L'occhio dell'Ariete

di marig28_libra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nella desolazione del Jamir ***
Capitolo 2: *** Oltre la forza ***
Capitolo 3: *** fuga nel buio ***
Capitolo 4: *** L'aspro viso della lotta ***
Capitolo 5: *** conchiglie di storie- l'arrivo ad Atene ***
Capitolo 6: *** conchiglie di storie- Gemini e Libra ***
Capitolo 7: *** conchiglie di storie- l'ora di cena ***
Capitolo 8: *** conchiglie di storie- tra le rovine dell'acropoli ***
Capitolo 9: *** conchiglie di storie- cercando l'orizzonte ***
Capitolo 10: *** conchiglie di storie-le braccia del sole ***
Capitolo 11: *** CAP 6- come lame lucenti: tuoni ***
Capitolo 12: *** CAP 6- come lame lucenti: Dora ***
Capitolo 13: *** CAP 6- come lame lucenti: le zanne della lince ***
Capitolo 14: *** CAP 7 - la rosa e il teschio ***
Capitolo 15: *** CAP 8- Le magie di Lindo: il Rituale del Montone Bianco ***
Capitolo 16: *** CAP 8: Le magie di Lindo: nelle camere di Sion ***
Capitolo 17: *** CAP 8: Le magie di Lindo: canzone d'ombra ***
Capitolo 18: *** CAP 9 - verso il crepuscolo ***
Capitolo 19: *** CAP 10- o' phobon labyrinthos: le spire dell'incubo ***
Capitolo 20: *** CAP 10- o' phobon labyrinthos: aracnidi d'odio ***
Capitolo 21: *** CAP 11- apnea di ghiaccio: nel ventre del baratro ***
Capitolo 22: *** CAP 11 - apnea di ghiaccio: la cima dell'iceberg ***
Capitolo 23: *** CAP 12- lande violentate ***
Capitolo 24: *** CAP 13 - amoris lex : il quinto punto cardinale ***
Capitolo 25: *** CAP 13 - amoris lex: il profumo dei tuoi battitti ***
Capitolo 26: *** CAP 14- gli ultimi rintocchi dell'uragano ***
Capitolo 27: *** CAP 15 - celeste immenso ***
Capitolo 28: *** CAP 16-scie di intramontabile estate ***
Capitolo 29: *** CAP 17- danzando con te: i riflessi delle tue ali ***
Capitolo 30: *** CAP 17 - danzando con te : al di là del tempo ***
Capitolo 31: *** CAP 18 - la rana, il grifone e la vestale ***
Capitolo 32: *** CAP 19- la deriva dell'innocenza ***
Capitolo 33: *** CAP 20- veleno di luna: driade dei fiori polari ***
Capitolo 34: *** - Riassunto degli episodi precedenti ***
Capitolo 35: *** CAP 20- veleno di luna: l'assedio del Falco e della Fenice ***
Capitolo 36: *** CAP 20 - veleno di luna: il Negromante ridente e il soldato muto ***



Capitolo 1
*** Nella desolazione del Jamir ***


  Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà di Masami Kurumada; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

Note: all’interno della storia compariranno tutti i cavalieri d’oro ( Aiolos e Doko però si vedranno solo nei flashback). L’unico bronze saint di cui si parlerà ( attraverso le vicende di Camus) sarà Hyoga. Oltre i personaggi che già conoscete ve ne sono inseriti degli altri di mia invenzione importanti ed indispensabili per il racconto.
(l’adattamento dei nomi è quello del manga ) 
Vi accorgerete, pian, pian che andrete più avanti che…ho modificato alcune “incoerenze temporali” dell’autore che mi hanno lasciato perplessa…

Tremava. Tremava con tacito panico. Tremava per non urlare e udire l’orribile voce della paura che lo dilaniava. Mu era sull’orlo di un abisso  nebbioso e morto. Con la mano sinistra, scorticata dai graffi, si aggrappava alla cruda roccia di quell’arida montagna mentre con il braccio destro cingeva il corpicino di Kiki.
Ce l’avrebbe fatta ad attraversare la stradina fragile, spigolosa e sottile che gli si offriva dinanzi al pari di un dito scheletrico? Non lo sapeva. Tutto appariva tremolante e piangente come il suo animo. Fissò lo sguardo grigio e apatico del vuoto che si apriva sotto il sentiero… Un brivido velenoso fece vibrare le sue ossa… Era meglio proseguire.
Stringendo il fratellino a sé, Mu continuò a camminare lentamente.
Freddo. Nubi fluttuanti. Nessun rumore: soltanto l’eco dei battiti violenti del cuore gli stordiva i timpani . Il torace  doleva fastidiosamente…
Improvvisamente la stradina sembrò gemere e scricchiolare.
Mu, con le gambe indolenzite dalla fatica e dalla tensione, si fermò di nuovo. Il vento incolore aveva iniziato lugubremente a cantare squarciando i veli del silenzio.
Un altro scricchiolio. Tanti  sassolini volarono nelle fauci del precipizio.
Un altro passo. Il vento seguitava ad ululare funereo.
Un altro passo ancora. Il silenzio fece evaporare nuovamente ogni sibilo e sospiro.
Mu rimase paralizzato. Non riusciva più ad avanzare. Una strana agonia gli intorpidiva le membra. Desiderava disperatamente muoversi, fuggire di lì ma non era in grado di farlo.
Era in trappola. Era solo con un bimbo piccolo da proteggere.  Era perduto dentro e fuori di sé.
Un lieve tremolio iniziò a serpeggiare nella pietra della montagna…delle crepe venarono la  via .
Mu avvertì quel brontolio di distruzione divenire sempre più intenso e potente fino a che il suolo non si sfracellò gettandolo con Kiki nel baratro di fuliggine.
 Era sicuro di star gridando ma le sue orecchie non afferravano alcun suono . Solo i rovi del nulla gli scalfivano il corpo e la  mente.
 
Mu si levò  sudato coi tremiti dello spavento che gli formicolavano lungo la spina dorsale. Si voltò febbrilmente verso il piccolo giaciglio posto affianco al suo: Kiki dormiva tranquillo avvolto in calde coperte di lana.
Il ragazzo tornò a sdraiarsi sul letto con l’animo incupito dalla tristezza e dal dolore…era trascorso un anno da quando aveva lasciato il Tibet per completare l’addestramento di cavaliere nel montuoso Jamir. Erano  scivolati via, agri, foschi e bui soltanto dodici mesi…il tempo camminava troppo lentamente e le sofferenze parevano la lava bollente di un vulcano inestinguibile.
Il ricordo della morte dei genitori continuava a lacerargli il cuore. Mu non aveva dimenticato l’orribile visione del corpo senza vita del padre, quell’uomo forte e intrepido che si era recato fuori dal villaggio per trovare delle erbe mediche  in grado di curare la  moglie malata. “ Stai tranquillo, Mu. Andrò nelle foreste circostanti e cercherò delle piante curative. Vedrai, riusciremo a guarire la mamma. Rimani a casa e bada a lei e a Kiki. Ci vedremo sta sera” gli aveva detto  con i suoi occhi verdi  limpidi come  acque fluviali che   brillano anche recise  dalla tempesta…
Quello sguardo, quella tenera sicurezza che gli aveva sempre cinto le spalle,era andato in frantumi per sempre. Sulle bianche palpebre serrate, il sigillo della morte. Mu non aveva creduto che quell’uomo che giaceva sulla barella dei soccorritori fosse proprio lui, suo padre. Era assurdo…tuttavia, più fissava quel cadavere più la gola gli si serrava in modo straziante. I capelli color fiamma non ondeggiavano indomiti nel vento, non riflettevano  il fuoco del camino di casa. Erano sbiaditi, ricoperti di polvere e di terra. No… Non poteva essere suo padre. Quel  viso poi era una tetra e livida maschera sporca di sangue sulla fronte e sulle labbra. Non era il bel volto pacato che gli si rivolgeva sorridente, insegnandoli il mestiere di scultore. “ L’abbiamo trovato in un burrone”. “ Che tragedia! Ha lasciato sua moglie malata e i due bambini!” “ Ora Mu se la dovrà vedere da solo!” “ Ma ha solo tredici anni!” “ povero ragazzo….che triste destino!” Mu non voleva udire le voci della gente del villaggio ma la disperazione lo ghermiva, lo mordeva, lo schiaffeggiava con la realtà che stava scorrendo davanti a lui. Una lama gli si era conficcata nel petto. Una seconda stava per giungere.
Egli rimembrava quell’alba buia, quell’aurora plumbea priva dei raggi del sole, in cui la madre gli aveva stretto la mano per l’ultima volta. “ Tesoro, perdonami se non riuscirò più a rimanere qui…perdonami se devo lasciarti in custodia Kiki…è una responsabilità enorme…. Inoltre ..dovrai diventare cavaliere di Atena…il maestro Sion ha fiducia in te…ti ha voluto come suo discepolo perché…sei diverso dagli altri…hai…forza… hai una strana energia. Tuo padre lo sapeva. Io lo sapevo... Diventa grande, Mu…”  Non era riuscito a rispondere a quell’ultima fiaccola di vita. Le lacrime l’avevano accecato, rendendolo muto. Aveva provato ad afferrare le mani della madre nell’impossibile tentativo di salvarla dal regno delle tenebre ma a che cosa era servito? A contemplarla sul suo giaciglio eterno? Ad accarezzare il suo piccolo viso freddo e ormai svuotato da ogni  calore? Com’è strana la morte…ricopre tutto con una patina di inverno perenne…Mu aveva fissato a lungo l’esile figura della donna: si era assottigliata ancora di più con la malattia, ma le mani affusolate le erano rimaste sempre belle e il grazioso volto era dolcemente triste e incantevole. Sui lunghi e fluenti capelli lilla una splendida ghirlanda di fiori era stata deposta…era il regalo che aveva fatto Leira…
Leira…al ricordo dei genitori un altro pensiero prese il sopravvento: Mu  vide apparire nel proprio animo il grazioso viso della migliore amica, la ragazzina che conosceva da quando era piccolissimoe alla quale era legato da un profondo affetto. Un affetto che stava sconfinando nell’amore. Il ragazzo avvertiva dolorosamente la sua mancanza …ora più che mai aveva bisogno di lei. Il suo sguardo dorato gli aveva sempre donato conforto e con nessun altra persona aveva un’intesa così straordinaria. Il Jamir era una cella con sbarre di pietra e d’affanno. La dolcezza e la serenità parevano stelle inesistenti.
Ormai privo di sonno, si alzò dal letto e uscì dal rifugio di sassi e legno che fungeva da dimora. Dall’altopiano in cui si trovava, contemplava lo sperduto quadro di montagne e foschia grigie. Nel cupo cielo azzurro una nuova ed acre alba stava per nascere.

          

- Hai sognato ancora una volta di precipitare, Mu?- domandò una voce grave e calda alle sue spalle.

- Maestro Sion!

-Ti sei levato , come al solito, prima del sole…vuoi essere sempre la prima creatura ad assaporare il calore del mattino?

- Calore…beh, è una  consolazione  per tentar di sciogliere il gelido dolore che ho dentro… l’unica cosa che pare splenda in queste terre è proprio il sole…

- L’astro del giorno non brilla realmente per te…l’azzurro del cielo non è così bello e puro per il tuo cuore…nessuno spettacolo della natura, per quanto magnifico sia, ti appare incantevole adesso…

Celare a Sion emozioni, tormenti e riflessioni era inutile. Il suo spirito era una lama di fine e lucente metallo capace di tagliare  l’acqua.
 

-Mu, la burrasca che ti porti dentro, offusca il tuo cosmo e la visione del mondo esterno…stai rischiando lo smarrimento totale…stai rischiando di precipitare davvero dentro un baratro di ombre…

-Maestro, io…mi sento finito, chiuso dentro una morsa…ho paura di proseguire, di vedere oltre…è come se guardassi un futuro che non esiste.

-Allora cadrai.

-Ma come faccio a continuare?! …non posso contare neppure su me stesso…

-Guardati dall’ afflizione. È lei la tua peggiore nemica. È lei che fa male più di qualsiasi sanguinosa ferita. Non puoi permetterti cedimenti, ora.

-Io sono già crollato.

-No… sei vicino al crollo. Puoi ancora però fortificare le tue fondamenta.

-Maestro...e se voi…vi foste… sbagliato?

-Cosa intendi dire?

-Mi ritenete veramente degno di indossare l’armatura dell'Ariete? Pensate che io sia destinato a questo?

-Poni tali domande a te stesso, Mu. Puoi far germogliare il tuo cosmo così come puoi ucciderlo. Il destino ha vita propria fino ad un certo punto. Vi sono cose che non possiamo prevedere..vi sono lutti che non dipendono da noi. La sorte serba  delle prove. Sta in se stessi trovare delle risposte e combattere.

-Le costellazioni però continueranno a brillare con o senza noi.

-Sì...le stelle saranno sempre lì, nel firmamento della notte…ma se non lottiamo cesseranno di luccicare e si offuscheranno…allora, a quel punto, sarà come dimenticarle e farle morire.

Il Sion distolse gli occhi scarlatti  dal  discepolo e si allontanò.
Mu fissava la sua lunga chioma bionda che danzava placida e flessuosa al ritmo di un venticello pacato…non poteva cedere adesso, adesso che il maestro gli avrebbe fatto apprendere gli incantesimi più potenti e pericolosi…come fare però a seppellire il passato, gli affetti defunti? La sofferenza lasciava troppe crepe…
Nell’attimo in cui il sole si sporse dorato, infiammando la fredda arsura dei monti, il ragazzo tirò fuori il talismano che gli aveva donato suo padre. Era un manufatto di bronzo raffigurante la testa di un ariete. Lo guardò a lungo. L’occhio color rubino del’animale splendeva. La sua luce era enigmatica…cosa mostrava? Il riflesso del sangue della vita o le nubi del crepuscolo di ogni certezza?
 
 

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Capitolo 2
*** Oltre la forza ***


- Ma…quest’armatura è morta!

- Esatto. La dovrai far rinascere.

Mu guardò perplesso la corazza di bronzo, priva di lucentezza vitale, che giaceva ai suoi piedi.

-Maestro, io con mio padre davo vita alle sculture plasmando la pietra o il marmo colmi di energia. Ho poi sempre riparato le armature danneggiate ma non morte….come aggiusterò questa?

-Con la linfa che echeggia nelle tue membra…col sangue che scorre nelle tue vene.

-C-cosa?!

Il ragazzo rimase esterrefatto…era mai possibile una soluzione così folle?

-Hai inteso bene…per conferire vita nuova alla materia perita occorre il flusso vitale del sangue di un cavaliere. È un incantesimo altamente pericoloso e lo devi saper padroneggiare con estremo controllo. La tua mente non può lasciarsi offuscare dai moti dei sentimenti.

-Dovrò quindi…versare il mio sangue sull’armatura…

-Sì… i 2/3 del tuo corpo.

-È assurdo! Morirò sicuramente!!

-No. Non morirai se cercherai la luce nel tuo cosmo… Sarà esso a donarti nuovamente tutto ciò che perderai…

-Maestro, mi dispiace, non credo di farcela.

-Non puoi tirarti indietro.

-i…io…non vedo alcun raggio dentro di me! Sono immerso nella notte.

-Non hai alternative.

-Voglio andarmene di qui!! Sono indegno delle vestigia delle Ariete….

-Smettila di dire idiozie, Mu!! Hai giurato di servire Atena! Hai giurato di diventare cavaliere!!

Sion non alzava quasi mai la voce. Il suo tono fu un lampo di fiamma che lacerò ancora di più l’animo di Mu. Il cuore minacciava di affondare nelle paludi dello scoramento. La disperazione stritolava coi suoi tentacoli ogni petalo di ragione, ogni petalo di lucidità. Il ragazzo aveva voglia di piangere, di fuggire, di dimenticare tutto. Desiderava annientarsi, schiantarsi nel nulla. Perché doveva essere lui il cavaliere dell'Ariete? Perché diamine il destino aveva tessuto una trama così ardua, complicata e che sapeva di fiele?

-Mu. Non puoi sottrarti a questa prova. Tuo padre riparava le armature di comuni guerrieri. Tu invece sei anche in grado di dare nuovo potere a quelle dei servitori di Atena. Sei l’unico capace di tale prodigio. Non lasciare che il tuo talento muti in fredda cenere dispersa su suoli aridi. Fai ardere il tuo cosmo. Fai ardere te stesso.

Il giovane, col capo chino e lo sguardo smarrito, si recise le vene del polso. Una goccia rossa cadde. Un’altra. Un’altra ancora. Una moltitudine di lacrime purpuree piombò sull’armatura. Il dolore pareva che colasse bollente, languido e intenso dalle arterie del cuore. L’energia si assopiva dolce e tetra nella mente. L’apatia dell' oblio innalzava veli di sabbiosa foschia. Sion fissava preoccupato l’ allievo. Avvertiva il potere del suo spirito strisciare sulla terra delle ombre… La carnagione si tingeva di uno spaventoso e livido pallore opaco. Gli occhi verdi si sbiadivano perdendo la loro brillantezza acquea . Le gambe tremavano come foglie secche. Il sangue continuava a riversarsi copioso e cupo sulla corazza bronzea. Il vento gelido correva tra le fronde rocciose delle montagne.
La testa di Mu cominciò a oscillare con fare moribondo. Il corpo altalenava avanti e indietro senza alcun vigore.
Sion, allarmato e angosciato, corse verso il discepolo fermandogli l’emorragia e afferrandolo in tempo prima che piombasse al suolo.

-Mu! Mu!- gridava l’uomo scuotendo il corpo del ragazzo.

Non dava alcun segno di vita. Gli occhi vitrei protesi al cielo, la morte sembrava averlo ghermito.

-Mu…coraggio…non cadere adesso…

Rimaneva immobile.

-il dolore non ti deve rendere cieco…sordo…muto…vieni verso il sole…non andare incontro alla notte…

Sul suo viso restava l’inquietante espressione dell'Aldilà.
La voce di Sion iniziò a tremolare come un’esile fiamma di lanterna.

-Mu…ti scongiuro…trova la forza…dentro di te l’occhio dell’Ariete dimora…

Il giovane ebbe un lieve tremito. Chiuse lentamente le palpebre.

-M…maestro…i-io…ho…

-Non ti affaticare…pensa a riprenderti.

Sion aiutò lentamente l’allievo a reggersi sulle gambe.

-Su…ti accompagno al rifugio.

-Maestro Sion…v-vi prego, per…perdonatemi per prima…

L’uomo lo conduceva a destinazione rimanendo in silenzio al pari dei ghiacci perenni.

-Io.. sono…stato debole...ho…rischiato di morire per…colpa dei…miei sentimenti…

Il maestro continuava a tacere. La piccola dimora di sassi e legno si avvicinava sempre di più.

-Ho fallito.

Sion aprì la porta di casa. Nella stanzetta principale il piccolo Kiki stava con la balia presa a servizio da un piccolo villaggio limitrofo. La donna lasciò per un breve istante il bambino per portare Mu a letto. Prima che andasse a riposare Sion gli disse:

-E’ possibile che una nave si areni su oscure baie…tuttavia può ritornare a solcare le acque dell’oceano guardando sempre dinanzi a sé, verso l’oriente da cui il giorno sboccia. Ti aspetto prima del tramonto al solito posto. Tenterai di nuovo a risalire la china.



Durante quella settimana, sotto lo sguardo del primo mattino e dinanzi al viso assonnato del crepuscolo, Mu riprovò differenti volte l’incantesimo. Non riusciva ancora a dominare l’energia del sistema circolatorio. Dalle vene gli si riversava troppo sangue e ogni volta sveniva prontamente soccorso da Sion i cui occhi ,però ,si indurivano e s’ombreggiavano sempre di più. Il ragazzo vacillava nel panico: la sua immagine stava divenendo il riflesso della debolezza e dell’inettitudine. Se continuava così sarebbe stato inghiottito dal fango. Come avrebbe fatto, poi, il Maestro a proseguire il suo addestramento insegnandogli le tecniche di combattimento mortali? Insulso, fiacco e privo di midollo. Si percepiva in questo modo. Grande era le rabbia verso sé stesso. Immensa era la sua amarezza. “ Il maestro Sion ha fiducia in te…ti ha voluto come suo discepolo perché…sei diverso dagli altri…hai…forza… hai una strana energia. Tuo padre lo sapeva. Io lo sapevo...” Come suonavano meste e vagamente ironiche le parole della madre! “ Oh, mamma! Perdonami! Tu e papà vi siete illusi sul mio conto…avete visto dell’oro che non c’era…avete visto male…” Pensava lui avvertendo il peso di quelle aspettative e anche di quelle della responsabilità di Kiki e della fiducia che nutriva Leira nei suoi confronti. “ Allora un giorno sarai cavaliere !Dicono tutti che hai poteri strani…beh, significa solo che sei speciale! Sono felice di averti come amico!” il sorriso con cui gli disse ciò, quand’erano piccoli, non si era mai sbiadito. Mu , con un nodo in gola, rimembrava le tenere parole dell'amica. Che tristezza deludere le persone che si amano! Che sensazione fastidiosa vedersi allo specchio! Ogni volta che si fissava su quella lastra di bronzo lucida, in camera sua, si imbarazzava in modo terribile: era magro con le gambe lunghe che continuavano a crescere, con le spalle che si stavano formando ma non erano ancora quelle di un uomo, con le mani che apparivano dure e delicate nello stesso tempo e …con quel viso. Sì…quel visetto un po’ da ragazza che gli stava antipatico perché gli altri apprendisti lo prendevano in giro…quel visetto che comunque non riusciva ad odiare in quanto vedeva gli occhi profondi e quieti del padre e la forma delicata e morbida del volto della madre…anche i suoi lisci capelli lilla, che gli accarezzavano le spalle, erano un dono soave di quella donna. L’ aspetto acerbo non aiutava certo ad incrementare l’autostima.
Mu era un frutto aspro, fragile e traballante appeso ad un ramo color pece. Doveva maturare e piombare al suolo ma aveva timore di farlo. Quell’ alba però decise di saltare da solo, senza che Sion potesse venire in suo aiuto. Furono le due macchie magenta che aveva sulle fronte a fargli ricordare che era diverso dagli altri: erano i segni distintivi dei prescelti dell'Ariete. Pochissimi avevano quella benedizione. Sì… doveva continuare a lottare per l’Ariete, per Atena: apparteneva allo zodiaco. Era parte del cielo infinito.
Dopo aver guardato il talismano della sua costellazione protettrice, prese l’armatura di bronzo morta , la pose ai suoi piedi, si tagliò il polso e lasciò che il sangue colasse.
Le gocce color rubino caddero numerose ma la loro discesa fu regolare e armonica al pari delle note di una musica mistica che scivola da un flauto.
Un’energia brillante e imponente le dominava. Una forza che si era abbattuta per poi risplendere di nuovo. Era il cosmo luminoso di Mu. Sion percepì il suo intenso calore e si precipitò immediatamente da lui. Ciò che vide, quando giunse a destinazione, lo lasciò felicemente stupito: il suo discepolo, con calma e ponderatezza, stava riparando la corazza coi suoi attrezzi da fabbro. Sion si sedette in silenzio su un masso e attese con pazienza che ultimasse l’ opera. Passò un’ora. Mu completò il lavoro.
L’armatura era tornata più resistente e lucente di prima. I suoi erano bagliori di fuoco e resistenza.

-Maestro, ho superato la prova.- fece lui con aria grave e decisa. Nonostante la fatica, non lasciò trapelare alcun ombra di stanchezza e affaticamento. I suoi occhi verdi brillavano fermi e colmi di serietà.

-Sì, Mu. Hai abbattuto questo ostacolo…ma altri archi tenderanno le loro frecce velenose contro la tua persona. Stai iniziando a governare il timone del tuo vascello…la terra ferma però non si scorge ancora all’orizzonte.

Mu comprese con vago timore le parole del Maestro. La strada per diventare cavaliere era indubbiamente un ruvido percorso in salita.

-Comunque posso affermare una cosa…- proseguì l’uomo- nella tua luce l’ariete proseguirà la propria corsa lanciandosi nelle fiamme del destino. Il ragazzo si accorse che Sion gli stava sorridendo . Tra le cime gelide delle montagne, il sole nascente inondò coi dardi dorati il suo bel viso misterioso e insondabile come le viscere della terra.

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Capitolo 3
*** fuga nel buio ***


 Errabondi aliti di vento serpeggiavano esausti tra le tende dell'accampamento. Mu, stordito dal tepore della stanchezza, aveva dormito profondamente in quelle cinque notti placide e mogie. Dopo averlo curato, i medici gli avevano imposto riposo assoluto: il suo fisico era parecchio affaticato e malconcio…erano stati sovrumani gli sforzi che aveva affrontato. Era necessario che si rimettesse completamente in sesto: entro nove giorni sarebbe dovuto partire con Sion per Atene. Lì avrebbe ultimato l’ultima fase dell'addestramento prima delle prove definitive. Il Maestro gli doveva insegnare gli ultimi colpi: quelli più potenti e mortali.
Mu pensava con contentezza a quella partenza: era da tanto che non sentiva il profumo libero, frizzante e marino della Grecia. Avrebbe finalmente rivisto gli altri apprendisti cavalieri d’oro…chissà se ci fossero stati tutti. Egli sperava soprattutto di rincontrare Aldebaran del Toro, il primo con il quale aveva stretto amicizia al Grande Tempio. Si domandava se fosse anche riuscito a vedere Camus dell'Acquario: sapeva che aveva raggiunto dei risultati alti nelle prove fisiche e che, grazie alla sua maturità e intelletto, aveva ottenuto il grado di Maestro come Sion. Sarebbe stato lieto di parlare con Shaka della Vergine, misterioso, potente e luminoso come il Sole attorno al quale tutti i pianeti orbitano. Quel giovane stava ottenendo una forza così elevata e intensa da essere paragonata quasi ai livelli di una divinità…
La cosa che però rendeva felice Mu più di ogni altra  era il pensiero, al termine del soggiorno ateniese , di ritornare da Leira. Desiderava riabbracciarla, toccare di nuovo le sue sottili membra, accarezzare i lunghi fili di seta dei suoi capelli. Da quando non contemplava i suoi occhi color miele? Da quando non le parlava? Tale turbine di immagini gli faceva accelerare i battiti del cuore e imporporare le guancie: una volta giunto in Tibet, nel suo villaggio…si sarebbe dovuto dichiarare. Sì…l’avrebbe fatto…bisognava mettere chiaramente in luce ogni sentimento…Leira  era sicuramente diventata ancora più bella…forse pareva una principessa… sarebbe stato alla sua altezza? L’avrebbe potuta abbagliare? Beh, il fisico di un acerbo ragazzino non l’aveva più: era divenuto alto, le sue spalle si erano notevolmente irrobustite, le membra avevano sviluppato una muscolatura elegante e slanciata. Certo, il viso era rimasto sempre delicato e fine, ma i lunghi capelli lilla, cresciuti moltissimo, gli avrebbero donato un’aria più maestosa. Nonostante questo, non riusciva a essere sicuro di sé al cento per cento…rimaneva inquieto, incerto e piacevolmente impaziente…
 
Un urlo da incubo frantumò la quiete notturna.
Mu e Kiki si svegliarono scombussolati.
Altre grida atroci di lacrime, rabbia e odio infiammarono l’aria.
Tutto l’accampamento si destò.
Gli apprendisti e i loro maestri si avvicinarono al luogo da cui erano provenuti gli strilli.
Sion scorse in lontananza una figura che ,fulminea e disperata, fuggiva dalla Valle dei Quattro Venti: era Ohen. In fretta corse verso la tenda del ragazzo e vide gli altri guerrieri che si erano fermati sconvolti e inorriditi davanti l’entrata.
      Lo spettacolo che custodiva quell’involucro di tela era raccapricciante.
 

          - Maestro Sion! Ho sentito il cosmo di Ohen allontanarsi velocissimo!Cos’è successo? – domandò allarmato Mu.

          - La vendetta ha massacrato un carnefice.- gli rispose tetro e pungente l’uomo.

L’ allievo contemplò scioccato dentro la tenda: il Maestro di Ohen giaceva in un’enorme lago di sangue. Aveva il petto  orribilmente squarciato come la carcassa di un animale. Due costole  sporgevano fuori al pari di chiodi bianchi. Il cuore, un disgustoso grumo di carne venosa, gli era stato strappato via e gettato ai  piedi.
Orrendo era il viso di quel cadavere: gli occhi neri  erano sbarrati e viscidi, gli zigomi ricoperti da pustole e solchi di rughe, le labbra  rinsecchite al pari di quelle di una mummia.
Il cranio ossuto e pallido era spaccato e perdeva materia cerebrale.
Mu  si sentiva devastato.

         - Mu, Mu! Posso vedere?- fece il fratellino andandogli incontro agitato.

         - Kiki! Torna a letto, subito!

         - Ma…ma…

         - E’ accaduta una cosa molto brutta e spaventosa! Non devi assolutamente vedere!

         - V- va bene…

         - Su…vai nella tenda…arriverò tra qualche minuto.

Il bambino obbedì anche se l’espressione stravolta e terrea del fratello non lo rassicurava affatto. Quell’accampamento  gli faceva paura. Non poteva vedere nulla, ma era perfettamente in grado di percepire l’odore del sangue e il lezzo della morte.
 
Nei successivi quattro giorni  non si seppe  nulla riguardo Ohen fino a che non giunsero, verso il crepuscolo, dei cavalieri mandati dal Gran Sacerdote di Atene.
Dentro la tenda, Mu vedeva in lontananza il suo Maestro parlare con costoro: dall’aria cupa e grave di essi comprese chiaramente che avrebbe appreso altre notizie burrascose.

          - Maestro…avete ricevuto altre notizie di Ohen?- chiese il ragazzo, dopo che i guerrieri  furono congedati .

          - Sì, Mu e non sono per nulla positive.

          - Si sa dov’è finito?

          - I cavalieri del Gran Sacerdote hanno scoperto che aveva raggiunto un villaggio di questa valle per portare via con sé una giovane.

Mu trasalì. Era senz’ombra di dubbio Nemi.

          - Ohen sarà poi scappato con questa ragazza, quindi…

          - Esatto ma le sorprese non terminano qui. La madre della fanciulla era smarrita, atterrita e…profondamente disperata…i cavalieri mi hanno rivelato che conosceva Ohen…anzi l’aveva riconosciuto mentre fuggiva con la figlia.

         - In che senso…l’aveva riconosciuto?

         - Possono  trascorrere molti anni ma è impossibile non distinguere le macchie dei prescelti dell'Ariete…quella donna , quindici anni fa, non diede alla luce solo una bambina…

         - Vorreste dire che…

         - Ohen è fuggito con la  sorella gemella.

         - I-io…credevo…fosse figlio unico!

         - No…lui e la ragazza erano stati separati in fasce per qualche oscuro motivo.

         - Dunque…hanno vissuto l’uno col padre e l’altra con la madre…

        - Sì…e purtroppo ,oltre l’omicidio del Maestro,  su Ohen grava anche l’accusa di incesto.

Mu era rimasto profondamente turbato. Gli dava una strana sensazione pensare al giovane che si baciava…con la sorella. Nei  loro sentimenti però non aveva percepito  nulla di morboso o torbido quella notte prima dello scontro fatidico …gli era parso tutto così pulito come un cielo estivo…

          - M-maestro…cosa spetterà ad Ohen?

          - Non appena i cavalieri lo troveranno verrà processato e condannato. Conosci bene il severo codice del Tempio, Mu…la pena in questi casi è, ahimè, la morte.

Il sole era tramontato lasciando il cielo colmo di nubi che parevano rossi pezzi di carne  martoriata.             
Mu volgeva afflitto e angosciato i suoi occhi e il suo cuore a quel lugubre spettacolo che gli ricordava  l’assassinio accaduto cinque giorni prima.

         - Mi dispiace moltissimo- mormorò Sion- purtroppo Ohen è nato sotto una stella buia e…perirà nella tragedia delle tenebre. Il destino è un demone cieco che si diverte a lanciare invisibili coltelli. Non importa chi colpisce, basta che trafigga.

 
     
Le montagne dormivano nella frescura del buio. La luna era algida, muta e indifferente.
Prima di coricarsi, Mu voleva contemplare la cupola luccicante della volta notturna.
Tutte le stelle erano perle e gocce di cristallo incastonate come fini ricami nel lenzuolo del cielo.
Quale bellezza eterna…quale bellezza gioiosa, glaciale e cinica.
Sulla terra i suoni dei terremoti. In alto le fortezze dell'infinito eteree e inaccessibili.
Se la volta celeste piange o avverte dolore si può sempre purificare lacrimando sul mondo. Sì, sul mondo che viene fissato sprezzante come un  infimo barile di scolo.
È la terra che deve sopportare tutte le tormente, non gli elevati astri.
Sono gli uomini che devono camminare tra i rami degli uragani.
Mu  continuava a guardare il cielo, ma gli faceva davvero male quello splendore.
Le lacrime gli bruciarono la gola e gli occhi.
Si lasciò cadere in ginocchio per terra e sussurrò:

- O grande e indomito Ariete,

odi le mie parole
tu che calpesti le terre dei mortali
e nuoti nelle acque delle stelle:
sono cinto dall’incertezza e dalla paura
poiché le tue corna trafiggono i destini
lasciandoli sanguinare…

 Si levò di nuovo in piedi ed esclamò tentando di farsi udire dalle inafferrabili costellazioni:

- O grande e indomito Ariete!

Perché non arresti i fiumi di tali emorragie?
Perché seguiti a contemplare invisibile e
di granito gli aghi che lacerano l’anima?

I suoi occhi verdi erano arroventati dal pianto.

 - Di cosa sono fatte le tue fiamme?!
Di luce o di morte?!

Solo la spietatezza del silenzio parlava.

- Non rispondi e non risponderai mai.
Le mie lacrime sono
inutili fiori che verranno
squarciati dai rapaci
delle battaglie.

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Capitolo 4
*** L'aspro viso della lotta ***


nota:questo capitolo verrà diviso in tre parti poichè è un pò lungo...lo aggiornerò perciò in tre giorni...

 Kiki giocava col micino  di legno che gli aveva costruito il fratello. Davanti al focolare, seduto su un soffice tappeto di pelliccia, il piccolo si divertiva spensierato con lo sguardo limpido e curioso di chi è ancora immune dagli aghi dell’esistenza. Mu lo fissava con dolcezza, assiso su un basso sgabello di legno: le paroline che stava imparando a pronunciare, gli strani versi che faceva, le risate allegre e pure erano per lui una musica che  accarezzava l’animo. 
Kiki era l’unico parente che aveva, l’unico affetto della famiglia rimastogli. Guardarlo davanti al camino di mattoni di pietra era come rivivere il profumo, i colori e  la tenera tranquillità della dimora che abitò coi genitori. Desiderava con tutto sé stesso trascorrere più tempo con lui, ma durante quell’ inverno dalle vesti di gelido pallore, non gli sarebbe stato consentito spesso. Sion lo doveva iniziare a delle durissime prove fisiche per poi fargli apprendere gli incantesimi mortali. In tutto quest’arco di tempo il fratellino sarebbe rimasto con la balia ma, non appena  raggiunti i tre anni, sarebbe andato sotto la completa custodia di lui e del Maestro. Nonostante la tenera età, Mu doveva cominciare lentamente ad addestrare Kiki per condurlo sulla strada di cavaliere: gli avrebbe insegnato a padroneggiare la telecinesi, potere che a sua volta  aveva imparato a perfezionare con esiti strabilianti.
 Sì… Gli sarebbe stato vicino e lo avrebbe sostenuto trasmettendogli anche l’affetto dei genitori che portava inossidabile nel cuore. Sì…gli avrebbe parlato di loro anche con la mestizia che lo trapassava da parte a parte…purtroppo erano rimasti soli ma bisognava proseguire. Proseguire affrontando il passato e continuando  ad assaporare i fiori donati da esso.
Kiki corse verso Mu, destandolo dai suoi pensieri. Tentò di aggrapparsi alle sue ginocchia per salirgli in grembo. Il ragazzo, ridendo, lo sollevò prendendolo in braccio e scompigliandogli la folta chioma color fiamma. Il bimbo, divertito, fece altrettanto e il suo fratellone si ritrovò tutti i capelli davanti agli occhi.

         -  Buffo! Buffo! Hai  tende su occi e io no!!

         -  Se non me le togli non ti darò questo gufetto…- gli rispose mostrando  il gufo di legno che aveva terminato  l’ora precedente.

         -  Sarà amico di micio?

         -  Certo.

        -  Ecco!ecco! ti toglio tutto!- esclamò il piccolo aggiustandogli con le manine la capigliatura e strappandogli di mano il nuovo giocattolo. Entusiasta lo ammirava con gli occhi lilla che  brillavano.

        -  Ah!ah!ah! vedo che già gli vuoi bene!

        - Sì! Lui sarà te e gatto io…

In quel momento arrivò Sion con espressione grave e solenne.

        - Mu…è giunto il momento.

Il ragazzo posò delicatamente Kiki sul tappeto e si alzò dallo sgabello.
Mentre stava indossando uno scialle color porpora sentì qualcosa tirargli i pantaloni. Si voltò e vide il piccino fissarlo con aria preoccupata.

       - Mu…più tardi… giochi co me?

       - Sì…quando torno verrò subito da te. - rispose chinandosi e baciandolo sulla guancia. Gli si strinse il cuore nel doverlo lasciare con quel visetto afflitto e con quegli occhioni che contavano ciecamente sulla sua parola. Guardando le due macchie che aveva sulla fronte, Mu si augurò che il destino serbasse almeno per lui un orizzonte cesellato di cristalli lucenti.

     
      Sotto i lividi cieli invernali, Mu non conobbe tregua. Sion sottopose il suo fisico a prove durissime che oltrepassavano ogni limite. Un apprendista cavaliere, seppur molto giovane, doveva essere iniziato alla cruda e scabra dimensione della lotta per la sopravvivenza e per la conquista dell’equilibrio. Il cosmo si nutre dell' energia cerebrale ma anche del supporto di un corpo sano e vigoroso.
 Mu  disse addio alle sue esili fattezze di ragazzino immaturo. Ogni residuo dell’infanzia morì travolto dalla fatica e dalla sofferenza  degli esercizi.
Furono mesi di annientamento e i nervi minacciarono di sgretolarsi in qualunque attimo e minuto. Il giovane sopportò con tenacia quasi disumana tutte le spade dello sfiancamento che lo tagliavano.
Il maestro lo fece correre su  sentieri che si inerpicavano in salite assurde per poi  vertiginosamente precipitare in gole buie. L’ obbligò a nuotare controcorrente, col freddo dell'alba, nelle acque turbinose dei ruscelli selvaggi. Gli temprò ancora di più le mani, ordinando di rompere le rocce più dure anche a costo di grondare sangue e vedersi le ossa rotte.
Gli unici momenti di pace che Mu aveva il privilegio di godersi, gli erano donati dalla meditazione: grazie ad essa affinava le stelle dei suoi sensi e i propri poteri telecinetici. La mente era la chiave della potenza emotiva e fisica. Solo grazie ad essa riusciva a sfidare le forze esterne e sé stesso. Solo grazie ad essa tornava da Kiki e Leira.
Sion lo proiettò ,successivamente ,a dei livelli di combattimento più elevati e ardui rispetto a quelli appresi durante l’infanzia e la pre-adolescenza. Le mosse che gli insegnò erano un connubio perfetto  d’attacco e difesa: conciliavano i principi di arti marziali come il kung fu,il takewondo, il karate, l’aikido e il judo.   Mu affrontò  il  Maestro, che gli infliggeva colpi veloci, ben assestati e spietati. Una moltitudine di volte si trovò al tappeto, ma seppe sempre rimettersi in piedi e perfezionarsi. Il ragazzo era dotato di grande intelligenza e animo. Dai suoi errori si risollevava per seguitare a lottare con viso calmo e imperturbabile. Notevoli e ammirevoli si rivelarono i suoi risultati. Poteva dirsi fiero della propria persona ma non riuscì mai  ad affermare ciò: ogni volta che verso notte tornava a casa, Kiki già dormiva. La balia gli raccontava che all’apparenza giocava tranquillamente, ma si accorgeva che  in realtà era triste.
Sì…lui stava fuori da quella dimora dall’alba al buio inoltrato. Stava fuori davvero molto, troppo tempo.
Non era stato in grado di mantenere una semplice promessa fatta al fratellino: giocare con lui prima della buonanotte.
Tutte le volte che i suoi occhi si posavano affianco al lettino del bimbo, dove c’era una cassetta di legno sulla quale erano posati il gatto e il gufo, provava un’amarezza intensa. Quei due animaletti stavano vicini sempre; lui e Kiki no.

 - Perdonami, piccolo - mormorava accarezzandogli  i capelli e sdraiandosi poi sul proprio giaciglio per annegare in un sonno di tenebra e silenzio.

 
Seduta davanti ad un piccolo specchio di bronzo, Leira si scioglieva i lunghi capelli. Esausta per la lunga giornata di lavoro e intensamente afflitta per Mu, disfaceva con mesta lentezza le sue trecce. Da quanto tempo l’ amico aveva abbonda nato il villaggio? Da un’ eternità…diciotto mesi  erano caduti dagli alberi della gioia divenuti secchi e rugosi.
 Il passato era veramente così distante e inafferrabile…
La ragazza vedeva ricamarsi nella memoria l’immagine di un bambino dai magnifici occhi verdi e dai capelli lilla…l’immagine di un bambino timido, riservato e unico il cui destino era inciso nelle stelle dell'ariete…era il ricordo di Mu.
 Quello strano ragazzino dal viso serafico l’aveva colpita subito. Le misero curiosità le sue due piccole macchie magenta sulla fronte. I genitori le raccontavano che lui era uno dei rari prescelti dell’Ariete e che era destinato ad apprendere la strada di guerriero difensore della pace e della saggezza. Il grande maestro Sion l’aveva preso come discepolo per renderlo servitore della dea Atena…Leira era rimasta colpita da questo  ma non aveva mai avvertito la minima soggezione o disagio quando lo vedeva . Mu si era sempre comportato in modo semplice e pacato parlando piano e mai  forte. Non dispensava confidenze a nessuno, lavorava col padre in bottega mostrandosi sveglio e diligente , odiava scherzare con le mani e la lotta.  Gli altri bambini lo escludevano per tale ragione senza capirlo a fondo. Non comprendevano che in lui vi era una sorta di maturità innata, una particolare consapevolezza che lo portava a rifiutare l’aggressività come arma di affermazione. Leira invece aveva intuito ciò e ammirava il suo amico. Poteva giocare tranquillamente con lui, poteva fidarsi di lui  perché era delicato e gentile. Ogni volta che partiva con Sion per addestrarsi nelle terre selvagge fuori dal villaggio o nei pressi dei templi ateniesi, s’intristiva molto. Certo, no n le erano mai mancati i compagni e le compagne di gioco: era sempre stata estroversa, disinvolta e allegra… Tuttavia Mu era diverso da tutti. Le donava la profondità dei cieli intoccabili, le trasmetteva qualcosa di inspiegabilmente straordinario. Non c’era nulla di cui stupirsi se  doveva divenire un giorno cavaliere d’oro.
 Luminosa  era la gioia con cui Leira lo accoglieva quando tornava a casa.  
Più nera e soffocante era ora la tristezza che feriva i suoi bellissimi occhi dorati.
La ragazza non sapeva più nulla di lui. Nel loro ultimo saluto, il dolore e la cupezza di un giorno colmo di cenere  avevano  avvolto tutto: l’aveva stretta a sè mestamente  prendendo poi il fratellino in braccio e raggiungendo Sion col viso ingrigito dalla sofferenza per la morte dei genitori.
 Leira si occupava di recare le offerte sulle tombe del padre e della madre di Mu adesso che egli  era assente. Pensava, in ogni ora che scorreva al pari di tanti granelli di sabbia, quando le avrebbe comunicato qualche cosa.  Non poteva scrivergli nulla: sapeva solo che si trovava in una qualche sperduta e sconosciuta zona del Jamir.
Lui non doveva scriverle nulla. Rientrava nei suoi obblighi di guerriero. Un cavaliere, nel periodo dell’addestramento, non poteva permettersi distrazioni sentimentali.
Tale è la vita di un guardiano di Atena. Leira ,consapevole, ne soffriva. Alla luce delle lanterne della stanza,  i suoi lisci capelli neri risplendevano di sprazzi purpurei. Purpurei come il sangue che sentiva pulsare nel cuore.
Si sedette sul letto abbracciandosi le ginocchia. Era ancora più minuta così, con le gambe sottili piegate  e le braccia dolci e un po’ puerili con cui tentava di scaldarsi dal gelo dell'angoscia.
La notte taceva dimenticata.
L’amore cantava afflitto con la sua arpa dalle seriche corde .   
 

         - Siete pronti?

          - Sì, Maestro.  - Rispose Mu tenendo per mano Kiki e uscendo dal rifugio con una grande sacca di cuoio.

Erano gli inizi di agosto. Il gelo si era ormai dissipato tra le miti e calde mani dell'estate.
Il giovane  aveva compiuto quindici anni verso la fine di marzo, mentre il fratellino ne aveva fatti tre alle porte di aprile.
Era giunto il momento di partire verso la Valle dei Quattro Venti, una delle poche zone pianeggianti del montuoso Jamir. Lì era stato allestito temporaneamente una sorta di accampamento dove si allenavano e fronteggiavano gli altri apprendisti cavalieri che combattevano per il futuro possesso dell'armatura dell'ariete. Mu, come ultima fase dell'addestramento fisico, avrebbe dovuto sconfiggere tutti quegli avversari.

         - Non sono rimasti molti apprendisti guerrieri.- disse Sion  mentre scendevano lentamente giù, verso le terre della pianura.

          - Vorreste dire che…

          - Sì, hai compreso bene. Diversi giovani sono deceduti nella fase degli esercizi fisici.

          - La strada per diventare cavalieri è davvero fatta di veleno e rovi.Occorrono sacrifici, Mu. Bisogna  prendere per mano il dolore,danzare sempre con il pericolo,guardare a testa alta la morte accettando l’imprevedibilità del destino. Trovare la certezza in ogni cosa è un’utopia. La realtà non ti donerà mai stabili garanzie. Devi contare  su te stesso. Sei tu il centro delle tue azioni. Sei tu a dover erigere le tue fondamenta.

          - Già…nel mio cosmo è riposto il potere…

          - Proprio così. Purtroppo diventare forti è la più ardua delle imprese…si rischia perennemente di precipitare…di lasciarsi offuscare dalla sofferenza. Non tutti gli apprendisti, sfortunatamente, riescono a maturare.

          - La morte di un discepolo però può essere la conseguenza degli errori… di un Maestro?

          - Sì … Non tutti gli esseri umani si comportano come tali. Molti maestri si sono rivelati delle bestie trattando i propri allievi come carne da macello. L’uomo è un essere razionale, ma sa essere un animale folle. La violenza è una malattia che l’umanità, fin dalla notte dei tempi, non è mai riuscita a guarire…

         - Certo che è paradossale spargere sangue per ottenere la pace. È mai possibile che da dei massacri possano germogliare piante di felicità? Perché proprio noi guerrieri di Atena, la dea della saggezza, dobbiamo usare la  forza bruta?

         - Perché siamo umani e la perfezione non appartiene al nostro mondo. In noi c’è l’anima che vuole costruire, amare e cooperare ma c’è sempre un’altra colma di aggressività, rabbia e ombre. Siamo doppi, non abbiamo un solo volto. Questo è il nostro dramma più grande…tuttavia… se vogliamo distinguerci dalle belve, occorre che impariamo ad adoperare la violenza come uno strumento consapevole e non come un’arma che dia  piacere sadico.

        - Non tutti capiscono che la lotta può essere una disciplina in grado di equilibrare corpo e mente. Molti la vedono al pari di un coltello con il quale uccidere per forza l’avversario…

        - Lo sai bene, Mu. La perfezione non appartiene agli uomini.  Pensa comunque a raggiungere  le vette più alte anche se non sei dotato di ali.

 Giunsero a destinazione . Mu constatò ciò che aveva detto il suo maestro: sui trentacinque apprendisti che erano partiti dalle varie località dell'Asia ne erano rimasti soltanto quindici. Lo spettacolo era davvero deprimente. Uno squallore incolore e smorto tesseva la propria cappa su quell’accampamento dalle tende color foglie morte d’autunno.
I ragazzi che stavano lì coi loro rispettivi maestri parevano più dei profughi  reduci da una guerra che dei guerrieri fortificati nel corpo e nella mente.
Mu provava una gran pena per loro.
Quando entrò dentro quel quadro scialbo e polveroso, gli apprendisti lo fissarono torvamente come famelici corvi svolazzanti su un campo di grano. Alla  mestizia ora si affiancavano gli spigolosi e terrei occhi della tensione e dell'ostilità.

    - La sofferenza…che strana donna: ti può rendere più nobile,  incrollabile e acuto di un falco oppure ti può trasformare in un miserabile lupo desideroso di sbranare ogni preda che passa .

Mai immagine si rivelò così efficace come quella mormorata da Sion. Mu non sentì la necessità di aggiungere altro. Insieme a lui  iniziò a montare la  tenda immerso in un silenzio inquietante e funereo.
Tutto era arido lì.  L’erba era secca e sbiadita. Le montagne che circondavano la valle sembravano fatte di carta stropicciata e vecchia.
Dopo aver completato il lavoro, il ragazzo si accorse che, tra gl’ apprendisti superstiti, vi era un volto che conosceva dall’infanzia. Era un giovane strano e cupo che si era sempre dichiarato apertamente suo rivale. Il suo nome era Ohen. Sarebbe potuto essere un adolescente di notevole bellezza ma l’ombra di qualche misterioso dolore e la fiele dell’odio lo rendevano sfiorito e sciupato. I folti capelli castano scuro, mossi ,disordinati e lunghi fino alle spalle, lasciavano scoperta un’ampia fronte sulla quale spiccavano due macchie violacee. Lo sguardo, dalle tetre tonalità grigio-azzurre, era feroce e gelido come una scure. L’ovale forma del viso era inasprita da una bocca serrata e livida. L’alta statura e la muscolatura ben delineata rendevano ancor più  minaccioso quel guerriero dal cosmo macchiato e lugubre .
Ohen si voltò verso Mu:

         - Oh, ma guarda…Mu l’allievo di Sion…non mi aspettavo di vederti vivo…mi domandavo se ti fossi rotto la testa in qualche burrone o fossi crepato pestato a sangue da qualcuno.

         - Come vedi sono riuscito ad arrivare fin qui.

         - Devo dire che mi pareva strano che tu morissi negli esercizi fisici…sei maledettamente forte, lo ammetto…lo sei sempre stato purtroppo…

         - Metti da parte questo tuo dannato odio, una volta per tutte. Io non ho mai nutrito astio nei tuoi confronti, neppure quando mi battevi nella lotta.

        - Piantala di fare il santerellino, Mu! Non me li bevo i tuoi discorsi da bravo ragazzo!

        - Io so essere semplicemente ragionevole…tu no. I combattimenti per me rappresentano una sfida verso gli altri, non una battaglia per spargere sangue…

        - Ma per favore! Non vedi quanto sei patetico? Scommetto che sei uno di quegli imbecilli che crede negli alti ideali! Non ti accorgi come la realtà sia più schifosa dei tuoi sogni? Guarda questo accampamento! Guarda quei poveri bastardi che ci circondano! Ecco i nobili cavalieri!

        - Sì…è vero…c’è fango nel mondo, c’è fango sul nostro cammino. Non devi mai perdere però di vista il cielo. Non esiste solo  sozzura nella vita.

        - Per che cosa combatti, eh? Per che cosa? Non dirmi per la pace!

        - Mi dispiace deluderti, ma devo risponderti affermativamente. Bisogna pur tentare di migliorare le cose  piuttosto che lasciare che vengano distrutte, no?

        - Sei un idiota! Non capisci che la pace ,finché ci sarà l’uomo, non esisterà mai? Devi combattere per sopravvivere in questo covo di belve! Il potere serve a questo dopotutto…per dominare e salvarti…

        - Sei tu l’idiota, Ohen…perché sei ottuso e orbo…perché ti vuoi distruggere.

        - Ti farò passare la voglia di sputare sentenze quando riuscirò a farti a pezzi!

        - Prova a crescere un po’, invece di minacciarmi da stupido.

        - Razza di…

        - Risparmia le tue energie. Abbiamo tutto il tempo per lottare…in questo covo di belve.

 
Prima di addormentarsi Mu ripensò al suo incontro con Ohen. Sdraiato  su una stuoia che divideva con Kiki , non riusciva a togliersi dalla testa  gli occhi carichi di burrasca e tuoni di quel ragazzo. Che cosa gli era  successo? Che cosa aveva mai subito per percepire il mondo come un nido di vespe repellenti? Qualche oscuro e drammatico evento gli aveva reso ancora più tetro il carattere già triste e introverso . Mu sapeva che Ohen aveva vissuto da solo con il padre poiché non aveva mai nominato sua  madre…per lui quella figura era sempre stata irraggiungibile e irreale.
L’adolescente avvertiva uno strano miscuglio di mestizia, angoscia e amarezza quando rifletteva su quel giovane truce e sofferente. Una volta Sion gli rivelò che suo padre beveva e il maestro a cui era stato affidato era un uomo che  aveva dimenticato da tempo la pietà e la ragionevolezza.
Mu non osò immaginare quali torture erano state inflitte a Ohen. Non l’aveva mai odiato, in quanto fin da piccolo aveva compreso il dolore che lo colpiva. Possedeva due macchie sulla fronte eppure il suo cosmo non era affatto luminoso e dorato al pari  dello spirito dell'Ariete.
Ohen era tragicamente inquinato dal buio.
Poteva essere un ragazzo molto bello, ma il suo splendore era ricoperto di fuliggine.
Poteva saper sorridere con quella  bocca ben disegnata e sottile, ma l’allegria non l’aveva mai abbracciato.
Poteva prendere il sentiero di nobile cavaliere, ma non era in grado di farlo. Non credeva. Non vedeva. Non sperava.  
Una presenza che stava uscendo dall’accampamento distolse Mu dalle meditazioni.
Si alzò e scostò un po’ il panno dell’entrata della tenda per gettare un’ occhiata fuori.
Nessun cosmo ostile o maligno.
Una figura fragile e frettolosa si allontanava però all’orizzonte. Era una fanciulla.
Mu rimase sbalordito e perplesso…com’era possibile che una ragazza fosse riuscita a penetrare lì? Forse veniva da uno dei villaggi rurali della zona ma non poteva certo entrare e sapere di quell’accampamento di guerrieri. Leira infatti non conosceva le zone in cui Sion lo conduceva. La faccenda era alquanto strana…

   - Mu…Mu…ho freddo…- si lamentò con voce flebile Kiki che si era svegliato.

Mu ritornò subito a sdraiarsi sulla stuoia e l’avvolse  in un’altra coperta.
Stringendolo tra le braccia si addormentò lentamente respirando il profumo del suo affetto.
 
Uno dopo l’altro gli avversari vennero sconfitti. I sette giovani che dovevano affrontarlo in quei giorni  non erano stati capaci di resistere: Mu aveva davvero fatto dei progressi incredibili. La sua tecnica di lotta era precisa, potente e temibile. Riusciva ad evitare i colpi più difficili e insidiosi, muovendosi fulmineo e sferrando attacchi alla velocità della luce. Mentre gli altri ragazzi si lasciavano sopraffare da un furore morboso nei momenti più ardui, lui preservava intatta la propria lucidità e pacatezza. I suoi occhi verdi non trasudavano lampi di violenza o terrore. Nessuna emozione scivolava  inquieta e infiammata dal suo viso. Mu irritava gli sfidanti per quel temperamento posato, quieto e imperturbabile.
Feroce, gelido e tremendo era invece Ohen: batté brutalmente gli altri otto apprendisti. Gli sventurati, al termine dei duelli, si erano ritrovati orribili fratture, contusioni nerastre e ferite sanguinanti. Per poco uno di loro non aveva rischiato addirittura di morire… quell’adolescente combatteva al pari di una belva bramosa di lacerare le sue prede. I pugni erano  asce da guerra, i calci sciabole letali. Nessun guerriero destava più terrore  di lui. L’unico che ,però, non avvertiva ciò e lo fissava con vaga tristezza era Mu.
Egli sapeva benissimo che in realtà Ohen non era felice. Quando aveva battuto i suoi rivali si era limitato a sorridere in modo pallido e inquietante raggiungendo il proprio maestro. Sion non aveva mai stimato quell’uomo, un individuo  macabro che portava una strana maschera di legno per coprire il  volto sfigurato da  ustioni orripilanti… Mu  non percepiva nulla di rassicurante e positivo nel cosmo di costui.
 
Nei giorni che precedettero l’incontro finale con Ohen, Mu approfittò del tempo che aveva a disposizione  durante le mattine   per addestrare Kiki. Il piccolo, come lui, era dotato di notevoli capacità telecinetiche ma era necessario ,ovviamente, insegnargliele a gestire e dominare. Iniziò così a mostrargli come teletrasportarsi a brevi distanze, in che modo spostare e sollevare gli oggetti piccoli e grandi da un posto all’altro grazie alla psicocinesi… Le fasi dell'apprendimento si sarebbero svolte, insomma, in maniera  graduale e consona alla crescita del fisico e della mente del bambino.
Mu era davvero contento di dedicarsi al fratellino. Occupato a spiegare e mostrare esercizi, evitava di pensare  alla lontananza  di Leira, alla morte dei genitori, alla tensione del combattimento contro Ohen. Kiki gli trasmetteva un’intensa energia positiva che lo incitava a proseguire nel suo faticoso cammino con determinazione. Inconsapevolmente quel bimbo lo aiutava. Lo aiutava nella sua semplice grandezza.

   - Ehi, Mu!

Il ragazzo si voltò  interrompendo l’addestramento con il fratello.
Ohen gli sferrò un micidiale pugno allo stomaco.
Mu sputò sangue dalla bocca e finì con le ginocchia a terra piegato in due da un dolore allucinante.
Kiki spaventato gli si avvicinò febbrilmente.

    - Questo è un avvertimento per domani, nobile cavaliere. Posso infilzarti da parte a parte quando divento veramente cattivo…perciò stai attento.

Nel momento in cui Ohen diede le spalle , Kiki gli lanciò ,con la mente, un sasso in testa.
Il ragazzo si girò di scatto guardandolo di sbieco: ricevette una linguaccia.
 

         - Mi domando se Ohen vuole divenire cavaliere o demone- fece Sion osservando l’enorme ecchimosi che il suo discepolo aveva sull’addome.

        - È stato terribile…mi sono sentito trafitto da una spada infuocata…

        - Tieni gli occhi ben aperti…purtroppo a quel ragazzo non gli sono stati trasmessi il rispetto, la lealtà e … l’umanità. Hai visto il suo maestro che genere di uomo è.

        - Ahimè sì…sicuramente insegnerà il modo per fare a pezzi gli avversari nel minor tempo possibile…

        - Speravo di non arrivare mai a dirti questo ma è assolutamente necessario: Mur …domani fai uso di  tutto il fuoco dell'Ariete…adopera a pieno la sua potenza devastatrice.

        - Dovrei…combattere con le luci della distruzione?!

        - Sì. Non lotterai soltanto col corpo ma anche coi poteri che fino ad ora ti ho trasmesso. Non conosci gli attacchi mortali ma quelli di cui sei già dotato possono essere altrettanto letali.

        - Io…io…

        - Mi dispiace…detesto dal più profondo di me stesso raccomandare tali atroci soluzioni…sfortunatamente non hai scelta.

        - Allora è proprio vero che in fondo siamo tutti degli animali.

Con sguardo afflitto Sion, grazie ad un incantesimo, fece scomparire il livido che l’allievo aveva sul ventre.
Mu taceva contemplando il vuoto con gli occhi carichi di bufera.
Kiki , nonostante non capisse pienamente la vicenda, osservava la scena immerso nell’angoscia.
 

 Di nuovo quella presenza. Mu si levò dalla stuoia e si avvicinò all’entrata della tenda. La fanciulla di alcune notti fa era giunta ancora una volta all’accampamento…nell’oscurità si distingueva la sua figura sottile e…quella di un'altra persona… di un giovane!  Ohen!
Mu, allibito, si accorse che i due si stavano allontanando tenendosi per mano. Spinto da una bruciante curiosità, fece divenire impercettibile ed invisibile il proprio cosmo e si teletrasportò da loro.
La scena a cui assistette lo lasciò ancor più esterrefatto.Ohen stava dinanzi alla giovane accarezzandole il viso come per dissipare in lei qualche procellosa preoccupazione.
Alla luce argentea e cristallizzata della luna, Mu riuscì a distinguere i tratti di quella ragazza: era alquanto strana…non si poteva definire bella e forse neppure carina… Non era particolarmente alta ma la sua figura era slanciata e molto magra. Una   veste un po’ logora, dalle maniche lunghe , le  lasciava scoperte le piccole e pallide spalle un po’ spigolose. La pelle pareva così terribilmente sottile  che le ossa delle clavicole minacciavano di lacerarla come un sottile lenzuolo di seta. Altrettanto candida era la carnagione del viso emaciato su cui spiccavano due enormi occhi neri dalle ciglia lunghissime. Una folta e scarmigliata chioma di capelli castano scuro  rendeva più minuto  quel volto opalescente e cinereo .
Mu trovò  l’aspetto di quell’adolescente inquietante, sciatto e inspiegabilmente tenero.
Sconvolgente  era però l’espressione di dolcezza dipinta negli occhi di Ohen. Lui sorrideva protettivo e appariva finalmente raggiante in tutta la sua bellezza. Adesso non vi era nulla di tetro, trucido…ogni goccia d’inchiostro era svanita per proiettare nella luce una recondita e celata nobiltà. Nel suo cosmo si potevano cogliere delle piccole scaglie di diamanti.
 

          - Ohen, non riesco a stare tranquilla…

          - Abbi fiducia in me, Nemi! Se domani batterò Mu, potrò accedere all’ultimo livello dell’addestramento: quello che mi manca per conquistare l’armatura dell'Ariete!

          - Diventerai…cavaliere di Atena…

          - Sì…certo…combatterò…ma non per la pace.

          - Continui a non crederci, vero?

         - Ah!ah!ah! Suvvia, secondo te  è mai possibile che dei guerrieri possano portare la pace? Bisogna sopravvivere, lottare e far andare avanti questo maledetto mondo che non sa reggersi in piedi. La pace? Ci sarà sempre qualcuno che la demolirà…è un circolo vizioso: guerra, calma, guerra, calma. Si è sempre su un’altalena. Niente è eterno. Tutto oscillerà per sempre.

         - Già…gli uomini non sanno vivere senza combattere gli’uni contro gli altri…anche tu non fai eccezione.

         - Nemi, ti prego, ne abbiamo parlato un sacco di volte…

         - Hai presente cosa mi fai passare ogni volta che sei lontano da me?! Ho quasi sempre gli incubi! Io vivo continuamente nell’angoscia!

         - Lo sai…io devo diventare cavaliere…purtroppo è stato questo il mio destino…

         - È vero…ma perché non puoi cambiarlo? Perché ti ostini a rischiare la vita? Perché…non possiamo vivere noi due da soli….tranquillamente?

         - Nemi! Te l’ho promesso!  Ti porterò via da quell’orrendo villaggio! Anche se diventerò cavaliere sarai al mio fianco…vedrai, finalmente ci riprenderemo quello che ci hanno tolto…

         - Sarà rischioso andarcene via di nascosto.

         - Ce ne dobbiamo infischiare degli altri! È la nostra felicità la sola cosa che importa!

Ohen e Nemi si baciarono abbracciandosi con intensa e trasparente passione.
Mu si dileguò lasciandoli soli.
Tornato dentro la sua tenda, si mise a piangere silenziosamente. Non voleva vedere l’alba del giorno dopo.  Non voleva combattere più.
Prese  però in mano  l’amuleto bronzeo dell'ariete: l’occhio dell'animale rifletteva fiamme sanguigne.
Con il pungente dolore delle lacrime che gli sigillava la gola, comprese che doveva trasformarsi in belva.
Nessuna pietà. Nessun sentimentalismo. Solo la sopravvivenza contava.
Solo uno sarebbe andato avanti.
 Il sole dell'aurora celava il volto esangue dietro stracci di nubi vecchie e sfilacciate. La terra dell’arena era granellosa: sassolini e pietre aguzze ricoprivano quel lembo di deserto secco e freddo.
Attorno al luogo del duello stavano  gli apprendisti sconfitti che  osservavano  scuri e colmi d’invidia i due avversari che si accingevano a lottare.
Sion contemplava la scena con espressione grave e ansiosa.
Vicino a lui il piccolo Kiki riusciva a stento a tollerare l’ aura di tensione che opprimeva quel luogo.
Mu era inquietante: gli occhi erano divenuti pietre dure e taglienti… Soltanto aliti di gelo sprigionava il viso, una maschera perlacea e indecifrabile.
Ohen era di cenere: voci di lampi fiammeggiavano nel suo sguardo sinistro e velenoso… Le labbra erano minacciosamente serrate.
I  due giovani, l’uno di fronte all’altro, si misero in posizione di combattimento.
Un timido filo di vento ondeggiò fragilmente tra loro.
Pochissime gocce di silenzio…
L’attacco.
Urlando come una fiera, Ohen si scagliò selvaggiamente su Mu dando inizio ad un violento corpo a corpo. I suoi pugni sibilavano velocissimi e letali nell’aria ma il rivale riusciva a pararglieli  con altrettanta rapidità: la sua tecnica era dannatamente efficace. La sua difesa solida al pari di una muraglia…
Mu, a sua volta,  tentò di annientarlo con una raffica di colpi potenti e ben assestati ma anch’egli si trovò dinanzi alla difficoltà di abbattere una fortezza indistruttibile…
Nella prima fase del duello  lo scopo rimase, per lunghi istanti, quello di distruggere le difese del nemico…  il sangue  prese a macchiare la terra.
Ohen riuscì a colpire in pieno viso Mu  nello stesso attimo in  cui ricevette proprio da lui una tremendo calcio nell’addome: la vera battaglia cominciava ora.
I due adolescenti lottavano facendo uso soltanto del corpo… le loro braccia e le loro gambe erano però come spade di ferro. Ben presto si trovarono ricoperti di graffi, tagli e lividi…
Lo scontro era brutale ma nessun vincitore riusciva ad emergere. La bilancia sembrava pendere a volte a favore di Mu, a volte a vantaggio di Ohen. Tutto altalenava pericolosamente.
Sanguinanti, sporchi di polvere, sudore e coi capelli scarmigliati  , i due si fermarono ansimando.
Ritornò il silenzio.
Solo i respiri affannosi dell'angoscia si arrampicavano con fatica nell’aria.
Mu si accorse che, nonostante fosse affaticato, Ohen stava iniziando ad espandere il proprio cosmo: “ La sua energia sta aumentando sempre di più…userà i suoi poteri! Devo stare molto attento…Ohen è già in possesso di tutti gli attacchi mortali! Il Maestro mi aveva messo in guardia prima del duello…  “
Il  giovane fece bruciare con ancor più intensità la sua aurea:

    - Lamina ignis!!

    - Crystal wall!!


Mu fece comparire una gigantesca barriera di cristallo che infranse la lama di fuoco lanciata dall'avversario.
Ohen provò ad accanirsi invano e tutte le sue lamina ignis finirono ridotte in fumo.

   - E va bene, dannato Mu! Prova a difenderti da questo: Disco rubeo!!-

Contro l’enorme potenza del disco scarlatto il crystal wall resistette poco e si frantumò. “ Maledizione! Questo attacco è stato micidiale! Non era mai successo che il muro di cristallo si rompesse!” pensò allarmato Mu mentre Ohen gli scagliò un altro disco rubeo che evitò col teletrasporto.
Il ragazzo cercò di colpirlo un’altra moltitudine di volte ma senza risultati.

    - Non ho voglia di farmi pigliare per il naso dalle tue stupide magie! Vieni fuori!!

Mu non compariva. Era divenuto invisibile come il vento.

    - Cos’è caro Mu? La vigliaccheria ha preso il sopravvento sul tuo fiero animo?

    - Come puoi dire questo, Ohen?- il giovane si voltò e se lo vide apparire improvvisamente davanti. 
     
    - Starlight execution!!

L’assalto di luce stellare fu così fulmineo che Ohen si trovò scaraventato violentemente in alto  senza avere il tempo di ribattere. Lo schianto per terra fu devastante.
Mu rimase immobile  a osservare.
L’altro cavaliere riuscì dopo alcuni minuti a muovere le membra indolenzite.
Lentamente si rialzò, levando il capo.
I suoi occhi grigio-azzurri brillavano di una strana e folle luce. La sua bocca si schiuse in un sorriso per nulla rassicurante.

   - I miei complimenti per il tuo colpo…divertente…davvero divertente… quello che però  ti farò provare lo sarà di più... non potrai fuggire…

Mu  sudò freddo.

   - Giochiamo un po’,amico mio! Flagellum tònitri!!

Ohen folgorò il suo nemico con una letale frusta di tuono.
Urlando Mu piombò a terra. L’altro gli si avvicinò.  
 
   - Respiri ancora, stupido cane! Hai pure la forza di muoverti! Stai tranquillo, ora che ti ritroverai le ossa a pezzi, non l’avrai più!

Legandogli l’estremità  del flagello alla caviglia, Ohen lo sbatté da una roccia all’altra  al pari di una pezza logora.
Quell’atroce spettacolo fece gridare di terrore Kiki che scoppiò a piangere.
Sebbene Sion fosse sconvolto e seriamente preoccupato, si avvicinò con dolcezza al piccolo tentando di calmarlo.

   - Maestro Sion! Ho-ho p-paura! Ho paura! Non voglio che Mu muoia!! Non voglio!!

   - Kiki, coraggio! Tuo fratello ce la farà! Abbi fiducia in lui!

Il bambino continuava a singhiozzare avvolto nel panico.
L’arena era ormai coperta di pozze di sangue.
Mu aveva il viso completamente rosso e giaceva a terra moribondo.
Non udiva più nulla. Non vedeva più nulla… Forse era finita…Forse non era destinato a diventare cavaliere dell'Ariete…era stato uno sbaglio…sì…un tragico errore.
La marea dell'eternità si sollevò dai suoi sensi bruciati…
Nero. Gelo. Vuoto.

   - Mu…Mu…

 Delle voci nebbiose illuminarono fiocamente quelle tenebre.

   - Alzati…forza…

Gli echi si fecero più forti e  dipanarono il buio.
Mu si svegliò lentamente . Dinanzi a lui due persone chinate: un uomo dai ribelli capelli  fiamma e dagli occhi verde acqua e una donna con una lunga chioma lilla come il  limpido sguardo .

   - Papà…mamma…

La coppia gli sorrise teneramente ma con una certa serietà.

   - I-io sono…morto?

   - No …Potresti però diventarlo se non ti rialzi immediatamente- gli rispose il padre asciutto e
severo.

  - Ma…m-mi sento a brandelli…senza più alcuna forza…

  - Non è il momento di abbattersi, Mu. Devi superare anche questo ostacolo…devi crescere-
Disse la madre.

 - Desidero tanto stare con voi…riavervi di nuovo…- Mu sentì le lacrime annebbiargli la vista.

 - Non si può tornare indietro e non puoi piangere ora! Svegliati!

 - Papà, io…

 - Tuo padre ha ragione…apri gli occhi e continua a combattere…il tuo destino è quello di cavaliere…non sei un giovane come tutti gli altri…inoltre c’è chi ti aspetta, ti stima, ti ama…

Mu avvertì il cosmo disperato di Sion e il terrore del fratellino che gli trafissero l’animo.

 - Mu…ricorda ciò che dimora dentro di te…

 - Sì…diventa grande…

 - L’occhio dell’Ariete è nel tuo sangue.

Il ragazzo vide l’immagine soave e commossa dei genitori svanire in un lampo di luce per lasciare fiammeggiare la sagoma di un imponente animale…un dorato ariete dagli occhi scarlatti.

 - Fratello!!! Non morire!! Non lasciarmi solo!!!!

L’urlo di Kiki lo scaraventò sulla terra.

   - Allora, Mu? Ti finisco per sempre?- Fece malignamente ironico, Ohen calcandogli il piede in mezzo alle scapole.

   - Beh…sembra che ti abbia ridotto proprio male…non mi resta che dirti addio e…gemma aurorae!!!!

Era l’attacco mortale più potente. Un accecante e dolente bagliore bianco inghiottì tutta l’arena.
Chiudendo gli occhi, Kiki si strinse al Maestro Sion.
L’ondata diminuì però bruscamente fino ad estinguersi.

  - No! Non ci credo! È impossibile!!- Gridò inorridito Ohen sgranando gli occhi all’incredibile scena che gli si presentava davanti: Mu aveva fermato con una sola mano la gemma dell'aurora riducendola ad un’inoffensiva sferetta di luce.

  - Ohen…l’aldilà per me è ancora lontano.

  - Brutto bastardo!!!

Ohen tentò di ferirlo ma venne nuovamente ingannato dal  teletrasporto.

  - Mu! Giuro che ti squarto da capo a piedi!! Esci, per la miseria!!

Nessuna risposta.

  - Quando finalmente creperai, non giocherai più!!!- sbraitava accecato dall’ira  correndo avanti e indietro senza alcun risultato.

  - Dannato verme, sei bravo a nascondere il tuo cosmo… ma ti romperò una ad una le vertebre…se ce le hai...- ansimando si fermò un istante in mezzo a due monoliti di granito.

  - Crystal net!!!

Ohen si trovò intrappolato come una mosca su un’enorme ragnatela di cristallo. Era completamente paralizzato.

  - Allora, Ohen? Ti finisco per sempre?- fece Mu, comparendo dinanzi al suo rivale, con espressione fredda e incalcolabile.

  - Cosa vuoi fare, idiota? Riutilizzare di nuovo lo star light execution? Non puoi eliminarmi con quello!!

  - Hai ragione…questo non è un colpo potente come i tuoi…però…posso apportare qualche modifica…

  - C-come?!

Mu espanse spaventosamente il suo cosmo: ardeva lacerante e in modo illimitato. L’ estreme fiamme delle stelle dell'Ariete si erano concentrate immense e potenti nelle sue braccia.

  - Starlight execution!!!

Mai quell’attacco si era mostrato così grande e luminoso.
La valanga di luce stellare travolse violentemente Ohen, al pari di uno tsunami e di un brutale getto di lava.
Mu vide l’avversario piombare inerme per terra.
Sion era sbalordito. Kiki, impietrito.
Ohen pareva non muoversi più.

   - Mu!!!- Il bambino corse verso il fratello saltandogli  addosso e abbracciandolo forte. Riprese a piangere rumorosamente.

   - Su,Kiki…sono vivo…smettila di frignare…- diceva Mu accarezzandolo teneramente.

   - Mi hai fatto venire tanta paura, scemo!- gli rispose dandogli una botta sulla spalla offeso.

   - Kiki, non strapazzare il povero Mu! È  molto stanco ed è pieno di ferite…- Sion si avvicinò al suo allievo.



     - P…per…perché…non m-mi haiOhen tentava fiaccamente di muoversi ma era privo di forze: avvertiva le proprie membra pesan
      ti  come pietra inanimata e gelata. Non era più in grado di combattere. Aveva perso. Era un  vinto.
   
   - P…potev-vi r-ridurmi in c-cenere…p-perché n…non l’hai fatto?- continuava a balbettare con l'acre sapore di sangue della sconfitta in bocca. Mu avanzò verso di lui. Anch’egli aveva  l’abito  ridotto a brandelli ed era sudicio. Sul suo viso sporco si dipinse un sorriso colmo di rispetto e gentilezza.

   - Ohen, io…

   - Razza di imbecille.- Mu venne interrotto dal Maestro di Ohen, che avanzò lugubre e quasi surreale con l’asettica maschera di legno che gli celava il viso.

   - Non vali nulla. Tutto ciò che ti ho insegnato è andato in fumo. Sei diventato uno zero assoluto.- iniziò a prendere a calci nelle costole il suo allievo, sfiancato e già parecchio malconcio.
L’orrenda esecuzione venne immediatamente fermata da Sion che sferrò un terribile pugno in pieno petto a quell’ uomo.

   - Mi domando in che modo delle carogne  come te possano  diventare Maestri! Ti sei visto? Sei ripugnante!

Mu e Kiki erano annichiliti: non l’avevano mai visto così furibondo.

  - Non potevo tollerare quello spettacolo! Pensi che un tuo discepolo debba essere calpestato al pari di un insetto?!

Sion afferrò l’uomo per la gola iniziandolo a stritolare:

  - Sei un miserabile…il vero fallito non è Ohen, ma tu soltanto. Fai schifo!

Mu vide i bei lineamenti del Maestro stravolti: i suoi occhi luccicavano biechi e agghiaccianti, le labbra mostravano i denti digrignati in un’orribile smorfia di collera.
Kiki impaurito si rifugiò tra le braccia del fratello.

  - Basta, Maestro! Vi prego! Volete abbassarvi a questi livelli?!

L’urlo del suo apprendista lo fece ridestare da un incubo di rossa violenza. Sion abbandonò bruscamente la stretta e lasciò cadere l’uomo per terra. Si guardò inorridito le mani e ,voltandosi verso Mu e Kiki, mormorò con uno  sguardo scioccato e imbarazzato:

  - Perdonatemi…io…mi sono lasciato accecare da degli infimi istinti…non avrei dovuto farlo…sono deluso da me stesso, ma soprattutto ho…deluso voi. Mi dispiace moltissimo.

Sion si ricompose tristemente  e si accinse ad allontanarsi:

  - Come hai potuto constatare Mu, non sono perfetto…è da più di cent’anni che vivo…eppure il senno m’ aveva abbandonato e mi stavo comportando davvero da bestia…l’indole umana è un fragile stelo che può sempre piegarsi ad ogni soffio d’inferno… Soltanto una cosa posso affermare: quella di essere fiero di te.

  - Maestro…

  - Il gruppo di medici sta per giungere qui. Pensa a rimetterti per le prossime lotte.

Arrivarono i soccorritori che adagiarono per primo Ohen su una barella.

  - Mu…dimmi…come mai…non mi…hai fatto fuori…

 - È  vero ciò che dici…il mondo è un covo di belve…tuttavia io non voglio diventare un animale.

 - Che…che intendi dire?

 - Se vuoi sopravvivere non devi solo lottare ma devi imparare a vedere fuori e dentro te. Anche tu hai due macchie sulla fronte come me. Anche tu desideri le stelle nonostante  una notte vuota e crudele ti abbia torturato a lungo.

 - Mu…

 - Tu sei in grado di amare Ohen…lo so.

Ohen spalancò gli occhi con intenso stupore: Mu allora… sapeva.
Delle ustionanti lacrime, misto incomprensibile di rabbia, gratitudine e tristezza, gli rigarono il volto. Cominciò a singhiozzare come un bambino delirante e confuso.

 - Maledetto…maledetto…maledetto…- blaterava scuotendo il capo con sguardo allucinato,mentre i medici lo riportavano all'accampamento.

Ecco l’aspro viso della lotta. Ecco i moti dell’animo umano: un assurdo cielo fatto da costellazioni di furore,  dolore,  follia e  grandezza.

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Capitolo 5
*** conchiglie di storie- l'arrivo ad Atene ***


    Note: il capitolo 5 sarà piuttosto lungo  ( più del cap 3)  e lo aggiornerò gradualmente nell’arco di queste settimane…

 

          - Mu! Che cos’è quest’enorme lago?

          - E’ il mare, Kiki.

La Grecia che si specchiava nelle onde di Poseidone . La Grecia dal sorriso splendente di case bianche con le finestreblu…Kiki non aveva mai visto la bellezza di quella terra. Non conosceva il vento dello iodio che salava dolcemente le spiagge. Non appena si erano teletrasportati ad Atene, il suo primo desiderio era stato quello di…vedere da vicino “ la cosa d’acqua gigantesca e blu”…il suo fratellone l’aveva condotto volentieri sulla baia nei pressi della città.

          - Ma quant’è grande il… mare?

          - Oh,è immenso! È così grande che bagna le spiagge di tanti altri posti…posti davvero lontani da qui!

          - Wow! E si possono vedere tutti andandoci con le navi o con le barche?

          -  Sì, però bisogna stare attenti…quando arriva il temporale il mare si arrabbia e le onde che vedi ora diventano molto alte e possono inghiottire qualunque cosa…

          - E…dove si va se si viene mangiati dalle onde?

Mu sospirò. La  sua mente venne percossa dai ricordi delle lotte che come cervi impazziti piantarono le corna nel suo cuore: quante volte era stato sull’orlo di annegare? Quante volte aveva sfiorato la morte? E…Ohen? Stava ancora nuotando nella burrasca?

         - Emh…fratellone…che succede se uno finisce sotto un’onda?

         - Va giù negli abissi…il mare è molto profondo e…fa paura.

         - È  colpa del cielo se però vengono le ondone! Le bufere le fa  lui! Le nuvole brutte le fa lui! Stanno tutte in alto!!

         - Già…la pioggia cade da sopra…

         - Mu…secondo te il cielo e le stelle…come vedono la terra? Perché fanno cadere così tante cose?

         - Sai, Kiki…è un mistero.

         - Cioè? 

         - Purtroppo…noi che siamo qui e non possiamo volare  non conosciamo il mondo che c’è lì in alto…

         - E gli uccelli?

         - Sanno come sbattere le ali nel vento ma neanche loro riescono a vedere i segreti del cielo…

        - Fratellone, ma tu mi avevi detto che le stelle ci fanno luce e noi le vediamo durante la notte…quindi un pochino il cielo lo conosciamo!

I capelli scossi dalla brezza marina, Mu sorrise con un misto di tristezza e dolcezza .

       -  Kiki, devi sapere che il cielo è infinito, non ha nessun muro e non potrai mai toccarlo, né prenderlo… inoltre le costellazioni sono magiche e strane…

      -  Perché?

     -  Perché ti danno dei poteri ma sta a te capire come li devi usare. Non ti spiegano nulla. Devi prendere il destino che ti offrono.

     -  Che cos’è…il destino?

      - Non è facile da dire. Quando diventerai grande lo capirai sempre di più. Ci sono volte che  non puoi fare niente per cambiarlo e a volte invece sì. In ogni modo tu sei lo specchio dei suoi colori.

      - Non ho capito.

     - Beh...sei un po’ come il mare…il mare è lo specchio dei colori del cielo.

    - Quindi non è blu!

   -  No…è trasparente!

Kiki corse a riva e raccolse dell'acqua con le mani a coppa.

         - Che scemo! Non ci avevo mai fatto caso! Allora se il cielo è blu, il mare è blu. Se il cielo è grigio, il mare è grigio….se al tramonto diventa arancione, l’acqua fa lo stesso!

         - Esatto. Tu cambi colore a seconda di ciò che ti fa diventare il destino.

        - Mmmh…questo destino è strano! Se lui fa un colore, io mi trasformo in quel colore…

        - A differenza del mare, ci sono però alcune volte in cui i colori li puoi cambiare…se il destino è grigio o nero…tu da scuro puoi diventare chiaro e azzurro…

         - Oh…

Il bambino fissò la volta del mezzogiorno e poi le onde.

         - Fratellone, di che sa l’acqua del mare ?

         - È salata. Non è dolce come quella dei fiumi.

         - Posso assaggiarla un pochino?

         - Se ci tieni…  

Kiki prese un po’ d’acqua.

          - Bleah!! Che schifo! Ha un sapore brutto!!

          - Ah!Ah!Ah! quando nuoterai ti ci dovrai abituare ! “ purtroppo è la vita Kiki…”
 

 
 
La necropoli di Atene era brulla, spoglia e solenne. Tra le lapidi delle antiche tombe l’eco degli anni remoti danzava fluttuante e malinconica.
Sion era da tanto che non andava lì.
Fissò il mare alla sua sinistra. Le anime dei defunti forse sognavano ancora di nuotare nell’azzurro cupo e splendente delle acque.
Qualche ulivo e qualche alloro  cercavano di afferrare il lieve vento marino con i loro esili rami. Su  quel terreno sassoso di cimitero non correva alcuna aurea lugubre. Solo la pace dell'eterno. Solo i raggi del sole infuocavano i radi fili d’erba.
Camminando tra le croci e i piccoli monumenti commemorativi, Sion navigò vicino le sepolture della gente comune e percorse  le zone ove riposavano i sacerdoti e i gloriosi cavalieri del passato. Com’erano i campi Elisi? Fatti di luce? Fatti di serenità immortale? Inutile porsi quell’interrogativo…il paradiso sembrava così lontano da parere inesistente…niente si poteva sapere su di esso…era impossibile guardare oltre il velo nero della morte…
Sion si diresse verso il punto più recondito della necropoli. Aldilà dei sepolcri degli antichi guerrieri vi era un luogo un po’ isolato che si trovava ai piedi di una roccia. Era l’unica parte in cui crescevano fiori.
L’uomo si avvicinò sempre di più. Il battito del suo cuore stava accelerando.
Ecco che giunse dinanzi alla roccia.
Due croci di legno si trovavano lì. Una grande e una più piccola. Erano in parte coperte da papaveri, fiori di origano, margherite e ginestre. Sion si chinò e scostò le piante per leggere i nomi che recavano sopra:
Briseis e Hymen.
Due sciabolate nel petto.
Conosceva fin troppo bene quelle iscrizioni…eppure sentiva che ogni loro lettera  ustionava brutalmente il suo cuore.
In ginocchio fissò ipnotizzato le croci. I suoi gioielli erano sotto terra. I raggi che lui aveva amato intensamente erano misere ossa.
Lui lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene. Più di un secolo era trascorso da quelle tragiche perdite.
Il tempo rimargina le ferite. Il tempo però può sempre ritornare a farle sanguinare.
Una lacrima rovente cadde. Un’altra. Un’altra ancora. Sion, a sua insaputa, si ritrovò a piangere.
Prese a singhiozzare come un bambino abbandonato dalla madre. Era sconcertato da sé stesso: era mai possibile che dovesse reagire così? Non aveva previsto ciò…pensava di incontrare le spine della mestizia ma non le tenaglie del dolore e della disperazione…
Tutto il dramma, tutto il turbine di sensazioni che aveva provato quando era ancora un ventiduenne, lo sferzarono di colpo.
Si accasciò per terra tentando di soffocare invano i  singulti.
Era nel panico. Non era più in grado di far cessare il pianto.
Si sdraiò  supino, con il viso rivolto all’immensità del cielo. I suoi occhi rossi, completamente inondati dalle lacrime, parevano due magnifici rubini. I lunghissimi capelli biondi, sparpagliati disordinatamente sul terreno, erano i dardi di un sole bruciato dalle proprie fiamme.
Alla fine Sion riuscì ad emettere una vaga risata. Una risata triste, affaticata e colma d’amore.

       - Briseis…Hymen…grazie… era da tanto…troppo tempo che non sentivo ardere le lacrime… vi amerò… sempre. Sempre.- Mormorò mentre  una coppia di gabbiani si librava in volo, leggera e maestosa  sulla limpida prateria del mare.  

 
 

Mu e Kiki si diressero verso la collina dell’acropoli ateniese. Dopo aver attraversato il Pireo, il secondo comune più popoloso dell’Attica noto per il suo fiorente porto, presero una stradina rurale. Il sentiero portava fuori dai centri abitati  e si inerpicava lungo la remota via processionale che conduceva all’ingresso monumentale dei Propilei: da qui si poteva giungere al  Partenone e agli altri templi secondari.
Mentre camminavano, Mu avvertì un cosmo famigliare  avvicinarsi. Non apparteneva a Sion ma emanava un’intensa energia luminosa. Nessun ombra trapelava: solo raggi e stelle. Grande era l’aurea positiva che lasciava trasparire.

     - Mu! Finalmente! – esclamò una voce grossa e roboante alle sue spalle.

     - Aldebaran!

Un giovane enorme uscì da un boschetto di pioppi .

    - Caspita! È da quasi tre anni che non ci vediamo!

    - Già ! da tantissimo! Sono felice di rivederti!

    - Ah!ah!ah! anch’io..soprattutto ora che noto che hai messo su dei chili…mi ricordo com’eri magrino prima!

    - Beh, tu non sei certo cambiato…anzi sei diventato più bestione che mai!

Ridendo, Aldebaran  abbracciò l’amico con tale foga che per poco non lo soffocò. Kiki osservava divertito e meravigliato quel cavaliere: era alto due metri, aveva una muscolatura impressionante e sicuramente pesava più di cento chili.

    - Questo è il tuo fratellino? È grandicello! Ero rimasto a quando…aveva appena un anno!

    - Sì- fece Mu sorridendo- è diventato il mio apprendista…

    - Però! Anche tu fai il Maestro! Dunque…se non sbaglio, il tuo nome è…Kiki, giusto piccolo?

    - Sì! Proprio così!- rispose vivacemente il bambino.

    - Io sono l’ apprendista cavaliere del Toro! Piacere di conoscerti!

Kiki prese subito in simpatia quel ragazzo. Aveva la pelle abbronzata, una folta capigliatura castana buttata indietro e un viso rude. Nonostante possedesse dei lineamenti un po’ grezzi ,sottolineati dalle cespugliose sopracciglia  e dal naso pronunciato, gli occhi neri e la bocca sorridevano brillanti.

   -  Sei…figlio unico?

   - Oh, no! In  famiglia siamo molti ! Ho due fratelli di nove e sei anni e una coppia di sorelline gemelle di tre.

   - Wow! E dove abitano?

   - In Brasile.

   - Emh…Mu, da che parte è il Brasile?

   - Ah!ah!ah! Si trova tanto lontano…è nel Sud America…quando ti insegnerò i nomi dei luoghi della terra tutto ti sarà più chiaro.

   - Dovrò…studiare?

   - Mi pare ovvio fratellino mio…e sarò molto severo con te…- disse Mur con un sorrisetto dispettoso.

   - Ma io so già l’alfabeto!

   - Solo quello tibetano, dovrai sapere pure quello latino, quello greco…e tanti altri!

   - No! Non mi va!

Aldebaran e Mu  si misero a ridere.

   - Miloooo!!!
I tre si voltarono tutti in direzione  dell'acropoli.

   - Aldebaran…quest’urlo è… di Aiolia! Percepisco il suo cosmo e…quello di Milo!

   - Ah, sì…mi ero scordato di dirti che ci stavamo allenando davanti al Partenone …è da due settimane che non facciamo altro che sfidarci  a vicenda…quei due si illudono di battermi nel lancio e nel sollevamento pesi…

Altri boati si udirono.

    - Ah!ah!ah! è inutile che ringhi Aiolia! Ti ho fregato!

   - Vai all’inferno!!

Si susseguirono una serie di frastuoni.

   - Mmmh…dev’essere un duro scontro…

  - Quei due  pensano sempre  a suonarsele…mentre io mi fermo per pranzare loro continuano a scazzottarsi e io li devo separare come una brava balia che divide i suoi marmocchi….

  - Ah!ah!ah! Cos’è?  Bisticciano parecchio?

  - Quando si menano si tirano ingiurie e maledizioni, al termine della giornata tornano poi amici come prima.

  - Li voglio vedere, li voglio vedere!- esclamò entusiasta Kiki al fratello.

  - Tranquillo, Kiki adesso entriamo nell’acropoli…

 Una grande luce si espanse dal Partenone.

  - Lighting bolt!

  - Scarlet needle!

Un’esplosione.  
Aldebaran sospirò.

  - Avanti ragazzi…vediamo che cos’hanno combinato i nostri  bimbi…

I tre fecero di corsa il sentiero salendo poi i gradini dei Propilei. Oltre le gloriose colonne della facciata , rivestite dell'austerità dello stile dorico, vi erano i resti di altri  sei eleganti monoliti ionici. Oltre quell’ingresso, testimonianza remota della grandezza dell'Atene di Pericle, si poteva vedere a destra l’imponente Partenone e a sinistra il magnifico tempio dedicato ad Eretteo, il primo mitico re della città.
Di fronte a Mu, Kiki e Aldebaran non si poteva però ammirare un monumento o una scultura di Fidia: vi era uno spettacolo d’altro genere. Davanti al piedistallo che doveva un tempo  sorreggere la colossale statua di Atena Promachos, due ragazzi stavano sbraitando alzandosi da terra pieni di lividi e graffi. Erano entrambi alti, avvenenti ed atletici.

  - Giuro che la prossima volta ti incenerisco!!

  - Abbassa la criniera, leoncino! Per poco non rimanevi secco con la mia cuspide scarlatta!!

  - Sai una cosa? Gli insetti bisogna schiacciarli…soprattutto quelli velenosi e molesti…

  - Oh! Non pigliare per il naso gli scorpioni!!

I due  si stavano spintonando a vicenda con intenzioni minacciose, quando Aldebaran gli separò:

  -  Bambini! Dateci un taglio! È così che si accolgono i vecchi amici?!

I nobili guerrieri guerrafondai si voltarono verso Mu e Kiki con un’espressione di chi si risveglia dopo una notte di lungo sonno…Erano stati talmente presi dalla loro lotta da non essersi accorti di quell’ arrivo.

  -   Mu! Perdonami!  Milo è una testa di chiodo…

  -   Tu invece sei una testa di cavolo marcio, Aiolia… Mu, da quanto tempo!- fece Milo sorridendo come il sole e ignorando lo sguardo stizzito dell’amico. Aveva dei bei lineamenti: gli occhi un po’  obliqui erano di un azzurro intenso e le sopraciglia, leggermente spesse, disegnavano sul suo viso un’espressione  scintillante e piacevolmente insolente. I lunghi capelli ribelli di un colore blu-viola, pareva gli mettessero in risalto l’ ardente personalità che galoppava al pari di un cavallo delle praterie.
Il volto di Aiolia sembrava quello di un eroe dell'antica Grecia: capelli mossi e spessi di un castano dorato,un naso ben fatto,  folte sopracciglia che conferivano gravità ad uno sguardo  verdazzurro… uno sguardo che trasudava la lealtà di un cuore profondo e impetuoso. Gli occhi di quel giovane erano fermi,decisi e fervevano  come grandi fiaccole.

  - Ragazzi, ero un po’ preoccupato per voi…si sentivano le vostre urla da fuori l’acropoli!

  - Ah, è normale! Milo mi fa sempre imbestialire…

  - Mamma quanto sei pesante! Non è colpa mia se hai la coda di paglia e te la prendi per i miei giochetti…

  - Meglio che  non ti risponda…comunque Mu sei venuto in anticipo! Ti aspettavamo sta sera…così avevamo appreso dal Grande Tempio…

  - Aiolia! Guarda che Mu si teletrasporta! Mica è fesso!

  - Ah!Ah!Ah! Sì… io, il Maestro Sion e mio fratello siamo arrivati ad Atene prima di mezzogiorno.

  - Allora è la prima volta che vieni qui! – Disse Aiolia rivolgendosi con un sorriso a Kiki- Io sono l’apprendista cavaliere del Leone.

  - Io, invece quello dello Scorpione.

Kiki fissava con interesse i due giovani che si erano presentati: dovevano essere molto potenti e…divertenti. Non vedeva l’ora di vederli di nuovo combattere. Milo, con il suo atteggiamento  un po’ spaccone ma scherzoso, l’aveva attratto subito. Aiolia era  più serio ma in lui aveva percepito chiaramente l’ aurea generosa, rassicurante e… impulsiva.

  - Tu sei Kiki…quando avevamo dodici anni Mu ci aveva parlato di te.

  - Già…ora dovresti aver iniziato il tuo apprendistato di cavaliere ,vero?

  - Sì!- esclamò il bambino, contento di ricevere l’attenzione dei due guerrieri- il mio fratellone mi ha  insegnato a controllare la telecinesi! Riesco a spostare qualunque oggetto!

  - Caspita! Sei arrivato ad un buon livello!

  - Saresti in grado di buttare Aiolia a mare?

  - Saresti in grado di colpire il muso di questo scemo con un sasso?

Il bambino scoppiò a ridere. Lo divertivano troppo i battibecchi tra quei due. Mu era davvero contento di essere giunto ad Atene: aveva incontrato alcuni dei suoi vecchi compagni, il  fratellino era allegro e rasserenato…il mare turchese della Grecia pareva che avesse sommerso con le sue fresche onde la gelida arsura del Jamir. La terribile Valle dei Quattro Venti pareva un piccolo e bieco miraggio su un orizzonte sfocato…Ohen era un angustiante disegno riposto temporaneamente all’interno di un cassetto…

 - Amici, sapete qualcosa degli altri cavalieri?- domandò Mu.

 - Mmmh…sì! Dovrebbe raggiungerci pure Camus… dico bene Milo?- fece Aldebaran.

 - Esatto…anche il suo arrivo è previsto  oggi!

 - Scommetto che non si sa l’ora, immagino…

 - Che ci possiamo fare Aldebaran? Camus è un po’… particolare...

 -  Io a quello non lo capisco! Alcune volte si sa quando deve venire, altre volte no! Può essere qui all’alba o a mezzogiorno o al tramonto o a notte fonda! Non ci si può aspettare nulla di certo!

 - Effettivamente Camus è sempre stato chiuso e scostante… non ama far sapere molto sul suo conto…

 - Avanti Aiolia, diciamo pure che un po’ di snobberia la tiene! Arriva zitto, zitto e non saluta,ci degna della sua attenzione il giorno dopo se ci va bene… Che scendesse dal suo piedistallo, insomma!

 - Ha degli atteggiamenti un tantino altezzosi, bisogna ammetterlo…però è  un cavaliere degno di rispetto.

 - Bah…io continuo a non capirlo…

 - Aldebaran, Camus non è come sembra…- disse Milo – lui fa così perché …è come se si volesse difendere…ha delle barriere che deve imparare ad abbattere.

Mu diede pienamente ragione al cavaliere dello Scorpione. Era il migliore amico di Camus, aveva avuto sempre modo di confrontarsi, di confortarsi con lui…assieme avevano soprattutto condiviso momenti veramente bui …

 - Questo Camus…a che costellazione appartiene? Da dove viene?- chiese timidamente Kiki vedendo che Aldebaran non provava tanta simpatia verso quel guerriero.

 - È delle stelle dell'Acquario ed è nato in Francia - gli rispose Milo – il suo luogo di addestramento è però la Siberia.

 - Com’è la Siberia?

- È innevata, gelida e  molto crudele.
 

 

Era novembre. Il cielo di Le Havre  era sporco di unte nubi plumbee. Il porto era immenso, cinereo e bagnato dalla bufera appena assopita. Un vento freddo sferzava le vele delle barche e i fianchi delle grandi navi.

   - Ecco, piccolo…ho finito-  disse un’anziana donna riponendo il carboncino nel suo astuccio e mostrando il ritratto al taciturno bambino che le stava dinanzi – Ti piace ?
Silenzio.

   - Tieni, l’ho fatto per te…

Il bimbo prese lentamente il foglio e lo fissò con attenzione: era impressionante. Quel disegno  rappresentava così realisticamente il suo viso da parere una fotografia. Un dettaglio lo colpì in particolar modo.

  - Io sono in bianco e nero…perché lei… ha colorato i miei occhi?

  - Perché sono blu e hanno appena pianto.

  - E…che cos’hanno di così… speciale?

  - Sono tristi come la sera.

Il bambino spostò lo sguardo verso l’orizzonte di piombo dell' oceano. Il vento dell’Atlantico seguitava a colmare di grigio ogni cosa. Il clima del Canale della Manica non era quello dolce e mite della Provenza.
Una nave si intravedeva in lontananza. 
Si avvicinava affannata, pesante e apatica.

  - E’ quella  che devi prendere?

  - Sì…

Ricominciò lentamente a piovere. Il ragazzino piegò il  ritratto e lo mise dentro la sua valigia.

  - Conservalo per bene quel disegno…in futuro ti potrà servire.

L’imbarcazione si stava avvicinando sempre di più. Era un transatlantico diretto per la Siberia.

  - Non mi hai detto il tuo nome, bimbo…come ti chiami?

  - Camus…e lei?

  - Rosalie.

Camus tacque  con un enorme nodo in gola. Sentì di nuovo i suoi occhi  bruciare. Sentì la nave per la Siberia  ormai pronta per attraccare . Sentì la solitudine divorarlo ancora di più.

 - Mi piace tanto il nome Rosalie…- sussurrò con la voce che gli tremava.

 - Davvero?…come mai?- domandò con dolcezza la signora.

 - Era il nome…di mia mamma.

Corse via sotto la pioggia battente: i capelli verde acqua gli si appiccicavano al viso ,  i piedi saltavano nelle pozzanghere, la pesante e grande valigia che portava minacciava di scivolargli dalle piccole mani.
Le lacrime parevano inutili. Si dissolvevano con le gocce del cielo colmo di nembi, ma vuoto d’azzurro.
 

Camus aprì gli occhi. Si era addormentato sul ponte della nave. Si alzò e si sgranchì le membra intorpidite dal lungo viaggio. Dopo aver lasciato la Russia, si era fermato qualche giorno in Francia, a Marsiglia, dove c’era la villetta dei suoi genitori.
Scese a prua per lasciare che i suoi pensieri assaporassero meglio le onde del mar Mediterraneo.
Rivide nella sua mente la dimora dove aveva trascorso il primo periodo sereno della sua infanzia. Era stata bella in passato : risaliva all’ottocento, era grande, accogliente, arredata in modo elegante e sobrio. Lì aveva passato dei momenti felici con sua madre.
Quella splendida villetta ora era polverosa e stava andando lentamente in rovina. Egli avvertiva un intenso senso di colpa: avrebbe voluto prendersi cura della propria casa ma gli mancavano il tempo e specialmente le possibilità.
Sospirò passandosi una mano tra i lunghissimi capelli che fluttuavano dolcemente all’alito dell’aria greca.
Le coste del Pireo divenivano piano, piano sempre più nitide.
Il giovane prese il suo bagaglio.
Nel momento in cui lo stava controllando, fu preso dalla tentazione di aprire la tasca esterna.
Gli capitò tra le mani una busta di carta. Conteneva una foto dei suoi genitori e il ritratto che gli fece quella strana disegnatrice al porto di Le Havre.
Fissò con tenerezza la fotografia che mostrava suo padre e sua madre abbracciati davanti al paesaggio marittimo di Marsiglia.
Rosalie era splendida col ventre arrotondato e i lunghi capelli castani legati con una coda. Era ignara di quello che le sarebbe capitato  alcuni giorni dopo: la morte del marito a causa di un incidente d’auto.
Camus  aveva conosciuto suo padre solo tramite i racconti commossi della madre, che nonostante soffrisse, gli  sorrideva sempre e gli diceva che era felice che lui somigliasse all’amore della sua vita.
Solo una cosa aveva preso da lei. I meravigliosi occhi blu.
Il ragazzo temeva di contemplare a lungo il proprio sguardo. Provava paura a guardare il suo ritratto di bambino.
Il viso non era più paffuto e fragile: era diventato ovale, algido e austero. Gli occhi parevano duri al pari dei ghiacci siberiani, ma non erano gelati poiché brillavano di qualche luce incerta.
Camus osservò accigliato il disegno che gli fece quella vecchia: provava uno strano imbarazzo a vedersi come un profugo indifeso, senza scampo con le lacrime che gli avevano appena rigato la faccia.
Basta. L’infanzia era tramontata da un pezzo. Era un guerriero. Era diventato anche Maestro.
Ripiegò bruscamente il  ritratto e lo mise in valigia con la foto dei suoi.
Il porto era ormai vicino.
Le luci del tramonto rendevano il mare pieno di cristalli scintillanti.
I dardi del sole gettavano una luce calda sulla bellezza maestosa e fredda di Camus. La sua figura alta, snella e forte si stagliava elegantemente contro il cielo arancione del tardo  pomeriggio.
La nave attraccò finalmente al molo.
Mentre scendeva giù dalla passerella, il Cavaliere dell'Acquario riconobbe sorpreso dei ragazzi che lo stavano aspettando sulla banchina.
Erano Milo, Aiolia, Aldebaran e Mu.

 

   

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Capitolo 6
*** conchiglie di storie- Gemini e Libra ***


note: come già avevo anticipato nella parte precedente, il cap 5 sarà molto lungo...ho deciso, perciò, di suddividerlo in sotto capitoli ( piuttosto che in macrosequenze)...

I dorati tripodi rischiaravano, con le loro carezzevoli fiamme, le sontuose stanze del Grande Tempio . Il sole era ormai sprofondato nello sguardo del sonno e la sera iniziava a versare dal suo calice i colori neri e brillanti delle tenebre.
Nella sala principale di quel sacro edificio, un uomo assiso sul trono attendeva Sion. Una lunga ed elegante tunica di velluto grigio avvolgeva il suo corpo statuario. Una maschera cerulea e un elmo rosso gli celavano totalmente il viso.
Nessuna persona conosceva l’ identità del Sommo Sacerdote di Atena. Un’aurea di solenne e rispettoso mistero lo circondava.
La gente lo ammirava e lo adorava con devozione e deferenza per la nobiltà del suo animo, la rettitudine con la quale reggeva lo scettro del comando, l’austerità dei suoi principi…tutto pareva in lui il riflesso e l’emblema della perfezione e dell’integrità morale.
Sì…così sembrava.

  - Vostra altezza, è giunto il Maestro Sion – annunciò una guardia.

  - Bene…che venga condotto qui, nella sala reale.

Pochi minuti dopo comparve .
Non appena furono soli, il Sacerdote si alzò dal trono e si avvicinò a lui facendo un profondo inchino.

  - Grande Maestro Sion, sono lieto di rivedervi, finalmente, dopo tanto tempo.

  - È un onore anche per me…Saga dei Gemelli.

Solo il maestro di Mu conosceva l’identità di quell’uomo: il più potente cavaliere d’oro, il più maturo, il più straordinario. A soli quattordici anni aveva conquistato l’armatura inseguito ad una serie di prove durissime… Nessun altro adolescente avrebbe potuto sostenere un simile addestramento…Soltanto egli era stato in grado di farlo.

   - Sono trascorsi nove anni da quando mi avete affidato la sacra missione di sostituirvi come Gran Sacerdote…

   - Sì…Mu all’epoca era un bambino di sei anni e io dovevo assolutamente iniziarlo all’addestramento vero e proprio… nella prima fase degli esercizi, più semplice e meno impegnativa, riuscivo ad assentarmi di tanto in tanto dal tempio grazie ai miei poteri..

   - Poi si è rivelato di vitale importanza abbandonare temporaneamente la vostra carica.

   - Infatti. Come sarei stato capace di essere sia Gran Sacerdote ad Atene sia Maestro in Tibet? Era assurdo…per tale ragione scelsi te. Sapevo che mi sarei potuto fidare di un cavaliere retto e dotato di intelligenza e senno. Non si trovano così spesso giovani della tua sostanza…

Più che felicitare l’animo, quelle parole di sincera stima ferivano aspramente il cuore…in realtà Saga non si sentiva veramente degno di meritare la fiducia di Sion. La sua coscienza era come la vela di una nave ridotta continuamente a brandelli dagli artigli della tempesta…sui laghi dell’animo non galleggiavano solo ninfee ma anche fiori ruvidi …fiori velenosi …fiori di lurido catrame…

   - Ma-maestro Sion sono…contento che voi nutriate una così intensa ammirazione nei miei confronti…

  - Saga, secondo te quale altro ragazzo, a diciassette anni, sarebbe riuscito a non essere annientato dalle gravi responsabilità che porta il potere?

Il giovane tacque cupo per un istante. Una terribile cicatrice si era riaperta. La marea del passato avvolse ogni sentiero della sua mente.

   - Aiolos…Aiolos sarebbe stato perfettamente in grado di compiere la mia missione…era dotato di pura nobiltà…era…unico…avreste potuto scegliere anch’egli…

Sion aggrottò la fronte fissando il pavimento.

   - Aiolos era impegnato nell’ addestrare il fratello minore Aiolia…era divenuto maestro…- tacque per un breve istante- certo…era sempre stato considerato un uomo di capacità e valore grandi fino a che … fino a che non tradì il santuario e Atena. Accadde proprio durante il tuo primo anno di reggenza…

Calò un silenzio pesante come una tenda di velluto nero.
Soltanto il crepitio delle fiaccole dei bracieri sussurrava.
Col capo chino, indietreggiando nella penombra delle colonne, Saga si tolse la maschera e l’elmo.
Nonostante il suo viso fosse avvolto in parte dall’oscurità Sion riusciva a leggere il turbamento che lo scuoteva.

   - Fu…fu…terribile.

  - Rimasi sconvolto come te…contavo ciecamente su Aiolos…non avevo mai, nemmeno una volta sola, percepito del male nel suo cosmo…la mia ammirazione nei suoi confronti era sconfinata…- Sion fece una pausa per riprendere con dolorosa amarezza – …non sono riuscito e non riesco ancora a comprendere il perché di quel suo spregevole atto…usare questo termine pensando a lui mi addolora moltissimo…è così incredibile…troppo inverosimile…

Saga continuava ad ascoltare senza dire una parola: avvertiva un coltello rovente che gli squarciava il cuore…desiderava che Sion la finisse…

  - Talvolta mi domando se è mai possibile penetrare e conoscere veramente a fondo i labirinti degli animi delle persone…ci illudiamo di avere la verità tra le mani ma in realtà ci adagiamo su comodi giacigli…abbiamo paura di scavare dentro gli altri e…anche dentro di noi…siamo creature fragili e codarde…ci costruiamo tanti visi…

Il cavaliere dei gemelli fissò con disprezzo e timore la maschera cerulea che usava indossare…cosa s’illudeva di fare? Nascondersi al prossimo? A sé stesso?
I suoi occhi verde scuro, dalla forma un po’ allungata, luccicavano come lanterne funebri su un mare notturno.
Sion li vedeva angustiato. Le ombre non gli potevano celare il riflesso di uno spirito… lacerato.

  - Saga…scusami…non volevo far emergere ricordi di sofferenza…Aiolos era un tuo grande amico…

  - Sì…un amico…che ho condannato.

  - Purtroppo sei stato costretto a farlo.

Costretto? Costretto? No… non sono stato costretto…
Un’ombra di inchiostro l’aveva ghermito…un’ombra che non gli faceva ricordare un fatto estremamente importante…
Aveva commesso un’ empia azione di cui non rimembrava nulla…
Dentro di lui qualcosa si muoveva...
No.
Dentro di lui qualcuno si muoveva.

  - …Perché? – mormorò ad un certo punto. Sion lo guardò perplesso e inquieto.

  - Perché?! - insisté stavolta.

  - Saga! Cosa…

  - Perché devo giudicare? Spiegatemelo… Perché io dovrei far giustiziare quel ragazzo, quello che giorni fa ha ucciso il suo maestro…Ohen…ditemi,che diritto ne ho? È lecito che io possa dare la morte?! Vi pare un’azione giusta, buona e pura?

Il maestro di Mu era privo di parole. Continuava a guardare Saga che camminava avanti e indietro nell’ombra come lo spettro di un uomo dannato. La sagoma della sua lunga chioma pareva la criniera di un leone ferito e confuso.

  - Io, dovrei valutare…valutare le persone che sbagliano, giudicarle…Io! Che cosa disgustosa…

  - Saga! Che ti prende?!

  - Ah! Tra l’altro dovrò anche mettere alla prova, esaminare…esaminare…ma vi rendete conto?! Esaminare io che non sono neanche in grado di vedermi veramente allo specchio?!

  - Per amor del Cielo! Calmati!

  - No, Maestro Sion... Per quale motivo ho il dovere di far rischiare la vita a Mu, a Camus, ad Aiolia, ad Aldebaran e a Milo? Come riuscirò a starmene qui mentre loro forse potranno essere massacrati?

  - La Prova Della Triade Templare è, ahimè, uno degli ostacoli più duri e pericolosi che un cavaliere d’oro deve affrontare..lo sai benissimo…hai già sottoposto Shaka, Aphrodite, Shura e Death Mask a questo…

  - Sì…loro hanno visto la morte in faccia, lì nei templi della Grecia Orientale…ora tocca agli altri qui in Occidente…dove il sole tramonta e dove vorrei tramontare anch’io…

  - Per quale motivo stai dicendo tutto questo?

  - Sapete una cosa? Atena è una dea vergine, luminosa, saggia e crudele- Saga era immobile nelle tenebre e rideva tristemente- sì…noi cavalieri siamo i suoi servi…siamo un branco di rematori che guardano le stelle fredde e intoccabili…proprio così…non siamo altro che dei miseri rematori e io lo sono più di tutti…

  - Saga!

Il cavaliere dei Gemelli spalancò i suoi occhi . Avrebbe desiderato avanzare di scatto verso Sion uscendo dalla penombra. Ma non lo fece. Restò sonnambulo, con la testa ricolma di vento

  " Chi sono, Maestro Sion?! " avrebbe voluto urlare afferrandolo per le spalle e scuotendolo con espressione folle e disperata.
Il venerando Tibetano, intanto, monitorava quegli atteggiamenti assorti, mortiferamente silenti
I lineamenti nobili e raffinati del giovane erano colpiti da tuoni interiori, lo sguardo verde cupo farfugliava criptato tra le ciglia nere e le belle labbra tremano leggermente ma tremavano.
I lunghi capelli blu ,erano insolitamente scarmigliati e cascavano un pò davanti agli occhi .
Il Maestro era impigliato in quella visione

  - Io non..non voglio…decidere…non voglio decidere nulla…

  - Saga…l'incertezza sta raggomitolata negli angoli più bui pronta a balzare

Il cavaliere lo fissò corrugato.

   - Ti ho…affidato delle responsabilità enormi… eri poco più che un ragazzo, appena fuori dalla soglia dell'età adulta...Anche quando si cresce, tuttavia, ci si sente sempre fuori dalla soglia di qualcosa

Saga divenne improvvisamente freddo e tetro.
Fece con tono arido:

   - Vi assicuro che a venticinque anni tutto seguita a traballare…e le soglie da cui si resta esclusi si moltiplicano all'infinito

Scostandosi i capelli e distogliendo lo sguardo da Sion uscì con una lugubre calma dalla sala del trono.

  - Ci rivedremo a breve Maestro …vi auguro una serena buonanotte…col prossimo e con voi stesso.

 

Sion scese lentamente l’enorme scalinata che collegava le Dodici Case.
Saga era riuscito a far tremare vertiginosamente i pilastri del suo animo fermo e ponderato... Aveva insinuato dentro di lui la viscida serpe del sospetto e del dubbio. Il dubbio atroce, imprevedibile e bruciante.
Il suo cuore non era riuscito veramente a vedere a fondo? Non aveva davvero percepito nulla?
Come diavolo poteva essere possibile?!
Gli aghi dell'angustia crivellavano la mente e le memorie del passato.
L’uomo aveva commesso un grosso sbaglio, forse il più grave e tragico errore della propria esistenza?
Si era fidato di Saga consegnandogli le redini del governo del tempio…sì…si era fidato di lui...
Nel cosmo di quel giovane pareva avessero sempre luccicato bagliori di lealtà, affidabilità e…

purezza.

Purezza. Purezza…
Quella parola danzava evanescente come tanti granelli di polvere che annegano nel buio.

Gemelli. Gemelli…

Un segno dai colori indefinibili. Una città bianca e soave che si specchia su un fiume che ne riflette le case macchiate e malate .
L’elmo dell’armatura di quella costellazione era piuttosto particolare: magnifico e inquietante manufatto, recava su un lato un viso che sorrideva perfido e sull’altro un viso sereno e mesto che fissava l’eterno.
Il volto di Saga era sotto la fronda di un salice, era sotto tentennanti rami di foglie che lasciavano passare schegge di luce: fili di sole tenui che si spezzavano nell’ombra.
Un suono ridestò Sion dalle proprie elucubrazioni.
Era il verso di una civetta.
Si voltò alla sua destra dove c’era un albero rinsecchito e morto. In cima scorse il piccolo rapace dai grandi occhi gialli…non era l’animale sacro di Atena? Una creatura che sapeva leggere le pagine della notte?
Non era l’emblema della conoscenza più profonda?
Il Maestro di Mu abbozzò un debole sorriso.

  - Piccola civetta…non potresti rivelarmi qualcosa?

L’uccello rimase muto senza cessare di fissarlo col suo sguardo acuminato.

  - Desidererei comprendere più a fondo…

Nessuna risposta.

   - Ho ricevuto da Atena il dono della giovinezza corporale e della longevità…vivo ormai da più di cent’anni…dovrei aver acquisito la giusta sicurezza, temperanza…sapienza…eppure nutro ancora dubbi…

Si udiva soltanto il sottile e vago canto di un grillo solitario.

   - Vuoi farmi rimanere così? Privo di indizi, di vie da seguire?

La civetta spiccò il volo gettandosi nella marea delle tenebre.

   - Bene…a quanto pare sei la verità che seguita a fuggire…lasci che ti si veda ma mai che ti si afferri…

Sion contemplò la Casa del Sagittario vuota e vitrea come l’esoscheletro di un’ape.

   - Sì…dopotutto solamente tu non hai timore di navigare nell’oscurità. Non puoi perderti…non sei un essere umano.

Proseguì scendendo stavolta i gradini più in fretta.
Aiolos…Aiolos…era stato realmente un traditore? E Saga? Cosa nascondeva? Che custodiva dentro di sé?
Sion provava frustrazione e senso di impotenza.
Camminava febbrilmente, quasi per scaricare l’agitazione che stava per mutare in ira.
Perché non si era mai accorto del cuore tormentato del Cavaliere dei Gemelli?!
Si fermò di colpo.
Era giunto alla Casa della Bilancia.

   - Doko…- mormorò abbattuto- anche il tuo tempio vuoto e addormentato…non c’è il tuo astro a scaldare questo luogo, né tantomeno la tua mano a sostenermi come i tempi defunti e andati…

Un pallido e sfrangiato filo di incenso che si fondeva con l’aria. Tale era la malinconia che si anelava in quel posto.
Fiumi dai letti asciutti e screpolati. Tali si mostravano gli anni ormai usurati e periti.
Il passato era sempre parso a Sion uno specchio talmente opaco e polveroso da parere un oggetto surreale. Tutto era così distante, onirico…
Da quando, tuttavia, era giunto ad Atene, un vento tremendo stava scrollando gli strati di sabbia che gli coprivano la memoria…non era mai successa una cosa simile…
I giorni antichi erano morti, non esistevano più...però…per quale imperscrutabile motivo riuscivano ad emergere come se fossero ancora vivi e capaci di parlare?
Prima Briseis, Hymen e adesso Doko, il saggio cavaliere della Bilancia.
Era da un’eternità che Sion non lo vedeva. Sapeva che si era ritirato ,da una miriade di anni, sui picchi dei monti di Goro-ho, in Cina, e che ora stava addestrando un apprendista cavaliere di nome Shiryu…
Due grandi occhi verdi come le chiome degli alberi estivi, folti e scarmigliati capelli rosso scuro, un viso dai lineamenti pronunciati ma belli…
Ecco che sulla tela del cuore di Sion si spruzzarono i colori del grande e migliore amico.
Erano cresciuti insieme considerandosi fratelli. Avevano in tenera età condiviso il destino della solitudine e dello smarrimento di chi rimane orfano. Non possedendo più alcuna famiglia, non sapendo quali prove serbasse la sorte, non era rimasto loro che combattere insieme…

Un tremendo temporale versava le proprie lacrime di rabbia sulla città di Lindo.
Tuoni, fulmini e lampi urlavano e borbottavano nel cielo fumoso di nembi.
In un grande, austero e scrostato orfanotrofio due bimbi, nella loro fredda cameretta, non riuscivano a prendere sonno.

  - Sion…dormi?

  - No…non riesco, Doko…

  - Ti fa paura il temporale?

   - Sì…un po’…

   - Pure a me…

  - Ma solo un po’?

  - Sì…solo un po’.

Il violento boato di un lampo fece vibrare spaventosamente le sporche vetrate della stanza.
Terrorizzati i piccoli si rifugiarono di scatto sotto le coperte bucherellate e vecchie del loro letto.
Non appena la bufera parve per un attimo placarsi, Sion mise cautamente fuori la sua testolina bionda.

  - ehi…Doko…stai bene?

Anche l’amichetto , emergendo dalle lenzuola con la capigliatura un po’ selvaggia e scomposta, si scoprì il viso…

   - Beh…diciamo di sì…il tuono non è entrato dentro…

   - Meno male che siamo qui!

   - Già…più o meno…

I due si guardarono attorno: le pareti della camera erano piene di muffa agli angoli, l’intonaco era grigio e deturpato, il soffitto era alto, buio e colmo di ragnatele.
Non c’era un camino, ma solo qualche scarna candela pronta giusto per donare qualche guizzo di luce.

   - Sion, ti piace questo posto ?

   - No...mi fa schifo.

   - Anche a me…voglio tornare in Cina.

   - E io in Tibet…però…

   - Però?

   - Nelle nostre vecchie case…non c’è più nessuno…

   - È vero...

   - Tu sai dove andremo?

   - Ho sentito che ci porteranno ad Atene…

   - Perché?

   - Dicono che siamo…i prescelti di Atena, i suoi cavalieri… ma che significa?

   - Io non lo so…sicuramente centrano i nostri poteri…

   - I nostri strani poteri?

  - Beh…sì.

Per un attimo tacquero per sentire lo scroscio della pioggia.

   - Doko…io e te non siamo normali, giusto?

   - Direi proprio di no…

   - Uffa…io queste due macchie sulla fronte le odio! Ho provato a lavarle via ma non ce l’ho fatta…

   - A me invece spunta fuori un disegno sulla schiena!

   - Davvero? Che cosa?

   - La testa di una tigre!

   - E che fa? Va e viene?

   - Sì…alcune volte c’è e altre volte no.

   - Io so anche muovere le cose senza toccarle!

   - Lo faccio pure io!

I due bambini si misero a ridere dopo tanto tempo che non ci riuscivano .

   - Siamo proprio strani, Doko!

   - Già! Ah!Ah!Ah!

Improvvisamente però Sion divenne triste.

    - Senti…io ora ho paura di un’altra cosa…che non è il temporale…

    - E qual è ?

    - Atene.

    - Cioè?

    - Che ci succederà?

    - Non lo so…

Anche sul visetto di Doko comparve un’espressione mesta.
Dopo un po’ di silenzio, tuttavia, sorrise di nuovo.

    - Sion!

    - Eh?

    - Diventiamo fratelli!

Il biondino lo fissò attonito con un senso di piccola gioia.

    - Sì! Siamo già amici ma ora non ci resta che essere anche fratelli!

    - Allora…ci aiuteremo?

    - Certo! Così la paura non ci farà più paura!

Gli occhi scarlatti di Sion incontrarono quelli verdi di Doko.

    - Amici e fratelli?

    - Amici e fratelli!

I due bimbi si diedero affettuosamente la mano.
La pioggia piano,piano divenne sempre più dolce fino a che le sue gocce non mutarono in un lieve e caldo tamburellare sui vetri umidi.

Sion volse lo sguardo alla volta stellata della sera. La costellazione della bilancia sembrava che luccicasse più del solito. Erano gli inizi di ottobre.
Da lì a quasi due settimane sarebbe giunto il compleanno di Doko.
Stranamente il lontanissimo autunno che trascorse, all’età di cinque anni, in orfanotrofio, si mostrò carico di tempeste.
Il clima della Grecia si conservava mite e soave per la maggior parte dei mesi dell’ anno.
Il cuore purtroppo non si preservava sereno nel rincorrersi ciclico delle stagioni. Era perennemente somigliante alla volta delle nuvole.
Alcuni giorni turchese, alcuni giorni sbiadito, alcuni giorni carbonizzato.

   - In tutto quest’irrefrenabile alternarsi di nero e di bianco, di freddo e di caldo, di sole e di luna tu, Doko, riuscivi meglio di me a stare in bilico su una lama…- sussurrò Sion – dicevi sempre che in realtà non eri equilibrato ma percorrevi la ricerca dell’equilibrio…

Rise con avvilimento.

    - Amico mio, con quale coraggio affermavi queste sciocchezze se sei colui che ha il potere e la volontà di distribuire armi agli altri cavalieri d’oro? Non per nulla sei l’ago della bilancia che interpreta il desiderio di Atena…non per nulla mi hai sempre salvato in qualunque situazione…io ero molto più impulsivo, imprudente, incosciente…chi c’era a farmi riflettere sulle stupidaggini che commettevo se non tu? Io ero un emerito idiota...avevo ferito numerose volte la mia Briseis e non riuscivo a capire…Siamo coetanei, ma a quell’epoca il fratello maggiore eri tu. Grazie a te sono diventato ciò che sono.

Sion ammirò il portale della Casa della Bilancia.
Sulla sommità ne vide il maestoso simbolo.
Nell’animo si vide l’effige della solitudine.
Non poteva esprimere i propri dubbi a Mu. Era il suo Maestro e anche se i maestri, come egli stesso disse, erano capaci di errare non doveva denudare debolezze e timori.
Era una guida…che comunque non aveva ottenuto la facoltà di conoscere tutte le vie della terra.

   - Sai Doko, mi sovviene una piccola poesia che scrissi quando avevo quattordici anni…non pensavo di ricordarla ancora…faceva così:

Come il deserto io taccio,
contemplando un’arida duna,
mi chiedo cosa faccio,
quando m’illumina la luna.
Il buio mi spaventa
e ogni volta che vedo il domani,
il dubbio m’arroventa
e la certezza mi sfugge dalle mani.
Non so più qual è il mio sentiero,
né la mia prossima azione.
Non m’accompagna alcun pensiero
poiché non ho destinazione.

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Capitolo 7
*** conchiglie di storie- l'ora di cena ***


 Il refettorio del Grande Tempio era una sala immensa, chiassosa e pullulante di  ogni sorta di guerriero.

Vi erano tavoli in cui sedevano soldati dai volti grossolani e ferini che ridevano sguaiatamente e discorrevano ad alta voce di lotte o  storielle sconce. Tra ingurgitate di carne e rutti se ne infischiavano del tanfo di sudore che emanavano e del baccano che facevano. 
Agli angoli dell'ampio locale si ritiravano gli apprendisti o i cavalieri più frustrati  che si crogiolavano nella propria tristezza con patetico vittimismo. Mentre si narravano a vicenda sventure, rimpianti e rabbia repressa, buttavano giù , naturalmente, una buona dose di bicchieri di birra.
Su questo  palcoscenico, variegato di allestimenti e fondali, non mancavano i militari arrogantelli rampolli di famiglie altolocate. Con parole pompose e altisonanti rendevano,  racconti di mediocri missioni compiute, poemi omerici. Mostrandosi sprezzanti nei confronti  della volgare marmaglia che li circondava, si credevano uomini di gran classe ostentando un abbigliamento  elegante e improvvisandosi esperti sommelier.
 Kiki si sentiva un po’ a disagio.
 Osservava con timidezza e timorosa curiosità quello spettacolo di gente strana. Muoveva cautamente lo sguardo da un lato della mensa all’altro.
Il tavolo dove sedeva  assieme al fratello e agli altri cavalieri era situato nel punto più estremo del salone e da lì  aveva una buona panoramica. Per fortuna c’erano  vicino delle ampie finestre e gli  odori delle persone e del cibo pesante non si soffrivano.

    - Che palle! Per  quanto dobbiamo aspettare la cena?- brontolò Milo.

    - Io mi sono rotto di ingozzarmi di pane…

    - Caspita , Aldebaran! Ti sei spazzolato il cestino! Non c’è rimasta nessuna pagnotta!

    - Guarda Milo che hai fatto fuori la ciotola delle olive…

    - E Aiolia il vassoio del formaggio di capra…

    - Ehi! Mica potevo rimanere senza sgranocchiare qualcosa… e comunque pure Mu ha contribuito!- rise Aiolia  mentre si versava in un calice di ceramica l’acqua.
    - Beh, bisognava rendere omaggio a questo buon antipasto – disse Mu con un sorriso sornione.

    - Ohi! Il tuo fratellino si governa bene!- esclamò Milo divertito.

    - Kiki! Ma quante polpette di pesce stai prendendo?

    - Io ho fame! – si lamentò il bambino fissando imbronciato il fratello.

    - Queste sono troppe per te!

    - Non è vero!

Fulmineo Mu gliene mangiò due tra le risate generali.

   - Nooo!!!

   - Su, non piagnucolare …se fai il bravo potrai avere il bis del primo piatto.

Kiki accettò soddisfatto quel compromesso.

   - Oh, Milo…il principe della Siberia non desidera cenare con noi?- sussurrò Aldebaran indicando alle sue spalle  Camus che stava affacciato ad una delle grandi finestre della sala.

   - Dai,  Aldebaran… c’è d’aspettarselo….vuole stare un po’ così… tra qualche minuto si unirà a noi.

   - Che atteggiamento del cavolo! Gli facciamo la cortesia di andarlo a prenderlo al porto e lui che fa? Si limita a salutarci, dopo tanto tempo, col calore di una cella frigorifera!

  - E ci guarda come se ci volesse surgelare…- aggiunse Aiolia .

  - Ma no! È soltanto il fatto che lui non se l’aspettava…

  - E noi li puzziamo perché magari non siamo alla sua altezza!- replicò  Aldebaran.

  - Secondo me, come ha detto Milo, Camus è rimasto spiazzato ma…in fondo gli ha fatto piacere che  lo siamo andati ad accogliere - disse tranquillamente Mu.

  - Molto in fondo…non è stato poi particolarmente loquace sulla via del ritorno….- osservò il cavaliere del leone inarcando un sopracciglio.

  - Cribbio! Bisognava cavargli le parole di bocca con una pinza chirurgica!- borbottò il guerriero del Toro. 

Camus si allontanò dal davanzale e andò lentamente a sedersi.
Nel momento in cui prese posto a capotavola, Aldebaran, che stava proprio all’estremità opposta, lo squadrò accigliato.
Calò per un istante un silenzio di vaga tensione.
Ai rispettivi lati del tavolo Milo e Aiolia e Mu e Kiki guardavano i due ragazzi.
Il cavaliere dell’acquario prese la caraffa dell'acqua.

   - Com’è calda…troppo per i miei gusti…- disse con una smorfia un po’ schifata mentre la raffreddava col suo potere - siete capaci di bere del brodo?
Con fare apatico e un po’ borioso  sospirò  e  si riempì il calice.

   - Perdonaci, monsieur Camus , se non le abbiamo servito il suo drink in un bicchiere di cristallo con ghiaccio e  scorza di limone… 

 Kiki  pensò che Aldebaran avesse ragione. Chi si credeva di essere quel Camus ? Gli  si era presentato, lì al porto,  con aria di sufficienza e dopo l’aveva ignorato come se fosse stato un’insulsa formichina. Mentre lo vedeva sorseggiare, gli lanciava  con lo sguardo lilla una moltitudine di saette.
Milo si sentiva un po’ imbarazzato.
Voleva dire al suo migliore amico di evitare di porsi in quel modo ma sapeva che non gli avrebbe dato ascolto:  pareva quasi che a lui  piacesse interpretare il ruolo dell'antipatico solitario…

    - Il corriere della cena si è perso nei meandri della cucina?- domandò scocciato l’apprendista della Siberia appoggiandosi allo schienale della sedia.

   - Provvederemo a risolvere anche questo disagio, vostra altezza….

   - Noto che sta sera sei piuttosto spiritoso , caro Aldebaran.

   - Noto , invece ,che tu sei in vena di tritare la mia pazienza.

   - Mi dispiace molto.

Camus lanciò all’innervosito cavaliere del toro un’ espressione di scherno.

  - Credo che sia stata una pessima idea quella di venirti a prelevare al porto!

  - Io non ho chiesto proprio nulla. Stavo sereno lo stesso anche senza vedere le facce di voialtri…

  - Senti, francesino dei miei stivali…

  - Ragazzi! Ci stanno portando la cena!- lo interruppe Milo per spegnere sul nascere le fiamme dello screzio.

  - Cavolo! Era ora! Tra poco potevamo persino aspettare la colazione!- soggiunse Aiolia.

  - Però…niente male la cameriera!

  - Figurati se  non vai a  notare certe cose…

  - Aiolia, da quando siamo entrati qui, anche tu allungavi l’occhio sui culetti delle cameriere…

La ragazza giunse trafelata al tavolo con il vassoio delle portate.

  - Perdonate il ritardo! Stasera è tutto un gran caos…tra qualche minuto arriveranno anche gli altri  piatti…

  - Stai tranquilla e riprendi fiato! – ammiccò Milo sorridendole.

  - Già…nessun problema!- disse  il cavaliere del leone volendosi mostrare seducente anche lui.

Mu era divertito dalla scena. Per fortuna l’atmosfera si stava nuovamente alleggerendo…
Mentre distribuiva i primi tre piatti,la giovane non potette fare a mano di arrossire: vedere dei ragazzi così belli in mezzo ad una bolgia di grezzi era come ammirare delle orchidee in un orto di melanzane, patate e barbabietole. Immediatamente arrivò un’altra cameriera per servire i piatti che mancavano. Allo stesso modo della collega rimase incantata .
Milo, coi propri ardenti occhi cerulei, sfoderava un sorriso d’avorio irresistibile e abbagliante.
Aiolia era terribilmente avvenente col suo aspetto da leggendario guerriero greco e lo sguardo intenso.
Camus incuteva soggezione ma trasmetteva una forte carica attrattiva. Il suo fascino, che in un primo istante pareva glaciale, celava in realtà il profumo di un calore sensuale.
Il  viso dai lineamenti fini e gentili, gli splendidi occhi un po’ da gatto, Mu non era da meno degli altri: l’ innata eleganza e la pacatezza lo rendevano dolce  e adorabile. Chiese con garbo alle due cameriere: - Scusate, potremmo avere  un’altra brocca d’acqua? È quasi finita…

   - Mmmh…già che ci siamo, ragazze, ci portereste per favore anche un fiaschetto di vino rosso?

  - Ma Milo! Sai bene che a noi minorenni non  è concesso bere alcool al di fuori dei giorni di festa!

  - E dai Mu!Che ci succederà mai se ce ne freghiamo una volta ogni tanto di quei pallosissimi regolamenti del Tempio?

  - Sì, però…

  - Fratellone! Posso assaggiare un po’ di vino anch’io?

  - Scordatelo Kiki! Ti fa male e sei ancora troppo piccolo!

  - Anche tu e gli altri siete minorenni!

  - Ah!ah!ah! dici il vero  ma tu hai solo quattro anni !- esclamò Aldebaran rivolgendosi al bimbo.

   - Dovrai aspettare un po’!- sorrise Aiolia.

Quando la brocca di vino venne portata, Milo fu il primo a servirsi: 
 
  - Oh! Finalmente! Non si può vivere di sola acqua!

Mu sospirò rassegnato.

  - Su, cavaliere dell'Ariete non fare quella faccia!- scherzò l’apprendista del Toro. 

  - Bevi soltanto un goccio!- lo incitò Aiolia.

  - Mica ci sbronziamo! Non ci hanno portato neanche un litro…- constatò un po’ deluso il guerriero dello scorpione.

Alla fine l’allievo di Sion rise e si lasciò versare un po’ di nettare rosso.

  - Peccato che  non ci sia un po’ di Voodka…un bicchierino me lo farei…

  - Diamine, Camus! Vai sul pesante!- si stupì il cavaliere del leone.

  - Beh con sessanta gradi sotto zero non vivo certo nei tropici…

  - Acquarius, è un tipo tosto! Quando arriverà la festa delle Panatenee ci daremo alla pazza gioia! Al diavolo i regolamenti!!!- sghignazzò Milo .

  - Già e soprattutto …viva le belle fanciulle !- lo appoggiò Aiolia allegramente.

Camus si lasciò sfuggire un vago sorrisetto malizioso.
Anche lui non era insensibile alle grazie femminili…
 Aldebaran invece aveva assunto un’aria sconsolata e imbarazzata.

  - Aldebaran che hai?- domandò Mu.

  - Io…ecco…non riesco a…a…va beh…non importa….

  - Avanti, Al! Cosa c’è che non va? – lo incalzò Milo.

  - Problemi col gentil sesso?- azzardò Aiolia.

  - Emh…diciamo di sì…

Mu comprendeva perfettamente Aldebaran. Come lui  non era un dongiovanni scafato ed esperto. Era riservato , cortese e non aveva tra i propri divertimenti quello di corteggiare le ragazze…in che modo poteva, tra l’altro provare interesse per le altre adolescenti, se era perdutamente innamorato di Leira? Nel suo cuore c’era lei. C’era l’amore e basta.

  - Insomma, con che coraggio riuscite a essere  ganzi?!- si crucciava il guerriero del Toro- io faccio una gran fatica a rivolgere la parola ad una ragazza!Avete visto quelle due cameriere? Hanno guardato  voi, mica  me! Forse è perché sembro un gorilla….

  - Al! Piantala con ste’ lagne! Sei alto due metri, hai più di cento chili di muscoli addosso, non puoi passare inosservato! – ribatté Milo.

  - Devi essere sicuro, disinvolto! Nessuno è superiore a te!- continuò Aiolia.

  - Esatto! Di a tè stesso: “io sono figo”!

A quell’uscita dell'amico, Camus ridacchiò sarcasticamente sotto i baffi . Aldebaran si irritò un po’ma poi esclamò:

  -  E va bene! Io…io…io sono figo!!

Ci fu un attimo di silenzio.
Qualche secondo dopo tutti scoppiarono a ridere.

  - Ecco! Ecco! Pigliatemi per le chiappe!

  - Aldebaran, stai tranquillo…ti capisco, ti capisco…

Fissando il sorriso sincero e complice di Mu, l’apprendista del toro fece scomparire subito il  cipiglio.

 - Come mai siete fissati per le…ragazze?- chiese perplesso Kiki.

 - Piccolo, a noi maschietti  i muscoli non servono solo per avere forza e resistenza…- gli rispose Milo con un sorrisino  di chi la sa lunga.

 - Quando diventerai grandicello capirai – fece Aiolia strizzandogli l’occhio.

 - Siete tremendi…- mormorò Mu scuotendo il capo. 

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Capitolo 8
*** conchiglie di storie- tra le rovine dell'acropoli ***


 La luna era una bolla di latte che galleggiava sulle  ossa del Partenone rischiarato dalle fiaccole.
Tutti i templi dell’acropoli, sebbene apparissero come anziani incartapecoriti, scintillavano nel loro antico torpore. Le fiamme dei bracieri erano dorati veli stracciati che danzavano all’alito di un vento invisibile.
Seduti dinanzi alle rovine dell'Eretteo, Mu e gli altri  volgevano  gli occhi alla città di Atene che  respirava e parlava coi nastri delle  strade colmi di persone e le bianche case ingioiellate di lampade.
Ai piedi del monte dell’agorà la vita camminava, correva e il porto del Pireo colava , come vernice, i bagliori dei lampioni  nel mare.
Nei pressi del tempio di Atena la quiete sussurrava paesaggi lontani e i minuti della sera morivano uno dopo l’altro dimenticati.
Il silenzio spalancava moltitudini di portali…

Aldebaran pensò a quanto fosse strano e incredibile essere di nuovo ad Atene dopo quattro anni. Era giunto lì da appena nove giorni e il Rio delle Amazzoni, che l’aveva visto sopportare prove  al limite della sopravvivenza, gli sembrava quasi surreale. La foresta pluviale brasiliana enorme, splendida e mostruosa continuava a  scorrergli sinuosa nelle arterie dello spirito. Quel guazzabuglio equatoriale di alberi giganteschi, di creature variopinte, meravigliose e terrificanti gli si proiettava magicamente dinanzi agli occhi… Simile ad un sogno, la selvaggia  natura sudamericana macchiava di verde smeraldo le rovine dell'Acropoli ateniese…sì…quel paradiso demoniaco l’apprendista del Toro l’aveva provato sulla pelle…quando si vive  al di fuori della civiltà, immergendosi in un’infinita selva di piante e animali, si può camminare contemporaneamente nell’Eden e tra le fiamme dell'Inferno.

Sibir”… Così la chiamavano i russi… “ Terra che dorme”. Così la chiamavano i mongoli.
La Siberia era un’oceanica landa di neve che veniva attraversata dai respiri dell'inverno. Il vento artico correva tra le candide montagne, sui ghiacci dei mari profondi e s’insinuava tra le città opache e granitiche…l’estate soggiornava poco da quelle parti. Donava giusto qualche scaglia di piacevole calore per poi eclissarsi avara e cinica. I capelli  dei prati e dei pini brillavano di rado. Tante volte Camus aveva creduto di morire nel freddo assassino di quella regione ma era riuscito  a sopravvivere. Sopravvivere diventando come il gelo e seppellendo sotto la neve ogni fiamma di dolore e debolezza…L’ aveva fatto però  veramente? Era stato in grado di trasformarsi? Se lo domandava spesso perché i suoi occhi non erano duri al pari dei ghiacciai perenni…  
  

Sulle acque dell'Egeo Mu disegnava l’innevata catena dell'Himalaya…Non sapeva se amare oppure temere e odiare quella  fortezza di roccia, freddo e luce…Sion gli raccontò, quando era piccolo, che quei monti  erano i pilastri del cielo e affondavano i  loro piedi nelle brume e nel fango del mondo…erano come il fiore di loto con le radici  sommerse dalla sporca terra ma con l’ immacolata corolla rivolta verso il cielo, la sapienza, la salvezza…penetrare nella coscienza: tale era la via per giungere al nirvana… L’apprendista dell' Ariete si sentiva ancora distante dalla serenità spirituale  che conobbe  Siddhartha  Gautama… Tendeva i propri petali alla volta celeste ma rimaneva incatenato ai deserti, alle paludi e ai boschi…la luce degli affetti era l’unico scoglio a cui avvinghiarsi.

Tinos dalle case bianche e fiorite  con le finestre color del mare. Tinos dalle stradine ciottolose che percorrevano il centro abitato fresco e terso…Milo avrebbe desiderato possedere solo queste brillanti immagini dell'isola natale…
Muri venati di crepature, polvere, oggetti sepolti e demoliti dalle macerie, vie devastate…ecco cosa rimembrava veramente. Lo sguardo del suo cuore contemplava, nel buio, il ricordo di quel terremoto. Erano bastati pochi minuti di violente scosse per fargli perdere quasi tutto: il piccolo nido in cui abitava e soprattutto la madre. La madre. Come Camus, anch’egli a sette anni aveva subito quel lutto…
Il padre. Per uno strano gioco del destino si era salvato con lui poiché il luogo d’allenamento si trovava fuori dal centro abitato.
Quell’uomo… Era stato suo Maestro. Era stato la sua incomprensione. La sua rabbia.
Dopo il terribile terremoto, Milo aveva proseguito l’addestramento nell’omonima isola di Milos, luogo natale della madre. L’unico gesto di tenerezza del padre forse era stato  condurlo là ma a poco era servito. Quel lembo di terra non aveva mai rappresentato  la solarità, la dolcezza…era stato  l’anima dell’arsura, delle pietre morte e  di un cielo turchese crudele ,vuoto e troppo grande.
Erano trascorsi appena tre anni dalla morte del Maestro… Milo odiava ricordarla. Un torbido rivolo di cera colava lungo la candela del suo animo…era un miscuglio di astio e amore calpestato che si muoveva sulla sabbia come uno scorpione.

Aiolia apparteneva ad Atene. Certo, lui e il fratello erano nati nell’isola di Nasso, ma dopo che il padre morì per un tragico incidente all’interno delle cave di marmo, la madre decise di trasferirsi nell’Attica…ormai il marito l’aveva perduto e inoltre  era da tempo che Aiolos  s’addestrava nei pressi del Grande Tempio. Il cavaliere del leone non aveva mai vissuto il proprio luogo natale: quando si  trasferì  era un bambino di appena un anno… Sapeva qualcosa di quell’isola solo dalle memorie nostalgiche dei suoi cari…le immagini che si era figurato erano linee nebbiose di promontori verdeggianti ma anche brulli…la vecchia casa in cui avevano abitato col padre minatore era un disegno piccolo, grezzo e imperfetto.
Erano quadri nitidi il viso duro e profondo della madre e la protettiva figura di Aiolos. La sua  famiglia  non era  mai stata felice ma l’amore  aveva permesso  di sopravvivere…
Cosa rimaneva ora ad Aiolia? Una dimora vuota e silente dove andare giusto a dormire. Le  persone che più adorava gli erano state strappate via…
Sul nobile guerriero del Sagittario  il turpe e assurdo marchio di traditore...
Sulla madre…no…era meglio non rivangare…
 

   - Ragazzi, la Prova della Triade Templare sarà tra undici mesi, giusto?- chiese Milo, desideroso d’interrompere quel  silenzio che l’opprimeva.


  - Sì…precisamente la data non si sa ancora, ma è certo che  tutto si svolgerà in uno dei giorni della prima metà d’agosto – gli rispose Aiolia.

  - I templi in cui dovremo combattere saranno il Partenone, il santuario di Zeus a Olimpia e quello di Apollo a Delfi se non vado errato…-  disse Aldebaran.

  - Da ciò che mi ha detto il Maestro Sion il nostro percorso si svolgerà in senso… antiorario- precisò Mu -  partiremo dall’acropoli ateniese, per arrivare a Delfi. Dopo che avremmo superato gli ostacoli di lì, giungeremo ad Olimpia. Oltrepassato questo scoglio ci  aspetta la prova finale qui ad Atene, nel Partenone.

  - Un bel ritorno a casuccia…- ironizzò Milo- e dovremmo, inoltre,  lottare entro un limite di tempo.

  - Avremo a disposizione  dodici ore - puntualizzò Camus.

  - Le ore della notte… – fece Mu -  la nostra prova inizierà subito dopo il tramonto del sole e, se tutto va bene, si concluderà all’alba.

  - Ah! Se tutto va bene! Non c’è da star tranquilli!- esclamò il cavaliere del toro- l’ultima barriera da abbattere saranno  …

  - I cavalieri vincitori  della Triade Templare d’Oriente- continuò secco l’apprendista dell'Acquario.

  - Quindi  Shura, DeathMask, Shaka e Aphrodite…- disse Aiolia.

  - Hanno superato tutte le prove  nel santuario di Artemide ad Efeso, in quello di Era a Samo e nel sepolcro di Mausolo ad Alicarnasso.

  - Ma Mu – domandò Aldebaran – quell’edificio non è ormai scomparso da secoli?

  - Sì… però i templi in cui hanno luogo le prove vengono riportati, secondo il rito di un arcano incantesimo,  al loro splendore remoto.

  - A mettere in atto tutto questo è il Gran Sacerdote naturalmente.

  - Proprio così, Aldebaran.

  - I nostri avversari non scherzano per niente…- sospirò l’apprendista del Leone –  Death Mask è già in possesso  dell’armatura d’oro: ha compiuto diciotto anni a giugno.  Aphrodite, invece,  la conquisterà  a marzo del prossimo anno…

  - Tzè Aphrodite…- sbottò Milo -  come cacchio farà quello lì a diventare cavaliere d’oro?! Ma ,dico,  l’avete visto?!

  - Mamma mia, me lo ricordo bene…- borbogliò il guerriero del Toro – è un foto modello troppo spocchioso…con tutte le sue strane movenze e le  sue roselline…

 - Infatti… le rose…cosa crede di combinare quella donnicciola con dei dannati fiori?! È inconcepibile che ci sia un cavaliere simile…

 - Milo, se fossi in te non sottovaluterei così alla leggera Aphrodite – intervenne serio Camus- anche lui è stato addestrato tra i ghiacci e il gelo…il suo apprendistato si sta svolgendo in Groenlandia.

 - È vero – affermò il cavaliere dell'Ariete – non dobbiamo farci abbindolare dalla falsità delle apparenze. Il guerriero dei Pesci è stato temprato duramente. Sapevo che la sua Maestra è una sacerdotessa guerriero molto temuta e rispettata.

 - Sì… – fece Aiolia – si chiama Artemis. Ha solamente ventidue anni ma, fin da piccola, ha sempre manifestato delle capacità  di combattimento stupefacenti. Shaina e Marin la tengono in grande considerazione.

 - E va bene, va bene! Uno a zero per l’effeminato… -  sbuffò il cavaliere dello Scorpione.

 - Beh…io continuo a preoccuparmi di più per i nostri altri tre avversari! – obiettò  Aldebaran- Vi rendete conto che anche Shura ha l’armatura d’oro da gennaio?!

 - È  un guerriero eccezionale- annuì il fratello di Aiolos – si è allenato sui Pirenei in Spagna e nessuno come lui possiede una tecnica  capace di tagliare,  al pari di una spada, la terra, le rocce e persino le vette più alte…

  - Già – disse Milo – ora che ci penso ho sentito che riceverà un preziosissimo dono… il Sommo Sacerdote gli conferirà, in nome della dea Atena, la mitica Excalibur!

  - E a pensare che l’unico cavaliere dotato di armi è il leggendario Doko della Bilancia…- mormorò con ammirazione Mu – ho sempre percepito nel cosmo di Shura un animo impulsivo ma nello stesso tempo cosciente e brillante. Consegnargli Excalibur è un atto di notevole gravità.

In braccio al fratello, Kiki tentava di ascoltare i discorsi dei ragazzi ma ormai il micidiale sonno post cena lo stava ghermendo… Sbadigliando mise le braccine attorno al collo di Mu e appoggiò la testa fulva sulle sue spalle chiudendo  gli occhi.

  - La Maestra Eirene mi ha riferito che però Shura dovrà compiere un'altra prova per ottenere la spada...sarà tra dieci mesi – rivelò Camus pensando con nostalgia alla sua adorata insegnante.

  - Verso luglio dell'anno prossimo – fece Aiolia – Dora, la sua Maestra, ha scelto un percorso parecchio tosto concentrando diversi esercizi in un arco di tempo così breve! Non per nulla,  al Grande Tempio,  è nota per la sua severità  assieme alla sorella…nonché alla tua insegnante Camus.

Sì…il cavaliere dell'Acquario non avrebbe mai potuto  dimenticare gli esercizi a cui l’aveva sottoposto Eirene. Da  bambino, il  timore nei confronti di quella donna, era stato costantemente presente… egli, tuttavia, percepiva in lei un’altra essenza, una fogliolina che tremolava, un filo di seta che nessuno era mai stato in grado di cogliere…
Il giovane aveva visto la propria guida senza maschera, aveva visto due splendidi occhi scuri colmi di una dolcezza  umida e ingabbiata.

 -  Ohi ragazzi! – apostrofò i suoi compagni Aldebaran – ci stiamo scordando per caso di Shaka?

 -  Diamine! Quello pure fa inquietare parecchio! Si dice che sia il cavaliere più vicino agli dei e… addirittura la reincarnazione di Buddha!! – esclamò Milo.

 -  E’ uno strano tipo -  sussurrò Camus – mi pare così distante da questo mondo che a momenti non so se definirlo…umano.

 -  Effettivamente – ammise Aiolia -  ogni volta che veniva qui ad Atene non spiccicava mai una parola  con nessuno! Stava perennemente da solo, immerso nelle sue meditazioni!

 - E’ davvero un enigma Shaka!   Non so cosa pensare…è troppo incomprensibile… -  disse il cavaliere del Toro.

Mu aveva una prospettiva differente dagli altri cavalieri.
Lui era stato l’unica persona con la quale Shaka aveva parlato.
Lui era stato il solo capace di leggere oltre  le  pagine che il guerriero della Vergine mostrava.
Da tempo non lo incontrava e ciò  l’abbatteva perché desiderava vedere se quella misteriosa mestizia ,posata nell’anfora del suo cosmo ,si era dileguata oppure no…
 

Era un pomeriggio tranquillo e soleggiato lì all’acropoli.
Le nuvole del cielo sonnecchiavano come pigri gabbiani cullati dalle onde del mare.
Il vento era assopito.
Solo il cinguettio di qualche uccellino soffiava nel vuoto.
Il piccolo Shaka si stava dirigendo fuori dai Propilei per prepararsi al viaggio di ritorno in India.

 - Stai già partendo? -  gli chiese Mu andandogli incontro.

 - Sì…è meglio che ritorni subito…devo assolutamente proseguire il mio addestramento sulle rive del Gange -  rispose lui sorridendo pacatamente col viso etereo e luminoso ornato di  capelli dorati.

 - Oh…capisco . Io tornerò in Tibet la prossima settimana.

 - Rivedrai finalmente  i tuoi genitori.

 - Già. Sono davvero contento -  fece l’apprendista di Sion con il faccino un po’ tondo che brillava di gioia.

 - Che bello…dev’essere fantastico ritornare a…casa – mormorò Shaka col capo rivolto in basso.
Mu colse la tristezza delle sue parole.

 - Shaka…  ti trovi bene lì al tempio di Mahabodhi?

 - Certo… I monaci mi aiutano molto… mi sento tranquillo… ma felice non lo so.

Tacque per un istante. Rivolse il suo volto bello e delicato al compagno.
Aprì lentamente gli occhi che teneva sempre serrati…
Due laghi d’un azzurro profondo vibravano di pioggia.

 - Sai, Mu…durante la notte sogno spesso di avere un papà e una mamma e di vivere in una bella città…una città dove non ci sono morti sulle strade, dove io non ho nessun potere e non sono cavaliere. Sono sogni bellissimi e lì sono veramente felice.

 - Ma…perché non vieni, qualche volta, da me? Ti farò vedere il mio villaggio, conoscerai i miei genitori, starai a casa mia e potremmo giocare insieme!

Shaka fissò lo sguardo limpido e rassicurante di Mu.
Quanto avrebbe desiderato essere il suo migliore amico…

 - Mi dispiace moltissimo…io non riesco ad andare in Tibet…

L’apprendista dell'Ariete rimase affranto.

 - Shaka…non mi piace vederti così.

 - Vorrei tanto stare più tempo con te ma purtroppo…non posso.

 - Allora…ci si rivedrà più..avanti…

 - Sì…a presto e….scusami.

Shaka chiuse nuovamente gli occhi e cominciò a scendere le scale dell' ingresso dell'acropoli.
L’essere umano più vicino agli dei. L’essere umano  che parlava con Buddha.
Il bambino che desiderava scendere da un cielo intoccabile e divino.

 

 

 - Mu…

La voce di Milo lo ricondusse al presente.

 - …tu sai se Shaka sta intraprendendo un percorso straordinario per  l’armatura d’oro?

 - No. Sta compiendo un addestramento regolare come tutti noi.

 - Mmmmh -  il cavaliere dell'Acquario aggrottò le sopracciglia perplesso – la cosa mi stupisce…lui non ha acquisito , prima del tempo, il settimo senso?

 - Certo, ma i suoi rimanenti tre anni di apprendistato sono troppo ardui e complessi per poter essere ridotti in pochi mesi… La via a cui Shaka è destinato è differente dalla nostra.

 - Hai davvero bravura nel capire quel  fantomatico tizio -  borbottò Aldebaran con una certa ammirazione – ricordo che sei l’unico che sia riuscito a chiacchierare con lui più di una volta!

Il cavaliere dell'Ariete sorrise flemmatico e misterioso.

 - Vi sbagliate a considerare Shaka  come un essere sovrannaturale e celeste…ama la terra e vorrebbe con tutto se stesso abbracciarla di più.

Aiolia, Milo e l’apprendista del Toro rimasero un po’ dubbiosi e scettici.
Camus credé  invece di aver percepito qualcosa…il Cavaliere della Vergine era come un prisma di cristallo troppo abbagliante : per vederne meglio ogni singola faccia bisognava imparare ad infrangere tutte le luci .  

 - Ragazzi, ci sconvolgiamo tanto per Shaka…e che dire invece di Death Mask?

 - Hai ragione, Aiolia…- mormorò l’apprendista dello Scorpione cupo – non mi piace per niente quello lì…dire che è un grandissimo bastardo è poco…mi domando come faccia a  servire Atena!

 - Più che il cosmo di un cavaliere ha l’anima di un demonio! – disse Aldebaran.

 - Non per niente il suo  Sekishiki Meikaiha ti sbatte giù negli inferi. – aggiunse Camus.

Sta volta Mu condivise pienamente la visione dei propri compagni.
Il Guerriero del Cancro aveva le stelle del suo spirito orrendamente macchiate…

 - Ho sempre nutrito degli atroci sospetti su quello che combina in Sicilia -  fece Aiolia con espressione scura-  mi ricordo di come combatteva qui, al Grande Tempio…riduceva gli altri apprendisti in fin di vita e per poco non staccava loro la testa dal collo.

 - Ovvio! È un pazzo! Si è scordato di essere un umano! – reiterò il guerriero del Toro.

 - Più ci penso, più è assurdo: come fa il Gran Sacerdote a riporre fiducia in lui?! C’è qualcosa che non quadra…

 - Me lo sono chiesto anch’io, Milo – annuì Camus guardando verso il Grande Tempio.

Dopo aver taciuto per un po’, l’allievo di Sion intervenne.

 - Vi ricordate come era Death Mask all’inizio, quando aveva nove anni e aveva appena…cominciato il suo allenamento nell’Etna? Non mi pareva assolutamente un demone…piuttosto era un ragazzino smarrito, anzi… più che smarrito…nei suoi occhi la tristezza aveva lasciato posto al vuoto più nero e totale. Chissà…forse aveva perduto qualcosa o qualcuno d’importante…forse però, peggio ancora, non gli era  mai stato  donato nulla da nessuno…

Mu non aveva mai relegato nell’oblio il giorno in cui lo vide per la prima volta.
Non era un guerriero e neppure un diavolo.
Non si chiamava ancora “ Maschera della Morte”.

 - Mu…il suo vero nome non è…Dario? – domandò Camus.

 - Già…era quello con il quale si era presentato a noi…

 - Che strano chiamarlo ora in quel modo…

 - Certo, Aiolia! Ci ammazzerebbe! Non vuole più sentire quel nomuncolo da smidollato !- si rivolse Milo al cavaliere del Leone.

 Dario…Dario era come se non fosse esistito…
 Era un’immagine troppo inverosimile…
 Quel ragazzetto magro, lungo, coperto di lividi  aveva occhi  di gracile cenere blu.
 Death Mask era  imponente, alto, coperto di fiamme e aveva occhi  di sanguinose lame blu.


 

 

 - Tu…hai mai visto…l’inferno?- sussurrò inquieto Dario .

 - No…- rispose il piccolo Mu fissandolo incuriosito.

 - Meglio così…non vederlo mai.

I due ragazzini erano seduti sulle scale che conducevano al dormitorio degli apprendisti cavalieri.
Dinanzi a loro, il cielo del crepuscolo e  Atene che s’assopiva sotto le fronde d’ebano della sera.

 - E’ davvero brutto l’inferno, Dario?

 - È fatto di fuoco…vedi quelle nuvole rosse e arancioni? Sono i respiri che fanno gli inferi dal centro della terra…sono fiamme che uccidono.

 - Per fortuna che sono lì in alto!

 - Sì…però io… le tocco  quasi sempre giù…nell’inferno…

 - Co-come fai a tornare…vivo?

 - Non ne ho idea…è il mio potere...lì, oltre le fiamme, ci stanno pure i morti…ho paura che mi portino con loro. Il mio Maestro mi dice che se non imparo a stare là morirò davvero.

Ci fu per un istante il silenzio.
Mu vide Dario abbracciarsi le esili ginocchia e appoggiare la testa su di esse.
Le sue mani piene di graffi erano percorse da un lieve tremito.
Il visetto abbattuto  e un po’ smunto, contrastava con la folta e arruffata capigliatura blu.

 - L’inferno si trova… soltanto sotto terra coi morti? – domandò con un fil di voce l’apprendista dell'Ariete.

 - No…lo puoi vedere anche qui, sulla superficie. L’Etna è così per esempio.

 - Non ci sono però i morti.

 - Ma ci sono i vivi che ti possono mandare giù con gli altri morti.

 - Allora..gli inferni sono due…

 - Beh…a dire il vero l’inferno è uno soltanto…cambiano gli abitanti a seconda delle zone in cui vai…

Mu corrugò un attimo la fronte dominata dalle due macchie magenta. 

 - Secondo me l’inferno non è dappertutto…

 - Spero proprio di no… perché io voglio fuggire dall’Etna.

Sulle labbra di Dario comparve un piccolo sorriso titubante ma desideroso di sperare.

 - Sì…fuggirò…chiederò ad Atena di levarmi i poteri e poi me ne andrò via per sempre…

 - Dove?

 - Non lo so…va bene qualunque posto…basta che non ci siano diavoli.

Rise debolmente e con fragile dolcezza.
Le nuvole del sole morente si stavano ormai sciogliendo all’alito della notte nascente.

 


 

 

“ Dario…sei morto... Le fiamme ti hanno ucciso. Adesso c’è…Death Mask”. Rifletté con amara tristezza Mu.
Il cosmo del cavaliere del Cancro era ancora più deturpato di quello di Ohen, nel cui cuore , per fortuna, l’amore aveva trovato modo di albergare. 
La maschera della Morte non conosceva alcuna volta celeste…

 - Ragazzi! Sono le dieci passate!- si allarmò Aldebaran – Dobbiamo alzarci alle cinque e mezza domani!

 - Uffa è vero…- sbadigliò Milo alzandosi e stiracchiandosi.

 - Io e il Maestro Sion andremo nel tempio di Atena a Lindo…devo apprendere gli ultimi attacchi mortali che mi mancano.

 - Come mai proprio nell’isola di Rodi? – chiese Aiolia incuriosito.

 - Beh…questo, ahimè, non lo so neppure io…- rispose Mu sorridendo – sono però certo che per il mio Maestro, Rodi ha rappresentato qualcosa di molto importante.

 - Ti aspetta  comunque una giornatina tosta! – rise il guerriero del Toro – bene gente…andiamo a dormire. Buonanotte, Aiolia!

 -   ‘ Notte!

Aiolia prese la strada di casa mentre gli altri cinque si diressero ai dormitori del Grande Tempio.
Camus infilò la mano nella tasca destra del suo pantalone per prendere le chiavi della camera.
Impigliato ad esse  stava un piccolo manufatto d’acciaio a forma di fiocco di neve…
Il giovane lo afferrò guardandolo per alcuni minuti.
Era un portafortuna che gli aveva donato uno dei suoi due piccoli allievi.
Il russo Hyoga.
Sorrise lievemente con amara tenerezza.
“ Hyoga…quante volte mi hai fatto e mi farai perdere la pazienza? Sei come questo fiocco di neve…vieni da un cielo gelido… eppure cadi e ti sciogli subito…devi diventare inverno se vuoi sopravvivere.”
Emise un sospiro.
Accidenti a te…i tuoi occhi sono dannatamente simili ai miei.”

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Capitolo 9
*** conchiglie di storie- cercando l'orizzonte ***


 

                                                                                                                                    “ I solchi ho nel  cuore, i sussulti
                                                                                                                                      d’un pianto sognato: parole,
                                                                                                                                      sospiri avanzati  ai singulti:
                                                                                                                                      un solco sul labbro, che duole.”

                                                                                                                                                                
                                                                                                                                                                   ( G. Pascoli)

 

 

Un caldo ed esile respiro gli accarezzò la guancia.
Delle leggere e fresche labbra gli si posarono sopra come ali di farfalla.
Una piccola mano si immerse dolcemente tra le onde dei suoi capelli scuri.
Ohen aprì piano,piano gli occhi grigio-azzurri.
Sorrise intorpidito ma tenero.

  - Nemi…sei già sveglia? – bisbigliò con voce impastata.

  - È da un po’ di tempo che non ho più sonno – rispose lei sorridendo stanca col visino magro più pallido del solito.

  - Non hai dormito bene?

  - Beh…non tanto…

Ohen si puntellò sui gomiti e fissò le pareti della grotta in cui si era rifugiato con la ragazza.
Quel posto era un tugurio umido, ruvido e sordido.
Del fuoco  acceso la sera precedente non vi erano rimaste che misere ossa di legno ustionate.
I  due giovani avevano dormito su un giaciglio  fatto di pelliccia di montone e si erano avvolti in tre vecchie coperte di lana per non patire il freddo.

       -    Perdonami…- sospirò Ohen accarezzando il volto di Nemi -  ci troviamo in questo schifo…mi pare ovvio che tu non stia bene…

       -  Non c’erano alternative…dove saremmo potuti andare? I soldati del Grande Tempio ci stavano seguendo e dovevamo seminarli al più presto.

       -  Già…l’abbiamo scampata… per ora…

Il ragazzo si mise a sedere mettendo gli avambracci sulle ginocchia.
Nemi gettò uno sguardo fuori dalla caverna: a occhio e croce parevano le quattro di mattina.
Le montagne titaniche, gli alberi sparuti e scialbi, i rapaci predatori  erano blu scuro.
Posando la testa sulla spalla  di Ohen, fissò esausta e inquieta il cielo fosco ancora addormentato.
Le stelle  si lasciavano inghiottire inermi e fiacche dalle ali sbrindellate di qualche nube vagabonda.
      -      Continueremo a scappare – fece lui livido. 

      - Finirà tutto questo… vedrai. Gli incubi non durano in eterno.

      - Non lo so, Nemi. Non lo so.

      - Ohen…

      - Fuggire, fuggire, fuggire… Forse sarà sempre così…

      - Troveremo una soluzione! Adesso…ogni cosa è terribile…ci sentiamo in trappola…però…scommetto che  c’è  una via d’uscita…

     - Quale via d’uscita? -  Ohen si mise in piedi bruscamente –  E’ da qualche parte? Esiste?

La ragazza lo guardò con mestizia. I suoi occhi neri brillavano tenui ed acri.
Rimase in silenzio.

     - Nemi…-  disse il giovane sorridendole abbattuto- neanche tu ci credi…vuoi arrampicarti perché… hai paura di non credere.

Si avvicinò all’uscita della spelonca. Proiettò  il volto  nel mattino buio  privo delle vesti dell'alba.
Era arduo vedere,squallido riflettere…
I pensieri erano tristi e stordite falene che svolazzavano all’interno di un bicchiere opaco e sporco.
Nemi si sdraiò su un fianco contemplando il grigio che regnava: sassi e polvere sul suolo, cenere al posto del fuoco…Ohen errante nella foschia senza colore.
Avevano corso, corso, corso… erano  inciampati sui massi  rialzandosi sempre…avevano proseguito guardando avanti…
 Riuscivano a scrutare il levante, ora? Ora che tutto era divenuto calmo dentro il ventre di un rifugio?

Nero.

Solo quello albergava nell’animo.
La quiete non era l’atrio della gioia.
Era un usignolo che intonava una dolce melodia prima di precipitare nella voragine dell’uragano.

Più osservava la catena dell’Himalaya dipinta di pece contro il cielo, più masticava l’odore dello sconforto e del sangue…
Ohen non aveva relegato nel dimenticatoio il disgustoso volto del Maestro. Il viso di un cadavere bruciato, deturpato, putrido.

 

   - Cos’è, pezzo d’idiota?! Piangi?! – esclamò il Maestro con la maschera di legno.

Nella sua tenda, Ohen era sdraiato su una stuoia con alcune parti del corpo fasciate da bende.
Si copriva il viso con la mano per tentare di celare invano le lacrime.
Era rintronato, sfiancato, frustrato.

  - E' inutile, Ohen…ti sei giocato la tua ultima carta contro Mu…potevi finire di  massacrarlo!! Lo stavi  facendo crepare, diamine! Perché non sei riuscito?!

Con un nodo in gola il ragazzo teneva le labbra serrate.

 - Perché  hai fallito?! – sibilò  iracondo l’uomo afferrandolo per i capelli – ora quell’imbecille  si avvicinerà sempre di più all’armatura d’oro mentre tu invece hai chiuso!!

 - Lasciatemi subito!!- gridò stavolta l’adolescente strizzando violentemente l’avambraccio del Maestro.

 - Portami rispetto, piccolo bastardo!

Ohen ricevette un brutale manrovescio.

 - Ringrazia il Cielo che io ti abbia salvato da quel lurido ubriacone di tuo padre! Ho avuto la pietà di accogliere un insetto come te tra i miei allievi…

 - Allievi che vi divertivate a pestare come cani.

Il Maestro sferrò all'apprendista un pugno nello stomaco.

- Parli come Sion che si crede l’onnipotente guerriero sceso in terra?! Che possa bollire all’inferno quel figlio di una cagna! Ha osato pure mettermi le mani addosso…

Nonostante il respiro smorzato, Ohen riuscì a ridere sarcasticamente.

 - Che strano! Voi che siete così abile  nell’usare pugni e  calci e  per poco il sommo Sion non vi tirava il collo come ad una gallina.

 - Non sei in condizioni di fare lo spiritoso.

 - Non siete in condizioni di fare discorsi del cavolo!

 - Tieni chiusa quella fogna, senza palle.

Ohen fissò il Maestro con occhi letali come asce.
Ritornò a tacere col volto pallido e appuntito di collera.

 - Patetico, Ohen…sei finito col culo per terra proprio quando avevi la vittoria in pugno…mi domando se si possa  essere più deficienti di così…quel Mu ti ha fregato coi suoi giochetti e ti ha messo al tappeto…i miei complimenti…

Il ragazzo continuava  stare zitto con le mascelle irrigidite.

 - Chissà come mai hai fatto schifo…non è per caso che , a furia di frequentare quella sciacquetta, ti sei  rammollito piano,piano?

Ohen  trasalì sbigottito: il Maestro sapeva di Nemi.

 - Pensi che io sia scemo?So benissimo che te la fai con quella ragazza, con quel mucchietto d’ossa…hai dei pessimi gusti…dei pessimi e sporchi gusti…

Ridacchiò in modo strano.
Il giovane divenne ancor più adirato e angosciato.
 
 - Non ti vergogni, Ohen?

 - Di cosa? Di avervi come guida?!

 - No…di portarti a letto tua sorella. Tua sorella gemella.

Una lama di metallo sembrò squarciargli il ventre.
 
 Non poteva crederci.
La fanciulla che ammirava, accarezzava ed amava era…sua sorella?
No… assurdo…
Aveva sempre creduto di essere figlio unico…
Era una bugia. Una bugia per  demolire ancor di più i nervi.
Quell’infame con la maschera di legno la doveva piantare.
La doveva piantare.

 - Sconvolto, ragazzetto?- riprese l’uomo – beh, la faccenda è questa... tua madre partorì un maschio e una femmina…eri nato con le due macchie sulla fronte ma , a differenza di quelle degli altri  prescelti dell’Ariete, le tue…sanguinavano.

Muto, Ohen sgranò gli occhi.
Seguitò a guardare  il Maestro con viso di brace e gelo.

 - Nel tuo villaggio circolava e circola tutt’ora un’inquietante profezia: un prescelto dell'Ariete , nato durante l’equinozio di primavera con le macchie sanguinanti, aiuterà le tenebre a tessere il loro velo di morte.

Tenebre…tenebre…
Quante volte aveva udito la loro voce?
Infinite.
Sole…sole…
Quante volte aveva desiderato udire la sua voce?
Infinite.
L’unica lanterna incontrata era stata Nemi…nessuno gliela poteva portar via…
Quell’infame con la maschera di legno la doveva piantare.
La doveva piantare.


  - Povero te, Ohen…abbandonato da una miserabile che ti ha affidato ad  un pezzente alcolizzato, innamorato di tua sorella e sconfitto  da Mu…che bel quadretto…

Il Maestro rise con voce rauca e sgraziata.
Ohen non riusciva a fermare le lacrime d’ira e di disperazione.
Avvertiva il proprio respiro scorrere a singulti.
Quell’infame con la maschera di legno la doveva piantare.
La doveva piantare.

  - Guardati…sei così penoso da far venire la nausea…quella profezia è ridicola…come farai ad aiutare le tenebre se sei un’autentica nullità?!

 L’adolescente diede un colpo talmente micidiale all’uomo che gli ruppe la maschera e  gli fracassò la mandibola.

 - Basta! Basta! Basta!- urlò scattando in piedi e avventandosi contro il nemico al pari di  una belva.

L’esasperazione gli incendiava e devastava il cosmo.
Non vedeva e non capiva più nulla.

 - Lurido bastardo! Lurido bastardo! – gridava mentre stritolava la gola all’uomoi sbattendogli  selvaggiamente la testa per terra .

Sinistri scricchiolii di ossa frantumate si spargevano nell’aria.
Diversi schizzi di sangue macchiarono  il suolo.

  - Muori, verme! Muori, muori, muori!!

Il cranio del maestro si stava spappolando come un frutto marcio… Si  spaccò  lasciando  fuoriuscire dei vermicelli rosastri e viscidi di cervello.

Ohen aveva il viso sporco di gocce rosse.

  - Devi crepare, animale!!

Con un  ultimo  atto  di folle furore,  il ragazzo conficcò il pugno nel torace del  carnefice artigliandogli  il cuore e strappandoglielo via.
Disgustato dal contatto della carne molle e ancora pulsante ,gettò  per terra quel brandello di muscolo  unto e arterioso  .

Si fermò ansimando.
Il corpo gli tremava ancora per la rabbia e lo shock. 
La mano destra grondava sangue.
I suoi occhi grigio-azzurri erano velati di sangue. 
Il cadavere e il viso rattrappito del Maestro erano coperti di  sangue.

Fuori la tenda si udivano delle voci.
Nell’accampamento gli insegnanti e gli apprendisti si erano svegliati.

Ohen, rintronato, nauseato e confuso, riuscì a sparire nella notte nera.

Corse forsennatamente  per le lande aride della Valle dei Quattro Venti.
I polmoni gli dolevano.
Le membra erano pesanti e arroventate.
Nel suo spirito piogge di meteoriti e ghiaccio.

 

 

  - Ohen…

Il ragazzo avvertì sul braccio il tocco lieve e affettuoso di Nemi.
Appoggiò i propri occhi su quelli di lei e poi  la  strinse a sé senza proferir parola… 
Le nubi scarlatte  dei ricordi si sciolsero momentaneamente in una candida coppa d’acqua.

I due rimasero  abbracciati  a lungo nel silenzio  sussurrante di pietra e fuliggine.
Le uniche cose che barcollavano, si dimenavano e ondeggiavano erano i loro cuori.
Dentro la caverna, la calma che altalenava minacciando di schiantarsi a terra.
Fuori  la caverna, l’embrione di un giorno ancora indistinto e vaporoso.

Poggiata contro il petto di Ohen, Nemi sapeva perfettamente ciò a cui lui pensava…sotto il torace le ferite erano ancora bagnate, scucite ed arse.
Prese il viso del giovane tra le  mani minute e magre.
Vide quegli occhi grigio-azzurro che adorava umidi e tremolanti.
Ohen spostò febbrilmente il volto lontano dallo sguardo della ragazza.
Non desiderava che  lo vedesse così sfatto e smarrito.

 - Ohen – mormorò lei – io…voglio credere per davvero che ci sia una via d’uscita.

 - Come…fai?

 - Penso a te…penso a quando ti ho incontrato per la prima volta…sei stato le mie ali…il mio respiro…in quel maledetto villaggio andavo avanti per inerzia, giusto per sopravvivere…volevo che mia madre, anzi…nostra madre mi parlasse di più, mi donasse qualcosa di più ma…nulla. Erano così le giornate. Ognuna chiusa in sé. Ci aiutavamo  per coltivare la terra, tessere abiti…in realtà eravamo lontane l’una dall’altra. I miei tentativi di avvicinarmi a lei sono sempre stati inutili…l’unico vero calore  conosciuto sei stato tu.

Ohen  abbozzò un sorriso sottile e tenero. 

 -  Non ti sono sembrato un guerriero feroce e terrificante? – le chiese emettendo una debole risata.

 -  E io non ti sono sembrata un manico di scopa  deperito?

 - Per nulla .

 - Sei un gran bel ragazzo…mi domando cosa ci fai con una come me…non ho niente di bello o attraente…

 - Smettila di dire scemenze!

 - Ti vado bene così?

 - Stupida! Ti adoro e basta! Per me sei stupenda.

Ella rise  in modo  un po’ increspato.

 - Ohen…mi dai davvero delle ali.

 - No…tu le hai già di tuo.

 - Non è vero.

 - Invece, sì. Quello che non è capace di volare sono io.

Ohen diede un pugno alla parete della grotta.

 - Devi finirla di dire questo!

 - Nemi! Guarda me! Guarda te! Dove diamine stiamo?!

 - Ascolta, lo so  benissimo che ci troviamo in alto mare e che siamo nei guai! Dobbiamo però proseguire! L’abbiamo deciso insieme, ricordi?!

Quelle parole gravarono infiammate sull’animo del ragazzo.

 - Ohen!! Voglio salvarmi con te!! Voglio continuare a vivere con te!!

 - Vivere con me…con tuo fratello?

 

Per un istante Nemi, tacque.  

Non poteva trascurare il fatto che lei e Ohen si erano macchiati inconsapevolmente  d’incesto.
Quando aveva scoperto quella terribile cosa, il suo cuore era rimasto distrutto come un campo      martoriato da un tornado.
 L’apprendere che il ragazzo ,con il quale faceva l’amore, era il  gemello l’aveva lasciata con una coltellata nel petto…sì…all’inizio era stato così…che effetto straniante e inquietante percepire Ohen sotto quella luce!
Un’ importante tassella, tuttavia, si era infiltrata in quei crepacci di tempesta.
Avevano mai convissuto come fratelli loro due?

 - Ohen, desidero amarti come donna…come ho sempre fatto finora…anche tu mi avevi detto lo stesso…che avresti continuato ad amarmi come uomo.

L’adolescente  accarezzò i capelli di Nemi.

 - Sì…è vero. In che modo riusciremmo a distruggere quello che abbiamo creato? Siamo fratelli…ma… in realtà non è così.

 - Abbiamo passato un’infanzia da figli unici…

 - Ci siamo incontrati per la prima volta tre anni fa, innamorandoci...

 - E salvandoci.

Ohen baciò con dolcezza la fanciulla.

 - Ti giuro Nemi che andremo a  vivere in una casa dignitosa e decente!

 -  Però…non potremo fare figli…

 - Già…ma comunque…chi ci impedirà di adottare uno, due o tre bambini? Quando avremo risolto questa situazione e ce ne saremo andati il più lontano possibile, pensi che qualcuno si verrà ad impicciare dei fatti nostri?!

Aveva ragione.
Nel momento in cui  sarebbero riusciti a costruirsi una nuova esistenza lontani da tutto e da tutti nessuno avrebbe domandato loro la vecchia vita… la vita di fumo e diluvi…

 - Nemi, perdonami per averti fatto deprimere prima…è che io…non voglio offrirti fughe, fughe,fughe! Non voglio darti questo un domani!

 - Ce la faremo! Ce la dobbiamo fare!

 - Sì…ce la dobbiamo assolutamente fare…anche se non sono più un cavaliere d’Atena.

Si gettarono l’uno tra le braccia dell'altra.

 - Ohen...sii guerriero comunque…non occorre che  usi pugni, calci…continua a combattere col tuo spirito.

 - Certo…combatterò. Con te e per te.

 - Ti seguirò ovunque.

 -  Cambiamo il nostro destino e infischiamocene di qualunque profezia…noi abbiamo in mano le nostre redini e gli dei  è come se non esistessero. Sarò pure matto a dire questo ma a me non importa nulla.

Il ragazzo fissò il cielo che attendeva l’aurora.
Il blu diveniva azzurro cupo.

“ Mu…” pensò Atena sceglierà te come cavaliere dell'Ariete…sappi però che le macchie che ho sulla fronte sono inestinguibili…io lotto e lotterò ancora  per sopravvivere, camminare e vincere…l’Ariete non corre solo con te…ma pure con me. Le nostre strade divergono…tu diverrai un giorno servitore di Atena…io un semplice uomo che non deporrà mai la propria lancia. Non ti sono mai stato amico e probabilmente non lo sarò mai…”

Ohen rivide gli occhi verde acqua di Mu intrisi di quella pacata fermezza che desiderava tanto ghermire.

beh…comunque…grazie. Grazie per avermi letto dentro, per avermi visto come nessun’altro.”

 

Quando il sole spuntò da dietro i monti con la sua biga dorata, i due adolescenti si rimisero immediatamente in cammino.
Nessun soldato del Grande Tempio gli stava seguendo.
Ohen non percepiva alcun cosmo minaccioso.
La situazione pareva tranquilla.

Pareva.

Dalla sommità di un’alta roccia una coppia di strani individui teneva d’occhio il ragazzo e Nemi... Non aveva cessato di seguirli dall’inizio della loro fuga….
Erano due giovani alti e maestosi.
Portavano dei pesanti mantelli rosso scuro.
Uno aveva una folta e lunga chioma nera dai riflessi violacei, l’altro portava in modo disordinato   una spessa capigliatura bionda. 
Gli  occhi del primo erano indaco crepuscolare mentre quelli del secondo scintillavano arancioni come zanne di drago.

 - Quanto dobbiamo aspettare ? – domandò il biondo sbuffando spazientito.

 - Non cominciare a tediarmi…- gli rispose seccamente il compagno – adesso dobbiamo limitarci ad osservare.

 - Perché ci vuole  tanto?! Quel dannato prescelto l’abbiamo trovato! Non ci resta che portarlo con noi!

 -  Non possiamo far rumore! Occorre muoversi in silenzio, senza dare nell’occhio!!

 - Così non ci spicceremo mai!

 - Razza di idiota! Ci hai già fatto rischiare  grosso con quello che stavi per combinare in Inghilterra!  Per fortuna  siamo riusciti ad insabbiare tutto!

 - Senti un po’-  fece minaccioso il biondo fronteggiandolo -  non ho la pazienza che hai tu e quell’altro che sta ad Oslo! Ho vissuto per sette anni in una cella di merda aspettando che si compiesse un destino di cui so ben poco! Capisci che mi sto rompendo il cacchio?!

 - Datti una calmata – gli rispose il moro fissandolo torvamente- i tempi sono ancora immaturi! Lo sai perfettamente! Credi che io sia felice e sereno di aspettare?! Purtroppo bisogna agire con estrema prudenza. Il Grande Tempio non sa che noi...esistiamo in quest’era.

 -  Insomma,continueremo a camminare invisibili ed impercettibili ancora per molto!

 - Ahimè…sì.

 - E con Ohen?

 - Oh – sorrise cupo il bruno – di lui non ci dobbiamo preoccupare…cadrà nelle nostre mani senza farci scomodare troppo.

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Capitolo 10
*** conchiglie di storie-le braccia del sole ***


   

 “ Oggi lasciate che sia felice, io e basta
   con o senza tutti, essere felice con l’erba
   e la sabbia essere felice con l’aria e la terra,
   essere felice con te, con la tua bocca,

   essere felice.”

   ( P. Neruda)
 

  
 

 

 

 
 

 

  Rapida, sveglia e diligente, Leira forniva un aiuto prezioso all’interno della bottega di famiglia.
    Lei e la madre erano considerate le migliori sarte del villaggio. I loro lavori di fine cesellatura  venivano apprezzati molto. Abiti per le mansioni quotidiane, eleganti vesti da festa o da cerimonia…tutto ciò che usciva da quella piccola officina donava alla gente sorrisi di soddisfazione e strappava parole d’ammirazione.
    Leira amava dar vita sia ad una sobria casacca da lavoro, sia ad un sofisticato chimono da sposa…ogni volta che univa pezzi di stoffa con collane di fili bianchi, colorati o dorati provava singolari emozioni…era come se unisse con l’ago le acque di tanti mari al fine di farle confluire in un unico oceano. L’oceano della propria vita.
    Un oceano che doveva ancora espandersi verso le terre, verso il cielo, un enorme campo dove le onde fiorivano  ma non trovavano, per il momento, spiagge o moli da baciare.
    Quando  cuciva, la ragazza aveva l’impressione di affrescare  su un muro di lana o di cotone o di seta le scene remote della sua esistenza. Un susseguirsi di giorni semplici, tranquilli adornati  talvolta dalla gioia, arricciati talvolta dalla tristezza ma sempre illuminati da lui.
    Mu.
    Mu l’allievo del Grande Sion. Il prescelto per divenire il futuro cavaliere dell’Ariete.
    Mu il suo strabiliante e autentico amico.
    Mu…il giovane che ora  desiderava amare con tutta l’anima.
    Erano trascorsi quasi tre anni dalla sua partenza.
    Leira non ricordava una permanenza, fuori le terre tibetane, così lunga  . Mu di solito si assentava per diversi mesi ma non era mai capitato che non si facesse vivo addirittura per tre anni.
    La preoccupazione e l’angoscia erano grandi.
    La ragazza ormai aveva imparato a domarle nell’arco di questo tempo immenso… non poteva, tuttavia, non avvertire tristezza e anche un po’ di irritazione.
 
    “ Accidenti a te, Mu! “ pensava spesso “ ma dove ti sei andato a cacciare?! Io non riesco e non posso sapere dove sei… potresti darmi un tuo straccio di notizia una volta ogni tanto! Non dico sempre però…Caspita! Io non sto tranquilla per niente!  Ho capito che sei un cavaliere…immagino comunque che qualche soluzione la puoi trovare, uffa! Cosa fai? Cosa ti succede? Mu! Cerco sempre di apparire la solita allegra ragazza ma in realtà non sono felice per nulla da quando te ne sei andato…ho le mie amiche, i miei genitori ma tu…non ci sei…giuro che ti vorrei prendere a sberle!”
 
    Leira non sarebbe mai riuscita a fare una cosa simile. Ne era perfettamente consapevole.
 
    “ Come potrei tirarti degli schiaffi? “ sorrideva malinconicamente “ Il tuo visetto e i tuoi occhi sono un’arma letale…”
 
    Sguardo flemmatico e verde acqua. Volto delicato, fine, dolce…in che modo colpire Mu?
    L’adolescente l'adorava troppo.
    Quando si trovava a tessere uno scialle,  lasciava a volte che la mente navigasse verso un lontano ventisette marzo...

 

 

 
 

     L’ora di pranzo era già trascorsa.
    Un allegro aroma di voci colorate si spandeva fuori le finestre di una casa.
    Proveniva dalla dimora di legno di una piccola famiglia…
    Nella saletta del focolare, attorno ad un tavolo basso, vi erano  i genitori di Mu che avevano invitato Leira e i suoi.
    Si chiacchierava con vivace tranquillità mentre si toglievano lentamente le scodelle del pranzo e ci si preparava alla portata del dolce.
 
      - Allora, ragazzo! Sono undici anni, eh?- esclamò frizzante  il padre di Leira dando un’energica pacca sulle spalle di Mu.
 
     Il bambino rise.
 
      - Tieni, Mu! Questo è per te!- fece l’amica porgendogli un pacchetto di stoffa.
 
      - Aspetta un attimo! Fai arrivare prima la torta di riso!
 
      - Ma papà! Devo sapere se a Mu piace o no!
 
      - Eh  la miseria! Manco dovessi aspettare il verdetto di un giudice!
 
      - Grazie Leira! Lo apro subito!-  disse  Mu sorridendo con dolcezza.
 
      - Eh!eh! Vuoi scartare in fretta il regalo della tua bella! – gli ammiccò scherzoso il padre col suo brillante sguardo  verde.
 
    I due ragazzini arrossirono.
    Si guardarono velocemente negli occhi per poi voltarsi da un’altra parte.
    Mentre fissava il cielo azzurro che s’intravedeva dalla finestra, Leira udiva ansiosa il lieve rumore che faceva l’amico nello slegare il nastro del pacchetto…
    Gli sarebbe piaciuto il suo dono?
    Aveva impiegato così tanto tempo per farlo…sperava almeno lo trovasse decente…
 
     - Oh! Leira! Che bella…- mormorò Mu ammirando  la mantella color porpora che aveva ricevuto.
 
     - Ti…ti piace? Non mi è venuta troppo grande?
 
     - Sei stata così brava…grazie…
 
    Leira amava l’espressione del ragazzino tenera e sincera…pareva di scorgere l’arcobaleno dietro un vetro di cristallo.
 
     - Stai diventando abilissima, Leira!- esclamò la mamma di Mu - non c’è dubbio che tu sia figlia di un’ eccelsa sarta!
 
     - Per fortuna che c’è lei in bottega ad aiutarmi...ogni giorno fa progressi…
 
    La bambina guardò con affetto la madre, una donna di piacevole e rassicurante aspetto con lunghi capelli bruno-rossicci raccolti in una treccia…le assomigliava molto ed era fiera di aver ereditato da lei la magnifica chioma fluente…
    Rivolse  nuovamente i suoi occhi dorati all’amico.

    Si accorse che non aveva mai  cessato di fissarla.
 
    Egli, sentendosi  sgamato, abbassò febbrilmente il viso come se fosse stato un gattino colpevole di qualche dispetto.
    Leira lo trovava buffo e adorabile.
 
     - Emh…grazie ancora…- sussurrò lui con la faccia in fiamme.
 
     - Figurati! Sono contentissima che ti sia piaciuto lo scialle!
 
    Mu alzò timidamente lo sguardo.
 
     - Beh…ti è venuto davvero bene…lo porterò sempre con me.
 
     - Ah!ah!ah! Sarà il tuo mantello da cavaliere!
 
    Rapidissimo, il ragazzino le diede un bacio sulla guancia.
    Lei spalancò gli occhioni sorpresa.
    Lui, tentando di mascherare il tremendo imbarazzo, prese con  mal celata tranquillità una tazza di te.
    Voleva far vedere che tutto era sotto controllo ma era impossibile non notare le sue gote rosse e il modo un po’ impacciato con cui beveva.
    Leira non riuscì a trattenersi e si mise a ridere.
    Alla fine anche Mu proruppe in una risata liberatoria…
    Il suo viso pareva più bello dei dardi del mezzogiorno…

 

 

 

 

 

 

     - Leira!
 

     - Sì, mamma?
 
    La giovane dovette scendere dal suo albero di ricordi.
 
     - Sono le dodici… Tra poco è l’ora di pranzo. Potresti andare prendere l’acqua al ruscello?
 
     - Certo, lo faccio subito.
 
    Si allontanò dal tavolino di lavoro sul quale stava cucendo correndo a prendere l’anfora per l’acqua.
    Uscì dalla bottega e percorse la stradina principale del villaggio…

    Le piaceva il suo posto, il suo rustico nido di casette di legno e mattoni crudi…
    Non era un piccolo villaggio…contava quasi ottocento persone. Poteva essere definito un borgo rurale  cinto da una linea muraria le cui porte si aprivano su una  pianura attraversata dall’affluente del Fiume Giallo Baihe.
    Nonostante camminasse con passo vigoroso e spedito, Leira lasciava che i suoi occhi osservassero la gente che si affaccendava nei piccoli empori o nelle case…
    Ammirare il flusso della quotidianità le conferiva una sensazione di tranquillità, le offriva il sapore di una gradevole illusione che tutto fosse  pacato al pari delle nuvole del cielo.
 
     - Ehi, piccola!
 
    Si voltò alle spalle.
    Un uomo robusto di media statura  con baffetti e pizzetto scese da un’impalcatura di legno che circondava un tempietto buddhista.
 
     - Papà!
 
     - Leira, stai andando a prendere l’acqua?
 
     - Eh, sì….tra qualche ora si va a mangiare e la mamma chiuderà la bottega.
 
     - Tarderò un po’ sta volta…devo finire di stuccare l’ultima parete esterna  del tempio…
 
     - I lavori di ristrutturazione sembra  stiano venendo bene!
 
     - Già…questo piccolo santuario è antichissimo…molte cose stavano per andare in rovina…il capo villaggio ha dato  il via  all’opera di ristrutturazione quest’anno. Io e gli altri operai dobbiamo ultimare al più presto il compito! Abbiamo una tabella di marcia da rispettare!
 
     - Capisco…dirò alla mamma di aspettare. Sarai da noi verso le due?
 
     - Beh, direi proprio di sì.
 
     - Bene- Leira sorrise e baciò il padre sulla guancia- ci vediamo a casa!
 
     - A più tardi, tesoro.
 
    La ragazza si diresse verso le mura del centro abitato.
    Ecco che vicino le porte vide la dimora di Mu con affianco l’officina artigianale in cui lavorava  il padre.

    Si fermò un attimo.

    Finestre serrate. Porte sbarrate e sonnolente.
    Tutto era pietrificato e silente.

    La mestizia calò il suo secchio nel pozzo del cuore.
    Leira sospirò affranta…
    Camminò lentamente accarezzando con gli occhi quei due piccoli edifici…

    Era necessario affrettare di nuovo il passo.

     Uscì fuori la cinta muraria.
  
    La campagna circostante aveva il viso di  una coperta tappezzata di campi agricoli.
    Quella era una delle poche zone che riluceva del verdeggiante riflesso delle coltivazioni…i canali di irrigazione erano vene che bagnavano col sangue acquatico ogni lembo di terra, ogni vellutata mano di vita…
    Leira si avvicinò al torrente…
 
    Lei e Mu adoravano parlare per conto loro  in quel posto baciato dal riverbero  del sole…
    Ogni volta che ritornava da qualche viaggio, l’amico le raccontava le luci delle città che aveva visitato, i racconti e i miti che aleggiavano nell’aria.
    Che fosse Lhasa, la capitale del Tibet, o qualche altro paese della Cina, del Nepal o dell'India, Leira s’imbarcava su un vascello di fantasia e sogni.
    Che fosse Atene, una delle isole dell'Egeo o un’antica città della Turchia, ella prendeva le ali di Icaro  avvicinandosi al sole senza alcun pericolo.
    Quanti universi aveva esplorato! Quante cose aveva imparato!
    La ragazza conosceva una miriade di narrazioni della mitologia greca…la nascita di Zeus, Poseidone, Ade…la sconfitta dei titani imprigionati nel Tartaro, Prometeo che donò il fuoco agli uomini, Apollo che uccise Pitone, Atena che divenne regina dell'Attica, Perseo che decapitò Medusa, le dodici fatiche di Eracle, Teseo che abbatté il minotauro…
    Che dire delle appassionanti opere omeriche? Leira si commuoveva e s’infervorava  nell’udire la triste fine di Troia e  i viaggi straordinari di Odisseo.
    Una delle sue parti preferite dell’Iliade  era l’ultimo incontro tra  Ettore  e la dolce sposa Andromaca…

 

 

 
 

 

 

 
  Leira era seduta sull’erba e ascoltava rapita Mu che in piedi, con tono di solenne pathos, leggeva il capitolo sesto dell’Iliade.
 Ecco che giunse la scena attesa!
 La disperata Andromaca col figlioletto Astianatte andò  incontro al valoroso marito…
 Mu faceva con seriosa drammaticità: 
 
 -     E sorrise egli, guardando in silenzio il bambino,        
       e Andromaca in lacrime si fece accanto a lui,        
       gli prese poi la mano e a lui si rivolse e disse queste parole:

 Leira attese emozionata.
 L’amico si calò nella parte della donna e recitò con sofferenza:
      
   - Sventurato, il tuo valore ti perderà! E non hai compassione        
 del figlio pargolo e di me infelice, che presto vedova        
 di te sarò! Presto ti uccideranno gli Achei,         
 Tutti facendo impeto. E meglio per me sarebbe, priva di te,        
 scendere sottoterra.

 Per la ragazzina era impossibile non commuoversi ad un tale discorso colmo di angoscia e amore sincero e appassionato.
 I suoi occhi iniziarono a inumidirsi quando Mu le  pronunciò i versi  che adorava:
          
 - Ettore, tu sei dunque per me padre e venerata madre       
   e fratello, tu sei il mio fiorente marito:         
   suvvia, abbi pietà e rimani qui presso la torre,         
   non fare tuo figlio orfano e tua moglie vedova! 

 Toccò al figlio di Priamo parlare. Leira sorrise divertita nell’osservare l’amichetto che cambiava atteggiamento e tentava di rendere grave la sua voce ancora puerile:  
    
 - Certo, donna, anche io penso a tutte queste cose: ma molto        
   ho vergogna dei Troiani e delle Troiane dai lunghi pepli, 
   se  come un vile fuggissi lungi dalla battaglia.

 Il bambino  riprese il discorso mettendosi fieramente diritto e posando una mano sul petto:      

 - Ma non a questo mi spinge il cuore, perché so di essere valente        
 sempre a combattere fra i primi Troiani,        
 per difendere la gloria grande di mio padre e di me stesso.

 Sì…Mu era delizioso quando leggeva in quel modo…
 Con tenera ironia mostrava all’amica le sue vesti di futuro guerriero.
 Quelle vesti che la rendevano spesso abbattuta.
 Quello stendardo che sarebbe stata costretta a vedere  sempre  sollevato.

 

 

 
 

   “ Mu…sapevi fin dall’inizio che col passare del tempo mi avresti reso sempre più simile ad Andromaca…” pensò Leira mentre attingeva l’acqua  “ hai desiderato sempre però  che io  non perdessi mai la mia indole allegra…” sorrise fissando lo scrosciare del torrente “ sciocco. Come posso stare tranquilla se affronti delle prove sovrumane e se poi combatterai per Atena?!  Purtroppo non sei una persona normale.”
  Sbuffando un po’ frustrata  l’adolescente tappò l’anfora e si sollevò da terra.
  Nell’attimo in cui si accingeva a rientrare nelle mura del villaggio udì un suono…
 
  - Leira...
 
  Si fermò.
  Di chi era quella voce indistinta, fievole ?
  Che fosse prodotto della propria immaginazione?
  Sì… era soltanto un’impressione.
  Ruotò lo sguardo nei dintorni della campagna circostante.
  Era sola. Con lei non c’era nessuno.
  Riprese a camminare.
 
  - Leira...
 
  Di nuovo quella voce.
  Sta volta però aveva assunto una melodia più nitida…
  Era un tono caldo… grave…
 
  - Leira...riesci a sentirmi?
 
  La ragazza avvertì con chiarezza la voce di un uomo…
  Delle note azzurre, spesse…degli anelli soavi che si propagavano nel vento…
 
  Possibile che fosse proprio… lui?
 
  I battiti del suo cuore accelerarono vertiginosamente.
  Il sangue iniziò a pulsarle con ardore nelle arterie.
 
  - Leira…

   Non riusciva a crederci.
   Una cascata di luce le invase tutte le membra.

     - Leira, sono Mu.
 
  La ragazza lasciò cadere l’anfora sull’erba.
  Un immenso brivido di felicità parve trascinarla via da terra.
  Le tempie martellavano convulse e festose.
 
  - Mu…da-davvero sei tu che mi parli… o sono diventata matta?
 
   Le rispose una risata bellissima e flemmatica…
 
    - Chi sarebbe mai in grado di raggiungerti col pensiero?

   Improvvisamente un turbine di abbaglianti raggi dorati le comparve  dinanzi.
   Era di una luminosità grandiosa e intensa…
   Quando i bagliori scomparvero al loro posto c’era il cavaliere dell'Ariete.
   C’era Mu in carne ed ossa.

   Sembrava un sogno.

    - Mu…oddio…non mi pare vero…
 
   Lui  le sorrise con gli occhi verdi traboccanti di gioia.
 

    - Caspita…sei ancora più splendida di quanto ricordassi…
 
  Leira ruppe lo sbigottimento lanciando un grido di contentezza.
  Gettò con tale impeto le braccia attorno al collo di Mu che cascò con lui sull’erba.
  Inebriato e felice, il ragazzo strinse a sé l’amica accarezzandole i capelli e respirandone il profumo…

  Era così squisitamente rintronato che non aveva più voglia di riflettere….
  La fanciulla cha amava era praticamente addosso a lui e gli stava ricoprendo di baci il viso…
 
  Nella foga di quei gesti d’affetto le labbra dei due ragazzi s’incontrarono.
 
  Sorpresi da quel fugace contatto si staccarono per un attimo l’uno dall’ altra.

  Si fissarono negli occhi con il volto imporporato da un piacevole imbarazzo.
  Alla fine risero rialzandosi in piedi lentamente.
 
  Alcuni istanti di silenzio…
 
  Si concessero il rigoglioso attimo di ammirarsi a vicenda…
 
  Sul viso di Mu era rimasta intatta la mitezza  ma una profondità  nuova annegava in quegli occhi verde acqua: la forza di un uomo adulto che attendeva il futuro momento di sbocciare e incendiarsi…
  Pareva strano pensare a ciò vedendo un volto così gentile e angelico… eppure stelle misteriose ridondavano in quel  cosmo intenso  e celeste come la via Lattea.
  Sul corpo  di Mu non vi era più l’ombra bianca della puerilità… una fresca e rassicurante dolcezza continuava comunque a permanere. Il giovane era diventato alto, aveva le spalle e il torace  ampi, le sue  membra mostravano una muscolatura forte e al contempo fine e morbida.
  Regale e meraviglioso.
  Sebbene figlio di umili artigiani,  egli era dotato dell’innata eleganza di un principe.
  Indossava semplicemente degli indumenti da apprendista guerriero però…riusciva ad essere raffinato al pari di un nobile.
 
  Leira si fece vicino a lui.
  Venne di nuovo abbracciata con tenerezza.
  Sorrise nell’avvertire quanto fosse curioso appoggiare il capo sul petto del proprio amico… al momento della partenza dal villaggio era giusto qualche centimetro più alto di lei…ora la superava enormemente.
 
 

 

 

  - Ti sei fatto vivo finalmente! – disse  poi staccandosi un istante e lanciandogli uno sguardo scherzoso e un po’ imbronciato.
 
  - Hai ragione…perdonami…purtroppo  sai come sono i regolamenti del Tempio.
 
  - Già… non puoi permetterti…distrazioni durante l’ apprendistato .
 
  Mu accarezzò il visetto di Leira imperlato di una leggera tristezza.
 
  - Tu riesci a distrarmi lo stesso…non abbandoni mai la mia mente e la mia anima.
 
  Gli occhi color miele e la bocca soffice dell’amica ritornarono a sorridere.
 
  - Neanche il tuo viso e le tue parole mi hanno lasciato un  momento in tutto questo tempo.
 
  - Tre anni…è incredibile…non so se sono trascorsi velocemente o con orribile lentezza…
 
  - Sì…è strano…io ho continuato a fare le mie solite cose al villaggio. Lavoro, casa, lavoro, casa…ogni giorno c’è tanto da svolgere…le ore mi volano via…quando sono sola oppure ci sono le feste…ecco, i minuti diventano lenti. Lentissimi. Faccio finta di stare tranquilla e allegra. Faccio finta.
 
  Leira prese le mani di Mu: mani morbide che avevano assunto  la durezza granitica di un guerriero, mani di chi si era trovato perennemente in bilico sul rasoio dell'abisso.
 
  - Leira…
 
  - No, Mu…solo all’apparenza le giornate scorrono normalmente…in realtà non è più lo stesso da quando sei partito…le notti mi fanno paura…diverse volte ho sognato….la tua morte.  Non sono mai stata una persona tormentata da incubi. Da quando è cominciata la fase più dura del tuo allenamento ha avuto inizio tutto questo.
 
  Mu le avvolse le piccole spalle  col suo braccio…Forse non bastava a dissipare in lei l’angoscia ma almeno le faceva avvertire tutto il proprio calore.
 
  - Ho avuto l’impressione che sull’Himalaya i giorni avessero smesso di esistere talmente erano lenti…è stato un periodo bruttissimo…per fortuna c’è stato il Maestro Sion. Un sacco di volte mi sono sentito in trappola , senza via di scampo…pensavo a Kiki, ai…miei genitori, a te…ce l’ho fatta a sopravvivere…non so come ma ce l’ho fatta.
 
  - Scusami.
 
  - Perché?
 
  - Perché  mi vergogno a raccontarti la mie vicende stupide mentre tu combatti, hai delle gravi responsabilità,  hai un fratellino da crescere e… ti sottoponi a delle prove disumane.
 
  - Leira,  in qualunque dimensione della vita si lotta e si cerca di andare avanti.
 
  - Sì ,ma tu rischi la pelle…siamo su due stelle completamente differenti…
 
  - Siamo su due stelle che appartengono comunque ad una stessa galassia, ad una stessa costellazione.
 
  Leira  s’immerse nelle grandi gocce degli occhi di Mu.
  Avvertì in bocca l’amaro gusto di qualche lacrima.
 
  - Mu…come fai a essere così…grande? Io sarei  stata travolta e uccisa da un pezzo...
 
  - Sarei già polvere se non avessi te ad aspettarmi. Fai sempre sorgere il sole in me… Leira…ti rendi conto di quanto sei straordinaria?
 
  La ragazza, nascondendo il volto contro il  petto dell’amico, tentò di celargli imbarazzata le lacrime. Sentì sulla fronte il tocco leggero delle labbra di lui.
 
  -    Dai, Leira…-   sorrise mettendole un dito sotto il mento –  vuoi piangere proprio adesso? Non vuoi continuare a mostrarmi la tua bellezza?
 
  Ella si asciugò il viso, lasciando che il sole la toccasse e la sollevasse da terra…
  Quale sfavillante raggio rendeva danzanti i suoi petali ?
  Mu era rapito dal modo in cui fosse maturata quella grazia perlacea di pelle vellutata, quella seduzione intensa e frondosa di capelli folti e lunghissimi.
  Il giovane immerse le sue dita in quei serici fili bruno rossicci.
  Leira gli sorrise radiosa sottolineando la propria dolcezza con le sopracciglia nere e i denti candidi.
 
  - Certo che anche tu sei…sei…- abbassò  gli occhi sotto il ventaglio delle ciglia-  diventato ancora più bello.
 
  Mu arrossì.
 
  - Mi…mi fa piacere…
 
  - Ma…quanto sono lunghi i tuoi capelli?!
 
  Leira aveva fatto voltare l’amico di spalle per ammirargli la capigliatura lilla legata all’estremità da un laccio.
 
  - Eh, sono cresciuti parecchio!
 
  - Wow!! Sono troppo belli!! Li porti sempre legati?
 
  - Beh, sì.
 
  - Su,su! Scioglili! Scioglili!
 
  - Devo scuoterli come una bella sirena?- chiese ridendo.
 
  - Scemo! Voglio vederti fiero e possente con la  chioma al vento!
 
  Mu  slegò le lunghissime liane.
 
  - Contenta adesso?
 
  - Eccome!! Sei fantastico! Ti stanno benissimo! Sembri un eroe leggendario! Mmmmh….no, forse mi pari più una divinità oppure un angelo…
 
   Leira si  dilettava a giocare con quei capelli fluenti e flessuosi.
 
  - Mu, appartieni davvero alla terra? non è che hai qualche antenato  dio o semidio? In te c’è qualcosa di strano…
 
  - Non prendermi in giro…
 
  - Dico sul serio! Avrai nel tuo sangue qualcosa di…celeste. Cos’hai di diverso rispetto ai personaggi dei miti che mi raccontavi? – sospirò ammirata-  Com’erano belle quelle storie! Ho imparato moltissimo!
 
  - Oh, Cielo- rise lui – ti ricordi ogni racconto dei miei viaggi?
 
  - Beh, ovvio! Ti saprei dire a memoria com’è l’acropoli di Atene! So tutti gli edifici e  anche di  Pericle…
 
  - Non dirmi che adesso mi vuoi anche narrare tutti i miti del Peloponneso e dell’Attica!
 
  - Pensi che io mi sia scordata  di Pelope  che sconfisse dopo una sfida coi carri re Enomao e ne sposò la figlia Ippodamia?
 
  - Accidenti!
 
  - E che dire degli ateniesi che apprezzarono di più il dono dell’ulivo di Atena,simbolo della pace, che il magnifico cavallo di Poseidone, simbolo della guerra?  Non era così che la dea divenne padrona di Atene?
 
  - Sei pazzesca!
 
  - Ora ti stupisco!
 
  - Quale magia farai ?
 
  -  “ Cantami, o Musa, l’eroe scaltro, che molto invero
  errò, poi che distrusse la sacra città di Troia,
  e di molti uomini vide le città e conobbe l’animo;
  e molte pene nel suo cuore soffrì sul mare,
  per salvare la propria vita e il ritorno dei compagni. “
 

  - Per la miseria, ma….
 
  - Ehi! Aspetta! Se non sbaglio gli altri versi erano…un attimo, un attimo…ecco!
  “ Ma nemmeno così salvò i compagni, pur bramandolo,
  perché essi perirono per la loro follia…”

 

  - Anche tu adesso divieni folle…
 
  - Zitto! “ gli stolti, che dei bovi di Elio Iperione,
  avevano mangiato: e quegli tolse loro il dì del ritorno.
  Di queste cose, o dea figlia di Zeus, racconta in parte anche a noi”.
 

   Leira concluse fiera e soddisfatta i primi versi del Proemio dell'Odissea.
  Mu aveva gli occhi sgranati e la bocca aperta.
 
  - Sei più che straordinaria!
 
  - Questo è grazie a te.
 
  - No…sei tu che sei dotata di uno spirito profondo.
 
  Alcune delle qualità  che il giovane amava di più nella fanciulla erano l’acuta sensibilità e l’intenso desiderio di apprendere.
  Leira non aveva una mente ottusa. Voleva rendere ampi gli orizzonti.
  Possedeva un cuore semplice ma colmo di fini ornamenti.
 
  - Mu, adesso sei ad Atene?
 
  - Sì, devo concludere la penultima fase dell'addestramento con i miei compagni…
 
  - Starai lontano da qui ancora per tanto?
 
  - Direi  dieci mesi…
 
  - È quella…Prova della Triade Templare di cui mi avevi parlato varie volte?
 
  -  Esatto…ti assicuro però che quando avrò superato quest’ostacolo tornerò da te e…rimarrò al villaggio per un po’ di tempo.
 
  La ragazza avvertì variopinti fiori sbocciarle dentro.
 
  - Rientrerai di nuovo nella tua vecchia casa?
 
  - Certo e riaprirò anche  la bottega di mio padre!
 
  - Che bello! Sono curiosa poi  di vedere il tuo fratellino! Era piccolino quando ve ne siete andati via…
 
  Mu pensò teneramente a Kiki.
 
  - Infatti..ora  ha quattro anni e  anche lui mi domanda di te... gli ho raccontato di una fanciulla tanto graziosa e bravissima nel fare i vestiti.
 
  Leira si strinse al ragazzo.
 
  - Mi prometti che  mi farai avere un minimo di tue notizie in questi mesi?
 
  - Naturalmente …perdonami di nuovo se mi sono dileguato così a lungo!
 
  - Scusa ma…il Maestro Sion?
 
  In effetti  l’apprendista dell'Ariete aveva adoperato il teletrasporto in modo illecito.
  Era sempre stato scrupolosamente rispettoso  riguardo le norme del Santuario…
  Milo tuttavia aveva ragione quando diceva che qualche volta bisogna  infischiarsene dei…” pallosissimi” regolamenti…
  Basta. Tre anni erano stati troppi.
  Leira era l’amore.
 
  - Non ti preoccupare – fece lui con un sorrisetto sornione – è delizioso mettere a tacere la razionalità in queste situazioni…e inoltre…ti dovevo dare questo.
 
  Mu diede all’amica un piccolo sacchetto di seta.
  Lei lo aprì: si ritrovò tra le mani un magnifico bracciale d’argento decorato con una particolare pietra azzurro-indaco e  due conchiglie bianche.
 
  - E’ bellissimo Mu! Questi colori li adoro!
 
  Lo infilò immediatamente al polso sottile, rimirandoselo felice.
 
  - L’ho fatto per il tuo compleanno. Scusa il ritardo…il ventotto settembre è passato alcuni giorni fa…
 
  - Non importa! È stupendo! Grazie! Sei davvero un artista…procurarti questi materiali…
 
  - Provengo da  una famiglia di artigiani…
 
  I due risero.

  Il tempo purtroppo iniziava a stringere.
  Leira sbuffò ricordandosi dell'ora di pranzo.

  - Devo andare… Chi la vuole sentire mia madre?!
 
  - Bisogna buttare giù dal letto  Kiki tra poco…da me saranno le quattro e mezza di mattina. Ci dobbiamo svegliare alle cinque!
 
  - Allora…ci rivedremo…
 
  - Senz’altro. Stavolta prima del previsto.
 
   La fanciulla si accinse  a prendere l’anfora da terra.
 
  - Emh…Leira?
 
  - Sì?
 
  - Puoi lasciare l’anfora sull’erba ancora un pò?
 
  Lei non ebbe tempo di chiedergli spiegazioni.
   Mu le cinse i fianchi e unì le proprie labbra alle sue.

  Fu un solo minuto.
  Un minuto di breve e lunga melodia.

  Tutto divenne eclisse.
  Tutto si sciolse.
  Il cielo, la campagna e il fiume scivolarono via come pezzi di legno inghiottiti dai vortici di un fiume.

  Fu un solo minuto.
  Un minuto in cui i respiri s’incontrarono aldilà del silenzio.

  Tutto divenne  nebulosa surreale.
  Tutto fu lampo.
  Il sole scivolò dentro due animi…
  Due bocche che si scrissero parole di cielo.

 

  Note personali: Oooooh! Finalmente con questo sottocapitolo termina Conchiglie di Storie!! Nelle ultime due parti, o meglio, in “ Cercando l’orizzonte” e all’interno di “ Le braccia del sole” ho dato spazio a dei personaggi ( mie creaturine al 100% ) lasciati in disparte nei precedenti capitoli…insomma i due disgraziati  Ohen e Nemi li avevo lasciati in balia della tempesta che segue la fuga, Leira, poveretta, dopo il cap 3 non è più uscita fuori se non indirettamente tramite i pensieri di Mu -.-
  Caspita! Desideravo chiarire e spiegare delle cose! Com’era arrivato Ohen all’omicidio del Maestro, com’aveva saputo che Nemi era la sorella ecc…( inoltre alla fine del sottocapitolo ho anche fatto entrare due nuovi misteriosi figuri che spero si capisca chi siano ;) eh!eh!eh! )
  Dopo la cupezza di “ Cercando l’orizzonte” la parte con Leira è stata un po’ più leggera, nonostante non manchino le consuete note di tristezza o malinconia… Eh, sì! Ci sono stata parecchio sulle vicende della fanciulla e del nostro protagonista ;) io adoro scrivere le scene di vita quotidiana e i momenti  teneri o romantici ! Mi auguro di non essere caduta in toni sdolcinati…va bene la dolcezza ma la cose melense no -.-
  Con “ Conchiglie di storie” ho presentato, appunto,  le storie e le fragilità dei personaggi principali che verranno approfondite piano, piano nel corso delle avventure ( nei prossimi capitoli si ritorna agli allenamenti e ai combattimenti! XD )…si sapranno cose sempre nuove e spero  non rimarrete delusi ^^
  Grazie a tutti i lettori che mi leggono, mi seguono, mi recensiscono! ^^ al prossimo aggiornamento! 
 


 

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Capitolo 11
*** CAP 6- come lame lucenti: tuoni ***


 

Note pre-lettura: salve a tutti! ^^ questo capitolo è dedicato a Shura del Capricorno. Visto che ( come viene detto  in “ Tra le rovine dell’acropoli”) il giovane non ha ancora l’Excalibur , ho dovuto creare momentaneamente due attacchi “ sostitutivi” che in futuro confluiranno nella potenza della nota spada leggendaria. Buona lettura!  


Una nave titanica, dalla corazza splendente ed argentea, arava le distese del Mediterraneo.
La Temistocle pareva sdrucire  la seta delle acque illuminate dai raggi freschi del primo mattino.
Salpato dal porto di Valencia, quel campidoglio d’acciaio adibito all’utilizzo di prove ed addestramenti,  faceva rotta verso Atene… nuotava  mansueto e silenzioso incurante dei trilli dei gabbiani  …
A poppa, tuttavia,  un turbine di tuoni si sollevava in aria.

Scintille di lampo.
Echi di lotta che saltavano impetuosi dalla bocca di una fornace.

Erano in venti contro uno.

Sul suolo sabbioso di una particolare arena circolare, un nugolo di guerrieri si scagliò contro un giovane.
Attaccarono dieci alla volta rapidi come falchi.
Lanciarono frecce di pugni, calci, tentando di colpirlo….
Nulla.

Quel ragazzo poderoso era troppo potente.
Simili a metallo, le sue braccia paravano ogni colpo.
Simili a coltelli le sue gambe vorticavano, frustando i corpi degli avversari.

Molti  combattenti piombarono violentemente per terra.
Alcuni però vollero proseguire lo scontro con  ardore.
Altri assedi. Altra raffica di grandine.

Quel ragazzo eccezionale era troppo veloce.
Si muoveva fulmineo e inafferrabile, eguale alla luce.
Sibilanti al pari delle spade, i suoi attacchi lacerarono qualunque tipo di  difesa.

Gli apprendisti erano stati sconfitti.

Shura si fermò anelando…
Si passò una mano tra gli spessi capelli bruni scomposti e impolverati…
Alto e vigoroso non vi era dubbio che fosse  cavaliere d’Atena.
Le gocce di sudore gli imperlavano il viso dal mento un po’ squadrato ma dai tratti  belli ed energici.
Scuri d’ossidiana, i suoi occhi leggermente sottili osservavano lo spazio circostante : forte come un monolite, penetrante come un ago, quello sguardo incuteva soggezione e stima…
Nero come le imperturbabili notti estive, sincero come il vento che fa respirare i prati, quello sguardo offriva abbracci di sicurezza e affetto inestimabili.

Anita adorava suo fratello.

Lo guardava ansiosa, seduta su uno dei podi del primo anello dell’arena.
Sapeva bene che tra qualche breve istante sarebbe iniziata la fase più ardua di quell’addestramento.
Era da prima che spuntasse il sole che Shura si stava allenando. Nonostante avesse  conquistato l’armatura d’oro , continuava ad essere sottoposto a prove difficoltose.
Quattordici anni, occhi d’inchiostro, zazzera di capelli mori e arruffati, la ragazzina aveva il visetto somigliante a quello del guerriero.  La sua espressione, solitamente pervasa da una grande vitalità e spigliatezza, era mossa dalla tensione.
Malgrado praticasse attività fisica,  non era portata per le arti marziali.
Le  membra magre, filiformi e  un po’ spigolose non avevano nulla a che vedere con quelle  grandi e muscolose del fratello maggiore.
Conosceva, fin da piccola, il tempestoso sentiero che egli percorreva…l’apprensione seguitava comunque ad invaderla perennemente…

I medici avevano condotto nell’infermeria i lottatori feriti.
Il campo di combattimento era stato sgombrato.

Shura attese gl’altri avversari.

Fecero ingresso sei uomini piuttosto robusti.
Avevano  più di cinquant’anni. Erano guerrieri d’argento veterani.
Tra loro uno dei Maestri d’armi più potenti: Roikhos del Minotauro, guida di Aldebaran.
Volto rude incorniciato da una barba scura, sguardo castano e intenso, fisico colossale e impressionante, quel combattente era il più temibile di tutti.

Lo scontro si preannunciava davvero pericoloso.

Il cavaliere del Capricorno si mise in posizione d’attacco.
Gli altri sei fecero lo stesso  piantando saldamente i piedi al suolo.

Pochi secondi di silenzio.
Qualche lontano grido di  gabbiano.

La terra prese a tremare.

I cavalieri d’argento si gettarono come meteore contro Shura.
Erano massicci, eppure incredibilmente lesti.
La precisione dei loro colpi si rivelò devastante.
Il giovane fu costretto a erigere una  barriera difensiva. Le sue  braccia  possedevano la solidità di una ferrea muraglia, ma  non potevano resistere in eterno…
Diversi minuti dopo   si trovò seriamente in difficoltà.
Fronteggiava quegli uomini schermandosi da ogni loro assalto. Pugno contro pugno. Calcio contro calcio. Li  fissava febbrilmente  con occhi di fiamma.

“ Maledizione! Mi stanno chiudendo! Non avrò più scampo! “ pensò.

I guerrieri stavano riducendo sempre di più le sue possibilità d’attacco.
Lo tenevano in pugno formandogli attorno  una cintura  compatta e claustrofobica.

Devo farlo immediatamente! Non ho  scelta! “

Era piegato in due. Poggiava le  ginocchia sulla sabbia.

Anita scattò in piedi  agitata .
Il fratello pareva  soccombere.
I cavalieri d’argento lo  avevano  travolto con la loro marea di pietra.

Una grande energia prese però forma. Iniziò ad incendiarsi immensa e lucente.
Aumentò in modo strabiliante.

Hurricane sword!! 

Un enorme e violento tornado scaraventò  in alto i guerrieri.
La  polvere dell’arena si sollevò in una densa coltre giallastra che non lasciò  più intravedere nulla.

Anita si coprì gli occhi e il capo.
Udiva l’ululo impetuoso  dell’uragano.
I poteri di Shura erano straordinari.

La danza di bufera si concluse.
I cavalieri d’argento caddero pesantemente.
 Il guerriero del Capricorno abbassò per un istante il braccio destro.
Si accorse che Roikhos era  l’unico avversario ad essere rimasto immobile . Le mani protese in avanti, l’uomo aveva creato un efficace scudo di protezione.

Gli ultimi granelli di sabbia svolazzanti si posarono per terra.

- Sei stato in gamba, Shura  – disse asciutto il Maestro di Aldebaran – nessun apprendista o normale guerriero sarebbe riuscito a liberarsi così rapidamente da quella morsa.

Nel frattempo gli altri  cavalieri d’argento si rialzarono.

- Vediamo se riesci ancora a stupire…

Shura allertò tutti i suoi sensi.
 
- …Great horn!!

Con un velocissimo salto mortale all’indietro, il ragazzo scansò il colpo.
Se non avesse avuto quella prontezza di riflessi si sarebbe trovato tutte le ossa  sbriciolate.

I guerrieri veterani tentarono d’investirlo con un’altra valanga di colpi.
Stavolta Shura non si lasciò serrare da alcuna cinghia.
Evitò ogni assedio balzando da un’estremità all’altra dell’arena.
Pareva un’abbagliante scheggia irraggiungibile.
Gli uomini erano esterrefatti.
Il ragazzo vanificò qualunque potere d’annientamento, gettandosi contro ognuno di loro. 
Le sue membra fendevano minacciose le barriere di difesa.
I suoi piedi  possedevano la forza micidiale di una sciabola che trapassa le carni.
I cavalieri d’argento sembravano quasi demoliti da quell’energia vulcanica…eppure continuavano a resistere tenacemente … Soprattutto Roikhos…
Era  la preoccupazione più insidiosa poiché aveva subito un esiguo  numero di ferite .

“ Devo mettere fuori  gioco gli altri!  Dopo potrò concentrarmi solo su di lui…”  rifletté Shura.

Iniziò ad espandere il proprio cosmo…

Anita sentì delle vibrazioni percorrere gli anelli dell’arena. Era come se un terremoto stesse facendo scorrere  impetuosi torrenti di furia.

Il cavaliere del Capricorno stava accumulando un enorme  flusso di luce.
Le scosse che percuotevano la terra erano divenute intensissime.

- Earth  blades!!

Delle lame invisibili schizzarono dal terreno.
Somiglianti a  gaiser di sabbia travolsero in pieno i guerrieri d’argento scaraventandoli in aria e gettandoli  in una voragine creata dal suolo.

Essi giacquero inermi nella gola.

Anita sapeva che l’effetto di quell’incantesimo si sarebbe dissolto…
Dopo alcuni minuti il crepaccio infatti scomparve…

Come aveva previsto Shura , Roikhos era riuscito a scongiurare l’effetto delle lame della terra.

- Davvero interessante questa  tecnica -  ammise l’uomo -  sarà efficace però contro quello che sto per lanciarti?

Il ragazzo aggrottò la fronte.
Nonostante fuori fosse rimasto freddo, dentro in realtà era invaso dall’ansia.
Il cuore gli martellava per via dello sforzo fisico e della tensione.
 
Quale sarebbe stata la prossima mossa di Roikhos?

Il cavaliere vide l’avversario tendere le braccia al cielo.
Un’aurea rossastra gli si concentrò nelle mani.
Una strana nebbia cominciò a levarsi.

Anita, attonita, osservò l’arena dissolversi.
Quel nugolo di polvere grigia era più spesso dell’effetto dell’hurricane  sword.

Un’atmosfera irreale si versò nel campo d’addestramento.

Shura roteava lo sguardo a destra e a sinistra.
Temeva di aver perso la vista talmente era divenuto denso il manto nebbioso.

Labirinto di Minosse!! -  gridò  il Maestro.

Un terribile  boato fece tremare vertiginosamente la poppa della nave.
Elevate pareti di pietra si eressero verso il  cielo.

Era apparso un grande labirinto.

Il guerriero del Capricorno serrò le mascelle. “ C’era d’ aspettarselo quest’incantesimo! È uno dei più letali del Maestro Roikhos! Mette in trappola il nemico senza lasciargli usare i suoi attacchi…l’hurricane sword e l’earth  blades non serviranno a niente!! “

Minotaur’s wind!!  

Una lingua di fiamma enorme si diresse verso il giovane che si lanciò in una corsa frenetica.
Si tuffò nei meandri di quella matassa di corridoi confusionaria e ipnotica.
Muri, muri, muri.
Pareti che si aprivano e illudevano.
Pareti che sembravano condurre verso la via d’uscita e che poi piombavano in altri sentieri più angusti che mai.

Shura dovette comportarsi come un topo. Per interminabili istanti fu costretto a fuggire dai minotaur’s wind   alla cieca.
Si rischiava  di perdere il senno.

Il ragazzo era in  preda alla collera e a  nauseanti capogiri.

“ Diamine! Dev’esserci una soluzione! Sto scappando come un cretino senza combinare nulla! “

Il potere delle mura del labirinto  annichiliva ogni tecnica d’annientamento.
Shura, inoltre, non riusciva a percepire con chiarezza il cosmo di Roikhos. Non capiva da dove provenissero   i suoi colpi.

- Fire horn!!

Il ragazzo fu investito in pieno da una colonna di fuoco acuminata.
L’impatto avvenne talmente forte che perse subito i sensi…

Calò rapidissimo il buio. ..

Nessun dolore ardente.
Niente.
Successe tutto in un attimo troppo breve.

Anita intanto correva convulsamente da una parte all’altra del cerchio dell’arena per scorgere il fratello.
La nebbia seguitava a galleggiare fastidiosa.
Si udivano soltanto  rumori.
La ragazzina salì i gradini dei posti più alti per vedere se riusciva ad ottenere una postazione migliore.
Inutile.

Shura riaprì gli occhi neri.

Mise a fuoco lo spazio dinanzi a sé : era sdraiato nel bel mezzo di un piazzale circolare.
Con i muscoli indolenziti si alzò in piedi. 

- Ti trovi nel centro del labirinto – gli rivelò Roikhos alle sue spalle – siamo quasi giunti alla fine…

Nonostante  la morsa della stanchezza , il giovane si voltò verso l’uomo in posizione dall’allerta.

- Sarai abile come Teseo?

- Farò il tutto per tutto.

- Prova a parare questi, …steal meteors!!

Una micidiale pioggia di pugni si abbatté su Shura.
Non aveva mai visto una scarica di colpi così massiccia ed eccezionalmente veloce.
Riuscì a stento a tenersi a riparo.
 Indietreggiava continuamente…quella soffocante tempesta di meteoriti gli rendeva impossibile qualunque azione d’offesa.
Roikhos riuscì a scagliarlo in aria.
Il cavaliere del Capricorno atterrò  bruscamente sul terreno.
L’uomo avanzò per compiere l’ultimo attacco.

“ Devo alzarmi e trovare un cavolo di modo per batterlo! “ pensò inquieto il ragazzo mettendosi in ginocchio.

Roikhos iniziò ad elevare le fiamme del suo cosmo.

Se non posso usare l’hurricane sword e l’earth  blades…non rimane che quello! “

Il Maestro sollevò le mani.

“ Sì..mi lascerò travolgere dal suo colpo!! “

Al limite dello stremo il giovane fu in grado di raccogliere  la potenza rimastagli.
Si drizzò in piedi completamente.

Il guerriero d’argento gridò:
 
Minotaur’s rage!!

In un primo istante una grandissima ondata scarlatta parve divorare Shura…
Un lampo di luce lo inghiottì.

Roikhos si convinse in un primo momento del successo del proprio colpo.

Dovette tuttavia immediatamente ricredersi.
Enorme fu il suo stupore.

Vide che  il ragazzo  conteneva con le braccia quel cumulo d’energia devastante.

Jumping stone!!
 
Con  forza  sovrumana, spiccò un salto e respinse il minotaur’s rage.

Alla velocità della luce, Shura  sfruttò l’intensità dell'incantesimo di Roikhos per porre fine al duello.

Come se fosse stato schiacciato da una pietra, l’uomo sbatté contro una delle pareti dell’arena sfondandola.

Il labirinto di Minosse svanì con la nebbia grigia…

La seconda fase dell'addestramento era stata ultimata.

Giunsero gli infermieri  a medicare i cavalieri d’argento.

Shura corse verso Roikhos per aiutarlo ad alzarsi.

- Come vi sentite, Maestro ? -  domandò afferrandolo per una mano.

- Beh…mi complimento con te, Shura! Mi hai stordito abbastanza! – gli sorrise l’uomo mentre si levava in piedi.

- E’ stato un vero onore avervi come  supervisore in questa prova.

- La Maestra Dora ha insistito che io partecipassi all’ addestramento, qui sulla Temistocle…come poter contraddire quella donna? – rise Roikhos – è una mia vecchia amica, non volevo certo deluderla! Inoltre…ero davvero curioso di esaminare le tue  tecniche da vicino! Non ho dubbi che tu sia cavaliere d’oro.

- Non vi è dubbio che  siate Maestro d’Aldebaran! – sorrise Shura.

- Quel ragazzo…a volte mi ha fatto perdere la pazienza però…è dotato di grande valore e forza…sono molto orgoglioso di lui…ha affrontato prove durissime con umiltà e tenendo  la testa alta…non lo ha fatto solo negli addestramenti ma anche nella sua vita con i propri cari.

Shura comprese perfettamente tali parole. Sapeva che Aldebaran apparteneva ad una povera famiglia di contadini nativa di Santarém, un paese del Brasile che s’affacciava su uno degli affluenti del Rio Amazzonico.
Nutriva una sincera stima nei confronti del guerriero del Toro. Si chiedeva in che modo riuscisse ad essere così  solare ed ottimista con una problematica situazione alle spalle…nei suoi occhi marroni e frizzanti  non v’annegava alcuna cieca incoscienza…qualcosa di più sfolgorante v’ albeggiava perpetuo: l’orgoglio di saper vedere acque pure e fresche, l’orgoglio di cercare sempre una barca su cui navigare senza subire il tocco della compassione.
Aldebaran non si lasciava avvolgere dal vittimismo. Voleva correre verso l’estate per se stesso e soprattutto per i genitori e i  fratelli piccoli…era come se conoscesse le locande in cui alloggia la speranza.
 
- Shura!!

Il giovane si voltò e  vide Anita saltargli addosso ed abbracciarlo forte.

- Ehi, sorellina!- rise – guarda che sono lercio e puzzo come un capra!

- Tranquillo! Credi che io sia  disabituata a soffrire il tuo odore di stalla?

- Oh, scimmia! Attenta a non mischiarmi i tuoi pidocchietti!

- Cretino!!

La ragazzina provò a colpirgli l’ampio torace , ma lui la strinse a sé  stampandole un bacio sulla guancia.
Anita avvolse le  braccia attorno al suo collo.
Roikhos fissò divertito quegli allegri e dolci gesti d’affetto.
Accorgendosi di essere al centro dell’attenzione,  la fanciulla si staccò imbarazzata dal fratello e s’inchinò rispettosamente dinanzi al guerriero.

- Maestro Roikhos! Scusate! È che…ero presa…dall’entusiasmo…ho avuto una gran paura prima…

- Ah!ah!ah! Non ti preoccupare piccola! E’ più che lecito che tu possa travolgere d’abbracci tuo fratello…con quello che è successo…

Shura scompigliò i capelli della sorella.

- Mi fai sempre venire degli infarti! – lo rimproverò.

- Su! Lo sai fin troppo bene che il pericolo è il mio mestiere…

- Ah! Certo! Gran bel mestiere rischiare di spaccarsi le vertebre e la testa!

- Anita, dai…

- È inutile che fai  il gran pezzo di guerriero che prende tutto sotto gamba!

- Sono un cavaliere d’Atena e…

- Sei anche mio fratello!!

- Shura.

I tre si volsero alle loro spalle.

Una sacerdotessa guerriero ,dalla maschera rilucente e bronzea,  stava osservando la scena.
Il suo capo era ornato da una chioma di capelli castani  raccolti in una treccia spartana…una frangia scomposta e disordinata e qualche ciuffo di capelli indomito si lasciavano scuotere dalle dita del vento…
Braccia conserte, portamento grave.
Di media statura, quella donna era dotata di un fisico slanciato, atletico e forte. Aveva quarantacinque anni ma era più abile ed energica di un’ adolescente.
 Corazza di cuoio che proteggeva il petto,bracciali d’acciaio che ornavano i polsi, pantaloni e stivali che risaltavano le gambe toniche, Dora della Lince era simile ad una valchiria.

- Maestra…- mormorò il guerriero del Capricorno.

- Tra un quarto d’ora ci affronteremo qui – fece bruscamente lei –bisogna  portare a termine l’ultima fase di quest’addestramento ed evitare errori. Non puoi adagiarti sugli allori.

- Sì…- rispose serio l’allievo.

- Quando  Roikhos ti ha rinchiuso nel Labirinto di Minosse sei andato nel panico. Ho percepito dell’instabilità nel tuo cosmo e ciò non mi ha tranquillizzata … Sei diventato cavaliere d’oro…Ricordati che  non sei più apprendista come prima! Smacchi del genere non te li puoi permettere in questa fase decisiva!

- Avete ragione…il fatto è che…quell’incantesimo mi mandato in crisi per alcuni attimi  …

- Shura, mi pare di averti insegnato che la paura è sì utile, ma solo se la congeli e la guardi davanti a te. Prudenza e freddezza. Devi osservare il pericolo e dominarti…perché non hai usato prima lo jumping stone ? perché soprattutto non sei riuscito ad attivare in modo efficace il tuo settimo senso?!

Il giovane strinse i denti. La Maestra  diceva la verità.  Se fosse riuscito a compiere quell’azione avrebbe individuato il cosmo di Roikhos in un minor dispendio di minuti ed energie…

- Vi assicuro che la prossima volta non commetterò una simile sciocchezza – affermò  deciso con gli occhi neri divenuti più penetranti.

- Me lo auguro. Nel prossimo duello non sarò affatto indulgente. Se il Gran Sacerdote ti dovrà donare in nome di Atena l’Excalibur, dovrai mostrarti degno di tale onore. Nessun fallimento, intesi?

Anita deglutì  spaventata a quel discorso…azzardò con voce timida e un po’ tremula:

- Emh…Maestra Dora?

La donna  si voltò verso di lei in silenzio.

- beh…ecco…desideravo dire che…Shura  è stato d-davvero in gamba…insomma ha sconfitto venti apprendisti…poi…poi…

  Dora continuava ad ascoltarla muta e immobile.
  Era inquietante con la maschera bronzea che  celava ogni moto d’espressione.

- Poi è riuscito a mettere a tappeto quei cinque guerrieri d’argento e…e…in fin dei conti ce l’ha fatta a liberarsi dal Labirinto di Minosse…mio fratello sta superando ogni ostacolo, si allena ininterrottamente e quindi…magari sarà la stanchezza a fargli fare qualche piccolo errore…

- Oh, sorella…- sospirò il cavaliere scuotendo il capo.

- Maestra …Shura è pur sempre un essere umano…

- Anita – la interruppe con tono secco Dora.

 La ragazzina non provò ad aggiungere altro.

- Quattro giri di corsa da poppa a prua. Muoviti!

Il tono gelido ma leggermente alterato della donna la fece partire fulminea.
Shura  si unì a lei per praticare un pò d’esercizio ante - scontro.

- Sei proprio una lince, Dora – disse Roikhos con un lieve sorriso.

- Mi attengo al protocollo del Santuario. Siamo Maestri. Lo sai meglio di me quali sono le regole.

- Non hai torto. È inutile stare a discutere di questo. Con Aldebaran mi è capitato innumerevoli volte di essere drastico…

L’uomo assunse un’espressione  abbattuta.
Dora comprendeva che oltre che a mettere alla prova, un insegnante veniva soggiogato a sua volta dal fardello delle norme, delle responsabilità, della rinuncia…
Si soffocavano i gemiti dell’animo sotto un panno bagnato di sensi di colpa …
Lo sguardo doveva cibarsi di spine di pietra se si desiderava fulminare l’allievo barcollante d’incertezza…

- Roikhos…non voglio che Shura, dopo tutta la strada che è riuscito a costruirsi, vada in frantumi.

- Sono sicuro che non accadrà. Ha te come Maestra. Gli hai dato e continui a dargli sostegno…so bene che ti piace stare dentro la tua foresta  ma so pure che provi grande affetto verso lui e sua sorella.

Dora si sentiva leggermente a disagio quando l’amico le ricordava la capanna in cui si nascondeva. Era come se le stesse prelevando da un cassetto un manufatto bello e prezioso ostinatamente tenuto nell’ombra. 

- beh…sono trascorsi quattordici anni…- mormorò lei celando un po’ d’esitazione dentro un tono grave.

- Caspita, è vero…mi ricordo quel giorno in cui il Gran Sacerdote ti disse che saresti stata la Maestra del futuro cavaliere del Capricorno.

- Sì..sono stata costretta a trasferirmi in Spagna…

- Il tuo entusiasmo era alle stelle! Sembravi più nera del carbone! – rise Roikhos.

- Già. Sapere di vedermela con due bambini piccoli...

- In effetti a quell’epoca addestravi ragazzi e ragazze adolescenti.

- La faccenda mi aveva alquanto sconvolta.

Un anziano medico coi baffetti bianchi si avvicinò a Roikhos.

- Scusate  Maestro, è necessario che mi seguiate in infermeria per una visita di controllo.

- Dottore, non c’è nulla di cui preoccuparsi…sto benissimo. Mi sono procurato dei lividi, dei graffi…sciocchezzuole, insomma…

Il piccolo signore tossì un attimo.

- Maestro  Roikhos, vi faccio presente che l’urto contro la parete dell’arena non è stato così leggero.

- Suvvia! Sono alto due metri, peso centotrenta chili, ho cinquantasei anni e di batoste ne ho subite parecchie! Oramai ho la pellaccia di un rinoceronte! Vi sembro un povero disgraziato in fin di vita?!

- Insisto che vi sottoponiate a dei controlli  e  a delle cure allo stesso modo dei vostri colleghi.

- Vi ripeto che le mie condizioni non sono assolutamente allarmanti!

- Siete pregato di raggiungere l’ ambulatorio. Ora.

Roikhos sbuffò rassegnato.

- A dopo, Dora.

Con passo pesante e scocciato il colosso seguì l’impertinente omino in camice nell’ala dell’infermeria  situata sottocoperta.

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Capitolo 12
*** CAP 6- come lame lucenti: Dora ***


 

Dora salì sul ponte della nave…
Osservò  Shura e Anita che stavano correndo lungo il perimetro della Temistocle.
Nel  fendere le sottane invisibili del vento, ridevano e scherzavano…la ragazza tentava di superare il fratello che  rallentava o fingeva di inciampare per  poi  riprendere a schizzare via come un proiettile.
I loro capelli neri, irradiati dal sole mattutino, sfolgoravano al pari dei sorrisi. Mancavano delle ore a mezzogiorno e il calore pareva  un pescatore ebbro che si dondolava ancora sonnolento e privo di vigore.
La Maestra posò gli avambracci sulla bianca ringhiera del ponte…


Giugno cantava le foglie  e i diamanti estivi.
Il cielo dormicchiava nel suo turchese silenzio denudato da qualunque nuvola.
I pettirossi e i passerotti saltellavano tra le dita dei pini ornate di smeraldini aculei.
Qualche gazza ladra strascicava la sua coda sul soffice prato in cerca di cibo.
Merli dai vivaci becchi arancioni volavano con allegra pigrizia dall’erba alle fronde degli alberi.
Quel collegio di Bilbao aveva un grande giardino pulsante di calma e verde vita.
Era un bel palazzo moderno, pulito ed efficientemente organizzato. Vi erano infermiere che assistevano i bambini piccolissimi, educatori ed operatori sociali. L’interno della struttura era costituito dall’ala dei dormitori, dal refettorio e dall’infermeria comunicanti con un’area adibita alle aule d’insegnamento.
Nell’ampia sala d’aspetto , illuminata da vetrate che davano sul cortile, una donna sui trent’anni camminava avanti e indietro.
Nonostante la  splendida giornata si sentiva  una nube carica di pioggia.
Di umore  nero, Dora pensava alla nuova avventura che l’attendeva. Il bel viso dalla mascella leggermente squadrata mostrava una bocca fine e serrata.
 Irritata per il viaggio sfiancante intrapreso per arrivare in Spagna, non aveva ancora realizzato  il fatto che si sarebbe dovuta occupare dell’addestramento di un cavaliere d’oro… In effetti  era un po’ minacciosa con i capelli sciolti e indomiti, una giacca grigia di jeans, dei pantaloni neri e degli occhiali scuri.
I rumori dei suoi  stivaletti leggeri color inchiostro echeggiavano seccamente tra le mura della sala.
Dora non sembrava proprio una  giovane desiderosa d’adottare  bambini.
Alcune addette alle pulizie la guardavano intimorite.

- Signorina Dora Aristokidos. – la chiamò la direttrice del collegio.

- Posso vedere i bambini?

- Certo. Seguite la responsabile del reparto infermeria. Vi farà conoscere Shura e Anita Fernandez.

La  donna venne guidata dall’anziana signora sui vialetti di ghiaia che percorrevano il giardino dell'immenso edificio.
Diversi gruppi di bambini giocavano sotto gli occhi vigili delle insegnanti d'asilo e dell'elementari.
In una zona  più tranquilla, sotto un gazebo di legno ornato di fiori di glicine, Dora scorse un gruppetto di tre persone assiso su una panca di pietra: un’infermiera stava dando il latte ad una piccina di sedici mesi che veniva osservata attentamente dal fratellino di quattro anni e mezzo.

- Voglio farlo io! Voglio farlo io!- esclamò il piccolo  tendendo le braccine verso la sorella.

- Va bene…- gli  rispose l’infermiera dolcemente – stai attento, mi raccomando…

Gli adagiò delicatamente in grembo la piccola che lui prese con sorprendente sicurezza mettendole in bocca il biberon.
Più Dora si avvicinava al palcoscenico di quel quadretto, più si lasciava stranamente incantare…
Il  malumore pareva sbiadire i  cupi colori  sotto i raggi di una stella…
Con l’ anziana donna, la guerriera  salì i tre bassi gradini del chiosco e contemplò da vicino quella coppia di  bimbi.
Il maschietto sollevò la sua spinosa testa di capelli bruni cominciando ad osservarla…
Aveva due occhi neri che sembravano  splendere di qualche particolare riflesso verde…
Sul  suo faccino paffutello era sorta un’espressione  curiosa eppure seria e  penetrante.
Dora non rimase indifferente nello studiare quello sguardo che la leggeva e l’esplorava con fare indagatore e vagamente diffidente…si accorse che il bambino strinse un po’ più forte a sé la sorellina come se la volesse proteggere da chissà quale nube…

- Signorina Dora – disse sorridendo la responsabile dell’infermeria – questi sono Shura e Anita…si trovano qui  da sette mesi…

La giovane non sapeva come rivolgersi…non era abituata a trascorrere del tempo con i bambini…lei addestrava apprendisti già adolescenti…l’universo delle tenerezze puerili non le apparteneva.

- Ciao Shura – fece tentando di rendere il suo tono di voce il meno severo possibile…
non era stata un gran maniera di porsi ma d’altronde bisogna pur rompere il ghiaccio…

- Sarai la nostra nuova mamma signorina Dora?- chiese a bruciapelo Shura  speranzoso e  scettico.

La donna venne  presa in contropiede. Non poteva rivelare proprio in quel momento che non sarebbe stata sua madre  ma  bensì la sua Maestra d’Armi.
Bel problema.
Era necessario tuttavia temporaneamente mentire…l’unica soluzione. Che altro? Dora avvertì una stretta al cuore poiché detestava le bugie…andava contro la propria natura…
Quando Anita finì di succhiare il biberon e voltò  la  testolina mora verso di lei, si sentì  trafiggere da una spina invisibile…
Alla fine rispose con fastidioso sforzo:

- Sì…sarò…la vostra mamma. Andremo a stare tutti insieme a Pasaia.

- Dov’è? – domandò Shura inarcando le sopracciglia scure.

- È un paesino sull’oceano a tre ore da qui. Saremo però anche vicini alle montagne.

- Vuoi dire…che saremo vicini ai Pirenei? Ce li  ho  su un libro!Sono giganteschi!!

- Esatto…

 Dora si sentiva sempre più sprofondare…Shura non sapeva ancora che il freddo di quella catena montuosa sarebbe stato   il teatro di durissimi allenamenti…

- Signorina…- mormorò il bambino corrugando un po’ la fronte –  ci porterai davvero con te?

- Ma certo - fece perplessa Dora.

- Lo farai davvero davvero ?

- Ti ho già detto di sì.

- Ce lo prometti?

- Sì! Guarda che oggi pomeriggio ce ne andremo di qui.

- Oh! Va bene – disse Shura con un sorriso di piacevole stupore-  dovrò prendere tutta la nostra roba!

- Sarà meglio che dopo  andiamo a fare il bagnetto ad Anita – fece l’infermiera giovane al bambino.

- I capelli glieli lavo io!

Mentre Shura parlava animatamente con la ragazza, Dora si volse  verso la responsabile.

- Prima il bambino è stato…un po’ insistente con le domande…qualche cosa lo preoccupa?

- Sapete signorina – sussurrò l’anziana – dopo che hanno perso la madre, Shura e Anita sono stati condotti qui dal… padre.

Qualche minuto di silenzio.

- Non si è voluto prendere cura di loro? – domandò piano Dora.

- No…li ha lasciati senza farsi più vivo. Non pareva  gli stessero a cuore …da quel poco che sappiamo, tra lui e la moglie correvano cattivi rapporti… “ Fernandez” non è il cognome paterno e…  nei  disegni di Shura ci sono  solo la mamma e la sorellina.

- Capisco…

Dora guardò Shura che baciava sulla guancia Anita  cullandola giocosamente.

- E’ davvero  affettuoso e intelligentissimo- sorrise la responsabile- controlla me e le altre infermiere che diamo da mangiare alla sua Anita! Parecchie volte vuole occuparsi lui di nutrirla, cambiarla e lavarla! Ah!ah!ah!Già desidera assumersi le proprie responsabilità! Non ho mai visto un bambino così eccezionale.

La signora aveva più che ragione.
La guerriera percepiva realmente in lui qualche cosa di straordinariamente diverso.
Poteva già cogliere un’aurea luminosa…una fonte brillante ed intensa…
Il cosmo di un cavaliere.

Durante il pomeriggio, dopo il conseguimento delle faccende burocratiche riguardanti il contratto d’adozione, Dora e i bambini attesero una corriera.
Sarebbero andati  nell’albergo in cui era alloggiata la guerriera per gli ultimi bagagli e  successivamente si sarebbero  fiondati  in stazione per raggiungere Pasaia.
Sotto la pensilina del bus, la giovane aveva in braccio Anita che ridacchiava giocherellando coi suoi capelli e dandole degli schiaffetti sul viso.
Sbuffando cercava di tenerla a bada, ma la piccola si divertiva più di prima…
Shura  pensieroso  fissava per terra.

- Che hai?Va tutto bene? – gli chiese Dora.

- Io…non ti ho detto una cosa…

- Dimmela,allora.

- E’ un segreto…a nessuno l’ho mai raccontato.

- Me lo vuoi far sapere?

- Sì…però non mi vedere male... Io faccio cose strane.

Il bimbo si guardò  intorno con fare circospetto…
A  quell’ora del pomeriggio  non vi erano persone che formicolavano per le strade.
A poca distanza dalla fermata dell’autubus si trovavano dei cassonetti dell’immondizia circondati da sacchetti abbandonati per terra e  da  mobili sfasciati e vecchi.
Shura , seguito da Dora,  si avvicinò ad una poltrona sgangherata.

- Guarda.

Protese il braccio destro verso l’alto.
Con rapida precisione  lo calò poi  sulla poltrona che venne tagliata in due parti.
Ripeté la stessa azione con un comodino privo di cassetti.
Nel vedere quelle dimostrazioni di abilità, Dora non rimase stupita.
Sorrise compiaciuta.
Non aveva mai nutrito dubbi sull’energia che sprigionava lo spirito di Shura.
Ciò che si era svolto dinanzi ai suoi occhi altro non era che una conferma.

- Ma…- balbettò il bambino – non…ti sei…spaventata? Non…mi vedi…strano?

La guerriera  rise lievemente.

- Shura… io e te siamo uguali.

Fulminea spaccò a metà una panca d’acciaio che le stava accanto.
Shura rimase  a bocca aperta con gli occhi tondi tondi.

- Anch’ io devo dirti  una cosa, piccolo…

Venne fissata con sguardo confuso.

- Non farò da  madre a te e ad Anita. Sono una guerriera.

Il bambino  rimase  allibito:  si sentiva smarrito e ansioso.

- Tu…tu… ci lascerai?!

- Assolutamente no. Stai tranquillo...ti ho già detto che tu e Anita starete con me.

- Se non sarai la nostra mamma allora…

- Sono la tua Maestra. T’insegnerò a combattere e proteggerò anche tua sorella.

- Cosa?! N-non non capisco…perché…devo combattere?Che..che vuol dire?

Dora sospirò.
Anita parve fissarla col medesimo sbigottimento del fratello.

- E’ difficile da spiegare Shura…è una storia lunga…tu…non avrai una vita come quella degli altri bambini. Sei diverso dagli altri… molto diverso.

Il bimbo pendeva dalle sue labbra shoccato e più spaesato di prima.
Non riusciva a comprendere nulla.

- Tu…dovrai diventare  cavaliere.

Le prime parole di granito si versarono sul destino di Shura. Un destino ancora  piccolo come un falchetto incapace di volare…un destino ancora tenero  come un cucciolo di tigre timoroso di gettarsi  negli occhi di jungla dell’universo.

 

I colori di tempera mediterranei si specchiavano vanitosi sui fianchi della Temistocle.

“ Shura…Anita… siete piombati nei programmi di una che ha fatto di tutto per non aver tra i piedi marito e soprattutto mocciosi…avevo disegnato il mio piccolo progetto con così tanta cura per continuare a realizzarmi come guerriera e invece…ecco. Ecco la vostra apparizione… credo di non essere dotata di istinto materno…coi bimbetti non faccio moine, non sono un cuore  di miele… da ragazza non mi fregava molto la prospettiva di farmi una famiglia. E’   servire Atena con le mie forze la cosa che mi ha sempre interessato... mia sorella Eirene…beh, lei all’inizio pareva  volesse emularmi ma poi…è cascata.”

Dietro la maschera Dora lasciò che sul  viso le si dipingesse uno sguardo dolce e duro al tempo stesso. 

 “ Si… è davvero cascata in pieno. Si è innamorata dell’uomo sbagliato, è rimasta incinta, ed è stata abbandonata. E io che le dicevo  che non valeva la pena rinunciare ad un’eccellente carriera di sacerdotessa  per un bastardo come quello… mi ha fatto imbestialire…beh, comunque l’ho invidiata e adorata tanto. È stata una mamma meravigliosa. Mi faceva sentire terribilmente debole. Mi faceva sentire terribilmente sterile…In che modo stava riuscendo ad allevare un figlio? In fin dei conti mi vedevo codarda…che ingiustizia… Eirene non si meritava una sorte simile…no…a lei non doveva succedere…”

La donna strinse la ringhiera con un misto di rabbia e tristezza.

“ Il suo  bambino…tutto per una dannata malattia…è ritornata  a indossare la maschera e a far seccare ogni lacrima  nel gelo della Russia… è stata però messa di nuovo alla prova. È arrivato Camus.  Quel piccolo francese rimasto senza madre…che strano destino…”

Dora fissò i mucchietti  candidi delle nuvole d’ovatta all’orizzonte.

All’inizio hai vacillato molte volte, Eirene…hai desiderato vedere quel bimbo come…tuo figlio. Non hai potuto farlo…Hai capito che devi essere la sua Maestra. Non puoi riesumare ciò che è sparito…è dura…lui adesso dovrà conquistare l’armatura d’oro dell’Acquario…devi permettere che si plasmi un  cavaliere non…un tuo amore.”

Si passò una mano sulla frangia.

“Spero di vederti al più presto sorella…perché non ti  ho  ringraziata abbastanza…perché mi hai fatto capire che è stata una fortuna che Shura ed Anita abbiano stravolto le carte originali dei miei piani.”


Note personali: scusate se ho aggiornato un po’ in ritardo! -.- il fatto è che mi ero messa a scrivere “ i respiri del tramonto” ( one-shot che desideravo ardentemente stendere) e poi ho dovuto dare un esame importante. Finalmente sono tornata XD spero che questo capitolo vi stia piacendo! La terza parte spero di inserirla in meno di quattro settimane! Ci tenevo a parlare di Shura e della sua compagnia! Mi si è presentata questa buona occasione ed è stata ostica…il combattimento dell’inizio, poi di nuovo le parti di dialogo e introspezione -.- mi auguro di aver fatto qualche cosa di decente e di non essere andata troppo OOC con Shura XD Volevo mostrarlo anche sotto un punto di vista più dolce e famigliare….lui è un temibile guerriero tutto d’un pezzo però…penso che bisogna creare più sfaccettature ;)
( le località spagnole di Bilbao e Pasaia, situate sulla costa occidentale, le ho scelte poiché sono vicine sul versante settentrionale dei Pirenei…Pasaia specialmente è quasi attaccata ;) ) 
Spero che questa prima parte del cap 6 vi sia piaciuta e che abbiate apprezzato anche gli altri personaggi di mia pura invenzione! Ci tenevo molto a presentare Anita, Dora e Roikhos…
Beh, al secondo tempo col duello tra Shura e la Maestra! ^^ ( ci saranno sempre nuove cose da dire…eh!eh!eh! )
Ringrazio, come al solito, tutti i lettori che seguono, leggono e hanno voglia di recensire questa storia!! ^^


 

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Capitolo 13
*** CAP 6- come lame lucenti: le zanne della lince ***


 

Sull’albero maestro della Temistocle, la bandiera ateniese con l’effige della civetta si dimenava freneticamente.
Un pingue cirro bianco oscurò il sole.
Lo splendore di zaffiro marino s’ opacizzò.

I colori parvero calare leggermente le palpebre.

La maschera bronzea di Dora rimaneva fulgida.
Gli occhi carbone di Shura rimanevano fulgidi.

Maestra e allievo si fronteggiavano sul terreno secco e sgretolante dell’arena…

Stavolta i podi di quell’ anfiteatro erano gremiti di apprendisti e guerrieri veterani.
Anita e Roikhos si trovavano fianco a fianco nei primi posti…

Nessuno osava fiatare…

L’atmosfera di quello scontro era impregnata di deferenza e gravità.

Dora e Shura si misero in posizione d’attacco…

Solo il fruscio del ventre della nave sulle onde  spumeggiava l’aria…

L’impercettibile rumore dei granelli di sabbia sollevati.

Shura si lanciò rapidamente all’assedio brandendo il braccio destro come spada.
Dora gli  parò senza alcuna fatica il colpo.

Era straordinaria. Aveva una potenza fisica che eguagliava quella d’ un uomo.
Le erano occorsi parecchi anni per sviluppare una forza simile.

Respinse l’allievo con un tremendo pugno nell’addome.

Il ragazzo si trovò proiettato  all’indietro.
Non osò però cadere.
Incassò il colpo piantando i piedi sul terreno e sollevando un nugolo di polvere.

Si gettò nuovamente contro la Maestra.

Ebbe inizio un valzer di lame.
Si udivano rimbombi metallici.
Echi di sciabole stridenti .

Le braccia di Dora e Shura  si scontravano emettendo scintille.
Le loro ossa sembravano fatte di lega di ferro.
I loro muscoli  erano taglienti e letali.

Anita era intimorita e affascinata da quel duello.
Suo fratello e la sacerdotessa possedevano la coriacea pesantezza dei guerrieri medioevali e l’elegante velocità dei  samurai. 

Katane che s’intrecciavano, tentavano d’affondare, schermavano colpi…

Nessuna delle due antagoniste riusciva a demolire la lucentezza dell’altra.
Erano pari nella precisione e nella robustezza.

Rimanevano in bilico sul dorso di un rasoio.
Si respinsero.

Dora saltando spiccò una verticale all’indietro.

- Forest fang!!

Un’enorme zanna dai riverberi arborei tentò di falciare la difesa di Shura.

- Earth blades!!

Le lame della terra si eressero verso il cielo formando una barriera di colonne di sabbia.
Sabbia di titanio.
Sabbia impenetrabile.
Il giovane fece arretrare il coltello della Maestra.
Ella però continuò ad assediarlo.


- Incredibile! – esclamò Anita – la Maestra riesce a muovere la sua lama in varie direzioni!

- Sta proprio qui la sua temibile abilità! – disse Roikhos – Adopera uno stesso attacco in modi differenti!

La sacerdotessa lanciava la forest fang come un boomerang.
Ogni volta che  ritornava indietro  le dava una traiettoria diversa.
Shura volava da una parte all’altra dell’arena per allontanarla.

Dora riuscì ad abbattergli una delle lamine-barriera.
La fortezza declinò come un castello di carta.

Il cavaliere del Capricorno, ripartì  alla carica con folgorante immediatezza.

- Hurricane sword!!

Esplose il tornado ma la guerriera restò ancorata saldamente al suolo.
Solo i capelli le si sciolsero simili ad una mareggiata castana…
Rinchiudendosi in un’enorme sfera, iniziò a plasmare un nuovo incantesimo.

Bene! “ comprese Shura “ tempesta contro tempesta!”

Dora piroettò con la testa  e le braccia  in giù  muovendo le gambe a mulinello.

Linx storm!!

La sfera d’energia si ruppe sprigionando un’ondata di ciclone che si scontrò con quella avversaria.

Nell’arena regnò il caos più totale.
Non si capì nulla.
Tutti gli spettatori tentarono di ripararsi.
Il Maestro di Aldebaran fece da scudo ad Anita.

- Beh, le previsioni di oggi c’hanno azzeccato – osservò scherzoso – sereno variabile!!

Shura condensò tra le mani la potenza del linx storm.

Jumping stone!! – urlò sollevandosi in alto.

Dora vide il proprio attacco sovrastarla ma lo ridusse tempestivamente in un’inoffensiva pioggia di gocce argentee.

Le bufere si dileguarono  dal campo di battaglia…

Maestra e allievo si studiarono per alcuni secondi  alle due estremità del ring.

In silenzio camminavano  lentamente…

I battiti dei respiri erano accelerati ma non si piegavano alla fatica.

Qualche briciola d’attesa…

Dora scattò in aria roteando come una libellula.

Iron leafs!!

Puntando l’indice destro dinanzi a sé,  fece sgorgare un turbine di foglie metalliche acuminate.

Si udirono  sinistri sibili che squarciarono l’aria…

Shura, saettando alla velocità della luce, evitò quegli artigli mortali e balzò contro la sacerdotessa tentando di colpirla col braccio.
Ella si scansò più invisibile del suono.

Il ragazzo si accorse che s’era trasportata sulla sommità dell’albero maestro della nave.
La vide poi piovergli addosso come un falco pellegrino.

La pista delle danze si spostò fuori il cerchio dell’arena. 

Anita tentava di seguire con lo sguardo i movimenti della sacerdotessa e del fratello.
Era in grado di vederli a mala pena.
I due guerrieri erano talmente svelti che schizzavano da una parte all’altra della Temistocle somiglianti a stelle cadenti.
Sul ponte o sui corrimani la musica delle spade perpetuò il suo ritmo frenetico e secco.

Improvvisamente un boato.

Dora scagliò l’allievo sul campo dell’arena.
Così intenso fu il fracasso da far vibrare tutti i soppalchi.

Quel colpo aveva frastornato Shura.
Erano bastati due secondi di distrazione per ammaccarlo da capo a piedi.

Lo scontro però non era concluso.

L’atto più spaventoso doveva ancora essere messo in scena…

Il giovane, con le membra pulsanti di dolore, si rialzò.
Ad alcuni metri di distanza la Maestra lo squadrava ritta in piedi.

Anita , pallida e tesissima, comprese che quella sarebbe stata la parte finale del combattimento.
La parte più che decisiva.
La parte  distruttiva.
Roikhos contemplava in apprensione il palcoscenico della lotta…
Sapeva che la donna avrebbe dovuto esprimere la totalità della propria potenza.
Era necessario.
Un allievo ormai giunto quasi al culmine della formazione doveva compiere quel salto.
Era fondamentale.
Purtroppo.

La sacerdotessa guerriero divaricò leggermente le gambe.
Sollevò le braccia dai fianchi.

- Shura – disse con voce greve- sai bene cosa sto per fare.

Il ragazzo rabbrividì.
Il cuore gli martellava in modo allucinante.
Pareva dovesse rompergli le costole da un minuto all’altro.

- Siamo giunti alla fine.

La donna radunò le onde del proprio cosmo…

L’atmosfera divenne davvero strana…

I rumori della nave si ovattarono.

L’azzurro del cielo e la brillantezza del sole iniziarono a sciogliersi.

- Maestro Roikhos…- sussurrò Anita guardando in alto – ma sta…diventando tutto grigio?!

- E’ l’ effetto del suo attacco più potente  portato all’estremo…

- Oh, Dio! Vi state riferendo  proprio a… quello?!

- Esattamente.

- Negli allenamenti non l’aveva mai usato in quel modo…

Ogni cromatura  sbiadì.
Ora si viveva sul set surreale  d’ un film in bianco e nero.

Come faccio a fermarla? “ rifletté agitato Shura “ conosco il colpo che mi sta per lanciare…con quello m’ha temprato nelle situazioni più critiche ma…non l’ho mai visto sprigionato così!” 

Dora lasciò che l’energia le si convogliasse completamente all’estremità delle mani.

“ Devo stare calmo…calmo…in che modo la posso contrastare? “

La donna proiettò lentamente le braccia dinanzi a sé.

“ I  miei attacchi singolarmente non valgono nulla in confronto al suo…” 

Un’enorme luce cominciò a prendere forma…

A mente fredda Shura finalmente capì.

“ A mali estremi, estremi rimedi…”

Chiuse gli occhi…
La sua aurea prese a vibrare con risonanze insolite.

Roikhos sgranò lo sguardo.

- Maestro! – domandò angosciata Anita -  che vuole fare Shura?

- Sta…sta annullando i suoi sensi!!

- Cosa?!

- Sì! Sta annullando temporaneamente  i primi sei sensi per concentrarli  nel settimo!!

- Ma è una missione suicida!!

- Potrebbe morire se perdesse il controllo…sta facendo tutto velocissimamente!! La quantità d’energia che sta spendendo è troppo grande…

Sul capo di Dora comparve la gigantesca figura di una sciabola luminosissima.
Il  bagliore faceva dolere gl’occhi.
Tutta l’azzurrità infinita della volta celeste si era cumulata in quell’arma.

Non perderti, Shura, non perderti…” meditò la guerriera “ non posso e non devo fermarmi…ti prego…credo in te.”

Il giovane, anch’egli con le braccia in avanti, era giunto allo stremo.
Stava bruciando il cosmo con ogni goccia di sangue che gli scorreva nelle vene.

L’attimo cruciale era giunto.

Il grido di Dora colmò il vuoto del vento.

Sky sabre extrema!!! 

L’urlo dello spirito di Shura fracassò i margini d’aria.

Supreme blades!!

Un frastuono assordante di luce e sabbia.

Parve l’esplosione di una supernova.

Attimi di panico.

La Temistocle traballò vertiginosamente.
Parecchi temettero  che fosse sul punto di spezzarsi in due.

Fortunatamente non accadde nulla.

Il lampo distruggente degli incantesimi si sminuzzò in piccole bolle di fiamma…

Il cielo, il sole, il mare e  il resto riacquisirono i propri colori.

Sull’arena, Dora , impolverata e coperta di lividi, giaceva sul terreno.

Il cavaliere del Capricorno, nonostante fosse stremato, le si avvicinò con fatica.
Si inginocchiò per terra e la mise supina sorreggendola con delicatezza per le spalle.

- Maestra Dora! Maestra Dora! -  mormorò scuotendola lievemente.

Giunsero ansiosi Roikhos ed Anita.

Videro che la sacerdotessa mosse rintronata il capo.

- S-Shura…- fece con voce impastata – stai tranquillo…ce…ce la faccio a rialzarmi…

Con lentezza si rimise in piedi, ma barcollò dalla spossatezza.
Anita la sorresse prontamente mentre il Maestro di Aldebaran aiutava il giovane.

La ragazzina guardò commossa Dora e il fratello…
Non voleva immaginare che cosa sarebbe successo se li avesse perduti.
Erano tutto.

Erano la sua famiglia.

Non riuscì a trattenere le lacrime.

- oh, Anita – sospirò Dora – non cominciare…

- M- Maestra…

La fanciulla se ne infischiò delle formalità e l’abbracciò forte .
Sì…lei era pure una sacerdotessa guerriero ma era prima di tutto la persona che l’aveva cresciuta.

La donna si lasciò vincere e abbandonò per un istante la rigidità del proprio riflesso.
Strinse teneramente a sé la ragazzina per rassicurarla…

Shura sorrise con dolcezza nel vedere quella scena.
La sorellina naturalmente si fiondò  da lui per accertarsi concretamente di poterlo prendere ancora tra le braccia.

- Maestra Dora – disse il ragazzo con tono stanco ma solenne – vi ringrazio…vi ringrazio per avermi fatto arrivare fin qui.

- Shura…ormai ti manca un gradino per ottenere l’Excalibur…sei riuscito a fondere la potenza dell’hurricane sword, dell’earth blades, del jumping stone…sei sopravvissuto…la dea Atena ti guarda con orgoglio.

- Onore a Shura!! – gridò con voce stentorea Roikhos  che venne imitato in coro  dagli altri guerrieri.

Il giovane non poté godersi la gioia del momento.
Era uscito dallo scontro sfinito e il cosmo gli si era notevolmente affievolito.
Aveva annullato i suoi sensi in meno di un minuto per poi riottenerli tutti di colpo nel giro di qualche secondo.
Il suo corpo rimaneva sempre quello di un uomo.

Diventando ancora più pallido vide le persone attorno a lui annebbiarsi e oscurarsi…
Gli girò vorticosamente la testa…
Il cuore rallentò i battiti…
Le voci si allontanarono…

Non avvertì più nulla.


Un’ora e mezza dopo ricominciò a sentire dei suoni.
Prima dei sussurri incomprensibili e confusi, poi dei toni sempre più chiari…
Distinse una voce maschile e due femminili…
Riaprì gli occhi.
Si ritrovò davanti la faccetta di Anita che gli sorrideva sollevata.

- Wow! Ti sei ripreso in fretta!! Temevo avresti dormito per dodici ore di fila!

Shura un po’ intontito ma con una nuova energia che gli scorreva nelle vene si guardò attorno.
Era su un lettino dell’infermeria. Alla sua sinistra stava Roikhos con la solita espressione gioviale e a destra sedevano la sorella e Dora.

- Come ti senti, ragazzo? – domandò  il colosso.

- Un tantino rimbambito però…non avverto più quell’orribile fiacchezza di prima…è strano da descrivere…

- È perché hai ricevuto l’influsso di due cosmi – gli spiegò la Maestra.

- Due cosmi?

- Sì…una parte del mio e una parte di quello di Roikhos.

-  Eravamo indeboliti entrambi – aggiunse l’uomo – né io, né lei potevamo donarti da soli dell’energia così abbiamo diviso… la spesa in due!

Shura contemplò con immensa gratitudine i  guerrieri.

- Ma adesso non siete più affaticati di prima? – chiese un po’ impensierito.

- È questione di rigenerazione….-  fece Dora.

- Dobbiamo aspettare che i nostri cosmi si riaccendano di nuovo- continuò Roikhos- credi che nella nostra esistenza non siamo stati abituati a prove del genere? Ah!ah!ah!

- Il dottor, Baffetto  vi ha raccomandato di non combattere per almeno due giorni – rise Anita.

- Già – osservò il Maestro di Aldebaran – è meglio non far alterare  omino bianchiccio…quel nanerottolo insolente e guastafeste…crede che abbiamo le membra di ricotta…

- Tra quattro ore la Temistocle farà scalo a Siracusa! – annunciò allegramente Anita al fratello -  potremmo vedere la città e rilassarci un po’!

- Sosteremo solo per un paio d’orette – puntualizzò Dora.

- Ma…un piccolo girettino si può fare?

- Non penso ci siano problemi, Anita – sorrise Roikhos-  il tempo si trova!

- Dai, scimmietta! – le strizzò l’occhio Shura – ti porterà il fratellone a scodinzolare per le vie della città!

- Io ti farò invece  pascolare!

  Tutti risero.

- Su, gente – fece Dora ad un certo punto – lasciamo Shura riposare un altro po’.

- Fratellone, io vado ad esercitarmi a prua.

- D’accordo – le rispose il ragazzo – non appena mi sarò ripreso e avrò fatto una benedetta doccia ti raggiungerò!

Roikhos e Anita uscirono.
L’ultima ad abbandonare la stanza fu Dora.
Si fermò un momento vicino lo stipite della porta.

- Shura.

- Sì, Maestra?

- Sono io a doverti ringraziare.

- Per  cosa?

Alcuni secondi di silenzio.

      - Per avermi dato il coraggio di guardare la mia anima nel vero profondo.

 

  Siracusa era adagiata placidamente sul tappeto mediterraneo.
Con i capelli   che svolazzavano al respiro della corrente, Anita ammirava da prua quella splendida e singolare città…
Si spargeva , col suo groviglio di case calde, su una cellula di isoletta attraccata alla terraferma.
I gabbiani si rincorrevano con  serafica e indomita ilarità  tra gli alberi delle navi ancorate al porto.
Un porto frastagliato di passerelle, quieto eppure effervescente di vita.
La brezza dello iodio italiano allettava le narici della ragazza.
Quel quadretto di case antiche e moderne che si mescolavano armoniosamente, lasciava viaggiare la sua fantasia nei vicoli .
Non ne poteva più di stare a bordo della Temistocle.
Scalpitava d’impazienza. Non vedeva l’ora di esplorare quella città che fu un tempo la polis più potente dell’antica Magna Grecia.
Voleva scendere e sgattaiolare sulle stradine siracusane a caccia di curiosità e posti in cui gustare  specialità del Mezzogiorno.

Da dietro due  mani le si posarono sulle spalle.
Sussultando si voltò spaventata.
 
Era solo Shura che sorrideva.

- Por la muerte nera!!  Mi hai fatto pigliare un colpo!

- Querida, chi vuoi che sia? 

- Un imbecillos che assomiglia ad una capra…ah!ah!ah! Hai ragione!

- Bella babbuina, lì sull’albero maestro c’è una vista migliore…prova ad arrampicarti.. poi mi  dici! – esclamò  il ragazzo mentre veniva colpito sulle braccia .

- La tua bertuccia ti può buttare a mare, sai?!

- Dai, corazon de la mea vida! Non prendertela! Te quiero mucho...

I due scoppiarono a ridere.

-  A cosa stavi pensando, tutta sognante affacciata a prua? – domandò Shura – hai qualcuno nel cuore e tuo fratello non lo sa?

- Ah!ah!ah! Ma no! Ero incantata dalla città e…- aggiunse un po’ abbacchiata- non mi piace nessuno … inoltre i ragazzi non mi degnano di uno sguardo…

- Probabilmente  hanno gli occhi sotto i piedi.

Anita gli sorrise.

- Beh,  sei mio fratello…dici per forza questo e comunque...non sono certo come te!

Ridacchiò con fare malizioso.
Shura la squadrò con un sopracciglio inarcato.

- Mmmh…che intendi dire sorellina?

- Io sono una brava e quieta bimba, tu invece fai il birichino!

- Dove vuoi andare a parare?

- Tesoro, ho visto che nella tua valigia c’è un set speciale di magliette  aderenti e camicie sexy…

- Hai ficcanasato nella mia roba?!

- Pensi che io sia rinscemunita? So bene cosa farai  i sabato sera ad Atene! Ah!

Anita rise dispettosa.
Shura aveva il viso in fiamme.

Non era abituato a raccontare … le proprie avventure  con le ragazze.

Era un guerriero ligio e zelante verso i regolamenti del Tempio.
Desiderava mantenere linda un’immagine di fermezza e ponderazione .
Alla  sorellina purtroppo non sfuggiva nulla poiché capiva perfettamente che lui era un ragazzo attraente e di sottecchi si divertiva con le fanciulle.

- Sì,sì! – continuò la ragazzina sghignazzando – già m’immagino tu, Milo, Camus e Aiolia,  conciati a strafighi , che camminate machi e smargiassi per le vie d’Atene…

- Piantala!

- …E tutte le ragazze che vi piovono addosso e vi tastano i muscoli d’acciaio…

- Ora,  scimmia, finisci in una gabbietta!!

Anita  eseguì   dei passi di flamenco battendo le mani e i piedi.

- Ola cichas ! Sono Shura, el caliente caballero del Capricorno! Yo quiero bailar toda la noce!!

Il cavaliere rincorse la sorella e l’acchiappò prendendola tra le braccia.

- Sai che ti succede adesso, vero?

- No!no!no! Non farlo ti prego!!

- Oh, sì ciquita! Niente suppliche!

Anita esplose in risa spasmodiche all’attacco di solletico.

- E’ inutile!! – esclamò- tanto lo so che siete dei lady-killer!! Marpioni!! Bello, bighellonare all’accalappio delle donne, eh?

- Scema!

- Aaah! Il profumo femminile all’orizzonte…el fuego!!!

La ragazzina continuò a stuzzicare l’imbarazzato ma divertito fratellone …

Al Gran Santuario, Milo, Camus ed Aiolia  non  erano soltanto compagni d’addestramento e lotte per Shura.
Erano suoi complici in imprese piccanti e proibite…
Vi erano donzelle allegre, smaliziate e desiderose di essere confortate da degli aitanti e splendidi guerrieri…Cameriere, studiose di letteratura antica, ritualiste…nessuna riusciva a resistere allo charme di un cavaliere d’oro.
Milo: spiritoso, brioso, focoso. Un amante splendente e colmo d’inventiva.
Camus: inizialmente algido si scioglieva in una conturbante e magnetica galanteria. Sorrisi roventi…sguardo sensuale.
Aiolia: gentile, rassicurante, caldo come il meriggio. Un’ avvenenza d’ardente e nobile disinvoltura.
Shura: all’apparenza serio, seduceva con inaspettate scintille di giocosità e fiamme. Spontaneo, vitale lasciava comunque sempre trapelare  quel suo fascino d’austerità…
 Ricordava che era stato proprio lui ad iniziare gli amici all’allettante e infiammato mondo dei sensi…c’era anche da considerare  che quei tre  non avevano mai avuto intenzione di rimanere a lungo prigionieri della verginità… Non si erano infatti assolutamente pentiti della loro precocità…

La presenza di due cosmi costrinse il guerriero del Capricorno ad interrompere i giochi con la sorella.
 
Accigliato si sporse dalla ringhiera di prua.
Anita lo fissò  con espressione  apprensiva.    

- Fratello, cosa c’è ?

Il giovane per un attimo non le rispose…
Le auree che percepiva gli erano più che famigliari…
I loro colori rifulgevano di sfumature  fuligginose che pareva procedessero tortuosamente nell’aria come cobra della notte…

Il cavaliere ridusse i propri occhi a fessure.
Vicino la banchina del porto scorse una coppia di figure alte…due ragazzi che stavano parlando.
Improvvisamente avvertì un particolarissimo e sgradevole odore, una miscela di fragranza di rose e tanfo di zolfo e sangue.
Storse la bocca disgustato.

- Shura, si può sapere che ti prende?

Si destò.

- Scusa, Anita…ho appena realizzato di dover salutare due…miei compagni.

- Li hai visti  sulla banchina?

Il fratello fissava corrucciato il porto.

- Sì… Aphrodite e Death Mask sono a Siracusa.


Note personali: eccomi qui a distanza  minore di un mese!! ^^ di nuovo un doppio aggiornamento!! Ho scritto questi due ultimi capitoli contemporaneamente -.- uno sfacelo…perché dovevo concludere anche “ Non vedo che l’inverno, non vedo che la notte” …beh, missione compiuta!
Nella 3 e ultima parte del capitolo 6 stavolta ho impiegato meno tempo nella descrizione del combattimento XD certo, è stato ugualmente difficoltoso ma nel compenso mi sono divertita a inventarmi le tecniche di combattimento di Dora…
Per fortuna dopo questo duello ho inserito la parte leggera in cui Anita sfotte le bighellonate di Shura con le fanciulle XD ovviamente non ho potuto far a meno di  nominare Milo, Camus ed Aiolia! ;) insomma, questi cavalieri non sono solo abili nell’arte della guerra ma pure nell’arte della seduzione!! XD insomma, ho sempre pensato : ma sti’ belloni non penso che non sappiano sfruttare il loro charme!! Sarebbe un peccato!


 

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Capitolo 14
*** CAP 7 - la rosa e il teschio ***


 

Il Demonio si agita senza tregua accanto a me;
e mi gira intorno come un’aria impalpabile;
lo ingoio e sento che brucia i miei polmoni
e li riempie di un eterno e colpevole desiderio…”

( C. Baudelaire)

 

 

Aphrodite e Death Mask si erano voltati verso la Temistocle.
Controvoglia, Shura percorse l’enorme passerella della nave per  raggiungerli.
Per fortuna aveva detto ad Anita di restare accanto a Dora…neppure a  lei piacevano quei due giovani.

Era inevitabile che egli presto o tardi li avrebbe incontrati nuovamente …
Assieme avevano superato le prove della Triade Templare d’Oriente.
Assieme avrebbero dovuto mettere alla prova gli apprendisti per la Triade d’Occidente.

“ Che fantastico  quadretto…” pensò il Cavaliere del Capricorno mentre osservava i suoi compagni d’armi.
Erano così differenti eppure così affini…
Le loro bellezze contrastavano in un’oscura armonia.

Aphrodite era dotato di un incantevole fascino androgino. Il suo splendido viso trasudava petali di malia:  occhi celesti fregiati da lunghe ciglia nere, un piccolo neo che spuntava sullo zigomo sinistro, naso diritto e  perfetto, una graziosa bocca  disegnata come quella di una donna…ad ornare quel manufatto, rassomigliante ad una maschera veneziana, una lunga e morbida  chioma cerulea leggermente ondulata.
Il corpo del ragazzo, magnifico,snello e agile,  era messo in risalto da uno smoking bianco che lasciava intravedere   una camicia lilla aperta sul petto.
Tutt’altro che elegante era Death Mask.
Non gli mancava nulla. Era alto, atletico, possedeva un volto dai lineamenti decisi e belli. Si poteva ritenere , insomma, un giovane di notevole avvenenza.
Troppe macchie però lo inquinavano.
Lo si contemplava nei suoi occhi blu, sinistri  laghi degli inferi.
Lo si coglieva nel modo in cui si conciava. Quei capelli color del crepuscolo, scaraventati in aria come fiamme fredde, avevano qualcosa di demoniaco.
Una  canotta nera un po’ slabbrata agli orli, dei vecchi jeans grigio scuro e un paio di  pesanti anfibi lo rendevano simile ad un delinquente.
Un inquietante ciondolo d’acciaio ornato da un teschio rosso sangue lo rendeva simile ad un carnefice.   


- Finalmente ci si rivede, Shura –  sorrise  mellifluo il Cavaliere dei Pesci.

- Già, mi domandavo quando ti saresti rifatto vivo! Merda! Da cinque mesi non ci alleniamo più assieme! Dovremo affrontare quei cinque deficienti che stanno ora ad Atene…- disse il guerriero del Cancro con una smorfia  ghignante e  irritata.

“ Preferisco stare sui Pirenei a surgelare  piuttosto che rompermi le scatole con voi” avrebbe desiderato rispondere  Shura ma proferì sarcasticamente: - oh, scusate…in questo periodo sto facendo solo dieci ore di addestramento al giorno per riuscire a prendere quella spadina…sapete l’Excalibur…una robetta da niente che però è un divertente giocattolino.

- Tsè – grugnì Death Mask – come se noi non ci facessimo un culo madornale  per sopravvivere!

- Il nostro Capricorn ha un po’ la luna storta, oggi? – chiese ironicamente Aphrodite che sembrava rivolgersi ad un ragazzino imbronciato.

- Effettivamente la giornata potrebbe andare meglio…- ribatté Shura a denti stretti- comunque, perché siete qui?

- La Maestra Artemis mi ha concesso una decade di giorni liberi...perciò ne ho approfittato per venire in Italia, visto che sapevo che Death avrebbe cominciato una serie di addestramenti speciali nei dintorni  di Siracusa.

- Ero scoglionato dal lezzo di Catania – si rivolse Cancer – ste’  due ultime  settimane del cavolo ad addestrare allievi rammolliti nell’Etna! C’hanno ossa di pastafrolla che si spaccano subito…che depressione…sono stato costretto a spezzare un po’ di spine dorsali.

- Mi auguro che i tuoi apprendisti abbiano capito la lezione.

- Shura, non è colpa mia se sono  teste di cazzo da quattro soldi. C’è un’altra cosa poi che mi manda in bestia…

- Suvvia, Death – ridacchiò il guerriero del Pesci cogliendo al volo il senso dell’allusione  – A quello la soluzione sarà immediata.

- Ah! Lo spero davvero! È da quindici giorni che non scopo! Sei riuscito già a trovare qualche bella troietta ?

- Qualche? Amico mio, Aphrodite è pieno di risorse.

- Ho capito! – rise sguaiatamente il compagno – ce ne andremo dalle tue scrofe d’alto borgo!

Shura non si scandalizzava dinanzi a quel genere di discorsi.
Perché fare il moralista?
Conosceva le abitudini di dissolutezza carnale che accomunavano lo svedese e il siciliano.
Sotto quel punto di vista, era ormai disincantato da tempo. Come loro adorava le ragazze  e non di certo s’ era votato alla castità.
Egli tuttavia non cadeva nella velenosità dei vizi, né tanto meno commetteva atti poco ortodossi…

- Hai presente, Emma, la figlia del socio d’affari di mio padre? – proseguì Aphrodite.

- Ah, sì…Quella trentenne che ti sei fatto un paio di volte -  sghignazzò Death Mask –  quanto dev’ essere rincretinito il minchione del marito?

- Non hai tutti i torti se ti dico che lei darà una festa nella sua villa, fuori Siracusa…all’insaputa dello sventurato coniuge.

- Ah!ah!ah! Troppo forte! Il pirla non c’è, quindi?

- Proprio così.

- Quando sarà sto’ party?

- Domani sera alle dieci. Ho detto alla padrona di casa che avrei portato un amico…

-  Un amico che vuole femmine appetitose…

- Non hai alcunché di che preoccuparti.

- Dovrò mettermi in ghingheri? Non so dove accidenti pigliare uno smoking…

- Tranquillo, te ne presterò uno  io.

- Oh, perfetto! Un gala in cui non sgancio una lira! Le baldracche di periferia  mi hanno già dissanguato parecchio in questi mesi…

Il cavaliere del Capricorno aveva presente gli squallidi movimenti di Death Mask.
A Catania, molti dei  suoi risparmi  se ne andavano per  alcool e prostitute dei bassi fondi…
Non stimava  quel guerriero, eppure nutriva verso egli una ruvida ed aspra compassione…
La cosa che più lo struggeva era la corruzione che gli aveva insudiciato irreparabilmente il cosmo.

- Ehi , Shura -  lo appellò Aphrodite con espressione maliziosa – vorresti unirti a noi? Sono in tempo per far aggiungere un altro invito…

- Spiacente, non posso.

- Come non puoi?! – esclamò Death mostrando un sorriso da serpe – non fare il fraticello che so bene che ami chiavare!!

- La Temistocle si è soltanto fermata qui per  rifornimenti. Tra due ore proseguirà di nuovo per Atene.

- Peccato!- ammise un po’ sconsolato il cavaliere dei Pesci – avremmo potuto condividere dei piacevoli momenti!

- Chiamala solo “piacevole momento” una trombata da stallone! – se ne uscì il siciliano ridendo scompostamente – cazzo, se non ce la possiamo spassare noi che rischiamo di farci spappolare le ossa…

- Infatti…- soggiunse Aphrodite accarezzandosi i capelli con fare vanesio- come affermava Lorenzo de’ Medici: “ Chi vuol essere lieto, sia :  di doman non c’è certezza”, inoltre, considerando Epicuro, il piacere è “ libertà dal dolore” . Più che lecito quindi il motto catulliano del “ carpe diem”.

- Insomma , detto terra terra – tagliò corto Shura – “ godi fin che puoi” .

- Non vedo nulla di male. Non si tratta certo di uccidere.

“ La sai lunga la canzone” considerò Capricorn “ vai a combinare bordelli a destra e a manca e te ne freghi  altamente…che meraviglioso stronzo …”

Aphrodite riusciva ad essere veramente irritante.
Urtavano i nervi i suoi  sorrisetti  furbeschi e infidi, quell’atteggiamento borioso con cui  squadrava con sufficienza il prossimo e la grande bellezza a cui teneva in modo  maniacale.
Gli apprendisti cavalieri lo temevano in tutti i sensi. Avevano paura della potenza delle sue rose e della sua abilità nel sedurre le fanciulle. Diversi erano stati gli sfortunati…traditi.
Persino gl’uomini adulti tenevano alla larga le proprie  mogli dall’affascinante cavaliere. Oltre all’aspetto fisico, egli aveva un’ impressionante e matura capacità d’eloquio rivelando anche una vasta cultura artistica e letteraria.

- Dai, Shura! – lo scosse Death Mask – non è che ti vorrai convertire a quegli sfascia palle moralisti del Grande Tempio?

- Ma no, Death – rise Aphrodite – il nostro amico è soltanto prudente.

 Si avvicinò un attimo ad un’auto parcheggiata per rimirare il proprio riflesso sui finestrini.

- Shura – disse come se stesse parlando ad un bimbo piccolo – finché si è giovani e soprattutto si ha splendore è necessario assaporare ciò che i sensi offrono. La bellezza “ non può essere messa in discussione: possiede un suo diritto divino di sovranità; rende dei principi coloro a cui appartiene” . Ah…Parole sacre quelle di Wilde!

- Minchia! Mo’ comincia coi suoi sproloqui letterari…- sbuffò il guerriero italiano rivolgendo gli occhi al cielo.

“ O Bellezza! Cosa importa se tu vieni dal cielo o dall’inferno. Mostro enorme, spaventoso, ingenuo! Se poi il tuo occhio, il tuo sorriso, il tuo piede aprono la porta di un infinito che amo e che non ho mai conosciuto? “

- Va bene, va bene. Sei grande a spararti le pose.

- Death Mask, possibile che non apprezzi questi mirabili versi di Baudelaire?!

- Scusami, Aphro non sono un principino aristocratico . 

Shura non vedeva l’ora di tornare da Anita e Dora.
Proiettava abbacchiato lo sguardo all’angolo del porto in cui la Maestra e la sorella discorrevano con Roikhos ed altri guerrieri.

- Quella morettina è la tua Anita? – domandò Aphrodite.

Death Mask volse l’ attenzione nella medesima direzione dell’amico.

- Ehi…è davvero carina – mormorò con un ghigno per nulla rassicurante.

Shura lo incenerì con sguardo letale.

Aveva colto nei suoi occhi una punta di disgustosa lascivia.
Non gli avrebbe permesso di sfiorare  Anita neanche con l’estremità di un dito.
Sarebbe stato assolutamente capace di staccargli la testa.
Death Mask era controverso in materia di gusti sessuali. Pareva l’ allettassero le giovani provocanti e appariscenti, ma nelle sue morbose fantasie si eccitava maggiormente quando immaginava d’insidiare le ragazzine semplici e pure . Così come provava  piacere sadico nel decapitare  nemici, nello stesso modo avvertiva godimento nel sognare di tormentare corpi graziosi ed innocenti.

- Oh!- ringhiò contro il guerriero spagnolo – che è quella faccia? Mi vuoi ammazzare?!

- Ti voglio soltanto avvertire.

-  Non posso fare un apprezzamento?

- I tuoi apprezzamenti mi fanno abbastanza schifo.

L’italiano colse l’occasione per divertirsi un po’.

- Me ne fotto di quel che dici. Se ci voglio provare non sarai certo tu a rompere.

Shura avanzò minaccioso verso di lui. Aphrodite ,sospirando, lo fermò.

- Su, Shura non creiamo scompiglio…

- Un cavaliere come te...– sogghignò l’altro canzonatorio.

Il giovane lo squadrò torvamente.
Sorrise poi anche lui in modo beffardo:

- Aphrodite ha ragione… non facciamo casino. Tu, chissà che combineresti! Sei davvero in gamba a distruggere…chi l’avrebbe mai detto che saresti migliorato fino a questo punto…Dario.

Death Mask fece scomparire l’ espressione ironica.
Contrasse le mandibole.
Divenne terreo e terribile.
I suoi lineamenti vennero corrosi da un’imminente furore.

Afferrò aggressivamente Shura per la maglietta.

- Come mi hai chiamato, stronzo?!

Il cavaliere del Capricorno gli stritolò il polso.

- Col tuo vero nome: Dario.

Stavano per prendersi a pugni quando una rosa scarlatta, lanciata alla velocità della luce,  si piantò tra i loro piedi.
Il fiore di Aphrodite si era conficcato come un chiodo di ferro sull’asfalto:  aveva creato delle crepe profonde parecchi centimetri.

- Cos’avevo detto, ragazzi? Niente scompigli. Non ce lo possiamo permettere. Perché si dovrebbe litigare tra…alleati? Meglio stare uniti, no?  Dovremo collaborare sia nei prossimi addestramenti sia per la Prova della Triade Templare d’Occidente. Ce la dobbiamo sbrogliare solo noi tre, tra l’altro…

- Già…- asserì Death Mask – quel santone buddhista di Shaka è rintanato in India e preferisce non degnarci della sua mistica presenza. Che qualche demone gli prenda a cazzotti le gengive…

- Ce  lo saremmo dovuti aspettare…chi lo capisce quell’enigma vivente?- rise sardonico lo svedese -  Vive su nidi troppo alti e non sa cosa si perde…

Shura e Death Mask ripresero a sfidarsi con lo sguardo.

- A quanto pare non abbiamo alternative.

- Esatto, Capricorn. Per il tuo bene evita di farmi girare i coglioni. Patti chiari, amicizia lunga.

- Certo. Senz’altro.

- Devo andare. Tengo proprio sete. Mi scolo una birra e dopo riprendo con gli addestramenti. Ti aspetto fuori città, Aphro. Shura…alla prossima.

Con immensa gioia dello spagnolo, il cavaliere del Cancro si allontanò.

- Ti vedrai ad Atene con Mu, Aldebaran,Milo, Camus ed Aiolia? – domandò Aphrodite.

- Sì. M’intratterrò per un mesetto al Gran Santuario e poi tornerò in Spagna. Direi che ad aprile del prossimo anno ci rivedremo di nuovo qui in Sicilia.

- Magnifico…avrò già preso l’armatura d’oro dei Pesci.

- Ti mancano ancora parecchi ostacoli?

- Ahimè, è così…questi quattro mesi saranno davvero duri. Ormai il grande momento si avvicina…tra cinque giorni farò ritorno  in Groenlandia. La Maestra Artemis non tollera ritardi.

- Capisco…sai….riguardo  Shaka…è un peccato non vederlo…è un guerriero potentissimo, l’uomo più vicino agli dei…sarebbe un bene per tutti noi allenarci insieme. Ti ricordi nella Triade d’Oriente? È grazie a lui che abbiamo superato l’ultimo ostacolo ad Alicarnasso.

- Dici il vero… Senza Shaka non ce l’avremmo fatta neanche a battere Saga e Doko, i due eccelsi cavalieri d’oro che c’ avevano messo alla prova.

- Infatti. Devo ammettere però che  è troppo sfuggente…mi ricordo che l’unica persona con cui parlava era Mu.

- L’animo di Virgo è talmente insondabile   che nessuno si azzarda ad immergersi…forse è perché uno si sente assai intimorito dalla profondità, dalla complessità delle cose…la realtà non è monocromatica. Nulla è scontato. Vorremmo tutti vivere semplicemente, in superficie…illusioni. Solo illusioni. Non esistono pianure. Esistono le scale. La maggior parte della gente  preferisce passeggiare sui gradini che stanno più in alto e…una piccola parte va su quelli  del  fondo. Talvolta anche nel nero più totale. Quanti sono sinceramente così temerari?

Shura aveva ascoltato attenta mente ogni parola di Aphrodite. Era rimasto colpito da quel discorso.
Negli occhi del cavaliere dei Pesci s’era affacciata una grave solennità che non aveva mai visto prima.

La realtà non era monocromatica.
Era costituita da una moltitudine di fondali…
La mente era costituita da una moltitudine di fondali…

Accortosi di aver lasciato trapelare qualcosa d’anomalo , lo svedese riappese sul suo sguardo il consueto dipinto della superbia e della frivolezza.
Sollevò il mento, s’aggiustò l’elegante giacca e  ridiede una leggera sistemata alla sua soffice frangia.

- Sono costretto a salutarti, Shura – fece con la solita e seccante voce carezzevole – vado  nel mio hotel per prepararmi all’addestramento…che noia…magari potessi vestirmi sempre così…disgraziatamente devo adeguarmi alla rozzezza della vita d’un guerriero…beh, preferisco non fare aspettare Death. A presto.
Shura poté finalmente tornare dal suo gruppo.

Aphrodite camminò a passo spedito nella direzione opposta.
Mentre  si allontanava dal porto e le immagini delle case e del mare gli scorrevano ai lati come pellicole di un vecchio rullino fotografico, rifletté un attimo su ciò che avrebbe fatto dopo il soggiorno a Siracusa.
Non si sarebbe trattenuto a Stoccolma.
Primo, non poteva. Secondo, anche se ne avesse avuto la possibilità, meno vedeva il padre meglio stava. Non ce la faceva a soffrire quell’uomo sessantenne, ex cavaliere d’argento. Tra loro non correva buon sangue…
L’unica persona che gli dispiaceva non rincontrare era la madre, una bellissima docente universitaria di quarantadue anni. Lui l’adorava eppure…voleva che fosse diversa.

Non sapeva se amare o meno la propria famiglia.

Era cresciuto nel lusso di una vita aristocratica. Discendeva da una casata nobiliare di antiche origini. Materialmente non gli era mancato ovviamente nulla.
Nel cuore però una miriade di cose non aveva mai ottenuto.
La franchezza. Una genuina stabilità. La gioia di vedere due genitori complici che s’amavano.
Aveva contemplato solo subdoli contrasti e ipocriti compromessi. Sua madre era una donna pericolosamente stupenda ed egli era a conoscenza delle sue avventure fedifraghe . Le era diventato complice  e si era reso eguale a lei  nei vizi.
 Il padre, malgrado covasse serpi di rabbia, faceva finta di nulla e seguitava a non chiedere il divorzio.
Il giovane si sentiva male nel pensare a quello strano rapporto . Provava disprezzo anche verso se stesso…

Rallentò il passo fino a fermarsi davanti l’orizzonte del Mediterraneo.

Gli vennero in mente le maree gelide del Polo Nord.

Gli venne in mente lei.

Lei coi suoi capelli  sanguigni al pari delle ciliege di maggio.
Lei con la sua fortezza d’integra onestà.

Fece comparire sul palmo della mano un bocciolo di rosa.
Un bocciolo splendido e immacolato.
Talmente intenso era il  biancore da accecare quasi lo sguardo.

Incredibile…quando mi dichiarai a te, dolcezza mia, portavo ancora l’aureola. Non prendesti però il mio amore sul serio…la definisti una cosa passeggera, impossibile…”

Osservava con amarezza il candore della corolla del fiore.

I miei quattordici anni non tornano più indietro…sono diventato Lucifero ed eccomi qua che mi diverto ad insozzarmi con le fiamme dell'’inferno…come sono strano! Mi metterei a piangere se mi vedessi da piccolo…ti ho fatto arrabbiare parecchie volte perché ero pestifero…però ero veramente bianco.”

Alcune colombe volarono via dai cornicioni degli edifici antichi.

“ Non mi capisco. Sono contraddittorio, insensato, sporco. Mi sento una puttana. Dannazione! Non riesco ancora a scendere dalla giostra del sesso e delle tenebre…”

Strinse irosamente il bocciolo.

Tu, se ti togliessi quella maledetta maschera , mi salveresti! Oh, non sai quanto mi salveresti…Perché non posso averti ?! Perché non mi dai la tua anima?! “

Frantumò il fiore e ne gettò i petali nei panneggi salmastri del mare.

Sì, tesoro…la mia più grande e lacerante spina ha un nome: Artemis! “ 

 


A poppa della Temistocle, Shura scrutava i contorni di Siracusa divenire labili, fumosi.

Si allontanava da quell’isola in cui vide, da bambino, il principio di una raccapricciante metamorfosi…

Dario…assurdo.
Death Mask…orribile.

Più ci pensava, più gli pareva un incubo.

Mai si era dimenticato di quel giorno atroce, di quell’addestramento che aveva dovuto svolgere in Italia…

 

Era un agosto torrido e tiranno.
Il cielo era di un turchese dolente e perfido.
Il sole, disco squarciante di lava, frustava la pelle.
Fuori Catania, su un’ampia landa di terra screpolata e morta, degli apprendisti guerrieri si allenavano a coppie.

Due ragazzini di dieci anni  stavano combattendo.
Il primo, capelli neri e occhi ardenti, attaccava impetuoso e veloce.
Il secondo , capelli blu e occhi persi, si difendeva oscillante ed incerto.
Shura ebbe la meglio.
Con un pugno in pieno viso fece cadere Dario a terra.

Alcuni secondi dopo il bambino si mise lentamente a sedere.

- Dario, non hai attaccato per niente e non sei riuscito a difenderti! Così rischi grosso!

Il piccolo apprendista del Capricorno si avvicinò all’avversario per aiutarlo ad alzarsi:

- Perché non vuoi lottare? Forse oggi non stai bene?

Gli porse la mano.

- Dario?

Rimaneva zitto con una strana espressione di mestizia sul volto.

- Su, dai! – lo incitò afferrandolo per un braccio e rimettendolo in piedi- torniamo ad allenarci.

Dario seguitava a tacere restando immobile.

Le sue labbra però presero a traballare…
Il suo sguardo iniziò a sussultare luccicando di gocce.

- Cos’hai?

Le lacrime gli sgorgarono dagli occhi.
Il petto prese a sobbalzare e a respirare affannosamente.

- Dario! – ripeté Shura preoccupato posandogli la mano sulla spalla- cos’ hai?!

- L-lasciam-mi ! – gli rispose esplodendo in un pianto rintronato e convulso.

Lo spagnolo lo fissava desolato sentendosi inconsciamente in colpa.

Quei singulti fragili e violenti non sapeva in che modo fermarli…
Quelle mani impolverate e tremanti che tentavano di asciugare invano le guancie l’affliggevano…

- V-vogli-glio a-and-dar-mene d-di q-qui…v-voglio a-a-nd-darmen-ne…- annaspava Dario come se fosse un piccolo gabbiano che stesse annegando tra i flutti di un tifone.

Shura era profondamente agitato e confuso.

- Dario.

Un’ombra imponente e minacciosa sovrastò i due bambini…

Il Maestro Serse. Il guerriero d’argento dell'Etna più terribile e spietato.

Cranio rasato, corpo altissimo dotato di una muscolatura granitica, quell’uomo non poteva che iniettare terrore.
Il viso dai lineamenti regolari spaventava più di qualunque altra cosa…
Lo sguardo rosso cupo, apatico e vitreo, raggelava il sangue nelle vene.
La bocca sottile e marmorea, che si muoveva piano, stritolava il cuore.

- Ti rendi conto di come sei? – domandò il cavaliere con voce ghiacciata e metallica.

Dario, con gli occhi abbassati e sgomentati, continuava ad emettere singulti.

Non era in grado di parlare.

- Sai di essere vergognoso, vero?

Lo stesso tono piatto e devastante.

L’apprendista del Cancro desiderava con tutto se stesso  smettere di piangere, ma più provava, più singhiozzava peggio di prima.

Shura era atterrito dalla paura per lui.

- Perché devi rendere le cose complicate?

Il ragazzino chiuse gli occhi soffocati e bruciati dalle lacrime.
Era nel panico più nero.
Nel panico più straziante.
Pareva che le corde vocali gli fossero state strappate  dalla gola.

- Quanto sei difficile.

Un manrovescio d’inaudita brutalità lo scaraventò con la faccia sul terreno.

Il bambino si rialzò faticosamente con il respiro mozzato e  la fronte, il naso,la bocca sanguinanti.

- Chissà per quale motivo ti ostini a non capire.

Serse artigliò la  preda per i capelli trascinandola via.

Paralizzato, demolito, incapace di opporsi, di urlare...
Dario stava andando sul patibolo.

Shura, disperatamente, gli corse dietro ma delle guardie lo allontanarono in malo modo lasciandolo impotente spettatore della scena.


Ogni  urlo rimase  murato .
 
C’era tanto rosso. Nel vento Nel mare. Nell’estate.

 

Rosso.
Lo stendardo del silenzio.
Ascia di gelo e tortura.

 

Rosso.
La pergamena del non ritorno.

Nessun treno.
Solo gomitoli di sangue su binari arrugginiti.


 


 
note personali: Peccaminosi al cubo, Aphro e Death! XD Non vedevo l’ora di presentarli!! Beh…non sono degli adorabili stinchi di santo XD  Cancer è davvero fuori di testa ed è un perfetto lord d’eleganza e buone maniere XD Aphro è l’emblema della modestia e della rettitudine!! Un gran duo d’amici XD
Ce li vedevo davvero bene come complici. Death Mask e Aphrodite sono i guerrieri più controversi e infidi…quest’ultimo però non è certo disumano e violento come l’altro…le sue tenebre sono differenti…amando il periodo del decadentismo, e in particolare i romanzi “ il ritratto di Dorian Gray” di Wilde e “ Il piacere” di D’Annunzio, ho voluto affiancare all’estetismo di Aphro un ‘ indole edonista e dissoluta. Ahimè anche l’esteta è preda dei tormenti u.u 
Il drammatico  mutamento di Death verrà  mostrato ,ovviamente, anche  nei prossimi capitoli…
Dopo “ la rosa e il teschio” tornerò di nuovo da Mu, Sion e Kiki ^^ il trio d’arietini che ho momentaneamente lasciato XD
Grazie a tutti i lettori!! ^^
Alla prossima!!!

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Capitolo 15
*** CAP 8- Le magie di Lindo: il Rituale del Montone Bianco ***


 

Due soli di ponente.
Indecifrabili. Impenetrabili. Invalicabili.

Tali brillavano gli occhi di Sion.

Due quarzi d’acque mattutine.
Immobili. Accorti. Freddi.

Tali brillavano gli occhi di Mu.

Muto ma splendente.
Di bronzo, ma non indifferente.
Il medaglione con la testa d'ariete, che  pendeva al collo del ragazzo, contemplava la scena che gli si proiettava dinanzi  e udiva la voce martellante del cuore.

L’apprendista di Sion conservava sull’epidermide un lieve pallore d’autocontrollo e calma.
Sul viso non trasudava il minimo turbamento o emozione.
Nei meandri del petto era tuttavia assurdo imbavagliare la bocca della tensione.

Stava per aver inizio il Sacro Rituale del Montone Bianco.

Il Maestro avrebbe trasmesso al discepolo i poteri più immensi e dilanianti.
In tal modo, Mu avrebbe portato a compimento la formazione d’apprendista. Gli sarebbe poi mancato soltanto il superamento della Prova della Triade Templare d’Occidente per accedere all’ultimo gradino che lo separava dall’armatura d’oro.

Il poggio dell’Acropoli di Lindo si stagliava taciturno e remoto contro il cielo pomeridiano.
L’antico tempio d’Atena, che dominava su tutte le rovine polverose, avrebbe assistito ad uno spettacolo  inconsueto.

Il piccolo Kiki, con silenzio reverenziale,  osservava il fratello e Sion…

- Apprendista Mu- proferì l’uomo maestosamente – su questo  sito consacrato alla celeste Atena attraverserai i portali delle stelle dell’Ariete…il tuo animo verrà scrutato dagli occhi d’un nobile passato…il tuo cosmo s’infiammerà d’una potenza arcana e immensa. Sei disposto a salire lungo i pendii di questo monte bruno e nebbioso?

- Venerabile Maestro, giuro sul nome delle nostra dea, di seguitare la corsa verso la luce della verità e della rettitudine.

Sion chiuse lentamente gli occhi, sollevando le palme al cielo.

- Santo Ariete del Firmamento inestinguibile, Santo Ariete custode del Fuoco Primordiale….diffondi i tuoi raggi dai riverberi senza tempo sul Santuario…

Dalle mani del Maestro comparvero due bolle di luce che lievitarono in aria per poi esplodere in comete gialle.
Le stelle piombarono per terra liquefacendosi...

Mu e Kiki videro  le pozze luminose spargersi sui marmi antichi come vernice dorata….
Presto, un enorme e serico tappeto lucente ricoprì tutto il pavimento del tempio.
I lembi di quel  velo si lanciarono poi  in alto, simili a rivoli schizzanti di miele, plasmando una gigantesca cupola.

L’apprendista dell’Ariete comprese che s’ erano proiettati in una dimensione atemporale.
La titanica semisfera era invisibile alle persone esterne.
Tutto rimaneva occultato in quelle mura di scintillante meraviglia.

Kiki rimirava stupito le pareti di quel varco interspaziale: per alcuni istanti parevano lisce e scivolose e per alcuni s’increspavano pari alla carta vetrata...
Improvvisamente delle sottili linee nere e marroni presero ad ornarle come se fossero guidate dalla mano d’un pittore bizantino.
La superficie della volta mostrò dei disegni danzanti, dei motivi geometrici che mutarono in un enigmatico alfabeto…
Mu, contemplando con attento incanto quella magia, s’accorse che comparvero  geroglifici antichissimi.

- Quei segni che stanno prendendo forma sulle pareti-  prese a narrare Sion – non sono altro che il codice di scrittura dello scomparso  Mu, continente leggendario in cui nacquero le ottantotto armature dei cavalieri zodiacali. Dopo che questa vasta e fiorente terra venne divorata dalle acque del Pacifico, gli scultori alchemici di vestigia attraversarono l’Asia per recarsi qui, nelle lande in cui sarebbe sorta Lindo. Consacrarono gli scrigni alla dea a cui erano devoti, alla dea che aveva salvato loro la vita e per la quale avevano dato forma alle stelle del cielo. Atena portò nell’Attica le armature e fece giurare ai superstiti del Continente di Mu di perpetuare la loro arte nei secoli avvenire. Solo essi erano in grado di udire e comprendere le anime delle vestigia. Solo essi avevano il potere di ripararle e dispensar nuovo vigore…gli artigiani mantennero , come ponte di collegamento  con l’Europa, l’isola di Rodi e si dispersero nelle varie località dell’Asia. Ahimè, l’oscuro Ade, nel corso dei millenni, ha dato la morte a moltissimi di loro, decimandoli tragicamente e riducendoli a brandelli di piccole tribù. La mia famiglia, Mu, così come quella a cui appartenete tu e tuo fratello rappresentano gl’ultimi aneli d’una grande civiltà…anche quella di Ohen sarebbe potuta essere uno dei rari scogli superstiti.

Mu apprese tali  parole  con scura mestizia…
Chissà Ohen in che nembi fluttuava…

- Ora Mu – riprese il Maestro – ti ritroverai al cospetto dei cavalieri dell’Ariete che dimorarono nell’ere passate.

Sion si scostò per mostrare alle  spalle un adito ch’apparì magicamente.
Un portale  triangolare, emblema alchemico della perfezione trina, fendette le pareti d’oro sciolto della semisfera…

Emersero dai Campi Elisi le anime degli antichi guerrieri: erano avvolte in mantelli rossi…
 In doppia fila, con  passo cadenzato, formarono due braccia per disporsi  in cerchio attorno a Mu.
Kiki, terribilmente in soggezione, si nascose dietro di lui.
I visi di quei defunti erano belli ma trasfigurati in una gelida patina diafana…
Nessuna espressione. Sguardi stabili somiglianti a mari notturni. Sopracciglia rasate come era precetto dei combattenti tibetani. Due macchie sulla fronte . Labbra sigillate di gesso. Capelli lunghi dalle varie tonalità dell’autunno, dell’inverno, dell’alba…
Mu, nonostante sentisse un disagio deferenziale, rimase fermo dominando la propria ansia.

Mancava ancora un ultimo importantissimo spirito.

Dalla foschia dell’Aldilà affiorò la grandiosa sagoma d’un uomo...
Portava un’elegante e sobria tunica bianca stretta in vita da una cintura purpurea.
La sua lunga chioma argentea, in parte raccolta da una coda, lasciava ondeggiare due leggere ciocche di capelli…
Il volto  dai nobili lineamenti era rigato da lievi rughe che n’accrescevano l’austerità e la bellezza.

Sion, imitato dagli altri cavalieri, s’inchinò con profonda venerazione:

- Eccelso Hakurei, Maestro mio, conduco dinanzi ai paladini d’Atena che furono, il discepolo Mu. Voi  che nasceste sotto l’Ariete e indossaste le vestigia della costellazione dell’Altare, voi che foste Gran Sacerdote, siete disposto a dar principio a questo rituale?

Hakurei trapassò gli occhi dell’iniziato.

Mu avvertì quasi una sorta di soffocamento ma non osò tentennare.
Sostenne con straordinaria forza quello sguardo abissale...Non  capiva se il suo colore fosse verde, blu o grigio…pareva che in esso si miscelassero le tinte del cielo e delle foreste…

- Mu…- disse l’anziano – apprendista del mio stimato allievo Sion, sei pronto per addossarti la gravità del nome che rechi? Sei pronto a congiungere la virtù della rinascita con l’ombra della distruzione?

Il respiro del ragazzo fu intenso e impercettibile.

- Sommo Hakurei, sotto l’Occhio dell’Ariete e sotto la volta d’Atena, m’accingo a percorrere il sentiero di questa prova di sangue e stelle.

Sion fece cenno a Kiki di venire al suo fianco.
Il bimbo obbedì  senz’indugiare.

- Col potere della sfera celeste infinita e imperscrutabile  – seguitò Hakurei – segno, dunque, l’inizio del Sacro Rituale del Montone Bianco.

Il sacerdote sollevò in alto una mano facendo comparire un vortice di raggi che rese la semisfera d’un biancore intensissimo.
Le vesti  dei cavalieri erano rubini che fiammeggiavano contro veli di neve immacolata.

- Grande Sion, procedi.

Il Maestro di Mu avanzò.
La schiera delle anime scarlatte allargò maggiormente il cerchio.

- Mio apprendista – si rivolse all’adolescente – dovrai dispensare il soffio della vita ai metalli morti  affinché tu carpisca le leggi del disfacimento  e le domini indirizzandole sempre alla Luce.

Mu si vide apparire davanti una doppia fila di corazze completamente rovinate.
Erano le ottantotto costellazioni d’Atena.
Non rappresentavano che una mera simulazione ma rendevano il rito pericolosissimo.

L’apprendista doveva regolare il flusso del  sangue che sarebbe scorso a torrenti.

Kiki cercò di deglutire piano, quasi avesse terrore che le anime s’adirassero a causa dei suoni della sua inquietudine.

Mu si tolse i bracciali di cuoio.
Con  tagli rapidi e precisi s’aprì le vene dei polsi.

Il  fluido vitale iniziò a colare…

Le due linee d’armature vennero, in pochissimo tempo, travolte dai fiumi sanguigni che gli sgorgarono dagli avambracci…

Il  fratellino rimase terrorizzato e impressionato: il rosso di quel liquido contrastava splendido e crudo contro il suolo estremamente pallido…
In che modo il giovane riusciva a restare saldo, con le braccia protese in avanti, senza vacillare?
Stava perdendo dal cuore e dalle arterie un’inimmaginabile quantità di linfa eppure rimaneva in piedi, imperturbabile, pieno di vita.
Silente e pareggiabile alle imperiose catene dell’Himalaya, arrestò infine  le emorragie.

Le armature erano tetre lapidi imbrattate delle lacrime vermiglie delle vene.

Hakurei porse, su un piatto dorato, gli attrezzi da scultore che l’adolescente  afferrò con  ponderazione dando inizio all’opera di rinascita…
Con sollecitudine, con occhi attenti e luccicanti, si dedicò alla resurrezione d’ogni armatura... La sua velocità di velluto lo rendeva un danzatore, un airone che si librava da un angolo all’altro d’un fiume…ai tocchi duri, aspri e diligenti del martello e dello scalpello le vestigia di bronzo, d’argento e d’oro si rianimarono spogliandosi dal pulviscolo bigio della morte.

Il sangue penetrò nelle corazze come leggera acqua piovana tra le fenditure delle rocce.
Ora non v’erano che gemme preziose che brillavano…

Il miracolo s’era compiuto.

Mu aveva infuso la vita. Aveva cantato muto, parlato muto con le armature.  L’anima non necessitava di suoni. Bastavano le scintille di temperanza del cosmo.

Sion sapeva quanti patimenti aveva dovuto subire  il  discepolo per conseguire un risultato finale di tale perfezione.
Sion sapeva quanto fosse grande Mu, sebbene il suo spirito potesse essere ancora percosso, come una canna di bambù, dalle lame del vento.
Sarebbe comunque riuscito a navigare. Ne era convinto malgrado  s’angosciasse di nascosto qualche volta.

-  Mu – fece Hakurei – hai terminato con successo la fase divinatoria della resurrezione. Il  Maestro Sion t’ha infuso un’ammirevole e intensa acutezza di cuore. Non hai oscillato minimamente. Sei stato padrone dei moti del tuo sangue senza che la paura o il panico t’ avessero demolito gli orizzonti dell’intelletto. Avverto che nel tuo cosmo i pilastri della conoscenza e della costruzione sono ben saldi. Ora…non ti rimane ch’apprendere i flussi della distruzione al fine di dominarli.

- Apprendista – soggiunse Sion – liberati degli indumenti che ti coprono il torace.

L’ultimo dilaniante atto stava per aver inizio.
Mu si tolse il mantello purpureo che gli aveva donato Leira.
Provò in quel momento un terrore allucinante.
Il dubbio fulmineo gl’attraversò la mente: se non fosse  uscito vivo da quel rituale?
Se non l’avesse mai più rivista?
Il ricordo del contatto con le sue labbra lo bruciò fin nelle viscere…in quel primo bacio, egli le aveva donato l’anelo del proprio respiro, le aveva regalato tutto sé stesso, tutte le sue speranze…

No. Nessun terrore.
Nessun tentennamento.

Sion contava su di lui. Si fidava dal più profondo del cuore. Inoltre non voleva e non doveva assolutamente perdere Kiki.
Leira…l’avrebbe riabbracciato di nuovo per vivere finalmente l’amore.

Mu si liberò della casacca color ocra, restando a torso nudo.


Dai piedi di Hakurei si levò un vortice di carbone che tinse di tenebra tutta la semisfera…
Kiki s’impaurì nello scrutare nel buio la figure dell’anime dei cavalieri: erano  cupi idoli color cremisi che galleggiavano su onde smorte…

Una luce, ad un tratto,  divampò.
Erano le fiamme del cosmo di Sion che si stava spandendo.

Il ragazzo vide il  Maestro mettersi di fronte…
Era inquietante ma dotato d’una beltà che in quel momento si mostrava inumana.
I  lunghissimi capelli parevano fatti di raggi solari…il viso era quello d’un dio di fuoco…gli
Occhi…erano d’un Ariete.

- Mu – gl’annunciò con voce spettrale di cielo – il mio cosmo e la mia mente ti trasmetteranno i poteri in grado di disintegrare gli atomi della vita. Se sarai capace d’iniettare tale forza dentro te stesso, potrai far estinguere ogni materia… Potrai farla annullare per sempre nella voragine della morte.

Il fuoco ch’avvolgeva l’uomo aumentò d’intensità come le tempeste solari.

- In nome d’Atena, Star light extinction… Stardust revolution…annegate nel cuore del mio allievo!

Un enorme lampo esplose.
Al posto di Sion, un montone di bruciante lucentezza.

Con i piedi piantati al suolo, Mu attese la sua corsa devastante.

L’animale gli si lanciò violentemente.

Kiki si coprì il viso con gli occhi.

Il giovane fu travolto da un dolore squartante.

L’Ariete lo trafisse con le corna affilate.
Era un uragano di tortura rovente.

Mu temette di scoppiare a brandelli.
Si sentì il sangue bollire, i muscoli squagliarsi, le ossa frantumarsi…
Tenne le mandibole chiuse disperatamente per non urlare.
Il respiro era divenuto inesistente.
Le gambe tremavano e cedevano.
Il cuore era ridotto a pezzi gonfi.

Doveva però resistere.
Sopravvivere.
Sopravvivere.
Sopravvivere.
Aldilà d’ogni possibilità, soluzione, limite.

Bisognava far dilagare il cosmo.

Sebbene  s’avvertisse distrutto riuscì ad acquisire una forza impossibile.

Le corna del Montone mutarono in braccia umane…

Sion gli aveva trapassato il petto  per infondere la carica annientatrice degli attacchi.

Ammirò infinitamente gli occhi del suo allievo…nonostante fossero stravolti dalla sofferenza non cadevano, lo fissavano nello spirito senza gridare…

Il giovane restava in piedi con il dolore che lo martoriava.
Non v’erano dubbi che sarebbe stato il futuro cavaliere dell’Ariete.

La  temperatura del cosmo del Maestro s’abbassò…
Tolse le braccia dal busto dell’iniziato.

L’ultimo spasimo svanì dalle interiora di Mu.

Si guardò il corpo: intatto. Sembrava che non fosse accaduto nulla. La pelle non era deturpata da alcuna ferita o ustione.

Non era comunque ancora finita.

- Mu – l’appellò nel buio il Maestro – adesso converti l’ influsso dell’estinzione in pura energia stellare. Annienta le tenebre che macchiano la cupola di questa dimensione, distilla tutto nella Luce totale.

Restava da ultimare quella grande fatica.
Bisogna incanalare nei torrenti del cosmo lo star light extinction e lo stardust revolution al fine di farli conflagrare senza annichilire nessun elemento.

Tale era il principio: comprendere la vita e la morte. Il nascere e il divenire. La creazione e la distruzione.
Ogni opposto andava soppesato in equilibrio sulla bilancia.
Il fuoco dell’Ariete era armonia.

Mu elevò le braccia al cielo.
Evocò la sua energia.

Nelle membra si rovesciarono uragani di tuoni.
Durante i primi secondi  la stessa  sensazione dolorosa dell’atto precedente…dopo, però, avvenne  una metamorfosi.

Il ragazzo si estraniò da qualunque percezione di male fisico…
Non patì più niente.
L’ustionante potere del Montone  mutò in etereo e titanico soffio vitale.

Star light extinction, stardust revolution – gridò l’apprendista – abbattete la muraglia d’ombre che assedia lo spettro della luce!

Delle vampate giganti , d’una brillantezza straordinaria, si lanciarono in aria tuonando rumorosamente.

Frammenti di cristalli neri piombarono al suolo svanendo in cenere.

La semisfera dimensionale tornò dorata e splendente come prima.

Kiki era più che felice ma non poté esternare ancora le sue emozioni.

Vi fu silenzio…

Mu distese le braccia lungo i fianchi.
Lo sguardo verde acqua dardeggiava d’onde pure. Celesti.

Gli spiriti dei cavalieri gli s’inchinarono come foglie d’autunno dinanzi all’albero che le ha fatte nascere.
Kiki era prostrato per terra in un tenero e commosso gesto d’amore.
Sion e Hakurei si genuflessero con rigogliosa umiltà.

- Mu – dichiarò l’Anziano guerriero – hai portato a termine il tuo percorso di conoscenza. Sei asceso al penultimo gradino della scalinata che conduce  alla vestigia d’oro.Che l’equilibrio della ragione ti possa dispensare sempre fortezza, temperanza, giustizia e prudenza.

-   Non appartieni più all’ordine degli Apprendisti  – affermò il Maestro –  Grazie  all’ audacia e all’ assennatezza con le quali ti sei distinto, d’adesso in avanti sarai il Grande Mu, erede della Sacra Arte di Riparazione dell’Armature.

L’adolescente si scambiò con la Guida un sincero abbraccio di stima e  gratitudine.

- E’ giunto il momento di far ritorno nelle terre dell’Ovest – asserì Hakurei – Grande Mu…è stato un  onore  prendere parte a questo Santo Rito. M’auguro di continuare a vedere i progressi del tuo spirito…so che nei meandri del tuo cuore rimangono ancora delle fiaccole da ardere…impadronisciti del Sole e…abbi cura, a tua volta, di donare un coraggioso successore alla nostra stirpe.

Sorrise soave ed enigmatico. Si voltò poi verso Sion.

- Mio antico discepolo…la tua vista mi ha colmato di viva gioia…quando avrai compiuto il tuo dovere verso la Somma Atena, avremmo modo di discorrere finalmente in pace…

L’ex allievo offrì un sorriso pieno d’affetto filiale,  di commozione, di luce un po’ dolente…

- Maestro Hakurei, vi prometto che potremmo camminare nell’Eliseo e vivere la serenità che la terra non ci ha concesso.  

Mu, con in braccio il fratellino, osservò in tacito  raccoglimento quella scena…

Sion non fu in grado di stringere lo spirito dell’amato Maestro.

I due, malgrado ciò, si guardarono…
Dei nastri , d’invisibile intesa, li allacciarono…
Anche quando Hakurei svanì con le altre anime nell’Aldilà si  poté captare nell’aria il  loro alone.

Un’aurea d’adorazione, un palpito immortale.

La cupola dorata si dissolse lentamente.

Di quei raggi atemporali non restarono che alcune lucciole negli occhi di Sion.

Due soli di ponente.
Vibranti. Danzanti. Sospiranti.

Due soli che non volevano chiudersi in stanze di mestizia.

Due soli che desideravano invertire la rotta del tramonto.
 

 


Note personali: perdonate questo ritardo, cari lettori!! È stata dura fare questo capitolo che , tra l’altro, non è neppure concluso -.- eh, già! Ci sono altre due parti! State tranquilli comunque! Le sto portando al termine e , quindi,  dovrei aggiornare al termine della settimana che verrà!! Confesso che ho ritardato anche perché oltre questo capitolo mi ero dedicata un po’ al 9° e al 10° O.O gli sbalzi d’ispirazione… XD devo finire di narrare un po’ di cose! XD Spero che questa parte “ alchimistica-rituale” vi sia piaciuta!! Avrete notato la comparsa di Hakurei, maestro di Sion che appartiene al prequel Lost Canvas ! penso che farò apparire qualche altro personaggio di questa splendida serie di Saint Seiya…vi rassicuro, dicendo che non è necessario aver letto questo manga…^^ se farò qualche piccolo riferimento, lo spiegherò ovviamente!!
Ai prossimi aggiornamenti e grazie come sempre!!!
 

 


 

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Capitolo 16
*** CAP 8: Le magie di Lindo: nelle camere di Sion ***


 

“ Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…”

( E. Montale)

 

Mu e Kiki discesero il sentiero dell’Acropoli  intrufolandosi nelle stradine ciottolose della città.
Prima di far ritorno ad Atene, Sion aveva concesso loro due ore di meritato riposo. Durante la mattina i due fratelli erano stati impegnati in un  lungo allenamento e nel pomeriggio aveva avuto poi luogo il Rituale del Montone.
Mu, col cuore pieno d’esausta gioia, si guardava di tanto in tanto la mantella color porpora che indossava…riaverla di nuovo a contatto col  corpo era come lasciarsi accarezzare da Leira…prima che fosse cominciata la fase finale del Rito, era stato costretto a spogliarsi d’essa: separarsi da quel gioiello era sottrarre a se stesso una parte d’ animo… erano franate le pietre taglienti del panico tutte d’un colpo.
Atena, però, gliele aveva demolite. Se ella metteva alla prova, era in grado al contempo d’offrire raggi di speranza e fiducia che apparivano , talune volte, tristemente assurdi.
Il giovane aveva proseguito e  creduto…se era riuscito a leggersi dentro, se era riuscito ad accogliere lo spirito della dea saggezza lo doveva al suo Sommo Maestro.

Si voltò alle spalle, verso l’altura dell’Acropoli…
Sion aveva espresso il desiderio di restare lì ,nella solitudine meditabonda, per diversi attimi.

Mu gli voleva un bene intenso e profondo.
Era guida, padre… era l’aquila che,  con l’ ombra che nuotava sul suolo, gli spianava le radure del Cielo. Restava, tuttavia, un manoscritto dalle splendide miniature criptate.
Il ragazzo aveva la sensazione di conoscerlo perfettamente ma aveva la coscienza di non conoscerlo affatto…quell’uomo, dalle sembianze di fiorita giovinezza e dall’animo d’un saggio pluricentenario, celava molte cose, forse si nascondeva in parte anche da se stesso…
Sembrava irraggiungibile. I portoni per entrare nel suo cuore potevano essere fatti d’un ottone spropositatamente pesante.
Sion era dotato d’una mente talmente sopraffina da parere una sorta di semidio…Mu, nonostante ciò, sapeva che la sua umanità era  tangibile:  ogni suo sguardo, ogni suo passo, disperdeva la  scia d’un misterioso polline d’emotività e irrequietezza.
L’adolescente avrebbe desiderato veramente essere un suo pari. Tante  volte pensava a come  Doko avesse parlato, riso, sofferto, lottato con lui…già…l’amicizia con Doko della Bilancia…uno dei  pochi elementi  della remota esistenza del Maestro che aveva presente.
Tante erano le perle serrate in un cofanetto sotterrato in chissà quale giardino…

Non gli  restava, dunque, che stimare, apprendere e contemplare con riservatezza. Si riteneva davvero fortunato. Rabbrividiva al pensiero d’essere stato benedetto dal Destino…se non avesse avuto Sion? Se gli fosse capitato un uomo di dubbia moralità?
Si ricordava di Milo, del suo legame col padre…capiva la ragione che spingeva quel guerriero ad amare la compagnia, ad essere scherzoso, estroverso : il silenzio era un crudele compagno che spingeva in tormenti d’antichi rancori e di sentimenti contrastanti.
Che dire di Ohen? Definire il suo defunto insegnante  spregevole era poco più che un eufemismo…
Death Mask, invece? Aveva subito i più atroci addestramenti, nell’Etna, sotto lo sguardo letale di Serse, il più oscuro dei cavalieri d’argento…

- Fratellone, il Signor Sion ci raggiungerà dopo? – domandò Kiki.

Il brusio della cittadina sottostante non scalfiva lo scorrere dei minuti, invecchiati e  insonnoliti,
degli antichi edifici…
Mu protrasse ancora per un po’ il suo sguardo sulla sommità dell’Acropoli.

- Sì…- mormorò infine sorridendo – il Maestro scenderà da quelle scale e ci verrà poi incontro.

 

 

Lindo era un grumo  di zollette di zucchero che si sparpagliava attorno al colle dell’Acropoli.
Da lì sopra Sion esaminava le casette candide, i pioppi, i pini marittimi , il mare turchese e blu che si sarebbe macchiato, nelle ore successive,  dei goccioli  del tramonto…
Mu e il fratellino si stavano sicuramente avviando verso il centro della città.

Mu… il suo discepolo…
Ne era trascorso di tempo.

Sion rimembrava con triste e gioiosa tenerezza quando quella notte,  nell’Osservatorio sull’Altura delle Stelle, avevo appreso la nascita del suo futuro successore.
Le stelle s’erano  mostrate più che limpide. Il volere d’Atena era stato inciso con parole d’azzurra luce.
Era il ventuno marzo, equinozio di primavera. Il ventisette sarebbe venuto al mondo…lui.

Al termine dei venti giorni che seguirono quella nascita, andò in Tibet, nel villaggio del Sole di Giada.

Era una mite  giornata d’aprile…

- Sta arrivando il Grande Sion! Sta arrivando il Grande Sion!- esclamò un muratore correndo per la strada principale del piccolo borgo.

La gente levò nell’aria un coro agitato ed entusiasta.
Da moltissimi anni  il nobile cavaliere dell’Ariete non si recava in quei luoghi.
Deteneva il potere dell’ animale protettore dei villaggi del Tibet.
Era il pluricentenario maestro dell’arte di riparatura delle vestigia.

Gli abitanti capirono immediatamente il motivo della sua grave visita: il neonato con le due strane macchie sulla fronte. Il  figlio di Dem Lai e Suntel.

Sion, con l’armatura dorata,  percorse  calmo e ieratico la via principale, rispondendo agli inchini deferenziali delle persone…
Giunse infine ad una casetta di legno dove dinanzi alla soglia lo salutarono due bei giovani: un ragazzo di vent’anni e una delicata fanciulla diciottenne che aveva in braccio un piccino.
Sorridendo garbatamente, l’uomo domandò:

- Siete voi Dem Lai e Suntel, genitori del neonato Mu?

Intimidita dal guerriero la coppia di coniugi annuì.

- Perdonate la mia impudenza. Io, Sion, cavaliere dell’Ariete, sono giunto qui poiché ho appreso dalle stelle la nascita del mio futuro apprendista, colui che dovrà ereditare le vestigia che io ora indosso.

I giovani, presi dall’ansia dello sbigottimento, fissarono il loro bimbo.
Il maestoso paladino  dell’ariete non poté fare a meno di contemplare dolcemente quella scena…
S’incantò soprattutto nell’osservare il piccolo…
Tra le braccia della mamma, era un micetto  che guardava incuriosito il mondo coi suoi grandi occhi verde acqua.
Il visino paffuto, il naso minuto, il capo ornato di capelli lilla, lo rendevano una soffice goccia di rugiada.

“ Una stella appena sorta…un fiore che dev’ancora schiudere la sua corolla…un cucciolo totalmente ignaro e bianco…” rifletté con seriosa tenerezza Sion.

Come convincere una fresca coppia  ad accettare un futuro destino  di pericoli e doveri?
Con che diritto strappare il loro figlio dai programmi d’un’esistenza serena?
Il volere divino: la legge d’Atena. La preservazione della pace: ne andavano le sorti dell’umanità. Era giunta di nuovo l’era in cui l’ordine dei cavalieri d’oro doveva rinascere…
Il guerriero dell’Ariete ne era più che consapevole ma il cuore gli bruciava nel guardare Dem Lai e Suntel: nei loro sguardi decifrava una spaventata consapevolezza in quanto essi sapevano che sarebbe arrivato quel momento…avevano però cercato di dimenticarlo, farlo sciogliere come un miraggio…forse preferivano non credere…forse desideravano che quella mattina fosse solo una  nube passeggera…
Nei loro confronti, Sion manteneva un contegno formale, rispettoso, temperato come era opportuno che si comportasse un saggio uomo d’armi.
Non era possibile comunque sopprimere nei propri meandri l’essenza umana…

- Permettete?- chiese gentilmente ai due  accennando con lo sguardo a Mu.

Suntel in soggezione ma senza abbassare il capo glielo  porse lentamente.Venne  preso con delicatezza tra le braccia.

Fu una sensazione struggente.

Nonostante preservasse un’espressione quieta e posata, Sion , dentro lo spirito, fu inondato da un acquazzone di gocce roventi e dolci  che gli si versò in ogni arteria.
Da quanti anni non stringeva un neonato?
Da quanto tempo non era più padre e non poteva cullare la sua Hymen?

Troppo…troppo…talmente tanti soli erano nati e morti che il passato pareva chiuso all’interno un’anfora seppellita sotto i cipressi.

Mu aveva demolito per un istante il coperchio di quel vaso…

Gli occhi purpurei dell’uomo s’incrociarono con quelli del piccino in un incorporeo ponte d’astri.

- Maestro Sion! – fece tremante Suntel avvicinandoglisi- v-voi…porterete via…Mu?

- Non potremo più vederlo? – soggiunse Dem Lei visibilmente agitato.

- No…- rispose pacatamente il cavaliere – durante gli addestramenti vostro figlio continuerà sempre a tornare qui… quando avrà compiuto tre anni dovrò iniziarlo gradualmente alla vita di servitore d’Atena…per lunghi periodi  si recherà con me nelle terre dell’Himalaya, del Jamir, nelle altre località dell’Asia per imparare il controllo dei suoi poteri…vi saranno diverse occasioni in cui apprenderà anche ad Atene, sede del Grande Tempio.

I due sposi non sapevano se sentirsi magramente consolati o no.

- Signore…- mormorò la madre di Mu con triste angoscia- proprio…nostro figlio?

Sion la fissò gravemente.

- Perdonateci, ma…- proseguì la giovane- non può essere qualcun altro a…occupare il futuro posto di cavaliere dell’Ariete?

- Maestro Sion…- aggiunse il marito – non oseremmo mai dubitare di voi…però…le stelle hanno davvero predetto la sorte del nostro Mu?

L’uomo sospirò piano…
Sentì l’animo pesargli come una montagna.
Spostò un istante l’attenzione sul bimbo: squadrava le cose colmo d’interesse e privo di paura…l’incoscienza gli conferiva serenità e protezione…

- I moti degli astri celesti – rivelò- sono incorruttibili e perfetti. Non appartengono al divenire della Terra, non conoscono le incertezze e i dubbi di cui è succube l’animo umano. Essi trascendono qualunque nebbia, qualunque fuliggine che impolvera il nostro mondo. Le stelle sono divine…nessun loro verdetto è errato.

Dem Lai e Suntel non poterono obiettare più nulla.
Si strinsero mestamente l’uno all’altra.

- Piccolo Mu – si rivolse Sion- in nome d’Atena, t’infondo tutta la luce del mio bene, affinché dentro di te si svegli l’energia latente del  cosmo.

Gli toccò con l’indice destro la fronte  creando  una piccola scintilla.

- Sarai il mio apprendista e giuro, sul sangue del mio cuore, che ti condurrò sulla via della Luce e della Conoscenza. Che l’Occhio dell’Ariete dimori perennemente nel tuo animo e vegli sul tuo destino.

Mu, ridendo, gli afferrò il dito con la manina  .
Il Maestro  sorrise e lo restituì alla mamma liberandosi tenuemente da quella presa.

Dem Lai e Suntel s’inchinarono solenni e abbattuti.
Sion ricambiò il saluto e volse le spalle in direzione dell’uscita del villaggio.

Mentre s’allontanava, Mu  non smetteva d’ammirarlo…
La sua figura, dalla lunga chioma dorata, era così bella, inafferrabile, dotata d’un’azzurra nobiltà…
Quel mantello bianco, che l’avvolgeva, ondeggiava celando la porta delle steppe notturne delle guerre…

 


Chi era?
Com’era?
Dov’errava?
Sion si conferiva molte, troppe, zero risposte.

Maestro? Sì.
Di fasci luminosi, sapienza, lotte, disegni divini…

Sacerdote? Sì.
D’Atena, dello Zodiaco, dell’Est, dell’Ovest… della notte. La notte che sorregge la luna. La notte che brancola nel suo stesso buio.

Era traghettatore? Sì…
Tutti i fiumi conosceva poiché d’ognuno aveva avuto timore.

Cos’era per Mu? Angelo o carnefice?

Spesso rifletteva con amarezza. Certo, stava compiendo la sua missione: ormai l’ allievo, dopo tredici anni,  aveva terminato il percorso di formazione. Entro tre anni avrebbe dovuto conquistare l’armatura d’oro…
Cosa si rimproverava come guida? Niente…stava perseguendo il suo dovere nei confronti d’Atena…eppure…non era mai riuscito a dimenticare le espressioni di Dem Lai e Suntel  quando avevano realizzato la sorte del proprio figlio. Innumerevoli volte, si domandava come sarebbe stato se avesse lasciato Mu tra le braccia del semplice mondo quotidiano: nessun supplizio fisico o  prove disumane , nessun peso divino sulle spalle…

“ Mu, non sai quanto  desidero chiederti scusa” meditava Sion “ ho assistito al superamento dei tuoi ostacoli con sguardo di pietra…lo sai, non posso palesare spesso i moti dell’emozioni. Sono Maestro e su di me grava  una missione che m’ha affidato Atena…t’assicuro che però mai, in questi anni, sono restato indifferente alla tue lacrime. Se le stelle l’avessero concesso, avresti assaporato la   tranquillità nel tuo villaggio…non ti sarei comparso davanti…avresti superato piano, piano, la sanguinosa ferita del lutto dei genitori circondato dalle montagne e dalla serenità. Un amore profondo, inoltre,  ti lega a quella fanciulla… Leira…cos’avresti potuto temere? “

Il mare continuava a respirare allagando l’infinito orizzonte.

Ci si può svegliare prima del Sole ma il Destino ci precederà sempre…stabilisce tutto a nostra insaputa….Non vi sono  nascondigli per evitarlo, non esiste una tagliola in grado di ghermirlo, non nascerà mai un cacciatore che appenderà la sua testa come trofeo. Mu, anche il tuo fratellino è stato investito dalle stelle dell’Ariete ma per  fortuna può contare su di te e sulla grandezza del tuo animo…”

Sion sorrise rammaricato.

Se solo il Fato m’elargisse il suo pennello, ridipingerei  la tua esistenza priva di pioggia e di neve…senza lotte, senz’armature…tu e Kiki distanti e alieni dalle tempeste del Santuario…tu e Leira liberi dalle catene della paura.”


Un odore singolare distolse l’uomo dalle proprie elucubrazioni.

Era un aroma tenero…leggero…colorato nebbiosamente…
Un aroma famigliare.

Ricordava la pelle, le vesti, la chioma d’una donna.

Sion era allibito.
Stravolto.

I portali della sua antica esistenza si spalancarono violentemente.

Una raffica di vento gli mostrò un nome inciso su una lapide.


Briseis.


Era la seconda volta, da quando era arrivato in Grecia, che riaffiorava quel fiore ormai sformato dal macigno degli anni…Prima nella calma eterna della necropoli d’Atene, ora…a Lindo.

Lindo…Lindo…non era  stata la città natale di lei?
Lei, Briseis?
Il Maestro di Mu si mise una mano sul cuore come se avesse il timore che divenisse di nuovo rigoglioso o si disintegrasse in pezzi di carbone…

Dal pozzo del passato ecco che la carrucola gl’aveva  sollevato un secchio…un secchio ricolmo d’acqua brillante e buia…sullo specchio bagnato di quelle piccole onde un viso….
Il viso dell’amore.
Il viso che adesso si spogliava della croce della morte.

Lo spirito venne trascinato giù per cascate remote…

Ecco che Sion si rivedeva quindicenne.
S’era  stabilito permanentemente ad Atene in un semplice ma spazioso alloggio….non poteva ancora risiedere nella Casa del Montone Bianco in quanto doveva concludere il suo percorso d’apprendista….

Quel  pomeriggio  di giugno il Sommo Hakurei aveva deciso d’intervenire all’interno dei suoi spazi….domestici.


- Sion, lei è Briseis. D’ora in avanti sarà la tua ancella personale.

L’adolescente guardò con scarso entusiasmo la fanciulla minuta che gli stava davanti….
Perché mai al Maestro gl’era saltata in testa la brillante idea di affibbiargli  una servetta? Il suo alloggio privato non ne aveva bisogno, andava bene così!
Regnava l’armonia, la libertà. Si poteva riporre qualunque oggetto su qualunque ripiano, nella stanza da letto i manoscritti  di letteratura, filosofia e storia svolazzavano senza regole dalla scrivania al pavimento, negli armadietti e nelle casse gl’indumenti venivano piegati con gioiosa non chalance…
Ora tutto sarebbe andato in rovina!

- E’ un onore entrare al vostro servizio padron, Sion – sorrise compostamente la ragazza con un inchino.

“ Sarebbe un onore se filassi a far la polvere da qualcun altro! “ avrebbe voluto rispondere il guerriero ma disse  con forzato garbo: - sono io…emh…lieto d’avervi come…governante del mio appartamento privato.

Quanto pesarono le ultime parole!
Ad Hakurei, non sfuggì quella lieve incrinatura di voce.
Fissò con leggero cipiglio l’apprendista e proferì a Briseis: - potresti scusarci, gentilmente?

Prese per un attimo in disparte Sion e gli mormorò severamente ad un orecchio:

- Bada a non fare il  ragazzotto grezzo! Briseis è  una diligente fanciulla  appena trasferitasi da Lindo con la famiglia… lei e i genitori sperano di vivere bene qui a Rodorio e di lavorare tranquillamente. Evita di procurarle inutili affanni, chiaro?

- Maestro , ma per quale ragione vi siete scomodato così?! Ve l’ho detto che io non necessito di…

- Tu necessiti di molte cose e una di queste è quella  di convivere con l’ordine!

- Ho una personale gestione del mio alloggio e niente sfugge alla mia attenzione e…

- La sai suonare bene la tua canzone! Peccato che dovrai farti rimettere in riga.

- Maestro, vi supplico…

Non  ascoltò  le  implorazioni dell’allievo.

- Briseis, il mio discepolo ti darà le giuste indicazioni sulle mansioni che dovrai svolgere. Vi lascio.

Si congedò cortesemente dalla giovane e lanciò un ultimo sguardo ammonitore a Sion.
Non appena  se ne fu andato l’ancella chiese:

- Se non sembro  impudente, vi chiederei , per favore, di  farmi conoscere  la vostra dimora…

Il ragazzo la squadrò seccato.
Sospirò frustrato.

Si avvicinò a lei, impettendosi  altezzoso affinché il suo imbarazzo  potesse  mascherarsi.

“ Tsé…non è neanche il mio tipo” pensò “ guarda quant’è lentigginosa…”

Era un’adolescente molto semplice e quasi anonima: viso piccolo, nasetto un po’ tondo, occhi  scuri , capelli lunghi e neri raccolti in una treccia attorcigliata  sopra la nuca…
Niente di speciale o bello.

- Allora? – lo sollecitò lei – le vostre camere sono talmente piene di inconfessabili segreti che nessuno le può ammirare?

Rise leggera e vivace.
Sion rimase interdetto da quell’atteggiamento ironico, spontaneo e ilare.
Irritato nel suo orgoglio ribatté:

- Se non hai intenzione di dilettarmi con qualche altra spiritosaggine ti faccio vedere le stanze…

- Perdonatemi.

Sorrise dolcemente piegando il capo come fosse una bimba dispettosa.

Sion le osservò le  labbra…avevano una linea pulita e bella, simili alle ali d’un gabbiano…
Guardò  bene i suoi occhi…non erano d’un nero puro…rilucevano di meravigliosi sprazzi violacei…
I capelli di carbone riflettevano  raggi  verdastri  che richiamavano alla mente le fronde dei pini…


 Il Maestro di Mu rise piano….un po’ mesto, un po’ dilettato…
Gli pareva quasi di leggere una fiaba…la sua  fiaba che  , un tempo lontano, era stata reale.
Si svelava straniante l’effetto di contemplarsi adolescente, ragazzo con il desiderio di raggiungere la temperanza ma con  l’impulsività che non voleva cessare di cantare.

Era distante e terribilmente vicina l’immagine di Briseis…

Sion aveva sempre scrutato gl’anni ingrigiti con il cannocchiale: da quella lente solo isole irraggiungibili...
Adesso, però, tutto  s’era arrampicato sulla superficie d’un  iceberg.
La giovinezza sembrava di nuovo palpabile e… Lei era resuscitata. Resuscitata con tutte le giornate di piccoli battibecchi, incomprensioni, duelli.
L’uomo rimembrava, sorridendo, che non era stato un colpo di fulmine quello con l’ amata.
Non gli piaceva neanche all’inizio, sebbene avesse scrutato qualcosa di vagamente speciale e attraente  nel suo volto.
Ce n’era voluto di tempo per rendersi  conto di quanto fosse bella, di quanto fosse dotata d’uno splendore unico simile a quei libri che vanno  riletti  più volte per carpirne il vero valore.
Le battaglie erano state innumerevoli: lui era solito a polemizzare sull’ordine  che non gli faceva trovare più nulla, lei resisteva caparbia continuando più zelante di prima nelle pulizie…borbottii, rimproveri, lamentele…

Sion s’era impresso nella memoria le espressioni di Briseis: sguardi bonari, determinati, beffardi e  mai furbi o maligni…sguardi da generale d’esercito, da madre severa.
Tante volte s’era ritrovato a soffrire sgridate al pari d’un bimbetto scalmanato. L’ ancella lo riprendeva  peggio d’una moglie ed egli minacciava perennemente di licenziarla senza alla fine  mai trovare il coraggio di concretizzare tale atto…la casa non poteva riordinarsi da sola…le colazioni, i pranzi e le cene erano più gustosi se preparati da mani femminili…
Con quel latente infantilismo che risiede negli uomini, aveva apprezzato  gradualmente le mansioni della giovane, specialmente gradendo il modo in cui gli aggiustava la corazza prima d’ogni addestramento, gli sistemava i capelli e gli faceva trovare la vasca da bagno pronta…
Mese dopo mese scopriva cose nuove…
Evadeva dall’universo delle lotte, per apprendere le piccole magie del mondo normale…le piccole magie di Briseis…

Con mesta nostalgia Sion aprì un’altra delle finestre della memoria…
Erano i primi di settembre. Aveva concesso alla ragazza una settimana libera per ritornare a Lindo coi suoi in occasione d’un’importante festa locale. Era una cerimonia in cui ella avrebbe cantato…
Alla scoperta di ciò,  aveva deciso che non si sarebbe perso quell’evento…non sapeva ancora che forma  possedessero i propri sentimenti, ma doveva recarsi a Lindo. Era sicuro ch’avrebbe assistito ad un meraviglioso spettacolo.

Con la scusa d’un addestramento straordinario , al di fuori d’Atene,  si recò nell’isola di Rodi trascinandosi appresso il suo migliore amico… 
 

Sion e Doko si stavano avviando frettolosamente verso il centro di Lindo.
Sudati e lerci di polvere d’allenamento, avevano appena abbandonato la campagna circostante macchiata di  boschetti e terra brulla.

- Sion! Si può sapere che caspita hai in mente?!

- Fare un giro in città.

- E  che fretta c’è? Mica i palazzi scappano! Andiamo a lavarci un attimo con calma! Sai che profumo di mare emaniamo dopo otto ore d’esercizi?

- Ci puliremo dopo! Adesso non dobbiamo!

- Ma perché?!

- Taci e corri!

Il biondo e il rosso si scaraventarono dentro le mura  della città.
La gente scorrazzava allegramente per le vie. Le bancarelle spumeggiavano di deliziosi prodotti alimentari.
Si udivano  musici che s’esercitavano con flauti,  trombe, percussioni.
 Le case candide erano adornate come giovani vestali… Dai balconcini di ferro battuto pendevano delle fini e ricamate coperte da festa. Le imposte azzurre delle finestre di legno erano addobbate con stendardi colorati. Gli orli delle terrazze si mostravano ingioiellati di gigli, rose, fiordalisi.

- Che cerimonia sta per aver luogo? Si celebra qualche santo? – chiese Doko fermandosi e voltandosi affascinato da una parte all’altra.

- Da quel che so – rispose Sion- festeggiano la Madonna della Baia Azzurra.

Diverse fanciulle si bloccarono per  fissare   i due guerrieri asiatici ch’erano a torso nudo…i loro corpi imponenti e ben scolpiti non passavano certo inosservati…

- Presto, Doko!! Andiamo in piazza!!

- Cosa diamine t’infiamma le budella?! 

- Spicciamoci! Tra poco canterà!! 

- Chi?!

- Muoviti!!

Ripresero a  saettare eguali a ghepardi della savana.
Al loro impetuoso spostamento d’aria,  le ragazze  si tirarono giù i lembi delle gonne  sollevati. Ridendo giulive strillarono:

- Ehi! Bei fusti!!Tornate qui !

I ragazzi erano, purtroppo, già giunti in piazza.

Da uno dei vicoli secondari stava giungendo una solenne processione.
In prima fila, succedute dai portatori dei  vessilli sacri, una schiera di giovani donne con delle immacolate vesti di seta.
Al centro , una fanciulla dai lunghi e ondulati capelli neri. La fronte era cinta soavemente da una sottile ghirlanda di margherite…la vita sottile e morbida era orlata da una cintura dorata di velluto…
Era la prima cantrice del coro.

- Sion ,non è la tua…

- Ssssh!!

I suonatori si disposero ordinatamente, pronti a dar forma all’inno religioso.
Doko guardò l’amico che s’accingeva ad udire Briseis. Ridacchiando piano gli sussurrò:

- Allora, Ulisse? Hai bisogno che ti tenga legato all’albero maestro della nave? Le sirene sono tremende…

- Scemo!

Sion gli sferrò una gomitata nelle costole.

Briseis dipinse col pastello della propria voce il salmo celeste…
Perle rosee, luccicanti…una catena di cristalli smossa dal vento…petali di magnolia profumati…il cavaliere dell’ariete non sapeva quale immagine di sottile vetro potesse definire meglio il timbro della ragazza…
Era davvero una semplice serva? Un’ancella in grado solo di pulire, spolverare, riordinare?

No…forse era veramente una sirena o una ninfa o la figlia d’una Musa…Tersicore l’aveva benedetta in un qualche misterioso modo…

Possedeva una sottigliezza, un’innata elevatezza che non appartenevano  alla rustichezza della gente umile…aveva mantenuto quella grazia, semplicissima e fresca dietro i panneggi delle mansioni domestiche…ogni suo gesto quotidiano era deciso, sobrio, elegante…
Sion non distolse un solo minuto lo sguardo dal suo viso puntinato di lentiggini.
Doko , divertito,  studiava quell’ espressione ipnotizzata…
Quando si concluse la litania in onore della Vergine proruppe sorridendo:

- “ Non è il mio tipo” , eh? “ È una ragazzetta pignola, insolente e guastafeste”, giusto?

- Che vuoi insinuare?

- Che non mi hai confessato parecchie cose.

- Piantala.

- Ecco  il tuo orgoglio da testa di legno! Ecco che non vuoi soppesare la verità!!

- Sei molesto, bilancino!!

- Hai paura d’incornare il tuo cuore, arietino?

- Deficiente.

- Dove andrai se la  testaccia a posto non metterai?

Sion prese a ricorrere l’amico.

Briseis proiettò la sua attenzione a quel vivace duo d’adolescenti…
Non poté non riconoscere la lunga chioma dorata del  padrone…

Com’è che aveva deciso di recarsi a Lindo?
Com’è che…l’aveva ascoltata?

Arrossendo di confusione e di piacere, cercò ti tenere ben salde le briglie del suo cuore galoppante…
 

Sì…Briseis gl’aveva teso degli incantesimi…
Sion  aveva compreso che  era dotata d’un animo straordinariamente fine…si ricordava della sua voglia d’imparare a leggere, della tristezza con cui sfogliava  libri che desiderava apprendere…
Egli aveva  stabilito, dunque,  come un decreto d’oro, d’iniziarla al mondo della lettura e della scrittura. Grazie alle sue lezioni,  era riuscita ad uscire dal  buio dell'analfabetismo che non le aveva mai  permesso d’apprezzare le parole…
Adorava spiegarle il significato dei termini, le frasi che dipingevano una scena epica o che esplicavano un concetto filosofico…la ragazza lo ascoltava attentamente e anche se era consapevole che non sarebbe mai  riuscita ad eguagliare i suoi livelli di cultura si sentiva molto più fortificata.

Così le giornate avevano preso a fiorire sempre di più…

Così Sion rammentava quegli arcaici sentimenti che erano  divenuti  gradualmente più intensi e infiammati…
Ecco che osservava i suoi primi abbracci, l’avventatezza dei suoi primi baci, le dolci manifestazioni del desiderio fisico. 

A quell’improvviso divampare d’emozioni  , l’uomo riemerse un attimo dall’apnea del passato…


L’odore di Briseis sembrava , tuttavia,  diventato più intenso.
 

Il Maestro di Mu s’allontanò dal Tempio d’Atena per seguire la bruma del profumo…giunse un po’ più distante dinanzi ad un antico edificio:  le rovine d’un castello d’età bizantina.

Posò una mano sulla facciata del palazzo, dominata  da uno splendido portone fregiato…

In quel lontano giorno era stata più dorato, magnifico…
Era stata testimone d’una grande promessa.

Dalla sua parte i  compagni d’armi e il Maestro…dalla parte di lei il gruppo dei famigliari…

A presiedere quell’intima e immensa cerimonia Doko, il  grande amico…
Avevano diciotto anni, l’armatura d’oro conquistata rischiando la pelle ed una gioia di dimenticarsi gl’uragani del Santuario…

Lei, Briseis sorrideva bianca…


Il  cielo di luglio ostentava con ilare boria il suo magnifico manto turchese.
Il sole lo assecondava beffardo dando mostra dello splendore sublime dei propri dardi.

Sotto le arcate  del castello bizantino, tra le pareti decorate di meravigliosi mosaici che luccicavano d’antiche glorie, un  gruppo di persone assisteva ad un matrimonio.
Si potevano distinguere dieci   giovani di  avvenenza e portamento nobili , un signore dai lunghi capelli argentei e una grande famiglia dagli abiti sobri ma curati finemente per l’occasione.
Dinanzi alla terminazione absidale dell’edificio v’era il cerimoniante e la coppia di sposi.

Doko, con un elegante e austero abito verde scuro,  recitava le formule del prezioso rito.
Sion e Briseis, fianco a fianco, indossavano candidi vestiti di cotone. Il giovane aveva una lunga  giacca orlata d’oro e porpora, la fanciulla una veste  dalle maniche trasparenti, ricamata con disegni blu e azzurri.

Vi erano tutti i cavalieri d’oro: il valoroso Sisifo del Sagittario, il generoso Hasgard del Toro, l’ esuberante Regulus del Leone, l’erudito Degel dell’Acquario, l’ardente Cardia dello Scorpione, l'austero El Cid del Capricorno, l’irriverente Manigoldo del Cancro…
Persino il misterioso e scontroso  Defteros dei Gemelli e il reticente buddista Asmita della Vergine s’erano presentati all’invito.
Una piacevolissima sorpresa l’aveva fatta il gentile e stupendo Albafica dei Pesci decorando con magnifiche rose bianche le arcate del castello…era una contentezza vederlo tra gli invitati visto che purtroppo viveva spesso nella solitudine.

A decorare quel quadro di guerrieri non mancava il grande Hakurei, con l’impareggiabile carisma di nobiltà e riservatezza argentee. Pareva si potesse tastare l’eccellenza del suo alone anche a distanza…

Un ‘amena quotidianità  la conferiva,  indubbiamente,  la famiglia della sposa:   la madre  era commossa, il padre felice e dispiaciuto di veder la sua bambina in un’altra dimora, gli zii sorridevano allegri e desiderosi di festeggiare, le cugine fantasticavano romanticherie, i cugini  volevano divertirsi, i nonni rimanevano lieti e tranquilli nella loro riservatezza.


- Sion – l’appellò con voce grave e chiara Doko – dinanzi alle stelle zodiacali  che orbitano vicino al Sole, dinanzi all’infinito disegno dell’Universo onnipotente, giuri d’amare, venerare e proteggere Briseis come  legittimo e dorato sposo ?

Sion fissò con immenso amore la ragazza.

- Sì, lo giuro in nome dello Zodiaco solare e dell’Universo  invincibile.

- Briseis – fece  il cavaliere della Bilancia -  sotto l’incontrastato Cielo che muove il vento, le stagioni e che  regna sulla terra del Mondo, giuri d’amare, sostenere e illuminare Sion come legittima e bianca sposa?

Briseis abbracciò il guerriero dell’Ariete con lo sguardo.

- Sì, lo giuro in nome del Cielo profondamente azzurro e immortale.

I due giovani si presero per mano.
Il cerimoniante afferrò protettivo il loro gesto pronunciando tali parole:

- Io, Doko custode di Libra,  la bilancia  che detiene l’equilibrio, l’armonia e la purezza della verità, vi dichiaro marito e moglie finché l’ombra del sonno eterno non vi separi.

Sion e Briseis si baciarono dolcemente.
Incuranti del freddo.
Incuranti della morte fatta di notte senza preavvisi.


“ Finché il sonno eterno non ci separi,  Briseis, il sonno eterno…”  pensò Sion allontanandosi bruscamente dal castello bizantino.

Cominciò ad avviarsi un po’ più veloce per i dedali interni di Lindo.

Che tenero dolore, che soffocante rumore…la musica più idilliaca e infernale la componeva il cuore.

Il Maestro di Mu non riusciva a comprendere se voleva fuggire dallo spettro del passato o abbandonarsi ancora alle sue torturanti carezze….
Cercava di camminare a passo spedito, per le viuzze più affollate…
Sperava che il vociare delle persone lo distraesse, lo scuotesse…

Il  passato doveva essere scaraventato lontano. Lontano. Lontano.
In fondo ad abissi inavvicinabili.

L’uomo desiderava raggiungere Mu e Kiki, tornare ad Atene.
Lindo faceva troppo male.
In un fatiscente orfanotrofio, aveva conosciuto Doko. Doko che non riusciva più ad incontrare adesso.
Quella era la città natale di Briseis, quella era stata la città di sogni…

Camminava, camminava, camminava. Ogni passo più che portarlo avanti lo faceva restare indietro.

Si sentiva in trappola. Gli vorticava la testa.

Si fermò un istante inspirando lentamente…

Ruotò gli occhi attorno per vedere se il fantasma degli anni defunti lo stava seguendo…

La sua attenzione fu catturata, all’improvviso,  da un piccolo foglio che si trovava un po’ più distante da lui…

Non sembrava niente di che. Soltanto un pezzetto di carta.

Riprese a passeggiare ma s’immobilizzò  subito dopo.

Doveva vedere quel fogliettino.
Non sapeva cosa lo spingesse però doveva farlo.

Si chinò per terra e raccolse quel frammento di paginetta. Era ingiallito. Sembrava davvero vecchio.
La prima facciata era vuota.
Vide la seconda.

C’era scritto qualcosa…

Iniziò a leggere.
 

Piccola rondine, mi sembri già capace di volare
perché la luce in grandi bacini lasci colare.
 A me,  Ariete guerriero, che a volte ha paura,
doni un cielo che il mio cuore rassicura.
 Sei l’arcobaleno d’una fresca brina,
 sei un vento fiorito che i rami incrina.
 Ogni volta che solcherò la laguna della guerra,
basterà l’immagine del tuo riso a ricordarmi la luna e la terra.
Mai mi stancherò di cullarti tra le braccia
col tuo sguardo che la gioia allaccia.
 Mai mi stancherò di vegliare il tuo letto
 che dal mio amore sarà sempre protetto.
La canzone più bella è il tuo anelo
che scioglie in me gl’aghi del gelo.
 Non mi spaventerà il buio delle grotte:
sei più stellata di qualunque notte.


Restò turbato con ogni capillare del  corpo.

Assurdo.
Quella era la sua calligrafia. 

Un’alabarda piantata nel cuore.

Avvertì il proprio respiro affannarsi, prendere fuoco…

Quella filastrocca l’aveva dedicata a Hymen.
L’aveva riposta  nella sua piccola bara dopo la morte.

I suoi occhi s’annebbiarono.
Si prese la fronte tra le dita per implorare alla mente di non piangere.

Come fare? Come fare? La sua bimba prese a correre nelle stanze dell’ anima chiamandolo…

“ Papà…papà…papà”

Lei voleva giocare.
Lui voleva morire.

Non sarebbe mai uscita al di fuori del suo spirito.
L’aldilà non le avrebbe mai concesso le chiavi della vita.

“ Torna a dormire, tesoro…” si diceva Sion con le lacrime che minacciavano d’evadere “ torna a dormire…il tuo papà non può più giocare con te…guarda, quant’è vecchio: ha camminato per così tanti anni che ha paura di ricordare e guardarsi dietro.”

La bambina  fermava i propri passi guardandosi spaesata e tendendogli le mani.

Il venerando guerriero era completamente falciato. Quant’era grande l’emorragia che gli sgorgava dal cuore?

“ Hymen, ti prego torna indietro…vai via…scendi nelle profondità del mio pozzo! Mi stai uccidendo…”

Un piccolo tocco fece cessare quella pioggia.

L’uomo s’accorse che una palla gli era rotolata contro il piede.

- Scusate, signore…- mormorò una vocina timida.

Si voltò a sinistra e vide una bambina dai capelli dorati avvicinarglisi.
Per alcuni minuti la vista gli vacillò.

- Hymen! – esclamò.

La piccola, un po’ turbata, si riprese in fretta la palla e balbettò:

- Emh…io m-mi chiamo Lina.

Sion la vide meglio…
Imbarazzato da quell’abbaglio, sorrise dicendo con tono rassicurante:

- Perdonami…ti ho scambiata per…un’altra persona.

La bimbetta, sorridendo impacciata, sgattaiolò via.

Il Maestro di Mu sospirò frantumato con ancora il foglietto della filastrocca in mano che si dissolse in tante briciole che volarono nell’aria.

Egli le guardò volteggiare e…prendere una direzione…
Pareva volessero indicargli qualcosa…

Seguì la loro traiettoria.

Svoltò all’interno d’un piccolo piazzale circondato da abitazioni di due piani.
Al centro un pozzo antico, risalente forse al settecento… I coriandoli del suo foglio si gettarono  nel buio di quella gola.

V’era quiete…di velluto…d’ovatta…

Sion s’avvicinò cautamente al cilindro di mattoni di pietra crudi.
S’affacciò all’orlo.

Non avvertiva l’energia dell’acqua gorgogliante.
Tutto era secco.
Svuotato.
Arido.

Con il petto pesante si sedette sul gradino di sassi che circondava il pozzo.

Chiuse gli occhi dagli iridi diventati ancor più rossi di sofferenza.
Desiderava svuotarsi anche lui, desiderava coprirsi di sale come i cadaveri destinati all’imbalsamazione.

Mentre giaceva in tal modo nel silenzio , un lieve  struscio di passi…

Era leggerissimo ma perfettamente udibile. 
 

Riaprì lo sguardo voltandosi alla propria destra.


C’era una fanciulla con una  veste color ocra, orlata di blu.

Brumosa. Nitida…
I suoi contorni ballavano insicuri come fossero stati dietro una vetrata ruvida e opaca…
I suoi contorni rilucevano morbidi e spessi come laghi di montagna…

Evanescente. Terrena.
Tra l’aria e i sassi grigi del suolo,  tintinnava  simile all’ultima scintilla d’una fiaccola di festa.

Avanzava piano, piano…

La  tenue sagoma cessò a poco, a poco di vibrare.

Sion distinse trasparentemente il viso della giovane : un acquerello semplicissimo, quotidiano che non aveva nulla a che vedere con le rappresentazioni delle dee dell’Olimpo...ciascun particolare di quel disegno , tuttavia, lo affascinava, lo meravigliava, lo commuoveva…gli rendeva il cuore sempre più rigonfio e piangente.
Miriadi di volte aveva accarezzato quelle gote piccole,  fresche, impolverate di lentiggini …
Miriadi di volte aveva baciato con dolcezza , con ardore, con ansia quella bocca rosea e impallidita…
Quel nasetto  un po’ arrotondato lo aveva sempre intenerito…quegli occhi miti e vivaci erano riusciti a impadronirsi del suo animo giorno dopo giorno : il loro nero screziato di viola ricordava una notte che s’aggrappava  ad un crepuscolo infinito.
Ad ornare quel volto, la cui fronte era leggermente coperta da una frangetta spettinata,   una folta e lunga chioma d’ossidiana :  sfolgorava di riflessi verde scuro e le estremità delle ciocche erano fini e morbide onde.

- Briseis… – mormorò Sion  con la voce tarpata.

Sorrise  più calda d’un girasole.
Gli corse incontro stringendosi al suo petto.

L’uomo,  sgomento, restò per alcuni attimi pietrificato.
Di colpo sentì tutta la  vecchiaia e la caliginosa malinconia defluirgli  dalle membra.

Si dimenticò d’aver più di duecento anni…si dimenticò del presente…si dimenticò d’ogni ragione…

Rise.
Rise…
Da un’eternità non lo faceva.
Abbracciò Briseis con incredula felicità…
Mise le mani tra i suoi capelli scuri , inalando i loro aroma…
Attrasse ancora più a sé il suo corpo piccolo e morbido per accertarsi che tutto fosse vero…
 
Era tornato giovane.
Per davvero.
Era tornato ragazzo. Astro fiammeggiante, palpitante, inquieto.

- Sion…- mormorò la fanciulla – per quanto tempo sei restato così lontano? Il freddo mi ha perseguitato a lungo…

- Perdonami, Briseis, perdonami…è stata colpa degli anni che mi hanno travolto, è stata colpa del cielo divino…mi hanno costretto ad addormentarmi, ma mai sono riusciti a  distruggere le mie stanze. Nessuno può toccare il palazzo del mio animo.


Si guardarono: due sponde di terra ch’erano riuscite ad allacciarsi trafiggendo le acque d’un mare.

Si baciarono.
Le tenebre persero senso poiché il gelo non esisteva più…
La morte era un’inutile falciatrice…

Rimasero abbracciati, mollemente intorpiditi,  come quando, dopo l’amore, precipitavano nel sonno…

- Ti ricordi  come si danza? – domandò Briseis sorridendo.

- Sono trascorse più di mille stagioni…però credo di aver conservato nella memoria qualche passo…
Posò una mano sul fianco della giovane, mentre con l’altra, afferrandole le sottili dita, prese a guidarla…

Vorticarono lentamente, in comunione totale, nel lieve calore d’ottobre, nell’autunno che lasciava ancora veleggiare  un’estate che diveniva sempre più smunta…

Girava Sion con Briseis…girava, girava…nel cerchio dell’oblio…senza ore, minuti, secondi…

- Sion, ti prego, non lasciarci più sole…non sai quanto la nostra Hymen  ha pianto. In tutto questo tempo non ha mai smesso di chiedermi di te…

Al nome della piccola, l’uomo si sentì arroventare su una pira di legno.
Quante lacrime di sangue aveva versato in quei giorni da incubo, in quei giorni in cui non era riuscito ad accettare il destino assassino che gliela aveva sottratta?
La Guerra Sacra gli aveva lacerato la casa, ma soprattutto una famiglia per la quale aveva dovuto sopravvivere fino ad allora…
Hymen…solo tre anni…
Un inizio che non era mai cominciato veramente…

- Amore – lo implorava Briseis – sta volta torniamo a casa tutti assieme…non allontanarti di nuovo…guarda, lì.

Sion fissò l’antico pozzo di pietra.
Da dietro sbucò una testolina bionda, poi un faccino sul quale spiccavano due occhi nero-viola.

- Hymen! – esclamò sorridendo con lo spirito più gioioso di prima.

La bimba gli si fiondò tra le braccia.
Con le lacrime che gli scivolavano dagli occhi, la sollevò ricoprendole le guance di baci.
Gli  cingeva il collo.
La poteva coccolare. La poteva amare.

- Papà non devi piangere! Adesso starai con me e la mamma.

Sion le accarezzò i capelli fini e un po’ ribelli che le solleticavano  le spalle.
Si accorse con lietezza che stringeva in mano una bambolina di legno.
Era il primo giocattolo che le aveva scolpito.

- Me ne farai delle altre? – gli chiese la piccola speranzosa.

- Certo… farò tutte le bambole che vorrai!

- E giocherai con me?

- Sì.

- Davvero? Non è che poi…te ne andrai?

- Voglio tornare a casa, tesoro.

La strinse di nuovo, facendole posare il capo sulla sua grande spalla.
Lei si risollevò un attimo dandogli un bacio.

- Andiamo, allora? – fece Briseis radiosa accarezzandogli il braccio.

Lui posò delicatamente la figlia a terra che afferrò la mano della mamma.
Mentre godeva della letizia del momento,  s’avvide di qualcosa…

Un brivido di ghiacciato bollore l’ ammonì.
L’aria s’incrinava…
Le case dei dintorni parevano fatte di  cartone, come fossero state elementi  d’una finta scenografia…

- Sion…perché te ne stai fermo? – lo incitò la moglie – dobbiamo tornare a casa.

L’uomo restò col capo chino in silenzio…
Dietro quelle quinte v’erano strani movimenti…

- Papà! - lo chiamò Hymen – vieni!

Nessun suono.
Sion alzò lentamente lo sguardo.
Una tempesta di glaciale calma attraversò il suo viso.

- Che ti prende? – esclamò Briseis.

La ragione.
La ragione che trafigge.
La ragione che salva.

- Basta. – disse  marmoreo, esausto.

- P-perché dici questo?

- Il flusso delle cose va solo avanti…avanti…

- Sion! Torniamo a casa!

- La mia dimora è distrutta e sepolta.

- Ti scongiuro!

- Il gioco è finito.

Briseis e Hymen lo guardarono turbate, spaventate al pari di due ladre…

Si sciolsero in nubi nere, simili a cenere di vulcano che vola forsennata nell’aria…

Rimase , tramortita al suolo,  solo la bambolina di legno.

Sion tentava di frenare  il  cuore stracciato che  urlava dietro la cella d’ ossa del petto.
Guardò in alto come se volesse espirare fuori tutto  l’ossigeno  tossico che aveva appena incamerato.

Non gli venne concesso.

Il cielo era divenuto un insieme di coaguli costituito da colori macilenti, pestilenziali, lividi…era il firmamento d’un lugubre quadro impressionista che mescolava  caligine, sangue, pioggia, viole appassite.

Delle risate volarono…ali di pipistrello che formicolarono nel vento…
Risate melliflue, di carbone.
Sion percepì due cosmi.

Inumani. Divini.

Aveva compreso bene.
Quel subdolo incantesimo non poteva essere stato plasmato da mortali…nessuno s’era mai mostrato in grado di farlo tremare in modo così tremendo.

Le risa divennero sempre più aspre.

- Sarà  meglio che vi  manifestiate, nefaste  creature d’incubo – disse Sion freddo e granitico.

Dinanzi ad egli comparve,  fumosa , una coppia d’esseri che possedeva sembianze umane. Uno pareva portare una lunga chioma mentre  l’altro dei capelli corti.

- Fratello mio, non è mendace la fama d’elevatezza c’ha maturato costui  in questi ultimi secoli… s’è rivelato una rocca quasi indemolibile…

- Affermi la verità dicendo “ quasi”… il Sommo Sion ha ripudiato per alcuni istanti il timone del proprio   veliero … non gli sarà mai possibile obliare l’ onde dell’infimo oceano che solca.

Ridacchiarono sarcastici.
Sion , a testa alta , si rivolse ad essi:

- La vostra sublime boria non è stata sufficientemente efficace per atterrarmi.

- Hai l’ardire di  rivolgerti a noi in tal guisa? – proruppe il primo ch’aveva parlato.

- Misero umano, cibati  di polvere come si confà alla tua effimera natura.- proseguì  il secondo.

- Devo riconoscerlo…i vostri inganni sono opere tessute a regola d’arte, infami figli d’Ipnos.

Le figure di quegli dei si resero più chiare: avevano i corpi di due splendidi giovani dai capelli chiarissimi.
Portavano dei chitoni blu scuro alla maniera degli antichi greci.

- Il vostro intento di  catturarmi in  una ragnatela di sonno e immagini fasulle è fallito. Fantaso, plasmatore d’illusioni… Oniro, patrono dei sogni…sono riuscito a  captare le vostre auree prima ch’accadesse l’irreparabile.

Fantaso, sorrise dolce e terribile.
Il suo volto era d’una grazia diafana e molesta: la carnagione aveva una lucentezza levigata e dura, lunghe ciglia nerissime incorniciavano gli  occhi grandi  e dorati  , la bocca sottile e delicata si muoveva elegante e velenosa.
Camminando con la leggiadria  d’uno spirito , ondeggiando con malia femminea, s’avvicinò maggiormente a Sion:

- Carissimo,  parli di sonno e immagini fasulle….ci stai accusando di creare laide falsità…hai la meschina spudoratezza di rinnegare ciò che hai vissuto? Hai la crudeltà di calpestare ciò che appartiene al tuo cuore?

Scosse il capo con fare infantile e civettuolo…le onde sinuose dei suoi capelli color sabbia pallido danzarono tetramente.
Sion lo squadrava cupo e rigido.
Il dio riprese a parlare con tono unto e inquietante:

- Noi figli d’Ipnos, poniamo semplicemente dinanzi ai vostri  occhi  le realtà che più amate o avete amato, palesiamo i vostri desideri più reconditi… Vi mettiamo faccia a faccia con voi stessi…in un mondo di foschia e menzogne le uniche certezze che vi rimangono sono il sogno e l’illusione…

Piroettando,  mutò il proprio corpo in quello d’una fanciulla.
Il Maestro di Mu assistette ripugnato a quello spettacolo: lo splendore di quella creatura era fastidiosamente ambiguo e corrodente.

- Ti suggeriamo di restare vigile anche quando giaci nel letto…- ribatté tagliente e ferreo Oniro.

Sion lo fissò. I suoi occhi erano una coppia d’ abbaglianti eclissi: nere e  nel contempo bianche…luce e ombra convivevano in una tintura indefinibile…le guance, il naso, le labbra rassomigliavano  alla scultura d’un angelo funereo.
Quella  magnificenza  era di diamante: incantevole, gelata, acuminata.

- La tua arroganza è sbalorditiva, umano – seguitò  Oniro - Continui a guardarci in viso  senza neanche provare ad inchinarti…rammenta che il sonno è uno dei portali che conduce al trono della  morte. Nostro padre è gemello di Thanatos e assieme ad egli rappresenta i   più temibili dardi  del Signore degli Inferi: il Sommo Ade.

Pronunciare quel nome era come scaraventare il sole in una necropoli senza cancelli.
Sion vedeva che le ciocche dei capelli della divinità parevano fatte di neve scintillante e mortifera…aveva freddo ma da fuori non lasciava trapelare il più esiguo brivido.

- Sii guardiano dei fondali della tua mente…- sibilò il dio del sogno -  i sentieri del Grande Re d’Oltretomba dovranno essere costruiti…noi stiamo raccogliendo con immensa dedizione i sassi con i quali daremo forma ad essi.

S’avvicinò  alla bambolina di legno.
Sion avvertì, angustiato, una morsa al ventre.

- Le ombre albergano in tutto l’universo e in tutti gli esseri viventi…quando camminate vedete la vostra ombra…quando siete al buio vedere tante ombre…quando non volete ferirvi vi lasciate accecare dalle ombre.

Con violenza,  calpestò il piccolo giocattolo mandandolo in frantumi.

L’antico guerriero dell’Ariete sentì i suoi occhi divampare in lacrime.

- Oh! – sospirò derisorio Fantaso – desideri piangere la tua disperazione? Ci dispiace  molto…non siamo abili  nel rimettere in sesto i pilastri che tu stesso hai  demolito e sotterrato!

Ridendo con la perfidia di rapaci notturni, i due dei si dileguarono nell’invisibile nulla.


Sion aprì gli occhi.

Si guardò a destra e a sinistra agitato: senz’accorgersene si era addormentato ai piedi del pozzo.

Era stato frutto di quel duo funesto…Oniro e Fantaso… l’avevano soggiogato col potere di manovrare i meandri della memoria…
Gl’avevano eretto un sogno. Un sogno concreto e orribilmente reale.
 
Si levò in piedi…

L’incantesimo s’era sciolto….qualcos’altro però navigava nell’atmosfera…

L’ oscurità continuava a far fioccare i suoi cristalli…

Pensando a Mu e a Kiki, iniziò a camminare velocemente dirigendosi verso il centro della città.

Volle però lanciare prima un ultimo sguardo  al piccolo spiazzale …


Silenzio…

Il pigolio d’un passero solitario…

Silenzio.
Vuoto.

Vuoto.

“ Sarà meglio che m’affretti” pensò voltandosi bruscamente “ non voglio sentire questo vento che mi soffia dentro, questo vento che fa sbattere le porte e le finestre  delle camere in cui non c’è più nessuno ad attendermi…

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Capitolo 17
*** CAP 8: Le magie di Lindo: canzone d'ombra ***


  

Il sole iniziava ad intonare le abluzioni del sonno nuotando verso ovest…

Nella piazza centrale di Lindo le persone calpestavano i ciottoli del suolo per  ritornare a casa.
Mentre alcune botteghe e officine  chiudevano, diverse bancarelle venivano invece allestite con souvenir e altri manufatti locali.
I ristoranti e le trattorie si preparavano ad accogliere i clienti della sera. I camerieri dei piccoli bar pulivano i tavolini esterni e aggiustavano le sedie…
Dalle finestre delle dimore private si spandeva l’aroma del cibo cucinato…

Mu e Kiki parlavano, seduti su una delle panchine di ferro che contornavano la piazza.
Il piccolo chiedeva al fratello degli elementi oscuri del rituale del Montone, esternava curiosità sull’Aldilà, sulle anime, sui poteri del sangue…il ragazzo lo iniziava gradualmente a quel mondo alchemico che avrebbe dovuto comprendere, temere, affrontare e venerare..

Nell’attimo in cui spiegava tali congetture, i suoi occhi furono attratti da due individui.
Il suo cuore fu attratto da quei due individui: un giovane padre e un figlio che poteva avere circa dodici anni.
Avevano appena chiuso il loro magazzino a s’accingevano a raggiungere la casa che si trovava vicina.

Mu s’ammutolì  indugiando  rapito su quella scena tersa, normalissima…

Ad aprire all’uomo e al ragazzino, venne una graziosa donna incinta.
Li salutò affettuosamente baciandoli.
Chiuse poi la porta blu mare.

Il cavaliere dell’Ariete sentì la tristezza nera catturarlo con la sua rete.

Piombò al termine d’una lontana giornata di febbraio…
A marzo avrebbe dovuto compiere dodici anni.
Ad aprile sarebbe nato il fratellino…

Sulla lavagna dei ricordi, mesti gessetti gli disegnarono il villaggio del Sole di Giada…

Fu un giorno qualunque ma stranissimo…
Le valli della quiete vennero percorse fulminee, per brevissimi istanti, da una sagoma nera.
Sebbene fosse stata velocissima Mu l’aveva colta…
Aveva visto che reggeva tra le mani una falce.
 

 

 Il sole  salutava l’arena celeste che ormai s’ accingeva ad accogliere la sera.
I mercanti e gli artigiani chiudevano gli empori e le officine per far ritorno ai focolari domestici.

Un’altra tranquilla giornata era giunta all’epilogo.
Un altro capitolo di quotidianità si stava  concludendo  per lasciare le successive pagine alle giornate che sarebbero nate. Giornate serene. Giornate che parevano inesorabilmente imperturbabili.

Mu amava il proprio villaggio per quello.
Si scordava del Grande Tempio, del suo avvenire colmo di gravità, affinché  potesse  immergersi nell’illusione d’un’esistenza normale.
Una volta penetrato nell’ingranaggio della serenità si dedicava con immensa gioia alla convivenza coi genitori…

Quella volta però  percepì qualcosa di fosco, minaccioso…
Mentre ripuliva gli attrezzi di lavoro del padre, avvertì germogliare delle indescrivibili sensazioni di tristezza…
Non aveva la benché minima idea a cosa fossero dovute…tutto era terso, calmo…

Perché mai avrebbero dovuto  approdare delle nubi?

Dem-Lai  ripuliva dalla cenere il camino che  donava il fuoco per battere il metallo.
Nella bottega l’odore del fumo ,che appassiva sul fondo della fornace, era dolce, carezzevole…era l’emblema del lavoro duro, sincero, appassionato…
Mu guardava il giovane uomo che s’affaccendava con energica tranquillità.
I folti capelli color fiamma erano raccolti in una coda bassa e , sebbene fossero impolverati, riuscivano a risplendere con briosità e vita.
 Il corpo snello e nel contempo robusto dell’artigiano era madido di sudore ma non pareva minimamente provato dalla fatica.

- Un altro po’ Mu e finalmente ce ne andremo a casa – gli sorrise  mostrando lo sguardo  di verde forza inestinguibile.

Il ragazzino  ricambiò quell’espressione senza però brillare di luce.
La mestizia lo strattonava in modo inspiegabile…
L’amore gli stava procurando un’angoscia mai avvertita prima…
Era come se una belva lo stesse aspettando dietro l’angolo per sbranargli  ogni  felicità.

No.
Impossibile.
Quale essere poteva rubargli il paradiso?
Quale assassino era in grado di sopprimere l’attesa che lo fissava teneramente al termine dei soggiorni in Grecia?

- Mu…è tutto apposto? -  domandò Dem Lai  avvicinandosi.
- Eh? Oh, sì…sì…
- Sei sicuro?
- Certo, papà. Ero soltanto sovrappensiero…
- Qualcosa riguardo al Grande Tempio?
- Beh, non proprio…
- Mi pari…terribilmente giù. Qualche attimo fa non eri così.
- È che…ecco…no, no. Non ti preoccupare… non è niente…sai, sono quelle piccole ansie che…che…
- Che…?

Mu, improvvisamente, fu pervaso da un gelo che gli scalfì le vene.
Le pareti della bottega divennero blu, grigie, tremule…

Il padre  comparve orrendamente pallido, prosciugato…
Parlava con una  disumana e catarrosa voce oltretombale…

Un pianto di terrore sgorgò dagli  occhi del piccolo cavaliere.
Scoppiò in lacrime incontrollate, dolorose.
Scoppiò in lacrime più affrante dei templi diroccati.

- Oh, Cielo!  Che ti prende, Mu?! –esclamò l’uomo afferrandolo preoccupato per le spalle.
- N-non lo so! N- non lo s-so!
Singhiozzando rumorosamente, abbracciò  il padre come se lo dovesse perdere da un istante all’altro.
- Su, figliolo…calmati…calmati…-  mormorò il giovane  con delicatezza accarezzandogli i capelli.
- P-papà, i-io…non so che c-che cosa…
Il bambino non riuscì a parlare e continuò a piangere.
Dem Lai, turbato, lo strinse ancora più forte a sé…
Tentò invano di rassicurarlo ma non comprese la causa di quello strano sfogo…


- Tesoro, cos’è che hai? – gli domandò Suntel, una volta che furono entrati in casa.
- Mamma, non so…non so spiegarlo…

La giovane donna e Mu sedevano  su una panca di legno dipinta, mentre Dem Lai era in piedi  e ascoltava con apprensione.

- I-io…so soltanto…che…ho paura…

La madre cinse le spalle del figlio baciandolo sulla guancia.

- Perché, Mu?
- Perché…perché…
Il ragazzino s’incantò a contemplarla con afflizione …
Era così bella in gravidanza…
Il ventre arrotondato  rendeva la sua piccola figura vulnerabile e magicamente forte…
Gli splendidi occhi lilla, eguali alla lunga treccia di soffici capelli, lo coccolavano ferendolo mortalmente.

- Mamma…ogni volta che torno qui  in Tibet, voglio vedere te e papà sempre….sempre…

Mu l’avvolse tra le  braccia respirando il rassicurante profumo della sua veste e della sua pelle.

- Oh, Mu…ma certo che ci saremo sempre io e tuo padre!

Il tocco delle labbra di Suntel sul viso, non  fece che  aumentare l’angoscia.
Un terribile fendente  colpì il bambino quando lo sguardo s’adagiò sull’addome di ella : dentro quella conca miracolosa stava sbocciando il seme di una nuova vita…una vita che da anni era  desiderata…l’aurora d’una stella che sarebbe fiorita…

Chi avrebbe frantumato a picconate delle lande di siffatta bellezza?

- Mu…

Il padre gli si avvicinò togliendosi dal collo il medaglione con la testa dell’ariete.


- Papà, il tuo ciondolo…
- Voglio che lo porti tu d’ora in poi.

Con gesto solenne, semplice e soave adornò il figlio di quel manufatto.
- Ce lo trasmettiamo di generazione, in generazione…è un oggetto molto antico e prezioso…rappresenta ogni luce, ogni punto cardinale…ogni mistero…

Mu osservò il capo bronzeo dell’Ariete…
Possedeva un’espressione criptata eppure limpida.
Era gelato eppure bollente.
Era l’alba eppure il tramonto.

- È anche il  tuo segno zodiacale – sorrise Dem Lai – anzi, è soprattutto la tua costellazione protettrice…custodisci con cura quell’Ariete…perché stai compiendo una lunga corsa. Il Maestro Sion conta su di te.
- Grazie, papà.
- Mu…sappi che porti al collo i sogni di una miriade di uomini…sogni piccoli, grandi...in qualunque epoca i nostri antenati hanno infuso preghiere, speranze…
- Già…- fece Suntel alzandosi in piedi e stringendosi al marito – hanno catturato qualunque raggio di sole,  anima d’amore pur di riuscire a guardare negli occhi la notte.

Baciando sulla fronte la moglie, Dem Lai asserì : - il buio ci ha sempre fatto paura Mu, ma ricordati che possiamo accendere comunque delle torce.

Mu, ricolmo d’affetto, sorrise  ai suoi.

L’occhio dell’ariete lasciava nondimeno scaturire dei brividi…

Era veramente così semplice accendere delle fiaccole e apprendere le leggi delle tenebre?


- Fratellone… Fratellone…

Mu scese dalla soffitta dei ricordi.
Sorrise a Kiki che lo fissava  preoccupato.

- Scusa, mi sono piovuti all’improvviso dei pensieri.
- Pensieri tristi?

Il ragazzo, guardando  la porta della casa di fronte, sospirò.
Se fosse riuscito a  ritornare in Tibet, non avrebbe rivisto i suoi genitori aprirgli la soglia.
Sì…erano trascorsi tre anni…in un certo senso il dolore aveva subito una sopportabile metamorfosi…
Forse…
Le cicatrizzazioni si palesavano più lente del previsto…
Era bastata la visione di un padre fabbro, d’ un figlio dodicenne, d’una madre incinta a rammentargli un passato che non gli apparteneva più.

- Mu…- disse piano Kiki posandogli la manina sul ginocchio- ti mancano tanto il papà e la mamma, vero?
- Sì…mi dispiace moltissimo che tu non gli abbia conosciuti…

Il bimbo vide gli occhi del fratello inumidirsi.

- No! No! Perdonami! – esclamò mortificato – non volevo farti male!

Il giovane rise accarezzandogli il visetto con le dita.

- Stai tranquillo… anche se non ci sono più, non mi stancherò mai di raccontarti chi erano …
- Già…tu mi dici sempre che il babbo era un bravissimo fabbro e scultore! Ho preso  i capelli da lui, mentre la mamma mi ha dato i suoi occhi!
- Sei stato fortunato perché erano bellissimi.
- Lei sapeva anche cucinare bene!
- Ah!ah!ah! Caspita! Puoi dirlo forte! Il profumo dei suoi sformati di riso si sentiva a mille miglia di distanza!
- La mamma era brava a cucire, giusto?
- Era capace di rimettere a nuovo qualunque casacca vecchia e senza speranza!
- Aiutava Leira?

Al nome della fanciulla, Mu avvertì il proprio cuore battere luminoso.

- Oh, sì…diverse volte andava in bottega per dare una mano a lei e a sua madre.
- Leira ti ha fatto quello scialle che porti sempre?
- Già. Proprio così. – affermò con orgoglio.
- La conosci da quando eri piccolino?
- Sì, da una vita.
- Ti vuole molto bene?
- Beh…o-ovvio…
- L’hai già baciata?
- Insomma!! Cos’è quest’interrogatorio,  pettegolino?

Kiki ridacchiò un po’ imbarazzato.

- Io volevo soltanto chiedere…
- Chiedere, eh?
- Sì! Perché tu e gli altri tuoi amici pensate alle femmine?

La faccina perplessa del bambino era buffissima.
Mu non poté far a meno di ridere.

- Beh, Kiki queste cose le capirai quando ti farai più grande.
- Uffa! Ma devo aspettare per forza a quando sarò grande?!
- Sì…visto che poi saprai distinguere cosa significa…emh…divertirsi con le ragazze e cosa vuol dire invece innamorarsi.
- Che fanno Milo, Aiolia e Camus?
- Ecco…sono faccende un po’…
- Un po’…?
- Lascia perdere…
- Innamorarsi è qualcosa di grande, quindi?
- Esatto.
- E’ molto bello?
- E’ stupendo ma è così grande che ti può far  male, stare in ansia…
- Che strano! Come può una cosa tanto bella far male? Io penso che solo  gli incubi che fai di notte e quelli che ci sono davvero ti agitano…
- Niente è semplice, Kiki.
- Cioè?
- Ti accorgerai che gli oggetti hanno più di una forma e più di un colore. Ci sono la forma e il colore che vedi subito e  la forma e il colore che vedi dopo.

Il bimbo stava per domandargli  altre spiegazioni quando delle piccole briciole di suoni  interruppero il discorso…

I due fratelli si alzarono lentamente dalla panchina.

S’udirono dei flebili echi… Echi di note musicali…
Eguali a bolle cristalline trapassate dal sole, iniziarono a salire nell’aria…

Piano…piano…poi sempre più pulsanti…

Erano delicate… così pallide… così inquietanti…
A mano a mano che acquisivano spessore si coloravano di un oscuro acrilico…  
 
- Cos’è questa musica? – domandò Kiki scuotendo la mano del fratello.
- Sembra…sembra che qualcuno stia suonando…un’arpa.

La melodia sparse i suoi capelli tra le strade della città.
La gente che passeggiava, lavorava o stava chiacchierando prese a tacere incantata da quella strana armonia…

Era davvero ipnotica…
Dolce, mesta...nera come una notte senza nuvole, senza astri…

Mu avvertì un formicolio nel cuore…

Vedo cose davvero lontane…
Vedo cose troppo care…
Vedo cose ormai distrutte.

Una voce soave intonò tali parole.
Era una fresca voce di ragazzo.

Il cavaliere dell'Ariete rimase sconvolto.
Il contrasto tra il tono leggero del fantomatico cantante e la durezza del discorso lo investirono.

Il petto prese a dolergli più fastidiosamente di prima…

Agli angoli delle strade
volti di lanterne s’accendono
ma l’incanto presto cade
e le scintille di cielo s’arrendono.

La vista di Mu s’appannò terribilmente…
I sentieri di Lindo si sciolsero in una luce indescrivibile.
Dinanzi a lui comparve la sua vecchia casa di legno.

Davanti alla porta…i genitori.
Sorridendo gli facevano cenno di raggiungerli.

Rimaneva paralizzato.
Desiderava con tutto se stesso muoversi e correre ma…nulla.

La dimora prese a scricchiolare.
Un violento incendio scoppiò fuoriuscendo dalle mura.

La madre e il padre si disintegrarono in faville di carbone.

Panta rei, panta rei…
Tutto scivola e non come vorrei…

Attorno, vie di pietra e ferro…
sui muri, chiodi che sporgono e corrodono…,
nelle botteghe, martelli che battono a vuoto…

Il timbro del cantore era magnifico.
Funesto.
La sua perfezione si scioglieva in un vino di pece.

Mu respirava con orrenda sofferenza.

Quel misterioso adolescente modulava toni acuti e gravi con una tale maestria da sconquassare le viscere e il cervello.

Il guerriero si ritrovò travolto dal flutto d’ un fiume torbido e viscido.

Il bianco delle case
È il bianco delle ossa…
Le ossa dei miei gioielli
Più belli…

Pare sepolta qualunque dolcezza.
Pare sepolta qualunque carezza.


Kiki  guardava angosciato il fratello.
Stava immobile come una statua di sale.
Le labbra serrate in una  paurosa tristezza.
Gli occhi sgranati che immortalavano attimi d’invisibile incubo.

- Mu! Mu!- esclamò – che ti sta succedendo?!

Gli si parò davanti scrollandogli gl’avambracci, ma  rimaneva madido di gelo.

Panta rei, panta rei…
nella totalità annegherei,
ma coraggio non ne ho
e delle stelle abbastanza non ne so…
 

Mu vorticava nell’anima d’ una mareggiata furibonda. Sbatteva contro scogli, tronchi, case bianche…vedeva galleggiare su quelle onde pezzi d’ossa, pezzi d’affetto intenso…
Pezzi dei propri genitori…

Coraggio non ne aveva veramente…
L’acqua acida gli stava gonfiando i polmoni…
Le stelle non gli tendevano alcuna mano.


Schizzi di sangue imbratteranno,
le vetrate delle mie finestre,
fogli di corvi si perderanno,
tra le spighe d’una landa campestre…

- Mu!Mu! Ti prego!! -  gridava Kiki spaventato.

Percepiva quella straniante atmosfera che insabbiava l’aria e intorpidiva le persone…
Percepiva le falci che stavano trebbiando il cuore del fratello.

Il bambino cercava agitato più che mai Sion.

Salve Dubbio,  mio eterno pugnalatore…

Mu iniziò a tossire.
Tossire pesantemente.

Salve Terrore, mio eterno accompagnatore…

La tosse divenne convulsa, asmatica.

Da che parte è precipitata la mia casa?
In che luogo posso raccogliere i tizzoni del mio camino?

Mu crollò in ginocchio per terra.
Il respiro era a brandelli.
L’ossigeno pareva composto da cenere soffocante.

- Fratello!

Kiki gli si gettò addosso abbracciandolo per le spalle.

Il ragazzo tremava e tossiva.
Un sudore ghiacciato gli bagnava la schiena.
I muscoli erano irrigiditi.

La mente era assente. Cieca. Muta. Sorda.

Il cuore batteva all’impazzata minacciando di lacerarsi.

Improvvisamente …il tocco d’una mano sul capo.

Caldo.
Enormemente luminoso.
Enormemente purificatore.

Panta rei, panta rei…
In questo vortice, Amore resta dove sei…

In ogni tua forma, in ogni tuo sguardo…


- Mu. Torna in superficie.

La voce ferma, pacata e profonda del Maestro distillò lo spirito torturato dell'allievo…

Il respiro tornò lentamente regolare…
I battiti del petto si acquietarono…

Mu sfiancato, tuttavia,  da quella grandine d’emozioni buie, perse i sensi.

La poesia del cantante  seguitò  ad infiltrarsi nel suo cosmo…

Amore, resta dove sei…
Nello spirito d’un fratello…
 d’una guida…
d’un amico…
d’una donna…

Il cavaliere dell'Ariete vide comparire nel firmamento dei sogni Kiki…l’unico bocciolo della famiglia che possedeva…
Il Sommo Sion…la venerata e grande stella che si stagliava su ogni orizzonte…
I suoi amici e compagni…
L’altra parte della propria anima…Leira…

Tra rupi e maree Amore, resta dove sei…
Oltre i confini del giorno, della notte.
Oltre le vette dell'infinito.
Oltre i portali del Tempo.

Sì…
Il destino era un cinico ladro donatore…
Purtroppo non lo  si poteva agguantare…
Talvolta lo si odiava…
Talvolta lo si amava…

Tra rupi e maree Amore, tienimi stretto,
tienimi sospeso…
con le stagioni che navigano,
con le albe che si destano…

- Mu… Mu…

Perpetua il mio anelo,
lontano dai lembi sfocati del Nulla…

- Mu. Svegliati.

…del Nulla che divora,
che non perdona.

Del Nulla che non sa parlare.

Mu riaprì lentamente gli occhi…
Sion, chinato su di lui,  lo sorreggeva per le spalle.
Kiki lo squadrava un po’ sbiancato ma sollevato.

- M-Maestro…cos’era…quella canzone?
- Nulla di normale. Era una poesia  nefasta ricamata con fine abilità sulle vesti del tuo animo.
- Pareva suonata apposta per me…

Il Maestro aiutò il discepolo ad alzarsi.

- Infatti…qualcuno è come se avesse letto il tuo cuore…i tuoi ricordi…le tue sensazioni più struggenti…
- Percepisco…un ' aurea strana, buia  nell’aria…eppure…è terribilmente sottile, inafferrabile…
- Io sono riuscito per un istante a captare la presenza di due cosmi.
- Due addirittura?!
- Sì…due cosmi che mi sono…famigliari…è come se li avessi già avvertiti moltissimi anni fa…
- Conoscete a chi appartengono?
- Non  posso affermare niente di ben definito… sono occultati e difesi talmente bene da rendere assai difficoltosa la loro identificazione.

Kiki , in apprensione, si strinse al fratello.
Sion aggrottò la fronte…
Stette un istante in silenzio…poi soggiunse cupo:

- Sai, Mu...sembra che…un’essenza divina protegga quei cosmi…quando torneremo ad Atene dovrò rivedere assolutamente  il Gran Sacerdote.
- Maestro, credete che…Ade sia la causa di ciò?!
- Sì.
- Ma com’è possibile, se il suo spirito è stato sigillato due secoli fa, nel millesettecentoquarantatrè?
- Non lo so spiegare ancora  neppure io… ascolta, quello che mi è accaduto mentre ti trovavi qui con Kiki.

Mu apprese sconvolto la narrazione del Maestro.


Su un lembo di baia deserta di Lindo, sotto le nuvole tumide del tramonto, camminavano due ragazzi.
 Le loro figure eleganti, che proiettavano le ombre sulla fresca sabbia, appartenevano a paradisi differenti.

Il primo giovane aveva sedici anni e una bellezza di gelato argento.
I  lunghi e lisci capelli, che gl’accarezzavano il dorso, erano immacolati come le gote della luna.
Gli occhi  indaco luccicavano polari e apatici simili agli orizzonti invernali della Norvegia.
Sul  viso fine ,dai colori duri e perlacei, non soffiava il minimo calore.
Era alto, snello e passeggiava diritto col portamento d’un adulto disilluso e cinico. 
Indossava un austero completo grigio piombo che incuteva soggezione e recava con sé un grande libro cesellato con arcaiche e misteriose decorazioni.

Il secondo ragazzo era più piccolo e poteva avere tredici anni.
Era vestito con un abito scarlatto di lino:  una lunga camicia smanicata e dei pantaloni larghi stretti al ginocchio ricordavano le sabbie sanguigne dei tramonti egiziani.
Le impronte leggere dei sandali infradito parevano dissolversi alle luci del sole…
Quell’adolescente pareva provenire da un mondo davvero lontano.
Il volto grazioso, dai grandi occhi a mandorla gialli leopardo, era surreale. La carnagione scura e  i capelli neri , tagliati geometricamente a caschetto , lo rendevano eguale alle figure delle pitture tombali.
Il corpo  sottile e slanciato si muoveva regale e felino.
Con un sorrisetto malizioso e compiaciuto si dilettava a pizzicare lievemente le corde della sua arpa. Le  dita sottili, dalle unghie  dipinte di grigio scuro, danzavano seducenti e velenose.

- Già t’accingi a comporre un nuovo brano? – gli domandò il norvegese – l’esecuzione della precedente melodia non t’ha appagato a sufficienza?
- È meglio non porre limiti al conseguimento della perfezione…è necessario esercitarsi sempre.
- Non mi meraviglio che un tempo fosti il musico prediletto dal Sommo Ade, Pharao.

L’egiziano ridacchiò facendo rifulgere il suo strumento.

- Tendere le corde del cuore e pesarle è un mio dilettoso dovere, Rune…suonare l’anima dell’apprendista di Sion si è rivelato un esperimento squisitamente interessante!
- Le parole giuste nelle giuste recondite lacerazioni.
- Infatti…chi meglio di te comprende l’importanza e la magia dei termini ?

Rune sorrise lievemente e prese a sfogliare il suo libro.

- Con sincera devozione sto pazientemente trascrivendo le vicissitudini di questi nuovi cavalieri d’oro…hai avuto modo di notare di quale guazzabuglio di  debolezze e ombre sono intrise...
- Oh, sì! Mi domando veramente come alcuni di loro possano essere paladini d’Atena! Un tipo come quel Death Mask, o come quell’infido di Aphrodite…
- Quanta fragilità…quanto lezzo di peccato…
- Per me tutto ciò non può che mutare in poesia! Quale ispirazione può essere più grande delle nubi che alloggiano nel cuore?
- Io mi limito a scrivere osservando ogni cosa dall’alto… il mio comandamento m’impone di dominare sulle tempeste dell’emozioni.
- Beh, sei colui che valuta e giudica su qualunque percorso di vita.
- Anche tu soppesi sulla bilancia di Maat.
- Ricordati che però son musico e non posso sopprimere le mie vocazioni! Ti sono grato per avermi offerto la materia prima della canzone di Mu!
- Ho agito secondo gli ordini che ci ha impartito il Grande Minos.
- Sì…dobbiamo indagare sui Cavalieri d’Oro…è un peccato che non possiamo indossare ancora le nostre vestigia!
- Bisogna attendere…ora che il nostro Signore non dimora in un corpo materiale, noi specter decimati dipendiamo dal volere dei due divini gemelli.
- Da…Ipnos e Thanatos…
- Sono loro che ci consentono i movimenti  senza far rumore…
- Minos l’aveva detto ad Eaco e Radamantis che i tempi sono immaturi…
- Dobbiamo livellare la strada degli Inferi con immensa accortezza.
- Non vi sono alternative.

I due si sedettero su dei bassi scogli.
Rune con la fredda e  consueta aria razionale  e Pharao un po’ abbacchiato.

- Su, Pharao…non vorrai far calar il tono della tua arpa? Avrai modo di far sorgere composizioni sempre più sublimi…pensa alle vite dei cavalieri…pensa soltanto al significato del termine…” trauma”.

L’egiziano lo squadrò interrogativo.
S’accorse che il compagno  aveva abbozzato un sorrisetto pallido.

- Che intendi dire?
- In greco antico, “ trauma” significa…ferita…disfatta.

Pharao guardò il mare rigonfio d’onde sbavanti...
Guardò le onde che svanivano in misera schiuma…

Riprendendo ad accarezzar le corde dell’arpa, rise tetramente.

- Hai ragione, Rune! Quale lama è più splendente, meravigliosa e sanguigna della disfatta?

 


Note personali: ciao a tutti i lettori!! ^^ Scusate il leggero ritardo -.- ma queste ultime due parti del cap 8 mi hanno portato via un po’ più tempo del previsto…come promesso però eccole XD  quest’episodio è stato corposetto ( certo, il cap 5 mi ha fatto dannare di più ma pure con questo sono arrivata allo sfinimento XD )
Finalmente sono entrata nel vivo del passato di Sion con Briseis, Hymen, Doko , il Maestro Hakurei ( e nominando anche i vecchi gold saint )…ci tenevo davvero a far emergere ancora di più la tristezza che il vecchio uomo cela dentro di sé…la citazione di Montale l’ho inserita per rendere meglio il concetto della lontananza del passato che pare irreale e defunto ( ho ripreso l’immagine della carrucola del pozzo prima d’aprire il flashback su Briseis ).
Fondamentale è la comparsa alla fine dei due dei Oniro e Fantasio (  gli ho ripresi da Lost Canvas ^^ , visto che sono delle divinità che mi hanno intrigato  molto per i loro poteri legati alla psiche ;) )    eh!eh!eh!  come nel sottocapitolo “ cercando l’orizzonte” bisogna far vedere i “ cattivoni” che si stanno mettendo all’opera piano, piano…
Nella terza e ultima parte di questo cap, avete notato anche i due specter Rune e Pharao ^^ ovviamente verranno fornite spiegazioni più dettagliate sulla loro comparsa andando avanti! Ora bisogna lasciar trapelare mistero O.O
Spero che Le magie di Lindo vi sia piaciuto! Tornando su Mu, il protagonista,  e Sion ho desiderato approfondire il legame che li lega, le loro tristi vicende passate e…il Male che sta avviando la sua ruota ;)
Nel prossimo capitolo vedremo di nuovo Aldebaran, Aiolia, Camus e Milo ^^  scoprirete altre cose sulle vicende di questi cavalieri!! ( il futuro aggiornamento e più probabile che sarà agli inizi di settembre…)
Ringrazio tutti i lettori  specialmente Lady Dreamer e Banira ( nel suo silenzio discreto XD XD ) che mi hanno sempre sostenuta dagli albori di questa fan-fic!! ^^
Alla prossima!!


 

 

Il sole iniziava ad intonare le abluzioni del sonno nuotando verso ovest…

Nella piazza centrale di Lindo le persone calpestavano i ciottoli del suolo per  ritornare a casa.
Mentre alcune botteghe e officine  chiudevano, diverse bancarelle venivano invece allestite con souvenir e altri manufatti locali.
I ristoranti e le trattorie si preparavano ad accogliere i clienti della sera. I camerieri dei piccoli bar pulivano i tavolini esterni e aggiustavano le sedie…
Dalle finestre delle dimore private si spandeva l’aroma del cibo cucinato…

Mu e Kiki parlavano, seduti su una delle panchine di ferro che contornavano la piazza.
Il piccolo chiedeva al fratello degli elementi oscuri del rituale del Montone, esternava curiosità sull’Aldilà, sulle anime, sui poteri del sangue…il ragazzo lo iniziava gradualmente a quel mondo alchemico che avrebbe dovuto comprendere, temere, affrontare e venerare..

Nell’attimo in cui spiegava tali congetture, i suoi occhi furono attratti da due individui.
Il suo cuore fu attratto da quei due individui: un giovane padre e un figlio che poteva avere circa dodici anni.
Avevano appena chiuso il loro magazzino a s’accingevano a raggiungere la casa che si trovava vicina.

Mu s’ammutolì  indugiando  rapito su quella scena tersa, normalissima…

Ad aprire all’uomo e al ragazzino, venne una graziosa donna incinta.
Li salutò affettuosamente baciandoli.
Chiuse poi la porta blu mare.

Il cavaliere dell’Ariete sentì la tristezza nera catturarlo con la sua rete.

Piombò al termine d’una lontana giornata di febbraio…
A marzo avrebbe dovuto compiere dodici anni.
Ad aprile sarebbe nato il fratellino…

Sulla lavagna dei ricordi, mesti gessetti gli disegnarono il villaggio del Sole di Giada…

Fu un giorno qualunque ma stranissimo…
Le valli della quiete vennero percorse fulminee, per brevissimi istanti, da una sagoma nera.
Sebbene fosse stata velocissima Mu l’aveva colta…
Aveva visto che reggeva tra le mani una falce.
 

 

 Il sole  salutava l’arena celeste che ormai s’ accingeva ad accogliere la sera.
I mercanti e gli artigiani chiudevano gli empori e le officine per far ritorno ai focolari domestici.

Un’altra tranquilla giornata era giunta all’epilogo.
Un altro capitolo di quotidianità si stava  concludendo  per lasciare le successive pagine alle giornate che sarebbero nate. Giornate serene. Giornate che parevano inesorabilmente imperturbabili.

Mu amava il proprio villaggio per quello.
Si scordava del Grande Tempio, del suo avvenire colmo di gravità, affinché  potesse  immergersi nell’illusione d’un’esistenza normale.
Una volta penetrato nell’ingranaggio della serenità si dedicava con immensa gioia alla convivenza coi genitori…

Quella volta però  percepì qualcosa di fosco, minaccioso…
Mentre ripuliva gli attrezzi di lavoro del padre, avvertì germogliare delle indescrivibili sensazioni di tristezza…
Non aveva la benché minima idea a cosa fossero dovute…tutto era terso, calmo…

Perché mai avrebbero dovuto  approdare delle nubi?

Dem-Lai  ripuliva dalla cenere il camino che  donava il fuoco per battere il metallo.
Nella bottega l’odore del fumo ,che appassiva sul fondo della fornace, era dolce, carezzevole…era l’emblema del lavoro duro, sincero, appassionato…
Mu guardava il giovane uomo che s’affaccendava con energica tranquillità.
I folti capelli color fiamma erano raccolti in una coda bassa e , sebbene fossero impolverati, riuscivano a risplendere con briosità e vita.
 Il corpo snello e nel contempo robusto dell’artigiano era madido di sudore ma non pareva minimamente provato dalla fatica.

- Un altro po’ Mu e finalmente ce ne andremo a casa – gli sorrise  mostrando lo sguardo  di verde forza inestinguibile.

Il ragazzino  ricambiò quell’espressione senza però brillare di luce.
La mestizia lo strattonava in modo inspiegabile…
L’amore gli stava procurando un’angoscia mai avvertita prima…
Era come se una belva lo stesse aspettando dietro l’angolo per sbranargli  ogni  felicità.

No.
Impossibile.
Quale essere poteva rubargli il paradiso?
Quale assassino era in grado di sopprimere l’attesa che lo fissava teneramente al termine dei soggiorni in Grecia?

- Mu…è tutto apposto? -  domandò Dem Lai  avvicinandosi.

- Eh? Oh, sì…sì…

- Sei sicuro?

- Certo, papà. Ero soltanto sovrappensiero…

- Qualcosa riguardo al Grande Tempio?

- Beh, non proprio…

- Mi pari…terribilmente giù. Qualche attimo fa non eri così.

- È che…ecco…no, no. Non ti preoccupare… non è niente…sai, sono quelle piccole ansie che…che…

- Che…?

Mu, improvvisamente, fu pervaso da un gelo che gli scalfì le vene.
Le pareti della bottega divennero blu, grigie, tremule…

Il padre  comparve orrendamente pallido, prosciugato…
Parlava con una  disumana e catarrosa voce oltretombale…

Un pianto di terrore sgorgò dagli  occhi del piccolo cavaliere.
Scoppiò in lacrime incontrollate, dolorose.
Scoppiò in lacrime più affrante dei templi diroccati.

- Oh, Cielo!  Che ti prende, Mu?! –esclamò l’uomo afferrandolo preoccupato per le spalle.

- N-non lo so! N- non lo s-so!

Singhiozzando rumorosamente, abbracciò  il padre come se lo dovesse perdere da un istante all’altro.

- Su, figliolo…calmati…calmati…-  mormorò il giovane  con delicatezza accarezzandogli i capelli.

- P-papà, i-io…non so che c-che cosa…

Il bambino non riuscì a parlare e continuò a piangere.
Dem Lai, turbato, lo strinse ancora più forte a sé…
Tentò invano di rassicurarlo ma non comprese la causa di quello strano sfogo…


- Tesoro, cos’è che hai? – gli domandò Suntel, una volta che furono entrati in casa.

- Mamma, non so…non so spiegarlo…

La giovane donna e Mu sedevano  su una panca di legno dipinta, mentre Dem Lai era in piedi  e ascoltava con apprensione.

- I-io…so soltanto…che…ho paura…

La madre cinse le spalle del figlio baciandolo sulla guancia.

- Perché, Mu?

- Perché…perché…

Il ragazzino s’incantò a contemplarla con afflizione …
Era così bella in gravidanza…
Il ventre arrotondato  rendeva la sua piccola figura vulnerabile e magicamente forte…
Gli splendidi occhi lilla, eguali alla lunga treccia di soffici capelli, lo coccolavano ferendolo mortalmente.

- Mamma…ogni volta che torno qui  in Tibet, voglio vedere te e papà sempre….sempre…

Mu l’avvolse tra le  braccia respirando il rassicurante profumo della sua veste e della sua pelle.

- Oh, Mu…ma certo che ci saremo sempre io e tuo padre!

Il tocco delle labbra di Suntel sul viso, non  fece che  aumentare l’angoscia.
Un terribile fendente  colpì il bambino quando lo sguardo s’adagiò sull’addome di ella : dentro quella conca miracolosa stava sbocciando il seme di una nuova vita…una vita che da anni era  desiderata…l’aurora d’una stella che sarebbe fiorita…

Chi avrebbe frantumato a picconate delle lande di siffatta bellezza?

- Mu…

Il padre gli si avvicinò togliendosi dal collo il medaglione con la testa dell’ariete.


- Papà, il tuo ciondolo…

- Voglio che lo porti tu d’ora in poi.

Con gesto solenne, semplice e soave adornò il figlio di quel manufatto.

- Ce lo trasmettiamo di generazione, in generazione…è un oggetto molto antico e prezioso…rappresenta ogni luce, ogni punto cardinale…ogni mistero…

Mu osservò il capo bronzeo dell’Ariete…
Possedeva un’espressione criptata eppure limpida.
Era gelato eppure bollente.
Era l’alba eppure il tramonto.

- È anche il  tuo segno zodiacale – sorrise Dem Lai – anzi, è soprattutto la tua costellazione protettrice…custodisci con cura quell’Ariete…perché stai compiendo una lunga corsa. Il Maestro Sion conta su di te.

- Grazie, papà.

- Mu…sappi che porti al collo i sogni di una miriade di uomini…sogni piccoli, grandi...in qualunque epoca i nostri antenati hanno infuso preghiere, speranze…

- Già…- fece Suntel alzandosi in piedi e stringendosi al marito – hanno catturato qualunque raggio di sole,  anima d’amore pur di riuscire a guardare negli occhi la notte.

Baciando sulla fronte la moglie, Dem Lai asserì : - il buio ci ha sempre fatto paura Mu, ma ricordati che possiamo accendere comunque delle torce.

Mu, ricolmo d’affetto, sorrise  ai suoi.

L’occhio dell’ariete lasciava nondimeno scaturire dei brividi…

Era veramente così semplice accendere delle fiaccole e apprendere le leggi delle tenebre?


- Fratellone… Fratellone…

Mu scese dalla soffitta dei ricordi.
Sorrise a Kiki che lo fissava  preoccupato.

- Scusa, mi sono piovuti all’improvviso dei pensieri.

- Pensieri tristi?

Il ragazzo, guardando  la porta della casa di fronte, sospirò.
Se fosse riuscito a  ritornare in Tibet, non avrebbe rivisto i suoi genitori aprirgli la soglia.
Sì…erano trascorsi tre anni…in un certo senso il dolore aveva subito una sopportabile metamorfosi…
Forse…
Le cicatrizzazioni si palesavano più lente del previsto…
Era bastata la visione di un padre fabbro, d’ un figlio dodicenne, d’una madre incinta a rammentargli un passato che non gli apparteneva più.

- Mu…- disse piano Kiki posandogli la manina sul ginocchio- ti mancano tanto il papà e la mamma, vero?

- Sì…mi dispiace moltissimo che tu non gli abbia conosciuti…

Il bimbo vide gli occhi del fratello inumidirsi.

- No! No! Perdonami! – esclamò mortificato – non volevo farti male!

Il giovane rise accarezzandogli il visetto con le dita.

- Stai tranquillo… anche se non ci sono più, non mi stancherò mai di raccontarti chi erano …

- Già…tu mi dici sempre che il babbo era un bravissimo fabbro e scultore! Ho preso  i capelli da lui, mentre la mamma mi ha dato i suoi occhi!

- Sei stato fortunato perché erano bellissimi.

- Lei sapeva anche cucinare bene!

- Ah!ah!ah! Caspita! Puoi dirlo forte! Il profumo dei suoi sformati di riso si sentiva a mille miglia di distanza!

- La mamma era brava a cucire, giusto?

- Era capace di rimettere a nuovo qualunque casacca vecchia e senza speranza!

- Aiutava Leira?

Al nome della fanciulla, Mu avvertì il proprio cuore battere luminoso.

- Oh, sì…diverse volte andava in bottega per dare una mano a lei e a sua madre.

- Leira ti ha fatto quello scialle che porti sempre?

- Già. Proprio così. – affermò con orgoglio.

- La conosci da quando eri piccolino?

- Sì, da una vita.

- Ti vuole molto bene?

- Beh…o-ovvio…

- L’hai già baciata?

- Insomma!! Cos’è quest’interrogatorio,  pettegolino?

Kiki ridacchiò un po’ imbarazzato.

- Io volevo soltanto chiedere…

- Chiedere, eh?

- Sì! Perché tu e gli altri tuoi amici pensate alle femmine?
 

La faccina perplessa del bambino era buffissima.
Mu non poté far a meno di ridere.

- Beh, Kiki queste cose le capirai quando ti farai più grande.

- Uffa! Ma devo aspettare per forza a quando sarò grande?!

- Sì…visto che poi saprai distinguere cosa significa…emh…divertirsi con le ragazze e cosa vuol dire invece innamorarsi.

- Che fanno Milo, Aiolia e Camus?

- Ecco…sono faccende un po’…

- Un po’…?

- Lascia perdere…

- Innamorarsi è qualcosa di grande, quindi?

- Esatto.

- E’ molto bello?

- E’ stupendo ma è così grande che ti può far  male, stare in ansia…

- Che strano! Come può una cosa tanto bella far male? Io penso che solo  gli incubi che fai di notte e quelli che ci sono davvero ti agitano…

- Niente è semplice, Kiki.

- Cioè?

- Ti accorgerai che gli oggetti hanno più di una forma e più di un colore. Ci sono la forma e il colore che vedi subito e  la forma e il colore che vedi dopo.

Il bimbo stava per domandargli  altre spiegazioni quando delle piccole briciole di suoni  interruppero il discorso…

I due fratelli si alzarono lentamente dalla panchina.

S’udirono dei flebili echi… Echi di note musicali…
Eguali a bolle cristalline trapassate dal sole, iniziarono a salire nell’aria…

Piano…piano…poi sempre più pulsanti…

Erano delicate… così pallide… così inquietanti…
A mano a mano che acquisivano spessore si coloravano di un oscuro acrilico…  
 
- Cos’è questa musica? – domandò Kiki scuotendo la mano del fratello.

- Sembra…sembra che qualcuno stia suonando…un’arpa.

La melodia sparse i suoi capelli tra le strade della città.
La gente che passeggiava, lavorava o stava chiacchierando prese a tacere incantata da quella strana armonia…

Era davvero ipnotica…
Dolce, mesta...nera come una notte senza nuvole, senza astri…

Mu avvertì un formicolio nel cuore…

Vedo cose davvero lontane…
Vedo cose troppo care…
Vedo cose ormai distrutte.

Una voce soave intonò tali parole.
Era una fresca voce di ragazzo.

Il cavaliere dell'Ariete rimase sconvolto.
Il contrasto tra il tono leggero del fantomatico cantante e la durezza del discorso lo investirono.

Il petto prese a dolergli più fastidiosamente di prima…

Agli angoli delle strade
volti di lanterne s’accendono
ma l’incanto presto cade
e le scintille di cielo s’arrendono.

La vista di Mu s’appannò terribilmente…
I sentieri di Lindo si sciolsero in una luce indescrivibile.
Dinanzi a lui comparve la sua vecchia casa di legno.

Davanti alla porta…i genitori.
Sorridendo gli facevano cenno di raggiungerli.

Rimaneva paralizzato.
Desiderava con tutto se stesso muoversi e correre ma…nulla.

La dimora prese a scricchiolare.
Un violento incendio scoppiò fuoriuscendo dalle mura.

La madre e il padre si disintegrarono in faville di carbone.

Panta rei, panta rei…
Tutto scivola e non come vorrei…

Attorno, vie di pietra e ferro…
sui muri, chiodi che sporgono e corrodono…,
nelle botteghe, martelli che battono a vuoto…

Il timbro del cantore era magnifico.
Funesto.
La sua perfezione si scioglieva in un vino di pece.

Mu respirava con orrenda sofferenza.

Quel misterioso adolescente modulava toni acuti e gravi con una tale maestria da sconquassare le viscere e il cervello.

Il guerriero si ritrovò travolto dal flutto d’ un fiume torbido e viscido.

Il bianco delle case
È il bianco delle ossa…
Le ossa dei miei gioielli
Più belli…

Pare sepolta qualunque dolcezza.
Pare sepolta qualunque carezza.


Kiki  guardava angosciato il fratello.
Stava immobile come una statua di sale.
Le labbra serrate in una  paurosa tristezza.
Gli occhi sgranati che immortalavano attimi d’invisibile incubo.

- Mu! Mu!- esclamò – che ti sta succedendo?!

Gli si parò davanti scrollandogli gl’avambracci, ma  rimaneva madido di gelo.

Panta rei, panta rei…
nella totalità annegherei,
ma coraggio non ne ho
e delle stelle abbastanza non ne so…
 

Mu vorticava nell’anima d’ una mareggiata furibonda. Sbatteva contro scogli, tronchi, case bianche…vedeva galleggiare su quelle onde pezzi d’ossa, pezzi d’affetto intenso…
Pezzi dei propri genitori…

Coraggio non ne aveva veramente…
L’acqua acida gli stava gonfiando i polmoni…
Le stelle non gli tendevano alcuna mano.


Schizzi di sangue imbratteranno,
le vetrate delle mie finestre,
fogli di corvi si perderanno,
tra le spighe d’una landa campestre…

 

- Mu!Mu! Ti prego!! -  gridava Kiki spaventato.

Percepiva quella straniante atmosfera che insabbiava l’aria e intorpidiva le persone…
Percepiva le falci che stavano trebbiando il cuore del fratello.

Il bambino cercava agitato più che mai Sion.

Salve Dubbio,  mio eterno pugnalatore…

Mu iniziò a tossire.
Tossire pesantemente.

Salve Terrore, mio eterno accompagnatore…

La tosse divenne convulsa, asmatica.

Da che parte è precipitata la mia casa?
In che luogo posso raccogliere i tizzoni del mio camino?

Mu crollò in ginocchio per terra.
Il respiro era a brandelli.
L’ossigeno pareva composto da cenere soffocante.

- Fratello!

Kiki gli si gettò addosso abbracciandolo per le spalle.

Il ragazzo tremava e tossiva.
Un sudore ghiacciato gli bagnava la schiena.
I muscoli erano irrigiditi.

La mente era assente. Cieca. Muta. Sorda.

Il cuore batteva all’impazzata minacciando di lacerarsi.

Improvvisamente …il tocco d’una mano sul capo.

Caldo.
Enormemente luminoso.
Enormemente purificatore.

Panta rei, panta rei…
In questo vortice, Amore resta dove sei…

In ogni tua forma, in ogni tuo sguardo…


- Mu. Torna in superficie.

La voce ferma, pacata e profonda del Maestro distillò lo spirito torturato dell'allievo…

Il respiro tornò lentamente regolare…
I battiti del petto si acquietarono…

Mu sfiancato, tuttavia,  da quella grandine d’emozioni buie, perse i sensi.

La poesia del cantante  seguitò  ad infiltrarsi nel suo cosmo…

Amore, resta dove sei…
Nello spirito d’un fratello…
 d’una guida…
d’un amico…
d’una donna…

Il cavaliere dell'Ariete vide comparire nel firmamento dei sogni Kiki…l’unico bocciolo della famiglia che possedeva…
Il Sommo Sion…la venerata e grande stella che si stagliava su ogni orizzonte…
I suoi amici e compagni…
L’altra parte della propria anima…Leira…

Tra rupi e maree Amore, resta dove sei…
Oltre i confini del giorno, della notte.
Oltre le vette dell'infinito.
Oltre i portali del Tempo.

Sì…
Il destino era un cinico ladro donatore…
Purtroppo non lo  si poteva agguantare…
Talvolta lo si odiava…
Talvolta lo si amava…
 

Tra rupi e maree Amore, tienimi stretto,
tienimi sospeso…
con le stagioni che navigano,
con le albe che si destano…

 

- Mu… Mu…

Perpetua il mio respiro,
lontano dai lembi sfocati del Nulla…

 

- Mu. Svegliati.
 

del Nulla che divora,
che non perdona.

Del Nulla che non sa parlare.
 

Mu riaprì lentamente gli occhi…
Sion, chinato su di lui,  lo sorreggeva per le spalle.
Kiki lo squadrava un po’ sbiancato ma sollevato.

- M-Maestro…cos’era…quella canzone?

- Nulla di normale. Era una poesia  nefasta ricamata con fine abilità sulle vesti del tuo animo.

- Pareva suonata apposta per me…

Il Maestro aiutò il discepolo ad alzarsi.

- Infatti…qualcuno è come se avesse letto il tuo cuore…i tuoi ricordi…le tue sensazioni più struggenti…

- Percepisco…un ' aurea strana, buia  nell’aria…eppure…è terribilmente sottile, inafferrabile…

- Io sono riuscito per un istante a captare la presenza di due cosmi.

- Due addirittura?!

- Sì…due cosmi che mi sono…famigliari…è come se li avessi già avvertiti moltissimi anni fa…

- Conoscete a chi appartengono?

- Non  posso affermare niente di ben definito… sono occultati e difesi talmente bene da rendere assai difficoltosa la loro identificazione.

Kiki , in apprensione, si strinse al fratello.
Sion aggrottò la fronte…
Stette un istante in silenzio…poi soggiunse cupo:

- Sai, Mu...sembra che…un’essenza divina protegga quei cosmi…quando torneremo ad Atene dovrò rivedere assolutamente  il Gran Sacerdote.

- Maestro, credete che…Ade sia la causa di ciò?!

- Sì.

- Ma com’è possibile, se il suo spirito è stato sigillato due secoli fa, nel millesettecentoquarantatrè?

- Non lo so spiegare ancora  neppure io… ascolta, quello che mi è accaduto mentre ti trovavi qui con Kiki. Ascolta quanto il Sogno e l'Illusione siano terribili predatori.

Mu apprese sconvolto la narrazione del Maestro.
 


Su un lembo di baia deserta di Lindo, sotto le nuvole tumide del tramonto, camminavano due ragazzi.
 Le loro figure eleganti, che proiettavano le ombre sulla fresca sabbia, appartenevano a paradisi differenti.

Il primo giovane aveva sedici anni e una bellezza di gelato argento.
I  lunghi e lisci capelli, che gl’accarezzavano il dorso, erano immacolati come le gote della luna.
Gli occhi  indaco luccicavano polari e apatici simili agli orizzonti invernali della Norvegia.
Sul  viso fine ,dai colori duri e perlacei, non soffiava il minimo calore.
Era alto, snello e passeggiava diritto col portamento d’un adulto disilluso e cinico. 
Indossava un austero completo grigio piombo che incuteva soggezione e recava con sé un grande libro cesellato con arcaiche e misteriose decorazioni.

Il secondo ragazzo era più piccolo e poteva avere tredici anni.
Era vestito con un abito scarlatto di lino:  una lunga camicia smanicata e dei pantaloni larghi stretti al ginocchio ricordavano le sabbie sanguigne dei tramonti egiziani.
Le impronte leggere dei sandali infradito parevano dissolversi alle luci del sole…
Quell’adolescente pareva provenire da un mondo davvero lontano.
Il volto grazioso, dai grandi occhi a mandorla gialli leopardo, era surreale. La carnagione scura e  i capelli neri , tagliati geometricamente a caschetto , lo rendevano eguale alle figure delle pitture tombali.
Il corpo  sottile e slanciato si muoveva regale e felino.
Con un sorrisetto malizioso e compiaciuto si dilettava a pizzicare lievemente le corde della sua arpa. Le  dita sottili, dalle unghie  dipinte di grigio scuro, danzavano seducenti e velenose.

- Già t’accingi a comporre un nuovo brano? – gli domandò il norvegese – l’esecuzione della precedente melodia non t’ha appagato a sufficienza?

- È meglio non porre limiti al conseguimento della perfezione…è necessario esercitarsi sempre.

- Non mi meraviglio che un tempo fosti il musico prediletto dal Sommo Ade, Pharao.

L’egiziano ridacchiò facendo rifulgere il suo strumento.

- Tendere le corde del cuore e pesarle è un mio dilettoso dovere, Rune…suonare l’anima dell’apprendista di Sion si è rivelato un esperimento squisitamente interessante!

- Le parole giuste nelle giuste recondite lacerazioni.

- Infatti…chi meglio di te comprende l’importanza e la magia dei termini ?

Rune sorrise lievemente e prese a sfogliare il suo libro.

- Con sincera devozione sto pazientemente trascrivendo le vicissitudini di questi nuovi cavalieri d’oro…hai avuto modo di notare di quale guazzabuglio di  debolezze e ombre sono intrise...

- Oh, sì! Mi domando veramente come alcuni di loro possano essere paladini d’Atena! Un tipo come quel Death Mask, o come quell’infido di Aphrodite…

- Quanta fragilità…quanto lezzo di peccato…

- Per me tutto ciò non può che mutare in poesia! Quale ispirazione può essere più grande delle nubi che alloggiano nel cuore?

- Io mi limito a scrivere osservando ogni cosa dall’alto… il mio comandamento m’impone di dominare sulle tempeste dell’emozioni.

- Beh, sei colui che valuta e giudica su qualunque percorso di vita.

- Anche tu soppesi sulla bilancia di Maat.

- Ricordati che però son musico e non posso sopprimere le mie vocazioni! Ti sono grato per avermi offerto la materia prima della canzone di Mu!

- Ho agito secondo gli ordini che ci ha impartito il Grande Minos.

- Sì…dobbiamo indagare sui Cavalieri d’Oro…è un peccato che non possiamo indossare ancora le nostre vestigia!

- Bisogna attendere…ora che il nostro Signore non dimora in un corpo materiale, noi specter decimati dipendiamo dal volere dei due divini gemelli.

- Da…Ipnos e Thanatos…

- Sono loro che ci consentono i movimenti  senza far rumore…

- Minos l’aveva detto ad Eaco e Radamantis che i tempi sono immaturi…

- Dobbiamo livellare la strada degli Inferi con immensa accortezza.

- Non vi sono alternative.

I due si sedettero su dei bassi scogli.
Rune con la fredda e  consueta aria razionale  e Pharao un po’ abbacchiato.

- Su, Pharao…non vorrai far calar il tono della tua arpa? Avrai modo di far sorgere composizioni sempre più sublimi…pensa alle vite dei cavalieri…pensa soltanto al significato del termine…” trauma”.

L’egiziano lo squadrò interrogativo.
S’accorse che il compagno  aveva abbozzato un sorrisetto pallido.

- Che intendi dire?

- In greco antico, “ trauma” significa…ferita…disfatta.

Pharao guardò il mare rigonfio d’onde sbavanti...
Guardò le onde che svanivano in misera schiuma…

Riprendendo ad accarezzar le corde dell’arpa, rise tetramente.

- Hai ragione, Rune! Quale lama è più splendente, meravigliosa e sanguigna della disfatta?

 

 


Note personali: ciao a tutti i lettori!! ^^ Scusate il leggero ritardo -.- ma queste ultime due parti del cap 8 mi hanno portato via un po’ più tempo del previsto…come promesso però eccole XD  quest’episodio è stato corposetto ( certo, il cap 5 mi ha fatto dannare di più ma pure con questo sono arrivata allo sfinimento XD )
Finalmente sono entrata nel vivo del passato di Sion con Briseis, Hymen, Doko , il Maestro Hakurei ( e nominando anche i vecchi gold saint )…ci tenevo davvero a far emergere ancora di più la tristezza che il vecchio uomo cela dentro di sé…la citazione di Montale l’ho inserita per rendere meglio il concetto della lontananza del passato che pare irreale e defunto ( ho ripreso l’immagine della carrucola del pozzo prima d’aprire il flashback su Briseis ).
Fondamentale è la comparsa alla fine dei due dei Oniro e Fantasio (  gli ho ripresi da Lost Canvas ^^ , visto che sono delle divinità che mi hanno intrigato  molto per i loro poteri legati alla psiche ;) )    eh!eh!eh!  come nel sottocapitolo “ cercando l’orizzonte” bisogna far vedere i “ cattivoni” che si stanno mettendo all’opera piano, piano…:)
Nella terza e ultima parte di questo cap, avete notato anche i due specter Rune e Pharao ^^ ovviamente verranno fornite spiegazioni più dettagliate sulla loro comparsa andando avanti! Ora bisogna lasciar trapelare mistero O.O
Spero che Le magie di Lindo vi sia piaciuto! Tornando su Mu, il protagonista,  e Sion ho desiderato approfondire il legame che li lega, le loro tristi vicende passate e…il Male che sta avviando la sua ruota ;)
Nel prossimo capitolo vedremo di nuovo Aldebaran, Aiolia, Camus e Milo ^^  scoprirete altre cose sulle vicende di questi cavalieri!! ( il futuro aggiornamento e più probabile che sarà agli inizi di settembre…)
Ringrazio tutti i lettori  specialmente Lady Dreamer e Banira ( nel suo silenzio discreto XD XD ) che mi hanno sempre sostenuta dagli albori di questa fan-fic!! ^^
Alla prossima!!


 

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Capitolo 18
*** CAP 9 - verso il crepuscolo ***


 

  Lo gel che m’era intorno al cuor ristretto
spirito e acqua fessi e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto”

( D. Alighieri- Purgatorio, canto XXX )
 

 

- Voglio vedere mio figlio! Subito! -  urlò irata di disperazione Medea.

- Signora Koriassis, vi preghiamo…

- Portatemi da Aiolia!! Aiolia!! Avete capito?!

I medici non riuscivano a contenere il panico furioso della donna.
Versava lacrime d’angoscia.
Era pallida di dolore e di sfinimento.

- Ho visto il mio bambino condotto in barella…- diceva con voce affannata ed esasperata – e-era coperto di sangue! Aveva la testa fasciata! E’ da cinque ore in quella sala operatoria!!Che cosa gli è successo?!

- I chirurgi del Grande Tempio, stanno tentando il tutto e per tutto per salvarlo.

- Già…il Grande Tempio…. 

Medea si morse il labbro con violenza.
Era fuori di sé.
Non era una persona che  ostentava le proprie sofferenze in pubblico. Dura, estremamente riservata, metteva a tacere i ricordi  laceranti dell' esistenza con il  lavoro nei campi  e la conduzione della casa.

Sta volta era giunta davvero al culmine.

- Sempre il Grande Tempio…- mormorò con tono furibondo – prima mi ha tolto Aiolos, ora…vuole togliermi pure Aiolia?! Fatemi entrare in quella sala!!

Con uno scatto tentò di spalancare le porte del reparto rianimazione ma i dottori l’afferrarono bruscamente per le braccia e la misero a sedere su una delle panche dell’atrio d’attesa.

- Maledizione!! Lasciatemi!! Io lo sapevo! Lo sapevo!! Perché?! – gridava isterica – Aiolos e Aiolia, cavalieri!! Cavalieri!!No! No!No!

Scoppiò a piangere per l’ennesima volta.
Aveva la gola corrosa dalla paura.
Aveva il torace che le doleva enormemente per i singulti.

I suoi occhi verdazzurro… gonfi d’abbattimento: desideravano svegliarsi da quell’incubo.
Il viso… stravolto. Di collera. D’angustia. Di vecchiaia.

Un tempo era stata una fanciulla graziosa. Con la morte del marito, nelle cave di marmo a Nasso, aveva lentamente iniziato a decadere. Sulla sua pelle alcune  rughe s’erano depositate, facendola appassire giorno dopo giorno. Le preoccupazioni di piombo, il fardello della condanna d’Aiolos, il piccolo Aiolia alle prese con i durissimi addestramenti di guerriero…

A trentanove anni, pareva ne dimostrasse cinquanta.

La crocchia le si era sfatta lasciando alcune ciocche di capelli fuori posto.
Quella chioma castana era sbiadita da parecchi fili grigi.
Indossava un vecchio golfino chiaro e uno sciatto vestito blu scuro. Da anni ormai non si curava più dell' aspetto.
Che importanza aveva in fin dei conti?

- Signora Koriassis.

Un chirurgo uscì dalla sala operatoria con aria grave e  tesa.
Sforzandosi di restare freddo rivelò:

- Io e miei assistenti siamo profondamente mortificati.

Medea levò lo sguardo.

- Vostro figlio…è in coma irreversibile… Abbiamo dichiarato morte cerebrale.

Silenzio.
Silenzio, silenzio.

Silenzio d’irrealtà.
Silenzio d’un assurdo squartamento.

Scricchiolii.
Scricchiolii d’un animo che si stava disintegrando.

Quei brandelli di carne, quei filamenti di cuore precipitarono nelle acque melmose   d’un baratro.

Medea si alzò in piedi.
Muta.
Cadaverica come una luna moribonda.

-Vi prego- sussurrò  consumata - v-voglio vedere…il mio Aiolia…

Il capo dei chirurghi chinò il capo e la lasciò entrare nella camera.

Ella schiuse le porte.

Vide il letto sul quale era adagiato il ragazzino.

Si avvicinò febbrilmente.

Solo dieci anni…dieci anni…

Non aveva più l’aspetto di un bimbo piccolino, però…quel suo bel viso incrostato dal sangue e sudicio di polvere era ancora un po’ tondo, morbido.
Il  corpo gl’ era cresciuto  ma le membra conservavano una dolce puerizia e un vigore acerbo.

Medea  gli accarezzò le guance, i capelli castano chiaro come faceva prima che si mettesse a dormire.
Era severa, un po’ accigliata… pareva dispensare tenerezze di rado…in realtà si scioglieva sempre dopo le luci del crepuscolo…

- A-Aiolia…- disse con voce vacillante mentre gli stringeva le mani fasciate- tesoro, p-perché n-non apri gli occhi?

Il bambino rimaneva con lo sguardo serrato. Cereo.
Soltanto le ciglia nere sembrava che emettessero qualche guizzo d’illusione.
La bocca esangue era pietrificata.

Con dita tremanti, al pari di rami secchi, la madre gli coccolò nuovamente le ciocche ondulate e sporche della folta capigliatura.

- Aiolia…su…smettila di dormire…

L’elettrocardiogramma era atrocemente piatto.

- Aiolia…

Medea posò la fronte su quella del figlio, singhiozzando.
Lo ricopriva di baci e lacrime.

Incredula. Distrutta. Squarciata…

Abbandonò silenziosamente quella sorta di sepolcro asettico che odorava di ferri e anestetici.

Una sovrumana e inquietante desolazione albergava nei suoi occhi divenuti vitrei come coperti da  cataratte...


“ Non mi ricordo se in quel momento mi sentivo davvero morto…non so descrivere di preciso le mie sensazioni…avevo abbandonato il mio corpo… Sì, l’avevo proprio abbandonato perché ho ancora in testa l’immagine di me, sdraiato sul letto senza vita. Mia madre…mia madre che voleva che mi svegliassi e io che tentavo di rassicurarla… inutilmente.
Dalla mia gola non usciva nessun suono.
E lei piangeva.
No. Non volevo vederla così per nulla al mondo.
Volevo urlarle che ero ancora lì… però, maledizione, ero diventato completamente muto.
E lei piangeva,piangeva…
Improvvisamente venni risucchiato in un’altra dimensione.
Strana, nebbiosa, triste, spaventosa…una luce, comunque, provenne da un punto indefinito dell’orizzonte…si allargò sempre di più fino a che non mi comparve avanti una specie di portale.
Un enorme arco di marmo…
Dall’altra parte…uno splendido e sfocato prato verde.
Scorsi una persona  che stava camminando.
All’inizio non la conobbi poi, a mano, a mano che mi si faceva avanti…non potei più confonderla:
era mio fratello! Aiolos!
Era impossibile non distinguere il suo sguardo scuro tremendamente profondo! Quegli occhi che mi avevano sempre accompagnato, protetto al pari d’ un padre…
Era serio, oh, com’era serio!E… com’era abbattuto…mi disse che me ne dovevo andare da lì…non era giunto il mio momento…io non volevo lasciarlo…desideravo così tanto riabbracciarlo…mi era stato strappato via, dannazione! Ero e sono più che demolito nel guardare la casa del sagittario vuota…
Un’altra figura comparve in quello spazio di foschia luminosa e opaca..non riuscii a distinguerla perché Aiolos mi spinse al di fuori del portale…l’ultimo suo ricordo: un sorriso.
Un sorriso che avrebbe voluto stringermi. Un sorriso privo di gioia. Un sorriso che svanì subito…

Mi risvegliai…ripiombai nel letto…le prime parole che suonarono disciolte, impastate alle mie orecchie  furono che mi ero ripreso miracolosamente dopo dodici ore…

Le prime parole che mi fecero a pezzi e morire dissanguato nel petto furono che avevano…ritrovato mia madre.

Schiantata sugli scogli.

In quel momento mi sarei voluto spaccare la testa e cadere di nuovo in coma.” 
 

I suoni dei pensieri d’Aiolia scivolavano dalle guglie spigolose di  quel dirupo massiccio e scarno.
Erano  una cascata che si gettava  nei boati delle onde suicide.
I loro gemiti , che si fracassavano sugli scogli, parevano bagnare  il giovane guerriero…

Si rivelava una tortura  tornare lì, ma era impossibile non farlo.

La saliva rossastra del giorno esauriente  si mescolava come  polvere di rubini sul dorso del mare agitato…
Aiolia contemplava quello spettacolo affranto e atterrito. La scia scarlatta del sole sull’acqua era  il sangue della madre  che riaffiorava sulla superficie del presente…
Il passato si svelava veramente una strana ed inquietante creatura. Pareva scomparire tra le fronde dei giorni, dei mesi, degli anni . Pareva, insomma, morire.
No.
Il tempo remoto non aveva consistenza concreta. Non aveva corpo.
Era uno spettro, pura essenza immateriale. Immateriale in quanto parte dell’anima.

Aiolia lo sentiva pulsare dentro di sé.
Avvertiva il brivido vuoto di Medea prima di gettarsi da quel dirupo.

“ Egeo  preferì fondersi col mare piuttosto che accettare un’esistenza senza   Teseo…si buttò dal precipizio senza sapere che  in realtà suo figlio non era rimasto ucciso dal minotauro…Mamma…perché anche tu non sei stata in grado di aspettare? Quella prova a cui mi ero sottoposto non era riuscita ad ammazzarmi…solo tu l’hai fatto…”

Pegasus Ryuseiken!!

Il cavaliere del Leone si scostò fulmineo.
La roccia dinanzi alla quale si trovava finì crepata in due parti.

- Seiya!!

Giunsero trafelati una sacerdotessa guerriero dalla fulva chioma mossa e un bambino di nove anni.

- Mi dispiace tanto Maestra Marin!!

- Seiya, ti avevo detto di controllare la potenza del tuo attacco! È da due mesi che ci stiamo lavorando!

Aiolia sorrise divertito lasciando dissipare dal suo viso la tristezza.

- Senpai!! – esclamò imbarazzato  Seiya inchinandosi ripetutamente – scusami!! Non volevo colpirti!! Non volevo farti del male!!

- Tranquillo! – rise il giovane scompigliandogli i capelli castano scuro- sono abituato ad ogni tipo di assalto!

- Perdonaci, Aiolia – disse Marin affiancandosi al suo piccolo allievo – ci stavamo esercitando qui nei dintorni e…la situazione è un attimo scappata di mano.

- Ah!Ah! Ah! Un cosmo così impetuoso è una mareggiata che occorre padroneggiare  in più di due mesi!

Seiya sorrise ilare al guerriero del Leone: era il suo mito. Ogni volta che la Maestra gli permetteva d’assistere ai suoi addestramenti era al settimo cielo. Ammirava più che mai la nobiltà di quel giovane. I dilanianti lampi di luce del Lighting Bolt e del Laighting Plasma gli irroravano di potenza l’animo. Sembrava di tastare e prendere tra le braccia l’ influsso della costellazione del Leone. Era come sentire il ruggito della belva dorata entrare nei timpani e nei ventricoli del cuore.
Marin, da dietro  la pallida maschera, osservò il bambino e poi Aiolia…   I  begli occhi nocciola , che nessun ragazzo  poteva rimirare, erano inteneriti e impensieriti.
 Seiya, ogni volta che fissava il cavaliere del Leone, faceva rilucere maggiormente lo sguardo e lo spirito. La carica positiva che gli veniva  trasmessa era un arcobaleno che si propagava dalle facce d’un diamante.
Per lei era un po’ diverso. Certo, stimava profondamente Aiolia…conservava dei ricordi incancellabili. Quando , da bambina,  s’era ritrovata perduta nella misteriosa dimensione del Gran Santuario, era stato lui a sorriderle per primo e a rassicurarla. In quel traumatico periodo, in cui s’era vista scaraventata dal Giappone  alla Grecia, soltanto egli s’era sollevato come un sole a levante.
Tante volte le aveva dispensato consigli sulla lotta, sulle tecniche d’attacco e di difesa. Era successo che si fossero addestrati assieme. Mai violento. La sua forza era costituita solo da dardi brillanti.

- Allora, Marin – le chiese il giovane interrompendo i suoi pensieri -  tu e Seiya vi allenate ancora un po’ prima d’andare a cena?

- Sì,  proseguiremo ancora per mezz’ora. Tu, invece, eri in pausa? Ti avevo visto dileguarti dall’arena del Grande Tempio…

- È da sta mattina presto che io, Milo, Camus e Al ci alleniamo … mi sono concesso un attimo di tregua prima d’ultimare le  scazzottate che  Scorpio si merita!

Risero.

- Sempre a gonfiarvi di botte e calci ? Non potete cambiare copione?  – domandò scherzosa Marin.

- È lui che è un rompiscatole…mi sfotte dicendomi che sono solo buono a passarmi il filo interdentale tra le zanne! Io invece penso che sia molto bravo a mettersi lo smalto rosso sulla sua cuspiduccia da aracnide…

Seiya rideva a crepapelle.

- Scommetto che vi volete un gran bene! – fece la ragazza.

Aiolia sorrise, esibendo la sua bella dentatura alla luce del sole tramontante…
 Sì…per il piccolo Seiya era un eroe…per lei era il giovane più stupendo che avesse mai contemplato.
Non lo considerava soltanto un valoroso compagno di lotte.
Studiava ogni suo  gesto da donna.
Non vedeva in lui alcunché d’infantile: il mondo delle battaglie l’aveva fatto allontanare rapidamente dalle frivolezze puerili.
Sembrava già un uomo.
Il suo corpo rispecchiava tutta la nobiltà e la bellezza degli armigeri e dei semidei scolpiti dagli artisti dell’età d’oro della Grecia. Potenza, grandezza, gloria. Non c’era nulla di cui meravigliarsi se quel ragazzo riusciva a conquistare miriadi di fanciulle…Marin doveva sopprimere la propria gelosia  e mettere da parte l’ immensa tristezza che le notti la risvegliava col cuore pesante e uggioso…
Non era un’adolescente normale.
Portava la maschera da sacerdotessa guerriero.
Nessun uomo doveva guardarle il viso. Nessuno doveva leggere la sua femminilità. Se per errore qualcuno  avesse commesso un tale atto due erano le alternative: ucciderlo o innamorarsi di lui.

“ Solo per uno sbaglio ti potrei amare liberamente, Aiolia…” pensò con l’alone  d’amarezza in  sé “ basterebbe che tu mi facessi volare via la maschera in un combattimento. Finalmente avrei la possibilità di appartenerti come una ragazza normale…purtroppo…non posso…le leggi sono leggi…siamo guerrieri d’Atena prima di tutto…io…sono una sacerdotessa e…tra l’altro… non so se provi i miei stessi sentimenti“.

Continuò a guardarlo.
Seiya gli chiedeva suggerimenti riguardo tecniche di lotta.
La giovane non era mai stanca di saziarsi dei suoi occhi verdazzurro : brillanti d’acqua, di piante estive…brillanti, a volte, dei riflessi notturni della mestizia. Sebbene egli fosse abile a celare le ombre della sofferenza , lei udiva dal profondo di quello sguardo i rintocchi delle lacerazioni.
Come sarebbe stato accarezzargli i capelli castano dorato, abbracciarlo affinché ogni nube finisse polverizzata?
Come sarebbe stato appoggiarsi contro il suo petto per non addormentarsi in un deserto buio di lenzuola ruvide e gelide?

- Marin, tutto bene? – le domandò con la sua  voce protettiva, Aiolia.

- Oh, certo! Certo…

- Sicura?

Marin sentì il cuore balzarle via del petto: il ragazzo riusciva ad entrarle dentro nonostante non la guardasse direttamente negli occhi.

- Sì…- mormorò lei ridendo piano – riflessioni di poco conto, niente di che.

- Maestra Marin, sei stanca? – le chiese Seiya andandole vicino.

- No, furbacchione-  rispose pizzicandogli la guancia – sono ancora abbastanza sveglia da farti fare tre giri di corsa attorno all’acropoli.

- Cosaaa?! M-ma…non è tanto?

- Per un cavaliere non esiste la parola “ tanto”. Nessun allenamento è mai sufficiente per la perfezione.

Il bambino deglutì sgomento.

- Maestra…io….io  p-però…

La ragazza rise.

- Su, scherzavo…ti concedo solo mezzo giro e basta. Dopo andiamo a cenare e alle nove a letto! Guai a te se ti becco ancora sveglio a giocare alle dieci e mezza!

- Sì, Maestra…

Delle urla belligeranti  sovrastarono i boati delle onde del mare.
Appartenevano ad una…ragazza.

Seguirono delle altre grida sghignazzanti.
Erano famigliari e…maschili.

Aiolia sbuffò alzando gli occhi al cielo.

- Oh, mamma…che cavolo sta combinando quel deficiente di Milo?

- Non si starà affrontando mica con…

Marin non ebbe tempo d’ultimare la frase che piombarono fulminei, rotolando giù dal sentiero  che conduceva all’arena, due lottatori: una sacerdotessa guerriero dai capelli biondo-verdino e il cavaliere dello Scorpione.
La giovane, a cavalcioni, sul suo avversario, tentava furiosamente  di prenderlo a pugni.
L’altro ridendo, con la schiena per terra,  parava tutti i colpi.

- Bastardo!! Credevi che mi fossi scordata di pestarti come un cane?! – sbraitò la guerriera.

- Su, tesoro! Non ce l’avrai con me per quella cosa di due giorni fa?

- Non sono  una di quelle sgualdrinelle che va in  fibrillazione  per i tuoi complimenti e si struscia  a letto con te!

- Esagerata! T’avevo solo detto che hai messo su un gran fisico e che sei sexy quando spari il thunder clow!

- Razza di…

- Emh…Shaina?

- Che vuoi, Marin?!

- Ti faccio  presente che…sei in una posizione un po’ sconveniente…

Shaina si riprese un attimo dall’impeto collerico e guardò le proprie cosce attorno al ventre di  Milo…in effetti quell’ atteggiamento si poteva equivocare  e inoltre lei era una sacerdotessa…
Per fortuna la maschera le coprì il violento rossore dell’imbarazzo.
Scorpio rise malizioso dicendo:

- Non t’agitare serpentella! Continua pure a divertirti sulla mia giostra! Non mi dai certo fastidio!

La ragazza gli sferrò un pugno e s’alzò in piedi.

- Porca zozza! Humor zero, eh? Sei più acida d’un limone!- si lamentò Milo massaggiandosi la guancia arrossata.

- Non è colpa mia se sei un cretino di prima classe.

- Stronza!

Shaina gli diede un calcio nel fianco.

- La prossima volta miro ai testicoli  così non farai il puttaniere  per un mese…

Seiya rimase un po’ spaventato dalla ragazza…se già si mostrava una leonessa in quel frangente in quale altra terribile fiera mutava in battaglia?
Aiolia , intanto, s’avvicinò all’amico guardandolo con un sopracciglio inarcato.

- Sai, Milo – osservò carezzandosi il mento –  non sei un cretino di prima classe…sei proprio un  fuori classe di coglionaggine.

Il guerriero, dimentico del fianco dolente, scattò in piedi sbottando:

- Ma che cacchio! Uno non può neanche constatare  cose positive?

- Ricominci?! – esclamò Shaina  avvicinandosi minacciosa.

- Tu hai le cervella frullate! Che male c’è se ti dico che sei uno schianto  di ragazza?

- Io sono una sacerdotessa guerriero, non l’ultima oca giuliva che ti ronza attorno!

- Ti sembra normale assalirmi come un’arpia isterica, dopo che sono andato a pisciare?! Beh, comunque avere le tue gambe attorcigliate ai fianchi è stata  una bella sensazione…

- Brutto maniaco…

Marin trattenne Shaina per una spalla.

- Milo, dacci un taglio – sospirò – Shaina , calmati.

- Non posso sopportare gli atteggiamenti di questo imbecille!

- D’accordo…Milo poteva evitare le sue uscite da gradasso, tu però , come al solito,  vuoi spaccare  tutto…

- In che modo non dovrei spaccargli la testa?! 

- Respirando profondamente e prendendola con filosofia.

- Tzè…filosofia…filosofia…ma per favore…

Fiera e temibile al pari d’ un’amazzone, girò sui tacchi e prese la direzione del campo d’addestramento delle Sacerdotesse Guerriero. Nonostante non fosse particolarmente alta, era quasi impossibile che passasse inosservata. I suoi capelli,  lasciati indomati come crine di cavallo sulle spalle, avevano la tonalità splendente e letale del veleno. La maschera argentea che portava era decorata attorno agli occhi con un motivo sfrangiato color viola. La corazza,  che le avvolgeva il busto snello, e la calzamaglia verde scuro , che le esaltava le gambe toniche e lunghe,  la rendevano misteriosa e attraente. Shaina, tuttavia , si faceva temere: si comportava duramente, parlava in tono scarno oppure in modo scorbutico. Le piccole apprendiste avevano paura di lei. Gli altri guerrieri si  tenevano alla larga.
Marin , all’inizio del proprio  addestramento, s’era scontrata col suo carattere difficile ma alla fine aveva condiviso assieme a lei l’aspra condizione del loro ruolo.

- Shaina s’infiamma subito – disse guardandola mentre s’allontanava – bisogna saperla prendere in un certo modo…non è facile…

- E ti credo! – aggiunse Milo – è più assassina del serpente della sua costellazione!

- Tu sei geniale… – lo canzonò Aiolia – fare il figo con Shaina che ti può sfrappolare per bene…

- Il pericolo è il mio mestiere! Bisogna  rischiare!

- Rischiare  di ricevere il prossimo calcio dritto nelle biglie?

-  Vai a cagare!

- La tua cristalliera stava per essere messa a repentaglio, eh.

- Cristalliera a parte, secondo me, la serpica è tutta da scoprire…

Marin sorrise lievemente da dietro la maschera e asserì:

- Hai ragione,Milo…ci vorrà tempo ma anch’io penso che Shaina non abbia ancora mostrato se stessa completamente…

Stettero un breve istante in silenzio.
Seiya, alla fine,  domandò timidamente:

- Emh…Milo?

Il ragazzo gli rivolse i  vivaci occhi azzurri sorridendo.

- Dimmi.

- Tu…e Shaina…tornerete di nuovo a combattere?

Il bambino era  pieno d’entusiasmo e di speranza.
Milo si mise a ridere con Aiolia.

- Caspita! Non sai quanto mi piacerebbe un bel corpo a corpo…

- Sempre ai corpo a corpo pensi…- sorrise il cavaliere del Leone.

- Micione,  non fare il santerellino che anche tu sai  andare egregiamente all’assalto…

- Cosa? – chiese Seiya perplesso.

- Niente, niente…non ascoltarli…- fece Marin posandogli una mano sulla spalla – scusate  ma  dobbiamo finire l’addestramento d’oggi.

La ragazza e il suo allievo si congedarono prendendo la direzione dell’acropoli.
Aiolia rimase , per alcuni  minuti , incantato a scrutare la graziosa e slanciata figura della sacerdotessa. Indossava la leggera armatura d’addestramento, le ginocchiere, i guanti eppure…lasciava vagare nell’aria una tenerezza indescrivibile. Marin era una guerriera potente, agile, fulminea come l’aquila  delle sue stelle…quando,  però , camminava sui sentieri di sabbia e ciottoli , si sedeva sui massi , si fermava a riflettere dinanzi  al mare pieno d’ammassi schiumosi,  diventava una rondine in gabbia alla ricerca d’un cielo in cui migrare.

“ Marin…di che colore sono i tuoi occhi? Come sono le tue labbra? Come sei quando sorridi, quando piangi, quando t’arrabbi? “

- Oh! Aiolia! Ti spicci? – lo scosse Milo che si stava avviando verso l’arena.

- Sì, arrivo!

- Meglio che raggiungiamo Camus e Al…non vorrei che combinassero qualche casino.

- Infatti…già da sta mattina c’era puzza di tensione…dovevamo stare attenti che non venissero disintegrate troppe cose!

- Guarda, mi sto rompendo di sta’ situazione ! Camus continua a fare lo stronzo e se Al s’incazza definitivamente son cavoli amari…

La terra tremò.
Seguirono echi rabbiosi d’ingiurie, minacce e maledizioni.
Le urla stentoree di Aldebaran erano inconfondibili.

- Ecco! – esclamò Aiolia – come volevasi dimostrare…

- Perfetto! Oggi è il giorno dei giramenti di palle!

I due corsero febbrilmente e giunsero all’arena.
Il guerriero del Toro ruggiva furibondo con  le gambe intrappolate in spessi monoliti di ghiaccio.
Cercava di colpire Camus  con il great horn ma questi evitava abilmente il suo attacco assaltandolo con raffiche di calci.
Il colosso aveva braccia potentissime con cui difendersi però l’ intensità  dei colpi del francese si mostrava altrettanto micidiale.

- E tu avresti la potenza del Toro? Fai pena – affermò Camus sarcastico e gelido.

- Hai reso, bastardo!

Aldebaran distrusse le colonne ghiacciate che gli impedivano i movimenti e sferrò un violento pugno che procurò una fenditura nel terreno profonda parecchi metri.

- Al! Camus! Smettetela!! – gridarono invano Aiolia e Milo.

Il gigante continuò a bersagliare Camus che prontamente si schermava con dure barriere gelate.

- Idiota. Credi di potermi finire con la tua tecnica del cavolo? – lo beffeggiò il guerriero dell’Acquario.

- Tappati quella fogna  se non vuoi finire col cranio fracassato, stronzetto!

- Pensa a non finire col culo per terra.

Alla velocità della luce Camus diede forma ad un tornado di gelo che scaraventò il rivale in aria facendolo precipitare al suolo.

- Camus! Piantala! – gli urlò Milo strattonandolo bruscamente.

Aldebaran si rialzò, sporco di polvere, irato e umiliato.
Stringendo i denti in una terribile smorfia, tentò di scagliarsi contro l’avversario ma Aiolia lo trattenne con incredibile forza per un braccio.

- Mollami,  Aiolia!! – esclamò – devo spezzare la schiena a quel pezzo di merda!

- Basta con ste’ scemenze! Datevi una regolata e chiudetela qui! Siamo e saremo compagni di battaglie! Se facciamo gli stupidi non andremo da nessuna parte!

- Aiolia, ha ragione! – ribadì Milo – vi ricordo, teste di cacchio,  la Triade Templare d’Occidente! Cerchiamo di cooperare in modo decente!

- Dillo al bestione…- disse Camus squadrando con aria di sufficienza Aldebaran – sono seriamente preoccupato di avere un cervello vuoto in squadra…i suoi attacchi, tra l’altro, non sono tutto sto’granché.

- Anche io sono seriamente preoccupato d’avere un francesotto rompiballe in squadra – ringhiò con sguardo torvo l’enorme ragazzo.

- Siete un trituramento di nervi! – s’esasperò il guerriero dello Scorpione.

- Sono convinto  – appurò indolente Acquarius – che  i bovini dovrebbero pascolare ed evitare di confrontarsi con chi ha,  magari, raggiunto livelli più alti di loro.

- Vola basso, surgelato d’esportazione russa!- ribatté l’apprendista del Toro.

-  Sai, Aldebaran – sorrise velenoso il francese – mi domando in che modo tu sia sopravvissuto nelle paludi amazzoniche e nella tua baracca di rottami pericolanti…

Pensando alla sua adorata  famiglia, il brasiliano strinse rabbiosamente i pugni e rispose  colmo di fiele:

- Perché non pigli un volo di sola andata per l’Antartide?! Ah,  già! Dimenticavo!  Non ne sei capace visto che te la fai ancora sotto alla vista d’un aereo! 

I lineamenti di Camus vennero stravolti da una collera profonda.
Un dolore remoto si propagò nel sangue.
Gli occhi blu impallidirono di tuoni. Le sopracciglia corrugarono la fronte in un’espressione spaventosa.
Le mascelle si serrarono metalliche.
Era raro vedere l’adolescente  perdere la calma in quel modo.

Aurora execution!! – gridò adirato il Cavaliere dell'Acquario.

Great Horn!!- urlò Aldebaran.

Lighting Plasma!

- Scarlet Needle!

Saette di velocità.
Aiolia , con la sua potente barriera luminosa,  scongiurò l’assalto del Cavaliere del Toro. Milo, colpendo  Camus, deviò nel cielo la traiettoria dell’aurora.
Erano stati estremamente tempestivi.

- Camus…- Scorpio s’avvicinò all’amico che si stava rialzando lentamente da terra. Non gli aveva inferto la cuspide scarlatta nella maniera letale dei combattimenti.
Gli porse la mano per aiutarlo ma lui gliel’allontanò in malo modo.

- Ce la faccio da solo! – sibilò aggressivamente scrollandosi la polvere di dosso e allontanandosi dall’arena.

- Camus, aspetta!

Milo lo raggiunse afferrandolo per una spalla.
Venne spinto ruvidamente via.

- Che se ne andasse all’inferno, quello stronzo! – proruppe Aldebaran, fissando con disprezzo la figura di Camus che s’avviava verso le Dodici Case.

- Aldebaran! Che diamine! – lo riprese Aiolia fissandolo duramente.

- Non me ne frega niente di quello lì! Può anche rompersi il naso scivolando per le scale!


Milo irritato gli andò contro.

- Razza di scemo! Quella battuta del cazzo  te la potevi risparmiare!

- Ma buttatevi a mare!

Aldebaran se ne andò via con il fumo che gli schiumava da tutti i pori.

 

 

Camus salì velocemente le scale delle Dodici Case.
Il cuore  gli batteva all’impazzata gonfio di rabbia e d’ematomi di tristezza.
Non poteva soffrire le arterie che minacciavano di stracciarsi al pari di fogli di carta inumiditi.
Dov’era il freddo?
Dov’era il gelo che intrappolava ogni ansito di tremolio?
Dov’era il ghiaccio?

Il ghiaccio, il ghiaccio, ghiaccio…

Sotto le sue lastre qualunque coccio di lacrime si fossilizzava ibernandosi come un’antica creatura preistorica.
L’inverno però si scioglieva.
Cos’era la neve se non acqua disperata, leggera e affranta che solidificava per non disperdere le  sue fragili molecole?
Il petto del cavaliere dell’Acquario ansimava  per lo sforzo della corsa e per la fatica di sopprimere il pianto.
Le lacrime tentarono di rovesciarsi fuori dalle palpebre. Lui se le asciugò irosamente ma tutto parve inutile.
Era fastidioso vedere i gradini di marmo bianchi e ciechi  sfocarsi.


Giunse trafelato dinanzi all’Undicesima Casa.
Vide le navate vuote e gelide del tempio.

Le guancie si bagnarono…rivoli di pioggia scivolarono simili a fili di diamanti disciolti…
Vinto dal bruciore che gli aveva squagliato l’iceberg su cui dimorava, il ragazzo crollò a sedere sulle gradinate dell’ingresso.

Prese a singhiozzare come un bambino.

Era da tanto che non lo faceva e s’era ripromesso di non farlo.
Le lacrime non s’addicevano ad un guerriero d’Atena, ma in quel momento l’armatura d’oro era troppo lontana. In quel momento  si trovava faccia a faccia solo con se stesso.
Le labbra gli tremavano inumidite e salate di pianto.
Gli occhi totalmente allagati erano ancora più blu, più oceanici…erano dotati una mestizia talmente splendente che un pittore pareva li avesse dipinti  col suo colore ad olio più trasparente e tragico.Le ciglia che li ornavano erano fronde d’albero nero cosparse di brina.
Camus sollevò al cielo il bel viso smarrito, esausto e frustrato.
Voleva fondersi con l’indaco del crepuscolo, divenire vapore e diluirsi tra le mani delle nuvole…
Alcuni gabbiani disegnavano invisibili cerchi d’aria…
Sotto il firmamento che cantava il requiem al giorno morente, il mare d’Atene ondeggiava di riflessi di setoso piombo.

Il giovane con voce smorzata e opaca sussurrò le parole d’una canzone:
- Je vois le ciel, je vois les mouettes , je vois les bateaux qui dansent  sur la mer. C’est comme ça quand je te regard, cherì …

Deglutì chinando la testa e abbracciandosi le ginocchia.
Non ebbe più il coraggio di proseguire…
 

Le abat-jour di quella  stanzetta d’albergo canadese  ninnavano le  ombre dorate della notte.
Sul grande letto matrimoniale il piccolo Camus stringeva felice il suo regalo di compleanno: uno splendido orsacchiotto bianco.
Era il sette febbraio. Aveva compiuto sei anni.
Nessuna festa. Nessuna torta.
Solo Rosalie. Solo la madre e la sua insostituibile luce.
Per il bimbo era la donna più bella del mondo. Il volto delicato e un po’ pallido era quello delle fate delle fiabe, gli occhi blu , aleggianti di malinconia, cullavano con i loro flutti di sogno. I capelli  lunghi erano dello stesso colore delle castagne e incredibilmente leggeri come foglie d’autunno.

- Su, amore è tardi. Domani dobbiamo tornare a Marsiglia, a casa nostra.

- Io però non ho sonno.

La donna rise e gli accarezzò teneramente il faccino.

- Dici sempre così quando divori come un animaletto la tua cena! Alla fine poi crolli! Avanti, infilati il pigiama…

- Ma sta volta…

- A  nanna,  Camus.

Un po’ abbacchiato  si lasciò sfilare il maglioncino, la camicia e i pantaloni.
La mamma gli fece indossare la tenuta da notte e gli rimboccò infine le coperte.
Camus afferrò il morbido peluche e se lo mise affianco.

- Mamma?

- Sì?

- Mi canti la canzone azzurra?

Rosalie sorrise dolcemente, sdraiandosi affianco del figlio che le posò sul petto la testolina  dai capelli verde acqua.
Tra il sapore d’una carezza e l’altra la giovane schiuse le sue sottili labbra rosate e intonò morbida la ninna nanna:

- Je vois le ciel,
 je vois les mouettes ,
je vois les bateaux qui dansent  sur la mer.
C’est comme ça quand je te regard, cheri,
parce que tu es mes étoiles.
Tu es mes fleurs de printemps.
Dors- toi tranquille, mon petite.
N ’avais pas  peur de l’hiver.
Je suis à coté de toi,
avec tous le chaleur,
avec tous l’amour.

 

Fuoco.
Un’esplosione.
Vetri. Pezzi di lamiere.

L’aereo partito dal Quebec non giunse mai in Francia.
Sull’Oceano Atlantico un terribile guasto alle ventole delle ali  squarciò tutto.

Pochi minuti.
Minuti che erano bastati per crivellare per sempre un cuore, una mente che non aveva mai temuto le perturbazioni artiche.

Furono esigui istanti.
Il ragazzo aveva impressa nella memoria l’ala dell'aereo plano  che saltò in aria frantumando i finestrini dei passeggeri.
L’ultima immagine prima del buio: Rosalie che lo abbracciò  disperata  coprendolo dall’ondata infernale di denti di vetro e metallo acuminati. 

Le tenebre.
Tenebre.
Tante tenebre. Troppe tenebre.

Infine una flebile luce.
Un piccolo neon freddo.
Quattro pareti scure.
Il rettangolo d’una finestra che mostrava il volto della notte.
Il ticchettio acido e gelato d’un orologio.

La camera d’un ospedale.
Solo un letto.
Nessuna canzone.
Nessuno sguardo blu  di coccole e protezione.

All’inizio Camus non comprese nulla…
Le cose gli vennero sgusciate come grigie uova poco per volta.

Era stato condotto ad Atene, nell’ospedale del Gran Santuario.

Gran Santuario… Una parola cava al pari d’una grotta oscura….

Una nave di Cavalieri proveniente dalla Siberia e diretta in Grecia l’aveva visto galleggiare sui brandelli della carcassa carbonizzata dell’aereo.
Un miracolo…impossibile…straordinario…i guerrieri avevano percepito la presenza del suo cosmo che , per la prima volta, sulle acque degli abissi, s’era acceso…

L’unico sopravvissuto.
L’unico emerso, sommerso dal buio.
Quando il piccolo realizzò di aver perso l’amore lasciò morire la propria voce.

Desiderò vivere muto, fingendo di vedere e d’ascoltare.
Le uniche cose che camminavano per davvero: le lacrime che bagnavano la federa del cuscino inerme.
Il resto era tappezzato di facce di giornale che tentavano di raccontargli futilmente il mondo.
I mesi successivi trascorsero uguali a chicchi di grano secchi trascinati dal vento.

Le infermiere osservavano  preoccupate e intristite.
Il bambino disegnava convulsamente sui fogli che gli davano solo esplosioni rosse, nere e arancioni.
Solo fumo, pezzi di metallo.
Se lo conducevano nella sala dei giocattoli  non toccava  nulla.

Una calda mattina invernale a novembre…
 

Camus era assiso su una delle panche del cortile del retro ospedaliero.
Era un luogo pulito ma asettico e smunto.
Alcuni cespugli di piantine ornavano il lungo rettangolo di ghiaia giusto per spruzzare qualche macchia di misero verde.
Il cielo era azzurro e insensato.
Il sole era un lampadario dimenticato acceso su un soffitto troppo alto.

Silenzio.
Qualche uccellino che canticchiava per non venire assordato dalla solitudine…

Un leggero rumore.

Il bimbo si voltò verso la gradinata del giardinetto che saliva una piccola collina che conduceva al villaggio di Rodorio.
Una palla rotolò giù dai gradini.
Si scontrò con le gambe della panca di pietra.

Un bambino scese le scale correndo e sbuffando.
Poteva avere anche lui sei anni.
I suoi capelli erano d’uno strano blu-viola e gli coprivano la fronte con una folta frangia.
Indossava una piccola corazza che gli proteggeva il petto e le spalle.

Camus lo fissò perplesso.

-Ehi! –gli  fece l’altro - scusa, mi passeresti il pallone?

Scendendo dalla panca, come un automa dal viso e dagli occhi d’acciaio  , lo restituì.

- Grazie!

Camus restò in un silenzio inespressivo..
Il bambino lo guardò incuriosito.
Non aveva mai visto due occhi blu così spenti ma profondi.
Erano addormentati però…attendevano qualcosa…forse dei raggi che attraversassero i fori delle persiane…forse il canto d’un gallo…forse una campana dorata che destasse le colombe dai loro cunicoli di pietra.

- Vuoi giocare con me?

Il piccolo francese fissò lo sguardo del suo interlocutore con maggiore attenzione: era azzurrissimo. Il nero lucente delle pupille contrastava con il chiarore dell’iride cantante.

- Mi chiamo Milo – sorrise mostrando i denti bianchi che gli stavano crescendo.

Altri istanti di silenzio…
Milo tentò d’incitare l’altro inarcando le sopracciglia con fare solare.
Niente.
Alla fine domandò:

- Emh…tu…come ti chiami?

Camus lasciò trapelare qualche piccolo guizzo.
Si grattò l’avambraccio, volse il viso a destra, a sinistra e poi al suolo.
Dai suoi occhi l’apatia s’era dileguata…le sue piccole labbra erano chiuse ma non immobili…

Per un brevissimo minuto Milo udì un lievissimo suono…

Camus tornò a guardarlo con  un’espressione disagiata e desiderosa d’aprire le proprie vetrate.
Dalla gola,  rimasta per  mesi sigillata,  pareva non riuscisse a fuoriuscire alcuna sillaba…

- C…C…

Il piccolo francese inspirò ed espirò un po’ tremando.

- Ca…Ca…Cam…C-Camus.

Pareva avesse rotto una diga di cemento.

- M-mi…c-chiam-mo…Camus.

- Bene, Camus! – esclamò allegro Milo – vuoi stare in porta o vuoi tirare?

- Non…n-non…s-so…

- Cosa?

- Io…n-non…s-so g-giocar-re tanto…tan-to…b-bene.

- Dai! T’insegno io! Mio papà è al Grande Tempio e ci metterà un sacco a uscire di lì! Abbiamo tempo!

Dopo giorni,settimane, mesi Camus mosse all’insù gli angoli della bocca.
Sulle  guance la coltre argillosa della mestizia prese piano,piano a sgretolarsi…

Il sole, moneta di lava incandescente, stava per finire definitivamente  nel forziere della sera.
Solo mezzo arco della sua fronte sporgeva implorante sul diadema  dell’ovest.
Camus avvertì  il calore lasciargli piano,piano le mani.

Come avrebbe fatto senza Milo?

“ Sei tu l’astro del giorno, amico mio…anche se attraversi la notte, le tane scure e lotti contro rapaci e pipistrelli ti ritrovo a est all’inizio di ogni mattino…sai cos’è l’oscurità…hai paura ma non vuoi uscire sconfitto. In che modo  riesci?  Io sono soltanto un’aurora boreale che fa luce, trema e poi svanisce…sono soltanto un riflesso del sole perché sono inverno. Inverno di ghiaccio che si sbriciola. “

Il sole calava sempre di più nella gola del buio.

“ Milo. Perdonami per prima. Sono stato imbecille. Mai ti spingerei in un abisso. Sei stato tu a tendermi la mano per primo affinché io non cadessi giù…” 


Marzo.
Camus attendeva al Pireo la nave che l’avrebbe condotto in Francia, a Le Havre. Da lì sarebbe dovuto salpare sul transatlantico  per la Siberia.
L’astro diurno era coperto da alcuni cirri bianchi inargentati di grigio.
Atene pareva un enorme plastico esposto in una stanza dalle volte celesti opache.
Il mare gorgogliava e russava come un anziano marinaio dormiente su nodi di corde.

Perché le barche e le navi galleggiavano sulle onde? Perché non volevano andare giù, in profondità danzando al ritmo squamoso dei pesci?
Camus pensò che nei fondali si morisse.
Quando si cade ci si fa male.
Quando si cade si  annega.
Quando si cade si sparisce nell’Eternità.

L’aereo…s’era distrutto nel fuoco del nulla. Le sue membra sarebbero state inghiottite dall’oceano con le ceneri dei passeggeri…
Rosalie s’era fusa con la polvere d’essi.

Dinanzi al blu infinito e libero che imprigionava di paura, il bambino volle di nuovo piangere.
Vi erano altri cavalieri che si trovavano ad affrontare il suo stesso viaggio ma era come stare in una piazza  vuota nel cuore della notte.

- Camus!

Il bimbo si girò.
Milo gli venne incontro.

- Quando arriva  la tua nave?

- Tra mezz’ora, da quel che ho capito…

- Andrai in Siberia?

- Sì…

I due tacquero.
Il vociare dei pescatori, dei commercianti e dei guerrieri pareva il gracchiante rumorio d’una vecchia radiolina.
Qualunque suono volante si estingueva nell’orizzonte in cui cielo e mare si baciavano.

- Starai via molto?- fece il bimbo greco.

- Mi hanno…detto…sei mesi…

- Sai chi sarà il tuo Maestro?

- Sulla nave per la Siberia vedrò…la mia Maestra…si chiama…Eirene.

- Oh…capisco…io come Maestro… ho mio padre.

Milo assunse una strana espressione.
I suoi occhi azzurri respirarono una  qualche bigia foschia.

- Tuo papà…- gli chiese piano Camus- ti…ha insegnato a nuotare?

- Sì, perché?

- I-io…un po’ ci riuscivo ma insomma…

- Ti dirà come fare la Maestra Eirene!

- A cosa serve nuotare?

- Eh?! Come a cosa serve?! Riesci a stare nell’acqua, diventi forte e le onde non ti faranno paura!

- Sì, certo…però uno si stanca…e va giù. Quando sei giù…resti lì.

- Ma…

- Io n-non voglio a-andare giù…giù fa buio…non c’è niente…niente…

- Non è vero.


Camus lo squadrò interrogativo.
Milo sorridendo rispose:

- Sotto ci sono tante belle cose. Strane piante, pesci dei colori del sole, del cielo,del fuoco. Mia mamma me lo raccontava sempre. Lei era bravissima a nuotare e ad andare sott’acqua. Mi aveva portato questa, guarda.

Tirò fuori,  dalla tasca del suo pantalone ,  un piccolo contenitore di vetro pentagonale.

- U-una stella? – domandò Camus.


- Sì! Ce ne sono molte in fondo al mare! Ti piace?

- E’…molto bella…

- Te la regalo!

- Tu però non ce l’avrai più…non te l’ha  data la tua mamma?

- Non preoccuparti…lei  è lì…

Indicò il cielo.

- Adesso è invisibile, ma è Antares la stella più grande dello Scorpione, il mio segno. Io so che ora è fiamma. Quando faccio brutti sogni mi alzo dal letto e guardo il cielo. Dopo sto meglio.

Camus ammirava la stella marina dalle esili ed eleganti braccia sabbiose. 

- Vedrai! – proseguì Milo – quando saprai nuotare potrai andare sul fondo e dopo potrai  risalire! Sarà fantastico! Vedrai le stelle del mare e della notte! Le stelle sono in alto e sono in basso!

- Sono fatte quindi di aria e d’acqua?

- Certo…ma possono anche bruciare e fare ancora più luce!

Il francese affascinato ascoltò in silenzio.
Sorridendo , tentando di coprire la tristezza , soggiunse:

- Milo?

- Mh?

- Continueremo a prendere stelle sia nel mare che nel cielo?

- Sì…lo faremo sempre!


 Un fruscio.
Sfaldato, sfuocato, sfiammato…

Camus interruppe il fluire dei ricordi per voltarsi verso l’entrata dell'Undicesima Casa.
Una nebbia densissima avvolgeva  le navate.
Esitante e un po’ inquietato, il ragazzo si alzò ed entrò nell’edificio.

Per quale strana ragione s’era verificato un fenomeno simile?

Avanzò lentamente con tutti i sensi all’erta.

Nessuna presenza.
Solo il bianco della foschia che riluceva  latteo.

Continuò a proseguire.
A mano a mano che s’inoltrava, parve che il rumore dei suoi passi divenisse sempre più foderato fino all’annullamento  totale.

Che fosse diventato sordo?

No…sentiva benissimo il battito accelerato del cuore.
Non vedeva dove stava andando.
Non udiva lo scalpitio dei suoi stivali.

Tutto era fastidiosamente compresso in un vuoto orbo.

Camus desiderò uscire dalla Casa dell'Acquario ma la foschia era fittissima.
Dietro di lui solo candore.
Davanti a lui solo candore.
Era come se fosse stato  murato in una lapide di neve.

Seguitò a camminare diritto spinto dalla timorosa curiosità di conoscere l’origine di quel velo pallido.

Improvvisamente scorse…la sagoma tremolante d’un gradino, d’un altro e poi d’un altro ancora.

Da quando in qua v’era quella gradinata nel tempio?

Stordito dal richiamo d’un invisibile magnete, il ragazzo la salì, adagio.
Ai lati dei passamano d’acciaio.

Li tastò un attimo ma non diede loro importanza.
Andò avanti finché la scala non terminò dinanzi ad una porta:  le sue  linee oscillavano come fossero fatte di vapore.
Camus ne distingueva difficoltosamente i contorni.
Posò la mano su quella che gli pareva una maniglia.

Aprì…
 
S’addentrò.

Buio.

Ad un tratto dei puntini s’accesero in alto.
File di piccole luci a neon.

Camus sentì il cuore schizzargli in gola.

Impossibile.
 

Era finito su un aereo.
 

I polmoni presero a vibrare di freddo, di fiamma, d’angoscia.
Il respiro pareva costituito solo d’anidride carbonica.
I muscoli iniziarono a traballare.

Con gli occhi sbarrati il giovane si guardò attorno: ai lati  del  corridoio del veicolo alato le file delle poltrone.
Su di esse intravide le sagome dei passeggeri. Immobili. Mute.

Aleggiava un disgustoso lezzo…

Indietreggiò.

Un rumore secco : la porta s’era chiusa.
Si precipitò addosso alla maniglia.

- No! No! No! – esclamò mentre tentava di  scuoterla violentemente.

Il rombo dei motori ,  che s’accingevano al decollo, echeggiò.

Camus corse in mezzo alle file dei sedili in direzione della cabina di pilotaggio.

- Per favore! Fermatevi! Fatemi scendere! Fat…

S’interruppe bruscamente.
S’accorse con orrore di non aver osservato bene i viaggiatori.

Erano un branco di cadaveri mummificati.
La pelle rinsecchita e bruciata sembrava ancora squamarsi e cadere come stoffa imputridita.
Le ossa riflettevano il rosso del sangue marcio rovesciato dai capillari ormai disciolti in poltiglia.

- Voglio scendere! Voglio scendere! – urlò il ragazzo tornando di nuovo verso la porta.

Quattro micidiali graffi gli s’aprirono ustionanti sulla schiena.
Cadde per terra.

- Il signor Camus Daubran è pregato, cortesemente,  di non recare disturbo.

Venne trascinato per i capelli e scaraventato su una delle  poltrone situate dietro l’ abitacolo del pilota. 

Il giovane vide davanti a lui, l’individuo che gli aveva parlato con rauca voce d’oltretomba.
Le unghie delle  mani erano lunghi artigli di bestia. Sulla loro ferrea superficie  gocce di sangue….
Aveva una divisa blu  e portava un  berretto che gli celava nell’ombra metà viso.
Era alto. Alto e imponente simile  ai cipressi che sovrastano i cimiteri.
Era dotato d’una corporatura regale e  forte.

- Fatemi scendere subito! – gridò il Cavaliere dell'Acquario tentando di scattare in piedi.

Le cinture di sicurezza emersero improvvisamente cingendogli i fianchi e inchiodandolo a sedere.
Cercò spasmodicamente di slegarsi.

- Tu…- gli disse con tono nero il misterioso essere – tu…padrone dell'inverno dai dilanianti fiocchi di neve…t’abbandoni alle spire del panico? Bizzarra come cosa.

Emise una risata di vetri rotti.
Camus contemplò il suo sorriso. Era orribile. Brillava di denti acuminati da alligatore.

- Dovresti lasciarti pervadere dalla calma – proseguì – vuoi essere cagione di dispiacere per la tua adorata madre ? Non ti sei accorto che t’attendeva per questo viaggio?

Il ragazzo si sentì accarezzare il viso da una mano legnosa e scheletrica.

Con terrore si voltò alla sua sinistra e vide Rosalie che gli sorrideva. Era  irriconoscibile.
Il viso prosciugato, privo di labbra, era crivellato da scaglie di vetro e metallo.
Le orbite degli occhi erano vuote. Le palpebre tumefatte e sgorganti di sangue.
I capelli castani pendevano dal cranio come edera morta da un vaso crepato.
Infilzati nel braccio e nel torace pezzi di lamiere.

- Tesoro…dobbiamo tornare a casa…- mormorò la donna con voce inquinata di decomposizione.

- No…no…- fece Camus scoppiando in lacrime – non sei la mamma! Non sei la mamma! Non mi toccare!

- Cavaliere dell'Acquario – lo rimproverò il pilota beffardamente – ti pare giusto questo tuo atteggiamento nei confronti d’una madre?  Ti conviene accomodarti in tal modo sulle ali dell'incubo, tuo sommo dominatore?

Ridendo si tolse il cappello con gesto d’ironico benvenuto.
Le ciocche chiare dei capelli ondeggiavano, oltre le tempie,  al ritmo d’un vento mortifero.
Gli occhi , dal taglio spigoloso, fiammeggiavano di zanne di belva.
Sebbene la fronte , il naso e le gote fossero disegnati finemente lasciavano lampeggiare una bellezza diabolica e animalesca.

- Voglio scendere…voglio scendere…- replicava frantumato e folle di paura Camus.

- Suvvia! – esclamò l’inquietante creatura- sono assai lieto d’accoglierti nel mio regno! Un regno in cui anneghi spesso. Un regno in cui scrivi d’inchiostro e l’inchiostro ti si rovescia nel petto.

La divisa da pilota si sciolse in fumo divenendo un lugubre mantello viola dalle spalle aguzze.

- Io, Icelo , divino sovrano delle fobie, t’offro ,come ineluttabile omaggio, un volo nello scheletro della notte! 


Le grida di Camus non vennero udite da nessuno.

Solo una platea morta assistette al decollo corvino del terrore.

Terrore.
Gufo dallo sguardo spalancato.
Gufo seppellito nei tronchi dell'agonia.

 

 


Note personali: ciao a tutti! ^^  mi auguro, come al solito, che questo capitolo sia stato di vostro gradimento! È stato lungo, ma sta volta non l’ho voluto suddividere in parti poiché se no frammentavo una narrazione abbastanza organica che non richiede necessariamente una suddivisione come lo è stato per i capitoli 5, 6 e 8.
Nel cap 10 scopriremo: che fine farà il povero Camus nelle grinfie di Icelo ( anche costui, divinità dei sogni che compare in Lost Canvas) , come interverranno Milo, Aiolia e Aldebaran, ma soprattutto rivedremo di nuovo  il trio degli Arietini!!  XD  ovviamente, dopo l’excursus su Aiolia e Camus…non potrà mancare Milo! Eh!eh!eh! cosa racconterà il suo passato? Quali erano i rapporti tra lui e il padre?  Tutto questo vi sarà rivelato nella prossima puntata XD dovrei aggiornare ad ottobre ( spero proprio agli inizi! ^^ ). Se in futuro si potranno  verificare rallentamenti è perché partecipo anche ad un contest  ( sempre  nella sezione Saint Seiya ) “ perché cattivo è bello” , indetto da Violet Acquarius…è una storia di più d’un capitolo, quindi…-.-
Beh, ringrazio tutti i lettori che mi seguono e recensiscono!! ( un grazie particolare a Lady Dreamer, A Sara992 che mi ha sempre seguita anche se si è iscritta recentemente XD e alla silenziosa Banira XD )
Alla prossima !! ^^
 

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Capitolo 19
*** CAP 10- o' phobon labyrinthos: le spire dell'incubo ***


 

“ Il sonno della ragione
produce mostri. “

( F. Goya )

 

 

Il sole s’era ormai disciolto nel liquore amaro della sera.
Solo il suo  alito carminio perpetuava, nel cielo, l’ultimo cencio di depressa luce.

- Non doveva sparare quella bastardata! – esclamò il guerriero dello Scorpione.

- Bisognava aspettarselo – fece Aiolia –  insomma, Camus lo sa che se ad Al parte l’embolo è la fine!

- Acquarius ha degli atteggiamenti che stanno sullo stomaco, lo ammetto… non lo reggo neanche io  quando  se ne esce con le sue stronzate…però tirare fuori la cosa degli aerei, proprio no! Aldebaran  è stato un emerito imbecille!

- Hai ragione, ma ora il casino è fatto e bisogna rimediare. Intossicarsi il fegato  in questo modo, non aiuta molto. Cribbio! C’è un motivo per cui dobbiamo collaborare assieme! Saremo cavalieri d’oro! Rappresentiamo la gerarchia più alta!

- Già…la gerarchia più alta…se penso a Death Mask e Aphrodite mi sale la bile in gola!

- Purtroppo sono nostri compagni di battaglia.

- Io desidero  rompere il culo a quei boriosi di merda…

- Saranno pure dei bastardi, figli di buona donna, ma appartengono, come noi, all’ordine dei servitori di Atena…condividiamo tutti  questa dimensione…con gli stessi doveri e gli stessi pericoli.

Milo tacque. Non poteva controbattere le parole dell'amico. Erano la verità.
Guardò l’ovest  che imbruniva lentamente col  cuore di sangue inquieto…

- Sì- mormorò- condividiamo assieme questa sorte incasinata…ma come faremo a rimanere compatti se ci troviamo su un suolo tellurico? Aiolia, io non credo nell’unità. Mi spieghi in che modo mai combatteremo…uniti? Undici cavalieri d’oro. Undici  uomini diversi. Da che mondo e mondo è impossibile creare qualcosa d’omogeneo. Anche quando le nazioni s’unificano continuano a far traballare all’ interno le loro divergenze.   Io e te andiamo d’accordo con alcune persone e con le altre? Non mi fido di Death Mask,  Aphrodite, Shaka… Saga poi  non lo conosco, Doko è lontanissimo da noi…

- Non posso darti torto – sospirò il Cavaliere del Leone – ognuno di noi possiede degli occhi differenti eppure  dobbiamo guardare  in un’unica direzione. Il mondo è soltanto uno, Milo.  Se non siamo i primi a credere di poter realizzare qualcosa, allora falliremo.  E’ assai difficile… però voglio farlo.


Scorpio sorrise. 

- Sai – aggiunse – ammiro molto Mu…come diamine riesce ad essere così diplomatico? È introverso, nondimeno ha sempre un viso gentile, parla con tutti, comprende perfino quel mistero vivente di Shaka! Hai capito? Lui, tranquillo, tranquillo, si fa i fatti i suoi e poi sta in società con enorme discrezione!

- Ah!Ah!Ah! Dici il vero…anche per me, Mu è una delle persone da stimare di più…è un grande cavaliere . Non per niente è l’allievo del Sommo Sion. Sono felice che sia il guerriero  dell’Ariete  …magari la gente fosse tutta come lui…


Un’ombra invisibile calò sulle Dodici Case.
Una fulminea sensazione di vuoto.
Stranamente caotica.
Stranamente  ghiacciata.

- Aiolia! L’hai colto anche tu?!

- Sì! Il cosmo di Camus è sparito all’improvviso!

I due amici fissarono allarmati i templi dei segni zodiacali…

Pareva non fosse accaduto nulla.
Qualcosa, tuttavia, d’amorfo e inspiegabile  navigava su un battello spettrale.

- Andiamo, presto!- esclamò Milo cominciando a correre.

Aiolia lo seguì proiettandosi rapidissimo verso la Prima Casa.
 

 

 

Aldebaran  era giunto alla fine del sentiero che conduceva fuori l’acropoli, quando avvertì quell’aurea anormale.

Si voltò verso il Gran Santuario…
Era come se le Dodici Case fossero state intrappolate dentro un vaso di vetro brumoso.
Una ragnatela trasparente avvolgeva ogni colonna, ogni angolo, ogni pietra. In particolare l’Undicesima Dimora risuonava inquietantemente vacua, somigliante ad un guscio di mollusco morto. Qualcuno ne aveva strappato via il custode facendolo dileguare nello spaventoso invisibile…

Il colosso guardò in quella direzione con un misto d’ansia e rabbia ancora accesa.

“ Non sento più il cosmo di Camus! Com’è possibile? Quel francesaccio non è andato a seppellirsi  nella sua casina? “

L’alone della nullità parve divenire ancora più pregnante.

“ Bene! Avrà imparato a volare dritto all’inferno! Che se ne stesse lì! Così farà squagliare il ghiaccio che lo surgela! “

Il  secchio d’acqua dei sensi di colpa si riversò sulla brace del rancore.
Aldebaran  percepì i battiti del cuore divenire acuti e gravi.
Gli tornò in mente l’attimo in cui aveva reso furente Camus. Gli tornò in mente il suo sguardo: sconvolto, deformato da  antichi dolori…
“ Perché non pigli un volo di sola andata per l’Antartide?! Ah,  già! Dimenticavo!  Non ne sei capace visto che te la fai ancora sotto alla vista d’un aereo! “ 
Provò una terribile vergogna nell’udire, all’interno della  memoria, quelle parole.

“ Va, beh…non sono stato carino…lui però mi ha fatto girare i nervi! Poteva smettere di calpestarmi come uno zerbino! Maledetto…”

Continuava a fissare la Casa dell'Acquario con l’animo che s’appesantiva peggio che mai.

“ D’accordo! D’accordo! Mi sono comportato da carogna! Ho toccato il fondo! “

 Si precipitò verso l’entrata dell'acropoli. 

“ Stupido Camus! Dove ti sei cacciato?! “

 

 

Milo e Aiolia erano giunti dentro l’Ottava  Casa.
Procedendo velocemente attraversarono la navata centrale.

- Non capisco! – fece il guerriero dello Scorpione all’amico – sembra che non ci sia un accidente! Eppure si percepisce uno spettro oscuro!

- Sono più confuso di te! Tra l’altro mi sento un po’ stordito…


Oltrepassarono l’uscita.

- È  vero…- osservò Milo – anch’io ho un senso di rintronamento…
 
Si fermarono un istante.

- Già…- bisbigliò Aiolia – è come…come se avessi la febbre…

-     Inizia  pure a girarmi la testa…manco mi fossi scolato due litri di vino…

- Che diamine sta succedendo? Queste sensazioni tutte ad un tratto…

Cominciarono a barcollare ghermiti da quell’insolita ebbrezza.

- Aiolia! Avanti! Dobbiamo trovare Camus! Non possiamo fermarci!

- G-giusto!

Ripresero a correre con le teste formicolanti d’anomala fatica.
Si diressero verso la Casa del Sagittario.

Le immagini  ondeggiavano fastidiosamente.
Il cielo blu scuro si sovrapponeva alle superfici marmoree dei templi e del terreno brullo.
I colori si mescolavano, tornavano normali, altalenavano, si scioglievano.
Il quadro della realtà veniva imbrattato dispettosamente da una mano molesta. L’immensa scalinata che collegava le Dodici Case era trasfigurata, lattiginosa come in una visione drogata.

Milo, sudando freddo, vide Aiolia sfocarsi.
Il pavimento  s’oscurò, si sfilacciò, si squarciò pari ad un vecchio telo.

S’aprì,subitanea, una gradinata sotterranea.

Rabbrividendo nel torace e nel cervello, il ragazzo inciampò.
Come nei suoi incubi di soluti dine, precipitò in quella gola di tenebre seghettate.

- Milo! – urlò il guerriero del Leone.

L’amico venne inghiottito.
La voragine scomparve risucchiata dalla bianchezza del marmo.

- Milo!Milo!

Il compagno cercò invano con immensa angoscia.
L’ intronamento di prima s’acuì.

- Aiolia.

Una voce profonda. Famigliare.
Possibile? Possibile appartenesse a…lui?
Forse il dolore stava allucinando troppo i sensi…

- Aiolia.

Il ragazzo si girò verso l’entrata della Nona Casa.
L’ ottundimento , che  offuscava la mente,  scivolò via di colpo.
Rimase  lo sbalordimento totale.

Davanti il Tempio  stava un giovane.
Era  alto, rigoglioso, dalla bellezza soave e straordinariamente ferma e ardente.
La  folta chioma ondulata era castano scuro. Lo sguardo  nobile e scrutatore, esaltato da spesse sopracciglia,  riluceva  d’ebano. I lineamenti del viso si rivelavano forti e dotati d’una purezza senza eguali.

- Aiolos! – sussurrò con incredula gioia Aiolia .

L’ altro   assunse un’espressione di vetrata spietatezza.
Fece comparire l’ arco e la freccia.
Livido, tese l’arma prendendo con lugubre acutezza la mira.

- Fratello, cosa fai?!

Il dardo  si conficcò nel petto del Leone.
 

 

 

“ Sono svaniti anche i cosmi di Milo ed Aiolia! “

Aldebaran esaminò agitato il sentiero che conduceva alle  Case.

“ Porca miseria! Che diavolo sono ste’ sparizioni ?! “

Stette per lanciarsi verso la Dimora dell'Ariete, quando si vide piovere dinanzi una coppia di  turbini lucenti.
Si mostrarono un uomo e un ragazzo con lunghi capelli e  due macchie sulla fronte.

- Sommo Sion! Mu! – esclamò.

- Abbiamo sentito svanire i cosmi di Aiolia, Milo e Camus…- proferì preoccupato il cavaliere dell’Ariete.

- Sì! Non ho la più pallida idea di dove siano finiti!

-  Anche a  Lindo – disse il Maestro –  si sono manifestati fenomeni alquanto   inquietanti…

- Fenomeni…inquietanti?

- Per poco non cadevo vittima degli incantesimi di due divinità figlie dell'oscuro Ipnos, il re del sonno.

- Eeee?! Sono comparsi  degli dei?!

- Non solo – aggiunse serio Mu – abbiamo anche captato la presenza d’una coppia di specter…uno di loro mi ha teso una magia senza palesarsi.

- Cielo! – si sconvolse  Aldebaran  – tutte oggi?!

Sion scrutò intensamente le Sacre Dimore.
Corrugò la fronte…
Chiuse per un momento gli occhi…
Li riaprì.

- La dimensione spaziale…- attestò cupo – è stata frammentata, disgregata per far sì che la realtà e i mondi dell'inconscio confluiscano in una medesima via di tenebra.

- Maestro – domandò Mu – è  opera, dunque, d’un dio del sonno?

- I miei sospetti si rivolgono al più  bestiale dei figli di Ipnos : Icelo, il patrono delle fobie.

- Splendido…- parlottò Aldebaran massaggiandosi nervosamente le tempie.

- Occorre, muoversi. Non sarà impresa facile individuare Milo, Aiolia e Camus nel caotico labirinto dei sogni.

I guerrieri del Toro e dell'Ariete seguirono il Maestro che s’addentrava nel Primo Tempio .

- Dov’è il tuo fratellino, Mu? – chiese a bassa voce il primo.

- L’abbiamo lasciato in custodia a Marin prima di teletrasportarci da te –  sorrise lievemente il secondo – non appena siamo arrivati qui,  ad Atene, abbiamo captato questo spirito di  negatività. E’ troppo pericoloso portarsi dietro un bambino…non mi perdonerei mai se gli succedesse qualcosa.    
 

 


Sulle pendici del poggio del Grande Santuario, un  piccolo edificio di legno dagli  occhi quadrati di lampade sonnecchianti,  s’abbandonava al soffio della sera.


- Maestra Marin, cosa c’è nelle Dodici Case?

La sacerdotessa non rispose a Seiya.
Affacciata al davanzale d’una delle finestre , fissava il colle dei templi zodiacali…Non  pareva una statua d’amazzone che attendeva la sua prossima battaglia…era una poetessa che cercava la nuova ferita che le avrebbe lacerato il petto.
Il suo allievo la fissava con impensierito incanto…gli suscitava uno strano effetto vederla in quella posa indecifrabile e apparentemente quieta…era per davvero solo  la guerriera che insegnava arti marziali e il controllo  del cosmo? 

- Emh…Maestra Marin? – le chiese di nuovo con timidezza.

- Oh, scusami …- reagì   ella scrollandosi da quell’ipnosi.

- Rischiamo grosso?

- La situazione non è chiara… come ci hanno detto Mu e il Sommo Sion , un’oscura minaccia è penetrata  nel Santuario…

- Un d-demone?

- Può darsi ma è anche probabile che possa trattarsi d’ una creatura  più terribile.
 
Seiya , turbato,  impallidì.
La sacerdotessa si appoggiò  allo stipite della porta d’entrata. 

- Io volevo andare con Mu e il Sommo Sion! – si lamentò Kiki.

- Ma che sei pazzo?! Non hai capito che dentro le Case ci può essere una bruttissima bestia?! – lo dissuase Pegasus.

- Vado dal  mio fratellone!

Con espressione buffa e determinata il bimbo s’accinse a dirigersi verso l’uscio della dimora.

- Kiki – lo riprese con dolcezza Marin – hai sentito cosa ti ha detto Mu?

Il piccolo la fissò un po’  in soggezione.
Spostò lo sguardo sul pavimento.

- Ha detto che devo stare qui al sicuro…- barbugliò.

- Esatto. Non vuole che tu lo faccia preoccupare.

- Io…io…però , da grande, sarò cavaliere…anche se ho molta paura,  quando Mu lotta sto sempre con lui…

La ragazza rise accarezzandogli la testolina color fiamma.

- Tuo fratello deve essere un grande Maestro .

- Sì – asserì Kiki sorridendo –  è molto forte! Il Signor Sion gli ha insegnato tante cose!

- Allora, continua a credere in loro…non possiamo  far altro che aspettarli  e sperare che sconfiggano questo pericolo…

- Maestra …- soggiunse Seiya –  ma il senpai Aiolia e gli altri combatteranno assieme a Mu e al Grande Sion? 

- Certo.

Il ragazzino parve illuminarsi di fiducia e tranquillità.
Per fortuna lui e  Kiki non avevano  ancora acquisito la capacità di percepire il cosmo di altri cavalieri a  distanza.

Era da lunghi ed esacerbanti minuti che Marin non sentiva più le presenze di Camus, Milo e…Aiolia.
Seminare il panico nei bambini  era l’ultima cosa che desiderava commettere.
Doveva mostrarsi  simile ad  un saldo pilastro.
In quel momento benedì la maschera. Dai suoi occhi nocciola atterriti le sfuggì una lacrima.

“ Aiolia…perché non avverto più la tua luce? Perché sei come precipitato in una voragine senza fine?”

 

 

Non vi era né freddo né caldo…
Soltanto un vento macilento ma violento gli scalfiva la pelle…
Aiolia,  tormentato da quell’insano anelo, si destò lentamente…
Echi fracassati di onde marine gli giungevano  gorgoglianti alle orecchie…
Si eresse pesantemente sulle gambe cercando di mettere a fuoco i propri sensi…
Si tastò il petto: la freccia di Aiolos s’ era dileguata.
Guardò ciò che lo circondava: all’orizzonte un mare in tempesta in cui era incomprensibile stabilire se i riflessi  fossero d’alba o tramonto. Azzurro, indaco, porpora, arancio e blu formavano  un’orgia di luci caotiche e nauseanti. Cielo e acqua erano abbracciati in una confusione farneticante…la loro linea di demarcazione era terribilmente evanescente…
Innanzi a quel dipinto di colori estenuati e graffiati si stagliava il terreno d’uno strapiombo…
Il cavaliere del Leone si   trovava sul suolo d’un rilievo roccioso…era la superficie d’una testa di dirupo  di cui aveva chiare nozioni…

Non ebbe dubbi  perché una frusta lo scorticò nell’animo....
Per quale ragione era ritornato lì, nel luogo di preghiera che gli procurava sempre contusioni?
Guardò  a destra e a sinistra, smarrito dall’assenza di scappatoie, smarrito dalla mancanza d’un volto amico…
In che modo andarsene?
In che modo trovare la chiave se non  conosceva neppure l’identità del nemico?

Nel momento in cui prendeva coscienza di  ciò, avvertì alle spalle un vaporoso rumore di passi.
Si girò.
Rimase stravolto.

Avanzava anemica e di latta una donna di modesta altezza…poteva avere all’incirca quarant’anni…indossava un lungo , pesante e sciatto abito blu…i suoi capelli erano d’un castano sbiadito e argilloso, gli occhi verdazzurro si esibivano polverosi, sul viso di bellezza avvizzita si notavano  pallide rughe…

Aiolia guardò quella figura flebile e oscillante con un amore d’infinito dolore.

- Mamma! – soffiò finemente.

Come  fosse invisibile, Medea lo superò  seguitando a camminare. Aveva lo sguardo rivolto verso il ciglio della rupe…
Terrorizzato, il figlio comprese immediatamente.

- Aspetta, mamma!

Non lo ascoltava. Proseguiva la sua marcia funebre con espressione stinta ed emaciata.

- No…fermati…

La donna percorreva la via che conduceva al vuoto.

- Ti scongiuro, non andare lì!

Il ragazzo le corse dietro.

- Mamma! Guardami!

L’afferrò per il polso sinistro.
Si udì un tetro scricchiolio…uno scricchiolio rotto e grumoso…
 Le carni e le ossa che si squarciarono.

Aiolia restò  col braccio sradicato in mano.
Gettando un inorridito urlo lo lasciò cadere . Un folto gruppo di vermicelli, rossastri e viscosi, emerse dal suolo per spolparne ogni molle lembo di muscolo.

Il cavaliere, per non  vomitare , distolse l’attenzione dal putrido spettacolo.
Ritornò a Medea  che ormai era  vicina all’orlo dell'abisso. Pareva indifferente al sangue che le grondava dall’arto mozzato…simile ad un manichino sfasciato cuciva la sua direzione verso un deposito di rottami…

- Fermati! Fermati, ti prego!

Il giovane, stette per raggiungerla freneticamente, quando inciampò.
Non fu  in grado si sollevarsi…

- Mamma!!

Con disperazione  le afferrò un lembo del vestito  ma sentì nuovamente lo stesso scricchiolamento di prima stavolta amplificato…
Medea precipitò in avanti…il torace le si strappò, disfacendosi dai fianchi….
Annegò nel burrone tagliata in due alla  maniera di un misero animale sbrindellato da una fiera.

Aiolia, demolito nella mente e nelle membra, non ebbe la forza di rovesciare urla…
Rimase schiacciato al terreno con le labbra secche di terrore e gli occhi sbarrati di lacrime sanguigne…
- Mamma…- tartagliò sconcertato – p-perché l’hai fatto? I-io…s-sono ancora vivo…
- Sei sicuro? – gli domandò una voce dietro.

Il ragazzo riuscì a sbloccarsi con sofferenza e a roteare lo sguardo.

Era riapparso Aiolos.

- F-ratello…cosa sta…

Aiolia non terminò la frase che gemette di dolore.
Nel suo petto era ritornato il dardo del Sagittario.

- Questa è la fine che ti spetta – gli annunciò con brinata ferocia il fratello – la freccia  si conficcherà sempre di più  nel tuo cuore bruciandoti le carni…hai ridotto a pezzi nostra madre e ora meriti d’agonizzare come un cane. 
 

 

 

 Il rimbombo del lamento  d’Aiolia percosse le colonne della Quinta Casa.
Mu e  Aldebaran  interruppero agitati la  corsa.

- Non fermatevi! – li spronò Sion – indugiare ci può costare caro!

- Maestro  se uno dei passaggi per condurci ad Aiolia si trovasse proprio qui? – domandò l’allievo.

- È vero! – sostenne il guerriero del Toro – avete sentito? Aiolia sembrava vicino!

- Hai detto bene – considerò il Maestro – “ Sembrava” ma non era. Icelo, pari ai suoi fratelli, è abilissimo nell’inganno. Il cosmo d’Aiolia è  più lontano. Non è qua dentro. Avanziamo e spalancate bene le porte del vostro settimo senso!

Il cavaliere dell'Ariete non osò contraddire la propria Guida. Ampliando maggiormente gli occhi della mente si accorse che in quello spazio d’invisibile frantumazione non vi era ombra del compagno perduto.

- Ma cos’è quel ramo?! – notò ad un certo punto Aldebaran.

Mu seguì il suo sguardo e rimase colpito  da un’enorme fronda d’albero che sporgeva tra una coppia di colonne della navata centrale.
Simile ad un becco di rapace, sporco di lambelli di carne gocciolanti, quella frasca pareva annusare da un buio nido l’aurea dei tre visitatori.

- Deve essere un incantesimo – disse il tibetano – è opera di Icelo.

- Esattamente – confermò secco Sion – non lasciatevi distrarre dalle illusioni! Se il sogno intrappola la ragione può assumere una letale consistenza reale.
 
Ripresero a muoversi lestamente.
A mano  a mano che proseguivano , l’apprendista del Toro non poté ignorare altri giganteschi rami di piante che si protendevano prepotentemente tra le fessure dei colonnati.
Sentiva un odore di melmosa umidità. Un odore tremendamente familiare che per molto tempo l’aveva accompagnato.
Constatò,  poi, ansioso, che il soffitto della Casa del Leone si colmava maggiormente di liane e foglie.
Conosceva benissimo la cromatura di quella cella vegetale che lasciava scorgere il cielo in miseri sprazzi romboidali…

- Al! Non fissare quegli alberi! – lo incoraggiò Mu – pensa ad andare avanti!

- S-sì…hai ragione – sorrise debole e incerto il ragazzo.

Tornarono  a seguire il Maestro  che scorreva imperterrito verso l’uscita della Quinta Dimora. 
 

 


- Aiolos… Aiolos…basta…

- Osi implorarmi così pateticamente?

Aiolos sferrò un  calcio nel ventre del fratello. Quel colpo  apparteneva ad una lunga serie di percosse  inflitte con micidiale precisione.

- Sei debole, Aiolia…debole e riprovevole…

Il guerriero del Leone, accasciato per terra,  fissava il fratello con stupita e impaurita costernazione. Dalle tempie e dal naso colava sangue.

- Io…io…n-non volevo…mai l’avrei v-voluto…la mamma non meritava quella fine…- scandì con voce strozzata mentre la freccia gli infilzava il torace con torturante lentezza.

- E’ vano blaterare – fece Sagitter abbrancandolo per la nuca – la morte è irrimediabile.

Lo scaraventò violentemente contro una roccia.
Aiolia urlò per il dolore dell’urto e per la pelle del petto che abrasiva a causa del dardo.
Si schiantò, supino, al suolo.

- Se tu avessi vinto quella prova, nostra madre non vivrebbe ora nell’Aldilà infelice e piangente!

Sì…se lui avesse superato quel combattimento di cinque anni fa Medea non si sarebbe uccisa.
In un’arena, nei pressi di Capo Sunion, si era dovuto scontrare , assieme ad altri ragazzini, contro  un  titanico e feroce  guerriero  di nome Cassios.
La prassi del Grande Tempio  si rivelava disumana quanto i massacri che si susseguivano  nel Colosseo durante l’Antica Roma.
Per un’orripilante e contraddittoria ironia, anche ad Atene, come nella remota Sparta, si sceglievano i  futuri guerrieri attraverso spietate sfide di sopravvivenza.  Se i lacedemoni lasciavano rotolare giù, lungo  il fianco d’un monte,  i neonati , al Santuario si scavavano  fosse per i pre-adolescenti che perivano in cruenti duelli.
Tra le schiere d’Atena non vi dovevano essere fioche fiamme di resistenza.
Era meglio mietere subito le spighe di grano malate.
Aiolia aveva visto il gruppo dei  suoi compagni d’addestramento, finire trucidato. Egli era stato l’unico  a  rimanere in piedi  per lunghi e implacabili minuti fino a quando l’ avversario non l’aveva mandato in coma. 
Solo per un insondabile  miracolo  era riuscito a rinsavire da quella morte temporanea.

- Ce l’avevi quasi fatta – continuò a pungerlo Aiolos – perché, fratello, perché non sei stato un vero Leone? Mi hai schifosamente deluso.

Con una smorfia di disgusto gli calcò un piede sullo stomaco.

- Non sei degno di diventare il Custode della Quinta Casa.

Aiolia, digrignando sofferente, avvertiva  il tanfo della propria carne che s’ustionava, farsi più perforante… 

 

 


La fine della Quinta Casa  si rivelava inarrivabile. Alcuni istanti prima era   vicinissima  ma ora pareva allontanarsi.
Il pavimento del Tempio, tra l’altro, stava mutando la sua compattezza marmorea…si afflosciava, s’ammorbidiva  in un sordido tappeto fangoso…nugoli di zanzare e moscerini , mai comparsi prima d’allora, presero gradualmente a scorrazzare nell’aria impregnata di malaria palustre…
Sion capì che l’inconscio di Aldebaran si stava articolando con minuzia di particolari.
I tronchi vizzi di alberi tropicali si  triplicavano con loro aroma di rugosa, calda e asfissiante freschezza  verde. Una foschia di strisciante lividore svolazzava brilla tra i bassi arboscelli che sbucavano dalla terra limacciosa.

“ Questa non ci voleva “ pensò il Maestro di Mu “  è sciocco, comunque,   continuare ad esternare raccomandazioni…non resta che dissodare il lurido terreno degli stratagemmi di Icelo…”

Il guerriero del Toro contemplava con timore crescente le diramazioni vegetali dei suoi ricordi infantili. Ricordi che l’avevano visto apprendere il duro codice della natura amazzonica. Una donna che non gli sarebbe mai stata né amica e neppure nemica, in quanto signora assoluta dei segreti vitali, dei veleni, delle bellezze e degli orrori.

Mu non poteva colpevolizzare l’amico…era un’impresa fin troppo ardua non farsi deconcentrare dai  tralci delle piante che proiettavano le loro ombre sugli antri del cuore…
Con quale  atteggiamento lasciar perdere le proiezioni dell’inquietudine? Con quale atteggiamento fingere di non vedere il proprio io ?

- Attenti!! – urlò Sion.

Un’immensa ondata d’acqua marrone e giallastra si riversò dal portale d’uscita della Quinta Casa.
I tre cavalieri  vennero travolti in pieno.
Il sapore di dolciastra sozzura fluviale compenetrò nelle loro narici e nelle loro bocche.
 

 

 

Aiolos aveva ripreso a picchiare selvaggiamente la sua vittima.

- Non sei capace neanche di difenderti.

 Aiolia, che si reggeva a stento  in piedi, non riusciva a schermarsi efficacemente.
La pena gli appannava la vista e i riflessi macerati.

- Sei privo di midollo.


Ricevette un’altra scarica di pugni e calci.
Finì in ginocchio sputando sangue.

Non aveva il coraggio di guardare negli occhi il fratello maggiore.
Assurdo.
Possibile che fosse davvero lui il meraviglioso cavaliere che gli aveva fatto da padre?  Era davvero il Maestro che l’aveva accudito affettuosamente durante la prima infanzia? Era davvero il ragazzo che s’ era occupato di non fargli mancare, neanche un istante, la luce della sicurezza?
I rimproveri preoccupati, i caldi sorrisi, gli abbracci sinceri, gli insegnamenti di lealtà scolavano dalle feritoie del cuore…

- Allora? Non vuoi proprio reagire? – lo interrogò Aiolos.

Alla vista di quella maschera da giudice-carnefice, Aiolia patì le immagini del passato frangersi.

- Ti ostini a subire stupidamente…come mai? Vuoi morire pari ad un verme?

Silenzio.

- Su, idiota – fece Sagitter afferrando l’adolescente per la gola – com’è che ti ostini soltanto a subire?

Piangendo, con la freccia che lo mordeva nel torace, l’altro rispose:

- Perché…perché siamo fratelli!  
 

 

 

Mu, Aldebaran e Sion fecero emergere le loro teste dall’ unto torrente che gli aveva assaliti.
La corrente diventò talmente grossa e impetuosa che finì per sommergere metà della Quinta Casa.

- Sommo Sion!- esclamò il Toro aggrappandosi ad un robusto ramo – l’uscita del Tempio è scomparsa!! Siamo murati!

- Non abbandoniamoci al panico! – rispose il Maestro afferrando un tronco assieme al discepolo – Più ci agitiamo, più faciliteremo il lavoro a quella carogna di Icelo!!

Per un attimo i flutti del fiume sembrarono placarsi…
I tre guerrieri ne approfittarono per arrampicarsi sulle cime più alte degli alberi…
Restarono alcuni minuti ad osservare l’acqua torbida che s’appiattiva progressivamente…
Nessun moto.

Le foglie delle frasche ondeggiavano quasi impercettibili.
Le liane dondolavano timidamente.

Aldebaran inarcò le sopracciglia.
Tra le lievi fluttuazioni  intravide prendere forma delle lunghissime e sottili sagome scure che iniziarono a  nuotare.
Prima una coppia, poi quattro, otto, dieci…aumentarono vertiginosamente.
Mu e Sion guardarono quegli esseri che annerivano la distesa del grande affluente.

- Maestro…- increspò la fronte il tibetano – ma sono…

- Delle anaconda!! -  urlò il guerriero del Toro.

I mostruosi serpenti schizzarono improvvisamente dall’acqua attorcigliandosi ai corpi delle prede e trascinandoli giù.
Erano neri, lucidi, squamosi. Potevano misurare una decina di metri e le loro fauci diaboliche, che mostravano zanne spropositatamente lunghe,  si mostravano in grado di maciullare la testa d’un uomo.

Un  raggio lucente d’inaudita potenza, tuttavia,  fece esplodere in pezzi quelle creature.
Era uno   Star light execution.
Sion riaffiorò in superficie.

- Mu! Aldebaran! – gridò.

Un altro bagliore squarciante proiettò in aria dei lacerti di rettili.
Il guerriero dell’Ariete ritornò a galla.

- Maestro Sion! – respirò  affannato il ragazzo – Aldebaran è ancora…

Non concluse le parole che riapparve dai fondali  il colosso avvolto  da un enorme gomitolo viscido di serpi.
Ringhiando,  strappava con la sola forza delle mani e delle braccia,  teste, mandibole e interiora.

- Vomitevoli demoni! – sbraitava aggressivamente sporco di sangue- mi avete rotto le scatole per troppo tempo! Non sono più un marmocchio!

Lanciando un urlo da Toro, con un Great horn , ridusse in  fradice  fibre le terribili creature.
Sion e Mu capirono che non si dovevano  preoccupare più di tanto.

- Eh! – fece Aldebaran – Come posso scordarmi le sfuriate del  Maestro Roikhos nel Rio Amazzonico?! Sono o non sono suo apprendista?

L’amico gli sorrise, lieto della dimostrazione del suo grande carattere.

Nell’acqua, intanto, i filamenti  mollicci degli ofidi iniziarono a ricomporsi.

- Dobbiamo distruggere la fondamenta di quest’incantesimo – disse Sion – oppure i brandelli delle anaconda si rigenereranno all’infinito!Mu:  tu e io uniremo i nostri sturdust  extinction ! Aldebaran: tieni a bada i mostri!

 

 


Forse tutto stava per volgere al termine…
Il fiato  fuoriusciva dai polmoni uguale ad  un naufrago sbranato da miriadi di tempeste…
Il gusto sanguigno si rimestava, in bocca,  alla saliva salata…
La vista spezzettava le tonalità delle lande circostanti…
La freccia stava immergendo il proprio appuntito copricapo nel cuore.

Aiolia  non sapeva più cosa pensare,  dire…
Aveva cessato di riflettere, d’interrogarsi…

Giaceva per terra, simile ad un ubriaco mentecatto.

- Coraggio,  fratellino – lo squadrò derisorio Aiolos – tra poco finirai di tormentarti…il mio dardo ha raggiunto la parte esterna del tuo cuore e non gli resta che arrivare  al centro…

Il ragazzo attendeva il buio come un appestato aspetta il carro dei monatti.
Guardava il fratello con le ultime lacrime che gli calavano faticosamente giù dal bel viso insudiciato.

- Il sonno perenne ti piacerà,  vedrai…niente angosce, vincoli…sarai libero di fluttuare, libero di non essere nessuno…
 

 

 


Mentre Aldebaran disintegrava le anaconda, Mu e Sion, disposti l’uno di fronte all’altro, sui rami di due alberi opposti,  si prepararono a sferrare l’attacco.
Protesero le braccia verso l'uscita celata  della Casa del Leone.
Concentrarono i loro cosmi di stelle…

Sturdust extinction!! – gridarono all’unisono.

Una ciclopica marea di fasci di luce bianchi e dorati, quasi fosse un connubio rovente della potenza del sole e della luna,  si espanse ad un’incredibile velocità inghiottendo qualunque cosa.
L’acqua del fiume, i serpenti, le piante, le trappole ispide di foglie s’annichilirono in un uragano di magia devastante e incontenibile.

Tutto s’ ultimò  in un bagliore totale.

Nel Tempio tornò a regnare  la solennità del marmo.

Aldebaran stava per esplodere di gioia ma fu costretto a trattenersi.
Mu e Sion fissavano sgomenti il varco finale della Dimora.
Erano riusciti ad annullare l’incantesimo della jungla ma Icelo aveva regalato loro un’altra terribile sorpresa.

La creazione di un buco nero che eguagliava in potenza le supernove siderali.

Un vento violentissimo di risucchio prese a soffiare.
I cavalieri si appigliarono disperatamente alle colonne. Tale era la forza di quell’orribile prodigio da non concedere il tempo di riflettere.

- Another dimension!!

Inaspettatamente l’intensità del tifone diminuì in modo brusco.

Mu vide il vortice scuro del re delle fobie venire ingoiato da una voragine cosmica altrettanto abissale.

Dopo alcuni minuti s’estinse.

L’uscita del fondo  della Quinta Casa si era finalmente liberata.
Solo una figura maestosa era rimasta a dominare la scena. La figura di un giovane uomo che avanzò verso il gruppo dei guerrieri.
Indossava una magnifica e lucente corazza dorata.
La penombra che  tesseva l’elmo sulla fronte e le gote, lasciava rifulgere il suo  sguardo intenso.
I lunghi  capelli blu gli traboccavano con armonioso disordine sulle spalle imponenti e sul dorso.

Sion sorrise.
Era impossibile confondere quel cavaliere.
Nessuno, al di fuori di egli,  possedeva quel particolare copricapo sul quale erano scolpiti un volto mesto e uno sogghignante. 

- Sommo Sion, perdonatemi. Avrei desiderato intervenire anche prima.

- Non dire sciocchezze. Il tuo intervento ci ha salvato da fine certa, Saga dei Gemelli.

Il ragazzo  scoprì totalmente la propria chioma e l’ affascinate e serioso viso.
S’inchinò rispettosamente  al cospetto del Maestro tibetano.
Mu e Aldebaran trasecolarono.
Era rarissimo vedere Gemini, il quarto servitore d’Atena ad essere dotato di poteri telecinetici. Oltre,  infatti,  all’allievo di Sion, a Death Mask e  a Shaka, anche lui possedeva la facoltà di viaggiare in altre dimensioni. 

- Ho dislocato il buco nero di quel malefico dio in una voragine spaziale da me creata – spiegò Saga – sono inoltre riuscito a distruggere  nei pressi della Dodicesima e  della Decima Casa altri varchi dimensionali che rischiavano di smarrire le ricerche degli apprendisti Aiolia, Milo e Camus.

- Hai svolto un lavoro eccelso – appurò Sion – anche perché avverto che Scorpio ma soprattutto Acquarius si sono inabissati in sotto-aditi  onirici.

- Le vostre parole sono esatte. Camus è intrappolato ora, all’interno d’una proiezione che si trova nei meandri più reconditi dell’Undicesima Dimora. Milo è scomparso in un passaggio vicino la Nona. I loro sentieri sono collegati. Prima però dobbiamo salvare Aiolia.

- Da ciò che sono riuscito a captare è prigioniero oltre il Tempio dello Scorpione.

- Ho trovato un passaggio che ci consentirà di  raggiungerlo immediatamente. Mi occorrerà però il vostro aiuto per demolire le barriere che lo proteggono.

 

 

Il  cielo prendeva fuoco.
Le onde del mare pareva si fossero innalzate e tranciate contro le nuvole smagliate che nuotavano tetre.
Aiolia respirava stentatamente madido di sudore.
Il busto emanava un tanfo di carne marcia scottata.
Il dardo gli era quasi giunto nel nocciolo del cuore.

- Questa è la miserevole fine, per un miserevole perdente – dichiarò Aiolos guardando il fratello con sdegnosa pietà – è questione di qualche minuto e tutto diverrà nero.

Il ragazzo vide, con orrore,  Sagitter alterare espressione: gli iridi degli occhi si assottigliarono come quelli d’un rettile, la bocca s’aprì in un sorriso di denti aguzzi e lunghi. 
La sua bellezza si deformò in un altorilievo demoniaco dalla pelle tirata.

- Tranquillo, Aiolia…tutto diverrà nero…nero!

La volta celeste tremò all’improvviso.

- Sturdust revolution!

Galaxian explosion!

Il mare, le nubi e il dirupo vennero sbaragliati da un ciclone abbagliante di comete e asteroidi.
La copia di Aiolos si distrusse somigliante ad una statua di sale.
In quel vortice micidiale ciascun lembo di malefico inganno sfrigolò in fumo greve nel nulla…

Dopo che quella feroce raffica si dissolse comparvero la sera d’Atene; la scalinata delle Dodici Case; la facciata del Tempio del Sagittario.

Mu e Aldebaran videro in alto le stelle che iniziavano a sbattere le loro ciglia d’argento…
Il vento della realtà scomponeva rassicurante i capelli…
Sotto lo sguardo della luna,  che si destava nel suo pallore inattaccabile, qualche uccello notturno canticchiava timidamente.

Il sommo Sion e Saga avevano annientato lo squarcio dimensionale di Icelo.

Aiolia, senza più la saetta del terrore a trafiggerlo, giaceva svenuto.

I cavalieri dell’Ariete e del Toro  si avvicinarono apprensivi a lui.
Nonostante i cirri dell’incubo si fossero disfatti, il suo corpo recava ancora impronte d’ animalesco male.
Il discepolo di Sion s’inginocchiò, afferrando il busto dell’amico per le spalle.
Sollevando la mano destra  sulle ferite, fece comparire sferette di luce che aspersero ogni raggrinzito strato di pelle, bolla d’ustione, ematoma…una patina dorata presto prosciugò le tracce dello  strazio.

- Aiolia…Aiolia…- lo chiamò  piano il tibetano.

Il ragazzo aprì a rilento gli occhi verdazzurro.
Scoprì i tendaggi di un’espressione rafferma e frastornata.

- Ehi…- domandò il brasiliano chinandosi pure lui – come ti senti?

Il giovane schiuse le labbra vacillanti:

- Non…non…è stata colpa mia…v-vero?

Mu e Aldebaran lo fissarono interrogativi.

- …la mamma…la mamma…non si è uccisa per me…vero?

- Aiolia …- disse il cavaliere dell'Ariete inquieto – cosa dici?

Il compagno dilatò  lo sguardo afferrandolo per il mantello :

- Qualcuno dica che  non è stata colpa mia! Che non è stata colpa mia!

- È tutto finito! Calmati…- tentò di confortarlo Mu.

- No! Qualcuno lo deve dire! Perché io l’amavo! Perché io la amo! Perché non volevo…non volevo…

Scoppiò a singhiozzare premendo la testa, come un bimbo, contro il petto dell'Ariete.
Aldebaran assisteva alla scena con il cuore ridotto in cocci. Mai avrebbe desiderato  vedere l’amico in preda a quel penoso delirio.

Mu,  colmo di affetto e tristezza, abbracciò Aiolia cercando di far dileguare in lui l’ombra che gli appannava la ragione.

- Mio fratello…- balbettava il Leone – lo deve sapere…c-che c-che ho tentato….di chiamarla senza…riuscirci…..m-mio fratello…

Guardò implorante i propri compagni e Saga.

- Diteglielo…ad Aiolos…vi prego….ho tentato….ho tentato…so di non valere ni-niente…

Al nome di Sagitter, il cavaliere del Gemelli chinò il capo sentendosi sventrato contro una parete di chiodi.

Il Sommo Sion si avvicinò gravemente al discepolo e ad Aiolia...
Fece addormentare delicatamente quest’ultimo toccandogli la testa con un dito.

- Maestro…che è successo?

- Ho lasciato che si assopisse affinché il fluido della razionalità torni gradualmente a rinfrancarlo dal trauma  subito.

Prelevò il ragazzo dalle braccia dell'allievo caricandoselo in spalla.

- Sarà meglio che lo conduca all’ospedale del Gran Santuario…necessita di assoluto riposo e rigenerazione…Mu, Aldebaran : andate con Saga. Milo e Camus sono appesi ad un filo. Vi raggiungerò tra breve.

Sion si dislocò in un bagliore lucente.

- Ragazzi, seguitemi  - ordinò Gemini mettendosi a correre.

I due cavalieri gli obbedirono.
Per fortuna non poterono scorgere che nel verde scuro dei suoi occhi tracimavano faville contuse di dolore.
Un dolore di patto infranto.
Uno squarcio che s’apriva su un defunto martire di nome Aiolos.

 

 



Note personali:  ciao a tutti!! ^^  perdonate questo ritardo -.-  sono stata rallentata per la stesura “ Nell’aurora che lacrima” e anche, ahimè , per problemi di salute…
Questo capitolo “ o’ phobon labyrinthos “ , che significa in greco “ il labirinto delle fobie”, è  diviso in due parti. La prima, questa che avete letto, era dedicata ad Aiolia.
La seconda riguarderà Milo, come già avevo anticipato nelle note del cap 9. Direi che , poiché sono giunta decisamente a buon punto, di poter aggiornare anche la prossima settimana!! ^^ non vi specifico quando ma entro domenica ce la dovrei fare!! ;)
Mu, per ora partecipa ma è posto  in secondo piano per conferire spazio ai suoi amici…bisogna elargire qualcosa un po’ a tutti! XD comunque il nostro protagonista tornerà a dominare la scena nel capitolo 11…non anticipo nulla…
Scrivere questa parte è stato un dramma -.- era dinamica e si alternavano le scene con Aiolia e Mu, Sion ed Al…sigh…( poi ho dovuto reinserire Saga che non compariva dal cap 5!! ) spero di aver realizzato nel modo più accettabile possibile i tormenti del disgraziato Leone che viene pestato a sangue dalla copia malefica di Aiolos!! Non è stato facile per nulla ma mi auguro che voi abbiate gradito! ^^
Grazie a tutti i lettori!!
Alla prossimissima!!

p.s ringrazio lady dreamer per la consultazione riguardo il titolo di questo capitolo! XD
 

  
 

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Capitolo 20
*** CAP 10- o' phobon labyrinthos: aracnidi d'odio ***


 

“ Il nero rispunta, con una fitta più acuta.
Rinasce e si stronca e m’invesca.
E io grido. “

( G. D’Annunzio )

 

 

 

L’odore agre e farinoso dell'aria.
La scorza cagliata e scabra della pietra.

Un paio di ciglia nere che schiusero uno sguardo azzurro e sprofondato…

Milo, inchiodato al suolo,  mosse intorpidito le proprie membra…si sollevò con lentezza sui palmi delle mani…s’aiutò anche con le ginocchia… riuscì, infine,  a rialzarsi.

Si guardò attorno  oscillando  simile ad un pugile uscito sconfitto da un incontro. 
Gli vorticava ancora la testa.

- A-Aiolia…Ca…mus…dove s-siete?  - farfugliò in preda ad un fastidioso languore.

Non gli pervenne alcuna risposta.

Tentò di sforzare gli occhi: non era  più al Grande Santuario…
Di fronte a lui un territorio agreste ma per nulla idillico. Colline verde scuro che si perdevano sotto un cielo grigiastro e gramo. Alberi d’ulivo impietriti al suolo come uomini appassiti in involucri di lava solidificata.
Un sentiero ghiaioso,  d’anoressica vecchiaia,  gli indicava una direzione…
Col capo che iniziava  a svuotarsi dall’intontimento, prese a calpestarlo per trovare un brandello di via. ..
Mentre proseguiva, la stradina affondava sempre di più verso una vallata…nel mezzo di quel basso piano riuscì a scorgere qualcosa…una specie di costruzione…sembrava un anfiteatro.

Giunse finalmente sull’orlo degli spalti più alti.

Fissò confuso quella conchiglia dentellata di selce: nessuno spettatore…
Solo grigio, ocra, terra… Il residuo d’un guscio vacante, aperto, incartapecorito…
Quell’arena altro non sembrava che una collana sciattamente abbandonata e ossidata.
Milo scese lentamente le gradinate della cavea.
Si spinse verso i primi posti, vicino all’orchestra, lo spazio circolare destinato alle danze del coro.
Non piroettava nemmeno un suono eppure… sentiva i brividi pizzicargli le vertebre con pinze d’acciaio.
Nell’aria inerte, veleggiava una strana attesa.
Fu tentato d’andarsene.
Perché  rimanere ? Che senso aveva?
Come mai s’era ritrovato catapultato lì? Che spettacolo  stava per aver luogo?

Increspando la fronte, fece per risalire i gradini , quando udì dei sibili…
Piccole voci…

Si voltò.
Ai due lati dell'orchestra, da delle botole comparse dal suolo, emersero file d’individui avvolti in lunghi pepli neri…

Cantavano a bassa voce in modo incomprensibile…

A mano, a mano che si disposero con grazia sinistra, sull’ area adibita ai balli, il ragazzo s’accorse che portavano maschere verdognole  da tragedia.

Essi  cominciarono a dondolare, fluttuare simili a fantasmi esausti.
Intonarono con accenti alti, foschi , asessuati delle strane rime.
 

Che tu sia benvenuto
in questo mondo di veleno imbevuto.
Oh fanciullo, dall’iride di terror acuto,
sei egual ad un umido fil d’erba sparuto.

Guardi tuo padre, senza pallido rifugio trovar.
Guardi tuo padre e in una savana di rovi ti trovi a vagar.

Solo un pungiglione nero ti colpisce,
e nel cuor tuo un pianto di fango ti sfinisce.

Che tu sia benvenuto,
in questo nido dagli aracnidi tenuto.

 


I coreuti mutarono in vapore cinereo.
L’anfiteatro fu travolto da un turbine oscuro.

Milo si coprì il viso con un avambraccio…

Dopo che fu passata quell’impetuosa ventata,  vide che al posto dell’orchestra era apparsa una pavimentata  di marmo bordò… Al centro stava un altare di gesso bianco…

“ Questi sono frammenti d’una sala…una sala che si trova…nel Tempio delle Lame Divine! Sull’isola di Milo! “ rifletté  col cuore che gli balzò in gola “ sì…era il santuario in cui fui iniziato…”

Cominciò a tremare.

“ Io…fui iniziato nella…Cappella dello Scorpione Celeste…”

Sul palcoscenico emerse una coppia di  figure.
Una era imponente e robusta, l’altra  minuta e fragile…

Milo avvertì le proprie arterie vibrare.

Riconobbe un guerriero dalla carnagione scura e un bambino di sette anni. Il primo aveva una folta e ondulata chioma grigio piombo che gli toccava le spalle muscolose. Il suo viso era scandito da dei tratti spigolosi e volitivi. La mascella,  un po’ lunga,  era dura. Il naso, leggermente arcuato, trasudava un’aria sprezzante e grave.
Il secondo possedeva un visetto  paffuto, terrorizzato e impallidito. Aveva i capelli color oltremare.

Il cavaliere dello Scorpione sgranò lo sguardo.
Quei due soggetti erano padre e figlio.
L’unica cosa che li accomunava: gli occhi cerulei. Occhi cerulei identici nella forma e diversi nelle onde che scuotevano.

“ Non è possibile…mio Dio…”

L’adulto  si fermò dinanzi all’altare.
Il bimbo gli rimase dietro  esitante e sudante.

Silenzio.

Il combattente lo fissò  con cupezza ed espressione d’accusa.

Il piccolo si lasciò sfuggire: 

- N-no…n-non voglio…

- Smettila di lamentarti – gli venne  intimato minacciosamente.

- Ti…ti prego…

- Bisogna farlo. Lo sai benissimo.

- No! No!

- Evita queste scenate o sarà peggio per te.

Il bambino scoppiò a piangere.

- Non voglio! Non voglio! – replicò singhiozzando – Ti prego, papà! Ti prego!

- Non chiamarmi “ papà “ ! – esclamò l’uomo –  sono il tuo Maestro adesso!

- No!

 Ricevette un ceffone in pieno viso.

Milo assistette alla scena con rabbiosa tristezza…le lacrime gli  spuntarono dalle palpebre…

- Tu sarai cavaliere! Porterai l’armatura d’oro dello Scorpione! – vociò l’insegnante.

Il figlio scosse convulsamente il capo cercando di scappare ma venne agguantato bruscamente.

- Lasciami! Lasciami! – strepitò dimenandosi affine ad un agnello sacrificale.

- Finiscila! – gli ordinò il padre stringendolo con forza tra le braccia –  devi imparare a vivere in questo mondo! Hai capito, Milo?!


Dagli spalti, Scorpio s’addentò  le labbra.


“ La Prova dell' Aracnide nero…”

Guardò il  gracile sé  stesso che venne costretto a sdraiarsi sull’altare immacolato. Lo guardò  tentare  d’opporre un’inutile resistenza.

Sideratio aranea! -  pronunciò il Maestro.

Il piccolo Milo  si ritrovò i muscoli  totalmente paralizzati. Soltanto gli occhi stillanti di pianto squassavano preghiere singhiozzanti e terrificate.
Il genitore gli torreggiava affianco  con volto di roccia.
Sollevò la mano destra  lasciando che dall’indice spuntasse un lungo artiglio nero.

- Io, Kletias di Eophrynus *, padre ancestrale degli aracnidi, t’ apro le soglie del potere dello Scorpione Celeste. Che questo siero che ti inietterò nel sangue  possa rendere il tuo corpo, la tua anima e la tua mente immuni da qualsiasi veleno letale. Che il tuo cosmo cresca illuminandosi del rosso di Antares! Che tu riesca a cogliere le fiamme della tua nuova nascita! Aculeus noctìferi!

Trafisse il petto dell' apprendista.

I due guerrieri dello Scorpione lanciarono un grido  che trapassò le nubi  del cielo grinzoso.

L’infante  subiva la tortura immobilizzato, mentre l’adolescente si contorceva quasi avesse un demone in corpo che gli stesse strappando a morsi l’anima. 
Erano in preda ad un male forsennato.
Il veleno pareva corrodere le pareti  di qualsiasi arteria,  organo vitale…
L’aculeo del vespero , scalfendo l’organismo in tutte le sue componenti, specialmente i centri nervosi, causava la  perdita  del senno alla vittima.

Il dolore aveva un colore: il rosso sangue,  il rosso pianto, il rosso martirio.
Il rosso d’un cuore in delirio.

Il Milo ragazzo, con  occhi abbacinati e deformati, si artigliò il torace dal quale sgorgava un’emorragia copiosa.
Arrotando i  denti, come un animale agonizzante, cercò d’arrestare il flusso scarlatto delle proprie vene ma non riuscì…
Nella  mente iniziarono a scorrergli ricordi: magre  sceneggiature che vedevano protagonisti sempre lui e Kletias, uniti negli addestramenti di terreno e mare e  distanti  nei momenti di  illibata e morta quotidianità.

Le voci dei  coreuti  ripresero a intonare  dolenti  motivi…motivi che si congiungevano con l’ intelletto dilaniato…
 

Oh, ragazzino, com’è che di furor barcolli?
Ad un mausoleo di pietra vuoi parlar?
Non vedi,  guerrier senz’elmo, che tu crolli?
Quale ramo brami se incapace ancora sei di volar?


“ Padre, non mi hai mai voluto guardare in faccia veramente… non ti sprecavi a porti domande…io ci provavo, da perfetto deficiente, a lanciarti qualche segnale… ma niente! Niente! Me la facevo sotto prima d’ogni ostacolo ma m’uccidevo lo stesso d’allenamenti. Andavo avanti rischiando di spaccarmi la testa, la schiena, le gambe…”
 

Il protervo padre è assiso su un trono di tuono.
Dal terrazzo d’un tempio petroso ti fa scivolar;
Le sue orecchie non odono, del tuo vermiglio ansito, il suono.

 


“ Sai, maledetto,  perché ho continuato sempre a distruggermi?! No per quella cavolo d’armatura dello Scorpione! No per la dea Atena! Solo per te! Per te, stronzo! Speravo d’ottenere uno sputo della tua approvazione! Uno straccio di sorriso! Che scemo che sono…dovevo rassegnarmi al fatto che non riuscivi a  darmi un mano…già…eri  soltanto mio Maestro, no? T’eri scordato del nostro sangue, della mamma, di tutto quello che avremmo potuto fare per davvero!”

La sofferenza del veleno si raggelò di colpo.
Il sangue cessò di erompere dal cuore.

Milo, con  gli arti dolenti, cercò faticosamente di rimettersi a sedere sulla gradinata della cavea…
Tenendo ancora la mano sul petto bruciato, fissò il centro dell'arena…

La scenografia era mutata.
Mostrava l’interno d’una camera d’infermeria: un letto, un comodino con sopra un bicchiere d’acqua ,  un  pavimento asettico azzurro scialbo ed  una parete di fondo bianca che incorniciava l’insieme in modo claustrofobico.
Vi era un ‘illuminazione neutra ma rimbombante di tensione vacante.

Gli attori erano gli stessi.
Kletias stava in piedi davanti al giaciglio del figlio dodicenne. 

I coristi levarono, invisibili, altre quartine di note….
 

Ragazzo privo d’armatura lucente,
hai lanciato il tuo rancor con un fendente.
I dialoghi son state fantomatiche pergamene
che mai hanno confortato l’arsenico nelle vene.

 

Milo intese amaramente: la proiezione remota , che gli si manifestava,  rappresentava il giorno  del commiato definitivo  dal padre…
 

Astro di speme dissanguato,
le fiere  sempre saranno in agguato,
e anche se all’alba a correr inizierai,
al cospetto d’una croce di tenebra, perduto, t’inginocchierai.

 

- Ti pareva quello il modo di combattere?! – eruppe il Maestro- guarda come  sei ridotto! Perché,  nella Grotta della Cuspide Rossa,  non sei stato capace di domare gli scorpioni?!  Rappresentano la tua costellazione! Devi essere il loro sovrano! Ti sei lasciato annientare e per poco non finivi all’altro mondo!

L’apprendista, seduto sul letto coperto di morsicature nere e violacee, taceva.
Il capo era chinato assieme allo sguardo. I capelli scarmigliati , un po’ lunghi, nascondevano in parte quell’espressione da convalescente stremato e stravolto.

- Hai barcollato, razza d’imbecille…- seguitò irato l’uomo – il panico ti ha vinto e non hai visto  nulla! Alla fine, per non farti morire massacrato di punture, ti ho salvato… Avrei dovuto abbandonarti là, sepolto a Milo,  piuttosto che ricondurti qui ad Atene dove non meriti di vedere l’Ottava  Casa!

Il figlio, accecato da un’ esasperata collera, gli scagliò contro il bicchiere d’acqua che finì in frantumi.

- Potevi  lasciarmi crepare, allora! – urlò in lacrime – visto che  faccio schifo ti saresti sentito meglio senza più uno  scemo da addestrare!

- Ascoltami, bimbetto smidollato! – esclamò Kletias afferrandolo  per i capelli – o la pianti di dire cretinate e fallire pietosamente o giuro  che sarò io a gonfiarti  di lividi fino a ridurti in poltiglia!

- Dai, fallo! Fallo! Tanto per  te sono una merda, vero?! 

- Non capisci niente….- sibilò  l’armigero lasciandogli con malagrazia il capo.

- Tu non hai capito un cavolo e non capirai mai nulla!

- Non riprendere le  tue stupide accuse, Milo. Ne abbiamo già parlato.

- Parlato?! Parlato?! Ma quando io e te parliamo?! Allenarsi significa parlare?! A casa te ne sbatti altamente di me…

- E’ inutile che piagnucoli.

- La mamma non avrebbe fatto  così! Lei non era come te!

Kletias rimase zitto.
S’allontanò dal letto.
Fissò il pavimento.

- Deidamia…- mormorò ad un certo punto – Deidamia mi ha saputo sedurre e coinvolgere…coinvolgere in un’impresa che m’auguravo di non intraprendere.

Guardò l’ allievo :  lo stava  ascoltando torvamente.

- Hai soltanto  i miei occhi – proseguì – i capelli, il viso e il  dannato vizio di contraddire ti provengono   da tua madre…bel risultato  sei.

Il dodicenne non comprese se in quell’affermazione vi  fosse sarcasmo o afflizione o velata fierezza. 
Tutto rimase avvolto in uno sgradevole interrogativo.

- Ero indeciso se metterti al mondo oppure no –  rivelò l’uomo dopo una breve pausa – ormai non posso più tornare indietro…quel che è fatto è fatto.

Il ragazzino strinse rabbiosamente i pugni fino a ferirsi  , con le unghie,  le palme delle mani.

- A proposito – gli venne annunciato freddamente - Domani mattina partirò per quella missione d’addestramento speciale sull’Isola d’Andromeda. M’intratterrò fuori dalla Grecia  per un paio di mesi, come già t’avevo detto qualche settimana fa.

- Bene… se lo desideri puoi startene là , nell’oceano,  per tutta la vita... non me ne frega proprio niente.

Kletias  , fulminando  con lo sguardo ,  ribatté con congelata irritazione.

- Mi auguro, al ritorno, di vederti con un po’ più di forza e  intelligenza visto che scarseggi spaventosamente su entrambi i fronti.

- Parti il prima possibile. Anche ora.

- Hai ragione. Sono stufo d’ascoltare i tuoi vaneggiamenti.

- Perfetto! Sparisci! Vai via!!

La Guida   voltò le spalle accingendosi ad abbandonare   la stanza.

- Vattene! Affoga nel mare! – gridò piangendo Milo – Ti odio! Ti odio!Ti odio!

 
Scorpio contemplò la scenografia sbriciolarsi simile all’intonaco deteriorato d’un palazzo impossibile da restaurare.

Ti odio…ti odio…ti odio…” 

L’ultima battuta di quell’atto definitivo.
Il sigillo d’una frattura insanabile.


Il padre morì veramente.
Rimase intrappolato sulla nave per Andromeda durante una feroce tempesta nell’Atlantico.
Rimase intrappolato per salvare  l’equipaggio degli apprendisti.

Il ragazzo ricordava  quel  pomeriggio autunnale in cui si erano svolti i funerali…
 

Il sole settembrino non riusciva a scaldare il gelo  che imperversava silente sulla necropoli del Santuario…
Le lapidi dei cavalieri deceduti avevano accolto un’altra pietra. Un masso che non vegliava su  alcuna salma sotterrata. Un masso che commemorava solo:

Kletias Ethymides d’Eophrynus
Cavaliere d’Argento

I guerrieri  partecipavano con solenne mestizia alla cerimonia intonando preghiere e posando fiori.

 Milo,  cereo, restava zitto.
 Il giorno prima  aveva appreso la notizia della morte del Maestro restando con la gola stretta e le interiora vessate.
Non era riuscito ancora a piangere.
Era incredulo. Recava   lo sfregio umido dello shock...
Camus, al suo fianco,  lo fissava con un misto d’ansia e abbattimento.

Giunse il momento di porre,  attorno alla lastra funebre,  la ghirlanda d’onore.
Venne affidata a lui  in quanto figlio e allievo del defunto.

Si avvicinò lentamente.
Guardò le scritte incise  sulla stele…

Fece trascorrere alcuni taciti minuti.

- Sei stato un idiota – stridé alla fine.

I cavalieri lo squadrarono perplessi.

- Sei stato un idiota! – urlò.

Davanti ad una miriade di occhi allibiti, ridusse a pezzi la ghirlanda e corse via.

Mentre volava fuori il cimitero, lacrime acide gli iniettarono lo sguardo d’azzurra e fracassata ira.

- Milo!Milo! – lo chiamò l’apprendista dell'Acquario.

Si fermò voltandosi verso l’amico che l’aveva seguito.

- Ha-hai visto,  Camus? Lui e il suo fottuto eroismo…

Stritolò i pugni.

- Non mi ha fatto mai capire nulla…fanculo… fanculo…

 Violenti singulti  gli impedirono di continuare a imprecare .

Camus lo abbracciò in un silenzio intriso di iscrizioni d’intesa.
 


 “ Papà…perché? Perché ? “

Milo stava immobile, pari ad un monumento frusto e macchiato . Osservava l’anfiteatro svanire in scaglie  trascinate da un vento zigrinato di polvere nera.

“ Perché non ti sei saputo spiegare? Perché non amavi raccontare? “

I pezzi della cavea volarono via, tasselli d’un puzzle fatuo senza cromature.

“ Ma a che serve farmi queste domande? Ora tra noi tutto è morto…”

Sparirono anche le colline circostanti inghiottite come acqua torbida in scolatoi scuri…

“ Sì…devo piantarla…non vale la pena spaccarmi la testa tentando di afferrare qualcosa di sicuro che tu mi hai trasmesso…”

Calò l’oscurità che denudò il proprio corpo privo di forme e di arti.

“ Ti sei comportato da eroe però  per me rimani solo  un bastardo… Non mi hai mai rivelato tutta la verità…in quei tuoi occhi ho visto solo ragni. Ragni che ti nascondevano in schifose tele.”  

- Milo…

Una voce di uomo rimbombò nel ventre della tenebra che sapeva di sepolcro sconsacrato…

Il ragazzo tese le orecchie e i nervi.

- Milo…

Il suono serpeggiò nell’aria di vernice cieca.
Quante volte quel richiamo, quel tono di comando inflessibile che preannunciava sfinimenti fisici e sguardi di artiglieria…

- Milo…

Il guerriero chiuse gli occhi: rifugio nel buio dal buio circostante.
Serrò le ossa delle mandibole.
Il cuore gli fremeva nevrotico. Emanava ancora quell’essenza di sangue rappreso di veleno.

Per un po’ non udì più nulla…
Solo l’ombra intoccabile, sconfinata e piatta…

Un tagliente ronzio.

La scottatura d’un foro.

Milo emise un lamento di dolore. Si toccò il fianco: sanguinava.

Una seconda lamina di fruscio. Sta volta alle spalle.

Si aprì una ferita tra le scapole.

Il giovane, ciondolando leggermente, tentò di individuare il nemico che lo stava pungendo con movimenti repentini e sfuggenti.


Un’altra puntura. Un’altra. Un’altra ancora.
Uno sciame infernale s’abbatté su di lui.
 Innervosito e soffocato non  fu in grado di bloccare le mosse dell'avversario.
 
Crollò in ginocchio.

Il sangue delle lesioni gli colò caldo per terra, illuminandosi…

Guardò quel fenomeno allucinante…le macchie cremisi luccicavano, spettrali, simili a lava incandescente o a rubini liquefatti…
Dilagarono  deformandosi mostruosamente, ingrossandosi, sfilandosi, allungandosi…erano  cellule tumorali che si  moltiplicavano in una  danza demente e indemoniata.
Giunsero, strisciando pesantemente, a comporre un disegno sul suolo…
Una lettera enorme…una M dotata di una coda a pungiglione.

Era il simbolo zodiacale dello Scorpione.
Sfolgorò, macabro e abbagliante , come un sigillo posto su una lettera di condanna a morte.

Milo venne avvolto da quella luce che richiamava l’aurea di messe nere. ..
Si rimise in piedi  raccapricciato.

- Allora, moccioso? Ti decidi a combattere seriamente?

Dal tenebrore emerse una possente figura d’uomo.
Due occhi  lampeggiavano di tuoni celesti.
Una corazza grigio scuro si svelò in tutta la sua magnificenza di reliquia: era dotata d’enormi spalliere, d’un busto decorato da spesse venature rosse, di gambali d’artigli seghettanti.

- Padre! – fece Scorpio con  una smorfia di sdegno  contrito.

- Figlio mio. Sei cresciuto…

Gli sferrò un pugno in petto che lo buttò a terra.

- Sì…sei cresciuto nel fisico ma hai ancora i riflessi d’un rammollito.

Espirando ondate di fiamma, Milo scattò sulle gambe.

- Rammollito?! – ruggì – Rammollito?! Ti conviene turarti quella fogna di bocca!


Urlando da ossesso, lo aggredì con una raffica di colpi.
Il furore gli aveva triplicato inaspettatamente le forze nel corpo ferito.

- Stronzo! Stronzo! Stronzo! – ripeteva indiavolato tirando calci e pugni.

L’uomo  parava i suoi  assalti ma dovette constatare che resisteva con molta fatica.
Quella potenza  non era assolutamente da sottovalutare.

- Guarda! Questo me l’hai insegnato tu, Maestro! - gridò il ragazzo con sarcasmo.

Riuscì a travolgere qualunque difesa, mulinando violentemente le gambe.
Kletias si ritrovò l’armatura ammaccata in molti punti.

- I miei complimenti, Milo. Vediamo se riesci a cadere senza spaccarti il cranio e le ossa.

Si avventò contro di lui investendolo con tremende ginocchiate, gomitate e manrovesci. 
Infine lanciò un cazzotto che proiettò il rivale in aria facendolo schiantare a terra…

La M dello Scorpione illuminava  il teatro di quel duello…

Milo si eresse lentamente ansimando con caparbio rancore…
Il suo viso, trasfigurato dalla rabbia, era irrorato dai riflessi purpurei di quello spazio surreale.

- Io…- emise in tono rauco che ribolliva- io…non sono il tuo bimbetto smidollato!

Partì di  nuovo all’attacco avviando col padre  giravolte brutali d’arti marziali.
Erano ormai  lottatori esuli da qualunque campo di consanguineità…erano uno contro l’altro…erano uno la bestia dell'altro…

Il rosso e il nero signoreggiavano la scena in un gioco di pittura infernale.

Dopo lunghi istanti  i due nemici cessarono  di percuotersi.
Si fermarono. Si fissarono.

I cieli dei loro sguardi s’ artigliarono.

Kletias aveva la corazza cosparsa di numerose crepe…in alcuni punti era persino rotta.
L’allievo  non possedeva più il pettorale di cuoio d’addestramento: era rimasto a torso nudo con i pantaloni laceri.

Il Maestro protese la mano destra in avanti allungando l’unghia dell'indice.
Divenne un artiglio nero.
L’apprendista , corrugando la fronte, fece lo stesso lasciando apparire biecamente un aculeo rosso. 


- Siamo alla fine, Milo. Eophrynus contro Scorpio. Il tuo veleno contro il mio.

Silenzio.
Padre e figlio si misero in posizione.

Il rosso e il nero balenavano serpentiformi e fangosi.

- Aculeus noctiferi!!

- Scarlette needle!!


Due fulmini.

Silenzio.

Le gambe e le braccia che traballavano.

Silenzio.

La vista che pencolava…

Il rosso e il nero filtravano i  cosmi.

Milo , nonostante sanguinasse, era rimasto in piedi.
Kletias aveva il corpo seminato da quattordici spiragli. I punti della costellazione dello Scorpione.
Gli erano stati inflitti alla velocità della luce.
Rivolse la faccia all’allievo…piombò per terra.

Il suo tonfo rimbalzò nella sorda tenebra.

L’adolescente gli si avvicinò.
Negli occhi aveva ancora carboni ardenti…restò immobile…rigido in una frustrante esitazione…

Il busto del suo dominatore  s’alzava e s’abbassava faticosamente…
Era la visione d’un recondito desiderio di vendetta. Una vendetta dalle radici piantate nel vaso della paura.

Milo non aveva più sette anni.
Non voleva avere più sette anni.
Basta.
Non poteva essere  sopraffatto dai tremolii.

Colpire. Colpire.
Colpire con l’ultimo taglio.
Il quindicesimo. La stella di Antares.

L’epilogo…doveva tessere l’epilogo…

Un calore, tutto ad’un tratto, lo avvolse da dietro.

Gli cinse dolcemente i fianchi. Posò il capo contro la sua schiena…

Lo  lasciò confuso.
Quella presenza possedeva un profumo divinamente confortante, fresco…

Assunse a poco, a poco una consistenza materiale…
Milo vide due mani,  levigate, aggraziate che gli circondavano il ventre.
Sentì la tenerezza d’un volto che gli  bagnava di lacrime il dorso da atleta.

Il nero  della dimensione onirica svanì   eguale a graffite di carboncino soffiata via da un foglio…
La funesta  si disseccò…

Tutto si cosparse d’un blu di melanconica quiete…

Il ragazzo si voltò delicatamente alle spalle: una donna bella e affranta l’aveva abbracciato.
Possedeva una lunga e  indomita chioma blu – viola che le contrastava finemente con l’adorabile viso. Un viso su cui sfavillavano due occhi marrone ramato e una bocca tinta d’indaco.
Il  corpo , affusolato, vivace e ben modellato,  le era avvolto da una veste glicine lunga fino alle caviglie.

- Mamma!

Ella gli sorrise senza parlare.
Scosse il capo con fare implorante.
Il cavaliere la prese tra le braccia avvertendo con dolce straniamento quanto le pareva così piccola…era rimasto ancora all’immagine di lei che gli prendeva la mano  dall’alto del suo splendore protettivo…come molti bambini, aveva sognato di sposarla in una visione di candida inconsapevolezza…

Kletias osservava con rimpianto la moglie e il discepolo.
Il dolore fisico rendeva ancora più asprigni i pensieri d’una felicità intangibile. Una felicità che gli era svanita troppo presto…
Deidamia si allontanò tenuemente dal figlio per avvicinarsi a lui.
Si chinò accarezzandogli i capelli.
Lo fissò severa, triste, amorevole.
Gli diede un amaro bacio sulle labbra.

Milo assistette a quel gesto spaesato…non aveva mai visto il padre in una circostanza simile, abbandonato alla semplicità dell' amore.
I suoi genitori avevano due caratteri forti che spesso s’erano trovati a discutere al pari di spadaccini. Dietro quelle scene , tuttavia, non aveva mai colto la loro particolare complicità…
Ciò che non gli si era mostrato chiaro  da piccolo gli si svelava ,in quell’istante , in pochi minuti.

- Com’è che ti sei intromessa? – domandò Kletias con dolce rimprovero.

- Perché hai rovinato te e nostro figlio – rispose lapidaria Deidamia rialzandosi.

Rivolse a Scorpio uno sguardo d’intensa austerità, di affetto inestinguibile.
Diede le spalle e s’allontanò…
La splendida capigliatura le ondulava soffice e musicale…il vestito le s’incrinava in lievi pieghe…
Tornò nel suo mondo  svanendo uguale ad un arcobaleno  placatore di temporali…

I due guerrieri rimasero zitti.

Il figlio si accostò al genitore sdraiato.
Con la cuspide rossa toccò tutte e quattordici le ferite che gli aveva procurato.
Nel giro di qualche minuto svanirono…

Il cavaliere d’argento esaminò l’allievo con espressione di muta e dura gratitudine.

L’astio pareva sfrigolato ma restavano ancora molti cunicoli di cenere.

- Se tua madre non t’avesse abbracciato mi avresti ucciso? – chiese dopo diversi attimi di silenzio Kletias.

Nessuna risposta.
Venne scrutato  sospettoso. 

- Dimmi…mi avresti eliminato? Ti mancava il colpo di grazia…

L’interlocutore  si rinchiudeva  con  dispetto.

- Avevi barcollato di nuovo…mi sono accorto che stavi esitando prima che comparisse Deidamia…non sei stato fermo fino in fondo…

Il ragazzo rise con ironico cordoglio:

- Vedi? Non hai compreso nulla...ho avuto sempre ragione sulla tua ottusità… ho seguito la mia costellazione, papà…ho seguito la stella più lucente che è lei, la mamma che ora brucia in cielo…Antares ti ama, stupido. E io…io…

Il Maestro attese  posandosi sugli avambracci.

- Io..io…- incespicò il giovane con molesta soggezione – io…non so che pensare…

Addossò il capo sul torace del padre come non aveva mai fatto da bimbo…
Sentì la mano dell’uomo toccargli con inedita morbidezza i capelli.
Restò col volto proiettato contro il suo petto in una paradossale timidezza.
Aveva voluto tante volte quelle carezze, eppure ora non riusciva a sostenere gli occhi di Kletias velati da una mesta soavità.

- Sciocco, ragazzetto – lo rimbrottò  tentando vanamente di riacquisire il proprio cipiglio.

Il discepolo sollevò con circospezione la fronte.
Aprì la bocca titubante:
 
- Per quale motivo non ti sei salvato pure tu dal naufragio? Eri perfettamente in grado di farlo dopo aver soccorso quelle persone…

- No, Milo…non sarebbe servito.

L’adolescente si stupì:

- C-come?!

- Ero destinato a finire così…- l’uomo si concesse un breve intervallo per poi continuare – vedi, io ,allo stesso modo del tuo antenato Cardia,  ho dimezzato la durata della mia esistenza. Con l’ Aculeus noctiferi ho voluto superare ogni limite, perfezionandomi e dimenticando l’essenza del mio effimero spirito che mai sono riuscito ad accettare. Avevo paura. Paura di vedermi distrutto…

Chiuse gli occhi per riprendere:

- Hai visto il cielo di notte? Ti sei domandato la ragione per cui non vedi più le mie stelle accanto  alle tue?

Il figlio lo osservò con dolente curiosità.
Il Maestro gli sorrise afflitto:

- Semplice: si sono estinte per sempre.

Milo si sconcertò:

- Cosa?! C- credevo si fossero offuscate...si fossero allontanate da me…

- Mi dispiace…. povero, ragazzo mio! Non hai le mie ossa da calpestare e neppure la mia costellazione da detestare! Pensavi davvero che Eophrynus potesse brillare per l’eternità? No…essa è nata con me ed è stata passeggera per adempiere alla sua sorte…è la luce d’un insetto antichissimo, scomparso milioni d’anni fa, per perpetuare le razze  degli  aracnidi futuri. Lo Scorpione continua a pulsare nel firmamento. Non ho potuto che allevarne il  successore e sbiadire sotto i suoi riflessi.

- Papà…

- Su quella nave ho deciso di non salvarmi poiché sarei morto nell’arco di sei mesi…ho desiderato donare le mie energie per far andare avanti altra gente…così come ho fatto con te. Il tuo predecessore morì prematuramente ma il segno dell'Ottava Casa fiammeggia. Io…son stato breve fiato.

Il giovane cavaliere fu pressato dalle lacrime.

- S-sei…sei…un d-deficiente…

- Almeno nella mia  piccola vita ho amato Deidamia e ti ho messo al mondo con terrore. Sì…con terrore perché ho sempre dubitato di me stesso , in realtà …

- Vai al diavolo!

- Insultami quanto ti pare,  figlio. Chiederti perdono …è inutile…non abbiamo mai risolto nulla. Dalla polvere non si possono erigere castelli. La fine non diventa inizio.

- Papà!

Il corpo di Kletias si dissolse … evocava  la nebbia che svanisce nel velo dell'autunno o il fumo che si disperde dai comignoli delle dimore nel riverbero invernale…

Milo  piangeva.
Chi poteva picchiare? Il vuoto?
Chi poteva strangolare? L’ineluttabilità del tempo? Il tempo che andava in senso orario?

“ Ti sbagli, papà…ti sbagli… non ti sei dileguato per sempre… ci sei ancora…il veleno che mi iniettasti nel sangue è indelebile…”

 
Le pareti blu della dimensione  si spaccarono, all’improvviso,  in schegge di opachi zaffiri.
Il guerriero  fu ingoiato in una  spirale ghiacciata di tormenta.
Spine di fiocchi di neve gli ararono l’epidermide ammaccato.

Si ritrovò scagliato su una bianca duna di solida e slavata morbidezza…una morbidezza granula e fine…
Il  gelo  procurò un sofferente refrigerio alle ferite riarse…quel contrasto  rattrappì le lacrime e il respiro nei polmoni congestionati…
Il giovane sollevò il viso dal guanciale nevoso: intorno un immenso e desolante deserto freddo…gli pareva di risvegliarsi in un  letto di lenzuola sfatte  abbandonate e obliate  da mani calde…

Si rialzò con la fiacchezza d’un soldato superstite o d’un naufrago arenato…

Colline e creste di ghiaccio.
Nuvole di ghiaccio senza cielo. Ecco com’era quel nuovo antro.

Il cavaliere,  rabbrividendo in modo  lancinante e sbattendo i denti, mise a fuoco quell’agglomerato immacolato e smorto…

Scorse,  nel lontano orizzonte grigio chiarissimo,  una scia di fumo nero svolazzante…

Insospettito d’una  speranza, seppure magra, prese a correre…
Cercò di vincere la pesantezza dei muscoli, la traiettoria dei fiocchi di neve…
Cercò di muoversi il più veloce possibile con l’anelo e il sangue che minacciavano d’ assiderarsi…

Nell’avanzare, vide la linea di fumo farsi più grande e densa…
Cominciò a scorgere una sagoma appuntita e un altro insieme indistinto di cose…

Si avvicinò maggiormente…s’accorse che una specie di croce sospirava,  dalla sua estremità, rantoli di nembi  che venivano spazzati via dalla bufera…
Si spinse  ancora oltre…quella croce era la metà d’un busto d’aeroplano.
Aveva il muso  scarnificato con le ali mangiucchiate da fiamme borbottanti…
Strinse lo sguardo…
Quel carcame di ferraglia era coronato angosciosamente da un recinto marrone che pareva costituito da pezzi di legname putrefatto.
Non appena entrò nel perimetro, Scorpio realizzò , disgustato, che il lungo steccato si rivelava un’  accozzaglia di braccia, gambe e  spine dorsali mummificate.
 La sua attenzione venne, tuttavia,  immediatamente distolta da un monolite di ghiaccio disposto dinanzi al  cadavere dell'aereo.

Era un feretro a forma di parallelepipedo.
Al suo interno…si trovava sepolta una persona.

L’adolescente , con l’angoscia che ringhiava di stracciargli i nervi, si precipitò lì davanti.

Sì…in quella bara era imprigionato un ragazzo.
Un ragazzo dai lunghi e fluenti capelli verde acqua.
La sua bellezza aveva assunto una connotazione d’atroce tristezza. Pareva uno spirito, un genio funerario dalla carnagione azzurra  rinchiuso in un regno di muto patimento.
Il suo   viso , cosparso di addolorata stanchezza,  si mostrava irreale, soave, tramontato.

Milo sbarrò gli occhi inceneriti dal gelo.

- Camus!

 

 

* Eophrynus:  specie di aracnide, simile al ragno, appartenente al macrogruppo dei trigonotarbidi.    Visse  420-280 milioni d’anni fa in Europa e in Nordamerica. 

 

 


Note personali: ciao a tutti!! ^^ sono stata di parola! u.u sono riuscita ad aggiornare a distanza d’otto giorni!
Sono stata contenta d’aver dedicato questa seconda ed ultima parte del cap 10 a Milo! Lui è  vivace, estroverso e  piacevolmente “ spaccone”  ma si mostra anche un ragazzo con  tormenti che non desidera esternare. Per questo motivo adora stare con gli amici. La solitudine lo affligge profondamente e lo conduce con la mente al suo buio passato. Un passato che lo vede in contrasto con il padre. Un padre amato e odiato in maniera intensa e , ahimè , irrisolta. Spero di aver reso efficacemente Scorpio come personaggio drammatico e sofferente, un’altra faccia del suo carattere solitamente solare.
Sti’ capitoli sono un po’ tragici -.- infatti, nei prossimi , tenterò di stemperare questa cupezza XD
Vi dico che non sono sicura di iniziare a mettere il cap 11 alla fine di novembre….è molto più probabile a dicembre ( non oltre! XD ) …
Vedrete di nuovo Mu, Sion, Al, Saga e quel rompiscatole bastardo di Icelo che non molla!! Non faccio altre anticipazioni! ^^
Alla prossima!!
Ringrazio tutti i lettori che seguono questa mia fan fic che si sta rivelando una bella sfida…mi auguro di continuare sempre a produrre capitoli di gradimento e…qualità ;) 

 

 


 

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Capitolo 21
*** CAP 11- apnea di ghiaccio: nel ventre del baratro ***


 “ Non è tutto ciò che vediamo,
o ciò che ci sembra di vedere,
soltanto un sogno dentro il sogno? “


( E. A. Poe )
 

 
 
 
 
 
 
 

Camus! “
 
Un’angoscia senza perimetro, superficie, volume…
I marosi  del Baltico si sventravano contro le sponde dei ghiacciai disperdendo le loro grida di saliva cristallina, salata e disperata.
Il cielo notturno era gremito da  nugoli che s’azzuffavano in una rissa tacita, sfrangiata ed evaporante.
 
Eirene non riusciva a distogliere il volto dall’orizzonte dell'oceano nordico.
Il vento affilato le s’infeltriva  tra i fili della chioma, sulle guancie , sotto la corazza che  folgorava tramortita da brividi.
 
Camus…perché il flusso della tua anima mi sembra disseccato nel nulla?! “
 
Si mise una mano sul ventre : sebbene fosse nascosto dall’armatura, lo avvertiva greve, come  se dovesse  colar sangue da un istante all’altro.
Era una sensazione orrida di svuotamento.
Era  una macchia surreale d’aborto invisibile e imprendibile.
 
Cosa ti sta succedendo? Cosa c’è ad Atene?! “
 
La Siberia ululava in tutta la sua vitale desolazione. La neve bar luccicava in un’inconsapevole e confortante  lassitudine. Le montagne restavano deificate nella loro maestosità verginale con il derma  irsuto d’eterno inverno.
L’unico gambo di calore era la bellezza di Eirene. La bellezza d’una quarantenne che resisteva nelle membra di muscoli slanciati, forti e soavi.
A ornare  il capo della donna un’insolita capigliatura  che baciava le spalle e  s’allungava in due spesse ciocche fino a metà busto. D’ una tonalità castano miele rilucevano quelle fronde di capelli, differenti dal marrone intenso e spesso di quelle di Dora.
D’una tonalità più mesta rilucevano gli occhi carbone, all’apparenza distanti da quelli grigio-lilla della sorella.
Sì… erano la Volpe Bianca e la Lince.
 
“ Dora, perdonami… talvolta mi capita ancora di confondere gli occhi di Camus con quelli del mio Nisa…Hanno lo stesso blu…il blu che vedo in questo mare e che non mi  porta nessuna notizia dalla Grecia…” 
 

- Maestra Eirene! Maestra Eirene!
 
La guerriera indossò la propria maschera grigio perla e si voltò dietro.
Due bambini di nove anni le stavano venendo in contro. Erano gli allievi di Camus che avevano cominciato  un programma di addestramenti  serali.
Il primo era un biondino russo dallo sguardo azzurro di splendente esitazione, il secondo era un finlandese vivace e indomito dalla chioma verde e dagli occhi magenta.
 
- Hyoga! Isaac!
 
Le si fermarono davanti con espressione ansiosa:
 
- Perché vi siete allontanata? – fece Isaac.

- Avete visto qualcosa di strano? – domandò l’altro.

 La donna non poteva rispondere che era preda delle nottole dei tormenti.
Non sapeva descrivere l’efferata empatia che stava avvertendo, da troppi minuti, verso il discepolo…
 
- Scusate – rispose con tono rassicurante e privo di sbavature – vi ho un attimo lasciato per trovare un terreno adatto  agli   allenamenti di domani …Dovremo un po’ allontanarci, mi sa…

- Non importa! – sorrise Isaac deciso -  il Maestro ci ha fatto abituare a qualsiasi cambiamento!

  • - Sì! – affermò il russo – lui è potente e dovremo diventare forti come lui!
  •  
    Certo…” meditò Eirene ma Camus è in grado  di risalire l’abisso che lo annienta? “ 
     
    - Ragazzi – disse, invece, guardando l’orologio che si era portata con sé- Sono le undici meno un quarto. Gli addestramenti di oggi finiscono qui. Iniziate ad avviarvi al villaggio… Vi raggiungerò a minuti . 

    Il  finlandese si allontanò, mentre l’amichetto si bloccò un istante.

     - Emh…Maestra?

    - Sì?

    - Sapete che… al Maestro  gli ho regalato un fiocco di neve d’acciaio?

    - Davvero , Hyoga?

     
    Il  sorriso della sacerdotessa restò tarpato nella maschera.
    Il bambino, dopo essersi ammutolito  intimidito, sollevò il visetto verso il cielo dove la luna tentava di disappannare le gote dai nugoli.
     
    -    Acquarius è il re del ghiaccio e  riesce a camminare nella tempesta senza cadere.
     
    Sbaragliò  la donna con  quegli occhi traboccanti d’affetto e fiducia.
     
    “ Camus, ti prego…sii forte come l’  Inverno ma non lasciare che la carne, il  sangue e la mente  gelino i loro atomi azzerando ogni luce…ogni  movimento di  lotta. “  
     
     
             
     
     
    Niente.
    Niente.
    Niente…
    La  sapidità del fallimento ingombrava la bocca pari ad un inquilino sudicio e funesto.
     
    Milo aveva lanciato più di cinquanta scarlett needle contro la bara di Camus:  era rimasta intatta. Solo la massa dei cadaveri mummificati ,  che l’ avvolgeva, giaceva in cocci d’ossa come sul pavimento d’una fatiscente e  maleodorante macelleria…
     
    La neve di quella dimensione d’incubo seguitava a galoppare nell’aria sogghignante.
     
    - S-scarlet…n-need-dle... 

    Scorpio stramazzò a terra con i muscoli e lo spirito morsicati dal gelo.
    La temperatura crollava al di sotto dello zero.
    Lui era a dorso nudo con le labbra violacee, la gola screpolata di secchezza, le dita della mano irrigidite, i capelli trinati e bagnati di brina letale.
    Si puntellò faticosamente sui gomiti…Guardò l’amico imbalsamato uguale ad un nostalgico e tetro trofeo di un cacciatore.
     
    Non poteva sopportare tale vista...
     
    Si rialzò di nuovo  ma una terribile nausea , che gli  fuoriuscì dallo stomaco, lo costrinse ad accasciarsi  al suolo.
     
    - Vorresti fracassare il feretro che custodisce il tuo amico dall’animo di depresso cristallo? Oh, credo veramente che  non farai che accelerare la tua demolizione… 

    Milo drizzò il torace e la testa.
    Vide giganteggiare , davanti a sé , un individuo avvolto in un chitone viola  dalle spalle aguzze e imponenti.
    Aveva due occhi scuoiatori e congestionanti e un sorriso di denti affilati.
    Il suo cosmo era troppo intenso e spaventoso per  potersi definire  umano.
     
    - Cos’è, miserrimo mortale?  Non hai la lingua per pronunciare un ragguardevole saluto a Icelo, sovrano delle fobie? 


     
     
     
    Una scalinata a chiocciola s’avvolgeva centripete , simile  ad un turpe armadillo.
    L’unica via per penetrare  nella dimensione di  Milo e Camus era quella. Saga, Mu ed  Aldebaran ne stavano percorrendo in fretta i gradini.
    Sion, che  aveva appena raggiunto la compagnia dopo il soccorrimento  di Aiolia, chiudeva la fila guardandosi attorno circospetto. 
    Un budello cavo, che s’apriva sul versante interno della rampa, uggiolava una corrente gelida…
    Non si percepiva altro suono se non quello…
    Non si percepiva altro odore se non quella  lamina ventosa  sorseggiante di vuoto…
     
    - Coraggio! Ci stiamo per avvicinare! – confortò Gemini. 

    Le gradinate scorrevano con i rumori dei passi…Sion non riusciva a stare tranquillo e sicuro.
    Un’imminente presenza s’accingeva ad affiancarsi all’aurea di Icelo…Una presenza immateriale che non lasciava sgorgare alcuna traccia…
     
    “  Nessun elemento sta parlando  in maniera sospetta…ma è questo l’alito di vacuità che precede gli incantesimi più striscianti e muti…Sì…malauguratamente  ne sono certo…non posso sperare di sbagliarmi….”  
     

    Mu, accorgendosi dell'espressione plumbea dell’uomo,  gli si affiancò rallentando  l’andatura:

     - Maestro,  avete percepito qualcosa di negativo?

    - Per adesso nulla di  evidente ma presagisco l’arrivo di un’altra entità…

     L’adolescente sapeva perfettamente che la Guida era capace di recepire  la discesa di un essere o di un evento senza che nell’aria vi si potessero ancora cogliere segnali  tangibili e irregolari.

     - Temete l’attacco di un’ennesima divinità?

    - Purtroppo sì.

     
    Saga e Aldebaran  si fermarono girandosi verso l’ex cavaliere dell'Ariete.

     - Sommo Sion , vi prego! – gemette allarmato il Toro – diteci che non si tratta di un altro  dei simpatici pargoletti  di Ipnos!

    - Mi dispiace – si rammaricò il guerriero- non sono in grado di rassicurarti.

    - Procediamo!  – incalzò Saga gravemente – manca poco all’uscita di questo passaggio! Dobbiamo innanzi  tutto  salvare Milo e Camus!

     
    Annuendo, Sion lasciò nuovamente avviare la corsa…Era meglio giungere il più in fretta possibile da Scorpio e Acquarius prima che la situazione si potesse evolvere di male in peggio.

     - Guardate il muro ! – esclamò improvvisamente Mu. 

    I tre cavalieri fissarono la parete esterna della scalinata.
    Sion sgranò gli occhi trattenendo ,dentro di sé, lo sdegno.
    Era stato colto davvero di sorpresa. Credeva di non aver intercettato nessuna immagine atipica e invece già erano  sbocciate da tempo quelle infauste tracce.  

     - Che ci fanno dei papaveri, lì ?! – gli domandò basito Aldebaran.

    - Sono le piante sacre a Morfeo, colui che amministra i sogni dei sovrani e degli eroi.

     
    Saga e Mu compresero cupamente.

     - No! Un momento! – insistette l’apprendista della Seconda Casa – cosa c’entrano quei fiori con Morfeo?

    - Dai papaveri – chiarì  l’amico tibetano – si ricava il composto della morfina  che viene usato come narcotico, sonnifero e analgesico.

    - Cavolo! – esclamò il brasiliano battendosi la fronte – che scemunito! Non ci avevo pensato!

    - I fiori  non hanno iniziato a propagare aromi soporiferi – osservò Sion –  siamo in tempo per sfuggire alla loro presa!

     
    Mossero le  gambe più veloci di prima.

     - Oh! Morfeo! – gridò il colosso – Non riuscirai a drogarci, pezzo di…

    - Aldebaran! – lo riprese duramente Saga – Tieni a freno la lingua!

     Arrossendo di vergogna,  il ragazzo sussurrò a Mu:
     
    -  Sai, vorrei sapere chi è la sgualdrina che si è accoppiata con Ipnos…
     
     
     
     
     Il  sangue irrigava la neve.
    Spruzzi rossi, scaturenti dall’innaffiatoio di un giardiniere  folle, si sfracellavano contro  aiuole  ibernate.
     
    Icelo , ridendo sadicamente , frustava con gli artigli delle  mani Milo che  veniva sbalzato , come un fantoccio di pezza,  dal suolo  all’aria, ormai svuotato da qualunque volontà d’urlare dolore.
     
    - Allora, cavaliere da strapazzo? Le tue carni sono talmente  corrotte da  ridurti  ad un molle lombrico? 

    Il dio calpestò le reni del giovane, riversato prono sul ghiaccio:

     - Non conservi più la forza di prima?Non desideri soffocarmi di veleno come hai fatto con tuo padre?
     
    Con il respiro imbottito d’anidride carbonica, il ragazzo sibilò:

     - Fottiti…

    - Cosa sta mugugnando la tua lurida bocca?

     
    Liberandosi dalla pressione di Icelo, Milo alzò la voce arrochita :

     - Fottiti!

    - Sorprendente . Finalmente  riesci un po’ a smuoverti.

     
    La divinità si chinò sull’adolescente abbrancandolo per i capelli e avvicinandosi al suo viso.

     - Voi umani siete patetici, ma è proprio per tale motivo che ci dilettate  dall’alto. Strisciate in un modo così  tragico che non possiamo fare a meno di ridere. 

    Ricevette uno sputo in faccia.

     - Bene, mucchio di letame. Te la sei cercata. 

    Sbatté  bestialmente il guerriero contro la bara ghiacciata di Acquarius.

     - Puoi tranquillizzarti, insetto. Tra non molto raggiungerai il tuo amichetto che si sta avvallando sempre di più.
     
    Seppur stordito , Scorpio si rimise in piedi  e proiettò il volto sulla superficie del feretro.
    Guardò Camus con una voglia inesaudibile di piangere. Il gelo non glielo consentiva.
    Spaccandosi il labbro inferiore con i denti, cominciò a prendere a pugni quel monolite disidratatore.
    Lo colpiva con  forza illogica, con le ossa che rischiavano  di spezzarsi, coi  muscoli inaciditi.

     - Idiota! – ghignò il dio  – Non riuscirai mai a fendere quella bara! 

    Rise . Era un nefando  agglomerato di animali  feroci : possedeva la voracità impietosa del coccodrillo, la velenosità del serpente, la sgradevolezza della iena, la dispotica violenza dello squalo. Milo,  con la lucidità capace di disgregarsi a momenti, lo fissò con odio.

     - Che hai da ridere, demone merdoso?! – urlò incancrenito. 

    Venne perforato con giocosa cattiveria:

     - Vedi, caro Scorpione, tutto dipende da Acquarius. Se lui…vorrà risvegliarsi potrà toccare di nuovo la superficie se no…s’immergerà direttamente nei flutti dello Stige. Non mi pare che desideri aprire lo sguardo…Povero sciagurato! La stoltezza e la piccolezza non riescono a far convivere l’uomo con gli incubi che lui stesso crea. Quale contraddizione, non trovi? E’ come se uno scultore temesse una propria statua. 

    Il ragazzo bisbigliò squamato dal terrore:

     -  No…no… 

    Camus aveva davanti e dentro di sé l’oscurità del sangue  che gli circolava sonnambula nei corridoi delle arterie.
    Cos’era quell’errare ebbro, quel ronzare d’ un moscerino orbo attorno ad una lucerna spenta?
    Cos’era quell’apnea comatosa che persuadeva  i sensi e la coscienza a non abbandonare i loro giacigli?
     
    Gli occhi volevano restare chiusi.
    La mente era un natante che si dilettava nell’affogare in fondali senza ritorno.

     - Camus… 

    Era pace restare sospesi in quel liquido amniotico , in quella sacca di rigide fiancate dimenticando i palpiti cardiaci. Palpiti che forse non sarebbero più serviti.

     - C-Camus… 

    Nessuna voce s’infiltrava nella spettrale  placenta di ghiaccio che alimentava la vittima.
    Milo  percosse il prisma imbrattandolo del sangue che gli usciva dalle nocche delle mani.

     - Cazzo! Camus! Svegliati! Svegliati! 

     
     
     
     
    Odette spalancò gli occhi sudati di terrore.
    Scattò a sedere sul letto con la mente convulsa d’angustia.
    Accese immediatamente la lampada sul comodino che le stava affianco …Un tiepido calore si versò sulle pareti arancio tenue della sua  stanzetta alienata dall’inverno…
    Era al sicuro. Era riparata nella propria dimora dalla notte sbuffante di fiati algidi… Un silenzio di confortanti cuscini ammorbidiva le pareti dell'edificio. Ogni mobile, tappeto , sedia, ogni suppellettile quotidiana,  sonnecchiava nel caldo buio. I genitori, nella loro camera,  perseveravano col riposo emanando  rigagnoli di respiro.
    Si…lei era al sicuro…ma…Camus?
     
    Camus…
     
    Non era la prima volta che Odette sognava d’affogare in un lago ghiacciato, coi polmoni strangolati, e di vedere comparire dalle profondità il cadavere livido dell' amico.
     
    Guardò il calendarietto appeso alla parete che cingeva il fianco sinistro del giaciglio.
    Sotto “ ottobre 1987 “ , i numeri inesorabili, veloci e lenti delle settimane…Un’infinita lista d’attesa che si propagava lungo un tunnel di ferro e vetro…
    Erano passati soltanto due giorni dalla partenza di Camus.
     
    L’adolescente si alzò lentamente.
    Sulla parte opposta della camera stava  un armadietto di pino. Una coppia di  specchi,  che ne lisciava le ante,  rifletteva  quella fanciulla dalle esili fattezze e di statura piuttosto minuta. Grandi e lisci occhi rosa, simili a  vino di uve delicate, le irroravano  il visetto pallido ma tornito. Una bocca di ciliegia le infiammava dolcemente la cute mite. Dei corti capelli biondo chiarissimo le  illuminavano il capo, lasciando dondolare due ciocche lungo le guancie.
     
    Odette rideva ogni volta che Camus, nei suoi brevi guizzi di scherzo, la chiamava “ bimba pulcino”  o “ folletto tascabile” .
    Odette amava quelle poche volte in cui l’amico sorrideva  nebulizzando un’effimera primavera sul volto.
     
    “ Forse sarebbe meglio tornare a  dormire, ma non posso proprio.”
     
    La ragazza trasse da dentro l’armadio un grande album di fotografie custodito in una scatola di cartone.
    Lo poggiò sulla sua scrivania di legno, aprendolo.
    Incredibile. Possedeva scene di un passato ormai inafferrabile Le aveva catturate con la magia della macchina fotografica. La sua immensa passione.
    Sfiorò con affettuosa deferenza la Zenit che le era stata donata dai genitori tre anni orsono. Era il suo primo strumento professionale dopo una piccola e vecchia macchinetta che le si ruppe tempo fa.
    Per fortuna conservava con dedizione le immagini che aveva scattato con  entrambe le sue care  amiche.
    Le pinne  bianche  e azzurre della Siberia, i corti e verdeggianti arpeggi delle estati, huski che correvano   con il  soffice pelo sospirante, qualche barbagianni, civetta o pernice bianca che sbucava   con sguardo scrutatore e curioso…Questi erano i dipinti naturalistici.
    Le persone del suo villaggio, il padre, la madre, i parenti…Questo era il mondo in cui camminava.
     Camus. Questo era il soggetto più arduo da incidere. Splendido e  armonioso, si lasciava inquadrare immobile ma fuggiva. Fuggiva coi suoi lineamenti algenti, col suo bellissimo sguardo blu che si disperdeva in chissà quale aurora boreale, in chissà quale tramonto di stalattiti.
    Odette conosceva lui ed  Eirene da cinque anni, poiché abitavano nel suo sobborgo. Grazie all’ubicazione del piccolo centro abitato, nei pressi della città di Salechard, si poteva raggiungere il golfo del fiume Ob sfociante nell’Artico.
    Il padre della ragazza forniva equipaggiamenti per esplorazioni nelle tundre. Eirene andava a procurarsi il necessario per gli addestramenti presso la sua grande bottega. In una di queste circostante Odette aveva conosciuto quel ragazzino francese schivo e scostante al primo impatto, gentile e seriamente sincero col navigarlo a fondo. Era entrata in confidenza  lentamente, imparando a conoscere la strana dimensione in cui viveva, il ruolo di guerriero che lo investiva…Pareva strano, eppure aveva varcato in modo quasi semplice e famigliare la sua sfera. Eirene si mostrava misteriosa ma dotata di  una garbata e trasparente sensibilità che non si poteva non adorare.  Che dire di Hyoga e di Isaac? Anche loro ormai appartenevano alla cerchia degli affetti.
     
    Se l’inverno disperdeva i solchi del sole, per Odette rappresentava anche  il ponte che congiungeva due mondi: l’enigmatico e remoto Grande Tempio e il suo paesello incastonato nella ciclopica  Russia.  
     
     
    “ Camus, ti ho ripreso a figura intera, a mezzo busto, in primo piano… Le tue fotografie sono nitide sulla carta  e comunque…continui a scappare. Guardi  il mio obiettivo ma in realtà ti copri. La mia passione è quella di immortalare  sul rullino riflessi che appaiono e scompaiono in pochi minuti. Ho molte tue immagini, illudendomi  di averti tra le mani, sbagliandomi di grosso. Il più bel ritratto di te non l’ho ancora fatto…Quand’è che torni? Voglio continuare a sfidarti…Voglio catturare veramente   il tuo sguardo e un tuo  sorriso nuovo e totale. “ 
     
     
     
     

    - Tesoro…tesoro…

     
    Il piccolo Camus non ne voleva sapere di alzarsi. Voltò il faccino dalla parte opposta rintanandosi  ancora di più sotto le coperte.
    Rosalie, guardandolo preoccupata, tornò a scuoterlo:
     

    - Tesoro, è meglio se cammini . Non puoi stare fermo così. 

    Il bambino si girò lentamente verso di lei socchiudendo gli occhi appesantiti:
     

    - Ma mamma – farfugliò- io ho sonno…tanto sonno…

    - Stai dormendo troppo. E’ tutta colpa di questa brutta e strana febbre che hai preso. Devi uscire dal letto…Su, piano, piano…

    - N-no…non ho voglia…

    - Camus, dai!
     

     
     
    Milo, con la fronte e la frangia sanguinanti, graffiava il parallelepipedo gelato  che incarcerava l’amico.
    Le sue unghie si rompevano contro quelle  pareti di geometrica e atona  empietà. I suoi occhi erano divenuti di un azzurro folle e tribolato. Parevano tagliare qualunque cosa con la vetrata esasperazione che ruggivano dalle pupille.
     
    Icelo seguitava a ridere senza ritegno, mostrando le sciabole assassine della dentatura.
    Era goloso di sapere fin dove   la disperazione poteva condurre un ragazzo. Un umano che adorava il migliore amico. Suo fratello. Il suo grande complice.
     
    Icelo seguitava a ridere senza comprendere, bramoso solo di strazi.
    Cos’era l’amicizia? Un elemento di trastullamento. Era il gaudio di vedere uomini morire nell’animo e nel corpo:  puro godimento di disboscare il cuore di gioia.
     
    Milo prese a singhiozzare con le lacrime che  restavano congelate negli occhi.
    Non aveva mai sentito l’affetto lapidarlo in quel modo feroce.

     - Merda! Merda!  Imbecille!  Apri quegli occhi!

    - Insisti? – lo provocò il dio – la tua stupidità è esilarante quanto la mancanza di spina dorsale del tuo collega.

     
    Con i bei lineamenti screziati dal furore e dall’angoscia, il giovane spolmonò:

     - Hai rotto i coglioni, grandissimo stronzo! 

    Avanzò minacciosamente.

     - Cretino! – lo insultò Icelo – vuoi  impaurire me,  re delle fobie?

    - Vai a fan’culo! Scarlet needle!!

     
    L’attacco venne reso inoffensivo con facilità. Il nemico  lo fece evaporare ponendo davanti a sé il palmo della mano.

     - Dovevo immaginarlo, insettaccio – appurò sbuffando – sei alquanto indebolito per poter sprigionare la tua energia a pieno. 

    Sferrò un calcio all’addome del ragazzo. 

     
     

    - Camus…ti farà bene camminare…avanti…

     Rosalie si chinò dolcemente sul figlio accarezzandogli i capelli e baciandolo sulle gote.
     

    - Passeggeremo ? – mormorò lui.

    - Sì. Andremo al porto che ti piace tanto.

     
    Camus tirò fuori lentamente le braccia da sotto il piumone e le mise attorno al collo della donna.
     

    - Mi farai vedere le barche e le navi?

    - Certo. Vedrai tutto quello che vorrai!

     
    Il piccolo si strinse ancora di più alla madre che lo solleticava coi capelli castani che le scivolavano dalle spalle.
     

    - Prepariamoci- sorrise lei sollevando le coperte. 

    Il bimbo, ancora un po’ assonnato ma contento, si alzò dal  letto e venne vestito.
    Fuori le mura della sua stanzetta azzurra, fuori le finestre di tiepido legno, s’intravedeva il mare di Marsiglia  col riso di salsuggine.

     
     
     
    Una pellicola eburnea si stendeva tra le mura d’uno spazio rettangolare.
    La scalinata a chiocciola si concludeva lì, al cospetto di quello strano tappeto d’un bianco lucente ma al contempo putrido.

     -Dietro questa barriera– rivelò Saga –  vi è la dimensione in cui sono imprigionati Milo e Camus. Dovremmo distruggerla.

    - Distruggerla? – fece il Maestro di Mu  perplesso – ho i miei forti dubbi.

    - Per quale ragione, Sommo Sion?

    - Valutando la sua particolare consistenza, ritengo sia impossibile frantumarla.

    - Come? Le altre barriere di Icelo sono state abbattute!

    - Sta volta è diverso. L’ostacolo che stiamo vedendo è estremamente solido se non addirittura  indistruttibile.

     
    Mu si spostò sul penultimo gradino della scala per studiare meglio la distesa-portale. Non sembrava dura e stabile. La sua superficie richiamava  gli intrecci sgualciti e vecchi d’un tessuto di lana o la poltiglia cremosa e bucherellata del latte rancido. 
     
     - Ma cos’è sto’ schifo? – si disgustò Aldebaran – sembra melassa! Davvero non si può spappolare questo flaccidume?

    - Guardate – disse Sion – Mu, esegui assieme a me lo star light extinction. Saga, Aldebaran: sferrate i vostri attacchi più potenti.

     
    I quattro cavalieri si misero in posizione.
    Lasciarono espandere i propri poteri:

     - Star light extinction!

    - Galaxian explosion!

    - Great horn!

     Gli spessi fusti d’energia aurea si schiantarono su quella  pavimentazione albina.
    Delle onde pastose e melate si sollevarono e si abbassarono borbottando gutturali e fiacche.

     - Questa barriera – confermò Sion – è costituita dall’essenza di non una, bensì due divinità. Icelo e Morfeo hanno unito  i loro poteri.

    - All’anima dei bastardi!! – eruppe il Toro – ora che si fa se rimaniamo impantanati qui dentro?!

     Mu squadrò attentamente lo strato che impediva l’accesso alla salvezza dei compagni.

     - Maestro Sion, Saga – domandò – non potremmo direttamente teletrasportarci oltre questa specie di portale?

    - In effetti…- rifletté Gemini – si potrebbe tentare. Se unissimo le nostre facoltà telecinetiche forse ce la faremmo.

    - L’energia di due dei è enorme – rilevò Sion – ci occorrerà uno sforzo immenso che potrebbe notevolmente indebolirci. D’altronde però questa sembra l’unica…

     
    Non riuscì a concludere il discorso che si udì all’improvviso un rumore stranissimo.
    Sembrava uno sfogliare scatenato  di pagine di carta. Sembrava il battito grezzo delle ali  dei pipistrelli.
    Divenne più rotolante, rimbombante, terrificante.
    Dall’estremità buia della rampa di scale, proruppe un enorme groviglio di edera costellata di papaveri.
    Sollevandosi, come un cobra, formò una spirale appuntita che aggredì i quattro cavalieri.

     
     
     
     
    Milo tentava  di percuotere  Icelo.
    Si scagliava invano contro di lui con  la poca forza bruta che gli era rimasta. Dimentico del sangue che gli cascava dalle gengive, dal mento, dalle membra ferite, voleva sbranare quel mostro e porre fine all’incubo.

     - Mi sto stufando – replicò beffeggiatore il dio – cambiamo un po’ musica, bambinetto. 

    Atterrò l’adolescente con un terribile pugno alle costole.

     - Vediamo cosa mi combinerai, adesso. 

    L’apprendista dell'Ottava Casa si mise in ginocchio, stringendo i denti dal dolore e dalla rabbia.
    Guardò quel diavolo sorridergli  repellente.

     - Dunque, Milo…saprai mostrarti un degno re degli Scorpioni? 

    Il ragazzo sgranò lo sguardo cogliendo il vero senso di quelle parole…Ripensò alla prova della Grotta della Cuspide Rossa…
    Era finito.
     
    Icelo spalancò le  mandibole da belva predatrice. Tirò fuori dalla bocca uno scorpione nero. Afferrandolo per la coda lo lasciò cadere a terra.
    L’aracnide s’infilò nella trama nevosa del suolo.
     
    L’adolescente rabbrividì terrificato.
     
    Piovve il silenzio.
    Niente si mosse.
    Soltanto i denti aguzzi del monarca delle fobie sfavillavano tiranni.
     
    Uno scalpitio. Silenzio.
    Un altro scalpitio. Silenzio.
     
    Delle vibrazioni.
    Dal terreno bianco emersero una moltitudine di piccoli crateri.
    Le loro fauci eruttarono eserciti di scorpioni. Eguali a masse purulente e lucide  corsero verso Milo che non sapeva in che modo espandere il  cosmo a brandelli.
     
     
     
    A sud del Porto Vecchio di Marsiglia si scorgeva  un grande colle sulla cui sommità sedeva   Notre Dame de la Guarde. Regina dai ricami d’ arabesco candore, la basilica  sfolgorava  la sua spigolosa magnificenza:  le abitazioni , arrampicate lungo i fianchi dell'eremo, le pellegrinavano attorno protendendola verso l’aureola solare.  Erano  chiassosi sacerdoti di mattoni che la  sollevavano quale  intoccabile reliquia.
    Camus, come se stesse passeggiando verso l’Elisio, prendeva la madre per mano credendola un angelo custode inviolabile.
    Camminava con ella, sull’asfalto del porto, rimirando la scacchiera molleggiata e dolcemente dimessa delle imbarcazioni che attendevano d’essere trainate dalle ciglia di Eolo e dai muscoli schiumeggianti di Poseidone.
     
    Il bambino coglieva con le narici tutto il polline di salsedine dilagante di conchiglie e ali di gabbiano…stringeva la mamma, luna intramontabile della stabilità.
    Era la completezza semplice e piana. La completezza che sminuzzava qualunque malattia.
     
    Rosalie baciava il figlio col blu degli occhi,  quel blu che gli aveva colato intorno alle pupille.
    Blu era l’amplesso casto tra cielo e mare. Era il capanno sotto il quale proteggersi.
     
    Blu erano le lacrime che stavano per accendersi.
     
    La volta dell'empireo venne recisa da un bisturi di ferro.
     
    Un aereo in fiamme tagliò qualunque respiro aprendo una voragine di nubi tossiche, gastriche, infernali.
     

    - Camus! – gridò Rosalie – corri! Vai di là! 

    Il bimbo,  colto alla sprovvista dal terrore,  non capiva.
     

    - Camus! Vai sul molo! 

    L’aeroplano era fuori controllo. Deragliava nell’aria isterico e brutale. Le case e la terra lo fissavano spaventate.
     

    - Mamma! Non vieni?! 

    Il veicolo alato stava silurando verso il suolo.
     

    - Camus! Muoviti! Corri! 

    Era questione di pochi minuti.
    Il bambino piangeva.
     

    - Mamma!

    - Devi andare!

    - Non voglio!

     
    Il piccolo si aggrappò alla donna, ma quest’ultima lo scostò bruscamente.
     

    - Camus! Smettila! Vai via!

    -Ma…ma…

    - Amore. Corri e non voltarti indietro.

     
    Rosalie, ferma in piedi, lacrimava e sorrideva.
    Camus tremante si allontanò.
     

    - Girati – lo rimbrottò dolcemente – non guardarmi più. Io ti abbraccerò sempre. Ovunque tu andrai. 

     Il figlio prese a correre singhiozzante, cercando di fissare dinanzi a sé .
    L’asfalto slittava sotto i suoi piccoli piedi.
    Il cuore distrutto slittava sotto il suo pianto.
     
    L’aereo si ruppe vulcanico e apocalittico a terra. Il fumo e le fiamme divorarono tutto.
     
    Camus fu tentato di vedere l’orribile fornace ma continuò a volare con le piume rotte.
    Sul ciglio del molo intravide una sagoma oscura.
     
    Un’immensa nave si stava avvicinando. Pareva che possedesse sui fianchi zampe da millepiedi che assolcavano  le acque annerite dall’esplosione appena avvenuta.
     

    - Camus! Camus! 

    A prua una piccola figura agitava le braccia…sembrava un ragazzino.
     

    - Camus! 

    Su quella trireme ateniese,  d’antico e glorioso legno, stava Milo.
     

    - Camus! Sali a bordo! 

    Il bastimento attraccò facendo posare una passerella.
     

    - D-dove andrò? – chiese esitante il francese.

    - Verrai con me in Grecia . Lì  c’è la Volpe Bianca che ti aspetta.

     
    L’altro  restò per alcuni secondi indeciso.
     

    - Datti una mossa! – esclamò l’amico tendendogli la mano – il molo crollerà! 

    Camus  salì in fretta sulla nave.

     

     
     
     
    Verde scuro. Rosso. Verde scuro. Rosso.
     I papaveri non parlavano. I papaveri non artigliavano.  Strozzavano gli occhi e il cuore con mani più tenere e levigate di quelle di una donna.
     
    Mu vedeva e sentiva tranci di macchie vegetali avviluppargli le membra.
    Quel delirio di liane e fiori cuciva un bozzolo attorno al corpo e al cervello iniettando , con siringhe fantomatiche,  odori  stralunanti  e carezzevoli.
    Figure di affetto iniziavano a materializzarsi nella testa del ragazzo che , frastornato come un bambù schiaffeggiato dal vento, si addentrava nel sonno.
     
    Una bella stradina soleggiata lo stava conducendo al villaggio del Sole di Giada.
    Alle porte un uomo dai capelli color fiamma e una donna dalla chioma lilla.
    I genitori.
     
    Niente era perduto. Niente era morto.
    Bisognava  avanzare in direzione di quella luce ,dimenticare, cessare di correre freneticamente, nutrirsi di ossigeno…
    Niente più  dolore. Solo  felice e sterminata anestesia. 

     - Stardust revolution!  

    La potenza di stelle,  devastatrice di sieri oscuri,  ruppe il diabolico incanto.
    Una valanga di bagliori stracciò, eguale ad uno stormo di fenici, quella cella arborea di papaveri e foglie.
    Mu precipitò sullo strato molle del pavimento- barriera che conduceva a Milo e Camus.
     
    Sion l’aveva liberato e gli stava dinanzi incrollabile e d’acciaio. La sua straordinaria forza era stata persino in grado di sciogliere Saga e Aldebaran dalle loro trappole.

     - Mu. Alzati.  Ti trasmetterò parte della mia energia di telecinesi. 

    L’allievo, capendo con agitazione il fine di quell’iniziativa , obiettò:

     - Avete intenzione di trasferirmi una metà dei vostri poteri?! Ma rimarrete quasi senza… - Pensa alla tua missione.

    - Non vorrete  affrontare un dio da solo!

    - Taci! Morfeo sta per giungere! 

    L’uomo posò l’indice e il medio sulla fronte dell'adolescente dislocandogli la potenza delle sue capacità  di teletrasporto. 

     - Tu , Saga e Aldebaran entrerete nella dimensione di Icelo. 

    Il cavaliere dei Gemelli espanse il proprio spirito.
    Mu, un po’ provato per la bruciante forza che gli aveva trasfuso Sion, ribatté:

     - Maestro, voi..

    - Mu – lo chiamò Saga – hai sentito cosa dobbiamo fare.

    - Non posso lasciare il Sommo Sion!

     L’insegnante era notevolmente impallidito…Stava iniziando a barcollare…
     
    - Mu- soggiunse a malincuore Aldebaran -   presto! Accendi anche tu  il  cosmo! Non posso aiutarvi!
     
    Il Toro era privo dell’innato talento della telecinesi. Doveva contare sull’amico tibetano e sul custode della Terza Casa.
     
    - Non perdere tempo! – esclamò Sion all’apprendista – aiuta Saga!
     
    Il cavaliere dell'Ariete, dominando con fatica  l’angoscia, alzò le fiamme dell'anima…
     
    Il Maestro fissò con severo amore il ragazzo.
    Il ragazzo lanciò un’ultima occhiata al Maestro…Nonostante la  carnagione avesse assunto una fragilità di carta e le gambe si fossero genuflesse, la Guida non si denudava di grandezza, di  nobiltà. Il capo non era piegato al suolo. Si levava contro il nemico imminente.
     
    Un arcolaio di splendore prese a diffondere i suoi raggi.
    Mu e Saga intersecarono le onde dei  cosmi.
    Facendo scaturire un boato di tempesta si dileguarono con Aldebaran al di là della barriera di pelle da anfibio.

     - Oniro e Fantaso  affermavano, dunque, la verità. Sei un uomo prodigioso, temibile, ammirevole. Una creatura odiosa…da obliare.
     
    Quella voce marciò stentorea, pietrosa e uncinata dalla scala a chiocciola.
     
    Sion si levò , adagio,  dal suolo. 
     
    Un essere dalle sembianze umane scese con  lieve lentezza i gradini  della rampa.
    Era altissimo e massiccio come una colonna dorica. Aveva il corpo velato pesantemente da un mantello verde petrolio.
    Il suo viso rivelava  una bellezza sassosa e un’ accigliata imperturbabilità: il naso era regolare ed amaro, la mascella inflessibile , gli occhi  erano rappresi in un’espressione  rovente e assiderata, scintillante e immobile, umida ed essiccata. Definire il colore di quegli iridi si mostrava difficile. Parevano di un grigio sbiancato o di un azzurro dissanguato.
    Parevano aver perso  il nero delle pupille e qualunque striatura di luce.
    Una lunga chioma, leggermente ondulata alle estremità, rendeva quella divinità ancora più regale e spietata. I fili dei capelli rilucevano di un’energia moribonda e pallida.  
     
    Morfeo, il maneggiatore del sonno, esternava  fermo ed esausto vigore.
     
    L’ex cavaliere dell'Ariete lo analizzava col rosso del proprio sguardo che non osava implorare preghiera, che non osava esibire  venerazione.
    Era altero e dannatamente audace.

     - Sono lieto che tu e i tuoi fratelli, possente Morfeo, apprezziate la mia umile indole – proferì il guerriero con gelido scherno – non credevo di aver colpito così nel profondo i vostri  animi. 
      
    Il dio lo contemplò con dispregiativa  e contenuta stizza:

     - Vedrai, Grande Sion, come farò dissolvere in te la tracotanza. Non conosci l’essenza del mio sconfinato universo? Non sei consapevole che il sonno sia  una catena di mortiferi anelli?  

    - Tu, invece,  sei consapevole delle mura che la ragione erige a difesa d’ogni letale torpore?

    - Persisti con la tua arroganza, vedo. Non volerai più troppo in alto quando ti ritroverai a dormire nell’infinta bassezza del buio. Trovo che sarai cagione di enorme dolore per il tuo discepolo…oh…il tuo discepolo…Quel ragazzo è una chiave…una preziosa chiave…

     
    Sion s’inquietò profondamente.
    Cosa significavano quelle parole? A cosa alludevano?
    Che oscuro disegno serpeggiava?

     - Sei angosciosamente confuso, Sion? D’ora in poi  potrai rasserenarti. Ti elargirò un’eterna quiete… con le tue felicità remote e affondate… con tutto ciò che il maledetto destino ti ha strappato via.
     
    Con un gesto della mano autoritario, Morfeo aprì una fenditura nera, rigata da linee rigorose,piane, ululanti…
    I gradini della scala a chiocciola finirono risucchiati da quelle ombre allo stesso modo del molle tappeto bianco.

     - Questo è il grande ingresso della Morfia – spiegò il dio – qui dentro re e guerrieri dormono. Qui dentro la schiavitù della volontà muore. Non avrai più bisogno di strade poiché non andrai in nessun posto. I viaggi diverranno inesistenti  come le porte d’uscita. La tua unica destinazione: il baratro che custodisci nel ventre, nella disperazione che t’illudi d’aver rimosso. 
     
     
     
     
     
     
     
    Note personali: Buona vigilia di Natale a tutti!! ^^ non è il massimo dell'allegria aggiornare con queste pagine di capitolo, però dovevo farlo XD avevo detto che avrei aggiornato a dicembre e sono stata di parola! Purtroppo non sono riuscita agli inizi…comunque l’importante è averlo fatto! Direi che tra una settimana, massimo dieci giorni, concludo il cap 11!! ^^ I prossimi aggiornamenti avverranno quasi a distanza ravvicinata! Spero di farvi avere i cap 12 e 13 entro la prima metà di gennaio! Scusate per la grande ilarità che vi dono XD ahimè questa parte di storia è un po’ drammatica -.- beh, L’occhio dell'ariete è drammatico XD
    Per concludere, di nuovo BUONE FESTE!! :D
     
    [ nota sul cap 10: mi è stato segnalato un errore di trama riguardante Lost Canvas che NON E’ dipeso da me ( ringrazio molto che mi sia stato rilevato ^^) . Nella parte in cui Kletias dice a Milo:  Ero destinato a finire così… vedi, io ,allo stesso modo del tuo antenato Cardia,  ho dimezzato la durata della mia esistenza.”A quanto pare ( io non lo sapevo davvero) nell’edizione della Panini hanno  tradotto, dal giapponese all’italiano, il verbo “ allungare” con “ dimezzare”. In realtà, il Saint dello Scorpione si era sottoposto a delle prove oltre i limiti dell’umano per allungare la propria vita, non accorciarla…( beh, in effetti è più logico XD )
    Alla luce di questo,  però,  non cambio nulla del capitolo 10 visto che non è colpa mia se i traduttori hanno sgarrato…Inoltre  il fatto che Kletias abbia sacrificato metà della sua esistenza ha un significato molto importante che non posso e non voglio modificare.. la mia fan-fic ( sottolineo) è tra l’altro  un Alternative Universe …]
     
     
     

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    Capitolo 22
    *** CAP 11 - apnea di ghiaccio: la cima dell'iceberg ***


     

    Il cielo non si trova  né sopra né sotto,
    né a destra né a sinistra;
    il cielo è esattamente nel centro
    del petto dell'uomo che ha fede! “

    ( S. Dalì )


     

     

     

    Annaspavano in quel modo gli animali colpiti a morte?
    Rovesciavano fiati di bile e sudore  gli animali colpiti a morte?

    Mille. Centomila. Un milione…
    Milo non aveva cognizione di quante fossero le zampe e le code degli scorpioni  che gli vagliavano  la pelle…
    I bronchi si stavano inturgidendo di un muco venefico che serrava i condotti d’aria salubre.
    Il sangue si rimestava nelle vene in vortici d’endemica danza ottusa. 
    Il cervello, ramingo in una galassia senza stelle, non riusciva più a sintonizzare i propri sonar  verso l’esterno.

    Il ragazzo stava per essere tumulato sotto strati neri di aracnidi che formavano un rilievo di bitume  glutinoso.
    Quegli insetti camminavano l’uno sopra l’altro emettendo suoni ticchettanti, sabbiosi e quasi rarefatti.
    I loro dorsi si muovevano tessendo una prigione divoratrice, una cappella dalle decorazioni depauperanti di vita.

    Icelo ammirava ,con famelico compiacimento,  l’incantesimo: era  vanitosamente commosso dai propri lugubri prodigi. Non vedeva l’ora di sentire la sfrangiante sinfonia della carne di Milo maciullata dalle chele del veleno.

    - Ecco il modo in cui finiscono trangugiate le bestioline prive di vere armature! – rideva – non riescono proprio a guardarsi dentro!

    Il sollazzamento del dio venne interrotto da un fragore di teli strappati.
    Il cielo della dimensione brizzolata di neve venne  squarciato  da tre guerrieri.

    Saga, Mu ed Aldebaran piombarono sulla distesa di ghiaccio biancastro ed amarulento.
     
    - Andate a liberare Camus e Milo! -  fece Gemini ai compagni –  mi occuperò io di questa bestia!

    La divinità sghignazzò divertita.

    - Che piacevole comparizione! Non solo ho quei  vermi di Acquarius e Scorpio ma Morfeo mi spedisce pure questo bel terzetto!

    Schiantò il proprio pugno per terra  aprendo un crepaccio nero.
    I cavalieri saltarono tempestivi sulle sponde dell'abisso.  Saga si trovò da una parte mentre gli altri due  dall’altra.

    - Muoviamoci, Aldebaran! – esclamò Mu iniziando a correre.

    - Credete davvero che  vi lasci scampare così?! – sbraitò Icelo preparando un altro attacco.

    Galaxian explosion!!

    Un’ondata di meteore e stelle dorate si abbatté sul demonio. 

    - Fantastico! – si meravigliò il Toro– hai visto, Mu? Icelo è con le chiappe al suolo!

    - Al! Ti prego!

    Il dio si levò in piedi espirando con  rabbiosa vendetta.

    - D’accordo, Saga di Gemini – sibilò roco – massacrerò prima la tua anima e poi mi occuperò di quei due…soprattutto l’allievo di Sion.

    Saettò un’occhiata triturante e tuonante a Mu.
    Il ragazzo, sebbene volasse lontano, si accorse di quel volto nefasto.

    Si bloccò come fosse stato impalato all’improvviso.
    Tutto attorno gli si tinse di viola e d’ebano…tutto gli divenne una  diapositiva di morte.

    Uno strano bruciore ,poi,  lo ridestò nuovamente.

    - Mu! Che ti prende?! – domandò scosso Aldebaran.

    - S-stai tranquillo… non ho…niente…

    Scettico, il colosso riprese a muoversi rapidamente.
    Mu afferrò,  da sotto il suo mantello,  l’amuleto con la  testa d'Ariete.

    Scottava. Pareva baciato dalle labbra incandescenti della lava.
    L’occhio rosso brillava insolitamente sanguigno e abissale.
     

     


    Il litorale del Pireo fluttuava niveo, sparuto, smussato dalla nebbia: era allucinato di sonno e spettrale attesa.
    L’Egeo lo sorreggeva con onde adipose che mangiavano il blu grigiastro di un cielo accartocciato. 
    Atene somigliava ad una sposa novella sorretta dal coniuge Mare: era una vergine svenuta dinanzi  ad un’incognita vita che le si schiudeva.

    Dall’ enorme  trireme, il piccolo Camus contemplava, ansioso,  quella scia di terra lattiginosa.

    - Tra poco attraccheremo! – lo rassicurò con un sorriso Milo -  quando saremo sulla banchina ti porterò dalla  Volpe Bianca.

    - Dovrò  viaggiare con lei?

    - Assolutamente sì! 

    - E tu che farai?

    - Continuerò la mia strada.

    - Com’è ?

    Il bambino greco contrasse  la bocca.

    - È   piena di sole ma ha anche buche, sassi e pozzanghere…

    - Non posso venire con te?

    Milo posò una mano sulla spalla del francese.

    - Tu hai la tua di strada. Devi fare quella.

    La nave giunse al porto.
    I  bambini scesero sulla proda del molo di fronte ad una moltitudine di edifici avvitati nel silenzio e disadorni di persone.

    - Non c’è nessuno! – constatò allarmato Camus.

    - All’inizio pare così – gli rispose l’amico -   piano, piano che andrai avanti ti accorgerai che non sei il solo a camminare.

    Lo condusse fuori la zona  dell' approdo.
    La bruma assediava,  con vesti di talco, qualunque cosa.
    Si proseguì per alcuni istanti fendendo la  condensa leggera e paralizzata.

    - Eccola, Camus! Guarda! – esclamò Milo.

    Il  ragazzino scorse,  dinanzi ad un incrocio di strade, una piccola sagoma.
    Gli venne incontro felpata, fine, morbida.

    Era un canide dalla lunga e spumosa coda. Una creatura dal manto luminoso e ialino.

    Era la Volpe Bianca.
    Si fermò solenne ed aerea…

    - Devo andare, adesso…– disse Scorpio.

    Camus lo fissò con tacita supplica, con sentito sconforto.

    - Ehi!  Mica ci diciamo addio! La mia via è  proprio di fianco alla tua ! Saremo vicini!

     -  Milo…correremo assieme?

    - Contaci!

    L’amico gli donò un abbraccio d’ilare affetto prima di tuffarsi come un delfino d’oro nei fiotti di un mare nuvoloso.

    La Volpe Bianca mutò in donna. Apparve una sacerdotessa dai capelli castano miele, ornata da una magnifica armatura argentea, blu e lilla. Aveva la spalliera destra a forma di volpe, l’altra a forma di coda.
    Portava una maschera grigio seta.

    Era Eirene.

    - Andremo a nord – enunciò lene  e fredda – comincerai a correre…Vedrai la neve che cadrà, vedrai l’inverno che soffierà. Non ti azzardare ad inciampare. Se ti fermi verrai assiderato.

     
     


    Uno spiraglio.
    La coltre rappresa degli scorpioni parve districarsi…
    Milo aprì faticosamente gli occhi con la bocca che salivava sangue e veleno…I suoi sensi riuscirono ad afferrare, inebetiti, una coppia di cosmi molto famigliari…Il primo gli era vicinissimo, il secondo si mostrava leggermente più distante…

    - Milo. Resisti.

    Una  mano lo prese per un avambraccio.

    Star light  execution!!

    Un lampo giallo e violento fece detonare , in una fontana d’olio nero,  tutti gli insetti  che tartassavano gli arti e la mente.

    Scorpio venne sorretto dal cavaliere dell' Ariete.

    - M-Mu…co-com-me…

    - Non affaticarti e lasciati vedere le ferite.

    Il tibetano lo posò delicatamente a terra.

    - Cacchio!! – gridò spazientito  Aldebaran – non riesco a spaccare questo monolite bastardo!

    Era da interminabili minuti che il ragazzo , con miriadi di great horn   e  potentissimi pugni,  stava tentando di rompere la prigione di Camus.

    - Ci deve essere  qualche strano sortilegio – disse Mu fissando scuro la bara ghiacciata – la tua forza è in grado di ridurre a pezzi persino la pietra!

    Milo, tossendo indolenzito, rispose:

    - I…vostri a-attac-chi…non servono a…niente…Quel…figlio di puttana…di Icelo…

    Tentò di sedersi, ma l’apprendista di Sion lo costrinse a tornare sdraiato.

    - Mu…Aldebaran…tutto…d-dip-pende…d-da…Camus.

    - Oh, merda! Che significa?! – esclamò il Toro.

    L’Ariete deglutì aspramente.
    Col cuore gonfio di tensione,  contemplò Acquarius cilestrino di sopore letale.  Il sovrano delle Fobie l’aveva relegato in un universo subacqueo. 

    - Se Camus non vorrà svegliarsi…- articolò spinato il tibetano – rimarrà per sempre chiuso lì dentro.

    Aldebaran provava una disperazione  lancinante verso il francese; con costui  vi erano state perennemente incomprensioni, silenzi, piccoli alterchi  e…un’ultima grande litigata. Sapeva che non esistevano affetto fraterno o stima  . Egli  si considerava, ciononostante,   al medesimo livello del fango:  aveva i difetti dell’irascibilità  e dell' impulsività  però detestava francamente uscire da un dissidio senza chiarimenti e  riappacificazioni.
    Stava troppo male. Quant’era orribile pensare che le ultime parole rivolte al guerriero della Siberia sarebbero potute restare: “Perché non pigli un volo di sola andata per l’Antartide?! Ah,  già! Dimenticavo!  Non ne sei capace visto che te la fai ancora sotto alla vista d’un aereo! “

    - Maledizione! – vociò esasperato sbattendo una mano sul terreno.

    - Aldebaran! – si rivolse Mu – non perdiamo la calma! Bisogna intanto curare Milo!

    Stringendolo per le spalle,  sospese la mano destra   sul suo torso martoriato. Nell’attimo in cui fece schiudere l’energia terapeutica, l’amuleto dell'Ariete riprese ad ardere anomalo.
    La sferetta di luce linizzante si incendiò in maniera imprevista e pericolosa.

    - Per la miseria! – esclamò l’allievo di Sion azzerando il flusso di potere – che  mi sta succedendo?!

    - Si può sapere cosa hai? – chiese seccamente il Toro – anche quando stavamo correndo qua ti  eri  imbambolato in modo strano! 

    - Non lo so…il medaglione che ho al collo…è diventato di nuovo  ustionante!

    - Eh?!

    - Sì! Come se fosse passato su un braciere !

    - Meglio se provvedo io a lui …

    Il mastodontico giovane si chinò sul cavaliere dell'Ottava Casa lasciando sprigionare la forza curativa del proprio cosmo…I tagli e  gli innumerevoli morsi degli scorpioni si assorbirono abbandonando sulla pelle soltanto ombre di lividi grigio cenere.

    - Dov-ve è…finito Aiolia ? - parlottò Milo.

    - È al sicuro  nell’ospedale del Grande Santuario – lo  tranquillizzò Mu – siamo riusciti a trovarlo e il mio Maestro l’ha teletrasportato al di là delle barriere di Icelo.

    Sul viso del ferito comparve un sorriso debole ma fortemente rincuorato.

    Un terrorizzante  scoppio  proruppe, repentino,   in lontananza.
    Seguirono delle urla.
    Dalla terra lattescente e rafferma fuoriuscirono  degli enormi paraventi dai riverberi d’acciaio. 

    I tre ragazzi intravidero, attraverso la polvere nevosa, il luccichio febbricitante di Saga che tentava di resistere agli assalti della divinità dell’incubo.
    Il potere di quel demonio frammentava  la dimensione spaziale  creando specchi che respingevano e dilaniavano  gli attacchi dei nemici.
    L’armatura dei Gemelli si stava spaventosamente danneggiando. Se il suo possessore  si reggeva ancora in piedi lo doveva ad uno  straordinario talento che, tuttavia, stava vacillando…

    - La tua destrezza è  stupefacente! – s’entusiasmò perfidamente Icelo – comprendo l’ammirazione di Sion nei tuoi confronti! Mai mi sono così adirato e divertito  duellando contro un ignobile umano!

    Il giovane ansimava stringendo i denti.
    I  lunghi capelli , scarmigliati e inumiditi dal ghiaccio,  continuavano a brillare del loro blu intenso e fluttuante.
    Gli occhi verde scuro erano affissi, come chiodi, ai muri dell'avversario.

    - Soccomberai   al secondo atto di questo spettacolo?

    Il dio si tolse il chitone viola mutandolo in un turbine strepitante che  avvolse la sua figura.

    Saga reclinò il capo e alzò le braccia  per schermarsi dall’impeto della corrente.
    Quando essa cessò,  trascolorò.

    Icelo era coperto da una corazza nera, artigliata…selvatica. Sorrise più orrendo del consueto : i suoi denti erano aumentati in lunghezza, allo stesso modo degli artigli delle mani.
    Indossava un  elmo che somigliava vagamente a  quello di un samurai ed evocava il cranio del diavolo. Un paio di corna appuntite luccicavano ridenti e vogliose di sangue.

     

     

    I piedi tamburavano, simili a  zoccoli di cervo, le piste gelate.
    Eirene e Camus erano gettati nella danza inesorabile dei fiocchi di neve. Si stavano avvicinando all’estremo Nord.
    Ad ogni nuvola calda che fumava dalle labbra, ad ogni dolore della corsa che si dilatava, Acquarius vedeva le proprie membra maturare. Le gambe si elevavano, le braccia si irrobustivano, i capelli  volteggiavano sulle spalle che s’ampliavano. Il viso diveniva più ovale livellando le friabili rotondità infantili.
    Gli occhi continuavano, però , ad essere tremolanti fiammelle blu.
    La Maestra lo constatava chiaramente.

    - Il tuo sguardo – disse ella- è stoffa che può ancora stracciarsi…devi farlo trasformare in zaffiro. Pietra  intaccabile. L’inverno non ha né l’odore dei fiori, né la tenerezza dei frutti. Non ha né il tempo di piangere, né di soleggiare.

    - Maestra -  fremé  il discepolo – la neve…è come se tentasse di soffocarmi la vista…

    - Non glielo permettere. Se essa ti annebbia sarai incapace di saltare  questi fossi.

    La donna accelerò vertiginosamente l’ andatura.
    Il ragazzo la vide allontanarsi…
    Pochi secondi dopo, scorse la sua sagoma che spiccava acuti balzi: sorvolava una roggia dietro l’altra  ballando ancestrale come un  antico guerriero,  dardeggiando tagliente con la grazia  d’un ninja.

    Sì. Anche lui doveva librarsi. Scordare le sferze del gelo per divenire gelo.
    Le lande del letargo, le perturbazioni che sottraevano qualunque Sole, il cielo che permaneva buio... Sarebbe stato il suo regno… Il freddo spietato, essiccatore, nutritivo e volante.

    Un rifrazione fulva attirò, ad un tratto, Camus…Proveniva da una piccola collina…

    Il giovane aggrottò la fronte…
    Una figura lo  osservava fiduciosa da quell’estremità…

    Era Milo.

    Gli sorrideva muto ma altisonante.
    L’azzurro del suo sguardo lo aveva sempre seguito, simile ad un’effervescente cometa.

    Il francese ricambiò con profondità quell’espressione, avvertendo le onde sonore del proprio cuore intersecarsi con quelle dell'amico oltre la distanza che s’abrogava insignificante.

    Tornò ad analizzare la distesa dei fossati che lo separava da Eirene.

    Nessuna vuotezza si sarebbe versata su di lui.

    Preparò i muscoli degli arti inferiori e superiori.
    Si lanciò.

    Sbriciolò i cristalli del ghiaccio col corpo e con gli occhi. Saltò sulle sottili cornici che separavano le voragini, quasi annullando la gravità, senza sentire i grammi del respiro che gli ricordavano il peso dei polmoni.
    Eseguendo un salto mortale, nell’aroma cotonato dei fiocchi, atterrò dinanzi alla Maestra, in piedi, solido.

    Nonostante fosse coperto dalla maschera, il ragazzo avvertì la carezza del sorriso della donna.

    - Sei stato eccezionale!

    Acquarius si voltò a sinistra.
    Una ragazza biondissima e piccoletta lo stava ammirando con una macchina fotografica in mano. Indossava un pesante cappotto verde scuro e degli stivali di pelliccia.

    - Odette!

    - Ho ripreso qualunque tuo salto. Movimenti splendidi, equilibrati. Nessuna sfocatura…eppure…mi manca …il tuo più grande volo. Non ho ancora colto la luce e l’istante perfetti…

    Abbassò gli occhi rosei un po’ intimidita, un po’ abbattuta ma comunque speranzosa.
    Nel vento glaciale, Camus si sentì invadere da un calore squisito e cullante come una tisana che  irrigava li ventricoli del cuore.
    Era dolcemente legato a quella fanciulla, alla mansuetudine decisa e irrinunciabile che gli  trasmetteva. Il  lembo di spiaggia estiva che desiderava inalare era lei; la tranquillità e la sicurezza  con le quali discorrere in eterno.

    - Ci saranno la luce e gli istanti perfetti – affermò avvicinandosi ad ella – sto correndo per  diventare completamente inverno.

    L’adolescente sollevò  il viso. L’angustia le lampeggiò nell’animo.

    - Sì…- sussurrò  – ti devi fortificare come i ghiacciai perenni, ma non…ibernarti.

    Camus adorava guardarla e inquadrare ciascun suo particolare: l’espressione puerile e adulta, le guance lisce, la bocca tenera e vermiglia, il naso minuto, i capelli corti e morbidi.
    Non era  innamorato di lei. Il cuore non gli batteva violentemente… Malgrado questo, non riusciva a spiegarsi l’indecisione che provava nel pensare di coccolarla o meno…Non avvertiva l’ attrazione sensuale verso un’amante di passaggio…eppure… nessun’ altra fanciulla era in grado di avvincerlo in quel modo.

    - Odette – sorrise – se lasciassi assiderare il mio petto non credi che  morirei?

    - Azzardati a fare una cosa del genere!

    - Ci mancherebbe altro.

    Le strinse affettuosamente le spalle e si chinò a baciarla sulla guancia.

    - Ti aspetto, allora…- arrossì lei.

    - Lo so, bimba pulcino.

    La ragazza, ridendo piano, gli prese la mano.

    - Vinci la bufera.

    Camus dovette, controvoglia, allontanarsi.
    Eirene lo attendeva per portarlo innanzi all’ostacolo definitivo.


     

     

    Saga correva variando direzione, saltando. Recideva l’arena albicante del duello.

    Icelo gli stava alle calcagna, galoppando come un orribile animale: un lupo dalle zanne  d’erebo.

    Mu non sapeva se Gemini possedesse maggiormente la potenza aurea del ghepardo o la disperata eleganza dell'antilope. Era talmente inquietante il contrasto col diavolo dell'incubo che i confini tra anelito  e annegamento si confondevano.

    Ad ogni assalto del dio il guardiano della Terza Casa si riparava capitombolando per terra e rialzandosi.
    Perdeva pezzi d’armatura. Si mostrava un albero d’autunno  depredato  delle ultime foglie dorate.

    Icelo era il razziatore, il nero occhio della violenza perfetta.
    La sua vittima  metteva in atto una verticale dietro l’altra, uguale ad un acrobata che esegue un numero su un fil di ferro. Non riusciva a pensare ad un’efficace soluzione, ad una via d’uscita…

    - Devo  teletrasportare Milo – fece Mu.

    - In che modo? – lo interrogò Aldebaran – Per poco lo bruciavi !Quel tuo ciondolo si sta comportando in maniera strana!

    - Hai ragione, ma restare qui è troppo pericoloso per lui.

    - Vuoi tentare comunque?!

    - Sì.

    - Oh, Cielo! Ma così perderai  molta forza vitale! Non hai il supporto di Saga!

    - Ho l’energia del Maestro Sion.

    Per un istante, Mu tacque affannato.
    Cosa stava accadendo alla sua Guida? Quali trappole era in grado di tendere Morfeo?

    - Ehi…- lo chiamò il brasiliano – è meglio che ti trasmetta un po’ del mio cosmo…

    - No, Al.

    - Perché?

    - È un mio rischio. Stanne fuori.

    - Sei matto?!

    - Mi occorre concentrare ed espandere lo spirito.

    - Hai il coraggio di dirlo con quella faccia?

    - Non provare a interferire col mio potere.

    - Ecco! La testa dura dell'Ariete!

    Un minaccioso rantolo interruppe i due amici.
    Un fischio asciutto e metallico.

    - Toglietevi di lì! – urlò Saga.

    Una miriade di lastre acuminate si scagliò contro i giovani.

    - Crystal wall!

    Mu elevò, fulmineo, l’enorme barriera dagli  iridescenti riflessi d’arcobaleno.
    I terribili fendenti si polverizzarono.

    - Sei in gamba, allievo di Sion – ghignò Icelo – muoio dalla curiosità di vedere come ballerai quando ti mostrerò la sorpresa che ho in serbo per te…Non so se sul tuo amato Maestro potrai contare…Morfeo è intransigente verso coloro che alzano un po’ troppo la testa.

    Il tibetano si agghiacciò con ogni capillare del  corpo.

    - Sai una cosa, bestiaccia? – sbottò il Toro – quella baldracca di  tua mamma non avrebbe dovuto partorire te e i tuoi fratelli!

    La divinità  deformò il proprio volto, colando sfumature fegatose:

    - Ammasso di sterco che non sei altro! Come osi oltraggiare la dea Notte?!

    Stette per lanciarsi contro  il ragazzo, quando Saga lo ghermì brutalmente.
    Gli bloccò il collo con l’avambraccio. Lo costrinse a genuflettersi  allo stesso modo del minotauro strangolato da Teseo.

    - Mai – gridò  Icelo – mi farò calpestare da un bastardo essere umano!

    Dilacerò, con un morso, le carni del braccio di Gemini.

     

     

    Una parete ghiacciata regnava, incurante, sul sentiero.
    Era così alta da non consentire più alla vista di discernere i nembi del cielo. La superficie di quel muro  pareva diluirsi con prepotente mollezza nell’etere. L’avorio granelloso della neve s’arrampicava irraggiungibile e sconfinato verso l’alto.

    - Maestra – notò Camus – la strada termina! Non vedo altro!

    La muraglia s’estendeva orizzontalmente e verticalmente sprovvista di alternative.

    - E’ una tua impressione – rispose Eirene – hai guardato bene lassù?

    Il discepolo levò lo sguardo.

    - Ci sono nuvole grigie e bianche.

    - Sei sicuro?

    - Beh, sì...

    - Sei sicuro di vedere…un cielo?

    - Certo, se no da dove darebbero venuti tutti quei fiocchi di neve?

    - Osserva bene.

    Camus scandagliò con lo sguardo tutta l’altura celeste…fumarole di nugoli impalliditi, polvere di luce foderata nel sonno…
    Cosa intendeva dire la guerriera?
    Continuò a contemplare…
    Si accorse di qualcosa di strano.
    Un piccolo riflesso scivolò sulla volta…sulla volta che splendette, per un breve attimo, piatta e fissa come  un coperchio colossale.

    - Non è possibile!

    - Hai compreso -   mormorò Eirene.

    - Il cielo è…è…ghiaccio?! Una lastra di ghiaccio?!

    - Sì, Camus. Non siamo in superficie.  Da quando hai abbandonato  la Francia sino a questo preciso istante, hai corso su un fondale.

    Il ragazzo , sbalordito, osservava lo spettacolo che sorvolava il suo capo.

    - Maestro Camus…Maestro Camus…

    Delle voci di bambini provennero da oltre quella placca.

    - Hyoga! Isaac! – fece il giovane.

    - Camus! Camus! Camus!

    Altri echi angosciati lo chiamarono…appartenevano ai suoi compagni, ai suoi amici.

    - Ti stanno aspettando tutti in alto – gli rivelò Eirene – ora anche io sarò lì…hai visto quella parete? Altro non è che la base di un iceberg. L’iceberg che ti offrirà la cima di salvezza se tu romperai lo strato  della tua apnea.  

    Suoni di oscillante e pesante ribollimento di acque.
    Il ragazzo si volse a destra e a sinistra.
    Stava per essere inghiottito dai manti di due corposi marosi.

    - Camus…- disse la Volpe Bianca- è ora che tu risorga.
     

     


    Icelo aveva preso a scatenarsi contro Aldebaran e Mu.

    Saga giaceva per terra, preda del dolore causatogli dalla zannata dell'Incubo.
    Si guardava l’avambraccio destro che sgocciolava sangue dalla profonda ferita: i muscoli si erano talmente sfatti da scoprire il bianco fradicio delle ossa.
    Intrappolando le urla di dolore tra  i denti, il giovane pensava , comunque,  a come sostenere i due apprendisti che proteggevano Camus e Milo…
    Pareva pressappoco irrealizzabile  un aiuto ma bisognava farlo.
    Doveva raggranellare la forza che gli era rimasta…

    - Allora, imbecille! – gridò Icelo al Toro – scegli la tua fine: vuoi essere squartato come un bue o  fatto a pezzi come un maiale?!

    Il colosso si era ritrovato, nel giro di pochi minuti, devastato dall’ira del dio. Lividi viola e  lesioni rossastre erano cosparsi dappertutto. Se non avesse avuto un corpo gigante e robusto il suo scheletro sarebbe stato già ridotto in poltiglia.

    Stardust revolution!

    Mu tentò di difendere l’amico scheggiando sull’avversario le sue onde stellari.
    Il mostro,  tracciando con gli artigli,  una trama di linee,  suddivise lo spazio circostante.
    Delle barriere lo ripararono dall’attacco che venne rispedito al mittente.
    Il tibetano si vide catapultato in aria.  

    - Non ti scaldare troppo, Ariete – lo schernì  Icelo – ti ho già detto che ho in serbo per te una sorpresa. Lasciami finire quell’insolente del tuo compagno!

    Milo assisteva impotente e frustrato alla scena.
    Non era in grado di mettersi in piedi e combattere.  Il cosmo non gli forniva alcun ausilio. Lo  sguardo, tra l’altro, faticava a restare aperto.

    Idiota di un Camus! “  pensava Perché vuoi morire?! “ 


     


    Vorticava, vorticava, vorticava. Elica che non conseguiva la giusta e sensata danza.
    Vorticava, vorticava, vorticava. Tutto era capogiro  d’una bussola che il Nord non trovava.

    Camus roteava cercando di far rimanere saldo il sangue che si agitava nel cervello.
    Le correnti delle acque lo costringevano ad esibirsi in tormentate capriole.

    Devo fermarmi! Devo fermarmi! “

    La vertigine insisteva a circolare con la sua ipnotica gonna.

    No! No!No!”

    Uno sforzo sovrumano di schiena e gambe.

    “ Basta dormire, sudare, tremare.”

    Si fermò in verticale frenando , a braccia aperte,  la potenza dei flussi battenti.

    “ Il mio nome è Camus. Il mio sangue è l’Acquario. L’Acquario del Nord, dell'Inverno.”

    Congiunse in alto le mani. Un immenso alone verde, giallo e turchese gli sfociò dall’animo come un fiume di tramontana cristallina.

    I ghiacciai mi appartengono. Il gelo è mio padre. Mio fratello. Il gelo sono io.”

    Una scarica di lucenti fiamme artiche trafisse i  refoli dei fondali.


    Aurora execution!
     

    Il feretro di ghiaccio esplose in  pioggia di grandine. Il liquido che conteneva si sbrindellò al suolo.

    Mu e Aldebaran sbarrarono gli occhi.
    Milo ritrovò la forza per sedersi ma non per trattenere un pianto d’esasperata gioia.

    Il cavaliere dell'Acquario si era liberato.
    Era in piedi con le lacrime dell'apnea sconfitta che gli scivolavano dai lunghi capelli, dalle ciglia dal viso…Dalla  bocca un respiro affannato:  un anelo di cielo ritrovato che non poteva che essere stato  coltivato, con fatica,  nel petto. 

    Icelo osservava  la scena con una disgustata irritazione impressa nello sguardo.

    - Ce ne hai messo di tempo, razza di scemo…- balbettò Scorpio.

    Camus gli si avvicinò e crollò in ginocchio agguantato dalla fatica.

    - Ti pare facile riuscire a dominare veramente il freddo? – sorrise esausto e  pallido.

    Mu e il cavaliere del Toro si precipitarono verso i due amici.

    - Brutto surgelato! – esclamò il Toro tra l’imbronciato e il commosso – non ci provare mai più a farti imprigionare in quel modo! Io e te dovremo parlare!

    Il francese lo squadrò,  altezzoso,  con un sopracciglio inarcato.
    Alla fine ridacchiò piano estinguendo quella finta espressione antipatica.
    Il cavaliere dell'Ariete fu  profondamente contento che  gli occhi blu di Camus e quelli bruni di Aldebaran si stessero incontrando come  mai prima d’allora.

    Il dio dell'Incubo divenne ancora più bramoso di distruzione.
    Fu in procinto di andare all’assalto  quando venne imprigionato da una scarica di saette viola.

    - Che mi sta accadendo?! - sgolò confuso.

    - Semplice. Ti ho paralizzato i muscoli.

    Saga si era rimesso in piedi. Aveva concentrato  il proprio cosmo per quell’incantesimo. Il braccio continuava a perdere sangue, ma lui si era lasciato infiammare dalla tenacia.

    Mu, capendo di dover approfittare della situazione, fece ardere tutta la sua energia.
    Avrebbe conferito la massima potenza allo star light  extinction. Quell’ attacco, oltre a disintegrare i nemici,  poteva essere adoperato anche per il teletrasporto.
    Richiamò l’aurea trasmessagli da Sion…
    Avvolse i compagni in un turbine luminoso.

    - Mu!- gridò il brasiliano – aspett…

    Star light   extinction!

     Milo, Camus e Aldebaran evasero dalla dimensione della fobia.
    Tornarono al Gran Santuario nel caldo gorgo del vortice sidereo.

    Mu, pressoché esanime, cascò sul terreno.

    Icelo, con un ferreo ringhio, si sciolse dalla magia di Saga.  

    Si voltò verso il custode della Terza Casa.
    Rimase per alcuni istanti immobile.

    Il cavaliere dell'Ariete, con gli avambracci tremolanti, cercò di ergersi sul busto.

    - Stendiamo un degno finale alla nostra sfida, Gemini – dichiarò l’Incubo – un finale di pathos disgraziato…scorticante…

    Saga vacillò con gli occhi invasi dalla paura.
    Un’orribile tachicardia gli esplose nel torace e negli organi interni. I brividi gli solcarono le costole e le vertebre una ad una.

    Icelo avanzò biecamente con l’infamia arrotata d’uno schermidore e  l’ ingordigia  d’un rettile palustre.
    Era pronto per saccheggiare il tempio di un  passato fuligginoso.
    Era pronto per seviziare gli antri di un cuore maledetto e cadente.

     

     

     

     

     

     

    Note personali: ciao a tutti!! ^^ ecco il primo aggiornamento del 2013!! Scusate, ho tardato di alcuni giorni -.-  ci ho impiegato un po’ più tempo del previsto…il cap 12 direi che ( se tuuutto va bene) lo posterò la prossima settimana! ;)  Sono stata contenta che , finalmente, si siano  conclusi ( per adesso) i calvari di Milo e Camus XD purtroppo non è finita per Saga, Sion e il povero  Mu -.- il cap 13 sarà a febbraio ( non so quando ma state certi che lo avrete XD )…La metafora che ho adoperato per la conclusione del capitolo è di matrice freudiana. La parte più nascosta dell'iceberg ( quella sommersa dalle acque ) rappresenta l’Inconscio, la parte…” mediana” il Sub-conscio e l’estremità ultima il Conscio. Ho voluto in questo modo raffigurare il percorso di risalita onirico di Camus ^^
    Spero, come al solito, che vi sia piaciuto e che la mia fatica possa aver fruttato efficacemente XD
    Grazie!!Al prossimo episodio!! :)

     


     

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    Capitolo 23
    *** CAP 12- lande violentate ***


     

    E lunghi funerali, senza musica, né tamburi,
    sfilano lentamente nella mia anima; la Speranza,
    vinta, piange, e l’Angoscia atroce, dispotica,
    pianta il suo nero vessillo sul mio cranio inclinato” .

    ( C. Baudelaire )

     



     

    - Sei un povero bastardo, Saga!

    Icelo,  studiando con barbara compassione la vittima,  l’abbrancò per la gola.

    - I tuoi occhi hanno visto scorrere fiumi di sofferenza, vero?

    Lo sguardo dell’Incubo, dalle pupille  di serpente, iniziava a forzare i  sigilli del passato.
    Saga, nonostante non fosse infilzato da alcuna spada, era su un tavolo di tortura.

    - Di’ cavaliere…cosa ti hanno fatto? Cosa hai fatto?

    - Lasciami! Lasciami, lurida bestia!

    - Lo so,  caro infelice…e’ triste  ammettere certe cose…

    - No! No!

    - Quanto amore…quanto sangue nutrito e disintegrato…

    - Smettila!

    - Quante tenebre che conosci e vuoi ignorare…

    Galaxian explosion!

    Non scaturì  nessun tuono di luce.

    - Inutile, Gemini! Non puoi rinnegare le colonne della tua esistenza!

    Il dio buttò il giovane a terra.

     

    Corre il Giorno tra me e te!
    Vola il Giorno tra me e te!

     


    Quelle voci…erano infantili. Quelle strofe…erano famigliari giardini.
    Saga sentì il proprio sangue raggrumarsi in  limo acidulo.
    Il cuore si contorceva coi capillari che si gonfiavano.
     

    La Notte non ci sarà!
    Il buio non ci avrà!
    Questa luce non cadrà!

     


    - Ti ricordi qualcosa, Saga? – rise villanamente Icelo.

    Mu, in ginocchio, si stupì di vedere le lande della dimensione innevata sparire.
    Ciuffi  d'erba verde trafissero ciascuna particella di ghiaccio. Il castano della terra, teneramente inaridito dalle dita dell'estate, sfavillò d’una mitezza profumata a asciutta.
    Comparvero alberi dalla fragranze arancioni e gialle di agrumi.
    Comparve un cielo dalle baldanze turchesi scacciatrici di fumi.
    Il blu  del mare, con i fiori delle onde, bagnò l’orizzonte e ogni falla di buie fronde.  
     

    Nuota il Giorno tra me te!
    Scotta il Giorno tra me e te!


    Non si ferma! Non atterra!
    Accende comunque il pianeta Terra!

     


    Dai colli , un po’ brulli e un po’ capelluti, arrivarono due bambini. Il primo poteva avere sei anni, il secondo nove. Il più piccolo possedeva una morbida capigliatura blu che gli copriva le orecchie, il più grandicello portava una scarmigliata chioma castano scuro.
    Ridevano e cantavano allegramente passandosi a vicenda una  palla arancione.  
     

    Est ed Ovest!
    Ovest ed Est!

    Passa il Sole a me che io lo passo a te!
    Porta il Sole a me che io lo porto a te!

     

    I ragazzini saltellarono giocondamente davanti a Saga che li squadrò  sgomento e angosciato. Icelo stava propinando una colorata spensieratezza ormai marcita e morta. 
     

    Est ed Ovest!
    Ovest ed Est!

    Un po’ di Sole per ciascuno
    e  non ci prenderà più  nessuno!


     

    Gemini si coprì gli occhi.
    Mu era atterrito da quella scena d’una amenità morbida, orrida e malefica. Tutta la gioia nostalgica si corrompeva nell’acredine  di remote promesse infrante.
     

    La luce va e viene
    ma ci vedremo sempre a mezzogiorno,
    per arrivare assieme in alto
    con un unico grande salto!

     


    - Quante volte avete cantato in questa maniera? – infierì  Icelo.

    I ragazzini continuavano, con calore,  a divertirsi.
    Il cavaliere della Terza Casa  continuava , di tenebra, a intorbidirsi.

    - Che peccato…- si baloccava l’Incubo scuotendo teatralmente la testa – è una sciagura che tu abbia posto fine a ciò.

    Il Saga bimbo lanciò il pallone ad Aiolos che lo afferrò incendiandosi.

    Il guerriero dell'Ariete si shoccò.

    Il piccolo Sagitter gridò di dolore, gettandosi a terra e  tentando di spegnersi le fiamme.
    L’amichetto, terrorizzato, scoppiò a piangere scappando via.

    Tutta la verdeggiante e azzurra estate prese ad ardere.
    Il mare mutò in lava. Il cielo assunse un bordò tumefazione. Il suolo si sporcò di carbone.

    Saga era rimasto impietrito, con la lingua prosciugata di lamenti, col cuore che ormai sviava da qualunque rotaia rilucente.

    Nel ricordo  gli occhi scuri di Aiolos. Il suo volto d’una beltà giovane e seriamente matura.
    Nel ricordo parole che nessun altro gli avrebbe mai più detto:

    “ Sei non ti senti bene, se vuoi dirmi un segreto, se non ne puoi più di ogni cosa… Io ci sarò. “

    Il giovane artigliò la rena  riarsa. Strinse gli occhi che  bruciavano.

    Saga, lotterò sempre al tuo fianco  ma tu abbi fiducia in te.  Guidati  con forza. Sono sicuro che sai  pilotare qualsiasi carro…”

    Non era vero nulla.
    Si era sbagliato. Sbagliato. Sbagliato irrimediabilmente.

    “ Saga, promettimi che se inciamperai e cadrai , sarai capace di rialzarti e brillare più di prima.”

    - I giuramenti sono come fiamme – osservò Icelo – scintillano così belli ma così spaventosi che alla fine si decide di spegnerli.

    Tutto il fuoco che avvampava l’arena circostante, s’estinse.
    Restò una volta notturna sviscerata di stelle : una carcassa d’animale privata di budella.
    La luna era un piatto digiuno abbandonato da commensali defunti:  brillava tediosa pari all’insegna d’un albergo sull’orlo della demolizione.

    - Non sei stato sempre tu il fuggitivo d’un patto, dico bene? – proseguì a graffiare il mostro – Un’altra amatissima persona ti ha inflitto questo…Una splendida creatura…

    Gemini si prese la testa tra le mani…
    Un’immagine sublime folgorò nel suo spirito.

    Una giovane donna…un bocciolo e uno sfregio che era ancora incapace d’estirpare….
     


    Saga aprì lentamente gli occhi.
    Tutto attorno era blu e argento notte.
    Le suppellettili e i mobili  proiettavano  ombre, eguali a  grafiti rupestri, sulle pareti della stanza.
    Respirò mollemente  l’odore del cuscino.  Si crogiolò nella morbidezza del letto: sotto il  petto, il  ventre, gli  arti,  giaceva il calore del sonno. Quel sonno che remiga, soave e arrossato,  dopo il rituale d’amore.
    Sollevò un po’ il capo: accanto a lui  lenzuola sfatte aleggianti dell'aroma di  membra delicate…
    Su una sedia, di fianco al giaciglio, una veste e una mantella che dormivano sgualcite nel loro tenero disordine.

    Il ragazzo si appoggiò sui gomiti mettendosi   supino.

    Davanti la finestra bianca della camera stava lei. Il suo più grande raggio.
    Lei…Calipso:  filiforme e acquea come una libellula;  regale e lievemente austera simile  alle cariatidi che sorreggono le logge  dei templi sacri.

    Era voltata di spalle, avvolta soltanto da un leggero panno chiaro.
    Lunare . Ineguagliabile.
    La sua   chioma di riccioli fitti , color verde pallido,  le celava il dorso e il fondoschiena. Con quella cascata di turbini  sottili pareva alta anche se in realtà non lo era.

    Saga adorava follemente quella fanciulla. Sarebbe stato in grado di descrivere , su  centinaia di fogli, le cromature del suo profumo, la sottigliezza diafana delle sue braccia, delle sue gambe, le discese delle sue spalle…No…forse non esisteva una penna capace di imprimere sulla carta tutte quelle meraviglie . L’inchiostro era indegno di riprodurre , con parole nere,   disegni di pastelli acquerellabili. 

    Ansioso di riabbracciarla di nuovo, si alzò dal letto coprendosi, con un telo, i fianchi e le cosce.

    L’amata  si voltò verso di lui. 

    - Saga…- chiese impensierita – già te ne vai?

    Il giovane le si avvicinò baciandola sulle labbra.

    - È  un po’  presto, non trovi? – mormorò  sorridendo.

    - Hai ragione…
     
    La ragazza fissò la vastità del mare che attendeva, con un russare bluastro,le prime schiariture dell'aurora.
    Fece volteggiare lo sguardo sui  pini marittimi che serenavano  taciti il cortile del suo alloggio. Accanto al loro sapore , rinvigorente come  menta,  immensi cespugli di rosmarino profumavano la terra e l’aria.

    Gemini rimirò il viso di Calipso: i contorni delle guance, un po’ lunghi, le si affusolavano verso il mento fine e morbido; il naso era proporzionato e dritto;  la bocca ,  rosa pesca, si mostrava leggermente spessa; gli occhi , di  un singolare marrone arancio, impreziosivano,  più di qualunque tiara,  una bellezza fresca come le foglie d’un sempreverde.
    Ella era l’alloro. L’alloro che fu Dafne amata da Apollo.

    - Cos’hai? 

    Si era accorto dell'incrinatura che le affliggeva lo sguardo.

    - Mi domandavo…- sospirò lei – per quanto andremo avanti così… Non sappiamo, praticamente, come si condivide il giorno. Un giorno normale. Alla luce del sole.

    - È vero…stiamo assieme quando viene il buio…guarda caso ci conoscemmo per la prima volta a notte inoltrata.

    La giovane rise mesta, abbracciandosi a lui.

    - Sei un cavaliere. Un servitore d’Atena.

    L’aveva detto con un tono di dolce accusa, di rassegnazione, di strana inquietudine.

    - Amore – sussurrò Saga baciandole il collo – vedrai che questo periodo  finirà e finalmente  staremo  tranquilli.

    Non  poteva rivelare che Sion gli aveva consegnato temporaneamente le redini del potere.
    Non poteva confessare che  era il Gran Sacerdote.
    Doveva attendere che quel poderoso e lancinante incarico si concludesse. Aveva mascherato tutto dietro  una grave e lunga missione. Una mezza verità. Seppur odiosa non era , almeno, una completa falsità .

    - S-staremo tranquilli? – bisbigliò la giovane speranzosa ma esitante.

    - Sì -  affermò egli accarezzandole i capelli – andremo a vivere insieme.

    Ella lo guardò attonita:

    - Saga…tu…tu…

    -  Nel  futuro vorrò averti sempre con me.

    La fanciulla fece tremare i suoi occhi. Da quei caldi specchi iniziò a sorgere qualche lacrima.

    - Calipso…ho sognato  innumerevoli volte di diventare tuo marito.

    Lei si lasciò irrorare il volto.
    Saga restò in bilico tra la gioia e la perplessità.
    Quella vibrante commozione risplendeva di felicità però…anche d’inquietante sofferenza.
    Un dolore dalle inspiegabili venature:  un albatro incapacitato di sbattere le proprie  ali poiché  incatenato  ad una misteriosa voragine. 

    - Qualcosa non va ? – domandò  Gemini preoccupato.

    - N-no…- obiettò ella sforzandosi di sorridere – s-sono…felice…

    Lo baciò con  una soavità e una passione che si sgretolarono.
    Il giovane, al contatto delle loro bocche, avvertì l’elisir della gaiezza evaporare in un bollore obliquo e violaceo.


     


    Sei anni.
    Sei anni in cui aveva creduto…con lei.
    Sei anni.
    Sei anni in cui era cresciuto…con lei.
    Durante un’ adolescenza quasi inesistente ,durante  una germogliazione costretta a nutrirsi di metallo  fuso,  Saga aveva conosciuto la speranza di una felicità. Aveva desiderato realizzarsi   al di fuori del ruolo di guerriero.  Vivere, anche in parte, da uomo normale. Quello sarebbe stato  il palazzo da abitare, respirare, vivere.
    Non avrebbe assolutamente  rinnegato Atena ma perlomeno Calipso lo avrebbe accompagnato nella sua esistenza ardimentosa.
    Cos’era accaduto, invece? Un’ennesima catastrofe.
    Quella fanciulla…gli aveva celato un infausto segreto. Un torvo obiettivo.
    Stentava ancora a capire. Non voleva ancora capire.
    Erano trascorsi tre anni da quel giorno terremotato. Le macerie della fiducia erano al suolo ma continuavano a fumare  calcinacci e polvere di collera, delusione, passione.

    “ Maledetta! Sei stata tutta la mia fiducia, la mia fede! Sei stata la luna sulla terra! Mi faccio pena…vorrei prendermi a ceffoni…ho consumato sei anni della mia vita volando sulle nuvole. La cosa patetica è che sono più stupido. Tu mi hai distrutto ma… perché continuo ad amarti peggio di prima?! “ 


    - Il cuore gioca tiri bassi, disgraziato cavaliere – disse Icelo con melliflua cattiveria – ahimè non puoi farci niente…Ti è capitato un destino tiranno  che  ha seminato la tua nascita in un terreno melmoso e  ripugnante.

    Saga lo squadrò con  cipiglio impaurito.
    Intese dove il mostro voleva andare a parare.

    - Rispondi , Saga…- lo incitò  il nemico – cosa rappresentano…Galen e Nausicaa?

    No. Quei nomi, no.
    Aveva tentato di rimuoverli in ogni modo. Cancellarli dagli annali della mente.
     
    - I miei genitori – esclamò Gemini – erano Damone di Lacoonte e Titania di Pentesilea!

    - Furono i tuoi genitori…adottivi -  precisò il demone sogghignando -  com’è che ti rifiuti di accettare Galen e Nausicaa? – proruppe in un riso perverso – dovresti ringraziare costoro per averti messo al mondo! Soprattutto tua madre che ebbe la forza di farti crescere nel  ventre!

    - Falla finita!

    Icelo continuava a ridere sgangherato e truculento.
    Mu si sentiva a pezzi per il guardiano della Terza Casa. Desiderava annientare l’Incubo con tutti i suoi colpi letali ma, nel salvare Camus, Milo ed Aldebaran, aveva disperso le proprie energie.

    - Mi pare – fece il Re delle Fobie – che già qualcun altro ti rivelò delle cose molto interessanti riguardo questa faccenda…

    Una frustata falciò l’animo di Saga. La macchia di una sagoma che gli era identica.
    Un doppio che aveva sempre tenuto nascosto.
    Kanon. Il gemello cresciuto con Galen. Il fratello che gli aveva serbato rancore  e un anelo striminzito d’affetto mai approfondito.

    Saga l’aveva odiato . Fu per colpa sua che successe quell’orrendo episodio al Santuario:  la morte e la damnatio memoriae di Aiolos.
    Saga l’aveva  rimpianto:  stesso sangue,  stesse fattezze,  stessi occhi. Kanon, tuttavia, era forse il più coerente tra loro.  Non aveva mai portato  l’elmo bifronte dell'armatura di Castore e Polluce.

    Il cavaliere ritornò, con la mente, a quel giorno di nove anni fa, quando rinchiuse il fratello nella spelonca-prigione di Capo Sounion …

     

    I cavalloni dell'Egeo fracassavano le proprie fronti sugli scogli.

    - Idiota! Liberami! Liberami!

    La fermentazione delle onde musicava una caotica e salina ballata per la disperazione di Kanon.

    - Devi affogare dietro quelle sbarre – disse glaciale e rancoroso Saga – è questa la fine che spetta ai traditori del Grande Tempio e a coloro che offendono Atena.

    - Traditore, io?! Perché? Tu cosa sei, invece?!

    - Dì’ quel che ti pare…le nostre strade si separeranno per sempre.

    - Sei un  pazzoide, Saga!  Per  questo  Aiolos è morto!

    Il fratello, scagliandosi contro le stanghe della cella, reagì furente:

    -  Dannato bastardo! Se non fossi arrivato al Grande Tempio non sarebbe accaduto niente di quel macello! Niente! Niente! La casa del Sagittario avrebbe ancora un custode!

    Kanon ribatté con  una smorfia  di scherno:
     
    - Scommetto che ,  se anche non ti avessi incontrato,  saresti stato perfettamente in grado di combinare qualcosa
    …Sì…perché sei  pazzo…

    Taci.

    - Sei  pazzo e io ho visto l’altra tua sporca metà. Il gemello maledetto sei tu.

    - Avrei dovuto farti fuori  prima.

    - Guardati, fratello!

    - Non chiamarmi “ fratello” . 

    - E  saresti uno dei cavalieri più stimati in assoluto? Come ha fatto il Sommo Sion ad affidarti il trono?!

    - Hai reso.

    Saga gli diede un pugno.
    Il prigioniero cadde sul suolo della gabbia sommerso dall’acqua.
    Si rialzò coi capelli colanti e dei rivoli   di sangue scialbi che gli scivolavano dalle narici e dalla bocca.   

    - Ah!Ah! Ah! Sai…forse non sei solo tu il gemello maledetto…lo siamo entrambi…siamo due miserabili…Galen, nostro padre, mi raccontò  tutto…

    Tacque. Stritolò le travi della prigione. Abbassò la testa.
    Saga si immerse nel suo silenzio.
    Non sapeva se desiderava udire o meno il seguito del discorso. Traballava tra paura riluttante e  lugubre curiosità.
    Alla fine il gemello sollevò lo sguardo: era lucido.
    Le labbra gli sussultavano leggermente.

    - Conosci il nome di nostra madre? – domandò con uno spago di voce.

    Saga, scuro in volto, rispose:

    - No.

    - Si chiamava Nausicaa.

    Il ragazzo, turbato,  spalancò lo sguardo.

    - Nausicaa della Lepre?! Quella sacerdotessa assassinata da…

    Kanon annuì stringendo i denti:

    - Sì…è la donna che quella merda di  nostro padre uccise quando nascemmo. Che porco…non sai quanto ho goduto nel vedere la sua testa staccarsi dal collo…

    Gemini s’accorse che  il fratello  lacrimava  sbiadito di gelo.

    - Dovevano farlo già crepare molti anni fa – diceva cercando di trattenere i singulti – p-perché…l-lui…ha ammazzato nostra madre…d- due volte…

    Saga si sentì strizzare le viscere.
    Si ammutolì,  con crescente sofferenza,  assieme al recluso.
    Le onde  piangevano  stoltamente invocando clemenza ai faraglioni .

    - G-Galen – riprese a raccontare faticosamente Kanon – Galen strappò la maschera a Nausicaa…

    Il cavaliere dei Gemelli si sentì subissare d’olio bollente. Si sentì pestato da una nausea più nera del catrame. Sperò  ardentemente di aver frainteso quell’allusione.

    - N-non vorrai dire…

    Kanon chiuse gli occhi, mordendosi il labbro inferiore.

    - Hai capito bene.

    Silenzio.

    Solo il mare che ringhiava, che s’uccideva contro le rocce senza trovare la morte.
    Era  ricevere una mannaia nelle interiora.
    Il cielo  parve comprimersi tra le mani di un boia.

    - Saga…anche tu dovresti stare qui con me…dentro questa prigione! Siamo maledetti! Maledetti!

    - No…no…

    Gemini  bruciava il rosso del sangue in corpo in un bianco d’ossa consunte.

    - Razza di imbecille! – urlò Kanon – siamo due bastardi! Due schifosissimi bastardi!

    - Muori! Muori!

    L’adolescente, con le lacrime che gli divoravano la gola e l’aria, fuggì.
    Fuggì lasciando annegare il suo doppio. La sua ombra. La sua gemente parte di verità che mai gli sarebbe divenuta complice.

     

    Un lampo.
    Cinque rasoi abbacinanti.

    Icelo infilzò il ventre di Saga.
    Le sue unghie trapassarono  l’armatura.
    Sul terreno sdrucito,  rivi di sangue.

    Il giovane boccheggiò con agonizzante stupore.

    Mu tentò di rimettersi in piedi ma ricadde subito.
    D’improvviso il cuore gli rallentò vorticosamente i battiti.
    I torrenti di linfa vitale parvero pietrificarsi.
    L’epidermide  diventò polare...
    Uno sguardo scarlatto, nello spirito, chiuse l’alma luce.

    M-Maestro Sion” sgocciolò il ragazzo n-non…vi…sen-to…più….”

    Tutto s’adombrò. Un propagarsi di puntini nerognoli che appiattì  i sensi.

    Saga afferrò il polso d’Icelo tentando , indarno, di liberarsi.

    - Sei vigliacco a tal punto?! – rincarò il demone – non vuoi conoscere la tua origine? Il tuo male?

    Lo sguardo di brace della Fobia invase quello della vittima con la laida sete  d’un’orda vandala.

    Il guerriero vide estendersi, nel cervello, la tela d’una visione…una figura femminile che camminava nelle ombre…

     


    La luna piena inargentava freddamente le foglioline sottili degli uliveti.
    Nausicaa, appena uscita da una piccola cappella votiva di Atena, calpestava l’ arazzo  ciottoloso di quel regno raggrinzito e ieratico.
    Era  la strada solitaria che attraversava per  recarsi dai genitori. Non temeva il buio e  il sinistro sussurrio che talune volte sciorinavano le fronde degli arbusti.
    Adorava la tranquillità che devolveva la notte, quando ogni cosa ammutoliva di sonno e non esistevano le parole effimere degli uomini.
    Camminava , ponderata, coi lisci capelli viola porpora che vacillavano  legati in una lunga coda.
    Era priva di armatura:  indossava  un’ampia camicia bianca legata in vita da una cintura marrone e dei pantaloni leggeri.
    Le sue caviglie e piedi  agili calzavano  calighe  scure. Il suo viso era coperto da una maschera  rosa marmo.
    Proseguiva imperturbabile  quando avvertì,  all’improvviso,  un cosmo. Un cosmo che conosceva molto bene. Un cosmo fonte di problemi e  dissapori.
      

    Si fermò avvertendo la rabbia bucarle il fegato.

    - Galen! Che vuoi?!

    Tra i tronchi degli ulivi emerse la figura alta e nerboruta del giovane uomo.
    Aveva ventisette anni. Sorrideva subdolo e rauco. I capelli ondulati, blu e morbidi, che cadevano oltre le spalle,  non gli stemperavano la sottigliezza spinosa e vile  del volto. I suoi lineamenti potevano apparire splendidi come quelli di un efebo ma gli occhi a mandorla allungati luccicavano rubicondi. Gli iridi  cobalto,  che sfumavano  nerastri,  possedevano la malizia della volpe e la crudeltà scannatrice del lupo.

    - Beh, Nausicaa? Già irritata? Mica ti voglio mangiare…

    - Hai intenzione di vomitarmi  altre stupide polemiche?! Sappi che mi hai scocciato abbastanza durante il giorno!

    - Ehi!Ehi! Datti una calmata!

    - Meriti di essere pestato come una bestia da soma  per tutte le schifezze che fai!

    - Dai, dolcezza…desideravo soltanto…chiarirti una cosa, giusto per mettere a posto la situazione, va bene?

    Rise in  modo spregevole.
    Nausicaa conosceva quel guerriero d’argento che , nonostante provenisse da una nobilissima famiglia, si comportava peggio di un filibustiere. Era potentissimo, dotato perfino di facoltà telecinetiche. Sfortunatamente si dilettava nel  mettere a repentaglio la vita dei  compagni durante gli addestramenti. La ragazza, ottenuto il comando  delle milizie alle quali lui apparteneva, aveva riportato l’ordine drasticamente.
     
     Galen  non glielo perdonava.

    Era un affronto essere al comando di una sacerdotessa guerriero ventenne, per giunta figlia di umili agricoltori.  Egli coltivava, inoltre,  una sconfinata passione per le donne. Aveva  corteggiato a lungo quella fanciulla  ma era stato respinto una moltitudine di volte.
    Anche questo non glielo perdonava.

    - Vattene a dormire o a sollazzarti con le tue amanti.

    Nausicaa gli diede le spalle.
    L’uomo le andò dietro.

    - Guarda  che ho bisogno di parlarti!

    - Io, no!

    La giovane si voltò di scatto tentando di scagliare un pugno ma fu bloccata.

    - Fai poco la gradassa, piccola pezzente!

    Venne  scaraventata contro il tronco di un albero con un colpo al ventre.
    Galen le si avvicinò  intimidatorio  schioccando le nocche delle  mani.

    - Ecco  quello che ti voglio dire, ragazzetta:  mi sono rotto le palle dei tuoi ordini!

    - Stai zitto!

    La guerriera gli si lanciò contro travolgendolo con una sfilza di calci, gomitate e manate.
    Il  cavaliere si difese efficacemente.

    - Vuoi  capire o no, che io sono Galen di Orione e tu Nausicaa della Lepre?!

    Con una terribile mossa di judo le fece uno sgambetto, l’arpionò per un avambraccio e una spalla, e la proiettò  per terra.

    - Vedi? Io sono il cacciatore e  tu un animaletto!

    - Vai all’inferno!

    Un ceffone  fece saltare in aria la maschera della ragazza.

    - Ah!ah!ah! Che bel faccino hai! Ti immaginavo meravigliosa  ma non fino a questo punto!

    Con mani tremanti Nausicaa si coprì il  viso raffinato e sconvolto. Dai suoi occhi verde scuro uscirono lacrime di  umiliazione e disfacimento.
    Le labbra rosso chiaro si schiusero mostrando i denti lucidi di singulto.
    Perché? Perché? Lei aveva sempre odiato inquinarsi d’astio. Solo Galen era stato in grado di vessarle l’animo.

    - Sei un bastardo! – esclamò  sfibrata  – sei un bastardo di merda!

    Orione la prese per la gola.

    - Portami rispetto, stronza.

    Nausicaa tentò di svincolarsi violentemente da quella tenaglia ma l’avversario,  con un riso spaventoso,  pronunciò uno dei suoi attacchi più biechi e sporchi:

    Carnis sopor!

    La sacerdotessa fu inondata da un’  atroce sonnolenza che le  si diramò nelle membra. I muscoli erano come preda di un’ondata di morfina…non s’irrigidirono ma divennero sordi ai comandi disperati della mente. Le corde vocali  vennero stropicciate da un pulviscolo silenziatore.

    - Rimani una donna…solo una donna…una preda appetitosa. È questa la realtà…

    Galen la costrinse a sdraiarsi supina.
    La leccò con  occhi colmi di repellente lussuria. Le palpò il seno, i fianchi, il pube e le cosce denudandola con malvagia irrisione.
    A mano, a mano che veniva razziata , la fanciulla non poté che mescere un pianto terreo, trucidato, lurido d’odio…
    Il predatore si svestì  il  corpo atletico  balenante di forza  crepante.

    - Vedrai, tesoro...imparerai ad amarmi e tacere.

    Prendendola per i capelli la baciò viscidamente in bocca…Lei non poteva  sputargli in faccia, morderlo o urlare.

    - Non dirai nulla…sei mia. Prova  a fiatare e ti ammazzerò coi tuoi genitori.
     

     

    Un getto di grida insanguinate irruppe nelle orecchie.
    Mu si destò dal breve sonno che gli aveva reciso la lucidità.

    Sarebbe stato meglio non svegliarsi.

    Icelo passava la lingua sui suoi artigli sporchi di rosso.
    Saga era riverso  prono, disgregato, in preda a delle crisi d’epilettica follia.
    Tremava vitreo, stillando lacrime dagli occhi dilatati e dalla bocca annaspante.
    La pelle era trasfigurata in un sotterraneo lividore di cripta.
    I capelli blu si sparpagliavano sul terreno come tristi fiumi senza foce, senza abbraccio d’oceano. 
       

     

    Il tibetano era nel panico più accecante e straziante.
    Il re dell'Incubo  gli sorrise assassino e trionfante:

    - Bene, Mu dell'Ariete…Sono una divinità di parola. Ti avevo promesso  una sorpresa e questa sorpresa ora l’avrai.

    Nell’attimo in cui avanzò verso l’adolescente, dei serpenti vegetali e di papaveri emersero dall’arena.
    Si gettarono sul corpo di Saga  avvolgendolo in un bozzolo soporifero.

    - Il tuo calvario termina qui. Raggiungerai il Sommo Sion tra le braccia catartiche del sonno sconfinato e magnanimo.

    Al suono di quella voce, alla spaventevole rivelazione di quel non ritorno, i polmoni di Mu s’intossicarono d’acuminati fendenti.

    Icelo si girò.

    In un tuonare di fumi uggiosi comparve Morfeo.
    Ornato da un elmo con un lungo pennacchio, coperto da una corazza dalle linee velenose di coleottero, il dio pareva un condottiero fabbricante di soppressioni.


    - Evitiamo  di perdere troppo tempo – sentenziò il maneggiatore del sonno -  ci occorre il sigillo che detiene il ragazzo.


    Mu restò basito: di quale sigillo si stava parlando?


    - Suvvia, fratello – replicò Icelo –  non posso sondare la resistenza di quest’essere?

    - Critichi tanto la puerilità di Fantaso, ma noto che anche tu sai gingillarti  quanto lui. Preferisci dilungare i tuoi sollazzamenti o adempiere pienamente alla missione che ci hanno affidato nostro padre e Thanatos?

    - Non oserei mai tacciarmi d’un tale disonore ma…mi concedi almeno di terminare la mia opera?

    - Non sei satollo dei cuori che ti hanno già offerto quegl’altri umani?

    - Questo è il grande ed eccelso finale, Morfeo. Credimi.


    Icelo versò nell’aria i fili d’un piccolo turbine che risplendette purpureo.
    Quando si dileguò, al suo posto comparve una fanciulla.
    Era tragicamente reale: né finzione, né sogno.
    Possedeva dei lunghi capelli bruno-rossicci, lo sguardo  miele sformato dal terrore, le esili membra tremanti.
    Con una  veste bianca da notte sembrava una vergine sacrificale. Aveva le mani, le braccia, le gambe e la bocca legate.
    Non s’ arrischiava a fiatare.
    Solo il pianto urlava precipitando dal viso.

    Mu sentì il cuore esplodergli in frantumi.

    - Leira!! 
     

     


    Note personali: ciao a tutti!! ^^ Sono stata di parola! ;) ecco il cap 12!!! Ce l’ho fatta!!
    Beh, non si è rivelato per nulla bello descrivere…la terribile e maledetta origine di Saga e Kanon. Io detesto narrare sadicamente questo genere di abusi. Non ho infatti indugiato sulla scena di violenza che subisce Nausicaa. Mi sono limitata a scrivere soltanto alcuni aspetti per far comprendere il dramma della situazione. Ribadisco, non provo alcun compiacimento nel raccontare  questo tipo di traumi. Mi auguro che il mio messaggio sia stato compreso entro tale ottica…
    Grazie a tutti i lettori che mi seguono!! ^^
    Un saluto!!

    A febbraio col cap 13! ( Icelo è tortura senza fine -.- è un peccato che non possa dire “ Amore senza fine” come nella canzone di Pino Daniele che so quanto Lady Dreamer lo adori XD XD)

     

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    Capitolo 24
    *** CAP 13 - amoris lex : il quinto punto cardinale ***


     

    “ Vedere il mondo in un granello di sabbia,
    il firmamento in un fiore di campo,
    l’infinito nel cavo di una mano
    e l’eternità in un’ora. “

    ( W. Blake )

     

     

     


    Il suolo fumido  brancolava come cotica carbonizzata.
    Nel cielo perdurava  la squamosa ecchimosi dell'Incubo.
    Striature grigiastre,  di gregge  fattezze,  azzimavano l’aria strabuzzata.

    - Allora, cavaliere ? E’ di tuo gradimento la sorpresa?

    Icelo, con riso grifagno, cinse la vita di Leira.
    Mu, genuflesso per terra,  serrò i denti…
    Quel mostro non era solo abile nel creare dimensioni fittizie ed inconsce: riusciva persino a rapire persone reali e renderle giocattoli delle sue nefaste manie.
    Le traiettorie della Fobia non conoscevano frontiere e dogane: scandagliavano mari e coste da  contrabbandieri. Avevano appoggi dappertutto in quanto non erano soggette  a decreti.
     
    - Sai, mi congratulo con te –  fece il diavolo -  hai un palato davvero raffinato…

    Eguale ad una salamandra, leccò  il viso della fanciulla.
    Il guerriero scattò in piedi rabbiosamente.

    - Non toccarla! Razza di bastardo!

    La stanchezza fisica lo costrinse  a inginocchiarsi di nuovo.

    - Oh! Il ponderato allievo di Sion si lascia inondare dall’ira! -   stuzzicò Icelo – quindi è vero che il segno dell'Ariete è costituito dal fuoco!

    La fanciulla, con la bocca imbavagliata, strillava soffocata.
    Si dimenava inutilmente tentando di proiettarsi verso Mu.

    - Stai buona, dolcezza! – la intimò il dio- hai così  fretta di congiungerti al tuo amato? Non vuoi  farmi divertire?

    Con ferina lascivia, l’ attrasse a sé .
    Mu, ribollendo di angoscia ed odio, si rizzò sulle gambe e avanzò barcollando.

    - Lasciala! – urlò – lasciala! Sudicio animale!

    - Cosa c’è? La tua fidanzata non ti ha ancora dato il fiorellino tra le cosce?

    L’adolescente volle disintegrare il demonio con lo stardust revolution ma non fu in grado di sprigionare una sufficiente quantità di energia…

    Maledizione! Maledizione! “ pensava furente “ Perché proprio adesso?! Perché?!

    - Ti offro una succulenta opportunità, ragazzino – espose  falsamente regale Icelo -  nasconderò la tua innamorata in un palazzo senza porte e senza scale. Ti concederò un’ora di tempo per trovarla e metterla al sicuro…Che ne dici?

    Mu fu costretto a  lustrarsi il senno.
    Non gli era mai successo di essere pervaso dalla violenza della collera…L’autocontrollo e la ragionevolezza  nutrivano sempre i giardini della sua essenza. Sebbene il panico e l’ansia lo maltrattassero continuamente, il Maestro Sion, con la meditazione e la disciplina, gli aveva fornito degli eccelsi strumenti di padronanza.
    Sta volta, nel giro di pochissimi minuti, non aveva capito più nulla.
    La disperazione e il rancore  gli avevano smontato  il cervello: il cuore aveva seguito esclusivamente l’amore e il terrore.

    Leira si trovava nelle grinfie di Icelo.
    In che modo egli avrebbe potuto dominarsi?

    Nessuno doveva strappargliela via.
    Nessun essere.
    Nessun dio.
    Lei era sua:  come l’azzurro apparteneva al Giorno , i coralli ai fondali marini e  le piume all’ali degli uccelli.

    Non poteva permettere quel sacrilegio.
    L’unica oscura soluzione sembrava, tuttavia, valutare le condizioni imposte dal Re delle Fobie…

    Mu, placandosi con impallidita tensione, rispose  grave:

    - Suppongo che rinchiuderai Leira in un’altra dimensione…

    - Precisamente - confermò il dio – ma stai tranquillo… Ti permetterò io  stesso di accedere.

    Il ragazzo si sconcertò.
    Era assurdo che l’Incubo  agisse magnanimamente. Covava  qualcos’altro…

    Morfeo, intanto, assisteva cinicamente alla scena.
    Conosceva il fratello e non si stupiva davanti le manifestazioni delle sue bassezze.
    Conosceva le fragilità degli uomini e non si stupiva davanti i nubifragi di anime sbranate.
    Tutto aderiva all’ordinario abaco del caos: ogni sfera,  che s’infilava in una stecchetta,  andava ad occupare il giusto posto nell’aritmetica del dolore.
    Gli umani erano tapini  ed adorabilmente mescolabili.

    - Stupito, Mu? – chiese Icelo giocherellando coi capelli di Leira – dovresti ringraziarmi per averti concesso, con clemenza,  almeno  un  punto di partenza.

    Il cavaliere lanciò un’occhiata feroce al nemico.
    Restò,però, fermo.
    Doveva mostrarsi un cauto timoniere.

    - D’ accordo, dannato demonio. Accetto la tua proposta…

    La ragazza chiuse gli occhi deglutendo.
    Morfeo si limitò a sollevare un sopracciglio  compassionevole e spregiativo.
    Icelo  ridacchiò  gaudente:

    - Molto bene, nobile paladino. Sappi che se fallirai  non uscirai più di qui e la tua bella mi farà gioire prima di finire a pezzi.

    L’adolescente strinse i pugni.
    Nonostante le gambe gli facessero male da morire, non osò piegarsi.
    Per nulla al mondo Leira meritava quel ripugnante patimento.
    Si sentì in colpa con aculeata  spietatezza .
    Gli sovvennero gli  incavati ammonimenti che pronunciavano, talora,  le anziane sacerdotesse del Santuario: per una donna amare un guerriero di Atena poteva rivelarsi  il peggiore dei  cataclismi.

    Mu si maledì con tutto sé stesso.
    Voleva piangere ma non doveva farlo.

    No. No. Doveva combattere. Doveva impedire qualunque distruzione.
     
    Guardò negli occhi la fanciulla: le attraversò le lacrime e la disperazione per giungere a baciarle la  mente, abbracciarla forte, versarle addosso i battiti del cuore per ripararla e renderla immune dagli orrori.

    “ Leira!  Credi in me! Credi in me! Perdonami per tutto questo…Ti porterò via di qui! “

    La ragazza non riuscì a sorridergli ma un intenso amore si districò dal rossore del pianto. Se solo fosse riuscita gli si sarebbe gettata tra le braccia per non partire più.
    Suoni  di crisalide e di sole le dettarono:

    Mu…non farti assalire! Non perdere! Ti amo…ti amo…”

    L’amuleto dell'Ariete prese ad infiammarsi.
    Camminò  con dolce foga sull’istmo che congiungeva  quei due  pensieri.

    Morfeo aggrottò la fronte diffidente.
    Studiò con ombrosa attenzione l’energia del manufatto…Quelle reazioni si esibivano fin troppo misteriose persino per una divinità come lui…

    - Diamo il via  all’ultima parte del gioco! – esclamò Icelo.

    Fece scomparire Leira in  chiazze aeriformi.
    Si dileguò, infine, assieme al fratello, disciogliendosi  come zucchero nell’acqua.

    Ciascun rumore si ammutinò.

    Per diversi secondi tutto si raggelò simile agli antri di un museo. 

    Il cielo vermiglio venne scanalato da una raggiera biancastra…
    Partiva fitta fitta  dal centro  per espandere i suoi arti e recare saluti.
    Saluti di lancette funeste ed ossidate…

    Mu vide che,  a quei segmenti,  se ne sovrapposero altri…
    Si srotolarono spigolosi ma circolari…

    Una ragnatela.
    Una gigantesca ragnatela ricamò la cupola come il lugubre centrino di un tavolo che mai più sarebbe stata imbandito per pranzi o cene…

    Un sibilo…Impercettibile…di flanella…

    Il cavaliere scorse un barlume.

    Dal nucleo della tela calò un filo…
    Si sdrucciolò rapidamente.
    Qualcosa di pesante era appeso all’estremità…
    Qualcosa con un addome e otto zampe.

    Un enorme ragno penzolò davanti al viso del ragazzo.
    Era una sacca stomachevole, rigonfia e sudaticcia. Poteva misurare un metro. Il suo molle esoscheletro aveva un colore violaceo ed era disseminato da tubicini di vene varicose.

    Mu indietreggiò vivamente disgustato.
    Non sapeva se paragonare quell’abominio ad una vescica virulenta o ad un rene deteriorato…Pulsava mucoso e affannoso come i bronchi di un vecchio malandato…Effondeva i bubbolii di una pignatta che cuoceva una mistura di fango e verdure guaste.

    Gli arti, infilzati al turgido corpo dell'aracnide, rivelavano una macilenza goffa e orripilante. Bluastri e rugosi si muovevano con lentezza implorante e minacciosa. Volevano aggrapparsi a pareti che non c’erano e  non potevano materializzarsi.

    Mu sentì la circolazione cagliarsi.
     La vista non digeriva  la testa del ragno foggiata da occhietti di bubboni neri. Gli archibugi  più rivoltanti erano, tuttavia,  le chele della bocca che sbavavano una sostanza verdognola di muffa liquefatta. 
     
    Il grande insetto si lasciò cadere a terra.
    Restò inclinato.
    Floscio.
    Sembrava un grasso crapulone che, ingozzatosi all’estremo,   non riusciva  ad abbandonare la tavola.

    Il tibetano attese nauseato.

    Sinistri scalpiccii risuonarono nel ventre della creatura.
    Erano simili a pietruzze che rotolavano dissennatamente sulla superficie d’un setaccio.
    Divennero più intensi. Stiparono i timpani.
    La loro acutezza diventò analoga a quella di trapani perforanti.

    Improvvisamente ogni trambusto s’interruppe.

    Il silenzio tonfò.

    Nessun moto.

    Il ragno permase  nella sua pingue paralisi.

    Mu si accorse di lievi fremiti…

    L’ animale prese a gorgogliare in modo strano…Le distese del dorso e della pancia emisero contrazioni.
    Miriadi di bollicine emersero sussultando fecciose: presto vi fu una popolazione di foruncoli gloglottanti.
    Quelle escrescenze formarono due vischiosi  rilievi  che aumentarono di volume.

    Il ragno scoppiò eguale ad  una cisti zeppa di sangue.
    Milioni di scarafaggi , rossastri e fognanti,  si riversarono dalle interiora sbrendolate.

    L’allievo di Sion gridò stralunato dalla  repulsione.
    Per poco non gli venne da rimettere.

    L’ondata delle blatte invase qualunque metro cubo di spazio.
    S’impastò come molle creta, ondeggiò farinosa, frusciò  squittii di zampette.
    Finì poi col seccarsi e immobilizzarsi.

    Il cavaliere dell'Ariete vide i gusci dei parassiti sbriciolarsi…
    Mutarono in polvere…
    Polvere di sabbia…

    Taciti tumulti di dune presero forma.
    Un deserto rosso tessé la dimensione.

     Un giallastro itterizia ammalò il cielo. 
    Al posto del sole comparve un grandissimo orologio bianco con lancette nere.

    Il braccio dei secondi  iniziò a ticchettare.

    Piantata all’orizzonte, quasi fosse un  arbusto d’  orto defunto, stava la sagoma di un palazzo.
     
    Era molto lontana ma Mu capì subito che si trattava della prigione che celava la sua ragazza.

    Espirò profondamente per tentare di sbrecciare i condotti dell'ossigeno…
    Era doloroso auscultare gli auleti  dell'angustia, le pronunce delle viscere insicure e spaventate.

    In quell’immane e rifulgente pelago non c’erano garanzie o  acquedotti dove colare pianto.

    Deserto, deserto, deserto…

    Solo quella fortezza solitaria.
    Solo quella favilla.

    Leira era lì dentro.
    Bisognava  muoversi.
     
    L’adolescente corrugò la fronte e s’addentò un labbro…
    Altri due uncini gli spellarono lo spirito già parecchio fustigato: Sion e Saga  imprigionati nella Morfia.

    In che modo liberarli?

    Il cavaliere gemette sfiancato.

    Mu…” si diceva “ cerca di riflettere…non è il momento di impazzire…devi trovare delle soluzioni…delle soluzioni…delle soluzioni! Fosse così semplice! Diamine! “

    Deserto, deserto, deserto…
    L’orologio fischiettava rasposo e mordace…

    “  Coraggio! Il tempo scorre! Devo andare da Leira! “

    Il ragazzo cominciò a correre.
    I femori, le tibie, i peroni gli dolevano mostruosamente.
    Pareva dovessero spaccarsi da un momento all’altro.
    I muscoli risuonavano d’acido lattico traboccante di piombo.

    Deserto, deserto, deserto…
    L’orologio fischiettava rasposo e mordace…

    “ Leira! Ti libererò! Ti libererò! Quest’incubo finirà! “

    Correva, correva, correva.
    Le membra gridavano come stessero compiendo manovre  anaerobiche.

    Lui, lacrimando sofferenza e  agitazione, si muoveva  follemente.

    Deserto, deserto, deserto…
    L’orologio fischiettava rasposo e mordace…

    Non…non capisco…come mai  sembra che io stia…fermo?! “

    Mu s’affrettava con terribile slancio ma l’orizzonte restava irrigidito.
    I piedi non colmavano alcuna distanza.
    Saltavano sullo stesso posto.

    “ Sto correndo! Correndo! Perché non mi muovo?! “

    Deserto, deserto, deserto…
    L’orologio fischiettava rasposo e mordace…

    Tutto restò invariato.

    “ Non posso fermarmi! No! No! “

    Il giovane  sprofondò nella sabbia.
    Restò intrappolato fino alle ginocchia. 
    Sgranò gli occhi affannato.
    Dimenò le gambe cercando di sbloccarsi.

    Inutile.

    Deserto, deserto, deserto…
    L’orologio fischiettava rasposo e mordace…

    Improvvisamente un ruggito detonò dal suolo.

    Le colline spoglie oscillarono violentemente.

    Uno spaventoso khamsin si sollevò.

    Mu si schermò il viso e gli occhi con le braccia.

    Il vento gli si lanciò contro  claustrofobico e similare ad un getto di cemento liquido.

    Durò un minuto interminabile.

    Quando s’appiattì   il ragazzo tossì abbassando gli avambracci.
    Le  narici furono invase da un odore orribile: un intruglio limoso di saliva, escrementi e  putredine…

    Mu aprì lentamente lo sguardo…

    Ad una ventina di metri di distanza si innalzava  una testa mastodontica…

    La sua bruttezza era incomparabile  a qualunque spettacolo di carneficina.
    L’apoteosi di ogni incubo.

    Quel volto era marrone rossastro come  dorsi di piattole infettate. Sembrava bagnato di acqua stagnante o urina acida. Gli zigomi spigolosi rilucevano lerci e vittoriosi in una saldezza ossuta.
    Nelle orbite non vi erano bulbi oculari ma due  ripugnanti teste che avevano incastrate, a loro volta , negli sguardi, altrettante facce  infauste.
    Persino la bocca di quell’essere era spalancata e ostentava una maschera cadaverica che possedeva come occhi un duo di teschi.
    Ad incorniciare il manufatto marcescente, alcuni capelli di vermi-serpenti che ondeggiavano sulle tempie come superstiti  del cranio calvo e unto di dissenteria.  

    Il cavaliere era talmente annientato da non aver la forza di urlare.
    Si trovava al cospetto della moltiplicazione del terrore.

    L’immonda faccia prese a propalare grida assordanti, colluttanti…grida di umani, di animali….un sabba irrazionale e massacratore.

    Mu  sentì i timpani, gli organi, le ossa comprimersi  al dissanguamento…

    Stava per interrarsi.

    Stava per morire.

    Nella  mente però una miriade di colori deflagrarono.
    Rapidi fotogrammi.
    Rapide catene di vita.

    L’aurato degli alveari morbidi, il lilla dei fiori neonati, il rosso del gladio solare, il verde cupo delle selve…
    Il bruno dei sonni sereni, il blu palpitante e gelido dell'Artico, l’azzurro lampeggiante dei pensieri estivi,  la tonalità smeraldino cerulea delle acque nelle grotte…

    Erano  colori d’ occhi.
    D’amore rilucente.

    Leira, Kiki, Sion, Saga…
    Aldebaran, Camus, Milo , Aiolia…

    Noo!

    Mu urlò con ogni decimetro di trachea . Con ogni bronchiolo polmonare.

    Il medaglione dell'Ariete si incendiò a dismisura.

    Eruttò lingue di fiamme che investirono la dimensione desertica.

    S’aprì una voragine.

    Il ragazzo precipitò al suo interno.
     

    Oscurità totale.
     

    Oscurità senza labbra, senza denti.

    Oscurità di oceani pianeggianti di nuvole e tepore.

    Mu si ritrovò disteso su una superficie liscia, delicata come filamenti di una penna di pavone.

    Era caduto eppure non aveva provato alcun dolore.

    Si alzò…

    Tenebre...

    Tenebre di olio…

    Nero. Nero. Nero.

    Ad un tratto dei frizzi.

    In quello spazio d’astrazione, contuso di vacuità e d’ anonimia, punteggiarono delle scintille. 
    Prima sembrarono le scaglie minuscole d’una torcia nascente…Aumentarono, poi,  le loro dimensioni allungandosi  come volessero sgranchirsi  le membra intorpidite da un grave sonno…
    S’ingrossarono piroettando con la prestanza di pattinatrici fluorescenti…Divennero sempre più imponenti, colossali, allargando i loro diametri…

    Mu si vide circondato da una dozzina di colonne di fiamma…
    I loro corpi rossi, gialli ed arancioni non contrastavano in modo infernale con l’oscurità che annacquava l’atmosfera…non elettrizzavano d’incubo, di terrore, di crollo.
    Tutti quei fuochi possedevano la consistenza succosa d’una polpa di frutto di bosco, brillavano della  deliziosa mollezza di un acrilico da tela. 
    Non emettevano profumi ma disperdevano , comunque, esalazioni di fantomatica pace…

    Il cavaliere dell'Ariete li ammirava affascinato e inquietato. Non provava una paura borchiata di lacrime e disperazione…Dentro gli stava fluendo una strana ansia : un’ansia celestiale, di attesa…
    Si sarebbe manifestato qualcosa…

    Qualcuno…

    Dal soffitto , d’incarnato moro, comparvero luccichii…
    Erano dorati. Freddi. Avevano  forme geometriche…
    Si mossero infantili e teneri come sonagliere, incostanti e fascinosi come orecchini che aspergono il viso di una donna sudanese.

     Vibrarono  sempre più veloci.

    Mu vide che erano lamine  triangolari.
    Formarono delle coppie simili a nobiluomini e dame  in procinto di danzare in un convivio.

    La moltitudine lucente si trasformò in uno stormo di ali che scandì un soave sfarfallio di motivetti aerei …
    Sciò giù, veloce,  per ingioiellare il vuoto centro lasciato dai pilastri incendiati.

    Era come assistere ad un assalto di colibrì in cerca di nettare floreale…

    Il tibetano contemplò,  stupefatto,  la danza di quelle alette che compose un vortice accecante…
    Un fuso d’arcolaio  srotolò fili dorati.

    Un’esplosione fumosa di zafferano, lasciò apparire una sagoma.

    Vi fu una nebbiolina brinata…
    Mu ridusse i propri occhi a fessure…
    La foschia si disciolse dolcemente...

    Distinse la figura slanciata di un uomo.

    Un uomo?

    Quell’essere era alquanto singolare.
    Avanzò con l’ incedere diafano e affusolato del violino o del flauto. Si mosse con la robusta leggiadria di un’acqua termale…Pareva stesse camminando su un vento di porcellana, pareva stesse attraversando  una spiaggia di  saporito cacao .
    Indossava una tunica dorata che respirava e viveva:  decorazioni  di linee bronzee e d’ebano ballavano ,come dragoni piumati,  disegnando cerchi, spirali, rettangoli…Che fossero una manifestazione di arte simbolista ed ermetica?
    La  trasparenza onirica e stellata dei tessuti lasciava intravedere pudicamente le membra nude e snelle dell'uomo.  Nessuna carnalità saturava la loro  fragranza albina e setosa. Non vi era che venustà perfetta e angelica.
    Impenetrabile , incalcolabile ed irreale Elisio.
    Mu restò balenato dalla beltà anormale di quel viso. La pelle era accesa di latte nuvoloso, le gote si inumidivano del rosa polverizzabile dei fiori di ciliegio. Il naso, leggermente lungo, era di platino vellutato. Le labbra sembravano pennellate di succo di mela.
    Gli occhi, grandi e a mandorla, cangiavano  riflessi come specchiere di caleidoscopio. Un  pacato vermiglio di tulipani s’irrorava dell'arancio granelloso del Sahara per poi impallidire di un dorato topazio e accecare con il giallo asprigno dei limoni.  Solo  due pupille foravano tali misture eguali a soli neri irremovibili dal loro sistema astrale.
    Orli  sfrangiati di ciglia argentate ghiacciavano gli iridi come fronde di betulle finlandesi.
    Nessun segmento di lanugine osava infettare gli archi frontali. Solo due macchie rosse: rubini annaffiati di sangue e  ciliegie maturate.

    Mu, sublimemente disorientato, non capiva se aveva dinanzi un serafino o un antichissimo cavaliere dell'Ariete…
    Incredibile. Quell’uomo sembrava un disegno talmente erano intense, sfumate e soprannaturali le sue fattezze.
    I capelli lunghissimi e lisci ondeggiavano pari ad alghe sottomarine. Forse erano addirittura liquidi…Il carminio dei loro fecondi barbagli   era costituito da chicchi fluidificati di melagrana.

    L’allievo di Sion credé di essere vittima di allucinazioni. In che modo poteva esistere una creatura dall’elevatezza così  impossibile?
    Non si riusciva a dare un’età a quell’individuo dalla grazia di una dea vergine e dalla forza di un roccioso e anziano filosofo.
    Era  molto alto. Possedeva la dolcezza inviolabile di una madre . Possedeva l’autorevolezza siderale di Apollo, del trionfante Horus,  dell' arcangelo Gabriele.
    Il collo e il viso lunghi  lasciavano trasparire il volume terreno e  trasfigurato di una maschera africana.
    Dallo sguardo sottile, placido ed imo  si disperdeva l’indorato mistero di Buddha.  

    Le colonne infuocate raschiarono, riverentemente,  le mielate corde vocali.
    Tutta la realtà  circostante si bendò di un silenzio albicocca.

    Calma.
    Calma.
    La calma di una visione di gabbiani. Di un  primo pomeriggio estivo condito di canti di cicale.

    Mu era soavemente atterrito da quella quiete.
    Prima l’orrore, adesso una sorprendente oasi di verzura e pace.

    Il misterioso uomo lasciò germogliare un sorriso profondo e accomodante.

    Il ragazzo, in soggezione, indugiò…prese poi coraggio.

    - Chi… siete?

    L’interpellato chiuse lentamente le palpebre   per poi riaprirle.

    - Io sono il custode di polveri remote e mai dissolte. Io sono uno spirito così forestiero della tua epoca da essere divenuto irreale mito. Io sono lo zero che ha dato principio all’inizio. 

    La sua voce carezzò l’animo come vino d’eucarestia : bronzea ed uguale ad un organo di cattedrale, tersa ed uguale alle Muse del Parnaso.
    Mu l’aveva afferrata in  modo concreto ma intangibile:  gli era parso profumasse di loto…

    - Voi…voi sareste– balbettò - il  Patriarca delle Fiamme Astrali?!

    - Sì o discepolo del Sommo Sion. Fui  l’artigiano che per primo, nelle divine e scomparse terre di Mu, forgiò le ottantotto armature dei cavalieri di Atena. Originai le stirpi dei riparatori delle loriche sacre…Divenni il capostipite dei guerrieri dell'Ariete… Il mio nome è Apeiron.

    Il santo titolo della Leggenda.
    La Leggenda che si smarriva oltre le colonne del Passato. Dei millenni della razionalità.
    L’adolescente si prostrò ai piedi  di quell’anima possente. L’emozione gli faceva tremare le braccia, le gambe, le sinapsi folgorate delle meningi.
    Stentava a credere  di trovarsi al cospetto di un defunto divenuto pari ad una divinità dell'Olimpo. Quel genio  codificò l’inizio. L’inizio delle ere di tutti i paladini della Parthenos.
    Il ragazzo si sentì precipitare  nell’indeterminatezza del Tempo.

    - Alzati, guardiano della Prima Casa – rise con sacerdotale compostezza Apeiron – non disperdiamo questa falda di surreali minuti che il Destino ci concede.

    Mu si levò in piedi.

    - N-non capisco…- disse spaesato – perché mi siete comparso? Perché proprio voi all’interno di una voragine del dio dell'Incubo?

    - Sei stato tu ad evocarmi.

    - Cosa?!

    - Sei riuscito ad  ardere al di là della materia dei sensi.

    - Ma…com’è possibile ? Non mi sembra di aver pronunciato intenzionalmente delle formule…o...di aver fatto qualcosa in modo consapevole…

    Apeiron socchiuse lo sguardo sorridendo più del Mezzodì e della Notte elevata.

    - Mu  della Tribù  Ten Ghosu, hai destato il frammento d’infinità dell'occhio dell'Ariete.

    Il cavaliere afferrò l’amuleto bronzeo che portava al collo.
    Non riuscì a ritmare alcuna sillaba.

    - Sì…- proseguì il Patriarca – dopo più di quaranta mila anni hai rasentato l’immensità che deposi nel sigillo che  plasmai e che tu ora rechi in mano.

    - Intendete dire che…il mio talismano…è opera vostra?!

    - Esattamente.

    Assurdo. Quel medaglione, che da secoli si trasmettevano nella sua famiglia, discendeva da Apeiron! Mu era ancora più scombussolato di prima. Aveva  sempre creduto di possedere un ciondolo apotropaico di valore affettivo  ma non certo un manufatto di potenza arcana!
    Neppure Sion e Hakurei avevano mai detenuto un simile oggetto nei loro clan…

    - Comprendo il tuo stupore – annuì lo spirito – nessuno si aspetta grandezza dalla semplice piccolezza…eppure hai mai pensato alla complessità di un atomo, la parte più minuscola di un elemento? Protoni e neutroni nel nucleo…Elettroni che segnano orbite di incessante moto…Questa è la Vita  costellata da una vertiginosa pluralità di piccolissimi laterizi. Da  materiali assai minuti dipendono i pilastri di un titanico tempio…Il tempio dell'Infinità. Nel creare l’Occhio dell'Ariete,  ho racchiuso un infinito in un briciolo di materia. Una materia che lo nutre.

    Mu si rigirava la collana tra le mani.

    - Voi dite che la Vita è Infinità…- ragionò serio – ma noi umani come possiamo considerarci infiniti se siamo soggetti all’effimera sostanza degli inganni, alla volubilità dei nostri caratteri, alla felicità che viene e che si dilegua?

    - L’esistenza non è soltanto quella che osservi qui sulla Terra ma anche quella che si perpetua nell’Invisibile.

    - Intendete che… l’unica via di pace è la Morte? La Morte che fa mutare in spiriti? Io…io non so…è davvero possibile credere nell’infinito anche in un Aldilà? Perché esistono anime che non trovano tregua e continuano ad agognare la Terra e la finitezza di cose che non possono più ottenere?  Prima si cerca l’immenso e dopo…ci si ripiega di nuovo su sé stessi?!

    - Le tue considerazioni sono tristemente perspicaci e non ho alcuna tesi per controbatterle…ciononostante…credi che sia impresa facile accettare di appartenere alla Totalità?

    Apeiron estinse per un attimo la voce.
    Contemplò il suo interlocutore.
    Riprese con fine fermezza:

    - Vedi,ognuno di noi è una particella dell'Assoluto e ognuno di noi custodisce in sé una piccola parte di Infinito…Purtroppo quest’essenza viene relegata nell’oblio e l’anima regredisce verso prospettive indigenti. Impiegai  anni per ghermire dentro di me quel corpuscolo d’infinito e collocarlo nel tuo amuleto per dare origine al tutto.

    Il cavaliere dell'Ariete schizzò un sorriso.

    - Secondo  Anassimandro di Mileto “ apeiron” era il primordio  illimitato e indeterminato che creò l’acqua, la terra, il fuoco e l’aria.

    Il Patriarca rise con cullante dolcezza.

    - E’ la verità. Uno dei primi filosofi dell'antica Grecia identificò il mio  nome con l’arché , il principio che generò i quattro elementi della natura. Non fui certo un ente divino ma dovetti  captare  l’Indeterminatezza per saggiare le leggi del mondo…sì…occorre saper vedere oltre gli occhi e la mente.

    - In che modo afferrare l’Indeterminatezza se è priva di contorni?

    - Non occorre prenderla tra le mani. Risiede già dentro di te.

    - Essa però… sfugge e suscita timore…. Come avete detto prima non è facile accettare di essere parte della Totalità...

    - La ragione di siffatta angustia è perché l’Indeterminatezza è neutra.

    Mu tacque interrogativo.
    Apeiron continuò:

    - L’Indeterminatezza è neutra come gli angeli che non hanno sesso. Non puoi conferirle una tinta inequivocabile in quanto è  permeabile ai passi di danza, ai moti tellurici,  alla fame, alla sazietà, all’umiltà, alla superbia…L’Indeterminatezza è il quinto punto cardinale di ciascun uomo.

    Il ragazzo rimase destabilizzato.
    Chiese con peritanza:

    - Il…il quinto punto cardinale?

    - Certo. Il punto che ti può spingere oltre il Nord, il Sud, l’Est, l’Ovest…che ti mostra l’Infinità a cui congiungerti…E’ il punto che ti può far involvere, tuttavia, nell’Infinità del buio violento. Nel buio che ti restringe,  riducendoti ad una larva incapace di illuminarsi di intelletto. Innumerevoli sono gli individui che calpestano la dignità della sensatezza oppure restano vittime del gioco delle sconfitte e delle turpitudini.

    - Allora…io…mi sono salvato da quella mostruosa visione di Icelo pensando…agli occhi di Leira…di mio fratello…del Maestro…di tutti i miei compagni…

    Apeiron dischiuse  le labbra in un elegante sorriso.

    - Hai scongiurato le lordure di distruzione ricordandoti  ciò che possiedi e ciò che soprattutto crei. Se ti affidi alle tue capacità di creazione non puoi che continuare ad erigere torri d’oro. E’ dolorosamente arduo tentare di allacciarsi ad un astro quando la tenebra imbratta e razzia  i tuoi sentieri. Il quinto punto cardinale deve essere centrifugo, Mu. Farti espandere, farti comprendere l’origine di qualunque tuo amore.

    L’adolescente aveva lo sguardo smussato di commozione.
    Il verde acqua nuotava frastornato attorno alle pupille.

    - Venerabile Apeiron…s-sarò in grado di salvare Leira, il mio Maestro e Saga?

    Lo spirito si allontanò dal giovane.
    Con un movimento di mano , floreale e candido come un ventaglio, disegnò un otto.
    L’otto…i due circoli dell'Infinità.

    - Non inabissarti nella conca  dell’Orrore,  allievo di Sion. Fissa  l’occhio dell'Ariete, fissa il sangue che ti irrora i canali delle carni e del cosmo.

    Apeiron s’ inchinò.
    Congiunse il pugno destro con il palmo scoperto della mano sinistra.
    L’emblema dell'equilibrio.
    L’osmosi del Sole e della Luna.

    - Ci rivedremo Grande Mu… l'Avvenire  non si disseta che alle sorgenti dell'Origine. L’Amore è  foglie, luci,mari…è  Infinito di mistero. E’ inarrestabile Creazione.

    L’otto luminoso si ingigantì travolgendo il tibetano.

    Non ci fu che bianco.
    Nudità nemica di capitelli barocchi.
    Nuvole battezzate d’eterna innocenza. 

     

     


    Note personali: ciao a tutti!! ^^ rieccomi dopo due mesi -.- scusate questo ritardo ma sono stata alle prese con due esami e con “ Venere dai tuoni di sangue” …
    Ci ho impiegato un po’ a scrivere questa prima parte del cap tredici: dalla lettura avrete chiaramente compreso che mi sono incentrata sul contrasto di immagini dell'inizio e della fine. Prima le due schifose creature che incarnano la paura e la violenza del dolore e dopo la surreale e paradisiaca figura di Apeiron… due istanti narrativi che devono scandire attimi e sensazioni differenti. Per l’aracnide grassoccio ho preso ispirazione da un disgustoso  episodio domestico raccontatomi da  una mia amica: suo padre vide, sulla parete della cantina di casa, un ragno esplodere in una miriade di formiche O.O sì…praticamente nel ventre dell'insettaccio ( non so come) si erano insediate delle formichine…puah!!! >.<  per  quanto riguarda la maschera sudicia ho attinto dal mio repertorio di libri d’arte:  questo spaventoso quadro di Dalì, “ Il volto della guerra”,  mi aveva così sconvolto che l’ho voluto inserire qui dentro XD XD era una perfetta immagine da incubo!!
    Spero, come al solito, che voi abbiate gradito questo capitolo ( comprese le immagini sgradite XD )
    L’ultima parte del tredici, assolutamente decisiva, dovrebbe essere postata prima della fine di questo mese ( se tutto fila bene, visto che mi sto preparando per un altro esame -.- )…

    Grazie a tutti i lettori!! ^^

    p.s. mi scuso con Sara992 per le idilliache immagini dell'inizio che è stata costretta a sorbirsi XD XD so quanto adora gli aracnidi!! XD

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    Capitolo 25
    *** CAP 13 - amoris lex: il profumo dei tuoi battitti ***


     

    Portami tu la pianta che conduce
    dove sorgono bionde trasparenze
    e vapora la vita quale essenza:
    portami il girasole impazzito di luce. “

    ( E. Montale )
     


     

     


    - Quello stupido di Mu! Cosa cacchio c’ha dentro le cervella?!

    Aldebaran  grugniva  come un toro esagitato  prima di una tragica corrida.
    Non ne voleva sapere mezza di sdraiarsi sul letto e rimettersi in sesto.
    I dottori avevano raccomandato massimo riposo  ma lui , da più di un quarto d’ora,   marciava avanti e indietro nella stanza in cui era stato ricoverato assieme agli altri  compagni.
    I suoi passi echeggiavano in tutto il reparto rianimazione. Nell'ospedale del Santuario parevano grandinare  percussioni di  bonghi, versi  di uno sciamano  che implorava pioggia sulla siccità dell'affanno.     

    - E’ una situazione di merda…- considerò scuro  Milo dal proprio giaciglio -  Mu, nel teletrasportarci,  avrà perso i tre quarti della sua energia…

    Il brasiliano si fermò davanti la finestra della camera.

    - Già – sbuffò– io l’ avevo detto a zucca-di- legname  che ero disposto donargli parte del mio cosmo ma niente! Niente! Ha fatto : “ E’ un mio rischio. Stanne fuori”e  ha  aggiunto: “ Non provare a interferire col mio potere” !! Che incazzo !! Giuro che quando tornerà  qui lo ridurrò in frappé di marmellata!!

    - Il guaio è che rimasto con Icelo – sospirò Camus indolenzito – l’aurea dell'Incubo non si è ancora dileguata dal Grande Tempio… Inoltre  non si sa che fine abbiano fatto Saga e il Sommo Sion…

    - Conta  nella lista dei casini  la collaborazione di Morfeo!- rincarò Aldebaran.

    - Esatto – soggiunse Scorpio – anche quello lì simpatico come un calcio nei coglioni…

    - Dovresti provare i suoi fiorellini alla morfina – riprese  il gigante – ti drogano per sempre in un mondo immobile!

    Aiolia, sollevando debolmente la testa dal cuscino, ansò rabbioso:

    - Che  i figli di Ipnos vadano a cagare sui rovi dell'Inferno! Quei fottuti stronzi!

    Tossì sudando tensione e  fatica …Dalla sua testa non erano ancora sbiadite le immagini orripilanti  del suicidio della madre e della tortura inferta da Aiolos. *  Avrebbe voluto frantumare con una mazza ferrata quegli altorilievi, quegli aborti artigianali della Fobia.
    Milo, che si trovava alla  destra del suo letto, allungò la mano posandogliela sul braccio:

    - Vedrai – lo rassicurò – avremo la nostra occasione! Faremo un culo esagonale alle divinità dei sogni!

    - Divinità – mormorò  cupo Aldebaran – sì…Divinità…Non trovate che ci sia un po’ di differenza tra noi e loro? Si muovono tra il Cielo e la Terra, tra la Vita e la Morte, creano e disfano dimensioni…Insomma…non siamo messi così bene…

    Tra i quattro adolescenti capitombolò il mutismo.
     Il bianco  della stanza  fiatava una lingua senza articoli e verbi. Un orologio,  quadrato al pari di un insipido contabile, segnava con inutile precisione le ventuno.
    Le lampade circolari del soffitto rimbambivano ogni sintomo d’ombra.

    Il cavaliere del Toro fece remeggiare fiocamente l’attenzione fuori le vetrate della finestra…
    Il suo sguardo era un maratoneta dai tendini usurati.
    Non riusciva a indossare la fascia dello strenuo agonista, dell'atleta che travolge gloriosamente il nastro delle vittorie e delle aspettative.
    Oltre le dodici case, stive senza derrate di certezza, oltre le rovine dell'Acropoli , sopramobili di stopposo polistirolo, vi era  il mare… Ormeggiava  l’Egeo   nastro adesivo incollato blandamente sul nereggiante  cartoncino della sera.
    Atene, intanto,  crepitava con gli edifici moderni. Le luci delle dimore somigliavano a lampadine natalizie cadute  dalle frasche di  un abete invecchiato. Così sciattamente vivaci e  insulsamente serene…

    Dalle sale dell'ospedale proveniva il liquefatto silenzio delle siringhe anestetizzanti…Circolava l’odore segaligno,  rosastro e citrico dell'alcool che candeggiava le superfici dei banconi.
    Talvolta il rumore rullante   delle  barelle mobili   pressava il tanfo sterilizzato dei pavimenti lindi e azzurrini.

    Camus si mise lentamente a sedere sul letto.
    Posò gli avambracci sulle ginocchia.
    I suoi occhi guardarono un punto indefinito della parete davanti : non erano trasmigrati in una cecità d’abbattimento.
    Un’immensa decisione s’era scarcerata da botole stantie.

    - Hai ragione,  Aldebaran.

    Il colosso inarcò  i sopraciglioni. 
    Aiolia, stupito,  si voltò a sinistra per fissare  il francese .
    Milo si puntellò sui gomiti allungando il collo: voleva accertarsi che il suo migliore amico avesse un’espressione credibile. Non era mai successo che  approvasse un’opinione del Toro…

    - Gli  dei hanno in pugno un’infinità di cose – espresse Acquarius –  manovrano gli  ingranaggi del nostro mondo e le dimensioni invisibili e sconosciute. Ci muoviamo nel loro schema esposti ad eventi che  ci accarezzano o  ci picchiano. La nostra personalità è un siero spaventosamente cangiante. Siamo deboli e  le nostre ossa  non sono di calcio ma di argilla malleabile.

    Si zittì per un istante.
    Guardò Aldebaran con insolubile serietà. Nessun’ aria altezzosa o provocatoria.

    - Sì…- proseguì – non saremo fatti di leghe metalliche però…possiamo rompere gli iceberg che ci intrappolano nelle  chiusure. Abbiamo una testa e un cuore. Le paure, purtroppo, compongono la nostra natura. Dobbiamo attraversarle. Crescere ad ogni occasione. Non arriveremo mai ad  un adempimento definitivo ma almeno in questo modo impareremo a brillare come gli dei. Rimarremo incompiuti perché non vogliamo conoscere nessuna fine.

    Sorrise blu d’acquamarina.
    Concluse:

    - Al…Milo…Aiolia…sono convinto che Mu sappia sfruttare le sue armi fino in fondo. È tutto calmo, gentile e ragionevole ma non credo  sia un guerriero inoffensivo e senza midollo.

    Il Toro sollevò il viso verso la  primizia volta  notturna.
    Le spille della costellazione dell'Ariete balenarono  più  del consueto .
    Sembravano  posa ceneri  di cristallo  nei quali s’annichilivano i fumi tossici della nicotina.

    - Accidenti a Mu…- ridacchiò rincuorato il brasiliano – è capoccione e inarrestabile come un montone…

    Aiolia prese a respirare  come un aprico cortile abbeverato di sole.
    Milo non sentì più il molesto lezzo dei barbiturici ospedalieri…Gli parve che un lieve zefiro gli portasse alle narici l’ aroma di un basilico neonato.

     

     
     I campi dimenavano chiacchiere arancioni e rosate di tramonto.
    Le piantine di riso si beavano nelle loro acque profumate di fertilità.
    Le canne di bambù tacevano in un raccoglimento di sulfurea e spensierata preghiera.

    Una piccola di sei anni raggiunse il gruppo di amichette che l’attendeva davanti le mura del villaggio. 

    - Niente? – domandò una delle bambine.

    Leira, arrossata e spettinata dalla corsa, scosse il capo.

    - No – rispose abbattuta – il mio laccetto si è perso.

    Era  un nastrino per capelli decorato con pietre lilla e bianche.
    Era un preziosissimo dono  della  madre.  

    - Abbiamo provato a cercare nell’erba e tra i cespugli – disse una compagna – non c’era.

    - Vai a capire  dove sarà caduto…- fece un’altra.

    Il sole ormai stava per tramontare. Bisognava rientrare  nelle dimore.
    Nell’attimo in cui  la mora bambina s’apprestava a ritirarsi tristemente udì:

    - Leira! Leira!

    Si voltò.
    Un bambino con la capigliatura lilla e due macchie sulla fronte s’avvicinava rapidamente.

    - Mu!

    - Leira…questo è tuo!

    Il piccolo  si fermò col fiatone.
    Le porse un cordoncino ornato con  minerali colorati.

    - Ma…Ma dove l’hai trovato?!

    - Era sotto quel pesco che sta vicino al fiume. L’ho visto mentre tornavo dal mio addestramento.

    La fanciullina  gli sorrise raggiante e deliziosamente buffa: le erano caduti i denti e due finestrelle lasciavano spifferare una nascente allegria.

    - Grazie! Grazie mille!

    Prese con affetto il regalo della mamma.
    Guardò gioiosamente Mu che si voltò  dalla parte opposta.

    - Ehi! Perché non giochi mai con noi? – gli chiese – quando sei al villaggio te ne stai sempre solo!

    Il bimbo si grattò impacciato la testolina. Spostò il peso da un piede all’altro.

    - Beh- incespicò – non so…se vuoi…

    - Certo!

    Mu s’irrigidì come uno stecco col  visino  irrimediabilmente imporporato.
    Le bimbe ridacchiarono.
    Leira  sorrise  con la vitalità di un’ape spruzzata di polline.
    Non le sarebbe sfuggito quell’ Icaro in miniatura dalle inesplicabili ali di cera e  nuvole.

    Due giorni dopo tornò a cercare le orme delle sue piume.

    Quel mattino era ancora tamponato di fresco… Potevano essere le nove o le  dieci...
    Il mezzogiorno non aveva ancora  riversato, come un bambinesco pirata, dobloni infuocati sulla tavola del Giorno.

    Leira  volle dirigersi verso la fine della stradina principale del villaggio.
    Lì vi era una bella ed umile  abitazione  affiancata da un’ampia bottega.
    Lì vi era quel bimbo…la curiosa creaturina con le macchiette sulla fronte...
    Chissà se tra i suoi capelli  si nascondeva qualche baco di seta addormentato o qualche timido uccellino...Un fascino similare   ad una placida e fresca  mollica di  pane permeava tale rebus di morbidezza.

    La bimba giunse davanti la casetta.
    Sul lato sinistro stava un cortiletto cinto da una staccionata di legno di noce.
    La porticina d’ingresso era aperta.
    Un alberello di ciliegio  regnava ,  senza prepotenza,  su UN  modesto tappeto di erbetta.
    Sotto le sue frasche, abbigliate da tondeggianti e acerbi frutti, stavano Mu e un tavolino di legno.

    Il bimbo, in ginocchio su un vecchio  sgabello, osservava un plastico.  In cima ad una collina , di cartone dipinto, dominava  un piccolo Partenone.  Attorno, un agglomerato di cubici edifici greci lo ossequiava pari ad un gruppo di  damigelle nuziali.
    Su un terreno pianeggiante un’ agorà di sassolini bianchi lampeggiava decisa e dolce.
    Una schiera di omarini armati le conferiva un’aurea di giocosa marzialità.

    - Posso entrare? – domandò a bruciapelo Leira .

    Mu cascò all’indietro dallo scanno.
    Rotolò per terra come un micetto ancora inesperto di acrobazie.

    - Scusa! – esclamò la bambina preoccupata – ti sei fatto male?

    Corse vicino all’albero.

    - Va tutto bene! Va tutto bene! – assicurò il ragazzino  rialzandosi – sono abituato a queste cadute.

    Leira sorrise.

    - Meno male! Hai fatto un volo!

    Posò gli occhi  sul  modellino che riproduceva l’Acropoli ateniese.

    - Che bello!- dichiarò curiosa - L’hai costruito tu? 

    - Beh, sì… anche il papà mi ha aiutato un po’ …

    - E’ la città in cui ti vai ad allenare? Come si chiama…? Alene? Asene?

    -   Atene.

    Mu rise divertito. L’interlocutrice assumeva espressioni comiche con i denti che le mancavano. Gli occhioni chiari e spalancati, poi,  parevano quelli di una civetta che scruta con ammirazione le braccia drappeggiate di una foresta.

    - Hai fatto pure gli omini armati?

    - Sì. Sì.

     La piccola  avvicinò il volto al plotone. Lo studiò attentamente... Restò colpita dalle  loriche muscolate, dagli elmi coi lunghi pennacchi, dagli schinieri, dalle pelte circolari…  

    - Strani! Che soldatini sono?

    - Guerrieri dell'antica Grecia. Si chiamano opliti.

    - Perché?

    - Perché il loro scudo tondo è l’oplon.

    - Ti piace giocare alla guerra?

    - Beh…con i miei uomini  è bello. Decidi come metterli e farli combattere. Batti i nemici quando vuoi.

    La bimba si fece seria e indagatrice.
    Si zittì per un istante come  fosse preoccupata. Nell’ambra d’infantilismo dei suoi occhi ondeggiò la  perspicace beltà di una ragazza matura.
    Mu si perse rapito in quella misteriosa ed inspiegabile  insenatura.

    - Ma…ti piace…lottare per davvero?- lo interrogò l’amichetta.

    Lui restò spiazzato  identico ad un carovaniere che abbia  perduto cammelli di mercanzie.
     
    - Non so… ho  paura…Io non voglio far male a nessuno. Il mio maestro dice che la guerra è orribile però…serve  per la pace.

    - Non capisco! Si fa pace per non litigare più!

    - Ci sono parecchi cattivi.

    - Come mai?

    - Sion mi ha spiegato che non è facile rimanere buoni.

    - Che strano…

    - Già…

    Spensero le  voci imbarazzati e colpevoli d’ingenuità.
    L’amara consapevolezza pareva li stesse esaminando senza però  tendere  agguati.
    Gli zufolii  delle cinciallegre puntellarono  di giallo e blu il silenzio.
     
    - Emh…senti…- borbogliò Mu.

    - Dimmi.

    - Ti…ti va…di stare qui?

    La bimba sprizzò spumante   da tutti i pori.
     
    - Sì! Sì! Hai costruito anche le fidanzate e le mogli?

    - Eh?

    - Le fidanzate e le mogli dei soldati! Ovvio!

    Il bimbo sgranò gli occhi  impanato di costernazione e tenero panico.

    - Oh…mi dispiace…non le ho fatte…

    - Non va bene ! Gli uomini  devono essere innamorati se no è brutto!

    - Dovremo fare…che  abbracciano e  baciano le donne?

    - Naturalmente !Si devono amare!Guarda, porto le mie bambole …ho anche i bimbi…così ci sono i figli! Non so però come si faccia un neonato.

    - Neanche io…vedo  soltanto che cresce nel pancione della mamma.

    - Secondo te in che maniera  ci finisce lì dentro?

    - Sarà  un regalo del papà…

     

     

    - Leira…Leira …

    Al tatto di quel mormorio, la fanciulla evase dal guscio del sonno.
    Precipitò lentamente, come carta trasparente, dal piano di una scrivania ridente.
    Si adagiò sul pavimento del risveglio.

    - Leira…

    Quel  tono  scivolava dolcemente  uguale ad un mantello di seta che sviene dal cuscino di un sofà.
    Liscio, genuino di morbidezza eppure per nulla glabro di profondità. Era vigoroso e pacato,  assimilabile alla navigata di una testuggine.

    - Come ti senti?

    Una mano calda coccolò la guancia della ragazza.
    Non era il tocco gretto, lascivio e omicida di Icelo…
    Niente da temere. Era la protezione insostituibile di un animo in grado solo di costruire.

    - Leira…

    Due labbra  mitigarono la fronte, risananti oli  di mandorla.
    L’adolescente aprì gli occhi.
    Nessun volto da Incubo. Non vi erano iridi da cobra e  gengive rosse ornate di sciabole taglienti.
    Fluttuavano due occhi di cammei acquatici, una  bocca fluente di sapone delicato.
    Una capigliatura leggera  e  vivida , dalle  rifrazioni lilla, guarniva quello splendido viso.

    - Mu!

    Leira sorrise incredula e felicissima.
    Il ragazzo, accovacciato sul pavimento, la sorreggeva per le spalle continuando ad accarezzarla.
    Nonostante  fosse  scarmigliato, sporco e con gli abiti rovinati  era sempre bellissimo.
     
    - Perdonami se sei finita qui…- sussurrò afflitto.

    Lei gli buttò le braccia attorno al collo.
    Lui l’avvolse con ardore  per non lasciarla più in balia degli uccelli stinfalidi dell'orrore.

    Si baciarono logorando la polvere che li aveva offuscati.
    Inumidirono ogni secchezza di pelle, ogni erto gelo di emottisi…
    Tuffarono le dita l’uno nella chioma dell'altra. Nel chiarore dei ciclamini, nell’emolliente  bruno dell'uva settembrina. 
    I loro respiri s’intrappolarono:  erano  infanti che s’abbracciavano  attorcigliati dalle trame di un  unico scialle.

    Leira godette nell’allacciarsi alle spalle larghe di Mu.
    Era una sirena che affiora dai marosi ombrosi per unirsi ad un invincibile  navarca.
    Mu si ubriacò nell’avvoltolare  il corpo affusolato di Leira.
    Peleo doveva essere stordito in quel modo nell’attimo in cui  s’avvinse a Teti  che abbandonò il tabernacolo salato dell'Egeo.

    I due adolescenti staccarono mollemente le labbra.
    La fanciulla nascose il viso nell’incavo del collo del cavaliere.

    - Come…Come sei riuscito…a trovarmi? – esalò.

    Il giovane le sfiorò l’orecchio bisbigliando:

    - Ho seguito il suono dei tuoi sogni…Ho di nuovo rivisto i nostri ricordi…come tutto è iniziato…

    Leira  si slegò da lui  meravigliata:

    - Incredibile…La tua mente riesce ad arrivare fino a questo punto?!

    - Non devi stupirti…  Quando si creano dei soli pensi sia facile annientarli? Io ti amo…ti amo perché mi dai ogni giorno degli inizi in cui credere, l’immaginazione di poter sempre costruire qualcosa superando il nero più odioso e infame. Mi sento immortale grazie ai tuoi battiti che mai hanno smesso di correre  nel mio cielo.

    - Non puoi essere un abitante della terra…Come sei fatto veramente? Che cos’hai dentro di te?

    - Ho carne, sangue, ossa e il pensiero disperato di vivere con te e di te.

    La ragazza si strinse intensamente a lui avvertendo  un senso di inadeguatezza e smarrimento. In che modo non provare passione e paura d’adorazione per quel giovane atipico? In che modo  non patire la piccolezza di disperdersi in un bacio d’immenso celeste?

    - Mu – disse lei lacrimando insicura – riesci ad amarmi così tanto anche se in confronto a te sono poco o niente? Non avrò mai la tua potenza…Non sarò mai grande quanto il tuo spirito…Mi sento insulsa…

    - Piantala!

    - Ma è vero! Sono paragonabile a te?! Ai tuoi poteri?!

    - Sciocca! Non credi di vedermi troppo perfetto?  Mi hai scambiato per una creatura onnipotente?!

    - Mu! Mi hai trovato!  Sei riuscito  a scoprire la trappola di quel mostro…di quell’orribile demone che,  non so come , mi ha portato via di casa… - rabbrividì shockata- s-stavo dormendo e…s-senza che mi rendessi conto di nulla, lui mi avrà presa e…e…quando ho aperto gli occhi…

    Il ricordo di Icelo l’ammutolì.
    Il cavaliere  le prese con dolcezza le guancie guardandola con accigliata apprensione.

    - Leira…quel verme ha osato farti qualcosa?

    - No…per fortuna no…Diceva che sarei stata la tua…sorpresa…Che schifo…Temevo che…mi avrebbe…che mi avrebbe…

    Il ragazzo l’attrasse a sé per depennarle  quel carcinoma di disgustato terrore.

    - Ti riporterò al sicuro- promise con fermezza – Icelo sarà pure il dio dell'incubo ma sbaglia di grosso a sottovalutare un umano.

    Aiutò la fanciulla ad alzarsi.
    Si drizzò in tutta  altezza analizzando la stanza grigio scuro del palazzo- prigione : come aveva detto il Re delle Fobie l’edificio non possedeva  né  porte, né  scale. *
    Mu era stato in grado di penetrare lì dentro grazie all’energia del suo medaglione. L’occhio dell'Ariete gli aveva infuso la potenza per il teletrasporto lasciandogli percepire anche la presenza di altre sale.
    Dentro quella capziosa struttura non vi era soltanto Leira. Si trovavano altri passaggi per giungere a Sion e Saga.    
    Pareva  una catena di tranelli, un metro di un maligno sarto che misurava centimetri di stoffe soffocanti.

    - L’unica via d’uscita è quella finestra – osservò la ragazza – potremmo scappare di là…

    Il cavaliere esaminò quel varco che s’apriva nella parete orientale della camera.
    Si avvicinò al davanzale squadrando gli stipiti rettangolari…
    Guardò fuori il deserto arancione e granuloso che aveva tessuto Icelo…Appeso all’ombrello del cielo giallastro  ticchettava l’enorme orologio-sole…Per una metà si era deformato in una smorfia squagliata…Erano già trascorsi trenta minuti…

    Mu strinse gli occhi…
    Doveva scovare un punto, sui parati di quella dimensione, che fosse sufficientemente debole…Gli strati dello spazio onirico erano piuttosto  disomogenei ed occorreva, dunque,   captare anche un solo molle sprazzo da infrangere.
    In tal modo sarebbe stato possibile attuare un rapidissimo teletrasporto…

    Il ragazzo lasciò infuocare l’Occhio dell'Ariete.
    Serrò lo sguardo terreno. Cominciò a far oscillare le membra del cosmo come fossero alianti argentei…
    Le tegole temporali dell'incubo erano uguali ad irrequieti cavalloni.
    Individuare una sola boa di debolezza si mostrava insidioso e disagevole…

    - Stupido marmocchio! Cosa credi di fare? Ti senti uno spirito divino?

    L’eco della voce grossa e sgraziata di Icelo rombò nelle mura della stanza.

    Mu si girò di scatto con volto alterato.
    Desiderava sfondare il cranio a quell’essere.
    Non riusciva a capire dove si stesse celando…Nessuna materializzazione…
    Leira gli si avvicinò impaurita…La prese tra le braccia…

    - Oh! Quanto siete adorabili! – li irrise l’Incubo -  ho proprio voglia di dedicarvi una bella cerimonia…una cerimonia un po’ speciale che vi travolgerà!

    - Icelo – disse Mu – il tuo regno  non ha fondamenta così solide…Sei un pessimo architetto. I materiali che hai scelto per costruirti il tuo bell’edificio sono di qualità schifosa. Non tarderò a compiere un’opera di demolizione per la tua spazzatura. 

    - Fai lo smargiasso, arietucolo da quattro soldi? Sei patetico…Vediamo come tu e la tua sposina  ve la spassate con questa pioggia di petali floreali!

    Sghignazzò estinguendo momentaneamente la propria aurea.

    Scivolò un silenzio truculento.

    L’orologio criccava formiche carnivore di minuti…

    Leira si addossò al petto del suo ragazzo.

    Calma tiranna e maleolente.
    Calma…Calma…sempre più scucente…

    Farfuglii…
    Risecchiti borbogli scalpicciarono da dentro la muratura delle pareti.
    Eliche pesanti sembravano ventilare di stropicciamenti la camera.
    Si udivano movimenti di alette…carte logorate che si strusciavano mummificate…

    I due giovani capirono che , sotto l’intonaco dei muri , colonie di esseri stavano per emergere…
    La ragazza avvertì  fastidiosi fremiti tirarle la pelle delle ossa. 
    Il guerriero aguzzò lo sguardo e i sensi restando fermo.

    I suoni s’infittirono dissennatamente. Erano gli stridori rancidi di una corsa di ratti che sfocia da una cloaca.
    Tutto si tappezzò di scuotimenti.

    Miriadi di buchi scoscesero le mura della stanza.
    Da quei fori sbrindellati spumarono fiumi di locuste.

    Leira strillò ripugnata chiudendo gli occhi.

    I corpi delle cavallette erano oblunghi, verdastri e costellati  di bitorzoli callosi. Possedevano la consistenza di ortaggi riarsi da un’afa rugosa. Erano induriti, polverosi, come bruttati  da una poltiglia di alghe ormai coagulata.
    Gli elementi più spaventosi dei loro ventri erano le lunghissime zampe posteriori  scheletriche e fregiate  di macchie marroni  . Potevano apparire ridicole:  ricordavano gli arti  di una cicogna convessi in modo innaturale, spezzati come bronconi d’albero. A sminuire l’ effetto comico  vi erano cime di granfie che dentellavano minacciosamente quelle stecche che sapevano di vitiligine.

    Mu si accovacciò al suolo stringendo  forte la propria amata.

    Gli insetti si scagliarono contro.
    Erano una granata di sputi fangosi ed emetici. I battiti arteriosi delle loro ali  coprivano di un fetore sudoriparo e  arenaceo l’ossigeno nella sala. 
    Velocità endemica.
    Velocità di esoscheletri piagati di fame.

    All’improvviso un bagliore di linfa solare.

    Un maremoto di fiamme massacrò quell’agglomerato pestilente.
    Un anello tagliente di bollore ruggente.
    Un cerchio rosseggiante esplose dal cosmo combattente di Mu.

    Le locuste cascarono carbonizzate ed  affini ad abietti escrementi di avvoltoi.

    Il cavaliere si distaccò delicatamente da Leira.
    Si rialzò con ella.

    Precipitò  la quiete.
    Una quiete bucherellata.
    Le pareti  della sala erano similari ad un derma sfigurato da cicatrici d’acne. Miriadi di fossette minavano ciascuna  crosta di muro.
    L’unica  finestra di quello spazio pareva un quadro surrealista penosamente in svendita.

    Mu sporse lo sguardo fuori, in direzione dell’orologio-sole che si disfaceva sempre di più…
    Lo studiò con occhi indecifrabili, con strana attenzione…

    Leira assisteva alla scena muta ed interrogativa.

    - Tra qualche minuto sarai fuori di qui – rivelò dopo alcuni istanti il discepolo di Sion – abbi ancora un po’ di pazienza.

    Si liberò i polsi dai bracciali di cuoio.
    Si tagliò le vene.

    - Mu! – esclamò impressionata la fanciulla – cosa vuoi…

    - Stai tranquilla…

    I torrenti porporini , che eruppero dagli avambracci del ragazzo,  mutarono in luce.
    Colate di fuochi lavici arancioni e rossi danzarono nell’aria come se la forza di gravità fosse venuta soavemente ad annullarsi.
    Erano nastri di ginnaste che poi divennero  bolle di fiamme.
    Tutte quelle sferette conflagrarono eguali ad ampolle di profumo che si sminuzzano cristalline.

    Leira restò esterrefatta nel più profondo.
    Dalla nube vaporosa di lucerne comparve un magnifico animale.
    Un ariete dal corpo di candida lana, dalle corna aurifere e con gli  arti di tonalità sabbiose.
    I suoi occhi palesavano un  rosso d’albore e diaspri.

    - Presto – la incitò il guerriero – sali.

    La ragazza, confusa, si lasciò  adagiare  sulla groppa  del montone.

    - Ma…ma  tu…

    L’adolescente la interruppe con un bacio.
    Accarezzandole i capelli  mormorò:

    - Questa creatura è un mio frammento di infinità…l’infinità che ti porterà via da quest’incubo. Tra pochi secondi tutto finirà.

    Un trapanamento  d’ali guastò i pistilli di quell’ istante di comunione.
    Una nuova  mandria di cavallette insozzate di secchezza stava per attaccare.
    Non sarebbero eruttate soltanto dai muri. Avrebbero devastato anche il pavimento.
    Sinistre vibrazioni seminarono  d’infausti ronzii il suolo.

    -  Che succederà?! – esclamò agitata Leira afferrando il mantello di Mu – resterai qui?!

    - Il Sommo Sion e un mio compagno sono in pericolo …Devo salvarli da questa dimensione.

    Ella  non poté controbattere.
    Soltanto un  pianto di vespaio le si attorcigliò in gola.

    - Leira…- le sorrise il cavaliere – tornerò da te…

    L’ariete iniziò a correre.
    La fanciulla gli si aggrappò al  collo.
    Voltò i propri occhi dorati per allacciare quelli verdi del suo guardiano.
    Voleva inabissarsi assieme a lui ma la velocità dell'animale la costrinse a girarsi in avanti e a chiudere lo sguardo…

    Udì l’orrendo galoppo dei voli delle locuste.

    Di Mu neppure un grido.

    Il giovane  fu travolto da getti verdastri e chiodati.
    Restò a lottare contro quella torma immonda pareggiabile ad un Eracle che sfidò le viscide teste dell'idra.

    Tuonò un breve e corposo brivido di caos.

    L’ariete, rompendo gli stipiti della finestrata,  decollò folgorante verso il cielo.

    Leira vide l’orologio-sole avvicinarsi vertiginosamente alla traiettoria.

    Un lampo detonatore.
    Note di tempo distrutte.

    Un tonfo silenziato.

    Secondi di immobilità.

    La ragazza aprì occhi…

    Era sul suo letto. Era nella sua stanza.
    Sopra il capo aveva il tetto di legno che la rassicurava vigoroso di paternità e spumoso  di maternità.
     
    Si alzò  a sedere con agitazione.
    Guardò febbrilmente le pareti calde della sua camera tappezzate di quadretti di stoffa decorati.
    Spostò l’attenzione al piccolo e vecchio orologio sul comodino. Erano le quattro di mattina.

    All’esterno della finestra della stanzetta, adornata con disegni di ghirlande floreali, si scorgevano le casette del villaggio.
    Gli abitanti del Sole di Giada si godevano le ultime stelle del sonno.

    Leira restò rintronata in un capogiro di spaesamento e nausea.

    La sua mano, posata sulle lenzuola,  toccò qualcosa… Un pezzetto di stoffa logora.
    Lo afferrò guardandolo meglio…

    Un lembo del mantello di Mu.

    Una tachicardia di lacrime prese a vessarla…
    Sfregi d’angoscia…
    Sfregi di non vedere mai più un arcangelo d’indaco sommergerla di gigli e vento.

    “ Sei un bugiardo, Mu! Un bugiardo! Non mi hai liberata dall’Incubo! Mi stai facendo morire…Dove finirai? Come finiremo? ”



     

     

    Note inerenti ai capitoli precedenti:

    “ Dalla sua testa non erano ancora sbiadite le immagini orripilanti  del suicidio della madre e della tortura inferta da Aiolos. *  “ : cap 10 – o’ phobon labyrinthos : le spire dell'incubo.

    Si drizzò in tutta  altezza analizzando la stanza grigio scuro del palazzo-prigione : come aveva detto il Re delle Fobie l’edificio non possedeva  né  porte, né  scale. * “ : cap 13- amoris lex: il quinto punto cardinale.
     

     


    Note personali: ciao a tutti!!! ^^ perdonate questo mio ritardo… ho avuto due esami da sostenere e ho un impegno da portare a termine…
    Ahimè, il capitolo 13 doveva concludersi con questa unica parte ma poiché le pagine sono diventate troppe e le scene sono aumentate sono stata costretta a riorganizzare il lavoro >.<  sono a buon punto con la conclusione di questo episodio che ha visto come nemici quel rompiballe di Icelo ( che voi amerete sicuramente XD )  e l’adorabile Morfeo ( spero vi sia risultato un picciolo più simpatico del fratello XD) …mamma mia!!! Questa battaglia è iniziata alla fine del capitolo 9!!! O.O Ah!ah!ah! Tra pochissimo finirà! Questa volta ve lo posso garantire ;)
    Io non prometto con certezza di aggiornare l’ultima parte la prossima settimana, però direi che entro la fine di aprile il cap 13 potrà essere completato definitivamente ( e verrà inserito nella lista dei capitoli più “ macignosi” di questa fan-fic!)
    Sempre in questa sezione metterò il 25 aprile ( o massimo il 26) una one-shot partecipante ad un contest ! Per questo motivo non ce la farò con L’occhio dell'Ariete -.-
    Spero tanto che stiate continuando ad apprezzare quest’avventura a cui mi dedico con sincera e appassionata dedizione ( sputando litri d’anima XD ) !!

    Grazie a tutti voi lettori!!! :D

    p.s non ha a che fare con la scrittura ma riguarda sempre Saint Seiya…vi lascio questo link:  http://libra-marig.deviantart.com/gallery/
    è la mia pagina su deviant art ^^  l’altra mia grande “ malattia”  è il disegno e ho realizzato e sto realizzando molte illustrazioni su Saint Seiya ( affianco ovviamente di originali)…se volete curiosare troverete i personaggi de L’occhio dell'ariete ^^ Dora, Eirene, Anita, Leira, Odette ecc…
    Ho messo anche diverse mie fan art qui sul forum di efp nella sezione galleria ( sono martina-12) ma sto aggiornando più frequentemente deviantart…

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    Capitolo 26
    *** CAP 14- gli ultimi rintocchi dell'uragano ***


     

    “La vita fugge, e non s’arresta un’ora
    e la morte vien dietro a gran giornate,
    e le cose presenti  e  le passate
    mi danno guerra, e le future ancora.”

    ( F. Petrarca )
     

     


    Si spianavano scie di scivolosa tormenta.
    Si spianavano le coltri concusse del vuoto.

    Mu stava piombando dentro foibe di risucchi.
    Il pavimento del palazzo- prigione di Icelo si era squagliato come gramolato da un allagamento d’ammoniaca.
    Gli sciami di cavallette, corpi di barracuda in decomposizione , seguitavano ad azzannare.

    Le braccia schermavano il viso.
    Gli occhi erano rinserrati.
    Le mandibole ammainavano  le ventilazioni stracciate della gola.
    I vestiti erano tarlati, squarciati , insudiciati…Parevano la pelle spiumata di un volatile trucidato.

    Tutti quegli insetti erano pruni di rifiuti. Il ragazzo era atterrato dal contatto dei loro addomi e zampe screpolati di desertica varicella . Sciabordavano , nelle orecchie,  onomatopee di trituramento come fossero un liquido fangoso in cui nuotavano ossa di rettili.

    Starlight extinction !! 

    Enormi falcate di luce dorata detonarono dalle mani del cavaliere.
    I contingenti di locuste si polverizzarono pari a pergamene deteriorate.
    Briciole verdastre sfumarono d’erba infausta lo spazio vuoto.
    L’ultima salivazione  di detriti…

    Restava il precipizio…
    Restavano pareti di lavagna su cui erano incise trame di quadrati…Erano simili a fogli geometrici che recavano tabelle ignude  di calcoli e parole.
    Nessun numero, istogramma o formula.

    Mutismo.
    Alligatore . Castigatore. Baciatore.

    Mu comprese che stava per immergersi nella Morfia;  un ovaio sterile ; un endometrio purgato di calore, sapore, areazione…
    Una linea di fumo pallido comparve  tra quella mura di nera metafisica…
    Pareva il gemito di ibernazione che sguscia da una cella frigorifera.

    La gravità attrasse con maggior impeto.
    L’allievo di Sion chiuse lo sguardo e strinse i denti.

    Il peso del suo corpo sibilava nella vacuità fendendola simile ad una scimitarra.

    Frenò di colpo.

    Scoperchiò gli iridi.

    Stava fluttuando su una sconfinata distesa marmorea stellata da rubini di papaveri.

    Vi erano colonne doriche, ioniche e corinzie che si ergevano dritte o reclinate. Fuoriuscivano dalla pavimentazione  leucemica  somiglianti a omeri e tibie osteoporotici. 

    Mu si adagiò al suolo.
    Continuò a studiare quell’esposizione di pietre funeree…

    Dei piedistalli, disposti disordinatamente, decoravano di un beltà spettrale la dimensione dormiente. Statue di Achille, Ettore, Aiace , Agamennone torreggiavano imponenti ed impotenti di reale gloria. Le loro membra , muscolose di splendore policleteo,   erano testimonianze futili e depresse di poemi ormai incantabili.
    Busti di Leonida, Temistocle, Pericle , Filippo, Alessandro non pronunciavano alcun incoraggiamento a falangi di fanti e cavalieri.

    Pulsavano , sparpagliati come pastori nomadi, enormi archi a tutto sesto: portali in cui erano sigillate,  nel  sogno perpetuo, le menti di sovrani e strateghi.
    Ogni anima  era avvolta all’interno di sudari arborei, sindoni di liane d’oppio custodite in mastabe deflorate di ceri  commemorativi.

    In quell’immensità di  sagrestie reclinate,  Mu colse dei  fragili palpiti.

    Uno spirito pareva non fosse totalmente addormentato.
    Scuoteva guaiti di smunto ferro, pari ad un triangolo picchiettato da una bacchetta arrugginita.

    L’adolescente cominciò a correre voltandosi in tutte le direzioni.
    Le lapidi volteggiavano sopra i  papaveri come colli di giraffe che si protendono verso foglie d’inesistente  luce…Pilastri, sculture, elmi, sguardi socratici…Silenzio…

    Alla fine,  un singolare arco di granito grigio.
    Capillari violacei e dilatati ne agghindavano la superficie  somiglianti a saette che venano di lacrime elettriche un cielo di nottambuli rovesci.
    Tra le  colonne quadrate  era disteso, su un altare, un giovane dai capelli blu con l’armatura dorata.
    Il corpo alto e possente era imprigionato da  tentacoli vegetali. 

    Saga non aveva ancora sigillato le porte del tempio della coscienza.

    Il tibetano  restò, tuttavia,  sgomento.
     
    Innanzi a quel monumento di moritura maestosità stava seduto un secondo uomo.
    Era addossato scompostamente al pilastro di sinistra…
    Aveva le gambe divaricate, un braccio posato su un ginocchio e una mano che stringeva il collo d’una triste bottiglia.
    La testa ciondolava in avanti e la lunga e folta capellatura grigia gli occultava il viso. Era vestito solo di sbiaditi pantaloni  blu e i suoi piedi calzavano  calighe di cuoio sciupato. 

    Mu non capiva se si trattava di un anziano e depresso anacoreta o di un giovane consunto prematuramente.
    Si avvicinò…
    Non ebbe più dubbi. 
    Una caustica mestizia  lo afferrò…

    Si trovava davanti un ragazzo, un ventenne. Era piuttosto alto e  dotato di un fisico scultoreo imbrunito da polveri di zolle e pietra. La sua bellezza sembrava quella di una statua trascurata da un restauratore o dimenticata da un antiquariato.
    I muscoli non folgoravano maestria atletica : restavano impacchettati in un alone d’asmatica e repressa rabbia.
    I capelli  mostravano  uno strano e  corposo inaridimento: fili grigio scuro e grigio chiarissimo si alternavano in un’ orditura di carbonizzata borea.

    - Vattene…- biascicò catarroso il giovane.

    Mu non si mosse.
    Un brivido lo percorse nei tendini e nella spina dorsale…

    Il misterioso uomo sollevò il capo. Il  volto era leggermente allungato, la pelle si svelava  infoscata  da un astio ferrigno, gli zigomi e il bel naso disperdevano un’eleganza contraffatta e inacetita … Cateratte  di sangue contaminavano gli iridi verde scuro in un biforcuto bagliore assassino.   

    Il cavaliere dell’Ariete si raggelò.
    Impossibile.
    Quel ragazzo non poteva essere il custode della Terza Casa.

    Non poteva essere Saga.
    Gli somigliava tanto…gli somigliava troppo…

    “ Non ci credo! rifletteva Mu Gemini giace sotto l’arco! Lui chi sarebbe?! Ha un cosmo identico a Saga…però…è spaventosamente denso di nero…No…è una copia? È un incantesimo?”

    Venne divorato dallo sguardo del truce figuro...

    “ Non mi sembra per nulla una magia di Icelo o Morfeo…lo sento reale…però…anche surreale…non capisco…ha un’aurea concreta e sfuggente…”

    - Allora?! – insisté con sfatta irritazione l’interlocutore -  Te ne vai?! Qui non c’è nulla da guardare!

    La sua smorfia aggressiva mostrò file di denti  bianchi e lucidi di negatività.
    Mu resistette nella sua immobilità d’ansia e stupore.
    Gli occhi verde acqua non esitarono né a comprimersi né a virare…

    - Sei sordo?! – esclamò l’uomo – Ho detto di andartene!! Qui non c’è nulla da guardare…Nulla da fare…
     
    Lasciò  salire la cerniera del silenzio…
    Reclinò di nuovo il cranio all’ingiù  come una lugubre marionetta…
    L’allievo di Sion corrugò la fronte con amara e pungente curiosità.

    - Tu…- chiese vibrando leggermente – tu…sei Saga di Gemini?

    Il guerriero ingrigito  alzò brutalmente la testa.
    Dilatò gli occhi all’inverosimile uguale ad un posseduto.
    Scattò in piedi con morbosa agitazione.

    Guardò Mu iniziando a ringhiare  dispnea.
    Seguitò a tacere e deglutire.

    Alla fine,  sorridendo nevrastenico,  rispose:

    - Sì…Mi hai trovato…Sono Saga…Saga! Saga!

    Con gesto omicida fracassò la bottiglia per terra.
    Il tibetano indietreggiò.
    Guardò il vino sbranato e i cocci di vetri come fossero pezzi umani brutalizzati.

    - Non…non capisco…- balbettò confuso – come puoi essere…Saga?!

    Il nefasto soggetto avanzò con minacciosa ed appesantita lentezza: 

    - Perché ti meravigli? Sono un miserabile…Un miserabile bastardo come voi altri…Siamo servi delle stelle! Schiavi in belle armature pronti ad ammazzarci e ammazzare!

    Rise con triste scelleratezza.

    - Sai qual è la cosa che mi distingue ?  Sono smembrato…Appartengo a due mondi ma rimango un forestiero in entrambi…come fossi una bestia di nullità…Seguo una logica insensata perché son frutto di un abominio * ….Sono maledetto…

    Mu non sapeva cosa obiettare.
    Era atterrito da quell’essere, quel doppio che il Gemini dalla capigliatura d’oceano non lasciava parlare…
    Che significato voleva assumere tale sacerdote  apocrifo?
    Era  soltanto una proiezione soggettiva ? Uno spettro che incarnava il terrore di precipitare nella violenza? Era veramente una parte di  psiche ascosa?
    L’allievo di Sion avvertiva un certo spavento nell’appoggiare la seconda tesi…Al Santuario si encomiavano le virtù di Gemini…Possibile  esistesse qualcos’altro?
    Niente era escludere e l’oscurità celata si rivelava un orizzonte probabile…

    - Saga – disse il tibetano cercando di imbrigliare la situazione -  credo che chiunque si senta forestiero davanti all’imprevedibilità della sorte…Non conosciamo bene la nostra dimensione e neppure altri ed invisibili mondi…Vaghiamo sia nella luce che nell’ ombra senza capire a fondo  chi sia l’una e chi sia l’altra…Dobbiamo però continuare a cercare, a riflettere,  imparare a sentire e…

    - Meravigliose le tue parole! – sbottò acidamente l’altro – come puoi dire questo quando ami?! Eh?! Ci hai pensato?!

    - Certo…L’amore è fonte di creazione…E’ una strada che fa comprendere una moltitudine di cose…

    - Sì. E’ una strada che ti fa comprendere quanto la felicità non esista! Quanto tutto faccia parte del nero assoluto! L’amore è un demone! E’ un demone! Ami, giusto?! Te lo leggo negli occhi! Hai amato i tuoi genitori e ti sono stati tolti. Ami tuo fratello e  lo fai piangere perché sai bene che il futuro potrebbe ucciderti. Ami i tuoi amici per imparare a suicidarti con loro. Ami una donna…uno dei più grandi guai che  possa capitare….

    Mu s’infilzò nel silenzio.
    Saga cambiò espressione...Il suo buio si fece inaspettatamente dolce…Dolce,cedevole e più letale…

    - Sarà  bellissima, vero ? – domandò – sogni di alzarti in volo con lei…Pensi che quando ci farai l’amore otterrai la perfezione…Conquisterai il potere ineguagliabile di far diventare la carne spirito e lo spirito carne…La gioia non è che un’adorabile faccia del dolore…Le farai male, Mu…Nell’attimo in cui avrai la sua verginità le procurerai sofferenza…La invaderai come stai facendo adesso col cuore…

    Il cavaliere dell’Ariete si sentì schiacciato e con le vertebre slegate.
    Pensò nitidamente a Leira…Si vide devastato dalla finitezza.
    Chiuse  le mandibole.
    La realtà gli appariva perfida ed assurda. Amava follemente quella fanciulla; desiderava donarle qualunque realizzazione, qualunque piacere. Cosa stava facendo, invece? Causava patimenti e patimenti…Scatenava in lei l’angoscia e  quando un giorno  si sarebbero congiunti in un letto le avrebbe dato  dolore….Lui che l’amava oltre l’anima! Lui!  

    - Afrodite è la dea più odiosa dell'Olimpo – sentenziò Saga-  È un’amante golosa e dispotica. Si unisce all’ebbrezza di Dioniso, alla raffinata mente di Apollo, alla violenza di Ares, alla tenebra claustrofobica di Thanatos, alla crudeltà del Fato… È una dannata usuraia… Ti dona una breve illusione per poi pretendere tutto il tuo sangue…

    Mu afferrò l’Occhio dell'Ariete.
    Tastò l’ignifero bronzo della superficie…Gli parve di sentire le scintille di Apeiron, quell’esedra su cui s’adagiavano trasparenze di vedute…

    - Dici il vero – ammise – i nidi del dolore sono innumerevoli e l’Amore li conosce bene…E’ grazie a tutto questo però che apprendiamo  a camminare e a correre…Amiamo e ci struggiamo…Amiamo per poter vedere ancora meglio il mondo, per costruire al di là di ogni barriera. La sofferenza è un duro prezzo ma la si  paga volentieri se si guarda sempre l’alba…

     Saga  venne disarcionato.
    Si zittì con le labbra dischiuse ed amarognole…
    L’apprendista di Sion  gli trapassò gli occhi.
    Aggiunse  con indescrivibile afflizione: 

    - Hai …hai amato tanto, vero? Ami ancora…magari con più devastazione di prima…

    Il Gemini cinereo  serrò le palpebre.
    Strinse i pugni.
    Tremò come un suolo vulcanico.
    Improvvisamente dei rigagnoli gli scivolarono giù dalle ciglia appuntite.
    Non erano lacrime traslucide.
    Erano code di sangue. Sembravano fregi di un guerriero tribale conscio di perdere una battaglia prima ancora di iniziarla.

    - Mi sono stufato di credere – cominciò a singhiozzare l’uomo- ne ho avuto abbastanza…Non ho più voglia di proseguire…E’ una disgrazia sperare…E’ tempo che ti uccide e basta…Ti uccide…

    Si massaggiava nervosamente il viso imbrattandosi di rosso…

    - Sarebbe meglio scordare…scordare…- vaneggiava rauco – non si può fare purtroppo…No…No…Bisogna restare fermi…Rincretinirsi  di sogni morti…senza ieri, senza oggi, senza domani…Quando non si può ottenere nulla è meglio…

    Mu lo guardò addolorato:

    - E’ questa la tua prospettiva? Diventare cieco? Lasciarti affogare?! Cadere in un infinito di oscurità per paura di cercare un infinito di luce?!

    Saga esplose in un pianto di risa psicotiche e disperate.
    Si chinò per prendere uno dei frammenti acuminati  della bottiglia.

    - Credi ancora nella luce, Mu? – esclamò  canzonatorio -  l’infinità è vuoto. Vuoto.

    Con gesto fulmineo si sgozzò.
    Il tibetano assistette impotente all’esecuzione.
    Il giovane,  grondando catene di sangue, si accasciò al suolo.
    Si dileguò in una nube scura…

    Si infiltrò nel corpo del Saga dormiente.

    Mu, evitando di lasciarsi stordire dallo shock, si precipitò sotto l’arco.

    Gemini giaceva supino avvolto dalle lingue dei papaveri soporiferi…
    Scuoteva mollemente il capo…Trasudava un pallore  di pacifica e defunta sottomissione…
    Il suo sguardo era completamente sigillato…

    - Saga!  Saga! Svegliati!

    Nessun guizzo.
    L’adolescente prese a strappare e distruggere i fiori di Morfeo.
    Ogni febbrile sforzo fu vano: i vegetali si ricostituirono più robusti di prima.

    - Padre…madre…- sussurrò Gemini.

    Il discepolo dell'Ariete corrugò la fronte…

    La Morfia incatenava i prigionieri con infide ed amene costruzioni: riponeva su una falsa scacchiera pedine di affetti immensi e preziosi….Faceva vivere in quel modo la vittima attirandola in un’eterna gola di eutanasia.

    - Aiolos…- continuava a farfugliare Saga- Calipso…

    Mu riuscì a frantumare alcune liane di piante, infilò un braccio sotto le spalle del guerriero e gli mise l’altro dietro le ginocchia…
    Doveva  incendiare l’occhio dell'Ariete.
    Elevò il proprio cosmo spargendo fontane di fuoco.
    Scie di giallo, arancione e rosso presero a sbocconcellare le arterie verdi dei papaveri…
     
    - No..no…- gemette Saga.

    Le piante sembrarono  rinvigorirsi.
    Il tibetano provò una fatica immane a sollevare il compagno. Le edere tornarono  ad attorcigliarlo.

    - Gemini…ti prego! – lo implorò – è una trappola! È una menzogna!

    - No…no…

    - Gemini!

    Mu dilatò ulteriormente il proprio spirito.
    Propagò le fiamme con maggiore violenza.
    Incendiò  i vegetali comatosi.
    Con sforzo sovrumano, che per poco non gli lacerò le vene del corpo, strappò via il custode della Terza Casa dalle trame  della morfina mendace.

    Cadde all’indietro.
    Il prigioniero gli precipitò di lato.

    - Saga! Saga !

    Il guerriero dell'Ariete si mise in ginocchio scuotendolo.

    - P -perché? – tartagliò impastato Gemini.

    - Saga! Mi vedi?

    Il giovane , dalla chioma blu, spalancò improvvisamente gli occhi.
    Erano annuvolati di rosso.
    Le sopracciglia si contrassero in un’espressione di terrificante e piangente collera.
    Scattò a sedere.

    - Perché ?! – gridò insanamente – perché mi hai distrutto?!

    Mu era impietrito.

    - S- Saga, io…

    - Maledetto! Finalmente tutto era perfetto!

    Sferrò un pugno al  soccorritore che si trovò il naso e la bocca sanguinanti.

    - Cosa ti prende?! – esclamò  il tibetano con gelido sgomento.

    In quel momento il greco cambiò espressione…Il vermiglio astioso ed invasato gli si sciolse dalle orbite…Gli iridi tornarono verde nobile e scuro…

    - Cielo, Mu! – balbettò tramortito e vergognato di sé stesso -  che ho fatto?

    Si mise una mano in testa sgranando gli occhi spaurito e sconnesso.

    - Perdonami – ansimò tremolante – ti scongiuro, perdonami! Non capisco più niente…

    - Saga…

    Il paladino dei Gemelli svenne , bruciato ed irrisolto, tra le braccia dell'allievo di Sion.
     

     

    Due fiamme mormoravano nella tenebra.
    Si ergevano, coi loro ventri ampollosi e frastornati , su piatti di bracieri stagionati di umidità. Erano chiome che  intrecciavano danze d’indemoniata insonnia.

    Quella coppia di creste sfrigolanti  sorvegliava  una grande nicchia: una concavità semicircolare di roccia rattrappita e sfiancata.
    Al suo interno vi era riposto un angustiante manufatto.

    Un’armatura con le fattezze di una strana bestia...Senza dorature…. Senza filigrane di bagliori e cesellature.

    Ohen *  la fissava tremebondo.
    Gli  occhi grigio azzurri scorrevano impauriti, eccitati e disgustati sulle sue forme…
    Che razza di creatura rappresentava mai ? A quali astri apparteneva?
    Possedeva il cranio aguzzo di un coccodrillo: le linee delle narici, dei denti sciabolati, delle sopracciglia circonflesse si rivelavano laccate di un verde scurissimo e smeraldino eguale alle ali umidificate d’uno scarabeo. Due catenelle di squame argentate e spinate percorrevano la superficie del lungo muso somiglianti a pezzi di vetro conficcati sadicamente in carni dure.
    Ad addobbare rognosamente  la testa orizzontale, una criniera leonina di filamenti d’ottone  che  terminava formando  una punta  di  freccia.  
    Un  busto muscoloso di pantera e massicce zampe posteriori d’ippopotamo conferivano  un’enigmaticità regale e spaventosa a  quell’assemblaggio metallico decantato da soavità… Ciascuna zampa ossuta, ciascun artiglio, ciascuna costola emanava un’aura oscura borbottante di rifrazioni sanguigne.

    Gocce  di sudore  evacuarono  dallo spirito.
    Il ragazzo  avvertì le tempie bagnate e la fronte che  doleva atrocemente.
    I lunghi e selvaggi capelli castano scuro assorbivano,  tra le loro onde, gli aloni ansimanti delle fiaccole sentinelle.

    - E’ magnifica, vero?

    Il giovane si volse freneticamente alle proprie spalle.
    Scanalò il tenebrore circostante.
    Scorse la presenza di una creatura.

    Un paio di occhi rossi dagli iridi spigolosi e una fila di sogghignanti denti spuntati…Era un cane.
    Un cane spaventosamente bizzarro e grande. Pareva un ibrido tra un lupo nero ed un levriero. Aveva un corpo snello, forte e scannellato dettagliatamente da muscoli nervosi. Gli arti erano nodosi e dotati di sinistri unghioni.
    La coda si mostrava simile a quella di una volpe mentre le orecchie  rettangolari richiamavano vagamente quelle d’una lepre.

    Ohen era terrorizzato.
    Il cosmo che proveniva dal canide non era normale e neppure apparteneva ad un semplice demone.
    Espandeva il potere annientatore di un dio.

    - Cosa c’è ragazzo? – domandò l’essere -  Hai prosciugato il fiume delle parole?

    Rise facendosi avvolgere da fumi serpentini.
    Mutò aspetto.
    Apparve  un uomo dalla carnagione olivastra e di statura elevata. Aveva un corpo atletico smussato con elegante rozzezza: i contorni degli ampi pettorali e degli addominali  erano incisi violentemente con precisione geometrica. Le fibre dei deltoidi, dei bicipiti, dei quadricipiti emergevano striate e pulsanti di guerra. Diverse vene varicose sormontavano finemente gli avambracci e le mani lunghe e robuste.  
     
    L’adolescente desiderava volare via di lì.
    Non conosceva l’identità di quella macabra entità, ma  una cosa era certa: non aveva alcunché di greco o nordico. Il suo  capo era cinto da una corona   di mogano  ornata, al centro,  da un cranio di cane in ossidiana. Portava un gonnellino rosso scuro, una cintura nera orlata d’oro,  sandali infradito color inchiostro e  bracciali di ferro. Una coppia di spalliere appuntite e borchiate erano tenute ferme da spesse cinture di cuoio che s’incrociavano sul torace. Al centro di esse un diadema sanguigno ritraeva la lama di un pugnale.
    Il viso del dio, dalle fattezze più inquietanti che belle, possedeva un’ affilatezza euritmica:  le mandibole scendevano taglienti; gli zigomi erano alti e sporgenti;  il naso segnava una sagoma sottile e diritta;  le labbra, non eccessivamente carnose, si coloravano di un marrone bruciato e riarso.
    Le pietre più terrificanti erano gli occhi che, contornati pesantemente da  khol, saettavano allungati e crudeli. Le loro orbite rossastre contrastavano con le pupille che traforavano ruote di iridi giallo biancastro.
    Una chioma liscia, nera, lunga fino a metà petto,  traspirava in una mobilità fluida ma inamidata. Ciascun cordoncino di capello era pesante, bagnato da riflessi bluastri, tagliato con tetra accuratezza. Le uniche scomposte ciocche oscillavano sull’alta fronte della divinità  dominata da sopracciglia di corvo.

    Ohen respirò tentando di prendere coraggio.
    Guardò lo spaventevole essere che aveva di fronte.

    - Chi…chi diavolo sei? –  chiese con aggressivo timore.

    - Per quale ragione ti dovrei guastare la sorpresa? – rispose il dio -  Avrai l’onore di conoscermi approfonditamente molto presto…Mi vedrai affianco del Sonno e della Morte, mi vedrai nel regno della Notte. Albergo vicino ai cieli del Sogno, della Morfia, dell'Illusione, della Fobia…Sono la Tempesta senza la quale il Sole non può proseguire la  corsa di rigenerazione nelle ombre e nel mattino. 

    Ridacchiò ostentando placche di denti d’avorio seghettate. Delle gengive nere gliele ponevano in risalto crudamente.

    - Che intendi dire? – esclamò il ragazzo.

    - Non posso rivelare molto Ohen,  ma ti anticipo un assaggio di ciò che si prospetterà: otterrai la somma facoltà di indossare quella splendida panoplia differente da qualunque armatura di Atena.

    - Cosa? ! Non capisco…

    - Sei stato benedetto, mio caro giovane. Gli dei desiderano elargirti la loro magnanimità offrendoti una nuova via. Una dignità che nessuno è stato mai in grado di donarti. Vivrai veramente come si confà ad un guerriero della tua tempra.

    L’adolescente guardò con ansioso scetticismo la corazza.
    Le sue membra vennero squassate da brividi di incertezza e vulnerabilità.

    - Che volete da me? – scandì spazientito.

    - Vogliamo consentirti di realizzare un reale destino. Il Santuario di Atena vuole demolirti e giustiziarti in modo oltraggioso, lo sguardo dell'Ariete ti ha spudoratamente rinnegato come fossi la carogna di un infimo brigante…E’ questo l’orizzonte che più ti aggrada?

    - Non me ne frega nulla della Grecia, delle stelle, degli dei! Desidero solo vivere! Vivere lontano e dimenticato! Vivere con Nemi e basta!

    Il dio rise con rumorosa perfidia. Aveva una voce vecchia e  sgangherata che tuttavia lasciava cogliere note di giovinezza ferrata e spietata.

    - Povero Ohen! Sei capace davvero di ignorare le traiettorie del nostro Empireo?

    Il ragazzo gemette.
    Un dolore allucinante gli martellò la fronte.
    La toccò.
    Dalle due macchie violacee sgorgava sangue. 

    - Pazienta un altro po’ – sogghignò la divinità-  ogni interrogativo ti sarà rivelato e finalmente potrai compierti nel potere più immenso: resuscitare le tenebre e dominare la metamorfosi del nulla.

    Il giovane  mise le mani sulle orecchie urlando.
    Il sangue gli colava.
    L’incomprensibilità  lo deteriorava.


    - Ohen! Ohen!

    Emerse da quel bagno d’incubo.
    Sbottonò lentamente i tendaggi d’appannamento.

    - Ohen!

    Mise a fuoco: sopra di lui,  il visetto angustiato di Nemi.
    Un’ampia e pesante tunica beige le evidenziava il corpo magrissimo. La nuvolosa chioma castano scuro le fumeggiava con agitazione.

    - N-Nemi…- balbettò stemperato.

    - Cielo! – fece lei – cosa ti è successo?!

    Gli passò un panno inumidito sulla fronte.
    Lui si alzò a rilento, intorpidito.
    Squadrò la realtà circostante: era su un terreno erboso in discesa. Ad una dozzina di metri di distanza scorreva un torrente tra sponde di bambù e alberi di sandalo:  era un affluente del fiume Giallo.
    Il ragazzo riacquistò la cognizione del tempo.

    - Nemi! – rimbrottò teneramente – perché non sei rimasta dentro la vecchia capanna?!

    - Non fare domande stupide! Potevo starmene  ferma quando ti ho visto svenuto qui per terra?! Dove stavi andando?! Non è neanche spuntato il sole!

    - Ti sei buscata una bella febbre e  stavo cercando delle erbe per…aaah!

    - Ohen!

    Il viso del giovane era contratto in una smorfia sofferente.
    Si toccò le due macchie violacee al di sopra delle sopraciglia: erano ferite.
    La fanciulla tornò a disinfettarle preoccupata.

    - Come mai ti sanguinano? Stai male?

    - N-non ne ho idea…Qualche minuto fa non avevo niente…Ero vicino al fiume  e  improvvisamente mi è venuta un’orrenda nausea…Ho sentito il cuore che mi si fermava e poi…non ricordo…ho praticamente dormito…

    Nemi lo fissò con gli  occhi marroni che splendevano sulla pelle di trasparenza emaciata.
    Ohen tentò di tranquillizzarla con un’occhiata dolce e di fittizia sicurezza.
    Non voleva provocarle altri turbamenti. Era meglio non raccontare il terribile sogno fin troppo razionale  per essere accantonato…Quell’armatura…Quella divinità…Erano elementi veramente allarmanti…

    - Amore…- mormorò seria la ragazza – dimmi…c’è qualcosa di strano?

    Il ragazzo fu costretto a sotterrare i  tormenti. Baciò sulle labbra l’amata:

    - Non preoccuparti…i flussi energetici del cosmo fanno brutti scherzi…i poteri possono provocare strambi imprevisti…

    - Sei sicuro? Non c’è nulla di grave?

    - No. Ora l’unica cosa a cui devi pensare è guarire…Sei bella delicatina! E’ meglio che torniamo alla capanna…

    Il giovane tirò fuori dalla tasca dei pantaloni delle piantine verdi.
    Nemi sorrise tossendo.

    - Sei in grado di preparare delle tisane risananti? – domandò un po’ scherzosa.

    - Dubiti, mia cara? Devi rimetterti in sesto! Ormai siamo ai confini  del Tibet e i soldati del Grande Tempio sono lontani  parecchio…

    - Non vedo l’ora che tutto sia finito…

    - Hai ragione…Dobbiamo avere solo un po’ di pazienza…

    I due si abbracciarono e salirono la collina per rientrare  nella  casupola  in cui erano rifugiati.

    Ohen esaminò con sussultata attenzione il cielo…
    Le orme serotine non erano state ancora congedate…Alcune nubi , somiglianti a gondole nere,  veleggiavano intransigenti e ciniche verso l’aurora nascente  come fossero coscienti che tanto sarebbero di nuovo risorte alla semina della notte successiva.

    “ Un prescelto dell'Ariete,   nato durante l’equinozio di primavera con le macchie sanguinanti, aiuterà le tenebre a tessere il loro velo di morte. “*

    Le parole di quella  profezia cominciavano  ad assumere una materialità  angustiante…
    Il guerriero tentò inutilmente di trascurarle ma la voce del suo odiato e dipartito Maestro balzava nella mente…Era stato quell’uomo spregevole a rivelare  il vaticinio che circolava nel suo villaggio natale…
     
    Doveva scaricare, scaricare…Gettare quelle scorie in abissi macellatori…
    Sapeva che era improbabile.
    Strinse a sé Nemi per avvolgersi in una catarsi, in un circolo antistaminico e frugale.

    Dalla sommità d’uno sperone roccioso, una coppia di sagome aveva assistito alla scena.
    Uno sguardo arancione. Uno sguardo viola.
    Una chioma bionda e selvatica. Una chioma nera e piumata di rapacità.

    Due mantelli rosso scuro.
    Due offuscati sorrisi  di complicità.

    Radamanthys ed Eaco avevano compreso che i tempi della loro attesa erano agli sgoccioli.
    La missione si stava avviando  verso l’ovest nero…

     

     

    Mu portava sulle spalle l’inerme Saga.
    Camminava prudente sui sentieri della Morfia, dinanzi alla levigatezza  fidiaca degli archi.
    Osservava le corone dei papaveri come fossero ali di farfalle etiliste di stordimento letale.
    Aveva spalancato tutti i sensi affinché potesse recepire ogni briciolo di energia per giungere da Sion.
    Nel suo cuore centrifugavano barbagli di paura, domande, ante che sbattevano e si aprivano in balia di correnti di scirocco o di phon…
    Gemini gli aveva iniettato un subbuglio assai difficoltoso da seppellire: l’apparizione di quella  copia dai capelli argentei…il pugno che gli aveva assestato in preda ad un’innaturale rabbia…
    Quanti truci misteri si dispiegavano all’ombra della Terza Casa?
    Dovette  lasciarli da parte perché stava prevaricando un’angoscia più feroce: il pensiero di perdere la propria guida.

    Cosa sarebbe successo se non fosse riuscito a riavere il Sommo Maestro?

    Il ragazzo sentì i cantieri del proprio spirito barcollare…
    Non poteva esistere l’ enzima in grado di catalizzare un processo distruttivo per l’Orrore?
    Non ne poteva più.
    Erano trascorse meno di due ore ma era come se stesse combattendo da un’eternità.
    Il tibetano era pressato da noduli di lacrime, ville di decadenza…
    Si trovava ramingo nello sconfinato regno di Morfeo, tra statue azzerate di virtù, corazze oplite rosicchiate dalla vacuità sfaccendata…
    Ciascuna animo d’armigero era  un Orfeo piangente che aveva reciso le corde della propria cetra…

    L’adolescente sbatté violentemente contro uno spettro d’efebica puerizia: sé stesso.

    Grande Mu”…Meritava realmente tale appellativo?
    Chi era?
    Il prossimo cavaliere dell'Ariete? Un magnifico guardiano che avrebbe indossato vestigia di aurea essenza?
    Chi era?
    Un quindicenne orfano sballottato dalle furie degli astri?
    Sì…aveva quindici anni. Solo quindici anni. Non era più un bambino e non era neanche un adulto. Nuotava nell’odioso canale dell’incompletezza, nella depressione di sentirsi un tetraplegico sogno che mai si sarebbe alzato.

    Remava senza scorgere alcun colosso che fiammeggiava sul porto di una sublime Rodi.     
    Sion non era lì…
    Sion era seppellito lontano.

    Il pianto iniziava ad arroventare la vista.

    Mu desiderava essere tra le braccia della sua guida. Del suo Sacerdote.
    Desiderava sentire le carezze che gli faceva da bambino quando gli  attenuava  la durezza degli addestramenti, quando gli faceva capire  che avrebbe sempre vegliato sulla sua corsa…
    Gli conferiva la certezza che,  se avesse perso l’equilibrio ,  l’avrebbe afferrato. In qualunque giorno. In qualunque notte. In qualunque mondo.

    Mu…”
       
    Il ragazzo sentì il cuore infiammarsi.

    Mu…”

    Era un tono caloroso, dimesso, dipanante di forza disarticolata.
    Era lui.
    Sion.

    Smettila di piangere…”

    - Maestro! – sussurrò il tibetano lacrimando.

    Non piegare…il capo…Tu…tu…sei il Grande Mu...”

    Il cosmo dell'uomo si ammutolì.
    Una tenue scia di sole scaldò le frigorifera volta della Morfia per poi sciogliersi.

    Mu seguì la sua provenienza.
    Captò le vibrazioni della Guida.
    Erano deboli ma il sonno non le aveva ancora estirpate.

    Riuscì a sorridere.
    Riuscì  ad odorare il tatto della luce.

    L’origine di un legame sconfinato di cateratte.
    Si addentrò nell’ingenuità…
    Nel biancore di un piccolo di quattro anni. 
     

     
    Effusioni di giallo. Giallo semolato, pagliato. Giallo imprendibile.
    Mulinavano, in quelle aste di luce, microscopici acini di polvere : moscerini albini che si scatenavano in danze di sonnolento e dolce nervosismo.
     
    Le falangi solari si conficcavano nel tempietto dell'Ariete bianco.
    Dalle finestre tondeggianti, della parete di levante,  si calavano fascine dorate che irroravano tutto l’interno.

    Il piccolo Mu rimirava l’ariosa navata centrale sorretta da una dozzina di  colonne lignee.
    I capitelli e gli abachi erano decorati da motivi floreali ed  eleganti scie d’edera che si attorcigliavano lungo i fusti cilindrici.
    La ricchezza di quegli ornamenti s’integrava con la ieratica  sobrietà delle pareti, affrescate soltanto da un  lieve rosso che vaporava  torpore  influenzale.

    Magnifica era la possente statua del Montone.  Torreggiava, nella zona absidale,  su un altare di granito  intagliato da  cellette esagonali  similari a quelle di un apiario.
    L’animale era stato raffigurato in procinto si saltare col cranio inclinato e regalmente ammonitore. Il corpo lanoso e forte possedeva la materia porosa del calcare. Le zampe snelle e muscolose erano di legno massiccio dipinto d’oro. Le corna  circolari,  di un’ illibatezza demoniaca,  avevano la solidità dell’avorio.  Nelle orbite oculari della sacra creatura erano stati incastonati due rubini. 

    Dinanzi a quel monumento , stava un uomo: un giovane d’immensa e solatia avvenenza.
    Portava una semplice camicia  bianca orlata di amaranto e  pantaloni grigio perlacei. Le forme belle e atletiche del suo fisico restavano foderate in una fortezza di Priamo e in un’ amabilità da cherubino.
    I capelli lunghissimi ,  un po’ scossi all’estremità, parevano tratteggi  di lacrime d’astri dorati. Tra quei filamenti si perdevano biglie  d’arcobaleno e berillio.
    La meraviglia che piacque più di tutte a Mu fu il viso. Le gote e il naso erano  spatolati  da un ‘atemporale freschezza, la bocca si mostrava squisita di gardenia, gli occhi  , leggermente a mandorla, lasciavano brulicare un vermiglio sanguigno e abissale di vita. Nessuna patina cruenta caldeggiava su di essi. La mondezza di quella coppia di medaglie poteva essere sfogliata come un sacro vangelo.
    Due nei viola chiaro conferivano pregio ad una fronte forbita.
     
    - Sei cresciuto, Mu.

    La voce dell'uomo si sposò incantevolmente con la tenerezza di un fascinoso  sorriso.
    Il bambino restò ammaliato e in soggezione.
    Ruotò gli occhi prima a destra dove stava la madre, poi a sinistra dove si trovava il padre.
    I genitori lo rassicurarono con sguardi limpidi e amorevoli.
    Era giunto il momento di conoscere il leggendario Cavaliere dell'Ariete, colui che  sarebbe stato la sua Guida. 
    Mu non aveva compreso fino in fondo il significato di quel termine, ma aveva intuito che il misterioso guerriero rappresentava qualcuno di enormemente importante. Qualcuno che lo avrebbe cambiato per sempre. Sentiva un gioioso timore che non era ancora in grado di leggere ed apprendere.

    - Su, tesoro. Vai…- gli bisbigliò la mamma.

    - Stai tranquillo – lo incoraggiò il papà.

    Il piccolo avanzò di qualche  mingherlino  passo.
    S’inchinò, un po’ maldestramente, cercando di proporsi il più composto possibile.

    L’uomo gli andò in contro flemmatico e morbido.
    Si chinò davanti a lui  guardandolo con divertito affetto.

    Mu alzò timidamente le lunghe ciglia nere.

    - Sono il Maestro Sion  Fau-Do – si presentò dolcemente il paladino – i tuoi genitori ti avranno parlato di me, immagino.

    Il piccino annuì in silenzio.

    - Sei mio allievo da tanto tempo – svelò il cavaliere- ti vidi  la prima volta quando avevi meno di un mese.

    Mu  venne fulminato da un’inattesa visione…Si vide frangibile e ancora minuto, avvolto nei panni del prologo vitale.
    Un vigoroso braccio lo avvolgeva protettivo. Un viso meraviglioso lo illuminava. Una mano gli toccava la fronte…

    - Piccolo Mu… in nome d’Atena, t’infondo tutta la luce del mio bene, affinché dentro di te si svegli l’energia latente del  cosmo… Sarai il mio apprendista e giuro, sul sangue del mio cuore, che ti condurrò sulla via della Luce e della Conoscenza. Che l’Occhio dell’Ariete dimori perennemente nel tuo animo e vegli sul tuo destino.

    Il bambino spalancò lo sguardo. Era riuscito a rammemorare  un lampo di quel giorno…quel giorno in cui Sion lo benedisse nominandolo  discepolo…
    Un gesto lo colpì particolarmente: la propria mano minuscola che afferrava,  giocosa e piena di fiducia,  un  dito del Maestro…*

    - Hai dei poteri speciali – gli disse l’uomo guardandolo profondamente.

    -    Sì – ammise piano il bimbo – riesco…a…muovere le cose s-senza toccarle…

    - In che modo?

    - Con questa…

    Mu si tamburellò una tempia.

    - Sento che c’è qualcosa dentro la mia testa che mi fa fare dei pasticci…

    - Dei pasticci? – chiese Sion sorridendo.

    - Sì- confessò il piccolo chinando il capo e raccogliendo le mani dietro la schiena  - faccio volare gli oggetti ma poi li rompo. Non riesco a tenerli in alto. Io non sono cattivo. Non voglio far arrabbiare il papà e la mamma. Mi sento tanto triste quando rompo un piatto o un vaso…

    Il Maestro rise tenuemente sfiorandogli una guancia con le dita.

    - La mente è uno strumento molto difficile da usare – gli spiegò – ti insegnerò a controllarla, così diventerai bravissimo! Solleverai anche  oggetti molto grandi!

    L’apprendista lo fissò pieno di entusiasmo.

    - Davvero? – domandò – farò volare le rocce?

    - Certo! Ogni cosa enorme…adesso però devo mostrare all’Ariete che sei mio allievo.

    - Non lo sono già?

    - Sì, ma è fra tre mesi che daremo inizio agli addestramenti. Con questo piccolo rito entri nella  schiera  dei paladini di Atena, la dea che difende la pace.

    - Che cosa dovrò fare?

    - Nulla. Basta che mi segui.

    L’uomo si eresse in piedi afferrando con delicatezza la manina destra di Mu.
    Lo guidò verso l’altare del Sacro Montone.

    Mentre camminavano il fanciullino s’ipnotizzò al contatto della pelle del saggio. Il palmo di quella mano era caldo,  plissettato da lotte, annaffiato dal sudore di afferrare codici di verità occulte.
    Era giovane l’ epitelio ma un’anzianità ermetica e mesta ne affaticava la  verginità ormai vidimata dal disincanto della sofferenza.
    Il piccolo non era ancora in possesso di una lucidità adulta però già si arrampicava, con empatia,  su  quei i terrapieni  di segreti.
    Sion lo lasciò un attimo.
    Si inginocchiò  davanti l'Ariete prendendo una chiave riposta su un piccolo treppiede di rame dalle zampe caprine.
    La facciata frontale dell'altare cubico era in realtà un’anta. Una serratura microscopica si confondeva nel telaio della ricca decorazione.
    Il cavaliere aprì quel portoncino come se dovesse far uscire uno spiritello da una dimensione fantastica.
    Estrasse fuori un vassoio di alabastro sul quale erano posati un rasoio bronzeo, un bacile intarsiato di sagome  di loto,  un’ oinochoe * colma d’acqua e un panno di seta. 

    Mu osservò interrogativo e un po’ agitato la lametta che aveva il manico a forma di testa d’ariete.

    - Non preoccuparti – disse il Maestro placidamente – non sentirai male.

    Reclinò la caraffa di terracotta e  riempì la ciotola decorata con i fiori.
     Si accostò all’ apprendista prendendogli lievemente il mento tra l’indice e il pollice.
    Con la mano libera bagnò  il pannetto di stoffa e gli deterse  l’arcata sopraccigliare. Afferrò  poi il rasoio e iniziò a grattare piano, piano.

    Mu chiuse le palpebre.
    Avvertì i dentelli della lama raschiare  via la peluria che gli sormontava gli occhi. Era un’aratura fresca, gentile, pareggiabile alla levità dell'arco di un violoncello.
    Le dita di Sion rivelavano suoni felpati di farina che lievita...

    - Che il trono della tua mente sia  sgombro di nubi – proferì austero e soave il giovane – che le orecchie dei tuoi occhi possano udire sempre le lettere della verità. Che nessuna spiga vuota e riarsa contamini i campi dei pensieri che prenderai e farai nascere.

    Passò un’ultima volta il lembo di stoffa inumidito sulla fronte di Mu.
    Il rituale di purificazione della psiche era stato ultimato.

    Il bimbo guardò la sua Guida. Guardò quell’eroe che l’avrebbe accompagnato.
    Era bellissimo. Nelle membra. Nel vento che sprigionava. Nel cremisi degli occhi che cospargeva profumo di nobiltà ed empireo.

    Dov’erano le ali di quel cavaliere?
    Dov’era l’aureola che sorgeva sulla sua cuprea criniera?      

    Il fanciullo balbettò  con speranzosa devozione:

    - Voi… sarete…. il mio Spirito Custode?

    Sion sorrise lasciando scintillare la sua collana di denti d’oro bianco.
    Accarezzò i capelli dell'allievo luminosi d’innocente lilla.
     
    - Certo, Mu.

    - Diventerò un cavaliere?

    - Diventerai un cavaliere fortissimo perché sarai un grande uomo
    .
     

    Una loggia di marmo bianco, sorretta da quattro colonne a forma di alloro, proteggeva una scultura d’elaborata raffinatezza.
    Era un altare con le sembianze di un vetrato fiore di loto.
    Gli enormi petali dischiusi erano rivolti verso un cielo cucito di nebbia.
    Sovra i loro pistilli, d’artificiosa spugnosità , giaceva un uomo dai lunghi capelli biondi.
    Era fasciato da sarmenti umidi come muschio, pomellati di papaveri.

    Mu aveva trovato Sion.
    Aveva udito la catena dei suoi battiti. Aveva raccolto le impronte del suo karma nell’atmosfera e nelle terminazioni della mente.

    Doveva liberarlo.

    Egli stava resistendo alla magia di Morfeo. Ansava, sudando freddo, comprimendo le meningi dell’intelletto inumanamente.
    La fronte era corrugata e vibrante di risolutezza sanguinante.
    Dalle mani e dal collo le arterie sporgevano soffocate e livide. 

    Mu adagiò il corpo di Saga al suolo e si avvicinò al loggiato che opprimeva il saggio.

    - I vostri patimenti sono finiti, Maestro.

    Protese le braccia in avanti. Fulgori dorati gliele dipinsero di consonanze sideree…
    L’Occhio dell'Ariete gli lumeggiò purpureo.
    Doveva sprigionare sia temperanza che distruzione poiché bisognava annientare l’incantesimo della Morfia e preservare l’incolumità di Sion.

    Chiuse lo sguardo.
    Alzò le mani al cielo…
    Fiumi di stelle sciolte si concentrarono sulle palme.

    Spalancò le palpebre con iridi d’acqua fiammata.
    Lanciò impetuosamente i bracci.

    - Sturdust execution!!

     Gorghi di orbite galattiche divorarono marmi, colonne, carni vegetali.
    Schegge di colonne, di petali pietrificati si devolsero in un annichilimento d’oro.

    Bianco d’infinitezza.
    Giallo di saline solari.
    Ocra di piramidi.
    Grigio di dolce spegnimento.

    Sion, sdraiato supino a terra, non aveva più alcuna catena di morfina.
    La sua tortura era cessata.
    Lo spirito si sgonfiava di tossina…
    La tranquillità non trovò tempo di sbocciare.

    Il Regno del sonno prese ad oscillare improvvisamente.

    Due fenditure fulminarono l’aria.

    Morfeo ed Icelo comparvero davanti a Mu.

    Erano rimasti sdegnati e stupefatti da quel prodigio di forza sovrannaturale.

    Un alone allocroico s’espandeva dalle membra del guerriero.
    Il suo torso, denudato, non era offeso da alcuna piaga di sofferenza. Ogni livida smaltatura di contusione pareva svanita.
    La belle ed eleganti spalle non erano ammaccate da pesi. Sane e respiranti sembravano lisciate dall’ eccelso scalpello di Dedalo. I pettorali,  vigorosi di delicatezza, si muovevano lasciando udire il repertorio della teda cardiaca. Gli addominali, isole di simmetrica dolcezza,  emergevano come coltivazioni dalla superficie d’un’alluvione.
    Il viso del giovane aveva assunto un’immobilità apollinea, analoga a  quella di un kuros anacronistico e contemplativo.
    I cerchi delle pupille non bucavano più gli iridi. Restavano due sfere di verde lacustre bollate di gelo.
    Le labbra erano serrate in una solidità di diafana quarzite.
    I capelli lunghi e lisci danzavano con casta sregolatezza, simili alle indomite ed intoccabili ninfe di Artemide.

    I figli di Ipnos indugiarono paralizzati.
    Si sentirono inaspettatamente tumidi di tensione.

    Mu stava lasciando sfociare una potenza quasi divina.
    Bellerofonte doveva rifulgere il tal modo quando cavalcò Pegaso col brando sguainato per trucidare la laida Chimera.

    - Sei stato bravo, Ariete – ghignò  nervoso l’Incubo – non sono convinto, però, che ti lasceremo svolazzare via di qui…

    Il dio cercò di apparire il più minaccioso possibile ma persino lui stesso si accorse che la propria voce era settica di insicurezza. Somigliava al ringhio di un cane braccato in un vicolo mattonato. 

    - Hai la faccia tosta di  guardarci in quel modo! Pensi realmente di farcela?

    Mu si limitava a fissare i due dei con solenne e temibile inespressività.
    Morfeo aggrottò le sopraciglia essiccando il volto in un tremolio inquieto.
    Capì che qualcosa non andava.
    Capì che le metope di marmo che componevano i frontoni del piano si stavano sbriciolando lentamente.  Lui e il fratello avevano creduto di poter incidere, a tutto tondo, la sequenza di un facile trionfo.

    Si stavano sbagliando.
    Non conoscevano veramente la natura dell’occhio dell'Ariete.
    Non avevano previsto che Mu sarebbe stato in grado di issare vele d’incontrollabile incendio.

    - Vedrai cosa significa sentirsi a pezzi,  ragazzetto! – ruggì Icelo.

    - Fermati!

    Il Maneggiatore del Sogno trattenne l’aggressore per una spalla.

    - Diamine, Morfeo! Ammazziamo quest’insetto e prendiamo il medaglione!

    - Sciocco ! Non hai percepito nulla?! L’allievo di Sion nasconde qualcosa! Dobbiamo essere accorti!

    - Bene! Allora  portiamolo con noi e facciamolo cantare! Chissà se non ritornerà  a leccare  melma! 

    Si scagliò animalescamente contro il cavaliere.

    - No! Icelo!

    L’Incubo afferrò , con la mano  artigliata, la gola di Mu.

    Avrebbe dovuto ascoltare il fratello.

    Il ragazzo gli attanagliò  l’ avambraccio e sgretolò, come fosse malta marcia, la corazza che lo proteggeva.

    La morsa di quelle dita era eguale alle fauci di una  tigre asiatica.

    Il Re della Fobia spalancò le palpebre sconvolto: i pezzi  dell’armatura  caddero  a terra. Rumoreggiarono  simili ai cocci di una misera anfora di birra.
    L’ autocratica e spregiudicata  sbronza dell'orrore ormai stava per finire. 

    Un terribile miasma di bruciore spolpò  l’aria.
    Il demonio vide  la pelle del proprio arto ricoprirsi di  ulcere che  pulsarono vermiglie per poi esplodere sputacchiando sangue. Tutte le fibre delle carni si afflosciarono somiglianti  ad albumi e tuorli d’uovo che si spappolano. La putredine fece colare i tessuti  rendendoli marroni di palude.
    Il bianco  delle ossa , lubrificato di bava muscolare,   emerse duro e sordido.    

    Il demonio gridò aprendo la bocca spropositatamente  . Era osceno come una decrepita bagascia che ha ancora il vigore di gemere d’orgasmo.

    Mu guardava il mostro  senza  scrupolo  di pietà.
    Restava  micidiale e distante, rassomigliante alla fiera Giuditta che decollò Oloferne.

    Spinse via il nemico con gelata violenza.

    - Bestia demente! – esclamò Morfeo  – ti avevo avvertito!

    - Quel figlio di una lurida scrofa! -  barrì il fratello-  giuro che lo squarterò dai testicoli al cervello!

    L’ignobile essere vomitò una rivoltante  miscela di sangue , bile  e pezzetti di vene che parevano millepiedi avvelenati.

    - Fai davvero schifo – disse il Re della Morfia stomacato- meriti di affogare nella tua sozzura come un porco  ma, ahimè, non posso lasciarti.

    Agguantò malamente  il diavolo che , col volto cosparso di  rughe sudate e rabbiose, continuava ad abbaiare folle ed indecente.
    L’avambraccio rinsecchito, grondante di secrezioni fumanti e scure, suscitava un effetto di schifosa ironia.

    - Hai vinto questo duello, Mu dell'Ariete – pronunciò metallico Morfeo – ricordati però che la guerra contro l’oscurità non conoscerà mai termine. Crolla la Notte, sale il Giorno. Perisce il Giorno e domina di nuovo la Notte. Fai parte del ciclo di questo mondo. La terra ha bisogno delle tenebre. Voi avete bisogno delle tenebre…per non vedere il prossimo e per non vedere come siete costruiti. La vostra forza è un sogno dalle gambe fasulle.

    Sparì , assieme ad Icelo,  in una perturbazione  viola e picea.
    I teli dell'Incubo e della Morfia vennero smantellati come un macabro circo.
    Non restarono che rigature di cenere mortuaria.
    Orbite vacanti di teschi ghignanti e lacrimanti.

    Ciascuna orma nefasta si squagliò.

    Si delinearono i colonnati e le navate della Casa dell'Ariete.
    Si udì la notte che avvolgeva il Grande Santuario.

    I panneggi della realtà erano stati di nuovo bonificati.

    Mu tornò al suo candore consueto.
    La luminosità donatagli da l’Occhio dell'Ariete si estinse.
    L’amuleto si ammortì in una solenne ed inspiegabile normalità.

    - Mu…

    Il ragazzo si girò.
    Sion si era alzato stancamente da terra.
    Gli sorrideva ammaccato e colmo di profonda gratitudine.

    - M-Maestro!

    Dimentico di ogni prassi di formalità, corse ad abbracciare il suo Protettore.
    Lo strinse forte abbandonandosi a lacrime di terrore scongiurato, di caos annegato, di incubo abbandonato.

    Sion  lo avvolse  con tenerezza, trasmettendogli  palpiti d’intenso affetto.

    - Mai cesserò di ringraziare Atena – mormorò commosso –La più grande benedizione di questa mia esistenza da cavaliere è averti come discepolo.

    L’eco della luna proiettava le ombre dei due guerrieri sui candidi pavimenti di marmo.
    Un abbraccio.
    Un sigillo d’incorruttibile infinito.
    Nelle gocce del Tempo. Nei sospiri d’inesauribile platino delle stelle.



     

     

    Note inerenti ai capitoli precedenti:

    Seguo una logica insensata perché son frutto di un abominio *” : cap 12 – lande violentate

    “ Ohen” * :  per approfondire o rivedere  il personaggio  torna ai cap 3 – l’aspro viso della lotta, cap 4 – fuga nel buio, cap 5 -conchiglie di storie : cercando l’orizzonte. 

    “ Un prescelto dell'Ariete,   nato durante l’equinozio di primavera con le macchie sanguinanti, aiuterà le tenebre a tessere il loro velo di morte. “* :cap 5 -conchiglie di storie : cercando l’orizzonte.

    “ Un gesto lo colpì particolarmente: la propria mano minuscola che afferrava,  giocosa e piena di fiducia,  un  dito del Maestro…*:  cap 8 – le magie di Lindo: nelle camere di Sion.


    note generali:

    oinochoe* : è una brocca a bocca rotonda, dotata di un unico manico  verticale  per versare i liquidi.

     

     

    Note personali:
    Ciao a tutti!! ^^  mi dispiace non essere riuscita ad aggiornare a fine aprile ma questo capitolo ( unito ad altri impegni) si è mostrato più arduo del previsto…perdonate la lunghezza però non potevo ulteriormente frammentarlo…ne andava per la narrazione!
    Come avete notato non è la terza parte del 13 ma è diventato direttamente un unico capitolo 14! XD Finalmente la parte con Icelo è terminata!!! Ovviamente gli dei non terminano di rompere le scatole in modo definitivo! Eh! Non sarebbe normale, no? ;)  Tra l’altro in questo episodio fa la comparsa una nuova e misteriosa divinità….ih!ih!ih! Sono stata contenta poi di aver ripreso Ohen anche perché sarà un personaggio molto importante…e qui non aggiungo altro ( l’avete compreso chiaramente XD)
    Il cap 15 sarà piuttosto “ sereno” e leggero ma non mancheranno altri retroscena ;) non vi garantisco al 100% un aggiornamento entro la fine di maggio…io spero di farcela…nel caso non ce la facessi a giugno è sicuro u.u…ripeto, mi auguro di riuscire anche prima ;)
    Spero che stiate gradendo questa storia!!
    Continuerò a spremermi come un limone per cercare di dare sempre qualità!

    Ringrazio tutti i lettori che seguono e recensiscono!! ^^

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    Capitolo 27
    *** CAP 15 - celeste immenso ***


     “ In tutto io vivo
    tacito come la Morte.
    E la mia vita è divina.”

    ( G. D’Annunzio )

     

     


    Rilucevano quelle livree rugiadose di capinera.
    Rilucevano quegli intagli di firmamento sfrangiati d’inamovibile pirite. 
    Tra le soffici e serrate spine di quelle ciglia, le penombre azzurre della sera liofilizzata  s’incagliavano come pesci inghiottiti da reti argentate. 
    Sulle virginee  palpebre, che tacevano occhi in preghiera, un rosato niveo  si gelava vellutando  ditate d'aria.
    Una coppia di archi , di pruina lanugine,  biondeggiava  su una fronte carezzevole di soave e irremovibile temperanza. Soltanto un uma  rosso, d’accesa delicatezza, contagiava di sacralità sanguigna la pelle pallida: era l’emblema del centro karmico.

    Quel viso era l’espressione compiuta e cristallizzata della dolcezza: una bellezza fiabesca lasciava esalare, tuttavia, un’ aureola di freddura e lontananza  simile al sole che scalfisce , straniante, le notti bianche dell’artico.  
    Le guancie ovali, il naso modellato di levità d’ oleandro , le labbra, dune tramontanti nella bonaccia , parevano forgiati in un marmo lucidato di miele trasparente …Canova poteva averli plasmati guidato dalla voce di Iride, regina dell'arcobaleno.  

    Che fosse il figlio dell' Aurora quel giovane di stupende fattezze? Ai semplici mortali non era dato sapere la naiade che avesse effigiato gli imprendibili nastri della sua chioma aurea:  ciascun capello gorgheggiava in un lunghissimo afflato di mezzodì.
    Il collo aggraziato  era una colonna indenne da macchie di appassimento: esso  si congiungeva sublimemente   alla concavità dove si  fronteggiavano le clavicole. Chiunque desiderava sfiorare quella cute  per saggiare  , con innocente sensualità,  la materialità della luce.
    Le spalle si aprivano in un disegno respirante e principesco: non possedevano una ruvida appariscenza  erculea  ma erano dotate di imponenza musicale e lisciata.
    Le braccia brillavano affusolate e ben tornite; il torace lasciava affacciare elegantemente i pettorali ;  il ventre , piatto e limpido,  esponeva due teneri assi di addominali.
    Le gambe, lunghe, snelle e soffici, erano incrociate nella  posizione meditativa dei sensi.

    Shaka, nel giardino del Tempio di Mahabodhi *, remigava in terra e in cielo.
    Avvolto da una  tunica d’immacolati sussurri selenici , non si lasciava fuggire alcun strepitio.

    Le fronde del silenzio ondeggiavano monottonghi di riflessi vetrosi.
    I passeri involavano germogli di omelie al cielo ancora disteso sul seno della tenebra morente.
    Il fiume Falgu * sorseggiava e friniva quiete  nell’attesa di protendersi verso labbra di un nirvana epifanico.
    I terreni di mattonelle pietrose , i terreni ammollati di  vecchiume , i terreni frangiati di magra erbetta… ogni arena discorreva senza canali vocali.

    Il cavaliere della Vergine captava qualsiasi scricchiolio: l’ancheggiamento d’ali di un uccello o la cantilena melanconica dell’incenso.
    L’ albero Ashwattha , presso il quale era assiso, s’ergeva proclive  alle volute nuvolose  impregnate  di impercettibili geremiadi.
    Secondo la tradizione  buddhista, quel possente fico , catafratto di increspature, fu la pianta sotto la quale Siddhartha raggiunse il bodhi, l’illuminazione.
     
    L’adolescente indiano soleva concentrarsi all’ombre dei baroccheggianti rami…
    Il tronco dell’arbusto era analogo ad un alido midollo spinale  che si diramava, verso le  estremità superni , in miriadi di vene e sinapsi. Sembrava che effluvi di sangue lucente recassero nutrimento e stimoli all’encefalo del cielo.

    Tutto assomigliava ad un equinozio d’equa serenità, inviolabile pianura di razionalità.

    No…La calma in realtà  non si chinava ad altra calma…
    La calma registrava lo scorrimento delle zolle d’infausti  avvenimenti.
    La calma era un  sismografo che consentiva di valutare  le situazioni gravose.

    Shaka aveva intuito che al Grande Tempio erano piombate minacce di grandi entità.
    In Grecia erano circa le nove e mezza di sera, in India il sole sarebbe sorto tra un’ora…Al di là delle oscurità inamarita  , al di là della luce ancora dilavata, il giovane aveva viaggiato rapidamente col pensiero scandagliando  la consistenza dello spettro maligno che aveva avvolto il Santuario…

    “ Veramente inquietante “ ragionava“ ad Atene si sono materializzati due dei legati al Sonno  e alla Morte!  Per quale motivo? Ciò è strano… Ade non si è risvegliato, le centotto stelle malefiche sono rinchiuse…Che Ipnos e Thanatos abbiano trovato la chiave per distruggere  il sigillo che li teneva prigionieri dalla Guerra Sacra del diciottesimo secolo?” 
     
    - Desideri approdare ad una soluzione precedendo la nascita del Mattino?

    Il ragazzo si voltò a destra.
    Un uomo ottantenne ,  di statura slanciata e leggermente ricurva,  avanzò verso di lui.
    Era vestito col kesa, l’abito tradizionale dei monaci buddisti.
     
    - Maestro Amitabha* .

    Shaka si alzò e si inchinò con  affetto referenziale.
    L’anziano sorrise ricambiandogli il saluto.
    Restò  per  un istante in silenzio…
    Prima di  discorrere,  adorava degustare i fluidi della tranquillità analogo ad un  sommelier che distingue le sfumature fruttate dei baritoni del vino.
    Osservò con attenzione il fico del bodhi, il cortile che verdeggiava attorno al tempio cosparso di ovatte arboree…
    Fin da piccolo, il discepolo   della Vergine amava analizzare quegli atteggiamenti e quegli sguardi che filtravano saggia e tenera sicurezza. Poteva anche incombere alle porte la più terribile delle catastrofi, ma il venerando sacerdote pareva possedere l’incantesimo per deprecare qualsivoglia  disgrazia.
    Lo vidimavano i suoi occhi. I suoi occhi un po’ grandi che si riducevano a fessure quando ridevano  o esaminavano la retina delle gocce di pioggia sulle foglie o sulle sculture.
    Erano bellissimi e tale si mostrava la loro essenza d’eterea catarsi, da prosciugare i molesti pantani della vecchiaia...Le pupille si mimetizzavano al centro di una coppia di mulinelli  anneriti in modo assai particolare: niente evocava le escoriazioni del legno o delle stoffe bruciati …In quell’oscurità v’erano api di luce che pascevano di propoli i palati  del giorno e della notte.
    Gli iridi del maestro brillavano  d’un arancio dorato sotto il presbiterio del sole e di un azzurro nevoso sotto i vigneti  della luna. Da giovane non era mai stato  noto per una straordinaria bellezza : era alto, dotato di muscoli magri e spigolosi, aveva sempre portato il cranio rasato e mantenuto atteggiamenti miti e riservati. Neppure il suo viso esibiva tratti somatici di squisita rarità: la fronte era regolare, il naso normalissimo, le gote ovali e le mascelle si abbassavano leggermente. Gli occhi meravigliosi però rendevano quegli  elementi  gioielli unici e nobili e  la soavità che ne derivava alleviava  le membra segaligne del corpo.
    Amitabha si rivelava un’ addizione di numeri precisi, semplici,  di elevatezze famigliari e misteriose.

    - Mio luminoso allievo – disse  con calidità autunnale – deduco  che tu, come me, abbia percepito l’arrivo di tenebrosi numi  all’interno del Gran Santuario.

    - Sì, Maestro…- confermò Shaka serio-  ciò mi ha turbato…non mi pare normale l’apparizione di queste auree proprio adesso…

    - Non posso negarti che anche io sia rimasto spiacevolmente allibito . La comparsa di Icelo e Morfeo è un greve presagio. Significa certamente che Ipnos e Thanatos siano stati risvegliati senza che noi avessimo avuto la facoltà di accorgercene.

    - Credete che anche gli altri  oneroi, Fantaso ed Oniro, si siano potuti manifestare?

    - Non lo escludo…Per questa ragione è necessario recarsi ad Atene…Dovremo prepararci. Sarà d’urgente importanza parlare con il Gran Sacerdote, il Sommo Sion e gli altri maestri dei cavalieri d’oro.

    - Volete  chiedere la convocazione di  un didaskalon synagein ?

    - Esattamente. Occorre che partecipiate anche voi giovani discepoli…Niente di questi sintomi premonitori deve restare oscuro…

    - In Grecia vi sono Aiolia, Milo, Aldebaran, Camus e Mu, mentre dalla Spagna stanno giungendo Shura, la Maestra Dora e il Maestro Roikhos .

    - Bisognerà mettere a conoscenza Eirene ed Artemis che si trovano nel Nord Europa.

    - Signore,  il Maestro Lisandro non è da cinque mesi che soggiorna in Islanda? 

    Amitabha  annuì con espressione lievemente divertita:

    - Il solare ed effervescente spartano ha già lasciato Reykjavik da due settimane – rise sornione -  dovrebbe approdare al Pireo in meno di due giorni…Sarà stato disagevole, per un uomo della sua gagliarda indole,  perseguire una missione nel grigio gelo .

    Shaka si lasciò illuminare da un piccolo sorriso.
    Lisandro Kaikna era un cavaliere d’argento audace in tutti i sensi : se da una parte godeva di immensa stima  per via della sua valorosa e leale forza, dall’altra veniva bollato dai guerrieri  anziani e censori  quale pericoloso untore di anime giovani e facilmente infervorabili. I ragazzi , infatti, adoravano l’ atteggiamento bonariamente irriverente dell'uomo che faceva uso sapiente del proprio fascino per conquistare donne.
    Amitabha sorvolava su quelle abitudini di sensuale intrattenimento poiché conosceva la veridica  sostanza  di Lisandro: egli era un servitore d’Atena di onorevoli serietà e nobiltà di mente.
    Aveva compiuto una scelta di enorme responsabilità: addestrare non uno ma ben due cavalieri d’oro. La sua costellazione guardiana, il Narvalo * , guidava il Leone e lo Scorpione.

    - Il Maestro Lisandro ha compiuto una  coraggiosissima decisione – affermò Shaka con ammirazione-  occuparsi dell'apprendistato di due guerrieri dorati capita raramente, se no quasi mai…

    - E’ vero – mormorò l’anziano – dopo la morte di Aiolos , Lisandro ha deciso di occuparsi di Aiolia e dopo ha preso sotto la sua egida anche Milo che è  rimasto orfano del padre Kletias …Quei  ragazzi sono stati fortunati. 

    Shaka sgocciolò un piumoso sospiro.
    Corrugò leggermente la fronte  sotto il velame solivo   della sua frangia.

    - Maestro Amitabha – interloquì con voce abbassata – mi  domando come possano combattere in nome della savia Atena uomini di spregiudicato spirito…Perché un guerriero quale Serse di Cariddi  serve la giustizia? Son cose inconcepibili…se penso che l’armatura del Cancro sia  stata conquistata da Death Mask  covo profondi  dubbi sul mio dovere. Avrò in battaglia  compagni demoni? Significa che , tutto sommato,  anche sulle nostre lande giacciono stracci di inferi?

    L’anziano non poté obiettare nulla al proprio discepolo.
    Lo guardò oltre quelle sue palpebre serrate, oltre quella pelle che non palesava i meravigliosi occhi che restavano in letargo per non disperdere il potere della vista.

    - Shaka…anche io  credevo che gli esseri umani non potessero appartenere ad un’unica razza…Non è così. Abitiamo tutti sulla terra, vediamo tutti lo scorrere delle stagioni,  siamo tutti  capaci di compiere atti benevoli e atti empi. Non potremmo essere costituiti di un solo materiale. Il nostro cervello non è creato per ricevere soltanto impulsi di bontà e luce; la vista non può rimirare esclusivamente la mera bellezza, le orecchie catturano melodie e trambusti, il naso percepisce profumi e afrori, la bocca avverte il dolce, l’amaro, il salato, l’aspro ; il tatto scivola sul velluto, sulla pietra, sul viscido, sul lindo…Le corde vocali parlano, cantano, urlano, gracchiano…La sensatezza di questo baccanale risiede nella capacità di selezionare bruttezze, delizie, ragionevolezze e deliri. Pensi che chiunque sappia interpretare la filologia dei versi di questa realtà? La maggior parte degli individui se ne infischia di imparare a leggere veramente. Si convincono che sia tempo perso e perciò preferiscono velocizzare i minuti…fatalmente.

    Il ragazzo rise con lenta ed appannata asprezza.

    - Effettivamente – soggiunse – ci si lamenta che non si ha mai tempo a sufficienza…ma se siamo proprio noi a corrodere e sprecare minuti come degli amministratori o burocrati incapaci di gestire preziosi documenti?

    - Questo è perché ci lasciamo governare dal dolore e dalle sue gradazioni di dispiacere…Sai perfettamente cosa intendo, vero figliolo?

    Shaka spalancò improvvisamente gli occhi. Quel  cilestrino di iridi , annaffiato di recondita trepidanza, tallì l’aria di soggezione.
    Amitabha aveva cognizione della sua luce: era la fragilità d’un infante, era la coscienza di un uomo tristemente intelligente.
    Contemplò tacitamente le foglie polpute e larghe dell'albero del bodhi.
    L’adolescente attese  quesiti in un mutismo d’agitata calma.
    Il saggio domandò:  

    - Dorato apprendista…sai spiegare la sacra semantica di Ashwattha, il nome di questo poderoso albero?

    Shwa  definisce il  domani,  è una particella di negazione , tha  designa “ quello che resta”Ashwattha significa  “ quel che non resta uguale domani “ * .

    La Guida sorrise discreta e densa di gravità.

    - Non avevo alcun dubbio sulla tua conoscenza… da quando eri bambino non hai mai smesso d’involare il tuo cosmo verso le vie che l’Alto manifesta. Hai forgiato lo spirito nello scorrere dei giorni evitando che ogni domani che si profilava restasse incarcerato nella pericolosità dello stagnamento e della paralisi.

    - In che modo  si può abbandonare  la propria crescita se qualunque fattore del  mondo soggiace  al divenire? Non affermava Eraclito che “ Acque sempre diverse scorrono per coloro che s’immergono negli stessi fiumi” ?

    Shaka si mostrava deciso, fermo, sfitto da qualunque oscillazione.
    Amitabha estimava enormemente quella facoltà di valutazione, ricerca, misurazione: il suo allievo era estraneo alle spensieratezze e leggerezze tipiche dell’adolescenza. A quindici anni sembrava detenere l’eloquio e lo spessore di un uomo di mezza età. Non c’era da stupirsi se i vecchi sacerdoti nutrivano, per lui,   fiducia e venerazione sconfinate.
      
    - Le tue parole rispecchiano la veridicità – riprese l’anziano-  Gli elementi che fluttuano nell’immenso ventre della realtà non hanno consistenza peritura. Nascono, si disgregano e scompaiono. Nella ciclicità di tali  metamorfosi è necessario camminare sulla via della maturazione. Una maturazione  che dovrà giungere al compimento della pace perfetta.  

    - Sì…E’ la non permanenza dei materiali e delle sensazioni della vita che causa sofferenza…All’inizio può apparire insopportabile l’ infelicità e una via che conduce al di fuori di essa è più dissetante di qualsiasi fonte…Eppure… la maggior parte degli individui  si rifiuta di ascoltare seriamente questo  precetto…E’  contraddizione…. Si vuole evitare il dolore per poi desiderare di non separarsene?

    - Shaka… il dolore non è causa del mondo, né del Fato e  né della pura causalità. Esso ha genesi dentro di noi, da quell’impetuosa fame di felicità che ci conduce a cercare la realizzazione nelle cose transitorie.  Vi è la brama verso gli oggetti sensuali, il  " kāmatrsnā " ;  la brama di esistere ," il  bhavatrsnā " ;  la brama di annullare la propria esistenza , il " vibhavatrsnā" .  Le divinità dal malefico intelletto sfruttano le nostre fragilità per imporre un loro costrutto di oscura coercizione. Per tale motivo la liberazione dalle catene dell'afflizione si deve avverare…L’illuminazione ci consente di non indietreggiare dinanzi al disfacimento con cui ci minacciano gli incubi e la morte.

    Il biondo monaco  levò il viso al cielo per trovare una simmetria tra l’azzurro dei propri occhi e quello dell’Eliseo…
    Parve non trovarla…
    Amitabha, in silenzio, stacciava profondamente quei timidi  squassi:  l'apprendista era considerato il cavaliere più vicino agli dei però nessuno lo sondava al disotto dell'epidermide, dei muscoli, dei tendini…
    Shaka appariva adulto ma non si dimoiava ancora dai greppi della giovinezza.
     
    - Maestro…- fece con delicata gravezza- molto ho appreso dalle Quattro Nobili Verità che mi avete trasmesso…il " duhkha satya" , la verità del dolore; il " samudaya satya" , la verità dell’origine del dolore; il " nirodha satya" , la cessazione del dolore e infine il " marga-satya" ,  il nirvana…Il nirvana per giungere all’Illuminazione profonda : l’ " anuttara-samyak-sambodhi" . Un sentiero per ghermire la totalità di un potere purificatore…un sentiero per non avvertire più  le sobillazioni dei  demoni…Tuttavia…è  legittimo questo processo? È esatto abbandonare le istanze della terra? L’intelletto non rischia di mutare in un’arma a doppio taglio?

    Ecco che Shaka decelerava.
    Ecco che si defalcava dalla compattezza.
    Ecco che snudava la sua paventata dicotomia.
    Amitabha  attendeva quel fallo linfatico.

    - Sei una bizzarra equazione, mio giovane seguace – dichiarò con tenera asciuttezza – inizialmente le tue cifre paiono dare risultati precisi ed inconfutabili… invece si scoprono numeri con radici cubiche e approssimazioni inverosimili oltre le virgole. Sei irrazionale matematica. Quante parentesi di operazioni bisognerà  risolverti?

    Il ragazzo sorrise un po’ affranto per la propria reità di astenia.
    Il Maestro lo squadrò con tenue severità e intensa penetranza.

    - Possiedi una mente e un cuore abbaglianti più dell'oro ma non ignori i decreti dell'orgoglio, del disprezzo, della solitudine, della paura.

    Shaka comprese il significato di quelle amare constatazioni.
    Amitabha,  flemmatico ed austero, gli aveva scomposto, con l’abilità di un pittore cubista, le facce del suo animo mostrandogli più prospettive in una sola volta. 

    Il giovane venne  costretto ad obiurgare se stesso.
    Sì …La solitudine lo escoriava però, alla fin fine, non ramingava volontariamente nell’intingolo della protervia?
    I suoi compagni lo consideravano una sorta di alieno e lui non faceva nulla per smontare quelle tesi e rendersi avvicinabile. Preferiva comportarsi da istrice  e accentuare,  con fredda aria intimidatoria,  il suo grande potere. 
    Se poi pensava che si sarebbe dovuto addestrare in Italia con Shura e , soprattutto,  con  Aphrodite, Death Mask si sentiva assalito da una combustione  di acide vertigini.
    Non sopportava il divario che esisteva tra la sua persona e il resto dei cavalieri d’oro…In un certo senso ne era quasi spaventato in quanto non voleva ascoltare le opinioni che lo riguardavano…
    Che cosa dicevano di lui gli altri ragazzi?
    Detestava figurarsi i  disparati  giudizi e  le prese in giro  di cui  poteva essere  bersaglio da quintana.

    Ricordava  uno sgradevolissimo episodio capitato durante il periodo dei preparativi  per la Triade Templare d’Oriente * …
    Lui e i compagni si trovavano ad Istanbul…
    Gli allenamenti di quella giornata erano terminati…
     


    Sulle acque del Bosforo, il sole salivava le ultime scorie rossastre di pelle viva…
    I piroscafi, i pescherecci e alcuni battelli strisciavano , con ampolloso rigore,  i loro ventri abbacinati  di alghe e ruggine appiccicose di salsedine.
    Il  porto del Corno D’Oro brulicava di marinai, operai e guardie costiere che componevano i tasselli  di un ultimo e caotico scarabeo prima che la sera lasciasse emergere in ava scoperta turisti ed allegria  di divertimenti.
    Ai limiti di questo collare di formicaio, stava un vivace ed ampio bar con  tavolini quadrati esposti in una piazzola circolare. A delimitarli  file di acacie e panchine di legno.   


    - Per la miseria…- si lamentò Aphrodite storcendo, scocciato,  il labbro superiore  – ma lo hai visto oggi il  mistico bonzo?

    - Merda! – rispose Death portandosi alle labbra una bottiglia di birra-  scommetto che  quello non si farebbe annusare le ascelle neanche dal Gran Sacerdote in persona!

    Il bellissimo svedese sghignazzò  bevendo un amaro dal suo bicchiere di vetro.

    - I suoi poteri telecinetici mi sorprendono – disse con teatrale e derisoria serietà – ma mi sorprende  ancor di più la sua straordinaria aurea immacolata…Non sei accecato da siffatto bagliore, amico mio?

    Il siciliano scoppiò a ridere senza  ritegno.

    - Caro Aphro! Il santone indiano ha paura di pigliarsi qualche infezione se va a pisciare o cagare dove lo abbiamo fatto noi! Ha le chiavi per i cessi divini, lui!

    - Dai, Death! Shakino non può abbassarsi ai nostri infimi livelli! Chi è in grado di sorbirsi  l’apnea delle meditazioni e delle ascesi?

    - Chissà che bello maciullarsi le palle con  seghe mentali di grande luce! 

    - Oh ma lui è troppo incommensurabile e…puro.

    I due sogghignarono con goliardica velenosità.

    - Oh – fece Death dando una gomitata all’amico – secondo te come reagisce il verginello  se una femmina gli apre le cosce? E’ frigido o gli si rizza ?

    - Vediamo -  scherzò Aphrodite fingendosi gravemente assorto – può morire con una violenta epistassi al naso oppure… può sperare in un’eiaculazione precoce per preservarsi intatto!

    L’italiano,  che stava bevendo,  tossì bruscamente.
    Ridendo e sputacchiando birra esclamò:

    - Vaffanculo, Aphro!  Non mi devi sparare ste’  cose mentre sto drinkando!

    Gli diede un pugno sul braccio.

    - Ehi! – fece l’altro spintonandolo – mi hai posto un quesito e  ho risposto!

    - Ma ti immagini se portiamo il biondino in qualche night club? Magari lo facciamo sbronzare e  si metterà a ballare con l’uccello da fuori per le tardone ninfomani!

    - Nooo! Gli   dobbiamo trovare un’onesta zoccola  con grosse esigenze spirituali!

    - Seee! Esigenze  spirituali! Voglio vedere se una pensa all’illuminazione quando un pesce le entra nella fessura!

    Aphrodite sorrise maliziosamente e bevve .

    - Scommettiamo, Death! Che tipo di cavallo è Shaka? Da trotto o da corsa?

    - Bah…bisogna vedere quanto sa dare nel montare una puledra...Chissà se si ammoscia subito o è uno che  tromba off limits!

    - Sei  molto fiducioso!

    - E’ l’uomo più vicino agli dei! Quel puttaniere di Zeus gli avrà dato qualche consiglio su come sbattere una donna nella maniera più celeste possibile!

    I due amici esplosero, ormai alticci, nell’ennesimo scroscio di risa da iene.
     
    - Quanto sei stronzo! – esclamò Aphrodite posando l’avambraccio sulla spalla del compagno- non ci avevo pensato a sta scemenza! Grande!

    Continuò a ridacchiare un po’ inebetito.
    Dopo aver ruttato,  Cancer aggiunse con sorriso sghembo:

    - Che ne dici, se mettiamo una bella rivista porno sotto il lettino del piccolo Buddha?

    - Non ne ha bisogno…

    - Perché?!

    - Scusa, secondo te Shaka come ha fatto a raggiungere il settimo senso?

    - Boh…che cazzo ne so!

    Ridendo come un cicisbeo impomatato, Aphrodite mandò giù un’altra dose d’amaro e rispose:

    - Semplice, Death:  Virgo ha amplificato la sua forza sbavando sul kamasutra!

    L’amico rise  urlando e sbattendo ripetutamente  il pugno sul tavolino del bar.

    Shaka, invisibile e con il cosmo occultato, si alzò dalla panchina sulla quale era assiso.
    Si allontanò di fretta.

    Non appena raggiunse una parte solitaria del porto della città, ricomparve.

    Poggiato sulla parete di un enorme magazzino,  scivolò a sedere per terra.
    I lunghi capelli biondi  gli si bagnarono  degli anoressici raggi del tramonto.
    La camicia e il pantalone bianchi  gli  s’impolverarono maldestramente privi di  rumore.

    Lacrimava.
    Lacrimava scartocciato,  furibondo, umiliato.

    Cominciò a singhiozzare senza un rosone verso il quale rivolgersi…
    Senza un rosario da stringere con carezze di preghiere e conforti.

     


    Shaka…la traversata per arrivare nella capitale della perfezione è lunghissima…

    Le parole scandite dalla voce soave di Amitabha dissiparono le fumarole sgradevoli dei ricordi.
    Il ragazzo tornò superficialmente temperato per tentare di rigenerarsi  con lo sguardo benefattore del Maestro.

    - Sono convinto che vedrai la luce ultima – continuò l’anziano- apprenderai la più grande delle metamorfosi: quella dell'ottavo senso, lo stadio che ti condurrà oltre l’oscurità azzerante della morte.

    Virgo sentì il cuore impregnarsi di sangue ossigenato, carbonico, bianco.
    Un leggero capogiro lo fustigò.

    - Signore…- sussurrò- voi…credete che sarò all’altezza di compiere tale trasformazione?

    Il monaco gli si avvicinò posandogli una mano sulla spalla.

    - Caro ragazzo…-  pronunciò con soffice rimprovero – tu già sei in alto. Il tuo dilemma è che scivoli continuamente dalle  vette. Tocchi l’azzurro intoccabile e poi sprofondi assaporando con inspiegabile masochismo la nebbia dei dolori. Sei geloso dei tuoi tormenti e temi seriamente una trasmigrazione del tuo animo nel compimento…Sai sentire profondamente…lo so…ti lasci sconvolgere dalla bassezza dei mali piccoli e grandi…Non tolleri gli orrori, le miserrime furbizie, i sotterfugi…Dispiega  la luce della tua sensibilità in verticale. Verso la pace che ti allontanerà dai disordini altrui  e di te stesso.

    - M-Maestro…quante cose perderà il mio vascello nell’attimo in cui attraverserò quest’oceano?

    - Tante, Shaka. Perderai tante cose perché il conseguimento della perfezione porta sempre la lacerazione  dalle debolezze. Conosci il tuo ruolo nell’orbita dello zodiaco dorato. La giustizia e la salvezza della pace terrestre le potrai garantire in uno stato di equilibrio coerente, sincero, e privo di sbavature. Niente ti dovrà far vibrare. Niente ti dovrà avvelenare: né l’angoscia, né l’abbattimento e neanche l’irragionevole gioia.

    Con celata mestizia, il ragazzo si inchinò di fronte alla Guida baciandole le mani.

    - Quando la meridiana segnerà le sette – lo avvertì l’uomo – raggiungimi nel Tempio…ci organizzeremo per il viaggio ad Atene e stabiliremo, per il prossimo anno, i mesi in cui ti dovrai recare in Sicilia per prepararti con Shura, Aphrodite e Death Mask…La prova della Triade Templare D’Occidente avrà luogo ad agosto*. 

    -  Attendetemi, Maestro.

    Shaka si congedò con deferenza.
    Si allontanò per andare a pregare davanti la statua del Buddha che si trovava oltre l’albero Ashwattha.

    Amitabha scrutò l’adolescente che camminava…
    Avanzava diritto, elegante, con la chioma che bisbigliava ballate di silenzio e giunchiglie…
    All’immagine meravigliosa del ragazzo si sovrappose quella mingherlina e cedevole del remoto bambino…Quel piccolo con la tunichetta immacolata, forse un po’ larga e sbuffante che lo faceva sembrare un canarino impicciato nella stoffa…
    L’anziano ricordava le volte in cui il bimbo piangeva solo senza concludere l’amaritudine  delle  prime meditazioni. Era solito a prenderlo in braccio e a rassicurarlo incoraggiando piano piano ad avanzare…
    Pareva, a momenti, bislacco ridisegnare  Shaka quale infante dalle braccine paffute, con il visino tondeggiante spesso umido e le piccole mani che non riuscivano a gestire le perle della grande corona di Buddha.

    Le cose in realtà non erano  variate.
    Il ragazzo non piangeva più.
    Non piangeva più dinanzi agli altri…ma con se stesso?
     
    Rasentava la perfezione divina e , ciononostante,  permaneva nell’esitazione. Amitabha sapeva che  non era un atto d’incoscienza puerile e che l’allievo desiderava con strana convinzione non attraversare il ponte di loto che l’avrebbe portato all’oblio della terra.

    Il ragazzo non aveva ancora fabbricato il suo esercito di terracotta che l’avrebbe fatto trionfare oltre la muraglia della tristezza, oltre gli urli uggiosi degli unni.

    Egli soffriva.
    Soffriva recitando , con orgoglio gelante ed alienante,  il ruolo di uno straordinario imperatore che mai si sarebbe allontanato dalla sua Città Proibita d’oro, d’ambra e di turchesi. Mai avrebbe smantellato il suo Katai di sete speziate e di misteri sanscriti.

    Egli soffriva.
    Soffriva diffidando con abissale spietatezza dei propri compagni, di quegli  altri cavalieri troppo disconnessi dal suo sistema di calcolata ragionevolezza. 

    Egli soffriva.
    S’illudeva di pareggiare i numi sparendo dalle anagrafi del mondo. Dimenticare. Dimenticare. Mutare nella totalità di una potenza apatica.

    Voleva essere timorosamente e solamente normale.
    Normale.
    Camminare davvero dentro scarpe o sandali scomodi, bollarsi di acquee vesciche, indurirsi e spellarsi i talloni  di sobria fatica.  

    Certo, negli addestramenti sulle rive del Gange s’era ammantato di sforzi assurdi e aveva  tastato l’ipogeo della miseria nelle città : fiatate di moscerini e mosche segmentate di mortifero sterco, stracci di persone infradiciati dai succhi gastrici del sole, abitazioni sbaragliate da piogge ingrassate e microbi pestilenti.
    Aveva compiuto missioni salvifiche per tamponare i sarcomi  delle distruzioni …tuttavia…ogni volta che terminava il proprio dovere  scompariva.
    Si allontanava senza dare alla gente il tempo per guardarlo in volto.

    Cosa aveva imparato da tutto quello?
    Aveva imparato a tagliuzzare e rimescolare il dolore con cesoie sideree? Aveva imparato ad eseguire delicate operazioni chirurgiche con bisturi sproporzionatamente  disinfestati e guanti di talco  antibatterico?

    Quei doveri non per stare vicino all’umanità ma per accrescere la propria anomalia?
    Bere astrazione?

    Shaka voleva discorrere minutamente, con umiltà tangibile, sentire comunemente.
    Voleva imparare a ridere senza impolverare le sue labbra di cloroformio.

    Voleva, voleva, voleva…Tanti desideri quasi irrealizzabili poiché difficilmente avrebbero ottenuto la cittadinanza della sua intransigente psiche.
    Cambiare era come contorcersi attraverso  una brutale lobotomia.

    Amitabha chiuse gli occhi diluendo l’azzurrognolo dell'aurora con l’ebano sotterrato delle ciglia.

    Rama…Danae…” meditò rivolto al paradiso “ prima che la fatica mi usuri mortalmente i moti del sangue , giuro che completerò la mia opera…Vostro figlio è splendido come voi…Ha bellezza, sottigliezza di sguardi, uno sterminato intelletto di scibile…Necessita però di ingenti sicurezze…E’ così strano ed estraneo per il suo stesso spirito…Si erge su un piedistallo apparentemente incrollabile evolvendosi per poi… cadere. Cade…Cade molte volte e lo fa impaurito e con virale determinazione…E’ di un metallo luccicante e terribilmente fragile…”

    L’anziano aggrottò le ciglia con dispiacere ma con speranzosa serenità.
    Credeva amorevolmente nel suo discepolo. Aveva compreso che la strada fosse affannosamente lunga.
    Un tempo l’aveva intrapresa anch’egli. Per evadere da un ‘ecatombe di sanità logica. Per evadere dall’uccisione di ogni unità luminosa.
    Parecchi e atroci erano stati i suoi patimenti di gioventù.
    Lanzichenecchi con le picche scintillanti di esecuzioni.

    Amitabha aveva conosciuto l’emarginazione su  muretti sovraffollati di sassi aguzzi, aveva conosciuto la meravigliosa pericolosità dell'amore vero, aveva conosciuto la bestiale purificazione nell’ascesi della solitudine…

    Prove che gli avevano sottratto lacrime di terra.
    Prove che gli avevano trasfuso un nuovo purgatorio.

    Nonostante quella marea d’acqua, lava e sabbia egli rivelava quotidianamente uno sguardo fresco, come se fosse un ragazzo tatuato di  rughe per evitare di alimentare  invidia nei vecchi che avevano perduto slancio.

    “ O Buddha d’auree vista e materia di spirito “ pregò “  fai sì che io riesca a realizzare l’essenza divina di Shaka oltre queste roccaforti d’ostacoli addolorati…Fai sì che io possa spirare nella ciclicità dell'eterno al termine di codesta missione. La mia costellazione guardiana, gli Alberi di Sala, mi aspetta lentamente per vedermi seppellire sotto le sue fronde…Mai sono stato avvezzo alle armi e alla lotta…Le mie vestigia sono d’argento vegetale. Sono state costituite per comprendere e servire la luce. Io sfumerò nell’invisibile e nella  pace del glorioso sonno quando avrò visto  l’unione del mio discepolo con l’Iperuranio.

     


    Shaka sedeva a gambe incrociate , con la schiena eretta, di fronte alla scultura dell'Illuminato.
    Tentava di pietrificarsi assieme all’immobilità delle ultime dormite della natura…
    Sarebbe stato stupendo assumere la consistenza della creta del cielo da sempre vaccinata contro la pietà verso le vicende umane.
    Sarebbe stato stupendo non avere un cervello, gonfiarsi e sgonfiarsi di sinuosità pari a meduse che fulminano e inghiottono pesci proseguendo   il nuoto in una zittita indolenza di noia.

    Niente  poteva essere stupidamente facile.

    Virgo desiderava divenire un’ameba per sbattere sugli scogli senza avvertire la cognizione della ferite…
    No…
    I punti di sutura delle cicatrici  li contava fin troppo bene.

    Vibrava ancora di livore  se tornava , con la mente ,  ai volgari cacciaviti con cui Death Mask e Aphrodite l’avevano smontato in Turchia…Shura, invece,  si era mostrato, in quel periodo di addestramento, l’unico compagno dotato di diligenza e senno…Certo, aveva avuto modo di distrarre la mente con ragazze, ma mai aveva osato denigrare e comportarsi grettamente…
    Quel dato positivo poteva considerarsi una più che valente consolazione ma l’indiano non riusciva ad apprezzare totalmente.

    Continuava a sussistere in lui il resoconto della propria diversità…
    Era riuscito qualche volta a impastare un brandello di parole chiarificatrici?
    No.
    Gli altri non capivano lui e lui aveva timore di capire gli altri.

    L’unico con il quale era riuscito ad imbastire un impianto d’intesa era stato Mu.
    Mu che gli aveva sorriso per la prima volta senza invadergli il suo spazio.
    Mu che gli chiedeva, da bambino,  di giocare …
    Mu che lo aveva adornato di una speciale normalità facendolo sentire libero di essere piccolo e disarmato.

    Shaka aveva sentito orribilmente la mancanza del tibetano. Si era tristemente pentito di non essere riuscito ad allestire una ferrea amicizia.
    Si augurava disperatamente di farcela…almeno avrebbe cominciato ad abbattere la palizzata dei propri tentennamenti…

    Vi era qualcosa d’inconcluso che, tuttavia, lo escludeva da un’esigenza di pura ariosità.
    Vi era  qualcosa che gli scartabellava paragrafi di tensione e acari tossici.
     
    Adorava Mu.
    Invidiava Mu.
    Temeva Mu.
    Non vi era alcuna cattiveria in quei contrastanti sentimenti ma si scorgeva un malessere di superbia, incertezza, manchevolezza.
    Shaka era l’uomo più vicino agli dei ma il successore di Sion lo superava in molti altri contesti:  possedeva una spiritualità sterminata , riusciva a convivere con la diversità dei suoi compagni, era un poliglotta di diplomazia, si manteneva introverso ma si esponeva cautamente nei momenti giusti…
    Forse Mu meritava per davvero il serto divino . Virgo non se ne capacitava.
    Dentro si sentiva madido di rabbia: perché l’Ariete lo sorvolava? Perché?! Era inaccettabile…Lui, Shaka, lui che portava il nome di Buddha Shakyamuni, lui che aveva raggiunto il settimo senso, lui che poteva privare crudelmente gli altri guerrieri dei sensi…

    A cosa servivano i poteri straordinari?
    A stare sempre più lontano…
    Mu riparava le vestigia divine.
    Mu poteva rinnovellarle di vita.
    Era lui la continuità autentica dello zodiaco.

    “ Vorrei odiarti “ rifletteva l’indiano stringendo i pugni “ vorrei poterlo fare senza scrupoli ma non è possibile…buttarti a terra sarebbe il più disgustoso e infame dei crimini…Non meriti nessuna tortura…Ti ammiro troppo e  mi dai atrocemente  fastidio, sogno di essere il tuo migliore amico e desidero diventare il tuo rivale numero uno! Quanto non mi sopporto, Mu! Vedi come sono assurdo? Il Maestro Amitabha  ha ragione a definirmi irrazionale matematica…Quando sarò ad Atene mi precipiterò a parlare da te e ti scaraventerò in faccia tutto!  Ti riempirò di domande e saprai la densità della mia stima e del mio stolido astio…Ci affronteremo in duello perché non posso tollerare che tu mi superi! Che tu sia migliore! Devi smetterla di tirarmi giù ! Io sono il Cavaliere della Vergine! L’incarnazione di Buddha! Cosa sei, maledetto?! Cosa diavolo sei?! “

    Shaka placò le sue elucubrazioni terrorizzato.
    Un insano e immotivato rancore lo stava pericolosamente ottenebrando.
    Si mise una mano sul cuore: rimbombava forsennatamente iniettato di virus.
    Si toccò il fianco destro : il fantasma verdastro di una cirrosi lo voleva consumare. 

    “ No..” si disse “ no…Non devo crollare in questo modo….No…Non posso pensare queste mostruosità…”

    Respirando affannosamente si mise in ginocchio con le braccia e il capo che baciavano il suolo.
    I capelli setosi e liscissimi gli scivolarono davanti come nastri d’estate spauriti.

    “ Non sono in grado di pugnalarti , Mu…Mai lo potrei fare! Mai…sei stato  il primo a interpretare la mia lingua…il solo che lo abbia fatto con convinzione…Innumerevoli volte mi hai teso la mano…”

    Si levò col busto.
    Fissò la statua di Buddha dallo sguardo serrato ed ascoltatore.
    La mano destra era sollevata nel gesto dell'abhyamudra, l’incoraggiamento, la mano sinistra era posata aperta sul ginocchio nel gesto del varadamudra , l’esaudimento delle preghiere.  

    “ Shakyamuni d’immortale e lucente  saggezza…” invocò l’adolescente “ insegnami ad essere pari al cavaliere del Montone Bianco, rivelami la soluzione  per non finire dissociato in pezzi…Sai com’è lui…Lui può diventare invincibile perché conosce la padronanza del sangue per infondere vita… Io…non so che infondermi disordini d’idee…”  

    Un lampo.
    Un lampo silenzioso e addensato d’enorme energia.
    Un atterraggio raggiante e avvitante in un incantesimo di stordimento.

    Il cavaliere della Vergine scattò in piedi.
    Si voltò verso la macchia arborea che ornava il giardino del santuario.

    Qualcosa si spandé in filigrane  di architravi di luce.

    Uno sfarfallio sfavillante sfamante sfumante.
    Volò, vociò, vorticò.
    Illuminò illudendo che il carro di Febo fosse sorto in anticipo..
    Tuonò fresco detonando tra le frasche  centilitri di vanigliata  aureola. 

    Shaka si mise a correre anormalmente scosso. 
    Sfrecciò tra i tronchi che esibivano  incartamenti  di sughero zuccheroso. Sfrecciò sotto i trafori delle frasche che filtravano luci azzurrine e violette di etere.
     
     Saettava silente eguale ad un Ermes che danza sulle crocchie agglutinate dei cirri.
    La tunica bianca gli aderiva alle gambe e  al busto formando  sottili dossi di lattea fragranza.
    I capelli nuotavano  effondendo trilli  di xilofono. 
     
    Pareva l’ arcangelo Gabriele intimorito di tardare  l’annunciazione alla vergine Maria.

    I suoi passi veloci divoravano le folate imprendibili delle fotosintesi clorofilliane.
    I suoi occhi,  d’azzurre melanconie cuneiformi, erano aperti e imperversanti di scintille. 

    Si arrestò.
    Era giunto vicino alla fonte di misteriosa vivacità.

    Davanti a dalie e piante d’agave, nubi di rosolia arancioni e bianche, giaceva una fanciulla.
    Era priva di sensi.

    Shaka si precipitò a soccorrerla.

    Era piuttosto insolito che  si comportasse in maniera ansiosa e palpitante. I monaci  lo  vedevano sempre imperturbabile ed ibernato nella compostezza…
    Adesso la circolazione gli fremeva, cadeva dal controllo simile ad una ruota di fieno incendiata che scivola dalla schiena di un colle. 

    Il ragazzo non si spiegava il perché di quelle emozioni…Era come se si stesse delineando una rivelazione, un colpo di stato che avrebbe rovesciato qualcosa di ancora  sconosciuto…

    Paura? Angoscia? Felicità? Imbarazzo di sé?  Shaka trepidava confuso e contuso.
    Riuscì , tuttavia, di nuovo a placarsi ed ottenere un po’ di temperanza.

    S’inginocchiò affianco la ragazza.
    Era sdraiata supina…
    Semplice. Chimerica. Splendida. Essenziale.
    Possedeva una beltà disadorna della luminosità sensuale di Afrodite. Era dotata di un’armonia elementare, umile eppure anelante di spiazzante metafisica.
    Il suo viso, di distese vaporate, si modellava , gentilmente lungo,  verso il mento. Il naso era piccolo e terminava con una morbida punta. La bocca ,fine e sinuosa,  si cromava di un indaco rosato. Le ciglia erano le trine nere di sottane notturne. I capelli, di media lunghezza, rifulgevano di un castano cioccolato fondente. Due ciocche ondulate cascavano ai lati del viso mentre un cespuglio leggero di riccioli accarezzava la snella nuca.
    Non si mostrava alta ma la sua deliziante figura era slanciata e areata. Aveva membra filiformi e probe. Una veste leggera, di un lilla che sfumava nel celeste, le copriva le grazie: le maniche lunghe lasciavano trasparire le sagome delle braccia sottili, il seno, elegante e soffuso,  veniva encomiato e sottolineato  da una pudica e sottile cintura di perle blu. 

    Una semi divinità? Una fata?  Lo spettro di una principessa?

    Shaka provò a studiare il cosmo di quella magnifica creatura: non possedeva l’immensità di una dea e neppure l’aurea  di un demone benevolo o di una ninfa.
    Non era umana malgrado le sembianze fisiche.
    Apparteneva a qualcosa di spaventosamente elevato, una dimensione imperscrutabile assai difficile da tracciare sugli atlanti celesti.

    Il ragazzo era rintronato come fosse stato trafitto da una letale insolazione.
    Guardava l’enigmatica fanciulla, la squisitezza del colore che emanava…

    Annebbiato e scolorito nella mente da quell’incarnato, desiderò sfiorarlo…Lo fece simile ad un tremito d’antenne di coccinella…
    Col palmo della mano carezzò una gota della giovane: stranissima. Possedeva la dolcezza salata dell'oceano seghettato  dalla melanina del cielo.
    L’assolo più decantato era il respiro d’ella: il cavaliere lo sentì gattonare sulle proprie dita… Le odorò stupito:  decifrò l’aroma spugnoso e agrodolce della mimosa, le morbide protuberanze della lavanda, la calura sciolta della camomilla.

    Il cuore gli esplose in un’estasi di carnale misticismo.
    Non fu più in grado di dettare parole ragionate.
    Divenne  vigile in un’ubriacatura dormiente.
    Non comprendeva mitigazione.  Era assente e follemente assorto.
    Il senno gli si congelò analogo ad un fenicottero che si paralizza su un pomeridiano lago di ceramica. 
    Bramò di conoscere le striature delle labbra di lei.
    Dove sarebbe stato convogliato? Dove sarebbe atterrato?  Avrebbe visto un Taj Mahal  più leggero dei chicchi di riso e d’avena?

    Candido di curiosa puerizia, accostò lentamente il viso a quello della ragazza…I lunghissimi capelli gli cascarono, solleticanti e sibilanti, sulle spalle e sul petto d’ella…
    Inspirò sodio di tenerezza pari ad un anemone cullato dalle digestioni dei fondali…
    Gli spifferi dei suoi battiti  fecero attrito con quelli della vergine…
    I polmoni si sollevavano e si abbassavano eguali a pellegrini della Mecca in preghiera…
    I trambusti del sangue pulsante giungevano granulati e cavernosi come se facessero le fusa all’interno  di gusci di conchiglie…
    Shaka, che amoreggiava con la bocca, si accorse che la fanciulla ebbe un lieve sussulto: mosse il volto sfiorandogli, con languida incoscienza, il naso.
    Lui  , sgamato nuovamente dalla  monastica razionalità,  avvampò violentemente.
    Si risollevò in modo colpevole con la frangia un po’ scomposta.

    Sgranò gli occhi quasi per rimproverare se stesso: era la prima volta che cercava un contatto fisico. Da piccolino, nei momenti di grave tristezza,  era stato lui ad attendere, a volte,  gli abbracci di Amitabha  per rifugiarsi nel sollievo. Mai, però, prendeva l’iniziativa di avvicinarsi ad una persona.

    La bella aprì a rilento gli occhi.
    Mosse indolenzita le braccia…
    Tentò di sollevare un po’ le ginocchia…

    Virgo la rimirò stregato come  stesse vedendo  una ninfea nell’atto di aprire la mitra  di petali…
    Vide che si appoggiò debolmente su un gomito…
    Con spontaneità imprevista, le circondò delicatamente le spalle aiutandola a sedere.

    - Come…ti senti? – soffiò con soggezione.

    La ragazza, malgrado fosse esausta,  lo contemplò con viva e dolce attenzione.
    Il suo sguardo era di un marrone centellinato  di castagneti soleggiati.
    Le belle labbra le si alleggerirono in un sorriso.

    - Sei un cavaliere dorato della somma Atena? – domandò rosea e un po’ dismessa-  la tua costellazione guardiana è la Vergine?

    Il ragazzo, stupito, asservì:

    - Sì…Sono  Shaka Sukhavati* Gautama…Custodirò la Sesta Dimora dello Zodiaco…

    La fanciulla parve coccolarlo con una tenue risata:

    - Sono felice che il mio travagliato viaggio si sia concluso nel migliore dei modi…Temevo di precipitare in zone oscure ma per fortuna…sono stata capace di seguire la scia…d-delle tue stelle…

    Si sentì di nuovo debole.
    Reclinò in capo in avanti.
    Shaka l’abbracciò con premura rivitalizzandole l’ aurea infreddolita col proprio cosmo. 
    I flussi di luce si fusero in un amplesso privo di lussuria.

    - Va meglio, adesso? – domandò il giovane con un mormorio.

    La ragazza lo annientò innocentemente  con gli occhi.

    - Ti ringrazio – fece dissetandolo di tenerezza – credo…che potrei…provare ad alzarmi…

    Aiutata dal monaco, si mise lentamente in piedi ma dopo alcuni secondi barcollò.
    Scontrò sofficemente il viso  col petto di lui che trasalì arrossendo.

    - Non riesco a camminare bene sulla Terra – constatò ella abbacchiata- dovevo immaginarlo che non sarebbe stato facile abituarsi subito…

    - E’ m-meglio… che ti porti in un luogo sicuro – azzardò timidamente Shaka -  scusa…

    Con angelica morbidezza, la prese in braccio...
    Si accorse che era più leggera di qualsiasi proiezione onirica…
    Ebbe l’impressione di aver sollevato un fascio di crisantemi…

    La fanciulla posò trepidamente la testa sulla spalla del giovane.
    Il soccorritore venne sommerso dall’effluvio di ciliegie e menta dei suoi capelli…
    Rimase , per alcuni istanti, assolato e frizzato dal succo inespugnabile di tale magia…

    - Shaka.

    Il ragazzo si voltò indietro.
    Era stato talmente assorto dal profumo della giovane da non essersi accorto del Maestro Amitabha  che l’aveva raggiunto.

    L’uomo fissava lui e la diafana creatura colpito ed impensierito.

    - Le porte del Cielo Ultimo si sono inaspettatamente spalancate – disse solenne e perplesso .

    La fanciulla gli chiese armoniosa.

    - Voi siete il Maestro di quest’illuminato cavaliere?

    L’anziano si inchinò rispettosamente.

    - Mi chiamo Amitabha Sukhavati – dichiarò – sono sommo sacerdote e cavaliere d’argento che custodisce lo spirito della costellazione degli Alberi di Sala. Tu, giovane d’etere, provieni invece dalla dimensione posta al di sopra del nostro cielo?

    La ragazza sollevò la manica della sua veste mostrando al sacerdote un piccolo tatuaggio…
    Una scritta in caratteri greci, una strana parola d’ordine:

    Uranòs Penta.

    Il vecchio maestro e il discepolo inarcarono  le sopracciglia sbalorditi.

    - Sono un' Alchimista di Eu Topos* – rivelò la creatura – provengo  dall’universo dell'Iperuranio. Il mio nome terrestre è Evelin  e sono giunta qui, in seguito ad un lungo sentiero di metamorfosi, per avvertire voi , detentori della protezione di Atena, che l’armonia che sorregge le dimensioni celesti verrà minacciata in modi estremamente gravi.

    Amitabha e Shaka erano stravolti.
    La leggenda degli Alchimisti di Eu Topos, era ancora più antica e sfuggente di quella del continente di Mu.
    Davvero esigui erano i frammenti letterari che li riguardavano. Poco o niente si sapeva di quegli esoterici esseri lontanissimi dalla Terra e , a momenti , dal mondo degli dei…
    Soltanto Platone aveva definito l’Iperuranio, l’oltre cielo, il luogo perfetto delle idee…

    - E’ incredibile – fece Amitabha –Nel corso della storia delle Guerre Sacre, il vostro Ordine è intervenuto solo due volte. Se vi hanno dislocati , all’interno di quest’era…significa,  celeste Evelin, che gli eventi si evolveranno più letali del previsto! Gli dei mirerebbero a sconvolgere persino gli equilibri con l’Iperuranio…  

    - Maestro -  si rivolse Shaka – ci conviene partire per Atene prima che qui, a Bodh Gaya , sorga la notte.

    - Sì…- appoggiò l’uomo – occorre accelerare i preparativi. La nostra fanciulla tuttavia…pare non ancora nel pieno delle forze…

    Il ragazzo guardò Evelin.
    Stringendola a sé,  con soave e impercettibile vigore, enunciò fermo:

    - Mi prenderò cura  di lei. Giuro, signore, sul nome dell'Illuminato e della saggia Atena, che sarò responsabile della sua incolumità. 

    Evelin rimase deliziosamente spiazzata.

    Amitabha sorrise serio e occultamente preoccupato.
    L’allievo si sarebbe preservato cultore della propria temperanza?

    La spiritualità istintuale  pareva stesse per ottenere  l’ipoteca della ragione…
    I dubbi capitombolavano dalle guglie frastornate dell'’imprendibile imprevedibilità.

     


     
    Note:

    Tempio di Mahabodhi* : è un tempio buddhista a Bodh Gaya dove Siddhartha Gautama ottenne l’illuminazione ( Bodh Gaya si trova a circa 96 km da Patna, capitale dello stato federato del Bihar, India)

    Fiume Falgu* :  il corso d’acqua presso il quale Buddha, dopo tre giorni e tre notti di meditazione,  ottenne l’illuminazione. E’ situato vicino Gaya, distretto della divisione di Magadh, nello stato federato del Bihar ( parte nord orientale dell'India ) . 

    Amitabha* : il nome del maestro di Shaka è stato ripreso da questo  Buddha celestiale narrato in alcuni sutra ( i testi canonici ) della scuola Mahāyāna di Buddhismo. Secondo queste scritture, Amitabha è un illuminato che possiede innumerevoli meriti in virtù delle molte azioni buone compiute durante le sue differenti vite. Dopo aver vissuto nel samsara ( il mondo terreno) , risiede nel Paradiso Occidentale.

    Narvalo*: cetaceo appartenente alla famiglia dei delfinatteri, presenta la peculiarità di avere un lungo  dente sul muso , simile ad una vite, che ha dato origine alla leggenda dell’unicorno. Vive nei mari dell'Artico.

    Ciò che non resta uguale domani” * :  Shaka riprende l’interpretazione di Ashwattha dal filosofo hindu Shankaracharya  ( vissuto tra 788 e il 820 d.C ,  secondo le fonti moderne, o tra il 509 e il 477 a.C, secondo quelle più antiche, influenzò profondamente lo sviluppo e la crescita dell'induismo). Nonostante sia una versione di significato induista, ho ritenuto giusto e coerente adoperarla nella narrazione per la sua funzionalità  semantica e filosofica. 

    Sukhavati *: nome sanscrito che designa le “ Terre Pure” , oltre l’Occidente, dove Amitabha Buddha ha la facoltà di far rinascere coloro che lo invocano. I suoi discepoli apprendono insegnamenti per diventare bodhisattva ( illuminati) e poi Buddha completi.

    Eu Topos*  : dal greco antico “ eu” bene + “topos” luogo che  significa “ luogo felice” .   E' una delle radici etimologiche di utopia , termine che compare per la prima volta nel Cinquecento, nel saggio di teoria politica del filosofo inglese Thomas More. L’utopia viene identificata  quindi , come isola felice ma anche come “ non-luogo “ ( Ou –topos ) . Incarna la dimensione ideale della perfetta ed equilibrata società politica. 


    Note inerenti ai capitoli precedenti:

    …durante il periodo dei preparativi  per la Triade Templare d’Oriente*  “


    La prova della Triade Templare D’Occidente avrà luogo ad agosto* ”  : entrambi i richiami a queste prove li trovate nel CAP 5 – conchiglie di storie : tra le rovine dell'Acropoli. 

     


    Note personali:
    salve a tutti!! ^^ a distanza di un mese preciso torno ad aggiornare!! Mi dispiace non averlo fatto prima -.-  questo capitolo mi ha fatto un po’ ammattire ( tutta la documentazione inerente alla filosofia buddhista…) !  Sono stata contentissima di averlo sfornato poiché compare, FINALMENTE, Shaka  della Vergine, il mio great love dopo Mu X3  Ho adorato delineare in maniera problematica il suo carattere assai particolare e…divinamente sensibile…Affianco al caro biondino, ho poi  posto la figura di Amitabha, il venerando Maestro…insomma, va bene che Virgo è l’uomo più vicino agli dei, ma mi pareva assurdo che non avesse mai posseduto una guida! E’ fondamentale avere un mentore e un protettore che conduca alla maturazione… Altri elementi “ remoti”  di questi due  personaggi verranno svelati nei prossimi episodi ;) specialmente il vecchio Amitabha che qui resta ancora avvolto nel mistero…
    E’ scontato dirvi che l’enigmatico ordine degli Alchimisti di Eu Topos vi verrà chiarito  gradualmente…Le dovute spiegazioni verranno date ! Ci mancherebbe altro!! XD Evelin poi…eh!eh! E’ dalla notte dei tempi che avevo programmato di farla irrompere nell’esistenza di Shaka! Dopo tanti rimescolamenti di ideuzze alla fine ho desiderato renderla un personaggio anormale…Shaka non poteva iniziare a tessere legami con una fanciulla comunemente terrena…Vedrete…Le sorprese continuano a non esaurirsi…Evelin è davvero un’entità molto strana…e qui mi fermo :P
    Tra più o meno tre capitoli avrete modo di conoscere direttamente Lisandro del Narvalo, il maestro di Aiolia e Milo ( anche qui mi sono posta lo scrupolo di chiedermi: chi è il benedetto uomo che si occupa dell' addestramento di sti due figlioli dopo le dipartite di Aiolos e Kletias ? )
    Detto questo vi spoilero soltanto che nel cap 16 si ritorna al gran Santuario…^^ vedrete alcuni aspetti inediti di una certa…persona. Non specifico nulla XD
    E’ quasi impossibile che riesca ad aggiornare a fine giugno -.- A luglio è sicuro ;)

    Un salutone!! ^^

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    Capitolo 28
    *** CAP 16-scie di intramontabile estate ***


    “ Così, nelle tue braccia ordinatrici
    io mi riverso, minima ed immensa,
    dato sereno, dato irrefrenabile,
    attività perenne di sviluppo.”

    ( A. Merini )

     


     La caldura del primo pomeriggio fermentava senza alcuna feracità.
    Le magrissime fessure, che separavano le mattonelle delle stradine, non accoglievano farciture  di passi.
    Nessun rumore di scarponi, zoccoli o  sandali grigliava sulle pietre bianchicce.
    Rodorio era un grammofono d’ottone pigro che scioperava  contro l’autorità del baccano.
    La sazietà dei pranzi covava sonno negli animi…
    I minuti ciondolavano tra i rami di oleandri e allori come scimmie sfaccendate che non sanno a cosa giocare…

    Le case di mattoni , coi  tetti in coppi d’argilla, s’abbrustolivano sotto i sibili canuti dei raggi solari.
    I vetri delle finestre celestine o nocciola restavano sbarbati da qualsiasi scintilla di movimento…
    Dai vasi delle verande, i gerani e gli origani  ondeggiavano indispettiti ai tenui moti delle api o delle farfalle…

    La piazzetta del villaggio patrocinava la legge dell'accidia: il suo immobile ordine, di sassi levigati e disposti circolarmente, intricava la vista in un’indolente ipnosi.  
    La piccola fontana di marmo rosa, che si ergeva al centro di quella trama, non strimpellava getti spumeggianti di fresche grinze.
    Dormiva anch’essa lasciando fluttuare, sulla sua pellicola d’acqua sporca ,  cadaveri di moscerini e zanzare, scaglie di petali ammollati, forfore di biglietti cartacei…
     
    Una bambina  uscì da un vialetto contornato da enormi anfore di lavanda.
    Poteva avere otto anni. Era magra, non molto alta, portava un modesto cardiophylax *, gracili schinieri e delle protezioni di cuoio agli avambracci un po’  pesanti e scure.
    I capelli lisci, che le coprivano il collo impolverato, brillavano dell’incarnato acerbo dei limoni apuli. Il loro biondo pungente sfumava in un verdino di profumata acidità.
    I grandi occhi, dello stesso colore, erano smerlati da lunghe ciglia, pettini di fitto e spumato nero. 

    Con la mano destra reggeva la maschera mentre con l’altra si strofinava il naso e tentava di asciugarsi le guance. 

    Stava nascondendo, come merce di contrabbando, i singhiozzi.

    Da nessuno  dovevano essere  uditi: né dalle grondaie delle case, né dagli sfarfallii dei panni che si asciugavano , né dai bruchi che strisciavano sulle  foglie intontite.

    Sigillare tutto. Disfarsi della delicatezza.
    Questa sarebbe diventata la sua legge.
    Glielo avevano spiegato.

    Lui, prima degli altri, glielo aveva spiegato.

    Shaina  non voleva capire.
    Suo padre la obbligava a farlo…Suo padre…Il Maestro.
    Rahotep della costellazione di Apofi*.

    Sacerdotessa guerriero. No, principessa. No, ballerina. No, scolara…
    No, donna comune.

    C’era da sudare,  tacere,   nascondere.
    C’era da lottare e scordare. Lottare e rinnegare. Lottare e tagliare.

    La piccola avrebbe dovuto  scomunicare  la normalità.
    Non riusciva ancora a essere consapevole come un’adulta …tuttavia… intendeva che cose veramente vitali, veramente tenere le sarebbero state pignorate.
    Niente feste. Niente vestiti. Niente bambole.
    L’infanzia doveva restare una boa alla deriva.
    In futuro niente turbamenti. Niente amore.
    Nessun uomo.

    La bimba si acquattò, sottilmente impacciata , all’ombra di un pino marittimo.
    Si sistemò,  seduta e sconfitta,  con un ginocchio alzato e una gamba abbandonata al suolo.
    Le scapole mingherline poggiavano sul tronco burbero e scanalato di rettangoli sproporzionati:  era come fosse  coperto di carta da regalo  marcita per qualsiasi occasione…
    Le fronde, disseminate di spine, seguitavano a farfugliare saune di luci e penombre sgretolate…
    Si poteva stare  tranquilli dentro il barattolo del primo pomeriggio che sapeva di salamoia e olio sfiorito.
    Shaina si lasciava ungere dalle lacrime e dalle strimpellate avvizzite di qualche cornacchia  nervosa…

    Era sola senza il viso del padre che si contorceva in rughe torve…
    Era sola in un’ora di minuti sconditi di obiettivi.
    Era sola e  cellofanata nella finitezza  scarna di richieste.

    All’improvviso, nel cieco diabete dell'immobilità, una grattugia di rumorini.
    Un palpito di passi…
    Dei piccoli stropicciamenti…

    La bambina si mise in allerta.
    Indossò la maschera paurosamente.
    Si nascose dietro l’albero sbirciando i dintorni.

    Vide un bambino che stava attraversando la piazzetta del villaggio. Doveva essere suo coetaneo…
    Aveva in braccio un’enorme busta di carta che tentava di domare.
    I suoi capelli blu-viola erano scarmigliati da una spazientita gaiezza.
    Gli occhi azzurri erano corrucciati in una buffa espressione affaccendata. La bocca si piegava in giù perplessa di fatica.

    Era Milo, l’allievo e figlio di Kletias di Eophrynus.*

    - Uffa! – si lamentò il piccolo- ma quante cose mi ha fatto prendere papà?!

    Borbottando posò a terra il sacco e dispose diversamente i prodotti che stavano dentro…

    Shaina si sporse maggiormente all’esterno dell'arbusto…
    Continuò a osservare il ragazzino che sbuffava gonfiando le  gote tondeggianti…
    Lo trovò incantevolmente divertente…Era  nitido, saltellante di esuberanza, agguantato  da irrintracciabili  tonalità…Attribuire  un indirizzo , una glossa, una mappa chimica alla ricca semplicità dei suoi  gesti   era davvero difficile…

    - Ehi!

    Si era accorto di non essere solo.
    La bambina si  nascose dietro l’albero  come un pesciolino a tergo di bulbi d’  alghe.

    - Sei una sacerdotessa? – le chiese Milo risollevando il  sacco ingombrante.

    Silenzio.
    Qualche cuculo osò solfeggiare goffamente nell’aria.
    Silenzio.

    - Dai! Perché non esci?

    Shaina restò intimidita stropicciandosi le manine.

    - Mica sono un cagnaccio rognoso! – rise il bambino – vieni fuori!

    La ragazzina sentì che l’interlocutore si avvicinava.
    Decise di palesarsi completamente.
    Si fece avanti con lenta diffidenza.

    - Aaah! – esclamò l’altro- ti ho già vista nei campi di addestramento! Tuo padre è il Maestro Rahotep di Apofi?

    Rintronata da quella spontanea e squillante voce, la piccola annuì guardando a terra.
    Il bambino sorrise.

    - Ti chiami Shaina , giusto?

    - Sì…- rispose  piano lei – tu invece…sei… Milo?

    - Esatto! La mia costellazione è lo Scorpione! Tu hai… quel cobra…come si chiama anche? L’Ofiuno? No! No! E’….l’Ofiufo? L’Ofiumo? Ah! Che cretino! E’ l’Ofiuco!

    Shaina alitò una leggera risata.
    Milo si allietò nonostante quel suono dolce giunse ovattato per via della maschera.

    - Perché giri da queste parti? -  domandò con curiosità.

    La ragazzetta, vergognata, strofinò la punta del piede sul pavimento.

    - Ecco…- confessò dopo un po’ – mio padre mi ha messo in castigo nel Tempio delle Sacerdotesse. Devo fare allenamento fino al tramonto senza mangiare…Sono scappata di nascosto…

    Scorpio rimase  mortificato.

    - Come mai questa punizione? – sussurrò.

    - E’ da giorni che continuo a sbagliare gli attacchi- spiegò l’apprendista – papà si è arrabbiato molto. Dice… che non posso fare così se no… quando sarò grande mi ammazzano subito.

    Il bambino capì che dovette evadere da quel burrascoso discorso.

    - Senti….sono tornato tardi dagli addestramenti e mio papà mi ha spedito a fare la spesa…ora è in riunione…Che ne dici se pranziamo assieme?

    - V-va bene…

    Il ragazzino si accoccolò per terra imitato dalla compagna.
    Rovistò nella busta espandendo un aroma gustoso e paglierino di grano cotto e fragrante…
    Pareva di saggiare  il buon   legno dei forni antichi e rustici…

    - Prova  questa  focaccia alle olive! – disse entusiasta Milo – è buonissima! Io vado matto!

    Divise  il grande e morbido panino offrendo una metà alla bambina.
    Lei rimase piacevolmente spaesata da  quel gesto…
    Fu costretta  a voltarsi di spalle e togliere la maschera per poter assaporare le molliche di quella gioia.

    Scorpio la guardò  con espressione costernata…
    Le studiò la testina bionda, leggermente piegata , le spalle e la schiena  sottili…
    In che modo si mescolavano i granelli del giorno nei suoi occhi? In che modo la sua bocca si  apriva e masticava? 
    Analitico, il piccolo sbocconcellava la focaccia cercando di capire di che fattura potessero essere i contorni della sacerdotessa….Forse di liscio nailon? Di ruvido spago? Di fulminante rame?

    - Emh…senti…- arrischiò  – non…non puoi proprio?

    - Cosa? – mormorò ella.

    - Cioè…n-non…puoi girarti verso di me?

    Shaina tacque alcuni secondi.

    - No. Non posso – rispose tentando di seppellire la  tristezza.

    - Ma è…così rischioso? Che c’è di male se ti guardo in faccia?

    - Io sono una femmina e tu sei un maschio.

    - Beh…e quindi?

    - Sono una sacerdotessa guerriero e tu un cavaliere. Se  mi guardassi senza maschera o ti dovrei amare o ti dovrei uccidere…

    - Accipicchia! E’ una cosa pesante!

    - Le sacerdotesse non possono fare l’amore…Non sono come le ragazze che vedi tutti i giorni…

    - Fare l’amore?! E che significa? Lo sento spesso dai  più grandi ma non so cosa vuol dire….

    - Per me significa darsi le carezze e i baci , poi non so se c’è qualcos’altro…

    - Forse quel qualcos’altro è il sesso.

    - Sesso?

    - Sì…E’ quando due si baciano e si abbracciano nudi.

    - Davvero?

    - Certo! E’ così che si fanno i bimbi.

    - Ma è pericoloso! Se una tipa si abbraccia nuda con un tipo rimane  incinta?!

    - Mmmmh…Hai ragione…E ‘ un po’  strano…Ci sarà  un altro trucco che non mi hanno ancora detto…Presto lo scoprirò! Non ci credo che i nostri genitori si siano soltanto abbracciati senza vestiti!

    I due risero.
    Milo tirò fuori dalla borsa della spesa un sacchetto di mirtilli.
    Ne porse una manciata alla ragazzina che li prese senza mostrare il volto.

    - Mi…mi dispiace…- disse lui abbacchiato.

    - Eh?

    - Mi dispiace…che io non ti possa vedere gli occhi.

    Shaina sospirò frustrata.

    - Devo abituarmi a questo- pronunciò seccamente – è la mia vita.

    Il ragazzino si zittì per un istante.
    Una brezza debilitata scosse smozzicata le sagome dei fogliami.
    I cinguettii molleggiati e cristallini dei passerotti riuscirono a strappare manifesti di propagande al  grigiore…
    Alcune cicale rosicchiavano repertori graminacei e dondolanti di calura.

    - Shaina…mi lascerai combattere al tuo fianco?

    La bimba arrossì… Le tempie  le rombarono come velivoli. 

    - Siamo lo Scorpione e il Cobra – affermò deciso Milo – non dobbiamo aver paura del deserto…Noi dobbiamo distruggere la sabbia…Diventeremo forti! Vedrai! Nessun veleno ci potrà sconfiggere!

    La piccina sorrise.

    - Certo…- disse- nessun veleno ci potrà sconfiggere!

    Fissò le sferette dei mirtilli che aveva in mano…
    Che fossero le perle che indossava la Notte e che venivano poi riposte sugli alberi durante il Giorno?
    Per quale ragione possedevano un incarnato così screziato? Che rappresentava la loro abbronzatura nerastra che si scrostava mostrando squarci d’azzurrognolo?
    Si vedevano cieli d’acque sotterranee? Futuri di plumbee luminosità?

     

    Shaina si sedette sul suo letto ordinato e bianco di durezza.
    Solo una piccola lampada di vetro donava  origami di luce  alle pareti della stanza in cui alloggiava.
    Una finestra, rettangolare e arcignamente pulita, mostrava le zampate della notte che avevano imbrattato, quasi fossero  inzaccherate di marmellata di more, tutti gli edifici del mondo.

    Fuori il dormitorio delle Sacerdotesse guerriero predicava la taciturnità…
    Il Grande Tempio e il villaggio di Rodorio avevano sigillato i sipari delle parole.
    I noci e gli acanti dei colli  si fissavano assenti d’amoroso interesse…
    Gli uccelli avevano esaurito il carbon fossile per alimentare i ventrigli dei canti…
    Gli insetti preferivano cullarsi in tumuli di terriccio…

    Ogni cosa pareva aver trovato l’abbrivo per la dimenticanza.

    La fanciulla ascoltò il gocciolio dei secondi della sua sveglia .
    Fissò poi il cuscino spoglio e umilmente morbido…
    Quante volte le aveva racimolato lacrime di insonni paturnie?
    Accarezzò le lenzuola intatte per cercare di fingere una piana di sicurezza…

    Sospirò faticosamente.

    Era il suo segreto.
    Era un’immensa e innocente colpa che mai avrebbe confessato ad alcun tribunale.
    Era la sua El Dorado che non sarebbe stata invasa da nessun conquistadores.

    Ella  faticava a sorreggere il peso di quell’estate, quella scia che non cadeva dal carro del sole come l’imprudente Fetonte.

    Era impossibile sotterrare Milo in un campo  di sterpaglie e croci arrochite.
    La sua bellezza, di festosa ed elegante procacità, rifulgeva irriducibile negli orizzonti del cuore.
    La sua forza, simile a un gladiatore, combatteva in qualunque arena ghermendo ogni ombra con una rete pungente e trafiggendo ogni belva con un d’oro tridente.

    Immaginare la dipartita di quell’astro equivaleva a non credere più nell’ossigeno.

    La ragazza aveva appena trascorso una delle ore più orrende e squartanti della sua esistenza.

    Quando aveva percepito il cosmo di Scorpio, dileguarsi nel nulla, un’incredulità d’incubo l’aveva assalita. Sudando molecole rocciose, era caduta nelle grinfie dell’angustia : quella gigantesca e muta aurea maligna, che aveva invaso le Dodici Case,  sapeva di sonno letale.*

    Che cosa sarebbe accaduto se il ragazzo non fosse più tornato col suo sguardo d’alto respiro?
    La sacerdotessa si era sentita azzannata le interiora da una nausea senza conati e aveva desiderato rimettere, invano, il poco bolo della cena consumata.
    I minuti si erano mostrati dannatamente pietrificati, dementi e infami. Non le avevano dato alcuna spiegazione su quel misterioso spettro che aveva avvolto il Santuario.
    Impotente, di fronte ad un nemico scontornato, ella si era adirata.
    Aveva mandato a dormire le apprendiste bambine sgridandole e spaventandole ed  era corsa poi da Marin pretendendo chiarimenti  sulla natura di quell’entità malvagia.
    La guerriera le aveva spiegato che probabilmente si era trattato di una o più divinità e che, nell’occulta battaglia, erano intervenuti ,  oltre a Milo,  anche  Mu, Camus, Aiolia, Aldebaran e il Sommo Sion.
    A quella risposta, Shaina si era agitata ancora di più strepitando di voler intervenire ma l’Aquila l’aveva dissuasa e placata.
    Era stata davvero dura tenere a freno il Cobra però si era rivelato urgente non complicare  la terribile condizione in cui si trovava il Tempio.

    Per l’impetuosa armigera l’orrore si era concluso con la riemersione della sua luce: la costellazione dello Scorpione che aveva ripreso a brillare di rosso, giallo e bianco.

    Milo era evaso da quelle tenebre misteriose e torturanti.
    Risentire nuovamente i battiti del suo azzurro era stato come resuscitare da una cadaverica glaciazione durata irreali millenni.

    Da troppo tempo la giovane nutriva un’immensità di fuoco per il cavaliere. Quel sentimento si era alimentato lentamente come un usignolo che va a becchettare briciole su un davanzale di fiori profumati.

    L’aveva visto lei.
    Aveva visto il faccino di Milo diventare più lungo e raffinato maturando tratti rigogliosi: la tondezza dei contorni si era disciolta in raggi di luminosa malizia mentre il corpo aveva sviluppato agilità e possanza mascoline sbriciolando la tenera indeterminatezza delle membra puerili.

    Nel corso degli addestramenti, l’adolescente aveva assistito alle fatiche di Scorpio e agli straordinari potenziamenti delle sue tecniche…Sarebbe stata capace di verbalizzare le parabole dei suoi salti vertiginosi, sarebbe stata capace di riprendere le sue braccia che colpivano con l’affilatezza di aculei e le sue gambe che correvano frantumando gli urli dell’aria.
    Nessun istante di movimento le era mai sfuggito. Neppure i singhiozzi della luce erano riusciti a volarle dall’animo…Se fosse stata una pittrice, avrebbe sperperato le tinte più preziose per rendere al meglio la lunga e ribelle chioma del combattente sotto i raggi del Giorno.
    Il blu oltreoceano dei capelli pareva bagnarsi d’acqua infiammata quando era scosso dalle lotte, dalle giravolte e dagli spiri di sudore.

    Rinchiusa nella sua camera, Shaina si detergeva lo spirito con quella soave pesantezza,

    Era felice, mesta, insoddisfatta e ansiosamente tranquilla.
    Non capiva veramente quale sentimento provare per primo.
    Il caos roteava su un asse scalcagnato e ammaccato.

    Non c’era nessuno con cui dialogare, nessun burocrate uditore cui esporre documenti di inspiegabilità.

    Chissà…può darsi che Marin avrebbe ascoltato…
    Marin…
    Ogni volta che le rispondeva male, Shaina si pentiva amaramente ma era troppo orgogliosa per fare dietro front. Certo, questa sua caratteristica le dava fastidio, si sentiva odiosamente cocciuta e ottusa e , ciononostante,  provava vergogna a timbrare i propri errori.
    Sapeva perfettamente che la ragazza giapponese non meritava risposte velenose…eppure continuava a rimandare le richieste di perdono…Non era corretto, ne aveva consapevolezza, però proprio non ce la poteva fare.
    Doveva riuscirci presto o tardi! Doveva tentare di rompere quel guscio di tartaruga carnivora in cui si rinchiudeva!
    Marin aveva l’indole per comprendere.
    L’Ofiuco presentiva acutamente che anche lei era preda dell’amore.

    Quella guerriera si palesava assai abile nel celare, in modo insospettabile, qualunque tipo di turbamento.
    Era zelante, accorta, severamente equilibrata e non per nulla le guerriere più anziane la  ricoprivano di stima. A soli quindici anni stava intraprendendo un faticoso percorso di addestramento affinché Seiya avesse potuto conquistare in futuro l’armatura bronzea di Pegasus.
    Lavorava duramente, con sacrale dedizione, e nessuna campana di fumo pareva incarcerare l’anelito del dovere.
    L’Aquila s’involava, con vogate di ferree piume, verso gli absidi del cielo ma il Cobra l’aveva vista , differenti volte, scivolare nelle rogge delle basse quote.
    Strisciando tra nascoste filature d’erba, nuotando sotto cuffie di sabbia, aveva osservato il nobile rapace accostarsi a un magnifico re…
    Un Leone dalle auree zanne: Aiolia, futuro guardiano della Quinta Casa.
    Shaina si era trovata ad analizzare la composizione sinfonica di quella leggiadra e tuonante dolcezza. Aveva anatomizzato la sottigliezza della voce di Marin prendere la profondità del tono del guerriero.
    I due dialogavano, si confrontavano… Era accaduto che si fossero allenati assieme più volte.
     L’amazzone del Serpentario conosceva i momenti in cui la collega sorrideva, arrossiva e si inclinava alla tristezza.
    Era come se stesse leggendo il riflesso di se stessa, un riflesso più morbido e sussurrato, però pur sempre una propria emanazione.

    Cos’è che le differenziava realmente?
    Erano una di fronte all’altra eguali  a statue di dee che dominano l’ingresso di un tempio profano.
    Entrambe desideravano accedere alla medesima Babilonia di passionali giardini pensili, entrambe desideravano impadronirsi dell’arca dei comandamenti del cuore, entrambe seminavano lacrime dentro una serra che violava palpiti di fuga.
     
    La maschera, la paura, la brama di ferirsi col corpo e l’animo di un uomo…Ecco i comuni denominatori.

    “ Forse sono più codarda di te, Marin” rifletté Shaina “ non so come percepirmi…anzi…non voglio percepirmi in questo modo! Quel coglione di Milo! Non lo reggo! Ti assicuro, vorrei tanto far finta che non esista ma come potrei riuscirci?! Sarebbe una cosa assurda e cretina! Lo ucciderei! Lo ucciderei! Mi fa stare uno schifo! Mi fa venire la gastrite! Quante ragazze si sarà fatto?! Brutto stronzo…Si crede il figo dell’universo! Se solo potessi, strangolerei quelle troie, cervelli di gallina, che gli sventolano tette e culi! Tzè! Mi fa ridere! Ha l’harem di femmine in calore e viene a provarci con me?! Viene a dirmi, con quella faccia di cacchio, sei uno schianto di ragazza?! Non lo dovevo pestare Marin?!* Eh’?! Non dovevo?! Tu mi capiresti…Già…mi capiresti…se io avessi un po’ più spina dorsale…”

    L’adolescente sferrò un pugno sulle coperte del letto.

    “ Non riesco a tollerarmi…Perché?! Perché mi dà così fastidio sentire questo magone in corpo? Ci dovrei essere abituata ma mi sta sul cavolo! È da troppo tempo…Quello scorpione deficiente vuole incasinarmi ancora di più la vita! “

    Si prese il viso tra le mani massaggiandoselo nervosamente.

    “ Ma quante scemenze sto sparando? Io ho visto i suoi occhi. Li ho visti per davvero. Milo è troppo. È in ogni estate. È sempre nel Sole. È dove io vorrei essere e non sono capace di accedere. Come fa?! Come fa, dopo tante sprangate in fronte, ad avere il coraggio di ridere e fare l’idiota? Io mi sento sua prigioniera più che mai…”

    La sacerdotessa guardò la propria maschera che giaceva sul comodino.
    Udì i picchi del cuore accelerati che sgattaiolavano verso gli angoli bui della stanza.  

    “ Sì, Marin…conosco i battiti di Milo. Sono simili ai miei. Hanno visto un Maestro che non sapeva giocare. Hanno visto un padre che non si chinava a raccogliere e accarezzare.”
     
    Rahotep e Kletias.
    Due genitori-guida.
    Due involontari carnefici.

    Shaina si era ricalcata sul proprio animo quella tarda mattina.
    La mattina in cui quei maestri si imbarcarono per una missione sull’Isola di Andromeda*.
     

     La Persefone si allontanava da Atene scindendo i flutti analcolici e lacerati di un flaccido Egeo.
    Era un mattino insulso ma inquietante, con un cielo sovrappopolato di nuvole sclerotizzate che coprivano il sole, ma non portavano pioggia.

    Sulla banchina del Pireo gocciava una confusione ingolfata e frantumata: i marinai si muovevano, solerti e barbari, a bordo degli imbarcaderi passandosi ordini e rimproveri; i pescatori , dai peli unti e rugosi, scaricavano cassette di pesce da barche vecchie di reumatismi.

    Nel mezzo di quella quotidianità indaffarata, Shaina non distoglieva gli occhi dalla nave appena partita.
    A poppa la osservava, con algente abbattimento, il padre Rahotep.
    Si ergeva con il corpo robusto, elevato e patito, insaccando ogni moto di brillantezza.

    La ragazzina levò la mano in un fragile e amorevole saluto.
    L’uomo alzò il braccio, severo e inarrivabile, eguale a un faraone d’oro incenerito.
    Nell’interferenza di un volo di gabbiano, chiuse l’arto e gli occhi e si diresse verso il ponte della nave.

    Shaina si aggrappò con l’animo all’imponente schiena del Maestro.

    - Cerchi di vedere qualcosa?

    La sacerdotessa si voltò.
    Si era accostato Milo.
    Nello sguardo aveva buio serale e inappetente. Sulla bocca, graffi di rabbia lacrimosa.
    Era convalescente di ferite ma radioattivo d’astio.
    Scrutava biecamente la Persefone.
    Il suo corpo snello e in parte fasciato si accingeva ad alzarsi e maturare con sofferta bellezza.
    Shaina lo rimirò intristita e ansiosa.

    - Fidati – disse cupo lui- non guadagnerai granché a fissare il silenzio.

    Inghiottì saliva piccante e amarognola. Gli occhi gli si lucidarono di fragore.
    La fanciulla comprese immediatamente che stava pensando a Kletias e a rompicapi senza via di uscita.

    - L’ho maledetto – mormorò l’apprendista -  ho detto che può…che può a-affogare nel mare.

    In quelle parole c’era un orgoglio fasullo, una profonda vergogna, un odio odiato.
    Shaina gli vide una lacrima crollare da un occhio.

    - Lui…- domandò sommersa – lui non ti ha fatto capire nulla prima di partire?

    Il ragazzino inarcò le sopracciglia in un’espressione di gratitudine solidale e angosciata.

    - E’ orribile – proseguì ella – dici che,  quando torneranno, cambieranno qualcosa?

    Milo guardò la Persefone sfuggire sempre più lontana come fosse rapita da Ade…
    Ansò con le labbra traballanti.
    Prese a singhiozzare.

    Si avvicinò, con dolce e infantile annientamento, a Shaina. 
    La strinse tra le braccia scoppiando a piangere, nascondendo il viso tra i suoi capelli biondi, distruggendo qualunque suono di risposta.

    Lei ricambiò la stretta inumidendosi di mesta calura, lasciandosi cadere ai piedi il gelo sviscerato del vuoto.



    Non ci fu un secondo inizio.
    Non ci furono speranze di mutamenti.

    Rahotep e Kletias non tornarono più ad Atene.
    Naufragarono, durante il tragitto verso il Mediterraneo, dopo aver salvato i giovani superstiti della Persefone. 
    Scomparvero, prigionieri dei costati del Fato, tra le onde spietate e immortali dell’oceano.

    Shaina aveva desiderato disperatamente riottenere la salma del padre per seppellirla vicino a quella della madre.
    L’uomo era nativo di Tebe e apparteneva alle comunità egiziane discendenti dagli antichi abitanti della Valle del Nilo.
    Il Regno di Kemet era, da secoli, alleato del Santuario di Atene: oltre a rappresentare una preziosa sponda di scambio culturale, offriva alla Grecia guerrieri potenti e valorosi.
    Rahotep fu uno di essi e il Sommo Sacerdote della Nuova Karnak* lo promosse tra le  gerarchie più alte.
    In un periodo di operazioni di esercitazione, che si svolgevano nelle basi italiche di Atene, il cavaliere conobbe Libera.
    Quell’autunno egli soggiornava sulla costa della Puglia garganica, nel paese di Rodi. Fu  nel tepore di settembre  che si innamorò della futura moglie decidendo, poi, di restare con lei e crearsi una felicità nel mezzo dei propri onerosi incarichi.
    Dopo il matrimonio, nacque il primogenito e, a distanza di quattro anni, venne al mondo anche un secondo bambino. Per Rahotep e Libera le cose parvero andare per il meglio ma purtroppo i loro figli non giunsero mai all’undicesimo compleanno.

    Quelle tragedie sconvolsero la loro esistenza e i due non vollero  avere bimbi per molto tempo. Ci provarono di nuovo, a trentasei anni, con afflizione e senza risultati. Talmente enorme fu la loro depressione che sembrarono essere diventati sterili.
    Inaspettatamente, ormai sulla soglia dei quaranta, capitò il miracolo.

    Libera rimase incinta di Shaina.
     
    La nascita della piccola rappresentò una scomoda e gioiosa resurrezione.
    La madre ne fu enormemente illuminata. Il padre ne fu affannosamente corroso.
    Avrebbe portato a compimento il percorso di addestramento che non era riuscito a terminare con gli altri figli.
    Divenne il Maestro dell’ultimo genita e si rivelò diverso, molto diverso.

    Shaina era una femmina. Una difficoltà maggiore rispetto a un allievo maschio.
    Le  spiegò che avrebbe indossato una maschera carceriera.

    Rahotep detestava quella condizione ma non ebbe alternative. Non potette infrangere il giuramento prestato al Santuario di donare l’Ofiuco alle schiere di Atena.

    Gli addestramenti si presentarono difficoltosi per una bimba di appena cinque anni e la situazione precipitò quando Libera perì a causa di un tumore.

    L’egiziano diventò ancora più buio e nevrastenico e si accanì con intransigenza verso la figlia.

    “ Papà “ pensava Shaina “ credevi in me? “

    Ai piedi del letto, stava un tavolino di legno su cui era posata una vecchia fotografia.
    Ritraeva un uomo di mezza età inginocchiato a terra assieme ad una piccina di tre anni. Lui , con sorriso opaco e tirato,  cingeva la bimba che gli si poggiava contro intimidita e  affettuosa.
     
    “ Forse non ti sei fidato mai abbastanza…Anche se non lo davi a vedere, mi sorreggevi sempre…Avevi…paura che io fallissi, che io…non tornassi più da te…Io lo sapevo, papà ma tu volevi farmi capire altro. T’imbestialivi a ogni mio scacco, mi davi della stupida, dell’incapace. Ci stavo di merda, piangevo ma ti amavo tanto. Non volevo un Maestro d’armi. Volevo un padre tutto per me. Odiavo la tua corazza. Mi faceva paura. Ti adoravo quando dormivi perché forse ti sentivi più tranquillo e potevi salutare la mamma che sognavi. Per me eri l’uomo più bello del mondo…”   

    Le bruciarono gli occhi.
    Se li strofinò, con leggero tremore, come faceva da bambina.

    “ L’ultimo giorno…prima che tu partissi…eri stato dolcissimo con me. Dovevo essere felice ma avevo il morale sotto i piedi. Ti eri comportato come io ho sempre desiderato…Avevamo fatto un giro per Atene, eravamo andati in spiaggia, avevamo mangiato…Nessun addestramento, niente, niente…Solo stare insieme. Non ero riuscita a godermi al cento per cento quella splendida giornata. Intuivo qualcosa di orribilmente strano…Anche tu lo intuivi…Lo intuivi che sarebbe stata la fine per noi. Volevi tentare di sistemare anni di tempeste all’ultimo secondo e… hai fallito. “

    Lacrimò strozzando i singhiozzi.
    Se si fosse vista allo specchio, si sarebbe presa a pugni.
    Malediceva  quei suoi sfoghi puerili ma non poteva fare a meno di essi.

    “ Abi*…vienimi a trovare…scopri un modo! Fai tornare anche mamma…Conosco le arti marziali ma piagnucolo come una  bimba idiota…”

    La fanciulla si figurava gli occhi giallo-verdino del genitore, quelle ruote che suscitavano un po’ impressione poiché spiccavano taglienti e falsamente demoniache sul colore bruno della carnagione.
    Era l’unica cromatura che aveva ereditato da lui.
    Non possedeva i suoi capelli nerissimi e grinzosi tenuti a bada in lunghe e strizzate treccine. Non possedeva i suoi lineamenti dagli zigomi alti e garbatamente sporgenti dell’arte Amarniana*. Non possedeva il suo fisico elevato, possente e metallizzato di deserto.

    Era bionda come la madre, aveva alcune sofficità del suo corpo, anche se era più snella e tonica. Il viso dolce, dalla sagoma triangolare tenue e fine, era davvero quello di Libera e contrastava con gli scontrosi atteggiamenti con i quali s’imponeva.

    Anche Milo aveva ricevuto da Kletias solo lo sguardo affilato.
    L’avvenenza del volto  e dei capelli gli derivavano  tutti dalla madre.
    Persino la disposizione della casualità cromosomica lo accomunava con Shaina.

    “ Milo…” pensò la guerriera “ vorrei sentire la tua voce, il tuo sorriso, il tuo respiro…Non abbiamo bisogno di traduttori per parlarci…non ne abbiamo mai avuto bisogno… Sai essere un emerito imbecille ma sei capace di colpire meglio di chiunque altro. Ti gonfierei di botte solo perché non riesci a scuotere bene quella dannata testa che  adoro. “ 

    Ella tornò, con le filanti nebbie dell’animo, a quattro mesi prima quando era approdata in Grecia dopo una settimana di riposo in Italia. ..
     


    Quel pomeriggio di giugno lasciava vagabondare un’ arietta tiepida e fresca…
    Erano quasi le cinque. Il Sole non sgranava il suo sorriso più furfante ma neppure si immusoniva di melanconia. Vacillava in un perfetto stato di yoga senza eccessi.

    Sul porto del Pireo attraccò un modesto piroscafo proveniente da Bari.
    Un gruppo di passeggeri scese dalla passerella di legno…Tra di essi una ragazza fiera e un po’ afflitta…
    Era di media statura ma possedeva squisite e proporzionate fattezze: il busto snello era vestito da una lunga camicia viola stretta in vita da una cintura grigia; le gambe slanciate erano avvolte in un’ attillata calzamaglia bianca; i piedi, che si muovevano severi, erano addolciti da un paio di ballerine color glicine.

    Faceva strano vedere Shaina in quegli abiti freschi di ragazza.
    Non portava la maschera siccome era fuori dal Santuario, tuttavia celava l’ identità con  grossi occhiali neri che le coprivano metà del  bel viso. 

    Stava camminando con la valigia in mano, affumicata dal grigiore, quando si arrestò.

    Non poteva crederci. Era come se avesse ricevuto in petto uno spillo cosparso di glassa d’arance e cioccolato bollente.

    Milo le era di fronte.
    Sorrideva raggiante e variopinto come le vetrate delle finestre gotiche. I lunghi e fitti capelli mescolavano le danze scalze del vento salino. Gli occhi cerulei ricevevano le fiocine del sole  brindando bruma estiva.
    L’atletico corpo era sottolineato da un abbigliamento semplice e consumato di bricconerie giornaliere: una camicia bianca, arrotolata svogliatamente ai gomiti, mostrava un’aderente canotta rosso scuro. Dei jeans blu, strappati alle ginocchia, coprivano le gambe e i polpacci scattanti e ben torniti. Un paio di scarpe da tennis, divenuto grigiastro, aggiungeva una stagionatura di trascuratezza alla florida vivacità. 

    - Allora, bambola?  Com’è andato il viaggio? – esclamò allegramente il ragazzo.

    - Che…che ci fai qui?! – sbraitò lei.

    - Volevo venirti a prendere…

    Lui assunse un’espressione puerile e ghiotta di coccole.
    La ragazza si sentì piacevolmente imbarazzata, ma non doveva ammollarsi come un biscotto zuppo di latte!

    - Beh, ti ringrazio Milo Ethymides – tagliò seccamente – posso dirigermi da sola al Grande Tempio.

    - Dai serpentella! Lascia la borsa! Te la porto io!

    - Ce la faccio benissimo!

    - Smolla l’osso!

    - Ce la faccio!!

    - Chiudi il becco! Sono o non sono un cavaliere?!

    Ridacchiando, il giovane prese il bagaglio della guerriera.
    Ella s’imbronciò.
    Fissò di sottecchi l’accompagnatore che si avviava, baldanzoso e tranquillo, verso l’angiporto di Atene.
    Non poté non restare ammaliata. Era una delizia lasciarsi bollire in un alambicco di sangria.
    Le spalle di quel cavaliere si rivelavano avvincenti rilievi di protezione e sicurezza.
    La giovane ritornò bambina quando , per evitare di   perdersi nelle folle cittadine ,cercava il dorso del padre; quel padre che, sebbene fosse stato  colpito dagli edemi dell'asprezza,aveva incarnato sempre  un triste sogno di carezze. 

    - Che fai lì  impalata? – si voltò il guerriero.

    - Oh? Niente! Niente!

    Shaina prese a camminare con militaresca lena. Milo rallentò l’andatura squadrandola con giocosità.

    - Beh? – brontolò lei – che ti prende?

    - Sei buffissima! – rise lui- quel passo da soldatessa non ci azzecca col tuo vestimento! Sembri una fatina che marcia con una baionetta!

    - Fatina?!

    - Su! Non ringhiare! Guarda che stai benissimo! Magari ti potessi vedere così tutti i giorni!

    L’amazzone si seppellì nel rossore come un granchietto nella sabbia.
    Si aggiustò, con malsicura non curanza, i capelli sulle spalle.
    Fissò i palazzi circostanti dalle vetrate di azzurro cielo…Tornò a guardare furtivamente Milo che le sorrideva malioso.

    - Sei un bocconcino niente male!

    - Piantala!

    - Tesoro…il mio cosmo sta ardendo di febbre…

    - Cretino!

    - Se ti regalassi un corsetto di pelle e delle calze a rete, li metteresti per me?

    - Fatti masticare da Cerbero!

    La ragazza percosse  l’adolescente tra una sghignazzata e l’altra.

    - Sì, amore! – gemette egli – fammi male! Oooooh sììì! Quanto mi sto eccitando!

    - Io t’ammazzo!

    - Serpica! Volevo sfotterti un po’! Se mi perdoni, offro da bere!

    Il giovane aveva adocchiato un chiosco che sostava, turchese, placido e ilare, in fondo ad una piazzetta cinta da panchine e sicomori.

    - Puoi sederti su quella panca – indicò lui strizzando un occhio – cosa desideri, cara?

    - Emh…una bottiglietta d’acqua?

    - E che cavolo! Qualcosa di colorato!

    - Va bene…Un’aranciata.

    - Perfetto! Io tracannerò una bella coca sperando di non esplodere in rutti!

    Shaina sospirò sorridendo.
    Si accomodò su un sedile, con la valigia posata di fianco, mentre il guerriero prendeva le bibite.

    L’attesa durò giusto qualche minuto.

    - Ecco a voi madamigella Cobra – scherzò Milo porgendo la bottiglietta di aranciata.

    - Vi ringrazio messere Scorpione.

    - E’ stato un onore. Questo e altro per addolcire il veleno che sputate dai dentini!

    Ridendo si sedette affianco a Shaina  e aprì la lattina.
    Nell’attimo in cui bevve, la sacerdotessa gli contemplò gli angoli retti e possenti dei ginocchi, le linee nascoste delle cosce, le sporgenze dei pettorali…
    Lui staccò le labbra dal barattolo e posò l’obiettivo su di lei.
    L’interlocutrice spostò l’attenzione altrove e prese a sorseggiare l’aranciata.
    Il ragazzo la  fissò in modo comicamente insistente.

    - La smetti , scemo?!

    - Hai uno splendore che ferma il tempo…

    - Vai all’inferno.

    Lui ridacchiò e riprese a bere.
    La giovane, in cuor suo, si sentì allietata e alleggerita dal peso di qualunque abbattimento…

    Vi furono ventate di silenzio.

    Milo compose sul viso un’espressione sorridente e più seriosa.

    - Sei tornata da Rodi Garganico? – chiese.

    - Sì.

    - Come…è stato?

    Prima di rispondere, lei guardò l’arancione del succo cercando di formulare qualcosa che potesse apparire vivace da narrare…Non seppe spremere nulla di davvero frizzante. Ingoiò aspramente le bollicine della bevanda. 

    - E’ stato…bello…ma non se sono sicura…

    - Cioè?

    - Beh, è strano…Mi sono sentita triste e persa …

    - E’ come se non avessi riconosciuto nulla, vero? Le case, le strade, le spiagge sono quelle ma tu non appartieni più alla dimensione in cui sei nata…

    Scorpio fissava la guerriera con aria  triste e sorprendentemente sottile.
    Ella avvertì un’improvvisa naturalezza nel disporre in tavola le proprie inquietudini.
      
    - Già…- riprese- in un certo senso mi è sembrato strano aver camminato lì. Davvero ci ho vissuto? Davvero…sono stata normale? Pensavo di riabbracciare qualcosa nel rivedere la mia vecchia casa, la tomba di mia madre, il mio mare…Invece…ho visto il buio.

    - Volevi ritrovare un po’ di te stessa ma non ti è rimasto che un mucchio di polvere.

    Shaina percepì una confortante ma ansiosa teredine d’intesa. Il ragazzo pareva riuscisse a calarsi nell’intimità delle sue parole.
      
    - È vero – ammise.

    - Io è per questo che non torno più a Tinos, l’isola in cui sono nato. È tutto inutile. Là non c’è più niente. Non è in questo modo che ci si costruisce la forza. I posti in cui hai vissuto sono gusci vuoti. I mattoni o le pietre non hanno un’anima.

    - Però i luoghi in cui hai trascorso momenti di vita si sono riempiti di te e dei tuoi passi…Ti hanno contenuto…Hanno sorretto minuti dei tuoi giochi…Se sono vuoti, è perché nessuno dà più energia.

    Milo prese la mira e lanciò la lattina vacante dentro un cestino  poco distante dalla panchina.
    Sospirò tentando di gettare fuori i germi dell'amarezza.
    Proiettò gli occhi di fronte a sé. Disse poi un po’ riarso:

    - Non puoi affidarti alla materia, Shaina. La sostanza delle dimore e dei paesaggi non ti assicura un accidente…Neppure i paesi o le città che hai abitato. Sembrano statici ma cambiano fregandosene di ciò che hai fatto e amato.

    La ragazza bevve piano come se stesse cercando di non spezzettare la dolcezza dell'aranciata.
    Staccò, afflitta,  le labbra dalla bottiglietta.
     
    - Allora…è per questo che mi sono sentita forestiera- ragionò-  Le case di Rodi erano dove le avevo lasciate ma…parevano lontane da me… aliene…E’ la stessa sensazione che provi quando vedi che sei troppo grande per salire sull’altalena.

    - Hai ragione. Dobbiamo pensare a custodire i ricordi nello spirito. E’ lui che portiamo sempre in noi, no le tegole che ci lasciamo per strada. La tua mamma è in te, così come la mia è in me. È il cuore che deve ingrandirsi per controllare il passato e sopravvivere nel presente.

    - È il cuore però che ti fa sentire straniero. È da quasi otto anni che sto al Santuario ma molte  volte mi percepisco straniera anche qui. Caspita…Non so perché…Ho un fine che è quello di servire Atena ma ci sono momenti in cui mi perdo nei campi d’addestramento o a Rodorio. Ti giuro…in certi giorni  mi spavento e non riconosco quello che mi sta attorno.

    - Ti senti una forestiera ovunque vai perché hai paura di fallire la meta che hai scoperto. Ti vedi inadeguata per la causa che stai servendo. Temi te stessa e gli altri. Non puoi fare pronostici su come reagirai e su come reagirà la gente. È questa imprevedibilità che ti fa percepire forestiera dell'’esterno e del tuo animo. Non hai controllo sulle cose. Provi a immaginare un altro obiettivo, provi a crearlo, a sognarlo ma più lo fai, più hai capogiri. Resti più estranea che prima e nessuna città ti fa offerte efficaci.

    Shaina fu colpita da quel discorso. Forse era più impensierita di prima ma si sentiva posta su un alto livello di conforto e confronto.
     
    - Sì…- mormorò- Atena ci ha dato un destino ma siamo noi che dobbiamo dare un senso a  quello che stiamo seguendo. In realtà bisogna costruire valori per far sì che si possano trovare, lì dove si sono seminati, nel caso di smarrimento…E’ terribilmente difficile…Ognuno elabora visioni soggettive e insicure.

    - Mio padre diceva che il cielo ha troppe stelle e fa perdere il senno a chi lo guarda con ingenuità, rabbia e disperazione. Le costellazioni non ti potranno mai parlare con chiarezza. È il centro del tuo cuore che deve imparare a parlare per viaggiare nella notte. Non sono gli astri che navigano in noi, siamo noi che navighiamo negli astri per sapere come non perderci nell’infinità. Eppure…la realtà non è un’infinità di paranoie e angosce?

    Shaina tirò la bottiglia nel cestino in cui era stata buttata la coca cola.
    Osservò il cavaliere aprendo un esile sorriso.

    - Mio padre mi raccontava che Ra, a bordo della sua barca, attraversava le tenebre dell'Occidente dei Morti per poi risorgere sempre a Oriente…Si attraversa il caos dei timori per poi risollevarsi. Occorre non impazzire in questo ciclo di equilibrio instabile. L’incertezza è il deterrente per diventare più forti. Senza la confusione non avremmo senso di esistere.

    - Ragionavano bene i nostri maestri…

    - Infatti. Peccato che siamo più orbi di prima.

    - I primi orbi sono stati loro. Ci insegnavano a combattere per vederci evolvere ma…siamo migliorati realmente?

    Il ragazzo sbuffò scoraggiato volgendo un’occhiata torva al cielo.
    La fanciulla gli toccò l’avambraccio.
     
    - Milo…purtroppo non possiamo tornare indietro. Siamo stati male, abbiamo vissuto schifose giornate, però senza veleno non diventeremmo uno scorpione e un ofiuco celesti…Io sono convinta che mio padre mi sorrida finalmente. Ho sognato che cenavamo assieme e che lui mi accompagnava a dormire dandomi la buonanotte. Mi pareva così sereno…Così bello. Scommetto che anche il tuo abbia voluto amarti nel modo più semplice e grande…

    Il guerriero si accorse che dal viso di Shaina sgusciò una lacrima di seta cristallina.
    Circondò le spalle della compagna con braccio vigoroso e canicolare.
    Lei  s’irrigidì captando una delizia torpente mulinarle in testa.
    Lui le carezzò una gota: le sonagliere dei brividi volavano, come cardellini storditi , dalle tempie fino agli androni del cuore. Il sangue fermentava coccolante sidro  in qualunque particella dei muscoli.

    - Che bella bocca hai...- sussurrò il ragazzo con cullante ritmo di brace.

    L’adolescente sprofondò ancor di più negli anfratti dell'agitazione.
    L’indice di Scorpio le sfiorò con conturbante delicatezza le labbra.

    - Anche se ti vedo solo metà viso, devi essere meravigliosa.

    Il giovane accostò lentamente il volto a quello della sacerdotessa.
    Ella  aspirò nell’animo la fragranza di lui intinta di balsamo di pino e muschio bianco…
    Si stava ormai narcotizzando alle ariste ardenti delle emozioni, quando venne mozzicata dall’aspide dei doveri.
    Allontanò bruscamente il cavaliere che però le afferrò la mano che gli aveva posato sul petto.

    - Milo! – fremette lei- sai quali sono le regole…

    Lui, sorridendo, la arrembò con tenerezza.
    Le diede un sensuale e aereo bacio sulla guancia.

    - Questo me lo dovevi lasciar fare!- esclamò con smaliziata e dispettosa puerilità.

    Al contatto di quell’ansito di carne soffice e fine, lei era evaporata nello scombussolamento .
    Milo, tra l’altro, stava cominciando a esplorarle i capelli simile ad un chitarrista che fa l’amore con le corde delle note.
    Era struggente ipnosi…Erano rimbombi d’infinita estate…
    Shaina doveva però far cessare tutto.
    Si alzò con scatto legnoso dalla panchina.

    - E’ meglio se ritorniamo al Grande Tempio- proferì rudemente- non dobbiamo tardare.

    Il giovane espirò abbacchiato e risentito. Si levò pesantemente.
    Prese il bagaglio della ragazza e s’incamminò con lei verso l’antica acropoli.

    Proseguirono muti per diversi minuti.

    - Oh, serpica -  mugugnò il ragazzo – non è giusto, eh!

    - Cosa c’è?

    - Ci stavamo divertendo!

     

    Lui stava sorridendo allegro ma un po’ offeso. Fece la linguaccia. 
    La fanciulla bollì paonazza.

    - Quanto sei imbecille! – ringhiò.

    - Scusa bellezza,  spero che  non mi scannerai se ti dico che mi è piaciuto tanto parlare con te.

    Ella si arrestò qualche secondo.
    Si massaggiò la nuca cercando di mascherare il felice disagio.

    - A-anche a me – balbettò- è piaciuto tanto…

    - Dovremmo farlo più spesso! – rise lui – pensiamo solo a menarci durante gli addestramenti!

    - Emh…Milo?

    - Mh?

    - Ecco…beh…

    - Sììììììììì?

    - Ecco…

    - Dimmi, zuccherino.

    - Grazie…non mi capita spesso di fermarmi e…aprirmi.

    Scorpio si bloccò un istante.
    La guerriera lo esaminò interrogativa.
    Ci fu quiete zittita di morbidezza.

    Egli rise vellutato e appassionato.

    - Sai una cosa? Sei strana e deficiente.

    - Come?!

    - Sì…hai una testa bacata perché sei fantastica e non te ne rendi conto sul serio.  

     

    In che modo prendere sonno?
    Shaina temeva di morire d’ipotermia se si fosse sdraiata sul letto.
    Non riusciva ad appoggiare quel vuoto senza figurarsi Milo sdraiato lì, ad infuocare la penombra di gaie e seducenti espressioni…

    “ Razza di stupido! Vattene! Non rompere! Non voglio saperne mezza di te, del tuo corpo, del tuo sorriso del cavolo!”

    Alzò bruscamente le lenzuola del giaciglio e si sdraiò irrequieta.
    Sentì quelle esecrabili ombre di assenza circondarla  come molesti gendarmi.

    “ Dannato Milo! Ci mancavi soltanto tu a peggiorare le cose…”

    Riproiettò , nella mente, la vicinanza del suo odore, delle impronte delle carezze, del fiato d’avorio.
    Era stato magnetico, collassante, eccitante.
    Shaina stritolò la federa del cuscino.

    Mi insegni a fare l’amore? “ rabbrividì “ ti metteresti  sopra di me per non farmi vedere questo soffitto vuoto e insulso? “
     

    La ragazza si sentì pizzicare le ossa dei lombi.
    Voleva avere Scorpio, la lucentezza delle sue membra, il suo spirito, i suoi atomi…
    Lui avrebbe scherzato, l’avrebbe abbracciata, le avrebbe promesso un’assurda lista di progetti…
    Si sarebbero succeduti amplessi e sogni, giochi di profondità sensuali e contatti d’insostituibile protezione…

    Shaina si sollevò dal letto. Aprì un cassetto del comodino che le stava di fianco. Afferrò una scatolina di legno …
    Dentro dormiva, eguale a un neonato sazio e spensierato, un fermaglio.
    Aveva la forma di un ramo di mirto.  Le foglie , decorate minuziosamente, esibivano una tonalità smeraldina  di venature sinuose e allegre. Le bacche nere dai riflessi azzurrognoli  luccicavano nella loro ciclicità d’intramontabile ed ebbra estate.

    La ragazza portò timidamente alle labbra il fermacapelli.
    Gli diede un bacio da bambina quasi si vergognasse di essere spiata dalle tenebre bandite.

    Era il regalo di compleanno che le aveva fatto Milo.

    Sorrise semplicemente piccola.
    Sorrise quale opera d’arte gioiosa sconosciuta ai critici…

    Era annacquata e dolce.
    Era infreddolita e accaldata.

    Era il suo splendore subacqueo rinchiuso nell’otalgia.
    Un’ otalgia che ancora non accoglieva  echi palliativi di coraggio…

     

     

    Note:

    cardiophylax * : piccola corazza di metallo che veniva indossata dagli antichi soldati greci e romani per proteggere il cuore.

    Apofi*: o Apophis , nella mitologia egizia, enorme demone-serpente  che emergeva dalle acque degli inferi per ostacolare Ra nella sua corsa celeste  per rinascere ad Est.

    Karnak* : il più grande complesso templare, economico e politico  dell’Antico Egitto consacrato ad Amon, situato nella città di Tebe sulla sponda orientale del Nilo.

    Abi* : “ papà” in egiziano antico.

    Arte Amarniana*: corrente artistica di matrice regale religiosa diffusa nel regno di Akhenaton e Nefertiti. Era caratterizzata da raffigurazioni di visi dagli zigomi sporgenti e dai lineamenti affusolati. L'attributo " amarniana" deriva dal sito Tel- el- Amarna situato nell'Alto Egitto dove risiedeva la capitale fondata da Akhenaton.  


    Note inerenti ai capitoli precedenti:

    “ Era Milo, l’allievo e figlio di Kletias di Eophrynus.*”:  vedi  CAP 10- o’  phobon labyrinthos: aracnidi d’odio.

    “ …che aveva invaso le Dodici Case,  sapeva di sonno letale*” : vedi  CAP 9 – verso il crepuscolo.

    “ Viene a dirmi, con quella faccia di cacchio, sei uno schianto di ragazza?! Non lo dovevo pestare Marin?!*” : vedi CAP 9- verso il crepuscolo.

    …si imbarcarono per una missione sull’Isola di Andromeda*” : vedi CAP 10- o’  phobon labyrinthos : aracnidi d’odio.
      


    Note personali:

    Ciao a tutti!! ^^ eccomi a distanza di un mese preciso!! Ahimè, avrei desiderato aggiornare gli ultimi di giugno ma, come al solito, ci ho impiegato più del previsto -.-
    Finalmente  questa digressione su Shaina! L’avevo lasciata rabbiosa,  nel nono capitolo, dopo una pestata inflitta a Milo XD Adesso è emersa in un modo più complesso, dolce e triste con il suo back ground di sofferenze…Essendo lei, della costellazione del Serpentario, ho deciso di fare il padre-maestro egiziano…Il nome Rahotep significa “ pienezza di Ra” e la sua costellazione Apofi è proprio il demone-serpente che assaliva il Sole. Tale “ contrasto” ha valore apotropaico. Il padre di Shaina fu destinato a queste stelle per dominare la loro essenza demoniaca. Inoltre, mi occorreva un animale che dovesse essere simile negli attacchi al Cobra…u.u
    Per quanto concerne il paesotto Rodi Garganico, a nord della Puglia, è un piccolo riferimento autobiografico ^^ io sono originaria di quelle parti ( anche se sono bolognese d’adozione) e le mie  seguaci lady dreamer , Sara992 e banira ne sanno qualcosa XD XD
    Neppure il nome “ Libera” è casuale. Molte bambine a Rodi venivano chiamate così per la patrona del luogo,  la Madonna della Libera, che si dice abbia appunto “ liberato” il paese dagli assalti dei saraceni grazie ad un miracolo…
    Dopo avermi tormentato di spiegazioni, vi do appuntamento ad agosto ( se tutto fila liscio) …Saremo di nuovo al santuario perché nel cap 18 si cambia scenario!! ;)

    Un salutone a tutti!! ^^
     

     


     

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    Capitolo 29
    *** CAP 17- danzando con te: i riflessi delle tue ali ***


    “ Un dì, felice, eterea,
    Mi balenaste innante,
    e da quel dì tremante,
    Vissi d’ignoto amor.
    Di quell’amor che è palpito,
    dell’universo intero,
    Misterioso, altero,
    Croce e delizia al cor. “

    ( G. Verdi, F.M. Piave La traviata )

     

     


    La costellazione dell’Ariete rifulgeva infiammata, ma inspiegabilmente muta.
    Era un’incisione di rocchetti di calcio che si ostinava a celare qualcosa…Prima era tornata a brillare musicante e più potente che mai poi aveva congiunto gli scuri della voce.
     
    Non capisco! Avevo avvertito che Mu era uscito dal Regno di Mr. Fobia-Merda!* Che è successo? È sparito di nuovo ! Maledetto pecoraccio tibetano!”

    Nell’ospedale del Santuario Aldebaran, inquieto e spazientito, era evaso dalla camera in cui alloggiava.
    Si era scaraventato nel corridoio del reparto rianimazione affacciandosi a una delle finestre che mostravano  le Dodici Case e Rodorio.
    Milo, Aiolia e Camus avevano cercato di tranquillizzarlo dicendo che,  nonostante il cosmo di Mu  fosse momentaneamente svanito, non percepivano più alcun  pericolo.
    Il ragazzone seguitava a provare ansia e tentava di trasformarsi in un’antenna per captare i segnali satellitari dell’amico.
    Sfortunatamente le sue onde-radio non riuscivano a ricevere alcun messaggio. 


    - Ehi.

    Il colosso si voltò e restò allibito: Camus era fuori dalla stanza.

    - Oh – gli grugnì da troglodita.

    Il francese lo squadrò con il cipiglio di un maestro verso uno scolaretto sgarbato.
      
    - Beh? – rimproverò.

    - Mh?

    - E’ meglio che torni con noi. Se continui a stare davanti alla finestra, ti buscherai un malanno.

    - Come mai sei così premuroso, papà Camus?

    - Non vorrei che i guardiani-infermieri scoprissero che il gorilla dello zoo è fuggito dalla gabbia.

    - Torna alla tua ghiacciaia, pinguino sovietico.

    - I pinguini pattinano nell’Antartide…sempre che non decidano di chiedere un cambio di residenza a Madre Natura.

    - Bene, Capitan Merluzzo…sguazza via che ti seguo a ruota.

    Il brasiliano tornò a scrutare indispettito il cielo.
    Camus lo affiancò dandogli una pacca sull’enorme dorso.

    - Su, tranquillo…riabbraccerai il tuo principe tibetano e tornerete a vivere felici e contenti.

    Aldebaran  lo fissò con curiosità.
    Sghignazzò un attimo e  rispose malizioso:

    - Ti consiglio di tenere sott’occhio Milo…

    - Porquoi?

    - Quel gattone di Aiolia non me la racconta giusta! Gli fa troppe fusa…

    - Dici che lo Scorpioncino mi abbandonerà per lui?!

    - Ahimè, carissimo, non ci sono più i cavalieri serventi di un tempo!

    I due si guardarono con ironico dispiacere, simili a sconsolate fanciulle che si confidano, a vicenda, i propri tormenti amorosi.
    Restarono qualche secondo in silenzio con gli occhi e le bocche che tremolavano.

    Alla fine scoppiarono a ridere.
    Tapparono con musiche allegre e liberatorie i valli dell’angoscia in cui erano scivolati durante quella giornata.
    Aldebaran si gustò quel piccolo divertimento osservando incredulo e felice il compagno d’armi.
    Era uno spettacolo strano e meraviglioso vedere Camus conflagrare in palme e girandole di fuochi d’artificio.
    Le sue labbra mostravano la dentatura che non biancheggiava neve arsa ma vele di catamarani soleggiati. La sua voce risuonava spaesante e abbagliante mentre ondeggiava come una bandiera vellicata dal vento.

    Quando le risa sfumarono, i ragazzi ripresero a guardarsi.
    Il blu raccolse le pigne e le nocciole del castano d’intenso equatore.
    Il castano s’immerse tra le mareggiate incontrollabili del nordico blu.
    I pigmenti degli occhi del francese e del brasiliano s’intopparono come non avevano mai fatto prima. Erano differenti ma avrebbero potuto convivere senza stonature d’asprezza e burrasche…Magari non sarebbe sbocciato un connubio di sincronia, non sarebbero esistiti perennemente circoli d’incontro però , in fin dei conti,  perché non sedersi qualche volta sotto una stessa pensilina?

    - Emh…Camus…- borbottò il Toro – scusa…Scusami per quella cosa orribile che ti ho detto…io…i-io…non volevo essere verme…

    Il giovane  restò zitto con espressione seria ma distesa.

    - Ecco…- riprese l’altro- ero incavolato nero, non ho capito più niente e mi sono comportato da grandissimo coglione….credimi sul mio onore e sulle corna della mia costellazione, che non avrei mai voluto buttarti a terra in quel modo…*

    - Aldebaran…

    - Non dovevo spiattellarti in faccia quella bastardata! È stata una mossa schifosa! Schifosa! No! No! Mi sono trasformato in una bestia vomitevole…

    - Aldebaran…

    - Mi sono sentito la cacca più caccosa di tutte le peggiori cacche dei gabinetti! Come ho…

    - Tais toi!!

    Aldebaran si ammutolì scosso da quel tono alterato.
    Camus sospirò prima scrutandolo severamente e dopo sorridendogli  intimidito.

    - Il primo stronzo sono stato io – appurò abbassando lo sguardo – ho mostrato di avere una notevole dose di deficienza e ho fatto una figura di merda dietro l’altra. Purtroppo amo restare sugli iceberg e non so se riuscirò a liberarmi facilmente da questa pessima abitudine…Non sai quante volte Milo si sia arrabbiato con me.

    - Beh…- mugugnò Aldebaran- gli atteggiamenti con cui ti sei presentato al porto*  facevano girare le palle e io  ero quello che le aveva girate più di tutti…hai interpretato brillantemente  il principe siberiano schifamondo però…però…non dovevo dirti quella carognata!

    - Scemo. Non è che io sia stato carino e bellino nei tuoi confronti.

    - Sì, d’accordo, hai fatto il tuo numero  ma  io in primis mi devo scusare!

    - Al…gli effetti collaterali del vivere in Russia sono questi: si ghiacciano spesso il parabrezza e il paraurti e non si sa in che direzione si va a sbattere. Il cretino che ha dato inizio a tutto  è il freezer che hai davanti a te. Scusami… Scusami se ti ho guastato il fegato e lo stomaco.

    - Oh! Piantala! Io devo scusarmi!

    - No.

    - Sì!

    - Piece de cretin.

    - Vai a farti surgelare!

    - Vai a farti arrostire!

    Si studiarono con finta ostilità per poi ridacchiare.

    - Senti- concluse Aldebaran- siamo stati grulli tutti e due, va bene?!

    - Hai ragione – affermò il compagno – potremmo comunque rimediare, no?

    Il mastodontico ragazzo gonfiò il torace e incrociò le braccia con  sorriso di sfida:

    -  Non appena ci ripiglieremo ti aspetterò all’Arena degli Addestramenti.

    - Perfetto. Lo appunterò a caratteri di fuoco sulla mia agenda.

    - Artico contro equatore?

    - Artico contro equatore. Nessun compromesso.

    I due tornarono nella loro stanza nell’impazienza di riscoprirsi in un’inattesa stagione.
    Forse un solstizio d’estate avrebbe folgorato nella canzone delle germogliature autunnali.
     

     


    L’aurora tracimava afflati di larve calcaree.
    Le aiuole della volta celeste srotolavano un ikebana di nuvole arancioni che sfumava verso le vette in pallidezze indaco e cobalto. Sembrava che Flora avesse appuntato festoni di petali e che Demetra li avessi benedetti cospargendo primavera sui lobi delle penombre.

    Ogni cosa si rosolava nella quiete con lentezza e senza bruciature.
    Sotto il pulpito del silenzio, il villaggio del Sole di Giada si sarebbe sollevato dall’inginocchiatoio del sonno.
    Le litanie per il Sole nascituro erano ormai incise negli animi, pronte a essere liberate pari a colombe di schiumosa lana.
    L’altare dell’avvenire era ancora intonso ma smanioso d’aprire messe di rassicuranti parabole.
    La quotidianità non aveva qualcosa da paventare, insaponata dai minuti che schioccavano programmi da svolgere.

    Nella sua stanza Leira, seduta al tavolino della toilette, tentava di pettinarsi.
    Gli stipiti della finestra non squittivano nenie lunatice di venti o cedevoli attriti .
    Attraverso le nane forature delle tende, le luci azzurrine del cielo vendemmiavano aloe di refrigerio.

    Illusione.
    Un impacchettamento che nascondeva venti di tifoni.
    Era  vedere il fondo del vaso di Pandora che non mostrava alcuna briciola di speranza.

    La fanciulla aveva la pelle freddata dai residui della notte.  
    La mano destra brandiva un pettine d’osso che annaspava tra le corde nere della chioma.
    Gli occhi miele defluivano carmi insonori di singulti e bramiti. 
    Le labbra rosa cupo si flettevano in un arco di monsonica tensione.
    Lo specchio esibiva quell’espressione incerata di angustia, ingente di calma, cavillosa di chiodi.

    Che fine aveva fatto Mu?
    Era stato trangugiato dagli acidi dell’incubo?
    Era riuscito a svincolarsi dalle locuste malariche del terrore?

    Dove stava navigando? Dove stava precipitando?
    In quale buio o luce poteva giacere? 

    Dopo essere stata salvata dalle grinfie di Icelo, lei non era riuscita più a dormire. *
    Quando era stata liberata dal Regno delle Fobie, il suo cavaliere non aveva pensato a evadere a sua volta. Era rimasto a lottare nel repellente palazzo del buio. 

    Incatenata alla normalità, non aveva magie, ma solo allergie di fauci laminate.
    Non aveva destrieri che le consentissero di viaggiare, ma solo sentieri che fluidificavano in canali ciechi.

    In che modo avrebbe mai potuto muoversi? Non apparteneva a un’esistenza di straordinari prodigi.
    Era sprovvista di qualunque cabala rivelatrice.
    Era completamente distante dall’impero cui prestava giuramento l’Ariete.

    “ Mu! ” esclamò dentro i polmoni “ perché ti ho conosciuto?! Sarebbe stato meglio se non avessimo mai saputo delle nostre esistenze! “

    Rabbiosa di pianto, scagliò il pettine per terra.

    “ Tu non devi combattere! Non devi! Non devi!”

    Le creature con le ali non potevano andare in guerra ma volare verso la primavera, impollinare fiori, guardare il mare dall’alto…

    “ Idiota! Non sei un oggetto degli dei! Non sei carne da macello! ”

    Si alzò di scatto dallo sgabello.
    Si spostò innanzi alla finestra aprendo i tendaggi.
    Spalancò le finestre come se stesse soffocando in una camera a gas.

    Osservò affannata il suo borgo, quella confraternita di cubi e parallelepipedi disposti a scacchiera per ingannare il disordine del mondo. 
    A che serviva tutto quello? A nulla.
    Le strade di mattoni erano precise ma non portavano ordine nel cervello che si smarriva nella geometria di rette infinite.

    Ero, una bella sacerdotessa di Afrodite, attendeva sempre il suo Leandro che attraversava a nuoto l’Ellesponto…
    Leira, sarta di un villaggio tibetano, attendeva sempre il suo Mu che non poteva percorrere la via della Seta come Marco Polo…

    Il giovane di Abido, una sera, fu assalito da una tempesta e finì annegato dai flussi. L’amata vestale,  disperata, si gettò da un dirupo seppellendosi nel mare.
    L’ariete, quella notte, era rimasto prigioniero nelle Lande dell’Incubo per salvare una vita.
    La sua preziosa stella, la sopravvissuta, non sapeva da che parte ci si poteva lanciare nel buio.

    Il silenzio girovagava, similare a un cinico maggiordomo, senza servire confortanti e rilassanti tisane…

    All’improvviso, tuttavia,  un vento d’etere…
    I parassiti dell’apprensione furono disinfestati da un’aurea di penne dorate…

    Leira vide una luce irradiarla alle spalle , come se il Sole avesse deciso di cambiare il ventre da cui nascere.
    Un dolce lampo annaffiò le pareti della stanza.
    Pizzi gialli infiocchettarono gli arazzi e il soffitto uguali a petali di margherite.

    La fanciulla vide materializzarsi due avambracci che l’avvolsero da dietro.
    Le coprirono il petto e il ventre adagiandosi con la leggerezza d’ibis  sulla sella d’un placido fiume.
    Parevano fati di raso, parevano possedere l’acquosa e compatta potenza delle sculture del Bernini.
    Lei li afferrò col cuore che pulsava incontrollabile e ormai incrollabile.
    Si sentì esplodere in acquazzone estivo quando quella presa divenne più appassionata e due labbra le baciarono una guancia e il collo.

    - Leira…perdonami…

    L’adolescente si slacciò bruscamente dal cullante abbraccio.

    - Razza di scemo!

    Mu sorrise profondamente costernato, infantile e troppo avvenente.

    - Hai proprio ragione…- mormorò- ti ho fatto stare male…

    Tentò di accarezzare la  ragazza ma lei si sottrasse corrucciata.

    - Ah no!- esclamò – è inutile che provi a lisciarmi!

    - Leira…Sono qui…Sono con te…

    - Certo, certo…poi mi smollerai e tanti saluti!

    - Oh, avanti…

    - Finiscila di guardarmi!

    - E cosa dovrei guardare ?Il  pavimento? Ha  veramente delle belle mattonelle…

    - Stupido! Devi smettere di avere quella faccia.

    - Cielo! E che faccia ho?

    - Una faccia maledettamente miciosa.

    Mu sgranò gli occhi e scoppiò a ridere.
    Afferrò teneramente la giovane che continuava a spingerlo via allo stesso modo di una bimba irritata.

    - Lasciami! Lasciami!

    Lei gli percosse il petto scuotendo il capo e spettinandosi i capelli.
    Lui, prendendole il viso tempestoso tra le mani, disse:

    - Hai tutto il tempo per picchiarmi dopo.

    L’abbracciò con soave fervore incidendole un bacio sulla bocca. 
    Ella  tentò di dimenarsi ma poi gli si abbandonò aggrappandosi alle spalle.

    Si premettero a vicenda la sofficità delle labbra misurando , da una mongolfiera di damascate speranze, l’altitudine che canzonava le mandrie di nuvole terrestri.
    In quei minuscoli istanti di gioiose crepitazioni la realtà rimase un perfido paziente in attesa…
    Lettere di minacciose clessidre furono perse dagli ambasciatori di Crono, falciati da liquorosi mulini a vento…
    Nulla pareva scalcinare il patio verdeggiante di una comunione gocciante di annullamento…
      
    Purtroppo le sementi di gioia si disperdettero come granoturco su terricci seccati.

    I  due adolescenti si staccarono dai loro rugiadosi tocchi per trottare su un calesse di rinnovata instabilità.
    Leira appoggiò il capo sul torace nudo di Mu. Gli carezzò dolcemente quella pelle maculata di lividi, di scheggiature…Udì il rimescolarsi del sangue nelle arterie come se vi nuotassero dentro sule di ventagliate e tristi zampe.
    Lui le accaldava le spalle rubandole avidamente ogni grappolo di profumo della chioma…Sotto la camicia le  palpò i lievi gradini delle scapole che si muovevano simili a branchie di pesci. 

    - Ce…ce la faremo, Mu? – trepidò la fanciulla.

    Il giovane la guardò madido di ansie.
    Sapeva il significato di quella domanda; se la doveva aspettare ma temeva di tastarla concretamente.
     
    - Leira...non vuoi sopportarmi, vero?

    Lei gli sorrise frammentata.

    - Io...- mormorò – io ti amo troppo…E’ questo il problema.

    Lui sospirò abbassando leggermente le palpebre.

    - Per te sono un incubo – disse piovoso – me ne rendo perfettamente conto…Ti sto donando più ferite che gioia…Non meriti questo…non lo meriti davvero…Hai tutto il diritto di prendermi a schiaffi e…magari…sbattermi la porta in faccia.
    - Non dire cretinate! Dove credi che possa trovare un ragazzo come te?! Un essere umano come te?! Mi sento morire se penso che non potresti tornare da me…Per questo ti mando all’inferno…A volte vorrei essere nata da un’altra parte perché così non sarei incappata sulla tua strada…Forse sarei stata molto più tranquilla…Forse…però…sarebbe stato tutto più brutto e insulso…Che caos…

    Leira corrugò la fronte con gli occhi luccicanti di sfogo.
    Mu le sfiorò, bigio, la guancia.
    Da sotto il fogliame nero delle ciglia lasciò vibrare il suo sguardo verde acqua.
    La voce gli frusciò come aria tramontata:

    - Ci sono disastri che vorresti non aver mai conosciuto…Ci sono disastri che se non ti avessero mai sfracellato non ti avrebbero potuto regalare altri cieli…E’ tutto una seccante contraddizione. Benedici le maledizioni. Maledici le benedizioni. Non potrai risolvere nulla perché la vita non è ordine, ma è soltanto una perenne ricerca di esso. Togli la polvere e poi torna. Pieghi la roba e poi si arriccia. Ora sono con te e poi…domani? Già…domani…Può accadere di tutto…e accadrà che mi sentirò sempre peggio perché so che il mio destino mi prende in giro.

    La ragazza, muta, ascoltava il cavaliere che acquisì, nello sguardo, una screpolatura di mesta collera.

    - Sì…il destino se ne infischia alla grande…Io voglio e devo proteggerti e invece?! Ti procuro guai…Io desidero solamente essere capace di illuminarti. Se nella mia testa compare il Sole di Giada ci sei tu. Quando riparo le armature m’immagino un modo per costruire il nostro rifugio…

    Strinse le mani di Leira tra le sue.
    L’influenza del silenzio seguitò a mostrare elevate temperature di mercurio.

    I gradi precipitarono.

    La giovane, scostando alcuni capelli dalla fronte dell’amato, fece:

    - Mu…non è che non mi fidi di te…anzi…io credo veramente nella tua anima…Non sono cieca. L’ho vista diventare sempre più bella giorno dopo giorno. So bene che sei di una sostanza unica, strana, quasi irreale.

    Si fermò un secondo. Guardò il suolo.
    Sollevò di nuovo gli occhi verso quelli del guerriero.

    - Io – riprese- io, però non posso mettere da parte la distanza che ci divide. Viviamo in modi e in mondi davvero diversi. Mi chiedo cosa tu possa garantire…Va bene, non si può mai sapere il futuro con certezza ma almeno tentare di costruire le fondamenta su un minimo di sicurezza…Dove troverò la tranquillità se tu sei vincolato a mettere a repentaglio la tua vita? Dove troverò la tranquillità se  per te sono un peso enorme?

    Mu la strinse tra le braccia.

    - Non farmi sentire queste scemenze – la rimbrottò – se  fossi stata un peso enorme secondo te sarei arrivato qui intero?! Mi sento sottoterra  se ti vedo devastata e insonne. La cosa che mi fa più rabbia è che ti avveleno mentre ti vorrei solo coprire di fiori. Mi piacerebbe tanto essere un disertore, diventare menefreghista, vigliacco ed egoista per raggiungerti e pestare la mia sorte.  Quante persone non hanno scrupoli? Non posso vivere anch’io libero, pensando a costruire una casa, cosa insegnare a Kiki e come renderti completa? Non posso essere felice e ignorante? Che cosa importa del mondo se è il mio microcosmo che conta?

    Il ragazzo lanciò un’occhiata fuori dalla finestra.
    Il cielo si liquefaceva in una luce sempre più dorata.
    Leira espirò frustrata:

    - Sì…è bello farsi questi viaggi…ma c’è Atene. Ci sono una vita che non hai stabilito, un percorso che ti ha trafitto, una mano più grande che ti ha scelto. Io resto qua a cercare di imparare queste cose insensate sentendomi senza gambe perché non so correre come te…

    Le scesero le lacrime.
    Il giovane le asciugò il viso con le proprie labbra.

    - Non so quanto detestare la mia dimensione – confessò con tono rauco e dolce – nei momenti in cui mi sento esaurito, cancellerei qualunque cosa…Eppure… poi capisco di star concependo un’eresia poiché non posso non amare questa realtà. Ho incontrato il Sommo Sion, i miei compagni…Se non mi fossi scorticato sulle rocce non sarei la persona che tu conosci. Non avrei imparato a leggere i cieli nel profondo. È una via splendida ma è la più sofferente. Più alimenti la mente, più deteriori l’ottimismo che  fa credere di risolvere i problemi.

    La ragazza lo abbracciò forte.

    - È vero…- ammise-, infatti, ho paura di sognare…Ho paura perché c’è il risveglio che ti stronca l’aria, ci sono calcoli di orrende probabilità, c’è la prospettiva di restare paralizzati e di non muoversi più…Quando ti sogno sono felicissima ma poi mi distruggo…Tu non sei qui in Tibet, sei in una valle  a cui non posso accedere…Se restassi sveglia sarebbe peggio e inizierei a tesserti abiti che…che…non so se riuscirai ad indossare in pace…Non c’è salvezza dal sogno…Sogni quando dormi, quando sei sveglio e quando vorresti buttarti in un fosso. Odio sognare perché il mondo esterno non lo puoi scacciare via come una nuvola di fumo. Non posso eliminare la nostra distanza.

    Mu la cullò sigillandola dentro l’antro del suo torpore.

    - Hai ragione…I sogni sono una diabolica sofferenza…però…se si lasciassero dilagare lo scetticismo e il buio della depressione esisterebbe un orribile deserto. Non va bene essere incoscienti ma cercare di guardare in alto non è peccato. 

    Leira gli sorrise con le catenelle dei capelli che le coprivano le spalle.

    - Mu…- balbettò appassionata e un po’ vergognata – io vorrei viverti come donna…diventare tua…andare ancora più a fondo…ci sono troppi momenti che non conosciamo ancora.

    - Li conosceremo tutti se non smetterai mai di farmi sentire  la tua anima.

    - Mi stai chiedendo un’assurdità…

    - Ti sembra un’assurdità che io ti abbia salvata dalla Fobia seguendo i tuoi sogni di memoria?

    Si baciarono tra  i granelli di polvere che turbinavano calura.

    Mu si scostò lentamente da Leira prendendo da una tasca dei pantaloni uno strano oggetto.
    Un piccolo rettangolo di pergamena con sopra inciso un arcano simbolo.

    - Che cos’è? – domandò lei incuriosita.

    - È un talismano che mi ha dato il Maestro Sion. Serve per tenere distanti gli spiriti malefici.

    Sorridendo fece lievitare il sigillo in aria.

    - Ariete dalla corona d’invincibile fiamma – pronunciò solennemente – dilaga luce celeste in questa dimora affinché le tenebre demoniache possano sempre essere inghiottite nel nihil senza ritorno.

    Il talismano si polverizzò in un’immensa pioggia luccicante, una pianta di papiro che si sciolse, silenziosa, in lagune invisibili.

    - Adesso non puoi temere nulla- disse Mu vezzeggiando la capigliatura di Leira- qui l’incubo non oserà più mettere piede.

    Lei gli sfiorò con novella giocosità il petto e il collo.

    - Oh sì – rise piano – i mostri dovranno stare alla larga ma gli angeli saranno sempre ben accolti.

    Scontrò leggermente il bacino contro quello dell’amato.
    Lui percepì un delizioso brivido che dai lombi giunse a  folgorarlo nei circuiti del cuore.
    Come  un danzatore esotico diede un ultimo e infiammato abbraccio alla fanciulla.

    - Nessun dio mi trascinerà via da te- affermò caldo e fermo – crollasse pure il mondo io dovrò averti come uomo e portarti sempre nel bianco.

    Il sole invase con i suoi vagiti le mura della camera.
    Mu scivolò via da Leira…
    Svanì tra le frange dell’alba come un diafano leopardo che si dilegua in una savana di topazi.  
     

     

    La stanchezza slabbrava cieli di chiuse palpebre.
    La luce del plenilunio si sfregiava nelle tenebre…
    Le decalcificate pinne della luna penetravano nel tempio di Asceplio, una costruzione situata nelle vicinanze  del Santuario.
    Otto colonne corinzie sorreggevano la piccola volta a botte di quello spazio circolare…
    Il pavimento di mosaici azzurri e verdi era coperto da uno strato d’acqua distillata e rigenerativa…
    Al centro di quella superficie, screziata come il guscio d’una testuggine, emergeva un disco d’alabastro.

    Su di esso era assiso un magnifico e anziano giovane dalla capigliatura bionda e scarmigliata.

    Sion, a gambe incrociate, tentava di congiungere le correnti dello spirito con le mormorazioni della vasca. Vestiva soltanto un panno che gli copriva i fianchi e le cosce.
    Era seminudo, crudo di tristezza, più bello e atterrato che mai da una pesantezza che lo sbiancava onirico e terrestre.
    Le ombre nere gli tigravano, angeliche e funebri, i contorni del collo, delle clavicole, delle braccia, del busto…Sembrava che un artista rinascimentale avesse studiato, con scie di carboncino, la sua muscolatura fiorita e avvilita.

    Dopo aver ricondotto Saga nella Tredicesima Casa, lasciandolo alle cure della servitù, egli si era rifugiato in quell’atomo di edificio. 

    Cercò di dissipare l’angoscia per leggere, con fredda chiarezza, gli avvenimenti di  quel giorno.

    Disegnò un cerchio nella sua mente, una linea perfetta che consentisse di ricollegare qualunque cosa.
    Un anello.
    Un simbolo che doveva essere trasparenza ma che invece lo fece precipitare in un gorgo.

    Fu un tornado che gli mescolò passato , presente e il viso senza identità del futuro.
    Era tutta una terribile infinità: apparizioni di sconosciute novità e repliche di vecchi elementi.

    Afferrò  quella continuità calamitosa, una continuità spaventosa, denuclearizzata, umiliante.

    Il destino dei cavalieri si presentava così: una condanna prima di ricevere accuse di colpevolezza.  Quando un guerriero nasceva, le stelle già sapevano beffeggiarlo con espressione ieratica, cementificata e antartica. Da millenni erano avvezze a tirare dadi e somme che schiudevano sofferenze senza lasciar trapelare verità.

    Cos’erano, tutto sommato,  le guerre sacre?  Colossali ed epiche  prese in giro.
    I servi d’Atena combattevano in nome dell’amore cosmico per finire massacrati da esso stesso…
    In un’ottica di pietosa crudeltà, era meglio che un guerriero fosse orfano, privo di famiglia, di coniuge ma da che mondo e mondo era impossibile che il Santuario imponesse un tale e mostruoso precetto.
    Se l’animo non riusciva a sanguinare in che modo poteva giungere al cielo?
    Gli astri si sollazzavano a rendere più infami e arricciati i loro ghigni.

    La felicità si mostrava un insieme di ore di libertà concesse ai combattenti per uscire da un penitenziario di miti ed eroismi assillanti.
    Sion non conosceva storie a lieto fine. L’aveva subito sulla pelle del suo cuore, l’aveva costatato coi remoti compagni di battaglia, l’aveva appreso dal Maestro Hakurei.

    Era angosciato per Mu.

    Percepiva i suoi teletrasporti. Sapeva che si recava da Leira.
     Avrebbe voluto urlargli di non vederla, di scordarsi di sogni, di pianificazioni poiché le cascate cadevano all’ingiù e non volgevano le prore verso le fonti delle montagne.
    Avrebbe dovuto educarlo come un eremita sigillandolo nel pantano dello Jamir, raffreddandolo nei muschi dell’inverno.

    Capì, tuttavia, di formulare pensieri da dittatore. Capì che non doveva mutare in un pontefice oscurantista che si trancia le dita per non elargire benedizioni. 
    Imporre una tubercolosi di castità era disumano quanto trovare una penicillina per sconfiggere l’amore.
    Sion aveva cognizione degli effetti di quel virus: quando gli morirono Briseis e Hymen aveva desiderato fare seppuku affinché l’anima gli fosse potuta uscire dalle viscere spappolate.
    Aveva visto il venerabile Amitabha cadere nella depressione delirante, Roikhos tumularsi in una solitudine autistica, Eirene sperduta in una torre fantasma e diroccata.
    Stava vedendo Saga disgregarsi in un misterioso pozzo senza scale.

    Una chemioterapia per debellare i tumori delle passioni non esisteva e non sarebbe mai stata scoperta.

    L’antico cavaliere non osò né  stringere i denti, né tremare.
    Le munizioni per caricare i cannoni dell’iracondia le aveva esaurite dopo l’ adolescenza

    Fece colare una lacrima esausta, lenta, esaurita…
    Come un geco di calce gli scivolò dalla guancia per tuffarsi nel buio.
    Come un pescatore tentò di confortalo cercando spugne imprendibili e abissali.
     

     

    Un cocktail di allegria e folle strafottenza si rovesciò oltre qualunque parete e corridoio.
    Versi  di leoni, lupi e grizzly shakerarono i piani superiori dell’ospedale.
    Il reparto rianimazione più che rianimarsi stava esplodendo in una mareggiata di samba carnevalesco.
    Non si sapeva se quelle urla appartenessero ad uno stormo di vichinghi d’osteria o ad una ciurma di tifosi domenicali che fa crollare lo stadio al rintocco di un gol.

    - Evviva Mu!!

    - Grande!

    - Fanculo l’incubo!

    Il cavaliere dell’Ariete veniva strapazzato , con abbracci e spintoni spartani,  dai suoi amici. Aldebaran, che lacrimava peggio di un irrigatore, lo stritolava tale e quale a un peluche gridandogli “ arietoide pazzoide” e “ testa di cocco legnoso” ; Milo lo prendeva sottobraccio scombinandogli i capelli con  strofinate di pugni; Aiolia lo riempiva  di energiche pacche neanche fosse una grancassa.
    Il primo ad aver inaugurato gli sconquassamenti era stato Kiki. Quando il fratellone era andato a prenderlo da Marin, non aveva esitato a partire all’assalto.
    Era saltato addosso alla preda ricoprendola di baci, impastandole le guance, scivolandole dalle spalle alle gambe e dalle gambe alle spalle.
    Non c’era stato verso di sedarlo con teneri abbracci e carezze.
    Non c’era stato verso di staccarlo di dosso.
    Mu , esasperato, se l’era portato all’ospedale lasciandolo incollato al dorso, come un cocciuto cucciolo di koala. 
    Non appena era riuscito a chetarlo aveva subito le barbariche effusioni dei compagni di battaglia.
    La gioia di rivederli era immensa ma quella manifestazioni d’entusiasmo gli stavano centrifugando le meningi e le interiora.  

    - Ominidi  del paleolitico, volete assumere atteggiamenti più evoluti?

     Camus intervenne placando il trio di vivaci primati. Fulminò tutti dietro la nuca con un indice che portava una temperatura di meno venti gradi.

    - Ma com’è messa la segatura del tuo cervello?! – sbottò Milo – volevi farci crepare con quel ditino calorifero?!  Che contiene l’aria siberiana che ti sniffi?!

    - Molecole più attive della muffa dei tuoi neuroni.

    Mu rise un po’ rintronato.

    - Grazie, Camus… non so come avrei fatto senza di te.

    Il francese gli sorrise abbracciandolo con gentilezza e sincerità...

    -  Non potevo permettere che questi animali selvatici ti atterrassero.

    - Oh! – ruggì Aldebaran – chi sarebbero gli animali selvatici?!

    - Un po’ tutti – gli spiegò Aiolia – ma nessuno ha il tuo pedigree di platino.

    - Che vorresti insinuare?!

    - Che sei un magnifico esemplare di bisonte equatoriale.

    - Brutto leonaccio…

    - Dai, Al! – esclamò Milo – non puoi rinnegare le tue celebra taurine! Quando abbiamo percepito che il cosmo di Mu era scomparso di nuovo, hai rischiato di sconvolgere l’ecosistema dell’ospedale!

    - Già – ritornò alla carica il Leone – abbiamo tentato di farti connettere ma tu zero! Hai un  capoccione di ferro! E poi chiami Mu “ zucca di legname”!

    - Gente! Mi sono preso un colpo! Morfino e il Bestio della Fobia potevano giocare un altro brutto tiro a quest’arietaccio!

    - Aldebaran – sbuffò Acquarius – si capiva chiaramente che l’aurea dell’incubo era scomparsa dal Grande Tempio…se ci fossero stati altri  pericoli ce ne saremmo accorti.

    - Io sono fratello adottivo del Montone Bianco e suo futuro vicino di casa! Guai se gli accadesse qualcosa!
     
    Mu posò una mano sull’enorme spalla dell’amico.

    - Caro Al, mai vorrei essere ripudiato o scomunicato da te! Perdonami se ti ho fatto preoccupare…Vedi…dovevo accertarmi che una persona a me estremamente cara stesse bene…Icelo l’aveva rapita e io sono riuscito a salvarla. È stato orribile…Mi sono teletrasportato nel mio villaggio per questo.

    - Cavolo! – vociò Aldebaran –  quel porco è arrivato fino in Tibet?!

    - Non c’è da meravigliarsi – disse Camus- abbiamo visto le magie che è stato in grado di fare…Credete che l’incubo conosca confini? Esso si sparge ovunque.

    - Gli dei del sogno ci possono ammazzare quando dormiamo – constatò dolente Aiolia – la cosa orrenda è che non possiamo fidarci neppure della nostra testa…

    -  Al tuo posto saremmo stati spacciati – si rivolse Scorpio al tibetano- è grazie alle tue capacità telecinetiche che sei anche riuscito a salvare il Sommo Sion e Saga.

    - È vero…ma devo stare attento quando adopero il teletrasporto…L’uso dei poteri richiede parsimonia e temperanza…Ho speso moltissime energie oggi…tuttavia…non potevo proprio fare altrimenti.

    Mu sorrise stanco e vagamente gioioso.
    Milo assunse un’espressione scherzosa e felina.
    Mise un braccio attorno alle spalle dell’Ariete.

    - Dì – pronunciò con l’aria di chi la sa lunga – come sta ora questa persona a te estremamente cara?
     
    Il discepolo di Sion arrossì e guardò il pavimento.

    - Emh..- balbettò – s-sta bene…l’ho rassicurata perché…perché…era angosciata…insomma, dopo quello che ha passato non…non ce la facevo a vederla in quel modo e….e…

    Aiolia gli si accostò al fianco sinistro chiedendo con vocetta  bambinesca:

    - Mu…ma hai una ragazza?

    Il giovane divenne ancora più bordò di un passato di salsa.

    - Io…io…ecco, ecco…è una storia lunga…lei è…

    - Monellaccio!! – esplose Milo –  sapevo che sei un ariete e non un frigido ovino da latte!

    - Nel tuo sangue c’è il fuoco – stuzzicò il Leone- e sai correre in modo devastante.

    Mu voleva essere uno struzzo per piantare la testa nella sabbia.
    Il fratellino e Aldebaran ridevano capendo chiaramente che Leira doveva rimanere celata in un bellissimo e proibito naos.

    - Su, avvoltoi pettegoli – accorse Camus – levate i vostri aliti fetenti dal collo dell’Ariete.

    - Eh no Camiù !! – trillò Scorpio – qui la faccenda è seria! C’è grazia femminea di mezzo!

    - Oh mon Dieu, mon Dieu – sospirò il francese – il potere della vie en rose vi fa diventare così zecche?

    - Giusto! – proruppe Aldebaran – l’ acquaiolo ha ragione! Io sono il confidente speciale di Mu!

    Il Toro liberò l’amico dalle grinfie dei due sparvieri e lo prese in disparte.
    Kiki piano piano si avvicinò tendendo l’orecchio.

    - Vai tranquillo – sussurrò il brasiliano- al vecchio Al puoi dire tutto…Dimmi…la persona cui ti riferivi è… Leira? L’amica che conosci da quando eri piccolo?

    - Esatto – rispose Mu sorridendo – però adesso è molto  più di un’amica…

    - Significa che…state insieme?!

    - Sì…da pochissimo…da alcune ore a dire il vero…

    - Sorbole! La cosa è fresca fresca, eh?

    - È successo proprio prima che Sion mi portasse a Lindo.

    - Mu! – s’intromise Kiki – non potevi usare il teletrasporto!

    - Beh?! – lo riprese il fratello – com’è che lieviti sopra le nostre teste a ficcanasare?!

    Il bambino fluttuava in aria usando i poteri telecinetici.

    - Tanto lo sapevo!- cantilenò con una linguaccia -  tu sei lesso per Leira! Lesso e fritto!

    - Finiscila di ronzare, zanzarotto!

    - No! Non mi prenderai!

    - Kikinoooo – flautarono Milo e Aiolia- vola da noi e riferisci…

    - Spiacente, signori – tagliò seccamente Mu- non otterrete nulla.

    Agguantò senza difficoltà il piccolo, intrappolandolo tra le braccia e tappandogli la bocca.
    Aldebaran rise divertito canzonando gli amici:

    - Ah!ah!ah! Io so cose che voi umani non potete neanche immaginare!

    - No, Mu! – si lamentò Scorpio – siamo tra maschietti…con noi ogni fuga proibita è al sicuro…

    - Il grande Tempio non può incatenare il tuo cuore- dichiarò solenne Aiolia – sarebbe un empio abuso! Devi sentire le vibrazioni delle tue ali e del tuo spirito!

    - Cuocetevi in un brodo di cappone! – detonò il colosso – le vibrazioni delle vostre ali e del vostro spirito le avranno sentite benissimo le danzatrici del Grande Santuario! Non credo che andiate negli alloggi femminili, proibiti agli uomini, per fare le pulizie di pasqua!

    - Ciccio – strepitò Milo – noi  prestiamo del servizio sociale…

    - Servizio sociale?!

    - Certo, Al – ammise seriosamente il Leone – noi seguiamo il codice cavalleresco: aiutiamo le fanciulle vessate dai moralismi delle regole. Le liberiamo dal male.

    - Wow. Siete una sorta esorcisti erotomani?

    - Di più! – s’entusiasmò il cavaliere dello Scorpione – siamo i salvatori delle depressioni femminili!

    - Allarme rosso, allarme rosso – comunicò con tono meccanico Camus – il deficientometro ha oltrepassato i livelli d’allerta.

    - Camussino , non rompere! – schiamazzò Milo – sei tu quello che colleziona i reggiseni di pizzo!

    - No. Io sono più sofisticato. Amo le sottovesti.

    - Ma vai via!

    - In effetti sei un po’ grezzuccio, Milo – sghignazzò Aiolia – tu non vai fuori di testa per le mutandine striminzite e trasparenti?

    - A te  piace allungare le zampine verso le chiusure dei vestiti!

    - Volete smetterla branco di scimmie urlatrici?!

    A quel grido, amazzonico e stregonescamente rauco,  i cavalieri si girarono.
    Sulla porta della loro stanza, una donna emetteva fuochi di rabbia dagli occhi, dalle orecchie e dal naso.
    La sua orribile espressione, dalla bocca dilatata e dalle sopracciglia cespugliose, era più impressionante di un mascherone da tragedia teatrale.
    I capelli ingrigiti, che fuggivano a ciocche ribelli da una crocchia, parevano quelli di un demone dell’erebo.
    Poteva essere il volto di una gorgone, di un’arpia o di una delle erinni.
    Poteva essere la manifestazione di una Nemesi apocalittica.
    In realtà era semplicemente apparsa l’infermiera responsabile del reparto rianimazione.

    - I pazienti non riescono a riposare e si lamentano! – si sgolò ella -  Dove credete di essere?! In una giungla? In un luna park? In una pescheria?

    Mu, Kiki e Aldebaran tacevano imbarazzati e dispiaciuti.
    Camus guardava tranquillamente le stelle fuori dalla finestra.
    Milo e Aiolia si fingevano afflitti mentre tentavano di soffocare le risate.

    Quella signora era un capolavoro di rotondità burrosa. Aveva un fisico a forma di scamorza, con la testa tonda, le spalle molli e i fianchi spropositatamente larghi. Il camice bianco e inamidato  le sottolineava maggiormente la  prosperità  di latticino incartato con cura.
    Le curve flosce contrastavano con il viso massiccio e  rugoso sul quale spiccava un becco da condor  e due occhi strabuzzati da cagnetto isterico. 
     
    - Mi domando che caspita abbiano i vostri ormoni! – abbaiò -  Vi iniettate della nitroglicerina o del tritolo nelle vene?! No, ditemelo! Perché neanche le anfetamine hanno questi effetti disastrosi!

    Il cavaliere del Toro avanzò mestamente verso di lei.
    Assumendo uno sguardo da santo penitente gemette:

    - Gentile signora, vi prego… Cercate di capirci…eravamo entusiasti perché…

    - Tu, pachiderma muscolone! Fila a letto subito! I tuoi passi tellurici li avranno sentiti anche i fondali di Poseidone!

    - M-mi dispiace! Non volevo far danni! Scusatemi! Scusatemi! È che sono molto emotivo e…e..

    - Fila a letto!

    Lo spaventato maciste s’infilò sotto le coperte tentando di farsi piccolo piccolo.
    Milo, schiarendosi la voce, sviolinò con note garbate e seriose:

    - Signora. Non va bene alterarsi in questo modo! Vorreste sciupare la vostra antica bellezza?

    La donna digrignò i denti come un mastino napoletano.
     
    - Ti suggerisco di metterti al sicuro sotto le lenzuola se non vuoi vederti defenestrato.

    - Cosa ho detto di male? La stagionatura rende più saporiti i vini, i formaggi, i prosciutti…la roba di qualità è quella più vecchia!

    Camus,  con biblica espressione da Cristo addolorato, implorò:

    - Madame, perdonatelo! Perché non sa quello che dice!

    - Mettetevi a letto o vi pianto una siringa di ammoniaca in fronte.

    - Ogni vostro desiderio è un ordine.

    Aquarius baciò , con burlesca galanteria,   la mano della bisbetica.

    - Andate a dormire!

    - Signora, siamo mortificati! – piagnucolò Aiolia.

    - Anche voi mi state mortificando! Non ne posso più! Credete di sentirvi i padroni del mondo facendo i mega fusti con i vostri fulmini, saette, lampi e tuoni?!

    Il Leone giocò a disperarsi come un pellegrino che tenta di ottenere la grazia di una dea di pietra.

    - Avete ragione…Non dovevamo fare tutto quel caos…ma eravamo preoccupati per Mu che ha rischiato grosso…

    La donna fulminò il tibetano:

    - Ah già! Tu, signorinello! Com’è che ti sei intrufolato magicamente qui dentro?! Devi essere l’allievo del Sommo Sion, giusto?

    Il ragazzo s’inchinò splendendo  con un’occhiata da gatto placido.
     
    - Sì, signora. Sono Mu Ten Goshu.

    - Quel bambino chi è?

    - È mio fratello e allievo Kiki. Perdonateci se abbiamo commesso delle scorrettezze. Ci siamo occultati per non recare alcun disturbo.

    - Vuoi trovare la pezza a colori, eh?! Non mi imbrogli con quel faccino da angioletto! I soggetti come te sono i demoni peggiori!

    - Signora, credetemi! Noi…

    - Sarà meglio che tu sia sottoposto a una visita di controllo!  Quest’ospedale non è un albergo! Rimarrai qui fino a domattina in vista di ulteriori accertamenti.

    Mu spasimò con aria da peccatore pentito:

    - Sia fatta la vostra volontà.

    - Signora…- pigolò timidamente Kiki - potrò dormire col mio fratellone?

    - Certo, certo…basta che non ti metti a ballare e strillare…

    I due fratelli abbandonarono la stanza seguendo un infermiere che li portò in un’altra sala.
    Dopo che la responsabile ebbe serrato bruscamente il ripostiglio dei chiassosi armigeri, sentì alle spalle uno sciabordio di passi trafelati.

    - Direttrice! Direttrice!

    Era la voce sconvolta di uno dei portinai dell’ospedale, un uomo di media statura, esile e curvo come una banana.  Aveva un’alopecia che gli affliggeva i capelli rossicci, un naso camuso,  labbra da salvadanaio ,sottili baffi e  occhi da roditore spaurito.

    - Cosa c’è adesso? – brontolò l’infermiera.

    - E’ …è…arrivata…una strana ragazza in portineria!

    - Che?! L’orario delle visite è terminato da un pezzo!

    - Non ne ho idea di come sia riuscita ad entrare!- tremò il sottoposto-  La sorveglianza non l’ha vista! È piovuta sul mio bancone e mi ha dato questo!

    Porse alla signora,  come fosse dinamite, un involucro  di carta.

    - Un sacchetto?! Alle dieci meno un quarto di sera?!

    - Emh…sì…bisogna consegnarlo a… Milo Ethymides.

    - Mio Dio! Tutti oggi i pazzi?!

    - Guardate, è stato terribile! Quella tizia ha minacciato di aprirmi il cervello!

    - Non siete riuscito a capire chi fosse?

    - Ahimè, no! Era completamente incappucciata ed è fuggita più veloce di una saetta!

    Sbuffando simile ad uno gnu, il paramedico ritornò nella stanza dei pestiferi cavalieri.
    Gorgogliando scorbutica, consegnò il pacchetto a Milo:

    - Tieni, fusto gagliardo – disse spazientita – questo te lo manda una psicopatica che ha minacciato di massacrare il nostro portinaio.

    La giunonica signora lasciò la camera.
    Camus, Aiolia e Aldebaran fissarono stupiti l’amico, altrettanto stupito.

    - Ammazza! – fischiò lui – non credevo di  far impazzire le donne fino a questo punto!

    - Scemo – sogghignò il Leone – apri il sacchetto, dai…

    - Forse c’è dell’insetticida….stai attento! – scherzò Aquarius.

    - Tzè! – si vantò Milo – non esiste nessun veleno in grado di sconfiggere lo Scorpione Celeste!

    - Certo- fece il Toro – la madre dei rompipalle è sempre incinta.

    - Anche quella dei vitelloni dementi. 

    Scorpio,  ridacchiando, aprì il cartoccio.
    Spalancò gli occhi.
    Si fermò un istante e poi  frugò dentro…
    Tirò fuori un pezzetto di carta…
    Guardò perplesso quella calligrafia secca, un po’ irritata ma strambamente dolce.
     

    Caro deficiente,
    Grazie per avermi fatto intossicare alla grande.
    Ti garantisco che quando sarai in piedi, fresco e tosto riceverai la più bella pestata della tua esistenza.
    Ci vedremo sui campi di addestramento. Intanto mangiati questi mirtilli che ho comprato stamattina.
    Sono buonissimi come quelli che mi avevi fatto provare quando avevamo otto anni.*
     Era il giorno in cui per la prima volta c’eravamo seduti vicini.
     Mio padre mi aveva messo in castigo, ricordi?
    Spero di riavere il tempo per parlarti senza interferenze.
    Ce l’eravamo promesso e i cavalieri le promesse le mantengono.

    Siamo un cobra e uno scorpione che non temono alcun veleno.

    Shaina


    Milo sorrise infiammato nel più profondo.
    Ripercorse con maggiore lentezza le  curvature  e i duri  riccioli delle parole.
    Gli suscitò uno strano effetto toccare la scrittura di Shaina. Lo fece con delicatezza e  timida malizia come se stesse carezzando davvero le mani e il viso della guerriera.
    Era intirizzito da una gioia fumosa…Una gioia che civettava di non rivelargli ancora alcun segreto…Era un senso d’indescrivibile e inedita attesa, una lieve e bruciante emozione che nessuna ragazza mai gli donava.

    Camus scrutò l’indugio dell’amico, quell’ immobilità che lo coglieva quando le cose riuscivano a bloccare   la sua veloce impulsività.
    Nell’attimo in cui era ghermito dal silenzio, Scorpio adorava vacillare.
    Il francese intuì che la causa di tutto fosse l’amazzone dell’Ofiuco. 
    Era l’unica fanciulla della quale Milo gli avesse parlato con particolare gusto, descrivendola in ogni sua movenza, parola aggressiva e  tenere verità da svelare.

    - Allora, Milo? – domandò Aldebaran – cosa c’hai lì?

    - Mirtilli...i frutti poetici dell’amor!

    - Ah! Un regalo di un’ammiratrice?

    - Della mia fan numero uno!

    Aiolia inarcò le sopracciglia:

    - Non mi dirai che è Shaina?!

    - Ovvio! Chi è secondo te la serpentella più indemoniata di Atene?

    L’adolescente cominciò a mangiare , immerso nella contentezza ,  i piccoli frutti.
    Il Toro e il Leone lo pregarono , con piagnistei da chierichetti, di non fare lo spilorcio e anche Camus , con faccia di bronzo, lo costrinse a offrire qualche bacca.

    - Eh va bene, sfasciapalle! – soffiò il cavaliere dell’ottava casa – nutritevi e non vi allargate troppo! Sono i miei mirtilli questi!

    Gli amici condivisero così quei granelli di tranquillità evitando di pensare al Fato che avanzava prima di qualunque sole, luna o tempesta…

     Aiolia guardò l’ultimo mirtillo che stringeva tra le dita…
    Non seppe perché, ma gli venne in mente Marin.
    Si ricordò che lei, in una giornata di chissà quale festa, confessò timidamente che adorava gli orecchini a forma di perla…
    Purtroppo non aveva mai modo di indossare gioielli e abbellirsi di vestiti eleganti come le ragazze qualunque…

    Il giovane sentì il cuore cadere in una soave tristezza.
    Si mise lentamente il chicco in bocca…
    Forse i respiri dell’aquila avevano quella consistenza buia, acidula e dolce…Come sarebbe stato stringerli tra le braccia e baciarli?

    Egli non era in grado di misurare con un metronomo la lunghezza delle note di Marin, eppure conosceva chiaramente la luce ramata dei suoi capelli, del suo odore, della sua ombra…
    Era un mistero, ma quando le spiegava le mosse di lotta,  annullando la distanza tra i loro corpi, provava uno stravagante desiderio.
    Non lo si poteva definire esattamente carnale. Era qualcosa di più alto, lontano ed evaporante.
    Era indubbia una curiosità sensuale, però dietro si nascondeva ben altro…

    Una volontà di spogliare, evadere, conoscere.
    Una volontà di soffocare le obbligazioni.

    Il Leone  non possedeva ancora le chiavi di un piano rivelatore ma le avrebbe trovate.

    Ci credeva.
    Non capiva con chiarezza ma ci credeva.
    Avrebbe trovato degli orecchini per Marin. Le avrebbe trovato degli altri abiti.

    Si addormentò lentamente con l’animo che cercava di trovare i passi di danza giusti…
    Si addormentò con l’impazienza di incontrare di nuovo la sacerdotessa e la sua maschera di sigillati sussurri.   

    Quando le luci si spensero e si espansero le chiazze nere, blu e grigie della notte, il ticchettio dell’orologio troneggiò tra le mura della camera.

    Camus si lasciò altalenare da quel suono a mano a mano che sfumava nella sonnolenza come una goccia di pioggia sui vetri d’una finestra.
    Il chiocciare delle lancette gli ricordò dei piccoli e deliziosi suoni argentei…
    Erano quelli che emettevano le viti di un cavalletto  che veniva montato…
    Erano quelli che musicavano le mani di Odette* quando preparavano la macchina fotografica.

    Nel buio il ragazzo sorrise.
    Un profumo di occhi rosa gli invase la mente.

    Nel buio il ragazzo respirò una bionda pace.
    L’amica lo stava aspettando su una slitta di cristallo alla ricerca di case di legno, regni di conifere e laghi di vergineo indaco.

    Il silenzio divenne freschezza.
    La freschezza neve di stelle alpine.

    Sulle lenzuola biancore d’inverno.
    Sulle ciglia biancore di pensieri in volo. 

     


     Note inerenti ai capitoli precedenti:

    “ Non capisco! Avevo avvertito che Mu era uscito dal Regno di Mr. Fobia-Merda!*”: vedi CAP 14- gli ultimi rintocchi dell’uragano.

    “non avrei mai voluto buttarti a terra in quel modo…*”:  vedi CAP 9 – verso il crepuscolo

    “gli atteggiamenti con cui ti sei presentato al porto* “:  vedi CAP 5 – conchiglie di storie: l’ora di cena

    “ Dopo essere stata salvata dalle grinfie di Icelo, lei non era riuscita più a dormire." * vedi CAP 13 – amoris lex: il profumo dei tuoi battiti.

    " Sono buonissimi come quelli che mi avevi fatto provare quando avevamo otto anni.*": vedi CAP 16- scie d’intramontabile estate.

    " Erano quelli che musicavano le mani di Odette*: CAP 11 –  apnea  di ghiaccio: nel ventre del baratro

     

    Note personali:
    salve a tutti!! ^^ mi dispiace aver aggiornato con una decina di giorni di ritardo ma tra studio, vacanze  e altri piccoli impegni ho dovuto posticipare quest’episodio.
    Il cap 17 è “ leggero” ma mi sono sfrappolata alla grande per scriverlo!! Non la finivo più!! >.<  io pensavo che le scene tranquille fossero un po’ più semplici di quelle drammatiche ma mi sbagliavo enormemente -_____- ho impiegato tanto per descrivere ogni atteggiamento o sensazione…la struttura dell’episodio segue uno schema preciso ^^: se ci avete fatto caso la prima e l’ultima parte sono collocate agli estremi di quelle centrali. Si potrebbe dire che le scene light siano ai lati estremi mentre quelle più serie e tristi nell’area centrale…ho adoperato una sorta di bilanciamento ;)
    Ci tenevo a parlare del trattato di pace tra Aldebaran e Camus XD si sono guardati in cagnesco per un po’ di tempo e finalmente qui giungono ad un accordo! Poi dovevo assolutamente ritornare sulla disgraziata Leira che avevo abbandonato , piangente, nel tredicesimo capitolo! ^^ Non poteva mancare un momento di intimità con Mu  X3…spero che abbiate gradito questi momenti di “respiro” per i nostri eroi!!
    Forse a fine agosto metterò l’ultima parte del 17 dove incontrerete  nuovi ed importanti personaggi! ;)
    A settembre, su questo fandom, posterò una spin off che sarà attinente a L’occhio dell’Ariete e quindi a De servis astrorum…non dico nulla! Sorpresa! ^^

    Grazie a tutti voi lettori

     un ringraziamento speciale va a lady dreamer che si è sorbita i miei attacchi di panico e crisi di affaticamento per la realizzazione di questa parte!! XD

    Alla prossima!! ^^

     

      
     
     

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    Capitolo 30
    *** CAP 17 - danzando con te : al di là del tempo ***


    “ Sì, fuggiam da queste mura,
    Al deserto insiem fuggiamo;
    Qui sol regna la sventura,
    Là si schiude un ciel d’amor.
    I deserti interminati
    A noi talamo saranno,
    Su noi gli astri brilleranno
    Di più limpido fulgor. “

    ( G. Verdi e A. Ghislanzoni Aida )




     
     
    Alessandria d’Egitto
    3 ottobre 1987


     
     


    Mio adorato Doko,
    da quanti lustri non ti scrivo? Da un’eternità, un’immensità di anni che non ci ha più fatto sfiorare. Abitiamo su uno stesso pianeta ma è come se risiedessimo sulla Luna e su Venere. Tu, su una terra argentata a illuminare le mie stagioni ed io che ti attendo, con tranquillità disperata, dentro un abbandonato tempio di Afrodite… Sei paralizzato in Cina, mentre navigo tra la Grecia e l’Egitto. Adesso alloggio in una delle stanze del Palazzo di Sekhmet*, la sede ufficiale degli Archiatri del Regno di Kemet*. Mi sono recata qui, cinque mesi fa, per terminare l’apprendistato dei miei due allievi Khemauseret e Tefnut che sono pronti per prendere il titolo di medici al Santuario. L’Arcontato della dea Atena è al completo e affianco a Pausania e Arrunte, detentori delle scienze aritmetiche e umane, vi saranno, finalmente, i custodi dell’arte di Asclepio.
    Come Arconte Supremo, ho compiuto una parte della mia missione.
    Dopo il Grande Sacerdote, noi cinque sorreggiamo l’autorità della sapienza e i suoi segreti…Sono felice di aver adottato i miei amati ragazzi. Li incontrai qui in Egitto, la culla ancestrale di tutte le scienze.
    Come prosegue, invece, l’addestramento del piccolo Shiryu ? Come sta Shunrei? Vorrei tanto conoscerli ma, ahimè, non offro alcun pronostico…Posso soltanto immaginare il tuo cuore che li sta coltivando, mostrando le leggi degli atomi che nutrono il corpo e le voci della natura…
    Purtroppo non c’è concesso il privilegio di respirare con lentezza.
    Domani mattina torneremo ad Atene e non mi sento per nulla tranquilla…Qualche ora fa , dal Grande Tempio, ho colto delle vaghe e oscure vibrazioni che non sono riuscita a focalizzare bene…Mi sono parse mostruosamente grandi e adesso non le sento più. Chissà cosa sarà accaduto.    L’avrai certamente percepito che si manifesterà una situazione strana e spaventosa…In questi casi mi chiedo davvero se la Pace sia soltanto un’icona sacramentale che  consente di creare un minimo di normalità tra una guerra e l’altra. Sembra che la serenità abbia un’effimera farcitura, un collante che unisce mattoni che devono essere distrutti al prossimo attentato…Si parla di universo e armonia ma l’origine di tutto non fu il violento big bang? Non è un controsenso generare pace se poi la finalità degli umani è progredire lanciandosi esplosioni? E’ inutile. Siamo incorreggibili. Se credo in Atena, è soltanto perché m’illudo che il senno vada di là della materia e dell’anima  violate. Spero che la nostra dea riuscirà a ribaltare il principio dei contrasti e renderlo realmente un ballo privo di dolore…Ahimè, mi sento sciocca nello scrivere cose che mai si avvereranno. Sono sempre stata più scettica di te, Doko, anche se sapevi perfettamente diventare un lucido misuratore. Sei ottimista ma non ti sei mai abbandonato ad un  fanatismo di spensieratezza. Per questo mi arrabbiavo: perché una persona come te cade nella contraddizione che la guerra possa preservare la pace?! Dicevi che il mondo è nato dal Caos per apprendere la via delle acque calme, ma dicevi anche che il mondo è fragile giacché la sua troppa grandezza lo conduce al dubbio della stabilità. Esiste un ciclo di rigenerazione in cui l’oscillazione tra il bene e il male è l’equilibrio immortale del cosmo, un equilibrio dettato dal terrore dell’immobilità e dal desiderio di correre in ogni direzione sia empia sia buona.
    Ho compreso questo tuo ragionamento senza condividerlo totalmente.
    Ho compreso il tuo dovere di cavaliere esecrandolo con tutta me stessa.
    Doko, continuo a sostenere che il colore della tranquillità possa essere soltanto uno. Non amo le complesse dicotomie. La gioia bisogna crearla in un’unica e coerente direzione. La pace genera pace. La violenza genera violenza. Le guerre gonfiano solo tempeste e sono state l’errore più grande degli dei.
    Non mi fido del Cielo.
    L’unico vero paradiso è la musica dei tuoi battiti che mi accompagna da sempre. Abbiamo più di duecento anni…sono trascorsi quasi due secoli da quando ci conoscemmo…Sembra irrealtà…Sembra che i momenti e i tesori che condividemmo siano stati cancellati dall’inconsistenza del Tempo. È incredibile, amore , ma fummo adolescenti. Adolescenti già stritolati da vite anomale.
    Tu avevi sedici anni e dovevi ancora prendere l’armatura di Libra, io ne avevo quattordici e mi stavo avviando verso la professione di medico. Non seppi mai cosa significasse essere giovane. Fui venduta sposa a un uomo di cinquantasei anni e dal giorno del mio matrimonio finii di fantasticare. Non ebbi più voglia. Non ebbi più né il coraggio né la forza.
    Una ragione per cui non smetterò di ringraziare gli dei è di avermi fatto incontrare te.  Una ragione per cui non smetterò di maledirli è di avermi donato la tua luce troppo tardi. Avrei desiderato essere tua prima…prima di finire saccheggiata.
    Mi avevi raccolto, mi avevi sorriso, mi avevi compreso più alto di qualsiasi vento, più immenso di qualsiasi mare. Avevi saputo aspettare, sfiorandomi col timore di vedermi evaporare. Baciavi e accarezzavi senza che nessuno potesse profanare il siero della tua anima che mi avvolgeva. Mai scorderò quella notte invernale in cui venisti, per la prima volta, nel mio letto. Ero ancora un po’ impaurita dalla fisicità, da quel contatto così intimo che  avevo vissuto sempre con ribrezzo e dolore.
    Riuscisti a rendermi nuova, a lavarmi dalle disgustosità che opprimevano il mio cervello. Diventasti l’unico dio in cui credetti infinitamente. Bastarono i tuoi occhi più verdi degli alberi a persuadermi  che il freddo di dicembre fosse un cencio d’inutili ombre. Bastò il tuo splendido corpo a farmi conoscere  il cerchio magico di piaceri puri, liberi e devoti. Mi deliziai tanto a spettinare quei tuoi fitti capelli  che sapevano di mogano, argilla, fuoco.  Erano un po’ castani e un po’ rossi, erano docili e ruggenti. La tua bocca mi fece resuscitare da ogni  mestizia e, sebbene fosse screpolata dal caldo e dalla polvere, era morbidissima e regale. Amai follemente le tue spalle meravigliose , il tuo addome , indurito dalla fatica, che cullò il mio, le tue gambe che scivolarono tra le mie senza morsi di sofferenza.
    Erano così che facevamo l’amore. Parlavamo, disputavamo, ci proteggevamo e alla fine tentavamo di beffeggiare il mondo tra le lenzuola. 
    Ci comportavamo pari a clandestini, ci nascondevamo pari a ladri…insabbiavamo tutto neanche fossimo i peggiori malfattori del mondo. Pur di restare il mio custode, rischiasti grosso…saresti potuto finire male.
    Fosti  sfortunatamente cosciente di non poter ottenere un palazzo tutto per noi.
    Sei un sognatore realista, Doko. Come potrei non capirti?
    L’abbiamo sempre saputo che la felicità è la parte più favolosa della tristezza. È una stanza buia che lascia aprire la porta per mostrare un po’ di luce esterna e che poi fa…tornare nel nero. Sì, la Felicità è una stanza oscura ma è piena di oggetti bellissimi che tacciono nell’attesa di venire investiti dai raggi del sole. Purtroppo ci si dimentica di questo e le meraviglie giacciono impolverate di sofferenza.
    Ce la faremo, però, a sopravvivere nella tenebra. Dovremo aspettare la luce giusta che illumini la nostra camera rendendola indistruttibile.
    D’accordo... sto farneticando come una ragazzetta o forse sono affetta da deliri senili…comunque ci credo.
    Credo che ci rincontreremo, che attraverseremo di nuovo paludi imminenti e che dopo ce ne andremo.
    Definitivamente.
    Saremo tu ed io. Senza giovinezza, senza vecchiaia.
    Non voglio smettere di immaginare, anche se rischio di apparire sciocca. L’immaginazione è astratta ma è il nostro concreto cervello che la elabora. L’anima non si muove che col corpo. La mente viaggia con la potenza del sangue che brucia.
    Non occorre spiegartelo Doko.
    Mi segui dappertutto.
    Mi dici, ogni giorno “ ti amo” con le piogge che ti vessano, con le ossa che si gelano, con il cuore che ti sussurra affanno.
    Anch’io dico “ ti amo”.
    Il tempo è relativo, è convenzione, è tirannia da insabbiare. Non siamo sposi, non abbiamo conosciuto alcun altare ma è da un’eternità che siamo congiunti in una stessa dimora. Una dimora anarchica, d’infiniti venti.
    Il nostro grande e invisibile regno.

    Con immensa luce
    La tua Roxane



    L’anziana donna depose la penna di papiro sulla scrivania.
    Rilesse ciò che aveva scritto, ciò che il suo sangue le aveva mormorato a caratteri incandescenti e dolci.
    Restò  affossata nel silenzio.

    Si lasciò spazzolare dalle setole della vacuità.
    Abbandonò lentamente la vetusta sedia d’acacia sulla quale era assisa.

    Dalle finestre, sorrette da colonne verdine palmiformi, penetravano gli sfavilli della veste di Nut, dea della notte stellata. Il nero di quei tessuti, contaminato da efelidi erubescenti, contrastava con i pennacchi delle lanterne che scaldavano la camera .

    Sotto quelle fontane d’oro ,  Roxane pareva uno spettro di gioielli e nuvole.
    I lunghi capelli lattescenti, un tempo biondo scuro, erano raccolti in una regale e voluminosa crocchia. Due ciocche mosse rollavano libere e ordinate senza fiatare.
    Sul viso minuto spiaggiavano sottili e malinconiche rughe che permettevano di rimirare strascichi di delicata e inflessibile bellezza.
    Gli occhi erano di un nocciola chiaro soffiato di dardi rubino.
    Le labbra si mostravano di un rosa sbiadito e assottigliato di ragionevolezza.
    Una veste arancio tenue ornava il corpo magro e nobile della donna che, malgrado non fosse di grandiosa altezza, irradiava simile a Egle, madre delle Grazie. 

    La lettera sulla scrivania  venne arrotolata da mani esangui  bollate  da una leggera tela di stropicciature. 
       
    L’anziana legò il papiro con un filo rosso e depose sopra il sigillo di Igea, dea consorte di Asclepio e simbolo della sua casata.

    - Akhet – chiamò ella.

    Un magnifico falco reale, che taceva su un trespolo, volò e si posò sul davanzale della finestra.
    Era un rapace prodigiosamente intelligente, coperto da un  piumaggio marrone che  pareva la lucida frastagliatura di una cascata di  caffè.
    I suoi occhi , dalle pupille nere e dalle orbite gialle, erano marchiati da screziature di penne brune che formavano una coppia di tatuaggi identici a quelli del dio Horus.

    - Devi consegnare questo al venerabile Doko – disse teneramente la donna – vola in Cina, verso le cascate di Goro- Ho…Sii silenzioso e fulmineo come sempre , bello mio.

    Accarezzò la creatura legandole la lettera alla zampa destra.

    - Ci rivedremo ad Atene.

    Akhet  si tuffò oltre le creste  scure degli edifici e delle palme per levarsi verso il firmamento.
    Roxane lo ammirò con affetto: era un essere speciale che lei, Khemauseret e Tefnut avevano addestrato con infinita dedizione e pazienza.
    Per loro non fu affatto facile, all’inizio,  domare quell’uccello irremovibile che svolazzava indomabile e temibile ma poi, con  pertinacia, erano riusciti a flettere la sua perspicacia perché sarebbe stato un vero peccato non coltivare il talento di un simile  animale, diverso dagli altri esemplari.
    Akhet riusciva addirittura a superare la velocità di un falco pellegrino, ghermiva prede di terra e di fiume con abilità spaventosa, sapeva vedere nel buio e viaggiare nei suoi manti uguale ad un gufo o ad una civetta…
    Non per nulla veniva impiegato come infallibile messaggero di scambi epistolari.
    Non per nulla portava il nome della stagione della piena nilotica: la sua energia era trasparente, densa e devastante pari all’inondazione di Api* .

    Guardando il cielo, Roxane sperò, tuttavia,  che in un giorno lontano ma comunque tangibile lei e Doko si sarebbero adagiati su placidi torrenti…
    Forse sarebbero diventati due scie di salici piangenti per barcamenarsi sempre sulla vetrata dell'acqua…
    Forse sarebbero diventati due intoccabili draghi  di vapore che avrebbero attraversato flabelli di stratosfera.

    La donna rise con sognante cordoglio.
    In quale fluido Libra avrebbe potuto sciogliere la lega delle sue armi? Era quella la costellazione, epicentro dell'equilibrio, del giudizio,  della temperanza inibitrice delle frenesie  violente.

    Doko stabiliva e valutava in quali straordinarie condizioni gli altri cavalieri potevano adoperare i suoi strumenti bellici.
    Roxane non stabiliva in quali straordinarie condizioni poteva fuggire con l’Amore.

    Tutto restava fantasia senza possibilità di eutanasia.

    La veneranda preferì posare lo sguardo sul terrazzo che si trovava al piano sottostante al proprio alloggio.
    Sorrise in un ronzio di esili minuti e dopo  andò a coricarsi.

    Su quell’ampio balcone, rischiarato da calderoni di rame, due giovani sedevano a un tavolo quadrato.
    Una fanciulla scintillante, che velava la propria snellezza con  una tunica e uno scialle bianchi, osservava con curiosità il ragazzo di fronte a lei intento a mescolare un mazzo di carte.
    Ella attendeva in silenzio…
    Il volto ovale, modellato dallo scalpello di un nostalgico artigiano, poetava arcaica soavità: brillava di  sacerdotale sensualità come quello di  Nefertari e di augusta introversione come quello della donna faraone Hatshepsut *.
    Gli occhi, una coppia di cammei fluviali, straripavano un azzurro cupo, splendente e rappreso in vortici invernali. Singolari rigature castane li ornavano quasi  fossero ramoscelli  secchi che carezzavano cieli piovigginosi.
    Un naso sottile e leggero si accostava armoniosamente a una bocca gentile e carnosa di un bordò dolce e invitante.
    Una vaporosa e liscia chioma corvina esaltava la sommessa grazia della ragazza, lasciando tremolare tristemente alcune precoci filature argentate.

    Tefnut avrebbe dovuto interrogare i tarocchi del cugino Khemauseret che s’accingeva a cominciare la piccola divinazione con aria sicura, distesa e fluente di tepore.
    Quella sua corporatura alta , modellata di morbida e rilassante robustezza, trasmetteva un’aria  ponderata e accomodante.
     
    - E’ da tanto tempo che non mi chiedi più di leggerti le carte – disse egli.

    - Sì…-  rise la fanciulla sottotono – Pare siano passati quasi cinque anni dall’ultima volta.

    - Già…Pensa bene alla tua domanda.

    - Ne devo porre una soltanto, vero?

    - Esatto. Formula l’interrogativo che preme maggiormente il tuo animo.

    La giovane donna si spostò alcune ciocche di capelli dalla fronte. Soleva scaricare l’esitazione in quel modo quando doveva temporeggiare su una delicata situazione.

    - Dunque…- emise con lieve tremore – desidero sapere… cosa mi serberà l’amore.

    - Molto bene.

    Ella guardò fiduciosa l’uomo che amava come un fratello maggiore. Avevano ventitré e ventisei anni e sin da piccoli erano cresciuti assieme facendo germogliare una grande e solida intesa. Erano amici e complici e si confidavano reciprocamente riflessioni, dubbi, sofferenze , sogni. Un ferreo quanto solido legame consentiva loro di correre l’uno affianco all’altra con la sintonia di due cavalli che guidano una stessa biga.

    - Orsù – sorrise Khemauseret – con la mano sinistra dividi il mazzo di carte.

    La cugina eseguì ed egli diede una rimescolata ai tarocchi per poi sparpagliarli sulla tavola senza palesare il lato delle immagini divinatorie.

    - Sempre con la mano sinistra scegli i quattro arcani.

    Tefnut toccò le carte che il giovane prese, voltò e dispose a rombo dinanzi a lui: alla sua destra stava la macabra e nera figura di uno scheletro con la falce, dalla parte opposta era apparsa una donna ieratica fasciata da una lunga veste, ai due vertici folgoravano una torre che crollava e un uomo che lottava contro un leone.

    - Un quadro di tormentate nuvole – osservò il divinatore – l’arcano giudice, posto all’estremità maggiore, è la Torre, l’arcano sentenza è la  Forza mentre a levante e a ponente hai rispettivamente la Morte e la Papessa. 

    Khemauseret tacque contemplando con energica mitezza il disegno delle carte. La sua voluminosa zazzera , che pareva composta da code ondulate di volpi brune, lasciava dondolare una lunga treccia laterale che gli si sfregava insolente e dolce sul braccio destro.
    Quel ragazzo era più affascinante che bello: i tratti delle gote e delle mandibole avevano una forma quadrata e soffice, il naso sporgeva diritto e vivace, le labbra apparivano leggermente sottili e spigolose, le sopracciglia cespugliose, pettinate con cura, sottolineavano un acuto e asimmetrico sguardo dinoccolato.
    La particolarità, che incuteva tenera e simpatica inquietudine, era data proprio dagli occhi: quello di destra brillava di nerezza mentre quello di sinistra era di un grigio pallido, opaco e rorido.
    Tefnut ricordava che a dodici anni il cugino aveva rischiato di perdere la vista a causa di una grave infezione alla retina che poi era stata debellata da Roxane con un abilissimo intervento chirurgico.

    - Allora, cuginetta- riprese il neomedico  – se vogliamo dare una prima e generale definizione del tuo spirito è questa: instabilità e desiderio di cambiamento per trovare un sentiero di senso e completezza.

    La ragazza si sentì piombare in una piacevole e scombussolante pioggia di tizzoni.
    L’uomo aveva visto giusto e vedeva sempre giusto. La squadrò con aria indagatrice senza disperdere alcun alito di dolcezza.

    - Instabilità…- gli mormorò la fanciulla – da quanto non sono più la brava equilibrista di una volta? Sono riuscita a mandare avanti il mio lavoro, sono stata vicino a mawat* Roxane  ascoltando ogni suo insegnamento, diventando medico…Eppure…sai bene che quell’orribile freddo e quell’insopportabile strappo stanno sempre dentro a non farmi vedere nulla.

    - Questo è perché hai paura di prendere in mano le redini di un nuovo domani. Hai paura di sperare, di farti sconvolgere ancora una volta dai desideri…Resti rigida, chiusa in te, commettendo l’errore di girarti e rigirarti in una poltiglia ottusa. 
      
    Tefnut si massaggiò, confusa,  una tempia.
    L’amico  si protese verso di lei prendendole una mano.

    - Nut – le sussurrò con lo sfrigolio di un coccolante camino- sei meravigliosa in tutti i sensi: hai intelligenza, bellezza e un carattere che le ragazze della tua età si possono scordare. Guardati. L’hai mai fatto seriamente? Perché non dovresti voltare pagina? Se non fossi tuo cugino non esiterei a corteggiarti spietatamente e a preparati sorprese.

    La fanciulla sollevò  lo sguardo che tradiva una timorosa voglia di uscire da una casa invernale.
    Rise con un debole sbuffo chiedendo:

    - Vuoi mostrarmi come sarà in grado di tuffarsi la mia testa?

    - Ovvio! Le carte le ho disposte qui per questo! Osserva…A est è comparsa la Morte…il che è alquanto curioso, quasi un ossimoro… Dall’orizzonte in cui nasce il Sole tu hai il simbolo del Sonno Eterno…tuttavia…è morendo che ci si trasforma; è quando le forze si spengono in un gelo d’incubo che tutto può riaccendersi con la voglia di brillare, cambiare, risorgere.

    Tefnut fissò l’anello che portava all’anulare sinistro… Il cerchio rilucente di un’unione, una comunione consolidata d’intensi propositi… Sarebbe dovuto essere un cammino eterno con quiete remate, ansiose corse, tratti ilari, traffici stressanti, sbarchi, scali…Un viaggio da compiere in due.
    Un difficoltoso progetto da mettere in atto con lui.

    - Qui, verso il tramonto,  hai un pilastro importante – seguitò Khem- la Papessa può essere il tuo rifugio d’introspezione, la ricerca di una profonda chiarezza al di là dell'apparenza… Essa indica anche una figura iniziatrice che ti può recare supporto e guidarti oltre l’oscurità della notte…E’ il tuo faro quando declini come il Sole perdendoti nell’incertezza. Non escludo che la nostra Roxane possa incarnare magnificamente quest’immagine.  
     
    L’egiziana assodò il vero. L’adorata madre spirituale l’aveva allevata assieme al cugino, l’aveva istruita e fatta maturare acconsentendole di raggiungere vette elevate. Fu grazie ad ella, tra l’altro, che conobbe lui. L’amatissimo alleato, il compositore di liriche serene e passionali.

    - A conferirti l’energia giusta per affrontare questo itinerario  è l’arcano sentenza – spiegò il ragazzo – la Forza è la determinazione che hai in potenza e che devi mutare in atto; è’il senno che intende demolire le insidie del timore che acceca; è la potenza che attende solo di essere portata in superficie ed essere sfruttata come la più preziosa delle armi. Altre persone potranno rafforzare il tuo impegno e la tua salute e posso garantirti che una di quelle son io.
     
    Khem sorrise mostrando la sua imbiancata catena di denti.
    Tefnut lo ricambiò gettandosi nel suo sguardo in bilico tra il carbone caldo e l’argento stellato.

    - Se, tuttavia, vorrai lasciar scaturire il cambiamento – avvertì gravemente il giovane – dovrai rompere quelle catene che ti legano al passato e che non ti consentono di levare l’ancora e continuare il tuo viaggio. L’arcano giudice, la Torre, annuncia l’ansia del movimento, del superamento di una pericolosa stasi al fine di completare una rigenerazione. Sei caduta e devi rimetterti in gioco. È probabile che ti si presenterà un amore difficile, magari angosciante, ma veramente sincero e colmante di luce. Tefnut…pensa a far uscire il tuo cuore dalla paralisi, liberalo, permettigli di seguire i turbamenti e non le esalazioni di momenti ormai irrecuperabili.

    La ragazza avvertì  forbici di freddo bruciante in gola.
    Non riusciva ancora a svincolarsi totalmente da lui.
    Lui dagli occhi verdi marroni colanti di avvedutezza , fragranti di rami che filtravano raggi solari.
    Lui con quei capelli ricci biondo ramato, con quel viso semplice, pulito ma seminato di lentiggini…
    La sua alta e magra figura, la sua bellezza modesta e comune erano diventate l’espressione dello splendore.
    A tale sagoma se ne stava accostando, però , un’altra.
    Era potente, resistente come titanio. Era luccicante di riflessi mori e di berillio. Era l’immagine di un elegante e guerresco esploratore con una sciabola per tagliare  liane e un taccuino per appuntare meraviglie da narrare.

    - Nut…- fece Khemauseret – continui a oscillare tra loro due, vero?

    La giovane posò i gomiti sul tavolo stringendosi nelle spalle.

    - Hai indovinato – ammise abbattuta – Diomede e Shura combattono dentro di me da molto tempo.

    - Bisogna concludere questa pittura d’indugio con l’Arcano misterioso. Dunque…se si sommano i numeri della Morte, della Papessa, della Forza e della Torre o meglio, il tredici, il due, l’undici e il sedici esce il quarantadue che , sottratto al ventidue , il numero totale dei tarocchi, dà il venti. L’Angelo. Esso rivela un evento in evoluzione che non può che avvenire tramite una crisi. “ Crisi”  è la tua parola chiave. Deriva dal greco “ krisis” cioè “ scelta, decisione, risoluzione” ; “ krino” vuol dire “ io giudico” e tu devi valutare te stessa e cercare una catarsi dalle nebbie.
        
    Tefnut si alzò lentamente dalla sedia per andarsi ad affacciare al balcone.
    Sul lembo malfermo e carbonizzato del Mediterraneo, che lambiva il porto alessandrino, la luna  sgocciolava un sudore di panna  disciolta.
    Nell’aria brusivano le voci lontane dei bazar, dei locali notturni, degli alberghi…
    Nel cuore si stava assemblando nitida l’immagine di quell’attimo orrendo, impossibile, imprevisto.

    - Capisco, Khem…- disse la giovane – tu…hai ragione…desidero veramente uscire da quest’insopportabile stasi…Ho il panico. Vorrei fidarmi di me ma non ci riesco…Ritorno ancora a…quel momento…q-quel momento di due anni fa…

    Tefnut si sentì strizzare gli occhi tra gli artigli del pianto.
    Non si sarebbe mai dimenticata di quella mattina con Diomede. Si erano sposati da appena quattro mesi cominciando a godersi una nuova vita. Avevano comprato una casa bianca nei pressi di Rodorio, stavano collaborando ad un importante progetto di ricerca, lui come farmacista e chimico, lei come cardiochirurgo. Quel giorno, tuttavia, dovendo sostenere degli esami in laboratori diversi,  si erano dati appuntamento all’ora di pranzo nell’atrio dell'Ospedale del Santuario.
    Tefnut si  presentò in anticipo iniziando ad attendere lo sposo…
    I minuti trascorrevano e lui, solitamente puntuale,  ancora non giungeva…
    La ragazza, preoccupata, si diresse verso il suo studio e , non appena ebbe aperto la porta,  lo vide sdraiato per terra.
    Morto.
    Gli occhi aperti avvelenati da una pellicola polverosa e secca.
    La pelle chiara diventata di un pallore ghiacciato e ghiaioso.
    Le gramaglie  del silenzio sparpagliate sul pavimento come invisibili cartacce  indifferenti.

    - T-tutto continuerebbe- balbettò la ragazza scottandosi a quel ricordo – se…lui fosse ancora  al m-mio  fianco…

    Khem raccolse  le carte e si avvicinò alla cugina.
    La contemplò con intensità e finezza: le sfiorò i capelli tintinnandole le striature bianche che spuntavano come esili affluenti in una marea carbonifera.
    Egli sapeva che quelle scie di lacrime nevose erano apparse per il trauma inatteso.
    Tefnut era riservata, decisa e all’apparenza incrollabile ma la morte del giovane marito l’aveva brutalmente atterrata. 
    Quell’inspiegabile causa di arresto cardiaco non aveva mai trovato un’attendibile spiegazione clinica: Diomede era sanissimo e non risultava che fosse affetto da qualche malformazione al cuore.
    Fu proprio la sua vedova a occuparsi  dell'autopsia senza trovare alcun indizio rivelatore.

    - Se…se…- bisbigliò ella gualcendosi – se…non fosse mai successo niente…non riterrei il sole una sfera piena di luce e  vuota di sangue. Se non mi fosse capitato quel dannato…

    - Tefnut.

    Il tono di Khemauseret si era inspessito di durezza.
    La cugina lo fissò con triste imbarazzo.

    - Senti…- riprese l’uomo tornando tiepido ma forte – non potrai dire in eterno “ se”, “ se” , “ se”…Non potrai mai punire le bastardate del Destino. Esso continuerà sempre a giocarci tiri mancini, tentando di mandarci a pezzi però non riuscirà  mai a invadere la nostra mente. Tu dipendi da te stessa. Tu hai il tuo cervello e il tuo cuore in mano. Tu sei il medico che conosce meglio di chiunque altro i movimenti del tuo corpo. Vuoi continuare a sprecarti in questo modo?!

    Tefnut restò in silenzio e  abbracciò l’amico.
    Cercò di riprendere fiato alimentandosi  di quel cuore consigliere che gonfiava e si sgonfiava rosso e brillante.

    - Ti sei dimenticata della Spagna? – la rimproverò teneramente Khem avvolgendole le spalle- ti sei scordata di cosa ti hanno donato la Maestra Dora, Anita e…Shura? Per fortuna che io e mawat Roxane ti abbiamo raccomandato caldamente di cambiare aria se no…non so se adesso saresti direttamente scomparsa sotto terra!

    Tefnut rise tenuemente.

    - Sono stata benissimo in quel periodo…- riconobbe con calore – sì…è vero…non so cosa avrei fatto senza aver assorbito quella freschezza delle montagne, quell’allegria d’Anita, la dedizione di Dora e…Shura…mamma mia…è cresciuto un sacco…è maturato parecchio…sta diventando un uomo. Un uomo splendido.

    Khem si staccò leggermente dalla cugina per sorriderle sornione.

    - Scommetto, mia cara, che sapresti descrivermi ogni onda del suo sguardo.

    - In effetti…lo conosco da quando era bambino…che buffo  era! Ti ricordi quando veniva ad allenarsi ad Atene?

    - Eccome! Lo prendevo in giro perché era sdentato e aveva  capelli da istrice impazzito…ti saltellava attorno come un piccolo satiro e ti regalava fiori e uva! Ti asfissiava neanche fossi la sua ninfa!

    - Pensa che mi dava sempre la sua merenda e  mi prometteva che,  se sarebbe diventato il mio fidanzato,  avrebbe imparato a cucinare le più belle torte! 

    I due giovani risero.

    - Ora…- seguitò Tefnut – ora gli occhi di Shura…sono affilati e trapassano qualunque cosa senza lasciar scampo…sono di un nero strano e lucente che fa vedere, alcune volte, dei lampi verdi. Sì. Sono gli occhi di una lama. Una lama che non teme di fendere il magma della terra. Una lama che non ha mai perso nessuna antica purezza. Quel ragazzo si è alzato verso le montagne ma…vedo ancora in lui quelle scintille che non tramontavano mai, neanche di notte. A sedici anni già guardava il mondo tuffandosi da qualunque altezza e adesso che ne ha diciotto e possiede l’armatura d’oro…scardina gli animi di chiunque. Io…mi sento persa…l’ultima volta che l’ho visto…non mi ha più permesso di formulare un pensiero lineare…

    Khem accarezzò il viso della cugina.

    - Nut – le raccomandò – vedi di non lasciarti scappare un vento simile. Shura è davvero giovane ma credo che dovresti immergerti…in lui. Non pensi che sia ora che il tuo cuore conosca una seconda direzione ? Non pensi che dovresti riprendere a scrivere un capitolo che ti faccia rinnovare e donarti un’altra essenza?

    La ragazza guardò Alessandria granellata di luci e schizzata d’argento annerito.
    Le colline del deserto esterno sporgevano come teste di balene muggenti.
    Nella notte tutto splendeva e si opacizzava in un epitaffio di parole senza congiunzioni.

    - Sì…- disse fermamente la ragazza tornando a fissare il cugino – troverò le pagine su cui continuare a scrivere nuovi giorni e nuovi sensi.

    Khem baciò la fanciulla sulla guancia.

    - Buonanotte , piccola. Che Iside possa proteggere i tuoi sogni!

    - Buonanotte, Khem. Che Horus possa sempre farti toccare il Sole!


    Tefnut ammirò il cugino che abbandonò il terrazzo con passo felpato e carezzante.
    Non c’era da meravigliarsi se la gente chiedeva di farsi leggere i tarocchi da lui. Non si dava arie da indovino, non terrorizzava con profezie di nubi nere, non salmodiava chissà quali strambe formule magiche. Lui, semplicemente, mostrava  i moti dell'’animo, integrandosi con le loro oscillazioni, entrando in contatto con  empatia e  pellucidità.
    Suggeriva delle terapeutiche vie senza improvvisare poteri da veggente.
    Era dotato di una sensibilità profonda che riteneva  quasi scontata e che invece possedeva qualcosa di misterioso e ascrivibile.

    Prima di andare a dormire,  la donna diede un’ultima occhiata alla luna…
    Aveva la  sensuale e virginea lucentezza di quelle spade rituali che aveva visto roteare…

    Erano le armi che Capricorn aveva fatto danzare in quella cerimonia di cinque mesi prima…

    La sera di quel giugno di severa frescura si riversò nei cantari dei ventricoli.  


    Una luna di calda freddezza occultava metà del viso  dietro la palpebra della tenebra…
    Era una bimba atra che giocava a coprirsi con un gomitolo di pece e fuliggine…

    Atena si ergeva , nelle sue amazzoniche e caste membra di pietra,  sopra l’acropoli che la glorificava con salmi d’immortali marmi.
    L’enorme egida e i drappeggi del chitone le erano rischiarati  da  imponenti calderoni d’oro disposti ai suoi piedi.
    Davanti quella catena di ciuffi infiammati una silenziosa folla di pellegrini attendeva l’inizio del rito.

    Il Volo della Verità era una cerimonia che avveniva nella mezzanotte dell'equinozio estivo per accogliere la prosperità della nuova stagione che  a luglio avrebbe celebrato  i giochi panatenaici.

    Il Gran Sacerdote, con il viso celato da una maschera d’oro bianco e col capo ornato da un elmo bronzeo d’oplita, contemplò i devoti.
    Dominava , dall’alto di una tribuna di legno posta ai basamenti di Atena, l’ampio piazzale che sarebbe stato palcoscenico della cerimonia.
    La sua tunica color ghiaccio, dai riflessi celesti, lampeggiava messianica oltre le  fluttuazioni delle lanterne e delle penombre sibilanti. Tre collane, di diaspri rossi e fluoriti trasparenti, erano stille  di petali cristallizzati che bagnavano i tessuti. 

    - Fedeli della Vergine Pallade – annunciò  levando la sua voce dorata e abissale – ora che si schiudono le porte della luminosa estate, ora che stanno per nascere i giorni che precedono le sacre cerimonie panatenaiche, le armi della guerra necessitano di purificarsi nella ragione e nel fuoco della temperanza.  Nessuna folle violenza deve lordare la forza che detiene e difende il cuore della pace. La verità dell'equilibrio deve risiedere in una mente e in un corpo che sappiano destreggiare gli impeti delle tempeste. Al ruggito delle ombre va contrapposto il ruggito limpido degli astri. Solo uno spirito  fermo che sta per addentarsi nel mondo può compiere la rigenerazione delle lame di Atena. Che il Volo della nottola  possa prender forma.

    Il Sacerdote afferrò la catena di un incensiere sferico istoriato di motivi stellati.
    Fece dondolare tacitamente l’oggetto colmando l’aria di trecce di fumo aulente.

    Dalla parte opposta dello spiazzale giunse un anziano di media statura.
    Era vestito di un lungo chitone ocra e portava sulle spalle un himation* porpora tenuto fermo da fibule d’ambra.
    Quell’uomo , dai corti capelli bianchi e dalla barba di spini amarognoli,  era Arrunte  uno degli arconti del Tempio. Aveva un corpo nodoso come quello di un vecchio pioppo, un naso adunco e magro,  due occhi marroni  inamovibili come mattoni e cocenti di severità.  

    - Savia Atena – pronunciò arso e solenne – così come suole il precetto, al tuo cospetto giungerà un  guerriero che ha appena varcato la soglia dell'età adulta. E’ un nobile efebo, colui che deve maneggiare la daga dell'Aurora e la daga del Vespero poiché solo con la germoglia tura di una nuova forza  il potere del ferro può rinvigorire ogni anno. Questa notte, o celeste figlia di Zeus, riceverai il dono della danza d’ un servitore d’oro.

    Tra la folla dei partecipanti si alzò un vocio di ammirazione e curiosità.
    Non si sapeva ancora chi fosse il diciottenne  scelto. Il mistero restava  custodito fino all’inizio della sacra danza.

    - Costui viene dalle terre iberiche – seguitò Arrunte – ha lottato sulle cime di lancinante  gelo dei Pirenei… Ha ereditato la sapienza di Dora Aristokidos , ardente sacerdotessa guerriero della Lince… Ha conquistato le vestigia luminose della costellazione del Capricorno... Cavaliere Shura, avvicinati dinanzi alla tua Regina.  

    Si sentì un incavato rollio di percussioni…
    Due file di suonatori di tamburi avanzarono e si disposero  a ferro di cavallo dietro la folla su dei palchetti sopraelevati.

    Shura, seguito da ritualisti che reggevano frasche d’ulivo,  emerse dai tendaggi inchiostrati della tenebra.
    Avvolto in un mantello verde scuro, si lasciò cospargere dalle polveri delle fiaccole che spruzzavano cantilene di lingotti dorati e rossi.
    La calura delle luci contornava di acherontica regalità la sua figura alta, snella, poderosa: le ombre, rannicchiate nelle rughe della cappa, e i riflessi ustionati ,  che galleggiavano sui rilievi delle stoffe,   contrastavano e si agguantavano in un ballo immobile e agro.

    I musici cessarono di percuotere  gli strumenti incrociando le bacchette sulle teste.

    Il  ragazzo  incedette con viso d’acciaio tagliente e un’austerità di marmo ardente.
    I capelli, grossi e spinosi, parevano una selva di felci nere bagnate da una pioggia di buio smeraldo.
    Gli occhi, dall’acuminata e invitante linea obliqua, luccicavano come artigli di gemma lavica su un cielo di bianca tormenta.

    Tefnut lo rimirava, tra la coltre dei presenti, palpitante di soggezione tentando di ascoltare il solfeggio dei suoi maestosi passi.

    Il giovane si fermò davanti ad Arrunte.
    Togliendosi  con calda e seducente compostezza  il chitone lo porse a uno dei ritualisti.
    Restò a torso nudo coperto solo di una fusciacca di seta rossa e di un largo pantalone di lino stretto attorno alle ginocchia.
    La sua bellezza, liberata dalla sacralità arcaica, stormiva sensuale, mediterranea e umida: le braccia potenti e ferrose, le spalle robuste ed eleganti, il petto energico, il ventre elaborato da placche di solidi muscoli, componevano un’opera di tuonante grazia.

    - Nobile Shura – lo appellò l’arconte – sei pronto a reggere gli scettri dell'armonia? Riesci a cogliere il respiro vitale della terra che percorre il levante e il ponente?

    - Sì, sommo Arrunte – rispose con un inchino il ragazzo – le mie mani e le mie braccia sono disposte ad accogliere qualunque lampo, vento e tremore. La mia carne muterà in metallo. Nelle mie vene non scorreranno che cosmo e fiamme.

    Con passo di granito, Dora uscì dall’oscurità liquida tenendo un grande piatto d’avorio sul quale erano riposte due spade. Una aveva l’elsa d’oro e di rame, l’altra d’ametista e ossidiana.
    La donna era abbigliata con un chitone d’amazzone lungo fino alle ginocchia e calzava sandali di cuoio con lacci che  avvolgevano gli stinchi. I suoi lucidi capelli castani erano legati in una grossa treccia mentre il volto era coperto da una maschera bronzo rossastro. 

    - Mio valoroso discepolo – disse la Maestra con tono asciutto e vibrante – ti affido le anime dell’Aurora e del Vespero affinché tu sconfigga le tenebre del caos prive di  leggi e  soli.

    - Niente, Maestra Dora,  m’impedirà di far danzare l’ordine in fasci di luce.

    Il cavaliere afferrò con solenne disinvoltura le armi.
    Arrunte, la sacerdotessa e gli altri ritualisti s’inchinarono dinanzi ad Atena.
    Le stropicciature delle fiaccole gementi si amalgamarono col silenzio.

    Dopo alcuni secondi, i borbottii delle percussioni salirono gradualmente.

    Shura venne lasciato solo.
    Puntò , con grave autorevolezza, le daghe innanzi a lui, come stesse mettendo in allerta il buio.
    Con improvvisa velocità, spalancò le braccia: i pettorali , le dentature oblique delle costole e i dossi dell'addome si tesero e dalla pelle emersero le radici delle vene che parevano ruggire impazienti scintille.
    Il ragazzo avrebbe benissimo incarnato, nella sua fortezza di carne e amianto, il consorte della grande dea Nike.

    I timpani echeggiarono massi di suoni  corazzati , pulsazioni di rinoceronti in corsa…

    Capricorn fece mulinare le spade creando eliche d’oro e argento incendiati.
    Prese a vorticare su se stesso graffiando l’aria di sibili metallici che , come stridori d’uccelli migratori, si librarono oltre la polvere e il vuoto.

    I tamburi diruparono più atrabiliari  e gutturali, quasi avessero stabilito una competizione con i battiti rutili e selvaggi del danzatore.
    Tefnut avvertiva il proprio fiato investito dalla rete d’onde che lui tesseva, lasciandosi ammaliare dal suo corpo, dalla sua anima, da quell’alienazione celeste e terrena di magnitudine infuocata.

    L’ ispanico balzava e piroettava tracciando , con le spade, spirali di comete melate che spruzzavano schegge platinate di serpenti piumati. Le gambe correvano melicamente mostrando e velando, dietro il candido tessuto dei pantaloni, le loro linee d’atletica e accaldata lucentezza. I piedi, vigorosi e fini, salmodiavano le loro ossa come le corde dei tasti di un piano: si sollevavano e strisciavano sulla pelle del marmo senza ferirsi.

    I tamburi placarono i  barriti.
    Shura si arrestò con un braccio sollevato sul capo e l’altro teso all’altezza dell’anca. Fletté il ginocchio sinistro e allungò l’altra gamba in una posizione d’attacco uguale a un monaco d’arti marziali.
    La giovane egiziana studiò i brillanti e cupi tratteggi del dorso del guerriero: le scapole gonfiavano alture di muscoli fuligginosi, il sentiero della spina dorsale si torceva esponendo, agli ululati delle lanterne, le striature delle fibre che si sforzavano. Una coppia di sottili fosse si tendeva verso  le natiche, scattanti e sode, che si univano alla concentrazione dei quadricipiti.    

    I tamburi  fecero conflagrare nuovamente i carri da guerra.

    Con agilità Shura guizzò in avanti roteando le braccia e squarciando le invisibili epe delle negatività occultate.
    Turbinava, declinava al suolo, sorgeva.

    Danzava grida nerborute di vento  maestrale.
    Danzava con singolare severità bacchica, unendo la lava venosa di Efesto alla furia grandinata di Ares.
    Nel nero dei suoi occhi v’era la linfa d’una notte invincibile.
    Le sue membra, pluviali ed elettrizzate, dipingevano movenze soavemente tartaree.

    Tefnut desiderò essere prigioniera di quel corpo e di quello spirito che imperversavano uragani solari. Desiderò essere cinta da quelle braccia astrali e sentire quel petto ampio irrigante di saldezza.

    I suonatori tentarono invano d’infilzare il giovane con le frecce di piombo delle loro note.

    Egli lanciò in alto le durlindane per riprenderle , repentinamente, dopo tre verticali. Compì evoluzioni da giocoliere scagliando in alto le armi e afferrandole alla fine di flessuosi capitomboli mortali. Si tuffava in avanti o si curvava all’indietro con il garbo e la gagliardia degli acrobati affrescati sulle stanze dei palazzi micenei.

    Le percussioni detonarono la sentenza finale.

    Il cavaliere pattinò per l’ultima corsa.
    Puntellò le lame per terra e si elevò, su di esse, con incredibile leggerezza, disegnando una capriola dietro l’altra.
    Piombò al suolo con un tonfo di brace.
    Incrociò le spade di fronte a lui.
    Chiuse gli occhi…

    I timpani squagliarono i loro fragori.
    Il silenzio fece sgorgare i propri affluenti sull’arena.

    Il ragazzo aprì lo sguardo di carbone oceanico.
    Si alzò lentamente in piedi.
    Sollevò le braccia slanciate.

    - Che gli occhi della Verità possano far correre sempre le loro lame - scandì con timbro trasparente e rombante – che gli occhi della Verità possano trafiggere sempre le nebbie delle notti furiose.

    Le spade svanirono in turbini di biancore accecante e sofficemente calorifero.
    Comparvero due splendide civette albine dalle piume d’invernale e irreale levità.
    Spiccando il volo,  scomparvero oltre la corona di Atena come lune alate che avrebbero protetto le  distese del firmamento irreprensibile.


    Le cariatidi  sorreggevano, intinte d’imperturbabile talco lunare, le logge dell'Eretteo.
    Tefnut , poggiata davanti l’ingresso del Tempio, pensava al rituale a cui aveva appena assistito.
    Le pareva di tagliarsi ancora  con le spade di Shura, le pareva di vedere quel tango di luci e ombre che scivolava su di lui, che gli esaltava la magnificenza dell'anima rigorosa e metallizzata…
    Non avrebbe mai pensato di potersi sentire il cuore colmo di esitazione, violenti dubbi…
    Non era un effimero e sensuale invaghimento quello che provava o una fragile sensazione di fascinazione…

    Aveva guardato Capricorn fino in fondo, dalla pelle ai tessuti dello spirito studiandone ogni espressione e movimento…

    Per la prima volta la sua mente non aveva cercato Diomede.
    Si era magnetizzata sul cavaliere cercando di  appigliarsi a  qualcosa…

    La fanciulla  si sentì irragionevolmente colpevole.
    La situazione stava sfuggendo di mano,portando lentamente lo sposo in un vecchio casolare e lasciando scorgere  la strada della superficie.
    Era cominciato tutto in Spagna, a Pasaia*, quando lei aveva soggiornato da Dora per quattro mesi…Era stata accolta affettuosamente da Shura…Aveva visto  diversi addestramenti, tastandone i sacrifici, le soddisfazioni, le lacrime di sudore…Non si era scordata della tempra  di quel ragazzo, capace di soffrire senza lamenti ma che tratteneva, comunque, una tenera incertezza,  che nascondeva alla Maestra e che confidava a lei…All’epoca c’erano ancora i sedici anni, i residui infantili della titubanza, la consapevolezza di un fascino che s’iniziava ad affermare…
    Ora erano piombati i diciotto.

    Shura era diventato ancora più bello, nel corpo, negli occhi, nella determinatezza dei gesti.
    Nessun brivido distorceva la sua robustezza.
    Il fresco ingresso dell’età adulta gli avrebbe serbato altri urti ma lui sarebbe stato capace di ammortizzarne gli effetti deleteri. 

    Lei che avrebbe fatto? Sarebbe stata in grado di sopravvivere in una casa vuota con  un arto mancante e con  un letto inutilmente grande?
    Come sarebbe proseguita un’esistenza digiuna di uno sguardo amante, di abbracci, di idee e sogni?

    A Diomede si stava sovrapponendo Shura, così diverso e antitetico…Un altro universo…Una scoperta da riscoprire…

    - Tefnut! Tefnut!

    La ragazza si voltò verso la piazza dell'acropoli.
    Una sagoma vivace stava correndo via  da un gruppetto di persone che aveva seguito il rito. Portava una lunga veste bianca  con sfacciata puerilità e  senza la minima rigidità. Aveva una scarmigliata chioma di capelli neri  legata  da un laccio che minacciava di cadere da un momento all’altro.
    Quella  tipetta era inconfondibile.

    - Anita! – sorrise l’egiziana.

    La ragazzina si tuffò allegramente tra le sue braccia.

    - Nut! – esclamò – finalmente riesco a beccarti!

    - Che bello  rivederti!

    - Non sono venuti Madre Roxane e Khem?

    - Purtroppo no…Sono dovuti partire in anticipo per Alessandria perché mio cugino doveva urgentemente superare delle prove…Non poteva rimandare gli esami di chirurgia…

    - Capisco…Speravamo tanto di poterli salutare…

    - Tra un paio di giorni dovrò partire anche io per l’Egitto ma stai tranquilla! A ottobre dovremmo tornare di nuovo ad Atene. A proposito…Mi domandavo dove fossi finita… non ti ho incontrata prima della cerimonia…Eri  con la Maestra Dora? 

    Anita sbuffò imbronciata.

    - Sì …stava cercando di agghindarmi tutta bella e perfettina come una sposa ma io sono fuggita, lei si è imbufalita e mi ha mandato a quel paese. Dice che sono peggio dell’ortica e di una scimmia posseduta!

    - Non ha tutti i torti! – rise Tefnut – quando provavo a truccarti o a metterti un vestito diventavi  una micia rabbiosa!

    - Ehi! Io amo il comfort! Non tutti quei bagagli appesi alle orecchie, quel matitone attorno agli occhi, il rossetto da vamp…

    - Ma Anita! Sei una ragazza!

    - Mica devo posare infighettata come una pin up!

    Con gesto lesto, la giovane disfò  la crocchia scomposta di Anita e gliela sistemò con impeccabile stile.
     
    - Non devi fare la femme fatale ! – ridacchiò -  È solo per valorizzarsi! Sei così carina!

    - Zè…quel capro di mio fratello dice che sono sexy quanto una zucchina rinsecchita…

    - Fa lo stupido…tu non sai quanto sia geloso di te! Teme che qualche furbastro possa portarti via da lui!

    - Figuriamoci! Quello lì ha la scia di guape che lo assalgono…

    - Anche adesso gli hanno teso un agguato?

    - Avevi dubbi? Guarda, non le reggo…mi stanno troppo sulle scatole! Queste di Rodorio fanno tutte le brave fanciulle  poi non appena nasano l’aroma di un figo si mettono in tiro con profumi da farti venire il diabete e  biancheria intima da baldracche! C’erano delle tizie, al termine della cerimonia, che per  poco non orgasmavano alla vista di Shura…Sono fuori dai coppi… ma che hanno i loro feromoni?

    - Beh…tuo fratello è molto attraente, capisco benissimo che colpisca però… ogni reazione ha un limite…

    - Ah! Non dirlo a me! Preferisco non riportarti i commenti porconi che gli hanno fatto ieri mattina  mentre si stava allenando in piscina…

    - Scimmios!

    Anita e Tenfnut si accorsero che Shura era  dietro di loro.
    Avvolto da una clamide*  bordò,  sorrideva inargentato.

    - Oh, el capron! – sghignazzò la sorella – sei riuscito a fuggire dalle caprette infoiate?

    - Ahimè è duro el ridmo de la vida del caballero...specialmente se le ciquas devientano loche!

    - Segnor Fernandez – lo rimproverò scherzosamente Tefnut – vi pare giusto far attendere due damigelle che dovrebbero avere la precedenze su ogni altra…gentil donna?

    Il giovane restò stregato dal  seducente sorriso dell'egiziana. Non gli sfuggì nessuna sfumatura di quella dolce e leggiadra malizia che dallo splendido viso irrorava le forme delle membra velate da una tunica rosata.

    - Chiedo umilmente venia, madonne – proferì con tono caldo e pentito – il mio corazon è espinado!

    - Oh, Cielo! – sospirò Anita – ecco il Carlos Santana dei poveri…

    - Senti, babbuina….non pensi  sia ora di andare a nanna nella tua casetta di liane?

    - Si dà il caso che la babbuina abiti in una stalla con un caprone scassapile…

    - Ah è vero…ecco perché si sente tanfo di giungla e pulci!

    - Cretino!

    - Dai, tesoro! Vammi a preparare un frullato alla banana!

    - Come no! All’una di notte!

    - Devo crescere! Ho bisogno di potassio!

    Anita diede una rumorosa pacca sull’addome del fratello.

    - Il tuo cervello ha bisogno di potassio, addominali d’acciaio!

    Shura strinse energicamente la ragazzina stampandole un bacio sulla guancia.

    - Su, torna dalla Maestra Dora prima che tu la faccia infuriare di nuovo!

    - Va bene, va bene…vi lascio romanticamente soli al chiaro di luna…mi raccomando, fratellone! Non fare il diablo!

    - Stai tranquilla, bell’upupina!

    Il cavaliere scombinò  lo chignon spinoso della sorella che si allontanò salutando, con espressione furbetta, Tefnut. 

    I due giovani restarono  in compagnia dei raggi lunari e della quiete.

    - Sei bellissima come sempre, Tefnut – dichiarò il ragazzo armandosi di uno dei suoi seri e intensi sorrisi – avevo una gran voglia di rincontrarti.

    Si avvicinò alla fanciulla e lei corrispose il suo sguardo navigatore e luminoso.

    - Shura…- gli mormorò – sono davvero felice di poter essere qui…Il Volo della Verità è stato un rito meraviglioso…non potevano che scegliere un giovane come te per eseguirlo. Per padroneggiare due lame divine è necessaria una forza profonda.

    - È stato un lungo percorso e le soddisfazioni non sono arrivate subito…Ho bruciato ogni goccia del mio sangue per affinare le mie tecniche. In ogni momento devi dimenticarti del dolore , perché è quando pensi di morire che bisogna trapassare la soglia del limite e continuare.

    - Non temi che l’equilibrio del tuo corpo possa andare in frantumi? Il fisico deve essere sostenuto dalla coscienza delle proprie capacità e limiti…E’ una questione di armonia…

    - E’ l’infinito l’armonia di un cavaliere, Tefnut. Abbiamo un corpo mortale ma il nostro cosmo è fatto dell’immortalità delle stelle. Dobbiamo diventare infinito se il nostro spirito deve raggiungere il cielo. Atena ci ha dato questi poteri che sono un dono e una piaga…io ero terrorizzato dalla mie capacità ma sono stato costretto ad amarle e a sacralizzarle. Senza di esse non sarei stato capace di sopravvivere alle prove.

    - Sei terribile…ma non posso darti torto anche se fai paura quando parli così…

    Shura prese dolcemente la mano della ragazza.

    - Mi permetti d’accompagnarti a casa?

    Tefnut sorrise intorpidita: il giovane feriva con la sua franca gentilezza quando tentava di tranquillizzare, illudere che era possibile attraversare le assurdità.
    Non sapeva che quella testarda energia suscitava più ansie che serenità.

    - Grazie, Shura – gli  sussurrò l’egiziana - mi fa molto piacere.

    Il ragazzo la prese garbatamente sottobraccio e si diresse con lei verso il villaggio di Rodorio...
    Sui sentieri di ciottoli addormentati, le ombre strisciavano affusolate come sagome di fantasmi amanti che finalmente gioivano ignorati dai vivi.
    Le facciate delle case duellavano una di fronte all’altra senza disfide, senza motivazioni, tacevano con epidermidi di freddo e crepato stucco.

    I due giovani parlavano piano, raccontandosi a vicenda i propri vissuti e  allacciando traiettorie di  comprensioni. Le loro voci si alternavano nel lucore di una notte parca fatta di lampioni sonnambuli e lontani chiacchiericci di gente ancora sveglia.
    V’era l’emanazione  di una pallida e amena normalità che poi sarebbe svanita come la calda alitata di una bocca dal vetro di una finestra.

    Il cavaliere e l’egiziana giunsero a destinazione e purtroppo dovettero interrompere gli intrecci delle loro sillabe.
    L’ingresso  della dimora attendeva amaramente d’ essere aperto.

    - Ti ringrazio di cuore – disse teneramente la fanciulla – sono stata contenta di aver parlato con te.

    Lui le offrì un sorriso muto, strano, oppresso.
    Lei , imbarazzata,  prese la chiave di casa non sapendo se sentirsi più gioiosa di prima o più rattristata che mai.

    Il silenzio perdurò alcuni secondi.

    - Tefnut – si destò  lo spagnolo – devo dirti un’ultima cosa…

    La fanciulla stette in attesa con le costole che le rabbrividivano.

    - Ti penso spesso – le rivelò – immagino di vederti alla fine di ogni notte, di ogni ostacolo. Quando sei stata da noi a Pasaia , mi piaceva un sacco svegliarmi e sapere che da quella stanza in fondo al corridoio  saresti uscita e avremmo  fatto colazione assieme…Non aspettavo che quel momento ogni volta che andavo a dormire…Avrei preso a calci nel sedere la notte pur di vedere immediatamente spuntare il sole….

    Le si accostò arioso e rugiadoso di eburnee candele lunari.
    Ella restò immobile, sfrigolante di spaesamento, con la testa colma di perturbazioni atlantiche ingovernabili. Cercò di riprendere quota, di destarsi da quella discesa silenziosa che pure modulava echi di soprano.
    Tutte manovre inutili.
    Egli le carezzò le braccia con carnale dolcezza stellando la sua pelle e il suo animo di musiche contundenti.

    - E’ bellissimo quando ci si brucia – continuò  profondo il cavaliere –  mi sentivo pieno quando mi bastava vedere che c’eri, che camminavi sotto il mio stesso tetto, che mi mostravi i tuoi occhi… La prima cosa che ho amato di te perché sono azzurri ma non completamente…Hanno tante striature marroni e se non sbaglio, all’occhio sinistro, ne hai una più scura delle altre.

    Ridacchiò tenuemente  vergognoso e con innocente  spavalderia.
    La donna restò allibita: quasi nessuno si  accorgeva di quel piccolo dettaglio…             

    - Quanto siamo scemi noi maschi! Ci lasciamo rincretinire dai petti, dalle cosce, dai sederi, facciamo a gara a chi accalappia le più belle ragazze per non  passare per dei fessi senza palle…senza sangue…Beh…io non sono l’eccezione che conferma la regola e ho seguito ciò che l’istinto frulla in quei momenti...sai…in quei momenti che non si ha voglia di usare  il cervello…ecco.

    Shura si massaggiò la nuca  a disagio.
    Tefnut lo squadrò con sopracciglio inarcato un po’ intenerita e un po’ indispettita.
    Si domandava dove volesse andare a parare.

    - Sì…- confidò lui espirando – è facile ragionare dall’ombelico in giù…ed è anche irresistibile…

    L’egiziana  sorrise  inasprita.

    - Certo – constatò ironica – non ci vuole nulla a voi per gioire. È tutto così semplice! Perché complicarsi l’esistenza? Basta una bella sorsata di eccitazione e via! Salvaguardate la vostra virilità perché non sia mai passare per  fraticelli!  Vero?

    La ragazza scosse il capo e minacciò di entrare in casa.

    - Tefnut! – la chiamò Shura maledicendo se stesso – aspetta!

    Lei lo fulminò seccamente ma decise di continuare ad ascoltarlo.
    Quegli occhi neri custodivano dell'altro e in fin dei conti si stavano dichiarando con imprudente e preziosa onestà.

    - Senti – proseguì egli rammaricato ma deciso  – ho combinato un mucchio di scemenze coi miei amici, lo ammetto,  ma questo non significa che io non sia capace di mettere in moto i neuroni…Detto francamente (  perdona i miei termini) le scopate si consumano subito ma poi cosa resta? Credi che io sappia descrivere le ragazze che mi sono portato a letto? No. Non ti so riportare alcunché perché non me frega nulla . Abbiamo soltanto paura della morte, del domani che nasconde tutto e quindi ci strafoghiamo di stordimenti.

    Tefnut lasciò sbiadire il cipiglio.
    S’incantò ad analizzare le sopracciglia contratte del giovane che discorreva con pungente lucidità.

    - Tefnut…noi uomini purtroppo restiamo animali ma ti garantisco che quando adoperiamo la testa diventiamo più matti , più contraddittori e più sensati di prima. Dicono che le donne sono complicate ma la scatola cranica di un uomo è un casino indecente!

    Si mise a ridere.
    La sua voce, scintillante e alpestre, era  similare all’ematite: da pigmenti d’intenso grigio metallico assumeva il bollore e le vibrazioni del sangue scarlatto.
    Lei  si sentiva irretita…Le fiaccole che svolazzavano dalle logge dei templi, gli odori di salmastra sonnolenza delle piante, l’incanto del firmamento d’impercettibile moto…Ogni cosa si allontanava dai suoi sensi.

    - Vedi…- fece lui serio e acceso- c’è una spada che mi sta trafiggendo la pancia, i polmoni, l’anima…E’ ancora un punto interrogativo nel domani ma è così stupenda che voglio che mi vada sempre più dentro. Vedo una nuova via…una via che solo questa lama  può chiarirmi e donarmi…Tefnut: non riesco a farti fuggire dalla mia mente.

    Solo Capricorn deteneva il lituo del potere.
    Il suo volto  si chinò, gentile e ardente, verso la bocca  rubino dell'egizia.

    Una folgore, tuttavia, proruppe in quell’istante.

    - Shura, perdonami…

    Tefnut, col cuore macerato di paura e tristezza, respinse il cavaliere.
    Posandogli la mano sulla spalla,  non potette che lasciargli  il tocco di due iridi accaldati e lividi.

    - Anche io – ammise- anche io ti penso spesso…Mi hai catturato piano, piano…Forse me lo sarei dovuto aspettare…Da quando sono stata con te, Anita e la Maestra Dora ho visto come hai affilato il tuo spirito, come hai affilato me, come mi hai fatto uscire da un incubo…

    Coccolò lievemente la gota del giovane.

    - Sei fortissimo – sorrise afflitta- sei veramente degno di prendere l’Excalibur. Riesci a rompere qualunque roccia.

    Lui le prese la mano baciandone il palmo.

    - Lo sai – balbettò ella – lo sai …che mi stai facendo crollare?

    Gli si svincolò con intenso rammarico e lo contemplò rannuvolata di spaesamento.

    - Scusami davvero…mi sento così sciocca…Non so cosa pensare.

    Infilò la chiave nella serratura con mesta agitazione.

    - Tefnut.

    La ragazza si girò.
    Shura la fissava con gravità irremovibile.

    - Non smetterò di immaginarti.

    Lei si sentì braccata, speranzosa.

    - Non devi aver paura – continuò lui – non puoi cadere…Ci sono io ad aspettarti e a prenderti.

    Sorrise sicuro e puro di diamante.
    Tefnut si addolorò di felicità ed entrò in  casa, per sgattaiolare da lui, dal suo fresco splendore, dai suoi giuramenti d’aurifere navigazioni.

    La speranza e il timore danzavano sotto un tintinnante lampadario di fragile arcobaleno.


     

    I ricordi vennero interrotti.
    Un lampo azzurro-biancastro  inondò il palazzo degli Archiatri  di Kemet.
    La notte sbiancò di stupore senza emettere suoni.

    Tefnut si schermò per un istante gli occhi…
    Quando l’idrante d’abbagliamento si dileguò,  si affacciò al terrazzo guardando il cortile interno spumeggiato di palme : alcuni vigilanti  e dottori si stavano precipitando verso l’ingresso dell’edificio. 

    Incuriosita e preoccupata, la fanciulla abbandonò il balcone per recarsi immediatamente al piano di sotto. Mentre scendeva la scalinata  che portava all’atrio, fu raggiunta dal cugino.

    - Khem! Hai visto la  luce di prima?

    - Eccome! Sono sicuro al cento per cento che non si trattava di una cometa!

    - Già. Chissà cos’è successo. Mawat Roxane aveva previsto l’arrivo di qualcosa di strano…

    I due ragazzi attraversarono  l’enorme corridoio dell'androne e  arrivarono allo spiazzale marmoreo dell’entrata del palazzo.

    Trovarono tre guardie e un gruppo di sei medici che stavano soccorrendo una persona.
    Era un giovane alto e barcollante vestito con un mantello acquamarina lacero.
    Venne adagiato delicatamente a terra mentre si aspettava una barella.

    - Che è accaduto a questo ragazzo? – domandò Khem a uno dei soccorritori.

    - Non abbiamo capito bene…- rispose l’uomo – è riuscito solo a dire che ha attraversato il deserto del Libano per arrivare fin qui…

    Tefnut  osservò il ragazzo semi incosciente. Era veramente atipico e aveva un’età indefinibile: poteva dare l’idea di un sedicenne quanto di un trentenne. Possedeva un viso efebico d’ aulete   e un brillante grigiore da monarca amareggiato. Le guancie spianate, il mento grazioso e il naso dalle linee di bruma sembravano fatti di porcellana d’antiquario luccicante come vasi cinesi.  I capelli, sebbene fossero pieni di sabbia, non avevano disperso la finezza del loro splendore azzurro violaceo. Ogni filo rabbrividiva regale  nella sua essenza di vetro e raso coprendo di lisce fronde una fronte alta e un collo lungo e angelico. La carnagione rosa chiarissimo, che rifulgeva di sfumature argento perlacee, conferiva all’ adolescente un’aria elfica e raffreddante.

    - D-devo …d-devo parlare… - riuscì a farfugliare pesantemente – il…il…

    Aprì faticosamente uno sguardo a forma di gemma dalle tonalità cobalto-indaco.
    Tentò di sollevarsi sui gomiti ma Tefnut lo dissuase invitandolo a stare sdraiato.

    - Non sforzarti. Sei molto debole. Hai bisogno di cure…

    - Devo vedere…u…uno…dei s-sommi…arconti del Grande Tempio…

    Khem e la cugina si guardarono perplessi e inquieti.

    - Eccomi, giovane forestiero.

    Roxane era comparsa, coperta da una sopravveste sabbiosa, rassicurante e silenziosa.
    Si chinò sul misterioso ragazzo sorreggendolo per le spalle.

    - Qual è il tuo nome? – domandò con autorevole dolcezza.

    Il giovane contrasse le belle labbra livide in un’espressione pesta:

    - M-Mi…c-hiamo…Tamira e…e…

    Completamente affannato, perse i sensi.
    La manica del mantello malandato gli scoprì l’avambraccio sinistro.

    - Mawat Roxane! – notò stupito  Khem  - guardate quel tatuaggio! C’è scritto…” Penta uranòs” ?!

    - Ma…- fece Tefnut inarcando la fronte – non è…l’antichissimo sigillo del Quinto Portale?!

    L’anziana rabbrividì di gelate micce. Le sue congetture avevano colto  gravi vibrazioni. Deglutì e pronunciò ansiosamente:

    - Tamira appartiene al Cielo Estremo…è un Alchimista di Eu Topos *! 

     


    Note esplicative:

    Sekhmet* :  dea figlia di Ra dalla testa leonina. Essendo divinità della distruzione e delle carestie veniva adorata in funzione apotropaica dai medici per scongiurare le malattie e trovarne i rimedi.
     
    Kemet*:  uno degli antichi nomi del Regno d’ Egitto che significava “ Terra nera” , in quanto designava il limo scuro portatore di fecondità che si deposita sulle rive del fiume dopo l’inondazione.

    Hatshepsut*: l’unica regina che governò come faraone intorno al 1500 a.C  dopo la morte del marito Tutmosi II. Fece costruire il grande Tempio di Deir el-Bahari e , alla sua morte,  il successore Tutmosi III volle cancellarne la memoria distruggendo tutto ciò che la ricordava.

    Api *:  o Hapy, “ l’esuberante”,  è il dio del fiume e in origine era questo il vero nome del Nilo ( in quanto Neilos e Nilus  sono i nomi dati dai greci e dai romani) . Divinità androgina , possiede  caratteri sia maschili che femminili poiché l’acqua, nella concezione egizia, è uomo e la terra è  donna. Api è dunque sia padre che madre e rappresenta la fertilità e la vita.
     
    Mawat*:  madre” in egiziano antico.

    Himation*: letteralmente in greco antico“ mantello”, è un ampio telo costituito da un taglio di stoffa rettangolare che può essere drappeggiato  in molte maniere e fissato alle spalle con spille o fibule.

    Clamide*:  mantello dei combattenti e dei guerrieri di taglio quadrato, più corto dell’himation.


    Note inerenti ai capitoli precedenti:

    Pasaia* : ( Pasajes in castigliano) è un comune spagnolo della comunità autonoma dei Paesi Baschi. E’ situato a nord est della penisola iberica ( sulla costa atlantica)  proprio vicino alla catena montuosa dei Pirenei.
    Vedi CAP 6 – come lame  lucenti: Dora. 

    Alchimista di Eu Topos *:  vedi CAP 15- celeste immenso.


    Note personali:
    carissimi lettori! ^^ Finalmente il capitolo 17 è giunto al termine! Come ho già detto anche nella parte precedente, sto portando avanti questa storia parallelamente alla spin-off “ Io, figlio dell'inferno” …perciò avviso che “ L’occhio dell'ariete”  diventerà bimestrale e dunque il prossimo aggiornamento sarà a dicembre! 
    Passo ora a fornirvi ulteriori note esplicative inerenti a questo capitolo dal sapore un po’ greco, un po’ egizio e un po’ ispanico XD
    - Punto 1  i nomi dei “ cugini del deserto”  XD 
     Tefnut è la dea egizia dell'umidità ed è sposa di Shu il dio del vento. Assieme ad egli ha generato Geb e Nut, dei della terra e del cielo stellato nonché , a loro volta, genitori di Osiride, Iside , Seth e Nefti. Ho voluto dare questo nome al mio personaggio per rendere un’idea di malinconia, fragilità e trasparenza come le gocce di rugiada mattutine che poi scompaiono dalle foglie.
    Khemauseret o Khaemauset  era il quartogenito di Ramses II il Grande, uno dei figli più “ importanti” , mago di grande fama, studioso delle Piramidi e sacerdote di Menfi. Ho dato al nostro cartomante-medico questo nome per richiamarmi a una figura erudita, misteriosa e perspicace.
    - Punto 2 :  la questione tarocchi .
    Quest’arte divinatoria mi ha sempre affascinato e può essere letta in molti modi. La modalità di lettura che ho narrato me l’ha descritta e spiegata una mia carissima e stretta parente che a volte legge le carte. E’ una via semplice, senza pretese vaticinanti, mirante a individuare lo stato d’animo della persona e a mostrare probabili reazioni future . Ovviamente per sapere il significato delle figure dei tarocchi ho letto un libricino e ho programmato, con attenti calcoli, il quadro che svela Khem a Tefnut. Ho voluto presentare i personaggi in questo modo lasciando trasparire un’atmosfera “ arcana” che alludesse  alla magia praticata in Egitto, terra per antonomasia delle arti mistiche.
    - Punto 3 : Il Volo della Verità
    E’ un rito partorito dalla mia fantasia che mi serviva per collegarmi alla sacrale importanza delle panatenee e mostrare Shura inserito nell’antica tradizione delle cerimonie greche. Ho desiderato raccontare la vita  religiosa del Grande tempio e anche ( e soprattutto) un aspetto inedito e seducente di Capricorn. 

    Dopo avervi torturato di spiegazioni , mi auguro che abbiate apprezzato questo capitolo dove si sono scoperti importanti  risvolti sentimentali che ci tenevo a mettere in luce ^^
    Vi do appuntamento col cap 18 dove si cambierà scenario e vedrete…altra gentaglia!! ;-)

    Un salutone grazie a tutti!!!  

     
    p.s ho corretto nel Cap 5  ( conchiglie di storie: libra e gemini)  una frase errata sul compleanno di Doko…

     

     


       
     

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    Capitolo 31
    *** CAP 18 - la rana, il grifone e la vestale ***


    dedico questo capitolo a banira, lady dreamer e Sara 992 perché lo hanno atteso affettuosamente per tanto tempo…

     


    “ Se la vita è sventura,
    perché da noi si dura ?
    Intatta luna, tale
    è lo stato mortale.
    Ma tu mortal non sei,
    e forse del mio dir poco ti cale. “


    ( G. Leopardi )

     

     

    Niente strepitava nella notte elevata.
    Nessuna polvere di traffico scorreva nelle tartagliate vie.
    Nessuna didattica voce spiegava le storie delle signorie, dell'arte, dei versi remoti che resuscitavano e morivano in una modernità scoppiettante e antiquaria.

    La città del giglio si  spianava disfatta e  malinconicamente rinascimentale sotto le occhiaie del sonno.
    Firenze guadava con lentezza intorbidata nei flussi che precedevano la lontana aurora. 

    Solo un fischiettio  infranse quella quiete di freddura.
    Sembrava rozzamente allegro, nostalgico, scalcagnato…

    Ondeggiava, ondeggiava e si accompagnava con un ritmico tamburellare ligneo.
    Una piccola figura vagava nelle penombre del Ponte Vecchio.

    Si muoveva  sgraziata come una lattina acciaccata mentre percorreva , con passo traballante e clownesco, la via  dei negozi serrati degli orefici.

    Aveva una strana e reumatica  postura… Pareva faticasse a stare eretta così trotterellava curva con le braccia  che avvolgevano  un vaso attico dalle curvature scure e dalle anse ricciolute.

    - E' giunta mezzanotte !  Si spengono i rumori…  Si spegne anche l'insegna di quell'ultimo caffè! Le strade son deserte , deserte e silenziose, un'ultima carrozza cigolando se ne và… *

    L’omino  tentava di modulare una voce lirica,  simile a quella  di  un cantante  in bianco e nero,  ottenendo soltanto gracidii da clochard brillo. 
     
    - Il fiume scorre lento,  frusciando sotto i ponti , la luna splende in cielo,  dorme tutta la città…

    L’Arno , fortunatamente,  non aveva orecchie per ascoltare e proseguiva menefreghista il suo corso… La Luna era appollaiata su trespoli troppo alti per riuscire a captare quelle note deformi…
    Solo i palazzi fiorentini tremavano nelle loro fondamenta  assieme ai sassi delle strade.

    Lo strambo vagabondo alzò  il tono ragliando da ciuco:
     
    SoOOOOOOOOOlo và… un uomo in frack!

    Quel  piccoletto si chiamava Zellos.
    Portava un cappotto eccessivamente grande che  lo rendeva ridicolo e goffo.

    Ha il cilindro per cappello,  due diamanti per gemelli , un bastone di cristallo,  la gardenia nell'occhiello e sul candido gilet… un papillon…un papillon di seta blu…

    Certo, costui aveva un cilindro per cappello, ma era un tubo arciconsunto che  pareva un barattolaccio    di fagioli…Sui polsi sfilacciati della giacca non c’erano due diamanti per gemelli ma due bottoni appiccicati come pongo deperito… Nessun bastone di cristallo ma in compenso un gilet marrone verdastro con un papillon slacciato di raso vecchio.

    S 'avvicina lentamente , con incedere elegante , ha l'aspetto trasognato malinconico ed assente non si sa da dove vien… ne dove và… chi mai sarà… quell'uomo in frack…
        
    La natura, purtroppo, si era mostrata più matrigna che madre all’allegro canterino: era molto basso, aveva un corpo magro e nervoso, una spina dorsale fonte perenne di problemi e un viso irregolare e grottesco. Chiunque restava sorpreso e un po’ disgustato da quella sorta di maschera carnevalesca: gli occhi scuri colavano giù infiacchiti e invecchiati, il naso sporgeva concavo a becco di tortora, le guance erano bollate da ceci brufolosi, la mandibola superiore era spropositatamente schizzata in avanti e  mostrava una piastrellata di giganteschi denti. Zellos non riusciva a serrare le labbra e pertanto  restava congelato in un’espressione ghignante o pateticamente comica .
    Come se non bastasse, all’età di ventotto anni , era senza capelli poiché  la calvizie l’aveva iniziato a perseguitare da quattordicenne lasciandolo anno dopo anno sempre più spelato…

    Bonne nuite ! Bonne nuite ! Bonne nuite !  Bonne nuite !

    - Maremma maiala! Hai finito de’ rompere i cojoni ?!

    Un signore di mezza età, esasperato da quella serenata spappolante, aveva spalancato la finestra di casa.

    - Beh? – esclamò l’ errante tra lo stizzito e l’incredulo – vi sembra modo di rispondere questo?

    - Vai a cagare! Hai visto che ore sono , idiota?!

    - Porca zozza…Cosa stavo facendo di male?

    - Stavi sfracellando le palle, ecco cosa!

    - Possibile che  io non possa gioire tra il fiume e il cielo? Tra la terra e l’aria muta?

    - Impiccati, ubriacone di merda!

    - I cazzi vostri  no, eh?
     
    Dopo un’altra sfilza di abbai e fantasiose imprecazioni,  i duellanti si congedarono mandandosi alla malora.

    Zellos proseguì la sua strada dirigendosi,  rintronato dagli effetti del Brunello di Montalcino, verso il Palazzo degli Uffizi.
    Entrò nell’androne esterno circondato da  file di porticati e pareti di finestrate neo classiche.   

    - Aspetta un attimo…- ruminò spanato – ma davvero Master Oslo sono-più-intelligente –di-tutti-voi ha detto che dovevamo vederci qui?

    L’omuncolo ruotò lo sguardo a levante e ponente, scrutando le colonne in pseudo stile dorico del grande edificio.

    - Come cavolo entro?! E poi quante lire dovrò smollare ?! Per fortuna che a quest’ora non c’è folla…vediamo un po’ …

    Prese , leggermente claudicante, una passerella di legno dove i turisti di giorno facevano la fila.

    - E’ chiuso?! Non è possibile! Che organizzazione schifosa! Uno deve sempre venire qua di mattina o di pomeriggio?! Bisogna un po’ svilupparsi con gli orari…Mica le persone hanno  gli stessi ritmi! Bell’umanità…davvero…e poi quel Grifone Albino non è tanto normale…Capisco che uno ami i quadri ma andare a fare la nanna con loro è  da ricovero… 

    Si lasciò sfuggire un singhiozzo segaligno.
    Guardò l’anfora  di bucchero  che aveva con sé.

    - E’ qui dentro che cosa s’infilerà mai? Dobbiamo rubare il genio dalla lampada di Aladino e imprigionarlo? Forse concederà cinque desideri?

    - Forse ti concederà più intelligenza.

    Sorpreso, Zellos osservò i loggiati e le finestre  degli Uffizi.

    - Chi è là? – esclamò stridulo.

    - La fata turchina! – rispose una voce in falsetto.

    Una marea improvvisa,  sfrangiata e irsuta di pipistrelli si lanciò verso il disgraziato ometto.
    Un orripilante accavallamento di ultrasuoni e graffi di ali scabrose lo tormentò rinchiudendolo in un vortice nero di canini morsicanti.

    - No! No! No! – urlò terrorizzato -  andate via topi volanti! Via!Via!

    Una risata divertita, perfida e acida rimbombò tra le mura.
    L’ometto correva avanti e indietro alla  maniera di un criceto cavia  intrappolato in un labirinto.

    - Basta! Basta! – piagnucolava – sparite!

    - Su, piccoli!  Tornate dal vostro papà!

    I pipistrelli svolazzarono verso il padrone dileguandosi in bolle sfilaccianti di cenere.

    Adagio, il nano alzò il capo…
    Si voltò alle spalle, dove si apriva maestoso l’arco a tutto sesto dell'entrata della pinacoteca.
    Sotto di esso stava appeso a testa in giù un tipo bizzarro.

    - Allora, ranocchio ? – canzonò lui – ti sei di nuovo sbronzato?

    Zellos corrugò la fronte per mettere a fuoco la sagoma scura che penzolava dall’architrave.
    Solo un soggetto era in grado di assumere simili pose.

    - Wimber! – proruppe irato – stronzo deficiente! Sei simpatico quanto un martello pneumatico nelle budella!

    Sghignazzando, il giovane spiccò un triplo salto mortale e atterrò davanti al  piccolo interlocutore.

    - Zellos zolla d’anfibio! Sei fantastico quando te la fai sotto!  Non mi stancherò mai di farti giocare coi miei bimbi! Ti adorano!

    Il ragazzo rise di nuovo.
    Zellos l’avrebbe voluto prendere a pugni.
    Lo specter della costellazione del Pipistrello era uno degli esseri più irritanti  dell'esercito di Ade.
    Il suo viso, ovale e appuntito, possedeva tratti armonici ma gli occhi obliqui e aggressivi, di una tonalità grigio-bluastra, si spalancavano in espressioni abbacinate e folli. A evidenziare tali scintille , giullaresche e macabre, contribuivano gli spessi capelli neri che fiottavano in aria come torce di folletti diabolici. Una frangia liscia e tagliata in modo scombinato copriva un paio di sopracciglia sottili e frastagliate.
    Il fattore più inquietante era la dentatura bianca che lasciava sporgere due lunghi canini affilati e dei molari leggermente seghettati . Le labbra restavano dischiuse in un ghigno o in una smorfia demoniaca talmente non riuscivano a nascondere quelle zanne anomale…
    Wimber sarebbe potuto risultare attraente visto che era snello, agile e abbastanza alto, tuttavia  l’estroso look , con pantaloni di pelle attillati, giubbotto viola, cinture  borchiate e  scarponi  da motociclista criminale, lo rendeva  più spaventoso che avvenente. Le sue mani nodose e lunghe, accentuate dalle unghie bordò e aguzze, non ispiravano nelle fanciulle desideri di dolci carezze. 

    - Quei tuoi schifosi ratti volanti! – s’inalberava Zellos -  giuro che la prossima volta li polverizzo tutti!

    - In che modo, ranuncolo? Ma ti sei visto? Sei solo capace di saltellare nelle paludi e chiacchierare con gli invertebrati!

    - Le rane sanno nuotare a fondo e hanno cervello!

    - Certo… un cervello di merdaccia come il tuo dato che sei il microbo più patetico e rincoglionito che sguazza nel fango.

    - Wimber! Zellos! Dateci un taglio.

    - Dobbiamo evitare scioccamente di perdere tempo. 

    Quel tono virile, serrato e grave  seguito dalla seconda  voce , musicata e sinuosamente intimidatoria,   interruppero la schermaglia.

    - Fedor. Myu – disse il Pipistrello – mi ero allontanato da voi per vedere se il rospo  stesse ricordando bene le indicazioni di Minos…A quanto pare ha fatto cilecca…

    Avanzarono , da sotto l’arcata d’ingresso,  due ragazzi  di fascini singolari e differenti .
    Il primo ostentava , con andatura flemmatica ed elegantemente arrogante, una corporatura asciutta, imponente e losca. Portava un abbagliamento nero blu da aviatore pirata:  una giacca a doppio petto, legata in vita da un cinturone, gli esaltava biecamente le spalle e il torace mentre dei pantaloni sbuffanti e un paio di stivali militari  lasciavano risuonare la sua andatura sicura e seducente. Il viso era abbronzato in modo lieve e rifulgeva di tratti squisitamente ombrosi: una benda copriva l’occhio destro mancante permettendo all’altro di concentrare tutto il nerbo superstite d’un verde d’acque cineree e ferrigne. I capelli mori, lisci e un po’ arruffati gli coprivano parzialmente la fronte  lambendo  il suo collo e le sue spalle.
    Il secondo era dotato di una finezza ferale, dolce e fiammeggiata. Il volto riluceva roseo e cereo con vivacità spettrale: le guance, il naso e la bocca erano realizzati con una freschezza di fiori nottambuli e umidi… I lineamenti puri e festosi si alimentavano del surreale flusso nocciola degli iridi che cangiavano forma e cromatura… I capelli erano una corolla spumosa di un’effervescente  rosso plumbeo e  sembravano fronde  piumose  di tramonto scagliate in aria…
    Le membra longilinee e ben modellate del ragazzo erano coperte da un gessato porpora scurissimo impreziosito da un gilet, una camicia e delle scarpe neri.

    - Sei messo proprio bene, Zellos – si rivolse sarcasticamente  Fedor – quanto avrai tracannato per scambiare gli Uffizi con Piazza del Duomo? Non credevo che la fermentazione dell'alcool causasse effetti così sorprendenti…

    - Dovremmo provarci anche noi! – giocò Wimber – magari potremmo confondere Palazzo Pitti con Backhingam Palace! I giardini dei Boboli  con quelli di Versailles!

    - Suvvia ragazzi – soggiunse Myu – la nostra povera  rana è rimasta scombussolata dall’energia d’attrazione che emana l’arte…Ce ne è così tanta in questa città che alla fine non si capisce dove si ha voglia di andare a sbattere. La sindrome di Stendhal colpisce anche la fauna fluviale, lo sapevate?

    I tre giovani scoppiarono a ridere.   
    Zellos non la finiva mai di maledire se stesso, la sorte infame e gli atteggiamenti dei compagni di battaglia.
    Compagni…, a dire il vero lui era solo un subordinato, l’essere iettato che aveva ricevuto in dono la  costellazione della Rana. Era semplicemente un servo. Il servo dell'armata di Ade, sinonimo di pezza da piedi e  insetto da burle.

    - Ridete, scemi, ridete – s’adirava l’ometto – il postino che si fa un culo tanto  per viaggiare da una parte all’altra del globo terrestre sono io!

    - Mi pare logico – appurò Myu – scusa, in quanto specie appartenente agli anfibi, non sei in grado di saltare eccelsamente meglio di qualunque altro animale?

    - Infatti – sogghignò Fedor – guarda, come balza bene!

    Diede un calcio a Zellos che ballonzolò sul pavimento come una palla di cenci e cartacce.

    - Questa la portiamo noi – fece il ragazzo raccogliendo l’anfora che era caduta – non sia mai il ranocchio vomiti dentro la sua sbornia.

    - Aspettate bastardelli…- brontolò Zellos stracolmo di bollicine etiliche – oh…aspettate…dove andate?

    - Sarebbe meglio che riposassi un po’…Non sei in condizioni di formulare discorsi ragionevoli – lo irrise Myu.

    - Vai all’inferno, falena molesta!

    Il ragazzo dalla capigliatura fiammea, lasciò sbocciare un sorrisetto paffuto e sinistro.
    Gli iridi marroni  estesero , demoniaci, un’ oscurità scarlatta su tutto lo sguardo… Divennero due globi d’insetto luccicanti che non si comprendeva in che direzione guardassero.

    - Spero che un po’ di pallido e setoso fresco ti possa essere d’aiuto – ridacchiò l’adolescente protendendo la mano destra in avanti. 

    La Rana si trovò travolta da una rete sottilissima, fitta, bianca di fili levigati e appiccicaticci che gli si avvolsero attorno al  corpo.

    - Dannato insetto! – imprecò – liberami! Levami sta’ schifezza di dosso!

    - Credimi Zellos – musicò il rosso specter -  le crisalidi  non sono così male…Avvolgono in un sonno che giova al  fisico… Lo  dico io , Myu di Papillon, quale garanzia migliore?

    L’omarino si trasformò in un baco lanuginoso, poroso, spettinato…
    Tentare di sciogliersi da quel turbine di crini dolciastri era scontatamente  impossibile.

    - Ehi – se la spassava il Pipistrello – non sembra una matassa di zucchero filato?

    - Sì…-  scherzò Fedor – dello zucchero che si trasformerà in una bellissima farfalla!

    - Come no! Secondo me il ranuncolo attende il bacio della principessa  che lo faccia diventare  principe ! Bleah…Ma chi è la tipa che ha il coraggio di slinguazzarselo?

    - Signori – li riprese serio Myu – sarà meglio andare al Duomo…Il generale Minos sarà lì a minuti. Ci siamo divertiti abbastanza.   

    I tre ragazzi si diressero verso Santa Maria del Fiore.
    La disgraziata rana , intanto,  miagolava  ingiurie  che restavano tramortite sotto i tessuti della gabbia bozzolo.

    Soltanto la solitudine aveva modo di dilettarsi con risate singhiozzanti alla vista di quella marmitta che  non riusciva a sprizzare gas punitivi.


     

    L’antica e sgualcita calce di quel massiccio rifugio sigillava desideri d’evasione…
    Gli affreschi di animali selvatici, che decoravano le pareti,  non scagliavano ruggiti o  guaiti ma si limitavano a sfrecciare mortuari in una caccia sacrificale e cieca…
      
    Nel costato allampanato di quel buio raschiato, una giovane era affacciata a una finestra dalle colonne crepate…
     Ella udiva il silenzio ossificato della luna, una calma insicura che come tisico nevischio inumidiva le sporgenze degli oggetti che sfuggivano alla tenebra.
    Ella riverberava in una condensa di friabile e invernale pallore mentre pareva scaldarsi in lembi di dune nere.


    Pandora scrutava le selve brune, tumide e raggrumate della Tracia che soffocavano il rollio degli occhi verso visioni di pelaghi blu.

    Un giovane guerriero, seduto su un vecchio sedile di noce, la sorvegliava con devota ansia e fervente tristezza.
    La fissava, tentando di scuoterle, col solo palpito del respiro, la tunica funerea.
    La fissava avvicinandosi con il fuoco delle sue silenziose domande ai segmenti della sua chioma. 

    Desiderava con tutto se stesso, catturare le lunghissime, lisce, nere lacrime di quei capelli…Intonavano, tra un’orma di luce e l’altra , screziature porpora ,  pozze di sangue e amare prugne che si discioglievano tra le graticole  dell'etere notturno.
    Egli indugiava,  con dita invisibili, sul viso di gesso e cotone della fanciulla…Quale soffice gelo traspariva dalla sua pelle immacolata?  In quali scannellature ci si poteva perdere, guardando i drappi violacei e cremisi dei suoi  occhi grandi e allungati ? Il naso s’innalzava delicato e fiero dai piccoli zigomi mentre le labbra vellutate si macchiavano della liquidità di un rosso cupo.

    Più di una volta l’ armigero aveva percepito, dentro i lombi e l’addome, il  tormento della bramosia carnale. Il corpo sinuoso della ragazza ,  plasmato di languore illividito,  restava immerso sotto gli affluenti austeri del lungo peplo.
    I seni sporgevano , quali  morbide e fertili colline,  dai flussi della veste ;  il ventre  pianeggiante respirava timidamente sotto la tundra dell'oscurità, le curvature eleganti dei fianchi e i fusti danzanti e  sottili delle gambe sottolineavano e dileguavano  le  sagome tra le acque delle sottane grevi.

    Il ragazzo tentava di non ustionarsi a quelle eccitanti picconate, ma era impossibile denigrare le ferite di Eros quando erano congiunte alla più sublime e incommensurabile delle dee: Psiche.
     
    Se fosse stato indigente e ferino istinto sessuale le cose sarebbero state più elementari.

    No. Nulla era felice semplicità.

    Il guerriero provava collera, soggezione, angoscia.
    Non sapeva davvero come barcamenarsi nella ruota  del caos.
     
    Moriva.
    Moriva d’elevata lussuria, d’incomprensibile passione.
    Moriva poiché  lo spirito di Pandora era intimorito gelidamente da lui.

    - Dovresti riposare – disse con rude premura alla fanciulla – è inutile che ti avveleni…Per ora dobbiamo muoverci in questo modo. Non abbiamo alternative.

    - Certo – rispose fredda lei – non abbiamo alternative e continueremo a non averne.

    - Dobbiamo crearci delle strade, Pandora.  La terra non è nata con  vie già belle e pronte.

    - Mi sembra che i pochi sentieri che ci potevano essere d’aiuto tu li abbia distrutti.

    - Sei così ingenua da fidarti degli dei?

    - Può darsi di no,  Rhadamantis figlio di Zeus e di Europa.

    Il giovane si alzò in piedi, sorridendo con irritata aria di sfida.

    - Sì…- ammise – sono il figlio del Re dell'Olimpo…e dunque? E’ da tempo che ho capito come funziona la testa di mio padre…Ho capito che il Cielo può grondare lerciume come la terra.

    Pandora squadrò indagatrice il ragazzo…
    Non sapeva che pensare di lui, di  come gestire quella sua controversa mente di stratega e rozzo militare.
    La sua  bellezza esprimeva in modo chiaro quell’agglomerato di schegge di metallo e cruda argilla.
    Rhadamantis era notevolmente alto, con  muscoli che parevano fucinati in una lega metallica sfregiata da  cicatrici marmoree. Le tenebre e la luce freddolose ballavano sulle braccia, esaltando la struttura dei deltoidi e dei bicipiti… I pettorali e il ventre brillanti e ruvidi  erano impressi in un sudore roccioso... Le gambe,  robuste e slanciate come fibre di belva, si muovevano sotto il corto e sbrindellato chitone da soldato. Dei sandali di cuoio, dal gambale allungato, avvolgevano gli stinchi costellati di lividi e bruciature bronzee.
    Il viso era dotato di selvaggia raffinatezza: tratti poderosi di una regalità cupa, naso regolare lisciato di gravezza, sopracciglia cespugliose che parevano aliti infuocati di draghi, occhi arancioni che fulminavano asce gialle o sanguinavano  zanne di diavoli.
    Un’esplosione di capelli dorati e scombinati graffiavano l’aria con le loro guglie spinate…Erano una boscaglia saettante di alberi frustanti: dei rami si protendevano in alto mentre  altri ciuffi nascondevano la fronte e la nuca.

    - Cosa vuoi, Rhadamantis?

    - Dimenticare i miei sigilli, dove sono nato…Portarti via.

    - Tu…tu ancora non capisci che sono colei che ha aperto il vaso delle disgrazie? Che ha versato il veleno delle tempeste nell’animo degli uomini? Ho distrutto l’armonia che avrebbe continuato a rendere felice la terra!

    - Armonia?! Felicità? Che idiozie vai dicendo?

    - Non avremo nulla, Rhadamantis! Ti rendi conto che girovaghiamo senza seguire tracce? Senza uno straccio di senso?

    - Ho abbandonato i miei fratelli, ho bruciato la corona di mio padre, ho sputato sui cancelli dell'Olimpo, ho massacrato come porci chiunque avesse osato fermarmi! Tutto questo per te! Per te, sciocca!

    Complimenti. Hai trovato un tesoro magnifico. Ammira come siamo ridotti: non ci possiamo muovere né di giorno, né di notte. Nessuna grotta o foresta è sicura. Gli dei ci hanno in pugno.

    - Dobbiamo fermarci?! Dobbiamo crepare?!

    - Stiamo andando da qualche parte? È una via vivere come orbi derelitti ?!

    Il giovane, impestato d’esausta e sensuale collera, aggredì Pandora.
    La afferrò per i polsi trascinandola su un  vecchio letto di legno scheggiato.

    - Lasciami! Lasciami!

    La ragazza urlò terrorizzata, scuotendo violentemente la testa, cercando di dare calci, morsi ma fu fermata  con prese d’acciaio dal guerriero .
    Egli la scaraventò sul materasso di lana attanagliandole gli avambracci e sdraiandosi sopra con tutto il bollore del corpo.  

    - Hai ragione maledetta! – esclamò- non abbiamo traiettorie! Non abbiamo nulla! Nulla!

    La afferrò brutalmente per i capelli avvicinandosi al suo viso.
    Pandora venne demolita da quegli  occhi che si struggevano di fiele solare…Ebbe la sensazione di essere compressa dentro un sarcofago  artigliato di chiodi.

    - Zeus ti ha fatta creare da Efesto per punire gli uomini – ridacchiò dolente lui – ogni divinità ti ha infuso virtù e spine di furbizia per disintegrare ciò che Prometeo, povero illuso, voleva edificare….Sei una piaga…una piaga troppo bella…troppo strana …

    Rhadamantis accostò le  labbra , indurite e febbricitanti,  al collo della fanciulla.

    - Sì…- mormorò inquietato – Prometeo aveva raccomandato al fratello Epimeteo di non accettare doni dagli dei…

    Si sollevò leggermente dal corpo della ragazza.
    Lei si stava mordendo le labbra deglutendo nervosa, trafitta, affannata.

    - Ti ha sposata comunque lo sciocco…- punse  il ragazzo – sei diventata la splendida consorte di Epimeteo…dimmi…ti piaceva stare tra le sue braccia? Essere toccata dalle sue mani?!

    Rhadamantis accarezzava inviperito i fianchi della preda  facendo scivolare le dita sulle gambe e verso gli orli della tunica.
    Si stava consumando di vendetta e gelosia…

    - Allora? – insisté lui – cos’è Pandora? Non fai anche con me la ninfa ammaliatrice?

    La giovane lo trivellò con sguardo furibondo e schiumato di tristezza.

    - Idiota!

    Ella si svincolò aggressivamente dal combattente  che tentava di tenerla ferma.

    - Io sono solo un regalo! – gridò – un giocattolo con cui  gli uomini devono  distruggersi!

    Scoppiò a piangere con l’aria che le si spennava tra la viscere e la gola.
    Rhadamantis, incenerito da quella depressa e autentica disperazione, si staccò da lei…
    Sospirò sprovvisto di parole d’espiazione…Sospirò con ira ferita, incatenata, vergognata.

    - Ho aperto il vaso nel quale Prometeo ed Epimeteo avevano rinchiuso i mali che avrebbero recato torture agli umani…

    Pandora si levò a sedere sul letto prendendosi il capo tra le mani come per sorreggere il peso dei lamenti dell'anima.

    - Ho fatto evadere la Vecchiaia, la Gelosia, la Malattia, la Pazzia, il Vizio…il mondo è diventato un deserto di calore e freddura inospitali…

    La luna invase di bianca e aspra dolcezza il viso di Rhadamantis.

    - Avrai liberato le tenebre – proferì polveroso egli – ma sei sempre stata tu a consentire alla speranza di volare dal fondo del vaso e riportare la vegetazione sulla terra.

    Pandora si alzò in piedi con le labbra e le gote brillantiate di  rancore.

    - Ho riportato la speranza – ammise ghiacciata – il male, però,  non se ne andrà più da questa dimensione…Epimeteo mi ha ripudiata imprigionandomi nel limbo perché una profezia afferma che io servirò i flagelli della Morte recando rovina al creato…

    Spiccò un immaginario volo  dalla finestra con gli occhi svuotati.

    - Mi chiedo se…se devo continuare a camminare in questo mondo…Ogni cosa mi pare inutile…

    Il guerriero si ravvicinò lentamente alla fanciulla senza  folgori o manichi d’ascia.
    Il suo sguardo s’addentrava aldilà delle oscurità e delle luci salassate di mobilità .

    - Prometeo ed Epimeteo sono stati degli incoscienti – osservò – hanno preso la coltre del male e l’hanno nascosta cercando di salvare l’integrità degli uomini…Non pensavano che tutto fosse stato programmato prima della nascita dei cieli…Tu hai scoperchiato la verità. Luce e buio erano masse indistinte che appartenevano ad un’unica e grande nube d’acqua, aria, roccia, fuoco: il Caos. In fin dei conti siamo figli degli uragani…Equilibrio e confusione sono in realtà sinonimi perché rappresentano un’identità a due teste…Tenere segregata la notte è come far morire il giorno. La carne non è fatta di terra celeste.

    Non la guardava come un dio, né come un uomo.
    Era uno spirito amante, puro, primitivo. Non voleva ascriversi in nessuna categoria.
    Voleva costruirsi in quella passione e basta.

    - Il suono della tua arpa è arrivato dalla voragine del Limbo alle mie orecchie perché la materia della tua melodia è scivolata sull’assurdità del nulla. Io non avrei mai potuto abbandonare una fonte d’acqua così preziosa in un deserto inconcludente.

    Pandora si afferrò il cuore che non poteva veramente stringere.
    Quell’essere era  l’unico a garantirgli disinteressatamente l’anima, il corpo, i sogni che ancora non nascevano.

    - Non dire sciocchezze , Rhadamantis…- balbettò lei - hai visto cosa…

    - Io me ne infischio dei precetti divini. Credo solo alle mie leggi. Troveremo dei cancelli da cui fuggire.  Hai distrutto una parte di me, la parte che non capiva la musica, le dita che usano corde per espandere incantesimi smisurati…Sei un dono maledetto ma ora sei il mio dono. Sei la mia donna. Voglio morire nel tuo abisso perché è nel buio che la luce si addormenta per risvegliarsi più splendente di prima.


    Pandora, traboccante di desiderio d’intesa e annegamento, si addossò al petto del semidio.
    Lui  la baciò con impeto sacrale e voluttuoso ed ella  non manifestò la minima voglia di sfuggire alla morsa dell'abbraccio.
    Era spaventata dal calore intenso di quelle membra che la serravano, di quel torace compatto che premeva contro la sottigliezza del suo.
    Sentiva tra le labbra il sapore del suo custode riversarsi con brutale tenerezza nella gola dell'animo…Era un fiume di sincerità sanguinaria che cospargeva i brividi di carbone e sale, che giurava follemente l’immensità inarrivabile dei venti.





    - Pandora…

    - Pandora…

    “ Mamma? …Papà? “

    - Pandora…

    - Pandora…

    Aveva ancora gli occhi chiusi, il sangue che scorreva nelle vene ripide, i pezzi dell’anima che fumigavano in una vuotezza ebbra e traumatizzata.
    La ragazzina non riusciva a inquadrare quelle voci che le entravano nella mente assieme alle debolissime frequenze  della realtà esterna…
    Erano accadute un mucchio di cose nelle ore antecedenti che però non ricordava…

    Nitido era soltanto quel sogno. Quel sogno in cui era la Pandora maledetta dei tempi del mito.
    Quella proiezione in cui vi era, feroce e leale, Rhadamantis.
     
    Rhadamantis…Non era la prima volta che lo sognava…Ultimamente si materializzava spesso oltre i portali  del sonno…
    Era divenuto un allarmante  leit motive, un disco che girava e girava emettendo strani ritornelli che non potevano essere solamente una franabile e temporanea creazione del cervello…
    Perché compariva quel giovane con il suo amore grezzo e scarnificante?
    Che cosa rappresentava?
    Che cosa mai indicava?

    - Nobile Pandora…

    Due dita freddissime  sfiorarono  con luttuosa delicatezza i capelli neri della fanciulla.
    Quel tocco era simile alle carezze materne ma era orribilmente sotterraneo e lapideo come il bacio  d’una croce d’argento consunta.

    - Ti senti ancora debole?

    Una mano più spessa e grande carezzò una gota alla piccola adolescente…
    Effondeva un particolare odore: sapeva dell’acidula freddura del metallo ma profumava di piante sempreverdi…

    - Ti conviene svegliarti – incalzò la stessa voce con tono fine e ombroso – o non riuscirai più a vedere nulla.

    Pandora aprì cautamente lo sguardo col cuore smarrito.
    Il cielo era nero e sfinito…
    Si scorgevano le guglie policromatiche del Duomo e le luci sformate dei lampioni…

    Due volti la stavano osservando… Una coppia di stravaganti e funebri individui che le sedevano ai lati:  una giovane e un ragazzo.

    La quattordicenne si rese conto di essere sorretta dalla donna che non seppe se reputare bellissima o mostruosa.
    Possedeva una carnagione bianca, malata eppure tenera e rigogliosa…La parte destra del viso pareva fosforescente a un punto tale che addolorava e sbriciolava la vista…La parte sinistra, invece,  era velata da una maschera lugubre che riproduceva, in modo tribale e baroccheggiante , i tratti stilizzati di un teschio. Due occhi vetrosi, che fendevano l’ossigeno puerili e satanici, lampeggiavano di un argento chiarissimo che spasimava in un truce azzurro. Le ciglia nere contornavano quella glaciazione da bambola come miriadi di sfavillanti zampe di ragno. Una voluminosa chioma liscia , d’un mortifero grigio-ceruleo,  rendeva stole invernali  le brillantezze delle luci: una ciocca di capelli era legata in una crocchia mentre la restante cascata veleggiava liberamente sulla schiena in un gioco di riflessi perlacei  e brinati.
     
    - Ci hai fatto impensierire, venerabile Pandora – pronunciò rugginosa quella creatura – abbiamo temuto che non desiderassi destarti dopo che il nostro Re ti ha rivelato la tua sacra via.

    La ragazzetta avvertì  una corrosiva nausea colpirla in petto.
    Si girò indolenzita verso l’ interlocutrice…Rabbrividì fino alla punta dei piedi nello studiarle le  membra che richiamavano una cadaverica maestria da Modigliani.

    - Io – farfugliò la piccola – io…non capisco…Chi è questo re?

    Il giovane uomo, avvolto nella penombra,  rise somigliante  al fiato di una fornace.

    - Pandora – rimproverò tenero – possibile che il tuo cuore non ricordi dove tu sia nata? Non hai mai conosciuto gli occhi del Sonno e della Morte, i divini gemelli servitori di Ade?

    Una foresta fitta d’arti secolari e  intrecciati nelle tenebre…
    Un castello di pietre e marmo colmo di stanze e remoti affetti…
    Una loggia obliata che custodiva nello sterile ventre uno scrigno proibito…

    Visioni abbandonate. Visioni incancellabili.
    Visioni di verità innegabili.

    Pandora, presa dal panico,  scattò in piedi. Con il suo maglioncino indaco sgualcito e la gonna di jeans  rovinata era uguale ad una clandestina che doveva essere gettata in mare. 

    - No…no…- esclamò terrea – io…abito qui. Qui! Dove sono i miei genitori?! Dov’è mio fratello?!

    I due giovani la guardarono con spietata  compassione.

    - Riportatemi a casa! – ordinò la ragazzina – a casa! Voglio tornare a casa!

    - Noi ti riporteremo a casa, nobile Pandora – la rassicurò tetramente il ragazzo- farai ritorno alla tua vera e sublime dimora: il Castello Frankenstein, in Germania.

    La fanciulla venne  pugnalata da lacrime isteriche e spaventate.

    - Chi diamine siete?! Che volete?!

    Il giovane si avvicinò a lei sorridendo:

    - Io e te , Pandora ci conosciamo da moltissimo tempo…si potrebbe dire da secoli…Non è facile rimembrare con chiarezza immediata ma credo che qualcosa possa iniziare a venirti in mente…

    L’adolescente osservò il misterioso uomo che si espose al chiarore dei lampioni…
    Possedeva una magnificenza di losca e platinata  nebbia... Il suo viso splendeva di grazia e sensuale perspicacia : bocca elegante e asciutta , naso accuratamente disegnato, occhi gialli abbaglianti d’oro crudo e inariditi più della sabbia africana ….A contrastare con quei  bracieri freddanti , la lunga e scartavetrata capigliatura che rifulgeva  di un’ inasprita tonalità nevosa…Sembravano i capelli di un anziano stregone o di un funesto  spirito norreno…Vi era una vecchiezza fresca e fluente d’evaporanti fruscii.
    Il ragazzo indossava una giacca  nera, simile a un lungo impermeabile, che non si capiva se fosse fatta di pelle o di seta. Un paio di pantaloni d’inchiostro gli avvolgeva le gambe lunghe  mentre delle lucide a appuntite scarpe scure gli facevano risuonare,  principeschi  e letali,  i passi nella notte…Tutta quella buia raffinatezza gli poneva in rilievo la figura prestante : spalle ampie e signorili, busto snello e forte, cosce agili e forgiate di vigore.

    Un particolare attirò l’attenzione di Pandora.
    Una spilla di pallido acciaio cesellata come un regale stemma: la figura di un grifone dal becco acuminato e dalle piume scanalate.

    Lo splendido albino s’inchinò con deferenza.

    - Il mio nome è Minos…- si presentò – vengo dalle terre della Norvegia. La mia costellazione è il Grifone della Nobiltà Celeste. Sono uno dei tre Generali dell’Armata Santa di Ade…L’armata che ti appartiene e di cui detieni lo scettro. Tu sei il comandante supremo degli specter. I soldati che combattono per il Regno degli Inferi.

    Anche la giovane dalla maschera di teschio s’inchinò melliflua e cortese…Sollevò i lembi della sua veste blu violacea orlata d’antichi merletti.

    - Io sono  Hel, Pandora… porto il nome della mia dea protettrice norrena, Signora degli Inferi…nei secoli remoti mi hanno conosciuta come la Maga di Eljounir* , poiché nel mio palazzo fondevo i misteri della morte con la linfa brillante della vita… Ho indagato su qualunque sapere, su qualunque alchimia pur di ottenere la perfezione di un animo completo…Per tale motivo, ahimè, sono stata punita.  Gli dei e gli uomini non comprendono che quella che chiamano “ tracotanza” non è che lo stadio salvifico di un’evoluzione.

    Minos si affiancò alla maga cingendole,  leggero e voluttuoso, le spalle.

    - Ipnos e Thanatos hanno però intuito che saresti stata importantissima per trovare un nuovo equilibrio al futuro dominio di Ade – esplicitò – nessuna lingua morta o viva ti è sconosciuta…Nessun enigma può restare irrisolto se è sottoposto al tuo scrutino.

    Hel lo guardò con passione e con sottile aria refrattaria.

    - Vedi nobile Pandora – spiegò alla ragazzina – questo Generale è giunto…a liberarmi dal castigo affinché  io possa aiutarvi nel decifrare la chiave per riordinare… i cieli.

    La ragazzina capì meno di prima…Solo il nome “ Ade” le doleva nell’inconscio…
    Sì…prima della sua tranquilla esistenza in Italia erano successi alcuni avvenimenti gravi…
    Avvenimenti che risalivano a quando era una bimba di cinque anni e di cui ancora non riusciva a focalizzare qualcosa di chiaro…

    - Che cosa c'entro io, con Ade? – domandò ansiosa e spazientita – che cosa c'entro io con tutto questo?!

    Hel si avvicinò a lei prendendole le mani.

    - Pandora! Tu sei la Sacra Vestale di Ade, sua sorella putativa. Hai risvegliato Ipnos e Thanatos dal loro letargo punitivo, hai custodito il cosmo del nostro Re!

    - Hai trovato anche colui che sarà la sua reincarnazione – aggiunse Minos – gli hai lasciato un medaglione per incatenarlo alle tenebre…C’era scritto sopra “ yours forever” …

    Pandora fu folgorata da una violenta e improvvisa emicrania.
    Si prese le tempie tra le mani…
    Comparve nella sua mente una visione veloce: l’immagine di un combattivo bambino dai capelli blu che proteggeva tra le braccia un grazioso neonato dal capo smeraldino.

    - Ikki…- balbettò la ragazzina – Shun…i…due fratelli che vidi…in…in…Giappone?!

    Il Grifone sorrise:

    - Vedo che stai cominciando a ricordare…Stai tranquilla…piano piano riacquisterai il vero senso della tua esistenza.

    Pandora indietreggiò dallo specter e dalla maga.

    - No…- strepitò – io…voglio tornare a casa…lasciatemi andare…

    - Non hai nulla da temere, venerabile Pandora.

    La fanciulla si girò alle spalle.
    Aveva parlato un ragazzo dai capelli rossi e dagli occhi di farfalla.  Ai suoi lati altri due giovani, uno coi denti aguzzi e l’altro con una benda nera sull’occhio destro.

    - Permetti di presentarci…Io sono Myu della costellazione di Papillon.

    - Io, Wimber del Pipistrello.

    - Fedor della Mandragola.

    I tre s’inchinarono davanti la dodicenne.

    - Fatemi tornare a casa! – supplicò rabbiosa lei – non so chi siate e non voglio saperlo! Voglio andarmene!

    Minos l’afferrò autoritario per un polso:

    - Pandora…lo vedi l’anello che porti al dito?

    L’adolescente fissò il piccolo cerchio nero che le ornava la mano…era stato un regalo dei genitori, che cosa poteva mai contenere?

    - Portate l’anfora, qui – ordinò Hel.

    Fedor obbedì aprendo il prezioso vaso.

    - Sovrano dell'Erebo profondo – pronunciò la maga – manifesta il tuo fiume d’eterno e invincibile oblio affinché noi, guerrieri servitori, potremo proteggerlo in nome delle nostre infiammate stelle nere.  

    Dall’anello di Pandora fuoriuscì prima un esile alito di cenere e poi una colonna di fumo che troneggiò scarificata  da venature di  lampi viola e rossi.
    Ad un tratto mutò in un tornado di tenebre telluriche, fluidificate e tumefatte che si riversò in un ululato ghiacciato e lavico all’interno della grande anfora.

    La ragazzetta si sentì strappare la pelle dai muscoli al tocco imprendibile e devastante di quella corrente divina…

    - Il cosmo del nostro Signore si era rifugiato in te – chiarì  Minos -  ora dovremo aspettare che la sua energia maturi in tutta potenza per possedere il corpo del prescelto.

    Pandora barcollò sul punto di svenire.
    Hel la sorresse protettiva.

    - Generale Minos – si rivolse Myu – abbiamo portato a compimento la nostra missione…possediamo uno dei  frammenti dei Libri Acherontici : la terza sezione dei sigilli della vita.

    Lo specter chiamò una moltitudine di aloni svolazzanti verde arancio…
    Una nube leggiadra e cristallizzata di tacite farfalle si concentrò sulle sue mani  lasciando comparire un fodero rettangolare di pelle nel quale era protetta un’ antichissima pergamena.
     
    - Ottimo lavoro – si compiacque il Grifone – la nostra maledetta ricerca sta per giungere al termine…Questi sono testi etruschi ritenuti perduti per sempre dagli archeologi…Sono redatti in  una lingua che è rimasta oscura proprio per la mancanza di fonti letterarie dirette.

    - Infatti – constatò Fedor – ci siamo dovuti aiutare tramite le bibliografie di autori romani e greci…che tuttavia neanche ci sono state di totale ausilio…

    Wimber, al ricordo delle dure giornate trascorse in polverose biblioteche universitarie, sbuffò con una smorfia irritata.

    - Sì – brontolò -  alla fine lo dico sempre che il latino e il greco sono lingue morte e stramorte… cibo scaduto per i professoroni zombi.

    - Ti rammento – puntualizzò Myu – che se io e Fedor non avessimo conosciuto un minimo di greco antico non avremmo capito le uniche quattro righe che siamo riusciti a interpretare per identificare il testo…

    - Già solo quattro righe…praticamente i tre quarti restanti sono un mucchio di spiringuacchi incomprensibili…Sono le azioni che ci hanno permesso di fregare quella lercia pergamena!

    - Sono io che ho fornito a voi e agli altri vostri compagni le indicazioni per trovare i frammenti dei Libri Acherontici.

    Le parole di Hel risuonarono congelate,  veritiere e dominatrici.
    I tre ragazzi sapevano di non poter ribattere.

    - Questi testi sacri – illustrò  la maga – rappresentano la defunta testimonianza dei rituali e delle magie etrusche…I Libri Haruspicini, i Libri fulgurales e i Libri Rituales sono i tre principali nuclei letterari andati per la maggior parte distrutti. Gli studiosi credono che nessuna di queste tracce sia tuttora esistente…Si da il caso invece , che dopo lunghe indagini , io sia riuscita ad individuare una delle principali materie dei Libri Rituales: la parte acherontica, la parte proibita che non descriveva solo l’oltretomba e i riti di salvazione…ma qualcosa di più grande…la salvezza assoluta e impossibile.

    - La strada per accedere all’Iperuranio – rivelò Minos .

    - Esatto – sorrise Hel – i Libri Acherontici,  assieme agli altri testi,  si riteneva avessero origini tanto antiche da essere stati scritti dalle divinità stesse…Già…divinità…Qualcosa di celeste effettivamente vi fu ma non di derivato dagli dei...

    Pandora,  indebolita,  ascoltava quelle parole che presero a turbinarle nel cervello come tante vespe nere.
    Hel continuò a narrare:

    - Creature più elevate, inafferrabili, illibate da ogni qualsivoglia corruzione stesero tali codici che trasmisero a  ristrettissime elite di sacerdoti…Si tratta degli Alchimisti di Eu Topos*. Spiriti perfetti, privi di sesso e turbamenti istintuali che intervengono nelle guerre sacre solo in casi gravi. Rarissime sono le volte in cui sono discesi qui sulla terra e sta volta ci potremmo trovare in guai molto seri.

    Inarcando le sopracciglia Myu chiese:

    - Significa che…questi Alchimisti già sono arrivati nel nostro mondo?!

    - Sfortunatamente sì…- dichiarò la donna – ho percepito che ne sono comparsi due  in Asia e in Africa…Precisamente in India e in Egitto…E’ necessario che ci riuniamo al più presto al Castello Frankenstein con i frammenti dei Libri Acherontici…Questi lembi di indizi si sono sparpagliati per l’Europa perché diversi maghi e druidi hanno cercato d’impossessarsene… fallendo nella missione di decifrarli.

    - Per costruire la mappa che conduce al Quinto Punto Cardinale – continuò Minos - il cosiddetto Quinto Cielo, l’universo perfetto che governa tutti gli altri universi , avremmo bisogno dei quattro sigilli della vita. Il primo brandello che abbiamo trovato  Hel e io era nascosto nel nord della Norvegia.

    Sarà stata una missione eccitante “ pensò Wimber maliziosamente “ che bello interpretare testi astrusi tra una scopata e l’altra…”

    Tutti sapevano che i due norreni erano amanti.
    All’inizio serpeggiava un’accesa invidia per il privilegiato Grifone, tuttavia si erano poi andate affermandosi paura e ribrezzo. La maga era una donna che esercitava sugli uomini un’attrazione malarica e succulenta celando strani sintomi di putrefazione e istinti sadici e omicidi.
    Si diceva che consentisse al disgraziato di turno di trastullarsi  per poi ucciderlo nel gran finale. I cadaveri dall’aspetto mediocre diventavano combustibile per calderoni, i più belli ricevevano un raffinato trattamento d’imbalsamazione.
    Minos era stato l’unico maschio astuto e intelligente in grado di plagiare la mantide e incatenarla a sé. Wimber e gli altri dovevano, quindi,  ringraziare anche le sue capacità amatorie per la buona riuscita delle missioni… 

    - Ci arrivano buone notizie dalla Francia – rivelò Papillon – le mie farfalle messaggere hanno riferito che Valentine, Queen, Shielfield e Gordon hanno trovato il secondo frammento e ci raggiungeranno in Germania tra due giorni…Rune e Pharao lasceranno la Grecia domani pomeriggio…Ci porteranno  preziosissime  informazioni sui …nostri nuovi cavalieri d’oro.

    - Quelle ci saranno indispensabili – ridacchiò Hel – occorre l’energia delle anime zodiacali per mettere in moto la nostra conquista.

    - Rune e Pharao *  sono abili nel carpire l’essenza delle vite – sogghignò il Grifone – scommetto che avranno svolto un lavoro eccellente. Nelle lettere e nelle note catturano la materia delle storie umane…e le storie dei neo eletti servitori di Atena dovranno liberare una bella potenza…

    - Generale Minos – fece notare Fedor – non sappiamo se in Croazia Violate e Calipso*  siano riuscite ad ottenere l’ultimo frammento…

    - E’ vero – disse accigliato Wimber – che quella dannata Calipso abbia combinato qualche casino? Abbiamo visto che ha fatto al Grande Tempio e come abbia mandato in fumo il piano…Saremmo ancora più avanti di così…

    - Calipso ha commesso errori – appurò asciutta Hel – ma è anche grazie a lei che conosciamo i luoghi più reconditi del Santuario che custodiscono codici e testimonianze dimenticate…Quindi tranquillizzatevi…Lei rimane una validissima guerriera e  non sarà così  folle da far crollare tutto…Violate non le permette di compiere passi falsi e tra l’altro ci sono in gioco la sua isola…Non scordiamoci che Don Avido e i Cavalieri Neri hanno in pugno il Reame delle Pleiadi.

    - Don Avido -  strinse i  denti Fedor – basta lavorare per lui un solo anno e finisci col cervello e il corpo massacrati…Speri ogni giorno di morire da qualche parte pur di non vedere la sua faccia di cazzo.

    - Quello è uno stronzo figlio di puttana – ringhiò Wimber col fegato che s’ingrossava – ci siamo sbattuti come coglioni per salvarci il culo per ben otto anni…Non c’era da starsene quieti con …

    - Don Avido  è un autentico bastardo – interruppe seccamente Minos – sappiamo come ha contrattato con ognuno di noi…Purtroppo dobbiamo andare oltre, ingoiare bile e tenerci stretta la sua alleanza…E’ un pilastro indispensabile, ahimè…Dovrà anche lui soggiornare nel Castello Frankenstein…

    - Per entrare nella Foresta Nera – disse Hel – avrà bisogno di un sigillo…Lui e i suoi seguaci sono cavalieri neri non specter…La barriera protettiva tessuta dal Sonno e dalla Morte è letale per chiunque non appartenga alle stelle malefiche.

    - Che potesse crepare – sbottò il Pipistrello- ce la possiamo fare benissimo anche da soli!

    - Per come si mostra la situazione ora – valutò Myu – noi specter non rappresentiamo l’esercito al completo e neppure siamo sufficienti per condurre un’efficace battaglia…Per tale ragione dobbiamo contare su validi supporti.

    - Per quanto concerne i validi supporti – sibilò ironico Minos – dov’è finita la Rana?

    Wimber, Fedor e Myu sghignazzarono piano.

    - Giusto – esaminò crucciata Hel – non doveva essere Zellos a portare l’anfora per custodire il cosmo di Ade?

    - Il nostro servo non era in condizioni di…effettuare questo servizio – rispose lo specter della Mandragola – non era propriamente lucido.

    - Fatemi indovinare – sbuffò Minos – avrà speso di nuovo tutti i suoi risparmi per sbronzarsi con qualche pregiato vino italiano?

    - Esattamente – sorrise Myu – ma non c’è nulla di cui preoccuparsi…tra pochissimo ci raggiungerà…me lo stento.

    Qualche minuto dopo una piccola sagoma comparve da dietro il Battistero……Invocava pietà, insultava nemici invisibili e si muoveva come uno spaventa passeri scassato…
    Era uguale a un pupazzetto avvolto in stracci di carta igienica perché dai suoi arti penzolavano filamenti di crisalide lanosa…

    - Zellos! – urlò il Grifone- pezzo di cretino! Vieni subito qui!

    - E va bene va bene…- sbiascicò l’ometto – non c’è bisogno di arrabbiarsi così …e poi non sono un cagnetto che deve andare a prendere il bastoncino.

    Nell’attimo in cui la Rana vacillò verso il Generale, Hel evocò dalla tenebra una carrozza ottocentesca blu che si mimetizzava sulla carta della notte.
    Aveva sportelli intarsiati con motivi vegetali di scuro argento e quattro destrieri-ombra dagli occhi rossi.

    - Toh…- si sorprese Zellos – che bel servizio taxi…ho proprio bisogno di ritornare in Germania bello tranquillo e…

    - Dove pensi di andare, rospo? – ghignò Minos con un’aria da vigile canzonatore – la vettura è omologata per sei persone.

    - Come?! Scusate e io dove vado?

    - A farti benedire! – lo beffeggiò Wimber.

    - Non è il caso che tu salga, piccolo Zellos – rise velenosa Hel – la nostra sacerdotessa Pandora è già abbastanza provata e la tua presenza rischierebbe di urtarla maggiormente…

    - Ma io non mi azzarderei mai a…

    Il Grifone afferrò in malo modo la Rana per la giacca.
    La sollevò da terra portandola alla sua altezza.

    - Sentimi bene, sudicia ranocchia – minacciò – devi effettuare un’importantissima consegna:  dare un amuleto protettivo  a Don Avido, capo dei Cavalieri Neri che ora alberga a Venezia…Questo è l’indirizzo segreto del palazzo in cui è rifugiato…

    Dopo essere stato sbattuto al suolo, Zellos ricevette una specie di piccolo cofanetto e un pezzetto di pergamena.

    - E…E ..- esclamò spaesato – quando dovrei partire?

    - Ora.

    - Ma siamo pazzi?! Ho sonno! Non riesco a camminare!

    - Mi hai sentito bene, rana. Estinguiti e guai a te se fallirai… Non assicuro l’incolumità delle tue vertebre.

    Il Generale diede sprezzantemente le spalle al servo e salì sulla carrozza.
    Non appena chiuse lo sportello, il suo sguardo si soffermò su Pandora.

    La ragazzina , con gli occhi persi nel vuoto,  piangeva in silenzio.
    Hel le stringeva le spalle tentando invano di consolarla…Tra qualche ora ella avrebbe cominciato a realizzare che della sua famiglia, nessuno era sopravvissuto…
    Avrebbe cominciato a spezzettarsi cadendo nell’enorme fantasma amorfo che lascia il tramonto…

    Il ragazzo comprese quella sensazione di annientamento suicida…Quella calura di casa che non poteva più rinascere…
    Non sapeva più piangere o provare tenera compassione ma qualche volta, nel buio, sentiva un lancinante crampo che gli soffocava acido e tirannico il cuore…Si ritrovò,  alienato dal presente, agli inizi di quell'anno...   

      

    La neve si smagliava su Oslo.
    Le ossa delle nuvole si sbriciolavano in pastiglie di lana.
    Ciascuna linea geometrica d’edificio moderno, ciascuna eleganza di palazzi ottocenteschi s’ingessava sotto una sfoglia di colla gratinata.
    Il mare del porto era schiacciato dal timbro della notte e non faceva altro che ingoiare le molecole ghiacciate delle alture.

    - Il freddo non è così terribile, mamma.

    La voce adulta  e desertica di Minos si sollevò dai ticchettii delle apparecchiature mediche.
    In quella stanza d’ospedale,  dalle candide pareti e dalle pavimentate beige, stava un letto di lenzuola incolori e morbide. 
    Sopra di esso era distesa una donna di mezza età. Tempo fa doveva essere graziosa ma in quel momento rifletteva tutto il gonfio pallore dell'appassimento: il viso piccolo era opaco e cadente, i capelli dorati si mostravano una matassa di esili radici disidratate, le braccia, il busto e le gambe parevano appiattirsi minuto dopo minuto in una magrezza floscia, grigia, lattiginosa.

    - All’inizio ti senti svuotare – proseguì il ragazzo – hai le dita, i piedi, la vista paralizzati e non sai come liberarti…Non conosci strade di calore…Non puoi salire in superficie…Sei nel Reame di Ade. Non puoi sperare di morire perché sei già morto. Devi continuare nella tua metamorfosi e basta. Gli inferi sono al di sotto di questa dimensione, anzi non sono un altro universo bensì una continuazione di questa esistenza. Magari ti potrà apparire tutto diverso ma in fin dei conti le tenebre hanno lo stesso colore ovunque ti trovi.

    Minos si avvicinò alla madre.
    Le si sedette affianco prendendole la mano ancora polita  ma che si poteva disgregare da un istante all’altro.
    Il coma era un involucro di lento scioglimento. 

    - Il freddo – mormorò lui – il freddo non ti brucia…non ti fa  temere il sole…non ti acceca…è la tonalità più bella di questa realtà. Non si flette, resta in alto e vola di pietra.

    Il giovane sorrise fosco, senza scintille e con  dolcezza decaduta.

    - Sai mamma, a volte penso in che modo il papà e il nonno avrebbero saputo rendere la brillantezza del freddo…Ti ricordi che maghi erano nell’usare i riflettori? Le atmosfere di ogni teatro non sembravano  finzione…Da piccolo pensavo che tutto diventasse vero, che non esistesse la menzogna. Ciascun elemento della realtà poteva solo trasformarsi. Le scenografie che costruivate erano fatte di materiali che nascevano, raccontavano, morivano e poi venivano riciclati. Non c’era nulla di finto. Gli incantesimi per me erano verità.

    Il ragazzo si alzò e camminò con l’amara coscienza di non riuscire a ballare.

    - Per questo giocavo…Non era solo una normale evasione. Era la possibilità e il potere di creare dei miei mondi…Io ci credevo, calcolavo ogni cosa…Adoravo divertirmi coi burattini…Con quei fili regalavo delle vite e le mettevo in moto. Viaggiavo dove mi pareva.

    Si fermò qualche secondo.
    Fissò il pavimento, poi la lampada calda che rischiarava le pareti della stanza.
    Riprese con tono freddo e incommensurabile: 

    - Ora non ho bisogno più di manichini di legno. Ho le persone. Disegno fili invisibili, sollevo corpi e spezzo  ossa. Posso staccare qualunque arto, posso architettare qualunque tortura…non creo più storie. Devo solo ingegnarmi a mettere in atto il modo più efficace per eliminare. È un gioco di fili, mamma. Non faccio nulla di strano. Le decisioni vengono manovrate dai fili, l’amore viene manovrato dai fili, la guerra viene manovrata dai fili, il tempo dai fili…E’ tutta una trama. La differenza è che nel mondo non vedi da che punto partono questi fili…quando uccido per lo meno so che li guido io…Già…anche nei momenti in cui cado in mille pezzi… Sono sempre io…

    Il ragazzo passò in rassegna le attrezzature  che alimentavano lo sfatto corpo della dormiente.
    Schermi neri con linee verdi che zigzagavano  precise, immotivate.
    Battiti robotici che riportavano illusori impulsi cardiaci.
    Movimenti di elettrodi imbalsamati. Circuiti e microchip che vibravano mantenendo apparati organici che pulsavano per inezia.
    Una vita troncata d’essenza.

    Minos vide una piccola metropoli tecnologica  di grattacieli senza uscita.
    Si sentì trascinare via dalla tormenta che soffiava fuori le finestre. 

    - Scusa, mamma…Scusa se ho vagheggiato, se ho sperato in una visione che mai sarebbe potuta accadere…Forse papà e nonno sono stati fortunati a morire sul colpo. Non hanno sentito le lamiere dell’auto massacrarli. Se sono andati subito. Tu…sei rimasta qui…Io…ho scoperto che la quotidianità che ho amato non è stata che un breve soggiorno per purgarmi con la mia vera vita.

    Il ragazzo non strinse i pugni, non ringhiò tra le mandibole.
    Desiderava con tutto se stesso arrabbiarsi ma si rendeva mestamente conto che non ce la faceva…Restava impaurito, apatico, rassegnato.
    Era un condannato divenuto insensibile alle mitragliate.
    Veniva bucato di proiettili ma stava in piedi senza emorragie.

    - Scusa se mi sono comportato come il peggiore degli assassini. Non meritavi tutto questo…Ho fatto qualunque cosa pur di restare stupido e continuare a credere in acque stagnanti, in queste macchine che cercano di cucire il tuo respiro morto.

    Lui era Minos. Il Grifone.
    Uno dei tre Generali di Ade.
    Lui rinasceva a ogni guerra sacra in un ciclo sempiterno di combattimenti e conquiste.

    Non contavano le famiglie che lo mettevano al mondo nelle ere che si succedevano e si cancellavano.

    - Forse avevo già capito Ipnos e Thanatos quando ridevano dicendo: “ prova a volare controvento, Grifone”…volevano vedere fino a che punto potevo spingermi…E’ stato un bel divertimento per loro. Non mi hanno fermato perché sono  sempre  spettacoli  straordinari  la paura del cambiamento e l’attaccamento verso la polvere che non vola più.

    Lui era stato Minos Van Hansel.
    Figlio di scenografi e tecnici teatrali.

    Era stato un bambino orgoglioso della propria speciale e pacifica esistenza.
    Aveva abbracciato tanto, aveva saputo fantasticare meglio di chiunque altro.
     
    - Ancora  adesso faccio fatica  a smettere di essere stupido. Sto parlando da solo. Tu non sei più in questa stanza da anni…Non  c’è neppure   la tua anima.

    Il giovane guardò la madre con una falda nell’animo da cui fuoriuscivano solo serpenti sbucciati e bruciati. 

    - Sei lontana…lontana…Chissà dove ti sarai nascosta…Ti vergogni di me, vero? Fai bene…è meglio che mi dimentichi.

    Minos studiò con lucida e disperata calma i cavi delle apparecchiature mediche.

    - E’ bello delirare…almeno uno cerca un po’ di meravigliarsi di se stesso e di giocare come fanno i bambini. Certo, è una presa in giro ma è una presa in giro che accarezza in modo incredibile…Malauguratamente quando ci si diverte, ci si stanca e io sono stanco…molto stanco.

    Individuò lo strumento falsamente benevolo che sorreggeva le funzioni vitali della madre.
    Sospirò piano, a testa alta.
    Nessun incrinatura gli sconvolse i bei lineamenti del viso.
    Diede un’ultima occhiata al cielo nero che s’impiastrava di fiocchi.
     
    - Piove troppa neve, i miei occhi hanno male ma  non griderò.

    L’adolescente si accostò lentamente alla macchina respiratoria.
    Si chinò verso il cavo e staccò la spina.

    Tutto si spense. Tutto cadde a effetto domino.
    L’arancio rosato della lampada carezzò quella quiete stremata, liberata, sciupata.
    Erano finiti otto anni di sonno vegetale. 

    - Buonanotte, mamma…

    Minos prese tra le mani il viso della donna coccolandolo con dedizione dolente e spacciata.

    - Anche se non ti appartengo più…buonanotte.

    Baciò con arida e distrutta delicatezza le labbra della defunta.
    La coprì con il lenzuolo, foderando dentro di sé l’umiliazione di essere incapace di piangere.

    - Addio.

    Gettò quell’ultimo pesantissimo sasso nella voragine dell'abbandono.
    Spense la lampada della stanza e si affrettò a lasciare la clinica. 

    Uscito fuori le porte di vetro,  si gettò nella fuliggine candeggiata della neve.
    Avvolto nella sua lunga giacca nera da mercenario omicida, decongelò le saette dell'inverno con l’oscurità di passi spietati.

    Camminò veloce e  tagliente.
    Gli unici zampilli dolci erano i  capelli candidi che gli umettavano, lucidi di inutile illibatezza, la fronte, le spalle, la schiena…

    Non osò voltarsi di nuovo verso l’ospedale.
    Si lasciò indurire il viso dalla semina di gennaio.

    Soltanto un singulto gli uncinò le pareti della gola.
    Un singulto di lacrime bianche, immaginarie, impossibili da dipingere.
    La macchia di un’angoscia bambina orfana di direttive.

    E i fiocchi di neve cedevano uno dopo l’altro…
    Cedevano, cedevano…
    Tanti globuli che si cancellavano tra l’acidità gialla dei lampioni e la vacuità decomposta delle ombre.

    La meiosi del silenzio si catalizzava  incontaminabile e invulnerabile.  





    Cigolante, sconsolato e vagamente rintronato, Zellos attraversò di nuovo il Ponte Vecchio.
    Camminando piano , anche se doveva affrettarsi, decise che sarebbe andato alla Stazione ferroviaria di Campo Marte.
    Avrebbe preso un comunissimo e affumicato  treno , da pendolare iellato e assonnato, e avrebbe raggiunto Venezia . Era abituato a viaggi da profugo puzzolente e quello, tutto sommato, non era il peggiore. Ovviamente era un  grosso limone da ingurgitare ma sempre meglio che imbucarsi in vagoni merci arrugginiti o imbarcarsi su bastimenti di spazzatura da smaltire.

    L’ omarino, non smetteva di bollire e pensava coi brufoli che pulsavano collera giallastra:   

    “ Come al solito una consegna dell'ultima ora! Che quel Minos finisse sotto un trattore o un carro armato! Stronzobastardoluridissimo! Che andassero a fanculo lui e tutta la band che lo circonda! Morissero tutti! Tutti! Ma che accidenti dico? Come facciamo a morire se siamo specter e possiamo resuscitare?! Aaaaaaaaah….”

    La rana sbuffò esasperata tentando di calciare una bottiglietta di plastica che maldestramente mancò.

    “ Che palle… dovrò pigliare il primo regionale e fiondarmi in quell’umidissima città che mi smangiucchierà le ossa…. Fantastico. Penso che riuscirò a battere il record di traversate di un piccione viaggiatore.  Quest’anno mi sono sbattuto dalla Norvegia alla Germania, dalla Germania alla Russia, dalla Russia in Tibet per poi finire  nel Bel Paese…”

    Guardò  l’Arno che sfuggiva lento e implacabile alle spille argentate della luna.
    Si avvicinò al ponte per rimirare la solitudine che alloggiava tra gli intercolunni dei palazzi, tra le siepi sgonfie dei giardini, tra le ombre signorili dei lampioni.

    “ L’unico motivo per cui non ucciderei i tre bellimbusti generaloni è perché mi mandano in Italia…almeno ho tempo per scofanarmi di pasta, pizza, salumi, carne, formaggi…poi quel Brunello di Montalcino, quel Chianti, il Sangiovese…dove le trovo tutte ste meraviglie? Ah…mi dovrei anche comprare degli lp coi migliori cantanti italiani ma non c’ho soldi sufficienti…”

    Sospirò sbattendo la testa contro la balconata del ponte.
    Un tintinnio gocciolò cristallino e pulito al suolo.

    Zellos si accorse che dalla tasca bucata del cappotto era caduto un orecchino.
    Lo raccolse agitato e se lo strinse con intenso sentimento  al petto.

    Neanche le ultime ammaccature della sbronza riuscivano a fargli scordare il valore inestimabile di quell’oggettino…Quel manufatto d’argento vecchio a forma di rana che era appartenuto ad un’anima insostituibile… Una ragazza senza bellezza, salute e malizia…Una mente che non aveva mai avuto disgusto delle paludi e che aveva comunicato coi suoi sacerdoti.

    “ Tiah…” pensò vivamente Zellos ” non tornerò più dove sono nato…se devo essere sincero quel sudicio villaggio della Cambogia non mi manca per nulla…L’unica cosa che mi fa stare schifosamente è non aver mai saputo in che luogo  ti hanno sepolta…bah…ma a che serve in fin dei conti? “  

    Fissò la marea fluviale nera che passeggiava immortalata all’interno di un’ enorme e sconfinata  fognatura.
    Non ci si poteva tuffare.
    Non si poteva fuggire.

    L’omarino l’aveva compreso bene durante quegli anni… Si evade dalla tenebra per finire in una tenebra ancora più grande?
    A reggere il mondo era l’infinito perpetuarsi dei moti celesti, a reggere l’anima l’infinita e conscia vigliaccheria di non uscire dalla prigionia.
    Bisognava creare la libertà ma la fantasia si costruiva malaticcia sull’impianto deperibile della realtà svalutabile.
    Era meno rischioso contare sulle solide sbarre di una galera.

    Il nano  prese a cantilenare fievole con un leggero vento che iniziava librarsi.   

    - E’ vero, credetemi è accaduto…di notte su di un ponte, guardando l’acqua scura con la dannata voglia di fare un tuffo giùùùùùùùù…*

    Le acque non erano la risposta alla purificazione dai fardelli.
    Avevano una moltitudine di microbi anch’esse.

    Poi ad un tratto, due tizi alle mie spalle…forse angeli vestiti da passanti, mi spinsero nel buio dicendomi…cosììììììì… Meravigliosooooo…ma come non ti accorgi di quanto l’Ade sia meraviglioso….meravigliosooooo!

    Il servo in realtà se lo ricordava perfettamente.
    Non erano angeli coloro che gli avevano schiuso la panoramica di un universo d’eterni fumi.

    Il Sonno e la Morte. Ipnos e Thanatos.
    Lui  era stato condotto dalle loro ali d’uccelli paradisiaci ghiotti di speranze da inabissare.

    - Perfino il tuo dolore potrà guarire poi…meraviglioso…

    I due gemelli dell'Averno adoravano scherzare metallici e gravi.
    Sapevano che la Luna era una perla senescente che non emetteva tempeste.
    Illuminava con aneli anemici poiché   le tenebre erano un liquame incorporeo che fruttificava in ogni angolo della terra e in ogni sguardo umano.

    Ciò era meraviglioso.
    Meraviglioso come le lacrime che gridavano fin sopra le montagne per poi distruggersi nella piccolezza di cuori psicotici.   

    “ Tiah…Continuo ad amarti anche se non ho più pensieri e una vita in cui credere…Continuo ad amarti senza sapere nuotare per davvero…Non so se io stia vivendo ancora in te…da qui non scorgo nulla…Quelli che porto con me sono soltanto vecchi film, realtà defunte…Chissà dove ti rifugi…Spero che nel vedermi tu possa ridere dicendomi cose belle, strambe e uniche. Io non posso sognare. Il Sogno è fratello della Morte. La Morte è nelle mani di Ade. Ade regge le colonne della superficie. Io non sono un suo guerriero…Sono una briciola di buio che non attende nulla. “





    Note esplicative:

    - E' giunta mezzanotte !  Si spengono i rumori…  Si spegne anche l'insegna di quell'ultimo caffè! Le strade son deserte , deserte e silenziose, un'ultima carrozza cigolando se ne và… *

    : testo della canzone di Domenico Modugno “ L’uomo in frack “  ( 1960 )

    “ Eljounir* ” : secondo la mitologia norrena, il palazzo degli inferi in cui risiedeva la dea Hel.

    - E’ vero, credetemi è accaduto…di notte su di un ponte, guardando l’acqua scura con la dannata voglia di fare un tuffo giùùùùùùùù…* : testo della canzone di Domenico Modugno “  Meraviglioso” ( 1968 )  modificato “ tragicomicamente “ per il personaggio di Zellos. 


     Note inerenti ai capitoli precedenti:

    Alchimisti di Eu Topos *  :  vedi CAP 15- celeste immenso e CAP 17 – danzando con te: al di là del tempo.
     
    Rune e Pharao *  : vedi CAP 8 – le magie di Lindo: canzone d’ombra.
     
    Calipso * : vedi CAP 12- lande violentate. 

     

    Note personali: L’ULTIMO AGGIORNAMENTO DEL 2013!!! XD sono stata previdente ^^ avevo detto che a fine dicembre ci sarebbe stato questo capitolo e così è stato!
    Mi scuso però  con i lettori che seguono anche “ Io ,figlio dell'’inferno “  >.<  purtroppo non sono riuscita ad aggiornare in anticipo col cap 3 perché la stesura di questo episodio ha finito per assorbirmi del tutto…aggiungete poi impegni natalizi e proseguimento studi XD
    Spero di riuscire a tornare su Death entro la fine di gennaio anche se non vi garantisco nulla di sicuro al 100 %  perché entro il 20 devo terminare una fan fic per un contest ( sta volta il fandom è Lady Oscar ^^) e poi…il 3 febbraio ho un esame…abbiate pazienza ^^”

    Dunque vi devo rompere un altro pochino le scatole con i chiarimenti storico mitologici inerenti a questo episodio…procediamo con ordine.

    - Pandora e Radamanthys: nella storia originale del Kuru e della Teshirogi    non hanno alcuna relazione sentimentale/carnale…Personalmente, mi è sempre piaciuto immaginare una loro intesa ^^ quando ho letto Lost Canvas e sono arrivata alla parte in cui la Viverna si scontra con Aron/Ade…sigh…mi si è stretto il cuore!! Vedere Rada che salva Pandora come ultimo gesto prima di finire a brandelli mi ha colpita tanto *.* Sono così partiti i voli pindarici…va bene…è vero che il generalone è un grezzone che pensa a servire solo Ade e spargere tempeste e sangue però… cavolo! Siamo in un AU con tanto di “ What if…” e “ missing moment” …perciò…chi è poi che non s’inventa le coppie? XD   
    Riguardo il mito greco,  Pandora e Radamanthys non condividono nulla di nulla…Come avete letto nel capitolo , la fanciulla maledetta è sempre “ il dono “ creato dagli dei  che apre il vaso delle sciagure ecc…tuttavia ho inventato il fatto che Epimeteo la ripudia e la relega nel Limbo ( e non hanno nessuna figlia di nome Pirra )…Tutto in funzione della relazione con Radamanthys, il quale  era davvero un semidio  fratello di Eaco e Minosse…
    In conclusione ho desiderato spiegare l’origine delle storie di questi due personaggi attenendomi in parte  alla mitologia…

    - I Libri Acherontici ( e gli altri testi rituali che narra Hel)  :  studiando attualmente etruscologia vi garantisco che non sono inventati e che dovevano esistere secondo le testimonianze latine…Purtroppo, nel mondo reale, non sono mai stati ritrovati e neppure stati  scritti dagli Alchimisti di Eu Topos XD XD  ( questa è pura farina della fantasia…)

    Spero di essere stata chiara ^^ se sono rimasti diversi punti oscuri nel piano illustrato da Minos e Hel è appositamente voluto perché non posso svelarvi tutto adesso ;)
    Avrete notato l’entrata in scena sia di specter della serie classica sia di quelli della Teshirogi ( Winber e Fedor) e…avrete notato Zellos!! XD E’ un personaggio che non mi sembra particolarmente preso considerazione e che invece potrebbe diventare moooolto interessante…Il mio intento è quello di mostrarlo in più sfaccettature, che siano comiche o tragiche ( vagamente pirandelliano XD XD ) Non so quanto vi possa piacere ma mi auguro che voi lo possiate apprezzare!! >.< 

    Come ultimissima cosa ringrazio un caro amico che mi ha suggerito il nome “ Hel” per la creazione della deliziosa maga funerea ! Se non ci fosse stato a illuminarmi con la mitologia norrena non sarei riuscita a tratteggiare efficacemente la figura della mia “ personaggia” !!

    VI AUGURO UN BUON 2014!!! :D

    All’anno prossimo! ^^  

     

     


     

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    Capitolo 32
    *** CAP 19- la deriva dell'innocenza ***


    Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
    sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
    Codesto solo oggi possiamo dirti,
    ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”


    ( E. Montale )

     

     

    Lanciare fiamme era inutile. Far ruggire i pugni altrettanto.

    Volare oltre il crepuscolo? Impensabile. Poeticamente penoso.
    Umiliante. 

    Ikki s’imprigionava in un mutismo collerico, in una stasi che non concedeva fantasie né piani fuggitivi.

    A bordo della Kamikaze*, una nave shuinsen* che risuonava della minacciosità del Giappone feudale, egli osservava la titanica sponda della Groenlandia…
    L’orizzonte , infestato dalla catalessi della notte polare, mescolava e sciupava un mare basalto di schiuma latrante e vermicolare.
    I ghiacciai, un timballo di calce, zucchero e amido, parevano il diadema di una fata morta annegata…

    La coscienza si ammortiva nell’ascoltare la musica altalenante dei galleggiamenti ombrosi… Le onde si stempiavano contro la  prora del vascello, agile origami  di legno affusolato ed elegante che scandagliava il freddo nell’attesa di un assalto…Le vele quadrate dell'albero maestro e di poppa cascavano dalle altitudini  crestate di bandiere simili a fisarmoniche aguzze che secavano le molecole ventose. Il timone sfilettava i baccelli di bave che disperdeva nell’immensità della corsa acquatica… 

    Non  poteva fare nulla.
    Ormai la firma era stata deposta.

    Ikki si chiedeva perché fosse finito in quella situazione, in quella schiavitù…Non riusciva a capacitarsene…Si odiava eppure si giustificava, si sferzava eppure si leniva le ferite…Era impossibile definire un bianco o un nero.
    Era stato lui stesso ad accettare un patto di sottomissione.

    Marciava, con lentezza frustrata, avanti e dietro il ponte di coperta * . La chioma boscosa, un’eruzione di ciuffi marini, sbuffava selvatica tra gli urti dei venti artici. I fiocchi di neve la salavano preziosamente come orecchini smarriti da stelle depresse.
    Il bel viso, dall’incarnato lievemente scurito, non aveva alcunché di leggero e primaverile: nonostante portasse vigorosamente quindici anni e le guance, il naso e la bocca fossero scolpiti da fine e indomita maestria, la gioia adolescenziale non trapelava.
    Sotto le sopracciglia folte si fossilizzavano increspamenti o lampi di sinistra apatia: gli occhi blu erano pianeti che pesavano troppo, brillando di un’indigenza adulta, una tristezza riottosa che invecchiava invisibile isterilendo arature di sorrisi.
    Il corpo , slanciato e già  ben formato,  non aspettava altro che irrobustirsi maggiormente per esplodere in una violenza atletica priva di danze dolci e disciplinatrici.
    Un logoro cappotto, di un virulento color ruggine, pareva ingrossasse le membra in un’eroicità delusa e avvizzita…Dei pesanti pantaloni neri e un paio di scarponi grigiastri palesavano sdruciture e polvere incrostata , irrecuperabili  cicatrici di una ribellione eviscerata.
     
    - Allora ragazzo mio? L’aria polare ha raffreddato i tuoi bollori da belva?

    Al suono di quella voce radiofonica e sarcasticamente ilare, il giovane si voltò con la fonte crucciata.
    Dal boccaporto* era comparso un uomo di trentotto anni che sorrideva sciatto, quasi si scocciasse a rendere gradevole la sua bocca velenosa.

    - Che bisogno c’era di pestare i tuoi compagni? – redarguì con snaturato affetto-  Stavano solo scherzando…

    L’adolescente restò zitto guardando con repressa brutalità il proprio interlocutore…Doveva abituarsi a  vederlo, studiarlo, subirlo…
    Alla fine rispose con la sua voce tenorile d’intemperie e stagni d’inchiostro:
     
    - È così difficile farsi i cavoli propri?

    - Oh, Ikki…quanto sei pesante…

    - Se io non rompo le scatole agli altri, gli altri non le devono rompere a me. Basta.

    - Ti conviene controllare gli ormoni rabbiosi… Fai parte di una squadra.

    - Non faccio parte di nessuna squadra.

    - Cominci con le solite scemenze?

    - Anche se ho deciso di soffrire la puzza tua e quella dei tuoi sgherri, non significa che sia diventato il vostro compagnone di brigata.

    - Ti atteggi tanto da lupo solitario e indistruttibile ma è chiaro che sei colato a picco da un pezzo.

    - Perché non schiatti in seduta stante?

    L’uomo afferrò il ragazzo per le mandibole.
     
    - Vedi di abbassare la cresta, bimbetto incazzoso – gli ordinò spingendolo via con blando disprezzo - Dovresti essermi grato…Se non avessi avuto la misericordia di prelevarti dall’isola di Death Queen, ora saresti fregato.

    Si chiamava Takashi, soprannominato “ Taka” , il falco.
    Era il capitano della Kamikaze. Un professionista di maciullamenti  psichici.

    Vestito d’una cotta lamellata, coperta sulle gambe da un hakama* nero, camminava con placidezza guerresca e tronfia esaltando la statura che soggiogava, gelida e birbonesca, il  prossimo. I suoi capelli verdi, analoghi ad antico muschio di roccia, erano una matassa fiera e scombinata che sghignazzava oltre le spalle…l’attaccatura dei ciuffi frontali disegnava il vertice di un lieve triangolo che incorniciava una fronte ampia e cementificata.
    Il viso, un po’ quadrato e affilato, possedeva un naso limato e due occhi blu  oppressori e matematici brillantati d’ inconfutabilità.  

    - Hai ucciso il tuo Maestro due mesi fa…- dichiarò il guerriero aridamente - vorresti essere giustiziato dal Grande Tempio? Vorresti vagare come quel cane miserabile di Ohen* ? Lui e la sorella-fidanzata hanno alle costole i soldati di Atena e inoltre… i segugi di Ade, Rhadamantis ed Eaco,  li stanno seguendo…Poveracci…scappare dalla Vergine Pallade per farsi appioppare dal Re degli Inferi…Quale tristezza…

    - Tu e Don Avido non vi siete lasciati mettere il guinzaglio proprio da Ade?

    - Ragazzo. Un conto è comportarsi da servi della gleba chinando il capo, un conto è essere mercanti e cercare gli empori migliori per arraffare preziosissima grana. È necessario commerciare, tessere rapporti con altri venditori…Scambiare merci, accrescersi…diventare potenti. 

    - Splendido. È una gara a chi riesce a mangiare di più.

    - Non bisogna accontentarsi di sopravvivere ma di vivere al meglio. Come si dice… il tempo è denaro e più compriamo palazzi in quest’enorme monopoli, più siamo al sicuro e invincibili.

    L’adolescente tentava di non finire con le spalle al muro ma sapeva di sembrare una volpe chiusa in un angolo col pelo irto e un ringhio tremolante sulle labbra.

    - Se mi fossi buttato in un vulcano, avrei guadagnato veramente qualcosa…

    Takashi inarcò le sopracciglia in un’espressione che fingeva sbigottimento e indignazione.

    - Te ne esci con queste bestialità?! Che cosa penserebbe di te il piccolo Shun?!

    I pensieri sbraitarono tenerezze remote che tamburellarono ridicole, bugiarde, avvilenti…

    Ikki desiderava non avere nulla da perdere perché la vergogna era infinita: sarebbe stato più semplice subire quelle angherie beffeggianti…calpestare un sentiero di ragni e scarafaggi con l’unica direttiva di campare miseramente e andare a morire in un qualche sperduto angolo di mondo…

    I ricordi lo condussero a quando aveva undici anni, a quando il rapporto col Maestro non si era drammaticamente demonizzato e il Giappone poteva apparire, di tanto in tanto, al di là dei mari lontani…


    Era un madido pomeriggio di dicembre, pasticciato qua e là da barbe grigiastre di nuvoloni e angiomi di patacche dorate…i distretti bucolici, che sopravvivevano severi all’avveniristica e dattilografata confusione di Tokyo, se ne stavano in disparte travolti ancora dal genuino scrosciare delle stagioni… Fuori la palestra dell' orfanotrofio Kido, una struttura raffinata e melanconicamente intimidatoria, si vedeva la pioggia granellare confusamente assieme al Sole.

    - Devi usare anche la spalla! – esclamò Ikki- il tuo pugno così non fa niente!

    Shun guardava costernato il fratello maggiore che aveva le mani aperte davanti a lui…Gli stava insegnando le mosse  base del karate e quelle palme,  su cui aveva debolmente impresso le  nocche,  parevano scudi di titanio…

    - Forza! – venne incitato – colpisci! Su!

    Il bimbo strinse la bocca minuta  in un’espressione d’incerta concentrazione…Aggrottò la fronte cercando di far apparire il visetto angelicato, femmineo e fuori luogo più battagliero che poteva…
    I morbidi capelli verdi riflettevano la luce oscillante del maltempo soleggiato che proiettava i rettangoli delle finestrate sul tatami* dello stanzone…

    - Avanti, Shun!

    Il fratellino lanciò pugni maldestri che cigolarono uguali a ruote d’un carro che dovevano smontarsi da un istante all’altro.
    Gli avambracci di Ikki emisero qualche esigua favilla di traballamento restando solidi e duri...

    - Le spalle! Le spalle! Non sto sentendo quasi nulla!

    Il piccolo si arrestò abbattuto, lasciando dondolare le  esili braccia lungo i fianchi.
    I  grandi occhi glauchi fissarono le stilizzate cascate di serenità turchese dipinte sulle pareti della palestra dove si alternavano linee di bambù e fiori boschivi.

    - Shun! Dai!

    - Non ci riesco.

    - Smettila…devi solo esercitarti…

    - No.

    Il bambino si sedette a gambe incrociate per terra, immaginandosi di diventare un fungo inestirpabile e mogio…Ikki sbuffò grattandosi i capelli…Non era la prima volta che assisteva a un comportamento simile…Lo  pseudo-allievo veniva spesso preso in giro dagli altri compagni  perché non sapeva picchiare e finiva sempre in lacrime con le ginocchia sbucciate e lividi dappertutto…Dicevano che era  la “ sorellina” frignona del  più forte degli orfani combattenti…

    - Ascolta- disse il fratellone inginocchiandosi – secondo te a un anno sapevo già tirare calci e pugni? Mi alzavo dalla culla e facevo Bruce Lee?

    Shun sorrise con slavato divertimento…Restava zitto ad ascoltare…Nello sguardo un’amabile mestizia, una consapevolezza un po’ senile dei propri  limiti…

    - Sono finito un sacco di volte col muso per terra! Da quando siamo stati portati  qui, nel Palazzo del Signor Mitsumasa, ho cominciato ad allenarmi e alla fine ho imparato tante mosse e  tecniche…

    L’ apprendista piccino , investito da una scia di sole diamantino, fece brillare , nello sguardo, intelligenza inquieta.
     
    - Perché dobbiamo farlo?- chiese con paura diffidente - Perché dobbiamo sapere lottare? Perché a un certo punto il Signor Kido  manda i bimbi ad esercitarsi in altri posti?

    Preso contropiede, il ragazzetto reagì sperando di non tradire tracce d’incertezza:

    - Dicono che da grandi dovremmo diventare…cavalieri…

    - Io non capisco questa storia…ci parlano di Atena….ma chi è? Non l’abbiamo mai vista…se io non vedo non imparo. E io non voglio lottare.

    Shun era delicato ma dotato di una ferrea acutezza …La sensibilità gli aveva permesso di conoscere, prima degli altri coetanei,  l’alfabeto kanjii * , scrivere correttamente e analizzare ansiosamente le parole che viaggiavano tra i minuti.
    Il fratello rimaneva in soggezione e a momenti tardava a fornirgli un certo tipo di risposte:

    - Hai ragione…però…tutto questo ti deve servire… Anche se alcune cose sono stranissime dobbiamo essere forti. Hai visto quanti scemi esistono? Hanno cervelli di gallina e tu non devi farti spingere da loro! Nessuno può distruggere il tuo spazio! Devi stare in piedi!

    - Ikki…io non sono come te…non sono come Seiya, Hyoga e Shiryu che già stanno fuori di qui…

    - I muscoli e la testa ce li hai! Non serve che diventi un leone terribile e scannatore!

    Il bambino grattava sconsolato il tatami…
    Il suo custode, però, lo prese con energico affetto per le spalle: 

    - Shun…devi essere il Re del tuo Castello. Difenderti! Difenderti!

    - Ma non posso fare male agli altri...

    - Non si tratta di menare a destra e a manca! Bisogna respingere solo chi ci attacca…purtroppo lo fanno in molti…perché non sono tutti bravi. Crescono tanti mostri e se noi sapremo combattere non avremo nulla da temere.




    Ikki si sentiva un insetto pateticamente irreale…Era stato il peggior scialacquatore di lealtà poiché non aveva compreso a fondo l’incomunicabilità del destino, il destino che rivolta continuamente le carte e svela quanto la realtà sia un ingarbugliato intestino pieno di tumori…nessuna colonscopia poteva mai veramente attuarsi…   


    - Fidati…hai scelto la via giusta…- sorrise lugubremente bonario Taka - Il Santuario è un despota mascherato da moralista che incatena con giuramenti di torture. Ade, coi suoi fumi mortiferi, è un banchiere che ti dona l’immortalità per vincolarti ad un mutuo infinito di dissanguamenti in ogni era…Gli specter possono risorgere ma portano sempre un cappio al collo. Siamo loro  alleati con la differenza  che non possediamo catene. Quando fiutiamo una gallina dalle uova d’oro dobbiamo sfruttarla a regola d’arte…siamo Cavalieri Neri, rinnegati da qualsivoglia regno, da ciascun dio. Non ci servono un tempio, una città, leggi in cui credere. Mentre gli altri guerrieri sventolano stupidamente gli stendardi delle proprie patrie, noi siamo liberi. Liberi di stringere patti, annullare contratti, far scomparire prove, sopprimere. 

    - Dunque…con te sarei libero? Libero?! Ma sparati in bocca…

    - Sotto l’egida di Atena saresti in grado di fuggire?

    Gli occhi del capitano pulsavano affini a oceani pieni chiazze petrolifere…Fulminavano, viaggiavano troppo velocemente per essere catturati, prevenivano ogni tranello, calpestavano ogni scintilla d’ingenuità. Quando incedevano lentamente era per far assaporare un senso di sconfitta e stoltezza a chi tentava di sfidarli.

    - Vuoi sapere che fine ha fatto Shun? E ‘ stato spedito nell’isola di Andromeda.

    Il ragazzo impallidì violentemente con una valanga di ghiaccio e aceto che gli devastò le vie del cuore e del cervello…

    - No…Non lo possono fare…

    Il fratellino aveva manifestato una scintilla di cosmo soltanto l’anno prima e adesso, ad appena nove anni compiuti, era stato mandato in un lembo di terra infernale quanto l’isola di Death Queen…Una ripugnante condanna a morte…Ikki aveva appreso la sorte che toccava a certi ragazzini che non possedevano un’energia molto potente…La soluzione: debellarli alla stregua di germi scomodi e inservibili.

    - Lui…non è adatto…morirebbe! Maledizione!

    Il giovane fracassò il parapetto della nave, svuotando i polmoni  tumefatti da anidride massacrata.
     Si sentì peggio di prima, con le costole che minacciavano di staccarsi dallo sterno una per una…
    L’ ossigeno invernale  si mostrò  evirato di sanità liberatrice e vivificante…

    - È per questo che hai fatto bene a venire con me, Ikki!- eruppe perfido e consolatorio il comandante della nave-  Non desidero assolutamente che tu e tuo fratello conduciate una vita da carcerati o da servi!

    - Balle! Balle! Te ne strafotti di noi! Vuoi solo far filare i tuoi progetti di merda!

    - Sono seriamente preoccupato. Come puoi dubitarne? Perché ti sarei venuto a salvare?

    - Sai dove te le puoi ficcare le tue premure?

    Taka assestò un pugno all’adolescente.

    - Ti sto offrendo la tua via! Ti sto aprendo un mondo per lasciarti combattere indipendente e imprendibile!  Tu e Shun vivrete di nuovo assieme senza falsi precetti, servitù di patti celesti! Ci arrivi, cretino?! Non sarete assoggettati a nessuno!

    Ikki si asciugò il rivolo di sangue dalla bocca e sputò aspramente in mare.
     
    - È bello sentirti dire queste cose…- sentenziò rauco sminuzzando le lacrime nel fegato -  Non  so se commuovermi o vomitare. Scompari per dieci anni e all’improvviso ti materializzi trascinandomi in questo schifo. No…Shun non finirà in questo modo…non dovrà vedere niente…

    Sì…doveva patire ma preservare ancora una briciola di sana e sanguinante determinazione…
    Gli restava l’unica luce, l’unico legame di sangue, la proiezione dell'integrità che gli veniva decomposta dai vermi dei compromessi…

    Lo avrebbe salvato. Almeno lui.

    - A cosa stai pensando, genio? – canzonò il falco-  Andare a liberarlo da solo? Per mandarlo in quale direzione, poi?

    - Troverò un dannato posto in cui non potrà conoscere la tua lurida faccia!

    - Ikki…sono il vostro protettore numero uno, il solo che ha le chiavi per farvi respirare. Sono vostro padre.

    Padre…padre…
    Il ragazzo preferiva strozzarsi la trachea piuttosto che chiamare quel rapace antropomorfo “ papà”…Sarebbe stato meraviglioso ripudiarlo e dargli dell’impostore ma la sua identità era inequivocabile. Da quando si era di nuovo imbattuto in lui, lo aveva riconosciuto…Condividevano fastidiosamente gli stessi occhi, gli stessi tratti poderosi e armonici delle guance…La stessa  possanza armigera che, inevitabilmente, era destinata a fare terra bruciata senza scrupoli.

    - Ahimè sono stato costretto a sacrificare molte cose – recitò drammaticamente l’uomo-  ma credimi l’ho fatto per te, per Shun, per Suzuna…

    - Tu non hai mai visto la mamma incinta! Non sai che lei continuava a ordinarti la roba stupida e paziente! Diceva che saresti tornato, mi tranquillizzava…nessuno poteva essere tanto assurdo da lasciare una casa…La mamma era incapace di credere …Amava…Amava ottusamente…

    - Povera la mia mogliettina….le raccomandavo sempre di non fidarsi troppo dei raggi del sole…un giorno ci sono, un altro svaniscono…Mi auguro che Shun non abbia preso da lei…Era una ragazza deliziosa, bellina da matti, buona…troppo…Ha finito per conquistarmi…ti assicuro,  Ikki, l’ho adorata con tutto me stesso…

    - Già. Non ti sei degnato neanche di cercare la sua tomba.

    - Non ho bisogno di lapidi per ricordare tua madre e comunque sono venuto da te, figliolo. Sei ancora in tempo per fuggire al destino. Le tue stelle possono fare  a meno di norme divine. Non seguono le orbite del sistema solare. Gli dei, in realtà, faticano a governare gli astri perché sono meschini quanto gli uomini…Hanno la grande furbizia di dipingersi alla maniera di sovrani invincibili ma non capiscono l’universo intero. In questi anni non ho fatto altro che preparare il tuo campo di gloria e comprenderai  che Shun non sia l’agnellino molle che molti credono…tu non sai cosa lo attende.

    - Che significa?!

    Takashi scese il ponte di poppa, come si stesse recando a un ballo di gala.

    - Significa che siete figli miei, Ikki – si fermò a un tratto -  Figli di un armigero dalle risorse illecitamente divine.

    Ridacchiò con la tonalità melodiosa di un vecchio giradischi riprendendo a calpestare i gradini della scala.
    Il figlio, adirato di spaesamento e angoscia, lo raggiunse impetuosamente costringendolo a voltarsi.

    - Vuoi dirmi che diamine…

    Ricevette un dispotico e irrisorio spintone.

    - Prepara la tua armatura, imbecille. Comincia a espandere il cosmo. Tra mezz’ora sbarchiamo. Don Avido conta su di noi. Questa missione non deve fallire.

       

     

    Un cinguettio scricchiolò pallidamente sorpreso nell’immobilità dell'aurora…
    L’azzurro cupo taceva atavico nel cielo senza ancora disgelare qualche sussurro di raggio…

    Il Castello di Eurialo, la grande fortificazione eretta dal tiranno Dioniso, si perdeva con le sue rovine di spine dorsali tra le maree ingiallite e ammaccate della campagna siracusana.

    Alcuni muri si ergevano ancora massicci e imponenti con la mestizia di dinosauri fossili desiderosi di attenzioni moderne…
    Tra spume di erbe aggrovigliate , enormi molari di pietra esibivano  smalto deperito quasi fossero mendicanti dai gloriosi passati bellici ormai cariati.

    Nella sua tenda, Aphrodite ascoltava , già sveglio,  la noia rinsecchita di quella pigra pace …Per iniziare direttamente gli addestramenti speciali con Death Mask, aveva deciso di non soggiornare più nell’albergo in città e attenersi al regime spartano dell'accampamento…
    Nonostante le apparenze da raffinato aristocratico,  egli in realtà era dotato d’una tempra d’acciaio frutto degli addestramenti nel Polo Nord.
    La mattina poteva cominciare con la consueta sfiancata di lotte per terminare , con l’ allegrezza delle aspettative carnali, dopo il crepuscolo…

    Lo svedese e l’amico adoravano consumarsi con i calori dei corpi femminili…Il primo esaltava magistralmente la malizia ermafrodita, giocando con atteggiamenti eleganti da gran dama per mutarsi in cacciatore virile e vivace, il secondo adoperava la cruda e scolpita avvenenza di soldataccio mercenario per  spolpare di baci e orgasmi le concubine che gli si stendevano sotto.  
    Erano delizie irrinunciabili, macchie virulente che prudevano la pelle con eccitazione ipnotica…Ci si poteva vuotare dalle coltri delle angosce, si partiva in una magica dimensione dove esistevano profumi di strategie seduttrici e risate simposiache.
    Sulla lingua fiumane amarognole e agrodolci di qualche marsala o whisky, nel petto  rimbombi elettrici e dementi di cuore, presso il ventre la nera e meccanica golosità di sudante  possesso .

    Fuoco. Fuoco vitale.
    Fuoco d’incubo…di felicità d’incubo.

    Molte volte Aphrodite pensava e , quando la ragione e la vuotezza d’aria autentica s’impantanavano  nello stomaco, ogni cosa s’illuminava ospedaliera e asettica.
    Quel giorno  si era destato con un’indigestione di dannosa coscienza, insopportabile, difficilissima da trascurare,  far tacere…
    Era semplicemente una parte di ego che emergeva da doloranti brodami…Era l’io sparpagliato, bestemmiato e umiliato che si nascondeva magrissimo per poi urlare verità rocciose e troppo catramanti…

    Il cavaliere dei Pesci, esasperato dal grasso silenzio mattutino, sfuggì via dalle tiepide coperte…Si tolse la maglietta che aveva usato per dormire e indossò una casacca di stoffa per coprirsi in fretta le  toniche nudità che adesso trovava vergognose. S’infilò il kardiophylax, le coperture degli avambracci, un paio di stivali e uscì dalla tenda…

    Si sgranchì nervosamente la schiena, il collo e i polsi respirando infastidito l’aria fresca…
    L’estate siciliana , che si srotolava in un’anomala e bruciacchiata mitezza, lasciava agognare l’inverno di ottobre, quell’appetibile rigidità che doveva iniziare a infiltrarsi ancora tra le dermatiti degli alberi e delle nuvole e che invece stagnava onirica e scellerata.

    - Ehilà! Buongiorno salmone svedese!

    Aphrodite sospirò voltandosi alla propria destra.

    - Oh – rispose  intorpidito – salve granchione della malora.

    Death Mask sghignazzò, infantilmente grezzo,  mangiucchiando una brioche alla crema  e  trangugiando  latte da una borraccia.

    - Ho una bella scortona di crafen nella mia tenda! – rivelò giulivo- vuoi favorire? Sono la fine del mondo! Bombe libidinose di calorie , l’ideale per caricarsi e pompare! 

    - Se sei tu il pasticcere , meglio di no…ci manca solo un attacco di diarrea…

    - Stai sereno amoruccio…non voglio nuocere al tuo pancino…tutto comprato!

    - Per fortuna.

    - Tiè scassa minchia !Fatti una bevuta.

    Il siciliano porse rudemente la fiaschetta all’amico che lo fissò con una smorfia alterata e disgustata.

    - Preferisco fare colazione dopo…   
     
    - Mbeh? Che è quella faccia? – esclamò Cancer con spazientita curiosità.

     Il giovane sorseggiava, stipato di ribollimenti, l’ alcova marina che si appiattiva in un lividore ignavo e grigio d’insulsaggine.

    - Sta sera…- mugugnò lui faticosamente - sta sera non so se voglio andare a quella festa, lì alla villa di Emma…*

    - Ti senti bene, Aphro?

    Fish voltò le spalle al compagno massaggiandosi la fronte affinché la stizza si potesse allentare.

    - Dai! Che ti piglia?- lo sobbalzò Death - Non hai dormito bene? Ti è mancato il tuo soffice lettuccio da principino?

    - No…mi so adattare agli insetti che finiscono nei capelli o nelle mutande.

    - Perdonatemi, altezza! Non so dove trovare  maggiordomi che vi vengano a fare shampoo e bidè!

    - Deficiente.

    - Aphro! Sei peggio d’una femmina mestruata! Cos’è sto scoglionamento?

    - Niente, Death, niente! Tranquillo…

    - Tranquillo? Se prima hai sparato quella boiata stratosferica? “ Sta sera non so voglio andare alla festa…” Ieri eri più infoiato di un montone e dicevi che ci saremmo trombati le più gnocche delle invitate e mò? Fai  il pensatore penitente?  Che ti frulla?

    - Sai…mi piacerebbe ragionare solo col pendaglio che ho tra le cosce, ma c’è anche un cervello qui in alto, che a te non funziona tanto…

    - Bene, mister mentaloide, visto che hai un quoziente intellettivo superiore al mio …saresti così cortese da spiegarmi cosa ti sei spippettato  ieri prima di coricarti?

    Aphrodite si sedette svigorito su un masso, per non pensare alla terra che roteava e sfuggiva alle sue comprensioni.

    - Sono già abbastanza drogato di mio…non ho bisogno di fumarmi erbacce strane per avvelenarmi il sangue…

    Chinò il capo lasciando dondolare, con vano smarrimento,  i lunghi capelli azzurri  l’unico annacquamento angelico che l’ornava di celestina spossatezza…Gli occhi traslucidi si socchiusero tra le falde piumate delle ciglia nere…

    - Mi sento pesante, Death...come se le ossa e i muscoli fossero usurati…Sono già stanco senza neanche essere arrivato ad una meta, una meta sensata che bruci l’immondizia che ho dentro…

    Cancer piegò la bocca con  perplessa aria di scherno, mettendosi a braccia conserte ed espirando ruvidità cavernicola:

    - Quindi? Ti metterai a fare l’eremita tra le montagne sperdute? Per favore! Dacci un taglio con ste’ minchiate…Perché complicarti la vita?

    - Cavolo! Non ti viene la nausea a fare sesso con delle troie da quattro soldi?!

    - Mi pare che le troie da quattro soldi ti abbiano sollevato il morale più di una volta…

    - Hai ragione…mi  gaso alla grande  ma…dopo? Dopo?! Come…ti vedi?

    - Aphro…una chiavata non ha bisogno di congetture filosofiche…te la godi con una, passi delle belle orette e poi stop! Quando finisce un film non ti sorbisci i titoli di coda! Te ne esci dal cinema!  Hai avuto la fica, punto. Domani ce ne sarà un’altra. Sarebbe patetico se ci facessimo seghe sulla tazza del cesso…

    - Per me non fa alcuna differenza.

    Aphrodite stirò le labbra perfette in una gelatura fuligginosa mentre sotto il palato si sfilacciava una  scremata acidità:

    - E’ come masturbarsi con bambole di carne e sangue…vai con una tipa, sudi, sputtani la tua eccitazione e alla fine ti senti più svuotato di una vescica morta…vuoi solo rivestirti e svignartela dal letto.

    Death alzò teatralmente gli occhi al cielo, scuotendo la testa e sbattendo una mano sulla coscia.

    - Porca miseria…Non dirmi che t’intrippi ancora per Artemis* ?!

    - La sfrutto schifosamente…La sovrappongo a ogni sgualdrina…sforzando d’immaginarmi che faccio l’amore con lei…con lei e basta…

    - Mio dio, Aphro…non puoi maciullarti le viscere  per quella donna in eterno! Non è normale…lei…lei…oh! Non so come definirla…è una creatura che ti fa bollire il sangue, ma ti spezza in due se osi solo pensare a come è fatta sotto i vestiti…E’ un demone. Lascia stare…Abbiamo una vita di merda, se vuoi inguaiarti con la tua Maestra, con una sacerdotessa guerriero , sei proprio apposto…

    - Death! Io sono cresciuto con Artemis! La conosco da quando avevo cinque anni! Ho vissuto con lei! Ho iniziato tutto con lei… Capisci? Vidi come nascono le rose nel gelo impensabile,  imparando a combattere con esse…compresi la bellezza…non quella che colgo in mia madre che sa sedurre ogni uomo…non quella che vedevo quando giocavo nelle stanze troppo grandi della mia villa a Stoccolma…Quando mi abituai ad andare al Polo Nord…volli vedere la primavera germogliare nell’inverno eterno.

    - Splendide poesie, amico mio. Buone per pulirti il muso quando sanguini e non vuoi capire che il mondo è infiocchettato di sogni unti, bisunti e nauseanti…Si impacchetta tutto di cazzate sentimentali per evitare di trovare un vero inceneritore che bruci la spazzatura. Sarebbe concretamente troppo costoso…troppo audace…è più facile rincoglionirsi con fantasie smonche. Non costano un accidente e si smaltiscono nel nulla.

    Aphrodite incartocciò le fini sopracciglia in una polverosa collera. Svelò i denti in una specie d’amareggiato e nostalgico sogghigno.

    - Al diavolo, Death! Tu almeno hai potuto provare qualcosa di vero…hai avuto al tuo fianco una luce piccola, potente…Andavi sempre da lei ogni notte…ti sembrava stranissimo ma sapevi di essere felice…

    Death divenne scuro e vetroso di tempesta. Le leggere rughe che gli disegnavano gli zigomi parvero inspessirsi in una vecchiezza astiosa.

    - Turati il tuo forno dentato.

    - Cominciavi a capire molte cose…cose che Serse non ti ha mai voluto spiegare. O forse l’avrà fatto…insozzandoti la realtà più del dovuto…

    - Non rompermi il cazzo coi tuoi sillogismi poetici.

    - Razza di scemo! Ti è stata data un’altra possibilità! Potevi conoscere un’altra vita! Recuperare qualcosa!

    Cancer, preso da un raptus di rabbia, ruppe in mille pezzi la borraccia che aveva in mano.

    - Stronzate, Aphro! Stronzate allo stato puro!

    - Fu solo una stronzata che Agata si fosse quasi ammazzata per te?!

    Il ragazzo, vituperando d’incandescenza gli occhi blu, sferrò un terribile manrovescio all’amico.

    - Non tirare in ballo quella cretina! È finita…ho fatto finire tutto! Tutto!

    - Sei un coglione…

    - Il coglione sei tu che speri di aggrapparti all’amore per non marcire nel tuo letame! Svegliati!

    Con le gengive vermiglie di sangue e lo sguardo d’aggressività perlacea, Aphrodite colpì il compagno in pieno viso.
     
    - Sei un invertebrato. Pensi di correre come una belva, ma strisci come un verme…dillo che è troppo difficile per te farti crescere le ali.

    - Fottiti.

    - Dillo che ti pisci sotto!

    Gli antagonisti urlarono e si aggrovigliarono in un lampeggiante ballo di scazzottature  e calci…Orbite di insulti sputati in svedese, in italiano e in greco contornarono quelle giravolte di lotta libera puerilmente vichinga e isterica.
    Era così che i due cavalieri mettevano alla prova il loro affetto: quando i maceramenti dei dolori giungevano ai limiti, il testosterone legiferava selvaggiamente e dettava condizioni di confronti leonini.

    Aphro e Death si menavano non perché fossero realmente  in disaccordo ma perché sapevano entrambi di aver ragione sui martiri che infliggevano alle loro anime…
    Si sarebbero voluti comportare da ragazzini vergini, tornare indietro, annullare l’insudiciamento dei propri corpi…
    Erano  fantasie tragicomiche e irrealizzabili…fino a quando fossero esistite l’indemoniata contraddizione, l’allettante meraviglia dello squallore, la paura di assicurare la purezza , ritenuta ottusamente fragile ,  nessuna concreta espiazione si sarebbe realizzata.

    Un dannatissimo circolo vizioso.
    Una girandola che bruciava e bruciava futili desideri di pulizia…

    I due amici cessarono di sbattersi da una parte all’altra…Concludere qualcosa era impossibile.
    Si staccarono, sofferenti e schiumanti di stordimento, l’uno dall’altro…

    Death si avviò verso le mura orientali di Dioniso crepitando gravemente…     

    - Non voglio pensare, Aphro…- raspò  con voce da demone condannato - io sono morto…ho deciso di ammazzarmi…Agata… Agata era troppo.

    Lo svedese lo squadrò colmo d’accigliata afflizione:

    - Troppo?Troppo per tentare di non finire a pezzi?!

    L’amico si fermò bruscamente e si girò congestionando :
     
    - Il cielo…Lo puoi toccare?! No! Il cielo non lo tocchi neanche se voli nell’atmosfera, neanche se esci dalla Terra e neanche se viaggi tra le galassie! Il cielo non potrai mai prenderlo…Non lo avrai mai tra le mani!

    Aphrodite annuì in silenzio, placandosi con tetra tenerezza.

    - Già…- disse dopo un po’- è  un infinito che non perdona.

    Il volto di Cancer dipinse un’ombra meditabonda, un’ansia rassegnata e sottilmente impaurita…

    - Che destino…- ridacchiò sgonfio e annerito-  ti rendi conto che il frammento d’infinito che ho dentro…mi serve solo per evocare le anime dall’Aldilà? Dimmi, Aphro…come posso fermarmi a pensare? Io sono spacciato.

    Il sole iniziò a sgusciare a levante, versando le leggiadre palpitazioni dei raggi  sul  Mediterraneo annaspato e sulla mummificata natura di natron verdastro.
    Gli occhi mareggiati del Cancro si ferirono di sciabordii arancioni, addolcendosi depressi in una nobiltà perduta e ripudiata.
     
    - Nel paradiso c’è troppo ossigeno…Io vivo tra i vulcani…Non voglio più amare. Se riprendessi a respirare…finirei di esistere anche nella morte.

     

     

     

     


    Note esplicative:

    Kamikaze*: in questo caso non è inteso nell’accezione di “ terrorista suicida” ma nell’originale significato giap. di “ kami” divinità scintoista+ “ kaze” “ vento divino” .

    nave shuinsen*: navi mercantili a vela giapponesi dotate di armamenti che potevano viaggiare nel XVII sec con un permesso distribuito dallo Shonugato Tokugawa. Tale permesso era un sigillo rosso, appunto lo“ shuinsen” , il “ sigillo vermiglio”. La kamikaze prende come modello questo tipo d’imbarcazione. 

    ponte di coperta*:  ponte che copre la parte superiore della nave.

    boccaporto*:  apertura quadrangolare sul ponte della nave che immette nell’interno o nelle stive.

    hakama*: indumento, indossato sopra il kimono, usato anticamente dai samurai per proteggersi le gambe quando cavalcavano. ( esistono quelli aperti sul davanti e quelli a forma di gonna per le cerimonie e le arti marziali. Taka indossa quello aperto tra le gambe dei samurai )

    tatami*: dalla voce giap. “ stuoia” , nel judo ( e nelle arti marziali) materasso che viene adoperato per gli allenamenti e per le gare.

    kanji*: sono i caratteri di origine cinese usati nella scrittura giapponese per rappresentare le varianti morfologicamente invariabili delle espressioni e buona parte delle radici dei sostantivi.


    Note inerenti ai capitoli precedenti:

    - Vorresti vagare come quel cane miserabile di Ohen? *: vedi CAP 3- l’aspro viso della lotta ( prima comparsa di Ohen) ; CAP 4 – fuga nel buio, CAP 5- conchiglie di storie: cercando l’orizzonte, CAP 14 – gli ultimi rintocchi dell'uragano


    - sta sera non so se voglio andare a quella festa, lì alla villa di Emma…* :  vedi CAP 7: la rosa e il teschio
    - Non dirmi che t’intrippi ancora per Artemis?* vedi sempre CAP 7.


    Nota importante sul cap 18: l’età di Pandora è stata modificata ( a quattordici anni) per ragioni di coerenza temporale…( scusate la grezza, ho apportato questa correzione ragionando sull’entrata in scena di Ikki…)


    Note personali:

    ciao a tutti!!! Perdonate l’irregolarità dell'uscita dei capitoli dell'Occhio dell'Ariete!! >.< avrei dovuto aggiornare a febbraio ( essendo bimestrale) ma col fatto che ho concluso a gennaio una fic su Lady Oscar, col fatto che ho scritto il cap 3 di Io, figlio dell'inferno, col fatto che ho fatto tre esami si è tutto sballato…e ahimè si sballerà ancora un pochino…
    Ho deciso di concludere una storia ( sempre su questo fandom) piuttosto vecchiotta che languisce da troppo e che dovrei postare ( incrociamo le dita) tra aprile/ maggio…
    Di conseguenza Io, figlio dell'inferno e L’occhio slitteranno…Non dovrete aspettare chissà quanti mesi…Direi che la situazione si stabilirà tra maggio/ giugno XD XD

    Spero che stiate apprezzando gli sviluppi di questa ingarbugliata avventura…In ogni capitolo spunta fuori qualcosa di nuovo…Avete  visto comparire Ikki e il suo simpaticissimo papà Taka! Essendo un AU con marchio di certificazione WHAT IF  ho apportato alcune modifiche cercando tuttavia di attenermi, per diversi aspetti,  alla trama originale...Ovviamente molte cose qui non sono state spiegate al 100% ma verranno appositamente svelate  nel susseguirsi degli eventi…le matasse si devono sciogliere gradualmente ^^ Ho desiderato presentare questi due nuovi e importantissimi personaggi nel loro travagliato e buio rapporto…Ikki e Takashi li vedremo in azione nel prossimo capitolo ( con tanto di descrizione delle loro armature ;) lasciate come chicche ) e inoltre…stop! Non spoilero altro!

    La parte di Death e Aphro doveva essere nel cap 20 ma è stata anticipata qui! ^^ ho voluto introdurre  la psicologia più sofferta di questi due ragazzi che non hanno fatto delle gran figure nei capitoli precedenti…XD non scordatevi i nomi di Artemis e Agata…soprattutto Artemis…

    Spero che possiate continuare a gradire! Ce la metto sempre tutta!

    Un mega grazie per la pazienza con cui seguite!!

    Un salutone!! ^____^

     


     

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    Capitolo 33
    *** CAP 20- veleno di luna: driade dei fiori polari ***


    CAP 20 -veleno di luna: driade dei fiori polari

    “ Io, ti adoro al pari della volta notturna,

    o vaso di tristezza, o grande taciturna,

    e t’amo tanto più che mi sfuggi , bella,

    e tanto che mi sembri, ornamento delle mie notti,

    accumulare più ironicamente le leghe

    che separano le mie braccia dalle immensità azzurre.”

     

    ( C. Baudelaire)

     

     

     

     

    C’era una volta, nel grande Nord degli oceani ventosi e algidi, una landa sconfinata e muta.
    Nessun lacrima di vita osava nascere in quella marea bianca di morte e verginità d’inedia…L’oblio fiaccava speranze di fantasia abbracciandosi a un cielo che rendeva il Sole un viandante inaffidabile…Durante le estati il giorno si oppiava in un sonnambulismo rosato e spoglio di canzoni dorate…Durante gli inverni la notte gocciolava una salatura d’aceto che flautava per giorni interminabili…
           

    -  Guarda, piccola…guarda questi colori…non sono incredibili?

    Pericle coccolava i boccioli dei roseti con mano delicata e possente…

    La figlioletta era innamorata del suo viso di latte fresco, assottigliato da una fatica cristallina, accaldato da un sorriso di  falegname…Non esistevano che quegli occhi marrone scuro come castagne montane, che quel naso solido e un pochino arcuato di dantesca malinconia…Non esistevano che quei capelli lunghi rosso sangue, corde di un mandolino acuto e frangibile.

     
    Un giorno un uomo  dalla bellezza imponente, esausta e perspicace  decise di soverchiare le leggi del gelo e della morte.
    Egli era medico, botanico, mago. Era uno scienziato rivoluzionario. Proveniva dall’Islanda dei vulcani bianchi ma aveva appreso le sue conoscenze nella terra dei numi d'Olimpo: la Grecia che regnava sul turchese Egeo.
    Nel curare le genti delle steppe, residenti in villaggi dalle tende emaciate, bramò di creare una città nuova… Un paradiso di verdi meraviglie.  

     
    Nel cielo si fluidificavano il blu e il nero della notte polare, eppure le rose erano incandescenti nelle loro lamelle da conchiglie bianche, rosse, gialle che piangevano neonate…Le foglie dei cespugli mostravano  tumidi disegni di striature, lische di pesci smeraldini e paffuti…La bambina si divertiva a crederli copri capi  di selvaggi  che ascoltavano il papà, il sovrano di quel giardino concepito con aritmetica armonia…

    -   Questi profumi non puoi vederli –  rivelò Pericle –  non puoi toccarli ma  volano nell’aria troppo fredda e portano luce.

     
    La piccola lo studiava in silenzio, con la coda di cavallo che guizzava in un instabile splendore scarlatto.
    I suoi iridi chiarissimi erano stagni argentati di comete che  tastavano ogni meraviglia, ogni respiro che si elevava misterioso sotto la volta della Groenlandia.
    Si grattava le guance lunari e finemente floride per scrollarsi un pulviscolo di perplessità…Voleva avvicinarsi al padre, vedere il giardino dalla prospettiva trionfale della sua altezza…
    Si sentiva smarrita immersa in quegli enormi bulbi contaminati dalle camme delle rose, girandole di fazzoletti che non spiegavano ancora  ricami ammorbidenti…

    Era quello lo scopo della bellezza? Colmare l’animo d’ infinito per svelare la piccolezza delle mani che non afferrano mai pienamente?

     
    Il nobile Archiatra chiamò altri sapienti e abili artigiani e, assieme alle loro maestrie, prese a erigere, sulle spianate ibernate , luccicanti palazzi e dimore: stradine perfette e vellutate tracciarono il suolo e robusti mattoni  offrirono  mura in cui scaldarsi e gioire.
    Il miracolo che sfavillò al di sopra di ogni sogno fu la creazione di un’immensa struttura, un tempio a cielo aperto che cullò impensabili organismi…
    Un diadema di giardini lasciò  schiudere etnie floreali, lacrime di arcobaleno che rifulgevano le cromature più disparate. In quel tripudio d’anomala primavera, spiccavano principesse dalle impareggiabili vesti olezzanti…
    Erano le rose, gonfie e insaziabili di morbidezza.

    - Papà…voglio vedere tutto il giardino!

     Pericle si avvicinò alla figlia e la sollevò imprimendole un bacio sul viso.
    Lei gli avvolse  il braccino attorno alle forti spalle e finalmente  poté contemplare quella selva che si stendeva a forma di falce similare a un maremoto di pacifico silenzio… All’orizzonte, su una collina cotonata di quadrifogli e menta, si ergeva un tempio latteo dalle colonne corinzie e ioniche…Sotto il tetto, di tegole e coppi rosati, sonnecchiava una nicchia in quarzite che ospitava una statua di Artemide, la gemella di Apollo regina dei boschi e della luna

    -  Allora? – domandò l’uomo alla piccina – come ti sembrano le rose adesso?

    - Sono tante chiocciole che dormono e che hanno il colore della frutta e delle farfalle…C’è rosso, giallo, rosa, bianco…

    La bimba girava il faccino da una parte all’altra incantata ma al contempo buffamente dispiaciuta…Tentava di scrutare qualcosa che non riusciva a materializzarsi…
    Il padre la scosse con tenera curiosità:

    - Cosa cerchi, tesoro? Pari preoccupata.

     La figlia piegò la bocca severamente.

            - Mancano le rose blu.      

     
    Il mago dell'Islanda coltivò la corolla di ciascun fiore affinché la gente potesse gustarne gli aromi e proteggersi dai malanni corporali…Nei petali e negli steli ricavava la linfa di efficienti decotti e unguenti trovando le somme per comporre note sconfinate di profumi…
    Il più speciale lo creò dall’essenza di virgulti caldi di uno spessore che pareva fatto di glassa ma anche dell'asprezza tersa del vetro…Donò la fragranza delle rose blu all’unico astro che mai si spegneva: la sposa che attendeva  l’arrivo della loro piccola.

     Pericle rise uguale a un ruscello che rabbrividisce tra la primavera e l’inverno, con la brizzolata gioia di trascinare petali o satinarsi di ghiaccio.

    -  Il blu è il tuo colore preferito?

    -  Beh…- rispose la piccolina- non proprio…tutte le luci profumano e quando giochi con loro nessuna è identica all’altra…il blu però è la pittura più strana.

     - Perché? 

    -  Brilla molto ma è un po’ triste…è lo stesso di quando tu chiudi le finestre della mia camera e dai la buonanotte…non ci sei più e rimango sveglia…poi sento il rumore del mare che spacca le rocce e ho paura.

     Il padre pizzicò la gota alla bimba:

    -          Il blu è un colore un po’ difficile da capire.

    -      Secondo te nasconde qualcosa, papà?

    -          Chissà…può darsi…a me piace immaginarlo come la sera.

    -          Cioè?

    -          È dolce visto che non ha il nero della notte più buia ma…devo ammettere che ha anche la freschezza dell’aurora…sorride dopo che il sole va a dormire e piange prima che lui spunti.

    -          Ma allora il blu ha paura del mattino?!

    -          In un certo senso…teme di sbiadire, di sciogliersi.

    -          Tale e quale a un lago che si secca?

    -          Già…oppure può somigliare ad una galassia che si ritrova senza stelle.

    -          Che si deve fare per tranquillizzarlo?

    -          Fargli vedere fiamme senza bruciarlo, fargli sentire solo caldo e lasciarlo giocare con l’oro delle candele.

    -          Crescono così le rose blu?

    -          Sì.

    -          La mamma faceva come te?

    -          La mamma…era una rosa blu.

     

    Aspasia fu la prima che godette della magia di quel fiore un po’ inquieto, indeciso di folgorare oltre il crepuscolo o al confine dell’alba…Era di un colorito cupo, abbacinante , di una liscezza antica e vagamente impolverata.
    Incuteva ansia ma amore illimitato…Profondo: l’immensità affaticata e devota del marito.
    La giovane donna non cessò mai di aspergersi di quell’aroma, accompagnare con i suoi incantesimi, l’impossibile città di  fiori che si plasmava contro ogni perturbazione d’atomi congelanti.
    Adorava il suo Archiatra e la gemma che custodiva nel grembo.

     

    -          Vieni, piccola…credevi mi fossi dimenticato del tuo regalo?

     

    Pericle solcò i flussi maculati dei fiori, beccheggiando nella sfocatura luminosa di una tela impressionista. Nessun petalo si fendeva o precipitava dagli steli…La sua pesante tunica opalina frusciava quasi impercettibile, cospargendo un gratinato odore di mandorla e cera di candele.
    La figlia monitorava quella remata refrigerante, con l’entusiastica illusione di volare tra lo spettro terrestre e celeste simile a una farfalla di brina.
    Intanto il tempio di Artemide si avvicinava leggerissimo, di una nebbiosità farinacea, d’ovatta…

    -          Mi stai accompagnando dalla mamma?

     L’uomo ombreggiò con dolcezza le sopracciglia.  

    -          A quanto pare hai scoperto dove la proteggo.

    -          Vedo che ogni mattina porti delle ampolle speciali…le stesse che usi per innaffiare i fiori più rari.

    -          Posso  o non posso creare il tuo giardino degli incantesimi?

     La piccina abbassò lo sguardo con un’afflizione imbarazzata.

    -          È per non farla piangere, vero?

    -          Cosa vorresti dire?

     
    Aerarono attimi di silenzio.
    Solo le gambe lunghe di Pericle crepitavano tra i fiori, giungendo al pronao del santuario selenico.

     -          Papà…è colpa mia?

     L’uomo posò a terra  la bambina…la guardò sospirando con delicata severità, posando le mani sui fianchi:

     -          Quante volte ti ho ripetuto che non devi dire queste cose?

     La figlia si attorcigliò i capelli attorno alle dita per legare i tremolii che le peregrinavano dentro.

     -          Non voglio che la mamma sia arrabbiata con me.

    -          La mamma ti ama tanto.

    -          Ma io…le ho avvelenato la pancia.

     
    Nel mese di marzo, sotto il candore pietrificato del sole primaverile, la giovane avvertì la bambina agitarsi impaziente…
    Era giunto il momento.
    L’addome cercò di cullare il dolore, accogliere le spinte soffici della nuova vita ma qualcosa di  sinistramente corrodente inquinò quella discesa.
    Un profumo pungigliato di foglie frastagliate, petali che evaporavano e si materializzavano sericei in una squartante ariosità…
    Frastuoni liquefatti, magmatici e annichilenti come la leggerezza tramortente dell’assenzio trivellarono  la linfa del ventre…
    L’Archiatra, disperato, si vide sfuggire dalle mani la luce argentata degli occhi di Aspasia: il talento lenitivo che gli scorreva nell’animo si congiunse al ruscello di lei che s’essiccava eguale ad una sirena moribonda su una baia.

     Una creatura di piangente veleno affiorò   dalla soave spelonca martoriata.

     
    -          
    Tu non puoi avvelenare la vita. La difendi.

     Pericle sorrise alla figlia  chinandosi e afferrandole il visetto tra le mani.

     -          Il mio sangue…- balbettò lei – ha il veleno…e io…io… posso fare male alle persone.

    -          Il tuo sangue è speciale e io lo sto trasformando…Diventerà presto dolce perché ha la brillantezza delle rose…il loro potere.

    -          E …guarirò?

    -          Tu non sei malata.

    -          Che cosa c’ho, allora?!

    -          Una bellezza da liberare. Un profumo che diventerà blu e  volerà bianco.

     
    La bimba si lasciò prendere dalla mano del padre che la guidò sotto la volta cassettata della navata centrale.
    Sotto il naos di Artemide,  stava una botola che respirava acqua tremolante che in realtà era una scacchiera sudante di quarzi blu.

     Pericle tracciò su di essa un’invisibile linea d’aria…
    Le pietre si sciolsero in un ingorgo scuro che svanì per far comparire una rampa di scale  granitiche.
    La piccola venne accompagnata adagio nel silenzio scrosciante di marmo lucido.

    Al termine della gradinata si aprì un immenso atrio circolare: un lago che s’opacizzava in schiuma lattescente per tornare a farfugliare note limpide…mare che si mischiava a panna disciolta, crema di ghiaccio che si fondeva a lacrime adamantine…Al centro un piedistallo cilindrico con la statua in alabastro di una bellissima donna:  Aspasia-Artemide,  una creatura dai lunghi capelli avvoltolati in una treccia ventosa e un viso dagli occhi grandi, obliqui, leggermente proiettati verso i riflessi dell’acqua..

    La tessitura più spettacolare era data  dalla rigonfia cintura di rose blu che orlavano il bordo del bacino simili a gusci di molluschi di zaffiro o a trombe di tritoni…
    Alcuni boccioli parevano muoversi come ieratiche membra di mantidi, altri si vergognavano a schiudere le loro vellutate sottane…
    La bambina si accorse che dalle colonne corinzie che reggevano il soffitto  pendevano strascichi di edera e altre rose blu…tante driadi che scuotevano chiome ornate di fermagli preziosi…Parevano sporgersi dolcemente per darle il benvenuto e giocare nella fragranza misteriosa delle corolle.
    La cupola della stanza era di vetro possente ricamata con l’effige di una rosa geometrica che orientava  le cromature della notte e dell’aurora boreale.

     Pericle vezzeggiò i capelli della figlia:

     -        Nel tuo sangue c’è il veleno, è vero…ma il rosso userà il suo profumo per proteggere le cose belle e la luce.

    -          Ma  sarò sempre…velenosa?

    -       Tu sei una rosa e dovrai usare le spine per difendere le persone…il veleno sarà veleno solo per chi vorrà fare del male.

    -          Riuscirò a far nascere  fiori?

     La bambina sorrise ansiosa e un po’ oscillante…

    Il padre rispose con un calore enigmatico e sidereo.

     -       Tu continuerai a far nascere i fiori…sei bianca come la luna e ti muovi guardando il sole e correndo attorno alla terra…tu sei Artemis. La mia Artemis…la driade delle rose.

    La fiaba terminava e lei imbruniva d’immobilità…
    La fiaba scoloriva e lei smarriva neve nella gola…

    Il passato era fantasia boreale: elettroni di sole si scontravano con la ionosfera terrestre per folgorare strascichi fluorescenti  e disgregarsi nel nero.  

    Compariva il vero suolo, il vero ghiaccio…
    Una lapide luccicava con un altorilievo che rappresentava una rosa e due asfodeli intrecciati ad essa.
    E lei tornava.
    Senza riverberi. Senza ritornelli da cantare.

    Lontana…

    Era la custode di una canzone vecchia che ripeteva nella mente per imbrattarsi di una luce divenuta menzognera: il  desiderio di incontrare suo padre…suo padre troppo sottoterra e troppo in cielo per prenderla in braccio.
    Ormai era una regina. Un demone dalle ossa di quarzo latteo, dal sangue di sulfuree bacche, dalla pelle di serica nebbiosità…
    Era una dea con una maschera azzurra e bianca come urla acquatiche di geyser…Gli stessi riflessi ruscellavano lungo le superfici piallate di una panoplia d’argento: un bustino ornato da vortici d’ulivo rinchiudeva un torace sottile; una cintura di sibilanti foglie d’eucalipto si avviticchiava alla pendenza sinuosa di fianchi fermi ma danzanti;  gambali a forma di felci avvolgevano, simili a code di pavoni , due cosce da silfide ; un paio di parastinchi, che riproducevano ventagli d’acanto, esaltavano l’esilità dei polpacci e delle caviglie.
    Erano una guaina di sovrannaturale e salina angelicità… Un’opera che lumeggiava tra il medievale arabismo veneziano e la finezza dell’algidità romanica.  

     

    L’armatura della Driade Polare.
    Lo splendore insonoro e affilato che rivestiva un nome.

    Un’anima trasmigrata in brume di cenere: Artemis.
     
    Ormai era una regina.
    La protettrice di una città in rovina.
    Il paradiso costruito da Pericle , con miracolosa e devota fatica, era stato devastato sette anni prima  dalla selvatica ingordigia di tribù rivali: guerrieri accecati da un cinico pragmatismo di conquista, incuranti dell’essenza veritiera della bellezza…Assassini immuni ai bagliori di un regnante che come armi adoperava la musica dei fiori e l’intelligenza delle parole più solide.

     “ Padre…” rifletté baritonale la ragazza “la tua nobiltà non è servita a salvare Calleos, te, me…mi hai dato la tua anima creando un paradiso, sei stato un faro fondamentale per Aphrodite, cercavi di erigere dighe per stagnare il dolore e allontanarlo da noi…Tu eri il primo a ingannare. Volevi essere speranzoso  ma dentro non hai mai scordato la rassegnazione di vivere in un mondo controverso. Hai solo trasmesso sogni per fuggire.”

     

    Il Palazzo della Neve d’Oro, il centro cardiaco di Calleos, bruciava il cristallino scheletro di architravi gotiche e colonne floreali…Le fiamme azzannavano le pareti simili a caimani preistorici lacerandone la carne calcarea, ondeggiando grida di carbone tartareo …Prendevano le sembianze di una folla fanatica di preganti che si piegavano e si alzavano ai ritmi di una folle invocazione di distruzione…

    I legni carbonizzati crollavano analoghi a carogne di nibbi fulminati.

    La coltre di fumo strangolava ogni urlo violentando l’aria che tentava di evacuare dai polmoni…Un grigiore intenso s’infilava nelle narici ingrassando il sangue, scotennando le cellule della testa…
    Una narcosi di panico si dipanava verso le alture offuscate del cielo.

     Un uomo e due ragazzini tentavano di  difendere quell’ultimo pezzo di muscolo della città.

     
    -          Artemis! Aphrodite! Fuggite!

     Pericle s’inginocchiò  sul pavimento della sala centrale.
    La vista gli traballava anche se riusciva a distinguere le macchie del suo sangue che chiazzavano le mattonelle spaccate.

     -          Padre!

    -          Basileus!

     Immediatamente la figlia e l’apprendista cavaliere  lo affiancarono per sollevarlo...
    Le loro mani si lordarono dei macabri rantoli che il torace  carpiva   dal cuore…l’ultima sonata  che si preparava ad esplodere…

    -    Stanno facendo a pezzi tutto…- balbettò il ferito- è incredibile che la stupidità rachitica riesca a distruggere un universo…ma sono stato io il primo imbecille a  dimenticare che gli uomini adorano essere bestie...

    -      Padre! Penseremo io e il mio allievo a distruggere la Tribù di Danzica!

    -          Artemis…non ce la potete fare…è inutile.

     Aphrodite, pervaso dallo spavento e dal coraggio, protestò:

    -       Signore! Io e la Maestra Artemis creeremo una marea di rose velenose contro i nemici! Moriranno tutti!

    -          Custodite il vostro veleno per curare i sopravvissuti…

     Artemis si strinse di più al padre, esclamando:

    -       Calleos sta per morire!

    -     Gli uragani non si possono fermare…sono vento ottuso, cieco…credi guarderanno due poveri fiori che tentano di difendere una serra di cristallo?

     L’apprendista cavaliere sgranò gli occhi azzurri in una glaciazione luttuosa .

    -          Allora…è stupido combattere?

     Pericle reclinò il capo in avanti, cercando di suggere un ossigeno ormai affranto…
    Artemis gli  raccoglieva moribonde salivate di luce dagli occhi.

     -    È stupido avere delle rose? – insisté il ragazzino – le piante che abbiamo fatto nascere…sono roba stupida che non è capace di resistere a niente?!

    -   Stai zitto! – esclamò la fanciulla – abbiamo versato tanta acqua per far sbocciare  microbi senz’anima?! Non dire idiozie e aiutami a mettere al sicuro il nostro re!

    -          Andatevene via…Artemis…

     L’uomo allontanò con aspra e dolce premura la figlia e l’allievo.

     -          Non fermatevi – fece con voce ingrinzita dal gelo – lottate…lottate senza diventare assassini…senza diventare giudici sleali…Siate guerrieri, non selvatici tagliagole…i vostri veleni sono farmaci che devono debellare ogni male…

     Un’ aureola rossa prese a vorticare tra le mani dell’archiatra come un pesce dalla lunghissima coda fiammeggiata.

    -          I fiori appassiscono e rinascono…i colori tornano nell’arcobaleno dopo la pioggia…La vendetta non è il soffio vitale di alcun suolo…se continuerete a raccogliere i riflessi dell’aurora tutto ricrescerà.

    -          Padre!

    -          Soffio scarlatto di ponente!

     Un mulinello di petali e foglie sanguigne avvolse Artemis e Aphrodite, conducendoli via in piroette che musicavano odore di requiem demolente.

     
    Ti sei distrutto per annullare la sterilità delle tenebre, continuando a sentire la paura di non risolvere niente…Non capisco, padre: ti angosciava tanto l’idea di non credere? Desideravi nutrirti di fantasia anche se in fondo ti torturava la rinuncia al realismo? Cos’è che non mi hai rivelato della bellezza? Che è una rosa che si attorciglia nell’attesa di morire? “

     La sacerdotessa s’inginocchiò accarezzando la lastra sepolcrale…tastò i fiori scolpiti che abbarbagliavano  della scartavetrata umidezza dell'inverno.

     “ L’uomo non è perfetto eppure riesce a produrre arte perfetta: è un dono crudele per renderlo un dio incompiuto? Questo è incoerenza, mistero malvagio…ma non importa.”

     Si alzò con la coda di capelli che gorgogliava simile ad un succo di ciliegie appassito .

       Continuerò a sollevare ogni maceria, a coltivare ogni pianta…C’è la tua tristezza tra le rovine, la tua ansia…i battiti del tuo cuore che mi hanno appannato, nutrita, abbracciata al di là del cielo. “

     Si diresse verso l’uscita della necropoli dove svettava all’orizzonte una strana cinta di simulacri, un baluardo di spade anoressiche, arrugginite, ornate da protuberanze di miceti malarici strizzati da vipere spinate.

       Papà…ho infranto il tuo patto. Non ho voluto mantenere nessuna promessa...”

     Giunse davanti la barricata che delimitava il cimitero.

    Titaniche croci infilzavano  la pelliccia calcificata del suolo.
    Teschi , dalla corteccia di fanghiglia rattrappita,  si raggrumavano attorno ai fusti di legname…erano collane abbrustolite di spettrale cannibalismo stordite da un viluppo di arterie ossidate. Rovi verdastri intrappolavano quei residui umani, soffocando le orbite vacue e le mascelle di gridi  muti con rose nere e rosse: una natura morta che iniettava tenebre aromatizzate di maggio nella mummificazione delle asme invernali.

     Quell’intelaiatura di spappolamento floreale non era che opera della vendetta.
    L’impastatura incenerita e scuoiata dei nemici di Calleos.

     “ Lo so che non accetterai mai la mia guerra…lo so che sei disgustato…non ti chiedo né di perdonarmi, né di comprendermi.  Voglio solo dirti che ti ho amato tanto e che ti amo anche senza più lacrime da bere…è orribile che il tuo sogno prosegua in questo modo…Credimi…almeno potrà diventare immortale al contrario di questi luridi mucchi d’ossa, potrà diventare reale per me che sono sepolta…per Aphrodite che non riesce a comporre la propria anima. “    

    Osservò con incantato ribrezzo la lasciva seraficità delle rose che vampireggiavano sui cadaveri: un sublime e beffardo insulto al decadimento, una strafottenza incosciente verso il sudiciume  della disgregazione.
    I petali esplodevano  con spudorata dolcezza da bocche di dentature striate di carie, da occhi ormai sbriciolati…
    Era incredibile di come il cavaliere dei Pesci riuscisse a emanare il suo spettro seducente su una scultura piena di bollature marcescenti.

    “ Già…Aphrodite…è tutto terribilmente sconnesso…Non so se in questi anni ci siamo avvicinati di più o terrorizzati a vicenda…Ogni nostro sguardo è una sfida che resta incompiuta, inacidita. Dovresti vederlo papà…è un bellissimo ragazzo. Ricordi che quando era piccolo dicevamo che somigliava ad Eros? Con quei boccoli che non sai se si dissolvono in foschia o si polverizzano in duri lapislazzuli, con quegli occhi azzurri infiniti , deperibili come il mattino…Le sue labbra hanno poi sfumature così  instabili: sanno inumidirsi di un rosa scuro e assiderarsi in un cobalto pallidissimo. “ 

     Si strinse le braccia con sensuale e iraconda vergogna, simile alla dea Artemide sorpresa nell’intimità di un bagno.
    Sentì la testa incendiarsi al pensiero di quel duello d’addestramento avvenuto a fine settembre, prima che l’allievo partisse per raggiungere Death Mask in Sicilia*…

     

     Un silenzio cristallifero alcalinizzava l’asprezza della pietra tesa…
    L’Odeon delle Ninfe balenava tra substrati indorati e cenerognoli…
    Statue di fanciulle semi velate, dai calidi sorrisi infantili e dai riccioli di letizia corinzia, reggevano calderoni  di cipree decorando l’anello superiore dell'arena.

     Gli allievi erano assisi sulle gradinate di ghiaccio rigate da tendini cerulei: irrorati dalle aureole acquitrinose delle fiaccole parevano un collegio di angeli di cera, sculture di un altare barocco che si deificavano in una dolce e luttuosa ansietà di chiaroscuri.
    La luna polare si era impadronita dell'orizzonte da quasi un mese, col suo diametro di cartone platinato, col suo incantesimo anacronistico di rimestare le ore del giorno e del buio in una pozione di minuti scombuiati.

    Al centro della scena innevata si fronteggiavano un androgino fante di velluto e una fata mascherata dalla  chioma rosseggiante. 

    Potevano essere eroi malinconici di un dipinto preraffaellita, talmente erano pregni di un medievalismo arboreo, di un’opalescenza traslucida.

     Aphrodite fissava la Maestra Artemis con freddezza eterea e inebriante, lasciando che l’azzurro degli occhi limasse saette d’effervescenza: le pupille nere si ferivano contro la fosforescenza degli iridi chiari mentre la ciglia nere suggevano,taglienti e flessuose, bagliori ghiacciati…Le belle labbra erano sigillate in una lattescenza perlacea quasi stessero attendendo un bacio più intenso delle emorragie del vespro.
    I lunghi capelli cerulei venivano scossi dall’aridità argentea del vento artico, preservando la bacchica sinuosità delle onde.
    Una cotta d’addestramento attillata, color rosso cupo, proteggeva il corpo alto, snello del giovane tingendolo di una ieraticità profana decorata da linee vegetali ocra, ciocche di amadriadi che gli avvolgevano languenti il torace e l’addome.
    Due corazze bronzee forgiate a mo’ di foglie venate, marcavano l’elegante quadratura delle spalle e parastinchi e gambali, di doratura annottata, coprivano le gambe slanciate e aggraziate.

     Artemis si preparava a saggiare le capacità dell'allievo con un ‘acuminata placidità da puma, guardando da dietro la maschera che la rendeva un fantasma di ceramica nevosa.
    L’imbalsamante alienazione che espandeva il manufatto s’infrangeva, tuttavia,  con la morbida e venefica austerità  delle sue movenze.
    Una leggera armatura grigio tenue e turchese le inondava di liquidità ibernante le membra: spalliere a forma di petali vestivano gli omeri, un sobrio corpetto disegnava le rotondità piccole e tenere del seno,la piattezza del ventre e la sofficità dei fianchi…un paio di lunghi gambali blu, intarsiati da serpi d’edera, celavano le cosce e le tibie da cerva.
    Molti uomini si tormentavano cercando il modo più realistico e perfetto di scolpire la sua immagine . Solo le ancelle più intime l’avevano vista senza veli e ne narravano, invidiose e stregate, lo splendore immacolato.
    Una simile creatura non poteva che avere come discepolo il custode della costellazione dei Pesci, il demone dall’inquietante soavità bisessuale che turbava animi femminili e maschili.  

     Camminando lento, con fine e leggiadra prepotenza, levò il braccio destro…
    Fece danzare la mano quasi stesse coccolando i capelli di una donna d’incenso…

     Una spuma rossa maculò l’aria volteggiando eguale al velo ricamato di una danzatrice ispanica che dilata profumo.

     -          Royal demon rose!

     L’adolescente si fletté in uno scatto atletico estendendo una girandola di diademi sanguigni, una ragnatela verde imperlata di rubini che trafisse la basicità dell'attesa.

    Artemis fulminò in alto disegnando anelli inargentati e celesti di capriole.

     -          Twilight crying rose!

     Una falce di un blu luminoso squarciò improvvisamente gli strati delle nubi e una cascata di aculei spumeggianti sgorgò dai lembi del taglio.

    L’arena si trasformò in un oceano ansimante e carbonifero di flutti di petali: il cremisi e il blu s’incrociavano, si mordevano, si carezzavano in schizzate di selvaggia raffinatezza…Sembrava che l’imperatore Eliogabalo avesse deciso d’annegare gli ospiti di un banchetto in una doccia di letale  lussuria.

     I duellanti si proiettarono l’uno verso l’altra emergendo e sparendo tra le ventilate dei coaguli delle rose.

    Simili agli zefiri che avevano accolto la nascita di Venere, accesero cerchi di frenetico bolero  scagliando siluri spinati: sibili di tormentata primavera che si sfioravano e si sfregiavano.

    -          Sunshine breath!

     La guerriera spinse in avanti gli avambracci tuonando bionde rose accecanti, screziate di bianco, quasi stesse eruttando i filamenti del dna dell'aurora.
    L’Odeon delle Ninfe venne innaffiato da sventagliate d’arcobaleno metallico.

    -          Piranan rose!

     Aphrodite soffiò uno sciame monacale di corolle nere, falene di seta funebre  che ruotarono sbavando foschia d’ossidiana…
    Un’enorme arteria frantumò le catene dorate creando un pulviscolo d’eclisse vulcanica, brincello di cenere e biglie di lucciole che si stordirono nell’aura.
    Artemis interruppe il farfugliamento dei fumi analoga ad un cigno di sangue e gelo.

     -          Snowy rose flood!

     Una burrasca di molecole di lanosa lindezza sbiancò il cielo, stridendo come un esercito di rapaci bianchi.
    Aculei di lattescente gesso precipitarono sull’apprendista che si schermò innalzando lunghissimi boa di rovi dal ghiaccio…

     Miriadi di spruzzi candidi balzarono sul gomitolo dei pungiglioni.

     La sacerdotessa guerriero stette per infliggere un altro colpo quando , tutto ad un tratto, un brivido non la trapassò dal cranio alle viscere.

    Una gigantesca fitta all’addome la svuotò e le pareti delle interiora parvero diventare le mattonelle vizze di un deserto.

    Ansò di delirante secchezza, con l’aria nelle arterie che si cristallizzava nella gola del sonno…
    Aphrodite dissolse la barriera di spini e le corse incontro mentre la realtà  s’adombrava in un nugolo silenziatore.  

    Trascorse un’ora di sorda cecità…

    Solo i palpiti del cuore e il sangue che circolava nel cervello tracciavano macchie violacee, ectoplasmatiche che razzolavano sotto le palpebre…
    Niente sogni ma solo aloni soffusi di nausea…

    -          Divina Artemis…Divina Artemis…

    -          Signora…riuscite a sentirci?

     La ragazza riuscì a captare in modo disciolto le voci delle ancelle senza ancora aprire gli occhi…
    Avvertì sotto il dorso la lieve solidezza di un letto tiepido…
    Si accorse che le avevano tolto la maschera e la corazza:a coprirla solo la calzamaglia e uno scamiciato di fine lanugine.

    -          Do…dove m-mi trovo? – balbettò.

    -          Siete nel vostro palazzo… nella camera delle Felci Albine…

     Era l’antro destinato al rilassamento e alle cure rigenerative…
    La giovane aprì pesantemente lo sguardo.

    -          Vi ha portata qui il vostro allievo Aphrodite – continuò la serva.

    -          Sta attendendo fuori- mormorò un’altra.

    -          Insiste nel vedervi…è molto preoccupato.

      La sacerdotessa si mise a sedere lentamente, ancora un po’ frastornata.

     -     Vi ringrazio…- rispose flebile – direi che potete ritirarvi e andare a riposare…credo di riuscire a  rialzarmi…

    -          Non è meglio se vi accompagniamo nella stanza da letto?

    -          No…tranquillizzatevi…fate  entrare Aphrodite e lasciateci un attimo soli.

     Ordinò la maschera e celò il bianco viso stanco: una patina d’imperturbabile argento che si sovrappose ad un’esangue patina di durezza.

     -          Maestra Artemis!

     Le servitrici aprirono  la porta al ragazzo: si era tolto la cotta e le spalliere d’addestramento per restare con una blusa bordò.
    Si avvicinò al giaciglio dove sedeva la fanciulla.

     -   Mi dispiace rinviare il nostro addestramento, Aphrodite…- espresse ella delusa e rammaricata – abbiamo trascorso giorni e giorni a prepararci…è molto importante. Questo duello fa parte dei tuoi ultimi esercizi da apprendista…

    -       L’unica cosa che conta adesso è come ti senti! Sei svenuta di colpo e il tuo cosmo non presentava alcuna lacuna degenerativa! È stato un lampo!  L’energia ti è svanita alla velocità del suono!

     Si chinò di fronte alla donna prendendole le mani.

    -          E’ veramente  strano, Maestra…sei sicura di stare bene…sul serio?

    -          Non occorre allarmarsi più di tanto.

     Con rigidezza infastidita, la sacerdotessa si sottrasse dall’apprensiva stretta del ragazzo.

    -          Maestra. Cosa ti sta succedendo?

    -      È stato soltanto uno spossamento. Ultimamente il cosmo che sfrutto per curare le piante morte è  parecchio…Sto rivitalizzando la cinta dell'est per ripristinare la vecchia barriera difensiva. Possono capitare questi ammanchi. È normale.

     Si alzò dal letto facendo echeggiare i passi sul pavimento laccato di verde leggero.
    Il giovane la squadrò scettico e  mordace  incrociando le braccia sul petto.

    -     Certo. È normale adoperare il proprio potere per salvaguardare un equilibrio…ma tu lo non stai adoperando. Lo stai massacrando e non per restaurare una barriera protettiva.

     La ragazza si bloccò voltandosi con cupa lentezza.


    -        Hai intenzione di allestirmi un processo?

     Lo svedese aggrottò irosamente le sopracciglia:

    -          Sono stufo delle tue sparizioni! È da mesi che ti rechi, la sera, al tempio di Selene e ti incarceri per ore! Non capisco che combini!

    -          Ah. Ora fai le prediche alla tua Maestra?

    -          Puoi pure non raccontarmi e non farmi vedere nulla ma dentro di me scorre anche il tuo sangue. Ti sei scordata che ci scambiammo a vicenda le nostre linfe nei Rituali delle Primavere Scarlatte?! Hai giurato di guidarmi, donarmi la tua continuità…legarmi alla tua luna!

     La driade fronteggiò l’interlocutore con aria da Circe canzonatrice.

    -       È stata la prassi dei miei obblighi ragazzetto. Per Selene e per Atena devo formare il dodicesimo cavaliere dorato, renderlo potente e completo. È sorprendente la tua abilità di rimbecillimento: confondi la sacralità dei doveri con sciocche promesse d’amore. Sfiata le tue dichiarazioni romantiche altrove. Non hai l’imbarazzo della scelta con tutte le sgualdrine che ti fanno divertire tanto?

    -          Il tuo canovaccio da guerriera fiera e surgelata è alquanto scadente. Sei una patetica ballista.

    -          Ricorda il tuo ruolo, idiota.

     Aphrodite si avvicinò pallidamente  minatorio:

     -      Ricorda la verità, maledetta! Tutto il mio addestramento, qui a Calleos, non è stata solo una strada divina! Tu e tuo padre siete stati la mia seconda famiglia, l’unica che avrei mai voluto possedere, amare! Per me tornare in Svezia era ed è un supplizio. Adoro mia madre ma non mi fido di lei, delle sue parole. Conosce l’arte ma non è degna di essere ritratta su alcuna tela. Mi accarezza e copre gli occhi. Tradisce quel deficiente di mio padre e potrebbe rubare mariti a tutte le donne del mondo... Mi ha stordito con la sua seduzione, con l’insegnamento di catturare la certezza breve ma intensa del godimento. Lei è come  “ La Traviata” Violetta con la differenza che non si è mai ammalata d’amore… È rimasta incompleta, sottosviluppata. Non capirebbe quello che provo per te.

     La vestale gli diede spregiativamente le spalle.

     -     Le tue lamentazioni sono sempre commoventi. Le conosco bene. Ora lasciami. Ho bisogno di riposare.

    -         Finiscila di chiuderti nel tuo stupido guscio! Il tuo sangue urla dentro di me, urla di dolore! Anch’io sto malissimo, Artemis! Dimmi che succede nel Tempio di Selene! Dimmelo, adesso!

     Il ragazzo la ghermì  efferatamente  per un braccio.

     -          Basta! – esclamò lei – Silver specturm thorn!

    Aphrodite scansò la raffica di spine adamantine e scagliò velocissimo un dardo olezzante di sottigliezza smeraldina.

    La maschera della ragazza roteò scheggiata nell’aria.

    Una rosa dai palpitanti petali vermigli si era incastrata nel pavimento.

     -          Allora, Maestra? La pelle del tuo viso non respira più libera?

     Artemis si coprì con repentino e cereo tremore il volto. I capelli le scivolarono innanzi con sinuosità spaesata , bagnati da una pioggia gelata e  invisibile.
    L’allievo le si accostò con rancore commisto a mesta passione, con l’angoscia che turbinava dentro una sete carnale di protezione.

     -          Artemis! Piantala! Guardami negli occhi!

     La scosse convulsamente per i polsi ma ella gli sferrò una tremenda ginocchiata nel ventre.

     -          Nessuno deve vedermi – sibilò incollerita – non sarò prigioniera dell'animo di nessuno.

     L’apprendista ridacchiò:

     -          Hai ragione. Sei già prigioniera di te stessa. Non ti servono altre catene per strangolarti.

     Si rialzò per tornare all’assalto ma la giovane esclamò:

     -          Blinding blossom echo!

    Due sottilissimi nastri di petali trapassarono , con uno scroscio acido e ustionante,  la retina dell'’adolescente che gridò… Nonostante la vista momentaneamente ferita e fischiante riuscì ad avventarsi contro la Maestra e ad intrappolarla tra le braccia.

     -          Lasciami, imbecille! levami le mani di dosso o t’ammazzo!

    Aphrodite allacciò violentemente le labbra a quelle della ragazza, annientandole il respiro citrico delle parole, l’anidride soffocante della razionalità…
    Le cinse la vita e il torace imprimendola contro le lande riarse e tese dei propri muscoli che coprivano i rigonfiamenti del costato che ruggiva.
    La sacerdotessa gli piantò le unghie nelle spalle, scosse le anche nell’illusione di dimenarsi, opporre resistenza. Per alcuni secondi si convinse della sua rabbia, del suo orgoglio terrorizzato ma il veleno della bocca di lui le scivolò tra la lingua e il palato annegandola in una nebulosa di latte mandorlato. Immerse una mano tra i  capelli dell'invasore indecisa se stracciare quelle filature di cielo o se  fingere d’arare l’oppio dell'eden.

     Era rinchiusa nell’anello del desiderio.
    Non doveva farlo.
    Portava il nome della casta Artemide e aveva promesso brutalmente di preservare incontaminato e incancrenito il proprio ventre.

    Si stava assuefacendo tra le braccia di un uomo per giunta suo allievo.
    Era una sacerdotessa guerriero. Non una donna che navigava al sicuro sotto i raggi del sole.
    Era l’ombra di un involucro femminile. Non contava la torchiatura del cuore, quanto la deprimente contentezza di  non curarsi delle trebbiature terrene.

     Stava disintegrando tutto. Era tramortita dalla morsa forte di quel lottatore che scomponeva e derideva  il mosaico dei suoi principi.

     -          Aphrodite –  annaspò  agitata svincolandosi – vattene o sei finito!

     Lui sorrise dissuadendo tentativi di fuga. Con dolcezza demoniaca, la spinse addosso una grande colonna.   

     -       Minacciami quanto vuoi, Artemis – rispose rauco e carbonifero- muoio ogni giorno quando penso che deridi  la mia anima e la mia pelle.

     Le solleticò con logorata voluttuosità una gota leccandole lievemente la bocca.
    Le addossò il proprio calore esasperato in un tenero e dispotico tentativo di custodirla dal silenzio che albeggiava usurante sui marmi. Premette il bacino tra le sue cosce consumando carezze curiose e frustrate sulla calzamaglia…spostò i palmi delle mani solcando i fianchi con l’affanno di rorida argilla di un vasaio.

    Artemis avvertiva le catene delle vertebre fondersi nella pietra del pilastro, nella gelatura di grigiore smorto...Il suo addome veniva oppresso da quello del cavaliere che scottava la stoffa della camicia…Tra la sua batteria sanguigna  e il marmo minacciosamente massiccio, non definiva più gli sgocciolii della propria voce: erano gemiti d’arrendevole liberazione o singulti puerili che non accettavano fendenti erotici?

    Braccata dalle stelle taglienti e tagliate d’Aphrodite e dalle scannellature graffianti della colonna,la sacerdotessa tentava di riconoscere la sua spelonca…Perché si lasciava malmenare da quell’uragano? Si era consacrata al bianco della luna, a quel satellite depurato da tempeste, da colori, butterato da crateri scarniti di lava e zolfo.

    Era stato chiarissimo: servire due dee sorelle, proteggere la sopravvivenza delle persone, uccidere nemici ripudiando amnistie e misericordia. Portare acqua a valle restando la fonte ibernata di un monte.

     Non aveva desiderato più seguire stormi d’uccelli che inondavano di suoni le città alla ricerca di calore.
    Si era esiliata nel polline dei fiori polari: né  la tensione umana doveva corromperla, né la gioiosa sofferenza di un amplesso  resuscitarla.
    Quella purezza che corazzava l’utero era l’alone di un’innocenza irrecuperabile e svalutata, la bambina che mai si sarebbe venduta per abbandonare l’amore del padre.

     La bocca di Aphrodite remava sul collo contaminando la pelle di sogni repressi e la sua mano stava slabbrando la scollatura della casacca per rapire i sussulti turgidi dei seni.

     -          Bloody rose!

     Una corolla candida si infilzò  nel petto del ragazzo.
    Con slancio spietato Artemis si affrancò da quel fuoco illuminante.

     -          Pensi di finirla così, Artemis?!- urlò lui  – pensi di nasconderti? So com’è il tuo sangue! Lo so!

     Si strappò via la rosa mentre la Maestra si affrettò a rimettersi la maschera.

     -          Questo fiore  bastardo non è sporco solo del mio sangue…c’è anche il tuo….

     La donna lo  strattonò  per i capelli.

     -          Avvelena di più il tuo veleno. Nutriti d’aria se ami digiunare continuamente credendo d’inghiottire qualcosa. Sogna, Aphrodite, sogna.

     Il ragazzo si accorse che la vista si risanava lentamente come l’acqua sabbiosa di un fiume che torna a colmare un letto sassoso.

     -          “ E’ vero” – scandì appesantito – “ io parlo dei sogni, che sono figli di un cervello ozioso, generati da nient’altro che da una vana fantasia, la quale è di una sostanza sottile come l’aria e più incostante del vento “ * Sì…è così quando non posso vedere il tuo viso… Erano questi i versi che Pericle aveva terrore di recitare perché sapeva che la sua città sarebbe stata distrutta e ti saresti dissanguata dietro quella maschera?

    -        Bada a come parli! Sarai la più bella rosa dell'Elisio ma preferisci ingurgitare vino piuttosto  che acqua trasparente! I tuoi petali sono rossi per le sbornie e non certo perché brillano. Hai paura di crescere sull’orlo di un burrone per guardare giù, nelle  profondità che non riesci a vedere.

     Aphrodite deglutì l’umidità che gli invadeva la bocca:

     -         Farò ribrezzo, Maestra. Chiamami smidollato, cretino, puttaniere. Non nego nulla. Conosco bene il mio riflesso. Sappi però che non ho paura di crescere sull’orlo di un burrone. Io sono già piantato nel buio dei fondali. Ormai ho capito che l’unica stagione reale è l’inverno e tu non sei una luna, ma polvere di luna. Neve che resta schiacciata al suolo.

     

    Rimosse le lacrime che infettavano d’afa gli iridi.
    Si allontanò barcollando, cercando di tornare diritto, scorrendo tra i riflessi delle penombre notturne.

     Non appena se ne fu andato, Artemis cadde su una panca strappandosi  la maschera.
    I rantolii del pianto bussarono alle porte degli occhi ardendo in gorghi di tenebra innevata.

     
    Quel dannatissimo idiota…Adora prostituirsi gratis, ridere e poi… piange quando ormai  ha mandato da secoli sul lastrico la sua doratura. “

     La sacerdotessa chiuse le dita pensando a quando lo svedese non fosse più il bimbo dal visetto viziato ma argutamente ingenuo che le era stato presentato undici anni prima…I coniugi Servansen si erano degnati di lasciare Stoccolma e assaporare i sessanta gradi sotto zero  del Polo Nord portando il  luccicante  e impertinente figlio di sei anni:  un angioletto che si trasformava in diavolo quando le cose non gli andavano giù.
    Per una ragazzina di dieci anni, introversa,  pacifica e soprattutto rigorosa neo sacerdotessa, introdurre quel moccioso all’ardua via del cavaliere sarebbe stato un calvario…tra l’altro non era il massimo della serenità neuronale sorbire le ansiogene raccomandazioni del Signor Servansen, presuntuoso ex guerriero d’argento che aveva sempre fallito gli addestramenti per l’armatura d’oro.
    Fortunatamente Pericle era stato abile nel gestire quel delicato e quasi comico disagio creando un’armonia insperata. Artemis aveva addestrato Aphrodite  senza ricevere interferenze inopportune e senza essere abbandonata a se stessa. Aveva corso con il suo discepolo facendo germogliare anche il proprio spirito, affezionandosi, amando…Amando pari ad una sorella madre e infine…a una perduta maga castigatrice.
    Rovinando, precipitando, estraniandosi.

     
    “ Il suo splendore è andato a crescere in  modo destabilizzante, come una sindrome letale. Gli apprendisti lo ammirano e lo odiano perché le sue rose hanno rotte impossibili da rintracciare con coordinate geografiche e lui solo le carezza e le domina.”

     In Artemis  riaffiorarono i momenti in cui  spiava il guerriero che dormiva esausto dopo gli addestramenti…
    Soleva scorgere oltre le ciglia chiuse, oltre le  membra da Endimione, quel bambino che inciampava tra i suoi piedi quando giocava al principe  che la faceva danzare come sua dama…
    La trovava quella dolcezza acerba che illuminava la stanchezza del sonno, che le sopracciglia e la bocca disegnavano disinquinate da ogni furba malizia.

     “ Ho calpestato e intrappolato il suo amore per me. Un amore che detesto, che credevo una fiammella adolescenziale e che invece è una patologia devastante…Soffocherei quell’essere nel suo stesso veleno, gonfierei la sua gola e ogni vena  dei suoi polmoni con acido solforico ma… che diritto ne ho? Io ho pensato a quadrare la mia equazione chimica, a giustificare il mio autolesionismo.“

     A passi grevi, che sbriciolarono intirizziti la neve, la fanciulla abbandonò la necropoli.

     “ Sono io che non l’ho più purificato, che l’ho stretto alla mia vendetta, che ho sfruttato la sua rabbia di smarrirsi in una famiglia che lo delude…Non vedo l’ora che prenda l’armatura dei Pesci e se ne vada ad Atene. Non sopporterei più il suo profumo e il suo viso magnifico. La mia missione è quasi compiuta ma ho l’impressione di  dover  ancora franare dalle montagne. “ 

     Si fermò un istante tentando di salire una scala incorporea che la portasse al sicuro sulla luna.

    “ Padre… Vedo il mio cuore su un tavolo chirurgico e non esistono anestesie, né farmaci per una morte anticipata”.

     Un latrato vigoroso, di vecchio argento interruppe le sue elucubrazioni.
    Distinse una creatura immacolata, sbuffante di setole arieggianti e ribelli, che  le stava venendo incontro. 

     -          Eryx!

     Lo splendido samoiedo la raggiunse continuando ad abbaiare allarmato, saltando, posandole le zampe sulle spalle.
    Era uno degli animali più anziani e perspicaci di Calleos: ricopriva il ruolo alfa nel traino delle slitte e nelle battaglie veniva temuto per la sua nobile ferocia.
    Al polo nord i cani non erano vezzeggiati infantilmente ma temprati secondo le leggi della sopravvivenza. Nei periodi estivi venivano lasciati in un aspro isolotto dalle risorse limitate e al ritorno dell'autunno gli esemplari più forti  erano prelevati e addestrati per supportare i guerrieri. 

    Eryx era stato un cucciolo scampato alla crudeltà famelica dei lupi adulti. Aphrodite e Artemis se ne erano innamorati e l’avevano allevato con cura evitando d’ infrangere l’asimmetria tra padrone e animale, tra capobranco e subordinato.

     -          Ehi! – insisté Artemis cercando di placarlo – perché sei così agitato?

     All’orizzonte comparvero  tre sagome fulminee e slanciate: giovani guerrieri appartenenti ai Cervi Bianchi, l’elite  più forte dell'esercito selenico.

     -          Divina Artemis! Divina Artemis!

     I ragazzi giunsero al cospetto del loro capo trafelati e gravi.

     -          Nikita! Roalh! Toma! – è accaduto qualcosa a Calleos?

     Nikita era un russo ventitreenne, dal bell’incarnato bruno sul quale fulminavano due occhi  di titanio turchese. Aveva una gonfia zazzera di rugose trecce  biondissime che inselvatichivano un viso dai contorni di mandorla e il  garbo e l’agilità del corpo atletico.

     -       Signora – spiegò – un’orda di soldati è riuscita a invadere il porto distruggendo la fortezza dell'est. Non sappiamo come abbiano fatto ad attraccare senza far percepire i loro cosmi! Abbiamo sorvegliato le coste di continuo e vi garantiamo che non abbiamo visto nessuna nave sospetta fino a qualche ora fa!

     Artemis non si scompose ma dentro ribolliva adrenalina.

     -         Il fattore più strano è che l’imbarcazione pare invisibile – aggiunse Roalh – ci siamo visti attaccare da questi uomini all’improvviso. Alcuni civili sono rimasti feriti ma siamo riusciti a metterli al sicuro. Gli invasori non hanno ancora raggiunto il centro di Calleos. Le altre reti resistono ma dobbiamo preparare un piano d’attacco e subito!

     La spigolosa e rauca voce del  venticinquenne danese ben si armonizzava col suo fisico dalla muscolatura nervosa e potente. Il volto , dai magri e allungati contorni,  lasciava rifulgere un’occhiata freddante e austera di mogano mentre una capigliatura spinosa , di un bruno erubescente,   volteggiava sul collo e sulle gote  simile ad un piumaggio d’ airone.

     -       Abbiamo il sospetto che questi guerrieri non servano una particolare divinità – continuò – le loro armature sono scure ma non appartengono alle milizie di Ade.

     Artemis domandò raggelata:

    -        Che si tratti di Cavalieri Neri*?! Stelle mercenarie rinnegate?  

    -       È probabile…ma non è tutto.

     A rispondere con tono dolce ma robusto era stato il quindicenne Toma, l’unico asiatico che viveva in Groenlandia . Giapponese d’origine,  era il più piccolo dei Cervi ma possedeva strabilianti capacità belliche. Malgrado il viso efebico dagli occhi cobalto e i gassosi capelli rossicci che puerilmente non si riordinavano sulle spalle, aveva una snellezza resistentissima e una mesta severità da adulto. Tutti lo stimavano anche se lo rimproveravano per la scintillante  emotività e gli isolamenti scontrosi.

    -          Ci sono due soggetti pericolosissimi e diversi dagli altri  – rivelò ansioso –  Uno sembra avere un’armatura di bronzo! Un’armatura d’Atena!

    -          Com’è possibile? – esclamò Artemis – è un traditore!

    -          Il peggio è che l’altro  ha…una corazza  che un essere umano non potrebbe mai indossare  però… non si capisce se sia propriamente divina!

    -           Quell’uomo deve essere il capo della spedizione! – aggiunse Nikita –  è lui a manovrare le pareti dello spazio e a mettere in atto strambe magie!

    -          Chiamate  le truppe di Selene! – ordinò glaciale  Artemis –  Nikita, prenderai la divisione dell'Est, Roalh… comanderai il contingente del nord, Toma tu guiderai il corpo dell'Ovest…io quello del sud. Accerchieremo i nemici e li spingeremo nel centro di Calleos. Dentro le mura più interne.

    -          Ma è rischioso! – obiettò Toma – se invadessero il Palazzo della Neve D’oro sarebbe la fine!

    -          Si tratta del punto nevralgico della città – appoggiò Roalh – non firmeremmo la nostra condanna?

     La sacerdotessa si distaccò dal gruppo guardando in lontananza le mura del regno.
    Alzò le braccia circondandosi di  turbini di comete  cilestrine e  ferrigne.

     -      Non saremo noi a firmare la nostra condanna – pronunciò pietrosa – saranno loro ad essere condannati…Chi mira al cuore, mira all’occhio dell'uragano. La gola della morte è aperta.

     
    Una fascio di luce bianca s’elevò dal centro della polis per dissolversi in un sublime stridore d’argento…
    L’incantesimo era riuscito.
    Il ciclo dei tetri sacrifici che ella compieva nel tempio di Selene dava risultati eccelsi….doveva solo sperare di non crollare di nuovo…di non esporre gli strati più martoriati delle sue fibre, delle sue viscere. …Si sperimentava in veste di cavia in un silenzio agonizzante.   

     -          Non temete. Il cuore di Calleos è più al sicuro di quanto pensiate. È pronto ad accogliere le malarie delle ombre e  divorarle…presto, andiamo.

    La driade, i tre guerrieri ed Eryx cominciarono a correre ma si arrestarono di colpo.

     Avvertirono un cosmo  avvampare velocissimo.
    Pareva dardeggiasse  magma, luce sanguinante di febbre solare.

     -          Hoyoku Tensho!  

     Una grandiosa fenice detonò tra il cielo di china e le dune di screpolature lunari.
    Gridando acciaio spettrale travolse i cavalieri in un tellurico incendio dorato.

     

    Note interne al cap e ai cap precedenti:

     

    * “ prima che l’allievo partisse per raggiungere Death Mask in Sicilia…” : CAP 7: la rosa e il teschio; CAP 19: la deriva dell'’innocenza.

    *“ E’ vero…io parlo di sogni…” : ShakespeareRomeo e Giulietta”.

    * “ Cavalieri neri ? “ :  CAP 19: la deriva dell'innocenza

     

     

     

    Note personali:

     

    Ciao a tutti!! :D è da tanto che non ci si vede! Perdonatemi se non sono riuscita a mantenere l’impegno di aggiornare “ L’occhio dell'Ariete” a giugno…sono in tremendo ritardo!!! Sto anche proseguendo con lo spin off “ Io, figlio dell'Inferno”…a fine giugno ho avuto due esami, poi sono stata in vacanza con una connessione internet un po’ schifosa e inaffidabile e ho iniziato una fic sul fandom di Lady Oscar...ormai mi sto disgregando in queste due sezioni ma darò la precedenza a Saint Seiya perché mancano non molti capitoli alla conclusione dell'Occhio…certo, dovrete pazientare, ma abbiamo superato la metà della storia ^^
    Finalmente compare Artemis!! La misteriosa Maestra di Aphro che avevo citato nel cap 5 ( conchiglie di storie: tra le rovine dell'Acropoli)  , nel 7  “ La rosa e il teschio”, nel 15 “ Celeste immenso” …era stata soltanto nominata e ora eccola!!
    Ho ripreso alcuni elementi da Lost Canvas, o meglio il fatto del sangue velenoso ( che ammorba il povero Albafica) e del riferimento al rituale dello scambio delle linfe tra allievo e Maestro . Questo viene narrato nel volume speciale della Teshirogi, l’ 1, quello in cui compare  Rugonis, la guida del cavaliere dei Pesci…Anche l’armatura della driade l’ho ripresa da questo contesto ( la indossa il fratello gemello di Rugonis anche se l’ho modificata al livello di design.)
    A differenza dello sfortunato Albafica , che non poteva toccare nessuno, Artemis è stata “ guarita” da Pericle che, per garantirle una vita normale, è riuscito a scongiurare l’effetto nefasto del veleno nel sangue. Grazie a tale incantesimo Aphrodite ha ricevuto i globuli rossi della Maestra senza subire danni di“ vivibilità “ sociale...
    Ora c’è da spiegare il misterioso rituale che la sacerdotessa compie nel tempio di Selene e pare risucchiarle pericolosamente l’energia…beh…questo lo scoprirete nella seconda parte di questo capitolo :P altri chiarimenti sulla natura del sangue di Aphro verranno forniti strada facendo…( ho citato involontariamente Baglioni XD)

     Ultima cosa: Nikita, Roalh e Toma…
    Avete compreso chi sono..o meglio chi saranno???
    Vi ricordate gli Angeli di Artemide del film “ Alle porte del paradiso” ? ih!ih!ih! Teseo…Odisseo…Icaro….
    Eh!eh!eh!
    Anche questo mistero sarà raccontato…

    Ultimissima e piccola cosa: Eryx compare anche in “ Io, figlio dell'’inferno” cap 3 ^^ è ancora cucciolo X3
    Curiosità: il cagnetto porta il nome di uno dei figli della dea Afrodite, quindi non è stato scelto a caso!

     Dopo questo papirone mi congedo ^^
    Mi vedrete con “ Io, figlio dell'inferno” …( si spera fine settembre/ ottobre -.- ) cercherò di essere puntuale…

     Scusatemi e arrivederci!!     

    queste tre sono illustrazioni che ho fatto con Artemis e Aphrodite ^^

     

    http://libra-marig.deviantart.com/gallery/42852544/Saint-Seiya-illustrations-Devious-Folder?offset=24#/art/Artemis-ka-selene-364327820?_sid=5897ec1e

     http://libra-marig.deviantart.com/gallery/42852544/Saint-Seiya-illustrations-Devious-Folder?offset=24#/art/Trouble-362687609?_sid=64e4c40b

     http://libra-marig.deviantart.com/gallery/42852544/Saint-Seiya-illustrations-Devious-Folder?offset=48#/art/Aphrodite-ed-Artemis-361919610?_sid=5a8514d5

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    Capitolo 34
    *** - Riassunto degli episodi precedenti ***


    Riassunto dei capitoli de L' O.D. A,

    Un caloroso ciao a tutti , cari lettori che forse avrete pensato che io fossi finita nelle tenebre dell'Erebo XD XD è due anni che non aggiorno e me ne vergogno tanto ma : ho tre mega storie da portare avanti ( compresa questa) , ho dovuto concludere urgentemente gli ultimi esami che mi mancavano per la laurea triennale ( ora ho la tesi ^^ “ )  , sono impegnata pure come disegnatrice e ho avuto ,purtroppo, problemini di salute che mi hanno rallentato…
    Tenete presente che NON mi scordo degli impegni U.U vi chiedo di avere solo pazienza e vedrete che terminerò l’Occhio dell'Ariete ^^

    Mi sembra è sembrato più che giusto redigere per voi un…

     

     

    “ Riassunto”  degli episodi precedenti

     

     

     

    Dopo la morte dei genitori, il dodicenne Mu , portandosi con se il piccolissimo fratello Kiki, lascia il villaggio del Sole di Giada ( in Tibet) e intraprende un arduo allenamento nel selvaggio Jamir al cospetto dell' innevato Himalaya. Le prime settimane gli trascorrono pregne di dolorosi ricordi ma son nutrite anche da alcune speranze: Leira, l’amica di sempre di cui è innamorato e un prezioso manufatto che porta appeso al collo.  Questa  reliquia della famiglia scomparsa, è il medaglione di un ariete dall’occhio di fiamma che viene  tramandato  di generazione in generazione .
    Il ragazzino , grazie ai precetti del saggio Sion , perfeziona l’arcana tecnica di riparazione delle armature , imparando a controllare l’incantesimo di resurrezione delle panoplie morte tramite l’irrorazione del sangue ( CAP 1 e 2 ) . Trascorsi due anni e mezzo , il protagonista ormai quindicenne , giunge in un accampamento  per sconfiggere gli ultimi rivali per la conquista dell’armatura dell’Ariete. Il più forte di loro, Ohen, un ragazzo temibile e dal passato triste, è l’avversario di un violento combattimento che lo vede poi sconfitto ( CAP 3 )  Una notte costui , preso dall’esasperazione più nera, trucida il dispotico maestro e fugge con la ragazza amata Nemi che si scopre essere la sorella gemella separata dalla nascita. Viene incaricata una squadra di armigeri per catturare il fuggiasco colpevole di omicidio e d’incesto  ( CAP 4 ). 
    Nonostante queste dolorose vicende, Mu e Kiki seguono Sion in Grecia , ad Atene. Qui incontrano Aiolia , Milo , Aldebaran e Camus assistendo a scherzi, risate e litigi ( CAP 5) ; conoscono pure le sacerdotesse guerriero Marin, col suo allievo Seiya e l’irruenta Shania ( i rapporti tra lei e Milo sono narrati approfonditamente nel CAP 16 ) .

    Il Maestro Sion, nel frattempo,  si fa ricevere dal gran Sacerdote Saga, investito a diciassette anni del ruolo di co-reggente del Santuario . Si narra che la nomina del venticinquenne Gemini fu necessaria per lasciare a Sion il dovere di compiere la formazione del suo successore.   Il governo pare al sicuro ma il vecchio Maestro si accorge che ombre  insolite avvelenano in segreto il giovane pontefice ( sempre CAP 5 – gemini e libra) . 
    La mattina seguente, Sion conduce Mu a Lindo per fargli raggiungere il terzultimo gradino dell'apprendistato: controllare le forze distruttive dei poteri sotto lo sguardo degli spettri dei precedenti cavalieri dell'’Ariete ( CAP 8 ) . Il rituale si conclude con il superamento della prova ma accadono eventi inquietanti: il Maestro si vede apparire gli oneroi Oniro e Fantasio , grandi manipolatori di ricordi e sentimenti ( le vicende di Sion sono accentuate nella prima parte del CAP 5 e nella seconda parte del CAP 8 – le magie di Lindo: nelle camere di Sion). Mu viene torchiato dalla terribile musica di un misterioso arpista, ( che solo il lettore sa essere)  lo specter Pharao accompagnato dal gelido Rune , custode di un oscuro libro in cui sono scritte le storie di vari guerrieri.

    Strane e angoscianti manifestazioni avvengono nel Santuario , dove Aiolia, Milo e Camus finiscono intrappolati nelle illusioni di Icelo e Morfeo. Aldebaran,Sion e Mu ( tornati dall’isola di Rodi) s’immergono nelle dimensioni parallele degli dèi dei sogni ( CAP 9 , 10, 11, 12, 13, 14 ) . Qui hanno luogo cruenti lotte con fantasmi del passato e terrori più profondi. Saga interviene nel combattimento e , di nuovo, altre tenebre emergono dal cuore ( CAP 12 – lande violentate ) . Mu, invece, lascia ad Aldebaran Aiolia, Camus e Milo teletrasportando infine tutti nella dimensione umana . Egli resta solo per sottrarre alle morse letali di Icelo e Morfeo  , l’adorata Leira  , un comatoso Saga e Sion prigioniero di un sonno senza scampo. Nel momento dell'’incubo più tagliente, compare tra sogno e realtà il primo e leggendario cavaliere dell’Ariete Apeiron che gli dispensa nuova linfa facendolo indagare sulla vera natura della  forza ( prima parte del CAP 13 )
    Dopo aver liberato la ragazza, tolto Gemini dal baratro e risvegliato il proprio mentore, si scontra contro il dio dell'Incubo che pare voglia appropriarsi, assieme al fratello,  del medaglione dell'’Ariete. Tuttavia, costui viene brutalmente respinto da una misteriosa e devastante energia propagata dal giovane guerriero.  Le due divinità svaniscono tornando nell’oscuro regno dei sogni e della memoria.
    Sion conduce Saga nel Santuario mentre l’allievo rincontra gli amici  ( CAP 17 )  dopo essersi dislocato oltre le barriere spaziali da Leira ( sempre CAP 17 ).

     

    Nel frattempo, Shura del Capricorno , con la sorella minore Anita, la Maestra Dora (  sorella maggiore di Eirene Maestra di Camus –  viene nominata nel CAP 5,CAP 6 e la si vede con Hyoga e Isaac nel CAP 11 ) e Roikhos del Minotauro , maestro di Aldebaran, naviga con la Temistocle verso il Pireo. Nonostante abbia ottenuto l’armatura d’oro non possiede ancora la spada Excalibur e perciò deve completare un addestramento supplementare che in parte svolge sulla nave scontrandosi con altri cavalieri , con Roikhos e infine con Dora ( il back ground di Shura e Dora è contenuto nel CAP 6 ) .
    La Temistocle, successivamente, fa scalo a Siracusa e qui Capricorn, di malavoglia e teso,  sbarca per salutare velocemente Aphrodite e Death Mask , giunti lì per un allenamento speciale (CAP 7 ) .

     

    Nella lontana India, Shaka e il venerando Amitabha apprendono gli eventi caotici avvenuti al Grande Tempio e decidono di recarsi al più presto in Europa. A complicare le cose, è l’apparizione di una strana e celestiale ragazza, Evelyn , che confessa essere un Alchimista di Eu topos giunta per aiutare il Santuario sul quale incombono pericoli futuri. I due monaci buddisti si prendono cura di lei  promettendole di portarla dal Gran Sacerdote ( Il CAP 15 è interamente incentrato su Shaka ) .

    Sulle rive del Nilo ad Alessandria, l’archiatra del Grande Tempio Roxane ( legata profondamente a Dokho della Bilancia) e i figli adottivi egiziani Tefnut e Khemauseret ( anche loro medici) , soccorrono un altro alchimista di Eutopos, Tamira, anche egli che implora di essere condotto ad Atene ( le vicende e i sentimenti dei tre personaggi sono raccontati nella seconda parte del CAP 17 ).

     

    I misteri continuano a infittirsi: Ohen, fuggiasco con Nemi, riflette tormentato su una profezia che ghermisce il suo nome portatore di tenebra…ma non solo. In sogno si materializza un misterioso e terrificante dio guerriero che gli indica l’armatura di un mostro chimerico ( prima parte CAP 14 ) .
    Il ragazzo non si accorge , inoltre, che sulle sue tracce stanno anche due giovani ( che si capisce siano) Eaco di Garuda e Radamanthis della Viverna.
    Altri specter stanno agendo in incognito e astutamente: in Italia, a Firenze Minos del Grifone e la terribile maga norrena Hel  hanno “ salvato” la quattordicenne e stravolta Pandora, ancora inconsapevole di essere la vestale di Ade e dimentica di aver risvegliato Hypnos e Thanatos. Fedor della Mandragola, Myu di Papillon e Winber del Pipistrello sono riusciti a trovare per Hel alcuni strani frammenti degli etruschi  Libri Acherontici che pare rivelino una strada per condurre al punto di perfezione estrema….Il servo Zellos riceve l’incarico di viaggiare verso Venezia per mettere a corrente l’inviso alleato Don Avido, comandante dei Cavalieri Neri, sull'’imminente raduno degli specter nella Foresta Nera….( l’avventura a Firenze è nel CAP 18 )

    Giunti sin qui, emergono parecchi interrogativi…

    Saga ha davvero raccontato ogni verità al saggio Sion? Aiolos fu davvero un crudele traditore?  
    Chi saranno veramente gli Alchimisti di Eu Topos che discendono raramente dai Cieli Estremi, sennonché quasi mai, per aiutare i terrestri?
    Che connessione c’è tra la comparsa degli Oneroi e di alcuni Specter che hanno preso a vagare impunemente nonostante la  custodia del sigillo delle 108 Stelle Mlefiche da parte di Dokho in Cina?
    Quali enigmi dispiegano i Libri Acherontici? E quale sarà mai questo punto di perfezione assoluta a cui ambiscono gli eserciti delle tenebre?  Con loro avranno a che fare anche Ohen e il fantomatico e minaccioso dio guerriero comparso in sogno?
    Quali sono i patti che legano gli Specter e il libero e spregiudicato corpo dei Cavalieri Neri?

     

    Dove eravamo rimasti….

    Mentre non si conoscono chiarimenti sulla matassa degli intrighi, Takashi di Mefistofele, braccio destro di Don Avido, approda  con la Kamikaze in Groenlandia per compiere una missione e assaltare Calleos, straordinaria città lussureggiante creata dal sapiente e defunto mago Pericles. A prendere parte all’operazione c’è  Ikki, il figlio di Takashi,  quindicenne scontroso e introverso, costretto per la disperazione a seguire un’avventura infida che non cessa di fargli pensare a Shun e ai valori che ha tradito ( CAP 19 )

     Artemis, maestra di Aphrodite e figlia di Pericles, informata della minaccia incombente da Nikita, Roald e Toma, soldati appartenenti al corpo elitario del Regno di Calleos ( i Cervi bianchi) , organizza immediatamente un piano di difesa… ( CAP 20 , prima parte – in cui viene approfondita anche la vicenda di Artemis e Aphrodite)
    Riuscirà ad attirare i nemici nel nucleo della città e a compiere così un incantesimo-trappola che le sta facendo pagare da tempo il prezzo delle energie vitali?

     

     

     

     

    Note anagrafiche dei personaggi.

     

    Arco cronologico storia: ci troviamo nel 1985 soltanto nei primi due capitoli; i tre quarti della storia si svolgono tutti nel 1987. Il 1987 è l’anno a cui fanno riferimento le età dei personaggi. Alcune età le ho modificate rivedendo la storia e riflettendo su elementi narrativi che mi parevano più logici ( Sono state modificate quelle di Pandora e di Saga che alla fine sarebbe coetaneo del defunto Aiolos)

     

    Cavalieri di Atena

     Mu, Aldebaran, Milo, Camus, Aiolia, Marin,Shaina,Ohen, Ikki : 15 anni.

    Aphrodite: 17 anni.

    Shura, Death Mask: 18 anni.

    Saga: 25 anni.

    Aiolos: 25 anni ( se fosse stato vivo ).

     

    Cervi Bianchi ( corpo speciale dei guerrieri di Selene-che dovranno diventare angeli di Artemide):

    Toma: 15 anni ( sarà Icaro).

    Nikita: 23 anni  ( sarà Teseo). 

    Roald : 25 anni ( sarà Odisseo). 

     

    Maestri:

    Artemis. 22 anni.

    Eirene : 40 anni.

    Dora: 45 anni.

    Lisandro ( soltanto nominato da Amitabha nel Cap 15 , Maestro di Aiolia e Milo ) : 48 anni – deve ancora comparire

    Roikhos: 56 anni.

    Serse ( Maestro di Death Mask): 57 anni .

    Amitabha: 80 anni.

    Roxane: 260 anni.

    Sion: 262 anni.

    Dokho: 262 anni.

     

    Allievi e altri personaggi ( che sono comparsi).

    Kiki: 4 anni.

    Seiya, Isaac, Hyoga, Shun : 9 anni.

    Anita: 14 anni.

    Leira, Odette ( amica russa di Camus- Cap 11 ) : 15 anni.

    Tefnut: 26 anni.

    Khemauseret: 30 anni.

     

     

    Gli Alchimisti di Eutopos, provenendo dal Cielo dell'Iperuranio, quindi dal regno perfetto delle idee, hanno matrice ancora spirituale. Sebbene, abbiano perso la purezza delle forme asessuate, hanno età indefinita.

     

     

    Specter ( sono per la maggior parte  indicative ma non precise perché ancora non si conoscono nei dettagli le vicende di costoro)  :

     
    Pharao: 13 anni. 

    Pandora: 14 anni .

    Rune: 16 anni .

    Myu: circa 17 anni

    Minos: c.a 18 anni

    Winber: c.a 19 anni

    Radamanthys: c.a 20 anni.

    Eaco:  c.a 20 anni.

    Fedor: c.a 23 anni

    Zellos: 28 anni.

    Hel : ?

     

    Devono ancora comparire altri specter tra i quali Shelfield, Valentine, Queen , Gordon, Violate e Calipso ( la donna amata da Saga che compare in un flashback del CAP 12 ).

     

    Cavalieri Neri:

    Takashi : 38 anni

    Don Avido ( ancora non apparso ma nominato)  : 36 anni

     

     

     

     

     

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    Capitolo 35
    *** CAP 20- veleno di luna: l'assedio del Falco e della Fenice ***


    CAP 20 - veleno di luna: l'assedio del Falco e della Fenice

    “ Veloce come il vento, lento come una foresta, assali e devasta come il fuoco, sii immobile come una montagna, misterioso come lo yin, rapido come il tuono.”

     ( Sun Tzu)

      

     

     §

     

    Città di Calleos

    *** Sacro Ordine dei Cervi Bianchi***

    -          Sezione Archivi Riservati  -




     

     

     

     

    Confessionis vitae antinqua  n.XV

     

     

    1 settembre 1985

     

     Mi chiamo Nikita Sokolov. Sono nato a San Pietroburgo, il due gennaio del millenovecentosessantaquattro.
    Non ho mai bevuto un goccio di vodka in vita mia.
    È ridicolo, lo so ma…non sopporto quella trasparenza apparentemente inoffensiva e priva di colore… assomiglia all’acqua e in realtà è un idrocarburo aromatico che,  da cristallo  fatato esplode e tritura.  

    Come faccio a conoscere l’orripilante gustosità della Vodka?

    Primo: mia madre andò in coma etilico.
    Secondo : un giorno, me la versarono addosso e provarono a darmi fuoco… E il fuoco è il lezzo scarlatto di cui sono pregni i miei incubi. ”

    -          Phalanges ocean  borealis!

     Una palizzata di geyser , quasi fosse la groppa venata di uno stegosauro , spumeggiò verso il cielo abbrunato.
    Nikita aveva mozzato in due spirali di fiamme l’ assalto del misterioso cavaliere che aveva evocato una tempesta di meriggio …Una  fenice dal volo d’incenso, mirra e nardo che sciolse la neve scavando  canali che slacciarono tendini di terra bruciata.
    Miriadi di nuvoli impestarono la notte lasciando dondolare vapori e cenere eruttiva.
     

    “ Da quando mio padre morì durante una corsa di rally,  gli incendi presero a ustionarmi le meningi nei momenti di angoscia.
    Avevo nove  anni e assistetti in diretta all’incidente del mio eroe e le vampe che disintegrarono lui e la macchina parvero carbonizzarmi tutto l’ossigeno nei polmoni.
    Ebbi sempre timore delle auto che correvano veloci ma soprattutto delle fiamme grosse che emettono i rantoli  di una belva  che può  scannare da un minuto all’altro.”  

    -          Maestra Artemis ! – esclamò il russo – voi e gli altri dirigetevi a Calleos! Penserò io a…

     Non ebbe il tempo di terminare le parole che Ikki lo colpì rapidissimo divenendo quasi uno spettro di miscela gassosa.
    Lo ferì all’addome con la potenza di un masso lanciato da una catapulta.  

    - Nikita!

    Artemis, Roald e Toma rimasero scombussolati  dall’abilità di quel guerriero…Doveva appartenere ai paladini di bronzo eppure era riuscito a muoversi alla velocità della luce. Talento che raggiungevano solo l’ordine d’oro e alcuni potentissimi maestri. 

    “ Ci volle tempo per imparare nuovamente a restare vicino ad un camino o ad una stufa senza innervosirmi sudando o piangendo freddo.
    Detestavo anche i fuochi d’artificio delle feste di natale o capodanno. Perché potevano essere l’esplosione fantasma di quel giorno nero e,  mentre guardavo il cielo,  temevo che mi investissero i carcami della renault maledetta  e le briciole irriconoscibili  del corpo di papà “

     

    -          Orbit of the monsoon fury!

     
    Per difendere l’amico, Toma trascinò impetuosamente un flusso d’aria che si coagulò in un ribollito e gigantesco ululo bluastro.
    Formò un cuneo vorticante che si andò a schiantare sull’ antagonista ma costui si schermò , dipanando l’ondata terremotante in lingue incandescenti. 
    Tra il pulviscolo cauterizzato di bolle acquatiche, la sacerdotessa guerriero e Roald si precipitarono su Nikita , aiutandolo a rialzarsi : la corazza grigio-verde che gli proteggeva il ventre era completamente frantumata e la pesante pelliccia di sotto bruciata.

    “ Avevo spesso dolore allo stomaco e anche quando le interiora  vendicavano la fame , la testa si chiudeva inappetente, stanca…Mia madre si angosciava ma stava in silenzio senza buttarmi il panico   addosso…per non farsi vedere crollare da me , prese a bere più del consueto. Anche con la coscienza stordita mi amava…”

    -    Come mai un traditore veste l’invincibile luce di Phoenix? – esclamò Artemis districando le vibrazioni  fumogene dell'’assalto.

    Chiarore muto.
    Persino Eryx , il suo cane , fiutava l’aria incapace di abbaiare.
    Il ragazzo-fenice restò eretto , fasciato nell’ansito compatto di un agonista in vantaggio…

    -      Traditore? – ridacchiò alla fine come un radiatore rotto -  maschera di latta…ho portato un po’ di calore vitale su questo pezzo di inverno galleggiante e anemico.

    -          Ricacciati in bocca le metafore poetiche e di’ perché un cavaliere di bronzo si diverte a dimenticare Atena.

    -      È facile dare del bugiardo quando non hai come unico cibo la cenere…è facile credere nella fede divina quando un prato diventa lava e tra le dita ti resta solo un’erbetta…l’unica cosa  che vive in un deserto.   

     
    “ non potevo lasciare che mia madre si sbriciolasse in quel modo…e così innumerevoli volte provai a trascinarla in ospedale ma lei non voleva e non voleva finché esagerò e si ritrovò il cuore stroncato dall’alcol….Avevo dodici anni ed ero già giunto alla fine e quella notte pensai veramente che sarebbe stato meglio sparire dalla scena…in qualunque oltretomba, dimensione o nulla…la cosa più importante era sparire …”

    -          Qual è il tuo nome? – continuava ad appellare autoritaria la Maestra Driade.

    Eryx ringhiò piano, come fosse immerso in acqua…Era strano che il suo mugolio increspato non avesse intenzioni refrattarie, bensì appariva intimidito…
    Ikki, intanto,  sorrideva…quasi che un uncino gli sollevasse l’angolo destro della bocca.

    -          Non sono qui per  perdere tempo.

    -      E noi non siamo qui per lasciarci pestare da te! – intervenne Toma con le gote rosseggiate  da ira adrenalinica.

    -         Bene – sbuffò la Fenice -  Ti farò evaporare adesso, pidocchio.

     
    Uscito dall’ospedale , vagai nei dintorni con gli occhi aperti che in realtà non vedevano nulla…Una nebbia invisibile e di piombo  si attaccava alle palpebre e spingeva giù tutta la mia testa affinché potessi fissare solo il selciato scuro e orrendamente monotono. Non mi stavo accorgendo che cinque ragazzi ubriachi, probabilmente delinquenti vagabondi, mi avevano preso di mira per divertirsi e derubarmi. Non ricordo in che modo mi furono addosso  ma mi ritrovai immediatamente  con la faccia per terra e le braccia bloccate.

    -          No! – si riaccese  Nikita staccandosi da Roald e Artemis - È con me che hai iniziato questo scontro!  sarò io ad estinguere il tuo volo!

    -   Nikita…- lo afferrò Roald per un braccio –  la Fenice è un uccello infinitamente ardente. E questo guerriero…può perdere e riacquistare sangue senza affogare nell’Acheronte.

     Nonostante praticassi fin da bambino le arti marziali , nessuna di quelle abilità mi fu d’aiuto …mai mi ero sognato di sperperarle fuori dalla palestra. Non facevo a botte  e…in quel momento…non mi sentivo neppure convinto di vivere.
    C’impiegarono poco a rompermi due costole, ridurmi la milza in poltiglia e  versarmi addosso un liquido dolciastro, urticante , dall’odore ferroso…capii che era vodka e che alcuni accendini stavano mettendo in moto le loro scintille…

     

    Ikki s’inumidì vorticosamente d’incendio e aguzze penne scarlatte si sfagliarono  dalla sua armatura.

    -          Il tuo compare è ragionevole – disse al russo – non riesco a dormire col muso per terra a lungo. Mi risveglio presto, sai?

    Nikita ricambiò inaspettatamente il motteggio:

    -          Tranquillo, cavaliere. Soffro d’insonnia. Da tempo non aspetto il più il gallo che canta.

    -          La Fenice canta sempre prima di tutti e tutto! Fumetstu no raibi !

    Una mitragliata di penne-gocce  focose  traforò il suolo avventandosi verso il rivale.

     

    Mentre avvertivo le fiammelle sfiorarmi la pelle accadde una cosa stranissima: gli acciarini non fecero nulla. Restavo fradicio d’alcol , ghiacciato, quasi che una patina sottile e durissima mi proteggesse…ero rannicchiato sul marciapiede impedito nei movimenti , le ossa coi tendini -ingranaggi di orologeria ammaccata e poi…un’incandescenza immensa dal mio corpo. Una scarica d’energia non elettrica ma…lunare. Sì….Il riflesso accecante della luna che da arancione diventa bianca e poi azzurra perché sferzata dal sole.

     

    -          Sun Cobalt midnight!

     
    Un’ immane ruota cobalto , che scalpitava fulmini bianchi, mulinò velocissima ingerendo le piume della coda della fenice.
    Si diresse verso Ikki  e sfilò una scia granulata di sfere di ghiaccio centrandolo in pieno.
    Era un formidabile incantesimo di sole gelato, una mossa che congiungeva attacco e difesa.

     

    Una potenza di calore polare. Un abbaglio violento che fece esplodere i lampioni e urlare i miei aggressori.
    Io svenni e mi ritrovai nell’ospedale di mia madre, vegliato dal mio istruttore di arti marziali…Era uno di famiglia. Lo conoscevo da  prima che frequentassi la scuola.
    Lui mi aveva soccorso.
    Lui aveva compreso quei raggi che si erano espansi dalle mie membra bruciando le nuvole della notte. Io…io…sempre terrorizzato dal fuoco…

    -          Maestra Artemis! – affermò Nikita – voi e gli altri affrettatevi verso Calleos!

    -          Ma…

     Artemis fermò Toma e annuì gravemente al guerriero:  

    -          D’accordo, Nikita. Questa è la tua battaglia. Ognuno di noi è torre di un’unica muraglia. Siamo la cintura  di Selene. Andiamo!

     

    Il Maestro mi mostrò un tatuaggio nascosto sotto i capelli che aveva sulla nuca…
    Una luna piena sorvegliata a nord e sud da due speculari falci di luna…erano marchiate sull’epidermide…delle scanalature geometriche, dalle inchiostrazioni blu e argento.
    Mi disse che anche io l’avrei dovute far incidere sulla colonna vertebrale , tre la mente e i polmoni…

     

    La Maestra si allontanò seguita da Roald e Toma che augurarono con sguardo complice al compagno buona fortuna. 

    -          Presto , Eryx ! – ordinò la giovane – va’a radunare il tuo branco! Ti aspettiamo in città!

    Il cane abbaiò obbedendo e corse rapidissimo sulle dune sembrando un aerolite di neve.
    All’orizzonte s’intravide una caligine galoppante di soldati che proveniva dal porto della città, pronta per eseguire gli ordini della Regina.

     

    “ e fu così che mi condusse qui in Groenlandia…a Calleos. Una città che mi apparve magica ma allucinatoria quasi appartenesse alle visioni malaticce di un dormiveglia…dispersiva nelle sue piccole dimensioni. Calorosa in quell’immensità che si ammira quando si vede l’interno dei suoi strani templi. All’inizio era come analizzare attraverso un microscopio  tanti ectoplasmi che componevano un piccolo tessuto…Uno si sente estraneo e non sa attribuire nomi a quelle minuscole realtà….”

     

    -          Credete di filarvela così?!  

    Ikki si era già alzato pronto a sprigionare un’altra devastante linguata ignifera quando Nikita gli fu addosso con
    un guizzo da falco.
    Lo buttò a terra imprigionandogli la gola in una morsa da pitone.

    -          Non hai capito, Fenice? – sibilò pungente – devi prima polverizzare me, se ne sei davvero in grado!

     Uno sciame di lucciole perlacee si posò sulle gambe di Ikki formando presto un pesante fluido dorato che prese a solidificarsi simile a topazio luminescente.

     

    … alla fine lo sguardo scivola dentro il microscopio e uno si ritrova intinto nelle molecole di quel tessuto all’inizio oggettivato. C’è  bisogno di una nuova casa. Una fede che  faccia di nuovo crescere e dimenticare l’odore grigio della neve sfracellata, quella neve su cui sono sbattuto  parecchie volte quand’abitavo in Russia. Ora è diverso grazie alla divina Artemis che mi ha dato un’armatura, poteri giusti e un orizzonte altissimo.
    Ho giurato fedeltà eterna, insostituibile e inviolabile alle sorelle vergini Atena e Selene.

    Mi sono votato al perfezionamento assoluto, alla temperanza dell'’intelletto, alla castità liberatrice.
    Mi sono votato alla luce estrema degli angeli castigatori.

     

    Nikita Sokolov

     

     

    ***§***

     Le  lacrime ormai  si rimescolavano simili a scie di sale nei freddi calici degli occhi.  

    Il giovane sedeva sabbioso e triste, vestito da una giubba di pelliccia e da pantaloni bianchi.

    Aveva finito di stendere  il documento su uno dei tanti tavoli   della Camera delle Confessioni Remote, una sala ottagonale  situata nei sotterranei  del Tempio della Neve Dorata.

    Depose la penna,  si alzò e  arrotolò  la pergamena  sigillandola  col timbro di cera lacca di Calleos.
    Si diresse verso un’ enorme sfera acquamarina che dominava il centro della pavimentazione che imitava il suolo scarno e silenziosamente lavico dei viali pompeiani.    
    Inserì in un’apertura orizzontale la sua biografia e la lasciò cadere nelle profondità di una gola che terminava in una grotta  che nessuno aveva mai visto.
    In quel modo l’elite dei Cervi Bianchi  gettava  i ricordi senza  udire le proprie reliquie che si schiantavano in un innominabile fondale.   

     

     

     

     

     

    Le onde facevano smorfie di corrugato dolore al cospetto di quell’acuminata prua che attorcigliava la loro superficie di congelato alluminio.
    Una barchetta nera scivolava silenziosa e sicura sulle acque che vibravano lungo le coste di Calleos. Nessun remo o motore la sospingeva verso la meta, ma un afono vento.

    Su essa due figure sedevano immobili una di fronte l’altra , leggermente chine, simili ad apatici giocatori di carte o bevitori d’assenzio.
    La prima, vestita di nero, lasciava intravedere , da sotto un rigonfio cappuccio,  due lunghe ciocche di capelli chiari che fluttuavano similari a nastri spettrali di una culla vuota.
    Erano l’unica leggiadria brillante che contrastava con quelle fattezze tetre e asessuate di Morte.
    Il secondo individuo  si stentava a capire se fosse un uomocorazzato o un automa senza carne, sangue e anima.
    Portava un elmo rotondo e serrato che si acuminava con una visiera a forma di becco  mentre un pennacchio rosso scuro galleggiava in aria simile ad una biscia acquatica.
    Era armato alla maniera medioevale con una piastra grigio piombo che gli copriva il torace, una gorgiera decorata di venature geometriche, spalliere lucenti e borchiate , guanti in maglia di ferro, paracosce e parastinchi sfregiati.

    -          Amico…senti i suoni della festa? – domandò con tono stregonesco e dolce  l’incappucciato – guarda sopra, dove c’è la città.

    L’essere blindato mosse il capo emettendo  un cigolio di ingranaggi saldati in malo modo:   sopra il litorale massiccio  spruzzavano e rombavano le esplosioni della battaglia facendo ruggire i ghiacciai.

    -          Sì – continuò suadente l’altro – tra poco potrai tornare a camminare sull’onorevole palcoscenico di una battaglia…non respiri un primo barbaglio di contentezza?

     L’armigero lo fissava incalcolabile come un soldatino di stagno abbandonato su  una mensola.

    -          Forse ti è ancora impossibile assaporare sentimenti lieti dato che non sarai il protagonista di questi scontri. Ahimè si tratta di un prologo dove rivesti un ruolo quasi secondario ma…abbi pazienza e confida in me.

     A causa di una detonazione più violenta alcuni iceberg franarono in acqua emettendo urli da balene ferite . Enormi spruzzi crestati e taglienti tormentarono la superficie delle onde.
    La barca coi due misteriosi figuri rimaneva imperturbabile e vellutata simile alla piuma di un uccello nero . 

    -          Non  proferisci verbo, amico? Capisco…è arduo riprendere a parlare dopo un lungo letargo: da dove può scaturirne la voglia se ti hanno nascosto e fatto ammalare? Merita i tuoi discorsi un mondo che ha desiderato cancellarti? All’inizio sembrerà di no ma in seguito dovrai riaprire le labbra…ora non è necessario… Pensa soltanto a debuttare e a far suonare la tua bufera. 

     

     

     

     

     

    Fuori dalle mura interne di Calleos, imperversavano disperati atti d’attacco.

     I guardiani della fortezza, dalle armature grigio azzurre, respingevano le scimitarre e le alabarde dei Cavalieri Neri facendo rimbalzare nell’aria, simili a sfere di titanio, le sferzate delle lame.

    C’era, però,   un guerriero demoniaco, dal talento impressionante: si scansava disinvolto con una poderosa corazza ed evitava ogni affondo lasciando sfumare la sua massiccia sagoma contro il cielo buio.
    La sua armatura, color terra bruciata dalle rifrazioni bordò, possedeva un intarsio pettorale dalle lamelle sbalzate con i  contorni di filigrana che somigliavano a monili visigotici. Le spalliere arcuate e rigonfie, i parastinchi e i paracosce sinuosi assumevano l’eleganza di una muscolatura equina. Un elmo gargoyle, che proteggeva fronte, zigomi e mascelle, era sormontato da corna istoriate di linee circolari  che trafiggevano ogni rigurgito di fumo.

    I capelli verdastri , che sgusciavano selvatici ,  facevano immaginare la testa di un uomo-rapace dalle lunghe piume. Metà diavolo…e soprattutto metà falco.
    Takashi meritava  l’essenza dissolutrice e predatrice del proprio nome.

    -          Davvero, non comprendo la vostra animosità, radiosi cittadini di Calleos!

    Era lui a capitanare l’esercito dei Cavalieri Neri della Kamikaze, sconvolgendo il terreno gelato: muoveva sicuro le braccia proiettando sulla neve segni che poi tagliavano il suolo.
    Le dune si disgregavano in cubi geometrici rivoltandosi e spostandosi.
    Molti uomini cercavano di balzare il più in alto possibile per evitare di venir masticati da quelle dentature fameliche.

          -          Io e i miei amici siamo giunti soltanto per uno scalo , una toccata e fuga per sbrigare una bagatella – esclamava con bonarietà frizzante e intimidatoria- Ci avete costretto a mettere a soqquadro il vostro reame fiabesco!

    Un gruppo di sei uomini spandé  un’ondata di grandine affilatissima che lui sciolse sprigionando una mugghiante aureola cremisi.
    Sbuffando con broncio mogio, beffeggiò: 

    -          Insomma! Nessuno che ha voglia di confrontarsi da persone intelligenti…

    I caparbi assalitori non demorsero e corsero verso di lui.

    -          Questa sfiducia nel dialogo è triste…

    Gli si avventarono saltando e disponendosi a mo’ di rete umana. 

    -          Per un tipo socievole non è bello essere bistrattato!

     Takashi alzò veementemente i bracci scalpitando vento e  rompendo la morsa degli sventurati che si trovarono a parabolare dall’alto verso il suolo.

    -          Twilight crying rose!

    Il signore falco non ebbe tempo di formulare un’altra battuta perché fu accecato dal bagliore di un’artigliata azzurrissima che parve sdrucire la volta nera del cielo.
    Una rigonfia mareggiata di rose blu cascò velocissima graffiando l’aria e inondando i nemici.
    Takashi  venne sbalestrato via da quei fiori  dalla durezza di selce ma non osò capitombolare con la faccia a terra. Completò l’acrobatica capriola , tornando a marchiare la neve diritto e in piedi.

    -          Accidenti! Questa sì che era una sinfonia da maestro! – rise stentoreo e divertito – ho toccato letteralmente il cielo!

    -        Il tuo modo di tessere rapporti sociali è poco ortodosso – richiamò tra i guizzi nebbiosi di neve una voce asciutta e femminile - Non ci si autoinvita nelle dimore altrui senza preavviso.

    Mefistofele scrutò attentamente davanti a lui individuando un folto schieramento di guerrieri e un una sottile sagoma rivestita da un’armatura che sembrava costituita da petali ghiacciati.
    Una luminescente e lunga coda di capelli rosso sangue si fletteva alle invisibili carezze del vento. Una maschera cerulea e candida copriva il volto di quella giovane d’indubbia e straordinaria bellezza. 

    -    Perdonatemi o graziosa Regina Artemis! – esclamò l’uomo elettrizzato di avere avversaria una venere guerriera - Sono un uomo scriteriato che a volte si lascia prendere troppo dalla verve ! – reclinò con giocoso e malizioso garbo il busto - Lasciate che Takashi di Mefistofele  s’inchini a voi.

     La sacerdotessa  avanzò  a testa alta , lasciando riflettere  sull’armatura  i bagliori falciformi della battaglia .   

    -          Esatto, demonio dei cavalieri neri. Abbassa la testa assieme al  tuo sudicio branco di sciacalli.

    -          Vostra  Altezza! Vi scongiuro , abbiate la clemenza di non metterci su un’umiliante ruota di tortura.

     Artemis si mise con ironica minacciosità a braccia conserte:

    -          Tranquillizzati….Visto che,  tu e  la tua brigata,  siete stati così cortesi da irrompere qui all’improvviso…vi invitiamo direttamente ad un lieto convivio nelle mura della nostra città.

     Tra le grosse risate degli invasori, i difensori di Calleos emisero un piovasco di allibite polemiche.
    Quando, però la regina alluse gelida:

    -       Valorosi guerrieri di Selene, mostriamo ai nostri ospiti le meraviglie architettoniche del foro e del Tempio della Neve Dorata. 

    Immediatamente i soldati, capendo il codice di quella strategia, si accinsero a fare gli onori di casa spingendo i nemici dentro la fortezza e creando uno sferragliante turbine centripeto.
    Takashi ,  sagace e rallegrato ancora più di prima , elogiò:  

    -      Questa cooperazione rende felici - sorrise formando due cupe rughe agli angoli della bocca – ottima decisione: ci consentite di portarvi via un impolverato scheletro che custodite in un armadio tanto buio e dimenticato.

    La giovane parve mantenersi  imperturbabile ma quelle parole lasciarono sulla pelle uno sgradevole bruciore e il  nemico sembrava leggerle negli occhi velati dalla maschera.  

    -          Coraggio….- incitò lui dolciastro - Chi non ha scheletri?  

     Un frastuono vetroso lo fece voltare alla propria destra: un ragazzo dai folti capelli rossi  lanciò una sventagliata di saette violacee che scansò tempestivamente.   

    -          Comincia a pensare all’incolumità del tuo scheletro! – esclamò Toma saltando affianco alla Maestra.

    -          Ehilà! – lo sbeffeggiò il cavaliere nero -  Ti pare la maniera di rivolgerti ad un ragguardevole gentiluomo?

     Una folata di vento poco rassicurante lo costrinse sta volta a guardare a sinistra. Un altro giovane armigero di Artemis , dagli  spinosi capelli mogano,  stava concentrando nella sua mano  energia bluastra a forma di prisma.

    -          Di gentile stai combinando ben poco – adoperò Roald un sardonico eufemismo.

     Takashi era indispettito: la presenza di quei filiformi damerini  rovinava  la sua galante schermaglia!

    -          Cara la mia reginella! – si lamentò - Non hai insegnato la buona educazione ai tuoi baldi valletti!

    In lontananza si udirono dei imperiosi latrati che si stavano per avvicinare alle mura.
    Eryx e gli altri cani lupo stavano correndo furiosamente per dar manforte agli assediati.

    -           La  permanenza dei visitatori di Calleos è rapida ma lascia un’orma eterna– ribadì Artemis sollevando orizzontalmente il  braccio affusolato e forte come un’asta di titanio.

    -          I tuoi giochi di parole sono stuzzicanti  – rise l’avversario  roboante-  credete che i fiori siano la  vostra solida salvezza? Ammetto che è sconcertante il capolavoro naturalistico creato dal tuo adorato papà….Pericles , giusto?

     La giovane  si sentì risucchiare la stabilità delle gambe dai granelli nevosi.

    -          Lo conoscevi?!

    -       La sua fama è giunta fino a me – rispose schioccando la lingua sarcasticamente  nostalgico -   Uomo di grande sapienza e nobile animo…Stento ancora a credere che sia riuscito a gestire il potenziale di questo terreno gelido e sterile…Mi domando in che modo abbia captato l’energia proibita che si nasconde sotto il Tempio della Neve D’Oro,

    -          Di quale energia proibita stai parlando?! – strinse le nocche la ragazza - Mio padre era un mago alchimista!

    -          Poveretto! Neppure lui conosceva veramente il flusso di potere che ha manipolato per creare da un deserto gelido un eden terrestre!

    -          Ma cosa….

    -       Ognuno segrega i propri scheletri e ne avete uno bello grosso senza esserne consapevoli! Provo compassione per voi, abitanti di un regno che abbandonerete  come i vostri progenitori!

    -          Sarete voi a finire nelle bolge dell’inferno! Roald! Toma! Aprite le porte del Nord e dell’Ovest!

     

     

     

     

     

      

    Le dune nevose formavano la pelle escoriata di una mummia primitiva. Scie di ditate appuntite e buche slabbrate  erano sparpagliate vomitando epilettici rivi di fumo.

    Nikita e Ikki si stavano affrontando senza concedersi il tempo di drenare ossigeno a sufficienza.

    Malgrado i respiri gonfi tra il palato e la gola, balzavano in alto e ripiombavano a terra  lanciandosi colpi di ogni tipo.
    La Fenice pareva slacciarsi da morse letali mentre il guerriero di Selene possedeva la padronanza di virare nel gelo gli assalti di lava.
    Entrambi cercavano di mantenere i nervi ben saldi , ma una stanchezza feroce si appigliava ai grappoli della mente del cavaliere di bronzo facendo pulsare  dolorosa adrenalina.
    Mentre Nikita  manteneva l’azzurro dello sguardo sfolgorante e massiccio , lui slanciava  la mandibola in avanti tenendo a freno una strana agitazione.
    Fissava insistentemente la parte orientale delle mura di Calleos, il limite estremo che ergeva la sagoma aquilina  sopra un grande strapiombo.

    Si udivano cartacee  eco scroscianti di due misteriose cascate….Flussi d’acqua che provenivano dai canali sotterranei del Tempio della Neve d’Oro.
    Il russo aveva notato da parecchi minuti quel lampo nel nemico, quella scintilla priva di curiosità ma trasbordante di panico.
    Percepiva un conto alla rovescia che minacciava dall’alto simile ad un cubo di marmo che oscillava su un pendio.   

    -         Allora, fenice? – chiese aspramente – vedo che stai planando raso terra! Che fine ha fatto la tua faccia tosta?

     Ikki scansò a pelo un calcio siluro e controbatté :

    -          Sei più rompiscatole di quanto immaginassi! Ma vedrai come finirà la tua bella ginnastica!

     Cercò d’indirizzare un pugno in faccia a Nikita, ma quest’ultimo lo bloccò strizzandolo tra le dita della mano destra.

    -          Hai un talento eccezionale – constatò serio e calmo . peccato…che la tua rabbia è quella di un moccioso e ciò ti danneggia.

    Con inaspettata violenza, concentrò tutto il  potere nel braccio, facendo barrire tuoni azzurri e dorati  che formarono un  turbine di vento.
    La Fenice venne scagliata a più di duecento metri di distanza, sbattendo sul terreno scosceso che segnava il vertiginoso confine con un dirupo.
    Dopo una folata d’aria che parve aprire una fessura tra le persiane della notte antartica , ricadde una nenia di piombo.
    Nikita camminò col petto che gli si sollevava affannosamente per lo sforzo compiuto ma che non vacillava  tale e quale ad una boa tra le maree mosse.
    Restò in silenzio a fissare le code arancioni dell'’armatura della Fenice diramate sulla neve a mò’ di collane ammaccate.

    Il vento fischiò in modo terribilmente acuto, uguagliando il trillo di un uccello serale.
    Ikki  fece cigolare le braccia intorpidite….
    Tese le orecchie catturando quei rivoli d’aria….
    Tra le nubi si convinse di sentire una voce fatta di polline e seta…
    Lo chiamava…

    Iiiiiiikkiiiiiiiiiiiiiiiiiii-----iiiiiiiiiiiiiiiiiiikkkkiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii……..

    Incredibile. Forse era lei….
    Quella musica triste che sbiadiva a tratti, simile alla scia di una penna esangue d’inchiostro…Sì.  doveva essere per forza lei.
    Sarebbe apparsa mostrandogli verdi occhi di piante e alberi, togliendogli l’odore di sangue e neve che gli incrostava le narici e le labbra.

    -          Esm…Esmeralda….- salivò acre e dolce tra i denti – Esmeral-lda ….

    Due mani forti e per nulla femminili lo rialzarono facendogli sentire il gelo del nord sfiatargli sul viso e il ventre.
    Quando schiuse gli occhi, non c’era il ghiaccio a insudiciargli i capelli  ma l’oscurità aggrottata del cielo.
    Nikita lo stava sollevando per la schiena e le gambe tenendosi sul ciglio del burrone che affondava i lunghi tendini nell’oceano. 

    -          Mi dispiace , Fenice – ammise con sincera amarezza – questo  vento è  il canto funebre che ti dedica il mare.

     Lo lasciò franare dalle rocce verso le onde che si tormentavano, infernali anime di furibondi.

    -          Quale dolorosa tristezza….- sospirò un’ anfrattuosa voce maschile – adoro i tragici duelli tra fieri guerrieri.

     Il giovane si voltò  e restò terrorizzato dal figuro che gli aveva parlato.

    -          Avanti , prode paladino . Sii cortese da accompagnare me e il mio fido scudiero alla corte della tua signora.

     La vittima non ebbe il tempo di gridare che si trovò soffocata in una teca di ossa umane.

     

     

     

     

     

    §

     

    Città di Calleos

     

    *** Sacro Ordine dei Cervi Bianchi***

     

    -          Sezione Archivi Riservati    

     

     

     

    Confessionis vitae antinqua  n. VII

     

    5 settembre 1985

     

    “ Il mio nome : Roald Damgaard.
    La mia data di nascita : tredici giugno millenovecentosessantadue.
    La mia città: Esbjerg , Danimarca.

     Non ricordo granché di quelle parti.

    Sono stato sulla terra ferma fino a quattro anni giusto il tempo per consentire a mia madre di allattarmi, svezzarmi e farmi crescere i primi denti.
    Mio padre ci portò immediatamente sul suo peschereccio rendendoci membri di un  esercito di uomini dalle giacche gialle e bagnate e dai Jeans rattoppati e scrostati.

     

     Era più un’ascia che un ragazzo.
    Fendeva , con lo sguardo, i suoi nemici giusto il tempo che gli serviva per valutare attentamente dove colpire e poi sorvolava al di là delle ferite.
    Saltavano impietose come stelle ninja le iridi di Roald. Osservava, sfrecciava e assestava l’attacco.
    Abbatteva e scavalcava i nemici delle sue dee. Eseguiva gli ordini di Artemis .


    A sei anni già conoscevo più di venti tipi di pesce.

    Davo loro dei nomi senza affezionarmi.

    Tanto sarebbero morti nei secchi e o nelle  ceste con le branchie strappate.

    La loro pazza agonia all’inizio mi spaventava ma presto la considerai come il normale rituale del sacrificio che ci donava profitto.
    Più pesci prendevamo, meglio stavamo. Il nostro stipendio non era mai matematicamente mensile. Tutto fluttuava alla maniera dei cavalloni tempestosi. Il cielo poteva essere turchese o sporco d’inchiostro  quasi che una seppia fosse strisciata sul suo volto.

     

    Da più di mezz’ora i suoi compagni lo seguivano con sentimenti frammisti  d’incoraggiamento e timore. Certo erano abituati a vederlo in azione ma ogni volta si rivelava una sorpresa l’aspra danza della sua lotta.
    Si contavano una ventina di avversari piuttosto tenaci ma i cavalieri di Selene premevano  aggressivamente contando sul supporto anche dei cani lupo.  Il piano era spingerli nel piazzale che precedeva il Tempio della Neve Dorata che
    aveva assunto l’aspetto di un’arena da Colosseo.
    Roald coordinava le operazioni con l’agile durezza di una fionda che sapeva bene in quale modo rompere la testa di un gigante.
    Gli alfieri avevano compattezza e al contempo libertà di attaccare individualmente rompendo uno schieramento per tornare nelle file. 

    Mi piacevano molto i salmoni. Il loro sapore tenero, cosparso delicatamente di sale e succoso limone.   

    Lo mangiavamo tutti assieme e soprattutto era il premio che condividevo con mio padre dopo  un addestramento rudimentale d'autodifesa. Lui da ragazzo aveva assorbito un pò di judo e pugilato...Era  magro ma fortissimo. Somigliava ad un pino marittimo abbrustolito e aguzzo. Nonostante non fosse divenuto campione,  le basi ammaccate di quegli insegnamenti sorreggono le più raffinate conoscenze che ho appreso da grande.

    Bisognava farsi una scorza bella spessa, perché il mare non ascoltava le preghiere e neanche tutti  gli uomini  che stavano nelle città perdevano tempo ad assorbire i piagnistei altrui.
    Ora non mangio più salmoni.
    Mangio carne di balena, di foca o altri mammiferi…ma no, i salmoni no.

     

    Se un pittore si fosse trovato su quel campo, si sarebbe dannato l’anima per immortalare la luce giusta e i tratteggi delle pennellate.
    La nitidezza era impossibile da rendere giacché i Cavalieri Neri e i Soldati di Selene formavano i riflessi concavi e convessi di un mare nero, blu, grigio con florescenze di bianco.
    Mentre lottava , tuttavia, il danese udì un grido che traversò tutti i lapilli infiammati della battaglia….Un boato che fumeggiava spaventato e lontano….al di fuori delle mura….

    Apparteneva  ad una persona molto famigliare.

     

    Avevo nove anni e , dopo uno scalo e una sosta in Islanda, c’eravamo spinti nella Groenlandia.
    La pesca non era andata bene in quei giorni.
    E noi non potevamo commerciare senza pesce.

    Alla fine rimanemmo intrappolati nel Mar Artico, col carburante a secco, le radio rotte e la temperatura a sessanta gradi sotto lo zero.

     

    Per alcuni istanti Roald s’immobilizzò, limitando la capacità dei suoi timpani affinché riuscisse ad individuare la provenienza di quel messaggio d’aiuto.
    Era navigare nella pianura mortalmente silenziosa dell'oceano polare…Volò col pensiero seguendo un fruscio di passi che sgualcivano la neve con cadenze diversamente ritmate…Distinse una retta che arpeggiava regolarmente e un’altra rugginosa simile ad una slitta sgangherata…c’era un qualcosa che veniva trascinato con loro…

    Qualcuno fatto prigioniero.
     

    Noi non eravamo diversi dai pesci sudati che annaspavano tra le reti tirate dalle acque.
    L’equipaggio divenne azzurro, liscio e secco uguale a quarzo o marmo.
    Tutti morirono d’assideramento.
    I miei cercarono inutilmente di scaldarmi coi loro corpi.

     Io chiusi gli occhi pronto a dormire per sempre.

     

    Il guerriero guardò in alto, oltre il perimetro del piazzale: doveva avere l’assoluta certezza della fonte di quell’eco angosciante perché altri pericoli stavano per incombere.

    Gli unici elementi statici, impassibili, analoghi a secolari montagne erano le statue  dei Quattro Fiumi , personificazioni  dei  più grandi corsi d’acqua del mito. Disposte armoniosamente secondo i punti cardinali  reggevano enormi bacili d’argento: il Danubio era rappresentato da un nerboruto guerriero celtico in armatura ed elmo a calotta, il Nilo dalla divinità egizia Hapi dal corpo androgino e da una lunga acconciatura sormontata da un copricapo piumato, il Gange dalla dea indù Devi vestita di sari e il Rio della Plata da un sovrano inca dal viso spigoloso e con una fascia ornamentale che  cingeva la fronte.
    Solitamente nei giorni di tenebra fungevano da tripodi antropomorfi espandendo alle sommità pennacchi di fiamme ma sta volta avevano ogni scintilla misteriosamente assopita…

     

    Dopo quindici giorni mi ritrovai in una specie di clinica…non una clinica normale…un palazzo bianco dai soffitti dipinti in modo tridimensionale che riproducevano un cielo sofficemente rosa e arancione. Le alte colonne erano avvolte da un’edera verde rame sottile e profumata. Il letto era comodo e caldo.
    A vegliare su di me alcuni infermieri e un uomo e una bambina dai magnifici capelli rosso sangue.
    Erano molto gentili e quelle chiome non mi trasmettevano nulla di violento.
    L’uomo mi disse che stavo in un posto sicuro.
    Lui era il basileus di Calleos.  Pericle.
    La bimba era sua figlia  Artemis.

     

    Roald lasciò correre lo sguardo oltre le quattro statue, verso ovest dove, all’incrocio di due palazzi dove si trovava un altare commemorativo protetto da un’edicola di pietra. Era un piccolo monumento che proteggeva un busto apotropaico di Pericle.
    Più di una volta il guerriero l’aveva osservato per trovare conforto, esattamente nello stesso modo con cui  si rivolgeva da bambino, sempre serio, riservato ma con sguardo di dignitosa implorazione.
    E infatti trovò una sorta di vago sollievo.
    Non era stato l’unico a captare il misterioso urlo d’aiuto.
    Toma, seguito dal suo gruppo di militi,  stava correndo dal portale occidentale della città .

     

    Mi rivelarono che ero sopravvissuto per un processo inspiegabile: dentro di me il cuore aveva smesso di battere senza tuttavia far degenerare le cellule e i tessuti…successivamente aveva ripreso l’attività ricreando un’omeostasi lenta e salvifica. La mia temperatura interna si era alzata contrastando il clima rigidissimo esterno.
    Pericle spiegò che ero diverso dagli altri ragazzini e che sarei stato destinato a compiere azioni speciali.
    Io non capii nulla all’inizio e lo trovai ingiusto.

    I miei genitori non si erano salvati.
    A lungo andare però…mi scrollarono i loro stessi vecchi discorsi: combattere, continuare ad inspessire la mia scorza.
    Sì…continuare.
    I pesci nuotavano e potevano morire sui fondali oppure divorati dai predatori o dagli umani.
    La vita rimaneva quella con la differenza che ora affrontavo davvero qualcosa d’immenso.

     

    -       Roald! Roald! – gridò il giapponese dopo averlo raggiunto ansimante – dì’! Hai percepito anche tu quell’urlo? Quell’urlo che proveniva da fuori Calleos?!

    Il danese aggrottò la fronte e assottigliò le ombre dei suoi burberi zigomi:

    -          Sì, Toma. Abbiamo compreso entrambi la stessa chiamata.

    -          Sbaglio o avverto la presenza di altri due cosmi dirigersi qui?

    -          Non sbagli nulla….Altri nemici stanno per attaccarci….e della specie più strana.

    -          Apparterranno ai Cavalieri Neri?

    -          Dubito. Credo siano ben altro….

     Il tuonante lamento di prima assordò le orecchie dei due guerrieri.

    -          Dannazione , Roald! – esclamò Toma – se pensi anche tu quello che penso anche io…

    -          Nikita è stato fatto prigioniero! Presto! Avvertiamo Artemis! 

     

    La mia casa, la mia patria è Calleos.

    Non mi sognerei di abbandonarla mai.
    I miei sovrani, la mia famiglia sono Pericle e Artemis.
    Nessuna nave mi porterà via dal sacro, purissimo e celeste porto di Atena e Selene.

    Mi sono votato al perfezionamento assoluto, alla temperanza dell'’intelletto, alla castità liberatrice.
    Mi sono votato alla luce estrema degli angeli castigatori.


     

    Roald Damgaard

     

    ***§***

     

    Il danese finì tranquillamente di redigere il documento, neutro in perfetta simbiosi con l’asettica solennità della Camera delle Confessioni Remote.

    Anche se il marchio delle tre lune aveva ramificato il suo inchiostro cobalto nelle vertebre, non esisteva il brulichio lacrimoso della sofferenza.
    Quando si era sottoposto al rituale del tatuaggio non un rivolo di lamento era colato dalle sue labbra.
    Sapeva che il tributo da pagare per l’ascesa al Regno di Artemide era assai caro..
     ma il Cielo non sarebbe più stato il colore illusorio che s’appoggiava sul mare e che aveva un’infida consistenza impossibile da catturare.
    Mai più sulle mani sarebbero restate solo tremule  molliche  d’acqua. 

     

     

     

     

     

     

    Artemis si stava scontrando con Takashi , senza sconfinare oltre i ciottoli che disegnavano un fiore geometrico al centro del piazzale.
    Apparentemente calibrata in realtà era davvero inquietata dalle abilità dell'’avversario.
    Oltre che difendersi alla perfezione da ogni assalto corporeo , lui riusciva a scongiurare l’effetto venefico dei suoi fiori. A contatto con quella corazza ciascun bocciolo si scioglieva , prima deformandosi in un lamento di cera e poi sbriciolandosi. Il veleno delle rose mutava in vapore rossastro e neppure la rosa bianca osava penetrare nel pettorale per succhiare sangue dal cuore.  

    -          Vostra Altezza Artemis ! Io sono per il detto che le donne non si debbano toccare neanche con un fiore – rise  alla stregua di un divo consumato – vi prego, lasciatemi compiere la mia missione evitando che la situazione precipiti ancora di più!

    -          Voi diavoli danzate bene – replicò seccamente la ragazza – ma con troppe piroette finite per farvi venire il sangue alla testa!

    -        Beh, a dire il vero sono io che sto ammirando le vostre leggiadre movenze e…francamente mi sto scocciando di saltellare nella stessa postazione.

     La sacerdotessa guerriero strinse tacitamente i denti: si augurò con tutta l’anima che quel guerriero non avesse intuito il motivo di quella lotta che restava circoscritta al centro del ring….Sì, proprio nel centro in perfetta simmetria con la luna nascosta tra le nubi.
    Indugiare a lungo era estenuante e troppo rischioso.
    Doveva stritolare le forze della psiche senza abbandonare quelle esterne del corpo: stava pregando che l’astro notturno ricevesse una breve ma potente irrorazione dal Sole affinché si bruciasse divenendo arancio.

    -          Vedo che taci , reginella….hai la gola secca?

     Artemis prese a pregare mentalmente:

     “ Vergine Selene, padrona della notte e dei meandri di luce e ombra della natura…Lascia che il tuo  splendente  fratello Apollo scagli dalla biga dorata  uno dei suoi dardi infuocati….”

    -           Il tuo animo romantico è magnetizzato dal cielo? Vuoi la luna? Chiedi troppo!

    “ Afferra la punta della sua freccia, Selene! Lascia che la tua immacolata  pelle s’infiammi di bufera solare! Odi la mia implorazione, in nome della sorella casta Atena! Dirama la coltre dei nembi! “

    -          Adesso, sarà meglio richiamarti alla base Terra!

    Prima che Takashi espandesse l’energia di un altro attacco, la guerriera balzò in aria come sollevata da un nastro celeste:

    -          O grandi fiumi della terra  - esclamò – che le vostre acque siano il fertile nettare per la punizione della luna! O Selene scaglia il tuo fulmine di gelido oro sui profanatori di Calleos!  

    Le nuvole del cielo si strapparono violentemente al pari di ciuffi di capelli che venissero recisi da coltelli.
    I soldati di Calleos indietreggiarono con spaventata riverenza; in quel momento giunsero Roald e Toma che inarcarono le sopracciglia shockati.
    Cadde un bagliore diurno giallo e arroventato che mostrò il volto arrotato e tondo della luna. Un rombo dissonante e tellurico si propagò dai suoi crateri.
    Le Statue dei Fiumi reclinarono leggermente i piatti d’argento rispecchiando i lampi che gorgogliavano dal cielo. Le scaglie luminescenti dei loro specchi si allungarono formando quattro segmenti acquosi che s’incrociarono.

    Selene propagò un fulmine che infilzò il centro di essi.

    Una moltitudine di linee accecanti attraversò il terreno e , rialzandosi in tornado urlanti, travolsero i cavalieri neri che finirono a brandelli.
    I resti delle loro membra si trasfigurarono in aloni di  foglie rosse e violacee che  si raggrupparono a forma nebulosa galattica  nel nucleo dell'arena.

    Dopo che l’ultimo vortice defluì  in serpi di nebbia , gli specchi delle statue tornarono nella loro posizione consueta.

    Nessun invasore era a conoscenza che la piazza centrale di Calleos fungesse da altare sacrificale nelle evocazioni d’incantesimi apocalittici.
    Artemis, che aveva creato e perfezionato quella terribile modalità magica, mise i piedi al suolo esausta.
    Roald e Toma accorsero per sostenerla.
    Gli altri guerrieri di Calleos si occuparono di fare prigionieri i Cavalieri Neri superstiti ma un applauso sarcastico e roboante lasciò tutti sgomenti.

    -          I miei complimenti, divina Artemis! Ora dovrò spendere fior fiore di quattrini per fare più di cento esequie ai miei sciagurati combattenti! Ah!

    La sacerdotessa guerriero inorridì di rabbia quando la foschia si sciolse completamente.
    Takashi era vivo e vegeto. Aveva soltanto alcuni graffi e lividi e la sua armatura si mostrava spudoratamente intatta.
    Roald e Toma non riuscivano a spiegarsi la forza di quell’uomo: sebbene fosse un più che valente comandante, restava pur sempre un Cavaliere Nero! Per quale dannato prodigio  era sopravvissuto? 

    -          Sei talmente ripugnante che anche i Giudici del Tartaro non ti vogliono accogliere nel loro regno!

    -          Hai indovinato, regina! Non ho mai intrapreso liete relazioni con i bravacci di Ade!

    Eryx diluviò improvvisamente una serie di abbai allarmati.
    Rivolgeva il muso all’aria quasi avesse individuato degli uccelli funerei piombare dal cielo.
    I soldati non capirono a cosa si stesse rivolgendo il suo istinto ma dopo alcuni secondi prese forma una vaporosa pioggia di fiori. 

           - Ma…ma sono asfodeli! – mormorò Artemis – com’è possibile?

           - Maestra – svelò Toma- Nikita è stato catturato da esseri che non abbiamo capito chi siano!

    Takashi non parve turbato da quei volteggiamenti di petali d’oltretomba. Guardò in alto e togliendosi l’elmo per aggiustarsi i capelli pressati sbuffò infastidito:

    -          Ecco…Nomina un becchino di Ade e ti troverai ad inspirare l’aria balsamica di una cripta! Da morire di gioia!

     

     

     

     

     

     

    Era sicuro che le nocche sarebbero esplose in spruzzate di sangue sudicio e ossa spaccate.
    Nonostante Nikita lo avesse gettato dal dirupo, Ikki aveva nuotato nelle onde stringendosi ad un durissimo scoglio.
    Le narici del naso e la gola gli dolevano in modo così acuto che pareva che tremila insetti velenosi lo stessero massacrando di morsi in ogni capillare. L’acqua salata e ruvida, piena di granelli di ghiaccio, irritava di bianco bruciore la pelle lesa.
    I muscoli lividi delle braccia tentavano di reggere il corpo frustato dalle zampate dei cavalloni . Gli argini delle ferite si dilatavano identici a spicchi di un frutto molle sformati da dita brutali.

    Il ragazzo  contrasse i denti e le tempie tirandosi sopra la roccia.
    I capelli bagnati gli scivolavano sulle guance e sugli occhi continuando a grondare fiumane ghiacciate.
    Le gambe erano rigidissime e colme di formicolii. Le mandibole sbattevano secche, emettendo la musica vuota di chi non ha nulla da masticare per ammansire i tremolii.
    Sollevò il volto verso la Cascata Orientale di Calleos…due mantelli di cobalto stormente che biforcavano per via del muso di uno scoglio sporgente. Distanziavano da lui almeno un centinaio di metri, non molto giacché avvertiva miriadi di  gocce che lo pungevano lievemente sulle mani e sulla testa.
    Non poteva indugiare anche se il demone dell'’ipotermia lo stava tirando giù per le caviglie.
    Takashi , a dire il vero, non necessitava di lui per portare a compimento quell’onerosa missione…Quel….rituale. Eppure aveva insistito che prendesse una parte estremamente fondamentale in tutto quello.
    Si trattava di una “ firma” ( così aveva definito allegramente ) “ una firma da sottoscrivere in un patto di vitale importanza” …. Ikki ormai era avvezzo a sentire il puzzo marcio dei patti paterni ma quel maledetto rituale non lo tranquillizzava affatto.
    L’incarico che dovevano svolgere per Don Avido non prevedeva la sottrazione di un tesoro fatto di gioielli e oro. La pirateria c’entrava relativamente poiché si celava qualcosa di più grosso e anomalo.
    Cosa fosse lo avrebbe scoperto continuando a camminare in quella boscaglia di tane infernali. 

    Bisognava elevare la temperatura corporea, lasciare che la Fenice si scrollasse i cristalli brinati dalle ali per tornare a circolare nel sangue e sulle labbra cineree.

    Il ragazzo si staccò dal masso per spostarsi  verso la rapida…
    Si augurò che il vento non lo prendesse più in giro disperdendo richiami che mai sarebbero potuti materializzarsi dall’Occidente.

     

     

     

     

     

     

       Calleos era cosparsa da un manto di asfodeli dalle corolle tenere e appuntite.

    Un odore impolverato , dolciastro e pruriginoso  s’espandeva dai boccioli che parevano essere stati annaffiati da bicarbonato e latte cagliato.

    Nessun guerriero riusciva a parlare talmente quegli aromi si erano depositati nelle corde vocali simili ad un piovasco di pietruzze calcaree. L’aria aveva assunto una consistenza pesante che gettava un alone di nebbia sul terreno.
    Per la prima volta gli abitanti di Selene avvertirono un gelo lontano dalla secchezza casta della Groenlandia. Non era il fiato di crudele benevolenza dei loro inverni che comunque si denudava mostrando azzurrità. Era un freddo che derideva lane e pellicce  perché non penetrava solo attraverso la pelle ma nel cervello colmandolo di stalattiti. I nervi ottici s’intirizzivano assieme ai bronchi trasformandosi quasi in grumi di corallo ingessati.
    Artemis e gli altri videro incedere una losca figura dai contorni di smerlata tenebra…Si stagliava allungata contro lo sfondo bianco : non si capiva se fossero le nubi pallide a ritirarsi formando due profili sul fondo scuro, o fosse una macchia scura ad essere stata versata sulla superficie di un banco.
    All’inizio l’inquietante essere restò in un’ambiguità asessuata fino a che  le sue fattezze non si fecero nitide quasi qualcuno avesse tolto all’improvviso uno schermo di carta velina.
    Era  un  uomo stranissimo corazzato da una panoplia dai riflessi bluastri che eguagliava la sinistra leggiadria di una campanula.
    Avanzò con sardonica religiosità evitando di produrre qualche suono villano. Voleva fingere la timidezza di un invitato che bussa alla porta prima di entrare.
    A mano a mano che s’avvicinava i cavalieri ne scrutarono l’aspetto : era di una raffinatezza spettacolare eppure…possedeva una dissonanza interna che sprizzava perversione. Una criniera color zolfo, liscissima e molto lunga, scaturiva ipnotica spalmando riflessi metallici e candidi. Il viso era veramente bello e scabro da impurità , tuttavia emanava un orrendo lindore viscido. Il derma luccicava identico ai cadaveri imbalsamati preservati dalla decomposizione attraverso strati di cera. Le guance spianate, il naso ben edificato, le sopracciglia quasi fatte di olio giallo, componevano una maschera di funerea serenità. Un diadema corvino , da cui altalenavano due catenelle d’ossidiana, gli dava la tintinnante tetraggine di una bambola orientale.  

    -          Sudditi di Calleos – elevò con un tono di cenere che si solleva dal suolo –  spero che l’omaggio floreale che vi ho portato sia di vostro apprezzamento. Le vostre meste e scombussolate facce mi mortificano. Se sono stato scortese, credetemi, non l’ho fatto con cattive intenzioni.

     Artemis, riuscì indolenzita a scandire:

    -          A…a quale dannata armata appart-tieni?

    -          Non crucciarti, Maestra Artemis. Non faccio parte dell'’infimo ordine dei Cavalieri Neri, bensì offro i miei servigi ad entità impareggiabilmente superiori. Ahimè assieme ad altri valenti giustizieri siamo stati costretti ad accogliere pezzenti sulla nostra soglia….

     Takashi rise inviperito e contraccambiò:

    -          Ah! Noi saremmo i pezzenti venuti a mendicare davanti al vostro portone putrido di muffa? Avete aliti che puzzano peggio delle carie di Caronte! Senza i nostri contributi non avreste neppure la forza di camminare come zombi!

    -        Restringi le tue iperboli, Takashi. Il tuo becco di falco non fa che espellere idiozie e poi… mi sto presentando dinanzi gli spettatori.

     Artemis si accorse meglio dei suoi occhi che affogavano l’audacia di chiunque: ellissoidali, dalle cornee di  lubrificato nero su cui fiammeggiano dorate  i chicchi delle iridi.

    -          Tu…- domandò agghiacciata lei – che razza di guerriero sei?

     L’essere stese  le labbra grigie esibendo denti violentemente bianchi e diritti. Un bisturi pareva aprire un sorriso che faceva sgusciare sangue leucemico.

    -         Il mio nome è Biak , sono uno specter e il vessillo che servo porta il marchio di Ade. Le mie  stelle sono figlie del Negromante. Tra Morte e Vita il confine è fragile e sottile e io riconduco alla luce ciò che le tenebre imprigionano nell’eternità. Faccio sì che per i defunti ci sia resurrezione e un respiro che continui a viaggiare anche nel mondo superno. I miei precetti donano opportunità a chi parlar non può più.

     Toma, estenuato dalla soggezione della paura,  eruppe fumando fiato ardente dalla bocca:

    -          Dov’è il nostro compagno Nikita?! Cosa gli hai fatto?!

    Artemis lo fiancheggiò ammonendolo sottovoce:

    -          Non peggioriamo la situazione! Non sappiamo quali siano i poteri di questo spettro!

    -          E’ uno sporco servo dei sepolcri, Maestra! Non possiamo aver paura della tenebra noi che la vediamo qui a Nord per sei mesi all’anno ventiquattro ore su ventiquattro!

    -          Sciocco! Hai avvertito il suo cosmo? Ti sembra quello di un comune umano? È diverso dagli specter stessi!

    -          Può viaggiare tra il mondo dei vivi e quello dei morti! E’ una cosa comune ai cavalieri di Ade!

    -          Certo ma gli specter è gente viva in carne e ossa, lui….è….

     Biak interruppe la discussione con garbo arsenicato :

    -          Caro ragazzo,  la tua sovrana sta parlando ragionevolmente….Non è facile comprendere con chiarezza la mia essenza. E’ un onore che qualcuno vada oltre le apparenze. Però non guastiamo il piacere della sorpresa.

    Lo specter aprì la mano con scatto elastico alla stregua di una pianta carnivora che spalancasse le fauci.
    Il terreno prese a tremare e dalla neve s’elevarono lunghe spire d’aliti bianchi che virarono ad una tonalità cianotica e ondulata.
    Un ruglio aggrinzito, di superfici aspre che s’intrecciano a vicenda, dilaniò l’aria dando forma a quello che pareva un enorme albero dai rami annodati verso l’alto simili a capelli imbizzarriti.

    -     Ecco , Toma – spiegò con calma plumbea il Negromante – ora mostro a te agli altri la premura che ho riservato al vostro prode  Nikita.

     Ciò che , con la foschia aggrumata, figurava tronco si rivelò essere ben altro: una scultura che fece sobbalzare il cuore in gola  e collassare i polmoni sullo stomaco a tutti.
    Nikita era avvolto in una sorta di vortice bianco, fangoso e nero. Dentellati flutti di colonne vertebrali , appiccicate tra di esse con liane marroni e melma,  costituivano il cervice vorticoso di un calice che s’apriva a ventaglio all’estremità. Un gruppo circolare di casse toraciche e teschi portava una frattura al centro dove, stritolato da omeri, ulne e falangi, sporgeva lo sventurato guerriero. Gli occhi erano semiaperti e di un bianco pantanoso, privi di pupille e iridi. Le labbra socchiuse avevano preso una sgretolata  sfumatura nerastra mentre la pelle ,solitamente rilucente d’abbronzatura, era così marrone e acuita da rendere il viso una maschera triangolare e spettrale. C’era poca differenza tra una falena bruciacchiata e il corpo di Nikita.

    Takashi, con un ghigno di compatimento e disgusto,  commentò  ironicamente :

    -          Beh, non c’è freno agli osceni mezzi compositivi dell'arte contemporanea….molto meglio il neoclassicismo, lo dico sempre.

    Incapace di frenare l' ansia, Toma schizzò rapidissimo e urlò:

    -          Harunokori no hi!

     L” incendio della primavera ghiacciata” , due colonne avvoltolate da anelli arroventati che schiumavano fiori e foglie cristallizzati , venne estinta in un’enorme nube roboante di lapilli e stracci di petali.

    -          Amico mio – ridacchiò Biak con affabilità genitoriale – non occorreva il tuo intervento! Sono in grado di dissolvere da solo i fuochi pirotecnici degli adolescenti.

     Toma , Artemis e Roald furono i primi ad accorgersi che un'altra figura  era comparsa affianco dello specter. Un uomo ( se tale si poteva definire) coperto da una corazza medievale e che si muoveva a scatti , quasi possedesse dietro la schiena una chiave meccanica da giocattolo che azionava molle ferruginose .
    Eryx, stranamente non abbaiava e la padrona si preoccupò: vide quei profondi occhi neri lumeggiare timorosi e attratti da quei nemici. Il muso umido si protendeva teso e quasi pericolante e le zambe si erano irrigidite calamitate dalla neve.

    -          Perdonatemi, signori! – profuse il Negromante -  Il mio compare è talmente timido da apparire maleducatamente taciturno…è una persona particolare e non è abituata da tempo a familiarizzare. Mostratevi comprensivi con… Vesperus.

    -          Tu, il tuo golem meccanico e quell’altro rapace :  liberate Nikita e andatevene da qui!

    Artemis stava per emanare un attacco quando Roald la fermò:

    -          Maestra, no! Siete molto indebolita! Mettetevi al sicuro!

           -          Non darmi ordini! Porto la maschera della Luna e…

    Non ebbe il tempo di concludere la frase che Toma si avventò con tre lunghi salti contro lo specter.

    -          Razza di stupido! – gridò la sacerdotessa – che fai?!

    -          Signora! – la scosse il danese – guardate! Takashi è sparito!

    Eryx aveva ripreso ad guaire intanto che gli altri soldati correvano verso il Tempio della Neve Dorata. Il Falco si spostava ad una velocità così assurda da apparire e scomparire uguale ad una scarica pulsante di energia :

    -      Maledizione! – si esasperò la giovane – se tocca il giardino di mio padre lo riduco a pezzi! Roald, dobbiamo dividerci o saremo spacciati!

    -          Contate su di me.

     Mentre Artemis raggiungeva febbrilmente l’esercito,  Roald cercò di saldare ancora più forte i bulloni del suo spirito d’acciaio.
    Vesperus e Biak emettevano un tanfo di putrida fluorescenza.

     

     

     

     

     

    I fiotti e i fracassi della Cascata Est sbattevano e rimbalzavano sulle ferite rosse.
    Ikki si stava inerpicando sulle grosse e scivolose scaglie sassose fissando la sommità nasuta e soffocante del traguardo.
    Aveva recuperato parecchio tempo elevando le pulsazioni del cuore che si nutriva di scaglie di fenice.
    Continuava a incidersi nella testa una sequela di insulti e maledizioni al padre  , come fosse un tagliapietre che deturpasse una roccia .

    “ Devo raggiungere il canale orientale che esce dal Tempio della Neve Dorata”  rifletteva intorpidito “ e poi…attendere il suo segnale! Neanche fosse la chiamata di un dio….fanculo.
    Stendeva e fletteva i muscoli delle gambe evitando di notare gli squarci delle abrasioni che si dilatavano e si restringevano simili a sottili bocche asmatiche.

    “ Che diamine avrà in mente quell’uomo?! perché gli occorrono le Ali della Fenicie?! Bah…lamentarsi è inutile…una volta in pista si balla e punto. Se solo si potesse cadere sarebbe meglio ma non posso”.
    Un’ ondata pesta e rigonfia si stroncò sugli scogli inferiori in modo così forte che i suoi cocci seghettarono il dorso del ragazzo che era a più di trenta metri di altezza.
    “ chi è che mi vuole far cadere? Tu Maestro Guilty , che vuoi vendicarti , oppure tu Esmeralda?Non so mai sei tuoi occhi  sono nel nulla o sono dappertutto.   
    Il giovane voltò cautamente lo sguardo verso il mare Artico che sussurrava, urlava, fischiava e si zittiva con ritmo isterico , maestoso e triste.

    “ Almeno  Shun ti verrò a prendere. Puoi starne certo. E ti metterò al sicuro . ma….chissà se riuscirò mai a dirti ogni cosa….”

     

     

     

     

     

     

    Note personali:

    finalmente stiamo venendo a conoscenza delle storie di Nikita e Roald! Per me è stata un’occasione per sperimentare questa scrittura della memoria ( soggettiva),  frammentarla ai combattimenti presenti e creare così un confronto tra ciò che sono stati i nostri guerrieri e ciò che sono…
    è stata una parte parecchio impicciosa  così come queste scene di combattimento :S mi auguro di star rendendo bene tutti i protagonisti della scena….
    L’ultima parte del 20 sarà massimo tra 15 giorni perché l’ho conclusa ma le devo revisionare…

     

    Un grazie immenso per la pazienza e alla prossima puntata…

    Una crudele prova attende il giovane Toma.

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    Capitolo 36
    *** CAP 20 - veleno di luna: il Negromante ridente e il soldato muto ***


    CAP 20 - veleno di luna: il Negromante ridente e il soldato muto

     

     

    Mi sentirei sollevato se potessi vedere sangue.
    Cento volte ho impugnato
    una lama per conficcarmela nel cuore
    […] Spesso anch’io vorrei aprirmi
    una vena che mi desse libertà eterna.”

     ( J. W. Goethe)

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    §

     

    Città di Calleos

     

    *** Sacro Ordine dei Cervi Bianchi***

     

    Sezione Archivi Riservati

     

     

     

     Confessionis vitae antinqua  n IX

     

    7 settembre 1987

     

     

    Sono Toma Ozaki, ho quindici anni e il mio compleanno è il diciotto marzo.
    Non so di preciso descrivere Tokyo, la mia città natale…ho abitato fuori dal centro. Non ho la minima idea di come siano i quartieri alla moda, quelli finanziari  ecc…

    Ricordo perfettamente la mia casa. Posto bellissimo , magari troppo isolato per chi ha fame di grattacieli  in acciaio e magari troppo severo per chi teme i suoni dei gong che volano tra le mura dei templi.

    Combatteva per Calleos, la sua nuova dimora, la sua nuova ragione di vita eppure…vi era un sentiero alle  spalle che seguitava, segretamente, a lampeggiare richiamandolo attraverso una calda luce. Ormai sarebbe dovuto svanire seppellito da fredda cenere e invece riusciva ancora a respirare.

    Ogni sassolino rotolava in avanti incespicando tra i suoi piedi  e costringendolo a voltarsi indietro.

    Non doveva guardare un bagaglio gettato dalla stiva di una nave inarrestabile. Tutti i bauli normalmente affondano. Bisognava capirlo.
    Ma lui sapeva che non era così…una cassaforte roteava ancora sui mulinelli di un mare  custodendo la calorosa paglia del suo antico nido.

     
    Ecco…si entrava attraverso un vialetto marchiato da pietre piatte che avevano una circonferenza irregolare. Da piccolo le credevo enormi biscotti che mi accoglievano sotto i corpi distorti di bonsai e già mi facevano pregustare il sapore della merenda.

    La nostra dimora  era rettangolare e sormontata da uno di quegli spioventi tetti grigi epoca Edo. Acquattata sul prato verdissimo, attenta e serena,  si sviluppava tutta su un unico  piano. Possedeva un atrio dalle pareti lisce color crema decorate da qualche cartiglio che recava iscrizioni  sanscrite di protezione. Saliti tre gradini c’era una grande sala da pranzo che aveva una vetrata ampia che mostrava il giardino dove stavano una magnolia, alcuni mandorli e dei ciliegi.

    In primavera erano uno spettacolo unico ed io m’incantavo con faccia da ebete per vederli.

     
    Non era quello il momento di rimpicciolirsi a andarsene in giro per i corridoi della memoria con un triciclo giocattolo!
    Non poteva permetterselo davanti a quel nemico che sorrideva e scansava ciascun pugno.

     
    Le pareti che mi piacevano di più erano quelle della camera dei miei genitori…Grigio perlacee, ordinatissime ma per nulla fredde…Delle stampe vivaci e incandescenti le impreziosivano senza appesantirle e un letto matrimoniale  basso e morbido troneggiava con le sue coperte blu e rassicuranti. Sul cuscino sinistro c’era il profumo ruvido di muschio dei capelli neri di mio padre , mentre su quello destro s’avvertiva quello frizzante di fragola e sandalo di mia madre che aveva i capelli rosso-rame. Sì…lei era straniera, veniva dall’Europa , dall’Irlanda. Io e mia sorella gemella abbiamo preso da lei.

    Già…mia sorella Marin.
     

    - Coraggio , ragazzo! – lo esortava ironicamente Biak – Questo è un numero  mediocre! Scommetto che sei in grado di fare un’esibizione migliore!

     
    Dormivamo nella stessa cameretta gialla, con i futon vicinissimi per fare le battaglie coi cuscini e non aver paura dei temporali o dei fantasmi che provenivano dai cimiteri di campagna.
    Frequentavamo la stessa palestra di karate. Si trovava vicino alla nostra casa ed era un edificio molto antico che somigliava ad un grande tempio scintoista  in cui vi erano uomini maturi di mezza età e pochissimi ragazzini.
    C’era un sinuoso albero dalle foglie rosse che mostrava con le sue lunghe braccia un cancello di legno, il torii …che segnava quel favoloso confine tra il quotidiano e il sacro. Fuori la strada di campagna ombreggiata dai cinguetti degli uccelli e dai timidi suoni delle rare automobili , dentro un viale orlato  da cipressi ossidati. Quando veniva la sera, le lanterne s’accendevano come tanti melograni incandescenti.  

     
    Toma disegnò due semicerchi nell’aria e  face scaturire delle scie fulve e brusenti come uno sciame di api furibonde. Le scagliò in una pioggia di proiettili contro l’avversario sperando di colpirlo ma si accorse che fu inutile. Quest’ultimo lasciò uscire dalla bocca un vento piombo che rinsecchì  tutte le scaglie rendendole identiche a pruni morti. 

     
    Prima di iniziare i corsi, adoravo lavarmi le mani  sotto il chozuya, il padiglione di preghiera in cui vi è una lunga vasca votiva per fare le abluzioni…lì , io e mia sorella , avevamo vergogna di giocare…perché lo specchio circolare  del padiglione della palestra, lasciava scorgere il riflesso degli alberi scossi dal vento del silenzio.
    La passione per il karate era una filosofia di vita, una fonte d’acqua trasparente. Papà e Mamma erano dei campioni  e loro stavano attenti al nostro apprendimento. Affianco al tempio poi c’era anche una bella scuola in cui erano iscritti i bambini delle prefetture di campagna. Ogni cosa era collegata perfettamente e io e mia sorella apprendevamo e ci divertivamo in quello splendido ciclo.

    E io non ci posso credere che tutto sia terminato.
    Mi arrabbio spesso per questo.

    -          La tua frustrazione è così palpabile che mi pare di solleticarla – rideva Biak spostandosi  con le movenze fluttuanti di una piovra – la tua energia emana potenti rifrazioni ma nella sostanza è fiacca….Prima non possedevi quest’afflizione... Come mai?

     Il ragazzo si precipitò , pronto a colpire con una falcata di gamba, ma lui si smaterializzò in una schiumata di lubriche formiche alate. 

    -          Caro Toma! – esclamò con un tono accomodante e tarlato – capisco il motivo per cui ti senti così…Non vuoi più reprimere i reconditi battiti che devi avvolgere sempre in un duro panno.

    -          Piantala di blaterare! – cercò di urlare l’adolescente tra una tosse e l’altra soffocato dal grumo volante degli insetti spettrali – sei soltanto una carogna che striscia!

     Elevò un’ondata di fiammate azzurre che costrinse Biak a ricompattare le sembianze originarie.

    -          La tua tristezza si è incendiata  - giudicò incuneando le sopracciglia in alto in un’espressione dolente – allora le tue ferite sono falsamente cicatrizzate…Devi scusarmi ragazzo, purtroppo suscito quest’emozioni alle persone che incontro…E’ il mio agre destino.

    -          Non sei certo il mio medico!

     Il cavaliere provò ad attaccare di nuovo ma si rese conto che il nemico diceva la verità: da quando aveva iniziato il combattimento l’intensità delle sue mosse scemava gradualmente in una mollezza fastidiosa simile a quei sogni in cui si crede di dare un pugno a tutta forza e invece esce un colpo incredibilmente lento. 

     

    C’era un signore…un amico dei nostri genitori che non ci aveva mai convinto. Non comunicava nulla di cattivo, infido o viscido…anzi…Però osservava in particolare i nostri combattimenti  con sguardo serissimo, attento e una tristezza amara e insormontabile.
    Si chiama Mitsumasa Kido. E’  un aristocratico, un professore di storia e archeologia  che ha compiuto molti studi in Grecia e che ha  condotto numerose ricerche sulle arti marziali nel mondo…
    Quando riusciva, in alcuni fine settimana, veniva a trovarci e ad assistere volentieri ai tornei.
    Ammirava i karateki ma nel momento in cui osservava me e mia sorella si corrucciava pensoso…quasi intuisse in noi qualcosa di diverso e inquietante…ma cosa?!
    Alla fine degli scontri ci faceva i complimenti sorridente come se nulla fosse…i suoi occhi comunque tradivano una severità indagatrice e rammaricata. Ogni volta pareva volesse rimandare una pesante rivelazione che non avremmo mai accettato.

    E da lì a poco l’avremmo dovuta accettare.

     
    L’adolescente indietreggiò tentando di temporeggiare , riscuotersi e trovare una mossa per frastornare il Negromante e raggiungere la gabbia di ossa che imprigionava Nikita.
    L’amico non era ancora giunto alle rive dell’Acheronte poiché conservato in uno stato di essiccata ibernazione.
    Non bisognava comunque stare tranquilli : il confine tra coma e morte si poteva rompere in modo irreparabile.
    Però….v’erano gli occhi di Biak a calamitare  morbosamente l’attenzione….
    Quei bulbi neri,oceanici, e smarrenti in cui le iridi gialle e accoltellanti ticchettavano dettando una musica  lugubremente  affettiva .
    Toma, malgrado provasse viva avversione, non poteva fare a meno di fissare. Se se lo vietava avrebbe perso un appiglio troppo importante…
    Dipendeva da quello sguardo e non riusciva a disfarsene.

     
    Quel giorno orrendo a mia sorella capitò una cosa strabiliante. Correvamo nel cortile della palestra  durante una pausa allenamento. Aveva fioccato  e quindi quale terreno migliore per una battaglia a palle di neve. Mentre giocavamo, lei si fermò di  colpo. Mi disse di far silenzio.
    Stava sentendo le aquile delle montagne.
    Io, allibito, chiesi in che modo potesse sentirle da vicino visto che i monti erano lontani. Marin provò a spiegarmi la traiettoria di quei suoni disegnando strane parabole in aria che….diedero forma ad un disegno….un’immagine argentea e celeste fatta di cristallo e vapore.

    Apparve una gigantesca aquila luminosa! Spiccò il volo e si dissolse tra i rami dei cipressi in una pioggia fresca.

    Il Signor Kido aveva visto tutto….e comprese tutto anche quando verso sera mi sentii malissimo.
    Papà e mamma, che erano andati in città in macchina,  non facevano ancora ritorno e io , in preda ad una febbre improvvisa e incomprensibile, svenni.
     

    -          Sai  – riprese lo specter con il tono sibilante di una risacca marina – ho l’impressione che ti comporti come un bambino che stia nascondendo qualcosa di proibito alla mamma.

    Il guerriero avvertì le pareti della gola cozzare gelidamente l’una contro l’altra: sperò che l’avversario non potesse captare il sottilissimo strofinio che emetteva il piccolo tesoro che celava sotto la corazza pettorale.

    - Niente….- ribatté a cuore ondulato – niente nascondo alla Madre Luna!   

     
    Non sono sicuro che fu un sogno….in questa visione…mi vidi  invisibile , aeriforme e quasi inesistente. Ero senza corpo e stavo fissando questa figura alata ,  davanti a me, che portava verso un orizzonte di nebbia scintillante due ombre. Spaventato , urlai a quell’angelo di non portare nell’Aldilà i miei genitori….ma non ottenni risposta.
    Lo spirito traghettatore aveva capelli rossi e occhi azzurri.

    Ero io.

    Mi svegliai di soprassalto con un dolore fortissimo alla schiena. Pareva che mi avessero frantumato le scapole con due alabarde e infatti Marin era allarmata e il Signor Kido e gli altri atleti  avevano chiamato l’ambulanza.
    Perdevo sangue dal dorso. Si erano aperte, senza alcuna causa, delle ferite che poi si richiusero dopo alcuni minuti.

     

    Biak aveva previsto che la missione in Groenlandia si sarebbe rivelata interessante ma  non fino a quel punto. Da tempo desiderava analizzare i moti sottocutanei che percorrevano i Cervi Bianchi , elite guerriera famosa votata alla castità fisica e morale e alla rigidissima temperanza dei sentimenti remoti. Trovare un giovane che si lasciasse carezzare dal passato era davvero difficile e quell’adolescente dai tremebondi e aggressivi occhi azzurri aveva aperto fin troppi sprazzi di sregolata fragilità.

    Il Negromante avanzò con le catenelle della grande tiara che altalenavano incantatrici e gli occhi radianti di luce gialla da ceri di cubicoli.

    - Toma – spiegò flemmaticamente  - a te piace stare rintanato sotto fronde tenebrose affinché i raggi lunari non ti trafiggano…Sai che la Luna non è così immacolata e nitida. Tu detesti la tua sorte,  la tua prigionia tra fiori immortali e ghiacciai.

    L’adolescente restrinse le palpebre e i denti cercando di non portarsi la mano allo sterno e tradirsi ancora di più. Non si era mai sentito così stolto e danneggiabile uguale ad un frutto acerbo già pronto per cascare da un ramo.

     

    Un’altra ferita enorme stava per esserci inflitta: verso mezzanotte scoprimmo che papà e mamma erano morti in un incidente  sulla strada di casa.
    Kido ci prese in affidamento per due settimane senza disperdere inutili parole di conforto…
    Non esistevano discorsi che potessero costruirci una nuova casa….Cercò invece di spiegarci che la nostra attività di arti marziali sarebbe drasticamente cambiata e avremmo seguito altri addestramenti, prova da gente non comune.

    Possedevamo un cosmo speciale , la strada di una vita particolare e dura.

    Non capimmo granché, a parte il fatto angosciante di abbandonare il nostro Giappone ed entrare in contatto con altre persone.

    -          I tuoi piedi traballano – osservò lo stregone – qualcosa di pesante grava allacciato al tuo collo facendoti perdere l’equilibrio?

    -          Ti conviene pensare al tuo di equilibrio! – sbraitò Toma -  Yama no sakebi josho!

    Il “ grido della montagna nascente” gli traboccò dalle mani in un flusso di terremotanti anelli  concentrici.
    Senza scomporsi , lo spettro assorbì le ondate creando una palizzata violacea che effuse una concatenazione di altri frastuoni ancora più potenti di quelli di prima.

    Il ragazzo avvertì la rabbia e il panico salirgli al cervello simili ad un fluido annebbiante verde e nero.

     

    Prima che si concludesse quel mese infernale , il signor Kido ci condusse all’aeroporto.
    Durante il tragitto in macchina non aveva detto una parola e ci aveva lasciati vicini, attaccati l’uno all’altra sull’enorme sedile posteriore che pareva c’ inghiottisse tra fauci di pelle nera. 

    Arrivati a destinazione spiegò che saremmo dovuti salire su voli diversi….diretti in due diverse località.
    Grecia e Danimarca.
    Infatti notammo un gruppo di persone  che stava attendendo.

    Da una parte stavano  tre strane donne col  volto coperto da grossi occhiali neri e dall’altra due ragazzi che erano Nikita e Roald.

    Scoppiammo a piangere.

     

    -          Non comprendi ancora, sciocco,  che io sono l’unico che può fare qualche cosa per te? – lo rimproverò  tenero flettendo le labbra come ali di rapace – stai tanto male, in realtà…e hai tanta paura. Sei stato costretto a metterti una benda sulla bocca per non fiatare …in modo sconveniente.

    -          Che ne sai dei miei giuramenti, lurido schiavo di Ade! La melma dello Stige e le acque pure di Calleos non sono la stessa cosa! Credi che mi lascerò affogare da te?!

    -          Oh! Da quando, di grazia, staresti nuotando in superficie? Non ti sembra che i tuoi compagni e la tua Maestra ti tengano con la testa sottacqua lasciandoti scorgere solo un pallido riflesso di cielo?

     

     Mia sorella venne presa per mano  dalle donne e io fui trascinato via da quelli che sarebbero diventati i miei compagni di battaglia. Gridavo, scalciavo, cercavo di dare pugni ai miei  involontari carcerieri.

    Nikita tentava inutilmente di calmarmi mentre Roald, zitto, mi stringeva fortissimo il braccio. Alla fine urlò di smetterla minacciando di sferrarmi un ceffone.

    Tacqui. Non aprii bocca né durante lo scalo a Copenaghen, ne durante la traghettata fino in Groenlandia.

    Non riuscii a parlare neppure quando mi presentarono alla Maestra Artemis.

    Provavo collera. Paura. Soffocamento.
    Tre quarti del mio DNA non esistevano più.

     

    -          No…- mormorò il giovane – io so cosa voglio diventare….lo so benissimo.

    Anche se riuscì a ricacciare le lacrime dentro le ciglia, Biak si accorse che i suoi occhi erano umettati di sfumature rossastre.

    -          Con me puoi essere sincero – lo rassicurò – bastava la tua famiglia a renderti felice e invece guarda : sei arrivato qui, tra gente che crede in divinità che ti deprederanno dei pilastri della tua anima…tutto ciò che sei.

     Toma sferrò un pugno alla mascella dello specter che si ricompose  immediatamente raddrizzando la testa.
    Dalla bocca gli colò un viscoso rivolo di sangue fin troppo scuro, quasi nerastro. Di colpo si fermò vibrando leggermente e dopo si frastagliò ai contorni facendo comparire miriadi di zampette minuscole.
    Con immensa ripugnanza,  il cavaliere si accorse che quel rigagnolo si era tramutato in un sottile millepiedi che si rifugiò di nuovo tra le gengive livide del Negromante.

     

    Savia Atena…

    Selene, dea celeste, che guardi la terra….

    Non posso farvi alcun giuramento.

    Mi piace tanto il nome di mia sorella. Quando lo penso mi sembra di odorare l’aria dell'oceano o del vento buio e pulito che soffia nelle caverne delle montagne.

    Ogni lettera è un suono speciale e celeste…che compone il nome di “ Campana magica”.

    Lei è  musica magica e lo  vedo nella bella calligrafia con cui mi scrive.

     

    -          Mi dispiace convincerti con le maniere forti , ragazzo.

     Biak gli  assestò una botta di fulminea brutalità sul torace che lo fece cadere con la corazza in frantumi. 

     
    Atena, Selene e cara Maestra Artemis…

    I miei amici mi derideranno furibondi.
    Per adesso perdonatemi , vi scongiuro. Continuerò a servirvi con devozione ma non voglio pensare che un giorno metterò le ali e andrò via per sempre.

    Voglio rivedere Marin...

    La vera dea  del  mio focolare è soltanto lei.

     

    -          Toma, Toma, piccolo Toma…sei un pochino sleale verso l’Ordine dei Cervi Bianchi. Non dovresti avere questo…Sicuro che il sentiero per diventare angelo di Artemide  sia quello giusto?

    Il guerriero , con le costole che minacciavano di stritolargli i polmoni, vide lo specter che , chinato su di lui, rigirava tra le dita il suo tesoro.
    Una cordicella da cui pendeva una pietra azzurra circondata da una filigrana nera.
    Era il ciondolo che gli regalò Marin quando aveva otto anni…Appeso all’estremità un sacchettino di cuoio contenente la  prova di una puerile colpevolezza.

     

     

     




    Immergersi nell’anima di Vesperus significava trattenere il respiro guardando un fondale lordato di sabbia ronzante.

    Roald stava tentando di analizzare l’aurea nebulizzata del proprio avversario: non vedeva che razze di pesci nuotassero in quell’abisso, quali piante fossero morte da tempo.
    Tutto era un’eco guasta che proveniva da una radio che scrosciava sonorità prive di sillabe.
    A gambe erette, pugni chiusi e con volto di vetro , il ragazzo attendeva l’ennesimo attacco per valutare freddamente una mossa ben mirata che potesse dare  il colpo di grazia.
    Purtroppo Vesperus aveva un modo di combattere a dir poco controverso: pareva fosse semplice  buttarlo con la schiena a terra e invece mostrava un’incredibile solidità. Un albero dalle fronde molli e lattiginose con un tronco di ferro.
    Lo strano armigero si avvicinò ciondolando, con una balestra nera retta con mani precarie. Le gambe compievano movimenti liquefatti e i tacchettii della corazza sembravano iniettare ruggirne in fibre vuote. Il capo era proiettato giù e dondolava ebbro e svitato.

    “ Una mente pensante è assente” considerava il giovane “ è indubbio che sia la marionetta del Negromante…eppure è realmente morto?” 

    Lo pseudo - automa avanzava tentando di guardarlo negli occhi ma tornava sempre a scrollare il volto a terra.

    “ Che essere inclassificabile. Le sue batterie potrebbero cadere a pezzi proprio ora…”

    Vesperus s’immobilizzò e restò per alcuni secondi  spento. Persino l’armatura si opacizzò quasi fosse un esoscheletro che smagriva di linfa.

    “ Bene. E’ in letargo. Sarà meglio ridargli la cognizione del tempo.”  Roald si mise in posizione d’attacco con gli avambracci sollevati. Partì veemente cercando di sferrare un colpo all’elmo dello specter ma costui reagì altrettanto repentinamente: scansò con agilità inaudita l’assalto, si spostò verso sinistra e imbracciò il mangano scoccando il dardo.
    Il ragazzo lo evitò saltando e lasciando  sbriciolare una grossa roccia. Altre frecce si librarono contro ma lui le scavalcò tutte a mo’ di gradini taglienti e sferrò una temibile pedata all’avversario che si riversò al suolo. In fretta come prima e con disinvoltura felina, costui si riappropriò dell'’arma e scheggiò un’altra folgore  che colpì quasi invisibile la gamba destra del ragazzo perforando il paracosce.
    Egli capitombolò sulla neve riuscendo tuttavia a risollevarsi sul ginocchio e sulla mano sinistri. Stringendo i denti e con un lieve brontolio si strappò via la punta della freccia: era fatta di leggera e affilatissima selce e il sangue gli sgorgò dal quadricipite in ruscelli zigrinati e rapidi.
    Si rialzò deglutendo qualsiasi lamento di dolore.  Non doveva perdere tempo a contorcersi , il cervello lo proiettava oltre il calore agre della ferita che sbavava.

    Vesperus si mostrava un guerriero dall’inquietante imprevedibilità. Bisognava evitare di dissolvere energie inutili perché non c’era soltanto Nikita da trarre in salvo.

    Da molti minuti percepiva Toma che annaspava sbattendo furiosamente le braccia. All’orizzonte il Negromante aveva innalzato una polvere che odorava di lapide.

     

     

     

     

     

    Takashi era ormai alle porte del Tempio della Neve Dorata. Sotto il protiro di colonne doriche fatte di alabastro, Artemis e i suoi soldati stavano combattendo contro di lui.

    Il falco scaraventandosi , artigliando e tornando alla posizione di partenza  faceva disperare chiunque. Quindici guerrieri , che giacevano proni o supini  sulle larghe scalinate calcaree, erano stati trucidati in un battibaleno. Senza emettere attacchi di consistenze possanza, il cavaliere nero aveva spaccato corazze uguali a gusci di ostriche e con bestiali calci era riuscito a sfondare casse toraciche e crani incastrando le ossa nei polmoni e nella materia cerebrale. 

    La regina di Calleos  fissava irata e impotente i cadaveri sfigurati dei suoi uomini che esibivano sterni liquefatti nel sangue e crepature erompenti di  sostanze flosce e viscide.
    Avrebbe voluto fare molto di più per salvare quei fedeli discepoli ma la mente stava azzoppata dall’atroce fiacchezza.  La circolazione strisciava faticosamente nelle vene ed era un miracolo che riuscisse a reggersi sulle gambe.
    Eryx, anche lui contuso in più punti e col fluente pelo bianco lordato di chiazze scarlatte,  obbediva alla padrona trascinando via i  feriti per allontanarli dal nemico. La dedizione di quel cane era incredibile : nonostante avesse quasi dodici anni non aveva intenzione di far cedere le zampe martoriate.

    -          Maestà – sghignazzò Takashi protendendo un sorriso clownesco – credo che dovresti concedermi l’onore di visitare i giardini pensili della tua Babilonia artica…Sai, non voglio continuare a inzaccherare i gradini di questo splendido edificio.

    Artemis scalò i gradini col respiro affannoso:

    -          No…no….tu non vedrai mai quei giardini….

    -          Su, non essere ottusa regale fanciulla…C’è sempre una prima volta.

    La ragazza, raccogliendo la rabbia biliare per mutarla in gelo tagliente, scattò rapidissima avvicinandosi al nemico.
    Proiettò gomitate, ginocchiate, mulinelli di gambe. Takashi restò sinceramente sbalordito mentre si schermava colto alla sprovvista.
    La sacerdotessa saltava coi nervi di una gazzella e graffiava lanciandosi come un ghepardo mentre l’uomo arretrava e si scansava simile ad un reziario in difficoltà.
    Per darsi la giusta propulsione ella balzò sul fusto di una colonna e poi sulla parete ombreggiata del tempio. Arrotolandosi  in una matassa di salti mortali, si distese e  piovve sulla testa del rivale . Lui però la ghermì per la caviglia e la lanciò con violenza contro i portali del santuario che si spalancarono in fracasso.

    La sventurata crollò sul pavimento della navata centrale, rotolando e balzando per quasi venti metri.

    Si fermò quasi priva di sensi sotto la cupola tratteggiata da raggi lunari.

     Prima che i soldati potessero raggiungerla per soccorrerla, Takashi giganteggiava già vicino a lei ridendo uguale al conduttore di uno spettacolo che dovesse presentare al pubblico una premiazione.

    -          Perdonami, regina. Non è nel mio stile danzare una polka selvaggia con una splendida donna.

     La tirò su  in malo modo per i capelli lunghi e  ammirò le sue contusioni sanguinanti. La bella  corazza era rovinata e la divisa chiara presentava lacerazioni impolverate e rosseggiate.

    -          Notevole, bambina mia- commentò lui – sei ridotta maluccio ma non hai ancora le ossa rotte. Meglio così. Un' attrice coprotagonista , un'etoile deve brillare fino all'ultimo...

    La sacerdotessa non riusciva a rispondere talmente era intontita dalle percosse della caduta e il sangue farfugliava debole e pallido nelle membra.

    -         Non abbatterti – rimettendola per terra- ora assisterai al gran finale. Tranquilla. Non rovinerò il tuo tempio. Basterà agire in questo modo.

     Proiettando il braccio al centro del transetto scatenò una scossa sotterranea che fece crollare le mattonelle a scaglie di pesce.
    Sotto v’era il tunnel segreto che conduceva al Tempio di Artemide.  Un’aorta rocciosa che collegava i due santuari gemelli.

     

     

     

     

     

    -          Aphro! Che cavolo ti prende? Stai toppando alla grande!

     Erano ancora le otto e mezza di mattina vicino alle mura di….. a  Siracusa.
    Aphrodite si stava allenando commettendo errori grossolani mentre  Death Mask lo analizzava con cipiglio irritato chiedendosi cosa lo inducesse a non schermarsi adeguatamente nei momenti  di difesa oppure per quale motivo attaccasse quasi sfibrato del consueto e frizzante smalto.

    -          Aphrodite! – esclama ruvidamente -  Svegliati! Sei diventato un pezzo di ricotta?!

     Diede all’amico  un pugno in petto, neppure troppo forte, che lo fece cascare in ginocchio sul terreno ghiaioso.

    -          Stai facendo mosse vomitose! – lo strigliò afferrandolo con mala grazia per il braccio affinché si rialzasse – mi spieghi mo’ quale valvola non ti funziona nel cervello?

     Scostante e illividito , lo svedese si mise a sedere su un masso a capo chino.
    Cancer soffiò  arrochito dall’impazienza:

    -          Sta mattina è iniziata ‘na merda, capisco. Ci siamo sputati ingiurie , bestemmie* …e ci siamo presi a mazzate. Hai menato forte , diamine! Perché non lo fai ora?!

     Aphrodite si nascose il volto tra le mani, gonfiando e appiattendo  il dorso con  inquieto ritmo.

    -          Senti , bello, ho i coglioni che girano peggio dei mulini a vento. O mi spieghi finalmente che cazzo ti piglia o ti meno giù dal colle!

    -          Mi…mi…sen…- tartagliò l’altro.

    -          Cosa? Dì’ ! parla!

    -          Mi sento…male….davvero.

    Il cavaliere dei Pesci sollevò il viso :  era stranamente arrossato e umido e gli occhi sgranati  avevano assunto una tonalità vetrosa e  stirata. Delle occhiaie si appesero sotto le ciglia inferiori. Death capì che lui non stava mettendo in scena alcuna sciocca geremiade.

    -          Che hai Aphro? – insistette angustiato – cosa ti senti?!

     Il ragazzo si strinse nelle braccia rabbrividendo di ribollimenti confusi, la bocca rigonfia di un bordò ammaccato e traballante. 

    - Lei…- riuscì a rispondere con tono esfoliato- lei...Artemis….Artemis

      

     

     

     

    Ikki, coi muscoli acidificati e di piombo, raggiunse la Cascata Est stramazzando sulle rocce di gelo secco e sibilante.
    Per nulla lo confortava lo sciabordio e il nitore delle acque del canale.
    Capiva che tra qualche istante avrebbe dovuto eseguire l’ordine di suo padre. Cosa sarebbe successo lo ignorava e lo  rendeva furente ma la stanchezza inchiodava al suolo e gli evitava l’ulteriore sofferenza di guardare il cielo nebbioso e libero.
    Doveva però sollevarsi e osservare meglio il luogo circostante. Aiutandosi con le mani gonfie di scorticature e le ginocchia intorpidite si alzò : la linea dell’estuario era ghermita ai lati da rovi intrecciati simili ad arabeschi sbiancati di gelo. Tra i luccichii acuminati delle spine e le foglie zigrinate, fiorellini turchesi, somiglianti a margherite di campo, ingentilivano malinconicamente quel gioco di ansiosi e ruvidi riccioli.
    All’estremità finale il fiume biforcava entrando in due enormi grotte che mostravano, quasi sbadigliando minacciosamente, file di stalattiti venate di aerei riverberi acquatici.
    Al di sopra di quegli incavi sorgeva , ancora più impressionante, la cinta muraria orientale di Calleos, plasmata nella pietra viva, emanazione di una magia divina.

    “ Ikki…Ikki….” sfrigolò un subdolo vocio telepatico “ figliolo, pazienta ancora alcuni minuti per il tuo paparino e per il tuo avvenire…Vedrai che nessun Cavaliere eguaglierà il fulgore del tuo sangue! “   

     

     

     

     

    Il cosmo di Toma emetteva ad intermittenza sprazzi d’energia che schiumavano nel nero totale. Roald aveva , oramai, la certezza che il Negromante fosse una nefasta balena che ingoiava l’amico, lo silurava da un angusto sfiatatoio per poi intrappolarlo nuovamente.
    Come se non bastasse Vesperus stava atrocemente aumentando la disinvoltura delle movenze di battaglia.  Il danese lanciava diversi dei suoi attacchi più veloci che venivano ridotti in schegge luminescenti dagli incredibili dardi della balestra. Si faceva pressante la convinzione che vi fosse un collegamento tra Biak e il cervello pseudo meccanico dello schiavo corazzato.

    “ Assurdo! “ rimuginava frustrato il giovane “ non si è mai visto uno specter o un altro guerriero divino in grado di avere il dono dell’ubiquità! Il Negromante è presente nel campo di battaglia di Toma e nella testa di lamiere di quell’essere!”

    Balzava sul terreno e saltava per deviare i manrovesci del nemico che schizzava con la sconsiderata furia di un orso.

    “ Toma! Ti stai facendo maciullare i nervi dai trucchi di quel fattucchiere? Non puoi commettere idiozie mentre dobbiamo salvare Nikita! “

    Vesperus gli colpì di striscio la tempia che , pulsando raggrumata, fece scivolare sangue.

    “ Toma! Sei uno stupido moccioso! “

    Il cavaliere automa lo falciò con il fianco della balestra sollevandolo violentemente da terra. Roald non distinse il gorgoglio del sangue che gli sovraffollava le meningi e il rumore livido del corpo che carpionava disperdendo pezzi d’armatura.
    Un uomo normale sarebbe morto con le costole in poltiglia e le viscere tritate.
    Quando sbatté sulla neve alzando spruzzi macchiati di cremisi , sentì quattro ossa incrinate , il fegato incastrato nell’intestino e un ematoma che gli marchiava l’addome.
    Nonostante la testa girasse dolorosamente, la tempra ghiacciata del suo animo, rimise a tacere ogni sfarfallio di vertigine .

    Vesperus scagliò altri tre dardi che lui afferrò con sconvolgente destrezza. Lasciandoli  lievitare in aria li dispose a mo’ di triangolo che si venò di salinature luminescenti.

    -          I messaggi tornano al mittente – esclamò – dardo della giustizia di Odisseo!

     Un’unica freccia violacea e fremente si formò travolgendo l’avversario che tracollò al suolo.
    Il ragazzo corse più veloce che poté verso la muraglia di nebbia cinerea eretta da Biak. 

    Aphrodite non riusciva a stare in piedi senza vacillare. Percepiva  i contorni dei colli  e dei massi in rovina sovrapporsi, disciogliersi nell’azzurro tiepido del cielo  e poi brusire confusamente sugli stridori dei gabbiani e lo stropicciamento degli alberi.
    Death Mask ormai non faceva più battute perché vedeva l’amico più bianco della ghiaia che incideva l’erba , con le ciglia semicalate in un’espressione di mortifero sonno.

    -          Aphro, vieni – lo incitò sollevandolo di peso – è meglio se ti sdrai nella tenda prima di crollare con la testa a pezzi.

    -          No…no…aspetta….

    -          Aspetta cosa, scemo?  

    -          Lei, Artemis…

    -          Tu non sei innamorato ma sei drogato di quella donna!

    -          Death! È in pericolo!

    Cancer si fermò e tacque aggrottando le sopracciglia e spalancando le palpebre.

    -          Credimi – balbettò l’altro – il suo sangue…respira troppo lentamente…

    -          Che intendi dire?

    -          Ne ha poco…lo percepisco...nel mio corpo…c’è metà del suo sangue. Nel suo corpo c’è metà del mio…in Groenlandia sta accadendo qualche cosa.

     Dopo che ebbe concluso pesantemente la frase, venne stritolato all’esofago da un violento conato di vomito.

    -          Aphro! Cavolo ,devi sdraiarti!

    -          No.!No! devo…

    -          Che diamine vorresti fare? Non dirmi…

    -          Devo andare a Calleos ! 

    -          Sei fuori dai coppi! Non puoi teletrasportarti!

     L’amico lo artigliò  per il braccio e lo perforò con un’espressione aggressiva e implorante:

    -          Death. Ho bisogno del tuo aiuto!

     

     

     

     

     

     

     

    Il suolo scolava verso l’alto fluido, bianchiccio e friabile.
    Il cielo roteava verso il basso quasi fosse marmo nero di scie selciate.
    Toma ormai non capiva né dove poggiassero i suoi piedi né cosa spannasse la sua testa. Era un piccolo  frammento d’asteroide  che galleggiava nello spazio profondo.
    Avvertiva le membra alleggerirsi in maniera rimbombante, quasi che al posto del sangue gli stesse cominciando a scorrere etere.

    L’unico essere che restava saldato era il Negromante, inattaccabile nel centro di quel vortice obnubilante.

    -          Lo so , Toma… per te le ossa non sono meri e taciti resti…Possono parlare.

    E il ragazzo cercava di arrestare quel moto ma sapeva che la ragione fredda stava andando in necrosi.

    -          Lasciami! Lasciami!

    -          Quando dormi da solo non ti aggrappi alle ululanti costole dei tuoi genitori? Loro suonano tristi e vuote….vorrebbero di nuovo farti sentire la carne dei polmoni e del cuore che custodivano per tenerti ancora più vicino.

    Nessuna mossa vincente gli riaffiorava nel cervello…Scrutava e scrutava invano tra mille corridoi e mille atri senza trovare un’uscita di sicurezza. Era il passeggero di una nave che si stava riempiendo d’acqua serrando ogni maniglia.

    -          No! - continuava a sperare reclamando - io sarò un angelo di Artemide! Me ne andrò dalla terra!

     Biak volteggiò al suo fianco lasciando spirare un’aria olezzante di granito e fiori seccati.

    -          Davvero? – lo pungolava - E in che modo potrai spiccare il volo se la tua schiena è troppo piccola per delle pure e grandi ali?

    -          C’è il marchio della luna sulla mia pelle!

    L’adolescente urlò all’improvviso come se artigli di nibbio fossero riusciti subentrare negli strati di carne per giungere vicino alle ossa. Arroventati fiotti di sangue presero a impregnargli la stoffa della casacca e premere sulla pelle schiacciata dalla corazza rotta.   

    -          Questo marchio sta grondando sangue , Toma – disse il Negromante toccando la ferita - Artemide sa bene di non poter riporre la sua stima in te!

    -          Maledetto schifoso! Hai contaminato il sacro sigillo!

    -          Oh, no ragazzo mio….vedi, molte volte gli esseri umani vivono di scuse e di bugie e tu non fai eccezione.

    -          Vattene!

    Biak ghermì con violenza il capo del guerriero costringendolo a fissarlo in volto. Le mani gelate  erano disposte a mò di rete  , alla stregua di una maschera di ferro per condannati.

    -          Guardami negli occhi ! Valuta il dono che ti sto per porgere! Nel nero che cogli nuotano due fiamme …i cuori dei tuoi genitori…riesci a sentire i loro battiti?

    Lo specter sgranò gli occhi tondeggiandoli in maniera orrenda , schiudendo due gole di caverna.
    Dopo i primi secondi di letargo terrorizzato, Toma restò incantato dalla luce degli iridi….
    no….non erano iridi…erano due belle lanterne d’oro che i genitori avevano appeso per lui e Marin. Quel buio…era oscurità famigliare …erano le dolci orme proiettate dalle finestre chiuse della loro stanza.

    -          Io…io…li…li…sento! Li sento!

    -          Posso riportarli da te. Sarebbe magnifico vero? Finiresti di asfissiarti in dubbi, tormenti e apparenza! E poi non trovi che anche la tua sorellina tornerebbe a essere felice?

     La voce di Biak era identica a quella fresca e arieggiata di suo padre.

    -          Marin…

    -          Sì, dopo che avrò strappato dalle tenebre dell’Averno i vostri genitori, vi permetterò di unirvi e andare via su una strada di luce e pace.

    -          L-luce e…p-pace?

    -          Sì…io sono nato per concedere un’altra alternativa alla morte.

    Una ventata rossastra e improvvisa mandò in fumo la tenera trappola.
    Una trafila di triangoli roteanti rigonfi di saette strepitò scavando il terreno.

    -          Prisme af rod frost!

    Roald imprigionò in un prisma roboante il Negromante: portava Nikita su una spalla mentre a terra erano disseminati i brandelli ossei e cristallizzati della gabbia.
    Toma giaceva bocconi sulla neve con la testa ancora ficcata in una nebbia di ebbrezze: la forza di gravità faceva tornare tutto come prima , simile ad un calice che cessato di essere scosso facesse distendere la superficie di un liquido.  

    -          Toma! Toma! – esclamò adirato il compagno raggiungendolo – cosa pensavi di combinare?!

    Lo tirò su in malo modo scuotendolo per la spalla.

     -          Io…io….- balbettò inebetito con gli occhi opacizzati – ero a casa….con…la mia famiglia….

    Roald  sferrò un ceffone così potente che gli fece sanguinare la bocca.

    -          Dunque – sentenziò con tono sordo  – ti stavi lasciando rimescolare le cervella alla stregua di un invertebrato?! Tu che appartieni ai Cervi Bianchi?

    Toma si tastò tremante la lesione della bocca e quella della nuca senza replicare nulla.

    -          Sanguini pure dietro il collo… – osservò a denti stringati  il danese – meriteresti di finire sotto le acque dell’Artico ma non possiamo perdere tempo. Aiutami con Nikita.

     Mentre Biak smuoveva le braccia per liberarsi dal prisma, l’adolescente barcollò ricadendo in ginocchio.

    -          Maledizione! – vociò Roald  – riprenditi! Non sei più un marmocchio!

    Due frecce velocissime lo colpirono al costato e la gamba sinistri mentre un’altra gli si conficcò nell’avambraccio che reggeva Nikita.
    Vesperus, con incredibile agilità, gli aveva raggiunti.
    Biak fece esplodere la teca che lo rinchiudeva e camminò verso i tre guerrieri che erano prostrati a terra.

    - Ammira, buon Vesperus – sorrise – renderò il mio monumento di spoglie umane ancora più sublime e tu , caro amico…otterrai maggior linfa. Ci dobbiamo affrettare, prima che quel nefando di Mefistofele si appropri esclusivamente delle Reliquie Arcane.   

     La scultura di ossa si ricompattò prendendo le sembianze di un serpente bianco e limaccioso che , dilatando le fauci di costole , inglobò Roald, Nikita e Toma.

     

     

     

    -          Coraggio, Maestà! Cerca di rinvenire!

    Takashi sbeffeggiava la stordita Artemis portata piegata in due sulla spalla allo stesso modo di una cerva abbattuta in una spedizione di caccia.

    -          Manca ancora qualche metro all’ingresso del giardino che ti ha donato papà Pericles! Non vorrei che tu finisti addormentata all’ouverture del mio spettacolo!

    Il budello sotterraneo che collegava il Tempio della Neve Dorata a quello di Artemide stava per concludersi. Il monotono incedere dei rigonfiamenti grigio scuro delle rocce  illuminate da lanterne verde acqua lasciava spazio ad un portale circolare. Sopra la superficie marmorea, era scolpito con elegante maestria un basso rilievo della dea Artemide voltata di profilo che tendeva l’arco circondata dalla falce lunare.

    -          Guarda come sono pio, Artemis! Senza scalfire quest’opera d’arte entrerò nel tuo eden.

    Mosse silenziosamente la mano libera seguendo un disegno invisibile composto da cinque punti incogniti. La giovano imprecò biascicando:

    -          Dannato…c-come…hai…

     Il portale si schiuse barrendo metallico. Una luce dolce fece capolino con l’aria di una bambina sorpresa dal sonno.

    Il falcò entrò e fece capitombolare Artemis su un cespuglio di fiori gialli.
    Si guardò attorno fischiando meravigliato: le colonne corinzie che traboccavano d’edera, il bacile centrale  d’acqua leggera e frusciante, la cupola di cristallo con inciso il disegno di una rosa...

    -          Splendido, davvero splendido – mormorò l’uomo col sorriso di un assaggiatore di pietanze – non vi è dubbio che qui sotto possa celarsi lui.

    Artemis si puntellò sui gomiti tentando di drizzare la schiena sebbene le ferite sanguinanti erano una tela di artigli che la costringevano a terra.

    -          Vedi, Altezza – continuava solenne il Falco – le radici di queste piante, il profumo dei fiori, colano talmente nelle viscere della terra che neppure il sommo Pericles le conosceva fino in fondo. Qui si cela il dispensatore dell'aurea casta e florida che ha concesso questo dono…Credi siano bastati la composizione dell’acqua e la chimica di un uomo a produrre tale miracolo?

    La sacerdotessa tremante di dolore si mise a sedere mentre il nemico spiegava caldo e beatificato:

    -          Forse penserai all’intervento della vostra Artemide o forse di Demetra. Ebbene no. Si tratta di qualcosa di letteralmente scottante… Scottante di una luce ancora più elevata dell'Olimpo. Adesso è giunto il momento che io tenga fede ad un sacrosanto patto.

    -          Dei tuoi patti – sibilò irata Artemis – dei miracoli che tu farnetichi non m’importa nulla. Questo tesoro l’ha creato mio padre e basta.

    -          Non metto in dubbio il talento di Pericles….Sto soltanto mostrando una grossa verità che voi incoscienti avete gratuitamente sfruttato.

    -          Tutto è stato eseguito nella legge dell’armonia  creando una possibilità di vita anche qui!

     Takashi sorrise polveroso accostandosi alla ragazza.

    -          La tua presunzione di figliola prediletta soccomberà e lo vedrai iniziando a versare il tuo contributo.

     La ragazza traballando si issò in piedi tirando sopra gli avambracci , divaricando leggermente le gambe e stringendo ogni capillare.

    -          Bene, Falco…ecco la mia ultima offerta – rispose brancolando -  crimson thorn!

     Tutto il sangue che grondava dai tagli  si slanciò violentemente dalle membra in una straordinaria tempesta di gocce affilatissime e velenose pronte a crivellare l’avversario. Era un’esplosione di carnosità inebriante , il rombo nero di una supernova che versa le ultime lacrime fluorescenti.
    Ridendo estasiato, Takashi spalancò le  braccia e accolse quel flusso scarlatto di energia in una sfera luminosa e palpitante.

    -          Ti sarò eternamente grato Artemis per la tua fascinosa avventatezza…Per principiare il mio rituale occorreva il sangue limpido di una vergine guardiana.

    Svuotata, piena di pesantezza cinerea e sorda, la fanciulla rovinò per terra e la maschera singhiozzò in una sottile crepa.

    -          O linfa incontaminata e profana – pronunciò Mefistofele – conficcati nelle acque trasparenti di questo bacile….ombreggia di cremisi ogni onda.

     La sfera veleggiò per una breve frazione d’aria quando si immerse nella conca  disperdendo i suoi flutti rubini. I riverberi celesti e bianchi delle lievissime ondulazioni d’acqua avvamparono brutalmente impregnando di luce rossa tutto il giardino.

    Mentre la terra prendeva a tremare un abbaio sempre più insistente si avvicinò all’ingresso del cortile sotterraneo: Eryx , avendo fiutato l’odore aspro delle ferite della padrona,  aveva percorso, lercio e contuso , tutto il sotterraneo del Tempio della Neve Dorata.
    Scavalcato il portale di Artemide si precipitò sul corpo della ragazza. Lo annusò, lo spintonò con il muso emettendo guaiti  e , constatando che non riusciva a riprendersi,  aprì le mandibole e la trascinò per un braccio allontanandola dalle incombenti spaccature del suolo.

     

    “ Ikki…” avvertì rimbalzare nel cervello il cavaliere della Fenice “ Ikki…è giunto il momento. Invadi con le tue piume di fiamma i fiumi davanti a te. Incendia il tuo cosmo e fai evaporare ogni goccia d’acqua…”

     Il ragazzo fissava allibito il torrente formare una condensa vermiglia e quasi mugghiante…All’isola di Death Queen era abituato ai solfuri che fuoriuscivano dal terreno lavico ma sta volta percepiva come una trappola sconfinata…un presentimento che lo risvegliò brutalmente dall’inedia che lo aveva arpionato per tutto quel tempo…Era un ingranaggio di quell’enigmatico e inquietante rituale…

    “ Allora, Ikki? Esiti? Evoca la tua costellazione...e il tuo avvenire ti potrà condurre a scavalcare le gerarchie dei Cavalieri d’Atena…”

    Le parole del padre rintronavano e rintronavano, una canzone odiosa che costringeva ad ascoltarla quale unica melodia a disposizione di una radio dispotica.
    Più per paura atterrante che per sincera convinzione l’adolescente aprì gli arti superiori e, simulando, un potente battito d’ali,  urlò per non udire la  coscienza che gli ordinava di disobbedire:

    -          Hoyoku Tensho! 

    La fenice eruppe imponente e , levando strie taglienti di stridi, si gettò a capofitto verso il fiume serrando  gli occhi gialli e divorando i rovi arborei e ogni ronzio celeste d’acqua.

     

     

     

     

     

    Archi vertebrali, clavicole, falangi, strizzavano e corrodevano la pelle, da cui il sangue delle contusioni stagnava sotto la blusa da combattimento e la corazza rovinata.
    In quel agglomerato infernale di ossa appuntite e melma barbugliante era impossibile tenere gli occhi aperti e tentare di respirare con le nari e la bocca : l’ossigeno penetrava in quella prigione mutando gradualmente in acido nitrico.
    Roald , tuttavia, non si dava per vinto.
    Nonostante i condotti respiratori infiammati , il cuore e i polmoni che quasi si raggomitolavano nel petto, cercava a tentoni i due compagni.
    Sapeva che  non erano lontani e che avevano i sensi ottusi. Finché almeno a lui restavano lembi di lucidità doveva resistere…
    Allungava con fatica le braccia ma si trovava quasi paralizzato con quelle fredde pulsazioni d’intorpidimento che vessano gli arti addormentati.

    “ L’unico modo per liberarci” considerava” è frazionare il mio cosmo residuo….Una parte la devo usare per sprigionare energia e rompere queste tenaglie e l’altra rimanente per proteggere Toma e Nikita…Il problema è che alla fine l’incantesimo si rigenera e io non so come affrontare il Negromante! “

    Prima che la demoralizzazione gli ghermisse il cervello , si decise a cominciare a il piano di fuga.
    Con l’emicrania che gli ribolliva nelle orbite e nella fronte, prese a emettere un’aurea purpurea che irradiò gli inermi Nikita e Toma.
    Scatenando  un’esplosione potente e veloce fece spruzzare in aria cocci di scheletro e salivate fangose.
    Lui e i compagni sbatterono al suolo sentendo il gelo ruvido della neve picchiargli vitalmente la faccia.

    -          Ma è portentosa la tua forza di volontà – rise Biak compassionevole – però mi duole affermare che sia…sciagurata e sprecata.

    Roald si rialzò ammaccato senza forza di ribattere: sapeva che l’avversario diceva la verità.

    - La  cosa che mi diletta di voi cavalieri – continuò – è la caparbietà di rialzarvi fino al disintegra mento delle vostre energie…perché non volete accettare che la ruota della fine vi abbia già investito e vi stia massacrando tra i suoi raggi. Questa prigione di ossa e melma tornerà a masticarvi.

     Uno strepito acutissimo saettò nel cielo, strappando un inaspettato urlo al Negromante.

    Roald guardò in alto: una sagoma alata vibrava  sicura e solenne, somigliante a quella un volatile notturno…
    Sembrava proprio un gufo…un gufo piuttosto strano…

    -          E’ uno di loro – ringhiò Biak uguale ad una fiera con le zampe incastrate in una tagliola – è uno di quella stirpe dannata! Perché mai è qui?

    Il danese,  sbigottito,  non capiva a cosa potesse alludere…
    Il rapace dal color argento e bianco intimò sollevando un tono greve e ventoso:

    -          Biak, delle laide stelle del Negromante…vedo che non cessi di perfezionare i tuoi incantesimi neri. Sei il più abile giocoliere di vita e di morte, degno del nome di tua sorella liberata impunemente dal castigo divino.

    -          Quelli della tua cristallina razza non dovrebbero svolazzare negli infimi mondi!

    -          Hai ragione. Ma , vedi, obbedisco all’Armonia Suprema e non ho il cuore in putrefazione.

    Il misterioso uccello assunse la forma di un fascio di luce che emetteva suoni particolari, rassomiglianti a grosse gocce di pioggia o a cristalli che andavano in pezzi.
    Biak, col viso ancora più candeggiato di collera,  fu costretto a mettere in salvo la pelle:

    -          Non credere che mi lascerò incendiare da te! Vieni, Vesperus! Porteremo a termine il dovere del nostro sovrano Ade!

    Si dissolse assieme al soldato-meccanico in una spirale di nubi nere che centrifugò sollevando un vento odorante di terra madida.  
    Roald guardò il gufo allontanarsi tra i  fiocchi di neve che iniziavano  a precipitare muti e ciechi.

    Toma, nel frattempo, aprì gli occhi e alzò il viso dal guanciale ghiacciato del suolo. Il ciondolo di Marin ancorato al suo collo giaceva brillante sul bianco. Prima che il compagno potesse accorgersene , febbrilmente allungò la mano, lo arrotolò e se lo nascose sotto il pettorale della corazza.
    Se si fosse scoperto , ciò che nascondeva quel sacchetto di cuoio arrampicato al pendente, gli avrebbero rotto le ossa delle ali ancora immateriali.

     

     

     

     

     

    Ricoverato temporaneamente nella tenda, Aphrodite stava facendo salire la bile di Death Mask fino al cervello. Si agitava continuando a sciorinare parolacce e imprecazioni.

    -          Testa di minchia! – sbraitava Death – non  so se riesco a teletrasportare te e il tuo culo in Groenlandia!

    -          Merda! Sei uno dei pochi cavalieri che ha poteri telecinetici! Puoi farcela!

    -          Io non ho le facoltà di Mu , genio! Posso dislocare negli inferi solo la tua anima! Il corpo resta qui! Come faresti a dare il tuo sangue ad Artemis?

    -          Tu non riesci…a cercare un altro varco…dimensionale?

    -          Sì. Ho limitazioni temporali di teletrasportare me stesso, però sì. Sono in grado di spostarmi nel mondo dei vivi….comunque il problema restano gli altri. A meno che…

     Death s’ammutolì pensoso folgorato da un’improvvisa idea.

    -          Allora? – chiese impaziente Aphrodite – cosa ti è venuto in mente?

    -          Ascolta – rispose grave l’altro – ho trovato una soluzione ma è veramente rischiosa e dobbiamo agire in soli dieci minuti: per attuare il tuo  teletrasporto bisogna che ti dimezzi.

    -          Che?! In che senso?  Prima teletrasporti il mio busto e poi posteriore e gambe?!

    -          No, caro salmone, non si tratta di sfilettarti! Non ho il potere di teletrasportare una persona vivente perché il peso della carne e dell'anima sono eccessivi. Trasferirò  il tuo spirito a Calleos sottoforma di fuoco fatuo e successivamente arriveremo lì io e il tuo corpo. Passeranno dieci secondi perché le tue parti si possano riunire. Mi auguro che riuscirai a salvare Artemis in pochissimo tempo. E’ un incantesimo che se si prolunga ci prosciuga i cosmi e quindi...tanti saluti!

    Aphrodite raddolcì i lineamenti , diradando le fenditure dell’angoscia:

    -          Ho capito, Death! Prepariamoci in fretta!

     I due cavalieri uscirono dal tendone . Nonostante fosse provato fisicamente , lo svedese pareva aver sopito ogni singulto e indossò l’elmo d’addestramento senza lasciar tremolare le dita.

    -          Aphrodite! Sei pronto per andare un po’ all’inferno?

    -          Pronto.

     Cancer concentrò nella mano destra scie blu violacee che si diffusero energicamente:

    -          Sekishiki Meikaiha!   

     

     

     

     

     

     

     
    Artemis non udiva più le tenui crepitazioni  del suo cuore, né le violenti scosse che squarciavano le profondità del terreno e davano fuoco al bacino del giardino e ai favolosi cespugli di piante.

    Nel dolore mortifero , la sacerdotessa era fortunata a non assistere allo scempio che Takashi faceva del tesoro creato da Pericles…Le colonne corinzie crollavano alla maniera di gambe infantili spezzate dalla furia d’una falciatrice mentre le fiamme , con mani impietosamente bacchiche , strappavano le rigogliose edere dalle architravi decorative. Lo splendido busto della madre Aspasia era finito a terra , sformato, non dissimile da un’ anfora sbriciolata che attende di entrare nella bocca di una fornace.  Le rose blu si polverizzavano disperdendo nell’aria fumeggi di cenere sanguinea.

    Eryx trascinava via la padrona con  le zampe e il muso ustionati, l’allontanava dalle faglie che potevano inghiottirla, la proteggeva in qualsiasi modo con i residui d’energia che lo facevano guaire e leccarle il viso serrato dalla maschera. L’unico scudo che poteva utilizzare era il suo corpo dalla pelliccia bianca lordata di polvere, sangue e neve appiccicosa.

    -          Viscere della terra! – esclamava Mefistofele aumentando l’aurea tellurica del suo cosmo – schiudete ogni antro, ogni serratura! Lasciate che il Figlio del Sommo Re della Luce torni a sentire l’aria superna!

    All’improvviso affianco ad Artemis e al cane lupo comparve una sferetta fosforescente, di un azzurro sussultante….Qualche secondo dopo , in una detonazione dorata e blu, apparvero Aphrodite e Death Mask.
    Eryx abbaiò rauco e gioioso, scrollando la grossa coda umida e sgualcita.

    -          Buono bello, buono – lo calmò il cavaliere dei Pesci carezzandolo – adesso aiuterò la nostra Artemis!

    -          Ma guarda! – rise Takashi – la platea di spettatori s’ingrandisce! Per giunta si tratta di due nobili Cavalieri d’Oro!

    Lo svedese fissò atterrito il sacro vivaio di Pericles che quasi sformava urla incendiate verso l’alto.

    -          Che le fiamme ti distruggano, bastardo!

    -          Bel damerino, le fiamme obbediscono a Takashi di Mefistofele!

    Il guerriero nero scaraventò un turbine incendiario che venne respinto da onde sussultorie provocate da Cancer.

    -          Complimenti , demone cornuto! – sbeffeggiò lui – sembri proprio un tipo coi contro attributi! Ma anche noi abbiamo palle d’acciaio!

    -          Ti assumerei volentieri se facessi commedie! Ma ho da concludere uno spettacolo ben più grandioso!

     Il centro del tempio sprofondò completamente, denudando ancora di più le crude interiora rocciose.

    - Aphrodite!– esclamò Death -  io vi copro sperando di non finire squagliato nel magma! Fai presto!

     Il ragazzo si era già tolto il parabraccio e il guanto della mano destra per scoprire  la sinistra della Maestra. Incise un taglio sul suo palmo e quello di lei dando inizio al rituale di guarigione. La sollevò per le spalle stringendola al petto e poi congiunse le due ferite come fosse un bacio tra una bocca di violaceo assideramento e una vermiglia di nascita. Mentre Eryx impaziente annusava e abbaiava inquieto, il padrone chiuse gli occhi facendo scivolare il flusso caldo dell'’ossigeno e delle cellule  lungo tutto il muscoli concentrandosi nel punto d’unione.

    Dalla voragine si innalzarono strilli sconquassati che sembravano, a tratti, abbassarsi e tuonare e sfregarsi ringhiando.

    -          Liberati, o Sacro Protettore – invocò Takashi – tu che fosti plasmato dal sangue puro del Primo dei Primi , tu  che guerreggiasti sorreggendo il giusto Sovrano dei Ribelli Celesti, tu che finisti deturpato e relegato nell’ ignobile sottosuolo del mondo umano…Manifesta le tue rilucenti spoglie d’Iperuranio, sublime Araldo di Lucifero!

     Miriadi di scaglie sassose, turbinarono in alto come attratte da un magnete celeste.
    Una protuberanza bianca , di acquosità fredda venne partorita dall’utero stracciato della terra.
    Era un enorme teschio di rettile  dal muso appuntito e dalla dentatura affilatissima che pareva incisa e lavorata da un gioielliere. Le orbite ovali e risonanti di nero , le sei corna che s’ergevano simmetriche uguali a lance di soldati: le più lunghe collocate posteriormente sul cranio e le altre quattro che degradavano verso la fronte . Delle venature ematiche contrassegnavano i confini delle ossa mascellari, del setto nasale , dei rigonfi archi sopraccigliari redigendo una mappature desertica di quelle lande dure e rapprese.

    Sgusciarono fuori le vertebre del collo e del chilometrico dorso trapuntate di spini ed erosioni, sbalzarono le possenti costole della cassa toracica, sbarre ricurve guardiane di un cuore selvaggio ed estinto.  Le quattro gambe terminavano in zampe compresse e infilzate da grossi artigli ad uncino similari a quelli di uno sparviero. Le ali da pterodattilo si allungavano a dismisura robuste e aguzze verso i fondali scuri.

    Aphrodite e Death Mask emisero solo un mormorio talmente grande era lo sconvolgimento di quella visione che non concedeva parole.

     

     

     

     Roald e Toma, che trasportavano lo stordito Nikita, furono costretti a fermarsi sotto i portali delle mura Ovest.  I soldati gridavano allarmati , intimavano di allontanarsi perché dal Tempio di Artemide si diffondevano terribili mareggiate di energia infera.

    Tra le abitazione abbandonate scorrevano grossi pulviscoli grigi e barbagli rosseggianti e arancioni che non segnalavano certo l’avvento del sole.
    Lo scheletro del drago di Lucifero si sollevò nell’aria scomposta e nevosa…Un incredibile altorilievo che scheggiava la muratura del cielo polverizzando le nubi mucose.

    -          Che diamine è quello?! – esclamò stavolta Roald nervoso – dove si trova la Maestra Artemis?!

    -          Nel nostro sottosuolo – mormorò Toma atterrito – era sepolto quel mostro?

    Persino Nikita fu strappato dal torpore che diradò l’annebbiamento:

    -          N-non può essere…- balbettò arrochito – è…il drago di Lucifero!

     

     

     

     

     

     

    Dopo il frastornante conflitto contro Icelo e Morfeo, Mu aveva trascorso una nottataccia.

    Più che un sonno greve,  il dormiveglia s’era innalzato e sollevato in un molesto quanto colloso ritmo. Un fruscio leggero ma velenoso che gettava visioni ma che non perdeva contatto col silenzio duro delle mura della stanza. Si usciva dai pensieri e si rientrava.
    Il disegno cruento delle zanne di Icelo, le sue oscene imprecazioni, la voce sotterranea di Morfeo, gli amici che correvano chissà se per angosciante furore o per frenetica allegria, il Maestro Sion che prima parlava in uno studiolo di mattoni e poi in un campo scuro dove luccicavano lugubri papaveri…Poi Leira che navigava con lui e Kiki verso casa e salutava gli spettri dei suoi genitori…
    Il sottofondo di quella strozzante canzone che aveva udito a Lindo….Panta rei, panta rei…tutto scivola e non come vorrei….
    Leira che gridava aiuto, Icelo che lo voleva dilaniare con gli artigli, Morfeo che lo rinchiudeva in un sepolcro di marmo e papaveri, poi Sion che non lo udiva, poi gli amici che apparivano e scomparivano, Kiki che annegava in mare, di nuovo i genitori…poi Leira che gli dava un bacio ma che poi arrabbiata se ne andava…Cercava di afferrare la sua mano quando alla fine stava afferrando un lembo di lenzuolo.

    Il ragazzo, rassegnato e irrequieto,  s’era svegliato alle sette avvertendo un lattiginoso dolore  versarsi addosso tutto in un colpo. Nei timpani era restata l’ombra infestante di Panta rei, panta rei tutto scivola e non come vorrei…

    Kiki per fortuna sonnecchiava, proiettato beatamente supino e col viso tondo rivolto verso la finestra dalle vetrate che schiarivano.
    Con dolcezza frammista a tristezza il fratello maggiore si ricordò delle mattine trascorse nel Jamir in cui all’alba vegliava il suo piccolo giaciglio…

     La colazione dell’ospedale delle otto, a parte il latte e lo yogurt , non era un granché.

    -          Fratellone! – si lamentò Kiki- questi biscotti fanno schifo!

    -          Purtroppo è quello…. che offre la casa…ci dobbiamo accontentare.

    -          Sanno di carta bagnata e caccole!

    -          Kiki, per favore!

    Il bambino rimase imbarazzato per la brusca risposta.

    -          Fratellone…ti ho fatto arrabbiare?

    -          No…- sospirò l’altro più dolcemente – solo che…non ho dormito bene e mi sento a pezzi. …

    Kiki guardò sul vassoi etto lo yogurt bianco che doveva ancora aprire e glielo porse:

    -          Ti do il mio yogurt!

    Mu posò la tazza di latte e sorrise:

    -          Grazie, mangia pure tutto. Non ho tanta fame.

     All’improvviso il medaglione dell'Ariete, posato sul comodino tra il suo letto e quello del bambino riverberò di luce rossa e arancione. L’occhio dell’animale pareva addirittura avesse una fiamma al posto del rubino.
    Stravolto il ragazzo lo prese febbrilmente per la corda e osservò quelle pulsazioni di matrice solare che presero a gloglottare quasi fossero risonanze di sauro. Così com’erano apparse si spensero disperdendo aureole fumose.  

     

     

     

     

     

    Death Mask, il cane Eryx e Aphrodite , che portava in braccio l’inerme Artemis,  stavano correndo freneticamente lungo il corridoio segreto che portava alla botola del Tempio della Neve  Dorata.
    Le pareti minacciavano di scontrarsi alla maniera di un vaso sanguigno stritolato mentre le fiaccole o s’erano spente o stavano facendo ardere il pavimento di fiamme verdastre e acide.

    -          Porca puttana! – inveì Death Mask -  non ce la faremo in due minuti a portare zanna bianca e la regina fuori dal santuario! Stiamo sprecando energie e tu stai peggio di me! 

    Aphrodite sentiva che la sacerdotessa , nonostante fosse ancora svenuta, si stava riempiendo gradualmente di calore…non poteva permettere che le macerie o il fumo del drago distruggessero l’effetto della sua cura.

    -          Death! –  tossì – mancheranno venti metri alla botola! Acceleriamo!

    Un barrito veloce e sotterraneo serpeggiò creando una spaccatura enorme nel terreno che fece precipitare i quattro . All’improvviso, però,  un misterioso tornado di bufera innevata li travolse sbattendo negli occhi e nelle narici cristalli bianchi, azzurri e grigi.
    I sensi erano talmente smagliati da non riuscire ad afferrare il minimo ragionamento o ipotesi. Il vento, gli ululi, quel freddo stranamente liscio li sferzarono senza dolore scaraventandoli in orizzontale quasi volassero sopra chissà che lande.
    Il soffio terminò e Death Mask e Aphrodite si trovarono sdraiati col volto sull’erba di Siracusa mentre Artemis ed Eryx vennero soccorsi dagli attoniti Roald, Toma e Nikita.

     

     

     

     

    Si sentiva stupido, confuso e umiliato.
    Ikki stava fuggendo con la testa sollevata a guardare l’agghiacciante mole del sauro scheletro… Si aspettava qualcosa di mostruoso ma non che bisognasse riesumare i resti di quel drago che da morto emanava un residuo di potenza incommensurabile. E lui che aveva infiammato le acque del canale ! con il suo cosmo! Con parte delle sua anima! E se avesse venduto una percentuale della sua essenza sancendo definitivamente una condanna di cui non conosceva la minima clausola?
    Ora che tutto gli si spianò violentemente davanti, stava rimangiando i suoi propositi di servitù. Doveva farsi venire in mente un piano alla svelta e raggiungere suo fratello Shun.

    Una freccia, dalla velocità invisibile, lo colpì al fianco buttandolo in ginocchio.

    -          Ottimo lavoro, Vesperus –  disse Biak – bisogna far imparare ai ragazzi che disertare deturpa l’onore…soprattutto quando i sacri gemelli Hypnos e Thanatos tengono d’occhio i virgulti promettenti.

     Tirò il ragazzo per i capelli sghignazzando:

    -          Perché scappare?  Vieni ad ammirare il modo in cui ridimensionerò la gonfiaggine di tuo padre!

     

     

     

     

     

    Death Mask si era sollevato faticosamente da terra mentre Aphrodite era ancora seduto con la schiena posata contro un masso.
    Avevano i capelli scomposti,  un lividore un po’ farinoso e il sangue che ancora sbatteva forte nelle vene e nei muscoli.

    -          Chi diavolo ci ha teletrasportato qui? – domandò Cancer – secondo te Aphro si tratta di un cavaliere?

    -          No…non ho percepito qualcosa di umano…sembrava…energia pura…

    -          Beh sì…energia lo era…però…se ci fosse stata una coscienza? Un essere dietro tutto?

    -          Può darsi….c’è una serie di cose misteriose…quel Takashi, per esempio…quello che ha distrutto tutto…

    Strappò fili d’erba mordendosi le labbra e le lacrime che crepitavano negli orli delle palpebre.

    -          Mi dispiace …- sospirò sinceramente contrito Death – scopriremo chi è quello stronzo, vedrai…

    -          È mai possibile che i fiori e le piante…si possano bruciare come le creature più inutili dell’universo? Pare quasi che sia un’emerita stupidaggine seminare….tanto a che servono cose che si strappano con una facilità assurda?

    -          Aphro. Dobbiamo rimetterci in piedi. Io ne ho viste di robe andate in fiamme, credimi…non vale la pena farsi domande. Se pensi ad ogni casa che viene distrutta allora costruire è uno spreco.

    Lo svedese si coprì gli occhi con la mano stropicciandosi col pollice le tempie.

    -          Il giardino del tempio di Selene…quello che,  purtroppo,  non hai mai visto nel suo aspetto originario…era il regalo del re Pericles ad Artemis…Era un rifugio sacro creato da un padre in tutto e per tutto. Avevo anche io l’onore di entrare e di sentire quell’acqua che irrigava ogni rosa e che adesso è  stata prosciugata dalle voragini.

     Death Mask non se la sentì di mettere a tacere gli sfoghi dell’amico ma soggiunse:

    -          Bisogna che facciamo rapporto al Grande Tempio di Atene. Se vogliamo almeno vedere da lontano qualcosa di buono , prepariamoci . non c’è nulla da lasciare in sospeso! Specialmente quel dinosauro alato di Satana!

    Aphrodite posò l’avambraccio sul ginocchio annuendo cupo:

    -          Sì…tra qualche ora sgomberiamo da qui e cerchiamo la prima nave diretta ad Atene…spero con tutto il cuore che Artemis resista.

     

     







    A Takashi non restava che compiere una sola cosa: raccogliere le spoglie del drago e suggellarle.

    -          Emergi dagli abissi dell’invisibilità , o Cratere Leteo  -  spiccò – riplasmati dal tornio arcano e giungi a ricomporre le Reliquie  dell'Araldo di Lucifero.

    Da un vortice ocra, grigio e nero sorse, come si stesse staccando da un bacile d’argilla liquefatta, ‘anfora piombo cesellata da motivi geometrici di celeste fluorescente. Aveva un corto piede e un ampio collo svasato decorato da due ricurve anse a forma d’angeli alati  che suonavano le trombe inarcando i loro corpi snelli.
    Le ossa del drago si disgregarono ordinatamente e si rimpicciolirono in tante lamine brillanti che defluivano all’interno della bocca del vaso.
    Ormai nulla poteva interrompere quella sinfonia ma , proprio alla fine,  Mefistofele vide  il cranio del demone roteare e volare nella direzione opposta verso uno squarcio nel cielo viola e rosso che lo ingerì chiudendosi.

    Sopra le rovine del Tempio di Selene, Biak sorrideva trionfante per il proprio incantesimo, mentre dietro stava Vesperus che teneva prigioniere le braccia di Ikki.
    Il cavaliere nero avvertì la rabbia rendergli i capelli ancora più verdi.

    -          Cosa significa, putrido stregone?! – urlò – da quando voi , sterco dello Stige,  mettete le zampe su ciò che appartiene ai Cavalieri Neri?

    -          Esimio Mefistofele – rispose derisorio il Negromante – credevi che io e il mio fido compagno fossimo venuti qui soltanto per annusare la scia miasmatica delle tue orme ? Una percentuale dei tuoi guadagni deve essere offerta al nostro Signore Ade…Come dite voi , pirati da strapazzo, si rema sullo stesso vascello , no ? sono questi i patti. Io mi occupo di ricavare garanzie concrete.

    -          Le garanzie te le ficco sai dove?

    -          Ora capisco perché il tuo povero figliolo voleva tagliare la corda…

    Un ululato di rapace spense la lite…
    L’inesplicabile gufo bianco e argento tornò a mulinare rapido e a scompigliare i fiocchi di neve cominciando a controllare la rotta della bufera.

    -          Uno di quei spiritelli è qui ?! – tuonò Takashi sbigottito dall’aurea immensa che emanava il volatile – che diamine! Com’è che è arrivato?

    -          È comparso anche prima! – soggiunse lo Specter – ormai la missione è fatta ! torniamo alle basi e allontaniamoci immediatamente da Calleos!

    Il cavaliere Nero fece dileguare il cratere , saltò sui marmi rotti del Tempio e strappò Ikki da Vesperus non per preoccupazione ma per potergli dare una lezione una volta tornati al covo.

    -          Ricorda ragazzo! – lo spinse via – le piume della fenice hanno siglato un giuramento celeste!

    L’adolescente era talmente sbattuto da non aver la volontà di replicare con le labbra gonfie di lividi. Sparì col padre oltre la città spasimante mentre il Negromante e il soldato muto si trasportarono in scie carbonifere oltre le distese scalfite dei ghiacciai.

     

     

     

    Artemis sostenuta da Toma e affiancata dal fedele Eryx contemplava la desolante visione della città di Calleos  ricolma di ferite.

    -Q…Quanti sono….i soldati morti ? – chiese ammaccata.

    - Non abbiamo ancora fatto il resoconto , Maestra – rispose Roald che aiutava Nikita a stare in piedi – credo comunque che siano state minori in rapporto a quelle dei cavalieri Neri.

    - Voi, invece? State bene ragazzi? Nikita?

    - Mi…mi hanno salvato Roald e Toma – abbozzò un sorriso il giovane .

    - a dire il vero – precisò il danese – è venuto anche in aiuto…uno strano gufo…

    -Un gufo?

    - Sì…io non credo davvero si tratti di un comune cavaliere…Pare che emani un’energia dannosa per quel Takashi di Mefistofele e il Negromante.

    - Penso, Maestra – aggiunse Nikita – che sia la stessa energia che, non so come, vi abbia portata in salvo con Eryx dal Tempio di Selene quando è comparso quell’enorme scheletro di drago dal sottosuolo.

    - Già- si ricordò ansiosa la sacerdotessa – Takashi voleva evocare una creatura…una creatura che , secondo lui, aveva donato la fertilità a Calleos.

    - Maestra – rivelò Nikita teso – sono le spoglie del leggendario drago di Lucifero.

     

    Artemis  proiettò il viso verso il Santuario e sentì una trave , lanciata a tutta forza, massacrarle il petto e le viscere.
    Ogni fine colonna che da bambina credeva fosse fatta di polvere lattea, il bellissimo tetto in tegole rosate e il giardino sotterraneo creato da suo padre…quello scrigno intimo fatto di suoni lievissimi e dello scrosciare eterno dell’acqua…tutto a brandelli, diradato, ammucchiato alla neve grigia crivellato dai fiocchi di ghiaccio…Un groviglio irriconoscibile di fratture esposte e organi polverizzati.
    Stava per piombare a terra ma Toma la sorresse fermamente e lei gli si appoggiò sul petto con le lacrime che sfregiavano l’interno della maschera. Stava per portarsi la mano sinistra alla testa quando si accorse di essere priva di guanto e di para braccio.
    Guardò allibita la cicatrice rossa sul palmo…e capì di che si trattava…anche se aveva il naso coperto avvertiva il profumo fresco, pungente, agrodolce delle rose di Aphrodite.
    Nel dolore si aprirono lembi di una gioia dolente e incredula.
     “ Aphrodite…” pensò” Ti sei fatto trasportare fin qui? Dimmi…mi hai sentito? Sei in grado di sentire persino una fiammella che si spegne a chilometri di distanza? Ecco…il prezzo del nostro sangue…della tua linfa che è in ogni mia cellula e che non potrà vedere più il giardino di Pericles…Avrei voluto tanto vederti donare all’infinito il tuo profumo alle mie rose blu…”

    -          Non temere, regina di Calleos. La fondamenta delle città non sono ancora crollate.

    La ragazza guardò verso il cumulo di rovine e vide una figura sostare immobile e maestosa. Doveva essere un uomo vestito di un abbagliante manto bianco e argento con la voce elevata e fresca uguale alla cima robusta e delicata di una montagna. Era musica lontana ma che risplendeva tendendo un ponte invisibile eppure palpabile.
    Artemis strinse con dolorosa commozione le sopracciglia sentendo la pelle che emetteva attrito contro la parete della maschera.

    -          Sei…sei tu? – domandò timorosamente dolce.

    Roald la fissava disarmato accorgendosi di quanto lei sembrasse una bambina che fosse scivolata bruscamente giù per una collina.
    Toma provava una sorta di mesto conforto nello sfiorare a distanza la sua regina che finalmente assumeva le sembianze di un suo riflesso naufrago…

    -          Padre – riprese lei – sei tornato?

    -          Mi rincresce ,  Artemis, ma non sono padre di nessuno.

    Con stupore tutti si accorsero che il misterioso individuo parve allargare un paio di lunghe e spinate ali . Spiccò un salto come stesse scandendo in modo vellutato l’inizio della danza e planò. Disegnò elegantemente due cerchi discendenti e atterrò sulla neve senza spostare neanche un bruscolo di neve.  
    Artemis fu costretta ad accettare che non aveva davanti a sé Pericles…Era un uomo con la stessa altezza, la stessa forte e gentile corporatura ma dall’aurea e dal vestito completamente diversi e singolari.
    I cavalieri lo esaminavano incuriositi: non si trattava certo di un guerriero e neppure di un mago o di un sacerdote qualsiasi. Il suo cosmo trasmetteva una luce sottilissima , perforante e imprendibile, identica ad un ultrasuono che si spostava rapidissimo nelle profondità dello spazio.
    Il suo aspetto somigliava moltissimo ad un gufo: un voluminoso e pesante mantello  era niellato di piume metalliche e straordinariamente leggere che sfumavano dal grigio piombo, al perlaceo al bianco. Una tunica color argento si fletteva in tante pieghe all’estremità disegnando rigagnoli d’ombre bluastre. Una cintura nera e ieratica stringeva la vita poderosa e solida e due stivali scuri avvolgevano piedi grandi ma ben proporzionati.
    Il viso pallido incuteva una strana trepidazione:  il desiderio di guardarlo a lungo e distogliere presto  gli occhi. Possedeva una bella forma leggermente lunare incorniciata da una corta barbetta mascellare che terminava a punta sul mento. Il naso era rigido e indagatore mentre gli occhi si stappavano accecanti. Avevano la cornea di un giallo intenso e le iridi  nerissime. Due sopracciglia cespugliose si spostavano all’insù dando un’espressione di limpidezza inquisitoria. Una chioma di capelli brizzolati e crespi faceva schiumare due ciuffi che si sollevavano paralleli e ruvidi ai lati della testa.

    -          Abitanti di Calleos – pronunciò – mi chiamo Helèno e son disceso dal cielo estremo dell'Iperuranio poiché appartengo alle schiere degli Alchimisti di Eutopos.

    Solo un silenzio schiacciato dagli ululati della neve batté il ritmo.
    I guerrieri di Selene a malapena scossero le ciglia.
    I secondi parvero boccheggiare totalmente sordi.
    Artemis , prendendo alla fine coraggio,  appellò: 

    -          O sommo Alchimista…potresti rivelarci l’enigma che avvolge le spoglie del drago di Lucifero? Quali siano le origini di Takashi di Mefistofele e di Biak del Negromante?

    -          Taluni umani hanno osato impossessarsi di facoltà contro natura e contro l’immaginario… La vostra terra è intrappolata da nubi d'inestricabile tempesta . Nubi che si son dissolte, nubi che ora vagano , nubi che invaderanno il blu.

     

     

     

     

     

     

     


    Note inerenti ai capitoli precedenti:

    " ci siamo sputati ingiurie, bestemmie "* : Death Mask e Aphrodite hanno pesantemente litigato nel Cap 19.

    Note personali ( attenzione x chi non avesse letto il cap : spoiler più in basso ) :  

    eccomi di nuovo miei cari ( e santo-pazienti) lettori!! ^^
    ho portato a conclusione il capitolo 20 in ritardo ma non in modo biblico come avvenuto, purtroppo, quest’anno ^^”

    Dunque mancano sei capitoli alla conclusione de L’Occhio dell'Ariete! XD che praticamente è il primo libro di De servis astrurum che sarà trilogia… Questo l’avevo stabilito da tempo come il disegno generale di tutta la saga , compresi i colpi di scena e gli intrighi più importanti.
    In tutti questi episodi ho seminato i germogli di quello che avverrà nel secondo libro…Avete visto le vicende dei nostri cavalieri d’oro e avete tastato  quelle dei Cervi Bianchi…Sono entrati in scena Ikki, Takashi,  Biak del Negromante, il misterioso Vesperus e….il Terzo Alchimista di EuTopos  ( Tamira è comparso nel cap 13 e Evelyn nel 15 )…
    Il drago di Lucifero è e sarà un elemento importantissimo, diciamo anche una chiave per gli sviluppi dell’avventura! ;)) mi auguro che stiate apprezzando queste imprese, questi combattimenti esteriori e interiori ( mi auguro pure che Death e Aphro abbiano fatto una figura più “ nobile” rispetto ai capitoli precedenti) !

     Non so quando aggiornerò ma posso farvi una piccola anticipazione per il capitolo 21:  si sposteranno i riflettori sugli specter Queen, Valentine , Gordon e Shelfield ! ;) Sul tragitto per la Foresta Nera, un’escursione nei mondi difficili , sconvolgenti e oscuri di questi giovani servitori di Adi, reduci da una missione compiuta e da missioni inconcluse dai loro passati.

     

    Un abbraccio grande
    e Grazie come sempre!

     

    Alla prossima!^^

     

     

     

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