Imprevisti

di Il_Genio_del_Male
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Imprevisti ***
Capitolo 2: *** Lieto evento ***
Capitolo 3: *** Lavori in corso ***
Capitolo 4: *** Sorpresa! ***
Capitolo 5: *** Benvenuti! ***
Capitolo 6: *** Famiglia - parte 1 ***
Capitolo 7: *** Famiglia - parte 2 ***
Capitolo 8: *** Interferenze ***
Capitolo 9: *** Crisi ***
Capitolo 10: *** Proposta ***



Capitolo 1
*** Imprevisti ***


RATING: Giallo.

GENERE: Commedia, Romantico (?).

PAIRING: Sherlock/John.

AVVERTIMENTI: Fluff (giusto un pizzico), Slash, What if?, un accenno di Lime.

DISCLAIMER: I personaggi non mi appartengono, né i diritti della serie (ahimè) che vanno tutti alla BBC. Non guadagno niente dalla mia attività di fangirlamento compulsivo.

DEDICA: A Moffat e Gatiss, perché sono degli slashers in incognito e ci hanno regalato un telefilm meravigliosamente brillante e ambiguo; a Martin Freeman, che è un John Watson perfetto; a Benedict Cumberbatch, perché è un attore straordinario -nonché figo da paura.

NOTE: Ehm, buonsalve a tutti! *si guarda attorno*

E’ con timore reverenziale che mi accingo ad approdare nel meraviglioso fandom di Sherlock
Lo ammetto, sono nervosa. Molto nervosa. Di solito scrivo storie deliranti e corbellerie varie nella sezione Merlin e nelle Originali, ma in preda all’entusiasmo derivante dall’aver scoperto -con più di un anno di ritardo- perché questo telefilm riscuotesse così tanto successo e disperata all’idea di dover aspettare almeno altri dodici mesi perché trasmettano la terza serie, ho deciso di versare il mio modesto tributo di sangue (ehm) al fandom, sperando di non abbassare troppo la qualità media delle storie pubblicate finora.

Buona lettura (mi auguro)!

 

 

 

 

 

Erano ormai due settimane che andava avanti.

Quasi ogni mattina, al risveglio, un forte senso di nausea lo colpiva, costringendolo ad abbandonare il tepore del piumino per scapicollarsi in bagno, abbracciare la tazza del water e rimettere anche l’anima; il tutto nel giro di quattro secondi e nove decimi. Aveva subito pensato ad una forma di gastroenterite e di conseguenza aveva fissato un appuntamento con uno specialista, ma il medico, limitatosi ad alleggerirgli il portafoglio di una discreta somma, non aveva trovato nulla di sospetto nel suo intestino.

Poi erano cominciati gli svenimenti. In ambulatorio, al supermarket sotto casa (con le cui casse automatiche aveva ancora un conto in sospeso). Addirittura per strada, soccorso da alcuni passanti caritatevoli -mioddio che vergogna!- e una volta mentre si trovava in casa da solo e si accingeva a mettere sul fuoco il bollitore per il tè. Quando aveva ripreso i sensi si era ritrovato a distanza molto ravvicinata con una preoccupatissima Mrs Hudson che gli sventolava sotto il naso un flacone di sali.

A quel punto si era misurato la pressione, ma era assolutamente nella norma. Sarah, con cui erano rimasti amici, aveva ipotizzato una mancanza di ferro nel sangue, però lui l’aveva subito rassicurata: non era anemico né denutrito, anzi. Negli ultimi tempi aveva messo su qualche chilo. I suoi addominali, che non erano mai stati particolarmente scolpiti nemmeno durante il servizio militare, erano considerevolmente più rilassati del solito. Aveva perennemente fame, ma non ci aveva prestato troppa attenzione. Probabilmente il suo organismo faticava ad abituarsi allo stile di vita frenetico, per non dire delirante, che aveva adottato da quando era andato a vivere al 221B di Baker Street.

Finché una sera, mentre erano piacevolmente impegnati, Sherlock non aveva espresso la sua opinione al riguardo. “Sottoponiti ad un’analisi del sangue completa, John, e smettila di farci stare in pensiero per te”.

L’aveva detto con estrema nonchalance, tra un preliminare e l’altro, con la testa infilata tra le sue cosce e la lingua intenta a tormentargli in modo assolutamente indecente il sesso. John aveva alzato la testa dal cuscino, un po’ ansimante, guardandolo malissimo; solo Sherlock poteva uscirsene con un’osservazione simile in un momento tanto intimo. Tuttavia, qualcosa nell’espressione dell’altro -nei suoi occhi di ghiaccio fuso, nelle labbra appena increspate, nella sottile ruga d’espressione che gli solcava la fronte- l’aveva spiazzato: mirabile visu, l’imperturbabile Sherlock Holmes era preoccupato. Per lui.

“Uhm, ok. Se la cosa ti può tranquillizzare, lo farò” aveva borbottato, arrossendo lievemente.

Quando l’altro aveva abbassato lo sguardo, pronto a riprendere da dove si era interrotto, il dottore glielo aveva impedito. “Lascia perdere, vieni qui e baciami”.

“Perché?”

“Perché mi va”.

“Ma il tuo amico qui sotto sembra gradire molto le mie attenzioni…” aveva mormorato l’altro con quel suo sorrisetto compiaciuto e allusivo.

“Sherlock. Sta’ zitto e baciami”.

 

 

Ebbene, aveva seguito il consiglio del suo uomo convivente amante coinqulino. Si era sottoposto ad un check-up approfondito: colesterolo, diabete, conta dei globuli bianchi, anemia (meglio non rischiare), emoglobina e chi più ne ha, più ne metta. Qualche giorno dopo l’avevano chiamato dall’ospedale perché passasse a ritirare le analisi.

 

 

Le cinque del pomeriggio, l’ora del tè per antonomasia. Sherlock, comodamente acciambellato sulla poltrona, sorbisce la bevanda reggendo la tazza con una mano, mentre le dita dell’altra pizzicano distrattamente le corde dell’onnipresente violino. John, seduto sul divano e con la busta -aperta- contenente il referto medico posata accanto a sé, si schiarisce la voce.

“Sherlock, devo parlarti”.

“Era ora che ti decidessi a farlo, John. Sono almeno dieci minuti che mi fissi come se volessi perforarmi con lo sguardo” è l’immediata replica.

“Sì, beh” mormora lui.

“Hai saputo l’esito degli esami. Prima che tu me lo chieda, l’ho dedotto da-”

“Non mi interessa saperlo” lo interrompe.

“Davvero?” e gli punta addosso quegli incredibili occhi da extraterrestre.

“Davvero”.

“Bene”.

“Bene”.

“…E quindi?”

“E quindi cosa?”

“Cosa devi dirmi? Hai le spalle e la mascella contratte, sei teso: è evidente che si tratta di qualcosa di grave”. Posa il violino a terra e si sporge verso di lui con il busto in avanti, i gomiti che sostano sulle ginocchia e la testa inclinata, in ascolto.

“Oh, già. Beh, è- E’ assolutamente pazzesco, si tratta certamente di un errore”.

“John. Gli esiti. Cosa dicono?” incalza l’altro.

“Aspetto un bambino, Sherlock” confessa tutto d’un fiato, avvampando, indeciso se mettersi a piangere o scoppiare a ridere istericamente.

“Ma certo. Perché non ci ho pensato prima?” esclama il detective, balzando in piedi in men che non si dica. “Le voglie, l’aumento di peso, le nausee, i mancamenti; Mrs Hudson mi ha avvertito, nonostante tu le avessi chiesto di non farlo… Tutto era riconducibile ad una possibile gravidanza” medita a voce alta, i neuroni che lavorano come furie.

“Sherlock, ma di che parli? E’ impossibile che io sia incinto, guardami! Sono un uomo, non sono biologicamente attrezzato per concepire, né tantomeno mettere al mondo un bambino” sbotta John, sull’orlo di una crisi di nervi.

“Una volta eliminato l’impossibile, ciò che rimane -per quanto improbabile- deve essere la verità. Le analisi non mentono. Stiamo per diventare genitori”.

John non sa perché, ma il tono di voce pacato e ragionevole del suo sociopatico ad alta funzionalità preferito è un balsamo per il proprio stato d’animo in tumulto. Si calma.

“Quante settimane?” chiede il compagno.

“Quindici”.

“Quasi quattro mesi, quindi. Presto scopriremo il sesso del bambino” osserva Sherlock con quella che sembra genuina felicità. Si inginocchia di fronte al dottore, le loro teste sono alla stessa altezza.

“Sembri felice” commenta l’altro dolcemente, ancora incredulo.

“Lo sono eccome, John. Non potevi darmi notizia migliore! Tu cosa preferiresti, che fosse un maschio o una femmina?” e i suoi occhi brillano di una luce mai vista prima, mentre gli afferra le mani e le stringe forte.

 “Non saprei. Non fa differenza, credo” John si lascia scappare un sorriso, rinunciando una volta per tutte a svelare l’enigma che è Sherlock Holmes, il suo coinquilino amico collega amore.

 

 

 

 

Ok, sono pronta a qualsiasi cosa: critiche spietate, linciaggio, lancio di frutta e verdura marcia.  Non abbiate pietà, mi raccomando! E fatemi sapere se i Mitici Due sono troppo OOC. Spero di farmi presto viva con qualcosa di più decente.

Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Lieto evento ***


NOTE: Ecco la seconda ed ultima parte!

Il seguito, lo ammetto, non avevo affatto pensato di scriverlo; non immaginavo che la storia avrebbe ricevuto una così calorosa accoglienza (sento di amare sempre di più questo fandom)… Figuratevi la mia sorpresa, quindi, quando Grinpow e Angelica Barbanera hanno insistito perché raccontassi il “dopo”, con i Mitici Due alle prese col pupo. L’idea mi stuzzicava, e ho ceduto volentieri alla loro richiesta (motivo per cui, ragazze, il capitolo è dedicato anche a voi). Questo è il risultato: spero di non aver prodotto una completa schifezza.

Buona lettura!

 

 

 

 

 

221B di Baker Street, alcuni mesi dopo.

 

Notte fonda.

Sherlock Holmes, il grande detective, spalanca gli occhi di colpo. La sua mano scivola lungo l’interno dell’avambraccio sinistro, a sfiorare i soliti tre cerotti alla nicotina. Batte le palpebre un paio di volte. “John” chiama l’uomo addormentato accanto a sé.

“….”

“John”.

“….”

“John, svegliati” si gira sul fianco, puntellando il materasso con il gomito. Lo afferra per una spalla e lo scrolla senza troppa delicatezza.

“Mmmhh” mugugna l’altro, decidendosi finalmente a dare un segno di vita. “Sherlock?”

“Affermativo, dottore” si lascia sfuggire un sorriso inaspettatamente dolce che John, a causa del buio, non nota.

“Perché -yawn- mi hai svegliato?” domanda, stiracchiandosi. “Hai avuto un’altra delle tue geniali intuizioni notturne? Sei riuscito a risolvere il caso Morgan?”

“Tsk, ho mandato un sms a Lestrade almeno sei ore fa dicendogli di mettere sotto torchio il cognato della vittima. E’ un osso duro ma confesserà, non ho dubbi. No, ti ho svegliato perché sono le due di venerdì mattina”.

“Oh, Sherlock. Apprezzo davvero molto che tu mi faccia da radiosveglia personale, ma non ho bisogno anche del segnale orario. Ti ricordo che ho un ambulatorio da aprire tra poche ore e dei pazienti da ricevere, io”.

“John John John” Holmes scuote la testa con commiserazione. “Possibile che i tuoi neuroni non riescano a formare una sinapsi degna di questo nome? E sì che è semplice: sono le due e cinquanta secondi di venerdì mattina e Boswell si sveglierà tra un minuto e dieci secondi”.

“Puoi ripetere, scusa?” aggrotta la fronte John. Allunga una mano verso il comodino alla sua sinistra, cercando a tentoni l’interruttore dell’abat-jour. Persino alla fioca luce della lampadina gli occhi di Sherlock appaiono trasparenti come cristallo.

“Ho detto che sono-”

“No, non quello. Come fai ad essere sicuro che Boswell si sveglierà tra poco?”

“Che domande: l’ho monitorato, è ovvio!”

“Cielo, dimmi che stai scherzando” mormora poco convinto, prevedendo la risposta.

“Perché dovrei, scusa? E’ vero” replica il detective, genuinamente perplesso. “Nostro figlio ha un bioritmo alquanto interessante, sai. Nei giorni dispari si sveglia alle due e due minuti in punto -tra meno di trenta secondi, quindi- mentre nei giorni pari posticipa il risveglio di un’ora e diciotto minuti. Affascinante, non trovi? E’ preciso come un orologio a cucù. Chiaramente ha preso da me” conclude il suo ragionamento, visibilmente orgoglioso.

“Il Signore ce ne scampi e liberi” biascica John, esterrefatto.

Un pianto sommesso ma ben udibile li distoglie dalle loro considerazioni.

“Che ti dicevo? Quel bambino è incredibilmente metodico”.

“Non dire assurdità e vallo a prendere, io penso a scaldare il biberon” lo interrompe il dottore, soffocando uno sbadiglio e infilandosi la vestaglia, diretto in cucina.

 

 

Decidere il nome da dare al bambino era stato un mezzo incubo. John, ancora prima di venire a conoscenza del sesso, a scanso di equivoci aveva dichiarato che non avrebbe mai accettato di chiamare la propria figlia Irene, come Sherlock aveva incautamente suggerito. Il detective, dal canto suo, dopo che l’ecografia aveva rivelato che sarebbero diventati genitori di un maschietto, aveva bocciato categoricamente Hamish con la scusa che “è decisamente obsoleto, John, e poi è già il tuo secondo nome”.

Alla fine, non si sa come, era saltato fuori Boswell (dall’omonimo James, biografo di Samuel Johnson) ed era piaciuto ad entrambi. John, però, restava dell’idea che Hamish fosse un gran bel nome, checché ne dicesse quel nicotinomane del suo compagno.

 

 

“Ed eccoci qui, Bos. Vuoi andare in braccio alla mamma?”

Sherlock fa capolino dal salotto, un fagottino di tre mesi ancora caldo di sonno stretto al petto e infilato in una deliziosa tutina blu mare con tanti piccoli bulldog stampati sopra.

“Ma certo che vuole il papà. Controlla che il latte sia sufficientemente caldo, piuttosto, e cerca di non ustionarti come al solito, per favore” ribatte John, allontanandosi dal fornello e avvolgendo suo figlio in un morbido abbraccio.

Il bambino -uno Sherlock in miniatura, addirittura gli stessi identici zigomi- lo guarda quasi con serietà, tutto intento a succhiarsi il pollice e a gorgogliare tra sé e sé. E’ così piccolo, così perfetto. E sono stati loro due a generarlo.

“Pappa in arrivo!” lo avverte la voce bassa e modulata che John ha imparato ad amare nel corso dei tre anni (di già?) trascorsi a Baker Street.

“Grazie” si volta verso il compagno, accettando il biberon. Lo porge a Boswell, che attacca a poppare voracemente e con piena soddisfazione.

Passano così diversi minuti, con il dottore che culla premurosamente il frugoletto e Sherlock che li osserva rapito, come se non credesse ai suoi occhi. Uno dei suoi rari sorrisi esitanti gli curva all’insù gli angoli della bocca. “John, stavo pensando una cosa”.

“Dimmi”.

“Visto e considerato che l’esperimento sembra riuscito, Boswell cresce bene e noi ce la stiamo cavando meglio di quanto mi aspettassi… Perché non ci riproviamo? Mi piacerebbe avere un mini John in giro per casa e Mrs Hudon lo adorerebbe, ne sono certo” propone, serissimo.

L’altro sussulta un poco, preso alla sprovvista. Un secondo figlio? Magari un altro maschio, da chiamare Hamish?

“Oh, Sherlock…” bisbiglia intenerito.

“Significa che accetti?”

“Certo che sì” si blocca. Un’idea improvvisa lo fa scoppiare a ridere. “Però stavolta tocca a te!”

 

 

 

 

Ehm. E’ una stupidata, come avete potuto constatare. D’altronde, visto il modo in cui era cominciata, c’era da aspettarselo. Un premio speciale a chi indovina tutti i riferimenti all’opera letteraria e ai due film diretti da Guy Ritchie!

Questa, se vi interessa, è la mia pagina autore su Facebook, per seguire in diretta i miei scleri (http://www.facebook.com/pages/Il-Genio-del-Male-EFP/152349598213950).

Grazie a chi è arrivato fin qui. Un bacio e a risentirci!

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Capitolo 3
*** Lavori in corso ***


NOTE: Chi non muore si rivede… Sì, ricordo di aver presentato il precedente capitolo come secondo e ultimo. Non avevo tenuto conto, però, dell’entusiasmo manifestato da voi lettori nei confronti di questo bizzarro esperimento, né mi aspettavo che le richieste di continuare la storia fossero così tante. Indi per cui, grazie a Grinpow, Maia in Wonderland, Princess_Perona, griffoncina2009 e Taila, perché per merito vostro ho deciso di proseguirla, yay! (Prendetevela con loro se pensavate (invano) di esservi liberati di me).

Facezie a parte, a questa seguirà una quarta parte che provvederò a scrivere quanto prima. Vi avviso in anticipo, però, che potrei ritardare un pochino i tempi di aggiornamento: sono sotto esami e inoltre il mio pc è in manutenzione, sicché devo utilizzare quello di mio papà. Spero che il capitolo sia all’altezza delle vostre aspettative.

Buona lettura e a risentirci a fine pagina!

 

 

 

 

 

Tutto si poteva dire di Sherlock Holmes meno che non fosse un uomo determinato. Estremamente determinato. Benché non morisse dalla voglia di sperimentare sulla propria pelle gli effetti psicofisicamente devastanti degli ormoni della gravidanza, si era messo in testa di dare un fratellino od una sorellina a Boswell, e niente e nessuno l’avrebbe distolto dal suo proposito.

Erano così cominciate delle lunghe e abbastanza spossanti -per John- sessioni di sesso a scopo riproduttivo, termine espressamente coniato dal detective. Che poi, a voler essere del tutto onesti, il dottore si sarebbe anche potuto abituare volentieri a quella novità. Gli restavano ancora tre mesi del congedo per maternità (paternità, insisteva a chiamarla lui) e la prospettiva di trascorrerli occupandosi di Boswell che, bontà sua, era un bambino tranquillissimo e in piena salute e, alternativamente, scopandosi Sherlock, era alquanto allettante.

Ma… C’era un ma, ovviamente. Era una cosa da poco, forse, ma a lungo andare aveva finito per esasperarlo.

“Mi raccomando, John. Fa’ del tuo meglio” era la frase che gli rivolgeva il compagno ogni dannatissima volta che si accingevano a fare sesso, guardandolo serio con quei suoi occhi di ghiaccio bollente e il respiro mozzato per l’eccitazione.

Ora, tutto si poteva dire di John Watson meno che non fosse un uomo paziente. Estremamente paziente. Era stato in grado di gestire un sociopatico ad alta funzionalità da tre anni a questa parte e di dargli pure un figlio senza mai soffrire di crisi di nervi. La sua pazienza era granitica, ammirevole, eroica.

Però.

Però.

Però (respira, John).

Non era colpa sua se i tentativi fatti fino a quel momento erano andati a vuoto. Lui si impegnava, maledizione! Si sfiancava, a dirla tutta. Sherlock gli saltava addosso almeno tre volte al giorno (anche quattro, se non erano impegnati ad aiutare Lestrade a risolvere un caso) e lui non si tirava mai indietro. Mai.

“Che c’è, John? Ti vedo distratto” aveva osservato il compagno mentre erano a letto.

“Stavo pensando”, aveva risposto lui, spingendo più a fondo, “che fare l’attivo è abbastanza noioso. Perché non mi dai il cambio, una volta ogni tanto?”

“Non dire assurdità! E se rimani incinto al posto mio?” aveva ringhiato Sherlock, trattenendo un gemito.

“Correrò il rischio, che vuoi che ti dica? Sii ragionevole: tra cinque giorni riprendo a lavorare, non avremo più tempo per starcene a gambe all’aria con la stessa frequenza. Ci abbiamo provato, non ha funzionato. Prendiamone atto” l’aveva blandito, chinandosi sul suo collo niveo per depositarvi un bacio.

“Io, arrendermi? Giammai. Ho preso un impegno ed intendo rispettarlo. Ne va del mio orgoglio virile, John”.

Il dottore aveva sospirato, sconfitto. Quando Sherlock si impuntava non c’era verso di farlo ragionare.

 

 

Se John, nella sua ingenuità, aveva sperato che il compagno scendesse a più miti consigli, dovette ben presto ricredersi.

Erano trascorse appena due settimane dal suo rientro al lavoro quando, una sera, tornato a casa e bisognoso di un bagno caldo e di una bistecca ben cotta, assistette ad una scena che gli fece passare di colpo l’appetito.

Sherlock aveva ingombrato nuovamente il tavolo della cucina con le sue mille e una provetta, il microscopio, due becchi Bunsen e svariati campioni che aspettavano di essere analizzati. In quel momento era assorto nella contemplazione di un non meglio identificato liquido ambrato contenuto in una fiala che teneva sollevata all’altezza degli occhi: ordinaria amministrazione. Peccato, però, che non fosse solo. Infilato in una specie di zainetto porta neonati appeso alle sue spalle, infatti, stava Boswell.

Il dottore vide rosso. “Sherlock, razza di sociopatico!” avanzò a grandi passi verso il detective.

“Bentornato a casa, caro. Non vieni a darmi un bacio?” lo salutò l’altro velatamente ironico.

“Ringrazia il Cielo che non ti ho ancora preso a calci in culo, idiota!” sbraitò. “Come ti è saltato in mente, incosciente che non sei altro, di coinvolgere mio figlio in uno dei tuoi assurdi esperimenti?!”

“John, per la miseria, calmati. Vuoi che Mrs. Hudson ti senta dare di matto?”

“Me ne frego di Mrs. Hudson! Voglio sapere in preda a quale delirio di deficienza eri quando hai avuto la bella pensata di mettere in pericolo un bambino di sei mesi-”

“John, smettila di strillare come una pescivendola e ascoltami. Boswell sta benone -dorme, te ne sei accorto?- e non ha inalato alcuna sostanza velenosa, né tantomeno è venuto a contatto con un acido. Sto solo analizzando i residui del tè che abbiamo bevuto a colazione, niente di tossico. Ho tutto sotto controllo” lo zittì Sherlock, gelido come un iceberg.

John lanciò un’occhiata al piccolo che dormiva nella grossa, in effetti, ed era il ritratto della beatitudine. Un forte senso di colpa lo assalì.

“Oddio, scusa. Scusami. Sono un idiota, so che non faresti mai nulla che possa nuocere a Boswell. Scusami, Sherlock” mormorò con un’espressione da cane bastonato.

A quel punto il detective compì un gesto inaspettato: posò la fialetta da qualche parte sul tavolo e, voltatosi verso di lui, gli circondò il volto con entrambe le mani, chinandosi fino a far congiungere le loro fronti.

“Scuse accettate, dottore. Sei stressato, evidentemente è stata una giornata pesante in ambulatorio” lo cullò la sua voce vellutata. “Adesso va’ a goderti il bagno che tanto agogni, io nel frattempo ti preparo una bistecca come piace a te. Ben cotta, ho indovinato?” accennò un sorriso.

“Io… Sì, insomma, grazie” balbettò lui. “Come-?”

“Dovresti averci fatto l’abitudine, ormai. Fila a lavarti, ho una bella notizia per te”.

 

 

Un quarto d’ora dopo, rinfrancato nel corpo e nello spirito, John trovò ad aspettarlo un cenetta assolutamente deliziosa (che consumò su un vassoio seduto in poltrona, perché il tavolo era off-limits): bistecca cotta a puntino, patate arrosto e spinaci al burro, con un bicchiere di vino rosso ad accompagnare il tutto e addirittura del budino al cioccolato per dessert.

“A cosa devo questo banchetto?” domandò tagliando la carne, piacevolmente sorpreso.

“Te lo sei meritato” scrollò le spalle l’altro. “Come ti sembra, è venuta bene?” si informò poi, accomodandosi sul divano.

“Squisita” assicurò dopo aver inghiottito il boccone. “Ma tu non mangi nulla? Vuoi una patata, un po’ di spinaci?” gli offrì, premuroso.

“No, grazie. E’ tutto il giorno che vado avanti a tè non zuccherato, sono a posto così”.

“Cosa? Sherlock, sei impazzito?” esclamò, rischiando di strozzarsi col cibo.

“Certo che no. Ha a che fare con la bella notizia di cui ti dicevo prima, sai”.

“No, non so. Se ti spieghi meglio magari riuscirò a capire perché  ti sei dato alla dieta liquida. Come se ne avessi bisogno, poi” borbottò, occhieggiando con un po’ d’invidia l’ossatura sottile del compagno.

“Sta’ tranquillo, non intendo restare ancora per molto a dieta. Però credo di aver trovato un modo per rimanere incinto” annunciò enfaticamente.

“Dici sul serio?”

“Precisamente. Il segreto, molto semplicemente, sta nel non assumere zuccheri di alcun tipo”.

“Scusa?” infilzò una patata, scettico.

“Comprendo la tua incredulità, John. Sembrava impossibile persino a me, tuttavia ho scoperto che l’assunzione di zuccheri -che siano semplici o complessi- aumenta la produzione di testosterone. Affascinante, non trovi?”

“Continua” masticò l’altro, assorbito dal racconto.

“Passando in rassegna le tue abitudini alimentari, ho notato che solitamente rifuggi qualsiasi cosa che contenga zucchero. Non lo metti mai nel tè, non mangi dolci; ti concedi un piatto di pasta quando pranziamo da Angelo, ma è l’unico strappo alla regola. Sicché -conclusione logica- il tuo livello di testosterone è sicuramente più basso del mio. Mi segui?”

John annuì, bevendo un sorso di vino.

“A sostegno della mia tesi ho qui con me le tue analisi del sangue risalenti all’anno scorso, quando hai scoperto di essere incinto. All’epoca non ci ho prestato sufficiente attenzione, ma andandole a rileggere ho trovato quel che cercavo. Guarda”, gli passò un foglio, “i valori evidenziati in giallo sono quelli di estrogeni e testosterone: i primi sono quasi il doppio dei secondi. Avevi un sacco di ormoni femminili in corpo” terminò il suo ragionamento.

“Vieni al dunque, Sherlock” lo incitò il dottore, un pochino offeso nella sua mascolinità.

“Ebbene, è da qualche giorno che mi nutro esclusivamente di verdure bollite e tè amaro -che schifo, a proposito- per abbassare il livello di glucosio nel sangue. Preparati, perché da stasera ti verrà richiesto il doppio dell’impegno, campione” mormorò allusivo.

“Eh?” avvampò John. “Oh. Aspetta un momento: la cena così sostanziosa e proteica serve a-”

“A fornirti il quantitativo d’energia necessario per assolvere al tuo dovere, esatto. Mangia tutto, mi raccomando, avrai modo di smaltire” gli sorrise maliziosamente.

 

 

Diciotto giorni dopo, Sherlock Holmes eseguì un test di gravidanza che risultò essere positivo.

 

 

 

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Ooook, mi auguro davvero di non beccarmi qualche pomodoro volante in faccia.

Questa, se vi interessa, è la mia pagina autore su Facebook, per seguire in diretta i miei scleri (http://www.facebook.com/pages/Il-Genio-del-Male-EFP/152349598213950).

A tutti voi che sopportate con pazienza i miei deliri ed anzi li incoraggiate, un bacione <3.

Alla prossima!

 

 

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Capitolo 4
*** Sorpresa! ***


 

NOTE: Come si suol dire, l’appetito vien mangiando… Ed io, a furia di scrivere cazzate random, mi sono affezionata a questa storia, motivo per cui avrei una mezza intenzione di farne una long fiction come si deve. Che ve ne pare? E’ un’idea sensata o è meglio che mi fermi qui, limitandomi a concludere con al massimo una quinta e ultima parte? Fatemi sapere, la vostra opinione è fondamentale.

Vi avviso, questo capitolo è un po’ più pazzerello del solito. Partecipa al primo giorno della Sherlock Week @ sherlockfest_it (finalmente una botta di vita, yay!).

Buona lettura!

 

 

 

 

 

Il cellulare del dottor Watson prese a squillare quasi a tradimento mentre era impegnato a godersi la sua meritata pausa pranzo, piluccando un’insalata di pollo in compagnia di Sarah.

“Scusami un attimo” si rivolse alla donna, lanciando un’occhiata al display lampeggiante. Si alzò e si allontanò dal tavolo; ci teneva alla sua privacy.

“Pronto?” rispose incerto, non avendo riconosciuto il numero.

“John, sono io”.

“Sherlock? Tu non mi chiami mai al telefono. E’ successo qualcosa?” si agitò, la voce venata d’ansia.

“Niente di rilevante, non preoccuparti. E’ stato Boswell a chiedermi di telefonarti, in verità” lo informò il detective.

“Come no” scoppiò a ridere. “Perché non ammetti semplicemente che ti mancava il suono della mia voce, invece di tirare in ballo nostro figlio?”

“Se fosse come dici tu non avrei problemi a darti ragione, ma è stato davvero Boswell” ribadì, risoluto. “Mi ha guardato, poi ha indicato il cellulare e ha detto: ‘Telefono. Papà’, portandosi una mano a mo’ di cornetta vicino all’orecchio. Più chiaro di così…”

“Sherlock”, il dottore alzò gli occhi al cielo, “è troppo piccolo e decisamente troppo umano per emulare E.T. Piantala, ok? Ti stai rendendo ridicolo”.

“Perché mai dovrei mentirti, John?” si schermì lui, suonando quasi offeso.

“Sei lo stesso uomo che una volta ha cercato di drogarmi con dello zucchero nel caffè. Permetti che, almeno, non prenda ogni tua parola per oro colato” borbottò, un po’ stizzito.

“Oh Cielo, ancora con questa storia” sospirò rumorosamente Holmes. “D’accordo, visto che non mi credi te lo passo direttamente”.

“Cosa? Sherlock, che diamine-”

“Telefono” gli rispose una vocina pigolante ed inconfondibile. Suo figlio.

“Boswell, tesoro, sei tu?” domandò John, gli occhi sgranati.

“Papà! Papà!” trillò il bambino tutto contento.

“Sì, amore, sono papà” mormorò intenerito. “Stai bene, pulcino?”

“Tì tì! Papà!”

“Bravo cucciolo. Mi ripassi il babbo, adesso?”

“Vabbene. Bacio, papà!” cinguettò Boswell schioccando le labbra.

“Bacio anche a te, campione” lo salutò il padre, che non si stava sdilinquendo solo perché non era dignitoso, per un uomo della sua età, mettersi saltellare sul posto e squittire incoerentemente.

“Che ti dicevo?” lo raggiunse il timbro basso e morbido del compagno, visibilmente orgoglioso.

“Oddio, Sherlock, nostro figlio è un genio! Ha solo dieci mesi e già si esprime così bene, ha un’ottima dizione! Ed è talmente dolce” balbettò, gettando -giusto un pochino- la dignità alle ortiche.

“Buon sangue non mente: il mio cervello ed il tuo cuore” e John lo sentì sorridere.

“Scusami se non ti ho creduto subito” sussurrò, contrito.

“Fa niente. Per una mente comune come la tua è difficile abituarsi a tanta genialità, lo capisco” lo prese in giro.

“Sì, beh” ridacchiò. “A proposito, a chi appartiene il cellulare da cui mi stai chiamando? Sento un brusio in sottofondo”.

“Oh, è di Anderson”.

“Anderson? Santa pace, mica avrai portato Boswell a fare il sopralluogo di un luogo del delitto-”

“No, sono a Scotland Yard. Mi ha convocato Lestrade, si tratta di un caso di furto a livello internazionale; nulla di rischioso per la salute mia e dei bambini” disse, sottolineando il plurale.

“Magnifico. Tu, piuttosto, come ti senti? Nausea, mancamenti, crampi?” chiese in tono professionale.

“Bene. No, no e no”.

“Meglio così. Adesso devo lasciarti, Sarah mi sta facendo segno che è ora di tornare in ambulatorio” annuì in direzione della collega, tastandosi le tasche della giacca alla ricerca del portafogli. “Ricordati dell’appuntamento di questo pomeriggio e dai un bacio al piccolo da parte mia. Salutami Lestrade”.

“Sarò fatto, dottore”.

“Ti amo”.

“Anche io” rispose immediatamente il compagno con invidiabile nonchalance.

“Ci vediamo dopo” chiuse la telefonata John, frastornato, domandandosi se si sarebbe mai abituato a sentire Sherlock esprimere i suoi sentimenti così liberamente.

 

 

“Molly Hooper? Abbiamo sbagliato reparto, per caso?” si stupì Sherlock, steso sul lettino in attesa di essere visitato con John che gli teneva la mano, quando vide la patologa varcare la soglia della stanza.

“E’ sempre un piacere vederti, Sherlock. John” li salutò timidamente lei. Un guizzo divertito le illuminò gli occhi quando il suo sguardo si posò sul pancione di quattro mesi abbondanti del detective.

Come biasimarla? Persino John trovava assolutamente esilarante la visione di uno Sherlock incinto, con i piedi inconsciamente a papera e le lombari inarcate.

“Ciao Molly” le sorrise. “Sei passata a trovarci?”

“Non proprio. In realtà sono qui per visitare il futuro mammo” e si morse le labbra per non scoppiare a ridere.

“Tsk, al St Bartholomew devono proprio essere messi male per chiedere ad una patologa, per quanto discretamente competente, di effettuare un’ecografia” ironizzò il mammo in questione.

Sherlock” lo rimbrottò l’altro.

“C’è scarsità di personale, ultimamente” si strinse nelle spalle lei. “Ma non preoccupatevi, so quel che faccio: sto prendendo una seconda laurea in ginecologia”.

“Patologa e ginecologa, eh? Morboso” rifletté soprappensiero Sherlock.

“Grandioso, vorrai dire! Complimenti, Molly, è una bellissima notizia” si congratulò John sinceramente entusiasta.

“Grazie” arrossì lievemente la dottoressa. “Beh, vogliamo procedere?”

“Prego” concesse Holmes, trasalendo appena quando il suo ventre venne a contatto con il gel freddo. Strinse più forte la mano del biondo.

“Quasi me ne dimenticavo” Molly mosse la sonda, “dov’è Boswell? E’ da un po’ che non lo vedo”.

“L’abbiamo affidato a Mrs. Hudson. Sapessi come lo vizia, neanche fosse un suo nipotino! E proprio oggi ha pronunciato le sue prime parole” disse John, gonfiando il petto.

“Di già?” sorrise lei, lo sguardo fisso sul monitor.

“Sì, è un portento di bambino-”

“Scusa se ti interrompo, John, ma ho appena sentito il battito dei cuori” intervenne la ragazza, emozionata.

Silenzio.

Sherlock ed il compagno si scambiarono un’occhiata sgomenta. “Molly Hooper, abbiamo sentito bene: i cuori?” gracchiò il primo.

“Sì sì, i cuori. Sono due, sentite?” alzò il volume dell’audio. “Ecco, guardate qui”, indicò un punto sullo schermo, “quelle sono le testoline”.

“Due?” ripeté il detective.

“Senza ombra di dubbio” affermò soddisfatta.

“Oh cielo, credo di non sentirmi troppo bene” smozzicò, a fatica, il dottore.

“E c’è di più”, proseguì lei imperterrita, “sono un maschio ed una femmina, pensate un po’!”

John si sentì venire meno, e svenne con la stessa grazia di un sacco di patate.

 

 

 

_______________________________________________________________________________

Well, anche questo capitolo è terminato. Che ve ne è parso? E soprattutto, la long fiction s’ha da fare o no?

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Statemi bene, cari!

*si eclissa*

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Capitolo 5
*** Benvenuti! ***


NOTE: Credetemi, non sembra possibile neppure a me: sono tornata, finalmente! A chi non lo sapesse e/o si stesse chiedendo che fine avessi fatto, chiedo per prima cosa scusa per non essere riuscita ad avvisarvi tutti personalmente. La sfiga si è accanita contro di me, costringendomi a separarmi dal portatile gentilmente prestatomi da mio papà. Temevo che avrei dovuto aspettare ancora a lungo prima di vedere una pagina World bianca con i miei occhi, ma -ringraziando Zeus- me la son cavata con ‘solo’ con una quindicina di giorni.

Comunque sia, quel che conta è che sono tornata per rimanere. Sorte avversa permettendo, gli aggiornamenti riprenderanno la loro cadenza settimanale. La long fiction si farà, yay! Ciò detto, non mi resta che lasciarvi al capitolo e a rimandare ringraziamenti e note finali nel mio angulus.

Buona lettura!

 

 

 

 

 

“John”, aveva esordito Sherlock non appena erano usciti dal St Bart’s, “sono a conoscenza del tuo malsano desiderio di chiamare il maschio Hamish. Ebbene, se acconsentirai ad avere una Irene in famiglia, da parte mia non mi opporrò al tuo volere. Queste sono le condizioni, prendere o lasciare”.

“No. No. Piuttosto la chiameremo come mia sorella, ma Irene mai” si era subito ribellato il dottore, con le mani chiuse a pugno.

“E’ la tua ultima parola? Allora sappi che ti impedirò di affibbiare a nostro figlio il tuo imbarazzante e antiquato secondo nome, caro” era stata la replica noncurante dell’altro.

“Ah sì? E come, sentiamo?”

“Devo ricordarti che Mycroft è la colonna portante del governo del Regno Unito? Basterebbero una telefonata all’anagrafe e qualche bustarella a chi di dovere” aveva ghignato tra sé e sé.

“Non oserai…!” aveva biascicato John, stizzito oltre ogni limite. “Si può sapere perché diamine ci tieni così tanto che una povera bimba innocente sia omonima di una prostituta d’alto bordo con l’hobby dello spionaggio?”

“Perché è stato grazie a lei che ho capito che eri geloso del nostro rapporto, e di conseguenza di avere qualche chance con te. Elementare, Watson” gli aveva rivolto uno dei suoi rari sorrisi a trentadue denti che gli conferivano una certa aria fanciullesca.

“Però-” era arrossito John. Gli rodeva ammetterlo, ma Sherlock stava dicendo la verità.

“Galeotta fu Miss Adler” aveva proseguito sempre sorridendo.

“Io-”

“Vuoi forse negarlo?”

“No”, aveva infine sospirato lui, “no. Se la metti così… d’accordo, vada per Irene” si era visto costretto a cedere.

 

La guerra per decidere i nomi era terminata ancor prima di cominciare.

 

 

Erano trascorsi altri quattro mesi. Il ventre di Sherlock era lievitato fino a raggiungere le dimensioni di un gigantesco cocomero, ma lui non aveva messo su neanche un grammo di ciccia superflua. Gli zigomi erano affilati come sempre, le mani affusolate ed il collo lungo e sottile come lo stelo di un fiore.

Con sommo scontento di John, aveva deciso di non sospendere la sua attività di consulente investigativo. Tutti gli agenti di Scotland Yard, ormai, si erano abituati a vederlo comparire in Centrale un giorno sì e l’altro pure, l’usuale andatura spedita ed elegante appena rallentata dal pancione. O meglio, quasi tutti.

Donovan e Anderson, ad esempio, si ammazzavano (purtroppo mai letteralmente, pensava infastidito Sherlock) dalle risate ogni volta che i loro sguardi si posavano sulla figura del detective, specie se lo vedevano arrivare con Boswell infilato nello zaino port-enfant come un piccolo koala aggrappato al suo eucalipto.

“Ma guarda un po’ chi abbiamo qui, Anderson! Lo Strambo con la prole attuale e futura” aveva avuto il cattivo gusto di berciare la brunetta durante una delle frequenti improvvisate di Holmes, indicandolo al collega e andandogli  incontro.

“Donovan, fossi in te penserei a camuffare con uno spesso strato di fondotinta il succhiotto che fa capolino dal colletto della tua camicia” l’aveva freddata l’uomo, fissandola con sprezzo dall’alto del suo metro e ottantacinque.

L’agente era arrossita, non si sa se per l’irritazione o l’imbarazzo, ed il suo amante non aveva tardato a vendicarne l’onore.

“Sgradevole come al solito, Holmes: cos’è, sei per caso in crisi d’astinenza? Il tuo dottorino ti ha nascosto le sigarette e non ti scopa più per non compromettere la salute delle creature?” l’aveva apostrofato il poliziotto, rivolgendo un’occhiata a metà tra il beffardo e il disgustato al ventre del detective.

Prima però che quest’ultimo avesse il tempo di passare al contrattacco, la voce squillante di Boswell l’aveva distratto momentaneamente. “Babbo, braccio!”

Non l’aveva detto in tono lamentoso né prossimo alle lacrime ma, al contrario, così categorico che Sherlock non aveva esitato nemmeno un istante. Aveva posato lo zaino a terra e ne aveva sfilato il figlio per prenderlo in braccio, avendo cura che le sue gambine non premessero sul pancione.
Il bambino aveva annuito soddisfatto, poi si era voltato in direzione di quei brutti cattivi che avevano osato offendere suo padre.

“Tu, Scema”, aveva puntato l’indice contro Sally, “e tu, Più Scemo” aveva continuato, spostandolo su Anderson. “Zitti. Babbo bravo, voi cchifo. Fate cchifo, ffigati!” li aveva accusati con occhi trasparenti ed impietosi.

I due erano rimasti annichiliti (venire rimproverati con tanta asprezza da un frugoletto di quattordici mesi non era cosa di tutti i giorni) e il detective aveva approfittato del loro sgomento per lasciarseli alle spalle, diretto verso l’ufficio di Lestrade.

“Ben detto, figlio mio. Non permettere mai che dei totali incapaci  cerchino di sminuire la tua superiorità o che gettino fango addosso a te e ai tuoi cari. Rendi sempre pan per focaccia, ricordalo” aveva sussurrato all’orecchio del bambino, con un bacio leggero sui suoi riccioli scuri.

Boswell aveva squittito dolcemente, posandogli una manina paffuta sulla guancia in segno di tacita intesa.

 

 

“Sherlock?”

“John”.

“Sherlock!”

“John?”

“Piantala di fare lo gnorri. Dove cavolo sei, si può sapere? La pizza ormai è immangiabile, Boswell chiede di te ed io mi sto rodendo il fegato dall’ansia! Dove ti trovi?”

“Non hai alcun motivo di preoccuparti, John. Sto assistendo ad un sopralluogo a White Chapel, c’è stata una sparatoria tra bande rivali e Lestrade ha bisogno del mio aiuto”.

“Ma santa pazienza, Sherlock! Lo vuoi capire che non puoi disertare la cena con il tuo compagno e tuo figlio per bazzicare quartieri malfamati, all’ottavo mese di gravidanza e con due gemelli in grembo, tra l’altro?”

“A questo proposito…”

“Cosa?”

“…”

“Sherlock, che sta succedendo?”

“…”

Sherlock Holmes, hai tre secondi di tempo prima che cominci a sciorinarti gli insulti più sanguinosi del mio repertorio”.

“John, da bravo, calmati e sfrutta i tuoi neuroni ancora in ottimo stato. Dimmi, da quanto tempo non piove a Londra?”

“Cosa?”

“John, per favore. E’ di vitale importanza che tu mi dia una risposta precisa”.

“Beh. Siamo ad agosto, direi almeno tre settimane. Perché?”

“Le opzioni sono due: o sono capitato sull’unica pozzanghera della città resistente al caldo estivo oppure mi si sono appena rotte le acque”.

 

 

Tra mezzanotte e mezza e mezzanotte e quaranta del ventidue agosto il nucleo famigliare Holmes-Watson si arricchì di due nuovi componenti: Irene Harriet ed Hamish Mycroft.

 

 

 

________________________________________________________________________________

Uff, siamo finalmente arrivati a fine capitolo. *si asciuga il sudore dalla fronte* Non ho altro da dire, a parte ringraziare di cuore Princess_Perona e Taila per i loro preziosissimi consigli.  

Questa, se v’interessa, è la mia pagina autore su Facebook, per seguire in diretta i miei scleri (http://www.facebook.com/pages/Il-Genio-del-Male-EFP/152349598213950).

Sayonara, miei prodi!

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Capitolo 6
*** Famiglia - parte 1 ***


NOTE: Aggiornamento puntuale come un orologio: contenti?

Angolo dell’auto-spam: questa (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=966237&i=1) è la prima parte di una one-shot in due atti sempre su Sherlock, ma decisamente angst. Se vi andasse di farci un salto e darmi un vostro parere, qualunque esso sia, mi fareste un regalo.

Buona lettura e a risentirci a fine capitolo!

 

 

 

 

 

“Dici che è una buona idea presentarci a casa loro così, senza preavviso?” domandò dubbioso il più giovane dei due, giocherellando nervosamente con il fiocco di seta blu che chiudeva il pacchetto posato sulle sue ginocchia.

“Di certo lui non farà i salti di gioia vedendomi, ma confido nel fatto che sarà troppo occupato a tenere a bada due neonati per impedirmi di entrare” meditò vagamente machiavellico il secondo uomo. “In fondo sono lo zio e devo ancora conoscere il mio nipotino maggiore: è inaudito!” esclamò indispettito, aggrottando le sopracciglia.

“Sì, ma non capisco cosa c’entri io”.

“Non essere ridicolo, Greg. Sei il padrino di Boswell nonché amico degli orgogliosi genitori, è tuo dovere passare a congratularti e a conoscere i gemelli” gli sorrise sornione Mycroft Holmes.

“Ok, hai ragione tu” si arrese Lestrade. “Però, se non ricordo male, avevamo deciso di aspettare ancora un poco prima di farci vedere insieme in pubblico” si strinse nelle spalle.

“Aspetta un attimo”, scoppiò a ridere l’altro, “per te il mio scostante fratellino, quel martire di John ed i loro tre pargoli sono il pubblico? Seriamente?”

“Sai benissimo a cosa mi riferisco, Mycroft. Si tratta pur sempre di un membro della tua famiglia; è chiaro che tieni al parere di Sherlock e che gli vuoi bene… Insomma, sei proprio sicuro di voler presentare me, un comunissimo ispettore, come tuo compagno? Potresti avere di meglio. E poi non è nemmeno detto che tra noi due possa durare, in fondo ci frequentiamo solo da sei mesi” si passò una mano nella folta chioma precocemente grigia, abbassando gli occhi.

“Capisco”, gli rivolse uno sguardo pungente, “non mi ritieni capace di impegnarmi in una relazione”.

“Cosa?” alzò la testa di scatto. “Mycroft, che diavolo-”

“Siamo arrivati, Mr. Holmes: 221B, Baker Street” annunciò la voce stentorea dell’autista della berlina nera a bordo della quale stavano viaggiando.

“Grazie, Alfred. Anthea”, si rivolse alla bella fanciulla nerovestita seduta sul sedile del passeggero, “rimanete in zona. Non dovremmo impiegarci più di un paio d’ore, in caso contrario ti manderò un messaggio”.

“Sissignore” replicò lei, intenta come sempre a digitare ininterrottamente sul palmare.

“Perfetto” si slacciò la cintura di sicurezza e impugnò il manico del fedele ombrello, materializzatosi come per incanto alla sua sinistra.

“Mycroft”.

Con una mano già sulla levetta per aprire la portiera, si volse verso Lestrade che lo fissava con occhi imploranti. “Non preoccuparti, Greg. Non me la sono presa e non metterò il broncio per farti dispetto” mormorò rassicurante, allungandosi in avanti per posargli un bacio sulla bocca. “Porti tu la busta con i regali per i bambini?”

 

 

“Che delizioso quadretto famigliare” commentò il maggiore dei fratelli Holmes subito dopo aver salito i diciassette gradini che separavano la porta d’ingresso dal salotto.

Lo scenario che si parò davanti agli occhi dei due visitatori, però, non aveva niente di delizioso né tantomeno idilliaco. Sherlock e John tenevano tra le braccia un gemello urlante a testa (avevano dei polmoni niente male, considerando il loro scarso mese di vita) e Boswell, serio ed impettito come un soldatino, stava energicamente succhiandosi il pollice aggrappato al polpaccio del dottore. Non appena riconobbe Lestrade si diresse con aria determinata verso di lui e gli afferrò trionfante la gamba dei pantaloni, il tutto senza smettere di ciucciare.

“Su su su, zio Ghegg” pretese, allungando le braccine verso l’alto, e il poliziotto lanciò ai genitori un’occhiata interrogativa.

“Ciao, Greg. Prendilo pure in braccio, sembra felice di vederti” lo invitò John, alzando la voce per sovrastare il pianto dei neonati, sorpreso da quella visita inaspettata ma ospitale come sempre.

Gregory sollevò il bambino in modo un po’ maldestro e gli diede il proprio mazzo di chiavi per giocare. Il piccolo si illuminò come un raggio di sole, rivolgendogli un gran sorriso e mettendo in mostra una chiostra quasi completa di denti simili a perline. L’uomo si accorse di avere ricambiato con un sorriso da orecchio a orecchio solo quando avvertì su di sé lo sguardo penetrante di Mycroft, che lo studiava con curiosità venata di tenerezza. Rimase spiazzato, ma prima che potesse reagire in qualche modo venne distratto da una musica sconosciuta.

Riportò l’attenzione sui suoi amici e notò che adesso le braccia del dottore erano entrambe occupate dai gemelli. Sherlock invece stava facendo scorrere l’archetto sullo Stradivari, producendo una melodia accattivante e dolcissima. I bambini, Boswell compreso, si quietarono all’istante e nel giro di qualche minuto erano profondamente addormentati.

“Incredibile” sussurrò il poliziotto, muovendosi con cautela per non svegliare il figlioccio.

“Un Lieder di Mendelsshon, se non sbaglio. E’ sempre stato il tuo preferito, Sherlock” osservò Mycroft amabilmente.

“I bambini lo trovano molto rilassante” interloquì John, vedendo che il detective sembrava intenzionato ad ignorare la presenza del fratello. “E’ l’unica ninna nanna che abbia effetto su di loro” spiegò. “Vogliate scusarmi, porto le belve a dormire e sono subito da voi. Mettetevi comodi, fate come se foste a casa vostra” e si eclissò nel corridoio.

“Sherlock” esordì Lestrade a mo’ di saluto. “Posso restituirti Boswell? Ho paura di svegliarlo, goffo come sono” confessò timidamente.

“Ciao, Gregory. Accomodati” lo invitò con un gesto della mano il detective, ben contento di riprendere in braccio il figlio. Prese posto sulla sedia della scrivania e accavallò le gambe.

“Come mai qui? Hai un caso da sottoporci?” chiese, sistemando con le dita i soffici riccioli scuri del bimbo.

“Fratellino, nostra madre non ci ha forse insegnato che è indice di grave scortesia ignorare un ospite?” lo rimproverò non senza sarcasmo Mycroft, sedendosi sul divano accanto all’ispettore, l’ombrello stretto tra le ginocchia.

“Mycroft” lo salutò con voce gelida. Non lo aveva ancora perdonato per averlo obbligato a vestirsi decorosamente durante la loro visita a Buckingham, costringendolo a disfarsi del suo amato lenzuolo.

In quel mentre ricomparve John, cui bastò una manciata di secondi per analizzare la situazione. Sospirò rassegnato, poi stirò le labbra nel sorriso più gioviale e conciliante del suo repertorio. “Beh, cosa mi sono perso? Non stavate sparlando di me, spero”.

Fece per raggiungere la poltrona, ma venne intercettato lungo il cammino da una mano di Sherlock che gli ghermì il polso, con il chiaro invito a fermarsi al suo fianco; sbuffando impercettibilmente egli obbedì, appoggiandosi al ripiano della scrivania, ma non cercò di liberarsi dalla presa del compagno.

“Assolutamente no, cognato. Per l’uomo che ha avuto il coraggio -o l’incoscienza?- di convivere e figliare con mio fratello non posso che avere parole di ammirazione” lo prese bonariamente in giro il governo britannico fatto persona. Con sua sorpresa fu Sherlock, e non il dottore, ad arrossire.

“A dire la verità siamo venuti qui per giocare un po’ agli allegri zietti, ma dato che al momento i bimbi non sono disponibili temo che dovremo rimandare” continuò garrulo. “C’è un annuncio, però, che ci terremmo a farvi” e così dicendo posò una mano sulla gamba del compagno.

John strabuzzò gli occhi, Sherlock dal canto suo borbottò un “Lo sapevo” senza palesare neanche un briciolo di sorpresa.

“Mycroft, forse non-” provò a fermarlo Lestrade.

“Greg ed io ci sposiamo”.

 

 

 

_____________________________________________________________________

Doppio colpo di scena: Gregory & Mycroft (non sembrano anche a voi un duo di architetti d’interni o di stilisti?) in avanscoperta e l’annuncio delle loro imminenti nozze! Cos’altro succederà? Il capitolo successivo è in fase di stesura, spero di terminarlo il più celermente possibile.

Per amor di precisione, vi linko il Lieder Mendelsshon  sopraccitato (http://www.youtube.com/watch?v=wR3t6vJOMe0).

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Alla prossima, miei sherlockiani! <3

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Capitolo 7
*** Famiglia - parte 2 ***


NOTE: Aggiorno in virtù di non si sa quale grazia divina, perché è davvero un brutto periodo (tra il computer totalmente da reimpostare e che per di più non si connette a internet e i miei vari casini) per cui, a scanso di equivoci, vi chiedo di portare pazienza. Non so davvero quando e come riuscirò a postare il nuovo capitolo, ma sappiate che non ho intenzione di mollare voi lettori, né tantomeno questa storia. Incrociate le dita per me e speriamo che tutto si sistemi.

Detto questo, vi lascio ai nostri beniamini.

Buona lettura!

 

 

 

 

 

“COSA?!” esclamarono all’unisono John e Gregory.

“Sst, non svegliate il bambino” li rimproverò severamente Sherlock, portandosi un dito davanti alla bocca.

“Hai ragione, caro. Scusa” mormorò il dottore.

“Mycroft, come sarebbe a dire che ci sposiamo?” incalzò Lestrade con un tono di voce sufficientemente basso.

“Non porre domande di cui conosci già la risposta e che offendono la mia intelligenza e la tua, Greg” rispose quegli, inarcando un sopracciglio.

“Io pongo domande più che legittime!” si imporporò l’altro, ignorando per amor di pace la smorfia ironica dipintasi sul volto di Sherlock. “Ti è per caso sfuggito di mente che agli occhi della legge risulto ancora sposato con Melanie?”

“Se è per quello, posso ottenere le carte del divorzio già firmate da lei e convalidate dal giudice in meno di mezzora” spiegò serafico l’uomo. “Non c’è cavillo legale che un agente dei Servizi Segreti di Sua Maestà non sappia aggirare”.

“Chiamalo cavillo” rimuginò tra sé e sé John.

“Va bene, fingiamo per un attimo che il problema della mia ex moglie non sussista più. Come la mettiamo con la proposta?” l’ispettore rivolse uno sguardo di biasimo al compagno.

“Proposta?” sillabò Mycroft, tamburellando le dita sul manico dell’ombrello.

“Sì, Mycroft. La proposta di matrimonio, quella proposta. Sai, solitamente quando una coppia si sposa è perché uno dei due si è inginocchiato di fronte all’altra persona offrendole un solitario e chiedendole di trascorrere insieme il resto dei loro giorni” puntualizzò Gregory con delizioso sarcasmo.

“Non capisco. Vuoi che mi metta in ginocchio e ti regali un anello di fidanzamento?” domandò seriamente perplesso.

“Mio Dio, no! No. Sarebbe fin troppo grottesco, alla nostra età e tra uomini” balbettò rosso in faccia, mentre John veniva colto da un improvviso attacco di tosse e il detective sbuffava alzando gli occhi al cielo.

“Cos’è che vuoi, allora?”

“Mi sembra ovvio: che tu mi chieda di sposarti, che non prenda questa decisione senza consultarmi” replicò a muso duro.

“Davanti a mio fratello e a John? Devo proprio?”

“Devi”.

“E sia” sospirò Mycroft dopo un breve attimo di silenzio. “Gregory Lestrade, vuoi fare di me un uomo onesto e convolare a giuste nozze?” domandò arrossendo giusto un pochino.

“Fammi avere la sentenza di divorzio e potrai impalmarmi già questo pomeriggio” fu la subitanea e appassionata risposta dell’ispettore.

“Ti prendo in parola” sorrise soddisfatto Mycroft. “Sherlock, John, siete prenotati come testimoni” annunciò agli altri due.

 

 

“Assurdo” mugugnò il minore dei fratelli Holmes, spingendo avanti e indietro la carrozzina gemellare per conciliare il sonno ai bebè.

Mycroft non aveva lasciato loro possibilità di replica o di rifiuto (era davvero tirannico quando si metteva d’impegno), motivo per cui adesso si trovavano ad assistere all’insolito matrimonio, officiato niente meno che dal sindaco Johnson in persona nell’abbazia di Westminster. John, frastornato, portava Boswell infilato nello zaino port-enfant. Un manipolo di agenti dei SI piantonava tutti gli ingressi della chiesa.

“Uhm” assentì il dottore, sedutogli a fianco su una panca in prima fila. Erano gli unici invitati, del resto. “Devi ancora spiegarmi come facevi a sapere che stessero insieme, io credevo che si conoscessero a malapena”.

“E’ stato durante il nostro soggiorno a Baskerville, quando abbiamo incontrato Lestrade nella hall della locanda. Ad un certo punto si è lasciato sfuggire una frase del tipo: ‘Eseguo sempre gli ordini di Mycroft’ -non mi ricordo le parole esatte, l’ho rimossa dal database- ed è arrossito. Alquanto sospetto, non trovi? La sua reazione unita al fatto che avesse chiamato mio fratello con un tono così confidenziale e che dalla sua camicia mi arrivassero zaffate di L’Eau Par Kenzo -guarda caso il profumo preferito di Mycroft- mi hanno suggerito la risposta. Elementare, Watson” snocciolò tutto d’un fiato.

“Sai, Sherlock, il giorno in cui la pianterai di rinfacciarmi le mie scarse facoltà analitiche mi metterò a ballare la lambada vestito solo di un boa di piume nel bel mezzo di Piccadilly Circus” sorrise amaramente l’altro.

“Non capisco il perché di tutta quest’acrimonia” lo guardò con tanto d’occhi. “Di solito ti piace ascoltare le mie deduzioni”.

“Non quando infili ‘Elementare, Watson’ nel discorso. E’ umiliante”.

“John, è un intercalare come un altro”.

“Tu dici?” ribatté tagliente. “Allora non ti dà fastidio se, per esempio, comincio a darti dello psicopatico ad ogni pie’ sospinto -così, come intercalare?”

“Non è affatto la stessa cosa. Non mi passa nemmeno per la mente di insultarti, o attribuirti un difetto che non ti appartiene” mormorò Sherlock, raggrumando confuso le labbra.

“Per me lo è, Sherlock. E’ la stessa cosa. Sei un uomo brillante ed è uno spettacolo sentirti esporre i tuoi ragionamenti ma, detto fuori dai denti, quando fai pesare agli altri la tua genialità sei solamente irritante, un galletto tronfio con il petto in fuori e la cresta alta” soffiò rabbiosamente.

“John, ascoltami. Capisco dove vuoi andare a parare, ma è ora che tu la smetta di sentirti tanto inferiore a me, perché non lo sei affatto” parlò con voce morbida e sommessa, chinandosi per sussurrare direttamente nell’orecchio del compagno. “Il fatto che tu possieda un’intelligenza normale -bada bene: normale, non inferiore- non è un deficit. Ti ho mai accusato di essere un idiota decerebrato come Anderson e la Donovan, per caso?”

“No, ma ti diverti lo stesso a punzecchiarmi”.

“Perché ho un pessimo carattere. Manco di tatto e gentilezza, metto a disagio le persone, sono molesto. Credi davvero che non invidi la tua capacità di dire sempre la cosa giusta al momento giusto, o la tua umanità? Tu sei il cuore ed io il cervello, è per questo che formiamo una coppia formidabile; l’uno non può andare lontano senza l’altro. E comunque, lo ripeto: non ho mai pensato che tu fossi stupido. Se ti ho involontariamente dato questa impressione me ne scuso”.

John si voltò a guardare lo spilungone al suo fianco. Negli occhi cristallini, nella piega ansiosa della bocca, nella pressione esercitata dalle dita che stringevano il manico della carrozzina lesse tanta di quell’insicurezza, tenera goffaggine e sincerità che non poté che sciogliersi.

“Non so come tu ci riesca, ma ogni volta riesci ad intortarmi” disse tendendo una mano verso il volto del detective.

“E’ anche per questo che mi ami” sorrise Sherlock, appoggiando la guancia contro la mano che gli veniva offerta. “Adesso assolviamo ai nostri doveri di testimoni e poi torniamo a casa, l’odore dell’incenso mi dà la nausea”.

 

 

“E’ stata una bella cerimonia, in fin dei conti. Molto intima” osservò il dottore, salendo le scale con la testolina di Boswell che faceva capolino da dietro la sua schiena.

Sherlock lasciò la carrozzina nell’ingresso, sotto l’attaccapanni, e si caricò in braccio prima Irene e per secondo Hamish. “Dobbiamo pensare alla cena” fece notare, insolitamente prosaico e affamato. “Dovrebbe esserci una lattina di Campbell in dispensa, dietro alla mia scorta di bulbi oculari. Ci sono da preparare i biberon per i piccoli e la minestrina per Boswell”.

Nessuna risposta. “John? Mi hai sentito?” percorse gli ultimi gradini.

John era in piedi, immobile come una statua di sale in mezzo al salotto, gli occhi sgranati e fissi su una donna bionda sulla quarantina seduta in poltrona che sorseggiava tranquillamente una tazza di tè.

“Harry?” mormorò il dottore.

 

 

 

______________________________________________________________________________

Di precisazioni inutili da fare ne avrei a bizzeffe, peccato (o per fortuna?) che mi manchi totalmente la voglia e che abbia dita-polsi-avambracci totalmente anchilosati… sicché niente, ecco.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Fatevelo bastare per almeno un’altra settimana, ché sono un po’ presa con le bombe.

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Un bacio a tutti voi, miei adorabili e fedelissimi lettori! <3

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Capitolo 8
*** Interferenze ***


NOTE: Aggiorno in virtù di non si sa quale grazia divina, perché è davvero un brutto periodo (tra il computer totalmente da reimpostare e che per di più non si connette a internet e i miei vari casini) per cui, a scanso di equivoci, vi chiedo di portare pazienza. Farò sempre il possibile per non lasciarvi a bocca asciutta per più di dieci-quindici giorni, ma più di questo non posso assicurarvi. Speriamo che la sfiga si decida a darmi un po’ di tregua.

 

Buona lettura e a risentirci a fine capitolo!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ciao, Johnny. Come te la passi?” salutò cordialmente la donna.

 

Sherlock la passò ai raggi X. Ne rilevò il taglio di capelli alla moda, le méches dello stesso biondo grano di John, il rossetto steso impeccabilmente, qualche sottile ruga attorno agli occhi; smalto rosso Chanel, tailleur pantalone di lino, elegante ed informale al tempo stesso, e decolleté di morbida pelle. Tutto, nel suo aspetto perfettamente curato, suggeriva un’idea totalmente diversa da quella che si era fatto di lei durante la sua primissima indagine con John.

 

“Harry” biascicò il dottore, ancora immobile.

 

L’interpellata sorrise al fratello, rivolgendosi poi a Sherlock. “Visto che John sembra aver dimenticato le buone maniere, mi presento. Harriet Watson, sorella del suo compagno; ho motivo di credere che lei sia già in possesso di un sufficiente numero di informazioni sul mio conto, Mr. Holmes” fece per alzarsi, la mano tesa in direzione del detective.

 

“Harry” la interruppe John bruscamente, gelandola sul posto, con i pugni chiusi e la mascella contratta. “Che diavolo ci fai qui?”

 

“Come siamo scortesi, Johnny. Ti sembra questo il modo di accogliere tua sorella dopo quasi tre anni di lontananza?” si adombrò lei, ritirando la mano e irrigidendo la schiena in posizione di difesa.

 

“Non me ne può fregare di meno delle regole del galateo. Sono stanco e ho una fame da lupi, voglio mettere a letto i miei figli e credimi, una tua visita è l’ultima cosa al mondo che mi sarei aspettato. Quindi, o mi spieghi che cavolo ci fai nel mio salotto a quest’ora o ti metto alla porta prima che tu abbia il tempo di replicare alcunché” sbottò lui.

 

“Se poco fa non mi avessi interrotto, fratellino, sapresti che non è stata una mia idea” spiegò, calma. “Qualche giorno fa mi ha telefonato Mycroft Holmes e mi ha chiesto di trasferirmi per un po’ di tempo a Baker Street perché, cito, ‘quei due non ce la faranno mai a stare appresso a tre bambini senza impazzire’ e perché anche io dovevo esercitare i miei diritti di zia. Credo che mi abbia praticamente arruolata come babysitter a tempo indeterminato” concluse, un filo di incredulità finale nella voce.

 

“No. No. No” scosse la testa John, con un borbottio molto simile ad un ringhio.

 

“John, ti prego” gli si rivolse Harriet, turbata da quel netto rifiuto.

 

“Dottore, sii ragionevole” intervenne Sherlock, senza tuttavia poter fare altro poiché aveva le braccia occupate dai gemelli.

 

“No. Non lo permetto” scattò lui, imbufalito, facendo sobbalzare Boswell. “Non ho la minima intenzione di essere ragionevole. Ho accettato di buon grado tutte le ingerenze di Mycroft nelle nostre vite, ma questo”, puntò l’indice contro la sorella, “è troppo. Non lascerò i miei figli in balia di un’alcolista che non ha saputo fare altro che rovinare il suo matrimonio, farsi licenziare e mandare tutto a puttane!”

 

A quel punto Irene Harriet, forse in sintonia con la donna di cui portava il nome o forse spaventata dalle urla del padre, scoppiò a piangere. Grossi lacrimoni le rotolarono lungo le guance paffute, gli occhi blu colmi di una tristezza fin troppo consapevole per una bambina di neanche due mesi. Per spirito di emulazione anche il piccolo Hamish proruppe in singhiozzi, tendendo inconsciamente le manine verso la gemella. Boswell, che voleva bene ai fratellini e detestava sentirli piangere, si unì alla loro manifestazione di sofferenza –tanto più che, data la sua precoce intelligenza, aveva capito che papà si era pentito all’istante delle cose che aveva detto alla bella signora bionda e che il babbo si sentiva a disagio perché odiava i litigi e al tempo stesso non sapeva come consolare il compagno.

 

John, istintivamente, si preoccupò di calmare il figlio maggiore. Presolo in braccio, dopo averlo sfilato dallo zaino, lo dondolò su e giù, accarezzandogli la schiena. Sherlock, dal canto suo, strinse Hamish al petto, facendogli appoggiare la testolina sulla spalla e reggendogli la nuca pelata con una mano. Irene era stata affidata alla zia, che la cullava con sorprendente destrezza.

 

John impietrì. “Sherlock, cosa diamine-” sibilò minaccioso.

 

“So quello che faccio” lo rassicurò l’altro, parlando sommessamente. “Tua sorella non tocca un goccio d’alcol da un anno e mezzo, all’incirca”.

 

“Sedici mesi, tre settimane e un giorno” precisò Harriet, distogliendo gli occhi dalla bimba per rivolgerli, sgranati, al cognato.

 

“Approssimazione soddisfacente” si congratulò con se stesso, lo sguardo assorto e perso nel vuoto. “Le sue mani sono ferme, non tremano più. I capelli ed il trucco sono troppo ricercati per essere quelli di una bevitrice che si trascura. La sclera dei suoi occhi è candida e ha perso la sfumatura giallastra e venata di capillari rotti tipica di chi fa abuso di superalcolici. Inoltre, a giudicare dall’eleganza del suo abbigliamento, deduco che abbia trovato un nuovo impiego; un incarico prestigioso, senza dubbio”.

 

“Da poco meno di un anno lavoro come responsabile del settore Ricerca e Sviluppo di una nota azienda cosmetica” confermò lei, la voce ridotta ad un sussurro.

 

John si sentì, per la seconda volta nel giro di poche ore, incredibilmente in colpa. Aveva fallito come medico, non riconoscendo (non volendo riconoscere?) il visibile miglioramento delle condizioni fisiche di Harriet. Aveva fallito come padre, spaventando immotivatamente i figli e facendoli piangere. Aveva fallito come fratello; e questo, forse, era ciò che lo feriva maggiormente.

 

Aveva disprezzato la sorella per essere caduta vittima del demone del bere, imputandole una serie di debolezze e meschinità di cui lei, a ben vedere, non aveva colpa. L’alcolismo era una malattia a tutti gli effetti. Non le aveva perdonato di aver lasciato una donna splendida come Clara, non le era rimasto accanto nel momento del bisogno, aveva ignorato i suoi messaggi in segreteria. L’aveva giudicata, condannata, punita troppo duramente per i suoi errori.

 

Osservandola alle prese con Irene Harriet (era stato Sherlock ad insistere perché le venisse dato come secondo nome quello della zia), che le aveva afferrato un dito mettendosi poi a ciucciarlo allegramente, John si rese conto che il pianto dei bambini si era chetato improvvisamente come era cominciato.

 

“Scusami” mormorò. “Sono stato uno stronzo ingrato. Ti ho abbandonata dopo tutto quello che avevi fatto per me, quando mamma e papà sono morti. Non te lo meritavi, Harry. Sei mia sorella, avrei dovuto aiutarti. Perdonami” deglutì con un groppo in gola.

 

“E’ passato, John. E a tuo modo mi hai aiutata; se ho deciso di cambiare, di provare a diventare una persona migliore, è stato perché volevo riconquistare la tua stima” qualcosa, nella voce di lei, si incrinò. “Desideravo solo che tornassi a volermi bene” piegò in avanti la testa e una lacrima atterrò sulla tutina bluette di Irene.

 

Il dottore raggiunse la poltrona in due falcate. Con il braccio sinistro -l’altro era occupato a reggere Boswell- si chinò ad abbracciare la sorella. “Non ho mai smesso, Harry. Non ho mai smesso. E’ proprio per questo che non riuscivo a perdonarti, perché ti ho sempre voluto bene” smozzicò.

 

Mycroft, vecchio volpone, pensò sollevato Sherlock. Scommetto che questa è stata la sua intenzione sin dall’inizio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagino cosa vi starete chiedendo: ma non doveva trattarsi di una storia comico-demenziale? Perché l’autrice ci ha rifilato un capitolo così simil angst? Che le è preso?

 

Don’t worry, non ho improvvisamente deciso di darmi al drammatico (non in questa long, per lo meno). Semplicemente, per quanto sopra le righe e OOC siano i personaggi, anche loro hanno diritto di farsi venire i cinque minuti di scazzo, no? Senza contare che, basandomi sull’opera di Conan Doyle e sul telefilm, i rapporti tra John e Harry appaiono davvero molto tesi; sarebbe stato alquanto irreale far reagire il dottore entusiasticamente all’entrata in scena della sorella. Ecco spiegato, quindi, l’andazzo sostanzialmente cupo di questo capitolo. Comunque sia, non deprimetevi troppo e mettete da parte i fazzoletti, ché dalla prossima volta si ritornerà a cazzeggiare a ridere.

Questa, se v’interessa, è la mia pagina autore su Facebook, per seguire in diretta i miei scleri (http://www.facebook.com/pages/Il-Genio-del-Male-EFP/152349598213950).

Grazie di cuore a tutti coloro che recensiscono, seguono/preferiscono/ricordano questa storia e anche a chi si limita a leggere silenziosamente. Tanto ammmòòòre a voi! <3

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Capitolo 9
*** Crisi ***


NOTE: Buongiorno e ben trovati, miei cari! Perdonate il lieve ritardo, ma purtroppo la sfiga sembra essersi affezionata a me (è un tantino appiccicosa per i miei gusti), sicché sono ancora senza computer e costretta ad elemosinarlo da mio padre.

Ho due notizie per voi. La buona è che il nuovo capitolo è già pronto e aspetta solo di venire trascritto -il quando, però, rimane un’incognita- e la cattiva (forse) è che ci avviciniamo sempre di più alla fine di questa long: il prossimo aggiornamento sarà anche l’ultimo. Però, se vi interessasse continuare a leggere le vicissitudini della famiglia Watson-Holmes, potrei prendere in considerazione l’idea di cimentarmi in un sequel. Sta a voi decidere se la storia s’ha da proseguire o meno. Fatemi sapere, mi raccomando.

Buona lettura!

 

 

 

 

 

Alcuni giorni dopo.

Boswell, cambiato e allattato, esaminava con grande attenzione e cinguettii soddisfatti il contenuto, sparso sul tappeto del salotto, della valigetta del Piccolo Chimico regalatagli da “tia Ary”.

A vegliare sulla sua incolumità stavano la zia in questione e babbo Sherlock, l’una a gambe incrociate accanto al piccolo e l’altro stravaccato in poltrona. Irene ed Hamish riposavano nella loro carrozzina doppia, stazionata accanto al divano.

“Sherlock, sicuro che sia una buona idea maneggiare un revolver in presenza dei bambini?” si azzardò a chiedere Harriet, un po’ esitante.

“Tu e tuo fratello siete così simili. Le stesse noiose, ansiogene domande” parlò con voce strascicata il detective, proseguendo imperterrito a giocherellare con l’arma.

“Mi preoccupo per i vostri figli” ribatté lei pacatamente.

“Lo so e lo apprezzo molto, credimi, ma puoi star tranquilla: ho inserito la sicura. Non mi trastullerei mai con una pistola mettendo in pericolo la vita dei bambini” spiegò Sherlock, più gentilmente.

“Oh” batté le palpebre Harriet. “Ma certo. Avrei dovuto aspettarmi una risposta simile da un uomo accorto e previdente come te”.

L’altro fece un gesto noncurante con la mano, come a dire che la perdonava per la scarsa fiducia riposta nei suoi confronti.

“Ho notato che hai la tendenza ad apostrofare sarcasticamente le persone, salvo poi correggere il tiro non appena ti accorgi che l’interlocutore c’è rimasto male. Posso chiederti come mai, se non sono indiscreta?”

“E’ un’abitudine che ho acquisito frequentando John. E’ stato il primo a farmi sentire a disagio per i miei modi bruschi, così ho imparato a moderare i termini. Secondo lui la mia incapacità a rapportarmi normalmente con gli altri è dovuta ad una forma lieve di sindrome di Asperger, e francamente non mi sento in diritto di contestare la diagnosi di un esperto” si strinse nelle spalle.

“In un modo o nell’altro finisci sempre per parlare di mio fratello, ci hai fatto caso?” domandò Harry, intrigata dalla piega che stava prendendo la conversazione.

“E’ vero” ammise Sherlock. “John è la mia vita, di lui amo anche ciò che nelle altre persone detesto. Ha creduto in me quando tutti mi trattavano alla stregua di uno psicopatico. Sopporta il mio mutismo, il violino suonato alle ore più improbabili e i cerotti alla nicotina, non fa una piega se gli capita di imbattersi in un contenitore per alimenti pieno di falangi umane nel primo cassetto del freezer. E’ un prezioso collaboratore, nonché migliore di tutti i medici legali cui si affida Lestrade -potrei fare un’eccezione giusto per Molly Hooper- ed è l’uomo più conciliante del mondo. E’ il padre dei miei figli. E’ normale che il mio pensiero sia sempre rivolto a lui, non trovi?” concluse il monologo, puntando su Harriet i suoi incredibili occhi color cielo d’Irlanda.

“Cielo” sorrise la donna, a metà tra il divertito e l’attonito. “Sei disgustosamente innamorato del mio fratellino”.

“E’ quello che ho detto” annuì brevemente Sherlock, l’attenzione focalizzata su altro. Un millesimo di secondo dopo si alzò di scatto dalla poltrona, neanche avesse le molle ai piedi, e prese a camminare avanti e indietro, i lembi della vestaglia che fluttuavano morbidamente intorno al suo corpo.

“Qualche problema?” s’informò premurosamente Harriet.

“Mi manca John” rispose senza arrestarsi. “E ciò non va bene, niente affatto”.

“Perché?”

“Perché senza di lui finisco sempre per annoiarmi, e a pagarne le conseguenze è la tappezzeria di Mrs. Hudson”.

Harriet lanciò un’occhiata al volto sorridente dipinto sulla parete alle sue spalle, scorgendo dei fori di proiettile sotto la vernice gialla. “Ah, quindi è a questo che ti serve la pistola?” fece due più due, cercando di non lasciar trapelare il suo sgomento.

La risposta non si fece attendere; il detective puntò l’arma contro la carta da parati e sparò una raffica di colpi.

“Sherlock, no! Spaventerai i piccoli!” urlò lei, sobbalzando e coprendo poi le orecchie di Boswell con le mani, nel vano tentativo di attutire il frastuono del rinculo.

Holmes ne ignorò bellamente le proteste, placandosi solo dopo aver terminato la sua opera. Adesso la parola BORING in stampatello maiuscolo faceva compagnia allo smile color canarino. A sconvolgere seriamente la donna, però, furono le risatine gorgoglianti provenienti dalla carrozzina. Abbassò lo sguardo sul nipotino maggiore e vedendolo rivolgerle un sorriso smagliante il suo stupore accrebbe ulteriormente.

“Che diavolo-” smozzicò, gli occhi sgranati.

“Errore mio, avrei dovuto avvisarti. I bambini adorano sentirmi sparare, a quanto sembra il sibilo dei proiettili li diverte immensamente” chiarì Sherlock, serafico. “Non per niente hanno ereditato metà del mio patrimonio genetico”.

“Non per niente, già” assentì lei, ancora un po’ scossa.

In quel mentre comparve sulla soglia John. “Sherlock, la povera Mrs. Hudson mi ha aperto la porta letteralmente terrorizzata. Dimmi che non hai di nuovo giocato al pistolero, ti prego” lo supplicò il dottore a mo’ di saluto.

“Jawn, finalmente sei tornato! E’ tutto così noioso in tua assenza” gli andò incontro, il sorriso più innocente del suo repertorio dipinto in volto, avvolgendolo con le sue lunghe braccia.

“Immagino, immagino” biascicò, allungando qualche timida pacca sulla schiena dell’altro. “Ciao, Harry. Sopravvissuta alla tua prima giornata di babysitting?” si rivolse poi alla sorella.

“Credo di sì. Non posso dire lo stesso della vostra carta da parati, ahimè”.

“Mrs. Hudson se ne è fatta una ragione. Dai, Sherlock, lasciami andare” cercò di liberarsi dalla morsa del detective. “Non fare il koala, molla l’osso” insistette, ridendo.

“Zitto, sto annusando il bavero del tuo cappotto”.

“Cosa, perché?” si divincolò John, inquietato dall’improvvisa gravità della voce dell’altro.

Sherlock allentò la presa, irrigidendosi. Si staccò dal dottore –le braccia tese lungo i fianchi, le mani strette a pugno, gli occhi gelidi.

“John”, disse con voce sepolcrale, “c’è una traccia di profumo femminile sui tuoi vestiti. Da quando hai iniziato a tradirmi?”

 

 

 

 

Capitolo non molto lungo, ma denso di avvenimenti (ah sì? Davvero?). L’angst è in agguato, la crisi sta per scoppiare… Non temete, il finale sarà una delle cose più demenziali che abbia mai scritto.

Questa, se vi interessa, è la mia pagina autore su Facebook, per seguire in diretta i miei scleri (http://www.facebook.com/pages/Il-Genio-del-Male-EFP/152349598213950).

A risentirci presto, miei prodi. Buon weekend a tutti!

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Capitolo 10
*** Proposta ***


NOTE: Sono in spaventoso ritardo (ma tanto so che farete finta di non averlo notato) e piena di scadenze da rispettare e concorsi da organizzare. Questo capitolo, ad esempio, partecipa al contest di Pasqua indetto dalla sottoscritta su Facebook, Let’s ship Again, con il prompt del Sabato Contenzioso.

Siamo arrivati alla (preannunciata) fine di Imprevisti: il merito è tutto vostro, lettori silenziosi e partecipi, che avete insistito perché la one-shot originaria continuasse. Io non ci avrei scommesso cinquanta centesimi, ma voi mi avete dato fiducia e supportata. E’ quindi con tanto ammmòòòre che vi ringrazio e vi auguro…  

Buona lettura!

 

 

 

 

 

Era tutto un equivoco. Un enorme, gigantesco e colossale equivoco. John tentò di spiegarlo a Sherlock, ma l’altro fece orecchie da mercante e si intestardì su quell’assurda accusa di infedeltà.

Pazzesco. Inaudito. Inconcepibile. Quattro anni di convivenza, due e mezzo di relazione (erano finiti a letto insieme poco dopo l’affaire Irene Adler) e tre figli non contavano nulla, dunque? Come osava anche solo pensare, quel sociopatico da strapazzo, che John potesse ancora nutrire un qualsivoglia interesse per il genere femminile o, in generale, per una persona che non fosse Sherlock?

“John, tu hai un’altra” ribadì Holmes rivolgendogli uno sguardo inquisitorio.

“Oh, picchio pacchio” alzò gli occhi al cielo.

“Probabilmente è una storia iniziata da poco, se non addirittura oggi stesso; il che spiegherebbe la toccata e fuga in ambulatorio, nonostante tu sia in congedo di paternità. E’ una tua paziente, non è così?” incalzò, dando prova delle sue mirabolanti abilità deduttive.

“Ok, Mr. Detective dell’Anno, stoppati un attimo. Harry, per cortesia, porteresti di là i bambini? Non vorrei che assistessero alla scena di me che prendo selvaggiamente a schiaffi il loro papà” il dottore si voltò verso sua sorella, gli occhi animati da una luce battagliera.

“Stavo per proporlo io” sospirò sollevata lei.

Prese in braccio Boswell e con la mano libera spinse la carrozzina in direzione del corridoio che portava alle camere da letto.

“Non ammazzatevi, però. Avete tre pargoli a carico, ricordatelo” aggiunse, per poi eclissarsi.

“Tu” ringhiò John, l’indice puntato contro il moro. “Idiot savant che non sei altro. Se tieni all’incolumità del tuo bel faccino mi farai il favore di tacere e di ascoltare quello che ho da dirti, prima di saltare a conclusioni affrettate e totalmente irrealistiche”.

Sherlock trasalì, portando istintivamente una mano agli zigomi scolpiti –erano uno dei suoi pochi vanti, che diamine. Annuì, cedendo la parola al dottore.

“Benone” sbuffò quegli dal naso, come un torello soddisfatto. Incrociò le braccia sul petto e divaricò un poco le gambe, assumendo una posa da boss.

Si guardarono per lunghi istanti di silenzio.

Lunghi.

Istanti.

Di.

Silenzio.

Sherlock si schiarì la gola. “Uhm, John?”

“Sì?”

“Non dovevi darmi la tua versione dei fatti?”

“Uh-oh” batté le palpebre lui. “Hai ragione, scusa. Mi sono distratto” borbottò, arrossendo.

“Figurati, può capitare” il detective soffocò sul nascere un sorrisetto ironico.

“Dicevo”, riprese John dandosi un contegno, “che hai travisato tutto, mio caro. Hai preso una cantonata coi fiocchi. Perché vedi, io non ho nessuna relazione extraconiugale” affermò fissando l’altro dritto negli occhi.

“Basandomi sull’analisi del linguaggio del corpo sarei propenso a crederti” ammise Sherlock quasi mugugnando. “Sguardo fermo e diretto, spalle rilassate, piedi ben piantati al suolo, nessun tremito. Sembri sincero. C’è un particolare che non mi convince, però: il profumo”.

“Oh, quello” sospirò l’altro. “Una paziente ci ha provato con me. Mi ha fatto precipitare in ambulatorio con la scusa di uno scompenso cardiaco e dei dolori intercostali inspiegabili e appena l’ho ricevuta nel mio studio ha cercato di baciarmi, ma io l’ho respinta. Ecco tutto”.

“Non ci credo” replicò il compagno, lapidario.

“Non ci credi?” ripeté, incredulo.

“Non credo affatto che la tua paziente abbia preso bene il rifiuto. Sei sicuro di non aver omesso nulla, John?”

“Sono sicuro, Sherlock. Sono troppo giovane per soffrire di memoria a breve termine”.

“Non ne sono del tutto persuaso. Voglio che mi riporti il vostro scambio di battute, parola per parola”.

“Ah, vuoi? Tu vuoi? E va bene, ti accontento” sbottò con voce pericolosamente stridula. “Allora sappi, genio dei miei stivali, che ho chiarito a Miss Morstan che non potevo ricambiarla perché sono omosessuale” strepitò. “Sono più gay di Rupert Everett, Boy George ed Elton John messi insieme. Sono talmente frocio che la sola idea di tornare a scoparmi una donna mi fa venire i brufoli e la cellulite, nonché una gran voglia di lanciarmi in una sessione di shopping selvaggio!”

“John, tesoro”.

“Cosa?”

“Stai scheccando di brutto”.

“Lo so, ed è tutta colpa tua, Sherlock! Un’altra donna? Un altro uomo? Tutte cazzate, per me esisti solo tu”.

“John” esclamò il detective con voce appassionata.

“Sherlock” rispose il dottore altrettanto impetuosamente.

Si avvinghiarono l’uno all’altro come polpi dai mille e uno tentacoli, scambiandosi un bacio hollywoodiano per durata ed enfasi (ma con molta più lingua e saliva e gemiti inarticolati).

“Sarei perduto senza il mio blogger” mormorò Holmes non appena si staccarono per riprendere fiato.

“E’ la frase più romantica che tu mi abbia mai dedicato”, osservò John ansimante, “nonché l’unica”.

“Sposami”.

“C-Cosa?”

“Sposami. Voglio legarti per sempre a me, portare una fede pacchiana e ingombrante al dito, crescere i nostri figli e invecchiare insieme a te. Voglio diventare tuo marito, John. Sposami”.

 

 

The blog of Dr. John H. Watson

London, 10/10/2012

 

Oggi Sherlock mi ha chiesto di sposarlo.

Che il Cielo mi aiuti, gli ho risposto di sì.

Tutta colpa di quegli zigomi, il bavero del cappotto alzato (ok, quando mi ha fatto la proposta era in vestaglia, ma il succo non cambia), gli occhi così azzurri e penetranti.

Lo amo.

P.S. Harry è praticamente più elettrizzata di me –sempre che sia possibile.

P.P.S. Mycroft si è autonominato wedding planner ufficiale. Devo preoccuparmi?

 

 

 

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Non si può dire addio ad una storia senza ringraziare per bene le persone che ti hanno sostenuto. Un bacio grandissimo alle 23 persone che hanno recensito (LudusVenenum, Meramadia94, Naco, TAKeRu_ECHY, NomenOmen, Princess_Perona, Taila, Grinpow, Campanellino86, Sevvina, Rory_Argentine, kiba91, Angelica Barbanera, Tanyah, Cloud Ribbon, Maia in Wonderland, crazy_k, griffoncina2009, chibisaru81, Wren07, Selenina, Emrys___, Ehrien) e alle 14 che hanno inserito ‘Imprevisti’ tra le Preferite (almosthero, Angelica Barbanera, Campanellino86, Echelon90, EileenSH, ermete, isteria, latore, Lola_Teme91, Maia in Wonderland, Sabry93, SweetBlackDream98, Taila, Tanyah). Un abbraccio stritolante alle 7 che hanno voluto Ricordarla (Court, khika liz, Nerween, NomenOmen, Sam Holmes, Vietnam Glam, White Mask) ed infine ai miei 36 lettori (BlackCobra, Campanellino86, Ciulla, crofty, Didolatan, dodo, draco potter, elsa, fliflai, Grace98, HexRose 110, irelin, katia cullen, kscrewy, latore, Lrig_w, Miku Mercury, Naco, NemesiS_, NomenOmen, PepperP, Prez_Silverrope, Princess_Perona, rora17, Rory_Argentine, Rumy, Sabry93, Selvy, senny, Sevvina, Sherlocked, Shinku Rozen Maiden, Stella_Oscura, Susannatuttapanna, TAKeRu_ECHY, teno).

Grazie di cuore a tutti. Ci rivedremo, forse, con il seguito.

Bye bye! <3

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