiere, anche se lei non poteva formularle ad alta
voce. In quel momento quel dubbio l'assalì più
forte che mai, poi si ricordò della sua governante che le
aveva spiegato che Dio ascolta i cuori e non le bocche, e si
sentì un po' più sicura: per come gli martellava
nel petto, il suo cuore stava certamente urlando e qualche angelo di
passaggio avrebbe sicuramente potuto udire le sue preghiere anche se
era lontanissima dal cielo. Più lontana di quanto fosse mai
stata.
Il buio sembrava essere solido come cemento, tanto da toglierle il
respiro. Era molto improbabile che qualche angelo potesse passare di
lì, ma la bambina preferì non pensarci.
Se anche l'avesse sentita, forse Dio non l'avrebbe aiutata
perché era stata cattiva. Non avrebbe dovuto allontanarsi da
suo padre, non avrebbe dovuto mettersi a gironzolare da sola per i
corridoi del collegio del teatro dell'Opera. È solo che
aveva visto quelle giovani ballerine andare da qualche parte ed era
curiosa di avvicinarsi a loro, per vedere se magari quelle scarpine di
raso avessero le ali da permettere a chi le indossava di fare salti e
piroette così leggiadre e portentose.
E alla fine si era persa.
Aveva sentito dei rumori e aveva pensato di seguire i suoni per
ritrovare la strada. Di certo, se c'erano dei rumori, c'erano anche
delle persone e queste persone avrebbero potuto riportarla da suo
padre. Ma i suoni si allontanavano e lei non aveva voce per chiamare,
doveva per forza raggiungere la fonte del rumore, perché da
qualche parte doveva pur essere... in fondo a quel corridoio polveroso,
di certo... e allora come mai il corridoio finiva in un vicolo cieco e
non c'era nessuno? Era sicura che era da lì che provenivano
i rumori, non potevano mica venire da dentro le pareti!
Forse si era sbagliata, non c'era proprio nessuno lì. Anzi,
a giudicare da ciò che aveva visto, non c'era stato nessuno
da molto, moltissimo tempo.
Quella zona del collegio era rimasta abbandonata durante i lavori di
restauro. Aveva sentito il signore in livrea parlare a suo padre del
restauro del palazzo dell'Opera e delle leggende sui cunicoli e sui
passaggi segreti che erano stati usati durante la Rivoluzione Francese.
Aveva gironzolato per un po' in quelle stanze abbandonate, nella
speranza di trovare la strada per tornare indietro. Poi era caduta.
Non sapeva come, quasi non si era accorta del pavimento che
semplicemente le era sfuggito da sotto i piedi, come se ci fosse stata
una botola. Ma le
botole non si aprono da sole...
Se Dio non l'avesse ascoltata, allora non lo avrebbe fatto nessuno.
In mezzo a quell'oscurità pesante e appiccicosa come una
coperta bagnata, Luisa aveva sentito voci allarmate che chiamavano il
suo nome e aveva realizzato con sgomento non solo che non era in grado
di rispondere, ma anche che quelle voci erano lontanissime, molti metri
sopra la sua testa.
Forse era già morta ed era finita giù
all'inferno, perché aveva disobbedito a suo padre che le
aveva raccomandato più volte di non allontanarsi da sola.
La bambina si fermò e stese le braccia, cercando a tentoni
un appiglio al quale reggersi per provare a camminare. C'erano delle
pareti sia a destra che a sinistra, come in un corridoio.
Picchiò i pugni e prese a calci quei muri fatti di pietra
gelida nella speranza di produrre abbastanza rumore da farsi sentire.
Si graffiò le mani ma, a parte questo, non successe
nient'altro.
Poi la luce apparve come all'improvviso, una luce gialla che danzava
sulle pareti disegnando in chiaroscuro le irregolarità della
pietra grezza di cui era fatto quel posto.
Era una luce calda, come un fuoco e sembrò asciugarle le
lacrime sulle guance. Era la luce di una fiaccola che si avvicinava.
Ora restava da capire se era un angelo o un demonio quello che reggeva
la fiaccola.
Quando l'ombra si proiettò sul pavimento impolverato, Luisa
pensò che forse si trattava di un gigante e si rese conto di
non sapere se i giganti stavano in paradiso o all'inferno.
Alla fine la bambina pensò che doveva trattarsi quasi
sicuramente di un uomo. Adesso bisognava scoprire se era buono o
cattivo.
Cattivo. Cattivissimo...
fu il primo pensiero che attraversò la mente della piccola
appena lo sconosciuto le si parò davanti. Aveva una
maschera, una mezza maschera di cuoio bianco e solo i cattivi si
nascondo dietro le maschere. E poi era vestito tutto di nero e dal modo
in cui la guardava non sembrava affatto contento di averla trovata
lì.
Però i suoi occhi avevano lo stesso colore del paradiso.
«Chi sei?» chiese l'uomo in tono asciutto e
imperioso. Aveva parlato in italiano, con un forte accento straniero.
Lei deglutì poi si indicò la bocca e scosse piano
la testa come in un cenno negativo.
«Sei muta?» domandò ancora lo
sconosciuto con un'aria quasi sgomenta, come se trovasse la cosa
veramente orribile.
Nessuno usava mai quell'aggettivo con lei, quel signore non doveva
essere una persona molto delicata, proprio no!
Luisa arricciò il naso indispettita e scrollò le
spalle.
«Sei la bambina che stanno cercando»
continuò l'uomo mascherato. Lo sapeva già,
allora, e sapeva anche che era italiana, la figlia del duca venuto a
visitare il teatro. Comunque non le sembrava troppo a suo agio
– e dire che era lei quella nei guai.
La bambina gli puntò un dito contro il petto, come a
chiedergli: e tu chi sei?
Lui sorrise, di un sorriso strano e privo di allegria.
Oltre a essere indelicato era anche maleducato! Avrebbe dovuto
rispondere a quella domanda. Luisa si sentì invadere dallo
sconforto e cominciò a piangere.
I singhiozzi erano suoni bassi e sibilanti in fondo alla sua gola
immobile. L'uomo non sembrò particolarmente dispiaciuto,
solo seccato.
«Smettila di piangere, ti riporterò
indietro» sbottò. Poi aggiunse qualcosa a bassa
voce, tra sé e sé. A Luisa sembrò che
avesse detto: «prima che comincino a raccontare che il
Fantasma mangia i bambini».
L'uomo le fece cenno di seguirla, ma lei non si mosse. Non si fidava
nemmeno un po' di lui e comunque era troppo scossa per muoversi.
Lo sconosciuto sbuffò, poi assunse un'espressione grave e
solenne.
«Un consiglio: non provare a togliermi questa» le
disse indicando la mezza maschera bianca. «O potrei decidere
di lasciarti qui per il resto dei tuoi giorni».
Poi, con un gesto repentino, si chinò su di lei e la
sollevò tra le braccia.
Luisa si dibatté e cominciò a scalciare e a
mulinare i pugni.
«Ssh, calmati» fece l'uomo. La voce gli si era
addolcita di colpo, come se all'improvviso si fosse ricordato che aveva
a che fare con una bambina e che doveva trattarla un po' meglio di come
aveva fatto fino a qualche secondo prima.
Lei lo guardò perplessa.
«Scusami, non mi capita spesso di avere visite»
dichiarò l'uomo. Non si sforzò di sorridere, ma
ora aveva un'aria un po' meno antipatica.
Luisa sbatté le palpebre e cercò di guardare
meglio quel viso mascherato. Era un bel viso, di un uomo adulto ma
ancora abbastanza giovane. Non aveva nessuna espressione particolare in
quel momento, ma sembrava triste, impregnato di malinconia come se vi
fosse stato immerso dentro. Ed era strano.
La bambina ricominciò a piangere, senza sapere nemmeno bene
il perché.
Ora aveva paura che lui tornasse cattivo, invece l'uomo fece una cosa
piuttosto inaspettata: si mise a cantare. Era una canzone di cui Luisa
non riusciva a capire le parole, ma le parole non le sembrarono
importanti... la voce che le stava spingendo nell'aria era
così bella da farle sembrare poco importante anche il fatto
di essere sotto terra chissà dove, con suo padre che
sicuramente la stava cercando preoccupatissimo.
Non si accorse nemmeno che l'uomo aveva cominciato a camminare,
tenendola sollevata tra le braccia, contro il suo petto. I suoi vestiti
odoravano di profumo costoso e inchiostro.
L'aveva riportata in superficie, in una piccola stanza con un grande
specchio appeso al muro, probabilmente uno dei camerini del teatro.
A Luisa era parso impossibile, ma era sicura che fossero passati
attraverso le pareti, cioè che la parete si fosse aperta,
girando su cardini di ferro, come una porta.
Lui era fermo a fissarla, come a chiedersi che fare perché
la ritrovassero, quando lei urtò uno sgabello che cadde
rumorosamente sul pavimento. Dopo qualche secondo la porta della stanza
si aprì di schianto e suo padre entrò trafelato
nel camerino.
Il lampo che balenò negli occhi dell'uomo mascherato lo fece
sembrare di nuovo cattivo.
Suo padre aprì la bocca come per urlare, ma l'uomo gli fu
addosso egli premette una mano sul viso. Ora Luisa aveva di nuovo
paura.
«Vi ho riportato vostra figlia, signore» disse lo
sconosciuto, sempre con quel suo italiano dall'accento strano,
snocciolando la parola signore
come se i suoni inciampassero sulla sua lingua. «Il minimo
che possiate fare per ricambiare il favore è fingere di non
avermi mai visto».
La bambina guardò suo padre annuendo, come a voler dare
ragione all'uomo. Il duca non era tipo da lasciarsi turbare dalle
stranezze, e come poteva visto che egli stesso veniva considerato un
po' strambo da chi lo conosceva?
L'uomo scostò cautamente la mano dalla bocca del duca. Lui
lo stava ancora fissando attonito, troppo sconvolto per avere una
qualche reazione. Poi lo sconosciuto si voltò, si
fermò davanti a Luisa e accennò una specie di
inchino, si avviò verso il muro, fece scattare i cardini del
passaggio segreto e sparì.
Luisa e suo padre erano andati a Parigi per un viaggio diplomatico. La
famiglia Giusso era molto in vista nel panorama politico di
quell'Italia ancora in fasce e a loro capitava spesso di viaggiare.
Quando erano a casa, a Napoli, il duca era solito frequentare artisti e
Luisa aveva incontrato molti personaggi insoliti, ma mai nessuno
insolito come quell'uomo.
Gli altri erano strani forse, ma lei, con l'intuito e la ferrea
capacità di ragionamento tipica dei bambini, riusciva sempre
a trovare il capo della matassa della loro vera o presunta follia. Lo
sconosciuto con lo maschera invece era ben al di là della
sua capacità di comprensione, e questo lo rendeva
estremamente affascinante ai suoi occhi.
*******
~ Parigi, 7 febbraio 1871~
A quanto pareva non era cambiato quasi niente, era ancora solo in mezzo
al buio.
Da qualche parte, un rintocco di campane segnò la
mezzanotte.
L'uomo poteva ancora scorgere in lontananza il riverbero rosso
dell'immenso incendio che stava consumando l'Opera Populaire. Il vento
freddo soffiava impietoso sul viso e sul petto lasciato scoperto dalla
camicia di batista ormai sporca.
Il suo teatro bruciava, e anche lui. Malgrado l'aria pungente, sentiva
il sudore colargli lungo la schiena e il calore malsano della febbre
avvolgerlo come un abito troppo stretto.
Non sentiva altro rumore se non lo sciabordio dell'acqua della Senna
che scorreva sotto al ponte sul quale si era fermato. Poggiò
i palmi delle mani sul parapetto di marmo, stordito.
La sua era una mente abituata a pensare, elaborare, calcolare, e anche
in quel momento, dentro la sua testa i pensieri si mettevano in fila,
facendo scorrere uno dopo l'altro i ricordi e le immagini.
C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della
speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e
infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la
stagione della pazzia. Forse il dolore, il rimpianto? No, ogni cosa era
evaporata quando aveva guardato la fanciulla e le aveva detto di andare
via. Mentre Christine si allontanava, lasciandosi alle spalle quella
strana favola che aveva gocciolato lacrime e sangue sui velluti e sui
marmi dell'Opera Populaire, l'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera
aveva sentito la sua stessa anima evaporare.
Non gli restava niente.
«Adesso voi verrete con me». La voce gli trafisse i
pensieri come una lama, un dolore pulsante gli attraversò le
tempie.
Non poteva trattarsi di un gendarme, rilevò Erik, aveva un
accento straniero.
Si voltò lentamente. Non aveva più la sua
maschera, ma non importava. Quella sera ogni maschera era caduta una
volta per tutte.
Scrutò nella penombra la persona che aveva parlato. Non
aveva la forza d'animo di stupirsi nel riconoscere l'uomo che aveva
davanti.
«Venire con voi?» disse con voce flebile e roca.
«E perché mai?».
Il duca Mariano Giusso era sempre stato un tipo singolare. Talmente
tanto singolare da incaponirsi e andare a cercarlo, quella primavera di
due anni prima. Erik, ricordava, si era fatto trovare,
perché se quello stolto avesse continuato ancora a lungo a
cercare botole e passaggi sarebbe finito con il collo spezzato in una
delle sue trappole, o forse addirittura avrebbe finito per farlo
scoprire. E tutto perché sua figlia, la piccina muta, era
convinta che lui fosse una specie di... bah, un angelo con le ali
spezzate o qualcosa di simile. A quanto pare quella di farsi passare
per un angelo era diventata un'abilità innata.
In quelle settimane che il duca e sua figlia avevano trascorso a
Parigi, il Fantasma dell'Opera aveva quasi dovuto fare i conti con la
circostanza di ricevere visite. Non che avesse mai avuto l'ardire di
portare il duca e la bambina fino alla Dimora sul Lago, ma riusciva a
trovare il modo di incontrarsi con Luisa e bearsi per qualche manciata
di ore del sorriso della bambina mentre lo ascoltava cantare.
Erik non era avvezzo a sentimenti come l'affetto e la gratitudine, per
questo non capiva il comportamento della bambina né quello
di suo padre. Eppure, anche se si era trattata solo di una fugace
parentesi nella sua esistenza da esiliato, gli era piaciuta.
Ma questo era stato prima. Quando era... sì, quando era fragile davanti
alla notte che lo circondava. Prima che decidesse di prendere quella
notte, plasmarla, farne musica e offrirla alla sua piccola, dolce musa.
Era stato prima di convincersi una volta e per tutte che non c'era
posto per lui. Era stato prima del sangue e prima del fuoco. Era stato
anche prima dell'amore.
«Venire con voi? E perché mai?».
Il duca prese qualcosa dalla tasca interna del cappotto.
Erik sentì la vista che gli si appannava, ma riconobbe lo
stesso la sagoma bianca della sua maschera,
«Quella appartiene a un assassino, duca, e di certo a un uomo
ormai perduto» commentò in tono inespressivo, con
la voce ovattata dalla febbre.
«Ho un debito di riconoscenza con voi, Erik»
replicò il duca. «Tempo fa aiutaste me e mia
figlia, e non mi riferisco solo al fatto che l'avete condotta fuori dai
sotterranei. Avete compiuto atti che non posso approvare, ma
c'è qualcosa che devo fare per saldare il mio debito e credo
consista nel non credervi perduto, a prescindere da cosa pensiate di
voi stesso».
«Non credo di avere la capacità di replicare. Non
credo di avere la capacità per fare nulla, in
effetti...».
«Venite con me, vi prego»
«Non mi dovete niente, duca, non c'è alcun debito
da saldare... Lasciatemi in pace». Le parole gli erano uscite
in una fila di suoni strozzati. Il nero del cielo ora aveva invaso
anche la sua testa e ora cominciava ad assediare anche i suoi occhi.
Un attimo dopo il buio vinse tutto e l'ultima cosa che Erik
sentì fu la superficie ruvida del ciottolato contro il quale
cadde.
_____________________________________________________
Here,
I have a note...
Andando per logica, la sera della rappresentazione del Don Juan
dovrebbe essere, più o meno, una serata del febbraio 1871.
Nel marzo di quell'anno sarebbe stata istituita la Comune di Parigi.
Tornare qui è un po' come essere a casa. Ritrovare Erik e
riprendere a scrivere di lui è come rivedere un vecchio
amico al quale non si è mai smesso di voler bene.
Spero che a chiunque passi tra queste pagine piaccia leggere questa
storia anche solo la metà della metà di quanto
sta piacendo a me scriverla.
I
remain, gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 2 *** Il diario ***
Capitolo primo
Il diario
~ Parigi, 18 aprile 1892 ~
Il facchino che gli aveva aperto la porta stava per lasciarsi scappare
di mano la custodia del suo Stradivari. Non era affatto un buon inizio.
«Per quanto tempo monsieur gradisce rimanere nostro
ospite?».
La voce dell'albergatore suonava più leziosa che gentile. Il
ragazzo fece un garbato sorriso mentre tentava di reprimere il moto di
stizza nel vedere il facchino armeggiare in maniera maldestra con i
suoi bagagli.
«Per una settimana» rispose.
Rumori ovattati riempivano l'aria dell'ampio ingesso pavimentato in
marmo verde. Facchini e inservienti in giacca scura si muovevano lungo
le scale, sui sofà damascati alcuni signori erano seduti a
fumare o a leggere il giornale. L'albergo era più
appariscente che elegante, ma glielo aveva consigliato un amico da poco
rientrato da un viaggio in Francia, era in una zona centrale della
città e Louis non era particolarmente schizzinoso
né aveva altre idee riguardo al posto in cui alloggiare. Per
quel pomeriggio gli bastava solo che il facchino non gli rovesciasse le
valige lungo le scale.
Fuori, una leggera foschia cominciava a serpeggiare su Parigi. Louis
aveva notato che man mano che si avvicinava alla destinazione del suo
viaggio la primavera sembrava un po' più sfuggente, il clima
era meno mite città dopo città.
L'albergatore gli consegnò la chiave della sua camera e si
congedò con un largo sorriso, un cameriere gli fece strada
lungo le scale e lo accompagnò fino alla porta.
La stanza aveva un'aria confortevole e anonima, con carta da parati
chiara e tende scure. I vecchi mobili di noce dalle forme squadrate
avevano un che di tetro, come pure il quadro in cima al letto, un
mediocre dipinto di una Madonna vestita di azzurro.
A Louis non piacevano gli alberghi. Guardò i suoi due bauli
da viaggio posati su un tavolino rotondo e di colpo si sentì
svuotato. La stanchezza accumulata durante il viaggio si andava
mescolando a uno strano senso di smarrimento. Il giovane si
ritrovò a pensare che sarebbe tornato immediatamente
indietro, se avesse potuto. Era una sciocchezza, certo, molti suoi
amici gli avevano invidiato quel viaggio ed erano mesi che progettava
di andare a Parigi, gli era parsa una cosa importante, ma adesso che
era lì cominciava a chiedersi se non si era lasciato
condizionare un po' troppo da sua madre. Era stata lei a regalargli il
biglietto del treno per il suo ventesimo compleanno e gli aveva detto,
con la scarsa convinzione che hanno le madri quando devono fare certe
affermazioni, che era adulto e che era tempo che lui affrontasse certe
cose, poi gli aveva dato il quaderno rilegato in pelle rossa che ora
era sistemato dentro la custodia del suo violino.
Louis sapeva cos'era quel quaderno e sapeva perché sua madre
glielo aveva dato. Quello che non capiva era come mai lei riteneva
importante che lui andasse fino a Parigi per poterlo leggere,
perché, dopo aver passato tutto quel tempo a proteggerlo da
certi segreti, ora voleva che li affrontasse da solo, lontano da casa.
La camera era provvista di un'angusta stanza da bagno, Louis
aprì il rubinetto del lavandino e la tubature emisero un
lungo sibilo rauco prima che l'acqua cominciasse a scorrere. Il ragazzo
si sciacquò il viso e osservò la sua immagine
nello specchio chiazzato di umidità. Gli occhi scuri erano
arrossati e stanchi, cerchiati da un accenno di occhiaie livide.
Odiava doverlo ammettere, ma l'idea di essere così lontano
da casa gli metteva malinconia e nel silenzio della camera si
sentì solo come non gli era mai accaduto prima di allora.
Il viaggio, fatto quasi tutto in treno, era stato noioso e lungo ma il
ragazzo non aveva voluto concedersi troppe pause tra una stazione e
l'altra, anche se spesso si ritrovava a guardare dal finestrino
paesaggi che trovava incantevoli, scorci di cittadine e monumenti che
avrebbe voluto visitare. Tuttavia aveva preferito non perdere tempo e
continuare verso Parigi.
Nelle interminabili ore segnate dal dondolio del vagone e dal
chiacchiericcio degli altri passeggeri, il suo sguardo si era posato
spesso sulla custodia del violino, ma non l'aveva mai toccato e il
quaderno era ancora lì, come il suo personale vaso di
Pandora.
Non aveva toccato quel diario nemmeno durante le soste nelle locande
dove passava la notte, nell'attesa della coincidenza che lo avrebbe
portato qualche chilometro più vicino alla sua meta. In
quelle serate preferiva mettersi a suonare. Suonava per se stesso, ma
non gli dispiaceva lasciarsi ascoltare e così se ne restava
un paio di ore nella sala comune di qualche piccola pensione in qualche
cittadina sconosciuta, a suonare e ad accontentare le richieste che
qualche locandiere o qualche viaggiatore di passaggio gli facevano.
Quando gli andava bene, riusciva a far innamorare di sé una
ragazza, almeno per il tempo di una sera e si ritrovava ad amoreggiare
con qualche giovinetta graziosa sul retro della locanda, guardando il
cielo e chiacchierando del posto da cui veniva o fantasticando del
luogo verso cui era diretto.
Gli piacevano le ragazze. Sua madre avrebbe preferito che si trattasse
di una
ragazza, una qualsiasi, con un nome, dei modi gentili e il dono del
sorriso. Lui per adesso preferiva le
ragazze, senza nomi che occorresse ricordare.
Louis si lasciò cadere sul letto e affondò il
viso tra i cuscini. Le lenzuola odoravano di pulito, ma il materasso
era un po' troppo morbido e la rete cigolava. Tentò di
dormire almeno un'ora, prima di cena, ma non ci riuscì
affatto. C'era un silenzio terribile tra quelle quattro pareti, un
silenzio che sembrava assordante come il peggiore dei rumori e che gli
stava facendo venire un cerchio alla testa.
Il ragazzo si alzò, avvicinò una sedia alla
finestra e continuò a leggere il romanzo che aveva comprato
durante una sosta a Nizza, una vecchia copia rilegata in tela di un
romanzo inglese. L'inglese non era la lingua che gli era più
congeniale, ma impegnarsi in quella lettura aveva fatto trascorrere
molto più velocemente le ore di viaggio e l'attesa in
stazione prima che arrivasse il diretto per Parigi.
L'idea di aprire la custodia del violino e prendere il quaderno non lo
sfiorò nemmeno. Forse domani, si disse. Forse mai.
«E se non fossi affatto pronto, madre?»
mormorò al vuoto.
Sua madre non era il tipo di donna da sbagliarsi su certe cose, lo
conosceva bene e di certo non si era mai sbagliata su di lui. Ma
c'è sempre una prima volta.
Si era assopito sulla sedia, in una scomoda posizione, con il libro che
gli era scivolato di mano. Stava anche cominciando a sognare quando fu
risvegliato da uno schiamazzo di risate proveniente dalla strada.
Scostò la tenda alla finestra, guardò fuori e
scorse un crocchio di ragazzi e giovinette che passeggiava nella strada
laterale all'albergo, parlavano rumorosamente e ridevano. Allora Louis
si ricordò che era a Parigi, che quello era il viaggio che
ogni ragazzo della sua età aveva sognato almeno una volta
nella vita, che poteva essere, tutto sommato, un viaggio di piacere, il
regalo per i suoi vent'anni da poco compiuti.
Mise da parte la stanchezza e la malinconia, si cambiò i
vestiti, pettinò i capelli scuri e lisci – che
aveva deciso di lasciar crescere ma che per ora arrivavano solo fino
alla nuca – e uscì dalla stanza fischiettando tra
sé e sé il motivetto di un'aria lirica.
«Monsieur non cena con noi?» domandò
cortesemente l'albergatore vedendo che era diretto verso il portone.
«Non stasera, grazie» rispose il giovane con un
rapido sorriso, prima di uscire e andare incontro a un tramonto
leggermente velato da una sottile nebbiolina e a un labirinto di strade
e luoghi sconosciuti e affascinanti.
La serata era umida malgrado fosse già aprile inoltrato,
Louis si chiese come faceva la gente a vivere in un posto con un clima
tanto impietoso.
Si infilò in un bar con un'insegna tarlata che recava la
scritta Messidor.
Era un posto del tutto ordinario e anonimo, ma c'era un bel tepore e il
vecchio che suonava la fisarmonica in un angolo stava eseguendo un
motivetto allegro.
Il ragazzo ordinò un bicchiere di cognac e lo
sorseggiò lentamente, guardandosi attorno e origliando i
discorsi degli altri avventori per mettere alla prova il suo francese,
una lingua che conosceva molto bene ma nella quale non si esercitava da
un bel po'.
Dopo diverso tempo, decise che per uscire da quel bar e affrontare
l'aria fredda di quella serata gli serviva un altro goccio di liquore e
considerò che non gli importava se aveva bevuto
già il goccio
di troppo, dopo il quale i pensieri cominciano a mettere
le ali.
Louis ingollò il cognac che gli avevano appena servito e
restò a fissare il bicchiere vuoto con sguardo vacuo.
«Bevete come uno che è triste. Siete triste,
monsieur?» domandò la cameriera, riponendo alcuni
boccali puliti su una mensola.
«Ottima domanda, ragazza».
Cielo, la cameriera doveva avere un paio di anni meno di lui,
perché lo chiamava monsieur?
Aveva davvero l'aria da giovane signore per bene? Forse sì,
era sempre stato un po' vanitoso e, visti gli ambienti che frequentava
in Italia e l'educazione ricevuta, aveva preso l'abitudine a mantenere
un contegno distinto un po' in tutte le circostanze.
Louis uscì dal bar qualche minuto dopo e trovò
comunque molto piacevole camminare senza meta per le strade sconosciute
della capitale francese. La città sembrava non conoscere la
differenza tra il giorno e la notte. Anche il posto da dove proveniva
lui era trafficato ad ogni ora, ma lì il confine tra la
notte il giorno era ben chiaro, anche se non gli aveva mai fatto
particolarmente paura, lui conosceva le ombre della sua
città e sapeva come attraversarle senza esserne danneggiato,
quando cresci in certi luoghi diventa naturale.
Parigi però vibrava di vita attorno a lui, nelle luci dei
lampioni che facevano concorrenza alle stelle riflettendosi sulla
superficie della Senna, nel viavai di passanti. Le voci della
città erano una sinfonia di accenti diversi, turisti e gente
del luogo riempivano le vie o sostavano all'ombra di palazzi maestosi e
imponenti come la storia che avevano visto passare sotto le loro
finestre. A qualche incrocio c'erano degli artisti di strada che
raccoglievano piccole folle, Louis indugiò nel guardarli
tutti per lunghi minuti ogni volta che ne scorgeva qualcuno, e di colpo
si sentì dimentico della nostalgia, della stanchezza e dei
fantasmi che erano ancora in attesa dietro la copertina del quaderno.
Quando il ragazzo fece ritorno in albergo, l'euforia provocatagli
dall'alcol e da quella sensazione di entusiasmo che accompagna sempre
le cose nuove stava ormai scemando, restituendogli amplificato tutto il
senso di spossatezza e quella gelida sensazione di solitudine e
smarrimento che aveva provato solo poche ore prima.
Salutò svogliatamente l'albergatore all'ingresso e
andò a chiudersi in camera, dove si spogliò tra
uno sbadiglio e l'altro.
Spense le luci, dalla finestra entrava un leggero alone dello
scintillio di Parigi che disegnava un'incerta linea di luce attraverso
uno spiraglio tra le tende chiuse. Nel semibuio della stanza, fece per
raggiungere il letto, ma urtò i bauli sul tavolino e la
custodia dello Stradivari che vi era poggiata sopra cadde a terra,
aprendosi e facendo rovinare sul pavimento il suo contenuto.
«Maledizione!». Il ragazzo si chinò a
raccogliere il violino, assicurandosi che non si fosse danneggiato.
Sospirò di sollievo quando vide che la superficie lucida di
abete rosso non aveva nemmeno un graffio. La fascia laterale dello
strumento recava intarsi di madreperla disposti a creare una sobria
decorazione geometrica, sulla parte destra la decorazione si
interrompeva per lasciare il posto a una minuscola scritta in lettere
dorate: Pour Louis.
Il ragazzo ripose il violino nella custodia che posò su una
sedia. Il quaderno era rimasto a terra, accanto ai piedi del tavolo.
Louis scorse la sagoma rettangolare nella penombra, la copertina di
pelle rosa era lisa dal tempo e le decorazioni dorate negli angoli
ormai erano quasi del tutto invisibili.
Avvicinò cautamente la mano all'oggetto che era riverso sul
pavimento, come se temesse di scottarsi toccandolo, lo
sollevò e fece scorrere le pagine di spessa carta ingiallita
contro il polpastrello del pollice.
Era certo colpa della stanchezza, di quel bicchiere di troppo e delle
emozioni della serata appena trascorsa, ma il fruscio dei fogli
sembrò simile a un sussurro che soffiava impercettibile il
suo nome.
«Va bene...» mormorò Louis, accendendo
la lampada sul comodino. Posò il quaderno sotto il cono di
luce giallastra e sollevò la copertina. Le vecchie pagine
avevano un odore appena percettibile, una fragranza dolciastra come di
fiori appassiti. Prima di iniziare a leggere allungò una
mano per cercare a tentoni il suo cappotto, c'era un portasigarette di
argento nella tasca interna. Non era un gran fumatore, molto tempo
prima suo padre gli aveva detto che il fumo rovina la voce. Non che la
cosa fosse rilevante, Louis non aveva una voce particolarmente bella e
non aveva mai avuto attitudine per il canto, solo per la musica. Ad
ogni modo, fumare lo aiutava a distendersi quando era nervoso e in quel
momento sentiva una strana ansia che gli attanagliava lo stomaco e un
senso di irritazione per una circostanza che aveva cominciato a trovare
del tutto inconcepibile.
Ho sempre saputo...
tanto, ho sempre saputo...
Si ripeté che aveva sempre saputo che c'era qualcosa di
drammatico che riguardava la sua famiglia, qualcosa che lui prima o poi
avrebbe dovuto conoscere. Fin da quando lo aveva capito non aveva fatto
altro che aspettare il momento della verità ma ora che il
momento era arrivato si accorse di avere paura.
Tanto non cambia
niente...
Pensò che era tutto inutile. Cosa sarebbe cambiato ormai?
Conoscere o meno il contenuto di quelle pagine non avrebbe fatto alcuna
differenza, non avrebbe aggiunto o sottratto un solo grammo di amore
per la sua famiglia.
Fu tentato di chiudere il quaderno, riporlo in fondo a uno dei bauli e
dimenticarsene fino al suo ritorno a casa. Ma non lo fece
Louis aspirò un lungo tiro dalla sua sigaretta poi
soffiò dalle labbra schiuse una nuvola di soffice fumo
bianco e cominciò a leggere.
La data sulla prima pagina era quella del 2 marzo 1871. Erano scritte
poche righe, in francese, in un corsivo allungato, una calligrafia
elegante ma troppo frettolosa:
Curioso che il primo
dono che io abbia mai ricevuto sia questo diario.
Curioso che mi si inviti
a scrivere quando non ho più parole da dire... ne ho avute
mai?
Ciò che so
è che non ho mai avuto un posto nel mondo, e allora mi
chiedo come mai mi sento così in esilio, così
distante da ciò che credevo mio al punto che ormai neanche
tornare con i ricordi a quello che è stato riesce
più a farmi male.
Non sento niente se non
un vuoto nel quale riecheggiano rimpianti dei quali non
parlerò affinché la loro voce possa zittire.
Non sento nemmeno un
vero e proprio malessere dell'anima. Forse perché il dolore
è per chi ha qualcosa da perdere e io ho già
perso tutto (compresa la mia anima, evidentemente).
È stato per
una donna, per...
Louis corrugò la fronte.
A quel punto della frase c'erano dei segni imprecisi, come se la mano
di chi scriveva avesse improvvisamente avuto un tremito fortissimo, e
su quelle lettere sformate c'erano diversi segni di cancellatura. Il
proprietario del diario era andato a capo e aveva ripreso a scrivere.
Non scriverò
quel nome, né mai lo pronuncerò. Quali e quanti
che siano i giorni che ho da vivere saranno nuovamente solo miei.
Il ragazzo si morse le labbra a sangue. Non gli piacevano quelle
parole, non solo per la tetra malinconia che trasmettevano, ma anche
per i sottintesi che lasciavano intuire e per tutto quello che non
lasciavano capire. Cosa era accaduto? Per quale donna?
Perché?
Louis aveva atteso a lungo di conoscere la storia di suo padre e lui
ora non c'era più, tutto ciò che restava della
verità da cui lo avevano sempre voluto proteggere
– così dicevano – era un diario in cui
già dalla prima pagina non c'erano altro che omissioni.
Il ragazzo scagliò via il quaderno con rabbia, l'oggetto
urtò il muro e cadde, alcune pagine si staccarono dalla
rilegatura e volarono lontano.
Il giovane restò a fissare i fogli immobili sul pavimento e
la copertina di pelle ora ammaccata in un angolo.
Aveva amato quell'uomo, aveva amato suo padre. Questo fu l'unico motivo
che lo spinse ad alzarsi, raccogliere il diario e le pagine staccate e
riporre tutto sul comodino prima di scivolare in un sonno profondo e
senza sogni.
*******
~ Napoli, 02 marzo 1871 ~
Una volta, aveva costruito il suo mondo dal silenzio e dal buio,
riempiendolo della sua musica e dello sfavillio delle candele che
riflettevano le loro fiamme negli specchi.
Una volta era bravo a combattere il nulla e a trarne piccole, personali
magie, prodigio dopo prodigio, notte dopo notte, lacrima dopo lacrima.
Poteva farlo, un tempo, con la forza di chi cela dentro di
sé così tanto ingegno, così tanta
immaginazione da far tremare le stelle.
Ora quel mondo che non era il suo, quella città straniera
tentavano di invadere il nulla che aveva dentro, l'ultimo baluardo
contro la pazzia che aveva minacciato di distruggere quel po' che
restava di lui.
Come ogni mattina, furono i rumori della strada a svegliarlo. Erik
aprì gli occhi su quella camera elegante, presa da assedio
da un sole tiepido e smagliante come un sorriso finto. Da quando era
giunto in quel posto aveva dovuto abituarsi a molte cose e quello di
cambiare abitudini non era uno dei suoi talenti migliori. Il solo fatto
di trovarsi in una casa dannatamente piena di luce e di gente, un
palazzo nobiliare nel centro di Napoli, lo rendeva irrequieto.
Non che avesse mai incontrato quella gente, comunque: sia i domestici
sia gli ospiti di Palazzo Giusso non mettevano piede in quelle stanze,
su perentorie istruzioni del duca. Mariano Giusso era convinto che gli
servisse tempo e glielo stava concedendo in gran quantità. I
giorni passavano senza peso e senza volto, ed erano già
quasi due settimane che era lì.
Come se fosse una
questione di tempo!
«Avete mai visto uno specchio rotto ricomporsi?»
aveva chiesto a bruciapelo al duca, in uno di quei pomeriggi in cui il
nobiluomo veniva a fargli visita e trascorreva lunghe ore in silenzio,
in attesa che lui parlasse.
«Avete mai visto miracoli avvenire senza la fede?»
aveva replicato il suo ospite.
Erik non aveva risposto. La fede era una faccenda che non lo
riguardava, era una dote che non possedeva ed era certo che, se anche
ci fosse stato qualcuno in grado di compiere qualche miracolo, non
sarebbe stato lui a beneficiarne.
L'istinto invece, quello sì che ne aveva. Era stato
l'istinto a convincerlo a lasciare la Dimora sul Lago, un attimo prima
che la folla inferocita che si era riversata nei sotterranei dell'Opera
lo raggiungesse. Quando si era risvegliato in quella camera da letto,
giorni dopo, aveva maledetto se stesso e ogni singolo passo che lo
aveva condotto lontano da quella gente e dalla loro rabbia.
Non era stata una sua scelta quella di essere salvato ed essere portato
via da Parigi. Del viaggio in nave non conservava quasi alcun ricordo,
nelle poche ore in cui era stato vigile aveva sentito solo la sua pelle
bruciare e la gola ardere, per tutto il tempo la febbre non gli aveva
lasciato tregua. Poi si era semplicemente risvegliato, con la testa
pesante e lo sguardo appannato, e aveva capito di essere lontano,
lontanissimo da tutto ciò che aveva conosciuto. Questa
consapevolezza gli aveva dato le vertigini, poi lentamente era
affiorato il nulla, il ricordo che di quel suo mondo non era rimasto
niente. Nemmeno il buio, forse, nemmeno il silenzio. Solo frammenti di
illusione e pezzi di vetro sulla pietra nuda.
E a lui adesso non rimaneva nemmeno il dolore. Non si piange la perdita
di qualcosa che non si è mai posseduto.
Dopo tutto ciò che aveva sempre sperato, con tutto
ciò che aveva desiderato fino a smarrire la ragione, aveva
ottenuto solo cose che non gli occorrevano. La salvezza e l'aiuto di un
brav'uomo erano cose importanti ma a lui non servivano. Lui non...
Io non le merito.
Aveva passato alcuni giorni a letto, a riprendersi dagli strascichi
della malattia. Poi semplicemente aveva preso atto della sua condanna:
essere vivo.
Le lunghe visite del duca, durante le quali restava semplicemente
seduto vicino a lui senza dire nulla, stavano cominciando a diventare
fastidiose.
Dentro di sé, Erik sapeva che avrebbe dovuto essere grato a
quell'uomo e non aveva intenzione di incolparlo della delusione che
provava nel sentire il proprio cuore battere ancora.
La coscienza fa fare cose strane e assurde, come aiutare un folle
assassino o lasciare andare la donna che si ama proprio in nome
dell'amore.
Erik sapeva che prima o poi avrebbe dovuto trovare delle parole per il
duca e, miracoli o meno, avrebbe anche dovuto prendere una decisione su
cosa fare e su dove andare.
E poi c'erano le visite della ragazzina. La piccola Luisa compariva
spesso nella sua stanza, con la caparbietà dei bambini che
credono che tutto si possa risolvere, che vedono il mondo come una
favola in cui a tutti spetta un lieto fine.
Il primo giorno in cui era venuta da lui, Luisa gli aveva chiesto, a
suo modo, di cantare.
«Non oggi... e nemmeno domani. Mai più»
le aveva risposto lui. E lo aveva detto con il tono di un giuramento,
come se fossero parole incise su una lapide, eterne e definitive.
L'Angelo della Musica era morto quando la fanciulla che lo aveva
chiamato a sé anni prima se n'era andata lasciandolo solo
con la sua disperazione e con la sua sconfitta.
Il giorno dopo Luisa era tornata e gli aveva chiesto di nuovo di
cantare. Lui le aveva detto di no ancora una volta, senza nemmeno
voltarsi a guardarla, continuando a fissare dalla finestra il cielo che
si tendeva verso la primavera in arrivo.
Il terzo giorno la bambina si era presentata nella sua stanza con un
violino, era vecchio e impolverato, forse apparteneva a qualche parente
che non c'era più ed era rimasto a lungo chiuso da qualche
parte.
Doveva volerlo a tutti i costi il suo lieto fine quella ragazzina
caparbia.
«No» aveva detto lui lanciando un'occhiata torva
allo strumento.
La piccola aveva annuito e aveva poggiato il violino sul piano di un
mobile poi, come faceva ogni volta, si era seduta alla finestra, di
fronte a lui, e si era messa a guardare la strada fino a quando
qualcuno non l'aveva chiamata per dirle che era ora di cena.
Il quarto giorno, quando Luisa era tornata, Erik le aveva detto che il
violino era scordato e che una delle corde era sul punto di spezzarsi.
Lei aveva fatto un sorriso furbo e l'uomo le aveva rivolto
un'occhiataccia.
Il quinto giorno Erik aveva suonato per lei. E aveva pianto.
Quando quel pomeriggio Luisa tornò a fargli visita, Erik
capì subito che aveva qualcosa nascosto dietro la schiena,
ma finse di non accorgersene.
La ragazzina era ancora convinta di potergli regalare un lieto fine in
qualche modo e Erik non aveva alcuna arma per persuaderla del contrario.
Dopo aver lanciato uno sguardo preoccupato al vassoio con il pranzo che
non era stato toccato, la bambina saltellò fino alla sedia
su cui era seduto e gli mostrò cosa aveva per lui. Era un
oggetto rettangolare, avvolto in un paio di strati di carta velina.
«Ti ringrazio» mormorò Erik con aria non
troppo convinta.
Il pacchetto conteneva un grosso quaderno rilegato in pelle rossa, con
dei ghirigori dorati negli angoli della copertina. L'uomo lo
guardò senza capire.
Luisa prese un foglio dallo scrittoio e tracciò una parola a
matita.
«Diario?» fece Erik perplesso. «Io non
scrivo diari. Non credi che sia sciocco?».
La bambina arricciò il naso in un'espressione crucciata e
scosse energicamente la testa, poi si batté l'indice sul
petto.
«Ne hai uno anche tu?» chiese Erik, lei
annuì. «E non credi che io sia... troppo
grande?».
Luisa sbuffò e prese un altro foglio e scrisse a grandi
lettere, calcando il tratto con gesti stizziti:
SERVE PER PARLARE CON TE STESSO QUANDO NON SI PARLA CON GLI ALTRI
TU NON PARLI MAI CON GLI ALTRI
«Non ho bisogno di parlare con me stesso»
protestò Erik.
La ragazzina lo guardò con occhi sottili e
dondolò la testa coma a dire: sì, invece!
L'uomo sospirò. Un tempo, in quella primavera di due anni
prima, gli era piaciuta la compagnia di quella bambina, gli piaceva
ancora ma cominciava a rendersi conto che ciò che lo turbava
di quella situazione era il fatto che Luisa e suo padre nutrivano delle
speranze per lui e a Erik la speranza ormai sembrava solo una tortura.
Ah, se solo avessero potuto guardargli dentro, avrebbero scoperto che
non aveva più un cuore né un anima. Non era
cambiato nulla da quella notte a Parigi, restava soltanto...
… soltanto la
musica.
Restava la musica – glielo aveva dimostrato quella piccola
peste cocciuta. E un quaderno pieno di pagine bianche che lui non
sapeva come riempire.
Non parlava con gli altri perché non aveva nulla da dire
– e in ogni caso non era una cosa alla quale era avvezzo, non
poteva parlare con se stesso perché non aveva più
voce. Dopo tutti quegli anni in cui la sua anima aveva urlato e
implorato per farsi ascoltare da un Dio assente, non gli rimaneva
più fiato.
Lo sguardo di Luisa si era fatto penetrante, colmo di attesa, e aveva
ben poco di infantile. Quella ragazzina era cresciuta in fretta e non
doveva essere stato facile crescere senza voce e senza madre. Di certo,
quando si è costretti a stare in silenzio si impara ad avere
la pazienza di comprendere e di ascoltare. Ma Erik non aveva nulla da
dirle o da farle capire.
«D'accordo. Lo metto qua» concesse posando il
quaderno sullo scrittoio. «Se mi verrà voglia di
parlare con me stesso lo farò».
La ragazzina inclinò la testa di lato e sbatté le
palpebre.
«Promesso» aggiunse l'uomo.
*
Era ormai sera inoltrata e Erik sentiva il sonno cominciare a
bruciargli gli occhi. Non amava dormire, non gli piaceva l'idea
trascorrere ore di inattività e quasi odiava il fatto di
avere bisogno di riposo, come tutti gli altri.
Era abituato a non dormire molto, era quasi come un'abilità
coltivata nei giorni in cui la sua vita era fatta di note su uno
spartito, quei lunghi mesi dedicati alla stesura di un'opera, il Don
Juan Trionfante, il suo stesso sangue fatto musica e poesia. Un
componimento che parlava del trionfo del peccato, della vittoria
dell'inferno sul paradiso e della passione su ogni altra istanza.
Poteva restare un giorno e una notte seduto al suo organo a scrivere,
senza mangiare, senza preoccuparsi di niente, senza rammentarsi di
nulla. Quando aveva completato la stesura di quell'opera era stato
certo che non sarebbe mai più riuscito a comporre musica,
anzi, era stato così sicuro che tutto il suo sangue fosse su
quegli spartiti tanto da sentire il cuore saltare un battito dopo
l'altro, e non gli era importato: aveva finito, poteva anche andarsene,
poteva anche smettere di preoccuparsi del buio. Ma invece il suo cuore
stava battendo, batteva per una fanciulla.
Il Figlio del Diavolo aveva osato posare lo sguardo su una delle
migliori creature di Dio.
Come aveva potuto essere così sciocco da non capire che
tutto ciò sarebbe stata la sua fine? Come aveva potuto
concedersi di sperare?
La mente di Erik mise da parte quelle domande, non aveva senso
tormentarsi oltre, non occorreva cercare risposte che non gli sarebbero
state più di alcuna utilità.
L'aveva amata... l'amava, l'avrebbe sempre amata. Era
una consapevolezza talmente potente e così ingombrante nella
sua testa da non aver bisogno di altri pensieri, di non aver bisogno
nemmeno del ricordo.
L'eloquenza di quell'amore riusciva a sopraffare persino le immagini di
morte che popolavano i suoi incubi, era un canto che si innalzava al di
sopra della sinfonia di distruzione che intonava la sua mente ogni
volta che il Fantasma dell'Opera tentava di guardarsi alle spalle.
L'uomo chiuse gli occhi e si beò semplicemente della quiete
che regnava attorno a lui. Durante il giorno c'era sempre rumore, ma
ora c'era solo buio e silenzio, proprio come la volta precedente in cui
aveva cominciato a lottare contro il suo destino.
Senza più curarsi del sonno e della stanchezza, Erik accese
la lampada sullo scrittoio e guardò il quaderno che gli
aveva regalato Luisa, accarezzò la copertina di pelle liscia
e morbida al tatto e si lasciò sfuggire uno strano ghigno.
C'erano tante pagine bianche in quel diario, e regalarglielo non era
stato un invito a scrivere il suo lieto fine, era stato come augurargli
di avere una vita con cui riempirle, di prorogare il finale ancora
molto a lungo. Erik si accorse di non volere davvero una vita, ma
ancora una volta avrebbe strappato al mondo tutto il sole che poteva e
avrebbe nutrito la sua personale notte senza fine. Se proprio doveva
continuare a camminare sulla quella terra maledetta privo di anima,
allora lo avrebbe fatto seguendo la sua strada.
Sollevò la copertina, intinse la penna nel calamaio e
cominciò a scrivere.
Curioso che il primo
dono che io abbia mai ricevuto sia questo diario...
___________________________________
Here,
I have a
note...
I
Giusso erano una ricca
famiglia nobiliare italiana di origini genovesi che si
trasferì a
Napoli agli inizi del 1800. Il loro palazzo, acquistato dal duca Luigi
Giusso, è ancora lì
ed è attualmente la sede dell'Università
Orientale, uno degli
atenei di Napoli. Nella seconda metà dell'800 il loro nome
era
parecchio influente a Napoli, infatti a partire dal 1878 Girolamo
Giusso fu sindaco della città e poi ministro e senatore del
Regno
d'Italia. Il duca Mariano Giusso e sua figlia, nonostante siano
collocati nel vero palazzo, sono comunque di mia
invenzione (come tutti gli altri personaggi originali che
compariranno nella storia).
La
storia è molto avanti sul mio pc, per cui pensavo di postare
regolarmente un capitolo a settimana. Ci si legge mercoledì
prossimo!
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 3 *** L'Angelo della Musica ***
Capitolo secondo
L'Angelo della Musica
~ Napoli, 07 marzo 1871~
Guglielmo Marchesi sperò di morire fulminato nello stesso
istante in cui aprì gli occhi. Il dolore alla testa era
davvero lancinante e la stanza ondeggiava sotto il suo sguardo ancora
velato di sonno e spossatezza.
Si girò di schiena, scalciando via le lenzuola di seta e
sentì una stretta attorno al collo. Allungò una
mano a toccarsi la gola e si accorse di avere ancora la cravatta
annodata, anzi di essere praticamente ancora vestito dalla testa ai
piedi, anche se i suoi abiti ormai erano un ammasso bistrattato di
pieghe, maleodorante di alcol e di fumo.
Anche lui si sentiva un ammasso di pieghe maleodorante.
Si strappò la cravatta e la lanciò via.
Deglutì più volte e si umettò le
labbra, poi si stropicciò il viso e si decise a guardarsi
attorno anche se la poca luce che entrava dalle finestre gli feriva gli
occhi come se stesse tentando di fissare il sole di mezzogiorno.
Riconobbe di essere nella sua camera da letto e lo
interpretò come un buon segno, anche se non era altrettanto
buono il fatto che non ricordava come e quando vi aveva fatto ritorno
la sera precedente.
Nella sua testa martoriata dai postumi della sbornia si
disegnò l'immagine del suo amico che gli versava l'ennesimo
bicchiere di liquore, rispondendo ai suoi gesti di diniego con
sardoniche esclamazioni riguardo al fatto che a trent'anni si
è ancora abbastanza giovani da reggere una bevuta come si
deve.
In realtà, in quei suoi trent'anni di onesta esistenza su
quella terra, Guglielmo non aveva mai avuto occasione di farsi molte
bevute come si deve,
per questo non era poi così abituato a reggerle quando si
presentava la circostanza.
Sperò che sua madre non lo avesse visto rientrare ubriaco
fradicio – a trent'anni non ci si dovrebbe preoccupare
nemmeno di cose simili, pensò, ma le sue erano circostanze
particolari. Ad ogni modo, quella sua speranza finì delusa
quasi subito.
Una violenta bussata alla porta fece eco tra le sue tempie doloranti,
l'uomo si mise a sedere in mezzo al letto e avvertì un
violento conato di vomito.
«Sarà meglio che tu esca da questa stanza con una
buona spiegazione per l'indicibile stato in cui i tuoi amici ti hanno
riportato a casa stanotte... anzi, dovrei dire stamattina».
La voce di sua madre suonò come una tromba dell'Apocalisse
tra le pareti affrescate della camera.
Una spiegazione, in realtà, Guglielmo l'aveva anche se non
era certo di poterla condividere con qualcuno, meno che mai con sua
madre.
Aveva saputo che un certo ambasciatore straniero sarebbe venuto in
visita lì a Napoli con la sua famiglia tra due mesi e che
nel periodo in cui sarebbe stato ospite della città
partenopea cadeva il compleanno della sua adorata figliola, la quale
aveva chiesto, come regalo, di essere portata al teatro San Carlo. La
cosa poteva anche non essere eccessivamente drammatica, non fosse che
la cara ragazza aveva espresso il desiderio di vedere rappresentata
quella sera la sua opera preferita della produzione lirica italiana, La Traviata del
maestro Verdi. Il sindaco di Napoli si era messo in contatto con il
direttore del San Carlo e aveva chiesto – o per meglio dire,
ordinato – di sospendere qualsiasi altra attività
e di dedicarsi unicamente a preparare un'imponente, stupenda, moderna,
straordinaria rappresentazione de La Traviata, senza badare a spese e
assicurandosi che tutto andasse bene, che ogni cosa fosse perfetta e
bellissima...
Anche questo non avrebbe dovuto essere particolarmente drammatico per
Guglielmo, non fosse che il direttore del San Carlo, al momento, era
proprio lui. E lo era soltanto perché suo padre aveva smosso
mari e monti – e anche più che discrete somme di
denaro – perché lo diventasse, dopotutto nessuno
poteva dire di no al signor Bruno Marchesi, il più grande
banchiere di Napoli, nemmeno suo figlio.
Ad essere onesti, Guglielmo non era bravo a dire di no in generale. E
ora si era ritrovato impigliato mani e piedi in quella situazione. La
richiesta del sindaco non era in realtà così
assurda, ma per mettere in scena una straordinaria rappresentazione di
un'importante opera lirica occorreva un direttore di teatro capace,
cosa che lui non era.
E questo era più o meno il motivo che lo aveva abbattuto
tanto da convincerlo ad alzare il gomito la sera prima, unitamente al
fatto di aver ormai classificato come impossibile e irrealizzabile il
suo sospiroso amore platonico per la primadonna del teatro che tentava
tanto maldestramente di dirigere.
Vinto dalla sconforto, Guglielmo si lasciò cadere sul
guanciale e riprese a dormire fino a quando sua madre non
entrò per svegliarlo, battendogli sul naso una busta da
lettere.
«Quando avrai la decenza di alzarti e renderti
presentabile,» gracchiò la donna, «spero
che tu voglia ricordarti di questo».
La signora Giovanna Marchesi era un'imponente donna di
mezz'età, una vera e propria matrona che sentiva su di
sé tutto il peso e l'eroico orgoglio di essere la madre di
tre figli maschi. Lanciò la busta da lettere contro il suo
terzogenito e si portò le mani ai fianchi, in attesa che
questi desse segni di vita.
«Scusate, mammà»
biascicò Guglielmo tentando di mettersi in piedi, sperando
di non vomitare sulla gonna della signora Marchesi. «Sapete
com'è, queste serate tra amici...».
Lei gli riservò il peggiore dei suoi sguardi torvi e gli
indicò la lettera.
«È per stasera, alle sette. Ti faccio notare che
sono già le tre del pomeriggio, pensi di farcela?»
borbottò.
«Senz'altro» mentì l'uomo, spaesato. Non
aveva idea di cosa ci fosse in quella lettera, né sapeva se
si sarebbe ripreso in tempo per le sette di quella sera, ma avrebbe
detto qualsiasi cosa pur di far uscire sua madre dalla sua stanza e
avere qualche altra ora di quiete.
Quando la donna lo lasciò solo, Guglielmo andò a
sciacquarsi il viso e chiese ai domestici di preparargli un bagno e dei
vestiti puliti, poi prese la lettera che aveva lasciato su letto e
scoprì di conoscere già il suo contenuto, aveva
già letto quel biglietto, ma in quel momento faceva fatica a
rammentare persino il proprio nome. Si trattava di un invito alla festa
di compleanno del duca Giusso, e nel rileggere il messaggio uno strano
pensiero gli balenò nella testa ancora dolorante. Il duca
conosceva un sacco di gente brava e capace nel panorama artistico della
città e forse avrebbe potuto dargli qualche consiglio su
come rendere meno drammatica la sua personale tragedia incombente.
*
Erik riuscì a sento a trattenere un ghigno compiaciuto
quando il duca, in piedi alle sue spalle, mormorò con voce
flebile e incrinata dalla sorpresa: «Come avete
detto?».
Si voltò a guardarlo senza tradire alcuna particolare
emozione,
«Ho detto che verrò senz'altro»
ripeté.
«Ah, dimenticavo che siete un uomo che ama stupire»
commentò Giusso con un sorriso titubante.
Sì, gli piaceva stupire. Gli piaceva costruire lo stupore e
poi scagliarlo contro la gente. Era facile quando c'era un teatro
intero che riusciva a piegare al suo volere, quando il suo genio
riluceva nei colori di una scenografia o nel raso di un costume di
scena. Era facile quando aveva dalla sua parte le armi della paura e la
protezione delle ombre e delle botole.
Adesso non sarebbe stato altrettanto facile, non era più in
casa sua e avrebbe dovuto sottostare alle regole di un gioco che non
aveva architettato lui – almeno per il momento. Adesso era
lui che aveva paura perché la scelta che aveva compiuto lo
avrebbe portato a entrare in quel mondo che egli stesso aveva temuto
più di quanto era riuscito a terrorizzare.
Ma non aveva perso le sue attitudini né la
capacità di sfruttare le situazioni a proprio vantaggio e
trasformare i suoi timori in una corazza che lo rendeva inattaccabile.
Era ancora il Fantasma dell'Opera, era ancora il Figlio del Diavolo. Ma
questa volta il mondo non avrebbe potuto costruirgli attorno
più nessuna prigione.
Non sarebbe stato facile, ma ogni scelta che aveva preso prima di
allora lo aveva portato inesorabilmente verso la disfatta. Ora, che di
scelte non ne aveva, poteva concedersi di credere alla fortuna o a
qualcosa di simile.
«Mi avete aiutato quando avevo alle calcagna una
città intera che mi odiava» continuò
con voce pacata, imprimendo a quelle parole tutto il calore e il
sentimento di cui era capace.
La sua voce, che straordinario strumento poteva essere! Con che
maestria poteva fingere, con che potenza poteva ammaliare, con quale
dolcezza poteva sedurre e assoggettare.
«Mi avete aiutato ed è ora che io tragga qualche
frutto dalla bontà che mi avete riservato»
concluse.
Il duca aveva l'aria di qualcuno che era stato colto alla sprovvista.
Quell'uomo non era sciocco e forse non gli voleva credere fino in
fondo.
«Perché lo fate?» domandò
corrugando la fronte.
«Mi avete parlato così a lungo dei miracoli. Se ci
fosse una motivazione da cercare non sarebbero tali»
replicò Erik.
«Quand'è così, ne sono
lieto».
Erik accennò un sorriso, il duca sembrò davvero
contento mentre lasciava la sua stanza. Dopotutto aveva organizzato la
sua festa di compleanno in modo che il suo ospite fosse parecchio
incentivato a prendervi parte.
Dopo pranzo, Luisa venne a fargli visita. Suo padre doveva averle detto
che aveva invitato il loro strano ospite alla sua festa di compleanno e
lui aveva accettato di presenziare al ricevimento, perché la
ragazzina sembrava raggiante. Entrò nella stanza e gli corse
incontro, quando gli fu vicino lo abbracciò. La testa
ricciuta della piccola arrivava appena sotto il petto di Erik.
Lui restò interdetto per un attimo, non gli piaceva essere
toccato e la ragazzina non aveva mai osato tanto, nemmeno in quei
giorni lontani di due anni prima. Posò le mani sulle spalle
di Luisa e la staccò delicatamente da sé. Ad ogni
modo, non gli dispiacque averle dato l'idea di quel tanto sospirato
lieto fine che lei cercava, non gli dispiacque vederla sorridere
contenta: far sorridere qualcuno era più di quanto fosse mai
riuscito a fare prima di allora.
«Ascolta, dovresti fare una cosa per me, puoi?» le
chiese.
Luisa annuì con aria convinta, Erik le fece cenno di sedersi
e cominciò a spiegarle che c'erano alcune di cose di cui
avrebbe avuto bisogno per la serata.
*
A Mariano Giusso piacevano molto le feste, gli piaceva avere gente
attorno e vedere casa sua riempirsi di amici. Alcuni erano amici
sinceri, altri un po' meno, ma a lui non importava, non quella sera.
La sala più grande del palazzo era stata tirata a lucido e
addobbata con ghirlande di fiori – un'idea di Luisa. I
domestici si stavano dando un gran da fare per rifornire gli ospiti di
vino e cibarie mentre una piccola orchestra in abito bianco suonava
sistemata su un rialzo tappezzato di velluto.
Tutta l'alta società di Napoli era presente a quel
ricevimento, ma non c'erano solo nobiluomini, dame e signori benestanti
tra gli invitati, c'erano anche gli artisti a cui Mariano Giusso aveva
fatto da mecenate in quegli anni. Tuttavia, chi fossero i presenti non
aveva particolare importanza: il salone del palazzo era un tappeto di
maschere colorate e vestiti vistosi, volti di satiri e di animali,
crinoline, veli, raso e merletti.
Il duca non avrebbe potuto festeggiare il suo compleanno in maniera
meno originale. Con i suoi invitati aveva accampato una scherzosa scusa
riguardo al fatto che si era perso i festeggiamenti del Carnevale
mentre era in Francia e, anche se non si trattava totalmente di una
scusa, c'era un altro più valido motivo per quella scelta
che era apparsa tanto bizzarra.
Il duca cominciava a chiedersi come mai Erik non si fosse ancora
presentato. I festeggiamenti erano cominciati da più di
un'ora e di lui non c'era nessuna traccia. Forse ci aveva ripensato,
forse era arrivato fino alla soglia del salone e si era lasciato
spaventare dal cicaleccio della piccola folla raccolta nella stanza.
Perché in fin dei conti quell'uomo aveva paura, il duca lo
sapeva bene, anche se quella mattina, quando gli aveva detto che
sarebbe venuto al ricevimento, aveva visto uno strano lampo nel suo
sguardo, una luce che non aveva più rivisto da quando lo
aveva condotto via da Parigi, quella scintilla di arguzia e furia che
segnava il confine tra l'uomo che si celava dietro la maschera e
quell'essere oscuro e terribile che era il Fantasma dell'Opera. Che era
stato il Fantasma dell'Opera, così Mariano Giusso ripeteva a
se stesso, certo che quell'essere fosse morto una vola per sempre
nell'incendio che aveva distrutto il teatro. Dopotutto, non era
più Parigi, non c'era più alcuna Opera e forse i
fantasmi avrebbero potuto sparire un giorno, sotto il bel sole di
Napoli. Così almeno voleva credere il duca, era
ciò che gli serviva per dimenticarsi di quello che aveva
visto quella stessa mattina mentre parlava con Erik.
Era così assorto nei suoi pensieri che quasi non si accorse
della mano che gli aveva afferrato il braccio. Sussultò
rischiando di far cadere il suo calice di vino.
«Guglielmo! Mi avete spaventato»
mormorò, riconoscendo dietro un'elaborata maschera di
cartapesta dorata il figlio più giovane del banchiere Bruno
Marchesi che gli si era appena aggrappato al braccio.
«Scusate, signor duca. Io mi chiedevo se posso parlarvi un
minuto» disse questi.
«Ma certamente».
Giusso pilotò il suo ospite in un angolo del salone. Gli
aveva sempre fatto una certa tenerezza quel povero figliuolo che aveva
passato la vita ad assecondare i suoi assillanti e ambiziosi genitori,
portando sulle spalle il peso del successo dei due fratelli
più grandi. Il maggiore dei figli del banchiere Marchesi
avrebbe ereditato il posto e il prestigio di suo padre e aveva
contratto un ottimo matrimonio, portando altro denaro alle casse della
famiglia e ulteriore lustro al loro nome, il secondogenito aveva
intrapreso invece la carriera militare e stava facendo strada
nell'esercito sabaudo. A Guglielmo era tocca l'arte, così
avevano voluto suo padre e sua madre, e poco era importato se il
ragazzo non aveva un particolare talento: il signor Marchesi sembrava
davvero convinto che il denaro potesse comprare anche quello. Guglielmo
aveva frequentato il conservatorio di San Pietro e si era diplomato in
pianoforte. Suonava discretamente e aveva anche una certa attitudine al
canto, ma non era speciale nella misura in cui la sua famiglia avrebbe
voluto che fosse. Poi suo padre aveva avuto quella balzana idea di
fargli riempire a tutti i costi il posto da direttore del teatro San
Carlo, lasciato vacante da un uomo eccellente che si era ritirato il
mese prima per motivi di salute.
A Guglielmo il teatro piaceva e certamente aveva a cuore la musica, ma
non aveva affatto la stoffa, le competenze e nemmeno i nervi per
dirigere una delle più prestigiose culle dell'arte canora
italiana.
«Perdonatemi, signor duca, ma mi vedo costretto a chiedere il
vostro aiuto» disse il giovane Marchesi, abbassando la
maschera e guardandosi attorno con aria circospetta per assicurarsi che
nessuno dei presenti ascoltasse quella conversazione. «Il
sindaco mi ha chiesto di mettere in scena un'opera in occasione della
visita di un diplomatico straniero, io naturalmente voglio
accontentarlo ma si da il caso che non... beh, non mi sento ancora
molto a mio agio in questa veste di direttore del teatro e temo che
potrei non essere all'altezza delle aspettative, e...
insomma...».
Guglielmo deglutì nervosamente. Una sfumatura molto intensa
di rosso stava salendo dal colletto della sua camicia e gli stava
colorando la faccia, le orecchie erano già di uno smagliante
color porpora quando il duca decise di toglierlo dall'imbarazzo.
«Ma certo, capisco perfettamente» disse con un
sorriso gentile, rivolgendogli una lunga occhiata complice.
«Sono certo che tra le mie conoscenze c'è qualcuno
che potrà aiutarvi in questa impresa, senza rivelarsi
eccessivamente invadente. Lasciatemi solo il tempo di pensare a chi
è la persona più adatta».
«Oh, certo. Certamente duca, vi ringrazio...». Il
rossore stava lentamente abbandonando il volto di Guglielmo e ora il
giovane figlio del banchiere cominciava a sorridere in una maniera un
po' più rilassata.
Il duca gli batté amichevolmente una mano sulla spalla.
Stava per dirgli di continuare a godersi la serata quando vide con la
coda dell'occhio sua figlia Luisa, in uno sfarzoso costume da
Colombina, attraversare la sala facendosi largo a fatica tra i
presenti. Giusso seguì con lo sguardo la ragazzina mentre
saliva sul palchetto dove erano sistemati i musicisti.
Luisa sollevò le braccia, agitò le mani coperte
da guanti di pizzo scuro, ma ci volle qualche minuto prima che
l'orchestra capisse e si decidesse a interrompere la musica.
Nello stesso istante in cui i musicisti smisero di eseguire il valzer
che erano intenti a suonare, uno strano e innaturale silenzio
calò sulla sala. Le coppie che stavano danzando si fermarono
interdette e tutti guardarono perplessi in direzione del piccolo palco
allestito in fondo alla sala.
Al duca bastarono una manciata di secondi per capire, comprese ancora
prima di vedere la figura che stava salendo sul palchetto facendosi
spazio tra i musicisti.
Era vestito completamente di nero, con un mantello di pesante velluto
color sangue drappeggiato sulle spalle che faceva apparire la sua
elegante figura ancora più imponente. Aveva qualcosa di
magnetico e terrificante, con quegli occhi che sembravano catturare la
luce delle candele e quella mezza maschera bianca che ricalcava con
precisione la fisionomia della porzione di volto scoperto.
C'era un violino tra le mani dell'uomo.
Il duca provò uno strano fremito, fu solo un attimo, poi si
riscosse e passò in rassegna con lo sguardo tutti i
presenti. Erano certamente stupiti, alcune donne fissarono l'ospite
appena arrivato in attesa che il suo sguardo si posasse su di loro, ma
lui non guardò nessuno. Con un gesto garbato
allungò la mano verso Luisa che era rimasta in piedi sul
ciglio del palco, le dita sottili della bambina si posarono sul palmo
grande dell'uomo che l'aiutò a scendere, poi lui fece un
profondo inchino verso i presenti, si appoggiò il violino
sulla spalla e cominciò a suonare.
Le note alte e vibranti di quel bolero riempirono l'aria, scivolando
come pioggia sulle persone raccolte nel salone. Per qualche secondo
nessuno si mosse, poi lentamente le coppie ripresero a ballare, tutti
gli altri semplicemente ascoltavano.
Dopo lunghi minuti la musica cessò, sfumando lentamente in
un silenzio che durò appena un battito di ciglia, prima che
la sala esplodesse in un applauso ammirato.
L'uomo ripeté il suo inchino ai presenti, ne rivolse un
altro in direzione del padrone di casa, poi si voltò e
uscì dalla sala senza fermarsi a parlare con nessuno.
Il duca conosceva i prodigi di quella musica, le cose straordinarie che
gli strumenti erano in grado di fare sotto il tocco di quelle dita e si
ritrovò quasi a ridere per l'euforia che quella strana
incursione gli aveva fatto provare. Da Erik non ci si poteva aspettare
un'entrata meno trionfale di quella.
Luisa si accostò a suo padre e lo tirò per la
manica. Lui la guardò continuando a sorridere e lei gli
lanciò un'occhiata furba.
«Sì, cara, mi è piaciuta moltissimo la
sorpresa» disse il duca.
Guglielmo Marchesi si avvicinò al padrone di casa, uno
sguardo stranito faceva capolino dai fori della sua maschera,
«Signor duca, chi era quell'uomo?»
domandò.
È l' Angelo
della Musica, avrebbe voluto rispondere Giusso.
«Credo che sia la vostra persona
più adatta, amico mio»
dichiarò invece con un sorriso ammiccante.
*
“Masquerade!
Paper faces on parade.
Masquerade!
Hide your face so the
world will never find you!”
Si chiuse la porta alle spalle e sospirò. Le note che aveva
appena suonato gli rimbalzavano nella mente, aprendo squarci nella tela
dei ricordi attraverso i quali poteva rivedere la sfavillante e
imponente bellezza del foyer dell'Opera illuminato a giorno da una
miriade di candele, la bolgia di volti mascherati e la baraonda di
persone lanciate nel turbinio della danza.
Quello era il suo mondo, il suo dominio, del quale non rimaneva altro
che un sordo rimpianto e il sentore di un'assenza che aveva
già cominciato a inaridirlo.
Dovette ammettere con se stesso che ora era letteralmente scappato
dalla sala e che la fuga non era da ritenersi una soluzione praticabile
in futuro, ma non aveva voglia di parlare con nessuno. Non avrebbe mai
voluto parlare con nessuno, in effetti, voleva solo riprendersi la sua
musica.
Per fortuna nemmeno il duca si fece venire in testa l'idea di venirlo a
cercare ed Erik decise che per quella sera poteva bastare.
Salì le scale che portavano al piano superiore del palazzo,
dove c'erano le camere da letto. La casa era vuota e si faceva sempre
più silenziosa man mano che ci si allontanava dal salone
della festa.
Erik entrò nella sua stanza e chiuse la porta, poi si
diresse immediatamente allo scrittoio, prese il diario dal cassetto e
cominciò a scrivere.
Luisa lo sorprese chino sulle pagine e allargò il migliore
dei suoi sorrisi mentre attraversava la stanza avvolta nel fruscio del
suo costume colorato. Era graziosa, forse da grande sarebbe diventa
molto bella, ed era intelligente e solare, anche se le mancava la voce.
Peccato che il mondo tenga così in scarsa considerazione le
cose spezzate, pensò l'uomo mentre osservava la ragazzina
venire verso di lui.
«A quest'ora dovresti essere a letto da un pezzo»
commentò severo distogliendo lo sguardo. Quello era il suo
piccolo trionfo e non aveva voglia di condividerlo con lei.
Luisa scrollò le spalle, poi batté le mani in un
rumoroso ed entusiastico applauso.
«Lieto che l'esibizione sia stata di tuo
gradimento», le concesse un mezzo sorriso.
La ragazzina gli posò una mano sulla sua per costringerlo a
tornare a guardarla, poi si tolse la sua maschera da Colombina. Erik la
fissò, augurandosi di aver capito male, ma quando Luisa gli
puntò contro l'indice e gli scoccò un'occhiata
fin troppo eloquente per appartenere a una dodicenne, lui si ritrasse
con uno scatto. Una stilettata di gelo lo colpì al petto.
«Mai. Non occorre né a te né a
me» borbottò
aspro.
Le labbra della piccola si arricciarono in una piega triste,
afferrò un foglio e scrisse: occorre, è fiducia.
«No» concluse Erik. Luisa gli rivolse uno sguardo
rabbioso, si voltò di scatto e lasciò la stanza.
Non dormì affatto quella notte. Era ormai quasi mattina
quando decise di uscire.
Era abituato a girovagare senza meta di notte, quando Parigi viveva la
sua seconda vita fatta di osterie, bordelli e scorribande di
malfattori, quando anche le luci dell'Opera si spegnavano e ogni magia
veniva rimandata al giorno successivo.
Si gettò il mantello sulle spalle, attraversò i
corridoi del palazzo senza farsi scorgere dalla servitù
già al lavoro, intenta a riportare la casa alla
normalità dopo i festeggiamenti della nottata appena
trascorsa.
Oltrepassata la soglia del portone del palazzo sentì freddo
e non volle indugiare a tentare di capire se fosse davvero una
sensazione fisica dovuta all'aria umida delle prime ore del giorno.
Un banco di nuvole opponeva una leggera resistenza alle prime luci
dell'alba, il cielo cominciava a malapena a rischiararsi dietro ai
palazzi e la città sembrava ancora quasi deserta.
Un paio di piccioni planarono sulla piccola piazza sulla quale
affacciava il palazzo del duca, il profilo della Basilica di San
Giovanni Maggiore si ergeva maestoso e immobile proiettando un'ombra
cupa sul pavimento di sampietrini.
Erik voltò l'angolo e si ritrovò in una stretta
via tra basse palazzine dove l'intonaco delle facciate era in
più punti scrostato e cadente. Anche a quell'ora ogni tanto
qualcuno usciva da un portone e si incamminava frettolosamente sparendo
all'angolo di qualche vicolo, ma nessuno faceva caso all'uomo
mascherato e ai suoi occhi sconosciuti che si posavano con
avidità su ogni scorcio e sulle porzioni di cielo che si
intravedevano tra i tetti delle case.
Era abituato a camminare molto, alla svelta e senza far rumore. Le
ripide scalinate e i cunicoli che mettevano in comunicazione la Dimora
sul Lago con la superficie non gli erano mai parse faticose. Quando le
percorreva in salita sapeva che stava andando verso la luce, quando
tornava in discesa sapeva che stava facendo ritorno alla sua musica.
Quella era la sua vita, scandita da ritmi precisi che lo facevano
sentire al sicuro, luoghi, voci e facce sempre uguali, familiari anche
se ostili. Napoli invece aveva un volto strano e l'uomo si
domandò in che modo ora quella città avrebbe
cambiato la fisionomia della sua miserabile esistenza.
La stretta stradina proseguiva quasi diritta sbucando in un viale
più largo e in un altro ancora più ampio, 'Via
Toledo' diceva il cartello di ferro battuto.
Erik doveva aver camminato parecchio perché l'alba aveva
cominciato già a rendere più netto lo strano
gioco di chiaroscuri sul volto di Napoli. Quando mosse i primi passi
sulle lastre di pietra lavica che pavimentavano la strada,
sentì un odore forte invadergli le narici, un profumo che
non gli era familiare e che avvolgeva la città predominando
su qualsiasi altro odore, sulla fragranza che cominciava a sprigionarsi
dalle botteghe dei fornai così come sul tanfo di acqua
stagnante che si alzava dai tombini.
Come un bambino affascinato dall'ignoto, Erik avrebbe voluto seguire
quell'odore, ma si accorse che era ovunque, impossibile determinarne la
provenienza.
Continuò semplicemente a camminare. Ora la città
cominciava a essere trafficata dai primi mercanti e dai braccianti che
si dirigevano al porto. Erik fremette per tutti quegli sguardi
sconosciuti che lo sfioravano, scivolando su di lui e poi lasciandolo
proseguire per la sua strada.
L'abbraccio del colonnato di Piazza del Plebiscito lo colse quasi
all'improvviso, alla fine del largo viale. Erik ebbe l'impressione che
ogni singolo respiro gli esplodesse nel petto e, per una strana vecchia
abitudine, si ritrovò a stringersi in un angolo, rintanato
all'ombra di quella che doveva essere stata una delle reggie costruite
dai Borboni durante il Regno delle Due Sicilie. Alle sue spalle la
sagoma squadrata del teatro San Carlo vegliava immobile sulla strada e
sul suo concitato viavai mattutino.
Senza staccare gli occhi dal colonnato semicircolare e dall'armoniosa
figura della chiesa di San Francesco, Erik proseguì a passo
sempre più lento, riempiendosi gli occhi di un pezzo di quel
mondo che aveva temuto, un mondo con il quel era ancora in conflitto ma
che adesso sembrava tendergli una mano, almeno per l'arco di tempo di
una mattina.
Fu dopo qualche metro che l'uomo capì qual'era la fonte
dell'odore magnetico che aveva sentito. Dopo la piazza, la strada
proseguiva per alcune centinaia di metri terminando in un incrocio con
la via del lungomare.
Erik non aveva mai visto il mare, per questo non ne aveva riconosciuto
il profumo.
Il silenzio di quel primo mattino era rotto dai rumori e dalle voci che
si alzavano sempre più prepotenti dal porto, insieme ai
versi dei gabbiani che attraversavano il cielo per andare a posarsi
sulle merlature di Castell dell'Ovo.
La via del lungomare era costruita a ridosso della riva fatta di scogli
spigolosi interrotti solo in qualche punto da piccole strisce di
spiaggia dalla sabbia scura, bagnata da onde miti che lasciavano rapide
carezze di spuma sul bagnasciuga.
Erik si appoggiò al parapetto di ferro che separava la
strada dagli scogli e aspirò lunghe boccate di aria
salmastra. Poteva non avere più un cuore e un'anima, ma non
avrebbe mai perso la capacità di emozionarsi davanti alle
cose belle. E Napoli era bella, bella e tremenda, era... come lui, come
un angelo caduto che si dibatte tra gli sfregi della miseria e lo
splendore prepotente e fugace della sua parte migliore. Anche il colore
di quel mare assomigliava a quello dei suoi occhi.
Il riflesso del sole sull'acqua gli ferì lo sguardo. Ora le
voci della città erano più forti, nitide, ed Erik
capì che era il momento di rientrare.
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~ Parigi, 14 maggio 1872 ~
Il dolore pulsava in ondate calde, scintille purpuree cominciarono a
danzare dietro le sue palpebre serrate.
La giovane moglie del visconte De Chagny non aveva mai avuto
particolare paura di quel momento, ma adesso cominciava a rendersi
conto che i dolori del parto erano tutt'altro che facili da affrontare.
Mentre il suo corpo impazzito cedeva alle fiammeggianti fitte che
salivano dal bassoventre, la sua mente era lucida e le parve di poter
sentire ogni cosa, persino i passi nervosi di Raoul fuori la porta
della camera da letto. Lei avrebbe voluto che non fosse lì,
che non sentisse.
Si erano sposati nel maggio dell'anno prima. Il loro era stato il
matrimonio più chiacchierato dell'alta società di
Parigi: il nobile che sposa la cantante di teatro, quella stessa
ragazza coinvolta nell'incresciosa vicenda dell'incendio dell'Opera
Populaire...
A Christine non era importato, l'amore è di chi si ama e
tutti gli altri non possono sapere, così si era detta. E
adesso era su quel letto ad aspettare che il frutto di quell'amore
aggiungesse il tassello mancante a quella felicità che lei e
suo marito si erano così faticosamente conquistati.
Il tempo si stemperò in minuti lunghissimi.
Ad un certo punto, la porta della stanza si aprì di colpo.
Christine riuscì a vedere il viso di suo marito che spiava
all'interno, sembrava terrorizzato, ma fu solo un attimo fugace, prima
che una concitata madame Giry entrasse e chiudesse la porta alle sue
spalle.
Era stata lei a chiedere di farla chiamare. Ogni fanciulla in quel
momento avrebbe dovuto aver vicino la propria madre e quella donna era
l'unica madre che lei avesse mai conosciuto.
Le dita calde di madame Giry si strinsero attorno alle sue, sudate e
stranamente fredde.
Le lancette dell'orologio dovevano essere diventate di piombo e poi di
pietra.
La mente di Christine cominciò ad andare alla deriva.
Sentiva i suoi strilli, ma era come se fossero quelli di un'altra
persona e lei fosse molto lontana da quella stanza.
In uno scampolo di lucidità vide di nuovo la porta della
camera aprirsi, vide il dottore entrare, restare alcuni minuti sulla
soglia a questionare con Raoul che cercava di farlo da parte ed
entrare.
Qualcosa stava andando storto.
Poi all'improvviso il gelo.
«Visconte, devo saperlo» fece il dottore.
«Se le cose si mettessero male devo salvare la madre o il
bambino?».
No, no... no!
Mio figlio deve vivere...
Cercò di gridarlo, al di sopra del dolore, al di sopra dei
visi sudati delle donne chine su di lei. Ma le parole restarono a fare
eco dentro la sua testa e un attimo dopo ogni luce svanì.
Non era più in quella stanza, su quel letto. Le urla che le
attraversavano il cervello non erano più le sue, cenere e
schegge di legno infuocato piovevano sulla pietra gelida sotto i suoi
piedi nudi.
La cenere prese a vorticare nella penombra vasta e fredda,
confondendosi con la nebbia che spirava dalle acque del lago
sotterraneo, sotto la luce di fiamme di candele che si riflettevano
negli specchi addossati al fondo della grotta.
Il dolore adesso non era più una sensazione fisica, veniva
dal cuore, ad ogni battito si spingeva sempre più a fondo
dentro di lei, dalla pelle, ai muscoli, alle ossa, fino all'anima come
per marchiarla.
Christine ansimò angosciata e fece scivolare le mani su
quell'abito da sposa che le fasciava la vita. Da qualche parte, molto
lontano, le parole rabbiose di una folla inferocita si confondevano al
crepitare del fuoco. E lui era lì, come era stato a farle
visita nei suoi incubi la notte, nelle settimane successive alla sera
dell'incendio, il suo Angelo della Musica con le ali e il cuore
spezzati. Ed era stata lei a spezzare quel cuore, senza intenzione,
senza cattiveria, ma lo aveva fatto.
Le lacrime che rigavano quel volto distorto avevano l'odore del sangue.
Christine cominciò a piangere, in piedi sulla sponda del
lago, desiderando di venire trascinata via. Il dolore scava dentro di
lei, le grattava la pelle.
Passarono ore prima che riuscisse a riprendersi. Anche prigioniera in
quell'incubo, si ricordò del figlio che stava per nascere...
che rischiava di non arrivare a vedere la luce.
«Ti prego...» mormorò a fior di labbra,
rivolta all'Angelo della Musica, come se ancora una volta la sua sorte
fosse legata a quell'uomo. Ma stavolta lui non c'entrava, stavolta la
sua sofferenza le parve una meritata punizione per ciò che
aveva fatto.
«Ti prego, non mio figlio...» disse, la voce rotta
che si perdeva nel silenzio infinito di quel luogo disumano.
Il suo Angelo sollevò lo sguardo, il volto rigato di lacrime
uguali alle sue. Scosse il capo, non poteva fare niente, avrebbe voluto
aiutarla, ma stavolta lui non c'entrava. Lui era morto, lo sapevano
tutti.
Il carillon a forma di scimmia cominciò a suonare flebile le
note della Masquerade, posato su un rialzo di pietra.
«Christine, ti amo...». La voce vibrò
all'improvviso, una voce che avrebbe potuto spegnere le stelle,
così dovevano suonare le parole di un demonio che si era
arreso all'amore.
La fanciulla avvertì un'altra ondata di dolore,
più forte e intensa, il male più profondo che
aveva mai provato. Chiuse gli occhi, sopraffatta, e quando li
riaprì la grotta era vuota, frammenti di specchio
luccicavano sul pavimento, pezzi di un'illusione tradita.
No... no, no!
Mio figlio deve vivere,
ho fatto a pezzi l'anima di un uomo per l'amore che l'ha fatto
nascere...
Un pianto sordo fece eco da lontano, ogni singhiozzo le portava via un
battito. Poi le note del pianto cambiarono, si fecero più
acute e meno disperate.
Quando Christine riaprì gli occhi era nel suo letto, madida
di sudore. Davanti a lei la levatrice stava avvolgendo in un lenzuolo
un corpicino, due manine minuscole affioravano tra i lembi di stoffa
candida.
«È un maschio, madame»
annunciò.
«Gustave...» sussurrò la fanciulla in un
respiro faticoso.
Sentiva il cuore batterle violentemente contro le costole, e un senso
di stanchezza più forte del dolore la fece crollare riversa
contro la pila di cuscini mentre il medico le tastava con dita gentili
il polso.
Raoul sarebbe impazzito di gioia, lo sapeva. Il loro amore era
sopravvissuto a prove indicibili e crudeli e lei aveva dovuto
ricominciare a costruire la felicità giorno dopo giorno,
facendola riemerge dall'oscurità e dalle ombre che sembrava
avrebbero potuto aleggiare per sempre sulla sua esistenza e sulla sua
famiglia.
Ma ora aveva un figlio. Ora aveva il dovere di dimenticare e di andare
avanti.
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Here,
I have a
note...
Per
l'aspetto di quella zona
del centro di Napoli e per i luoghi citati mi sto rifacendo a
immagini d'epoca e cose simili (si ringrazia l'augusto genitore che ha
messo a disposizione undici tomi di 'enciclopedia sulla Napoli di un
tempo). Ad ogni modo, la disposizione delle
strade non doveva essere molto diversa da come è oggi, visto
che molti palazzi storici, munumenti e chiese e via dicendo sono
antecedenti agli anni in cui è ambientata la fanfiction. Via
Toledo,
naturalmente è l'attuale Via Roma.
Il percorso fatto da Erik lo conosco abbastanza bene, anche se
è da un po' che manco da quella città (Google
Maps è stato un valido assistente nella stesura di quella
scena XD), ad ogni modo, se c'è un napoletano tra il pubblico e
ha rivelato qualche errore, sarò ben lieta di correggere.
Al prossimo mercoledì
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
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Capitolo 4 *** Il teatro ***
Capitolo terzo
Il teatro
~ Napoli, 13 marzo 1871~
Napoli era un rettangolo di cielo azzurro oltre la finestra, pronto a
cedere ai primi palpiti della primavera in arrivo. Un cielo invitante e
carico di promesse, per un uomo che si sentiva così
tristemente prigioniero.
Guglielmo era seduto alla scrivania del suo ufficio, con il mento
appoggiato sul pugno chiuso e l'aria assorta. Tentava di ricordare
quello che il duca Giusso gli aveva detto a proposito del maestro
francese e più ci provava, più l'agitazione gli
serrava lo stomaco.
Per il giovane Marchesi, in realtà, il duca rappresentava lo
stadio più avanzato di bizzarria che lui era in grado di
comprendere e quindi di digerire. Ora sembrava che avrebbe avuto a che
fare con qualcuno di notevolmente più bizzarro e, da quanto
gli era parso di capire, anche assai meno affabile.
Insomma, quando il duca gli aveva parlato del suo amico francese aveva
usato certe parole che avevano messo a disagio Guglielmo al solo
sentirle pronunciare.
«Dovete lasciarlo fare e fidarvi di lui» gli aveva
detto. «Più sarete fiducioso meno avrete bisogno
di fargli domande. Purtroppo ha un carattere decisamente prevaricatore,
può essere scontroso e poco incline alla compagnia e alla
conversazione, ma vi assicuro che è la persona
più capace che possiate mai avere la fortuna di
incontrare».
«Ma, questo signore, ha un nome?» aveva chiesto lui.
A quel punto il duca era sembrato colto alla sprovvista e Guglielmo si
era chiesto come fosse possibile non rammentare con facilità
il nome di un amico.
«Si chiama Erik» gli aveva risposto il nobile dopo
qualche secondo.
«Erik?»
«Erik.».
A questo punto Guglielmo era stato tentato di declinare l'offerta di
Giusso. Che diamine erano tutti quei misteri e quelle raccomandazioni?
Poi però si era ricordato che era stato egli stesso a
chiedere aiuto al duca e che, in ogni caso, quell'uomo aveva fiuto per
i talenti e se affermava che quel francese, Erik, fosse la persona
più capace che potesse incontrare di certo lo diceva con
cognizione di causa e poi lui stesso lo aveva sentito suonare e aveva
colto una maestria insolita e del tutto lodevole. E poi, ad ogni modo,
aveva forse altra scelta?
«Ah, e c'è un'altra cosa, mio caro»
aveva detto Giusso. Un'altra
ancora?!
«Oh, certo. Dite...»
«Gli artisti, come ben saprete, sono capricciosi, vezzosi e
folli. Uno dei vezzi di Erik è la sua maschera, è
meglio che fate finta di niente riguardo a quella. È meglio
che tutti facciano finta di niente».
Ah, questi francesi! Così dannatamente artistici e
originali!
«Io credevo che indossasse la maschera perché era
ad una festa in maschera» aveva replicato Guglielmo,
cominciando a tradire una certa titubanza.
«No, la porta sempre» aveva risposto il duca, come
se fosse la cosa più normale del mondo.
«Sempre?»
«Sempre»
«Perché?»
«Vi ho appena detto di fare finta di niente. Insomma, lo
volete il suo aiuto o no?».
Guglielmo non ne era più tanto sicuro, ma ormai quel che era
fatto era fatto e il duca sarebbe arrivato a momenti assieme al suo
amico francese, e lui ora doveva assicurarsi che tutto fosse pronto per
accoglierlo, perché, dopo quel lungo elenco di stramberie,
c'era ancora un ingrediente da aggiungere a quella ricetta indigesta.
Erik sembrava poco interessato all'ammontare del suo salario, ma aveva preteso di
alloggiare lì nel teatro e Guglielmo si era visto costretto
a trasformare in una stanza da letto la saletta vuota accanto a quello
che sarebbe diventato l'ufficio del maestro francese.
Il giovane Marchesi si affacciò alla finestra e vide la
carrozza del duca fermarsi davanti all'ingresso del San Carlo. Si
augurò solo che, dopo tanto affanno per venire in contro a
quell'Erik, non avesse da pentirsi di averlo ingaggiato.
*
Quel giorno era come una vertigine sull'orlo di un precipizio e Napoli
era nient'altro che sole e odore di mare, lo stesso odore che lo aveva
colto di sorpresa la mattina di alcuni giorni prima e che da allora,
ogni mattina, lo convinceva a uscire di casa all'alba e attraversare
quella fetta di città fino alla spiaggia, trascinato da una
magia che non aveva mai conosciuto prima di allora.
Ogni volta, Erik scavalcava il parapetto di ferro e balzava sugli
scogli. Non era difficile per il Signore delle Botole mantenersi in
equilibrio su quella superficie irregolare e scivolosa, poteva
raggiungere senza alcuna difficoltà il margine frastagliato
delle rocce ammassate ad arginare la risacca e le maree.
Restava seduto lì, si toglieva il cappuccio del mantello
scoprendosi il viso e fissava la propria immagine distorta dalle
increspature dell'acqua. La parte sana del suo viso e quella nascosta
dalla maschera si confondevano in quel riflesso e per quei pochi minuti
Erik poteva sentire la sua mente libera da ogni pensiero, cullata dal
rumore ritmico delle onde. Erano minuti di oblio e amnesia che lo
aiutavano a trovare la forza di cui avrebbe avuto bisogno per andare
incontro a ciò che lo attendeva.
Il San Carlo comparve mattone dopo mattone nel rettangolo del
finestrino della carrozza. Dall'altro lato della strada c'erano alcune
botteghe, alle loro spalle uno dei quartieri malfamati della
città, uno dei pezzi in ombra di Napoli, così
sorprendentemente vicino alla limpida e sobria bellezza di Piazza del
Plebiscito e alla monumentale eleganza del Palazzo Reale.
Visto dall'esterno quel teatro non era molto diverso dai tanti altri
palazzi di stampo settecentesco che sorgevano nel centro di Napoli, la
facciata era quanto mai sobria, con il porticato costituito da arcate
su grossi pilastri di mattoni in pietra grigia e la parte sovrastante
affrescata di bianco, con una balconata sorretta da sottili colonne.
Non c'erano stucchi o bassorilievi elaborati, né grandi muse
alate vestite d'oro negli angoli, né statue di bronzo,
nessun pegaso tentava di spiccare il volo da quel tetto, nessun Apollo
mostrava fiero la sua lira, solo un complesso di sculture di marmo si
ergeva armonioso sulla sommità del frontone anteriore.
Eppure Erik si ritrovò involontariamente a sorridere
pensando di essere al cospetto del primo teatro lirico di tutta Europa,
costruito oltre un secolo prima. Chissà quante cose
straordinarie avevano udito quelle mura, chissà quanta
bellezza era scivolata sotto gli occhi delle muse di marmo sulla
sommità del tetto.
Il duca gli fece strada verso l'ingresso e lui indugiò un
istante sulla soglia.
È davvero
ciò che vuoi, Figlio del Diavolo?...
Non aveva una risposta.
Voleva credere che qualcosa si fosse salvato, che il suo genio potesse
tornare a stupire e che questa volta lo avrebbe fatto in piena luce,
senza maschere, senza sotterfugi e senza nascondigli. O almeno senza
quelli che non erano davvero necessari.
Il foyer aveva un pavimento di lucido marmo bianco, il soffitto
composto da ampie volte era decorato con sottili stucchi dorati dai
motivi floreali. Il bianco e il dorato erano gli unici colori e davano
alla sala un che di leggiadro ed elegante. Dal centro dell'ingresso
partivano due scaloni di marmo con il corrimano in legno scuro che
portavano alle balconate. Un breve corridoio formato da alcune file di
colonne quadrate conduceva alla platea.
Erik si guardò attorno e per un attimo avvertì un
senso quasi di serenità. Poi dei passi lungo le scale lo
costrinsero a distogliere lo sguardo dalla meraviglia che i suoi occhi
tentavano di assimilare.
Guglielmo Marchesi non doveva essere molto più giovane di
lui, era un uomo dall'aria assolutamente anonima, un po' in carne, con
un viso dai tratti morbidi quanto quelli di un bambino. Il duca era
stato molto diplomatico e delicato nel descrivergli quel giovane
signore e nello spiegargli le sue vicende famigliari e professionali,
sembrava nutrire per lui una simpatia genuina ed istintiva e Erik non
capiva come un tale smidollato potesse conquistare la simpatia di
qualcuno dotato di un minimo di intelletto. Ad ogni modo, lui aveva
acquisito una certa abilità a trattare con direttori di
teatro dalla dubbia intelligenza e di certo non era lì per
soccorrere Guglielmo Marchesi. Era lì per se stesso.
«Duca, Maestro, benvenuti!» disse il direttore del
San Carlo con fare cerimonioso.
Erik mise da parte ogni sua riserva e tentò di mandare a
mente ciò che aveva imparato in tanti anni trascorsi a
vivere ininterrottamente in un teatro, respirando finzione, vivendoci
immerso dentro. Tese la mano verso Marchesi,
«È un piacere conoscervi, signore» disse
nel suo tono più affabile, la piccola virgola del rapido
sorriso che gli rivolse era quasi amichevole.
Fu stupito della semplicità con cui pronunciò
quelle parole e strinse quella mano in una stretta fugace ma decisa.
Aveva sognato per troppo tempo di porsi da uomo a uomo con qualcuno e
trovava strano e ingiusto il fatto che avvenisse ora, dopo che ogni
altro sogno era stato spazzato via, quando il nulla che sentiva silente
e freddo sotto la pelle annullava anche la gioia per quella piccola
grande conquista.
Guglielmo Marchesi ricambiò la stretta, rigido come legno,
scrutandolo con un misto di apprensione e speranza e allo stesso tempo
sforzandosi di non indugiare troppo su quella mezza maschera bianca,
«Devo farvi i complimenti per il vostro impeccabile italiano,
Maestro. Dove lo avete imparato?» gli fece con goffa
ruffianeria.
Maestro. Da
quanto tempo qualcuno non lo chiamava così? E quanto
sapevano essere adulatori gli uomini quando volevano qualcosa da
qualcun altro.
«Il mio italiano è tutt'altro che perfetto, in
realtà. Più che altro l'ho imparato grazie alla
lirica, ma sto cercando di perfezionarlo».
Seguirono alcuni secondi di silenzio che toccò al duca
interrompere,
«I convenevoli sono così noiosi!»
esclamò. «Perché non mostrate al
Maestro il vostro teatro?».
Guglielmo scattò verso una porta laterale e fece strada ai
suoi ospiti lungo un corridoio con il pavimento coperto per tutta la
lunghezza da un soffice tappeto orientale. Il corridoio immetteva in
una saletta sulla quale affacciavano alcune porte di legno lucido,
«Quello è il mio ufficio» disse
Guglielmo indicando la prima sulla destra. «E questo
è il vostro». Così dicendo
aprì la seconda porta sulla destra mostrando ai suoi ospiti
una stanza rettangolare, piccola ma molto elegante, al centro della
quale torreggiava una scrivania di ciliegio. All'interno della stanza,
sulla parete sinistra c'era un altra porta più piccola.
«E lì ci sono le... ehm, stanze che ho fatto
preparare per voi. Il signor duca mi ha detto che preferite alloggiare
nel teatro».
Marchesi buttò lì quella frase in tono del tutto
neutrale, ma dallo sguardo che rivolse a Erik era chiaro che conteneva
un'implicita richiesta di spiegazioni.
«Vi sembrerà eccessivo» convenne lui
pacato. «Ma ho la sciatta e insana abitudine di lavorare agli
orari più impensabili».
«Oh...».
Il direttore del teatro sembrava sempre più a disagio minuto
dopo minuto. Erik avrebbe giurato che Marchesi stesse reprimendo a
stento l'impulso di allentarsi il nodo alla cravatta.
Era questo l'effetto che faceva alle persone? Era la sua maschera? Era
il nulla mostruoso che gridava attraverso i suoi occhi?
Molto bene, si disse, se il Fantasma dell'Opera riesce a turbare le
persone anche nella sua veste più umana, allora poteva
ancora fare l'impossibile.
È davvero
ciò che vuoi, Figlio del Diavolo?
Era questo che voleva? Intimorire e soggiogare, usare il suo infinito
talento per essere al di sopra degli altri in quel modo dispotico di
chi usa le distanze come uno scudo?
Ancora una volta, non aveva una risposta. Ma sapeva che non conosceva
altro modo di stare al mondo.
Giusso gli lanciò una strana occhiata complice, sembrava
soddisfatto di come si stavano mettendo le cose. Gugliemo Marchesi gli
indicò una pesante tenda di velluto che copriva un'apertura
ad arco nell'anticamera degli uffici.
«Da questa parte si raggiunge direttamente il cuore del
teatro» spiegò. «Si accede alle quinte
del palcoscenico e da lì, ai camerini e ai livelli del
sottopalco».
Il direttore condusse Erik e il duca nel corridoio del primo ordine
della balconata e da lì li fece entrare in uno dei palchi.
Il San Carlo era magnifico. Non occorreva fare paragoni con l'Opera
Populaire, si trattava di due luoghi assai diversi.
Il teatro contava quattro ordini di palchi e un loggione. Candelabri a
quattro braccia erano appesi a ognuna delle colonnine che sorreggevano
le balconate creando un'atmosfera piena di luce che rendeva
più smagliante l'oro degli stucchi e più
invitante il velluto delle tappezzerie color porpora.
Uno straordinario affresco circolare, raffigurante muse e
divinità, copriva la parte centrale del soffitto. Il
palcoscenico, lungo oltre trenta metri, era incorniciato da ricche
decorazioni sormontate dallo stemma dei Borbone.
Tutto in quel luogo parlava di bellezza. Erik se ne riempì
gli occhi con la stessa avidità di un naufrago che scorge la
terraferma dopo ore di deriva.
«Posso azzardare a dire che ne siete estasiato?»
gli mormorò il duca Giusso all'orecchio.
«Vi è mai stato qualcuno di cui non si
può dire lo stesso?»
«Non tutti gli animi sono sensibili alle stesse cose. Gli
animi, amico mio, sono una materia che dovreste cominciare a conoscere,
se posso permettermi un consiglio».
Erik ignorò quelle parole e lasciò che Marchesi
li conducesse verso il palcoscenico, dove aveva già notato
alcune persone muoversi, e un musicista – o forse il
direttore d'orchestra – che si avvicinava a un pianoforte a
muro lasciato sulla scena.
All'improvviso, quando era già in prossimità
delle quinte, successe...
Fu proprio una nota di pianoforte e poi una voce bellissima e limpida
che cantava una canzone. Tutti gli sforzi compiuti in quei giorni per
arginare i ricordi furono vanificati in un solo istante, quella musica,
quella canzone era troppo. Un orribile e sadico scherzo del destino che
ancora non aveva finito con lui.
"Think of me
think of me fondly
when we've said goodbye
remember me
once in a while,
please promise me you'll
try..."
Ogni cosa gli tornò alla mente più forte e nitida
che mai, ogni odore, ogni rumore... il cicaleccio delle ballerine in
attesa dietro le quinte, il sentore di alcol degli alloggi dei
macchinisti, il freddo della pietra nei sotterranei... nomi tetri dati
a una leggenda lugubre, a malapena sussurrati per non destare i mostri:
il Fantasma dell'Opera,
il Figlio del Diavolo, il Signore delle Botole. E poi un
nome bellissimo, proveniente da una favola, il nome che avrebbe voluto
meritarsi senza esserne in grado: l' Angelo
della Musica, e la voce, le labbra che avevano pronunciato
quel nome... gli occhi di Christine, i suoi riccioli nei quali tante
volte aveva sognato di affondare il viso. Il suo inferno e il suo
paradiso, la sua speranza e la sua condanna. Era tutto lì,
condensato in quelle note che quella voce perfetta e superba spingeva
nell'aria senza curarsi del suo cuore che aveva cominciato a sanguinare.
«Maestro, vi sentite bene?» la voce di Gugliemo si
era fatta tremula ma lui non lo ascoltò nemmeno.
Attratto dall'incantesimo della voce che stava cantando, Erik si
avvicinò al palco, fermandosi dietro le quinte, incurante
del duca, di Marchesi e degli altri presenti che lo fissavano basiti.
"... We never said
our love was evergreen
or as unchanging as the
sea...
but please promise me,
that sometimes
you will think of me"
Chi era la giovane donna che stava cantando al centro del palco?
Erik scorse una ragazza di poco più di vent'anni, con i
capelli biondi raccolti in una coda e un bel viso dai lineamenti
delicati. La sua voce rasentava la perfezione e lui dovette riconoscere
di non aver mai udito nulla di simile.
Quando la giovane smise di cantare, l'uomo sentì il sangue
fuggirgli dal cuore e quasi si figurò una pozza purpurea
allargarsi sul tessuto della camicia.
Si riscosse, si rese conto di essere appoggiato contro la parete.
Guglielmo gli rivolse un sorriso deliziato e fece per battergli una
mano sulla spalla, ma lui lo fulminò con un'occhiata,
così il direttore del teatro si limitò
semplicemente a continuare a sorridere.
«Siete rimasto incantato anche voi, vero Maestro?»
disse con malcelato entusiasmo. «Venite, lasciate che vi
presenti la nostra incantevole primadonna, la signorina Graziana
Rovesti».
Nel sentir pronunciare il suo nome, la ragazza bionda si
voltò e sorrise ai tre uomini che camminavano verso di lei.
«Signor direttore, signor duca, lieta di rivedervi»
disse con dolcezza.
Era di una bellezza davvero notevole. Ora che la osservava da vicino,
Erik si accorse che nonostante la sua giovane età, la
fanciulla sembrava una donna, o almeno questo era ciò che
lasciavano trasparire i suoi occhi, e la piega un po' troppo seriosa
delle labbra.
Lo sguardo della giovane indugiò su di lui. Forse la ragazza
doveva avere straordinarie capacità recitative, ma non
sembrò nemmeno notare che c'era una maschera sul viso che
stava fissando. Per un attimo Erik scorse una scintilla di interesse in
fondo a quegli occhi chiari da folletto e odiò l'imbarazzo
che la cosa gli aveva provocato.
Guglielmo prese goffamente la mano della giovane tra le proprie e
sembrò davvero bearsi di quel semplice contatto,
«Graziana, mia cara, vi presento il Maestro...» si
interruppe di colpo e arricciò le labbra. Non aveva mai
avuto un cognome, ma forse sarebbe stato meglio inventarsene uno, ad
ogni modo, Guglielmo proseguì con la sua presentazione.
«È un amico del duca, viene da Parigi ed
è qui per aiutarci nella realizzazione della nostra futura
produzione. E a quanto pare l'avete già stregato, come
tutti».
La ragazza scosse piano la testa, con un adorabile accenno di sorriso,
come a fingere di trovare eccessivamente lusinghiera
quell'affermazione.
«Lieta di conoscervi, signore» disse con un accenno
di inchino.
«Il piacere è mio» replicò
Erik salutandola con un delicato baciamano. «Lasciate che ve
lo dica, avete la voce più portentosa che io abbia mai
sentito»
«Siete gentile, Maestro. È solo che amo molto
ciò che faccio».
Erik annuì. Certo, doveva volerci tanto amore per
raggiungere una tale perfezione.
Mentre Guglielmo lo trascinava a fare la conoscenza del direttore
d'orchestra e dei musicisti, fu quasi spaventato dai suoi stessi
pensieri mentre la sua mente architettava già le cose
meravigliose che avrebbe potuto fare avendo a sua disposizione una
giovane con un tale, incommensurabile talento.
«Quando avete intenzione di cominciare le prove?»
disse all'improvviso, fissando Marchesi con impazienza.
«Anche domani... direi che prima è e meglio
sarà per tutti» rispose il direttore con un
sospiro che tradiva una certa afflizione.
Dopo aver terminato il giro del teatro, il duca accompagnò
Erik in quelli che sarebbero stati i suoi alloggi.
«Siete sicuro che non volete restare a casa mia?»
gli domandò guardandosi attorno con aria scettica. La camera
da letto era arredata con mobili nuovi e di buona fattura, aveva
un'aria ricca ed elegante, ma a qualcuno avrebbe potuto far venire in
mente la cella di un monastero.
«Avete già fatto troppo per me, duca»
rispose. «Non mi avete mai detto che il San Carlo vanta una
soprano così straordinaria».
Giusso sollevò le sopracciglia,
«Graziana, certo, la chiamano la Partenope Bionda, vedete,
Partenope era una sirena...» disse. «E voi sapete
cosa fanno le sirene. Ma del resto, se vivrete qui, verrete a
conoscenza di ogni pettegolezzo, in fin dei conti potrebbe essere
divertente».
Erik non rispose, non gli erano mai interessati i pettegolezzi e di
certo non aveva alcun interesse per la ragazza che non fosse di natura
strettamente artistica. Oh, certo, era bella e aveva sicuramente fatto
palpitare il cuore a molti uomini, compreso – Erik ci avrebbe
scommesso la testa – il caro Guglielmo, ma le donne non gli
interessavano, non gli erano mai interessate davvero, non prima di...
«Credo che a mia figlia mancherete molto» aggiunse
il duca.
«Salutate la piccola Luisa da parte mia» rispose
Erik.
No che non le sarebbe mancato, le cose di cui si ha nostalgia sono le
cose che cambiano il volto delle giornate, e lui non aveva mai fatto
niente di simile per quella ragazzina. Forse era stata lei a fare molto
di più per lui, o almeno aveva tentato, a suo modo. Forse...
forse era a lui che sarebbe mancata.
Sciocchezze...
*******
~
Parigi, 21 aprile 1892~
Erano passati tre giorni da quando Louis era arrivato a Parigi. Aveva
trascorso quasi tutto il giorno successivo al suo arrivo seduto nella
sala d'ingresso dell'albergo a chiacchierare con chiunque gli capitasse
a tiro, pur di non dover stare da solo. Aveva il naturale talento di
risultare simpatico alle persone, ed era un'abilità che non
risparmiava mai di utilizzare.
Pioveva e non aveva voglia di uscire, ma non voleva tornare nella sua
camera e ritrovarsi ad affrontare di nuovo il diario di suo padre.
Quasi gli sembrava che quei due occhi color acquamarina lo spiassero
dalla copertina di pelle rossa. Del resto, il diario si era rivelato
una delusione: a quanto sembrava, non conteneva spiegazioni sul passato
di suo padre – come egli stesso aveva affermato fin dalle
prime righe, non ne avrebbe mai fatto menzione – conteneva
probabilmente solo la cronaca dei suoi primi mesi a Napoli.
Il secondo giorno però, Louis decise di riprendere a
leggere. Non aveva trovato quello che si aspettava, ma almeno gli era
piaciuto tuffarsi in quei ricordi che appartenevano a una persona alla
quale era stato tanto legato. Alla quale era ancora legato, il fatto
che Erik fosse morto non cambiava nulla...
Aveva letto della festa in maschera per il compleanno del duca e
l'episodio gli aveva strappato più di un sorriso. Intanto,
doveva riconoscere che Mariano Giusso era stato un uomo dall'astuzia
piuttosto fine. In secondo luogo, leggere del tronfio autocompiacimento
di suo padre per la riuscita della sua breve esibizione e per l'effetto
che aveva provocato sugli invitati lo aveva davvero divertito.
Il sorriso gli era morto sulle labbra solo quando aveva letto di Luisa
che era andata da lui chiedendogli di togliersi la maschera e delle
cupe riflessioni segnate sul diario che erano scaturite da
quell'episodio.
Louis era consapevole che la faccenda
della maschera era qualcosa che andava ben oltre la sua
comprensione. A suo avviso non c'era niente di mostruoso in suo padre,
né nel suo aspetto, né nel suo cuore, ma lui lo
vedeva con gli occhi di un figlio e poteva solo immaginare come Erik
potesse apparire agli occhi di tutti gli altri... o ai suoi stessi
occhi. Era certo di vivere in un mondo che non sapeva essere magnanimo
di fronte all'imperfezione o alla diversità, ma suo padre
era stato comunque un personaggio molto stimato nel mondo dell'arte e
del teatro nella loro città, per cui Louis ancora non aveva
capito cosa quello sfregio sul viso gli avesse tolto. Era
ciò che sperava di scoprire da quel diario, ma per adesso si
sentiva ancora molto lontano dalla verità.
La sua mente cominciò a fare un rapido elenco delle
informazioni che fino a quel momento possedeva, e per ognuna di queste
informazioni c'era almeno una domanda senza risposta.
Aveva scoperto che suo padre era scappato dalla Francia con l'aiuto del
duca Giusso. Da cosa scappava? E perché un uomo che viveva a
Parigi conosceva un nobile napoletano, e perché questo
nobile lo aveva aiutato?
Sapeva anche che dopo il suo arrivo a Napoli, Erik era stato quasi un
mese, per sua scelta, rintanato in una stanza nel palazzo del duca. Per
quale santa ragione?
Inoltre ora sapeva anche che nei mesi successivi suo padre era vissuto
chiuso in un piccolo appartamento all'interno del San Carlo. A questo,
Louis non voleva neanche pensare!
Oh, poi c'era quella faccenda della canzone dell'Annibale di Chalumeau.
E quelle annotazioni sul confronto tra il San Carlo e l'Opera di
Parigi... certo, se suo padre si era sempre interessato di musica e
teatro era abbastanza plausibile pensare che la conoscesse, ma nel
diario ne parlava come si parla di un famigliare che non c'è
più, di un amico che si è perduto...
Louis ora si sentiva uno sciocco.
Quando si è bambini si è abituati a considerare
normale tutto ciò che si ha attorno, non si pensa al
passato, non ci si immagina mai i propri genitori in un'età
diversa da quella che hanno, non si pensa mai che le persone che si
hanno vicino possiedono una storia. Si vive nella convinzione che tutto
quello che si ha davanti agli occhi sia come nato il giorno precedente.
E questo è il motivo per cui l'infanzia è
un'età così felice, senza passato, senza futuro e
quindi senza neanche il pensiero della morte.
Dopo pranzo, il ragazzo decise di uscire, pioveva ancora ma non gli
sembrò importante. C'era qualcosa che lo aveva spinto verso
le strade di Parigi battute dal temporale.
Comprò una cartina della città e si mise a
consultarla rannicchiato sotto a una tettoia. Quando fu in grado di
orientarsi, aprì l'ombrello e cominciò a
camminare a passo svelto sul ciottolato scivoloso.
Da quel punto, tutte le vie confluivano in una grande piazza. Su un
margine della piazza c'era quella che un tempo era stata l'Opera
Populaire.
Louis alzò lo sguardo a spiare la facciata del palazzo.
Scrosci di acqua cadevano in minuscole cascate dalle ali delle statue,
scorrevano in piccoli canali nelle rientranze dei bassorilievi e lungo
le braccia che Apollo teneva sollevate ad afferrare la sua lira.
Era bellissima, anche così, con la pioggia che confondeva i
contorni delle decorazioni. A guardarla dal fondo della piazza non la
si sarebbe detta nemmeno abbandonata, solo quando Louis si
avvicinò alla costruzione notò che i vetri alle
finestre erano rotti e che molte aperture erano chiuse da travi di
legno inchiodate frettolosamente, a sfregiare il volto di quella
vecchia signora che vegliava ancora silenziosa su Parigi, come se
avesse storie da narrare e vite a cui fare la guardia.
In effetti, a guardare meglio, quel posto aveva qualcosa di spettrale,
ma al ragazzo parve comunque un gioiello della storia, dimenticato in
mezzo alla polvere del tempo.
Rischiando di scivolare, il ragazzo salì la scalinata di
marmo ormai levigato che conduceva al portone, polvere e foglie secche
erano ammucchiate sotto il taglio dei gradini. I due grossi battenti
decorati erano tenuti chiusi da una catena arrugginita.
Suo padre era stato lì, chissà quanti anni fa.
Chissà perché.
Louis non sapeva spiegare quello strano magnetismo che provava ora ad
essere al cospetto dell'Opera Populaire, ma il vento che entrava dalle
finestre rotte produceva una strana eco dall'interno e ancora una volta
il ragazzo ebbe la sensazione di udire il suo nome sussurrato da
lontano, con il respiro pungente che sa avere il destino.
Forse fu in quel momento che prese la decisione, forse fu mentre
tornava verso l'albergo, ma ormai era certo di ciò che stava
facendo.
Quando rientrò era fradicio, la pioggia gli attaccava alla
fronte ciocche di capelli corvini.
«Monsieur, vi sentite bene?» esclamò
l'albergatore con apprensione.
Louis sorrise, come se ai suoi piedi non si stesse affatto allargando
una piccola pozzanghera di acqua piovana.
«Certamente. Ascoltate, ho deciso che rimarrò a
Parigi per molto più tempo del previsto, e credo che mi
occorrerà un appartamento, per caso voi sapreste indicarmi
qualcuno a cui io possa rivolgermi?».
____________________
Here,
I have a
note...
Del
San Carlo ho visto
solo l'ingresso e l'interno del teatro, ed è stato una vita
fa...
riguardo la collocazione di uffici, camerini e quant'altro,
è tutta
“improvvisazione”.
Attualmente di fronte al
teatro c'è la galleria Umberto I, costruita tra il 1887 e il
1890.
Prima di allora c'era un piccolo quartiere di pessima fama, fatto di
stradine che mettevano in comunicazione Via Toledo con quella che
è
attualmente la piazza del Municipio.
Di
solito non mi piace "spoilerare" sulle storie, ma un piccolo
avvertimento riguardo al personaggio di Graziana voglio farlo: NON E'
COME SEMBRA.
Ci si legge il prossimo mercoledì.
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 5 *** Gustave ***
Capitolo quarto
Gustave
~ Parigi, 25 aprile 1892 ~
Prima ancora di vederla, Louis aveva pensato immediatamente che in
quella piccola casa ci fosse qualcosa che non andava: l'affitto che gli
era stato chiesto era una somma a dir poco ridicola per quanto era
esigua e lui aveva contrattato e sistemato ogni cosa con un garbato
attendente del proprietario, il quale gli era sembrato estremamente
impaziente di far occupare da qualcuno, praticamente da chiunque
– Louis ci avrebbe giurato – la graziosa mansarda
al terzo piano di quell'elegante palazzina nel centro di Parigi.
La casa era piccola ma Louis se ne innamorò alla prima
occhiata. I pavimenti erano in legno, lo stesso legno dalle venature
scure e dal colore caldo delle travi sul soffitto, i muri erano
tinteggiati di fresco con un chiarissimo color pesca. Il
mobilio era essenziale, la cucina e la sala formavano un unico ambiente
appena si entrava, e sulla sinistra c'era la porta che conduceva nella
camera da letto provvista di una sala da bagno. Sulla parete opposta
alla sala d'ingresso c'era la porta di un balcone che rendeva luminosa
e arieggiata tutta la sala e che immetteva su un piccolo terrazzino
rettangolare, da lì il panorama non era particolarmente di
nota, ma era comunque un buon posto per stare seduti all'aperto, magari
a leggere o a bere un tè, dal momento che erano in arrivo le
belle giornate.
Sulla parete dietro al letto c'era un grosso dipinto. Non era su tela,
era stato realizzato direttamente sul muro e riproduceva un giardino in
autunno in uno stile simile a quello di quel pittore francese di cui
Louis al momento non rammentava il nome, però gli parve un
bel dipinto e i colori utilizzato si intonavano a quelli delle pareti e
del legno con un buon gusto davvero singolare. Forse era stato
realizzato di recente, perché c'era ancora un sentore di
prodotti per la pittura in giro per casa. Forse, prima di lui,
quell'appartamento era stato occupato da uno di quegli artisti...
bhoèmiens si facevano chiamare.
Louis aveva pagato un mese d'affitto anticipato all'uomo che si era
incaricato di portare a termine la contrattazione, aveva fatto
recapitare un telegramma a sua madre dicendole che aveva deciso di
trattenersi a Parigi più del previsto e ora stava pensando
di scriverle una lettera per spiegarle meglio il motivo di quella sua
decisione.
Una volta solo davanti al foglio bianco, Louis si rese conto che non
era facile spiegare a parole il perché di quella scelta, non
riusciva a spiegarlo con precisione nemmeno a se stesso. Parigi lo
aveva stregato fin dalla prima serata che vi aveva trascorso,
ma non era solo questo. Louis aveva sentito improvvisamente il bisogno
di... di concedersi del
tempo per stare da solo, leggere il diario di suo padre e
capire. In quel quaderno non c'era la storia che lui avrebbe voluto
ascoltare, all'inizio aveva creduto di non aver affatto bisogno di
leggere quelle cose, che le vicende legate ai primi mesi che Erik aveva
trascorso a Napoli erano cose di poco conto e che avrebbe potuto
benissimo raccontargliele sua madre, un pomeriggio davanti a una tazza
di caffè. Ma era anche vero che, dopo aver scorso le prime
pagine, un'urgenza fortissima si era impossessata di lui, il bisogno di
sentire di nuovo accanto a sé quell'uomo che troppe volte
gli era parso sfuggente, incomprensibile in un modo in cui aveva fatto
credere a Louis, negli anni della sua adolescenza, che suo padre non lo
amasse abbastanza, che c'era qualcosa di sbagliato in lui come figlio
da non riuscire a rendere felice appieno un genitore.
Quel diario gli stava regalando la certezza, troppo a lungo desiderata,
di sapere che le ombre che talvolta passavano sul viso di Erik erano
ombre di fantasmi lontani, molto lontani da lui, da sua madre, dalla
loro famiglia. Il contenuto di quel quaderno permetteva a Louis di
sperare che il dolore che quell'uomo aveva provato prima che lui
nascesse non avesse fatto altro che amplificare la sua gioia per
l'affetto della famiglia che era riuscito a mettere insieme.
Louis decise di rimandare la stesura della lettera a sua madre, fuori
cominciava a fare sera e a lui serviva decisamente una boccata d'aria.
In quei giorni era stato così impegnato nelle ricerche della
casa che non aveva avuto molto tempo per continuare a leggere il
diario. Ora era curioso di sapere come erano stati i primi giorni di
Erik al San Carlo, ma prima c'era un'altra cosa di cui aveva bisogno:
la musica.
L'amore per la musica era sempre stato per lui una cosa naturale, come
se ci fosse qualcosa che viaggiava nel suo sangue e portava al cervello
il bisogno pressante di prendere in mano un violino o avvicinarsi al
pianoforte. Era al di sopra di lui, quasi una maledizione, ma l'attimo
in cui posava il violino sulla spalla e l'archetto sfiorava le corde
producendo la prima nota era intenso come un uragano che abbatte una
diga e fa tracimare un fiume in cui un suono segue un altro, sulle onde
del ritmo. Una sensazione di abbandono così perfetta che
Louis era certo che il Padreterno avesse provato la stessa identica
emozione quando aveva deciso di creare la Terra.
Si era avvicinato alla musica fin da bambino. E come avrebbe potuto
essere altrimenti, visto che la musica era ciò su cui si
posava ogni sua singola giornata?
Da piccolo gli piaceva ascoltare suo padre suonare e gli era parso
logico voler imparare, era così affascinato dall'idea che le
sue mani su un pezzo di legno potessero produrre un tale incanto che
era convinto che anche il resto del mondo aveva, prima o poi, provato a
pizzicare le corde di un violino.
Aveva passato lunghe notti insonni a cercare di imparare, aveva
trascorso pomeriggi interi ad osservare Erik e tentare di carpire ogni
suo segreto, ma la verità è che il talento non
è fatto di segreti, è la capacità di
usare l'istinto come se fosse razionale... una capacità che
Louis aveva temuto di non possedere, poi i suoni acuti e strozzati, le
note disarticolate dei suoi primi tentativi si erano via via tramutate
in suoni sempre più perfetti e armoniosi, con una
rapidità che aveva sorpreso anche lui.
Per i suoi diciassette anni suo padre gli aveva regalato lo Stradivari.
Lo aveva progettato lui stesso, disegnato ogni particolare, dai fori
arricciati sulla parte bassa del ponticello alla decorazione di
madreperla sulle fiancate, aveva mandato il progetto a Cremona e
preteso che ci fosse un solo unico esemplare di quello strumento, quel
violino doveva essere solo per lui, pour Louis.
Il ragazzo si accorse che la sua mansarda non era tanto lontana dal
Messidor, il piccolo bar che aveva preso a frequentare tutte le sere.
Aveva fatto amicizia con la giovane cameriera, Madeleine, e adesso lei
non lo chiamava più monsieur
e non gli dava più del voi, anzi gli rivolgeva dei sorrisi
che Louis non le aveva visto fare a nessun altro cliente, nemmeno a
quelli abituali che conoscevano quel posto meglio di lui.
Quella sera, il ragazzo entrò, ordinò un calice
di vino e si sedette sul piano del tavolo più nascosto, in
un angolo della saletta del bar.
Madeleine aveva visto che aveva portato il violino con sé,
sembrava compiaciuta, erano diverse sere che gli chiedeva di suonare.
Louis estrasse il violino dalla custodia, vide la luce fioca delle
candele disegnare riflessi acquosi sulla superficie di legno lucido.
Appoggiò lo strumento contro la spalla, il contatto tra la
guancia e il piano della cassa gli fece pensare alle carezze dei suoi
genitori, a quelle di sua madre, tante, dolcissime, e a quelle di suo
padre, rare e per questo ancora più dolci.
Palummella, zompa e vola
addò sta
nennella mia...
Chiuse gli occhi, posò l'archetto sulle corde, lo mosse. La
diga straripò in un secondo.
Quella musica portava con sé tanti ricordi, gliela aveva
insegnata Erik ma era la musica di Napoli, una delle facce
più lucenti di quel diamante grezzo che era la
città partenopea.
Palummella, vola vola
a la rosa de sto core...
Suonò finché ne ebbe voglia. Alle volte sentiva
davvero il bisogno di lasciarsi ascoltare, come quando era un ragazzino
e c'erano i fantasmi negli occhi di suo padre e lui usava la musica per
cacciarli via, almeno per un po'.
Ad ogni nota, anche i fantasmi che in quei giorni avevano bussato alla
sua mente cominciarono ad andare via. Ad ogni movimento dell'archetto
si facevano meno nitidi, ad ogni pressione sulle corde le loro voci
diventano più fioche. Quando la musica cessò,
erano andati via.
I presenti lo applaudirono ammirati, qualcuno chiese
«ancora!» con la voce impastata dall'alcol. Louis
bevve il suo bicchiere di vino.
«Ancora!» gridarono di nuovo un paio di voci da
qualche punto indistinto.
«Non stasera, signori miei». Per quella sera aveva
finito, per quella sera la sete si era estinta, il bisogno era placato.
Madeleine lo raggiunse districandosi tra i tavoli e gli
portò un bicchiere di quello che, avevano scoperto insieme
in quelle sere, doveva essere il suo cognac preferito.
«Questo lo offre la casa, anche se non te lo meriti, mi hai
mentito» gli disse scostandosi dal viso una ciocca di capelli
rossi.
«Mentito?»
«Avevi detto di essere un bravo musicista, ma sei davvero un
genio»
«Lo so, ma se te lo avessi detto non mi avresti
creduto» replicò Louis ironico, bevendo un lungo
sorso di liquore.
Tornò a casa una decina di minuti dopo, non era tardi e le
strade non erano ancora troppo affollate dalle orde di nottambuli
incapaci di resistere alle stelle di Parigi, così come dai
malfattori e dai disgraziati che ogni grande città si
portava nella sua scia.
Salì le scale che conducevano alla mansarda, fischiettando.
Fischiettava sempre, era l'unica alternativa che aveva al canto... lui
odiava il fatto di non essere bravo a cantare.
Stava già per infilare la chiave di ottone nella toppa
quando sentì dei rumori provenire dall'interno. Suoni sordi
e ovattati di cose che venivano spostate.
Per un attimo restò fermo e guardò la porta: era
chiusa, la serratura non era stata forzata ed era impossibile che
qualcuno fosse entrato dalla finestra, perché non c'era modo
di scalare i muri della palazzina e arrivare fino all'ultimo piano.
Forse i ladri parigini conoscevano qualche sofisticato modo di aprire
le porte...
Louis appoggiò un orecchio allo stipite di legno di
ciliegio. A giudicare dal poco rumore non dovevano esserci
più di una o due persone lì dentro. Non si
sentiva nemmeno un bisbiglio.
Il ragazzo decise che avrebbe benissimo potuto vedersela da solo. Ah,
ma sarebbero stati i ladri a vederla!
Aprì la porta girando lentamente la chiave, senza produrre
il minimo rumore. Sgusciò dentro protetto dal buio quasi
totale in cui era avvolta la casa. La sala era vuota, come l'aveva
lasciata, anche se erano state spostate le sedie, era stato sollevato
il tappeto e i mobili erano stati scostati dal muro. Sembrava che il
ladro stesse cercando qualcosa sul pavimento. Si aspettava forse di
trovare qualche botola segreta colma di oro e gioielli?
La fonte del rumore ora si trovava in camera da letto. Louis
pensò per un attimo di usare il violino come arma, ma il
terrore di rovinarlo fu più forte della paura dei ladri,
quindi posò lo strumento sul tavolo della cucina, stando
attento a non emettere il minimo suono, raggiunse cautamente la soglia
della stanza e guardò dentro. Anche lì tutto era
stato spostato, c'era qualcuno steso prono, con la testa infilata sotto
al letto. Per un attimo Louis temette di essere stato scoperto,
perché la persona che si era ritrovato in casa emise
un'acuta esclamazione, un «Ah!» che lo prese alla
sprovvista e lo fece sobbalzare.
Lo sconosciuto tirò via la testa da sotto al letto e si
alzò dandosi un'energica spinta con le braccia, ma una volta
in piedi non si mosse, era di spalle e Louis non riusciva a vederlo in
faccia. Sembrava stesse contemplando qualcosa che aveva tra le mani.
Cosa poteva mai aver trovato sotto al letto se non un po' di fuliggine?
Ad ogni modo, Louis pensò che l'effetto sorpresa poteva
essere un'ottima arma – dato che non ne aveva altre
– e si lanciò violentemente contro lo sconosciuto.
L'urto li fece cadere entrambi sul pavimento, Louis si
ritrovò steso sopra il suo sgradito ospite e lo
bloccò a terra con il suo peso.
«Non è la tua serata fortunata!» gli
disse cercando di darsi un tono minaccioso.
«No, no, no! Fermati!» strillò l'altro,
serrando gli occhi spaventato. «Non sono un ladro, te lo
giuro!»
«Chissà come mai, ma non ti credo»
«Guarda...» fece l'intruso, muovendo a fatica il
braccio trattenuto dalla stretta di Louis.
Il ragazzo distolse per un attimo lo sguardo, puntandolo sull'oggetto
che l'altro gli stava mostrando.
«È un pennello» esclamò.
«Certo che è un pennello. Lasciami
andare».
Louis si alzò e accese la lampada sul comodino. Non si
sentiva ancora abbastanza bendisposto da aiutare l'altra persona ad
alzarsi.
La lampada emanava una sfera di luce giallastra e calda che permise al
ragazzo di vedere il volto del suo visitatore notturno. Era un giovane,
doveva avere la sua stessa età anche se era più
basso e meno robusto, aveva occhi color nocciola dal taglio quasi
femminile e una massa intricata di riccioli biondi a incorniciargli il
viso affilato. Era vestito troppo bene per essere un ladro, un
gilè come quello che indossava doveva valere assai
più del bottino che avrebbe raccolto derubando l'alloggio di
un turista.
«Scusa per l'intrusione, non avevo capito che qualcuno avesse
già occupato la casa, ho ancora una copia delle
chiavi» disse il ragazzo biondo, cavandosi dalla tasca una
chiave di ottone identica a quella che avevano dato a Louis.
«A proposito, mi chiamo Gustave De Chagny».
«Io sono Luigi... Louis, se preferisci»
replicò senza troppa convinzione. Ormai era certo che quel
De Chagny non fosse un ladro, aveva persino un cognome nobiliare, ma
doveva ancora riprendersi dal colpo di esserselo ritrovato in casa.
«E comunque, c'è un buon motivo perché
tu ora sei qui, giusto? E me lo dirai, prima che io chiami i gendarmi,
vero?».
Gustave annuì,
«Devi scusarmi, è che questa casa era il mio
studio, fino a pochi giorni fa. La palazzina appartiene a mio
padre» spiegò. «A lui non piace che io
faccia il pittore e ha voluto che portassi via le mie cose, poi ha
deciso di darla in affitto. Mi ero accorto di aver perso un pennello
nuovo che avevo comprato da poco e sono venuto a cercarlo, non pensavo
che fosse casa tua».
Louis pensò che doveva essere proprio una cosa orribile
avere un padre che non vuole che il figlio faccia l'artista, a
prescindere dal campo di applicazione. Quel ragazzo aveva un'aria
dolce, un po' effeminata, sembrava gracile quanto una ragazzina in
effetti, e sembrava sinceramente dispiaciuto per l'increscioso
incidente.
«D'accordo, facciamo finta che non sia successo
niente» concesse il ragazzo moro con un mezzo sorriso, non
aveva voglia di infierire né di prolungare più
del necessario quella visita. «Tu hai il tuo pennello, io non
sono morto di infarto, direi che possiamo continuare a vivere le nostre
vite».
Gustave sorrise,
«Sì, direi che possiamo».
Bene. Ora perché diamine restava impalato lì e
non si toglieva dai piedi?
«Scusa Gustave, ma io sono un po' stanco e vorrei andare a
dormire. Ti dispiacerebbe...» Louis non riuscì a
terminare la frase, il ragazzo biondo era uscito dalla camera da letto
e si era diretto verso la cucina.
«Sei un musicista!» esclamò, guardando
deliziato la sagoma scura della custodia del violino. «A mia
madre piacciono molto i musicisti».
E a me potrebbe piacere
molto tua madre! Louis pensò seriamente di
rispondere così, poi si ricordò che la
sua di madre sarebbe stata capace di mozzargli la lingua per una frase
del genere e i volgari sottintesi che conteneva. Ma quel ragazzo
cominciava a dargli sui nervi, sarebbe stato educato da parte sua
sparire immediatamente per farsi perdonare del disturbo, e invece se ne
stava lì, come se lui fosse un vecchio amico con il quale
aveva voglia di conversare.
«Gustave, c'è qualcosa che posso fare per
te?» disse dunque con infinita pazienza, tradendo quelle
parole con uno sguardo seccato.
«Per caso hai qualcosa da bere?».
*******
~ Napoli, 15 marzo 1871 ~
Le note erano come una raffica di proiettili, esplodevano fendendo
l'aria come frecce scoccate in mezzo alla nebbia, dirette, taglienti,
fameliche. Poi fu un tremito della mano, forse un principio di
indolenzimento ad altezza del polso, e lui stonò.
Erik lasciò cadere l'archetto del violino sulla scrivania e
sospirò. C'erano poche cose davanti alle quali il suo genio
e il suo orgoglio arretravano, ritirandosi in una trincea di
frustrazione propria di chi si vede costretto a disegnare il limite del
talento che sa di possedere. Una di queste cose era La Campanella di
Paganini. Quando aveva letto quello spartito per la prima volta aveva
sentito quasi un formicolio alle dita immaginando il ritmo serrato
delle note risuonare nelle sue orecchie, il fiato spezzarsi per la
concentrazione di tenere testa a quella musica infernale e superba che
aveva amato fin dalla prima riga di pentagramma.
Conosceva le leggende macabre che ruotavano attorno alla figura del
compositore genovese: corde di violino ricavate dalle viscere degli
uomini che aveva assassinato, il patto con il Diavolo che aveva reso
bellissime le sue composizioni ma che gli aveva corrotto la carne.
Anche Paganini era un mostro, con il corpo scheletrico martoriato dalla
sifilide e dal mercurio usato per curarla, un mostro con tante amanti e
con il mondo ai propri piedi. Un mostro di cui Erik amava le note,
soprattutto quelle del finale del suo secondo concerto per violino.
L'uomo posò il proprio violino sulla scrivania. Si trattava
dello strumento che gli aveva fatto avere Luisa nelle sue prime
settimane a palazzo Giusso. Erik dovette ammettere che se non avesse
avuto qualcosa per suonare, sarebbe stato tutto molto più
difficile.
Era fuori dal suo riparo da soli due giorni e il mondo che aveva
trovato ad attenderlo era una matassa aggrovigliata di cose che lui
faticava a capire. Non comprendeva la gente che aveva attorno, non
comprendeva perché persone che disponevano di tutta la
libertà possibile si affannassero a costruire con le proprie
mani le prigioni che avrebbero finito per seppellirli. Guglielmo
Marchesi, ad esempio, era il primo della fila in quella processione di
follia masochista. Ad Erik era bastato così poco per intuire
cosa si celava dietro la faccia tonda del direttore del San Carlo.
In primo luogo, era disperatamente innamorato della signorina Rovesti.
Sullo scegliere donne al di fuori della propria portata Erik si sarebbe
definito un maestro, ma Marchesi seguitava a sospirare per la bella
soprano senza fare un minimo passo per colmare la distanza abissale che
li separava.
In secondo luogo, come era possibile che un giovane uomo benestante
fosse finito a ricoprire una posizione che detestava? Come aveva fatto
a non opporsi mai, in tutti quegli anni, alle pretese e alle
imposizioni della sua famiglia? Come può qualcuno scegliere
di essere prigioniero quando non ci sono catene a trattenerlo?
Si ricordò di quello che gli aveva detto il duca, che
avrebbe dovuto cominciare a comprendere gli animi delle persone. Ma
quelle persone gli sembravano così sciocche e insignificanti
e si preoccupavano di cose assurde e si sommergevano di domande, e mai
che fossero le domande giuste!
Un delicato bussare alla porta riscosse Erik dai suoi pensieri.
Guglielmo Marchesi fece il suo ingresso come sempre aveva fatto prima
di allora: reggendo tra le mani un piccolo vassoio con sopra due
tazzine fumanti dalle quali si sprigionava l'inconfondibile aroma del
caffè.
Le case napoletane, evidentemente, dovevano essere pregne di
quell'odore fin dentro le fondamenta. Erik lo sentiva sempre, tutte le
mattine, in cui rientrava dalla sua passeggiata sul
lungomare, sentiva quell'aroma forte e corposo provenire
dalle finestre, spirare da un portone lasciato aperto o da un balcone.
Lo aveva sentito anche in casa del duca, alzarsi piano dalle cucine, a
diverse ore della giornata tutti i giorni in cui era rimasto
lì.
Guglielmo Marchesi poi sembrava incapace di sostenere una qualsiasi
conversazione senza avere davanti una tazza di caffè. Lo
preparava lui stesso, così gli aveva detto, e il solo
tremolio leggero dell'acqua che cominciava a bollire lo faceva
già sentire meglio. Il perché Marchesi riteneva
di dover condividere quella personale gioia del gusto con lui, ogni
volta che ne sentiva la necessità, era un mistero che Erik
ancora non era riuscito a sondare.
Erik aveva dovuto fare diversi tentativi prima di decidere quale fosse
la giusta dose di zucchero perché il caffè di
Marchesi non gli sembrasse sgradevole. Alla fine aveva scoperto che lo
preferiva con un solo cucchiaino, quel tanto perché non
fosse insopportabilmente amaro e perché, allo stesso tempo,
il dolce non rovinasse il sapore della bevanda.
Il temuto Fantasma dell'Opera che beveva caffè con un inetto
direttore di teatro. Era sciocco, ma cominciava a rendersi conto di una
cosa assolutamente ovvia alla quale non aveva mai pensato prima di
allora: il mondo esige ogni istante il suo tributo da chi ne fa parte.
Il tributo di essere accettabile, una tassa indicibilmente salata per
un uomo che non si era mai ritenuto accettabile, sotto nessun punto di
vista, eppure non poteva fare a meno di pagarla, per quanto alle volte
gli sembrava uno sforzo veramente inutile e
penoso.
«Permettete, Maestro?» mormorò Marchesi
con la sua consueta cortesia un po' fanciullesca. «Vi ho
portato il caffè. E già che sono qui pensavo di
parlare dei costumi per la rappresentazione».
L'uomo annuì e fece cenno al direttore di sedersi,
indicandogli una delle sedie davanti alla scrivania. Guglielmo non
avrebbe fatto un passo se non fosse stato lui a dirglielo. Erik
cominciava chiedersi se in quella testa ci fosse un solo pensiero che
il giovane Marchesi aveva prodotto da solo, senza che qualcuno glielo
avesse inculcato.
Se non altro, Marchesi aveva smesso quasi subito di avere quell'aria
ansiosa quando era con lui.
Erik aprì un cassetto e tirò fuori una cartellina
piena di fogli che porse al suo interlocutore.
«Sono i modelli dei costumi per lo spettacolo»
esclamò Guglielmo, come se ci fosse bisogno di palesare
l'ovvio. «Ma come... quando li avete disegnati? Ne abbiamo
parlato appena ieri».
Aveva lavorato a quei disegni tutta la notte, ed era stato proprio come
un tempo, come cancellare tutto ciò che era accaduto
nell'ultimo mese. Mentre la sua mano tracciava decisa segni di matita
sui fogli, Erik aveva potuto trascinare la sua mente lontano da quel
luogo e illudersi che quando avrebbe rialzato lo sguardo dalla
scrivania sarebbe stato di nuovo nella Dimora sul Lago, con il suo fato
ancora tutto da scrivere, con il suo cuore ancora intatto e ammorbidito
dal balsamo dolce della speranza per un amore che mai, nemmeno per un
singolo istante, aveva avuto una sola ragion d'essere.
È davvero
ciò che vuoi, Figlio del Diavolo?
Di nuovo quella voce, dal fondo dei suoi pensieri, che spirava dubbio e
gelo nella sua mente, che rimbombava nel cratere vuoto che aveva ormai
al centro del petto. Cosa avrebbe voluto? Essere a Parigi, nei
sotterranei dell'Opera, a strappare la luce goccia dopo goccia da
quelle ombre infinite?
Considerò che, in fin dei conti, non c'era così
tanta differenza tra il suo modo di vivere di allora e quello di
adesso. Il fatto che le persone che lavoravano in quel teatro sapessero
di lui non le rendeva più vicine e meno ostili, ma ormai non
importava più, non avrebbe mai più implorato
nessuno per essere riconosciuto come l'uomo che avrebbe voluto essere e
non come il mostro che era diventato.
«È
nella tua anima la vera deformità».
Quelle parole lo rincorrevano ovunque, nei suoi sogni, nei passi che
ogni mattina lo portavano fino al mare, nelle ore che aveva trascorso a
lavorare sui modelli dei costumi, gettando il sale di lacrime di rabbia
e delusione sulle ferite ancora aperte. Erano state quelle parole a
mettere il punto conclusivo a tutto, ancora prima di quelle ultime ore
di violenta follia, prima che il fuoco dell'amore non tramutasse in
cenere persino la sua malvagità.
Erik girò pigramente il cucchiaino nella tazza, come a
dissipare con quel gesto le nuvole che gli stavano ombrando la mente.
«Ve l'avevo detto, ho l'abitudine di lavorare alle ore
più insolite» rispose.
Guglielmo passava e ripassava lo sguardo su quei disegni, ogni volta
sempre più soddisfatto e sorridente.
«Quando avete detto che avevate dei consigli per la sartoria,
pensavo si trattasse di qualche suggerimento vago. Non sapevo che
sapeste fare questo» commentò. C'erano domande
sottintese in quelle parole, Marchesi non perdeva mai occasione per
farlo, ma non aveva il coraggio di porre quesiti in modo diretto.
«Significa che sono di vostro gradimento?»
replicò Erik.
«Oh, sì, certamente. Farò in modo che
la sartoria cominci a lavorare oggi stesso a questi costumi, ho
convocato gli attori per questo pomeriggio, perché i nostri
costumisti comincino a prendere le misure».
*
Da lì a qualche giorno, ci sarebbero stati altri spettacoli
al San Carlo, dei balletti e della prosa, ma in quelle sere il teatro
era rimasto vuoto e lui si era sentito quasi in obbligo di esplorarlo,
di farlo suo e cominciare a conoscerlo.
Anche al buio, quel posto non sembrava perdere quasi nulla della sua
luminosità. Erik aveva scovato il passaggio che conduceva
all'interno di Palazzo Reale, fatto costruire dal re Carlo di Borbone
perché potesse recarsi agli spettacoli senza dover uscire in
strada. Si era ripromesso di provare a risalire quella sorta di
galleria nascosta, ma quella sera, immerso nella quiete del teatro
ormai vuoto, fu la musica a tentarlo maggiormente.
Sul palco c'era ancora il piccolo pianoforte a muro, usato come
accompagnamento per le prove del balletto che si erano svolte quel
pomeriggio. Erik aveva ascoltato per un po' il Maestro Dibello suonare
dei pezzi per far esercitare le ballerine ed era rimasto compiaciuto
nel rendersi conto di trovarsi di fronte a qualcuno di abbastanza
competente. Anche se sapeva che c'era molto lavoro da fare
perché ogni cosa fosse perfetta
e bellissima, come aveva detto Marchesi, per lo spettacolo
che aveva il compito di allestire.
Ah, se il caro direttore voleva bellezza e perfezione lui era certo in
grado di dargliele, ed era un bene che tutti in quel teatro fossero
così capaci e collaborativi.
Erik si sedette al pianoforte e suonò un La. La nota
vibrò nel vuoto, e ondeggiò per tutto il teatro
prima di disperdersi nel silenzio.
L'uomo chiuse gli occhi e cominciò a suonare una scala di
accordi, senza nemmeno pensarci, la scala si trasformò nella
musica del suo Don Juan.
Non si accorse dei passi alle sua spalle, concentrato com'era sulla
musica,
«È molto bella, di che si tratta?» disse
la voce, dal nulla.
Le dita di Erik si irrigidirono e tremarono, premendo male i tasti che
produssero un suono greve e disarticolato. Si voltò, con la
parte sana del viso deformata in una smorfia infastidita.
«Perdonate, Maestro. Non volevo spaventarvi».
Graziana Rovesti era in piedi alle sue spalle, avvolta in un abito
color avorio. La sua figura aggraziata si disegnava incerta nel buio.
«Credevo che il teatro fosse vuoto» disse Erik
brusco.
«Ero tornata indietro perché avevo dimenticato il
mio foulard» spiegò lei. «Cosa stavate
suonando?»
«Improvvisavo» mentì l'uomo.
«C'è qualcosa di assolutamente straordinario in
voi, ma immagino che lo sappiate già».
Erik sentì qualcosa che gli si contorceva nello stomaco, un
misto indefinibile di fastidio e orgoglio.
«Mi state adulando, Graziana?». La voce
suonò meno severa di quanto avrebbe voluto.
«Vi sto ammirando, è diverso»
replicò lei con un sorriso che sembrava brillare.
Lo stava... che cosa?
Erik cercò un modo per controbattere, cercò
parole taglienti che avrebbero persuaso quella giovane donna e non ammirarlo
più in futuro, ma non le trovò. Graziana aveva
gli occhi di una persona perfettamente capace di stare al mondo e lui,
fino a quel momento, del mondo era stato solo uno spettatore.
«Sono certo che siate più avvezza di me ai
complimenti» disse infine l'uomo in tono inespressivo.
«Credo sia ora di andare a dormire, signorina
Rovesti».
*
Il suo amante l'aspettava in una carrozza. Glielo aveva regalato lui
quell'orribile foulard di seta viola e lei aveva dovuto fingersi
dispiaciuta quando si era accorta di averlo dimenticato nel suo
camerino del teatro, quindi era tornata indietro a cercarlo e prima di
uscire aveva sentito la musica, perfetta e bellissima risuonare nel
vuoto.
Una volta c'era stata la moglie di uno dei suoi amanti che aveva
scoperto la loro tresca e aveva fatto una scenata, minacciando di fare
uno scandalo. Graziana aveva replicato soave che la cosa avrebbe
danneggiato più la signora e il buon nome della sua famiglia
che non lei. La donna le aveva dato della zoccola e Graziana, senza
scomporsi, aveva osservato che c'era una sostanziale differenza tra lei
e una prostituta: lei gli amanti se li sceglieva. E di solito la sua
scelta cadeva su ricchi signori disposti a finanziare i suoi
spettacoli, non le importava altro.
Uno di questi ricchi signori era l'uomo che attendeva nella carrozza
posteggiata all'imbocco di via Toledo.
Che aspetti pure! Qualcuno
stava suonando qualcosa di molto bello e lei voleva ascoltare.
Non si era stupita di trovare lì il Maestro francese.
Quell'uomo era arrivato al San Carlo da soli due giorni e i
pettegolezzi su di lui già cominciavano a gonfiarsi. Si
sarebbero gonfiati giorno dopo giorno, di sicuro, fino a esplodere in
una bolla di bugie, perché la verità era che
nessuno sapeva niente di quello straniero, se non che fosse un amico
del duca Giusso, che veniva da Parigi e che se ne intendeva di musica e
spettacolo. Lo stesso duca rispondeva in modo evasivo a qualsiasi
domanda gli veniva posta in merito all'uomo dalla mezza maschera
– particolare bizzarro che non faceva che aumentare
l'interesse attorno alla figura del Maestro del San Carlo.
Nessuno sapeva niente, ma questo rendeva solo più divertente
fare congetture e poi vedere quelle congetture trasformarsi in fatti da
far viaggiare, in tutte le varianti possibili, per la città,
dal più periferico dei suoi bassifondi, al palazzo
più alto della collina di Posillipo, come certamente sarebbe
accaduto da lì a poco.
Graziana aveva capito che non sarebbe stato facile avere notizie
nemmeno dal diretto interessato. Il Maestro, a quanto sembrava, non
lasciava mai il suo ufficio se la cosa non era strettamente necessaria,
e quei pochi che avevano avuto modo di parlare con lui lo descrivevano
come un uomo dai modi estremamente signorili ed educati, ma dallo
sguardo freddo come il ghiaccio. Uno sguardo capace di gelare il
più affabile dei sorrisi e scoraggiare chiunque volesse
parlare con lui.
Nemmeno Guglielmo Marchesi sapeva nulla, Graziana se n'era accorta
subito e le era rimasta una tremenda curiosità di scoprire
chi si celava dietro quella maschera. Perché il Maestro era
un uomo estremamente attraente nella sua eleganza e nel suo algido
distacco, e l'alone di mistero che lo circondava non faceva che
renderlo più fascinoso agli occhi della giovane donna.
Certo, c'era la questione della maschera, un'altra domanda senza
risposta nell'infinita sequela di quesiti, ma a Graziana la cosa non
sembrava particolarmente rilevante.
Quando era comparsa alle sua spalle, non voleva spaventarlo, se non
altro perché non voleva farlo irritare, le aveva dato
l'impressione di un uomo particolarmente incline alla collera, e
nemmeno voleva interromperlo. Tuttavia, quando aveva sentito quella
musica, non era riuscita a trattenersi dall'avvicinarsi e parlare con
lui.
Alla fine non avevano scambiato che poche frasi, poi lui aveva
osservato che era ora di andare a dormire e lei aveva capito che la
conversazione – se tale si poteva definire – era
purtroppo giunta al capolinea.
Salì sulla carrozza, sorridendo all'uomo che l'attendeva
picchiettando impaziente le dita sul fondo del suo cappello a cilindro
e si promise che alla prima occasione sarebbe riuscita a farsi dire
almeno il suo nome.
Dopotutto avevano ben due mesi di prove da trascorrere assieme, e
chissà in due mesi quante cose sarebbero potute accadere.
________________________________
Here,
I have a
note...
Capitolo
di delirio a briglia sciolta... azzuffate notturne, intrusi non
particolarmente svegli, pennelli da pittore e tazze di
caffè... non
so perché sia venuto fuori in questo modo.
“Palumbella”
è un'antichissima (e a mio avviso bellissima e dolcissima)
canzone
della tradizione napoletana, e tornerà (forse tra millemila
capitoli) in questa storia. Non so come possa suonare su un violino,
ma mi piaceva immaginare Louis eseguire quella canzone.
Riguardo
a La Campanella, il finale del secondo concerto per violino di
Paganini, non chiedetemi perché, ma nella mia testa Erik
adora quel
brano.
Al
prossimo mercoledì ^^
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 6 *** Graziana ***
Capitolo quinto
Graziana
~ Napoli, 20 marzo 1871 ~
Graziana era contenta che le prove per La Traviata fossero cominciate.
Il teatro, quel teatro,
era l'unica ragione che la tratteneva in quell'odiosa città
piena di caos e miseria.
Era arrivata a Napoli sei anni prima, dalle zone nebbiose dell'Emilia,
figlia del proprietario di una piccola fabbrica tessile, scappata dallo
scandalo che aveva minacciato di travolgerla per sempre e seppellirla,
inchiodandola in quel paesino umido e squallido.
Era consapevole di non avere altri tesori se non la sua voce e il suo
bell'aspetto e aveva intenzione di sfruttarli il più
possibile.
L'arte, la musica, il canto, la bellezza erano tutte cose che Maurizio,
l'apprendista del fabbro di quel piccolo paesino di pianura, non poteva
capire ma lui stava per andare a Napoli, a lavorare nel pastificio di
quel parente che aveva fatto fortuna nel Meridione, un posto dove la
fortuna raramente era di casa, e in quegli anni a Napoli stavano
accadendo grandi cose in quel teatro che lei aveva visto riprodotto una
volta in una cartolina.
Aveva pensato di comprare un passaggio per la città
partenopea e un tetto sulla testa una volta giunta lì con la
sua prima volta, in un retrobottega polveroso che odorava di ruggine e
acqua stagnante. Maurizio, dopotutto, le voleva proprio bene, gliene
aveva sempre voluto... solo che lei gli aveva chiesto di fare
attenzione, ma nella foga lui non l'aveva ascoltata. E così
si era ritrovata in attesa di un figlio, come una maledizione. Niente
più teatri, niente sogni di gloria e la vergogna come
compagna di strada ogni volta che avrebbe messo il naso fuori dalla
porta.
Lui non lo aveva mai saputo, ma era un giovane onesto e come ogni
giovane onesto era uno sciocco. Anche senza mai sapere di quel figlio
non voluto, le aveva chiesto di sposarla. Graziana era stata sul punto
di accettare ma poi le avevano detto di quella zingara, in
quell'accampamento oltre le vigne e i campi di grano; quella donna
poteva strappare i bambini via dalla carne delle madri che non li
volevano. Ma c'era da fare presto...
E Graziana aveva fatto presto.
Il ricordo del sangue che la colava tra le gambe e delle fitte di
dolore all'addome, il sentore del freddo di quei ferri che si
insinuavano dentro di lei era quasi del tutto sbiadito, era una specie
di incubo nebbioso dissoltosi nelle luci di scena. Un prezzo esiguo da
pagare per tutto quello che era poi venuto dopo.
Non era più nemmeno un vero ricordo oramai, non quella
mattina, con il San Carlo ai suoi piedi, in attesa di sentire la sua
voce.
Certo, non era stato tutto bello e semplice all'inizio, aveva dovuto
fare la sua gavetta di ruoli marginali e piccolezze, ma le erano
servite per addomesticare il talento e renderlo perfezione.
Graziana era certa che il suo pubblico non avrebbe potuto capire certe
cose, nessuno di loro aveva mai visto il teatro dall'alto di un palco,
la maestosità di quel posto scomparire nel buio quando le
luci in sala venivano spente e il sipario si apriva, e poi tutto
tornare al suo posto, dopo lo spettacolo, con la platea in piedi ad
applaudire. Non avevano provato l'ebbrezza nel sentire il silenzio
esplodere in una raffica di applausi così forti da poter
smuovere anche le nuvole sull'affresco del soffitto. Non avevano
provato lo stordimento del profumo di decine di mazzi di fiori
ammassati nel camerino.
Per ogni serata in cui quel momento si ripeteva, perfetto, bellissimo,
intenso, Graziana era certa che ne fosse valsa la pena, che tutto
ciò che aveva fatto di biasimabile o di scorretto diventava
giusto, comprensibile, ogni peccato era assolto nel fragore di
quell'applauso.
Cominciare le prove per La Traviata avrebbe significato anche
trascorrere del tempo con il Maestro francese. Graziana era curiosa di
sapere come si sarebbe comportato quell'uomo a lavorare insieme a lei e
alle altre persone della compagnia giorno dopo giorno, se la dedizione
al suo lavoro l'avrebbe reso ancora più duro o se la musica
era in grado di ammorbidirlo... se lei era in grado di ammorbidirlo,
giacché quell'uomo aveva palesato una certa ammirazione per
il suo talento.
Il direttore aveva convocato tutta la compagnia quella mattina, su
precise istruzioni del Maestro. A quanto sembrava, il musicista
francese aveva anche progettato personalmente i costumi di scena e le
scenografie, in quei giorni era sceso di persona nella sartoria e nella
falegnameria per controllare il lavoro di chi si stava occupando della
realizzazione dei vestiti e dei fondali. Infine, aveva dato perentorie
istruzioni sul fatto che nessuno, a parte chi era impegnato nella
realizzazione, visionasse i progetti o i lavori in corso dei costumisti
e degli scenografi. Il perché non era molto chiaro, ma tutti
avevano imparato a non stupirsi più di tanto delle bizzarrie
di quell'uomo e poi, Marchesi sembrava nutrire una fiducia cieca nelle
sue competenze, per cui ogni suo ordine era come legge tra le pareti
del San Carlo.
Graziana era arrivata puntuale per le prove ed era andata nel suo
camerino a posare il soprabito e la borsa. Lì aveva trovato
quella ragazzina di cui non riusciva mai a ricordare il nome, una degli
inservienti del teatro, intenta a spolverare.
«Sei ancora qui?» le aveva borbottato. «A
quest'ora non avresti dovuto già finire?».
La ragazzina, una di quelle poco sveglie che avevano paura persino
della propria ombra, stava farfugliando delle scuse mortificate, quando
arrivò Guglielmo Marchesi, tirato a lucido in un completo
nuovo.
Nelle prime settimane in cui il figlio del banchiere era entrato a
teatro in veste di direttore, Graziana aveva seriamente temuto per le
sorti del San Carlo, ma il buon Guglielmo forse doveva essere meno
sciocco di quanto sembrava se alla fine aveva deciso di avvalersi
dell'ausilio del Maestro che sembrava notevolmente più
competente e dotato del pugno saldo che a lui mancava.
«Graziana, che piacere vedervi» esclamò
immediatamente Marchesi sorridendole in quel suo modo da bambino, come
se fosse stupito di trovarla lì.
«Buon giorno, signore» gli rispose lei, fingendo
senza alcuna fatica un meraviglioso sorriso dolce e cordiale.
«Oggi iniziano le prove, dunque. Ditemi, siete
preoccupata?»
«Dovrei esserlo, secondo voi?»
«Oh, no... voi... no, certo che no».
Le orecchie di Guglielmo stavano cominciando a diventare rosse. Ecco
un'altra persona che aveva paura della propria ombra. Intanto quell'oca
dell'inserviente stava ancora pulendo il suo camerino.
«Sapete, mi chiedevo se voi aveste visto i progetti per le
scenografie e i modelli dei costumi» disse la giovane donna
dandosi un'aria vaga e disinteressata.
«Sì, io li ho visti, certo che li ho
visti» rispose Guglielmo annuendo.
«Ah, ecco. Mi sarebbe parso strano se il direttore del teatro
non avesse visionato quei progetti, dopotutto l'ultima parola sugli
spettacoli spetta a voi»
«Davvero?... ehm, sì, suppongo di
sì».
Graziana sorrise con fare allegro,
«Mi piacerebbe molto vederli» ammise.
Guglielmo sollevò le sopracciglia fin quasi all'attaccatura
dei capelli,
«Il Maestro ha detto che è meglio di no»
le disse.
«E cosa n'è stato della vostra ultima
parola?» lo provocò la donna con fare bonario di
rimprovero.
Marchesi ristette corrugando la fronte. Evidentemente il ragionamento
era troppo complesso per la sua mente semplice.
«Beh, se proprio volete, se ci tenete»
mormorò titubante. «Potrei provare a... scusatemi,
ma come mai tutto questo interesse? Si tratta solo di costumi e pezzi
di legno e tela dipinti».
Graziana scrollò le spalle,
«La curiosità è donna»
asserì, prima di voltarsi e sparire nel suo camerino.
L'inserviente era ancora lì, a raccogliere dei petali secchi
che erano ammucchiati sotto a un mobile chissà da quanto.
«Essere lasciata in pace cinque minuti nel mio camerino
è chiedere troppo?» borbottò la soprano
con un sospiro di stizza.
«Scusate, signorina Rovesti» si affrettò
a dire la giovinetta. «Stamattina ho rassettato la stanza del
Maestro francese e ho perso del tempo...»
«Sì, sì, d'accordo, basta ciarlare.
Puoi andare, continuerai a pulire dopo».
*
La ragazza portava al collo un minuscolo ciondolo d'argento con i
simboli delle tre virtù cardinali e, curiosamente, si
chiamava Fede. Non era un nomignolo o un diminutivo, era proprio il suo
nome.
Era una tipetta bassa, un po' in carne, con un viso dolce e ciocche di
capelli castani che sfuggivano alla presa della cuffia. Era una degli
inservienti del San Carlo ed era terrorizzata da lui, senza un motivo
preciso.
Erik incrociava la giovinetta ogni mattina, lei aveva il compito di
rassettare la sua camera da letto e di pulire il suo ufficio quando lui
non c'era. Fin dalla prima volta che se l'era trovata davanti, l'uomo
aveva notato che Fede non riusciva nemmeno a sollevare lo sguardo su di
lui, gli faceva un rapida riverenza e sgusciava via a svolgere le sue
mansioni. Erik ci aveva provato – considerandolo una specie
di gioco con se stesso – a usare il suo tono più
gentile nell'augurarle buon giorno quando la incrociava prima che lei
cominciasse a pulirgli la stanza, ma non c'era stato niente da fare,
dopo una settimana Fede ancora sembrava trovarsi nel panico ogni volta
che lui le si avvicinava anche solo per caso.
Quella mattina Fede gli era parsa, se possibile, ancora più
nervosa del solito, ma Erik ormai aveva smesso di darsene pensiero.
L'uomo lasciò il suo ufficio e imboccò il
passaggio che dall'anticamera portava direttamente al cuore del teatro.
La compagnia lirica del San Carlo era lì ad attenderlo,
tutti seduti composti sulle sedie messe in fila al centro del
palco, con il Maestro Dibello già pronto davanti al
pianoforte.
L'unica volta che si era trovato davvero su un palco di teatro non
aveva avuto occhi che per Christine e non aveva ascoltato altro che le
loro voci intonare il duetto del Don Juan. L'ultima scintilla prima del
buio. Un ricordo che pesava come l'eternità e che faceva eco
nella sua memoria rammentandogli quanto fosse stato sciocco a sperare
che lei potesse preferirlo al giovane visconte, quel ragazzo che sapeva
parlarle del sole e della libertà, quando lui voleva donarle
nient'altro che un'infinita notte da provare a rischiarare assieme...
Adesso poteva vedere il teatro dalla prospettiva degli artisti,
beandosi semplicemente di quella visione, immaginando quanto potesse
essere meraviglioso trovarsi a cantare davanti a quella platea gremita,
ai volti che facevano capolino dai parapetti delle balconate. Una
prospettiva che comunque non sarebbe mai più stata la sua.
Il suo canto era morto quella notte, mentre la sua voce ripeteva quasi
senza pensarci le note della Masquerade che trillava sommessa nel
carillon a forma di scimmia. Avrebbe voluto cantare ancora, ma sapeva
di non poterlo fare, non ne era in grado, come la piccola Luisa,
così sveglia e allegra ma senza la facoltà della
parola.
«Ehm, Maestro?».
Da quanto tempo era lì immobile a fissare il teatro vuoto
davanti a sé? La voce di Dibello lo riportò alla
realtà, i cantanti e il pianista non aspettavano che un suo
ordine per cominciare le prove.
Scese i pochi gradini che portavano alla platea e si sistemò
nella poltrona centrale della prima fila, tenendo tra le mani la
partitura dell'opera e il libretto.
«Da dove vogliamo cominciare, signori?»
domandò semplicemente, sollevando lo sguardo sugli attori
raggruppati al centro del palco. Ah, quanto gli costava guardare in
quel modo la gente, così, faccia a faccia. Ogni singola
occhiata che si posava su di lui era corroborata da un fiotto di sangue
che scivolava via dal suo cuore già vuoto, eppure Erik non
avrebbe ceduto, non poteva permetterselo.
Quando Graziana Rovesti si fece avanti, staccandosi dai compagni, il
cuore gli si strinse e il lago di sangue nel suo petto
minacciò di tracimare. Lo sguardo di quella ragazza era un
tormento, era lo sguardo che aveva sempre desiderato ricevere da un
altro essere umano e che ora giungeva a ricordargli che era troppo
tardi. Era uno sguardo acceso da un interesse femminile che scivolava
su di lui come pioggia gelida, ed Erik detestava la sensazione di non
riuscire a trattenerlo più a lungo, tanto da farlo diventare
calore sulla sua pelle.
Riuscì a fatica a non distogliere gli occhi dal bel viso di
Graziana. Voleva sentirla cantare, si accorse di non aver desiderato
altro dal primo giorno in cui era giunto al San Carlo e l'aveva udita
intonare l'aria dell'Annibale per scaldarsi la voce, quella voce
perfetta e meravigliosa, come i miracoli di cui parlava il duca Giusso.
La bellezza di quella giovane, il modo in cui lo guardava, non gli
sembravano minimamente interessanti quanto il suo talento, eppure
smuovevano qualcosa dentro di lui, qualcosa di sopito e dimenticato che
era stato sommerso dal nulla a cui si era costretto in quei giorni.
«Molto bene, signorina, potremmo cominciare
con...». Lei lo interruppe con un sorriso bonario, dolce e
quasi bruciante, come la prima boccata d'aria nei polmoni di qualcuno
che ha appena rischiato di annegare.
«Con Sempre
libera, Maestro, vi prego, amo molto quel brano»
fece Graziana.
Dibello si voltò a guardare Erik, in attesa di una conferma.
Lui sospirò impercettibilmente,
«Non amo essere interrotto quando parlo» disse. La
ragazza si strinse nelle spalle, mortificata. «Ma
giacché vi fa piacere cominciare con quel brano... signor
Dibello, prego».
Il lago di sangue che gli si era formato nel petto ora minacciava di
togliergli il fiato, sarebbe diventato un fiume di lacrime se il
Fantasma dell'Opera ne avesse avuta ancora qualcuna da versare.
«È
strano! è strano! in core
Scolpiti ho
quegli accenti!
Sarìa
per me sventura un serio amore?»
La voce si alzò perfetta e dolcissima, soffiando sul teatro
tutto il trasporto di Violetta. Le dita di Erik si serrarono attorno al
bracciolo della poltrona anche se lui si sforzava di mantenere
un'espressione impassibile.
Aveva immaginato tante volte quel brano cantato per lui da Christine,
cantato mentre erano soli e felici in un luogo indefinito, ma la voce
di Graziana faceva momentaneamente sbiadire quel ricordo. Evidentemente
la bellezza era in grado di uccidere l'amore tanto quanto il
raccapriccio.
«Follie!
follie! delirio vano è questo!
Povera donna,
sola
Abbandonata in
questo
Popoloso
deserto
Che appellano
Parigi,
Che spero or
più?
Che far degg'io!
Gioire,
Di
voluttà nei vortici perire.
Sempre libera
degg'io
Folleggiar di
gioia in gioia,
Vo' che scorra
il viver mio
Pei sentieri
del piacer,
Nasca il
giorno, o il giorno muoia,
Sempre lieta
ne' ritrovi
A diletti
sempre nuovi
Dee volare il
mio pensier.»
«Bellissima, no?» disse qualcuno, comparso
improvvisamente accanto a lui, sul finire della canzone.
Erik non si voltò a guardare,
«La più bella voce che abbia mai udito»
confessò rapito. Qualcosa infondo alla sua gola aveva
tremato nel pronunciare quelle parole. Si riscosse all'improvviso,
rendendosi conto solo il quel momento che la domanda a cui aveva dato
risposta non proveniva dalla sua testa, ma da un signore che si era
seduto sulla poltrona vuota alle sue spalle.
«Avevo chiesto di non far entrare nessuno durante le
prove» borbottò senza voltarsi a guardare chi
c'era dietro di lui, lanciando piuttosto uno sguardo di rimprovero a
Guglielmo, seduto accanto al pianista.
«Il padre del direttore del teatro è un po'
più che nessuno, signore» replicò
bonaria la voce alle spalle di Erik. Lui si voltò e scorse
un uomo elegante, con un cappotto dal collo di pelliccia e un bastone
da passeggio con il pomo d'argento. Aveva la stessa faccia rotonda di
Guglielmo ma – forse erano i baffi o i segni del tempo
– il viso dell'uomo era nettamente più severo.
Non gli importava chi fosse quell'uomo, i suoi ordini sarebbero valsi
anche per il figlio del re, peccato che a farli eseguire ci pensava il
giovane Marchesi...
«Siete voi dunque il Maestro francese» disse l'uomo
con un sorriso sotto i folti baffi impomatati. C'era una malcelata nota
di irritazione nella sua voce.
Erik si alzò in piedi, maledicendo quel mondo e le sue
regole che lo portavano a fare buon viso a cattivo gioco.
«Esattamente, signore» replicò pacato,
allungando una mano all'uomo e allo stesso tempo lanciandogli uno
sguardo che gli fece colorare di rosso le guance per un fugace istante.
Bruno Marchesi strinse la mano del musicista straniero.
«Papà, possiamo fare qualcosa per voi?»
intervenne Guglielmo torcendosi nervosamente le mani.
«Niente. Lasciatemi seduto qui, e continuate con il vostro
lavoro».
Erik trattenne a stento un moto di stizza. Conosceva quel sapore amaro
che sentiva sotto la lingua e quel fumo che lentamente si alzava in
spire nere dentro la sua mente; l'istinto di fare del male al prossimo
per piegarlo e infine, quando occorreva, spezzarlo. Tuttavia si impose
di mantenere la calma, fece nuovamente appello a tutte le sue doti
teatrali e fu persino in grado di abbozzare un sorriso.
«Sono certo che un uomo importante come voi ha altro da fare
che starsene qui a osservarci provare» disse con costruita
gentilezza, con uno sguardo che riuscì ad apparire quasi
dolce.
«Sono certo che per un uomo competente come voi non faccia
alcuna differenza se io stia qui o meno» replicò
il banchiere dopo qualche istante di silenzio. I modi e la voce di Erik
dovevano averlo preso alla sprovvista.
«Perdonate, signore» disse Graziana avvicinandosi
al proscenio, un sorriso pieno di umiltà stampato in viso.
«Ma il Maestro ha ragione di chiedere che nessuno assista
alle prove. Siamo appena al principio e chissà quanti errori
potremmo fare oggi, la presenza di un così illustre ospite
non farebbe che aumentare la nostra agitazione e il nostro imbarazzo.
Sono certa che comprenderete».
Se avesse potuto, Erik avrebbe riso. Che razza di stregoneria poteva
esercitare quella donna sugli uomini che le stavano accanto, tanto da
far arrossire in un solo istante sia il padre che il figlio?
Bruno Marchesi impastò la bocca e per un attimo
sembrò che le parole gli si impigliassero nei baffi. Si
alzò in piedi e e sospirò,
«Ah, perdonate signorina Rovesti» disse con fare
pomposo. «La voglia di sentirvi cantare e di ammirare insieme
a voi i vostri colleghi mi ha reso un po' invadente. Avete ragione, vi
lascio alle vostre prove. Buona giornata e buona continuazione,
signori».
Erik guardò vagamente perplesso il banchiere allontanarsi
nel fruscio del suo lungo cappotto, percorrendo a passi lenti la
platea, facendo roteare il bastone da passeggio. Quando rivolse
nuovamente lo sguardo verso il palco notò la luminosa
occhiata di complicità che Graziana gli stava lanciando.
C'era qualcosa di stucchevole in quei suoi modi ruffiani, eppure era
una sensazione così strana e sconosciuta essere oggetto di
attenzione da parte di una donna. Una donna bellissima che sarebbe
certamente fuggita se avesse visto ciò che si celava dietro
la sua maschera.
«Vostro padre è una persona deliziosa»
commentò poi la soprano rivolta a Guglielmo.
«Tutto sta nel saperlo prendere».
«Certamente è così...»
borbottò il giovane Marchesi senza troppa convinzione.
Ah, le donne... che
orribile potere possono avere...
Erik cominciava a diventare impaziente. Scosse piano il capo come per
mandare via gli strani pensieri che avevano cominciato a vorticargli
nella testa, invadenti e non desiderati quanto l'incursione del
banchiere poc'anzi.
«Se non erro, noi staremmo provando»
asserì brusco, poi fece un cenno in direzione di Antonio
Bandiello, il tenore a cui era stata assegnata la parte di Alfredo.
«Signor Bandiello, vorrete essere così gentile da
stupirci con qualcosa che ci faccia passare di mente questa piccola
interruzione?».
Il tenore, un imponente ed elegante signore di quarant'anni, fece
qualche passo in direzione del proscenio.
«Certamente, Maestro. Cosa volete che canti?».
Erik ci pensò qualche secondo.
« Or testimoni
vi chiamo... , che ne dite? Fate che lo sdegno di Alfredo
mi faccia contorcere lo stomaco» concluse.
Non era del tutto certo che la sottile critica sottintesa nella scelta
di quel brano fosse meritata, ma la cosa aveva un che di divertente.
*
Alla fine di quella prima giornata di prove Erik dovette ammettere di
sentirsi soddisfatto. C'erano diversi dettagli da limare e qualche
piccola miglioria da apportare nel modo di cantare e recitare dei
signori della compagnia del San Carlo, ma era più che certo
di poter offrire al sindaco di Napoli e ai suoi ospiti stranieri la
miglior rappresentazione mai vista de La Traviata.
Si diresse verso il suo ufficio con l'intenzione di scrivere qualche
nota sul suo diario ma sentì una voce concitata provenire
dall'ufficio del direttore.
«È stata lei, lo so, chi altri può
essere stato?!». La voce che aveva pronunciato brutalmente
queste parole era certamente quella di Graziana.
Erik non volle sapere cosa stava accadendo, né aveva
intenzione di ritrovarsi ancora in presenza di quella donna. Lei gli
piaceva in qualche modo, probabilmente gli piaceva perché la
invidiava, doveva ammetterlo, e la cosa lo disturbava non
poco. E comunque, nemmeno il dolore, nemmeno il vuoto potevano
distruggere la sua ammirazione per la bellezza o per il talento.
Tuttavia, la porta dell'ufficio di Marchesi non era chiusa; oltre lo
stipite di legno scuro Erik scorse la figura di Fede, la giovane
inserviente, in piedi davanti alla scrivania del direttore, con accanto
Graziana che la guardava furente. Non aveva mai visto la bella soprano
tanto alterata, né Marchesi tanto in difficoltà.
«Posso sapere cosa succede?» domandò
comparendo sulla soglia.
Fede sbiancò e strinse le spalle, come a cercare di farsi
più piccola e proteggersi da qualcosa di tremendo che stava
per abbattersi su di lei.
Graziana fece un lungo respiro, come a tentare di calmarsi, si
scostò dalla fronte una ciocca di capelli biondi sfuggita
impertinente alla presa del fermaglio d'argento.
«È presto detto, Maestro. C'era una banconota
nella mia borsa che ora è sparita, ed è stata
certamente questa piccola ladruncola a prenderla! È rimasta
da sola nel mio camerino dopo che io sono venuta alle prove»
spiegò la soprano, cercando di non alterarsi più
di quanto non aveva già fatto.
Erik aveva passato una vita intera ad osservare le persone, e lo aveva
fatto da un posto privilegiato, nascosto nelle sue ombre. Non capiva
certi sentimenti fine a se stessi – la bontà di
Giusso o l'arrendevolezza di Marchesi – ma riusciva a capire
le persone semplicemente attraverso delle intuizioni e, se fosse dipeso
da lui, da quello che era stato in grado di intuire, avrebbe giurato
che la giovane inserviente non avrebbe mai rubato del danaro da una
borsa.
«Che prove avete per accusare la ragazza?»
domandò spostando lo sguardo tra i presenti.
Guglielmo non sembrava particolarmente all'altezza dell'imbarazzante
situazione, tuttavia fu costretto a parlare.
«Il fatto che la banconota persa fosse nella sua
tasca» dichiarò.
Erik inclinò la testa di lato. Era possibile che si fosse
sbagliato sul conto di Fede, assolutamente possibile.
La ragazzina intanto avete cominciato a tremare.
«Non... non è la banconota della signorina
Rovesti» disse tra un singhiozzo e l'altro, grosse lacrime le
scivolarono lungo il mento cadendo a formare chiazze umide sul colletto
del vestito. «Non sono... non sono una ladra... vi prego...
non mi mandate via». Poi guardò con uno strano
disprezzo la banconota da cinquanta lire poggiata sulla scrivania del
direttore. «Io nemmeno li volevo quei soldi... sono
sporchi...».
Erik non ricordava di aver mai provato pena per un altro essere umano
prima di allora. La cosa non lo riguardava, eppure avrebbe voluto
trovare un modo di risolvere la faccenda, anche se le prove erano
inconfutabili e quasi sicuramente la ragazza aveva rubato quei soldi,
altrimenti in che altro modo spiegare il fatto che la banconota fosse
finita nella sua tasca?
«Dove avresti preso quel denaro, se non dalla borsa della
signorina Rovesti, Fede?» chiese, fissando intensamente la
giovane che sentendosi chiamare per nome da quella voce
trasalì.
«Ah, Maestro, vi prego, è evidente che non ci sono
spiegazioni né scusanti» replicò
Graziana.
Erik la ignorò,
«Vuoi rispondermi?» insistette continuando a
guardare la giovinetta.
Fede scosse piano il capo, non sembrava volesse dire niente. A quel
punto non c'era altro da fare se non pensare che fosse colpevole.
«Perdonate» disse una voce estranea dall'uscio
della stanza.
I presenti si voltarono verso la porta. C'era una giovane donna,
sembrava avere ad occhio e croce la stessa età di Graziana,
ma aveva i tratti tipici delle donne mediterranee, i capelli e gli
occhi scuri che si intonavano a una carnagione leggermente ambrata. Gli
occhi, pesantemente truccati di nero davano al suo aspetto un
ché di zingaresco, quasi selvaggio. Ma quello era l'unico
ornamento su quel giovane viso che portava i segni palesi della
stanchezza e forse di molte notti insonni.
Graziana sollevò la testa con uno scatto stizzito.
«Voi?» disse, scagliando quelle tre lettere con un
tale disgusto che Erik si trovò suo malgrado a fissare la
sconosciuta, come a cercare di capire se ci fosse qualcosa di
assolutamente repellente in lei che non aveva notato alla prima
occhiata. Ma gli parve una giovane donna assolutamente ordinaria,
persino graziosa, forse.
La sconosciuta ignorò Graziana e parlò senza
rivolgersi a nessuno in particolare,
«Scusate, ho inavvertitamente ascoltato la
conversazione» disse. «Mi sembrava giusto
intervenire perché non so che fine abbia fatto la banconota
della signorina Rovesti, ma di certo so che quella che ha Fede non
è la stessa banconota, perché quella glielo data
io stamattina».
Erik fissò la donna cercando di capire se stava mentendo.
Fede le rivolse un'occhiata implorante e scosse piano il capo: le stava
forse chiedendo tacitamente di non mentire e non compromettersi per
lei? O le stava chiedendo di non aggiungere altro a una
verità che non voleva venisse conosciuta?
«Ne siete sicura, signora?» disse Guglielmo
tentando di darsi un tono severo in quella che sembrò una
malriuscita caricatura di suo padre.
«Sì, signor Marchesi».
«Figurarsi!» obiettò Graziana
incollerita. «Non potete provarlo».
«E voi non potete provare il contrario»
«La mia versione è più sensata della
vostra».
Le due donne si lanciarono uno sguardo intenso, colmo di acredine. La
donna mora stava per replicare qualcosa ma Antonio Bandiello, il
tenore, entrò nell'ufficio con in mano un'altra banconota da
cinquanta lire tra le dita.
«Credo che questa sia vostra, Graziana» disse.
«L'ho trovata a terra, vicino al vostro camerino».
L'uomo era del tutto ignaro di quanto stava accadendo, per questo
rispose con uno sguardo intimorito alle occhiate basite degli altri
presenti. Poi i suoi occhi indugiarono un attimo sulla donna dai
capelli scuri,
«Voi?» disse. E lo disse con un modo che era agli
antipodi rispetto a quello che aveva usato Graziana. Lo disse con una
strana, malinconica dolcezza.
Erik poteva sentire le emozioni vibrare nelle voci delle persone.
«Voi? È... era tempo che non... è da
diverso tempo che non vi vedevo qui a teatro»
farfugliò quindi Antonio tradendo un certo imbarazzo.
La donna bruna sorrise, di un sorriso rapido e tagliente, come se
avesse colto nelle parole e nell'atteggiamento del tenore qualcosa che
l'aveva indispettita.
«Grazie, signore» si limitò a
rispondere.
Intanto Fede aveva riacquistato un po' di colorito e aveva smesso di
tremare, contenta che nessuno badasse più a lei.
Graziana sospirò,
«Grazie, mio caro» disse avvicinandosi ad Antonio e
riprendendo il suo denaro, poi fece per uscire dall'ufficio.
«Graziana...». La voce di Erik non suonò
incollerita, ma chiamò quel nome con un tono così
autoritario che la soprano restò bloccata sulla soglia per
un paio di secondi, prima di voltarsi. «Direi che qui
c'è qualcuno che merita di ricevere delle scuse».
La donna bruna sollevò piano la testa e rivolse a Erik
un'occhiata e un accenno di sorriso quasi amichevole.
Graziana si lisciò le pieghe della gonna di velluto chiaro
con un gesto nervoso.
«Certamente, Maestro, avete ragione»
dichiarò racimolando tutta la cortesia che riuscì
a trovare, ma stavolta nemmeno il suo infinito repertorio di trucchi
recitativi riuscì a mascherare la collera per l'accaduto.
«Ti chiedo scusa, ragazza» fece, rivolta a Fede.
«Spero che anche voi, direttore, e tutti quanti, vogliate
perdonarmi per questo sciocco malinteso».
Guglielmo mise su un sorriso esagerato,
«Tutto è bene quel che finisce bene»
esclamò battendo le mani.
Erik non seppe trattenersi dall'alzare gli occhi al cielo e scuotere il
capo prima di lasciare la stanza senza aggiungere altro.
______________________________
Here,
I have a
note...
Non
mi piace come è venuto questo capitolo, ma dopo averlo
cancellato e
riscritto un paio di volte mi sono accorta di non riuscire a fare di
meglio, visto anche gli “elementi” che ho dovuto
usare. E non mi piace particolarmente scrivere dal punto di vista di
Graziana, ma quando ci vuole ci vuole...
“Sempre
libera...” è una bellissima aria della
protagonista femminile de
La Traviata in cui lei esprime tutta la sua gioia nell'aver trovato
il vero amore. “Or testimoni vi chiamo...”
è un pezzo del
protagonista in cui da della poco di buono alla donna... diciamo che
per Erik era un modo sottile per dare, se non altro, della ruffiana a
Graziana.
Naturalmente, gli altri fenomeni da baraccone del circo ambulante...
gli altri, ehm, personaggi della fanfiction torneranno tutti, prima o
poi.
Al prossimo mercoledì :-)
I remain,
gentlemen, your obidient servant.
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Capitolo 7 *** Il gorgo di imbuto ***
Capitolo sesto
Il gorgo d'imbuto
~ Parigi, 8 dicembre 1877 ~
Nevicava da un paio di giorni. Il prato davanti alla tenuta nobiliare
era coperto da un soffice strato bianco che di sera luccicava sotto la
luce dei lampioni che contornavano il viale di ghiaia che portava dal
cancello esterno al portone dell'elegante edificio poco distante dalla
centro di Parigi.
Raoul De Chagny lanciò un'occhiata fuori dalla finestra,
restando assorto qualche secondo a contemplare quel pacifico e
rassicurante spettacolo.
Il fuoco scoppiettava nel camino, facendo danzare sul pavimento di
parquet una calda luce dorata.
Il visconte fece un sospiro sereno e tornò ad aprire il
libro che teneva poggiato sulle gambe, The life and strange surprising
adventure of Robinson Crusoe. Una storia certamente
singolare, che a ben pensarci lo lasciava anche un po' spaventato: come
può un uomo sopravvivere a una così profonda e
sciagurata solitudine? Si chiese Raoul voltando pagina.
A quel punto, un ricordo tornò ad affacciarsi tra i suoi
pensieri, un ricordo che in tutti quegli anni era stato tenuto
opportunamente confinato in un angolo buio e remoto della sua testa...
un volto, una voce, l'immagine di un lago sotterraneo che sembrava
essere fatto di lacrime versate nel corso di una lunga e buia
esistenza, la corda ruvida che si stringeva attorno alla sua gola...
Christine, la sua bocca su quella di...
Il visconte sollevò la testa di scatto. Quel brutto sogno
era finito con le luci dell'alba che avevano intravisto mentre
risalivano da quei sotterranei maledetti, non aveva senso rammentarsene
meno che mai dopo tutti quegli anni, ora che lui e la sua Piccola
Lottie erano così felici.
Si alzò dalla poltrona e si avvicinò alla
finestra. La neve continuava a cadere silenziosa, impigliandosi in
cristalli bianchi tra gli alberi del giardino. Alle sue spalle c'era
l'amichevole tepore che si spargeva dal caminetto, intorno a lui il
silenzio rassicurante di casa sua e...
CRASH!
Un rumore di vetri rotti proveniente dal piano inferiore lo fece
sussultare, seguito da suoni bassi e concitati, poi dalla voce di sua
moglie che parlava in tono leggermente affannato e decisamente
mortificato.
«Oh, madame, vi siete fatta male?... GUSTAVE! Torna subito
qui!... madame... vi aiuto ad alzarvi?... ah, le palline dell'albero di
Natale... Gustave, sta' lontano dai vetri...».
Raoul si strinse nella sua giacca da camera e scese al piano inferiore
per controllare cosa fosse accaduto. Quando raggiunse il salone, si
trovò ad assistere a una scena disastrosa.
C'erano voluti tre uomini per trasportare fin lì quel grosso
abete, come ogni anno Christine non avrebbe rinunciato al divertimento
di addobbare l'albero di Natale. L'abete sembrava l'unica cosa ad
essersi salvata dalla catastrofe.
La scatola che conteneva gli addobbi, sfere di vetro colorato di ogni
dimensione, era caduta e ora il pavimento ai piedi dell'albero era un
mosaico di frammenti di schegge scintillanti. Accanto a ciò
che restava delle palline decorative, c'era madame Colette, la
governante che si era offerta di aiutare Christine ad addobbare
l'albero. Addosso a madame Colette c'era la pesante scala di legno che
sarebbe servita per mettere il puntale di latta dorata sulla cima
dell'abete. In un angolo della stanza, appiattito tra il camino e il
muro, c'era Gustave che fissava con uno sguardo indecifrabile sua madre
tentare di spostare la scala e aiutare la governante ad alzarsi.
«Che cosa è successo? È forse entrata
una tromba d'aria nel salone?» esclamò Raoul
raggiungendo il centro della stanza. Fece cenno a sua moglie di
spostarsi, allontanò la pesante scala di legno e
aiutò madame Colette a rimettersi in piedi.
«State bene, madame?» disse Christine con
apprensione.
«Sì, viscontessa, mi fa appena male la spalla, non
datevi pensiero per me...».
Le due donne puntarono contemporaneamente gli occhi in faccia al
piccolo Gustave, che non si era mosso dal suo angolino. Raoul
sospirò,
«Cosa ha fatto stavolta?» chiese alzando gli occhi
al cielo.
Per tutta risposta, Christine gli mostrò un minuscolo
cilindro di cera colorata, uno dei pastelli dell'inseparabile scatola
di colori che avevano regalato a Gustave il mese prima e che lui
dimenticava abitualmente sparsi per casa. Raoul si figurò la
scena: madame Colette non aveva visto il pastello di cera, ci era
finita sul col piede ed era scivolata, cadendo aveva urtato la scatola
che rovesciandosi aveva urtato la scala poggiata in equilibrio
già precario contro il muro.
«Gustave!» esclamò Christine.
«Gustave, hai sentito che tua madre ti ha
chiamato?» le fece eco Raoul.
Quel bambino era un angelo, lo era nell'aspetto, con quei riccioli
biondi che gli danzavano sulla fronte, facendo da cornice al suo
bellissimo viso di infante, e lo era nel carattere, sempre buono e
gentile con tutti, educato, obbediente e rispettoso. Purtroppo era
anche distratto e con il vizio di vivere in un mondo tutto suo,
popolato di gallerie d'arte piene dei suoi futuri quadri, o almeno
così diceva.
Quando il precettore aveva suggerito ai coniugi De Chagny di trovare un
interesse da far coltivare al bambino, Christine aveva immediatamente
proposto di assumere un maestro di musica, Raoul aveva risposto con una
battuta riguardo al fatto che già sua madre amava troppo la
musica e lui non aveva intenzione di dividere anche il cuore di suo
figlio con quel tipo di diletto, per cui gli avevano regalato una
scatola di colori e un album di fogli bianchi, in attesa di scoprire se
il bambino fosse portato o meno per l'arte figurativa, promettendosi
che tra qualche anno avrebbero assunto un maestro di disegno, se la
cosa lo avesse appassionato. A quanto pare Gustave era più
che appassionato e sembrava avere, nel suo modo acerbo e infantile di
mettere insieme linee e colori, un certo gusto che forse un domani si
sarebbe potuto arrivare a chiamare talento.
Il piccolo si avvicinò ai genitori e strinse le labbra in
una buffa espressione contrita. Sollevò i suoi occhi scuri
sul volto della governante e sospirò,
«Mi dispiace che madame si è fatta male»
disse. «Ma non sono stato io, è stato il pastello
a farla inciampare».
Raoul provò così tanta tenerezza per
l'espressione e il ragionamento di suo figlio che fu sul punto di
scoppiare a ridere. Anche Christine sembrava faticare a mantenere
un'espressione seria e severa.
«D'accordo. Ma devi promettere che starai più
attento a non lasciare in giro le tue cose» lo
ammonì il visconte fingendo un'aria dura.
«Sì, padre!» rispose meccanicamente il
bambino. «Madame Colette, posso darvi un bacino sul braccio
per farvi passare la bua...».
La governante sorrise,
«Non ce ne sarà bisogno, signorino».
In quello stesso momento, il maggiordomo entrò con
discrezione nella sala, lanciò una rapida occhiata al caos
di vetri rotti che subito finse di ignorare, dirigendosi verso il
padrone di casa con un vassoio sul quale portava una lettera.
«Per madame» disse rivolto a Christine.
La ragazza prese la lettera, il foglio all'interno era una carta
intestata del teatro dell'Odeon.
«Sarà certamente di Meg»
indovinò spiegando la pagina e cominciando a leggere.
Meg Giry, la giovane che era stata come una sorella per lei, non aveva
mai smesso di volerle bene, neanche dopo che le loro strade si erano
separate e avevano portato la piccola Christine Daaè a
diventare la moglie del visconte De Chagny e lei a proseguire con la
sua carriera di ballerina. Era diventata famosa, quella giovinetta
bionda dallo sguardo furbo, il suo talento l'aveva portata a calcare i
plachi di tutta Europa in quegli ultimi anni, e Christine era sempre
stata felice per lei, tanto che suo marito si era chiesto
più volte se il teatro, l'arte, non le mancassero
più di quanto aveva dato a vedere, rinunciando una volta per
sempre a quel mondo il giorno in cui aveva accettato di sposare lui.
Erano questi timori che facevano temere a Raoul l'arrivo delle lettere
di Meg, specie quelle che la giovane Giry inviava nelle settimane che
precedevano il Natale. Erano passati sei anni da quando Meg era entrata
nella compagnia del teatro dell'Odeon, subito dopo la distruzione
dell'Opera Populaire, e ogni volta, nelle prime settimane di dicembre,
inviava a Christine una lettera in cui la informava del galà
natalizio che si sarebbe tenuto nel teatro e al quale la invitava a
partecipare, non come spettatrice ma come cantante; «una
volta all'anno, che male c'è? Tanto lo so che ami ancora la
musica» le diceva. Ogni volta Christine rifiutava ma Raoul
cominciava a pensare che quei rifiuti le costassero più cari
di quanto lui poteva immaginare.
Certo che Christine amava ancora la musica! Come avrebbe potuto essere
altrimenti? Sua moglie era stata toccata da un miracolo, e la musica
scorreva dentro di lei come l'ossigeno che rende l'aria respirabile.
Non importava se quel miracolo si era trasformato nell'orribile incubo
che avevano dovuto affrontare, non importava se il soffio che le aveva
spinto la musica nelle vene era quello di un mostro che aveva
minacciato di distruggere le loro vite. Certe cose sono eterne, come
certi amori che non smettono mai di agitarsi nei cuori più
tormentati...
«Potresti andarci» disse Raoul, quando sua moglie
lo informò del contenuto della lettera. Pronunciare quelle
parole gli era costato assai caro, il visconte temeva la musica, il
teatro, quasi l'arte in generale ormai. Dopo quella notte non era
riuscito a fare altrimenti, dopo aver visto a cosa la passione
può condurre... perché ne era certo, non era solo
l'amore ad aver spinto il Fantasma a bramare Christine, così
come era stata la dedizione all'arte a spingere lei nelle sue braccia
prima di scoprire la verità sull'Angelo della Musica.
Quello era il gorgo d'imbuto della loro esistenza, dove nessuna
felicità sarebbe mai stata abbastanza luminosa da dissipare
le ombre.
«Potresti andarci, ti è sempre piaciuto
cantare» osservò, distogliendo lo sguardo dal
volto della ragazza.
Per un attimo, il viso di Christine si illuminò di una luce
tale che Raoul temette di esserne accecato, ma fu un istante breve e
fugace, il sorriso che era affiorato sulle labbra della giovane donna
sparì prima ancora di sbocciare del tutto.
«No, non ci andrò... non è
così importante» replicò con un'alzata
di spalle.
Raoul seppe che si trattava di una menzogna e si chiese se era giusto
essere grato al cielo che sua moglie riuscisse a reprimere con
così tanta lucidità quell'amore mai dimenticato.
*******
~ Napoli, 25 marzo 1871 ~
Era sceso fino all'ultimo livello del sottopalco. Non c'erano corsi
d'acqua nascosti né rifugi o passaggi segreti nel cuore
della terra dove si artigliavano le fondamenta del San Carlo. C'erano
solo i laboratori dei sarti, della falegnameria e degli artigiani che
preparavano gli oggetti di scena.
Era sceso a controllare che i lavori stessero procedendo come sperava,
ad un ritmo che permettesse di avere tutto pronto per la sera della
prova generale.
Era soddisfatto. Davanti a suoi occhi c'era un mondo nuovo che stava
lentamente cominciando a prendere forma. Certo, era tutto diverso,
forse ancora più fragile di come era stato un tempo. Una
volta c'era un mostro che si nascondeva agli occhi del mondo, adesso
c'era un uomo che doveva celare agli occhi di altre persone il mostro
che si nascondeva dentro di lui, un uomo che doveva dimenticare che le
sue mani erano lorde di sangue, che doveva spazzare via il ricordo
dell'infelicità che aveva causato e continuare, giorno dopo
giorno, a sottostare alle regole di un gioco in cui non era ancora
troppo esperto.
Il duca era venuto a fargli visita quel pomeriggio, insieme a sua
figlia. Luisa gli era corsa incontro e l'aveva abbracciato, e ancora
una volta lui avrebbe voluto sottrarsi a quel contatto, ma si era
ritrovato a posare goffamente una mano sulla schiena della giovinetta e
nascondere il fastidio.
Giusso si era intrattenuto a lungo a parlare con lui e, con quei suoi
soliti modi sicuri e gentili, era riuscito a convincerlo ad andare a
cena a casa sua.
Non era ancora del tutto sera quando Erik lasciò il teatro.
Il sole era una sfera dorata, sospesa sul mare, che si apprestava a
lasciarsi inghiottire dall'orizzonte limpido. Quando il cielo era
così terso, Erik aveva notato che si riusciva a distinguere
il profilo dell'isola di Capri stagliarsi al di sopra dell'acqua quasi
come un'apparizione.
«State uscendo?» la voce di Marchesi lo colse alla
sprovvista, mentre indugiava nei suoi pensieri. Perché
diamine il direttore sembrava così perplesso? Forse
perché lo immaginava sempre chiuso in quell'ufficio? Lui
usciva, trascorreva molto più tempo fuori di lì
di quanto quel giovanotto pensasse. Usciva all'alba per guardare il
mare, e usciva di notte, per vedere Napoli vivere una seconda vita,
dove la miseria che velava il volto della città si addobbava
a festa, nei vicoli, nelle taverne, per le strade. Di giorno la
città apparteneva ai commercianti, ai signori ben vestiti
che attraversavano via Toledo diretti a svolgere i loro affari, ai
ricchi turisti stranieri che sostavano all'ombra delle statue di piazza
del Plebiscito. Ma di notte Napoli era della sua gente, del popolo, che
la riconquistava e la faceva scintillare di una luce nuova che faceva
loro dimenticare la fame e le ingiustizie di quel pezzo di mondo che
persino il Regno d'Italia fingeva di aver dimenticato.
Le ultime carrozze si attardavano fuori ai ricchi palazzi e alcuni
commercianti servivano i loro ultimi clienti mentre la città
si preparava ad accogliere la sera.
Erik percorse via Toledo, poi svoltò, camminò per
qualche metro e si trovò a costeggiare il muro di cinta del
chiostro di Santa Chiara. Infine, imboccò un piccolo vicolo
deserto e spuntò direttamente in piazza San Giovanni
Maggiore, dove affacciava il palazzo del duca.
Mariano Giusso parlava sempre tanto, ma Erik cominciava ad essere un
po' meno sfiancato dall'arte della conversazione. La serata non fu
spiacevole e mentre consumava la cena a base di pesce Erik
trovò un certo gusto a raccontare al padrone di casa del suo
lavoro in teatro.
«Mi dicono che non avete mostrato a nessuno né le
scenografie né i costumi. Siete sempre l'uomo a cui piace
stupire, eh» osservò Giusso versando a
sé e al suo ospite un altro bicchiere di vino bianco.
«Così pare. Ma a sentirvi sembra che sappiate
più cose di quante ne so io stesso»
replicò Erik.
«Cosa volete farci? Napoli è una città
a cui piacciono le storie e più il protagonista è
misterioso più la storia fa eco»
«Si raccontano storie su di me?».
Giusso sorrise divertito, mandando giù un sorso di vino,
«Non ne siete al corrente? Avreste dovuto immaginarlo. Ad
ogni modo, non si racconta niente di cui possiate dispiacervi, non
temete» dichiarò agitando la mano a mezz'aria.
«A proposito di storie, raccontatene voi qualcuna a me: la
nostra bionda sirena vi ha già rapito il cuore?».
Lo sguardo di Erik si indurì, l'espressione di compita
cordialità sparì dal suo viso,
«Non ho un cuore che si lascia portar via con tanta
facilità» commentò caustico.
«Scusate, non intendevo offendervi né impicciarmi
nei vostri affari. Ma dicono in giro che Graziana abbia un certo debole
per voi e vi assicuro che non siete il genere di uomo che solitamente
frequenta».
Graziana... ah, Graziana e la sua voce di strega, e il suo corpo da
sirena! Quella donna era tutto ciò che lui avrebbe voluto
essere, la invidiava e ne ammirava il talento come non aveva mai fatto
con nessuno. Eppure...
«La signorina Rovesti è bella come un'apparizione,
canta come un angelo, ma temo sia del tutto priva di...» si
interruppe fissando il vino nel suo calice. «Temo sia del
tutto priva di anima, se non quella che riversa nel suo amore per il
canto».
Giusso annuì,
«Non l'avevo mai sentita descrivere in questo modo, ma credo
che abbiate ragione».
Una fitta di gelo attraversò la mente di Erik.
Perché il duca aveva quell'aria così compiaciuta
e sollevata? Credeva che se la bella soprano del San Carlo gli avesse
toccato il cuore, la storia avrebbe potuto ripetersi? Credeva che lui
avesse potuto amare alla follia un'altra donna e fare del male per lei?
No, una discesa all'inferno è un viaggio che può
compiersi una sola volta e, Erik ne era sicuro, poche donne al mondo
possono valerne la pena. Il suo viaggio lo aveva compiuto e vi era
sopravvissuto per miracolo, la sua prova del fuoco l'aveva
già affrontata e miseramente fallita.
«Potete stare tranquillo, duca, non ho altro amore che la
musica» sentenziò con una certa
ilarità, cercando di ritrovare l'aria rilassata di poco
prima.
«Tutto ciò ha un che di monastico»
«Può darsi, ma non mi dispiace».
Giusso tamburellò le dita sul piano del tavolo e
sospirò,
«E io invece vi auguro di cambiare opinione un giorno. La
musica è un amore di tutto rispetto, una vocazione pari a
quella religiosa magari, ma siete pur sempre un uomo»
osservò.
Erik strinse le dita attorno al tovagliolo. Il duca non voleva di certo
fargli del male, ma non si rendeva conto che certe ferite erano ancora
aperte e certe parole non potevano che gettarvi sopra del sale che le
faceva bruciare. Cercò di mandare via la voce che ora gli
cantilenava nel cervello, la sua stessa voce ferita e amareggiata che
rispondeva a quell'orribile, immeritata insinuazione di Christine...
«Il destino
che mi condanna a rotolarmi nel sangue mi ha negato anche le gioie
della carne...»
Sospirò rigirandosi tra le dita lo stelo del calice, il vino
roteò nel bicchiere. Infine riuscì a trovare la
forza d'animo di fingere un sorriso noncurante,
«Oramai dovreste ben sapere che non sono un uomo come gli
altri».
Era sera inoltrata quando lasciò palazzo Giusso. Il cielo di
Napoli era trapuntato di stelle, offuscate di tanto in tanto da qualche
nuvola passeggera, ultimo retaggio dei due giorni di pioggia appena
trascorsi.
L'aria della sera era un po' umida, quel marzo non si era ancora del
tutto arreso alla primavera da poco iniziata, ma Erik trovava sempre
piacevole attraversare quelle strade specie quando erano deserte
– come accadeva al mattino presto – o quando la
gente che vi si riversava era troppo presa dai suoi affari per badare a
lui.
Non che basassero a lui, comunque. Erik aveva dovuto prenderne atto;
forse era merito del fatto che in città
circolavano storie su di lui che lo rendevano in qualche misura famoso
e, per contrasto, lo facevano apparire meno estraneo agli occhi della
gente. Forse era perché al mondo lui non interessava,
malgrado il suo aspetto reso singolare dalla maschera. Era un pensiero
che gli faceva ribollire il sangue ogni volta... quanto male aveva
dovuto fargli quel mondo prima di perdere interesse per lui?
Erik si fermò al centro dello spiazzo vuoto, nel punto in
cui via Toledo si dipartiva in altre strade secondarie. Alla sua
sinistra c'era il teatro, l'uomo lo guardò, poi
sollevò gli occhi al cielo e posò una mano
avvolta dal guanto sulla superficie di cuoio della maschera.
La luna era una macchia di bianco contro il cielo nero, dal suo
contorno si spargeva un opaco riverbero lattiginoso che schiariva il
contorno di un piccolo banco di nuvole.
Forse Dio guardava davvero l'umanità dall'altro del cielo,
forse stava guardando anche lui adesso. Erik pensò di
lasciare che le dita tirassero via quella maschera per gettare contro
quel Dio assente e silenzioso l'orrore del suo volto, come una
bestemmia, ma alla fine si appoggiò semplicemente con le
spalle contro il muro di un edificio e restò a guardare i
gruppi di passanti che camminavano sul lastricato di piazza del
Plebiscito.
Alla sua sinistra c'era il teatro e c'era una carrozza ferma all'angolo
del San Carlo, Erik la notò subito e si chiese a chi
appartenesse, chi era che veniva nel suo teatro a quell'ora di sera.
Provò quasi un senso di fastidio e si ritrasse nel cono
d'ombra proiettato dalle palazzine, a spiare come era abituato a fare
quando la leggenda del Fantasma dell'Opera avrebbe fatto tremare
persino Apollo sul tetto del teatro parigino.
Dopo qualche minuto la vettura della carrozza tremò come se
qualcuno al suo interno si stesse muovendo, lo sportello si
aprì e ne uscì un signore corpulento avvolto in
un cappotto dal collo di pelliccia.
«Il banchiere Marchesi?» le labbra di Erik
formularono perplessi quella domanda retorica, senza che la voce
arrivasse a pronunciarla. «Che diavolo fa? Viene a
controllare il giocattolo di suo figlio anche di notte?».
Un istante dopo, il Fantasma capì che Marchesi non era
affatto lì per controllare e che evidentemente il teatro
doveva essere l'ultima delle sue preoccupazioni. Erik vide la figura in
bianco attraversare il colonnato e dirigersi verso la carrozza. Spariva
per un attimo dietro a un pilastro e poi riappariva, poi spariva
nuovamente dietro al pilastro successivo, in uno sfarfallio di stoffa
chiara, come uno spettro. In realtà si trattava di una
donna, dal momento che aveva indosso un lungo abito dall'ampia gonna.
Attraversò il porticato, scendendo con grazia le scale e
volò come una rondine tra le braccia di Marchesi.
A Erik venne quasi da ridere, anche se uno strano senso di delusione e
squallore gli ricacciò in gola la risata di scherno che gli
stava scappando dalle labbra: Bruno Marchesi aveva un'amante e
quest'amante era Graziana Rovesti. Era certamente lei, Erik l'avrebbe
riconosciuta anche al buio per quanto si era abituato ad osservarla in
quei giorni.
Adesso tutto era chiaro. Ecco perché il banchiere si era
premurato così tanto di assicurare al suo poco talentuoso
figliolo il posto di direttore di quel teatro, ecco perché
aveva la pessima abitudine di contrastare il suo desiderio e di
piombare al San Carlo durante le prove. Erik si sentì uno
sciocco a non averlo capito prima... ed era questo che forse intendeva
il duca quando aveva detto che lui non era il tipo d'uomo a cui
Graziana si interessava di solito, lei preferiva i ricchi signori, e
magari anche già sposati, così da non dover
essere obbligata a legarsi a loro più di quanto fosse
necessario per beneficiare della loro posizione.
Restò a fissare i due che salivano sulla vettura e la
carrozza che si allontanava verso il lato opposto della strada, verso
il Maschio Angioino e i giardini.
Fece qualche passo, incamminandosi verso il teatro. L'aria fresca della
sera smuoveva le nuvole ma non riusciva a dissipare quelle che gli
ombravano la fronte. Non gli importava – non in quel modo
almeno – di Graziana e dei suoi amanti, ma ciò che
aveva appena visto gli diede da pensare.
Era certo di essere vissuto troppo a lungo da esiliato, ad essere
nient'altro che uno spettatore e anche se aveva visto passare sotto ai
propri occhi molte strane vicende come spesso accadeva nell'ambiente
dello spettacolo, c'erano molte cose che non capiva. In momenti come
quello, Erik si rendeva conto dei suoi limiti, di quanto il non
conoscere certe cose gli impedisse di comprenderne altre forse
più importanti per sondare un po' più a fondo
l'intricato labirinto della natura umana.
Le donne,
ad esempio. Ne aveva amata... ne amava...
una, quel sentimento lo aveva reso folle e cieco, lo aveva portato a
distruggere quel po' di buono che era riuscito a preservare dal suo
personale inferno fino a quella notte. Ma quell'amore era un sentimento
unico, nato dal buio, tra le righe di una favola, era diventato
così forte e prepotente perché era l'unica sua
ancora di salvezza, aveva contato così tanto
perché quella donna era l'unica nella quale poteva sperare...
Erik spinse le mani nelle tasche del soprabito. Il mondo delle persone
normali proprio non faceva per lui! Non solo quelle persone erano
artefici delle loro stesse condanne e delle loro prigionie, ma su certe
cose si comportavano come se non avessero scelta, quando invece avevano
tutte le opzioni possibili sotto i loro occhi. Perché una
donna come Graziana, che avrebbe potuto far innamorare di sé
chiunque, che avrebbe potuto rubare la luce alle aureole degli angeli e
illuminare la propria anima e quella di chi le stava vicino, aveva
scelto una condotta così bassa? E perché un uomo
avrebbe dovuto prestarsi a quel gioco così umiliante e
accettare la compagnia di una donna che, era palese, amava di lui solo
il suo denaro?
Le parole inopportune del duca risuonarono nella sua testa come a
suggerirgli una risposta.
… ma siete
pur sempre un uomo.
Ah, era dunque questo quello che facevano gli uomini? Cedono per
le promesse vuote di un bel viso di donna pronto a sorridere a comando?
E cedono per cosa poi? Per il piacere, per quelle gioie delle carne?
Erik ora aveva voglia di ridere di se stesso e per tutto ciò
che sfuggiva alla sua comprensione. La passione gli aveva avvelenato la
mente come la più letale delle pozioni venefiche, l'urgenza
di un contatto umano più profondo e la curiosità
per i piaceri che gli erano stati negati talvolta lo avevano tormentato
nelle lunghe notti di Parigi, ma lui...
Sei uno sciocco
sentimentale...
La voce nella sua testa si faceva beffa di lui e aveva ragione. Forse
non era propriamente un sentimentale, ma aveva sempre conservato
un'idea così alta e idealistica dell'amore che gli aveva
impedito di cedere alla tentazione di un'esperienza che gli sarebbe
sembrata vuota se vissuta senza sentimento. Per questo non aveva mai
ceduto alle donne di malaffare che attendevano fuori alle taverne nei
bassifondi di Parigi, quei vicoli torbidi così terribilmente
vicini al palazzo dell'Opera.
Ma forse, chissà, era tempo di cambiare idea,
pensò con una punta di bieco sarcasmo rivolto a se stesso.
Guardò l'ingresso del teatro e pensò che non
aveva voglia di tornare nei suoi alloggi. Non voleva restare da solo,
in silenzio, non quella sera almeno, aveva bisogno della voce di
Napoli, quella cacofonia di suoni provenienti dalle taverne e dai
vicoli più reconditi che urlavano al cielo quanto quella
città fosse viva. Voltò le spalle al portone e
osservò le palazzine che perimetravano il quartiere che si
trovava davanti al San Carlo, uno dei peggiori della città,
così dicevano. Si ricordò che durante
le sue gite notturne non era mai stato lì e pensò
che fosse ora di rimediare a quella mancanza.
Si infilò in uno stretto passaggio tra due edifici e si
incamminò nella ragnatela di vicoli avvolti dalla penombra.
Il quartiere era un intricato labirinto di stradine strette sulle quali
affacciavano palazzi dalle facciate malridotte. Alcune di queste
costruzioni erano vuote, con assi di legno inchiodate alla meno peggio
per sbarrare porte e finestre cieche, ma altre erano abitate e dalle
aperture usciva la luce di candele e lampade che lottava fieramente
contro il buio, quasi riuscendo a vincerlo.
A guardarsi bene in giro si sarebbe giurato che persino il sole si
teneva a distanza da quel quartiere. Le strade con il ciottolato
rovinato erano un tappeto di pozzanghere formate dalla pioggia che era
caduta nei giorni precedenti e che aveva reso opache le acque del mare.
Quello doveva essere il gorgo di imbuto della città, dove la
luce non arriva, in qualsiasi direzione la si punti.
Anche se era molto tardi, c'era un odore di cibo che usciva dalle porte
di alcune bettole. Un odore gradevole che contrastava con l'aspetto
squallido di quei posti di cui Erik riusciva a scorgere l'interno
attraverso le porte aperte che immettevano in stanzoni arredati da
tavolacci tarlati e sedie spaiate. Sembrava che in quel posto tutte le
porte fossero aperte e l'uomo si chiese come era possibile vista la
brutta fama di quel quartiere.
La stradina che aveva imboccato sbucava in una piazza sulla quale
affacciava una taverna con una vecchia insegna dipinta di azzurro,
scorticata in alcuni punti, che recava la scritta in lettere blu: Notte 'e vierno.
Alcuni avventori erano seduti a un lungo tavolo rettangolare, addossato
alla parete esterna e bevevano del vino in bicchieri cilindrici di
vetro scheggiato. Parlavano a voce alta, ma Erik non riusciva a capire
cosa dicessero, trovava veramente ostico il dialetto napoletano, lo
sentiva parlare dagli inservienti a teatro e a volte lo aveva sentito
anche dal duca e da Gugliemo, c'erano alcune parole che assomigliavano
al francese e, andava detto, era una lingua assolutamente musicale con
tutti quelle vocali accentate a fine parola, che sarebbe andata
benissimo per comporre ballate e poesie, ma non era una lingua facile
da assimilare, né era facile imitare la sua pittoresca
inflessione.
Erik voltò la testa a guardare il lato opposto della
piazzetta. C'era una palazzina dall'aria talmente graziosa da sembrare
dipinta su un muro, la sua facciata di mattoni di tufo dal caldo colore
giallo stonava terribilmente con l'ambiente circostante. Era un
edificio a tre piani, con alcuni balconi dalle elaborate ringhiere di
ferro battuto adorne di fioriere di terracotta dalle quali spuntavano
gerani rossi e rosa che cadevano verso il basso come boccoli di una
parrucca. Il portone della palazzina era uno dei pochi in quelle strade
ad essere chiuso, accanto al battente c'era una targa di ottone
ossidato con la scritta: l' Araba
Fenice.
Il portone era di legno scuro, con un battente a forma di testa di
leone. Si aprì all'improvviso ed Erik ebbe la fugace visione
di un ingresso sfarzoso, illuminato a giorno e pieno di sofà
damascati e vasi di fiori.
«Eh, vi conviene
'e trasì» esclamò rivolto
a lui uno degli uomini che era seduto fuori dalla taverna.
'e trasì, "di entrare" riuscì a discernere Erik.
«Solo i signori ponno
trasì. Beati voi» aggiunse l'uomo con
una risata allegra, priva di malizia.
Erik si ritrovò a ricambiare il sorriso quasi senza
accorgersene. Da quanto tempo non sorrideva?
Quello doveva essere un bordello, intuì. Aveva visto altre
case di malaffare in quel quartiere e in altre strade di Napoli ma
evidentemente quel luogo era davvero riservato ai signori, come aveva
detto l'uomo della taverna.
Restò a fissare la facciata di mattoni di tufo per lunghi
secondi. Un pensiero cominciò a farsi strada nella sua
mente, prima indistinto e flebile poi sempre più netto.
Avrebbe potuto entrare lì, perché no? Avrebbe
potuto trovare una donna graziosa con cui passare la notte e...
Il portone si aprì di nuovo, ne uscì una
giovinetta al braccio di un signore ben vestito. Quando lo sguardo di
Erik arrivò a posarsi sul viso della ragazza per poco non
gli venne un conato di vomito. Era... era davvero Fede, la cameriera?
Era possibile che fosse lei? Aveva al collo lo stesso piccolo
ciondolo con l'ancora, il cuore e la croce.
Quando la ragazza gli passò accanto, parlando con fare
civettuolo al suo accompagnatore, Erik notò che era
più magra di Fede, con un volto più affilato, ma
per il resto era identica a lei. Se non era la ragazza che lavorava a
teatro doveva certamente essere sua sorella gemella.
L'uomo si voltò a guardare la giovinetta e il signore
sparire dietro l'angolo, la sua mente mise insieme i pezzi e lui
riuscì a dedurre che Fede aveva una sorella che lavorava in
quel bordello, forse era da lei che venivano i soldi che l'inserviente
del teatro aveva in tasca quella mattina, per questo li aveva definiti
“soldi sporchi”.
Erik si portò una mano alla tempia, sentì i primi
segni di quella che sarebbe certo diventata una brutta emicrania
cominciare a manifestarsi. Quel mondo era folle, folle quasi quanto
lui, e forse era per questo che non riusciva ad andarci d'accordo.
Lanciò un'ultima occhiata alla facciata della palazzina che
aveva davanti, sentendosi a disagio per i pensieri formulati poc'anzi,
poi si voltò e si incamminò sulla via del
ritorno.
_________________________________________________
Here,
I have a
note...
“Notte
'e vierno” sta per “notte di inverno”
Erik,
le donne e il sesso... mi domando perché io mi voglia andare
a
impergolare in certi viaggi labirintici e senza possibilità
di
ritorno... io ho una mia visione della faccenda, tra l'altro l'avevo
già espressa nella precedente long-fic Quanta più
notte che può:
nella mia testa Erik ha un'idea talmente alta dell'amore che,
nonostante tutto, gli impedisce di pensare al sesso come una cosa
fine a se stessa (tra l'altro, se così non fosse stato, non
voglio
pensare a cosa avrebbe potuto fare a Christine sconvolto com'era
quando l'ha portata nei sotterranei dopo il Don Juan), motivo per cui
non ha mai ceduto alla tentazione. So che ci sono diverse
“scuole
di pensiero” sull'argomento... e ognuno può
interpretare come
vuole... ma questa fanfiction è mia e tra queste pagine si
interpreta a modo mio! XD
In
generale io ho una mia visione di Erik e del suo rapporto con tutte
le “altre cose” che è molto... mia,
per l'appunto e che è
quella che poi viene fuori quando scrivo fanfiction. Cose che
succedono quando si ha a che fare con i personaggi di un musical, che
possono risultare un po' più “nebulosi”
di quelli di film e
romanzi.
Al prossimo mercoledì ^^
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 8 *** Incontri ***
Capitolo settimo
Incontri
~ Parigi, 30 aprile 1892 ~
C'era un sole primaverile che filtrava a malapena dagli scuri,
disegnando linee spezzate di luce e pulviscolo nella penombra della
stanza.
Louis era ancora in un piacevole stato di dormiveglia, attraverso le
palpebre socchiuse, i suoi occhi velati di sonno potevano scorgere
distintamente lo sbuffo di rosso tra il bianco delle lenzuola e il rosa
pallido di una schiena nuda.
Ah, le donne parigine! Se qualcuno glielo avesse detto prima...
La sera precedente, aveva passato molto tempo seduto a un tavolo del
Messidor. Attorno a lui, gli altri clienti chiacchieravano, ma Louis
era rimasto seduto da solo, in silenzio a rigirarsi tra le mani il
bicchiere di cognac che nemmeno aveva voglia di bere.
Le ultime pagine del diario di suo padre lo avevano lasciato perplesso.
Aveva letto delle prove de La Traviata, di Graziana Rovesti, della cena
a casa del duca e di tutte quelle riflessioni sulle donne e su
ciò che Erik non conosceva. Louis aveva impiegato qualche
minuto per assimilare la cosa, ma quando aveva riposto il diario nel
cassetto, prima di uscire, si era trovato a fare i conti con un
pensiero che gli sembrava sempre più scioccante, minuto dopo
minuto. Suo padre non aveva mai avuto una donna prima di allora, prima
di quella strana primavera del 1871 di cui il ragazzo stava leggendo
nel diario, quando aveva già superato i trent'anni di
età. Louis stentava a crederlo.
In realtà, Erik non gli era mai parso troppo sensibile al
fascino femminile, questo Louis lo aveva sempre notato, e gli era stato
quasi di peso avere un padre che non mostrava alcuna
complicità per le piccole vicende amorose del figlio, che
anzi criticava con una certa asprezza la sua leggerezza in materia di
donne. Ma Louis aveva sempre creduto che fosse perché Erik
aveva un affetto profondo e sincero per sua madre e quindi trovava
vuote e biasimabili le sue avventure.
Quella sera, seduto al tavolino del Messidor, Louis aveva cominciato a
chiedersi se suo padre non avesse avuto sempre ragione sulla questione
delle donne, che un uomo dovesse impegnarsi con una persona e dedicarsi
unicamente a lei. Eppure il ragazzo trovava inconcepibile l'idea che
fino a trentatré anni, Erik non avesse mai avuto una
donna... era per la faccenda
della maschera? Era per quella donna di cui nel diario non
era mai scritto il nome? O forse era per entrambe le cose? Louis non
aveva abbastanza elementi per dare una risposta a queste domande, che
si andavano ad aggiungere a un elenco di questioni irrisolte che si
infoltiva ad ogni riga del diario.
«Non vorrei disturbare, ma è un po'
tardi» aveva detto il padrone del bar, strappandolo alle sue
riflessioni. Il ragazzo si era trovato a chiedersi da quanto tempo
fosse seduto lì a rimuginare, attorno a lui tutti gli altri
tavolini erano vuoti, e non aveva nemmeno finito il suo cognac.
Si era scusato con il barista, aveva bevuto d'un fiato il liquore e si
era avvicinato al bancone per pagare.
«Mi aspetti? Devo solo sistemare i tavoli poi vado
via» aveva chiesto Magdeleine, la cameriera dai capelli
rossi. A Louis era bastato poco per capire che si trattava di una
proposta bella e buona.
Magdeleine aveva sistemato i suoi tavoli ed era uscita portando con
sé una bottiglia di liquore, sottratto dalla cantina. Dopo
un breve tratto di strada insieme, si era deciso che la bottiglia e la
ragazza avrebbero trovato un'ottima collocazione in casa di Louis per
quella sera.
Il ragazzo si rese conto di aver esagerato con il liquore solo la
mattina dopo, quando aprì gli occhi e si rese conto che la
testa gli faceva un gran male. Ma ne era decisamente valsa la pena.
Magdeleine stava ancora dormendo profondamente accanto a lui e il
ragazzo pensò che non aveva la benché minima
voglia di alzarsi, anche perché era quasi certo che se lo
avesse fatto la testa gli si sarebbe staccata dal collo.
Restò steso, con le mani incrociate dietro la nuca a fissare
il soffitto e a pensare che forse suo padre non aveva affatto ragione
sulla questione delle donne. Ma suo padre era stato innamorato
– della donna senza nome e certamente anche di sua madre,
Louis no.
I colpi alla porta gli suonarono nelle orecchie come la musica di
un'orchestra composta solo da tamburi e grancasse.
«Louis, sono io, Gustave!» esclamò una
voce squillante dal ballatoio davanti all'ingresso.
«Oh, no... me l'ero dimenticato» mugugnò
stropicciandosi la faccia.
Magdeleine accanto a lui alzò lentamente la testa. I capelli
spettinati sembravano fiammelle di candele che le danzavano sul capo.
«Che succede?» chiese con voce impastata.
«L'undicesima piaga d'Egitto» le rispose lui,
lanciando via le coperte e afferrando i primi vestiti che
riuscì a trovare, sparsi sul pavimento dalla sera
precedente.
Gustave bussò di nuovo.
«Louis, sei in casa?».
Magdeleine strabuzzò gli occhi arrossati.
«Chi è?» domandò ancora.
Louis sospirò pesantemente.
«Perdonami» le disse con una certa dolcezza.
«Mia madre dice sempre che a fare del bene non si sbaglia mai
ma ho la sensazione di aver fatto un madornale sbaglio. Rivestiti, a
lui ci penso io».
Così dicendo si fiondò fuori dalla camera da
letto, curandosi di chiuderne la porta. Ciondolando attraverso la sala,
arrivò alla porta d'ingresso e l'aprì con un
gesto secco.
«Gustave, in nome di Dio, vuoi smetterla di
urlare!» borbottò guardando in cagnesco il suo
ospite fermo sulla soglia.
Gustave De Chagny accennò un sorriso,
«Non sto affatto urlando» dichiarò.
«È la sbronza che ti da questa
impressione».
«Sì, sì, come ti pare... entra e non
dare fastidio».
Il ragazzo biondo aveva sotto braccio la sua cassetta di colori. Sul
pianerottolo erano ammucchiati un cavalletto e delle tele. Louis si
chiese come gli era venuto in mente di proporre a quello strano giovane
di continuare a usare la mansarda come studio, anche se ora lui vi
abitava.
Gustave si tolse il cappello, liberando la massa di ricci biondi.
Perché diamine non si tagliava quei capelli impossibili?
«Sembri un putto dipinto male» commentò
bieco Louis.
«Mi dai una mano a portare dentro quelli?». Gustave
indicò gli oggetti lasciati sul ballatoio, il suo ospite
sgranò gli occhi.
«Certamente!» gli fece sarcastico. «E
monsieur gradisce anche una tazza di tè, o magari una
spazzolata alla criniera?»
«I capelli me li ho già pettinati,
grazie».
Louis lo fissò basito, chiedendosi se quella fosse una
replica ironica alla sua battuta o se Gustave facesse sul serio. Non
era ancora riuscito a capire se quel De Chagny fosse stupido di natura
o se il suo era un atteggiamento costruito per risultare simpatico.
Dopo il loro primo e rocambolesco incontro, lo aveva rivisto per caso
ad una mostra di pittura che aveva deciso di visitare durante una delle
sue passeggiate. Gustave lo aveva riconosciuto in mezzo ai presenti,
era andato a salutarlo e aveva incominciato, dal nulla, un discorso
sulla pittura degli impressionisti. Un discorso del quale Louis aveva
capito ben poco, non era mai stato molto bravo in quel genere di cose,
ma la passione e il trasporto con cui Gustave parlava di quegli
argomenti lo avevano intenerito. Da quando lo aveva incontrato quella
sera nella mansarda, non era riuscito a fare a meno di pensare a quanto
possa essere tremendo avere un genitore che ostacola le aspirazioni
artistiche di un figlio. Forse il visconte De Chagny temeva che il
ragazzo prendesse una brutta strada e si accodasse al movimento
bohemiens che aveva rapito il cuore a un sacco di giovani di buona
famiglia, scappati di casa per mettersi a fare gli artisti. Louis
poteva comprendere la preoccupazione del padre di Gustave, ma trovava
comunque inconcepibile che gli si proibisse di dipingere, per questo
gli aveva offerto di continuare a usare la mansarda come studio, anche
se lui ci viveva.
Gustave non si era lasciato convincere subito, aveva replicato che
quella era casa sua adesso e che lui non voleva essere di disturbo.
Allora Louis gli aveva proposto uno scambio: la mattina Gustave sarebbe
venuto da lui a dipingere – purché se ne stesse in
un angolo, davanti al balcone possibilmente in silenzio – e
al pomeriggio lo avrebbe accompagnato in giro per Parigi, dato che a
lui serviva una guida, i suoi giri senza meta e senza scopo per la
città cominciavano a diventare noiosi.
Stavano ancora trasportando dentro casa tutto l'armamentario da
pittore, quando Magdeleine uscì dalla camera da letto.
«Buongiorno, mademoiselle» la salutò
galantemente Gustave.
La ragazza gli sorrise,
«Buongiorno a voi» disse, per poi dirigersi verso
Louis. Gli circondò le spalle con un braccio, lo
attirò a sé e lo baciò con foga.
«Conto di rivederti, sappilo» gli intimò
prima di sparire oltre la porta.
Gustave, che aveva ritenuto opportuno voltarsi verso il balcone,
fingendosi interessato al colore del cielo, fece una mezza risatina.
Louis gli lanciò un'occhiataccia,
«Rammenti quando ti ho detto che devi stare in silenzio?
Ecco, comincia da subito» gli gracchiò contro.
Gustave fece finta di nulla e cominciò a sistemare il suo
cavalletto in modo da sfruttare al meglio la luce proveniente dal
balcone.
«Ho detto di te a mia madre» disse al suo ospite
dopo qualche secondo di silenzio. «Ha trovato assolutamente
adorabile il tuo gesto di lasciarmi usare la casa... lei è
contenta che io dipinga. Qualche volta devo fartela
conoscere».
Louis pensò non aveva alcuna voglia di conoscere la madre di
Gustave, non avrebbe voluto conoscere nessun parente di Gustave se
c'era la probabilità che somigliassero a lui anche
lontanamente.
Ignorando il ragazzo che cominciava ad armeggiare con la tavolozza di
colori, Louis prese il diario, si sedette sul tavolo della sala e
cominciò a leggere. La pagina che aveva davanti portava la
data del 29 marzo 1871.
È sera, la
pioggia insistente mi ha costretto a rimanere nei miei alloggi, nel
teatro. Potrebbe anche essere un bene, non fosse che non ho alcuna
voglia di suonare. Era tempo che non mi concedevo qualche ora di totale
inattività, fin da quando sono giunto qui al San Carlo mi
sono sempre dato da fare, forse nel timore che se mi fossi fermato i
pensieri sarebbero tornati ad assalirmi. Ma ormai comincio a pensare
che non ci sia alcuna via di scampo ai ricordi, certi debiti non si
possono saldare.
Talvolta ho l'illusione
che la mia vita sia un po' vicina a quell'idea di normalità
che tanto mi affascinava un tempo, ma basta un niente e tutto torna
oscuro e distorto. Come stamane... ho fatto un incontro e...
Lousi sospirò. L'umore di suo padre era sempre stato
altalenante, anche nei momenti migliori. Ma a volte leggere quel diario
gli dava le vertigini per quanti scossoni sembravano ricevere le
emozioni di Erik nei giorni in cui aveva scritto quelle pagine.
Sollevò lo sguardo e fissò Gustave intento a
mescolare delle tempere. Forse non era stata poi una cattiva idea
invitare lì quel ragazzo. Forse cominciava a sentirsi solo e
malinconico come le pagine che aveva tra le mani ed era un bene avere
accanto qualcuno che lo distraesse.
*******
~ Napoli, 29 marzo 1871 ~
Dopo un paio di giorni di sereno, la fine di quel marzo si
preannunciava nuovamente all'insegna del brutto tempo.
Anche nella flebile luce di quell'alba non ancora sorta, Erik poteva
vedere le gocce di pioggia disegnare minuscoli schizzi sul lastricato
che pavimentava piazza del Plebiscito. Non trovò la cosa
particolarmente rilevante, non abbastanza da indurlo a rinunciare alla
sua passeggiata, quella era la sua personale via di fuga, un piacere
del quale non si sarebbe privato per quattro schizzi di pioggia.
Una leggera brezza stava già cominciando a mandare via le
nuvole più pesanti quando Erik raggiunse il lungomare. Nubi
grigie si stavano ora addensando sulla cima del Vesuvio, l'imponente
vulcano che torreggiava sul golfo di Napoli, visibile da ogni punto
della città, tanto da apparire quasi come un monumento
rappresentativo, come il Colosseo di Roma o le piramidi d'Egitto.
Il cielo plumbeo, insieme al riflesso dei primi raggi di sole, faceva
sembrare il mare un'enorme lastra di piombo accartocciato. Il vento
faceva alzare onde schiumose che si abbattevano contro gli scogli
sollevando grossi schizzi di spuma dall'odore salmastro.
Erik inspirò profonde boccate di aria di mare e, come gli
capitava ogni mattina, si sentì in pace. Restò
qualche minuto fermo, appoggiato al parapetto. Il profilo dell'isola di
Capri era scomparso, inghiottito da un orizzonte cupo. Alla sua destra
vide la ormai familiare sagoma squadrata di Castel dell'Ovo e decise
che quella mattina si sarebbe spinto fino all'antica costruzione.
Gli toccò camminare più a lungo di quanto aveva
previsto, quel vecchio edificio non sembrava così lontano in
linea d'aria, ma la strada seguiva la curva della riva e rendeva quella
meta un po' più distante di quanto la si sarebbe detta.
Il castello sorgeva immenso e maestoso su un isolotto, lo scoglio di
Megaride, collegato alla terraferma da un sottile istmo di roccia di
tufo sul quale era stato costruito un passeggio con un alto parapetto
di pietra e sopra di esso dei basamenti sui quali poggiavano alti
lampioni. Era da quell'isolotto che era nata la città,
lì erano approdati i greci e lì dimorava la
sirena Partenope che aveva dato il nome al luogo destinato a diventare
Napoli. Quelle mura aveva tenuti prigionieri rivoluzionari e uomini
dell'antica Carboneria e, andando ancora più indietro nel
tempo, Corradino di Svevia, la cui morte sulla piazza del Mercato aveva
distrutto le speranze di un Italia più forte e unita secoli
prima l'avvento dei Savoia.
Erik guardò ammirato l'imponente struttura di pietra
spoglia. Ebbe come l'impressione che il vento, entrando nel castello
attraverso le fenditure e le vecchie finestre, ne uscisse poi portando
con se l'eco della Storia.
Percorse il lungo ponte con passo lento, riempiendosi gli occhi di
ciò aveva dinnanzi. Si fermò a pochi metri dal
portone del castello, sentiva il mare rimescolato dalle raffiche di
vento come ribollire, infrangersi con sempre maggiore violenza contro
le fondamenta del ponte. E al di sopra di quel suono ritmico e
graffiante, sentì dei singhiozzi soffocati.
Erano forse le anime delle persone che erano state imprigionate nelle
segrete di Castel dell'Ovo? No, di certo era solo un effetto provocato
dal vento o forse uno scherzo strano della sua mente ormai troppo
avvezza alla follia.
Fece ancora qualche passo, sicuro di sentire quel suono cessare. Ma i
singhiozzi provenivano in realtà dalla gola di qualcuno, una
donna seduta sul parapetto, era rannicchiata dietro al basamento di uno
dei lampioni, per questo Erik non l'aveva scorta subito. Aveva la
fronte poggiata sulle ginocchia e le braccia a circondare le gambe. Il
vento faceva danzare i suoi ricci corvini allo stesso ritmo delle onde.
L'uomo pensò che fosse il caso di allontanarsi e lasciare
quella donna alle sue pene che di certo non lo riguardavano, ma
nell'indietreggiare mise il piede su una piastrella di pietra che si
stava staccando e questa produsse un sordo schiocco che fece sollevare
di scatto la testa della donna.
Il Signore delle Botole tradito da un mattone guasto! Erik non ebbe il
tempo di pensarci, perché dovette lanciarsi contro la donna
e afferrarla al volo prima che cadesse dal parapetto. Aveva sussultato
quando il rumore le aveva rivelato la presenza di un'altra persona e
aveva rischiato di perdere l'equilibrio, cadendo in mare.
Erik le circondò il busto con le braccia, trattenendola
mentre era già in bilico sul taglio della murata di pietra,
poi con uno strattone la riportò sul ponte.
La donna alzò lo sguardo su di lui, aveva gli occhi gonfi e
arrossati e un'espressione stranamente irritata. Erik la riconobbe
subito come la donna bruna che era venuta quella mattina a teatro e
aveva salvato Fede dalle accuse di Graziana.
«Vi divertite a spiare la gente?!»
borbottò la donna spingendolo debolmente via da
sé.
«La parola grazie non è contemplata nel vostro
vocabolario, signora?» la rimbeccò lui infastidito
dal tono irritato della sconosciuta.
« Grazie tante,
signore. Ma se non mi aveste spaventato non avrei rischiato di
cadere!».
La donna gli diede le spalle, i ricci scuri ondeggiarono nel vento come
l'ala di un corvo.
«Qualsiasi sia il motivo del vostro turbamento, non vedo
perché io debba esserne oggetto»
protestò Erik cupo.
«Avete ragione» disse la donna, ma il suo tono di
voce non si era addolcito e continuava a dargli le spalle.
«Vi chiedo scusa, ma vorrei essere lasciata sola».
Sì, anch'io...
pensò Erik.
Ecco un'altra creatura fortunata che sciupa la sua buona sorte.
«Una giovane donna di bell'aspetto non dovrebbe starsene da
sola a piangere su una murata a picco sul mare»
borbottò. Fu come un pensiero, solo che aveva formulato ad
alta voce. Non aveva alcuna intenzione di immischiarsi negli affari di
quella ragazza, né voleva farle la paternale o gli stava a
cuore consolarla. Ma quelle parole gli fuggirono dalla labbra, come un
moto di nervosismo che non si riesce a trattenere.
La sconosciuta si voltò a guardarlo, arricciò il
naso e strabuzzò gli occhi in una buffa espressione quasi
spazientita,
«Una... giovane
donna di bell'aspetto? Ah, è evidente che vi
interessate ai pettegolezzi della città meno di quanto
questi si interessino a voi» commentò con sarcasmo.
«Prego?»
«Voglio dire: non sapete chi sono, ma io so chi siete voi, il
Maestro francese del San Carlo. Pensavo non usciste mai dal teatro,
almeno così dicono».
Erik scrollò le spalle,
«In questa città si parla troppo, e si raccontano
anche troppe menzogne».
Certo che usciva da quel teatro, dannazione! Ogni mattina da quando era
lì e ogni notte da quando aveva lasciato palazzo Giusso.
Negli ultimi giorni aveva persino imparato a memoria le strade di quel
quartiere malfamato in cui la brava gente di Napoli non metteva piede.
Ci era tornato tutte le notti dopo la sua prima incursione, tutte le
notti era arrivato fino alla soglia del bordello nella piazzetta e ogni
notte non era stato capace di varcarla.
«Il fatto è che Napoli è una
città a cui piacciono le favole». Ora la voce
della donna si era fatta morbida, velata da una leggera
tenerezza.
«Lo dite come se l'amaste molto la vostra
città».
Un sorriso strano, colmo di pena, increspò le labbra della
sconosciuta,
«Purtroppo...»
«Purtroppo?»
«A volte si ama e si crede di essere ricambiati, quando si
scopre che non è così cosa resta? La pena
più dolce e il dolore più profondo. Questo
è ciò che questa città mi ha fatto e
io la amo, sì, anche se è sciocco, sciocco quanto
l'aver sperato...». Anche queste parole sembrano pronunciate
come se fossero un pensiero troppo pressante che aveva bisogno di
essere espresso a voce, anche senza bisogno di orecchie che lo
ascoltassero, specie se si trattava di orecchie estranee.
Quelle parole fecero nuovamente sanguinare il cuore di Erik, riaprendo
le vecchie ferite che ormai erano veri e propri solchi sulla sua anima,
scoprendo carne viva e squarciando la tela dei ricordi, lì
dove l'uomo avrebbe voluto che certe memorie restassero sepolte per
sempre.
«Capisco...» disse in un soffio.
La donna estrasse un fazzoletto dalla tasca e si asciugò una
nuova lacrima che era capitolata oltre le ciglia; fu come se il gesto
avesse spazzato via ogni pensiero triste,
«Dio, che stupida, sto qui ad annoiarvi con i miei
problemi!» esclamò cercando di darsi un'aria
più allegra.
L'uomo non ebbe tempo di prestare attenzione a quel repentino cambio di
umore e atteggiamento.
«Lucia!» chiamò una voce proveniente
dall'estremità del ponte. «Lucia! State qui, mannaggia 'a capa vostra,
tornate a casa, ja',
che c'abbiamo da fare».
Erik e la ragazza si voltarono, scorsero una donna anziana avvolta in
un cappotto liso e troppo grande per lei.
Lucia agitò una mano in direzione della donna, poi si
voltò verso Erik.
«Arrivederci, Maestro, spero passiate una buona
giornata» disse sbrigativa, prima di voltarsi e camminare a
grandi passi verso la donna che l'aveva chiamata.
«Buona giornata a voi, signora» le rispose,
guardandola allontanarsi e chiedendosi cosa mai poteva essere capitato
a una donna che, a prima vista, sembrava avere tutte le fortune del
mondo.
*
Guglielmo sentì il borbottio dell'acqua bollire tra le
pareti metalliche della caffettiera posata sul fornello. Un filo di
fumo sottile si levò dal beccuccio e soffiò
nell'aria l'aroma del caffè.
L'uomo sorrise deliziato, prese un panno e vi avvolse il manico della
caffettiera per non scottarsi. Sistemò con cura le due
tazzine di porcellana sui piattini dal bordo dorato, la zuccheriera, i
cucchiaini d'argento e i fazzoletti al centro del vassoio,
versò il caffè e contemplò compiaciuto
la sua opera.
Era quasi sera, le prove erano finite, il teatro si stava sgombrando e
lui aveva bisogno del suo personalissimo angolo di piacere in tazza
prima di tornare a casa.
Afferrò il vassoio e si diresse, canticchiando tra
sé e sé, verso l'ufficio del Maestro.
Non che potesse vantarsi di aver compreso molto di quell'uomo ombroso,
ma non poteva fare a meno di ammirarne la competenza e la dedizione che
metteva nel suo lavoro. Era severo con i cantanti durante le prove, ma
quegli artisti, che a Guglielmo erano parsi già abbastanza
competenti mesi prima, stavano facendo straordinari progressi sotto la
sua guida.
Quello di Erik era un genio nato per stupire il mondo, e Guglielmo si
chiedeva spesso come mai il suo nome non fosse già uno dei
più famosi in Europa, perché non gli era mai
stata assegnata la direzione di un importante teatro. Certo, doveva
esserci qualcosa di terribile nel passato di quell'uomo, come doveva
esserci qualcosa di... sgradevole
sotto quella maschera, lo aveva capito da tempo, eppure
non gli importava affatto. Il talento del Maestro era così
splendente da lasciare in ombra qualsiasi altra cosa lo riguardasse e
Guglielmo cominciava a credere che ci fosse del buono in lui,
più di quanto egli stesso pensava. Il Maestro francese non
era l'unico ad essere un buon osservatore, anche Marchesi lo era, aveva
passato la vita rannicchiato nel suo angolo ad osservare e sapeva
cogliere certe sfumature, come il totale rapimento che si disegnava sul
volto di Erik quando suonava – perché lo aveva
visto suonare, non solo quella sera in casa del duca, ma anche in quei
pomeriggi in cui il teatro era vuoto e lui credeva di non essere visto.
Una persona capace di trarre tanta bellezza e tanto piacere dalla
musica non poteva avere un'anima del tutto guasta, anche se l'anima del
Maestro avrebbe forse avuto bisogno di una spolverata.
All'inizio non era stato facile avere a che fare con lui, ma lentamente
il giovane Marchesi aveva preso un certo gusto a tirare le parole di
bocca a quell'uomo, una ad una, a forza di bevute di caffè.
E ne era sempre valsa la pena.
Guglielmo bussò con discrezione alla porta dell'ufficio e
attese il permesso di entrare. Una volta dentro, posò il
vassoio sulla scrivania, scostando i fogli che si ammucchiavano sempre
più in disordine sul piano di ciliegio. Il Maestro non
voleva che l'inserviente che gli puliva l'ufficio toccasse nulla dalla
sua scrivania e così si era creato quel pittoresco caos di
partiture, pagine di appunti e schizzi di disegni, come quelli che
ritraevano la ragazza
con i ricci e gli occhi lacrimosi, così l'aveva
definita Guglielmo, anche se non aveva mai voluto chiedere al Maestro
chi fosse il soggetto di quei ritratti e come fosse possibile che la
ritraesse sempre uguale, in maniera così meticolosa, pur non
avendola lì.
Il direttore allungò il piattino con la tazza verso il
musicista francese che lo ringraziò. Guglielmo non aveva
ancora capito se a lui piaceva davvero il caffè, ma dalla
prima volta che glielo aveva portato, si era reso conto che non sarebbe
riuscito ad avvicinarlo in altro modo e quindi quella era diventato il
suo pretesto ufficiale per intrattenersi a parlare col Maestro.
«Debbo farvi una domanda, Guglielmo» disse l'uomo
mascherato. Certo, lo tempestava continuamente di domande –
quando era in vena di conversare, sui vecchi allestimenti delle opere,
sul passato professionale dei cantanti e dei musicisti, sui successi e
gli insuccessi registrati dal teatro nel corso degli ultimi anni...
«Dite pure, Maestro».
Erik sorseggiò con gusto il caffè caldo prima di
parlare. Forse, dopotutto gli piaceva.
«Ricordate la scorsa settimana, quando ci fu quello
spiacevole incidente con Fede?»
«Fede... chi?».
Il Maestro non sembrò molto contento nel vedere che lui non
ricordava quel nome, ma mica poteva tenere a mente i nomi di tutti
quelli che lavoravano lì dentro? A volte il San Carlo
sembrava proprio un circo ambulante. Non lo avrebbe mai detto prima di
diventarne il direttore.
Guglielmo attese pazientemente che il suo interlocutore lo illuminasse.
«Fede, l'inserviente che si occupa dei camerini e dei miei
alloggi» disse questi, dopo qualche secondo. «C'era
stato un malinteso con la signorina Rovesti riguardo a una banconota
che si credeva la ragazza avesse rubato. Rammentate?».
Guglielmo annuì. Sì, ricordava. Avrebbe voluto
morire quella mattina; Graziana così irritata, la ragazzina
che frignava e implorava e lui che non sapeva cosa fare, anche se la
sua posizione lo rendeva oggetto delle aspettative della signorina
Rovesti riguardo al trovare una soluzione soddisfacente...
cercò di non pensare a tutte quelle cose sgradevoli e fece
cenno al Maestro di proseguire.
«Ebbene, mentre si discuteva la questione arrivò
una donna, ho avuto come l'impressione che la conosceste tutti. Ditemi,
chi è?».
Guglielmo aggrottò le sopracciglia. Certo, il Maestro non
aveva mai mostrato interesse per i pettegolezzi e le cose futili, ed
era a Napoli da troppo poco tempo per conoscere tutte le vicende della
città. Ad ogni modo, il Maestro non si era mai interessato
tanto esplicitamente di niente e nessuno, e adesso, tra le tante
persone che avrebbero potuto colpirlo, tra le tante vicende di cui
poteva chiedere, voleva parlare proprio di quella donna!
«Perché vi interessa?» gli chiese. La
domanda gli venne spontanea anche se non era certo che sarebbe stata
gradita.
«Semplice curiosità, l'ho incrociata per strada e
mi chiedevo chi fosse».
«L'avete... ehm, incrociata per strada?»
«È quello che ho appena detto. Quindi?».
Oh, non gli piaceva quando si spazientiva, gli metteva paura. Comunque,
se era tanto interessato a quella persona, tanto valeva che sapesse la
storia... così forse avrebbe orientato altrove il suo raro
interessamento filantropico.
«Si chiama Lucia Aiello, da queste parti la conoscono tutti,
una volta veniva spesso anche ad assistere agli spettacoli qui in
teatro, accompagnava alcuni signori, insomma... ehm, un tempo era la,
con decenza parlando, prostituta più famosa e ricercata di
tutta Napoli, potremmo dire una meretrice di lusso. C'è un
bordello molto conosciuto in una strada nel quartiere qui di
fronte».
«L'Araba Fenice?».
Guglielmo trattenne a stento un moto di sorpresa; non credeva che il
Maestro conoscesse quel nome, né pensava che fosse tipo da
interessarsi alle donne di malaffare. Non gli sembrava affatto tipo da
interessarsi alle donne, in generale. Che altro si sarebbe potuto
pensare di un uomo che ignorava le palesi attenzioni di quell'angelo di
Graziana?
Era come se Erik vivesse esclusivamente per la musica. Ma dopotutto,
era pur sempre un uomo, un uomo con una certa strana avvenenza anche, e
quindi doveva pur avere i suoi divertimenti al di fuori di quel
teatro... o no?
«Lo conoscete quel posto?» non riuscì a
fare a meno di domandare. Guglielmo non aveva mai avuto troppo successo
con le signore, ma anche così, non gli era mai venuto in
mente di frequentare delle case di piacere. Nemmeno l'Araba Fenice. A
sua madre sarebbe venuto un colpo e poi, no, decisamente quelle cose
non facevano per lui... anche se... l'Araba Fenice, ah, aveva sentito
dire cose strabilianti sulle donne che lavoravano in quel posto. E
Lucia Aiello veniva proprio da lì, e lui aveva avuto modo di
incontrarla spesso a teatro e si era chiesto perché una
donna come lei fosse finita a fare la meretrice, una meretrice di
lusso, trattata a champagne e velluto, ma pur sempre una che vendeva il
suo corpo in cambio di denaro.
«Non esattamente, conosco il quartiere più che
altro. Mi stavate dicendo della ragazza, perché avete detto
un tempo? È ancora giovane mi pare» disse il
Maestro riscuotendolo dai suoi pensieri.
Guglielmo si sentì sollevato all'idea che Erik non
frequentasse case di malaffare.
«Oh, sì, sì lo è, e suppongo
che la si possa trovare bella... se a qualcuno piace, ehm... il genere.
Ma, vedete, molti mesi fa, lei fu coinvolta in un incendio e pare che
ne porti i segni, per questo ha smesso di esercitare la sua
professione»
«Una storia piuttosto triste»
«Sì, molto triste. Ma forse chissà,
Iddio ha voluto che la ragazza si salvasse dalla perdizione o qualcosa
del genere».
Lo sguardo del Maestro si incupì, la sua voce assunse una
strana sfumatura, come di ferocia repressa e allo stesso tempo di pena,
quando parlò,
«Credo, onestamente, che la sfortuna sia più
spesso la strada migliore per la perdizione, non una via di
salvezza» dichiarò, spostando lo sguardo e
fissandolo oltre la finestra alla sua sinistra.
«In effetti, credo che la ragazza lavori ancora nel bordello
con altre... ehm, mansioni» aggiunse Guglielmo e
sentì quell'orribile, familiare sensazione del rossore che
gli saliva lungo il collo arrivando ad accendergli le guance e
rendendogli le orecchie scarlatte e incandescenti. Dio, quanto doveva
sembrare stupido quando succedeva!
Il Maestro, comunque, tornò a guardarlo e gli rivolse un
rapido sorriso. Alle sue labbra il sorriso non piaceva, lo trattenevano
per un fugace istante e poi lo lasciavano andare, come si tenta di
cancellare un pensiero inopportuno.
«Non siate così turbato a parlare di certe cose,
non sono mica vostra madre» concluse il Maestro con tono
quasi bonario. No, non lo era, e Guglielmo a volte si chiedeva con
quale dei due era peggio aver a che fare.
________________________________________________________________________________
Niente da dichiarare su questo capitolo. Ora sapete chi era la donna
bruna dell'altro capitolo... fatele ciao ciao con la
manina e datele il benvenuto in questo circo ambulante XD
Al prossimo mercoledì ^^
...
your obidient servant!
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Capitolo 9 *** Fuoco ***
Capitolo ottavo
Fuoco
~ Napoli, 03 aprile 1871 ~
Lo sguardo le si fissò sulla fiamma dentro le pareti di
vetro e metallo della lampada: sembrava così innocua.
Sognava il fuoco ogni notte, lo sognava aggrapparsi con dita impietose
alla sua pelle, consumarla, violarla, rammentandole che era fragile,
come tutti quelli che credeva di essere in grado di consolare.
Lucia distolse lo sguardo dalla lampada che rischiarava la stanza,
facendo emergere dalla penombra i disegni della carta da parati
azzurra. Dal corridoio veniva il calpestio di tanti passi concitati, al
piano di sopra qualcuno stava spostando una pesante poltrona, ogni
tanto si sentivano risate provenire da un punto indistinto
dell'edificio. Il silenzio non era mai stato una prerogativa di quel
luogo, ma non era nemmeno una prerogativa di quella città.
Nei suoi sogni di bambina, Napoli era il centro del mondo, una
sconfinata distesa di vita che pulsava sotto l'ombra del vulcano
addormentato, tra le carezze del mare. Era una linea scura
all'orizzonte, che si disegnava incerta quando saliva sulla
sommità più alta della scogliera di Capri,
l'isola dove era cresciuta.
Negli anni in cui era stata bambina aveva visto la sua isola riempirsi
di turisti, gente che parlava lingue sconosciute ma che guardava con lo
stesso identico sguardo ammirato l'acqua cristallina e i superbi
speroni di roccia che formavano grotte e cale a pelo d'acqua. A lei non
piaceva quell'isola, le stava stretta; Lucia non poteva rammentare il
giorno in cui vi era stata condotta per la prima volta, era troppo
piccola, ma in cuor suo era sempre stata certa di averla odiata fin da
allora. Non avrebbe mai voluto lasciare Napoli, ma aveva tre anni ed
era rimasta orfana, così non aveva avuto altra scelta se non
quella di raggiungere sua nonna paterna.
Nonna Maruzza era una sarta, viveva sull'isola di Capri in una piccola
casa in fondo a una stradina, dove a guardare dalla finestra non si
sarebbe detto che il mare era così vicino, tutto attorno a
quello sputo di terra. Sua nonna l'aveva mandata a scuola in quella
piccola chiesa dove le suore insegnavano a leggere e scrivere ai figli
dei pescatori e le aveva regalato un sacco di libri per farle compagnia
nelle ore in cui non era impegnata a imparare il taglio e il cucito.
Nonna Maruzza diceva a tutti che sua nipote era una ragazza
intelligente e che avrebbe avuto un gran futuro. Ma si era sbagliata.
Lucia aveva sedici anni quando l'anziana donna cominciò ad
ammalarsi. La ragazza non era una sarta abile quanto lei e i lavori di
taglio e cucito non bastavano a mandare avanti la piccola casa e a
pagare le cure per la nonna. Tutto su quella maledetta isola costava
troppo perché veniva da fuori, veniva dalla terraferma,
dalla città, da Napoli. La ragazza aveva pensato che Napoli
potesse essere la soluzione a tutti i suoi problemi, ci aveva creduto
davvero, con l'ingenuo ottimismo delle menti giovani.
Erano gli anni dell'Unità d'Italia appena conquistata, la
terra era ancora morbida del sudore e del sangue di cui si era
impregnata e una nuova speranza sembrava soffiare via dall'orizzonte
tutte le nuvole. Ma Napoli, come altre città e come tutto il
Mezzogiorno, stava ancora saldando i debiti delle battaglie. Uomini
nuovi ridisegnavano il futuro e parlavano ancora di altre guerre e di
altre battaglie, lì al nord.
Lucia aveva lasciato sua nonna alle cure delle suore ed era partita.
Aveva trovato Napoli avvolta da ombre più dense di quelle
che c'erano quando l'aveva lasciata. Un luogo dove la vita era dura e
non c'erano molte scelte. E Lucia fece la sua di scelta senza troppi
rimpianti.
Nonna Maruzza non l'aveva mai saputo. Lei era lì,
sull'isola, a godersi il meritato riposo dopo anni di lavoro, dopo
tutto quel tempo passato a prendersi cura di sua nipote, e non avrebbe
mai lasciato Capri, per cui il segreto di Lucia era al sicuro.
Guardandosi alle spalle, la giovane donna non aveva mai voluto
compiangersi. Non era stata una scelta difficile, nessuna scelta
può esserlo quando si rivela l'unica opzione. E non era
stato nemmeno troppo brutto all'inizio.
Era finita in quella piazzetta quasi per caso; aveva visto il bel
palazzo con i mattoni di tufo dove alcuni facchini stavano trasportando
del mobilio nuovo. Aveva pensato che forse lì c'era bisogno
di una cameriera. La donna bassa all'ingresso le aveva detto che non
volevano cameriere, ma che le avrebbe trovato un posto e qualcosa da
fare, se avesse voluto. Lucia aveva capito quasi subito di che si
trattava e non si era tirata indietro.
Si era sentita sporca e vigliacca quando la maîtresse Madame
Fantine, quella donna bassa che faceva finta di essere francese, aveva
contrattato il prezzo della sua verginità. Ma la sera del
suo primo cliente, Lucia aveva capito in un solo istante cosa le
sarebbe servito per sopravvivere in quel mondo.
L'uomo era un ricco signore di quarant'anni, uno di quegli uomini nuovi
in quel Paese dalle idee ancora troppo vecchie per spiccare il volo.
Aveva uno sguardo che... c'era uno strano senso di ammirazione in fondo
a quegli occhi e c'era una bottiglia di vino nella sua mano. Lucia era
restata impalata a fissare in alternanza l'uomo e la bottiglia mentre
nella sua mente facevano eco le istruzioni di Madame Fantine ripetute
come una nenia. Lui aveva versato del vino per entrambi e si era
seduto, poi aveva cominciato a parlare. Aveva parlato per un tempo
lunghissimo di cose di cui Lucia non capiva nulla, cose che avevano a
che fare con tribunali e titoli di borsa e notizie sul giornale.
«Mi capite, signorina?» aveva chiesto l'uomo dopo
una sequela infinita di parole. E lo aveva fatto senza alcun tono di
rimprovero, aveva solo bisogno di sentirsi rispondere di sì.
Era questo che volevano gli uomini, dunque? Essere ascoltati, capiti e
consolati, con le parole e con le carezze ancora prima che con il
piacere? Forse non tutti gli uomini, indovinò Lucia, ma i
ricchi signori che frequentavano l'Araba Fenice sì, gente
pressata dalla propria vita, dai doveri, dal perbenismo e forse persino
dai suoi stessi soldi, che cercava riparo nello sguardo di una donna
che non avesse alcuna pretesa su di lei o sul suo nome, una donna che
sarebbe stata ben felice di essere dimenticata la mattina dopo e che
non si aspettava fiori o doni ma che sapeva gioire come nessun'altra se
li riceveva.
Era l'aver compreso tutto ciò che l'aveva resa la migliore,
la più desiderata. Non era per la sua bellezza, un tipo di
grazia comune a quasi tutte le giovani donne dai tratti mediterranei, e
nemmeno per quelle arti amatorie che aveva impiegato tempo ad affinare,
era per il modo in cui li guardava mentre le parlavano.
Lentamente aveva persino imparato ad ascoltarli davvero. Non tutti
erano patetici e noiosi e poi, quando era diventata così
conosciuta e ricercata e aveva imparato ad apparire bella come un
gioiello, avevano cominciato a portarla con loro in tanti posti che non
avrebbe mai potuto nemmeno guardare dall'esterno. Il teatro, ad
esempio.
E poi un giorno, un anno prima, era arrivato un uomo, dalla Francia, un
tipo singolare con il sorriso più bello che Lucia avesse mai
visto. Dopo tutto quel tempo, la ragazza quasi si vergognava ad
ammettere di averlo amato...
Poi, quella sera di sei mesi prima, a quel ricevimento in quella villa
di campagna un signore maldestro aveva urtato una lampada accanto a una
tenda...
E Napoli ora già cominciava a dimenticarla, come il suo
amore francese di un tempo, già fingeva di non riconoscere
in lei la donna che aveva cullato con le sue braccia tanti cuori
stanchi, che aveva rubato al cielo della città un po' di
luce e l'aveva restituita in quella camera dalle pareti azzurre.
Solo Madame Fantine non l'aveva voluta abbandonare, lei era la sua
stella del buon augurio: quanti signori disposti a pagare somme
indicibili aveva trattenuto nella sua casa?
«Devi insegnare alle altre come fai» le aveva
detto. «Mi devi aiutare a mandare avanti questo posto,
perché è l'unica casa che abbiamo».
Ed era vero, non c'era altra casa per lei, se non quella di nonna
Maruzza, ma lei non poteva tornarci a mani vuote, sconfitta. E non
c'era altra casa per tante altre ragazze, e quello che Lucia poteva
fare per loro era insegnare a usare qualcosa di più del
proprio corpo, perché quello era l'unico modo per non
sporcarsi del tutto, per tenersi al sicuro anche da se stesse.
Se non altro, da quando aveva smesso di lavorare, le restava molto
più tempo per sé, tutto quello che non aveva mai
avuto. Di giorno aiutava a sbrigare le commissioni che c'erano da fare
in una casa tanto grande, come il bucato da stendere sul terrazzo e la
spesa al mercato. Oppure aiutava Madame Fantine a fare i conti, cosa
per cui la maîtresse dell'Araba Fenice non era
particolarmente portata. Ma la sera, quando le altre ragazze si
intrattenevano con i clienti, lei poteva concedersi il lusso di
starsene in camera sua a leggere un libro, oppure uscire e partecipare
alla folle e instancabile vita notturna di Napoli.
Lucia si avvicinò alla finestra. Madame Fantine le aveva
permesso di tenere la sua vecchia camera, la più spaziosa
della palazzina, anche se era una di quelle prive di balcone. La stanza
aveva una finestra che affacciava sulla piazzetta davanti all'edificio,
da lì la ragazza osservava il viavai incessante dei clienti
della taverna Notte 'e vierno e spiava curiosa tutti quelli che
entravano e uscivano dal bordello. Da quasi una decina di giorni vedeva
sempre anche quell'uomo, il Maestro francese, spuntare da un angolo
della piazzetta, avvicinarsi alla palazzina e fermarsi a qualche metro
dalla soglia, senza mai varcarla. Nelle due sere in cui era piovuto a
catinelle l'uomo non si era fatto vedere, ma adesso era lì,
con i pugni serrati, come a combattere una vecchia battaglia contro se
stesso. E sì che quel signore aveva l'aria di essere
perennemente in battaglia, contro se stesso, contro qualcun altro o
forse contro il mondo intero.
Lucia aveva provato a scommettere quando il Maestro si sarebbe deciso a
entrare, ma ormai non era più nemmeno sicura che lo avrebbe
fatto. La ragazza ridacchiò, scosse il capo e
andò a prendere la montagna di calze e biancheria che aveva
da rammendare. C'era sempre un sacco di roba da rammendare in un posto
come quello. Tirò fuori la scatola del cucito, con il ditale
in argento che le aveva dato sua nonna, e tornò a sedersi,
poggiandosi in grembo una piccola catasta di calze e sottovesti.
Dopo forse sarebbe uscita e sarebbe andata ad ascoltare Mastro
Pulcinella.
*******
~ Napoli, 04 aprile 1871 ~
Fuoco. Grida. Orrore...
e poi buio. Un silenzio duro e impenetrabile come marmo e poi il
ticchettio ritmico di gocce che cadevano su un pavimento di pietra. E
poi ancora fuoco, e altre grida, e le lacrime... ah, quante lacrime!
Lacrime che si mischiavano alle gocce di umidità e andavano
a formare quel lago. E sulla sponda del lago drappi di seta, specchi,
candelabri votivi, statue, fogli...
E di nuovo il fuoco, che
saliva d'acqua, prosciugandola centimetro dopo centimetro come se fosse
olio di colza, si alzava fino al soffitto della grotta, inchiodandolo
in quell'inferno per sempre, senza via di fuga.
Una voce tremenda,
bellissima, disperata che si alzava oltre il crepitio delle fiamme.
«Angelo della
Musica... mi hai tradito...»
E poi la luce,
accecante, che lo colpiva in viso come un pugno.
Erik aprì gli occhi, spalancandoli contro quella luce, come
a sperare di potervi trovare riparo. Era alla sua scrivania; si era
addormentato lì, sul piano di ciliegio, con la finestra
aperta dalla quale ora entrava un sole fortissimo che asciugava Napoli
dalla pioggia dei giorni passati.
Che ore erano? Ah, si era anche perso la sua passeggiata mattutina.
Questo è quello che accade a chi passa le ore notturne a
girare senza meta per i bassifondi di Napoli, pensò, come
un...
… un
fantasma.
Troppe ore di buio consumate a vagare per la città, troppe
poche ore di sonno. Forse, dopotutto, stava invecchiando. Forse anche
quello faceva parte dello scotto da pagare per la normalità.
Stiracchiò i muscoli della schiena, intorpiditi da quella
posa scomoda in cui era rimasto chissà da quanto tempo.
«Maestro». Qualcuno stava bussando alla porta.
Non era Fede, l'inserviente, forse lei era già passata, lo
aveva trovato lì e non aveva avuto il coraggio di
svegliarlo.
«Maestro, ci siete?».
«Entrate, Graziana» concesse passandosi una mano
tra i capelli e stropicciandosi il lato scoperto del viso.
In un angolo della scrivania erano ammucchiati diversi pezzi di legno e
ritagli di stoffa che aveva trovato nella falegnameria e nella sartoria
quando andava a visionare i lavori degli operai. Aveva deciso che nel
tempo libero avrebbe costruito un carillon, lo aveva già
fatto una volta e adesso aveva un gran bisogno di impiegare in qualche
modo le sue ore di inattività e le sue notti insonni.
La giovane soprano entrò richiudendosi la porta alle spalle.
Come al solito vestiva un colore chiarissimo e la seta della sua gonna
frusciava ad ogni passo.
Erik la guardò pensando che Dio dovesse avere un tremendo
senso dell'umorismo: creava creature bellissime, gli donava una voce di
angelo ma non un cuore. E poi creava i mostri e li dotava di un'anima
talmente grande da farli impazzire e di un cuore troppo fragile e
malato.
«Buongiorno, signorina. Cosa posso fare per voi?»
domandò in tono educato.
Graziana camminò leggiadra fino alla scrivania e si mise a
sedere senza attendere alcun invito.
«In realtà, Maestro, è una cosa un po'
sciocca e spero non ve ne abbiate a male. Con il rischio di sembrarvi
un po' frivola...».
Non lo sembrate, lo
siete...
«Con il rischio di sembrarvi un po' frivola, volevo chiedervi
di poter vedere il mio costume prima che sia finito»
spiegò la ragazza. «So che avete detto che non
volete che i costumi e le scenografie siano visionati da qualcuno prima
della prova generale, ma io ci terrei molto a poter vedere il mio.
È indicibilmente stupido, me ne rendo conto, ma sono...
ecco, piuttosto vanitosa riguardo ai miei costumi di scena e non vorrei
che la sera prima dello spettacolo, vedendolo, non mi trovassi a mio
agio...».
Erik inarcò un sopracciglio. Che non conoscesse affatto le
donne, era una realtà con la quale aveva imparato a fare i
conti, ma che quella donna in particolare fosse così stupida
e civettuola non lo avrebbe mai creduto. Eppure... ah,
perché lo guardava a quel modo?
«Ho la presunzione di possedere un ottimo senso estetico. Ho
disegnato io il vostro costume e l'ho fatto tenendo ben a mente la
persona che doveva indossarlo» concluse l'uomo, alzandosi
dalla scrivania e avvicinandosi alla finestra per sottrarsi a quello
sguardo maliardo.
«Oh, Erik, vi prego...» insistette lei con il tono
più dolce che aveva mai udito nelle parole di una donna.
Erik?...
Cosa sperava di ottenere usando quel nome? Se solo avesse saputo quanto
gli faceva male sentirlo pronunciare. Se lo avesse saputo forse non
avrebbe fatto molta differenza, concluse l'uomo.
Ma gli occhi di Graziana, il modo in cui lei lo guardava, erano quella
mano tesa che il mondo gli aveva sempre rifiutato, e adesso gli
sembrava così difficile afferrarla e lasciarsi guidare.
L'armistizio era arrivato troppo tardi.
«Abbiate un briciolo di fiducia, signorina Rovesti. Vi ho mai
deluso?» replicò Erik, continuando a evitare di
fissare la sua interlocutrice, pensando con amarezza che quello di
scappare e nascondersi era ancora il migliore dei suoi talenti. Non
c'erano botole o passaggi segreti, ma c'erano silenzi e parole cortesi
o dure, modellate ad arte dalla sua voce.
La sentì avvicinarsi a lui, alle sue spalle.
«In realtà un po' sì»
dichiarò la ragazza, ma aveva una voce suadente.
Erik era certo che se si fosse voltato in quel momento e se la fosse
trovata faccia a faccia, l'avrebbe scagliata via con tanta forza da
farla fuggire fino all'angolo più remoto del teatro. Anche
quello era un talento che certamente non aveva perduto. La paura era
come la musica, permeava ogni fibra del suo essere e si scagliava
contro gli altri, che lo volesse o meno.
«È deludente tutta questa indifferenza»
soffiò Graziana contro la sua nuca.
Erik provò uno strano, orribile senso di vertigine, come
quello dato da un alcolico troppo pesante. Che diamine...
Quando era successo? Quand'è che si era voltato e l'aveva
guardata? E cosa ci facevano le sue labbra su quelle di lei?
Il senso di vertigine si fece più forte, lo prese alla testa
e allo stomaco, proprio come una sbornia. Però le sue labbra
erano ancora lì. Quella sensazione sgradevole proveniva dal
suo cervello, dalla sua coscienza nera probabilmente, ma non riusciva a
interrompere quel contatto. Non era stato lui a gettarsi tra le sue
braccia, di certo era stata lei. E lei lo teneva inchiodato
lì, con i pugni chiusi contro il suo petto.
Qualcosa nella mente di Erik scricchiolò mentre cingeva la
vita sottile della giovane in un abbraccio. Era così strano
baciare una donna che non aveva il viso bagnato di lacrime. Era
così ingiusto che si trattasse di quella ragazza, che
profumava di eau de toilette costosa, all'aroma di gelsomino, che aveva
labbra di donna, fameliche ed esperte.
Lo scricchiolio nella sua mente diventò il frastuono secco
di mura che cadevano, barriere erette in migliaia di giorni di
solitudine che cedevano. Dietro quelle mura c'era qualcosa di orribile
e doloroso, gelido come il tocco della morte, come la sua pelle quando
lui emergeva dai sotterranei.
Poi un barlume di lucidità e di autocontrollo
affiorò in mezzo a quel caos.
Erik la spinse via, e dovette fare appello a tutto il suo buon senso
per non essere davvero rude. Arretrò di un passo, scoprendo
di essere con le spalle contro il davanzale della finestra.
«Non fatelo mai più» sibilò,
lo stomaco che si contorceva per una sensazione che non avrebbe saputo
identificare. Non era disgustato, come avrebbe potuto esserlo? Eppure
si rendeva conto che c'era qualcosa di assolutamente sbagliato in
quello che era appena successo. Non solo perché non provava
nulla per quella persona, ad eccezione dell'ammirazione professionale.
Sentiva il bacio, dolce e appassionato della ragazza, immeritato quanto
la bontà del duca, quanto la fiducia di Guglielmo.
Graziana lo guardò basita. Non sembrava offesa, era
semplicemente incredula, incapace di spiegarsi il motivo di quella
reazione improvvisa. D'un tratto si riscosse e si lasciò
scappare una risata allegra e argentina come quella di un infante. Un
suono che rimescolò i pensieri di Erik rendendoli un
groviglio di sangue, oscurità, dolore, freddo...
«Come se avessi fatto tutto da sola»
trillò la giovane scuotendo il capo. Allungò una
mano a toccare quella di lui, ma Erik si ritrasse, più
spaventato che infastidito.
«Non fatelo» ripeté cupo.
Stavolta la ragazza si mostrò piccata. L'uomo
sperò vivamente che non gli facesse una scenata, non avrebbe
saputo come arginare un simile ostacolo, non in quel frangente, non con
quella sinfonia di distruzione che suonava nella sua mente.
Dio, come si sentiva sciocco! Non si sarebbe mai definito uno stolto
eppure da settimane il mondo non faceva altro che minare quella sua
certezza, sorpresa dopo sorpresa, come un insieme di colpi di scena in
un'opera buffa.
«È colpa mia» disse subito, sentendosi
ancora più sciocco, sentendosi uno come tutti gli altri.
«Non avrei dovuto. Io non sono il tipo d'uomo adatto a una
giovane donna come voi, non voglio che vi facciate un'idea sbagliata.
Perdonatemi e dimenticate questa sciocchezza».
Era... ridicolo!
Si stava scusando. Lui si stava scusando con una soprano dalla condotta
da cortigiana. Sentì lo stomaco ridotto a un grumo in fondo
al suo addome.
«Perché siete sempre così... distante?
Con me, con tutti? Cosa vi abbiamo fatto? Che vi ha fatto il
mondo?» borbottò la donna risentita. Il suo
sguardo indugiò sulla maschera; una stilettata di gelo
attraversò il cuore dell'uomo.
La pazienza di Erik cominciava ad assottigliarsi. Non voleva che la
corda si spezzasse, non in quel momento, non con Graziana. Non voleva
che il mostro folle che ancora si agitava dentro di lui si aprisse uno
spiraglio attraverso quell'assurdo momento di debolezza, non ora che
aveva il suo teatro, una vita alla luce del sole...
«Credetemi, non volete saperlo davvero» disse. La
voce gli uscì fredda e tagliente, un pezzo di cristallo
gelido.
«Potreste... potreste parlare con me, vi giuro che io
potrei...» tentò di dire Graziana. Mentiva,
certamente mentiva, lei non avrebbe potuto proprio un bel niente,
nessuno avrebbe potuto, meno che mai una donna che aveva per lui un
così forte e insensato interesse.
«Non potete. Vi prego, lasciate il mio ufficio e dimenticate
questo episodio increscioso» concluse lui con un sospiro
stanco, celando la rabbia e la frustrazione dietro uno sguardo
impassibile.
Graziana si aggiustò una ciocca di capelli dietro
l'orecchio, fece un lungo respiro e incrociò le braccia sul
petto. Le ci volle ancora qualche secondo perché
l'espressione sul suo viso tornasse calma, la bellissima maschera di
fata che indossava abitualmente. Ma alla fine quel sorriso roseo
ricomparve sul suo incantevole volto.
«Abbiamo ancora molto tempo da passare insieme»
osservò con la medesima semplicità con cui si
discorre del tempo. «E io sono una persona assai
caparbia».
Erik la fissò in silenzio mentre usciva dall'ufficio.
È meglio che
non sappiate quanto posso esserlo anch'io,
pensò cupamente.
*******
~ Parigi, 4 maggio 1892 ~
Gustave aveva preparato il té, come faceva ogni sera da
quando aveva preso a frequentare quella casa. Il liquido ambrato ora
fumava nelle tazze di porcellana e lo sguardo di Louis era grave e
distante. Quando il suo compagno biondo gli aveva proposto di andare a
visitare la torre Eiffel, lui gli aveva risposto che non aveva voglia
di uscire e Gustave, con la sua incrollabile calma, aveva messo a
bollire l'acqua per il tè e si era seduto di fronte al suo
amico.
Amico?...
Questa parola aveva sempre avuto un significato un po' sfuggente per
Louis. Non che non avesse compagni di scorribande e colleghi musicisti
con cui passare il tempo, lì a Napoli, ma c'erano ombre e
fantasmi nella sua vita, spettri che soffiavano da lontano attraverso
gli occhi di suo padre, in certi sguardi che lui e sua madre si
scambiavano. E di questo Louis non poteva parlare con nessuno.
Eppure in quei giorni aveva scoperto che Gustave era l'anima
più affine alla propria che avesse mai incontrato,
nonostante avesse un temperamento del tutto diverso dal suo.
«Che cos'hai?» chiese il ragazzo biondo, guardando
la zolletta di zucchero affondare nella tazza.
Louis sollevò il capo,
«Temo di aver scoperto qualcosa di non troppo gradevole sul
conto di mia madre» ammise, scoprendosi incapace di guardare
in viso l'altro giovane.
Gustave fece tintinnare il cucchiaino sul bordo della tazza, scrollando
qualche goccia di tè.
«Sì, è capitato anche a me»
replicò con un tono serioso che Louis non gli aveva mai
sentito.
Il ragazzo moro spalancò gli occhi, stupito: la madre di
Gustave, della quale non riusciva a rammentare il nome, era la moglie
di un visconte, cosa ci può essere di sgradevole sul conto
di una donna del genere?
Gustave si stiracchiò contro lo schienale della sedia,
«La gente chiacchiera» aggiunse con
semplicità, quasi come se avesse indovinato i pensieri del
suo interlocutore. «Fin da quando ero molto giovane mi ero
reso conto che mia madre non era molto ben vista nell'alta
società, eppure la nostra famiglia è importante
qui a Parigi, però sembra che la memoria delle persone sia
una macchina inarrestabile: mia madre una volta era una cantante di
teatro. Una cantante che sposa un visconte di Francia è
un'anomalia difficilmente perdonabile. Poi si diceva che lei fosse
coinvolta nella vicenda dell'incendio che distrusse l'Opera Populaire
tanti anni fa... ma non ho mai scoperto se è vero, forse
è una delle tante voci messe in giro per
screditarla».
Louis aveva ascoltato attentamente il racconto del compagno. Certo, la
nobiltà francese non doveva essere particolarmente
tollerante, nemmeno quella italiana lo era, ad eccezione di pochi
personaggi che comunque erano marchiati come caratteri originali dai
loro stessi amici. Louis avrebbe voluto replicare che non c'era motivo
per cui una cantante di teatro non poteva essere adatta a un visconte,
ma sarebbe suonato insincero: conosceva il mondo del teatro e sapeva
quali erano le idee e i comportamenti di molte persone che vi facevano
parte. E poi, quello che aveva appena letto nel diario...
«Io invece temo di aver scoperto che mia madre era... beh...
ecco, non la persona più raccomandabile del mondo. E dire
che pensavo che fosse mio padre quello strano» concluse Louis
sbuffando.
«Volesse il cielo mio padre fosse strano!»
replicò Gustave come se stesse pensando ad alta voce.
I due ragazzi si guardarono in viso e risero.
«La nostra cameriera prepara un tè assai migliore
di questo» disse a un certo punto il giovane De Chagny,
appoggiando la tazza sul piattino.
Louis inarcò un sopracciglio con aria sarcastica,
«Non ci vuole molto a preparare un tè migliore del
tuo» borbottò canzonatorio.
«Perché non vieni a casa nostra, domani?
È da quando ho parlato a mia madre di te che dice che
vorrebbe conoscerti»
«Sei gentile, ma non so...»
«Perché no? Basta che non ti lasci scappare con
mio padre il fatto che mi ospiti qui per dipingere».
Louis non era convinto che fosse una buona idea, però il
fatto che la madre di Gustave fosse stata una cantante lo incuriosiva.
Chissà, forse sapeva davvero qualcosa dell'incendio
dell'Opera, magari aveva anche conosciuto suo padre...
No, impossibile! Chissà quanto tempo era passato.
«D'accordo, verrò volentieri a bere un
tè con i tuoi genitori. Basta che tu non mi metta in
imbarazzo chiedendomi di suonare».
_______________________
E vabbuò, Graziana
mi ha baciato il Maestro... non era previsto. Tipico esempio di quando
i personaggi fanno tutto di testa loro.
Altro capitolo un po' delirante...
@ Keyra93: oui, deve essere successo qualcosa con il precedente
capitolo (tipo quelle cose che faccio io, tipo rileggerlo, sistemarlo e
poi non cliccare su salva prima di chiudere il programma di scrittura,
o non so...). Appena ho tempo, sistemo tutte le cose schifide che ci
sono, grazie per avermelo fatto notare :)
Al prossimo mercoledì!
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 10 *** Fantasmi ***
Capitolo nono
Fantasmi
~ Napoli, 10 aprile 1871 ~
Quando Marchesi gli aveva detto che il teatro sarebbe rimasto chiuso in
occasione delle festività pasquali, la reazione di Erik era
stata piuttosto burrascosa. Quel suo “Come sarebbe a
dire?!” lo aveva quasi urlato, tanto che il buon Guglielmo si
era rannicchiato su stesso e per poco non si era infilato sotto il
piano della scrivania.
L'annuncio che il San Carlo sarebbe rimasto chiuso per ben cinque
giorni aveva lasciato Erik assolutamente contrariato. Avrebbe voluto
replicare che l'arte non conosce feste e vacanze, ma qualcosa gli aveva
suggerito che sarebbe suonato tremendamente fuori luogo. Lui non conosceva
feste e vacanze, ed era un problema assolutamente suo. Come molte altre
cose, del resto.
Da dietro la scrivania del suo ufficio, Erik controllava e
ridimensionava con caparbia precisione i tasselli della sua nuova
esistenza, di quella seconda possibilità non voluta,
cercando di non prestare attenzione a tutte quelle schegge impazzite
che non sapeva ancora dove collocare, alla miriade di cose che sentiva
estranee e inconcepibili.
Era questo il mondo di cui aveva sempre desiderato di far parte?
L'uomo cominciava a rendersi conto che non gli importava del mondo, che
non gli era mai importato. Ciò che vedeva davanti a
sé, ciò che una volta gli era stato precluso, era
solo una folla indistinta di occhi e orecchie tese ad ascoltare, ad
ammirare il suo genio. Tutto il resto non contava, questo era il solo
ossigeno di cui la sua esistenza necessitava, ma per gli altri non era
così. Lui era un Fantasma, loro erano persone. Lui era poco
più di un'ombra che muoveva le corde di un violino, una voce
appena sussurrata che poteva prendere le voci degli altri e portarle
fino allo straordinario, facendo brillare il talento altrui di luce
riflessa. Al di fuori di quei piccoli grandi prodigi non c'era molto,
il trucco che rimaneva nascosto quando finiva la magia era lo squallido
riflesso di un nulla incolmabile.
Più ci pensava e più si rendeva conto che non
c'era una vera e propria ragione dietro ai suoi gesti, né
c'era un motivo valido per quel suo caparbio attaccamento alla vita,
un'esistenza alla quale tante volte aveva desiderato di porre fine
senza mai riuscirvi. Tutti gli altri invece avevano i loro motivi.
Graziana, ad esempio aveva fame di gloria – perseguita magari
con fini del tutto opinabili, ma era pur sempre una ragione che dava
senso a tutto, anche alle brutture che nascondeva dietro al suo viso di
fata. Lui, invece, cosa aveva? Cosa lo muoveva verso la musica?
Fu quasi con raccapriccio che Erik si accorse di non avere una risposta
a questa domanda. Lui non si stava muovendo verso la musica, verso
niente, lui stava solo fingendo di scappare da un buio e da un silenzio
che ormai erano mischiati al suo stesso sangue, che avevano messo
radici così profonde dentro di lui da far appassire
qualsiasi altra cosa. Persino l'amore che gli aveva avvelenato la mente
sbiadiva in mezzo a tutto quel vuoto, ingoiato da un pozzo senza fondo
in cui ogni sua emozione precipitava all'infinito, muta e impotente.
La musica, il teatro, lo splendore che stava tentando di imprigionare
nelle scenografie e nei costumi che aveva progettato, erano solo
lustrini in mezzo alla spazzatura, un velo di vernice dorata che
copriva il marciume.
Le sue notti erano costellate di immagini di sangue e fuoco che gli
avevano marchiato l'anima, lasciando i segni indelebili del rammarico,
del dolore. In quegli incubi Erik vedeva i suoi occhi spegnarsi piano,
come quelli degli uomini a cui aveva tolto la vita.
C'era una barriera dentro di lui che arginava tutto quell'orrore, ma
adesso la barriera era crollata, ridotta in frantumi dal bacio non
voluto di una donna non desiderata. Una donna che aveva tremato di
piacere contro il suo petto e che avrebbe tremato ancora di
più se quella maschera fosse caduta, se ogni maschera
fosse caduta.
Il Fantasma dell'Opera era lì, non se n'era mai andato. La
sua voce faceva eco nei suoi pensieri, il suo respiro si agitava
nell'eco dei suoi passi, e tutto quel fuggire non era altro che un
continuare a nascondersi perché lui non poteva mostrare al
mondo ciò che era, non poteva aspettarsi che qualcuno gli
posasse una mano sul petto e si rendesse conto che in realtà
il suo cuore non stava davvero battendo.
Il sole stava tramontando oltre la cupola della chiesa di San
Francesco, gettando nel cielo terso un riverbero quasi dorato. Erik si
chiese perché quel mare, che sotto quella luce assumeva lo
stesso colore del sangue, non potesse semplicemente giungere fin
lì e inghiottirlo, ora che tutti erano andati via, che il
teatro era rimasto vuoto per le vacanze pasquali, come aveva detto
Marchesi...
Qualcuno bussò alla porta facendolo sobbalzare.
«Non adesso!» ringhiò. Chi diamine era?
Non c'era nessuno nel San Carlo.
Inutile, la porta si aprì lo stesso e malgrado la rabbia che
rimescolava la nebbia dei suoi pensieri, lo sguardo di Erik si
addolcì un po' quando vide chi era stato ad entrare.
La piccola Luisa attese sulla soglia, fissandolo con una certa
apprensione. Da dove era saltata fuori? Era una strega quella bambina
da avere occhi che sapevano guardare così dentro di lui?
Quando Erik pensava di non aver mai provato pena per un altro essere
umano, in realtà era in errore. Aveva provato pena per
quella ragazzina, alla quale era toccata quella che gli sembrava una
sorte ben peggiore della sua: non avere voce, che infernale supplizio
deve essere! Ed era da questa pena che era nato uno strano affetto
capace di ammansire il mostro come nemmeno la sua dolce musa aveva
potuto fare in quel tempo che ormai appariva lontanissimo.
«Tu... come mai sei qui?» chiese con un filo di
voce, sorpreso dai suoi stessi pensieri.
La ragazzina attraversò l'ufficio e si fermò
accanto a lui, lo prese per mano e lo tirò verso di
sé indicandogli con l'altra mano libera la porta aperta.
«Dove vuoi che venga?» le domandò ancora
l'uomo, sentendo che non avrebbe avuto la forza nemmeno di seguirla
oltre la soglia.
Luisa si batté una mano sul petto.
«A casa tua? L'idea che io possa avere voglia di stare da
solo non è contemplata nei tuoi progetti?».
Lei sbuffò e si strinse nelle spalle, poi sorrise.
No, l'idea non era affatto contemplata e lui avrebbe dovuto adattarsi,
che gli piacesse o meno!
«Non verrò con te...».
Luisa gli tirò un buffetto leggero sul braccio e
annuì con un energico cenno del capo: sì che
verrai!
«PASQUA» articolarono le sue labbra, senza che ne
uscisse un solo suono.
«Cosa ti fa credere che me ne importi?».
La ragazzina aggrottò le sopracciglia e lo spinse via in
modo brusco. Esasperata, si avvicinò alla scrivania e
afferrò un foglio.
IMPORTA A ME, scrisse.
Ah, certo... si trattava di quell'attitudine del tutto femminile di
riuscire a mettere gli individui con le spalle al muro. Lo aveva fatto
Graziana, letteralmente, e adesso lo stava facendo la ragazzina con un
sistema un po' meno brusco. Provava della gratitudine per lei, per la
costanza con la quale gli era stata vicino, sommando i propri silenzi
ai suoi, senza mai chiedergli nulla, e senza che lui avesse bisogno di
fare domande. Luisa sapeva trovare le risposta per entrambi con una
caparbietà che lasciava Erik disarmato.
«Ho ucciso delle persone». La frase
fuggì dalle labbra dell'uomo come il primo cristallo di
ghiaccio che si stacca dal fianco di una montagna e genera una valanga.
Luisa si fermò, impietrita in mezzo alla stanza, con la mano
a mezz'aria che si tendeva verso la sua. Dopo qualche secondo pesante
come l'eternità, si mosse, scosse il capo.
«È vero» insistette Erik cupo.
Gli occhi della giovinetta si velarono di lacrime. Qualcosa da qualche
parte nella mente dell'uomo andò in frantumi. Il pozzo senza
fondo succhiava anche la luce e il calore degli ultimi raggi di sole.
Che lo vedesse, che vedesse il mostro, che ne fosse spaventata...
Luisa prese un altro foglio.
NON SEI STATO TU, È STATO IL FANTASMA.
«Sono io il Fantasma».
NON PIÙ.
«Non puoi salvarmi, piccola mia, nessuno
può».
TU PUOI.
No, non posso...
*
Le prime stelle occhieggiavano pigramente dal cielo che andava
scurendosi.
Il duca stava passeggiando avanti e indietro davanti al colonnato del
San Carlo, in attesa che sua figlia uscisse e lui potesse scoprire se
Luisa era riuscita o meno nel suo intento. Era stato un'idea della
piccola invitare Erik da loro per Pasqua, quando aveva saputo che il
teatro sarebbe rimasto chiuso e vuoto. Non che lui non ci avesse
pensato, ma era quasi del tutto certo che il loro amico francese
avrebbe detto di no.
Mariano Giusso aveva cominciato a nutrire qualche dubbio sulla riuscita
del suo progetto. All'inizio gli era sembrata un'ottima idea quella di
rendere a Erik il suo mondo, offrirgli la possibilità di
fare ciò che aveva sempre fatto, di permettergli di mostrare
il suo genio alla luce del sole. Sapeva che quell'uomo non era fatto
per stare in mezzo alle persone, troppi anni di solitudine gli avevano
deformato l'anima e la mente, ma all'inizio il duca era convinto che la
novità avrebbe prevalso, che il sole avrebbe vinto il buio.
Adesso che guardava la sera stendersi nel cielo di Napoli, Mariano
Giusso cominciava a pensare che qualsiasi sforzo si possa compiere, la
notte giunge sempre. Ed Erik apparteneva alla notte.
Dov'è finita
la tua fede nei miracoli?...
«Dov'è finita la tua fede nei
miracoli?». Glielo aveva chiesto anche sua moglie, tanto
tempo prima, quando i medici aveva già detto che non c'era
più niente da fare. In effetti, anche lì la fede
non aveva potuto molto... e lui aveva bisogno di un nuovo miracolo da
attendere. Non c'era davvero un motivo preciso per cui aveva sperato
che il miracolo in questione fosse la salvezza di Erik, quando lo aveva
trovato sulla sua strada lo aveva interpretato come un segno. Ma nelle
sue visite al San Carlo, quando era andato a trovare il Maestro
francese – Dio, il titolo doveva compiacerlo non
poco! – si era reso conto che era ancora
l'angelo con le ali spezzate, che i suoi tentativi di spiccare il volo
erano maldestri e destinati a fallire.
Oh, Erik era ammirato da tutti in quel teatro, era ammirato per le sue
competenze e per il suo talento ma non bastava, perché lui
prendeva questa ammirazione e la sommergeva con tutto il dolore che non
era ancora riuscito ad affrontare.
E Giusso era certo che fosse accaduto qualcosa in quegli ultimi giorni,
qualcosa che aveva definitivamente tarpato le ali a quell'angelo
caduto, qualcosa che lo aveva sconvolto. Gli occhi di Erik erano
tornati distanti, velati da quello sguardo che il duca aveva temuto,
quello sguardo che spazzava via la possibilità di ogni
miracolo.
«Oh, Signore... aiutalo» aveva pensato Giusso
qualche giorno prima. «Aiuta lui o dovrai aiutare noi
tutti».
Ripeté quella preghiera a fior di labbra, ricordando i
racconti di madame Giry a proposito dell'uomo che era stato –
che forse ancora era – il Fantasma dell'Opera.
Il battente del portone del teatro si aprì cigolando.
Luisa fece capolino oltre la soglia. Erik le teneva la mano.
Il duca sorrise. Forse c'era ancora qualche speranza.
*******
~ Parigi, 06 maggio 1892 ~
Che Dio maledica lui e
tutti i De Chagny!
Fu il primo pensiero che formulò Luois uscendo dal portone
della palazzina, quando si trovò davanti Gustave, in piedi
sulla panca di un calesse al quale era attaccato un cavallo bianco che
sembrava uscito da un libro di favole. Accanto al ragazzo biondo c'era
quello che avrebbe dovuto essere il conducente, probabilmente un
galoppino di suo padre, ma era il giovane figlio del visconte a tenere
in mano le redini, sorridendo come un bambino davanti a un nuovo
giocattolo.
Aveva davvero intenzione di attraversare Parigi in calesse?
«Una magnifica giornata, non trovi?»
esclamò Gustave entusiasta, rigirandosi tra le mani le
redini di cuoio.
«Sì, o almeno lo era fino a un attimo
fa» borbottò Louis, chiedendosi perché
si era fidato di quel ragazzo folle con i capelli a salice piangente.
Gli aveva detto che avrebbe preso una carrozza per raggiungere la
tenuta della sua famiglia, ma lui aveva insistito che non avrebbe mai
permesso a un suo caro amico di affrontare quel viaggio da solo. Come
se dovesse arrivare in Portogallo!
La tenuta dei De Chagny era appena fuori Parigi, tutti la conoscevano e
Louis sarebbe stato perfettamente in grado di arrivarci da solo, ma
Gustave aveva voluto essere premuroso e ora avrebbero dovuto andarsene
in giro come turisti esagitati, in una giornata soleggiata ma parecchio
ventosa, tra l'altro.
«Perché un calesse?» chiese Louis
salendo sul sedile, con il vento che gli scompigliava i capelli.
In quei giorni, a Napoli, i primi temerari cominciavano a tuffarsi in
mare. Lì a Parigi sembrava che il sole fosse lontanissimo,
molto più in alto di dove si trovava di solito.
Era lì da circa tre settimane e ora gli toccava ammettere
che cominciava a sentire la nostalgia di casa, la nostalgia della sua
città e di sua madre. Chissà come se la stava
cavando lei da sola...
Ma Louis non avrebbe lasciato la Francia prima di aver concluso la
lettura del diario e di aver capito perché sua madre l'aveva
spedito fin lì per lasciare che lui leggesse.
Intanto, il vento gli seccava le labbra e gli inumidiva gli occhi,
mentre Gustave lanciava il cavallo al galoppo per le strade di Parigi.
Il viaggio non fu per niente piacevole. Ogni volta che le ruote
finivano per urtare un rialzo o incontrare una buca nel terreno, il
calesse riceveva uno scossone che Louis sentiva vibrare attraverso
ognuna delle sue vertebre. Per un attimo pensò che gli si
sarebbe spappolato il cervello a forza di urti e strattoni. Attorno a
lui la gente si voltava a guardare incuriosita, quel mezzo di trasporto
doveva apparire così sorpassato...
Poi finalmente si lasciarono la città alle spalle. Il centro
di Parigi sembrava una foresta che si andava diradando verso il
deserto, le costruzioni si facevano più piccole e
più distanti le une dalle altre, man mano che ci si
avvicinava alla campagna.
Percorsero un'ampia strada sterrata, con il vento che soffiava addosso
a Louis polvere e foglie morte, poi la tenuta della famiglia De Chagny
comparve all'orizzonte come un miraggio.
Era una bella palazzina dalla facciata neoclassica, preceduta da un
viale alberato con ai margini un prato che sembrava un tappeto soffice
di seta color smeraldo.
Louis si chiese cosa se ne facesse una famiglia di tre persone di una
casa così grande e di tutto quello spazio, e tra
sé e sé si sentì grato di essere
sempre vissuto in un attico di una palazzina che affacciava sul
lungomare.
Gustave frenò bruscamente, facendo quasi cadere il
passeggero dal sedile sul quale era scomodamente appollaiato.
«Benvenuto!» esclamò balzando a terra.
Louis fu certo che la schiena gli si sarebbe spezzata nel momento in
cui avrebbe tentato di tornare in posizione eretta, ad ogni modo
cercò di darsi un'aria disinvolta e scese dal calesse, quasi
inciampando sulla ghiaia che scricchiolò sotto le sue
scarpe.
Appena varcarono la soglia, un domestico andò loro incontro
e gli prese le giacche. Louis cominciava già a sentirsi a
disagio ed era certo che se avesse parlato la sua voce avrebbe fatto
eco tra quelle pareti. Quando Gustave chiese a un maggiordomo di
informare usa madre del loro arrivo, il ragazzo si sentì
quasi angosciato. Era già stato in case di nobili, aveva
frequentato tanta gente dell'alta società, ma tutto quello
sfarzo e tutta quella formalità cominciavano a metterlo a
disagio.
Era più che certo che la madre di Gustave si sarebbe
rivelata una donnina del tutto insipida e odiosa e che nel giro di
cinque minuti lui si sarebbe pentito di aver accettato l'invito
dell'amico per quel tè.
«Madame può ricevervi»
annunciò il maggiordomo con un sorriso reverenziale.
Louis seguì Gustave in un salottino piccolo e accogliente,
inondato dal sole che in quelle ore della giornata doveva battere
proprio in direzione di quell'ala del palazzo. Seduta su un
sofà al centro della camera c'era un donna che si
alzò appena li vide entrare.
«Buon pomeriggio, maman» mormorò
Gustave. «Lasciate che vi presenti Louis».
Il giovane cercò di celare l'espressione stupita che stava
per affiorargli in viso, mentre la viscontessa De Chagny muoveva un
passo verso di lui.
Era una donna ancora giovane, di corporatura minuta, con un bellissimo
viso dai grandi occhi castani. Portava i capelli, ricci e ribelli come
quelli di suo figlio, legati in una semplice coda alla quale sfuggiva
qualche ricciolo che le ricadeva impertinente sulla fronte di
porcellana. C'era una dolcezza nello sguardo e nell'espressione di
madame De Chagny che rimandò alle mente di Louis l'immagine
di sua madre, soffiando un velo di malinconica e tenera nostalgia nei
suoi pensieri.
Il giovane prese la mano della donna e vi impresse un lieve bacio.
«Sono lieto di conoscervi, madame»
mormorò in tono formale.
«Christine» lo ammonì dolcemente la
donna. «Vi prego, solo Christine». Il sorriso le
disegnava sottili solchi agli angoli della bocca, ma Louis la
trovò comunque bellissima, più di quanto Gustave
gli aveva raccontato.
La padrona di casa fece cenno al suo ospite di accomodarsi. Quando si
furono seduti, madame De Chagny chiamò una domestica e
chiese di preparare il tè.
«Gustave mi ha parlato così tanto di
voi» esordì Christine spiando con interesse il
viso del giovane. «Che mi sembra di conoscervi
già, anche il vostro viso ha un'aria familiare, sapete. Mi
dice che siete un eccellente musicista, tra l'altro».
Louis sorrise imbarazzato,
«Non avete insegnato a vostro figlio a non dire
bugie?» scherzò. «Mi piace la musica,
tutto qui».
«Adesso fai il modesto, amico mio. Sapete maman, ha un
violino che suo padre ha fatto costruire appositamente per lui.
Dovreste sentirlo suonare... non sono riuscito a convincerlo a portare
il violino con sé» trillò Gustave.
Il giovane avrebbe voluto zittire il ragazzo biondo con un calcio. Era
davvero un bravo musicista, forse persino eccellente... ma adesso era
troppo in imbarazzo per pensare di suonare. E non capiva per quale
ragione si sentiva così scioccamente un pesce fuor d'acqua
seduto su quella poltrona, sotto lo sguardo di quella donna che lo
guardava come a cercare di ricordarsi dove lo avesse visto.
«Avete fatto molto male a non portare con voi il vostro
violino» lo riprese in tono bonario Christine. «Ma
voglio sperare che questo non sia il nostro ultimo incontro».
«Non sarà di sicuro così, madame...
ehm, Christine»
«Bene. Amo molto la musica, sapete. E temo di avere
già parecchio a cuore voi, per tutto quello che mi ha
raccontato mio figlio».
In quel momento la porta del salottino si aprì. Louis si
aspettava di vedere entrare la cameriera con il vassoio del
tè invece entrò un uomo sulla quarantina. Doveva
trattarsi certamente del visconte De Chagny. Era un bell'uomo, dal
portamento elegante, i capelli biondi dello stesso colore dorato di
quelli di suoi figlio cominciavano ad essere striati da rari fili
d'argento, ma il viso conservava ancora dei tratti giovanili e gentili,
resi un po' più seriosi da un paio di baffi dello stesso
colore del grano maturo. Aveva gli occhi di una bellissima tinta di
azzurro, sereni come un cielo primaverile.
Louis si alzò rispettosamente in piedi, appena l'uomo mosse
i primi passi nella stanza.
«Monsieur visconte, è un onore potervi
incontrare» disse cortese.
L'uomo gli rivolse un sorriso squisito e gli strinse la mano.
«Voi dovete essere Louis, il musicista italiano. L'onore
è mio».
Louis avrebbe giurato che c'era stata una nota rigida di
gravità nel modo in cui l'uomo aveva pronunciato la parola
musicista. Dall'idea che si era fatto di lui, attraverso i racconti di
Gustave, il giovane era convinto che il visconte fosse un uomo
decisamente poco amante dell'arte, e lo aveva immaginato un dispotico
vecchio brontoloso.
Ma l'uomo che aveva davanti non corrispondeva neppure lontanamente
all'immagine che il ragazzo aveva avuto in testa in quei giorni.
«Stavamo giusto dicendo a Louis quanto male ha fatto a non
portare con sé il suo violino» dichiarò
Christine.
Il visconte ebbe una specie di sussulto, poi agitò la mano
come a sottolineare qualcosa di scarsa importanza e si andò
a sedere accanto a sua moglie.
«Mia cara, tu sarai molto più competente di me in
materia, ma io preferisco conoscere le persone da come parlano e non da
come suonano. Dico bene, Louis?» fece con tono allegro.
«Dipende, visconte, dipende».
L'uomo si lisciò i baffi. Era diffidenza quella che ora gli
si leggeva nello sguardo?
La cameriera entrò a servire il tè.
Gustave prese a raccontare di come aveva conosciuto Louis a quella
mostra di pittura, omettendo l'episodio relativo al pennello perduto
che era andato a recuperare nella mansarda. Poi la conversazione si
spostò sull'Italia e sulla città di origine
dell'ospite dei De Chagny.
Il visconte sembrava molto informato in materia di politica estera e
Louis trovò piacevole commentare alcuni recenti fatti di
cronaca, confrontandosi con lui su diverse idee nelle quali erano in
disaccordo. Tuttavia, se non si parlava di musica o di pittura, Raoul
De Chagny sembrava la persona più aperta e disponibile del
mondo.
A Louis cominciava a piacere davvero la compagnia di quella famiglia,
non erano affatto i nobili pesanti e bigotti che aveva immaginato.
«Perdonate la curiosità, ma come mai avete un nome
francese, caro?» chiese il visconte, al termine di una
discussione sulla scomodità dei viaggi in treno.
Il ragazzo bevve l'ultimo sorso di tè ormai freddo,
«Mi chiamo Luigi, in realtà. Mio padre era
francese e usava chiamarmi Louis» spiegò.
«Oh, è vero, Gustave ce l'aveva detto»
gli fece eco Christine.
«E tuo padre cosa fa?» chiese ancora Raoul.
«È venuto a mancare due anni fa,
monsieur»
«Oh, mi dispiace...»
«Ad ogni modo, era anche lui un musicista e lui sì
che era eccellente. È stato il direttore del San Carlo per
molti anni, fino a quando non ci ha lasciati».
Louis notò il volto di madame De Chagny illuminarsi,
«Ah, allora la musica è una tra dizione di
famiglia» esclamò con entusiasmo.
«Così sembrerebbe. Ma mi diceva Gustave che anche
voi avete avuto un passato d'artista, Christine».
Il giovane vide il visconte irrigidirsi; per un attimo il bel viso
gentile dell'uomo sembrò quello di un'anima smarrita.
Gustave lanciò uno sguardo allarmato ai suoi genitori e la
donna impiegò qualche secondo a rispondere, come se stesse
cercando le parole più adatte a esprimere qualcosa di molto
complesso.
«Sì, è vero, un tempo ho accarezzato il
sogno di diventare una cantante di successo» ammise con un
impercettibile sospiro che sembrava stanco, il rumore esatto di un
petalo che cade da un fiore appassito. «Ma la musica mi ha
tolto molto più di quanto mi ha dato».
Louis sentì che stava arrossendo e non era una circostanza
che si verificava spesso.
«Perdonate... non volevo ridestare ricordi tristi o essere
invadente» mormorò.
Christine cancellò le ombre dal suo viso con un sorriso che
diventò un po' più sereno nell'istante in cui
sollevò lo sguardo su suo marito e suo figlio.
«È stato tantissimi anni fa, e vi giuro che il
tempo mi ha restituito ogni cosa, e molto di più»
concluse. Louis ebbe l'impressione che quell'ultima frase fosse stata
detta a solo beneficio del visconte.
«Bene... sì... ehm, volete fermarvi a cena con
noi, Louis?» propose Raoul, battendo le mani come a smuovere
l'aria, disperdendo le ultime nubi che sembravano essersi addensate
nella stanza.
Gli sarebbe piaciuto, ma aveva appuntamento con Magdelaine,
però...
«Padre» fece Gustave in tono soave e innocente,
«Louis ha impegni assai più dolci dell'anatra
all'arancia preparata dal nostro cuoco...».
Louis avrebbe voluto ucciderlo seduta stante.
«Gustave!» lo rimproverò sua madre
tirandogli un buffo affettuoso sul braccio.
Il visconte De Chagny rise di gusto e batté una mano sulla
spalla del suo ospite,
«Ma certo, capisco! Ma vi lasciamo andare solo se ci fate la
promessa di tornare» gli disse.
«Tornerò quando avrete diseredato vostro figlio,
monsieur...» borbottò il ragazzo lanciando
occhiate di fuoco al suo amico. Gustave ricambiò quegli
sguardi accigliati scrollando le spalle e curiosamente, Louis ebbe come
la sensazione di essere a casa.
______________________________________
Here,
I have a
note...
Gaaah!
I De Chagny al completo... non credevo ce l'avrei mai fatta a scrivere
questa reclame della Mulino Bianco, non riesco a immaginarmeli in
nessun altro modo però. Ci sarebbe stata bene una scena alla
Conte di Montecristo, con Christine che vede Louis e le viene un
colpo... ma è
troppo presto!
Capitolozzo breve e di passaggio, ma per il prossimo ho in mente
qualcosa di particolare
che si è inserito da solo nella storia
all'ultimo momento... quindi, ci leggiamo mercoledì prossimo!
Quanto prima prometto che rispondo anche alle recensioni ^^"
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 11 *** Al buio ***
Capitolo decimo
Al buio
~
Parigi, 07 maggio 1892 ~
«E questa sarebbe la tua idea geniale per la
serata?» borbottò Louis. «Ho detto di no
a Magdeleine per venire con te e tu mi trascini qui?».
Gustave inclinò la testa di lato, fissando l'amico con aria
attonita come se non capisse il motivo delle sue recriminazioni. Aveva
una sacca in spalla che lasciò scivolare a terra,
«Cosa c'è che non va?»
domandò innocentemente.
«Ma ti rendi conto che è un rudere?... Un rudere
bellissimo, magari, ma pur sempre un rudere». Louis
indicò con un gesto nervoso la facciata dell'Opera Populaire
dove la luce dei lampioni creava un cupo gioco di chiaroscuri.
«Dici questo solo perché non sai cosa
c'è dentro» replicò il giovane De
Chagny con un sorriso, ostentando un'aria furba che non gli si
confaceva.
«Ah, e cosa c'è dentro?»
«Non lo so»
«Gustave!».
Il ragazzo biondo si gettò nuovamente la sacca in spalla, il
suo contenuto fece uno strano tintinnio metallico.
Louis cominciava a diventare inquieto: che cosa voleva fare quel pazzo
con i capelli a fronda di salice? Che cosa sperava di trovare
lì dentro?
«Ascolta, amico mio» disse Gustave con infinita,
paziente dolcezza. «Forse ti sembrerà buffo, ma
sono anni che sogno di esplorare l'interno dell'Opera Populaire.
Soltanto che da solo non ho mai avuto il fegato di farlo, pensavo che
anche tu fossi curioso».
Il ragazzo italiano sgranò gli occhi. Sì, essere
curioso faceva parte del suo carattere, l'Opera Populaire aveva
esercitato su di lui uno strano fascino fin dalla prima volta che
l'aveva vista, ma introdursi di notte in un edificio pericolante gli
sembrava veramente esagerato. Anche se quell'edificio era in qualche
modo legato al passato di suo padre e anche a quello della madre del
suo amico. Certo, ora poteva capire perché Gustave ne fosse
attratto probabilmente più di lui: che tremenda tentazione
doveva essere stata avere quel luogo davanti agli occhi e
così a portata di mano senza avere il coraggio di entrare a
curiosare.
«Non ti è mai venuto in mente che possa essere
pericoloso?» domandò con una smorfia.
«No, mi sono informato. Il teatro è stato
distrutto da un incendio ma non ci sono mai stati crolli o altre cose
del genere»
«E perché l'hanno sigillato e nessuno ci entra mai
allora?»
«Perché ci sono i fantasmi, o almeno questo
è quello che dicono».
Louis inarcò il sopracciglio con aria scettica –
quando faceva quell'espressione, sua madre gli diceva sempre quanto
ricordasse suo padre. Fantasmi?
A Parigi, sulla soglia del ventesimo secolo, la gente credeva ancora ai
fantasmi?
«Non dico che non mi piacerebbe accompagnarti in questa
piccola esplorazione, ma non riusciremo mai a entrare là
dentro, è tutto chiuso da catene e travi»
obiettò infine il ragazzo moro. «E io non voglio
farmi arrestare solo perché tu sei curioso di scoprire cosa
c'è in un vecchio teatro fatiscente».
Gustave scrollò le spalle,
«So come entrare» concluse come se fosse la cosa
più ovvia del mondo, poi si tolse la sacca dalla spalle e
l'aprì. «E ho lampade ad olio, torce, fiammiferi e
corda!».
Louis quasi rise: il suo biondo amico aveva preparato tutto, stava
davvero aspettando solo qualcuno abbastanza fuori di testa da
accompagnarlo.
«D'accordo, ma se mi succede qualcosa mentre siamo
lì dentro ti raso a zero quei tuoi boccoli da
puttino» concluse il giovane dondolando il capo.
«Cosa vuoi che succeda?».
Louis percorse la sagoma dell'edificio con lo sguardo, dal basso verso
l'altro, indugiando nel fissare la statua di Apollo sulla
sommità del tetto. Cosa voleva che succedesse?
Non lo so, ma ho i
brividi.
La serata era mite, con una grande luna piena che svettava in un angolo
del cielo trapuntato di stelle, come in un quadro o come nei versi
stucchevoli di una banale poesia.
Gustave attraversò l'immenso piazzale incorniciato da ricche
palazzine antiche, da bar di lusso e bistrò davanti a i
quali si fermavano numerose carrozze che lasciavano scendere ricchi
signori e dame in abiti da sera. I due giovani raggiunsero una viuzza
laterale con l'insegna mezza sbiadita e corrosa dalla ruggine: Rue
Scribe, lesse Louis.
Il vicolo era stretto e spoglio, costeggiava il lato destro del teatro
che appariva ancora più maestoso e minaccioso visto in
quello spazio angusto. La fiancata dell'edificio si alzava verso l'alto
in un alternarsi di finestre, semicolonne e bassorilievi. Ogni apertura
era cerchiata da solchi neri, laddove le fiamme si erano accanite
esplodendo dall'interno e mandando in frantumi i vetri.
I due giovani si mossero cauti nel cono d'ombra proiettato dai muri.
Sembrava che anche la luce si tenesse lontana da quel luogo.
Gustave cercò a tentoni qualcosa in basso, al margine della
parete, e quando la trovò estrasse un bastone di legno dalla
sacca che usò per fare leva su uno sportello chiuso,
nascosto dalla polvere.
Louis si guardava nervosamente attorno, sperando che nessuno li
sorprendesse, ma la luce non era l'unica a starsene alla larga da quel
posto; il piccolo viale era vuoto e nell'aria c'era l'odore sgradevole
dell'acqua stagnate e dell'urina di gatto.
Un forte cigolio metallico fece sobbalzare i ragazzi.
«Gustave, in nome di Dio! Vuoi fare più
piano?!» sibilò Louis a denti stretti.
Il giovane De Chagny si tolse una ciocca di capelli dalla fronte e
sorrise,
«Beh, ce l'ho fatta» disse piano, indicando con
orgoglio un piccolo sportello aperto a livello della strada.
Come prima cosa, il ragazzo francese gettò la sacca
attraverso l'apertura, poi si calò cautamente all'interno.
Louis serrò i denti guardando il suo amico sparire in quella
bocca di pietra dal fondo nero. Dopo qualche secondo sentì
il suono di un fiammifero che veniva sfregato contro la parete e vide
la fiammella accendersi in mezzo a quel buio pesto. Gustave era solo un
metro più in basso,
«Scendi, avanti, non è alto» lo
invitò.
Ma che cosa sto facendo? Si chiese il giovane. Uno strano pensiero gli
balenò nella mente: suo padre avrebbe approvato. Non che
Erik sarebbe stato contento di sapere suo figlio immischiato in
qualcosa di pericoloso e sconsiderato, ma era da lui che Louis aveva
ereditato la curiosità e quel briciolo di
istintività e irruenza. Sorridendo tra sé e
sé, si calò attraverso l'apertura.
I suoi piedi toccarono subito un pavimento di pietra. Richiuse con
cautela lo sportello sopra la sua testa e cercò di
orientarsi in quel buio quasi totale nel quale scorgeva a malapena il
profilo di Gustave intento ad accendere la lampada.
Quando la fiammella tra le pareti di vetro illuminò
l'ambiente attorno a loro, i ragazzi si resero conto di essere in una
piccola stanza che immetteva in un cunicolo. Laddove le pareti non
erano totalmente annerite dalle bruciature era possibile scorgere i
resti di affreschi ormai sbiaditi, dove le linee dei disegni erano
indistinguibili e non rivelavano altro che macchie di colore.
I giovani si incamminarono lungo il cunicolo, procedendo alla cieca
arrivarono fino a quello che doveva essere stato il foyer. L'aria era
densa di polvere e odore di umidità; più di una
volta i due esploratori improvvisati si ritrovarono a tossicchiare o a
starnutire. In quell'immenso salone l'incendio non aveva fatto troppi
danni, sotto uno strato grigio di fuliggine si celavano marmi
bellissimi e stucchi il cui riflesso dorato era ancora visibile dove lo
sporco non si era depositato interamente.
Lo scalone centrale, che si dipartiva poi in due scale che si
congiungevano ad altezza della balconata di primo ordine, aveva un
corrimano di colonne con davanti due alti piedistalli sui quali si
ergevano alte e slanciate due statue di figure femminili che reggevano
candelabri a molte braccia. Le nappe dei tendaggi penzolavano come dita
di cadaveri riversi sull'orlo di una fossa.
Un brivido più intenso percorse la schiena di Louis che
allungò, come ipnotizzato, una mano verso il piede di una
statua rimuovendo con i polpastrelli lo strato di polvere, facendo
riemergere il dorato ancora intatto della vernice.
Che posto grandioso che doveva essere stata l'Opera Populaire!
«Toglie il fiato, eh?» mormorò Gustave
come se gli avesse letto nel pensiero.
Il marmo coperto dalla polvere era scivoloso. I due ragazzi ebbero
bisogno di molta cautela per salire le scale; si ressero al corrimano,
incuranti degli abiti ormai lerci. Si incamminarono verso il breve
corridoio che conduceva alla platea e man mano che si addentravano
verso il cuore del teatro i segni della distruzione si facevano
più evidenti.
Presto si trovarono in un immenso spazio che sembrava il ventre di un
gigante morto. Sopra le loro teste si alzavano diversi ordini di
balconate i cui parapetti, che un tempo dovevano essere stati ricoperti
di velluti e stucchi, erano stati corrosi dal fuoco e ora i palchetti
sembravano file di denti guasti e marci nella bocca di un morto. Solo
alcuni spunzoni di metallo o legno incenerito si alzavano dal parterre
dove un tempo dovevano esserci stati morbidi sedili di velluto. Mentre
Gustave muoveva la lampada facendo spostare il cerchio di luce su tutto
l'ambiente, emergevano dal buio resti di cariatidi dorate a forma di
corpi femminili adagiati contro le pareti in una posa languida.
Una cornice riccamente decorata circondava il palco, e lì
c'era il particolare più orribile e stupefacente. Si
trattava di un enorme lampadario di cristallo, crollato e riverso per
metà nella buca dell'orchestra e per metà sulle
assi del palcoscenico. Doveva essere stato il crollo del lampadario a
provocare l'incendio.
«Come diamine è possibile che un lampadario come
quello crolli?» domandò Louis con un filo di voce,
come se gli sembrasse blasfemo profanare il silenzio sepolcrale di
ciò che rimaneva dell'Opera Populaire.
Gustave scosse il capo,
«Dicono che sia stato un brutto incidente, ma chi c'era ha
raccontato strane storie... una volta si credeva che ci fosse un
fantasma nel teatro. Si continua a credere, a dir la verità,
ma allora il Fantasma dell'Opera, così lo chiamavano, pare
facesse sentire in maniera piuttosto pressante la sua
presenza» spiegò. «Non sono mai riuscito
a saperne troppo, è una di quelle storie che Parigi ha
cercato di dimenticare, come le tante leggende macabre su cose accadute
dopo la Rivoluzione e altra roba simile... a questa città
non piacciono i ricordi oscuri»
«Da dove vengo io è l'esatto opposto»
scherzò Louis, per stemperare l'angoscia delle spiegazioni
dell'amico. «A Napoli ci vanno a braccetto con le storie
macabre e abbiamo un sacco di fantasmi dalle nostre parti...».
«Louis! Guarda!» Gustave aveva smesso di prestare
attenzione alle parole del compagno ed era balzato su una trave caduta
che faceva da ponte tra la platea e il palcoscenico.
«Gustave, dove diamine vai?! Torna indietro e non lasciarmi
al buio!».
Louis fu costretto a seguirlo perché il giovane De Chagny
aveva con sé la lampada e allontanandosi gli stava
portando via la luce.
Gustave percorse la trave con rapide falcate, il legno
scricchiolò sotto i suoi passi. Il suo compagno lo
fissò sconvolto,
«Io non sono sicuro che il palco regga»
borbottò.
«Così pavido, Louis?».
Santi Numi! Riccioli
d'oro meritava proprio che gli crollasse qualcosa il
testa.
Suo malgrado Louis fu costretto a seguirlo e mosse i primi cauti passi
sulla trave inclinata a mo' di passerella tra il parterre e il palco,
sospesa sopra il vuoto della buca d'orchestra. Ma lui era
più alto e più robusto di Gustave e il legno non
resse il suo peso; la trave si spezzò quando lui era a
metà strada, facendolo cadere e sollevando una densa nuvola
di cenere, polvere e schegge.
Il ragazzo rovinò sul pavimento con un grido di stizza e
dolore.
«Mannaggia 'a famme*» imprecò nel suo
dialetto.
Gustave si precipitò, piegandosi sulle ginocchia ad altezza
della ribalta e puntò la lampada verso il basso,
«Ti sei fatto male?!» chiese preoccupato.
«No! È stato un piacere!»
strillò l'altro ragazzo con voce stridula.
Louis si rimise faticosamente in piedi. La caduta non era stata grave,
ma si sentiva ancora un po' frastornato per la botta.
Starnutì violentemente per lo sbuffo di polvere che aveva
inalato, si aggrappò al bordo del palco e si diede una
spinta con le braccia. Gli dolevano il gomito e il ginocchio destro,
dal lato in cui aveva urtato contro il pavimento, ma con un piccolo
sforzo riuscì a issarsi fino al palco.
«Dio mio, giuro che non mi intrufolerò mai
più in un teatro in rovina» mormorò
massaggiandosi le parti indolenzite. «E tu, che accidenti
avevi visto da arrampicarti su travi pericolanti?».
«Mi dispiace che tu ti sia fatto male»
mormorò Gustave, gli occhioni da ragazzina che assumevano
un'espressione mortificata. «Comunque, guarda anche
tu».
Il ragazzo puntò la lampada in direzione delle quinte. Sul
lato sinistro l'incendio era divampato divorando ogni cosa, ma a destra
sembrava che il fuoco fosse stato domato prima che avesse il tempo di
distruggere tutto. Forse, al momento della tragedia, su quel lato del
palco c'erano più persone che si erano subito impegnate a
contenere i danni, oppure semplicemente, per un caso fortuito, le
fiamme non si erano propagate in quella direzione. Su quel lato, il
teatro doveva essere rimasto quasi intatto, qualsiasi cosa ci fosse.
«Oh, interessante. Però avrei preferito non
rischiare di rompermi una gamba per scoprirlo»
borbottò il ragazzo seguendo l'amico verso le quinte di
sinistra, con andatura un po' zoppicante.
Mentre si lasciavano alle spalle il palco, Louis quasi
inciampò in qualcosa che era per terra e sbatté
goffamente contro la parete.
«Maledizione, questo posto sembra cospirare contro di
me...» borbottò.
«Forse non sei simpatico ai fantasmi»
esclamò Gustave.
«Smettila di dire idiozie e passami la lampada».
Louis illuminò il pavimento davanti a sé e
scoprì che l'oggetto che gli aveva fatto perdere
l'equilibrio era una maschera. C'era proprio una maschera di cuoio nero
per terra, con i nastri per essere allacciata dietro la nuca, era
sporca e ammaccata ma il ragazzo si chinò a raccoglierla e
la sventolò per rimuovere il grosso della polvere; senza
nemmeno sapere perché, la pulì alla meno peggio
con le dita e la mise in tasca.
«Ti piacciono le maschere?» chiese Gustave
ricominciando a camminare.
«Le odio» mormorò il giovane italiano.
Percorsero un corridoio dove era ancora possibile scorgere la ricca
carta da parati, staccata in più punti ma con le tinte e le
decorazioni ancora intatte sotto lo strato di sporco – il
fatto che non battesse il sole doveva aver preservato i colori laddove
il fuoco non aveva distrutto ogni cosa.
Il corridoio si stringeva in un arco nella parete, sulla cui
sommità era inchiodata un'insegna di legno con la scritta
dipinta: Loges d'acteurs.
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo entusiasta,
«I camerini!» esclamò Louis.
«Dovrebbero essere intatti».
Si precipitarono oltre l'arco e percorsero qualche metro ritrovandosi
su un corridoio più stretto sul quale affacciavano diverse
porte di legno smaltato. La loro attenzione fu catturata da una porta
divelta, l'unica che era stata letteralmente strappata dai cardini,
mentre le altre erano chiuse e al loro posto. Sulla porta scardinata
c'era ancora la targa sulla quale si leggeva: Primadonna.
I due giovani si fiondarono oltre la soglia. Louis pensò che
quel luogo non era molto diverso dai camerini che aveva visto dietro le
quinte del San Carlo, si trattava di una saletta quadrata con dei
mobili barocchi sui quali erano posati molti vasi di porcellana e
ninnoli di cristallo, in un angolo c'era un ricco mobile da toeletta
con uno specchio incorniciato d'ottone, ragnatele spesse come
fazzoletti penzolavano dagli spigoli... niente di strano. Almeno fino a
quando Gustave non puntò la lampada verso la parete sul
fondo.
«E quello cos'è?». I due ragazzi
pronunciarono queste parole quasi all'unisono, rimanendo impalati a
fissare lo strano spettacolo che avevano dinnanzi.
C'era uno specchio alto almeno due metri, incassato nella parete... o
almeno avrebbe dovuto essere fissato al muro, ma era ruotato verso
l'interno come una porta che girava attorno a un perno centrale; oltre
l'apertura si stendeva un ampio corridoio di pietra.
«Tu pensi che potremmo...» azzardò
Gustave, ma non sembrava troppo convinto.
Louis sentì il sangue gelarsi nelle vene e qualcosa di
freddo che gli solleticava la nuca. No, era una pessima idea, non
avrebbero dovuto mettere piede in quel posto, non avrebbero dovuto
essere lì... ma già che c'erano, che differenza
avrebbe fatto?
«Perché no?» disse senza alcuna
incertezza.
«Dove pensi che porterà quel cunicolo?»
«Probabilmente ai livelli del sottopalco. Nel San Carlo di
Napoli ci sono diversi livelli dove si trovano le sartorie, le
falegnamerie e i depositi, e poi...». Mentre stava parlando,
Louis vide di nuovo la luce che si allontanava e capì che
Gustave aveva smesso di ascoltarlo e si era spostato, si
voltò per cercarlo con lo sguardo e lo vide immobile davanti
a una grande locandina appoggiata contro la parete che aveva provveduto
a ripulire dalla polvere.
Sul manifesto era raffigurata una ragazza in abiti dalla foggia tipica
dei costumi tradizionali spagnoli, in piedi davanti a un grosso
falò. Don
Juan Triumphant diceva il titolo, in alto a grandi lettere
dorate. Avec Christine
Daae c'era scritto in basso.
«È mia madre» squittì Gustave
sorpreso. «La ragazza sul disegno della locandina,
è mia madre».
Louis guardò con più attenzione e
constatò che, se il disegno era somigliante, la madre del
suo amico doveva essere stata un vero gioiello,
«Era bella» ammise.
Il ragazzo biondo fece un sorriso ebete,
«Lo è ancora» dichiarò con un
energico cenno di assenso.
«Certo, certo... andiamo a vedere cosa c'è in
fondo al corridoio».
Il corridoio proseguiva per metri e metri, terminando in una scala che
si perdeva come un'infinita spirale verso il buio. Louis
cominciò a scendere i primi gradini, ma Gustave lo trattenne
per la manica della giacca.
«Non vorrai scendere? Sono certo che non c'è
niente laggiù» disse.
Il suo compagno lo guardò con un mezzo sorriso canzonatorio,
«Ma come? L'idea è stata tua! Mi hai trascinato
qui dentro, sono anche caduto...» protestò
sarcastico.
Gustave scrollò le spalle in quel suo modo infantile,
«Lo so, ma ho la sensazione che non dovremmo
andare» mormorò.
E perché mai? Louis sentiva uno strano magnetismo invece,
qualcosa che lo spingeva a continuare in quell'assurda discesa,
«Così pavido, Gustave?»
canzonò l'amico e gli diede una pacca sulla spalla per poi
continuare a scendere i gradini.
Stavano scendendo già da molti minuti quando cominciarono a
sentire l'odore dell'umidità e dell'acqua stagnante. Sopra
le loro teste c'era la grande spirale di pietra delle scale
già percorse.
«Io credo che sarà una faticaccia immane
risalire» osservò il giovane De Chagny
con un sospiro.
«Coraggio, non capita mica tutti i giorni» lo
rimbeccò il compagno.
La discesa terminava su quello che sembrava un piccolo molo, davanti a
un canale con un corso d'acqua imprigionato tra spesse pareti di pietra
chiazzata di muffa e umidità.
«Che peccato, non ci sono zattere, direi che possiamo
andarcene» esclamò Gustave, forse sollevato
dall'idea che quello strano viaggio fosse finito. «Louis, che
stai facendo?».
Louis si era accovacciato a terra e aveva spiato l'acqua torbida
cercando di scorgere il fondale.
«Non sembra profonda» osservò dopo
qualche secondo.
«Ma la cosa non ci riguarda» replicò
Gustave. Prima che riuscisse ad aggiungere altro, il ragazzo moro si
era calato nell'acqua che gli arrivava alla vita; al suo compagno non
restò che seguirlo.
«È gelida... se non altro ci stiamo ripulendo
dalla polvere però» mormorò Gustave
passando la lampada a Louis per tenere sollevata la sacca, in modo da
non far bagnare le loro altre fonti di illuminazione: se fossero
rimasti al buio non sarebbero mai più stati in grado di
ritrovare la strada per l'uscita.
Il canale terminava in un'apertura dalla forma irregolare dove l'acqua
si faceva un po' più profonda e, se possibile, ancora
più gelida. Louis allungò il passo, muovendosi a
fatica e sollevando grossi schizzi.
Sul fondo dell'apertura c'era una grata, oltre la grata c'era un'ampia
distesa d'acqua, come un piccolo lago.
I ragazzi si avvicinarono il più possibile alla grata, Louis
sollevò la lampada per cercare di guardare meglio
all'interno. Non riusciva a vedere bene perché il buio
vinceva quell'unica luce con troppa facilità, tuttavia
riuscì a illuminare abbastanza ciò che aveva
davanti da poter distinguere le forme, se di forme si poteva parlare.
Davanti a lui si apriva una grotta dall'alto soffitto di pietra
irregolare, sul fondo della grande insenatura c'era una riva piena di
oggetti o di ciò che rimaneva di loro, molte cose erano
state distrutte e fatte in pezzi, ma si riusciva a distinguere
nettamente un materasso squarciato gettato in terra ai piedi di quello
che doveva essere stato un letto con la testata intagliata ormai
malandata. Gradini scolpiti direttamente nella roccia portavano ai vari
rialzi, da un lato c'erano resti di mobili, ormai ridotti ad ammassi di
schegge, e al centro, sul rialzo più sollevato, come su un
altare, c'era quello che certamente doveva essere stato un organo. Le
canne di metallo ancora svettavano verso l'alto, anche se erano
ammaccate in più punti, come se qualcuno avesse tentato di
frantumarle senza risultati e si era quindi abbattuto sulla tastiera
dello strumento, mandando in pezzi le fiancate decorate con intarsi e
dorature.
«Ci viveva qualcuno qui...» sussurrò
Louis sentendo una strana angoscia prendergli lo stomaco. Chi mai
avrebbe meritato un'esistenza così buia e infelice? E
perché tutto era stato distrutto come per cancellare ogni
traccia di quell'esistenza?
«È orribile» gli fece eco Gustave,
fissando attonito lo spettacolo oltre la grata, rabbrividendo non solo
per il gelo dell'acqua. «Louis, stai piangendo...».
No, non stava piangendo, maledizione! Era il freddo, era certamente
solo il freddo. Almeno così volle pensare il ragazzo mentre
una lacrima gli solcava lentamente la guancia.
«Se sto piangendo io, stai piangendo anche tu»
disse con voce grave.
Le lacrime sul viso di Gustave erano due.
*******
~ Napoli, 13 aprile 1871 ~
La folla si mise lentamente in fila verso l'altare. Lucia
guardò per un istante il sacerdote che stava per officiare
il rito dell'Eucarestia e restò con le spalle appoggiate
alla colonna, sentendo il freddo del marmo contro i palmi delle mani.
Credeva in Dio, ci credeva con tutta se stessa e il fatto che fosse
arrabbiata con Lui non cambiava lo stato delle cose: la fede era sempre
stata un dato di fatto oltre che una necessità.
Dalla sua prima notte come prostituta aveva deciso di tenersi alla
larga dai confessionali: non voleva alcuna assoluzione. Non che non ne
avesse bisogno, ma le sembrava davvero di chiedere troppo.
La ragazza attese pazientemente che la messa della mattina di Pasqua
terminasse. Nella piccola processione che si dirigeva composta verso
l'uscita, Lucia scorse diverse facce conosciute, tra le tante solo una
persona indugiò un istante accanto a lei per salutarla: il
duca Mariano Giusso, con al braccio sua figlia, la piccina che non
parlava. Conosceva quell'uomo molto vagamente, si erano incrociati
qualche volta a teatro, e in un'occasione lei aveva regalato alla
ragazzina, che quella sera accompagnava il padre, il suo fermaglio, un
dono di uno di quei corteggiatori assolutamente non degni di nota, che
per un qualche strano motivo aveva colpito molto la piccola Luisa
– era così che si chiamava la giovinetta, forse.
Il duca era una persona a modo, non priva di una certa simpatia e di un
certo spirito spesso estranei a quelli del suo rango.
Quando tutti furono andati via, nella chiesa non restò altro
che silenzio e odore di incenso. E freddo, faceva sempre freddo dentro
le chiese.
La porticina della sagrestia si aprì e la figura in nero
camminò a grandi passi verso di lei.
«Suor Antonia» salutò la ragazza con un
sorriso.
La suora si fermò di fronte a lei, la fissò per
qualche secondo e poi le tese le braccia. Lucia ricordava che era
sempre stata molto affettuosa con tutti loro, con tutti i bambini della
scuola improvvisata nella sagrestia della chiesa del porto di Capri. Ed
era sempre stata... giovane. Erano passati tanti anni da quando Lucia
era una bambina che dimenticava sempre gli apostrofi e il volto di Suor
Antonia non sembrava invecchiato di un giorno, solo la ruga in cima al
naso si era fatta leggermente più accentuata. La ragazza
immaginò che fosse quello che accadeva a chi ha il cuore in
pace.
«Come stai, Lucia?» chiese la suora con dolcezza.
Suor Antonia veniva a Napoli quasi tutti i mesi, andava al convento di
Santa Chiara dove le consorelle del suo ordine tenevano da parte delle
offerte per le suore di Capri, per permettere loro di mandare avanti la
piccola scuola per i figli dei pescatori e degli isolani meno abbienti.
E tutti i mesi Lucia faceva in modo di riuscire a incontrarla, la buona
sorella le portava notizie di sua nonna e accettava di buon grado di
portare alla vecchia Maruzza qualsiasi cosa Lucia avesse bisogno di
farle avere, da coperte, a lettere a somme di denaro nascoste dentro
scatole di cioccolatini, perché l'anziana donna non si
arrabbiasse nel vedersi consegnare dalle mani di una religiosa buste
con dentro delle banconote.
Lucia non aveva mai detto a Suor Antonia cosa faceva a Napoli, ma era
ovvio che lei lo sapesse. Tutte le volte che la ragazza aveva provato a
lasciarle delle offerte per la chiesa la suora aveva sempre rifiutato,
così un giorno, invece di provare a darle del denaro, la
giovane le aveva fatto trovare un pacco con dentro quaderni, penne,
inchiostro, matite e gessi per lavagna. Quelle cose proprio non
potevano essere né rifiutate né buttate via. E da
allora, ogni volta che doveva incontrarsi con Suor Antonia, Lucia si
presentava con un grosso pacco di cartoleria.
E ogni volta che lei e la sorella si incontravano, a Lucia veniva
rivolta la medesima domanda.
«Quando torni?» le chiese la suora, anche quella
volta.
«Non lo so...» rispose la giovane con un mezzo
sorriso, colmo di malinconia.
Cercò di guardare il lato positivo: dire non lo so prevedeva
comunque che un giorno, prima o poi, sarebbe tornata.
*
Quella di andare a passare le festività a palazzo Giusso si
stava rivelando una pessima scelta. O meglio, gli ultimi due giorni
erano stati piuttosto tranquilli, quasi piacevoli: erano trascorsi con
immensa calma e meravigliosamente vuoti, fatti di chiacchierate non
troppo impegnative e partite di scacchi con il duca – che il
buon uomo non era mai stato in grado di vincere. La sera suonava il
violino per Luisa e si beava dei sorrisi della ragazzina –
sì, cominciava vagamente ad abituarsi all'idea di essere in
grado di far sorridere qualcuno. Poi però era arrivato il
giorno di Pasqua. In quella santa domenica ci sarebbe stato un grande
pranzo al palazzo, con un quantitativo di invitati intollerabile.
Erik sospirò guardando l'orologio dove le lancette si
stavano pericolosamente avvicinando all'ora del pranzo.
Se le settimane trascorse a lavorare in teatro erano servite a
dimostrare che, dopotutto, poteva guadagnarsi il suo posto nel mondo
attraverso il proprio talento, le giornate a palazzo Giusso potevano
servire a dimostrare che il Fantasma dell'Opera era in grado di essere
una persona come tutti gli altri. Poteva fingere benissimo di essere
una persona come tutti gli altri.
Non ne aveva alcuna voglia, ma mostrare gratitudine faceva parte delle
regole del gioco. E lui, adesso, era davvero grato al duca e a sua
figlia. Tutti i pensieri cupi di quei giorni gli erano serviti a creare
un contrasto tra ciò che c'era di orribile in lui e
ciò che di buono aveva trovato sulla propria strada. E
qualcosa, nel profondo della sua anima distorta, aveva cominciato a
smuoversi, come ingranaggi arrugginiti e induriti dal disuso che
lentamente riprendevano a girare.
Da dietro la finestra, Erik vide il nobile con la ragazzina al braccio
rientrare dalla messa mattutina. Non ci volle molto prima che qualcuno
bussasse alla sua porta.
La piccola Luisa si era tolta in fretta i nastri dai capelli e le
scarpine di vernice ed era corsa da lui. In mano reggeva un quaderno
dalla copertina marrone.
Lo guardò arrossendo; per la prima volta sembrava in
difficoltà.
«Cosa c'è?» le chiese Erik perplesso.
Lei abbassò lo sguardo sulla punta delle pantofole di feltro
e quasi con riluttanza gli mise il quaderno tra le mani facendogli
segno di aspettare ad aprirlo, poi prese un foglio dallo scrittoio,
come faceva sempre quando doveva dire qualcosa di troppo complesso da
esprimersi a gesti.
VUOI FARMI UN REGALO? Scrisse.
Erik la fissò stringendo le labbra,
«Posso provarci» rispose dopo qualche secondo.
Luisa gli indicò il quaderno e lui lo aprì.
Mentre sollevava la copertina le guance della giovinetta si colorarono
ancora più intensamente di rosso.
L'uomo sfogliò le pagine, erano piene di versi scritti con
una calligrafia larga e spigolosa ma molto ordinata.
«Poesie? Le hai scritte tu?» domandò.
Lei annuì, facendo vagare lo sguardo in giro per la stanza.
Sembrava davvero imbarazzata, doveva tenere molto al fatto che lui
leggesse quei suoi componimenti e allo stesso tempo forse aveva paura
del suo giudizio.
D'un tratto, Luisa posò una mano su quella di Erik, poi
aggiunse alcune parole su foglio.
IL REGALO: LA TUA VOCE. VUOI LEGGERLE PER ME?
Quando la giovinetta sollevò di nuovo lo sguardo su di lui,
l'uomo si accorse che aveva gli occhi lucidi.
«Con piacere» mormorò aprendo il
quaderno alla prima pagina.
_____________________
Here,
I have a
note...
*
mannaggia alla fame.
Non so se sia molto “tradizionale” nel
dialetto napoletano, ma conosco qualcuno che la usa come
imprecazione.
Due
piccole precisazioni sulla “gita scolastica” dei
ragazzi (oh,
quanto mi è piaciuto scriverla!):
Nel
romanzo di Leroux, in Rue Scribe c'era uno degli accessi segreti al
teatro usati dal Fantasma dell'Opera. Nella mia testa ho sempre
supposto che nel film fosse quello da cui entra Erik bambino quando
viene portato a teatro da Madame Giry (e a cui eventualmente porta il
passaggio segreto che lui apre rompendo lo specchio alla fine del
film). Nel film non si fa menzione di Rue Scribe e del passaggio, ma
io ho sempre fatto questa associazione.
I
pargoli in gita all'Opera arrivano ai sotterranei senza farsi male,
già... il passaggio dietro lo specchio del camerino della
primadonna
in teoria dovrebbe essere quello attraverso il quale Meg guida la
folla inferocita alla fine del film (perché la ragazza lo
scopre
nella scena dopo Music of the Night), se tutta quella marmaglia era
arrivata intatta nei sotterranei da lì, non vedo
perché non ci
debbano arrivare anche i due rampolli.
A mercoledì prossimo ^^
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 12 *** Lucia ***
Capitolo undicesimo
Lucia
~ Parigi, 09 maggio 1892 ~
«Whishing you
were somehow here again,
knowing we must say
goodbey...»
Gustave si chiuse la porta di casa alle spalle, sospirando di sollievo.
Suo padre lo aveva tenuto inchiodato a quella scrivania tutto il
pomeriggio perché lo aiutasse a consultare i rendiconto
delle loro proprietà, occupazione che il visconte De Chagny
voleva divenisse prioritaria per il suo unico figlio ed erede. Il
ragazzo aveva deciso di assecondarlo e di non avercela con lui, non
tutti possono nascere con un animo sensibile all'arte e, a voler essere
onesti, Gustave doveva riconoscere che l'animo di suo padre era
sensibile già a troppe cose.
Si era sempre sentito fortunato per lo sconfinato amore che aveva
ricevuto dai suoi genitori e anche per lo sconfinato amore che loro
nutrivano reciprocamente, era raro trovare coppie così
affiatate nell'alta società.
«Whishing you
were somehow here again,
knowing we must say
goodbey...»
Si era sentito privilegiato per essere nato in mezzo al benessere e
fortunato per essere cresciuto così tanto amato, non gli era
mai importato di quelle strane frasi lasciate a metà che
ogni tanto sfuggivano a sua madre, come pensieri che Christine teneva
nascosti in un angolo della sua mente e che ogni tanto scalpitavano per
tornare in superficie. Lui aveva sempre finto che non gli importasse
del passato dei suoi genitori, delle chiacchiere che dicevano che la
moglie del visconte era stata coinvolta nel disastro che aveva
distrutto l'Opera Populaire... per lui quel palazzo era davvero stato
solo un rudere in passato, come aveva detto Louis, anche se una volta,
quando era un ragazzino, si era ritrovato seduto nella piazza del
vecchio teatro, armato di blocco da disegno e carboncino, e aveva
passato un intero pomeriggio a ritrarre l'edificio.
Per lui disegnare, dipingere, era aprire una finestra e poter guardare
oltre, un miracolo che suo padre forse non avrebbe mai potuto
comprendere. Aveva disegnato l'Opera come se stesse facendo il ritratto
ad una vecchia signora, ma non gli era piaciuto guardare oltre, aveva
visto ombre, cose oscure, voci sepolcrali che sussurravano nel buio...
e da allora aveva deciso che mai si sarebbe interessato alla storia che
legava sua madre e suo padre a quel posto. Fino a un paio di sere
prima, almeno, perché poi era arrivato Louis, con il suo
violino e ombre che non gli appartenevano ma che gli si agitavano in
fondo allo sguardo, nella durezza e nella freddezza di certe sue
espressioni inconsulte. Ah, certo non era colpa del suo caro amico
musicista, ma da quando gli aveva raccontato del diario di suo padre,
da quando si era confidato con lui sui sentimenti che di volta in volta
provava nel leggerlo, Gustave aveva cominciato a chiedersi se non fosse
giusto affrontare le ombre, puntargli contro una luce e vederle
sparire.
Tuttavia, nonostante le emozioni di quell'assurdo viaggio nei meandri
dell'Opera, Gustave ancora non sapeva se avrebbe trovato mai lo stimolo
per accendere quella luce.
E, a proposito di luci... come mai quella della mansarda era spenta?
Era quasi sera, il balcone della casa in cui viveva Louis era chiuso,
dietro ai vetri si vedeva solo il buio. Gustave restò fermo
sotto al palazzo a guardare quel rettangolo di nero, chiedendosi dove
fosse il suo amico, perché non lo aveva aspettato prima di
uscire.
Quella strana e triste canzone che a volte sentiva intonare a sua
madre, quando credeva di essere sola, senza nessuno che la sentisse,
gli fischiava nelle orecchie insieme allo scirocco caldo che spostava
le nuvole e cominciava a lasciar intuire le prime promesse dell'estate.
«Whishing you
were somehow here again,
knowing we must say
goodbye...
try to forgive, teach me
to leave,
give me the strenght to
try...»
Gustave sospirò e si mise le mani nelle tasche, avviandosi
in direzione del Messidor. Quando entrò nel bar fu accolto
dal solito allegro vociare degli avventori e da una preoccupatissima
Magdeleine che si diresse a grandi passi verso di lui.
«Oh, monsieur De Chagny! Sono contenta che siate
venuto» esclamò la giovane tormentandosi una
ciocca di capelli ramati.
Gustave sogghignò,
«Mademoiselle, non sono certo io il vostro
preferito» disse divertito.
La ragazza alzò gli occhi al cielo e lo afferrò
per un braccio, pilotandolo verso un angolo della sala per poi
indicargli un tavolo seminascosto dietro ad un appendiabiti al quale
sedeva Louis, da solo, con un bicchiere e una bottiglia di cognac
già mezza vuota.
Gustave batté le palpebre più volte, come ad
assicurarsi di aver visto bene.
«È arrivato qui appena abbiamo aperto»
spiegò Magdeleine con apprensione. «Si
è seduto lì, ha ordinato quella bottiglia e ha
cominciato a bere. Ho provato a parlargli, ma non vuole dirmi cosa
è successo...».
Il ragazzo biondo inclinò la testa di lato e
fissò l'amico da lontano.
«Direi che è... sconvolto per qualcosa»
sentenziò.
«E voi, che siete suo amico, saprete certamente cosa
fare» replicò la giovane spazientita.
«Onestamente, mademoiselle? Non credo di saperlo, ma
farò un tentativo».
Così dicendo, Gustave si liberò gentilmente dalla
presa di Magdeleine che si era fatta più salda sul suo
braccio secondo dopo secondo, e si avvicinò al tavolo di
Louis fermandosi di fronte a lui. Il ragazzo italiano
sollevò per un secondo lo sguardo sul suo amico, gli occhi
erano lucidi per il troppo bere e forse, ipotizzò Gustave,
non solo per quello.
«Buona sera, Louis» disse il giovane De Chagny in
tono tranquillo, scostò una sedia e vi si sedette. L'altro
non disse niente, ingollò un altro sorso di liquore, sette
immobile qualche secondo, con lo sguardo nel vuoto, poi si scosse e si
versò un'altra generosa dose di cognac. Gustave vide che la
bottiglia era vuota più della metà.
«A cosa brindi?» fece, in tono del tutto neutro.
Le dita di Louis si strinsero nervosamente attorno al bicchiere.
«Perché non te ne torni a casa dalla tua famiglia
perfetta?» replicò dopo qualche secondo di
silenzio.
«Perché non mi va. E, per inciso, la mia famiglia
non è perfetta... quale famiglia lo è?».
Il giovane moro sollevò la testa per guardare in direzione
dell'amico, lo fece con una tremenda lentezza, come se il suo stesso
sguardo pesasse.
«Tu... tu...Gustave De Chagny, ami tuo padre?»
borbottò con la voce impastata dall'alcol.
«Faccio del mio meglio»
«Lo ameresti sempre... comunque?»
«Temo di sì. È l'inghippo dell'essere
figlio suppongo».
Louis scoppiò a ridere battendosi una mano sulla fronte, la
sua era una risata nervosa e strascicata. Quando tornò ad
alzare lo sguardo, c'era una lacrima che gli stava rigando la guancia.
Gustave gli tolse dalle mani il bicchiere, strappandoglielo con uno
scatto brusco del quale non lo si sarebbe creduto capace.
«Molto bene. Sono certo che il tuo stomaco non può
contenere più cognac di quello che già ha
all'interno, quindi ora andiamo a casa» concluse, alzandosi
con fare deciso.
Louis lo guardò con uno strano cruccio, dondolando il capo,
poi sbuffò.
«Chi sei tu, dov'è il mio amico Gustave, quello
tonto?» snocciolò tra un ghigno e una smorfia.
«È andato a cercare il suo amico Louis, quello
ponderato che non si mette a bere come una spugna».
Così dicendo, il giovane De Chagny afferrò il
compagno per le spalle e lo fece alzare. Louis era più alto
e robusto di lui e non fu facile trascinarlo fuori dal bar, facendolo
sfilare tra i tavoli pieni di gente. Gustave pregò di avere
la forza di reggere l'amico fino alla soglia di casa.
Dopo il primo isolato, Louis si liberò dalla presa
dell'altro ragazzo, si infilò in un vicolo cieco e buio e
vomitò.
Gustave ritenette che la cosa fosse una faccenda assai intima tra Louis
e Louis, per cui restò a distanza, aspettando che l'amico,
che era rimasto ancora piegato con i palmi sulle ginocchia, si
riprendesse. Non si era mai ubriacato, ma pensò che fosse un
bene che il musicista avesse vomitato subito, almeno non avrebbe
rischiato di affogare nel sonno.
Louis riemerse dal vicolo con una faccia di un innaturale colorito
olivastro e gli occhi iniettati di sangue. Gustave pensò che
gli sarebbe servito da lezione.
«Uccidimi adesso...» blaterò il giovane
moro.
«Non ne ho voglia, magari domani».
Raggiunsero la palazzina, con Gustave che tentava di tenere dietro al
passo barcollante dell'amico. Una volta entrati in casa, Louis si
fiondò in bagno e si sciacquò il viso e la bocca,
poi si trascinò fino al letto e si lasciò cadere
sul materasso. Il suo sguardo si fissò sulla maschera nera
che aveva portato con sé dall'Opera, e che ora era
appoggiata sul comodino a guardare con i suoi occhi vuoti la stanza
buia.
Il giovane De Chagny prese una sedia dal tavolo della sala e la
trascinò ai piedi del letto, si sedette incrociando le
braccia sul petto e attese.
«Mio padre...» fece Louis all'improvviso, quando il
suo amico ormai credeva che si fosse addormentato. «Mio
padre...».
«Tuo padre cosa?»
«Oh, Gustave...».
Il ragazzo italiano rotolò su un fianco e affondò
il viso tra i cuscini. Dopo qualche secondo Gustave lo udì
singhiozzare, lo lasciò piangere per qualche minuto, poi gli
si avvicinò cauto e gli posò una mano sulla
spalla.
Quando Louis sollevò il capo, il suo viso era una maschera
di angoscia. Si aggrappò al colletto della camicia
dell'amico come se non avesse la forza di tirarsi su da solo, lo
strattonò bruscamente e strinse così forte le
dita attorno ai lembi di stoffa che le sue nocche sbiancarono.
«Mio padre... ha
ucciso delle persone, Gustave».
Il giovane De Chagny sussultò, sentì come un
colpo di cannone esplodere nel centro esatto della sua mente.
«Come... cosa? È nel diario?»
farfugliò atterrito. In quel momento non era quella
terribile affermazione ad averlo sconvolto, quanto l'effetto che stava
avendo sul suo amico. Non sapeva cosa dire, non sapeva da dove
cominciare per consolarlo...
«Perché mia madre ha voluto che affrontassi tutto
questo da solo? Io non sono... Gustave... io non sono in
grado».
Il ragazzo biondo appoggiò delicatamente le mani sulle
spalle dell'amico e lo spinse verso il basso, lasciando che si
stendesse sul materasso.
«Lo sei, sono certo che lo sei» gli disse con tutta
la dolcezza e la convinzione che riuscì a trovare.
«No... io non... mia madre, perché mi ha fatto
questo?» sibilò il ragazzo steso sul letto,
prendendo a pugni il guanciale e tormentando le lenzuola.
«Lei... lei lo sapeva, lei deve averlo sempre
saputo...».
Gustave lanciò uno sguardo colmo di orrore al diario
poggiato sul comodino lì accanto. Non capiva, davvero non
era in grado di comprende, anche solo di immaginare...
All'improvviso bussò la porta, tre colpi secchi e pesanti
come rintocchi di campane nel silenzio pesante della casa.
«Louis, monsieur De Chagny! Aprite!». Era la voce
di Magdeleine, certo quella ragazza doveva essersi affezionata molto a
Louis, ma forse il suo amico non aveva voglia di condividere anche con
lei quel momento tremendo. Tuttavia, Gustave si vide costretto ad
andare ad aprire.
Appena ebbe scostato il battente dall'uscio, la ragazza lo spinse via
ed entrò.
«In nome di Dio, volete dirmi che sta succedendo?
Dov'è quello sciagurato?!» esclamò
agitando i pugni a mezz'aria.
A Gustave non piacevano le ragazze così dannatamente
energiche.
«Mademoiselle, non gridate, vi prego, non mi siete di
aiuto» le disse portandosi l'indice alle labbra.
«Ma se volete darmi una mano, potete fare una cosa...
ecco...».
Il ragazzo si lanciò alla ricerca di un foglio, di un pezzo
di carta, qualcosa per scrivere...
Trovò il quaderno da musicista di Louis, accanto alla
custodia del violino, ne strappò una pagina bianca e scrisse
calcando il tratto con la matita perché le lettere fossero
leggibili al di sopra delle strette righe dei pentagrammi, poi
strappò la pagina e la ripiegò. Si
frugò le tasche estraendo del denaro, mise il biglietto e i
soldi in mano a Magdeleine.
«Questi dovrebbero bastare per andare alla farmacia e
comprare del valium: portatemelo. Poi, con quello che avanza, prendete
una carrozza, andate a casa mia e fate avere questo biglietto a mia
madre» disse perentorio, pensando nel mentre che doveva far
sparire la maschera dal comodino di Louis.
«Ma cosa?...»
«Siete venuta per dare una mano, no? Vi assicuro che per
adesso questo è tutto quello che possiamo fare,
mademoiselle».
Magdeleine allungò il collo, cercando di spiare oltre la
soglia della camera da letto.
«E cosa c'entra vostra madre?»
«Dato che la sua è a diverse centinaia di
chilometri di distanza, temo ne occorra una di riserva...».
*******
~ Napoli, 16 aprile 1871 ~
I giorni passati lontano dal teatro, a casa del duca, erano stati
giorni strani, giorni trascorsi con un tempo un po' sfasato e con una
lentezza singolare, come Erik immaginava dovessero essere i giorni di
vacanza. Certo, se per vacanza si intendeva un periodo di riposo,
quelle quattro giornate trascorse a palazzo Giusso non erano state
affatto riposanti.
Aveva dormito poco e male quasi tutte le sere. I suoi pensieri erano
rivolti alternativamente ora al lavoro che lo attendeva quando tutti
avrebbero fatto ritorno al San Carlo – sperava che quei
quattro giorni non avessero fatto passare di mente agli attori della
compagnia e ai musicisti dell'orchestra tutto ciò che lui
aveva insegnato loro – ora agli incubi e ai ricordi che lo
avevano tormentato.
Il sangue era una cosa impossibile da lavare via da una coscienza. Era
stato versato per difesa quando aveva ucciso il suo carceriere, da
bambino, e quando aveva tolto la vita a Buquet. Ed era stato per pura
follia che aveva ucciso Ubaldo Piangi, non aveva nulla contro quel
mediocre tenore, si era solo trovato nel posto sbagliato al momento
sbagliato: quella sera avrebbe distrutto qualsiasi cosa si fosse
trovata tra lui e Christine. Ma tutto ciò era
incancellabile, un peso che sarebbe rimasto immutato dentro di lui,
andandosi a sommare al suo nulla fatto di fantasmi invadenti.
Non era un vero e proprio rimorso quello che sentiva, era
più che altro la rabbia che prova un uomo davanti a qualcosa
di inevitabile incontrato sulla propria strada.
Ma in quei giorni cupi, ogni volta che i fantasmi allungavano le dita o
alzavano la voce, la tranquillità della casa del duca
portava un po' di luce che bastava a zittirli e a farli arretrare.
Luisa gli aveva fatto leggere le sue poesie e lui le aveva trovate
davvero belle per una bambina di quell'età. Gli aveva
chiesto di leggerle ad alta voce e aveva visto gli occhi della piccola
illuminarsi, il suo respiro quasi spezzarsi nell'emozione di sentire le
sue parole suonare sulle labbra di qualcuno.
Poi gli aveva chiesto di nuovo di cantare e lui aveva detto di nuovo di
no. Sembrava che alla fine lei si fosse arresa, che avesse compreso
quanto lui fosse irremovibile su quel punto. Lui non poteva
più cantare, non ci riusciva. Però aveva potuto
suonare, suonare per gli ospiti del duca che avevano invaso il palazzo
per quel grande pranzo la domenica di Pasqua. Durante le ore trascorse
a tavola, Erik aveva recitato il suo ruolo consunto di persona normale,
per quanto normale potesse sembrare agli occhi della gente un uomo che
porta perennemente una maschera sul viso. Aveva eluso le domande che
vertevano su di lui, sul suo passato in Francia, e aveva conversato con
chiunque volesse discutere di arte, teatro, cultura, stupendo i
presenti con la sua sconfinata conoscenza in quasi ogni branca del
sapere. E poi, dopo quell'interminabile e straziante pranzo, il duca
gli aveva chiesto un nuovo regalo, come quello che aveva ricevuto in
occasione del suo compleanno. Quella era stata decisamente la parte
più interessante della giornata. Aveva provato un certo
perverso compiacimento, proprio come alla festa in maschera del mese
precedente, si era beato dell'ammirazione stampata sui volti dei
presenti e lo aveva fatto con un gusto e con un piacere che
difficilmente quella gente avrebbe potuto comprendere.
Alla fine, aveva dovuto ammettere, che quella sorta di vacanza non era
stata spiacevole. Aveva lasciato il palazzo del duca sentendo qualcosa
di nuovo che aleggiava nella sua mente, una scintilla quasi di
bontà, il bisogno di fare qualcosa di buono fine a se
stesso.
Tuttavia, si sentì molto più a suo agio la
mattina del martedì, attraversando a piedi il pezzo di
città che separava palazzo Giusso dal San Carlo, mentre
l'alba rischiarava lentamente il cielo.
Aveva fissato le prove con l'orchestra per quella mattina stessa,
litigandosi il palco con la direttrice del balletto che doveva far
esercitare le sue ballerine.
La mattina era trascorsa tranquilla, persino rivedere Guglielmo
Marchesi e ritrovarselo tra i piedi con tutta la sua
reverenzialità non gli era parso troppo sgradevole.
Non aveva convocato gli attori della compagnia per quelle prove. Doveva
semplicemente sistemare delle faccende con l'orchestra, il suo orecchio
assoluto – diventato oggetto di profonda ammirazione tra i
musicisti del San Carlo – aveva rivelato troppe discordanze
nelle ultime volte che aveva sentito gli orchestrali suonare e gli
errori andavano corretti prima
di subito. Dopotutto mancava solo un mese alla messa in
scena dell'opera.
I musicisti lasciarono il teatro ad ora di pranzo. Erik si
ritirò nel suo ufficio e poco dopo Guglielmo lo
seguì, bussando alla sua porta con l'immancabile tazza di
caffè.
Il giovane Marchesi non sembrava di buon umore, evidentemente i giorni
trascorsi in casa con la sua famiglia non erano stati salutari e
sembrava che le pene d'amore che lo affliggevano si fossero fatte
ancora più...
penose.
«Maestro, ditemi la verità» disse
Guglielmo all'improvviso, rigirandosi tra le mani la tazzina di
caffè ormai vuota. «Cosa ne pensate della
signorina Rovesti?».
Erik dovette reprimere l'impulso di lanciargli contro il fermacarte di
marmo.
«Perché questa domanda?» chiese,
caricando le parole con tutto il suo fastidio sperando così
di dissuadere il suo interlocutore dall'indugiare in quel discorso.
«Perché... io darei tutto l'oro del mondo per
essere al vostro posto...» mormorò invece il
giovane signore abbassando lo sguardo.
Eccolo. Ecco il mostro che si dibatteva nella sua prigione di forzata
normalità, che gridava prepotente. Ecco, la furia che
cominciava a rendergli il sangue incandescente. Essere al suo posto?
Ah, che l'inferno ti
porti! Ah, Dio come hai potuto creare creature così stupide?
«Essere al mio posto?» ripeté gelido.
Anni, decenni di rabbia, frustrazione e solitudine si condensavano in
quelle parole, le rendevano brucianti nella sua gola.
Guglielmo Marchesi ora aveva l'aria di uno a cui si era gelato il
sangue.
Erik fu costretto ad alzarsi e voltarsi di spalle, avvicinandosi alla
finestra. Temeva davvero che se avesse avuto per un solo istante ancora
il volto di quell'imbecille davanti agli occhi avrebbe potuto
commettere uno sproposito.
Essere al suo posto?!
«Sì!» esclamò Marchesi d'un
tratto, convinto, con la voce ferma. Erik stava fremendo di rabbia, ma
si costrinse a voltarsi e a guardarlo, lo fece con gli occhi che
fiammeggiavano di furia, eppure Guglielmo resse lo sguardo, per la
prima volta da quando lo conosceva sembrava assolutamente sicuro di
sé.
«Sì, sì Erik, vorrei essere al vostro
posto, perché credetemi, qualsiasi cosa ci sia sotto quella
maschera, voi siete un uomo straordinario... ed è tutta la
vita che sogno di essere anche solo un decimo di ciò che
siete voi. E sì, baratterei tutta la fortuna della mia
famiglia per essere guardato una sola volta da Graziana come lei guarda
voi».
Qualsiasi cosa ci sia
sotto quella maschera...
Un uomo straordinario...
Povero, piccolo Guglielmo, così ignaro, così
solo, così disperato,così in trappola. Forse
assomigliava a lui più di quanto pensasse!
«Non sapete ciò che state dicendo,
credetemi» concluse infine Erik, ritrovando un po' calma e di
lucidità, sentendosi quasi solidale con il suo sciocco
interlocutore. «Non sapete ciò che state dicendo,
né in merito a me, né in merito alla signorina
Rovesti... lei non vi merita»
«Che dite?...»
«Mi ammirate tanto, a sentirvi, eppure non volete fidarvi di
me su una cosa così ovvia»
«Ovvia? Voi... forse siete voi che non sapete...».
Erik sospirò pesantemente.
«Avete un cuore troppo grande, Guglielmo»
dichiarò abbassando le armi una volta per tutte, deponendo
la furia e l'odio, e pensando semplicemente a porsi da uomo a uomo in
modo onesto per la prima volta da quando era cominciata quella strana
avventura. «Avete un cuore così grande che la
piccolezza di quella donna vi farebbe eco».
Gugliemo corrugò la fronte in una smorfia offesa, ma nel
vedere l'espressione così placida e accorata del suo
interlocutore sembrò rabbonirsi.
«Non potete saperlo» mormorò a fior di
labbra.
«Sì, posso. Un tempo anche la mia piccolezza ha
fatto eco nel cuore di un'altra persona e le conseguenze sono state
orribili» replicò Erik. «Ciò
che c'è sotto questa maschera è nulla al
confronto dei segni che mi porto dentro».
*
Le sere cominciavano a farsi notevolmente più calde. Non
pioveva da giorni e il vento che soffiava su Napoli era tiepido,
amichevole.
Gli avventori che passavano le serate al bar Notte 'e vierno ormai
preferivano restarsene fuori. Ce n'era sempre almeno una dozzina quando
usciva, e tutti si toglievano il cappello e la salutavano con fare
rispettoso. Lucia ricambiava con il miglior sorriso che aveva e poi
proseguiva per la sua strada.
Era più tardi del solito quella sera, la ragazza si chiuse
alle spalle il pesante portone della palazzina e lasciò che
il chiacchiericcio degli uomini seduti fuori al bar facesse prendere
quota alla sua allegria, quell'allegria che tentava di trattenere, a
volte riuscendoci a stento, con le dita dei piedi. Perché
non fuggisse via, aveva bisogno di alimentarla con la musica di Napoli,
con tutta la musica di quella città.
Si strinse il foulard attorno al collo e voltò l'angolo
della piazzetta. Andò quasi a sbattere contro l'uomo che
camminava in direzione opposta alla sua.
«Scusate...» mormorò.
Ah, era quell'uomo,
il Maestro Francese. Era più di una settimana che non lo
vedeva fermarsi nella piazza, in contemplazione delle facciata della
palazzina che ospitava il bordello. Se n'era quasi dimenticata.
Si sarebbe aspettata un «no, scusate voi», ma
l'uomo non rispose. Non che le fosse mai parso un tipo abituato a
conversare, ma quella sera aveva un'aria particolarmente cupa e stanca,
l'aria di qualcuno provato da troppi pensieri molesti. Era insensato
forse, ma Lucia trovava che in quell'uomo ci fosse qualcosa di
stranamente buffo e divertente, un po' come in quelle situazioni
imbarazzanti che dovrebbero preoccupare e invece fanno ridere. Ecco,
quell'uomo era buffo nella sua gravità, forse erano i modo
impacciati che tentava di dissimulare dietro quell'aria signorile e
composta – se n'era accorta quella volta in teatro, era brava
a osservare gli uomini e a coglierne i particolari. Anche se poi, a
guardarlo negli occhi, passava davvero la voglia di ridere di qualsiasi
cosa. Quella sera in particolar modo aveva uno sguardo piuttosto
malinconico e smarrito.
«Credevo aveste smesso di frequentare le nostre
zone» gli disse.
L'uomo la fissò come si fissa un granello di polvere sul
bavero della giacca, poi si riscosse e le rivolse uno sguardo vagamente
più umano ed educato.
«Siete voi quella che non dovrebbe frequentare quartieri bui
di sera» borbottò meccanicamente, come per una
frase di circostanza.
Si sentiva in dovere di mettere in guardia una donna sola dal
passeggiare di sera in un quartiere ritenuto malfamato?
Lucia inarcò le sopracciglia,
«Bah, i quartieri bui non fanno male ai loro stessi abitanti,
soprattutto qui a Napoli, non lo sapevate?»
replicò.
«Onestamente, per quanto stia imparando ad amare questa
città, ci sono parecchie cose che ancora non so».
La ragazza ridacchiò,
«Certo, certo, su Napoli non si finisce mai di imparare. Ma,
se posso permettermi, restare a fissare la facciata di un palazzo non
è molto istruttivo».
L'uomo sembrò irritarsi, il sopracciglio sinistro assunse
una strana curva a metà tra lo sdegno e la
perplessità.
«Faccio ciò che preferisco del mio
tempo» concluse torvo.
«Naturalmente. Ma io stavo andando ad ascoltare della
musica... avete mai ascoltato niente della nostra musica? No? Volete
dirmi che da quando siete qui vi siete limitato ad ascoltare pomposi
orchestrali e maliarde soprano?»
«Vi interessa così tanto?»
«Ero solo curiosa. Come vi ho già detto,
stuzzicate fin troppo la curiosità della città, e
io appartengo alla città».
Era vero, era curiosa, come tutti e forse molto più di
altri. Sentiva così spesso parlare dei prodigi che
quell'uomo stava compiendo in teatro e le sarebbe piaciuto scoprire se
era davvero l'artista così sensazionale che tutti dicevano.
«Avete qualche particolare avversione per il
teatro?» chiese l'uomo. A Lucia sembrò che non
volesse interrompere la loro conversazione ma che la trascinasse in
maniera un po' forzata, come quando si tenta di attaccare bottone con
un compagno di viaggio estraneo durante un lungo tragitto.
Si sentiva così solo e malinconico da aver voglia di parlare
con qualcuno, chiunque fosse? Oppure c'era qualche motivo che lo
portava ad essere interessato a parlare con lei? Oh, forse aveva saputo
la sua storia e la trovava curiosa,
già... sono sempre curiosi da guardare gli uccelli in
gabbia. Ma allora la cosa era reciproca e Lucia non ebbe voglia di
rimuginare sulla questione.
«Io amo il teatro, l'ho frequentato spesso in effetti, o
almeno lo frequentavo tempo fa» gli disse scrollando le
spalle. «Immagino ormai abbiate imparato una storia o due
sulle facce note della zona, quindi probabilmente lo saprete».
L'uomo sembrò assumere per un attimo un'espressione basita.
Non doveva essere il tipo di persona abituata alla semplice e modesta
schiettezza, doveva appartenere probabilmente a quella categoria di
persone che ritengono il dolore un'onta da celare agli occhi del mondo,
salvo poi usarlo come un'arma nel caso venissero messi alle strette.
Beh, lei di certo non era tipa da mettersi a fare la vittima con uno
sconosciuto, ma a che serviva fingere che non ci fossero ombre sulla
sua vita quando tutta Napoli ne era al corrente?
«Amo il teatro» ripeté. «Ma a
volte ho bisogno di ascoltare qualcosa di diverso»
«Ad esempio?»
«Santi numi! Allora avete davvero ascoltato solo usignoli e
tromboni!»
«Perché la cosa sembra turbare più voi
che me?»
«Non mi turba, è che vi facevo un tipo amante
delle cose belle. E la musica napoletana è una cosa
bella».
L'uomo le concesse un accenno di sorriso, fu un cambio di espressione
quasi istantaneo, poi il suo viso tornò a essere impassibile
e freddo.
«Avete così tanto desiderio di farmi da
guida?» le domandò dopo qualche secondo.
Lucia scrollò le spalle. No, non aveva particolare desiderio
di trascorrere del tempo con lui o fargli da guida alla scoperta della
città e dei suoi tesori, ma già che c'era
perché non portarlo con sé quella sera e provare
a togliergli quell'aria da cane bastonato dalla faccia?
Quando aveva uomini che facevano la fila alla sua porta, e quando tra
questi si presentava qualche straniero particolarmente interessato alla
tradizione napoletana, Lucia gli suggeriva sempre di andare nel posto
in cui era diretta lei stessa quella sera. Peccato che pochi di loro
fossero disposti a smettere di recitare il loro ruolo da signori e ad
apprezzare qualcosa che doveva apparire così basso e povero
ai loro occhi.
«Se volete fare qualcosa di diverso dal restare a fissare la
palazzina in fondo alla piazza...» suggerì
sarcastica.
L'uomo deglutì. Vuoi vedere che quella era proprio la sera
in cui aveva deciso di mettere piede nel bordello? A Madame Fantine non
sarebbe piaciuto perdere l'occasione di avere tra i suoi clienti uno
dei personaggi più chiacchierati di Napoli in quelle
settimane.
«Ma se avete altri impegni, non sarò io a
trattenervi» aggiunse la ragazza, facendo per andarsene.
Il Maestro la fermò,
«Temo mi abbiate offerto una tentazione troppo
grande» disse, senza alcuna ironia. «La musica
è sempre stata la mia peggiore dannazione».
Lucia sorrise. Questa sarebbe stata divertente da raccontare alle
ragazze il giorno dopo!
L'uomo la seguì fuori dal quartiere, attraversarono lo
spiazzo davanti al teatro, costeggiarono piazza del Plebiscito e si
addentrarono in un vicolo spoglio. Il Maestro non fu di molte parole e
Lucia non aveva particolare voglia di mettersi a conversare o, quanto
meno, non aveva niente da dirgli.
Raggiunsero una palazzina fatiscente, un gatto randagio
tagliò loro la strada mentre si avvicinavano a una stretta
porta di ferro arrugginito.
Quando la ragazza aprì la porta fu come se ci fosse il sole
tenuto prigioniero dietro di essa. La luce di quelle che dovevano
essere almeno cento lampade e candele disegnò un rettangolo
chiaro sul ciottolato. Oltre la soglia c'era una piccola scala di
pietra, una cacofonia di voci alte e sgraziate risuonava dall'interno.
L'uomo continuò a seguire la ragazza senza dire niente e
senza fare domande. Ai piedi della scala c'era una donna che stava
lavorando a maglia, davanti a un tavolino sul quale teneva un barattolo
di latta.
«Bona sera, 'onna Lucì» disse la donna
sollevando per un solo istante lo sguardo dall'informe rete di fili di
lana che aveva tra le mani.
Lucia prese delle monete dalla tasca e le lanciò nel
barattolo.
Sulle pareti di pietra spoglia, chiazzata di umidità, erano
attaccati alcuni santini di cartone ormai sbiaditi.
L'uomo si guardò attorno con un certo interesse. Bene,
almeno era curioso!
La ragazza gli fece cenno di seguirlo e imboccò uno stretto
corridoio, il cui soffitto era tappezzato di ragnatele, come dita
spettrali, che ondeggiavano al minimo spostamento d'aria.
Il corridoio immetteva in uno stanzone rettangolare, con le pareti di
tufo alle quali erano appesi dei bruttissimi quadri con scene di caccia
e paesaggi improbabili, alcuni tavolacci di legno tarlato erano
addossati alle pareti. Quel seminterrato era pieno di gente e c'era un
fortissimo odore di fumo, di chiuso e di polvere.
L'uomo guardò perplesso i grappoli di pomodorini appesi in
giro e alcune grosse damigiane di vetro verde dalle quali saliva ancora
un forte odore di vino in
fermentazione.
Lucia batté una mano sulla spalla del proprio accompagnatore
e gli indicò di guardare oltre il crocchio di teste raccolte
a fissare tutte nello stesso punto.
C'era qualcuno in fondo alla stanza, un uomo con un consunto costume da
Pulcinella, con il bianco che era piuttosto ingiallito, il berretto
sformato gli pendeva sulla nuca e la maschera nera aveva qualche
scheggiatura. Da sotto il profilo della maschera spuntavano un mento un
po' appuntivo velato di barba sfatta e una bocca leggermente
raggrinzita. Accanto a Pulcinella c'era un ragazzo che imbracciava un
mandolino e una ragazza che armeggiava con un tamburello.
Il ragazzo pizzicò le corde del mandolino e
cominciò ad accordarlo. Quando ebbe finito, fece un cenno a
Pulcinella e cominciò a suonare.
Lucia spiò il viso del suo compagno e le sembrò
avesse un'espressione soddisfatta e interessata. Poi, quando Pulcinella
iniziò a cantare, quel volto così duro, si
aprì al primo sorriso – probabilmente un sorriso
istintivo e non voluto – che lei gli avesse mai visto fare
nelle poche volte che lo aveva incrociato.
Palummella,
zompa e vola
addó'
sta nennélla mia...
Non fermarte
pe' la via
vola, zompa a
chella llá...
La ragazza smise di prestare attenzione all'uomo che era con
sé e preferì concentrarsi sulla musica: quella
era una delle sue canzoni preferite. La voce di Mastro Pulcinella era
come un balsamo sui suoi pensieri, ed era sempre il piacere
più grande che fosse mai riuscita a concedersi.
Palummella, vola vola
a la rosa de
'sto core...
Non ce sta
cchiù bello sciore
che t'avesse
da piacé...
Lucia sentiva la tenerezza assediarle il cuore. Nota dopo nota, ogni
dispiacere andava via.
«Che ve ne pare?» chiese all'uomo accanto a
sé.
Lui sembrava sinceramente ammirato,
«È la cosa più dolce che abbia mai
udito» ammise, senza guardarla, ancora perso nei suoni della
musica. «Purtroppo non capisco le parole. Di cosa
parla?».
La ragazza sentì il cuore mancarle un battito.
«Parla... della nostalgia per una persona che si
ama» disse con un sospiro.
«Lo dite come se vi toccasse»
«E mi tocca, infatti. O credete che una come me non possa
amare?».
L'uomo arricciò la bocca e deglutì, come se
dovesse ingoiare qualcosa di amaro. Poi fece uno strano sorriso triste
e scosse il capo.
«Non lo credo. Se persino uno come me è stato in
grado di farlo...».
Lasciò la frase in sospeso, i suoi occhi si persero
inseguendo un ricordo pesante come una nuvola carica di pioggia.
Pulcinella cantò a lungo, fino a quando sembrò
averne voglia, poi se ne andò tra gli applausi dei presenti.
Quando se ne fu andato, la gente ricominciò a parlare ad
alta voce e la stanza si riempì di parole dialettali e di
risate.
Lucia indicò al Maestro un tavolino vuoto con due sedie di
paglia, poi sparì in mezzo alla calca per tornare qualche
minuto dopo con una caraffa di vino bianco e due bicchieri.
Posò il tutto sul tavolino e sorrise, quasi con aria di
scusa,
«Il vino non è dei migliori, certo sarete abituato
a qualcosa di più raffinato...».
«Sono certo che andrà benissimo» rispose
lui, e le sembrò persino gentile.
La ragazza si sedette e versò il vino.
«Avete detto che avete frequentato molto il teatro»
disse il Maestro, alzando la voce per farsi sentire al di sopra di quel
caos. La ragazza annuì. «Parlatemene».
*
Lo sguardo della ragazza viaggiava lontano mentre parlava. Di tanto in
tanto si interrompeva nel tentativo di mettere insieme un nuovo
ricordo, e allora lo guardava in viso.
Gli stava raccontando dei vecchi spettacoli a cui aveva assistito,
descrivendogli con dovizia di particolari il modo in cui erano stati
allestiti al San Carlo. Erik le conosceva tutte quelle
rappresentazioni, le aveva viste replicate forse decine di volte, ma
assorbiva con avidità e interesse i racconti di Lucia.
La ragazza, per sua stessa ammissione, non era una grande esperta di
musica e canto, ma era certo un'ottima osservatrice e una spettatrice
con un certo gusto.
Il seminterrato era già quasi del tutto vuoto quando lei
smise di raccontare.
Lucia si guardò attorno e coprì uno sbadiglio con
la mano. Doveva essere piuttosto tardi.
«Credo sia ora di andare a letto. Voi cosa ne dite,
Maestro?».
Erik si rigirò il bicchiere tra le mani. Aveva totalmente
perso la cognizione del tempo. Quella serata gli era parsa solo una
delle tante schegge impazzite del mosaico che tentava di risistemare,
ma gli era piaciuta la musica, una musica di cui non capiva le parole
ma della quale avvertiva distintamente il sapore agrodolce delle
melodie. In quanto alla ragazza, gli era parso strano ritrovarsi a
conversare con qualcuno che sentiva così odiosamente vicino
a sé. Non che pensasse che Lucia fosse in grado di capirlo e
che le cose che aveva provato somigliassero davvero alle sue pene, ma
era pur sempre la persona con una storia e con un modo di sentire
più simile al suo che avesse mai avuto modo di incontrare.
Ed era l'unica persona che non gli aveva fatto domande.
«Credo che abbiate ragione. Vi accompagno» le disse
con misurata galanteria, alzandosi per scostarle la sedia.
Mentre ritornavano verso la piazzetta sulla quale affacciava l'Araba
Fenice, Erik avrebbe voluto essere lui a farle delle domande. Non gli
interessava quella ragazza, il suo animo, ma voleva sapere come
riusciva a convivere con sé stessa.
Mentre voltavano l'angolo, incrociando un crocchio di uomini che
stavano lasciando la Notte 'e vierno, ci fu una sola domanda che
affiorò nella mente di Erik, un pensiero assurdo che
cominciò subito a fare eco tra i suoi pensieri, con la
caparbietà delle idee balzane e moleste.
L'uomo tentò di dire a se stesso che era una sciocchezza,
una folle idea da non perseguire, ma alla fine le parole gli fuggirono
di bocca. E fu come quando aveva ricambiato il bacio di Graziana, o
come quando aveva parlato a Guglielmo quello stesso pomeriggio:
sgradevole e liberatorio allo stesso tempo.
Lucia stava per voltarsi verso di lui e augurargli la buona notte, ma
Erik la fissò, trovando il coraggio di guardarla negli
occhi, spoglio da ogni riserva.
«Posso tornare e chiedere di voi?» le disse.
Quella domanda fu un bagno gelato persino per se stesso. Non osava
immaginare cosa stesse pensando ora la ragazza. Come diamine aveva
potuto venirgli in mente una tale assurdità?
Ma era un'assurdità? Ora che il nulla aveva sommerso anche
l'amore e non aveva lasciato altro che i ricordi più
mostruosi, che senso aveva mantenere ancora delle riserve?
Non si era mai fidato di nessuno, non aveva nemmeno intenzione di
fidarsi della ragazza, ma era l'unica con il quale sarebbe riuscito a
non stare sempre sul chi vive, dopotutto avevano qualcosa in comune.
Per un attimo Lucia sembrò spiazzata, poi assunse
un'espressione tranquilla e paziente.
«Cercare di me?» disse. «Qualsiasi cosa
vi abbiano raccontato, non sono più quella di un
tempo».
Erik avrebbe voluto avere la forza di girare sui tacchi e andarsene. Ma
non lo fece.
«Non è importante...».
La ragazza aggrottò leggermente la fronte e
incrociò le braccia sul petto,
«E cosa lo è?» chiese.
L'uomo si indicò la maschera senza dire nulla. La giovane
sospirò e assunse un'espressione pensosa, poi dopo qualche
secondo sospirò,
«Certo, capisco» asserì con una certa
tristezza nel tono. Il suo sguardo si era fatto un po' più
duro. «Ebbene, anche io potrei avere qualcosa che non voglio
mi venga tolto».
Erik annuì dondolando il capo.
«Avete la mia parola, se io ho la vostra» concluse.
Lucia accennò uno strano sorriso, quasi amichevole,
«L'avete».
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Capitolo 13 *** Ricordi ***
Capitolo dodicesimo
Ricordi
~ Parigi, 10 maggio 1892 ~
Louis aveva una mente straordinariamente abile a trattenere i ricordi.
Scene, suoni, persino profumi di tanti anni addietro erano capaci di
riaffiorare tra i suoi ricordi con una nitidezza e una precisione
meravigliosa. O almeno, a lui sembrava una cosa meravigliosa dato che
quasi tutti i suoi ricordi erano belli, aveva avuto una vita felice,
un'infanzia serena e una giovinezza agiata. Poi suo padre era morto...
e poi... e poi questo.
Quelle parole tremende e inquietanti vergate dalla mano dell'uomo che
lo aveva cresciuto.
Il sangue che ho versato
mi annega nei miei incubi. Non sarò mai abbastanza lontano
dal mio passato da dimenticare di essere stato un assassino.
Parole scritte come una qualsiasi constatazione. Non c'era rimpianto,
non c'era rimorso. L'unico rimpianto di suo padre era quella donna, la
fanciulla di cui parlava nelle pagine più tristi e
angosciate di quel diario, la ragazza senza nome per la quale Erik si
era dannato l'anima, il cui ricordo lo consumava come una candela,
goccia dopo goccia.
Louis strinse le palpebre. Sentiva gli occhi bruciargli per il sonno,
aveva passato tutta la notte a rigirarsi nel letto, incapace di dormire
e incapace di restare davvero sveglio. Aveva sentito qualcuno entrare e
parlare con Gustave – Gustave! Era davvero rimasto con lui
tutto il tempo? – e poi, dopo un po' di tempo qualcun altro
arrivare e sedersi su una sedia accanto al letto.
Uno dei suoi tanti ricordi era affiorato dal nulla, in mezzo a quel
caos di sconcerto e smarrimento e lo aveva colpito in viso come uno
schiaffo. Era un ricordo bello e dolcissimo, forse uno dei ricordi
più dolci legati alla figura di suo padre.
Louis aveva sette anni, c'era stato un inverno particolarmente rigido e
molti bambini si erano ammalati. «Nessuno è mai
morto di raffreddore» dicevano le comari alle finestre, ma
nonostante i giorni di riposo, le cure e le medicine, il raffreddore di
Louis si era trasformato in una febbre fortissima che non accennava a
scendere. Era debole e frastornato dalla malattia, riusciva a stento a
parlare eppure era rimasto lucido e vigile tutto il tempo, tanto da
sentire sua madre piangere sulla soglia della sua camera da letto e gli
incoraggiamenti titubanti del medico che ogni giorno veniva a fargli
visita.
Sua madre passava ore e ore al suo capezzale, tamponandogli la fronte
con un panno umido, cercando di farlo mangiare o semplicemente
fissandolo... Dio, che strazio tremendo deve essere per una madre
quello di restare a guardare il proprio figlio, contando i respiri,
fissando il suo petto sollevarsi e abbassassi, temendo che l'istante
successivo quel respiro si spezzi!
Suo padre invece... Louis non aveva visto altro che quell'imponente
figura fermarsi sulla soglia della camera, aveva sentito su di
sé lo sguardo di quegli occhi che gli dispiaceva non aver
ereditato, e quasi aveva sofferto più che per la malattia,
per il dolore che stava procurando ai suoi genitori.
«Fa' qualcosa...» aveva udito sua madre mormorare a
fior di labbra. Forse era una preghiera rivolta al Signore, ma non fu
certo la mano di Dio quella che Louis sentì posarsi sulla
propria fronte bollente. Era suo padre, da dove diamine era spuntato?
«Va' a riposare, ci penso io a lui» aveva detto
Erik, a bassa voce, senza tradire alcuna emozione particolare. Sua
madre aveva esitato prima di allontanarsi dal letto, ma alla fine aveva
lasciato la stanza, trascinandosi con passo stanco verso la porta che
poi aveva richiuso piano alle sue spalle. Louis avrebbe
voluto richiamarla indietro, ma non ne ebbe la forza.
Erik restò a guardarlo per un tempo che sembrò
infinito, Louis sollevò faticosamente lo sguardo su di lui.
La febbre lo scuoteva con dei brividi tremendi, sentiva la pelle
bruciare come se fosse fatta di fuoco, ma il sangue sembrava essersi
tramutato in fiocchi di neve.
L'uomo scostò le coperte e si stese nel minuscolo lettino
accanto a suo figlio, poi avvolse entrambi nei diversi strati di
trapunte di lana, circondò le spalle del bambino con un
braccio e lo strinse a sé. Louis sentì un vago
senso di sollievo quando la sua guancia si posò sulla stoffa
fresca e morbida della camicia di suo padre.
«Mi dispiace...» mormorò, ed era
dispiaciuto davvero.
«Tu sei la mia anima, Louis. Per nessuna ragione al mondo
permetterei che mi venissi portato via» sussurrò
Erik al suo orecchio, con quella sua voce di angelo che lui tanto gli
invidiava e che glielo aveva reso, se possibile, ancora più
amabile e degno di ammirazione.
Louis non ricordava altro, se non il fatto che si fosse raggomitolato
contro il petto dell'uomo e che si fosse addormentato. Si era
risvegliato il mattino dopo, Erik era ancora lì accanto a
lui. La febbre non era scesa, ma si sentiva un po' meno debole, quel
tanto che bastava per sollevarsi e gettare le braccia la collo di suo
padre. Erik lo aveva avvolto nelle coperte, lo aveva preso in braccio e
lo aveva portato accanto alla finestra, facendolo restare seduto sulle
sue ginocchia. Insieme avevano osservato il mare infrangersi contro gli
scogli, il vento spazzare la strada e far volare via i cappelli dei
passanti.
Ci erano voluti altri due giorni perché la malattia
cominciasse a dare segni di miglioramento, ma quando Louis era stato in
grado di scendere dal letto e reggersi in piedi, aveva sentito la
cameriera dire era un bambino troppo amato perché gli
potesse capitare davvero qualcosa di male, che la febbre aveva avuto
paura dell'amore alla fine...
E allora come era possibile che lo stesso uomo che lo aveva tenuto tra
le braccia quella notte, quasi come a volerlo nascondere alla vista
della Morte, avesse ucciso qualcuno?
Era una domanda che si rigirava nella sua mente come un ferro rovente
in una ferita. Louis avrebbe potuto quasi urlare per il dolore.
C'era un meraviglioso sole primaverile che filtrava dagli scuri
socchiusi. Parigi cominciava ad avere odore di fiori e di erba
tagliata, in giornate come quella la capitale francese era di una
bellezza luminosa, splendida... tanto che Louis l'avrebbe trovata
oltraggiosa per lo stato in cui era.
All'improvviso sentì una mano fresca posarsi gentile sulla
sua fronte e un profumo buono. Si girò di lato, sollevando
le palpebre gonfie e intravide la figura esile e minuta di madame De
Chagny seduta sul bordo del letto, come sua madre tanti anni
prima. Dunque era lei la persona che aveva sentito entrare durante la
notte... Louis si sentì quasi imbarazzato.
«Christine?...» farfugliò con la voce
impastata.
«Gustave era molto preoccupato per voi, come vi
sentite?» disse la donna con un sorriso dolce.
Il giovane si sentì sprofondare. Gustave l'aveva mandata a
chiamare... dei del cielo! Perché mai? Cosa le aveva
raccontato?
Grazie a Dio il suo amico aveva fatto sparire la maschera dal comodino,
se la signora avesse fatto qualche domanda in proposito lui non sarebbe
stato particolarmente abile a trovare qualche menzogna adatta.
«Siete piombata qui in piena notte? Cosa dirà
vostro marito?» borbottò Louis arrossendo.
«Ah, non vi preoccupate, Raoul di certo non me ne
vorrà per essere venuta in soccorso di mio figlio».
Il figlio in questione spuntò oltre la soglia.
«Come ti senti, Louis?» domandò,
guardando l'amico con apprensione.
«Non tanto male da trattenere oltre tua madre»
rispose il ragazzo moro con un sospiro. «Vi siete
già dati tutti troppa pena per me...». Non voleva
parlare a madame De Chagny di quello che era accaduto, di quello che
aveva scoperto. Gli piaceva quella donna, gli piaceva la famiglia di
Gustave, non voleva essere compatito da loro, né voleva
turbarli...
«Non dite sciocchezze, siete qui da solo, se non sono gli
amici a prendersi cura di voi... e poi, se mio figlio fosse lontano da
casa, vorrei che qualcuno facesse lo stesso per lui»
replicò Christine con fermezza, guardando Louis negli occhi.
«Gustave non mi ha detto cosa è accaduto, e non
siete tenuto a parlarmene, però vorrei tanto che non
restaste qui da solo. Ho una carrozza che mi aspetta di sotto,
perché non venite a casa con noi?».
*******
~ Napoli, 20 aprile 1871~
I ricordi sono il peggior supplizio che si possa infliggere a un essere
umano.
Questo pensiero volteggiò nella mente della ragazza come una
bolla di sapone, librandosi al di sopra di ogni altra idea, fino a
infrangersi e sparire nella curva di un ricciolo che non voleva saperne
di stare al suo posto.
Lucia pettinò con gesti stizziti i capelli che aveva appena
lavato, fingendo di non aver visto quel vecchio libro caduto dalla
mensola mentre cercava la spazzola.
Il libro, dalla lisa copertina di tela azzurra, era rimasto sul tappeto
a soffiare nel silenzio della stanza una musica straziante, ogni nota
era una notte insonne, un batticuore prima bellissimo e poi
trasformatosi nel suono di vetri e sogni infranti.
Forse il peggior supplizio toccato all'animo umano non era la
facoltà del ricordo quanto la tentazione dell'amore, un
canto di sirene che non si può fingere di non ascoltare e
che ti trascina inesorabilmente verso il fondo. Almeno, questo era
quanto accadeva a donne come lei... così si era sempre detta
quando il suo cuore straziato aveva chiesto alla ragione di trovare un
motivo per spiegare come mai le cose fossero andate in quel modo.
Ci vollero diversi minuti prima che Lucia approvasse la propria
immagine riflessa nello specchio, prima che quell'aria assorta
abbandonasse il suo viso e lei riuscisse a posare lo sguardo sul libro
fingendo indifferenza.
Si alzò per raccoglierlo, l'abito che non aveva ancora
finito di abbottonare le scivolò di lato scoprendole la
spalla. Mentre si voltava, la ragazza vide con la coda dell'occhio il
segno rosso e frastagliato dell'ustione e i ricordi minacciarono di
assediarle nuovamente la mente, distruggendo ogni scampolo di luce che
era riuscita a preservare.
Fortunatamente qualcuno bussò alla porta e i ricordi si
dispersero come uccelli appollaiati su un albero dopo il suono di uno
sparo.
«Lucia!». La voce di Madame Fantine aveva un suono
strano, scocciato.
«Entrate pure». La ragazza ripose il libro sulla
mensola, dietro a un vaso di porcellana, come a nasconderlo, e si
sistemò il vestito, mentre la maîtresse dell'Araba
Fenice entrava quasi a passo di marcia nella stanza, in un tintinnio di
braccialetti e orecchini vistosi come lampadari.
«Scusate, Lucia» fece sbrigativa la donna. Il fatto
che le desse del voi e che le si rivolgesse con una certa premura era
un'abitudine nata quando lei aveva cominciato a diventare famosa tra i
clienti del bordello. Non che Madame Fantine fosse una persona
sgradevole, di solito, ma il suo lavoro la portava ad essere
doverosamente pratica e spiccia con le sue ragazze.
«Scusate, ma se non venivo quello era capace di stare qua
tutta la sera. Che scocciatura» esordì la donna;
Lucia non capì ma lanciò a Madame uno sguardo per
incitarla a spiegarsi. «C'è uno che ha chiesto di
voi... ha chiesto di
voi e io gli ho detto di no, ma quello ha insistito e ha detto che ve
lo dovevo venire a dire».
Madame Fantine non usava mai quel tono davanti ai clienti, era
meravigliosamente ossequiosa con tutti loro, ma quando parlava a porte
chiuse tutti i signori diventavano quello.
«Non ditemelo: è il Maestro francese»
fece Lucia, tradendo una certa sorpresa. Non era certa che l'uomo si
sarebbe presentato, ed erano passati già quattro giorni da
quando ne avevano parlato.
«Eh, quello lì. Ma perché? Lo sapevate
che veniva? Io gli ho detto che voi non ricevete ma lui si è
fatto brutto brutto e ha insistito»
«Non preoccupatevi, lasciatelo passare».
Madame Fantine fece una tale espressione sorpresa che le sopracciglia
quasi sparirono sotto l'attaccatura della parrucca a boccoli bianchi.
« Overamènte?!»
«Sì, veramente». Lucia sorrise con
dolcezza allo sguardo perplesso della donna, come a sottolineare che
era tutto a posto e che non c'era niente di cui preoccuparsi.
Madame annuì, ancora poco convinta.
« Vabbuò...
lo vado a chiamare» concluse uscendo con passo felpato dalla
stanza.
*
Varcare quella soglia non era stato facile. Erik aveva il sentore che
niente sarebbe stato facile quella sera e si era chiesto per l'ennesima
volta che cosa stava facendo lui lì.
In quel mese aveva avuto tutto ciò che aveva sempre
desiderato: la direzione di uno spettacolo teatrale, una compagnia di
artisti decentemente competenti che pendevano dalle sue labbra,
l'ammirazione delle persone per il suo genio, persino l'interesse di
una donna che molti uomini avrebbero fatto carte false per avere nel
proprio letto. E lui era finito lì, in un bordello nel cuore
di Napoli...
La risposta più sensata che aveva trovato alla domanda era
che necessitava di qualcosa che fosse solo suo, un angolo di buio dove
era lui a decidere, gestire, controllare. Il fatto che il terreno su
cui si muoveva gli era tremendamente estraneo era un particolare a cui
preferiva non pensare.
Avrebbe potuto cedere alle lusinghe di Graziana, era la scelta in
apparenza più sensata... ma Erik si era dato una lunga lista
di motivi per giustificare con se stesso il fatto di aver scartato
quell'opzione. In primo luogo non amava l'iniziativa altrui e le
iniziative di Graziana erano più che mai prepotenti. In
secondo luogo non stimava quella ragazza. Certo, non stimava nemmeno
Lucia che conosceva a malapena, ma il fatto di essere lui ad aver
scelto lei lo faceva sentire assai meno a disagio.
Mentre varcava la soglia dell'Araba Fenice e veniva investito
dall'odore di fiori, Erik si vide costretto a mettere da parte ogni
elucubrazione e a ritenere ogni moto della ragione assolutamente non
valido. Ormai era lì, aveva semplicemente deciso
così...
Past the point of no
return,
the final threshold...
Erano passati solo due mesi da quella sera terribile, dal momento in
cui ogni sua speranza si era rivelata vana e illusoria. E per quanto
buio e per quanto nulla ci fosse dentro di lui, quell'amore non era mai
andato via, anche se ogni tanto riusciva a concedersi di credere che il
nulla avesse vinto anche sui suoi sentimenti per Christine.
Tuttavia, in quei mesi, Erik era diventato bravo a seppellire le
proprie emozioni, a celare il fastidio e lo smarrimento quando
interagiva con quel mondo incomprensibile. Era riuscito a domare i
fantasmi e fin tanto che teneva la guardia alzata, fin tanto che
parlava a se stesso del presente attraverso le pagine del suo diario,
il passato rimaneva silente nell'angolo in cui lui voleva che restasse.
Lasciare quel passato e il ricordo ancora troppo doloroso e lucente di
quell'amore folle fuori dalla soglia della palazzina era stato come
sentire ancora una volta la propria anima evaporare e sfuggirgli dalle
dita come se non fosse altro che un filo di fumo.
L'ingresso dell'Araba Fenice era una saletta rettangolare, adorna di
specchi e sofà damascati, con enormi vasi di porcellana
madreperlata pieni di fiori. L'atrio era illuminato a giorno da un
lampadario e da miriade di candele che riflettevano la loro luce negli
specchi amplificandone l'intensità. Per contrasto, il
corridoio che si apriva nell'angolo a destra era buio e privo di
illuminazione.
Sui sofà, c'erano tanti signori ben vestiti che bevevano
vino da calici di cristallo e discorrevano amabilmente con le ragazze.
Ragazze anche loro ben vestite, dall'aspetto curato, senza abiti
succinti né niente che le rendesse volgari o lascive. Se non
fosse stato al corrente di trovarsi in un bordello, Erik avrebbe
scambiato quel luogo per il salone di ingresso di una casa qualsiasi in
una serata di festa.
Nessuno badava agli altri che erano intorno; signori che alla luce del
giorno si sarebbero salutati con fare ossequioso, lì
potevano persino fingere di non conoscersi, in una sorta di muto
accordo che prevedeva che quel luogo fosse una sorta di zona franca,
dove non esistevano nomi, titoli o formalità. Nessuno fece
caso nemmeno a lui, forse solo un paio di sguardi indugiarono qualche
secondo sulla mezza maschera bianca, ma Erik non fece in tempo a
notarlo perché una donna venne verso di lui.
«Madame Fantine, al vostro servizio» disse lei con
un inchino.
L'uomo capì subito che, a dispetto del nome, la signora era
francese tanto quanto lui era napoletano. E comunque, Madame Fantine
era un vero e proprio monumento al grottesco, con quella parrucca
incipriata e quel vestito dai colori sgargianti. A guardarla, Erik
pensò che ogni minima speranza di sentirsi a proprio agio in
un luogo come quello stava miseramente scemando, tuttavia si costrinse
al suo solito contegno signorile e composto e accennò una
sorta di leggero inchino.
«Buona sera, Madame» disse. «Vorrei poter
vedere la signorina Lucia. Potreste essere così gentile da
annunciarmi?».
La donna inclinò il capo di lato, tanto che Erik temette che
le scivolasse via la parrucca. Dopo un primo attimo di
perplessità, la maîtresse sorrise amabilmente in
uno sfarfallio di ciglia truccate.
«Temo che sia impossibile, signore. Ma potrei presentarvi
a...»
«No. Dite solo a Lucia che sono qui».
Madame Fantine aggrottò la fronte, cominciava a mostrare un
certo fastidio. Forse troppe volte aveva dovuto ripetere quella scena
con altri signori che era venuti a chiedere della ragazza. Forse era
già tanto tempo che avevano smesso di chiedere di lei.
«Mi dispiace davvero, ma sono certa che Lucia non vi
può ricevere» tentò di dire la donna,
conservando uno scampolo della sua professionale cortesia.
«Sono certo del contrario» replicò Erik
senza scomparsi. «Dunque, volete farmi attendere ancora a
lungo, Madame? Vi credevo assai più celere ed ospitale, o
forse la fama della vostra casa è immeritata?».
Sentendosi certamente punta nel vivo, la donna restò
immobile a fissare l'uomo con aria di sfida. Dopo qualche secondo
l'espressione del Maestro però la fece desistere dalla sua
ostinazione e lei sospirò stizzita.
«Provo a dirle che siete qui» capitolò.
«Ma temo che avete perso il vostro tempo, oltre che ad avermi
fatto perdere il mio».
Madame Fantine sparì nel buio del corridoio e ne riemerse
alcuni minuti dopo con una faccia talmente ridicola e sorpresa che Erik
non ebbe nemmeno voglia di infierire e farsi dare atto del suo piccolo
trionfo.
La donna non disse niente, gli fece cenno di seguirlo e lo
accompagnò nel corridoio, uno stretto ambiente in fondo al
quale si apriva una scalinata di marmo e sul quale affacciavano solo
due porte.
Il passaggio dallo sfavillio dell'ingresso al buio del corridoio
segnava davvero il punto di non ritorno, oltre il quale le maschere dei
signori ora raccolti nella sala forse cadevano una volta per tutte,
insieme ai vestiti delle ragazze.
Erik si costrinse a continuare a camminare verso la seconda porta,
quella più vicina alla scala.
«È qui, vi aspetta» sussurrò
Madame Fantine con la voce bassa e cauta che si usa quando si parla in
una chiesa.
Erik bussò alla porta.
La stanza, elegante e ordinata, era tappezzata di azzurro. Sulla parete
a sinistra era disposto gran parte del mobilio, un armadio, uno
scaffale con – incredibile a dirsi – diverse decine
di libri e un tavolino da toeletta. Sulla parete di destra c'era un
piccolo scrittoio, una chaise longue di velluto blu e un paravento con
i pannelli di tela a righe colorate.
Erik si sentì terribilmente estraneo, un intruso in un mondo
che non gli apparteneva, che gli sembrava quasi di violare.
Lucia era seduta davanti allo specchio, si alzò appena lo
vide entrare e restò a fissarlo con uno strano sorriso.
«Buonasera, signore» gli disse. «Non
credevo sareste venuto».
Erik notò il suo sorrisetto indecifrabile e
arricciò le labbra.
«Non capisco se la cosa vi diverta o vi arrechi
disturbo» ammise ritrovando tutto il suo temperamento algido
e distaccato.
«Nessuna delle due, potete credermi». C'era una
strana, soave dolcezza nel tono che aveva assunto la voce della
ragazza. «Ad ogni modo, potete venire avanti, il tappeto non
vi morderà, ve lo prometto».
Alla fine fu lei ad avvicinarsi e allungò una mano verso di
lui. Erik fissò quella mano con un'espressione che doveva
davvero sembrare ostile.
«Voglio solo aiutarvi a togliere la giacca»
sospirò infatti Lucia. «Non mi sembrate
particolarmente avvezzo a questo genere di cose».
Sentì una morsa allo stomaco, non quella sensazione
sgradevole di agitazione che provava con Graziana, né il
fastidio che sentiva quando si trovava da solo a dover parlare con
altre persone, ma non gli piacque comunque... non gli piaceva la voce
che nella sua testa rideva di lui e che gli intimava di lasciar cadere
anche le sue maschere. No, non la maschera che portava sul viso, ma le
altre, tutte le altre...
Erik dovette fare uno sforzo immane per mettere insieme quelle parole,
ma la consapevolezze delle cose in comune che sapeva di avere con la
ragazza gli aveva fatto capire in quel momento che non avrebbe potuto
nasconderle certe cose. E poi, lei era abituata a trattare con gli
uomini, avrebbe certamente capito anche se lui non glielo avesse
detto...
«Se vi dicessi che non sono affatto avvezzo a
questo genere di cose?» disse.
Lucia ristette, poi scrollò le spalle come se fosse davvero
una cosa di poco conto. Erik sentì lo stomaco fare una
capriola.
«Direi che rende la cosa solo più
interessante» concluse lei.
L'uomo ebbe uno scatto, una scintilla dell'antica furia gli
attraversò il cervello e si ritrovò a muoversi
verso di lei e afferrarle il braccio in una presa salda e violenta.
«Vi prendete gioco di me?!».
Ecco... lo sapeva, lo sapeva che era stato un errore. Come aveva anche
solo potuto pensare di gestire una simile situazione? Come aveva potuto
pensare che i fantasmi non avrebbero approfittato di ogni sua minima
debolezza per uscire allo scoperto?
Ma se la voce dei fantasmi aveva tuonato tra quelle quattro pareti,
Lucia non sembrava averci fatto caso. La ragazza si limitò
ad appoggiare una mano su quella di Erik e scostargliela via con un
gesto deciso, poi semplicemente gli sfilò la giacca e la
andò a sistemare con cura sulla spalliera della sedia.
«Dicono che noi puttane siamo meravigliosamente capaci di
mentire con gli uomini» disse lei, senza che la sua voce
perdesse un solo grammo della dolcezza di un minuto prima.
«Per quel che mi riguarda, non dico menzogne agli uomini che
non vogliono sentirne. Se non volete menzogne da me vi assicuro che non
ne avrete».
«A volte ho la sensazione che non si possa stare al mondo
senza ricorrere alle menzogne» replicò Erik torvo.
«Signore mio! Questo non è il mondo, questa stanza
è come un confessionale» borbottò Lucia
con una punta di sarcasmo. «È per questo che
ritengo che dovreste fidarvi di me, fintanto che siamo qui
dentro».
Il suono confidenziale e ironico di quelle parole fece sentire Erik
vagamente meno inquieto.
«Tutto ciò ha un che di minaccioso,
signora» rispose con un mezzo sorriso.
«Sciocchezze. Non avreste potuto incontrare persona meno
pericolosa di me».
E tu non avresti potuto
incontrare uomo più pericoloso di me, ragazza...
«Ad ogni modo, mi dicono che in teatro quasi nessuno conosce
il vostro nome» aggiunse Lucia. «Volete dirlo a
me?».
«Se proprio occorre... potete chiamarmi Erik».
«Siete ancora sulla porta, Erik».
L'uomo non se ne era accorto. Si maledisse per quanto doveva esserle
sembrato ridicolo e fece qualche passo verso il centro della stanza,
guardandosi attorno e indugiando a fissare l'ampio letto dall'alta
testata di ciliegio. Faceva dannatamente freddo in quella stanza, anche
se fuori di lì la primavera era già esplosa in un
susseguirsi di giornate miti e soleggiate e le sere erano scompigliate
dal soffio tiepido dello scirocco.
«Volete concedermi un minuto?» chiese Lucia.
«Confesso che non ero preparata al vostro arrivo. Voi intanto
sedete».
«Prendete tutto il tempo che vi occorre» concesse
lui, avvicinandosi alla libreria e scrutando curioso i titoli dei
volumi posati sugli scaffali.
Lucia sparì dietro al paravento, dal lato opposto della
stanza. Erik sentì il rumore della stoffa del vestito
scivolare via, e la tensione gli fece quasi provare un conato di
vomito. Tornò a guardare i libri; pensare a quegli oggetti
almeno lo distraeva.
I volumi erano tutti in italiano, molti di quei titoli li aveva solo
sentiti nominare. Erano tutti romanzi, certo Lucia non doveva essere
una conoscitrice di scienza e filosofia, ma il fatto che leggesse e che
si esprimesse in un modo così corretto la faceva sembrare di
certo un gradino al di sopra delle altre ragazze nella sua stessa
condizione.
«Volete che faccia portare qualcosa da bere?»
chiese la giovane da dietro al paravento.
«Non per me, vi ringrazio»
«Ah, signore, non avete vizi? Allora è vero
ciò che si dice, che vivete solo per la musica».
Se solo tu sapessi,
ragazza. Se solo tu sapessi...
Lucia riemerse da dietro al paravento. Si era tolta il vestito, portava
una camicia da notte di lino bianco e sopra una vestaglia di spesso
cotone allacciata in vita.
Erik la osservò venire verso di lui. Era certamente
graziosa, di quella bellezza semplice e fresca delle giovani donne,
ingentilita maggiormente da quei suoi modi composti, ma il suo aspetto
non aveva niente di particolarmente straordinario, non era tanto
più bella di altre giovani della sua età, di
certo non era più bella di Graziana. L'uomo si
ritrovò a chiedersi cosa l'avesse resa la prostituta
più popolare di Napoli quando era evidente che non era
l'aspetto il suo maggior pregio.
Lucia lo guardò per qualche secondo, sembrava un po'
impensierita e forse si stava chiedendo che cosa fare.
«Dunque, rammentatemi quali sono le condizioni» gli
disse poi.
«Ce n'è una sola, e la conoscete
già» rispose Erik. Non le avrebbe chiesto niente
se non di non togliergli la maschera, ed era certo che lei non sarebbe
venuta meno a quest'unico desiderio, dopotutto, come aveva detto, aveva
anche lei qualcosa che non voleva che le venisse tolta.
«Ditemi piuttosto quali sono le vostre».
Lucia sorrise tranquilla,
«Spero vorrete essere così gentile da lasciare la
mia camicia da notte esattamente dove si trova, lì ad
altezza delle spalle» concluse.
Alla fine, si voltò con noncuranza e si diresse verso il
letto, si mise a sedere con la schiena contro la spalliera, cingendo le
gambe con le braccia.
«Venite qui, non mordo, proprio come il mio
tappeto» aggiunse, battendo una mano sul posto vuoto accanto
a sé.
Erik si andò a sedere nell'angolo opposto del materasso e la
fissò. All'improvviso Lucia sorrise in un modo strano, fu il
sorriso più tenero che lui avesse mai visto sul viso di una
donna... un sorriso che sarebbe potuto comparire solo sul viso di una
donna perché era un sorriso di una madre, di una sorella e
di un'amante nello stesso tempo.
«Parlatemi» gli disse con voce tranquilla.
«Parlatemi della Francia...».
*
Il sole entrava timido dalla finestra alla destra del letto. Erik
aprì gli occhi e considerò che doveva essere da
poco sorta l'alba, non era troppo in ritardo per la sua passeggiata in
riva al mare ma non riusciva a muoversi. Non sapeva se era bene
svegliare la ragazza o semplicemente sgattaiolare via prima che lei si
destasse. Probabilmente per lei non avrebbe fatto molta differenza, ma
l'uomo era quasi certo che se si fosse mosso l'avrebbe svegliata e
sentiva su di sé tutto il goffo imbarazzo di chi non
è abituato a dividere il letto con un'altra persona, motivo
per il quale si era ritrovato a dormire nell'angolo di materasso
più distante possibile da lei.
Voltò piano la testa a spiare Lucia stesa su un fianco,
girata nella sua direzione. Dormiva così tranquillamente che
Erik si chiese se quella giovane donna non fosse abituata ai fantasmi
più di quanto lui potesse immaginare. Dovevano esserne
passati tanti in quella camera evidentemente, i fantasmi che ogni uomo
si porta dentro, forse meno tremendi dei suoi, ma comunque capaci di
urlare e dibattersi nel tentativo di soffiare il loro gelo sopra il
calore di un abbraccio, di una carezza, di un bacio...
Perché lei lo aveva baciato. Il ricordo più
nitido della sera precedente era proprio quel primo bacio tenero,
paziente, quasi discreto per un contatto così intimo. A
dirla tutta, ogni singola azione della ragazza era stata permeata di
tenerezza e pazienza ed Erik aveva sempre immaginato che era
così che dovessero essere le donne nel profondo, tutte le
donne.
Lucia scivolò piano di lato, finendo stesa supina con il
viso che affondava nei cuscini. La camicia da notte si
scostò appena rivelando una linea scura e irregolare sulla
pelle della spalla sinistra, il segno di un'ustione chissà
quanto profonda, chissà quanto estesa. Erik non lo voleva
sapere, non avrebbe dovuto vedere, faceva parte del patto. Con estrema
delicatezza, prendendo con due dita il bordo della veste,
ricoprì la spalla scoperta e sospirò.
D'accordo, doveva andarsene da lì. Doveva...
«Buongiorno».
La voce di Lucia era impastata dal sonno, per poco non lo fece cadere
dal letto. La ragazza si voltò tirandosi le coperte fin
sotto al mento e gli lanciò uno sguardo ancora annebbiato.
«È usanza comune rispondere a un saluto»
lo informò sarcastica.
«Scusate... buongiorno» borbottò lui.
«Va già meglio». Lo guardò
ancora qualche istante, poi sorrise in quel suo modo assolutamente
indecifrabile che faceva contorcere lo stomaco di Erik come uno
straccio. «Andrebbe notevolmente meglio se non aveste
quell'espressione smarrita».
«Non mi siete di aiuto se vi burlate di me»
«Invece credo che se foste un po' meno serio e severo con voi
stesso vi aiutereste benissimo».
Erik non rispose, Lucia gli lanciò un ultimo sorriso e si
alzò dal letto recuperando la sua vestaglia. Lui non era in
animo di mostrarsi bellicoso con quella ragazza, non dopo che le aveva
lasciato abbattere quasi tutte le sue difese. Che poi, non è
che glielo avesse lasciato fare, era semplicemente successo e lui non
era stato in grado di opporsi. Tuttavia, non gli sembrava tollerabile
il fatto che lei ora fosse così sfacciata; non aveva bisogno
dei suoi consigli.
L'uomo osservò per qualche secondo la ragazza che si muoveva
per la stanza, raggiungeva lo specchio e si pettinava i capelli.
C'era un che di assurdo in quella situazione e cominciava a maledirsi
per l'essere rimasto lì a dormire. Non aveva intenzione di
farlo, ma aveva semplicemente preso sonno senza accorgersene, non si
era mia sentito così stanco.
Notò i suoi vestiti piegati ordinatamente sulla seduta della
sedia accanto alla finestra. Si era svegliata nel cuore della notte e
li aveva piegati lei?
Lucia si voltò a guardarlo.
«Dunque, vi lascio solo. Dietro al paravento troverete tutto
quello che vi serve» disse, poi gli si avvicinò e
gli depose un bacio sulla tempia sinistra lasciata scoperta dalla
maschera.
Non attese risposta, perché probabilmente sapeva che non ce
ne sarebbe stata una e lasciò la stanza.
Una volta uscito dalla palazzina, Erik trovò ad accoglierlo
il silenzioso vuoto della piazza. La locanda Notte 'e vierno era
chiusa, sedie spaiate erano appoggiate alla rovescia sul tavolo e gli
unici rumori che arrivavano ovattati e distanti erano quelli degli
scuri delle finestre che venivano aperti e dei portoni che si
richiudevano alle spalle di chi usciva per andare a lavoro.
Affrontare Madame Fantine all'uscita era stato quasi penoso, quella
donna lo guardava con aria vagamente indispettita. Forse non era
abituata a non essere messa al corrente di cosa sceglievano di fare le
ragazze della sua casa. Era stato penoso anche pagarla per la notte
trascorsa lì, era una cosa che andava contro ogni suo
principio... o almeno così era stato, una volta. Ma appena
si era chiuso il portone della palazzina dietro di lui, Erik aveva
avuto la sensazione che ogni cosa fosse tornata al suo posto.
Aveva camminato tranquillo fino al lungomare e si era poggiato alla
grossa ringhiera che costeggiava la strada.
Il mare era calmo, piatto come una tavola, e faceva da specchio alle
forme delle rade nuvole che si rincorrevano nel cielo scintillante di
azzurro. Il rumore delle onde era appena percettibile, ma ben presto,
quel suono lieve coprì ogni altro suono, ogni rumore della
città che alle sue spalle cominciava a mettersi in moto,
diventando quasi ipnotico e facendo riaffiorare nella mente di Erik i
ricordi della sera precedente.
Respiri... respiri che
si inseguono in una corsa sempre più frenetica. Per lunghi
secondi non c'è nient'altro. Il bisogno d'aria si fa
così pressante che copre tutto, anche i brividi che salgono
improvvisi, anche quelle ondate piacevoli che sono quasi fitte di
dolore.
Il mondo è un
rettangolo di luci fatue fuori dalla finestra, stelle e lampioni che si
fanno concorrenza, molto lontano da lì.
Nei pensieri dell'uomo
all'improvviso c'è solo il rumore di vetri rotti. Poi tutto
precipita e c'è di nuovo solo respiro. E lei gliene porta
via un pezzo, posando le labbra sulle sue. La sente sorridere contro la
sua bocca. Sente tutti i sorrisi che non ha mai avuto in quel caos di
sensazioni nuove, e lui si sente in bilico tra la tenerezza e la
violenza, serra un lembo di lenzuolo tra le dita e si china a cercare
ancora le sue labbra soltanto per sentire se c'è ancora il
sorriso su di loro. E si sente così alla deriva,
così arreso mentre il freddo della stanza si infrange come
un'onda contro la sua pelle nuda... arreso più a se stesso
che a lei.
Ed è
esattamente come deve essere, è solo umanità
nella sua forma più giusta e lui di giustizia ne sa
così poco, e forse è per questo che gli viene da
chiedersi come mai, dopotutto, fa così male.
La ragazza scioglie
l'abbraccio, ora le sue mani affondano tra i cuscini e i suoi occhi
sono aperti, due pozze nere. Forse è per questo che fa
male... o forse c'è luce lì in fondo, da qualche
parte...
Certo che c'è
luce! Una luce che esplode e poi si spegne sulla punta delle dita tese
ad afferrarla. Nella sua scia luminosa restano solo respiri spezzati
che tentano di tornare regolari.
_________________________
Avviso:
La prossima settimana non ci sarà
l'aggiornamento perché, cause di forza maggiore, quasi
sicuramente sarò senza computer. Anche per la settimana
ancora successiva non prometto niente, ma per la fine del mese dovrei
riprendere ad aggiornare regolarmente.
Intanto, spero che il capitolo non vi abbia fatto venire il diabete e ne approfitto
per augurare una buona Pasqua a chiunque passi di qui in questi giorni.
... your obidient
servant.
|
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Capitolo 14 *** Mastro Pulcinella ***
Capitolo tredicesimo
Mastro Pulcinella
~ Napoli, 23 novembre 1870 ~
Aveva creduto davvero che sarebbe morta. Mentre il fumo copriva tutto e
le toglieva l'aria, l'unica cosa a cui era stata in grado di pensare
era quanto fosse tremendo morire poco dopo che si è trovata
una ragione vera per cui vivere. Perché lei l'aveva trovata
una ragione per cui vivere, ne era certa. Era certa che lui, il suo
André, sarebbe stato lì ad aspettarla quella
sera, quando sarebbe rientrata, che l'avrebbe portata via, lontano...
sì, perché per lui avrebbe lasciato anche la sua
amata città, avrebbe lasciato ogni cosa. E la paura che
aveva avuto di perderlo il quei giorni, l'idea che ci fosse un'altra
donna che si stava mettendo tra di loro, era solo un pensiero sciocco,
la congettura assurda di un cuore troppo innamorato. Ah,
perché lo amava, così irrimediabilmente, amava
quel folle, vanesio, strambo ragazzo francese. E lui amava lei, certo.
Anche se l'aveva lasciata andare da sola a quella festa in campagna,
non voleva dire che fosse con un'altra, non voleva dire proprio niente,
perché lei lo avrebbe trovato lì ad aspettarla
per lasciarsi portare in capo al mondo, ovunque...
Ma il suo bellissimo André avrebbe atteso invano. Lei non
sarebbe mai più tornata, non sarebbe uscita da quell'inferno
e sarebbe stata confinata in un infinito girone di dannazione a
rimpiangerlo per sempre.
Il crepitare del fuoco era un rumore fortissimo e assordante, non le
era mai parso così tremendo quando da bambina guardava i
pupazzi di paglia bruciare la notte di Sant'Antonio. Non le era mai
parso così aggressivo, così ostile,
così crudele.
Il fuoco sembrava avere una voce, sembrava ridere e sembrava gridarle:
« Sei mia!
Mia... miamiamia!».
Il dolore la inchiodava al pavimento più del peso di quella
trave che le era crollata addosso. Era un dolore da smarrire il senno,
che affondava dentro di lei come una lama, come mille lame che
pugnalavano contemporaneamente lo stesso angolo di pelle. Lo aveva
sentito, l'odore nauseabondo del suo corpo che bruciava, la stava
accompagnando verso l'inferno ed era un viaggio senza ritorno.
Il fumo poi si fece più grande di qualsiasi cosa, come
un'enorme muraglia fatta di briciole di cenere che danzavano nel vuoto,
sovrastò tutto, l'aria, la luce, il fuoco stesso.
Sovrastò anche lei e Lucia chiuse gli occhi pensando che non
li avrebbe riaperti mai più.
Invece li riaprì, attorno a lei c'era l'azzurro dolce e
accogliente della sua stanza all'Araba Fenice e un tremendo olezzo di
fiori che le fece venire un conato di vomito. La stanza traboccava di
fiori, come una cappella del cimitero subito dopo un funerale. Quei
fiori erano l'ultimo omaggio di una città che l'avrebbe
dimenticata nel giro di poche settimane, ma lei ancora non poteva
saperlo.
Lucia spalancò gli occhi, l'azzurro e il colore dei fiori
furono sommersi da scintille scure che le appannarono la vista. Il
dolore alla spalla era lancinante, la giovane premette il viso contro
il cuscino per soffocare il grido e pregò di perdere di
nuovo i sensi, pregò di morire piuttosto che doverlo
sopportare di nuovo.
Era stesa a pancia in sotto, quando fu in grado di guardarsi attorno
vide il viso di Madame Fantine chino su di lei e sentì i
bisbigli delle altre ragazze accalcate accanto alla porta.
«Si è svegliata, si è
svegliata...» mormorarono
« Lassa
ffà a Maronna*!».
«Ssst, oche! Andatevene a starnazzare da un'altra
parte» le rimproverò Madame Fantine, agitando le
mani come se stesse allontanando un insetto molesto.
Le ragazze sgusciarono via; nella stanza ora c'erano solo lei e Madame.
«Dov'è?» disse Lucia, mettendo assieme a
fatica il fiato necessario a pronunciare quelle parole. Lo sguardo
della donna al suo capezzale era colmo di risposte troppo tristi per
essere anche solo prese in considerazione. Il dolore alla spalla la
inchiodava lì, le spezzava il respiro, le annebbiava i
pensieri.
«Potete... potete mandarlo a chiamare?...». Stava
implorando.
«L'ho già fatto. Non è
venuto».
Lucia credeva che non ci fosse niente di peggio di quel dolore assurdo
che aveva sentito, ma adesso qualcosa di molto più terribile
la stava straziando dall'interno.
Scoppiò in un pianto disperato, dibattendosi contro il
materasso. Ad ogni movimento la spalla pulsava, bruciava, formicolava.
Il dolore era esteso dalla scapola fino all'interno del braccio, e
arrivava quasi ad altezza del gomito, ma non le importava.
Il dottore le aveva detto che doveva restare immobile il più
possibile perché la ferita da ustione si rimarginasse al
meglio. Lo sfregio sarebbe rimasto per sempre, ma se fosse riuscita a
far risanare la pelle nel modo adeguato non avrebbe corso il rischio di
perdere la funzione muscolare e quindi l'uso del braccio. Veniva a
somministrarle regolarmente generose dosi di morfina per il dolore, le
disse che lentamente sarebbe sparito anche quello.
Non le importava, c'era un dolore assai più profondo per il
quale non esistevano medicine.
Ah, ma doveva esserci una spiegazione. Andrè non l'avrebbe
mai lasciata, non così. Forse l'aveva creduta morta, forse
il messaggio di Madame Fantine non gli era arrivato. Doveva vederlo.
«Non esiste proprio che voi lasciate questa
stanza!» aveva esclamato Madame quando lei le aveva detto che
sarebbe uscita e sarebbe andata a cercarlo.
Non aveva la forza di questionare, lasciò che la donna
sbuffasse e imprecasse e che poi se ne andasse. Lasciò che
il medico venisse a somministrarle la dose serale di morfina, e
lottò per lunghi minuti contro l'effetto del farmaco, non
voleva dormire, voleva solo che le andasse via il dolore quel tanto che
bastava per reggersi in piedi.
Vestirsi fu un supplizio tremendo; la pelle dalla spalla
all'avambraccio era tesa, i muscoli non sembravano rispondere a dovere,
ma alla fine ce la fece. Uscì di nascosto, dal retro del
palazzo, avvolta in un pesante mantello di lana per proteggersi dal
freddo. Percorse quasi trascinandosi il labirinto di viuzze che
spuntava sul viale davanti al San Carlo, costeggiò Palazzo
Reale e poi voltò a destra, verso il lungomare con le gambe
che tremavano e sembravano sul punto di spezzarsi per l'effetto della
morfina, ma lei proseguì e spuntò in quella
strada dove affacciavano tutti gli alberghi e i ristornati che
attraevano i turisti e i signori benestanti. C'era stata tante in volte
in quasi tutti quei posti bellissimi, c'era stata anche con
André, sapeva che lui doveva essere lì, alla
Ginestra, era il suo preferito.
Si avvicinò cauta alla vetrina, all'interno era tutto bianco
e giallo, con enormi ginestre disegnate sulle pareti. E lui era
lì... lì con lei, le loro mani erano intrecciate
sulla tovaglia color oro, i loro visi sorridevano. Erano lontanissimi,
oltre quel vetro, lontanissimi da lei, dalla sua pena, dal suo dolore.
« Vattenne!»
borbottò una voce aspra. Un cameriere era uscito e l'aveva
spinta via con fare brusco, forse l'aveva presa per una mendicante.
No, no... voglio stare
qui e guardare... voglio che mi si fermi il cuore con la loro gioia!
L'avevano trovata la mattina dopo, all'alba, sotto il porticato del
teatro. Lei non ricordava nemmeno come aveva fatto ad arrivarci, con
quale forza aveva percorso la strada del ritorno fin lì,
prima che la disperazione e la morfina avessero la meglio.
Si era risvegliata nuovamente nella sua stanza. Madame Fantine era
furiosa, ma cercava di trattenersi.
«Cosa vi ho fatto, eh? Lucì, cosa vi ho fatto per
farmi morire di paura? Come vi è venuto in
testa?». La donna ripeteva ossessivamente quelle domande,
tormentandosi la gonna e alzando le mani al cielo.
«Dovevo vedere...» rispose debolmente la ragazza.
«Dovevate vedere? Ma che cosa volevate trovare?! Non lo
sapete che per quelli come noi l'amore non ci sta?».
Era vero. Era stata sciocca lei a credere il contrario...
«E comunque» continuò Madame con il tono
colmo di ansia. «Il dottore dice che vi è andata
bene stavolta! Ma se fate un'altra sciocchezza va a finire che quel
braccio ve lo dobbiamo tagliare!».
Che lo tagliassero! Che la facessero a pezzi... tanto ormai di lei
rimaneva così poco...
*******
~ Napoli, 22 aprile 1871 ~
«E dai, com'è che non ci volete dire niente?
Così brutto è stato?» disse Carla, una
delle più giovani ragazze che lavoravano all'Araba Fenice,
versando altro olio sulle verdure lessate.
Madame Fantine aveva fatto di quella casa una sorta di collegio. Aveva
attrezzato il retro della palazzina perché fungesse da
cucina e refettorio, aveva assunto delle cameriere che si occupassero
di sistemare le stanze e preparare i pasti. Le ragazze vivevano
lì, tutte assieme, e non sentivano la miseria. Era
più di quanto potevano aspettarsi giovani donne sventurate
come loro e Lucia era certa che tanto bastava a Madame per essere in
pace con se stessa. Certo, doveva dargliene atto, aveva sentito di
altre case di malaffare dove le cose andavano veramente male per chi ci
lavorava. Lì, tutto sommato, tra la clientela di alto rango
e il posto confortevole, quelle esistenze da esiliate potevano
assomigliare a vite normali.
«E dai, Lucì, raccontate!» aggiunse
un'altra ragazza.
«Eh, raccontate, che mi sta venendo il curioso pure a
me» si intromise Madame Fantine. «Com'è
sto signore?».
Lucia si strinse nelle spalle. Quei discorsi erano di prassi, le
ragazze non facevano altro che parlare dei loro clienti e non c'era
segreto che potesse essere tenuto tra quelle pareti, anche se nessuno
di quei segreti sarebbe mai uscito dalla palazzina; era una sorta di
dovere che Madame Fantine riteneva di avere verso i suoi clienti. Le
ragazze potevano spettegolare tra loro quanto volevano, ma di quei
pettegolezzi nemmeno una virgola doveva varcare la soglia dell'Araba
Fenice.
«Non c'è veramente niente da dire» disse
Lucia scuotendo il capo.
Oh, in realtà ci sarebbe stato molto da dire, ma non del
genere di cose che alle ragazze si sarebbero divertite ad ascoltare.
Certo, il fatto che Erik non fosse mai stato con una donna prima di
quella sera avrebbe potuto essere un interessante argomento di
discussione, ma non era un pettegolezzo che Lucia aveva voglia di
condividere e il resoconto della serata non avrebbe avuto molto senso
se avesse celato quel particolare. Non sarebbe riuscita a spiegare in
altro modo la strana, goffa dolcezza di Erik nel momento dell'amplesso,
né il suo algido e imbarazzato distacco dopo.
«E voi mi volete far credere che uno come quello
lì è normale?» sbottò Madame
Fantine ridendo.
«Assai più di molti altri uomini con i quali ho
avuto a che fare» dichiarò Lucia. Il che, da un
certo punto di vista, era vero.
«Ma che ha detto? Che torna?» chiese Carla con
interesse.
«E certo che torna! Quando mai uno non è tornato
da Lucia!».
Questo invece non era affatto vero.
*
Guglielmo si alzò di scatto, buttando per aria lo sgabello
che cadde facendo una baccano di inferno quando andò
sbattere contro le assi di legno del palcoscenico.
Erik non lo credeva possibile, ma il giovane Marchesi era arrossito
più del solito, in quel momento la sua faccia si sarebbe
mimetizzata perfettamente tra le pieghe del sipario color cremisi.
«Oh, Maestro» squittì il direttore del
San Carlo. «Mi avete spaventato».
Erik gli si avvicinò e gli batté una mano sulla
spalla. Il gesto sorprese entrambi gli uomini.
«Stavate suonando. Non sapevo che sapeste suonare»
disse il musicista straniero.
Guglielmo si passò i palmo delle mani sul davanti della
giacca e boccheggiò nel tentativo di mettere insieme qualche
parola.
«Io... ehm, sarei diplomato al Conservatorio, sapete? Ma la
parola suonare pronunciata da voi assume tutto un altro
significato».
Erik inarcò il sopracciglio. Era lì da un mese e
non aveva mai saputo che Marchesi era un musicista – un
discreto musicista, a giudicare da ciò che aveva appena
sentito. Quando il duca gli aveva raccontato la storia del figlio del
banchiere si era limitato a spiegargli che Guglielmo si era ritrovato,
del tutto impreparato, a ricoprire la carica di direttore del teatro
solo perché costretto dalle ambizioni della famiglia. Lui
non si era mai dato pena di scoprire di più.
Aveva sempre considerato gli altri come degli strumenti ed era certo
che in quella situazione fosse egli stesso nient'altro che un mezzo per
salvare Marchesi dalla triste figura che avrebbe fatto se non fosse
riuscito ad allestire lo spettacolo secondo i desideri del sindaco. Non
c'era nient'altro, era certo che le azioni umane fossero, per lo
più, spiegabili con l'opportunismo, lui stesso non era stato
mosso che da quello... anche quel giorno di tanti anni prima quando
aveva raccontato a una bambina di essere il suo Angelo della Musica, e
aveva usato quella bambina per portare nel mondo un po' del suo genio
rinchiuso nell'oscurità. Poi quella bambina era cresciuta ed
era diventata il mezzo attraverso il quale il Figlio del Diavolo
avrebbe potuto perseguire la propria salvezza.
«È
nella tua anima la vera deformità»
Era vero, tremendamente vero, più di quanto Christine stessa
aveva potuto intuire, più di quanto tutta quella gente che
si chiedeva cosa ci fosse dietro la sua maschera o dentro al suo
passato avrebbe potuto immaginare.
«Sapete, ho riflettuto» disse all'improvviso
Guglielmo, mettendosi a passeggiare su e giù per il palco.
La sua voce si perdeva nel maestoso silenzio del teatro vuoto.
«Ho riflettuto su quello che mi avete detto, riguardo a
Graziana».
Erik dovette sforzarsi di ricordare quando avevano parlato di Graziana
e cosa si erano detti. Era stato uno dei suoi pochi slanci davvero
umani e disinteressati verso il suo prossimo e lo aveva già
quasi rimosso.
«È
nella tua anima la vera deformità»
«Non volevo turbarvi con quel discorso, credetemi»
dichiarò cupo.
«No, certo che no. È che, vedete, anche se
potreste aver ragione... io la amo. Ecco, l'ho detto».
Guglielmo si lasciò scappare un forte sospiro liberatorio.
Non che la cosa non fosse evidente anche alle statue sul frontone del
teatro, ma quell'uomo doveva aver tenuto dentro di sé quelle
parole così a lungo che avrebbe rischiato di esplodere se
non le avesse pronunciate davanti a qualcun altro in grado di
ascoltarle.
Ma perché, con tante persone, aveva scelto proprio lui per
discutere la faccenda?
«Sono l'ultima persona al mondo con la quale dovreste parlare
di queste cose» disse con semplicità.
«Voi dite, Maestro? Siete la persona con la quale io abbia
parlato di più in vita mia».
Se per parlare, Marchesi intendeva le interminabili sequele di ciarle
snocciolate davanti alle infinite tazze di caffè, allora
forse poteva anche essere vero. E se era vero, era molto triste, quasi
più triste del fatto che quel suo amore non gli avrebbe
portato altro che pena.
All'improvviso Marchesi ridacchiò, una risatina acuta e
nervosa,
«E, perdonate l'impudenza, ma ho il sospetto che anche io sia
la persona con cui voi abbiate parlato di più. Da
diverso tempo a questa parte, almeno» asserì
scuotendo il capo.
Erik stava per dargli ragione, ma si ricordò di un'altra
persona con la quale aveva trascorso assai meno tempo di quanto ne
aveva passato con lui, ma con la quale aveva parlato almeno il doppio:
Lucia. Quella sera, nel seminterrato, avevano discusso di spettacoli
teatrali per ore, e poi due giorni prima, quando aveva passato la notte
con lei, lo aveva ascoltato per un tempo che doveva esserle sembrato
interminabile, lo aveva ascoltato parlare di Parigi, della neve che
trasformava il piazzale dell'Opera in una immensa distesa di bianco,
della Senna che scorreva sotto i ponti e che lui aveva visto solo di
notte, come un laccio di seta nera accarezzare la città...
tutte cose che a lui stesso erano sembrate sciocche e insignificanti ma
che ora ridisegnavano il profilo di ricordi carichi di rimpianto. Se
solo avesse provato allora a fidarsi un po' di più del
mondo... ma il mondo per lui si era condensato tutto negli occhi di una
fanciulla che gli aveva voltato le spalle ai primi sospiri di un
bellissimo e imberbe corteggiatore.
Chissà, forse Lucia sarebbe stata capace di ascoltarlo
persino se le avesse parlato di Christine. Il cuore di quella ragazza
dai capelli corvini era spezzato come il suo... forse in pezzi meno
piccoli, forse meno marcio, ma di certo non era intatto né
immacolato.
«Mi piace pensare che sia all'amore che devo la mia pena e la
mia condanna» disse Erik, con lo sguardo che si perdeva nel
vuoto, fuggendo lontano a ricalcare il profilo di ombre infinite che si
trascinavano sotto terra, fino alle sponde di un lago sepolto in mezzo
al buio. «Ma a volte ho l'impressione che l'amore vero sia
ben altra cosa rispetto a ciò che ho provato io. A
ciò che, mi duole dirlo, provo ancora».
Guglielmo deglutì,
«Voi? È per una donna dunque che...»
tentò di dire, non sapendo fin dove poteva osare.
«È così. Ho fatto cose tremende,
Guglielmo, cose che vi farebbero tremare di orrore se ve le raccontassi
e credevo che non ci fosse ragione più grande dell'amore per
giustificarle. Troppo tardi ho compreso che ero in errore».
«Credo, amico mio, che gli errori si commettono quando si
è troppo soli perché qualcuno ci aiuti a trovare
la via. E credo che se un uomo come voi ha avuto la sfortuna di una
solitudine così profonda, allora dev'essere colpa di chi non
vi ha compreso, non certo vostra».
Era una lacrima quella che Erik sentiva pizzicargli l'angolo
dell'occhio? No, era sicuramente solo un granello di polvere. Forse
però quella che luccicava tra le ciglia di Guglielmo era una
lacrima sul serio.
Una luce brillò in fondo alla sua mente, da qualche parte,
forse in quel luogo nel quale aveva relegato la speranza pensando che
era un sentimento del quale non avrebbe avuto più bisogno.
Nelle parole e negli occhi di Marchesi c'era l'assoluzione che Erik
aveva implorato silenziosamente fin dal momento in cui aveva lasciato
il teatro due mesi prima.
Gli sorrise, sorrise al suo interlocutore e sorrise per se stesso. Fu
solo un istante, ma l'idea che aveva accarezzato durante le
festività pasquali a casa del duca tornò a
bussargli alla testa, e sì, era un'idea che lo faceva
davvero sorridere, qualcosa di buono senza alcun secondo fine.
«Ho bisogno di un favore, Guglielmo» disse, mentre
accompagnava l'uomo verso l'uscita. «Ho bisogno di questo
teatro, per una sera. Ho un'idea che mi piacerebbe attuare, un regalo
per una persona che mi è cara».
Marchesi si picchiettò l'indice contro il mento con aria
pensosa.
«Mi sto abituando a credere che ogni vostra idea sia
meravigliosa, ma mi piacerebbe saperne di più,
Maestro».
«In teatro non vengono rappresentati che due o tre spettacoli
a settimana, giusto?» esordì Erik, Guglielmo
annuì. «Ebbene, c'è una piccola cosa
che vorrei mettere in scena, una sera, tra due settimane, in cui il
teatro sarà libero e lo si potrà lasciare aperto
a tutti».
«A... a tutti?» squittì il direttore del
San Carlo strabuzzando gli occhi.
«Sì, esattamente. Pensateci, tutte le persone che
non avrebbero mai occasione di visitare questo posto o assistere a uno
spettacolo»
«Ehm... temo che al signor sindaco verrebbe un infarto, e
probabilmente anche a me».
Erik agitò la mano in un gesto di disinteresse,
«Sono certo che i vostri cuori reggeranno»
borbottò. «Sarebbe una cosa unica, in
città non si parlerebbe d'altro e il vostro nome
diventerebbe assai più stimato».
«E il vostro?».
Il musicista scrollò le spalle,
«Non sono solito fare qualcosa per niente. Ebbene, questa
è l'eccezione che conferma la regola»
dichiarò. «Lasciatemi fare».
Quelle ultime parole erano suonate perentorie come un ordine, anche se
erano state pronunciate con la solita composta cortesia. Guglielmo era
sulla soglia del portone del teatro, si voltò a guardare il
suo interlocutore e lo scrutò per lunghi secondi.
«C'è qualcosa di strano in voi, qualcosa di
nuovo» asserì. «E, se posso permettermi,
qualcosa di più luminoso».
Forse era vero. Non c'era un motivo particolare, eppure dai giorni di
festa a palazzo Giusso, qualcosa si era smosso dentro di lui, qualcosa
che grattava via il nero e ne faceva emergere minuscole insperate
scintille.
«E ritengo che la cosa meriti di essere festeggiata, per cui,
d'accordo, prendetevi il teatro» concluse Marchesi con un
sospiro di resa.
*
Lucia era seduta alla finestra, in grembo aveva una catasta di
biancheria da rammendare e stava approfittando degli ultimi scampoli di
luce prima del tramonto per portare a termine quei piccoli lavori.
Le giornate erano diventate più lunghe e si facevano via via
più calde e soleggiate. Il mare calmo già
occhieggiava all'estate riflettendo l'azzurro limpido del cielo e nel
giro di poche settimane, certamente, sarebbero comparsi i primi
temerari che si sarebbero tuffati tra le onde tranquille.
Madame Fantine bussò alla sua porta, quando entrò
aveva un'aria quasi sconvolta. Era piuttosto presto per l'arrivo dei
clienti e lei non si era ancora preparata a riceverli, al posto dei
suoi abiti sgargianti indossava una gonna di tela rattoppata in
più punti e una camicia, non c'era nessuna parrucca a
coprire i capelli crespi e grigi, solo una cuffia di cotone annodata
sotto al mento.
«Quello lì è di nuovo qua»
annunciò con un sospiro seguito da un sorriso furbesco. Non
si capiva se la cosa le faceva piacere o la turbava – ma di
certo non doveva essere contenta dell'essersi fatta trovare in abiti
così sciatti. «Così presto, poi!
Comunque... che gli devo dire?».
Lucia corrugò la fronte, perplessa. Era certa che Erik
sarebbe tornato, raramente si sbagliava, ma che si presentasse
lì persino prima di cena le pareva strano.
«Fatelo entrare» concesse con un'alzata di spalle.
«Non si può presentare qui a quest'ora!»
replicò la maîtresse strabuzzando gli occhi.
«Che cosa sfacciata!».
La ragazza ridacchiò. C'era davvero qualcosa di sfacciato o
sconveniente in un luogo come quello? Le regole implicite di quella
casa non avevano mai davvero dissuaso nessuno; il fatto che in genere i
signori non bussassero a quella porta se non dopo cena era dovuto
unicamente al fatto che avevano altri impegni fino a quell'ora, una
casa, un lavoro, una famiglia... Erik non doveva avere molto al di
fuori del teatro.
«Se la cosa vi rincresce, mandatelo via» concluse
la giovane con fare tranquillo.
Madame Fantine le lanciò un'occhiata stringendo le palpebre,
quello era il suo sguardo da sono più vecchia di te e la so
lunga. In realtà non avrebbe mai mandato via un cliente,
nemmeno se si fosse presentato a ora di pranzo, meno che mai avrebbe
mandato via qualcuno che veniva per Lucia.
«Ah, figlia mia! Voi mi farete morire di crepacuore, io lo
so!» borbottò la donna uscendo e alzando gli occhi
al cielo.
Erik bussò alla porta dopo una manciata di secondi.
Entrò nella stanza e Lucia fu lieta di constatare che aveva
un'aria molto meno agitata delle volta precedente.
«Mi occorre il vostro aiuto, signora» le disse
senza troppi preamboli.
La ragazza lo guardò stupita. C'era sempre qualcosa che le
sfuggiva di quell'uomo, era certa che sarebbe tornato, ma non che
avrebbe esordito con una frase del genere.
«Venite avanti, sedete. Cosa posso fare per voi?»
chiese incuriosita, poi gli indicò la sedia vuota accanto
allo specchio.
«Devo parlare con quell'uomo vestito da Pulcinella e con
quelli che suonano con lui. Potete aiutarmi a trovarlo?».
Lucia lo guardò sorpresa. Non capiva il motivo della
richiesta ed era certa che Erik non fosse uomo da amare le domande
né da dilungarsi in spiegazioni che non riteneva necessarie.
Tuttavia, non le dispiacque l'idea di poterlo aiutare a realizzare
qualcosa, qualsiasi cosa la sua mente certamente un po' folle stesse
architettando.
«Ho una mezza idea riguardo a dove possiamo trovarlo, in
effetti. So dove abita, ma non vi prometto niente» disse.
«Ottimo. Possiamo andarci?» fece lui con uno strano
scintillio negli occhi.
«Intendete dire adesso?»
«Avete altri impegni?».
Lucia ridacchiò e scosse il capo.
«Mi è concesso almeno il tempo di indossare il
cappotto, signore?» domandò ironica.
«Dipende da quanto tempo vi occorre...».
Stava già cominciando a imbrunire quando lasciarono la
palazzina e si lanciarono nel labirinto di vicoli e stradine. Di tanto
in tanto incrociavano qualche manovale che rientrava da una giornata di
lavoro al porto, o massaie che rincasavano con figli al collo.
Lucia pensò che non ci sarebbe voluto molto tempo prima che
tutta Napoli cominciasse a parlare di loro, del misterioso straniero e
della fanciulla sventurata che chissà come si erano
ritrovati assieme. La cosa non le importava, ed evidentemente non
doveva importare nemmeno a Erik, se non si dava alcun pensiero nel
farsi vedere in sua compagnia.
L'uomo camminava svelto, tanto che la ragazza faticava a tenere il
passo. Lucia sollevò l'orlo della veste e corse per
raggiungere il suo compagno che era già un metro avanti a
lei, gli si aggrappò al braccio per trattenerlo.
«Non correte, non ce n'è bisogno» disse
con il fiato corto.
Lui rallentò,
«Non sono abituato ad avere dei complici» ammise
lasciando che lei gli rimanesse sottobraccio, come se fosse una
passeggiata di piacere. «Non vi è mai capitato di
avere così tanta voglia di realizzare un progetto da non
riuscire a trattenere la foga?»
«Onestamente, non ho mai avuto grossi progetti da realizzare.
Posso sapere a cosa è dovuto tanto entusiasmo?».
Erik strinse le labbra, come se stesse cercando di mettere assieme le
parole giuste per spiegarsi,
«Fingiamo che sia un esperimento, una piccola sfida con me
stesso» mormorò. «Diciamo che ad un
certo punto mi sono accorto di aver fatto ben poche cose buone nella
mia vita e mi è venuta voglia di provare a
rimediare».
La ragazza non chiese altro. Lo condusse fuori dal quartiere, di nuovo
verso le stradine laterali che si districavano alle spalle di piazza
del Plebiscito. Le prime stelle cominciavano ad apparire sbiadite sopra
la cupola della chiesa.
La stradina che avevano imboccato era stretta e tutta in salita. Porte
tarlate si affacciavano su quel minuscolo vicolo dove le ombre di
misere costruzioni aggiungevano altro buio a quello della sera che
stava ormai calando. Nel silenzio era possibile udire il verso di un
gruppo di piccioni appollaiati su un davanzale, pochissime luci
brillavano oltre le finestre.
Lucia si fermò davanti a una bassa palazzina al margine del
vicolo. C'era un'apertura al pian terreno, a livello della strada,
chiusa solo da una tenda lacera e impolverata. Erik la
guardò vagamente perplesso, la ragazza gli
mormorò all'orecchio,
«Lasciate fare a me». Scostò appena la
tenda e simulò un leggero colpo di tosse.
«È permesso?».
Una donnina magra, dai capelli arruffati comparve oltre la tenda e la
sollevò, mostrando agli occhi dei visitatori una piccola
abitazione composta da un'unica stanza, con dentro un tavolo, pochi
mobili e un letto disfatto celato a malapena da un paravento
bucherellato.
La donna guardò qualche secondo i suoi visitatori e fece
loro un mezzo sorriso di benvenuto,
«Volete entrare?» disse scostandosi per farli
passare.
Erik sembrava basito, non si capiva se per la disponibilità
della padrone di casa o per il misero spettacolo che aveva dinnanzi.
Era l'espressione più umana e spontanea che Lucia gli avesse
mai visto in viso; gli strinse un po' di più il braccio in
una sorta di muto incoraggiamento e lo trascinò con
sé dentro la casa.
Un odore forte di legumi e tuberi messi a bollire si alzava da una
pentola fumante poggiata sulla brace del camino.
«Buonasera, signora» salutò Lucia,
affabile.
La donna continuava a sorridere, amichevole e tranquilla.
«Scusate, ma volevamo parlare con vostro marito»
fece la ragazza lanciando un'occhiata all'uomo seduto accanto al
tavolo, intento a sbocconcellare una fetta di pane.
«Eh, un signore e una signora a casa mia!»
esclamò questi alzandosi e accennando un goffo inchino con
fare reverenziale. «E cosa vorranno mai da me?».
L'uomo, quello che cantava nel seminterrato vestito da Pulcinella, era
un tipo di mezz'età, con ispidi capelli brizzolati e con una
brutta cicatrice che gli solcava lo zigomo sinistro. Le rughe marcate
sul suo viso avevano lo strano effetto di ingentilire quel volto che
non doveva essere stato particolarmente bello nemmeno nei suoi anni
migliori.
«Lui» disse Lucia inclinando la testa a indicare
Erik, «è il Maestro del San Carlo».
«E certo che lo è!» esclamò
l'uomo quasi ridendo. «Servo vostro, Maestro».
La ragazza sentì Erik irrigidirsi accanto a sé.
«Certo... e avrebbe un favore da domandarvi. Appena gli si
scioglierà la lingua, suppongo» concluse.
Il padrone di casa dondolò la testa e fissò il
suo ospite,
«Volete un bicchiere d'acqua?» chiese, come se
l'acqua dovesse essere una medicina contro il mutismo improvviso.
Erik si riscosse,
«No, vi ringrazio» borbottò impacciato,
liberandosi dalla stretta di Lucia e avvicinandosi all'uomo.
«Vi ho sentito cantare qualche sera fa in quella cantina, con
voi c'erano anche due ragazzi che suonavano»
«Eh, i figli miei»
«Sì, bene. E vorrei che suonasse per me, una sera
nel mio teatro».
L'uomo spalancò gli occhi, così tanto che Lucia
temette che gli sarebbero rotolati via.
«Che avete detto?!» esclamò.
«Che avete detto?!» gli fece eco sua moglie.
«Avete capito. Voglio che suonate su quel palco, tra due
settimane, scegliete voi le canzoni, cinque o sei andranno
benissimo».
Pulcinella si allentò il colletto della camicia e
deglutì più volte, spostando lo sguardo dall'uomo
alla ragazza, come se si aspettasse che da un momento all'altro loro
scoppiassero a ridere e gli dicessero che era uno scherzo.
«Ma... ma veramente fate?» balbettò,
lasciandosi cadere sulla sedia. «Nina, portamelo a me il
bicchiere d'acqua! Anzi mettici pure un poco di zucchero
dentro».
Lucia rise e batté una mano sulla spalla di Mastro
Pulcinella, mentre la donna scioglieva davvero un cucchiaino di
zucchero nel bicchiere d'acqua.
«Ora, dovete dirmi il vostro prezzo» aggiunse Erik.
Pulcinella lo guardò da sopra l'orlo del bicchiere, gli
andò di traverso un sorso d'acqua e cominciò a
tossire.
«Dovrei pagare io a voi perché mi fate suonare nel
teatro!» esclamò con una smorfia.
«Facciamo che mi comprate un costume nuovo e siamo a
posto».
Quando lasciarono la casa, Lucia dovette fare un enorme sforzo per
trattenersi dallo scoppiare a ridere.
«Ho la sensazione che vi stiate ancora burlando di
me» commentò Erik.
«Sto solo cercando di decidere se mi fa più ridere
il ricordo della vostra espressione o della sua» rispose lei.
«Sono lieto che, in ogni caso, vi ho dato motivo di essere
divertita. Già che ci siamo, avete idea di dove si possa
trovare un costume da Pulcinella?».
La ragazza spinse la mani nelle tasche del cappotto e
scrollò le spalle,
«Immagino che la sartoria del teatro vi sarà di
aiuto. Si può sapere cosa vi ha reso così
perplesso?».
Erik si fermò a guardarla, scrutandola con aria seriosa,
«Lo splendore di certi sorrisi in mezzo alla
miseria» mormorò come se fosse un pensiero
pronunciato a fior di labbra, poi sollevò lo sguardo a
fissare lo spicchio luna che faceva capolino sopra i tetti delle case,
anche quello sembrava un sorriso stagliato contro il nero del cielo.
«Credo che la miseria possa avere due effetti sulle persone:
o le rende cattive o le rende immensamente buone. Sono orgogliosa di
dire che in questa città molto spesso si tratta del secondo
caso» replicò lei.
Napoli cominciava già a pulsare dei folli palpiti della sua
vita notturna attorno a loro mentre tornavano verso l'Araba Fenice.
Lucia sentiva un inaspettato senso di leggerezza e compiacimento mentre
camminava in silenzio accanto al suo strano compagno. Non è
che avesse compreso molto di quello che Erik stava architettando ma era
certa che sarebbe stato qualcosa di bello e il ricordo della faccia di
Mastro Pulcinella la faceva ancora sorridere. Da quanto tempo non
sorrideva così?
«Immagino che non abbiate cenato, proprio come me»
disse quando arrivarono davanti alla porta della palazzina. Erik la
guardò come se non avesse capito, lei alzò gli
occhi al cielo e lo afferrò per un braccio.
«Avanti, venite con me».
Attraversarono l'ingresso sotto lo sguardo torvo di Madame Fantine, la
ragazza disse all'uomo di aspettarla in camera sua e sgusciò
nelle cucine. Questionò con la cameriera per qualche minuto,
ma alla fine riuscì a mettere insieme un vassoio con del
pane e del formaggio, tornò in camera sua dove Erik era
rimasto ad attenderla in piedi accanto alla finestra.
Posò il vassoio sul letto e si lasciò cadere
stesa a pancia in giù.
«Oh, santi numi, venite qui! Non comportatevi come se ci
fossero serpi in agguato ad ogni angolo!» esclamò.
L'uomo finse una smorfia di sopportazione e andò a sedersi
vicino a lei. Mentre consumavano quella cena frugale, lui le
spiegò come mai era andato a cercare Pulcinella e cosa aveva
in mente di fare. Alla fine lei lo guardò con un misto di
stupore e ammirazione,
«Non vi facevo così... tenero» rispose
lei, sinceramente colpita.
«Non ho mai creduto di esserlo. Non lo sono, in
effetti» borbottò lui precipitosamente, preso alla
sprovvista.
«Forse vi sono solo mancate le occasioni».
Il volto di Erik si incupì, il suo sguardo si fece lontano e
distante, puntato su chissà quale orizzonte denso di
malinconia. Lucia era certa che quell'uomo non solo avesse ferite
profonde che non era ancora stato in grado di curare, ma era anche
sicura che ci fossero ancora le lame conficcate in quei tagli e si
chiese perché una persona che certamente doveva avere dello
straordinario non era stata in grado di estrarle. Certo, era lo stesso
anche per lei, ma lei non si sentiva affatto straordinaria...
Di colpo, l'uomo si voltò a fissarla e allungò
una mano a prendere la sua, trascinandola con delicatezza accanto a
sé.
«Insegnatemi» le disse guardandola in quel suo modo
serio, irremovibile.
«Certe cose davvero non si possono insegnare»
replicò lei, posandogli una mano sulla guancia scoperta.
Erik sospirò,
«Provateci» mormorò, e sembrò
quasi una preghiera.
______________________________________
* Letteralmente sarebbe "lascia fare alla Madonna", si usa in senso di
"grazie al cielo".
Scusate per il ritardo. Questo è un periodo notevolmente turbolento
e spesso non sono a casa, ma cercherò comunque di aggiornare
con constanza e non saltare più settimane.
Al prossimo mercoledì (spero)
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Capitolo 15 *** Ferite ***
Capitolo quattordicesimo
Ferite
~ Napoli, 29 aprile 1871 ~
La candela nella piccola bugia di ottone stava finendo. Si spense d'un
tratto, levando una sottile spira di fumo più denso che
disegnò grigie virgole a mezz'aria prima di dissolversi.
Erik, steso pigramente su un lato del letto, allungò una
mano per sostituire il mozzicone di candela ormai inservibile
con quella nuova già pronta sul comodino. Sfregò
lo zolfanello contro il margine della scatola, la fiamma gialla e blu
scintillò nella stanza in penombra illuminando il suo viso e
quello della ragazza seduta accanto a lui.
Lucia inspirò e incurvò la schiena, premendosi
contro la spalliera di ciliegio.
«Cosa c'è?» chiese l'uomo
distrattamente, mentre la fiamma avvolgeva lo stoppino della candela e
restituiva alla camera dalle pareti azzurre un po' di luce.
La ragazza scosse piano la testa, come per dire: niente d'importante.
«Avete paura del fuoco» constatò Erik,
posando nuovamente la bugia sul comodino.
Lucia annuì, ciocche ondulate dello stesso colore dell'ebano
le danzarono sulla fronte. A lui piacevano quei capelli, gli piaceva
stringerli tra le mani quando la prendeva o affondarvi il viso.
«Mi stavate dicendo dell'Annibale di Chalumeau all'Opera di
Parigi» fece lei, tornando ad assumere una posa
più rilassata.
Erik si voltò, stendendosi di schiena e fissò lo
sguardo sul soffitto. La camicia mezza slacciata si apriva sul petto
nudo; non era più il tempo delle formalità e
delle riserve, la necessità di schermirsi e preservare le
distanze era venuta meno la sera stessa in cui era tornato da lei per
la seconda volta. Anche i mostri possono avere la facoltà di
essere sinceri con se stessi: la ragazza era uno sfogo e non trovava
ragione di negarselo. Oh, certo, non si trattava solo della pura e
semplice ricerca del piacere dalla quale si era sottratto per tanto
tempo, c'era qualcosa di più... semplice. Che Dio
la maledica, quella ragazza aveva il pregio di essere un'ottima
compagna di conversazione e la sua esperienza da attenta spettatrice di
teatro rendeva il parlare con lei più che mai interessante
agli occhi di Erik che era troppo amante della perfezione tecnica ed
estetica per rendersi conto di quale fosse davvero il punto di vista di
un semplice spettatore.
Lucia ascoltava con attenzione e avidità i suoi racconti
sugli spettacoli dell'Opera, esprimeva pareri che a volte
magari si rivelavano ingenui ma i suoi discorsi non erano mai tediosi.
E quando lui era in vena di ascoltare, la ragazza lo istruiva sulla
cultura di Napoli, sulle vicende dell'Italia, sulla loro arte e sulla
loro letteratura, per quel poco che ne conosceva.
«Sì, stavamo parlando dell'Annibale»
disse Erik, il tepore della stanza come unica barriera ad arginare il
gelo dei ricordi. «Vi sarebbe piaciuta la rappresentazione
dell'Opera Populaire. Fu di una tale, stupefacente perfezione. Il
vestito bianco di Elissa...».
La ragazza lo interruppe scuotendo il capo,
«Elissa non indossa nessun abito bianco nell'Annibale di
Chalumeau» osservò arricciando le labbra.
«Quella sera ne indossava uno invece. Di tanto in tanto
qualcuno riteneva che un tocco di originalità avrebbe
giovato allo spettacolo e non mancava di suggerire in
proposito» replicò Erik con uno strano accenno di
sorriso. «E lei... lei, cioè la cantante, era
davvero un angelo con quell'abito, un tale miracolo di splendore come
nemmeno il Paradiso ne ha mai potuti vedere».
Lucia inclinò la testa lanciandogli un'occhiata penetrante
che all'uomo fece lo stesso identico effetto di un pugno in pieno viso.
«Era la donna che amavate?» mormorò.
Erik sentì il respiro spezzarsi in fondo al suo petto e fu
quasi con stupore che avvertì il leggero sussulto del cuore
che batteva contro le costole. Perché il suo cuore poteva
ancora battere... che cosa assurda e impensabile!
«Sì, è così»
ammise semplicemente.
Lucia strinse le labbra, come a trattenere parole che forse era
indecisa se pronunciare o meno. L'uomo sospirò; il mondo che
reclamava la sua attenzione e la sua disponibilità lo
irritava, talvolta lo spingeva fino alla soglia della rabbia, ma non in
quella stanza, dove la necessità gli aveva imposto di
abbassare le armi e lasciar cadere le maschere.
«Parlate, avanti» disse lui, senza mostrare alla
ragazza quanta fatica stava impiegando per sostenere il suo sguardo.
«Non avete nulla da temere da me». Per mia sfortuna...
Lucia sorrise in quel suo modo tenero, un po' complice un po' materno,
e si strinse nelle spalle,
«Mi rammaricherebbe troppo far sanguinare nuovamente le
vostre ferite» rispose distogliendo lo sguardo.
E quella cos'era? Una dichiarazione d'affetto? No, tra lui e la ragazza
c'era un accordo sottinteso, una sorta di baratto. Se lei rappresentava
uno sfogo, lui non era altro che la risposta alla necessità
di Lucia di sentirsi ancora desiderabile e, probabilmente, di riuscire
a fare ciò che sapeva fare meglio.
«Le mie ferite? E delle vostre, cosa mi dite?».
Domanda impietosa e crudele, pronunciata in tono sprezzante. Se ne
pentì un istante dopo averla formulata.
Il volto della ragazza si indurì e Lucia distolse lo sguardo
puntandolo verso un angolo buio,
«Nulla che possa interessarvi. Se avete amato qualcuno che vi
ha fatto soffrire immagino che qualsiasi cosa io possa raccontarvi non
aggiungerebbe nulla di nuovo a quanto già avete
conosciuto» disse tagliente.
Erik decise di incassare il colpo senza reagire e senza aggiungere
altro.
Allungò una mano verso di lei,
«Venite qui» le disse con voce morbida.
Lucia scivolò accanto all'uomo che le posò un
bacio sulle nocche delle dita.
Era buffo; quando gli capitava di pensare al tempo trascorso in quella
casa di appuntamenti, gli veniva in mente uno strano paragone. Pensava
ai suoi primi giorni in teatro, dopo che Madame Giry lo aveva condotto
con sé all'Opera, alla curiosità di scoprire e
allo stupore che seguiva ogni nuova rivelazione su quel luogo
che ai suoi occhi di bambino appariva così pieno di
possibilità, che al suo cuore da esiliato, forgiato nelle
lacrime e nella violenza, sembrava così sicuro e pacifico.
L'intimità fisica era stata una scoperta dello stesso
genere, c'era sempre qualcosa che lo stupiva e che, al di là
del piacere in sé, andava a toccare la sua
curiosità – caratteristica rimasta
pressoché immutata da quando era nient'altro che un
ragazzino spaurito.
«E il vostro piccolo progetto, come procede?»
chiese Lucia.
Gli occhi di Erik si illuminarono,
«Procede. Anche se il signor Marchesi sembra sempre sull'orlo
del collasso ogni volta che si fa menzione alla cosa».
«Povero Guglielmo. Non lo invidio, tra voi e il peso di tutte
le responsabilità che deve portare...». Lucia
ridacchiò nascondendo il viso nel materasso.
«Il signor Marchesi non si è mai lamentato della
mia presenza o dei miei servigi» replicò l'uomo.
«Il signor Marchesi è troppo buono»
«E voi siete troppo sfacciata»
«Sì, e ne vado fiera» concluse la
ragazza, puntellandosi sui gomiti e posando un bacio sulle labbra di
Erik. Dopo qualche secondo la mano dell'uomo si posò sulla
sua nuca, trattenendola contro di sé, affondando nella massa
di onde corvine.
C'erano gesti e sguardi che segnavano automaticamente il punto di
conclusione a ogni dialogo.
Lui le posò le mani sui fianchi e la fece sedere a
cavalcioni sopra di sé, scostando l'orlo della corta camicia
da notte. Era il momento che Erik detestava maggiormente, l'ultimo
attimo di lucidità sprecato a pensare che da quel momento in
poi sarebbe stata lei ad avere in mano le fila del gioco,
perché era lei che sapeva esattamente cosa fare, come fargli
dimenticare ogni cosa. E il mondo si stemperava in quella strana curva
delle labbra sul volto della ragazza, a metà tra un sorriso
e un gemito, quando lo accoglieva dentro di sé.
Anche la seconda candela si era ormai spenta. Lucia crollò
sul petto di Erik, stringendo tra le dita i lembi della sua camicia.
Dopo qualche minuto, la ragazza si scansò e andò
a sistemarsi sotto le lenzuola. Erik la imitò, stendendosi
in silenzio accanto a lei, giocando ad avvolgere i suoi ricci sulla
punta dell'indice.
«Verrete a vedere lo spettacolo, la prossima
settimana?» le chiese dopo qualche minuto.
«Non mi perderei una cosa del genere per niente al mondo,
signore» rispose.
«Bene, pensavo di mettervi nel palco centrale con il duca e
il signor Marchesi».
Lucia si stropicciò il viso con la mano e scosse il capo.
Erik la fissò inarcando un sopracciglio,
«Qualcosa in contrario?» domandò.
«Non dovete chiederlo a me, dovete chiederlo a
loro».
Lui sbuffò, a sottolineare quanto la cosa gli sembrasse di
scarsa rilevanza. Insomma, quella ragazza aveva frequentato il San
Carlo al braccio degli uomini più in vista della
città, Guglielmo e il duca non sarebbero stati
così ipocriti da avere qualcosa da ridire.
«Ad ogni modo, vi assicuro che un posto sul loggione
andrà benissimo» aggiunse lei, distogliendo lo
sguardo come se si sentisse imbarazzata.
Che Lucia fosse incline all'imbarazzo era una cosa che Erik davvero non
credeva possibile.
«Anzi, veramente, lo preferirei» aggiunse in un
filo di voce.
Lui sgranò gli occhi,
«Niente affatto» replicò corrugando la
fronte, in un tono che non ammetteva repliche. «Il
loggione... come vi saltano in mente certe sciocchezze?».
*
Lucia fu svegliata dal dondolio del materasso accanto a sé.
Era l'alba, doveva esserlo per forza, perché Erik si stava
svegliando e lui si svegliava sempre all'alba.
Durante le prime sere, la ragazza era stata quasi propensa a credere
che quell'uomo non dormisse affatto, poi una notte si era svegliata e
aveva constato che anche lui dormiva. Anche se, quando lo aveva visto,
più che crederlo addormentato, lo aveva creduto morto. Erik
riposava immobile, con le braccia aperte e scomposte sul cuscino, senza
muovere nemmeno un muscolo, respirando impercettibilmente. Solo
fissandolo attentamente e a lungo, Lucia aveva notato gli scatti delle
palpebre che si serravano e poi si rilassavano, come se immagini ora
scurissime ora intensamente luminose si alternassero nei suoi sogni.
Chissà cosa
sognano gli uomini come Erik, si era chiesta.
Chissà quali e quanti fantasmi mormorano nella loro mente
mentre sono addormentati.
Ad ogni modo, stava davvero albeggiando. In quell'ultima settimana la
ragazza si era abituata a quelle destate così mattiniere,
del resto, aveva tempo per riposare durante il giorno. Non capiva come
Erik reggesse quei ritmi assurdi, ma non era un suo problema.
Al risveglio il rito si ripeteva sempre uguale, come la prima volta.
Lei indossava la sua vestaglia, salutava il suo ospite con un bacio e
lo lasciava solo a ricomporsi, sgusciando nelle cucine a vedere se era
rimasto un po' di caffè dalla sera precedente – di
solito, in quello, aveva fortuna. Alle volte, dopo che lui se ne era
andato, Lucia tornava in camera e si rimetteva a dormire, altre volte
ne approfittava per andare al mercato di buon'ora e comprare la frutta
e la verdura migliori, prima che si facesse la solita ressa mattutina
attorno ai bancali. Di tanto in tanto, aveva anche la fortuna di
incappare in un rigattiere che, in mezzo alle sue cianfrusaglie,
portava anche qualche vecchio libro usato che vendeva per pochi
spiccioli.
Ad ogni modo, quella mattina, la consuetudine subì
un'inattesa variazione.
La ragazza si allacciò la cintura di raso sotto al seno,
indugiò un attimo davanti allo specchio per ravvivarsi i
capelli e fece per uscire, ma Erik la trattenne.
«Aspettate un attimo, Lucia» disse alzandosi.
«Ho una cosa per voi, ho dimenticato di darvela ieri
sera».
Lei non volle mostrarsi troppo sorpresa, ma davvero non credeva che
Erik fosse tipo da fare regali.
L'uomo prese il soprabito posato sulla spalliera della sedia e ne
frugò la tasca interna, estraendone un libretto lungo come
quello delle banche che porse alla ragazza.
Lucia prese l'oggetto con aria curiosa e ne sfogliò le
pagine di spessa carta stampata.
«State scherzando?» borbottò dopo
qualche secondo. Domanda stupida; Erik che scherzava, figurarsi!
«No, affatto» fece lui cominciando a sistemarsi la
camicia.
La ragazza si rigirò ancora una volta tra le mani il
libretto. Era una carnet con i biglietti di tutti gli spettacoli del
San Carlo, fino alla fine della stagione.
«È molto generoso da parte vostra, vi ringrazio di
cuore» disse chinando il capo per nascondere il fatto che
stava arrossendo. Era un regalo davvero bello per lei ma Erik di certo
non poteva sapere e sicuramente le aveva portato quei biglietti armato
delle migliori intenzioni, tuttavia...
«Ma non posso accettarlo» aggiunse.
«No, sono io che non posso accettare un vostro
rifiuto» la rimbeccò lui con una certa durezza.
Ah, santo cielo! Ci mancava solo che si mettesse a fare il caparbio con
lei.
«Erik...» tentò di dire, ma lui la
zittì posandole un dito sulle labbra.
«Insisto» dichiarò con un po'
più di dolcezza.
D'accordo, avrebbe tenuto il maledetto libretto, se era quello che lui
voleva, del resto non poteva certo obbligarla ad andare a vedere gli
spettacoli, giusto? Beh, pensandoci, era sicura che Erik avrebbe
trovato il modo di obbligare anche Vittorio Emanuele a cedergli la
corona se si fosse messo di impegno.
«Va bene, va bene... come volete!» concluse,
andando a posare il libretto sullo scrittoio.
«Non capisco perché ogni tanto nella vostra bella
testa si insinuino idee così stupide» fece lui a
mezza voce. «Prima la storia del loggione e adesso
questo...».
«State forse facendo dell'ironia? Impressionante, forse entro
stasera verrà a nevicare».
Lei gli aveva usato la gentilezza di non indugiare sulle sue vecchie
ferite; non gli avrebbe permesso di scoprire le proprie quindi
continuò semplicemente a sorridere con fare canzonatorio.
«E il giorno che voi smetterete di fare del sarcasmo, temo
che esploderà il Vesuvio» replicò
l'uomo.
«Così mi incentivate a continuare»
«Sono certo che alla vostra lingua lunga non occorra alcun
incentivo».
Lucia ridacchiò,
«Non sarei me stessa altrimenti» osservò
con fare impertinente.
«E tutti noi ne soffriremmo molto» concluse lui,
canzonatorio.
Mamm'do Carmine*,
si era svegliato allegro!
*******
~ Parigi, 11 maggio 1892 ~
Il cocchiere diede uno strattone deciso alle redini e la carrozza si
fermò davanti all'ingresso del palazzo con le ruote che
stridevano sulla ghiaia.
Il cielo era di un bell'azzurro lucido e un vento tiepido soffiava
nell'aria l'odore dei fiori e dell'erba del giardino.
Christine prese un gran respiro e si sporse dal finestrino della
vettura, con il viso in direzione del sole, godendosi il tepore di
quella bella giornata di primavera come una carezza. Poi
tornò a guardare dentro; sul sedile di fronte a lei i due
ragazzi dormivano, appoggiati l'uno contro la spalla dell'altro. Erano
così teneramente buffi e dovevano essere parecchio stanchi e
provati da crollare addormentati dopo i primi minuti di viaggio.
Non era stato così facile convincere il giovane Louis a
venire con lei e suo figlio, quel benedetto ragazzo era caparbio e
anche eccessivamente beneducato; sembrava davvero convinto che avrebbe
potuto arrecare qualche disturbo – «Quale disturbo, caro?
Saremmo più che lieti di avervi come nostro ospite, siamo
solo in tre e quella casa è così
grande». E si era preoccupato persino di quello
che avrebbe detto il visconte – «Mio marito non
potrà che essere contento, siete così caro al
nostro Gustave...». Insomma, alla fine, dopo
molte insistenze, e dopo fiumi di parole per blandirlo, si era deciso a
prendere le sue cose e a seguirli a casa De Chagny. Christine ne era
veramente lieta, intanto perché il ragazzo le stava
simpatico e la incuriosiva, in secondo luogo perché il suo
istinto materno non le avrebbe dato pace se avesse lasciato un giovane
in preda a un qualsivoglia malessere abbandonato a se stesso, in una
città straniera, lontano da casa. Certo, perché
che cosa era effettivamente successo al povero Louis, madame De Chagny
ancora non era stato in grado di capirlo, Gustave si era solo limitato
a dirle che il suo amico aveva letto una notizia che lo aveva, a giusta
ragione, sconvolto e lui le aveva suggerito di non fare domande
perché la questione era molto delicata e Louis avrebbe
potuto non avere voglia di parlarne. A Christine era sembrato
più che lecito.
Se la questione non fosse stata legata alle pene di un caro giovane, la
viscontessa avrebbe trovato la faccenda persino piacevole e divertente:
qualcuno di nuovo in giro per casa, qualcuno che suonava il violino,
per giunta – ah, prima o poi avrebbe vinto la ritrosia del
suo ospite e lo avrebbe convinto a suonare.
Il cocchiere le porse la mano per aiutarla a scendere dalla carrozza.
Christine non fece in tempo a posare il piede in terra che Raoul
comparve sotto l'uscio del portone e si diresse verso di lei a grandi
passi, camminando con così tanta veemenza che i sassolini di
ghiaia schizzavano come scintille sotto la suola delle sue scarpe.
«Per l'amor del cielo!» esclamò il
nobile. «Nostro figlio che manda biglietti di notte, tu che
sparisci... che succede?! Gustave dov'è? Sta
bene?».
La donna gli posò una mano sul braccio con fare rassicurante
e gli sorrise facendogli cenno di abbassare la voce.
Raoul si sporse a guardare dentro la vettura della carrozza, scorgendo
i due ragazzi ancora addormentati.
«Oh, che visione deliziosa e romantica!»
borbottò sarcastico, con uno sbuffo che sembrò
far tremare i baffi biondi come nappe di una tenda. «E tutto
ciò è dovuto a cosa, esattamente?».
Christine gli riassunse brevemente l'accaduto,
«Sono certa che non avrai niente in contrario a tenere il
ragazzo con noi per qualche giorno» concluse. «Mi
è sembrata la cosa migliore da fare, non me la sento di
lasciarlo da solo».
Il visconte annuì,
«Ma certo che il piccolo Paganini può restare con
noi» dichiarò. «Però tu e
nostro figlio mi avete fatto prendere un colpo».
«Sì, hai ragione, ti chiedo scusa. Ma era
un'emergenza».
L'uomo tirò un lungo sospiro,
«D'accordo, adesso che siamo tutti qui sani e salvi, direi di
svegliare Giulietta e Romeo»
«Certo, tu porta dentro i ragazzi, io vado a dire alle
cameriere di preparare una stanza per Louis e di aggiungere un posto in
più a tavola per il pranzo».
*
Era tutto così dannatamente assurdo!
Louis tirò un pugno contro il materasso e scosse il capo.
Madame De Chagny era stata oltremodo gentile e premurosa a convincerlo
ad andare a stare da loro, a preoccuparsi di non lasciarlo solo, ma non
era quello il suo posto. Il suo posto sarebbe stato su un treno,
diretto verso casa, ad affrontare sua madre.
Sua madre, Louis ne era convinto, era la persona che al mondo lo amava
maggiormente. E allora come aveva potuto permettere che lui si
ritrovasse da solo ad affrontare quell'orrore?
Il ragazzo ancora non trovava una risposta.
L'idea di lasciare Parigi, prendere il primo treno e tornare a casa
continuava a ronzargli in testa. Nella sua città lo
aspettavano facce familiari e un posto di tutto rispetto nell'orchestra
del San Carlo. Mancavano ancora molte pagine alla fine del diario, ma
ora non era più così sicuro di volerle leggere.
Suo padre, l'uomo che lo aveva cresciuto, era solo un'ombra lontana e
indistinta, probabilmente niente di più concreto di un
miraggio. Quel diario apparteneva a una persona che Louis non
conosceva, che non aveva mai conosciuto davvero e che senso poteva
avere continuare a leggere le memorie di un estraneo?
La sua mente non si sarebbe mai abituata all'idea. Poteva davvero
essere in grado di odiare Erik adesso che lui non c'era più?
La testa gli sarebbe esplosa a furia di fare domande destinate a
rimanere senza risposte.
Si andò a sciacquare il viso nel catino, imponendosi di
riacquistare il controllo di se stesso e dei propri pensieri. Adesso
era ospite di una rispettabile famiglia di nobili e loro erano stati
già troppo gentili a volerlo ospitare senza che lui gli
imponesse anche la presenza di un rottame.
Forse, in compagnia di Gustave e dei suoi genitori avrebbe potuto
fingere di dimenticare.
Louis stava guardando la roba che aveva portato con sé dalla
mansarda, qualche domestico l'aveva accantonata sul sofà
nell'angolo. La custodia del violino se ne stava appoggiata contro il
bracciolo di velluto.
«Louis, è permesso?». Il visconte De
Chagny stava bussando alla sua porta.
Il ragazzo si affrettò ad andare ad aprire.
Raoul gli sorrise gentile sotto i suoi curati baffi biondi, gli occhi
chiari limpidi come laghi di montanga.
«Come vi sentite?» gli chiese.
Oh Dio del cielo, fa'
che non si metta a fare domande...
«Bene, monsieur, vi ringrazio. E vi sono più che
mai grato della vostra ospitalità. Vostra moglie ha
insistito così tanto ma non vorrei mai esservi di
peso...».
L'uomo agitò le mani,
«No, no! Non mettetevi a fare cerimonie con me. L'importante
è che voi ora vi riprendiate da... qualsiasi cosa sia
accaduta».
Louis si sentì avvampare, era ingiusto non fornire nemmeno
una spiegazione ai genitori di Gustave che erano stati così
premurosi nei suoi riguardi, conoscendolo così poco.
«Visconte, io credo di dovervi qualche
giustificazione...» mormorò.
«Non mi dovete niente, figliolo».
Raoul De Chagny gli batté la mano sulla spalla. Il ragazzo
sospirò.
Ah, perché suo padre non era stato come lui, come
quell'uomo? Così limpido e gentile e sorridente...
«In realtà, pensandoci, c'è una cosa
che potreste fare per noi tutti» fece il visconte dopo
qualche secondo.
«Qualsiasi cosa, monsieur»
«Tra tre giorni cade il compleanno di Gustave, sia lui che
mia moglie vi sarebbero immensamente grati se poteste allietarci la
serata con il vostro violino».
Il padrone di casa aveva pronunciato quelle parole come se gli
pesassero.
«Vostro figlio e vostra moglie, monsieur? Perché
ho la sensazione che per voi la cosa non sarebbe affatto
gradita?» domandò il ragazzo.
«Non amo la musica» ammise De Chagny con una certa
gravità. «Ma questo è un mio problema
che non deve in alcun modo mettervi a disagio. Dopotutto il compleanno
è di Gustave»
«E io sarò ben felice di accontentarlo».
______________________________________________
* Mamm'do
Carmine, equivalerebbe a “Oh, Madonna”, per la
precisione la
Madonna del Carmelo, il cui culto a Napoli fu diffuso durante la
dominazione spagnola e rimane tutt'ora.
Al solito, la prossima settimana potrei non essere a casa e quindi non
riuscire a postare. Ma dato che il capitolo nuovo è
già pronto, se non succedono imprevisti... ci si legge il
prossimo mercoledì ^^
|
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Capitolo 16 *** Carte scoperte ***
Capitolo quindicesimo
Carte scoperte
~
Napoli, 03 maggio 1871
~
Sobbalzò quando sentì la porta del suo ufficio
aprirsi e poi richiudersi violentemente con un tonfo.
Da un angolo della sua mente, le voci dei fantasmi che si celavano nel
suo animo cominciarono a deriderlo. «Sei diventato come tutti gli
altri. Sei un debole...».
Erik si alzò in piedi con un moto di irritazione, quasi
scagliò via la sedia.
«Signorina Rovesti!» esclamò. Appena si
rese conto che era stata Graziana a entrare nel suo ufficio in quel
modo tanto brusco, una parte della sua rabbia scemò.
Poteva non ritenere quella giovane donna degna di stima, ma la sua voce
era pur sempre un miracolo ed Erik non aveva mai smesso di ammirarla
per questo. Né di invidiarla per tante altre cose alle quali
preferiva non pensare.
Quando il suo sguardo – uno sguardo leggermente ostile
– si posò sul viso della ragazza, si accorse che
stava piangendo.
Graziana aveva il viso contratto per lo sforzo di trattenere i
singhiozzi, una scia di rossore le velava le guance solcate da una
piccola lacrima.
Erik non sopportava il pianto delle donne. Nella sua mente risuonava il
rumore vibrante di specchi che andavano in frantumi, illusioni che
annegavano e appassivano sopraffatte dalle lacrime.
«Maestro, posso parlarvi?». L'orgoglio della
giovane riusciva a tenere ferma la voce, almeno un po'.
La donna chinò il capo, si asciugò due lacrime
con la punta delle dita.
Per un attimo Erik pensò che anche quelle fossero il trucco
di una brava attrice, ma chi era lui per giudicare l'ipocrisia altrui?
Non stava forse fingendo di essere un uomo comune fin dal primo momento
in cui aveva messo piede nel San Carlo? Non stava forse rinnegando,
giorno dopo giorno, ciò che era sempre stato?
Un uomo ha il diritto di scappare dai proprio fantasmi, ne ha il
dovere, anzi. Era arrivato persino a fingere di esserne convinto.
«Sedete, signorina Rovesti» disse infine, indicando
con un cenno della mano la sedia vuota davanti alla sua scrivania,
troppo stanco per imprimere alla voce un tono che dicesse di
più di quel formale invito.
Lei mosse appena il capo in un cenno di diniego e sollevò lo
sguardo su di lui. C'era qualcosa nei suoi occhi che le lacrime
rendevano simili a specchi d'acqua; Erik si sentì annegare
scoprendosi del tutto incapace di fronteggiarla. Qualsiasi fosse il
motivo di un atteggiamento tanto melodrammatico da parte della
primadonna, lui era...
… sei un
debole!
La vece sibilava nella sua mente, come una spira di fumo, densa e
impalpabile, come la nebbia sulle sponde del lago sotterraneo.
«Ecco, io...» esordì titubante Graziana,
strappandolo alle sue riflessioni. «Devo chiedervelo Maestro,
perché state facendo questo?».
L'uomo sospirò impercettibilmente, chiuse gli occhi e quasi
pregò che i fantasmi tornassero a fare eco nella sua mente,
che gli spingessero nelle vene un po' della sua antica furia, di quel
gelo che lo poneva al di là del resto del mondo.
Graziana aggrottò appena le sopracciglia con fare quasi
bellicoso e dopo una breve pausa ricominciò a parlare.
«Perdonate se ho l'ardire di sperare che nel vostro cuore
serbiate un poco di affetto per me, per tutti noi»
dichiarò con impeto. «Ma è per
l'affetto che io nutro per voi che mi permetto di venire a
parlarvi».
Quei preamboli lo stavano turbando, ma non voleva darlo a vedere. Erik
tornò a sedersi e appoggiò le mani sul piano
della scrivania.
«Vorrei davvero fare qualcosa per alleviare la vostra
pena» borbottò in un tono che smentiva quelle
stesse parole, «tuttavia, non riesco a seguirvi».
Graziana si lasciò sfuggire un mezzo sorriso addolorato,
«E perché dovreste? Ci sono così tante
cose che non sapete» disse. «Credetemi, signore, le
mie parole non sono per giudicarvi. Ma io mi sento in dovere di
mettervi in guardia, ho saputo...».
Era paura quella che sentiva raggelargli il sangue e stringergli lo
stomaco? Forse i fantasmi avevano ragione. Era davvero diventato un
debole.
Probabilmente lo era sempre stato, come chiunque sente la
necessità di nascondersi. E ora Erik cominciava a capire che
non era più solo per il suo volto, e questa consapevolezza
lo rendeva ancora più solo, lo spingeva ancora
più in fondo verso il baratro del suo personale inferno.
«Non è mia abitudine impicciarmi negli affari
altrui, Maestro, ma in città alcuni ne parlano. Di voi e di quella ragazza».
Tutte le parole di Graziana ora gli sembravano una corda d'arco tesa
lentamente per scoccare una freccia con la punta avvelenata dal
disprezzo. E c'era davvero tanto disprezzo nel modo in cui aveva detto
«...quella ragazza», nella curva ostile delle sue
belle labbra.
Per un attimo Erik fu quasi tentato di mettersi a ridere, ma la sua
interlocutrice gli apparve così cupa da cancellare ogni
minimo segno di ilarità dai suoi pensieri.
«Infatti, signorina Rovesti. Con tutto il rispetto ma credo
che non dobbiate impicciarvi dei miei affari.» disse,
ritrovando la sua calma, la parte meno umana di se stesso, quella che
non accettava alcuna mano tesa perché non era mai stato
abituata ad averne. Quella che non conosceva la debolezza, o almeno
poteva fingere che fosse così.
«Ah certo, voi siete un solitario che non si fida di nessun
altro al mondo se non di se stesso. Ma poi decidete di dedicare il
vostro tempo a quella cagna...» fece la ragazza, la voce di
nuovo rotta dall'angoscia, priva di rabbia e colma di preoccupazione.
L'uomo sentì come un fastidioso colpo al petto nel sentire
insultare Lucia.
«Dopo tutta questa freddezza verso tutti noi, vi fidate di
lei? Di lei?»
continuò Graziana tormentandosi i capelli. «Della
donna più spregevole che avreste mai potuto incontrare? Non
dovete fidarvi delle sue parole, dei suoi sorrisi, delle sue
moine...»
«Dovrei fidarmi di voi?».
Graziana restò in silenzio per qualche secondo,
«Non oso chiedervelo. Ciò che vi sto dicendo
è per voi, per la vostra pace, io non ci guadagno
nulla» concluse con un sospiro.
Menzogne. Era bravo a riconoscerle, ne aveva raccontate tante, a se
stesso, a quella bambina che credeva negli angeli... al duca, al signor
Marchesi...
Menzogne, bugie che lo offendevano, come se fossero ingiurie contro la
sua intelligenza. Che mettevano le ali alla sua rabbia.
L'uomo si concesse qualche secondo e un lungo respiro.
Era consapevole della propria vanità, le sue maniere
signorili erano un effetto di quel vizio, quasi come i modi civettuoli
delle fanciulle a un ballo di gala. E fu quell'abitudine alle buone
maniere perpetuata tanto al lungo, come la parte replicata all'infinito
di un attore consumato, a frenarlo dal dire ciò che stava
pensando e a costringerlo a cercare parole meno brutali ma che tuttavia
bastassero a zittire la primadonna.
Sorrise con freddezza. Una curva che sembrava disegnata gli
increspò le labbra e Graziana parve stupita, quasi turbata.
«Signorina Rovesti» le disse in tono leggermente
mellifluo, «quello che intendevo dire è che ognuno
ha le proprie mancanze. Chi stabilisce che le mie siano più
gravi di quelle di qualcun altro, delle vostre, ad esempio? Chi
stabilisce chi di noi sia più immacolato?».
Forse non era poi così debole se lo sguardo malizioso e
accusatorio che stava rivolgendo alla giovane donna bastò a
farla impallidire. E no, stavolta non erano stati i fantasmi a far
affiorare quella furia, a trasformare i suoi occhi in pozze di piombo
fuso. Era stato qualcosa di profondamente umano; non c'era il soffio
gelido di uno spettro nelle sue vene, ma qualcosa di caldo come era
normale che fosse il sangue di un uomo.
Graziana scosse il capo con stizza e si morse le labbra.
«Così facendo, Maestro, mi fate torto»
mormorò grave. «Io ero venuta per mettervi in
guardia da...»
«Mettermi in guardia da Lucia? Sì, usiamo il suo
nome, giacché ne ha uno»
«Esattamente, mettervi in guardia da Lucia. Ma voi ora sembra
mi stiate accusando di Iddio sa cosa!»
«Dicono che Dio sia onnisciente, ma quello che conta
è che lo sapete voi, come lo so anche io» concluse
Erik. «E dal momento che voi avete avuto la premura di venire
a esprimere un parere, lasciate che ne esprima uno anche io: il signor
Marchesi non merita questo. E quando dico il signor Marchesi, mi
riferisco al figlio, non al padre».
Graziana strinse le palpebre, fissandolo con un misto di imbarazzo e di
collera, inspirando lentamente. Nel silenzio teso che si era venuto a
creare, Erik quasi poteva sentire l'aria fremere nei polmoni della
donna.
La soprano si voltò e si diresse alla porta, livida in volto.
Si fermò sull'uscio, con la mano appoggiata sulla maniglia,
«Mi avete ferito, Maestro» mormorò
cupamente, voltando appena la testa di lato, guardando di sottecchi
l'uomo alle sue spalle. «Non è mai bello
né conveniente rifiutare l'offerta di un'amica».
*******
~
Parigi, 14 maggio 1892
~
«Da quando ti conosco, mi hai portato solo guai!»
esclamò Louis, afferrando distrattamente una coppa di qualcosa di molto costoso e
alcolico che un cameriere gli stava servendo da un vassoio
di argento. Dovette costringersi a un enorme sforzo di autocontrollo
per non mandare giù il contenuto del bicchiere tutto d'un
fiato.
Gustave, che era accanto a lui, si voltò flemmatico e lo
fissò incredulo,
«Quali guai?» mormorò serafico, con
innocenza, come se davvero non avesse capito.
Il sole faceva brillare l'erba del prato perfettamente falciato. Il
vento faceva frusciare rumorosamente la stoffa del gazebo di tela
bianca.
Il giardino di casa De Chagny era pieno di gente. Louis avrebbe giurato
di non aver mai visto tanti frac, tube, merletti, stole di raso...
tutti insieme nello stesso posto, nemmeno a teatro.
Festa di compleanno in giardino – idea del visconte Raoul,
niente poteva essere più lontano dall'indole del
festeggiato. E per quel che lo riguardava, Louis avrebbe preferito
darsela a gambe.
«Gustave, chi è tutta questa gente? Dici sempre
che non hai amici».
Il ragazzo biondo si lisciò con noncuranza il tessuto della
giacca e lanciò un'occhiata vacua all'esercito di dame
ingioiellate e signori impettiti disseminati nel giardino della tenuta.
«Infatti. Questi sono amici di mio padre»
replicò con una scrollata di spalle. «Quali
guai?» insistette.
«Era solo una battuta. Mentirei se dicessi che non sei un
tipo bizzarro,
ma sei un buon amico». Louis allargò uno dei suoi
migliori sorrisi.
«Grazie. Anche tu» mormorò Gustave, con
la soavità che gli era propria, senza alcun sorriso, come a
sottolineare la genuina sincerità di quella affermazione.
«Comunque, tu come stai?».
Il ragazzo italiano si guardò attorno con un certo imbarazzo,
«Mi sentirei molto meglio se non dovessi suonare davanti a
tutta questa gente, comunque...»
«No, intendevo come ti senti visto quello che... per la
storia di tuo padre, insomma».
Louis deglutì. Come si sentiva? Come se gli fosse stato
piantato un paletto nel cuore e il legno fosse stato incendiato e
continuasse ad ardere all'infinito. Come se una parte della sua vita
fosse andata in frantumi, una statua di porcellana ridotta in pezzi che
è impossibile riavvicinare.
«È il tuo compleanno, siamo ad una festa, dovremmo
divertirci e non parlare dei miei dispiaceri» concluse
abbassando lo sguardo.
«Tu ti stai divertendo?»
«Beh, devo ancora ambientarmi, ma tra qualche minuto,
magari...»
«Sì, mi annoio anche io!»
«Non ho detto che mi sto annoiando»
«Ma non hai detto nemmeno che ti stai divertendo».
Louis sospirò, poi si concesse una risata e batté
una pacca sulla spalla dell'amico, troppo forte per l'esile Gustave che
si ritrovò a barcollare in avanti.
«Figliolo!». Il visconte De Chagny comparve
all'improvviso accanto a loro, con un sorriso smagliante e gioviale
sotto i baffi biondi. «Che ci fai rintanato in un angolo alla
tua festa?».
«Cerco di dimenticare che è la mia festa,
padre»
«Oh, non dire sciocchezze! Vieni a salutare i nostri
amici»
«Preferisco fare compagnia a Louis, lui non conosce nessuno e
non vorrei che si sentisse in imbarazzo».
Raoul De Chagny lanciò un'occhiata amichevole verso il
ragazzo italiano,
«Sentirsi in imbarazzo? Un giovanotto così in
gamba? Suvvia, figliolo, sono certo che Louis sopravviverà
una mezz'ora senza di te» concluse.
«Sì, immagino di sì»
dichiarò il giovane con un mezzo sorriso.
Gustave gli lanciò uno sguardo truce,
«Che sacrificio amichevole» borbottò.
L'amico si strinse nelle spalle, come a dire che non aveva potuto fare
altrimenti, poi restò a fissare il ragazzo biondo che si
allontanava insieme a suo padre e spariva tra la folla. Presto
finì accerchiato da un crocchio di anziane signore
– probabilmente vecchie parenti – come se fosse
stato fagocitato dalle loro ampie gonne di seta.
Louis appoggiò il bicchiere vuoto su uno dei tavolini e si
dileguò verso il punto meno affollato del giardino, dove un
piccolo spiazzo di mattoncini rosa separava due file di aiuole di
begonie.
Fu con un certo imbarazzo che il giovane scorse Madame De Chagny
accoccolata in un angolo di un dondolo di vimini addossato al muro di
un casotto da giardiniere.
La donna lo notò e sollevò lo sguardo su di lui.
Le nubi di pensieri e ricordi addensate in fondo ai suoi occhi
sparirono alla luce di un sorriso gentile.
«Vi state nascondendo, Louis?» disse la viscontessa.
«Come voi, a quanto pare»
«Sono una pessima padrona di casa»
«Non so, io al vostro posto avrei sprangato i cancelli
all'arrivo di tutte queste persone».
Christine rise e scosse il capo,
«Forse dovrei andare dai miei ospiti e fare compagnia a mio
marito. E salvare Gustave» commentò sarcastica.
«Gustave è capace di salvarsi da solo,
fidatevi».
«Non è quello che una madre è disposta
a pensare, di solito».
A Louis si spezzò il respiro. Cercando di non apparire
troppo brusco, si voltò nascondendo il viso per non mostrare
alla donna l'espressione di pena che gli era comparsa in volto. Non tutte le madri,
avrebbe voluto risponderle. Sua madre lo aveva lasciato solo...
Questo pensiero bruciava, aumentava il dolore che stava provando come
una manciata di sale gettata sulla carne viva di ferite aperte.
«Vi sentite bene, Louis?» domandò
Christine, alzandosi e avvicinandosi a lui.
«Sì, certamente. Non vi lascerò senza
musicista, è il mio regalo per Gustave, e per voi»
rispose il ragazzo, ritrovando un'espressione neutrale e tranquilla.
«Per me?»
«Siete stata molto gentile e...».
Christine alzò le mani per zittirlo,
«Non ricominciate. Vi ho già detto che quel poco
che abbiamo fatto per voi, lo abbiamo fatto con immenso
piacere» asserì. «Sono certa che quando
lascerete Parigi, Gustave sentirà molto la vostra
mancanza».
Lasciare Parigi. In effetti, ancora non ci aveva pensato, ma di sicuro
prima o poi avrebbe dovuto tornare a casa. Appena avrebbe finito di
leggere quel diario.
Da quando si era trasferito nella residenza dei De Chagny, non aveva
più avuto il coraggio di toccare quelle pagine, era come se
ogni ricordo doloroso contenuto tra quelle righe fosse un insulto a
quella casa, una mancanza verso quella famiglia così serena
e piena di amore.
La prima sera in cui aveva aperto quel vecchio quaderno, aveva creduto
che gli sarebbero bastati pochi giorni per terminarne la lettura, ma
aveva scoperto che quell'inchiostro pesava come piombo fuso, che non
era in grado di leggere più di un paio di pagine alla volta.
Le parole di suo padre, a differenza di quanto Louis aveva creduto, non
scorrevano sotto i suoi occhi come acqua limpida, ma erano dense,
scivolavano lentamente come fango.
«A cosa pensate, Louis?» domandò
all'improvviso Christine. «Perdonate se ve lo domando, ma
certe volte vi vedo diventare così cupo che ho paura che il
sole vi voli via dallo sguardo».
Il ragazzo si sentì arrossire e sentì il cuore
riempirsi di qualcosa di simile a quello stesso fango di cui sembravano
fatte le parole di Erik.
Il fango tracimò, coprì tutto di nero per un
istante.
«Oh, Christine...». Louis stava quasi per
singhiozzare. «Avete mai avuto un affetto grande per qualcuno
che poi vi ha tradito, non per qualcosa che ha fatto a voi ma per
qualcosa che faceva parte della sua natura? Oh... scusate, è
una domanda così sciocca».
Il giovane vide la donna schiudere la bocca in un'espressione sorpresa,
di colpo fitte nubi tornarono a ombrarle lo sguardo.
«Mi è accaduto, sì, ragazzo
mio» disse. La sua voce suonò come se fossa
lontanissima, persa in una nebbia che gettava le ombre del passato su
quella bella giornata di sole.
«E che ne è stato del vostro affetto per quella
persona?».
Christine sorrise, il sorriso più dolce e malinconico che
Louis avesse mai visto comparire sul volto di qualcuno.
«È sopravvissuto ad ogni cosa, anche al dolore.
Sopravvive ancora».
Quelle parole suonarono inesorabili, come una condanna. In quel momento
Louis seppe solo che l'amore per suo padre sarebbe sopravvissuto a ogni
cosa, anche all'orrore, anche alla rabbia. Perché aveva
amato quell'uomo e, cosa ancora più importante, Erik aveva
amato lui.
«Madre, Louis!». La voce di Gustave
suonò come il soffio del vento che fa diradare le nubi dopo
il temporale, ma non c'era ancora abbastanza sole nella mente del
ragazzo italiano.
«Oh, Louis!» Gustave lo afferrò per la
manica della camicia strattonandolo verso il giardino. «Ti
prego, comincia a suonare...»
«Gustave!» esclamò madame De Chagny in
tono di rimprovero. «Che modi sono mai questi?»
«Io ho bisogno che Louis si metta a suonare, così
tutta questa gente smetterà di prestare attenzione a me e
comincerà a tormentare lui»
«Molto amichevole da parte tua» replicò
il ragazzo moro. «Pensi di resistere il tempo che mi occorre
per prendere il violino?»
«Non ne sono sicuro».
Christine e Louis si scambiarono uno sguardo divertito, poi la donna si
mise sottobraccio a suo figlio e insieme a lui si diresse dove erano
raccolti tutti gli altri invitati.
Il giovane musicista andò a prendere il suo Stradivari e
raggiunse in fretta una pedana di legno sistemata sotto a uno dei
gazebo. In pochi minuti gli sguardi di tutti i presenti furono su di
lui e il visconte De Chagny lo raggiunse per fare le dovute
presentazioni.
«Miei cari amici» esordì il nobiluomo
con un ampio sorriso, «non mi dilungherò in
preamboli, ma il giovanotto qui presente pare sia un eccellente
musicista. Tuttavia, il nostro Louis è tanto bravo quanto
ritroso per cui non voglio rischiare di metterlo in imbarazzo, vi
suggerisco semplicemente di prestargli orecchio».
Louis sorrise al visconte e ai presenti che avevano cominciato ad
applaudire. Immaginò che doveva essere grato al padrone di
casa per quelle parole tanto lusinghiere dettate unicamente dalle buone
maniere e dalla fiducia, visto che fino ad allora né lui
né sua moglie lo avevano ancora sentito suonare.
Il ragazzo lanciò uno sguardo davanti a sé, al
mucchio di facce indistinte che si erano raccolte accanto alla pedana.
Non era vero, non era affatto ritroso, aveva passato le settimane
precedenti a suonare per puro piacere personale in un bar nel centro di
Parigi, ma conoscendo la strana avversione del visconte all'arte e alla
musica aveva preferito evitare di fare qualcosa che gli fosse sgradito,
per questo in quei giorni aveva ignorato le velate richieste di
Christine e le battute infelici di Gustave.
Ma ora era diverso.
Louis sorrise tra sé e sé mentre appoggiava il
violino alla spalla. Guardò un attimo ancora le persone
attorno a lui, distinse madame De Chagny ancora stretta al braccio di
suo figlio che lo guardava con aria incoraggiante e persino un po'
incuriosita e impaziente.
Oh, no... lui era tutt'altro che ritroso, era l'esatto opposto di un
artista ritroso. Lui amava lasciarsi ascoltare, perché erano
coloro che ascoltavano a dare una ragion d'essere a ogni musica. Suo
padre gli aveva trasmesso l'orgoglio per lo stupore, la consapevolezza
che il fine dell'arte è quello di stupire, di colpire... «L'arte, Louis,
è un'arma. La più benedetta delle armi
poiché colpisce senza fare male»,
così diceva Erik.
Il ragazzo chiuse gli occhi.
«L'arte,
Louis, è un'arma. La più benedetta delle
armi...».
Strinse le palpebre e, immerso nel silenzio che attendeva le sue note,
si chiese per l'ennesima volta e con ancora più disperazione
come fosse possibile che le mani di suo padre, che sapevano fare cose
così belle e straordinarie con un'arma che non ferisce,
fossero sporche di sangue.
Il fatto che non vi fosse una risposta a questa domanda apriva un
baratro nella mente del giovane, un enorme pozzo buio in cui ogni cosa
sarebbe potuta precipitare se non ci fosse stato quell'affetto, enorme,
innegabile, senza rimedio. Quel sentimento che come quello di madame De
Chagny sopravviveva ad ogni cosa.
Louis sentì le lacrime pungergli gli occhi. Il ricordo di
suo padre sommerse ogni pensiero, la sua musica gli pulsò
nelle vene allo stesso ritmo del battito del suo cuore. Suonare era
come riportarlo un po' più vicino a lui, e questo era un
legame che niente al mondo avrebbe potuto recidere.
Appoggiò l'archetto sulle corde. Emise la prima nota, poi la
musica ruppe gli argini del silenzio, inarrestabile.
Era una vecchia canzone che suo padre suonava per lui quando era
bambino, Louis ricordava vagamente di avergli sentito dire che era di
origine svedese. Aveva un ritmo allegro e incalzante eppure non era
priva di una certa dolcezza, gli era sempre piaciuta e anche se l'aveva
scelta senza pensarci, guidato solo dalla prepotenza di un ricordo, ora
cominciava a pensare di aver avuto un'ottima idea, di certo nessuno dei
presenti conosceva quel pezzo.
Le note si rincorsero, perfette e sinuose, per lunghi minuti. Alla fine
della ballata, Louis sollevò l'archetto dalle corde e
alzò la testa con uno scatto, riaprì gli occhi
per sorridere agli applausi ma subito cercò con lo sguardo
il viso di Gustave e poi quello di Christine. Sperava di vedere un po'
di contentezza nei loro visi, sperò di essere riuscito a
strappare loro almeno un sorriso di cuore in quella giornata fatta di
formali cortesie tra gentiluomini.
Ma quando il suo sguardo ritrovò madame De Chagny in mezzo
alla piccola folla, Louis si trovò davanti l'ultima cosa che
avrebbe voluto vedere. Christine era pallida come un lenzuolo, una
statua di sale dagli occhi sgranati, fissi con sconcerto su di lui.
Louis non capì, ma qualcosa nel volto della donna lo
raggelò. Sentì un brivido di angosciato stupore
scuoterlo fino alle viscere e strinse i pugni attorno al manico del
violino.
I presenti erano ancora troppo impegnati ad applaudire per rendersi
conto della strana reazione della viscontessa, ma in una manciata di
secondi quella piccola ovazione si spense nell'esclamazione allarmata
di Gustave.
«Madre! Cosa avete?» gridò il ragazzo.
Tutti si voltarono di colpo verso il giovane, Louis notò con
la coda dell'occhio Raoul che si faceva largo tra i presenti, scansando
precipitosamente le persone per raggiungere sua moglie.
Christine De Chagny era svenuta, ora giaceva con il volto esangue tra
le braccia di suo figlio.
_______________
Come vi dicevo, in queste settimane non sono a casa, ma dopo qualche
peripezia sono riuscita a trovare il modo di postare il capitolo e non
rimandare oltre.
Per la prossima settimana dovrebbe essere tutto a posto ;)
|
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Capitolo 17 *** Parole ***
Capitolo sedicesimo
Parole
~ Parigi, 14 maggio 1892 ~
Per molti anni in quei
sogni c'era stato solo dolore.
Quando di tanto in tanto
le capitava di tornare in quel luogo mentre era addormentata, Christine
si sentiva soffocare dalla sofferenza che permeava da quelle pareti di
pietra spoglia, poi, lentamente, anno dopo anno, era sopraggiunto un
senso di calma gelida, come un sonno indotto dai farmaci, come il
silenzio innaturale dei cimiteri... dopotutto, quello era il mausoleo
della sua giovinezza e delle sue illusioni.
Ad ogni modo, dopo tanto
tempo, la viscontessa De Chagny non aveva ancora capito se quei sogni
fossero un bene o un male. Forse erano solo la prova che certi ricordi
non l'avrebbero mai abbandonata, ma del resto lei lo aveva sempre
saputo. Lo aveva saputo nello stesso istante in cui aveva chiuso le sue
dita attorno alla mano – una mano incredibilmente gelida
– del suo Angelo della Musica nel momento in cui gli aveva
restituito l'anello, prima di voltarsi e lasciarlo. Prima di lasciare
che quel sogno divenuto incubo si dissolvesse nelle luci del mattino
che stava sbocciando su Parigi dopo quella notte di fuoco, sangue e
follia.
Aveva sognato per la
prima volta la Dimora sul Lago il giorno in cui era nato suo figlio,
quando il parto l'aveva quasi uccisa. Il dolore dei ricordi le aveva
dato la forza per sopravvivere, per salvarsi senza perdere il bambino.
Poi c'erano stati altri sogni, perché, che lo volesse o
meno, c'era un pezzo della sua anima rimasta in quei sotterranei,
quella parte di affetto, di amore, che niente avrebbe potuto
cancellare, nemmeno l'orrore.
Ora era tornata
lì, era stata una discesa terribile, come una caduta
vorticosa in un pozzo senza fondo. C'era voluta un'eternità
di buio prima che quella discesa si arrestasse e la conducesse in quel
luogo.
L'acqua del lago
sotterraneo era gelida, si aggrappava alle sue vesti e le rendeva
pesanti, togliendole la forza di continuare a camminare verso la riva.
A lottare con quei
ricordi, Christine non era mai stata brava.
Ma non c'era dolore, non
c'era nemmeno la calma gelida e silenziosa. Ora c'era la musica, era
ovunque, sembrava sgorgare nel gocciolio della cera delle candele,
muoversi tra le pieghe dei tendaggi, serpeggiare tra le venature del
legno... c'era la sua musica, la loro musica.
E il dolore era solo il
suo, di Christine. La donna lo sentì salì dal
cuore agli occhi, lo sentì diventare calde lacrime che
scivolavano quasi tagliandole le guance, ma lei non aveva il coraggio
di singhiozzare, perché temeva che se avesse fatto rumore
avrebbe spezzato l'incantesimo. Perché per troppo tempo
aveva anelato di ascoltare ancora quella melodia...
Quando la sua mente
riemerse dalle nebbie della commozione, la donna si rese conto che
adesso la musica proveniva da un punto preciso, da dietro le tende del
baldacchino del letto intagliato.
Lui non c'era mai nei
suoi sogni, non lo aveva più rivisto, lo aveva solo sentito
parlare alle volte, quasi come quando era bambina e lui cantava dietro
lo specchio. Possibile che fosse tornato?
Christine fu consapevole
del peso schiacciante di quell'emozione, del fatto che se non fosse
stato solo un sogno ne sarebbe morta. Lentamente, come attratta da un
magnetismo istintivo, si mosse verso le tende, restò qualche
secondo con la mano sospesa a mezz'aria, esitante. Infine
scostò il pesante drappo di velluto.
Non era il suo Angelo
della Musica quello che stava suonando, in piedi accanto alla sponda
del letto a forma di cigno. Era Louis, con il violino sulla spalla, gli
occhi chiusi, rapito dalle sue stesse note.
Provò a
chiamarlo più volte, urlò il suo nome, ma il
ragazzo continuò a suonare, incapace di sentirla...
Certo, lui non
apparteneva a quel luogo, lui non aveva niente a che fare con quei
ricordi, apparteneva a giorni di luce e non a notti infinite. Non aveva
niente a che fare con lei. Era solo un caso, un bizzarro, crudele tiro
mancino del fato che quel ragazzo fosse capitato nella sua vita.
Perché, e dopo averlo sentito suonare Christine ne era
certa, Louis non poteva essere altri che il figlio di Erik.
*
Louis camminava avanti e indietro lungo quel breve tratto di corridoio,
con ostinazione, quasi con rabbia, come se avesse voluto scavare un
solco sul parquet di ciliegio.
I rettangoli di luce disegnati dal sole che batteva contro i vetri in
stile inglese stavano sbiadendo, minuto dopo minuto diventavano sempre
più simili alle ombre proiettare dalle tende semichiuse.
Louis continuava a camminare. Si fermava di tanto in tanto a fissare la
porta chiusa dalla quale era entrato il dottore, poi continuava a fare
su e giù, mordendosi il labbro, borbottando nervosamente tra
sé e sé.
Si era già detto e ripetuto almeno dieci volte che lui non
c'entrava niente, ma non riusciva a togliersi dalla testa la
convinzione che il malessere di Christine fosse stato colpa sua, che in
qualche modo era stato lui a provocarlo.
La sua mente aveva argomentato, confutato e smontato questa ipotesi in
una miriade di ragionamenti folli, eppure Louis si sentiva in colpa. E
non vedeva l'ora che quella dannata porta si aprisse e che qualcuno gli
dicesse qualcosa, che Gustave spuntasse con in faccia un sorriso
sollevato a dirgli che andava tutto bene, che non era accaduto niente,
che sua madre si sarebbe ripresa.
«Che idiozia, dovrei essere io a confortare lui,
semmai!» esclamò, fermandosi accanto alla finestra
e scuotendo la testa, fino a quando non sentì su di
sé il peso di uno sguardo. Si voltò e vide un
cameriere in livrea che lo fissava perplesso.
«Oh... scusate, monsieur» squittì il
domestico, prima di dileguarsi verso il fondo del corridoio,
così in fretta che il giovane non fece nemmeno in tempo a
trovare una scusa plausibile o a dire qualcosa a riprova del fatto che
non fosse pazzo.
«Forse lo sono. Forse tutta questa storia mi sta facendo
impazzire... il diario, mio padre, Gustave, il visconte, Christine...
non posso essere stato io, non è colpa mia».
Il ragazzo si allentò il nodo del cravattino,
appoggiò i palmi delle mani sul davanzale e
guardò fuori. Da quel punto della casa, si vedeva solo un
rettangolo di prato perfettamente falciato; in lontananza c'erano
ancora i gazebo che si alzavano sull'erba come enormi funghi bianchi.
Tutti gli ospiti se n'erano andati, mandati educatamente via dal
visconte che sembrava preoccupato solo e soltanto della salute di sua
moglie, come se non avesse avuto altro al mondo.
Louis aprì la finestra, inspirò una boccata di
aria tiepida e guardò verso il cielo: una tavola di azzurro
perfettamente tersa, appena velata dalle ombre che preannunciavano il
tramonto.
Nel silenzio della casa, nella quiete immobile del giardino deserto, il
ragazzo alzò gli occhi e cominciò a pregare.
Pregò Dio per un filo di luce, non sapeva bene cosa
aspettarsi, non era sicuro di ciò che desiderava in quel
momento, voleva solo che giungesse qualcosa a portar via un po' di
ombra.
*******
~
Napoli, 06 maggio 1872 ~
Quella era la sua serata.
Erik chiuse gli occhi e restò fermo davanti a quella tenda
per un tempo lunghissimo, quasi gustando il silenzio che si riempiva
lentamente del brusio delle persone che cominciavano ad arrivare. I
passi felpati sulla moquette, i borbottii eccitati, le parole a mezza
voce...
Quella era la sua serata, un'altra battaglia vinta in partenza tra i
confini del suo dominio. Che il cuore pulsante appartenesse all'uomo o
al fantasma non aveva importanza, ciò che contava era quella
sensazione inebriante di trionfo.
Erik scostò piano una tenda che dava sulla platea e
guardò il teatro riempirsi di gente. Di gente comune, come
aveva voluto. Persone che non avrebbero mai potuto mettere piede nel
San Carlo se non si fosse deciso di aprire il teatro a tutti per una
sera.
Erano per lo più mercanti e lavoratori del porto quelli che
stavano entrando nella platea, camminando piano tra le poltrone di
velluto, con i nasi per aria e gli sguardi un po' smarriti, quasi si
sentissero schiacciati dalle occhiate degli dei nell'affresco. Una
miriade di visi cotti dal sole sotto lo sfavillio dei candelabri,
labbra serrate in un silenzio rispettoso come quello di chi entra in
una chiesa.
Erik notò un ragazzetto magro, con indosso quello che doveva
essere il suo vestito buono della domenica, accarezzare rapito le nappe
di seta lucida di una tenda.
Sorrise. Quella era la sua serata, ma non soltanto la sua...
«Siete sicuro di quello che state facendo, vero,
Maestro?» domandò Guglielmo Marchesi, comparendo
alle sue spalle e guardando con aria preoccupata i ragazzi e l'uomo con
un immacolato costume da Pulcinella intenti ad accordare gli strumenti.
«Oramai non è più rilevante:
è già fatto» replicò Erik
voltandosi verso di lui.
Marchesi controllò il suo orologio da taschino e
lanciò qualche occhiata nervosa verso il corridoio.
«Non verrà» lo informò Erik.
«Come dite?»
«La signorina Rovesti, non verrà».
Come da copione, Marchesi diventò più rosso delle
tende del sipario. Ripose l'orologio nella tasca interna del
doppiopetto e si lisciò i sottili baffi scuri.
«Voi dite?» chiese, ostentando un disinteresse del
tutto falso.
«Abbiamo avuto una piccola divergenza, ragion per cui dubito
che allieterà una serata fortemente voluta dal sottoscritto
con la luce della sua presenza. Ora, se volete scusarmi, devo andare ad
assicurarmi che sia tutto in ordine».
Quella era decisamente la sua serata. Ma era anche la serata della
piccola Luisa, anche se lei non lo sapeva ancora.
*
Il duca Giusso osservò lo strano spettacolo davanti a
sé, la platea del san Carlo piena di gente comune
– i nobili e i ricchi si erano sistemati nei palchi, lontano
dal popolo, tanto per non perdere occasione di sentirsi al di sopra.
Era un bello spettacolo, un buffo, insolito, straordinario bello
spettacolo.
Anche lui era in un palco, quello centrale del primo ordine, era
lì che lo aveva sistemato Erik, ma gli sarebbe piaciuto
mescolarsi alla gente comune e godere del loro stupore. E
chissà quanto ne stava godendo il suo amico francese, lui
che tanto amava sorprendere!
Luisa si sistemò sulla poltrona accanto al parapetto, il suo
abito di seta frusciava come un tappeto di foglie in autunno e... oh, buon Dio! Cos'era
quello che aveva sulle guance? Belletto?
Mariano Giusso fece un profondo respiro osservando con la coda
dell'occhio sua figlia posare elegantemente in grembo le mani guantate
che reggevano il ventaglio di pizzo. Come una vera signora.
Stava diventando una donna, molto in fretta, più in fretta
di quanto avrebbe dovuto, purtroppo.
Il duca si sedette su una sedia alle sue spalle, lasciando gli altri
due posti liberi alle altre persone che avrebbero dovuto occuparli.
Luisa gli batté una mano sul braccio.
« E-r-i-k?»
scandì con le labbra.
L'uomo scrollò le spalle,
«Non credo si unirà a noi durante lo spettacolo,
tesoro. Immagino se ne starà rintanato da qualche parte a
sogghignare di soddisfazione fino a domattina».
Luisa sorrise divertita e scosse il capo.
Un attimo dopo la porta del palco si aprì e fece il suo
ingresso una donna. Indossava un elegante abito da sera, blu con i
merletti neri, ma non portava gioielli.
Il duca non la riconobbe subito, ma si alzò al suo ingresso,
come ordinava l'etichetta, per salutarla.
«Buona sera, signor duca» la donna rispose al suo
saluto con un sorriso che sembrava persino un po' imbarazzato.
A quel punto l'uomo la riconobbe, doveva trattarsi certo di Lucia
Aiello. E se Lucia Aiello era lì in quel palco quella sera,
allora, dedusse Giusso, le voci che correvano su di lei e il Maestro
francese dovevano essere vere e avevano viaggiato anche più
in fretta di quanto accadesse di solito.
Il duca sorrise cordiale e l'aiutò galantemente ad
accomodarsi, senza far trapelare la sua perplessità. Doveva
riconoscerle una certa attrattiva, era una giovane donna graziosa,
eppure si chiese come mai Erik, con la sua immensa ritrosia e con la
sua totale sfiducia nel mondo, avesse scelto lei. Poi si
ricordò dell'incendio in cui la ragazza era rimasta
coinvolta, delle ustioni e quasi si sentì uno sciocco per
non esserci arrivato subito.
«Spero non vi dispiaccia se, ehm...»
farfugliò la ragazza.
Il duca allargò il suo sorriso gioviale,
«Signora, ho già avuto il piacere di condividere
un palco con voi una volta, rammentate? Regalaste il vostro fermaglio a
mia figlia in quell'occasione».
Lucia Aiello annuì e sorrise, ma nei suoi occhi c'era
qualcosa che sembrava gridare a gran voce che quelle erano altre
circostanze, che quelli erano altri tempi.
«Piuttosto, avete una vaga idea di che genere di spettacolo
si tratti?» domandò Giusso dopo qualche secondo.
Anche Luisa si voltò incuriosita per sentire la risposta.
«Oh, ne ho un'idea piuttosto precisa, ma sono sicura che il
Maestro preferirebbe se continuasse a restare una sorpresa ancora per
qualche minuto» rispose la giovane donna con aria divertita.
«Comunque, sono assolutamente certa che vi
piacerà».
«Ah, lo sapete. Dunque con voi si confida...».
Giusso la fece apparire come un'esclamazione casuale, sfuggita per caso
e del tutto ironica e innocente, ma la verità era che voleva
saperne di più.
Tutto ciò che sapeva di Erik e le donne lo aveva saputo da
Madame Giry la sera dell'incendio all'Opera Populaire, era stato un
racconto molto confusionario e angosciante, e tuttavia era una storia
terribile. Per questo sentiva che ora, con quella ragazza, non poteva
concedersi il lusso della delicatezza e della diplomazia. Forse Lucia
Aiello era solo una prostituta con la quale Erik aveva sentito una
sorta di strano legame per via di certi problemi fisici, ma se fosse
stato qualcosa di diverso, lui avrebbe voluto saperlo, avrebbe voluto essere pronto.
Ad ogni modo, se la ragazza aveva trovato indiscreto il suo commento
non lo diede a vedere. Lucia Aiello poteva anche essere solo una
prostituta, ma conosceva le buone maniere.
«Credo, signore, che Erik non si confidi davvero con nessuno.
Tuttavia, parliamo spesso, sì. E abbiamo parlato anche di
questa serata» disse.
Parlavano?
Il duca Giusso non aveva mai sperimentato la compagnia di una
cortigiana, aveva amato sua moglie ed era rimasto fedele alla sua
memoria come era stato fedele alla sua persona quando era in vita,
tuttavia non credeva che Erik e Lucia Aiello parlassero spesso.
Cominciava persino a sentirsi confuso adesso.
«Immagino siate un'ottima compagnia»
replicò, per poi rendersi conto solo un attimo dopo di
quanto sciocca e ambigua suonasse la sua frase. Probabilmente
arrossì e sperò che nella penombra del placo la
cosa non venisse notata.
Lucia non disse niente perché in quel momento, grazie al
cielo, la porta si aprì di nuovo ed entrò un
trafelato Guglielmo Marchesi, con la faccia di un uomo che sente sulle
proprie spalle il peso dell'universo.
Il direttore del San Carlo si appoggiò con i palmi delle
mani allo schienale della sedia e sembrò trovare a fatica la
forza necessaria a salutare i presenti.
«Buona sera» biascicò con la voce
flebile, appena udibile.
«Guglielmo, mio caro, sedete prima che vi venga un
attacco» fece il duca additandogli l'ultima poltrona libera.
«Signor duca, in nome del cielo, voi sapete niente di tutto
ciò?» disse Marchesi mettendosi seduto.
«No, la signora qui ne è al corrente, ma in
qualità di buona confidente del nostro amico francese, si
rifiuta di dirci alcunché»
«Adesso mi mettete in difficoltà, duca»
replicò Lucia con fare bonario. «Lo spettacolo non
inizierà che tra pochi minuti e allora saprete tutti di che
si tratta».
Guglielmo Marchesi strabuzzò gli occhi. Se ne stava premuto
contro lo schienale della sedia, come se si aspettasse di ricevere una
bastonata da un momento all'altro, teneva la testa talmente incassata
tra le spalle che quando la muoveva sembrava un enorme esemplare di
tartaruga.
«Signora, per la mia pace... potete dirmi qualcosa di
più?» balbettò, guardando Lucia con
fare implorante.
La ragazza sembrò stupita, come se non si aspettasse di
essere davvero la sola a conoscere i progetti di Erik.
«Signor Marchesi, rilassatevi. Vi assicuro che stasera non
vedrete nulla che possa dispiacervi o danneggiarvi».
Poi non poté aggiungere altro perché le luci in
sala cominciarono a spegnersi. E non ci fu più tempo per
parlare, c'era solo da ascoltare. Da ascoltare una famiglia di
musicisti che suonavano la musica di Napoli, che cantavano quelle
canzoni fatte di fango e sangue come i cuori della gente di quella
città. Tra una canzone e l'altra il signor Bandiello, il
primo tenore del teatro, recitava delle poesie, testi insoliti che
nessuno tra i presenti aveva mai udito prima, insiemi di parole che
grondavano speranza e forza.
Il duca aveva la bocca aperta in una O precisa di perfetto stupore. Lui
le conosceva quelle poesie perché le aveva lette.
Lentamente, come se temesse che un movimento troppo brusco potesse
rompere qualcosa di quell'incanto, si voltò verso sua
figlia.
Lo sguardo lucido di Luisa era inchiodato al palco, inchiodato a quelle
parole che aveva scritto e che fino a quella sera non avevano mai avuto
voce. Una lacrima di commozione – che era indiscutibilmente
la lacrima di una donna, le solcava la guancia, arrivando fino
all'angolo del suo sorriso stupito e soddisfatto.
____________________________________________________________________________________________
Here,
I have a
note...
D'accordo,
tutta la faccenda di Christine fa un po' Conte di Montecristo ed
è...
da crudeltà mentale. Ma se anche io e la mia penna non
fossimo
riuscite a metterci d'accordo, avrei scritto comunque questa
fanfiction solo per scrivere la scena in cui lei sente la musica di
Erik suonata da Louis e sviene... e tutto quello che ne Il
capitolo è un po' un fritto misto di POV e a me di solito
non
piacciono i capitoli così, ma questo è venuto
fuori in questo modo
perché evidentemente così s'aveva da fare. E non
è venuto fuori
nemmeno troppo facilmente.
Siamo
quasi in dirittura d'arrivo con questa storia e avrei bisogno di
rallentare un po', quindi aggiornerò con cadenza
bisettimanale.
Avviso, perché non sopporto di essere in ritardo ed
è inutile
promettervi il capitolo nuovo per il prossimo mercoledì
quando so
bene che non riuscirò ad averlo pronto.
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 18 *** La notte dei miracoli ***
Capitolo diciassettesimo
La notte dei miracoli
~ Napoli, 06 maggio 1872 ~
Applausi.
I lumi che venivano riaccesi scacciarono via le ombre ed Erik si
sentì quasi in dovere di voltarsi e sparire insieme a loro.
Perché anche lui era un'ombra, una mano che muoveva i fili,
il trucco dietro la magia che non va svelato.
Svanito il suono dello scrosciare degli applausi, non c'era
più nulla per lui.
Il teatro vibrò di voci e risate per lunghi minuti mentre la
gente usciva, camminando lentamente per riempirsi il più
possibile gli occhi della meraviglia che aveva appena fatto in tempo ad
assaporare.
Ora che l'incanto era finito, Erik non aveva voglia di restare ad
ascoltare la normalità riprendere possesso di quel luogo.
Lui non era fatto per la normalità.
Si diresse a grandi passi verso il suo ufficio, ma un attimo prima di
raggiungere l'anticamera il passo gli fu sbarrato da una donna.
«Maestro!» esclamò lei, con gli occhi
che scintillavano di ammirazione.
Erik la squadrò cercando di non apparire troppo infastidito.
Qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto conoscerla, che certamente
l'aveva già vista altre volte, ma non aveva idea di chi
fosse. Qualcuno di nessuna importanza, evidentemente, se in tutto quel
tempo non era riuscito a imprimersi nella memoria il suo viso e il suo
nome – e soprattutto la sua posizione.
Si trattava di una ragazza di poco più di vent'anni, con una
massa di capelli rossi e ricci e il viso pallido puntellato di
lentiggini. Era bassa e minuta, molto magra, dalla vita incredibilmente
sottile, tanto che la crinolina dell'abito la faceva sembrare un
pallone aerostatico, di quelli che si vedevano nei disegni sui
giornali.
L'uomo si costrinse alla sua maschera di cortesia e fece un mezzo
inchino, troppo sbrigativo per essere davvero cortese.
«Non vi ricordate di me, lo so» disse la ragazza,
senza però mostrarsi piccata. «Mi chiamo Cecilia,
Cecilia Mauriello».
Il nome non lo aiutava per nulla a rammentare.
«Dovete perdonarmi, signora, ma non riesco a riportare alla
mente chi voi siate» fu costretto ad ammettere. Detestava
sembrare stupido ed essere colto impreparato, ma la ragazza gli aveva
letteralmente sbarrato il passo e non sembrava voler lasciarlo andare.
Di solito le persone si trovavano a disagio con lui. Lei sembrava
più che altro emozionata di potergli parlare e questo, in un
altro momento, avrebbe persino potuto gettarlo nel panico. O sembrargli
estremamente divertente.
«Non sono una signora, non ancora. Mi sposo il mese
prossimo» precisò lei. Come se al suo
interlocutore la cosa dovesse apparire di una qualche rilevanza
– perché secondo le regole di quel gioco che Erik
stava giocando fin da quando era entrato al San Carlo, davanti a certe
notizie una persona dovrebbe mostrarsi interessata e compiaciuta.
«Congratulazioni».
Ora era Erik a sentirsi a disagio. La ragazza allargò il suo
sorriso contento.
«Scusate, vi sto importunando» disse scuotendo la
testa. «Solo che vi ho visto venire qui e... oh, desideravo
da tanto presentarmi».
«E lo avete fatto». Ora, lasciatemi in pace.
«Sono la sostituta della primadonna» aggiunse la
signorina Mauriello, finalmente decisa a dare qualche spiegazione che
fosse di una qualche utilità.
Oh, ecco perché Erik aveva la sensazione di averla
già vista, di sicuro l'aveva intravista girovagare per il
teatro.
«Una sorte infame, essere la sostituta della
Rovesti» continuò la ragazza scuotendo la testa.
«Ad ogni modo, ho assistito alle prove. Lasciatemi dire,
senza timore di sembrare ruffiana, che siete la cosa migliore che sia
capitata a questo teatro da diversi anni a questa parte. E la serata di
oggi! Oh, l'ho gradita molto».
Erik si ritrovò a sgranare gli occhi. Non era abituato per
niente ai complimenti, non a quelli così diretti e
sfacciati, eppure era davvero certo che la ragazza non stesse facendo
la ruffiana, quello sembrava il suo modo naturale di fare. E lo
infastidiva non poco.
«Vi ringrazio, signorina Mauriello» le rispose
tuttavia, con un po' più di calore nella voce.
Lei sorrise ancora e fece una piccola riverenza,
«Vi auguro buona serata, Maestro»
«Altrettanto».
Erik restò a fissare la ragazza allontanarsi lungo il
corridoio, in un fruscio di sete e nastri di raso, con lo sguardo alto
e sicuro proprio di una giovane a cui la vita ha cominciato a
sorridere. La seguì con lo sguardo fino a quando non
sparì nella penombra.
Che strana giovane...
Stava già per aprire la porta del suo ufficio quando
sentì il rumore di uno scalpiccio avvicinarsi rapido,
qualcuno che stava correndo – si sarebbe potuto dire a
perdifiato – sul marmo del lungo corridoio che dal foyer
conduceva agli uffici.
Non fece in tempo a sollevare lo sguardo che una piccola ombra emerse
dal buio e gli si avvinghiò ai fianchi.
La piccola Luisa era troppo bassa per arrivare a cingergli le spalle,
ma la fanciulla adesso gli si era gettata addosso, stringendosi a lui e
aveva affondato la testa nella stoffa del suo panciotto.
Erik sollevò un attimo lo sguardo, quasi frastornato da
quell'assalto affettuoso. Vide Lucia, in piedi sotto l'arco che
immetteva nell'anticamera, se ne stava con le braccia incrociate sul
petto e il fianco appoggiato al muro, e lo guardava con un sorriso
strano, come se fosse fiera di lui.
L'uomo fu costretto a sollevare Luisa tra le braccia, lei gli
posò la testa sulla spalla e restò stretta a lui,
incapace di staccarsi, non riuscendo a fare niente che esprimesse la
sua più totale gratitudine.
Un pensiero quasi molesto folgorò la mente di Erik. Non
aveva mai tenuto tra le braccia una bambina – anche se Luisa
era un po' più che bambina. Il suo sguardo cercò
quello di Lucia, che continuava a sorridergli. L'uomo quasi
arrossì chiedendosi quanto dovesse apparire buffo in quel
frangente... ridicolo, persino. Perché lui non era fatto per
la normalità, e nemmeno per la tenerezza, perché
lui era solo un fantasma e i fantasmi non hanno calore da regalare al
mondo.
Ma per quanto continuasse a ripeterselo, per quanto sostenesse di
esserne convinto, l'abbraccio di Luisa e il sorriso di Lucia erano
là a smentirlo.
Ci vollero diversi minuti prima che la figlia del duca decidesse di
averne abbastanza. Si staccò da lui e gli posò un
sonoro bacio sulla guancia lasciata scoperta dalla maschera. Erik quasi
trasalì e quando la rimise a terra ebbe un brivido, come di
freddo, come se lontano dal contatto con un altro essere umano il gelo
dei fantasmi celati nelle ombre tornasse a circondarlo.
«Tuo padre si starà chiedendo dove sei
finita» disse Lucia, tendendo una mano verso la ragazzina.
Luisa lanciò un'ultima occhiata a Erik, poi si
voltò e si allontanò di malavoglia per tornare
verso il foyer.
Lucia aveva una bella stola di raso che si intonava al suo abito. La
dispiegò e se la gettò sulle spalle.
Stava per voltarsi verso di lui e salutarlo, ma Erik non le
lasciò il tempo.
«Restate» disse. Era una richiesta, non un ordine.
Non aveva alcun potere su quella giovane donna e questo lo rendeva
ancora più confuso. Ancora non era riuscito a chiarire con
se stesso se quell'assenza di potere fosse un bene o un male.
Non avrebbe mai ammesso che non aveva voglia di restare da solo, lui
che con la solitudine ci era cresciuto, tanto da essere riuscito a
farne una corazza; il vuoto e il buio erano la sua inespugnabile
fortezza, ma da quando era arrivato in quella strana città
le mura delle barricate avevano cominciato a coprirsi di crepe, come se
l'aria del mare le avesse consumate, come se il vento che portava voci,
colori e sapori le avesse levigate, rese più fragili. Ed
Erik odiava sentirsi fragile e indifeso.
Ma quella sera era diverso, quella sera niente aveva importanza. Mentre
ogni bocca della città mormorava ammirata il suo nome e lui
avrebbe continuato a sentirsi poco meno di un ombra senza qualcuno che
gli restasse accanto; e non c'era nessun altro ad eccezione di quella
giovane donna dallo sguardo che conosceva troppe cose.
Lucia lo guardò per qualche secondo, corrugando le
sopracciglia, ma non disse niente, si limitò ad annuire e
lui le tese la mano, facendole strada fino alle sue stanze.
Mentre il palmo della ragazza si richiudeva attorno al suo, Erik si
chiese per l'ennesima volta se non fosse del tutto assurdo. Se quella
città non lo avesse, in fin dei conto, fatto impazzire.
Sei sempre stato folle,
Figlio del Diavolo...
Sì, lo era sempre stato. Folle come il fuoco a cui aveva
dato in pasto il suo teatro. Come il suo cuore che batteva contro il
petto così violentemente da annebbiare la mente.
Della follia aveva conosciuto solo la parte peggiore, quella che induce
a fare del male, quella che porta alla disperazione.
Perché?
Esistono forse altri tipi di follia?
Erik non conosceva la risposta a questa domanda, sapeva solo che era
ingiusto il fatto che in quel momento stesse guardando la ragazza come
si guarda un nemico.
Potresti farle del male,
Fantasma dell'Opera...
La voce nella sua testa soffiò le parole come il vento
freddo delle mattine d'inverno. Come la nebbia che strisciava
silenziosa e invadente quella mattina gelida, in quel cimitero, quando
lui si scagliò con tutta la sua rabbia e il suo furore
contro quel giovane che voleva portarle via la sua dolce musa. Si
avventò contro di lui cieco di rabbia, con la spada in
pugno, e fu l'inizio della sua sconfitta.
Ma ora tutto era diverso. Non era più Parigi, non era
più l'Opera Populaire, non c'erano più
né angeli né muse. C'era solo...
… una
prostituta. E potresti davvero farle del male. Oppure lei potrebbe
farne a te.
Erik strinse un po' più forte la mano della ragazza nella
sua.
Non era una follia e non c'era niente che potesse fare male. I
sentimenti possono uccidere, ma lì non c'era nulla di
più di uno strano scherzo del destino che aveva voluto
incrociare due storie così lontane, due mondi distanti che
si sfioravano appena senza mai entrare in collisione.
Sul serio? Allora mandala via.
Da quando in qua la voce dei suoi pensieri era diventata
così petulante e infida? Da quando in qua la sua mente lo
sfidava e lo metteva alla prova? Non aveva nulla da dimostrare.
Nemmeno a te stesso, Fantasma?
Nemmeno a se stesso.
Sei un folle...
No, non lo era!
… e soffrirai
ancora.
No, mai più, per nessuno. Non aveva un cuore, come e
perché avrebbe dovuto soffrire?
«Erik, vi sentite bene?» domandò Lucia
all'improvviso.
«Benissimo» replicò lui in tono formale.
«Vivete davvero qui» osservò la ragazza,
guardandosi attorno dopo che lui ebbe acceso un lume. «Per
essere un genio, vi accontentate di poco».
«Chi ha mai detto che io sia un genio?».
La ragazza si voltò verso di lui, aggrottando le
sopracciglia con aria saputa.
«Ogni vostra azione, da quando siete arrivato qui,
direi» rispose con un sorriso furbo, avvicinandosi in quel
modo che faceva sempre sentire Erik come un tiro di dadi giocato male.
Oh, no, non era la sua solita maniera da seduttrice, era qualcosa di
strano e di diverso, molto meno minaccioso e più impaurito. Sembrava
che per una volta fosse lei a sentirsi fuori posto. Che
stesse cominciando a provare della tenerezza per lui?
L'uomo rispose con poca convinzione quando la giovane donna
posò le sue labbra sulle sue. Lucia ebbe uno strano sussulto
e allontanò il viso da quello di lui; c'era uno strano
accenno di pena nei suoi occhi scuri e a Erik fece male vedere
quell'ombra attraversarle lo sguardo, perché si era sentito
rifiutato tutta la vita e, per quanto fosse stato folle e crudele,
quella non era uno sofferenza che avrebbe voluto mai imporre a un altro
essere umano, di certo non era una sofferenza che Lucia meritava.
Le cinse la vita con le braccia, attirandola a sé,
passandole una mano tra i capelli prima che le dita corressero ad
armeggiare con i lacci che chiudevano il vestito.
Questo non sei tu,
Figlio del Diavolo.
No, non era lui. E adesso, forse, cominciava a credere che tutto quello
che era stato prima di quella sera fosse la parte sbagliata di
sé.
*
La giovane si strinse un po' più forte nel suo scialle e
continuò a camminare, malgrado il suo passo fosse ormai
malfermo per il troppo bere.
Quella era stata una serata strana, la notte dei miracoli. Era entrata
nel teatro, avevo visto un bello spettacolo, aveva pensino cantato
insieme ai musicisti di strada, tutto il teatro aveva cantato in
realtà.
Speranza si chiese se succedeva anche quando i grandi signori andavano
a vedere l'opera, se anche loro cantavano tutti insieme le arie della
lirica. Probabilmente no.
La ragazza si rese conto di star formulando pensieri assolutamente
sciocchi e privi di senso. Era colpa del vino, sicuramente, ma non le
importava.
Quella era la notte dei miracoli e per una volta aveva deciso di
pensare a divertirsi.
Si passò la mano sul piccolo ciondolo d'argento che pendeva
dalla sua catenina, i simboli delle tre virtù cardinali. Sua
sorella Fede, la sua gemella, ne aveva uno uguale.
Sua sorella Fede non l'aveva mai lasciata entrare nel teatro, non nella
platea almeno. Le poche volte che si era degnata di andare a parlare
con lei lo aveva fatto uscendo da una porticina di servizio, lo aveva
detto apertamente che non voleva che qualcuno la vedesse, anche se
tutta la città sapeva.
Ad un certo punto, Speranza si era stancata, aveva cominciato a trovare
umiliante quella situazione, per questo aveva chiesto a Lucia di andare
lei da sua sorella; Lucia in teatro ci era stata, tante volte, nei
posti da signori, prima che succedesse l'incidente, e al san Carlo la
conoscevano tutti e poi Lucia era tanto brava a impapocchiare la
gente di chiacchiere e sapeva come convincere Fede a prendere i soldi
che lei cercava sempre di farle avere, quei soldi che sua sorella
faceva sempre tanta fatica ad accettare, perché era sporchi,
come diceva lei.
Speranza era convinta che non esistessero soldi sporchi o puliti,
esisteva solo la differenza tra il morire di fame e il sopravvivere. E
che a Fede piacesse o meno, con la loro madre malata, un po'
più di denaro in tasca faceva comodo e lei guadagnava molto
di più e molto più in fretta di quello che
portava a casa Fede facendo l'inserviente al San Carlo. Era stata una
questione di scelte, Fede non ce l'aveva fatta, Speranza sì.
Speranza sbuffò contro la luna, un fanale puntato sulla
città appositamente per ricamare d'argento il mare
increspato dal vento.
Quella era proprio la notte dei miracoli. Madame Fantine aveva dato a
tutte loro la serata libera, in tante erano curiose di andare a teatro,
soprattutto quelle che non c'erano mai state. E lei non ci era mai
stata, non era bella come alcune sue compagne, né aveva
quella strana abilità a capire le persone che invece aveva
Lucia. Speranza voleva solo andare a teatro, vedere com'era il San
Carlo dall'interno e divertirsi, non aveva mai voluto guai o problemi,
per questo non pensò che quegli uomini fossero lì
per lei.
Erano in tre, appoggiati al muro dove la strada faceva angolo e
spuntava nella piazza dove affacciava il bordello. Sembravano normali
clienti usciti da poco dalla taverna che doveva appena aver chiuso, ma
quando la videro avvicinarsi, abbassarono i berretti sulle facce. Facce
da sparvieri, facce rapaci.
Sì, era molto tardi e lei era rimasta in quella cantina a
bere vino per troppo tempo. Troppo tardi e troppo vino, forse Madame
Fantine le avrebbe fatto una ramanzina...
«Scusate, signorina» disse un uomo, bloccandole la
strada.
Per un attimo Speranza ebbe paura, il vicolo era buio e deserto. Il
posto che chiamava casa era appena dietro l'angolo ma ora le sembrava
lontanissimo. Poi si ricordò che non era mai successo niente
a nessuna di loro, si ricordò che il posto in cui lavorava
era un luogo che godeva di uno strano rispetto in città e
nessuno, nemmeno il più ubriaco degli ubriaconi vomitato
dalla taverna aveva mai alzato un dito su una delle ragazze dell'Araba
Fenice; quello era un posto da signori e le cose dei signori non si
toccano.
La ragazza alzò lo sguardo un po' stralunato sull'uomo che
le si era parato davanti.
«Sì, dite...» mormorò,
sentendo la lingua annodata per i fumi dell'alcol.
E poi fu un attimo. Gli altri due uomini si strinsero di lato,
afferrandole le braccia e spingendola contro il muro.
Forse doveva succedere
prima o poi...
Si disse che forse doveva succedere, che prima o poi sarebbe spuntato
qualcuno dal nulla che non avrebbe avuto alcun riguardo per il nome del
posto da cui proveniva e che le avrebbe fatto del male.
Speranza era quasi pronta a non farsi prendere dal panico e dalla
paura. Si disse che non poteva essere diverso da tutti gli altri uomini
che aveva soddisfatto senza provarne il desiderio, si disse che sarebbe
passata in fretta.
Ma quegli uomini non volevano abusare di lei. Se ne accorse quando vide
per un attimo il baluginio della lama di un serramanico comparire
davanti ai suoi occhi.
«Io... perché?... cosa volete?»
squittì, incapace di reagire e di sottrarsi alla stretta dei
due che la tenevano ferma per le braccia, inchiodata al muro come una
vittima sacrificale su un altare.
«Lasciarti un omaggio» borbottò l'uomo
con il coltello, afferrandole il mento con la mano libera dall'arma.
Cosa? Perché?
«Eh, vedi, certe cose non si devono fare» aggiunse
il suo aguzzino, enfatizzando un'aria di monito.
Nella testa della ragazza comparvero immagini sfocate della bambina che
era stata un tempo, si rivide seduta sulla panca di una chiesa. Nella
sua mente facevano eco le parole di una preghiera che non avevano alcun
senso per lei ma che aveva imparato a memoria perché il
prete glielo aveva chiesto come penitenza la prima volta che si era
andata a confessare.
Io non ho fatto niente.
Si chiese se recitare una preghiera a vuoto potesse salvarla. Se Dio
avrebbe ascoltato ugualmente.
Non ho fatto
niente...niente...
L'uomo la schiaffeggiò con violenza, impastò la
bocca e le sputò in viso.
«Non si fanno arrabbiare...» le disse alzando la
mano che reggeva il coltello. Poi l'abbassò.
La lama tracciò un solco bruciante dal sopracciglio destro
alla mascella sinistra.
«... le brave persone, Lucia» concluse lui mentre
la ragazza cominciava a sentire il sangue colarle sul volto.
Lucia? Io non sono
Lucia...
Avrebbe voluto dirlo, gridarlo, ma non aveva più forze. Si
lasciò cadere sul ciottolato e perse i sensi.
*
Lucia si svegliò di colpo, aprì gli occhi e
scattò a sedere in mezzo al materasso.
Dagli scuri chiusi filtrava la luce del mattino, mattino inoltrato a
giudicare dalla luminosità di quella lama di sole che
disegnava una riga precisa sul pavimento sotto la finestra.
La ragazza si stropicciò il viso e si voltò per
sincerarsi di non aver svegliato Erik. Non avrebbe dovuto fermarsi a
dormire lì, non avrebbe dovuto nemmeno accettare di restare,
cosa le era preso?
Ora avrebbe voluto solo svegliarsi e andarsene senza che lui se ne
accorgesse, perché nel momento stesso in cui Lucia aveva
aperto gli occhi e aveva realizzato di essere in quegli strani alloggi
dentro al teatro si era resa conto che, dopo tutte le sue peripezie e
dopo tutti i suoi dispiaceri, c'era una cosa che proprio non era in
grado di sopportare: Erik che la pagava. Di queste cose se n'era sempre
occupata Madame Fantine e, a prescindere da tutto ciò, lei
non era rimasta lì per lavoro. Era rimasta perché
sapeva che il Maestro francese non aveva voglia di restare da solo e
lei non aveva trovato una sola ragione valida per negargli il desiderio
di avere compagnia.
Ora però, di ragioni valide ne trovava a migliaia.
Ed Erik era già sveglio, si era già alzato e
adesso se ne stava seduto su una poltrona ai piedi del letto, leggendo
un giornale.
«Me lo ha fatto avere il signor Marchesi di buon
mattino» le disse subito, appena si voltò verso di
lei, attirato dal fruscio delle lenzuola. «Pare che la serata
di ieri abbia fatto notizia».
Certo che ha fatto
notizia!
«Ne sarete immensamente soddisfatto, immagino. Dopotutto
l'avete organizzata voi».
Erik annuì distrattamente. Sembrava godere del suo successo
solo nell'attimo in cui avveniva, dopo tutto sfumava in un lampo per
lui. Lucia scosse la testa e alzò gli occhi al cielo.
Naturalmente,
è un genio e i geni sono sempre affamati di nuove mete da
raggiungere...
«E sarete contento di aver regalato una tale emozione alla
piccola Luisa» aggiunse la ragazza, notando che gli occhi di
Erik si illuminavano al sentir pronunciare quel nome.
Lui accennò un sorriso, uno dei suoi, talmente rapido e
furtivo da sembrare solo un'illusione su quel viso dal cipiglio grave.
«Mi permettete una domanda, signora?» disse poi
l'uomo, piegando il giornale che stava leggendo e appoggiandoselo in
grembo. Non era esattamente una richiesta, Lucia se ne accorse dal modo
in cui Erik la stava guardando negli occhi, con quel fare
così... così inesorabile.
«Dipende dalla domanda»
«Cosa c'è tra voi e la signorina
Rovesti?».
Lucia avrebbe davvero voluto evitare di rispondere, ma sapeva che in
qualche modo Erik non glielo avrebbe permesso e sapeva anche che doveva
esserci un motivo per il quale gli stava facendo quella domanda.
«Lei non ve lo ha detto?» chiese, mordendosi il
labbro.
«Se ve lo sto chiedendo è perché sono
interessato a quello che voi avete da dire» rispose lui, con
pacata freddezza, come a lasciarle intendere che non voleva che si
mettesse alla prova la sua pazienza.
«Lei si è sempre sentita minacciata da
me» spiegò la ragazza. «Ambiva alla
corte di certi signori che mi avevano dedicato le loro attenzioni,
signori benestanti che avrebbero sovvenzionato i suoi spettacoli se lei
fosse riuscita a entrare nelle loro grazie. Poi...».
Lucia si interruppe, chiedendosi se fosse il caso di continuare il suo
racconto. Aveva già dato al suo interlocutore una risposta
abbastanza esaustiva e non c'era bisogno di aggiungere altro, anche se
dentro di lei sentiva che Erik meritava di conoscere tutta la storia,
perché si stava fidando di lei, perché le aveva
chiesto delle spiegazioni dimostrando di credere alla sua parola e non
dare per scontato ciò che gli doveva aver detto quella
maledetta sirena incantatrice.
«Continuate» la esortò Erik.
«Nessuno meglio di voi sa quanto poco io conosca le donne, ma
conosco l'astio e il risentimento più di chiunque altro, e
quello che c'è tra voi e la signorina Rovesti non mi sembra
una semplice rivalità tra donne molto popolari tra i ricchi
signori».
«Ci innamorammo della medesima persona. Siete
soddisfatto?». Lucia buttò fuori quelle parole
quasi con rabbia e non capì se lo sguardo vagamente stupito
di Erik fosse dovuto alla sua reazione o al senso delle parole che
aveva detto.
Il suo cuore cominciò a sanguinare. Provò sincera
rabbia per l'uomo che aveva di fronte e che la teneva inchiodata
lì con quello sguardo di piombo fuso e mare in tempesta, non
la sciandole scampo, pretendendo spiegazioni.
«Si chiamava Andrè. Era francese, come voi. Ed era
mio...» sibilò Lucia, sentendo l'eco di ombre
lontane che si dibattevano nella sua testa, voci che si mischiavano in
una tremenda sinfonia che aveva il suono dello scoppiettare del fuoco.
«Poi ci fu l'incendio. Io rimasi confinata a letto per non so
quanto tempo a riprendermi dalle ustioni e lei me lo portò
via».
E perché diamine lui la stava fissando in quel modo assurdo?
Con quel sopracciglio inarcato e la bocca schiusa per lo stupore? Cosa
altro voleva da lei?
Erik si voltò, distolse lo sguardo e fece piccoli respiri
regolari, come se per un attimo gli fosse mancata l'aria e adesso aveva
bisogno di tornare a respirare normalmente.
«E dov'è quest'uomo, ora?» chiese con la
voce arrochita da una strana, penosa emozione.
«Evidentemente non amava né me né lei,
perché dopo avermi abbandonata e dopo essere caduto tra le
sue braccia, lasciò Napoli. Credo sia tornato in Francia,
non ho più avuto sue notizie». La ragazza
cercò di pronunciare quelle parole con il tono
più calmo e freddo possibile, poi chinò il capo e
restò lunghi secondi in silenzio.
Quando alzò di nuovo lo sguardo su Erik, che era rimasto
anche lui immobile, con le dita serrate attorno ai braccioli della
poltrona, Lucia comprese.
«È quello che è capitato anche a voi,
giusto? Con la donna che amavate...» mormorò.
Quella consapevolezza affiorata come dal nulla ebbe solo l'effetto di
acuire il dolore che ora sentiva al petto.
«No, non esattamente. Lei scelse un altro perché
amava lui e non me» concluse Erik con una voce che adesso
sembrava lontanissima, come se ogni parte di lui stesse affondando in
un mare di ricordi. E doveva essere proprio un mare in tempesta.
«Amate ancora il vostro Andrè?».
«No. Dopo tutto questo tempo temo sia solo rimpianto e
delusione. E voi, amate ancora quella donna?»
«Questa, signora, è una risposta che non so
darvi».
*******
~ Parigi, 16 maggio
1892 ~
Christine accarezzò distrattamente l'orlo morbido del
lenzuolo rimboccato sul suo letto, quel letto dove il medico l'aveva
confinata per prudenza. La donna sapeva bene che la prudenza non
apparteneva al dottore ma a suo marito, ma andava bene comunque. In
tutti quegli anni Raoul non le aveva mai fatto mancare attenzioni e
premure e se tre giorni a letto erano il prezzo da pagare, Christine ne
era ben contenta.
Christine aveva pagato il prezzo di quell'amore molte volte e non aveva
rimpianti. Tranne uno...
Per anni aveva tenuto i ricordi imprigionati in un angolo molto remoto
della sua mente, quando distrattamente il pensiero andava a toccare i
confini di quella gabbia della memoria, le immagini riaffioravano come
spezzoni di una fiaba ascoltata tanto tempo prima, erano disegni
sfocati, tele sfilacciate. E poi, naturalmente, c'erano gli incubi, ma
con quelli aveva imparato a fare i conti, perché ad ogni
brutto sogno seguiva un risveglio e al suo risveglio c'erano suo marito
e suo figlio accanto a lei.
E poi era arrivato Louis, con il suo violino e la sua musica.
Christine non aveva idea di cosa fare, di come comportarsi con lui. Il
ragazzo sembrava non avere la benché minima idea di chi
fosse lei – di chi fosse, in relazione al passato di suo
padre. Durante la sua convalescenza, la donna aveva persino pensato che
quel giovane fosse giunto a Parigi mandato a cercare vendetta o
qualcosa del genere, che ci fosse un piano prestabilito dietro
quell'assurda coincidenza; ma era chiaro che Louis non sapesse nulla,
era rimasto troppo turbato dal suo malore, parlava con discrezione
della sua famiglia, era troppo troppo innocente.
E tuttavia Christine non sapeva cosa fare quando lo avrebbe rivisto,
non sapeva se sarebbe stata in grado di celare il suo turbamento. Se
quel ragazzo non aveva mai conosciuto il nome dei De Chagny
è perché evidentemente lui... suo padre
aveva voluto proteggerlo dalla verità di una storia troppo
tremenda e troppo dolorosa e chi era lei per infliggere a quel giovane
privo di colpe una condanna così grande? La
verità su quella storia aveva fatto già fin
troppe vittime in passato.
Eppure lei avrebbe desiderato tanto parlargli, insistere per sapere di
più della sua famiglia, sapere chi era stato suo padre in
tutti quegli anni, se era stato felice. Se il suo Angelo della Musica
aveva trovato un grammo di paradiso di cui appropriarsi senza
sofferenza.
In realtà, Louis era già una risposta abbastanza
eloquente a tutte quelle domande. Era un bel ragazzo, di buon cuore,
educato, allegro, senza tracce di sofferenza nei suoi occhi...
Christine non fu subito consapevole delle lacrime che le stavano
rigando il viso, se ne accorse solo quando sentì dei
movimenti concitati provenire dal corridoio.
«Lasciate che vi annunci, mademoiselle» stava
dicendo il maggiordomo.
«Sciocchezze! So bussare da sola alla porta,
grazie» aveva replicato una voce stizzita.
«Christine, posso entrare?!».
Meg...
Christine si affrettò ad asciugarsi il viso rigato di pianto
e si fece aria con le mani, sperando di soffiare via dagli occhi un po'
di rossore.
Mag Giry bussò alla porta e chiamò il suo nome.
«Entra pure» la invitò la viscontessa,
appoggiando le mani in grembo e tentando di assumere un'aria serena.
Meg aveva conservato tutta la grazia propria della giovane ballerina
che era stata un tempo e non aveva mai perso quella sua aria giocosa e
un po' impertinente, né quel suo fare risoluto. Tra lei e
Meg, era la ballerina bionda a sapere sempre cosa dire, come fare,
quali parole usare per rincuorarla quando lei era triste. Tra lei
è Meg, Meg era quella che sapeva molte più cose o
che, quanto meno, aveva il coraggio di non fingere, di non ignorare la
verità quando questa arrivava a chiedere il proprio
tributo... come la notte dell'incendio... come quando...
«Oh, Christine!» esclamò la donna
bionda, attraversando la stanza con il suo passo aggraziato da felino,
«sei stata male e io devo venirlo a sapere per caso da una
signora in teatro!».
Certamente, Parigi non aveva mai smesso di parlare, e di certo non
avrebbe mai smesso di parlare di lei.
«Mi dispiace Meg, ma non era niente di grave e non volevo
distrarti dai tuoi impegni, ma grazie di essere venuta» disse
Christine, stringendo le mani dell'amica nelle sue. Solo al contatto
con le dita calde di Meg si accorse di quanto le sue mani invece
fossero gelide.
Your hands are cold...
Your face, Christine,
it's withe...
Don't be frightens.
Un pensiero sconnesso e disperato attraversò la mente di
madame De Chagny. Meg era lì quando tutto aveva avuto
inizio, ed era lì quando tutto era finito. Forse Meg avrebbe
saputo ancora una volta cosa dire, darle qualche suggerimento su cosa
fare con il giovane italiano, con il figlio di... il figlio del Fantasma dell'Opera.
Trak down this murderer,
he must be found!
«Christine, cos'hai? Sembri distante, a che pensi?»
chiese Meg, con dolcezza, come quando si raggomitolavano sotto le
coperte dello stesso letto nel dormitorio del collegio e lei non aveva
il coraggio di parlarle del suo Angelo della Musica. Avrebbe dovuto
parlargliene adesso? Avrebbe dovuto dirgli di Louis, di quello che
aveva scoperto?
To long he's preyed on us
but now we know:
the Phantom of the Opera
is there,
deep down below...
No, Meg non avrebbe capito. Meg era insieme agli latri quella notte, a
guidare la folla inferocita che si era riversata nei sotterranei.
Ancora una volta Christine era sola e in balia dei fantasmi.
___________________________________________________________________
Here,
I have a
note...
"Impapocchiare di chiacchiere" sta per "rabbonire e persuadere con le
parole", più o meno (ci sono singole parole, nel dialetto
napoletano, che esprimono con molta precisione concetti che tradotti in
italiano meriterebbero frasi più lunghe).
Oook! Vorrei avere una scusa per questo abnorme ritardo, ma non ce
l'ho, non una particolarmente eloquente e giustificante
almeno. Però farò il possibile per aggiornare
entro una settimana, facciamo che ci rileggiamo mercoledì
prossimo, costi quel che costi!
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 19 *** Verità ***
Capitolo diciottesimo
Verità
~ Napoli, 07 maggio 1872 ~
Erik era stato pazientemente alla finestra, ad attendere che facesse
sera.
In quel periodo dell'anno le giornate cominciavano a diventare
più lunghe e Napoli era una città che si teneva
avidamente aggrappata alla luce del sole. Questa forse era una delle
poche cose in cui lui e quel luogo non si assomigliavano per niente,
Napoli sapeva
tenersi stretta la luce, quando poteva, lui invece non era mai stato
capace.
L'uomo guardò il suo diario posato sul piano della
scrivania, lo aveva preso per scrivere di quell'ultima giornata di
prove, della crescente agitazione che sentiva serpeggiare nel teatro
man mano che la sera della prima si faceva più imminente. Ma
alla fine non aveva scritto nemmeno una riga, aveva la strana
sensazione che quel giorno non fosse affatto finito, sentiva nell'aria
il peso di qualcosa di imminente. Si era dato dello sciocco, ma
difficilmente le sue sensazioni lo traevano in inganno.
Alla fine aveva deciso di rimandare la stesura dell'aggiornamento del
diario all'indomani, quando quelle strane impressioni sarebbero
svanite. O sarebbero state verificate.
Si avvicinò alla scrivania e prese il quaderno tra le mani,
facendo frusciare le pagine contro il pollice. Quando la piccola Luisa
glielo aveva regalato, gli era sembrata una cosa così priva
di senso. Se anche avesse immaginato di vivere nell'arco di pochi mesi
tutte le cose che aveva effettivamente vissuto, non gli sarebbe mai
venuto in mente di metterle per iscritto, pensava fosse un passatempo
per giovinette o un vezzo da persone importanti che provano fin troppo
diletto a crogiolarsi nel peso delle proprie parole. Si era ritrovato a
scrivere per l'istintivo bisogno di dar voce ai suoi pensieri, quando
ancora credeva che nessuno avrebbe mai ascoltato, alla fine aveva
continuato perché vedere quelle pagine riempirsi gli dava la
sensazione che la sua vita non stesse andando alla cieca, quelle righe
che si susseguivano gli lasciavano l'illusione di avere un'anima,
un'anima che poteva essere espressa, trasformata in inchiostro, e
quindi resa più concreta. Quel diario sarebbe stato in
qualche modo la prova che dietro la maschera del Fantasma dell'Opera
c'era stato un uomo, poco importava se nessuno lo avrebbe mai letto.
Erik accarezzò distrattamente la copertina di pelle del
quaderno, prima di riporlo nel cassetto. Poi decise che la sera era
abbastanza prossima da indurlo a uscire.
Percorse la strada con il passo distratto e cadenzato dell'abitudine.
Si fermò solo qualche secondo per lasciar cadere un paio di
monete nel cappello di un suonatore di violino che suonava malamente
uno strumento scordato all'angolo di un vicolo.
Aveva strani pensieri, quella sera. Pensieri grandi e rumorosi che
coprivano quasi del tutto le voci della città. Nella sua
mente il passato e il presente si mescolavano, diventando uno strano
quadro dai contorni distorti.
Erik sospirò contro il cielo di Napoli, sapendo che non
sarebbe mai stato in grado di affrontare i ricordi né di far
pace con quello strano presente. Ogni volta che tentava di concentrarsi
su una singola riflessione che riguardava qualche elemento della sua
vita, tante altre immagini facevano capolino nella sua mente,
rendendogli impossibile qualsiasi elucubrazione. Arricciò il
naso, pensando che un uomo che non è in grado di far
chiarezza dentro se stesso vale davvero molto poco e mai come quella
sera lui si sentiva prossimo al considerarsi una nullità.
Non perché si credeva privo di valore – aveva il
suo talento, aveva la musica – ma perché,
semplicemente, non sapeva più chi era.
Arrivò davanti al portone dell'Araba Fenice. Un pensiero
ancora più amaro si agitò in fondo alla sua
mente: lui non sapeva più chi era e nessun altro lo aveva
mai saputo. Si erano tutti creati delle idee personali su di lui, ma la
verità restava celata ed Erik si chiese cosa ne sarebbe
stato della sua nuova
vita se anche solo una di quelle persone avesse scoperto
quell'enorme pozzo buio, quella voragine di sangue e fuoco, il
personale inferno che lui si portava dentro, che aveva costruito con le
sue stesse mani.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, Erik si ritrovò a
formulare una riflessione che giudicò folle un attimo dopo:
sarebbe stato meravigliosamente liberatorio lasciare che qualcuno
sapesse la verità. Il mostro che ancora era convinto di
essere aveva fame di disprezzo.
«Follie...» mormorò tra sé e
sé l'uomo, varcando la soglia della palazzina.
Nella sala di ingresso dell'Araba Fenice tutto sembrava al proprio
posto, come era sempre stato, eppure la sua mania per i dettagli fece
scorgere a Erik qualcosa di strano. Forse era per il cipiglio di Madame
Fantine, meno giulivo del solito, forse era per i volti un po' tesi di
alcune ragazze, il cui sorriso rivolto ai clienti appariva ancora
più forzato e artificioso, oppure era per i fiori nei vasi,
non freschi come al solito, come se non ci fosse stato tempo di
sostituirli, come se fosse accaduto qualcosa che aveva distratto tutti
quanti.
L'uomo decise di ignorare quei particolari, se la sua
curiosità si fosse fatta particolarmente pressante avrebbe
sempre potuto chiedere a Lucia, ma non gli importava particolarmente
dei retroscena della quotidianità di quel posto.
«Non stasera». La voce di Madame Fantine
arrivò perentoria, come il suo sguardo che si posava sul
viso dell'uomo.
La maîtresse non aveva molta simpatia per lui, di questo non
si era mai preoccupata di farne un mistero, ma dopo la prima sera, dopo
il loro primo battibecco, le loro interazioni erano diventate brevi e
formali e lei non aveva più manifestato alcuna obiezione
alla sua presenza o al suo interesse esclusivo per Lucia. Adesso cosa
diamine era quella novità?
«Come dite, Madame?» borbottò Erik,
senza preoccuparsi di nascondere la propria irritazione.
«Non potete vederla, non stasera» rispose la donna,
aspra.
«Non mi pare abbiate mai avuto molta voce in capitolo, fino
ad ora»
«Non ho tempo per le vostre chiacchiere. Non vi
può ricevere, questo è».
L'uomo inclinò appena la testa, scrutando il volto
accigliato della buffa signora. C'era una certa gravità
nello sguardo che lei gli stava rivolgendo ed Erik si disse che se
proprio quella sera la tenutaria del bordello aveva deciso di
impuntarsi, dopo tre settimane in cui era stata arrendevolmente
rassegnata alla sua presenza, doveva certo essere accaduto qualcosa di
grave.
«Cos'è successo?» le chiese, pacato ma
deciso, con un tono e uno sguardo che fecero quasi capitolare la sua
coriacea interlocutrice.
«Niente che vi riguarda. Abbiate pazienza, tornate un'altra
volta» concluse lei con un sospiro, scuotendo la testa sotto
la parrucca incipriata.
Erik sentì una stilettata di preoccupazione,
«Lucia sta bene?» si lasciò sfuggire.
Madame Fantine schiuse le labbra in una strana espressione stupita,
«Che ve ne importa?» disse con una freddezza tale
che l'uomo si sentì davvero raggelare. Non credeva che
qualcuno potesse davvero turbarlo così, meno che mai quella
donna.
Restò in silenzio per lunghi secondi. Non pensò
neanche di provare a dare una risposta a quella domanda, ma il cipiglio
di Madame Fantine lo aveva turbato e lui conosceva un solo modo per
reagire al turbamento: fare qualcosa.
Senza aggiungere altro, Erik si voltò, ignorando bellamente
la donna, e si diresse a grandi passi verso il corridoio che conduceva
alle stanze, procedendo spedito verso la camera di Lucia. Quale che
fosse il motivo per cui lei non poteva vederlo, voleva conoscerlo di
persona. E se avesse scoperto che era malata o che le era successo
qualcosa di cui Madame Fantine aveva ritenuto di doverlo tenere
all'oscuro... ah, ci avrebbe pensato dopo. Se c'era qualche motivo
particolare per cui Lucia non voleva vederlo, allora avrebbe dovuto
dirglielo lei di persona. E anche questa era una prospettiva non troppo
piacevole a cui pensare.
«Dove state andando? Non potete... tornate qui...»
borbottò la donna, sforzandosi di non alzare troppo la voce
per non farsi sentire dalle altre persone nella saletta.
La maîtresse gli si precipitò dietro, in uno
sbuffo di merletti e diversi strati di gonne che rendevano goffa la sua
corsa nel tentativo di fermarlo.
Erik raggiunse la porta della stanza di Lucia prima che Madame Fantine
gli fosse vicino e bussò cercando di imporsi una certa
calma. Dall'interno non giunse nessuna risposta.
«Non c'è... come ve lo devo dire? Ve ne
dovete andare...» disse la donna, che lo aveva appena
raggiunto, con il fiato corto.
Erik restò immobile con il pugno ancora poggiato contro lo
stipite di legno, rendendosi conto di quanto doveva sembrare stupido e
ottuso. Quella reazione così cieca ed istintiva non
apparteneva all'uomo, ma al Fantasma e per un attimo ne fu spaventato.
Né all'uomo né al Fantasma avrebbe dovuto
importare fino a quel segno di quella giovane donna.
Stava per convincersi di lasciar perdere, voltarsi verso la
maîtresse, borbottare qualche scusa e magari chiedere
semplicemente di riferire a Lucia che era passato. Questa era una
reazione normale, l'unica reazione possibile dato che non c'erano
risposte per la domanda che ve ne importa?
Ritrasse la mano che aveva tenuto ferma contro la porta della stanza e
fece per voltarsi verso Madame Fantine, quando il suo sguardo
intercettò qualcuno in piedi sugli ultimi gradini della
scala che portava al piano superiore.
«Oh...». La persona sulla scala emise una specie di
lamento strozzato, un verso che doveva essere di pena o di imbarazzo. O
di paura.
Erik si ritrovò ad osservare confuso Fede, l'inserviente del
teatro, immobile come una statua di sale, con una mano poggiata sul
corrimano e l'altra chiusa a pugno per tenere sollevato l'orlo della
gonna nell'atto di scendere gli ultimi gradini.
La ragazza era arrossita violentemente e poi il suo viso era sbiancato
di colpo.
Erik si ricordò di aver visto una giovane praticamente
identica a lei una delle prime volte che si era avvicinato al palazzo,
ma gli riusciva impensabile credere che Fede avesse davvero qualcosa a
che fare con quel posto.
Fede sembrava sul punto di mettersi a piangere.
«Madame...» mormorò con la voce tremula,
a chiedere che la donna dicesse qualcosa, che spiegasse al Maestro la
sua presenza in quel posto – anche se a a Erik non importava
davvero, era convinto che la ragazza non gli dovesse alcuna spiegazione
e che, in ogni caso, ognuno ha diritto ai propri segreti e lui non
sarebbe andato in giro a dire di averla vista nei corridoio dell'Araba
Fenice.
«Ah, San Gennaro mio, dacci i lumi!»
gracchiò Madame Fantine scuotendo la testa.
«Volevate Lucia, Maestro? Eh, adesso vi porto da Lucia. Mi
farete uscire scema, tutti quanti...».
Erik sgranò gli occhi. L'atteggiamento della donna era
cambiato di colpo, non sembrava più fredda e determinata a
tenerlo lontano, adesso sembrava sull'orlo di una crisi di nervi e
sembrava quasi intenzionata a farsi prendere la mano solo per fare un
dispetto a tutti quanti. Doveva essere davvero turbata se aveva perso
il suo solito lezioso contegno da perfetta padrona di casa. E adesso
Erik si stava chiedendo cosa c'entrasse tutto questo con Lucia.
«Io ero scesa a prendere dell'acqua, signora»
pigolò Fede, all'improvviso, con mesto tono di scusa.
«Sì, sì, tutto quello che ti serve, piccerè...»
rispose la donna, poi si voltò e fece cenno a Erik di
seguirla. «È successa una brutta cosa a una delle
ragazze» spiegò mentre salivano le scale.
«La sorella gemella della nenna che avete
visto, la conoscete, no? Lavora nel teatro».
«La conosco» rispose Erik, cercando di mantenersi
calmo. Avrebbe voluto far notare alla donna che non c'era bisogno di
fare tante storie, che sarebbe stato meglio per tutti se lei gli avesse
detto quelle cose fin da subito, ma capì che sarebbe stato
inutile, avrebbe solo fatto indispettire ulteriormente
la maîtresse e, in ogni caso, adesso era
turbato anche lui. Che cosa era successo di così brutto alla
ragazza?
«Lucia se l'è presa assai a male, per tutte cose
che non vi devo dire io, ve le dice lei se vuole» concluse
brusca Madame Fantine, fermandosi davanti all'ultima camera in fondo al
corridoio del secondo piano; aprì la porta quel tanto che
bastava a guardare dentro, senza che Erik riuscisse a scorgere chi o
cosa si trovava oltre la soglia.
«Lucia?» chiamò a bassa voce.
«Il Maestro francese
insiste per vedervi». Detto questo si
voltò, rivolse all'uomo un'occhiata crucciata, poi
sospirò, alzò gli occhi al cielo e si
dileguò in fondo al corridoio, giù per le scale.
Dall'interno della camera Erik sentì provenire dei
singhiozzi acuti, misti a dei rumori ovattati. All'improvviso fu
assalito da un tremendo senso di imbarazzo. Era stata davvero una buona
idea insistere per vedere Lucia? Cosa avrebbe dovuto dirle? Voleva solo
sincerarsi che... che lei stesse bene e che non ci fossero dei motivi
personali per quell'improvvisa assenza. Madame Fantine avrebbe potuto
spiegargli da subito come stavano le cose e lui se ne sarebbe andato
senza indugiare oltre. Ma di quello che era successo, qualsiasi cosa
fosse, Erik non aveva ancora capito niente e non sapeva quanto era
giusto pretendere delle spiegazioni da Lucia.
La giovane donna uscì dalla camera. Indossava gli stessi
abiti eleganti con cui era andata via dal teatro quella stessa mattina,
quando lo aveva lasciato; i capelli le ricadevano scomposti sulle
spalle; era come se non si fosse mossa da quella stanza per tutto il
giorno. Aveva il volto segnato dalla stanchezza e anche da qualcosa
d'altro. Lucia aveva pianto e c'era un malessere pesante che aleggiava
in fondo al suo sguardo.
Erik si sentì terribilmente fuori luogo quando lei gli
puntò in viso quegli occhi stanchi e arrossati. Essere stato
un avido spettatore di vite drammaticamente distanti dalla sua non lo
rendeva anche un buon attore su quel genere di palcoscenico tanto
insidioso.
«Volevate vedermi. Eccomi» disse Lucia con voce
spenta. Sembrava distante, vagamente fredda; l'uomo non seppe dire se
c'era una nota di rimprovero in quella voce, provò solo
un'immensa pena e decise che era inutile tentare di sostenere un ruolo,
tentare di fare l'attore.
«Madame Fantine non voleva spiegarmi cosa è
successo. Mi sono impensierito» ammise semplicemente.
«So che è accaduto qualcosa a una vostra compagna.
Non volevo darvi noia».
Era sollievo quello che adesso stava comparendo sul viso di Lucia? Erik
non fece in tempo a stabilirlo, perché lei voltò
bruscamente il viso, puntando lo sguardo altrove nel tentativo di
nascondergli le lacrime che le stavano inumidendo gli occhi.
«Vi... vi sono grata per il vostro interesse»
farfugliò Lucia. Erik non si sarebbe mai aspettato di
vederla così confusa e fragile. Confusa e fragile erano
attributi che non le si addicevano.
«Cosa è successo alla vostra compagna?»
«È stata aggredita».
C'era stato un tempo in cui Erik non aveva capito come mai andasse
attribuito tanto valore alla vita umana, forse perché lui
stesso non dava valore alla propria, era deciso a sopravvivere con la
caparbietà di un animale, ma il valore della vita era un
concetto sfuggente per la sua mente, eppure, anche quando cospirava,
minacciava e considerava con leggerezza l'omicidio come una soluzione
legittima, aveva sempre avuto uno strano pudore rispetto al pensiero di
far del male a una donna.
Ci sono mostri peggiori
di me. Peggiori di ciò che io sono stato...
«Cosa le hanno fatto?». Si rese conto della
stupidità della domanda solo dopo averla pronunciata.
«Oh, non è come credete. L'hanno
sfregiata» spiegò Lucia, con le parole che le
inciampavano in gola e venivano fuori come stille di veleno.
Ora l'uomo cominciava a capire. Doveva essere stato orribile per la
ragazza scoprire che una sua compagna, forse persino più
giovane, aveva subito la sua stessa sorte, e lui meglio di chiunque
altro poteva comprendere cosa quella sorte implicasse. Comprendeva
talmente tanto che non aveva parole.
«Era me che cercavano». Lucia pronunciò
questa frase con un tono di voce talmente basso che per un attimo Erik
credette di averla solo immaginata.
«Come dite?» esclamò, sgranando gli
occhi.
«Erano lì per me. Se la sono presa con lei
perché pensavano che fossi io».
La ragazza si appoggiò con le spalle contro il muro e
chinò il capo. Erik restò a guardarla tentando di
mettere in ordine i pensieri.
Qualcuno aveva voluto fare del male a Lucia. Una rabbia cieca gli
esplose nel petto mentre ripercorreva gli eventi degli ultimi giorni.
In mezzo alla cascata di pensieri e sentimenti furiosi, prese forma una
voce che pronunciava lapidaria parole di cui solo adesso lui riusciva a
cogliere il tono di minaccia.
«Mi avete
ferito, Maestro. Non è mai bello né conveniente
rifiutare l'offerta di un'amica».
Certo, la gelosia, l'umiliazione del rifiuto. Come aveva potuto non
pensarci prima? Come aveva potuto essere tanto sciocco da sottovalutare
la situazione? Proprio lui che era quasi morto per quelle stesse
ragioni.
Con uno scatto si chinò su Lucia, afferrandole bruscamente
le spalle e scuotendola perché alzasse il capo.
«Era una vendetta» affermò. La voce
cupa, lontana, che apparteneva al Fantasma.
La ragazza ebbe un sussulto e spalancò gli occhi in preda
all'agitazione.
«Erik...» mormorò, come a volergli
intimare la calma.
«Lo era. Lo sapete, sapete anche chi e
perché» continuò lui, incurante
dell'espressione atterrita della giovane donna. Lucia annuì.
«Ditelo» le sibilò. «Dite quel
nome».
Lei si divincolò dalla sua presa, tornando ad appiattirsi
contro il muro.
«Dite quel nome» ripeté lui, in tono
perentorio di comando.
La voce arrivò a fatica sulle labbra della ragazza, tra i
respiri spezzati.
«Graziana» pronunciò e lo
guardò negli occhi, senza sembrare più
né turbata né spaventata.
*
Lucia sentiva quasi male là dove le mani di Erik si erano
strette attorno alle sue braccia. Adesso negli occhi di quell'uomo
c'erano cose che lei non conosceva, c'erano ombre che lei non aveva mai
visto e che non sapeva affrontare.
Che fossero quelle ombre le ragioni delle ferite che lui tentava
così disperatamente di celare?
Erik le stava chiedendo un nome. Non era davvero Erik, in
realtà, non era l'uomo che lei aveva conosciuto.
«Graziana» gli disse, alla fine.
Il turbamento che aveva provato era sparito di colpo, come se il
pronunciare quel nome avesse all'improvviso gettato un ponte tra lei e
le ombre che si agitavano in fondo allo sguardo di Erik. Tutto
quell'odio e quella rabbia non le appartenevano, quando aveva compreso
cosa era realmente accaduto alla povera Speranza si era sentita
semplicemente spiazzata, incredula, addolorata. Le faceva male l'idea
che qualcuno avesse pagato al suo posto, e allo stesso tempo era
convinta che non aveva fatto niente per cui meritava di pagare
– motivo per cui la sorte di Speranza le sembrava ancora
più ingiusta. Ma una consapevolezza rimaneva a pesarle sul
capo come una spada di Damocle: qualcuno aveva voluto farle del male,
poco importava se non ci era riuscito.
Presa dal turbamento in cui la sorte di Speranza l'aveva gettata, non
si era minimamente data pena di cercare di capire chi fosse questo
qualcuno e quali fossero le sue ragioni – se di ragioni si
poteva parlare. Adesso che Erik l'aveva costretta a cercare la
verità che la sua mente già conosceva, Lucia si
sentiva ancora più spiazzata. Perché mai lui era
giunto a quella conclusione con tanta facilità?
Cos'è che sapeva e che lei non comprendeva?
L'odio. La
risposta prese forma nella mente di Lucia senza ulteriori sforzi. Erik
conosceva l'odio che muoveva certi gesti, per questo aveva capito
subito come stavano le cose.
«Io non conosco l'odio, sapete...»
mormorò lei a fior di labbra. Ed era vero, aveva conosciuto
molte cose tremende, ma l'odio non era una di queste. Non aveva odiato
Graziana nemmeno quella sera, quando aveva visto lei e Andrè
sorridere oltre il vetro...
A quelle parole Erik sembrò riscuotersi, le
lasciò andare le braccia e fece un passo indietro, con uno
scatto, come se all'improvviso la ragazza fosse diventata
incandescente.
Entrambi sentirono i passi che si avvicinavano lungo il corridoio e si
voltarono per trovarsi davanti la giovane Fede che avanzava cauta,
reggendo in mano un bacile pieno di acqua.
Povera, piccola Fede, il suo cuore non era fatto per sopportare cose
del genere.
La ragazzetta sembrava un uccellino caduto dal nido quella sera e Lucia
si accorse di quanto le fosse impossibile riuscire a guardare in
direzione di Erik, che adesso se ne stava con le spalle appoggiate al
muro sul lato opposto del corridoio.
«Signora Lucia» mormorò Fede.
«Andate a riposarvi, ci sto io qua. Voi avete fatto
già tanto».
Lucia le sorrise, ma non era vero, non aveva fatto niente
perché non c'era niente da fare. Si limitò ad
annuire senza aggiungere altro e le aprì la porta per
lasciarla entrare nella camera.
Fede fu inghiottita dalla penombra silenziosa della stanza. Lucia
restò a fissare per qualche secondo la porta chiusa,
chiedendosi come sarebbe stato se i responsabili di quello scempio non
avessero sbagliato persona, domandandosi se Erik l'avrebbe voluta
ancora con il volto sfregiato.
Che domanda sciocca da
farsi...
Erano di nuovo soli nel corridoio, con la luce giallastra delle lampade
ad olio che sbiadiva le ombre.
Lucia fece per voltarsi.
«Forse ora è meglio che andiate,
signore» disse, scoprendosi del tutto incapace di guardarlo
in faccia. «Siete stato gentile a preoccuparvi
così tanto».
«Non siate sciocca». La voce dell'uomo era priva di
qualsiasi emozione e forse proprio per questo suonava così
risoluta e imperiosa.
«Non è saggio immischiarvi in questa
faccenda» gli disse con una punta di freddezza.
«Siete a tutti gli effetti il direttore del San
Carlo»
«Se anche la cosa fosse di qualche rilevanza, è un
mio problema, non vostro».
Lucia sentì un dolore sordo propagarsi dalla sua mente al
suo cuore, qualcosa di gelido e spinoso. Sapeva che un giorno sarebbe
successo, sapeva che sarebbe venuto il momento in cui Erik se ne
sarebbe dovuto andare o per sua scelta o perché lo avrebbe
deciso lei, per proteggersi da quegli strani sentimenti che lui le
suscitava. Aveva imparato che per una donna nella sua posizione era
sciocco legarsi a un uomo, provare qualcosa per una persona mutevole e
inafferrabile come Erik era a dir poco folle.
La donna fece appello a tutto il suo coraggio e si voltò
verso il suo interlocutore. Non sarebbe stata lei a mandarlo via, se ne
sarebbe andato lui, per sua scelta, perché lei adesso stava
per fare qualcosa di cui non aveva diritto, stava per porgli un
ultimatum a cui uno come Erik non si sarebbe mai piegato.
«Dovrei insistere che ve ne andiate, ma non posso
costringervi» asserì Lucia, cercando di apparire
risoluta mentre puntava i suoi occhi in quelli dell'uomo che adesso
avevano un'espressione imperscrutabile. «Tuttavia, se vi sta
così illogicamente a cuore la faccenda, mi vedo costretta a
domandarvi la verità, quello che mi avete sempre, a buon
diritto, celato».
Lucia non sapeva davvero quanto la richiesta fosse legittima, voleva
solo irritarlo e fare in modo che se andasse.
«La verità?» mormorò Erik.
«Potrei dirvi che se la scopriste, potreste essere voi stessa
ad allontanarmi»
«Allora non correte il rischio che una puttana vi mandi via.
Uscite da qui per vostra scelta e dimenticate quanto è
successo»
«Così brutale, Lucia?».
Erik mormorò quelle parole al suo orecchio, era alle sue
spalle e lei non lo aveva sentito avvicinarsi. Sentì uno
strano brivido percorrerle la schiena.
«D'accordo» aggiunse Erik, prendendola per il polso
e trascinandola giù, lungo le scale fino al pianterreno.
Aprì la porta della camera di Lucia e quando furono dentro
se la richiuse alle spalle con una spinta secca. Solo allora lei
riuscì a ritrarre il braccio dalla sua presa.
Lucia lo guardò aggrottando le sopracciglia, ma non ebbe
tempo di dire nulla perché lui cominciò a
parlare.
«Il vostro amico francese, l'uomo che avete amato»
esordì con la voce incrinata da uno strano nervosismo,
«di certo avrà frequentato l'Opera Populaire.
Ebbene, vi ha mai parlato di una strana storia, del fantasma che
infestava il noto teatro di Parigi?».
Lucia non capiva, ma si rammentò del fatto che una volta
Andrè aveva menzionato vagamente una cosa del genere.
«La leggenda del Fantasma dell'Opera»
mormorò titubante.
«Ah, non era una leggenda, non lo era affatto, ma fino a
qualche anno fa era plausibile pensare che lo fosse. Il Fantasma
dell'Opera è esistito».
Lucia sentì il cuore mancare un battito.
«Voi...». Certo. Ora capiva perché Erik
conosceva così bene l'Opera Populaire di Parigi e ricordava
con straordinaria precisione i particolari di tutti gli spettacoli
degli ultimi venti anni, era un arco di tempo enorme per
così tante cose da ricordare, ma lei aveva sempre pensato
che fosse solo una persona con un'ottima memoria e un genio con la
mania per i dettagli.
«Sì, io, signora» confermò
Erik con un'espressione di di disprezzo, come se trovasse profondamente
disgustoso quel ricordo. «Ho vissuto in quel teatro fin da
quando ero bambino, ogni singola pietra di quel posto mi apparteneva
come se fosse un dito della mia mano. Conoscevo passaggi segreti per
muovermi indisturbato in ogni angolo dell'Opera, e laddove non ve ne
erano fui io stesso a costruirne. Per tanto tempo credetti che avrei
potuto vivere d'arte e di buio, senza rimpianti. Finché
restai di questo avviso, il Fantasma era quasi del tutto innocuo,
capitavano piccoli incidenti a cantanti o musicisti particolarmente
incapaci quando volevo sottolineare la loro inettitudine e fu
così che nacque la leggenda, ma per il resto non si era mai
verificato nulla di drammatico».
Lucia si lasciò cadere seduta sul bordo del letto. La storia
che le stava raccontando Erik aveva dell'incredibile ma fino a quel
momento le era sembrata solo l'avventura straordinaria di un uomo
vessato da un tremendo castigo, quello che si celava sotto la maschera.
Adesso non era più sicura di voler conoscere il continuo, ma
aveva chiesto la verità e lui gliela stava dicendo.
«Non si era mai verificato nulla di drammatico, avete detto.
Fino a che?» domandò. Pronunciare quelle parole le
diede la sensazione di essersi appena strappata il cuore dal petto.
«Fino a che il Fantasma non comprese che l'arte e il buio non
gli bastavano più» rispose Erik, sembrava che
anche lui stesse facendo fatica ma si sforzava di sostenere il suo
sguardo per quanto gli occhi smarriti e l'espressione sconvolta di
Lucia dovevano pesare come una condanna. «Come vi ho detto,
ci fu una donna, una fanciulla anzi... pronunciare il suo nome mi
è intollerabile, ma il Fantasma se ne innamorò
perdutamente, e ella fu la sua fine e la mia»
«Cosa intendete dire?»
«Che gli uomini forse possono sopravvivere all'amore, i
fantasmi no. Il dolore di un fantasma genera morte e distruzione. Lui
uccise pur di averla e distrusse quel teatro; gli parvero sacrifici
accettabili, un olocausto che gli era dovuto»
«E... e poi... che n'è stato del
Fantasma?»
«La fanciulla lo uccise, sapete. Lo uccise quando lo
baciò, lo annegò con le sue lacrime quando si
offrì di passare la vita con lui se il Fantasma avesse
risparmiato il giovane di cui lei era innamorata e che era tenuto come
ostaggio. Dopo quel bacio, i due giovani amanti furono liberi,
perché il mostro che aveva tentato di sopraffarli era morto
e l'uomo rimasto in quel guscio vuoto di sofferenza e orrore non era
capace di portare fino in fondo quella scelleratezza. L'amore dei
fantasmi è malato e distorto, quello dell'uomo era un amore
comune, capace di accettare sconfitte e sacrifici. Il Fantasma
è morto, ma il sangue e il fuoco di quella notte sono
ricaduti sulle mie mani e a volte mi è insopportabile il
pensiero che anche io non sia morto con lui. Questa è la
verità che volevate, Lucia».
A giovane donna sentì l'impulso di alzarsi, di muoversi, di
provare a se stessa che le parole di Erik non l'avevano tramutata in
pietra. Si alzò e camminò attorno a letto, con il
capo chino. Sentì le gambe cederle dopo qualche secondo e si
appoggiò alla spalliera di legno prendendo grandi respiri.
Era sempre stata certa che ci fosse qualcosa di molto brutto e doloroso
nel passato di quell'uomo, ma non immaginava fino a che punto, non
poteva credere che un'anima così geniale, una persona dotata
di così tanta smarrita umanità, fosse nata dalle
ceneri di un mostro. Non poteva crederlo, non era in grado di
accettarlo.
Mio Dio, no, ti prego,
ti prego...
«Lucia?».
Dovevano essere passati dei lunghi minuti da quando Erik aveva smesso
di parlare, probabilmente lui l'aveva osservata in silenzio muoversi
febbrile per la stanza per lasciarle il tempo di assimilare quella
verità tanto desiderata che adesso avrebbe voluto poter
dimenticare.
La giovane donna si voltò verso di lui,
«Andatevene» gli disse, gelida e perentoria, come
nemmeno credeva capace di essere.
Lui non provò a muovere alcuna protesta, non
indugiò nemmeno un secondo. Si voltò e
lasciò la stanza senza fare nemmeno rumore quando si
richiuse la porta alle spalle.
*******
~ Parigi, 18 maggio 1892 ~
Louis chiuse il quaderno e lo lasciò cadere in mezzo
all'erba.
Se n'era andato in un angolo del prato e si era seduto a leggere ai
piedi di un grosso pioppo. Era una tiepida giornata di sole, lui era
ancora ospite nella tenuta dei De Chagny. Aveva detto di voler togliere
il disturbo quando Christine era stata allettata, per non creare un
impiccio alla famiglia, ma il visconte aveva insistito
affinché rimanesse, dicendo che sua moglie sarebbe stata
molto dispiaciuta se non lo avesse trovato lì una volta che
si fosse ripresa. Louis aveva la sensazione che non fosse solo
l'obbligo dell'ospitalità a parlare, a loro faceva davvero
piacere che lui restasse lì, ma da quando era accaduto
quell'incidente durante la festa di Gustave lui aveva cominciato a
sentirsi a disagio in quella casa. La sensazione di avere qualcosa a
che fare con il malessere che aveva colto madame De Chagny aleggiava
ancora prepotente nella sua testa. Era un pensiero del tutto illogico,
eppure il raziocinio non riusciva a scacciarlo. Naturalmente, aveva
preferito non parlarne con il suo amico Gustave.
Di buono c'era che in quegli ultimi due giorni, quando non era in
compagnia dei suoi amabili ospiti, Louis aveva ricominciato a leggere
il diario di suo padre. Era stata una specie di reazione istintiva alla
confusione provocata dagli ultimi avvenimenti: pensava che concentrarsi
sulla lettura delle memorie di Erik lo avrebbe aiutato a distrarsi dai
nuovi malumori che gli annebbiavano la mente.
Per certi versi, aveva avuto ragione.
Erik non aveva scritto quel diario preoccupandosi della
qualità narrativa di ciò che raccontava. Le
lunghe pagine di cupe riflessioni personali spesso erano pesanti e
ripetitive, ma i fatti che si erano avvicendati in quelle poche
settimane di vent'anni prima avevano un che di avvincente e la storia
adesso era giunta a un punto di svolta davvero singolare.
Louis aveva seguito quasi con divertimento gli sviluppi della
realizzazione di quella serata di musica popolare al San Carlo, aveva
letto quelle pagine con la curiosità con cui da bambino
leggeva i feuilletton sul giornale, insieme a sua madre. Era ansioso di
conoscere la reazione delle persone coinvolte nella storia e tutto il
resto. Era una bella pagina quella in cui Erik raccontava
dell'abbraccio di Luisa, della soddisfazione provata per la riuscita
dello spettacolo, erano pensieri quasi luminosi, per la prima volta
aperti alla speranza. E poi, come in ogni romanzo che si rispetti,
proprio quando le cose sembravano sul punto di aggiustarsi, era
avvenuto il disastro.
Louis aveva appena letto di quello che suo padre aveva scoperto la sera
dopo lo spettacolo, recandosi all'Araba Fenice: la ragazza aggredita e
sfigurata perché scambiata per la persona sbagliata, i
sospetti che cadevano irrimediabilmente su Graziana Rovesti come
mandataria degli aggressori, la rabbia di Erik nell'apprendere
l'accaduto, il suo confronto con Lucia e il fatto che lei lo avesse
scacciato.
Era stato un brutto colpo di scena, non solo per la
drammaticità dei fatti in sé, ma anche
perché riportava a galla vecchie ferite, sentimenti che il
cuore di quell'uomo aveva appena cominciato a tentare di mettere da
parte.
Louis aveva chiuso il quaderno, incapace di continuare la lettura. Era
più che mai curioso di conoscere l'evolversi dei fatti, ma
ne era anche spaventato. Non voleva leggere di altro sangue, di altra
rabbia, di altra disperazione, di altre follie.
Il suo pensiero tornò a sua madre. Il ragazzo non poteva
fare a meno di pensare che c'era qualcosa che non tornava nel
comportamento di quella donna, nel fatto che lo avesse lasciato da solo
ad affrontare quella storia. Lei lo conosceva, sapeva quali effetti
avrebbe avuto su di lui la lettura di quelle pagine, eppure lo aveva
mandato a Parigi perché lui le leggesse.
Per un attimo Louis fu tentato di scriverle una lunga lettera in cui le
esprimeva tutte le sue perplessità riguardo al suo
atteggiamento, ma gli sembrò quasi subito una cosa sciocca:
quello era un argomento che voleva affrontare con lei faccia a faccia.
Per quanto impaziente fosse di ricevere delle risposte, si disse che
era meglio aspettare.
Si accorse che qualcuno gli si era avvicinato solo quando vide l'ombra
di un'altra persona mettersi tra lui e la luce del sole.
«Ti ubriacherai di nuovo?» domandò la
voce pacata di Gustave.
«Eh?».
Il ragazzo biondo indicò con lo sguardo il diario
abbandonato in mezzo all'erba.
«Non credo» disse Louis con un sorriso privo di
allegria. «Il peggio è passato, almeno
spero».
«Ha avuto una vita interessante tuo padre, almeno?»
«Oh, fin troppo. Ancora non mi spiego perché mi
siano state taciute tutte queste cose per tutto questo tempo. Avrei
voluto che me ne parlasse lui, quando era vivo».
Gustave si strinse nelle spalle.
«Forse lo avrebbe fatto. Visto che non ha potuto farlo di
persona, tua madre ha voluto che fossero le sue memorie a parlare per
lui, è una cosa romantica in un certo senso»
dichiarò sogghignando.
«Hai ragione, sì. Mi manca molto, nonostante
tutto...».
Nonostante tutto, Erik
era stato un buon padre...
«Io credo che mia madre e mio padre non mi diranno mai la
verità» aggiunse Gustave all'improvviso.
«Su tutto quello che è successo prima, intendo. Ci
sono dei ricordi che non sono stati scritti da nessuna parte e che io
non conoscerò mai».
Louis guardò il suo amico, la luce del sole faceva brillare
i suoi riccioli da putto e rendeva la sua pelle quasi diafana.
«Forse è meglio così» gli
disse piano. «Certi ricordi possono fare molto male»
«Tu avresti preferito che non ti venisse dato quel
diario?» replicò Gustave, con una vaga durezza
nello sguardo.
Bella domanda! Ancora una volta il suo biondo amico aveva saputo andare
più a fondo di quanto Louis si fosse aspettato, mettendolo
spalle a muro, obbligando a cercare una risposta da dargli e da dare a
se stesso.
«No. Alla fine è giusto che mia madre lo abbia
fatto» concluse con un sospiro.
«Bene» Gustave annuì con aria grave, poi
di colpo la sua espressione cambiò. «A proposito
di cose romantiche, è arrivato questo per te»
aggiunse prendendo un biglietto che aveva messo nella tasca.
Louis dispiegò il foglio di carta e lesse rapidamente.
«È di Magdeleine. Dovremo fare un salto in
città stasera, prima che lei si presenti qui armata, a
reclamare il mio cuore... o qualche altra parte del mio
corpo» disse strabuzzando gli occhi, poi lui e Gustave si
guardarono in faccia e scoppiarono a ridere.
____________________________________________________
Here,
I have a
note...
Piccerè
(abbreviazione di di piccirella) = piccola, bambina, in senso
vezzeggiativo. Anche nenna (abbreviazzione di nennella) può
intendersi allo stesso modo.
Ok,
Lucia non ha avuto una reazione molto... ehm,
“sportiva” al
racconto di Erik, ma volevo che sembrasse umana e credo sia umano
reagire male alla notizia che il tizio che hai di fronte, per quanto
ti possa stare a cuore, è stato un pazzo assassino con
discutibilissimi comportamenti sociali.
I
feuilletton erano le
storie a
puntate che, fino al secolo scorso, venivano pubblicate sui giornali.
Molti romanzi famosi dell'800 sono nati come feuilletton (in Italia
le storie di Salgari, tanto per dire, ma per citare titoli
più
famosi direi Dracula di Bram Stoker, o molti dei romanzi di Dumas).
Ci leggiamo mercoledì prossimo
con il nuovo capitolo.
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.
|
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Capitolo 20 *** Sotto la polvere ***
Capitolo diciannovesimo
Sotto la polvere
~ Napoli, 09 maggio 1872 ~
Il mare cominciava a riflettere l'incerto riverbero azzurrino delle
prime luci dell'alba. C'era poco vento e l'acqua era solo leggermente
increspata mentre rifletteva il colore indistinto del cielo che ancora
non aveva preso i toni distinti e luminosi del giorno.
Erik ascoltava le onde infrangersi con il loro ritmo cadenzato contro
gli scogli, cercava una musica da accordare a quel suono ripetitivo,
come se fossero le battute di un metronomo.
In quei due giorni, da quando aveva lasciato l'Araba Fenice dopo aver
raccontato la sua storia a Lucia, aveva cercato disperatamente di
mettere ordine nei suoi pensieri. Quello che era accaduto gli sembrava
simile a una pugnalata sferrata con una lama molto ben affilata che
lascia che il bruciore del taglio si propaghi tempo dopo rispetto a
quando il colpo è stato inflitto.
Per una parte, Erik trovava giusto quello che era accaduto. Non poteva
sfuggire per sempre agli effetti delle sue azioni, era normale che
prima o poi sarebbe accaduto qualcosa che gli avrebbe imposto di
scontare in qualche modo la sua pena. D'altro canto, la rassegnazione e
l'arrendevolezza non erano mai stati atteggiamenti che facevano parte
della sua indole: aveva dovuto sopportare troppe cose irrisolvibili per
arrendersi a tutti gli altri tiri mancini che il destino gli aveva
giocato nel corso della sua esistenza.
Adesso l'uomo si chiedeva cosa fosse giusto fare. E la risposta era
sempre la stessa: la cosa giusta è non far nulla.
Per ogni volta che formulava questo pensiero, però, la voce
che si agitava nella sua mente lo sfidava, sarcastica e pungente.
Da quando in qua ti
interessi di cose giuste, Figlio del Diavolo?
E ogni volta quella voce riusciva ad averla vinta, perché
faceva montare dentro di lui quell'antica rabbia, quella furia cieca
che lo portava a lottare contro ciò che non era in grado di
accettare, con la stolida convinzione che gli fosse dovuto qualcosa di
diverso.
La reazione di Lucia lo aveva ferito, annientato. Ma era l'unica
reazione plausibile, l'unica che si sarebbe potuto aspettare, l'unica
che meritava. Reagire, imporsi, dar voce alla propria rabbia lo avrebbe
fatto sentire uno stupido. Certe lezioni sono fatte per essere
imparate, certe cicatrici servono da monito, anche se la sua, di
cicatrice, continua a sanguinare.
La consapevolezza del dolore che la ragazza gli aveva procurato
mandandolo via lo aveva costretto a fare i conti con i propri
sentimenti. Gli importava di lei, forse gli era sempre importato,
altrimenti l'idea che qualcuno avesse cercato di farle del male non lo
avrebbe reso così furioso, altrimenti la sua assenza adesso
non avrebbe prodotto un simile eco tanto assordante.
Ma la cosa giusta
è non far nulla...
Era giusto. O forse c'erano altri modi di non arrendersi, di
combattere. Ma l'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera non aveva
conosciuto altri mezzi che il ricatto e l'omicidio.
Oh, torna in te! Fa'
ciò che sai fare, va' a prenderti ciò che vuoi...
La voce sibilava nella sua mente, come le spire di un serpente
incantatore, mischiandosi ai versi acuti dei gabbiani che volavano
spediti incontro all'orizzonte.
Non lo avrebbe fatto, non c'era alcun motivo per farlo. Lui non voleva
l'amore di quella ragazza, né voleva che lei soccombesse a
lui, non aveva mai cercato di soggiogarla, aveva sempre voluto un
rapporto alla pari per provare a se stesso la sua umanità,
la sua capacità di essere come tutti gli altri. E ci era
riuscito, fino a un certo punto. Non era stato l'uomo a distruggere
quell'affetto, era stato il Fantasma, con il suo alito di morte che
arrivava da un passato tanto lontano quanto indelebile.
A questo lui non sapeva porre rimedio. Se anche avesse voluto imporre
la sua presenza alla ragazza fino a quando lei non si fosse rassegnata,
se anche avesse voluto insistere a farsi ricevere da lei in veste di
cliente, avrebbe comunque perso quella sorta di complicità,
la spontaneità con cui Lucia lo trattava.
Ho perso. Di nuovo.
Avrebbe dovuto essere dispiaciuto per il grave turbamento che aveva
provocato a Lucia, ma in realtà riusciva a pensare solo a
ciò che lui aveva perduto. L'unica cosa che poteva fare per
lei e per se stesso era lasciarla in pace, per non dover subire di
nuovo il peso dello sguardo freddo e distante della ragazza.
La luce del giorno adesso cominciava già a riflettersi sullo
specchio d'acqua, facendo luccicare le increspature di bagliori che
ferivano la vista.
Erik decise di tornare sui suoi passi e si incamminò verso
il teatro.
Si era dato così tanto pensiero nel riflettere su Lucia, nel
riportare ordine dentro di sé, che non aveva ancora pensato
all'altro aspetto della faccenda: Graziana. Se era stata lei a mandare
quegli uomini ad aggredire la ragazza – e non poteva essere
altrimenti, dato che Lucia non aveva altri nemici – Erik non
avrebbe permesso che una cosa simile restasse impunita. La questione
aveva importanza per lui, a prescindere da Lucia. Era stato lui a
innescare una tale reazione in Graziana, per quanto gli apparisse
folle, e a lui adesso toccava fare giustizia.
Era appena giunto a teatro. Entrò da una porta secondaria e
raggiunse i suoi alloggi, immerso nei suoi pensieri. Come danneggiare
Graziana senza fare danno al San Carlo e senza mandare a monte quei
mesi di lavoro per la rappresentazione della Traviata? Mancavano solo
due settimane e non c'era tempo per architettare qualcosa che avesse
senso.
Erik osservò il suo riflesso sbiadito contro il vetro di una
finestra. Mai come quella mattina si era sentito così vuoto
e rassegnato.
Quando era giunto a Napoli e si era risvegliato in quel letto a casa
del duca dopo una lunga convalescenza, aveva desiderato di essere morto
e si era piegato al destino semplicemente perché non gli
importava più di nulla, perché era convinto di
aver distrutto tutto ciò che aveva e che non ci sarebbe mai
stato un posto nel mondo per lui, che ora che la sua dolce musa era
andata via, nessun altro avrebbe potuto provare affetto o pena per
quell'angelo dell'inferno.
E poi il destino lo aveva sorpreso, gli aveva mostrato che si
sbagliava, che se solo fosse stato disposto ad accettare le regole di
quella normalità che aveva sempre rifuggito, il mondo
avrebbe potuto accoglierlo, le persone avrebbero potuto, se non amarlo,
quanto meno stimarlo. Ma anche così, c'era qualcosa di
distorto e manchevole nel suo fato. Erik non voleva tornare ad essere
il Fantasma e, allo stesso tempo, non era capace di restare
semplicemente un uomo.
I suoi stessi pensieri sembravano sfinirlo. Si chiuse la porta della
sua camera alle spalle, poggiandosi contro lo stipite di ciliegio e
sospirando stancamente. Quando alzò lo sguardo, si
trovò davanti Fede, con in mano le lenzuola che aveva
cambiato e che doveva portare a lavare.
La ragazza aveva il viso pallido, segnato dall'accenno di occhiaie di
chi aveva passato tutta la notte sveglia. Ebbe un sussulto quando lo
vide e immediatamente abbassò la testa per sfuggire al suo
sguardo.
«Scusatemi» mormorò come se fosse una
supplica. «Io... stamattina ho fatto tardi».
Erik la fissò quasi attonito. Certo che aveva fatto tardi,
stava passando le notti a prendersi cura della sorella allettata e,
comunque, le tempistiche entro le quali veniva sistemata la sua stanza
non gli erano mai sembrate importanti.
«Non devi aver paura di me» le disse a bruciapelo.
«No, io non ho paura di voi» replicò lei
immediatamente, per un istante riuscì anche a guardarlo in
viso. «Solo che voi...».
«Sì?» Erik la esortò.
«Solo che voi, sembra che riuscite a vedere tutto».
L'uomo fissò la ragazza, un po' stupito da
quell'affermazione che non riusciva a comprendere.
«Se anche fosse, non vedo niente di male in te,
Fede».
Lei ebbe uno strano sussulto di sorpresa, come se non si aspettasse che
lui conoscesse il suo nome, poi accennò persino una specie
di timido sorriso. Fece una rapida riverenza, strinse la matassa di
lenzuola e coperte e lasciò la stanza mormorando un saluto a
mezza voce.
Erik restò qualche secondo in piedi, a fissare il vuoto
davanti a sé. L'idea arrivò improvvisa, come un
lampo e lui l'accolse con un sorriso di soddisfazione, un sorriso che
avrebbe spaventato chiunque si fosse trovato a guardarlo in quel
momento. Dopotutto poteva ben definirsi un genio e in quanto tale era
assolutamente avvezzo alle illuminazioni.
*
Madame Fantine non sapeva né leggere né scrivere,
sapeva a malapena far di conto, ma si era fatta insegnare da Lucia a
scrivere e riconoscere i nomi di tutte le ragazze della casa. Lucia
forse era convinta che gli servisse per annotare i guadagni di ogni
singola prostituta, ma non era solo per quello.
La stanza della maîtresse dell'Araba Fenice era un ambiente
angusto e spartano, distante dalle camere dove alloggiavano le ragazze,
ricavato da un angolo della cucina che era stato separato dal resto con
un muro irregolare.
Nella piccola camera non c'erano finestre, solo un piccolo lucernario
rotondo sulla parete di fondo, e ci voleva una bella forza a far girare
sui cardini lo sportellino arrugginito. Per il resto, l'arredo
consisteva in un armadio tarlato, in una cassapanca e in un letto.
La donna si alzò dal letto cigolante su cui si era stesa a
notte fonda, con la faccia ancora impiastricciata dal trucco ridotto
ora a una maschera di chiazze rosa. Le faceva male la schiena, ogni
mattina un po' di più.
Brutta cosa farsi
vecchia, brutta assai...
E come se non bastasse, ci si mettevano di mezzo pure le
preoccupazioni. Non pensava che essere la tenutaria di una casa di
piacere fosse una cosa semplice, avrebbe dovuto essere meno buona e
affezionata alle sue ragazze, forse, ma in quelle ultime settimane
sembrava che la malasorte si fosse accanita tutta su di lei e
sull'Araba Fenice. Prima il Maestro francese che si fissava con la
povera Lucia e adesso l'aggressione a quella disgraziata di Speranza. E
lei si sentiva in dovere di trovare una collocazione alla piccirella,
perché non ce la faceva a buttarla in mezzo alla strada, non
aveva mai buttato fuori nessuno. Forse poteva usarla come cameriera, o
chissà se la ragazza sapeva cucinare... non era quella
più sveglia e intelligente, questo era sicuro, ma qualche
soluzione si sarebbe trovata. Certo, non avrebbe più
guadagnato bene come prima, ma almeno non sarebbe morta di fame.
Premendosi una mano all'altezza dei reni, Madame Fantine raggiunse la
cassapanca e alzò il coperchio, tirò fuori un
vestito dismesso e rattoppato che portava durante la giornata per stare
più comoda. Gettò l'abito sul letto e
restò qualche secondo a fissare i fogli appuntati sulla
parte interna del coperchio di legno: pagine di calendario con i nomi
delle ragazze scritti nella sua calligrafia imprecisa, e forse pure
scritti con qualche lettera messa male. Avrebbe dovuto far controllare
a Lucia, ma non voleva che lei sapesse dove teneva il suo calendario
dove segnava le date delle regole delle sue ragazze. Se qualcuna
rimaneva incinta, lei voleva saperlo prima e comunque, voleva essere
certa che a nessuna di loro venisse in testa l'idea di tenerglielo
nascosto; quello del calendario era un trucco che tutte quelle come lei
usavano.
Era capitato in passato che qualche ragazza rimanesse incinta. Era
sempre impossibile stabilire chi era il padre e se anche si fosse
saputo, il padre in questione probabilmente se ne sarebbe del tutto
disinteressato.
Madame Fantine era indulgente su un sacco di cose, ma non sull'idea di
tenere bambini in quella casa. Allo stesso tempo però,
quelli che usavano i ferri per tirare via i bambini dalla pancia delle
donne le facevano orrore, l'idea di strappare via una creatura dal
grembo di sua madre come si sradica un'erbaccia dall'orto le sembrava
mostruoso e impossibile da tollerare. I bambini malauguratamente
concepiti tra quelle mura erano venuti tutti alla luce, le ragazze che
li avevano partoriti erano state curate e coccolate per tutto il tempo
della gravidanza e della convalescenza. L'orfanotrofio di Pompei era
pieno di creature nate in un letto dell'Araba Fenice. Essere orfano o a
essere figlio di una puttana non è che facesse molta
differenza, comunque. Madame Fantine era solo contenta di non avere
sulla coscienza nessuno di quegli affarini innocenti, per il resto
doveva pensare in termini pratici perché la fame era una
brutta cosa ed evitare la fame a se stessa e alle ragazze era la sua
principale occupazione.
La donna scorse i fogli del calendario e i nomi annotati tra le righe.
«Carla il 2 del mese, Annarella e Giovanna il 4... tutto a
posto» mormorò, elencando nomi e date come se
stesse recitando un rosario. «Tina la prossima settimana.
Lucia...».
Di Lucia da un po' di tempo a questa parte aveva smesso di avere
pensiero, ma aveva continuato ad annotare il suo nome sul calendario
per semplice abitudine. E aveva fatto bene, visto che poi era arrivato
il Maestro francese... era arrivato e se n'era pure andato, o almeno
questo era quello che Madame Fantine aveva sospettato. La ragazza non
gli aveva detto niente, ma doveva essere successo qualcosa di cui lei
non voleva parlare; la sera dopo la sua ultima visita il Maestro non
era tornato.
«Lucia a giorni» disse, e poi passò
oltre, continuando a scorrere la lista di nomi.
Alla fine richiuse il coperchio con un sospiro e si decise a vestirsi.
Mentre si abbottonava l'abito, Madame Fantine si ritrovò a
pensare, come era capitato altre volte, a cosa sarebbe successo se
fosse stata Lucia a rimanere in attesa di un figlio. La donna era certa
che lei non lo avrebbe messo al mondo e poi lasciato in un
orfanotrofio, a costo di tornare a fare la sarta sull'isola dalla quale
era venuta. Lucia era diversa dalle altre ragazze, questo Madame
Fantine lo aveva sempre saputo, e in tutto quel tempo non aveva capito
se la cosa dovesse essere motivo di orgoglio o di ulteriore
preoccupazione.
*
Cecilia stava parlando con delle ballerine quando gli si
avvicinò l'inserviente, quella ragazzetta piccola e minuta
che sembrava aver paura della sua stessa ombra. La ragazza le porse un
biglietto, la salutò timidamente e si dileguò.
Il foglio di spessa carta era piegato a metà, lei lo
aprì e quasi le venne un infarto quando lesse la singola
riga annotata in una calligrafia elegante ma frettolosa.
Signorina,
vi prego di recarvi nel
mio ufficio appena vi è possibile.
Erik.
Erik. Certo, il vero nome del Maestro che nessuno osava mai
pronunciare, come se il solo dirlo lo rendesse più umano e
meno straordinario.
Era stata molto contenta di essere riuscita a incontrarlo un paio di
sere prima. E non le era parso affatto così permeato di
elegante fascino come sembrava dai racconti dei musicisti
dell'orchestra con i quali spesso parlava. Naturalmente, era tanto
elegante quanto affascinante, ma c'era qualcosa in lui, una certa
impacciata rigidità che lo faceva sembrare quasi buffo, se
non fosse stato per quegli occhi gelidi che non si accaloravano
minimamente nemmeno quando accennava un sorriso o provava a dire
qualcosa di cortese. Ma aveva sentito dire cose straordinarie su di lui
e tanto le era bastato per incuriosirla, tra l'altro, doveva ammettere
con se stessa che le aveva provocato una strana infantile emozione
incontrarlo faccia a faccia. E adesso essere stata convocata da lui la
rendeva euforica oltre ogni misura.
La richiesta in quel biglietto suonava tanto come un ordine che non
ammetteva repliche e Cecilia era certa che quel «appena vi
è possibile» significasse in realtà
«prima di subito», ma non le importava.
Lasciò le ballerine ai loro pettegolezzi e si diresse di
gran carriera verso l'ufficio del Maestro francese.
Non sapeva cosa aspettarsi da quell'incontro. Cecilia si era iscritta
al conservatorio e aveva completato gli studi con buoni voti; era
entrata al San Carlo con la raccomandazione di uno dei suoi insegnati
ma era sempre rimasta relegata al ruolo di sostituta, così
minuta e priva di fascino non aveva mai mostrato le doti necessarie per
calcare la scena come si conviene a un artista di un teatro tanto
importante, anche se quando cantava tutti restavano ammirati dalla sua
voce, così potente per una donnina tanto piccola.
La giovane donna prese un paio di lunghi respiri quando giunse davanti
alla porta chiusa, sperando di non avere l'aria di una che si era
precipitata di corsa. In un gesto istintivo, si tastò i
capelli raccolti in due trecce sollevate sulla nuca, per sincerarsi che
fossero a posto, ma i suoi dannati capelli non erano mai abbastanza in
ordine. Solo dopo qualche secondo si decise a bussare e attese
educatamente il permesso di entrare.
Il Maestro, Erik, era seduto dietro la sua scrivania. C'era un
pittoresco disordine di fogli male impilati in un angolo dell'elegante
piano di legno e sulla superficie liscia e lucida spuntavano di tanto
in tanto, come funghi in un prato, dei fogli appallottolati e lasciati
lì. Su una mensola, cecilia notò anche una
scatola di legno aperta con uno strano ingranaggio che sembrava tanto
essere il meccanismo interno di un carillon. Tutto si poteva dire di
quell'uomo tranne che non fosse assolutamente singolare, e la mezza
maschera bianca che si ostinava a portare non era nemmeno il
particolare più bizzarro.
«Buon giorno, signorina Mauriello. Sedete, prego»
la invitò l'uomo, indicandole con un cenno la sedia libera
davanti alla scrivania. Lei obbedì e lo guardò in
attesa che le dicesse il motivo di quell'inaspettata convocazione.
Ora sì che sembrava davvero misterioso e affascinante. Forse
era capace di rendersi tale solo quando sceglieva lui il come e il
quando di un incontro oppure solo nei momenti in cui poteva esercitare
la sua autorità su chi gli era sottoposto, come in quel caso.
Sei un prepotente, eh,
Erik?
«Innanzitutto devo porvi le mie scuse»
esordì l'uomo, con un tono di infinita squisitezza che fu
capace di confondere la ragazza.
«Le... vostre scuse, Maestro?» domandò
lei, titubante.
«Sì. In tutto questo tempo non vi ho dato la
giusta considerazione, ed è stato molto scortese da parte
mia, oltre che negligente da un punto di vista professionale»
«Maestro, sono solo una sostituta...»
«Togliete quel solo.
Non vi ho mai chiamata per le prove, scioccamente non ho preso in
considerazione la possibilità che la signorina Rovesti
potesse non essere in grado di cantare la sera della prima»
«Da che ricordo, la signorina Rovesti non è mai
mancata a un evento importante»
«Non vuol dire che ciò non possa
accadere» replicò Erik con una punta di durezza.
Non gli piaceva essere contraddetto, dietro la sua maschera di perfetta
cortesia doveva celarsi una persona molto impaziente e forse anche
assai brusca, ma la sua voce aveva qualcosa di strano, Cecilia si
convinse subito che lui avrebbe convinto la Terra a girare al contrario
solo con il giusto tono di voce.
«Vorrei provare con voi» aggiunse il Maestro.
La donna aggrottò le sopracciglia,
«Mi fa molto piacere, ma devo farvi notare che mancano meno
di due settimane alla sera della prima» gli disse in tono
pratico.
«Siete così poco dotata che un paio di settimane
non basterebbero?» la provocò lui, diretto e
perentorio. «Sono certo che non è così.
Non voglio lasciare nulla al caso, non voglio andare alla cieca
nell'eventualità in cui la signorina Rovesti dovesse avere
dei problemi la sera della prima».
La Rovesti salirebbe sul
palco anche moribonda piuttosto che farsi sostituire!
Cecilia dovette fare un grande sforzo per non scoppiare a ridere,
«Voi avete carta bianca e tutto il teatro è al
vostro servizio» asserì. «Se voi volete
provare con me, io sarò ben lieta di accontentarvi, ma posso
esprimere la mia opinione?»
«Prego. Anche perché credo che la esprimereste
comunque»
«È inutile, e quando la signorina Rovesti lo
saprà si farà venire una crisi di nervi e voi non
avrete altro che tanta tensione tra la compagnia».
Erik si lasciò cadere con le spalle contro lo schienale
della sua poltrona. All'improvviso sorrise, anche se non era un vero e
proprio sorriso, era una smorfia tirata che sembrava quasi minacciosa.
Mosse la mano in un gesto di disinteresse, con la stessa grazia di un
felino che si prepara ad attaccare una preda.
«La signorina Rovesti non lo saprà. Voi e io
proveremo quando gli altri saranno andati via» concluse,
tranquillo. «Cominceremo oggi stesso»
«Sembra una congiura»
«Forse lo è. Buona giornata, signorina
Mauriello».
Cecilia restò impietrita a fissare l'uomo sbattendo
ritmicamente le palpebre. Si alzò goffamente, tanto il suo
atteggiamento l'aveva spiazzata, e lasciò la stanza
mormorando un saluto in modo così confusionario che quasi
sembrò che la lingua le si fosse annodata contro il palato.
Uscì dall'ufficio e si appoggiò con le spalle
contro il muro dell'anticamera.
Non sapeva cosa il Maestro francese stesse tramando, ma era quasi del
tutto certa che la cosa aveva a che fare con lei che cantava ne La
Traviata al posto di Graziana Rovesti la sera della prima.
*******
~ Parigi, 20 maggio 1892 ~
Il visconte De Chagny sembrava davvero amareggiato a causa di
quell'impegno imprevisto che lo aveva costretto a partire quella
mattina, qualcosa che aveva a che fare con dei possedimenti di famiglia
in Normandia. Si era sporto fuori dal finestrino quasi con tutto il
busto, per chinarsi verso Gustave e dirgli: «Mi raccomando,
prenditi cura di tua madre», poi aveva dato a suo figlio un
affettuoso scappellotto in mezzo alla testa ed era partito.
Gustave sembrava compiaciuto; non che trovasse niente di piacevole nel
fatto che sua madre fosse stata poco bene, ma se non fosse stato per
quella eventualità, suo padre lo avrebbe trascinato con
sé ad occuparsi di qualcosa che, a detta del giovane biondo,
doveva essere molto noioso.
Louis non aveva idea di cosa volesse dire avere dei possedimenti di
famiglia a centinaia di chilometri da casa. Il lavoro di suo padre gli
aveva permesso una vita agiata e di certo non poteva dire di aver
provato sulla sua pelle la miseria, però ne aveva vista
tanta, di miseria, nel suo paese. Una miseria contro la quale nessuno
aveva ancora mai alzato un dito, nemmeno quell'Italia per cui le
generazioni prima di lui avevano dato la vita, il sudore e il sangue.
Ma non era quello il momento di indugiare in simili riflessioni. Louis
era del tutto intenzionato ad aiutare Gustave a prendersi cura di sua
madre, se c'era qualcosa in cui loro due potevano essere d'aiuto a
madame De Chagny, dato che ancora si sentiva in colpa per quello che
era successo durante la festa di compleanno del suo amico.
Christine salutò Raoul con la tenerezza malinconia di una
moglie ancora molto innamorata, che al solo pensiero della partenza
già sente la nostalgia del marito. Restò a
guardare la carrozza allontanarsi lungo il viale alberato e poi si
voltò e rientrò in casa con l'aria di qualcuno
che sta pensando a qualcosa di macchinoso da attuare.
«Mi è venuta un'idea!»
esclamò all'improvviso, battendo le mani con l'aria
entusiasta di una bambina e guardando i due ragazzi che si erano seduti
su un sofà.
«Madre?» domandò Gustave un po'
perplesso.
Forse Christine voleva semplicemente tenersi impegnata per non pensare
alla mancanza del visconte.
«Era da tempo che volevo sistemare la soffitta, ora che ho
del tempo a disposizione e posso contare sull'aiuto di due giovanotti,
credo proprio che ne approfitterò, se a Louis non
dispiace»
«Ma voi dovete riposare, madre!»
protestò il giovane De Chagny. «La soffitta
possono pulirla i domestici»
«No! I ricordi sono nostri, tocca a noi fare ordine.
È una lezione che dovresti ricordare, Gustave» lo
rimbeccò lei, voltandosi con una specie di piroetta che fece
disegnare un cerchio perfetto alla sua gonna di raso. Rise e la sua
risata sembrò quella di una bambina.
Louis restò a fissarla mentre si avviava verso le scale. Era
perplesso, c'era una strana vitalità che animava lo sguardo
della donna, una specie di euforia propria di chi ha tra le mani
qualcosa di nuovo con cui cimentarsi o di chi sta per partire per una
qualche straordinaria avventura.
«Beh, magari sarà divertente» disse alla
fine il ragazzo, dando una gomitata al suo amico.
Gustave si arrese con un sospiro e insieme a Louis seguì sua
madre fino in soffitta.
La soffitta della casa seguiva il perimetro del corpo centrale della
villa, era un'enorme stanza quadrata con sottili lucernari, ingombra di
scatoli e vecchi mobili coperti ci polvere.
Louis si tolse la giacca e la appese a un gancio, al riparo dalla
fuliggine.
«Cosa ne dite, amico mio?» domandò
Christine, guardandolo con un mezzo sorriso.
«Che sarà un lungo lavoro»
«Avete forse altri impegni?».
Il giovane sorrise, se anche ne avesse avuti, vi avrebbe rinunciato
più che volentieri.
«No, Christine» concluse.
La donna cominciò ad aprire elle scatole dalle quali
estrasse una serie di statuine di porcellana avvolte dentro a degli
stracci perché non urtassero tra loro. Le depose una ad una
sulla superficie di un vecchio tavolino tarlato che era addossato al
muro. Il risultato fu che in dieci minuti c'era una fila di orribili
pastorelli, donnine e madonne di porcellana allineate sotto ai loro
occhi.
«Queste immagino fossero della nonna»
borbottò Gustave, guardandole con una smorfia.
«Non so nemmeno perché le ho tirate fuori da
quello scatolo» commentò Christine scuotendo il
capo. «Potremmo portarle da un qualche rigattiere. Ah, ma
cosa abbiamo qui?».
Christine si diresse verso l'angolo più remoto della stanza,
dove il soffitto si inclinava e lei era costretta a procedere curva.
«Oh, no, Dio Onnipotente, ti prego...»
bofonchiò Gustave riconoscendo l'oggetto che sua madre stava
faticosamente trascinando verso il centro della soffitta.
I due ragazzi si affrettarono a darle una mano, sporcandosi le dita di
polvere e inalando l'aria viziata che c'era nella stanza.
A Louis venne in mente di quando lui e Gustave erano stati a visitare
il teatro dell'Opera. Anche lì aveva respirato quell'aria
polverosa e stagnante, ma ogni angolo di quel posto gridava malinconia
– e forse qualcosa di ancora più drammatico. E
scendendo le scale non si andava verso la luce, verso una casa abitata
da una famiglia felice, ma verso un luogo fatto di buio, dove un'anima
era rimasta a patire la solitudine, perché Louis era
convinto che in quei sotterranei fosse davvero vissuto qualcuno.
L'oggetto che madame De Chagny aveva scelto di ispezionare era una
culla. Una culla con il dondolo verniciata di bianco, tenuta al riparo
dalla polvere grazie a un telo grezzo.
«Oh, che tenerezza» esclamò Louis
canzonatorio, battendo una mano sulla schiena di Gustave. In
realtà si stava chiedendo se a casa sua, nella soffitta, sua
madre avesse conservato la sua culla.
«Non capisco la necessità di conservare una cosa
simile, è ingombrante» borbottò il
ragazzo biondo.
Sua madre lo guardò scuotendo la testa,
«Un giorno, se Dio vorrà concederti la benedizione
dei figli, forse capirai» sospirò.
Dentro la culla, sopra al materasso leggermente ingiallito dal tempo,
erano sistemate due scatole che Christine tirò fuori,
intenzionata ad esaminarne il contenuto.
Da una scatola uscirono fuori delle biglie di vetro colorato e una
cartellina piena di fogli. Louis fece per prenderla, ma l'amico gliela
strappò di mano e si avvicinò a uno dei
lucernari, sfruttando la poca luce che filtrava dai vetri impolverati
per esaminare il contenuto della cartellina, sicuramente i suoi primi
disegni da bambino. Louis lo lasciò a scorrere quei fogli,
osservando per qualche secondo la sua aria assorta, senza capire se
fosse emozionato, divertito o disgustato da quello che vedeva.
Piuttosto, lui aiutò Christine a sollevare l'altra scatola
che era molto più pesante. La donna gli fece cenno di
posarla sul ripiano di un vecchio comò e l'aprì,
tirando fuori un carillon con sopra un pupazzo a forma di animale
piuttosto irriconoscibile, non si capiva se era una pessima imitazione
di uno scoiattolo o una mancata riproduzione di un cane.
Louis osservò perplesso lo strano oggetto mentre Christine
lo puliva alla buona con le dita.
«Ne ho visti di migliori» gli disse lei
all'improvviso. «Fatti meglio, con molta più cura
per i particolari». Poi diede la carica e il carillon
cominciò a suonare un motivo di Mozart, mentre l'animale
muoveva meccanicamente le zampe anteriori su e giù.
«Anche io ne ho visti di migliori. Ne avevo uno che mi aveva
costruito mio padre, era veramente ben fatto»
«Vostro padre sapeva costruire carillon? Ma mi avevate detto
che era un musicista». La voce di Christine aveva un tono
allegro, leggero, ma i suoi occhi sembravano molto seri e concentrati
su quello che lui stava per dire.
«Era un musicista, ma sapeva costruire un sacco di cose,
credo che sarebbe stato in grado di costruire anche una
città se fosse stato necessario» rispose il
ragazzo, scuotendo la testa con un mezzo sorriso. Gli piaceva ricordare
le cose migliori di lui.
«Che uomo era? Gli somigliate?»
«Oh, è una buffa domanda, sapete. Era un uomo complicato, come
tutti gli artisti immagino. Mia madre dice che gli somiglio solo nelle
cose migliori... e nella testardaggine»
«Un testardo, certo...».
Lo sguardo di Christine si fece cupo e lontano. Nelle sue parole c'era
qualcosa che pesava e di colpo Louis si sentì turbato.
«Avete dimestichezza con i testardi?» le chiese,
con aria ironica, cercando di alleggerire quella strana tensione che di
colpo era caduta su di loro.
«Ne ho conosciuto uno, diciamo così...»
mormorò lei, senza ricambiare il sorriso del suo giovane
interlocutore, ma poi si riscosse all'improvviso e il suo sguardo
tornò sereno. «Mi stavate dicendo di vostro padre.
Era felice?».
Louis aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra. Era una
domanda strana, insolita e di colpo anche lui si sentì cupo
«Mi piace pensare che io e mia madre gli bastassimo. Aveva
parecchi dispiaceri da dimenticare e voglio credere che ci sia riuscito
prima di morire».
Christine sorrise, non era un sorriso allegro, era più che
altro malinconico e tenero allo stesso tempo, e fece sentire a Louis un
colpo al cuore.
«Sono sicura che nessuno può avere un figlio come
voi ed essere infelice» concluse la donna.
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Da oggi sono più o meno in vacanza e non avendo altri
capitoli pronti non sono sicura che riuscirò ad aggiornare
entro una settimana (ma ciò on toglie che ci
proverò). Se non ci leggiamo
mercoledì prossimo vi prometto comunque che non
vi farò aspettare secoli per l'aggiornamento ^^
La lista dei motivi per cui voglio concludere la stesura di questa
fanfiction si va infittendo, quindi non mancherò di
provvedere.
Your
obidient servant.
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