You saved me

di RobTwili
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Welcome to Bronx, whore! ***
Capitolo 2: *** Open the door. We know you're here ***
Capitolo 3: *** How to find a job with Ryan's help ***
Capitolo 4: *** Eagles vs. Misfitous ***
Capitolo 5: *** I need your help ***
Capitolo 6: *** He can't die! ***
Capitolo 7: *** Broken Rib & Phoenix ***
Capitolo 8: *** Guns & Shower ***
Capitolo 9: *** Eagles & Ryan's Story ***
Capitolo 10: *** Lexi's secret ***
Capitolo 11: *** Lexi's a badass: Jail experience. ***
Capitolo 12: *** Party & underwear ***
Capitolo 13: *** Lower Plaza by night ***
Capitolo 14: *** Dreams, Kisses and News ***
Capitolo 15: *** All chickens come home to roost ***
Capitolo 16: *** Romeo & Juliet ***
Capitolo 17: *** The last goodbye ***
Capitolo 18: *** Sex and fire in the rain ***
Capitolo 19: *** Indifference ***
Capitolo 20: *** You can keep it ***
Capitolo 21: *** Epilogue- You saved me ***



Capitolo 1
*** Welcome to Bronx, whore! ***


YSM
 
 
Con il decollo dell’aereo avevo definitivamente chiuso con la mia vita a Los Angeles.
Desideravo allontanarmi da tutti, allontanare tutti da me.
Non riuscivo più a comportarmi normalmente, non dopo quello che mi era successo.
Quel dannato giorno, durante il mio turno di lavoro, avevo capito almeno una cosa: Los Angeles non poteva più essere la mia casa.
Come i miei genitori avevano preso l’abbandono del college a un esame dalla laurea? Ovviamente male.
Si erano arrabbiati e questo mi aveva spinta ancora di più a scappare lontano.
Non mi sentivo pronta, non volevo che fossero le mie mani a decidere della vita o della morte di una persona.
Alexis Cooper non aveva tutto quel potere.
Mi massaggiai le tempie, sistemandomi nello scomodo sedile della classe economica.
Sì, perché i signori Cooper avevano definitivamente chiuso tutti i loro rapporti con me.
Non volevo continuare a studiare?
Bene, mi sarei dovuta arrangiare. Nemmeno più un dollaro sarebbe uscito dalle loro tasche per aiutarmi.
Per questo stavo fuggendo lontano, molto lontano, dalla mia amata Los Angeles.
New York.
L’America? È grande…  mi serviva un’intera nazione a dividermi dalla mia precedente vita.
Niente più surf, niente più sole o caldo. Non avrei più sentito l’aria umida contro il mio viso e nemmeno l’odore di salsedine che mi impregnava il costume dopo essere rimasta a fare surf per ore.
Non sapevo cosa aspettarmi dalla Grande Mela; sarebbe stato tutto nuovo per me. Ero riuscita a trovare un piccolo appartamento in periferia, poco fuori New York, nel Bronx. Non avevo idea di che posto fosse, ma lì avevo trovato l’unico appartamento che potevo permettermi con i miei pochi risparmi.
Dovevo cercarmi un lavoro, pagarmi l’affitto, imparare a vivere da sola.
Niente più campus universitario.
Eppure, nonostante una parte di me fosse spaventata da tutti i cambiamenti, un’altra era elettrizzata, perché sognavo New York da quando ero bambina: il gande albero di Natale al Rockefeller Center, la pista di pattinaggio sul ghiaccio. E chissà, forse sarei riuscita a vedere la neve per la prima volta dopo ventuno anni. Della neve vera, non come quella che trovavo nei negozi a Los Angeles.
Sorrisi di quel buffo pensiero, ricordando che era solo giugno.
Quando l’aereo sussultò, toccando il terreno, sospirai sollevata: non mi piaceva volare, soprattutto quando dovevo fare viaggi lunghi.
In ogni caso, quello sarebbe stato il mio ultimo viaggio, visto che non avevo intenzione di tornare a casa.
Uscii dall’aereo, respirando profondamente; lasciai che l’aria fresca di New York ‒l’aria della mia nuova casa ‒ mi riempisse i polmoni.
L’aria di New York odorava di… asfalto, pioggia e qualche altro odore che non riuscivo a percepire.
Davanti al rullo, mentre aspettavo le ultime valigie, cominciai a guardarmi attorno: nessuno dei presenti prestava attenzione agli altri, tutti sembravano aver fretta. Incredibile.
Lanciai un nuovo sguardo al rullo perché le mie valigie sembravano non uscire più. Avevo spedito tutti gli altri scatoloni quasi una settimana prima e avevo portato con me solo i vestiti e qualche effetto personale.
Riuscii a fatica a scaricare il primo bagaglio dal rullo; al secondo mi incastrai il piede sotto, schiacciandomelo. Imprecai mentalmente, guardandomi attorno: che persone gentili, avrebbero almeno potuto aiutarmi!
Uscii dall’aeroporto con le mie due valigie quasi un’ora dopo.
Camminai fino alla fermata della metropolitana e, dopo essere salita con qualche problema, trovai un posto per sedermi.
Erano quasi le sette di sera, ero stanca, affamata e cominciavo a pensare che l’idea di trasferirmi a New York non fosse stata poi così intelligente.
Scesi alla fermata di Simpson Street, camminando fino all’incrocio di Southern Boulevard con Westchester Ave. Lì avrei aspettato l’autobus che mi avrebbe portato fino a Pugsley Ave. Da lì in poi avrei dovuto camminare.
L’idea di andare in un quartiere sconosciuto da sola, di sera, non mi piaceva, ma sapevo che i taxi erano molto costosi, e non potevo permettermelo. Mi consolavo pensando che i trasporti pubblici erano comunque efficienti e c’era sempre qualcuno che rincasava o andava a lavorare, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Ringraziai l’autista dell’autobus, scendendo goffamente con le valigie.
Dovevo solo cercare di seguire le indicazioni per arrivare all’incrocio tra Whitter Street e Randall Ave, dove c’era il mio appartamento. Non sapevo nemmeno in che condizioni l’avrei trovato.
Le indicazioni dicevano di procedere in direzione sud, verso Virgil Place, da lì bastava svoltare a destra e sarei arrivata in Randall Ave.
Non era poi così difficile.
Feci un giro su me stessa, guardandomi attorno per capire quale fosse il sud.
Nessun cartello per indicare Virgil Place. La donna che era scesa con me dall’autobus camminava a passo svelto, mettendo sempre più distanza tra di noi.
«Scusi?» urlai, sperando che riuscisse a sentirmi.
Non rispose, svoltò all’angolo in fondo alla strada, sparendo definitivamente dalla mia vista.
«Bene» sbuffai, mordendomi il labbro. Quel gesto di solito riusciva a tranquillizzarmi.
Cercai il sole, ormai sulla via del tramonto.
Vedevo gli ultimi sprazzi di luce alla mia destra, quindi il sud era davanti a me.
Sorrisi sollevata, prendendo le valigie e cominciando a camminare, guardandomi attorno.
Non c’era nessuno per strada. Nessun ragazzo con lo skateboard, nessun surfista di ritorno dalla spiaggia.
Arrivai a un incrocio, cercando indicazioni.
Dov’era Virgil Place?
Da un bar vidi uscire un gruppo di ragazzi: erano giovani e sembravano felici. Una decina, forse meno; stavano scherzando tra di loro, fingendo di lottare.
Sembravano simpatici.
Mi feci coraggio, attraversando la strada e avvicinandomi a loro.
Il rumore delle ruote del mio trolley li fece voltare verso di me.
«Scusatemi» mormorai, cercando di farmi un po’ di coraggio.
Il fatto che fossero tutti molto più alti di me non aiutava.
«Sì?». Un ragazzo con i capelli corti e scuri fece un passo in avanti, ghignando. Quella strana espressione sul suo viso mi fece rabbrividire.
«Ecco… io, io sono nuova qui e sto cercando di orientarmi». Sventolai il foglietto con le indicazioni che avevo tra le mani. «Devo… devo arrivare al 198 tra Whittier Street e Randall Ave, solo che credo di essermi persa».
Cercai di sorridere, mentre un altro ragazzo, con evidenti tratti ispanici, si avvicinava a me.
«Scherzi?» domandò, stampandosi sulle labbra un bel ghigno, affascinante, ma spaventoso quasi quanto quello dell’amico.
«No, il mio nuovo appartamento è qui, vedete?». Mi avvicinai di un passo a loro, puntando l’indice sul foglietto con le indicazioni stradali.
«Lasciami indovinare» sbottò il ragazzo moro senza nemmeno guardare il foglietto. Era quello che mi aveva parlato per primo. «Terzo piano?» azzardò, causando una risata di tutti i suoi amici.
«Esatto» esultai felice. Allora anche a New York i vicini erano cordiali, contrariamente a tutti i luoghi comuni.
Forse anche loro abitavano nello stesso palazzo.
«Abitate lì anche voi?» chiesi, sollevata di conoscere qualcuno del posto.
Mi faceva sentire meno sola.
«No, abitiamo da un’altra parte» ridacchiò un altro di loro, con i capelli rasati sui lati e più lunghi al centro, acconciati in una strana cresta.
«Oh, peccato» mormorai, abbassando lo sguardo.
«Certo che Cal se le sceglie stupide, eh Dead? Fighe finché vuoi ma completamente stupide».
Un ragazzo biondo, con una sigaretta tra le labbra si avvicinò a me, girandomi attorno.
Un campanello d’allarme suonò nella mia testa, intimandomi di allontanarmi velocemente.
«Grazie lo stesso, credo di poterci arrivare da sola» farfugliai.
Tenni lo sguardo basso, cercando con le mani le mie valigie.
«Dove credi di andare?» sogghignò qualcuno, spostando una valigia perché non potessi prenderla.
«Dimmi, sei la nuova puttanella di Cal? Credevo gli piacessero le bionde».
Il ragazzo moro che mi aveva parlato per primo mi prese il mento tra le dita, costringendomi ad alzarmi in punta di piedi.
«Mi fai male» mi lamentai, cercando di indietreggiare.
«Ti do un promemoria da portare a Cal e a tutti i suoi» sibilò, stringendo di più la presa sul mio mento e facendomi gemere per il dolore. «Qui, in questo incrocio, siamo noi i padroni, ok?». Il suo naso sfiorò il mio.
«Ti prego, non so di cosa stai parlando» mormorai, sentendo una lacrima scendere lungo la mia guancia.
Sentivo il suo respiro sul mio viso. Puzzava di fumo e alcool.
«Il messaggio non è completo, tesoro» sghignazzò, allontanando il suo viso dal mio.
Non riuscii a vedere la sua mano avvicinarsi, perché le lacrime mi offuscavano la vista.
Sentii un forte dolore al labbro e subito dopo qualcosa di caldo mi entrò in bocca.
Sapore di ferro.
Sangue.
Caddi a terra, inginocchiandomi e raggomitolandomi su me stessa perché non potesse farmi male ancora.
Portai le braccia sopra alla testa, proteggendo il viso.
«Benvenuta nel Bronx, puttana» ghignò qualcuno, causando uno scoppio di risa.
«Ehi, Dead, perché non guardiamo che cosa ha portato allo stronzo? Magari ha un po’ di roba dentro alle valigie». Sentii dei passi e mi costrinsi ad aprire gli occhi.
Dentro alle valigie, tra i vestiti, c’erano tutti i miei risparmi. Se avessero aperto la valigia più grande se ne sarebbero accorti subito, visto che non li avevo nascosti.
«Aiuto» cercai di strillare, attirando solamente lo sguardo del ragazzo che mi aveva tirato il pugno.
«Che c’è?» si piegò verso di me, avvicinando il suo viso al mio.
Indietreggiai, spaventata. Qualcosa mi diceva che sarebbe stato in grado di ferirmi nuovamente.
«Lasciate stare le mie valigie, per favore» bisbigliai, pulendomi il sangue che mi sporcava il mento.
«Ragazzi? Sentito? Dobbiamo lasciar stare le valigie della signora. Allora potremmo prendercela con te? Mhh? Dici che ci possiamo divertire di più?» mi provocò, prendendo il mio viso tra le mani e strattonandomi verso di lui.
«Aiuto» strillai di nuovo, mentre mi circondavano, accerchiandomi.
Accadde tutto velocemente.
Sentii dei gemiti e il rumore di ossa che si rompevano.
Il viso del ragazzo con i capelli scuri non era più davanti al mio.
Mi tolsi una lacrima dagli occhi per capire che cosa stava succedendo.
Stavano lottando.
Indietreggiai, fino a quando la mia schiena toccò un lampione.
Quel contatto improvviso mi fece urlare, attirando l’attenzione del ragazzo che stava picchiando quello moro.
Era biondo, con i capelli corti. «Dollar, porta via la ragazza, è un ordine» urlò, assestando un nuovo pugno sullo stomaco dell’altro.
Sentii dei passi verso di me e istintivamente chiamai aiuto di nuovo.
«Tranquilla, ti porto via di qui».
Un ragazzo giovane si accucciò davanti a me, sorridendomi.
Nonostante fosse buio e l’unica fonte di luce fosse il lampione sopra di me, riuscii a vedere una profonda cicatrice che gli solcava il viso; dall’occhio sinistro scendeva fino al labbro.
Mi aggrappai più forte al lampione, impaurita.
«Non avere paura». Sorrise di nuovo, facendo increspare la pelle lucida.
Sentii una mano scivolare dietro le mie ginocchia e l’altra mi circondò le spalle.
Il mio capo si appoggiò al suo petto, mentre non smettevo di tremare.
«Le… le… le valigie» balbettai, sperando che riuscisse a sentirmi nonostante il chiasso della lotta.
«Ryan, prendete le valigie» urlò il ragazzo con la cicatrice, stringendomi un po’ di più contro di lui.
Volevo fidarmi.
Dovevo fidarmi.
Avrebbe potuto picchiarmi, ma non l’aveva fatto.
Era l’unico appiglio che mi faceva sperare di essere al sicuro.
«Come ti chiami?» chiese, mentre sentivo il vento contro il viso e le immagini attorno diventavano sempre più sfuocate.
«A…lexi…s» biascicai, cercando di concentrarmi sui lampioni, che però continuarono a spegnersi sempre più velocemente.
 
Pulsare.
Forte pulsare al labbro e alla testa.
Brividi in tutto il corpo.
Sembrava fosse il principio di uno stato di shock.
Cercai di parlare, ma il labbro mi faceva talmente male che rinunciai.
«Ryan, si sta svegliando, credo».
Quella voce l’avevo già sentita. Mi concentrai per ricordare dove. La rissa, il ragazzo biondo con la cicatrice.
Qualcuno si spostò di fianco a me e io spalancai gli occhi, cercando di capire dove fossi.
Ero circondata da ragazzi.
Spaventata, mi portai le ginocchia al petto, nascondendo il viso e proteggendomi la testa con le mani.
«Alexis, non vogliamo farti del male».
Non era la voce del ragazzo con la cicatrice.
«Non so chi sia Cal, vi prego» strillai, ricordando quello che mi aveva detto il ragazzo moro, prima di tirarmi il pugno.
Qualcuno cercò di trattenere una risata malamente e cercai di sbirciare chi fosse.
Di nuovo il biondo, quello con i capelli corti. Lo stesso che aveva ordinato a qualcuno di portarmi via.
«Non vogliamo farti del male» ripeté, sorridendo per tranquillizzarmi.
«Chi siete?». Portai le braccia a circondarmi le gambe, facendo attenzione a non sfiorare il labbro che continuava a pulsare.
«Ryan, o Cal». Il biondo con i capelli corti si sistemò, sedendosi sul tavolino che c’era davanti al divano.
Feci vagare lo sguardo attorno a me, cercando di capire dove fossi.
Le pareti, bianche, erano completamente spoglie.
C’erano pochi mobili, vecchi. Alcuni erano addirittura senza dei pezzi.
Qualcosa, sulla parete dietro di me, attirò la mia attenzione. Foto, tantissime foto segnaletiche.
La prima in alto mostrava il viso di Ryan.
Lasciai scorrere il mio sguardo sulle foto, riconoscendo i volti dei ragazzi che mi stavano attorno.
Qualcuno appoggiò una mano sulla mia gamba, facendomi urlare per la paura.
«Alexis, calmati». Di nuovo la sua voce, Ryan.
«Chi-chi siete?» balbettai, indietreggiando sul divano.
«Non avere paura di noi». Il ragazzo con la cicatrice.
«E quelle?». Con la mano tremante indicai la parete tappezzata dalle foto segnaletiche, causando una risata generale.
«Quelle sono le nostre foto» spiegò un altro ragazzo, con i capelli scuri, gli occhi azzurri e un pizzetto.
La sua foto era appena più giù di quella di Ryan.
«Chi siete?» tornai a chiedere, spaventata.
Dove ero finita?
Perché c’erano le loro foto segnaletiche incorniciate alla parete?
«Io sono Ryan, o Cal, lui è Dollar». Ryan indicò il ragazzo con la cicatrice, che mi sorrise, sistemandosi poi la sciarpa a righe nere e grigie che portava. «Brandon» continuò Ryan. Il suo sguardo si posò sul ragazzo con gli occhi azzurri e il pizzetto che mi salutò con un gesto del capo, senza dire nulla. «Josh e Paul sono gemelli». Due ragazzi con i capelli biondi, rasati quasi a zero mi sorrisero, prima di salutarmi anche loro con un movimento della testa. Entrambi avevano gli occhi azzurri e si somigliavano. Riuscivo però a notare alcune differenze. «Sick». Indicò un ragazzo con un ammasso di capelli castani, tutti spettinati. «David, o Lebo, decidi tu come chiamarlo, e infine Liam. Ne mancano un paio che sono usciti per alcune commissioni» spiegò, tornando finalmente con lo sguardo su di me.
Aveva un grosso taglio sul sopracciglio e il labbro era gonfio.
Sulla guancia c’era un’ombra gialla: un vecchio ematoma che se ne stava andando, probabilmente.
Ematomi, cicatrici, foto segnaletiche?
«Voglio andare a casa» mormorai, tastandomi il labbro con l’indice.
Lo sentivo molto più gonfio di quanto mi ero immaginata.
«Prima vorrei sapere cosa hai fatto perché ti aggredissero».
Ryan, di nuovo lui. La sua richiesta assomigliava a un ordine: la sua voce era dura, aspra.
«Niente» ribattei, cercando di ricordare quello che era successo.
Avevo semplicemente chiesto un indirizzo.
«Non sei una giornalista, non sei uno sbirro, che cazzo hai fatto perché ti prendessero a pugni?» incalzò, stringendo la mascella, teso.
«Ho solamente chiesto se mi potevano aiutare perché non sapevo come arrivare nel mio nuovo appartamento e hanno cominciato a inventare storie su di te» spiegai, indicando Ryan.
Avevano parlato di Cal. Mi avevano definito la sua puttanella.
«Qual è l’indirizzo del tuo appartamento?» chiese Brandon, quello moro con il pizzetto.
«198 tra Whittier Street e Randall Ave» ripetei, socchiudendo gli occhi.
Sperai con tutta me stessa che non mi picchiassero anche loro.
La reazione però, fu totalmente diversa da quella dell’altro gruppo di ragazzi.
Cominciarono a ridere e qualcuno sogghignò un «certo che sei proprio sfigata».
Continuavo a guardarli uno a uno, aspettando che qualcuno mi spiegasse che cosa stava succedendo.
«Ti hanno chiesto il piano?». Di nuovo Ryan.
Non riuscivo a capire perché quando parlava tutti si zittissero.
«No, mi hanno chiesto solo se era il terzo e ho detto di sì» spiegai, ancora confusa da quella strana situazione.
«L’avremmo fatto anche noi, dai. Forse non così distante dalla loro base ma avremmo potuto. Troppe coincidenze, no?». A parlare fu Brandon.
Tutti si dimostrarono d’accordo con la sua frase.
«Però hanno picchiato una donna. Questo non li giustifica. Lo sappiamo tutti, le donne non si toccano» sbottò Ryan.
Dollar, il ragazzo biondo con la cicatrice sul viso, annuì convinto.
Io, invece, continuavo a essere sempre più confusa.
«Perché mi ha detto che ero la tua puttana?» chiesi, facendoli ammutolire.
Ryan si irrigidì, alzandosi dal tavolino sul quale si era seduto. Fece qualche passo, tastandosi le tasche dei jeans alla ricerca di qualcosa.
Trovò l’accendino e si accese una sigaretta, senza però rispondermi.
«Non sei uno sbirro, non sei una giornalista, perché sei venuta qui? Sei californiana, no?».
Quella domanda posta da Ryan mi spiazzò. Come faceva a sapere da dove venivo?
«Come lo sai?» chiesi, alzandomi in piedi.
Il mio sguardo si fermò su una tavola, pochi metri dietro al divano sul quale mi ero svegliata.
Lì c’erano le mie due valigie aperte. Tutto il contenuto era sopra alla tavola. Non c’era più un vestito piegato, i miei soldi erano in un angolo.
«Che cosa avete fatto?» strillai, avvicinandomi a grandi passi ai bagagli vuoti. Perfino il mio beauty case, con i pochi trucchi che mi ero portata, era vuoto.
«Un semplice controllo». Ryan espirò, producendo una nuvola di fumo.
Un semplice controllo?
«Chi vi ha dato il permesso di aprire le mie valigie?» urlai, prendendo i miei vestiti e lanciandoli dentro al trolley a caso.
«L’ho ordinato io». Di nuovo quella voce dura e autoritaria, di nuovo Ryan.
Perché parlava solo lui?
Ma soprattutto… «L’hai ordinato tu? E chi sei, il capo?». Gettai ombretto, matita e fard dentro alla piccola bustina con le tavole da surf stampate sopra e sentii qualcuno ridere.
Rimanevano solo i miei soldi.
Chi mi garantiva che non li avessero presi?
Cominciai a contarli, ignorando gli occhi di tutti che erano puntati su di me.
«Non abbiamo rubato niente. Ci sono tutti. Millesettecentotrenta» spiegò Ryan, mentre finivo di contare i soldi.
Non mancava nemmeno un dollaro, c’erano tutti, come mi aveva detto.
«Voglio andare nel mio appartamento» sbottai, chiudendo la cerniera delle valigie in un gesto secco e stizzito.
Cercai di tirarla già dal tavolo, ma mi cadde a terra, facendo ridere di nuovo qualcuno.
Possibile che per loro la situazione fosse così comica?
«Ti accompagno» disse una voce dietro di me. Riuscii a riconoscerla: era di Dollar.
Non lo ringraziai nemmeno, visto che Ryan parlò di nuovo. «No, vado io».
Voce autoritaria, sguardo duro. Di nuovo quello che sembrava un ordine.
«Ma…» cercò di giustificarsi Dollar, senza però riuscire ad aggiungere altro.
«Ho detto che ci vado io». La voce si fece ancora più dura e io rabbrividii.
Faceva quasi paura.
Dollar non disse nulla, indietreggiò di un passo, affiancandosi ai due gemelli e a Brandon.
«Dammi» sbuffò Ryan, prendendo le mie valigie e sollevandole come se fossero state vuote.
Notai solo in quel momento i muscoli delle sue braccia, evidenti anche sotto la maglia bianca.
Riuscii anche a scorgere diversi tatuaggi, ma non mi soffermai troppo a guardare.
Non salutai nessuno, uscii a testa bassa, seguendo Ryan e chiudendomi la porta alle spalle.
Mi trovai su un pianerottolo; davanti a noi c’erano le porte di altri appartamenti.
«Interno C?» chiese Ryan, fermandosi al centro del terrazzino completamente spoglio. Non c’era nemmeno una pianta.
«». Cercai il foglietto per un’ulteriore conferma, ma non lo trovai.
Ryan si avvicinò alla porta con la targhetta 3C.
«Questa è la tua chiave» sussurrò, allungandosi per tastare sopra al cornicione della porta e porgendomi  poi una chiave.
«Cos… com… abiterò qui?» farfugliai, indicando la porta davanti a noi.
«Il proprietario non si fa mai vedere, passa a fine mese per l’affitto» cominciò a dire, aprendo la porta e portando dentro le mie valigie.
Non riuscivo a capire.
Ryan e i suoi amici abitavano nello stesso mio palazzo? Al terzo piano?
«Chiuditi sempre, sia di giorno e ancora di più di sera. Non aprire a nessuno che non conosci, nemmeno se è una donna».
Appoggiò le valigie in mezzo alla piccola cucina, guardandosi attorno.
Quell’appartamento era una copia in miniatura del suo.
«Io non conosco nessuno» mormorai, abbassando lo sguardo.
«Mi conosci, ci sono anche Brandon e gli altri. Di noi ti puoi fidare. Non aprire a nessun altro, intesi?» ordinò, aspettando una mia risposta prima di chiudere la porta.
Annuii solamente, rimanendo ferma nel centro della stanza.
Ryan chiuse la porta, senza nemmeno salutare.
Un improvviso silenziò calò nella mia nuova casa, opprimendomi.
Mi guardai attorno: gli scatoloni che avevo spedito qualche giorno prima erano sparsi per tutto il pavimento, una lampada, la mia preferita, era rotta a metà.
Sospirai, stanca di tutto e scostai una sedia per sedermi.
Quando mi abbandonai sulla sedia, lo schienale si ruppe, facendomi cadere a terra.
Urlai per lo spavento, cominciando a ridere subito dopo.
La risata isterica si trasformò presto in pianto, quando mi resi conto che mi trovavo in un posto sconosciuto, senza nemmeno qualcosa da mangiare.
Ero stata aggredita senza motivo e le uniche persone che mi avevano rivolto la parola sembravano teppisti.
Il benvenuto di New York non era di certo stato caloroso.

 
 
 
 
 
Salve a chi non mi conosce e bentornate a chi invece ha già avuto la sfortuna di leggere –volente o nolente– qualcosa di mio.
Registro diverso, storia nuova e soprattutto ambientazione e personaggi nuovi.
Premetto già che il linguaggio non sarà dei migliori, sarà duro e alcune volte volgare.
Dunque, come nasce questa storia?
Ho letto da qualche parte “Gang” e qualche ora dopo ho ritrovato la cartolina di un mio amico che diceva “mi sono perso nel Bronx, che paura!” e il neurone ha unito le due cose.
Se vi state chiedendo se la storia avrà dei rimandi a Sons of Anarchy (se qualcuno l’ha visto) la risposta è ‘Snì’.
Sì, perché ci sono alcune cose, come ad esempio le foto segnaletiche sul muro, che sono prese da lì.
No, perché ho letto interviste e articoli, e la storia delle bande, nel Bronx, non è esattamente uguale a quella che traspare dai SAMCRO.
Comunque, credo le note a fine capitolo saranno leggermente più lunghe rispetto alle altre mie storie perché vorrei precisare alcune cose che magari nei capitoli per qualche motivo non sono riuscita a spiegare.
Tutte le strade citate in questo capitolo esistono, ho cercato su Google Maps, però non so dirvi se effettivamente siano così vicine, visto che, come mi ha fatto notare SidRevo, un paio di strade distano tipo 2 miglia. Insomma, spero mi perdonerete se c’è qualcosa di sbagliato, ecco.
Ah sì, il numero dello stabile l’ho inventato, quindi quello con molta probabilità è completamente sbagliato, ecco.
Ultima cosa, spero che la storia possa piacervi, e, se vorrete lasciare in qualche modo un feedback, be’, lo accetto volentieri, perché non so se l’idea può piacere!
 
I volti li trovate nel mio gruppo Fb (dove pubblico anche gli spoiler) che è questo: Nerds’ corner.
Se qualcuno vuole aggiungermi agli amici (ho sempre accettato senza chiedere nick, però vi prego, se mi aggiungete, ditemi almeno che siete lettrici, perché cominciano a esserci un po’ troppe richieste) il mio profilo FB è: Roberta RobTwili.
Un enorme grazie a Malia85 che mi beta la storia e a TheCarnival per il Teaser trailer che trovate a inizio capitolo.
La mia idea è aggiornare una volta a settimana, però spero mi perdonerete, per il prossimo mese, se i tempi saranno leggermente più lunghi, vista l’imminente sessione di esami.
Bòn, credo di aver finito di rompere, a presto!

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Capitolo 2
*** Open the door. We know you're here ***


YSM
 
 
Una botta secca alla porta, come se qualcuno l’avesse colpita o ci avesse gettato qualcosa contro.
Mi asciugai frettolosamente le lacrime che continuavano a scendere e, cercando di non fare rumore, mi avvicinai alla porta per capire se ci fosse qualcuno dietro. Sì, sentivo dei movimenti e delle voci nonostante la parete: qualcuno stava discutendo di qualcosa, ma non riuscivo a capire le parole.
Appoggiai l’orecchio al legno, sperando di avere qualche indizio per capire chi ci fosse, ma urlai spaventata quando ci fu un nuovo colpo.
Bene, ora tutto il palazzo sapeva che ero in casa.
«Apri» ordinò una voce dietro la porta.
Indietreggiai spaventata, guardandomi attorno in cerca di qualcosa che potesse ferire chiunque ci fosse là dietro. Dubitavo di riuscire a colpire veramente qualcuno, ma magari sarei riuscita a spaventarlo.
Dentro a uno scatolone, che avevo aperto pochi minuti prima, vidi un mestolo di legno che presi subito in mano, tenendolo alzato. Mi avvicinai lentamente alla porta, il respiro fermo nel petto.
Non mi ero resa conto, però, che prendendo il mestolo, avevo spostato lo scatolone: ora era pericolosamente in bilico. Sentii all’improvviso un rumore dietro di me che mi fece sobbalzare spaventata.
Le poche pentole che avevo portato da casa erano sparse su tutto il pavimento della piccola cucina. Per qualche secondo rimasi a guardarle, non sapendo che fare.
«Apri, sappiamo che se lì dentro». Di nuovo la voce fuori dal mio appartamento, seguita subito dopo da un altro colpo che fece vibrare tutta la parete.
Socchiusi gli occhi, spaventata, stringendo più forte tra le mani il mestolo di legno e avvicinandomi alla porta; puntai il piede contro il legno: una volta aperta, con il mio piede dietro a bloccarla, se ci fosse stato qualcuno intenzionato a farmi del male, sarei riuscita a chiuderla subito.
«Sono armata» mentii, sperando che lo sconosciuto sul pianerottolo potesse credermi.
Abbassai la maniglia lentamente, tenendo alto il mestolo e avvicinando ancora di più il piede.
Il cuore mi batteva all’impazzata, talmente forte che rischiava di uscirmi dal petto. Perfino il dolore al labbro passava in secondo piano.
Quando riuscii ad aprire uno spiraglio, il mio cuore si fermò per un secondo, riprendendo a battere subito dopo con un ritmo un po’ più regolare.
Abbandonai la testa all’indietro, togliendo il piede e spostandomi di un passo.
«Quella sarebbe la tua arma?» ghignò Ryan, indicando il mestolo che continuavo a stringere nella mano destra.
I ragazzi dietro di lui scoppiarono a ridere, senza pensare minimamente di nasconderlo.
«Scusa, non ho finito di sistemarmi e la pistola è ancora in qualche scatolone» sbottai, stizzita dal loro prendermi in giro.
Perché non potevo farlo anche io? In fondo, loro l’avevano fatto quando mi ero svegliata nel loro appartamento.
«Hai una pistola?» chiese Brandon –mi sembrava di ricordare che si chiamasse così – sorpreso.
«No che non ho una pistola» esclamai, spalancando gli occhi sorpresa.
Credeva davvero che ne avessi una?
«Dovresti» sbottò Ryan, sedendosi sul divano sgangherato che avevo trovato in casa.
Era vecchio, sporco e rotto, ma per le poche centinaia di dollari che pagavo al mese di affitto, non mi ero di certo aspettata un divano nuovo.
Rabbrividii quando Ryan si distese sul divano, appoggiandoci i piedi sopra. I miei occhi saettarono su i suoi scarponi sporchi e mi avvicinai a lui, appoggiando le mani sui fianchi, arrabbiata.
Chi gli aveva dato il permesso di entrare in casa mia? Perché si era seduto come se io gli avessi detto che poteva farlo?
«Ehi, alzati subito da lì! E non appoggiarci i piedi. Chi ti ha detto di entrare?» strillai, indicando la porta di casa prima di prendergli le gambe e costringerlo ad appoggiare i piedi per terra. Quel gesto causò le risate dei ragazzi che erano ancora sul pianerottolo.
«Che modi» sbottò Ryan, prendendo una sigaretta e portandosela alle labbra. Si alzò per qualche secondo, cercando l’accendino nella tasca dei jeans e cominciando subito dopo a fumare.
«Possiamo entrare anche noi?» domandò Brandon, con un ghigno divertito sulle labbra.
«Io non gli ho detto che poteva entrare» mi giustificai, iniziando a raccattare i pezzi della sedia che avevo rotto; erano ancora per terra, avevo preferito pulire l’armadio prima di disfare le valigie.
«Grazie» esordì Brandon, sedendosi di fianco a Ryan sul divano e accendendosi una sigaretta.
Cominciarono a parlare, prima che gli altri li raggiungessero, occupando anche le altre due poltrone marroni, a pezzi anche quelle.
Dollar, l’ultimo a entrare, si chiuse la porta alle spalle, avvicinandosi poi a me, con le mani dentro alle tasche dei jeans. «Siamo venuti a farti un po’ di compagnia, visto che sei appena arrivata e non conosci nessuno» azzardò, prima di cominciare a giocherellare con la sciarpa che portava al collo.
Mi soffermai a guardarlo in viso, cercando di non notare la sua vistosa cicatrice: era giovane, molto. Non ne ero sicura, ma sembrava non avere nemmeno vent’anni.
«Che c’è?» bofonchiò, divertito, accucciandosi per prendere un pezzo di sedia e appoggiandolo poi sopra al tavolo.
«Chi siete?». Formulai la domanda prima ancora di pensarla, ma probabilmente usai un tono di voce troppo alto, perché tutti gli altri si zittirono per guardarmi.
«Devo ripetere tutti i nomi? Io sono Ryan» sogghignò, aspirando una nuova boccata di fumo e causando uno scoppio di risa generale.
Quando parlava tutti pendevano dalle sue labbra; se ordinava qualcosa tutti eseguivano, se faceva una battuta ridevano, se chiedeva silenzio si ammutolivano. Chi era?
«No, chi siete?» mi intestardii, appoggiandomi al tavolo con la schiena, in attesa di una risposta seria. Volevo una risposta vera, non mi interessavano i loro nomi, piuttosto ero curiosa di sapere perché tutti avessero il viso segnato da piccole cicatrici e da ematomi in via di guarigione.
«I tuoi vicini. In California non vi portano i dolcetti, appena vi trasferite? Mi dispiace, noi non abbiamo dolcetti».
Il ghigno di Ryan mi innervosì talmente tanto che strinsi i pugni, respirando a fondo per non ribattere qualcosa di volgare e fuori luogo.
«Dovete essere anche qualcos’altro. Perché altrimenti mi avrebbero presa a pugni quando ho detto l’indirizzo di questo palazzo?» chiesi, rabbrividendo al ricordo di quello che mi era successo. Ero ancora scossa, volevo solo farmi una doccia calda e distenermi a letto per poter riposare qualche ora; rilassarmi, insomma.
«Devi prestare attenzione a chi c’è qui attorno. Mai parlare con i blu» mormorò criptico Ryan, ricevendo l’assenso di tutti.
«I blu?». I loro occhi mi guardarono stupiti, come se avessi appena fatto una domanda stupida. Sentire i loro sguardi addosso mi fece arrossire e mi concentrai su un mobile giallo della cucina.
«Ryan, non credi che dovremmo…» cominciò Brandon, prima che il biondo imponesse di fare silenzio con un gesto della mano.
«No» disse con tranquillità, la sigaretta tra le labbra. «Non è il momento».
A quell’affermazione, Dollar aprì la bocca per dire qualcosa, poi però scosse la testa, ripensandoci.
«Però, insomma, lei vive qui» ritentò Brandon, guardando Ryan che stava spegnendo la sigaretta sul pavimento.
«Ehi» strillai, avvicinandomi a grandi passi a loro, che mi guardarono stupiti. «Questa non è casa tua e la sigaretta non la spegni sul mio pavimento, ok? Cerca uno stupido posacenere e poi gettala nel cestino». Indicai un sacco dell’immondizia di fianco alla tavola, dietro di noi. La mia sfuriata li fece ridere tutti, di nuovo.
Cosa c’era di tanto divertente in quello che facevo o dicevo?
«Forse ci ho ripensato. Se magari lo sa, smette di fare la sapientina» sghignazzò, seguito dagli altri, «o magari, meglio, ci ringrazia per averle salvato il culo, visto che deve ancora farlo» aggiunse, soffocando ogni mio proposito di rispondere di nuovo.
Aveva ragione, non li avevo ancora ringraziati. Mi avevano salvata da quei ragazzi che volevano rapinarmi e non solo; si erano dimostrati gentili, portandomi a casa loro e offrendosi di accompagnarmi nel mio nuovo appartamento, prima ancora di sapere che era dall’altra parte del pianerottolo.
«Io… be’…» bofonchiai, abbassando lo sguardo sulle dita che continuavo a torturarmi. Mi sentivo tremendamente in imbarazzo perché aveva ragione e soprattutto non era da me: ero la prima a ringraziare per qualsiasi cosa, anche per un piccolo gesto, e non l’avevo fatto con loro, che mi avevano salvato la vita.
«Brandon, hai per caso sentito grazie? Perché io credo di non aver sentito quelle sei lettere».
Il sottile umorismo di Ryan mi irritò, facendomi esplodere.
«Se prima volevo ringraziarvi, adesso mi è passata la voglia, ma siccome sono una persona educata, credo sia giusto farlo lo stesso. Grazie Dollar». Incrociai le braccia sotto al seno, piccata, concentrandomi solo sul suo viso senza però guardare troppo la cicatrice.
Dollar, all’inizio stupito, cominciò a ridere, seguito dagli altri subito dopo.
Bene, di nuovo tutti a prendermi in giro.
«Qualcuno può spiegarmi cosa c’è di divertente in tutto quello che dico? Così magari posso ridere anche io» sbottai ironica, peggiorando la situazione: Ryan si portò una mano alla pancia, ridendo di gusto. Tutti gli altri, invece, cercavano di sorreggersi a vicenda.
«Sì, bene. Fate come se fosse a casa vostra  visto che non siete a vostro agio. Io intanto continuo a sistemare le mie cose» borbottai tra me e me, prendendo la seconda valigia e dirigendomi verso la camera.
«Se vuoi io ti sistemo il cassetto della biancheria». Mi ritrovai Dollar di fianco, con un sorriso divertito. Quella strana smorfia gli increspava la pelle attorno alla cicatrice, deformandogli il viso.
«Dollar, lasciala stare, è troppo grande per te» lo canzonò qualcuno, tirandogli un cuscino sulla nuca.
«Sta zitto, Brandon» sbottò Dollar, lanciandogli il cuscino addosso di rimando.
Quel gesto mi fece sorridere perché sembravano un gruppo di amici che scherzava, divertendosi.
«Quello l’ho già sistemato» spiegai, aspettando una reazione da parte di quelli seduti sul divano.
«Non importa, controllo che sia in ordine» ritentò Dollar, facendomi ridere.
Quel suo sorriso fu in grado di rallegrarmi. Sì, perché riuscivo a vedere qualcosa, sotto a quella cicatrice, che mi faceva tenerezza: un bel viso, distrutto per chissà quale motivo.
«Doll, lascia stare, non sei il suo tipo. Credo le piacciano gli uomini, non le mezze cartucce» ghignò Ryan, causando l’ennesimo scoppio di risa. Tutti stavano ridendo; tutti tranne Dollar che incurvò le spalle, indispettito.
«Sinceramente mi sembra un uomo. Se vuoi, Dollar, puoi aiutarmi a sistemare l’armadio, visto che non riesco a spostarlo».
Volevo aiutarlo, sembrava davvero quello preso in giro da tutti. Che fosse perché era il più giovane?
«Faccio io. Dollar non sa spostare nemmeno una sedia» sbuffò Ryan, alzandosi dal divano e scostando con una spallata Dollar, che gli impediva di passare dalla porta. «Qual è la camera?» chiese, guardando lungo il piccolo corridoio.
«L’unica porta a destra». Non era poi così grande la mia nuova casa: entrata con cucina, un piccolo corridoio che portava alla mia camera e al bagno.
Raggiunsi Ryan in camera mia e lo trovai a osservare l’armadio davanti a lui con uno strano ghigno. «Sarebbe questo l’armadio che non riesci a spostare?» chiese, cercando di non ridere.
«Be’, per me è alto e pesa». Solo perché lui era alto poco meno dell’armadio non doveva farmi sentire una nanetta.
«Credevo che in California le ragazze fossero alte, bionde e con le tette grandi. Ci deve essere qualcosa di sbagliato in te» commentò, tirandosi su le maniche della maglia che indossava e lasciando scoperte le sue braccia muscolose.
«Mio padre è australiano» mi giustificai, punta sul vivo.
Possibile che dovesse essere così scortese da offendere? In fin dei conti non lo conoscevo da nemmeno un giorno.
«Questo non ti giustifica. Dovresti essere alta almeno così». Indicò un punto all’altezza del suo naso, molto più in alto rispetto a me.
«Senti, vuoi spostare questo armadio o sei qui solo per dirmi che sono bassa?» sbottai irritata, incrociando le braccia al petto in segno di irritazione.
Non mi faceva di certo piacere sentirmi prendere in giro solo perché raggiungevo a malapena il metro e sessanta.
«Piccola ma cattiva, eh?». La voce, proveniente alle mie spalle, mi fece sussultare spaventata.
Brandon, Dollar e uno dei due gemelli entrarono in camera mia, distendendosi subito dopo sul mio letto.
«Hai sentito Brandon? Ha gli artigli» disse Ryan, appoggiando la schiena contro l’armadio. «Dove devo metterlo?» continuò poi, guardandomi.
«Qui, mi piacerebbe qui». Indicai un punto a qualche metro da Ryan, a pochi passi da me.
Ryan cominciò a spostare l’armadio, da solo, stupendomi.
«Ti farai male» urlai, avvicinandomi per aiutarlo; non che potessi fare molto, ma almeno non si sarebbe sforzato troppo.
«Alexis, Ryan ogni tanto aiuta suo zio a fare i traslochi, è abituato» mi spiegò Brandon, accendendosi una sigaretta.
«Potreste almeno non fumare sul mio letto? Le lenzuola sono pulite» lo informai, trattenendomi dal non spintonarli giù dal materasso.
«Su, da bravi, la signora non vi vuole sul suo letto» ridacchiò Ryan. Naturalmente, come mi aspettavo, la sua battuta li fece ridere, tanto che un po’ di cenere della sigaretta di Brandon finì sul copriletto. «Alzatevi» ordinò subito dopo, facendoli alzare infastiditi.
«Grazie» mormorai, tenendo lo sguardo basso. Non sapevo se ringraziarli perché si erano alzati dal mio letto o ringraziare Ryan perché glielo aveva ordinato.
«Miss California ha detto grazie, ragazzi. Dovremmo aspettarci una tormenta di neve a giugno?» ironizzò Ryan.
Non mi scomposi nemmeno, intenta com’ero a cercare di non arrossire.
«Qui l’armadio va bene?» chiese, indicando l’esatto punto in cui me l’ero immaginato.
«Sì, grazie». Accennai un debole sorriso, guardandolo di sottecchi.
«C’è altro che ti serve?». Si piegò leggermente in avanti, girando il busto.
Temevo che si fosse fatto male alla schiena, spingendo da solo l’armadio.
«Ti sei fatto male?». Mi avvicinai a lui istintivamente, facendo un passo per guardare la sua schiena.
«No» sbottò, allontanando il mio braccio di colpo, come se avesse avuto paura di me. «C’è altro che ti serve?» insisté, prendendo una sigaretta e accendendola.
«Io… credo di no. Non ho controllato in bagno, ma dovrebbe essere tutto ok» spiegai, guardando i loro volti.
C’era qualcosa che li accumunava; erano tutti diversi ma la luce nei loro occhi sembrava la stessa.
Qualcosa, dentro di loro, li legava, come se fossero fratelli.
«Andiamo a controllare il bagno. Ryan, dovremmo andare a lavorare». Brandon sottolineò l’ultima parola, incuriosendomi.
Guardai l’ora: erano quasi le undici di sera; dove potevano lavorare? In un bar, forse. O in qualche locale.
Oddio, e se fossero stati degli spogliarellisti?
«Do-dove lavorate?» domandai, imbarazzata; non ero sicura di voler sapere veramente la risposta.
«Aiutiamo i bambini ad attraversare la strada quando escono da scuola» borbottò Ryan, accendendo le luci del piccolo bagno con le mattonelle blu, e aprendo tutte le ante dei mobiletti per controllare che fosse tutto apposto.
Per fortuna non avevo ancora sistemato il bagno.
«Aiutate i bambini ad attraversare la strada quando escono da scuola?» ripetei, meravigliata. E perché stavano uscendo di notte?
«Sì, solo che siccome di mattina c’è traffico, ci prepariamo già lì» continuò Ryan, facendo ridere Dollar e Brandon, appoggiati allo stipite della porta, dietro di me.
«Mi stai prendendo in giro, vero?» esplosi, irritata per non essermene accorta prima e aver fatto la figura della stupida ancora una volta.
«Sì, Alexis, ti sto prendendo in giro. Qui è tutto apposto, ti serve altro?» chiese, scostandomi appena per uscire dal bagno dopo aver spento la luce.
Mi ritrovai al buio. Corsi verso la cucina e mi fermai appena in tempo per non sbattere contro Ryan.
«Ecco… in verità, io… dovrei trovare un lavoro» confessai, giocherellando con il bordo della mia maglia.
«Lavoro? Credi di trovare lavoro qui?» proruppe Ryan, di nuovo quel ghigno sulle labbra, per prendermi in giro.
«Sì, mi andrebbe bene tutto, devo riuscire a pagare l’affitto e… insomma. Voi dove lavorate?». Magari erano camerieri in qualche locale lì vicino. Di sicuro conoscevano la zona molto meglio di me.
«Sai cambiare la gomma a una macchina?». Brandon cercava di rimanere serio, con pochi risultati.
«Io… no, ecco. Ma, ma posso fare qualcos’altro». Non mi interessava entrare in un ospedale o trovare un lavoro che c’entrasse con la mia laurea. Volevo solo riuscire a essere indipendente.
«Se non sai cambiare gomme, scordati di trovare un lavoro a Hunts Point». Per la prima volta, forse, riuscii a scorgere un’espressione seria. Nessun ghigno nel volto di Ryan.
«Ok, troverò qualcosa qui attorno, allora» azzardai, appoggiandomi al tavolo dietro di me e guardando i ragazzi in mezzo alla piccola cucina.
«Non credo sia il posto più adatto per uscire di sera, questo. Hai visto anche tu cosa è successo». Il riferimento di Ryan alla mia aggressione mi fece rabbrividire, facendomi ricordare quella banda di ragazzi e i loro volti.
«Ma devo pagarmi l’affitto. Ci sarà un bar, qualcosa, qui vicino. Anche commessa… va bene tutto, non mi interessa qualcosa che riguardi quello che ho studiato, davvero» mi giustifica, sperando che potessero aiutarmi.
Ryan sembrò sorpreso: il suo sguardo saettò da Brandon a Dollar, per poi tornare su di me. «Cosa hai studiato?» chiese, una nota di curiosità nella voce che non riuscì a nascondere.
«Medicina» mormorai, socchiudendo gli occhi. Non nominai nemmeno i due esami mancanti; sapevo che ci sarebbero state altre domande e non volevo rispondere.
«Ci serviva» bisbigliò Brandon, dando dei leggeri colpi con il gomito sul fianco di Ryan.
Dollar cominciò a ridere, nascondendosi poi le labbra con la sciarpa, probabilmente perché cercava di non farsi vedere.
«Non c’è niente per te, qui» sbottò Ryan, utilizzando un tono di voce duro, che mi fece rabbrividire.
«Non mi interessa lavorare in un ospedale. Va bene anche un bar, davvero. Anche se devo fare un’ora di strada». Avrei lavorato anche di notte, non era un problema.
«Cazzo se è testarda, ho detto di no». Ryan prese una nuova sigaretta, accendendosela senza nemmeno chiedere il permesso.
«Chiederemo, magari qualche bar ha bisogno di una cameriera». La proposta di Brandon sembrò voler zittire Ryan, e ci riuscì.
«Grazie» mormorai, grata perché almeno ci avrebbero provato. «Non voglio farvi tardare, se dovete andare al lavoro. Io… ecco, grazie comunque» bofonchiai, non riuscendo a sostenere lo sguardo di nessuno di loro tre.
Ricordai che quando erano arrivati c’era anche Paul, uno dei due gemelli, e Sick, mi sembrava di ricordare; che fossero tornati nel loro appartamento? Mi guardai attorno, sicura che non potessero essere né in bagno né in camera.
«Non dobbiamo timbrare cartellini» rise Ryan, seguito subito dopo da Brandon e Dollar.
Non riuscivo a capire che lavoro potessero fare. Lavoravano di sera, non timbravano cartellini e potevano cominciare a qualsiasi ora.
Qualcosa dietro di me sbatté, facendomi urlare per lo spavento.
«Scusate» sussurrò Dollar, cercando di trattenere una risata, «cercavo qualcosa da mangiare» spiegò, chiudendo per la seconda volta l’anta di un mobile della cucina, senza però sbatterla.
«Non c’è niente da mangiare, non ho fatto la spesa e… ho solo un pacchetto di cracker». Camminai velocemente fino al divano per prendere la mia borsa; quando tornai da Dollar, con i cracker tutti rotti a causa del viaggio, lui cominciò a ridere, portandosi una mano sullo stomaco.
«No no… grazie. Era solo per uno spuntino: una bistecca, un po’ di patate fritte, cose così».
La mia espressione, dopo la spiegazione di ‘spuntino’ da parte di Dollar, mutò, facendoli ridere ancora di più.
Non sapevo che cosa avessero visto sul mio volto, ma tutti e tre continuavano a sghignazzare, appoggiati al tavolo, o alla cucina.
«Che c’è?» domandai, sperando che la smettessero di mettermi in imbarazzo e si decidessero a parlare.
«Nie-niente» bofonchiò Ryan, tra una risata e l’altra, asciugandosi una lacrima con il braccio.
«Vuoi qualcosa da mangiare per questa sera?». Brandon smise di ridere, sistemandosi anche la maglia.
«No, ho i cracker, grazie. Farò la spesa domani mattina». Ero abituata a mangiare poco di sera e a causa del jet lag non avevo poi così fame.
«Portate qualcosa da mangiare, se ne abbiamo» ordinò Ryan, indicando, con un gesto del capo, la porta di casa.
«No, davvero, non importa» mi giustificai, inutilmente: Dollar e Brandon erano già sul pianerottolo, pronti a entrare nel loro appartamento. «Non serviva» mormorai, guardando Ryan, davanti a me.
«Ci ripagherai in qualche modo» ghignò. Brandon e Dollar rientrarono con un paio di birre e qualche pacchetto di patatine.
«Ecco, così puoi mangiare e anche bere» borbottò Dollar, appoggiando le birre sopra al tavolo.
Avrei voluto dire che di solito non bevevo birra, ma si erano dimostrati così gentili che non me la sentii e li ringraziai solamente.
«Ryan, è tardi, dobbiamo andare». Brandon indicò l’orologio che aveva al polso, guardando subito dopo Dollar.
«Sì. Be’, chiudi la porta, non aprire a nessuno e… buona serata». Ryan cercò di sorridere, ma ottenne solo una strana smorfia, che mi fece ridere.
«Grazie. Buon lavoro». Non sapevo cosa dire, mi sentivo tremendamente in imbarazzo.
Nonostante tutto, si erano dimostrati gentili con me. Questo mi insegnava che, in qualche modo, dovevo guardare oltre alle apparenze di quelle cicatrici e di quegli ematomi.
Uscirono dal mio appartamento chiudendosi la porta alle spalle e io chiusi subito il catenaccio per sentirmi più sicura.
Un silenzio improvviso calò dentro alla mia piccola cucina, facendomi rabbrividire.
Cominciavo lentamente a rendermi conto di quello che mi era successo, forse perché lo shock stava lentamente svanendo.
Mi serviva una doccia calda, per cercare di scaricare lo stress e per allentare i miei muscoli.
Lasciai che l’acqua calda scaldasse un po’ l’ambiente e, dopo aver cercato un paio di pantaloni e una maglietta da una delle valigie che non avevo finito di sistemare, mi abbandonai sotto al getto di acqua, circondata dal vapore: potevo sentire le ultime tracce di Los Angeles scivolare via per lasciare il mio corpo.
Una nuova vita: nuovo lavoro –che non avevo ancora trovato–, nuovi vicini, nuova casa.
Rimasi sotto al getto d’acqua calda per un tempo indefinito; decisi di uscire solo quando vidi che il bagno era completamente avvolto dal vapore.
La stanchezza cominciava a farsi sentire, così lasciai i capelli sciolti, senza nemmeno asciugarli: era giugno, estate; in California mi asciugavo i capelli solo in inverno.
Camminai svogliatamente fino alla cucina: volevo prendere i cracker e distendermi a letto, per mangiarli in tranquillità. Il mio sguardo, però, si posò sui pacchetti di patatine e sulle birre che mi avevano portato Dollar e Brandon.
«Tanto» bofonchiai tra me e me, facendo spallucce. Presi una birra e un pacchetto di patatine, abbandonando l’idea di mangiare i cracker a pezzetti, e avanzai fino alla mia camera, distendendomi poi sul letto con uno sbuffo.
Puzzava di fumo e c’erano delle tracce di cenere sparse sul copriletto, ma ero talmente stanca che non mi interessava.
Gli avrei vietato di fumare ancora sul mio letto, pensai, sorseggiando un po’ di birra fresca.
Anzi, non sarebbero più entrati in camera mia, perché non ce n’era bisogno.
Erano i miei vicini, pronti a prestarmi un chilo di zucchero quando ne avevo bisogno, o a indicarmi la strada più corta per arrivare a Trafalgar Square.
Sì, senza dubbio il nostro rapporto sarebbe stato quello.

 
 
 
 
 
 
Buongiorno ragazze! :)
Intanto vi ringrazio per la risposta che avete dato al primo capitolo, sono felice che l’idea vi sia piaciuta e spero che la vostra risposta sia sempre così positiva.
Ma siete ancora vive alla fine di questo capitolo così noioso o siete tutte addormentate? Se siete vive battete un colpo per favore! :)
Dunque, capitolo (noiosissimo) di passaggio che mi serve per descrivere un po’ meglio i personaggi e per farvi capire alcune cose.
Per quanto riguarda HUNTS POINT, è il quartiere del Bronx in cui ho deciso di ambientare la storia (le due strade Whittier Street e Randall Ave sono di questo quartiere). La scelta è ricaduta proprio su Hunts Point per svariati motivi. Highbridge e West Farm, altri quartieri, hanno decisamente troppa malavita e troppi crimini, Alexis non sopravvivrebbe nemmeno un giorno; Mount Eden, che di solito viene definito come quartiere, in verità è un quartiere-strada, e volevo qualcosa di più ‘vasto’. Morris Heigh è un quartiere troppo tranquillo, tutti vivono felici e gli uccellini cantano… insomma, un quartiere tranquillo, troppo. Soundview è solamente povero, non c’è malavita o altro, quindi risultava strano ambientare la storia con tutte le vicende che descriverò lì. L’ultimo quartiere era Morrisania, e fino all’ultimo ero indecisa. Alla fine però ho scelto Hunts Point, che, tra l’altro, nel giro di due isolati ha 2 officine con ricambi di gomme (da qui la battuta di Brandon sul lavoro di Alexis).
Mmm, direi che non ho altro da aggiungere, se non ringraziare chi ha aggiunto la storia tra i preferiti/seguiti/da ricordare. Ringrazio anche chi ha avuto il coraggio di inserirmi tra gli autori preferiti!
Come sempre per le foto dei protagonisti e per gli spoiler questo è il gruppo: NERDS’ CORNER, e se volete aggiungermi agli amici: Roberta RobTwili (ma vi prego, ditemi che siete di EFP, mi basta sapere che siete lettori se non volete dire il nick, perché comincerò a non accettare richieste, se non mi dite nemmeno che leggete le mie storie).

Spero di riuscire a scrivere il capitolo per la prossima settimana e scusate per le note lunghissime!


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Capitolo 3
*** How to find a job with Ryan's help ***


YSM
 
 
Stupidamente mi ero illusa di riuscire ad addormentarmi dopo tutto quello che mi era successo; ogni volta che cercavo di dormire rivivevo la scena della mia aggressione che mi spaventava e costringeva a rimanere sveglia. Mi rigiravo continuamente tra le coperte.
In ventuno anni non avevo mai dormito con la luce accesa ma, per la prima volta, ci ero riuscita. Mi sembrava di sentire dei passi attorno a me, mormorii e risatine che mi mettevano i brividi; così alla fine avevo ceduto: luce accesa e stereo a basso volume sembravano il modo migliore per scacciare i fantasmi che mi avevano accolta nella mia nuova casa.
Riuscii ad addormentarmi solamente alle prime luci dell’alba, cadendo in un incubo senza fine che si interruppe due ore dopo, al suono della sveglia che mi fece sobbalzare. Mi alzai a sedere di scatto e sospirai sollevata non vedendo nessuno attorno a me.
Avevo bisogno di una doccia, perché a causa di quell’incubo mi ero svegliata in un bagno di sudore; così, correndo verso il bagno per non prendere un raffreddore, aprii subito l’acqua, sperando che la stanza si riscaldasse al più presto.
Indossai un paio di jeans e una maglietta e, dopo essermi legata i capelli, presi la cartina di New York che avevo comprato in aeroporto e uscii per andare a fare colazione, ma soprattutto per cercare un lavoro.
«Guarda chi c’è» sbottò qualcuno dietro di me, mentre chiudevo la porta del mio appartamento con un doppio giro di chiave. Mi voltai, spaventata, rilassandomi però subito dopo: erano Ryan, Dollar e gli altri ragazzi.
«Buongiorno» esordii, lasciando che il mio sorriso svanisse non appena notai i loro volti ricoperti di tagli. «Che cosa vi è successo?» chiesi preoccupata, avvicinandomi a loro per guardare meglio.
Dollar aveva un taglio sul sopracciglio sinistro che continuava a sanguinare; Ryan invece aveva il labbro gonfio e lo zigomo rosso. Erano loro due quelli conciati peggio: sul volto di Brandon c’era solo una lieve sfumatura più scura. I gemelli, fortunatamente, sembravano non avere segni evidenti di lotta nel volto; avevano però le loro maglie intrise di sangue. A quella visione rabbrividii.
«Siamo caduti dalle scale» ghignò Ryan, tastandosi le tasche per cercare una sigaretta che si portò immediatamente alle labbra. Fece un gesto a Brandon, chiedendogli l’accendino.
«Tutti?» ribattei, sicura di me stessa. Non mi avrebbe più presa in giro. Avevo capito che era un tipo ironico, che dovevo soppesare tutto quello che diceva per riuscire a capire quando scherzava o quando invece era serio.
«Sì, stavamo giocando a tiro alla fune e poi, all'improvviso, siamo caduti tutti. è divertente, dovresti provare» sogghignò, restituendo l’accendino a Brandon e aspirando poi una boccata di fumo.
«Non ci credo». Questa volta non mi avrebbe imbrogliata, no. Ero più lucida della sera prima e sarei senza dubbio riuscita a fargli dire la verità.
«Cosa? Che è divertente?». Il sorriso che comparve sul suo viso mi innervosì: mi stava prendendo in giro davanti a tutti gli altri, che continuavano a ridere, godendosi la scenetta.

«No, non ci credo che stavate giocando sulle scale» sbottai risoluta, avanzando di un passo verso di loro e stringendo con più forza i pugni.
«Non me ne frega poi molto se ci credi o no». Fece spallucce, portandosi di nuovo la sigaretta alle labbra.
«Scusatemi, vado a disinfettarmi questa cosa, ciao Alexis». Dollar fece un passo in avanti, sorridendo mentre imitava un inchino.
«Posso vedere?» chiesi, prima ancora di rendermene conto. Il sangue, la ferita… mi riportò a una delle poche cose che sapevo fare meglio.
«Cosa vorresti vedere, di preciso? Dollar è minorenne» sogghignò Ryan, facendoli ridere tutti. Non riuscii a non arrossire a quella battuta di pessimo gusto.
«Idiota, voglio vedere il taglio». Non mi scomposi nemmeno, avanzai verso Dollar senza guardare Ryan. Sentivo la sua risatina riecheggiare nel pianerottolo, ma la ignorai, alzandomi in punta di piedi per avvicinarmi al viso di Dollar.
Posai le dita poco distante dal taglio, premendo leggermente: «non è profondo, ma dovresti disinfettarlo» suggerii, tornando ad appoggiare completamente i piedi per terra.
«Certo, ci butto sopra un po’ di vodka e poi tutto è sistemato» bofonchiò Dollar, girando la chiave nella toppa per entrare nel loro appartamento.
«Vodka? No, ti serve disinfettante».
Aprii la borsa, cercando le chiavi di casa, che avevo appena gettato dento, perché volevo prendere la bottiglietta: ne avevo portato uno o due flaconi da casa, sicura che potessero servire, sempre.
«Disinfettante? È roba per donne. Hai mai provato la vodka?» mi provocò Ryan, mentre aprivo la porta di casa per andare in bagno. Ricordai infatti di aver sistemato il disinfettante proprio quella mattina, dopo la doccia.
«Alexis, davvero, non importa» strillò Dollar. La sua voce sembrava vicina, probabilmente era entrato nel mio appartamento senza però seguirmi.
Certo che importava, era il mio lavoro curare le ferite delle persone. Quelle visibili, almeno.
«Siediti» borbottai, spostando una sedia e appoggiando quello che avevo preso sopra al tavolo.
Sentii dei borbottii provenire dalle mie spalle e istintivamente mi voltai per controllare chi fosse.
Ryan, Brandon e i due gemelli erano fermi sull’uscio; stavano guardando la scena con una strana espressione sui loro volti.
«Dovresti medicarti anche tu». Con un gesto del capo indicai la ferita sul labbro di Ryan che si stava gonfiando sempre di più, «poi fai come vuoi, grande uomo» aggiunsi, tornando a guardare Dollar che mi sorrise appoggiando il gomito sinistro sul tavolo e scostandosi i capelli perché non mi impedissero di medicarlo.
Con dei gesti meccanici inzuppai il cotone di disinfettante e cominciai a tamponare la ferita, attenta a non premere troppo per non fargli male.
Dollar mi guardava senza però parlare; quel comportamento mi fece arrossire perché sentirmi osservata in quel modo mi dava fastidio.
«Come ti sei fatto questo taglio?» chiesi, sperando che mi potesse rispondere senza raccontare di nuovo una bugia. Forse, senza Ryan attorno, Dollar si sarebbe lasciato sfuggire la verità, appagando la mia curiosità.
«Dovresti chiederlo a Ryan» ribatté, mentre lo guardavo stupita. Era stato Ryan a picchiarlo? Avevano lottato tra di loro? «No, non è stato Ryan, ma io non posso dirtelo» ridacchiò, intuendo quello che stavo pensando.
«Siete strani» mormorai, togliendo il sangue raffermo che c’era sulla sua guancia. I tagli sul viso sanguinavano sempre tanto, facendo sembrare la situazione peggiore di quello che in verità era.
«Per ringraziarti di questo posso palparti il culo?» ironizzò, alzando lo sguardo, probabilmente per godersi la mia reazione. Premetti più forte il batuffolo di cotone contro il taglio sul suo sopracciglio, provocandogli un lamento.
«Era un modo per dirmi di sì e che posso farlo violentemente?» tentò, di nuovo, senza smettere di sorridere.
«Era un modo per dirti sta zitto o ti ritrovi con l'altro sopracciglio rotto» specificai, assumendo un’aria minacciosa. Non ci riuscii, visto che Dollar cominciò a ridere, costringendomi a rimanere con il cerotto a mezz’aria perché non riusciva a rimanere fermo, dondolandosi avanti e indietro sulla sedia.

«Che succede? Ha detto qualcosa di divertente?» domandò Ryan, la voce molto più vicina di quando mi aspettassi.
Mi girai, trovandolo a pochi passi da me con uno sguardo divertito e il sopracciglio alzato; stava aspettando una risposta che io non avevo intenzione di dare.
«No, semplicemente mi ha zittito» sogghignò Dollar, causando una mezza risata di Ryan, che però riuscì a contenersi, smorzandola sul nascere.
«Dovresti tenere il taglio pulito» spiegai, sistemando il cerotto sul suo sopracciglio, facendo attenzione a non premere troppo e quindi fargli male.
«Ci proverò. Grazie Doc» ammiccò Dollar, alzandosi dalla sedia e scompigliandomi i capelli. Uscì dando una pacca sulla spalla di Brandon, che lo seguì verso il loro appartamento.
Sospirai prendendo il cotone sporco e la carta del cerotto per gettarli quando Ryan si schiarì la voce, attirando la mia attenzione su di lui. Alzai lo sguardo, fermandomi in mezzo alla sala, cercando di capire che cosa volesse. «Che c’è? Devo controllare il tuo viso?» sbottai, con un tono di voce molto più duro di quanto avessi immaginato.
Ryan non riuscì a trattenere una risata, appoggiandosi alla cucina con la schiena e incrociando le braccia al petto. «Solo per controllare che il mio labbro sia apposto. Sai, non vorrei che il mio bel faccino ci rimettesse» si vantò, con un sorriso storto dovuto proprio alla sua nuova ferita.
«Dovresti sederti, altrimenti non ci vedo» suggerii, arrossendo. Era davvero frustrante essere così bassa rispetto a loro.
«Giusto» mormorò raggiungendo la sedia in pochi passi e accomodandosi. Nessuna battutina di scherno, niente che potesse offendermi o deridermi.
Mi stupii, rimanendo per qualche secondo ferma; quando però lo sguardo di Ryan si posò su di me per cercare di capire perché non facessi nulla, mi riscossi, piegandomi leggermente in avanti per guardare il labbro.
Non era rotto, c’era solo un piccolo taglio: era quella la causa del rigonfiamento.
«Aspettami qui». Camminai fino al bagno, gettando tutto quello che avevo utilizzato con Dollar nel cestino e lavandomi subito dopo le mani con il sapone. Presi un po’ di cotone pulito e tornai in cucina.
Ryan era ancora seduto sulla sedia, esattamente come pochi minuti prima. Che cosa stupida, dove sarebbe potuto andare?
Lasciai che il batuffolo di cotone si imbevesse di disinfettante mentre continuavo a mordermi il labbro perché non sapevo che cosa dire: c’era un silenzio innaturale che mi metteva a disagio. Ryan non parlava, continuava a seguire i miei movimenti, respirando lentamente.
«Allora? Cosa è successo?». Mi sembrava il momento giusto per sapere la verità, visto che non c’era nessun sorriso ironico sul labbro che stavo tamponando con il cotone.
«Era bello grosso» articolò a stento, cercando di non muoversi. I suoi occhi fissi sul mio viso, mentre cercavo di concentrarmi per non causargli ulteriore dolore.
Per un attimo il mio sguardo si incrociò con il suo, spaventandomi al punto che lasciai leggermente la presa sul cotone. «Cosa?». Il respiro si fermò quando, a causa del mio sussulto, sfiorai le sue labbra con le dita. «Scusa» mi giustificai, ritraendo la mano, come se mi fossi scottata.
«Il bambino che non voleva attraversare la strada. Mi ha picchiato e lo stesso ha fatto con Dollar. Brandon ha cercato di tenerlo fermo, per questo non ha ematomi sul viso. I bambini odiano la scuola al giorno d’oggi, sai?» scherzò, quando smisi di medicarlo.
«Non sono così idiota da non capire che mi stai prendendo in giro» sbottai, stizzita. Possibile che riuscisse a rimanere serio anche quando raccontava bugie?
«Cazzo, ma c’è qualcosa di vero nei film? Ero convinto che in California fossero tutte senza cervello. Ah, ma forse quella è una cosa direttamente proporzionale alle tette; questo farebbe di te… una cervellona, vedo». Il suo sguardo si posò sulla mia scollatura e reagii d’istinto: prima ancora di rendermene conto il mio braccio si mosse e la mia mano arrivò alla sua guancia, producendo un forte rumore che mi fece capire che cosa avevo appena fatto.
«Oddio, scusa» sussurrai, portandomi entrambe le mani davanti alle labbra mentre Ryan muoveva la mandibola per controllare che tutto fosse apposto.
Rimaneva lì, fermo, con gli occhi sbarrati per la sorpresa e con le mani appoggiate alle ginocchia; d’un tratto cominciò a ridere, abbandonando il capo all’indietro e non curandosi nemmeno di me.
«Cazzo, se la racconto a qualcuno nemmeno mi crede» sghignazzò, smettendo di ridere subito dopo.
«Io… mi dispiace. Anzi, no, non mi dispiace. Tu non mi conosci e queste cose non le devi dire, ok? Come ti permetti di offendermi?». Portai le mani sui fianchi, stizzita, aspettando una sua risposta.
Si stava trattenendo, per non ridermi in faccia.
«Sai, lentiggini, io ho solo detto la verità. Ma ti capisco, la verità fa male. Grazie per il labbro, ti considero ripagate le birre e le patatine di ieri sera». Si alzò dalla sedia, senza aggiungere altro, e camminò verso la porta.
Ero talmente stupita da quello che aveva detto che non risposi alla sua provocazione.
Mi aveva chiamata lentiggini, si era permesso di rinfacciarmi, per la seconda volta, che non avevo seno e poi se ne era andato, dicendomi che medicandoli li avevo ripagati per le birre e le patatine.
Non mi sforzai nemmeno di dare un senso al suo comportamento decisamente fuori luogo e inopportuno.
Ryan, nella mia mente, era classificato sotto la voce “pazzo scortese” ed ero sicura che niente mi avrebbe convinta a cambiare l’idea iniziale che mi ero fatta. Non di certo dopo le sue frecciatine sul mio corpo non propriamente californiano.
Dopo aver gettato anche l’occorrente che mi era servito per medicare Ryan nel cestino, presi la mia borsa, pronta a uscire, ma un colpo alla porta di casa mi fece sussultare.
«Apri, lentiggini».
Riuscii a riconoscere la voce di Ryan e mi avvicinai alla porta, arrabbiata.
«Possibile che tu non riesca a bussare?» proruppi, aprendo la porta di colpo e trovandomelo davanti, molto più vicino di quanto mi aspettassi.
«Ho appena bussato» commentò, indicando la porta.
Bussare? Quello secondo lui era bussare? «Tu non bussi, tu rischi di scardinare una porta. Quando una persona normale bussa, lo fa in questo modo». Feci un passo indietro, accostandomi alla porta e bussando. Spostai poi il mio sguardo su di lui, sperando che avesse capito.
«Sì, certo. Così bussano le checche» ribatté, appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta e incrociando le braccia al petto.
«Veramente così bussano le persone normali» lo fronteggiai, raddrizzando le spalle per cercare di sembrare più alta. L’ultima cosa che volevo era sentire qualche sua battutina anche sulla mia non-altezza, dopo quelle  sul mio non-seno.
«Sì, sì, certo. Dove stai andando?» domandò, indicando con un gesto del capo la mia borsa.
«A cercarmi un lavoro e magari un supermercato per fare la spesa» confessai esasperata, sorpassandolo e chiudendo la porta del mio appartamento.
«Sfidi ancora il Bronx?» mi provocò, avvicinandosi alla porta del 3B e “bussando”.
«Che c’è Cal?» bofonchiò Brandon, sbadigliando rumorosamente. Sbarrai gli occhi, stupita, quando mi accorsi che era a petto nudo.
Il suo torace muscoloso era segnato da numerose cicatrici che si confondevano con i tatuaggi. Tanti tatuaggi.
«Gradisci, Alexis?» domandò Brandon, facendo un passo sul pianerottolo per avvicinarsi a me e girando poi su se stesso.
Imbarazzata per essere stata vista mentre lo guardavo, distolsi lo sguardo, non riuscendo a evitare il rossore sulle mie guance.
«Vestiti. Porta Dollar, Sick e Shake con noi» ordinò Ryan lanciandomi un’occhiataccia.
«Noi?» bisbigliai, stupita. Loro volevano accompagnarmi?
«Vorrei evitare di doverti salvare la vita di nuovo mentre stanno per picchiarti o stuprarti. Sarebbe meglio insegnarti quali percorsi puoi fare. Non sei a Los Angeles qui» sbottò, prendendo una sigaretta dalla tasca dei jeans. Possibile che fumasse così tanto?
«I tuoi polmoni chiederanno pietà. Potresti smettere di fumare» azzardai, rimanendo in mezzo al pianerottolo mentre, dentro al loro appartamento, Brandon cercava di indossare una maglia e Dollar e Sick scherzavano tra di loro, spintonandosi.
«Shake sta dormendo» spiegò Brandon, prendendo la sigaretta dalla mano di Ryan e cominciando a fumarla.
Sbuffai abbassando lo sguardo: non mi andava nemmeno di ripetere quello che avevo detto a Ryan a proposito del fumo. In fin dei conti non li conoscevo e loro potevano fare quello che volevano della loro vita.
«Ha detto che non viene?» sibilò Ryan, usando quel tono duro che mi aveva spaventata anche la sera prima.
«No, sai che quando Shake dorme non riusciamo a svegliarlo. Non ci ho nemmeno provato» si giustificò Brandon, spegnendo la sigaretta nel posacenere che c’era di fianco alla porta d’entrata del loro appartamento.
«Allora? Andiamo in città?» rise Dollar, portando un braccio attorno alle mie spalle e ammiccando.
«Ehm… Dollar» mormorai imbarazzata, guardando la sua mano tranquillamente appoggiata a me. Quando spostai il mio sguardo sul suo viso, rimasi stupita dal sorriso felice che c’era.
«Dimmi tutto» disse, allargando il sorriso a dismisura tanto da farmi temere una paralisi facciale.
«Coglione, smettila». La frase di Brandon fu seguita da una sonora pacca sulla nuca di Dollar, che si lamentò con un’imprecazione. «Lasciala stare, sei troppo piccolo per lei, Doll» continuò poi Brandon, facendo ridere Sick e Ryan.
«Doll, sei un bambino, lei una donna, non è che se ti si rizza lei si bagna». Alle parole di Sick sgranai gli occhi arrossendo, imbarazzata da una frase tanto volgare.
«Sick, dacci un taglio, è una signora» ordinò Ryan, causando un mugugno da parte dell’amico con i capelli castani.
«Ho solo detto la verità, cazzo. Non ho fatto riferimenti a fighe o cose volgari» si lamentò, guardandosi attorno, come se temesse di essere seguito.
Il suo guardo mi faceva paura, sembrava quello di un pazzo. Che fosse quello il motivo di quel suo strano soprannome? Perché una persona non poteva di certo chiamarsi Sick.
«Credo che quella frase fosse abbastanza volgare per lei, a giudicare dal suo sguardo» ghignò Ryan. Improvvisamente sentii tutti gli occhi puntati su di me e mi costrinsi a tenere lo sguardo basso, senza aggiungere nulla.
«Cazzo, è vero. È anche arrossita. E se non è perché ha qualcosa infila…». Sick non completò la frase, perché Ryan gli tirò un ceffone sulla nuca, ammonendolo con lo sguardo.
«Dacci un taglio Sick, cominci a fare schifo» sbottò Brandon, affiancandosi a me. «Scusalo, non ha tutte le rotelle apposto ma è un bravo ragazzo. È solo un po’ fissato con il sesso, ma per il resto è innocuo». Per cercare di rassicurarmi di più sorrise, cercando con la mano qualcosa nella tasca dei jeans.
«Si chiama Sick davvero? O è un soprannome?». Domanda idiota, la mia. Eppure volevo sapere di più su di loro, perché mi incuriosivano.
Erano… strani, sì.
«Si chiama Sick perché di solito…» cominciò a dire Brandon, prima che qualcosa attirasse la sua attenzione e gli facesse smettere di parlare con me. «…scusami, non dovrei dirle io queste cose, scusami» si giustificò, allungando il passo e raggiungendo Ryan e Sick, qualche metro più avanti di noi.
«Perché siete tutti così devoti a Ryan? Fate tutto quello che dice lui, come mai?». Speravo che Dollar mi potesse dare una risposta, sembrava quello più disposto a parlare.
«Io… Alexis non posso, davvero. Dovresti chiederlo a Ryan. Ne abbiamo parlato ieri sera, ma è meglio se chiedi a Ryan di queste cose, mi dispiace». Teneva lo sguardo basso, sul marciapiede, senza guardarmi in volto. Sembrava veramente dispiaciuto.
«Quanti anni hai, Dollar?» domandai, accennando un sorriso. Magari a quella domanda avrebbe potuto rispondere senza chiedere a Ryan il permesso. Mi sembrava di aver capito che Ryan era interpellato solo quando si parlava del loro legame, non di qualcosa di personale.
«Sedici. Sedici compiuti il mese scorso» esultò, fiero di quel numero. Quel suo essere così felice mi fece ridere: ricordavo perfettamente il mio sedicesimo compleanno, la festa con i miei amici in spiaggia fino all’alba.
«Sei così giovane» mormorai, involontariamente. Quella stessa notte ci eravamo fermati per fare surf e la mattina dopo ero tornata a casa con la febbre: il miglior compleanno di sempre.
«Sì, ma… voglio dire, non sono inesperto. So come si fa, sai? E sono bravo, me l’hanno detto in molte» si vantò, continuando a sorridere. Era tranquillo, per lui parlare di… esperienza sessuale sembrava essere all’ordine del giorno. Quel suo comportamento mi stava mettendo a disagio, talmente tanto che abbassai di nuovo lo sguardo, arrossendo. «Se vuoi provare sono disponibile, sai?» tentò, dandomi una leggera pacca sul fianco con il suo gomito.
«Io… ehm, ne sono lusingata, Dollar, ma credo che sia meglio evitare, ecco». Non volevo sembrare cattiva, era un bel ragazzo e sicuramente era il più simpatico di tutti, ma non mi sembrava proprio il caso.
«Certo, capisco. Mi hai appena conosciuto e vuoi aspettare, non c’è problema, quando vuoi bussi al 3B e io sono lì» ammiccò, guardando poi verso Ryan e gli altri. «Ryan, flag?».
Flag? Cosa voleva dire con Flag?
«No, lasciate stare. Qui non lo facciamo» rispose Ryan, naturalmente ottenendo il consenso di tutti.
«Cosa vuol dire?» domandai a Dollar, che era ancora di fianco a me.
«Ehm… chiedilo a Ryan, ok? E adesso andiamo, che qui vicino c’è un bar, potresti provare a chiedere se hanno bisogno di lavoro lì». Appoggiò la sua mano sul mio gomito, costringendomi ad accelerare il passo per rimanere di fianco a lui.
Mi stava letteralmente trascinando, disinteressato al fatto che un suo passo fosse tre dei miei.
«Tu sta zitta e lasciami parlare, ok?» mi ammonì Ryan davanti alla vetrata di un bar, una volta che Dollar mi ebbe trascinata a forza fino a lì.
«Io… cioè…» cominciai a dire, senza che nessuno mi desse veramente retta. Ryan aprì la porta del locale, entrando seguito dagli altri. Mi ritrovai da sola, fuori dal bar, senza che nessuno potesse anche solo preoccuparsi di quello che volevo dire.
Ok, mi stavano aiutando a trovare un lavoro, erano gentili e probabilmente non li avrei mai ringraziati abbastanza, ma volevo almeno decidere qualcosa io, giusto per avere voce in capitolo sulla mia vita.
Entrai nel bar con uno sbuffo, guardando Ryan parlare con una donna; sembrava impaurita e continuava a stringere, quasi in modo convulso, uno straccio tra le mani.
«…lei» riuscii a sentire solo la fine del discorso di Ryan. La sua mano mi indicò e la signora posò il suo sguardo su di me. Era combattuta, riuscivo a vederlo, nonostante tutto cercò di sorridermi per salutare.
Ricambiai il saluto con un timido sorriso perché non sapevo che cosa fare.
«Io… ecco, vedi, io lo farei volentieri, ma non posso permettermi un’altra cameriera. Spero… spero che questo non cambi le cose tra… tra di noi» bofonchiò a voce talmente bassa che faticavo a capire le sue parole.
Tutti gli sguardi erano puntati su Ryan, i ragazzi sembravano in attesa di un suo ordine. Sembrava che fossero disposti a tutto, solo con un suo cenno.
Qualche secondo dopo, Ryan sospirò «capisco» e senza aggiungere altro uscì dal bar, seguito dai ragazzi.
«Mi dispiace, davvero, ma non posso permettermi un’altra ragazza. Ti prego, se è possibile, fa che non cambi nulla, ok?». Non sapevo di che cosa stesse parlando, ma era davvero preoccupata; spaventata, quasi.
«Non importa. Troverò qualche altro bar, non deve preoccuparsi» cercai di tranquillizzarla, appoggiandole una mano sul braccio. Quel gesto la spaventò ancora di più, perché sussultò, indietreggiando di qualche passo fino a sbattere con la schiena contro il bancone, dietro di lei. «Grazie, davvero» ripetei, uscendo.
L’avevo spaventata, ma perché?
«Che cazzo c’è nel tuo cervello di così sbagliato, eh?» sibilò Ryan, stringendo la sua mano attorno al mio polso non appena uscii dal bar.
«Mi fai male» mi lamentai, spaventata dalla scintilla di pazzia che potevo leggere nel suo sguardo. Che cosa gli prendeva?
«Quale parte di ‘parlo io e non tu’ non ti è chiara? Perché te la rispiego» continuò, avvicinando il suo viso al mio così tanto che mi costrinse a indietreggiare.
«Lasciami» mi lamentai, strattonando il polso perché la sua stretta si faceva sempre più forte. Gli occhi di Ryan saettarono sulla sua mano, che lasciò subito la presa su di me. «Non ho detto niente, l’ho ringraziata» mi giustificai, guardandomi attorno. Dollar, Brandon e Sick si erano allontanati e stavano guardando la vetrina di un negozio. Perché non erano intervenuti?
«La prossima volta vedi di chiudere la tua fottuta bocca, ok?». Il suo sguardo, il suo tono di voce… mi spaventarono tanto che annuii solamente, senza ribattere nulla. «Adesso andiamo a vedere in un altro bar, e sta zitta, non ringraziare nessuno». Con un fischio richiamò l’attenzione dei ragazzi che ci raggiunsero.
Camminavo dietro di loro in silenzio, senza fare domande o disturbare. Dopo lo sfogo di Ryan non mi sarei mai permessa di interferire di nuovo.
«Come stai?» chiese timido Dollar, affiancandosi a me. Non risposi, continuai a camminare, facendo spallucce.
In verità continuavo a trovare un pretesto per non ricordare quello che era appena successo; sentivo qualcosa pungermi gli occhi e non era il caso di fare la melodrammatica. Però quello che aveva detto, il modo e il tono che aveva usato… mi avevano spaventata.
«Quando Ryan dice qualcosa devi ascoltarlo, non arrabbiarti» spiegò, probabilmente non capendo che non era rabbia il sentimento che stavo provando. Annuii solamente, mordicchiandomi il labbro per concentrarmi a trattenere le lacrime. «Adesso andiamo in un altro bar, rimani zitta e parla solo se te lo dice, ok?» continuò, mentre Brandon teneva la porta del locale aperta perché io e Dollar potessimo entrare.
«» bisbigliai, entrando nel secondo bar a testa bassa e rimanendo vicino all’uscita.
La scena era uguale a quella accaduta pochi minuti prima: il proprietario, spaventato, si scusava ma non aveva bisogno di un’altra ragazza. Era a corto di cameriere solo di sera e Ryan spiegò che avevo bisogno di lavorare di giorno. Non provai nemmeno a parlare, impaurita di una sua reazione esagerata.
Uscimmo dal locale in silenzio, fermandoci pochi metri più avanti.
Di nuovo, Brandon, Dollar e Sick si allontanarono, lasciandomi sola con Ryan. «Visto? Non è poi tanto difficile non dare aria al cervello» ghignò facendomi stringere i pugni per la rabbia.
Era ritornato lo stronzo ironico di sempre e non mi faceva più paura; aprii le labbra per rispondergli a tono, quando il suo sguardo si puntò dietro di me. Sbarrò gli occhi, sorpreso e, appoggiando la sua mano sul mio polso sibilò: «cazzo». Cercai di guardarmi attorno, ma Ryan non me lo permise: con il suo corpo a ripararmi da quello che c’era dietro di me si avvicinò ai ragazzi. «Brandon, Sick, Dollar, qui. Tu, nasconditi» sbottò infine, spostando lo sguardo su di me.
Nascondermi? «Dove?» domandai, guardandomi attorno, in cerca di un posto che potesse ripararmi.
«Da qualche parte, anche dietro al cestino, tanto siete alti uguali» ironizzò Ryan, dandomi le spalle e affiancando Brandon.
Volevo ribattere che no, non ero proprio alta come il cestino, ma mi gelai sul posto, quando sentii una voce parlare.
«Guarda, guarda. Cal e i suoi scagnozzi».
La riconobbi subito, era quella del ragazzo moro che mi aveva aggredita al mio arrivo nel Bronx.
«Dead» salutò Ryan, aggiungendo un gesto del capo. Riuscivo a vedere lui, Brandon, Dollar e Sick di spalle, fortunatamente però coprivano la visuale sull’altro ragazzo.
«Allora, la tua puttanella ha riferito il messaggio? Era abbastanza chiaro?».
Sempre la sua voce, quella di ‘Dead’, come l’aveva chiamato Ryan.
«A questo proposito… non è nessuna puttana. È solo la nuova vicina» spiegò Ryan, causando una risata di più persone.
«E fai il buon samaritano portandola a spasso per farle conoscere il quartiere? Credi che non ci siamo accorti che è dietro di voi?».
A quell’affermazione chiusi gli occhi, raggomitolandomi su me stessa per cercare di farmi più piccola.
No, non di nuovo.
Non poteva picchiarmi una seconda volta. C’era Ryan con gli altri ragazzi pronto a difendermi.
«Cerca un lavoro» intervenne Brandon avvicinandosi a Ryan, come se avesse voluto formare un muro.
«Perché? Fare la puttana con voi non è abbastanza? Tesoro, ti pagheremo meglio, vieni con noi» disse con un tono di voce più alto Dead, facendomi rabbrividire.
Non riuscivo a non pensare alla mia aggressione e al suo ghigno appena prima di tirarmi il pugno.
«Dacci un taglio, Dead. E vi consiglio di andarvene. Non me ne frega un cazzo di dove siamo, ok? E non me ne frega nemmeno di vedere che credete di essere talmente cazzuti da avere il flag anche qui. Perché se mi girano le palle ti spacco il muso una volta per tutte».
La voce di Ryan era completamente cambiata. Bassa e roca assomigliava al sibilo di un serpente prima dell’attacco.
«Non vi interessa della puttanella, ma siete pronti a difenderla? Deve cavalcare bene, se in quattro siete disposti a farvi il culo per lei».
C’era sempre una nota di superiorità nella sua voce, simile a quella di Ryan quando faceva battute su di me.
«Andatevene» ringhiò Brandon, avanzando di un passo verso di loro.
«Uuuh! Che paura» scherzò qualcuno degli altri, prendendolo in giro. «Dead, vuoi vedere che adesso chiama la polizia?».
«Stai tirando troppo la corda, Dead. Se continuate così comincio seriamente a perdere la pazienza, e non è un bene, visti i risultati dell’ultima volta, no?». Anche se non potevo vederlo, ero sicura che Ryan stesse ghignando, si sentiva dal tono della sua voce.
«Andiamocene, stiamo dando troppo spettacolo» ordinò Dead. Sentii subito dei passi allontanarsi e sospirai, sollevata.
«Alexis, tutto bene?».
Riuscii a non urlare solo perché avevo riconosciuto la voce di Dollar.
Mi alzai goffamente, sotto gli occhi di Ryan e Brandon che stavano discutendo di qualcosa; a grandi passi mi avvicinai a loro e, dopo aver posato le mani suoi miei fianchi per non far vedere quanto stessi tremando, cercai di attirare la loro attenzione schiarendomi la gola. «Voglio sapere cosa succede».
Non mi sarei spostata fino a quando non ci fosse stata una risposta esauriente. E no, non mi accontentavo di qualcosa come le scuse idiote che aveva utilizzato nelle ore precedenti, volevo sapere la verità; chi erano e perché avevano minacciato gli altri ragazzi.
Ryan guardò a uno a uno i “suoi”, soffermandosi più a lungo su di Brandon. Sembrava che, mutamente, avesse chiesto qualcosa e la risposta l’avesse stupito. Infine, dopo essersi soffermato per qualche secondo sul volto di Dollar, mi guardò, sospirando subito dopo:
«andiamo a casa». Sembrava essersi arreso.
 
 
 
 
Buongiorno! :)
Allora, prima di tutto mi scuso per il linguaggio volgare di questo capitolo, sapete che di solito non è così, ma sappiamo tutti che in questi ambienti non guardano la forma della frase, ecco.
Poi poi poi… la storia del FLAG sarà spiegata nel prossimo capitolo, posso garantire che non me la sono inventata, ma nelle gang del Bronx esiste. Ho lasciato un  paio di indizi per farvi capire che cosa sia, ma non temete, nel prossimo capitolo quel simpaticone di Ryan vi spiegherà tutto bene (a proposito, siete pronte per sorbirvi una spiegazione dettagliata di quello che sono Ryan e i suoi? Fatemi sapere, che è meglio).
Inutile dire che ringrazio ogni singola persona che ha aggiunto la storia ai preferiti/seguiti/da ricordare e a chi ha anche trovato il coraggio di recensire perché siete TANTE e non mi sarei mai aspettata una risposta del genere per una storia così… particolare.
Come sempre, NERDS’ CORNER è il gruppo spoiler, dove sono pubblicati i volti dei personaggi. ROBERTA ROBTWILI è il mio profilo, ma se mi chiedete l’amicizia per favore specificate che siete lettori (non mi interessa il nick, mi basta sapere che leggete)…
Spero di riuscire a scrivere un altro capitolo per poter pubblicare domenica prossima, portate pazienza se non arriverà puntualissimo, io ce la metto tutta!
Grazie a tutti e un bacione!

 

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Capitolo 4
*** Eagles vs. Misfitous ***


YSM
 
 
All’ordine di Ryan di andare a casa mi irrigidii: una parte di me era curiosa di sapere la verità, l’altra però continuava a ricordarmi che dovevo anche fare la spesa.
Il lavoro avrebbe aspettato, sapevo di avere i soldi necessari per poter pagare l’affitto per un altro paio di mesi, ma la spesa… dovevo mangiare.
«Che c’è?» sbottò Ryan, probabilmente notando la mia indecisione. Alla sua domanda Brandon, Dollar e Sick si fermarono, guardandomi.
«Ecco… io… la spesa» bofonchiai, guardando i miei piedi senza aggiungere altro. Sembravo una stupida, un momento prima lo minacciavo per sapere che cosa succedeva e quello dopo mi lamentavo perché volevo fare la spesa.
«Ti decidi? Prima rompi le palle e fai la saputella per sapere e dopo vuoi fare la spesa» mi punzecchiò, irritandomi. Era la verità, lo sapevo, ma sentirla dire da lui, con quel suo tono che mi urtava…
«Senti, vorrei mangiare qualcosa, ok?». Feci un passo verso di lui, cercando di fronteggiarlo. Impossibile, visto che gli arrivavo sì e no al petto. Ancora meno possibile quando i ragazzi dietro di me cominciarono a sghignazzare per il mio gesto. «Ok» sospirai, abbassando le spalle e accantonando una volta per tutte l’idea di affrontare Ryan, «andiamo a casa».
«Ryan, dovrebbe mangiare. Può scomparire se non lo fa». Alla battuta di Brandon, Ryan non riuscì a rimanere serio, tanto che un fastidioso ghigno si disegnò sul suo viso. Gli avrei volentieri rotto il labbro un’altra volta, senza aggiustarglielo subito dopo, però.
«Dollar, Sick, siete in grado di fare la spesa?» ordinò, guardandoli. I due ragazzi si scambiarono uno sguardo strano che mi inquietò, soprattutto perché ci aggiunsero una pacca cameratesca sulla spalla subito dopo.
«No» strillai, con un po’ troppa enfasi. Non mi fidavo di Sick, non dopo le sue battute di pessimo gusto. «Io… grazie ma credo di potermi arrangiare. Potrei andarci oggi pomeriggio, non c’è nessun problema» continuai, aggiungendo anche un timido sorriso per sembrare più convincente. Speravo davvero che Sick e Dollar seguissero il mio consiglio.
«Cosa ti piace?» chiese Dollar, causando una risata di Sick.
«Non sono cose da chiedere, la sbatti al muro e fai quello che piace a te, Doll» spiegò Sick, facendo ridere tutti. L’unica che non trovava divertenti le sue battute ero io? C’era qualcosa di squallido e perverso nel suo pensare sempre al sesso.
«Mi piace tutto, davvero» mormorai, ignorando Sick, che continuava a guardarmi in modo strano. Eravamo fermi in mezzo al marciapiede e nessuno sembrava prestarci attenzione; solo un paio di ragazzi avevano borbottato qualcosa, prima di allontanarsi velocemente dopo un’occhiataccia di Ryan.
«Bene, se le piace tutto, questa ragazza piace anche a me» sogghignò Sick, avvicinandosi di qualche passo a me. Istintivamente indietreggiai, spaventata dal suo sguardo e dal ghigno che c’era sulle sue labbra.
«Sick, dacci un taglio» ordinò Ryan, causando uno sbuffo infastidito del suo amico, che tornò indietro. «Muovetevi, voi andate a fare la spesa, ci vediamo a casa» terminò, accendendosi una sigaretta e cominciando a parlare con Brandon, mentre si avviavano verso casa. Non si preoccuparono nemmeno di me, tanto che fui costretta a correre per raggiungerli.
Non riuscivo a capire, però, di che cosa parlassero; il loro tono di voce era basso e ogni tanto lanciavano occhiate verso di me, come se non volessero farmi capire che cosa si stavano dicendo.
«Entri in casa o rimani tutto il giorno sul pianerottolo?» sbottò Ryan, distendendosi con un sonoro sbuffo sul divano del suo appartamento.
Mi guardai attorno, sospettosa, come se qualcuno ci avesse seguiti; Brandon invece era tranquillo, gironzolava per la cucina, in cerca di qualcosa.
«D’accordo» bofonchiai per incoraggiarmi. Era dalla sera prima che volevo sapere chi erano e il motivo per cui erano circondati da  un alone di mistero; perché per ogni minima cosa bisognasse avere il consenso di Ryan per parlare e come mai tutti avessero paura di loro.
Mi chiusi la porta alle spalle, rimanendo in piedi, imbarazzata: non sapevo dove sedermi, non sapevo nemmeno se potevo farlo.
«Allora? Tutta questa curiosità e cattiveria, dov’è sparita?» sghignazzò Ryan, appoggiando i piedi sul bracciolo del divano e portandosi un braccio dietro alla testa per stare più comodo.
Disteso sul divano, con la sigaretta tra le labbra, era l’immagine della tranquillità. L’esatto opposto di come mi sentivo io in quel momento.
Mi sembrava di essere entrata nella tana del lupo; sapevo che era sbagliato pensarla in quel modo, visto che la sera prima mi ero svegliata proprio in quella stessa stanza dopo l’aggressione, ma c’era una sensazione di paura che non se ne voleva andare.
«Alexis, puoi sederti, non ti mangiamo» scherzò Brandon, sistemandosi nell’altro divano, di fianco a Ryan.
Camminando lentamente mi avvicinai a loro, sedendomi in un angolo per non disturbare nessuno.
«Che cosa vuoi sapere?» domandò Ryan, aspirando una boccata di fumo prima di alzare lo sguardo per incrociare il mio.
Cercai di farmi un po’ di coraggio respirando profondamente, poi sputai la mia domanda senza prendere fiato: «chi siete?». Di nuovo, sì. Perché volevo veramente saperlo ora che Ryan sembrava disposto a dare qualche risposta.
«Cazzo, Brandon. Si è incantato il disco. Deve essere la decima volta che fa questa domanda» ironizzò, aggiungendoci quel suo ghigno che mi faceva arrabbiare.
«Ryan, dai. Hai detto che le avresti spiegato» mormorò Brandon, ammonendolo con lo sguardo.
«Sì, hai ragione» ammise sollevandosi a sedere e appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Be’, siamo gli Eagles». Mi stava scrutando, in attesa di una mia reazione, era evidente. Eppure continuavo a rimanere immobile, sperando che potesse aggiungere qualcosa in più. Anche Brandon non si muoveva; il suo sguardo che saettava da me a Ryan. L’unico movimento era il fumo rilasciato dalla sigaretta che Ryan stringeva tra le sue dita.
«Chi?» mormorai talmente a bassa voce che non ero nemmeno sicura mi avessero sentita. Ci riuscirono, però, visto che Brandon non fu in grado di trattenere una risata e Ryan spalancò le labbra, sorpreso.
«Non prendermi per il culo, lentiggini» sbottò, portandosi poi la sigaretta alle labbra e socchiudendo gli occhi.
«Non ti sto prendendo in giro, dico davvero». Ero stizzita, si poteva capire anche dal tono della mia voce. Perché non lo stavo prendendo in giro e mi infastidiva il suo accusarmi.
«Non sai chi sono gli Eagles? Dove cazzo vivevi? In spiaggia?». Aspirò un’ultima boccata di fumo dalla sigaretta prima di spegnerla sul pavimento e lanciare il filtro sotto al divano. A quel gesto rabbrividii, schifata. Quella casa era un porcile. Chissà cosa c’era sotto a quel divano.
«Senti, io abitavo a Los Angeles, se la geografia non è il tuo forte non è colpa mia, ok? Si dà il caso che sia dall’altra parte degli Stati Uniti, quindi prendi un atlante e impara qualcosa, oltre alle parolacce». Incrociai le braccia sotto al seno per sembrare più arrabbiata; spostai addirittura lo sguardo da lui, indignata.
«Che cazzo c’entra? Los Angeles, Houston, New York… dovresti saperle certe cose. Ma forse non vi insegnano a vivere, al college» si vantò, irritandomi ancora di più.
«Se devi dire bugie e offendere puoi anche stare zitto. Avevi detto che mi avresti spiegato, perché non lo stai facendo?» incalzai, stringendo i pugni per cercare di scaricare la rabbia che sentivo.
«Immagino che questa ragazza non sappia ancora nulla, no? Perché se sa qualcosa ed è ancora seduta su quel divano per fronteggiarti in quel modo significa che è stupida». A quelle parole cominciai a guardarmi attorno, cercando di capire chi avesse parlato.
Era una voce che non avevo mai sentito, profonda; parlava lentamente e in modo cantilenato con un forte accento texano.
«Come sempre sei la voce della verità, JC». Ryan non riusciva a togliersi il suo ghigno divertito dalle labbra, ma ero sicura che non fosse rivolto a quell’uomo che era appoggiato allo stipite della porta tra la cucina e il corridoio.
«Perché sono più vecchio e conosco le donne meglio di te. L’incantevole piccolo elfo con un labbro rotto è?» domandò, avvicinandosi divertito a me e guardandomi curioso. Sembrava fossi un animale che non aveva mai visto, qualcosa di nuovo che attirava la sua curiosità.
«Lentiggini» sbottò Ryan, irritandomi ancora di più. Possibile che dovesse chiamarmi in quel modo ridicolo e assurdo solo perché avevo qualche lentiggine sparsa sul volto? Soprattutto, quando si era accorto che le avevo?
«Alexis» chiarii, ignorando lo sguardo di Ryan su di me. Il mio nome era Alexis, non lentiggini.
«Ed è nel nostro salotto perché...». JC –come lo aveva chiamato Ryan– ammiccò verso di me, sistemandosi di fianco a Ryan sul loro divano.
«La nostra nuova vicina, quella dell’aggressione di ieri sera JC» spiegò Brandon, alzandosi per andare verso il vecchio frigo che c’era nella loro cucina. Lo aprì e si prese una birra, togliendo il tappo con i denti.
«Ecco dove l’avevo già vista». Mi indicò con l’indice, prendendo una sigaretta dalla tasca e accendendosela.
Ero quasi sicura che non avessero mai fatto un corso sulla prevenzione del cancro ai polmoni; sembravano delle ciminiere, appena uno finiva di fumare una sigaretta, cominciava l’altro. Era una cosa assolutamente folle.
«Sì, era quella svenuta sul divano, con il volto ricoperto di sangue. Ora, riprendiamo il discorso, lentiggini». Ryan tornò a guardarmi, aspettando qualcosa.
«Non mi chiamo lentiggini. Il mio nome è Alexis» ribattei, piccata dal suo nomignolo idiota.
«Lo so, lentiggini». Un ghigno sardonico sul suo volto. Improvvisamente capii: voleva farmi perdere la pazienza, questo era il suo obbiettivo. Dovevo resistere.
«Bene, l’importante è che tu lo sappia. Ora, potresti dirmi cosa sono questi Eagles?» tagliai corto, sperando che non capisse il mio gioco. Meno corda gli davo meno rischiavo di scoppiare perché troppo irritata.
«Siamo una gang». Si zittì, guardandomi di nuovo come se si aspettasse qualche reazione da parte mia.
«Gang tipo… gang di strada?» domandai, per nulla convinta.
Non sapevo niente di quell’argomento, ne avevo solo sentito parlare ai TG, quando le gang di strada venivano associate a sparatorie, rapine o traffico di droga.
«Sì, quello» ribatté Ryan, incrociando le braccia al petto e portando la schiena ad aderire allo schienale del divano.
«Quindi siete… pericolosi? È questo che state cercando di dirmi?». Una domanda che non era rivolta solo a Ryan, ma anche a Brandon e JC.
Stavano dicendo che erano pericolosi perché volevano spaventarmi? Farmi scappare dalla mia nuova casa?
«Perché dovremmo essere pericolosi? Appena sei arrivata ti hanno picchiata, qui non sei a Beverly Hills, lentiggini» ironizzò Ryan, ridacchiando.
Quindi era tutta una questione del chi si conosceva prima?
«Se io fossi capitata nello stesso palazzo di quelli che mi hanno aggredita sareste stati voi i cattivi?» bofonchiai, stringendo le dita a pugno per non far vedere quanto in verità stessi tremando.
«Cattivi. Non ci sono cattivi o buoni, solo diversi punti di vista». Quella frase mi fece rabbrividire.
Stava dicendo che anche loro avrebbero picchiato una donna solo perché credevano fosse dell’altra gang?
«Anche voi mi avreste picchiata?». Un sussurro, perché mi mancava anche la voce.
Non riuscivo –e soprattutto non volevo– pensare a cosa avrebbero potuto fare. Perché Dollar, con il suo sorriso storto non mi sembrava il tipo di ragazzo che picchiava le persone, nonostante quella cicatrice facesse capire che non viveva una vita facile.
«No. Le donne e i bambini non si picchiano, sono gli altri stronzi che lo fanno». A quella confessione di Ryan mi tranquillizzai un po’.
Speravo che non mi facessero del male, visto che mi avevano salvata la sera prima.
«Non è ancora scappata, questo significa che è stupida» sbottò Ryan, rivolto a JC e a Brandon.
Indignata per quella affermazione, mi indispettii e mi sentii in dovere di spiegare il mio comportamento: «Sinceramente sto solo cercando di capire la situazione, perché siete due bande?». Perché non una sola? A cosa servivano poi due bande?
«Due bande? Forse non ti è chiaro, il Bronx è il covo delle bande. Ci siamo noi, ci sono i Misfitous e infine ci sono tutte le altre bande che credono di poter competere con noi ma non si azzardano nemmeno a provarci». Si accese una sigaretta, finendo la frase con le labbra socchiuse per non farla cadere a terra.
«Perché questi nomi?». Eagles, Misfitous… erano nomi strani.
«Non hai capito il perché? È ovvio, basta guardarci. Pensa a quelli che ti hanno aggredita, visualizza le loro facce». Ryan disegnò un cerchio immaginario attorno al suo viso con le dita.
Non risposi, troppo impegnata a reprimere un conato di vomito al ricordo di Dead, il ragazzo con i capelli neri che mi aveva tirato il pugno.
«Te lo spiego io» intervenne JC, sorridendomi forse per cercare di tranquillizzarmi. «Noi siamo tutti americani, per questo ci chiamiamo Eagles, lo sai che l’aquila è il simbolo degli Stati Uniti, no?». Annuii lentamente, ricordando una lezione di Storia Americana del liceo.
L’aquila è il simbolo ufficiale degli Stati Uniti perché la sua essenza è nella forza e nel coraggio. Nell’Antica Roma e in altre remote culture militari, l’aquila ha sempre simboleggiato il comando e il controllo, e ha rappresentato l’abilità di salire sopra a tutti i nemici. La sua vista perfetta, i suoi artigli possenti, e l’apparenza maestosa indicano superiorità morale. L’aquila vola più in alto di qualsiasi altro uccello, e quindi è il simbolo dei più alti valori spirituali.
Sapevo che in qualsiasi disegno l’aquila nordamericana era disegnata ad ali spiegate, mentre reggeva un ramo d’olivo con una zampa e tredici frecce con l’altra. Le tredici penne della coda rappresentavano l’unità delle Tredici colonie originarie.
«E gli altri?» domandai, cercando di pensare a qualche collegamento con quel nome strano.
«Misfitous è l’unione di Misfit e Promiscuous». Disadattato e promiscuo. Perché c’era anche qualcuno che non era americano tra di loro? Improvvisamente ricordai il volto del ragazzo latino, uno di quelli che aveva riso quando avevo dato l’indirizzo, fece capolino nella mia mente tanto che fui attraversata da un nuovo brivido.
«Perché Eagles?». Sì, riuscivo a capire che c’era qualcosa legato all’America, ma perché non un nome che ricordasse la bandiera americana?
«L’Aquila nordamericana rappresenta le più alte aspirazioni e un potere indomabile. Esattamente come siamo noi. Credi sia facile entrare negli Eagles? Solo i più coraggiosi e temerari hanno l’onore di sventolare il flag rosso». Alla sua frase ricordai quello che Dollar aveva chiesto quella stessa mattina.
Flag.
Che cos’era?
Non feci nemmeno in tempo a porre la domanda che la porta si spalancò, facendo entrare una ragazza che sembrava uscita dal calendario porno di qualche officina meccanica: seno visibilmente rifatto, capelli ossigenati acconciati in dreadlocks, trucco pesante e corpo ricoperto da tatuaggi.
«Che cos'è questa cosa?». Non salutò nemmeno, si avvicinò a me, piegandosi per guardarmi in viso. Quando il suo sguardo percorse il mio corpo, fece una smorfia schifata che mi innervosì.
«La nostra nuova vicina, è una persona» rispose Brandon. Dal suo tono di voce sembrava divertito. Che cosa ci fosse di divertente in una Barbie di plastica che cercava di formulare una frase però non riuscivo a capirlo.
«Mi avete sostituita? Ho la febbre per due giorni e quando torno trovo una... cosa a sostituirmi?». Si raddrizzò, fintamente offesa dalla mia presenza.

Io l’avevo sostituita in cosa?
«Sta zitta Butterfly. Non ti abbiamo sostituita. È la vicina» borbottò Ryan, nella voce quel tono che di solito usava per dare qualche ordine ai ragazzi.
«La vicina? Da quando avete una vicina?». Era arrabbiata, ma non riuscivo a capire il perché.
Non avevo assolutamente fatto nulla di male, ero lì mentre cercavo di capire che cosa fosse successo.
«Io… io mi sono trasferita ieri» spiegai, mostrandomi gentile con lei.
«Non ha nemmeno tette. Potevate almeno sostituirmi con una che avesse tette. È tutta secca, cazzo». Inviperita prese una sigaretta e cercò di accendersela, ma era così arrabbiata che l’accendino non funzionava. Riuscì nella sua impresa solo alcuni tentativi dopo.
«Butterfly, ti abbiamo già detto che è la nostra vicina» sibilò Ryan. Potevo vedere i muscoli della sua mascella tesi, come se stesse trattenendo un attacco di rabbia improvviso.
«Come cazzo hai fatto proprio tu, che vai pazzo per le mie tette a fartela? Cosa strizzavi?». Si avvicinò a Ryan puntandogli due dita contro; proprio le due dita che tenevano la sigaretta.
«Butterfly…» mormorò Brandon, forse per farla smettere.
Io non riuscivo a capire che cosa stesse succedendo; o meglio, non volevo credere che Butterfly credesse veramente che io avevo fatto sesso con Ryan.
«C’è un malinteso…» cominciai a dire, sperando che la smettesse di urlare con quella sua voce stridula: mi stava urtando i nervi.
«Sta zitta, tette secche. Non puoi nemmeno parlare, tu. Hai scopato con il mio Ryan? Immagino anche che Sick sia stato il primo della lista, no? Ma come cazzo hanno fatto con una che non ha tette?» bofonchiò di nuovo, irritandomi.
Era tutta una questione di tette, secondo lei?
«Senti» strillai all’improvviso, alzandomi in piedi e stupendo tutti con il mio gesto, «io almeno ho le tette vere, ok? Piuttosto di averle finte preferisco non averne». In un gesto seccato indicai i due palloni gonfiati che aveva al posto del seno e provocai una sua risata isterica.
«Queste, tette secche, sono un dono di Madre Natura». Si prese il seno tra le mani, per farmi capire a cosa si stava riferendo.
«Ah, si chiamava così il tuo chirurgo?» ribattei prima di rendermene conto. Quella mia battuta causò una risata di Brandon e JC; Butterfly, però, digrignò i denti, avvicinandosi pericolosamente a me.
«Senti, troietta, sei l’ultima arrivata e non hai il diritto di scoparti i miei ragazzi, ok? Sono anni che da sola li soddisfo tutti, appena ne hanno voglia. Quindi adesso alzi il tuo culo secco da qui e te ne torni da dove sei venuta. E per la cronaca, la prossima volta che offendi le mie tette e mi dici che non sono vere, ti rompo quel bel nasino che hai. E adesso Ryan, andiamo a scopare, perché ne ho voglia». Si avvicinò a Ryan prendendogli una mano e tirando il suo braccio perché potesse alzarsi.
«Non è il momento Butterfly» bisbigliò, ritirando il braccio perché lei la smettesse di infastidirlo.
«Oh, è così, no? Hai appena finito con lei e hai paura di non riuscirci con me? Ti ricordo che sono Butterfly, e tu meglio degli altri sai il significato del mio nome. Però, capisco, ce l’hai davanti e in questo momento non hai voglia, ma andiamo in camera tua». Ammiccò verso di lui, mentre non riuscivo a togliermi quell’espressione schifata dal volto.
Perché da quello che avevo capito, Butterfly era la loro… valvola di sfogo. Ma non era quello a impressionarmi, piuttosto che lei li soddisfacesse tutti.
«Apri quelle fottute orecchie e prova a usare il cervello. È la nostra nuova vicina, e adesso vattene perché nessuno ti ha chiamata». Lo scatto improvviso di Ryan mi fece sobbalzare; anche Butterfly si spaventò, tanto che rimase immobile per qualche istante. Sembrava voler decidere che fare.
«Insomma mi stai dicendo che questa sera non scoperò con te? Bene ne ho altri dieci qui, sono sicura che ne troverò uno» sogghignò, posando il suo sguardo su Brandon.
«Non ci siamo capiti». Ryan si avvicinò a lei, prendendole il mento tra il pollice e l’indice e costringendola a tenere le sguardo puntato nel suo: «Adesso tu te ne vai, perché questa sera nessuno te lo darà. Ed è un ordine, chiaro?» sibilò, talmente sicuro di se stesso che rabbrividii per la paura.
«Vaffanculo, ok? Non chiamatemi per la prossima settimana, perché non vedrete la mia figa nemmeno se mi pagate» strillò Butterfly, camminando velocemente verso la porta e sbattendola dopo essere uscita.
«Tanto domani sarà qui a pregare qualcuno che la fotta, sai che ogni tanto pensa di essere una Signora» ridacchiò Brandon, come se la scena a cui avevo assistito fosse normale routine per loro.
«Dove eravamo rimasti prima che Butterfly ci interrompesse?» chiese Ryan, sedendosi sul divano e prendendo la bottiglia di birra che Brandon aveva aperto qualche minuto prima.
«Eagles e Misfitous» precisò JC, il ritratto della tranquillità appoggiato allo stipite della porta.
«E lei è ancora qui» continuò Brandon, sorridendo in modo strano. Sembrava ridere di qualcosa che io non potevo capire. Qualcosa che però faceva ridere JC e Ryan.
«Questo conferma la mia ipotesi, è stupida». All’affermazione di Ryan mi indispettii, alzandomi in piedi pronta a tirargli uno schiaffo.
«Non sono stupida, sto solo cercando di capire» spiegai, irritata dal suo continuo prendermi in giro anche davanti agli altri.
«Allora quello che forse ti serve per capire in che situazione siamo è dirti che noi siamo gli Hard-cores degli Eagles? Così hai un po’ più di paura?» scherzò, credendo di rendere le cose più chiare.
«Se la smettessi di dire parole a caso e spiegassi un po’ meglio, magari riuscirei a capire, non credi?» replicai, esausta da quel continuo botta e risposta; non volevo cedere, non volevo dargli la soddisfazione di vincere.
«Non sa nemmeno cosa sono gli Hard-cores. Ma dove cazzo viveva in un telefilm per bambini?» si rivolse a Brandon e JC, che cominciarono a ridere, guardandomi stupiti. «Gli Hard-cores sono i componenti principali della banda, quelli che indossano il flag o compiono crimini come facciamo noi, fin qui mi segui o devo farti un disegnino?» chiese, strafottente.
Non volevo dargli la soddisfazione di non aver capito, così annuii, lasciandolo continuare senza interrompere la sua spiegazione, anche se quel ‘compiono crimini’ mi aveva sconvolta.
«Poi ci sono gli Associates, come JC, sono membri della band ma raramente sono coinvolti nelle risse o in qualche altra situazione. Ora, se il tuo cervellino californiano ce la fa a mantenere tutte queste informazioni, io procederei con gli altri due gruppi, che ne dici lentiggini, ce la puoi fare?» mi provocò, ammiccando verso di me.
«Vai avanti» lo esortai, stringendo le mani a pugno per contenermi.
«Ok, lentiggini, continuiamo perché voglio vedere tra quando scapperai da quella porta. Ci sono i Peripherals, con cui tu hai deciso di scusarti e parlare, ok? Quelli dei bar, che dicono di essere degli Eagles solo per avere la nostra protezione e qualche favore. Infine, lentiggini, ci sono i Gonna-be. Come… ragazzi, ha mai visto Liam o Shake? Be’, loro erano Gonna-be fino al mese scorso. Sono le reclute, quelle che provano a entrare nella nostra banda. Non tutti ci riescono, perché non accettiamo tutti quelli che ci chiedono di poter entrare, devono superare delle prove». A quelle parole Brandon e JC annuirono convinti; concordavano pienamente con le parole di Ryan.
«Prove?» domandai, stupita. Che tipo di prove?
«Che facciamo?».
 Il fatto che Ryan chiedesse un parere a Brandon mi stupì; credevo fosse lui il ‘capo’ della banda.
Brandon fece spallucce, massaggiandosi ripetutamente il mento ricoperto dal pizzetto. Quella risposta sembrò soddisfare Ryan.
«O facciamo la Roulette Russa oppure chiudiamo il Gonna-be in ascensore con tre dei nostri e deve uscirne vivo dopo venti piani». Spalancai gli occhi, completamente scioccata.
Uscire vivo?
Quindi c’era la possibilità che qualcuno morisse dentro a quell’ascensore?
«Possono anche morire?» chiesi allibita, rabbrividendo per quella possibilità.
«Se non sono abbastanza forti da sopravvivere alla prova per entrare negli Eagles, quante possibilità hanno secondo te, dopo? Quanto credi possa resistere un membro della gang?».
Stavo per chiedere se quindi anche loro erano in pericolo, ma fui interrotta dal rumore di una chiave che girava; la porta si aprì e Dollar e Sick entrarono, ridendo complici.
«Oh, siete qui. Alexis, ti abbiamo messo la spesa in cucina» spiegò Dollar, dirigendosi verso il frigo e prendendo una birra.
«In cucina? Ma se le chiavi di casa ce le ho io» borbottai confusa, aprendo la borsa per cercarle.
«Sì, abbiamo scassinato la porta, ma non preoccuparti, è un lavoro fatto bene e poi l’abbiamo richiusa. Nessun problema. E non ho nemmeno guardato nel tuo cassetto della biancheria perché Dollar non me l’ha permesso». Sick ammiccò verso di me, una smorfia triste sul suo viso. «Ryan, abbiamo flaggato al supermercato, spero non ti dispiaccia. C’erano un paio di Misfitous, quello con la cresta e quell’altro biondo che fuma sempre che hanno cercato di avvicinarsi a noi, e avevano il flag in bella vista». Il tono di voce di Sick era magicamente cambiato, non c’era più quella nota divertita e quasi eccitata che aveva quando parlava con me; era serio.
«Che pezzi di merda. Avete fatto bene, ci sono stati problemi?» si informò Ryan, muovendosi irrequieto sul divano; portò le mani sotto al mento, sorreggendosi il volto.
«No, siamo usciti poco dopo che loro sono entrati, ma ci hanno visti» spiegò Dollar, sedendosi di fianco a me e circondandomi le spalle con un braccio. «Come stai?». Ammiccò e non riuscii a trattenere una risata isterica e divertita. Perché Dollar mi faceva ridere, il suo continuo provarci, nonostante gli avessi chiaramente detto che non mi interessava, era comico.
«Cos’è il flag?» domandai, guardando Ryan e subito dopo Brandon.
«Questo» mormorarono entrambi, prendendo un fazzoletto rosso dalla tasca. Era un fazzoletto vecchio e sporco, potevo vedere del sangue rappreso sulla stoffa. «Questo è il flag, lo facciamo vedere quando siamo sicuri di avere tutto sotto controllo, quando siamo sul nostro territorio, che va dall’inizio della strada al murales che trovi nel prossimo incrocio, quello con l’aquila ad ali spiegate» continuò Ryan, riponendo il fazzoletto rosso e sporco in tasca.
«Anche i Misfitous hanno un fazzoletto rosso?». Indicai con il mento il pezzo di stoffa che aveva appena messo via, ma qualcosa lo fece ridere.
«No. Il flag cambia colore a seconda della banda. Noi ce l’abbiamo rosso, come il sangue che hanno versato quelli che non ci sono più. È quello che vedi qui sopra». Allungò il fazzoletto verso di me, indicando una delle tante macchie che c’erano sopra.
Versato sangue? Quelli che non c’erano più?
«Sono morte tante persone?» farfugliai, spaventata.
«Meno di quelle che sono state uccise».
Ryan sorrise orgoglioso, gonfiando il petto fiero e portando il fazzoletto rosso al petto, all’altezza del cuore.
«Uccise? Voi, voi avete ucciso?». Sentii un nodo formarsi in gola tanto che la mia voce diventò stridula.
«Chi interferisce con noi non merita di vivere». Il tono solenne con cui parlò mi spaventò: credeva davvero in quello che diceva. Per lui era normale uccidere le persone?
Funzionava così lì, nel Bronx?
«Io-io-io devo andare, vi lascio 50 dollari per la spesa, grazie» balbettai, prendendo i soldi con mani tremanti dalla borsa.
«Alexis, aspetta» disse Dollar, mentre appoggiavo i soldi sopra al tavolo della loro cucina.
«Doll, fermati». Un ordine, ecco che cosa era. Riuscivo a capirlo dalla voce di Ryan e anche da Dollar, che si era fermato in mezzo alla stanza, lasciandomi andare.
Attraversai il pianerottolo di corsa, cercando le chiavi di casa nella borsa e riuscendo ad aprire la porta solo dopo svariati tentativi perché la mia mano tremava troppo.
Entrai, richiudendomi la porta alle spalle e appoggiandomi al legno per sostenermi: non riuscivo più a sentire le gambe, spaventata com’ero.
I miei vicini di casa erano dei killer. Uccidevano persone e andavano in giro con un fazzoletto rosso per marcare il territorio; facevano a pugni per derubare la gente e non si vergognavano nemmeno di dirlo.
Cercai di respirare lentamente, pensando che non avrebbero mai potuto farmi del male. Ero la loro vicina, non potevano uccidermi, tutti avrebbero dato la colpa a loro, no?
E se anche la polizia fosse loro alleata? In fin dei conti come potevano non essere in prigione dopo aver ucciso?
Spalancai gli occhi, talmente scioccata da non riuscire nemmeno a piangere e notai le buste della spesa sopra al tavolo.
No, mi rifiutavo di credere a quello che avevano detto; mi avevano aiutata a fare la spesa, mi volevano aiutare a trovare un lavoro, non potevano essere degli assassini.
Mi avvicinai al tavolo per sistemare la spesa, cercando di non pensare a chi ci fosse a meno di venti metri da me.
 
Non avevo il coraggio di incontrarli, ecco perché dalla mattina prima, cioè da quando Ryan mi aveva parlato, non ero uscita; nemmeno per urlare contro a Dollar e Sick per quel loro acquisto idiota che di certo non mi serviva. Ero quasi sicura fosse opera di Sick: esattamente i prodotti di cui lui aveva bisogno.
Però volevo cercarmi un lavoro ed ero decisa a sfidare la sorte: la sfortuna si era già abbattuta su di me più e più volte, quante possibilità avevo di incontrare Ryan o uno di loro sul pianerottolo mentre uscivo?
Abbassai lentamente la maniglia per non fare rumore, pochi passi, forse dieci e poi avrei sceso i gradini velocemente, sì; strinsi la maniglia tra le dita, accompagnando la porta verso lo stipite perché non facesse rumore.
Ci ero quasi riuscita quando una voce dietro di me mi fece sussultare. «Usciamo, lentiggini?». Chiusi definitivamente la porta, rinunciando a fare silenzio, visto che ero stata scoperta.
Non risposi, tenni semplicemente lo sguardo basso, evitando di guardare Ryan negli occhi. La verità era che avevo paura di lui, ora che sapevo quello che faceva.
«Palle girate, lentiggini? Sai che il saluto non si nega nemmeno ai cani?» sghignazzò, forse perché credeva di farmi cedere. Ma non ci riuscì, tanto che il mio piede era già sul primo gradino quando qualcosa mi strattonò il braccio, costringendomi a invertire la rotta. «Che c’è? Ora non sono nemmeno degno del tuo saluto?» rimbeccò, in attesa di una risposta.
Mi feci coraggio e alzai lo sguardo, incrociando il suo, azzurro e limpido. C’era un nuovo taglio sul sopracciglio, sembrava profondo. Istintivamente mi alzai in punta di piedi per controllare meglio, ma quando capii il mio gesto ritornai con i piedi per terra, guardando la porta del loro appartamento alla mia sinistra.
«Puoi anche parlarmi, sai? Mi hai detto che non ho un linguaggio carino e l’ho capito, eviterò di dire parolacce quando ti vedo, ti sta bene?» mi prese in giro, credendo forse che non riuscissi a cogliere la sua ironia.
«Ciao, ora posso andare?» domandai, indicando con un gesto del capo le scale dietro di noi.
«Così tanta fretta? Sembravi curiosa ieri, la piccola lentiggini si è spaventata dei grandi ragazzi che ha per vicini?». Un ghigno impertinente sul suo viso e la fila di denti bianchi in bella vista.
«A proposito di ragazzi, nella spesa c’è qualcosa che non uso». Mi ricordai della confezione di preservativi che avevo trovato dentro al sacchetto della farmacia e portai la mano in borsa, per cercare le chiavi di casa. In pochi passi entrai, andando in bagno e prendendo la confezione dal mobiletto. «Tieni, serviranno a te» sbottai posando la scatola nella mano di Ryan, dopo essere tornata nel pianerottolo.
«Taglia M? Mi sottovaluti, lentiggini, di un paio di taglie, aggiungerei». Quella frase di poco gusto mi fece rabbrividire, indignata.
«Fottiti, Ryan» esplosi, cercando di mettere tutto il disprezzo che provavo per lui in quelle due parole.
«Ohh, andrai all’inferno se usi queste brutte parole, lo sai lentiggini?». La situazione era così divertente per lui? Perché sembrava davvero divertito da quello che stava succedendo.
«Hai ragione, vaffanculo». Sorrisi ironica, avvicinandomi alle scale per scendere.
«Ti sbagli di nuovo lentiggini, non è proprio quel tipo di posto quello in cui mi piace andare di solito» strillò, mentre scendevo le scale velocemente.
Non meritava nemmeno una risposta, non con una battuta del genere.
Chiusi il portone alle mie spalle, respirando l’aria fresca e satura di smog attorno a me.
Mi sarei arrangiata, non mi serviva Ryan per trovare un lavoro, mi bastava la mia cartina… che naturalmente avevo lasciato nel loro appartamento la mattina prima.
«Cazzo» sibilai, aprendo il portone e salendo i gradini a due a due.
Bastava bussare piano, sperando che Ryan fosse in bagno o a dormire. Erano in dieci in quell’appartamento, forse di più, avevo una possibilità su dieci che fosse lui ad aprire la porta.
Anche Sick sarebbe stata una possibilità migliore, sì.
Bussai piano, probabilmente non mi aveva sentito nessuno; eppure, qualche secondo dopo udii il suono di passi da dietro la porta: il rumore del chiavistello che si apriva e uno spiraglio di qualche centimetro.
Poi una voce.
«Sì, lentiggini?».

 
 
 
 
 
 
Salve ragazze! Ecco il quarto capitolo!
Prima di tutto ringrazio preferiti/seguiti/da ricordare e chi ha il coraggio di commentare. Siete tutte vive alla fine di questo mattone così palloso? Sì, bene! Allora vi faccio addormentare con le spiegazioni di quello che ho scritto!
Dunque, ci sono un sacco di informazioni dentro e posso garantire che sono tutte vere. Per quanto riguarda la storia del flag, i colori diversi e il significato... mi sono basata su un'intervista che avevano fatto a un ex componente di una gang del Bronx. Ho omesso alcune cose perché saranno più utili in futuro e non aveva senso scriverle ora. In ogni caso, i nomi che io ho cambiato in Eagles e Misfitous sono 'Bloods' e 'Crips'. Il nome Misfitous (connubio tra Misfit e Promiscuous l’ha inventato SidRevo mentre cercavamo di scervellarci per trovare un nome pauroso). Avevo cercato di farvi capire questa differenza sottolineando più volte che c’erano dei messicani tra l’altra gang…
Anche la prova d'entrata è vera: i Bloods sono soliti chiudere in un ascensore chi vuole entrare con tre dei loro componenti. Se dopo 20 piani il ragazzo riesce a sopravvivere può entrare nella gang e ricevere il flag. Per quanto riguarda la Roulette Russa... so che alcune gang usano anche questo metodo, quindi l'ho inserito.
Per quanto riguarda Ryan e il suo spiegare che ci sono diverse bande... è vero anche quello, ci sono tipo una decina di gang, ma solo i Bloods e i Crips si contendono il primato per 'cattiveria' nel Bronx.
Butterfly... ecco, in internet non ho trovato riferimenti alle donne dei componenti della gang, ma qui mi è stato utile il telefilm 'Sons of Anarchy'. Le 'ragazze ufficiali' dei componenti si chiamano 'Signore' (Old Ladies in lingua originale) e da questo deriva la frase che dice uno degli Eagles. Se una è la Signora di qualcuno, non può essere sfiorata da nessun'altro della gang, perchè va contro il regolamento che c'è tra di loro. Però, siccome di solito ci sono poche Signore, è 'usanza' che abbiano alcune 'signorine gentili' che soddisfano i loro bisogni come la buona samaritana di Butterfly :D
Hard-Cores e tutte le altre definizioni sono vere, non le ho inventate e le loro descrizioni sono tutte esatte, cioè, mi sono basata su interviste e libri...
Basta, direi che non c’è altro e credo di essermi dilungata anche troppo in queste note finali… scusatemi per il ritardo!
Alla prossima settimana.

 

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Capitolo 5
*** I need your help ***


YSM
 
 
«Io… ehm… io ho lasciato la cartina sul… sul vostro divano». Indicai un punto dietro di lui, evitando di guardarlo in faccia. Sapevo cosa avrei trovato: un ghigno impertinente pronto a farmi arrabbiare, ma non avevo voglia di discutere di nuovo con lui dopo quello che gli avevo urlato scendendo dalle scale.
«Cartina?» domandò, dandomi le spalle per avvicinarsi al suo divano. Riuscii a vedere un sorriso sul suo volto mentre si abbassava e prendeva tra le mani la mia cartina di New York. «Tu cammini per New York con questa?» sogghignò, avvicinandosi lentamente alla porta, con la cartina in mano.
«» ribattei, irritata dal suo alternare lo sguardo dal pezzo di carta a me, «e ora, potresti restituirmela?». Cercai di dimostrarmi gentile, aggiungendoci anche un sorriso per sembrare più amichevole. Era pur sempre Ryan, uno degli Hard-cores degli Eagles, e aveva sottolineato che non era poi così strano per lui uccidere.
«Darti la cartina» sospirò, schioccando la lingua, «non saprei, sai? Ti sei comportata male, hai detto delle brutte parole… non so se sono così buono da perdonarti così facilmente. Forse, con una parolina magica…». Si portò l’indice al mento, fingendosi pensieroso.
Io, io dovevo dirgli per favore? Perché mai? Era lui quello pazzo, che sembrava seguirmi a ogni passo che facevo e che non mi permetteva nemmeno di riprendermi le mie cose.
«Ryan, dammi la cartina, subito» sbottai, incrociando le braccia sotto al seno e picchiettando il piede per terra, impaziente.
«No lentiggini, non funziona così. Non sei il capo, su. Sai cosa?» chiese, improvvisamente di buonumore. «Facciamo una scommessa, ti va?» mi punzecchiò, dandomi dei leggeri colpetti sulla spalla con la sua mano. «Io tengo semplicemente la cartina in mano, se tu riesci a prenderla puoi andare dove vuoi. In caso contrario, la terrò io»
concluse, un ghigno sulle labbra ancora gonfie dal taglio di qualche giorno prima. Sembrava serio, non mi stava prendendo in giro, per lui era semplicemente una scommessa.
«Va bene» acconsentii, sicura che avrei vinto. Ero più piccola di lui, ma probabilmente molto più agile e sarei riuscita a distrarlo per poter raggiungere il mio scopo: prendere quello che era mio.
Ryan però non era stupido come credevo, infatti, con un ghigno, sollevò il braccio in alto tenendo la cartina sollevata: era impossibile riuscire a prenderla, per me.
«Vai lentiggini, stupiscimi» mi provocò, agitando il braccio.
«Dammi quella stupida cartina o ti tiro un pugno» lo minacciai, alzandomi in punta di piedi per cercare di raggiungere il suo braccio: inutile, visto che non riuscivo nemmeno ad arrivare al suo gomito sollevato in aria. Cominciai anche a saltellare, cercando di darmi più spinta per arrivare più in alto.
«Non ti sento lentiggini, devi urlare più forte, da quassù non sento nulla». Si indicò l’orecchio, per farmi capire che ero molto più piccola di lui. Come se quella presa in giro non fosse stata sufficiente, cominciò a ridere, appoggiandosi allo stipite della porta.
«Vaffanculo. Dammi la mia cartina» strillai, saltando un po’ più in alto tanto che mi aggrappai al suo braccio, rimanendo sospesa in aria per qualche secondo. Ryan non sembrò notare quel gesto, perché non si scompose nemmeno, impegnato com’era a ridere di me e dei miei goffi gesti.
«Muffa e mulo? Cosa? Non sento». Si stava davvero divertendo molto ad agitare quel pezzo di carta colorato in aria e a fingere di non capire quello che gli dicevo.

«Bene» sbottai, indietreggiando di un passo e preparandomi all’attacco definitivo: gli avrei tirato un pugno sullo stomaco e poi mi sarei presa quello che mi spettava. Sollevai la manica destra della maglia per avere più libertà di movimento e, dopo aver chiuso la mano a pugno, caricai il braccio, chiudendo gli occhi.
Non avevo mai tirato un pugno, ma avevo visto gli effetti sulla mano di alcuni pazienti e sapevo che faceva male.
La mia mano andò a scontrarsi con qualcosa di grande e caldo, ma non mi ferii come avevo pensato.
Aprii gli occhi per controllare, rimanendo sorpresa di vedere la mano di Ryan attorno alla mia; in verità, riuscivo a vedere solo la sua, visto che le sue dita coprivano la mia mano fino al polso, circondandolo.
«Impara a tirare i pugni, prima di fare tanto la dura, lentiggini. Il pollice va fuori dalle altre dita, altrimenti con il colpo e la pressione rischi di romperlo» cominciò a dire, appoggiando la mia mano sul palmo della sua e aprendo gentilmente le mie dita: spostò il pollice per poi portare di nuovo le mie dita nella posizione iniziale, piegando infine il primo dito. «Il pollice deve rimanere fuori dalle altre dita, o con il contraccolpo si rompe» spiegò di nuovo, lasciando poi la mia mano e restituendomi la cartina.
«Che succede?» domandò Dollar, materializzandosi di fianco a noi all’improvviso, tanto da spaventarmi e farmi sussultare.
«Insegnatele come si tira un cazzo di pugno, prima che si rompa una mano fingendo di sapere come si gioca a boxe» sbottò Ryan, allontanandosi da me per andare a sedersi sul divano e appoggiare il capo sullo schienale, chiudendo gli occhi.
«Che c’è, Doc? Non sai nemmeno tirare un pugno?» mi provocò Dollar, ammiccando.
«Non ne ho mai tirato uno, e non mi serve sapere come si fa, grazie per l’interessamento» bofonchiai, stringendo la cartina tra le mani e dandogli le spalle.
Volevo trovarmi un lavoro, non mi servivano di certo loro per riuscirci e non mi serviva nemmeno sapere come si doveva tirare un pugno.
«Dove stai andando, Doc?». Di nuovo la voce divertita di Dollar; ero sicura che stesse sorridendo, nonostante non potessi vederlo per accertarmene.
«A trovarmi un lavoro» strillai, dal pianerottolo. Speravo che non mi seguissero: volevo andarci da sola, guardarmi attorno e scoprire il sobborgo di New York. Volevo capire cosa mi circondava, come era realmente il Bronx.
Mi fermai davanti al portone dello stabile, guardando prima a destra e poi a sinistra, soffermandomi sul cancello mezzo sgangherato che c’era dall’altra parte della strada. Stavo cercando di ricordare qualche particolare che mi potesse aiutare perché volevo arrivare alla fermata della metropolitana per poi andare a New York.
Girai la cartina tra le mani cercando di orientarmi quando, all’incrocio dopo quello di Whittier Street con Randall Ave, notai una piccola insegna che attirò la mia attenzione; era l’insegna di un grill, il MoGridder’s BBQ. Magari avevano bisogno di qualche cameriera, provare non costava nulla.
Cominciai a camminare seguendo le indicazioni della cartina, attraversando l’incrocio e guardandomi attorno in cerca di uno stabile con il nome che avevo letto. Non volevo chiedere informazioni visto quello che era successo la prima volta che le avevo chieste, così continuai a camminare, fino a quando, sul ciglio della strada, notai un furgoncino rosso; sopra una finestra, a lato del furgone, c’era una scritta gialla: MoGridder BBQ.
Cominciai a ridere, attirando l’attenzione di qualche passante che mi lanciò un’occhiataccia preoccupata, e mi avvicinai per controllare.
Il MoGridder non era un ristorante, semplicemente un furgoncino che vendeva Hot Dog e altre schifezze fritte. Non c’era nessuna cameriera o qualcuno che aiutasse il proprietario; solo lui che, con un sorriso e gli abiti impregnati di grasso, faticava per soddisfare tutti i clienti.
Non volevo e non potevo arrendermi: il lavoro mi serviva per vivere e per l’affitto, così cercai meglio sulla cartina e notai l’insegna di un altro ristorante; dovevo solo attraversare Longfellow Ave e poi riattraversare Randall Ave. Il ristorante si chiamava appunto Randall e, secondo la cartina era solamente a poco più di un isolato dopo l’incrocio della mia via; non era nemmeno molto distante e sarebbe stato facile arrivarci anche a piedi.
Arrivata davanti al ristorante rimasi per qualche minuto a guardare la piccola vetrata; i ristoranti a Los Angeles erano diversi e molto più lussuosi. Il Randall aveva una piccola tenda verde con una scritta a caratteri grandi rossi e bianchi: Randall Restaurant.
Nonostante non fosse nemmeno mezzogiorno, i piccoli tavolini all’interno del ristorante erano quasi tutti occupati e c’era una ragazza con i capelli rossi che, sorridente, correva da una parte all’altra, scherzando con i clienti; sembrava conoscerli, visto che li abbracciava e continuava a versare caffè nelle loro tazze.
«Provaci, Lexi» bofonchiai tra me e me, camminando decisa verso la porta di vetro.
Quando entrai sentii il suono di un campanello che avvisava l’arrivo di un nuovo cliente;  quel suono attirò l’attenzione dei presenti e della ragazza con i capelli rossi che si avvicinò a me, sorridendomi.
«Ciao, accomodati pure dove vuoi». Indicò il locale attorno a noi, guardando i tavoli liberi in fondo. «Sei da sola o aspetti qualcuno?» domandò, tornato poi a posare lo sguardo su di me.
Per qualche istante si soffermò a guardare il mio labbro, leggermente gonfio a causa del benvenuto che i Misfitous mi avevano dato, poi, però, tornò a guardarmi, cercando di mascherare la curiosità.
«Io… io veramente stavo cercando un lavoro» spiegai, sperando che potesse aiutarmi; sembrava così gentile e disposta a parlare…
«Un lavoro? Vorresti fare la cameriera qui?» domandò, stupita ma felice. C’era un sorriso sul suo volto che mi fece rabbrividire: mi sembrava di vedere qualcosa di famigliare in lei, nei tratti sudamericani del suo volto.
«Io… sì, ecco» borbottai, cominciando a gesticolare perché non sapevo nemmeno che cosa dire. Non avevo un curriculum e nemmeno un po’ d’esperienza, visto che durante gli studi avevo sempre fatto la baby-sitter.
«Abbiamo proprio bisogno di un’altra cameriera, sei arrivata al momento giusto». Prese sottobraccio il vassoio, sistemandosi la chioma di capelli rossi dietro la schiena.
«Però… ecco non ho credenziali o curriculum» spiegai, elettrizzata dall’aver trovato un lavoro e delusa dall’idea che quella mancanza potesse influire sulla mia assunzione.
Sarei andata da Ryan a rinfacciarglielo, visto che non credeva in me e secondo lui non sapevo nemmeno trovarmi un lavoro da sola.
La ragazza guardò fuori dal locale, diventando improvvisamente seria e perdendo il sorriso che l’aveva accompagnata fino a quel momento. Seguii istintivamente il suo sguardo, voltandomi e guardando fuori dalla vetrata del locale: c’era qualche sporadica macchina che passava, ma lei sembrava intimorita da due ragazzi fermi in mezzo al marciapiede davanti al locale: stavano fumando una sigaretta ma si vedeva chiaramente che ci tenevano sott’occhio, visto che non facevano nulla per nasconderlo.
«Li conosci?» sibilò la ragazza, indicandoli con un gesto del capo. Sembrava arrabbiata, furiosa; faticavo addirittura a credere che fino a pochi secondi prima fosse stata così gentile con me.
Cercai di guardarli con più attenzione ma no, non riuscivo a riconoscerli. «No» spiegai, tornando a concentrarmi di nuovo sulla cameriera, ora sospettosa.
«Tu non li conosci? Eppure sembra che ti stiano aspettando, visto che sono fuori da questo locale da quando sei arrivata» mi accusò, spintonandomi leggermente. Il suo sguardo saettò verso la vetrata, causandole subito dopo un ghigno soddisfatto. «Non sono così idiota, tesoro. Ti ho toccata ed erano già pronti a entrare. Credi che non sappia riconoscere gli Eagles? E ora vattene da qui, stronza Peripheral o quello che sei». Indicò la porta, alzando il tono della voce e attirando l’attenzione dei clienti.
«Io, veramente…» cercai di spiegare, prima che mi spintonasse in malo modo verso la porta.
«Vattene o chiamo mio fratello» mi minacciò, prendendo dalla tasca del piccolo grembiule un telefono.
Uscii dal locale stupita e confusa: non riuscivo a capire chi fosse quella ragazza, cioè, sicuramente era legata ai Misfitous, ma come aveva fatto a capire che in qualche modo ero collegata agli Eagles? E perché continuava a dire che i due ragazzi fuori dal locale erano Eagles? Che fosse perché… no, impossibile che Ryan mi avesse fatta seguire, non volevo crederci.
Mi guardai attorno, ma, come sospettavo, i due ragazzi non c’erano più.
Forse erano semplicemente due passanti che si erano fermati davanti al locale indecisi se fermarsi a pranzo o no.
Cominciai a guardarmi attorno, in cerca di qualche altro locale in cui chiedere se avevano bisogno di lavorare ma non riuscivo più a rimanere tranquilla. L’idea di essere seguita mi terrorizzava, perché in fin dei conti si trattava di persone che avevano ucciso. Che fossero Eagles o Misfitous non cambiava poi molto.
Volevo tornare a casa, al sicuro, dove mi sarei distesa sul divano a guardare la TV.
Erano passati meno di cinque giorni dal mio arrivo a Hunts Point, ma cominciavo a sentire la mancanza del sole, dell’aria calda e umida di Los Angeles, ma soprattutto dell’oceano, del rumore delle onde che si infrangevano contro la mia tavola da surf e dell’adrenalina che provavo nel cavalcare un’onda buona.
Lì, tra le nubi e quel tiepido sole, non riuscivo a sentirmi a casa, non ancora almeno.
Ma dovevo abituarmi, perché i fantasmi di Los Angeles mi avrebbero accolta se fossi ritornata lì, ed ero fuggita proprio per quel motivo.
«Sta attenta» sbottò un ragazzo, urtandomi mentre camminavo e risvegliandomi dai miei pensieri.
«Scusa» mormorai, dimostrandomi gentile, nonostante si fosse già allontanato di qualche metro.
Mi rispose con un gestaccio decisamente troppo volgare. Che cosa c’era di sbagliato nelle persone di New York?
Tutti erano scortesi e quelli che prestavano un po’ di attenzione alle persone che chiedevano informazioni erano degli assassini.
Svoltai l’angolo, indecisa se ritornare a casa o se cercare in qualche altro ristorante quando sentii un rumore dietro di me. Mi voltai, spaventata, ma non vidi nessuno; solamente una via vuota e qualche macchina che passava.
Suggestione, non poteva essere altrimenti, ma quando ricominciai a camminare mi sembrò di udire dei borbottii dietro di me; ancora una volta invertii la rotta per controllare, ma, come era successo poco prima, non trovai nessuno.
Impossibile, nessuno mi stava seguendo, no.
Velocizzai per sicurezza il passo, convinta che fosse meglio tornare a casa e cercare lavoro un’altra volta.
Attraverso il vetro di una vetrata controllai dietro di me e riuscii a scorgere l’ombra di due persone: stavano camminando velocemente, seguendo il mio passo ma rimanendo qualche metro più indietro.
Dovevo solo percorrere Whittier Street ed entrare in casa, solo poche centinaia di metri e sarei stata al sicuro.
Mi voltai di nuovo per controllare: i due ragazzi continuavano a seguirmi, mantenendo sempre qualche metro di distanza. Aprii la borsa senza fermami e cercai le chiavi del portone dello stabile, sicura che non potessero entrare.
Pochi metri e sarei stata al sicuro, una decina di passi al massimo.
Velocizzai il passo, cominciando a correre per distanziarmi di più da loro e vidi il portone aprirsi davanti a me: Ryan stava uscendo.
«Mi inseguono» bofonchiai, lanciandomi verso di lui e sbattendo contro il suo petto. Chiusi gli occhi, stringendo in modo spasmodico le chiavi tra le mani.
«Cosa?» domandò Ryan, irrigidendosi appena contro di me. Rimasi in quella posizione, con il viso nascosto nel suo petto, cercando di respirare profondamente nonostante i suoi vestiti fossero impregnati dell’odore di fumo. Incredibile come mi sentissi al sicuro, anche se probabilmente ero con la persona più pericolosa di tutto il Bronx.
«I due ragazzi, mi stanno seguendo» spiegai, affondando ancora di più il viso contro il suo petto.
Mi sarei aspettata qualsiasi reazione, tranne quella che Ryan ebbe: cominciò a ridere, allontanandosi da me e facendomi aprire gli occhi. Si teneva appoggiato al muro dietro di lui, con la testa inclinata indietro e la sigaretta accesa tra le dita.
«Cazzo, avevo detto discrezione ragazzi. Se anche lentiggini si è accorta di voi vuol dire che avete fatto un lavoro davvero di merda» sbottò, tra un attacco di risa e un altro.
«Perché è andata al Randall, e siamo convinti che volesse cercare lavoro, ci siamo fatti vedere dalla sorella di Pick, e lei l’ha mandata via. Credo fosse convinta che Alexis fosse una nostra Peripheral». A parlare fu uno dei due ragazzi che avevo visto fuori dal locale, lo stesso che mi aveva seguito, assieme a quello con un berretto di lana in testa.
«Voi… tu… tu li conosci?». Stavano parlando con lui senza azzuffarsi o picchiarsi, non si erano nemmeno presentati, doveva per forza conoscerli.
«Secondo te, lentiggini, sono così idiota da lasciarti andare in giro per il Bronx da sola? Come minimo saresti entrata in casa dei Misfitous, cosa che hai quasi fatto. Non ti ho forse detto, ieri, che fino al murales è nostro territorio? Non ti sei accorta dell’aquila ad ali spiegate che è disegnata lì in fondo? No, tu dovevi andare fino all’incrocio dopo, no? Per trovare un fottuto lavoro». Era ironico, naturalmente, ma sapere che mi ero spaventata per niente e in qualche modo mi ero dimostrata debole con lui mi irritò al punto che entrai nel pianerottolo e cominciai a salire le scale.
«Stronzo» bofonchiai tra me e me, sicura che nessuno potesse sentirmi.
Cosa ne sapevo io di aquile disegnate sui muri e locali dei Misfitous? Io volevo solo uno stupido lavoro, perché la vita lì doveva girare attorno a un paio di gang?
Entrai nel mio appartamento, richiudendomi la porta alle spalle e sospirando stanca: volevo solo sedermi un po’ sul divano per rilassarmi dopo lo spavento che avevo preso con quei due ragazzi che mi avevano pedinata.
«Apri» ordinò una voce, battendo un colpo contro la porta del mio appartamento che fece vibrare tutta la parete. Conoscevo una sola persona che bussava in quel modo insolito: Ryan.
«Non sono a casa» strillai, portando un braccio a coprirmi gli occhi. Non avevo voglia di vedere nessuno, tantomeno i miei vicini.
«Lentiggini apri la porta o la sfondo». Di nuovo la voce di Ryan, seguita da un pugno ancora più forte del precedente.
«Non sono in casa» ribattei, coprendomi le orecchie come una bambina: era così difficile per loro lasciarmi un po’ di privacy per poter pensare?
«Brandon, Sick, andate a prendere l’ariete. Sfondiamo la porta». A quelle parole balzai in piedi, correndo verso la porta prima che potessero sfondarla.
«Che cosa volevate fare?» brontolai, aprendo l’uscio di casa e guardandoli tutti e tre: stavano cercando di trattenere le risate, con scarsi risultati.
«Convincerti ad aprire la porta, naturalmente». Ryan con il suo solito ghigno e il suo tono ironico. L’avrei volentieri preso a schiaffi, se solo fossi stata alta come lui.
«Che cosa volete?». Se erano davanti alla mia porta di sicuro c’era qualche motivo, la gente normale di solito bussava perché aveva bisogno di qualcosa: sale, zucchero, latte…
«I due ragazzi che credevi ti pedinassero sono Liam e Shake, gli ultimi acquisti degli Eagles. Cazzo Brandon, non mi ero accorto che fossimo caduti così in basso, sai? Continuo a chiedermi come abbiano fatto a uscire dall’ascensore vivi» sbottò, parlando poi con Brandon, di fianco a lui. Il suo amico ridacchiò, annuendo: era convinto di quello che aveva detto Ryan.
«Bene, sono felice di averli conosciuti. Ora, ciao». Cercai di chiudere la porta: era un modo davvero poco gentile di dire che no, non avevo voglia di parlare con loro; era scortese, certo, ma sembrava che non riuscissero a capire la gentilezza.
«No… lentiggini» sibilò Ryan, appoggiando una mano sulla porta per impedirmi di chiuderla completamente, «forse non ci siamo capiti. Siamo qui per dirti che se devi cercare un lavoro non puoi andare dove vuoi, ok?». Incrociò le braccia al petto, in attesa di una risposta.
Mi soffermai a guardare il suo volto ricoperto da ematomi più o meno recenti, riuscivo a vedere, nonostante la differenza di altezza, i suoi occhi azzurri fissarmi intensamente, mentre cercavano di capire qualcosa.
«E dovrei cercare un lavoro con voi?». Era quello che stavano cercando di dirmi? Mi volevano intimidire con le loro spalle larghe e i loro muscoli?
«Esatto, magari così eviti di venire uccisa, che ne dici?». Sentire la voce di Sick così ironica, senza strani riferimenti a qualcosa di volgare mi stupì, tanto che spalancai le labbra, stupita.
«Ehi Doc! Come va?». Dollar scostò con una spallata Sick, mi sorpassò dopo avermi scompigliato i capelli e avanzò a grandi passi verso il divano di casa mia, senza nemmeno chiedere permesso.
«Doc... doc... cazzo! Ecco dove ti avevo vista! Hai fatto quel film porno, no?» esclamò all’improvviso Sick, facendomi sobbalzare, stupita.
«Cosa?» domandai, sicura di aver frainteso quello che aveva detto. Non poteva aver chiesto se avevo fatto un film porno, no.
«Sì, quello con le dottoresse... è uno dei miei preferiti, siete così... fighe che, cazzo, al solo pensiero mi si...» cominciò a dire, prima di essere interrotto.
«Sick» urlò Dollar, fermandolo prima che potesse dire qualcosa di volgare, sicuramente.
«Che c'è? Dollar, l'hai visto anche tu e hai avuto la mia stessa reazione». Sick sembrava offeso da Dollar, come se non avesse voluto essere interrotto durante un discorso così importante.

La frase di Sick però, sembrò irritare Dollar, che cominciò a muoversi irrequieto sul divano. «È una ragazza» bofonchiò poi, come se volesse giustificare il motivo per cui l’aveva interrotto.
C’era qualcosa di così irreale e pazzo in quel discorso che non riuscivo nemmeno a interromperlo per dirgli che si stava sbagliando.
«No, è una maiala, mi ricordo che cosa faceva» ghignò Sick, avvicinandosi a me e circondandomi le spalle con un braccio. Il suo sorriso mi faceva paura; mi terrorizzava ancora di più la sua mano, che sembrava scendere lentamente verso il mio seno.
«Io… io non ho fatto nessun film porno con le dottoresse» spiegai, indietreggiando di un passo per scostarmi da Sick perché non mi toccasse più.
«Ah no? Allora lì c’è quella che ti assomiglia. Hai lavorato con James Deen?» domandò, curioso e allo stesso tempo stupito di aver sbagliato qualcosa. Sembrava sapere molto di… film, e mi stupì quella domanda. Come faceva a non saperlo?
«Io… Sick, James Dean è morto parecchi anni fa» borbottai, sperando di non dargli una brutta notizia. Avrei anche voluto aggiungere che ero quasi sicura che James Dean non avesse fatto nessun tipo di film porno, ma non volevo mettere troppa carne al fuoco.
«No, stai scherzando? James Deen è vivo. L’ultimo suo film è uscito un paio di giorni fa. Quindi… se non hai lavorato con James… no, cazzo. No. Hai fatto quel film con Stoya? Non era Sasha Gray? Cazzo ero sicuro che fosse Sasha, ma se eri tu…». La luce nel suo sguardo cambiò: mi guardava con ammirazione, quasi.
Imbarazzata da quel disguido e irritata perché nessuno stava cercando di fargli capire che no, non avevo mai fatto nessun tipo di film, tantomeno porno, e che non sapevo chi fossero James, Stoya e Sasha, cercai di non badare alla sensazione di caldo che sentivo all’altezza delle guance e spiegai ancora una volta: «Sick, davvero io…». Non mi lasciò spiegare, perché di nuovo cominciò a parlare, elettrizzato e felice.
«Allora? Dimmi! Com’è girare un porno? Cazzo, mi sarebbe sempre piaciuto, non puoi contattare qualcuno? Mi va bene tutto, basta che ci siano un paio di tette. Niente roba gay, per favore, basta solo il mio, in mezzo a qualsiasi cosa tu voglia» sputò senza mai fermarsi. Stava quasi saltellando per la felicità e un po’ mi dispiaceva dargli quella notizia, ma doveva sapere che si stava sbagliando.
«Sick… io…» cercai di parlare di nuovo, inutilmente visto che per la seconda volta cominciò a parlare, senza fermarsi o aspettare che gli dicessi qualcosa.
Ryan e Brandon guardavano la scena divertiti, senza venire in mio aiuto; nemmeno Dollar parlava più, era seduto sul divano e lo sguardo implorante che gli lanciai lo fece solo ridere di gusto.
Dovevo arrangiarmi io da sola?
«Cazzo, al solo pensiero di quello che fanno in quei film io rischio di venire così. Lei è bella, vero? E quelle tettine che ha… per non parlare delle facce che fa… cazzo mi sono innamorato di lei appena l’ho vista». Si portò una mano alla fronte, massaggiandola pensieroso tra un sospiro e l’altro.
Doveva ascoltarmi, in un modo o nell’altro doveva smetterla, perché non mi interessava di attori di film porno o altre cose simili.
«Sick, dannazione! Non ho fatto nessun porno» strillai, stringendo i pugni lungo i fianchi e riuscendo finalmente a zittirlo.
Riuscii a sentire le risate trattenute di Ryan, Dollar e Brandon, ma nessuno si avvicinò a Sick: rimasero tutti al loro posto, Ryan e Brandon appoggiati alla porta d’ingresso e Dollar seduto sul mio divano sgangherato.
«Oh»  sussurrò Sick, deluso. Continuava a tenere lo sguardo basso, senza rivolgermi la parola. «Forse ti ho scambiata con qualche altra attrice, allora». Sembrava un modo strano per scusarsi, nonostante si fosse avvicinato a me di qualche passo, guardando il mio viso e il mio corpo, in cerca di una conferma per la sua ipotesi.
«È quello che sto cercando di dirti» spiegai, sorridendo imbarazzata dal suo strano comportamento: cominciò a girarmi attorno, squadrando ogni centimetro del mio corpo.
«Ma sei proprio sicura di non aver fatto nessun porno? Nemmeno uno amatoriale?» ritentò, di nuovo, irritandomi. Era così difficile capire che non avevo mai girato nessun porno, amatoriale o non?
«Che porno vuoi che abbia girato? Probabilmente è ancora convinta che siano le cicogne a portare i bambini». Quella voce stridula riuscì a innervosirmi più delle accuse stupide di Sick.
«Sono un dottore e comunque sì, so come nascono i bambini» risposi, piccata. Possibile che Butterfly –se quello era il suo nome, poi– dovesse offendere in modo così gratuito? Cosa le avevo fatto per meritarmi il suo odio? Ci eravamo viste due volte e si era sempre presentata con una frase poco carina per me.
«Oh, dottore? Le lauree le regalano così adesso? Posso laurearmi anche io allora» ghignò, divertita, avvicinandosi a Ryan e strofinando la sua mano sul petto di lui. Credeva forse di offendermi con quel suo strano comportamento?
«Non c’è una laurea in quello che studi tu, mi dispiace». Ed ero anche stata gentile, trattenendomi e non risultando volgare, visto che non sarebbe stato carino dirle che come, minimo, per imparare qualcosa sul corpo umano avrebbe dovuto studiare Medicina o Biologia. La Laurea in Zoccologia non era ancora stata inventata, ma da quello che avevo potuto notare nei pochi minuti in cui avevo parlato assieme a lei, Butterfly sarebbe stata in grado di laurearsi con il massimo dei voti.
«Magari sono più intelligente di te, ci vuole poco, sai?» mi provocò, avvicinandosi a me dopo aver sorpassato Ryan e Sick, ancora fermi e in silenzio sulla porta.
«Sì, hai ragione» sospirai, schernendola. Non mi faceva di certo paura solo perché era molto più alta di me e aveva degli air-bag a proteggerla davanti; Butterfly faceva uscire la parte peggiore di me, quella pronta a rompere il naso di qualcuno con un pugno.
«Che cosa ci fai qui, Butterfly?». La domanda di Ryan sembrò stupirla, perché si fermò, voltandosi a guardarlo e giocherellando con un paio di dreadlock.
«Sono venuta a farti compagnia, tesoro. So che ti manco». Ammiccò verso di lui, cercando probabilmente di risultare sensuale. L’unica cosa che però si poteva associare a Butterfly era la volgarità.
«Non ho bisogno di te, e se non sbaglio un paio di giorni fa hai detto che non saresti più passata di qui, sbaglio o aveva detto una settimana, Brandon?» ghignò Ryan in risposta, dando dei leggeri colpi sullo stomaco a Brandon con il suo gomito. L’amico, in risposta annuì, rimanendo però zitto.
«Se non scopo con voi due lo farò con qualcun altro. Sick non ha mai detto di no». Sorrise, avvicinandosi a Sick che sembrava spaventato.
«Butt…» sibilò, appiattendosi contro il muro. Sick era spaventato da Butterfly? Per questo continuava a indietreggiare, cercando di mettere un po’ di distanza tra loro?
«Andiamo Sick, lo sappiamo entrambi che tette secche non può soddisfarti come faccio io, su. Non sa quello che ti piace, non ti conosce» cantilenò, alternando delle occhiatacce arrabbiate a me, a quelle sensuali che rivolgeva a lui.

«Sick questa sera non è disponibile, porta il tuo culo fuori da qui, Butterfly». Era un ordine, riuscivo a capirlo dal tono di voce di Ryan, e riuscì a capirlo anche Sick, che alzò gli occhi al cielo con uno sguardo confuso ma triste.
«Adesso mi sbatti fuori da casa tua per la seconda volta?» si indignò, alzando la voce e fronteggiando Ryan. Volevo farle notare che quella, in verità, era casa mia, ma non mi sarei mai permessa di interrompere una discussione in cui io non c’entravo nulla.
«Sei a casa di Alexis» precisò Brandon, causandomi un sorriso soddisfatto che non riuscii a nascondere.
«Andate tutti a fanculo! Anche tu, tette secche. Sappi che me la pagherai, perché una stronza non può arrivare qui e prendersi i miei ragazzi, chiaro?» strillò dal pianerottolo, prima di scendere le scale. La sua uscita di scena così teatrale mi stupì, paralizzandomi: credevo che quelle cose succedessero solo nei film, non anche nella realtà.
«Ryan, io però…» cominciò a dire Sick, fermandosi dopo avermi guardato.
«Non me ne frega un cazzo, Sick. È un ordine, per quanto mi riguarda puoi guardarti un film porno e fare quel cazzo che vuoi, chiaro? Se io dico che lei non si ferma da noi, non lo fa. E tu non andrai da lei, perché questa sera dobbiamo uscire, e mi servite tutti». Se di solito la voce di Ryan che dava ordini era dura ma non spaventosa, in quel momento invece mi fece proprio paura. Un sibilo, poteva sembrare impossibile ma era un sibilo, basso e roco.
Tutti abbassarono il capo, rimanendo in silenzio e non protestando.
«Andiamo, torniamo a casa, devo parlarvi». Con un gesto del capo Ryan indicò la porta di fronte alla mia, facendo capire ai ragazzi che dovevano tornare nel loro appartamento.
Brandon si spostò dall’uscio, per far passare Sick e Dollar, che se ne andarono in silenzio, senza nemmeno parlare. Ryan, l’ultimo a uscire, chiuse la porta alle sue spalle, lasciandomi da sola e senza nessun saluto.
Dovevo solo abituarmi, perché erano semplicemente dei ragazzi grandi e grossi, che non sapevano nulla riguardo all’educazione o al bon-ton.
Passai il pomeriggio a finire di sistemare gli ultimi scatoloni che non ero riuscita a svuotare, e poi mi preparai un’insalata che mangiai seduta sul divano a guardare un film.
Il film alla TV era così noioso che mi addormentai lì, sul divano, lasciando che le immagini di quella strana storia d’amore tra un allenatore di calcio e la sua allieva mi spingessero tra le braccia di Morfeo, che mi cullò fino a quando un rumore mi svegliò di soprassalto.
«Alexis! Apri». Un colpo alla porta che mi spaventò: non riuscii a capire dove fossi; nel sogno stavo facendo surf.
Mi strofinai gli occhi, guardandomi attorno e cercando di capire da dove provenisse quella voce e quel continuo picchiare contro qualcosa.
«Apri questa cazzo di porta, sono Ryan». Un colpo ancora più forte che fece vibrare il pavimento sotto ai miei piedi mentre scivolavo sul tappeto davanti al divano.
«Arrivo» gracchiai con la voce ancora assonnata, correndo verso la porta, «cosa…» balbettai. Non appena la aprii e vidi le condizioni di Ryan davanti a me: la sua maglia bianca era intrisa di sangue, il suo volto aveva diverse botte e c’era un taglio sulla sua fronte che continuava a colare sangue.
«Ho bisogno di te».
 
 
 
 
Buongiorno ragazze! Intanto mi scuso per il mostruoso ritardo che spero non si verifichi più!
Poi... Poi mi scuso anche per il linguaggio volgare di Sick e Butterfly... So che la storia è a rating arancione, ma sinceramente mi sembra stupido mettere rating rosso per qualche parolaccia o doppio senso, ecco.
Per Sick... Dunque, James Deen, Sasha Gray e Stoya sono davvero tre pornoattori americani (non chiedetemi come faccio a saperlo... Posso solo assicurarvi che al liceo avevo molti compagni maschi....).
Il MoGridder's e il Randall esistono veramente e sono esattamente come li ho descritti, l'unica cosa... Non é vero che il Randall é sotto il controllo dei Cribs (ossia dei miei Misfitous).
Diciamo che non ho mantenuto la stessa divisione delle strade per le bande.
Per quello che accadrà nel prossimo capitolo... Avete supposizioni? Nel gruppo ho spoilerato alla grande su quello che succederà, ma... Voi cosa immaginate? :p
Come sempre questo é il gruppo spoiler Nerds' corner e questo il mio profilo Roberta RobTwili (per favore specificate che siete lettori).
Ringrazio tutte quelle che hanno recensito lo sorso capitolo, chi ha messo la storia tra i preferiti, i seguiti e tra quelle da ricordare!
A presto! (magari anche a domenica, quindi battete un colpo se avete letto il capitolo, così mi regolo per il prossimo aggiornamento!).
Un bacione!

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Capitolo 6
*** He can't die! ***


YSM
 
 
«Cosa… cosa ti è successo?» domandai spaventata, avvicinandomi a lui per controllare le ferite.
Non riuscivo a capire dove si fosse tagliato per essersi sporcato così tanto la maglia; vedevo diversi tagli sulle braccia, ma sembravano superficiali, niente a che vedere con quello sulla fronte, almeno.
«No, io… io sto bene, è… non sono io». Era agitato e scosso, non l’avevo mai visto in quello stato. Si muoveva da un piede all’altro, guardandosi continuamente alle spalle, come se temesse di essere seguito.
«Ryan, calmati, non riesco a capire quello che vuoi dirmi. Chi si è fatto male?» domandai, appoggiandogli una mano sul braccio e spaventandolo a morte; si ritrasse subito dal mio tocco come se avesse sentito dolore.
«Io… ti prego, devi aiutarci. Non posso portarlo in ospedale e non voglio lasciarlo morire, non posso. Tu sei un medico, no?» la sua voce si incrinò leggermente, come se gli costasse fatica parlare. Lo guardai deglutire e respirare a stento, un groppo a chiudergli la gola.
«Dov’è?» domandai spaventata, correndo in camera a prendere l’occorrente per medicare. Mentre prendevo la valigetta dall’armadio guardai le mie mani: stavano tremando troppo. Cercai di respirare a fondo per calmarmi, ricordando che avevo medicato Ryan e Dollar senza problemi, qualche giorno prima.
Sarebbe stata la stessa cosa, nessun brutto ricordo o altro, solo una piccola ferita da curare o  cucire.
«In cucina» bofonchiò Ryan, aprendo la porta del suo appartamento.
«Fa male, cazzo» strillò una voce. Riuscii a riconoscerla subito: era quella di Sick.
«Adesso arriva la Doc». Dollar stava cercando di rassicurarlo, assieme a tutti gli altri ragazzi in piedi attorno al tavolo.
«Lasciatela passare» ordinò Ryan, spostando due ragazzi malamente.
Vedere Sick disteso sul tavolo, con i vestiti zuppi di sangue e un taglio che si estendeva lungo tutta la coscia mi fece gelare il sangue nelle vene: c’era una scena troppo vivida tra i miei ricordi, gli stessi che cercavo di scacciare e da cui ero scappata.
«Non… non posso. Mi dispiace». La valigetta mi sfuggì dalle mani e cominciai a indietreggiare, incapace di distogliere lo sguardo dalla gamba insanguinata e ferita.
«Sei un medico» sibilò Ryan, indicando Sick, che cominciava a perdere le forze, parlando sempre più lentamente.
«No, io… non ho la laurea, non… portatelo in ospedale» bofonchiai, sentendo gli occhi di tutti puntati addosso a me. Cercai di cacciare indietro le lacrime che minacciavano di uscire dai miei occhi; non volevo farmi vedere piangere da loro.
«Non ha l’assicurazione, non posso portarlo in ospedale. Fai qualcosa cazzo» urlò Ryan, portandosi una mano tra i capelli e sporcandoli di sangue.
«Non ce la faccio» piagnucolai, sentendo le prime lacrime scendere e chiudendo gli occhi per non guardare di nuovo Sick.
Ero combattuta, una parte di me voleva reagire e aiutarlo perché sapevo che avrei potuto salvarlo, l’altra, spaventata dai fantasmi del passato, mi suggeriva di fuggire e dimenticare.
«Dove cazzo vai? E quel cazzo di giuramento che fate voi fottuti medici?». Ryan mi raggiunse in pochi passi, strattonandomi un braccio e rischiando di farmi perdere l’equilibrio, tanto che sbattei contro il suo petto, lasciando cadere altre lacrime.
«Ryan non ce la faccio…» mormorai, scuotendo lentamente il capo e tenendo lo sguardo basso per non incrociare il suo o quello degli altri ragazzi che cominciarono a borbottare sommessamente qualcosa.
«Lo lasci morire?» strillò ancora più forte, stringendo la presa sul mio braccio così tanto che cominciò a farmi davvero male.
«Lasciami» ribattei, cercando di liberarmi dalla sua mano: il suo sguardo mi faceva paura, per la prima volta Ryan sembrava veramente fuori di sé e temevo che potesse ferirmi.
«Ryan, calmati». Brandon si avvicinò a lui, appoggiandogli una mano sulla spalla. Lo sguardo che si scambiarono costrinse Ryan a lasciarmi lentamente; mi ritrovai a muovere il braccio per cercare di far passare il dolore.
«Deve  curarlo, cazzo. Ha la gamba tagliata a metà». Ryan era fuori di lui, continuava a gridare, incurante degli sguardi che lo fissavano, impauriti e agitati.
«Non posso» insistei, socchiudendo di nuovo gli occhi per non guardare Sick, disteso sul tavolo e ricoperto di sangue.
«Alexis, per favore, morirà». Brandon cercava di convincermi ad aiutarlo ma non ci riuscivo, era più forte di me. Le mie mani stavano tremando troppo e avevo paura di non saper e che fare una volta davanti alla gamba ferita di Sick.
«Non può morire anche lui, cazzo». Ryan tirò un pugno contro il muro, a qualche manciata di centimetri dal mio viso, tanto che non riuscii a trattenere un urlo spaventato.
«Alexis, fa qualcosa» mi supplicò Brandon. Mi sembrò quasi di vedere i suoi occhi lucidi, sotto lo sguardo da duro e gli zigomi insanguinati; per questo non riuscivo a decidermi: una parte di me voleva davvero aiutare Sick, lo volevo davvero.
Presi un respiro profondo, scacciando tutti i fantasmi del passato e avvicinandomi al tavolo. Al mio movimento, tutti i ragazzi che erano rimasti accanto a Sick indietreggiarono di qualche passo, lasciandomi libera di muovermi davanti a lui, che imprecò, appoggiando la nuca sulla tavola.
«Cazzo Alexis, ti prego fa qualcosa perché fa male» farfugliò, digrignando i denti per il dolore. Guardai subito la sua gamba, senza toccarlo: i pantaloni erano lacerati lungo tutta la coscia ed erano tutti insanguinati. Aveva perso tanto sangue, ci poteva essere il pericolo che con la coltellata si fosse addirittura recisa l’arteria femorale.
Corsi velocemente alla valigetta, aprendola e prendendo un paio di guanti blu che faticai a indossare: le mani mi tremavano e sentivo le lacrime scorrere lungo le mie guance, ma dovevo concentrarmi su di lui e sulla sua gamba. Era Sick, eravamo a New York. Los Angeles e tutto quello che era successo lì non dovevano interferire con quello che stavo per fare.
«La vita privata fuori dalla sala operatoria» diceva sempre il professor Burton durante il tirocinio. Dovevo lasciare i ricordi lontano da me.
«Non ho niente per anestetizzarlo. Mi… mi serve qualcosa di forte, avete della vodka?» domandai, rivolta a Dollar che continuava a stare di fianco a me, seguendo i miei movimenti. Annuì, raggiungendo un mobiletto poco distante dal tavolo e prendendo un paio di bottiglie di vodka che mi passò. «Bevine un po’» mormorai, allungando una delle due bottiglie verso Sick che cercò di sollevarsi.
Il suo volto era diventato pallido e faticava a tenere gli occhi aperti, sembrava sul punto di svenire: dovevo sbrigarmi se volevo salvarlo.
Presi una forbice e tagliai definitivamente i jeans, lasciandogli la gamba scoperta per guardare la ferita. C’era tanto sangue, ma il taglio, anche se esteso, non sembrava profondo tanto da aver intaccato l’arteria.
«Da quanto è successo?» domandai, imbevendo un batuffolo di cotone con il disinfettante per cercare di pulire un po’ la ferita. L’odore pungente mi raggiunse, calmando un po’ i miei nervi troppo tesi.
«Mezz’ora fa, forse meno, non lo so». La voce di Ryan non era molto distante da me, ma sentivo i suoi passi, come se stesse camminando nervosamente su e giù per la stanza.
«Mezz’ora?» domandai, stupita, alzando lo sguardo dalla gamba di Sick per guardare Ryan.
«Sì, noi eravamo all’angolo e… poi siamo tornati indietro. Mezz’ora» spiegò, massaggiandosi il mento e sporcandosi ancora di più di sangue. Mi accorsi che la ferita sulla sua fronte continuava a sanguinare, ma Sick, con la sua gamba, era più importante di Ryan, visto che sicuramente quello era solo un taglio superficiale.
Tamponai la ferita facendo attenzione a non premere troppo il cotone per non fargli male, Sick però continuava a bere vodka, imprecando sempre più lentamente.
«Sick, stai fermo» borbottai, finendo di pulire la ferita e sospirando sollevata: l’arteria femorale non era stata recisa; era solo un taglio profondo che sarebbe guarito nel giro di qualche settimana, nonostante ci volessero molti punti per ricucirlo alla perfezione. «L’arteria femorale non è recisa» spiegai, prendendo del cotone pulito per sistemare la ferita.
«Cosa cazzo vuol dire?» sbottò Ryan, avvicinandosi a me di scatto. Fui costretta a scostarmi, spaventata dalla sua reazione.
«Non è in pericolo di vita. Ha perso tanto sangue ma non c’è pericolo che possa morire dissanguato, devo solo mettergli dei punti» spiegai, prendendo la bottiglia di vodka tra le mani e preparandomi al peggio. «Sick, devo disinfettarti perché non so con cosa sei stato ferito e potresti fare infezione. Ti brucerà, bevi ancora» consigliai, svitando il tappo con mano tremante e attendendo qualche secondo. Quando appoggiò la bottiglia, dopo averne bevuto qualche sorso, cominciai a bagnare la sua ferita con la vodka.
«Cazzo! Brucia» urlò, conficcando le dita sul bordo del tavolo per non muoversi.
Vederlo preda del dolore mi fece salire di nuovo le lacrime agli occhi; lacrime che cominciarono a scendere lungo le mie guance. Cercai di asciugarle contro la maglia che portavo, continuando a bagnare con l’alcool la sua gamba.
«Perché si sta addormentando?» domandò Ryan, indicando Sick che faticava a tenere gli occhi aperti e aveva abbandonato la testa all’indietro.
«Sick! No, Sick! Devi rimanere sveglio. Sick, Sick mi senti? Sono Alexis, devi rimanere sveglio» strillai, cominciando a schiaffeggiare il suo viso perché non si addormentasse. Aprì gli occhi, accennando a un debole sorriso, prima di far cadere la testa di lato. «Sick! Svegliati cazzo» urlai, non pensando alle lacrime che continuavano a scendere dal mio viso, cadendo sulle sue guance.
«Apri quei fottuti occhi o giuro che ti tolgo quel fottuto flag e ti spedisco a calci in culo dai Misfitous» ringhiò Ryan, tirando un pugno sulla spalla di Sick, che si lamentò con un grugnito.
«Mi hai fatto male, stronzo»  bofonchiò, muovendo appena le labbra.
«Hai sentito che cazzo ha detto? Apri i tuoi fottuti occhi. Non avrò una figa, ma accontentati e guardami». La frase di Ryan fece ridere tutti i ragazzi dietro di lui e non riuscii a non ridere tra le lacrime, pensando a quella strana situazione.
«Ho voglia di una scopata» sbottò Sick, facendomi ridere di nuovo, mentre cominciavo a ricucire la grossa ferita sulla sua gamba. Nonostante tutto, sentire quella frase così volgare uscire dalle sue labbra mi fece sperare che ce l’avrebbe fatta e che si sarebbe ripreso.
«Non sei nelle condizioni, ora» scherzò Ryan, prendendo una sedia lì vicino e sedendosi poi di fianco a lui, per fargli compagnia. Quel gesto mi intenerì: sembrava che Ryan fosse lì per dare forza a Sick, per dirgli di continuare a parlare e non mollare, perché ce l’avrebbero fatta, assieme.
«Me lo devi. Ti ho salvato il culo». Sentivo la voce di Sick diventare sempre più debole, ma non doveva mollare, non in quel momento.
Sick non doveva morire, no.
«Lo so, e per questo ti lascerò casa libera con due fighe, che ne dici? Solo tu e loro due, dove vuoi» propose Ryan, lanciandomi uno sguardo preoccupato perché Sick sembrava reagire sempre meno. Cercai di non fargli capire quanto fossi sconvolta, concentrandomi di nuovo sulla ferita.
«Si-Sick? Perché non mi racconti di quel film porno? Quello con Stoya?».
Un pretesto stupido per farlo parlare, ma mi sembrava che potesse funzionare. Solo poche ore prima l’avevo visto così felice di raccontare i dettagli della sua attrice preferita; chissà, forse si sarebbe concentrato di nuovo.
Aprì leggermente gli occhi, sorridendo con una smorfia di sofferenza e toccando, lentamente, la spalla di Ryan: «L’ho detto che è una porca» tossì, muovendosi appena. «Sei sicura? Non vorrei scandalizzarti» aggiunse, cercando di deglutire con fatica.
«No, ci ho ripensato, me lo racconta Ryan, così tu ti concentri e mi dici se fa degli errori, ma devi stare attento Sick, d’accordo?». Sapevo che parlare era difficile per lui e non volevo che si sforzasse troppo. Mi bastavano cinque minuti di tempo, volevo solo finire di cucirgli il grosso taglio e poi l’avrei lasciato riposare. «Bevi un altro po’ di vodka, qui farà male» mormorai, fermandomi con ago e filo a mezz’aria, aspettando che bevesse di nuovo prima di cucirgli la pelle martoriata vicino al fianco.
«Tu vuoi ubriacarlo per poi trombarlo, non è vero?» scherzò Brandon, cercando di alleggerire l’atmosfera.
«Mi avete scoperta» ridacchiai, reggendo il gioco per riuscire a tenere Sick sveglio. La situazione era talmente paradossale che non mi rendevo nemmeno conto di quello che stavo dicendo. Volevo solo salvare Sick e curarlo.
«Non serve ubriacarmi, lo faccio volentieri da sobrio e duro di più» biascicò, appoggiando la bottiglia mezza vuota di fianco a lui. Cucii gli ultimi punti, tagliando il filo e disinfettando la gamba prima di cominciare a fasciarla. Il peggio era passato, Sick poteva riposare tranquillo, ora.
«Sick, perché non ti riposi un po’?» lo tentai, alzandogli lentamente la gamba e facendoci girare la garza bianca attorno. «Se ti fanno tanto male i punti me lo dici che cerco qualcosa per farti passare il dolore, ok?» continuai, legando la garza e fermandola con un cerotto. Sick annuì solamente, muovendosi con lentezza sopra il tavolo come se stesse cercando di trovare una posizione comoda. «Se volete sistemarlo su un letto o sul divano per farlo stare più comodo…» suggerii, togliendomi i guanti e gettandoli in una busta di plastica che avevo dentro alla borsa.
«Paul, John, Brandon, aiutatemi» ordinò Ryan, sollevando le spalle di Sick dal tavolo mentre gli altri ragazzi si avvicinavano per aiutarlo.
«Attenti alla gamba, potrebbero saltare i punti» li avvertii, sporgendomi in avanti istintivamente, mentre, tutti e quattro sollevavano Sick dal tavolo, lentamente. Se avessero mosso Sick nel modo sbagliato di sicuro il taglio si sarebbe aperto di nuovo, causandogli molto più dolore di quanto in realtà ne sentisse. Si mossero con calma, avvicinandosi al divano e stendendolo sopra dolcemente. Sentii Sick mugugnare qualcosa, ma ero quasi sicura che la vodka e il dolore avessero fatto effetto. Si sarebbe svegliato entro un paio d’ore in preda alla sofferenza a causa dei punti che tiravano e della ferita, ma ci avrei pensato dopo a lui, prima c’erano gli altri.
«Grazie per l’aiuto» proruppe Ryan, avvicinandosi a me, per poi andare verso il frigo, per prendersi una birra. Si sedette su una sedia, ignorando il tavolo sporco di sangue o i ragazzi attorno a lui, che lo guardavano in attesa di sentirlo parlare.
«Fammi vedere la tua fronte» sbuffai, prendendo un altro paio di guanti dalla valigetta e avvicinandomi a lui. Ero scossa per quello che era appena successo, ma non mi ero dimenticata di quel taglio sanguinante; avrei dovuto almeno tamponare e mettere un cerotto.
«Non è niente» si lamentò, scostandomi con un gesto infastidito e portando i piedi ad appoggiarsi sopra alla tavola.
«Hai un taglio sulla fronte e hai perso sangue, visto che ho appena cucito la gamba a Sick, credo di non scandalizzarmi per un piccolo taglio» gli ricordai, infastidita, incrociando le braccia al petto e picchiando il piede per terra in attesa di poterlo curare. Possibile che dovesse sempre comportarsi da stronzo? Non riuscivo a capire se lo fosse davvero o facesse solo finta.
«Brandon, Dollar e Lebo sono messi peggio». Liquidò il mio tentativo di curarlo, indicando i ragazzi dietro di me. Istintivamente mi voltai, guardandoli uno a uno. Brandon sembrava quello messo peggio: aveva gli zigomi insanguinati, ma mi sembrava di vedere solo un piccolo taglio sotto l’occhio sinistro, Lebo aveva un labbro rotto e la maglia sporca dal sangue che era colato dalla ferita, Dollar, invece, aveva solamente un occhio pesto.
«Fatemi vedere» mormorai, avvicinandomi a Dollar per controllare. Tastai l’occhio attorno al livido, per sentire se ci fosse qualche ematoma, ma non riuscivo a sentire nessuna sacca di sangue. «Devi… ti serve questa. La spalmi anche domani mattina e domani sera, ti verrà l’occhio ancora più nero, ma non dovresti avere problemi» lo informai con professionalità e attenzione, prendendo una pomata dalla valigetta e spalmandogliela attorno all’occhio.
Dollar continuava a guardarmi in silenzio, senza dire nulla; seguiva i miei movimenti con attenzione, socchiudendo appena gli occhi quando per sbaglio tastavo un punto dolente con le dita. «Grazie Doc» ammiccò, quando finii di spalmargli la crema e gli allungai il tubetto.
Risposi con un timido sorriso, avvicinandomi a Lebo. Ero quasi sicura di non aver mai parlato con lui, forse non l’avevo nemmeno mai visto; cercai di ricordare se, quando mi ero svegliata sul loro divano dopo l’aggressione da parte dei Misfitous, ci fosse stato anche lui, ma non riuscivo a ricordarlo.
«Non ti servono punti» mormorai, prendendo un po’ di cotone per pulire la ferita. Era solamente un piccolo taglio, che sanguinava a causa di un pugno, almeno credevo. «Tieni il taglio pulito e cerca di non prendere pugni per una settimana, dovrebbe guarire». Riuscii a scorgere un sorriso tra quelle labbra gonfie e, sospirando, mi avvicinai a Brandon: di sicuro il suo zigomo sinistro era stato colpito più volte, visto che, oltre al taglio sotto all’occhio c’erano anche diversi lividi viola che segnavano la formazione di un ematoma. «Devi metterti la stessa crema di Dollar sullo zigomo, ma per questo taglio non posso fare molto» spiegai, prendendo un piccolo cerotto che potesse ricoprire il taglio, dopo averlo pulito.
«Grazie Alexis, non solo per questo» mormorò Brandon, mentre mi scostavo da lui. Risposi solo con un accenno di sorriso, troppo stanca per formulare davvero una risposta. Sentivo l’adrenalina che se ne stava andando e cominciavano a farmi male le spalle. Succedeva sempre così dopo un intervento. L’averlo provato dopo settimane, però, mi stupì: in qualche modo, la sensazione di aver salvato una persona era sempre bella e mi faceva sentire importante.
«Ryan, vuoi che rimaniamo qui con Sick?» chiese Brandon, dopo aver raggiunto Lebo e Dollar che si stavano incamminando verso il corridoio. Solo in quel momento mi resi conto che gli altri se ne erano andati, lasciandoci da soli.
«No, rimango io. Andate a dormire ragazzi». Un ordine, ancora una volta. Brandon annuì, facendo un gesto del capo prima di sparire con Lebo e Dollar dietro la porta di legno e richiudendosela alle spalle.
«Fammi vedere». Gettai di nuovo i guanti, sporchi dal sangue di Brandon, e, dopo averne indossato un paio puliti, mi avvicinai a Ryan che sbuffò, alzando gli occhi al soffitto.
«Ti ho detto che non è niente» sbottò, incrociando le braccia al petto, mentre gli scostavo i capelli insanguinati dalla fronte per controllare il taglio: non sembrava profondo, ma dovevo pulirlo e disinfettarlo.
«Sta fermo» brontolai, tenendogli con una mano il capo e strofinando il cotone con l’altra. Cercavo di fare attenzione per non fargli male, ma era difficile, visto che continuava a lamentarsi, dicendo che non si era fatto male e che potevo tornarmene a casa. «Riesci a stare zitto per cinque minuti?» mi lamentai, prendendo il disinfettante e spruzzandolo sulla sua fronte. Quell’odore, così familiare, mi stordì ancora una volta per qualche secondo, trasportandomi dall’altra parte dell’America.
«Che c’è?» domandò Ryan, riportandomi a Whittier Street e spaventandomi. Sussultai, strofinando con troppa forza il cotone contro la sua ferita senza che però Ryan si lamentasse.
«Cosa vi è successo?» chiesi, prima ancora di rendermene conto, mentre applicavo il cerotto sopra alla colla perché il taglio potesse cicatrizzarsi presto.
«Stavamo giocando a morra cinese e tutti hanno scelto forbice» ironizzò, probabilmente perché non voleva dire che cosa era realmente accaduto.
Finii di sistemare il cerotto, mettendone uno più grande sopra perché la ferita potesse rimanere pulita e poi, dopo aver preso un respiro profondo per calmarmi, decisi di rispondergli: «Sai, Ryan, ho salvato la vita a Sick e ho cucito l’altra metà di voi, credo che potresti almeno dire perché siete arrivati a casa a pezzi». Ero arrabbiata e stanca. Stanca del suo comportamento e di tutto quello che era successo in quelle ore. Quanto tempo era passato da quando ero entrata nel loro appartamento?
«Lentiggini, questo posto non è per te, se sapessi tutto quello che succede probabilmente ritorneresti nella tua amata spiaggia di corsa». Sempre quel tono che sembrava schernirmi; ero sicura che fosse apparso il solito ghigno sul suo viso, anche se non potevo saperlo, visto che stavo riordinando la mia valigetta, mezza vuota.
Dovevo assolutamente comprare cerotti, bende e disinfettanti. Avevo la netta sensazione, che quella situazione non era stata un caso fortuito, ma che per gli Eagles fosse normale routine.
«Perché non mi metti alla prova? » azzardai, sicura che mi avrebbe risposto di no. Con una tranquillità che non possedevo, mi sedetti su una sedia davanti a lui, senza appoggiarmi al tavolo ancora sporco di sangue.
«D’accordo» sospirò, stupendomi. Prese un respiro profondo e cominciò a parlare, lo sguardo a qualche isolato di distanza, «noi volevamo solo… rimarcare il territorio, sai, no? La solita storia. Siamo andati all’incrocio di confine, sicuri di noi e pronti a mostrarci forti contro i Misfitous. Insomma, avevo organizzato tutto: Brandon e Sick a coprirmi le spalle e Lebo e Dollar a spingere il topo verso di noi. Gli altri avrebbero semplicemente coperto la zona, come sempre. Abbiamo aspettato il momento giusto, era da solo e non sembrava nemmeno tanto forte, il topo perfetto, no? Cazzo, deve essere stato un Gonna-Be dei Misfitous, perché quando abbiamo cercato di prendergli il portafogli ha tirato fuori un coltello, minacciandomi. Sono riuscito a tirarmi indietro, ma non mi ero accorto che ne stava arrivando un altro. Sick l’ha visto e mi ha difeso, ma si è preso una coltellata sulla gamba. Gli altri… io li sentivo, ma quel fottuto bastardo non mi lasciava andare, così l’ho riempito di pugni fino a quando non si è più mosso, ma era davvero troppo tardi e non ho potuto fare niente. Abbiamo pareggiato i conti ma… è stata tutta colpa mia, cazzo. Non avevo la lucidità necessaria» concluse, portandosi una mano sulla testa e prendendo una sigaretta.
Solo alla fine della sua storia mi accorsi di quando mi fossi immersa nel suo racconto: pendevo dalle sue labbra e avevo milioni di domande che chiedevano risposte.
Cosa voleva dire che dovevano spingere il topo verso di loro? Perché volevano derubare l’uomo?
«Non provarci nemmeno» sbottò, aspirando una boccata di fumo dalla sigaretta e producendo subito dopo una nuvola grigia.
Mi allontanai un po’, per non aspirare quell’odore sgradevole in modo così diretto e poi domandai, confusa: «cosa?». Non dovevo provare a fare cosa?
«Non provare nemmeno a cominciare con tutte le domande che ci sono nella tua testolina. Non ti risponderò, ti ho già detto molto di più di quanto dovresti sapere. In fin dei conti sei solo la nostra vicina, anche se hai salvato Sick» concluse, guardando verso il divano, da dove provenivano dei lamenti.
Mi alzai velocemente, raggiungendo Sick che si muoveva irrequieto, imprecando contro qualcosa.
«Sick? Tutto bene?» chiesi, accarezzandogli la fronte per cercare di calmarlo. Era tutto sudato e continuava a stringere le mani a pugno.
«La gamba, fa male» riuscii a capire, tra un gemito di dolore e un altro. Corsi fino alla mia valigetta, frugando dentro in cerca delle pastiglie che ero sicura di aver messo nella tasca laterale. Ne presi un paio, avvicinandomi di nuovo a Sick e portandogli una mano dietro alla nuca, per costringerlo ad alzarsi un po’. «Prendi queste e cerca di riposare, i punti ti faranno male» mormorai, mentre ingeriva le pillole con un gemito di dolore: si era spostato sul divano e la gamba si era mossa. Appoggiò di nuovo il capo sul bracciolo, chiudendo gli occhi e tornando a respirare lentamente. Si era addormentato, il respiro regolare, ma il viso esprimeva sofferenza; lo capivo dal pallore e dalle labbra contratte.
«Se non ti dispiace rimango qui, così se ha bisogno posso aiutarlo» bofonchiai, coprendo Sick con una vecchia coperta logora che c’era sullo schienale del divano.
«Come vuoi». Ryan fece spallucce, cominciando a camminare su e giù per la stanza, senza però prestarmi attenzione. Mi avvicinai all’altro divano, sedendomi di fianco al bracciolo e appoggiando il capo sullo schienale, sospirando.
Avevo solo bisogno di chiudere gli occhi per un paio di secondi, solo per poter organizzare le idee e sistemare i pensieri e i ricordi.
 
«Cazzo» imprecò qualcuno. Mi svegliai di soprassalto sentendo un rumore sordo e vicino.
Mi misi a sedere, trovandomi avvolta in una vecchia coperta e cercando di ricordare perché non fossi a letto. Mi guardai attorno, trovando Ryan intento a fare qualcosa, davanti alla parete con le foto.
«Non volevo svegliarti» bisbigliò, la sigaretta tra le labbra, continuando a tenere lo sguardo basso su qualcosa che aveva tra le mani. Mi alzai dal divano, avvicinandomi a Sick per dargli un’occhiata. Portai una mano sulla sua fronte per sentire se avesse la febbre ma non mi sembrava; così, per sicurezza, appoggiai due dita al suo collo, all’altezza della carotide, per controllare i battiti. Tutto sembrava normale; le pulsazioni erano regolari e quindi non aveva febbre, sintomo mancante per un’infezione: Sick si stava lentamente riprendendo.
«Cosa stai facendo?» borbottai, avvicinandomi a Ryan, ancora davanti al muro con le loro foto. Aveva un nastro nero in mano e stava sistemando una foto di uno dei ragazzi che il giorno prima mi aveva seguita. Perché stava cambiando la cornice?
«Sistemo le cose, voglio che sia tutto apposto» mormorò, stringendo il nastrino nero nell’angolo in basso a destra della foto. La cornice, assieme a qualche altra raffigurante dei ragazzi che non avevo mai visto, era nera.
«Perché Shake e Liam hanno la cornice nera come questi? E perché quel nast…». Non terminai la frase, capendo immediatamente quello che era successo la sera prima. Ryan aveva detto che un ragazzo l’aveva trattenuto ed era arrivato troppo tardi. «Sono… Liam e Shake sono…» mormorai, la voce spezzata dal nodo che si era formato in gola.
«Promettevano bene, mi dispiace». Aspirò una nuova boccata di fumo, sistemando anche la seconda foto sul muro, in basso. Perché la sua foto e quella di Brandon era più in alto rispetto alle altre? Esisteva una sorta di gerarchia? Chi era Ryan, il capo? E Brandon? «Comunque non preoccuparti, abbiamo pareggiato i conti». Aprì un cassetto di un mobile non molto distante dalla parete, lanciando le vecchie cornici dentro; poi, senza guardarmi, andò a distendersi sul divano.
Pareggiato i conti? Cosa significava? Erano forse morte anche delle persone dei Misfitous?
«È morto anche qualcuno di loro?» domandai curiosa, avvicinandomi al divano, perché potesse spiegarmi quello che era successo senza svegliare Sick o i ragazzi che stavano dormendo nelle camere.
«Te l’ho detto, abbiamo pareggiato i conti» ribatté, portandosi la sigaretta alle labbra per fare un ultimo tiro prima di spegnerla contro la gamba del divano e gettare il filtro per terra.
«Chi… chi avete ucciso?» borbottai, spaventata dalla sua ammissione. Non era minimamente turbato, sembrava non interessargli nemmeno l’aver ucciso delle persone.
Alzò il capo, facendo in modo che i nostri sguardi si incontrassero per qualche secondo; poi, dopo essere rimasto in silenzio come se stesse valutando cosa dire e non dire, si decise a parlare: «Clifton e Hunter, non è stata una grossa perdita per loro, suppongo. Avremmo potuto fare di meglio, ma c’era Sick che continuava a urlare per il dolore e Shake e Liam erano a pochi metri da noi, non avevo la lucidità per continuare». Per continuare. Quindi Ryan non si sarebbe fermato a due omicidi, era questo che cercava di dire? «Perché non volevi aiutare Sick?» domandò all’improvviso, scrutando attentamente il mio volto.
Temevo quella domanda, ma ancora di più la mia risposta, perché non sapevo cosa dire. Non mi sentivo pronta per ricordare il passato, ma soprattutto non volevo.
«Non ti interessa» tagliai corto, interrompendo il contatto visivo con Ryan e guardando la sigaretta spenta che aveva lanciato poco distante da me.
«Fammi capire, io devo dirti cosa è successo stasera e tu non vuoi dirmi perché volevi lasciar morire Sick?» domandò, ironico.
Sospirai, evitando di incontrare il suo sguardo e decisi che era giunto il momento di andare. «Credo che andrò a dormire un po’, se Sick si sveglia o se c’è qualche problema chiamami» dissi con una calma che non provavo affatto, alzandomi in piedi e avvicinandomi a Sick, per controllarlo. Mi soffermai a guardare la sua gamba bendata; fortunatamente il sangue non aveva superato anche la benda, quindi ero riuscita a ricucire il taglio abbastanza bene. Dovevo solo sperare che non facesse infezione nelle ore successive, o sarebbe dovuto correre all’ospedale e probabilmente ci sarebbero stati dei problemi anche per me, visto che l’avevo medicato all’infuori dell’ambiente sterile e senza nemmeno una laurea.
«Quando ti svegli passa di qua, andremo a trovarti un lavoro, te lo devo».

 
 
 
 
Sono di frettissima…
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e… niente, non so che dovevo dire ma volevo pubblicare stasera e non domani…
Non chiedetemi più l’amicizia ma iscrivetevi al gruppo che è sempre quello (Nerds’ corner).
Alla prossima settimana e scusate per la brevità delle note.
Un bacione.

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Capitolo 7
*** Broken Rib & Phoenix ***


YSM
 
 
L’adrenalina scorreva dentro di me e la stanchezza non voleva nemmeno lontanamente sfiorarmi. Sembrava un paradosso ma non riuscivo a dormire, non dopo tutto quello che era successo. L’immagine della gamba di Sick, ricucita dalle mie stesse mani, non ne voleva sapere di abbandonare la mia mente; perché ero stata io, proprio io, Alexis Cooper, a ricucirlo. La piccola Lexi ce l’aveva fatta, era riuscita a salvare Sick.
Ma, nonostante tutto, c’era quel maledetto mal di testa che non mi permetteva di riposare, la sensazione di essere da sola lì, a letto, in quella stanza buia e infestata dai fantasmi del passato. Dovevo smetterla di pensarci, ma non era facile. Non quando le immagini delle ultime ore continuavano a rincorrermi, ricordandomi cosa avevo abbandonato a Los Angeles, ma soprattutto perché.
Mi alzai sbuffando, dirigendomi verso il bagno per farmi una doccia perché speravo di riuscire a rilassarmi un po’, sotto il getto dell’acqua calda. Quando uscii da quella doccia che odiavo, quasi un’ora dopo, il mio corpo era ancora ricoperto dalle chiazze rosse che l’acqua calda aveva creato; avevo raccolto i capelli in una coda alta, anche se erano ancora umidi: era giugno e non avevo nessuna voglia di usare il phon, nonostante a New York non fosse caldo come a Los Angeles.
Indossai un paio di jeans e una maglia, pronta per andare a controllare le condizioni di Sick. Erano le sette e mezza di mattina e speravo che, nonostante fossi andata a letto dopo le tre, i ragazzi fossero svegli.
Bussai piano, sperando di non svegliare chi stava dormendo: ero sicura che se c’era qualcuno di sveglio in cucina mi avrebbe sentita. Infatti, pochi istanti dopo, la porta si aprì, facendomi intravedere il volto di Ryan. Si era ripulito dal sangue sul viso e sui capelli, ma potevo vedere i suoi occhi segnati da profonde occhiaie, come se non avesse dormito. Forse non l’aveva fatto, esattamente come me.
«Ciao, posso entrare?» bisbigliai, sicura che Sick fosse ancora addormentato sul divano. Ryan non rispose, richiuse la porta, togliendo il catenaccio e invitandomi poi a entrare con un gesto del capo.
La stanza era semibuia, quasi tutte le imposte erano chiuse e la luce del giorno che filtrava dalle finestre era poca e concentrata quasi tutta sul tavolo della cucina. Il salotto e i divani, con Sick sopra, erano in penombra, grazie soprattutto a una lampada accesa poco distante.
«Si è svegliato molte volte?» domandai, avvicinandomi al divano per controllare Sick: come pensavo stava ancora dormendo, riuscivo a capirlo dal suo respiro regolare e dai suoi lineamenti rilassati. Non sembrava nemmeno che stesse provando dolore, ma per sicurezza porta una mano a sfiorargli la fronte, sentendola fresca: non aveva la febbre e non era nemmeno sudato. Bene, il taglio non aveva fatto infezione.
«Abbastanza, parlava da solo di film porno, quindi credo stia bene» sbottò ironico Ryan, portandosi una mano sul fianco mentre si sedeva, lentamente, sulla sedia. Strano, mi sembrava quasi di aver scorto una smorfia sul suo viso, mentre si muoveva. Prese una sigaretta dalla tasca dei jeans, accendendosela e cominciando a fumarla, così tornai a guardare Sick, ancora addormentato. Volevo controllare la ferita, per sicurezza. Cercando di non muoverlo troppo spostai la coperta, lasciando la gamba scoperta.
La fasciatura che gli avevo fatto qualche ora prima era intatta, non era sporca di sangue e sembrava non essersi allentata, così, sfiorandolo il meno possibile, cominciai a disfarla.
«Chi cazzo rompe?» mugugnò Sick, portandosi un braccio davanti al viso perché la luce non lo infastidisse. Quel suo gesto mi intenerì: sembrava quasi un bambino alla mattina. Lo vidi sbirciare per controllare chi lo stesse infastidendo e uno strano sorriso si disegnò sul suo volto stanco e provato. «Oh ciao. Tocca dove vuoi» esordì, un po’ più lucido e quasi divertito. Sì, sembrava che Sick stesse guarendo in fretta.
«Sto controllando la ferita» specificai, attenta a non sfiorare la sua gamba: avevo dimenticato di prendere un paio di guanti sterili e non volevo aumentare il rischio di infezioni. Sembrava tutto apposto, anche i punti non sembravano aver fatto infezione, così, lentamente, ricominciai ad avvolgere la garza, tenendo la sua gamba sollevata senza però farlo affaticare.
«Cazzo, sei davvero uguale a quella del film. Però mi è venuto in mente che era James Dean che aveva fatto il film con la dottoressa, quella porca. Ma non sei tu, perché lei era bionda e aveva il culo più grande del tuo». Si sistemò meglio contro il bracciolo del divano per essere più comodo, tanto che portò un braccio dietro alla nuca, spostando la gamba perché riuscissi a medicarlo meglio. «Dimmi, Lexi, come mai questa notte ho sognato te? Mi chiedevi di raccontarti di quel film porno con Stoya». Alla sua affermazione sussultai, non sapendo che rispondere. Non era stato un sogno, ma solo il mio stupido tentativo di tenerlo sveglio mentre lo medicavo. Come potevo dirgli che non era stato un sogno? Ero sicura che se gli avessi detto la verità, la situazione sarebbe peggiorata.
«Non saprei…» mentii, sperando che qualcuno – Ryan per esempio, visto che era l’unica persona oltre a noi due presente in quella stanza – non decidesse di fare l’idiota e spifferare ai quattro venti la verità.
«Sai Sick…» cominciò infatti lui, senza però riuscire a terminare la frase, visto che Dollar e Brandon entrarono in cucina, sbadigliando rumorosamente e stiracchiandosi. Si avvicinarono a Sick, tirandogli una pacca sulla spalla e sorridendo nel vederlo sveglio; poi, senza nemmeno salutarmi, si accomodarono sull’altro divano, accendendosi una sigaretta.
«Allora? Come stai?» chiese Dollar, ammiccando verso di me. Era comico: l’occhio che gli avevo medicato la sera prima, a causa della pomata che gli avevo dato, era diventato ancora più nero, facendo risaltare il verde dei suoi occhi.
Dopo aver finito di sistemare la fasciatura di Sick, mi allontanai dal divano, evitando di ascoltare quello che si stavano dicendo: raccontavano quello che era successo la sera prima, ricordando a Sick quello che aveva fatto visto che, probabilmente a causa del dolore, i suoi ricordi erano confusi.
«Così, insomma, io mi sono preso una coltellata per Ryan?» ghignò a un certo punto, sollevandosi a fatica sul divano per cercare di guardare Ryan che era ancora seduto sulla sedia.
Mi sembrò quasi strano, visto che non commentò con nessuna battuta alla domanda di Sick, ma si limitò solo a sorridere, rimanendo seduto. Quel comportamento sorprese anche i ragazzi, che si zittirono per qualche istante, fino a quando Brandon, fingendo di andare a prendere qualcosa in frigo, si avvicinò a Ryan per chiedergli qualcosa che però non riuscii a capire, a causa degli schiamazzi di Sick e Dollar che stavano imitando non avevo ben capito chi.
Non ero riuscita a sentire cosa si erano detti inizialmente, ma sembrava che, qualsiasi cosa fosse, avesse irritato parecchio Brandon che continuava a ringhiare contro Ryan: «Devi dirle la verità». Gli puntava l’indice contro il viso, sovrastandolo, visto che era in piedi davanti a lui.
«Sta zitto, cazzo» sbottò Ryan, massaggiandosi il viso con una mano. Il suo sguardo si fermò per qualche istante su di me, per poi spostarsi su Dollar che stava ancora scherzando con Sick che non riuscivo a vedere, ma che però sentivo:  stava deridendo Dollar avrebbe dovuto vedersi con Butterfly quella sera.
«Come vuoi» tagliò corto Brandon, prendendo un contenitore di latte dal frigo e cominciando a bere senza nemmeno prendersi un bicchiere. Dovevo ricordarmi di non chiedere mai del latte a loro, se non volevo trovarmi con strane sorprese sul contenitore. «Io e Dollar andiamo a prendere le sigarette, a dopo». Brandon diede una pacca sulla spalla di Ryan che imprecò, spaventandomi.
«Cazzo, sei un coglione». Un urlo, ecco che cosa era stato. Dollar e Sick smisero di parlare, attirati dal tono di voce alto di Ryan. Vidi Sick cercare di alzarsi dal divano per poter vedere che cosa stesse succedendo, senza però riuscirci perché probabilmente i punti gli facevano male e non riusciva a muoversi molto.
«Scusa Ryan, non mi sono più ricordato che hai male…». Il ghigno sul volto di Brandon sembrava quasi schernirlo, come se volutamente gli avesse mollato quella pacca.
«Dove hai male?» chiesi istintivamente, attirata dalle parole di Brandon che finse stupore, portandosi la mano davanti alle labbra, come se avesse appena svelato un segreto inconfessabile.
«Scusami Ryan, non dovevo proprio darti quella pacca sulla spalla. Vieni Doll, andiamo a prendere le sigarette, a dopo Sick. Ciao Lexi». Ammiccò verso di me, senza che Ryan lo vedesse, e poi, assieme a Dollar, uscì, richiudendosi la porta alle spalle.
Nella stanza calò un improvviso silenzio, rotto solamente dal respiro pesante di Ryan, che aveva i pugni stretti sopra al tavolo, come se fosse arrabbiato e stesse cercando di trattenersi. Mi avvicinai a lui con calma, quasi per non spaventarlo con movimenti bruschi e, una volta giuntagli davanti, tornai a ripetere la mia domanda: «Dove ti fa male?». Speravo che non facesse lo stupido come il suo solito, rispondendomi che non aveva male da nessuna parte e che non era nulla. Sapevo che quella sarebbe stata una bugia; un dolore avrebbe spiegato il suo strano comportamento di quella mattina, il suo rimanere sempre seduto sulla sedia senza intervenire troppo durante i nostri discorsi.
«Non è niente» sbottò, rimanendo comunque seduto. Non mi stava nemmeno guardando, il suo sguardo era fisso alla finestra che lasciava entrare un po’ di luce. Sentii un movimento provenire dal divano: probabilmente era Sick che cercava di vedere che cosa stesse succedendo, senza però riuscirci.
«Posso dirlo io, visto che sono un medico?» domandai, senza attendere veramente una risposta. Mi aspettavo piuttosto un suo sbuffo infastidito e poi il suo spiegarmi dove aveva male, invece Ryan si degnò solamente di spostare il suo sguardo su di me, ironico.
«Mi sembrava avessi detto che non eri un medico, poche ore fa». Quel ghigno mi urtò i nervi, tanto che strinsi i pugni tenendo le braccia tese contro i fianchi e cercai di respirare lentamente per non rispondergli a tono.
«Cosa? Non sei un medico? E chi cazzo mi ha cucito la gamba, una pornostar?» strillò Sick, cercando di attirare l’attenzione su di lui, nonostante non potessimo vederlo. Non lo ascoltai nemmeno, arrabbiata com’ero con Ryan che non voleva dirmi cosa lo facesse stare male.
«Non posso operare, ma so curare» puntualizzai, ancora in attesa di un suo movimento. Che avesse male a una gamba, visto che era rimasto seduto tutto il tempo? No, non poteva essere, mi aveva aperto la porta e poi si era andato a sedere, senza zoppicare. Doveva essere qualcosa che faceva male muovendosi troppo, qualcosa che…
«Che due coglioni, Brandon è una testa di cazzo. Non è niente, mi fa male qui». Si indicò all’altezza delle coste, sul lato sinistro del corpo. Coste, poteva anche essersene rotta una o più, visto che aveva lottato la sera prima. Ricordando lo zigomo di Brandon capii che la situazione poteva essere molto più seria di quello che Ryan voleva farmi credere.
«Fammi vedere, potresti esserti rotto o inclinato qualche costa» cercai di spiegargli, avvicinandomi di un passo a lui per guardare meglio.
Ryan alzò gli occhi al soffitto, prima di spostare la sedia e alzarsi in piedi sbuffando, per rimarcare che non gli faceva piacere che lo visitassi. Non piaceva nemmeno a me farlo, ma non volevo rimanere con il dubbio di Ryan con una costa rotta. Non appena rimase immobile davanti a me, con le braccia lungo i fianchi, alzai lo sguardo per incontrare il suo, parecchi centimetri più su.
«Qualcuno mi può spiegare che succede?» si lamentò Sick, cercando di attirare l’attenzione su di lui, ancora disteso sul divano e incapace di vederci. Non risposi, guardando Ryan che aspettava una mia mossa.
«Devi toglierti la maglia». Con un gesto stupido indicai la maglietta blu che portava. Come potevo visitarlo e capire se aveva una costa rotta con la maglia? Ryan sembrò infastidito, ma obbedì, gemendo per il dolore quando cominciò a sfilarsela lentamente.
«Perché deve togliersi la maglia? Che cosa state facendo?». Di nuovo Sick, che chiedeva spiegazioni senza essere nemmeno ascoltato. Un po’ mi dispiaceva, ma non riuscivo a rispondergli, non con il corpo di Ryan mezzo nudo davanti.
Il suo torace era ricoperto da diversi tatuaggi, il più grande raffigurava un’aquila ad ali spiegate che stringeva una bandiera americana, disegnato proprio sopra al cuore. Lungo le braccia c’erano altri tatuaggi che non avevo mai notato, come quello sul bicipite sinistro con un albero e un bambino, chiaro riferimento a The giving tree, una storia che conoscevo molto bene. A contornare quei disegni c’erano cicatrici più o meno grandi, alcune più rosse –quindi più recenti – e altre più vecchie. Spostai lo sguardo sul suo fianco, all’altezza del punto che aveva segnato sopra alla maglia: c’era un grande ematoma scuro che mi fece rabbrividire. Poteva indicare due cose: o si era inclinato una costa o se l’era rotta.
«Adesso ti tasto un po’, se ti fa male dimmelo» mormorai, schiarendomi la voce e spostandomi nervosamente un ciuffo di capelli dal viso. Non appena sfiorai con i polpastrelli la sua pelle liscia, Ryan rabbrividì, gemendo. «Ti ho fatto male?» domandai preoccupata, alzando il viso per guardarlo.
«Hai le mani gelate, cazzo» sibilò, ammonendomi con lo sguardo e accigliandosi. Stavo per ribattere, con molta ironia, che stavo proprio per scusarmi a causa delle mie mani fredde, ma Sick parlò di nuovo.
«Che cosa sta succedendo? Perché l’hai fatto spogliare e adesso lui ha detto che hai le mani fredde? Ragazzi, se state facendo qualcosa di porno voglio vedere anche io, perché potrei risparmiare tutti i soldi dell’abbonamento della TV via cavo, anzi, se volete avvicinarvi un po’ a me…» propose, mentre lo sentivo muoversi nel divano.
Quando capii il disguido che c’era stato con Sick cominciai a ridere  nervosamente, portandomi una mano davanti alle labbra per non ghignare troppo rumorosamente. Ryan però non riuscì a trattenersi e mi seguì, appoggiandosi al tavolo con entrambe le mani, probabilmente perché gli faceva male la costa.
«Che c’è? Qualche posizione strana che fa ridere? Ditemi, che sono in ansia». Una nota isterica nella voce proveniente dal divano che mi fece ridere ancora più forte. Sick era assolutamente una persona pazza  e, forse, addirittura la più malata di sesso che io avessi mai conosciuto. Il sesso era il suo unico pensiero fisso. E lo dimostrava anche con una gamba suturata con più di venti punti.
«Girati, devo vedere anche dietro» mormorai, indietreggiando di un passo e cercando di ritornare seria senza prestare attenzione a Sick, che continuava a chiedere cosa stesse succedendo, avido di particolari piccanti.
Quando Ryan mi diede le spalle, trattenni il respiro per la sorpresa: se ero rimasta stupita dall’aquila che c’era tatuata sopra al cuore, non potevo non esserlo per quella che gli decorava la schiena. Era talmente grande che partiva dalle scapole e arrivava fino alla vita. Un’aquila appollaiata su un ramo, con la bandiera americana avvolta attorno al corpo. Di nuovo un’aquila. Eagle.
Cercai di non guardare nemmeno le due profonde cicatrici che c’erano all’altezza della vita, sicura che se le fosse procurate durante qualche rissa. La mia attenzione si soffermò però su una cicatrice a forma di cerchio, poco sotto la scapola destra. Istintivamente alzai il braccio per sfiorarla, alzandomi in punta di piedi per controllare meglio. Sembrava… sembrava una cicatrice dovuta a un colpo d’arma da fuoco.
«Allora?» domandò Ryan, inarcando leggermente la schiena perché non sfiorassi ancora la cicatrice. Si voltò appena con il viso, per guardarmi e io abbassai lo sguardo, imbarazzata. Mi sembrava di essere stata scoperta durante una marachella, come se non avessi dovuto guardare. In verità era una cosa stupida vergognarsi, ma sapevo che Ryan mi aveva chiesto – perché costretto  – di controllare solo il suo fianco.
«Perché gli hai chiesto di farti vedere il culo? Sono sempre stato convinto che Ryan fosse fornito». Alla domanda di Sick sussultai spaventata: mi ero dimenticata che c’era anche lui, ma non mi degnai di rispondergli ancora una volta, impegnata com’ero a guardare il fianco di Ryan, marchiato da una botta nera.
«Se ti fa male dimmelo, cercherò di fare piano» mormorai, portando le mani una davanti e una dietro il suo fianco e premendo appena per sentire se ci fosse qualche costa rotta.
«Cazzo» si lamentò subito Ryan, non appena lo sfiorai. Forse la situazione era molto più seria, magari si era davvero rotto qualche costa e non solo incrinata.
«Ryan, andiamo, resisti! Non fare brutta figura proprio con me davanti! Forza Lexi, fammi sentire cosa è capace di fare una californiana». Non l’avevo nemmeno ascoltato, ma Ryan probabilmente sì, perché esplose, appoggiandosi contro al tavolo a causa del dolore.
«Chiudi quella cazzo di bocca, Sick. Sta guardando se ho qualche costa rotta» ribatté, talmente arrabbiato che mi spaventai e tolsi le mani dal suo busto.
Sick non rispose, non sentivo nemmeno il suo respiro, probabilmente si era reso conto del suo errore e non aveva nemmeno il coraggio di parlare per scusarsi.
«Prova a tossire, se ti fa male probabilmente c’è qualcosa» spiegai a Ryan, portando di nuovo le mani all’altezza del fianco e premendo un po’ di più. Sapevo che, di sicuro, gli avrebbe fatto male, ma dovevo capire se c’era solo una costa incrinata o se si era rotto qualcosa. Quando Ryan tossì, fortunatamente, non riuscii a sentire niente spostarsi, quindi non c’era niente di rotto. «Ti fa male?» domandai, allentando un po’ la pressione delle mie dita.
«Sì, cazzo» sibilò lui, digrignando i denti per il dolore e stringendo i pugni lungo i fianchi. Cercava di non far vedere quanto stesse soffrendo, anche se in verità la costa gli doleva molto.
«Non hai coste rotte, credo ce ne sia solamente una di incrinata, questa la senti?». Premetti un po’ di più, all’altezza della botta nera che c’era sul suo fianco. Ryan gemette, inarcandosi sotto le mie mani.
«Sì cazzo, la sento, smettila di farmi male» grugnì, facendomi ridere. Sembrava improvvisamente che il grande e grosso Ryan avesse male, così male da dimostrarsi debole per una volta. Era sbagliato e antiprofessionale ed ero quasi sicura che se avessi fatto una cosa così dentro all’ospedale avrebbero anche potuto togliermi dall’albo dei medici, ma io nemmeno ero iscritta e la situazione non si sarebbe ripetuta presto.
«Devo controllare meglio» borbottai, cercando di non ridere. Schiacciai un po’ più forte il suo fianco, sentendo di nuovo i muscoli della sua schiena tendersi e un lamento che faticò a trattenere. Non c’era bisogno di controllare, ma mi aveva presa in giro talmente tante volte che non mi sentivo nemmeno in colpa per quello che stavo facendo. «Sì» finsi, schiacciando un’ultima volta, «credo proprio che non sia rotta ma solamente incrinata. Devi stare a riposo ed evitare risse per qualche settimana, Ryan. Dovrei anche fasciarti, se vuoi guarire prima». Stavo già camminando verso la porta per andare a prendere l’occorrente, senza che Ryan mi dicesse che voleva guarire il prima possibile. Ero quasi sicura che picchiare per lui fosse importante tanto quanto respirare; forse di più, vista la frequenza con cui l’avevo visto con il volto ricoperto da lividi.
Dopo aver preso una garza e qualche cerotto, tornai nel loro appartamento, trovando Ryan esattamente nello stesso punto in cui era pochi minuti prima; non avevo controllato, ma sicuramente Sick era ancora disteso sul divano, sbuffante perché non riusciva a vedere che cosa stesse succedendo.
«Devo stringerla per tenere fermo il busto, ma tu devi riuscire a respirare, ok?». Iniziai ad avvolgere la fascia attorno al suo busto, girandogli intorno per non farlo muovere: l’avevo torturato anche troppo. Terminai di sistemargli la garza, fermandola con un cerotto e assicurandomi che non fosse troppo stretta. «Ti dà fastidio?» domandai, alzando lo sguardo per accertarmi che non mi stesse mentendo per farsi vedere forte.
«No». Cercò di muoversi, per capire quanto gli dolesse la costa, ma sembrava abbastanza soddisfatto, fino a quando non prese tra le mani la maglia, per potersi rivestire: la fasciatura gli impediva di alzare troppo il braccio e non riusciva a infilarsi la t-shirt.
«Aspetta, siediti che così ti aiuto» proposi, prendendo la maglia dalle sue mani e indicandogli la sedia. Ryan si sedette senza protestare, rimanendo in silenzio mentre aspettavo che infilasse un braccio dentro alla manica della maglia e lo aiutavo a infilare l’altro. Ci trovarono così, Dollar e Brandon, quando rientrarono: sentii la porta aprirsi, lasciando subito dopo spazio a uno scoppio di risa che mi fece voltare verso di loro, incuriosita. Brandon e Dollar ci stavano additando, mentre cercavano di parlarsi, tra una risata e l’altra.
«Che-che cosa è successo, qui dentro?» domandò Dollar, appoggiandosi alla spalla di Brandon per non cadere. Sembrava avessero visto qualcosa di divertente, perché non li avevo mai visti ridere così.
«Cosa succede?». Di nuovo Sick, che si faceva sentire ancora, dopo interminabili – per lui –momenti di silenzio.
«Alexis sta rivestendo Ryan, come se fosse un bambino. Il nostro piccolo Ryanuccio» commentò sarcastico Brandon, mentre Ryan prendeva l’accendino che c’era sopra al tavolo e lo scagliava verso di lui in un chiaro invito a smettere di prenderlo in giro.
«Cazzo, lo sapevo. Hanno fatto sesso a pochi metri da me, ragazzi siete stati troppo poco rumorosi» si lamentò Sick, irritandomi. Quante volte dovevamo dirgli che non avevamo fatto sesso ma che lo stavo semplicemente medicando?
«Sick, cavolo! Ha una costa inclinata, non ho fatto sesso con lui» sbraitai, fuori di me. Speravo che, sentendo la mia voce potesse capire che non era successo niente. Mi ero anche avvicinata a lui perché potesse guardarmi in viso: ero io, senza capelli arruffati, viso arrossato o altri segni di attività fisica.
«Sì… come volete». Sick mi stava semplicemente dando ragione per zittirmi, per questo decisi di non continuare, sicura che non avrebbe cambiato idea per nessuna ragione al mondo. Ecco una nuova qualità di Sick, da aggiungere alla lista dopo malato di sesso e volgare: testardo, come un mulo.
«Andiamo a trovarti questo lavoro. Brandon, vieni con me. Tu, Dollar, ascolterai tutto quello che ti dice di fare Sick e lo farai fare agli altri, comanda lui, d’accordo?» ordinò Ryan, con tutta l’intenzione di chiudere il discorso che aveva cominciato Sick. Dollar annuì, avvicinandosi al divano con Sick disteso sopra e sedendosi di fianco a lui, in attesa di ordini. «Muovetevi». Ryan guardò prima me e dopo Brandon, indicando la porta con un gesto del capo.
Dovevamo uscire in quel momento per andare a cercarmi un lavoro? Brandon si avvicinò alla porta senza dire una parola e decisi di seguire il suo esempio, prima di sentire Ryan ringhiare qualche ordine per costringermi a seguirlo. Volevano trovarmi un lavoro? Bene, sfida accettata.
«Dove andiamo?» chiesi, una volta usciti dallo stabile. Nessuno dei due mi rispose, voltarono solamente a destra, in direzione di Randall Ave. Con un ghigno soddisfatto mi preparai a fare la mia battuta in tono saccente, ricordandogli che il MoGridder era solamente un camioncino, ma, con mia grande sorpresa, svoltarono a sinistra, nella direzione opposta. Nessuno dei due parlava, camminavano fianco a fianco, fumando, senza pensare di rallentare il passo per evitare che corressi: non riuscivo infatti a rimanere di fianco a loro.
«Questo è il Phoenix. Tu lavorerai qui. È vicino a casa e non ci sono Misfitous da queste parti» spiegò Ryan, indicando una porta di vetro ricoperta da fogli di giornale. Posto allettante, insomma, visto che nemmeno riuscivo a vederci dentro.
«Forse dovrei prima fare un colloquio, no?». Non ne ero sicura, ma di solito anche per fare le cameriere ci voleva un minimo di esperienza, che io non avevo.
«John è un nostro amico» mi spiegò pazientemente Brandon, mentre Ryan entrava nel locale, senza nemmeno tenere la porta aperta per farmi entrare. Riuscii a non prendere la maniglia sullo stomaco grazie a Brandon che allungò il braccio, tenendola aperta. Bene, come inizio non era per niente male.
«Lei è Alexis e lavorerà qui» esordì Ryan, indicandomi. Gli occhi di tutti i presenti si posarono su di me, mentre un silenzio imbarazzante calava nel piccolo locale.
«Ryan, io… noi non abbiamo bisogno di cameriere» squittì un ometto piccolo e magro. Sembrava quello che più – secondo la mia idea – si avvicinava a una persona viscida. Le voci cominciarono a borbottare, indicando prima Ryan e poi me. Mi sentivo al centro dell’attenzione, proprio l’ultimo posto in cui volevo stare; cercai perciò di nascondermi dietro a Brandon, che mi sorrise per tranquillizzarmi.
«Lei si chiama Alexis e lavorerà qui» ribatté Ryan, con la voce che di solito usava per dare ordini ai ragazzi. L’omino indietreggiò, tamponandosi, con lo straccio che aveva in mano, la fronte imperlata di sudore e diventando, se possibile, ancora più piccolo. Incrociò il mio sguardo, quasi disprezzandomi, poi si rivolse a Ryan che sembrava quasi stanco di rimanere in quel posto.
«Se lavora qui i nostri patti cambiano?». Il suo tono di voce sembrava davvero uno squittio in confronto a quello di Ryan, così roco e basso. Cercai di avvicinarmi a loro, per farmi conoscere  da quel nuovo e strano capo che sembrava provare antipatia per me, nonostante non mi avesse mai parlato, così, per sembrare un po’ più simpatica e disposta a lavorare per lui, sorrisi, cercando di risultare il più naturale possibile.
«No, lei lavorerà per te e non cambierà niente» tagliò corto Ryan, dando le spalle al barista e uscendo poco dopo, seguito da Brandon. Non sapevo quando avrei cominciato e soprattutto se dovevo solamente servire un paio di birre al tavolo.
«Buongiorno, mi chiamo Alexis, come ha detto Ryan». Tesi il braccio per sembrare più professionale presentandomi  con una stretta di mano, ma l’omino, che sembrava tanto spaventato da Ryan, cambiò improvvisamente sguardo, spaventandomi.
«Mi chiamo John. Lavorerai qui tutti i giorni, per dieci ore. Non mi interessa quali turni farai, c’è sempre bisogno. La paga non è garantita ogni mese, e non voglio che Ryan sappia questa cosa. Quando avrò i soldi, te li darò. Non fare domande e non istigare risse tra i clienti. Se vogliono ubriacarsi lasciali fare. Una sola domanda, di chi sei la Signora?» concluse, lanciandomi addosso, in malo modo, un grembiule macchiato di birra e vino. Il mio sguardo doveva esprimere tutta la mia confusione; dov’era andato l’uomo spaventato che squittiva a ogni ordine dato da Ryan? Perché si era trasformato in un autoritario e stronzo che avrei volentieri preso a pugni?
«No, sono la loro vicina» spiegai, ricordando che una volta avevo sentito Ryan parlare di Butterfly e dire che lei si sentiva una Signora, pur non essendolo. Quindi, il mio nuovo capo, mi stava accusando di andare a letto con qualcuno degli Eagles?
«Sì, la loro vicina, certo. Di chi sei la Signora? Non li ho mai visti così verso qualcuno» rimbeccò, tamburellando impaziente con le dita sul bancone. Non sapevo se mettermi a ridere o se spiegargli, ancora una volta, che non ero la Signora di nessuno, ma semplicemente la loro vicina. Mi soffermai a guardarlo in viso, in quegli occhi chiari che non avevano niente di rassicurante; i capelli neri, decisamente sporchi, erano appiattiti lungo la fronte e le tempie, arrivando a sfiorare le sopracciglia folte.
«Sono la loro vicina, mi hanno solamente aiutata a trovare lavoro. Un favore, ecco». Così doveva essere più chiaro per lui, visto che avevo specificato che Ryan mi aveva condotta al Phoenix solo perché gli avevo fatto un favore. John però non sembrò soddisfatto, perché sbuffò, ghignando in modo quasi maligno.
«Gli Eagles non fanno favori a nessuno, si fanno pagare per tutto. Se tu sei la loro vicina, dove abiti?» si informò, cominciando a riempire di birra dei boccali e indicandomi il lavello poco distante, pieno di bicchieri sporchi. Cominciai a risciacquarne un paio, sotto al suo sguardo indagatore. Non volevo rispondere perché non riuscivo a capire perché avrebbe dovuto cambiare idea sapendo il mio indirizzo; era pur sempre il mio nuovo capo e quindi non potevo fare brutta figura.
«Abito nello stesso palazzo di Ryan e dei ragazzi, sono all’interno C». In fin dei conti Ryan mi aveva fatto capire che John era uno degli Eagles, forse non un Hard-Cores, ma uno di quelli che si dichiarava Eagles per protezione: un Perhiperal, probabilmente.
«Bene. Allora se è vero che non sei la Signora di nessuno, se vengo a sapere che hai detto a Ryan o a qualche altro che non ti pagherò ogni mese o altro, sappi che ti licenzierò, e non potrò più riassumerti, visto che sarò morto. Tu stai zitta e fingi di prendere lo stipendio ogni mese e noi ci facciamo vedere tutti contenti ogni volta che un Eagle entra da quella porta, intesi?». Mi guardò con uno sguardo che mi spaventò e mi ritrovai ad annuire prima ancora di rendermene conto.
John non era un omino impaurito che non sapeva che fare; lui aveva solo paura di Ryan, ma aveva trovato lo stesso il modo per minacciarmi. Ok, non mi avrebbe pagata regolarmente, ma con i soldi che mi ero portata da casa potevo pagarmi i primi due mesi di affitto, poi mi avrebbe pagata e sarei riuscita comunque a mettere da parte un po’ di soldi. In fin dei conti il mio stile di vita non era così costoso, solo qualche libro ogni tanto oltre alla spesa.
«Finirai il turno stasera alle sette. Non un minuto prima» specificò, prima di andare da due ragazzi, seduti ad un tavolo lì vicino, e cominciare a parlare, probabilmente di me: continuavano a indicarmi e a sogghignare, come se avessi qualcosa fuori posto. Cercai di sistemarmi i capelli, lisciando anche le pieghe di quell’uniforme sudicia di birra che mi aveva dato qualche minuto prima, ma le loro risate non terminarono fino a quando, un paio di ore dopo, uscirono dal locale, salutando John con una pacca sulla spalla.
Il tempo dentro al Phoenix sembrava non trascorrere mai, era come ripetere le stesse azioni di continuo: prendere nota del numero delle birre, correre a spinarle, portarle al tavolo e ritornare al lavello con dei bicchieri sporchi da lavare. Per questo, quando il grande orologio appeso al muro annunciò che erano le sette di sera, sospirai sollevata: era il mio primo giorno di lavoro e mi ero impegnata al massimo per non fare disastri, sapere che ci ero riuscita mi sollevava il morale.
«John, io… io avrei finito il turno» bofonchiai, avvicinandomi a lui, mentre scherzava, sorridente, con Aria, l’altra cameriera. Avevo provato a parlarci e sembrava anche simpatica, quando però, dopo che mi aveva chiesto come ero stata assunta al Phoenix, le avevo spiegato che ero la vicina dei ragazzi, si era leggermente alterata e non mi aveva più parlato. Un po’ mi dispiaceva, visto che sembrava simpatica.
«Vattene» sbottò John, girandomi le spalle e ricominciando a parlare con Aria. Lei mi sorrise, facendo un gesto con la mano per salutarmi; almeno, dentro quel buco di locale, c’era qualcuno gentile.
Appesi il grembiule con la piccola fenice disegnata sulla tasca anteriore all’attaccapanni vicino al retro del locale e uscii, respirando l’aria fresca di New York, come avessi trattenuto il respiro per ore: dentro a quel locale, infatti, c’era una puzza di fumo che raggiungeva i livelli del salone dell’appartamento di Ryan. A quel pensiero cominciai a camminare verso casa lentamente; ero così stanca che ogni passo mi costava sempre più fatica e non vedevo l’ora di arrivare in camera mia per poter dormire un po’, visto che quella notte, a causa della gamba di Sick e dei fantasmi del passato, non ero riuscita a dormire nemmeno per dieci minuti.
Salii le scale per arrivare al mio appartamento quasi strisciando i piedi a causa della stanchezza, continuavo a rallentare il passo, sicura che non sarei riuscita ad arrivare nemmeno al divano, provata com’ero. Presi le chiavi dalla borsa per aprire la porta, ma mi accorsi che era socchiusa.
Strano, ero sicura di aver chiuso la porta quella mattina, prima di andare a medicare Sick, e l’avevo richiusa anche quando ero ritornata a prendere la benda per Ryan. Che fossero stati i ragazzi? Magari erano entrati perché gli serviva qualcosa e non l’avevano richiusa; in fin dei conti quando Sick e Dollar avevano fatto la spesa per me, erano entrati in casa scassinando la porta e poi richiudendola, forse si erano semplicemente dimenticati di farlo.
Aprii l’uscio, sgranando gli occhi per la sorpresa: la casa era sottosopra. Le ante dei mobili della cucina erano tutte aperte e c’erano alcune confezioni di cibo per terra. No, così non funzionava. Volevano prendere il sale, lo zucchero o qualsiasi altra cosa dal mio appartamento? Bene, se non ero in casa e ne avevano un disperato bisogno potevano farlo, ma la casa dovevano lasciarla in ordine e la porta doveva rimanere chiusa.
Arrabbiata, camminai a grandi passi verso il 3B, cominciando a bussare furiosamente. Non mi interessava se stavano dormendo, mangiando o qualsiasi altra cosa: mi avrebbero ascoltata e si sarebbero resi conto che il loro comportamento era da maleducati.
«Che c’è, lentiggini?» domandò Ryan, ghignando quando si accorse che ero io. Non lo salutai nemmeno, avanzai, scostandolo per entrare in casa e far in modo che tutti potessero sentirmi.
«Se entrate in casa mia almeno non lasciate la porta aperta e soprattutto non distruggetemi casa. Prendete quello che dovete prendere e poi andatevene. Mi ci vorrà tutta la sera per mettere a posto quel disastro, dannazione». Presi un respiro profondo per calmarmi e guardai Dollar e Brandon, in piedi in mezzo alla cucina. Mi osservarono per qualche secondo stupiti e confusi, poi, dopo aver scambiato qualche parola tra di loro, Brandon si avvicinò a Ryan, senza smettere di lanciarmi strane occhiate.
«Ryan, nessuno di noi è entrato in casa sua».

 
 
 
 
Salve ragazze!
Allora, ecco qui il nuovo capitolo.
Intanto mi scuso per le note assenti del precedente, ma avevo pubblicato davvero di frettissima. Riguardo a quel capitolo ci tenevo a dire che non sono un medico e quindi, nonostante abbia fatto ricerche, spero perdonerete eventuali errori. So però che di solito una ferita all'arteria femorale causa la morte per dissanguamento, per questo Lexi era sollevata nel vedere che tutto era apposto e c'era solo una ferita profonda.
Per quanto riguarda Ryan e il suo chiamare 'topo' il malcapitato che viene derubato da loro... quello l'ho inventato di sana pianta, mi serviva qualcosa che potesse far capire quanto si sentiva in trappola il malcapitato.
In questo capitolo invece... ancora una volta, non sono un medico (non ho acquistato nessuna Laurea in Medicina da una settimana all'altra e mai lo farò) e quindi le mie informazioni si basano solo su Internet e qualche corso di Anatomia. So però che le coste sono soggette a fratture durante le lotte e che un metodo per capire se è rotta è quello di tossire o far girare il busto (se la frattura è scomposta la costa rotta si muove in direzione contraria).
Il Phoenix nel Bronx non esiste, mi serviva un locale sotto la giurisdizione degli Eagles e non ho cercato nessun locale, l'ho inventato, in ogni caso credo non sia poi così difficile l'esistenza, visto che è un normale e sudicio pub.
Come al solito vi ringrazio per le bellissime parole che spendete per questa storia ogni volta e vi ringrazio per inserire Ryan e Lexi tra i preferiti/seguiti e da ricoradare. E grazie anche alle coraggiose che hanno inserito questa pazza tra gli autori preferiti.
Per quanto riguarda lo spoiler di Dollar che avevo inserito nel gruppo... mi scuso, ma non c'è stato in questo capitolo, o sarebbe risultato ancora più luuuungo e pesante. Poco male, uno spoiler in più del capitolo 8! :)
Vi ricordo che se volete iscrivervi al gruppo spoiler, lo trovate qui: Nerds' corner. E' gratis e non vi chiedo codici IBAN.
Alla prossima settimana.
Un bacione!

 


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Capitolo 8
*** Guns & Shower ***


YSM
 
 
Ad Ale, Chiara, Cris ed Elle. Perché mi sopportano, anche troppo, e perché probabilmente, senza di loro, il capitolo non sarebbe qui. <3
 
 
 
«Come hai detto?». Ero stupita, sul serio: Brandon non stava assolutamente scherzando ma sembrava piuttosto preoccupato che qualcuno fosse entrato in casa mia. Li guardai a uno a uno, leggendo nei loro volti lo stesso identico sguardo confuso. Non avevano cercato né zucchero né sale, non si erano intrufolati in casa mia per farmi uno scherzo. Ma se non era stato qualcuno di loro, allora chi aveva violato la mia privacy, facendo irruzione nel mio appartamento?
Indietreggiai di un passo, cercando un mobile che potesse sostenermi: l’idea che qualcuno di estraneo fosse entrato in casa mia, rovistando tra le mie cose, mi faceva girare la testa.
«Ehi, Lexi» mormorò Brandon, correndo verso di me e sorreggendomi, proprio mentre sentivo le gambe diventare molli. Le sue braccia forti si appoggiarono ai miei fianchi, sostenendomi e trascinandomi verso il divano, dove mi distese.
No, perché mi aveva fatta distendere sul divano? Dovevo andare a casa e controllare che tutto fosse apposto, che non avessero preso niente, che non mi avessero rubato i… «I soldi» strillai, mettendomi a sedere di scatto per poi alzarmi e correre verso la porta, prima che qualcuno mi appoggiasse le mani sui fianchi, fermandomi. Non mi voltai nemmeno per guardare chi fosse, non mi interessava. Era casa mia, c’era tutto quello che per me aveva un significato. «Lasciami» protestai, cominciando a muovermi. La presa era salda e sicura, tanto che i miei piedi smisero di toccare il pavimento, mentre scalciavo. Chi diamine mi stava costringendo a rimanere lì?
Mi voltai, percorrendo le braccia ricoperte da tatuaggi e, non appena incontrai il suo volto, parlò: «non fare cazzate, lentiggini. Calmati, tu rimani qui». Ryan tornò a farmi sorreggere dal pavimento, tenendo le sue mani sui miei fianchi perché non potessi scappare. Come potevo anche solo pensare di farlo? Mi avrebbe raggiunta in un paio di passi e sarebbe stato benissimo in grado di caricarmi in spalla e legarmi al letto perché non scappassi.
«Voglio solo sapere se hanno rubato qualcosa» spiegai, cercando di calmarmi. Non ero così stupida da provare a scappare, non con cinque persone alte due metri lì vicino a me. D’accordo, quattro persone e mezza, se contavo la gamba di Sick che non gli permetteva di muoversi liberamente.
«Lexi, potrebbero essere ancora dentro casa, se sono dei ladri potrebbero farti male, non essere sciocca». Di nuovo Brandon, a preoccuparsi per me. Sapevo che era la verità, ma non volevo cedere: era casa mia, non mi interessava prendermi un nuovo pugno sul naso da qualcuno.
«Che vengano a tirarmi un pugno! Che ci provino» sbottai, camminando di nuovo verso la porta, convinta di quello che stavo facendo. Cosa credevano, che avessi paura di qualcuno solo perché era un po’ più alto di me?
«Sta ferma, qui». L’ordine di Ryan, o almeno, la sua mano sul mio polso, mi costrinse a fermarmi con un piede già sul pianerottolo. Mi voltai, guardandolo: non stava ridendo, non si stava nemmeno prendendo gioco di me; semplicemente mi vietava di tornare a casa mia. «Non essere ridicola, lentiggini, ti stenderebbero con un pugno, anche un moscerino ci riuscirebbe. Stai qui, senza rompere le palle, e andiamo a controllare noi». Cominciava a perdere l’aria seria di poco prima, facendo nascere quel ghigno –che odiavo – sulle sue labbra. Voleva fare di testa sua, mettendo in pericolo la sua vita e quella dei suoi amici? Bene, non avrei di certo interferito con la sua scelta di morire.
«D’accordo». Incrociai le braccia sotto al seno e andai a sedermi sul bracciolo del divano, fingendo una calma che non possedevo. La verità era che, oltre alla paura di qualcuno ancora dentro casa mia, ero arrabbiata con Ryan, che credeva di avere potere anche su di me. Non riusciva a capire che io non ero parte degli Eagles? Era così difficile per lui pensare che non poteva comandare tutto e tutti?
Un rumore, proveniente dall’appartamento di fronte, ci fece immobilizzare tutti: il colpo si era sentito, tanto che anche Sick, ancora disteso sul divano, cercò di raddirizzarsi per capire da dove fosse venuto quel rumore sordo.
Ryan aprì la porta per dirigersi verso le camere, tornando subito dopo con un borsone scuro tra le mani. Lo aprì, senza parlare, tirando fuori un groviglio di stoffa scura che appoggiò delicatamente sopra al tavolo della cucina.
«Ryan, che cosa vorresti fare?» domandò Brandon, avvicinandosi a lui e sistemandosi al suo fianco, senza però aiutarlo a districare quel groviglio di stoffa. Quando Ryan estrasse una pistola, sussultai spaventata, rischiando di cadere dal bracciolo del divano sul quale ero seduta. Cosa ci faceva con una pistola dentro a un borsone? Perché aveva un’arma in casa? Il mio sgomento aumentò quando appoggiò sul tavolo davanti a lui altre quattro pistole.
Cinque, le pistole sopra a quella tavola erano cinque, ma ero quasi sicura che dentro a quel borsone ce ne fossero altre.
«Brandon, Dollar, Josh e Paul, prendete le pistole» ordinò Ryan, prendendone una in mano e controllando che dentro al caricatore ci fossero dei proiettili. Non avevo mai visto di persona quelle armi, ma vederle maneggiate con così tanta naturalezza mi terrorizzò. Indietreggiai, allontanandomi da Ryan e da quello che aveva in mano. Mi ero sempre immaginata una pistola come quelle che si vedevano nei vecchi film western, con il tamburo con i sei colpi disponibili. Quella che Ryan stava impugnando assomigliava più a un’arma dei telefilm polizieschi, dove in ogni episodio bisognava scoprire l’assassino. Quando Ryan caricò la pistola, sussultai spaventata: sembrava ancora più alto e spaventoso, con quell’arma in mano.
«Ryan, calmati, non sappiamo nemmeno che cosa è successo» cercò di farlo ragionare Brandon, avvicinandosi comunque a lui, senza prendere nessuna pistola in mano.

Dollar, obbedendo all’ordine di Ryan, camminava avanti e indietro, attorno alla tavola, come se fosse indeciso su quale arma prendere.
«Ryan, non saprei, per una volta vorrei avere la pistola più grande della tua» scherzò, aprendosi in un sorriso che increspò la cicatrice sulla sua guancia. Brandon cercò di soffocare una risata, mollandogli uno schiaffo sulla nuca per ammonirlo; Sick invece, disteso sul divano, si fece sentire con una sonora risata che contagiò anche Josh e Paul.
«Prendi quella fottuta pistola e mettici dentro quei fottuti proiettili, cazzo» sbottò Ryan, spegnendo le risate di tutti quanti. I ragazzi presero una pistola a testa, senza badare troppo a quale avessero scelto, e seguirono Ryan, che si era avvicinato alla porta, aprendola.

Sussurrò ai ragazzi qualcosa che non riuscii a capire, ma li vidi annuire; avanzarono, dividendosi poi una volta arrivati davanti alla porta del mio appartamento: Brandon e Dollar a destra e Josh e Paul a sinistra. Ryan spalancò la porta con un calcio, tenendo le braccia tese in avanti, con la pistola stretta tra le mani. Pochi istanti dopo, Brandon, Josh, Paul e Dollar lo seguirono, entrando in casa mia senza fare rumore.
«Lexi, chiudi la porta» consigliò Sick, facendomi sussultare per la sorpresa: ero così impegnata a guardare Ryan e gli altri che non mi ero più ricordata di lui. «Chiudila» ripeté, strisciando sul divano perché potessi vedere il suo volto. Non era una battuta con qualche possibile sfondo sessuale, semplicemente mi stava ordinando di chiudere la porta, ma perché? Obbedii, socchiudendo l’uscio e avvicinandomi a lui, mentre, nervosamente, cominciavo a mordicchiarmi l’unghia del pollice, sovrappensiero.
«Sick, e se c’è qualcuno in casa mia, che succede?» chiesi, non riuscendo a calmarmi. L’idea che Dollar, così giovane, potesse ferirsi a causa mia non mi allettava. E, per quanto potessi odiarlo, non mi piaceva neanche l’idea di avere la vita di Ryan sulla coscienza.
Sick si sistemò meglio, cercando di mettersi a sedere, poi, dopo aver sbuffato per il dolore o forse per la mia domanda, cominciò a dire: «Se dovesse esserci qualcuno di là, te ne accorgeresti. Si sono presi anche i silenziatori?» si informò, guardandomi, in attesa di una risposta. I silenziatori? Non sapevo nemmeno che forma avessero, come potevo sapere se li avevano presi? Probabilmente notando la mia confusione, Sick continuò: «Allora non ti preoccupare, li sentirai se qualcosa andrà storto, e spero proprio di no, visto che non vorrei perdermi tutto il divertimento» ghignò, indicandosi la gamba fasciata. Non sembrava nemmeno preoccupato per le sorti dei suoi compagni; non sapevo se fosse totale disinteresse verso di loro o troppa stima e sicurezza per un esito positivo.
«Non ti interessa se qualcuno di loro muore?». Ero davvero sconvolta dalla sua tranquillità. Non riuscivo a capire come potesse rimanere seduto su quel divano senza agitarsi per la possibilità che uno dei ragazzi con cui divideva l’appartamento potesse morire. Dannazione, lo ero io che li conoscevo da meno di un mese!
«So che non accadrà. Ryan sa cosa fare in ogni situazione, e fino a quando c’è lui a capo di tutto e Brandon gli guarda le spalle, so che non succederà nulla. A proposito, che giorno è oggi?» concluse, tastandosi le tasche dei pantaloni rotti, come se stesse cercando qualcosa.
«Il… il due luglio, perché?». Ryan e gli altri non erano ancora tornati e lui si preoccupava di sapere che giorno era? Cominciavo a capire perché si chiamasse Sick – ero sicura che non fosse il suo vero nome.
«Quel porco di James Deen! Oggi esce il trailer del suo film. Lexi, prendimi il PC, devo assolutamente vederlo, è con la gnocca con i capelli rossi» esclamò, agitandosi sul divano per cercare di guardare dove fosse quello di cui aveva bisogno.
Trailer di film porno? Esistevano anche i trailer dei film porno? E cosa, esattamente, facevano vedere? Credevo che tutti i film, bene o male, avessero le stesse scene dentro. Insomma, cambiavano le posizioni, ma la sostanza era sempre quella.
«Muoviti Lexi! Avrei dovuto vederlo stamattina. Come ho potuto dimenticarlo?».
Era decisamente melodrammatico, soprattutto quando, imprecando contro se stesso per quella dimenticanza, cominciò a tirare pugni sul cuscino del divano, sfiorandosi, a ogni gesto, la gamba ferita. Mi guardai attorno, cercando un PC per poterglielo dare. Certo non ero affatto curiosa di sapere come fosse fatto un trailer di porno; la domanda nella mia mente era pressoché disinteressata, la riposta invece molto temuta.
«Ecco» mormorai, porgendogli il PC che avevo trovato sopra alla tavola, poco distante dal borsone contenente le pistole. Sick nemmeno mi ringraziò, impegnato com’era ad accenderlo e a tamburellare con le dita in attesa che finisse di caricare la pagina iniziale.
«Eccoci… andiamo…» borbottò, digitando velocemente l’indirizzo di un sito e sospirando estasiato. «Vuoi vedere anche tu, Lexi?» domandò, girando il volto verso di me, per essere sicuro di vedere la mia reazione. Se quella domanda me l’avesse posta Ryan, ci avrei visto sicuramente un motivo per prendermi in giro, ma Sick… lui voleva solo essere gentile e condividere la sua felicità con me, per questo non riuscivo ad arrabbiarmi con lui, perché mi sembrava di vedere un bambino davanti all’entrata di Disneyworld.
«No, no. Grazie lo stesso, non mi interessa molto». Cercai di liquidare la faccenda, allontanandomi dal divano per non sentire strani rumori, ma soprattutto per cercare di captare qualcosa di quello che stava succedendo nel mio appartamento. Per questo sussultai spaventata quando sentii la porta aprirsi: Dollar, il primo a entrare, era senza lividi o sangue in faccia, e lo stesso per gli altri ragazzi. Sospirai, sollevata. Per fortuna nessuno di loro era ferito.
«Non c’è nessuno, ma ti hanno messo sottosopra la casa. Dovresti vedere se ti hanno rubato qualcosa, ma non ti consiglio di chiamare la polizia» spiegò Ryan, avvicinandosi ai divani per controllare cosa stesse facendo Sick. Poi, senza badare a me o spiegarmi altro, si sedette lentamente, stringendo un pugno senza però lamentarsi: ero sicura che fosse la costa che gli doleva. «Che cazzo stai facendo, Sick? Hai una faccia da idiota» ghignò poi, cercando di colpirlo con un pugno, senza però riuscirci: era troppo distante e con tutta probabilità non voleva alzarsi.
«Il trailer del film di James. È… dovete vederlo, sarà il miglior film in assoluto, sì». La voce di Sick era quasi comica, sembrava parlare come se avesse un nodo in gola, tanto che tutti i ragazzi cominciarono a ridere, mentre Brandon raccoglieva le pistole di tutti per riportarle dentro al borsone.
«Dici così ogni volta Sick, ormai sappiamo tutti che non è vero» scherzò Brandon, mentre Paul e Josh annuivano, dandogli ragione. Erano rilassati e tranquilli, come se per loro fosse normale sistemare le armi dopo essere entrati in casa mia, per controllare che non ci fosse nessuno.
«Io… non vorrei disturbarvi e mi dispiace interrompere questo momento, ma vorrei sapere se posso tornare a casa mia, per controllare se hanno rubato qualcosa» bisbigliai, sistemandomi nervosamente un ciuffo di capelli dietro la schiena, perché all’improvviso si erano tutti voltati a guardarmi. Essere così al centro dell’attenzione, senza nessuno di fianco non mi piaceva, mi faceva sempre sentire a disagio e ricordai di aver provato la stessa sensazione quella mattina, appena entrata al Phoenix.
«Ryan, perché non le diamo una pistola? Così almeno se ha bisogno di qualcosa può difendersi» propose Dollar, come se fosse stata una grande idea.
«Cosa? No». Una pistola, a me? Io che non sapevo nemmeno come si sparava. Io che avevo il terrore di quelle armi, anche quando, alle giostre di primavera, le mettevano per far impazzire i ragazzini. Odiavo le armi, erano pericolose.
«Dagli la Rivoltella. Le va più che bene» sbadigliò Ryan, stiracchiandosi sul divano senza muoversi troppo. Rivoltella? Che cos’era?
Brandon cercò qualcosa dentro al borsone e, dopo aver preso una pistola piccola, si avvicinò a me con un sorriso: «Tieni, Lexi» mormorò, porgendomi l’arma che istintivamente presi tra le mani. Se prima mi sembrava piccola, quando sentii il suo peso e la vidi tra le mie mani, mi accorsi che non lo era. «Calibro trentotto, è una Smith & Wesson modello 60. Cinque colpi, semplice da usare e la puoi nascondere in borsa, così sarai sempre armata. Consideralo un regalo di benvenuto da parte nostra» concluse, con un sorriso sulle labbra che risaltava tra gli zigomi ancora segnati dalla lotta della sera prima.
Una pistola, come benvenuto? Cordiale da parte loro, visto che ero sicura fosse costosa, ma non mi interessava proprio per niente.
«Io… vi ringrazio per il pensiero, ma credo non mi interessi». Non mi avevano mai insegnato a rifiutare una pistola come regalo e non ero nemmeno sicura che ci fosse un modo giusto per farlo. Semplicemente mi sarei spaventata di me stessa; se avessi portato con me un’arma non mi sarei più riconosciuta nei miei valori. «Ora vado a controllare i danni» mormorai, cominciando a gesticolare ancora con la pistola in mano, visto che Brandon si era allontanato da me per finire di sistemare la tavola.
«Oh, lentiggini, abbassala. È carica, se vuoi uccidere qualcuno fallo con i Misfitous, cazzo» sibilò Ryan, alzandosi e raggiungendomi in pochi passi. Prese la pistola dalle mie mani, aprendo il tamburo e togliendo i proiettili che c’erano dentro. «Tieni, ora gioca a fare la dura». Mi restituì l’arma, richiudendola con un rumore sordo.
«No, non la voglio» ribattei, tendendo le braccia verso di lui, perché potesse riprendersi la pistola. Cominciò a ridere, tenendosi una mano sulla costa che gli doleva, poi, dopo aver guardato Brandon e Dollar, si incamminò verso il mio appartamento, lasciandomi davanti alla porta aperta, ancora con l’arma in mano. «Ti ho detto che non la voglio» sbottai, entrando in casa mia, ma bloccandomi subito: era semplicemente un disastro, tutto era fuori posto. I cuscini del divano erano sparsi per tutta la stanza, ogni anta dei mobili della cucina gialla era aperta e c’erano delle pentole sparse per il pavimento e sui fornelli. Non riuscivo nemmeno a parlare, men che meno a muovermi.
Qualcuno era entrato in casa mia, aveva toccato e spostato le mie cose. Avanzai lentamente verso il corridoio, spaventata da quello che probabilmente avrei visto. Quando arrivai in camera, prima di svoltare l’angolo per entrare, socchiusi gli occhi respirando a fondo per calmarmi, ma, alla vista di tutti i miei vestiti sparsi per il pavimento e dei cassetti della biancheria aperti e mezzi svuotati, non riuscii a trattenermi e fui costretta a correre in bagno, senza nascondere i conati di vomito per poi tirare lo sciacquone. Mi rinfrescai il viso, guardandomi attorno nel piccolo bagno: la tenda della doccia, quella che avevo portato da Los Angeles perché aveva delle tavole da surf disegnate, era a brandelli, sparsa sul pavimento. Il mobiletto con le medicine era aperto e alcuni flaconi erano sparsi tra il lavandino e il pavimento, così, mi avvicinai per controllare che non avessero aperto quello che conteneva una parte dei soldi che mi ero portata da casa. Sospirai sollevata, quando mi accorsi che non li avevano rubati, probabilmente perché non avevano avuto il tempo di guardare dentro a tutti i barattoli.
«Ti hanno rubato i soldi?» domandò Ryan, entrando nel bagno che a causa della sua presenza vicina sembrò ancora più piccolo. Sbirciò dentro alla confezione, come per assicurarsi che non stessi mentendo. Quella parte di risparmi non era stata toccata, temevo però per l’altra metà, quella che avevo nascosto in camera.
«Questi sono più di cinquecento dollari, ma non li hanno nemmeno visti, credo. Però ne ho altri in camera» mormorai, scansando Ryan e lasciando un’ultima occhiata ai pezzi di tenda: me ne serviva un’altra, sicuramente. Non potevo farmi la doccia senza tenda per sempre, o avrei rovinato il bagno.
«Forse quelli in camera li hanno presi, lì c’è un disastro» spiegò Brandon, seguendomi poi in silenzio mentre entravo nella stanza, fermandomi subito, perché mi veniva di nuovo da vomitare: i miei vestiti sparsi ovunque, l’armadio aperto e tutti i cassetti ribaltati per terra; la mia biancheria sparsa sul pavimento e sul letto. Cercai di respirare a fondo di nuovo, avvicinandomi all’armadio per controllare che non avessero preso i soldi.
«Non ci sono» mormorai, atona, quando mi accorsi che la scatola da scarpe era sparita. Avevano rubato quasi cinquecento dollari, praticamente metà dei miei risparmi. Eppure non riuscivo a pensare in modo ragionevole, come se non mi rendessi totalmente conto di quello che era successo, perché continuavo a guardare la stanza messa sottosopra, ricordando che qualcuno aveva toccato le mie cose senza permesso. «Devo lavare tutto quanto» spiegai, cominciando a raccogliere i vestiti sparsi per la stanza per andare in bagno. Sentivo gli occhi dei ragazzi puntati contro, ma non mi interessava: lenzuola, intimo, vestiti… tutto sarebbe finito in lavatrice, a costo di rimanere con quella maglia addosso per una settimana. E dovevo anche fare le pulizie, lavare il pavimento e tutti i mobili.
«Se hai bisogno chiama. Ragazzi, andiamo» borbottò Ryan, incamminandosi verso la porta di casa senza chiedere se in quel momento mi servisse qualcosa. Lo ringraziai mentalmente per quel gesto, andando poi in bagno e riempendo la lavatrice con tutti i vestiti che ci potevano stare. Non mi ero accorta però, che qualcuno mi aveva seguita.
«Doc, posso chiederti una cosa? So che non è il momento, ma sono davvero preoccupato». Dollar, davanti a me, continuava a dondolarsi sui piedi, in evidente disagio. Annuii, senza interromperlo. «Ehm, il problema è che... insomma, Dio che vergogna, ma sei un dottore, no? Ok, andiamo dritti al dunque. Sono stato con Butterfly e... adesso il mio... coso è... così». Non mi lasciò nemmeno il tempo di capire di che cosa stesse parlando, perché si abbassò i pantaloni e i boxer, rimanendo nudo dalla vita in giù. Non aveva nemmeno chiesto il permesso, semplicemente si era spogliato, come se fosse normale per lui mostrarsi nudo a chiunque.
«Dollar!» strillai, cercando di non far vedere quanto mi imbarazzasse vederlo in quello stato. Dovevo essere professionale, giusto? Abbassai lo sguardo lentamente, arrivando alla fonte del suo problema, e schiarendomi la voce. Non ero sicura di quello che stavo vedendo, ma mi sembrava brutto abbassarmi per controllare meglio.
«Ti prego, dimmi che non morirò e che non è una malattia che si prende quando si... insomma...» bofonchiò, gesticolando imbarazzato. Quella situazione era davvero assurda, chiunque, se fosse entrato dalla porta in quel momento, si sarebbe fatto un’idea sbagliata. Ma Dollar mi aveva chiesto di essere professionale. Mi chinai leggermente in avanti, senza toccare nulla, e non riuscii a trattenere una risata, quando capii cosa lo preoccupasse così tanto.
«Dollar, è rossetto» spiegai, tornando a guardarlo in viso cercando di non ridere: tentai di soffocare la ridarella, ma fu impossibile. Quando poi cercò di dire qualcosa, la mia bocca si contorse in una smorfia divertita, così rinunciò.

Riaprì di nuovo la bocca, cercando di non arrossire, con scarsi risultati: «Ho appena fatto una gran figura di merda, vero?» domandò, piegando le gambe per indossare di nuovo i calzoni. Si portò una mano davanti agli occhi, evitando di guardarmi, probabilmente perché non riuscivo a nascondere quanto quella situazione fosse comica. La verità era che con quell’incomprensione, Dollar era riuscito a farmi dimenticare per qualche minuto quello che era successo in casa mia. «Bene, credo di poter tornare a casa. Grazie per il consulto medico e spero che questa cosa possa rimanere tra di noi, senza che altri vengano a sapere del mio… problema all’aquilotto» concluse, avvicinandosi alla porta prima che potessi replicare qualsiasi cosa. Quando sentii il rumore della serratura che si chiudeva, mi appoggiai alla lavatrice davanti a me, tenendomi una mano sullo stomaco per il troppo ridere.
Dollar, il piccolo Dollar – che tanto piccolo non era – si era denudato davanti a me perché credeva di avere qualche malattia strana, quando in verità era solo un po’ di rossetto. Non mi era mai capitata una cosa del genere, durante i miei turni al pronto soccorso di Los Angeles.
Quando, dopo qualche minuto, riuscii a riprendermi, il silenzio che c’era attorno a me, cominciò a ricordarmi cosa era successo, e, schiacciata dal peso di tutto, mi accasciai a terra, scivolando con la schiena contro la lavatrice. Chi poteva essere entrato in casa mia? Perché mi avevano rubato i soldi, lasciando tutto in disordine? Sapevano che gli Eagles abitavano nell’appartamento di fronte, chi era così stupido da tentare un furto proprio nel loro palazzo? Forse qualcuno che non lo sapeva, o qualcuno che ce l’aveva con me.
Ma soprattutto, chi sapeva dove abitavo? Avevo dato il mio indirizzo solo a John, ma mi rifiutavo di credere che fosse stato lui, visto che era rimasto sempre dentro al locale. Allora chi mi odiava così tanto da entrare in casa mia e rubare?
Frustrata e arrabbiata con me stessa per essere capitata in quel posto disperso e pieno di gente pazza, cominciai a pulire la casa, senza nemmeno guardare l’orologio; per questo, quando, dopo aver steso l’ultima lavatrice e aver finito di lavare il pavimento della mia camera per la seconda volta, guarda l’ora, mi stupii di vedere che erano le sette di mattina.
Per quante ore avevo risistemato e pulito casa? Con un rapido calcolo mi resi conto che avevo fatto tutto in meno di dodici ore, senza mai fermarmi e senza dormire.
«Cavolo» sbuffai, ricordando che John mi aspettava al Phoenix alle nove. Non potevo tardare il primo vero giorno di lavoro, non con John come capo, che avrebbe preso l’occasione al volo per licenziarmi. Non volevo dargli quella soddisfazione, piuttosto mi sarei licenziata io, nel momento in cui non mi fossero più serviti soldi. «Sei uno splendore» farfugliai ironica, davanti alla mia immagine riflessa sullo specchio del bagno: i capelli arruffati e tutti in disordine, le guance rosse per lo sforzo di pulire tutto e la fronte sudata. Mi serviva una doccia, subito.
Camminai in punta di piedi fino alla cucina, prendendo un paio di slip e un reggiseno un po’ più asciutti degli altri e, dopo essere ritornata in bagno, mi spogliai, lanciando i vestiti sporchi dentro al cesto.
Fantastico! Non avevo nemmeno una tenda per non bagnare tutto il bagno, visto che il ladro si era impegnato per rompere anche quella. Girai il rubinetto, lasciando che la stanza si scaldasse un po’ e, quando l’acqua diventò sufficientemente calda, feci un passo in avanti, permettendo al getto di massaggiarmi le spalle tese e la schiena. Inclinai anche il capo all’indietro, lasciando che l’acqua bagnasse i miei capelli e sbattesse contro al mio viso, come se potesse levare i segni di stanchezza.
Sorrisi, rimanendo sotto al getto d’acqua e soffiando fuori le gocce che mi entravano in bocca. Da piccola mi divertivo canticchiando, perché la voce che sentivo sotto al getto d’acqua era sempre distorta e assomigliava a quella di un alieno; in più mi sentivo isolata da tutto e tutti, in un mondo tutto mio.
«Perché cazzo non hai risposto?» strillò qualcuno, facendo esplodere la mia bolla privata e riportandomi nel mio piccolo bagno, a Whittier Street. Spalancai gli occhi confusa, togliendomi le gocce d’acqua dagli occhi che non mi permettevano di vedere chi avesse parlato. Quando ci riuscii, inorridii: Ryan, Dollar e Brandon erano davanti a me, con tre espressioni completamente diverse.
Improvvisamente, seguendo lo sguardo di Dollar, ricordai che ero nuda. «Uscite dal mio bagno» ordinai, portando un braccio a coprirmi il seno e accavallando le gambe perché non mi vedessero. Come se non l’avessi nemmeno detto, Ryan e Dollar rimasero a guardarmi; a differenza di Brandon che si girò, guardando dalla parte opposta. «Uscite» urlai di nuovo, indicando con una mano la porta, senza però perdere la mia scomoda posizione. Perché quei due idioti continuavano a guardarmi, senza scomporsi? Mi guardai attorno, cercando qualcosa con cui coprirmi: a pochi passi da me c’era l’asciugamano che avevo appoggiato sopra al lavello, ma se mi fossi mossa, mi avrebbero vista di nuovo nuda, e non mi sembrava una buona idea.
«Sto aspettando una risposta» ribatté Ryan, incrociando addirittura le braccia al petto. Ma era serio? Io ero nuda, davanti a lui, e voleva sapere perché non gli avevo risposto?
«Mi sto facendo la doccia, potreste uscire dal mio bagno, o almeno girarvi dall’altra parte che mi copro con l’asciugamano?» domandai esasperata. Con uno sbuffo infastidito Ryan girò il volto, guardando lo stipite della porta. Quando si accorse che Dollar, di fianco a lui, continuava a guardarmi divertito, gli lasciò una pacca sullo stomaco che lo fece gemere e subito dopo voltare dall’altra parte. Presi velocemente l’asciugamano, arrotolandomelo attorno al corpo come se fosse un vestito e tenendolo fermo con la mano. «Siete davvero gentili» sbottai, prendendo l’intimo in mano e nascondendolo dietro di me perché non potessero vederlo.
«Perché cazzo non hai risposto quando ti abbiamo chiamata? È da venti minuti che bussiamo alla porta, credevamo ti avessero rapita». Ryan tornò a guardare verso di me, seguito da Dollar e Brandon subito dopo, come se gli avessi dato il permesso.
«Perché mi stavo facendo la doccia. Scusa se non sento chi bussa, da qui» risposi sarcastica, spostandomi un ciuffo di capelli dal viso che mi solleticava una guancia.
«Non è una scusa, abbiamo scassinato la serratura» esplose poi, appoggiandosi con la spalla contro allo stipite della porta. Voleva che gli offrissi anche una tazza di tè per metterlo più a suo agio, forse? Brandon cercava di scusarsi con lo sguardo, senza però farsi vedere da Ryan; almeno lui non mi aveva guardata, dimostrando un po’ più di buon senso rispetto agli altri due.
«Sai Doc, non credevo fossi un tipo da tatuaggi. Un po’ esagerato, forse, ma carino» ammiccò Dollar, indicando con il mento il mio fianco coperto dalla spugna bianca. Si era accorto addirittura del piccolo disegno nero con un surfista che stava cavalcando un’onda buona? «Se potessi rivederlo di nuovo…» tentò, mentre prendevo il sapone e  cercavo di scagliarglielo contro per ferirlo; Dollar però riuscì a prenderlo al volo, ridendo ancora più forte del mio mancato tentativo di ferirlo.
«Puoi anche scoprirti, tanto sarebbe come vedere una bambina per quel poco che hai» ironizzò Ryan, facendomi ribollire il sangue nelle vene. Quel poco che avevo? Be’, almeno io non mi ero rifatta e non rischiavo che mi esplodesse il seno ogni volta che salivo su un aereo. Io rispettavo il mio corpo e se Madre Natura non mi aveva donato due grandi tette, era stata generosa con il mio cervello.
«Vaffanculo. E adesso uscite da casa mia, tutti e tre». Ero arrabbiata, di più, infuriata, perché si stavano prendendo gioco di me, perché offendevano il mio corpo.
Non ero insicura, non mi era mai interessato non avere molto seno o l’essere alta come un puffo: sapevo che in alcuni campi bastava essere intelligenti, non di certo con delle misure da modella.
«Che sboccata e scortese! E noi che volevamo solo invitarla domani. Potremmo anche ritirare l’invito, eh, Brandon?» ghignò Ryan, dando dei leggeri colpetti con il gomito allo stomaco di Brandon. Invitare me? Per andare dove?
«Dove?» domandai, sinceramente stupita. Perché volevano invitarmi? Ero quasi sicura di dover lavorare anche il giorno dopo, e non potevo chiedere un permesso a John il terzo giorno di lavoro.

«Domani è il quattro luglio. Di solito andiamo giù alla spiaggia, se ti va di fare un salto, mi piacerebbe rivedere bene quel tatuaggio» scherzò Dollar, sghignazzando. Il quattro luglio. La Festa dell’Indipendenza. Come avevo potuto dimenticare che il giorno dopo sarebbe stato il quattro luglio?
«Io… be’, grazie… è un pensiero davvero gentile da parte vostra» mormorai, imbarazzata. Mi sarebbe piaciuto passare la giornata in compagnia, piuttosto che rimanere chiusa in quella casa che cominciava a farmi paura. Non sapevo nemmeno se i negozi fossero aperti, a New York. Mi sembrava una buona alternativa passare una giornata al mare, sotto al sole di luglio di New York, perché sarebbero andati a Coney Island, no? «Andate a Coney Island, giusto?» mi informai, sperando di non fare figuracce con le mie scarse conoscenze di geografia del posto.
«Sì, lentiggini. Ma non si può fare surf, calma la tua adrenalina» mi derise Ryan, facendomi arrabbiare. Ogni volta che parlava era capace di risvegliare la parte più volgare e manesca che avevo, come se, per forza, dovessi tirargli un pugno per farlo tacere. Se, prima della sua battuta, ero felice di passare una giornata con loro, dopo aver sentito la sua ironia contro di me, avrei volentieri declinato l’invito.
«Grazie, accetto volentieri». Sorrisi, fingendomi molto più felice di quanto non fossi in realtà. Una giornata intera passata in compagnia di Ryan mi avrebbe sicuramente distrutta: non era così facile rispondere a tono alle sue continue frecciatine insulse. «Ora, se volete scusarmi, dovrei andare a lavorare» conclusi, sperando che potessero finalmente uscire da casa mia, lasciandomi il tempo di preparami prima di partire.
Ryan non rispose, mi girò le spalle, incamminandosi verso l’uscita, seguito subito dopo da Brandon che mi salutò con un cenno del capo. Dollar rimase per qualche istante sull’uscio, indeciso se dire o meno qualcosa. Poi, dopo aver sorriso, disse: «Adesso siamo pari, più o meno». Ammiccò e sparì dalla mia vista prima che potessi anche solo cercare qualcosa da scagliargli contro. «Ah» mormorò, ricomparendo sulla soglia, «questo è tuo». Lanciò qualcosa verso di me e istintivamente allungai le braccia per prenderlo tra le mani, dimenticandomi di tenere l’asciugamano che scivolò a terra, lasciandomi di nuovo nuda. «Sì, ora siamo pari» ghignò, sparendo ed evitando il sapone che avevo lanciato di nuovo verso di lui ma che andò a sbattere contro la porta.
«Idiota» urlai, causando una sua risata prima di sentire il rumore della porta di casa che si chiudeva.

 
 
 
 
 
 
Buongiorno ragazze!
prima di tutto mi scuso per l’imprecisione nel capitolo scorso, dove chiamavo ‘costole’ quelle che in verità, nell’uomo, sono ‘coste’. Scusate ancora, ma come ho già detto non studio medicina e affini e quindi non so sempre la terminologia esatta. Posso assicurare che negli animali si chiamano costole :P

Comunque ho corretto tutto nel capitolo precedente e qui devo aver parlato solo di coste.
Poi poi poi… diciamo che è un capitolo di passaggio e leggero, perché il prossimo sarà un po’ più descrittivo e soprattutto storico. Ci sarà la storia delle gang americane, per farvi capire come sono nati gli Eagles, ci sarà la storia di Ryan e Brandon e forse anche di Sick.
Insomma, vorrei però dire che non mi sono dimenticata di chi è entrato in casa di Lexi, non preoccupatevi! :)
Come sempre mi scuso per il linguaggio di Sick, se ha irritato/infastidito qualcuno non l’ho fatto volontariamente, ma vi ricordo che la storia ha rating arancione e l’avvertenza non per stomaci delicati. Siccome il rosso è per le scene di sesso descrittivo, e qui non ci sono, non credo che per un paio di parolacce e battute idiote ci sia bisogno di alzare il rating.
Le pistole… non so molto, la mia conoscenza si basa su ricordi di quando ero piccola e ho usato Wikipedia per rinfrescarmi la memoria. La pistola di Lexi esiste, è una pistola piccola e maneggevole, scomoda se si deve combattere negli scontri a fuoco perché ha solo 5 colpi, a differenza delle semiautomatiche di Ryan, che sono come quelle dei poliziotti di CSI, per capirci, con il caricatore da sotto.
Per la scena della strana malattia di Dollar, mi sono ispirata alla scena di un film che amo, dove però l’esperto era proprio Dollar! :P
La reazione di Lexi a quello che le è successo… mmm, non so spiegare il perché abbia reagito in modo così… strano, sinceramente. Ma sono convinta che non si è totalmente resa conto di aver subito una rapina, ma ripeto: questo aspetto sarà ripreso più avanti.
Coney Island è una spiaggia famosa che si trova a Manhattan, famosissima soprattutto per il suo luna park.
Infine, la doccia… devo davvero dire qualcosa per questa scena così scema? Chi è nel gruppo sa che ce l’avevo in mente da mesi e… niente! :P
Siete pronte per il prossimo capitolo, per chiarire una volta per tutte cosa è Ryan, perché tutti hanno paura di lui, la storia degli Eagles, di Ryan e Brandon? Spero di sì, ma vi avverto: armatevi di caffè e Poket Coffee per rimanere sveglie! :)
Grazie ancora a chi inserisce la storia tra i preferiti, seguiti e da ricordare, a chi legge e a chi recensisce!
Vi ricordo il gruppo spoiler: Nerds’ corner.
A presto!

 


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Capitolo 9
*** Eagles & Ryan's Story ***


YSM
 
 
Spiaggia.
Questo era il mio pensiero costante da quando Ryan mi aveva parlato di Coney Island. Perché il mare era la mia casa: i piedi immersi nella sabbia e il profumo di salsedine. Non avevo mai considerato Los Angeles come la mia vera casa, l’oceano, quello sì. Perché con la sensazione dell’acqua che mi bagnava la pelle e il rumore delle onde che mi trasportava in un altro mondo mi sentivo tranquilla. Non ne avevo mai fatto mistero, mai.
Per questo ero elettrizzata dall’idea di ritornare, in qualche modo, a casa. Non era l’oceano ‎Pacifico, ma mi sarei accontentata.
«Ciao Alexis» salutò Aria, non appena entrai al Phoenix. Cercavo di non dare l’idea di avere la testa tra le nuvole, ma era inutile, visto che continuavo a sorridere come una stupida. Il pensiero di quello che sarebbe successo il giorno dopo bussava alla mia testa ogni tre secondi.
Sorrisi, dimostrandomi gentile ed educata con lei, che sembrava l’unica persona vera, in quel posto di pazzi e squilibrati. Sentivo la mancanza di un’amica, e non mi sarebbe dispiaciuto avere a fianco una persona abituata ai comportamenti degli Eagles, e che sapeva come prenderli. Poteva essere solo una del posto. Qualcuna con cui non avere segreti e poter sparlare; insomma, qualcuna di cui fidarmi. In fondo, ragionai, se Aria stava in quel posto, voleva dire che era in qualche modo legata agli Eagles, e chissà perché poi.
«Era tanto in disordine?» mormorò, riscuotendomi dai miei pensieri e avvicinandosi a me; si guardava  attorno, sembrava aver paura che qualcuno potesse sentirla. Non riuscivo a capire a cosa si stesse riferendo e probabilmente riuscì a comprenderlo dalla mia espressione, perché si fece più vicina, sfiorandomi l’orecchio con le labbra: «Il tuo appartamento, era tanto in disordine? Ti hanno rubato molto?». Come faceva a sapere che dei ladri erano stati in casa mia e che mi avevano rubato i soldi? Chi poteva averle detto quello che era successo? Cercai un modo carino per chiederle come fosse venuta a saperlo, ma mi anticipò, ammiccando verso di me. «Ryan, Brandon e Dollar sono venuti qui un paio d’ore fa. Erano abbastanza arrabbiati e credo che se non ci fosse stato Brand, Ryan non si sarebbe controllato così tanto. Ha urlato contro John dicendogli che ti portata qui non per fare in modo che ti distruggesse la casa. John ha detto che lui non c’entrava nulla, ma nessuno gli ha creduto. Nemmeno io ci credo. Ti ha chiesto l’indirizzo?» continuò, cominciando a lavare qualche boccale di birra sporco, per liberare un po’ il lavandino.
L’indirizzo? Sì, John mi aveva chiesto l’indirizzo ma… no, mi rifiutavo di credere che fosse stato John a conciare casa mia come una discarica e che mi avesse preso i soldi. John era rimasto tutto il giorno al locale  e non si era allontanato. Come poteva essere stato lui? Perché mi odiava così tanto da rubare ed entrare in casa mia?
«Sì, lui… lui mi ha chiesto l’indirizzo, ma…» balbettai, confusa da quello che Aria mi aveva fatto notare. Mi interruppe subito con un gesto della mano: John in arrivo. Il viso tirato, due occhiaie profonde e flaccide; doveva essere stanco e parecchio teso. Nonostante l’aria da viscido, non riuscivo a convincermi che lui fosse collegato alla messa a soqquadro del mio appartamento.
«Mi dispiace per quello che ti è successo, ti hanno rubato tanti soldi?» si informò, cercando di dimostrarsi gentile. Quel comportamento sembrava costargli un grosso sforzo, perché continuava a tamponarsi la fronte sudata, guardandosi attorno in modo nervoso.
E se Aria avesse avuto ragione? Se fosse stato davvero lui a entrare in casa mia?
«Sì, mi hanno rubato tutti i risparmi» mentii, cercando di sembrare molto più arrabbiata e triste di quanto non fossi. Non dovevo ricordare Coney Island, o avrei cominciato a ridere come un’idiota.
«Quanto avevi?» si informò John. Quanta premura da parte sua! Ero stata assunta il giorno prima, ma sembrava che fossi una sua amica di vecchia data. Un comportamento decisamente opposto rispetto a quello del giorno prima. Sembrava quasi dispiaciuto per me, un po’ troppo dispiaciuto.
«Cinquecento dollari che mi servivano per pagare l’affitto il prossimo mese». Che era le verità, o quasi: avevo ancora da parte cinquecento dollari, ma, se John non mi avesse pagato come aveva già annunciato, non sarei riuscita nemmeno a racimolare qualche dollaro per la spesa.
«Speriamo di riuscire a pagare tutti questo mese» tagliò corto lui, allontanandosi subito da me e Aria, senza aggiungere altro. Di sicuro John era un personaggio strano; personaggio che forse avrei imparato a conoscere. Aria mi lanciò un’occhiata ammonitrice intimandomi di non fiatare.
Così, passai le dieci ore successive a spinare birre offrendole ai clienti mezzi ubriachi che ridevano quando non riuscivano a mandare nemmeno una palla in buca, durante una partita a biliardo. Avevo imparato a riconoscere qualche volto e qualche nome, urlato troppo spesso tra un’imprecazione e l’altra: c’era Nick con Bradley, c’era Tony con Steve. Tutti ragazzi che sembravano divertirsi davanti a un biliardo e una birra. Ma c’erano anche i due uomini che avevo visto il giorno prima, quelli che avevano parlato con John e poi se ne erano andati. Loro non sembravano socievoli come gli altri ragazzi, anzi: rimanevano a un tavolo da soli, parlando a bassa voce e interrompendo il discorso ogni volta che qualcuno si avvicinava a loro o passava di fianco.
Aria era stata chiara e e io mi trovavo d’accordo con lei. Al Phoenix c’era una sola regola: non fare domande, sorridi e porgi il boccale di birra. Ed era esattamente quello che avevo fatto: mi ero dimostrata socievole e felice, nonostante tutto quello che mi era successo.
«John, sono le sette, posso tornare a casa?» domandai, avvicinandomi a lui, mentre mi pulivo le mani sul grembiule bianco. John stava pulendo con uno straccio un tavolino sporco di birra e sigarette mezze fumate, tanto che non mi guardò nemmeno.
«Ci vediamo dopodomani. Ciao» sbottò, stupendomi. Dopodomani? Feci qualche calcolo mentale. Quattro luglio. Ma il quattro luglio credevo che il locale rimanesse aperto.  Il giorno dei fuochi d’artificio sarebbe stato deleterio chiudere il locale. Perché quindi non dovevo andare a lavorare?
«Domani il locale rimarrà chiuso?». Ero stupita, e si poteva capire anche dalla mia domanda. John smise di strofinare il panno lurido contro il legno e si rivolse verso di me: finalmente un po’ d’attenzione!
«No, domani hai il giorno libero, per questa settimana». Tornò a fare quello che stava facendo, ignorandomi.  Avevo capito il concetto; il discorso per lui poteva dirsi concluso. Sembrava che, per una volta, gli interessasse davvero la pulizia di quel tavolo. Io però, ero convinta che fosse solo uno stupido pretesto per non parlarmi.
«Oh, be’… grazie. A dopodomani, allora» mormorai felice, allontanandomi da lui per andare a salutare Aria: stava sistemando gli scatoloni vuoti nel retro. Era così concentrata in quello che stava facendo che, quando parlai, gridò spaventata.
«Aria, io domani non ci sono, John ha detto che per questa settimana ho la giornata libera. Non so perché, ma va benissimo» esultai. Felice, la abbracciai di slancio, stupendola non poco. La sentii ridacchiare infatti, un po’ impacciata dal mio gesto forse troppo avventato, ma rispose alla stretta.
«Non è ancora così scemo. Divertiti domani» mormorò, una nota triste nella voce che cercò di mascherare con un sorriso che non riuscì a raggiungere i suoi grandi occhi castani. Sembrava volesse dirmi qualcosa, ma continuò a guardarmi in silenzio, forse aspettando che fossi io a parlare per poi andarmene.
«Buona giornata anche a te, ci vediamo». La abbracciai di nuovo, prima di scappare fuori da quel locale ancora con il grembiule addosso. Quando svoltai l’incrocio e lo notai, dovetti tornare indietro per toglierlo. Rientrai dentro al locale e trovai John a guardarmi confuso e spaventato, come se avesse paura di me; così, per fargli capire perché ero tornata, sventolai il grembiule, sicura che con tutta la confusione che c’era non mi avrebbe sentita parlare, se l’avessi fatto. Capì subito perché fossi ritornata al locale e fece un mezzo sorriso, ritornando poi a parlare con i due ragazzi che rimanevano sempre a quel tavolo all’angolo da soli.
Uscii dal Phoenix con un sorriso e una strana sensazione; come se non avessi dovuto tornare indietro. Una cosa stupida, certo, a cui evitai di prestare attenzione perché sapevo che se ci avessi pensato troppo mi sarei intestardita. Per questo, quando svoltai l’incrocio di Whittier Street e Randall Ave, mi stupii di trovare Ryan e Brandon parlare con qualcuno. Stavo quasi per chiamarli, quando, guardando meglio davanti a me, mi accorsi che Ryan teneva il ragazzo sollevato da terra con una mano, mentre con l’altra puntava qualcosa contro il suo collo. Qualcosa che risplendeva, sotto la luce del lampione.
Rimasi in mezzo al marciapiede immobile, paralizzata dalla paura. Ryan, lo stesso che faceva l’idiota quando mi vedeva, aveva un coltello –o qualcosa di simile –puntato alla gola di un uomo; Brandon invece, che di solito era sempre così calmo e rispettoso, caricò il braccio, dando un pugno sullo stomaco al ragazzo. Perché si stavano comportando così? Che cosa aveva fatto per essere picchiato in quel modo?
Nonostante la scena fosse davvero spaventosa, non riuscivo a muovermi, paralizzata com’ero dalla paura. Continuavano a tenerlo sollevato da terra, tirandogli pugni sullo stomaco, come se fosse stato un sacco da boxe.
Brandon, all’improvviso, guardò verso di me, fermando il braccio una manciata di centimetri prima dello stomaco di quello sconosciuto. Mi sembrò quasi di vederlo dire qualcosa a Ryan, visto che anche lui si girò subito a guardare verso di me, per poi portare velocemente la mano con l’arma in tasca. Si avvicinò al volto del ragazzo, mormorandogli qualcosa prima di spingerlo con forza a terra, tirandogli un calcio subito dopo.
«Ehi, lentiggini» ghignò Ryan, avvicinandosi a me, assieme a Brandon. Non badò al ragazzo che si rialzò e corse via, tenendosi una mano sullo stomaco. Si stavano avvicinando sempre di più, Ryan con il cappuccio della felpa scura calato in testa e una sigaretta accesa tra le labbra.
«Non, non toccarmi» mormorai, indietreggiando di un passo e trovandomi con le spalle al muro. Ero in trappola, senza una via d’uscita. Ryan e Brandon erano davanti a me, con un sorriso stampato sui loro volti. Sembrava che non fosse successo nulla, non si erano accorti che avevo visto quello che avevano fatto a quel povero ragazzo? E se avessero picchiato anche me? Se mi avessero uccisa? Nessuno sapeva che ero lì, sarei semplicemente risultata dispersa, magari si sarebbe sparsa la voce che ero in vacanza e nessuno mi avrebbe cercata.
«Lexi, non è come sembra» cercò di spiegare Brandon, avvicinandosi cautamente a me: probabilmente non voleva spaventarmi, visto che teneva anche le mani alzate, per farmi vedere che non aveva armi con sé. Non ci stava riuscendo, però: ero terrorizzata, li avevo appena visti aggredire un uomo innocente e fingevano che non fosse successo nulla. Sì, Ryan mi aveva detto che aveva ucciso, ma vederlo con i miei occhi, mentre lo faceva, era decisamente spaventoso.
«Avete aggredito un uomo» urlai, sentendo le lacrime pungermi gli occhi per uscire. Perché stavo reagendo in quel modo idiota e stupido? Perché mi sentivo… delusa, come se in qualche modo avessi sempre accantonato l’idea di quanto fosse pericoloso Ryan. Averlo visto con i miei occhi, aver notato quanto Brandon fosse minaccioso, rendeva tutto reale, troppo. Talmente reale che cominciavo a spaventarmi sul serio. Ero da sola, in una strada deserta, con due teppisti.
«Ci ha preso in giro, gli serviva una lezione. Ma l’hai visto anche tu, è vivo, no?». Di nuovo quel ghigno che sembrava renderlo felice. Ryan era la tranquillità fatta a persona mentre si avvicinava a me, spegnendo la sigaretta ormai quasi finita.
Socchiusi gli occhi, cercando di non esplodere lì, davanti a loro. Volevo tornare a casa, rintanarmi in un posto sicuro che non mi ricordasse dov’ero capitata. Volevo staccare la spina dal Bronx e da tutto quello che mi era successo da quando ci avevo messo piede per la prima volta.
«Lexi, va tutto bene, siamo noi». Brandon fece un altro passo in avanti, intrappolandomi ancora di più contro il muro. In trappola, ecco com’ero, e non potevo scappare, non con Brandon davanti a me, che si avvicinava lentamente. Ma soprattutto non ce la potevo fare, con le lacrime che cominciavano a scendere lungo le mie guance.
«Non toccarmi» biascicai, portandomi un braccio davanti al volto, per non doverlo guardare di nuovo. Mi avrebbe ferita, ne ero sicura; per questo mi raggomitolai ancora di più, cercando di farmi più piccola, come se avessi potuto scomparire. All’improvviso, però, qualcosa di grande e caldo mi avvolse, sfiorandomi la schiena in una carezza.
«Va tutto bene Lexi, calmati». La voce di Brandon assieme alle sue forti braccia che mi circondavano la schiena mi fece cedere. Non c’era più nessun muro, non c’era la bugia di essere forte e non c’era nemmeno la voglia di fingere.
Tutto quello che mi era successo nel mese precedente all’improvviso mi si riversò addosso, facendomi piangere: l’aggressione, avere come vicini una gang pericolosa, aver conosciuto due ragazzi e sapere che erano morti, John e il suo trattarmi come se fossi una schiava a lavoro e soprattutto i ladri in casa mia. Mi aggrappai alla sua maglia, stringendo la stoffa tra le dita, incapace di fermarmi: ero scoppiata e non mi interessava quello che potevano pensare di me, se volevano prendermi in giro potevano farlo; non avevo la forza di fermarmi, lasciavo solamente che le lacrime scorressero sulle mie guance, sentendomi un po’ più leggera ogni volta che una goccia salata scivolava lungo il mio zigomo.
Eppure, nonostante Ryan fosse, di sicuro, lì vicino, non sentii nessuna battuta da parte sua; l’unica cosa che riuscivo a udire era la voce di Brandon unita alle sue carezze. Cercava di calmarmi, mi ripeteva che non era successo niente e che tutti stavano bene. Ma non era vero: io non stavo bene, io ero da sola, lì, in un territorio sconosciuto in mezzo a persone pericolose. Non avevo nessuno e forse, anche se odiavo ammetterlo, sentivo davvero la mancanza di casa.
«Non fatemi del male» borbottai, tra un singhiozzo e l’altro, stringendo sempre di più la sua maglia. Era la mia àncora, l’unico appiglio alla verità, al sapere che non mi sarebbe successo nulla, che non gli sarebbe successo nulla. Perché, e forse questo dimostrava quanto io fossi malata, non volevo che i ragazzi si ferissero o, peggio, morissero.
«Stai scherzando, Lexi? Non ti faremo mai del male, e se qualcuno ti sfiorerà anche sono con un dito lo uccidiamo, vero, Ryan?». Sentire la sua voce ovattata dalla maglia, perché avevo il capo appoggiato al suo petto, mi fece sorridere tra le lacrime: sembrava avere una voce ancora più profonda del solito.
«Sì» sbottò Ryan, in risposta alla domanda di Brandon. Sì, avrebbero ucciso per me? Era questo che stavano cercando di dire? Perché ero quasi sicura che non fosse un modo di dire, sarebbero stati in grado di farlo davvero.
«Sentito? L’ha detto anche Ryan. Ora non mi imbrattare più la maglia di lacrime, che si sgualcisce e poi le donne non mi guardano». La battuta di Brandon mi fece ridere così tanto che mi allontanai da lui, tornando ad appoggiare la schiena al muro dietro di me, mentre mi strofinavo una guancia con il palmo della mano per asciugarla. «Andiamo a casa, Lexi». Circondò le mie spalle con un braccio, accompagnandomi verso casa, senza forzare il mio passo.
Non parlò e lo stesso fece Ryan; non era uno di quei silenzi imbarazzanti, in cui nessuno sapeva bene cosa dire, semplicemente avevamo già detto tutto. Quando venivo scossa da un singhiozzo, il braccio di Brandon mi stringeva un po’ di più a lui, ricordandomi che non ero sola, che potevo sempre contare su di lui.
«Buonanotte Lexi. Mi raccomando, domani mattina sveglia all’alba, Coney Island ci aspetta». Alla sua battuta, Brandon aggiunse un occhiolino che mi fece sorridere di nuovo, mentre chiudevo la porta di casa con il catenaccio, perché nessuno potesse entrare. Anche un doppio giro di chiave mi avrebbe tenuta più al sicuro.
Lanciai la borsa sul divano, togliendomi scarpe, maglia e pantaloni mentre camminavo verso il bagno: mi serviva una doccia per calmarmi e ritrovare la lucidità. Quello che però mi stupì, fu il vedere un particolare nuovo nel mio bagno. Lì, dove fino alla sera prima c’era la mia tenda rosa con due tavole da surf che si incrociavano, vedevo una tenda bianca, con disegnata sopra l’ombra di un uomo che faceva surf. Convinta che fosse solo un’allucinazione, mi avvicinai, sfiorando la tela ruvida con i polpastrelli. No, non era un’allucinazione, c’era davvero, e probabilmente era un regalo dei ragazzi. Volevo andare a ringraziarli, ma ero in intimo e, nonostante tre di loro mi avessero visto nuda, non mi sembrava proprio il caso di dare spettacolo. L'avrei fatto il giorno dopo, non appena li avessi visti. Non sapevo se fosse grazie a Ryan, Brandon o Dollar, ma li avrei ringraziati tutti, indistintamente.
Dopo essermi lasciata cullare e aver rilassato i muscoli grazie all’acqua calda e al vapore che si era creato nel piccolo bagno, andai subito in camera mia, addormentandomi poco dopo, stremata.
 
Quando mi svegliai, quella mattina, capii subito che sarebbe stata una giornata indimenticabile: il sole splendeva e illuminava la mia stanza, entrando dalla finestra che avevo lasciato socchiusa la sera prima e producendo dei giochi di colore sui muri della stanza.
Mi misi a sedere, stiracchiando i muscoli della schiena e sorridendo come una stupida: era il quattro luglio, e sarei andata a Coney Island con i ragazzi. Non pensavo più a quello che era successo la sera prima, era come se con quel pianto mi fossi definitivamente sfogata e liberata di tutti i miei pensieri: volevo solo godermi una giornata di vacanza.
Mi alzai, correndo in bagno per risciacquarmi il viso e indossare il mio costume preferito: quello nero con i pallini colorati, che usavo sempre quando facevo surf. Tornata in camera, aprii l’armadio per cercare qualcosa da mettermi ma lo trovai vuoto. Giusto, avevo lavato tutti i miei vestiti due giorni prima e non li avevo stirati per mancanza di tempo. Corsi in cucina, prendendo un paio di pantaloncini e un top nero, e li indossai assieme a un paio di scarpe di tela che non avevo mai messo da quando ero arrivata a New York.
Presi la borsa mettendoci dentro un telo da spiaggia e una bottiglietta d’acqua e, dopo aver chiuso la porta di casa alle mie spalle, bussai insistentemente appena sotto alla targhetta 3B.
«Che cazzo succede?» sbottò Ryan, aprendo la porta solo con un paio di boxer neri addosso. Rimasi a guardarlo sorpresa, soffermandomi sul suo fianco che aveva un grosso ematoma scuro all’altezza della costa incrinata. Per non fare la figura della stupida, tornai a guardarlo, scoprendo uno sguardo decisamente assonnato.
«Andiamo?» proposi, stringendo un po’ di più il manico della borsa che tenevo tra le mani. Perché non erano ancora pronti? Brandon era stato chiaro: all’alba saremmo partiti. Be’, eravamo anche in ritardo rispetto alla loro tabella di marcia.
«Che cazzo di ore sono?» grugnì, avvicinandosi al divano e distendendosi, con un sonoro sbuffo, sopra. Non si preoccupò nemmeno di essere praticamente quasi nudo davanti a me, si portò solamente un braccio davanti agli occhi, infastidito dalla luce della stanza.
«Sono le sette e mezza. Siamo in ritardo, ho guardato gli orari della metro per arrivare a Coney Island e ce n’è una che parte tra venti minuti, se ti sbrighi a preparati ce la facciamo a prenderla». Una bambina la mattina di Natale, ecco cosa sembravo in quel momento.
Ryan spostò il braccio, alzando appena il capo per guardarmi confuso e infuriato: «Le sette e mezza? Tu mi hai svegliato alle sette e mezza? Che cazzo passa per la tua testolina bacata per svegliarmi prima che si svegli anche il primo gufo?». Alla sua domanda, posta in quel tono così serio, non riuscii a non ridere. I gufi erano animali notturni e di certo dormivano di mattina.
«Ryan, i gufi dormono di giorno. E comunque è perché la metro sarà piena di gente, e io voglio andare subito in spiaggia». Possibile che non capisse la mia urgenza? Volevo assolutamente arrivare a Coney Island al più presto, per questo continuavo a chiedermi perché rimanesse lì, disteso su divano in una posa che di elegante non aveva nulla, in boxer.
«Metro? No, lentiggini, non andiamo in metro, se non vuoi arrivare domani mattina» ghignò, mettendosi a sedere per guardarmi divertito dal mio sguardo confuso. «Io guido».
Macchina? Saremmo andati a Coney Island in macchina? Ma non era più veloce andare in metropolitana? E poi, dove avremmo parcheggiato, lì? Non ci ero mai stata, ma ero sicura che non ci fosse una zona adibita a parcheggio.
«Ciao Doc» esordì Dollar, entrando in cucina con una canottiera bianca attillata e un costume nero. Riuscivo a vedere le sue braccia e i suoi pettorali fasciati dalla stoffa bianca. Dollar sembrava più… muscoloso del solito; certo, niente a che vedere con le braccia di Ryan, però.
Stavo quasi per salutarlo, quando Sick e Brandon ci raggiunsero: Sick aveva una polo blu, coordinata a  un paio di pantaloncini dello stesso colore. Brandon invece indossava una maglia bianca, scollata a v, con un costume blu, a righe bianche e rosse sui fianchi. Sembravano dei normali ragazzi che andavano al mare, tranne Sick, che aveva la fasciatura che spuntava da sotto il costume. Lo sapeva che non poteva fare il bagno, vero?
«Ryan, andiamo su, va a prepararti» lo punzecchiò Brandon, dandogli delle pacche sulla spalla per infastidirlo. Ryan sbuffò, guardando irritato la mano di Brandon, poi, come se l’amico non gli avesse appena chiesto di andare a prepararsi, appoggiò il capo sullo schienale del divano, chiudendo gli occhi.
«Quando siete tutti pronti chiamatemi. Mancano Lebo, Paul e Josh. E poi, perché cazzo siete tutti in piedi a quest’ora?». Era stupito, si poteva capire nonostante parlasse con gli occhi chiusi e avesse la voce distorta per la strana posizione in cui aveva piegato il collo.
«Perché ci alziamo sempre a quest’ora. Sei tu quello che stanotte non ha dormito, perché dovevi organizzare tutto per…». Dollar fu interrotto da Brandon, che gli tirò un pugno sulla spalla per farlo stare zitto. Organizzarsi? Doveva organizzare cosa? Stavo quasi per chiederlo, quando anche i tre ritardatari entrarono in cucina, facendomi ridere. Lebo indossava una maglia rossa con una tartaruga stampata sopra e un paio di pantaloncini grigi; i gemelli invece erano vestiti allo stesso modo: maglia verde e pantaloncini neri. Tutti e tre mi salutarono con un cenno del capo, al quale risposi con un sorriso.
«Ryan, alza il culo dal divano e vai a vestirti» brontolò Brandon, facendomi ridere. Non riuscivo a capire perché, ma sembrava l’unico a non temere Ryan, o meglio, era l’unico che si permetteva di prenderlo in giro senza essere fulminato dall’ironia del biondo.
«Che palle. Dovevamo andare oggi pomeriggio» si lamentò, alzandosi dal divano e camminando lentamente verso il corridoio. Lo fece con calma, tanto che senza accorgermene, seguii con lo sguardo la sua colonna vertebrale, soffermandomi sulle sue spalle larghe, ricoperte dalle ali dell’aquila che aveva gli artigli saldi sul ramo che sfumava appena sopra l’elastico dei boxer. Ryan aveva un bel fisico, certo, anche le sue gambe erano muscolose e lunghe e, a differenza di quelle di molti ragazzi, erano dritte, senza assumere strane forme curve.
«Siediti Lexi, sono quasi sicuro che ci metterà come minimo mezz’ora. È peggio delle donne. Se nel frattempo vuoi intrattenerti con me, possiamo guardare qualche film…». La battuta di Sick mi terrorizzò e divertì allo stesso tempo. Mi sedetti sul divano, di fianco a lui, appoggiando la mia borsa per terra. Non avevo però intenzione di guardare qualche film con lui, sicura che non sarebbe di certo stata una commedia romantica o un thriller. «Guarderai un film con me?» esultò, allungandosi verso il tavolino per prendere il PC che c’era sopra.
«No, no Sick. Ti ringrazio per l’offerta, ma declino il film e qualsiasi altra cosa tu voglia fare» ridacchiai, incapace di nascondere la mia felicità. Era il quattro luglio, e io l’avrei passato con qualcuno che, in qualche strano e perverso modo, si preoccupava per me.
«Andiamo». Ryan entrò in salotto con un paio di occhiali da sole, una canottiera a righe bianche e nere e un costume nero. Le sue braccia muscolose e tatuate erano scoperte e non riuscii a trattenermi, fermandomi a guardarle. «Lentiggini? Ti vuoi muovere?» sbottò, agitando la mano davanti al mio viso, mentre arrossivo imbarazzata. Perché poi dovevo esserlo, visto che mi ero solo soffermata a guardare i suoi tatuaggi?
«Sì, andiamo. Le macchine?» domandai, schiarendomi la voce, mentre prendevo la mia borsa per uscire da quell’appartamento sperando  che nessuno vedesse quanto ero arrossita. Ero in compagnia di sette ragazzi che sembravano avere un fisico da modelli, e, nonostante non fossimo ancora arrivati in spiaggia, erano già mezzi svestiti.
Sentii qualcuno ridacchiare dietro di me, mentre scendevo le scale di fianco a Brandon, subito dopo Ryan e Sick, che zoppicava ancora. Stavo quasi per uscire dallo stabile, quando la mano di Brandon sfiorò il mio braccio, attirando la mia attenzione perché li seguissi, attraverso una porta che non avevo nemmeno mai notato, nascosta com’era nel sottoscala.
«Andiamo, scegli la donna da cavalcare» ghignò Ryan, fermo davanti a me tanto da impedirmi di vedere qualcosa di diverso dalla sua schiena enorme.
«Cosa?» biascicai, strozzandomi con la mia saliva, per quella battuta davvero volgare. Come si permetteva di parlarmi in quel modo? Ero una donna, dannazione! Se fosse stato Sick l’avrei sicuramente scusato, ma Ryan… lui mi stava dando della lesbica? «Oh» mormorai, zittendo il mio flusso di pensieri, quando si spostò, mostrandomi le moto che erano parcheggiate nel piccolo garage. Erano tante e… grandi. Davvero grandi. Dubitavo di riuscire a salirci senza un aiuto.
«Scegli la moto che vuoi guidare, lentiggini. Cazzo, ma parlo una lingua che nessuno capisce?». Ryan era esasperato, si capì anche dal gesto che fece, guardando i ragazzi e allargando le braccia. Ma non era di certo colpa mia, se parlava con strani doppi sensi fraintendibili. Poi, realizzai quello che mi aveva appena detto: dovevo scegliere la moto da guidare?
«Io non so guidare la moto». Credeva davvero che fossi in grado di rimanere in equilibrio su un ammasso di metallo che era cento volte il mio peso?
«Scherzi?». A parlare, stupendomi, fu Dollar, che si avvicinò a me, piegandosi leggermente per guardarmi bene in viso. «Perché non sai guidare una moto? Butterfly sa farlo, dovresti imparare». Butterfly, certo, lei sapeva di sicuro cavalcare una moto, e forse non solo quella. Ero talmente irritata dal fatto che Dollar mi avesse paragonata a Butterfly che rischiavo addirittura di risultare volgare.
«Oh, scusate se non so cavalcare una moto come la vostra Butterfly, vorrà dire che andrò da sola, a piedi» conclusi, sistemandomi la canottierina nera con un gesto seccato, tanto che la borsa urtò contro la moto più vicina. Qualcuno dietro di me trattenne il respiro, come se avessi fatto qualcosa di male.
«Dai, sali dietro a qualcuno di noi, su» propose Brandon, appoggiandomi una mano sulla schiena per accompagnarmi verso le moto. Sì, avrei volentieri fatto il viaggio con Brandon o Dollar, con Sick mi sarei un po’ spaventata, ma non volevo assolutamente rimanere in moto con Ryan, no.
«Sali con me, Lexi» mi pregò Sick, portandosi una mano al cuore e tendendo l’altra verso di me. Inorridii, spaventata: non volevo dirgli in modo brusco che non avrei viaggiato con lui perché mi faceva paura.
«Dai Doc, io sono prudente» ammiccò Dollar, facendomi ridere. Stavo quasi per avvicinarmi a lui, quando Ryan prese la parola.
«Facciamo così, lentiggini: scegli la moto che ti piace di più e viaggerai su quella, che ne dici?». Nonostante il ghigno –che era comunque sempre presente –Ryan sembrava serio, così annuii, soddisfatta.
Dovevo solo giocare d’astuzia, evitando di scegliere la sua moto o quella di Sick; anche fare il viaggio assieme a Josh o Paul non mi sembrava una buona idea, forse perché non avevo parlato molto con loro, ma era sempre meglio passare un’ora seduta dietro di loro, che non con Ryan.
«D’accordo» mormorai sovrappensiero, cominciando a camminare tra le moto. Ero sicura che sarei riuscita a trovare qualche particolare per capire a chi appartenessero, ma sembrava non essere così: ogni moto era senza adesivi o scritte, c’erano solo ammaccature e graffi.
«Su, lentiggini, non abbiamo tutta la giornata» sghignazzò Ryan, quando mi avvicinai alla moto più in fondo. Ecco, mi sentivo un genio! Ryan era tipo il loro capo, quello che camminava davanti a tutti e che si faceva avanti per difendere gli altri; quindi, visto che le moto avevano tutte il muso rivolto verso il muro, la sua doveva essere quella che avevo appena finito di guardare. Quella che, quindi, non avrei scelto.
Mi avvicinai alla saracinesca di uscita del garage e guardai la prima moto, tutta nera, con aria soddisfatta.
«Questa» esultai, indicandola. C’era una scritta argentata in corsivo su un fianco: Ninja. Sì, quella doveva essere la moto di Dollar, un po’ lo rispecchiava: scura e semplice, sembrava addirittura potente.
«Bene, datele un casco» ordinò Ryan indossandone uno integrale a sua volta e cominciando a fare lo slalom tra le moto. Perché si stava pericolosamente avvicinando all’ultima, quella di fianco a me?
Perché non era andato dalla parte opposta, verso la prima che era entrata in garage?
«Forza, sali, lentiggini». Al consiglio di Ryan inorridii, indietreggiando di un passo, senza pensare che dietro di me c’era il portone del garage. Ryan salì sulla moto nera, confermando la mia paura. Quindi… dovevo andare in moto con Ryan? Ma come era possibile dopo tutti i miei calcoli sulla posizione e su come erano entrate in quel garage?
«Non è la tua moto» mi intestardii, come una bambina. No, mi rifiutavo di credere che fosse davvero la sua moto. Perché non poteva essere quella blu, la sua? O magari quella grigia, tutte, ma non quella nera che avevo scelto.
«Certo che è la mia, è una Ninja. E ora sali, muoviti, che ti serve una scaletta» mi derise, quando Dollar mi porse un casco integrale, decisamente grande per me. Lo rigirai tra le mani insicura se accettare o meno, poi, fingendo che non mi interessasse veramente fare il viaggio con Ryan, lo indossai, causando uno scoppio di risa generali perché era decisamente più grande rispetto al mio capo. «Tieniti quello per oggi, non ne abbiamo uno taglia bambino». Sembrava quasi soddisfatto di vedermi con quel coso nero in testa. Chissà quanto dovevo apparire ridicola, quasi una cosa sproporzionata, vista la grandezza. «Andiamo, centauro» ghignò, nuovamente, lasciando un pugno sul mio casco tanto che rimbombò tutto, facendomi vacillare.
«Idiota» strillai, alzando la visiera scura per mostrargli quanto fossi arrabbiata. Quel gesto però sembrò causare la sua ilarità, visto che si portò una mano sullo stomaco, cominciando a ridere più forte. Oh bene, ero così divertente con il casco? Mi avvicinai alla moto, arrampicandomi sul pedalino del passeggero e salendo dietro Ryan, evitando di toccare la sua schiena e soprattutto senza circondargli il busto con le braccia. Meno mi appoggiavo al suo corpo meglio era.
Ryan si girò, per controllare che fossi salita, poi, come se la scena fosse stata divertente, cominciò a ridere di nuovo. Quel suo comportamento mi dava i nervi. «La moto non si è minimamente mossa, volerà via» sogghignò, dando gas per accenderla. Sussultai spaventata, non più tanto sicura che correre in moto fosse una buona idea; non con Ryan, almeno. «Dovrei ammanettarla, altrimenti vola via». Il suo tono di voce era alto, probabilmente perché voleva farsi sentire dai ragazzi anche sopra il rombo del motore. Dubitavo che ci riuscisse, visto che era quasi assordante.
«Oh, Lexi! Ammanettati a me, ammanettiamoci» strillò Sick, avvicinandosi a noi e prendendo una mia mano. Se la portò sopra al cuore, piegandosi sulle ginocchia in uno strano inchino. Quel gesto mi fece ridere, tanto da non riuscire a trattenermi e mi appoggiai alla schiena di Ryan per non cadere dalla moto.
«Muovetevi, idioti» ordinò Ryan, dando gas per uscire dal garage. Istintivamente, per non rischiare di cadere, circondai il suo busto con le mie braccia, aggrappandomi alla sua canottiera e stringendo la stoffa tra i pugni. Sarei morta, ne ero sicura.
«Corri piano». Nemmeno per favore, sì, ma non mi interessava essere cortese, non quando mi trovavo seduta su una moto enorme, dietro a Ryan che non era poi molto più piccolo della moto. Non rispose, lo sentii solamente ghignare, prima che, accelerando in modo esagerato, partisse sgommando.
Era inutile continuare a tirargli pugni sullo stomaco perché rallentasse, visto che ogni volta che lo colpivo il suo piede sinistro si muoveva, cambiando marcia: lo faceva volutamente, io gli chiedevo di rallentare e lui accelerava.
Bene, non mi sarei più lamentata, ma di certo il viaggio di ritorno non l’avrei fatto seduta su quella moto.
A un certo punto Brandon si affiancò a noi, sollevando la visiera scura del casco nero e ammiccando verso Ryan. Sentii la sua schiena scossa da una risata, e, prima ancora di capire quello che stava succedendo, il braccio di Ryan si strinse attorno alle mie mani, mentre accelerava, cercando di raggiungere Brandon, che ci aveva superato.
«Idiota» urlai, come se avesse potuto davvero sentirmi. Cercai di avvicinarmi di più a lui, schiacciandomi contro la sua schiena e rendendo più salda la mia presa. Per ripicca, gli pizzicai un fianco, sperando che capisse di rallentare, ma Ryan, in risposta, si girò per guardarmi, non prestando più attenzione alla strada.
Le orecchie che fischiavano e la sensazione che la testa potesse staccarsi dal corpo, le braccia che mi dolevano perché sembrava che fossero tagliate da milioni di lame, quando in verità era solo il vento. Preferivo cento volte un viaggio in metropolitana, al chiuso e al sicuro.
Avevo controllato, e che il tempo per arrivare da Hunts Point a Coney Island era di circa quaranta minuti, eppure, nonostante quel viaggio in moto potesse essere paragonato all’inferno, ci fermammo venti minuti dopo.
Ryan si tolse il casco dopo aver spento la moto e cominciò a ghignare guardando Brandon che, sceso dalla moto, continuava a sorreggersi con le mani sulle gambe per il troppo ridere. Una scena divertente, per loro! Dovevano solo aspettare che ritornassi ad avere l’uso delle gambe e delle braccia, e poi mi sarei fatta sentire.
«Lentiggini, puoi scendere, non stiamo più correndo. Certo, se vuoi rimanere aggrappata a me è un’altra cosa, ma almeno lascia che mi alzi da qui» sogghignò, mentre ritiravo le mie braccia, come se mi fossi ustionata all’improvviso.
No! Non volevo proprio rimanere aggrappata a lui.
Quel mio gesto fulmineo li fece ridere tutti, solo che con il casco che scendeva sui miei occhi non riuscivo a vederci bene, così cercai di slacciarlo, senza riuscirci.
«Sta ferma» sbottò Ryan, portando le sue mani sotto al mio mento e armeggiando con la chiusura del casco. «Oh cazzo, si è rotto». Lo sentii tirare in due direzioni opposte, senza che però il moschettone si aprisse.
«Cosa?» strillai, già in preda a una crisi di panico. Dove sarei andata con un casco di chissà quante taglie più grande di me addosso? Cosa avrebbe detto la gente? E dovevo andare al pronto soccorso o dai pompieri? Chi sapeva aprire un casco? No, calmi, forse serviva solo una forbice per tagliare la fibbia.
Un nuovo scoppio di risa e le dita di Ryan a muoversi ancora, poi un “clic”. «Sei salva». Sentii finalmente il mio capo libero dal casco e Ryan che cercava di nascondere quel ghigno, davanti a me.
«Stronzo» sbottai, capendo che mi aveva presa in giro e che non si era mai rotta la chiusura del casco. Indignata, scesi dalla moto cercando di non inciampare e riuscendoci. Quando appoggiai i piedi per terra sospirai sollevata, cercando di riscaldarmi le braccia e le gambe, ancora insensibili per la corsa in moto.
«Andiamo! E muoviti Lexi! È una spiaggia per nudisti, non puoi entrare con il costume» spiegò Sick, serio, mentre si toglieva la maglia.
Spiaggia per nudisti? Mi avevano portato in una spiaggia per nudisti? Spaventata mi guardai attorno, notando però che tutte le persone indossavano il costume.
«Sei un idiota, Sick». Non riuscii nemmeno a trattenere una risata, per quel suo strano modo di fare. Credeva davvero che mi denudassi? Anche se fosse stata una spiaggia per nudisti non mi sarei di certo tolta il costume, il problema era che, sicuramente, loro l’avrebbero fatto.
«Ci ho provato, mi sarebbe piaciuto vederti nuda» ammiccò, causando una nuova risata generale. Gli sarebbe piaciuto vedermi nuda, ma avevo già dato anche troppo, visto che tre di loro si erano introdotti in casa mia, entrando nel mio bagno mentre mi facevo la doccia.
«Noi l’abbiamo vista nuda» esultò Dollar, affiancandosi a me. Cercai di tirargli un pugno sullo stomaco per farlo smettere di parlare, ma mi bloccò la mano dietro la schiena, immobilizzandomi e portando una mano davanti alle mie labbra perché non potessi parlare. Continuavo a scalciare, sperando che mi liberasse o che qualcuno degli altri ragazzi lo facesse, ma naturalmente nessuno intervenne. «Ricordi ieri mattina, quando siamo andati a casa sua perché non sapevamo dove fosse? Quello che non ti ho mai detto è che era in bagno, così siamo entrati e…e abbiamo visto la Doc nuda». Dollar sembrava così soddisfatto di quella piccola rivincita su Sick che mi innervosii ancora di più, scalcando con maggiore forza e cercando di pizzicargli il braccio con la mano che non era riuscito a intrappolare.
«Cosa? Perché? Perché io non ci sono mai quando c'è la possibilità di vedere una pornostar nuda dal vivo? Anche io voglio» piagnucolò Sick, imbronciandosi mentre si appoggiava alla moto dietro di lui. Sembrava davvero un bambino geloso di qualcosa tanto che cominciai a ridere, muovendomi tra le braccia di Dollar.

«E ti dirò di più, Sick» continuò Dollar, punzecchiandolo e rendendolo ancora più curioso. Mi immobilizzai, temendo una strana confessione. Non sapevo a cosa Dollar stesse pensando, ma ne ero davvero spaventata. Che cosa passava per quella mente malata?
«Cosa? Cosa? C'è qualche piercing nascosto o qualche tatuaggio dalle forme strane oltre a quello che si vede?». Lo sguardo di Sick si posò sul mio fianco, lì, dove c’era il mio piccolo tatuaggio con il surfista. Istintivamente smisi di pizzicare Dollar, portando la mano a sistemarmi la canottiera con un gesto arrabbiato. Erano come due bambini: si provocavano a vicenda, sapendo l’uno i punti deboli dell’altro. E non mi dava fastidio, se non ero io l’argomento centrale.
«No, la Doc, lì sotto, è tutta... tutta... tutta...» iniziò Dollar, prima che caricassi il gomito con tutta la forza che avevo e lo piantassi sul suo stomaco. L’effetto però non era quello che avevo immaginato, visto che Dollar riuscì a scansarsi, terminando la frase con un urlo che riuscirono a sentire, probabilmente, anche tutti quelli in mare: «depilata».

Tutti quanti cominciarono a ridere, tranne Sick, che mi guardò, sorpreso e quasi emozionato: «ti prego, per favore, imboschiamoci da qualche parte solo io e te, sono bravo e conosco un sacco di posizioni, sai?». Unì anche le mani in preghiera, mentre Dollar lasciava la presa sul mio volto e sulla mia mano, facendomi tornare libera di muovermi e parlare.
«Sentite, andiamo in spiaggia, visto che si sta riempiendo e poi fate tutte le richieste che volete per trombarvela» borbottò Ryan, prendendo in malo modo la mia borsa appoggiata alla sua moto e porgendomela.
Ryan si incamminò verso la spiaggia, seguito subito dopo da Brandon, Sick e i gemelli. Dollar era di fianco a me, con uno strano sorriso soddisfatto sulle labbra.
«Non parlarmi nemmeno, non provarci» mormorai arrabbiata con lui per quello che prima aveva detto a Sick. Possibile che avesse dovuto dire quello che aveva visto mentre mi facevo la doccia?
«Dai Doc… era uno scherzo» cercò di sdrammatizzare, dandomi dei leggeri colpetti sul fianco con il suo gomito. No, non mi sarei arresa così facilmente, non funzionava così con Alexis Cooper.
«Sei fortunato solo perché sono alta metà di te e non ti stenderei nemmeno con un pugno». Se fosse stato un po’ più piccolo e meno muscoloso l’avrei volentieri picchiato. Era una questione di rispetto: io non avevo detto a nessuno quello che era successo con la malattia che pensava di aver preso da Butterfly, perché doveva fare l’idiota con Sick, vantandosi di avermi vista nuda?
«Se vuoi ti insegno come si fa a pugni». Era una specie di trattato di pace? Voleva che non fossi più arrabbiata con lui? Be’, non ci stava riuscendo. Appoggiai la mia borsa sulla sabbia, togliendomi le scarpe di tela e affondando con i piedi nella sabbia fresca, non ancora scaldata dal sole del mattino; istintivamente chiusi gli occhi, inspirando a fondo: casa. Ero a casa.
Riaprii gli occhi, rendendomi conto che c’era un sorriso spontaneo sulle mie labbra, un sorriso che non mi ero nemmeno accorta di avere: era l’effetto del mare, del profumo di salsedine e della sensazione della sabbia sotto ai piedi. Coney Island sembrava un laghetto, la spiaggia non era piccola ma affollata, nonostante fossero solamente le nove di mattina; era diversa, molto, da quello che mi ero immaginata, ma non si poteva dire che non fosse suggestiva, con l’enorme ruota panoramica –il Wonder Wheel –alle sue spalle.
Quando guardai i ragazzi, li trovai già tutti a petto nudo, intenti a sogghignare, osservandomi. Mi guardai, convinta che ci fosse qualcosa che non andava in me: non c’era niente di fuori posto o sbagliato, semplicemente, tra tutti, ero l’unica con addosso i vestiti.
«Spogliati Lexi, su». Sick si sfregò le mani, facendomi ridere. Ero tranquilla, perché, con tutte quelle persone non mi avrebbe di sicuro fatto nulla di male, soprattutto perché i ragazzi mi avrebbero difesa, speravo. «Se vuoi posso farlo io» tentò di nuovo, facendo un passo verso di me. Sick voleva spogliarmi, era così contento di farlo che si dimenticò di me quando una ragazza mora, con un seno molto vistoso, gli passò accanto, sorridendogli.
Mi abbassai i pantaloncini, ripiegandoli e riponendoli dentro alla borsa, poi, sperando che nessuno di loro prestasse troppa attenzione ai miei gesti, mi sfilai il top, rimanendo solamente con il costume.
«Una tavola da surf. Poteva anche non mettersi il pezzo sopra. Sai, lentiggini, credo che a forza di fare surf le tue tette si siano trasferite sulla tavola». Alla battuta di Ryan strinsi i pugni lungo i fianchi, arrabbiata. Sì, Dollar doveva assolutamente insegnarmi come si tirava un pugno.
«Non è vero, a me piace. È tutta piccola, se avesse due tette come quelle di Butterfly farebbe schifo». Secondo una strana logica, quello di Dollar doveva essere un complimento, ma non mi interessava poi molto quello che pensavano di me. Quello era il mio corpo, io ci convivevo da ventidue anni e mi piaceva.
«A te piace tutto in generale, Doll. Vado a farmi un bagno» sibilò Ryan, incamminandosi verso il mare, senza aggiungere altro. Be’, se io dovevo rimanere senza il pezzo sopra del costume perché non avevo tette, Ryan doveva indossare sempre la maglietta, visto che la sua schiena, ricoperta da tatuaggi e cicatrici, non era un bel vedere. E no, non mi interessavano i quintali di muscoli che aveva.
«Lexi, vuoi andare a fare un bagno o ti insegno come si tira un pugno? O vuoi rotolarti con me nella sabbia?». La proposta di Dollar mi scosse dai miei pensieri su Ryan e gli risposi senza nessun dubbio: sapevo quello che mi interessava più di tutto.
«Insegnami a tirare un pugno. Vado dopo a farmi il bagno e non mi rotolerò mai nella sabbia con te». Così avevo risposto alle sue domande in modo chiaro, senza che ci potessero essere dei dubbi. Speravo che Dollar potesse smetterla di provarci con me, anche se, sentirmi in qualche modo contesa tra lui e Sick era piacevole. Lo era sempre, anche quando –come in quel caso –sapevi che lo facevano per scherzare.
«D’accordo, allora, prima di tutto: schiena dritta, devi colpire le mie mani». Portò le braccia in avanti, tenendole tese perché non si ferisse il petto con il contraccolpo del mio pugno.
Sul serio, voleva che lo ferissi? No, non potevo farlo, se gli avessi fatto male? Era pur sempre Dollar, un bambino, nonostante fosse due volte me, in altezza e anche larghezza.
«No, se poi ti faccio male?» mormorai, non prestando troppa attenzione a Ryan che si era seduto di fianco a Sick, scrollandosi l’acqua dai capelli bagnati. Sentii i ragazzi ridere dietro di me, come se avessi detto qualcosa di divertente. Mi voltai a guardarli, ma nessuno di loro fiatò: continuavano a scrutarmi, come se fossi un gallo in attesa di combattere. Ma non ero di certo quello più forte, anche se potevo ferire. Lanciai un’altra occhiata a Dollar, esitando con il pugno alto perché non volevo colpirlo.
«Forza! Colpiscimi, fammi sentire quanto male fanno quei piccoli pugnetti» ridacchiò Dollar, muovendo le sue grandi mani davanti a me, per incitarmi a colpirlo. Più lo guardavo e meno mi convincevo di quello che stavo facendo. Lì, in spiaggia, davanti a tutti, io, alta poco più di un metro e mezzo, combattevo a suon di pugni con un ragazzo di sedici anni, sfregiato sul volto.
«Ti ferirò. E se dovessi romperti una costola?» tentai, sperando che si decidesse ad abbassare quelle braccia. La mia idea era proprio stupida. Perché mi ero intestardita per imparare a dare un pugno?
«Andiamo! Fammi male»‎ ribatté. Non aveva nessuna intenzione di abbandonare il nostro ring, costruito dai ragazzi che si erano seduti a cerchio attorno a noi.

Picchiarlo, dovevo picchiare Dollar, tirargli un pugno sul palmo della mano, per la precisione. Insomma, non era così difficile farlo, no? Bastava caricare il braccio, stringere bene la mano tenendo il pollice in fuori e poi colpire. Facile, come bere un bicchiere d’acqua.
Socchiusi gli occhi, prendendo un respiro profondo e stringendo ancora di più le nocche, poi, senza guardare, colpii la mano di Dollar. Rilasciando l’aria che avevo trattenuto per la paura guardai il volto di Dollar, convinta di averlo ferito. Lui però, al contrario di tutto quello che mi ero immaginata, stava trattenendo malamente una risata, divertito dalla situazione.
«Non è male, Doc. C’è l’istinto, devi un po’ migliorare la tecnica e avere meno paura di far male. Quando dai un pugno lo fai perché le mani ti prudono e sai che quella è la cosa giusta da fare, capisci? Non devi avere paura, perché di sicuro, anche se ti ferirai, l’altro sarà sempre messo peggio. Ma ci riproveremo». Appoggiò la sua mano sulla mia spalla, per darmi coraggio.
Cosa? Non l’avevo nemmeno ferito? Non aveva sentito tutta la mia forza scontrarsi contro la sua mano? Credevo di aver esagerato e lui mi diceva che non aveva sentito nulla?
«Ma… ma non hai sentito nulla?» balbettai, delusa dal suo essere così tranquillo e spensierato. Come poteva non aver sentito nulla? Ero piccola, ok, ma i muscoli c’erano e li avevo usati bene.
«Come fa ad aver sentito qualcosa? Andiamo, sarebbe come dire che senti il moscerino che si schianta contro la visiera del casco, lentiggini. Non si sentirà mai niente» sogghignò Ryan, alzandosi in piedi per prendere qualcosa dai suoi jeans, non molto distante da me.
E improvvisamente lo sentii: esattamente come Dollar l’aveva descritto, un desiderio di colpire qualcuno tanto che le mani prudevano. Strinsi ancora di più le nocche, facendole sbiancare e, dopo averlo raggiunto, aspettai che ritornasse in posizione eretta e puntai dritta davanti a me: al suo stomaco.
«Porca vacca che male» sbottai, ritirando subito la mano e circondandola con l’altra. Dove diavolo l’avevo colpito, su una corazza di ferro? Cominciai a saltellare per il dolore, senza badare alle risate di Ryan, davanti a me.
«Ryan, però sei uno stronzo» mormorò Brandon, alzandosi e avvicinandosi a me. Prese la mia mano tra le sue, aprendo le mie dita per controllare. Non c’erano ossa rotte, di questo ne ero certa, ma avevo preso una bella botta. Contro cosa diavolo avevo tirato il pugno?
«Non ho fatto niente, andiamo ragazzi» si giustificò Ryan, allargando le braccia, come se volesse sottolineare che non aveva niente da nascondere e che era colpa mia.

Mi intestardii, come una bambina. Un po’ per la figuraccia che mi aveva fatto fare e un po’ perché ero sicura che volontariamente mi avesse fatto sbattere contro qualcosa di duro perché mi ferissi, così mugolai: «Mi hai fatto male. L'hai fatto volontariamente». Tornai a guardare la mia mano con le nocche rosse; magari sarebbero diventate viola, e dove sarei andata con una mano conciata peggio di un boxeur?
«Ma no che non l’ho fatto apposta, lentiggini. Sei tu che hai le ossa come quelle dei bambini. Non stavo nemmeno trattenendo il respiro o altro, mi hai totalmente colto di sorpresa, altrimenti ti saresti ferita molto di più». Oh sì, ecco. Era così bello per lui farmi sentire una nullità? Ci godeva così tanto? Le mie mani volevano tirargli un nuovo pugno, ma ero sicura che non fosse una buona idea, se volevo rimanere con le ossa intere, così, con uno sbuffo, cominciai a muovere le dita, prima che qualcosa arrivato da dietro di me, mi sollevasse da terra facendomi urlare.
«Ambulanza, ferito grave. Codice rosso. Dobbiamo controllare una possibile frattura di una mano» continuava a strillare Dollar, sollevandomi da terra solo con un braccio attorno alla mia vita.
Si stava pericolosamente avvicinando all’acqua, ma ridere mi portava via tutte le energie tanto che non riuscivo nemmeno a dirgli di fermarsi.
«Doll, mettimi giù» urlai, quando i miei piedi toccarono l’acqua fredda dell’oceano. «Dollar» ripetei, accorgendomi che non si fermava, ma anzi, che continuava ad avanzare pericolosamente verso il largo. «Dollar mettimi giù».
Non appena terminai la frase sentii una risata di Dollar e di qualche altro ragazzo, ma non vidi nulla, perché mi ritrovai sott’acqua, completamente sommersa. Quello stupido mi aveva lanciata come se fossi un sacco di patate ma me l’avrebbe pagata. Mi misi in piedi, trovandomi con l’acqua a metà busto e mi preparai ad attaccare: l’acqua era il mio ambiente naturale e Dollar l’avrebbe capito.
Con un gesto secco mi legai i capelli bagnati e ghignai, rivolta verso di lui: «Sei pronto alla guerra, Dollar?». Probabilmente per lui non ero minacciosa, ma non sapeva cosa ero in grado di fare. Avevo passato vent’anni della mia vita a lottare contro ragazzi che erano il doppio di me, e non ero mai stata sconfitta in nessun corpo a corpo durante una battaglia d’acqua.
«Aspetta che chiamo i rinforzi». Dollar si voltò verso la riva, dandomi le spalle, e fischiò, facendo un gesto con la mano ai ragazzi: gli aveva appena suggerito di raggiungerci.
Oh, bene! Uno contro uno, li avrei stesi tutti.
Ryan, Brandon, Paul, Josh e Lebo però non avevano un’aria serena, sembrava stessero andando in battaglia.
«Uno contro uno vi demolirò» sghignazzai, strofinandomi le mani e sistemandomi il pezzo sopra del costume perché non si spostasse.
«Uno contro uno? No, lentiggini, non hai capito chi comanda». Quella frase, uscita dalle labbra di Ryan, fu l’ultimo suono che riuscii a distinguere, prima che una cascata di acqua mi investisse in pieno.
Tutti e sei si erano coalizzati per annegarmi, e a nulla erano valse le mie suppliche, anche sotto forma di urla. Nessun bagnante si era avvicinato a noi per aiutarmi. Non sapevo se fosse perché i ragazzi potevano spaventare o perché la scena era divertente da guardare; ma, quando uscimmo da quel bagno, non sentivo più la schiena, martoriata dai loro getti d’acqua.
«Siete davvero degli stupidi. Sei contro una. Donna oltretutto» sbottai, arrotolandomi il telo da mare attorno alle spalle, mentre mi sedevo di fianco a Sick, che aveva guardato tutta la scena divertito.
«Stai scherzando? Abbiamo avuto pietà di te solo perché Sick era infortunato, altrimenti non saresti sopravvissuta al nostro attacco». Brandon prese posto vicino a me, passandosi una mano tra i capelli bagnati e scompigliandoli ancora di più. Notai subito l’aquila disegnata all’interno del suo braccio, sotto alla spalla sinistra. Non era grande nemmeno la metà di quella che Ryan aveva tatuata sopra al cuore, ma per qualche strana ragione me la ricordava.
Chissà perché tutti avevano un tatuaggio dell’aquila, che fosse qualche tradizione della banda?
«Brandon, posso chiederti una cosa?». Non sapevo con che coraggio gli avrei posto quella domanda, forse era solo curiosità.
Mi guardò per qualche secondo, indeciso, poi, con lo sguardo, cercò il consenso di Ryan. Quel gesto mi riportò alla mente una domanda che spesso mi ero posta, una domanda che forse era meglio rispetto a quella del tatuaggio. Alla non risposta di Brandon –che interpretai come un via libera –presi un respiro profondo e tanto coraggio.
«Che cos’è Ryan? Perché tutti quanti fate quello che lui dice e non lo contraddite mai?». Ecco, l’avevo chiesto, finalmente. Dopo mesi, speravo che Brandon fosse in grado di darmi una risposta, una vera risposta, senza mezze verità o complete bugie.
«Ryan è il nostro O.G.» spiegò Brandon, a bassa voce. Sembrava che mi avesse rivelato un segreto inconfessabile, ma non riuscivo a capire a cosa si riferisse.
O.G., che cosa poteva significare? Cercavo di associare quelle iniziali a qualcosa che potesse c’entrare con gli Eagles, ma non mi veniva in mente nulla, e di certo, ogni mia supposizione sarebbe stata sbagliata, quindi era meglio chiedere.
«Cioè?» bisbigliai, temendo che qualcuno potesse sentire quello di cui stavamo parlando. Lo strano comportamento di Brandon mi faceva reagire di conseguenza: sguardi circospetti per controllare che non ci fossero persone in ascolto e tono di voce basso.
«Cioè Original Gangster. Sono il capo degli Eagles. Hai paura adesso, lentiggini?». Sussultai spaventata; non avevo notato che Ryan si era seduto di fianco a me, cominciando a parlare. Mi voltai verso di lui, concentrandomi su quello che aveva detto. Original Gangster.
Avevo sempre associato i Gangster alla Mafia, ma quindi le bande c’entravano qualcosa? E che significato aveva essere l’O.G. degli Eagles?
«E quindi? Cosa fai per essere un O.G.? Che differenza c’è tra te e… Brandon? O Dollar?». Che avessero dei ‘gradi’ diversi? Forse Ryan poteva dare ordini a tutti, ma qualcuno aveva più potere di lui?
«L’O.G. è il capo, non c’è nessuno sopra di me. Io posso comandare a tutti e loro devono rispettarmi. Io ho deciso i loro gradi, Brandon è il vice, quindi ha quasi la mia importanza, poi c’è Sick che è Sergente. Il resto è come se fossero… soldati? Non riesco a spiegarti. Non lo faccio perché non mi piace, ma dovrei decidere i nomi da strada dei ragazzi, l’ho fatto solo con Sick e Dollar, ma perché fa parte del loro carattere. I nomi da strada servono per dargli una nuova identità, perché possano capire che gli Eagles sono la loro nuova famiglia e perché i Misfitous e la gente capiscano che fanno parte degli Eagles a tutti gli effetti e non sono solo gonna-be; una volta che entri negli Eagles non puoi più uscirne, a meno che…» si interruppe, smettendo di fare disegni astratti sulla sabbia per guardarmi. Non si poteva uscire dagli Eagles a meno che? Qual era l’unica via per uscire da una banda?
«Cosa?» mormorai, come se non volessi veramente sentire la risposta. Perché Ryan si era interrotto proprio in quel momento, come se non volesse farmi sapere la verità?
Abbassò di nuovo lo sguardo, tornando a guardare la sabbia tra i suoi piedi; poi, dopo un sospiro, riprese a parlare con lo stesso tono basso e calmo: «a meno che non muoia l’O.G., solo in quel caso il singolo elemento può decidere se rimanere nella banda o uscirne per sempre. Però due dei nostri ci hanno tradito, erano in combutta con i Misfitous e appena ce ne siamo accorti li abbiamo sistemati, per questo, tra le nostre foto, ce ne sono un paio al contrario. I traditori non meritano di avere la stessa importanza. I traditori non meritano nemmeno di portare il flag con loro. Il flag è la nostra bandiera, il modo in cui ci facciamo riconoscere quando siamo nel nostro territorio. Solo gli Hard-Cores hanno il flag e non lo usiamo ovunque. Non consegniamo nemmeno il flag a ogni nuovo entrato, ci vuole tempo per fidarsi dei nuovi. Molti entrano negli Eagles solo per protezione, perché hanno paura di noi, altri lo fanno per farsi vedere, e non li sopporto. Gli Eagles sono una famiglia, sono la mia vita. Mi fanno girare i coglioni i bambinetti che vogliono entrare perché hanno paura di me. Per questo noi reclutiamo solamente quelli che hanno almeno sedici anni. I Misfitous sono diversi, loro fanno come gli altri: se ne fregano e li arruolano quando hanno quattordici anni solo per fare numero. Ma non mi interessa il numero, non mi interessa vincere uno scontro con loro, voglio che i miei sappiano perché lo fanno e devono essere convinti. Un Eagles è per sempre, non puoi decidere di andartene perché non vuoi derubare qualcuno. Sai quello che fai quando entri in una banda: devi rubare, uccidere, sparare. Non puoi fermarti a guardare chi stai uccidendo, o non te lo dimenticherai mai. Un Eagles uccide quando non ha scelta e ruba solo quando sa che può farlo, se un Eagles uccide un innocente non lo fa volutamente, capita. Le armi sono pericolose, sì. La droga è qualcosa di sporco, ma non me ne fotte un cazzo. Io so quello che è meglio per gli Eagles e faccio così, nei limiti del possibile e sperando che nessuno venga ucciso, succede sempre; può succedere sempre, anche quando il tuo topo è un Maya. Loro sono quelli che viaggiano con i soldi, sono la preda migliore perché non hanno documenti e non andranno mai dalla polizia a denunciarti; e noi lo sappiamo, tutti lo sanno. Ma gli Eagles sono i più forti, tutti ci temono». Non avevo mai sentito Ryan fare un discorso più lungo e serio di quello. Niente ironia, niente battutine idiote o frasi messe in mezzo per prendermi in giro, mi aveva solamente raccontato la verità nuda e cruda, quella che io gli avevo chiesto. In qualche modo era quasi strano sentirlo parlare degli Eagles, perché, mentre ne parlava, sentivo un tono orgoglioso nella sua voce, come se ne fosse direttamente responsabile.
«Quando sono nati gli Eagles?». Era una domanda lecita, la mia. Dopo tutto quello che mi aveva raccontato non poteva di certo pensare di aver placato la mia curiosità, anzi, era l’esatto contrario.
«Vuoi la versione lunga o quella corta?». Per qualche istante, sul suo volto, tornò quel ghigno che sparì subito, sommerso da quello sguardo fiero, quello che nasceva quando parlava della sua vita, della sua banda.
«Voglio capire». Avevo tempo e sapevo che anche loro si erano presi una giornata di ‘vacanza’ dalla loro strana attività. Speravo che, come lo era stato fino a quel momento, Ryan rimanesse serio e mi spiegasse tutto quello che volevo sapere, perché, sembrava quasi… interessante, visto dai suoi occhi.
«Quasi vent’anni fa c’era un bambino pestifero, marinava la scuola e non ascoltava mai suo zio –viveva con lui perché i suoi genitori avevano deciso di andarsene e lasciarlo da solo per girare il modo –così, questo bambino, ascoltava le vecchie storie dei meccanici che lavoravano dal suo vicino. Ne era così affascinato che ogni mattina, al posto di andare a scuola, correva nell’officina e si sistemava dentro al cofano vuoto di una vecchia Mustang nera, seminascosto. Sapeva che tutti riuscivano a vederlo, ma quello era il suo nascondiglio. Suo, e del suo amico. L’altro piccolo diavolo che lo seguiva e incitava in tutto. Così ci sono cresciuti, con queste storie. Vecchie leggende del ghetto, quando tutto il Bronx era colmo di bande che si trasferivano qui dalla California. In quegli anni, gli operai di quell’officina si lamentavano, perché c’erano sempre meno gang che sapevano fare il loro lavoro. C’era poca protezione. Non si sentiva più parlare di gang come i Fordham Aggies o dei Fordham Baldies. Non c’erano nemmeno più gli Shamrocks, una gang irlandese che si era trasferita qui, terrorizzando tutti tra gli anni cinquanta e sessanta. Non si sentiva più nei corridoi delle scuole, studenti urlare The Baldies were coming, non c’era nemmeno più l’intervento della polizia. Non c’erano più i biglietti da visita dei Baldies, che rasavano le teste di quelli che incontravano. Non c’erano i Ducky Boys o altre gang, più nulla. Tutto era in sordina per quel fottuto finto trattato che era stato fatto quasi dieci anni prima. E quei due ragazzi non riuscivano a capire perché non ci fosse più niente di tutte quelle storie per colpa dell’Hoe Avenue Peace Meeting. Tu lentiggini, naturalmente non sai di cosa sto parlando, ma il trattato di pace dell’Hoe Avenue è un’assemblea avvenuta il sette dicembre del settantuno qui, nel Bronx. L’avevano indetta perché ci fosse una pace tra le gang, dopo la morte dell’O.G. dei Ghetto Brothers, un uomo che si chiamava Black Benjie. Inutile dire che non c’era stata nessuna pace, solo una negoziazione delle strade perché ci fossero meno vittime. Questo incontro si svolse al Boys Club, sulla Hoe Avenue; c’erano dozzine di gang e anche poliziotti, per placare gli animi in caso di rissa, visto che erano presenti le più importanti gang, come Black Pearls, Savage Skulls, Turbans, Young Sinners, Royal Javelins, Dutchmen, Magnificent Seven, Dirty Dozens, Liberated Panthers, Black Spades, Seven Immortals, Latin Spades, Peacemakers ma soprattutto i Ghetto Brothers. Te l’ho già detto, no? Loro volevano la pace per rivendicare il capo, un ragazzo di venticinque anni; quello che però non ho menzionato prima, è il motivo della sua morte: stava cercando di dividere due gang che volevano combattere. Un fottuto modo del cazzo per morire, non trovi? Un fottuto trattato di pace dove presidenti e vicepresidenti erano seduti in cerchio su sedie di pelle, dietro di loro le rispettive bande e le mogli ad aspettarli fuori al freddo. C’erano solo due donne dentro la palestra del Boys Club: le presidenti delle uniche due gang femminili; Alley Cats e Savage Sisters. Però non erano sedute sul primo cerchio, assieme a tutti i presidenti e vice, erano appena dietro, assieme ai soldati. Così si è concluso quel trattato di pace, dove tutti, per una decina d’anni, hanno deciso di rallentare con le risse da strada. Meno morti, meno sospetti da parte della polizia. Per questo quei due ragazzi hanno deciso di riportare alto il valore di quello che facevano i loro antenati: combattere contro altre gang per avere un determinato territorio. Così, a quattordici anni, hanno formato la loro gang, hanno usato un fazzoletto rosso per simboleggiare il sangue di chi sarebbe morto e hanno deciso che l’unica regola era quella di essere americani. Solo degli Stati Uniti. E sono nati gli Eagles, hanno cominciato a reclutare ragazzi, si sono allenati, e in pochi mesi tutti parlavano degli Eagles. Ma non può esserci solo una banda, no? Se ce ne fosse solo una così forte da dominare tutto non sarebbe nemmeno divertente. Come fai a scippare qualcuno, se poi sai che è sotto la tua protezione? Come puoi sparare a un fratello che la pensa come te? Un paio di mesi dopo sono nati i Misfitous, che all’epoca erano i Misfit Promiscous. Che nome da coglioni, tra l’altro. Poi, non si sa chi, ha deciso di unirlo, perché potessero sembrare più cattivi. Alcuni dicono che noi siamo i discendenti dei Ducks, altri che i Misfitous lo sono dei Socials, detti Socs. La verità è che Eagles e Misfitous sono nati per rendere omaggio a tutte le gang del passato. E poi, un membro dopo l’altro, siamo arrivati agli Eagles che vedi qui attorno a noi». Non aveva mai smesso di parlare, mai. Si era quasi dimenticato della mia attenzione su di lui, impegnato com’era a giocherellare con la sabbia, come se le sue mani fossero una clessidra. Ryan si era dimenticato di me, sopraffatto dai ricordi. Ma quando lui era diventato il presidente degli Eagles? Come era morto il primo? E quanti presidenti c’erano stati prima di Ryan?
«Come si chiamava il primo presidente?». Ryan ne aveva parlato quasi come se l’avesse conosciuto; magari era suo padre o qualcuno che conosceva. La sua reazione mi stupì: mi guardò per qualche secondo immobile, per poi cominciare a ridere così forte da portarsi una mano sulla pancia. Che avevo detto di così comico?
«Lentiggini, delle volte sei così… stupida» sbottò, dandomi una pacca sulla spalla e alzandosi per raggiungere Sick e i gemelli, a qualche metro da noi. Mi lasciò lì da sola, mentre cercavo di capire perché la mia domanda l’avesse fatto ridere così tanto.
«Che cosa gli hai detto di così divertente?» sogghignò Brandon, prendendo il posto di Ryan di fianco a me e togliendosi la sabbia che gli sporcava le ginocchia. Mi guardò, sorridendo tranquillo, come se sapesse quello che mi aveva raccontato Ryan. Che l’avesse sentito, nonostante il tono basso? O forse, visto che Brandon era il suo vice, si erano messi d’accordo prima?
«Gli ho chiesto qual è il nome del primo presidente degli Eagles, quello che si nascondeva con il suo amico dentro al cofano vuoto della vecchia Mustang. Era suo padre o…». Idiota, ecco cos’ero. Ryan aveva pienamente ragione. Lui era il primo presidente degli Eagles e Brandon il suo amico, quello che l’aveva sempre appoggiato in tutto.
«Ora hai capito?» domandò, sempre di buonumore. Sembrava davvero rilassato lì, seduto su quel tronco, in riva all’oceano, mentre il sole lo colpiva in pieno viso, costringendolo a portare un paio di occhiali da sole che nascondevano i suoi occhi azzurri.
«Sì. Ma c’è una cosa che Ryan non mi ha spiegato. E visto che tu sei il suo vice… mi chiedevo: che cosa sono le Signore?». Mi ero fatta un’idea, ma preferivo saperlo da Brandon, così da capire bene a cosa si riferisse chi mi chiamava in quel modo.
«Le Signore sono le fidanzate o le mogli. Le ragazze di un componente. Quasi tutte le gang quando fanno le feste si divertono, ci sono ragazze come Butterfly che sono pronte a soddisfarci. Però, se uno ha una Signora, non la tradisce, capisci? Se qualcuno di noi avesse una Signora e noi vedessimo che la sta tradendo, dovremmo allontanarlo dagli Eagles. Non puoi trombare con una puttana, se hai una Signora che ti aspetta a casa, qualche lavoretto di bocca, ma è il massimo che puoi fare, capisci? C’è rispetto per le nostre Signore e non puoi tradirle. Forse per te anche questo è tradire, ma… è come se fosse un modo per sfogarsi» concluse, imbarazzato. Sembrava si fosse reso conto dopo dei termini che aveva usato; lui, che era sempre così serio e posato sembrava quasi aver preso la strana malattia di Sick.
«E nessuno di voi ha una Signora, o l’ha mai avuta?». In fin dei conti Butterfly parlava come se andasse a letto con tutti loro, e non avevo mai visto donne entrare o uscire dal loro appartamento: esclusa Butterfly, ovviamente.
«Adesso no, però ce ne sono state. Ma dovresti capire anche tu che non è così facile essere la Signora di uno di una gang. So che nei Misfitous Mike ha una Signora da un paio d’anni, è una ragazza che lavora in un negozio a New York, Kristin o una cosa così. Ma non si parla con le Signore delle altre gang, perché poi riferiscono. Non sono importanti come un Hard-cores, ma ti tengono per le palle, capisci? Hanno il potere». Quella sua strana affermazione mi fece ridere. Si stava davvero sforzando di non essere volgare, ma ogni tanto, quando si immergeva nel discorso, gli scappava qualche termine poco fine.
«E chi degli Eagles ha avuto una Signora?». Non sapevo davvero chi di loro fosse il tipo da avere una ragazza. Ryan, forse? Non me lo immaginavo di certo mentre portava cioccolatini o fiori a San Valentino. Nemmeno Sick era quel tipo.
«Sick. Ha avuto una Signora per un paio di mesi, era perso per lei o meglio, per le sue tette. A lei non è mai interessato molto di lui, diciamo che si divertivano assieme, e si sentiva, credimi. Poi lei è scappata in Italia e si è sposata con il ragazzo di sempre. Era anche simpatica, ma non nominarla a Sick, altrimenti comincia a raccontarti la storia, e credimi che va nei particolari delle loro sessioni… porno. Non nominare mai, mai, il nome di Claire con lui vicino, d’accordo?» sussurrò, guardando verso Sick che continuava a ridere, sorseggiando una birra. Annuii convinta, senza smettere di ridere all’immagine di Sick innamorato. «E poi Dollar. Sono convinto che è ancora innamorato di lei, ma non lo ammetterà mai. Dollar fa tanto il forte, ma lo sappiamo tutti che ha sedici anni, e lo sanno anche i suoi ormoni ogni volta che si avvicina a lei. Ci è cresciuto assieme, insomma. Infine, l’ultimo che ha avuto una Signora, per ben tre anni, sono stato io. Ma mi ha lasciato, quindi, perdonami, ma al momento non sono interessato a storie serie con te, Lexi». Ammiccò, facendomi ridere. Apprezzavo la sua sincerità e sapevo anche che era una battuta. Io non ero interessata a Brandon, non ero interessata a nessuno di loro, in verità.
Però, sapere che alcuni di loro, nonostante la vita tra pistole, risse, droga e morte, fossero dei ragazzi normali, con la voglia di costruirsi una famiglia, me li faceva amare ancora di più.
Non era un amore carnale, era come se fossero degli amici, come se dovessi proteggerli. Una cosa stupida, visto che in teoria, guardando la stazza fisica, era il contrario.
Ryan richiamò Brandon di fianco a lui per accendere il fuoco, e dopo essermi alzata per sgranchirmi le gambe, mi avvicinai a loro, sedendomi di fianco a Dollar che pensò fosse una buona idea circondarmi le spalle con un suo braccio.
«Così stai più calda, con quella canottierina prenderai freddo». La sua giustificazione era talmente stupida e infantile che liquidai la faccenda con una battuta. In verità, un paio d’ore dopo, il braccio di Dollar mi serviva davvero come coperta. Mi ero dimenticata di portarmi una felpa, cosa che i ragazzi avevano. Dollar aveva insistito tanto per prestarmi la sua, ma con la scusa di essere abituata alle feste in spiaggia e il fuoco a scaldarmi, riuscii a non accettare. Non volevo che si ammalasse per colpa mia, mi sarei sentita in colpa.
Ridacchiai, sentendo la battuta idiota di Sick riguardo una ragazza che ci aveva provato con lui –senza successo, perché era brutta – quando il cellulare di Ryan squillò, attirando l’attenzione di tutti che si zittirono.
«Che c’è?» sbottò Ryan, portandosi il ricevitore all’orecchio. Nessuno gli staccava gli occhi di dosso, in attesa di capire chi l’avesse disturbato. L’espressione di Ryan mutò all’improvviso: il sorriso che aveva fino a qualche istante prima svanì, lasciando spazio a una sorpresa iniziale che si tramutò in rabbia e forse in qualche altra emozione. «Dove sei?» domandò di nuovo, alzandosi in piedi e spegnendo il fuoco davanti a noi ricoprendolo con delle pedate di sabbia. «Dove cazzo lo stanno portando?» strillò, facendomi sussultare spaventata. Ryan sembrava fuori di sé: tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla, si slacciò la felpa, chiudendo subito dopo la chiamata con un ringhio.
I ragazzi erano già tutti in piedi, con i rispettivi caschi in mano, pronti a partire nonostante non sapessero di cosa si trattasse. «Cosa succede?» domandò Brandon, a voce di tutti.
«JC. Aria mi ha chiamato, stava andando a salutarlo finito il turno al Phoenix e quando è arrivata in officina l’ha trovato per terra. Gli hanno sparato su un fianco e ha un punto rosso disegnato sulla fronte. Sono stati loro, cazzo. Perché siamo stati così stupidi? Perché cazzo siamo venuti al mare? Lo sanno che veniamo qui ogni anno, perché prendersela proprio con JC, cazzo? Non è nemmeno un Hard-Cores, non sarà arrivato alla sua pistola, porca puttana». Ryan indossò il casco, tendendomi l’altro perché seguissi il suo esempio. Nessuno parlava, nessuno osava contraddirlo, anche perché, ne ero convinta, sarebbe stato stupido farlo. Era furioso, molto più di quando erano morti Liam e Shake. Ma, mi sembrava di aver capito che JC fosse ancora vivo. «Tieni, mettiti questa». Mi porse la felpa che si era levato qualche minuto prima, perché la indossassi.
«Ryan, tienila tu» mormorai, sicura che lui avrebbe sentito molto più freddo di me, visto che il suo corpo, durante il viaggio in moto, mi avrebbe riparata dal vento freddo della notte newyorkese.
«Indossa questa fottuta felpa prima che ti faccia seriamente del male». La strattonò, lanciandomela quasi addosso. Forse non dovevo più contraddirlo, non era il momento e di certo non stava scherzando. Chiusi velocemente la zip, cercando di arrotolare le maniche decisamente troppo lunghe. «Adesso ti porto a casa e poi noi andiamo al St. Barnabas, Aria ci aspetta lì. Voglio arrivare prima che sia troppo tardi, Aria ha detto che ha perso troppo sangue». Aria era in ospedale con JC? Perché?
«Voglio venire in ospedale con voi, vorrei stare con Aria». Probabilmente Ryan mi avrebbe uccisa. Questa idea mi terrorizzò al punto che cercai di raggomitolarmi su me stessa, mentre mi sistemavo sulla sua moto.
Mi aspettavo una nuova sfuriata che non arrivò: Brandon gli appoggiò la mano sulla spalla, attirando la sua attenzione. Quando Ryan lo guardò, cercò di respirare profondamente, fermandosi.
«Aria ne avrà bisogno e se non la portiamo a casa arriveremo prima» suggerì Brandon. Quell’idea sembrò convincere Ryan che, annuendo, salì in moto, dando gas per accenderla.
Il viaggio di ritorno non era paragonabile a quello dell’andata. Se, quella mattina, Ryan faceva l’idiota correndo, in quel momento non si rendeva nemmeno conto della velocità a cui ci muovevamo: il vento che fischiava anche se avevo il casco, l’aria che mi feriva come se fossero stati dei coltelli sulle gambe e la mano di Ryan appoggiata alle mie, che stringeva la presa, come se avesse paura che potessi volare via.
Ero appiattita contro di lui, cercando di scaldarlo; sapevo di non riuscirci, ma cercavo di abbracciarlo il più forte possibile, anche per non essere catapultata via dalla moto. Non sarebbe mai successo con la presa salda delle dita di Ryan attorno ai miei polsi.
Quando, quasi un quarto d’ora dopo, arrivammo davanti al Pronto Soccorso del St. Barnabas, i motori delle moto dei ragazzi si spensero contemporaneamente. Ryan lasciò la presa sulle mie mani, mettendo il cavalletto alla moto e scendendo subito dopo. Si allontanò, seguito da Brandon e dagli altri, senza nemmeno aspettarmi, tanto che, dopo essere scesa dalla moto con qualche problema, cominciai a correre per raggiungerli. Quando ci riuscii, avevano appena parlato con l’infermiera all’accettazione, che indicò un corridoio alle sue spalle.
Ryan, Brandon e Dollar davanti, Sick e i gemelli dietro e io per ultima.
Dollar aprì la porta, ansioso forse più di Ryan di sapere come stesse JC, ma, quando entrai anche io, rimasi pietrificata dalla scena: Aria, stretta tra le braccia di Dollar che la cullava, stava piangendo; i suoi singhiozzi erano gli unici rumori che si sentivano.
«Mi dispiace così tanto, Aria» mormorò Dollar, accarezzandole la schiena lentamente.
JC non ce l’aveva fatta, così aveva singhiozzato Aria, senza smettere di piangere tra le braccia di Dollar. Quando lui la accompagnò fuori per farle prendere una boccata d’aria, un silenzio quasi doloroso calò dentro alla sala, fino a quando, in lontananza, sentii il rumore dei fuochi d’artificio del quattro luglio: la gente festeggiava l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, noi, invece, eravamo in un corridoio d’ospedale, sconvolti dalla morte di JC.
Non c’era assolutamente niente da festeggiare, e il rumore di quei botti cominciava a innervosirmi: diventava sempre più forte e più frequente, entrandomi dentro e confondendomi.
Socchiusi gli occhi, cercando di calmare il mio respiro e, nel momento in cui li riaprii, il rumore dei fuochi d’artificio cessò: un silenzio sordo, che mi terrorizzò, di nuovo.

 
 
 
 
Se c’è qualcuno ancora sveglio, vi prego, battete un colpo! :D
Siete sveglie e pronte? Perché dopo un capitolo lungo il doppio, ci sono anche le note!
Duuuunque, prima di tutto, se siete arrivate fin qui, vi ringrazio, vuol dire che qualcosina-ina di gang vi interessa (o forse vi interessa il morto? Mah). In ogni caso, ci terrei a specificare delle cose, per essere precisi e per ricordarvi, come sempre, che non invento e tantomeno copio da qualche telefilm o altro.
Dunque, prima di tutto partiamo dallo scoppio di Lexi: non era preventivato, nel senso che non l’avevo mai pensato, poi, mentre scrivevo, mi sono messa a piangere con lei, perché in qualche modo mi sembrava ne avesse bisogno e forse è questo il motivo per cui, il giorno dopo, affronta tutto con più serenità. È come se si fosse liberata di tutte le emozioni che ha incamerato da quando è arrivata e fosse pronta a ricominciare di nuovo. Una cosa è certa: si è resa conto di quello che è successo, però, anche se sembra un comportamento strano, non riesce a staccarsi da Brandon, perché deve rimanere aggrappata alla realtà.
Per quanto riguarda la parte storica, la storia dell’OG, dei nomi da strada, della morte del capo (che è l’unico modo per uscire dalla gang) e dei Maya che portano i soldi e vengono derubati perché non hanno documenti e quindi non possono denunciare nessuno alla polizia… è tutta vera. L’ho trovata scritta in più saggi e interviste, e siccome mi sembrava carina, ho deciso di metterla. Spero che dopo la precisazione che Ryan è l’OG degli Eagles, sia chiaro il perché hanno quel rapporto con lui: non è paura, semplicemente rispetto per il loro capo. E da qui nasce anche la differenza di comportamento tra gli Eagles e Brandon. Lui, oltre a essere il vice e avere quindi più potere rispetto agli altri, è sempre stato amico di Ryan, un po’ come se fosse un po’ OG anche lui, ecco. Ah sì, in SoA tutti hanno un grado, pensavo questa cosa fosse inventata, ma alla fine non lo è, semplicemente, il loro ‘Presidente’ è l’OG delle gang di NY, ecco. Per il resto è uguale, tranne la differenza di alcuni nomi (da Gonna Be a Prospect).
L’Hoe Avenue Peace Meeting è avvenuto sul serio e tutto quello che ho scritto a riguardo è vero; il nome delle gang, le due gang di ragazze che, pur essendo ammesse non avevano il privilegio di rimanere sedute nella prima fila assieme a tutti gli altri presidenti, le mogli che attendevano fuori… tutto vero, anche la parte dell’OG dei Ghetto Brothers che è stato assassinato perché cercava di fermare una rissa tra due gang. Questo perché lui era per la pace tra le gang, e cercava di convertire tutti (da questa idea i GB avevano cercato di convertire le gang con l’Hoe Avenue Peace Meeting. Cosa che non è successa, come ho scritto).
Cosa è inventato? La storia degli Eagles, naturalmente. Da quando Ryan entra in gioco tutto è falso, anche perché, nonostante io vi abbia detto che Eagles e Misfitous sono basati su Bloods e Cribs, questi non sono delle gang nate per riportare alto l’onore delle gang. Dopo l’HAPM tutte le gang hanno continuato con il loro lavoro, con la nascita di altre gang.
Ancora una volta, il concetto di Signora l’ho preso da Sons of Anarchy, dove succede esattamente quello: non puoi tradirla con un rapporto completo perché gli altri ragazzi possono anche escluderti dalla banda. Diciamo che, in qualche modo, ha un senso. Se pensiamo che sono circondati da ragazze… espansive (chiamiamole così) che cercano in tutti i modi di diventare Signore (per la protezione, il potere e la fama che si ha con questo ruolo), capiamo che per un uomo non è facile resistere. Sarebbe come vivere perennemente in un video di 50 cent senza poter muovere un muscolo. Quindi, chi non ha Signora è libero di muoversi anche troppo, chi invece ce l’ha, deve stare attento a quello che muove. Rapporto completo: esclusione dalla gang e in ogni caso si dice alla Signora che l’uomo l’ha tradita. C’è tanto rispetto per le donne, dico davvero.
Ultima cosa, poi giuro che ho finito: il punto rosso che JC ha in fronte è il biglietto da visita dei Misfitous. Quello degli Eagles non l’ho volutamente mai nemmeno menzionato, perché fino a questo momento non vi interessava. Perché un punto rosso? Perché non ho trovato di meglio. Ahahha, no, seriamente: avevo pensato a qualcosa che potesse ricordare il fatto che sono emarginati, che sono di tante etnie e l’unica cosa che aveva un senso, forse, era un punto rosso che simboleggia l’unione di diversi tipi di sangue, di diverse etnie, ecco.
Volevo qualcosa di ‘significativo’ un po’ come i Baldies (quelli di the Baldies were coming) che rasavano le teste come biglietto da visita. Un codice, ecco: testa rasata? Hai incontrato i Baldies.
In SoA, ad esempio, loro lasciano la A cerchiata (simbolo degli Anarchici), e un’altra banda lascia la croce uncinata, per farvi capire che questa cosa non è inventata né da me, né tantomeno da Sutter.
La morte di JC… diciamo che è un avvenimento importante, perché, visto che lui non è un Hard cores, ma semplicemente un Associates, è come se i Misfitous avessero aperto una sfida. Ma mi fermo qui, per non spoilerare troppo, suvvia!
Detto questo, credo davvero di aver sforato anche con le note (c’è un limite per le note?) e quindi, come sempre, ringrazio preferiti, seguiti, da ricordare, chi ha anche il coraggio di inserirmi tra gli autori (che non è una parola che mi descrive) preferiti, chi legge e chi commenta. Non so mai come ringraziarvi davvero, perché siete sempre tantissimi!
Infine, come sempre, vi ricordo che potete trovarmi qui: NERDS’ CORNER. È il gruppo spoiler, dove, tra l’altro, ho già inserito i volti dei due nuovi Gonna-Be degli Eagles. Vi ricordo che iscrivervi è gratis e non c’è tassa, sapete però, che se lo fate è a vostro rischio e pericolo, perché rompo le palle spesso.
Chiudo davvero, stavolta.
Grazie ancora, se siete sveglie e vive.
Rob.

 

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Capitolo 10
*** Lexi's secret ***


YSM
 
 
Nei giorni successivi mi ritrovai catapultata in un vortice di emozioni che faticavo a gestire.
Lavoro, Eagles, Aria… dovevo assolutamente dedicarmi a chi stava soffrendo di più in quel momento. Su una scala da uno a dieci, il dieci apparteneva ad Aria: lei era più importante di tutti. Dopo la morte di JC, Aria si era lasciata andare: non veniva più al Phoenix e, quando passavo a casa sua di sera, la trovavo rannicchiata sul divano, con gli occhi arrossati dalle lacrime. Per questo, quando mi aveva raccontato che JC – suo zio – era il proprietario dell’officina della storia di Ryan, avevo capito perché i ragazzi avessero reagito così male alla notizia della sua morte.
JC era un po’ il loro mentore, forse quello che li aveva visti nascere, non portava il flag, ma ero sicura che fosse praticamente un Eagles a tutti gli effetti; e, anche se non ci avevo parlato spesso, sapevo che doveva essere un bravo ragazzo. Aria non parlava quasi mai di lui quando rimanevo lì di fianco a lei; piangeva, cercando di trattenersi senza successo.
E lo stava facendo anche in quel momento, mentre le circondavo i fianchi con un braccio, camminando di fianco a lei, sotto a quel viale alberato che conduceva a tutte quelle tombe.
I ragazzi erano davanti a noi: avanzavano silenziosi e a capo chino, lasciando che il flag uscisse dalle loro tasche, svolazzando per il vento afoso che c’era. Dietro di noi, una piccola folla di gente, probabilmente clienti abituali di JC e della sua officina.
Non c’erano nessuna compagna o figli, JC non aveva famiglia – come mi aveva spiegato Aria –, la famiglia era il suo lavoro. La famiglia era ritrovarsi con i ragazzi a tarda notte, quando l’officina era chiusa e potevano sistemare le moto, truccandole per farle correre più veloci e silenziose.
Mi sistemai di fianco ad Aria, in prima fila, poco distante da quella bara marrone, ricoperta dalla bandiera a stelle e strisce e da un cuscino di rose rosse. Continuavo a sentire i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di trattenerli; ma sapevo che era impossibile. Aria considerava JC come un genitore, più che come uno zio. Non sapevo cosa fosse successo ai suoi veri genitori, ma sicuramente JC l’aveva cresciuta e amata come se fosse stata sua figlia. Per questo, Aria sembrò calmarsi solamente quando Dollar, sedutosi di fianco a lei, la fece appoggiare contro il suo petto, lasciando che si sfogasse e sussurrandole qualcosa all’orecchio.
«Tutto bene, lentiggini?» mormorò Ryan, sedendosi di fianco a me, con un sospiro stanco. Annuii solamente, cercando di non peggiorare la situazione: avevo un groppo alla gola che sapevo mi avrebbe fatto tremare la voce se solo avessi cercato di parlare. Vedere i ragazzi e Ryan così provati poi, mi faceva stare ancora più male. Perché anche loro erano umani, nonostante le armi, nonostante le battute idiote e nonostante tutto: sapevano amare, provavano emozioni vere, oltre alla rabbia e all’odio.
Per questo, ne ero sicura, lasciai sfuggire una lacrima quando il pastore cominciò la funzione. Continuavo a guardare la foto stampata sulla lapide, quel nome e quei numeri, troppo vicini per pensare che JC avesse potuto davvero vivere fino in fondo la sua vita.
Quando, all’ordine di dire qualcosa, Dollar si alzò dalla sedia, schiarendosi la voce, lo guardai sorpresa: credevo fosse Ryan a parlare di JC, raccontando a tutti quello che aveva detto a me, la sua infanzia all’officina, il suo creare gli Eagles e considerare JC come uno di loro.
«Io… io non sono tanto bravo con le parole, ma vorrei davvero dire qualcosa per JC. Ecco, lui… lui era come un padre per me. Non voglio offendere Ryan e gli altri ragazzi che mi hanno insegnato a vivere, ma JC, lui è stato come un papà, perché mi ha insegnato ad amare, mi ha concesso di amare». Il suo sguardo, con un sorriso amaro si posò su Aria, che sorrise, asciugandosi una nuova lacrima che scivolò sulla sua guancia. «Insomma, quando mi ha trovato fuori dalla sua officina perché mi avevano abbandonato non ci ha pensato due volte e mi ha portato a casa con lui. Poi si è comportato da coglione e mi ha fatto conoscere Ryan, ma prima ha cercato di proteggermi, insegnandomi a fidarmi delle persone. E io l’ho fatto Jay, io mi sono fidato di te, perché la fiducia dovevi meritartela, no? Eri un pezzo di merda con i clienti, ma non ti sei mai lamentato quando ti accorgevi che ti rubavo venti dollari per prendermi le caramelle prima e la roba dopo. Sei stato tu che mi ha dato questo soprannome, no? Perché prendevo i soldi dollaro per dollaro, nascondendoli dentro alle mutande». Dollar si interruppe, lo sguardo distante e triste, nonostante ci fosse un sorriso sulle sue labbra. «E poi, quando ha visto che Aria non mi interessava solo per copiare i suoi compiti, mi ha dato anche il permesso per trombarmela. E lo ringrazio per questo, insomma…». Di nuovo il suo sguardo saettò verso Aria, allibita da quello che aveva sentito. Il pastore si schiarì la voce, attirando l’attenzione di Dollar che si scusò per il linguaggio che aveva usato. «E poi… niente, grazie a JC sono diventato l’Eagles più giovane e portavo il flag già a scuola, vantandomi. Solo che mi sento di non averlo mai ringraziato a sufficienza, insomma. Era JC e lo prendevo sempre in giro, ma lui è stato buono con me, forse a quest’ora, se non fosse per lui, non sarei qui. Sì, quel coltello mi ha distrutto la faccia quando l’ho difeso, ma sai cosa ti dico, Jay? Che ne vado fiero, perché l’ho fatto per te. E forse, amico, lo rifarei altre mille volte, perché della mia faccia non me ne fotte un cazzo, ma vorrei averti con me, ancora. Sei uno stronzo e voglio che tu lo sappia. E forse, per una volta, sei tu che mi hai fottuto, ma me la pagherai». La mano di Dollar si appoggiò sulla bara, esattamente come se avesse lasciato una pacca sulla spalla a JC. Forse lo fece davvero, perché scosse lentamente la testa, tornando a sedersi di fianco ad Aria, che lo abbracciò, lasciandogli un dolce bacio sulla guancia.
«Grazie» mormorò poi, nascondendo un singhiozzo contro il petto di Dollar. Nonostante le lacrime mi offuscassero la vista, non riuscii a non sorridere, guardandoli: Aria e Dollar erano dolci e, dopo le parole di Dollar, non riuscivo a non pensare che, da piccoli, dovevano per forza essere stati terribili, uniti e bellissimi.
«Sei un fottuto bastardo, e mi manchi. Fottiti». Ryan si era alzato e continuava a stringere un pugno, appoggiato sopra al legno scuro. La mano gli tremava, non quanto la voce. Sembrava quasi dispiaciuto, ma non riuscivo a capirlo perché, come ogni volta, c’era quella patina di rabbia che nascondeva tutte le sue vere emozioni. Ryan era come un camaleonte, si nascondeva dietro la rabbia per non farsi vedere, perché la gente non potesse capire quello che realmente stava provando.
Lasciai che tutti gli Eagles salutassero JC, con una frase emblematica o solo una parola; nessuno era però riuscito a eguagliare il discorso di Dollar, forse perché non ci avevano davvero provato. Dollar, lui aveva scatenato qualcosa anche dentro di me, delle emozioni intense, probabilmente perché sentire l’impatto che JC aveva avuto sulla sua vita non era stato facile.
E non riuscivo a non pensare ancora a quelle parole mentre, seduti tutti taciturni attorno a quel tavolo del Phoenix, sorseggiavamo una birra. Aria continuava a piangere silenziosamente, cullata da Dollar che le accarezzava il braccio e la spalla delicatamente e in modo continuo. Non poteva che essere lei la Signora di Dollar, quella che lui segretamente ancora amava. Perché con me scherzava e faceva lo stupido, ma con lei… si comportava esattamente come una persona innamorata.
Lasciai che il mio sguardo vagasse su tutti loro: Aria e Dollar, Josh e Paul, Sick, Brandon e Ryan. Fu su di lui che mi soffermai, notando quanto fosse stanco e provato. Era da quando aveva ricevuto la notizia della morte di JC che non riuscivo nemmeno più a scorgere il suo ghigno che mi dava sempre i nervi.
Ryan si era… spento da quando eravamo tornati da Coney Island. Improvvisamente collegai tutti i puntini, inorridendo davanti alla verità che non volevo vedere.
«Mi dispiace, è colpa mia» mormorai tenendo lo sguardo basso, incapace di sostenere la visione dei loro occhi tristi. Era tutta colpa mia, perché se non mi avessero accompagnata a Coney Island, non sarebbe successo nulla e i Misfitous non avrebbero ucciso JC. Era tutta colpa mia, di nuovo. Forse non avrei mai dovuto socializzare con loro, non dovevo fare in modo che abbassassero la guardia, visto che la loro vita era sempre in pericolo. Ero una stupida.
«Che cazzo dici, lentiggini?» sbottò Ryan, strattonandomi un braccio per costringermi a lasciare il boccale di birra mezzo vuoto e voltarmi verso di lui. Non potevo sostenere il suo sguardo, non ero pronta e non volevo. Ryan era di sicuro infuriato con me per la morte di JC, e aveva ragione, anche io ero arrabbiata con me stessa.
«Sì, è tutta colpa mia se... se è morto, non dovevamo andare a Coney Island». Continuavo a guardare le mie mani, intrecciate sul mio ventre. Sentivo gli sguardi di tutti addosso a me, ma non avevo il coraggio di affrontarli. La verità era che mi sentivo codarda. Codarda perché avevo aspettato tre giorni per ammettere che ero la causa della morte di JC, codarda perché non avevo avuto il coraggio di dirlo al funerale e codarda perché non riuscivo a guardare nessuno negli occhi, troppo colpevole per quello che avevo fatto.

«Lexi, non è colpa tua». La mano di Brandon si appoggiò sulla mia spalla sinistra, cercando di consolarmi. Era gentile da parte sua, ma non ci credevo e di certo non servivano due parole per togliere il mio senso di colpa. Cercai di rispondergli, ma Aria, con la voce rotta dal pianto, intervenne, facendomi gelare il sangue nelle vene.
«Lexi, non dirlo nemmeno per scherzo, non è colpa tua. Tu non c’entri». Allungò la mano sopra al tavolo, cercando la mia che non si mosse, troppo schiacciata dal senso di colpa. Non potevo guardarla, non quando sapevo di averle portato via un parente. E non potevo nemmeno contare su Dollar, visto quello che JC aveva rappresentato per lui.
«No, è solo colpa mia. Non vi disturberò più. Cercherò un nuovo appartamento, così non morirà più nessuno per colpa mia. Mi dispiace». Aria non ritirò la mano, come se cercasse di farmi capire che non c’era niente di male in me e non fosse davvero colpa mia.
«Apri quelle cazzo di orecchie, lentiggini: non è colpa tua se hanno ucciso JC. La gente muore da queste parti, la gente muore ovunque: qui, dove cazzo abitavi e anche in altri posti. La gente muore, questo è il succo. JC è stato ucciso? Sì, hai ragione, ma non c’entri un cazzo tu e non è colpa tua se è successo. Aspettavano il momento opportuno, che sarebbe stato il giorno dopo, se solo il mio fottuto piano fosse stato messo in atto. Quindi non inventare palle dicendo che JC è morto per colpa tua. JC si è fottuto da solo quando ha deciso di starci vicino e di appoggiarci. Sapeva a cosa andava incontro e non se ne è mai pentito, mai. Sa… sapeva che la sua vita sarebbe stata in pericolo, ma ha deciso di rischiare perché per lui gli Eagles e quello che rappresentavano avevano un senso. Ci credeva. E non voglio più sentire queste fottute parole uscire dalla tua bocca. Tu non c’entri con JC, cazzo». La mano di Ryan era sempre più salda sul mio braccio che continuava a scuotere con forza, come se volesse svegliarmi da un incubo. Certo, il suo discorso non faceva una piega, ma parlava così semplicemente perché loro non sapevano. Se solo avessero saputo…
«Non capite… sono io che faccio morire le persone, porto sfortuna». La presa della mano di Ryan si allentò di colpo, mentre tutto il tavolo cominciava a ridere. Alzai lo sguardo, accorgendomi che nemmeno Aria –nonostante avesse una lacrima che solcava la sua guancia – si era trattenuta. Cosa avevo detto di tanto divertente?
«Cosa sei, tipo un gatto nero?» ghignò Ryan, cercando di calmare la sua risata con un sorso di birra. No, non ero un gatto nero, ero addirittura peggio.
«No, io… io…» balbettai, rigirandomi il boccale mezzo vuoto tra le mie mani. Dovevo dirlo; sapevo che mi sarei levata un peso e soprattutto avrebbero capito che non era colpa loro se JC era morto.
«Lexi, che cosa è successo?». Sapevo che la domanda di Brandon non era posta perché voleva ficcanasare nella mia vita, era il suo modo di fare, come se avesse capito che c’era qualcosa che mi bloccava, qualcosa che mi impediva di essere la Lexi spensierata che faceva tardi la notte, si ubriacava e il giorno dopo si sentiva talmente in colpa da chiudersi in camera e studiare per ore, pur di passare l’esame.
«Nie… niente» mormorai, scuotendo la testa lentamente, mentre cercavo di cacciare via quelle lacrime traditrici che volevano a tutti i costi uscire per farsi vedere. Inutile, visto che una scese lungo la mia guancia prima che potessi toglierla con la mano.
«Perché sei scappata da Los Angeles?». Dollar, così serio e attento, continuava a tenere il braccio attorno alle spalle di Aria, senza però staccare lo sguardo da me.
In verità, gli sguardi di tutti erano su di me: Dollar, Aria, Lebo, Josh e Paul, Brandon e Ryan, entrambi di fianco a me. Guardai alla mia sinistra, verso Brandon, il suo sguardo era dolce, quasi come se non volesse veramente obbligarmi a parlare di quel segreto che cercavo di nascondere a tutti, come se, in qualche modo, sapesse quello che era successo.
Ryan… lui invece continuava a osservarmi con un sopracciglio alzato, in attesa di sentire la mia storia, la mia vera storia.
«Io… il, il primo di giugno c’era l’esame di Anatomia. Io l’avevo già superato l’appello prima, ma… Sophie ed Edge no. Loro sono… erano, i miei migliori amici. Dovevamo festeggiare assieme, perché entrambi erano riusciti a superarlo con una A-, ma quella sera avevo il turno di volontariato all’ospedale e non potevo non presentarmi. Così ho assicurato a Sophie che li avrei raggiunti al bar del campus, non appena avessi finito: dovevo accompagnarli a casa io, perché sapevo che si sarebbero ubriacati. Poi un bambino si era ferito gravemente e io non potevo abbandonarlo, così ho mandato un messaggio a Edge, gli ho detto che ci saremmo rivisti a casa e… e dopo hanno chiamato l’emergenza perché c’era stato un incidente e…». Smisi di parlare, cercando di scacciare dalla mente quei ricordi che avevo cercato di cancellare. Nessuno di loro parlava, tutti stavano aspettando che io concludessi il mio racconto, così presi un respiro profondo, prima di tornare con la mente a quella maledetta sera. «Siamo usciti in ambulanza, correndo disperatamente verso quell’incrocio, io mi sono dimenticata di guardare il mio cellulare. E quando siamo arrivati, non volevo nemmeno guardare la targa di quella BMW, perché non volevo trasformare in certezza la paura che mi faceva tremare le ginocchia. Edge era in mezzo alla strada, non… non c’era più nulla da fare per lui; era balzato fuori dall’auto a causa dell’urto contro quell’albero, probabilmente perché non aveva la cintura di sicurezza. Edge non la metteva mai, soprattutto quando guidava. Sophie però, lei… lei siamo riusciti a tirarla fuori dalla macchina con l’aiuto dei Vigili del fuoco; era viva, così le abbiamo messo il collare e dopo averla caricata in barella siamo subito partiti in ambulanza verso l’ospedale. Io… io non sono riuscita a fare quello che dovevo, non ero lucida, non… non ci sono riuscita, perché continuavo a piangere e Sophie mi chiedeva perché, visto che non riusciva a vedere la sua gamba dilaniata. È stata tutta colpa mia, se solo fossi andata in quel bar al posto di andare a fare quello stupido turno di volontariato non sarebbero… loro sarebbero con me». Non mi ero nemmeno accorta di quanto stessi piangendo, non fino a quel momento, quando appoggiai la fronte sulle braccia, nascondendo il viso a tutti. Era la prima volta che raccontavo quello che era successo nei minimi dettagli. Nemmeno i miei genitori sapevano tutti quei particolari e forse, proprio per quel motivo, non avevano compreso la mia scelta di andarmene e abbandonare tutto. Per loro mi ero dimostrata debole, come se la mia vita si fosse sempre basata su Edge e Soph. Loro non capivano che era colpa mia, se non c’erano più. Io, che avevo sempre sognato di fare Medicina per salvare le persone, avevo fallito proprio nel salvare quelle a cui tenevo di più. Per questo mi spaventava l’idea di tornare in sala operatoria, l’idea che la vita di una persona potesse dipendere da me, dalle mie mani. Nessuno riusciva a capire la sensazione che provavo.
E probabilmente non lo capiva nemmeno la persona che mi aveva appoggiato la mano sulla testa, in un accenno di carezza. Ero talmente provata da quel ricordo, che non avevo nemmeno la forza per alzarmi e guardare chi fosse.
«Lexi, non è colpa tua, hanno deciso loro di guidare da ubriachi. Se ci fossi stata anche tu in quella macchina adesso non saresti nemmeno viva, non ci hai mai pensato?». Brandon e il suo voler tranquillizzarmi, ma questa volta non aveva ragione, no. Eppure, come a voler supportare la sua idea, Dollar e Aria cercarono di calmarmi, ripetendomi che non era colpa mia, che era stata una loro decisione.
«Dai, Doc, non è colpa tua, no? Hanno deciso di non aspettarti e se ne sono andati. Tu avevi detto che avresti fatto tardi, potevano prendere un taxi. Non puoi pensare che sia stata colpa tua, andiamo». Dollar continuava a sorridere, con quella smorfia che gli increspava la pelle della cicatrice, rendendolo pauroso. Ma, forse perché un po’ lo conoscevo, non riuscivo a vederci niente di pauroso in quegli occhi verdi; anzi, mi sembrava addirittura buffo, con quell’espressione.
«Se vuoi, Lexi, possiamo chiuderci in bagno per cinque minuti. Potresti uscire piangendo di nuovo, ma di sicuro non per lo stesso motivo».  Sick, oltre alla battuta che mi fece ridere tra le lacrime, ci aggiunse anche un ammiccamento così comico da farmi dimenticare, per qualche istante, tutto quello che avevo appena raccontato.
C’era uno strano silenzio dentro di me che contrastava con il suono delle risate dei ragazzi attorno; come se il continuo borbottare  confuso dei fantasmi che mi accompagnavano da un paio di mesi si fosse interrotto. Come se, parlarne a voce alta con qualcuno, mi avesse tolto un piccolo – grande – peso.
«Su, lentiggini. Bevi un po’ per dimenticare, è così che si fa da queste parti». Ryan mi punzecchiò il fianco con il gomito, ghignando. Apprezzavo il suo – il loro – tentativo di sollevarmi il morale, evitando di farmi pensare a quello che era successo; in fin dei conti, con una birra o due, cosa sarebbe mai potuto succedere?
 
Chissà perché continuavano a fare battute divertenti, tanto che non riuscivo a smettere di ridere. Dollar e Sick poi erano davvero esilaranti. Ryan parlava poco, ma quando lo faceva diventava davvero ironico. Aveva ragione: con una birra tutto si era risolto; pensavo poco a Sophie ed Edge e mi stavo godendo quella serata.
«Vorrei… vorrei un’altra birra, sì!» strillai, appoggiando il boccale vuoto sopra al tavolo e cercando di richiamare l’attenzione di John che vagava tra i tavoli quasi deserti con un’aria triste. Forse, con qualche sorso di birra si sarebbe divertito anche lui lì, assieme a noi.
«Sei ubriaca. È meglio se smetti di bere». Eccolo lì, pronto a rovinarmi tutto il divertimento come il suo solito. Cosa gli interessava se bevevo un altro po’ di birra? In fin dei conti non era il mio O.G., quindi non dovevo di certo sottostare ai suoi ordini, no?
«No. Non son-biaca, ho sete» specificai, senza smettere di ridere e ammonendolo con l’indice perché la smettesse di criticare ogni mio gesto o comportamento.
«Stai ridendo da mezz’ora e hai la testa che ciondola a destra e a sinistra; nel tuo corpo c’è più birra che sangue e sei andata in bagno sei volte. Non sei ubriaca?». Cosa c’era di tanto divertente in quello che aveva detto che lo faceva ridere? No, un momento, la risata che sentivo non proveniva dalle labbra di Ryan.
«Mi scappa la pipì» protestai, incrociando le braccia sotto al seno e guardando arrabbiata il bicchiere davanti a me. Spostai lo sguardo sul tavolo di legno, accorgendomi che non c’era solo un bicchiere, ma ce n’erano tanti, la maggior parte vuoti. Quanto avevano bevuto? «Siete degli ubriaconi, lo sapete? Gua-guardate quanti bicchieri vuoti». Cercai di contarli, ma era difficile, visto che continuavano a spostarsi di qua e di là, senza che riuscissi a fermarli.
«Portala in bagno che poi torniamo a casa. Ho l’impressione che il tragitto sarà lungo» sospirò qualcuno di fianco a me. Mi voltai arrabbiata, cercando qualcosa di cattivo da dire, ma non appena guardai Ryan, non riuscii a trattenermi e cominciai a ridere, così, senza un apparente motivo. In verità, non riuscivo a rimanere seria guardando la sua faccia buffa. Ero sicura che assomigliasse a qualche personaggio di un film che avevo visto, ma non ricordavo il nome.
«Lexi, andiamo in bagno» ridacchiò Aria, mentre Ryan mi prendeva per le spalle, mettendomi in piedi a forza. Che modi! Non ero mica incapace di camminare, insomma.
«Oh» mormorai, ritrovandomi con il sedere per terra e le gambe all’aria. Guardai davanti a me, in alto: Ryan continuava a fissarmi, indeciso se ridere o rimanere serio. Aria invece, trattenendo a stento un attacco di risa, cercò di aiutarmi, dandomi la mano perché potessi alzarmi. Chissà perché ero caduta.
«Dovremmo filmarla e farle vedere il video quando è lucida» propose Ryan, quando, assieme ad Aria, mi incamminai verso il bagno. Chi dovevano filmare, Aria? Era così ubriaca da aver detto qualcosa senza senso?
La guardai, mentre teneva la porta del bagno aperta perché entrassi, ma non stava dicendo niente, aveva solo un sorriso sulle labbra che non se ne voleva andare; un sorriso che un po’ contrastava con i suoi occhi arrossati per il pianto.
Quando uscii dal bagno, sussultai accorgendomi che c’era qualcuno davanti a me, che imitava tutti i miei gesti. «Aria» mormorai, avvicinandomi a lei perché la strana persona non potesse sentirci, «c’è una che imita tutto quello che faccio io». Senza che la ragazza davanti a me potesse notarmi, indicai con un gesto del mento il punto esatto in cui si trovava, ma Aria non guardò nemmeno, cominciò a ridere, appoggiandosi a me per sostenersi. Non sapevo perché, ma era talmente divertente che cominciai a ridere anche io, mentre, sostenendoci l’una con l’altra, uscivamo dal bagno sotto lo sguardo confuso di John.
C’era qualche problema per il fatto che stavamo ridendo? Non potevamo essere felici anche se c’era stato, poche ore prima, il funerale di JC? Ero sicura che, anche se non lo conoscevo bene, non si sarebbe arrabbiato perché ci eravamo scolate un paio di birre. O forse tre, avevo perso il conto.
«Aria, sei ubriaca?». Dollar si avvicinò a lei, appoggiandole una mano sulla spalla e portandole l’altra sotto al mento, costringendola ad alzare lo sguardo verso di lui. Lo sguardo che ci scambiammo io e Aria, prima di cominciare a ridere, sembrò irritare Dollar, che le circondò le spalle, borbottando qualcosa sul portarla a casa sua.
«Aspetta. Io voglio stare con lei, mi diverto». Perché doveva dividermi da Aria? Ci stavamo divertendo così tanto. Probabilmente Dollar fraintese quello che avevo detto, perché cominciò a ridere, assieme a tutti gli altri, avvicinandosi verso l’uscita con Aria, prima di dire a Ryan che li avrebbe raggiunti il più presto possibile.
«Forza, lentiggini, è ora di andare a casa» sospirò Ryan, alzandosi dallo sgabello e avvicinandosi a me. Perché si stava muovendo così, a destra e a sinistra, come se stesse ballando?
«Perché ti muovi in quel modo strano?» chiesi, portandomi un indice al mento, pensierosa. Quello strano modo di muoversi l’avevo visto da qualche parte, forse studiato a scuola…
«Non sono io che mi muovo lentiggini, sei tu. Andiamo a casa» mi riprese Ryan, agitandosi ancora di più. No, era lui che si muoveva, inutile che mentisse con me, non ero ancora scema.
«Ti muovi come se… come la teoria della tettonica delle placche, sai? Hai un piede in Africa e uno in America, che potrebbe anche essere visto che sei alto come un gigante». Ecco cosa c’era di così strano. Si muoveva con un moto ondulatorio – o era circolatorio? –.
«Tettonica delle… andiamo a casa, è completamente andata». Ryan parlava con Brandon e Sick, di fianco a lui, visto che Lebo e quelli che si assomigliavano stavano parlando con John, poco distante da noi. Brandon annuì, dandogli ragione, Sick invece non la smetteva di ridere, divertito da qualcosa.
«Io so che le tette si muovono, la tettonica non la conosco, ma conosco una tettona». Sick si divertiva proprio tanto, e, in fondo, la sua battuta non era così brutta, tanto che cominciai a ridere, avvicinandomi a lui per stringergli la mano: era così divertente quello che aveva detto che volevo congratularmi con lui.
«Sick, cazzo, non darle corda, guarda come si è ridotta. Andiamo a casa». Di nuovo Ryan, con quella sua voce odiosa, bassa e roca e con qualche strano potere che ti faceva voglia di dirgli di sì. Ma non potevo andarmene. No, non volevo andare a casa, volevo rimanere lì, con quel ragazzo che per tutta la sera mi aveva guardato con un sorriso sulle labbra.
«No, voglio stare qui con lui» protestai, indicando il ragazzo moro all’angolo, quello che mi aveva guardato. Ryan cominciò a ridere, spingendomi verso l’uscita con forza, visto che non volevo muovermi. I ragazzi ci seguirono, separandomi ancora di più dal mio uomo. «Perché? Volevo conoscerlo, l’avrei sposato» piagnucolai, avvicinandomi alla porta per entrare prima che Ryan si parasse davanti a me, senza il ghigno divertito di poco prima.
«Sei ubriaca, lascia stare. Adesso andiamo a casa. E ricordatemi che la prossima volta che si ubriaca devo portare una videocamera, cazzo, chissà quanto si vergognerà domani, visto il concerto che hanno inscenato lei e Aria». La mano di Ryan circondò il mio braccio, costringendomi a camminare verso la parte opposta rispetto al locale. Lontano dal mio uomo, lontano dai suoi occhi castani. Perché?
«Voglio andare da lui. Lasciami». Cercai di spostare il braccio ma Ryan strinse di più la presa, sollevandomi quasi da terra. Cercai di protestare, ma quando guardai il suo volto capii cosa avevo pensato dentro al bar. L’aria fresca della sera mi faceva ragionare più lucidamente. Avevo capito.
«Adesso torni a casa per dormire». La mascella contratta e lo sguardo arrabbiato, come se avessi fatto qualcosa di male a lui. Ma perché gli interessava se rimanevo con quel ragazzo così bello al bar? Non volevo mica che mi seguisse! Ero grande, vaccinata e consenziente, lui poteva tornarsene a casa da Butt… Butterfly o quello che era.
«Sai a chi assomigli? Sei la versione cattiva di Falkor. Perché lui ha gli occhi scuri e tu chiari e poi… lui era più bello. Tu sei cattivo, non mi lasci nemmeno tornare lì». Indicai la porta del Phoenix che improvvisamente si era allontanata. Quando ci eravamo mossi così tanto? Perché non mi ero accorta di aver camminato?
«Merda, Brandon, non è quel cane bianco del film?» ghignò Ryan, che aveva il viso stranamente poco distante dal mio. Quando ero diventata così alta? O era Ryan che si era abbassato? Magari si era tagliato un pezzo di gambe, per diventare come tutte le persone normali.
«Ehi! Non è un cane, Falkor è il Fortunadrago de La storia infinita, sei un ignorante, porca vacca» sbuffai frustrata. Nessuno che si ricordava che Falkor era il Fortunadrago. Non era un cane, non era un cane bianco.
«Ha detto porca vacca? Sick, Brandon, ha detto porca vacca? L’ho sentito davvero?». Perché Ryan era tanto divertito da quello che avevo detto? E soprattutto perché continuavamo a camminare così velocemente? Non mi sentivo nemmeno le gambe, concentrata com’ero a fissare Ryan e quello strano neo che aveva sulla tempia. Non me ne ero mai accorta, chissà se era finto; magari se l’era disegnato.
Sick e Brandon ridacchiarono, aprendo il portone del nostro palazzo e aspettando che entrassimo prima di chiuderlo alle nostre spalle. Ma dove erano finiti Lebo e gli altri due, i gemelli?
«Siamo arrivati, riesci a stare in piedi?» domandò Ryan, piegandosi un po’. Perché si stava piegando? Voleva forse fare qualche battuta sulla mia non-altezza?
«Ehi! Perché state ballando di nuovo?» ridacchiai, indicando Brandon, Ryan e Sick davanti a me. Continuavano a muoversi come al bar, con quello strano movimento che mi ricordava quella cosa di Scienze. Ryan sospirò, strofinandosi il viso con una mano in un gesto stanco; Brandon cercò di non ridere. Sick, invece, si avvicinò a me, con il solito ghigno che usava quando voleva parlarmi di qualcosa di porno.
«Lexi, se vuoi, questa sera sono libero» mormorò, ammiccando. Dovevo dirgli, una volta per tutte, che non mi interessava fare niente con lui. Non era il mio tipo. Mi piacevano i californiani, quelli che facevano surf. Belli, alti, biondi e con gli occhi azzurri. Sick non rispecchiava quelle caratteristiche, soprattutto perché, i fissati con i porno erano decisamente… inquietanti.
«Buonanotte Sick. Guardati un bel porno stasera e divertiti tanto tanto. Sai che mi sei simpatico, di solito? Ma quando vuoi trombarmi mi fai paura. Chissà quante cose sai fare con tutti i film che hai visto, magari un giorno mi insegnerai qualcosa». No, forse non era il modo migliore per fargli capire che non mi piaceva, ma non ero riuscita a rimanere seria di fronte alla sua espressione sconvolta. Dovevo però salutare anche Brandon e Ryan, visto che sapevo era maleducazione non farlo. «Brandon, grazie. Di cuore. Sei davvero gentile, l’unico gentile. Grazie per le birre di stasera». Lo abbracciai, prima di prendere un respiro profondo e prepararmi a salutare Ryan: «e tu, versione cattiva di… Falkor, ciao. Salutami Butterfly che stanotte si rotolerà nei vostri letti e buonanotte». Cercai la chiave di casa in borsa quando mi sfuggì dalle mani, facendomi ridere: era caduta a terra con un suono davvero buffo.
«Ryan, è completamente fuori» mormorò Brandon, aiutandomi a prendere la borsa, ma soprattutto a rialzarmi. C’era qualcosa che mi premeva all’altezza delle tempie e sentivo un rumore fastidioso.

«Te ne sei accorto adesso? È da quando ha parlato della tettonica a placche che ne ho avuto la conferma. Lentiggini, ascoltami, ce la fai a entrare in casa e arrivare in camera senza sbattere contro pareti o mobili?». Perché Ryan mi stava parlando a pochi centimetri dal viso e lentamente, come se avesse paura che non riuscissi a capire le sue parole?
«Ma hai gli occhi azzurri, azzurri, azzurri. Mai visto occhi così tanto azzurri». Mi avvicinai di più al suo viso, per guardarlo meglio. Poi, mi ricordai degli occhi di quel ragazzo che al Phoenix mi aveva guardata per tutta la sera e presi una decisione. «Notte. Io torno al Phoenix, devo parlare con quel ragazzo con gli occhi castani». Stavo quasi per scendere le scale quando qualcosa mi bloccò, stringendo attorno al mio polso. Quando mi voltai vidi la mano di Ryan che mi teneva ferma, impedendomi di avanzare. «Dai, lasciami, voglio andare al Phoenix a bere una birra con quel ragazzo» piagnucolai, cercando di impietosirlo. Per tutta risposta Ryan mi trascinò lungo tutto il pianerottolo, fino alla porta del mio appartamento.
«Arrangiati, non so che cazzo farci con lei e mi ha stufato» sbottò, prendendo poi una sigaretta dalla tasca dei jeans e scendendo le scale per uscire a fumare. Non salutò nessuno, né Brandon né Sick, né me. Gentile, certo. Ero sempre più convinta che fosse la versione cattiva di Falkor il Fortunadrago.
«Dai Lexi, andiamo a dormire» propose Brandon, aprendo la porta del 3C. Quando aveva preso le mie chiavi? E soprattutto chi gli aveva dato il permesso di entrare in casa mia? Come se per lui fosse stato tutto normale, si avvicinò al divano, sedendosi con un sospiro e guardandomi, perché lo imitassi.
Mi avvicinai a lui titubante, perché non sapevo bene che cosa fare, ma soprattutto perché mi veniva da ridere, vedendolo così stanco. Socchiudeva gli occhi lentamente, come se si stesse addormentando. Con un ghigno indietreggiai lentamente, avvicinandomi alla porta e chiudendola il più piano possibile per non svegliarlo. Sarei andata al Phoenix, da quel ragazzo!
 
«Cazzo» mi lamentai, portandomi le mani alle tempie. Era da mesi che non mi svegliavo con un dopo sbronza del genere. Mugolai, rigirandomi tra le lenzuola, incapace di guardare che ora fosse. Oddio. Il turno al Phoenix. Mi misi a sedere di scatto e… pessima mossa. Di nuovo quelle fitte alla testa che mi costringevano a rimanere con gli occhi chiusi perché la stanza stava girando. Ma non riuscivo a capire come mi ero addormentata, visto che vedevo – con gli occhi socchiusi – la luce arrivare da destra. Io però sapevo di avere la finestra a sinistra del letto.
Mi guardai attorno, improvvisamente sveglia e dimentica del mal di testa: quella non era la mia camera. Dov’ero? Cercai di ripercorrere la serata per capire cosa fosse successo, ma era impossibile, visto che ricordavo solo episodi sporadici, come il ridere assieme ad Aria nel bagno del Phoenix o gli occhi azzurri di Ryan. Quello che mi preoccupava maggiormente era il mio ultimo, confuso, ricordo: Brandon si era addormentato sul mio divano e io ero uscita da casa per andare al Phoenix, dal ragazzo che mi aveva guardata per tutta la sera. Mi guardai attorno, cercando di capire dove fossi: c’erano un paio di poster di ragazze mezze nude appese alle pareti, una sedia con sopra un cumulo di vestiti, una chitarra appoggiata all’angolo e un pianoforte a muro.
Incuriosita e spaventata, cercai di alzarmi dal letto per guardarmi attorno e sospirai sollevata quando mi accorsi che indossavo l’intimo. Non potevo aver… no, non ero così ubriaca da non sapere quello che avevo fatto, vero?
Quando il mio piede toccò il pavimento freddo rabbrividii, sollevando la gamba istintivamente. Ci dovevo riprovare, dovevo assolutamente capire dov’ero. Trattenendo il respiro tornai ad appoggiare il piede per terra, alzandomi lentamente e con movimenti cauti e misurati, sapevo per esperienza che ogni movimento brusco poteva farmi cadere per terra, o peggio, vomitare.
Mi avvicinai al pianoforte vecchio e logoro: c’era un posacenere pieno sopra e un pacchetto di sigarette vuoto, accartocciato di fianco. Portai i polpastrelli a sfiorare i tasti, senza premerli per suonarli; bianco e nero che si alternavano, tasti ingialliti dal tempo e addirittura scalfiti da qualcosa. Chissà di chi era quel pianoforte.
«Oh, buongiorno». La voce parlò alle mie spalle, facendomi sussultare spaventata. Non avevo nemmeno il coraggio di voltarmi per guardare a chi appartenesse. Non sapevo nemmeno se avevo passato la notte con lui e forse non volevo nemmeno saperlo. Rimasi immobile, aspettando non sapevo nemmeno cosa. «Lentiggini?». Sentendo quella parola sospirai sollevata: era Ryan. Mi voltai tranquilla, prima di rendermi conto che, se mi trovavo nella sua camera…
«Ho dormito con te questa notte?» domandai, cercando di non far notare quanto fossi preoccupata da quella risposta. Ero sicura che non fosse successo nulla, non con Ryan; ma ero ubriaca, e continuavo a non ricordare cosa fosse successo.
«Dormito non è il termine che userei, ma se vuoi chiamarlo così…». Fece spallucce, sedendosi in fondo al letto e stiracchiandosi la schiena e le braccia.
Oddio. No. Non poteva essere vero, non ero così ubriaca da aver fatto qualcosa di inopportuno con Ryan. Probabilmente mi stava prendendo in giro, come il suo solito. Ricordavo di essere scappata dal mio appartamento mentre Brandon si addormentava, potevo usare quella scusa per vedere quanta verità ci fosse nelle sue parole.
«Cosa è successo?». Mi appoggiai con la schiena al bordo del piano, attenta a non rompere o spostare nulla. Ryan sospirò, come se ammettere quello che mi stava per dire gli costasse un grande sforzo. Si sistemò meglio sul letto, appoggiando i gomiti alle ginocchia e guardandomi senza nessuna traccia di ironia nel suo viso: era davvero serio.
«Siamo arrivati a casa e Brandon ti ha accompagnata nel tuo appartamento, ma poco dopo sei uscita, mi hai visto mentre stavo fumando, ti sei avvicinata a me, hai tolto la sigaretta dalle mie labbra e mi hai baciato. Per essere più precisi direi che mi hai assalito, eri aggrappata a me e mi hai intimato di andare in camera mia perché altrimenti avresti usato la rivoltella che ti abbiamo regalato. Così siamo venuti qui, e poi…». Si fermò, senza smettere di guardarmi, scrutandomi in cerca di qualche gesto da parte mia. No, non ci credevo. Non avrei mai fatto una cosa del genere nemmeno da ubriaca, tantomeno con Ryan.
«È una bugia, non ci credo» mi impuntai, incrociando anche le braccia sotto al seno per sembrare più convinta. Improvvisamente mi ricordai che ero solo in intimo e spalancai gli occhi, guardandomi attorno in cerca dei miei vestiti. Li trovai sparsi per terra. Male, questa cosa supportava la tesi di Ryan, ma potevo anche essermeli tolta io per il caldo durante il sonno; sì, doveva essere così.
«Chiedi a Sick che si è lamentato per le tue urla tutta la notte». Non riuscì a trattenere un ghigno soddisfatto, mentre mi infilavo la maglia il più in fretta possibile. Urla, Sick? No, mi stava prendendo in giro; sicuramente credeva che non avessi il coraggio di chiedere conferma a Sick e si era inventato una bugia per prendersi gioco di me, come il suo solito.
«Dov’è?» domandai, infilandomi i pantaloni e indossando velocemente le scarpe che avevo trovato poco distante dal piano. Gli avrei parlato, mi sarei fatta dire la verità che, ne ero sicura, non era quella che mi stava raccontando Ryan.
«In cucina, sta facendo colazione con i ragazzi». Ryan si alzò, seguendo i miei movimenti quasi come un automa: sembrava la mia ombra mentre, dalla camera, camminavo verso la cucina a passo spedito curiosa di scoprire la verità.
«Lexi, mi hai stupito. Io… non ti facevo così, vorrei davvero congratularmi con te. Il modo in cui urli… sei quasi meglio di Stoya, credimi. Per non parlare di tutto quello che dovete aver fatto; il letto che sbatteva contro al muro e il rumore delle molle. Io… volevo essere al posto di Ryan». Lasciò cadere il biscotto nel latte, alzandosi e avvicinandosi a me per stringere la mia mano con foga. I suoi occhi mi guardavano quasi con ammirazione. No, mi stavano prendendo in giro, si erano concordati tra di loro per deridermi, ne ero sicura. Sick e Ryan l’avrebbero fatto, ma Brandon no. Lui era il più leale di tutti e di sicuro non mi avrebbe mentito.
«Brandon?» domandai, una nota isterica nella voce perché cominciavo a temere davvero che fosse la verità. Non potevo aver fatto sesso con Ryan e non ricordare niente, era impossibile.
«Io ho preso sonno sul tuo divano e quando mi sono svegliato credo che la vostra sessione fosse finita, perché non ho sentito nulla» spiegò, tenendo le mani alzate e parlando con la bocca piena di biscotti al cioccolato.
No, non poteva essere vero. Io non avevo fatto sesso con Ryan, non era mai successo nemmeno in California, durante le vacanze di primavera, quando bevevo molto più di un paio di birre. Mi stavano tutti prendendo in giro per deridermi.
«Ci credi?» domandò Ryan, aprendo il frigo e bevendo del succo di frutta direttamente dal contenitore. No, no che non ci credevo. Non potevo davvero essermi comportata in quel modo. Non era nella mia natura e soprattutto non era mai successo.
«No, mi state prendendo in giro. E poi… no, non ero io. Non posso essere stata io». Ne ero convinta e non mi avrebbero di certo fatto cambiare idea. Me ne sarei ricordata, non potevo dimenticare quello che succedeva. Invece, dopo il ricordo confuso di essere scappata da Brandon, c’era solo un enorme buco nero, come se mi fossi addormentata.
«Che palle. Ryan, non ci è nemmeno cascata» sbuffò Sick, irritato, tanto che sbatté il pugno sulla tavola, facendo tremare le tazze che c’erano sopra. Quindi avevo ragione, mi avevano solo preso in giro, non era successo niente.
«Che stronzi! Perché mi avete detto che ero andata a letto con Ryan? Credete che fossi così ubriaca da non ricordare quello che ho fatto? So che siamo andati al Phoenix e so che vi ho raccontato quello che è successo a LA» conclusi in un sussurro, abbassando lo sguardo al ricordo di tutto quello che avevo detto. Nonostante il mal di testa dovuto alla sbornia della sera prima, non mi ero di certo dimenticata di Sophie ed Edge. Quello non sarebbe mai successo.
«Perché volevo sentire cosa avresti detto. Ieri sera mi hai stupito con un paio di battute  e la tua volgarità e volevo sentire fino a che punto stamattina ci avresti creduto. Cosa ti ha fatto capire che era una bugia? Ryan, vero? Se ti avessimo detto che eri venuta con me non avresti avuto dubbi, no?». Sick era davvero deluso, come se fosse stato lo scherzo dell’anno. Ma mi credeva così stupida? Certo, forse, un po’, all’inizio ci avevo creduto, ma mi ero resa conto quasi subito che non era possibile una cosa del genere.
«Forse perché l’hai fatta apparire come una pornostar, Sick. Urla, letti cigolanti e sbattuti contro il muro… un po’ troppo. Se ti fossi fermato a gemiti e urla ci avrebbe creduto. Non ce la vedo lentiggini così pornostar». Ryan mi guardò, scrutandomi, come se stesse cercando di capire qualcosa. Ma come si permetteva? Non sapeva niente di me, voleva anche indovinare come facevo sesso?
«Sentite, andate tutti a fanculo! Non permettetevi di dire certe cose su di me, e soprattutto non vi interessa di certo se urlo, grido, faccio cigolare i letti o chissà cosa. Non sono fatti vostri». Ero davvero irritata dal loro comportamento. Chi credevano fossi, Butterfly? No, decisamente, visto che non mi interessava essere la Signora di nessuno e tantomeno volevo provarci.
«Sei stata tu che ieri sera, mentre cantavi Bruce Springsteen continuavi a dire che a letto sei una tigre. E questo non me lo sono inventato, chiedi ad Aria. Spero solo che se lo ricordi, visto che duettavate al Phoenix, cantando Born in the USA». Ecco, questo era tipico di me, lanciarmi in cover a cappella, improvvisandomi cantante con qualsiasi cosa avessi sottomano. Ma non riuscivo a ricordare nemmeno quel passaggio, quindi, per quanto ne sapevo, poteva benissimo essere una bugia anche quella.
«Brandon, mi fido solo di te. Non dirmi che ti eri addormentato sul mio divano perché c’eri al Phoenix, quindi non hai scuse. È vero?». Sapevo che non mi avrebbe mentito, Brandon era buono e di certo non riusciva a raccontare bugie, non poteva. Avevamo creato uno strano rapporto, sapevo che lui era sincero con me.
«Come canti tu Bruce non lo fa nessuno» ridacchiò, cominciando a dondolarsi sulla sedia in modo quasi pericoloso. Se fosse caduto avrebbe battuto la testa da qualche parte, causandosi magari qualche tipo di trauma. Cercai di avvertirlo, ma sembrò capirlo dal mio sguardo, perché ridacchiò, sedendosi poi composto. «Io vi iscriverei a una gara di karaoke Lexi, potreste vincere, dico sul serio». Non riuscì a rimanere serio, cominciando a ridere senza nemmeno trattenersi.
Bene, insomma. Per una volta in cui mi ero lasciata un po’ andare e avevo abbassato la guardia mi ritrovavo tutti a prendersi gioco di me: sembrava che avessi cantato a squarciagola sopra ai tavoli del Phoenix, che fossi tornata a casa urlando le mie doti a letto e che poi mi fossi data alla pazza gioia con Ryan. Ma c’era qualcosa di vero, in tutto quello? Ero sicura che l’unica persona sincera fino in fondo, che non si sarebbe mai presa gioco di me, fosse Aria.
«Sentite, voi continuate a ridere da soli per qualcosa che non è successo, io invece vado a fare  la spesa e dopo vado da Aria». Presi la borsa che avevo appoggiato sulla sedia e senza salutare nessuno uscii, per andare a casa mia a prendere un po’ di risparmi – gli ultimi –per la spesa.
Speravo solo che John mi pagasse a fine mese, altrimenti avrei dovuto trovare un impiego che mi permettesse di pagare l’affitto per quel mese.

 
 
 
 
Salve!
Sì, lo so, è passata meno di una settimana dall’ultimo aggiornamento, ma il capitolo era pronto e non ho resistito. Anche perché, lo ammetto, non so nemmeno quando pubblicherò l’altro.
Quindi, niente… spero che questo capitolo un po’ “a sorpresa” vi sia piaciuto. Diciamo che possiamo dividerlo in due: la prima parte decisamente seria con la storia di Lexi (ve l’avevo anticipato più e più volte, avevo detto che il video di You Found Me dei The Fray aveva uno spoiler sul passato di Lexi). Insomma, magari è improbabile come cosa e forse addirittura esagerata, vista la sua sfiga, ma io credo che sia possibile. Come se la sua vita fosse stata perfetta fino al primo giugno e poi avesse cominciato a vedere l’altro lato della medaglia.
E poi c’è la storia di Dollar, una cosa a cui tenevo particolarmente. L’ho scritta con una canzone in sottofondo e piangevo da sola, perché c’era qualcosa nel tono della sua voce che mi ha davvero commossa. E si spiega anche il mistero di Aria e il suo legame con JC (che, nel caso non fosse chiaro, era il meccanico amico di Ryan e Brandon, ma non lo zio di Ryan).
E si passa alla seconda parte, quella demente (ma non tanto). Ci sono delle piccole cose che ho messo dentro e che logicamente non vi elenco. Qualche curiosità, ecco. Forse su un paio di personaggi o forse più :P ditemi se le trovate.
Per quanto riguarda Falkor e La tettonica a Placche… le ho inserite!:P (per chi non è nel mio gruppo FB, non sono pazza, semplicemente ho indetto una sfida: voi mi dite due parole strane che io devo inserire nel capitolo; questa settimana erano quelle).
Infine, come sempre, vorrei ringraziare preferiti, seguiti da ricordare, chi mi inserisce tra gli autori preferiti e chi commenta la storia. Ma anche chi legge.
Grazie grazie grazie! <3
Infine, come sempre: Nerds’ corner è il gruppo spoiler, trovate tutto lì e di solito rompo le palle con spoiler e altro ogni giorno, tanto che sono sicura sono già stanchi di me.
Al prossimo capitolo (che, ripeto, non so con precisione quando arriverà).
Un bacione.

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Capitolo 11
*** Lexi's a badass: Jail experience. ***


YSM
 
 
Camminavo lentamente verso il supermercato a causa del mal di testa. Per la fretta di uscire e fare la spesa mi ero dimenticata di prendere un paio di aspirine per cercare di ridurre il dolore. Entrai, superando le porte scorrevoli, mentre la testa mi lanciava segnali di cedimento. Le mie tempie pulsavano e non bastò appoggiarmi al carrello. Che dovevo comprare? Mi ero dimenticata. Ma che idiota; che avevo nella testa il giorno prima da indurmi a una sbronza colossale? Non ricordavo più gli effetti devastanti della mattina dopo una sbronza? Ad arricchire il tutto c’era stato il risveglio nella camera da letto di Ryan, la sua presa in giro e quella dei ragazzi.
Persa nei pensieri, cominciai a riempire il carrello con tutto ciò che mi capitava sottomano, senza fare attenzione a ciò che buttavo dentro: patatine, salatini, bibite gasate, acqua… quando mi trovai davanti agli scaffali con i vari tipi di pasta, cercai di concentrarmi, guardando le varie forme per decidere quale prendere: ero davvero fissata per determinati tipi di pasta, odiavo quelli dalle forme piccole, che rischiavano di farmi soffocare.
«Vai anche a fargli la spesa? Sei tipo la loro mammina?». Riconobbi subito quella voce, nonostante l’avessi sentita solo un paio di volte. Forse non era il tono di voce che ricordavo così bene, ma il disprezzo che c’era quando parlava con me.
«Butterfly» sospirai. Tra le mani rigiravo un pacco gigante di spacchetti. «Posso sapere almeno il tuo vero nome?». Mi convinsi di non volerle lanciare in testa una confezione da un kg. Non sarebbe bastato. E poi… con quel dopo sbronza che mi ritrovavo la voglia di litigare con lei era scesa sotto zero.
«Che cazzo te ne frega? Sono Butterfly e di certo non voglio diventare la tua migliore amica. Se mi stai leccando i piedi perché non riesci a soddisfarli non sono fatti miei, impara a scopare prima di decidere di voler essere la Signora di qualcuno». C’era davvero tanto disprezzo nelle sue parole, e potevo capirla: mi vedeva come quella che le aveva rubato il posto, ma non era di certo così. Io non avevo quel tipo di rapporto con i ragazzi e non mi interessava nemmeno essere la Signora di qualcuno. Ero la loro vicina, quella che prendevano in giro quando si ubriacava e che aiutavano a trovare lavoro. Ma di certo non ero né una loro Signora, né una… sgualdrina, tanto per non offenderla.
«Davvero, io sono sicura che la tua idea di quello che faccio sia sbagliata. Non sto cercando di diventare la Signora di nessuno e tantomeno voglio portarmeli a letto, sono solo gentili con me, dico sul serio». Le riservai un simpatico sorriso, pur sapendo quanto in realtà non mi piacesse per niente. Non era simpatica come Aria, non era nemmeno lontanamente sopportabile. Ma avevo deciso di non litigare e quindi mi sarei attenuta strettamente a quell’intenzione.
«Senti, non prendermi per il culo, nanetta. So esattamente quello che fai, credi che io sia così stupida da non capire che trombi con ogni singolo ragazzo? Dico davvero, dacci un taglio, non sono ancora così cretina» sbottò, spintonandomi con entrambe le mani. Rischiai di finire addosso allo scompartimento della pasta.
Ok, ora era chiaro. Stava cercando di farmi arrabbiare. Ma io non avrei mai urlato contro di lei, non in un luogo pubblico, davanti a tutta quella gente. Ero sicura che sarebbe andata da Ryan a piangere e urlare che io l’avevo offesa solo con l’intenzione di farsi consolare. Be’ si sbagliava di grosso se pensava che fossi così stupida da non capirlo. Non sarei caduta in quella trappola.
«Davvero Butterfly, hai frainteso». Mi voltai, fingendo indifferenza. Mi sollevai in punta di piedi per rimettere a posto il pacco quando lei mi spinse ancora facendomi perdere l’equilibrio. Fui tentata di voltarmi e lanciarle la confezione addosso. Soffocai l’istinto e riuscii a tenere a bada la parte di me che voleva spaccarle la faccia.
«Certo, immagino. Anche loro hanno frainteso, no? Puoi anche dirmi con chi sei stata, sai?». Possibile che non le entrasse in testa? Io non volevo andare a letto con nessuno degli Eagles. Ero esasperata, non sapevo più in che lingua dirle la verità. Il fatto che fossi gentile con loro non era sinonimo di scopate multiple. Che rabbia!
«Con nessuno, davvero». Stavo lottando duramente contro me stessa: darle uno schiaffo con il pacco di pasta o limitarmi a tirarle i capelli? Questo era un vero dramma. Ora sì che comprendevo il dubbio amletico.
«Dimmi, sei riuscita a farli godere o no? E spero che tu menta, perché non puoi fingere di non venire assieme a loro». Si appoggiò al mio carrello con i gomiti, senza smettere di guardarmi con quel suo sorriso –probabilmente – finto come il suo seno.
«Butterfly, davvero, non è più un gioco divertente, comincio a stancarmi. Come ti ho già detto non sono andata con nessuno e non voglio parlare di queste cose». Mi allontanai, dirigendomi verso i condimenti, che cominciai a guardare con molta attenzione. Non volevo commettere un omicidio in un supermercato! Ma lei non voleva demordere. La ritrovai appena dietro le mie spalle. Santa pazienza!
«E allora ammettilo, sei solo una puttana che non sa nemmeno fare il suo lavoro» sussurrò al mio orecchio, con un ghigno che mi diede i nervi. Scattai, ancora prima di rendermene conto,  e mi mossi fulminea. Non si levarono urla attorno a noi, nessuno sembrava aver fatto caso alla mia reazione.
Quando capii quello che avevo fatto, era troppo tardi: Butterfly, davanti a me, continuava a tenersi le mani davanti al naso, mentre le sue dita si sporcavano di rosso. C’era del sangue che continuava a colare anche a terra. Come se non fosse stato sufficiente, Butterfly, con un ghigno soddisfatto che riuscivo a vedere solo io, cominciò a strillare, attirando l’attenzione di tutti su di noi. «È pazza! Avete visto? Mi ha tirato un pugno all’improvviso, le ho solo suggerito di prendere quella marca» urlò, indicando un tubetto posto sullo scaffale dietro di me. Cominciai a guardarmi attorno, spaesata: tutti borbottavano, indicandomi, mentre Butterfly fingeva di piangere per il dolore al naso.
Che cosa avevo fatto? Che stava succedendo? Non era stato come con Ryan, una blanda imitazione di pugno. Assomigliava più a quello che mi aveva raccontato Dollar: una scarica di adrenalina che non riuscivi a controllare. Se non fosse stato per il dolore alle nocche che continuavano a pulsare, non mi sarei nemmeno resa conto della forza che avevo usato; doveva essere stata tanta però, perché il suo naso continuava a sanguinare copiosamente, di certo perché rotto.
«Fammi controllare» mormorai, avvicinandomi a lei. Volevo solo vedere se il suo naso era rotto o meno, altrimenti, con un nuovo pugno, avrei completato l’opera. No, non mi sentivo in colpa, ma non ero così stupida da dare spettacolo di nuovo, con un secondo colpo.
«Allontanatela, è pazza» gridò di nuovo. Mi tenevano ferma per le braccia, in modo da non farmi avvicinare a lei. Assurdo! C’era un poliziotto accanto a me, era lui a strattonarmi per evitare che io mi muovessi.
«Sono un medico, controllo solo se ha il naso rotto» mi giustificai, incredula. Mi stava davvero trattenendo perché avevo dato un pugno a Butterfly? Ma nessuno aveva sentito la sua offesa? Evidentemente no, visto che tutte le persone lì attorno continuavano a consolarla, porgendole fazzoletti e rassicurandola.
«Mike, portala dentro, è pazza» piagnucolò Butterfly, indicandomi di nuovo. Gli sguardi di tutti i presenti si spostarono su di me, mentre rimanevo ferma, intrappolata da quel poliziotto.

«Butterfly, dovresti seguirmi anche tu in centrale, vuoi fare una denuncia?» chiese il ragazzo, senza lasciare la presa sul mio braccio. Sul serio? Dovevo andare in centrale?
«No, io… lei… non… mi ha offesa» cercai di giustificarmi, cominciando a temere che mi arrestassero davvero. Lei mi aveva dato della puttana e io avevo reagito d’istinto; in modo sbagliato, certo, ma non potevano arrestarmi, era legittima difesa.
«L’hai offesa, Butterfly?». Sembrava quasi una domanda retorica, posta in modo ironico, come se Mike –come l’aveva chiamato Butterfly – si stesse prendendo gioco di me. Qualcuno sogghignò alla domanda del poliziotto, ma io non capivo perché ridessero.
«Certo che no, Mike, come potrei averla offesa? Come ho già detto le ho consigliato di prendere un’altra marca di sugo». Sembrava che il sangue continuasse a uscire dal suo naso e questo mi fece pensare che fosse veramente rotto. Cercai di parlare, ma Mike il poliziotto non mi ascoltò nemmeno, troppo impegnato ad annuire alle parole di Butterfly, finte come il suo seno.
«Andiamo in centrale, preparo tutte le carte e poi fai la denuncia, ok?». Si stava incamminando verso l’uscita, costringendomi a seguirlo; la folla di curiosi, dietro di noi, sembrava ancora più interessata alla scena. Quando Mike aprì lo sportello posteriore dell’auto della polizia per farmi salire, vidi che c’era un gruppetto di persone radunato fuori dal supermercato, sul marciapiede.
Come aveva fatto il poliziotto ad arrivare così presto? Sembrava quasi ci fosse già, e fosse corso lì attirato dalle urla di Butterfly, come… come se lei avesse saputo che lui era lì.
Quando salì in auto, mettendosi al posto di guida, il poliziotto mi guardò quasi ghignando, prima di scuotere il capo quasi rassegnato. «Ti sei messa contro la ragazza sbagliata, tesoro» mormorò a bassa voce, tanto che non ero nemmeno sicura avesse detto quelle esatte parole. Guidò per alcuni minuti, fino a quando, dopo un paio d’incroci, parcheggiò la macchina davanti a un grande edificio color ocra. Sopra alla porta principale c’era una scritta che mi fece sbarrare gli occhi per la sorpresa, o forse, semplicemente, mi risvegliò; capii improvvisamente dove mi trovavo e quello che stava per accadere.
NYPD's 41st Precinct: era la stazione di polizia.
Io, Alexis Cooper che non ero nemmeno mai stata fermata per eccesso di velocità, stavo per essere… arrestata per rissa? Per cosa mi avrebbero arrestata?
«Andiamo» sbottò il ragazzo in divisa, aprendo lo sportello perché potessi uscire dall’auto. Continuavo a tenere lo sguardo basso; sentivo le guance in fiamme a causa della vergogna che provavo. Quando entrammo dentro alla centrale, infatti, gli sguardi di tutti i presenti si spostarono su di me; potevo sentirli, incuriositi e forse divertiti. «Ha litigato con la ragazza sbagliata» sogghignò Mike, al mio fianco, senza smettere di stringere il mio braccio, come se avesse paura di una mia eventuale fuga. Mi condusse in una piccola stanza, chiudendosi la porta alle spalle. «Sei già schedata?» domandò, stupendomi. No, come potevo essere schedata, io che non avevo mai fatto nulla nella mia vita? Feci un gesto di diniego con il capo, lasciando che continuasse a spiegare quello che stava succedendo. «Prima ti faccio la foto segnaletica e dopo prendo le impronte. Mettiti lì». Indicò la parete dietro di me e mi guardai attorno, confusa e spaventata. Era così simile allo sfondo delle foto di Ryan e dei ragazzi che cominciai a tremare, spaventata. Sarei finita in prigione?
«Lei mi ha offesa, per questo ho tirato il pugno. So… so di aver sbagliato, ma per favore, non mi arresti». Cercavo di non comportarmi come una bambina, mi mordevo il labbro per non mettermi a piangere, visto che di sicuro non era un modo maturo di reagire.
«Dopo la deposizione, ora girati di lato». Si posizionò dietro la fotocamera, aspettando che mi mettessi di lato per la foto segnaletica. Non riuscivo ancora a crederci, stavo per essere arrestata perché avevo tirato un pugno a una ragazza in un supermercato. Se solo Soph ed Edge l’avessero saputo mi avrebbero derisa per giorni, io che mi fermavo a ogni semaforo appena scattava il giallo. «Girati verso di me». Non riuscii a trattenere una risata isterica, guardando i numeri di fianco a me. Non sfioravo nemmeno i 5’2’’. Quando Mike alzò lo sguardo dall’obbiettivo per cercare di capire perché stessi ridendo, soffocai le risa con un colpo di tosse, tornando subito seria, come la situazione richiedeva.
In verità era tutto surreale, quasi come se fossi nel set di un film.
«Devo prendere le impronte digitali per schedarti». Posò davanti a me un foglio che sicuramente avrebbe compilato; in fondo c’erano dieci caselline vuote: lì avrei dovuto lasciare le mie impronte digitali. Mise l’inchiostro su ogni polpastrello, indicandomi di apporre il timbro delle mie dita nelle apposite caselline. Quando finii di timbrare, mi guardai le mani: i polpastrelli sporchi di blu, le mie foto segnaletiche poco distante e un modulo con i miei dati da riempire. Sembravo una criminale, esattamente come Ryan e tutti gli Eagles. Ma che cosa mi era successo?
«Devi darmi i tuoi dati, poi potrai chiamare un avvocato o chi vuoi, dobbiamo vedere se Butterfly vuole o meno sporgere denuncia, poi potrai pagare la cauzione o pregare perché il tuo avvocato conosca le persone giuste». Avvocato? Non avevo mai avuto un avvocato nemmeno a Los Angeles, come potevo a New York? In che guaio mi ero cacciata? Perché avevo reagito così istintivamente? Ma soprattutto, da quando sapevo dare pugni così forti? Nemmeno contro il fianco di Ryan avevo messo tutta quella forza.
«Io…» mormorai, prendendo un respiro profondo prima di cominciare a dire le mie generalità, «Alexis Alice Kate Cooper. Sono nata il ventisette aprile del millenovecento ottantanove a Los Angeles, in California». Aspettai che l’agente completasse la scheda per le altre mie generalità, poi, dopo aver risposto a tutte le sue domande, tirai un sospiro di sollievo, come se fosse stato difficile rispondere. Forse lo era stato davvero. Io continuavo a non voler ricordare Los Angeles, e quello non era il modo giusto per farlo.
«Mentre aspettiamo che Butterfly ritorni dall’ospedale per fare la sua deposizione, vuoi chiamare il tuo avvocato?». Avvocato? No, come potevo chiamarlo? Non avevo di certo nessun avvocato lì a Hunts Point. L’unica, le uniche, persone che conoscevo erano Ryan e i ragazzi. Loro, però, probabilmente ne conoscevano qualcuno di bravo, se nonostante tutta la droga, le risse e gli omicidi, erano ancora liberi. Annuii, senza specificare che non avrei chiamato il mio avvocato; in fin dei conti, nei film non facevano sempre vedere che si aveva diritto a una telefonata? Composi quel numero sapendo che me ne sarei pentita subito dopo. Chissà quanto mi avrebbe presa in giro, sapendo che ero stata arrestata; ma in quel momento non mi importava, volevo solamente uscire dalla centrale e tornare a casa. Dopo qualche squillo, rispose, ma ricordai che probabilmente non sapeva il numero della centrale – se non era privato – quindi forse era meglio che gli dicessi subito chi ero. «Ciao Ryan». Un sussurro che di sicuro non era nemmeno riuscito a udire.
«Che c'è, lentiggini? Ti sei persa?». Il suo solito tono ironico e, ne ero sicura anche se non potevo vederlo, stava sorridendo. Prima ancora di sapere perché lo avessi chiamato, mi stava prendendo in giro.
«Ryan... potresti venire... a prendermi?» mormorai, tenendo lo sguardo basso e sentendo le gote in fiamme.  Non avevo nemmeno il coraggio di dire dove mi trovavo. Alzai lo sguardo per controllare il poliziotto di fianco a me: mi stava guardando spazientito, come se la telefonata non gli facesse poi molto piacere.

«Che succede?». Il tono di voce di Ryan cambiò all’improvviso, diventando serio. Mi sembrava quasi di sentirlo preoccupato, ma di certo ci doveva essere la linea disturbata. Ryan non era mai preoccupato, nemmeno quando, probabilmente, aveva una pistola puntata alla tempia.
«Ecco, sono… sono al 41st Precinct. Se potessi portare anche un avvocato sarebbe meglio» bofonchiai prima di attaccare senza aspettare nemmeno una sua risposta. Sapevo che si sarebbe messo a ridere e mi avrebbe presa in giro, ed era l’ultima cosa che volevo.
«Mentre aspetti il tuo avvocato ti porto in cella, così magari evitiamo di dare pugni alle persone, eh?». La mano dell’agente si strinse attorno al mio braccio, costringendomi ad alzarmi da quella scomoda sedia di acciaio. In cella, mi avrebbe davvero portato in cella? Sarei stata in prigione fino all’arrivo di Ryan? Speravo solo che arrivasse il più presto possibile, perché non potevo rimanere a lungo in quel posto.
«Muoviti… muoviti…» ripetevo quasi come una cantilena, continuando a camminare su e giù, in quella piccola cella gialla. C’era un letto – grande per me –  con una coperta grigia, un lavandino e un solo water. Niente doccia o altro; come potevano vivere così i carcerati? O forse, in quella piccola cella non vivevano i veri e propri carcerati, ma quelli che, come me, avevano per sbaglio tirato un pugno dopo essere stati offesi.
«Un sorriso per la stampa» ghignò una voce. Appena mi volta verso l’uscita, per guardare chi aveva parlato, sentii il suono di una fotocamera e il flash. Ryan, assieme a Brandon e Dollar, continuava a sghignazzare, rimanendo appoggiato alle sbarre.
«Ryan» sospirai, sollevata perché finalmente sarei uscita da quella cella. Mi avvicinai alla porta in ferro, stringendo le sbarre tra le dita. «Ti prego, tirami fuori di qui, è stata lei a provocarmi, te lo giuro». Le dita che spasmodicamente si stringevano attorno al ferro freddo e Ryan, Brandon e Dollar dietro le sbarre. Ah, no, ero io quella che stava dentro.
«Che è successo, Doc?». Dollar faticava a mantenersi serio, le sue labbra continuavano a curvarsi all’insù, in un sorriso divertito e naturale che mi infastidiva ancora di più. La scena, per loro, doveva essere davvero divertente: tutti e tre sorridevano. Forse perché, per una volta, non erano loro quelli dentro alla cella.
«Ero al supermercato e Butterfly si è avvicinata; ho capito che voleva farmi arrabbiare e ho cercato di non prestarle attenzione, ma poi mi ha dato della…». Mi sentivo in imbarazzo a ripetere quello che lei aveva detto a me, ma se non l’avessi fatto, probabilmente mi avrebbero davvero arrestata. Istintivamente portai le dita alle tempie massaggiandole: avevo ancora mal di testa per la sbornia della sera prima e tutto quello stress non mi faceva di certo bene. «… mi ha detto che sono una puttana che non sa fare il suo lavoro, così senza nemmeno accorgermene le ho tirato un pugno, ma non l’ho fatto volontariamente, lo giuro». Speravo che almeno loro mi credessero, perché se così non fosse stato, non avevo nessuna possibilità con l’agente di polizia.
«Le hai tirato un pugno? Come è stato?». Dollar sembrava quasi fiero di me, perché si avvicinò di un passo alle sbarre di ferro, appoggiando la fronte contro la grata, senza smettere di sorridere. Istintivamente guardai la mia mano, per vedere i danni: con tutto quello che era successo non mi ero nemmeno resa conto che, se avevo tirato un pugno, di certo qualche traccia sarebbe rimasta. Le prime due nocche erano rosso scuro, tanto che, quando provai a sfiorarle sussultai per il dolore.
«Non eri mai stata schedata?» ghignò Ryan. Quando alzai lo sguardo per capire a cosa si riferisse, notai che stava insistentemente guardando le mie mani. Ricordai che le dita avevano ancora l’inchiostro che l’agente aveva usato per prelevarmi le impronte digitali e portai le mani dietro alla schiena, nascondendole ai loro sguardi. «Non ci credo. Non eri nemmeno mai stata schedata? Ma che cazzo hai fatto fino a ora, bevuto Pepsi e preso il sole? Hai ventidue anni e non sei nemmeno mai stata al fresco per un paio d’ore. Che delusione, lentiggini. Dovevi venire nel Bronx per essere schedata». Si finse dispiaciuto, scuotendo il capo, come se gli avessi appena dato uno dei dispiaceri più grandi della sua vita.
«Smettila. Voglio uscire da qui, non voglio che Butterfly sporga denuncia, non mi piace rimanere in questa cella». Mi guardai attorno: quelle pareti gialle mi rendevano quasi claustrofobica, mi mancava il respiro.
«Butterfly vuole sporgere denuncia? È gelosa, non ci posso credere» sbottò divertito Ryan, allontanandosi per raggiungere Mike, poco distante da noi.
Brandon e Dollar continuavano a rimanere in silenzio, guardandomi sempre con quel sorriso sulle labbra che non se ne voleva andare. Cercai di non fare caso a loro, concentrandomi su Ryan che stava discutendo con l’agente: sembrava gesticolare un po’ troppo, indicando prima la cella nella quale mi trovavo e poi la porta d’uscita della centrale. Il poliziotto, dopo qualche minuto sospirò annuendo: sembrava che quel gesto gli costasse un grande sforzo.
«Si torna in libertà» sogghignò Dollar, facendo un passo indietro dopo Brandon, che incrociò le braccia al petto, soddisfatto. Non capii a cosa si riferisse fino a quando Mike, sospirando, infilò la chiave nella serratura della grata davanti a me, aprendola.
«Come fai a lasciarla dentro? Guardala, ha tipo lo sguardo di un cucciolo di lama bianco spaventato, non si può, deve rimanere in libertà». Ryan sembrava davvero divertito, visto che continuava a fare battutine stupide. Se solo non fossi stata dentro alla cella di una centrale di polizia, gli avrei tirato un pugno ancora più forte di quello che avevo dato a Butterfly. Questa volta non avrei mirato al suo fianco, visto che era ricoperto da ferro, avrei mirato in basso, dove, ne ero sicura, avrebbe sentito molto dolore. «Lentiggini, Mike ti fa uscire, ma devi pagare la cauzione». Aveva negoziato? E Butterfly, avrebbe sporto denuncia lo stesso?
«E per la denuncia di Butterfly?». Esitavo a uscire da quella cella, come spaventata da quello che sarebbe successo. Magari il giorno dopo sarei dovuta tornare dentro perché Butterfly mi aveva denunciata.
«Non ti denuncerà, ci parlo io. Paga la cauzione a Mike e la storia si conclude qui». Ryan sembrava quasi ansioso di andarsene da quel posto, visto che si tastò le tasche, in cerca del pacchetto di sigarette; se ne portò una alle labbra, accendendola e inspirando a pieni polmoni. No, forse semplicemente era ansioso di fumare e non gli interessava niente altro.
«Ma, come può essere che Butt…» cominciai a dire, prima che Ryan sbuffasse infastidito, spegnendo la sigaretta sul muro e gettandola a terra, nonostante l’avesse appena accesa.
«Lentiggini smettila di rompere le palle, paga quella fottuta cauzione e usciamo di qui». Strinse la sua mano attorno al mio braccio, strattonandomi perché uscissi dalla cella e seguissi Mike che si stava dirigendo verso l’entrata. Cauzione, dovevo solo pagare la cauzione, con quali soldi? Quelli destinati all’affitto, certo. Ma come sarei arrivata a fine mese, se John non mi avesse pagata nonostante il lavoro al Phoenix?
Mi avvicinai a Mike in silenzio, aspettando di sentire la somma che gli dovevo. «Sono trecento dollari» disse infine, attendendo che pagassi quella somma.
«Tre… trecento dollari?» biascicai, rischiando di soffocare con la mia stessa saliva. Trecento dollari per essere rimasta dentro a una piccola cella per nemmeno un’ora? O trecento dollari perché avrebbe insabbiato tutta la faccenda?
«Sì, erano cinquecento, ma visto che sei la Signora di Ryan e tutto quanto…». Mike gesticolava molto mentre parlava. Era il tipico comportamento delle persone che non si sentivano a proprio agio, forse perché Ryan era a pochi metri da noi o forse perché…
«Cosa? No, non sono la Signora di nessuno, sono la loro vicina» cercai di spiegare, inutilmente: l’agente cominciò a ridere, tamburellando con le dita sulla scrivania scura davanti a lui, in attesa che pagassi il mio conto. Perché nessuno mi credeva quando dicevo che non ero la Signora di nessuno?
«Sì, sì, certo. In ogni caso devi pagarmi ora». Non la smetteva di tamburellare con le dita sulla scrivania, tanto che quel gesto cominciava seriamente a darmi sui nervi. Possibile che dovesse continuare con quel ticchettio fastidioso?

«Io… ho solo cento dollari. Scusi…». Mi avvicinai a Ryan e ai ragazzi, sperando che avessero soldi a sufficienza per pagare la cauzione. Glieli avrei restituiti una volta tornati a casa, non volevo di certo avere debiti con loro, soprattutto perché avevo visto con i miei occhi cosa facevano per arrivare a fine mese. «Ryan, io… io ho solo cento dollari, me ne servono altri duecento. Potresti… potreste prestarmeli, appena arriviamo a casa vi prometto che ve li restituisco subito» mormorai, torturandomi le mani per l’imbarazzo di quella situazione. Io stavo chiedendo un prestito a loro.
«Ne ho cento. Brandon, Doll, arrivate a cinquanta testoni in due?» domandò, prendendo il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans e porgendomi cento dollari. Brandon e Dollar lo imitarono, allungando cinquanta dollari a testa. Li ringraziai imbarazzata e tornai a consegnare i soldi all’agente, che non si era perso un mio gesto, come se temesse una mia possibile fuga.
«Ecco…». Appoggiai i soldi sul legno scuro, aspettando che smettesse di ticchettare le dita e li prendesse, per contarli. Il suo volto si curvò in uno strano ghigno, mentre raccoglieva i soldi, arrotolandoli e nascondendoli dentro alla tasca interna della sua uniforme scura.
«Bene, Cooper. Immagino che ci rivedremo ancora in giro, no?» ammiccò verso di me, intrecciando le sue mani dietro alla nuca e portando i talloni ad appoggiarsi alla scrivania, sgombra da carte. Sembrava quasi che si stesse prendendo gioco di me, che sapesse qualcosa che io non sapevo. Per questo lo salutai ringraziandolo con parole sconnesse, per tornare subito dopo dai ragazzi.
«Torno subito, devo prendere una cosa». Di nuovo quel ghigno sul volto di Ryan; era decisamente divertito mentre si allontanava da noi, dirigendosi verso la scrivania dell’agente. Parlò con lui per qualche minuto fino a quando non riuscì a convincere il poliziotto che, dopo un sospiro, gli porse un pezzo di carta che Ryan prontamente nascose nella tasca posteriore dei pantaloni. «Andiamo a casa» sogghignò, raggiungendoci.
Mentre uscivamo dalla centrale nessuno di noi parlava: io continuavo a guardare i miei piedi, troppo imbarazzata da quello che era successo per dire davvero qualcosa; Ryan fischiettava allegro, calcando un sassolino. Brandon e Dollar, davanti a noi, avanzavano silenziosi verso le moto, posteggiate pochi metri fuori dalla stazione di polizia.
«Tieni lentiggini». Feci appena a tempo a girarmi verso di lui che qualcosa di nero e grande mi colpì allo stomaco. Quando abbassai lo sguardo, notai che Ryan teneva un casco tra le mani; casco che non era grande come quello che avevo usato qualche giorno prima, per andare a Coney Island. «Misura Baby. Dovrebbe entrarci la tua testolina così da… dura». Mi stava prendendo in giro, riuscivo a capirlo anche dal suo ammiccare verso di me. Indossò il suo casco, mettendosi a cavallo della moto e dando gas per accendere il motore. Quando mi vide con il casco tra le mani, indecisa su cosa fare, si alzò la visiera scura, parlando a voce alta per farsi sentire anche sopra al rombo della moto. «Lentiggini? Vuoi tornare dentro o sali?». Era una domanda retorica, certo, ma involontariamente mi voltai per guardare la centrale di polizia, dietro di me. «Ti vuoi muovere?» sbottò, spazientito. Me lo fece capire anche dando un nuovo colpo di gas alla moto. Portai le mani sulla cinghietta del mio casco, cercando di aprirla con scarsi risultati: stavo tremando e non riuscivo ad aprire il moschettone. «Dammi qui» sbuffò, prendendo il casco dalle mie mani e aprendo la cinghietta in pochi secondi. Me lo fece indossare a forza, dandomi un pugno perché la mia testa entrasse, poi, ridendo, chiuse la cinghietta, tornando a poggiare le mani sul manubrio. «Sali o devo prenderti in braccio?». Tutto purché la smettesse di prendermi in giro. Mi sostenni sulle sue spalle, facendo forza con il piede sul pedale e salendo sulla moto subito dopo. Volevo dirgli di non correre oltre i limiti di velocità, ma Ryan partì sgommando e l’unica cosa che riuscii a fare fu aggrapparmi più forte a lui, circondandogli il busto con entrambe le braccia.
Quando arrivammo davanti a casa, qualche minuto dopo, Ryan rallentò fino a fermarsi; aspettò che Dollar scendesse dalla sua moto per aprire il portone del garage e poi entrò, parcheggiando la moto dopo quella di Brandon e Dollar: la prima vicino all’uscita, esattamente nello stesso posto della settimana prima, quando eravamo andati a Coney Island.
Per evitare che Ryan cominciasse a ridere di me di nuovo, scesi dalla moto, dandogli le spalle per cercare di togliere il casco; fortunatamente ci riuscii: la fibbia si aprì al primo tentativo, tanto che, dopo essermi sfilata il casco, guardai Ryan. Non sapevo nemmeno dove appoggiarlo.
«Tienilo tu, tanto di quella misura non va bene a nessuno» liquidò la faccenda, scendendo dalla moto e sfilandosi il casco a sua volta. Lo appoggiò al manubrio, portandosi poi una mano tra i capelli e scompigliandoli. Non sapevo che dire, perché in qualche modo mi sembrava un regalo. No, mi sbagliavo, era un regalo vero e proprio, solo per me.
Cercai di ringraziarlo, ma Ryan, subito dopo Brandon e Dollar, si incamminò verso le scale, per uscire dal garage senza aspettarmi. Corsi per riuscire a raggiungerli, ma, una volta giunta al pianerottolo del terzo piano, ricordai che dovevo loro duecento dollari. Si richiusero la porta del 3B alle spalle, come se nemmeno fossi dietro di loro.
«Arrivo subito» strillai, perché potessero sentirmi. Presi le chiavi di casa dalla borsa, aprendo la porta con urgenza; dopo aver appoggiato il casco sopra alla tavola, corsi in bagno a prendere parte degli ultimi risparmi che mi erano rimasti. Con i duecento dollari che dovevo dare ai ragazzi me ne rimanevano meno di cento, non sarei mai riuscita a pagare l’affitto. Ma non volevo e non potevo permettermi di avere un debito così grande con i miei vicini.
Bussai alla loro porta con insistenza, fino a quando Sick non venne ad aprire. «Ehi Lexi! Che piacere vederti. Un piacere quasi indescrivibile, vorrei farti sentire quanto mi piace vederti, soprattutto ora che sei una dura». Ammiccò, senza spostarsi dall’uscio. Non riuscivo a entrare e nemmeno a vedere dentro il salone; non se Sick rimaneva fermo.
«Scusa, posso entrare?» mormorai, indicando come una stupida la stanza dietro di lui. Per tutta risposta Sick cominciò a ridacchiare, spostandosi e facendo un goffo inchino. Brandon e Dollar erano seduti sui divani: stavano fumando; Paul e Josh invece, erano di fianco a Ryan, davanti alla parete delle foto. Tutti e tre stavano ridendo, come se ci fosse stato qualcosa di divertente da vedere.
«Grazie per avermi prestato i soldi, prima» spiegai, porgendo cinquanta dollari a Dollar e altrettanti a Brandon. Risposero al mio grazie con un ghigno guardando Ryan divertiti.
«Non trovate che sia il posto giusto?» domandò Ryan, guardando la parete davanti a lui, soddisfatto. Quando fui abbastanza vicina da vedere cosa attirasse l’attenzione di tutti, spalancai gli occhi, stupita, arrabbiata e sorpresa: c’era la mia foto segnaletica appesa al muro, di fianco alle foto di tutti i ragazzi. La mia foto, quella che un’ora prima Mike, l’agente di polizia, mi aveva scattato. Ecco cosa Ryan aveva preso, dopo aver costretto il ragazzo a consegnarglielo!
«Toglila subito. Ridammi quella… cosa» sbottai, avvicinandomi al muro per prendere la foto. Non volevo che nessuno la vedesse, era una cosa davvero vergognosa. La gente non doveva nemmeno sapere che io ero stata schedata e avevo evitato una denuncia solo perché Ryan aveva contrattato con la polizia, no.
«Ehi, lentiggini! Calma, su. O vuoi tirare un pugno anche a me?» scherzò, senza smettere di ghignare. Ah, per lui era divertente, un motivo in più per deridermi, no? Ecco perché non aveva detto niente alla centrale, perché voleva aspettare di essere a casa, davanti a tutti i suoi amici.
«Dammela» sibilai, cercando di sembrare minacciosa. Il mio tentativo di intimidirli non funzionò, visto che Ryan e i gemelli cominciarono a ridere, portandosi le mani sullo stomaco. Bene, come al solito ero lo zimbello di tutti, il loro personale giullare di corte che li faceva divertire. «Tieniti i tuoi soldi». Gli lanciai i cento dollari addosso, avanzando velocemente verso la porta, per uscire da quell’appartamento. Non ci sarei più entrata, non quando lui era in quella casa, perché cominciavo seriamente a odiare lui e il suo continuo prendermi in giro, era stressante.
Avevo quasi raggiunto la maniglia della porta, quando qualcosa si strinse attorno al mio polso, fermandomi. ‎«Stasera c'è una festa, se senti casino non farci caso» spiegò Ryan, stringendo di più la sua mano. Festa, certo. Una festa, come avevo fatto a non pensarci? Probabilmente era una festa per festeggiare Butterfly e il suo stupido tentativo di lasciarmi al fresco, come dicevano loro. O forse perché non ero riuscita a romperle il naso, chi poteva saperlo.
«Festeggiate Butterfly?» domandai ironica, strattonando il braccio perché lo lasciasse. Ryan si rabbuiò per qualche istante, rimanendo immobile a fissarmi, senza però dire nulla.
«Ryan, perché non facciamo venire anche lei?». Dollar lo affiancò, dandogli un colpo sulla spalla e riscuotendolo dai suoi pensieri. Ryan prese un respiro profondo, lasciando il mio polso e prendendo una sigaretta dal pacchetto che teneva sempre nella tasca posteriore dei jeans.

Ci pensò per qualche secondo e, dopo aver aspirato una boccata di fumo, disse:  «Non è una Eagles e nemmeno una Signora. Non è nemmeno una troietta». Certo, dimenticavo che le loro feste erano esclusive, solo per chi faceva parte degli Eagles. No, anche di Butterfly, che li soddisfaceva come una buona samaritana. Stavo per dire che non mi interessava di certo partecipare a una festa che aveva come protagonista principale Miss Silicone, quando Dollar mi stupì, parlando di nuovo.
«Ma ad Aria farebbe piacere, avrà qualcuno con cui parlare, sai che odia Butterfly e tutte le sue amiche». Aria, ci sarebbe stata Aria. Perché? Cosa le permetteva di essere presente a una delle loro feste esclusive? Forse perché era una loro amica e dopo tutta la storia di JC volevano cercare di consolarla?

«Non mi interessa una festa con Butterfly al centro dell’attenzione». Incrociai le braccia sotto al seno, ponendo in quella frase tutto il mio odio per quella ragazza. Se, in tutti i modi, avevo cercato di capirla e esserle amica, dopo quello che aveva fatto al supermercato non potevo più sopportarla.
«La festa è per Aria, è la mia Signora» spiegò Dollar. Nel suo sorriso c’era una nota divertita, il suo sguardo era fiero di dare quella notizia e gli occhi brillavano per la felicità. Non riuscivo a vedere Dollar, uno degli Hard-Cores degli Eagles, vedevo solo un ragazzo, felice di dire a tutti che aveva una nuova fidanzata.
«Dollar, sono così felice per voi» esultai, abbracciandolo di slancio. Ero contenta per lui, per Aria, per loro. Perché li avevo visti interagire poco, ma al funerale il discorso di Dollar e il modo in cui l’aveva confortata mi aveva fatto sperare in un loro avvicinamento.
«Alzi la mano chi vorrebbe essere al mio posto in questo momento. Sick, la mano» scherzò Dollar, rispondendo al mio abbraccio. Gli diedi un pugno scherzoso sul braccio, allontanandomi di un passo da lui, mentre, con sguardo solenne proclamava: «Doc, mi dispiace ma non ci proverò più con te, ora sono un uomo impegnato». Ridacchiai assieme a Sick, Brandon e i gemelli, mentre Ryan spegneva la sigaretta contro la porta a pochi passi da noi.
«Aria verrà a chiamarti quando arriva. Non romperai le palle a nessuno ed eviterai di romperle a Butterfly, altrimenti questa  volta non me ne frega niente, rimani in prigione e ti becchi una denuncia. E adesso vattene, che devo parlare con loro». Ryan e i suoi proverbiali modi gentili, delle volte rasentava quasi il ridicolo. Volevo uscire da quella casa con classe, sbottando un «Vaffanculo», ma sarebbe stato come abbassarmi ai livelli di Ryan, quindi semplicemente uscii senza dire nulla. E non gli avrei di certo parlato nemmeno quella sera, anche se mi aveva invitata a quella stupida festa.

 
 
 
 
 
 
Salve ragazze!
Scusate per il ritardo di questo capitolo ma ho avuto problemi nella scrittura.
Prima di tutto: Don’t hurt me again. È una OS Dollar e Aria, ambientata tra questo capitolo e il precedente, per chi volesse leggerla…
Poi, vorrei dire che non sono esperta di giustizia americana e non so se si può essere schedati solo per un pugno, quindi quella scena prendetela con le pinze. C’è da dire che sapendo che la polizia è sul libro paga degli Eagles, è possibile che possano arrestare qualcuno che li ha in qualche modo ‘intaccati’. Insomma, qui in Italia si è schedati solo per casi gravi, da quello che mi è stato detto, ma in America sappiamo che funziona in modo diverso.
Ringrazio come sempre quelli che aggiungono la storia tra preferiti, seguiti e da ricordare, tutte le persone che mi aggiungono tra gli autori preferiti e chi commenta. Grazie mille, davvero.
Spero di poter regalare un capitolo migliore di questo al più presto, per la prossima settimana, insomma, ma come sempre darò tutte le indicazioni sul gruppo di FB: Nerds’ corner.
Rob.

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Capitolo 12
*** Party & underwear ***


YSM
 
 
Continuavo a camminare attorno al tavolo della mia cucina, indecisa se andare o meno a quella festa: speravo che la rimandassero, anche se era impossibile e improbabile, visto che continuavo a sentire risate e musica, al di là del pianerottolo.
Una parte di me, quella razionale, continuava a ripetersi che non voleva andare a quella festa; speravo con tutto il cuore che Aria non bussasse alla mia porta, così non avrei varcato l'uscio del 3B. L'altra... be', l'altra era curiosa da morire; curiosa di scoprire se le loro feste fossero come le avevo immaginate, una versione dei video di 50 Cent senza una piscina di contorno.
«Ok, non ci vado» decretai, togliendomi le scarpe: ero decisa, avrei indossato qualcosa di più comodo di quei jeans, come una tuta. Non potevo andare a quella festa, c’era Butterfly, c’erano tante persone che non conoscevo e soprattutto Ryan, che mi aveva invitata solo perché costretto da Dollar. Non era bello essere invitati perché obbligati, non mi sarei di certo lamentata per la musica troppo alta o per strani rumori. Mi sarei comportata da fantasma, come se il 3C fosse vuoto.
Quando cominciai a sfilarmi la maglia, camminando verso la mia camera, qualcuno bussò alla mia porta: mi fermai in mezzo al corridoio, la maglia mezza sfilata e il cuore che batteva all’impazzata.
Festa.
«Lexi, sono io apri». La voce di Aria che sghignazzava prima che qualcosa –o qualcuno –sbattesse contro la porta. «Sta fermo» ridacchiò, mentre mi avvicinavo all’entrata del mio appartamento, dopo essermi sistemata la maglia. Le avrei detto che non mi sentivo bene e che mi dispiaceva, ma non mi andava di rovinare la loro festa. «Lexi, che succede?» domandò lei, non appena aprii l’uscio.
Dollar, dietro di lei, teneva le mani intrecciate sulla sua pancia e il mento appoggiato alla sua spalla, ma quando mi vide, fece scivolare le sue mani sui fianchi di Aria, indietreggiando di un passo. «Doc, tutto bene?». C’era quasi una nota ansiosa nella sua voce, la stessa che avevo sentito in quella di Aria.
«Io… sì, cioè no… non sto molto bene, è meglio se non vengo alla festa» mentii, torturandomi le mani e tenendo lo sguardo basso. Improvvisamente i piedi di Aria e Dollar erano diventati molto più interessanti dei loro volti; forse perché ero sicura che così non avrebbero scoperto il mio bluff.
«Doc, che hai?». Dollar si avvicinò a me, superando Aria. Quel gesto mi fece sospirare sollevata, ero sicura che lui avrebbe creduto alla mia bugia, a differenza di Aria; lei infatti sembrava capire le persone solamente con uno sguardo, una qualità che mi incuriosiva e intimidiva allo stesso tempo.
«Doll, vai ad aiutare Ryan con le birre, ti raggiungiamo dopo». Aria spintonò Dollar fuori dal mio appartamento, guardandomi minacciosa. Indietreggiai istintivamente, sicura che avesse capito la mia bugia. Se fosse stato realmente così, non l’avrei passata liscia. L’espressione infuriata sul suo viso la stava dicendo tutta: ero nei guai. Dollar cercò di dire qualcosa, ma lei, senza lasciargli il tempo di spiegarsi, chiuse la porta del mio appartamento, voltandosi poi verso di me. «Cosa sarebbe questa stronzata che stai male? Adesso tu attraversi quello stupido pianerottolo e vieni di là a farmi compagnia, visto che non ho voglia di parlare con Butterfly che ha sempre le gambe aperte. Muoviti» ordinò, indicando la porta. Era arrabbiata, forse addirittura infuriata. Non riuscii a trattenermi e cominciai a ridere, irritandola ancora di più. «E non ridere o chiamo Sick che venga a prenderti a forza. Sai che con lui nessuno ti assicura di arrivare di là». Un ghigno sadico apparve sulle sue labbra piene, mentre si sistemava i lunghi capelli castani dietro la schiena.
«Aria, per favore… non voglio venire a quella festa. Sono davvero felice per te e Dollar, dico davvero, ma… ci sono Butterfly, le sue amiche, Ryan… non ho voglia di vedere tutta quella gente. Adesso mi cambio e guardo un bel film. Ma tu divertiti». La rassicurai anche con un sorriso, sperando che la smettesse di insistere. Mi sarebbe piaciuto andare a quella festa per lei e per Dollar, erano gli invitati che non sopportavo. Specialmente due, che avrei volentieri preso a pugni di nuovo.
«Stai scherzando? Tu manchi alla mia festa perché c’è Butterfly? Evitala, il suo cervello è così piccolo che a forza di andare su e giù si è perso. Muoviti, rimani con me e non rompi». Prese il mio polso, costringendomi a seguirla fuori di casa. Cercai di protestare, ma senza risultato. Mi ritrovai di fronte a Sick, che ghignava, soddisfatto di trovarsi davanti una me ammutolita.
«Benvenuta, Lexi. Mi casa es tu casa, e in casa tu giri nuda, no? Quindi, togliti pure tutti i vestiti». Ammiccò, facendomi ridere. Sick era sempre il solito, non perdeva mai l’occasione di provarci con me, nonostante i miei continui rifiuti. Aria però non mi lasciò il tempo di rispondergli, mi trascinò verso la parete delle foto, stupita di vedere la mia appesa lì con le altre.
«E questa? Chi ti ha dato il permesso di metterla qui?». Voleva rimanere seria, quasi arrabbiata, ma non ci riusciva; c’era un sorriso stampato sul suo viso che non se ne voleva andare. Guardai la mia foto ancora appesa alla parete di fianco a quella dei ragazzi e poi spostai lo sguardo su Aria, che non la smetteva di fissarmi in attesa di una risposta.
«Non l’ho messa io, mi credi così stupida? È stato Ryan, voleva fare l’idiota come sempre, naturalmente» sbottai, guardandomi attorno furtivamente per vedere se fosse nei paraggi: magari potevo prendere la foto e nasconderla prima che se ne accorgesse qualcuno. Ero sicura che Aria non avrebbe di certo obbiettato. Quando però, a pochi metri da noi, vidi Ryan, mi immobilizzai per la sorpresa: sul suo volto c’era un grande livido che dall’occhio arrivava fino al mento. Fortunatamente non sembrava che ci fosse sangue; non era un taglio, assomigliava di più a una botta.
«Cosa hai fatto?» domandai, avvicinandomi istintivamente a lui per controllare. Mi alzai in punta di piedi, appoggiando una mano sul suo petto per non perdere l’equilibrio; l’altra accarezzò la sua guancia con i polpastrelli, sfiorando la parte lesa per cercare di capire a cosa fosse dovuto quell’ematoma. «Come ti sei fatto male?» bisbigliai, alzando lo sguardo per controllare che non mi mentisse o si prendesse gioco di me come il suo solito.
«Il gatto della vecchia del piano di sotto». Ma il suo sguardo divertito e derisorio diceva altro, così come la sua bocca contratta in una smorfia sarcastica. Istintivamente reagii, schiacciando le mie dita sulla pelle arrossata, come una bambina in cerca di vendetta. Ryan indietreggiò sbottando un insulto e si portò una mano sulla guancia, per massaggiarsi dove lo avevo colpito.
Era un gesto infantile e da stupidi, ma volevo che la smettesse di prendermi in giro e mentirmi. Ero la loro vicina da più di un mese, li avevo curati e ricuciti, avevo salvato la vita a Sick, mi avevano vista ubriaca e delirante: era il momento di smetterla di trattarmi come una persona che non doveva sapere la verità. Soprattutto, non ero così stupida come credeva; riuscivo a capire quando mentiva e quando no.
Mi voltai, dandogli le spalle per tornare da Aria, che aveva osservato tutta la scena divertita. «Non dire niente, non ci provare» la ammonii, prima che potesse cominciare a dire che non dovevo rivolgermi a Ryan in quel modo perché lui era l’O.G. degli Eagles. Poteva essere chi voleva, ma qualcuno doveva assolutamente fargli capire che il mondo non ruotava attorno a lui e che non aveva il permesso di essere sempre così ironico con tutti.
Avevo quasi raggiunto la porta quando Butterfly entrò, seguita da un gruppo di papere come lei. Quello che però attirava la mia attenzione – distogliendola dal gruppo di ragazze – era il vistoso cerotto bianco che aveva sul naso; risaltava sul trucco scuro dei suoi occhi e mi invogliava a colpirla una seconda volta, ancora più forte.
«Guardate, la nanetta psicopatica». Cinque sguardi – quelli di Butterfly e le sue quattro amiche – si spostarono su di me, facendomi sentire per qualche istante in imbarazzo. Poi realizzai quello che Butterfly aveva detto e, pronta per andare a rompere definitivamente il suo naso, avanzai verso di lei.
«Lentiggini, frena l’istinto da boxeur» sogghignò Ryan, stringendomi un polso per fermarmi. Mi voltai, guardandolo con tutto l’odio che potevo trasmettergli: Butterfly mi aveva offesa e io dovevo incassare senza reagire? No, non funzionava proprio così; per alcuni aspetti del mio carattere ero ancora una bambina cocciuta, soprattutto quando la gente mi provocava.
«Hai sentito cosa ha detto?» sibilai, stringendo le mani a pugno perché volevo evitare di colpirlo in pieno viso, vista la botta che già aveva. Però forse… di sicuro gli avrebbe fatto molto più male di un colpo assestato in condizioni normali.
«Sì, e allora?» domandò, come se non fosse stata un’offesa. Sul suo volto si allargò un sorriso che sfociò presto in una risata: «ma è vero che sei una nanetta. E sulla parte della psicopatica… potrei anche concordare». Di nuovo quel sorriso: mi stava prendendo in giro. Se quella era l’anticipazione della serata, be’, non ci tenevo proprio a rimanere lì, per essere derisa davanti a tutti.
«Sei uno stronzo e, ah! Vaffanculo». Con poca eleganza alzai il dito medio, strattonando il mio braccio perché mi lasciasse il polso. Quando mi trovai Butterfly di fianco, fui quasi tentata di tirarle un nuovo pugno, ma avevo già dato abbastanza spettacolo e non volevo rovinare la festa a Dollar e Aria, avevo fatto anche troppo.
«Lexi, se esci da lì, non sei più mia amica, non ti parlo più». La voce di Aria sovrastava anche la musica e il chiacchiericcio. Mi fermai, immobile, con la mano sul pomello della porta, indecisa se aprire e finire un rapporto – che stava nascendo –  con una delle persone migliori che avessi incontrato lì, oppure rimanere da sola, senza nessuna ragazza con cui parlare o confidarmi.
Presi un respiro profondo, cercando di mettere in ordine le idee. Si trattava di fare una scelta, tra l’altro nemmeno difficile. Avevo bisogno di Aria lì, al Phoenix; avevo semplicemente bisogno di una persona che comprendesse la situazione e mi lasciasse sfogare. Spostai la mano dal pomello della porta, girandomi lentamente e trovando Aria davanti a me: sulle sue labbra c’era un sorriso soddisfatto, come se avesse sempre saputo che non sarei uscita da quella porta.
«Lasciali perdere e goditi la festa» mormorò, sorridendo di fianco a me. Annuii, evitando di guardare Butterfly o Ryan. Sentivo i loro sguardi addosso, ma forse, anzi, di sicuro, Aria aveva ragione: non dovevo prestare attenzione a loro ma divertirmi e basta. Forse era esattamente l’opposto di quello che stavano cercando di fare. Ero riuscita a smascherarli: Ryan e Butterfly non mi volevano a quella festa, ero un impiccio; proprio per quel motivo, sarei tornata a casa per ultima, anche se avessi dovuto assistere a qualche scena spiacevole.
Andai a sedermi su una sedia che avevano spostato di fianco ai divani vecchi e logori. C’erano anche un paio di poltrone che non avevo mai visto, come se tutta la festa si dovesse svolgere lì, davanti alla TV che, senza audio, continuava a trasmettere le immagini di un film porno. Quando riuscii a capire cosa stava succedendo, spostai lo sguardo dallo schermo, imbarazzata. Senza dubbio doveva essere una scelta di Sick, ma Butterfly e le sue amiche continuavano a guardare la TV con interesse, borbottando qualcosa e annuendo tra di loro. Mancava poco che prendessero appunti. Irritata dal loro comportamento, mi guardai attorno, cercando di capire chi fossero tutti i ragazzi che c’erano lì.
Riconoscevo Brandon, Sick, Paul e Josh, Lebo e Dollar, che continuava a pizzicare il sedere di Aria; lei non riusciva a smettere di ridere, cosa che faceva sembrare le sue minacce innocue. C’erano un paio di ragazzi che avevo visto più volte al Phoenix, ma, la cosa che mi stupiva di più, era vedere l’interesse con cui un paio di ragazzi che non avevo mai visto, guardavano la parete delle foto, criticandone due. Di sicuro si stavano facendo quattro risate, deridendo la foto che Ryan aveva preso alla stazione di polizia.
Mi avvicinai per intimargli di smetterla, anche se non li conoscevo, ma mi zittii, notando un particolare che prima – troppo presa dalla foga di andare contro Ryan –  non avevo notato: le foto segnaletiche di entrambi erano appese in fondo, sotto alle cornici bordate di nero raffiguranti Liam e Shake. Che fossero due nuovi Eagles? O semplicemente dei gonna-be? Loro potevano avere la foto assieme a quella di tutti gli Eagles o era un diritto che si acquisiva dopo la prova barbara dell’ascensore?
«Tu sei la loro vicina?». Uno dei due, il ragazzo con i capelli scuri e ricci, si voltò verso di me, dando una pacca alla schiena dell’amico perché lo imitasse. Sembravano intenzionati a parlare con me, anche se non ne avevo molta voglia. «Io sono Swift, lui è Ham» continuò il morettino, indicando poi l’amico biondo. Swift e Ham. I loro nomi mi facevano capire che erano già parte degli Eagles, visto che di sicuro quelli erano i cosiddetti “nomi da strada”.
«Lexi» bofonchiai, accennando un sorriso per non sembrare antipatica. In fin dei conti non era colpa loro se Butterfly quella stessa mattina mi aveva portato all’esasperazione, costringendomi a tirarle un pugno e a evitare una denuncia solo grazie a Ryan che aveva corrotto – non sapevo ancora come –  il poliziotto.
«Sei anche tu amica di Butterfly?» domandò il ragazzo biondo, ammiccando verso di me. Era partito con la frase sbagliata, visto che assomigliava terribilmente a qualche battuta di Sick, detta con quello strano tono. Meglio far capire subito che no, non ero collegata a Butterfly se non per l’odio che provavo per lei e no, nessuno di loro due mi piaceva.
«No. Non sono amica di Butterfly, e no, non mi interessate, così facciamo prima, senza che vi illudiate». Secca, acida e isterica. Sembravo quasi una zitella, ma non mi interessava nemmeno fare bella figura. Non era la serata giusta per una festa.
«Peccato» mormorò Ham, rabbuiandosi appena. Sentii una presenza dietro di me e mi voltai per controllare: era Sick, che prontamente si affiancò a noi, portando il suo braccio attorno alle mie spalle.
«Povera Lexi, tutti che ci provano con te, eh? Ma è perché sei da sola, in mezzo a tutti noi uomini. Sei come Puffetta, Lexi, quindi, datti da fare. Mi offro volontario per testarti». La sua mano scese pericolosamente dalla mia spalla, verso il mio seno, in un invito ancora più chiaro, nel caso non avessi capito quello che mi stava dicendo a voce.
«Cosa stai dicendo?» sbottai piccata, allontanando la sua mano con uno schiaffo e indietreggiando, perché non mi toccasse. I ragazzi dietro di me non riuscirono a trattenere una risata, come se la scena fosse divertente per loro: per me non lo era, assolutamente.
«Che sei come Puffetta, e sappiamo tutti come sono nati i puffi, su. Grande Capo, Puffetta... hanno puffato come James Deen e adesso si ritrovano con un sacco di puffi. Adesso andiamo in camera mia a puffare». Un nuovo ammiccamento che mi fece arrabbiare ancora di più: credevo di essere stata chiara con lui; non mi interessava e gli avevo intimato di smetterla. Era divertente all’inizio, ma quando cominciava ad allungare un po’ troppo le mani lo scherzo finiva.
«Puffetta almeno sapeva trombare e li soddisfaceva tutti. Qui mi sa che non è così Sick» ghignò Ryan a voce alta, facendo ridere tutti. «Più che Puffetta direi che è un… trottolino, qualcosa da abbracciare, tipo i peluche. Non fa tenerezza?». Mi sorrise, accendendosi una sigaretta, mentre rimaneva beatamente seduto sulla poltrona, a capo di quel cerchio.
L’avrei gentilmente mandato a quel paese di nuovo, ma non volevo dargli quella soddisfazione, visto che sapevo che il suo obiettivo principale era esattamente quello. Il mio sorriso finto sembrò soddisfarlo: il ghigno sul suo volto si allargò a dismisura, appena prima che si portasse la sigaretta alle labbra, per aspirare una nuova boccata di fumo. Per quello che mi importava, poteva rimanere tutta la sera a uccidersi in quel modo lento, accorciando la sua vita ogni volta che aspirava quella cosa puzzolente. Quando soffiò fuori il fumo mi accorsi però che era un po’ troppo denso e bianco per essere quello di una sigaretta. Di male in peggio.
«Idiota» mormorai tra me e me, andando a sedermi sulla sedia opposta alla sua poltrona, per rimanere il più distante possibile da lui. Non era lui il motivo per cui ero a quella festa, erano… Aria e Dollar, che continuavano a punzecchiarsi e baciarsi in mezzo alle persone, come se fossero stati da soli. Aria mi aveva fatto rimanere lì con una minaccia, poteva anche rimanere distante dalle labbra di Dollar per qualche secondo; giusto per scambiare qualche battuta anche con me, senza farmi sentire idiota e sola.
«Doll… Jack… smettila, dai, c’è Lexi» bofonchiò tra una risata e l’altra Aria, poggiando le mani sul petto di Dollar e allontanandolo un po’. Alzai gli occhi al cielo, sollevata: finalmente avrei parlato con qualcuno senza essere offesa o derisa. «Come va?» chiese, avvicinandosi a me, mentre Dollar raggiungeva Ham e Swift, impegnati in una conversazione che sembrava seria.
«Male, come vuoi che vada?» ammisi, senza rendermene veramente conto. Era così quando Aria parlava con me, riuscivo a confidarmi con lei prima ancora di realizzare cosa dicevo. La verità era che di lei mi fidavo e poche volte mi ero sbagliata con la prima impressione.
«Perché, che succede? Sai che puoi parlarne, no?». Spostò la sedia avvicinandola alla mia, per essere più vicina e capire meglio quello che volevo dirle. Presi un respiro profondo, spostandomi i capelli dietro alla schiena e massaggiandomi le tempie per cercare di calmare il mio mal di testa.
«Perché stamattina sono finita in prigione, mi hanno schedata e non ho avuto una denuncia solo perché Ryan ha corrotto il poliziotto non so nemmeno come. Ho dovuto pagare trecento dollari di cauzione per uscire e me ne rimangono meno di duecento: devo arrivare a fine mese e pagare l’affitto, ma non ho i soldi necessari per fare tutto e non so come fare. Mi sbatteranno fuori di casa, credo, e dove vado? Torno a casa dai miei con la coda tra le gambe, dicendo che non sono in grado di cavarmela da sola? È esattamente quello che volevo dimostrare, io… non so nemmeno più chi sono, non mi sono mai comportata così. È come se fossi un’altra persona: rispondo male, sono arrabbiata e irritata, la Lexi che viveva a Los Angeles aveva un sorriso e un abbraccio per tutti, era la prima che faceva festa e si divertiva nei limiti, ero responsabile e pensavo dieci volte prima di fare qualcosa. Guardami, sto diventando una teppista dopo nemmeno due mesi; sto diventando come… loro». Alzai la mano, indicando Ryan e Sick, davanti a noi. Stavano parlando di qualcosa di divertente, indicando la TV, che trasmetteva ancora il film porno.
Aria appoggiò la sua mano sulla mia, stringendola appena: «stai crescendo, Lexi. Qui non è come a Los Angeles, probabilmente quella ragazza non sarebbe sopravvissuta nemmeno una settimana qui. Maturi, cresci, cambi, succede a tutti, ad alcune persone prima di altre, ma non per questo devi sentirti strana. Forse stai semplicemente attraversando un periodo di transizione, ti stai mettendo alla prova. Perché non può essere questa Lexi, quella che tira pugni, quella vera? Forse hai sempre pensato troppo e hai bisogno di staccare, no?». Mi sorrise, un sorriso dolce che mi scaldò il cuore e che fece scivolare una lacrima lungo la mia guancia che asciugai subito con il dorso della mano. «e per la questione dei soldi non posso aiutarti, anche se lo vorrei. Ho l’affitto da pagare e John non dà lo stipendio ogni mese, sto cercando di mettere da parte qualcosina per un progetto futuro. Però, forse… io… mi avevano proposto un lavoro che non ho accettato, ma tu… se ne hai tanto bisogno. Pagano bene e si tratta di un paio d’ore» anticipò, abbassando ancora di più il tono della voce. Ero disposta a tutto, se mi avessero pagata abbastanza per riuscire a pagare l’affitto. Disposta a tutto nei limiti del possibile, logicamente.
«Di cosa si tratta?» chiesi, speranzosa e preoccupata allo stesso tempo. Perché Aria aveva rifiutato la proposta? C’era qualcosa di losco sotto o magari era qualcosa di indecente? Si trattava di girare qualche filmato porno? Perché se così fosse stato, mi sarei rifiutata anche io.
«Ecco… sono un paio di scatti per una marca di intimo. Foto che finiranno solo sui cataloghi che mettono dentro ai negozi, non foto pubblicitarie che compaiono nelle strade. Ho visto i completi, sono carini e belli, niente strane trasparenze o cose troppo spinte. Semplicemente non me la sono sentita perché mi è stato offerto quando lo zio è morto e c’era Dollar, quindi ho lasciato perdere, Ma se vuoi credo stiano ancora cercando una modella». Prese la sua borsa che aveva appoggiato sulla sedia e cominciò a frugare, fino a trovare il telefono.
«Aria, modella di intimo? Guardami». In un gesto stupido, con entrambe le mani, mi indicai il corpo: come potevo fare la modella io, che non avevo nemmeno una prima, che ero alta poco più di un metro e mezzo e che avevo la pancia anche troppo muscolosa a causa di tutti gli anni di surf? Sapevo che le modelle di intimo non avevano il mio fisico, inutile mentire.
«Sei perfetta, Lexi. Ti mettono un paio di tacchi, ti truccano e sarai perfetta. Credici. Questo è il numero, te lo invio». Digitò qualche altro tasto prima che sentissi il mio cellulare vibrare dentro alla tasca dei miei jeans. Ci avrei pensato, ma non ne ero sicura.
«Dov’è il mio piccolo e personale McFlurry?» sghignazzò Dollar, scompigliando i capelli di Aria che arrossì, pestandogli un piede.
«Sta zitto, idiota». Si alzò in piedi, dandogli un pugno scherzoso sullo stomaco, che lui ricambiò con un pizzicotto sui fianchi. In poco tempo passarono dai dispetti ai baci, rincorrendosi per l’ampia cucina, come se fossero stati due bambini. Forse lo erano davvero, in quei momenti: Aria e Dollar avevano sedici anni, ma sembrava che troppo spesso se ne dimenticassero, impegnati com’erano a vivere una vita al limite. Sembrava quasi che, assieme, accantonassero i problemi della vita, per rinchiudersi in una bolla dove c’erano solo loro. Non sapevo perché, ma ero invidiosa di quel loro modo di vivere.
Cominciai a guardare i ragazzi attorno a me: si stavano tutti divertendo; ridevano e scherzavano bevendo birra e facendo battute stupide. L’unica che, in quella sala, non parlava con nessuno ero io. Anche Butterfly, nonostante il cerotto sul naso pesto, si stava intrattenendo con Ryan e Lebo; più con Ryan a dire la verità, visto che era seduta di fianco a lui, sulla sua poltrona e senza farsi tanti problemi continuava ad accarezzargli la coscia, strusciando le sue unghie laccate sui suoi jeans. Ryan continuava a parlare con Lebo, senza muoversi: era il ritratto della tranquillità seduto su quella poltrona, con le braccia distese sui braccioli e la testa appoggiata allo schienale. D’un tratto spostò il suo sguardo su di me, senza smettere di parlare con Lebo; Butterfly seguì il suo esempio, lanciandomi un’occhiata divertita e strusciandosi ancora di più addosso a lui. Con un braccio circondò il collo di Ryan, avvicinando le labbra al suo orecchio e mormorandogli qualcosa che lo fece sghignazzare, mentre non la smetteva di fissarmi. L’altra mano di Butterfly scese sul suo petto, accarezzandolo con il palmo della mano, sempre più giù, fino ad arrivare alla cintura dei jeans; su e giù, in una carezza lenta e continua che divertiva Ryan. O forse, semplicemente, era lei a divertirlo, lei che continuava a strusciarsi al suo fianco, con la gamba che saliva sempre di più lungo la coscia di Ryan. Irritata da quello spettacolino porno dal vivo, sbuffando cercai qualcosa su cui concentrarmi: non volevo sentire lo sguardo di Ryan su di me mentre Butterfly lo accarezzava, solo per prendermi in giro.
«Che succede Lexi, sei gelosa?». C’era una nota divertita in quella voce che di solito era sempre seria. Guardai Brandon, sedutosi di fianco a me con una lattina di birra tra le mani. Sembrava rilassato: un sorriso sincero sulle labbra, uno di quelli che riusciva a raggiungere anche gli occhi.
«Io, gelosa? E di cosa, scusa?». Perché dovevo essere gelosa? Non avevo nessun motivo di essere gelosa. In più trovavo, molte volte, la gelosia sbagliata. Di solito ero felice per le altre persone, mai gelosa. Lì a Hunts Point, poi, non avevo nessun motivo per essere gelosa di qualcuno, assolutamente.
«Di Ryan e Butterfly? Vorresti incendiarli o mi sbaglio?» scherzò, porgendomi la lattina di birra perché potessi berne un po’. Gelosa di Butterfly e Ryan, io? Forse Brandon aveva bevuto un po’ troppo, visto che quella era la cosa più insensata che avesse detto da quando ero arrivata lì.
«Cosa? No, assolutamente». Bevvi un sorso di birra, rabbrividendo quando il liquido fresco scese in gola. «Non sono gelosa, sono solo… schifata, ecco. È una cosa ributtante vedere scene così, se devono fare qualcosa possono anche chiudersi in camera, non è che tutti sono interessati a quello che devono fare» risposi piccata, riportando lo sguardo su di loro. La situazione non era cambiata poi molto: Ryan stava parlando con Lebo, ma Butterfly non aveva smesso di accarezzarlo, anzi, gli dava anche dei baci sul collo.
«E ti fanno schifo solo Ryan e Butterfly?» continuò, quasi divertito. Cosa c’era di tanto divertente in quella scena? Io non riuscivo a vederlo, davvero. «Cioè, guardati attorno, Dollar e Aria credo si siano divisi solo per prendere fiato, Sick è sparito da non so nemmeno quanto in camera con la morettina e Titty e Lucy sono con i gemelli sul divano…». Indicava tutti nel momento in cui li citava. Certo, Sick se ne era andato con un sorriso divertito sulle labbra e la mano sul sedere della ragazza, ma Dollar e Aria non erano rimasti a baciarsi per tutta la sera: avevo parlato con loro e Aria era riuscita anche a darmi qualche consiglio. I gemelli e le due ragazze invece… sembrava stessero solo parlando, ma non volevo avvicinarmi a loro per controllare.
«Non capisci, è il modo di fare di Butterfly, vuole provocarmi perché così le tiro un nuovo pugno». Era quella la verità: lei voleva farmi cedere davanti a Ryan, ma non mi interessava poi molto se si strusciava addosso a lui o altro. Solo, poteva evitare di farlo davanti ad altre persone e a me, ecco.
«E ci sta riuscendo, vedo» scherzò di nuovo, prendendo la lattina dalle mie mani e bevendone un sorso. No, non ci stava riuscendo. Butterfly aveva già vinto una volta, non le avrei permesso di vincere di nuovo, soprattutto non lì, davanti a tutti. Mi guardai attorno: Dollar e Aria continuavano a ridacchiare e a farsi dispetti tra un bacio e l’altro, i due ragazzi nuovi – Ham e Swift – erano impegnati a parlare tra di loro, Lebo e Ryan anche, nonostante Butterfly cercasse in tutti i modi di distrarlo. Insomma, tutti erano impegnati a parlare con qualcuno, l’unica che rimaneva sempre da sola, tranne quando qualche animo gentile come Brandon si avvicinava, ero io.
«Forse è meglio se me ne torno a casa, non c’entro poi molto io, qui». Cercai di alzarmi, ma Brandon prese la mia mano, costringendomi a non alzarmi da quella sedia. Il sorriso divertito era sparito dalle sue labbra, lasciando spazio a un’espressione seria, che poco ricordava il suo ghigno di qualche istante prima.
«Rimani ancora un po’, devono ancora fare l’annuncio». Indicò con un gesto del capo Dollar, che si stava lisciando la maglia stropicciata, aiutato da Aria. Quel gesto mi fece sorridere, ricordandomi il vero motivo per cui ero lì, così, per non deludere Brandon, rinunciai al mio tentativo di andarmene.
«Io… io vorrei solo fare un annuncio, ecco. Sapete tutti perché siete qui, no?». Dollar prese la mano di Aria, attirandola verso di lui per abbracciarla. Quel gesto scatenò dei fischi da parte dei ragazzi, che risero, assieme a Dollar. «Insomma, dopo dieci anni vogliamo ufficializzare le cose, per questo stasera sono lieto di annunciarvi che Aria è la mia Signora, questo significa che nessuno di voi la può più toccare, o vi taglio a pezzettini. Ah, logicamente nemmeno lei può sfiorare neanche con un dito un uomo che non sia io, se la vedete fare una cosa del genere… ditelo a me che poi io la punirò. Mi sembra di aver detto tutto» concluse, riservando uno sguardo ad Aria, ancora imbarazzata. Le diede un bacio sulle labbra che si concluse non appena ricominciarono i fischi e le battute sceme. Cominciai ad applaudire assieme agli altri, divertita e commossa da quella che, a tutti gli effetti, sembrava una – strana – festa di fidanzamento.
«Devi fare il giuramento, Doll» gridò Ryan, senza alzarsi in piedi, rimanendo sempre con Butterfly spalmata addosso a lui.
«Oh cazzo» sbottò Dollar, guadagnandosi prima un pugno e poi un’occhiataccia da parte di Aria. Giuramento? Che giuramento? C’era un giuramento da fare in quella strana cerimonia? «Giuro solennemente di trattarti bene come il mio flag, e di cavalcarti tanto quanto la mia moto». La mano destra sul cuore e il braccio sinistro attorno alle spalle di Aria. Quando concluse la frase Ryan cominciò ad applaudire, seguito subito dopo da tutti gli altri. Sotto al rumore degli applausi, Dollar e Aria si scambiarono un nuovo, appassionato, bacio.
«Sei uno stronzo! Se non mi sbrigo a venire mi perdo anche il tuo fottuto giuramento! Perché non mi hai chiamato?» sbottò Sick. C’era una nota stonata nella scena, che no, non era di certo la sua frase, quanto il suo… abbigliamento: era nudo, completamente; aveva solo un cuscino grigio che usava per coprirsi lo stretto indispensabile. Aria non riuscì a trattenere una risata, guardandolo, e si nascose contro il petto di Dollar. «Che cazzo c’è da ridere? Sono corso qui quando ho sentito gli applausi. Siete degli stronzi». Diede le spalle ad Aria e Dollar, girandosi verso Ryan e gli altri ragazzi. Inevitabilmente, visto che aveva girato le spalle anche a me, scoppiai a ridere vedendo il sedere di Sick. Forse non era la visione del suo sedere ad essere così comica, quando il segno ancora rosso ed evidente di uno schiaffo.
«Sick, vai a vestirti» ordinò Ryan, senza smettere di ridere. «Sei ridicolo e in più hai una manata sul culo» concluse poi in modo poco fine, ma così divertente che non riuscii a non ridere, assieme agli altri presenti.
«Non capite niente, queste lenzuola sono di seta. Seta. Costano» precisò, indicando il cuscino e allontanandosi verso la sua stanza, senza aggiungere altro.
«Bene, se volete scusarci… Doll, Aria mi raccomando, festeggiate bene e non fate troppo rumore, visto che la mia stanza è di fianco alla vostra». Ryan si alzò dalla poltrona, avvicinandosi a Dollar e Aria. Mollò una pacca sulla spalla a Dollar e con un gesto strano e impacciato cercò di abbracciare Aria.
«Ryan, tanto se fanno rumore non li sentirai, te ne farò fare di più io» sghignazzò Butterfly, seguita subito dalle altre ragazze che erano lì, sedute sul divano con i gemelli. Quella battuta di pessimo gusto mi fece sbuffare schifata. Di nuovo, nel giro di poche ore, si era dimostrata come un’oca senza cervello, che pensava di essere simpatica ma era solamente volgare.
«Dopo questa perla, me ne vado» mormorai rivolta a Brandon, ancora seduto di fianco a me. Lo vidi sorridere appena, dopo avermi salutato con un gesto della mano. Camminai verso Dollar e Aria per salutarli prima di andarmene e, una volta raggiunti, capii che non sapevo che cosa dire. Dovevo fare le congratulazioni per il loro fidanzamento? Optai per la cosa meno stupida che avevo pensato. «Grazie per avermi invitata, sono davvero felice per voi». Sorrisi, abbracciando Aria che ricambiò la stretta; cercai di fare lo stesso gesto con Dollar, ma non ci riuscii, perché mi scompigliò i capelli, sorridendo.
«Grazie per essere qui, Doc» disse poi, abbracciandomi. Appena indietreggiai di un passo tornò a circondare le spalle di Aria con il suo braccio, come se avesse paura di non averla più al suo fianco.
Sorrisi un’ultima volta ai miei amici, rabbuiandomi quando notai lo sguardo soddisfatto che Butterfly stava rivolgendo a me – ne ero sicura – mentre con Ryan si chiudeva la porta del corridoio alle spalle.
 
«Ripetimi l’indirizzo, per favore» biascicai, tamburellando con il vassoio contro al tavolo per l’agitazione. Perché avevo accettato quel maledetto lavoro? Con che coraggio mi sarei presentata al fotografo credendo che avrebbero potuto scegliere me come testimonial per quella marca di intimo?
«Lexi, calmati, non c’è niente di male. Sono un paio di foto, tutto qui, sarai perfetta. E l’indirizzo lo sai, è quello studio a New York, in centro». Non mi stava aiutando, non in quel modo. Ricordarmi che il fotografo era a New York mi agitava ancora di più. Non ci sarei andata, avevo cambiato idea. Mi sarei inventata qualche strana scusa: un meteorite, il crollo del mio palazzo, un attacco alla metropolitana di New York. Tutte scuse plausibili, insomma.
«Ok, non ci vado più» decisi, appoggiando definitivamente il vassoio sul bancone del Phoenix e prendendo un respiro profondo. Non era poi una brutta idea, avrei rinunciato a mille dollari, in fin dei conti cos’erano? Solamente due mesi d’affitto pagati e anche dei risparmi per la spesa, niente di più o di meno. «No, ci vado, mi servono i soldi» piagnucolai, capendo che probabilmente sembravo una pazza squilibrata dalla doppia personalità.
«Lexi, mi fai paura. Smettila, tanto ci vai, perché ho già detto a John che devi uscire prima. E non può dire niente a me, adesso sono la Signora di Dollar». Concluse la frase con un sorriso soddisfatto, come se dire quella frase le desse un piacere indescrivibile, come se avesse sempre voluto dirla.
Non riuscii a trattenere una risata divertita dalla sua felicità e il mio sguardo si posò di nuovo su quel ragazzo all’angolo, che per tutto il mio turno mi aveva guardata; ero quasi convinta di averlo visto ammiccare un paio di volte, ma non lo conoscevo, non mi sembrava, almeno.
«Aria, chi è quel ragazzo che continua a guardarmi? È strabico o gli ho fatto qualcosa di male?» mormorai, dando le spalle al morettino e indicandolo senza che potesse vedermi. Aria cominciò a ridere, appoggiandosi al bancone per non cadere per terra, sembrava che avessi detto una barzelletta divertentissima. «Che c’è? Dovrei conoscerlo? È qualche nuovo acquisto degli Eagles? È un O.G. o qualcosa di simile?» mi allarmai, guardandomi attorno per capire se qualcuno avesse sentito che non sapevo chi era quel ragazzo. Aria rise ancora più forte, irritandomi maggiormente.
«Jack… Dollar mi ha raccontato che quando ci siamo ubriacate, hai cominciato a guardarlo, urlando che l’avresti sposato. Lui è Peter, abita nella strada dopo questa. Probabilmente non te ne sei mai accorta, ma viene spesso qui, e sembra che tu gli sia simpatica. O forse gli sei simpatica da quando ha sentito che volevi sposarlo» sghignazzò, deridendomi. Bene, non bastavano quelle maledette foto che dovevo fare nel pomeriggio per agitarmi, ora c’era anche un ragazzo a cui avevo dichiarato il mio amore ma che non ricordavo nemmeno di aver visto.
«Ma quanto ero ubriaca?» domandai, sbirciando verso il ragazzo, che non la smetteva di sorridere. Non era brutto, ma dubitavo seriamente di aver detto che l’avrei sposato. Dovevo aver bevuto davvero molto per dire una cosa del genere.
«Lexi, muoviti: vai a casa, fatti una doccia e poi corri a prendere la metro per andare a New York. Non fare tardi, sai che più o meno hai un’ora di strada». Aria mi slacciò il grembiule, spingendomi fuori dal Phoenix con un sorriso sulle labbra. Certo, lei era felice; tanto ero io quella che doveva rimanere mezza nuda davanti a una macchina fotografica per riuscire a pagare l’affitto.
Camminai velocemente verso casa, cercando di non pensare a quello che dovevo fare. Una doccia veloce e, in pochi minuti ero pronta per andare a prendere la metropolitana.
Scesi le scale sperando di non incontrare Ryan per non dare spiegazioni su quello che stavo per fare e sospirai sollevata quando mi chiusi il portone dello stabile alle spalle: ero riuscita a evitare tutti i ragazzi; questo significava non dover dare spiegazioni a nessuno. Quel lavoro sarebbe stato un segreto tra me e Aria, nessuno avrebbe mai saputo dell’esistenza di quelle foto e tutto si sarebbe risolto al meglio: i soldi erano quelli del lavoro al Phoenix.
Un quarto d’ora dopo, quando arrivai alla fermata della metropolitana, inorridii: c’erano delle persone raggruppate fuori dall’entrata, che borbottavano arrabbiate. Mi avvicinai a loro, cercando di capire cosa fosse successo. Riuscii a sentire poche parole, che bastarono perché il mio malumore aumentasse. «Ragazzo… lanciato sotto alla metropolitana. Morto… tutto bloccato». Perché qualcuno aveva scelto proprio quel giorno per lanciarsi sotto a un treno in corsa? Come sarei arrivata a New York? Impensabile prendere un autobus a quell’ora, o sarei arrivata in ritardo di un’ora; un taxi era troppo costoso e non avevo tutti quei risparmi. L’unica cosa da fare era… sì, quello di sicuro era il metodo più veloce per arrivare a New York.
Presi il telefono dalla borsa, componendo l’unico numero di cui mi fidavo. «Che c’è, Doc?». La voce di Dollar era quasi divertita, forse perché non si aspettava una mia chiamata. Ma non potevo di certo rivolgermi a Ryan; mi immaginavo le sue battute stupide sulla mancanza di tette o altro.
«Dollar, sei da solo o c’è qualcuno vicino a te?» domandai, ansiosa di sapere la risposta. Se ci fosse stato Ryan di certo avrebbe chiesto spiegazioni, visto che Dollar mi aveva chiamata Doc.
«Sono da solo, c’è qualche problema?». La voce improvvisamente seria, esattamente come faceva Ryan quando qualcosa risvegliava il suo lato quasi umano. Non riuscii a non sorridere, notando quella somiglianza. Quando però ricordai quello che stavo per chiedergli, il sorriso sparì subito dalle mie labbra.
«Ecco, io… ho un incontro di lavoro a New York, ma… un tizio si è lanciato sotto a un treno e adesso è tutto bloccato e io non ce la faccio ad arrivare in tempo. Puoi… potresti accompagnarmi tu, in moto? Però nessuno deve sapere nulla, per favore» implorai, sperando che mi ascoltasse. Ero sicura che Dollar avrebbe mantenuto il segreto, magari perché minacciato da Aria. Ma se l’avesse detto anche solo a Sick, non avrei avuto più pace, tutti i ragazzi l’avrebbero saputo e sarebbe stato impossibile scappare alle loro prese in giro.
«Arrivo subito» mormorò, prima di chiudere la chiamata. Speravo che si ricordasse di prendere il mio casco, ma non volevo chiamarlo ancora, così cominciai a camminare su e giù, cercando di scacciare l’ansia. Alcuni minuti dopo sentii il rombo di una moto, seguito subito dopo dal rumore di un clacson.
Corsi veloce verso Dollar, sorridendogli grata. Mi porse il casco, alzando la visiera del suo per parlarmi.
«Che succede Doc?» chiese, aspettando che chiudessi la sicura del mio casco. Cercai di non metterci molto, ma ogni volta non riuscivo ad agganciare il moschettone, così Dollar mi aiutò.
«Io… devo andare a fare un lavoro che mi ha consigliato Aria. Ma non importa… non voglio che tu sappia nulla altrimenti poi lo racconti agli altri. Lasciamo stare, mi basta che tu mi accompagni a New York» farfugliai, senza veramente dire qualcosa di senso compiuto. Dollar aspettò che salissi dietro di lui, prima che gli dettassi l’indirizzo del fotografo. Non sembrò capire chi ci fosse a quell’indirizzo, perché annuì, partendo subito sgommando.
Quando arrivammo davanti allo stabile, l’insegna del fotografo svettava sul bianco del muro, ma Dollar non sembrò farci caso quando frenò, spegnendo la moto. «Grazie per avermi accompagnato. E ti prego, non dirlo a nessuno. Sarà il nostro segreto, d’accordo?» supplicai, riporgendogli il mio casco, dopo essermelo tolto. Dollar si guardò attorno, probabilmente non capendo le mie parole. Quando il suo sguardo si posò sull’insegna d’orata, spalancò gli occhi sorpreso, tornando a guardarmi subito dopo.
«Fotografo? Hai accettato quel lavoro che Aria non ha voluto fare?». Non gli risposi, troppo imbarazzata. Probabilmente però, il mio silenzio gli fece capire che la sua intuizione era esatta, perché continuò, ancora più elettrizzato: «Cazzo. Perché ora? Be’, me le farai vedere, vero? No, cazzo. Non posso, Aria. Merda. Be’, le farai vedere a Sick, almeno?» domandò, combattuto. Era chiaro che una parte di lui voleva vedere le foto, l’altra invece si ricordava di Aria e della loro festa di fidanzamento di un paio di giorni prima. «Tu le dai a me che le faccio vedere a Sick, non sono per me, quindi non c’è niente di male se poi ci do un’occhiatina. No, forse c’è qualcosa di male. Ma se Aria non lo viene a sapere… e poi tu non sarai nuda, no? Ma tu conosci Aria e… no, non posso. Non me le farai vedere, vero? Le chiudi in una busta sigillata che io darò a Sick, poi tu le…». Dollar non la smetteva di parlare, non lasciandomi il tempo di ribattere. Così, per fermarlo, appoggiai la mia mano sul suo braccio, prendendo un respiro profondo per spiegare bene la situazione.
«Dollar, le foto non le vedrà nessuno, ok? Né tu o Sick, né Aria o non so chi. Nessuno saprà niente di questo servizio fotografico, come se non l’avessi fatto, ok?» conclusi, sistemandomi la borsa sulla spalla perché volevo entrare, per non arrivare in ritardo. Dollar si rabbuiò leggermente, come se fosse deluso, poi però annuì.
«In bocca al lupo, allora. Se hai bisogno per il ritorno chiamami pure. Ciao Doc». si abbassò la visiera del casco, agganciando il mio al manubrio e dando gas per accendere il motore. Pochi secondi dopo, Dollar, schivando un taxi giallo che stava arrivando, sparì sgommando per ritornare a casa.
Presi un respiro profondo, guardando di nuovo l’entrata del lussuoso stabile davanti a me. Ero a New York, non nel Bronx. Con un sorriso amaro cominciai a salire i gradini bianchi, ringraziando l’usciere che mi aprì il grande portone di legno e vetro per farmi entrare. Presi l’ascensore, salendo fino al quinto piano, esattamente come mi avevano detto per telefono; una volta arrivata davanti alla reception, sorrisi alla segretaria, presentandomi. «Buongiorno, sono Alexis Cooper, sono qui per quel servizio fotografico…» bofonchiai, con un filo di voce per l’imbarazzo. Quella ragazza era molto più portata di me per un servizio fotografico: fisico alto e slanciato, curve perfette, sorriso smagliante e capelli che ricadevano sulla sua schiena con onde setose. Che cosa ci facevo io, lì?
Mi condusse in una piccola stanza: sembrava un camerino, c’era una poltrona davanti a un grande specchio e, sedute su un divanetto nell’angolo, c’erano due ragazze che appena mi videro, smisero di parlare, raggiungendomi con un sorriso. Si presentarono, spiegandomi che erano le addette al trucco e ai capelli; mi fecero sedere sulla poltrona, cominciando a sistemarmi. Mi sentivo un’idiota mentre mi mettevano l’ombretto e arricciavano i miei capelli; era una tortura piacevole che sicuramente non avrebbe avuto un risultato perfetto. Dubitavo di risultare lontanamente attraente anche con un chilo di trucco sul viso e una quantità industriale di lacca per fissare i ricci.
«Scegli quello che vuoi per partire, tanto dovrai indossarli tutti e dieci» spiegò la ragazza che mi aveva truccata. Mi voltai per guardare i diversi completini intimi: quasi tutti erano composti da un bustino e un paio di culottes. Erano tutti molto belli, ma non ero ancora convinta che il mio fisico potesse far vedere la loro bellezza.
«Credo che sceglierò questo per primo» mormorai, indicando un bustino grigio, con dei fiocchetti neri. Le culottes erano dello stesso colore, ma terminavano con un po’ di pizzo. La ragazza sorrise, porgendomi anche un paio di calze a rete.
«Indossale sotto all’intimo, ti lasciamo fare da sola, quando hai finito di vestirti chiamaci pure per chiudere il corpetto dietro, non ti preoccupare». Mi sorrise quasi dolcemente, uscendo assieme all’altra assistente e lasciandomi da sola dentro a quel piccolo camerino.
Forza, dovevo solo farmi forza, potevo farcela. Guardai la mia immagine riflessa allo specchio: non mi riconoscevo nemmeno; il trucco scuro, i capelli con dei ricci curati e ordinati. Indossai velocemente le calze e gli slip, faticando un po’ con i gancetti del corpetto. Quando riuscii a chiudere anche l’ultimo gancio, mi guardai allo specchio di nuovo, sistemandomi i capelli dietro alla schiena. Sembravo la brutta copia di una modella di intimo, anzi, la copia menomata, visto che mi mancavano almeno un paio di taglie di seno. Aprii la porta con lo sguardo basso, troppo imbarazzata per guardare il volto delle due ragazze e capire che non era quello che cercavano per la campagna di intimo; ma il loro entusiasmo mi stupì, quando mi fecero indossare un paio di scarpe con i tacchi e completarono l’opera con alcuni braccialetti neri.
Scoprii che la ragazza che mi aveva acconciato era anche la fotografa e quella notizia riuscì a rilassarmi: mentre mi preparavano ero riuscita a parlare con loro tanto che mi sentivo meno in imbarazzo. E quando avevamo cominciato a fare le foto, una dopo l’altra, mi ero rilassata davanti all’obbiettivo; un cambio di intimo dopo l’altro ero riuscita anche a sorridere.
Sembrava tutto perfetto; quando indossai l’ultimo completo –u no nero bellissimo ma decisamente più audace degli altri, visto che copriva solo il seno e gli slip erano un perizoma sotto a un paio di culottes quasi trasparenti – capii che forse non era stata una brutta esperienza. Certo, continuavo a camminare da una stanza all’altra in tacchi, reggicalze e intimo sexy, ma sicura che nessuno avrebbe mai visto quelle foto, capii che in qualche modo quell’esperienza mi avrebbe fatta crescere. Avevo imparato che si riusciva sempre a cavarsela, in un modo o nell’altro. Bastava solo una gran forza di volontà.
Un colpo alla porta e delle urla improvvise. Mi guardai attorno, cercando di capire cosa stava succedendo in quella stanza: otto persone entrarono dalla porta, indossando un casco integrale scuro, che non faceva vedere i loro volti; agitavano delle pistole, senza veramente puntarle addosso a qualcuno. Spaventata indietreggiai, cercando di ripararmi da qualche parte, ma, dietro al divano chiaro non c’era spazio per nascondersi, per questo, quando uno di loro si avvicinò a me, puntandomi la pistola contro, cominciai a urlare, rannicchiandomi su me stessa perché non mi facesse del male. La sua mano strinse il mio braccio, costringendomi ad alzarmi. Nonostante tutto, però, la stretta non era ferrea, sembrava quasi che non volesse farmi veramente del male.
«Scusa Doc, ho dovuto». Doc. bastò quella parola per farmi capire tutto, perché solo una persona mi chiamava in quel modo. Abbassai lo sguardo, cercando di calmarmi per evitare che il mio cuore esplodesse per la paura, ma non ci riuscivo.
Capii subito chi di loro era Ryan, dal suo modo di camminare ma soprattutto dal suo muoversi sicuro in mezzo agli altri. Impugnava la pistola ad altezza uomo, puntandola contro alle due povere ragazze che cercavano di non urlare e piangere. Avrei voluto dirgli di smetterla, ma qualcosa mi fermava, come se fosse meglio non far capire che li conoscevo.
«La ragazza ha fatto le foto, quindi la pagherete. Domani i soldi saranno sul suo conto corrente» urlò, tenendo sempre la pistola puntata contro di loro. Con l’altra mano prese la macchina fotografica che avevano usato e la scaraventò a terra, distruggendola in tanti piccoli pezzi. Con la punta del piede spostò i pezzi, fino a trovare la memory card. Abbassò la pistola, sparando un colpo che mi fece gridare assieme alle due ragazze. «Dove sono le sue cose?» domandò alle ragazze, indicandomi. Mandy, quella che mi aveva truccato, singhiozzò che erano nel camerino dietro di noi. Vidi Ryan camminare fino all’altra stanza e uscire qualche secondo dopo con la mia borsa tra le mani. Non aveva ancora abbassato la pistola, e questo mi spaventava: temevo potesse sparare un nuovo colpo, stavolta magari contro le povere ragazze. «Se non ci sono i soldi entro due giorni, torneremo, e non provate a chiamare la polizia adesso, perché la ragazza viene con noi». A quelle parole Dollar strinse un po’ la presa del suo braccio attorno al mio collo, costringendomi a inclinare la schiena per non rimanere senza fiato.
«Appena usciamo ti libero» sussurrò piano, senza muoversi troppo per non far capire che stava parlando con me. Istintivamente portai le mie mani sul suo braccio, aggrappandomi per riuscire a respirare un po’ di più. Dollar indietreggiò, senza lasciare la presa sul mio collo fino a quando uno dei ragazzi chiuse la porta, una volta che tutti uscirono sul pianerottolo. «Scusa Doc» mormorò, prendendo un mio polso e costringendomi a seguirli giù per le scale, fino alla strada. Lì, dove qualche ora prima Dollar aveva posteggiato la sua moto, c’erano le moto di tutti i ragazzi.
«Muoviti, mettiti questa e andiamo a casa» sbottò Ryan porgendomi la felpa che indossava. Incrociai le braccia al petto, rimanendo ferma in mezzo alla strada. Poco mi importava se ero praticamente nuda, visto che non riuscivo ancora a capire perché fossero piombati dentro a quello studio fotografico. «Muoviti o giuro che mi incazzo» strillò, mettendomi il casco a forza senza nemmeno aspettare che indossassi la sua felpa. Mi agganciai il casco, puntando il tacco sul pedalino della moto di Ryan e cercando di salire nonostante il reggicalze mi infastidisse. Quando Ryan partì sgommando, portai una mano dietro alla schiena per incastrare la sua felpa sotto al mio sedere per non correre per tutta New York in perizoma.
Sentivo il vento fischiare nonostante il casco, le calze non riuscivano a ripararmi dal vento che continuava a colpire la pelle nuda delle cosce, costringendomi a stringere i denti per il dolore. Arrivammo al 198 di Whittier Street in meno di venti minuti, quasi metà del tempo che avevo impiegato quella mattina con Dollar. Ryan parcheggiò la moto davanti allo stabile, spegnendo il motore. Non aspettai nemmeno che scendesse, volevo solo andare dentro casa per togliermi quel ridicolo completo e farmi una doccia. Era stata una giornata speciale, come sempre rovinata da Ryan.
«Dove cazzo credevi di andare conciata in questo modo idiota?» sbottò, prendendo un mio polso e strattonandomi, perché non mi muovessi. Mi slacciai il casco, lanciandoglielo contro. Speravo di fargli male, ma Ryan, nonostante non avesse lasciato la sua prese su di me, riuscì ad afferrare il mio casco con l’altra mano. Non risposi, girandomi dall’altra parte perché sentivo gli occhi pungermi. Perché Ryan doveva sempre rovinare tutto quello che da sola stavo cercando di costruire? Cosa gli interessava se facevo un paio di foto in intimo – foto che tra l’altro nessuno avrebbe visto?
«Ryan… lasciala stare» mormorò Brandon, togliendosi il casco e scendendo dalla moto. Si mise al mio fianco, intimandogli di lasciarmi andare anche con lo sguardo. Ryan però non sembrava volerlo ascoltare: la sua presa non diminuì nemmeno quando cercai di ritirare il braccio.
«No, che cazzo credevi di fare, sentiamo?» chiese di nuovo, stringendo la mascella, nervoso. C’era una vena che pulsava nella sua fronte, come se fosse davvero arrabbiato. Tra i due, però, quella arrabbiata ero io: aveva rovinato una bella giornata, rischiavo di non essere nemmeno pagata perché aveva fatto lo stupido e in più continuavo a essere in intimo davanti a tutti loro.

«Volevo dei soldi, è così difficile da capire?» strillai, la voce stridula a causa delle lacrime che stavano per uscire. Perché John quel mese non mi aveva pagata, e mi servivano i soldi per l’affitto o mi avrebbero sbattuta fuori di casa. Ma non potevo dirlo a Ryan, o John sarebbe andato in mezzo ai casini, ed era l’ultima cosa che volevo fare.
«Soldi?». Sembrava scettico, come se quello che avevo detto non l’avesse convinto del tutto. La sua presa sul mio polso si fece un po’ meno salda, così riuscii a liberarmi per asciugarmi una lacrima che era scesa sulla mia guancia.
«Sì, cazzo. Volevo solo degli stupidi soldi per comprarmi qualcosa di nuovo» mentii, togliendomi la sua felpa e lanciandogliela contro, come se quel gesto potesse fargli capire che non mi serviva il suo aiuto, che sapevo benissimo cavarmela da sola. Non volevo niente di nuovo, ma Ryan non l’avrebbe mai saputo.
«Chiederli a noi era troppo difficile? Te li avremmo prestati» sbottò ironico, per farmi capire che c’era una soluzione migliore rispetto a qualche foto in intimo. Era esattamente quello il problema, anzi, uno dei tanti problemi. Volevo farcela da sola, con le mie forze. Non mi importava dei loro soldi.
«Quali mi avreste prestato? Quelli che avete rubato a qualcuno o quelli guadagnati vendendo armi e droga?» urlai, prendendo la borsa che aveva appoggiato alla moto, scendendo. Perché i loro soldi non li guadagnavano onestamente, e quello forse mi infastidiva ancora di più. «E non dovevate permettervi di entrare in quel modo in quello studio. Spaventare le persone in questo modo è da idioti, vi avrei sparato un colpo a testa. E tu…» minacciai, avvicinandomi a Dollar e puntandogli un dito contro, «non ti permettere mai più di giurare una cosa e poi fare l’esatto contrario» terminai con un singhiozzo, mentre la vista si appannava di nuovo perché nuove lacrime si preparavano a scendere sulle mie guance.
«Lexi, ha minacciato di togliermi il flag, non potevo. E sono pur sempre un Eagles, lo sai com’è l’aquila, no? È codarda e ha un comportamento cattivo, non ci comportiamo onestamente. Ha minacciato di togliermi la mia famiglia, senza flag non so nemmeno chi sono, cerca di capire» si scusò, mentre gli tiravo uno schiaffo. Speravo solo di essere riuscita a colpirgli la guancia, perché non riuscivo più a vedere il suo viso chiaramente.
Spalancai il portone, togliendomi le scarpe con il tacco per correre più veloce possibile verso il mio appartamento. Volevo rimanere da sola, forse mi sarebbe piaciuto avere Aria al mio fianco, non lo sapevo.
Mi sentivo delusa, amareggiata, felice… era come avere troppe emozioni che cercavano di manifestarsi senza riuscirci. Perché apprezzavo il loro sforzo di aiutarmi, ma non riuscivano a capire che in quel modo forse peggioravano la situazione.
Aprii la porta del mio appartamento e corsi verso il divano, lasciando che tutte le lacrime che avevo accumulato nell’ultima mezz’ora uscissero. Aria arrivò qualche minuto dopo, sorridendo per il mio strampalato abbigliamento e sedendosi al mio fianco; cercò di farmi ridere, imitando la voce di Dollar che l’aveva chiamata preoccupato, perché forse io mi ero arrabbiata con lui. Non riuscii a trattenere una risata tra le lacrime quando mi confidò che potevo picchiare Dollar in ogni momento, se mi faceva sentire bene.
Rimase con me tutta la sera, facendomi ridere con strani aneddoti e imitando Ryan mentre mangiava un pezzo delle pizze che avevamo ordinato. Se ne andò a notte fonda, dopo un paio di film comici che riuscirono a sollevarmi il morale, facendomi quasi dimenticare tutto quello che era successo. Quasi.

 
 
 
 
 
 
 
Salve ragazze!
Prima cosa… il giuramento di Dollar per Aria è una rivisitazione di quello del matrimonio che c’è in SoA, che dice, testualmente “Prometto di trattarti bene come la mia giacca (riferito alla casacca che ha lo stesso valore del flag) e di cavalcarti come la mia moto”. L’ho adattato inserendo il flag, perché è una cosa che mi è sempre piaciuta.

Poi poi poi… Ham e Swift, ci sono già da un paio di settimane i loro volti nel gruppo, sono i nuovi acquisti degli Eagles, visto che li ho decimati.
Per quanto riguarda la seconda parte… è vero che il tragitto in moto/macchina da HP a NY è circa metà rispetto a quello in metropolitana, aggiungeteci poi che Ryan corre come uno scemo, quindi il quarto d’ora è assolutamente plausibile.
Per quanto riguarda il lavoro di Lexi… sono quasi sicura che ci voglia un curriculum e anche molta esperienza, e che non basta una telefonata per risolvere tutto… ma parliamo degli Eagles, che con i soldi corrompono chiunque.
Infine c’è la questione della OS Dollaria. Il MM ambientato dopo la festa. L’ho più o meno già anticipato nel gruppo, ma vorrei sapere in quante sareste interessate a leggerlo (si parla di un MM probabilmente rosso, che non aggiungerebbe comunque niente alla trama).
Il completino che indossa Lexi quando Ryan e gli altri fanno irruzione è quello nero, l’ultimo che ho fatto vedere nel gruppo, comunque posterò ancora la foto se qualcuno non l’ha vista.
Sono sicura di aver dimenticato una cosa, ma non mi ricordo… babbeh, la aggiungo nel gruppo quando mi ricordo, perdonatemi.
Come sempre ringrazio preferiti, seguiti, da ricordare, chi legge e chi recensisce. Aumentate sempre di più e non so mai come ringraziarvi!
Questo è il gruppo spoiler a cui potete chiedere l’iscrizione, se volete: Nerds’ corner.
Grazie ancora, alla prossima settimana (con un salto temporale che ci porta a ottobre).
Rob.

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Capitolo 13
*** Lower Plaza by night ***


YSM
 
 
Dopo la retata allo studio fotografico, mentre posavo per quel servizio di intimo, i miei rapporti con i ragazzi si erano un po’… raffreddati, soprattutto con uno di loro. Ryan non si era scusato –a differenza di Dollar –e io non mi ero di certo scomposta: parlavo con lui lo stretto indispensabile, se lo vedevo sul pianerottolo, al Phoenix o per strada lo salutavo, ma i nostri rapporti finivano lì. Non si faceva nemmeno più medicare le ferite, probabilmente perché il giorno dopo la loro intrusione nello studio di New York, avevo volontariamente fatto cadere sul suo piede una pentola, senza nemmeno scusarmi. Quando Aria mi aveva fatto notare che era stato un gesto infantile, avevo incassato il colpo, passando al punto numero due: l’indifferenza.
Tre mesi d’indifferenza, trascorsi lenti come se ogni minuto fosse stato un’ora; tre mesi che mi avevano fatto capire quanto bisogno avessi dei ragazzi e delle loro battute stupide, anche di quelle di Sick. Ma non volevo mollare; Ryan doveva ancora chiedere scusa per quel gesto e io non gli avrei parlato fino a quando non avesse pronunciato quelle cinque lettere.
«Sei peggio di una bambina Lexi» sbuffò Aria, rientrando al Phoenix dopo che Dollar e i ragazzi se ne erano andati. Si sistemò i capelli e il grembiule che Dollar le aveva spostato scherzosamente, poi cominciò a spinare una birra per Peter, il ragazzo che continuava a guardarmi con quel sorriso perenne sul volto. «Porta un paio di gin a quei due, li hanno ordinati dieci minuti fa; meglio non farli arrabbiare, è gente pericolosa, quella». Spostai lo sguardo seguendo quello di Aria, che saettò verso l’angolo più buio del locale.  Seduti al tavolo più nascosto del Phoenix c'erano due ragazzi mori, uno con gli occhi castani e l'altro con gli occhi azzurri. Continuavano a ordinare gin, nessun’altra bevanda; li avevo visti circa una settimana prima e mi avevano colpito, non solo per la bellezza del ragazzo con gli occhi azzurri, ma anche per il loro ordine: «Tanqueray liscio».
Riempii i bicchieri e glieli portai, poi, dopo aver visto Aria che mi chiamava divertita, la seguii dietro al bancone, posando il vassoio vuoto e pulendomi le mani sul piccolo grembiule bianco che indossavo.
«Che c’è?» domandai sospirando e appoggiandomi con la schiena al muro dietro di me. Dopo nove ore di turno lì al Phoenix speravo solo che l’ultima trascorresse il più veloce possibile così da poter andare a casa a guardare un film sul divano.
«Io… non dovrei dirtelo ma è così divertente che non resisto… Peter vuole invitarti a uscire per un appuntamento. Oddio che cosa divertente». Continuava a ridere, appoggiata al bancone; teneva una mano sul suo stomaco e l’altra la agitava davanti al viso, come se improvvisamente avesse caldo. Sgranai gli occhi alternando lo sguardo da Aria a Peter, che mi stava osservando, senza smettere di sorridere. Cosa? Un appuntamento? Lui, con me? No, non… no!
«Aria, spero sia uno scherzo. Sappi però che è di pessimo gusto» sbottai, per niente divertita dal suo deridermi. Possibile che dovesse mettere in mezzo quel povero ragazzo che era il nostro miglior cliente? Non poteva inventarsi qualche turno al Phoenix doppio o magari che John mi avrebbe trattenuto la paga un altro mese? Sembrava tutto divertente in confronto a quello scherzo stupido.
«Non sto scherzando Lexi, ti chiederà di uscire dopo, quando avrai finito il turno. Me l’ha appena detto. Vorrei esserci, quasi quasi chiamo Jack e gli dico che lo raggiungo a casa…» meditò, portandosi l’indice al mento, senza nessuna traccia di ilarità sul volto. Quello era troppo!
Mi allontanai da Aria prima che potesse dire altro, visto che mi stavo davvero infastidendo; cercai di servire tutti i clienti con in sorriso, fino a quando, dieci minuti prima della fine del mio turno, Aria mi salutò, uscendo dal Phoenix e salendo sulla moto di Dollar, che la stava aspettando fuori dal locale. Risciacquai gli ultimi bicchieri sporchi che avevo raccolto dai tavoli vuoti e, dopo aver appeso il grembiule nell’appendiabiti che c’era nel retro, indossai il giaccone pesante e uscii nel freddo della notte newyorkese, dopo aver salutato John, che stava finendo di sistemare la lavapiatti.
Cercavo di ripararmi da quell’aria per me gelida, velocizzavo anche il passo per poter arrivare a casa prima; da quando avevo cominciato a lavorare al Phoenix avevo imparato a non guardarmi mai alle spalle e a non prestare attenzione a nessuno. Quando uscivo, dopo il mio turno di lavoro, se non c’era Aria o qualcuno dei ragazzi, camminavo veloce verso Whittier Street, senza badare a voci che mi chiamavano o altro.
«Ciao» mormorò qualcuno, talmente vicino a me da terrorizzarmi. Gridai spaventata, indietreggiando di un passo e temendo che potesse essere qualcuno dei Misfitous pronto a farmi del male per la seconda volta. Dove diavolo era Ryan quando serviva? «Scusami, non volevo spaventarti». Il ragazzo si tolse il berretto di lana che indossava, rendendosi riconoscibile: era Peter, il ragazzo del bar, quello che mi guardava sempre con il sorriso.
«No, no. Non fa niente, non mi hai spaventata» mentii, tenendo la mano sopra al cuore e sperando che il battito rallentasse; non volevo morire d’infarto così giovane. Peter ridacchiò, sprofondando fino al naso nella sua sciarpa rossa e grigia per ripararsi dal freddo. Io invece spostai lo sguardo dai suoi occhi castani per tornare a guardare la strada davanti a me, come se dovessi concentrarmi per camminare dritta: in verità mi vergognavo a parlare con lui, da sola, visto che era la prima volta.
«Lexi, vero?» domandò, come se non conoscesse già la risposta. Lavoravo al Phoenix da quattro mesi e lui mi aveva vista praticamente ogni giorno, aveva sentito Aria e John, forse anche Dollar e i ragazzi chiamarmi, e ora mi chiedeva se era il mio nome? Annuii solamente, lanciandogli un’occhiata di traverso e accelerando ancora di più il passo. «Non sei di New York, vero? Si sente dall’accento, costa ovest, no?» azzardò, senza smettere di sorridere. Cominciavo a trovarlo… inquietante; le cose erano due: o era sempre di buonumore, oppure aveva il tetano. «Lasciami indovinare… California?». Puntò il suo indice verso di me, convinto di avere ragione. Annuii solamente, accennando a un debole sorriso perché mi sentivo in imbarazzo. Peter era di certo un ragazzo normale, ma stonava, quasi, in quell’ambiente così diverso dal mondo in cui per più di vent’anni avevo vissuto. «Sono bravo a capire da dove viene qualcuno e poi l’accento californiano è davvero carino, sai?». Peter si fermò all’improvviso sul marciapiede, stringendo appena il mio braccio e impedendomi di procedere. Mi voltai a guardarlo allarmata, ma quando vidi che il suo sorriso non se ne era andato, cercai di capire il perché di quel gesto. «Il semaforo, è rosso». Con un gesto del capo indicò un punto davanti a lui e istintivamente seguii il suo sguardo fino a quando incontrai la mano rossa illuminata.
«Oh… grazie» bofonchiai imbarazzata, nascondendo le mani dentro alla giacca pesante che indossavo. Non avevo nemmeno notato che era il semaforo prima dell’incrocio di Whittier Street, troppo impegnata a capire perché Peter continuasse a sorridere. Aspettammo il verde in silenzio, attraversando sulle strisce pedonali e svoltando verso Whittier Street subito dopo. «Io… sono arrivata» mormorai vergognosa, indicando il palazzo dietro di me. Non sapevo ancora perché Peter mi avesse accompagnata fino a casa, visto che Aria aveva detto che abitava poco distante dal Phoenix.
Peter prese un respiro profondo, prima di schiarirsi la voce : «So che sembrerò uno stupido, ma... vorresti uscire con me?». Mi immobilizzai, trattenendo il respiro e fissandomi sul suo sorriso che vacillò, quando non risposi. Peter improvvisamente diventò serio, dondolandosi da un piede all’altro e abbassando lo sguardo. Sapere di essere il motivo che aveva cancellato il suo sorriso mi intristiva, ma non sapevo come dirgli che non mi interessava uscire con lui.
«Peter, io…» mormorai, grattandomi una tempia, in imbarazzo. Come potevo rifiutare il suo invito senza ferirlo troppo? Sembrava un ragazzo davvero simpatico e con la testa sulle spalle, che sapeva come cominciare un discorso e intrattenere una conversazione.
«Oh, le voci sono vere? Sei la Signora di Ryan?». Era stupito, potevo notarlo dai suoi occhi sgranati e dalle sue sopracciglia aggrottate. Non sapevo se mettermi a ridere per la sua battuta o se esserne indignata. Perché tutti credevano che fossi la Signora di Ryan?
«Che cazzo ci fai qui?» sbottò una voce dietro di noi. Anche se l’avevo riconosciuta, sussultai perché non mi aspettavo di trovare Ryan lì, a quell’ora. Quando mi voltai per guardarlo, non riuscii a ribattere alla sua domanda idiota. Da quanto era che non guardavo Ryan in viso? Gli occhi arrossati e stanchi, il segno di un pugno di qualche giorno prima sulla guancia e la sigaretta stretta tra le labbra. Cercava di nascondere il suo viso indossando il cappuccio della felpa che aveva sotto alla giacca di pelle nera senza riuscirci; si notava comunque il filo di barba bionda e un ciuffo di capelli che gli ricadeva sulla tempia, poco distante dal suo neo.
«Io… io l’ho solo accompagnata a casa, Ryan. Non ho fatto nulla, te lo giuro, io… non volevo dire che… cioè, ho solo chiesto e non era mia intenzione. Io… credo che andrò… ci vediamo» balbettò, cominciando a indietreggiare senza darci le spalle. Continuavo a guardare Peter camminare all’indietro, con le mani alzate in segno di resa; si muoveva lentamente, ma allo stesso tempo cercava di fare passi lunghi per andarsene il più in fretta possibile. Perché Peter aveva reagito in quel modo?
«Che gli hai fatto?» domandai, accusando Ryan che non si era minimamente scomposto per quella scena. Non aveva reagito avvicinandosi a Peter per chiarire il malinteso, per dirgli che non si doveva spaventare in quel modo; non aveva fatto niente, era rimasto in piedi lì, con la sigaretta tra le labbra e la sua solita espressione da schiaffi.
«Io? Niente lentiggini, mi sembra tu abbia visto che non gli ho fatto niente, no?». Sul suo volto si disegnò il solito ghigno; Ryan abbassò lo sguardo, gettando la sigaretta a terra e spegnendola con la punta della scarpa. No, doveva di sicuro aver fatto qualcosa, perché Peter aveva improvvisamente cambiato comportamento quando aveva visto Ryan.
«Cosa gli hai fatto?» ribattei, intestardendomi. Non mi sarei schiodata di lì fino a quando Ryan non avesse detto la verità riguardo Peter. Incrociai le braccia al petto, in attesa di una risposta che doveva arrivare, perché non mi sarei spostata da lì fino a quando non l’avessi avuta.
«State parlando di nuovo dopo tre mesi? Non deve nevicare proprio stanotte» si lamentò Dollar, sogghignando e stringendo di più il suo braccio attorno alle spalle di Aria. Lei cercò di non farsi vedere, ma notai il suo gomito che andava a colpire il fianco di Dollar, come se avesse detto qualcosa di male. «Che c’è? Ho solo chiesto se stanno parlando di nuovo dopo tre mesi, non ho detto altro» si giustificò, scrollando le spalle, senza accorgersi dello sguardo che gli aveva riservato Aria.
«No, non sto parlando con lui. Ho solo chiesto perché Peter se ne è andato via in quel modo» spiegai, battendo più volte il piede a terra a causa del nervosismo. Quello che mi infastidiva ancora di più era vedere Ryan lì, fermo e tranquillo, appoggiato al muro dello stabile e con le braccia incrociate al petto. Se solo avesse avuto la sigaretta tra le labbra sarebbe stato l’immagine della tranquillità.
«Ancora? Ti ho detto che non gli ho fatto niente. C’eri qui anche tu». Alla sua risposta sbuffai infastidita. No, doveva essere successo qualcosa prima che Peter mi accompagnasse a casa, non riuscivo a credere che non fosse successo niente. Una persona non cambiava di colpo umore e comportamento solo perché Ryan appariva dal nulla.
«Senti, Peter non è un malato di mente come te che cambia umore da un momento all’altro. Devi avergli fatto qualcosa, perché un secondo prima, quando mi ha invitata a uscire, era felice e tranquillo, poi sei arrivato tu e l’hai spaventato». Mi avvicinai a Ryan, cercando – inutilmente – di fronteggiarlo. Era diventato più alto in quei tre mesi o lo era sempre stato?
«Oddio! Allora te l’ha chiesto davvero? Cosa gli hai risposto? Ci uscirai assieme?». Aria saltellò verso di me, appoggiando le sue mani sulle mie spalle e scuotendomi, in attesa di una risposta. La guardai spaventata, alternando lo sguardo dal suo volto a quello di Dollar, che mi osservava con uno strano ghigno sulle labbra. Possibile che dovessi dire a tutti se avevo accettato o meno l’appuntamento con Peter? Soprattutto perché non ero riuscita a dargli una risposta, visto che Ryan era arrivato all’improvviso.
«Aria…» sibilai, ammonendola con lo sguardo. Non era né il luogo né il momento adatto per parlare di Peter. Magari al caldo, sul mio divano, davanti a una tazza di cioccolata fumante; ma non lì, nel freddo della notte newyorkese, con Dollar e Ryan a pochi passi da noi.
«Andiamo! Dimmi solo sì o no, il bacio me lo racconti dopo» ridacchiò, saltellando davanti a me. Bacio? Ma cosa stava dicendo? Perché mai avrei dovuto baciarlo? In fin dei conti non era successo niente, mi aveva solo chiesto di uscire.
«Aria! Non c’è stato nessun bacio e non gli ho nemmeno risposto» conclusi, piccata. Lei, Dollar e Ryan mi stavano tutti osservando interessati, come se il racconto del mio incontro fosse la trama di una soap-opera. In verità non c’era proprio nulla di divertente e soprattutto mi dispiaceva per Peter, che se ne era andato senza una risposta da parte mia.
«Perché non gli hai risposto? Era così contento di invitarti a uscire, perché non gli hai detto sì o no?» mi accusò, arrabbiandosi a tal punto da farmi paura. Indietreggiai istintivamente, appoggiando la schiena contro il muro che però si mosse. Mi voltai spaventata, trovando Ryan dietro e capendo subito che non mi ero appoggiata al muro, ma al suo petto.
«Perché è arrivato lui e Peter si è spaventato ed è scappato». Indicai Ryan, accusandolo di aver interrotto la conversazione. In verità non mi interessava poi molto, ma non mi dispiaceva che si sentisse un po’ in colpa – ammesso che Ryan fosse dotato di un cuore.
«Ryan, è sempre colpa tua! Non potevi arrivare un paio di minuti dopo? Devi sempre rovinare le scene romantiche da film, perché sono sicura che dopo il sì di Lexi, Peter si sarebbe avvinghiato a lei, intrappolandola contro il portone e dandole un bacio che sarebbe durato minuti interi. Oh, che romantico». Portò le mani sotto al mento, alzando gli occhi al cielo in un gesto che mi fece veramente paura. Aria sembrava convinta di quello che diceva.
«Tu sei fuori di testa» mormorai, prendendo le chiavi dalla tasca della mia giacca per aprire il portone. Sì, ne avevo appena avuto la conferma: Dollar stava portando Aria verso la pazzia, e mi dispiaceva; in fin dei conti sembrava una ragazza intelligente, una volta.
«Buon riposo Doc, e attenta agli intrusi» strillò criptico Dollar. Quando mi voltai per cercare di capire a cosa si riferisse, vidi Aria tirargli una gomitata sullo stomaco e Ryan scuotere la testa, come se avesse definitivamente perso le speranze. «Ho solo detto buon riposo» si giustificò Dollar, guardando prima Ryan e poi Aria che non la smetteva di lanciargli sguardi che lo avrebbero sicuramente incenerito.
Non volevo nemmeno sapere a cosa si riferissero; ero talmente stanca che l’unico desiderio era quello di distendermi sul divano per guardare un film e mangiare qualcosa al volo.
Quando mi chiusi la porta del mio appartamento alle spalle, sospirai stiracchiandomi: la schiena mi doleva e non sentivo più le gambe; mi serviva una doccia calda per sciogliere i muscoli tesi dalle ore di lavoro. Indossai la tuta e, dopo aver riscaldato nel microonde la pasta che avevo cucinato il giorno prima, mi sedetti sul divano accendendo la TV senza trattenere un  sospiro sollevato: quella sì che sarebbe stata una serata tranquilla, TV, film horror e patatine.
 
«Alexis?» bisbigliò qualcuno, accarezzandomi una guancia. Mi mossi appena, infastidita da quella carezza. Possibile che Edge dovesse fare sempre il cretino e svegliarmi con le mani ancora fredde per colpa dell’acqua dell’Oceano?
«Edge, dai» bofonchiai, rigirandomi sul mio letto e allungando il braccio per colpirlo. La mia mano però sbatté contro qualcosa di morbido: probabilmente mi ero addormentata sul divano, troppo stanca per il turno all’ospedale. O avevamo studiato fino a tardi?
«Lentiggini svegliati» sbottò una voce poco distante da me. Lentiggini? No, Edge non mi chiamava mai in quel modo. Per lui ero Alexis, o Lex, dipendeva se era o meno arrabbiato con me. Non c’era nessuno a Los Angeles che…
Mi alzai a sedere di scatto ricordando che no, non ero a Los Angeles; ero a Hunts Point, nel Bronx. Non ero nemmeno distesa a letto, visto che c’era la televisione accesa davanti a me e Ryan, Brandon, Aria e Dollar camminavano tranquillamente nel mio soggiorno, come se li avessi invitati a entrare.
«Che… che cosa ci fate qui? Che ore sono? Che succede?» balbettai confusa, guardando l’orologio al mio polso: le lancette segnavano le due. Avevo dormito una mattina intera, saltando addirittura il turno al Phoenix? Non mi sembrava di essere così stanca. Guardai i loro volti, notando che tutti, a fatica, si stavano trattenendo per non ridere davanti a me. «Che succede?» tornai a ripetere, preoccupata. Si era ferito qualcuno? Dov’erano Sick, Lebo, Paul,  Josh e i due ragazzi nuovi? Mi alzai, portandomi una mano alla fronte perché mi girava addirittura la testa.
«Lexi, devi cambiarti. Ti portiamo in un posto, d’accordo? Vestiti come Aria». Brandon sorrideva davanti a me, indicando Aria e il suo abbigliamento. Che c’era di diverso dal solito? Sembrava solo avere una felpa più pesante e il berretto di lana in testa. Spostai lo sguardo su Dollar, notando che, come sempre, sopra alla felpa aveva la sua giacca di pelle nera; un abbigliamento quasi uguale a quello di Ryan, che però non aveva la sciarpa nera e grigia come Dollar.

«Dove dobbiamo andare? Che succede?». Non mi sarei mossa da casa mia fino a quando non mi avessero spiegato la situazione; soprattutto perché, avevo notato guardando fuori dalla finestra, erano le due di notte. A quelle domande Ryan alzò gli occhi al soffitto, sedendosi sul mio divano e accendendosi una sigaretta; Brandon sorrise, scambiandosi con Aria uno sguardo d’intesa che mi fece temere il peggio.
«Andiamo Lexi, muoviti». Aria mi spinse verso la mia camera, senza aspettare che qualcuno mi spiegasse cosa stava succedendo, ma soprattutto senza che lei stessa lo facesse. «Dove hai messo la felpa che ti ho costretto a prendere?». Aprì il mio armadio, cominciando a rovistare tra i vari scomparti per trovare quello che stava cercando. «Eccola qui. Mettiti un’altra maglia pesante sotto e poi questa; un paio di jeans e delle sneakers comode per correre». Mi lanciò la felpa addosso e uscì dalla stanza senza darmi il tempo di chiedere ulteriori spiegazioni.
Dovevo indossare una felpa, una maglia pesante sotto, un paio di jeans e delle scarpe comode? Cosa dovevamo fare, una rapina? Sbuffando perché nessuno aveva spento la mia curiosità, mi vestii, seguendo le indicazioni di Aria. Uscii dalla camera camminando verso la cucina; mi sentivo una completa idiota: era una strana sensazione, per me, indossare vestiti così pesanti già a metà ottobre, visto che nemmeno a Natale, in California, le temperature scendevano sotto i quindici gradi.
«Tieni, mettiti anche questo, sarà freddo». Dollar mi porse un berretto di lana simile a quello di Aria; grigio scuro con un motivo disegnato sopra. Era carino, ma dubitavo fortemente che indossato da me risultasse sexy almeno la metà di come stava ad Aria. Nonostante tutto, decisa che non l’avrei indossato, accettai lo stesso quel dono, prendendo poi il giaccone appeso a qualche passo da me.
«Dove andiamo?» domandai di nuovo, sperando che mi dicessero dove mi avrebbero portata. In fin dei conti l’avrei scoperto in poco tempo, no? Anche perché, alle due di notte, non erano poi molti i posti lì nel Bronx che rimanevano aperti. Che fosse il compleanno di qualche Eagles, e avessero organizzato una festa  a sorpresa? Sapevo che Dollar e Aria festeggiavano il loro compleanno a maggio, ma di tutti gli altri –compreso Ryan – non ricordavo nessuna data.
«Prenditi il casco per bambini, lentiggini» sbottò Ryan, spegnendo la sigaretta sul pavimento del mio salotto. Quando mi sentì prendere un respiro, pronta a scoppiare per quello che aveva fatto, alzò lo sguardo, prendendo il filtro che aveva lasciato sul pavimento e alzandosi per gettarlo nelle immondizie. Lo ringraziai mentalmente per quel gesto, senza nemmeno perdere tempo a parlarci di nuovo: meno parlavo con Ryan più avrei mantenuto la mia salute mentale, avevo già parlato troppo quel pomeriggio.
«Ma andiamo in moto a quest’ora?  Con tutto questo freddo?» domandai, correndo per raggiungerli; quando ero andata in camera per prendere il casco erano usciti tutti e non mi avevano nemmeno aspettata. Ryan bussò  – nel suo modo stupido – alla porta del 3B per richiamare anche gli altri ragazzi e Sick, Lebo, i gemelli e gli ultimi due arrivati negli Eagles uscirono sul pianerottolo: indossavano tutti quanti una felpa scura e una giacca pesante sopra.
«Hei, Lexi! Sei pronta?» domandò Sick, ammiccando verso di me e portando il suo braccio attorno alle mie spalle. Forse lui era l’unico a cui potevo estorcere qualche informazione; speravo solo che il prezzo non fosse troppo alto, visto che con Sick non c’era mai da stare tranquilli.
«Sick… tu sai dove stiamo andando?» azzardai, alzando lo sguardo e sorridendogli. Speravo non si accorgesse del modo convulso in cui stavo stringendo le mie dita attorno al casco per l’imbarazzo. Non sapevo di certo fare la gatta morta, ma speravo che con Sick fosse sufficiente un sorriso.
«Ovvio». Un nuovo ammiccamento e il suo braccio si strinse appena di più alla mia spalla, avvicinandomi a lui. Bene, dovevo solo convincerlo a dirmi dove mi stavano portando, magari facendo gli occhi dolci. Ma potevo riuscirci?
«E non mi vuoi dire dove mi portate?». Mi sentivo una stupida. Come potevo anche solo pensare che sarei riuscita a farlo confessare sbattendo le palpebre più velocemente e sorridendo in modo forzato? Non avevo di certo il sex appeal di Butterfly o di qualsiasi altra ragazza che Sick aveva gentilmente ospitato in camera sua.
«Ci stai provando con me, Lexi? Perché se ti dico dove stiamo andando poi pretendo un regalo…». La sua mano scese lungo il mio braccio e istintivamente mi allontanai da lui di un passo. No, avrei scoperto dove stavamo andando in un altro modo, non di certo con qualche favore di natura… sessuale a Sick. «Che ti avevo detto, Ryan? Ci avrebbe provato ma si sarebbe arresa subito. Che delusione Lexi, nemmeno mi lasci toccarti una tetta» bofonchiò, fingendosi davvero offeso. Il suo sguardo triste, unito al gesto di diniego che fece con il capo fece ridere tutti, me compresa.
«Andiamo, sali in moto» ordinò Ryan, dando gas alla sua per accenderla. Pochi secondi dopo il piccolo garage fu invaso dal rombo delle moto dei ragazzi tanto da diventare quasi fastidioso. Indossai il casco, cercando di chiudere il moschettone il più in fretta possibile; fortunatamente ci riuscii al secondo tentativo. Con il casco addosso mi guardai attorno, in cerca di una moto su cui salire: Sick era fuori discussione, non mi fidavo di lui, soprattutto di notte; no. Sulla moto di Dollar c’era anche Aria, quindi non potevo salirci; guardai subito Brandon, ma sulle spalle aveva uno zaino di dimensioni non indifferenti, quindi non c’era posto nemmeno sulla sua moto. Sarei salita su una delle moto dei gemelli… se non avessero avuto uno zaino grande quanto quello di Brandon; ma cosa stavano trasportando, dei cadaveri?
Lebo… lui non mi stava molto simpatico, ma avrei fatto uno sforzo e sarei salita sulla sua moto – i due ragazzi nuovi non li conoscevo e non li avevo nemmeno presi in considerazione –, mi avvicinai così alla moto di Lebo, prima che Ryan parlasse: «Lentiggini, ti vuoi muovere o aspettiamo l’alba?». Il piede appoggiato a terra per sostenere la moto, la visiera del casco alzata per guardarmi e una nota d’impazienza nella voce. Dovevo davvero salire sulla sua moto?
Mi guardai attorno, sperando che all’improvviso spuntasse un fantasma di qualcuno, con uno spazio sufficiente perché potessi salire dietro. Niente, nessun fantasma, nessun nuovo Eagles che avesse dimostrato un po’ di buon senso o altro. Niente di niente, solo Ryan e la sua Ninja nera.
«Vai piano» sbottai salendo dietro di lui, dopo aver appoggiato la mano sul suo braccio per darmi la spinta così da evitare di cadere. Non aspettò nemmeno che afferrassi la sua giacca di pelle, partì sgommando, facendomi imprecare mentre mi aggrappavo con tutte le mie forze a lui; non potevo nemmeno pizzicarlo, non avrebbe sentito nulla con tutti quei vestiti!
Ryan sfrecciava con la sua moto lungo le strade deserte del Bronx, non riuscivo a capire dove ci stessimo dirigendo, visto che le indicazioni continuavano a segnalare che ci stavamo avvicinando a New York. Ma di sicuro quella non poteva essere la nostra destinazione, che cosa c’era a New York alle due e mezza di notte? Ero quasi sicura che i negozi fossero tutti chiusi, a meno che non volessero forzare qualche serratura per entrare di nascosto da qualche parte – ed ero sicura che gli Eagles fossero in grado di farlo.
Dopo un quarto d’ora di viaggio Ryan rallentò, posteggiando la moto in una piccola via laterale. Non conoscevo New York e nemmeno i nomi delle strade, ma ero sicura che fossimo abbastanza vicini al centro; si sentiva ancora il vociare di qualche gruppetto di ragazzi che camminava lungo la strada principale, ma soprattutto il tipico odore di New York che mi fece socchiudere gli occhi. New York odorava di pioggia, asfalto e fritto, l’odore di hot dog e hamburger che invadeva le strade era così caratteristico da essere difficile da dimenticare.
«Lentiggini ti vuoi muovere o credi che fosse tutto per fare un giro in moto?» ghignò Ryan, togliendosi il casco e appendendolo al manubrio della moto. Mi sentivo un’idiota, ma temevo che fosse uno scherzo e che Ryan ripartisse non appena avessi lasciato la presa sui suoi fianchi.
«Siamo arrivati? Sicuro?» domandai, probabilmente apparendo ancora più stupida, visto che tutti erano già scesi dalle loro moto e aspettavano me e Ryan. Aria cominciò a ridere, appoggiando la fronte contro il petto di Dollar per nascondersi, lui invece, esattamente come Brandon e Sick, non si preoccupò nemmeno di sembrare discreto, rise davanti a me, portandosi una mano allo stomaco. «Ok, scendo» mormorai, capendo che avevo appena fatto una figuraccia davanti a tutti.
«Bene, ragazzi, cappuccio calato in testa e colletti tirati su. Dobbiamo essere irriconoscibili. Aria, copriti bene, mi raccomando. Lentiggini, metti quella cosa in testa e non alzare mai il volto, ci sono le telecamere prima di entrare» ordinò, mentre i ragazzi si posizionavano meglio il cappuccio e Aria indossava il suo berretto di lana. Imitai i suoi gesti, sicura che l’effetto non fosse lo stesso. Odiavo i cappelli e i berretti perché non calzavano mai bene, mi sembrava che il mio viso assumesse sempre forme troppo rotonde, rendendomi simile a una palla da basket.
«Lentiggini, sei… sexy con quel coso in testa» sghignazzò Ryan, accendendosi una sigaretta. Vidi il suo sguardo illuminarsi grazie all’accendino e non potei non notare i suoi occhi che mi guardavano con quello sguardo di sfida che faceva sempre per prendermi in giro. «Sembri Spugna, quello di Peter Pan. Ti manca la stazza fisica e la maglia a righe, poi sei lui» concluse, facendo ridere tutti, tranne me.
«Senti, dacci un taglio, nemmeno tu sei... sexy con quel giubbotto di pelle e il cappuccio in testa, chi ti credi di essere, un divo del cinema? James Dean era ben altro» sbottai sperando di ferirlo. Si atteggiava sempre da figo, convinto che tutto il mondo fosse ai suoi piedi. Mi aspettavo che spegnesse la sigaretta a terra e la pestasse con forza, prima di avvicinarsi a me e puntarmi un dito contro, sibilandomi qualcosa; invece Ryan cominciò a ridere, appoggiandosi alla moto dietro di lui per non perdere l’equilibrio. Bene, la nottata si preannunciava uno spasso: avremmo fatto irruzione in qualche gioielleria, rubando tutti i diamanti di valore, poi, visto che di sicuro avrei sbagliato qualcosa, Ryan avrebbe urlato contro di me.
«Era bella questa, lentiggini. Ora muoviamoci, prima che torni la guardia» ordinò Ryan, spegnendo la sigaretta per terra e sistemandosi meglio il cappuccio in testa; sollevò il colletto della giacca di pelle e, seguito da Sick e Lebo, cominciò a camminare. Brandon era subito dietro di loro; avanzava in silenzio nonostante di fianco a lui ci fossero i due ragazzi nuovi.
«Su Doc, non dobbiamo mica tardare» scherzò Dollar, dandomi una leggera pacca sulla schiena e stampando un bacio sulla fronte di Aria. Sorrisi intenerita a quella scena; era incredibile quando Dollar cambiasse quando c’era Ryan che ordinava qualcosa rispetto a quando Aria era al suo fianco. Sembravano quasi due persone distinte e, era inutile dirlo, preferivo mille volte la seconda versione, quella che ricordava la loro vera età, che li rendeva quasi più… normali – se c’era della normalità lì, nel Bronx.
«Insomma, concordavo con Ryan, ma sta…». Brandon si fermò all’improvviso in mezzo al marciapiede; il suo gesto fu così inaspettato che lo investii. Non avevo nemmeno avuto il tempo di scansarmi. Tutti quanti, Ryan compreso, lo guardavamo, in attesa di capire che cosa gli stesse succedendo. Perché si era fermato? Cosa era successo? Non mi sembrava di aver visto qualcuno lì attorno, eccetto per quelle due ragazze che stavano camminando verso di noi.
«Oh cazzo, che ci fa qui?» domandò Aria a Dollar, indicando una delle due ragazze che si stavano avvicinando. Dollar fece spallucce, avvicinandosi di un passo a Ryan e Brandon ma lasciando uno spazio tra loro per Sick. Io guardai Aria, chiedendole con lo sguardo che cosa stesse succedendo. «La biondina è Irene, l’ex di Brandon, quella che l’ha lasciato spezzandogli il cuore, sinceramente non so nemmeno che ci faccia qui a quest’ora» mi spiegò a bassa voce; vedevo Ryan spostarsi sempre più vicino a Brandon, come se volesse sostenerlo anche fisicamente. Brandon aveva la schiena rigida e i muscoli delle spalle tesi, vedevo i suoi pugni chiusi e, ne ero sicura anche se non riuscivo a vedere il suo volto, stava serrando la mascella.
«Ciao, Brandy» esultò la ragazza con i capelli biondi, quando fu abbastanza vicina da riconoscerlo. Era bella, sicuramente; aveva due lunghe gambe e un fisico invidiabile, visibile perché era coperta solo da una giacca di jeans nonostante le temperature non fossero così elevate, a quell’ora di notte. I suoi grandi occhi azzurri risaltavano sul trucco scuro che contrastava con i suoi capelli biondo platino. Sì, riuscivo a capire perché avesse spezzato il suo cuore.
«Che cosa ci fai qui?» sibilò Brandon, stringendo più forte i pugni lungo i fianchi. Vidi Ryan guardarlo appena, nonostante non mi fossi spostata; assieme ad Aria ci eravamo fermate dietro di loro, lasciando che tutti gli Eagles al completo rimanessero l’uno di fianco all’altro.
«Come cosa ci faccio? Non posso fare un giro a New York di notte? Lo sai che la trovo romantica, no?». C’era uno strano ghigno sul suo volto angelico che stonava. Irene non mi sembrava la classica ragazza stronza – non come Butterfly, almeno – e sapere che era stata la fidanzata di Brandon confermava quella tesi: Brandon non era un ragazzo superficiale, non si sarebbe mai fermato solo alla sua bellezza.
«Perché sei qui?» domandò di nuovo lui. Era davvero arrabbiato, non l’avevo mai sentito parlare con quel tono di voce. Sembrava quasi… infuriato per averla trovata in un posto non sicuro per lei. Brandon sembrava protettivo verso Irene, nonostante lui stesso avesse ammesso che non erano più una coppia.
«Andiamo, Brandy, non ricominciare con la storia della gelosia, non siamo più una coppia». Irene si avvicinò, seguita dalla sua amica mora che non staccava gli occhi di dosso a Ryan; sembrava arrabbiata con lui, ma non ne capivo il motivo. Che fosse una sua ex fiamma? Magari Ryan l’aveva lasciata per Butterfly, o l’aveva lasciato lei perché gelosa? «Ciao Aria, è bello rivederti. Sapevo che non sareste riusciti a stare distanti per troppo tempo. E non so chi sia l’altra, presumo la Signora di qualcuno… Ryan direi, viste le voci che circolano…». Si sporse un po’ per guardarmi meglio e istintivamente nascosi il viso contro la sciarpa che portavo al collo ma nonostante il freddo sentii le mie gote arrossarsi per la vergogna. Volevo dirle che non ero la Signora di nessuno, tantomeno di Ryan, ma non ero io a dover parlare, non sapevo nemmeno se potevo farlo.
«Non è la mia Signora, è la nostra vicina» spiegò Ryan, piccato. Lo vidi drizzarsi, alzando il capo, dimostrando che lui non aveva di certo paura di Irene. In tutta risposta lei e la sua amica cominciarono a ridere, spostandosi di qualche passo, come se volessero andarsene. Ryan rimase fermo, non ordinava niente a nessuno, ed era quasi strano; sembrava aspettasse di vedere quello che Brandon avrebbe fatto per poi decidere.
«Dove stai andando?». Brandon si avvicinò di qualche passo a Irene e alla sua amica, senza smettere di stringere i pugni lungo i fianchi. A quella sua azione, tutti i ragazzi si spostarono appena, senza perdere di vista la scena, pronti a intervenire in qualsiasi caso. Irene fronteggiò Brandon: voleva far vedere che non aveva paura, si vedeva dal suo sguardo e dal suo modo di muoversi.
Io, però, non riuscivo a non notare che c’era una strana luce negli occhi di Irene, come se le facesse veramente piacere vedere che Brandon si preoccupava per lei. Magari, però, dipendeva dal fatto che non la conoscevo e non l’avevo mai vista. Non sapevo nemmeno perché si fossero lasciati.
«Vado a fare un giro con Michelle, c’è qualche problema? Io non credo, in fin dei conti non sono più la tua Signora, quindi andate a Lower Plaza e divertitevi». Non aspettò nemmeno che Brandon ribattesse qualcosa, cominciò a camminare, superandolo, senza nemmeno salutare nessuno. Lower Plaza? Che posto era Lower Plaza? E perché sembrava sapere dove saremmo andati?
«Dai Brandon, lascia perdere, andiamo a scaricare i nervi e non ci pensi, ok?». Ryan gli diede una pacca sulla spalla, come se volesse consolarlo. Scherzosamente lo colpì con un pugno al fianco, simulando una lotta a cui Brandon, però, non rispose: aveva lo sguardo fisso davanti a lui, guardava Irene che si allontanava senza nemmeno voltarsi per guardarlo.
«Aria… ma che è successo tra Brandon e Irene?» domandai, dimenticandomi di chiederle che ci fosse a Lower Plaza. In quel momento mi interessava di più capire perché Irene avesse lasciato Brandon e che cosa fosse successo durante la loro storia; in più ero curiosa di capire se Irene fosse davvero stronza come sembrava.
«Be’, ecco… Brandon è, lui è un ragazzo abbastanza premuroso, forse un po’ troppo. Irene è uno spirito libero, le piace viaggiare, sperimentare posti e cose nuove e lui era decisamente troppo… protettivo con lei. Due opposti troppo opposti, io li ho sempre chiamati così. Se entrambi fossero un po’ meno testardi e si adattassero l’uno alle esigenze dell’altro probabilmente sarebbero perfetti, ma Brandon è abituato a essere deciso, forse perché tiene sempre testa a Ryan e ormai è così. Irene… lei voleva Brandon più per lei e meno per Ryan, e questo non lo devi fare. Non puoi cambiare un Eagles, non è così che funziona. O lo accetti per com’è, con la sua vita che è la gang, oppure non ti sforzi nemmeno di provare a stare con lui. Credi sia facile stare con Jack? No, non lo è, ma so che lo amo al punto tale da non poter stare senza di lui e sono sicura che soffrirò, ma non ci voglio pensare, ho imparato a vivere ogni momento come se fosse l’ultimo, ed è così che devo fare». Aria parlava piano, mi aveva costretto a rallentare il passo, distaccandomi dai ragazzi perché non potessero sentire quello che mi diceva. Involontariamente mi soffermai a guardare il suo viso: gli occhi castani e grandi e i suoi capelli ondulati che ricadevano sulle spalle e sulla schiena. Aria non poteva avere sedici anni, non riuscivo a vedere in lei quella spensieratezza caratteristica; era sempre controllata, pensava troppo da adulta. Un po’ mi faceva pena, mi chiedevo quando avesse provato la gioia e la spensieratezza degli anni più belli, quelli in cui ti senti invincibile e credi di essere il re del mondo, quelli in cui ti senti il capo del liceo solo perché sei all’ultimo anno e sai che potrai ridere quando appenderanno il nerd più sfigato del primo anno alla statua di Nettuno, nel parcheggio del liceo.
«Non sbirciare Doc» sogghignò Dollar, coprendo i miei occhi con le sue mani. Sussultai spaventata perché, persa tra i miei pensieri, non mi ero accorta di lui. «Non preoccuparti, Aria ti dirà quando stiamo per ucciderti» scherzò poi, spingendomi appena perché continuassi a camminare. Non riuscivo nemmeno a capire dove fossimo; l’ultima immagine che ricordavo, prima che Aria rapisse la mia attenzione con la storia di Brandon e Irene, era qualche via in centro a New York.
«Dove stiamo andando? Dai, ditemi dove stiamo andando» mi lamentai come una bambina, cercando di togliere le mani di Dollar dal mio viso. Volevo capire dove fossimo, anche se, speravo, ormai eravamo vicini alla nostra meta. Mi divincolai, sentendo le dita di Dollar scivolare dai miei occhi e mentalmente esultai: alla fine il cervello vince sui muscoli, almeno così pensavo.
«Benvenuta a Lower Plaza, lentiggini» mormorò Ryan, e io capii di essermi liberata da Dollar non perché era riuscito a trattenermi, ma perché eravamo arrivati. Guardai prima Dollar, poi Ryan, quasi timorosa di quello che potevo vedere; poi, dopo aver preso un respiro profondo, spostai lo sguardo davanti a me, rimanendo completamente senza parole.
Era… era esattamente come l’avevo sempre immaginato e  visto alla TV, solo… solo più vuoto. Non c’erano tutte le persone che pattinavano nella grande Promenade adibita a pista di pattinaggio sul ghiaccio, non c’era nemmeno il grande albero di Natale che avevo sempre voluto vedere dal vivo. Il Rockefeller Center era deserto, le uniche persone che c’erano eravamo noi. Senza nemmeno accorgermene avanzai di un passo, sistemandomi il berretto di lana che indossavo per guardare meglio quello spettacolo davanti a me: le luci erano quasi tutte spente, la pista era illuminata solo per quattro deboli fari posti ai lati, il ghiaccio –potevo vederlo anche da quella distanza – era perfetto, nessuno ci aveva pattinato sopra.
«È semplicemente una favola» mormorai, portandomi una mano davanti alle labbra e lasciando che quella lacrima sfuggisse dal mio occhio, bagnandomi la guancia. Avevo sempre sognato di pattinare sul ghiaccio, soprattutto a New York; il Rockefeller Center era uno dei motivi per cui avevo scelto proprio quella città per trasferirmi, l’avevo ripetuto ad Aria all’infinito. «Grazie» sussurrai, asciugandomi la lacrima che non aveva smesso di scendere e sorridendo ad Aria grata. Ero sicura che fosse lei ad aver spronato i ragazzi affinché mi portassero lì, con loro.
«Non dire grazie, facci vedere le tette piuttosto, su! Via tutti quegli strati di stoffa e fammi vedere le tue munizioni». Sick si sfregò le mani, facendomi ridere. Brandon, di fianco a lui, gli tirò uno schiaffo sulla nuca per rimproverarlo, ma non riuscii a smettere di ridere, forse anche per spezzare la tensione e l’imbarazzo.
«Certo che, cazzo Sick, sei l’unico idiota che deve sempre fare battute idiote. Questa, lentiggini, è una nostra tradizione. La notte prima dell’apertura della pista di pattinaggio veniamo qui e la inauguriamo a modo nostro. Aria è stata ammessa solo un paio di anni fa, poi non è più venuta per dei motivi che tutti sappiamo. Quest’anno, visto il grande ritorno della Signora, abbiamo invitato anche te che hai scassato le palle a tutti con questa pista di pattinaggio. Ora sarebbe davvero divertente scoprire che in verità non hai mai pattinato» sogghignò Ryan, facendomi arrossire imbarazzata. In effetti sì, era vero, non avevo mai pattinato sul ghiaccio in vita mia, solamente perché a Los Angeles non era mai sufficientemente freddo per andare a pattinare o perché ero impegnata con gli esami.
«Io… so fare surf». Evitare la domanda parlando di altro non era una tecnica efficace, visto che tutti i ragazzi si erano messi a ridere, guardandomi. Si era capito tanto che non sapevo come si pattinava sul ghiaccio?
«Dai Lexi, prendi i pattini che ti insegno come si fa. Non è difficile, se ci riesce anche Jack allora possono farlo tutti» scherzò Aria, porgendomi un paio di pattini. Come faceva a sapere il mio numero? Perché di solito per i pattini serviva il numero di scarpe, no? Improvvisamente ricordai che, un paio di settimane prima, Aria mi aveva chiesto che numero portassi, inventandosi una scusa stupida perché le prestassi un paio di scarpe. «Lo so, sono un genio. Ora indossa questi e stringili bene, altrimenti poi ti faranno male le caviglie». Indossai i pattini che mi aveva allungato, attenta a non tagliarmi con le lame e poi, lentamente perché non mi sentivo al sicuro, mi alzai in piedi. Ero in equilibrio precario, anche la più piccola folata di vento mi avrebbe di sicuro fatto cadere, ne ero sicura. «Lexi, non sembri molto stabile. Ryan, dalle una mano per arrivare in pista o si romperà una gamba». Cosa? Perché? Perché aveva attirato l’attenzione di tutti su di me, soprattutto quella di Ryan?
«Ce la faccio da sola» sbottai offesa, oscillando pericolosamente avanti e indietro dopo aver fatto un passo verso la distesa di ghiaccio che in quel momento sembrava distante molto più dell’ultima volta che avevo controllato, qualche istante prima. Ryan si avvicinò a me, camminando con quei cosi ai piedi come se fossero scarpe; potevo vedere il suo ghigno soddisfatto, mentre mi dondolavo sempre meno stabile. «Ho detto che ce la faccio» ribattei, agitando le braccia perché il secondo passo aveva spostato decisamente troppo il mio baricentro, facendomi perdere l’equilibrio.
«Senti lentiggini, sono le tre di notte, tra due ore cominceranno a venire qui le persone e non mi sembra il caso che ci vedano perché tu non sai camminare con un paio di pattini addosso. Andiamo». Si avvicinò troppo velocemente a me tanto che non riuscii a reagire in tempo. In pochi istanti Ryan mi prese sottobraccio, sollevandomi da terra; muovendosi come se non fossi affatto un peso camminava a passo sicuro verso la pista, già occupata da Brandon, Sick, Lebo e i gemelli che pattinavano a destra e a sinistra con un’agilità di cui, di sicuro, non ero padrona. «Riesci a stare in equilibrio qui o dobbiamo pagare un istruttore?» domandò ironicamente, appoggiandomi al ghiaccio – molto più scivoloso di quanto penassi –sotto di me. Istintivamente mi aggrappai alla sua giacca di pelle, cercando di capire quanto dovessi muovermi per non cadere e per avanzare. «Cazzo lentiggini, non sai nemmeno stare in piedi?». Di nuovo il sorriso di scherno e quella luce nei suoi occhi che c’era solo quando mi prendeva in giro.
«Scusa se questi cosi hanno due coltelli sotto e io non so muovermi. Mi arrangio, comunque, non serve che stai qui con me». Anche perché più mi prendeva in giro più mi innervosivo, aumentando la mia incapacità di rimanere in piedi sui pattini.
«Sinceramente sei tu quella aggrappata al mio giubbotto». Il suo sguardo canzonatorio si spostò dal mio volto alle mie mani, aggrappate alla sua giacca come se fosse l’unica ancora di salvezza. Istintivamente, come se mi fossi bruciata, lasciai la presa, ritirando le mani e portandole lungo i fianchi. Meno toccavo Ryan, meglio era. «D’accordo lentiggini». Alzò le mani, indietreggiando senza smettere di guardarmi. Gli avrei fatto vedere di che pasta era fatta una californiana! Se anche Ryan era in grado di pattinare, ci sarei riuscita anche io.
Alzai un piede, portandolo avanti e appoggiandolo sul ghiaccio: tacco e punta, come camminare. Probabilmente però, non si pattinava così, perché due secondi dopo mi ritrovai seduta sul ghiaccio, sentendo un dolore indescrivibile al sedere. «Merda» sibilai, guardandomi subito attorno e sperando che nessuno avesse visto il mio ruzzolone a terra. Speranza vana: Ryan e tutti gli altri avevano lo sguardo puntato su di me, come se ci fosse un faro che mi illuminava. «Sto bene. Faccio da sola» strillai, prima che qualcuno si avvicinasse a me per aiutarmi, da buon samaritano. Stavo già facendo la figura dell’idiota, se mi avessero anche aiutata ad alzarmi sarebbe stato peggio. Puntai le mani per terra, rabbrividendo perché il freddo del ghiaccio superava anche la stoffa dei guanti: più cercavo di rialzarmi e più cadevo, ritrovandomi sempre a terra. «Merda» sbottai di nuovo, puntando i pattini sul ghiaccio e rialzandomi lentamente fino a mettermi in posizione eretta; soddisfatta di come fossi riuscita a rialzarmi da sola, mi strofinai le mani sul corpo per togliermi il ghiaccio dai pantaloni e dalla giacca.
«Tutto bene, Lexi?» domandò Brandon, avvicinandosi a me tranquillamente, come se non stesse camminando con due lame sotto ai piedi. Appoggiò la sua mano sul mio gomito, spingendomi dolcemente in avanti, senza costringermi ad alzare i piedi per muovermi. «Aspetta che ti insegno come si fa. Tu sta ferma, ti spingo io. Aria, vieni a darmi una mano» gridò poi, per farsi sentire da Aria, che stava pattinando con Dollar dall’altra parte della pista. Nell’ora successiva imparai a pattinare: non era poi così difficile nel momento in cui capivi che non dovevi appoggiare il piede con un movimento di tacco-punta, come se dovessi camminare. Brandon e Aria erano stati due maestri eccezionali e riuscivo a fare due giri della pista a velocità sostenuta senza mai fermarmi. Il mio sogno si era avverato: stavo pattinando al Rockefeller Center, a New York; e, cosa che non avrei mai immaginato, lo stavo facendo alle quattro di mattina, con la pista vuota.
«Brandon, muoviti. Facciamo una gara». Ryan, a pochi passi da me e Brandon, gli lanciò un bastone, senza nemmeno avvertirlo. Per fortuna i riflessi di Brandon erano migliori dei miei, perché prese il bastone al volo, senza farlo toccare a terra. «Scegliti la squadra, parti tu». Non riuscivo a capire a che gara si riferisse Ryan, non fino a quando Brandon cominciò a giocherellare con il bastone ricurvo sul ghiaccio e Dollar gli lanciò il puck. Hockey, volevano giocare a hockey.
«Ryan, è tardi…» si giustificò Brandon, guardando l’orologio che aveva al polso. Ryan, davanti a lui, imitò un pollo, facendogli capire che era una scusa perché aveva paura di perdere. Brandon si arrabbiò, chiamando a gran voce «Paul» che si avvicinò, frenando appena in tempo per non investire Brandon.
«Sick». Ryan aspettò che lo raggiungesse, poi entrambi guardarono Brandon, aspettando che scegliesse il secondo ragazzo.
«Lebo, Ham e Swift. Tieniti Dollar e Josh, dai» concesse Brandon. Erano in numero dispari, ma, siccome nessuno si era lamentato, sembrava che le squadre fossero comunque equilibrate. «Le signore non le facciamo giocare, o rischiamo di spezzarle in due. Potete mettervi fuori dal campo, così non vi investiamo, se volete fare il tifo per noi…» scherzò poi Brandon, portandosi una mano al pizzetto e massaggiandoselo.
Aria mi trascinò fuori dalla pista, bofonchiando che quando giocavano a hockey diventavano degli uomini primitivi e che era meglio stare loro alla larga. Quando cominciarono a giocare capii quello che Aria aveva cercato di dirmi e la ringraziai più volte per avermi salvato la vita, facendomi uscire dalla pista: sembravano davvero degli animali, urlavano, si insultavano, si gettavano contro alle balaustre della pista e cercavano di rubarsi il puck a vicenda. Nemmeno ai campionati mondiali avevo visto una partita così… avvincente.
«Così Dollar, cazzo! Devo farti diventare io un uomo? Spingili a terra» urlò Ryan, incitando Dollar affinché si avvicinasse alla porta, scartando Lebo e Swift che lo seguivano. Dollar riuscì a lanciare il dischetto di gomma in porta, segnando il punto della vittoria. Vidi Ryan correre verso di lui, lanciare il bastone per terra e colpire con un paio di pugni scherzosi la spalla di Dollar. Josh e Sick continuavano a deridere i ragazzi dell’altra squadra, come se il distacco fosse stato di molti punti, e non di uno solo.
«Bravo Jack» esultò Aria, pattinando verso di lui e baciandolo. Subito i ragazzi cominciarono a fischiare e a spintonare scherzosamente Dollar, intimandogli di prendersi una camera. Aria cominciò a ridere, abbracciando subito dopo il suo ragazzo, per nascondere l’imbarazzo creato dalle battute dei suoi amici.
«Sono quasi le cinque, è meglio se ce ne andiamo, tra un po’ cominciano ad arrivare le guardie» spiegò Ryan, pattinando verso l’uscita, seguito dai ragazzi. Vedevo i loro sguardi felici, nonostante non potessero rimanere lì di più. Alla fine, ancora una volta, avevo avuto la conferma che sotto la scorza dura c’erano delle persone normali; magari non avevano un grande cuore, non sapevano dire la cosa giusta al momento giusto, ma erano ragazzi normali, ragazzi che si divertivano pattinando sul ghiaccio e giocando a hockey, poco mi importava che lo facessero illegalmente, perché niente poteva essere migliore dei sorrisi che c’erano sui loro volti.

 
 
 
 
 
Grazie ancora, alla prossima settimana.
Concludevo così l’otto maggio. Mi scuso immensamente per il ritardo, ma non lo so, alcuni capitoli mi risultano più difficili di altri da scrivere, come se non bastasse poi il tempo con l’avvicinarsi della sessione d’esami scarseggia sempre di più.
Questo capitolo… dunque, per quanto riguarda Lower Plaza, è vero che la pista di ghiaccio la costruiscono in questa Promenade, cioè, si trova dentro al Rockefeller Center, ma il nome esatto della piazza in cui si trova è appunto Lower Plaza. Altra cosa… ottobre. Sì, non me lo sono inventata, l’apertura del palaghiaccio a Lower Plaza è da ottobre ad aprile, dalle nove a mezzanotte (per questo ho fatto in modo che gli Eagles entrassero in piena notte). Per quanto riguarda la non presenza di sicurezza/telecamere/gorilla vestiti di nero e armi-minuti… non ci credo molto, ma sono sicura che gli Eagles possono corrompere tutti. Nel caso questo non fosse possibile… vi prego di perdonare la piccola licenza poetica.
Ah sì, da idiota quale sono ho messo ben 2 riferimenti a due mie storie passate, come se volessi creare un piccolo filo conduttore tra tutte. Cosa da poco, solo piccole informazioni, se qualcuno le trova… be’, complimenti! :D
Irene… lei è un personaggio nuovo, era comparsa solo nei ricordi di Brandon. Si può dire che volutamente non ho spiegato tutto bene e ho lasciato intendere diverse cose per confondervi (ma guarda un po’, uh? :D).
Poi, per chi non avesse visto questa OS che ho pubblicato dopo l’ultimo capitolo: Be the one è un MM rosso su Aria e Dollar, ambientato dopo la festa dello scorso capitolo.
Come sempre ringrazio chi aggiunge la storia tra i preferiti, i seguiti e quelle da ricordare, siete un numero incredibile! Ringrazio anche le tantissime persone che hanno commentato lo scorso capitolo, grazie di cuore.
Ultima  cosa, ma non per questo meno importante: ringrazio Ale (alias TheCarnival) per i bellissimi video che mi ha sfornato (due stavolta, indice che ci ho messo davvero troppo ad aggiornare). Il primo è Be the one, che racconta la storia di Dollar e Aria. Guardatelo e commuovetevi, per favore. Il secondo è Titanium, un video tutto dedicato a Lexi e alla sua storia che mi piace davvero un sacchissimo.
Ora, e giuro che è l’ultima cosa (se non siete tutte addormentate) come sempre vi lascio il link del gruppo spoiler, dove ci sono le immagini dei protagonisti e dove trovate un sacco di spoiler di settimana in settimana. L’iscrizione costa solo 5€ e il contributo giornaliero è di 0.00009€. No, cretinate a parte, è tutto gratis e se volete venire a farvi rompere le scatole: Nerds’ corner.
A presto (spero la prossima settimana).
Rob.

 

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Capitolo 14
*** Dreams, Kisses and News ***


YSM
 
 
Los Angeles, 1949.
Era strano essere la figlia di un gangster, soprattutto quando ti costringeva ad andare a tutte le feste dove lui stringeva alleanze e dove io dovevo rimanere seduta a tavola, a sentire cosa si raccontavano di armi, guerra tra gang e altro. Non mi interessava nulla, nemmeno di quella festa o di tutti quei signori che mi guardavano, sorridendomi. Sapevo che cercavano di rendersi affascinanti ai miei occhi, ma ricordavo cosa mio padre mi aveva detto: «Ricordati, Alexis, nessuno di loro cerca veramente di conquistarti, lo fanno solo per avvicinarsi a me». Anche perché, se qualcuno di loro ci avesse veramente provato, non avrei ceduto: nessuno sembrava abbastanza attraente da catturare la mia attenzione, tanto che, ancora una volta, ero convinta di aver indossato quel vestito rosso per nulla.
«Vado a prendere qualcosa da bere al bar, scusatemi» mormorai a mia madre, alzandomi dal tavolo e facendo attenzione allo strascico del mio vestito. Sapevo – perché mi era già successo in passato – che i vestiti che usavo durante quelle cene erano una trappola mortale: era facile pestarli e si incastravano dappertutto.
«Un Shirley Temple» borbottai al cameriere, sperando che avesse visto a quale tavolo ero seduta. Avere come padre il gangster più famoso di Los Angeles non era poi così male, la maggior parte delle volte, soprattutto quando – anche se non era quello il caso – potevi bere tutti gli alcolici che ti piacevano. Presi il mio drink, cominciando a sorseggiarlo e tenendo la schiena appoggiata al bancone: attorno a mio padre c’erano sei uomini che continuavano ad annuire a ogni sua parola convincendomi sempre di più che non lo ascoltassero nemmeno, impegnati com’erano a farsi accettare nella sua gang. Ma lui era più furbo di loro, i suoi amici avevano già indagato su tutti, scoprendo che tra di loro si nascondeva anche un poliziotto.
«Una Signorina come lei tutta sola in un bar? Non è una buona idea». Istintivamente mi voltai per capire a chi appartenesse quella voce: un ragazzo biondo era appoggiato al bancone di fianco a me; stava sorseggiando del whiskey, muovendo il bicchiere in circolo. Lui non sembrava come tutti gli altri uomini, non guardava nemmeno mio padre, troppo impegnato a osservare l’alone che l’alcol lasciava sul vetro del bicchiere.
«So cavarmela da sola» sbottai, offesa dalla sua battutina. Perché non era una buona idea che fossi lì, da sola, a prendere un drink? Il locale era affollato e, nel remoto caso in cui qualcuno si fosse avvicinato a me per ferirmi, c’erano almeno quaranta persone pronte a sacrificare la loro vita per me, solo per fare un piacere a mio padre. Istintivamente lo guardai: era impegnato in un discorso che sembrava più divertente del solito, c’era uno strano sorriso nei suoi occhi, quella luce che sapevo si accendeva solo quando le sue idee diventavano particolarmente sadiche. Chissà che cosa stava pensando.
«Lei sa cavarsela da sola? Potrei sapere il suo nome?». Uno strano ghigno sul volto del ragazzo biondo seduto di fianco a me mi costrinse ad abbassare lo sguardo; mi concessi qualche secondo per ammirare il fiore bianco che spiccava sull’ocra del vestito che indossava. Quel giovane era bello e sapeva conquistare con il suo ammiccare e i suoi movimenti studiati.
«Perché non mi dite prima come vi chiamate?». Era una boccata d’aria fresca tra tutti gli uomini che cercavano di conquistarmi; quel giovane era ironico, affascinante e misterioso, il perfetto connubio che sapeva attirare la mia attenzione in modo diverso dal solito. Il ragazzo sorrise, guardandomi di sottecchi, poi, dopo aver alzato lo sguardo per puntare i suoi occhi azzurri nei miei, respirò profondamente.
«Ryan, mi chiamo Ryan. Ora mi piacerebbe sapere davvero il vostro nome, vorrei conoscervi». Nessun cognome, non voleva nemmeno che sapessi come si chiamava. Forse, per una volta, non gli interessava mio padre, forse ero io il motivo di quell’interesse.
«Alexis». Un sorriso sincero senza abbassare lo sguardo. Non mi interessava che non fosse educazione, perché mia madre mi aveva insegnato che non dovevo mai guardare negli occhi gli estranei; Ryan non era un estraneo e non guardare in quei suoi meravigliosi occhi azzurri sarebbe stato un peccato mortale, più grave di uccidere un uomo.
«Alexis, che cosa ci fate qui, tutta sola, in un posto così poco sicuro? Non potete rischiare di ferirvi, dovreste andarvene da questo posto. Posso accompagnarvi?» propose, senza smettere di sorridere con quel suo strano ghigno. Un brivido mi attraversò la schiena quando il mio sguardo si incatenò al suo. Ryan mi avrebbe portata via da lì, via da mio padre, da quelle feste a cui ero obbligata ad andare, dalla malavita e dai morti. Da tutto.
«Mi porterà via da tutto questo?» chiesi, appoggiando il bicchiere sul bancone di legno dietro di me e avvicinandomi a lui, dopo aver alzato lo strascico rosso del vestito che indossavo. Ryan alzò il volto stupito, mantenendo un ghigno divertito sulle sue labbra. Sembrava quasi che mi stesse prendendo in giro, eppure non riuscivo a non trovarlo attraente.
«No Signorina, sinceramente volevo solo portarla a letto». Continuava a muovere il bicchiere in circolo, senza prestargli veramente attenzione. I suoi occhi erano incatenati ai miei, probabilmente mi scrutava in attesa di una risposta. Eppure, quel suo modo diretto di dire le cose mi piaceva, decisamente. Non era facile incontrare giovani che non avevano paura di dire quello che pensavano, ma forse era solo perché non sapeva chi ero, forse, una volta saputo il mio cognome, sarebbe scappato o avrebbe cominciato a parlare con mio padre, come tutti.
«Lo vede quello seduto al tavolo, laggiù? È mio padre, e la ucciderà se saprà che mi ha anche solo sfiorata». Più chiara di così non potevo esserlo, se non conosceva mio padre, il più famoso gangster di Los Angeles, ricercato da tutta la polizia, allora probabilmente era una spia.
«Mi piace il pericolo, e sono sicuro che ne vale la pena, anche solo per un bacio. Vorrei solo andarmene da questa sala, con te». La sua mano volontariamente sfiorava il mio braccio nudo, causandomi milioni di brividi che forse erano nati anche dopo aver sentito la sua voce che, sensuale, aveva abbattuto tutti i confini tra di noi, nonostante fossimo circondati da persone che potevano sentirci. Questa situazione, ai limiti del consentito e della decenza, mi diede la forza di alzarmi, camminando verso l’uscita del locale. Mi voltai appena, sorridendo a Ryan per assicurarmi che mi stesse guardando; quando notai il suo sguardo sorpreso e sogghignai divertita, svoltando definitivamente l’angolo della sala e sparendo dalla sua visuale.
Dovevo solo attendere qualche secondo, sperando che mi raggiungesse per poi nasconderci in qualche…
«Dove stai scappando?». Una presenza dietro di me, il petto di qualcuno appoggiato alla mia schiena. Ryan. Nonostante non potessi vederlo sapevo che era lui, riconoscevo la sua voce e il suo fiato caldo che solleticava il mio collo, tanto che, istintivamente mi voltai, circondandogli il collo con le braccia e alzandomi in punta di piedi per poter raggiungere le sue labbra. «Potrebbero vederci» sussurrò, abbassando lo sguardo per guardare la mia bocca, a pochi centimetri dalla sua; cercò di deglutire, aspettando una mia risposta.
«Mio padre verrà comunque a saperlo entro due minuti, è meglio non allontanarsi, così non perdiamo tempo». Con ancora l’ombra di un sorriso sulle mie labbra, mi avvicinai a lui, annullando le distanze e baciandolo. Lasciai che le sue labbra giocassero con le mie mentre facevo scorrere le mie mani tra i suoi capelli. Ryan mi strinse a lui, sollevandomi da terra di qualche centimetro e accarezzando la mia schiena da sopra la stoffa leggera del vestito.
«Lexi? Lexi?». Qualcuno che chiamava il mio nome, costringendomi, inevitabilmente, ad abbandonare le morbide labbra di Ryan che avevano sfiorato e accarezzato le mie. Cercai di guardarmi attorno, ma non riuscivo a vedere chiaramente dov’ero, come se il locale attorno a me stesse scomparendo, diventando sempre più buio; assomigliava a un tunnel dove sentivo un martellare continuo diventare sempre più forte. «Lexi, siamo noi, abbiamo bisogno di te». Ancora una volta qualcuno che mi chiamava, ma cosa stava succedendo? «Lexi, per favore, svegliati, non voglio sfondare la porta». Mugugnai infastidita perché il rumore era sempre più insistente e fastidioso e, arrabbiata, mi misi a sedere di scatto, aprendo gli occhi.
«Oddio» bofonchiai, capendo quello che era appena successo e portandomi le mani tra i capelli, tirandone qualche ciocca per la frustrazione. «No». Negare l’evidenza, era così che si faceva, no? Che cosa mi aveva suggerito il mio cervello quando aveva creato quel sogno? Ma soprattutto, perché mi ero trasformata nella protagonista del film di gangster che avevo visto la sera prima? Dovevo smetterla di guardare quei film, sapendo che i miei vicini facevano parte di una gang, soprattutto perché il protagonista maschile del mio sogno era… cazzo, avevo baciato Ryan. Come era possibile una cosa del genere? Perché mi ero sognata di baciarlo?
«Lexi, svegliati». Brandon, riuscivo a riconoscere la sua voce nonostante la distanza. Mi alzai dal letto di corsa, temendo che fosse successo qualcosa di male e andai velocemente all’ingresso, spalancando la porta: Brandon, davanti a Ryan e Dollar, si teneva una mano sulla fronte, ma notai subito il piccolo taglio che c’era; non sembrava niente di preoccupante, comunque. Appoggiato allo stipite della porta, Ryan fumava una sigaretta, come se non avesse avuto un labbro rotto e gonfio. Quello che però mi preoccupava più di tutti era Dollar, con un occhio pesto e lo zigomo gonfio. «Abbiamo bisogno di te…» spiegò Brandon, aspettando che mi scansassi per farli entrare.
«Che cosa vi è successo?» domandai, guardando i loro volti uno ad uno. Riuscii a scorgere – dietro alla figura imponente di Ryan –Sick; aveva una mano fasciata e camminava nervosamente su e giù, sul pianerottolo. Di sicuro c’era stata una rissa. «Sono stati i Misfitous?» strillai per farmi sentire, andando subito in camera per prendere l’occorrente per medicarli. Era da qualche settimana che non tornavano a casa conciati così male, con ferite vistose e tagli.
«No, i bambini dell’asilo. Chi cazzo vuoi che sia stato, lentiggini?» sbottò Ryan, spegnendo la sigaretta sul muro e lanciandola dietro di lui, sul pianerottolo. Si chiuse la porta di casa alle spalle, dopo che tutti i ragazzi erano entrati. «Guarda la mano di Sick che è quella messa peggio». Con un gesto del capo Ryan indicò Sick, che continuava a camminare in modo nervoso, senza fermarsi.
«Sick, siediti qui e fammi vedere» mormorai, spostando una sedia per poter vedere meglio la sua ferita. Quando si tolse la benda –che scoprii essere una maglietta arrotolata –dalla mano, mi fermai, indecisa se mettermi a ridere o mandarlo a quel paese: c’era un piccolo taglio sul palmo della sua mano, tra il pollice e l’indice. Non era più grande di un paio di centimetri e non sembrava nemmeno troppo profondo, nonostante fosse ricoperto di sangue che gli aveva sporcato tutta la mano.
«Dimmi che non perderò la mano» piagnucolò Sick senza nemmeno controllare la situazione. «Sento che è una brutta ferita, lo so che è brutta, ma ti prego, dimmi che riuscirò a usarla ancora. È la mia mano destra, non posso perderla, non so usare la sinistra, ti prego». Era davvero preoccupato e questo rendeva la situazione ancora più divertente: non aveva notato quanto fosse piccolo quel taglio, talmente piccolo da non dover nemmeno essere cucito, bastava semplicemente un cerotto.
«Sick, non vorrei davvero…». Non riuscii a terminare la frase, interrotta da Sick che si portò la mano sinistra tra i capelli, in preda a una crisi di panico. Ryan, Brandon e Dollar non parlavano nemmeno, concentrati com’erano a guardare la scena.
«Cazzo, la mia mano destra. Come farò a sparare, a fumare, a farmi una se…». Questa volta fu il mio turno, capii quello che stava per dire e volendo evitare una battuta di pessimo gusto urlai il suo nome talmente forte che la mia voce sovrastò la sua. «Scusate se sono preoccupato per la mia mano. Dovrai amputarmela? Forse era meglio se rimanevo senza gamba, cazzo» sbottò poi, non pensando di controllare la ferita per accertarsi che non era niente di grave.
«Sick, è un taglietto talmente piccolo che non devo nemmeno metterti dei punti» spiegai, prendendo la sua mano tra le mie per fargli vedere a cosa mi riferivo. Sentii i ragazzi ridere senza ritegno per la stupidità di Sick che abbassò lo sguardo, imbarazzato. «Aspetta, ti disinfetto e poi vedi che non è niente di grave, ok?». Bagnai un batuffolo di cotone con il disinfettante e, attenta a non premere troppo sul taglio – perché non volevo fargli male – cominciai a togliere il sangue raffermo. Non riuscivo a smettere di sorridere, guardando il volto di Sick che si faceva sempre più sorpreso a mano a mano che pulivo la ferita, scoprendo quel piccolo taglio di un paio di centimetri.
«Perché cazzo fa così male se è piccolo? Credevo fosse enorme, con tutto quel sangue che c’era» si lamentò, sussultando appena, quando strofinai il taglio con il cotone. «Brucia» piagnucolò poi, cominciando a muoversi nervoso. Sick sembrava davvero un bambino, lo sembrava così tanto che socchiusi gli occhi, ricordando Luke, il mio primo paziente. Era un bambino arrivato all’emergenza con una spina piantata sul ginocchio; due grandi occhi azzurri sommersi dalle lacrime che avevano smesso di scendere solo quando l’avevo tranquillizzato, regalandogli un lecca-lecca. Ero sicura che Sick non si sarebbe accontentato di una caramella, però.
Applicai un cerotto, attenta a non peggiorare il suo taglio, poi, soddisfatta del mio lavoro, alzai lo sguardo, togliendomi i guanti sporchi. «Stai attento a non fare infezione, tienilo pulito, ma ti controllo comunque nei prossimi giorni». Applicai, per sicurezza, un cerotto più grande, sicura che Sick non sarebbe riuscito a eseguire i miei ordini.
«Lexi, quando vuoi, la porta della mia camera è aperta e il mio letto è sempre libero per te». Sapevo che ere lo strano modo di Sick di dirmi grazie, per questo sorrisi, indossando un paio di guanti nuovi, in attesa di vedere cosa fosse successo agli altri. Se in quei cinque mesi avevo imparato qualcosa – nonostante per tre non avessi parlato con quasi nessuno di loro – era il turno di Dollar, forse Brandon. Ryan però, come sempre, si sarebbe fatto curare per ultimo.
«Doc… ho solo preso un pugno, davvero. Non c’è bisogno che mi curi, metto un po’ di ghiaccio quando arrivo a casa e poi mi passa» borbottò, mentre sfioravo la pelle del suo viso per capire quanto fosse grave la botta. Non mi preoccupava quella sullo zigomo, sapevo quanto fosse stato fortunato a non esserselo rotto, era quella vicino all’occhio che mi agitava: se ci fosse stata qualche commozione celebrale? Forse era meglio tenerlo sotto controllo per qualche ora, solo per assicurarmi che non fosse niente di grave.
«Dollar, è meglio se rimani qui per qualche ora, non vorrei che avessi una commozione» spiegai, finendo di spalmargli la crema sul livido nero che gli ricopriva lo zigomo. Lo vidi alzarsi, irrequieto, portandosi una mano sull’occhio che gli doleva e massaggiarlo; scuoteva la testa per dire che no, non era d’accordo con quello che gli avevo detto.
«Io vado. Aria non si sente bene da ieri mattina e sono un po’ preoccupato. All’improvviso cambia e dice di stare bene, ma non le credo. Ryan, posso andare? Non sto male e se dovesse succedermi qualcosa dico ad Aria di chiamare subito». Aria non si sentiva bene? Che cosa le era successo e perché non me ne aveva parlato? L’avevo vista quel giorno al Phoenix, durante il turno, ma non mi sembrava non si sentisse bene, era solare e rilassata come sempre.
«Vai, fammi sapere come sta». Ryan gli aveva dato il permesso di andarsene, quindi, per quanto potessi insistere per farlo rimanere lì con me, ero sicura che Dollar sarebbe andato subito da Aria. In fin dei conti avrei fatto anche io come lui; speravo solo che non avesse niente di male, povera Aria.
«Certo. Doc, grazie per la visita gratuita» salutò Dollar, uscendo velocemente dal mio appartamento dopo aver preso il cellulare che aveva appoggiato sul tavolo, prima che lo visitassi. Quando Dollar chiuse la porta, lo fece con un tonfo talmente rumoroso che probabilmente riuscì a svegliare anche la signora che abitava al piano inferiore.
«Fammi vedere quel taglio, Brandon». Indicai la sedia davanti a me con un gesto del capo, e, mentre aspettavo che Brandon si sedesse, spruzzai un po’ di disinfettante su un batuffolo di cotone pulito. Quando osservai il suo taglio, involontariamente sorrisi, capendo che non mi ero sbagliata quando, appena erano entrati, avevo notato che non era grave. «Non servono punti nemmeno a te, basta solo questo cerotto perché il taglio cicatrizzi più in fretta. Sei stato fortunato» mormorai, pulendogli la fronte con gesti meccanici e applicando subito dopo il cerotto. C’era un piccolo dettaglio che non avevo notato fino a quel momento: le mie mani non tremavano più. Non era come quando, appena arrivata a Hunts Point, ogni volta che dovevo applicare anche solo un cerotto cominciavo a tremare, ero rilassata, tranquilla. Non c’era nessun tipo di pressione o altro, solo io che facevo una delle cose che sapevo fare meglio. «Fatto» mormorai, spostandomi di un passo indietro e controllando la sua fronte: sembrava che fosse tutto apposto, non si vedeva nemmeno il disinfettante che avevo applicato sotto al cerotto bianco.
Brandon mi ringraziò con un sorriso, alzandosi dalla sedia e lasciando il posto a Ryan, che, dopo qualche secondo di indecisione, si avvicinò a me, sedendosi con un sonoro sbuffo per farmi capire che era lì contro la sua volontà.
I miei occhi si abbassarono sul suo labbro rotto e involontariamente il tubetto di disinfettante che tenevo in mano mi scivolò per terra. Labbra, le sue labbra. Io dovevo medicare le stesse labbra che avevo baciato nel mio sogno? No, non potevo. Era… non era una cosa che potevo fare, soprattutto perché nel mio sogno ero stata io a baciarlo; chissà cos’altro avrei fatto, se non fossi stata interrotta dal loro arrivo.
«Che cazzo succede, lentiggini?» sbottò Ryan, piegandosi per prendere il flaconcino caduto. Quando me lo porse sfiorai con le dita la sua mano, ritirandola subito come se mi fossi ustionata. Avevo baciato Ryan, in sogno. Ora dovevo medicargli proprio le labbra, le sue labbra. «Ma stai bene?» domandò, aggrottando le sopracciglia, confuso. Alzai lo sguardo, incontrando il suo e peggiorando la situazione.
«Oddio» mormorai, dando le spalle ai ragazzi e concentrandomi sulla goccia che stava cadendo dal lavandino della cucina. Respirai profondamente, cercando di calmarmi. Nessuno di loro sapeva quello che avevo sognato e non l’avrebbero mai saputo; bastava comportarsi naturalmente, come avevo sempre fatto: odiare Ryan era il modo giusto per uscire da quella situazione imbarazzante.
«Secondo una che mi sono trombato un paio di volte, quando una ragazza si comporta in questo modo è perché ha sognato che ti scopava» spiegò Sick, facendomi inorridire. Come diamine aveva fatto a indovinare cosa era successo proprio lui, che non aveva mai guardato un film che potesse vedere anche un bambino? Mi sarei aspettata la verità da Brandon, forse Dollar, ma non proprio da lui.
«Cosa dici?» urlai, difendendomi. Non volevo far capire che aveva ragione e soprattutto dargli la soddisfazione di avermi smascherata. Quel sogno era stato un colpo basso, non mi era nemmeno mai successa una cosa del genere e non doveva più succedere. D’accordo, Ryan era carino, ma basta. Probabilmente il mio cervello aveva associato i suoi tratti a quelli del protagonista di quel film gangster che avevo guardato, anche perché mi era piaciuto. La mia mente aveva semplicemente sommato quei due fattori.
«Dubito che lentiggini abbia degli impulsi. Non ha nemmeno le tette, figuriamoci se sogna di trombarmi» sghignazzò Ryan, innervosendomi. Mi dispiaceva per lui, ma sì, avevo degli impulsi anche io e no, non gliel’avrei mai detto, non ne volevo nemmeno discutere. Cominciai a strofinare il cotone sul suo labbro con forza, cercando di fargli male così magari avrebbe smesso di prendermi in giro. Vidi Ryan sussultare per il dolore, ma non mi diede la soddisfazione di lamentarsi a voce.
«Perché tu dici che è una di quelle bigotte che non si schioda dal missionario? No, io sono convinto che Lexi ci sa fare. Non dimentichiamoci del detto, guarda quanto è piccola». Sick concluse il suo discorso percorrendo – nonostante la distanza di qualche metro – il mio corpo con la sua mano per far notare la differenza d’altezza tra me e loro. Era sempre tanto gentile quando qualcuno mi spiegava che no, non ero alta come loro, ma poco più della metà.
«La volete smettere?» domandai, controllando la ferita sul labbro di Ryan, senza pensare a quello che avevo sognato poco prima. Era sempre e solo Ryan il mio vicino stronzo; niente di più. Ryan non riuscì a trattenersi e cominciò a sghignazzare talmente forte che smisi di medicarlo per qualche secondo, visto che si dondolava sulla sedia. Io non riuscivo proprio a capire che cosa ci fosse di divertente, ma una cosa era chiara: tutti quei pugni avevano fatto seriamente male al suo cervello che non connetteva più.
«Io sono ancora convinto che Stoya – la chiamavo così perché aveva gli stessi suoi piercing – aveva ragione e che abbia sognato di trombarti. Me lo dici Lexi? L’hai fatto anche con me? Come sono andato? Ero bravo, eh?». Sick si avvicinò curioso, aspettando una mia risposta che non sarebbe di certo arrivata. Finii di medicare Ryan senza nemmeno badare alle domande di Sick e, quando mi levai i guanti gettandoli nel cestino, sentii distintamente una pacca sulla spalla di Sick, da parte di Ryan; stava cercando di consolarlo per la mia non risposta alla sua domanda.
«Grazie Lexi, ci vediamo domani». Brandon. Perché di tutti quanti lui era l’unico con un po’ di buon senso, l’unico che sapeva ringraziare e dire la parola giusta al momento giusto. Forse Brandon era l’unico Eagles dotato di cervello. Sì, doveva per forza essere quello il motivo.
«Figurati Brandon, quando hai bisogno sono qui». Sottolineai volontariamente il verbo, facendo capire che mi stavo rivolgendo solo a lui. Ryan e Sick, come se non c’entrassero nulla in tutto quel discorso, uscirono subito dopo Brandon, lasciandomi nel mio appartamento da sola, con tutta la tavola sommersa da cotone sporco e confezioni vuote di cerotti. Sistemai tutto in poco tempo, andando in bagno a lavarmi le mani e rinfrescandomi, prima di tornare a letto. «Ora, cervello, evita di continuare quel sogno. È tardi e domani mattina devo andare al Phoenix».
 
Fortunatamente il mio cervello mi ascoltò, visto che sognai solamente di cavalcare un paio di onde buone, di fianco a Edge che mi prendeva in giro perché secondo lui ero scarsa. Quando quella mattina mi svegliai, capii di avere una strana sensazione, di sicuro infondata; almeno fino a quando al Phoenix scoprii che Aria non c’era. Le mandai un messaggio chiedendole spiegazioni, stava male per lo stesso motivo del giorno precedente? Rispose con un messaggio che mi preoccupò ancora di più: «Indigestione, probabilmente. Scusami davvero Lexi, non volevo farti fare il turno doppio, ma non ce la faccio ad alzarmi dal pavimento del bagno. Sono un paio di mattine che non sto bene, ma oggi è peggio del solito». Preoccupata, avvisai che sarei passata da lei dopo lavoro, per  controllare cosa le era successo.
Quel turno al Phoenix mi era sembrato più lungo del solito, senza Aria a farmi ridere o senza le battute di Dollar che la prendeva in giro non c’era niente per cui valesse la pena di lavorare lì. Nemmeno Peter, che aveva capito il mio rifiuto al suo appuntamento di un mese prima; non ero stata chiara, mi ero limitata a una risposta confusa, in cui gli spiegavo che non era il momento più adatto per me per impegnarmi. Si era limitato a sorridere, senza perdere le speranze. L’avevo silenziosamente ringraziato per la sua gentilezza e poi ero tornata a servirgli le birre con meno imbarazzo.
Bussai alla porta dell’appartamento di Aria preoccupata e senza fiato per la corsa che avevo fatto per raggiungerla. Mi aspettavo che aprisse la porta quasi strisciando, con due occhiaie profonde e i segni evidenti di qualche malattia; invece era bellissima e perfetta come sempre. Mi aveva raccontato una bugia?
«Perché sei venuta Lexi? Ti ho detto che stavo bene. È stata la pizza con i peperoni che Jack ha preso l’altro giorno, credo ci fosse qualcosa di avariato. Mi ha fatto male ieri mattina e oggi, ma poi mi passa. Solo che sai com’è Jack, non voleva che andassi al Phoenix perché era qui quando ho vomitato» concluse, sedendosi sul divano e incrociando le braccia al petto. Il medico che era in me raccolse tutti i sintomi che aveva elencato, facendone una diagnosi che non portava a niente di buono; almeno, ero sicura che per Aria non fosse niente di troppo bello, in quel momento.
«Aria… non è che sei incinta?» domandai, sperando di non sconvolgerla troppo. Non volevo farmi i fatti suoi, ma le nausee mattutine e gli sbalzi d’umore che mi aveva descritto Dollar mi facevano pensare solo a quello. Spalancò gli occhi, spaventata, poi, involontariamente, la sua mano andò a posarsi sulla sua pancia piatta.
«Cosa? No, non è possibile prendo la… cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo. Porca vacca, cazzo. No, non posso essere incinta». Aria si portò le mani tra i capelli, raggomitolandosi su se stessa, come una bambina impaurita. «Cazzo, io ho sempre preso la pillola, il mese scorso ho smesso e abituata com’ero non ci ho più pensato. Cazzo, cazzo, cazzo. No, non voglio essere incinta». Si alzò dal divano, camminando nervosamente attorno al tappeto, nel suo piccolo salotto.
«Aria, calmati, non è nemmeno detto che tu sia incinta, è solo una mia supposizione. Devi fare un test di gravidanza e in ogni caso se è così, sei ancora all’inizio, non preoccuparti». Mi alzai raggiungendola per abbracciarla; mi faceva tenerezza, per la prima volta riuscivo a scorgere la sua fragilità, non nascosta dalla forza che la contraddistingueva sempre. Aria era spaventata e non aveva nessuno a cui appoggiarsi.
«Come faccio a calmarmi? Se sono incinta cosa faccio? Devo abortire, non voglio un bambino, non sono pronta per avere un bambino, Jack non vorrebbe un bambino. No, perché capitano tutte a me Lexi, perché?». Aria cominciò a piangere, abbracciandomi. Sentivo il suo corpo scosso dai singhiozzi e non riuscivo a calmarla, nonostante continuassi ad accarezzarle la schiena, dolcemente.
«Aria» mormorai, avvicinandomi al divano e aiutandola a sedersi, «non pensare subito al peggio, non è detto che tu sia incinta e poi non voglio più sentirti dire che non sei pronta per avere un bambino. Tu non hai sedici anni, sei una delle persone più mature che io abbia mai conosciuto e forse anche la più preparata. Ti ricordo che sei cresciuta in mezzo a bambini: Dollar, Ryan, Brandon e Sick… non sono bambini? È più facile crescerne uno. E credo che prima di decidere dovresti parlarne anche con Dollar, quando sarai sicura. Ma è solo la mia opinione». Non volevo forzarla a prendere una decisione che le avrebbe cambiato la vita per sempre, ma Aria non doveva pensare solo a lei, ma anche a Dollar e soprattutto alla vita che – con molta probabilità – portava dentro di lei.
Cominciò a ridere tra i singhiozzi per la mia battuta sui ragazzi e si sollevò dalla mia spalla, asciugandosi le lacrime che erano scese sulle sue guance. «Però io lo vedrei Jack come papà, sarebbe così stupido vederlo mentre fa ridere suo figlio» mormorò, abbassando lo sguardo e sfiorandosi il ventre con i polpastrelli, come se avesse paura di far del male a qualcuno. «Come faccio a saperlo? Dovevo avere il ciclo due settimane fa, ma non ci ho fatto caso, cosa devo fare? Voglio essere sicura prima di parlarne con Jack, non voglio allarmarlo per niente. Magari si arrabbia e mi dice che non mi ama più. E se scappasse?». Era terrorizzata, riuscivo a vederlo nonostante le lacrime che scendevano lungo le sue guance, si notava dalla sua mano che in modo convulso stringeva le mie, come se cercasse conforto.
«Aria, calmati. Domani mattina vai a prendere un test, così vedi, poi per sicurezza fai gli esami del sangue, così non ci saranno più dubbi. Se sei incinta comincerai a pensare a cosa dire a Dollar, e assieme deciderete cosa fare, non agitarti adesso per niente, dai». Cercai di sorriderle per tranquillizzarla, ma capivo che non doveva essere facile per lei. Si era trovata catapultata in una situazione molto più grande di tutto quello che le era successo fino a quel momento; in più, non riusciva a credere che Dollar potesse appoggiare qualsiasi sua scelta. Ero sicura che fosse perché semplicemente non capiva quanto fosse grande l’amore di Dollar per lei; si vedeva, anche un cieco avrebbe visto il modo in cui la proteggeva da tutti, per qualsiasi cosa.
«D’accordo, ma tu vieni con me, non è vero? Domani quando facciamo quel… il test tu stai con me, per favore» mi supplicò, asciugandosi le nuove lacrime che le avevano bagnato le guance. Come potevo dirle che no, non sarei stata con lei? Aria aveva bisogno di un’amica, di qualcuno che le rimanesse accanto in quel momento strano, non mi sarei mai rifiutata di fare una cosa simile, soprattutto perché ci tenevo a lei e sapevo quanto avesse bisogno di sostegno: non poteva contare su una famiglia, visto che la sua famiglia erano gli Eagles. L’avrei supportata e consigliata, come una sorella maggiore, perché vedevo Aria come la sorellina che non avevo mai avuto, qualcosa da proteggere. Era stupido, perché Aria sotto molti aspetti era più matura di me, ma in quel momento era così spaventata che sembrava una bambina.
«Lo guardiamo assieme domani, ok?» mormorai, accarezzandole di nuovo la schiena durante quell’abbraccio che voleva consolarla. Sentii il suo capo muoversi: annuiva per dirmi che sì, l’avremmo fatto insieme.
E successe esattamente così: le stringevo la mano aspettando che passassero i minuti, sperando silenziosamente che il risultato di quel test fosse negativo. Era il giorno del Ringraziamento, erano le sette di mattina e Aria non si preoccupava nemmeno del tacchino da cuocere, come era giusto che fosse.
«Lexi… guarda tu» mormorò stringendo ancora più forte la mia mano tra le sue; rischiava di rompermi le ossa, ma non me la sentivo di dirle nulla, era davvero agitata e preoccupata. Avanzai di un passo, respirando a fondo e sperando con tutta me stessa che il risultato fosse negativo, ancora una volta. Quando arrivai davanti alla tazza con quel piccolo bastoncino dentro, socchiusi gli occhi per qualche secondo. «Allora?» domandò Aria, dietro di me. Forse credeva che avessi già visto se era positivo o negativo, ma non era così.
«Adesso guardo» spiegai, avvicinandomi e prendendo il test in mano. Il respiro mi si strozzò in gola, leggendo il risultato. «È… è positivo Aria». Istintivamente mi voltai, guardandola: socchiuse gli occhi lentamente, lasciando che una lacrima silenziosa scivolasse lungo la sua guancia. Nessun gemito, nessun urlo, un silenzio che riuscì a spezzarmi il cuore. «Non è ancora detto che sia vero, farai gli esami del sangue per essere sicura, questi cosi sbagliano alcune volte, magari è anche perché sei stressata e comunque non è detto che…». Mille scuse a cui sapevo non avrebbe creduto. Eppure mi sentivo in dovere di farlo, di darle un’ultima speranza.
«Lexi… lascia stare, davvero. Non parliamone con nessuno, non voglio rovinare il Ringraziamento ai ragazzi. Ne parlerò con Jack solo quando sarò sicura, nel frattempo, ti prego, non dirlo a nessuno. Adesso aiutami a preparare la cena, deve essere tutto perfetto». Cominciò a prendere gli ingredienti per riempire il grosso tacchino che aveva comprato il giorno prima e senza più pensare al test di gravidanza, chiacchierammo di John e del Phoenix e di Peter che non aveva più provato espressamente a chiedermi di uscire; Aria continuava a farfugliare che aveva una sua teoria, ma che me ne avrebbe parlato al momento opportuno. Quando l’avevo minacciata con un coltello da carne, chiedendole a cosa si stesse riferendo, contrattaccò lanciandomi addosso una cucchiaiata di ripieno del tacchino, centrandomi in pieno viso.
Ci trovarono così i ragazzi, quando arrivarono quel pomeriggio: Aria con un cucchiaio in mano, io con il volto sporco di ripieno e con il coltello da carne come arma.
«Che cazzo sta succedendo dentro a questa cucina?» sbottò Ryan, togliendo la pistola dalla cinta dei pantaloni e appoggiandola sopra al mobile d’ingresso. Quel gesto – che non avevo mai notato – mi fece sbarrare gli occhi per la sorpresa. Ryan portava sempre una pistola con sé o era solo un caso? Cercò di rilassare i muscoli del collo, girando lentamente il capo e poi, senza attendere una risposta da parte mia o di Aria, andò a sedersi sul suo divano con uno sbuffo.
«Che state preparando di buono, oltre al tacchino?» domandò curioso Dollar, avvicinandosi ad Aria e abbracciandola, dopo aver fatto scorrere le sue mani sulla sua pancia. Quel gesto involontario di Dollar mi fece sorridere, come se sapesse il segreto di Aria che, ne ero sicura, avrebbe scoperto presto. «Mi fai assaggiare qualcosina?» piagnucolò, baciandole il collo e scendendo verso la sua spalla. Sentii un sospiro di Aria e ridacchiai, incapace di trattenermi.

«Jack, allontanati subito, tu e quelle tue manacce sudice! Non ti voglio vicino al tacchino, tu mi servi solo per controllare la cottura, visto che Lexi non sa nemmeno come si cucina la carne. E io che confidavo in lei» sbuffò Aria, fingendosi offesa dalla notizia che le avevo dato quella mattina, mentre cercavamo di non pensare al risultato del test. Aria spintonò Dollar scherzosamente, allontanandolo dal ripieno che avevamo preparato fino a quel momento.
«Perché non sai cucinare la carne, Lexi?» domandò incuriosito Sick. Mugugnai rassegnata, sapendo che lui era l’ultima persona a dovermi fare quella domanda. Conoscendo Sick e la sua fissa, di sicuro avrebbe cominciato a fare battutine inutili, e lì, davanti a tutti, mi avrebbe fatta vergognare di nuovo.
Per evitare di arrossire imbarazzata davanti a tutti, aprii il frigo, fingendo di cercare qualcosa, poi, con un rantolo perché speravo che non mi sentisse, mugugnai: «Perché sono vegetariana». Sentii distintamente il rumore di qualcosa di metallico che cadeva a terra – come un coltello –e , quando mi voltai per controllare, trovai Sick con le mani a mezz’aria e gli occhi sbarrati per la sorpresa.
«Sei vegetariana e non me l’hai mai detto? Sei vegetariana e non sei mai voluta venire in camera mia? Dobbiamo rimediare subito. Vegetariana. Cioè, tu hai una ceretta integrale e sei vegetariana. È un invito, capisci?». Si avvicinò a me, abbracciandomi all’improvviso, felice per quella notizia e impedendomi di spostarmi o sottrarmi da quell’abbraccio. «Lexi, sei la donna della mia vita. Sposami, ti prego; facciamo tanti figli, proviamoci se non li vuoi. Farò tutto quello che vorrai se tu farai tutto quello che vorrò». Gli occhi di Sick brillavano per la felicità. Aveva un’espressione talmente comica sul suo viso che non riuscii a trattenermi, cominciando a ridere assieme agli altri.
Tra una risata e l’altra infornammo il tacchino; Dollar era l’addetto alla cottura, controllava che non si seccasse troppo, rigirandolo nella grande teglia e bagnandolo con il sugo; sembrava davvero un cuoco, se non fosse stato per quelle due ridicole mollettine che Aria gli aveva messo in testa, perché continuava a lamentarsi che aveva i capelli troppo lunghi.
Quando il cuoco informò che la cena era pronta, io e Aria facemmo accomodare i ragazzi nei posti che avevamo assegnato loro: io mi sarei seduta tra Brandon e Aria, che aveva Dollar alla sua sinistra. Tutti in cerchio, tutti gli Eagles assieme, con la Signora di Dollar. Mi sentivo fuori luogo, nonostante Aria mi avesse ripetuto per tutta la mattina che non ero un’estranea. Riuscivo a vedere i ragazzi tranquilli e felici, durante quella festa che per loro significava molto, quasi come fosse qualcosa che li rispecchiava; e forse era proprio così, perché non li avevo mai visti tutti e nove – con i due ultimi arrivati – in piedi davanti a una tavola imbandita, mentre Brandon farfugliava qualche parola di ringraziamento per gli Eagles e Ryan affettava il tacchino. Era esattamente come stare in famiglia, come vedere papà che tagliava il tacchino, mettendolo nel piatto di mamma e nel mio –  anche se sapeva che non l’avrei mangiato. C’era qualcosa di più però, un legame più forte tra di loro che andava oltre un legame di sangue, era addirittura più forte: il rispetto che l’uno provava per l’altro, la lealtà tra di loro, la sicurezza che ognuno si sarebbe ferito pur proteggere l’altro.
Alzai il mio bicchiere pieno di succo –per non far insospettire i ragazzi, visto che Aria non poteva bere alcol – e sorrisi; i brindisi erano davvero assurdi, soprattutto quelli di Sick. Avevo imparato ad accettarli però; erano unici, tutti loro. Per questo non riuscii a cancellare quel sorriso nemmeno quando Ryan – per fare l’idiota mentre brindavamo – mi guardò ghignando, prima di ammiccare, dando una pacca sulla spalla a Brandon, di fianco a lui.
 


Stavolta sono stata brava e non ci ho messo venti giorni! :)
Scherzi a parte, mi scuso nuovamente per il ritardo, ma davvero la sessione d’esami è alle porte e non ho il tempo materiale per scrivere. Cioè, scriverei di notte, ma ogni tanto il mio cervello chiede venia perché vuole riposare, quindi evito di farlo e scrivo un piccolo pezzettino alla volta.
Prima di tutto: quando ho detto che ci sarebbe stato il bacio (spoiler che ho messo nel gruppo) non mentivo, come potete vedere. Il bacio c’è stato.
Seconda cosa… la prima parte, ovvero tutto il sogno di Lexi è il trailer di Gangster Squad, il nuovo film di Ryan. Lexi diventa Emma Stone che nel film è la compagna di Sean Penn, mentre qui è la figlia del gangster. Tutto quello che ho scritto è frutto della mia fantasia e non c’entra con il film, l’unica cosa (oltre all’ambientazione) presa dal trailer è la frase “Mi porterai via da tutto questo?” “Veramente volevo solo portarti a letto”. E, preciso e sottolineo, come Ryan dice BED non lo dice nessuno.
Comuuuunque, per la seconda parte… Aria. Ecco, questa cosa credo non se la aspettasse nessuno (vi prego, ora non cominciate a dire “io sì”, che il mio ego si affloscia). Una sorpresa, su! Ora bisogna vedere cosa decide lei e cosa decidono gli altri, vi ricordo però che il prossimo capitolo subirà un nuovo salto temporale –l’ultimo –di un mese, quindi ci troveremo più o meno a Natale/Capodanno.
Ah sì, babbeh, si è capito, no? Siamo nel giorno del Ringraziamento e quindi c’è la cena con il tacchino ripieno. Credo lo sappiate tutte, comunque di solito spetta al capo della famiglia l’onore di tagliare il tacchino, per questo lo fa Ryan.
Ecco, non credo ci sia altro riguardo al capitolo, come sempre se avete domande, supposizioni, offese, offerte pecuniarie, potete contattarvi e sarò ben felice di rispondervi.
Come avrete notato all’inizio del capitolo la lista dei video si allunga, l’ultimo arrivato è uno dei miei preferiti. Dura poco poco e sono i “credits” iniziali di YSM, una genialata sempre di TheCarnival, che mi fa questi regali bellissimi che io amo e che mi danno sempre idee nuove per i capitoli. Guardatelo, non ve ne pentirete (e se non avete guardato gli altri… genuflettetevi sui ceci per 40 minuti urlando qualcosa di offensivo riguardo… boh, il vostro personaggio preferito, poi guardateli).
Infine, come sempre, ringrazio preferiti/seguiti/da ricordare perché aumentate sempre di più e siete un numero stratosferico, e poi vorrei ringraziare anche chi mi inserisce tra gli autori preferiti, perché non credevo che ci fossero così tante persone malate di mente dentro a EFP (fluffosamente parlando).
Il gruppo spoiler è questo: NERDS’ CORNER e come sempre ricordo che l’iscrizione è gratis e dentro trovate le foto dei protagonisti e gli spoiler dei capitoli futuri, chi volesse, deve solo iscriversi, accetto tutti, indifferentemente.
Il prossimo capitolo è a un buon punto e spero di aggiornare quanto prima, quindi, quando avete letto per favore fatemi qualche segno di fumo che mi regolo per aggiornare. Graaaaazie <3

A presto,
Rob.

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Capitolo 15
*** All chickens come home to roost ***


YSM
 
 
Dopo il risultato delle analisi del sangue – che  avevano confermato quello del test fatto una settimana prima – Aria si era chiusa in se stessa; sorrideva e scherzava meno, nonostante io cercassi in tutti i modi di fare la stupida per riuscire a donarle un sorriso. Sapevo che stava pensando al modo migliore per dire a Dollar che aspettava un bambino, ma ero altrettanto sicura che lui non si sarebbe arrabbiato così tanto come lei credeva. Forse ne sarebbe anche stato felice, in fondo era una novità, e, anche se avevano solo sedici anni, erano abbastanza maturi da poter crescere un figlio.
Aria era arrivata al Phoenix una settimana prima di Natale con un radioso sorriso sulle labbra che mi aveva fatto capire subito quello che era successo. Abbandonai il boccale di birra mezzo pieno sul bancone e corsi ad abbracciarla, lasciando che una lacrima di felicità scendesse lungo la mia guancia alla visione di quel sorriso. «Che cosa ti avevo detto? Dollar non è uno stupido ed è in grado di prendersi le sue responsabilità, come gliel’hai detto? Che cosa ha detto?». La parte più pettegola di me stava uscendo, forse perché Aria era ormai una delle amiche più care che avessi mai avuto, e forse perché, un po’, mi mancavano i gossip.
«Io… non sapevo come dirglielo, così prima l’ho fatto sedere e dopo gliel’ho detto; all’inizio non capiva, si è chiesto come fosse possibile, poi gli ho ricordato che non prendo più la pillola e che ce ne siamo dimenticati; era stupito, ma ha ammesso che è anche colpa sua perché fa sempre l’idiota. Alla fine mi ha chiesto cosa volevo fare, e dopo averne parlato abbiamo deciso che lo teniamo, vogliamo entrambi questo bambino. Forse è un segno, no? Cioè, è così che doveva andare, forse c’è un motivo». Fece spallucce senza però riuscire a cancellare quel sorriso che le illuminava il volto più del solito. Aria sembrava addirittura più bella.
«Tu non sai nemmeno quanto sono felice per voi. Diventerò zia, potrà chiamarmi zia?» domandai, capendo subito dopo che non era il luogo o il momento adatto per chiedere una cosa del genere. Forse era anche scortese, ma non riuscivo proprio a rimanere seria e composta di fronte a una notizia del genere: i bambini mi erano sempre piaciuti e avevo pregato per anni Soph ed Edge di regalarmene uno che potessi chiamare nipotino, ma non ci ero mai riuscita. Stavolta era diverso, Aria e Dollar sarebbero stati due genitori speciali, che avrebbero amato quel bambino come se fosse stato l’unico al mondo.
«Lexi…» bofonchiò, scuotendo il capo senza però smettere di sorridere. «Aspetta prima di dire così. E poi dobbiamo dirlo ai ragazzi, io… in questi casi non so nemmeno se debba decidere Ryan. E se lui dice di no? Cosa bisogna fare? Non voglio che Jack venga escluso dagli Eagles per colpa mia, non sarebbe giusto e…». Appoggiai una mano sulla sua spalla per cercare di calmarla: era spaventata, logico, si trovava in una situazione nuova e non sapeva quello che poteva succedere, ma ero sicura che Ryan non avesse così tanto potere da decidere cosa dovevano fare Aria e Dollar. Insomma, era sì l’O.G. degli Eagles, ma mi rifiutavo di credere che potesse decidere anche sulle vite private degli altri, soprattutto se di mezzo c’era un bambino.
«Stai tranquilla, vedrai che Ryan sarà felice, esattamente come tutti gli altri. Quando lo direte?». Mi sarebbe piaciuto esserci, solo per vedere le espressioni stupite dei ragazzi. Immaginavo già le battute stupide di Sick e il sorriso di Brandon, mentre si congratulava con loro. Chissà cosa avrebbe detto Ryan; di sicuro sarebbe rimasto impassibile, fermo sul suo divano, a fumarsi una sigaretta mentre tutti festeggiavano. Sì, perché Ryan non aveva un cuore.
«A Natale, durante la cena. Vogliamo che ci siano tutti e io ti voglio al mio fianco. Devi starmi vicina, altrimenti ho paura» mormorò, sistemandosi il grembiule perché John si era avvicinato a noi, incuriosito dalle nostre chiacchiere e dal nostro ritardo nel consegnare gli ordini ai clienti. «E poi prima lo diciamo meglio è, Jack sta impazzendo, sembra che io non possa fare nulla. Tra un po’ secondo lui non sarò nemmeno in grado di farmi la doccia, mi insaponerà lui la schiena, il che non è male…» sghignazzò, facendomi ridere. Vederla così solare era quasi contagioso; in qualche modo stava tornando la vecchia Aria, la ragazza spensierata che si era nascosta nelle ultime settimane.
«Certo che ci sarò, e ti difenderò contro chiunque. So picchiare molto più forte di quelle quattro scimmie che ho per vicini» ribattei, senza smettere di sogghignare con Aria. John si avvicinò ancora di più a noi, tanto che non continuai nemmeno la frase, sicura che avrebbe potuto sentirci. Aria finse di asciugare un paio di boccali di birra e, nascondendo il nostro sorriso, cercammo di non farci scoprire, senza naturalmente riuscirci.
«Si può sapere che cos’avete oggi da sghignazzare più del solito? Andate a lavorare, visto che vi pago par farlo». John e la sua voce odiosa, ma soprattutto John e le sue bugie. Non era affatto vero che ci pagava ogni mese. Avevo lo stipendio in arretrato di tre mesi e non mi ero mai, mai, lamentata con nessuno di quella situazione, soprattutto con i ragazzi. Doveva ringraziare Aria e quelle foto che avevo fatto a New York – e che non erano mai uscite perché Ryan le aveva distrutte – era solo grazie ai guadagni di quel servizio fotografico che riuscivo a pagare l’affitto ogni mese. Ma se John non mi avesse pagata nemmeno a dicembre, non avrei saputo come fare, visto che non avevo abbastanza risparmi per pagare l’affitto. Senza dire nulla, dopo che Aria gli ebbe fatto una linguaccia alle spalle, cominciammo a lavorare, in silenzio.
 
«Lexi, e se mi dicono che non posso tenere il bambino? Se Ryan dice che va contro le regole degli Eagles e che devo abortire?» bisbigliò spaventata, mordicchiandosi l’unghia del pollice mentre sistemavo gli ultimi piatti sulla grande tavola dei ragazzi; avremmo mangiato di nuovo tutti assieme, esattamente come il giorno del Ringraziamento. Appoggiai la pila di piatti sul tavolo, sospirando e guardando Aria, di fianco a me.
«Mentiremo, ok? Dirò che non è più possibile abortire, Ryan non sa fino a quanti mesi si può fare, e in ogni caso sono sicura che non servirà mentire Aria, vedrai che tutto andrà bene e Ryan sarà felice». Scossi leggermente le sue spalle, sperando che riuscisse a capire – una volta per tutte – che nessuno le avrebbe privato di decidere quello che era giusto per lei e per Dollar, nemmeno Ryan. Se così fosse stato, mi sarei ribellata a Ryan, avevo ancora la mia rivoltella!
«Stai vicino a me quando lo dico, vero?» mormorò, abbracciandomi perché potessi infonderle un po’ di sicurezza. Non riuscii a trattenere un sorriso, stringendo un po’ più forte le mie braccia attorno al suo corpo per farle capire che sì, le sarei rimasta vicino, qualsiasi cosa fosse successa io ero con lei, contro tutti. «Sta nevicando» mormorò sorpresa, allentando l’abbraccio e asciugandosi in fretta una lacrima, cercando di non farsi vedere da me.
Guardai subito fuori dalla finestra, cercando di vedere oltre il vetro oscurato dalla condensa. Neve. Era la prima volta che vedevo la neve, soprattutto perché, cosa strana a New York, non aveva mai nevicato fino a quel momento. «Wow» sospirai, strofinando il polso sul vetro, per vedere fuori. C’erano dei grossi fiocchi di neve che cadevano, posandosi silenziosi sul terreno. Istintivamente cominciai a sorridere, correndo verso la porta per uscire a vedere quello spettacolo. Quante volte avevo sognato la neve? Quante mi ero messa a piangere da bambina, perché non avevo mai fatto un pupazzo di neve come nei film ambientati a New York? Aprii la porta dell’appartamento dei ragazzi sbattendo subito contro qualcosa, o qualcuno, ma non mi interessava, non quando potevo vedere e toccare la neve. «Scusa» borbottai, correndo giù per le scale, senza nemmeno soffermarmi a chiedere se avevo ferito qualcuno. Sapevo che se avevo urtato Ryan nemmeno si era accorto del nostro scontro.
«Lentiggini, dove cazzo stai correndo?» domandò, affacciandosi alla balaustra delle scale, facendo rimbombare la sua voce che sembrò addirittura più roca e profonda del solito. Non avevo tempo di rispondergli, rischiavo che smettesse di nevicare e non potevo permettermi di non vivere appieno quella magia. Sentii la voce di Aria urlare che stavo scendendo in strada per vedere la neve e subito dopo Ryan urlò di nuovo, perché potessi sentirlo anche se ero arrivata al portone d’ingresso: «Se poi hai la febbre perché esci con una maglietta a maniche corte non…». Non aspettai nemmeno che terminasse la frase, impegnata com’ero ad aprire il portone dello stabile, per uscire; ci riuscii, correndo in mezzo alla strada deserta e respirando a fondo, con il volto sollevato verso il cielo. Qualcosa di freddo cominciò a posarsi sul mio viso e sulle mie braccia, facendomi rabbrividire; era una sensazione indescrivibile se paragonata alla vista che avevo: il cielo buio sopra di me era rischiarato da milioni di piccoli puntini bianchi che cadevano, posandosi silenziosi sulla strada e sui tetti degli stabili. Perfino il vecchio e sgangherato cancello davanti a me sembrava più bello, in quel contorno così fiabesco. Cominciai a sorridere, portando i palmi delle mani all’insù per guardare quei piccoli fiocchi bianchi che si posavano, sciogliendosi subito dopo. Fiocchi di neve ovunque, sul mio viso, sulle mie braccia nude e sui miei capelli, sembrava davvero di essere dentro a un film, solo che era decisamente freddo. Cercando di scaldarmi le braccia nude con le mani, corsi velocemente su per le scale, arrivando in cucina dai ragazzi in pochi secondi. «Fa… fa davvero freddo» bofonchiai, come una stupida. Logico: se c’era la neve, faceva freddo, ma non avevo mai pensato che potesse fare così freddo.
«Benvenuta a New York in inverno, lentiggini. Che ti aspettavi, temperature tropicali e sole a mezzanotte?» sbottò Ryan, sorseggiando una birra, seduto sul suo divano. Lebo, Ham e Swift, di fianco a lui cominciarono a sghignazzare, deridendomi. Non avevo nemmeno voglia di ribattere, visto che avevo capito la stupidaggine fatta. La verità era che la neve mi piaceva così tanto da non farmi ragionare, soprattutto dopo averla vista per la prima volta.
«Posso scaldarti io, Lexi» ghignò Sick, avvicinandosi a me e appoggiando le sue mani sulle mie spalle. Istintivamente indietreggiai, spaventata da quello che Sick avrebbe potuto fare. Ero sicura che sì, fosse a conoscenza di diversi modi per scaldarmi, ma no, non mi interessavano. Andai involontariamente a sbattere contro Aria, che stava finendo di condire l’insalata, dietro al bancone. Stavo quasi per scusarmi, prima che Dollar urlasse contro di me che dovevo stare attenta, perché non bisognava scontrarsi in quel modo con le persone. L’occhiataccia di Aria per tranquillizzarlo mi fece ridere quasi più delle sue scuse borbottate.
La cena trascorse tranquilla e in allegria, con qualche bicchiere di vino di troppo che mi fece ridere più del dovuto, ma non volevo ubriacarmi prima del grande annuncio di Aria e Dollar che, ne ero sicura, sarebbe avvenuto a momenti.
«Lexi, mi aiuti a portare i piatti in cucina?» domandò Aria, facendomi capire anche con lo sguardo che non avrebbe accettato un no come risposta. Dovevo seguirla. Mi alzai in piedi barcollando e prendendo una pila di piatti per aiutarla a portarli in cucina, nonostante pesassero. «Ora, glielo diciamo ora» mormorò Aria, prendendo le stoviglie dalle mie mani per appoggiarle sul mobile poco distante da noi. La ringraziai mentalmente, visto che cominciavano a pesare veramente.
«Buona fortuna». Feci l’occhiolino, alzando entrambi i pollici per farle capire che ero con lei. Non ero ubriaca, ero solo felice, soprattutto perché, ne ero sicura, i ragazzi avrebbero preso la notizia con serenità. Aria sbuffò, tornando di fianco a Dollar in cucina e sedendosi sulle sue gambe, lasciando libera la sedia di fianco a me. Mi sedetti incrociando le braccia sotto al seno, in attesa di sentire che cosa avessero da dire Aria e Dollar, ma soprattutto i ragazzi; vedevo le mani di Aria stringersi convulsamente a quelle di Dollar mentre cercava di farsi coraggio, per questo non riuscii a non bisbigliare il suo nome, attirando la sua attenzione. «Sta calma, andrà bene» mormorai, piegandomi un po’ in avanti per stringere la sua mano e quella di Dollar con la mia. Entrambi si voltarono verso di me, donandomi un sorriso teso, che mostrava quanto fossero agitati.
«Ryan… io… io ti ho mentito. Ho mentito a tutti voi, cioè, vi ho nascosto una cosa» esordì così Dollar, appoggiando le sue mani sulla pancia di Aria. Io che sapevo la verità non riuscii a nascondere un sorriso, guardando i volti dei ragazzi per gustarmi la loro espressione. Ryan era furioso, aveva una vena che pulsava sul suo collo e sulla fronte, mentre con la mano stretta a pugno, cercava di respirare profondamente per non esplodere; Brandon era calmo, come al solito, ma si notava una strana luce nel suo sguardo, nel modo in cui guardava Dollar curioso, come se volesse capire cosa stava per dire. Sick aveva il suo solito ghigno sulle labbra che però era spento, in attesa di capire – probabilmente – quale fosse la cosa giusta – per lui –da dire. Josh e Paul… non li avevo mai visti così: la schiena dritta e la mano dietro alla schiena, come se… come se avessero una pistola e fossero pronti a usarla, senza nessun problema. Lebo e i due ragazzi nuovi cercavano di rimanere impassibili, ma riuscivo a notare i loro volti tesi e spaventati da quello che poteva accadere.
«Che cazzo vuoi dire Doll? Spero tu abbia una spiegazione per questa stronzata prima che mi incazzi». Ryan non smetteva di stringere la mano in modo convulso, controllando a stento il respiro. Speravo solo che Dollar potesse risolvere la situazione e ancora di più che la notizia della gravidanza non li sconvolgesse, altrimenti eravamo tutti e tre nei guai, soprattutto io, che non c’entravo con gli Eagles ma che avevo sostenuto Aria e la sua scelta di tenere il bambino.
«Stasera qui c’è qualcuno che non è un Eagles, oltre alla Doc, naturalmente». Lo sguardo di Dollar incrociò il mio per qualche istante e cercai di incoraggiarlo, sorridendogli appena; ero sicura che il mio sorriso assomigliasse di più a una smorfia, ma Dollar avrebbe capito il messaggio, sì. «Ecco… noi, Aria… è in arrivo un piccolo Eagles, o una piccola Eagles» concluse, sorridendo. La cicatrice sulla sua guancia si increspò, lasciando che le sue labbra si tendessero verso l’alto. Aria, ancora seduta sulle sue ginocchia, non respirava nemmeno, in attesa della risposta dei ragazzi. C’era però uno strano silenzio, come se tutti aspettassero un cenno per parlare. Sapevamo tutti chi doveva dire la prima parola, per questo nessuno fiatava, guardandolo.
«Sei incinta?» sbottò Ryan, spostando lo sguardo su Aria. Mi sembrò addirittura di vederla farsi più piccola, lì, tra le braccia di Dollar che – ero sicura – l’avrebbe appoggiata in qualsiasi scelta. Aria annuì, senza però dire una parola. Temevo quasi che le mancasse la voce per la paura della risposta di Ryan che sembrava quasi più rilassato. La mano era appoggiata alla tavola con il palmo all’ingiù; le dita non erano più contratte, ma rilassate. Sul suo volto però, c’era la solita maschera di strafottenza che non lo abbandonava mai. «In quanti mesi sei?» si informò, senza smettere di fissare Aria che deglutì, facendosi forza.
«Sono… sono ancora all’inizio, cioè, non devo partorire adesso, però… ecco, io, noi…» bofonchiò, senza dare una vera risposta a Ryan. Sospirai, fiera di lei: ero stata io a suggerire di non dire il mese esatto fino a quando non avesse capito se Ryan e i ragazzi erano o no contro la gravidanza. Così potevamo sempre mentire e dire che non era possibile abortire perché troppo tardi.
«Perché non l’hai detto prima? Il primo figlio degli Eagles? Cazzo, Doll, pannolini e vomito? Non farei mai cambio». Ryan si aprì in un sorriso sincero – uno dei pochi che avevo visto da quando ero arrivata, non un ghigno, un vero e proprio sorriso – e si alzò dalla sedia, raggiungendo Dollar e dandogli una pacca sulla spalla, per congratularsi con lui. Aria mi guardò, alzandosi in piedi, mentre Dollar sogghignava per le continue prese in giro di Ryan. «Aria, sei sicura di volere il figlio o la figlia di Doll? Una mammoletta come lui, che avrà paura di sparare per il cuore da tenerone?». Le mani di Ryan si appoggiarono alle spalle di Dollar, scuotendolo avanti e indietro scherzosamente.
«Mammina, vieni qui» mormorò Brandon, avvicinandosi ad Aria e abbracciandola. Le sue labbra si appoggiarono alla fronte di Aria che cominciò a ridere, asciugandosi una lacrima che stava scendendo lungo la sua guancia. «Sono felice per voi, davvero». Ero quasi sicura che Brandon avesse sussurrato queste parole ad Aria, prima di darle un nuovo bacio sulla fronte; si avvicinò poi a Dollar, abbracciandolo e dandogli delle sonore pacche sulla schiena che lo fecero lamentare.
«Cioè, un bimbo in arrivo sai cosa vuol dire? Te la darà meno, poi tu vorrai ancora vederla nuda, con quella cosa dentro di lei? Cioè, non sarà più definita trombabile nemmeno per me, con una pancia ripiena» sogghignò Sick, spegnendo la sigaretta sul posacenere davanti a lui e alzandosi poi per congratularsi con Dollar e Aria. Erano lì, tutti gli Eagles in fila, ognuno con una battuta diversa per Dollar e Aria, ma sapevo che, nonostante Sick continuasse a fare riferimenti alla sfera intima dei futuri genitori, erano felici per loro.
«Che ti avevo detto? Ti sei preoccupata per nulla» bisbigliai, avvicinandomi ad Aria. Non volevo che gli altri sentissero quello che avevo da dire, forse perché tutti credevano che io non sapessi la notizia. In verità, era impossibile nascondere la commozione nei miei occhi che si trasformava in lacrime silenziose; vedere i ragazzi così felici per Dollar mi faceva davvero stringere il cuore. Aria mi abbracciò, senza dire nulla, sapevamo entrambe che alcune volte non servivano parole, un abbraccio era molto più importante.
«Come lo chiamerete?» si informò Brandon, tenendo il braccio attorno alle spalle di Dollar che guardò subito Aria, in attesa di un consenso. La vidi annuire impercettibilmente, come se volesse tranquillizzarlo: non era un segreto e la notizia andava condivisa.
«Noi… se è una femminuccia… Ariel, ci piace Ariel. Se è un maschio – futuro Eagles senza nemmeno fargli fare la prova dell’ascensore – lo chiameremo JC. Glielo dobbiamo». La mano di Dollar si spostò dentro alla tasca dei suoi jeans; ero sicura che avesse il flag, ancora sporco dal sangue di JC, anche se non era un vero e proprio Eagles. Quella notizia riuscì a commuovermi ancora di più tanto che dovetti asciugarmi una lacrima che stava scendendo sulla mia guancia.
«Chi cazzo ha detto che non farà la prova dell’ascensore? Cos’è, un Eagles ad honorem? Non se ne parla, quando sarà abbastanza grande per decidere lo chiuderemo in ascensore senza di te, Doll, o non lo picchierai nemmeno, rendendo tutto più facile». C’era però, di nuovo, quel sorriso sul volto di Ryan che mi faceva capire quanto in verità stesse scherzando, come se nemmeno lui credesse alle sue parole. Forse, davvero, non ci sarebbe stata nessuna prova dell’ascensore per il piccolo JC, avrebbe portato il flag fin da bambino, abituato com’era a vedere suo padre e i suoi zii con quel pezzo di stoffa rosso. «Gli insegneremo i valori degli Eagles» continuò Ryan, diventando serio, «gli faremo vedere chi comanda e come, capirà che noi siamo la strada giusta e si unirà a noi, senza nemmeno prendere in considerazione i Misfitous o le altre bande». C’era quella sfumatura nella voce di Ryan, quella che faceva capire quanto fosse orgoglioso dei suoi Eagles e di quello che aveva creato.
«Ah, Sick, se dovesse essere Ariel… non ti tromberai mia figlia, è chiaro?» domandò Aria, facendo ridere tutti. Il modo in cui aveva detto quella frase, il suo puntare l’indice contro Sick per fargli capire che si stava rivolgendo proprio a lui, era davvero comico.
«Vedremo… potrebbe subire il mio fascino, magari se diventa bella come la madre…». Sick ammiccò verso Aria; sapevamo tutti che era il suo stupido modo di scherzare, per questo Aria e Dollar non si arrabbiarono nemmeno, seguendo gli altri in quella risata collettiva. «E adesso brindiamo ad Ariel, la futura figlia di Dollar, ma soprattutto di Aria, che mi tromberò tra una quindicina d’anni». Il bicchiere pieno di vino di Sick si sollevò, in un chiaro invito a seguirlo per festeggiare. Festeggiamenti che compresero un numero indefinito di brindisi, portandomi a bere vino contro la mia volontà, visto che se non brindavo non ero una vera amica di Aria. Non mi avevano ascoltata nemmeno quando li avevo supplicati di smetterla di farmi bere, perché il vino non riuscivo a reggerlo e mi sarei ubriacata di sicuro. Per questo ero seduta sul divano dei ragazzi, con un perenne sorriso sulle labbra e la testa pesante appoggiata sulla spalla di Dollar, di fianco a me. Non ero ubriaca, no. Ero esattamente nel limbo, quando sei così felice che la vita ti sorride e quando non hai problemi a dire quello che pensi.
«Aria… pensavo che con il tuo stipendio di dicembre potremmo comprare la cameretta, che dici?» domandò entusiasta Dollar, guardando Aria. Lo sentivo muoversi contro di lei e involontariamente, a ogni mossa, borbottavo infastidita: la mia testa si muoveva e sentivo un continuo martellare alle mie tempie.
«Sarebbe bello, sì» ribatté Aria. Anche se non potevo vedere la sua espressione sapevo che stava sorridendo. In qualche modo, il parlare davanti a tutti di qualcosa di così privato era per lei un’ulteriore conferma di quanto Dollar fosse felice di quella notizia. Mi misi a sedere: volevo ricordare ad Aria una cosa importante e magari era meglio farlo prima che comprasse la cameretta per il loro futuro bambino.
«Ricorda che non è detto che John ci paghi questo mese, magari salta» specificai, annuendo. Non si ricordava più che John non ci pagava regolarmente ogni mese? E se non avesse pagato proprio il mese di dicembre, come avrebbe fatto a prendere la cameretta per il piccolo? Probabilmente aveva bevuto e non si ricordava più di quel particolare.
«Lexi!» strillò Aria, spaventandomi. Sgranai gli occhi, cercando di capire perché tutti i ragazzi mi stessero fissando come se avessi detto qualcosa di male. Avevo solo detto la verità, perché Brandon e Dollar continuavano ad alternare i loro sguardi tra Aria, me e Ryan? Ma soprattutto, perché tutti stavano in silenzio?
«Che c'è? Ho solo detto la verità» mi giustificai, facendo spallucce e cercando di alzarmi per prendere il bicchiere d’acqua che avevo appoggiato sopra al tavolino. Quando alzai il sedere dal divano rischiai di cadere, se non fosse stato per i riflessi di Dollar che riuscì ad afferrarmi per poi appoggiarmi delicatamente sul divano.

«Che cazzo vuol dire che John non vi paga ogni mese?» sbottò Ryan, spostandosi nervoso sulla sua poltrona e curvandosi verso il divano sul quale eravamo seduti io, Dollar e Aria. Improvvisamente, dopo aver bevuto un sorso d’acqua, mi resi conto di quello che avevo detto: John non ci pagava, gli Eagles non lo sapevano, Aria si era raccomandata – appena avevo cominciato a lavorare al Phoenix – di non farne parola con nessuno e io stessa avevo scelto quella via per il bene di John e del Phoenix, per il bene di tutti quelli che andavano lì ogni giorno a tracannare birra e a bere superalcolici, sapendo di essere protetti dagli Eagles. Mi portai una mano davanti alle labbra, sapendo che comunque era troppo tardi.
«Niente Ryan, è ubriaca» cercò di giustificarmi Aria, senza però riuscirci. Dollar, in mezzo a noi due, cominciò a muoversi irrequieto, guardando prima me e poi Aria. Perché tutti ci stavano osservando, come se fossimo al centro di un teatrino? Era così grave che John non ci pagasse regolarmente ogni mese?
«Ops… forse non dovevo dirlo?». Suonava come una domanda, quando in verità volevo solo far capire ad Aria che mi dispiaceva di aver parlato troppo. Non mi ero nemmeno accorta di aver detto una cosa così importante senza nemmeno pensarci. «È uno scherzo» bofonchiai, cercando di sorridere per risultare credibile. La mascella serrata di Ryan e lo sguardo furioso di tutti i ragazzi però mi fecero capire che no, non ci credevano.

«Da quanto non vi paga ogni mese?» sbottò Ryan accendendosi nervosamente una sigaretta in attesa di una risposta. Abbassai il volto; avevo già fatto anche troppi danni, era il momento di Aria. Se dovevamo spiegare quello che succedeva dentro al  Phoenix, era meglio che fosse lei la portavoce, visto che ci lavorava da molto più tempo di me; e poi lei era la Signora di Dollar, quindi molto più intoccabile di me. Aria però non rispose: era seduta di fianco a Dollar e guardava le sue mani che si muovevano irrequiete. «Da quanto cazzo non vi paga ogni mese?» urlò Ryan battendo un pugno sul tavolino davanti a lui così forte che sussultai, spaventata. Non avevo però il coraggio di alzare lo sguardo per  guardare Ryan, doveva essere Aria a parlare.
«Da un paio d’anni. Solamente il primo anno mi ha pagato regolarmente, poi ha cominciato a saltare qualche mese; capitava ogni tanto, non mi interessava poi molto all’epoca visto che ero riuscita a mettere da parte un po’ di risparmi e non dovevo pagare l’affitto. Negli ultimi mesi – più o meno da quando è arrivata Lexi – è diventato più incostante» spiegò, interrompendosi subito dopo, come se si aspettasse che continuassi io. No, avevo davvero detto anche troppo.
«Per questo sei andata a fare quel servizio a New York? Non ti aveva pagata e non avevi i soldi per l’affitto?». Ryan si stava rivolgendo a me, ne ero sicura. Non volevo però guardalo, spaventata da quello che avrebbe potuto dire se gli avessi confessato che era per riuscire a pagare l’affitto che avevo accettato quel lavoro a New York. «Rispondi» sibilò, stringendo il pugno ancora appoggiato sopra al tavolo di fronte al divano.
«» bisbigliai, socchiudendo gli occhi, in attesa di uno scoppio da parte di Ryan. E se avesse picchiato me e Aria perché avevamo tenuto nascosta una cosa così importante? E se avessi dovuto pagarlo o qualcosa di simile? Ryan picchiò di nuovo il pugno contro al tavolo, alzandosi in piedi e gettando la sigaretta a terra per poi spegnerla con il piede quasi volesse distruggerla.
«Ryan, non è detto che…» cominciò a dire Brandon, prima di fermarsi, notando lo sguardo di Ryan: era furioso, non l’avevo mai visto così. La vena sulla fronte gli pulsava e la sua mascella era così contratta che temevo si potesse rompere. Brandon non terminò la frase, aspettando che Ryan parlasse.
«Non dire cazzate, ok? Quanto prendiamo da lui per parargli il culo? Cinquecento al mese, giusto? Non dirmi che non arriva a coprire spese e due fottute cameriere, perché non ci credo. Ci sono di mezzo loro, ci ha traditi, sta facendo il doppiogioco così ha il culo parato da entrambe le parti. Quel fottuto locale è quasi al confine, no? Ecco perché non gli hanno nemmeno storto un capello quando l’ha aperto, prima che noi ci facessimo avanti per difenderlo, era già d’accordo con loro, doppia protezione in cambio di chissà che prezzo. Andiamo da lui». Ryan si avvicinò al mobiletto vicino all’ingresso, dove di solito appoggiava la pistola appena entrato in casa. I ragazzi, spaventati, alternavano lo sguardo da lui a Brandon, in attesa di capire che cosa andasse fatto.
«Ryan, aspetta. Cerca di calmarti e poi andiamo da lui per capire quello che è successo, è Natale e probabil…». Di nuovo, Brandon non riuscì a finire la frase, interrotto da Ryan che, dopo aver caricato la sua semiautomatica, si avvicinò a lui, tenendo la pistola in mano, ad altezza uomo.
«Non me ne fotte un cazzo se è Natale o il giorno dei Ringraziamento. Anche se sta scopando con una puttana andiamo da lui e lo facciamo fuori, ok? Non si mente agli Eagles, la gente lo sa. Chi lo fa viene ucciso, è la regola. E non provare nemmeno a contestare, l’O.G. sono io e voi fate tutto quello che vi dico. Alzate quel fottuto culo e andiamo». Ryan mi faceva davvero paura: continuava a urlare gli ordini, camminando avanti e indietro in quella stanza, senza sapere bene dove andare, come se non controllasse il suo corpo. Sapevo che per lui quel tradimento era molto più grave di qualsiasi altra cosa, ma non volevo e non potevo intervenire, non quando anche Brandon non sapeva cosa fare.
«Andiamo da lui e gli chiediamo quello che è successo, ok? Non lo uccidiamo, ci facciamo spiegare perché ha reagito così». Sembrava che Brandon stesse stabilendo un patto: avrebbero appoggiato Ryan e quella sua missione solo se non ci fosse stato nessun morto. Speravo però che non picchiassero John al punto da causargli un coma.
«Muovetevi». Né sì, né no, solo un nuovo ordine, mentre tutti si alzavano dal divano per seguire Ryan che era già sul pianerottolo. Tutti tranne Dollar, ancora seduto tra me e Aria; aveva uno sguardo furioso, la sua mano torturava la gamba e riuscivo a vedere la stessa scintilla folle che avevo visto pochi istanti prima nello sguardo di Ryan. «Dollar, muoviti, non sei esente solo perché Aria aspetta tuo figlio» sbottò Ryan, tornando indietro di un passo dopo aver visto che Dollar non si era alzato per seguirli.
«Perché?» bisbigliò Dollar, rivolto ad Aria, di fianco a lui. Mi sentii improvvisamente in colpa, avevo combinato un casino solo perché non ero riuscita a tenere a freno la mia lingua, a causa di un bicchiere di troppo. Aria non rispose, lasciando solamente che una lacrima scendesse silenziosa lungo la sua guancia, mentre cercava di spiegare che non sapeva perché non ne aveva parlato. «Ne riparliamo a casa» spiegò Dollar prima di alzarsi dal divano senza nemmeno darle un bacio o salutarla. Uscì dall’appartamento chiudendosi la porta alle spalle e facendo piombare un improvviso silenzio, visto che eravamo rimaste solamente io e Aria.
«Aria… mi dispiace, io non mi sono resa conto di averlo detto, non volevo fare casini…». Non era nemmeno una giustificazione e lo sapevo, ma ero altrettanto consapevole di aver combinato un gran casino: Dollar si era arrabbiato con lei perché non aveva mai detto nulla, i ragazzi stavano andando da John e non sapevo nemmeno con che intenzioni precise, Aria era in lacrime davanti a me e io… io continuavo a torturarmi le mani, maledicendomi perché avevo bevuto troppo e combinato un casino.
«Non fa niente, avrei dovuto dirlo io. È solo che adesso sono preoccupata per loro. E se Jack non mi vuole più perché crede che io gli nasconda qualcosa? Adesso sono ancora più preoccupata per loro, è una guerra e non hanno paura di combattere. Magari Jack mi lascia perché gli ho mentito. E se non mi ama più?» singhiozzò, senza smettere di piangere. Tolsi il cuscino che stava torturando con le mani e la abbracciai, lasciando che si sfogasse un po’ prima di parlare. Ancora una volta Aria non riusciva a capire quanto Dollar la amasse, quando lui tenesse a lei e fosse pronto a difenderla.
«Aria, Dollar non ti lascerà mai, e andrà tutto bene, vedrai». Non volevo e non potevo promettere, perché sarebbe stato troppo per me vivere con il rimorso di aver promesso qualcosa di cui non ero sicura. Era anche inutile mentire ad Aria, quando – lei per prima – sapeva che Dollar rischiava ogni volta che usciva da quella porta. «Ti accompagno a casa così ti riposi, lascia stare qui, faccio io». Con un gesto del capo indicai la cucina dietro di noi: la tavola era ancora apparecchiata e c’erano i piatti sporchi da lavare, ma non volevo far affaticare Aria, soprattutto non quando era così preoccupata.
«Sei sicura?» mormorò, alzando il volto e asciugandosi una lacrima. Annuii sorridendo per rassicurarla e le diedi un fugace abbraccio, prima di alzarmi dal divano per accompagnarla a casa. Prima la portavo al sicuro, meglio mi sarei sentita. «D’accordo» sembrava quasi rassegnata, però raccolse le sue cose, prendendo la borsa per tornare a casa.
«Dai, andiamo» mormorai, aprendo la porta del 3B e aspettando che uscisse per richiuderla alle mie spalle. Accompagnai Aria a casa, fermandomi per prendere un tè assieme a lei e rassicurandola ancora una volta che non sarebbe successo nulla. Quando uscii da casa sua, nonostante l’ora tarda e le nuvole, ero così felice per la neve che non riuscivo a smettere di sorridere. Tutto era ricoperto da uno strato bianco: i marciapiedi, le strade, perfino i parchimetri, era magico. Non sentivo nemmeno il rumore del motore di qualche macchina o moto, solo un silenzio che mi rilassava e mi rendeva felice. Tornata a casa entrai nell’appartamento dei ragazzi usando la chiave che era nascosta sotto allo zerbino e, dopo aver acceso la radio perché mi tenesse compagnia, cominciai a sistemare la cucina, lavando i piatti e sparecchiando la tavola imbandita. Non sapevo nemmeno dove sistemare i segnaposti che io e Aria avevamo ritagliato quella mattina, così, per rendere l’ambiente più ospitale, li appoggiai sopra alla TV, in fila. C’erano nove Babbo Natale, ognuno con il nome di uno dei ragazzi.
«Che cazzo ci fai qui?» proruppe qualcuno, mentre rimiravo il mio lavoro. Era una voce femminile, era la voce di… mi voltai con un sospiro, guardando Butterfly in piedi davanti alla porta d’ingresso. Era sempre lei, con i suoi lunghi capelli biondi acconciati in dreadlock e il trucco pesante a incorniciarle gli occhi chiari.
«I ragazzi hanno avuto da fare e ho sistemato la cucina» spiegai, prendendo il mio giaccone e la borsa. Meno stavo nella stessa stanza di Butterfly e meglio era per entrambe. L’ultima volta che ero rimasta con lei in una stanza era stato per la festa di Dollar e Aria, e non volevo di certo ripetere l’esperienza. «Ciao Butterfly» salutai avvicinandomi alla porta. Si scostò per lasciarmi passare senza nemmeno salutarmi. Poco male, di certo sarei sopravvissuta anche senza il suo saluto, pensai infilando la chiave nella toppa per aprire la porta del mio appartamento.
«Aria dov’è?». Una voce maschile, questa volta. Una voce mi parlò alle spalle e la riconobbi subito: Ryan. Mi voltai, lasciando la porta socchiusa dietro di me e sospirando sollevata quando vidi che non aveva segni di lotta sul viso e che i suoi vestiti erano integri. Anche i ragazzi dietro di lui – ad eccezione di Dollar, che non c’era – non avevano segni di lotta evidenti. Sembrava che non fosse successo niente di grave, per fortuna.
«È tornata a casa, l’ho accompagnata io, sta bene» rassicurai tutti quanti, appoggiando la schiena allo stipite della porta dietro di me. Una parte di me voleva chiedere come era andata, se John stesse bene o meno, l’altra però aveva paura di sentire la risposta, perché sapevo che i ragazzi erano capaci di fare di tutto. «State tutti bene?» azzardai. Non era una domanda troppo indiscreta e potevano dire che anche John stava bene, così da rassicurarmi.
«Era come pensavamo, John ci ha traditi». Ryan era di poche parole e questo mi fece capire che non voleva parlarne, per questo annuii solamente, spostandomi dallo stipite e aprendo la porta per entrare a casa. Non volevo sapere e se Ryan non parlava significava che non c’era niente da sapere o niente che io potessi sapere.
Quando mi chiusi la porta alle spalle sospirai, appoggiando la schiena al legno e scivolando fino a sedermi per terra. Era sempre più difficile vivere a contatto con i ragazzi e la loro vita; mi toglieva tutte le forze in alcuni momenti, anche se in altri non potevo fare a meno di pensare a quanto ero fortunata ad averli conosciuti. Cercavo io stessa di trovare un equilibrio a quei due risvolti della medaglia, ma sapevo benissimo che c’era una parte più importante dell’altra: la corsa in moto verso il Rockefeller Center, il pattinare sulla pista di Lower Plaza, il quattro luglio a Coney Island, il giorno del Ringraziamento con loro, al 3B, l’amicizia con Aria… era tutto così vivo nella mia mente tanto da rendere tutto il resto meno importante.
 
«Come stai?» chiesi ad Aria, saltellando fuori dalla porta del Phoenix perché la neve che continuava a cadere mi aveva bagnato i capelli, anche se avevo cercato di tenerli nascosti sotto al berretto di lana. Era il giorno dopo Natale e, come stabilito un paio di giorni prima, il Phoenix l’avremmo aperto io e Aria; John sarebbe arrivato un paio d’ore dopo. Mai come quel giorno volevo vedere John, per assicurarmi che stesse bene. Lo odiavo, certo, era uno stronzo che amava farti sentire inferiore a lui non appena era da solo, ma era pur sempre un uomo e, anche se non aveva famiglia, ero sicura che qualche caro vicino a lui fosse venuto a trovarlo per Natale.
«Come vuoi che stia? Ieri sera ho litigato con Jack e siamo riusciti a chiarirci stamattina all’alba, praticamente. Non ho dormito e mi fanno male le gambe, in più al pensiero di dover lavorare per dieci ore sto ancora più male» si lamentò, aprendo la serranda e massaggiandosi la schiena. «Sono a pezzi oggi, dico davvero». Aprì la porta del locale, entrò e si sedette subito sul primo sgabello che trovò, sollevando le gambe e sospirando.
«Aria, dovresti andare a casa a riposarti un po’, sul serio. Non devi sforzarti, fai del male a tutti e due. Vai a casa, faccio io qui, non ti preoccupare, dico a John che ho preso anche il tuo posto perché non ti sentivi bene» proposi, sperando che accettasse. Non doveva affaticarsi e soprattutto era normale che si stancasse più facilmente, specialmente perché aveva passato la notte insonne, litigando con Dollar per qualcosa che avevo scatenato io.
«No, rimango, non ti preoccupare. Magari spino solo le birre e tu le servi, ok?» azzardò, sorridendo. Era uno sorriso stanco, un sorriso che non riusciva a mascherare la sua preoccupazione per diverse cose, prima tra tutti la litigata con Dollar. «No, Lexi. Lo so a cosa stai pensando. Non sono preoccupata per Jack, sono solo stanca, davvero». Appoggiò la sua mano sulla mia, stringendola appena. Volevo chiederle se era tutto sistemato, ma la porta del Phoenix si aprì e il piccolo campanello posto sul lato dello stipite annunciò che era entrato qualcuno.
«Siete qui, ragazze? Oggi vi lascio la giornata libera. Questi sono i sei mesi di arretrato che ti devo, Aria. Lexi, per te ci sono i tre mesi che non ti ho pagato e altri cinquecento dollari». Porse una busta ad Aria e un’altra a me. Riuscivo a capire perché avesse improvvisamente deciso di pagare i mesi in arretrato, ma perché mi doveva dare anche cinquecento dollari? Cosa avevo fatto per guadagnare cinquecento dollari così, all’improvviso?
«Per… perché cinquecento dollari in più?» chiesi confusa, seguendo però l’esempio di Aria e prendendo la busta che John teneva tra le sue mani. Cominciai a torturare i bordi, in attesa di una risposta guardando John sembrava indeciso, come se non volesse davvero spiegare quel particolare.
«Io… il primo giorno, quando sei arrivata, ho mandato Simon e Hugh a casa tua, per capire chi fossi. Avevo l’alibi perché stavo lavorando qui ed ero sicuro che nessuno mi avrebbe mai scoperto, in più Simon e Hugh non sono né degli Eagles né dei Misfitous, quindi nessuno avrebbe sospettato di loro. Mi dispiace, avevo bisogno di soldi per riuscire a pagare Ryan e Dead, non volevo spaventarti». C’era quasi una traccia di umanità dietro ai piccoli occhiali, dentro ai suoi occhi. Una piccola fiammella che però non riuscivo a veder crescere, perché John mi aveva presa in giro, esattamente come aveva fatto con Ryan e gli Eagles. John mi aveva chiesto come stavo dopo la rapina a casa mia e aveva lui stesso i soldi che mi avevano rubato. «Mi dispiace Lexi, davvero». Non riuscivo nemmeno a credere alle sue parole, troppo sconvolta da quella notizia. Ryan lo sapeva? Era legale per le leggi degli Eagles che qualcuno rubasse?
«Perché ci stai pagando adesso?» domandai stupidamente, forse perché speravo che la risposta che avevo pensato non fosse quella vera. Dove aveva trovato i soldi per pagare tutti quei mesi di arretrato e perché proprio il giorno dopo che Ryan e gli altri lo avevano scoperto?
«Andate a casa ragazze» ci consigliò John, cercando di sorridere. In verità sul suo volto – quel giorno ancora più tirato e stanco del solito – comparve solo una smorfia che mi fece salire le lacrime agli occhi. Era stupido, era infantile, era da idioti, eppure, forse per la prima e unica volta, vedevo John come un essere umano.
Aria uscì dal locale in silenzio e decisi di seguire il suo esempio; una volta uscita, però, la mia curiosità prevalse sul buonsenso, costringendomi a chiedere spiegazioni. «Aria, perché ha fatto così? Cosa voleva dire?». La costrinsi a fermarsi, afferrandole un braccio perché continuava a camminare senza degnarmi di uno sguardo.
«Vai a casa Lexi» mugolò, senza riuscire a nascondere gli occhi gonfi di lacrime che non sapeva trattenere. Cercai di chiederle spiegazioni, ma cominciò a camminare velocemente verso casa sua, dalla parte opposta rispetto a Whittier Street. Era… era come se tutti sapessero che stava per succedere qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa, esattamente. Di sicuro c’entravano Ryan e gli Eagles, con molta probabilità anche i Misfitous. La reazione di John mi aveva fatto capire che anche lui era in mezzo a quella situazione e, visti i risvolti del giorno prima, ero quasi convinta che lui ne fosse la causa. Tornai a casa e per tutto il giorno feci le pulizie, cercando di tenere il corpo e la mente occupati, senza però riuscirci. Nonostante non mi fossi fermata nemmeno per pranzare, non riuscivo a smettere di pensare al comportamento di John e a quello di Aria. Sicura che mi sarei confusa ancora di più, non avevo nemmeno bussato al 3B per chiedere spiegazioni, tanto non sarebbero arrivate.
Quando andai a dormire, quella sera, c’era una strana sensazione che non se ne voleva andare; sensazione che si intensificò quando, arrivata al Phoenix, notai che la serranda non era stata aperta. Dov’era John? Era il suo turno di aprire il locale. La situazione non migliorò quando notai, all’angolo della strada, una piccola folla di gente che borbottava irrequieta. Mi avvicinai a loro lentamente, non sapendo che cosa aspettarmi. «Che succede?» domandai a Peter, notando che era quello più sconvolto di tutti; se ne stava in un angolo in disparte, seduto su una pietra a qualche metro dalla folla. Le mani tra i capelli e una sigaretta tra le labbra che fumava quasi in modo isterico.
«John è dietro l’angolo. Morto. L’hanno ammazzato, ma non si capisce chi sia stato. Ha il biglietto da visita degli Eagles, ma non possono essere stati loro perché lui era un Periperhal degli Eagles. Deve essere stato qualcun altro che ha lasciato il loro biglietto da visita per incolparli». John era dietro quel muro, morto? Spalancai gli occhi, sorpresa da quella notizia; chi era stato a ucciderlo? Gli Eagles o i Misfitous che avevano mascherato la sua morte? E poi, cosa significava che John aveva il biglietto da visita degli Eagles? Qual era il loro biglietto da visita? Ricordavo che, quando JC era morto, Brandon o Ryan mi aveva parlato di quello dei Misfitous – un punto rosso in fronte – ma non mi avevano mai detto com’era il loro. «Lexi, non andare, davvero, non è un bello spettacolo». La mano di Peter sfiorò la mia per fermarmi; anche il suo sguardo mi supplicava di non andare, perché di sicuro lo spettacolo non era piacevole. Eppure ero un medico e volevo vedere quello che gli era successo.
«Sono un medico» gli ricordai, avanzando di un passo verso l’angolo e prendendo un respiro profondo. Quanto poteva essere messo male John? Quando riuscii a farmi spazio tra la folla, rabbrividii, sconcertata: il corpo di John era… «O mio Dio» mormorai, portando una mano davanti alle labbra. John era senza maglia, potevo notare il foro di un proiettile esattamente sopra al cuore, ma non era quello che mi aveva colpita: c’era un uccello stilizzato intagliato sul suo petto che non mi sconvolgeva quanto le due X incise sui suoi occhi e quella che c’era sulle sue labbra. Chi aveva fatto quei tagli non si era nemmeno scomposto; erano decisi e secchi, senza ripensamenti. Era quello il biglietto da visita degli Eagles? Disegnare con un coltello una X sulle labbra e sugli occhi e un’aquila stilizzata sul petto solo dopo averlo ucciso con un colpo di pistola?
«Che cazzo ci fai qui?». Qualcuno strattonò il mio braccio, costringendomi a indietreggiare spintonando la folla che non si voleva allontanare da quello spettacolo così macabro. Ryan mi fece attraversare la strada, allontanandomi da tutti, anche da Peter, che continuava a guardarci. «Va a casa subito» ordinò, senza lasciare il mio braccio ma, anzi, stringendo di più la presa.
«Siete stati voi?». Un sussurro, perché quello spettacolo aveva davvero messo a dura prova i miei nervi da medico. Nemmeno quando arrivavano all’emergenza i ragazzi che perdevano gli arti a causa di qualche incidente in moto avevo reagito in quel modo, forse perché quello che avevo appena visto era un gesto barbaro.
«Vai a casa» ripeté, quando vidi avvicinarsi a noi Brandon e gli altri. Cercai di chiedere di nuovo se erano stati loro a ucciderlo, ma Ryan non mi lasciò parlare, interrompendomi: «Non ti interessa sapere chi è stato, va a casa e dimentica tutto quello che hai visto, fingi che siano stati i Misfitous se ti fa stare meglio». Era un’ammissione, esattamente come se avesse appena detto che erano state le sue dita a impugnare il coltello che aveva inciso sulla carne di John, come se fosse stato il suo indice a premere il grilletto della pistola che gli aveva puntato al petto.
Così era stata opera degli Eagles, per spaventare i Misfitous o per ricevere più attenzioni? Era perché così più persone sarebbero corse a farsi proteggere da loro o c’era anche qualche altro motivo? Perché, di sicuro, quella era una battaglia di cui tutti sapevano l’esistenza, ma era una guerra con strategie segrete che pochi conoscevano. Io ero una di quelli.
 
 
 
 
 
Ragazzuole buongiorno! E alle maturande… in bocca al lupo! :)
Dunque, prima di tutto: il titolo. “All chickens come home to roost” equivale al nostro “Tutti i nodi vengono al pettine” e mi riferisco alla questione “rapina all’appartamento di Lexi”. Si sapeva? Non si sapeva? Si era capito? Non si era capito? Avevo lasciato indizi sparsi, alcune di voi avevano capito che erano stati i due ragazzi, altre avevano supposto che fosse stata opera di John, ma nessuna (mi pare) aveva unito le due cose. Forse qualcuno aveva ipotizzato che John fosse invischiato con i Misfitous, ma avevo volutamente lasciato cadere l’argomento “ladri” per non dare troppi indizi.
Ma passiamo al capitolo! Per quanto riguarda la prima parte, la reazione dei ragazzi alla notizia di Dollar e Aria… be’, io lo ammetto, lì, per la prima volta, sono riuscita a farmi piacere Ryan, non chiedetemi il motivo perché non credo di saperlo spiegare.
Per quanto riguarda il “biglietto da visita” degli Eagles… ci ho pensato tanto. Avevo un’alternativa ancora peggiore, lo ammetto, poi ne ho scelto una molto macabra, ma meno “forte”. Rimane il fatto che è comunque una cosa molto più barbara rispetto ai Misfitous che fanno solo un punto rosso sulla fronte. Questo, ancora una volta, per ricordarvi che gli Eagles non sono buoni, semplicemente Lexi sta  cercando di vedere il loro lato migliore.
Bene, spero di essere riuscita a incuriosirvi con la parte finale, aumentando un po’ il livello di adrenalina e… niente, ringrazio preferiti, seguiti e da ricordare che hanno raggiunto un traguardo tondo tondo che non mi sarei mai aspettata. Ringrazio anche le tantissime persone che ogni volta commentano i miei capitoli, aiutandomi a capire se sono riuscita a confondervi o meno! :P
Come sempre, per chi volesse spoiler, foto e capire quanto rompo le balle, questo qui è il mio gruppo: Nerds’ corner.
A presto (farò comunque sapere nel gruppo quando aggiorno con anticipo).
Rob.

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Capitolo 16
*** Romeo & Juliet ***


YSM
 
 
«Non ci pensare Lexi, più ci pensi e più fa male. John non meritava le lacrime di nessuno di noi, soprattutto le tue per quello che ti ha fatto e per il modo in cui si è comportato con te al Phoenix». Quante volte avevo sentito questa frase ripetuta da Aria, nella settimana dopo la morte di John? Troppe, forse, ma non riuscivo ancora a indossare la maschera di indifferenza che sembrava tutti gli Eagles condividessero. Come se non fosse successo nulla, continuavano a comportarsi normalmente; niente lacrime, un funerale a cui avevo partecipato per correttezza e dove mi ero accorta di quanto il Bronx potesse essere freddo e inospitale. La neve che ricopriva tutte le lapidi di fianco a noi, il pastore, io, Aria e Peter e qualche Eagles in lontananza, per ricordare che  loro c’erano nonostante il gesto di John, nonostante la sua morte.
Non avevo chiesto nessun tipo di conferma o smentita a Ryan, non sapevo se fosse stata la sua mano quella che aveva premuto il coltello contro John e l’aveva ucciso e, forse, non volevo nemmeno saperlo. Non mi interessava se era stato Ryan, Brandon, uno dei ragazzi o i Misfitous. Volevo rimanere fuori da quell’aspetto della loro vita e ci sarei riuscita.
«Merda» sbottai, strappando l’ennesima pagina di giornale. Possibile che nessuno cercasse una cameriera, una commessa o qualsiasi altra mansione che non comprendesse un palo e un night club? Sembrava che nei dintorni cercassero solo esperte ballerine o esperte massaggiatrici. Cominciai a scorrere l’elenco della pagina successiva quando qualcuno bussò alla porta del mio appartamento. Di certo non poteva essere Ryan, visto che non avevano cercato di buttare giù la porta a calci. Chi poteva essere?
«Lexi, apri» strillò Aria, bussando con più insistenza. La sentii lamentarsi con qualcuno a bassa voce e, quando aprii la porta, trovai lei davanti a Sick, Ryan, Brandon e Dollar che si immobilizzarono, guardandomi. «Stai bene? Sembri sconvolta, guarda i tuoi capelli, Lexi» mi sgridò Aria, senza lasciarmi il tempo di reagire. «Andiamo, muoviti, esci con noi. Vai a vestirti, che sembra tu abbia l’influenza». Indicò i pantaloni grigi della tuta che indossavo, legati in vita con un elastico per capelli, e la maglia di Edge; quella che mi aveva regalato dopo il nostro primo concerto al liceo, dove avevo preso la prima sbronza. Tornando a casa al mattino avevo salutato i miei genitori con uno «Yo» che mi aveva smascherata subito.
«Che cos’hanno i miei vestiti che non va? E poi non ho tempo di uscire con voi, devo trovare un lavoro, altrimenti non riesco a pagare l’affitto» spiegai, raccogliendomi i capelli con l’elastico che avevo al polso e tornando a sedermi sulla sedia, dopo aver appoggiato il mento al ginocchio. Sentivo gli sguardi dei ragazzi su di me, così misi il tappo all’evidenziatore giallo che tenevo tra le mani e, dopo aver sospirato, alzai lo sguardo, guardandoli a uno a uno. «Si può sapere che c’è?» sbottai, rivolgendomi infine ad Aria, che mai come in quel momento sembrava aver preso il posto di O.G. degli Eagles, sostituendo Ryan, di fianco a lei.
«Andiamo a prendere la cameretta, vogliamo che ci sia anche tu con noi; ci sono tutti gli amici di Jack e io voglio te». Questo era un colpo basso. Non poteva puntare sul senso di colpa per costringermi a uscire di casa con loro, no. Sapeva che avrei accettato se mi avesse posto la questione sotto quel punto di vista. Alcune volte odiavo Aria e il suo stupido modo di convincere le persone. «Dai Lexi, potresti accompagnarci, no? Se non mi accompagni non sei mia amica». Incrociò le braccia sotto al seno, fingendosi arrabbiata. Cercai di trattenere un sorriso, sapendo che in pochi minuti mi sarei alzata e li avrei seguiti, ma l’idea di vedere fino a che punto Aria fosse disposta a spingersi per costringermi a seguirla mi divertiva, così cercai di non ridere senza distogliere lo sguardo dal suo, in silenzio. «Fallo per il tuo nipotino… così potrai dirgli che anche tu sei andata a comprare la camera per lui». Unì le mani poco sotto al mento, in un gesto di preghiera. Stavo per mettermi a ridere, ma Sick, con una sua battuta, non mi permise di farlo.
«Lei. Sarà una lei, cazzo. Se è un lui non va bene. Lei, Ariel. Assomiglierà ad Aria, d’accordo? Tutta sua madre, se poi volete metterci un paio di taglie in più per delle tette esplosive, be’, fate pure, ma non deve avere niente di simile a me qui in basso. Non può essere un uomo». Era davvero arrabbiato, teneva a quella causa in una maniera assoluta. Tutti quanti – Aria e Dollar compresi – cominciammo a ridere mentre mi alzavo per andare in camera a vestirmi per uscire: era il due di gennaio e faceva ancora freddo, la neve caduta a Natale e durante i giorni successivi non si era sciolta nonostante le strade e i marciapiedi fossero percorribili. Infilai una felpa e un paio di jeans e, dopo aver preso il cappotto che tenevo appeso nell’armadio in camera, corsi in cucina a prendere gli scarponcini.
«Dai Lexi, sei lenta come una lumaca» si lamentò Dollar. Alzai lo sguardo meditando per qualche secondo di lanciargli il secondo scarponcino addosso. Ci pensò Aria a punirlo. Caricò il suo braccio, lasciando che il gomito sprofondasse nello stomaco di Dollar che si lamentò con un gemito. «Scusa, Lexi». Trattenni una risata, scuotendo la testa e indossando anche l’altro scarponcino, poi, dopo essermi alzata, aspettai che i ragazzi uscissero, sperando di poter capire perché Aria mi volesse con sé. Non riuscii a parlarle però, visto che continuava a rimanere di fianco a Dollar, ridendo e scherzando con lui. Tra le varie battute, sentii Dollar ridacchiare con Aria, dicendole che la sua pancia cominciava a ingrossarsi – cosa non vera tra l’altro – e prontamente vidi lei rispondere con un pizzicotto sul suo braccio.
Camminavo silenziosa di fianco a Brandon, appena dietro Sick e Ryan che stavano parlando di un certo Night, rinchiuso in qualche carcere. Sembrava che lo conoscessero, anzi, che fosse addirittura uno degli Eagles, ma non capivo perché continuassero a parlare di sanzioni; così, cercando di placare la mia curiosità e sperando di non essere sentita da Ryan, mi avvicinai di più a Brandon, sorridendogli.
«Brandon, chi è Night? E cosa sono le sanzioni?». Ryan, si accorse del mio interesse e fece un passo indietro, ghignando. Si frappose tra me e Brandon che si affiancò a Sick davanti a noi; continuarono a guardare me e Ryan, come se si aspettassero una sua spiegazione e la mia reazione. Era qualcosa di brutto come… come quello che era successo a John? Perché avevo sepolto nella parte più profonda della mia memoria la visione del suo corpo, di quelle croci e dell’aquila stilizzata; non volevo ricordare, altrimenti non sarei riuscita a rimanere di fianco ai ragazzi, troppo spaventata. Così, il mio cervello aveva scelto la soluzione più naturale: dimenticare per non impazzire.
«Sai, lentiggini… alcuni di noi sono in prigione – a dire la verità ci siamo stati tutti – ma quelli che rimangono dentro… hanno bisogno di protezione. Lì dentro, tra quelle mura, più che fuori, devono avere la sicurezza di avere il culo parato, non si può essere da soli, altrimenti non resisti nemmeno un giorno e ti fanno secco. Quando qualcuno fa qualcosa di male, l’altro componente della banda applica una sanzione. Di solito consiste solamente nel picchiare per qualche minuto, niente di macabro o barbaro». Niente di macabro o barbaro, certo. Cosa poteva essere paragonato a quello che era successo a John? Rabbrividii, ripensando a quelle croci e al corpo morto. «Qui al Vernon C. Bain Correctional Center naturalmente ci siamo passati tutti. Night e un altro paio di Hard Cores degli Eagles sono dentro, così, quando si annoiano decidono di fare queste sanzioni, niente di preoccupante» ripeté Ryan, facendomi saltare i nervi. Presi un respiro profondo, pronta a esplodere e liberare tutto quello che avevo tenuto dentro per una settimana dopo la morte di John.
«Niente di preoccupante, vero? Perché per te non è mai niente di preoccupante, no? Voglio dire vai in giro a incidere aquile e croci sui cadaveri a cui prima hai sparato e non è niente di preoccupante una rissa. Lo capisco, davvero» terminai sarcastica, sibilando il mio sconcerto con un tono bassissimo di voce. Le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni stretti per trattenere la rabbia di fronte a Ryan…
«Una settimana, hai resistito molto, lentiggini. I tuoi nervi sono d’acciaio. Vorrei spiegarti che no, le croci sugli occhi e sulle labbra non sono un simbolo della nostra firma, non siamo così barbari. Quello è il simbolo per indicare i traditori, quelli che hanno visto qualcosa e poi l’hanno riferito a chi non dovevano. Occhi, labbra. La firma degli Eagles è semplicemente l’aquila stilizzata e la pallottola per ucciderli prima, esattamente come il punto rosso dei Misfitous». Si era acceso una sigaretta, fumando in mezzo al marciapiede senza curarsi delle persone che ci superavano lanciandogli sguardi spaventati. Le croci non erano la firma degli Eagles? Certo, ma loro le avevano incise, quindi non cambiava poi molto, erano sempre dei barbari sadici.
«Ma sei stato sempre tu a fare quelle incisioni, sapere che non è la vostra firma non cambia» mormorai, tenendo lo sguardo basso. Sapevo che Ryan, Brandon, Sick, Aria e Dollar stavano tutti osservando ogni mio minimo movimento per intuire le mie mosse, per questo cercavo di non dar loro modo di capire a cosa stavo pensando; non volevo che comprendessero quanto fossi spaventata da tutto quello.
«Io? Io ho fatto quelle incisioni?» sbottò, incapace di trattenere una risata e lasciando che una nuvola di fumo uscisse dalle sue labbra, dissolvendosi nel cielo grigio, sopra di noi; «ci sono così tante cose che non sai lentiggini… non basterebbero due giornate per spiegare tutta la vita di un Eagles». Scosse leggermente il capo, senza nemmeno guardarmi. Lo sguardo assente – distante chilometri e anni – fece accendere una fiammella dentro di me; la stessa che si era spenta la mattina dopo Natale, all’incrocio dopo il Phoenix. Non era stato lui a uccidere John? Non era morto per mano degli Eagles? E allora chi era stato a simulare la loro firma? Perché non avevano detto niente per discolparsi?
«Ma allora…» bisbigliai, cercando di formulare una domanda a cui potessero rispondere. Come temevo però, Ryan mi fermò, scuotendo di nuovo il capo e spegnendo definitivamente la sigaretta per terra.
«No, non sono cose che ti interessano. Il massimo che puoi sapere è la questione delle sanzioni in carcere e i sei minuti senza protezione, niente di più». Con un gesto del capo indicò a Brandon di seguirlo; voleva continuare a camminare verso il negozio di mobili, probabilmente per ritornare a casa il prima possibile. Guardai Aria, sperando che potesse parlarmi dei sei minuti senza protezione, ma era troppo impegnata a sogghignare con Dollar e non volevo disturbarla, non quando sembravano così affiatati e complici. Brandon era impegnato a parlare con Ryan e, visto il suo sguardo grave, non si trattava di certo di sciocchezze. Mi rimaneva una sola alternativa…
«Sick, cosa sono i sei minuti senza protezione?». Non sapevo perché, ma temevo che non fosse proprio una passeggiata e il fatto che ci fosse quel “senza protezione” non mi piaceva per niente. Che si picchiassero barbaramente con coltelli e altre armi senza che nessuno potesse difenderli? Sick abbassò lo sguardo verso di me, sorridendo lascivo. Che cosa gli avevo chiesto?
«Cosa stai cercando di dirmi Lexi, che vorresti fare i 7 minuti in paradiso con me? Tranquilla, me ne bastano tre per te» sogghignò, ammiccando. Mi allontanai di un passo da lui, causando le risate di Aria e Dollar. Potevano prendermi in giro quanto volevano, ma non mi fidavo di Sick, soprattutto quando cominciava a parlare utilizzando doppi sensi e allusioni sessuali. «Non preoccuparti Lexi, ti spiego cosa sono questi sei minuti senza protezione. Semplicemente uno picchia l’altro, senza che lui possa controbattere. Come se io picchiassi… che ne so, Doll per sei minuti, senza che lui possa portarsi le mani davanti al viso per coprirsi, chiaro?». Alzò leggermente le sopracciglia, sperando di essere stato esauriente. Annuii. Avevo afferrato immediatamente la sua spiegazione, grazie soprattutto al chiaro esempio. La trovavo un’altra tecnica barbara, esattamente come tutto quello che riguardava le gang, ma non fiatai. «Bene, ora ti spiego cosa sono i tre minuti in paradiso con Sick, poi comincerai a capire a chi si è ispirata quella scrittrice inglese per il Signor Gray. È tutto vero, tutto vero». Fece l’occhiolino di nuovo, senza smettere di sorridere. Ok, Sick mi faceva davvero paura, non volevo nemmeno chiedergli come facesse a conoscere quel libro, ma non mi interessava di certo, non se stavo parlando con Sick.
«Sick, dacci un taglio, fai paura» sogghignò Aria, stringendo di più il suo braccio attorno alla vita di Dollar; lasciò che lui le scompigliasse i capelli, lamentandosi con un morso alla spalla. Di sicuro avevano risolto dopo la litigata la notte di Natale. Mi faceva davvero piacere rivederli complici e scherzosi perché, in qualche modo, mi sentivo meno in colpa.
«E comunque, vorrei solo annunciare che stanotte ho sognato Claire. Anzi, ho sognato che eravamo al liceo, quando ci chiudevamo nello stanzino delle scope. Vi ricordate ragazzi? Ryan, ricordi quando Kristin, la ragazza di Mike dei Misfitous ha aperto la porta dello stanzino e poi è corsa a spifferare tutto al professor Shoes che ci ha sospeso per una settimana solo perché stavamo trombando? Che stronzo! Solo perché lui non aveva istinti ed era geloso. Non è mica colpa mia se era così brutto da non aver trovato nessuna che gliela potesse dare» concluse, facendo spallucce come se fosse una cosa ovvia. Non riuscii a trattenere una risatina divertita dallo strano modo di Sick di catalogare le persone. «E poi stanotte mi sono ricordato delle tette di Claire; potrei chiamarla, per vederci mezz’oretta, così, senza impegno, una trombatina» mormorò, soprappensiero. Stava decidendo cosa fare, come se parlasse tra sé e sé, senza ricordarsi che c’eravamo anche noi di fianco a lui.
«Sick, ma non è sposata? Non abita in Italia?» domandai, ricordando quello che aveva detto Brandon seduto su quel vecchio tronco, a Coney Island, il quattro di luglio. Ricordavo perfettamente che mi aveva consigliato di non nominare mai Claire, visto quello che aveva causato a Sick, lasciandolo; ma non credevo ci fossero problemi, visto che era stato proprio lui a parlarne per primo.
«Certo, ma mica sono geloso. E poi quello lì l’ha conosciuto dopo di me. Sai come si dice, no? Il primo trombato non si scorda mai». Si accese una sigaretta, allungando il pacchetto per chiedermi se ne volessi una anche io; declinai l’offerta, incapace di nascondere un sorriso divertito dalle battute stupide di Sick. Se appena arrivata credevo che il problema di Sick non fosse una cosa normale, più passava il tempo più capivo che lui, con il suo chiodo fisso per il sesso e per il porno, era esattamente come tutti i ragazzi della sua età – se non fosse stato per quello sguardo da pazzo.
Procedemmo in silenzio per qualche altro isolato, e io continuavo a tenere lo sguardo basso per non incontrare quello degli altri Eagles, visto che avevo ancora paura a rimanere da sola con loro, dopo la scoperta del corpo di John. All’improvviso un ragazzo urtò Aria, vicina a me, spintonandomi subito dopo. «Ehi stronzo, sta attento» sbottò Dollar, attirando l’attenzione di Ryan, Sick e Brandon che subito si voltarono per controllare che cosa fosse successo. Probabilmente il ragazzo aveva perso l’equilibrio, perché, dopo essersi calato il cappuccio in testa, girò verso destra per attraversare la strada. «Stai bene?» chiese subito Dollar ad Aria, assicurandosi che entrambi non si fossero feriti.
«Aria, sei una puttana» strillò il ragazzo, senza smettere di camminare. Ma che cosa stava succedendo? Guardai Ryan, immobile di fianco a me: la mano dietro alla schiena, come se fosse pronto a prendere la pistola che – sicuramente – aveva con sé. Brandon non sembrava molto più rilassato di Ryan, si avvicinò di un passo a lui, senza perdere di vista il ragazzo, ora in mezzo alla strada. Sick si accostò ad Aria, sorpassandola e facendole da scudo con il proprio corpo.
«Senti, pezzo di merda, non dici alla mia Signora che è una puttana, soprattutto perché aspetta mio figlio, hai capito?». Dollar cominciò a camminare per raggiungere il ragazzo e Ryan, di fianco a me, si immobilizzò ancora di più; non respirava nemmeno. Temevo che sparasse a quel ragazzo solo perché aveva offeso Aria, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo da Dollar e dalle sue gambe che si avvicinavano sempre di più a lui.
«Doll, non fare cagate» lo ammonì subito Ryan, con un tono di voce che assomigliava a un ordine. Dollar si girò verso Ryan con uno sguardo furioso; sapevo cosa voleva dire: quel ragazzo aveva offeso Aria e avrebbe pagato quella sua brutta condotta. Un pugno? Una ferita? Non sapevo che cosa aspettarmi, ma sapere che Ryan non si stava muovendo e lasciava a Dollar la decisione di tutto in qualche modo mi sollevava; ero sicura che Dollar non fosse cattivo come Ryan. Dollar raggiunse il ragazzo, urlandogli contro di girarsi senza però ottenere alcun risultato.
«Jack, lascia stare dai, non fare lo scemo». Aria appoggiò le mani sul braccio di Sick, tendendosi in avanti perché Dollar potesse sentire la sua voce, nonostante non fosse tanto vicino. Poi, il ragazzo che aveva offeso Aria, tirò fuori una pistola dalla tasca della felpa nera che indossava e la puntò contro il viso di Dollar che si fermò all’improvviso, rischiando di scivolare per terra perché la neve sulla strada si era trasformata in ghiaccio a causa del freddo. «Jack» strillò Aria, correndo veloce verso di lui tanto che Sick non riuscì a raggiungerla. Il bracciò del ragazzo si spostò, lasciando che il mirino della pistola deviasse su un altro obiettivo: Aria.
Non riuscii nemmeno a urlare, perché il rumore di due spari risuonò, facendomi bloccare il respiro.
«Cazzo» sbottò Ryan, prima che io venissi scaraventata a terra. Mi aspettavo di sbattere il capo contro l’asfalto freddo, ma qualcosa di caldo si frappose fra la mia tempia e il terreno, proteggendomi. Un respiro caldo e spezzato che si infrangeva contro la mia guancia e il peso e il calore di un corpo sopra al mio a proteggermi. «Doll, resisti» strillò Ryan. Il suo respiro smise di infrangersi contro il mio viso e per un attimo strinsi le palpebre più forte, temendo il peggio fino a quando sentii il corpo di Ryan muoversi ancora contro di me. Solo in quel momento tornai – con tanta fatica – a respirare. La mano che prima era appoggiata alla mia fronte si spostò fino alla mia nuca, in modo che non potessi alzare il volto; non ci pensavo nemmeno, soprattutto quando sentii dei colpi vicino a me: il fischio della pallottola che veniva sparata e il braccio di Ryan che si muoveva per il rinculo. «Sick, Brandon, sparate cazzo» urlò Ryan, senza smettere di sparare. Non riuscivo nemmeno a contare i colpi, ma di sicuro erano più di dieci; tanto che, all’improvviso, cominciò a sparare a vuoto. Non sentivo più il rumore degli spari, solo dei colpi a vuoto, come se non ci fossero più proiettili. «Cazzo» sbottò Ryan, sbattendo qualcosa a terra, poco distante dal mio volto. «Doll sei vivo?» urlò di nuovo, irrigidendosi in attesa di una risposta. Sentii la sua presa sul mio capo farsi più forte e di nuovo il suo respiro che si infrangeva contro la mia guancia. Poi, di colpo, gli spari terminarono, separandomi dal fiato caldo di Ryan e dalla sua presa. «Stai bene?» domandò stringendo il mio mento tra il pollice e l’indice e forzandomi a girare il volto per controllare come stessi. Aprii gli occhi lentamente trovandomi lo sguardo di Ryan molto più vicino di quanto mi aspettassi e, capendo di non aver voce, annuii debolmente. «Sta qui. Non muoverti» ordinò, alzandosi in piedi velocemente e correndo verso la strada davanti a noi.
Mi misi a sedere, cercando di capire cosa fosse successo; c’era qualcuno disteso a terra poco distante da Ryan, ma non era lui quello accerchiato. Mi alzai e corsi velocemente verso Ryan, Sick e Brandon, tutti chini su Dollar; aveva la maglia intrisa di sangue e si muoveva appena.
«Hai… visto? Ne ho ucci…so u…no» scherzò, cercando di sorridere. Sgranai gli occhi notando i cinque fori sul suo petto e cercai di riprendermi frugando in borsa e digitando il numero dell’emergenza dell’ospedale e, tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla, mi inginocchiai davanti a Dollar che cercò di regalarmi un sorriso, mostrandomi quando la sua bocca fosse piena di sangue.
Emorragia.
Cazzo.
«Mi serve un’ambulanza ad Halleck Street, subito dopo l’incrocio con Randall Ave, in direzione opposta a Edgewater Rd. C’è un ferito da arma da fuoco grave». Riattaccai, lanciando il telefono dietro di me e prendendo la maglia di Dollar per strapparla. Non mi interessava nemmeno del suo sangue sulle mie mani, impegnata com’ero a premere la stoffa nei due fori più vicini al cuore per cercare di rallentare l’uscita di tutto quel sangue.
«Aria?» soffiò Dollar, cercando di alzare il capo senza riuscirci. Mi gelai per un secondo, fermandomi con le mani sporche a mezz’aria, prima di guardare Ryan che capì, affiancandosi a me e aiutandomi a premere sul petto di Dollar.
«Aria sta bene, è qui vicino. Il colpo l’ha solo sfiorata» mentì probabilmente, senza farlo capire. Sentii Dollar rilassarsi sotto al mio tocco, felice per quella notizia; mi ripresi, tornando a premere con tutta la mia forza sulle sue ferite, concentrandomi sui suoi grandi occhi verdi che sembravano spegnersi a ogni istante che passava. La sua cicatrice contratta per il dolore e l’espressione di sofferenza che lo colpiva a ondate.
«La… il… bimbo?» domandò, sforzandosi di far uscire un suono dalle sue labbra. Se non fossi stata così vicino a lui probabilmente non l’avrei nemmeno sentito, visto che era un bisbiglio appena udibile. Non guardai nemmeno Ryan, troppo timorosa di dire che Aria non era lì di fianco a lui, lasciando che fosse proprio Ryan a spiegare come Aria e il suo bambino stessero.

«Stanno bene. Sick è con loro. Sta zitto adesso» ordinò, la voce leggermente incrinata. Dollar fece di nuovo quella smorfia che doveva assomigliare a un sorriso, lasciando che un rivolo di sangue scendesse dalle sue labbra, sporcandogli il mento giù, verso il suo collo. Chiuse gli occhi lentamente, senza riaprili. «Doll, coglione vedi di non chiudere gli occhi o ti tolgo il flag. Doll!» urlò Ryan, strattonando il corpo di Dollar e prendendo il volto tra le sue mani per agitarlo. «Doll, cazzo». Lo scossone che gli diede fece ciondolare il capo di Dollar, che però non lo ascoltò, tenendo gli occhi chiusi. «No» sbottò Ryan, senza smettere di muovere il corpo di Dollar. Avvicinai solo una mano, prendendo il polso freddo di Dollar e chiudendo gli occhi, quando non sentii il battito.
«Ryan» mormorai, lasciando che le lacrime cominciassero a scorrere lungo le mie guance. Ryan non mi ascoltò, portandosi una mano tra i capelli e sporcandoseli di sangue. «Ryan» tornai a dire, appoggiandogli la mano sul braccio per fermarlo. Le mani di Ryan lasciarono il volto di Dollar e il suo sguardo incontrò il mio per un secondo, prima che prendesse tra le mani la pistola di Dollar, avvicinandosi al ragazzo che aveva insultato Aria.
Era in mezzo alla strada, ferito a una gamba. Stava cercando di andarsene senza farsi notare, ma non era riuscito a fuggire, perché costretto a strisciare a terra.
«Chi cazzo vi ha mandato?» strillò Ryan, inginocchiandosi di fronte a lui e puntandogli la pistola in mezzo alla fronte. Il ragazzo cominciò a piagnucolare, abbassando lo sguardo quando la mano sinistra di Ryan si strinse a pugno sul suo giaccone. «Dimmi chi cazzo ti ha mandato e ti risparmio la vita». Uno strattone più forte e il suo pollice che caricava la pistola, in un chiaro avvertimento: se non avesse risposto Ryan gli avrebbe sparato in fronte, uccidendolo. «È stato Dead?» domandò. Non riuscivo a smettere di guardare Ryan e la sua furia, perché se l’avevo sempre visto arrabbiato, anche quando era successo qualcosa di grave – come la morte di JC o di John – non mi ero mai accorta di quanto potesse essere minaccioso. «Rispondi, cazzo. È stato Dead?». Spostò la pistola dalla fronte alla tempia del ragazzo, facendomi vedere lo stampo che la canna dell’arma gli aveva lasciato sulla fronte da quanto Ryan aveva premuto.
«Sì… sì» piagnucolò il ragazzo, senza nemmeno nascondere quanto la sua voce tremasse per la paura di morire e cominciando a piangere. Cercò di ritrarsi, scivolando indietro, ma Ryan non lasciò la presa sul suo giaccone, costringendolo ad avvicinarsi di colpo a lui, tanto che i loro nasi si sfiorarono.
«Ti lascio vivo solo perché devi riferire un messaggio, pezzo di merda. Hai ucciso una donna e un bambino, hai ucciso uno degli Hard-Cores degli Eagles. Di’ a Dead che la guerra è iniziata, e non ci fermeremo fino a quando l’ultimo fottuto Misfitous non sarà sepolto sei metri sotto terra, con un’aquila intagliata sul petto. Non vi spareremo nemmeno prima, dovrete soffrire, pezzi di merda». La sua voce era bassa ma così tagliente che sembrava potesse uccidere solo con le parole. «Torna da lui e riferisci il messaggio, o ti troverò e ti ucciderò prima di loro». La pistola si abbassò fino al ginocchio, dopo di che, Ryan premette il grilletto, spaventandomi. Il ragazzo urlò per il dolore, piegandosi in avanti e portando le mani sulla gamba.
«Ryan, che cazzo è successo?». Quando mi voltai, trovai Mike – il poliziotto che mi aveva arrestata – a qualche metro da noi, guardava verso il ragazzo che si allontanava strisciando; poi, quando il suo sguardo si posò su Dollar, di fianco a me, lo vidi sgranare gli occhi mormorando: «Oh, cazzo» quando si accorse della pozza di sangue che circondava il suo corpo.
Mi guardai attorno, in cerca di Aria, credevo di trovarla ferita, magari con Sick al suo fianco, ma mi sbagliavo. Aria era distesa in mezzo all’asfalto, senza nessuna protezione. «Aria» mormorai, sentendo lentamente i brividi ricoprirmi il corpo a mano a mano che il mio cervello cominciava a collegare tutti i punti; spostavo lo sguardo da Aria a Dollar, incapace di muovermi, incapace di dire qualcosa. Lasciavo solo che le lacrime scendessero, pensando che non era possibile che fossero entrambi immobili su quella strada, distesi sull’asfalto e ricoperti di sangue, perché nessuno poteva morire così. Chi li aveva uccisi non poteva avere un cuore, nessuno, nemmeno il killer più spietato uccideva due ragazzi così giovani e innamorati l’uno dell’altra assieme. Nemmeno Shakespeare aveva sacrificato la vita di Romeo e Giulietta assieme, era stata Giulietta a decidere di morire perché troppo vile. Ma non era una favola, non eravamo a Verona e non c’era nessuna pozione magica che avrebbe potuto riportarli in vita entro qualche ora. Perché non era come Romeo e Giulietta; Giulietta era stata una codarda e aveva deciso di morire perché non credeva di saper vivere senza Romeo, non immaginava una vita senza quel ragazzo che le aveva conquistato il cuore in una sera. Aria… lei aveva lottato per salvare il suo amore, se ne era fregata della morte e l’aveva difeso, probabilmente avrebbe preferito morire al posto di Dollar. Era diverso, Giulietta era una vigliacca, non si era nemmeno impegnata per provare a vivere senza Romeo; Aria si era impegnata per far vivere Dollar senza di lei, fallendo. E non riuscivo a smettere di piangere, vedendo il suo corpo disteso sull’asfalto innevato, le mani ancora a proteggere la sua pancia, il suo, il loro bambino. L’ultimo disperato tentativo di salvare la vita che cresceva dentro di lei, quando si era accorta che la pistola si era spostata, cambiando obiettivo. Forse Aria aveva deciso che Dollar si sarebbe potuto costruire una vita senza di lei, per questo aveva corso quel rischio. Dollar invece non aveva finto nessuna morte per ingannare; aveva lottato fino allo stremo, lo dimostravano i fori di proiettile sul suo petto e il suo viso ancora distorto dal dolore che gli avevano provocato. Lo dimostrava la piccola macchia rossa sull’asfalto, all’altezza delle sue labbra, perché del sangue era colato dalla sua bocca. Dollar e Aria avevano lottato senza arrendersi, fino alla fine; si erano sacrificati l’uno per l’altro senza pensare che sarebbe stato inutile. Non come Romeo e Giulietta; eppure il risultato era lo stesso. Feci un passo verso di Aria, allungando la mano per spostarle una ciocca di capelli dal viso che non riusciva a farmi vedere le sue labbra piene, socchiuse; ma sentii le gambe cedere e mi ritrovai inginocchiata davanti a lei, troppo vicina al suo volto da non poterne sopportare la vista, perché un flash mi colpì, scambiando per un attimo il suo volto con quello di Soph. Un singhiozzo sfuggì alle mie labbra e lasciai che le lacrime offuscassero la mia vista. C’era una sola costante tra l’incidente di Soph ed Edge e quello che era successo ad Aria e Dollar: io. Ero io che causavo la morte delle persone che mi stavano vicine, ero io la causa di tutto.
«Alexis…» chiamò qualcuno che non riuscii a vedere. Mi sentii sollevare da terra, un braccio mi strinse le spalle e l’altro scivolò sotto alle mie ginocchia. Istintivamente appoggiai il capo al petto di chi mi stava sorreggendo e non riuscii a trattenere un singhiozzo più forte degli altri, seguito subito da un altro. Strinsi il tessuto di pelle con la mia mano, aggrappandomi forte e chiudendo gli occhi. Era impossibile rimanere così: l’immagine di Aria e Dollar stesi a terra e ricoperti di sangue continuava a riproporsi, causandomi una sensazione fastidiosa che mi fece gemere tra un singhiozzo e l’altro. «Alexis, calma» mormorò la stessa voce di prima, stavolta vicina al mio orecchio. Non ero nemmeno sicura appartenesse a Ryan, anche se mi sembrava di scorgere il suo viso preoccupato a pochi centimetri dal mio, nonostante le lacrime mi impedissero di vedere chiaramente quello che stava succedendo attorno a me.
«Sono morti» gemetti, portandomi una mano al petto; lì dove faceva più male di tutto. Lì, dove avevo riservato a loro uno spazio importante e dove ci sarebbe stato – per la seconda volta – un vuoto. Sentivo il mio corpo tremare, ma non riuscivo a controllare i muscoli, era come se non riuscissi a ordinare a me stessa di rimanere ferma, come se l’unica parte di me che obbediva fosse il mio cervello, che mi stava dicendo una cosa sola: “è colpa tua”. Perché lo era, per la seconda volta a causa mia era morto qualcuno.
«Alexis, guardami» ordinò la stessa voce di prima. Doveva essere Ryan, per forza. Nessuno dava ordini tranne lui. Nessuno aveva il cuore di pietra e riusciva a non piangere, tranne lui. Cercai di alzare il capo dalla sua spalla, ma era difficile; non riuscivo ancora a muovermi, così appoggiai la fronte sul suo collo, cercando di sollevarmi, con lentezza. Quando incontrai i suoi occhi chiari vicino ai miei, mi sentii in dovere di dirgli la verità.
«Sono morti, per colpa mia» spiegai, asciugando una lacrima sulla mia guancia con la mano. Una nuova ondata di lacrime arrivò quando vidi le mie dita sporche del sangue di Dollar. Tornai a nascondermi contro l’incavo del collo di Ryan, sfogandomi e piangendo, dimenticandomi delle altre persone di fianco a me. Perché non riuscivo a non pensare  a Liam e a Shake, a JC, ad Aria, Dollar e al loro bambino. Quanto ancora doveva essere lunga quella lista? Quante persone sarebbero morte lì, a Hunts Point prima che quella stupida guerra tra bande finisse?

«Ryan, stanno arrivando gli altri agenti» bofonchiò qualcuno in lontananza. Non ci feci nemmeno caso, mi raggomitolai più stretta, svuotando la mente da tutti i brutti pensieri. Sapevo che Ryan non aveva nulla da ribattere a quello che avevo detto, perché era la verità.
«Cazzo… Brandon, portala a casa». Sentii Ryan muoversi e le sue braccia si tesero, fino a quando fui costretta ad abbandonare il suo corpo caldo, perché c’era qualcun altro a sorreggermi. Brandon, probabilmente, visto che gli aveva appena ordinato di portarmi a casa. Riuscii a scorgere l’ombra dei suoi capelli scuri e per un istante i suoi occhi superarono la barriera delle mie lacrime.

Dolore, ecco cosa riuscii a leggere nel suo sguardo. Dolore che avevo causato io.
«È colpa mia… è, è… tutta colpa mia» spiegai anche a lui mentre il mio corpo veniva scosso dai singhiozzi. Sentivo che ci stavamo muovendo, ma non volevo nemmeno guardare dove fossimo diretti, perché qualsiasi posto non sarebbe stato abbastanza distante da loro, non fino a quando l’avessimo raggiunto a piedi e in poco tempo.
«No, Lexi. Non è colpa tua, non dire così». La sua voce bassa cercava di rassicurarmi, senza riuscirci. Non bastava una bugia per farmi capire che non era colpa mia, non ero così stupida da crederci. Scossi leggermente il capo per fargli capire che non serviva mentire.
«Sì che è colpa mia. Se io non avessi detto che… che John non ci pagava sarebbero vivi». Perché mi ero ubriacata a Natale e avevo fatto scoprire a Ryan il doppio gioco di John. Così loro o i Misfitous l’avevano ucciso e poi gli altri si erano ribellati uccidendo Aria e Dollar. A quel pensiero l’immagine dei loro corpi tornò vivida nella mia mente e mi mancò il fiato per i singhiozzi che non volevano rallentare. Avevo ucciso due ragazzi di sedici anni.

«Lexi non è colpa tua, cerca di respirare» mi suggerì Brandon, accarezzandomi la spalla con la mano che mi sorreggeva. Gemetti infastidita dal suo continuo mentire per non dare la colpa a me, dopo aver alzato lo sguardo perché potesse vedere che ero cosciente e sapevo quello che dicevo.
Presi un respiro profondo per cercare di calmare i singhiozzi e, ignorando le lacrime che non volevano fermarsi, parlai: «Sono io. È la seconda volta che per colpa mia muoiono due miei amici». Quella frase, detta a voce alta, era ancora più spaventosa di quando l’avevo pensata perché rendeva tutto più vero, senza pietà. Lo sguardo di Brandon si fece serio e vidi la sua fronte corrugarsi, come se volesse sgridarmi ma qualcosa lo trattenesse.
«Lexi, smettila». Era un ordine e non avevo nemmeno più la forza di ripetere quello che da troppo stavo pensando. Sarei scappata lontano da loro, lontano da tutti per salvare le loro vite perché non potevo permettere che la storia si ripetesse.
«Voglio andare a casa» piagnucolai, circondando il collo di Brandon con le mie braccia e appoggiando il capo sulla sua spalla. Sentivo il fruscio del vento sempre più debole e le mie palpebre stavano diventando sempre più pesanti. Non volevo che Brandon mi lasciasse cadere, anche se sapevo che le sue braccia erano forti.

«Stiamo andando a casa» mi spiegò, fermandosi. Una sua mano si spostò dalla mia schiena ma riuscì a tenermi in equilibrio, poi, sempre più distante, udii il rumore di una porta che sbatteva e il rimbombo di passi, come se stesse salendo una scala. Dove mi stava portando? Cosa stava succedendo?
«Voglio andare a casa mia, non voglio che vi uccidano. Se rimango qui morirete come tutti quelli a cui tengo» mormorai, lasciando che le lacrime scorressero lungo le mie guance, di nuovo. Non riuscivo a fermarle e non mi interessava; potevo dimostrarmi debole, stupida e infantile, ma non ero in grado di contenere tutto quel dolore. Brandon appoggiò il mio corpo a qualcosa di morbido, ma non avevo la forza di muovermi o di guardare.
«Lexi, calmati, non devi andare da nessuna parte, cerca di riposare, rimango qui, ok?». Una carezza sul mio capo per tranquillizzarmi, mentre cadevo in un oblio interrotto solo da immagini che si alternavano: Soph, Edge, Dollar e Aria, un circolo che non voleva smettere.
«Voglio andare a casa» bofonchiai, lasciando che il buio mi inghiottisse definitivamente.

 
 
 
Andiamo con ordine per queste note finali…
Sick parla del Signor Grey con un chiaro riferimento a 50 sfumature di  grigio e ai “poteri sovrannaturali” che ha (secondo me), però è una cosa scema, visto che la storia è ambientata a gennaio e il libro a gennaio non era uscito. Quindi, a questo punto, mi sa che Sick ha letto la fan fiction :D
Le sanzioni e i sei minuti senza protezione esistono davvero. Nei carcere americani –dove ogni persona per sopravvivere deve decidere a quale gang affiliarsi –ci sono: ogni tanto, quando sono annoiati, inscenano questi scontri “tra amici” solo per passare il tempo. Questo non l’ho scoperto durante il mio giro notturno nei quartieri malfamati del Bronx (come qualcuno di voi ha ipotizzato io faccia di notte, al posto di dormire) ma l’ho visto in un programma TV che ormai è diventato la mia droga e mi ha fatto pensare più di una volta di fare un paio di capitoletti con gli Eagles in prigione (cosa che NON succederà, comunque).
Il Vernon C. Bain Correctional Center è uno dei due centri con uso di carcere a Hunts Point. Per quanto riguarda l’altro, lo Spofford Juvenile Center, è stato chiuso a marzo del 2011, ed essendo la storia ora ambientata a Gennaio 2012 ho preferito rispettare questa scelta. Anche perché lo Spofford era comunque un centro che ospitava minorenni, cosa che gli Eagles non sono.
E si passa alle croci sugli occhi e sulle labbra del capitolo scorso… ho cercato di non sbilanciarmi troppo su questa cosa, ma un paio di voi l’avevano comunque capito che quello era un trattamento riservato ai traditori. Ci tengo a precisare che di solito (da quello che ho letto più volte) ai traditori viene semplicemente tagliata la gola, però volevo qualcosa di più visivo e più duro, quindi mi sono permessa di inventare questa cosa. Questo per ricordare che il biglietto da visita degli Eagles è semplicemente l’aquila intagliata nel petto.
E si passa alla scena finale. Non ho molto da dire, sinceramente. Cioè, avrei anche troppo da dire, ma non voglio assolutamente spiegare il perché. Prima di tutto mi sembra chiara la scelta del titolo del capitolo, Lexi fa un ragionamento preciso e mi piace seguire il suo istinto per il titolo.
Perché questa scelta? Questa scena è stata l’idea iniziale di You saved me, la storia è partita dalla sparatoria, da quello che succede e poi si è sviluppata prima verso il finale e poi verso i primi capitoli. Non era mia intenzione coinvolgere anche lei, l’idea di partenza era solamente lui, poi, come ho ripetuto più volte, il suo personaggio mi ha preso la mano ed è diventato uno dei principali senza volerlo. Senza cuore? Bastarda? Stronza? Ditemi quello che volete, ma posso assicurarvi che non sapete cosa ho passato per scrivere quelle righe. Vi ho fatto soffrire? Da una parte lo ammetto, se sono riuscita anche solo a smuovere qualcosa dentro di voi… mi sento felice, perché vuol dire che almeno un po’ ai personaggi ci eravate affezionate. Dall’altra mi dispiace, ma ho sempre detto, dall’inizio della storia, che tutti i personaggi erano in pericolo e che non dovevate affezionarvi a nessuno, perché non assicuravo la vita di nessuno.
Vorrei di nuovo ringraziare tutti i preferiti, i seguiti, quelle che hanno inserito la storia tra le ricordate, chi ha avuto il coraggio di inserirmi tra gli autori preferiti (tanto lo so che a mano a mano che leggete il capitolo i numeri caleranno eh! :P) e chi recensisce sempre. Un grazie enorme e di cuore, davvero!
Come sempre ricordo il gruppo spoiler, dove do tutte le anticipazioni e dove ogni tanto attento alla vostra vita con foto che fanno morire: NERDS’ CORNER.
Grazie ancora per aver letto.
Rob.

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Capitolo 17
*** The last goodbye ***


YSM
 
 
Svegliarsi dopo un incubo, con la testa che doleva per le troppe lacrime versate non era mai il modo migliore per cominciare una giornata; soprattutto se, appena sveglia, ricordavi l’orrore visto il giorno prima: il modo truce in cui due delle persone più care erano state freddate e lasciate lì, in mezzo alla strada.
Mi alzai dal divano cercando di non pensare a niente, volevo svuotare la mente come era successo con tutti i miei sentimenti, avevo bisogno di rilassarmi e ‎di non pensare, prima di cominciare a preparare le valigie per tornare a casa. Dovevo salvare i ragazzi allontanandomi da loro, perché ovunque io andassi, portavo morte e lacrime. Ecco il mio unico pensiero mentre scostavo la coperta che qualcuno mi aveva sistemato perché non prendessi freddo. Sussultai spaventata quando, dopo essermi legata i capelli, vidi Ryan seduto su una sedia della mia cucina; il volto spento e nessuna fiammella di vita in quello sguardo che di solito covava rabbia e trasmetteva ironia. Stava fumando con un gesto troppo meccanico per sembrare rilassato: la mano destra si spostava dalle labbra per poi appoggiarsi alla coscia mentre soffiava fuori una nuvola di fumo grigio; lo sguardo fisso davanti a lui, ma al contempo distante ore e chilometri. Non avevo nemmeno la forza di sgridarlo per tutti i filtri di sigaretta che c’erano per terra.
Vidi i suoi occhi posarsi su di me per un istante, non appena mi alzai dal divano. Nessun saluto, nessuna battuta idiota, solamente le sue labbra socchiuse per far uscire una nuvola grigia di fumo. Mi avvicinai al frigo, prendendo una bottiglia d’acqua e riempendomi un bicchiere senza dire nemmeno una parola; Ryan, come pensavo, non fece niente per rompere quel silenzio, rendendo la cucina del mio appartamento quasi opprimente, come se stesse cercando di farmi capire che dovevo andarmene subito da lì. Camminai verso il bagno, spogliandomi in modo meccanico e socchiudendo gli occhi per far scendere le lacrime nate quando il mio sguardo si era posato sui miei vestiti macchiati di sangue.
Aria e Dollar. Ancora una volta non riuscivo a non pensare a loro, ai loro corpi distesi lì, in mezzo all’asfalto e ricoperti di sangue. Non ero in grado di lavare via quell’immagine dalla mia mente, non come avevo fatto con il sangue rappreso sulle mie mani. Uscii dalla doccia arrotolandomi un grande asciugamano bianco e tamponando i capelli, legandoli subito dopo anche se erano umidi. Indossai un paio di pantaloni e una maglia che avevo appeso all’attaccapanni del bagno la mattina del giorno precedente, prima di uscire con Aria e Dollar, e, senza pensare alle lacrime che non accennavano a fermarsi, andai in camera, decisa. Sapevo quello che avrei fatto: per il bene di tutti e per non impazzire dovevo andarmene da lì. Magari sarei tornata in California; anzi… mi era sempre piaciuta la Florida, lì avrei potuto fare surf e il clima era simile a quello di Los Angeles. Sì. Sarei partita quel giorno stesso.
Quando tornai in cucina trovai Ryan seduto sulla stessa sedia, l’unica differenza era la sigaretta spenta, che si era aggiunta a tutti i filtri accumulati dentro al posacenere e sul pavimento. Non parlai, di nuovo; mi limitai solamente ad aprire le ante dei mobili della cucina per prendere le pentole e ammucchiarle sopra al tavolo. Le avrei inscatolate entro quel pomeriggio; sapevo che ci sarebbero stati problemi per il trasloco, ma potevo fare con calma, mi sarei fatta spedire dai ragazzi gli scatoloni un po’ alla volta, dopo aver trovato una sistemazione decente, lontana da gang e da morti.
«Cosa stai facendo?» sbottò Ryan. Alzai lo sguardo per guardarlo e notai che i suoi muscoli erano tesi, non sembrava rilassato e indifferente come qualche minuto prima. Ignorai quella strana sensazione e continuai ad appoggiare le pentole in modo ordinato, tenendo la mente concentrata per posizionarle una sopra l’altra, dalla più grande alla più piccola. Sentivo però lo sguardo di Ryan puntato su di me e sapevo che l’unico modo per far sì che la smettesse era rispondere.
«Le valigie. Me ne torno a casa, non posso più stare qui» mormorai, lasciando che una lacrima scendesse lungo la mia guancia per cadere poi sulla mia mano che stava sistemando i coperchi delle pentole. Ryan si irrigidì ancora di più, tanto che vidi le sue mani stringersi a pugno sulle sue ginocchia, come se volesse trattenere un attacco di rabbia. Non avevo però il coraggio di guardarlo in faccia di nuovo, timorosa di quello che avrei potuto vedere.
«Fai le valigie per andare dove? A casa? Scappi di nuovo esattamente come hai fatto quando sei arrivata? È questo che vuoi fare per tutta la tua vita, scappare alla prima difficoltà?». Disprezzo, amarezza, rabbia… non riuscivo nemmeno a capire quali fossero i sentimenti che provava Ryan, ma di certo si poteva notare l’odio che provava verso di me, perché gli avevo portato via Aria e Dollar, due delle persone probabilmente più importanti per lui e per tutti gli Eagles.
«Non si tratta di scappare alla prima difficoltà, non capisci? Ovunque vada le persone a cui voglio bene finiscono per ferirsi o farsi male e sono stanca». La mia voce era stridula ma non me ne curai; non mi interessava nemmeno delle lacrime che scendevano lungo le mie guance. Probabilmente sembravo una bambina, ma Ryan poteva pensare quello che voleva, non mi interessava. Sapevo che era colpa mia e me ne sarei andata per salvarli tutti, perché non dovevano morire per colpa mia.
«Non è colpa tua, andiamo. Se vuoi pensarla così… fai pure, va avanti, ma non è per colpa tua che sono morti Aria e Doll. La gente qui muore ogni giorno, molto più di quello che tu immagini». Le sue mani corsero sopra al tavolo per afferrare l’accendino e il pacchetto di sigarette; ne tirò fuori una, stringendola tra le labbra mentre la accendeva. Di nuovo, come già era capitato, la luce prodotta dalla fiamma illuminò il volto di Ryan, mostrandomi il suo zigomo con una piccola ferita. Assomigliava a una sbucciatura, come quando da bambina cadevo dalla tavola da surf, ferendomi le ginocchia sugli scogli.
«Mi sono ubriacata e siete venuti a sapere che John non ci pagava, se non l’avessi detto non sarebbe successo tutto questo casino». Continuavo a ripetere quelle frasi in modo meccanico camminando avanti e indietro per appoggiare le pentole sulla tavola. Non pensavo nemmeno a quello che dicevo; la verità era che durante la doccia avevo rimuginato su quella decisione e niente e nessuno mi avrebbe mai fatto cambiare idea, perché sapevo che era colpa mia. Me l’avevano ripetuto Ryan e Brandon e sapevo che se Aria fosse stata lì si sarebbe arrabbiata con me, perché secondo lei non era colpa mia. Aria… socchiusi gli occhi sentendo una nuova ondata di lacrime arrivare. Stavo piangendo, di nuovo. Avevo perso il conto delle volte in cui l’avevo fatto lì, a Hunts Point.
«Vuoi metterti in quella fottuta testa che non è colpa tua se la gente muore? Vai dove cazzo vuoi, ma non rifilare a nessuno la scusa che la gente muore per causa tua, perché non è vero». Ryan si alzò di colpo dalla sedia, facendola sbattere con lo schienale per terra a causa del contraccolpo. La sigaretta era caduta sul pavimento, ma non sembrava nemmeno accorgersene, troppo impegnato a stringere il bordo del tavolo con forza, come se volesse scaricare tutta la rabbia su quell’oggetto. Ero stanca; stanca di scappare per proteggere le persone e stanca di essere sempre la causa di tutto. Secondo Ryan potevo andare dove volevo, bene, l’avrei fatto!
«Vado dove voglio, hai ragione. Vado a casa, parto oggi pomeriggio» spiegai, tenendo lo sguardo abbassato perché non volevo più scontrarmi con i suoi occhi tristi e stanchi. Sapevo che soffriva; Ryan non aveva un cuore, ma soffriva anche lui per la perdita di Dollar e Aria, ne aveva dato prova quando – con le mani sul viso di Dollar – l’aveva scosso nonostante fosse già morto.
«Almeno saluta Doll e Aria, non credi di doverglielo?». Senso di colpa. Tipico di Aria; non era così che mi aveva obbligata a seguirla il giorno prima? Però, in quella frase di Ryan, c’era anche la sua ironia. Questo perché Ryan, nonostante tutto, soffriva. Forse anche lui aveva un cuore. Raccolse la sigaretta che gli era caduta e dopo averla spenta dentro al portacenere – facendo cadere altri filtri consumati sopra al tavolo –si avvicinò alla porta del mio appartamento, fermandosi con la mano sulla maniglia. «I funerali sono domani mattina. Fai quel cazzo che vuoi». Non si voltò per guardarmi, ma capii che aspettava una mia risposta quando, dopo qualche secondo di silenzio, la sua mano non girò il pomello per aprire la porta.

«Aspetterò domani allora; partirò dopo i funerali». Sapevo che era la cosa giusta da fare. Perché Aria e Dollar mi erano stati vicino come solo Soph ed Edge avevano fatto. Era Dollar che mi aveva portata al sicuro, la sera del mio arrivo a Hunts Point, durante la rissa con i Misfitous; era Aria ad avermi accolta come se mi conoscesse da sempre, dopo che John mi aveva derubato. Aria e Dollar meritavano la mia presenza al loro funerale, perché erano mei amici e volevo bene a loro, anche a quel piccolo fagiolino dentro alla pancia di Aria, lo stesso che avevo scoperto per prima, grazie ai miei studi.
La mia risposta sembrò soddisfare Ryan, perché aprì la porta, uscendo dal mio appartamento e richiudendosela subito dopo alle spalle. Nessuna parola, nessun suono all’infuori del mio respiro che si faceva sempre più veloce, producendo un peso sul mio petto.
«Vaffanculo» urlai scagliando la pentola che avevo in mano contro la porta. Non ci arrivò, cadendo sul pavimento qualche metro più avanti e producendo un frastuono che non riuscì a superare il mio urlo. Caddi sulle ginocchia singhiozzando, lasciando finalmente che le lacrime che avevo – malamente – trattenuto per la presenza di Ryan scendessero, rigandomi le guance. Era un urlo contro Ryan, contro la vita che faceva e aveva costretto Dollar e Aria a fare. Era un urlo contro John e la sua stupidità, perché aveva ricevuto protezione da entrambe le gang, tradendo la loro fiducia. Era un urlo contro tutti e contro nessuno, contro me, che mi incolpavo per tutto e contro i miei genitori, che mi avevano abbandonata e si erano dimenticati di me, evitando perfino di farmi gli auguri per Natale. Piansi fino a sentire la gola bruciare, con i palmi delle mani appoggiati al pavimento perché non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi. Quando capii che non sarei riuscita a cambiare il corso della mia vita rimanendo lì per terra a piangere, mi sforzai di alzarmi per andare verso il divano, dove mi distesi, coprendomi con la coperta che – probabilmente – mi aveva sistemato Brandon la sera prima. Non appena chiusi gli occhi promisi a me stessa che non avrei più pianto per Aria e Dollar; promessa che infransi la mattina dopo, il giorno del loro funerale.
 
Quella mattina anche il cielo sembrava triste per Aria e Dollar. Hunts Point era sovrastato da nuvoloni neri che minacciavano pioggia; la stessa che probabilmente avrebbe fatto sciogliere un po’ della neve che ricopriva i marciapiedi e i bordi delle strade. Mi asciugai una lacrima che scendeva silenziosa lungo la mia guancia e sistemai il vestito che avevo appena indossato; lo stesso che Aria mi aveva costretto a comprare un paio di settimane prima. «Smettila di rompere Lexi, quel colore ti dona e sei ancora più gnocca perché contrasta con i tuoi capelli scuri». Così si era imposta senza che avessi possibilità di ribadire: mi aveva sfilato di dosso il vestito in mezzo al negozio, senza curarsi delle altre persone che avrebbero potuto vedermi in intimo. Durante quella giornata di shopping sfrenato Aria mi aveva costretta a comprare anche un paio di scarpe con il tacco perché «Sei alta come una persona normale con queste ai piedi e magari qualcuno ti noterà». Non aveva ceduto, spiegandomi chi mi doveva notare. Aria era una persona odiosa, quando si intestardiva per tenerti all’oscuro di qualcosa. Un sorriso amaro si posò sulle mie labbra, mentre indossavo quei tacchi altissimi con cui rischiavo di rompermi una caviglia. Glielo dovevo, mi sentivo obbligata a portarli, sicura che, per qualsiasi altra occasione Aria mi avrebbe costretta a indossarli. In equilibrio precario mi diressi fino al divano per prendere la borsa e, dopo aver indossato un giaccone pesante per ripararmi da quel freddo pungente; sospirai, appoggiando la mano sulla maniglia. Dovevo essere forte, non potevo dimostrarmi debole, non dovevo piangere.
Quando però aprii la porta e vidi tutti i ragazzi in silenzio sul pianerottolo, la promessa che avevo appena fatto a me stessa andò in frantumi; la vista mi si appannò e qualcosa di caldo scivolò giù, lungo le mie guance. Mi voltai, guardando la porta del mio appartamento e asciugandomi una lacrima cercando di non farmi notare dai ragazzi.
«Andiamo» ordinò Ryan. Nessuna ironia nella sua voce, non mi aveva nemmeno salutata. Non che mi aspettassi quel gesto da parte sua, visto il modo in cui se ne era andato dal mio appartamento la sera prima, dopo quello che era successo. Aspettai qualche secondo, sentendo i passi dei ragazzi che scendevano la scala e poi, dopo essermi asciugata di nuovo le lacrime ed essermi promessa che non avrei più pianto, li seguii, in silenzio.
Credevo che avremmo preso le moto o che saremmo andati a piedi, in fin dei conti il cimitero era a pochi isolati da Whittier Street, per questo quando vidi Ryan e i ragazzi uscire dal portone dello stabile per poi dirigersi nel retro mi fermai, confusa. Cosa c’era nel retro del 198 di Whittier Street? Perché non sapevo nemmeno che il mio palazzo avesse uno spazio abbastanza grande per ospitare… «Wow» sussurrai stupita, vedendo quelle tre auto parcheggiate in quello spiazzo di cemento chiaramente adibito a parcheggio. Erano tutte dei ragazzi? Come facevano a permettersi quelle auto lussuose? Le avevano rubate a qualcuno? C’erano troppe domande nella mia testa che non avrebbero avuto di certo una risposta, visto che Ryan salì sulla prima auto – al posto di guida –; Brandon fece lo stesso con la seconda e Sick li imitò, aprendo però lo sportello della terza macchina. I ragazzi si divisero: Paul e Josh salirono sui sedili posteriori della macchina guidata da Brandon, Ham e Swift invece in quella di Sick. Lebo mi guardò, accennando un sorriso e indicando, con un gesto del capo, la macchina che aveva Ryan alla guida. Non avevo nemmeno voglia di discutere così mi incamminai verso la berlina scusa, salendo sul sedile anteriore. Ryan mi guardò sorpreso, bofonchiando qualcosa prima di scuotere il capo, avviando il motore.
«Agganciati la cintura di sicurezza» proruppe immettendosi in strada, senza veramente controllare se ci fossero macchine che sopraggiungevano. Mi voltai a guardarlo stupita; mi stava ordinando di agganciare la cintura di sicurezza quando lui era il primo a non farlo? Stavo per ribattere che forse doveva indossarla prima lui, ma lo sguardo di Ryan – triste, furioso e malinconico – mi bloccò, impedendomi di ribattere. «Subito» continuò poi, senza smettere di guardarmi. Sapevo che non mi avrebbe dato pace fino a quando non l’avessi indossata, così, trattenendo a stento un sbuffo per l’irritazione, feci come mi aveva ordinato.
Ryan si fermò un isolato prima del cimitero, posteggiando l’auto di fianco alla strada; sentii i motori di altre due macchine spegnersi e istintivamente mi voltai, vedendo che, appena dietro all’auto di Ryan c’erano Brandon e Sick. Lo sportello di Ryan si aprì e, prima ancora di scendere dall’auto, si accese una sigaretta, richiudendosi la portiera alle spalle e appoggiandosi con la schiena alla macchina per fumare. In pochi istanti tutti i ragazzi si radunarono lasciandomi dentro all’auto da sola, oppressa da quel silenzio che non mi permetteva nemmeno di sentire le loro voci. Scesi, raggiungendoli ma rimanendo un po’ in disparte perché non volevo ascoltare che cosa avessero da dire; sapevo che Ryan mi teneva all’oscuro riguardo diversi aspetti degli Eagles e non volevo essere così presuntuosa da origliare i loro discorsi, non in quel momento.
Cominciai a guardarmi attorno, concentrandomi sul vialetto ricoperto di neve; il lungo viale alberato non era come l’avevo visto a luglio, con gli alberi che proteggevano dalla luce del sole, c’erano solo rami secchi, coperti di neve. Tutto era ricoperto di neve; tutto era bianco e grigio: il cielo, il paesaggio e anche le lapidi, che si confondevano e disperdevano in mezzo a tutto quel bianco. Poco distante da me c’erano due ragazze; vedevo i loro sguardi nascosti da un paio di occhiali da sole scuri, ma le riconobbi subito, nonostante le avessi viste solamente per qualche minuto, un mese prima: erano Irene e la sua amica. Irene, l’ex Signora di Brandon. Mi salutò con un gesto della mano e risposi con un timido sorriso, chiedendomi chi le avesse avvertite. Pensiero stupido, visto che la notizia della morte di Aria e Dollar si era sparsa in poco tempo, portando tristezza e sorpresa: più di qualche abitante di Hunts Point si era infatti chiesto come mai Ryan non avesse già attuato una vendetta, uccidendo tutti i Misfitous, visto che avevano a loro volta ammazzato una Signora, per di più incinta.
«Brandon» mormorò Irene, avvicinandosi a lui per attirare la sua attenzione. Vidi il corpo di Brandon tendersi appena, riconoscendo quella voce probabilmente per lui famigliare; socchiuse gli occhi prendendo un respiro profondo e si voltò verso di lei, con uno sguardo spento. «Mi dispiace così tanto» singhiozzò Irene, raggiungendolo in un paio di passi e abbracciandolo. Vidi il suo corpo scosso dai singhiozzi e una lacrima superò la barriera degli occhiali scuri, scendendo lungo la sua guancia.
«Ciao» bofonchiò Brandon, dandole un bacio tra i capelli e ispirando a occhi chiusi. Le braccia di Brandon circondarono il corpo di Irene, stringendola quasi in modo possessivo. Sentivo i suoi singhiozzi attutiti, visto che il suo volto era appoggiato al giaccone di Brandon, ma capii qualche parola di quello che stava dicendo a lui. «Non importa, sta tranquilla» rispose, accarezzandole di nuovo il capo, per tranquillizzarla. Irene cercò di parlare ancora una volta, stringendo le braccia attorno al corpo di Brandon che le appoggiò una mano sulla guancia, perché potesse guardarla negli occhi; l’altra mano si spostò sul suo viso, sollevandole gli occhiali da sole e mostrando i suoi grandi occhi azzurri velati dalle lacrime. «Irene, smettila. Non mi interessa». C’era l’ombra di un sorriso in quelle labbra circondate dal pizzetto, come se fosse felice.
«No, Brandon io…» cercò di nuovo di spiegare lei, levandosi una lacrima dalla guancia con un gesto secco della mano. Lui non le permise di concludere la frase, accarezzandole una guancia e baciandole la fronte, bofonchiando qualcosa che non riuscii a comprendere, se non qualche parola come «dopo» e «casa». Irene annuì, prendendo un respiro profondo per calmarsi un po’.
Ryan, proprio come gli altri ragazzi, era immobile a qualche passo di distanza da Brandon e Irene e non era intervenuto. Esattamente come era accaduto la notte in cui avevo incontrato Irene per la prima volta –andando a pattinare a Lower Plaza – nessuno dei ragazzi aveva interferito con la chiacchierata tra Brandon e Irene; erano attenti a tutto quello che accadeva, senza però intervenire o disturbare.
«Entriamo» ordinò Ryan, gettando la sigaretta per terra e spegnendola con la punta della scarpa. Senza aggiungere altro abbandonò il lungo viale alberato, valicando il cancello in ferro battuto ed entrando al Joseph Rodman Drake Park. Quel piccolo parco adibito a cimitero non era più grande di tre ettari; la parte che ospitava le lapidi poi era racchiusa da un recinto in ferro, come se quella cinquantina di lapidi fosse così protetta. Mi ero chiesta, la volta precedente – durante il funerale di JC – come mai solamente gli Hard-Cores degli Eagles fossero le uniche persone sepolte in quel piccolo cimitero in tempi recenti – visto che quasi tutte le lapide portavano date di due secoli prima –. Aria mi aveva spiegato che Ryan aveva adibito quel piccolo cimitero come “cappella degli Eagles” solamente perché Joseph Rodman Drake aveva scritto in The American flag.
Ryan camminò fino ad arrivare sotto a una grande quercia, isolata da tutte le altre tombe. Lì, ricoperte da due grandi cuscini di rose rosse, bianche e blu –  che probabilmente volevano rappresentare la Stars and Stripes – c’erano le bare di Aria e Dollar. Vedere i loro nomi incisi mi fece salire di nuovo le lacrime agli occhi, come se solo in quel momento riuscissi a capire che non li avrei più rivisti.
Aria Butler.
Jack “Dollar” Smith.
Quei due nomi continuavano ad attirare la mia attenzione, nonostante non volessi leggerli. Le date sotto poi, rendevano tutto ancora più macabro; non potevano essere così vicine. Sedici anni, come si poteva morire a sedici anni perché qualcuno ti sparava a sangue freddo? Quella persona non era nemmeno umana, non poteva avere sentimenti, aveva meno cuore di Ryan.
«Ehi» sbottò qualcuno, appoggiandomi una mano sulla spalla. Sussultai, alzando lo guardo dalle lapidi per capire chi fosse. Difficile dirlo, visto che non riuscivo a vederci con le lacrime che rendevano tutto confuso, ma sembrava Ryan. Mi strofinai le guance, trattenendo l’ennesimo singhiozzo e guardando Ryan ora davanti a me. Sembrava volesse dire qualcosa, ma ci rinunciò subito dopo. «Siediti» ordinò, indicando una sedia di fianco a lui. Era la sedia più vicina alla lapide di Aria, da lì potevo vedere il suo nome scalfito nella pietra; riuscivo anche a scorgere la lapide di Dollar e rimasi colpita da una differenza: sulla pietra grigia, sopra a Jack “Dollar” Smith c’era un’aquila. Sopra al nome di Aria invece vedevo un piccolo angelo, con il volto rivolto verso l’aquila. Strinsi convulsamente il fazzoletto tra le mani, torturandolo; quel metodo però non funzionò, visto che cominciai a piangere di nuovo. Dovevo andarmene da quel posto, il più presto possibile. Sarei partita subito dopo il funerale, avrei telefonato a Brandon e gli avrei chiesto di spedire le mie cose al mio nuovo indirizzo; di Brandon potevo fidarmi.
Alla mia sinistra prese posto Brandon, subito dopo di lui c’era Irene, ancora nascosta dagli occhiali scuri. Di fianco a Ryan, alla sua destra, si sedette Sick. Per la prima volta non c’era quel suo sguardo da maniaco, era semplicemente uno sguardo triste e spento, come quello di tutti i ragazzi. Paul, Josh, Ham e Swift presero posto nella fila di sedie dietro a noi. Riuscivo a udire un vociare crescere, come se lentamente arrivassero le persone, non ero però in grado di vederle, perché le lacrime offuscavano tutto. Sentivo Ryan e Sick bofonchiare qualcosa; sembravano discutere di una decisione presa, una decisione insindacabile.
«Michael?» domandò una voce femminile, non molto distante da me. Istintivamente mi voltai per capire a chi appartenesse, ma, nonostante avessi cercato di asciugare le lacrime, non riconoscevo quella ragazza con i capelli castani. Era alta e bella, con un fisico quasi da modella: non indossava gli occhiali da sole e si vedeva che aveva pianto: i suoi occhi marroni erano circondati da due grosse occhiaie scure, come se non dormisse da giorni.
«Oh cazzo» sbottò Sick, come se c’entrasse qualcosa con quella ragazza. Smise di parlare con Ryan, alzandosi lentamente in piedi e camminando fino a lei. Quando fu sufficientemente vicino si abbassò, guardandola come se fosse un’allucinazione. «Che cosa ci fai qui?». Non riuscivo a vedere lo sguardo di Sick, ma dalla voce si capiva quanto quella ragazza fosse in grado di incidere sul suo umore. Che fosse… che fosse Claire?
«Lo sai che volevo bene ad Aria e Dollar, non potevo mancare». Accennò a un sorriso stanco, torturandosi le mani e giocherellando con l’anello d’oro che aveva all’anulare sinistro. Quella ragazza era sposata, quindi doveva per forza essere Claire.

Sick si mosse irrequieto, facendo mezzo passo indietro per non essere troppo vicino a lei, come se la vicinanza gli costasse un certo sforzo. «Chi ti ha detto di Aria e Dollar?». C’era quasi rabbia nella voce di Sick, sembrava che vedere Claire non fosse una cosa piacevole per lui. Strano, visto che ogni volta che parlava di lei appariva innamorato.
«Ho i miei contatti». Una risposta fredda che si intonava all’espressione su quel viso stanco, incorniciato da lunghi capelli castani che ricadevano scomposti sulle spalle. Claire era davvero una bella ragazza e riuscivo a capire perché Sick fosse – nel suo modo distorto, certo – ancora innamorato di lei. Se poi sapeva tenergli testa, forse erano davvero fatti l’uno per l’altra.
«Quindi non sei venuta qui per rivedere me?». C’erano ironia, disprezzo e tristezza in quella frase. Si capiva che Sick soffriva ancora e forse per quello si comportava in modo così brusco con Claire. Non le lasciò nemmeno il tempo di rispondere, le diede le spalle, tornando a sedersi di fianco a Ryan. «Puoi anche tornartene da tuo marito» sbottò, prendendo una sigaretta dalla tasca del giaccone che indossava e accendendola dopo averla portata alle labbra.
«Michael, per favore» supplicò Claire, facendo un passo verso di lui. Non mi guardò, non guardava nemmeno i ragazzi; nessuno, solo Sick. Sick che continuava a comportarsi come un bambino, guardando dalla parte opposta del cimitero, come se, fuori da quella recinzione in ferro battuto, ci fosse qualcosa di interessante. «Michel, parliamo» insistette, appoggiando la mano sinistra su quella di Sick.
Il suo sguardo si abbassò, focalizzandosi sulle loro mani che si toccavano. «Va via. Siamo a un funerale e non ho voglia di parlare con te. Tornatene in Italia da tuo marito». A quella frase non riuscii a trattenere una risata che, unendosi a un singhiozzo, spaventò Ryan tanto che mi guardò, sorpreso.
Quella situazione era così surreale da ricordarmi, ancora una volta, perché volessi andarmene. Hunts Point non rispecchiava il mondo reale; Hunts Point era un quartiere isolato da tutto, dove era quasi normale ridere partecipando a un funerale e piangere scoprendo che una ragazza di sedici anni era incinta. Hunts Point mi sarebbe mancato, ma dovevo allontanarmi ed era solo questione di ore, ormai.
Qualche istante dopo comparve il pastore, riportandomi alla realtà e zittendo Claire che cercava di far ragionare Sick, costringendolo a parlare con lei. Ci rinunciò con un sospiro, andando a sedersi in fondo, nelle ultime sedie rimaste vuote.
Le parole del pastore sembravano infliggermi una coltellata ogni secondo che passava, come se tutto quello che diceva fosse riferito a quello che era successo lì a Hunts Point con Aria e Dollar. Il mio arrivo, Dollar che mi aveva portata al 3B, Aria e la sua accoglienza al Phoenix, il nostro diventare sempre più amiche, il vederla sorridere durante la sua festa di fidanzamento e le sue lacrime dopo quel test di gravidanza. Il suo indice puntato contro di me se voleva obbligarmi a fare qualcosa e la cicatrice di Dollar che si increspava ogni volta che regalava un sorriso a lei. Le mani di Dollar che proteggevano la pancia di Aria e quella nuova vita dentro di lei… senza nemmeno accorgermene cominciai a piangere di nuovo, isolandomi da tutti e non capendo che Sick si era alzato per camminare fino alle due bare. Si posizionò in mezzo, attirando la mia attenzione dopo che si era schiarito la voce.
«Io… mi hanno detto che dovevo fare il discorso, il problema è che non sono tanto bravo con le parole. Ci proverò lo stesso. Vorrei spendere prima cinque minuti di tempo per Aria, una ragazza fantastica che aveva due belle tette. L’ho sempre detto a Dollar che lo invidiavo per quello; insomma Aria fin da piccola si è dimostrata una ragazza che sapeva tenere testa a Dollar, era dell’idea che siccome aveva la patata sarebbe stata in grado di tenerlo in pugno, e aveva ragione», si interruppe, prendendo un respiro e sentii una risata di Ryan, di fianco a me. «Insomma, Aria era una ragazza speciale e tutti voi sapete che non mi sarei perso per niente al mondo la festa di Aria e Dollar, quella dove l’abbiamo ufficializzata a Signora». Un nuovo attimo di silenzio, interrotto dalle risate dei ragazzi che probabilmente ricordavano fin troppo bene Sick nudo, con lo stampo di una mano sul sedere. «Aria era figa dentro e fuori, e poi aspettava un bambino. Una bambina, per essere precisi; bambina che mi sarei trombato tra una quindicina d’anni, dopo essermi assicurato che avesse le  tette della madre. Però, ammettiamolo, Aria era figa e stupida. Perché non si può innamorarsi di Doll. Lui era un cretino», lo sguardo di Sick si spostò, per posarsi sulla bara davanti alla lapide con la foto di Dollar; poi continuò: «l’ha dimostrato dall’inizio, guadagnandosi quel soprannome che tutti conosciamo, e l’ha dimostrato anche senza aver fatto la prova dell’ascensore. Perché Doll aveva le palle, ha combattuto fino alla fine, come ha fatto Aria. Siamo tutti fieri di loro, siamo felici di aver donato quel flag a Dollar, perché l’ha portato con onore, non l’ha mai fatto cadere, non c’era polvere su quel pezzo di stoffa rossa insanguinata. Non c’è mai stata fino a quando il suo sangue ha ricoperto completamente anche quello di JC, una persona davvero importante per entrambi. Non voglio parlare di lui, ma so che da lassù Dollar si sta lamentando perché lo sto prendendo in giro. In verità non so che dire. Era un bravo ragazzo, trombava poco… no, non è vero. Trombava come un riccio e lo prendevamo sempre per il culo perché gli volevamo bene, quindi… continua a trombare amico». Lo sguardo di Sick si spostò verso l’alto mentre si portava un pugno al cuore, socchiudendo gli occhi. Stupido Sick che era riuscito a farmi piangere di nuovo, con un discorso tanto serio quanto idiota e volgare.
Speravo che quella tortura fosse finita, ma mi sbagliavo; Ryan si alzò camminando fino all’esatto punto in cui Sick aveva tenuto il discorso. Ne avrebbe fatto uno anche lui? Ryan, l’O.G. senza cuore degli Eagles, avrebbe fatto un discorso per salutare Aria e Dollar? Mi aspettavo di tutto, ero quasi pronta a sentirlo parlare di quanto Dollar non sapesse picchiare o sparare, sicura che sarebbe stato quasi un discorso senza sentimenti. Il gesto di Ryan però mi stupì, facendomi bloccare il respiro: estrasse dalla tasca dei suoi jeans scuri un flag rosso, sistemandone un altro che era quasi uscito, e, dopo averlo preso tra le mani, tirò in due direzioni diverse, rompendolo esattamente a metà. Doveva essere il flag di Dollar, vista la quantità di sangue che c’era sopra, per questo – e anche per l’importanza che sapevo loro davano a quel pezzo di stoffa – non riuscii a trattenere un singhiozzo più forte, mentre Ryan appoggiava un pezzo di flag sopra alla lapide di Dollar e un altro su quella di Aria. Fermò i due pezzi di stoffa con dei sassi, tornando poi a sedersi di fianco a me senza dire una parola. La visione dei due pezzi di stoffa rossi sopra alle due lapidi grigie in quel prato bianco era quasi fastidiosa, soprattutto perché il forte vento – che minacciava una pioggia sempre più imminente – continuava a farli sventolare.
Qualcosa di caldo si appoggiò sopra al mio ginocchio, stringendo appena la presa, ma non me ne curai, incapace di distogliere lo sguardo dalla foto di Aria, così sorridente e felice. Non ascoltai altro; il dolore era troppo e la funzione finì fortunatamente poco dopo, lasciandomi in uno stato quasi catatonico seduta su quella sedia, a pochi metri da quelli che erano stati forse i miei unici, veri amici lì. Vedevo le persone avvicinarsi alle due lapidi e appoggiarci le dita sopra, per salutare un’ultima volta quei due ragazzi, sentivo il vociare farsi sempre meno forte, come se le persone, a poco a poco, se ne stessero andando. C’era però il costante borbottio di Ryan che ringraziava tutti, sempre con lo stesso tono distaccato, come se non gli interessasse veramente e fosse lì solo perché costretto. Forse era davvero così, forse Ryan non avrebbe mai voluto partecipare a quel funerale. Mi asciugai una lacrima, decisa che non avrei più pianto. Dietro a una signora che non conoscevo, c’era Peter. Sembrava che tutti se ne fossero andati, dopo aver fatto le condoglianze a Ryan e che Peter e quella signora fossero gli ultimi rimasti.
«Ciao» mormorò Peter, cercando di sorridere verso di me. Risposi con un cenno del capo, sapendo che non sarei stata capace di parlare. «Vai pure a casa mamma, ti raggiungo tra poco» sussurrò alla signora, appoggiandole gentilmente una mano sulla schiena per allontanarla da Ryan che le stava chiedendo come si sentisse. La mamma di Peter? E perché Ryan la conosceva e sembrava così gentile con lei?
La signora salutò tutti, rivolgendomi un sorriso materno che mi scaldò il cuore e poi si allontanò.
«C’è qualche problema?» chiese Ryan, sospettoso. Sembrava che qualcosa nel comportamento di Peter l’avesse insospettito al punto che vidi i muscoli del suo corpo tendersi e i ragazzi avvicinarsi a lui. Erano in posizione di attacco e sarebbero scattati al primo segnale.
Peter scosse la testa, cercando di spiegare che non c’era nessun problema, poi, dopo aver preso un respiro profondo, cominciò a parlare: «Ieri ho ricevuto notizie da mio padre, non posso andare a vederlo perché è nel buco e quindi non riceve visite. Comunque ha trovato il modo di comunicare con un altro e il suo messaggio è chiaro: sistemerà tutti i Misfitous che ci sono al Vernon. Dice anche che gli dispiace per Dollar e Aria e che gli sarebbe piaciuto essere qui a sventolare il flag». Prigione, Misfitous, flag… ma chi era il padre di Peter e cosa c’entrava con gli Eagles?
«Sapevo che avremmo sempre potuto contare su Night. Ringrazialo, se riesci a farglielo sapere e ricordagli che c’è sempre il suo posto qui in mezzo a noi. E… io e i ragazzi abbiamo pensato a una cosa, per ringraziare anche te». L’ultima frase di Ryan mi stupì, tanto che mi alzai dalla sedia e mi avvicinai involontariamente di un passo, per capire se avevo sentito bene. Ryan aveva davvero ringraziato Peter? Lo stesso Peter che sembrava voler uccidere alcune volte? E che cosa aveva fatto Peter per meritarsi un regalo dagli Eagles? Di che regalo si trattava?
Vidi Peter dondolarsi da un piede all’altro, in evidente imbarazzo. Si portò una mano al mento, pensieroso; sembrava non sapesse che cosa dire. «Io… lo faccio volentieri» spiegò, tenendo lo sguardo basso, come se si vergognasse.
Ryan non era d’accordo; sbuffò, prendendo una sigaretta dalla tasca posteriore dei jeans e, dopo aver guardato Brandon e Sick – come se volesse cercare un loro muto consenso – disse: «il Phoenix ha bisogno di un nuovo capo, qualcuno che sia alleato con noi, abbiamo bisogno di sapere con sicurezza che il Phoenix sarà sotto la nostra protezione, con uno di noi. Se ti fa piacere potresti diventare il nuovo proprietario». Avevo capito bene? Ryan aveva appena chiesto a Peter di diventare il nuovo padrone del Phoenix, solo ed esclusivamente se fosse stato sotto la loro giurisdizione? «Diciamo che è un ringraziamento per te e per Night» concluse poi, lasciandomi ancora più sorpresa.
«Non so cosa dire, io… grazie». Un sorriso – il suo sorriso – fece capolino sul volto di Peter e mi ritrovai a sorridere con lui, per quel riso così contagioso che mi spaventava ma riusciva anche a ricordarmi che qualcuno, lì a Hunts Point, era una persona che non uccideva o vendeva droga per vivere. Il Phoenix con Peter come proprietario sarebbe stato un po’ come il vecchio locale che conoscevo, solo senza Aria e John. Un po’ meno luminoso, senza l’allegria di Aria e la sua voce che salutava ogni cliente che usciva, ma con il sorriso di Peter ad accogliere ogni persona. Peter, commosso e felice, salutò i ragazzi e se ne andò, rivolgendomi solo il suo sorriso. Non me l’ero sentita di dirgli che sarei partita in un paio d’ore, preferivo sparire, senza scenate che mi avrebbero solamente rattristata di più.
«Andiamo a casa» ordinò Ryan, guardando ancora una volta il cumulo di terra smossa davanti alle due lapidi grigie. Istintivamente feci lo stesso, salutando Aria e Dollar e ringraziandoli per tutti i bei momenti passati assieme. Mi sarebbero mancati, ma non mi sarei mai scordata di loro, sarebbe stato impossibile farlo.
Salimmo in macchina in silenzio, tanto che quando sentii il rumore di qualcosa che cominciava a picchiettare sul tettuccio dell’auto mi stupii di sentirlo così forte: stava piovendo. Non era una pioggerellina fine, assomigliava piuttosto a uno di quei temporali estivi che ti coglievano all’improvviso, durante una passeggiata sulla spiaggia. Mi voltai a guardare Ryan che stava guidando e rimasi sorpresa di vedere sul suo viso una scia che scendeva dal suo occhi destro: Ryan stava piangendo. La luce del giorno rifletteva le gocce di pioggia del parabrezza sul suo volto, come se fosse ancora più rigato dalle lacrime; non me la sentivo nemmeno di parlare. Vedere Ryan così vulnerabile faceva quasi male, tanto che mi voltai, guardando fuori dal finestrino fino a quando non ci fermammo sul parcheggio dietro allo stabile di Whittier Street. Scesi dall’auto sapendo che sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto i ragazzi, così aspettai che anche Brandon e Sick – con Lebo, Paul, Josh, Ham e Swift – ci raggiungessero e feci un respiro profondo, pronta per parlare.
«Io finisco di preparare le valige e me ne vado. Volevo solo salutarvi». Terminai la frase con un nodo in gola e la voce che tremava per le lacrime che volevano uscire di nuovo. Piangevo interrottamente da due giorni e sembrava che quella crisi non dovesse avere mai fine; lo sembrò ancora meno quando Brandon si avvicinò a me, abbracciandomi. «Grazie, di tutto» mormorai contro il suo petto, sicura che mi avrebbe sentita. La presa delle sue braccia attorno al mio corpo si strinse appena, come se volesse rispondere alla mia frase. Gli altri ragazzi mi salutarono senza avvicinarsi o abbracciarmi; nemmeno Sick, che si allontanò dopo un ghigno, rispondendo al suo telefono che squillava. Brandon, dopo aver sciolto il nostro abbraccio si avvicinò a Irene, in piedi dietro a lui; era salita in macchina con lui e non aveva mai parlato in mia presenza, sembrava però che avessero più di qualche questione in sospeso; speravo solo che tutto si risolvesse per il meglio, perché Brandon meritava quello.
Ryan non mi salutò; fece semplicemente un gesto che in quei sei mesi gli avevo visto fare anche troppo spesso: prese una sigaretta dalla tasca dei jeans, cominciando a fumarla subito dopo. Forse era meglio così, nessun saluto con Ryan, perché non c’era niente da dire, non dopo quello che ci eravamo detti la mattina prima.
Salii le scale per arrivare al terzo piano lentamente, ascoltando il rumore dei miei tacchi sul marmo consumato e guardando quelle vecchie pareti con l’intonaco grigio scrostato. Forse mi sarebbe mancata Whittier Street, mi sarebbe mancato il 3C ma soprattutto il 3B pensai, chiudendo la prima valigia e aprendo il cassetto della biancheria – l’ultimo – per sistemare il contenuto nella seconda. Sì, sarebbe stato stupido mentire, mi sarebbero mancati, ma era meglio così per loro, perché volevo bene a quei pazzi scatenati – un po’ volevo bene anche a Ryan, o forse, semplicemente, lo odiavo meno – e non avrei mai voluto che qualcun altro di loro morisse. Se fossero morti senza che la notizia mi giungesse forse sarebbe stato addirittura meglio.
Sentii qualcuno bussare insistentemente alla mia porta, con urgenza. «Lexi, apri la porta». Un urlo, la voce di Brandon. Lasciai la canottierina che avevo in mano sopra al materasso e corsi verso la porta, sbattendoci contro e indietreggiando di un passo per aprirla.
«Cosa succede?» domandai a Brandon, vedendo il suo sguardo sconvolto e i suoi capelli bagnati dalla pioggia. Era spaventato e aveva il fiato corto per la corsa che probabilmente aveva fatto per raggiungermi. Prima ancora che pronunciasse le parole il mio respiro si fermò, in attesa di capire che cosa fosse successo.
«Ryan sta andando dai Misfitous, da solo. Vuole ucciderli tutti».

 
 
 
 
Per prima cosa vorrei scusarmi per l’immenso ritardo di questo capitolo che arriva a quasi un mese dall’altro. Mi scuso infinitamente, ma in questo periodo non c’era proprio la voglia di scrivere per diversi motivi annoianti che non starò qui a dire, perché non voglio stancarvi.
Tornando al capitolo… non ho poi molto da dire. Tanti ritorni che ho sempre voluto inserire (ammetto che vorrei scrivere una OS Sick/Claire perché hanno tanto da dire. Ci sarebbe anche qualcosina Brandon/Irene, ma forse più avanti, visto che dalla fine del capitolo si intuisce che Irene al momento non è la priorità di Brandon).
Ah sì, il Joseph Rodman Drake Park è un piccolo cimitero a Hunts Point. Ha una cinquantina di lapidi e come ho scritto sono tutte vecchie, nel senso che l’ultima persona seppellita lì deve essere più o meno morta nel 1850. Mi sono presa la licenza di dire che gli Eagles usano quel cimitero come cappella perché è vero che J.R. Drake ha scritto “The American Flag”. Comunque il lungo viale con gli alberi (come avevo descritto durante il funerale di JC senza saperlo) e il cancello esistono davvero, e il cimitero è a un paio di isolati da Whittier Street.
È anche stato svelato il mistero di Peter, finalmente si scopre il suo legame con gli Eagles e perché sappia così tante cose su di loro. Ci sono ancora un paio di misteri su di lui, ma non credo svelerò altro, o magari più avanti, devo ancora capire cosa sarà utile e cosa no.
Comunque, quando Peter parla di suo padre Night, dicendo che è nel buco, significa che è in isolamento, quindi non ha tutti i privilegi degli altri carcerati (mi sembra non sia possibile nemmeno l’ora d’aria fuori dalla cella, forse una doccia al giorno, ma non ci metterei la mano sul fuoco); insomma, un gergo dei carcerati per dire che si è in una cella di isolamento.
Per quanto riguarda una mia possibile pausa per l’estate… io sinceramente non ne ho bisogno, non aggiornerò ogni settimana, però non mi va di fermarmi un mese o più, ecco. Scriverò e non appena avrò un capitolo pronto lo pubblico, anche perché il capitolo 18 per me è davvero importantissimo e forse, assieme al 16, è il capitolo centrale di tutta la storia.
All’inizio, nella lunga lista dei video, si è aggiunto: Goodbye Dollar. Un video che è nato come una scommessa da parte di The carnival che mi ha detto «siccome tu mi hai fatta piangere con il capitolo io farò lo stesso con un video». Inutile dire che ci è riuscita alla grande.
Come sempre –anzi, stavolta più di sempre –ringrazio tutte le meravigliose recensioni che mi avete lasciato allo scorso capitolo e tutte voi che aggiungete la storia ai preferiti, seguiti e da ricordare e anche chi ha il coraggio di mettermi tra gli autori preferiti.
Ricordo per chi volesse il gruppo spoiler: Nerds’ corner.
A presto.
Rob.

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Capitolo 18
*** Sex and fire in the rain ***


YSM
 
 
«Cosa?» urlai, spalancando gli occhi per la sorpresa. Ryan stava andando dai Misfitous da solo? E perché mai stava facendo una cosa simile? Brandon si portò una mano tra i capelli, non curandosi delle gocce di pioggia che corsero lungo il suo viso, dopo quel gesto.
«Io… non… non riusciamo a fargli cambiare idea. Sick se ne è andato e siamo solo io e i ragazzi. Ti prego, aiutami». Una supplica, ecco quello che stava facendo Brandon. Senza nemmeno pensarci lo scostai, correndo giù per le scale scalza. Sentivo i passi di Brandon dietro di me; mi stava seguendo senza dire niente. Arrivati al portone dello stabile Brandon allungò il passo, superandomi e correndo fino all’entrata del garage. Non sentivo nemmeno la pioggia che sbatteva addosso a me, bagnando quel vestitino che non avevo nemmeno avuto il tempo di togliere. Non mi accorgevo nemmeno del freddo, nonostante fosse metà gennaio e la neve imbiancasse ancora tutta Hunts Point. Niente era più importante di correre da Ryan per fermarlo prima che si uccidesse per vendicare Aria e Dollar.
Svoltai l’angolo dello stabile e trovai Ryan sulla sua moto, circondato da Paul, Josh, Lebo, Ham e Swift che tentavano di dissuaderlo dall’andare dai Misfitous. Ryan non li ascoltava nemmeno, impegnato com’era a dare gas alla moto per cercare di avviarla. Corsi fino ad arrivare davanti a lui, scostandomi i capelli bagnati che non mi permettevano di vederlo chiaramente. «Che cosa fai?» strillai, stringendo i pugni lungo i fianchi. Vidi i ragazzi fare un passo indietro, lasciandomi più spazio; Ryan invece continuava a spingere il piede sempre più forte, rischiando di rompere la moto che non ne voleva sapere di partire. Ringraziai mentalmente chiunque, da lassù, non permettesse a quell’aggeggio di accendersi e feci un altro passo in avanti, in modo che se anche fosse riuscito a far partire la moto non sarebbe potuto andarsene senza investirmi.
«Vattene» ringhiò, senza smettere di provare ad avviare il motore. Sembrava impazzito e forse lo era davvero. Non indossava nemmeno il casco; i capelli, completamente bagnati, ricadevano sulla sua fronte e la felpa scura che indossava era zuppa. Quando, dopo un altro tentativo, vide che il motore non voleva saperne di accendersi, scese, portandosi una mano alla fronte. Vedevo il suo petto alzarsi e abbassarsi troppo velocemente, come se fosse sotto shock e potesse esplodere da un momento all’altro.
«Ryan…» sussurrai, avvicinandomi a lui e appoggiandogli una mano sul braccio. Quel gesto sembrò quasi spaventarlo, perché indietreggiò di un passo, guardandomi poi furioso. Istintivamente, sicura che non mi avrebbe fatto del male, avanzai verso di lui. Volevo fargli capire che stava sbagliando, che quel pensiero che l’aveva sfiorato non era la soluzione migliore da adottare. Ryan era troppo impulsivo.
«Non dovevi andartene? Perché cazzo sei ancora qui?». Ryan mi fronteggiò, fregandosene dei ragazzi che, a qualche metro da noi, guardavano la scena senza intervenire. Il suo sguardo ferito e la sua voce piena d’ira non mi spaventavano; avevo imparato a conoscerlo, avevo scoperto che nascondeva i suoi sentimenti con la rabbia, ma se voleva sapeva controllarla. Tornò alla moto e, senza salirci sopra, provò di nuovo a dare gas. Sembrò per qualche istante che il motore si avviasse, ma – fortunatamente – fu solo un’illusione momentanea.
«Perché tu stai facendo il cretino e andrai ad ammazzarti» spiegai, rispondendo alla sua domanda con un nuovo urlo. Perché se me ne fossi andata senza fermarlo sarei stata la persona più egoista della terra, soprattutto perché se l’avessi lasciato andare sarebbe morto di sicuro. Mi scostai di nuovo i capelli dal viso, cercando di tenere gli occhi aperti nonostante la pioggia fosse sempre più forte e mi picchiettasse addosso, facendo quasi male.
«Non morirò. Devo ucciderli». Lo sguardo di Ryan si fermò per qualche istante, rimanendo incatenato al mio; sembrava volesse farmi capire che andare dai Misfitous per ucciderli fosse la soluzione migliore. Poi, come se si fosse risvegliato all’improvviso, tornò a dedicarsi alla sua moto, cercando di accenderla. Ancora una volta Ryan imprecò quando il motore non ne volle sapere di avviarsi. Interpretavo quel gesto come un segno, come se qualcuno mi stesse urlando che dovevo fermarlo.
«Ryan per favore» supplicai, appoggiando la mia mano sulla sua che stringeva il manubrio della moto. Ritrasse la mano alzandosi il cappuccio della felpa sulla testa – probabilmente per cercare di ripararsi di più dalla pioggia – inutilmente; sentivo anche dei tuoni in lontananza, come se un temporale si stesse avvicinando. Mi voltai a guardare Brandon, sul suo volto lo sguardo disperato di chi è a conoscenza che qualcosa di brutto può accadere se non si è in grado di cambiare il corso delle cose. Ryan sembrava davvero un pazzo, ma non riuscivamo a fermarlo; io non sapevo più che cosa fare o dire.
«Ryan, non andare, fermati» urlò Brandon per farsi sentire sopra lo scrosciare dell’acqua; Ryan però non smise di provare ad avviare la moto, alzando il viso e guardando Brandon come se fosse arrabbiato anche con lui, come se Brandon non capisse quello che lui voleva fare. Vidi Brandon socchiudere gli occhi per qualche istante, in una muta preghiera verso Ryan e i suoi assurdi colpi di testa.
«Col cazzo. Hanno ucciso due ragazzi di sedici anni, non capisci? Erano due ragazzi, avevano tutta la vita davanti e loro li hanno uccisi, devono pagarla». Ryan si allontanò dalla moto, avvicinandosi a Brandon e fronteggiandolo. Era la prima volta che lo vedevo così furioso mentre parlava con Brandon – visto che di solito a lui si rivolgeva in modo diverso –; quello che però mi stupì fu l’atteggiamento di Brandon: non tentò di farlo ragionare come le altre volte, non gli diede contro. Rimase semplicemente a guardarlo, immobile, come se temesse che qualsiasi azione avrebbe potuto sconvolgere ancora di più Ryan. Sembrava quasi che Brandon avesse perso tutte le speranze. Che fosse quello il motivo per cui mi aveva chiamata?
Dovevo intervenire di nuovo, perché non potevo permettere che Ryan morisse, no. «Ryan, pensaci, non è il momento migliore per fare queste stronzate». Non sapevo più come dirglielo e temevo che appena fosse riuscito ad avviare la moto nessuno sarebbe riuscito a fermarlo. Questo era il mio più grande timore.
«Non sei tu a dovermi dire quando è il momento migliore, non capisci? Dollar e Aria sono morti. Andrò dai Misfitous a ucciderli, cominciando da BB Child, così non uccideranno più nessuno». Di nuovo il suo sguardo incatenato al mio, quella luce nei suoi occhi che gridava vendetta ed era assetata di sangue. Quello stesso sguardo però nascondeva tristezza, delusione e forse qualche altra emozione; la stessa che non riuscivo mai a decifrare.
«Sì, mi sono accorta, li ho visti anche io lì per terra, cosa credi? Abbiamo sofferto tutti. Ragiona, cazzo. Possibile che tu non capisca che così morirai? Ti farai uccidere se andrai da solo» strillai, cercando si spintonarlo perché si allontanasse dalla moto. Poi, all’improvviso, sentii un rumore che riuscì a raggiungere il centro del mio petto, urlandomi che era finita. Il rombo del motore della moto fece perdere un battito al mio cuore, togliendomi le forze al punto che per un secondo vidi tutto nero. «Ryan»
sospirai, aggrappandomi con tutta la forza che avevo al suo braccio, in una nuova, muta, preghiera affinché scendesse da quell’aggeggio e la smettesse di fare il cretino.
Scrollò il braccio con forza, facendomi cadere a terra tanto che sentii l’asfalto bagnato sfregare contro i palmi delle mie mani, causandomi un dolore simile a una bruciatura. Riuscii a non picchiare la testa contro il marciapiede solo perché, sorpresa dal gesto di Ryan, non ero indietreggiata. «Vattene, hai detto che l’avresti fatto, fallo» urlò, tanto che la vena sulla sua fronte pulsò. Si mise a cavalcioni della sua moto, senza nemmeno aiutarmi a rimettermi in piedi, dimostrando ancora una volta quanto fosse stronzo.
«Sai cosa? Me ne andrò e tu vai a farti uccidere, così dovranno fare anche il tuo funerale dopodomani» gridai, la voce rotta dalle lacrime che, miste alle gocce di pioggia, rigavano il mio volto. Perché quel gesto di Ryan mi aveva ferita molto di più dentro, rispetto a quelle sbucciature nelle mani che sarebbero guarite nel giro di qualche giorno. Perché Ryan era uno stronzo e non riusciva a non essere egoista nemmeno per un attimo, troppo concentrato ad ascoltare se stesso.
«Non morirò» fu la sua unica risposta, prima di girare il polso per dare gas, mentre alzava il cavalletto, pronto per partire.
Un moto di rabbia improvviso – dovuto alla visione di Ryan su quella moto, sotto a un temporale e una pioggia che non smetteva di scendere –mi salì dentro, tanto che esplosi, urlandogli contro e fregandomene delle parole che uscivano dalle mie labbra come singhiozzi. «Forse è meglio che tu invece lo faccia, tanto a nessuno interessa se morirai o meno». Non aspettai nemmeno di vederlo partire, mi girai, correndo il più veloce possibile per allontanarmi da quel parcheggio; per allontanarmi da Ryan e anche da tutti i ragazzi. Dovevo andarmene da Hunts Point. Sbattei il portone d’entrata correndo su per la scala e rischiando di cadere più volte perché i miei piedi nudi e bagnati scivolavano sul marmo freddo; quando arrivai al pianerottolo del terzo piano e mi accorsi che Brandon si era dimenticato di chiudere la porta d’entrata del mio appartamento trattenni un singhiozzo, varcando la soglia di casa e sbattendomi con forza la porta alle spalle.
Stavo tremando; tremavo di freddo e di rabbia. Tremavo perché non ero riuscita a fermare Ryan, perché mi aveva vista piangere e perché stava andando a uccidersi, solo per dimostrare che lui avrebbe sconfitto quella stupida banda di teppisti.
Non pensai nemmeno a medicarmi i palmi delle mani che bruciavano e avevano macchiato di sangue il mio vestito ormai completamente zuppo, no. Dovevo solo riempire la valigia con le ultime cose e andarmene da lì, senza sapere se Ryan sarebbe riuscito o meno a sopravvivere.
Per questo, quando – una volta arrivata in camera – sentii bussare alla porta, mi si bloccò un singhiozzo in gola, lasciando che una lacrima scendesse lungo la mia guancia. Non era un bussare normale, era il bussare di Ryan; quei colpi contro la porta, come se volesse romperla.
Camminai velocemente verso la cucina, aprendo la porta all’improvviso per esplodere di nuovo contro di lui. «Sei così stronzo da volermi vedere piangere per te? Vuoi anche una fotogr…» iniziai a dire tra i singhiozzi, non riuscendo a terminare la frase perché qualcosa me lo impedì. La mano di Ryan si appoggiò alla mia guancia, attirandomi a lui tanto che le parole morirono catturate dalle sue labbra. Accadde così velocemente che non riuscii a capire cosa stesse succedendo, l’unica cosa che sentii fu il rumore di uno scoppio; non capivo nemmeno da dove provenisse, ma sentivo uno strano calore al centro del mio petto che si stava diradando velocemente in tutto il mio corpo. Era come se le labbra di Ryan – che non volevano lasciare le mie – mi avessero… liberata. Cercai di scostarmi da lui per ragionare, ma non me lo permise, catturando di nuovo la mia bocca mentre mi sbatteva in malo modo contro il muro dietro di me, stringendo lievemente la presa delle sue dita sul mio mento per alzare il mio volto. Quando aprii gli occhi per cercare di spingerlo via, sentii di nuovo quel rumore, quello scoppio simile a un’esplosione, e fu esattamente in quel momento che capii. Le mie mani corsero al viso di Ryan per attirarlo verso di me tanto che mi alzai anche in punta di piedi. Sentivo la barba ispida graffiare i miei palmi sbucciati dalla caduta di poco prima ma non me ne curai, troppo presa dalla grande mano di Ryan che scendeva lungo la mia schiena, attirandomi verso di lui. Fu così istintivo per me sollevarmi e agganciare le mie gambe attorno ai suoi fianchi che mi ritrovai –prima ancora di rendermene conto –con le dita immerse tra i suoi capelli; sentivo le sue ciocche bagnate tra le mie dita e, senza smettere di mordicchiare le sue labbra, ne tirai qualcuna quando sentii le sue mani muoversi frenetiche sulle mie gambe per cercare di sollevare il mio vestito. Non era facile, me ne rendevo conto a ogni passo di Ryan verso la mia camera, mentre mi muovevo quasi in modo frenetico perché il mio corpo era scosso da brividi: era quasi fastidiosa la sensazione dell’abito bagnato e freddo che contrastava la mano e il corpo caldo di Ryan contro il mio.
«Alexis» mormorò sulle mie labbra, appoggiando la fronte alla mia quando sentii il legno dello stipite della porta contro la mia schiena. Aprii gli occhi, cercando di capire quello che stava succedendo, ma vedere Ryan – il suo viso, i suoi occhi stanchi e di un azzurro ancora più profondo del solito – davanti a me, mi fece perdere la ragione di nuovo. O forse, semplicemente, me la fece ritrovare. Non gli lasciai il tempo di aggiungere altro, accarezzando le sue labbra con la mia lingua e stringendo con più forza i suoi capelli tra le mie dita. Sentii qualcosa di morbido contro la mia schiena e, quando aprii gli occhi per cercare di capire cosa fosse successo, vidi Ryan sorridere davanti a me; eravamo sul mio letto, Ryan era disteso sopra di me e la sua mano destra continuava a sfiorare la mia guancia, senza veramente muoversi. Era… era il suo sguardo l’unica cosa che si spostava; mi scrutava, guardava ogni singola cellula del mio volto senza smettere mai e mi faceva sentire in imbarazzo, quasi esposta. Sembrava che Ryan riuscisse a leggermi l’anima solo attraverso lo sguardo. Incapace di sostenere i sui occhi lo attirai a me, tornando a baciare le sue labbra morbide e torturare i suoi capelli. Sentii le sue mani muoversi sul mio corpo e scendere fino alle mie gambe; le sue dita si aggrapparono al bordo del mio vestito e cercarono di alzarlo affinché potessi levarmelo ma non era facile, soprattutto perché eravamo entrambi bagnati e i nostri vestiti erano zuppi. Quando Ryan riuscì a togliermi il vestito, rabbrividii sentendo le sue mani a contatto con la pelle della mia schiena. Quella carezza riuscì a stupirmi; involontariamente avevo sempre associato a Ryan dei gesti molto più fisici, come se anche in momenti così intimi fosse costretto a usare la forza. Ryan invece era dolce. Lo erano le sue dita che sfioravano la mia schiena salendo verso la chiusura del reggiseno e lo erano anche le sue labbra che non smettevano di torturare le mie. Istintivamente tirai verso di me la sua felpa, cercando  goffamente di levargliela; avevo fretta, avevamo fretta. Era come se dentro alla mia camera da letto si respirasse la paura di una magia che finisce, come se da un momento all’altro tutto potesse tornare alla normalità prima che ce ne potessimo accorgere. Per questo – credo – Ryan mi aiutò a togliergli la felpa scura e la maglia bianca a maniche corte che portava sotto. Non ebbi nemmeno il tempo di lanciare quei vestiti per terra che Ryan iniziò a slacciarsi i pantaloni, abbassandoli in un movimento frenetico. Sentii un suono simile a un gemito trattenuto quando Ryan si abbassò di nuovo, togliendosi anche i boxer.
Non pensai a nulla, attirai solo il volto di Ryan verso di me per baciarlo ancora, inarcando la schiena affinché potesse raggiungere il gancetto del mio reggiseno per aprirlo. Sentii la stoffa allentarsi attorno al mio busto e le dita di Ryan che veloci sfilavano le spalline dalle mie braccia. In pochi istanti anche i miei slip seguirono tutti gli altri capi sul pavimento e mi ritrovai nuda sotto di Ryan; sentivo il respiro accelerato e un martellare continuo che non mi permetteva di udire nulla, era come essere schiava di un incantesimo. La mano di Ryan sfiorò il mio collo, scendendo ad accarezzarmi il seno e il fianco, per poi attirarmi verso di lui in modo possessivo tanto che quel movimento mi strappò un gemito, o forse lo fece l’irruenza di quel gesto; come se Ryan volesse farmi capire che gli appartenevo. Sentivo i nostri corpi attratti l’uno dall’altro, perché c’era l’urgenza di trovarsi; lasciavo le mie mani muoversi frenetiche sulla sua schiena e percepivo i brividi che ogni movimento del corpo di Ryan faceva nascere sulla mia pelle. Perché sentire Ryan sopra di me era come ritornare a casa, o forse semplicemente trovarla per la prima volta.
La mano di Ryan scese di nuovo, sfiorandomi il ventre e graffiando la mia coscia prima di spostare il mio ginocchio per sistemarsi meglio sopra di me. Quel gesto mi mozzò il respiro, tanto che vidi lo sguardo di Ryan rabbuiarsi per qualche istante, come se temesse di aver fatto qualcosa di male. Cercai di rassicurarlo con lo sguardo, spostando anche l’altra gamba in un chiaro invito che Ryan accolse subito tanto che mi ritrovai rigida e immobile, in attesa. Il respiro fermo e gli occhi chiusi, come se temessi che Ryan potesse ferirmi; per questo, quando qualcosa di morbido sfiorò il mio collo per fermarsi sulla mia spalla, rilassai i muscoli del mio corpo, aggrappandomi con tutte le mie forze alle spalle di Ryan e ignorando la sensazione di fuoco che avevo suoi miei palmi sbucciati quando sfioravo il corpo di Ryan, accarezzando la sua pelle o i suoi capelli.
Perché era la sensazione del corpo di Ryan che si univa al mio e dei muscoli delle sue braccia tesi per non cadere addosso a me che sentivo, era il martellare del mio cuore quello che mi impediva di udire il gemito trattenuto di Ryan; era il mio corpo che cercava di adattarsi a lui che fremeva.  Lo sentii sospirare senza nemmeno muoversi, tanto che istintivamente il mio bacino si spostò in avanti, causandogli un gemito e un insulto. Mi fermai, credendo di aver fatto qualcosa di male ma Ryan mi stupì di nuovo, portando la sua mano dietro la mia schiena e sollevandomi appena – senza però separarmi da lui – fino a portare le sue gambe sotto di me perché potessimo essere entrambi seduti uno davanti all’altra. Istintivamente portai le mie mani tra i suoi capelli, unendo le mie labbra alle sue e ringraziandolo perché in quella posizione era più facile per me vedere il suo viso. Sentivo le sue mani muoversi delicate sul mio corpo, fermarsi suoi miei fianchi senza costringermi però a qualsiasi ritmo; Ryan mi stava lasciando carta bianca, completamente. Ero io a dettare il ritmo dei nostri sospiri, guidata solo dalla presa delle sue mani sui miei fianchi che si faceva sempre più forte, a mano a mano che aumentavo il ritmo dei miei movimenti perché sentivo il piacere avvicinarsi sempre di più, tanto che graffiai la sua nuca, scendendo lungo la sua schiena, cercando di trattenere un gemito più profondo degli altri. Mi accasciai su di Ryan, appoggiando la fronte sulla sua spalla e tentando di riprendere fiato mentre sentivo il suo corpo muoversi freneticamente alla ricerca dello stesso piacere che invadeva ogni singola cellula del mio corpo, annebbiandomi la vista e alterando i miei sensi. Perché dovevo per forza avere i sensi alterati: non poteva essere una lacrima quella che stava scendendo lungo il volto di Ryan, correndo veloce verso il suo mento per nascondersi tra la sua barba ispida. Mi sporsi verso di lui sfiorandogli la guancia con le labbra e sentendo una goccia salata bagnarle. Quel sapore, mischiato alla voce di Ryan che sussurrò il mio nome aumentando la presa sui miei fianchi fu in grado di abbattere totalmente il mio muro; quello che mi divideva da lui, quello che avevo creato perché non potesse ferirmi.
Quello che mi faceva continuamente pensare che non avesse un cuore.
Socchiusi gli occhi, cercando di respirare a fondo per far tornare il battito del mio cuore normale – cuore che sembrava scappare assieme a quello di Ryan – e per la prima volta sfiorai con il naso la pelle della spalla di Ryan scoprendo che il suo odore era qualcosa che non avevo mai sentito. Ryan profumava di... era un miscuglio di più odori; il dopobarba di mio papà, l’odore di salsedine che si respirava all’alba sulla spiaggia e forse anche quella miscela di odori che c’era sotto alla ruota panoramica del luna park, lo stesso dove avevo dato il primo bacio e dove mi ero innamorata del mio primo ragazzo, quello che mi aveva insegnato ad amare.
Ryan si spostò, interrompendo il flusso dei miei pensieri e lasciandomi seduta nuda in mezzo a quel grande letto. «Devo andare, i ragazzi hanno bisogno di me» bofonchiò, indossando con movimenti convulsi i boxer e i jeans e lanciando per terra i miei slip e il mio reggiseno che erano finiti sopra alla sua maglia e alla sua felpa che indossò, tenendo il cappuccio alzato sul capo. Senza nemmeno voltarsi verso di me se ne andò. Non spiegò quel suo gesto e non motivò la sua scelta improvvisa di andarsene.
«Ryan» sussurrai, sentendo la porta di casa chiudersi e subito dopo un silenzio quasi inquietante tutto attorno a me.
In un gesto meccanico cercai di coprirmi con il lenzuolo, portandolo fino alle mie spalle. Non riuscivo però a muovermi; ero come pietrificata, seduta lì sul mio letto con le lenzuola ancora umide di pioggia e sudore. Il mio respiro ancora accelerato e il cuore che non voleva smetterla di battere all’impazzata. Era come se stessi vivendo la situazione da esterna, come se il mio cervello non fosse veramente collegato. Forse era semplicemente un metodo difensivo, qualcosa che avevo creato per non farmi soffrire, perché sapevo che se solo avessi pensato a quello che era successo qualche minuto prima avrei sofferto.
Presi un respiro profondo abbandonando il capo all’indietro, cercando di riordinare le mie idee. Dovevo alzarmi, fare una doccia per togliere l’odore di Ryan dalla mia pelle – perché era quasi insopportabile – e dopo dovevo assolutamente finire di preparare le valigie; non potevo permettere che un semplice sbaglio mi facesse cambiare tutto quello che avevo pianificato. Ma si trattava di uno sbaglio? Poteva uno sbaglio essere così grande? Uno sbaglio era una parola scritta in modo errato, un piede appoggiato male su un gradino, un bacio strappato all’improvviso; quello… quello non era stato uno sbaglio. Ci avevo, ci avevamo pensato, eravamo coscienti di quello che stavamo facendo.
Scossi la testa cercando di scacciare quei pensieri che mi stavano confondendo sempre di più e, abbandonando il lenzuolo, scivolai sul letto fino ad arrivare al bordo del materasso; allungai la mano per prendere i miei slip dal pavimento e sentii il rumore di qualcosa di metallico cadere. Guardai per terra, notando –d i fianco al mio reggiseno – una catenina d’oro con un ciondolo. Istintivamente la raccolsi, avvicinandola al mio viso per capire che cosa fosse. Lasciai che quel lungo e sottile filo d’oro scorresse tra le mie dita fino a quando non vidi quel piccolo cerchietto d’oro con un’aquila incisa dentro: era un’aquila con le ali spiegate, esattamente come quella sopra al cuore di Ryan. Sentii la vista appannarsi ancora una volta e nuove lacrime uscire dai miei occhi, senza che potessi fare veramente qualcosa per fermarle.
Strinsi la catenina tra le mani, avvicinandola al mio petto e appoggiando la fronte sulle mie ginocchia, lasciandomi andare a un pianto liberatorio che mi tolse anche il respiro. Singhiozzai stringendo quasi con rabbia quel sottile filo d’oro e capii che prima di lasciare Hunts Point dovevo parlare con Ryan, chiarire che quello che c’era stato non significava nulla, perché andarsene senza aver parlato con lui era davvero da codardi. Sarei andata al 3B e, dopo avergli restituito la collanina avrei spiegato che quando le persone sono tristi o arrabbiate capita che succedano cose di cui poi ci si pente. Gli avrei spiegato che non doveva sentirsi in colpa perché per me non aveva nessun significato quello che c’era stato e non ricordavo nemmeno il profumo della sua pelle o il suo tocco delicato sul mio corpo; no, non ricordavo nulla.
Indossai la collanina scendendo dal letto e camminando lentamente verso il bagno per farmi una doccia: dovevo scaldarmi e lavare via la pioggia che mi aveva bagnato tutti i capelli; poi sarei andata da Ryan a restituirgli la collanina e a parlargli. Perché ero sicura che lui volesse una spiegazione.
 




Dunque… avrei così tante cose da dire su questo capitolo che alla fine non ne dirò nessuna.
Come ho ripetuto all’infinito questo assieme al capitolo 16 era l’idea iniziale di You saved me. Cosa succederà ora? Uhm… potrei quasi sicuramente dire che tre quarti delle vostre supposizioni sono sbagliate perché continuo a portarvi fuori strada e quindi non so se riuscirete veramente a capire come va a finire; c’è da dire però che mancano ancora 4 capitoli epilogo compreso.
Ritornando al capitolo… potrei dire che la seconda scena l’ho immaginata così tante volte da sapervi dire l’esatto angolo con cui la luce che entra dalla finestra colpisce il viso e il corpo di Ryan, potrei anche dire che so a memoria il numero di pieghe delle lenzuola, ma non riuscivo a descrivere la scena come l’ho immaginata. Non sapevo se focalizzarmi esclusivamente nella parte descrittiva o solo sui sentimenti di Lexi. Ho pensato fosse più giusto, visto che è un pov di Lexi, focalizzarmi su quello che lei ha pensato e vissuto. Lo so che come scena fa schifo e ne ho scritte di migliori, ma per me è stato difficilissima scriverla proprio perché sapevo quello che Lexi avrebbe provato una volta chiusa la porta di casa e quindi c’era un blocco. Ma babbeh, quello che è fatto è fatto… :)
Poi poi poi… come sempre ringrazio i preferiti i seguiti e quelli che aggiungono la storia alle ricordate perché siete tantissimi e aumentate ogni giorno di più e io non so mai come ringraziarvi!
Alcuni di voi l’hanno già letta ma per correttezza riporto anche qui JANITOR CLOSET, la OS su Sick e Claire. Se volete farci un salto siete ben accette.
Ultimo, ma non meno importante, come sempre vi ricordo NERDS’ CORNER il mio gruppo dove inserisco spoiler e altro.
A presto per il prossimo capitolo che spero arrivi un po’ più in fretta (a questo proposito mi scuso ancora per il ritardo, però ultimamente non è che io sia al massimo della forma fisica e in mezzo ci sono le vacanze che non aiutano).
Rob.

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Capitolo 19
*** Indifference ***


YSM
 
 
«Ryan, io credo che sia giusto dirti che per me quello che c’è stato prima in camera mia… voglio dire… il fatto che noi abbiamo… che abbiamo fatto… quella cosa, ehm… non significa nulla. Cioè, io lo so che magari per te ha qualche significato ma davvero, per me non è stato nulla. Un momento di debolezza, ero sconvolta per Aria e Dollar, sei piombato in casa mia e mi hai baciata; insomma, vorrei che tu capissi che non mi piaci. Sei un bel ragazzo, certo, ma… ecco… secondo te cosa è stato? Ahh» gemetti frustrata, portandomi le mani tra i capelli e guardando la mia immagine riflessa allo specchio. Ero un’emerita idiota; perché se fossi andata da Ryan a parlargli in quel modo di certo si sarebbe messo a ridere e non avrebbe più smesso di prendermi in giro. Andare da lui a parlare di quello che era successo – qualsiasi cosa fosse –significava offrirgli su un piatto d’argento un nuovo motivo per deridermi; e non era proprio quello di cui avevo bisogno.
Mi serviva un piano B, qualcosa da mettere in atto, qualcosa che non fosse parlare con Ryan; qualcosa come… l’indifferenza. Sì, fingere che poche ore prima non fosse successo nulla sembrava il modo migliore per superare quello che c’era stato.
Avevo bisogno di distrarmi per cancellare dai miei ricordi quelle immagini e sensazioni, dovevo uscire da quella casa e lasciare che l’aria fresca mi schiarisse le idee, perché altrimenti rischiavo di impazzire; insomma, prima di andarmene avrei parlato con Ryan, ma non c’era nessuna fretta, la Florida non sarebbe scappata di certo. Potevo fare la spesa; avrei comprato poche cose, l’indispensabile per un altro paio di giorni, così da non lasciare troppi avanzi nel frigo – anche se ero sicura che i ragazzi avrebbero di sicuro consumato tutto.
Presi la borsa e, dopo aver controllato che non piovesse più, indossai le scarpe e il cappotto, pronta per uscire; quando mi chiusi la porta di casa alle spalle feci un respiro per prendere un po’ di coraggio, preparata ad affrontare Hunts Point e i suoi mille pericoli.
«Ciao lentiggini». Sussultai al suono di quella voce, facendo cadere le chiavi di casa a terra; mi accucciai, rischiando di perdere l’equilibrio. I miei movimenti impacciati fecero sghignazzare qualcuno; sentii persino una risata a stento trattenuta. Alzai lo sguardo e incrociai quello di Sick, il ragazzo che non era in grado di rimanere serio; nonostante si mordesse la mano per non ridere non riusciva a smettere di scuotere le spalle per l’attacco di risa.
«Sono felice di essere comica come il solito, Sick» sbottai, senza spostare lo sguardo. La verità era che non volevo incontrare gli occhi sarcastici di Ryan, sicura che sarei arrossita dall’imbarazzo. Dopo quello che era successo in camera mia aveva ancora il coraggio di salutarmi in quel modo stupido? Forse evitare di parlare era la soluzione migliore, sì. Mi alzai, cercando di raggiungere la scala prima che Ryan potesse bloccare il passaggio, costringendomi a scendere tre rampe di fianco a lui. Fortunatamente ci riuscii. Corsi giù per la gradinata il più velocemente possibile, rischiando di scivolare più volte sui gradini. Mi lasciai però Ryan e i ragazzi alle spalle, sospirando sollevata quando richiusi il portone dello stabile dietro di me.
Birra, mi serviva della birra. Birra che avrei consumato quella sera stessa, sdraiata sul mio divano con un film horror a tenermi compagnia; perché non era proprio serata per guardare film romantici. Avrei mangiato qualcosa in piedi e avrei bevuto un paio di birre; poi, esausta e forse un po’ ubriaca, mi sarei addormentata sul divano. Non era poi un cattivo modo per passare la serata.
«Lexi, aspetta». Non feci nemmeno in tempo a svoltare l’angolo di Whittier Street che uno dei ragazzi, alle mie spalle, mi chiamò. Fortunatamente non era Ryan; per questo, quando Brandon smise di correre dopo avermi raggiunto, rallentai il passo perché ero curiosa di capire che cosa avesse da dire. «Puoi fermarti un secondo?» ridacchiò, quando si accorse che non accennavo a smettere di camminare per la voglia di raggiungere il negozio di liquori. Gli obbedii, fermandomi a un paio di isolati dal Phoenix, senza attraversare l’incrocio nonostante ci fosse il semaforo pedonale con la luce verde accesa. «Grazie» scherzò, mimando un inchino. A quel suo gesto non riuscii a trattenere un sorriso, lasciando che le mie labbra si curvassero all’insù sotto alla spessa sciarpa di lana grigia e azzurra che portavo al collo. «Io volevo solo ringraziarti. Qualsiasi cosa tu abbia fatto… o detto a Ryan prima ha funzionato. Sembra essere meno pazzo, è quasi più tranquillo. Grazie Lexi, ti siamo tutti debitori». La sua mano si appoggiò alla mia spalla per stringerla con un po’ di forza; riuscii a sentire il calore del suo corpo nonostante il giaccone e la felpa che portavo sotto. Brandon mi era davvero riconoscente e le sue parole erano sentite: era difficile credere che potesse mentire quando il suo sguardo – rispetto a quel pomeriggio – era rilassato e quasi felice. Si sbagliava solo su un piccolo particolare, però.
«Io non ho fatto o detto nulla a Ryan. Credo si sia accorto da solo che andare dai Misfitous da solo era un’idea cretina». Di certo Ryan non aveva cambiato idea per essere venuto a letto con me, perché non avevo tutto quel potere per cambiare le sue decisioni. Semplicemente era trascorso un po’ di tempo e poi il suo cervello aveva capito che non era la cosa migliore da fare, se voleva rimanere vivo. Brandon non riuscì a trattenere un sorriso alla mia affermazione, come se sapesse che avevo appena raccontato una bugia. Ma Brandon non poteva saperlo, perché Ryan – orgoglioso com’era – non avrebbe mai raccontato a nessuno quello che era successo, visto che si era trattato di un momento di debolezza. Ryan non si mostrava mai debole.
«Certo, ci credo. Grazie comunque». Ammiccò verso di me, prima di girarsi per tornare a casa lentamente. Non aveva fretta, non correva come aveva fatto per raggiungermi. Sospirai alzando gli occhi al cielo e guardai di nuovo davanti a me, attendendo che non ci fossero macchine sulla strada. Senza aspettare che il semaforo diventasse ancora verde, attraversai arrivando al lato opposto e guardando prima a destra e poi a sinistra. Ero di fronte a un bivio: potevo andare direttamente al supermercato a comprare le birre o fare un paio di isolati in più, fermarmi per prendere una birra al Phoenix, salutare Peter e andare al negozio passando per Coster Street. In fin dei conti era un solo isolato in più, e non avevo nemmeno salutato Peter quella mattina.
Camminai velocemente verso il Phoenix, concentrandomi sulle mie gambe e contando i miei passi per tenere la mente occupata: non volevo pensare di nuovo al 198 di Whittier Street e agli inquilini del terzo piano perché non era proprio il caso. Quando varcai la soglia del locale, Peter mi accolse con un radioso sorriso al quale risposi felice, rilassandomi un po’. L’atmosfera che si respirava dentro a quel locale contrastava con il freddo che c’era fuori e riusciva a rallegrarmi. Soprattutto perché dopo la notizia che Ryan aveva dato a Peter quella stessa mattina, Shirley, l’altra cameriera, aveva subito ceduto il testimone al nuovo proprietario aiutandolo a servire i clienti anche quel giorno.
«Ciao Lexi» mi salutò, indicandomi con un gesto del capo uno sgabello davanti al bancone. Mi allungò un boccale di birra con un simpatico «offre la casa», prima ancora che io potessi fiatare. «Come stai? Va un po’ meglio di questa mattina?». Alla sua affermazione sospirai, alzando lo sguardo e soffermandomi su due cornici nere appese sul muro dietro al bancone: erano Aria e Dollar in due diverse foto; ritratti entrambi sorridenti e intenti a bere una birra proprio in quel locale. Vedere quelle foto mi fece ricordare il funerale, causandomi un groppo in gola che cercai di sciogliere con la birra.
«Va peggio, direi» bofonchiai, tornando a guardare negli occhi scuri di Peter. Il suo sorriso si spense appena e la sua mano accarezzò la mia, sopra al bancone. A quel gesto mi ritrassi subito, nascondendo la mano in tasca del giaccone e avvicinando l’altra al boccale perché non tentasse di nuovo di toccarmi. «Devo andare, scusami» mi giustificai, lasciando la birra a metà e uscendo dal locale dopo aver spintonato un ragazzo che mi aveva sbarrato la strada. Che cosa mi era venuto in mente? Perché ero andata al Phoenix sapendo che c’era Peter? Credevo avesse smesso di provare a essere più che gentile con me, gli avevo chiaramente detto che non ero interessata a lui. Perché tornava a comportarsi in quel modo proprio quel giorno? Perché il tocco della sua mano era risultato quasi fastidioso se comparato a quello che mi aveva sfiorato quel pomeriggio?
Calciai un sasso con tutta la forza che avevo e quello andò a sbattere contro una vetrata dalla parte opposta della strada facendo fischiare qualcuno. Mi guardai attorno, cercando di capire da dove provenisse quella risata che non riuscivo a riconoscere. Non era Ryan, non era nemmeno dei ragazzi; eppure… eppure ero sicura di aver già sentito quel suono gutturale da qualche parte. Istintivamente portai la mano sul cellulare, sbloccandolo e componendo un numero che sapevo a memoria. Era stupido e idiota, ma c’era una strana sensazione che non mi permetteva di essere tranquilla; sensazione che divenne certezza quando dall’angolo della strada vidi uscire Dead e Pitt.
«Hai litigato con il fidanzatino?» ghignò Dead, avvicinandosi pericolosamente a me. Mi guardai attorno, estraendo il cellulare dalla tasca e avviando la chiamata mentre lo portavo dietro alla mia schiena, perché dall’altra parte della cornetta potessero sentire. «Insomma, un calcio così forte a un minuscolo sassolino da una ragazza così piccola… che ti ha fatto il piccolo Calloway, eh?» continuò, avvicinandosi con l’altro ragazzo a me. Indietreggiai di nuovo, finendo con le spalle contro a un muro e sussultando spaventata.
«Che cosa ci fate qui? Non è il vostro territorio» azzardai, sperando di riuscire a dare qualche informazione in più sulla mia posizione. Speravo solo che in linea ci fosse qualcuno. Dead ghignò, fingendosi divertito al punto che diede una pacca sulla spalla a Pitt che espirò il fumo della sigaretta, unendosi a lui in quella risata finta.
«Territorio di confine, ricordi? Il tuo piccolo Calloway non te l’ha detto che il Phoenix è nel territorio di confine? Questa strada è territorio di confine, quindi è di chi vince la battaglia, piccola puttanella di Calloway. Vediamo se ti ha insegnato qualcosa… una parte di questa strada è sotto il dominio dei Misfitous, l’altra degli… come si chiamano, Pitt? Turkey? Crow? Ah no, Eagles. Hai il cinquanta percento di possibilità di essere nella parte del tuo piccolo Calloway ma potresti essere anche in quella sbagliata. Ti do l’opportunità di scegliere se rimanere in questo marciapiede o attraversare la strada e andare nell’altro. Se al mio tre ti troverai sul marciapiede dei Misfitous… be’, credo che Calloway prima di scoparsele debba istruirle. Farà così con la prossima, giusto Pitt?». Il biondo ghignò, annuendo in un gesto di assenso alle parole di Dead. Perché in quella stupida via non c’era nessuno? E perché nessuno accorreva in mio aiuto? Non avevano risposto alla chiamata? Mi guardai attorno, cercando di capire quale lato della strada potesse essere sotto al controllo dei Misfitous e quale degli Eagles, ma non riuscivo a leggere i cartelli con i nomi delle vie vicine. «Uno…» cominciò a contare Dead, avvicinandosi a me lentamente. Lì, sarei rimasta ferma in quel punto. Che quel muro fosse sotto al controllo degli Eagles o dei Misfitous non mi interessava, perché ero sicura che Dead mi avrebbe uccisa in entrambi i casi, visto che non c’erano testimoni. «Due…» continuò, estraendo un coltello da dietro la schiena e alzandolo perché potessi vederlo. Finsi di essere coraggiosa e non abbassai lo sguardo, rimanendo in piedi immobile in attesa che lui e Pitt si avvicinassero a me per ferirmi, o peggio, uccidermi. «E tre…». Il sorriso sul volto di Dead si allargò a dismisura, producendo una smorfia spaventosa che mi fece socchiudere gli occhi per qualche secondo, in attesa di sentire la lama fredda affondare sulla mia gola.
«Sei dalla parte sbagliata della strada, Dead». Nell’udire quella frase sospirai sollevata, portando la nuca ad appoggiarsi al muro dietro di me. Non ero mai stata così felice di sentire quella voce e di vedere i ragazzi. Ryan e Brandon si misero tra me e Dead, nascondendomi. Rimasi immobile, in attesa di capire che cosa stesse succedendo, visto che non riuscivo più a vedere nulla.
«Ed ecco il cavaliere che corre a salvare la sua puttanella. È così importante per te che comincio a credere che deve davvero essere brava. Potresti lasciarmela per una notte?» scherzò, senza spostarsi. Ryan e Brandon non si erano mossi, quindi anche Dead e Pitt dovevano essere rimasti fermi al loro posto.
«Chissà che cosa dirà la gente quando scoprirà che volevi uccidere qualcuno nel nostro territorio. Un Peripheral per di più. Si chiederanno che razza di O.G. hanno i Misfitous, non trovi?» lo provocò Ryan, avanzando di un passo verso di lui mentre la sua mano destra si muoveva lentamente verso la cintura dei pantaloni, dietro alla sua schiena. «Non credi che farà una figura da fighetta, Brandon? Si chiederanno con che coraggio ha violato il patto, no?». Ryan si girò a guardare Brandon di fianco a lui e vidi la sua mano destra impugnare una pistola per poi puntarla verso Dead che imprecò, sussultando e cominciando a indietreggiare. «Quindi io direi che la finiamo di fare queste stronzate e ci vediamo domani sera, o magari dopodomani, che ne dici Dead? In un territorio neutrale, con le bande al completo. Una piccola rivincita per ricordare che hai ucciso un ragazzo e una donna che aspettava un bambino. Sai, gli Eagles non tollerano proprio la violazione di certe leggi, spero tu possa capirmi, no? Se succedesse qualcosa a Kristin mentre torna dal lavoro Mike non ne sarebbe affatto contento, giusto? Pensa se BB Child poi dovesse rompersi un paio di ossa. Povero, così giovane e già con qualche cicatrice sul corpo…». Ricordai perché Ryan mi sembrasse pericoloso: la sua voce, il suo tono così basso che sembrava stesse sibilando; stava intimidendo Dead e Pitt, e ci riuscì, visto che, spaventati, se ne andarono senza dire niente. Vidi la mano di Ryan tornare dietro alla sua schiena per nascondere la pistola che aveva preso in mano; si scambiò uno sguardo con Brandon prima di girarsi verso di me per ammonirmi con un’occhiata. «Che cazzo ci fai qui, tu?» sbottò, incrociando le braccia al petto, in attesa di una mia risposta.
«Stavo andando a fare la spesa, non posso?» cercai di affrontarlo, nascondendo il mio telefono dentro al giaccone e guardandomi attorno per capire da che parte fosse il supermercato. Non avevo mai camminato per quelle vie di Hunts Point ma sapevo che Coster Street si congiungeva a Randall Ave, per questo –quando vidi alcune macchine sulla strada alla fine di Coster Street alla mia sinistra – capii che sarei arrivata al supermercato andando in quella direzione.
«Perché cazzo sei venuta qui? Coster Street è territorio di confine» proruppe di nuovo, avvicinandosi di un passo a me tanto che istintivamente mi allontanai da lui, incapace di rimanere per troppo tempo a così poca distanza dal suo corpo. Feci un nuovo passo indietro ma Ryan mi seguì, come se volesse di nuovo avvicinarsi a me.
«Perché sono andata al Phoenix, non posso? Mi è proibito? E non lo so che Coster Street è territorio di confine, ok? Non so queste stupide cose da gang e non mi interessano. Ma fammi il favore di dire a Dead che non sono la tua puttanella, perché è la seconda volta che vuole farmi del male convinto che io lo sia». Non aspettai nemmeno una sua risposta, cominciai a camminare lungo Coster Street – lungo il marciapiede che era territorio degli Eagles – per arrivare il più presto possibile a Randall Ave. Non mi interessava di Ryan e Brandon, sapevano badare a loro stessi molto più di quanto potessi farlo io. Loro avevano armi, muscoli e conoscenza di vie e stupidi trattati del Bronx.
«Ehi lentiggini, potresti almeno ringraziare perché ti abbiamo salvato il culo». Qualcosa mi strattonò il braccio, costringendomi a girarmi. Era un tocco familiare, ma la forza non era certo dolce. Quel gesto si mischiò al ricordo del tocco di Ryan sul mio corpo, facendomi vacillare appena. No, non c’era niente del dolce Ryan di quel pomeriggio in quello sguardo severo e furioso davanti a me. Probabilmente mi ero immaginata tutto.
«Grazie?» domandai ironica, pronta per esplodere. Gli avrei detto che non dovevo ringraziarlo per nulla, visto che era per colpa sua e dei suoi stupidi amici gangster se avevo rischiato di morire per due volte. Gli avrei anche ricordato che forse era lui a dovermi ringraziare, viste le innumerevoli volte in cui mi avevano svegliato nel cuore della notte perché potessi medicarli.
«Ehi, ragazzi, basta. Siamo stati fortunati che Lexi ha avuto il sangue freddo di chiamarti e abbiamo capito dov’era. Non è successo nulla e tutto si è sistemato, andiamo Ryan. Lexi sta attenta, d’accordo? Ci vediamo a casa». Brandon si mise davanti a me, riparandomi da Ryan – o forse facendo da scudo a lui contro la mia ira – e lo spintonò dalla parte opposta, senza che avessi il tempo di aggiungere altro. Perché diamine dovevo sempre fare la figura della stupida quando era Ryan a comportarsi da idiota?
Avevo un assoluto bisogno di birra, tanta birra. Così tanta da non ricordare nemmeno come mi chiamavo. Quando entrai nel supermercato non badai nemmeno alla commessa che mi salutò cordialmente, mi diressi verso il reparto liquori, prendendo tre confezioni di birra e andando subito dopo alla cassa, senza fare caso al sorriso cordiale della cassiera. «C’è qualche festa?» scherzò, cercando di farmi parlare. Presi il portafoglio dalla borsa, allungando dieci dollari sopra al rullo. Non aspettai nemmeno il resto, imbustai le tre confezioni di birra uscendo dal supermercato senza salutare. Non ero dell’umore adatto; Ryan mi aveva di nuovo fatta arrabbiare, esattamente come succedeva da quasi nove mesi.
Arrivai a casa e sistemai le birre in frigo, scaldandomi una pizza surgelata al microonde e indossando un paio di pantaloni della tuta e una maglia a maniche corte mentre aspettavo che la mia cena finisse di scongelarsi. Mentre mi toglievo la maglia sentii qualcosa picchiettare sul mio stomaco e ricordai che indossavo ancora la catenina di Ryan. Abbassai lo sguardo, prendendo quel piccolo ciondolo d’argento e rigirandomelo tra le dita. «Vaffanculo Ryan Calloway» sibilai, indossando la maglia scura che avevo preso dalla valigia di fianco al mio letto e dirigendomi verso la cucina. Aprii il forno e misi la pizza sul piatto tagliandola in quattro spicchi poi, dopo aver preso tre bottiglie di birra tra tutte quelle che avevo comprato, andai a sedermi sul divano, appoggiando il piatto sul tavolino di fronte a me.
A metà film avevo già finito la pizza e bevuto due bottiglie. Ricordavo di aver barcollato fino al frigo per prendere la quarta prima di cominciare la terza, poi del film non ero riuscita a vedere il finale, troppo impegnata a bere.
Per questo, la mattina dopo, quando mi svegliai su quel divano mi maledissi da sola nel momento in cui provai ad alzarmi: la testa mi doleva e la stanza girava, in più c’era la sensazione di nausea che si faceva ogni istante più forte. Cercando di combattere contro il mio appartamento che sembrava muoversi come un peschereccio durante una tempesta riuscii ad arrivare al bagno per vomitare. Quando mi alzai dal pavimento per sciacquarmi il viso e vidi la mia immagine riflessa allo specchio mi resi conto che la mia idea di ubriacarmi la sera prima per scordare quello che era successo era così stupida da far apparire l’idea di Ryan di andare dai Misfitous da solo quasi come una genialata. Avevo un assoluto bisogno di bere qualcosa di caldo, possibilmente con molto limone.
Limone che non avevo, visto che in frigo c’erano solamente verdure e birra. Presi un respiro profondo portandomi le mani tra i capelli e capendo che dovevo attraversare il pianerottolo e bussare al 3B se volevo guarire da quella sbornia, così, cercando di camminare lungo i muri per non cadere rovinosamente a terra, arrivai davanti alla porta e, dopo qualche secondo di indecisione, bussai.
«Ciao Lexi, tutto bene?» mi salutò preoccupato Paul, scostandosi perché potessi entrare in casa. Speravo con tutta me stessa che in casa non ci fosse Ryan, perché – anche se avevo affogato tutti i miei problemi con la birra – non ero ancora pronta a vederlo. Speranza che svanì quando lo vidi seduto sul divano a fumare assieme a Brandon e Sick. Stavano discutendo di qualcosa veramente importante, perché non fecero nemmeno caso a me, tanto che mi rivolsi a Paul, appoggiandomi alla porta dietro di me.
«Io… non sto bene e ho bisogno di un limone, potresti prestarmelo per favore? Te lo riporto il prima possibile». Parlavo lentamente e a bassa voce, sperando di passare inosservata a Ryan e a Sick, perché avevo paura delle loro battute. Paul annuì con un sorriso, avvicinandosi al frigo e sparendo dietro allo sportello dopo averlo aperto per cercare il limone. Ricomparve davanti a me giocherellando con quell’agrume scherzando un po’ prima di tendere la mano perché potessi prenderlo. «Grazie» mormorai, stringendo il limone tra le dita e appoggiando una mano sul pomello della porta per uscire.
«Lexi, che succede? Come mai sei qui da noi?» urlò Sick, attirando l’attenzione di tutti su di me. Socchiusi gli occhi, cercando di pensare il più velocemente possibile a una scusa per quel limone. Dire che mi ero presa una sbronza la sera prima non mi sembrava una buona cosa, visto che sicuramente poi avrebbero investigato per scoprire che cosa mi avesse turbata.
«Ho… stamattina non sto molto bene, ho vomitato perché probabilmente ieri sera ho fatto indigestione e volevo farmi qualcosa di caldo usando il limone ma non ne avevo a casa». Come scusa – visto che comunque era una mezza verità – poteva reggere. Speravo solo che non si avvicinassero troppo a me per vedere le mie profonde occhiaie e quanto la luce mi infastidisse.
«Sei incinta? Lo Spirito Santo ha colpito ancora o è stato Peter?» sogghignò Sick, ridendo di gusto tanto che si picchiò la mano sulla coscia, dondolandosi avanti e indietro. Probabilmente per il suo cervello da scemo era una signora battuta, qualcosa a cui tutti i presenti dovevano ridere. Nessuno dei presenti però cominciò a ridere, visto che Paul e Brandon gli riservarono un’occhiataccia e Ryan rimase fermo a guardarmi.
«Sei un idiota» sbottai, voltandomi verso la porta senza badare alla testa che mi doleva e al 3B che girava attorno a me. Uscii da quell’appartamento sentendo l’eco delle risate di Sick e, quando mi chiusi la porta di casa alle spalle, cercai di respirare rimanendo in piedi solo perché la mia schiena era appoggiata al legno dietro di me. Con movimenti lenti scaldai un po’ d’acqua, aromatizzandola con il limone e lo zucchero e, dopo essermi seduta sul divano, mi rilassai bevendo. Ricordavo quando – dopo la prima sbronza – Edge mi aveva insegnato quel rimedio per non avere troppo mal di stomaco la mattina dopo. Io, lui e Soph avevamo bevuto così tante volte quel miscuglio che alla fine era diventato una specie di rito post sbronza.
Passai tutta la giornata sul divano, guardando qualche film che trasmettevano sui canali che il mio vecchio televisore riusciva a prendere e per pranzo mi preparai un po’ di tè che accompagnai con qualche biscotto perché non volevo rischiare di vomitare di nuovo. Alla sera però, ritornata in forze e decisamente affamata, mi preparai un panino che riempii con maionese, pomodoro e mozzarella, esattamente come avevo visto fare alla protagonista del film che finii di guardare prima di andare a farmi una doccia.
Quando, quella sera, mi distesi a letto, mi ricordai che non avevo ancora parlato con Ryan; ma, come mi ero promessa, non sarei stata di certo io quella che avrebbe affrontato l’argomento. Dovevo anche restituirgli la collana che portavo al collo, ma sembrava che nemmeno si fosse accorto di non averla più con sé, quindi probabilmente non era così importante per lui. Ci avrei pensato il giorno dopo, magari.
 
Svegliarsi la mattina perché un raggio di sole ti colpisce in pieno viso non è mai un brutto risveglio, se però i tuoi vicini decidono di piantare un chiodo nel muro confinante con la tua camera tutto cambia significato. Grugnii infastidita da quel continuo rumore e, sbuffando, mi misi a sedere sul letto, sistemandomi la maglia che si era attorcigliata attorno al mio busto durante la notte. «Lentiggini, vuoi aprire questa cazzo di porta?» urlò qualcuno. Sbuffai capendo che non c’era nessun chiodo, solamente un pugno che sbatteva contro la mia porta. Mi alzai dal letto lentamente, raccogliendo i capelli in una coda e passando per la cucina per addentare una brioche; poi, dopo qualche minuto, aprii la porta, trovandomi davanti Ryan con il mento completamente ricoperto di sangue.
«Ho un piccolo problema» spiegò entrando in casa senza che l’avessi nemmeno invitato. Camminò fino alla cucina, spostando una sedia con un piede e sedendosi senza aggiungere altro. Camminando, aveva macchiato il mio pavimento di sangue, visto che il suo naso continuava a sanguinare. Quando si accorse che non mi muovevo, si girò verso di me, per capire che cosa mi bloccasse sulla soglia.
«Accomodati pure» mormorai ironica, chiudendo la porta alle mie spalle per andare in camera a prendere l’occorrente per medicarlo. Quando tornai in cucina, lo trovai nella stessa posizione: schiena dritta e gambe aperte perché probabilmente non voleva sporcare anche i pantaloni – visto che la felpa era tutta macchiata – ma il mio pavimento. Mi misi i guanti, cercando di estraniarmi per non pensare che avrei dovuto medicare Ryan. Era un paziente, non c’era nessun coinvolgimento con lui, di nessuna natura. Con movimenti meccanici spruzzai il disinfettante sul batuffolo di cotone e cominciai a pulire il sangue rappreso dal suo mento e dalle sue labbra, continuando a ripetermi che era solo un paziente e niente di più. Ero quasi sicura che il suo naso non fosse rotto, semplicemente aveva preso una botta forte. Sapevo infatti che si poteva perdere sangue dal naso in seguito a una forte contusione anche senza romperlo.
«Così… sei incinta?» chiese, guadagnandosi una mia occhiataccia. Che cavolo di domande faceva? Credevo fosse più intelligente e soprattutto meno deviato di Sick. Non gli risposi nemmeno, fingendo di non aver sentito cosa aveva appena detto. «Dove hai nascosto la tua curiosità? Non mi chiedi come è successo?» domandò sogghignando, mentre strofinavo il cotone appena sopra alle sue labbra. Ignorai la sua domanda portando le mie mani sul suo naso e muovendolo per sentire se fosse rotto o meno. Come immaginavo non era rotto, aveva semplicemente preso una botta.
«Perché dovrei? Tanto inventerai qualcosa a caso. Saresti capace di dire che è stato Rumpelstiltskin che ti ha picchiato con il suo bastone» ironizzai, prendendo un pezzo di cotone per cercare di fermare il sangue che scendeva sempre più lentamente dal suo naso. Sfiorai inavvertitamente il suo labbro con l’indice e cercai di non far vedere quanto quel contatto mi avesse destabilizzata, concentrandomi di nuovo sul suo naso.
«Questa è davvero una buona scusa, la utilizzerò in futuro» sghignazzò, aspettando che dicessi qualcosa; probabilmente credeva rispondessi di nuovo alla sua battuta, ma non lo feci. Attese in silenzio per qualche secondo, ma non vedendo nessuna reazione da parte mia non disse nulla. Sembrava pensieroso, sentivo il suo sguardo studiarmi e cercavo di fingermi concentrata sul cerotto che stavo applicando sul suo naso. «Mi stai evitando?» chiese, sorpreso. Lo vidi aggrottare la fronte cercando di capire perché lo stessi evitando, così mi sentii in dovere di spiegare.
«Non ti sto evitando Ryan, ti sto ignorando, è diverso». Gettai il cotone sporco di sangue nel cestino e dopo aver disinfettato la tavola con l’alcol mi tolsi i guanti, evitando di guardare Ryan che era ancora seduto; le mani appoggiate alle cosce e quel cerotto bianco sul naso che lo rendevano quasi ridicolo. Perché diamine non se ne tornava nel suo appartamento? L’avevo medicato, no? Bene, non doveva fare colazione, picchiare qualcuno o divertirsi con Butterfly? Che cosa stava aspettando?
«E mi ignori dall’altro ieri» concluse. Da quando si era fatto così attento al mio ignorarlo o meno? Da quando gli interessava sapere se lo ignoravo e perché? Perché non tornava a essere il solito idiota che se ne fregava di tutto e tutti e uccideva le persone dopo avergli rubato i soldi?
«Almeno non fingo che non sia successo» mormorai sovrappensiero, accartocciando il sacchetto quasi con rabbia. Non mi ero nemmeno accorta di aver pronunciato quelle parole – così convinta di averle solamente pensate – fino a quando non vidi Ryan alzarsi davanti a me e appoggiare le sue mani sulle mie spalle per scrollarmi.
«Mi ignori perché io fingo che non sia successo?». C’era quasi una nota divertita nella sua voce; nota che mi fece arrabbiare ancora di più tanto che mi scostai dal suo tocco, allontanandomi di qualche passo da lui. Possibile che dovesse sempre sogghignare in quel modo, alzando solo un angolo delle labbra? Mi infastidiva, cominciava seriamente a infastidirmi.
«No, ti ignoro e basta. Non posso? Va contro le leggi degli Eagles ignorare l’O.G.?». Cercai di sembrare più alta con scarsi risultati, visto che non riuscivo a sfiorare nemmeno il suo collo. Speravo però che a intimidirlo fosse il mio sguardo, più che la mia stazza fisica. Per questo mi concentrai per guardarlo con tutto l’odio che provavo verso di lui. Non sembrò funzionare però, visto che Ryan sospirò, portandosi una mano tra i capelli e avvicinandosi a me.
«Vuoi davvero sapere perché fingo che non sia successo nulla?» chiese, senza aspettare una mia risposta. Non feci nemmeno in  tempo ad annuire che continuò: «perché non voglio voler pensare anche a te, Alexis. Perché preferirei morire io stesso piuttosto di vedere di nuovo il sangue di qualcuno dei miei su quel fottuto flag e perché pensare che tu, che sei così piccola e...fragile, potresti morire mi fa imbestialire. Non so controllare i miei sentimenti, cazzo. Per me è tutta rabbia e godo quando mi sfogo e tiro un pugno. La sensazione delle ossa che si rompono contro la mia mano mi dà una scarica di adrenalina che mi costringe a continuare fino a quando non sento più un muscolo dell’altra persona muoversi. Non voglio dipendere da nessuno e non voglio che nessuno dipenda da me. Ci siamo io, gli Eagles e le risse contro i Misfitous. Non voglio perdere la lucidità perché devo pensare che ogni mia azione può provocare la mia morte e qualcuno ci potrebbe rimanere male. Non è mai stato così per me e mai lo sarà. Quindi no, quello che c'è stato nemmeno lo ricordo e di sicuro non accadrà mai più. Se voglio sfogarmi senza impegno vado da Butterfly, come ho sempre fatto. Lei c’è, quello è il suo compito». Prese un respiro profondo, rilassandosi appena. Cercavo di non far vedere i miei occhi lucidi ma era quasi impossibile; le parole di Ryan erano state in grado di illudermi in un primo momento per poi ferirmi. Perché la verità era che lui non si isolava da tutti perché non gli interessava, ma semplicemente perché così era più facile. Ryan era una persona che stava bene da sola, per questo non aveva mai avuto una Signora ma semplicemente una ragazza da sbattersi quando gli faceva più comodo. Per questo Butterfly ricopriva quel ruolo, perché a lei andava bene essere la valvola di sfogo di Ryan, quella era la sua parte. Perché per Ryan tutti avevano un ruolo; tutti tranne me.
«E il mio? Qual è il mio compito?» domandai, respingendo tutte le lacrime che ormai offuscavano la mia vista. Era stupido, certo. Che cosa mi aspettavo da Ryan? Non era esattamente quello che volevo dirgli io, che non mi interessava ciò che era successo e che era stato solo uno sbaglio? Allora perché continuavo a mordermi il labbro per trattenere le lacrime che non volevo Ryan vedesse?
Ryan indietreggiò appena, avvicinandosi alla porta e dandomi le spalle per qualche istante, senza rispondere alla mia domanda. Sembrò pensarci poi, mentre abbassava la maniglia per uscire, mormorò: «Il tuo compito è quello di tenerci vivi il più possibile». Non aggiunse altro, si chiuse semplicemente la porta alle spalle, lasciandomi ancora una volta da sola in quella casa all’improvviso troppo silenziosa.
No, non dovevo piangere. Era giusto così e soprattutto volevo che andasse in questo modo. Così me ne sarei andata nel giro di una settimana, tempo di salutare bene tutti e di spedire le mie cose. Se Ryan mi avesse parlato in modo diverso sarebbe stato strano. In fin dei conti aveva espressamente detto che di me non gli interessava nulla visto che c’era Butterfly. No, non era vero ma mi piaceva crederlo, era più facile da superare e andava bene così. Perché era stupido piangere per Ryan, per questo andai subito in bagno a sciacquarmi il viso: le gocce d’acqua che scendevano lungo le mie guance non erano lacrime, solamente acqua. Mi asciugai il viso e dopo aver preso un respiro profondo decisi di uscire dal mio appartamento per fare un po’ di spesa. Niente Coster Street o Phoenix però; avrei raggiunto direttamente il negozio e dopo aver comprato qualcosa di diverso dalla birra sarei tornata a casa, sì.
Uscii dal mio appartamento tenendo lo sguardo basso perché speravo di non trovare Ryan di nuovo, invece, mentre giravo la chiave nella toppa per chiudere la porta, sentii un rumore di tacchi sul pianerottolo che mi fece capire subito di chi si trattasse.
«Tette secche, sei ancora qui?» sghignazzò Butterfly, fermandosi davanti alla porta del 3B per guardarmi. Nonostante il freddo indossava solamente una giacca di pelle e sotto una magliettina striminzita che sottolineava la curva del suo seno imbottito di silicone. Ai piedi calzava un paio di stivali con un tacco decisamente troppo alto per me, tanto che sembrava alta quasi quanto Ryan. «Spiegami perché non hai ancora levato il tuo culo rachitico da qui» continuò poi, con la finezza che la contraddistingueva.
Mi avvicinai alle scale ignorandola, perché Butterfly non meritava di certo la mia attenzione; poi però cambiai idea e decisi che forse era meglio essere gentile con lei e non abbassarmi al suo livello. «Me ne vado tra una settimana al massimo» spiegai, voltandomi appena in tempo per vedere sul suo volto un’espressione stupita che cercò di nascondere subito.
«Per fortuna, non ne potevo più di te». Fece comparire sul suo viso un sorriso finto quanto il suo seno, poi bussò alla porta del 3B, aspettando che qualcuno le aprisse per farla entrare. Non aspettai nemmeno di vedere a chi avesse rivolto quel: «ti sono mancata, tesoro?» prima che la porta si chiudesse, visto che cominciai a scendere la scala di corsa per andare il più presto possibile al supermercato.
Una volta uscita dallo stabile non avevo poi così fretta di arrivare al negozio, più rimanevo fuori di casa più mi sentivo tranquilla; visto che ultimamente Whittier Street cominciava a farmi strani effetti: ragionavo in modo disconnesso e il più delle volte reagivo troppo istintivamente. Whittier Street mi stava cambiando, troppo. Era questa la conclusione a cui ero giunta mentre pagavo il conto di quella spesa che mi avrebbe permesso di sopravvivere per la settimana successiva.
Cercai di camminare il più veloce possibile verso casa perché le due buste pesavano e a ogni passo rischiavo di farle cadere a terra: spargere la spesa sui marciapiedi di Hunts Point non era decisamente nella lista delle cose da fare. Per questo, quando le appoggiai sopra al tavolo della mia cucina, sorrisi soddisfatta, togliendomi il giaccone e indossando una felpa e un paio di pantaloni della tuta. Dopo aver sistemato tutta la spesa presi un paio di limoni, dirigendomi verso il pianerottolo. L’ultima cosa che volevo era lasciare debiti a Hunts Point; anche se si trattava solo di un limone non  volevo che i ragazzi fossero in debito con me. Bussai, sperando che non mi aprisse Ryan – visto che non avevo voglia di parlargli e sinceramente nemmeno di salutarlo prima di andarmene; anzi, non volevo più aver a che fare con lui – e sorrisi sollevata vedendo Brandon che ghignò, notando i limoni che avevo in mano.
«Non andremo di certo in rovina per un limone, Lexi» scherzò, spostandosi dalla porta per farmi entrare in casa. Non pensai di guardarmi attorno per controllare che non ci fosse Ryan, troppo distratta da Brandon che mi fece ridere quando mi scompigliò i capelli. Per questo quando, ridendo, indietreggiai scontrandomi contro qualcosa, urlai spaventata.
«Tette secche vuoi stare attenta?» sbottò Butterfly, spintonandomi perché mi allontanassi da lei. Era seduta su uno sgabello poco distante dalla porta, indossava solamente una maglia che non era della sua taglia – probabilmente di uno dei ragazzi – e stava fumando una sigaretta tranquillamente. «Ryan hai trovato qualcosa?» domandò poi, rivolgendo lo sguardo verso l’angolo con i divani e la TV. Seguii la sua occhiata e quasi mi strozzai con la mia stessa saliva: Ryan – vestito solamente con dei pantaloni della tuta grigi, senza maglia o canottiera – continuava a spostare i cuscini della sua poltrona, in cerca di qualcosa. Ma che cosa stava cercando mezzo nudo?
«Sei riuscito a trovarla?» chiese Brandon, dandomi delle pacche leggere sulla schiena perché tornassi a respirare. Lo ringraziai con un gesto della mano, cercando di non concentrarmi troppo sul corpo di Ryan ricoperto di tatuaggi. In fin dei conti l’avevo visto – e toccato – un paio di giorni prima, no?
«No, cazzo. Sono talmente abituato a indossarla che non riesco a ricordare da quando non ce l’ho più. Sono sicuro che il giorno del funerale di Dollar e Aria ce l’avevo per…». Si immobilizzò all’improvviso, con il cuscino della poltrona in mano. Lo rimise a posto lentamente, come se avesse trovato quello che stava cercando. «Credo di ricordare dove ho messo la mia collana. Devo averla nascosta in camera» mormorò, lanciandomi un’occhiata prima di sparire verso la sua camera.
Improvvisamente sentii le guance in fiamme e mi ritrovai a deglutire, cercando di respirare: la collana che portavo al collo sembrò diventare pesante tanto quanto un macigno.
La collana di Ryan… non l’aveva lasciata dentro al suo cassetto in camera, non era possibile, visto che ce l’avevo io al mio collo. Allora perché aveva mentito? Si aspettava che davanti a tutti io la mostrassi, rivelando che la indossavo? Non l’avrei mai fatto, o avrei dovuto spiegare come l’avevo trovata, di fianco al mio letto, avvolta tra i miei vestiti mentre mi rivestivo, dopo aver fatto l’amore con Ryan. O forse, semplicemente, avrebbe bussato alla mia porta cinque minuti dopo, intimandomi di dargli la collana perché era sua e io non avevo il diritto di tenerla, certamente, sarebbe successo così.
«Brandon… tieni pure i limoni; io… io vado. Ci vediamo» salutai, senza badare a Butterfly che cominciò a lamentarsi per la mia maleducazione, visto che non mi ero scusata per la mia presenza lì. Chiusi la porta del 3B correndo verso il mio appartamento come se ci fosse un mostro che mi seguiva, poi, una volta arrivata al sicuro, mi levai la felpa e, raggiunto lo specchio, guardai la mia immagine riflessa e quella catenina color argento che arrivava fino al mio stomaco. Presi in mano il pendente che sfiorava la mia pelle abbronzata e lo rigirai tra le dita, sfiorando le ali dell’aquila rialzate. Fino a quando Ryan non mi avesse chiesto la collana l’avrei tenuta io; doveva imparare che non era sempre il capo e che ogni tanto anche lui doveva abbassarsi al livello delle altre persone. Bastava un semplice «Alexis hai ritrovato la mia collana per caso? Potresti gentilmente ridarmela? » e l’avrei tolta subito. Quanto teneva a quella collana Ryan, visto che aveva detto che non se l’era mai tolta e la indossava sempre?
 
 
 
 
 
 
Saaaaaalve!
Dunque, eccoci con il capitolo 19 che, contrariamente a quanto avevo detto, è il penultimo capitolo prima dell’epilogo. Quindi i capitoli totali saranno 21 e non 22 come precedentemente annunciato, ci sono però due OS con pov diverso da quello di Lexi che saranno pubblicate. Quindi non gioite tanto perché YSM è quasi finita, visto che ci sono anche le due OS :D
Per quanto riguarda questo capitolo invece…
Per quanto riguarda Coster Street… è una via che esiste (come tutte quelle citate nel corso della storia) e si trova poco distante da Whittier Street. Come ho già ribadito non ho rispettato le divisioni di Bloods e Crips quindi non so o meno se Coster Street sia una via di confine per le due bande, ma fingiamo che sia vero, su, lasciatemi questa piccola convinzione.
Quando Dead offende gli Eagles, fingendo di non ricordare il loro nome dice prima Turkey e poi Crow che come tutti saprete significa Tacchino e Corvo, questo per sminuirli abbondantemente, ecco.
Per quanto riguarda lo sfogo di Ryan… quello che ha mentre Lexi lo medica… quella parte l’ho scritta il 23 marzo nelle bozze del mio cellulare mentre andavo a lezione e ogni volta che la rileggo io mi metto a piangere, non chiedetemi perché (cioè lo so che la risposta è che sono idiota, ma non ditemelo, datemi la speranza di non esserlo) e niente…
Mistero della collanina risolto, mhh? Ryan non ha assolutamente lasciato la collanina da Lexi per farle un regalo, semplicemente si è sfilata nella foga del momento. Avevo cercato di farlo capire nel capitolo scorso, descrivendo la catenina come lunga (Lexi continua a dire che le arriva dallo stomaco) perché si potesse capire che si era tolta sfilando la felpa. Poi avevo cominciato a spiegarlo nelle prime recensioni, ma mi ero accorta che vi aveva assolutamente intrippato questa cosa e ho smesso di dirlo, tanto in ogni caso questa scena era prevista e vi avrei spiegato tutto qui.
Niente, non mi pare di avere altro da aggiungere… come sempre ringrazio seguiti, preferiti e da ricordare che aumentano sempre di più, ringrazio tutte le persone che leggono e quelle che hanno addirittura il coraggio di recensire! :)
Come sempre lascio il link al gruppo spoiler dove potete iscrivervi senza problemi visto che accetto tutti: Nerds’ corner. Vi comunico che tra domani e dopodomani inserirò nel gruppo una OS riguardante YSM che non voglio per diversi motivi pubblicare in EFP, quindi se vi va di leggerla sapete che potete trovarla lì.
Ci vediamo presto per l’ultimo capitolo prima dell’epilogo.
Rob.

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Capitolo 20
*** You can keep it ***


YSM
 
 
Erano passati tre giorni da quando Ryan aveva scoperto di aver perso la collana, ma non era tornato a riprendersela o tantomeno ne aveva espressamente parlato con me; in verità non mi aveva proprio rivolto la parola. Dopo il nostro discorso nel mio appartamento Ryan aveva cominciato a ignorarmi esattamente come io facevo con lui. Se ci incontravamo per strada o per le scale, mi salutava solamente con un gesto del capo, tornando poi a parlare con chi era con lui; quando andavo a trovare i ragazzi durante il giorno e lui mi apriva la porta, non si degnava nemmeno di salutarmi.
Era una situazione insopportabile.
Per questo mi ero decisa: sarei partita. Avevo il volo da New York a Miami quel sabato pomeriggio; mi rimanevano meno di due giorni lì a Hunts Point. Quel giovedì poi sembrava scorrere lentamente: in TV non c’era nulla per cui valesse la pena rimanere in casa e fuori c’era un vento freddo che minacciava neve. Mi alzai, decisa a raggruppare gli ultimi vestiti che durante quella partenza così a lungo rimandata avevo più volte spostato dalla valigia all’armadio, quando sentii qualcuno bussare alla porta. Erano dei colpi leggeri, come se chi era all’uscio si vergognasse a essere lì.
«Sì?» chiesi, aprendo la porta e stupendomi quando vidi davanti a me Irene. Sorrideva, in evidente imbarazzo e continuava a guardarsi attorno, timorosa che qualcuno potesse vederla. «Vuoi entrare?» domandai sorpresa. Nonostante frequentasse abitualmente Brandon e il 3B, non avevo parlato con lei molte volte; tendeva sempre a intrattenersi con Brandon.
«Grazie Lexi» sussurrò grata, entrando e richiudendo la porta subito dopo. Che strano comportamento, non l’avevo mai vista così nervosa. «Ti va se ci sediamo?» domandò, indicando il mio divano sgangherato a qualche metro da noi. Annuii, seguendola e sedendomi di fianco a lei. «Ti chiederai che cosa ci faccio qui, non è vero?» azzardò, allargando il sorriso sul suo volto e sistemandosi comodamente, come se fosse a casa sua.
«Be’…» borbottai, alzando le spalle, insicura su cosa dire. Non era di certo bello ammettere che trovavo strana la sua visita, visto che non avevamo un rapporto così stretto –non quanto quello instaurato con Aria, almeno. Irene sorrise, spostandosi una ciocca dei lunghi capelli biondi dalla fronte e appoggiando il gomito allo schienale del divano, perché potessimo essere una di fronte all’altra.
«Arriviamo dritti al punto, ok? Non mi piace girare intorno a quello che ho da dire. Sei ancora convinta di partire dopodomani?». Si fermò, in attesa di una mia risposta. Quella domanda mi sembrò così strana che per qualche secondo rimasi immobile, incapace di capire perché proprio lei mi stesse chiedendo se sarei partita o meno. Sarebbe stato più logico se l’avesse fatto Brandon o uno dei ragazzi –uno qualsiasi, escluso il loro O.G., visto l’odio che provava per me –ma non lei. «Lo so che sembra una domanda strana, posta da me almeno” continuò subito dopo, accorgendosi che non reagivo o rispondevo.
«Certo che partirò, perché non dovrei farlo?». Avevo deciso che sarei partita e così avrei fatto, perché non potevo più rimanere nel Bronx, non con il pensiero di Aria e Dollar ogni volta che attraversavo Edgewater Road. E non avevo più un lavoro, quindi non potevo pagarmi l’affitto. Era un problema anche quello. Probabilmente Peter mi avrebbe assunta di nuovo come cameriera al Phoenix se solo io avessi trovato il coraggio di chiederlo, ma non volevo più lavorare in quel bar.
«Perché non rimani ancora un po’?». Domanda stupida la sua; avevo cento motivi per andarmene e nessuno per rimanere. Non riuscivo ancora a capire che cosa volesse proprio lei, poi. Probabilmente riusciva a leggere la confusione nel mio sguardo, perché non trattenne una risata, abbandonando il capo contro lo schienale del divano, di fianco a lei. Quel gesto mi ricordò Aria e le serate passate a chiacchierare e guardare film, mentre i ragazzi erano a lavorare.
«Perché non ho più nessun motivo per rimanere. Non ho amici, non ho un lavoro e tra meno di quindici giorni nemmeno più una casa, visto che non riuscirei a trovare i soldi per l’affitto di gennaio. È meglio così» conclusi, vedendo il suo sguardo rabbuiarsi. Sembrò pensare a qualcosa da dire per qualche secondo, tanto che, in imbarazzo per quel silenzio che avevo causato, cercai di legarmi i capelli per prendere un po’ di tempo mentre pensavo a qualcosa da dire. Non che non mi piacesse parlare con lei, ma in qualche modo mi sentivo a disagio perché non riuscivo a capire il vero motivo per cui fosse lì, nel mio appartamento.
«Be’, ci sono i ragazzi, ci sono anche io. Mi sei simpatica, dovremmo uscire qualche volta assieme, non credi? E poi se il problema sono i soldi… ho la soluzione! Lavoro in un piccolo negozio in centro a New York, ci serve un’altra commessa, potresti venire a lavorare lì. Pagano bene, c’è un po’ di strada da fare ma se mi trasferisco dai ragazzi potremmo prendere la metro assieme, così ci facciamo compagnia» tentò, cercando di risultare più convincente con un sorriso. La sua mano si allungò per stringere la mia, distante solamente qualche centimetro. Quello strano comportamento mi puzzava. Perché voleva che rimanessi?
«Perché vuoi che io rimanga?». Non era stata proprio lei a dire, qualche minuto prima, che non le piaceva girare attorno al discorso ma arrivare dritta al punto? Bene, allora avrebbe dovuto essere sincera con me, perché non sopportavo le persone bugiarde e false.
«Rimani, Lexi. Da quando sei qui qualcosa è cambiato, sei riuscita a far succedere così tante cose e ho paura che una volta che tu te ne sei andata tutto peggiorerà. Quando sei arrivata hai smosso le acque, Aria e Dollar hanno cominciato a rifrequentarsi e aspettavano addirittura un figlio, io e Brandon ci siamo rimessi assieme e Claire e Sick hanno parlato dopo quasi dieci anni». Non aveva mai smesso di sorridere durante tutta la sua spiegazione, forse per sottolineare che –per lei –con il mio arrivo erano accadute tante cose belle. Io non riuscivo a vederla nello stesso modo. Presi un respiro profondo, ignorando la sua mano che stringeva la mia.
«Io non la vedo così. Da quando sono qui gli Eagles hanno subito tante perdite e in quasi tutte c’entro io. JC era da solo perché siamo andati a Coney Island e non aveva protezione. Aria e Dollar si frequentavano di nuovo? Sì, è vero, e guarda adesso, sono morti. Mi sono ubriacata e ho svelato che John non ci pagava regolarmente e che cosa gli è successo? L’hanno ucciso come se fosse stato un animale da macello. Io non credo proprio di aver smosso le acque in modo positivo Irene, scusami ma non riesco a vederla in questo modo. Ed è questo il motivo principale per cui me ne vado. Hunts Point non è il mio posto». Socchiusi gli occhi, ignorando le lacrime che volevano scendere dopo quel discorso che per settimane mi ero tenuta dentro senza sfogarmi con nessuno. Irene sorrise appena, irritandomi ancora di più.
«Hunts Point è il posto perfetto per te, Lexi. Hai cambiato tante cose e da quello che ho sentito tante cose sono cambiate in te, sei cresciuta da quando sei arrivata qui nove mesi fa». La presa della sua mano sulla mia si rafforzò appena, per farmi capire che le sue parole erano sentite. Oh, ora riuscivo a capire! Tutto diventava chiaro. Risi nervosa, portandomi le mani tra i capelli e tirandone qualche ciocca, disfacendo la coda che mi ero fatta qualche minuto prima.
«Di’ a Brandon che si faccia i fatti suoi, per favore. Senza offesa per lui, Irene, ma non credo che mi conosca così bene da sapere se sono cambiata o meno. E soprattutto, se deve dirmi qualcosa, gradirei fosse il diretto interessato a dirlo, non un’ambasciatrice. Ora scusami, ma ho da….». Non riuscii a terminare la frase perché qualcuno bussò alla mia porta. Irene si alzò in piedi di colpo, guardandosi attorno spaventata; sembrava cercare un posto per nascondersi.
«Ti prego, non dire che sono qui a nessuno, nemmeno a Brandon. Digli che non ci sono e che non mi hai mai vista, inventati qualche scusa, per favore» supplicò, correndo verso il corridoio per chiudersi la porta della mia camera alle spalle. Guardai il corridoio vuoto, confusa. Che diamine stava succedendo? Perché avrei dovuto mentire a Brandon? Ma soprattutto perché nessuno doveva sapere che Irene era lì a casa mia?
«Ciao» salutai, aprendo un piccolo spiraglio perché Brandon non potesse guardare dentro casa mia. Quel gesto probabilmente lo insospettì, visto che cercò di guardare dietro di me, per scorgere Irene. Per fortuna si era nascosta in camera, o l’avrebbe vista subito.
«Posso entrare?» domandò, facendo un passo in avanti, come se fosse sicuro che l’avrei fatto accomodare. Istintivamente socchiusi di più la porta, tanto che Brandon poteva vedere solamente metà del mio viso. Si fermò, vedendo che non avevo intenzione di farlo accomodare e mi guardò con circospezione, soffermandosi per qualche secondo di troppo sul mio sguardo.
«Sono nuda, ho appena finito di fare la doccia e sono nuda. Scusa se non ti faccio entrare, ma sai, non ho nemmeno l’asciugamano addosso e…». Come scusa poteva reggere, visto che non poteva di certo vedere se avevo raccontato una bugia. Brandon sbuffò, incrociando le braccia al petto, come se stesse perdendo la pazienza.
«Lexi, sappiamo che non è vero. E se anche fosse… ti ho già vista nuda, ricordi? Quindi, per favore, spostati dalla porta» minacciò, appoggiando una mano sulla maniglia e spingendo verso di me per aprirla. Cercai di oppormi con tutta la mia forza, ma fu inutile, visto che in pochi secondi mi ritrovai davanti Brandon che sorrise, soffermandosi sui vestiti che portavo. «Dov’è?» domandò, cominciando a guardare dietro al divano e in cucina. Finsi di non aver sentito la sua domanda, seguendolo a mano a mano che si avvicinava alla mia camera. Aprì la porta del bagno grugnendo frustrato quando si accorse che era vuoto. Impossibile non capire che Irene doveva per forza essere in camera, visto che era l’unica altra porta. «Non inventarti che c’è un uomo Lexi, perché non ci credo». Aprì la porta, avvicinandosi a grandi passi a Irene, seduta sul mio letto. Si stava torturando l’unghia del pollice e quando lo vide arrivare cercò di dimostrarsi dispiaciuta, ma Brandon non le lascò il tempo di scusarsi. «Che cosa ti avevo detto? Restane fuori Irene. Non dovevi venire qui, perché l’hai fatto?». Sembrava davvero arrabbiato, tanto che la prese per un braccio, strattonandola quasi in modo dolce perché potesse seguirlo fuori dal mio appartamento. Non aggiunse altro, si chiuse solo la porta alle spalle mentre Irene sussurrava che dovevo pensare alla sua offerta.
C’era poco da pensare riguardo l’offerta di Irene: non avrei accettato. Mi dispiaceva per lei, ma non si trattava solo di soldi –visto che mi aveva anche trovato un lavoro –era più che altro insopportabile rimanere lì a Hunts Point, come se improvvisamente quel piccolo Borough mi fosse diventato stretto. Non credevo nemmeno un po’ alle sue parole, poi, visto che era strano per me sentire una richiesta così proprio da lei, l’ultima persona con cui avevo legato. Quindi la ringraziavo per il suo interesse verso di me e anche per la sua disponibilità a provare a diventare mia amica, ma reclinavo ogni tipo di offerta. In fin dei conti era giovedì ed ero sicura che in un giorno non sarei mai riuscita a socializzare con lei al punto da diventare sua amica e piangere all’aeroporto, mentre la salutavo.
Sarei passata dai ragazzi il venerdì pomeriggio a porgere i saluti; forse potevo anche salutare Ryan, se si degnava di parlarmi, altrimenti ne avrei fatto volentieri a meno. «Si tratta solo di cortesia, tutto qui» pensai tornando in camera mia per finire di sistemare la valigia, visto che ero stata interrotta da Irene, poco prima.
Quella sera, stanca ma soddisfatta di aver sistemato tutto ed essere ormai pronta per la partenza, mi distesi sul divano sgranocchiando un pacchetto di patatine e guardando una commedia che speravo riuscisse a strapparmi un sorriso. In verità, quello stupido film riuscì a rendere peggiore il mio umore, visto che il protagonista indossava una collana a cui teneva visto che gliel’aveva regalata il nonno. Quella commedia aumentò il mio senso di colpa a dismisura, perché cominciai a pensare alla collana di Ryan che portavo al collo; e se fosse stato un regalo di qualcuno? Qualcosa a cui lui teneva e io continuavo a tenerla senza restituirla perché volevo che lui la chiedesse? Sapevo che Ryan era orgoglioso, ma non potevo privarlo di qualcosa a cui magari era davvero legato solo per comportarmi da bambina, non era giusto nei suoi confronti. Era ancora meno una buona idea andarmene con quella collana sapendo che l’avrei privato per sempre di quel ricordo. Infantile, stupido ed egoista, non era qualcosa che io avrei fatto. Quindi dovevo restituirla, al più presto; subito.
Mi alzai dal divano in fretta, correndo verso la porta del mio appartamento e spalancandola per poi attraversare velocemente il pianerottolo e bussare ininterrottamente al 3B.
Nessuna risposta.
Nessuno che imprecava aprendo la porta o ignorandomi. Dove erano i ragazzi? Mi voltai per tornare nel mio appartamento quando sentii la porta dietro di me aprirsi, facendomi sospirare sollevata mentre mi voltavo. Nel momento in cui vidi chi c’era davanti a me però, preferii che nessuno mi avesse aperto la porta.
«Che cazzo vuoi, tette secche?» sbottò Butterfly, accendendosi una sigaretta e chiudendo subito dopo la porta dietro di lei perché non potessi entrare. Si avvicinò lentamente alla scala, attendendo che rispondessi alla sua domanda. Non era il caso di dirle che volevo parlare proprio con Ryan o si sarebbe arrabbiata e temevo che dentro a quella minuscola borsa potesse avere qualche arma con cui ferirmi o peggio, conoscesse qualche mossa di karate in grado di stendermi in due secondi; meglio rimanere vaghi.
«Dovevo parlare con i ragazzi di una cosa, non c’è nessuno di loro?». Così sarebbe stata costretta a dirmi chi c’era in casa –ammesso che non fossero usciti tutti. Butterfly si fermò con un piede sul secondo gradino e si voltò a guardarmi, con uno strano sorriso sulle labbra. Sembrava quasi soddisfatta, ma non riuscivo a capire di cosa.
«Non ti hanno detto che uscivano, eh? Che cosa succede, tette secche, i tuoi amichetti non ti dicono più nulla? Povera piccola incompresa». Si finse addolorata, irritandomi al punto che per qualche secondo fui tentata di avvicinarmi a lei e ripetere l’esperienza di mesi prima: un bel pugno assestato sul suo naso e di nuovo il rumore dell’osso che si rompeva sotto alle mie nocche. Se mi fossi comportata in quel modo però, ero sicura che Butterfly avrebbe reso i miei ultimi giorno a Hunts Point un vero inferno; quindi semplicemente entrai in casa mia, decisa a rimanere sveglia fino a quando i ragazzi non fossero tornati per dormire. Avrei chiesto a Ryan di entrare un attimo nel mio appartamento e gli avrei riconsegnato la collana. Ramanzina? Ci dovevo ancora pensare, l’avrei inventata al momento.
 
Per quante volte avevo camminato dal divano al tavolo, avanti e indietro? Non sapevo dirlo con esattezza, ma visto che l’avevo fatto ininterrottamente per quasi tre ore, dovevano essere davvero molte. Erano quasi le due di notte e dei ragazzi non avevo visto nemmeno l’ombra. Dove diavolo erano finiti? Perché non tornavano a casa a dormire? Non volevo consegnare la collanina il giorno dopo perché poi –visto che mi conoscevo anche troppo –ero sicura che avrei trovato una scusa per posticipare. E io dovevo dargli la catenina al più presto.
Sentii il frastuono delle moto dei ragazzi che sopraggiungevano e qualcuno aprì il portone del garage perché potessero parcheggiarle dentro, mentre il rombo di altre moto che si avvicinava diventò così forte da sovrastare gli schiamazzi. Almeno erano arrivati a casa sani e salvi, anche se sembrava stessero giocando a Tupac e Notorius B.I.G. visto che non capivo perché continuassero a sparare. Improvvisamente mi fermai in mezzo alla stanza, sentendo delle urla sempre più forti e i colpi di pistola che cessavano. Probabilmente avevano solo spaventato qualcuno che li aveva seguiti o magari stavano facendo qualche stupido rituale di cui non mi avevano mai parlato. Non smettevano però di urlare: era un continuo sovrastarsi di voci e grida che non riuscivo a riconoscere. Le mie gambe non volevano nemmeno muoversi perché sapevo che se fossi andata in camera e mi fossi affacciata al balcone avrei visto che cosa stava succedendo in strada. Una parte di me preferiva rimanere all’oscuro, sicura che i ragazzi stessero facendo i cretini come il solito. Sì, doveva essere così, visto che le urla stavano diminuendo di intensità e tutto intorno a me ritornava a essere silenzioso e tranquillo, come se si fossero stancati di giocare.
Poi, all’improvviso –proprio quando non si sentiva più nulla –udii il rumore di tre spari. Niente altro per alcuni secondi, solo l’eco di quei colpi che avevano fatto tremare i vetri delle finestre.
«No» urlò qualcuno. Un urlo che arrivò al centro del mio cuore, mentre le mie gambe cedevano definitivamente per farmi cadere a terra, completamente senza forza. Sentii subito dopo due moto partire sgommando, ma non avevo la forza di correre fuori per guardare che cosa fosse successo. Da stupida non mi ero spaventata con gli spari e le urla; erano stati quegli ultimi tre colpi a farmi cedere, come se esattamente in quel momento fosse successo qualcosa di brutto a qualcuno dei ragazzi.
«Alexis!» gridò una voce. Sentivo l’eco salire dalla tromba delle scale ma non ero in grado di far forza alle mie gambe per alzarmi in piedi. La voce si fece sempre più vicina, fino a quando arrivò sul pianerottolo. «Apri! Apri questa cazzo di porta e scendi! È ferito, abbiamo bisogno di te». Dei colpi contro la porta, come se volesse buttarla giù. Dei colpi che per quanto simili a quelli che avevo sentito così tante volte, non erano uguali. Non si trattava di fretta o paura, era semplicemente…
Le mie gambe reagirono da sole, come se fossero disconnesse dal resto del corpo. Quando aprii la porta e vidi il suo viso martoriato dai pugni e ricoperto di sangue sgranai gli occhi, sorpresa e spaventata. Era quasi irriconoscibile; probabilmente, se l’avessi incontrato per strada e non sul pianerottolo, non sarei nemmeno riuscita a riconoscerlo. Nemmeno l’azzurro dei suoi occhi riusciva a contrastare tutto quel sangue.
«Ti prego» mormorò, stringendo la presa della sua mano sulla porta. Sembrava cercasse di sostenersi, come se gli mancassero le forze. Non me lo feci ripetere due volte, forse perché le mie gambe cominciarono a muoversi senza che me ne fossi resa conto. Prima ancora di chiedere qualsiasi cosa, cominciai a correre giù per la scala, per uscire.
«Dove?» domandai, spalancando il portone e vedendo subito quello che stavo cercando. Non mi guardai nemmeno attorno, non mi interessava di tutte le altre persone perché sapevo da chi andare; sapevo chi aveva bisogno di me. Corsi fino a inginocchiarmi di fianco a lui, non badando a tutto il sangue che c’era sul marciapiede. «Ryan…» mormorai, sentendo un nodo in gola quando appoggiai il suo capo sulle mie gambe, scostandogli i capelli intrisi di sangue dalla fronte. «Ryan…» ripetei, sfiorandogli il volto in punta di dita, quasi temessi di fargli male. Era impossibile, perché ero sicura che quei due colpi al centro del petto –esattamente da dove fuoriusciva troppo sangue –fossero molto più fastidiosi delle mie dita. Vidi il suo sguardo spostarsi lentamente su di me e una piccola fiammella si accese, quando mi vide.
«Lentiggini… sei qui» bofonchiò, tossendo. Non mi curai delle lacrime che cominciarono a scendere quando Ryan sorrise, allungando lentamente la sua mano per accarezzarmi una guancia; presi istintivamente la sua mano tra le mie, stringendola e sentendo come le sue dita fredde contrastassero alle mie calde. Cercavo di non piangere perché volevo continuare a guardare Ryan per avere una sua immagine nitida, ma non era facile; ogni minimo gesto gli causava una smorfia di dolore che non riusciva a nascondere. La sua mano sfiorò il mio collo, per finire appoggiata al centro del petto, esattamente sopra alla collana nascosta dalla felpa che indossavo. Nonostante gli strati di stoffa la mano di Ryan bruciava al contatto, sembrava che la collana mi stesse marchiando, ma non riuscivo a smettere di piangere e i miei occhi non volevano abbandonare i suoi. «Ce… l’hai… tu?». Sapevo a cosa si riferiva, così annuii, lasciando che alcune mie lacrime gli bagnassero il volto, cancellando un po’ di sangue. Non volevo nemmeno parlare, non potevo parlare perché c’era qualcosa che me lo impediva; qualcosa dentro alla mia gola. Vidi Ryan aprire le labbra per cercare di dire qualcosa e lo fermai, lasciando la sua mano e appoggiando la mia sulla sua guancia, accarezzandola lievemente.
«Sta zitto, stupido» gemetti tra le lacrime, stringendo con più forza la sua mano perché potesse sentire che ero lì, accanto a lui. Avrei voluto aiutarlo, tamponare quelle ferite, ma c’era davvero troppo sangue per terra e il rumore della sirena dell’ambulanza che si avvicinava sempre di più mi fece sospirare sollevata. «Adesso ti portano in ospedale, ti tolgono i proiettili e domani cominci a ordinare ancora ai ragazzi che cosa fare, d’accordo?» mormorai, senza lasciare la sua mano, ancora ferma sulla collanina. Non era possibile che sapesse che la stavo indossando, era nascosta dalla stoffa, eppure il suo palmo era proprio appoggiato sopra.
«A…lexi…s, pu…oi te…nerl…». Le sue labbra si curvarono in quel ghigno che odiavo con tutta me stessa, quello che faceva quando mi prendeva in giro. I suoi occhi però erano chiusi, non c’era quella fiammella che mi faceva imbestialire ancora di più. Sentii la presa della sua mano sulle mie farsi debole e istintivamente, per non farla cadere, la strinsi con più forza, scuotendola appena. Perché non reagiva? Perché non la stringeva più? Perché non mi prendeva in giro chiamandomi lentiggini? Perché non apriva i suoi occhi, si alzava da terra e cominciava a ridere, dicendo che era tutto uno scherzo?
«No, no Ryan, no» urlai, lasciando la sua mano e prendendo il suo volto tra le mie, scuotendolo appena. Di nuovo, i suoi occhi rimasero chiusi e vidi il suo capo ciondolare verso l’asfalto quando l’ambulanza arrivò fermandosi a qualche metro da noi. «Ryan non puoi» gridai più forte, picchiando un pugno contro il suo petto, senza che lui reagisse. «Non puoi lasciarmi, hai capito?». Non poteva, ero io quella che doveva andarsene da Hunts Point, non lui. Ero io quella che doveva prendere un aereo con la consapevolezza di vederli ancora vivi, non lui. Appoggiai la fronte sul suo petto, ignorando l’odore di sangue e concentrandomi solo sullo stesso miscuglio di profumi che avevo sentito qualche giorno prima in camera mia, dopo aver fatto l’amore con lui. Socchiusi gli occhi, dando libero sfogo alle lacrime e ignorando quello che stava succedendo attorno a me. Sentii qualcuno avvicinarsi e pronunciare quella parola che mai come in quel momento, se riferita a Ryan, era in grado di ferirmi ancora di più.
«Morto». Ancora delle voci e poi l’ambulanza che ripartiva a sirene e lampeggianti spenti, simbolo che non c’era nessuna urgenza. C’erano continue voci attorno a me che si avvicinavano e allontanavano, qualcuno cominciò a piangere, ma non alzai lo sguardo per controllare chi fosse, rimasi con il capo appoggiato al petto di Ryan fino a quando una mano calda –non fredda come il corpo sotto di me –si appoggiò al mio capo, accarezzandolo.
«Lexi, andiamo dentro». Sembrava la voce di Brandon, ma era così diversa, come se… alzai lo sguardo, incontrando i suoi occhi così ricolmi di lacrime e rabbia che istintivamente strinsi la felpa di Ryan più forte tra le mie dita, guardandolo di nuovo. Mi abbassai, sfiorando le sue labbra con le mie e sistemando quella ciocca di capelli che, ribelle, continuava a spostarsi sulla sua fronte intrisa di sangue ormai raffermo.
Brandon mi sollevò, prendendomi tra le sue braccia senza sforzo e lasciando che mi sfogassi, con la fronte appoggiata al suo collo mentre saliva le scale di casa. «Mi dispiace» mormorò, senza nascondere la sua voce incrinata dalle lacrime che sentivo scorrere sulle sue guance. Cercai di farmi forza, ignorando l’immagine del sorriso spento di Ryan che non se ne voleva andare.
«Chi… che cosa è successo?» domandai, strofinando la mia guancia con il palmo della mano per togliere le nuove lacrime che stavano scendendo. Brandon mi fece sedere sul divano, rimanendo di fianco a me. Non gli importava nemmeno di asciugare le lacrime che scorrevano sul suo volto, continuava a guardare davanti a lui, verso la poltrona vuota di Ryan.
«Era la solita serata, siamo… abbiamo fatto un giro, ci siamo scontrati nel territorio di confine come il solito e gli abbiamo fatto il culo. Siamo tornati a casa ma ci hanno seguiti e noi non eravamo preparati. Ci hanno colti alle spalle. Abbiamo lottato ma…». Si portò la mano tra i capelli, alzando lo sguardo al soffitto e respirando a fondo per calmarsi. «Ryan cercava di essere ovunque e di proteggere tutti; quando qualcuno lo chiamava accorreva subito e se ne andava solo se non c’era più niente da fare. Poi si è avvicinato a Dead e ha perso la testa, non ha più badato a nessuno nonostante vedesse i ragazzi cadere a terra di fianco a lui». Ragazzi cadere a terra, allora Ryan non era l’unica perdita degli Eagles. In quanti erano morti davanti al 198 di Whittier Street? Mi guardai attorno per capire se ci fosse qualcun altro dentro al loro appartamento ma eravamo solo noi. In quanti erano rimasti vivi? Quanti Misfitous erano riusciti a uccidere? La curiosità era tanta, ma temevo la risposta. Come avrei reagito se fosse morto qualcuno di loro che conoscevo bene? Se fosse successo qualcosa a Sick?
«Chi… chi sta bene?». Speravo che Brandon riuscisse a capire cosa gli stavo chiedendo, perché non volevo usare la parola vivomorto; entrambe mi avrebbero riportato alla mente Ryan e il suo sorriso spento, la presa delle sue mani che si allentava e il suo corpo privo di vita abbandonato sulle mie gambe.
Brandon, senza distogliere lo sguardo dalla poltrona di Ryan –quasi come se stesse parlando con lui –cominciò a raccontare: «Il primo che Ryan ha ucciso è stato BB Child, per Dollar credo. Non ci ha impiegato molto e non gli interessava. Ryan lo voleva morto. Io e Sick abbiamo cominciato a picchiare altri Misfitous perché volevamo finire il prima possibile, ma ne sono arrivati un paio di nuovi alle spalle e Josh e Paul sono riusciti a salvarci. Non riuscivo più a vedere Ryan perché continuava a correre ovunque per pararci il culo, per questo quando Sick ha esultato dopo aver ucciso Pick mi sono fermato per cercarlo. Ryan era davanti a Dead e gli strattonava la felpa, sono riuscito a vederlo mentre gli assestava una pugnalata sullo stomaco prima che Pitt arrivasse alle mie spalle e mi tirasse un pugno sul fianco facendomi mancare il respiro. Poi non so che cosa sia successo, non riuscivo più a capire nulla, c’erano solo il coltello che tenevo in mano perché la pistola era scarica e sangue, tanto sangue. Ho sentito Josh urlare il nome di Paul e poi il rumore di una scarica di pugni ancora più forte. Non riuscivo nemmeno a vedere Hem o Swift, nessuno. Continuavo a picchiare chiunque fosse davanti a me, calpestavo i loro volti e conficcavo il coltello nella carne, non mi interessava davvero. Quando ho visto che più nessuno si faceva avanti mi sono voltato verso Ryan e gli ho sorriso perché eravamo riusciti a vincere di nuovo, non ho davvero controllato chi dei nostri era rimasto a terra. E poi… poi ci sono stati quei tre colpi e Ryan è caduto a terra. Sono corso da te subito, dovevo farlo. Dovevate parlarvi, non potevo lasciare che tu non lo vedessi, non me lo sarei mai perdonato e tu avresti vissuto per sempre con il rimorso di non avergli detto addio». Quando Brandon concluse il suo racconto cercai di trattenere i singhiozzi, ma non ci riuscivo. Avevo ascoltato con gli occhi chiusi, immaginando la scena come l’aveva raccontata e nel mio corpo avevo sentito il segno di ogni coltellata e colpo di pistola.
«Quindi Paul è morto? E anche Hem e Swift? E di loro, dei Misfitous?». Non riuscivo a non pensare a Paul e al suo sorriso, ai suoi occhi così simili a quelli del fratello. Come poteva sentirsi Josh dopo aver perso così tanti fratelli? Ryan, Hem, Swift e anche Paul. E Sick, Lebo e l’altro ragazzo di cui non ricordavo il nome perché l’avevo visto solo di sfuggita un paio di volte? Che ne era di loro? Erano riusciti a salvarsi?
«Anche Lebo» sospirò, strofinandosi il volto con la mano per togliere le lacrime che scendevano lungo le sue guance. «Ma Ryan è riuscito a uccidere Dead e sai cosa? Sono così fiero di lui che se fosse di fianco a me gli darei una pacca sulla spalla. Dead, Pick, BB Child e altri sono morti. Mike è ferito gravemente, credo. Pitt e Dan l’hanno portato via in moto subito dopo aver sparato a Ryan. È solo questo che mi infastidisce, il fatto che gli abbiano sparato nel momento in cui non riusciva a difendersi. Sono dei codardi, aveva ragione Ryan, ce l’ha sempre avuta. Ti chiedo solo una cosa Lexi; l’ultimo favore, poi non mi dovrai più nulla. Rimani per il funerale, fallo per Ryan, per gli Eagles». La sua mano strinse la mia e vidi il suo sguardo implorarmi perché rimanessi.
Senza nemmeno pensarci annuii, sapevo che era la cosa giusta da fare. Lo dovevo a Ryan, agli Eagles, a Dollar e Aria, a tutti quelli che avevano versato del sangue perché credevano in una causa. Lo dovevo a loro perché mi erano stati vicini quando avevo avuto bisogno di conforto e c’erano stati a sostenermi quando ero giù –che fosse con una battuta cretina o con un abbraccio. Perché nonostante tutto, non riuscivo a non pensare a Ryan e di nuovo mi ritrovai a piangere, rannicchiandomi su me stessa. Era una cosa così stupida e insensata sentire così tanto dolore per una persona che avevo odiato, che non riuscivo nemmeno a pensare a quello che facevo.
Sentii la porta dietro di me aprirsi e istintivamente mi voltai per guardare chi stesse entrando. Era stupido –forse più ancora del dolore che provavo –ma una piccola parte di me aveva sperato di veder entrare Ryan; un ghigno per deridermi e il suo «che cazzo ci fai qui, lentiggini, ti sei persa?» prima di accendersi una sigaretta mentre si sedeva sulla sua poltrona. Invece da quella porta entrarono solamente Sick e Josh. Nessun sorriso, nessuna battuta cretina di Sick, niente di niente; solo due sguardi tristi e gli occhi ricolmi di lacrime e tristezza. Josh non mi guardò nemmeno, non salutò; camminò velocemente verso la sua camera sbattendo la porta per chiuderla. Non me la sentivo nemmeno di dire qualcosa, visto che potevo solo immaginare come potesse essere perdere un fratello. Doveva essere un dolore molto più forte di quello che avevo provato con la morte di Soph ed Edge e di Aria e Dollar; un dolore molto più grande.
«Cazzo» sbottò all’improvviso Brandon, alzandosi in piedi di colpo e prendendo il telefono dalla tasca della giacca. Non si lamentò nemmeno quando sfiorò il taglio al fianco che sanguinava copiosamente; digitò solamente un numero, portandosi il telefono all’orecchio e camminando su e giù davanti a me. Sick si sedette sul divano di fianco a quello in cui ero seduta io e abbandonò il capo all’indietro, sospirando. Mi sembrò quasi di vedere una lacrima sul suo volto, ma fui distratta da Brandon che lanciò il cellulare, scagliandolo contro al muro. «Cazzo» urlò, cadendo inginocchiato a terra. «No, non lei. Chiunque ma non lei». Si portò le mani davanti al volto, nascondendosi da me e Sick che cercavamo di trattenere le lacrime. Non potevano averlo fatto sul serio, i Misfitous non potevano essere così stronzi da prendersela con Irene. Avrei voluto dire a Brandon che forse non aveva sentito il cellulare squillare, che magari stava dormendo visto che era notte fonda, ma avevo paura che una bugia –se di bugia si trattava –potesse illuderlo che tutto sarebbe andato bene. Non potevo illuderlo o la delusione sarebbe stata ancora più grande.
«Brandon» mormorai alzandomi dal divano e inginocchiandomi davanti a lui; istintivamente lo abbracciai, lasciando che appoggiasse la sua fronte alla mia spalla e piangesse. Non sapevo che cosa dire perché temevo che ogni parola fosse quella sbagliata, così cercai di calmarlo accarezzandogli la schiena.
Sentii qualcuno bussare alla porta con insistenza e Brandon si sollevò di scatto, prendendo la pistola da sopra il tavolo e intimandomi di andare dietro a Sick senza parlare. Lo vidi asciugarsi le lacrime con la manica della felpa in un gesto che mi fece tenerezza e poi, dopo aver bloccato la porta con il piede, la aprì di qualche centimetro, per vedere chi ci fosse sul pianerottolo. «Irene» sussurrò, spalancando la porta e abbracciandola. Sospirai sollevata accasciandomi ancora di più al suolo e lasciando che un piccolo sorriso nascesse sulle mie labbra ancora ricoperte da sangue e lacrime. «Perché non hai risposto al telefono? Ho provato a chiamarti ma non rispondevi e mi ero preoccupato» esordì. Forse voleva sgridarla, ma non ci riusciva, anche dal suo tono di voce traspariva la felicità di poter stringere Irene ancora una volta tra le sue braccia.
«Ho sentito che c’era stata una sparatoria qui e sono subito corsa per raggiungerti tanto che ho lasciato a casa il telefono. Come state? È successo qualcosa? State tutti bene? Dov’è Ryan, dove sono i ragazzi?» domandò Irene, sciogliendo l’abbraccio di Brandon e inorridendo quando lo vide ricoperto di sangue e tagli. «Bran, che è successo? Dove… dove sono gli altri?». Guardò me e Sick, cercando con lo sguardo qualcun altro attorno a noi. Vidi i suoi grandi occhi azzurri riempirsi di lacrime quando nessuno di noi tre rispose alla sua domanda e subito abbracciò di nuovo Brandon, scoppiando a piangere senza trattenersi. «Mi dispiace tanto» piagnucolò tra le lacrime, cercando di consolare Brandon che continuava a piangere silenziosamente, senza smettere di accarezzare la schiena di Irene, ancora stretta a lui.
Nessuno di noi aveva il coraggio di parlare per rompere quel silenzio così pesante e carico di tristezza, rimanemmo semplicemente lì –io seduta sul pavimento, Sick sul divano e Brandon e Irene abbracciati –fino a quando Josh non entrò in soggiorno, con una sigaretta tra le labbra. Indossava solo un paio di pantaloni della tuta blu, nessuna maglia o felpa; questo mi permise di vedere un grosso livido sulla sua schiena all’altezza delle coste. Istintivamente mi alzai per andare verso di lui e guardare meglio la sua ferita; quel movimento però lo spaventò al punto che si ritrasse prima ancora che le mie mani lo sfiorassero.
«Scusa» sbottò, aspirando una lunga boccata di fumo senza che riuscissi a vedere la luce nei suoi occhi mutare: continuava a rimanere spento, come se qualcuno l’avesse privato della vita. Forse era così che si sentiva, perché Paul era parte di lui, metà della sua vita. Mi diede le spalle perché potessi controllare, ma dopo aver tastato un po’, conclusi che non poteva avere coste incrinate, anche perché avrebbe di certo sofferto di più e non sarebbe stato in grado di muoversi così liberamente.
Dejà vu.
Ryan e il mio curare le sue ferite, le mie mani che si muovevano esperte sul suo corpo tastando le sue ossa per capire se ci fosse qualcosa di rotto e subito dopo una nuova immagine: i sui muscoli che guizzavano sotto alle mie dita mentre il suo corpo si muoveva frenetico contro e dentro al mio, in cerca di quel piacere che entrambi volevamo. Una nuova immagine, ancora una volta: non più Ryan e il suo corpo, solo il suo sguardo che lentamente diventava vitreo davanti a me, la sua mano che abbandonava il mio petto, lasciandomi inconsciamente in custodia quella collanina che gli avevo rubato. Indietreggiai fino a trovare sostegno contro il piano della cucina, portandomi una mano al petto, esattamente dove Ryan aveva appoggiato la sua, prima di morire. Socchiusi gli occhi ascoltando il battito frenetico del mio cuore che cercava di farmi recepire un messaggio che non volevo –ma soprattutto non potevo –decifrare.
«Lexi, siamo qui, ti staremo sempre accanto» mormorò Irene, abbracciandomi di slancio. Volevo spiegarle che non sarebbe stato così, perché non avevo cambiato idea e me ne sarei andata, perché Miami mi aspettava e dovevo andarmene da lì, da tutto quello che mi ricordava i morti e il sangue. Istintivamente guardai le mie mani, notando le chiazze rosso scuro che c’erano sopra.
Sangue.
Sangue di Ryan.
Non provai nemmeno a fermare le lacrime che mi offuscarono la vista, accecandomi. Sentii Irene appoggiare una mano sulla mia schiena, borbottando che era meglio se mi accompagnava a casa per fare una doccia. Non protestai nemmeno, semplicemente volevo togliere le ultime tracce di Ryan da me; non volevo più pensare a lui, non volevo più ricordarmi di lui. Come se non fosse mai esistito.
«Ci saremo noi, Lexi. Per sempre» ripeté Irene, aiutandomi a indossare il pigiama prima che mi distendessi a letto.
«No, solo fino al funerale» mormorai, socchiudendo gli occhi e bagnando il cuscino con le lacrime che, di nuovo, non ero riuscita a trattenere. Stupido Bronx, stupidi Eagles e stupido Ryan, ecco cosa continuavo a pensare, mentre la mia mano destra stringeva convulsamente quel piccolo ciondolo sopra al mio stomaco. Sentii la mano di Irene accarezzarmi il capo cercando di tranquillizzarmi e provai a calmare il mio respiro, prima che tutto diventasse nero e rosso. Nero come l’oblio in cui eravamo caduti tutti e rosso come il sangue che ci aveva spinti giù da quel precipizio. Dovevo solo resistere fino al funerale, poi me ne sarei andata subito.

 
Ero quasi sicura che ci fosse una leggenda che associava la pioggia alle lacrime del cielo. Non ci avevo creduto per più di vent’anni; ma, anche in quel lunedì pomeriggio, sembrava che i nuvoloni grigi minacciassero pioggia, esattamente come il giorno del funerale di Dollar e Aria. C’era però una piccola variante: non si trattava solo di due ragazzi, erano molti di più e c’era anche Ryan.
Incredibile come il mio corpo avesse reagito alla sua morte, come avessi scoperto che le lacrime non erano comandate dal cervello ma dal cuore; perché per quanto mi sforzassi di non piangere, ripetendomi che odiavo Ryan con tutta me stessa e che forse un po’ si meritava quello che gli era successo, continuavo a piangere. Cercavo di non farmi vedere da Brandon e dai ragazzi, perché ero sicura che loro soffrissero molto più di me –in particolar modo Josh –però sapevo che i miei occhi arrossati non passavano di certo inosservati, soprattutto a Brandon e Irene che si erano intestarditi: ogni giorno venivano a casa mia e sembravano darsi il cambio per farmi compagnia, come se avessi bisogno di una baby-sitter. In verità avrei preferito rimanere da sola, sfogandomi contro qualsiasi cosa avesse intralciato la mia strada, invece ero costretta a rimanere calma, senza lasciar sfuggire lacrime che puntualmente scendevano sotto alla doccia di sera. Continuavo a ripetermi che non stavo piangendo, che semplicemente era l’acqua che scorreva e mi bagnava il viso, ma potevo sentire che alcune gocce d’acqua erano più salate di altre.
«Lexi, siamo arrivati» mormorò Irene di fianco a me, appoggiandomi una mano sul braccio per scuotermi dai miei pensieri. Mi guardai intorno, vedendo per la prima volta in quella giornata cosa c’era attorno a me: un lungo viale alberato che aiutava il grigio del cielo a rendere tutto ancora più cupo e i finestrini di quella berlina scura bagnati da qualche sporadica goccia di pioggia. Scossi il capo cercando di cancellare i ricordi dei giorni precedenti e scesi dall’auto, cominciando a camminare verso la grande quercia. Ero sicura che avrebbero seppellito Ryan e gli altri Eagles in quell’angolo di cimitero, vicino a tutti gli altri che avevano versato del sangue per loro. Quando arrivai davanti a tutte quelle bare sistemate una di fianco all’altra dovetti sedermi perché le mie gambe non riuscivano più a sostenermi: non era tanto la foto di Ryan –lo sguardo duro senza nessuna traccia di sorriso –sulla lapide a sconvolgermi; era quella bara di legno scuro, ricoperta solamente da una bandiera americana e tre rose –una bianca, una rossa e una blu –sopra. Perché la semplicità di quella bara, la semplicità dei suoi ornamenti, contrastava con il cuscino di rose che c’era sopra agli altri. Non lo interpretavo nemmeno come un segno di non rispetto verso Ryan, anzi; sembrava che proprio per la sua semplicità quella cassa custodisse una persona importante.
Brandon si sedette di fianco a me, nella sedia più vicina alla bara di Ryan e degli altri ragazzi. Irene era esattamente una fila dietro di lui; vedevo le loro mani intrecciate tra le sedie, come se attraverso quel gesto cercassero di farsi forza a vicenda.
Sick occupò la sedia alla mia destra, senza fare nessuna battuta o dire qualcosa di stupido come il suo solito. Nemmeno Josh, che si sedette sull’ultima sedia in prima fila, di fianco a Sick, parlò. Rimanemmo semplicemente tutti in silenzio, ascoltando il vociare della folla che si era radunata per assistere a quel funerale. Riconoscevo molti ragazzi che avevo già visto gironzolare attorno al 198 di Whittier Street o al Phoenix; c’erano Peter e sua madre, c’era l’altra cameriera del Phoenix e, nell’ultima fila in fondo, Butterfly. Mai come in quel momento provai pena per lei. Il trucco scuro colato sulle sue guance e gli occhi arrossati e gonfi di lacrime. Non c’era lo sguardo di sfida e sufficienza che aveva di solito; era solamente una ragazza che piangeva a un funerale. Socchiusi gli occhi, incapace di guardarla ancora perché avevo capito che in qualche strano modo anche lei aveva amato Ryan e i ragazzi e le faceva male essere lì, per assistere al loro funerale.
Tornai a concentrarmi sulla funzione, sul pastore che continuava a parlare di coraggio e di forza, di quanto una persona potesse combattere fino all’ultimo, di come Ryan fosse stato coraggioso e i ragazzi avessero creduto in lui. Quando Brandon si alzò dalla sedia per cominciare il suo discorso, una parte di me si rifiutò di ascoltare, sicura che mi sarei ferita ancora di più. Eppure non riuscii a non seguire il suo dialogo, immaginandomi ogni parola che usciva dalle sue labbra e ricreandomi le scene di cui parlava: lui e Ryan da piccoli, loro due che ascoltavano JC e gli altri nascosti dentro al cofano di quella vecchia Mustang nell’officina, l’arrivo di Sick, Paul e Josh, loro vicini di casa. Il racconto delle prime notti a bere birra e fumare marijuana mentre immaginavano come sarebbe stato avere una gang tutta loro; i pugni sul naso per decidere quale nome potesse essere il più appropriato per loro e infine l’arrivo di Dollar e la tragedia che gli aveva marchiato il volto per sempre. Non aveva tralasciato nessun Eagles, nessuno; nemmeno Ham e Swift, gli ultimi due arrivati. Quando concluse il suo discorso e tornò a sedersi, mi asciugai le lacrime che rigavano le mie guance e non riuscii a trattenere il principio di una risata quando sentii Sick soffiarsi il naso di fianco a me. Appoggiai la mia mano su quella di Brandon, stringendola appena e cercando di sorridergli quando i suoi occhi incontrarono i miei; sentii la sua stretta farsi più forte e istintivamente ricambiai, notando come la sua immagine si offuscasse ogni secondo di più a causa delle lacrime.
Non ascoltai nemmeno il resto della funzione, troppo impegnata a trattenere le lacrime e torturarmi l’unghia del pollice con i denti; ero quasi sicura che se avessi continuato in quel modo mi sarebbe uscito del sangue, ma non mi interessava poi molto. Quando le persone attorno a me cominciarono ad alzarsi dalle sedie per andarsene mi guardai attorno: Brandon, Sick e Josh continuavano a parlare con chiunque si avvicinasse a loro, scambiandosi sorrisi stanchi e pacche sulle spalle. Irene si sedette di fianco a me, rimanendo in silenzio e aspettando pazientemente che tutti se ne fossero andati. Poi, quando Brandon si avvicinò a me, senza che lui dicesse una parola, si alzò, raggiungendo i ragazzi che si erano accostati alle macchine.
«Aspetta Lexi». La sua grande mano si appoggiò al mio braccio perché non potessi seguire Irene, per raggiungere gli altri. Quel gesto mi stupì; perché dovevamo rimanere lì e non potevamo raggiungere i ragazzi? Brandon si avvicinò alla lapide dove era inciso il nome di Ryan, la stessa che aveva quei caratteri così semplici rispetto a quelli delle altre pietre, senza nessun disegno, solo una bandiera americana arrotolata attorno e quel pezzo di stoffa rosso che sventolava di fianco. Ero sicura che nessun flag fosse importante come quello; di sicuro non aveva mai preso polvere o toccato il terreno, visto che era di Ryan.
«Che c’è?» chiesi, ignorando la voce che diventò stridula per il nodo che si era formato in gola e concentrandomi su quelle tre rose poste sopra alla terra smossa, davanti a me. Vidi Brandon respirare a fondo, prima di guardare nella mia stessa direzione. Stavamo entrambi evitando l’uno lo sguardo dell’altro, forse perché coscienti di come i nostri occhi fossero uno lo specchio dell’altro.
«Grazie per essere rimasta fino a oggi. Vorrei che tu rimanessi di più, ma so che non posso obbligarti. Sono sicuro che Hunts Point sia la tua casa, ti ho vista crescere da quando sei arrivata, ti ho vista cambiare. Se ti dicessi che ti ho vista felice non mentirei nemmeno, sai? Perché i sorrisi che c’erano sul tuo volto quando scherzavi con Aria non erano di sicuro falsi. E, ti prego, lasciami continuare, non è una bugia se ti dico che ti ho vista innamorata. Sei riuscita a vedere oltre, Lexi, non sei rimasta spaventata dal suo sguardo di ghiaccio, dalla sua altezza o dai tatuaggi e dalle cicatrici, sei riuscita a vedergli dentro, a vedere il suo cuore. Ryan non è… era un ragazzo facile, sono il primo che l’avrebbe preso a pugni più e più volte quando faceva l’idiota, ma gli volevo bene per quello. Tu che sei arrivata così tardi, hai saputo vedere oltre. Non mi interessano le scuse che ti inventerai per dirmi che mi sbaglio, perché non cambio idea, puoi stare tranquilla. Sotto questo aspetto sei uguale a lui, sai? Non gliel’ho mai detto, ma sono sicuro che tu non gli fossi indifferente. Sai quella volta che ti sei ubriacata, dopo il funerale di JC, quando alla mattina ti sei svegliata in camera di Ryan? Io non mi ero addormentato sul tuo divano, lo stavo mettendo alla prova. Sapevo che se ti avesse vista uscire non ti avrebbe mai lasciata andare e infatti ti ha fermato. L’ho spiato, l’ho visto salire le scale con la sigaretta tra le labbra e i suoi occhi che non smettevano di osservarti il viso, studiandoti mentre eri addormentata. Se avesse saputo che ero sveglio mi avrebbe rotto un braccio, ma dovevo metterlo alla prova, volevo capire cosa provava per te. Quando sono corso da te perché Ryan voleva andare dai Misfitous temevo non mi avresti aiutato, temevo te ne saresti fregata –come probabilmente avresti fatto all’inizio. Invece no, ho visto il tuo sguardo mutare a mano a mano che ti spiegavo la situazione, ti ho vista correre per salvarlo e lottare per fermarlo. Temevo davvero che nemmeno tu riuscissi a farlo, temevo che la rabbia l’avesse accecato al punto da non vedere come quella sua scelta ti avesse sconvolta. E poi c’è stata quella frase, non so davvero che cosa sia successo, ma è cambiato qualcosa. Quando ti ha vista andare via e ha sbattuto il casco per terra prima di seguirti ho sospirato, perché sapevo che il peggio era passato. Ho visto il suo sguardo cercarti l’altra notte, l’ho visto sorridere quando ti ha guardata e forse questo ha ripagato tutti i miei sforzi. Sapere che c’era quel sorriso nonostante la sofferenza è abbastanza per ripetermi che sono riuscito a donare un attimo di felicità a una delle persone migliori che io abbia mai conosciuto. Non devi dire nulla, non ti ho detto tutte queste cose per metterti in imbarazzo o altro, volevo solo che tu sapessi, perché è giusto. Volevo che tu vedessi tutto ciò che c’era da vedere prima di partire. Non cercherò più di farti rimanere spiegandoti quanto tu sia cresciuta e cambiata, lo prometto. Era solo che dovevo farlo per… Ryan» concluse. Il suo sguardo non si era spostato dalla lapide su cui era inciso Ryan Calloway, esattamente come il mio. Eppure, durante tutto quel lungo discorso che in qualche modo aveva ripercorso il mio spaccato di vita a Hunts Point, lasciando che le lacrime rigassero –ancora una volta –il mio volto al pensiero di tutto quello che mi era accaduto. Forse Brandon aveva ragione, forse ero davvero cambiata e cresciuta lì a Hunts Point, ma io non riuscivo a vederlo e capirlo in quel momento, troppo sopraffatta da tutte le emozioni che provavo.
Abbracciai istintivamente Brandon, nascondendo il mio viso contro la sua felpa scura e stringendo le mie braccia attorno a lui, come se fosse l’unico appiglio che mi era rimasto. Sentii la sua mano accarezzarmi la schiena e il suo petto sussultare per un singhiozzo: stava piangendo anche lui e a quel pensiero non riuscii a trattenere una risata che lo contagiò al punto che come due stupidi cominciammo a ridere tra le lacrime, attirando l’attenzione dei ragazzi dietro di noi che si avvicinarono curiosi. Nessuno dei due spiegò cosa ci fossimo detti –cosa Brandon avesse detto a me –tanto che, in silenzio, ci avviammo verso le macchine per tornare a casa, visto che dovevo finire di preparare le valigie; sul serio questa volta.
 
Guardavo fuori dal finestrino della macchina il paesaggio scorrere davanti a me e non riuscivo a parlare; nessuno in quell’auto parlava, c’era un silenzio quasi innaturale spezzato solo dal ticchettio delle dita di Brandon sul volante. Irene, di fianco a me, continuava a muoversi irrequieta sul sedile, sapevo che voleva dire qualcosa, ma allo stesso tempo temeva di spezzare quel silenzio. Nemmeno Sick, seduto sul sedile anteriore dell’auto, elargiva battute stupide come il suo solito. Quando Brandon posteggiò la macchina nel parcheggio dell’aeroporto cercai di calmarmi con un lungo respiro. Avevo imposto una regola: mi avrebbero accompagnata fino all’aeroporto ma sarei entrata da sola perché non volevo addii sdolcinati o lacrime, visto che ne avevo già versate troppe. Scesi dall’auto seguita da Irene che borbottò qualcosa riguardo il parcheggio così distante dall’aeroporto e aprii il bagagliaio, aspettando che Brandon mi aiutasse a prendere quella valigia pesantissima che appoggiò a terra, con un tonfo.
«Grazie, per tutto. Ci sentiamo». Cercavo di parlare il meno possibile, evitando di incrociare i loro sguardi. Abbracciai Irene trattenendo le lacrime quando mi ripeté ancora una volta che per qualsiasi cosa avrei potuto contattarla, riuscii a ridere alla battuta cretina di Sick di sperimentare il bagno dell’aereo con qualche ragazzo e guardai Josh, rimanendo in silenzio esattamente come lui. Dovevo solo salutare l’ultima persona, quella a cui forse tenevo di più, quella che per me aveva fatto tanto, troppo forse.
«Ci sarò, per qualsiasi cosa, d’accordo?» mormorò Brandon al mio orecchio, mentre lo abbracciavo stretta e cercavo di non piangere. Annuii solamente, deglutendo per non piangere e senza guardare nessuno mi avvicinai alla mia valigia, camminando verso la direzione opposta. Sentii qualcuno dire il mio nome, ma non mi voltai nemmeno, troppo preoccupata che potessero vedermi piangere di nuovo; non potevano ricordarmi con le lacrime, non dopo tutte quelle che avevo versato negli ultimi giorni.
Quando passai i controlli di sicurezza e mi avvicinai al tabellone con le partenze, mi fermai di colpo. La valigia in mano e lo zaino in spalla. Il volo per Miami sarebbe partito un’ora dopo, ma ero davvero sicura che Miami fosse la soluzione a tutti i miei problemi? Scappare ancora era quello che volevo? Improvvisamente, come un’illuminazione capii; un sorriso si disegnò sulle mie labbra e cominciai a correre, trascinando la valigia con me.
 
 
 
 
 
Caaaaaaaaaaaaaaaalmi! :D
Per qualsiasi lamentela, minaccia di morte o cosa brutta, vi prego di parlare al mio agente che trovate… uh, non ho un agente, ok, allora non potete dirmi parole!:D Scherzo, ovviamente!
Scherzi a parte… lo so, non ve lo aspettavate (o forse lo aspettavate e quindi siccome era la soluzione più gettonata non vi siete soffermate a pensare veramente che quella fosse la fine di YSM) però, non è finita. Ci sono 2 OS e l’epilogo, quindi in verità, se questo è quello che avete creduto fosse il finale… sono riuscita a fregarvi, di nuovo.
Ma andiamo con ordine, sapete che quando c’è un capitolo lungo anche le note lo sono perché devo spiegarvi alcune cosucce.
Partiamo!
Ok, quando Lexi parla di Tupac e Notorious B.I.G…. siccome magari la storia non la sanno tutti spiego velocemente, ok? Tupac e Biggie (chiamiamo così il secondo che facciamo prima, anche perché è uno dei suoi soprannomi) erano due cantanti rapper amici, molto amici. Uno veniva da NY (Biggie) e uno dalla costa ovest (logicamente se sono in due sto parlando di Tupac). Amici amici, canzoni assieme, festini, donne… tutte cose da rapper, fino a quando, fuori da uno studio, attentano alla vita di Tupac sparandogli 3 colpi nel petto. Si dice che siano stati Biggie e Diddy (Puff Daddy) a commissionare quell’omicidio che però non è andato a buon (o cattivo, direi) fine. Insomma, nonostante tutto Tupac riesce a salvarsi e, si dice, da questo momento nasce l’odio e la divisione tra Weast Coast ed East Coast per quanto riguarda i rapper e le bande. Quindi, quando Lexi parla di giocare a Tupac e Notorious B.I.G. si riferisce ai colpi di pistola che sente e alla possibilità che stiano sparando contro i Misfitous. [che poi la storia dei rapper americani non vi interessa, vero? Be’, ormai l’ho scritta :P].
Se passiamo alla parte brutta brutta brutta brutta… molte di voi l’avevano ipotizzato, ho sempre cercato di deviare cambiato le carte in tavola, confondendovi con gli spoiler e mettendovi delle piccole pulci nell’orecchio per farvi capire che niente era sicuro… quello che vorrei far capire è che io sono la prima che durante quella parte ha pianto tanto, spero solo di essere riuscita a trasmettervi qualcosa!
Ah sì, adesso posso dirlo: c’era solo UNA persona che sapeva questa parte di finale, una scrittrice tra l’altro che non legge YSM. Però, per evitare che la uccidiate non vi dico il nome :D
Per quanto riguarda tutti gli altri non-vivi-ma-non-vampiri… giuro che avrei fatto ancora più strage perché ci avevo preso la mano, però poi ho pensato che un paio di sopravvissuti sarebbe stato carino averli, quindi mi sono fermata. No, scherzi a parte: avrei volentieri ucciso più Misfitous di Eagles, però non volevo che fosse una cosa irreale dove una gang rimane viva e l’altra muore tutta. Un po’ per ciascuno, sono le due gang più forti del Bronx quindi se lottano seriamente qualcuno ci rimette.
Per il funerale… volevo scrivere un discorso come c’era stato per Doll e Aria, ma non ce l’ho fatta, mi faceva davvero male, così ci ho rinunciato e mi sono resa conto, durante la rilettura, che il discorso seppur in maniera privata c’è, ecco, forse così è meglio…
La fine che non è la fine. Che ha fatto Lexi? Dove va? Dove sta scappando con un sorriso? Avrete questa risposta nell’epilogo, ma quello che vi dirò vi scioccherà! Prima dell’epilogo arriverà una OS con un Ryan POV (come?, direte voi). Os ambientata durante questo capitolo, precisamente la notte della lotta. Si capiranno pensieri di Ryan e cose che forse non sono mai state chiare. Entreremo in quella zucca vuota e scopriremo com’è stata quella lotta dal suo punto di vista, spero che l’idea possa piacervi.
Poi ci sarà l’epilogo e YSM come storia sarà conclusa. Ma, c’è però un ma. Dopo l’epilogo arriverà l’ultima vera OS che concluderà il mio rapporto con gli Eagles. Non è difficile capire di chi sarà il pov, visto che l’avevo annunciato e se non è di Lexi e non può essere il mio… quindi, riassumendo, in ordine cronologico avrete: OS Ryan POV, EPILOGO, OS CONCLUSIVA, chiaro? Ecco, niente, volevo aggiungere che tra la OS con il pov di Ryan e l’epilogo spero di far passare il meno tempo possibile, quindi come al solito sbirciate ogni tanto per vedere se ho aggiornato (sempre se vi interessa, logico!).
Credo di aver scritto anche troppe note, quindi come sempre vi ricordo il gruppo avvisi e spoiler a cui potete iscrivervi senza problemi: Nerds’ corner.
E vi aspetto per la OS, se vorrete.
Rob.

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Capitolo 21
*** Epilogue- You saved me ***


YSM
 
 
«Dottoressa Cooper, il signore della 198 si è ripreso. Mi aveva detto di avvisarla anche se aveva finito il turno». Michelle, la nuova e gentile infermiera, mi porse la cartella medica del paziente con i valori registrati qualche minuto prima durante la visita giornaliera. La ringraziai con un sorriso, camminando lungo quel corridoio bianco e illuminato: sembrava infinito. Continuavo a guardare i numeri delle camere posti in successione; pari a destra e dispari a sinistra. La stanza 198 era la penultima in fondo, prima della porta d’emergenza che mostrava uno scorcio di città, ai piedi di quell’ospedale. Entrai nella camera, visitando il paziente e controllando che i valori fossero nella norma e salutandolo poi, prima di lasciare quella stanza per andare a cambiarmi e uscire da quell’ospedale.
Amavo il mio lavoro ma dopo un doppio turno di dodici ore cominciavo a sentire i primi segni di stanchezza, quelli che non mi permettevano di essere lucida e pronta se fosse arrivato un nuovo ferito da incidente stradale.
Uscii dall’ospedale e respirai a pieni polmoni l’aria calda, lasciando che il sole mi scaldasse il viso e che il vento mi scompigliasse i capelli; la sensazione di quei deboli raggi di sole riuscì a strapparmi un sorriso mentre svoltavo l’angolo per entrare, come ogni settimana, nel negozio.
«Dottoressa Cooper, il solito?» chiese la commessa, iniziando a preparare il pacchetto perché potessi portare via quello che avevo comprato. Io annuii solamente, allungandole dieci dollari e insistendo – come ogni settimana – affinché non mi restituisse il resto. Uscii dal negozio cominciando a camminare lentamente; sapevo che mi aspettavano quasi venti minuti di camminata, ma per quanto stanca potessi essere, in qualche modo quella routine settimanale mi rilassava.
Sentii il cellulare vibrare in tasca per segnalarmi l’arrivo di un messaggio e sorrisi, prendendolo in mano e sbloccandolo. «Potresti prendere il latte in polvere per Ryan Junior? Io non ricordo mai qual è e non vorrei che gli succedesse qualcosa di male. Fai tu che sei una dottoressa, niente responsabilità per me». Paraculo, pensai, digitando velocemente che avrei preso io il latte in povere per RJ. La risposta arrivò poco dopo, ringraziandomi di nuovo con una sfilza di complimenti su quanto io fossi indispensabile e importante per tutti e avvertendomi che per cena non c’era niente da mangiare. Ovvio, dovevo passare io al negozio per fare la spesa.
Non sarebbe mai cambiato nulla, perché quella era la routine settimanale che mi ero scelta e che avevo deciso di affrontare. Quella era la vita che avevo deciso di vivere, con tutte le conseguenze positive e negative, felici e dolorose. Mi sistemai una ciocca di capelli dietro all’orecchio aprendo il basso cancello in ferro battuto e richiudendolo alle mie spalle. Dopo quasi un anno ancora mi chiedevo perché nessuno avesse pensato di sistemarlo, visto che produceva un rumore fastidioso ogni volta che qualcuno lo apriva o  chiudeva. Con quello stupido pensiero camminai fino ad arrivare a quel pezzo di pietra, sedendomi davanti dopo aver sistemato le tre rose – bianca, rossa e blu – sopra.
«Ciao» mormorai imbarazzata, esattamente come facevo ogni giovedì finito il mio turno al St. Barnabas. Guardai la scritta su quella tomba, scostando un po’ di muschio che si stava formando e che rischiava di ricoprire la fine del suo cognome. Spostai il muschio, lasciando che si vedesse tutto il cognome, posto sotto a quell’aquila intagliata nella pietra. «Oggi ho un po’ più tempo degli altri giorni, forse oggi voglio ritagliarmi un po’ più di tempo rispetto alle mie fugaci visite degli altri giovedì» iniziai a dire, sedendomi comoda davanti alla lapide e giocherellando con i petali della rosa rossa secca che avevo portato la settimana precedente. «Mi sono sempre chiesta se hai capito perché vengo solo di giovedì, ma poi mi rispondo che non eri idiota, solo stronzo. Insomma, lo sai perché vengo il giovedì, no? Adesso dovresti dire qualcosa come… sì lentiggini, non sono così idiota come credi, giovedì  è il giorno in cui i Misfitous mi hanno fottuto» imitai malamente la sua voce, usando la rosa che avevo tra le mani come se fosse una sigaretta. La verità era che mi mancava, terribilmente. Forse, proprio per quel motivo, non ero riuscita a prendere l’aereo per Miami ma, all’ultimo minuto, ero salita su un volo per Los Angeles, perché qualcosa mi aveva spinta ad affrontare le mie paure. «Comunque volevo ringraziarti. Lo so che non dovrei, ma… sembrerà stupido Ryan, ma hai fatto qualcosa alla mia vita che… sono cambiata. Mi hai insegnato che se credi in qualcosa lotti fino a quando non l’hai ottenuta, mi hai insegnato che non si scappa dai problemi, ma bisogna affrontarli. E ho fatto così, hai visto? Ho preso l’aereo per Los Angeles e ho dato quei due stupidi esami per essere un medico a tutti gli effetti. Li hai visti i ragazzi mentre mi applaudivano quando ero sopra a quel palco a ritirare la mia laurea? Perché mi è sembrato quasi di vederti lì, tra Brandon e Sick, con la tua aria scazzata e la sigaretta tra le labbra. Invece Brandon è stato gentile, mi ha abbracciata e mi ha detto che era fiero di me». Non riuscii a trattenere una risata, asciugandomi una lacrima che era scesa al ricordo del giorno della mia laurea e della sorpresa nel vedere Brandon, Josh, Sick e Irene lì, per me. «Così ho capito che era giusto che tornassi nella mia vera casa e sono tornata qui. Sai che il 3B non è lo stesso senza di te? Sembra stupido, ma è quasi vuoto e più silenzioso, la tua camera non l’ha toccata nessuno e Brandon secondo me sa che ogni tanto ci vado, solo per risentire quell’odore di fumo e casa che trovo tra le tue felpe, però non mi ha mai detto nulla e non credo lo farà. È un bravo O.G., sai? I ragazzi dicono che da quando non ci sei più tu le cose sono cambiate; tornano a casa poche volte con tagli ed ematomi, li curo forse una volta ogni due settimane, non come quando c’eri tu. Brandon è anche un bravo papà, vedo come guarda Ryan Junior ogni giorno e sono sempre più convinta che quel bambino sia esattamente come te. Ha i capelli biondi di Irene e gli occhi azzurri di Brandon, ma quel piccolo neo sulla tempia, sotto all’occhio sinistro ricorda tanto il tuo sguardo. Credo sia il motivo principale per cui lo hanno chiamato Ryan Junior. Sick gli ha comprato un calendario porno da mettere in camera, ma Irene si è rifiutata di appenderlo perché dice che non vuole che suo figlio veda una tetta fino a sedici anni. Credo si sbagli, tanto». Non riuscii a trattenere una nuova risata tra le lacrime, incurante di quanto la magliettina bianca che indossavo fosse bagnata per tutte quelle che avevo lasciato scivolare lungo le mie guance senza asciugarle. «Sai cosa? Sono così cattiva che più di una volta mi sono ritrovata gelosa di loro, sono gelosa di Ryan Junior. È brutto da dire, forse anche per te, ma ho pensato più di qualche volta che mi sarebbe piaciuto avere qualcosa di tuo oltre a questa collana che porto sempre. Ma è giusto così, perché le cose vanno come devono andare e forse, proprio perché ho solo la tua collana, ho cambiato la mia vita per tornare qui. Sai cosa mi piace pensare? Che mi hai salvato, in un modo distorto dal normale, non parlo solo di tutte le volte in cui mi hai parato il culo. Mi hai salvato permettendomi di conoscerti, di entrare nella tua vita e in quella dei ragazzi. Mi piace pensare che il destino abbia giocato per me, conducendomi al 3C di Whittier Street perché potessi incontrare voi, incontrare te. Ero arrivata per scappare da qualcosa e fino a quando tu non te ne sei andato continuavo a rimandare la mia partenza da qui, come se fossi legata. Poi tu sei… insomma, hai capito, e io ho deciso di scappare a Miami, ma mentre guardavo quel tabellone, all’aeroporto, Los Angeles ha attirato la mia attenzione e ho capito che non si può scappare, perché se scappi dalla tua vita non troverai mai il tuo posto nel mondo. Me l’hai insegnato tu, perché non ti ho mai visto scappare di fronte ai Misfitous, non ti ho mai visto scappare di fronte a niente, ma solo rincorrere. Mi hai insegnato che tutti hanno un po’ di forza e che basta solo trovarla, e tu mi hai fatto trovare la mia, per questo continuo a dirti che in un modo distorto mi hai salvato. E sai cosa? Mi piace pensare, egocentricamente, che sono riuscita a farlo anche io, che ti ho reso in qualche modo più umano, o forse ti ho aiutato a esternare i tuoi sentimenti, perché non riesco a dimenticare il tuo sguardo su quel marciapiede, mentre mi sorridevi accarezzandomi la guancia e…» smisi di parlare alzando gli occhi al cielo e cercando di respirare, visto che non avevo più aria dentro ai miei polmoni, troppo impegnati a farmi singhiozzare tra le lacrime. Mi passai una mano sotto al naso, tentando di togliere le lacrime che avevano bagnato anche le mie labbra.«… ti chiedo solo di smetterla, ok? Perché sognarti ogni notte fa male, ti chiedo solo questo. Lo so che ti piace infastidirmi, ma il fatto che ogni notte io ti senta bussare alla mia porta e quando la apra ti trovi davanti sorridente mi fa ancora più male alla luce del giorno, sapendo che quel sorriso non c’è. Lo so che sei stronzo, ma smettila di esserlo almeno da morto». Una risata isterica uscì dalle mie labbra quando pronunciai quella parola che odiavo con tutta me stessa. «Ok, la smetto perché mi sto dando fastidio da sola. Continua a fare in modo che Brandon abbia la testa sulle spalle, ok? Perché Ryan Junior non può perdere il suo papà, anche se Irene è una mamma bravissima». Mi alzai lentamente, prendendo le rose secche della settimana precedente quando sentii qualcosa sbattere contro al mio stomaco. Abbassai lo sguardo, sbuffando e, dopo aver giocato per qualche secondo con il ciondolo con l’aquila incisa, lo nascosi di nuovo sotto alla maglietta che indossavo. Non volevo nemmeno sapere come avesse potuto scivolare fuori, probabilmente era successo quando mi ero piegata. Con le tre rose secche in mano mi voltai un’ultima volta – per quella settimana – verso la tomba di Ryan, dopo aver dato uno sguardo anche a quelle di Dollar e Aria. Un soffio di vento scompigliò i miei capelli mentre gettavo i fiori in un cestino e istintivamente alzai gli occhi verso il cielo azzurro e limpido. C’era una sola macchiolina nera che si muoveva: un uccello. Impossibile che fosse un’aquila, potevo vederlo dal movimento delle ali e dalla stazza. Avevo però letto da qualche parte che le aquile si uniscono per la vita e reagiscono d’istinto per proteggere le altre aquile a cui tengono. Per questo in quel momento provai a convincermi che quell’uccello lo fosse; che esistesse un’aquila che sorvolava Hunts Point e proteggeva tutti quelli che credevano in quel flag rosso; lo stendardo degli Eagles.

 
 
Facciamo che andiamo con ordine perché oggi ho un bel po’ di cose da dire.
Prima di tutto: You can keep it è la OS Ryan pov che ho pubblicato un paio di giorni fa.
La OS finale la pubblicherò al più presto.
Poi procediamo con le precisazioni del capitolo, visto che ce ne sono un paio.
Allora, questo è ambientato più di un anno dopo lo scorso capitolo. Cosa è successo? Semplice, Lexi all’aeroporto ha preso un aereo per Los Angeles e non per Miami. Giuro che ho controllato ed è possibile. Dunque, Lexi nello scorso capitolo dice che l’aereo per Miami sarebbe stato un ora dopo e all’improvviso guarda il tabellone e corre. Che partono da La Guardia Airport (il più grande aeroporto di New York assieme al JFK) ci sono, della US Airways, un volo per Miami alle 15.30 mentre per Los Angeles alle 14.45, quindi è possibile che prenda un volo al posto dell’altro.
Poi… uhm… il St. Barnabas l’avevo già nominato come ospedale nel capitolo dove loro sono a Coney Island e corrono a casa perché JC è stato ferito dai Misfitous. Lì, al St. Barnabas, trovano Aria che li avverte che JC non ce l’ha fatta.
Ultima cosa… Ryan Junior. Spero sia chiaro chi sono i loro genitori, giusto? :D
E ora lasciatemi 2 minuti per i ringraziamenti (potete anche smettere di leggere ahahhaha).
Prima di tutto vorrei ringraziare Malia che mi ha betato tutti i capitoli, aiutandomi a migliorare come “scrittrice” e come persona, mi ha insegnato molto e se YSM esiste è perché lei mi ha sempre spronata a migliorarmi.
Un grazie ad Ale che ha fatto un sacco di video per questa storia <3
Un grazie a tutte quelle che mi hanno sopportata durante la stesura dei capitoli, bullizzandomi perché non cancellassi il capitolo quando mi rendevo conto che faceva schifo.
E infine, perché è il più importante, un grazie infinito a tutte voi che avete accolto questa storia così bene. Quando l’ho iniziata non pensavo (e non lo penso ancora, secondo me siete tutte sotto effetto di allucinogeni!) che potesse piacere così, visto che l’idea di base è il cliché più vecchio del mondo. Vi ringrazio una a una, tutte, da chi ha seguito questa storia dal primo capitolo a chi dall’ultimo, indifferentemente.
Grazie perché siete state tantissime a leggere, recensire e addirittura segnalare, grazie infinitamente. Grazie per i bellissimi complimenti immeritati che mi avete fatto, grazie per tutte le bellissime parole spese e che mi hanno fatto commuovere, grazie per tutte le risate che mi avete regalato con le vostre recensioni.
You saved me è nata come una sfida per me, perché volevo provare a me stessa di essere in grado di scrivere qualcosa di impegnativo, qualcosa di diverso dal solito che non fosse solo una storia per ridere. Io non so se sono riuscita a emozionarvi tanto quanto io sono riuscita a farlo mentre scrivevo, ma se siete riuscite a sentire il respiro di Lexi e la risata di Ryan anche solo in lontananza… credetemi che sono la persona più soddisfatta che ci possa essere.
So che molti capitoli e avvenimenti sono diversi da come ve li aspettavate, ma spero che la storia non sia stata una delusione e che un messaggio importante sia stato trasmesso. Perché il titolo ho sempre voluto che foste voi a interpretarlo, ma alla fine Lexi ha svelato quello che io ho sempre pensato, che fosse qualcosa di reciproco, perché l’amore fa questo. E niente… giuro che ho le lacrime agli occhi un po’ perché metterò la crocetta su completa e un po’ perché questa storia davvero mi ha insegnato tanto quindi la smetto di parlare e di rompervi.
Grazie, grazie e ancora grazie, se vorrete ci sarà la OS che, adesso posso svelarlo anche se probabilmente si era capito, avrà pov Brandon e sarà ambientata un po’ dopo questo epilogo. Non aggiunge quasi nulla alla trama, se YSM fosse un film questa OS sarebbe come la scena nascosta dopo i titoli di coda, ma… niente, se vorrete esserci anche lì, siete le benvenute. E lo sarete anche nelle prossime storie che inizierò a scrivere al più presto.
Come sempre, per tenervi in contatto con me potete iscrivervi al gruppo: NERDS’ CORNER, vi ricordo che accetto tutti.
Vi saluto io, vi ringraziano Lexi, Aria, Dollar, Ryan e tutti gli Eagles e perché no, anche i Misfitous.
Rob.

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