All about lovers and how they should lay

di cranberry sauce
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Di come il sole entrò dalla finestra e svegliò John ***
Capitolo 2: *** II. Di come Paul si fece male ***
Capitolo 3: *** III. Di come John ebbe paura di annegare ***
Capitolo 4: *** IV. Di come la malinconia prende la sera ***
Capitolo 5: *** V. Di come le nuvole sembravano candide ***
Capitolo 6: *** VI. Di come John non riusciva a prender sonno ***
Capitolo 7: *** VII. Di come qualche birra di troppo può fare la differenza ***
Capitolo 8: *** VIII. Di come non si scappa dalla pioggia ***
Capitolo 9: *** IX. Di come la neve cade per te ***
Capitolo 10: *** X. Di un'altra notte insonne ***
Capitolo 11: *** XI. Di un'altra notte insonne (reprise) ***



Capitolo 1
*** I. Di come il sole entrò dalla finestra e svegliò John ***


Pairing: John/Paul ()
Nota: il titolo è tratto dal testo di See the Sun dei Kooks. Enough said.
Disclaimer: tutto ciò da me narrato in questo capitolo, o comunque debba chiamarsi, e in quelli successivi è frutto della mia immaginazione. Niente è mai accaduto, anche perchè nel caso avessi assistito a John e Paul in un letto, ben lungi da me sarebbe stato il mettermi seduta lì vicino e scribacchiare quello che mi sembrava, a torto o a ragione, di vedere. Ovviamente, tutte le persone che appaiono in questa storia appartengono a loro stesse e a nessun altro, con grande dispiacere della sottoscritta.


 

All about lovers and how they should lay

 

I . 
Di come il sole entrò dalla finestra e svegliò John

 

Luce.
Luce soffusa.
Luce, dappertutto.
 
John apre gli occhi, lentamente, e nel breve lasso di tempo che gli serve per rendersi conto di essere sveglio e di essere proprio lì, proprio in quel letto, in quella stanza, gli si apre davanti un infinito mondo di possibilità; fra le lenzuola e il cuscino, potrebbe essere qualsiasi persona, qualunque cosa, ovunque e da nessuna parte.
 
Un battito di ciglia più tardi, John è di nuovo John, proprio lì, proprio in quel letto, in quella stanza.
John è sveglio e sa di essere John, e passa tre minuti – lo sa che sono tre perché sta guardando la sveglia sul comodino, anche se gli sembra quasi che sia la sveglia, severa e inflessibile, a guardare lui – pensando che forse c’è stato un errore. Forse ha scelto l’identità sbagliata, forse lui è, in realtà, una lampada. O una lepre che scorrazza per la campagna. O una signora sulla cinquantina che vive a Houston, Texas, e legge una rivista con una retina a tenerle fermi i capelli. Richiude gli occhi e desidera con tutto il cuore di svegliarsi e di rendersi conto che sta sognando. Desidera con tutto il cuore di essere quella signora con la retina per capelli.
Poi, però, sente un movimento al suo fianco e un grugnito sommesso, e John decide che per quel giorno può ancora apprezzare il suo essere John. Che è proprio lì, proprio in quel letto, in quella stanza, ed è proprio lì con Paul.

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Capitolo 2
*** II. Di come Paul si fece male ***


II .
Di come Paul si fece male
 
Paul sente che c’è qualcosa che non va.  Insomma, non gli pare proprio che il suo braccio si pieghi in due punti, l’ultima volta che aveva controllato aveva contato un solo gomito. Ma potrebbe anche sbagliarsi, adesso che ci pensa bene è passato molto tempo da quell’ultima volta. E poi è ovvio che uno cresce e cambia. Uno cresce e cambia e gli cresce la barba, ed è una cosa abbastanza noiosa perché poi bisogna tagliarla e Paul non ha voglia di tagliarsi la barba una mattina sì e una mattina no. Però Paul lo accetta, perché uno cresce e cambia, e gli cresce un gomito in più.
 
Il braccio non ha proprio un bell’aspetto, c’è una strana cosa bianca che spunta e a Paul non piace. La strana cosa bianca assomiglia a un osso.
Al ragazzo viene in mente quel giorno che, quando andava ancora a scuola e la mattinata sembrava non passare mai − come quando gli scappava tantissimo la pipì e correva al bagno, ma c’era dentro Mike e così lui doveva aspettare e aspettare e aspettare e il tempo si stiracchiava piano piano, si dilatava, si estendeva a diventare spazio, un prato, una valle, il mare e la spiaggia −, il suo professore aveva tirato fuori dall’armadio uno scheletro, uno scheletro vero, e aveva elencato i nomi di tutte le ossa, partendo dal cranio per arrivare alle dita dei piedi.
Falangette, falangine, falangi, carpo, metacarpo, radio e ulna, omero e spalla. Quello era un braccio. E Paul si ricorda che il professore lo aveva fatto alzare e mettere in piedi davanti alla cattedra; poi gli aveva tirato su una manica e gli aveva detto: “Di’ che ti piace la radio, e alza il pollice.”. Paul aveva steso l’avambraccio e lo aveva detto. Aveva detto “Mi piace la radio.” con il pollice alzato, e si era sentito abbastanza stupido. A quel punto il professore aveva percorso con l’indice il pollice di Paul, si era fermato un attimo sul polso e aveva continuato poi fino al gomito, seguendo la protuberanza dell’osso, come quando in giardino ci sono le talpe e la terra smossa attraversa il prato. Il sistema scheletrico del giardino di Paul. La terra smossa del suo avambraccio.
E il professore aveva detto: “Questo è il radio.”.
 
Paul è molto pignolo, vuole avere tutto sotto controllo e sapere cosa succede e quando succede e se possibile anche perché, perciò trova che scoprire se quella cosa bianca che gli esce dal braccio è un osso, e in particolare se è l’ulna o il radio, sia a dir poco essenziale. Si guarda un attimo intorno, ma nessuno è nei paraggi; le sue ciglia sfarfallano e Paul si rende improvvisamente conto della loro presenza e ne sente tutto il peso.
Il peso gli fa abbassare le palpebre ed è costretto a rivolgere lo sguardo al braccio, di nuovo. Paul raddrizza la schiena, alza il pollice e inizia a stendere l’avambraccio, lentamente.
 
Sta per farcela, è quasi steso del tutto, e il “Mi piace la radio” scivola dalle sue labbra ancora prima che se ne renda conto. Paul sente uno schiocco. Paul sente male.
 
Ora Paul è sveglio e sta mugugnando parole incomprensibili, si lamenta.
Non sa bene dove sia collocato il suo braccio, quintali di coperte, metri quadri di lenzuola a separarlo dal dolore, a impedirgli di trovarne la fonte e di fare smettere tutto.
Poi Paul lo ritrova, sepolto sotto John. John che dorme, con un’espressione contrita in viso, come se prendesse molto sul serio quello che sta facendo, qualunque cosa stia facendo e qualunque motivo lo spinga a farla.
Paul estrae il braccio, intrappolato tra schiena e materasso. Tra il sistema scheletrico di John e il tessuto stropicciato percorso da instancabili, minuscole, invisibili talpe.
Lo fa passare attorno al corpo dell’altro e si stringe a lui, perché improvvisamente ha freddo e i quintali di coperte e i metri quadri di lenzuola non bastano più.

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Capitolo 3
*** III. Di come John ebbe paura di annegare ***


III .
Di come John ebbe paura di annegare
 
Il suo respiro si è fatto pesante, ma gli sembra che l’ossigeno non basti. Apre immediatamente gli occhi, quasi sicuro di trovare qualcuno che, indeciso se soffocarlo o no con un cuscino per chissà quale ragione al mondo – anche se conosce un paio di persone a cui non dispiacerebbe affatto poterlo fare –, si limita a farlo fluttuare davanti al suo volto, a sfiorargli appena la punta del naso.
 
John realizza che, semplicemente, ha la testa sotto le coperte, e che il tessuto è troppo spesso per rifornire la
(ex) bolla d’ossigeno nella quale aveva incautamente deciso di riposarsi. John allunga le gambe, tende e stiracchia i muscoli. John è un gatto appena sveglio intrappolato sotto le coperte.
 
In che città si trova? John è stato in talmente tanti alberghi di lusso tutti uguali, in talmente tante suite tutte uguali che ha perso completamente la cognizione del tempo e dello spazio. Gli sembra di vivere solo della speranza di tornare a casa, al suo porto sicuro, alle sue litigate con Cyn, ai suoi toast bruciacchiati. Ai pianti di Julian.
John, a questo punto, non sa se sperare di risvegliarsi nel suo letto o in quello di una delle tante suite tutte uguali in uno dei tanti alberghi di lusso tutti uguali. John è un criceto che corre dentro ad una ruota. È un criceto che corre e corre e corre perché non sa fare altro che andare avanti.
 
John decide che non gli importa. Decide che tanto lo scoprirà appena trovata la strada per uscire da quel labirinto di stoffa stropicciata.
Ma, nonostante cerchi con le mani un’uscita da quella trappola soffocante, non la trova. John percorre con le dita le lenzuola, in lungo e in largo, si agita, si rannicchia e poi si distende ancora. Gli sembra di nuotare sott’acqua e, guardando in alto, vedere il riflesso del sole, tenue, delicato, come se lo stesse vedendo al di là di una spessa tenda. Come se lo stesse vedendo da attraverso lenzuola e coperte. John è un topolino caduto nell’acqua che tenta disperatamente di raggiungere l’aria.
 
John inizia ad essere un po’ inquieto.
Poi sbatte contro qualcosa di strano, di vivo, e non sa se il fatto di non essere solo lì sotto, in quel mare di pieghe e strade e vene, debba rincuorarlo o meno. Con cautela scosta la stoffa che gli impedisce di osservare la strana cosa, forse vittima come lui o forse carnefice, e si accorge che è sì una cosa viva ed è sì, o almeno dal suo punto di vista, una cosa strana da trovare proprio lì con lui. La cosa viva e strana è la gamba di Paul.
 
Una manciata di attimi dopo, John, il piccolo topolino spaventato, viene investito dalla luce, e solo in quel momento, mentre Paul, puntellandosi con i gomiti sul materasso, fa capolino nel suo campo visivo, capisce cosa gli era davvero successo. Ora John è una tartaruga rovesciata sul guscio che qualcuno ha finalmente rigirato.
 
Paul si fa sfuggire una risata sommessa, sorride e scuote la testa.
E, se John non fosse stato troppo occupato a respirare rumorosamente tutto l’ossigeno di cui necessitava e a gioire tra sé e sé della libertà riacquistata, avrebbe potuto sentirlo dire, tra uno sbadiglio e un altro,:  “Cristo, Lennon, da quand’è che dormi al contrario?”.



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Capitolo 4
*** IV. Di come la malinconia prende la sera ***


IV .
Di come la malinconia prende la sera
 
{I’ve just seen a face,
I can’t forget the time or place where we just met.}
 
Liverpool. Sagra di Woolton, 6 luglio 1957.
 
Fa caldo, tanto caldo. Il sole picchia indecentemente e Paul si ripara gli occhi con la mano. Si sente un ufficiale, si sente il capitano di una nave e, dato che la via è deserta, prende a marciare a passo spedito, ginocchia alte, pancia in dentro e petto in fuori. La chitarra che si tira dietro non è più una chitarra, è una baionetta. È un binocolo con cui può scrutare il cielo e le stelle e gli scogli che si avvicinano.
Paul marcia nella via deserta, marcia sul ponte della nave.
 
Dopo un paio di svolte, Paul di sicuro non ha bisogno della sua chitarra-binocolo per vedere che ormai non si trova poi così lontano dalla sua meta. E non ne ha bisogno nemmeno per vedere Ivan che lo saluta con la mano dall’angolo della strada. Qualche passo più tardi, raggiungono il palco improvvisato sul quale si sta esibendo il gruppo dell’amico di Ivan, un tale John Langdon. Lester. Lequalcosa, insomma. La chiesa di St.Peter si staglia netta contro il cielo limpido e Paul approfitta della sua ombra per scongiurare lo scioglimento del suo cervello. Già si immagina la poltiglia bianco-rosa uscirgli dalle orecchie e no, grazie, non è necessario che capiti proprio a lui un evento sì spiacevole.
 
Il cantante del gruppo chiamato, a quanto dice il volantino, The Quarrymen – Paul sogghigna al nome e pensa che sia tutto tranne che originale – sta cantando Come Go With Me, azzeccando una parola ogni quattro o cinque e inventando le restanti. Ha una camicia a quadri e i capelli ricci, biondi, riflettono il sole cocente. Paul è quasi sicuro che da sopra il palco, con il caldo che fa e l’ombra proiettata dalla chiesa a qualche metro di distanza, gli spettatori e il resto del quartiere non sembrino altro che un miraggio sfocato, una fata morgana immobile nel suo continuo danzare, sfuggente nel suo trovarsi sempre lì, sempre troppo lontana per essere raggiunta. Paul soffia in alto per rinfrescarsi la fronte e spostare il ciuffo di capelli che si è impigliato nelle sue ciglia. Paul continua a guardare John Lequalcosa e non sa spiegare se si senta improvvisamente molto felice o molto turbato o tutte e due le cose insieme o nessuna delle due cose.
Per scacciare quei pensieri, Paul sposta lo sguardo sulla chitarra del suddetto e si mette a soppesarne la tecnica, appena in tempo per evitare lo sguardo indagatore del cantante, non sapendo che, da quel giorno e per gli anni a venire, non sarà altrettanto fortunato.
 
~

Londra. Casa di Paul, 13 gennaio 1969.
 
Fa freddo, tanto freddo. Il gelo gli entra nelle ossa e Paul si mette una mano sugli occhi, stancamente. Si mette una mano sugli occhi perché vorrebbe che tutto smettesse così com’è cominciato, ma Paul sa che non è possibile.
Paul sa che un certo limite è stato superato e che non si può tornare indietro, sa che la sua nave ha già iniziato ad affondare e, anche guardando attraverso la lente della sua chitarra-binocolo, non c’è traccia di terra all’orizzonte.
Non c’è traccia di salvezza.
Non c’è traccia di casa.
 
Paul è seduto sul bordo del letto e nello specchio appoggiato alla parete vede il riflesso di John, anche lui seduto sul bordo del letto, una mano sotto il mento e lo sguardo rivolto verso la gelida oscurità della notte che nemmeno le luci di Londra riescono a rischiarare. Paul viene colpito dalla consapevolezza che, nonostante tutto, sono ancora uguali, lui e John. Paul continua a guardare John e non sa spiegare se si senta improvvisamente molto felice o molto turbato o tutte e due le cose insieme o nessuna delle due cose.
Per rompere il silenzio, allunga il braccio e sfiora delicatamente la maglietta di John, i polpastrelli callosi inciampano sulle vertebre che hanno imparato a conoscere. In un sussurro gli chiede cosa ne è stato di quella camicia a quadri.
 
Paul chiede: “Cosa ne è stato di quella camicia a quadri?” e John non risponde. Poi, lentamente, si volta, la melodia di vertebre che risuona tra le pallide dita dell’altro.
John si volta e accenna un sorriso. Scuote la testa, e per una volta è lui quello che cerca di evitare uno sguardo indagatore, non sapendo che, da quel giorno e per gli anni a venire, di sguardi del genere non ce ne saranno più.
 
Ma per quella notte ne hanno abbastanza entrambi. Sono stanchi di pensare a quello che è stato, sono stanchi di pensare a quello che sarà, e lo spazio che li separa non è altro che un letto ancora rifatto. Ancora gelido, arido, immenso come le notti di gennaio.
Per quella notte ne hanno abbastanza entrambi, e allora John scivola sotto le coperte e, quando Paul fa lo stesso, arranca febbrilmente, lo stringe e lo abbraccia e spera che Paul capisca che lui, in fondo, quella camicia a quadri non se l’è mai tolta.
 
 
 
[Angolo della demenza.
Innanzitutto, ho un dubbio, e se qualcuno me lo fugasse non potrei che ringraziare. Paul, nel gennaio del ’69, abitava ancora vicino agli studi di Abbey Road, giusto? Immagino di sì. Ma se è sbagliato, ditemelo che correggo.
Secondariamente, l’Ivan da me nominato è Ivan Vaughan ed è esistito veramente, ma non mi appartiene alla stregua degli altri. Solo per precisare, eh.
Infine, non chiedetemi dove fossero Linda e Yoko. Fuori città, il più lontano possibile, da qualche parte in un bosco sperduto.
E ringrazio tutti quelli che leggono, e quelli che si prendono due secondi per recensire. Grazie davvero :D]

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Capitolo 5
*** V. Di come le nuvole sembravano candide ***


V .
Di come le nuvole sembravano candide
 
Paul è steso in giardino, una matita infilata dietro l'orecchio a fare la guardia ai suoi pensieri.
Paul è steso in giardino, il taccuino stropicciato a qualche centimetro di distanza.
Il taccuino stropicciato dei suoi pensieri tenuti sotto chiave.

Le nuvole si rincorrono rapide nel cielo, cambiano, trasmutano, come sogni confusi dall'arrivo del mattino. Il loro instancabile moto si riflette negli occhi di Paul.
Bolle di sapone iridescenti. I suoi occhi, iridescenti.

Le lunghe, folte ciglia tessono raggi di sole, e Paul rimane lì, sdraiato sull'erba a guardare le nuvole di sogni rarefatti e il pomeriggio scorrergli davanti. E anche se il tempo passa, gli sembra di essere sempre fermo, imperturbabile. 
Paul, steso nel giardino inaccessibile dei suoi pensieri. 
Paul, che sfoglia le pagine del suo taccuino stropicciato.

E John. John che, ancora una volta, si butta sull'erba vicino a lui. 
Che, ancora una volta, non dice niente e osserva tutto. 

John che scompiglia le pagine. 

E John. John che, ancora una volta, accenna un sorriso e sussurra il suo nome.
Che, ancora una volta, lo tiene per mano in un pomeriggio d'estate. 

John che scompiglia i pensieri. 

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Capitolo 6
*** VI. Di come John non riusciva a prender sonno ***


VI.
Di come John non riusciva a prender sonno

È quel tipo di notte che non lascia spazio ai fantasmi, che non lascia spazio ai silenzi. 
È una notte da risate soffocate, da braccia che accolgono, da tenere riflessioni.
È una notte da amanti lontani.

John si rigira nel letto e chiude gli occhi. Sullo schermo nero delle sue palpebre appare Paul. 
Paul, protagonista dei suoi pensieri. 
Paul, alla prima del film proiettato nella sua mente.
Paul, lontano e irraggiungibile, niente più che un sogno sbiadito.

È una notte da amanti lontani.
È una notte come tante altre prima di quella, una notte da fare passare, e John decide di alzarsi e sgranchirsi le gambe perché stare così, fermo, con solo le sue ossessioni a fargli compagnia è diventato troppo da sopportare.

John arranca verso la scrivania, improvvisamente a corto di fiato, provato da se stesso.
È stanco, maledettamente stanco di dover avere a che fare con quello che c'è nella sua testa ogni giorno, ogni notte come quella.
Ma non c’è via di scampo e John lo sa. John è in trappola.
Traffica con le carte sparse lì in giro, le dita veloci, nervose, scorrono i fogli senza posa come alla ricerca di qualcosa di fondamentale nascosto tra le righe fitte fitte.
Ma non c’è niente. Non c’è via di scampo e John lo sa.
John è in trappola.

Si accende una sigaretta e si massaggia le tempie. Non c’è nessuno in casa a parte lui e, se da un lato è contento che Yoko non sia lì a vederlo in quello stato, dall’altro si sente terribilmente solo.
Abbandonato.
Tradito.
Rifiutato.
Terribilmente solo.
E adesso John non riesce più a localizzare la fonte del suo dolore. John è in trappola e ha paura, tanta paura di essere lasciato lì a fare i conti con i suoi pensieri per il resto della notte. Per il resto del resto, qualunque cosa gli rimanga.

Ma un'idea inizia ad insinuarsi tra le altre, a violentare il disordine che c'è nella sua mente, a strisciare maligna, vile, selvaggia.
Improvvisamente tutto diventa nitido, splendente e John, prima di riuscire a controllarsi, afferra la cornetta con una decisione sorprendente e si ritrova a comporre quel numero.

"Sì?"
"Ciao, Paul"
Il debole ronzio del telefono non riesce a coprire il silenzio in cui inciampa la conversazione. John stringe convulsamente il ricevitore per non far scivolar via niente di quello che gli rimane. Niente del resto del resto.
Poi dice: "Mi manchi".
Dice: "Paul, mi manchi da morire".
 
È una notte strana, una notte diversa. Una di quelle notti dove non ha più senso fingere, dove la verità scivola dalle labbra più veloce del pensiero, dove lo stare insieme così, semplicemente, conta più della distanza, qualunque distanza sia, dovunque essi siano, qualunque ragione li tenga distanti l’uno dall’altro.

È quel tipo di notte che non lascia spazio ai rancori, che non lascia spazio alle scuse.
È una notte da ricordi scaduti, da voci che tremano, da dolci promesse.

È una notte da amanti lontani.



[Angolo della demenza.
Non sono particolarmente soddisfatta di questo "capitolo", ma pazienza.
Quindi chiedo scusa in anticipo nel caso avessi deluso le speranze di qualche lettore random.
E comunque è la scuola che mi distrugge ç_ç
Occhei, mi ritiro nelle mie stanze.
Au revoir, tout le monde!]

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Capitolo 7
*** VII. Di come qualche birra di troppo può fare la differenza ***


Nota: lo so che il pairing principale di questa raccolta è John/Paul, ma ne desidererei introdurre un altro, cioè mestessa/Fionafu0402. Perché è bravissima a disegnare e vorrei disegnare come lei e, davvero, non c’è nessuno che fa disegni slashosi su John-luv e Paulie boy più belli dei suoi.
Uno dei miei preferiti in assoluto è questo, e ieri sera appena è partita Why Don’t We Do It In The Road? ho capito che dovevo assolutamente scrivere qualcosa in proposito. E pazienza, com’è venuta, è venuta.
 

VII .
Di come qualche birra di troppo può fare la differenza

{Why don’t we do it in the road?
No one will be watching us.
Why don’t we do it in the road?}


Paul non regge molto bene l’alcol, ma insiste sempre per andare in qualche pub a bere e a divertirsi.
E John, che non sa dire di no a Paul, nove volte su dieci si ritrova a doverlo trascinare dal pub fino a casa (la sua) e metterlo a letto (il suo).
E John, che non sa dire di no a Paul (il suo) quando questo gli si avvicina e, appoggiandogli una mano sul braccio, dischiude appena le labbra a pronunciare il suo nome, nove volte su dieci si ritrova ad osservare il suo riflesso negli occhi verdi dell’altro e a desiderare di rimanere così per sempre. Per sempre a fissare gli occhi di Paul che lo guardano.

Si dà il caso, quindi, che quella sia una delle nove volte su dieci, e che John stia cercando di convincere Paul a tenersi a lui. Questo però non sembra curarsi dei suoi sforzi, limitandosi a ricadere mollemente a terra quando John lo lascia andare. “Sei la solita checca del cazzo!”, sbotta dando un calcio alla gamba dell’altro, un calcio non abbastanza forte da cancellare il sorriso ebete impresso sul viso di Paul.

John scuote la testa una, due volte. Si ripromette mentalmente di non cadere più nella trappola di Paul-occhi-da-cerbiatto, ma gli basta indugiare appena su quell’immagine per sentire il suo stomaco contrarsi, provocando agrodolci fitte che lo costringono a scuotere la testa per la terza volta, con più veemenza di prima.
Si butta a terra, scoraggiato, sedendo a debita distanza (ovviamente niente più che una manciata di centimetri) dall’altro. Paul continua a sorridere, un sorriso laconico, assente, a tratti però furbo e malizioso.
Paul continua a sorridere e appoggia la testa sulla spalla di John, abbandonando con noncuranza, come spesso fa, la mano sul suo braccio.

La strada è deserta e l’unico lampione che c’è la illumina di una luce nitida, ma discreta. È una fresca nottata di fine agosto e il vento, che porta con sé un assaggio dell’autunno che viene, scompiglia i capelli dei due e si insinua tra i vestiti, permettendo a Paul di avvicinarsi ancora un pochino, solo un po’ di più, a John, e affondare il viso nell’incavo tra la sua spalla e il suo collo.
Paul lo sfiora appena con le labbra e col naso rendendosi immediatamente conto che John ha la pelle d’oca, e lascia che il suo sorriso si allarghi appena perché è quasi sicuro che non sia colpa del freddo.

John, infatti, non ha decisamente freddo. Si sente, al contrario, come se stesse camminando sulla sabbia cocente, come se avesse appena bevuto dieci cioccolate calde, come se si fosse immerso in una vasca da bagno riempita di acqua bollente.
Come se fosse ubriaco, ubriaco fradicio, eppure dolorosamente presente e conscio del suo esistere in quel preciso istante, schiacciato tra il muro e l’asfalto e Paul (il suo).

"John. John, posso darti un bacio?"
"No."
"Un bacio piccolo."
"No."
Paul sbuffa e gli pizzica forte il fianco, ma gli strati di stoffa che li separano sono troppo spessi e John, invece di imprecare dal dolore, si lascia sfuggire una risata.
Paul sbuffa e gli pizzica forte il fianco un'altra volta, e un'altra volta John ridacchia.
"Smettila, mi fai solletico", dice poi tentando di tornare serio, ma non riesce a dissimulare un sorriso tanto ebete quanto quello che aveva increspato le labbra dell'altro ragazzo qualche minuto prima.

E Paul lo vede, Paul lo sa.
Paul se ne accorge, Paul sa che non era il freddo a far rabbrividire il suo amico.
Paul lo sa, perchè lui sa sempre tutto di John.
John (il suo) con segreti di vetro e pensieri di carta.

Si scosta un poco per guardarlo negli occhi e poi dice: "Perchè non lo facciamo e basta?"
John ora è visibilmente preoccupato.
"Facciamo che cosa?", domanda con voce tremante.
La risata di Paul, leggera, cristallina, riecheggia nella strada. "Ci diamo un bacio, no? Facciamolo. Adesso, dico"
"Tu sei ubriaco, Macca"
"Lo so. Ma lo possiamo fare lo stesso"
"No, sul serio. Adesso ti porto a casa"
"Aspetta un attimo!"
Paul si pesa più che può su John, costringendolo a rimanere a terra. 
Sono stesi l'uno accanto all'altro, così vicini che non è sicuro di potersi tirare indietro ormai, neanche se avesse cambiato idea.
Come se fosse possibile che avesse cambiato idea. No, ci ha rimuginato su davvero troppo, non è più tempo di ripensamenti, no, no.

"Ci vedrà qualcuno", mormora John, ma in quel mentre compie un imperdonabile errore.
Mentre si perde a fissare gli occhi di Paul che lo guardano, lo sente appena ribattere dicendo che nella strada non c'è nessuno, e un attimo dopo è solo Paul e il suo profumo e i suoi capelli scuri e le sue labbra morbide.
E lo è anche per l'attimo successivo e per diversi attimi seguenti e per altri attimi dopo quelli e per altri ancora.

In quella notte d'agosto, contro il freddo muro e contro il freddo asfalto, è solo Paul (il suo).
 

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Capitolo 8
*** VIII. Di come non si scappa dalla pioggia ***


VIII.
Di come non si scappa dalla pioggia
 
"John. John, svegliati. John!"
Paul gli afferra le spalle e lo scuote prima leggermente e poi con sempre più convinzione fino a che questi non apre gli occhi, spaesato. 
John si porta una mano al volto e, occupato com'è ad asciugarsi le lacrime, non si accorge che l’altro ha mollato la presa, pur rimanendo seduto sul suo letto ad osservarlo ansiosamente. Cerca di ricomporsi un poco e incrocia brevemente lo sguardo di Paul, che lo inchioda lì sul posto, incapace di spiccicare parola, di trovare una scusa alle sue debolezze, di pregarlo di non dire nulla a nessuno.
 
Ma c'è qualcosa, c'è qualcosa nel modo in cui Paul lo guarda, nel modo in cui Paul non guarda nessun altro alla stessa maniera, e John capisce che è inutile fingere con lui.
È inutile fingere con Paul, perché è inutile fingere con se stessi. 
E John, che si è appena svegliato ed è così stanco e la notte è troppo buia per gettare luce su quello che è successo, non è sicuro di saper riconoscere il limite fra quello che è e quello che dovrebbe essere. 
Ed è inutile, completamente inutile fingere con Paul. 

John si rigira e si stringe alla bandiera inglese che gli fa da coperta, ma non sente nessun cigolio del letto a comunicargli che Paul è ritornato nel suo. Al contrario, il sottile materasso si affossa ancora di più e John sente calze ruvide contro i suoi piedi gelati e braccia che lo cingono con dolcezza e il respiro caldo di Paul sul collo.
"Anche a me manca", sussurra Paul al suo orecchio. "Sempre, tutti i giorni."
Paul gli sussurra: "Andrà tutto bene. Ci sono io con te, mh? Non devi preoccuparti, John. Andrà tutto bene."

Cullato dalla sua voce, John scivola in un sonno senza sogni, le dita intrecciate alle sue, e la notte, quella notte, non è poi così fredda lì al Bambi Kino.



[Angolo della demenza. 
Ritorno a scrivere in questa raccolta dopo quelli che mi sembrano secoli!
L'ispirazione mi ha chiesto un periodo di pausa, teme che non siamo fatte l'una per l'altra.
Indi per cui, chiedo venia se il capitolo è breve, ma mi piace così, e non saprei cosa aggiungere.
Oh, colgo l'occasione per ringraziare tutti quelli che hanno recensito e tutti quelli che hanno letto in generale!
Ci si vede al prossimo :3 E buona Pasquetta everybodeh!

P.S. John. E Paul. Ad Amburgo. Ho detto tutto.
P.P.S. Ma solo a me infastidisce il fatto che la sezione sia sotto il nome Beatles e non The Beatles?!]

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Capitolo 9
*** IX. Di come la neve cade per te ***


IX.
Di come la neve cade per te
 
Un fiocco di neve, leggero e fragile, si posa sui capelli di Paul, e poi un altro e un altro ancora.
John osserva il suo profilo scuro stagliarsi contro il candore che li circonda, la silhouette di un segreto e il freddo mare d'argento. Non può fare a meno di analizzare ogni minimo dettaglio e carpire ogni imperfezione e chiudere gli occhi, solo per un attimo un'ora un giorno, così da fissare tutto nella sua mente e tenerlo per sempre con sé. 

Paul che guarda il cielo, Paul che abbassa piano le palpebre e, oh, il modo in cui le lunghe ciglia indugiano timidamente, solo per un attimo un'ora un giorno, e tremano in risposta ai battiti del cuore; Paul che dischiude appena le labbra, Paul che si scosta i capelli dal volto e, oh, il modo in cui il suo lieve respiro si condensa nell'aria, solo per un attimo un'ora un giorno, e trema in risposta al gelo impietoso.

"Cosa c'è?", mormora questi interrogativo, ma John si volta dall'altra parte e, prima che Paul abbia il tempo di realizzare cosa stia succedendo, lo colpisce con una palla di neve. John scoppia a ridere, il negativo delll'espressione di terrore e confusione stampata sul viso di Paul rimane impresso nella sua testa insieme a tutti i precedenti indugi e ripensamenti e parole dolci mai pronunciate. John scoppia a ridere e non si accorge della palla di neve che, inesorabile, sta per arrivargli addosso, e poi – puf! - un tonfo sordo lo riporta alla realtà del giardino d'inverno.
Paul è passato al contrattacco e quel sorriso beffardo non promette nulla di buono.
E poi - puf! - non si sa bene come ma sono entrambi caduti a terra, e ridono e scalciano e rimangono lì a confondersi con la neve. 
E poi -puf!- non si sa bene come ma rimangono lì ad abbracciarsi stretti, a tenersi caldo, a confondersi con la neve fino a che la neve non si scioglie, fino a che non è primavera, fino a che il sole non splende di nuovo, solo per un altro attimo, per un’altra ora, per un altro giorno.



[Angolo della demenza.
Buonsalve, mondo! Come si suol dire, chi non muore si rivede, quindi rieccomi qua con un altro capitolo
indecentemente corto. E ammetto di essere un po' perplessa perchè non so quanto possano effettivamente
interessare delle storie in cui non succede assolutamente niente ò_ò Però siete capaci di immaginare, vero vero vero?
Imagine aaaaal the people readiiiing myyy fanfictioooon! You-huu-huuuu, you may say i'm a slasher, but i'm not
the only oooone! I hope some daaaay you'll join uuus and the woooorld will ship McLennooon! 
Occhei, scusate, mi sono fatta trascinare. Me ne vado che ho già fatto abbastanza danni, ma prima
voglio ringraziare davvero tuuuuutti tutti quelli che hanno letto, e ovviamente quelli che hanno recensito (adoooVo).
Niente, taglio. Arrivedeeeerciui! (:]   (<- non sembra una faccina felice col cappello? Awwww.)

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Capitolo 10
*** X. Di un'altra notte insonne ***


 X.
Di un’altra notte insonne
 
Dicono che quando non si riesce a dormire sia perché si è costretti a rimanere svegli nel sogno di qualcun altro.
E John, steso nel suo letto, completamente vestito, si domandò chi l’avesse condannato ad un’altra notte insonne. Istintivamente si voltò verso Cynthia.
Era bella, quando riposava con gli occhi chiusi a quel modo. Con la testa sul cuscino e i capelli che le incorniciavano il volto, scomposti, ribelli. Provò uno strano moto d’affetto verso di lei, nonostante la litigata avvenuta poco prima, perché si era reso conto che c’erano davvero dentro insieme. Che, alla fine, erano davvero sulla stessa barca. Che quella situazione non piaceva nemmeno a lei.
Era bella, lo era sempre stata, ma non l’amava più. Non nella maniera in cui l’aveva amata, non nella maniera in cui lei voleva che la amasse. Non nella maniera in cui amava Paul, gi sussurrò all’orecchio una vocina fastidiosa.
 
Lo stava sognando?
Lo stava pensando?
John sospirò, e si accorse che non sospirava così tanto da quando aveva sedici anni e aveva una cotta per quella sua cugina che abitava tanto lontano e che vedeva due volte all’anno. Sorrise. Aveva sempre avuto la tendenza ad innamorarsi della persona sbagliata.
 
Lo stava sognando?
Lo stava pensando?
John voleva telefonare a Paul e dirgli quello che non gli aveva mai detto, ma che sospettava sapesse. Poi, però, si ricordò che erano le quattro di mattina e che forse Paul non avrebbe capito comunque, o forse avrebbe fatto finta di non capire. Si rigirò nel letto, pregando di non addormentarsi, di rimanere, ancora per qualche attimo, nel sogno di Paul. Il suo sguardo sfiorò di nuovo Cynthia e gli scappò un altro sorriso. Aveva sempre avuto la tendenza a svegliarsi accanto alla persona sbagliata.

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Capitolo 11
*** XI. Di un'altra notte insonne (reprise) ***


XI.
Di un'altra notte insonne (reprise)


Se non ci pensa mai è perchè ci pensa sempre.
Perchè qualcosa dentro di lui, in un angolino della sua mente, nelle infinitesimali fessure che dividono un ricordo e l'altro, scalpita e urla e piange e prega di lasciarlo andare. Ma non può, Paul non può lasciarlo andare.
E questo qualcosa si agita e poi tace un silenzio fatto di tanti silenzi, cacofonie di suoni mai espressi, di dolori mai gridati, di mani che non hanno mai accarezzato altre mani, stretto altre mani, altri pensieri, altri amori.
E questo qualcosa è la consapevolezza che non erano mai stati così divisi come quella notte in cui si trovava steso a letto coi suoi sogni a tenergli compagnia e John sul duro asfalto coi suoi incubi a soffocarlo; e fa male, e brucia terribilmente, ma non può non pensarlo, non può abbandonarlo proprio lì, proprio adesso. Non può, non vuole lasciarlo andare.
E allora lo porta con sé, se ne scorda di come si scordano le cose a cui si è abituati.
Lo porta con sé, per non dimenticare di quando si stava attaccati alla vita come gli alberi alla terra, e la verità non era poi così triste, e le bugie erano vere. Tanto, troppo tempo fa, quando non era in ritardo su niente.
Quando bastavano tre parole a scuotere il mondo e nessuna per rimetterlo a posto.
Quando il passato era ancora futuro, niente più che una matassa di infinite possibilità nascosta chissà dove, chissà da chi.
Quando le notti, ogni notte, era ancora ingenua.
Quando il mattino, qualsiasi mattino, sapeva ancora di Luglio.

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