Via De Meis 72/D

di Mizar19
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Questo progetto abbastanza assurdo (non solo per la tempistica, ma anche per l'ambizione) nasce da uno spunto casuale datomi da Wrath. Così in questa raccolta troviamo a confronto diverse persone che altrimenti, per motivi di distanza, non potrebbero esserlo.
Cosa c'è di meglio che vivere in un quartiere universitario e intrattenere un'intensa vita sociale con i proprio condomini? Così, oltre alla sopracitata, sono diventati personaggi anche angel_87, Calypso, Maeve, Lely1441, The DogAndWolf, Kabubi, riotwithdance, Everett, Cissnei e il mio migliore amico.

Avvertenze: alcune informazioni circa queste persone non sono esatte, dunque non prestatevi interamente fede! Inoltre, ciò che viene detto dai personaggi non è necessariamente il mio pensiero e non è detto che lo condivida. Le restanti coincidenze con persone, luoghi, fatti esistenti sono puramente casuali.


[Chi riesce a riconoscere tutti gli altri?]

Buona lettura e buon divertimento!


*

VIA DE MEIS 72/D



Prologo

 
 Filippo era solito ripulire la sua postazione da nerd infaticabile il venerdì pomeriggio; si armava di panno in microfibra e olio di gomito. Le prime a soccombere erano le briciole di innumerevoli pangoccioli ingurgitati per placare la fame chimica durante le sessioni di Minecraft seguite da un esercito di acari e avanzi di cibo nei quali erano riconoscibili diversi stadi di decomposizione. Il venerdì pomeriggio l’angolo computer profumava di detergente al limone, almeno fino a lunedì. Stava per spolverare le mensole affaticate da voluminosi tomi fantasy e l’intera bibliografia di Calvino, quando una voce di donna ignota - lui aveva una memoria davvero prodigiosa per un certo genere di cose - attirò la sua attenzione. Proveniva senz’altro dal pianerottolo, i muri erano così sottili che poteva distinguere ogni parola. «E’ storto, ma non lo vedi? Guarda che lo stai di nuovo mettendo male...».
La tentazione era davvero troppo forte per resisterle. Si avvicinò in punta di piedi alla porta d’ingresso, per poi scostare con la punta dell’indice il disco di metallo che copriva lo spioncino. Esemplari di sesso femminile. Ben due!
Lasciò cadere il panno per la polvere, che svolazzò fino al pavimento mentre lui restava a guardarle come un voyeur professionista. Stavano facendo qualcosa davanti al campanello: una era chinata e poteva ammirarne solo il fondoschiena, l’altra la osservava con le braccia incrociate. «Niente panico, niente panico...», ripeté mentalmente un paio di volte, tanto per essere sicuro di recepire il concetto.
Un bravo vicino sarebbe andato da loro per un benvenuto nel condominio. Senz’altro l’avrebbe fatto. Annuì per farsi coraggio, si asciugò le palme della mani sul retro di jeans sbiaditi e consunti poi - tolta la catenella - abbassò la maniglia. «Buongiorno».
Le due ragazze si voltarono entrambe verso di lui, un po’ stupite per l’intrusione improvvisa. «Ehm... ciao», risposero in coro. Quella acquattata recuperò la posizione eretta, puntellandosi la parte bassa della schiena con entrambe le mani.
«Volevo... Ecco, vi ho sentite parlare e ho pensato di dover dare il benvenuto alle mie nuove dirimpettaie. Io sono Filippo», si presentò tendendo la mano destra.
La ragazza che prima era china sul campanello rispose alla stretta per prima. «Tallia».
«E io sono Irene».
«Siete studentesse?»
Le due si scambiarono un’occhiata, poi fu Irene a parlare con voce estremamente pacata nella quale Filippo distinse un accento toscaneggiante. «Sì, ci siamo trasferite ieri sera. Io vengo da Perugia, e questa qua è sarda. Tu sei dell’Unito[1]
«Unito?! Puah, non dirlo nemmeno per scherzo. Ho venduto l’anima Politecnico, ingegneria del cinema. Voi?»
«Io volevo andare ad Hogwarts, anche fuori corso, ma siccome i gufi mi odiano ho dovuto ripiegare su biotecnologie», fece spallucce Irene spalancando ancora di più i tondi occhi verdi.
«Lingue». Tallia era decisamente di poche parole.
«Anche tu vivi in affitto facendo il parassita alle spalle dei genitori?», domandò Irene ridacchiando.
Filippo sogghignò ripensando alle vicissitudini che avevano portato all’acquisto della casa. «In realtà no, è dei miei genitori da qualche anno, acquistata proprio in previsione del mio periodo universitario».
«Ah, beato te! La vecchia che ci ha affittato questo buco ci sta con il fiato sul collo: bagnate i bonsai, gli assorbenti non vanno buttati nella tazza che intasano, il marmo va trattato con prodotti appositi... manco venissimo dalla foresta pluviale».
«Ti consiglio di abbassare la voce: il condominio è pieno di vecchie acide», sussurrò Filippo, mettendole in guardia dalla ruvida curiosità delle over sessanta. «Sono perennemente appostate dietro la loro porta, l’orecchio teso a captare ogni parola proveniente dalle scale!»
Irene rise, mentre Tallia strabuzzò gli occhi scuri. «Sul serio?»
«Forse mi sono scordata di dirtelo: lei è il mio carabiniere». Irene e Filippo scoppiarono a ridere, mentre Tallia li fissava interdetta.
 
«Due fottutissimi giorni», sibilò Zoe, soffocando un gemito esasperato nel cuscino. Si raggomitolò sotto al lenzuolo, tentando di ignorare il lussurioso ensemble di vibrazioni provenienti dal piano superiore.
Si era definitivamente trasferita nell’appartamento della nonna paterna avantieri, in modo da potersi ambientare comodamente. Aveva innaffiato l’immenso ficus che occupava i tre quarti della sua stanza da letto, piegato con cura i vestiti nell’armadio antico, allineato in uno scaffale della libreria tutte le boccette di china (nonché gli inchiostri, i pennelli, gli acquerelli e l’immensa collezione di pastelli colorati) e collegato l’alimentatore del computer alla presa della cucina. Infine, aveva sperimentato per la seconda notte di fila quanto potesse essere intensa la vita sessuale altrui. Nella fattispecie, quella della ragazza al piano superiore.
Le era impossibile restare nel suo tiepido bozzolo di coperte, dunque le scalciò via con un grugnito. Infilò i piedi nudi in paio di vaporose pantofole verdi a forma di mostriciattoli e si diresse a passo strascicato verso la credenza in cucina. Affondò senza ritegno la mano nel pacchetto delle gocciole. Nemmeno il loro sapore poteva scacciare l’insistente rumore del piano di sopra. Mentre tornava nella sua stanza lanciò uno sguardo alla pendola nell’ingresso: segnava le dieci e mezza. Sospirando decise che non era necessario indossare abiti decenti e si trascinò nuovamente in cucina, dove si sedette davanti al computer. Era intenzionata a connettersi su Skype per sfogare la sua frustrazione sulla migliore amica, che probabilmente non sarebbe risultata in linea perché troppo impegnata ad avere una vita sociale, quando il campanello trillò.
Immediatamente Zoe nemmeno reagì: non poteva essere il suo campanello, chi mai avrebbe desiderato avere a che fare con lei? Invece quello suonò di nuovo.
«Arrivo!», esclamò con voce rauca ciabattando fino alla porta. La spalancò senza nemmeno controllare dallo spioncino chi la attendesse sul pianerottolo.
«Ciao, spero di non disturbare...».
Socchiuse gli occhi come per essere certa di non trovarsi di fronte un’allucinazione in jeans e maglietta. Invece era proprio una ragazza con un enorme sorriso e il buonumore disegnato sul volto. Esattamente il contrario della torbida sonnolenza in cui ancora versava Zoe.
«Io... no, mi sono appena svegliata, quindi...», accennò al pigiama liso che stava indossando mentre nella sua mente si schiaffeggiava senza ritegno.
«Hai del timo?»
«Non ho avuto tempo... Eh?!»
«Timo. Erba, sai?»
«Io... so cos’è il timo!», protestò Zoe.
«Allora ne hai un po’ da prestarmi?»
«Non so nemmeno perché dovrei averlo in casa. Se vuoi ho una crema balsamica al timo...». La ragazza scoppiò a ridere, facendo segno di no con l’indice.
«Sai, per cucinare... Ma non importa. Io sono Sara», si presentò.
«Zoe. Quindi tu abiti di fronte a me?», domandò curiosa allungando lo sguardo oltre la porta aperta dell’altro appartamento.
«Sì, ho concluso ieri pomeriggio lo spostamento. Sono qui per l’università...»
«Lo supponevo, ci sono molti studenti nel palazzo a quanto pare», confermò Zoe.
«Vuoi venire a prendere un caffè?», domandò Sara indicando il suo appartamento con il pollice.
Zoe stava per rispondere che avrebbe accettato volentieri, ma un gemito particolarmente squillante la fece rabbrividire.
«È... è sempre così?», domandò preoccupata Sara alzando lo sguardo: lei e il sesso non erano mai andati molto d’accordo.
«E’ la terza mattina che sono qua dentro e... sì, sempre: tra le nove e le undici, poi tra le due e le cinque e infine da mezzanotte a oltranza».
«Sarà mica una casa chiusa?», la nuova vicina appariva preoccupata, ma Zoe scoppiò a ridere.
«No, è una ragazza che si intrattiene con varie persone: una sola non potrebbe reggere il ritmo! L’ho incrociata ieri per le scale: è bassina, capelli ricci castani, bel fisico... Non diresti che produce tutta questa cacofonia!»
Sara tornò a posare gli occhi sulla ragazza che aveva di fronte, sistemandosi la frangia con l’indice. «Allora, quel caffè?»
«Magari mi cambio e ti raggiungo», propose Zoe vagamente imbarazzata.
«Mi sembra legittimo. Allora ti aspetto tra qualche minuto!». Fece un cenno con la mano e si richiuse la porta alle spalle.
 
Versò un’abbondante dose di semi di girasole nella vaschetta di plastica rossa per poi introdurla delicatamente nella gabbia dove ospitava Ezio e Alduin, due teneri criceti, uno grigio e uno ocra, che sospettava avere una relazione omosessuale. Le due piccole palle di pelo si avvicinarono fameliche alla loro colazione.  Richiuse lo sportello della loro gabbia per passare a quella successiva, doveva viveva in isolamento l’aggressivo John: era il suo naturale temperamento, eccessivamente dominante per una convivenza con qualsiasi altro animaletto. Antonia era solita vezzeggiarlo con l’appellativo di cricetino mannaro, mentre lui tentava di trasformare il suo dito nello spuntino pomeridiano. Nutrito anche l’esagitato roditore, aprì lo sportello della gabbia delle due frivole donzelle che rispondevano al nome di Zelda e Alyx, la prima candida come la neve e la seconda di un delicato color crema. Entrambe scesero dalle ruote per accogliere l’arrivo della padroncina con una carezza del naso umido. Infine si occupò di Gordon e Orihime, che inizialmente avevano mostrato un certo affetto l’uno nei confronti dell’altra e quindi aveva tentato di spingerli ad accoppiarsi facendoli convivere in una graziosa gabbia dal design essenziale: troppe distrazioni gli avrebbero impedito di copulare a dovere. Il suo tentativo fin’ora non aveva portato a nulla, ma lei non perdeva le speranze.
Terminato il rituale dei semi di girasole, si sistemò davanti al computer e fece ripartire Oblivion da dove l’aveva interrotto: stava andando a chiudere un cancello di Oblivion, mica bubbole.
La sua coinquilina se n’era andata a settembre, perché aveva trovato un appartamento più vicino a Palazzo Nuovo, malconcia sede delle facoltà umanistiche dell’università, e lei ancora non aveva trovato una degna sostituta. Per ora i criceti bastavano a colmare il suo bisogno d’affetto, loro e la Confraternita Oscura. Aveva appeso diversi annunci nella bacheca del Politecnico, annunciando che aveva bisogno di una ragazza con cui dividere le spese: camere separate, un bagno, cucina spaziosa e ampio balcone con veranda. Si era presentata per prima una ragazza giapponese che non parlava nemmeno mezza parola di italiano e pretendeva di pagare una percentuale minore sulle spese rispetto a quella concordata; dopo di lei aveva risposto all’annuncio una ragazza all’apparenza normale e a modo, l’affare stava per andare in porto quando aveva scoperto che la sedicente coinquilina modello era una cultrice del vampirismo (voleva portarle in casa diversi oggetti dall’aria decisamente inquietante nonché una specie di bara), nonché appassionata di sadomasochismo. Non che Antonia avesse pregiudizi, ma preferiva che le arti oscure restassero fuori da casa sua.
Lunedì avrebbe iniziato il secondo anno e si preparava a soffrire sui libri, anche se l’aveva già messo in conto quando si era iscritta a matematica per l’ingegneria. Non avrebbe mai dimenticato la stretta ai muscoli rettali che aveva provato sfogliando con vivace curiosità il piano di studi. Si era convinta che erano solo grossi nomi, dietro cui si nascondevano i soliti calcoli. Lei era brava di matematica, forse un genio, non aveva nulla da temere.
Mise nuovamente il gioco in pausa per andare a lavarsi i denti. Saltellò fino al bagno, dove afferrò lo spazzolino elettrico. Mm, non sarebbe stato così spiacevole farsi una doccia calda, pensò passandosi una mano tra i corti capelli biondi: aveva un’ora abbondante di dolce ozio che l’attendeva, almeno fino all’inizio delle lezioni. Ripensò alla geometria differenziale e rabbrividì. Un suono indistinto raggiunse le sue orecchie al di sopra del motorino dello spazzolino, che spense immediatamente tendendo l’orecchio. Il suono indistinto assunse i contorni di una voce femminile, poi iniziarono a distinguersi dei fonemi, finché Antonia si rese conto che qualcuno stava salendo le scale a passo di mammut recitando un rosario di bestemmie intervallate da altri intercalari piuttosto curiosi e intellettuali nella loro volgarità. Distinse con molta chiarezza un possente “lupanare il Primo Mobile”.
 
Quando Anne si era resa conto che il suo utero stava lasciando scivolare impietosamente un flusso sgradevole di sangue era sul pullman per casa. Si era alzata presto per poter andare in facoltà a farsi trasferire l’abbonamento del pullman sulla tessera universitaria, in modo da ottimizzare lo spazio nel suo portafoglio. Poi, seduta sul rigido seggiolino blu, aveva iniziato ad avvertire un fastidioso torpore in zona lombare, seguito da una fitta acuta al basso ventre. Era stato in quel momento che aveva realizzato ciò che stava accadendo. Agli occhi di un osservatore esterno, non era accaduto assolutamente nulla, ma dentro Anne si agitava un profondo impulso di morte, possibilmente altrui. Sentiva gli ormoni aggredirla ogni secondo che passava e pensava con stizza e ansia alla pozzanghera rossa che avrebbe trovato sotto al suo sedere quando fosse scesa alla sua fermata. Non osava muovere un muscolo, le labbra contratte e lo sguardo feroce. Quando il pullman raggiunse la sua fermata, fu costretta ad alzarsi. Gettò un rapido sguardo al sedile che aveva occupato fino a poco prima e constatò con sollievo essere lindo. Balzò giù dal mezzo di trasporto prima che l’autista le chiudesse le porte sul naso e si diresse a passo di marcia verso il proprio condominio. La sensazione di precipitazioni nelle sue mutande non era affatto migliorata, anzi peggiorava ad ogni passo che la avvicinava alla meta. Quando aveva spalancato il cancelletto del cortile aveva tirato un profondo sospiro di sollievo: ormai era arrivata, doveva solo aprire il portone della scala D, prendere l’ascensore e fiondarsi in bagno. «E cosa ci vuole?», pensò armeggiando con il mazzo di chiavi.
Arrivata di fronte all’ascensore, però, l’aveva trovato occupato: si era premurata di riservare un parola di comprensione e supporto per tutte quelle povere persone anziane che non potevano fare le scale. Attese per un’eternità, ma l’ascensore ancora risultava occupato. «Ci stanno trombando dentro?», soffiò a denti stretti, iniziando a imbufalirsi.
Attese ancora, e ancora, finché il display del cellulare la informò che era rimasta davanti all’ascensore per otto minuti. Non si trattenne oltre. Emise un ruggito rauco per farsi coraggio: cos’erano mai sette piani di scale? Posò con violenza il piede sinistro sul primo scalino e improvvisamente le sembrò di dover scalare l’Everest, circondata dal freddo e dal ghiaccio, assieme ad un fidato sherpa e al suo yak. Raggiunto il primo pianerottolo già aveva il fiatone e a pochi gradini dalla terza rampa di scale prese una storta: la prima bestemmia. Non era certamente una persona religiosa, a differenza della sua famiglia, quindi si sentiva pienamente autorizzata ad offendere coloro che, in base alle distorte credenze dei suoi genitori, avrebbero dovuto prendersi cura di lei. Continuò così, senza premurarsi di moderare il tono di voce o la pesantezza dei passi, aggrappata al corrimano con tutte le sue forze, il volto accaldato e la parte bassa della schiena che esplodeva di dolore. Arrivata al quarto piano si fermò ancora per riprendere fiato, accasciata contro la parete del pianerottolo. Udì distintamente due risate femminili sovrapporsi.
«Stronze baldracche», pensò acidamente invidiando la loro gaia condizione, mentre lei sudava e sanguinava come uno scarto umano, piegata in due dal dolore con il fiato mozzo. Riprese la scalata a denti stretti.
Al sesto piano temette un infarto. Si lasciò cadere supina sul pianerottolo, sperando che nessuno avesse la decenza di apparire in quel momento e la compatisse. Il marmo fresco la rinvigorì quel tanto che le bastava per rimettersi in piedi. Si rialzò con un sonoro sbuffo: il pensiero che al prossimo piano avrebbe guadagnato la base le faceva decisamente gola e la spronava a marciare come un toro incazzato.
Quando la porta del suo appartamento si materializzò finalmente davanti ai suoi occhi quasi scoppiò in lacrime per la soddisfazione, quasi dimentica della mancanza d’ossigeno, dei pantaloni lordi di sangue e del sudore che le aveva devastato la capigliatura e scolato il trucco attorno agli occhi. Sembrava uscita da un rave party.
Inserì la chiave nella serratura trattenendo a stento un gemito di soddisfazione, già pregustando una doccia e un antidolorifico, seguiti da un morbido letto e un caro libro. Spalancò la porta e svenne lunga tirata nell’ingresso.
 
«È il settimo piano, fidati».
«A me pare il quarto... Sei proprio certa di non ricordarti il cognome?»
«Non sarei qua a fare congetture, che ne pensi?»
«Mm», borbottò Nora chiudendo a chiave la porte del loro appartamento. Lucia reggeva tra le mani un vassoio su cui aveva allineato deliziose meringhe preparate quella mattina stessa; aveva la deliziosa abitudine di preparare un dolce per ogni nuova persona, o famiglia, che si trasferiva nel condominio. Lei e Nora vivevano all’ultimo piano da tre anni e avevano visto andare e venire molte persone, soprattutto studenti.
Le due ragazze scesero le scale, Nora per prima di modo da controllare che Lucia non inciampasse dietro al vassoio. L’ottavo piano era silenzioso e non vi era nulla di significativo da notare, tranne il fatto che per l’ennesima volta la porta dell’ascensore si era inceppata a metà chiusura, impendendone l’utilizzo. Nora ebbe la cortesia di richiudere la porta. Avrebbe dovuto farlo nuovamente notare ad Anita, una delle due occupanti del pianerottolo dell’ottavo piano, nonché cara amica di Lucia.
«Cosa...», domandò Nora preoccupata, notando la porta dell’appartamento di Anne aperta e un paio di calzature sbucare dallo stipite.
«Anne!», strillò Lucia e manco un soffio che l’intera produzione di meringhe rotolasse per le scale. Mentre Nora si fiondava dalla ragazza svenuta, Lucia premette il gomito contro il bottone del campanello. Dall’appartamento uscì trafelata una ragazza che si guardò attorno abbastanza preoccupata: aveva i capelli bagnati, le infradito di gomma e un asciugamano blu stretto attorno al corpo. Sbatté le palpebre un paio di volte, rabbrividendo.
«Perdona l’intrusione... volevamo chiedere una mano, ma...», Lucia accennò alle gocce d’acqua che andavano moltiplicandosi ai piedi della ragazza, che era evidentemente sgusciata fuori dalla doccia, attirata dall’urlo e dal suono insistente che richiedeva la sua presenza.
«Mi vesto rapidamente», disse semplicemente, sbattendo la porta. Lucia corse dentro casa di Anne, dove depositò il vassoio sulla prima superficie orizzontale che riuscì ad individuare. Nora stava schiaffeggiando la poveretta, che iniziava a gemere contraendo i muscoli facciali.
«Anne! Anne! Anne!», nome, ceffone, nome, ceffone...
«Ma... che... AHIA!», strillò quando ricevette l’ennesima sberla.
«Stai bene?!»
«Non gridare», sibilò portandosi le palme delle mani alla fronte.
«Sei svenuta...»
«Penso di averlo realizzato, dimmi qualcosa che non so», replicò acida e ricordò solo in quel momento del problema mestruazioni.
«Bagno, ho bisogno di un bagno». Terminò di dirlo che la ragazza che prima si era presentata gocciolando come un pulcino bagnato entrò nel loro campo visivo, i capelli bagnati raccolti, vestita con jeans e canottiera. «Trascinatemi in bagno, vi prego», insistette. Non conosceva quella ragazza, doveva essere la nuova: l’aveva sentita trafficare in casa tutto il giorno precedente ma non era riuscita a carpire alcun dettaglio su di lei, nemmeno che fosse effettivamente una lei.
«Ora ti metto seduta, dimmi se ce la fai», Nora la afferrò da dietro, sotto le spalle, spingendole il busto verso l’alto. Un’ondata di vertigine le fece rischiare un secondo svenimento.
«Tu chi sei?», domandò alla sconosciuta con la vista completamente appannata.
«Non svenire di nuovo!», strillò Nora mentre Lucia, rapida come una saetta, le rifilava un possente manrovescio.
«Sei proprio una terrona!», esclamò non appena ebbe riacquistato l’uso della vista. Si divincolò dalla presa di Nora per cercare di rimettersi in piedi autonomamente, impresa più ardua del previsto.
«Sono Alda», la ragazza pareva paralizzata e incapace di reagire.
«Chiudi la porta, per favore», le chiese con cortesia Lucia, mentre Nora sorreggeva una tremante Anne.
Alda rimase un po’ in disparte, incerta sul da farsi. «Tenetemi», esalò Anne prima di svenire nuovamente.
«Anne!», Nora provvide a schiaffeggiarla e lei si riprese prima di afflosciarsi al suolo come un sacco.
Quando il campanello suonò, Alda corse ad aprire la porta. «Io ho… Ehm, salve! Non è… il settimo piano?», domandò spaesata la ragazza sul pianerottolo sporgendosi all’indietro per controllare il nome sul campanello. Quaglia, recitava la targhetta: non aveva sbagliato, eppure non aveva mai visto quella ragazza.
Alda colse lo straniamento della nuova arrivata, dunque la graziò con una spiegazione sommaria su quanto fosse successo. «Non so nemmeno chi siano queste persone, mi sono trasferita ieri pomeriggio, però ho visto che erano in difficoltà…»
«Con Anne, non si è mai sicuri», ridacchiò l’altra, per poi informarsi se fosse possibile per lei entrare in casa.
«Suppongo di sì…», si fece da parte per lasciarla passare. «Comunque piacere, io sono Alda».
«Anita». Si strinsero la mano, poi Alda richiuse la porta d’ingresso.
«Ragazze, ciao!», Lucia e Nora strinsero in un abbraccio la perplessa ragazza. «Anne?»
«Sono qui, idiota!», sbraitò la diretta interessata che si era barricata in bagno dopo aver convinto Nora di essersi stabilizzata. Aveva solamente bisogno di una doccia, avrebbe ucciso per dell’acqua.
«Sei sempre così amorevole».
«Dovrò bruciare i pantaloni, è più che sufficiente».
«Ehi, io avevo delle meringhe! Tu, sei tu la nuova, vero?!», s’accertò Lucia puntando l’indice contro Alda.
La ragazza annuì. «A quanto ne so, mi sono trasferita ieri sera…»
«È Sara Pitton quella del quarto piano! Siamo andate ieri da lei», ricordò improvvisamente Nora, portandosi una mano alla fronte.
«Vuoi?», domandò mielosa Lucia sollevando il vassoio sopra il naso, i suoi occhi sbucavano sorridenti tra esso e la frangia nera.
«Solo… solo una», mormorò Alda imbarazzata, allungando una mano.
«Tra l’altro, Anita, l’ascensore era di nuovo bloccato al tuo pianerottolo», la informò Nora.
«L’ascensore era… cosa?!», strillò Anne dalla doccia.
«Quante volte abbiamo contattato l’amministratore?», la domanda di Lucia era palesemente retorica.
«Anita, sei stata tu a non chiudere la porta?!», l’ira di Anne attraversò con forza la porta del bagno.
«Ehm… non credo sia stato intenzionale, ero scesa a buttare la spazzatura…», si giustificò la laureanda in lettere antiche e futura disoccupata. Arretrò di qualche passo nell’ingresso, in direzione della porta.
«’Sta notte dormi con un occhio aperto, anzi, aprili entrambi!», ringhiò la ragazza.
«Io direi che è ora di andare a lavorare alla tesi, che ne pensate? Addio», in un secondo Anita era fuggita nel suo appartamento, dove probabilmente si sarebbe rintanata per tutta la settimana a seguire.



[1] Unito è la comune abbreviazione per l’Università degli studi di Torino, uno dei due atenei di Torino assieme al Politecnico, abbreviato invece in Polito. 


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Come promesso, ecco il primo capitolo! Abbiamo qualche notizia in più sugli inquilini, nonché un primo approccio generale. Godetevelo! Dedicato ai Magici Undici

Avvertenze: alcune informazioni circa queste persone non sono esatte, dunque non prestatevi interamente fede! Inoltre, ciò che viene detto dai personaggi non è necessariamente il mio pensiero e non è detto che lo condivida. Le restanti coincidenze con persone, luoghi, fatti esistenti sono puramente casuali.

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Capitolo 1

 OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO

 
 
Monia distese tutti e quattro gli arti, tendendoli al massimo della loro elasticità sotto il piumone, con il rischio di ritrovarsi bloccata dai crampi. Ne riemerse con un gemito mentale di soddisfazione, che si tradusse in sonorità quando sfiorò la spalla della persona alla sua sinistra.
Decise che non sarebbe stato necessario svegliare la leggiadra creatura che russava al suo fianco, dunque zampettò in deshabillé fino al bagno. Si sciacquò la faccia, sfregandola con energia: nemmeno questa notte aveva avuto troppo tempo per dormire. Si domandò se la ragazza del quarto piano fosse davvero arrabbiata con lei, dato che verso le quattro una scarica di colpi aveva fatto tremare il suo pavimento. Era dispiaciuta – ma nemmeno troppo – eppure non poteva farci nulla: la sua compagna di letto era sempre così rumorosa. E chi era lei per negarle un po’ di piacere?
Indossò mutande, reggiseno e maglietta puliti, freschi di lavatrice, per poi accingersi a riempire la caffettiera di polvere di caffè. Qualcosa di forte la mattina presto era l’ideale, siccome nel giro di un’ora avrebbe dovuto presentarsi in università.
La stanza da letto era ancora immersa nella penombra, dunque Monia si aggrappò alla corda in nylon che permise al rullo di avvolgere rumorosamente la vecchia tapparella polverosa, lasciando così la luce del sole pervadesse la stanza.
«Buongiorno!», chiamò a gran voce. In risposta le giunse solo un gemito disperato, poi la ragazza si infilò sotto alle coperte con tutta la testa. Monia rise, ignorandola apertamente, per poi tornare ai suoi preparativi rituali.
Stava giusto buttando il contenitore vuoto dello yogurt nell’immondizia, quando Ambra fece la sua comparsa sulla soglia, il dorso della mano che sfregava pigramente sull’occhio sinistro e la bocca contratta in una deliziosa smorfia imbronciata.
«Guarda che anche tu hai un’università da frequentare», le ricordò Monia avvicinandosi alla piacevole apparizione.
«Storia del diritto non sarà mai attraente quanto te…»
«Non ci provare nemmeno, dovrai aspettare questo pomeriggio», la ammonì puntandole contro l’indice, per poi scivolarle accanto in direzione del bagno. La sua mano destra scivolò distrattamente sul gluteo di Ambra che non trattenne un risolino.
«Moni...»
«No, Ambra, sul serio, è la volta buona che la pazza di sotto viene su e ci sfonda la porta», rise chiudendosi a chiave in bagno, sorda alle proteste della sua ragazza.
 
Non era fisicamente possibile reggere un ritmo del genere: la prima cosa che fece Zoe quella mattina fu appuntarsi in cima alla lista della spesa tappi per orecchie. Se la gestrice del Bordello del quinto piano – come aveva iniziato a chiamarlo tra sé – e i suoi infaticabili amici non avevano intenzione di dormire, be’ lei era decisamente certa di volerlo. Dunque, siccome non poteva interferire con i loro cicli d’accoppiamento poteva però difendersi da essi. Quella notte era stata svegliata più o meno verso le quattro da gemiti disumani e tonfi animaleschi. Era stufa marcia della situazione così aveva tirato fuori la scala dal suo ripostiglio, l’aveva aperta nel mezzo della sua camera da letto e ci si era arrampicata sopra, poi aveva iniziato a prendere a pugni il soffitto. Per qualche istante era calato il silenzio e lei si era ingenuamente illusa – non senza un briciolo di profondo orgoglio – che avessero avuto il buongusto di rendersi conto che l’intimità si chiama così per un motivo. Invece no, la chiassosa danza era ripresa quasi più intensa di prima. Aveva digrignato i denti con tanta forza da farli scricchiolare sinistramente; si era dunque fiondata in cucina per recuperare la scopa e aveva così iniziato a tormentare di botte il soffitto. Era andata avanti per minuti interi, i muscoli delle braccia in fiamme per lo sforzo e la furia, il fiato grosso da toro. Furiosa, ecco cos’era: quella licenziosa inquilina le stava causando spiacevoli disturbi del sonno da quando si era trasferita.
Magicamente, il rumore si era affievolito fino a sparire e lei aveva tirato un profondo sospiro di sollievo: si era addormentata con la scopa ai piedi del letto e la scala ancora aperta in mezzo alla stanza.
Alle nove e mezza era in piedi con due borse violacee sotto gli occhi e i capelli biondi che la facevano assomigliare ad uno spaventapasseri. Si era trascinata come uno zombie nelle sue ciabatte orchesche fino al tavolo della colazione, dove aveva affogato la frustrazione in una tazza di cereali dietetici. Si riattivò con una doccia rapida, indossando calzoncini e maglietta, poi scese le scale per ritirare la posta del giorno prima, che aveva consapevolmente lasciato nella buca, troppo affamata per prestarle attenzione.
Saltellò per le scale – le inseparabili ciabatte sempre ai piedi – fino al pianoterra, dove aggredì la cassetta della posta con l’etichetta color ottone Schneckener – Baudino.
«Non puoi capire quanto è divertente, sul serio: hai presente quando facevi bere il caffè al criceto di tua sorella? È uguale! Tutta tesa, occhi enormi…»
Zoe tese l’orecchio: qualcuno stava scendendole scale, presumibilmente parlando al telefono. Gettò via le pubblicità con le offerte di vari supermercati della zona, il biglietto da visita di un negozio di articoli erotici e un periodico per i donatori di sangue.
«Non capisci, la voglio, è meravigliosa! Poi senti qua…», la voce della ragazza era sempre più vicina, «Alda Beccaria che come il pane la dà via. Pensi che se mi presentassi alla sua porta declamandole questi versi d’amore lei me la…». La ragazza ammutolì non appena la punta dei suoi sandali toccò il pianoterra. Gli occhi di Zoe incrociarono quelli della ragazza che si era appena zittita, rendendosi conto di essere udita da una sconosciuta.
«Ciao», la salutò cortesemente Zoe, sventolando una lettera arrivata dalla banca.
«Eh, eh… ciao». La ragazza fuggì nell’androne e poi nel cortile, cellulare premuto contro la guancia, lasciando dietro di sé una scia di grugniti tra cui Zoe riconobbe senza fatica qualche invocazione blasfema.
Possibile che oltre a vecchie signore che la scambiavano per la sua zia ultraquarantenne, in quell’appartamento vivessero solo ragazze strane?
Scrollando la testa, buste importanti alla mano, risalì le scale: era una persona attiva e sportiva, mai avrebbe preso l’ascensore per raggiungere il quarto piano, nemmeno nella più estrema delle condizioni – come ad esempio un trasporto tempestivo di un pacco da sei bottiglie d’acqua dalla capienza di due litri l’una.
Era appena sbarcata sul pianerottolo del secondo piano, quando aveva udito una voce femminile bisbigliare. «È pazza, te lo giuro, ho paura… No! Io non sono paranoica o apprensiva, né tantomeno psicolabile. Tu non hai sentito cosa diceva, contro chi imprecava!», sibilava la voce. Zoe sospirò alzando gli occhi al cielo, per poi continuare la salita. Incrociò poco dopo la proprietaria della voce, una ragazza con lunghi ricci castani e tondi occhi scuri spalancati che sussurrava in un cellulare compatto dall’aria vissuta.
«Ciao», salutò nuovamente con un sorriso cordiale.
«Ciao», squittì quella trasalendo nervosa, poi fuggì di corsa al pianterreno.
Sì, un condominio di psicopatiche oltre ogni ragionevole dubbio.
 
Anita era coricata sul tappeto nell’ingresso, gli arti allargati in modo tale da essere iscritti in un cerchio come nel famoso disegno delle proporzioni anatomiche ideali. Strano ma vero, stava riflettendo sulla sua tesi di laurea, motivo per cui si era alzata alle sette di mattina e fino alle nove non aveva concluso nulla. Sedersi davanti ad un foglio bianco era deprimente. Perché non si riempiva da solo, magari correggendosi anche automaticamente? Perché non aveva l’Idea, quella geniale intuizione spontanea che ti porta entusiasmo e soddisfazione? Era in balia della banalità quotidiana e ne soffriva.
Decisa che nutrire il ciprino dorato sarebbe stato qualcosa di molto più utile alla collettività di un cadavere sul tappeto. Tredicesimo guizzava beffardo nella sua boccia d’acqua pulita.
«Tieni, sgorbietto», borbottò affettuosamente Anita distribuendo il mangime sulla superficie dell’acqua.
Aveva iniziato l’esperimento il primo giorno in cui si era trasferita in quell’appartamento. Quanti pesci rossi sarebbero sopravvissuti alla sua carriera universitaria?
Primo era vissuto felicemente due mesi, poi era balzato fuori dalla boccia in un momento d’assenza di Anita, che l’aveva trovato, ormai spirato, spalmato sul pavimento della cucina come una fetta di salmone crudo. Secondo, invece, le era durato quasi un anno, il ciprinide più longevo di tutti. Sapeva che quelle bestiole possono vivere diversi anni anche in un acquario domestico, eppure i suoi pesci sembravano divertirsi a morire a ritmo sostenuto. Dunque una settimana prima aveva acquistato Tredicesimo, giusto in tempo per iniziare la tesi di laurea.
Tredicesimo iniziò ad ingurgitare il mangime con la bocca che si apriva e chiudeva ritmicamente sul pelo dell’acqua, le morbide pinne che sbattevano pigramente lungo il corpo lucido per mantenere la posizione.
Sospirando, Anita lo abbandonò alla sua occupazione. Siccome preferiva agire piuttosto che indugiare pigramente sperando che la tesi si sarebbe scritta in autonomia, decise che era tempo di buttare la spazzatura. Si caricò in spalla il sacco della plastica, poi strinse tra le braccia lo scatole colmo di carta, non prima di essersi appesa al polso un sacco con le bottiglie e i barattoli di vetro.
Uscì di casa carica come un mulo e chiamò l’ascensore con il gomito. Vi si infilò dentro appena lampeggiò il segnale verde sulla pulsantiera collocata sul muro accanto alla porta. Dentro la cabina doveva essere passata un uomo impregnato d’acqua di colonia, Anita storse il naso cercando di non respirare. Aprì la porta con un piede, saltellando fuori con una certa difficoltà.
«Non posso urlare, qua si sente tutto, i vicini sono pettegoli… le orecchie hanno i muri! Cioè, i muri… No, non sto facendo il melodramma, te lo giuro!», protestò una vocina concitata che Anita riconobbe: l’aveva sentita il pomeriggio precedente nell’ingresso dell’appartamento di Anne.
«Alda?», domandò quando vide la riccia bisbigliatrice pararsi di fronte a lei, in cima all’ultima rampa di scale.
«Oh, ciao», sussurrò. Poi si schiarì la voce, ripetendo il saluto ad un tono di voce udibile.
«Buona giornata», le augurò Anita mentre Alda la superava, telefonino stretto in mano e ansia nei movimenti.
«Ehm, anche… anche a te!», poi fuggì di corsa oltre il cortile, spalancando con foga il cancelletto e correndo lungo il marciapiede. Sparì all’angolo con via Cesare Musatti.
Anita rimase alcuni secondi interdetta a riflettere su ciò che aveva appena visto, indecisa se apparire sconvolta o rassegnata. Magari avrebbe atteso il ritorno di Nora e Lucia per andare a rifugiarsi a casa loro, tra paste dolci e tazzine di tè, a lamentarsi della tesi che proprio non voleva saperne di scriversi e a progettare qualcosa di emozionante per il prossimo weekend. Le due ragazze avevano un anno meno di lei, eppure Anita le considerava come madri e si sentiva davvero una bambina capricciosa quando si intrufolava tra loro due sul divano la sera, spaparanzate di fronte ad un film romantico o d’azione. Erano la sua famiglia adottiva.
 
Terribile, si era scordata di comprare l’ortica. Domandandosi dove avesse lasciato la testa quella settimana, controllò di stare indossando abiti presentabili – una paio di pantaloni sportivi e un’anonima maglietta bianca erano meglio di quanto si era aspettata – e poi uscì sul pianerottolo. Suonò il campanello della dirimpettaia, supplicando mentalmente qualcuno affinché facesse in modo che Zoe avesse dell’ortica tenera nella dispensa.
«Chi è?», voce attutita oltre porta.
«Sara», cinguettò la ragazza continuando a sperare intensamente.
«Buongiorno», esalò Zoe e Sara notò immediatamente le borse sotto gli occhi. Stava appunto riflettendo su quanto sarebbe stato irrispettoso farglielo notare che quella la precedette riassumendo una lunga notte di sofferenza in quattro parole. «Bordello del quinto piano».
Sara sospirò scrollando le spalle. Era in quei momenti che ringraziava di trovarsi nella parte destra: dall’appartamento sopra il suo non si sentiva volare una mosca. A volte le veniva il sospetto che fosse disabitato: né un tonfo, né una parola a voce troppo alta. Meglio per lei, dopotutto.
«Hai… sei venuta qua per qualche motivo?»
«Ah, sì, giusto! Ehm… ortica, hai dell’ortica?»
«Eh?!»
«Ortica, altra erba…», ridacchiò Sara.
«Io… so cos’è l’ortica, con tutte le volte che ci son rotolata dentro per sbaglio… Ma tu sei un essere umano o un ruminante con quattro stomaci?». Per l’ilarità di Sara, Zoe era molto perplessa.
«Hai mai sentito parlare del risotto alle ortiche?»
«Ah… ma perché non ti fai una pasta con sugo rosso e tonno?», inquisì nuovamente squadrandola con sospetto.
«Perché non ti fai un risotto alle ortiche?», ribatté Sara incrociando le braccia.
«Perché è già un traguardo se faccio una pasta al pesto, ecco perché».
Sara rise di nuovo. «Perfetto, penso che andrò un momento al supermercato… Allora buona giornata!»
«Fai attenzione a mangiare cose strane, neh… Divertiti!», le augurò Zoe ridendo per poi trincerarsi nuovamente dietro la porta blindata.
Sara rientrò in casa per recuperare il portafoglio, sperando che contesse anche qualche banconota oltre agli abitudinari ragni con rispettive tele. Quando fecero capolino dieci euro, la ragazza esultò per la soddisfazione, poi si fiondò giù per le scale troppo iperattiva per attendere l’arrivo di quello stupido ascensore che ultimamente non faceva altro che bloccarsi all’ottavo piano.
«Buongiorno!», cinguettò felice ad una ragazza dai corti capelli scuri che incrociò al terzo piano.
«Salve», replicò quella sorpresa da tanto buonumore.
Premette il pulsante d’apertura della porta d’ingresso, pregustando l’aria fresca del mattino. Uscì respirando a pieni polmoni e stava per chiudersi la porta alle spalle quando un colorito richiamo la fece desistere dall’intento.
«Porco cazzo, no!», una ragazza con una spessa frangia castana, i lunghi e lisci capelli della medesima tonalità erano raccolti in una coda di cavallo.
«Ti lascio…», Sara non poté nemmeno terminare la frase che venne travolta da quell’uragano in jeans e camicetta svolazzante.
«Prego, eh!», le ringhiò dietro ma quella pareva non averla nemmeno sentita. «Fuori di testa, assolutamente fuori di testa».
 
Anne constatò con orrore che l’ascensore era occupato. Augurando ad ogni condomino un viaggio di sola andata nei più disparati gironi infernali, iniziò a salire le scale, quelle maledettissime scale. Aveva dimenticato gli assorbenti di ricambio sul mobile del bagno e senza di essi i suoi jeans si sarebbero trasformati presto in bersagli da cento punti per freccette, o in calamite per tori.
«’Giorno», borbottò incarognita alle due ragazze che incrociò al secondo piano. Stavano confabulando circa lo zerbino.
«Io pretendo di averne uno con i gatti», stava dicendo una delle due.
«Nemmeno per sogno, ci deve essere qualche frase crudele scritta sopra». Non lo disse, ma lei avrebbe preferito una pacchianata natalizia da esporre con particolare orgoglio, soprattutto a Ferragosto.
«Ciao!», esclamarono quelle in coro seguendola con lo sguardo. «Senti, abbiamo bisogno di un parere», le disse improvvisamente la ragazza dagli occhi verdi.
«Ehm… ditemi, ma in fretta perché sono in ritardo per la lezione», concesse tentando di nascondere l’irritazione dietro un sorriso di plastica.
«Non stai andando dalla parte sbagliata?», domandò l’altra ragazza con aria perplessa.
«Prego?», chiese chiarimenti Anne oltremodo scocciata.
«Se stai andando a lezione perché sali le scale?»
Anne aprì bocca per mandarla al diavolo, poi la richiuse. La riaprì solo per rispondere nella maniera più cortese che la sua insofferenza le concedeva. «Mi sono accorta di aver dimenticato una cosa in casa dopo aver percorso con il pullman parte del tragitto».
«Ah…»
«Allora non ti facciamo perdere altro tempo, saremo rapide. Lo zerbino, insomma lo specchio dell’anima: gatti o frase sarcasticamente crudele?»
«Perché non una bella frase scabrosa? È molto più divertente».
«Mmh, ottimo», annuì la ragazza delle domande esistenziali, mentre la tizia con gli occhi verdi annuiva.
«Be’, grata di esservi stata d’aiuto, ora devo proprio scappare», tentò di liquidarle con grazia.
«Certo, certo… è stato un piacere…», intuì che le stava chiedendo il suo nome.
«Anne, io sono Anne».
«Sei straniera?! Ci deve essere anche un tedesco perché ho visto un cognome strano sul…»
«Mia mamma è inglese, mio papà decisamente italiano dato che di cognome faccio Quaglia».
«Perdonala, averla intorno è come dover gestire una bambina di tre anni. Io comunque sono Irene, l’infante è Tallia», presentò se stessa e l’amica la ragazza dagli occhi chiari.
«Scusate ma devo davvero fuggire. Irene, Tallia, alla prossima», e con quella frase voltò loro le spalle e riprese la scalata seguita dai loro saluti e auguri di buona giornata.
«Ci mancavano solo le due mogliettine e il zerbino», ringhiò aggrappandosi al corrimano.
 
Filippo rientrò in casa quella sera all’una di notte passata: era reduce da uno spossante torneo di Munchkin disputato a casa di amici, dal quale era uscito vincitore assoluto nonché marchiato come giocatore più culato della serata. Stava salendo le scale – abitando al secondo piano riteneva ridicolo prendere l’ascensore, nonostante quello ammiccasse la sua presenza al pianterreno tramite la luce verde –quando udì dei rumori a lui familiari ma decisamente fuori luogo considerando dove si trovava. Perplesso s’avventurò in punta di piedi  finché notò con un misto d’orrore ed eccitazione due ragazze che amoreggiavano coricate sulle scale senza alcun ritegno. Erano entrambe innegabilmente attraenti, specialmente la ragazza più minuta, dotata di una enorme massa di fitti ricci scuri; i capelli dell’altra tendevano al ramato ed erano lisci come spaghetti. Avrebbe dovuto scavalcarle per raggiungere il suo appartamento. Scavalcarle. Si avvicinò tossicchiando. Non era certo che le due l’avessero ignorato di proposito, eppure parevano non essersi nemmeno accorte della sua presenza. Decise dunque, il palmo di una mano contro il muro per non rischiare di perdere l’equilibrio e rovinare sulle due amoreggiatrici, di aggirarle con circospezione. Un passo dopo l’altro le superò, lasciandosele alle spalle.
Che fosse la fantomatica inquilina del quinto piano?
Raggiunto finalmente il pianerottolo notò che Irene e Tallia, le sue dirimpettaie, avevano uno zerbino nuovo di zecca che recitava: Tits or GTFO[1]. Iniziò a nascere in lui la forte sensazione d’essere circondato.



[1] Cioè Tits or get the fuck out, ovvero “tette o fuori dalle scatole” è un invito a mostrare il seno o ad andarsene! Molto, molto grazioso. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Se scrivo capitoli più lunghi di sei, sette pagine aggiornerò una volta ogni morte di papa. Dunque sono giunta alla profonda, illuminante conclusione che i capitoli non saranno molto lunghi così potrò aggiornare più rapidamente! 
D'ora in poi inizierà la storia vera e propria, qua abbiamo un primo gruppo di personaggi tra loro sconosciuti che inizia ad interagire tra loro... Buona lettura!


Avvertenze: alcune informazioni circa queste persone non sono esatte, dunque non prestatevi interamente fede! Inoltre, ciò che viene detto dai personaggi non è necessariamente il mio pensiero e non è detto che lo condivida. Le restanti coincidenze con persone, luoghi, fatti esistenti sono puramente casuali.
 

***



Capitolo 2

 

IN ROTTA DI COLLISIONE, parte 1

 
 

8.15 a.m.

 
Se il buongiorno si vede dal mattino, quel giorno sarebbe stato orribile: uno dei criceti di Antonia era fuggito in maniera inspiegabile dalla gabbietta.
«John, dove sei finito? John, vieni fuori!», strepitava Antonia precipitandosi a rotazione nelle tre stanze che componevano il suo appartamento, scivolando sul marmo lucido e mantenendo l’equilibrio sempre per un pelo.
«John?!», si tuffò pancia a terra accanto al letto per ammirare la distesa di palline di polvere che popolava il pavimento sotto il mobile.
«John?!», sollevò il divano stringendo i denti e tendendo i muscoli delle braccia, uno sforzo notevole per lei che aborriva qualsiasi forma di mobilitazione fisica.
«John?!», aprì il frigorifero, contemplando assorta una triste fetta di groviera che giaceva solitaria nella vaschetta dei formaggi. 
John non era un criceto qualsiasi, era il suo adorabile cricetino mannaro, quello che divorava le sbarre della gabbietta costringendola a cambiarla periodicamente, quello che qualche mese fa aveva sventrato il suo sventurato coinquilino, il povero Sherlock. Era un bestiola vivace, come amava definirla Antonia.
«Tesoruccio, vieni dalla mamma!»
La ragazza tornò nell’ingresso, dove rovesciò  il portaombrelli nella speranza di trovarlo lì dentro: ne rotolò fuori una cimice mummificata, ma nessuna traccia del suo adorato animaletto; nella stanza da letto sradicò piumone e coprimaterasso sventolandoli furiosamente per la stanza, senza pensare che se il dolce John si fosse realmente trovato lì dentro sarebbe stato scaraventato e spiaccicato contro il muro; in bagno aprì le porte scorrevoli della doccia e finalmente individuò quella palla di pelo. John si voltò, spalancando i tondi occhi scuri: era seduto su un barattolo di bagnoschiuma, nella cui plastica aveva praticato un foro e si preparava a farlo interamente a pezzi.
«Piccolino, cosa pensavi di combinare? Sei proprio un bricconcello…», gli sussurrò Antonia con tono melenso, sollevando il criceto all’altezza degli occhi. Lo ripose nella gabbia, premurandosi di controllare sbarra per sbarra che non si fosse aperto alcuna via di fuga.
«A causa tua arriverò tardi a lezione», gli disse afferrando la sacca con i quaderni per le materie di quel giorno, analisi matematica I e chimica. Uscì di casa sperando di ritrovarlo ancora lì al suo ritorno.
 

17.30 p.m.

 
Il condominio era silenzioso quando Alda Beccaria mise il naso fuori dalla porta. Quel giorno era rientrata da lezione subito dopo pranzo e aveva deciso che non avrebbe dormito sonni tranquilli finché non avesse acquisito un sufficiente livello di conoscenza di ogni inquilino della scala D, che non significava certamente introdurre la propria persona porta a porta, ma calarsi nei panni della stalker e indagare su ognuno di loro.
Lei viveva al settimo piano, dunque sarebbe stato opportuno iniziare dal nono e procedere in discesa. Stranamente l’ascensore lampeggiava un beffardo segnale di occupato, Alda era sicura che l’avrebbe trovato bloccato all’ottavo piano e infatti non sbagliò. Salì ulteriormente fino al nono e lì iniziò la sua ricerca.
Aveva già pensato ad un’ottima giustificazione nel caso in cui l’avessero trovata a gironzolare come un’untrice per i pianerottoli altrui: scusi il disturbo ma ho urgentemente bisogno di due etti di farina, stavo per suonarle il campanello!
Il teatrino del vicino sprovvisto di generi alimentari funzionava sempre e lei avrebbe guadagnato anche due etti di farina. Non che sapesse realmente cosa farsene ma a caval donato non si guarda in bocca, no?
L’esterno dell’appartamento sulla destra era alquanto ordinario: zerbino marrone monocromatico che metteva tristezza solo a vederlo, cognomi tipicamente torinesi e nessun altro indizio significativo. Alda estrasse il suo taccuino aprendolo ad una pagina bianca: scrisse in stampatello “nono piano”, poi riportò i nomi della coppia probabilmente ultrasettantenne e ritenne che fossero innocui, dunque assegnò loro un rating verde.
Sulla sinistra, invece, vi era uno zerbino multicolore su cui erano disegnate delle musiciste disegnate in stile manga, con tanto di divisa scolastica; ciò le suggerì immediatamente che fosse abitato da studenti, o comunque ragazzi giovani: dunque le due strambe dei dolcetti dovevano vivere lì. Greca, Saponaro, si appuntò con precisione e stabilì per loro un rating arancione: non che le fossero dispiaciute le meringhe, ma erano troppo amiche della sua dirimpettaia pazza.
Ridiscese di un piano e studiò l’appartamento sulla destra: un paio di scarpe da ginnastica abbandonate accanto ad uno zerbino color prato. Il citofono riportava un solo nome, Fumagalli. Si avvicinò in punta di piedi all’altra porta: al posto dello zerbino alcune pagine di cataloghi offerte del Lidl erano state allargate per terra, due cognomi evidentemente stranieri sul campanello. Decise che Anita doveva vivere da sola, dunque appuntò prima i cognomi stranieri contrassegnandoli dal rating verde poi stabilì che accanto a Fumagalli avrebbe dovuto segnarsi un rating arancione, tanto per precauzione.
Sospirando, tornò al settimo piano, da cui era partita.
Anne Quaglia viveva da sola, un paio di sandali giacevano fuori dalla porta e lo zerbino era una di quelle pacchianate con su scritto “Due cuori e una capanna”. Sul taccuino riportò un pericolosissimo rating rosso.
Fuggì rapidamente al sesto piano, dove si limitò ad assegnare due rating verdi: la combinazione di nomi e zerbino non le suggeriva presenza giovanili su quel piano.
Al quinto piano, se un appartamento meritò un rating verde per la sua tranquillità, quando si avvicinò a quello di sinistra rimase pietrificata: gemiti disumani scuotevano la porta d’ingresso. Alda spalancò i grandi occhi scuri indietreggiando. Qualcuno là dietro stava… copulando! E con fin troppa enfasi! Non che Alda fosse un’esperta, ma a livello teorico nessuno la batteva: si era fatta una cultura non indifferente tra una fanfiction e l’altra, per non parlare delle amiche ninfomani che parevano divertirsi molto nel descriverle le loro peripezie sessuali.
Tornò ad avvicinarsi con cautela, quel tanto che le bastava per poter carpire il nome sul campanello: Cannizzaro.  Un nuovo ciclo di urla e gemiti la fece rabbrividire. Fece uscire di scatto la punta della biro e si annotò un rating estremamente rosso accanto a quel nome.
Zampettò fino al quarto piano, felice di essere sopravvissuta fino a quel momento senza intoppi. Riconobbe immediatamente il cognome sulla destra: le pazze dei dolcetti avevano detto che al quarto piano una Sara Pitton si era trasferita il giorno prima di lei, dunque l’aveva individuata. Apparentemente era innocua, dunque le abbuonò un rating verde. Il campanello sulla sinistra riportava un cognome presumibilmente tedesco e uno tipico torinese. Che fosse l’ennesima coppia di vecchi? Stava per annotarsi un rating verde quando la porta si aprì.
«Scusi il disturbo ma ho urgentemente bisogno di due etti di farina, stavo per suonarle il campanello!», esclamò tutto d’un fiato, tentando di infilare a forza il taccuino in una delle finte tasche dei suoi pantaloni. Aveva appena trovato la falla nel suo piano perfetto, dannazione. Sperò che la ragazza sciatta che aveva di fronte non se ne accorgesse.
«Qualcuno è abbastanza autosufficiente da farsi la spesa?», indagò quella sospettosa.
«Prego?», esalò Alda ridacchiando. Non era la reazione che s’era aspettata.
«Vuoi questa farina sì o no?»
«Ehm, sì… due etti», precisò tentando di assumere un cipiglio compunto.
Zoe fece segno alla ragazza di entrare nell’appartamento, scostandosi dall’uscio. L’aveva riconosciuta: era la pazza che sibilava al telefono lamentandosi degli altri inquilini, si erano incrociate sulle scale giusto qualche giorno prima.
«Ti chiedo scusa per il disturbo».
«Nessun problema, non stavo facendo nulla di importante…», borbottò la proprietaria dell’appartamento, chinata su un ripiano della credenza.
«Ti stavi facendo i capelli?», domandò Alda sollevando la piastra che giaceva sul tavolo, il filo srotolato sul pavimento fino alla presa di corrente.
«Attenta, è calda. Stavo cercando di rendermi presentabile per questa sera». Finalmente Zoe riemerse dalla credenza con un pacchetto di farina. «Cerco la bilancia da cucina», disse poi spostandosi verso l’angolo cottura.
«Sì, sono un’esperta nell’arte della piastra», constatò Alda portandosi davanti agli occhi i polsi e le mani decorati da vecchie ustioni.
«Davvero?! Io faccio pietà, sono ontologicamente inetta in queste cose. Facciamo così: io ti do quella farina se tu mi piastri i capelli».
«Ma li hai già lisci…»
«Sono elettrici, storti», precisò Zoe che finalmente aveva recuperato un bilancino.
Alda le osservò i capelli mentre la ragazza faceva cadere la farina nella vaschetta della bilancia. «Se sono elettrici è meglio che non li piastri. Perché non ti fai un treccia?»
«Mmh, potrebbe anche essere un’idea… Ci siamo, due etti!», esultò Zoe. «Te la metto in un sacchetto».
«Però per la treccia non chiedere a me», sospirò sconsolata la ragazza.
«Ah, tranquilla, sono capace da sola».
«Davvero?! Ti piastrerò i capelli ogni volta che vuoi se mi insegni a farmi una treccia!», esclamò con enfasi Alda, lasciando andare la piastra; saltò addosso a Zoe, iniziando a scuoterle le spalle. «Sono un caso disperato, non puoi rendertene conto. Io, che sono così fine e abile nelle arti femminili della vestizione elegante e di classe, del trucco e delle acconciature adeguate per ogni occasione! Devo avere avuto un trauma da piccola, forse una botta in testa… Nemmeno i tutorial su YouTube hanno potuto salvarmi da questa calamità! Tra l’altro quando digiti “come farsi” il primo complemento oggetto che completa la frase è “una ragazza”, che squallore. Dovrei mettere su un’agenzia di appuntamenti per insegnare ai ragazzi a mettersi il deodorante e alle tredicenni a non vestirsi da battone. Sto andando fuori tema, dicevo della treccia? Ah, certo. Il dramma, l’orrore!»
«Farò tutto quello che vuoi, va bene?!» , strepitò Zoe scollandosi la vicina di dosso e ponendo fine al suo folle monologo. Le girava la testa.
«Dimmi che sai fare quella alla francese», sussurrò Alda con voce supplicante.
«Ovviamente…». Zoe non aveva nemmeno finito di parlare con un possente squittio le trapanò il cervello: la ragazza aveva iniziato a saltellare per la sua cucina.
«Okay, ehm… ne hai bisogno… ora?», domandò con molto tatto tentando di liberarsene con mezzi pacifici.
«No, certo che no. Direi in un futuro prossimo»
«Non per altro, ma mi stavo preparando per la serata…»
«Hai davanti a te la migliore consulente di buongusto in fatto di moda. Uscita con gli amici? Appuntamento galante?».
Zoe sospirò rassegnata: aveva ormai realizzato che non si sarebbe liberata dell’invadente ragazza con molta facilità, quindi si rassegnò ad assecondarla; forse avrebbe potuto realmente darle una mano, alla fine la sua visita avrebbe potuto rivelarsi provvidenziale.
«A-appuntamento», tossicchiò imbarazzata.
Un nuovo squittio le ferì i timpani. «Oddio, che bello, che gioia! Delizioso!»
«Eh… sì»
«Mostrami l’armadio», ordinò Alda improvvisamente fattasi serissima e professionale. Alzando gli occhi al cielo, Zoe la condusse nella sua camera da letto.
«Perché c’è una scala in mezzo alla stanza? Fa male al flusso di energia che deve circolare libero per la casa», puntualizzò Alda storcendo il naso accanto all’oggetto.
«È una lunga storia… Senti, questo è l’armadio. Di solito non mi vesto in modo molto elegante, inoltre è un appuntamento abbastanza informale, quindi…»
«Cos’è questa roba?», la interruppe Alda che aveva appena spalancato le ante dell’armadio in legno antico.
«Il mio… guardaroba», mormorò Zoe mortificata.
«Non c’è nulla che faccia pendant!», strillò scandalizzata la ragazza, gli occhi spalancati dal terrore.
«Davvero?», domandò Zoe perplessa, tentando di sbirciare nell’armadio sopra alla spalla di Alda.
«Okay, niente panico. Devo respirare profondamente. Sarà più difficile del previsto».
Zoe sollevò gli occhi al soffitto per l’ennesima volta con una forza tale che temette di non sentirli più tornare giù.
«Io pensavo di mettere quei jeans con la camicetta viola e un pullover nero…»
«Un… appuntamento… con… Oddio, sto iperventilando». Alda si sventolò una mano davanti al viso, gli occhi chiusi e la bocca aperta in una smorfia di sofferenza, mentre Zoe la osservava preoccupata.
«Anzitutto, che scarpe hai?»
«Queste», rispose Zoe indicando un paio di converse color jeans decisamente stazzonate.
«Quelle», ripeté Alda con voce tremante. «Codice rosso…», in quel momento Alda si rese conto di non conoscere nemmeno il nome della ragazza nel cui armadio stava frugando senza pietà.
«Prego?»
«Come ti chiami?»
La proprietaria dell’armadio dal contenuto innominabile tentò di non farsi scappare la mandibola e rispose spremendo quelle tre briciole di cortesia che aveva in corpo: «Zoe Schneckener».
«Molto onorata, io sono Alda Beccaria. Ora capisco molte cose…»
«Cioè?»
«Be’, senza offesa, ma è risaputo che i tedeschi non sanno vestirsi. Detto ciò, hai la fortuna di avere accanto a te la migliore, colei che è in grado di vedere oltre, l’unica, l’impareggiabile…»
«Sì, grazie Wonder Woman, ho delle speranze di uscire di casa questa sera o è meglio che me ne resti rintanata sperando che i miei abiti subiscano autonome metamorfosi?»
«Quanto vuoi far colpo?»
«Non lo so nemmeno io. Cioè, boh… dovrei comunque essere carina, suppongo».
«Mmh, devo riflettere», mormorò Alda continuando a contemplare il contenuto dell’armadio, passando in rassegna i capi di vestiario appesi sulle grucce e quelli piegato con cura sui ripiani.
Zoe sospirò, andando a sedersi sul suo letto. Aveva appena posato il sedere sul materasso che il campanello trillò.
«Vado un momento ad aprire», disse raggiungendo la porta. La sua nuova consulente di buongusto non pareva averla nemmeno sentita.
«Ciao!», trillò Sara Pitton sfoderando un sorriso smagliante.
«Ciao! Ho comprato ortica, timo, basilico, salvia, crescione, menta, rafano, zenzero, erba cipollina e tarassaco, spero di avere ciò di cui hai bisogno», sciorinò Zoe appoggiandosi allo stipite della porta. Sara scoppiò a ridere.
«Vedo che ti sei fatta una cultura».
«Mai più impreparata», sentenziò.
«Veramente volevo chiederti se avevi semplicemente del dado».
«Dado?», esalò sconsolata Zoe.
«Non quello a sei facce, sai… per il brodo», sghignazzò Sara.
«Io… so cos’è il dado!», protestò a gran voce. «No, non ne ho, mi dispiace».
«Zoe, forse ci sono!», strillò Alda dalla camera da letto.
«Oh, hai ospiti, ti chiedo scusa non me n’ero accorta».
«Veramente sono ospiti autoinvitati… vuoi entrare o devi cucinare il tuo brodo?»
«Qualche occasione speciale?», s’informò Sara varcando la soglia.
«Una specie di appuntamento…»
«Oh, be’… buona fortuna», le augurò la dirimpettaia.
Nella camera da letto, Alda aveva adagiato sulla scrivania un paio di jeans chiari e una camicetta bianca.
«Lei è Alda, la mia nuova consulente in fatto di abiti». Le due ragazze si strinsero la mano, presentandosi a vicenda.
«Ma… tu vorresti farle mettere quella roba per un appuntamento?!», esclamò Sara sconvolta.
«Non so se hai visto il suo armadio…», sussurrò Alda con aria addolorata. La dirimpettaia si fiondò tra i suoi vestiti frugando senza tante cerimonie. «Mio Dio…», mormorò dopo esserne riemersa. «Ora capisco».
«Pronto? Io sono ancora qui, neh», s’indispettì Zoe incrociando le braccia.
«Tesoro, tu non preoccuparti, le tue zie ora pensano a tutto quanto», disse Sara costringendola a sedersi nuovamente sul letto. Le diede un buffetto sulla guancia come per rassicurarla, poi tornò all’armadio con Alda.
«Non ha una maglietta un po’… carina, magari blu?»
«Io avevo pensato al grigio chiaro, ma non ha nessuna delle due, almeno non quello che noi intendiamo per maglietta carina».
«Be’ questa non è male, ma va messa con dei pantacollant come minimo e qua non ne vedo».
Entrambe trattennero il fiato alla prospettiva di dover indossare quella maglia senza il sopracitato capo d’abbigliamento.
«Agghiacciante», rabbrividì Sara.
«Mi piace come la pensi».
«Cara, hai fatto un ottimo lavoro», sentenziò infine Sara, concedendo ad Alda di aver trovato un abbigliamento vagamente elegante.
«Lo so, lo so».
Zoe grugnì, osservandole obliquamente.
 

20.00 p.m.

 
Filippo era appena rientrato in casa dopo un lungo pomeriggio trascorso in aula studio gobbo sui libri quando avvertì un rumore strano. Si immobilizzò trattenendo il fiato e tese l’orecchio: di nuovo quel rumore.
«C’è qualcuno?!», esclamò immediatamente sudando freddo; eppure nessuna risposta, il buio della casa taceva. Allungò un braccio strisciandolo contro la parete alla ricerca dell’interruttore, il pulsante sgusciò finalmente tra le sue dita e il corridoio venne inondato dalla luce delle applique. Si richiuse la porta alle spalle, posando lo zaino lì dove si trovava, poi tentò di seguire il rumore fino alla sorgente.
Non capiva da dove provenisse esattamente, pareva ovunque. Quando entrò in cucina però si rese conto che lì era più debole, allora tornò nell’ingresso e si diresse nella stanza che aveva adottato come base. Eccolo, il rumore era più chiaro che mai.
Gironzolò per la stanza, i sensi all’erta, pronto a scattare al primo segnale, ma niente, non riusciva proprio a capire che cosa stesse producendo quel suono.  
Si avvicinò cauto alla scrivania dove il computer portatile rifletteva il suo volto distorto. Spostò il mouse e le casse, scosse la sveglia e alcuni libri, ma nulla. Si chinò sotto la scrivania, dove custodiva il suo gioiellino, la sua bimba – come amava definirla nei loro momenti di massima intimità: l’xbox pareva silenziosa, eppure la fonte del rumore si era fatta improvvisamente più vicina. Le diede alcune pacche affettuose sul rivestimento esterno.
«Piccola, che ti succede?»
La sollevò per portarla accanto all’orecchio: no, non era la console a produrre quel rumore fastidioso. Fu nel riporla che notò qualcosa di tremendamente sbagliato: il cassetto della scrivania dove custodiva i controller wireless, il lettore mp3 e tutti i piccoli oggetti tecnologici di cui aveva bisogno era socchiuso. Lo spalancò di scatto e fece un balzo all’indietro.
«Un topo!», urlò sgranando gli occhi.
La bestiola si voltò a guardarlo con occhi famelici: se ne stava tronfia su uno dei suoi controller e aveva letteralmente divorato tutti i pulsanti, levette analogiche comprese. Filippo stava per avvicinare una mano al cassetto e mettere in salvo quel che restava del suo controller, quando il topo si voltò snudando i dentini sorprendentemente aguzzi. Fu in quel momento che si rese conto che la bestiola non era un topo, ma un criceto!
Non era intenzionato a rischiare un dito, quella bestia pareva fin troppo famelica per essere così piccola. Si allontanò con circospezione, guardandosi attorno: aveva bisogno di qualcosa di pesante per spiaccicarla. Al diavolo il cassetto e il controller, che ormai era da buttare, quella creatura indemoniata doveva andare all’altro mondo.
Aveva appena recuperato un mattarello dalla cucina quando suonarono al citofono.
«Salve… ciao, sono mortificata per il disturbo, vedo che stavi cucinando. Sono l’inquilina del piano di sopra, io dovrei… ehm, ho una richiesta che può parerti assurda ma devi credermi: hai per caso visto un criceto?», la ragazza si esibì in un enorme sorriso di scuse, già pronta a battere in ritarata, quando il guizzo negli occhi del ragazzo la trattenne.
«Stai per caso cercando una bestiola grigia dalle dimensioni di un piccolo pugno?»
«Sì! Sì! Oddio, l’hai trovata?!», strillò Antonia battendo le mani, felice di poter riportare a casa il suo dolce tesorino.
«Si è appena divorata uno dei miei controller dell’xbox», sibilò Filippo facendo cenno alla ragazza di entrare. «Prima porta a destra, cassetto aperto della scrivania. Sei arrivata in tempo, stavo per fargli la pelle», confessò nascondendo il mattarello dietro la schiena. Lei parve non aver udito l’ultima parte del discorso ed era già china sul cassetto: aveva estratto il tenero criceto incurante delle sue piccole zanne snudate pronte a conficcarsi nelle sue mani già martoriate. Se avesse avuto i polmoni e una bocca, il controller avrebbe tirato un profondo sospiro di sollievo.
«Povero il mio piccolo biscottino. Come hai fatto a finire quaggiù? Bricconcello che non sei altro», gongolò vezzeggiandolo e avvicinandoselo pericolosamente al naso.
«Ti ringrazio davvero molto per aver ritrovato John», disse poi regalandogli un enorme sorriso.
«Ehm, di nulla. È stato un… piacere, più o meno»
«Be’, io sono Antonia, vivo proprio sopra di te!», si presentò porgendogli la mano con cui non stava stringendo il criceto.
«Io sono Filippo, e vivo… qui!», rise lui imbarazzato.
«Spero che John non ti importuni più… e fammi sapere per quel controller, te lo ripagherò senz’altro!»
«Va bene, okay…»
«Allora buonanotte!», salutò ancora Antonia, per poi avviarsi verso le scale.
«Buonanotte», salutò a sua volta Filippo, poi ognuno proseguì per la sua strada.
Richiusa la porta alle sue spalle con la chiave e il catenaccio, il ragazzo si fiondò in cucina e si appuntò sulla lista della spesa: veleno per topi.




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