A New Day Has Come.

di ArchiviandoSogni_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Let the rain come down and wash away my tears. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo ANHC

La forza di continuare a vivere è quanto di più nobile possa esistere.
La forza che ci spinge ad effettuare giorno dopo giorno : ogni passo, ogni fatica, ogni piccolo sacrificio ; è magica.
Siamo esseri forti, anche nella più profonda e logorante debolezza.
Siamo migliori di quel che pensiamo davvero.

 

Prologo

Vi è mai capitato di sentirvi soffocare? Di sentire le parole mancare perché c’è troppa desolazione nel vostro cuore?

 
A 25 anni suonati, non avrei mai creduto di necessitare, con forza maniacale, una svolta decisiva nella mia vita. Ho un’impellente esigenza di scappare da questa piccola città che soffoca ogni mia passione ed ogni minima possibilità di realizzazione personale.
Dopo essere stata abbandonata sull’altare dopo 10 anni di fidanzamento, credevo che la solitudine fosse la mia unica alternativa, la mia solitaria ancora di salvezza dall’oceano desolato della disperazione.
Quanto mi sbagliavo.
 
Mi ero illusa di poter fermare il cuore e racchiuderlo semplicemente in una gabbia di ferro, dimenticandomi del potere indomabile della ruggine logorante.
Mi ero illusa di poter scegliere di non innamorarmi più di nessun’altro idiota di genere maschile, scordando la quantità di uomini presenti nella mia vita.
 
Ma nonostante quello strano turbamento emotivo, ero ancora lì.
In quella cittadina, legata ad un lavoro che stava assorbendo pian piano ogni mio interesse nella vita e pressata da un passato che non voleva darmi scampo.
Ecco perché in quel momento ero seduta, come al solito, sul lettino dello studio psichiatrico di James Hall.
Quell’uomo che, più dei miei stessi parenti e amici, mi aveva sollevata dal baratro, ripulito le ginocchia sbucciate e sanguinanti ed aveva avvolto il mio esile corpo, in una coperta calda dal sapore della sincerità mista ad uno strano affetto, anche se professionale.
 
 
“Buona sera, Diana. Allora, come stai?”
Quegli occhi nocciola, profondi e grandi, mi fecero sorridere con calore.
“Molto bene. Tu James? Scusa se ho saltato la seduta di lunedì sera, ma dovevo badare a quelle pesti dei miei nipoti.”
Lui sorrise e si sedette poi sulla sedia rossa di fianco a me. Più volte mi ero chiesta perché lui si ostinasse ad utilizzare quel mezzo così scomodo, mentre dava ai suoi pazienti poltroncine sontuose e un lettino in stile Luigi XIV da far invidia ai migliori salotti parigini del XVIII secolo.
“Non è per denaro, Diana.”Mi aveva detto solo due mesi prima “Con una poltrona comoda rischierei di rilassarmi troppo e non ascoltare a dovere i miei pazienti. È una forma di rispetto, capisci?”
 
Eh sì.
Avevo capito perfettamente che quell’uomo così dannatamente gentile, mi avrebbe incastrata inconsciamente tra quel lettino perfettamente ricamato e la semplicità di quello sguardo puro e genuino.
James non era semplicemente il mio psicologo, ma un amico di vecchia data di mio fratello. Il mio primo amore, probabilmente. L’affascinante amico di famiglia che mi aveva sempre trattato come una sorella e non come una ragazza. Però, ad essere sincera con me stessa, James era diventato l’angelo custode che mi aveva salvata dell’oblio del dolore e della paura. E anche se lui non mi aveva mai ricambiata in passato, aveva deciso comunque di aiutarmi quando mio fratello gliel’aveva chiesto. Insomma, un uomo gentile e dal cuore d’oro.
 
“Stai tranquilla, Lucille mi ha avvertito in tempo. A proposito di nipoti… Come sta Nicholas? È da un po’ che non lo sento. Dimmi, cerca ancora di diventare primario?”
Il mio sorriso si trasformò velocemente in una risalta elegante, facendomi ricordare quel disastro ambulante di mio fratello.
“Cosa posso dirti. Nonostante abbia 30 anni e due magnifici bambini, è rimasto lo stesso ragazzino che mi fregava le caramelle dalla nonna. Sogna sempre e comunque, ma credo che prima o poi, il posto di primario in Cardiologia sarà suo. Sai, anche sua moglie Lisa lo prende in giro dicendogli di fare il papà, invece che il ragazzino sognatore. Ma nulla da fare. Nick è e rimarrà per sempre un eterno Peter Pan.”
James appoggiò i gomiti sulle proprie ginocchia, scuotendo la testa e calzando una smorfia allegra.
“È l’unico compagno di corso che ricordo con felicità immensa. L’unico amico che ho da 20 anni e che non mi ha mai abbandonato. Quel posto se lo merita, all’università ce la metteva proprio tutta; più di me ad essere sinceri.”
Si allentò la cravatta, mostrandomi quei denti perfetti e bianchissimi che mi provocavano sempre un leggero moto d’invidia.
 
Non era bello.
James, era affascinante.
 
Quel classico tipo di uomo che poteva avere qualunque donna, solamente per la sua voce bassa e profonda, e per i suoi modi perfetti ed eleganti.
Era un uomo, non un ragazzino.
Era un uomo e non era Peter.
“Me lo ricordo perfettamente. Lui passava notti intere a studiare, mentre insultava il suo compagno di corso, genio scansafatiche, che collezionava 30 come figurine Panini. Davvero, credo che durante i corsi universitari ti odiasse molto.”
“E per fortuna non ha mai saputo quanto poco studiassi in realtà. Purtroppo o per fortuna, sono sempre stato dotato di una mente molto pragmatica che metabolizza qualsiasi cosa senta.”
Presi a mangiucchiarmi un’unghia laccata di rosso, ripensando ironicamente al mio passato e alla felicità che una volta mi aveva contraddistinta e che ora mi sembrava solo un ricordo sbiadito dai rimpianti.
 
Perché Peter mi aveva privato di tutto quello?
Perché mi aveva fatto diventare una donna priva di carattere ed ambizioni?
 
Sbuffai e James se ne accorse. Mi porse il consueto bicchiere d’acqua e fu così che presi a parlare come al solito della mia vita frenetica e un po’ troppo monotona.
“Allora le ho detto : Mrs Jackson se il suo Chihuahua inghiottisce ogni cosa che trova sotto il suo musetto, non è mica colpa mia. Quel mostriciattolo si è divorato una gomma ed una penna del mio studio! E io dovevo anche sentirmi quell’isterica grassona che malediva la mia competenza. Indubbiamente, hanno entrambi qualche problema di incontinenza verso il cibo.”
Lui scoppiò a ridere tamburellando le dita sopra un ginocchio.
“Quella donna ti farà impazzire prima o poi. Gente come Mrs Jackson, sono ormai la prassi anche per me. Senza l’aggiunta del Chihuahua con lo stomaco d’acciaio, si intende.”
Ridemmo entrambi della stranezza della vita. Parlare con James era sempre stato così rassicurante e semplice, così giusto e perfetto.
“Peter invece si è fatto risentire?”
Mi innervosivo sempre ad udire quel nome ed il fatto che lui non mi risparmiasse quella piccola tortura, mi infastidiva alquanto.
A volte perdevo di vista il fatto che lui ora fosse il mio psicologo ed io una sua ordinaria paziente.
“No. Dopo la telefonata di due settimane fa, penso che abbia capito di lasciarmi perdere. Voglio dire, dopo avermi mollata ad un mese dal fatidico , come può avere il coraggio di farsi sentire e parlarmi come se niente fosse? Come può ancora accampare pretese su di me? Sono decisamente irritata, scusa. Purtroppo non mi sono bastati sei mesi per purificare il mio sangue. Sento ancora l’amaro in bocca.”
Mi misi una mano tra i capelli per ravvivarli. Quando ero nervosa tendevo a farlo di frequente e probabilmente nemmeno quel gesto meccanico e continuo, era sfuggito allo sguardo attento e clinico dell’uomo.
“Il mondo è pieno di gente stupida. Sta a te decidere che trattamento riservagli; io ad esempio preferisco di gran lunga l’indifferenza.”
Ci scambiammo uno sguardo lento prima che qualcuno bussasse alla lunga porta scorrevole.
“Avanti.”
“Scusi Dottor Hall, il paziente delle 20 ha disdetto proprio ora. Ha dovuto portare il nipote all’aeroporto d’urgenza e non ha potuto avvisare prima.”
James assentì con la testa, prima di congedare Lucille e ritornare a guardarmi con una nuova luce nello sguardo.
La stanchezza mentale e fisica, in qualche modo ci accumunava.
“Stasera posso staccare prima, ma sento che prima di mezzanotte non tornerò a casa. Purtroppo quando ami troppo il tuo lavoro, trascuri tutto il resto.”
Quelle parole le sentivo mie più che mai, ma non lo dissi apertamente per paura del suo giudizio. Anche se avevamo un atteggiamento molto aperto e amichevole, lui rimaneva pur sempre la persona che doveva psicanalizzarmi. Doveva smontare le mie certezze incastrate ormai indissolubilmente nella maniera sbagliata e sistemarle, con cura e precisione, nel modo giusto.
Chissà quanto tempo ci sarebbe voluto, chissà se sarei mai ritornata quella di un tempo.
“Bene Diana, anche per oggi abbiamo finito. Ci vediamo lunedì sempre alle 19?”
Acconsentii con il capo e lo salutai con una ferma stretta di mano. Ogni volta, quel dopobarba inebriante mi impregnava non solo le nadici ed i vestiti, ma anche i polmoni sembravano essersi abituati alla piccola e lenta inalazione che mi veniva concessa inconsciamente.
“Mi raccomando, stai tranquilla e sorridi come hai fatto oggi. Il volto di una donna bella come te, non deve essere solcato da lacrime o rughe tristi; va bene?”
Sorrisi e leggermente imbarazzata, mi voltai, abbandonando quello studio grande e familiare.
 
Dovevo fermare il mio cuore prima che fosse troppo tardi.
Dovevo impedire di innamorarmi un’altra volta della persona sbagliata.
 
 
 
---
 
Ciao a tutte!
Questa storia è un esperimento e non so con che frequenza l’aggiornerò.
Spero di non aver scritto delle schifezze e di avervi introdotto, decentemente, il mondo un po’ complicato di Diana. Lei non è una donna facile da capire, però se avrete la pazienza di seguire il suo percorso di crescita, potrete innamorarvene davvero. Io sento già di capirla molto, anche se siamo molto diverse. Un amore lungo 10 anni è qualcosa di estremo e la sua successiva rottura deve essere davvero devastante.
Ma A New Day Has Come, non è una storia triste e pesante, è un inno alla speranza.
Spero di non avervi annoiato!
Per tutte le vostre domande, potrete leggere sotto come contattarmi.
 
Vi auguro una buona serata e vi mando un grosso bacione!
 
A presto <3





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Capitolo 2
*** Let the rain come down and wash away my tears. ***


Cap 1 ANDHC

Cap 1

 

 

Magari accettare e vivere ciò che la vita ci dona, non è semplice accontentarsi.

Forse è ciò che necessitiamo davvero, ma siamo troppo orgogliosi per ammetterlo perfino a noi stessi.

 

 

 

Let the rain come down and wash away my tears

 

“Eccomi a casa, Lionel!”

Chiudendomi la porta alle spalle, percorsi la stanza buia alla ricerca del mio coinquilino. Brancolai nel buio cercando di annullare, con un po’ di fatica, la breve distanza dalla porta alla finestra senza l’ausilio della luce. Odiavo i led, soprattutto perché mi causavano frequenti emicranie e proprio in quel momento, dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro, mi ritrovavo a massaggiarmi una tempia lentamente, pregando che l’assunzione di una semplice aspirina fosse la soluzione giusta.

Poi, procedendo sempre nel buio, mi avvicinai ad una piccola casa in legno, posta su un mobiletto accanto all’ampia finestra.

Un battito di ali e due piccole zampe afferrarono prontamente il mio dito che si era teso automaticamente a quel dolce suono.

“Buona sera, buona sera, buona sera Babe!” Il pappagallino mi salutò con un lieve bacio sulla guancia, strappandomi un sorriso stanco.

Era quanto di più accogliente potessi trovarmi in quel momento.

Niente compagno che mi abbracciava o chiedeva della giornata appena trascorsa. Niente profumino invitante di una cena ancora da consumare con piatti semplici, ma ricchi di sentimento. Niente vasca calda da condividere e niente letto matrimoniale da colmare con la felicità di una coppia. Negli ultimi sei mesi era cambiato tutto così velocemente, che non mi ero nemmeno accorta di aver festeggiato solo un mese prima i miei 25 anni.

25 anni dei quali 10 trascorsi accanto a Peter come sua fidanzata.

Ero una bambina, una dolce bambina che credeva nelle favole, nel principe azzurro, e Peter mi era sembrato perfetto per quel ruolo, perché semplicemente non avevo mai pensato a nessun’altro. Non c’era mai stato nessun’altro, ad essere sinceri. Ma io ero sicura, cavolo se lo ero! Lui non era solo terribilmente bello, intelligente e simpatico; era stato anche uno dei miei più cari amici.

Il mio intero mondo per talmente troppi anni ,che ormai era così difficile non sentirlo più parte di me e della mia ordinaria vita. Mi sentivo svuotata; una semplice ameba destinata a restare negli abissi senza meta prefissata e senza obbiettivi da seguire.

Ed è così brutto ed avvilente sentirsi inutili, che non ti accorgi nemmeno del tempo che scorre, degli anni che passano e del mutamento del tuo corpo, nonostante tu ne sia pienamente contraria.

 

Mi sentivo come uno straccio vecchio e non c’era stato verso di cambiare quel rovinoso stato emotivo e mentale.

“Pappa! Pappa! Lionel vuole mangiare!” Il piccolo pennuto cominciò ad agitarsi, chiaro segno che la sua sopportazione era arrivata al limite.

“Ho capito. E non fare la prima donna, ora ti do da mangiare.”

Lo accarezzai con un dito sopra la piccola testolina arruffata, facendolo calmare all’istante.

Mi diressi così verso la cucina con Lionel arpionato al mio dito.

“Pappa, amico. Guarda!” Gli sventolai vicino la scatola del mangime che fece accendere all’istante il suo sguardo.

“ Pappa, pappa!”

Sorrisi mentre appoggiavo sul davanzale il mostriciattolo colorato. Presi poi uno dei suoi piattini e ci versai dentro il mangime. Quando posai il piatto davanti alle sue esile zampine, cominciò a mangiare con voracità.

Povero piccolo, pensai. Lasciarti da solo in questa casa per delle ore è troppo egoistico anche per me.

Abbandonai la cucina accorgendomi che i miei piedi necessitavano un paio comodo di pantofole e il mio intero corpo voleva gustarsi una lunghissima doccia calda.

Mi sciolsi i capelli e tolsi i tacchi per dirigermi a piedi nudi verso la mia camera da letto.

 

In fondo, cosa mi mancava davvero?

 

Avevo una casa nuova, anche se troppo grande per una donna sola. Possedevo un lavoro mio, con una clinica in centro donata gentilmente dal mio vecchio capo che era andato in pensione da quasi un anno. Avevo una macchina ottima e costosa, degli amici un po’ fuori dagli schemi ma presenti, ed una famiglia amorevole e sempre disponibile ad aiutarmi.

 

Allora, Diana, cosa ti manca davvero?

 

Un uomo. Questa era la verità e non per semplice piacere fisico o per mera paura di rimanere sola. No. Volevo un uomo che possibilmente non si chiamasse Peter, che non avesse gli occhi azzurri e i capelli corvini e senza un fisico da nuotatore agonista.

No, non lo volevo.

Non dopo tutto il dolore che mi aveva causato.

Anche solo con l’infido aiuto dei ricordi, mi si formava nel petto un enorme buco nero che risucchiava tutto e tutti e che pian piano aveva inglobato tutta la mia vita ed energia.

 

Scossi la testa mentre prendevo il pigiama da sotto il cuscino e accendevo l’enorme stereo che diffondeva per tutte le stanze, le lente e melodiose note di Mozart che mi accompagnavano da mesi. Rose, la mia maestra di yoga, me l’aveva consigliata per  far rilassare non solo i nervi, ma soprattutto la mente.

Era convinta -non so ancora con sicurezza il perché-  che la mia mente fosse rimasta contratta dopo l’accaduto e che lo yoga, del buon cibo e sana musica fossero gli unici strumenti che potevano garantire un’ottima guarigione a chiunque.

Peccato che molte volte avevo solamente voglia di spaccare tutto, di distruggermi le mani a suon di pugni sulla parete e di abusare, con forza ed esigenza, delle mie corde vocali per urli interminabili e taglienti.

 

Dopo essere entrata nella doccia, lasciai che l’acqua mi penetrasse nella pelle e nonostante cercassi giorno dopo giorno di non pensarci, ogni sera l’incubo mi veniva a trovare.

E fu così che le mattonelle della doccia diventavano il mio unico e vero sostegno mentre il nero tornava immancabilmente a travolgermi.

 

Sei mesi prima…

 

“Amore, sono Peter. Senti, ti va di venire da me stasera? Volevo parlarti della nuova casa e magari concederci qualche momento nostro, prima che quelle vipere delle mie sorelle ti rubino per iniziare la loro settimana “depurativa”.. Non so come tu faccia a sopportarle senza battere ciglio. Ti adoro sai? In realtà ti ho chiamato per dirti che ieri, eri bellissima con il camice nuovo. Sono così felice per te!  Portalo stasera che tra una portata e l’altra potrei fingermi un cagnolino ferito mortalmente che necessita di pronte cure!  A dopo, piccola.”

Ascoltai il messaggio della segreteria sorridendo. Peter era sempre il solito ragazzo dolce e scherzoso, sempre pronto ad ironizzare su tutto, ma che in realtà era più serio di quel che volesse far trapelare.

Mi preparai di corsa per la serata, non scordando nulla; soprattutto il camice.

Lui era così semplice, diretto e non mi era mai dispiaciuto nemmeno la sua strana mania per il fisico. Io lo amavo con tutta me stessa, ogni singola parte di me si sentiva su,  e anche per lui era lo stesso.

Però, si sa quanto il destino giochi sempre a nostro sfavore quando la felicità assoluta è nostra amica, e quella sera decisi di fargli una sorpresa delle mie.

Mi appostai sotto casa sua con ben due ore di anticipo, ero riuscita a chiudere prima la clinica e pregustavo già il suo sguardo sorpreso, il suo bacio sul naso e una cena a lume di candela lunga e romantica.

Sapevo che era la nostra ultima notte da fidanzati e certamente volevamo renderla memorabile.

Non potevo immaginare ciò che i miei occhi mi stavano mostrando chiaramente.

Non riuscivo a credere che Peter si stesse baciando o meglio, che stesse praticamente limonando nella sua auto, con una rossa molto felice di stare con lui.

Ma io ero sempre stata una donna forte, sempre. Mi era stato insegnato di portare rispetto, prima di tutto e così feci.

Me ne andai senza dire niente ed annullai la serata con un misero sms, inventando un improvviso mal di testa.

 

Quanto avevo sofferto in quella settimana?

 

Non era nemmeno paragonabile, avevo pianto lacrime amare, dato sfogo a vomiti colossali per il nervoso, ma non avevo ceduto. Non gli avevo più parlato, ma ero disposta a lasciare perdere a fargli un discorso una volta sposati, perché.. Io lo amavo. Lo amavo davvero, il mio cuore non voleva accettare la verità ed ero disposta anche a passarci sopra, pur di non perdere la sua indispensabile presenza nella mia vita.

 

Quanto soffrii quel giorno?

 

Avevo passato una settimana orribile, mi ero fatta odiare da Stephanie, sua sorella maggiore, perché non riusciva a coprirmi i profondi solchi neri che attanagliavano i miei occhi da troppe ore.

Ma avevo resistito, volevo salvarmi; volevo salvarci.

Arrivai all’altare sotto il braccio possente e forte di mio padre che non riusciva a trattenere le lacrime che orgogliosamente gli solcavano il viso olivastro.

Ed io stringevo i denti e stringevo con forza il braccio di mio padre che mi aveva sostenuta da una vita.

Però non me lo meritavo.

Quel no davanti a Dio, alla mia famiglia, ai miei amici, al mio cuore.

Quel no detto come un sussurro, ma che suonava come una campana assordante dentro la mia testa.

Quel no che disse osservando le sue bellissime scarpe di pelle, che io avevo amato fin dal primo momento.

Quel no, mi fece cadere in un abisso che mi distrusse completamente.

 

Il suono del campanello mi fece ritornare al presente.

Ero seduta nella doccia con l’acqua che scorreva freneticamente sotto il mio sguardo completamente vuoto.

Cercai di ricompormi e mi toccai con forza le guance, per dare un po’ di colorito.

Presi l’asciugamano velocemente e mi diressi verso la porta.

 

“Chi è?”

“James.”

Strabuzzai gli occhi e mi guardai le mani tremanti sull’asciugamano.

“Chi scusa?”

“Dottor. Hall, Diana. Ti disturbo?”

Presi un attimo di pausa per riuscire a ragionare meglio, ma la mia mente sembrava assopita.

“Si scusa. Sono appena uscita dalla doccia.” Aprii la porta, correndo poi verso la camera da letto per rivestirmi.

Lo sentii entrare, ma non si chiuse la porta alle spalle.

“Diana, tutto bene? Non è ritornato, vero?”

La mia mano si bloccò sul bottone della camicetta improvvisamente congelata.

No, lui non poteva saperlo. Purtroppo nonostante mi tenesse ore ed ore a parlare di me, ero riuscita a nascondergli i dettagli più raccapriccianti della mia profonda depressione.

“Intendi Peter?”

“Chi se no?”

Sbucai di nuovo in salotto, constatando che James era rimasto davvero sul ciglio della porta, con un piede dentro e l’altro ancora appoggiato saldamente sul tappeto d’ingresso.

Ero così rispettoso e così simile a Peter da farmi paura.

“No, no. Cosa aspetti? Entra pure. Vuoi un caffè?”

“E’ troppo tardi, ti ringrazio. Scusami se sono piombato qui a casa tua all’improvviso, ma ho appena finito di lavorare e ci sono delle cose urgenti che devo dirti.”

Chiusi la porta  e lo aiutai a togliersi il lungo cappotto, appoggiandolo sul divano.

“C’è qualche problema James? Credevo di aver già versato a Lucille la quota di questo mese.”

Lui mi guardò stranamente, scuotendo velocemente il capo. Mi sorrise appena e prese a grattarsi il mento leggermente velato di barba.

“Secondo te potrei mai ridurmi a fare lo strozzino porta a porta? A te, per giunta? No, Diana.  È che sono un po’ preoccupato. Avrei voluto parlartene durante le nostre sedute, ma sento che sei sempre rigida quando ci avviciniamo a certi argomenti e non ti sei ancora completamente aperta con me, nonostante questi due mesi di terapia. Mi vedi come uno sconosciuto, in un posto che per te non rappresenta nulla e vieni a sorbirti un’ora per due volte alla settimana, senza sentire davvero l’esigenza di sfogarti e di uscire fuori da quel lungo tunnel.”

Si sedette su un braccio del divano continuando a guardarmi enigmaticamente.

Un lieve brivido mi percorse la schiena, ma non c’era nessun accenno di sensualità o passione in me. La paura, lenta e logorante, cominciava ad invadermi sotto pelle prendendo possesso delle mie facoltà mentali e fisiche.

“In che senso? Io…” La mia voce si abbassò di qualche ottava, prima che riuscissi a proseguire il discorso. “… non credo di aver sbagliato nulla durante le nostre sedute. Parlo e rispondo alle tue domande. Cosa c’è che non va in tutto questo, James?”

Lui si alzò improvvisamente facendomi sussultare. Era molto più alto di me, con due spalle grandi e forti, ma completamente diverse da quelle di Peter. Non c’era niente che fisicamente li accumunava, eppure per un attimo, mi era sembrato di poterli perfettamente sovrapporre.

Che stupida, non facevo altro che prendere Peter come punto di riferimento, rendendolo così sempre e comunque presente nella mia vita.

Dovevo smetterla di vederlo ovunque e soprattutto dovevo evitare di confonderlo con James.

Lui poteva sembrare simile a volte, ma in realtà era completamente diverso. Talmente diverso, che quando mi prese le mani tra le sue, quasi non credetti ai miei occhi.

“Maledizione, Diana! Non posso credere che tu continui ad essere così cieca! Sei diventata un automa! Fai quello che tutti ti dicono, ciò che la società vuole da una donna matura, ma dentro di te vorresti urlare e imprecare come solo una donna ferita può fare. Non voglio continuare a vederti percorrere lo studio con fare assorto e sederti sul lettino solamente per discutere del tuo lavoro ogni santa volta! Voglio aiutarti e non solo perché sei la sorella del mio migliore amico. Io amo il mio lavoro, voglio poter davvero essere utile e non solo una sanguisuga che guadagna dal dolore altrui. Vuoi darmi la possibilità di conoscerti ed aiutarti? Vuoi finalmente liberarti dal peso pressante dei ricordi?”

Le sue mani, così grandi e ben curate, si muovevano frenetiche sopra le mie, piccole e leggere.

Sapevo che non era giusto non prestare molta attenzione al suo discorso, però quello sguardo così vicino al mio, quelle mani così calde e confortanti, quel leggero arrossamento delle gote: mi avevano ipnotizzato.

Avevo sempre dato per scontato, che l’amore vero bussasse solo una volta alla propria porta, solo un’unica e miracolosa volta.

Quindi dopo Peter, sentivo ormai che l’amore non era più un mio diritto, ma solamente un bel sentimento da osservare lontanamente nei visi delle coppiette sconosciute che si aggirano sempre nei parchi primaverili o nei centri commerciali urbani.

Diamine, non potevo essere già innamorata di un uomo, anche perché James rappresentava assolutamente il premio più proibito al quale potessi ambire.

Era un uomo affascinante e sicuramente fidanzato, più grande di me di 5 anni e con una carriera talmente brillante che non comprendeva assolutamente sentimenti con alta capacità di distrazione.

 

“E cosa vorresti fare per farmi stare meglio?”

Il silenzio ci cullò per parecchi minuti e in quel lungo lasso di tempo, James continuava a torturarsi il viso con la mano sinistra. Era in bilico su un filo quasi invisibile e talmente sottile da spezzarsi alla prima brezza fugace. Leggevo nel suo sguardo un turbamento silenzioso, ma presto un luccichio lo sostituì di prepotenza, donandogli così di nuovo l’uso della parola.

“Permettimi di conoscerti davvero, ma non nel mio studio. Ci vedremo qui; due volte a settimana, dopo cena. Purtroppo non posso garantirti puntualità e molto tempo per parlare, però qui, tra queste mura amiche, forse riuscirai davvero a fidarti di me. Io non sono Peter, Diana, e non ti abbandonerò.”

I miei occhi si velarono di leggere lacrime, ma continuai a guardarlo con postura rigida e studiata per non fargli notare quanto quelle parole mi facessero stare bene.

“Oddio, non lo so! Non sarebbe troppo…”

“Intimo?” Mi suggerì lui, facendomi così acconsentire timidamente.

“E’ proprio questo che sto cercando. Non sarò più il Dottor Hall e tu la paziente Roberts, ma saremo solo James e Diana vecchi conoscenti che vogliono diventare amici. Saremo una strana coppia d’amici, te lo concedo, ma prometto di comportarmi bene. Sono un po’ arrugginito con i rapporti umani, però cercherò d’impegnarmi perché a te tengo particolarmente. Nick ti vuole un bene smisurato e vuole vederti sorridere come facevi prima. Ricordi? Avevi un sorriso luminoso che brillava più dei tuoi capelli color del grano e lui era talmente geloso di te, d’aver costretto il tuo dentista a farti indossare, per 4 mesi in, più l’apparecchio ai denti. Ops, questo forse non dovevo dirtelo..”

I sentimenti che mi attraversavano la pelle, finivano dritti al cuore, facendolo improvvisamente accendere. Era come se il precedente cortocircuito fosse stato solamente un brutto ricordo; ora tutto brillava.

 

Era merito di James?

 

Non ero sicuramente giunta a quel piacevole sentimento, solamente per delle belle parole. C’era qualcosa di più, qualcosa di tremendamente rincuorante in quella semplice situazione, da destabilizzarmi.

“Mio fratello, cosa?! A ma bene, quando lo vedo mi sente! Ho passato degli anni orribili con quella ferraglia tra i denti e lui ha contribuito ad allungare quel triste supplizio?”

Incrociai le braccia iniziando a parlottare da sola, mentre James scoppiò a ridere spontaneamente.

“Era questo che dicevo. Vedi? Non ti sei completamente persa, Diana. Ce la faremo, ce la farai. Rinascerai, perché dobbiamo arrivare insieme al nuovo giorno che verrà, al domani, al futuro. Ci stai?”

Con fare sicuro lui porse la sua grande mano verso di me. La guardai per infiniti secondi e poi, trasportata da un’energia invisibile, allungai la mia per stringerla con rinnovata forza.

“Hai ragione, James. Devo farcela e non ha senso continuare a soffrire per il completo e solitario nulla. Però non voglio che tu lavori gratis e che perdi tempo con me mentre dovresti lavorare nel tuo studio.”

Lui mi strinse la mano e poi la lasciò andare guardandomi contrariato.

“Stai scherzando? Da quando gli amici si comprano? Diana non voglio nulla in cambio, ma solamente aiutare a salvarti.”

Gli occhi si inumidirono di nuovo, ma era più difficile fingere forza.

“Io.. Grazie, James, sei veramente un angelo. Non so cosa dire, non so come sdebitarmi davvero, posso fare qualcosa?”

Lui prese il suo cappotto lungo e lo infilò con nonchalance, continuando a guardami con forza.

“Per il momento nulla. Magari una cena cucinata da te, qualche volta. So che sei una cuoca provetta.”

Mi fece l’occhiolino abbandonando per un attimo quell’aria professionale che ben si addiceva al suo completo e alla sua cravatta nera.

 

Che il vero James fosse diverso?

 

Mi ritrovai a sorridere stranamente mentre l’uomo si dirigeva velocemente verso la porta.

“Ora posso tornarmene a casa. Ho una tesi di laurea da leggere; mia sorella non mi da pace.”

Con aria abbattuta aspettò che gli aprissi la porta e mi guardò di nuovo in quel modo strano che mi inquietava ed allo stesso tempo mi faceva sentire diversa, mi faceva sentire bella.

“Buona notte, Diana. Sogni d’oro e a lunedì sera.”

Gli sorrisi, stringendo con forza la maniglia per non afferrare la sua mano ancora pericolosamente vicina alla mia.

“’Notte James, dormi bene.”

Prima di vederlo andare via ed abbandonare il mio appartamento, mi baciò lievemente una guancia sorridendo e voltandosi definitivamente.

Quel contatto mi aveva lasciato letteralmente a bocca aperta, ma per fortuna lui non si voltò più per guardarmi.

Mentre percorreva la scalinata, non riuscii a staccare i miei occhi da quelle grandi spalle e dalla lunga schiena che con andatura elegante, usciva dalla mia vista.

Rimasi parecchi minuti aggrappata alla porta e a toccarmi la guancia ricordando la leggerezza e la morbidezza di quelle labbra.

Ero sicura, non le avrei più dimenticate.

E non sapevo se quello fosse un bene o un male.

 

---

 

 

Ciao!

Stranamente aggiorno così presto… Credevo che sarebbero passati dei mesi!

Questa storia si scrive da sola e non riesco a fermarmi quando inizio a scriverla.

Spero vi piaccia, perché a me fa emozionare molto.

Diana è una donna forte, una donna che sta risalendo da capo la scala della vita. Ce la farà, vedrete, e James l’aiuterà molto. Molto più di quello che entrambi pensano.

 

Vi ringrazio davvero per essere arrivate fino a qui.

 

A presto <3

 

 

Ps: Vi lascio il link della mio nuovo gruppo.

 

 

 

 
 

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