Undici giorni verso Hogwarts

di Elos
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** lavender sky ***
Capitolo 2: *** wasted days ***
Capitolo 3: *** fair(not)weather friend ***
Capitolo 4: *** going to the graveyard ***
Capitolo 5: *** papercut on the heart ***
Capitolo 6: *** stars through your window ***
Capitolo 7: *** flicker of radiance ***
Capitolo 8: *** misfortune tellers ***
Capitolo 9: *** wishing well ***
Capitolo 10: *** rabbits on the run ***



Capitolo 1
*** lavender sky ***






1. lavender sky
24.06
07:08:22 A.M.


Era uscito dal San Mungo, aveva trovato ad aspettarlo davanti al portone una macchina nera del Ministero – perché malgrado tutto il Ministero esisteva ancora, era ancora in piedi, aveva ancora macchine nere e macchine verdi e macchine blu, autisti per guidarle e persone dalle quali mandarle – e la prima cosa che aveva detto era stata:
“No.”
Niente macchina nera. Poteva prendere la metropolitana, come tutti. Andare a piedi. La metropolitana funzionava ancora? La metropolitana, allora.
La McGranitt e Charlie, che aveva lasciato la Tana per venire ad accompagnarlo, avevano cercato di dissuaderlo. Gli avevano detto che era ancora debole, che i Guaritori non l'avrebbero dimesso se avessero saputo che aveva intenzione di strapazzarsi così. Quando avevano visto che quegli argomenti non funzionavano, avevano cambiato tono e gli avevano detto che era troppo pericoloso girare per Londra: il fatto che Voldemort fosse morto non significava che tutti i Mangiamorte fossero scomparsi. C'erano i Dissennatori a piede libero. Avevano trovato un Lethifold davanti alla porta del Ministero...
Ad Harry Potter non importava.
Il mattino era stato luminoso e terso. Il cielo non aveva l'azzurro cupo del cielo di Scozia, tutto tinte vivide e stralci di nuvole sfrangiate, ma l'azzurro più pallido e diafano del cielo londinese. Erano riusciti a trovare posto nella metropolitana: Harry si era lasciato cadere su un sedile, pesantemente, grato di non dover restare in piedi. Le costole gli spedivano a tratti fitte nebulose di dolore. La gamba sembrava cigolare sotto il suo stesso peso.
Per una volta tutta l'attenzione della metropolitana – decine di occhi che, a coppie, si erano puntati su di loro – gli era giunta come attraverso una radio malamente regolata: erano lì, li vedeva, gli sguardi di tutti fissi sulle vesti bizzarre della McGranitt, sul viso pallido di lui e sulle mani segnate di Charlie, ma non gli importava.
Avevano cambiato metropolitana due volte prima d'arrivare a destinazione. I cancelli del cimitero di Kensal Green erano stati già aperti malgrado l'ora. Qualcuno aveva lasciato un mazzo di gigli bianchi accanto ad una delle colonne, senza nastro, senza carta, solo i fiori e uno spago per legarli assieme. Harry si era dovuto fermare e inghiottire a vuoto, a quella vista, e non era bastato: cinque minuti dopo si era trovato appoggiato ad un albero, curvo a svuotarsi lo stomaco su una delle radici, mentre Charlie gli teneva una mano sulla fronte e una sul collo.
“Non sono vestito di nero.” aveva detto Harry con voce impastata di vomito e nausea quando il mostro rigonfio nel suo intestino aveva smesso di contorcersi.
Gli occhi di Charlie erano stati pieni di pietà.
“Non importa.”
La McGranitt si era guardata intorno, per un attimo, controllando in lungo e in largo il sentiero deserto: poi aveva preso Harry per un braccio, l'aveva accompagnato dietro ad un albero e aveva cominciato a Trasfigurare i vestiti che aveva addosso.
“Sono della taglia sbagliata.” aveva commentato in tono di disapprovazione.
Harry aveva scrollato le spalle. Si sentiva la testa leggera e confusa, e pensava di non avere le energie che sarebbero state necessarie necessarie ad aprire bocca per parlare e per dirle che erano della taglia giusta. Giusta per Dudley, com'era stato cinque anni prima. Diverse taglie più in su di quanto non sarebbe stato ragionevole per Harry anche adesso... ma a chi importava? Qualcuno aveva lasciato dei fiori davanti al cancello e solo ai morti si lasciavano dei fiori, per cui a chi importava?
Era arrivato al funerale indossando vestiti più neri e più piccoli, così. Non che fosse veramente servito a qualcosa: si era fermato sotto all'ultima linea di alberi e non si era neanche avvicinato alla folla. Le preghiere della McGranitt e di Charlie non erano servite a niente: ad Harry era sembrato di avere piedi pesanti come piombo, gambe come macigni. Gli era bastato pensare di attraversare il prato e accostarsi alla bara, agli altri, e aveva ripreso a sudare freddo, lo stomaco gli si era contorto, il mostro che si annidava là sotto aveva ripreso ad agitarsi. No. Non c'era modo in cui nessuno – nessuno – avrebbe potuto convincerlo. I Mangiamorte avrebbero potuto presentarsi in massa nel cimitero in quel preciso momento, prendendo a lanciare Avada Kedavra a destra e a manca, ed Harry non si sarebbe mosso da dove si trovava ora. Qualunque posto più vicino di così era troppo vicino.
C'era stata metà del Ministero, lì, comunque. Tre quarti di Hogwarts. Tutti quelli che Harry conosceva... e ne aveva conosciuti tanti, negli ultimi cinque anni, perché la guerra aveva fatto questo, li aveva spinti tutti insieme, tutti vicini, i fidati e gli improbabili, Maghi e Babbani, vigliacchi e martiri ed eroi, tutti, e una di loro finiva sottoterra, oggi.
Si era chiesto se anche gli altri sarebbero stati sepolti lì – ma poi si era detto che dovevano essere stati i genitori di lei a decidere dove e come seppellirla. C'erano stati tanti cadaveri, nelle strade di Diagon Alley. Tanti cadaveri nel mezzo delle macerie, tutta una fioritura di opportunità sprecate. Maghi e Babbani. Vigliacchi e martiri ed eroi. Tutte possibilità mancate.
Non aveva sentito una sola parola del sermone pronunciato sulla tomba aperta. Aveva visto Remus curvo e grigio, gli Weasley stringersi l'uno accanto all'altro, fare muro compatto, fortezza. Le teste di Fred e George piegate l'una contro l'altra sopra quella di Ginny, Charlie che le accarezzava un braccio. Molly con le mani sulle spalle di Ron – e il mostro nella pancia di Harry aveva emesso un gemito di pianto, sottile e straziante come quello di un bambino. Non c'era nessuno con le mani sulle sue spalle.
Quando la cassa era stata calata, Harry aveva sentito l'impulso fortissimo e feroce di correre lì, fermarli, impedirglielo. La cassa doveva essere vuota. Le casse erano per i morti. I fiori erano per i morti. Com'era accaduto davanti ai gigli, la consapevolezza lo colpì come una mazzata allo stomaco e gli mozzò il fiato; avrebbe vomitato, anche, se avesse avuto ancora qualcosa da poter vomitare. La donna Babbana dai capelli arruffati che erano precisamente come quelli della figlia si era sporta per gettare la prima manciata di terra sulla cassa, piangendo sulla fossa aperta, ed Harry aveva avuto l'impressione che tutta quella terra fosse caduta su di lui, sulla sua testa, sulla sua bocca. Lo stava soffocando.
Il professor Vitious – che portava un orribile completo da Babbano di un improbabile color prugna, tirato fuori perché erano in un cimitero Babbano e la guerra aveva cambiato molte cose, sicuro, ma per poter tornare alla vita normale bisognava ricominciare a comportarsi come se tutto lo fosse, normale – aveva parlato di come fosse stata intelligente e coraggiosa, in vita, e leale e... e tutte cose bellissime, ma ad Harry che le ascoltava era sembrato che le parole si ingarbugliassero e perdessero di senso.
Ad avvicinarsi alla fossa, poi, era stata Luna: aveva ondeggiato per un attimo sul bordo della buca – Neville, che le era accanto, aveva allungato una mano per trattenerla – ma si era ripresa prima di cadere. Aveva guardato la cassa come se potesse vederci attraverso e alla fine aveva detto:
“Grazie per averci salvati.” E poi: “Vivremo sotto cieli color di lavanda.”
Ad Harry le parole del sermone erano arrivate confuse, quelle di Vitious annacquate: quelle di Luna erano sembrate tagliare attraverso il cimitero e arrivargli nitide e nette. Luna aveva alzato gli occhi e lo aveva guardato, aveva guardato lui, proprio lui, ed Harry si era ritratto ancor più dietro al tronco nel terrore che il resto della folla si accorgesse della sua presenza.

Avevano gettato terra sulla tomba aperta di Hermione Jane Granger fino a quando non era stata colma fino all'orlo: e non c'era stato bisogno di pagare qualcuno che usasse una vanga, perché tutti avevano voluto avvicinarsi e tirare fiori e terra, perché tutti l'avevano amata, Hermione, che era stata come un punteruolo di compassione lucida nel mezzo dei massacri e degli orrori, cinque anni di schifezze e lei era rimasta limpidissima e chiara.
Harry aveva aspettato che la folla cominciasse a smuoversi – e la McGranitt a cercarlo con gli occhi – prima di Smaterializzarsi lontano da lì.



La morte di Voldemort gli aveva lasciato dentro un calderone di potere che non era più tutto suo: era venuto via con la morte del mostro, e gli si era sedimentato dentro insieme all'ultima sillaba di quell'Avada Kedavra che aveva posto fine alla guerra. Hermione aveva già smesso di respirare da centoventitré secondi, in quel momento: Harry lo sapeva perché li aveva contati, tutti e centoventitré, ogni secondo una pulsazione, il sangue che veniva spinto contro i suoi timpani e lo assordava, che gli andava alla testa e gli impediva di pensare e... e avrebbe dovuto esserci una luce verde e Voldemort sarebbe dovuto cadere, e invece la luce era stata rossa, abbacinante, e Voldemort era esploso. Puff. Niente più Voldemort, dopo, neanche un cadavere da lasciare ai porci. Harry si era girato, la testa come svuotata, leggerissima e confusa, e aveva visto Ron, pochi passi più in là nel mezzo di Diagon Alley, infierire a pugni e calci su quel che restava del corpo di Peter Minus: aveva uno schizzo di sangue sulla faccia ed era tanto pallido che le lentiggini spiccavano come nei, macchioline minute d'inchiostro. Quella era stata l'ultima volta che aveva visto Ron così da vicino.
Tutto quel potere non serviva a riportare indietro Hermione – nulla poteva riportarla indietro, così come niente aveva potuto riportare indietro Sirius, Cedric, Silente, i suoi genitori... erano tutti semplicemente troppo lontani, anche per lui – ma rendeva la Smaterializzazione sulle lunghe distanze un problema da niente. Spostarsi da una parte all'altra di Londra era come muovere un passo: Harry si era ritrovato senza quasi accorgersi del passaggio nella catapecchia schifosa dalle parti di St Paul's Cray che aveva cercato di raggiungere. Piton gli era venuto incontro dall'altra stanza con la bacchetta levata, le labbra già piegate attorno alla S di Stupeficium: ma si era fermato, vedendolo, ed aveva abbassato la bacchetta.
Harry aveva serrato i pugni e l'aveva fissato rancoroso, preparandosi agli insulti, al sarcasmo, alle minute e feroci crudeltà alle quali non avrebbe risposto, si era detto, perché Piton era Piton ed era uno stronzo, ma Piton era Piton ed aveva perso tutto quello che rendeva la sua vita tollerabile per permettere all'Ordine di vincere la guerra. Non avrebbe probabilmente mai più preparato una pozione, Piton, perché le mani gli tremavano troppo per permetterglielo. Aveva passato giorni interi al San Mungo nel letto accanto a quello di Harry, mentre i Guaritori cercavano di salvare il salvabile e di rimettergli insieme il sistema nervoso e la spina dorsale in pezzi – l'ultimo, piccolo regalo di Bellatrix Lestrange.
Litigare avrebbe fatto bene ad Harry. Gli avrebbe permesso di sfogarsi. Litigare mentre era in quelle condizioni avrebbe probabilmente anche causato in lui piccole esplosioni molto concentrate di potere, e all'interno di un appartamento Babbano questa non era per niente una buona idea. Le case dei Babbani non erano pensate per cose del genere: poteva non uscirne fuori danneggiata solo la mobilia, ma anche le tubature del gas, quelle dell'acqua, l'impianto elettrico... Aveva visto cos'era successo a Diagon Alley. Non voleva che lo stesso capitasse lì.
Piton l'aveva fissato ed Harry aveva serrato i pugni: e poi Piton aveva fatto un giro su sé stesso e si era Smaterializzato senza una parola.
Harry era rimasto in piedi nella stanza, con i muscoli della schiena tanto tesi da fargli male. Aveva atteso per un po', rigido e scioccato, quasi aspettandosi che Piton ricomparisse per fargli scherzetto!, o qualcosa del genere. Ma Piton non era più tornato.

La catapecchia a St. Paul's Cray era stata usata dall'Ordine per nasconderci per brevi periodi di tempo Mezzosangue e Nati Babbani durante gli anni più schifosi della guerra, quelli nei quali era sembrato che avrebbero perso, che sarebbero tutti morti e che Voldemort avrebbe governato l'Inghilterra finché non fosse deceduto di morte naturale: e, se si consideravano anche gli Horcrux nell'equazione, questo avrebbe potuto significare un governo estremamente durevole.
La catapecchia di St.Paul's Cray era un posto infame nel mezzo di un isolato deprimente. La poltrona di cuoio che la Vector aveva Trasfigurato per sé era tornata ad essere, dopo la sua morte, uno sgabello privo di una gamba. C'erano chiazze di umidità sul soffitto che nessuno era mai riuscito a far sparire per più di pochi giorni alla volta. Ogni tanto qualcuno cercava di dare una ripulita, ma sembrava che quel posto attirasse polvere come un magnete. La mobilia era in condizioni alternativamente pessime e orrende.
Non c'era da stupirsi, si era detto Harry, che Piton avesse cercato di nascondersi lì per non essere costretto a partecipare a nessuna stupida cerimonia pubblica. Se l'era detto confusamente: prima che calasse il sole si era Smaterializzato in un discount dalle parti di Privet Drive – l'unico posto dove avesse mai fatto la spesa – per comprare qualcosa da mangiare; e, non sapeva bene come, aveva deciso già che era lì di prendere anche una bottiglia di whisky. Prima di allora non aveva mai bevuto niente che non fosse Burrobirra: il primo sorso d'alcool gli aveva dato subito alla testa, lasciandolo in uno stato in cui tutte le percezioni erano lente ed ovattate. Aveva compreso immediatamente la ragione per la quale la gente depressa decideva di ubriacarsi, perché lui sentiva di essere molto, molto depresso, e lo stordimento era la cosa migliore che gli fosse capitata negli ultimi giorni. Se avesse potuto, avrebbe scelto di continuare a sentirsi stordito per tutta la vita. La voragine che gli aveva mangiato il cuore e che sembrava intenzionata a divorare anche tutto il resto era parsa nel mezzo dell'ebbrezza più lontana, meno importante. L'immagine dei gigli legati alla colonna aveva perso di limpidezza, quella della tomba aperta si era fatta strana ed aliena. Era impossibile che ci fosse Hermione, là dentro. Doveva essere tutto uno scherzo.
Seduto sul pavimento della catapecchia, la schiena contro al muro e la giacca nera del funerale gettata un metro più in là, si era predisposto metodicamente a svuotare la bottiglia: e ogni sorso che mandava giù sembrava riportare qualcosa a galla, non necessariamente qualcosa di... di grosso, o di significativo, solo... qualcosa. Com'era sembrato strano vedere diritta la schiena di Hermione la sera del Ballo del Ceppo, il suo collo bianco ed elegante senza i segni arrossati della cinghia della borsa sulla pelle. Una tazza da tè sbeccata nell'ufficio del Preside, e Silente che si sporgeva verso di lui e che gli parlava di Tom Orvoloson Riddle, di com'era stato quand'era bambino – perché anche Voldemort era stato bambino, anche Voldemort aveva avuto undici anni, i brufoli e i denti da latte. Nascondersi in un buco schifoso nel terreno, Hermione che gli premeva la testa contro la spalla per soffocare il suono del suo respiro affannoso e pieno di terrore: c'erano i Mangiamorte, sopra le loro teste, ed erano in tanti, tanti, troppi. Piton. Piton nel mezzo della battaglia. Parlare con Piton, venire a sapere dell'ultimo degli Horcrux e comprendere che c'era una sola cosa che si poteva fare per distruggerlo, e quella cosa passava per...
Le mani bianche di Hermione sul terreno. Piton di nuovo, nella catapecchia in St. Paul's Cray, e adesso che aveva avuto il tempo di pensarci su Harry aveva avuto l'orribile impressione che l'espressione dell'uomo non fosse stata colma di scherno o di disprezzo, ma di pietà. Piton aveva avuto compassione di lui, e se questo non era aver toccato il fondo... “Grazie per averci salvati.” aveva detto Luna “Vivremo sotto cieli color di lavanda.”
In quella fase ebbra e nebulosa tra la veglia e il sonno gli era sembrato di vedere Hermione china su di lui: nessun altro tra i morti se non lei, nessun altro per il quale Harry si sentisse responsabile, solo Hermione. Non era responsabile per nessuno come lo era stato per Hermione. Nessuno era com'era stata Hermione. Nessuno poteva più essere Hermione, non ci sarebbe più stata nessuna Hermione a camminare su questa terra, respirando, con lui. Nessuna Hermione alla quale raccontare ogni desiderio, per capire ogni suo terrore, nessuna Hermione che condividesse tutti i ricordi che avessero una qualche importanza di quei suoi ultimi dodici anni di vita. Hermione e Ron non si sarebbero mai sposati. Non avrebbe mai tenuto tra le braccia i bimbi di Hermione.
Nella penombra della catapecchia aveva visto la sua testa arruffatissima china su di lui, la sciarpa rossa e oro che aveva smesso di portare secoli prima, la borsa a tracolla. Hermione non aveva più portato una borsa così dai tempi di Hogwarts – e anche il suo viso, nei sogni di Harry, era stato quello di Hogwarts. Un viso più giovane, senza cicatrici. Con un sorriso dai denti grandi.
Harry aveva cercato di toccarla, ma le sue dita erano passate in mezzo al niente. L'aveva chiamata, cercando di persuaderla ad avvicinarsi, di convincerla a permettergli di posarle una mano sulla guancia e di stringere per essere certo che fosse lì, che fosse con lui, che fosse vera. Ma poi si era ricordato, aveva ricordato. Aveva ricordato.
“Vivremo sotto cieli color di lavanda.” aveva detto Luna, ma Hermione era morta. Niente che vivesse, mai più.
Gli era sembrata la cosa più stupida del mondo.

Si svegliò un numero imprecisato di ore più tardi con la testa vuota, nauseato e spossato e come febbricitante. L'aria stantia della catapecchia sapeva di alcool: doveva aver rovesciato la bottiglia del whisky, quando aveva perso conoscenza, perché sul tappeto consunto adesso c'era una chiazza scura e appiccicosa, e la bottiglia era vuota.
Usò il bagno per vomitare e per lavarsi la faccia. Sembrava che un qualche piccolo animale fosse andato a morirgli sotto la lingua e lì fosse rimasto a decomporsi, perché il sapore che aveva in bocca era precisamente quello, marciume, schifo, rancido. In guerra aveva mangiato cose schifose e innominabili e la muffa sul pane era stato il minore dei suoi problemi dai Dursley, perciò sapeva precisamente di cosa stava parlando.
Avere la testa vuota era ancora meglio dello stordimento, perché in mezzo a tutto quel niente c'era spazio per lasciar passare i pensieri. In mezzo a tutto quel niente gli sembrava quasi di poter riuscire a mettere in piedi qualcosa di simile ad un piano. Pianificò con la testa appoggiata al bordo freddo della vasca, cercando di ricacciare indietro i conati di vomito e la nausea.
Quando si sentì finalmente in grado di tenersi dritto senza barcollare, nella sua testa era finalmente germogliata un'idea: non proprio un'idea vera, di quelle che avevano un come e un perché, ma nondimeno un'idea, un frammento di piano, di progetto razionale. Era la cosa più vicina ad uno scopo che Harry avesse sentito di avere dal momento in cui Voldemort era esploso a meno di dieci passi di distanza dal cadavere di Hermione.
E fu aggrappandosi a quell'idea che si Smaterializzò a Grimmauld Place.





Note della storia: Questa storia ha partecipato al concorso [Auror Contest] Rabbits on the Run indetto da patronustrip, classificandosi prima. Quando mi sarò ripresa dallo choc andrò a rileggermi i giudizi, ma per ora vi dico che potete trovarli qui, e che mi hanno fatta arrossire.
Perno del concorso era l'album Rabbits on the Run della cantautrice e pianista Vanessa Carlton. Il titolo dell'album ha giocato una parte non indifferente, per me, nello stabilire quale sarebbe stato il finale della storia... ma magari ne parliamo nell'ultimo capitolo, sì? x°D


Il banner meraviglioso preparato da patronustrip ispirandosi alla copertina dell'album non è finito in cima al capitolo - in cima a TUTTI i capitoli - solo perché avevo già in mente di mettere lì un'immagine di tutti i luoghi che Harry attraverserà. Dopotutto, io sono fermamente d'accordo con chi sostiene che il lettore è, prima di ogni altra cosa, un viaggiatore.


Aggiornerò questa pagina con i links alle altre storie che hanno partecipato al concorso mano a mano che queste saranno pubblicate. Nel frattempo, ne approfitto per fare i miei complimenti a tutte le loro autrici e per ringraziare ancora una volta la giudiciA.
Non è una bellissima giornata? di roxy_xyz
Carrousel di jaybree88
A Thousand Miles di Viki_chan

Note del capitolo: Ad ogni capitolo sono associate: una canzone dell'album, una fotografia, una forma. La canzone di questo capitolo è I Don't Want To Be a Bride. La fotografia è tratta da qui e ritrae il cimitero di Highgate, non quello di Kensal Green... per il quale non ho trovato una foto adatta. La forma di questo capitolo è l'analessi in itinere: la narrazione è ambientata, idealmente, prima che la vera storia inizi, e il tempo usato è il trapassato remoto. Sarebbe carino leggere la storia ascoltando la canzone corrispondente. Io ho scritto così.
Per finire, suppongo si possa capire tranquillamente leggendo la storia: ma i numeri sotto al titolo sono una data (Es.: 24.06) ed un orario (Es.: 07:08:22 A.M.), riportati secondo l'uso inglese.

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Capitolo 2
*** wasted days ***






2. wasted days
25.06
12:37:05 A.M.


C'era un elenco di cose che non avrebbe rifatto, se gli fosse stata la possibilità di tornare indietro e di fare scelte diverse, un elenco che sembrava dipanarsi di fronte a lui come una strada infinita di disastri commessi.
Se avesse potuto tornare indietro non avrebbe mai messo piede nel Dipartimento dei Misteri. Non avrebbe mai lasciato da parte il regalo di Sirius – e l'avrebbe scartato mesi prima. Non avrebbe mai cercato di guardare oltre la porta chiusa che incombeva nei suoi sogni.
Il silenzio di Grimmauld Place pesava come una coltre di polvere e desolazione sulle sue spalle. Cacciò una manciata di maglie nello zaino, ficcò sulla sommità del mucchio l'unica giacca pesante che possedesse e lottò con le cinghie per cercare a chiuderle. Non era mai riuscito ad afferrare il delicato movimento del polso che consentiva ad Hermione di mettere tutto in valigia ordinatamente, ed adesso non avrebbe avuto mai più occasione di farselo insegnare.
Se avesse potuto tornare indietro non avrebbe risparmiato Minus. Gli sembrava un gesto sciocco e infantile e... ed egoista, visto da questo lato della guerra, egoista, inutile, uno spreco. I suoi scrupoli avevano impedito a Sirius di essere un uomo libero. I suoi scrupoli avevano permesso ad Hermione di morire. Gli scrupoli di Harry si erano lasciati una scia di cadaveri alle spalle – ed aveva le mani tanto sozze di sangue, adesso, che il pensiero di avere avuto un tempo pietà di un assassino gli sembrava incredibile e irragionevole. Quella che era appena finita era stata una guerra, Dio santo. Cosa s'era aspettato, di uscirne fuori intatto? Pulito?
Fece per chiudersi la porta della camera alle spalle ed esitò, lì, con la maniglia stretta tra le dita. Sul battente di legno Ginny aveva appeso in giorni più calmi una striscia di carta con su scritto Stanza di Harry. Era stata la stanza di Sirius: aveva ancora poster di ragazze Babbane appese alle pareti, e scaffali pieni di cose che parlavano di una vita vissuta venticinque anni prima.
Tutto quel che Harry possedeva era entrato in due cassetti e per portarlo via bastava uno zaino, ora; la sua Firebolt era finita bruciata in una delle case dell'Ordine dopo uno scontro con i Mangiamorte, i suoi libri di scuola erano stati buttati via quando era iniziata la guerra e c'era stato bisogno di spostarsi rapidamente da un nascondiglio all'altro, perché nessun posto era veramente sicuro. I vestiti di Harry – i vestiti di Dudley – erano pochi, logori e lisi e vecchi. Harry non aveva mai pensato a comprarsene altri: non aveva mai avuto davvero importanza, prima. Non aveva davvero importanza adesso.
Hermione gli aveva spesso chiesto perché, ma Harry non aveva mai saputo cosa risponderle. Non aveva mai voluto raccontarle dei Dursley, del ripostiglio sul quale una volta era stato scritto stanza di hary, con le lettere tutte minuscole e una r rovesciata al contrario, di tutto quel che di schifoso e sporco l'aveva aspettato al suo ritorno a casa, tutte le estati, un'estate dopo l'altra. Quello non l'aveva mai raccontato ad Hermione. Era stato il suo segreto.
Se avesse potuto tornare indietro non ci sarebbero stati segreti tra lui ed Hermione. I segreti erano stati come muri. Forse i segreti l'avevano uccisa, Hermione che sapeva tutto, forse quel che non sapeva era stato la sua morte.
Se avesse potuto tornare indietro...
Scrisse una lettera per Ginny, una per Remus ed una per la McGranitt. A nessun altro sarebbe importato, si disse. Le lasciò impilate con cura sulla scrivania, dove prima o poi qualcuno sarebbe passato, le avrebbe trovate e le avrebbe lette.
Fece per uscire, ma poi ci ripensò. Prese un quarto pezzo di pergamena, e ci scrisse sopra solamente:

Mi dispiace per tutto.



Lo indirizzò a Luna. Luna avrebbe capito.
Si chiuse la porta della stanza alle spalle e gli sembrò di chiudersi dietro, così, tutta una vita.



Le strade di Londra erano quiete e ventose, il cielo di Londra aveva il grigio azzurrato delle estati incerte d'Inghilterra, con nuvole e sole insieme. La gente portava magliette leggere e l'ombrello sottobraccio: alcuni avevano impermeabili di plastica colorata gettati sulle spalle, facendo passare inosservati nel mezzo della folla gli sporadici mantelli variopinti di un mago o di una strega. Era strano che il mondo fosse così, ora, ancora beatamente ignaro di trovarsi rimescolato, ancora lievemente sorpreso di scoprirsi ancora vivo, ancora intero, dall'altro lato di una guerra che era stata orribile e orrenda, ma che avrebbe potuto andare peggio. Avrebbero potuto morire tutti. Avrebbero potuto perdere, venire sconfitti, finire massacrati. Prima o poi qualcuno avrebbe tirato fuori la questione della Segretezza, e di come fosse importante che Maghi e Babbani vivessero le loro vite in due mondi separati – ma questo non era più un problema di Harry. Niente era più un problema di Harry.
Aveva sprecato i giorni e gli anni in attesa dell'ultima battaglia: l'ultima battaglia sarebbe stata la cosa più importante della sua vita, non avrebbe mai fatto nulla di più importante di quello, né prima, né poi. Era la sua vita. Era il suo destino: qualcun altro ne aveva parlato, qualcun altro lo aveva descritto, ed Harry ci era vissuto in mezzo. Tutto il suo mondo aveva ruotato attorno a quel pensiero, l'ultima battaglia, e il vuoto divorante che era il posto che i suoi genitori avrebbero dovuto occupare, se le cose fossero andate diversamente, che Sirius avrebbe dovuto occupare, se lui non fosse stato così stupido, ebbene, quel vuoto sembrava sanarsi solo al pensiero che un giorno tutto sarebbe finito.
L'ultima battaglia era arrivata. Tutto era finito: la fine del mondo non gli aveva portato alcun sollievo, tuttavia, ed Harry adesso si sentiva defraudato. Fatto, finito. Non aveva più uno scopo, ed Hermione era morta.
Per qualche strana, confusa ragione, i due pensieri sembravano mescolarsi inscindibilmente, come rami d'edera, germogliando nel nulla desolato che sembrava occupare adesso la sua cassa toracica.
Tutto quel tempo sprecato, pensò, e adesso aveva il vuoto nel cuore.
Se avesse potuto tornare indietro non avrebbe gettato al vento neanche uno di quei giorni, neanche quelli più brutti, atroci, infangati dai ricordi cupi e dalle cose orribili che aveva visto e commesso. Se avesse potuto tornare indietro avrebbe custodito con amore geloso ogni attimo che aveva avuto: non aveva capito allora quanto fossero preziosi – ma adesso lo sapeva - perché in ciascuno di quei giorni Hermione era stata viva. Aveva respirato. L'aveva avuta accanto – aveva potuto toccarla, parlarle.
La nostalgia di Hermione era come una mancanza continua. Gli spezzava il fiato.

Per raggiungere King's Cross gli occorse quasi tutta la mattinata: aveva un'idea vaga della direzione da prendere e dei mezzi che servivano per arrivarci, ma sembrava che tutte le linee della metropolitana si intrecciassero, che i bus non fossero dove avrebbero dovuto essere. Si perse e dovette chiedere informazioni ad una Babbana che lo guardò e non lo riconobbe: era famoso anche tra di loro – almeno per ora – ma non abbastanza, pareva.
Cominciò a piovere. Harry si fermò per togliere l'impermeabile dalla borsa e gettarselo sulle spalle e sullo zaino; sarebbe bastato un Impervius a metterlo al riparo, ma la bacchetta riposava al sicuro in una tasca e stamattina lui era un Babbano come tutti gli altri. Le gocce d'acqua, tamburellando lievi sulla plastica, scandirono il ritmo dei suoi passi. Camminando a testa bassa, si ritrovò davanti a King's Cross quasi senza accorgersene: e avrebbe potuto pensare di esserci arrivato Smaterializzandosi senza badarvi, ma la schiena gli faceva male, aveva le gambe stanche. Madama Chips si sarebbe arrabbiata se avesse scoperto che aveva lasciato l'ospedale così presto, ma anche Madama Chips riposava sotto la terra bagnata, adesso, e non poteva più arrabbiarsi con nessuno.
Comprare un biglietto per Newcastle gli portò via quasi un terzo del contenuto del suo portafoglio: mentre contava le sterline, accumulandole sul bancone, si chiese se quel che restava gli sarebbe bastato. Avrebbe dovuto dormire per strada. Stare attento a quel che mangiava, se non voleva rubare. Come l'avesse sentito, il suo stomaco si svegliò e provò a brontolare cautamente: Harry gli assestò un colpetto distratto per ammutolirlo e lo ignorò.

Quando il capotreno fischiò passando davanti ai vagoni chiusi, l'interno del vetro sporco e opaco dello scompartimento che mostrava il riflesso del suo viso come una patina sovrapposta al mondo fuori da lì, la stazione dai treni gialli e dal soffitto di vetro e dai Babbani frettolosi, ignari, Harry vide il segnale del Binario 9 e ¾ svettare al di sopra di un muro di mattoni.
Dovette chinare il capo ed affondare la faccia tra le mani per non vederlo, perché bastava... bastava guardarlo per pensare e ricordare, e perché il cuore sembrasse cercare di esplodergli nel petto. Aveva diviso cioccolata e figurine con Ron in uno scompartimento deserto. Aveva visto la chioma arruffatissima di Hermione arricciarsi attorno al nasino appuntito e orgoglioso dei suoi undici anni, al suo sorriso di tredicenne, alle sue spalle curve sotto il peso dei libri, sottili, come il suo collo snello e bianco.
In confronto a tutto quel dolore, la Cruciatus era niente.
Se fosse riuscito piangere si sarebbe sentito meglio, magari: ma la capacità di piangere sembrava essere morta assieme a tutto il resto, alle risate e alla gioia lieve e frizzante che ricordava vagamente di aver provato, qualche volta, molto tempo prima, morta assieme al desiderio straziante per le mani chiare di Hermione – Hermione che adesso non c'era più.

Se avesse potuto tornare indietro, pensò Harry per un istante, mentre il treno partiva con un sobbalzo stridente e il segnale del Binario 9 e ¾ si perdeva dall'altra parte di uno scompartimento fermo sui binari, forse avrebbe chiesto di poter morire con i suoi genitori.
Da morto si sarebbe sentito meglio, magari.





Note del capitolo:La canzone di questo capitolo è London. La fotografia è tratta da qui: a Londra hanno deciso che avere un vero binario 9 e 3/4 forse non era poi un'idea malvagia. La forma di questo capitolo è l'anafora: alcune frasi scelte e ripetute determinano il ritmo del brano.
Un grazie di cuore a tutti voi che mi avete lasciato un'opinione. Ne approfitto per esultare un po' anche qui, perché la one-shot che costituisce il seguito e un punto di vista alternativo di questa storia, ossia Il tempo che occorre, è arrivata prima al concorso Le tragedie greche indetto da Ray08. Salvo incidenti, sarà online il 31 marzo, credo.

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Capitolo 3
*** fair(not)weather friend ***






3. fair(not)weather friend
25.06
02:01:23 P.M.


Il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino era tinto del verde scurissimo dell'erba alta, orlato dalla pioggia e da un cielo più argento che azzurro, luminescente.
Aveva avuto undici anni di pioggia, i diluvi delle morti, le tempeste, una per ogni litigata, e le grandinate atroci di tutte le cose sporche che aveva dovuto fare. I giorni di sole erano stati nel mezzo come minuscole molliche di pane disseminate per aiutarlo a ricordare che c'era qualcosa, sempre, per cui valeva la pena di battersi, insozzarsi, morire.
Ed era stata sempre lì con lui, Hermione. La sua compagna nella cattiva sorte.







Note del capitolo: ... no, non ho pubblicato per errore solo il primo paragrafo del capitolo. Questo è il capitolo: la forma è la drabble (100 parole esatte esatte secondo il contatore di OpenOffice), l'immagine è Railway to nowhere, di StandardTeddy, e il brano è Fairweather Friends.
Mando un ringraziamento a tutti voi che vi siete fermati nello scorso capitolo per lasciarmi qualche parola. Grazie di cuore. Adesso scusate, ma me ne torno sul balcone della cucina a fare un pupazzo di neve. Morirò congelata, ma ci sono modi peggiori per andarsene. Qualcuno ha una carota...?

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Capitolo 4
*** going to the graveyard ***






4. going to the graveyard
26.06
11:19:00 A.M.


(Tu. Tu. Tu. Tu. Tu.)
(Clic.)
“Pronto?”
“...”
“Pronto? C'è nessuno? ... come diavolo.... Pronto?”
“Scusa, Ginny. Sono io.”
“Harry? Harry. Harry, sei... sei davvero tu? Dio, Harry, non... non ero sicura che ti avrei sentito mai più, Harry, Harry...”
“Per favore, non piangere...”
“D-dove sei?”
(Respiro.)
“Ginny...”
“Dimmi dove sei. Vengo a prenderti. Mamma è impazzita, non sapeva... non sapevamo dove fossi andato, non sapevamo cosa... Abbiamo trovato le lettere, Harry. Che cosa diavolo pensavi di fare?”
“Mi dispiace, Ginny. Non volevo che vi preoccupaste.”
“Hai una voce terribile.”
(Colpo di tosse.)
“E' solo mal di gola.”
“Harry, ti prego. Dimmi dove sei. Non importa se sei dall'altra parte del mondo, vengo a prenderti. Non devi stare da solo, tu, tra tutti...”
“No, Ginny.”
“Ti prego, Harry. Ti prego, ti prego, ti prego...”
“Non posso tornare indietro.”
(Silenzio.)
“E' per via di Ron?”
“...”
“E' colpa di Ron, vero? Harry, Ron è un imbecille. E' un idiota. La mamma è furiosa con lui, Charlie... Charlie ha cercato di farlo ragionare, ma Ron non ragiona, è... è solo fuori di sé. Non pensa davvero quel che ha detto. Se torni...”
“Non credevo davvero che avessi ancora il telefono.”
“Non l'ho mai buttato via. He-Hermione mi ha insegnato ad usarlo. Non potevo buttarlo.”
(Silenzio.)
“... Harry, sei ancora lì?”
“Sì. Sì, sono qui.”
“Harry...”
“Mi dispiace tanto, Ginny.”
“Ti prego, non dirlo. Non sono arrabbiata. Voglio solo che tu torni indietro, per favore, perché non voglio che tu stia da solo, adesso. Tu meno di tutti dovresti...”
“Perché?”
“Come sarebbe a dire perché, perché sì, Harry, perché non è... non è giusto. Ron può andare a farsi fottere per quanto mi riguarda, tu hai fatto più di tutti perché questo schifo di guerra finisse e non meriti di stare da solo a... senza nessuno. Ti prego. Noi ti vogliamo bene. Io ti voglio bene, Harry, non mi interessa se... se torni come un fratello, o come... voglio solo che torni.”
“Scusami, Ginny. Ti prego. Scusami tanto.”
“Non... non voglio che ti scusi. Non devi. Ma, ti prego, torna.”
“Non posso ancora tornare.”
“Dove sei, Harry?”
“Non posso dirtelo.”
“Perché no?”
“Perché, se te lo dicessi, verresti qui.”
“... dimmi dove stai andando, allora.”
(Silenzio.)
“Harry?”
(...)
“Harry? Harry, sei ancora in linea?”
“Sì.”
“Perché non mi rispondi?”
“Sto andando ad Hogwarts, Ginny.”
“Ad Hogwarts?” (Silenzio – sorpreso, stavolta.) “Ma... come? Perché?”
“Ho bisogno di... di vederla. Ho bisogno di stare lì per un po'.”
“Perché non posso accompagnarti? Perché non può accompagnarti...” (Esitazione. Silenzio.) “...Bill... o... o i gemelli, o...”
“Devo andare, Ginny.”
“No! No, ti prego, resta... resta ancora un attimo a parlare con me, per favore...”
“Non posso. Sto chiamando da una cabina pubblica, ma stanno... stanno finendo le monete, e non ne ho altre.”
(Do dong.)
“Andrai... andrai ad Hogwarts, ma poi tornerai, vero?”
“... dì a Molly che sto bene. Dì a tutti che sto bene. Non vi dovete preoccupare.”
“Perché non mi rispondi?”
“Devo andare.”
(Do dong.)
“Harry, cos'è questo rumore?” (Campane pesanti, sullo sfondo. Do dong. Do dong.) “Non fare niente di... di folle, d'accordo?” (Do dong.) “Ti amiamo tutti moltissimo, Harry, perciò...” (Do dong.) “Torna presto, per favore. Torna.”
(Dong.)
(Clic.)





Note del capitolo: La forma di questo capitolo è la sceneggiatura (più precisamente, in realtà, il testo teatrale). La fotografia è stata tratta da qui e ritrae una delle famose cabine telefoniche inglesi, nei pressi di Newcastle... ma quella a sud-ovest in Inghilterra. La canzone è Hear the Bells.

Fino a cinque minuti fa qui nevicava come fossimo in Canada, e c'era un paesaggio da Natale in Inghilterra proprio fuori la finestra di casa mia: ma adesso ha smesso.
... oh, no! I pupazzi di neve stanno dando l'assalto alle porte! E sono armati di scope e carote! Via! Andate via! State lontani da me! No, no, noyeaaARGH!

Un grazie a tutti voi che vi siete fermati nello scorso capitolo. Grazie davvero.

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Capitolo 5
*** papercut on the heart ***






5. papercut on the heart
28.06
09:44:13 P.M.


La spiaggia ad ovest di Newcastle era una distesa di liscia sabbia grigia affacciata su un mare azzurro scuro che, piatto e lucido come uno specchio, rifletteva le nuvole e il cielo tracciando diagrammi di luce spezzata tra un'onda e l'altra. Harry non aveva mai visto tanta acqua tutta insieme in un solo posto: aveva pensato, molti e molti anni prima, che da nessuna parte potesse essercene davvero di più di quanta ce n'era nel lago di Hogwarts... ma era un pensiero da bambino, quello, il pensiero di qualcuno che ad undici anni non aveva mai visto molto che non fossero la cucina dei Dursley e il loro polveroso ripostiglio sotto le scale.
Oggi vedeva il mare per la prima volta. Quando la corriera aveva superato la curva, sbucando da dietro il fianco della collina, al principio non aveva capito che cosa fosse quella cosa grigia e liscia, là davanti, che sembrava non finire mai: si era detto che doveva essere un lago proprio molto, molto grosso... e poi si era accorto che il lago in questione non finiva in tre direzioni, e allora aveva compreso.
Aveva deciso che avrebbe trascorso lì la giornata. Meglio lì che altrove, dopotutto, ed Hogwarts non sarebbe scomparsa nell'arco di una notte: se cinque anni di guerra non erano riusciti a tirarne giù le mura, difficilmente ventiquattr'ore di ritardo avrebbe fatto la differenza.
Una volta sceso dalla corriera aveva comprato due panini ed una bottiglia d'acqua ad un chiosco lungo la strada per la spiaggia: aveva adocchiato con desiderio una bottiglia di Coca-Cola, ma la Coca-Cola costava tre sterline, l'acqua solo mezza, ed il suo portafoglio continuava a sgonfiarsi ad una velocità impressionante.
Sulla spiaggia si era tolto le scarpe per sentire com'era la sabbia sotto ai piedi scalzi. Seduto su un sasso piatto, aveva mangiato i panini molto lentamente per farli durare il più a lungo possibile, prima di azzardarsi, ormai nel tardo pomeriggio, a muovere qualche passo lungo il bagnasciuga. Le onde gelate che gli avevano investito le gambe, inzuppandogli l'orlo dei calzoni rimboccati, l'avevano fatto rabbrividire. In acqua c'era qualche coraggioso che provava a fare il bagno, ma Harry pensò che non fosse una buona idea cercare di imitarli: la sua familiarità con il nuoto era ristretta alla traumatizzante esperienza della Seconda Prova del Tremaghi... e qui non c'era un ufficio di Piton al quale sottrarre l'Algabranchia.
Fu sulla spiaggia che Edvige lo raggiunse.
Harry non la vide arrivare: sentì solo un battito leggero a poca distanza dal suo orecchio, poi qualcosa di soffice sfiorargli la guancia. Balzò in piedi, rigido e spaventato, la bacchetta già estratta e uno Schiantesimo sulla punta della lingua, ed Edvige – ora appollaiata sulla sua spalla – sbatté di nuovo le ali ed emise un basso, rauco verso di disappunto nel sentirsi sbatacchiata a quel modo. Il cuore di Harry riprese a battere normalmente, riconoscendola. Si guardò intorno lo stesso, perché cinque anni di guerra avevano fatto di lui una persona molto, molto, molto prudente, ma c'erano solo pochi Babbani molto più in là, un paio in acqua, il resto sulla riva. Nella luce rossa del lunghissimo tramonto inglese una giovane donna cercava di convincere un bambino molto piccolo a rimettersi la maglietta. Una coppietta se ne stava inerpicata su una roccia alta oltre due piedi, gli zaini buttati sui sassi ai loro piedi ed una coperta leggera sulle spalle. Nessuno di loro sembrava pericoloso – non una minaccia, pensò Harry, e la guerra era finita.
“Mi hai spaventato,” disse ad Edvige, ma senza astio. L'accarezzò: le piume della civetta si tingevano d'arancio pallido, sotto a quel sole, ed erano soffici e morbide. Edvige emise un secondo, basso verso molto più contento del primo e gli becchettò dolcemente la mano.
Aveva un involto legato ad una zampa. Harry aggrottò la fronte, vedendolo, e per un attimo accarezzò l'idea di non aprirlo: di prenderlo e buttarlo in acqua senza leggerlo, perché non voleva parlare con nessuno, non voleva sentire nessuno, non voleva che nessuno cercasse di convincerlo a tornare indietro subito, a ritirare la sua medaglia al Ministero o... o qualunque altra cosa volessero che lui facesse adesso.
Avevano avuto da lui tutto quel che potevano chiedergli – e non avevano mai avuto il diritto di aspettarselo, quello, nessun diritto d'aspettarsi che un quattordicenne affrontasse il Signore Oscuro, che un diciassettenne guidasse una guerra, che un ventunenne la vincesse.
Non c'era più niente che potessero pretendere da lui. Era libero di vivere o morire come preferiva, di fare quel che gli piaceva, di andare dove voleva. La sua compagna nella cattiva sorte era sepolta sotto a sei piedi di terra e loro non avevano il diritto di...
Controllò che nessuno stesse guardando nella sua direzione – perché una civetta in pieno giorno avrebbe indubbiamente attirato l'attenzione di qualunque Babbano nelle vicinanze – prima di liberare la zampa di Edvige dalla lettera.
“Suppongo che tu non voglia dirmi chi me la manda?” le chiese in tono di vaga rassegnazione.
Edvige piegò il capo da una parte e gli rivolse un'occhiata terribilmente umana, ed Harry lasciò perdere. Aprì il sigillo di ceralacca sulla busta, spiegando il foglio all'interno, e fu improvvisamente contento di non averlo buttato via senza guardare: perché la firma al fondo della lettera era quella di Luna.
Luna era... Luna era a posto, pensò. Malgrado i suoi discorsi sui cieli di lavanda sotto ai quali vivere, quando non c'era alcun cielo sottoterra, nessun cielo a specchiarsi sul viso dei morti – i quali senza dubbio alcuno non vivevano – malgrado tutto ciò, ecco, Luna era comunque a posto.
Si ricordò che era stata Luna a dire l'unica cosa che avesse alleggerito anche solo di una minuscola frazione l'orribile peso marcio della morte di Sirius e, spinto dall'irrefrenabile, inconscia speranza che in quella lettera ci fosse qualcosa che potesse fare di nuovo il miracolo, che potesse levare al dolore che gli stava mangiando il cuore il suo lato più orribile e colpevole e malato, Harry stese la lettera con le dita e lesse:

Caro Harry,

sei stato davvero gentile a farmi sapere che saresti partito. Mi è dispiaciuto non vederti al funerale, ma forse è stato meglio così. E' stato molto triste. Hanno pianto tutti molto, sai, e la professoressa Sprite ha fatto crescere un cespuglio di lavanda sulla tomba prima che ce ne andassimo. E' un bellissimo cespuglio. Sono certa che ad Hermione piacerebbe.
Gli altri si sono preoccupati scoprendo che eri partito, anche se non riesco a capire perché. Sono sicura che il tuo viaggio stia andando nel migliore dei modi, e mio padre mi ha detto di aver avvistato un intero branco di Eliopodi migranti proprio stamattina: forse tu sai che gli Eliopodi non amano molto la pioggia, perciò dovresti trovare bel tempo ovunque tu vada. Mi dispiace che tu sia partito da solo, però. I viaggi sono sempre migliori, se fatti in compagnia. Sei arrabbiato con noi, ed è per questo che non hai voluto che venissimo con te?
La redazione del Cavillo è un po' sottosopra. Stiamo stampando molte più copie del solito, perché tutti vogliono vecchie ristampe del numero con la tua intervista: con la guerra avevano smesso di arrivare richieste, ma adesso i vecchi abbonati sono tornati e sono arrivati moltissimi nuovi lettori. Sono sicura che presto riusciremo a soddisfare tutti, così mio padre potrà riprendere in mano la sua ricerca sui Ricciocorni Schiattosi. Ha messo da parte abbastanza per poter andare in Norvegia a cercarli, ma non credo che lo accompagnerò. Credo di avere da fare qualcosa, io, qui.

Ti vedrò presto,
con affetto

Luna.


***



Cara Luna, scrisse Harry.
Lo scrisse dopo il tramonto, con il sole calato al di là del mare ed una luna pallida di miele sbiadito a riflettersi sull'acqua scura. Ci aveva messo un po' a staccarsi dalla lettera che aveva tra le mani, con il pensiero del cespuglio di lavanda azzurro cielo sopra alla tomba di Hermione, il funerale dove tutti avevano pianto e al quale lui non aveva partecipato – ma che aveva visto. Non c'erano lacrime che avrebbe potuto versare: la sua capacità di piangere sembrava essersi prosciugata insieme a molto altro, insieme alla compassione ed all'ingenuità ed alla capacità di lasciarsi consolare e lasciarsi comprendere che doveva aver avuto anche lui un tempo, anche adesso non se ne ricordava. Non c'erano lacrime che avrebbe potuto versare, ma avrebbe potuto stare vicino a Luna Lunatica Lovegood e sentirle dire così, da vicino, che ci sarebbero stati cieli di lavanda ad aspettare i morti, cieli purissimi di lavanda sotto i quali tutti loro avrebbero vissuto ancora.
Non avrebbe potuto crederle, però avrebbe potuto ascoltarla.

Cara Luna,

non volevo che nessuno si preoccupasse per me, ma ho bisogno di pensare a delle cose. E' per questo che me ne sono andato. Vorrei stare da solo per un po', ma non sono arrabbiato con nessuno. Sicuramente non sono arrabbiato con te. Sto bene, sono in riva al mare. Non ero mai stato su una spiaggia, prima.
Salutami tutti, per favore, dì loro di non preoccuparsi

Con affetto,

Harry.


Cara Luna, compose dentro di sé senza scriverlo né dirlo ad alta voce, cara Luna. Cara Luna, avevo bisogno di andarmene per non morire di nostalgia. Mi mancate, ma non voglio vedervi: niente vivi davanti a me finché non sarò certo di non essere morto anche io. Mi sento solo. Ho paura che mi sentirò solo sempre. Non riesco a non ricordare. Il viso di Hermione è come un taglio sul cuore, ogni volta che respiro i miei polmoni si allargano e ci premono sopra, fa male e non si cicatrizza. Il viso di Hermione è come avere la cassa toracica vuota, manca tutto, manca dentro. Ho visto il mare oggi ed è solo una cosa in più tra quelle che non ho: sono mancante, carente di pezzi che tutti dovrebbero avere, e la sensazione è la stessa che provavo avendo Voldemort nella testa.
Il viso di Hermione è come un taglio sul cuore. Il pensiero di averla qui accanto non muore anche se so che se ne è andata.
Harry pensò tutto questo, ma non lo scrisse. Prima di sigillare la lettera per Luna e di consegnarla ad Edvige, tuttavia, esitò con le dita sul foglio. Tentennò per un attimo e poi scarabocchiò in fondo a tutto il resto, a tutte le quiete, gentili mezze menzogne che sarebbero state necessarie a tranquillizzare gli altri:

P.s.: Scrivimi ancora. Se vuoi.





Note del capitolo: La forma presente in questo capitolo è l'inserimento di stralcio epistolare. L'immagine è tratta da una fotografia della spiaggia di Whitley Bay, di kittenkitten, e il brano è Dear California.
Desideravo da morire scrivere un pezzo su Harry in riva al mare, e ho largamente approfittato di questo capitolo: oltretutto, io trovo molto più bello il mare invernale - e il Mare del Nord, con i suoi lunghissimi tramonti e l'acqua grigia - che non il mare estivo o quello dei Caraibi. Ho sempre nutrito un'ammirazione feroce per i bambini irlandesi a mollo nell'acqua alle otto e mezza di sera... temperatura: tredici gradi circa. x°D

Dierrevi è passato e ha leggiuto e mi ha detto: "Come, la prima volta? E la catapecchia sullo scoglio?"
Ma per me vedere il mare è un'altra cosa che non arrivarci di notte, al buio, tempesta, in un guscio di noce. Certo, c'è stato sempre il mattino dopo con Hagrid e l'ombrello rosa...
Uhm.


Come sempre, un grazie di cuore a voi che vi fermate.

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Capitolo 6
*** stars through your window ***






6. stars through your window
30.06
10:15:59 P.M.


Quando chiudeva gli occhi la vedeva così: inondata di sole sui prati di Hogwarts, i capelli riccissimi come una caotica nuvola intessuta d'oro ogni volta che la luce ci passava attraverso, una macchia d'inchiostro sulla guancia e il suo profilo bellissimo e assorto.
La vedeva in un pomeriggio al sesto anno, gli ultimi giorni di vita vera, prima che Silente morisse e le cose cambiassero e la guerra iniziasse e li trascinasse tutti in quel posto buio e fondo che era diventata la necessità della loro sopravvivenza, prima che i Mangiamorte sciamassero sull'Inghilterra come uno stormo nero e che Voldemort facesse di tutti loro fuggitivi e ribelli e soldati, prima che la caccia agli Horcrux finisse per macchiare le loro anime.
Il profilo di Hermione era rimasto assorto anche dopo, bellissimo sempre; ma poi non c'erano più state chiazze di qualcosa di pulito come l'inchiostro sulle sue guance, niente più capelli sciolti perché era complicato lavarli quando non sempre si dormiva in un posto dove c'era acqua calda e sapone, niente più oro nella nuvola arruffata.
Ma Harry la ricordava ancora così. La loro Hermione dei giorni di sole.
La luce azzurrata delle stelle sembrava prendere sfumature d'ambra nei suoi ricordi; le ombre rosse e verdi che la luna disegnava sul pavimento della chiesa abbandonata, passando attraverso antiche vetrate opache, si trasformavano nel riflesso del sole sul lago di Hogwarts. Era stato fortunato a trovare un posto simile per dormire, con le sue porte socchiuse e le panche di legno rovesciate su un pavimento polveroso e infangato. Nessuno doveva essere passato da quelle parti a pulire da un'infinità di tempo: l'erba aveva preso a crescere tra le lastre di pietra del pavimento, le radici aggrappate alla poca terra che il vento era riuscito a spingere all'interno della chiusa, e nel mezzo di quella improbabile vegetazione c'erano poche, minuscole campanule ancora in boccio.
Harry non si era neanche preoccupato di Trasfigurare qualcosa in un letto: gli sarebbe sembrato, facendolo, di trasformare quel viaggio in qualcosa che non era. Era un viaggio da Babbano. I Babbani non avevano la magia per spostarsi, non avevano nulla che facesse di una vecchia panca rotta un letto comodo per passare la notte, niente per riparare con un colpo di bacchetta finestre infrante e porte che non si chiudevano affatto.
Faceva freddo nella chiesa abbandonata, ma non così tanto freddo da essere intollerabile: Harry aveva tirato fuori la giacca pesante dallo zaino per farsene una coperta; usava lo zaino stesso come fosse un cuscino ed era riuscito a sistemarsi tutto sommato comodamente sull'asse di legno scuro e vecchio di una delle panche.
Poteva guardare il cielo, da lì, attraverso le vetrate infrante, la luna argentata e le costellazioni bianche. Malgrado sei anni di Astronomia non aveva mai imparato veramente a riconoscerle, e così non erano niente più che briciole di luce ammassata, nessun disegno, nessuna storia, niente da ricordare.
Il cielo di Harry non aveva nomi. Non era una strada. Aveva imparato negli anni della guerra ad individuare la stella polare per sapere sempre da che parte era il nord, ma non c'era nessun nord al quale puntare, adesso, nessuna casa dove tornare. La guerra era finita. Doveva ripeterselo spesso: magari, così, un giorno avrebbe cominciato a crederci.
Avrebbe dovuto cercare di dormire. Il giorno dopo l'aspettava la lunga scarpinata che dalla cima della collina a nord di Newcastle, ben più alta della linea piatta della costa e del mare, lo avrebbe riportato sulla strada trafficata, verso un qualche posto dove farsi offrire un passaggio da un autista, magari, oppure ritrovare una corriera, un treno, qualcosa che lo portasse verso Edimburgo. Ma la sua gamba rovinata non sembrava riuscire a reggere sempre i ritmi di una persona sana: continuava a cedere nei momenti più inaspettati, rigida e dolorante, spedendogli lunghe fitte di dolore su per il ginocchio e costringendolo a fermarsi e a riprendere fiato.
La sua gamba non sarebbe mai tornata come prima, pensò Harry, colto nel mezzo di un dormiveglia denso e sonnolento come vischio, nulla sarebbe mai tornato come prima.
Quando chiudeva gli occhi vedeva Hermione. Sognava di lei e gli sembrava di essere tornato nella catapecchia di St.Paul's Cray, con la stanza dall'odore di liquore sparso e il viso di Hermione sopra di sé, le sue mani bianchissime e integre, l'aureola crespa dei suoi capelli castani.
“Mi dispiace,” bisbigliò.
Nel silenzio della chiesa abbandonata la sua voce parve riecheggiare.
Ricordò di nuovo com'era stato averla con sé nei loro giorni di sole, perché anche prima della guerra – anche prima di Ginny – Hermione c'era stata, era stata , con lui, come una sorella, più che una sorella, e adesso poteva ripensare alla curva del suo collo liscio e alla piega del suo seno sotto al vestito pervinca del Ballo del Ceppo e capire che... capire che...
Erano stati come una strana cosa in tre parti, lui e Ron ed Hermione, si erano compensati perché erano mancanti, ciascuno di loro era mancante, a ciascuno di loro mancavano dei pezzi. Era quello che Voldemort non aveva compreso, era quello che aveva causato la sua caduta: da solo, nessuno è mai intero.
Erano stati come una strana cosa in tre parti, lui e Ron ed Hermione, ed Harry avrebbe amato vederli sposati, vedere le mani di lui sul viso di lei, perché se non lui, chi? Se non lei, chi? Ma adesso che Hermione riposava sotto la terra lieve e la lavanda Harry poteva ripensare al suo sorriso e capire che tutto il dolore che gli si era aperto dentro non aveva a che fare solo con il senso di colpa e con la sua compagna della cattiva sorte, ormai irraggiungibile dall'altra parte del Velo, ma anche con tutte le possibilità mancate, perdute, mai realizzate.
“Mi dispiace,” bisbigliò ancora. Nel dormiveglia vide Hermione seduta tra le panche sfasciate. Aveva la sciarpa rossa e il viso pulito e un sorriso bianco come le stelle tra i vetri rotti: Harry non sapeva se la stava sognando o se era vera, se era un fantasma o solo un'ombra simile a quelle che si erano mosse molto tempo prima nello Specchio dei Desideri, sorridendogli e salutandolo dall'altro lato della morte, e non gli importava veramente cosa fosse, non quando poteva averla lì vicina ancora un altro po'. “Non devi andare via di già, vero...?”
Vide Hermione passargli una mano sul viso. Un frammento di ricordo si incastrò da qualche parte davanti ai suoi occhi, perché Petunia non l'aveva mai fatto, Lily forse sì, ma la memoria doveva essersi persa da qualche parte insieme al resto di quei quindici mesi di vita normale che aveva avuto prima che Voldemort arrivasse a Godric's Hollow; e perciò il ricordo delle mani di Hermione sul suo volto sudato per la febbre o la stanchezza o gli incubi era la cosa più simile al conforto che Harry conoscesse.
Le stelle pallide che filtravano attraverso l'ombra di Hermione si fusero con il ricordo dei giorni di sole ad Hogwarts. Harry chiuse gli occhi, li riaprì per poter guardare il viso di lei ancora per un attimo. Quando li chiuse di nuovo, passò dalla veglia al sonno.

***



Hermione era morta da centotrentadue secondi, centotrentadue pulsazioni e battiti e respiri affannosi, nel momento in cui Ron aveva smesso di prendere a calci il cadavere di Peter Minus, si era voltato verso di Harry e l'aveva finalmente guardato.
Il grumo pulsante di potere che era fuoriuscito da Voldemort, quasi fosse stato risucchiato fuori dalla sua bocca spalancata assieme al suo ultimo respiro, stava ancora cercando di farsi spazio all'interno di Harry: lui lo sentiva spingere e colare come pece da uno squarcio, sgocciolando negli interstizi vuoti che l'orrore e il dolore avevano scavato nelle sue viscere e riempiendoli con la sua massa nera. Tutti i suoi pensieri sembravano impazziti, la sua mente un coagulo di caos, e la sensazione era orribile quanto lo era stato avere Voldemort stesso dentro la testa, vivo e fremente e pronto a prendere il controllo nel momento esatto in cui le barriere dell'Occlumanzia fossero state abbassate.
Harry si premette le mani sullo stomaco e boccheggiò, nauseato, al pensiero che la sua anima fosse stata libera e sola per meno di cinque minuti. Cinque minuti di libertà nel totale di una vita. Dio. Cinque fottutissimi minuti.
E adesso Ron lo stava guardando e c'era qualcosa che non andava nella sua espressione.
Harry rabbrividì e combatté l'impulso improvviso di alzare la bacchetta per difendersi, perché quello era Ron, Ron, il suo migliore amico. Non c'era bisogno di bacchette alzate, con lui, nessun bisogno di difendersi.
“Ron...?” bisbigliò.
Diagon Alley era impazzita: tutti che urlavano, e c'erano ancora degli scontri in corso un po' più in là, lontano da quello che era stato il fulcro della battaglia e che ora era quieto ed immobile in una maniera stranamente inquietante. Harry vide Bellatrix cadere dal tetto di una casa sotto i getti di luce verde emersi dalle bacchette di Remus e Tonks, Lucius Malfoy venire sbalzato contro un muro da non meno di tre Schiantesimi. C'erano un paio di edifici in fiamme lungo la strada, tutti i negozi avevano le porte spalancate, le vetrine fracassate. C'erano merci e macerie e corpi per terra, chiazze di sangue e fuliggine sui muri. Qualcuno dei Mangiamorte aveva provato a Smaterializzarsi, ma le barriere alzate dalle gemelle Patil sembravano aver retto.
Nel mezzo della carneficina, tra i cadaveri e i feriti, doveva esserci anche il professor Piton. Harry cominciò a muovere mezzo passo, confusamente consapevole del bisogno di controllare che stesse bene, che fosse vivo, perché il professor Piton poteva anche essere odioso e un bastardo, un bugiardo assassino e doppiogiochista, ma gli aveva salvato la vita – aveva salvato la guerra – e Bellatrix l'aveva torturato, e adesso loro dovevano aiutarlo, curarlo...
Quando si mosse, gli occhi di Ron sembrarono metterlo improvvisamente a fuoco.
“Tu non sei morto.” disse, e nella sua voce non c'era neanche un'oncia di quel sollievo che Harry avrebbe sperato di udire dietro ad una frase così.
Harry fece per ritrarsi per istinto – perché quello era Ron ed Harry non poteva alzare la bacchetta, non poteva difendersi, sicuro, ma il viso che aveva di fronte era pieno di un odio e di una furia che aveva pensato che non avrebbe mai visto rivolti contro di sé.
Ron avanzò verso di lui ed Harry arretrò ancora di un passo: la gamba ferita cedette sotto al suo peso e lui si trovò in ginocchio, il ginocchio pulsante e la vista annebbiata. Ron allungò una mano ed Harry si aspettò, malgrado tutto, che cercasse di tirarlo su, di aiutarlo, di tenerlo dritto: ma la mano dell'altro gli si serrò sul collo della maglia, stringendo dolorosamente, e lo scosse con ferocia. “Tu!” ringhiò. “Non potevi farne a meno, eh? Troppo preso dai tuoi grandi piani segreti per perdere tempo a comunicarli anche a noi, eh? Eh? E' stata colpa tua!” ruggì. Harry lo fissò ad occhi sgranati, e il pozzo d'orrore e nausea che si era aperto dentro di lui sembrò allargarsi solo un altro po'. “Colpa tua! Sei andato giù e lei è corsa da te ed è morta così! E' stata tutta colpa tua!”
Ron lo scrollò ancora, violentemente, una scrollata sempre più forte a ciascuna delle ultime tre parole. Harry sentì il fiato mancargli ed alzò le mani per cercare di allontanare l'altro da sé, di staccarselo di dosso, perché aveva bisogno di respirare, di prendere fiato, di reagire.
Il potere che era stato di Voldemort pareva essere dotato di una vita propria, di una mente autonoma: si insinuò nelle crepe che andavano spalancandosi dentro di Harry e le riempì tutte. Sembrava volesse sanarle, in una orribile, nera, malata maniera, sembrava volesse richiuderle e cicatrizzarle. Sembrava cercasse di far sentire Harry di nuovo pieno, ma Harry si sentiva vuoto, vuoto, svuotato e annichilito.
“Perché sei vivo?” ruggì Ron, furioso. “Era l'Avada Kedavra! Pensavamo fossi morto!”
“Sono morto,” bisbigliò Harry, raucamente. “L'Horcrux... dovevo distruggere l'Horcrux. L'ultimo Horcrux. L'ultimo Horcrux – io.”
“Non sei morto!”
“Dovevo – dovevo morire.” sussurrò Harry. Dirlo faceva atrocemente male. Era andato alla morte perché Severus Piton gli aveva detto che solo così avrebbe potuto salvarli, solo così avrebbe potuto distruggere Voldemort una volta per tutte, bloccare la strada che gli avrebbe permesso di tornare indietro. Era andato alla morte con il cuore gonfio di terrore e di dolore, il pensiero di tutto quel che stava sacrificando davanti agli occhi – ma adesso non era morto, era vivo, ed Hermione... Hermione non respirava più.
Harry aveva visto sua madre sul campo di battaglia, suo padre tendergli una mano nel caos e nella confusione, mentre Voldemort gli puntava contro la bacchetta e la luce della maledizione trasformava il crepuscolo in un giorno di chiarore verde. Le mani di Sirius si erano posate sulle sue spalle mentre Harry se ne stava lì, fermo e in piedi, e si lasciava uccidere.
Era stato quello il piano, pensò confusamente. Non aveva avuto il cuore di dirlo a Ron, ad Hermione, perché aveva pensato che avrebbero cercato di fermarlo... e lui non avrebbe potuto tollerarlo, quello. Aveva pensato che, se loro fossero intervenuti, se avessero tentato di dissuaderlo, lui avrebbe potuto cedere. Che avrebbe potuto lasciarsi fermare e che avrebbero perso la guerra per questo, che sarebbero tutti morti per questo.
Non aveva immaginato che sarebbe rimasto vivo, dopo, a convivere con le conseguenze della sua morte mancata.
Cercò sua madre e suo padre e Sirius con gli occhi, ma non c'erano più. La Pietra della Resurrezione doveva essere caduta da qualche parte, lì sul selciato di Diagon Alley, e con un po' di fortuna sarebbe stata spazzata via insieme alle macerie. Non sarebbe stata trovata. Non sarebbe mai stata trovata.
“Dovevo morire,” sussurrò ancora Harry. L'orrore l'invase. Restare morto. Non tornare a respirare per scoprire che Hermione stava cadendo, cadeva, che Hermione non avrebbe mai più aperto gli occhi, e tutto il dolore e lo schifo di quella lunghissima guerra sembrava non essere servito a niente, così.
“Sarebbe stato meglio se lo avessi fatto,” ringhiò Ron. Le lacrime gli colavano dagli occhi, e tremava – se per la furia, la spossatezza o la disperazione, Harry non lo sapeva. “Dovevi restare morto.”
Nulla di tutto quel che Voldemort aveva fatto, la Cruciatus e le ferite e le minacce e la sua ultima, mezza morte, aveva potuto mettere in ginocchio Harry, ma Ron c'era riuscito senza neanche bisogno di estrarre la bacchetta.
Harry si era sentito barcollare e aveva dovuto usare una mano per tenersi dritto.
“Lasciami andare,” aveva mormorato. Aveva cercato di respingerlo. Le ginocchia gli facevano male, la testa gli faceva male, respirare gli faceva male. Aveva tentato di alzarsi e Ron l'aveva lasciato cadere: l'espressione di disgusto sul suo viso era stata come uno schiaffo in piena faccia, ed Harry aveva visto il viso di Petunia sovrapporsi a quello del suo migliore amico, quello di Vernon, di Piton, di tutte le persone che l'avevano guardato con schifo e disprezzo nel corso degli anni. Aveva sentito la sua presa sul grumo di potere che gli si stava coagulando nel petto vacillare ed aveva sentito un brivido gelido scorrergli nella schiena al pensiero di tutto quel che avrebbe potuto fare a Ron, al mondo, se solo fosse stato sufficientemente arrabbiato. Se solo l'avessero provocato abbastanza. “Vattene...” aveva bisbigliato, inorridito. “Vattene via!”
Il grumo si stava aprendo. Germogliava, si spaccava, come una melograno, come un bozzolo, e tutto quel che ne stava uscendo fuori, tutto quel coacervo di orribili emozioni che si stavano mangiando il cuore di Harry, avevano fatto tremare la terra, sussultare i mucchi di macerie nel mezzo della strada. Nel mezzo della polvere che si era levata, un lampo di luce rossa era passato a pochi metri da lui e da Ron, ma Harry non l'aveva visto: perché proprio in quel momento il grumo era sembrato esplodere in lui, con un boato sordo, e c'erano state grida e suono di cose che crollavano.
Poi, il buio.





Note del capitolo: La forma di questo capitolo è il racconto in analessi (o flashback); l'immagine è tratta da qui, ed è una fotografia del Vallo di Adriano nella contea di Tyne and Wear (dove si trova Newcastle upon Tyne. Questa volta ho dovuto modificare pesantemente la foto originale perché non sono riuscita a trovare una singola fotografia notturna di una chiesa abbandonata inglese o di un tratto di campagna inglese. Se avete più fortuna di me e ci riuscite, vi prego, fatemela avere! x°D Il brano è Tell Tales For Spring.

Mi scuso per il ritardo nella pubblicazione: l'Università stava cercando di mangiarmi viva, ma poi mi ha risputata fuori. Un grazie a tutti voi che vi fermate sempre a lasciarmi un parere.

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Capitolo 7
*** flicker of radiance ***






7. flicker of radiance
02.07
11:25:41 A.M.


“Sei sicuro di non volere un passaggio fino ad Edimburgo, figliolo?” Gli occhi del vecchio si fissarono per un attimo nei suoi ed Harry non ebbe quasi bisogno della Legilimanzia per leggervi dentro una punta di ansia, due di incertezza, un po' d'umanissima curiosità e molta compassione. Il vecchio non sapeva bene chi lui fosse, ma lo vedeva giovane, lo vedeva zoppo. Non se la sentiva di abbandonarlo in mezzo ad una strada. “Potrei accompagnarti fin lì. Non c'è da allungare poi tanto, per me...”
Considerando che Glasgow – dove il vecchio era diretto – era nella direzione opposta, pensò Harry, doveva essere proprio un brav'uomo. Una brava persona, una di quella per le quali ne sarebbe valsa la pena di restare morti sul selciato di Diagon Alley. L'aveva caricato senza fargli domande, e dopo cinque anni durante i quali i Mangiamorte avevano portato avanti i loro piccoli massacri su e giù per la Gran Bretagna, senza troppa cura dello Statuto di Segretezza, caricarsi in macchina uno sconosciuto era uno sfoggio di fiducia notevole. L'aveva portato fin lì. Gli aveva anche offerto un po' del caffè lungo che aveva con sé, conservato in un piccolo thermos di plastica: Harry, che non aveva mandato giù nulla dalla sera prima, ne aveva preso un lungo sorso, ricco e zuccherato e ancora tiepido, e gli era sembrata la cosa migliore del mondo.
Il vecchio era una brava persona, ed aveva ancora tanta strada da fare.
Harry scosse la testa.
“Mi ha risparmiato una bella camminata,” gli disse. “Se non fosse per lei, starei ancora cercando di raggiungere Jedburgh.”
Il vecchio scosse la testa, dubbioso:
“Con quella gamba non dovresti fare troppi sforzi, figliolo.”
Harry riuscì persino a sorridergli:
“Sono quasi arrivato.”
“Da dov'è che vieni, poi?”
“Da Londra. Sono partito da Londra.”
Il vecchio emise un basso fischio di stupore, gli occhi sgranati, prima di inclinare il capo da una parte e adocchiarlo con vago sospetto:
“Devi aver fatto un giro ben strano, figliolo, per esserti trovato a passare da queste parti.”
Harry controllò le cinghie dello zaino, per assicurarsi di averle chiuse bene, dandosi del tempo prima di rispondere quietamente:
“Non ho fretta di arrivare.”
“Sei in vacanza, figliolo?”
Harry esitò:
“Una specie.”
Gli occhi del vecchio parvero farsi più acuti: Harry vi lesse dietro tutto una vena di pensieri cauti e prudenti, certo, ma più profondi e più forti erano quelli che riguardavano lui stesso, quelli inondati di pena e di preoccupazione per un perfetto sconosciuto. Si vide di nuovo attraverso gli occhi dell'uomo, un ragazzo pallido e troppo magro, troppo basso, tanto da sembrare ancora adolescente. Si vide zoppicare su quel tratto in salita poco prima di Jedburgh dove il vecchio se l'era stato caricato in macchina.
Harry pensò che avrebbe dovuto ringraziare in fretta, scendere dall'auto ed allontanarsi alla svelta, prima di causare altre domande inopportune: ma le persone che si erano attivamente preoccupate per la sua salute erano state, nel corso della sua vita, tanto poche da poter essere contate sulla punta delle dita. Non se la sentiva di respingerne una, così, adesso.
“Ho degli amici che mi aspettano dopo Aberdeen,” spiegò al vecchio, gentilmente. “Vado a fare una visita alla mia vecchia scuola.”
Il viso dell'uomo parve rasserenarsi istantaneamente:
“Capisco, capisco. Un saluto ai vecchi tempi prima di incominciare un lavoro nuovo, eh?”
Harry non aveva un lavoro, e forse non ne avrebbe avuto mai uno: tutti avrebbero avuto paura di lui, pensò, perché aveva in petto il grumo di potere che era stato di Voldemort, perché l'aveva sconfitto, perché era morto e rinato. Perché aveva aperto un cratere in Diagon Alley. L'avrebbero tenuto a distanza. L'avrebbero accusato delle cose che erano andate storte – perché non aveva vinto prima, perché non aveva fatto abbastanza in fretta, perché non li aveva salvati tutti.
Non c'era un lavoro nuovo ad aspettarlo, ma forse un pezzo di vita sì. Vita sua. Avrebbe sempre avuto un anima in due parti, ma forse poteva vivere anche così. Forse poteva andarsene lontano, lontanissimo, in un posto dove non avrebbe avuto più importanza.
“Qualcosa del genere,” replicò. Protese la mano verso il vecchio, dopo un attimo di esitazione, affermando con un tono carico della più assoluta sincerità: “Grazie di tutto.”
Il vecchio gliela strinse:
“Siamo tutti su questa terra per aiutarci, figliolo. Se non lo facciamo noi, chi altri?”

Fermo sul ciglio della strada, Harry aspettò che il vecchio rimettesse in moto, prima di alzare la mano e salutarlo. Vide gli occhi dell'uomo fissarlo attraverso lo specchietto, il suo viso piegarsi in un sorriso. Se non noi, chi altri?
La strada verso nord si stendeva attraverso una distesa d'erba verde pallido dove i soffioni si schiudevano come minuscole nuvole bianche; laddove i fiori erano ancora aperti li si vedeva sparpagliati a manciate, di un giallo vivissimo e umile, sempre più fitti nella direzione delle colline. Ai bordi della strada un ciuffo di papaveri ondeggiava al vento, i petali delicati aggrappati allo stelo con tutte le loro forze per non farsi trascinare via: badando bene a non calpestarlo, Harry scavalcò la barriera e si incamminò verso nord.
C'era tanta strada da fare, ancora, prima di arrivare ad Hogwarts.



Per tutto il giorno cercò di procedere in linea retta verso nord: tenne il sole alla sua sinistra finché non fu all'apice, poi si fermò, riprese fiato. All'ombra di un alto frassino, tirò fuori dallo zaino una scatola di tonno e fagioli, l'aprì con un sasso e ne svuotò metodicamente il contenuto, usando un dito, alla fine, per ripulire il fondo dalla salsa. Non riuscì a riempircisi lo stomaco, ma stava ancora razionando le sterline rimastegli, e le provviste d'emergenza che era riuscito a ficcare nello zaino dopo aver fatto spese a Newcastle avrebbero dovuto durargli fino ad Edimburgo.
Per un attimo pensò alla sua camera blindata alla Gringott, traboccante di monete d'oro e d'argento che si potevano spendere al Paiolo Magico, dove Tom gli avrebbe riempito fino all'orlo una ciotola di stufato di carne ed Harry avrebbe potuto mangiare fino ad averne la nausea. Pensò che i Galeoni si potevano convertire in sterline, e con le sterline si poteva entrare in un supermercato e svuotare gli scaffali. Pensò alle cucine di Hogwarts, e il ricordo del banchetto di inizio anno gli fece gorgogliare lo stomaco.
Ma per entrare alla Gringott avrebbe dovuto attraversare Diagon Alley – ed Harry ancora non voleva doverlo fare, quello – e ad Hogwarts ci stava andando, davvero. Si avvicinava un po' alla volta. Quando camminava si sentiva meno vuoto, il grumo dentro di lui era meno nero, meno denso. Respirare era più facile. Camminare era una cosa da Babbani, una cosa da Harry, nulla che Voldemort avrebbe mai fatto: Voldemort si sarebbe Smaterializzato dritto dritto ai margini della Foresta Proibita o non si sarebbe mosso affatto, non attraverso tutta l'Inghilterra, da un cimitero all'altro, solo per andare a salutare i morti.
Il pomeriggio Harry lo trascorse cercando di tenere il sole alla sua destra. Provò a muoversi diritto, a non fare deviazioni, scavalcando bassi muretti di pietra grigia e saltando oltre i piccoli, stretti ruscelli che tagliavano i prati per non rischiare di perdere l'orientamento.
Le Morfoot Hills si alzarono davanti a lui a metà pomeriggio. Il vecchio l'aveva lasciato dalle parti di Peebles, ed Harry aveva pensato che, tenendo un buon passo e senza troppe soste, avrebbe potuto arrivare a Peniculk in giornata: ma doveva essere finito leggermente fuori strada, perché – apparentemente – per andare a nord ora doveva tagliare dritto attraverso le colline. Il piano originale prevedeva che lui le aggirasse, che prendesse la strada facile, tutta in pianura. Le Morfoot Hills non erano montagne, non erano ripide, i sentieri erano bianchi viottoli di pietre tutto sommato in buono stato; ma la gamba danneggiata gli doleva, la schiena gli faceva male. Certe volte respirava e gli sembrava che a venire giù insieme al fiato ci fosse del fuoco, della brace.
Dovette fare una sosta verso le due del pomeriggio, una poco dopo le quattro; da quel momento in poi divenne una specie di ritmo, mezz'ora, una pausa, mezz'ora, una pausa. Controllava spesso la mappa della zona – ne aveva presa una ad Otterbum, dove il pullman aveva fatto sosta – ma era una mappa da turista, grossolana, con poche indicazioni scarne tutte concentrate attorno alle strade principali.
I giorni dell'estate inglese erano lunghissimi, come dilatati, con il sole che si allargava all'orizzonte e diveniva un ovale di fuoco rosso prima di scomparire dall'altra parte delle colline tra la spuma delle nuvole calde; approfittando delle ore di luce, Harry riuscì a risalire fino alla cima di una delle colline, a scendere giù per la vallata e a riprendere il cammino sul fianco di un'altra prima che facesse buio. Mentre il crepuscolo allungava ombre sempre più lunghe da ovest ad est, l'erba come un manto di velluto verde scuro sotto i suoi passi, Harry raggiunse nuovamente il punto più alto del sentiero e lì, ansante, si fermò.
Nel tramonto le colline ai suoi piedi erano un mare tutto pallidi soffioni e denti di leone dal colore d'oro polveroso, l'erba nel sole, come in fiamme, drappeggiata sopra di esse in un basso, folto manto. C'erano pochi alberi, pochi cespugli; i sentieri erano intervallati da lastre grigie che riportavano l'altitudine ed altri piccoli numeri che Harry non riuscì a decifrare. C'era una tana di talpa a pochi passi da lui, tutta montagnette di terra franata e friabile alzate nel mezzo della liscia distesa erbosa.
Non ce l'avrebbe mai fatta ad arrivare a Peniculk, men che meno ad Edimburgo, prima che facesse buio; proprio mentre lo pensava l'ultima fetta di sole scivolò oltre l'orizzonte e l'oro delle nuvole prese a tingersi di porpora. Attorno a sé Harry non riusciva a vedere niente che non fossero prati e fiori ed un cielo rosato troppo umido per essere veramente limpido. Faceva ancora caldo – ma, ora che il sole era scomparso ai piedi delle colline, la temperatura sarebbe scesa in fretta. Lì non c'erano case in vista, nessuna chiesa vuota nella quale trascorrere la notte.
Harry prese in considerazione l'ipotesi di Smaterializzarsi e, di nuovo, la respinse.
Uno stormo di anatre passò a volo radente proprio sulla sua testa. Harry le osservò dirigersi verso sud, le loro ali screziate di verde splendente, ed aspettò che fossero scomparse ai piedi della collina prima di sedersi per terra.
Dallo zaino estrasse tutte le maglie che poté, la sua felpa pesante, il cappotto, perché presto avrebbe fatto molto freddo, lassù. Aveva dei fiammiferi in una tasca dello zaino: erano vecchi, vecchissimi cerini, probabilmente qualcosa che aveva sgraffignato ai Dursley. Considerò la possibilità di accendere un fuoco, ma non c'era nessuna legna da usare ed anche troppe esche a disposizione. Sarebbe stato sgradevole causare un incendio proprio sulla cima delle Morfoot, con tutta quell'erba ben asciutta...
Prima che diventasse troppo buio per poter vedere quel che faceva, aprì un altro barattolo di fagioli. Il cucchiaio era ancora un po' appiccicoso, dopo averlo usato quella mattina, ed era la terza porzione di tonno e fagioli in due giorni, ma lui aveva fame, la camminata era stata lunga. Di nuovo, usò le dita per ripulire anche il fondo della scatola, leccandosi i polpastrelli per essere sicuro di aver finito tutto.
I tramonti della Gran Bretagna erano infiniti, ma il crepuscolo durava solo un attimo. Quando Harry ripose nello zaino la scatola tristemente vuota, il cielo aveva già assunto una sfumatura di blu profondissima: c'erano ancora linee pallide verso ovest, ma ad est l'orizzonte era nero, uniforme, vellutato. Le stelle erano come manciate di cristalli sparpagliati sopra la sua testa, e ce n'erano tantissime, innumerevoli. La luna pallida tingeva d'argento la base delle colline.
Si vedeva la strada, in lontananza, e le luci intermittenti delle macchine di passaggio, e più in basso ancora si scorgeva qualche casa, qualche lampione: ma il mondo lì in alto era nero e blu e argento. Harry ricordò il soffitto della Sala Grande durante la cena e sollevò una mano verso il cielo. Aveva l'impressione, se avesse stretto le dita, di poter serrare una manciata di stelle nel palmo.
Era stanco, stanchissimo. Si prese un attimo per controllare di avere la bacchetta ancora nascosta nella manica destra, al sicuro e pronta ad essere impugnata in un attimo se ci fossero stati problemi, e poi rotolò su un fianco: sotto al peso confortante della giacca e dei maglioni non faceva poi così freddo, e in nessun riparo, in nessuna casa, avrebbe mai avuto una vista come quella che si aveva da lì.
Chiuse gli occhi, sognò.
Nel sogno vide Hogwarts e vide la torre, vide il sole d'oro dietro le vetrate: e sul vetro di tutte le finestre si stagliava la sagoma di una ragazza dal collo sottile e dal naso diritto e dai capelli ricci, ricci, ricci.



Si sveglia, e non saprebbe dire perché si è svegliato. Aprendo gli occhi si trova davanti solo il cielo nero e una fetta di luna più alta verso nord: devono essere passate molte ore dal momento in cui si è addormentato, ma ha ancora sonno, è ancora buio. E' sul punto di rotolare sull'altro fianco e tornare a dormire, quando lo attraversa l'improvvisa, fulminante consapevolezza che a svegliarlo è stata quella parte di lui che ha contribuito a tenerlo vivo ed integro negli anni della guerra, quando i Mangiamorte erano sulle sue tracce e tutta l'Inghilterra pareva un unico, sterminato terreno di caccia che non conosceva stagioni di chiusura.
Scivola in ginocchio senza quasi accorgersene: la gamba debole protesta per la posizione, ma tutti i suoi nervi sono svegli e in allerta, adesso, tesi a cogliere i cambiamenti.
Respira profondamente – c'è una strana qualità di silenzio, quella che è il preludio alle peggiori situazioni. Aguzza le orecchie, e la bacchetta gli compare in mano come per magia; Harry fa per alzarla, per puntarla avanti a sé.
E poi sente le grida.
Sono grida attutite: paiono provenire da un luogo infinitamente distante, dal sottosuolo, da un altro mondo. E' una donna a gridare, e la sua voce rotta dall'orrore strappa ad Harry un gemito e un brivido: l'ha sentita tante e tante e tante volte, quella voce, quando era ragazzo e poi durante gli anni della guerra, ed è l'unico vero ricordo che conserva di sua madre.
Lily Evans Potter prega Voldemort di non far del male ad Harry, non a lui, non a lui, per piacere, di prendere lei, di uccidere lei, non il bambino. Harry la sente implorare e piangere, sente Voldemort ridere. Nel buio di una notte fattasi improvvisamente gelida e pesta, esclama:
Expecto Patronum!”
Il cervo bianchissimo scaturisce dalla punta della sua bacchetta in un fiume di luce: galoppa in circolo attorno a lui e, rischiarate dal suo chiarore, Harry finalmente le vede – l'orlo dei mantelli neri sospeso appena al di sopra dell'erba bassa – le sagome da incubo nero dei Dissennatori. Il cuore gli balza in gola per il terrore e l'orrore, e quasi avrebbe preferito non vederle, perché ce ne sono tante, tantissime, una marea di fantasmi più bui del buio, un circolo di terrore che porta con sé il panico e il gelo e il ricordo di tutti i momenti privi di luce. Dissennatori. Decine, centinaia di Dissennatori.
Stridono quando il Patronus passa in mezzo a loro, caricandoli, e si disperdono in fuga in tutte le direzioni: ma poi ritornano, riformano il circolo, e stringono Harry nel centro. La morte di Voldemort deve averli delusi, pensa lui confusamente, deve averli lasciati senza nessuno da seguire, senza il premio promesso loro – la libertà di fare quel che avrebbero voluto con gli sconfitti, di divorarne l'anima e la gioia. L'Ordine ne ha distrutti molti a Diagon Alley, durante l'ultima battaglia, ma tutti gli altri devono essere qui, adesso. Forse cercano vendetta. Forse è il grumo nero in Harry ad attirarli: è un pensiero orribile, ma i Dissennatori hanno seguito Voldemort per il potere, per la magia, e adesso tutto quel che Voldemort è stato è passato in Harry.
Lui cerca di mettersi in piedi. Uno dei Dissennatori allunga una mano viscida e ossuta per cercare d'afferrarlo ed Harry gli punta la bacchetta contro:
RESPICIO!”
Un lampo di luce viola e il Dissennatore si allontana. Un altro prende il suo posto e di nuovo Harry lo respinge. Il Patronus gli galoppa accanto. Per un attimo la voce di Lily si stempera e si spegne, ma quando il Patronus passa oltre ad emergere dal silenzio è il suono ovattato di urla ed esplosioni ed il rumore soffice di un corpo che cade per terra.
Harry boccheggia.
“No!”
Nella sua testa, gridano tutti. Ron urla dal fondo della strada ed Hermione sta correndo verso Harry, verso Voldemort: sdraiato sul selciato, il respiro ancora mozzo e la testa che gli gira dopo la sua non-del-tutto-morte, Harry la vede rovesciata nel suo campo visivo, vede i suoi capelli ondeggiare e la sua espressione disperata e sconvolta. Non vede Peter Minus fino a quando non è troppo tardi – e poi c'è quell'aurora verde che riempie Diagon Alley, Hermione che si mette tra lui e Peter, tra lui e l'aurora, e che poi cade.
“No...” bisbiglia ancora Harry. Ha cercato di alzarsi in piedi, ma adesso si ritrova in ginocchio. Sente i Dissennatori accalcarsi attorno a lui, stringersi, nutrendosi del suo dolore e della sua disperazione, del suono sordo del corpo di Hermione che crolla sul selciato e che non respira più, non ha respirato più, dopo.
Non ci sarà più nessuna Hermione su questa terra, più nessuna ragazza dai capelli ricci a tenergli la mano nel buio, come una fiaccola, una luce, più splendente del Lumos. Nessuna Hermione che sapeva tutto, curiosa ed entusiasta ed amabile, nessuna Hermione magnifica e meravigliosa a coprirgli le spalle, e la terra sembra così fredda, adesso, così vuota.
Hermione non c'è più. Anche la speranza sembra essersene andata.
Di nuovo Diagon Alley, di nuovo Hermione corre verso di lui e di nuovo Harry la vede, nel suo mondo alla rovescia, barcollare e cadere. No, no, no, pensa, e vorrebbe dirlo, ma gli manca la voce.
I Dissennatori sono troppi. Sono così vicini che adesso ne sente l'odore sulla pelle. Il cervo bianco scintilla in un angolo del suo campo visivo, affievolendosi, scalcia un'ultima volta nel mezzo del mucchio di ombre e poi scompare.
Respicio...” ansima Harry. “Respicio!”
Tutto il potere del grumo, tutto il suo, il loro potere, non basta a tenere lontani i Dissennatori se dietro non c'è volontà, non c'è energia. Tutta la volontà sembra essere morta con Hermione ed Harry non crede che si possa guarire da quello, non crede di poter tornare sano e integro e intatto com'era quando lei era viva e camminava su quella terra insieme a lui.
Diagon Alley. Hermione corre, corre. Barcolla e cade.
Colto dalla disperazione, Harry cerca di Smaterializzarsi: ma la sua testa è piena di Diagon Alley, solo Diagon Alley, nessun altro luogo dove andare, non ha più la forza di muoversi e spostarsi perché anche Diagon Alley è solo nella sua testa. Non può fuggire da sé stesso. Diagon Alley. Hermione cade, sta cadendo. Cade per colpa sua.
Il Dissenatore più vicino si china su di lui ed Harry vede il suo cappuccio sollevarsi, la sua bocca spalancarsi e per un attimo tutto quel che riesce a provare è sollievo: basta dolore, basta ricordi, basta tutto. Ci sarà Hermione ad aspettarlo, dall'altra parte, così come sua madre lo stava aspettando l'ultima volta, e ci saranno i prati di Hogwarts per loro e lui potrà dirle che l'amava, l'ha capito quand'era troppo tardi ma l'ha sempre, sempre, sempre amata, Hermione magnifica e meravigliosa, e il lago e il cielo...
Vivremo sotto a cieli color di lavanda, gli bisbiglia la voce di Luna in un orecchio.
Harry si trova con la bacchetta alzata contro il petto del Dissennatore che ha di fronte e non sa come c'è riuscito, non sa come ha fatto a riemergere: ma il suono di Hermione che cade lo riempie solo del desiderio rabbioso e disperato di vivere e di respirare, adesso, di respirare malgrado tutto, perché se lei è morta perché lui vivesse allora... allora morire così è uno spreco, morire così è... è un insulto, è...
Le grida di Diagon Alley ronzano come i suoni di una radio malamente sintonizzata ed Harry inspira e boccheggia – è come la prima sorsata d'aria dopo la Seconda Prova, ineguagliabile – e urla:
EXPECTO PATRONUM!”
Le corna del cervo travolgono il Dissennatore e questo si sbriciola al tocco come un castello di sabbia nera. Ramoso prende a galoppare attorno ad Harry ed è più splendente che mai, più bianco e più vivo della luna, chiarissimo come le stelle. La luce sembra restargli dietro in una scia, ed i Dissennatori arretrano, si disperdono, fuggono: Harry pensa a Sirius e alla notte in cui l'ha salvato accanto al lago di Hogwarts, e quando Sirius è morto anche quello è diventato un ricordo di orrore e dolore che gli ha lacerato l'anima. Ma Sirius gli aveva chiesto di venire a vivere con lui, Harry se lo ricorda. Gli aveva detto che voleva averlo in casa con sé, tenerlo come fosse un figlio, per amarlo come suo padre non poteva più fare. Ci sono troppe cose in quel ricordo, troppe sensazioni, e i Dissennatori sembrano non riuscire a far presa su di esso.
Harry stringe la bacchetta e si aggrappa al ricordo di Hermione. Il dolore gli spezza il cuore, è terribile e straziante e lui pensa per un attimo che sarebbe quasi meglio non aver vissuto per poterlo provare; ma poi, mentre i Dissennatori tornano a serrare le fila attorno a lui, guidati dalla sua disperazione, Harry si sforza di ricordare che le mani di Hermione portano la memoria del conforto, il sorriso di Hermione quella della speranza.
Ramoso carica a testa bassa nel mezzo delle ombre e tutto ad un tratto la luna è in terra, accecante, rischiara la cima delle Morfoot Hills come un lago di luce argentata.
I Dissennatori stridono ancora, cercano di allontanarsi: ma, quando la luce li investe, scompaiono uno dopo l'altro.
Nel buio improvviso che segue, ora quieto e privo di ombre da incubo, Harry sbatte le palpebre per cercare di schiarirsi la vista. Il cervo argentato è una macchia luminosa nella notte tornata sulle colline. Harry lo vede battere a terra lo zoccolo ed ha l'impressione di vedere una sagoma più piccola guizzare tra le zampe nervose e asciutte del maestoso animale, risalendo il vento come un pesce nell'acqua: e per un attimo, solo per un brevissimo, confuso attimo, giurerebbe che si tratti di una lontra.
“Hermione?” bisbiglia.
Ma dura solo un attimo: e poi, scompare.





Note del capitolo: La forma di questo capitolo è la narrazione al presente semplice: simile, concettualmente, al presente storico (o presente narrativo), è un escamotage piuttosto usato con il quale, scrivendo o raccontando, cerchiamo di avvicinare chi ci legge o chi ci ascolta alla scena in corso. La foto è tratta da qui, e il brano (che è il mio preferito dell'intero album) è Get Good.

Alzò la bacchetta, ma una sorda disperazione si era impadronita di lui: Fred non c'era più, Hagrid stava morendo, o forse era già morto; [...] La bacchetta gli tremava in mano, e accolse quasi con gioia l'oblio imminente, la promessa del nulla, dell'assenza di sensazioni... [...] "Forza" lo incoraggiò Luna, come se fosse ancora nella Stanza delle Necessità e quello fosse solo un allenamento dell'Esercito di Silente. "Forza, Harry... pensa a qualcosa di allegro..."
"Qualcosa di allegro?" ripeté lui, la voce spezzata.
"Siamo ancora qui" sussurrò lei, "stiamo ancora combattendo.[...]"

J.K.ROWLING, Harry Potter e i Doni della Morte, traduzione a cura di Beatrice Masini, Adriano Salani Editore, Milano, 2008, pp. 596-597


Quanti di voi non hanno pianto davanti a questo pezzo? Io (che sono notoriamente un cuor-di-frittella) ho letto le ultime 50 pagine del libro esibendomi nella passabile imitazione di una fontana, e in questo punto ho dovuto fare una pausa per andarmi a pulire gli occhiali. Senza, non vedo più in là della punta del mio naso - letteralmente.
Stiamo ancora combattendo. Cioé, Luna, sei mitica.

Di nuovo, vi chiedo scusa per il ritardo nella pubblicazione: ho avuto qualche difficoltà con il mio computer, e sto ancora cercando di risolverne alcune. Per tutti voi che state seguendo La strada sbagliata: l'aggiornamento è temporaneamente rimandato fino a quando non sarò in grado di scrivere il decimo (undicesimo, contando il Prologo) capitolo.

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Capitolo 8
*** misfortune tellers ***






8. misfortune tellers
04.07
06:44:52 P.M.


Dicono che il dolore abbia le sue fasi.
C'è il momento in cui neghiamo che il dolore abbia a che fare con noi: non vogliamo crederci, non possiamo credere che sia toccato a noi, cosa abbiamo fatto per meritarlo?
Ma il dolore ha le sue fasi.
Cominciare a credere fa più male di tutto il resto: dopo lo choc iniziale arriva la collera – verso di noi, verso chi l'ha permesso, verso chi ha lasciato la strada aperta al dolore e al lutto, e alla perdita, e non c'è niente che possa rimettere a posto le cose, adesso, niente che possa ripararle. Per rendere il dolore più piccolo si cerca di renderlo più breve, e cercare di renderlo breve porta a pensare che forse sarebbe meglio scivolare via subito, andare incontro a chi è andato avanti, andato oltre, a chi è diventato irraggiungibile. E' una forma di speranza anche quella, e gli esseri umani non possono vivere senza speranza. Vedersi sottrarre anche quella è l'ultima disperazione.
Dicono che il dolore abbia le sue fasi.
Il mare non esercitava più agli occhi di Harry la medesima, inquieta fascinazione del primo giorno in cui l'aveva visto: ma trascorrere il tempo in nave nel tragitto dal porto di Edinburgo fino a quello di Aberdeen era stato terapeutico. Al momento della partenza il cielo era stato bello, limpido, di un azzurro pallido e splendente nel sole vivo dell'estate: ma mentre il traghetto tagliava attraverso le onde del golfo, passando così vicino alla costa che si potevano vedere perfino i lampioni ai bordi delle spiagge, le persone minuscole come formiche sulla riva e nell'acqua bassa, il vento aveva spinto sopra di loro lunghe nuvole da nord, bianche come la spuma, come la neve.
Il traghetto aveva attraccato ad Aberdeen ed Harry aveva speso solo il quarto d'ora necessario a fermarsi nel posto da turisti più economico che ci fosse e ad ordinare e trangugiare famelico un piatto di stufato – offerta del giorno, che una cameriera sulla cinquantina dal sorriso simpatico gli aveva riempito fino all'orlo – prima di incamminarsi verso la spiaggia.
Non c'era più il bel sole di Newcastle, lì, e a tratti piovigginava, un'acquerugiola quieta che cadeva senza peso sull'acqua mossa, grigia come l'acciaio, come la lama della spada di Grifondoro, come una luna riflessa: ma Harry si era tuffato lo stesso, tenendo i calzoni addosso perché non aveva mai pensato a comprarsi un costume e al momento non aveva i soldi necessari a procurarsene uno. Il mare era freddo, era bello. Nuotare era bello: in acqua, tra un'onda e l'altra, sembrava quasi di poter andare fin dove il cuore dell'oceano si faceva veramente blu. Si tenne dove il fondale era basso, dove riusciva ancora a toccare, perché non era un granché come nuotatore – e perché ogni bracciata spediva una fitta di dolore alle sue costole non del tutto in sesto, alla sua gamba malmessa.
Uscendo, si sdraiò sulla spiaggia per asciugarsi: la sabbia lì aveva un colore d'oro pallido, più scuro e brillante di quella di Newcastle. C'era qualche bagnante coraggioso ancora in acqua, ragazzi soprattutto, ma la maggior parte della gente era seduta su piccole sedie o asciugamani a godersi il giorno d'estate malgrado le nuvole e la pioggia intermittente.
Harry rimase sdraiato a lungo. Abbassò le palpebre e cercò di non pensare affatto, sentendosi stranamente integro e svuotato per la prima volta da settimane: forse si assopì, perché, quando riaprì gli occhi, i bagnanti erano scomparsi, di gente sulla spiaggia ne era rimasta poca e i suoi calzoni erano sufficientemente asciutti da permettergli di camminare.
Si alzò a sedere e si strofinò le palpebre, confuso. Aveva la vaga consapevolezza di aver sognato, ma nessun ricordo del sogno stesso. Forse aveva visto di nuovo Hermione. Forse aveva visto la lontra.
Bagnato nell'acqua di mare, anche il dolore sembrava bruciare un po' meno.
Il viso di Hermione era come un taglio al cuore. Senza le scarpe, lo zaino sulle spalle, si incamminò sul bagnasciuga senza far caso all'acqua che gli inzuppava il bordo dei calzoni.
Il viso di Hermione era come un taglio al cuore, più doloroso del grumo nero che gli era esploso nel petto, una ferita sanguinante che non sembrava volersi cicatrizzare: Harry non riusciva a non provare rimpianto, e senso di colpa, e gli sembrava di non aver mai provato altro. La Profezia di Sibilla Cooman gli aveva segnato la vita. Aveva avuto quindici mesi di gioia che non ricordava insieme a due genitori amatissimi e sconosciuti: tutto il resto, dopo, era stato nostalgia e dolore e la mancanza delle cose che non avrebbe mai avuto e di quelle perdute.
Camminando lungo la spiaggia gli parve di camminare accanto ad una lunga fila di ombre: c'era quella di Cedric davanti a tutte le altre, uguale a come Harry l'aveva visto nel cimitero, e quella di Sirius appena alle sue spalle, malinconico e distante, e poi ancora tutti gli altri, Silente e Dean e Cho, un poco discosta, Andromeda e Ted Tonks, Alastor Moody, Septima Vector, e tutti quelli che con loro che erano caduti in guerra, cercando di far sì che la guerra finisse.
Erano morti anche per lui, pensò Harry, perché lui potesse uccidere Voldemort, fermarlo, impedirgli di portare altro dolore ed altra devastazione nel mondo. Erano morti per proteggerlo. Erano morti per restargli accanto.
I suoi genitori gli si affiancarono mentre affondava con i piedi nella sabbia umida ed Harry desiderò di poter riavere indietro solo cinque minuti la Pietra della Resurrezione, per poter parlare con loro ancora una volta, salutarli, ringraziarli. Non era ancora certo che morire non sarebbe stato meglio – morire davvero, per non provare più dolore – ma ogni volta che ci pensava ricordava la lontra bianchissima sulle Morfoot Hills. Ricordava che Hermione si era messa in mezzo tra lui ed un'Avada Kedavra dalla quale non sarebbe potuto tornare. Che sua madre l'aveva salvato, che suo padre l'aveva protetto.
Come gli aveva detto Remus, molti e molti anni prima, sputare sul loro sacrificio sarebbe stato un insulto.
In fondo alla fila lo aspettava Hermione.
Dicono che il dolore abbia le sue fasi.
C'è il momento in cui neghiamo che il dolore abbia a che fare con noi, il momento in cui siamo furiosi e lo odiamo, il momento in cui cerchiamo d'abbreviarlo e quello in cui perdiamo la speranza che possa essere veramente breve.
Cerchiamo sempre di combattere il dolore, di affrettare l'arrivo del momento in cui finirà, e saremo guariti – ma il dolore ha le sue fasi. Non si può mettere fretta al dolore.
Hermione, Hermione. Meravigliosa Hermione. Il suo ricordo era come un taglio sul cuore, incommensurabilmente prezioso, dal valore incalcolabile.
Lo accompagnò per un lungo tratto di spiaggia, camminandogli accanto, e mano a mano che il sole scendeva la sua ombra sembrava perdere allo stesso modo di luminosità, affievolendosi. Harry pensò che doveva essere un sogno, quella marcia di morti al confine tra la terra e il mare, ma poi ricordò che era stato Padrone della Morte per cinque, brevissimi minuti: il tempo di avere la Pietra della Resurrezione ai suoi piedi, il Mantello dell'Invisibilità in suo possesso, la Bacchetta di Sambuco legata a lui dalla morte di Voldemort.
La Bacchetta di Sambuco era andata distrutta assieme al suo penultimo proprietario, in quella vampa di luce rossa che aveva divorato anche le ossa di Tom Orvoloson Riddle, trasformandole in cenere. La Pietra della Resurrezione era perduta tra le macerie di Diagon Alley e, con un po' di fortuna, nessuno l'avrebbe trovata mai più. Il Mantello dell'Invisibilità era tutto ciò che restava ad Harry, nascosto nel suo zaino, al sicuro, assieme ad un album di fotografie e a pochi altri preziosissimi ricordi di quel che di bello c'era stato nella sua vita... ma anche così lui rimaneva il Padrone della Morte, ultimo, vero Padrone della Morte.
Guardò la marcia di ombre argentate che lo seguiva e le vide scomparire una dopo l'altra, e Albus Silente gli sorrise, prima di andarsene, ed ammiccò. Lily e James agitarono una mano verso di lui e Sirius parve per un attimo più giovane, più bello, nuovamente ventenne. Harry si girò verso Hermione:
“Devi andare.” bisbigliò, e stavolta non suonava come una domanda.
Non c'era più nessuno in quel tratto di spiaggia. La riva risaliva da lì fino ad una lunghissima striscia d'erba verde smeraldo punteggiata di papaveri. Il mare sotto ai piedi di Harry era una lastra di mercurio vivo, in continuo movimento, sulla quale si specchiavano le nuvole e il sole: e nella luce chiara del tardo pomeriggio l'ombra di Hermione sembrava farsi sempre più eterea ad ogni secondo che passava. Hermione allungò una mano e gli sfiorò una guancia. Harry chiuse gli occhi: con le palpebre abbassate, sentì le dita di lei accarezzargli la pelle.
Quando riaprì gli occhi, Hermione era scomparsa, e lui non aveva bisogno che nessuno gli dicesse che quella era stata l'ultima volta in cui l'aveva vista – l'ultima volta in cui le mani di lei gli avevano recato la memoria del conforto.
Le nuvole disegnavano alti pilastri orlati d'argento tra il mare e il cielo, palazzi e torri e cattedrali di cotone bianco. Ce n'erano tante, e il vento ne spingeva ancora sopra al golfo di Aberdeen. C'era una tempesta in arrivo, pensò Harry. Pensò anche che sarebbe stata bellissima, probabilmente, una tempesta sul mare estivo, che sull'acqua si sarebbe riflesso il cielo arrabbiato e che le onde sarebbero state alte, furiose, che avrebbero sommerso la spiaggia.
Con il cuore ancora scevro di dolore, si inginocchiò e si rimise le calze e le scarpe. Aprendo lo zaino, prese la bacchetta: poi, dopo aver lanciato un'ultima occhiata circolare alla spiaggia e al mare, si Smaterializzò.





Note del capitolo: La forma scelta per questo capitolo è l'inserimento di stralcio enciclopedico, e il testo al quale ho fatto riferimento è La morte è il morire, di Elisabeth Kubler Ross. L'immagine è tratta da qui e raffigura la spiaggia di Aberdeen, e il brano è Marching Line.

Al momento questo capitolo assume ai miei occhi particolare significanza: innanzitutto, è stato uno dei pochi nei quali si possa leggere l'intero capitolo, da cima a piedi, ascoltando la canzone che lo ispira... e, oltretutto, io generalmente lo finisco precisamente quando la canzone finisce. Poi, e soprattutto, al momento sento più vera che mai la parte iniziale. Il dolore ha le sue fasi.

Un grazie a tutti voi che seguite questa storia, come sempre, e doppio con cioccolata a voi che vi prendete cinque minuti per lasciarmi un commento.

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Capitolo 9
*** wishing well ***






9. wishing well
04.07
10:15:27 P.M.


And, in the end,
you begin again.
It’s the way of all things

Your body’s like a wishing well of a million diamonds
Her bones to dust bursting in to a million diamonds

And you’ll carry on,
‘cause, in the end,
it’s the way of all things.

It will be beautiful



Non bastarono le barriere secolari poste a protezione di Hogwarts a fermarlo: Harry tenne la sua destinazione bene in mente e, dopo un istante di orribile compressione che gli tolse il fiato, gli alberi alti della Foresta Proibita apparvero davanti a lui, il profilo grande e maestoso di Hogwarts a delinearsi contro il cielo notturno.
Finiva così il suo viaggio, pensò Harry, fermandosi a riprendere fiato dopo quella colossale Smaterializzazione, finiva così: con una sacca sulle spalle, all'ombra di una scuola dove erano stati bambini insieme, lui, Hermione e Ron, sulle rive di un lago dove erano diventati adolescenti, adulti, gli uni al fianco dell'altra. Lì, al confine della Foresta Proibita, gli alberi sembravano stendere sopra alla pietra bianca del Memoriale un tetto di fronde scure. Avevano cominciato a seppellirci sotto le persone, nei primi giorni della guerra, ma poi i caduti erano diventati troppi, riportarli tutti ad Hogwarts – l'unico posto in tutta l'Inghilterra dove sembrava che i Mangiamorte non riuscissero ad entrare senza venire ostacolati – troppo complicato.
Il Memoriale era un circolo di grezze rocce bianche alte quanto un uomo. Quattro pietre, una per ciascuna delle Case di Hogwarts, disposte a cerchio attorno ad una quinta che ne era cuore; e, sulla superficie quest'ultima, il disegno stilizzato di una fenice ad ali aperte – perché Silente era stato il professore di tutti loro, a tutti loro aveva insegnato qualcosa, perché la McGranitt non avrebbe voluto altro simbolo sulle tombe dell'Ordine, perché Harry ricordava che Silente aveva parlato della morte come di un'avventura, solo di un'avventura, l'ultima e la più grande. Niente che andasse temuto.
Il Memoriale era la tomba di Hermione più di quanto non lo fosse la bara sepolta a Kensal Green, perché era per quel posto che si erano battuti, tutti loro, per ciò che quel posto rappresentava, ed era per quel posto che Hermione era sotto la terra scura, ora, sotto al cielo di lavanda fiorita. Era lì che Harry l'aveva conosciuta. Lì che era stato più felice, con lei, accanto a lei, nei suoi giorni di vita vera.
Il viaggio di Hermione finiva davanti al Memoriale: non ci sarebbe mai più stata nessuna fila di ombre a camminargli accanto, Harry quello poteva capirlo anche senza bisogno di un manuale di istruzioni per la Pietra della Resurrezione a spiegarglielo, e la lontra bianchissima – che forse lui aveva semplicemente sognato – era apparsa un'ultima volta solamente per lui.
Le ossa di Hermione sotto la terra scura, sotto alla lavanda fiorita, polvere alla polvere più preziosa di una distesa di diamanti, ed Harry avrebbe desiderato poterla portare qui a riposare, qui accanto al lago, alla Foresta, qui all'ombra della scuola.
Avrebbe desiderato potersi sdraiare al suo fianco, ma, se il viaggio di Hermione era appena terminato, il suo già stava ricominciando. Era così che doveva andare.
Le ossa di Hermione sotto alla terra scura, il suo ricordo più prezioso della pietra filosofale, migliaia e migliaia di minuscole memorie che aprivano ai piedi di Harry una strada di sogni infranti: come una polla di aspettative, c'era il pensiero di tutte le cose che Hermione avrebbe potuto, o voluto, fare, e che non avrebbe mai fatto, ma Harry era vivo per lei, era vivo perché lei l'aveva salvato, e tutti quei desideri cadevano in lui come monete lanciate in un pozzo.
“E' morto,” disse Harry al Memoriale. “Ho fatto quel che dovevo, Hermione, e Voldemort è morto.”
E poi, perché gli sembrava una cosa un po' misera da dire – nulla che Hermione avrebbe veramente approvato – andò avanti:
“Grazie per avermi salvato.” Ricordava che Luna l'aveva già detto, questo, il giorno del funerale: ma per Harry era stato troppo presto, allora, per riuscire ad accettare che era giunto il momento di salutare Hermione. Gli era occorso un po' più che a tutti gli altri per realizzare che era morta davvero. Che non sarebbe tornata. “Voglio che tu sappia che ti sono grato davvero per questo. Che vivrò. Che cercherò di avere una buona vita. Davvero.
Voglio che tu sappia che, se fossimo usciti vivi entrambi dalla guerra, forse non te l'avrei detto mai, ma avrei continuato ad amarti. Sempre. Ti avrei sempre amata. Voglio che tu sappia che mi dispiace non avertelo detto prima, anche: ma l'ho capito da poco, e troppo tardi. Voglio che tu lo sappia lo stesso. Voglio che tu sappia che non ti dimenticherò mai. So che sarai sempre con me, così.”
Sentì la sua stessa voce strozzarsi sulle ultime parole non ebbe bisogno di toccarsi le guance per sapere di averle bagnate. Gli sembrò che il grumo nero dentro di lui si rannicchiasse in un angolo, davanti a quelle lacrime, e lo lasciasse a riprendere fiato per la prima volta da settimane: era lì, era buio, era un potere che aveva portato il male e l'orrore. Era la sua anima divisa in due, tutto quel che restava di Voldemort, ma se Harry riusciva a piangere... se tutto il suo dolore smetteva di essere malato e sporco, Dio, anche il grumo sembrava farsi meno presente.
“Voglio che... voglio che tu sappia che mi dispiace per non averti detto del... dell'Horcrux dentro di me, quando potevo farlo, di non averti detto che credevo che morire fosse la cosa giusta da fare. Per voi. Per salvarvi. Avresti cercato di fermarmi e non l'avrei sopportato, ma almeno avresti saputo che non... che non avevamo perso. Che pensavo che avremmo vinto, alla fine. Che sareste vissuti.
Mi dispiace non averti detto tutto quel che potevo dirti, raccontarti tutto quel che potevo raccontarti, quando potevo farlo. Se potessi tornare indietro ti direi ogni singola cosa.”
Dovette fermarsi per soffiarsi il naso: parlare con le vie respiratorie intasate di moccio, scoprì, non giovava per niente alla voce e rendeva estremamente faticoso respirare. Non fece niente per asciugarsi il viso, perché era una bella sensazione, le lacrime sulla pelle che si facevano come dita di fuoco freddo ogni volta che il vento le accarezzava. Hogwarts sullo sfondo era come un secondo cielo in terra, ogni finestra una luce, i portoni d'ingresso una luna spalancata – perché nessuno li aveva ancora chiusi, dopo la fine della guerra.
“Stammi sempre vicina, Hermione, per favore,” le disse. Suonava tanto come un addio. “Resta sempre con me.”
Toccò la pietra centrale del Memoriale e poi puntò la bacchetta a terra, e non ebbe bisogno di incantesimi perché la sua magia risuonasse, tutta, il grumo nero e il potere con il quale era nato e la luminosa, raggiante nuvola di luce che era il posto dal quale faceva emergere il suo Patronus, e come un coro di voci in perfetto accordo fluisse fuori dalla punta della bacchetta e gocciasse sul terreno.
Dal suolo emersero steli sottili che sbocciarono istantaneamente in una fioritura fuori stagione di minuscoli petali: l'odore di lavanda sbocciò intenso nell'aria fresca della sera, e alla luce del giorno i fiori avrebbero avuto una sfumatura di viola pallidissimo – il colore del cielo di Hogwarts, d'estate, quando l'anno scolastico stava per finire.
Tra gli steli affusolati faceva capolino a tratti il rosso dei papaveri delle Morfoot Hills.





Note del capitolo: La forma scelta per questo capitolo è la songfic (e forse non c'è bisogno di dire che i versi iniziali sono tratti dalla canzone di Rabbits on the Run dietro al capitolo stesso). L'immagine è tratta da... non ne ho sfortunatamente idea! x°D Ad ogni modo è una fotografia tratta da un fotogramma del film di Harry Potter... e credo che al regista e agli autori non gliene importi proprio niente se la pubblico in questa forma. Il brano è In The End, il brano di chiusura dell'album. Quando l'ho ascoltato la prima volta non mi è piaciuto affatto; ad un secondo ascolto, tuttavia, l'ho trovato così pieno di inquietante tristezza che non ho potuto non dedicargli questo capitolo in particolare.
Una curiosità: il wishing well è il pozzo dei desideri (quello dove getti una monetina e in cambio... non ricevi niente, ma questo è un altro discorso), ma può essere anche tradotto come desiderare bene o augurare il bene.

E ci si avvicina sempre più all'ultimissimo capitolo. Ho un mezzo progetto per riprendere, a maggio, l'idea delle domeniche buie: si tratterebbe di solo quattro storie, quest'anno, ed avrei forse un mezzo progetto riguardo a cosa scrivere... tuttavia, non so se per ragioni personali, motivazioni psicologiche o chissà quale altra ragione, al momento tutto quel che scrivo non mi piace. Per cui, il progetto rimane al momento solo questo: un progetto.

Un grazie a tutti voi che seguite questa storia e che vi fermate a lasciarmi un parere.

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Capitolo 10
*** rabbits on the run ***






10. rabbits on the run
05.07
00:01:00 A.M.


Harry si sistemò per la notte accanto alla casupola di Hagrid: ovviamente era deserta – Hagrid era ancora al San Mungo, dove i guaritori stavano cercando di fargli ricrescere la gamba che Mulciber gli aveva staccato – ma la porta era stata lasciata aperta per Thor. L'enorme cane corse incontro ad Harry, quando lo vide arrivare, balzandogli addosso e travolgendolo con cento chili di pelo arruffato e miasmatica puzza. Il ragazzo gli grattò la gola e il petto, strofinandogli i fianchi con entrambe le mani e cercando di impedirgli di sbavargli tutta la faccia.
Decise di non entrare in casa; dopotutto la notte era limpida, fresca ma non fredda, e lui aveva giacche per ripararsi e legna in abbondanza per accendere un fuoco. Lo fece: usò un mucchietto di foglie secche come esca e aggiunse pazientemente ramoscelli, arbusti, poi rami via via più grossi, finché a danzare allegramente davanti a lui non fu una fiamma degna di questo nome. Era bello potersi scaldare le mani in un posto sicuro. Sapeva di casa, più di qualunque altro luogo in cui fosse mai stato.
Prese in prestito dalla casupola una pentola – grossa come uno dei paioli di Piton, ma, rifletté Harry, probabilmente qualunque recipiente più piccolo di quello non sarebbe bastato ad Hagrid neanche per cucinarcisi dentro uno spuntino – e la riempì d'acqua per potersi lavare le mani, la faccia. Dopo aver attraversato mezza Gran Bretagna senza mai farsi una doccia si sentiva sporco e appiccicoso... ma si trattava solo di una notte. Al mattino sarebbe entrato ad Hogwarts e avrebbe chiesto alla McGranitt se poteva lasciarlo stare lì per un po', solo per un po'. Avrebbe domandato se avevano un lavoro per lui: il lavoro di Gazza, magari, dato che Gazza era morto all'inizio della guerra, due giorni dopo che la scuola era stata evacuata. Il pensiero di restare ad Hogwarts e di poterla chiamare casa, finalmente, casa, era al momento il pensiero migliore del mondo.
Un rumore alla sua sinistra attrasse la sua attenzione: e, alzando la testa, si accorse che c'era un coniglio che lo stava guardando. L'animale ricambiò il suo sguardo con calma surreale, accovacciato tra l'erba bassa ai margini della Foresta Proibita. Aveva il pelo bianco, bianchissimo, veramente bianco, strano per quella stagione: sotto la luce della luna pareva quasi scintillare. Era una bella bestiola, rifletté Harry; un po' troppo grosso, in effetti, per essere un coniglio. Forse una lepre...?
Un ramoscello scricchiolò sotto ai passi leggerissimi di qualcuno ed Harry si girò, di nuovo, per ritrovarsi davanti gli occhi chiarissimi di Luna Lovegood.
“Ciao, Harry.”
Lui sbatté le palpebre, sbalordito:
“Luna...?”
La ragazza gli rivolse un sorriso trasognato:
“Ti stai preparando la cena? Ha un buon odore...”
“Io, uh...” Ancora troppo sorpreso dal suo arrivo inaspettato, Harry guardò la scatola di fagioli che si scaldava lentamente a bagnomaria nel paiolo come se non l'avesse mai vista prima. Gli occorsero diversi istanti per focalizzare la domanda a sufficienza da poter rispondere: “... sì, la mia cena. Ne vuoi, uhm, ne vuoi un po'?”
Luna assentì, contenta:
“Molte grazie.”
Girando il capo di sottecchi, Harry si accorse che la lepre bianca era scomparsa nel nulla. La lepre bianca, luminosa sotto la luna, il buio. Pensò a Ramoso e alla lontra e fu colto da un improvviso, acutissimo senso di déjà vu.
La ragazza si sedette per terra di fronte a lui: intrecciò le caviglie, piegando le ginocchia, e la lunga gonna a fiorami rosa e viola ricadde come un drappo primaverile sull'erba scura. Harry non riuscì a non fissarla: il viso pallido e gli occhi pallidi e i capelli pallidissimi raccolti in una treccia.
“Cosa ci fai qui, Luna?”
Lei parve sorpresa dalla domanda:
“Ti avevo detto che ci saremmo rivisti presto.”
Harry frugò nella sua memoria, cercando di ricordare:
“Me l'hai detto...?”
“Nella lettera, sicuro. Ti ho detto: ti vedrò presto.”
Harry sbatté le palpebre – di nuovo – e ammise:
“Uh... be', ora che lo dici... Ma non credevo così presto, ecco.”
Luna gli rivolse un'occhiata stranamente penetrante:
“Ti dispiace?”
“No, io...” Gli dispiaceva? Il viaggio di Hermione era finito. Non c'era più niente da cui fuggire, niente da inseguire. Niente. “No.”
Il sorriso di Luna si fece raggiante: “Ecco.”
Rimasero in silenzio per un lungo istante. Harry era ancora troppo sconcertato per riuscire a trovare un buon argomento di conversazione – e, d'altronde, Luna non aveva mai mostrato un particolare apprezzamento per gli argomenti normali. Il ragazzo rientrò nella capanna di Hagrid e ne uscì con due piatti grossi come vassoi da portata.
“Non sono riuscito a trovare due ciotole più piccole,” si giustificò.
Luna agitò una mano in un gesto vago:
“Oh, non c'è problema. Non sapevo che la tua bacchetta si fosse rotta, Harry.”
Harry, che stava cercando proprio in quel momento un buon modo per estrarre la scatola di fagioli dall'acqua bollente senza ustionarsi le dita, la guardò con rinnovata perplessità:
“Non si è rotta.”
Luna inclinò il capo da una parte, interessata:
“C'è una specie di gioco in corso, allora?”
“Come, prego?”
“Stai giocando a fare tutto senza bacchetta? Voglio dire, sono certissima di averti visto a lezione di Incantesimi, e il professor Vitious ha spiegato gli Incantesimi Ridimensionanti al sesto anno, perciò...”
Harry scosse la testa:
“Preferisco non usare la bacchetta. Se non è necessario.”
Era appena riuscito ad elaborare un complicato sistema per pescare la scatola dall'acqua usando due bastoncini e la parete interna del paiolo: il metodo, seppur efficace, era estremamente laborioso, ed Harry quasi si perse il sorriso radioso che Luna gli rivolse a quelle parole. Se non fosse stato assolutamente privo di senso, avrebbe detto che era contenta.
Mentre le riempiva il piatto, le chiese:
“Come facevi a sapere che ero qui, Luna?”
Lei intinse un dito nel sugo dei fagioli e lo portò alla bocca per assaggiarlo, prima di rispondergli:
“Me l'ha detto il professor Silente.”
Harry si bloccò con la scatola bollente in mano e il piatto pericolosamente inclinato da una parte.
“Il professor Silente...?” le fece eco.
Luna annuì distrattamente:
“Sì. Una gargolla l'ha detto a Sir Cadogan, e Sir Cadogan l'ha riferito ad uno dei vecchi quadri dei Presidi e così è venuto a saperlo anche il ritratto del professor Silente. Era piuttosto contento di sapere che eri già arrivato, Harry.”
Be', questo spiegava qualcosa, ma non spiegava tutto:
“E Silente come ha fatto a dirlo a te?”
Luna rifece quel piccolo gesto di mano che stava ad indicare che davvero l'argomento era poco importante, o poco rilevante, o molto ovvio:
“Oh, io ero già ad Hogwarts. Sai, ti aspettavo.”
Harry esitò:
“Mi aspettavi?”
Luna lo guardò da sotto in su attraverso le ciocche della sua frangia chiara, troppo corte per poter essere raccolte insieme al resto della treccia, ed Harry si ricordò di aver desiderato disperatamente di poter parlare con lei, di poterle sentir dire qualcosa, qualunque cosa, che potesse attenuare il dolore di Hermione che non c'era più.
Nei suoi occhi chiari gli parve di poter vedere la luna riflettersi bassa nel lago. Per un attimo la sensazione di déjà vu sembrò tornare – ed Harry ebbe l'impressione di guardare il futuro attraverso di lei, di guardare verso il domani, tutta una serie infinita di possibilità in crescita. Se avesse aguzzato le orecchie, avrebbe potuto giurare di sentirle germogliare.
“Ti avevo detto,” gli disse Luna, e gli sorrise. “... che avevo ancora qualcosa da fare, qui.”



Tutto è così fragile. C'è tanto conflitto. Tanto dolore. Si continua ad aspettare che la polvere si depositi e poi ci si rende conto di questo: la polvere è la tua vita che va avanti. Se arriva la felicità, quella strana, insostenibile delizia che è la vera felicità, bisogna afferrarla finché è possibile. Bisogna prendere quel che si può. Perché resta un attimo, e poi …
scompare.


(J.WHEDON, Gone, pubblicato su X-Men Deluxe, n. 165, gennaio 2009. Traduzione a cura di Pier Paolo Ronchetti)







Note del capitolo: Nessuna scelta stilistica preordinata per il decimo ed ultimo capitolo - se non si vuole considerare l'inserimento della citazione a fondo storia come una scelta di forma di per sé - che è quindi a forma libera. La citazione viene da una storia che io ho amato pazzamente, meravigliosamente disegnata, colorata, avvincente, innovativa, entusiasmante... molte cose in -ante, in effetti.
L'immagine è tratta da qui, e chiude con un fotogramma del Lago Nero di Hogwarts il viaggio di Harry; la canzone, Carousel, è la prima dell'album. Dato che non mi piace chiudere le storie finendole, ho cercato di terminare questa iniziandola.

Prima di ringraziarvi tutti, vi segnalo che - dal momento che ho avuto un lampo di brillante (?) ispirazione - è possibile che le domeniche buie tornino con un aggiornamento particolare di Come (non) doveva andare, con una breve storia in più capitoli che segna l'inizio del primo degli sviluppi che avevo progettato quando ho cominciato la serie.

E adesso, grazie.
Grazie, nuovamente, a patronustrip che ha indetto il concorso per il quale questa storia è nata... perché a me di per me e solo me non sarebbe mai venuto in mente di scriverla. x°D E i miei complimenti alle altre partecipanti, le storie delle quali vi invito a sbirciare: potete trovare i collegamenti nelle Note al primo capitolo.
Grazie infinitamente a tutti voi che avete seguito questa storia fin dal principio - e un grazie particolare a Mocchi e a lunadistruggi, che con indescrivibile pazienza ne hanno commentato tutti (O_O) i capitoli.
Grazie, infine, a dierrevi, che di questi tempi sopporta e tollera tutte le volte che mi presento balzellando d'entusiasmo come un coniglietto (è proprio il caso di dirlo) con un'idea nuova.

Ad una prossima storia.

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