You saved me di RobTwili (/viewuser.php?uid=84438)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Welcome to Bronx, whore! ***
Capitolo 2: *** Open the door. We know you're here ***
Capitolo 3: *** How to find a job with Ryan's help ***
Capitolo 4: *** Eagles vs. Misfitous ***
Capitolo 5: *** I need your help ***
Capitolo 6: *** He can't die! ***
Capitolo 7: *** Broken Rib & Phoenix ***
Capitolo 8: *** Guns & Shower ***
Capitolo 9: *** Eagles & Ryan's Story ***
Capitolo 10: *** Lexi's secret ***
Capitolo 11: *** Lexi's a badass: Jail experience. ***
Capitolo 12: *** Party & underwear ***
Capitolo 13: *** Lower Plaza by night ***
Capitolo 14: *** Dreams, Kisses and News ***
Capitolo 15: *** All chickens come home to roost ***
Capitolo 16: *** Romeo & Juliet ***
Capitolo 17: *** The last goodbye ***
Capitolo 18: *** Sex and fire in the rain ***
Capitolo 19: *** Indifference ***
Capitolo 20: *** You can keep it ***
Capitolo 21: *** Epilogue- You saved me ***
Capitolo 1 *** Welcome to Bronx, whore! ***
YSM
Con il decollo dell’aereo avevo
definitivamente chiuso con la mia vita a Los Angeles.
Desideravo allontanarmi da tutti,
allontanare tutti da me.
Non riuscivo più a comportarmi
normalmente, non dopo quello che mi era successo.
Quel dannato giorno, durante il mio
turno di lavoro, avevo capito almeno una cosa: Los Angeles non poteva più
essere la mia casa.
Come i miei genitori avevano
preso l’abbandono del college a un esame dalla laurea? Ovviamente male.
Si erano arrabbiati e questo mi
aveva spinta ancora di più a scappare lontano.
Non mi sentivo pronta, non volevo
che fossero le mie mani a decidere della vita o della morte di una persona.
Alexis Cooper non aveva tutto
quel potere.
Mi massaggiai le tempie,
sistemandomi nello scomodo sedile della classe economica.
Sì, perché i signori Cooper avevano definitivamente chiuso
tutti i loro rapporti con me.
Non volevo continuare a studiare?
Bene, mi sarei dovuta arrangiare. Nemmeno più un dollaro
sarebbe uscito dalle loro tasche per aiutarmi.
Per questo stavo fuggendo lontano, molto lontano, dalla mia
amata Los Angeles.
New York.
L’America? È grande… mi serviva un’intera nazione a dividermi dalla mia
precedente vita.
Niente più surf, niente più sole
o caldo. Non avrei più sentito l’aria umida contro il mio viso e nemmeno l’odore
di salsedine che mi impregnava il costume dopo essere rimasta a fare surf per
ore.
Non sapevo cosa aspettarmi dalla
Grande Mela; sarebbe stato tutto nuovo per me. Ero riuscita a trovare un
piccolo appartamento in periferia, poco fuori New York, nel Bronx. Non avevo
idea di che posto fosse, ma lì avevo trovato l’unico appartamento che potevo
permettermi con i miei pochi risparmi.
Dovevo cercarmi un lavoro, pagarmi l’affitto, imparare a
vivere da sola.
Niente più campus universitario.
Eppure, nonostante una parte di me fosse spaventata da tutti
i cambiamenti, un’altra era elettrizzata, perché sognavo New York da quando ero
bambina: il gande albero di Natale al Rockefeller Center, la pista di
pattinaggio sul ghiaccio. E chissà, forse sarei riuscita a vedere la neve per
la prima volta dopo ventuno anni. Della neve vera, non come quella che trovavo
nei negozi a Los Angeles.
Sorrisi di quel buffo pensiero, ricordando che era solo
giugno.
Quando l’aereo sussultò, toccando il terreno, sospirai
sollevata: non mi piaceva volare, soprattutto quando dovevo fare viaggi lunghi.
In ogni caso, quello sarebbe stato il mio ultimo viaggio,
visto che non avevo intenzione di tornare a casa.
Uscii dall’aereo, respirando profondamente; lasciai che
l’aria fresca di New York ‒l’aria della mia nuova casa ‒ mi riempisse i
polmoni.
L’aria di New York odorava di… asfalto, pioggia e qualche
altro odore che non riuscivo a percepire.
Davanti al rullo, mentre
aspettavo le ultime valigie, cominciai a guardarmi attorno: nessuno dei presenti
prestava attenzione agli altri, tutti sembravano aver fretta. Incredibile.
Lanciai un nuovo sguardo al rullo
perché le mie valigie sembravano non uscire più. Avevo spedito tutti gli altri
scatoloni quasi una settimana prima e avevo portato con me solo i vestiti e
qualche effetto personale.
Riuscii a fatica a scaricare il primo bagaglio dal rullo; al
secondo mi incastrai il piede sotto, schiacciandomelo. Imprecai mentalmente,
guardandomi attorno: che persone gentili, avrebbero almeno potuto aiutarmi!
Uscii dall’aeroporto con le mie due valigie quasi un’ora
dopo.
Camminai fino alla fermata della metropolitana e, dopo
essere salita con qualche problema, trovai un posto per sedermi.
Erano quasi le sette di sera, ero stanca, affamata e
cominciavo a pensare che l’idea di trasferirmi a New York non fosse stata poi
così intelligente.
Scesi alla fermata di Simpson Street, camminando fino
all’incrocio di Southern Boulevard con Westchester Ave. Lì avrei aspettato
l’autobus che mi avrebbe portato fino a Pugsley Ave. Da lì in poi avrei dovuto
camminare.
L’idea di andare in un quartiere sconosciuto da sola, di
sera, non mi piaceva, ma sapevo che i taxi erano molto costosi, e non potevo
permettermelo. Mi consolavo pensando che i trasporti pubblici erano comunque efficienti
e c’era sempre qualcuno che rincasava o andava a lavorare, a qualsiasi ora del
giorno e della notte.
Ringraziai l’autista dell’autobus, scendendo goffamente con
le valigie.
Dovevo solo cercare di seguire le indicazioni per arrivare
all’incrocio tra Whitter Street e Randall Ave, dove c’era il mio appartamento. Non
sapevo nemmeno in che condizioni l’avrei trovato.
Le indicazioni dicevano di procedere in direzione sud, verso
Virgil Place, da lì bastava svoltare a destra e sarei arrivata in Randall Ave.
Non era poi così difficile.
Feci un giro su me stessa, guardandomi attorno per capire
quale fosse il sud.
Nessun cartello per indicare Virgil Place. La donna che era
scesa con me dall’autobus camminava a passo svelto, mettendo sempre più
distanza tra di noi.
«Scusi?» urlai, sperando che riuscisse a
sentirmi.
Non rispose, svoltò all’angolo in fondo alla strada,
sparendo definitivamente dalla mia vista.
«Bene» sbuffai, mordendomi il labbro. Quel
gesto di solito riusciva a tranquillizzarmi.
Cercai il sole, ormai sulla via del tramonto.
Vedevo gli ultimi sprazzi di luce alla mia destra, quindi il
sud era davanti a me.
Sorrisi sollevata, prendendo le valigie e cominciando a
camminare, guardandomi attorno.
Non c’era nessuno per strada. Nessun ragazzo con lo skateboard,
nessun surfista di ritorno dalla spiaggia.
Arrivai a un incrocio, cercando indicazioni.
Dov’era Virgil Place?
Da un bar vidi uscire un gruppo di ragazzi: erano giovani e
sembravano felici. Una decina, forse meno; stavano scherzando tra di loro,
fingendo di lottare.
Sembravano simpatici.
Mi feci coraggio, attraversando la strada e avvicinandomi a
loro.
Il rumore delle ruote del mio trolley li fece voltare verso
di me.
«Scusatemi» mormorai, cercando di farmi un
po’ di coraggio.
Il fatto che fossero tutti molto più alti di me non aiutava.
«Sì?». Un ragazzo con i capelli corti e
scuri fece un passo in avanti, ghignando. Quella strana espressione sul suo
viso mi fece rabbrividire.
«Ecco… io,
io sono nuova qui e sto cercando di orientarmi». Sventolai il foglietto con le indicazioni che avevo tra le
mani. «Devo… devo arrivare al
198 tra Whittier Street e Randall Ave, solo che credo di essermi persa».
Cercai di sorridere, mentre un altro ragazzo, con evidenti
tratti ispanici, si avvicinava a me.
«Scherzi?» domandò, stampandosi sulle labbra
un bel ghigno, affascinante, ma spaventoso quasi quanto quello dell’amico.
«No, il
mio nuovo appartamento è qui, vedete?». Mi avvicinai di un passo a loro, puntando l’indice sul
foglietto con le indicazioni stradali.
«Lasciami
indovinare» sbottò il ragazzo
moro senza nemmeno guardare il foglietto. Era quello che mi aveva parlato per
primo. «Terzo piano?» azzardò, causando una risata di
tutti i suoi amici.
«Esatto» esultai felice. Allora anche a
New York i vicini erano cordiali, contrariamente a tutti i luoghi comuni.
Forse anche loro abitavano nello stesso palazzo.
«Abitate
lì anche voi?» chiesi,
sollevata di conoscere qualcuno del posto.
Mi faceva sentire meno sola.
«No,
abitiamo da un’altra parte» ridacchiò
un altro di loro, con i capelli rasati sui lati e più lunghi al centro, acconciati
in una strana cresta.
«Oh,
peccato» mormorai, abbassando
lo sguardo.
«Certo che
Cal se le sceglie stupide, eh Dead? Fighe finché vuoi ma completamente stupide».
Un ragazzo biondo, con una sigaretta tra le labbra si
avvicinò a me, girandomi attorno.
Un campanello d’allarme suonò nella mia testa, intimandomi
di allontanarmi velocemente.
«Grazie lo
stesso, credo di poterci arrivare da sola» farfugliai.
Tenni lo sguardo basso, cercando con le mani le mie valigie.
«Dove
credi di andare?» sogghignò
qualcuno, spostando una valigia perché non potessi prenderla.
«Dimmi,
sei la nuova puttanella di Cal? Credevo gli piacessero le bionde».
Il ragazzo moro che mi aveva parlato per primo mi prese il
mento tra le dita, costringendomi ad alzarmi in punta di piedi.
«Mi fai
male» mi lamentai, cercando
di indietreggiare.
«Ti do un promemoria
da portare a Cal e a tutti i suoi»
sibilò, stringendo di più la presa sul mio mento e facendomi gemere per il
dolore. «Qui, in questo
incrocio, siamo noi i padroni, ok?».
Il suo naso sfiorò il mio.
«Ti prego,
non so di cosa stai parlando»
mormorai, sentendo una lacrima scendere lungo la mia guancia.
Sentivo il suo respiro sul mio viso. Puzzava di fumo e
alcool.
«Il
messaggio non è completo, tesoro»
sghignazzò, allontanando il suo viso dal mio.
Non riuscii a vedere la sua mano avvicinarsi, perché le
lacrime mi offuscavano la vista.
Sentii un forte dolore al labbro e subito dopo qualcosa di
caldo mi entrò in bocca.
Sapore di ferro.
Sangue.
Caddi a terra, inginocchiandomi e raggomitolandomi su me
stessa perché non potesse farmi male ancora.
Portai le braccia sopra alla testa, proteggendo il viso.
«Benvenuta
nel Bronx, puttana» ghignò
qualcuno, causando uno scoppio di risa.
«Ehi, Dead,
perché non guardiamo che cosa ha portato allo stronzo? Magari ha un po’ di roba
dentro alle valigie». Sentii
dei passi e mi costrinsi ad aprire gli occhi.
Dentro alle valigie, tra i vestiti, c’erano tutti i miei
risparmi. Se avessero aperto la valigia più grande se ne sarebbero accorti
subito, visto che non li avevo nascosti.
«Aiuto» cercai di strillare, attirando
solamente lo sguardo del ragazzo che mi aveva tirato il pugno.
«Che c’è?» si piegò verso di me, avvicinando
il suo viso al mio.
Indietreggiai, spaventata. Qualcosa mi diceva che sarebbe
stato in grado di ferirmi nuovamente.
«Lasciate
stare le mie valigie, per favore»
bisbigliai, pulendomi il sangue che mi sporcava il mento.
«Ragazzi?
Sentito? Dobbiamo lasciar stare le valigie della signora. Allora potremmo
prendercela con te? Mhh? Dici che ci possiamo divertire di più?» mi provocò, prendendo il mio viso
tra le mani e strattonandomi verso di lui.
«Aiuto» strillai di nuovo, mentre mi
circondavano, accerchiandomi.
Accadde tutto velocemente.
Sentii dei gemiti e il rumore di ossa che si rompevano.
Il viso del ragazzo con i capelli scuri non era più davanti
al mio.
Mi tolsi una lacrima dagli occhi per capire che cosa stava
succedendo.
Stavano lottando.
Indietreggiai, fino a quando la mia schiena toccò un
lampione.
Quel contatto improvviso mi fece urlare, attirando
l’attenzione del ragazzo che stava picchiando quello moro.
Era biondo, con i capelli corti. «Dollar, porta via la ragazza, è un ordine» urlò, assestando un nuovo pugno
sullo stomaco dell’altro.
Sentii dei passi verso di me e istintivamente chiamai aiuto
di nuovo.
«Tranquilla,
ti porto via di qui».
Un ragazzo giovane si accucciò davanti a me, sorridendomi.
Nonostante fosse buio e l’unica fonte di luce fosse il
lampione sopra di me, riuscii a vedere una profonda cicatrice che gli solcava
il viso; dall’occhio sinistro scendeva fino al labbro.
Mi aggrappai più forte al lampione, impaurita.
«Non avere
paura». Sorrise di nuovo,
facendo increspare la pelle lucida.
Sentii una mano scivolare dietro le mie ginocchia e l’altra mi
circondò le spalle.
Il mio capo si appoggiò al suo petto, mentre non smettevo di
tremare.
«Le… le…
le valigie» balbettai,
sperando che riuscisse a sentirmi nonostante il chiasso della lotta.
«Ryan,
prendete le valigie» urlò il
ragazzo con la cicatrice, stringendomi un po’ di più contro di lui.
Volevo fidarmi.
Dovevo fidarmi.
Avrebbe potuto picchiarmi, ma non l’aveva fatto.
Era l’unico appiglio che mi faceva sperare di essere al
sicuro.
«Come ti
chiami?» chiese, mentre
sentivo il vento contro il viso e le immagini attorno diventavano sempre più
sfuocate.
«A…lexi…s» biascicai, cercando di
concentrarmi sui lampioni, che però continuarono a spegnersi sempre più
velocemente.
Pulsare.
Forte pulsare al labbro e alla testa.
Brividi in tutto il corpo.
Sembrava fosse il principio di uno stato di shock.
Cercai di parlare, ma il labbro mi faceva talmente male che
rinunciai.
«Ryan, si
sta svegliando, credo».
Quella voce l’avevo già sentita. Mi concentrai per ricordare
dove. La rissa, il ragazzo biondo con la cicatrice.
Qualcuno si spostò di fianco a me e io spalancai gli occhi, cercando
di capire dove fossi.
Ero circondata da ragazzi.
Spaventata, mi portai le ginocchia al petto, nascondendo il
viso e proteggendomi la testa con le mani.
«Alexis, non
vogliamo farti del male».
Non era la voce del ragazzo con la cicatrice.
«Non so
chi sia Cal, vi prego»
strillai, ricordando quello che mi aveva detto il ragazzo moro, prima di
tirarmi il pugno.
Qualcuno cercò di trattenere una risata malamente e cercai
di sbirciare chi fosse.
Di nuovo il biondo, quello con i capelli corti. Lo stesso
che aveva ordinato a qualcuno di portarmi via.
«Non
vogliamo farti del male»
ripeté, sorridendo per tranquillizzarmi.
«Chi
siete?». Portai le braccia a
circondarmi le gambe, facendo attenzione a non sfiorare il labbro che
continuava a pulsare.
«Ryan, o
Cal». Il biondo con i capelli
corti si sistemò, sedendosi sul tavolino che c’era davanti al divano.
Feci vagare lo sguardo attorno a me, cercando di capire dove
fossi.
Le pareti, bianche, erano completamente spoglie.
C’erano pochi mobili, vecchi. Alcuni erano addirittura senza
dei pezzi.
Qualcosa, sulla parete dietro di me, attirò la mia
attenzione. Foto, tantissime foto segnaletiche.
La prima in alto mostrava il viso di Ryan.
Lasciai scorrere il mio sguardo sulle foto, riconoscendo i
volti dei ragazzi che mi stavano attorno.
Qualcuno appoggiò una mano sulla mia gamba, facendomi urlare
per la paura.
«Alexis,
calmati». Di nuovo la sua
voce, Ryan.
«Chi-chi
siete?» balbettai, indietreggiando
sul divano.
«Non avere
paura di noi». Il ragazzo con
la cicatrice.
«E quelle?». Con la mano tremante indicai la
parete tappezzata dalle foto segnaletiche, causando una risata generale.
«Quelle
sono le nostre foto» spiegò
un altro ragazzo, con i capelli scuri, gli occhi azzurri e un pizzetto.
La sua foto era appena più giù di quella di Ryan.
«Chi
siete?» tornai a chiedere,
spaventata.
Dove ero finita?
Perché c’erano le loro foto segnaletiche incorniciate alla
parete?
«Io sono
Ryan, o Cal, lui è Dollar».
Ryan indicò il ragazzo con la cicatrice, che mi sorrise, sistemandosi poi la
sciarpa a righe nere e grigie che portava. «Brandon»
continuò Ryan. Il suo sguardo si posò sul ragazzo con gli occhi azzurri e il
pizzetto che mi salutò con un gesto del capo, senza dire nulla. «Josh e Paul sono gemelli». Due ragazzi con i capelli biondi,
rasati quasi a zero mi sorrisero, prima di salutarmi anche loro con un
movimento della testa. Entrambi avevano gli occhi azzurri e si somigliavano.
Riuscivo però a notare alcune differenze. «Sick».
Indicò un ragazzo con un ammasso di capelli castani, tutti spettinati. «David, o Lebo, decidi tu come
chiamarlo, e infine Liam. Ne mancano un paio che sono usciti per alcune
commissioni» spiegò, tornando
finalmente con lo sguardo su di me.
Aveva un grosso taglio sul sopracciglio e il labbro era
gonfio.
Sulla guancia c’era un’ombra gialla: un vecchio ematoma che
se ne stava andando, probabilmente.
Ematomi, cicatrici, foto segnaletiche?
«Voglio
andare a casa» mormorai,
tastandomi il labbro con l’indice.
Lo sentivo molto più gonfio di quanto mi ero immaginata.
«Prima
vorrei sapere cosa hai fatto perché ti aggredissero».
Ryan, di nuovo lui. La sua richiesta assomigliava a un
ordine: la sua voce era dura, aspra.
«Niente» ribattei, cercando di ricordare
quello che era successo.
Avevo semplicemente chiesto un indirizzo.
«Non sei
una giornalista, non sei uno sbirro, che cazzo hai fatto perché ti prendessero
a pugni?» incalzò, stringendo
la mascella, teso.
«Ho
solamente chiesto se mi potevano aiutare perché non sapevo come arrivare nel
mio nuovo appartamento e hanno cominciato a inventare storie su di te» spiegai, indicando Ryan.
Avevano parlato di Cal. Mi avevano definito la sua
puttanella.
«Qual è
l’indirizzo del tuo appartamento?»
chiese Brandon, quello moro con il pizzetto.
«198 tra
Whittier Street e Randall Ave»
ripetei, socchiudendo gli occhi.
Sperai con tutta me stessa che non mi picchiassero anche
loro.
La reazione però, fu totalmente diversa da quella dell’altro
gruppo di ragazzi.
Cominciarono a ridere e qualcuno sogghignò un «certo che sei proprio sfigata».
Continuavo a guardarli uno a uno, aspettando che qualcuno mi
spiegasse che cosa stava succedendo.
«Ti hanno
chiesto il piano?». Di nuovo
Ryan.
Non riuscivo a capire perché quando parlava tutti si
zittissero.
«No, mi
hanno chiesto solo se era il terzo e ho detto di sì» spiegai, ancora confusa da quella strana situazione.
«L’avremmo
fatto anche noi, dai. Forse non così distante dalla loro base ma avremmo
potuto. Troppe coincidenze, no?».
A parlare fu Brandon.
Tutti si dimostrarono d’accordo con la sua frase.
«Però
hanno picchiato una donna. Questo non li giustifica. Lo sappiamo tutti, le
donne non si toccano» sbottò
Ryan.
Dollar, il ragazzo biondo con la cicatrice sul viso, annuì
convinto.
Io, invece, continuavo a essere sempre più confusa.
«Perché mi
ha detto che ero la tua puttana?»
chiesi, facendoli ammutolire.
Ryan si irrigidì, alzandosi dal tavolino sul quale si era
seduto. Fece qualche passo, tastandosi le tasche dei jeans alla ricerca di
qualcosa.
Trovò l’accendino e si accese una sigaretta, senza però
rispondermi.
«Non sei
uno sbirro, non sei una giornalista, perché sei venuta qui? Sei californiana,
no?».
Quella domanda posta da Ryan mi spiazzò. Come faceva a
sapere da dove venivo?
«Come lo
sai?» chiesi, alzandomi in
piedi.
Il mio sguardo si fermò su una tavola, pochi metri dietro al
divano sul quale mi ero svegliata.
Lì c’erano le mie due valigie aperte. Tutto il contenuto era
sopra alla tavola. Non c’era più un vestito piegato, i miei soldi erano in un
angolo.
«Che cosa
avete fatto?» strillai,
avvicinandomi a grandi passi ai bagagli vuoti. Perfino il mio beauty case, con
i pochi trucchi che mi ero portata, era vuoto.
«Un
semplice controllo». Ryan
espirò, producendo una nuvola di fumo.
Un semplice controllo?
«Chi vi ha
dato il permesso di aprire le mie valigie?» urlai, prendendo i miei vestiti e lanciandoli dentro al
trolley a caso.
«L’ho
ordinato io». Di nuovo quella
voce dura e autoritaria, di nuovo Ryan.
Perché parlava solo lui?
Ma soprattutto… «L’hai
ordinato tu? E chi sei, il capo?».
Gettai ombretto, matita e fard dentro alla piccola bustina con le tavole da
surf stampate sopra e sentii qualcuno ridere.
Rimanevano solo i miei soldi.
Chi mi garantiva che non li avessero presi?
Cominciai a contarli, ignorando gli occhi di tutti che erano
puntati su di me.
«Non
abbiamo rubato niente. Ci sono tutti. Millesettecentotrenta» spiegò Ryan, mentre finivo di
contare i soldi.
Non mancava nemmeno un dollaro, c’erano tutti, come mi aveva
detto.
«Voglio
andare nel mio appartamento»
sbottai, chiudendo la cerniera delle valigie in un gesto secco e stizzito.
Cercai di tirarla già dal tavolo, ma mi cadde a terra,
facendo ridere di nuovo qualcuno.
Possibile che per loro la situazione fosse così comica?
«Ti
accompagno» disse una voce
dietro di me. Riuscii a riconoscerla: era di Dollar.
Non lo ringraziai nemmeno, visto che Ryan parlò di nuovo. «No, vado io».
Voce autoritaria, sguardo duro. Di nuovo quello che sembrava
un ordine.
«Ma…» cercò di giustificarsi Dollar,
senza però riuscire ad aggiungere altro.
«Ho detto che ci vado io». La voce si fece ancora più dura
e io rabbrividii.
Faceva quasi paura.
Dollar non disse nulla, indietreggiò di un passo,
affiancandosi ai due gemelli e a Brandon.
«Dammi» sbuffò Ryan, prendendo le mie
valigie e sollevandole come se fossero state vuote.
Notai solo in quel momento i muscoli delle sue braccia,
evidenti anche sotto la maglia bianca.
Riuscii anche a scorgere diversi tatuaggi, ma non mi
soffermai troppo a guardare.
Non salutai nessuno, uscii a testa bassa, seguendo Ryan e
chiudendomi la porta alle spalle.
Mi trovai su un pianerottolo; davanti a noi c’erano le porte
di altri appartamenti.
«Interno
C?» chiese Ryan, fermandosi
al centro del terrazzino completamente spoglio. Non c’era nemmeno una pianta.
«Sì». Cercai il foglietto per
un’ulteriore conferma, ma non lo trovai.
Ryan si avvicinò alla porta con la targhetta 3C.
«Questa è
la tua chiave» sussurrò,
allungandosi per tastare sopra al cornicione della porta e porgendomi poi una chiave.
«Cos… com…
abiterò qui?» farfugliai,
indicando la porta davanti a noi.
«Il
proprietario non si fa mai vedere, passa a fine mese per l’affitto» cominciò a dire, aprendo la porta
e portando dentro le mie valigie.
Non riuscivo a capire.
Ryan e i suoi amici abitavano nello stesso mio palazzo? Al
terzo piano?
«Chiuditi
sempre, sia di giorno e ancora di più di sera. Non aprire a nessuno che non
conosci, nemmeno se è una donna».
Appoggiò le valigie in mezzo alla piccola cucina,
guardandosi attorno.
Quell’appartamento era una copia in miniatura del suo.
«Io non
conosco nessuno» mormorai,
abbassando lo sguardo.
«Mi
conosci, ci sono anche Brandon e gli altri. Di noi ti puoi fidare. Non aprire a
nessun altro, intesi?»
ordinò, aspettando una mia risposta prima di chiudere la porta.
Annuii solamente, rimanendo ferma nel centro della stanza.
Ryan chiuse la porta, senza nemmeno salutare.
Un improvviso silenziò calò nella mia nuova casa,
opprimendomi.
Mi guardai attorno: gli scatoloni che avevo spedito qualche
giorno prima erano sparsi per tutto il pavimento, una lampada, la mia
preferita, era rotta a metà.
Sospirai, stanca di tutto e scostai una sedia per sedermi.
Quando mi abbandonai sulla sedia, lo schienale si ruppe,
facendomi cadere a terra.
Urlai per lo spavento, cominciando a ridere subito dopo.
La risata isterica si trasformò presto in pianto, quando mi
resi conto che mi trovavo in un posto sconosciuto, senza nemmeno qualcosa da
mangiare.
Ero stata aggredita senza motivo e le uniche persone che mi
avevano rivolto la parola sembravano teppisti.
Il benvenuto di New York non era di certo stato caloroso.
Salve
a chi non mi conosce e bentornate a chi invece ha già avuto la sfortuna di
leggere –volente o nolente– qualcosa di mio.
Registro
diverso, storia nuova e soprattutto ambientazione e personaggi nuovi.
Premetto
già che il linguaggio non sarà dei migliori, sarà duro e alcune volte volgare.
Dunque,
come nasce questa storia?
Ho
letto da qualche parte “Gang” e qualche ora dopo ho ritrovato la cartolina di
un mio amico che diceva “mi sono perso nel Bronx, che paura!” e il neurone ha
unito le due cose.
Se
vi state chiedendo se la storia avrà dei rimandi a Sons of Anarchy (se qualcuno
l’ha visto) la risposta è ‘Snì’.
Sì,
perché ci sono alcune cose, come ad esempio le foto segnaletiche sul muro, che
sono prese da lì.
No,
perché ho letto interviste e articoli, e la storia delle bande, nel Bronx, non
è esattamente uguale a quella che traspare dai SAMCRO.
Comunque,
credo le note a fine capitolo saranno leggermente più lunghe rispetto alle
altre mie storie perché vorrei precisare alcune cose che magari nei capitoli
per qualche motivo non sono riuscita a spiegare.
Tutte
le strade citate in questo capitolo esistono, ho cercato su Google Maps, però
non so dirvi se effettivamente siano così vicine, visto che, come mi ha fatto
notare SidRevo,
un paio di strade distano tipo 2 miglia. Insomma, spero mi perdonerete se c’è
qualcosa di sbagliato, ecco.
Ah
sì, il numero dello stabile l’ho inventato, quindi quello con molta probabilità
è completamente sbagliato, ecco.
Ultima
cosa, spero che la storia possa piacervi, e, se vorrete lasciare in qualche
modo un feedback, be’, lo accetto volentieri, perché non so se l’idea può
piacere!
I
volti li trovate nel mio gruppo Fb (dove pubblico anche gli spoiler) che è
questo: Nerds’
corner.
Se
qualcuno vuole aggiungermi agli amici (ho sempre accettato senza chiedere nick,
però vi prego, se mi aggiungete, ditemi almeno che siete lettrici, perché cominciano
a esserci un po’ troppe richieste) il mio profilo FB è: Roberta RobTwili.
Un
enorme grazie a Malia85
che mi beta la storia e a TheCarnival per il
Teaser trailer che trovate a inizio capitolo.
La
mia idea è aggiornare una volta a settimana, però spero mi perdonerete, per il
prossimo mese, se i tempi saranno leggermente più lunghi, vista l’imminente
sessione di esami.
Bòn,
credo di aver finito di rompere, a presto!
|
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Capitolo 2 *** Open the door. We know you're here ***
YSM
Una botta secca alla porta, come
se qualcuno l’avesse colpita o ci avesse gettato qualcosa contro.
Mi asciugai frettolosamente le
lacrime che continuavano a scendere e, cercando di non fare rumore, mi
avvicinai alla porta per capire se ci fosse qualcuno dietro. Sì, sentivo dei
movimenti e delle voci nonostante la parete: qualcuno stava discutendo di
qualcosa, ma non riuscivo a capire le parole.
Appoggiai l’orecchio al legno,
sperando di avere qualche indizio per capire chi ci fosse, ma urlai spaventata
quando ci fu un nuovo colpo.
Bene, ora tutto il palazzo sapeva
che ero in casa.
«Apri» ordinò
una voce dietro la porta.
Indietreggiai spaventata,
guardandomi attorno in cerca di qualcosa che potesse ferire chiunque ci fosse
là dietro. Dubitavo di riuscire a colpire veramente qualcuno, ma magari sarei
riuscita a spaventarlo.
Dentro a uno scatolone, che avevo
aperto pochi minuti prima, vidi un mestolo di legno che presi subito in mano,
tenendolo alzato. Mi avvicinai lentamente alla porta, il respiro fermo nel petto.
Non mi ero resa conto, però, che
prendendo il mestolo, avevo spostato lo scatolone: ora era pericolosamente in
bilico. Sentii all’improvviso un rumore dietro di me che mi fece sobbalzare
spaventata.
Le poche pentole che avevo portato da casa erano sparse su
tutto il pavimento della piccola cucina. Per qualche secondo rimasi a
guardarle, non sapendo che fare.
«Apri, sappiamo che se lì
dentro». Di nuovo la voce fuori
dal mio appartamento, seguita subito dopo da un altro colpo che fece vibrare
tutta la parete.
Socchiusi gli occhi, spaventata,
stringendo più forte tra le mani il mestolo di legno e avvicinandomi alla
porta; puntai il piede contro il legno: una volta aperta, con il mio piede
dietro a bloccarla, se ci fosse stato qualcuno intenzionato a farmi del male,
sarei riuscita a chiuderla subito.
«Sono armata»
mentii, sperando che lo sconosciuto sul pianerottolo potesse credermi.
Abbassai la maniglia lentamente,
tenendo alto il mestolo e avvicinando ancora di più il piede.
Il cuore mi batteva all’impazzata,
talmente forte che rischiava di uscirmi dal petto. Perfino il dolore al labbro
passava in secondo piano.
Quando riuscii ad aprire uno spiraglio,
il mio cuore si fermò per un secondo, riprendendo a battere subito dopo con un
ritmo un po’ più regolare.
Abbandonai la testa all’indietro,
togliendo il piede e spostandomi di un passo.
«Quella sarebbe la tua arma?» ghignò Ryan, indicando il mestolo che continuavo a stringere
nella mano destra.
I ragazzi dietro di lui
scoppiarono a ridere, senza pensare minimamente di nasconderlo.
«Scusa, non ho finito di sistemarmi e la pistola è ancora in
qualche scatolone» sbottai,
stizzita dal loro prendermi in giro.
Perché non potevo farlo anche io?
In fondo, loro l’avevano fatto quando mi ero svegliata nel loro appartamento.
«Hai una pistola?»
chiese Brandon –mi sembrava di ricordare che si chiamasse così – sorpreso.
«No che non ho una pistola» esclamai, spalancando gli occhi sorpresa.
Credeva davvero che ne avessi
una?
«Dovresti»
sbottò Ryan, sedendosi sul divano sgangherato che avevo trovato in casa.
Era vecchio, sporco e rotto, ma
per le poche centinaia di dollari che pagavo al mese di affitto, non mi ero di
certo aspettata un divano nuovo.
Rabbrividii quando Ryan si
distese sul divano, appoggiandoci i piedi sopra. I miei occhi saettarono su i
suoi scarponi sporchi e mi avvicinai a lui, appoggiando le mani sui fianchi,
arrabbiata.
Chi gli aveva dato il permesso di
entrare in casa mia? Perché si era seduto come se io gli avessi detto che
poteva farlo?
«Ehi, alzati subito da lì! E non appoggiarci i piedi. Chi ti ha
detto di entrare?» strillai,
indicando la porta di casa prima di prendergli le gambe e costringerlo ad
appoggiare i piedi per terra. Quel gesto causò le risate dei ragazzi che erano
ancora sul pianerottolo.
«Che modi»
sbottò Ryan, prendendo una sigaretta e portandosela alle labbra. Si alzò per
qualche secondo, cercando l’accendino nella tasca dei jeans e cominciando
subito dopo a fumare.
«Possiamo entrare anche noi?» domandò Brandon, con un ghigno divertito sulle labbra.
«Io non gli ho detto che poteva entrare» mi giustificai, iniziando a raccattare i pezzi della sedia
che avevo rotto; erano ancora per terra, avevo preferito pulire l’armadio prima
di disfare le valigie.
«Grazie» esordì Brandon, sedendosi di
fianco a Ryan sul divano e accendendosi una sigaretta.
Cominciarono a parlare, prima che gli altri li
raggiungessero, occupando anche le altre due poltrone marroni, a pezzi anche
quelle.
Dollar, l’ultimo a entrare, si chiuse la porta alle spalle, avvicinandosi
poi a me, con le mani dentro alle tasche dei jeans. «Siamo venuti a farti un po’ di compagnia, visto che sei appena
arrivata e non conosci nessuno»
azzardò, prima di cominciare a giocherellare con la sciarpa che portava al
collo.
Mi soffermai a guardarlo in viso, cercando di non notare la
sua vistosa cicatrice: era giovane, molto. Non ne ero sicura, ma sembrava non
avere nemmeno vent’anni.
«Che c’è?» bofonchiò, divertito,
accucciandosi per prendere un pezzo di sedia e appoggiandolo poi sopra al
tavolo.
«Chi siete?».
Formulai la domanda prima ancora di pensarla, ma
probabilmente usai un tono di voce troppo alto, perché tutti gli altri si
zittirono per guardarmi.
«Devo
ripetere tutti i nomi? Io sono Ryan»
sogghignò, aspirando una nuova boccata di fumo e causando uno scoppio di risa
generale.
Quando parlava tutti pendevano dalle sue labbra; se ordinava
qualcosa tutti eseguivano, se faceva una battuta ridevano, se chiedeva silenzio
si ammutolivano. Chi era?
«No, chi
siete?» mi intestardii,
appoggiandomi al tavolo con la schiena, in attesa di una risposta seria. Volevo
una risposta vera, non mi interessavano i loro nomi, piuttosto ero curiosa di
sapere perché tutti avessero il viso segnato da piccole cicatrici e da ematomi
in via di guarigione.
«I tuoi
vicini. In California non vi portano i dolcetti, appena vi trasferite? Mi
dispiace, noi non abbiamo dolcetti».
Il ghigno di Ryan mi innervosì talmente tanto che strinsi i
pugni, respirando a fondo per non ribattere qualcosa di volgare e fuori luogo.
«Dovete
essere anche qualcos’altro. Perché altrimenti mi avrebbero presa a pugni quando
ho detto l’indirizzo di questo palazzo?»
chiesi, rabbrividendo al ricordo di quello che mi era successo. Ero ancora
scossa, volevo solo farmi una doccia calda e distenermi a letto per poter
riposare qualche ora; rilassarmi, insomma.
«Devi
prestare attenzione a chi c’è qui attorno. Mai parlare con i blu» mormorò criptico Ryan, ricevendo
l’assenso di tutti.
«I blu?».
I loro occhi mi guardarono stupiti, come se avessi appena
fatto una domanda stupida. Sentire i loro sguardi addosso mi fece arrossire e
mi concentrai su un mobile giallo della cucina.
«Ryan, non
credi che dovremmo…» cominciò
Brandon, prima che il biondo imponesse di fare silenzio con un gesto della
mano.
«No» disse con tranquillità, la
sigaretta tra le labbra. «Non
è il momento».
A quell’affermazione, Dollar aprì la bocca per dire
qualcosa, poi però scosse la testa, ripensandoci.
«Però,
insomma, lei vive qui»
ritentò Brandon, guardando Ryan che stava spegnendo la sigaretta sul pavimento.
«Ehi» strillai, avvicinandomi a grandi
passi a loro, che mi guardarono stupiti. «Questa non è casa tua e la sigaretta non la spegni sul mio
pavimento, ok? Cerca uno stupido posacenere e poi gettala nel cestino». Indicai un sacco dell’immondizia
di fianco alla tavola, dietro di noi. La mia sfuriata li fece ridere tutti, di
nuovo.
Cosa c’era di tanto divertente in quello che facevo o
dicevo?
«Forse ci
ho ripensato. Se magari lo sa, smette di fare la sapientina» sghignazzò, seguito dagli altri, «o magari, meglio, ci ringrazia per
averle salvato il culo, visto che deve ancora farlo» aggiunse, soffocando ogni mio proposito di rispondere di
nuovo.
Aveva ragione, non li avevo ancora ringraziati. Mi avevano
salvata da quei ragazzi che volevano rapinarmi e non solo; si erano dimostrati
gentili, portandomi a casa loro e offrendosi di accompagnarmi nel mio nuovo
appartamento, prima ancora di sapere che era dall’altra parte del pianerottolo.
«Io… be’…» bofonchiai, abbassando lo sguardo
sulle dita che continuavo a torturarmi. Mi sentivo tremendamente in imbarazzo
perché aveva ragione e soprattutto non era da me: ero la prima a ringraziare
per qualsiasi cosa, anche per un piccolo gesto, e non l’avevo fatto con loro,
che mi avevano salvato la vita.
«Brandon,
hai per caso sentito grazie? Perché io credo di non aver sentito quelle sei
lettere».
Il sottile umorismo di Ryan mi irritò, facendomi esplodere.
«Se prima
volevo ringraziarvi, adesso mi è passata la voglia, ma siccome sono una persona
educata, credo sia giusto farlo lo stesso. Grazie Dollar». Incrociai le braccia sotto al seno, piccata, concentrandomi
solo sul suo viso senza però guardare troppo la cicatrice.
Dollar, all’inizio stupito, cominciò a ridere, seguito dagli
altri subito dopo.
Bene, di nuovo tutti a prendermi in giro.
«Qualcuno
può spiegarmi cosa c’è di divertente in tutto quello che dico? Così magari
posso ridere anche io»
sbottai ironica, peggiorando la situazione: Ryan si portò una mano alla pancia,
ridendo di gusto. Tutti gli altri, invece, cercavano di sorreggersi a vicenda.
«Sì, bene.
Fate come se fosse a casa vostra visto
che non siete a vostro agio. Io intanto continuo a sistemare le mie cose» borbottai tra me e me, prendendo
la seconda valigia e dirigendomi verso la camera.
«Se vuoi
io ti sistemo il cassetto della biancheria». Mi ritrovai Dollar di fianco, con un sorriso divertito.
Quella strana smorfia gli increspava la pelle attorno alla cicatrice,
deformandogli il viso.
«Dollar,
lasciala stare, è troppo grande per te»
lo canzonò qualcuno, tirandogli un cuscino sulla nuca.
«Sta
zitto, Brandon» sbottò
Dollar, lanciandogli il cuscino addosso di rimando.
Quel gesto mi fece sorridere perché sembravano un gruppo di
amici che scherzava, divertendosi.
«Quello
l’ho già sistemato» spiegai,
aspettando una reazione da parte di quelli seduti sul divano.
«Non
importa, controllo che sia in ordine»
ritentò Dollar, facendomi ridere.
Quel suo sorriso fu in grado di rallegrarmi. Sì, perché
riuscivo a vedere qualcosa, sotto a quella cicatrice, che mi faceva tenerezza:
un bel viso, distrutto per chissà quale motivo.
«Doll,
lascia stare, non sei il suo tipo. Credo le piacciano gli uomini, non le mezze
cartucce» ghignò Ryan,
causando l’ennesimo scoppio di risa. Tutti stavano ridendo; tutti tranne Dollar
che incurvò le spalle, indispettito.
«Sinceramente
mi sembra un uomo. Se vuoi, Dollar, puoi aiutarmi a sistemare l’armadio, visto
che non riesco a spostarlo».
Volevo aiutarlo, sembrava davvero quello preso in giro da
tutti. Che fosse perché era il più giovane?
«Faccio io.
Dollar non sa spostare nemmeno una sedia»
sbuffò Ryan, alzandosi dal divano e scostando con una spallata Dollar, che gli
impediva di passare dalla porta. «Qual
è la camera?» chiese,
guardando lungo il piccolo corridoio.
«L’unica
porta a destra». Non era poi
così grande la mia nuova casa: entrata con cucina, un piccolo corridoio che
portava alla mia camera e al bagno.
Raggiunsi Ryan in camera mia e lo trovai a osservare
l’armadio davanti a lui con uno strano ghigno. «Sarebbe questo l’armadio che non riesci a spostare?» chiese, cercando di non ridere.
«Be’, per
me è alto e pesa». Solo perché lui era alto poco meno dell’armadio non doveva farmi
sentire una nanetta.
«Credevo
che in California le ragazze fossero alte, bionde e con le tette grandi. Ci
deve essere qualcosa di sbagliato in te»
commentò, tirandosi su le maniche della maglia che indossava e lasciando
scoperte le sue braccia muscolose.
«Mio padre
è australiano» mi
giustificai, punta sul vivo.
Possibile che dovesse essere così scortese da offendere? In
fin dei conti non lo conoscevo da nemmeno un giorno.
«Questo
non ti giustifica. Dovresti essere alta almeno così». Indicò un punto all’altezza del suo naso, molto più in alto
rispetto a me.
«Senti,
vuoi spostare questo armadio o sei qui solo per dirmi che sono bassa?» sbottai irritata, incrociando le
braccia al petto in segno di irritazione.
Non mi faceva di certo piacere sentirmi prendere in giro
solo perché raggiungevo a malapena il metro e sessanta.
«Piccola
ma cattiva, eh?». La voce,
proveniente alle mie spalle, mi fece sussultare spaventata.
Brandon, Dollar e uno dei due gemelli entrarono in camera
mia, distendendosi subito dopo sul mio letto.
«Hai
sentito Brandon? Ha gli artigli»
disse Ryan, appoggiando la schiena contro l’armadio. «Dove devo metterlo?»
continuò poi, guardandomi.
«Qui, mi
piacerebbe qui». Indicai un
punto a qualche metro da Ryan, a pochi passi da me.
Ryan cominciò a spostare l’armadio, da solo, stupendomi.
«Ti farai
male» urlai, avvicinandomi
per aiutarlo; non che potessi fare molto, ma almeno non si sarebbe sforzato
troppo.
«Alexis,
Ryan ogni tanto aiuta suo zio a fare i traslochi, è abituato» mi spiegò Brandon, accendendosi
una sigaretta.
«Potreste
almeno non fumare sul mio letto? Le lenzuola sono pulite» lo informai, trattenendomi dal non spintonarli giù dal materasso.
«Su, da
bravi, la signora non vi vuole sul suo letto» ridacchiò Ryan. Naturalmente, come mi aspettavo, la sua
battuta li fece ridere, tanto che un po’ di cenere della sigaretta di Brandon
finì sul copriletto. «Alzatevi» ordinò subito dopo, facendoli
alzare infastiditi.
«Grazie» mormorai, tenendo lo sguardo
basso. Non sapevo se ringraziarli perché si erano alzati dal mio letto o
ringraziare Ryan perché glielo aveva ordinato.
«Miss
California ha detto grazie, ragazzi. Dovremmo aspettarci una tormenta di neve a
giugno?» ironizzò Ryan.
Non mi scomposi nemmeno, intenta com’ero a cercare di non
arrossire.
«Qui
l’armadio va bene?» chiese,
indicando l’esatto punto in cui me l’ero immaginato.
«Sì,
grazie». Accennai un debole
sorriso, guardandolo di sottecchi.
«C’è altro
che ti serve?». Si piegò
leggermente in avanti, girando il busto.
Temevo che si fosse fatto male alla schiena, spingendo da
solo l’armadio.
«Ti sei
fatto male?». Mi avvicinai a
lui istintivamente, facendo un passo per guardare la sua schiena.
«No» sbottò, allontanando il mio
braccio di colpo, come se avesse avuto paura di me. «C’è altro che ti serve?»
insisté, prendendo una sigaretta e accendendola.
«Io… credo
di no. Non ho controllato in bagno, ma dovrebbe essere tutto ok» spiegai, guardando i loro volti.
C’era qualcosa che li accumunava; erano tutti diversi ma la
luce nei loro occhi sembrava la stessa.
Qualcosa, dentro di loro, li legava, come se fossero fratelli.
«Andiamo a
controllare il bagno. Ryan, dovremmo andare a lavorare».
Brandon sottolineò l’ultima parola, incuriosendomi.
Guardai l’ora: erano quasi le undici di sera; dove potevano
lavorare? In un bar, forse. O in qualche locale.
Oddio, e se fossero stati degli spogliarellisti?
«Do-dove
lavorate?» domandai,
imbarazzata; non ero sicura di voler sapere veramente la risposta.
«Aiutiamo
i bambini ad attraversare la strada quando escono da scuola» borbottò Ryan, accendendo le luci
del piccolo bagno con le mattonelle blu, e aprendo tutte le ante dei mobiletti
per controllare che fosse tutto apposto.
Per fortuna non avevo ancora sistemato il bagno.
«Aiutate i
bambini ad attraversare la strada quando escono da scuola?» ripetei, meravigliata. E perché
stavano uscendo di notte?
«Sì, solo
che siccome di mattina c’è traffico, ci prepariamo già lì» continuò Ryan, facendo ridere
Dollar e Brandon, appoggiati allo stipite della porta, dietro di me.
«Mi stai
prendendo in giro, vero?» esplosi,
irritata per non essermene accorta prima e aver fatto la figura della stupida
ancora una volta.
«Sì,
Alexis, ti sto prendendo in giro. Qui è tutto apposto, ti serve altro?» chiese, scostandomi appena per
uscire dal bagno dopo aver spento la luce.
Mi ritrovai al buio. Corsi verso la cucina e mi fermai
appena in tempo per non sbattere contro Ryan.
«Ecco… in
verità, io… dovrei trovare un lavoro»
confessai, giocherellando con il bordo della mia maglia.
«Lavoro?
Credi di trovare lavoro qui?»
proruppe Ryan, di nuovo quel ghigno sulle labbra, per prendermi in giro.
«Sì, mi
andrebbe bene tutto, devo riuscire a pagare l’affitto e… insomma. Voi dove
lavorate?». Magari erano camerieri in qualche locale lì vicino. Di
sicuro conoscevano la zona molto meglio di me.
«Sai
cambiare la gomma a una macchina?».
Brandon cercava di rimanere serio, con pochi risultati.
«Io… no,
ecco. Ma, ma posso fare qualcos’altro».
Non mi interessava entrare in un ospedale o trovare un lavoro che c’entrasse
con la mia laurea. Volevo solo riuscire a essere indipendente.
«Se non
sai cambiare gomme, scordati di trovare un lavoro a Hunts Point». Per la prima volta, forse,
riuscii a scorgere un’espressione seria. Nessun ghigno nel volto di Ryan.
«Ok,
troverò qualcosa qui attorno, allora»
azzardai, appoggiandomi al tavolo dietro di me e guardando i ragazzi in mezzo
alla piccola cucina.
«Non credo
sia il posto più adatto per uscire di sera, questo. Hai visto anche tu cosa è
successo». Il riferimento di
Ryan alla mia aggressione mi fece rabbrividire, facendomi ricordare quella
banda di ragazzi e i loro volti.
«Ma devo
pagarmi l’affitto. Ci sarà un bar, qualcosa, qui vicino. Anche commessa… va
bene tutto, non mi interessa qualcosa che riguardi quello che ho studiato,
davvero»
mi giustifica, sperando che potessero aiutarmi.
Ryan sembrò sorpreso: il suo sguardo saettò da Brandon a
Dollar, per poi tornare su di me. «Cosa
hai studiato?» chiese, una
nota di curiosità nella voce che non riuscì a nascondere.
«Medicina» mormorai, socchiudendo gli occhi.
Non nominai nemmeno i due esami mancanti; sapevo che ci sarebbero state altre
domande e non volevo rispondere.
«Ci
serviva» bisbigliò Brandon,
dando dei leggeri colpi con il gomito sul fianco di Ryan.
Dollar cominciò a ridere, nascondendosi poi le labbra con la
sciarpa, probabilmente perché cercava di non farsi vedere.
«Non c’è
niente per te, qui» sbottò
Ryan, utilizzando un tono di voce duro, che mi fece rabbrividire.
«Non mi
interessa lavorare in un ospedale. Va bene anche un bar, davvero. Anche se devo
fare un’ora di strada». Avrei
lavorato anche di notte, non era un problema.
«Cazzo se
è testarda, ho detto di no».
Ryan prese una nuova sigaretta, accendendosela senza nemmeno chiedere il
permesso.
«Chiederemo,
magari qualche bar ha bisogno di una cameriera». La proposta di Brandon sembrò voler zittire Ryan, e ci
riuscì.
«Grazie» mormorai, grata perché almeno ci
avrebbero provato. «Non
voglio farvi tardare, se dovete andare al lavoro. Io… ecco, grazie comunque» bofonchiai, non riuscendo a
sostenere lo sguardo di nessuno di loro tre.
Ricordai che quando erano arrivati c’era anche Paul, uno dei
due gemelli, e Sick, mi sembrava di ricordare; che fossero tornati nel loro
appartamento? Mi guardai attorno, sicura che non potessero essere né in bagno
né in camera.
«Non
dobbiamo timbrare cartellini»
rise Ryan, seguito subito dopo da Brandon e Dollar.
Non riuscivo a capire che lavoro potessero fare. Lavoravano
di sera, non timbravano cartellini e potevano cominciare a qualsiasi ora.
Qualcosa dietro di me sbatté, facendomi urlare per lo
spavento.
«Scusate» sussurrò Dollar, cercando di
trattenere una risata, «cercavo
qualcosa da mangiare» spiegò,
chiudendo per la seconda volta l’anta di un mobile della cucina, senza però
sbatterla.
«Non c’è
niente da mangiare, non ho fatto la spesa e… ho solo un pacchetto di cracker». Camminai velocemente fino al
divano per prendere la mia borsa; quando tornai da Dollar, con i cracker tutti
rotti a causa del viaggio, lui cominciò a ridere, portandosi una mano sullo
stomaco.
«No no…
grazie. Era solo per uno spuntino: una bistecca, un po’ di patate fritte, cose
così».
La mia espressione, dopo la spiegazione di ‘spuntino’ da
parte di Dollar, mutò, facendoli ridere ancora di più.
Non sapevo che cosa avessero visto sul mio volto, ma tutti e
tre continuavano a sghignazzare, appoggiati al tavolo, o alla cucina.
«Che c’è?» domandai, sperando che la
smettessero di mettermi in imbarazzo e si decidessero a parlare.
«Nie-niente» bofonchiò Ryan, tra una risata e
l’altra, asciugandosi una lacrima con il braccio.
«Vuoi
qualcosa da mangiare per questa sera?».
Brandon smise di ridere, sistemandosi anche la maglia.
«No, ho i
cracker, grazie. Farò la spesa domani mattina». Ero abituata a mangiare poco di sera e a causa del jet lag
non avevo poi così fame.
«Portate
qualcosa da mangiare, se ne abbiamo»
ordinò Ryan, indicando, con un gesto del capo, la porta di casa.
«No,
davvero, non importa» mi
giustificai, inutilmente: Dollar e Brandon erano già sul pianerottolo, pronti a
entrare nel loro appartamento. «Non
serviva» mormorai, guardando
Ryan, davanti a me.
«Ci
ripagherai in qualche modo»
ghignò. Brandon e Dollar rientrarono con un paio di birre e qualche pacchetto
di patatine.
«Ecco,
così puoi mangiare e anche bere»
borbottò Dollar, appoggiando le birre sopra al tavolo.
Avrei voluto dire che di solito non bevevo birra, ma si
erano dimostrati così gentili che non me la sentii e li ringraziai solamente.
«Ryan, è
tardi, dobbiamo andare». Brandon
indicò l’orologio che aveva al polso, guardando subito dopo Dollar.
«Sì. Be’,
chiudi la porta, non aprire a nessuno e… buona serata». Ryan cercò di sorridere, ma ottenne solo una strana smorfia,
che mi fece ridere.
«Grazie.
Buon lavoro». Non sapevo cosa
dire, mi sentivo tremendamente in imbarazzo.
Nonostante tutto, si erano dimostrati gentili con me. Questo
mi insegnava che, in qualche modo, dovevo guardare oltre alle apparenze di
quelle cicatrici e di quegli ematomi.
Uscirono dal mio appartamento chiudendosi la porta alle
spalle e io chiusi subito il catenaccio per sentirmi più sicura.
Un silenzio improvviso calò dentro alla mia piccola cucina,
facendomi rabbrividire.
Cominciavo lentamente a rendermi conto di quello che mi era
successo, forse perché lo shock stava lentamente svanendo.
Mi serviva una doccia calda, per cercare di scaricare lo
stress e per allentare i miei muscoli.
Lasciai che l’acqua calda scaldasse un po’ l’ambiente e,
dopo aver cercato un paio di pantaloni e una maglietta da una delle valigie che
non avevo finito di sistemare, mi abbandonai sotto al getto di acqua,
circondata dal vapore: potevo sentire le ultime tracce di Los Angeles scivolare
via per lasciare il mio corpo.
Una nuova vita: nuovo lavoro –che non avevo ancora trovato–,
nuovi vicini, nuova casa.
Rimasi sotto al getto d’acqua calda per un tempo indefinito;
decisi di uscire solo quando vidi che il bagno era completamente avvolto dal
vapore.
La stanchezza cominciava a farsi sentire, così lasciai i
capelli sciolti, senza nemmeno asciugarli: era giugno, estate; in California mi
asciugavo i capelli solo in inverno.
Camminai svogliatamente fino alla cucina: volevo prendere i
cracker e distendermi a letto, per mangiarli in tranquillità. Il mio sguardo,
però, si posò sui pacchetti di patatine e sulle birre che mi avevano portato
Dollar e Brandon.
«Tanto» bofonchiai tra me e me, facendo
spallucce. Presi una birra e un pacchetto di patatine, abbandonando l’idea di
mangiare i cracker a pezzetti, e avanzai fino alla mia camera, distendendomi
poi sul letto con uno sbuffo.
Puzzava di fumo e c’erano delle tracce di cenere sparse sul
copriletto, ma ero talmente stanca che non mi interessava.
Gli avrei vietato di fumare ancora sul mio letto, pensai,
sorseggiando un po’ di birra fresca.
Anzi, non sarebbero più entrati in camera mia, perché non ce
n’era bisogno.
Erano i miei vicini, pronti a prestarmi un chilo di zucchero
quando ne avevo bisogno, o a indicarmi la strada più corta per arrivare a
Trafalgar Square.
Sì, senza dubbio il nostro rapporto sarebbe stato quello.
Buongiorno
ragazze! :)
Intanto
vi ringrazio per la risposta che avete dato al primo capitolo, sono felice che
l’idea vi sia piaciuta e spero che la vostra risposta sia sempre così positiva.
Ma
siete ancora vive alla fine di questo capitolo così noioso o siete tutte
addormentate? Se siete vive battete un colpo per favore! :)
Dunque,
capitolo (noiosissimo) di passaggio che mi serve per descrivere un po’ meglio i
personaggi e per farvi capire alcune cose.
Per
quanto riguarda HUNTS POINT,
è il quartiere del Bronx in cui ho deciso
di ambientare la storia (le due strade Whittier Street e Randall Ave
sono di
questo quartiere). La scelta è ricaduta proprio su Hunts Point
per svariati
motivi. Highbridge e West Farm, altri quartieri, hanno decisamente
troppa
malavita e troppi crimini, Alexis non sopravvivrebbe nemmeno un giorno;
Mount
Eden, che di solito viene definito come quartiere, in verità
è un quartiere-strada,
e volevo qualcosa di più ‘vasto’. Morris Heigh
è un quartiere troppo
tranquillo, tutti vivono felici e gli uccellini cantano…
insomma, un quartiere
tranquillo, troppo. Soundview è solamente povero, non
c’è malavita o altro,
quindi risultava strano ambientare la storia con tutte le vicende che
descriverò lì. L’ultimo quartiere era Morrisania, e
fino
all’ultimo ero indecisa. Alla fine però ho scelto Hunts
Point, che, tra
l’altro, nel giro di due isolati ha 2 officine con ricambi di
gomme (da qui la
battuta di Brandon sul lavoro di Alexis).
Mmm,
direi che non ho altro da aggiungere, se non ringraziare chi ha aggiunto la
storia tra i preferiti/seguiti/da ricordare. Ringrazio anche chi ha avuto il
coraggio di inserirmi tra gli autori preferiti!
Come
sempre per le foto dei protagonisti e per gli spoiler questo è il gruppo: NERDS’ CORNER, e se
volete aggiungermi agli amici: Roberta RobTwili (ma vi
prego, ditemi che siete di EFP, mi basta sapere che siete lettori se non volete
dire il nick, perché comincerò a non accettare richieste, se non mi dite
nemmeno che leggete le mie storie).
Spero
di riuscire a scrivere il capitolo per la prossima settimana e scusate per le
note lunghissime!
|
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Capitolo 3 *** How to find a job with Ryan's help ***
YSM
Stupidamente mi ero illusa di
riuscire ad addormentarmi dopo tutto quello che mi era successo; ogni volta che
cercavo di dormire rivivevo la scena della mia aggressione che mi spaventava e
costringeva a rimanere sveglia. Mi rigiravo continuamente tra le coperte.
In ventuno anni non avevo mai
dormito con la luce accesa ma, per la prima volta, ci ero riuscita. Mi sembrava
di sentire dei passi attorno a me, mormorii e risatine che mi mettevano i
brividi; così alla fine avevo ceduto: luce accesa e stereo a basso volume
sembravano il modo migliore per scacciare i fantasmi che mi avevano accolta
nella mia nuova casa.
Riuscii ad addormentarmi
solamente alle prime luci dell’alba, cadendo in un incubo senza fine che si
interruppe due ore dopo, al suono della sveglia che mi fece sobbalzare. Mi
alzai a sedere di scatto e sospirai sollevata non vedendo nessuno attorno a me.
Avevo bisogno di una doccia,
perché a causa di quell’incubo mi ero svegliata in un bagno di sudore; così,
correndo verso il bagno per non prendere un raffreddore, aprii subito l’acqua,
sperando che la stanza si riscaldasse al più presto.
Indossai un paio di jeans e una
maglietta e, dopo essermi legata i capelli, presi la cartina di New York che
avevo comprato in aeroporto e uscii per andare a fare colazione, ma soprattutto
per cercare un lavoro.
«Guarda chi c’è»
sbottò qualcuno dietro di me, mentre chiudevo la porta del mio appartamento con
un doppio giro di chiave. Mi voltai, spaventata, rilassandomi però subito dopo:
erano Ryan, Dollar e gli altri ragazzi.
«Buongiorno»
esordii, lasciando che il mio sorriso svanisse non appena notai i loro volti
ricoperti di tagli. «Che cosa vi è successo?» chiesi preoccupata, avvicinandomi a loro per guardare
meglio.
Dollar
aveva un taglio sul sopracciglio sinistro che continuava a sanguinare; Ryan
invece aveva il labbro gonfio e lo zigomo rosso. Erano loro due quelli conciati
peggio: sul volto di Brandon c’era solo una lieve sfumatura più scura. I
gemelli, fortunatamente, sembravano non avere segni evidenti di lotta nel
volto; avevano però le loro maglie intrise di sangue. A quella visione
rabbrividii.
«Siamo caduti dalle scale» ghignò Ryan, tastandosi le tasche per cercare una
sigaretta che si portò immediatamente alle labbra. Fece un gesto a Brandon,
chiedendogli l’accendino.
«Tutti?»
ribattei, sicura di me stessa. Non mi avrebbe più presa in giro. Avevo capito
che era un tipo ironico, che dovevo soppesare tutto quello che diceva per
riuscire a capire quando scherzava o quando invece era serio.
«Sì, stavamo giocando a tiro alla fune e poi,
all'improvviso, siamo caduti tutti. è divertente,
dovresti provare» sogghignò, restituendo
l’accendino a Brandon e aspirando poi una boccata di fumo.
«Non ci credo». Questa volta non mi avrebbe imbrogliata, no. Ero più lucida della sera
prima e sarei senza dubbio riuscita a fargli dire la verità.
«Cosa? Che è divertente?». Il sorriso che comparve sul suo viso mi innervosì:
mi stava prendendo in giro davanti a tutti gli altri, che continuavano a
ridere, godendosi la scenetta.
«No, non ci credo che stavate giocando
sulle scale» sbottai risoluta, avanzando
di un passo verso di loro e stringendo con più forza i pugni.
«Non me ne frega poi molto se ci credi
o no». Fece spallucce, portandosi di
nuovo la sigaretta alle labbra.
«Scusatemi, vado a disinfettarmi questa
cosa, ciao Alexis». Dollar fece un passo
in avanti, sorridendo mentre imitava un inchino.
«Posso vedere?» chiesi, prima ancora di rendermene conto. Il sangue,
la ferita… mi riportò a una delle poche cose che sapevo fare meglio.
«Cosa vorresti vedere, di preciso?
Dollar è minorenne» sogghignò Ryan,
facendoli ridere tutti. Non riuscii a non arrossire a quella battuta di pessimo
gusto.
«Idiota, voglio vedere il taglio». Non mi scomposi nemmeno, avanzai verso Dollar senza
guardare Ryan. Sentivo la sua risatina riecheggiare nel pianerottolo, ma la
ignorai, alzandomi in punta di piedi per avvicinarmi al viso di Dollar.
Posai le dita poco distante dal taglio, premendo
leggermente: «non è profondo, ma dovresti disinfettarlo» suggerii, tornando ad appoggiare completamente i
piedi per terra.
«Certo, ci butto sopra un po’ di vodka
e poi tutto è sistemato» bofonchiò
Dollar, girando la chiave nella toppa per entrare nel loro appartamento.
«Vodka? No, ti serve disinfettante».
Aprii la borsa, cercando le chiavi di casa, che avevo
appena gettato dento, perché volevo prendere la bottiglietta: ne avevo portato
uno o due flaconi da casa, sicura che potessero servire, sempre.
«Disinfettante? È roba per donne. Hai
mai provato la vodka?» mi provocò Ryan,
mentre aprivo la porta di casa per andare in bagno. Ricordai infatti di aver
sistemato il disinfettante proprio quella mattina, dopo la doccia.
«Alexis, davvero, non importa» strillò Dollar. La sua voce sembrava vicina,
probabilmente era entrato nel mio appartamento senza però seguirmi.
Certo che importava, era il mio lavoro curare le
ferite delle persone. Quelle visibili, almeno.
«Siediti» borbottai, spostando una sedia e appoggiando quello che avevo preso
sopra al tavolo.
Sentii dei borbottii provenire dalle mie spalle e
istintivamente mi voltai per controllare chi fosse.
Ryan, Brandon e i due gemelli erano fermi sull’uscio;
stavano guardando la scena con una strana espressione sui loro volti.
«Dovresti medicarti anche tu». Con un gesto del capo indicai la ferita sul labbro
di Ryan che si stava gonfiando sempre di più, «poi fai come vuoi, grande uomo»
aggiunsi, tornando a guardare Dollar che mi sorrise appoggiando il gomito sinistro
sul tavolo e scostandosi i capelli perché non mi impedissero di medicarlo.
Con dei gesti meccanici inzuppai il cotone di
disinfettante e cominciai a tamponare la ferita, attenta a non premere troppo
per non fargli male.
Dollar mi guardava senza però parlare; quel
comportamento mi fece arrossire perché sentirmi osservata in quel modo mi dava
fastidio.
«Come ti sei fatto questo taglio?» chiesi, sperando che mi potesse rispondere senza
raccontare di nuovo una bugia. Forse, senza Ryan attorno, Dollar si sarebbe
lasciato sfuggire la verità, appagando la mia curiosità.
«Dovresti chiederlo a Ryan» ribatté, mentre lo guardavo stupita. Era stato Ryan a
picchiarlo? Avevano lottato tra di loro? «No,
non è stato Ryan, ma io non posso dirtelo»
ridacchiò, intuendo quello che stavo pensando.
«Siete strani» mormorai, togliendo il sangue raffermo che c’era
sulla sua guancia. I tagli sul viso sanguinavano sempre tanto, facendo sembrare
la situazione peggiore di quello che in verità era.
«Per
ringraziarti di questo posso palparti il culo?» ironizzò, alzando lo sguardo, probabilmente per godersi la mia
reazione. Premetti più forte il batuffolo di cotone contro il taglio sul suo
sopracciglio, provocandogli un lamento.
«Era un modo per dirmi di sì e che posso farlo
violentemente?» tentò, di nuovo, senza
smettere di sorridere.
«Era un modo per dirti sta zitto o ti ritrovi
con l'altro sopracciglio rotto»
specificai, assumendo un’aria minacciosa. Non ci riuscii, visto che Dollar
cominciò a ridere, costringendomi a rimanere con il cerotto a mezz’aria perché
non riusciva a rimanere fermo, dondolandosi avanti e indietro sulla sedia.
«Che succede? Ha detto qualcosa di
divertente?» domandò Ryan, la voce molto
più vicina di quando mi aspettassi.
Mi girai, trovandolo a pochi passi da me con uno
sguardo divertito e il sopracciglio alzato; stava aspettando una risposta che
io non avevo intenzione di dare.
«No, semplicemente mi ha zittito» sogghignò Dollar, causando una mezza risata di Ryan,
che però riuscì a contenersi, smorzandola sul nascere.
«Dovresti tenere il taglio pulito» spiegai, sistemando il cerotto sul suo sopracciglio,
facendo attenzione a non premere troppo e quindi fargli male.
«Ci proverò. Grazie Doc» ammiccò Dollar, alzandosi dalla sedia e scompigliandomi
i capelli. Uscì dando una pacca sulla spalla di Brandon, che lo seguì verso il
loro appartamento.
Sospirai prendendo il cotone sporco e la carta del
cerotto per gettarli quando Ryan si schiarì la voce, attirando la mia
attenzione su di lui. Alzai lo sguardo, fermandomi in mezzo alla sala, cercando
di capire che cosa volesse. «Che c’è? Devo controllare il tuo viso?» sbottai, con un tono di voce molto più duro di quanto
avessi immaginato.
Ryan non riuscì a trattenere una risata,
appoggiandosi alla cucina con la schiena e incrociando le braccia al petto. «Solo per
controllare che il mio labbro sia apposto. Sai, non vorrei che il mio bel
faccino ci rimettesse» si vantò, con un
sorriso storto dovuto proprio alla sua nuova ferita.
«Dovresti sederti, altrimenti non ci
vedo» suggerii, arrossendo. Era davvero
frustrante essere così bassa rispetto a loro.
«Giusto» mormorò raggiungendo la sedia in pochi passi e accomodandosi. Nessuna
battutina di scherno, niente che potesse offendermi o deridermi.
Mi stupii, rimanendo per qualche secondo ferma;
quando però lo sguardo di Ryan si posò su di me per cercare di capire perché
non facessi nulla, mi riscossi, piegandomi leggermente in avanti per guardare
il labbro.
Non era rotto, c’era solo un piccolo taglio: era
quella la causa del rigonfiamento.
«Aspettami qui». Camminai fino al bagno, gettando tutto quello che
avevo utilizzato con Dollar nel cestino e lavandomi subito dopo le mani con il
sapone. Presi un po’ di cotone pulito e tornai in cucina.
Ryan era ancora seduto sulla sedia, esattamente come
pochi minuti prima. Che cosa stupida, dove sarebbe potuto andare?
Lasciai che il batuffolo di cotone si imbevesse di
disinfettante mentre continuavo a mordermi il labbro perché non sapevo che cosa
dire: c’era un silenzio innaturale che mi metteva a disagio. Ryan non parlava,
continuava a seguire i miei movimenti, respirando lentamente.
«Allora? Cosa è successo?». Mi sembrava il momento giusto per sapere la verità,
visto che non c’era nessun sorriso ironico sul labbro che stavo tamponando con
il cotone.
«Era bello grosso» articolò a stento, cercando di non muoversi. I suoi
occhi fissi sul mio viso, mentre cercavo di concentrarmi per non causargli
ulteriore dolore.
Per un attimo il mio sguardo si incrociò con il suo,
spaventandomi al punto che lasciai leggermente la presa sul cotone. «Cosa?». Il respiro si fermò quando, a causa del mio sussulto,
sfiorai le sue labbra con le dita. «Scusa» mi giustificai, ritraendo la mano, come se mi fossi
scottata.
«Il bambino che non voleva attraversare
la strada. Mi ha picchiato e lo stesso ha fatto con Dollar. Brandon ha cercato
di tenerlo fermo, per questo non ha ematomi sul viso. I bambini odiano la
scuola al giorno d’oggi, sai?» scherzò,
quando smisi di medicarlo.
«Non sono così idiota da non capire che
mi stai prendendo in giro» sbottai,
stizzita. Possibile che riuscisse a rimanere serio anche quando raccontava
bugie?
«Cazzo, ma c’è qualcosa di vero nei
film? Ero convinto che in California fossero tutte senza cervello. Ah, ma forse
quella è una cosa direttamente proporzionale alle tette; questo farebbe di te…
una cervellona, vedo». Il suo sguardo si
posò sulla mia scollatura e reagii d’istinto: prima ancora di rendermene conto
il mio braccio si mosse e la mia mano arrivò alla sua guancia, producendo un
forte rumore che mi fece capire che cosa avevo appena fatto.
«Oddio, scusa» sussurrai, portandomi entrambe le mani davanti alle
labbra mentre Ryan muoveva la mandibola per controllare che tutto fosse
apposto.
Rimaneva lì, fermo, con gli occhi sbarrati per la
sorpresa e con le mani appoggiate alle ginocchia; d’un tratto cominciò a
ridere, abbandonando il capo all’indietro e non curandosi nemmeno di me.
«Cazzo, se la racconto a qualcuno
nemmeno mi crede» sghignazzò, smettendo
di ridere subito dopo.
«Io… mi dispiace. Anzi, no, non mi
dispiace. Tu non mi conosci e queste cose non le devi dire, ok? Come ti
permetti di offendermi?». Portai le mani
sui fianchi, stizzita, aspettando una sua risposta.
Si stava trattenendo, per non ridermi in faccia.
«Sai, lentiggini, io ho solo detto la verità. Ma ti capisco, la verità fa
male. Grazie per il labbro, ti considero ripagate le birre e le patatine di
ieri sera». Si alzò dalla sedia, senza
aggiungere altro, e camminò verso la porta.
Ero talmente stupita da quello che aveva detto che
non risposi alla sua provocazione.
Mi aveva chiamata lentiggini,
si era permesso di rinfacciarmi, per la seconda volta, che non avevo seno e poi
se ne era andato, dicendomi che medicandoli li avevo ripagati per le birre e le
patatine.
Non mi sforzai nemmeno di dare un senso al suo
comportamento decisamente fuori luogo e inopportuno.
Ryan, nella mia mente, era classificato sotto la voce
“pazzo scortese” ed ero sicura che niente mi avrebbe convinta a cambiare l’idea
iniziale che mi ero fatta. Non di certo dopo le sue frecciatine sul mio corpo
non propriamente californiano.
Dopo aver gettato anche l’occorrente che mi era
servito per medicare Ryan nel cestino, presi la mia borsa, pronta a uscire, ma
un colpo alla porta di casa mi fece sussultare.
«Apri, lentiggini».
Riuscii a riconoscere la voce di Ryan e mi avvicinai
alla porta, arrabbiata.
«Possibile che tu non riesca a bussare?» proruppi, aprendo la porta di colpo e trovandomelo
davanti, molto più vicino di quanto mi aspettassi.
«Ho appena bussato» commentò, indicando la porta.
Bussare? Quello secondo lui era bussare? «Tu non
bussi, tu rischi di scardinare una porta. Quando una persona normale bussa, lo
fa in questo modo». Feci un passo
indietro, accostandomi alla porta e bussando. Spostai poi il mio sguardo su di
lui, sperando che avesse capito.
«Sì, certo. Così bussano le checche» ribatté, appoggiandosi con la spalla allo stipite
della porta e incrociando le braccia al petto.
«Veramente così bussano le persone
normali» lo fronteggiai, raddrizzando le
spalle per cercare di sembrare più alta. L’ultima cosa che volevo era sentire
qualche sua battutina anche sulla mia non-altezza, dopo quelle sul mio non-seno.
«Sì, sì, certo. Dove stai andando?» domandò, indicando con un gesto del capo la mia
borsa.
«A cercarmi un lavoro e magari un
supermercato per fare la spesa» confessai
esasperata, sorpassandolo e chiudendo la porta del mio appartamento.
«Sfidi ancora il Bronx?» mi provocò, avvicinandosi alla porta del 3B e “bussando”.
«Che c’è Cal?» bofonchiò Brandon, sbadigliando rumorosamente.
Sbarrai gli occhi, stupita, quando mi accorsi che era a petto nudo.
Il suo torace muscoloso era segnato da numerose
cicatrici che si confondevano con i tatuaggi. Tanti tatuaggi.
«Gradisci, Alexis?» domandò Brandon, facendo un passo sul pianerottolo
per avvicinarsi a me e girando poi su se stesso.
Imbarazzata per essere stata vista mentre lo
guardavo, distolsi lo sguardo, non riuscendo a evitare il rossore sulle mie
guance.
«Vestiti. Porta Dollar, Sick e Shake
con noi» ordinò Ryan lanciandomi
un’occhiataccia.
«Noi?» bisbigliai, stupita. Loro volevano accompagnarmi?
«Vorrei evitare di doverti salvare la
vita di nuovo mentre stanno per picchiarti o stuprarti. Sarebbe meglio
insegnarti quali percorsi puoi fare. Non sei a Los Angeles qui» sbottò, prendendo una sigaretta dalla tasca dei
jeans. Possibile che fumasse così tanto?
«I tuoi polmoni chiederanno pietà.
Potresti smettere di fumare» azzardai,
rimanendo in mezzo al pianerottolo mentre, dentro al loro appartamento, Brandon
cercava di indossare una maglia e Dollar e Sick scherzavano tra di loro,
spintonandosi.
«Shake sta dormendo» spiegò Brandon, prendendo la sigaretta dalla mano di
Ryan e cominciando a fumarla.
Sbuffai abbassando lo sguardo: non mi andava nemmeno
di ripetere quello che avevo detto a Ryan a proposito del fumo. In fin dei
conti non li conoscevo e loro potevano fare quello che volevano della loro
vita.
«Ha detto che non viene?» sibilò Ryan, usando quel tono duro che mi aveva
spaventata anche la sera prima.
«No, sai che quando Shake dorme non
riusciamo a svegliarlo. Non ci ho nemmeno provato» si giustificò Brandon, spegnendo la sigaretta nel
posacenere che c’era di fianco alla porta d’entrata del loro appartamento.
«Allora? Andiamo in città?» rise Dollar, portando un braccio attorno alle mie
spalle e ammiccando.
«Ehm… Dollar» mormorai imbarazzata, guardando la sua mano
tranquillamente appoggiata a me. Quando spostai il mio sguardo sul suo viso,
rimasi stupita dal sorriso felice che c’era.
«Dimmi tutto» disse, allargando il sorriso a dismisura tanto da
farmi temere una paralisi facciale.
«Coglione, smettila». La frase di Brandon fu seguita da una sonora pacca
sulla nuca di Dollar, che si lamentò con un’imprecazione. «Lasciala stare, sei troppo piccolo per lei, Doll» continuò poi Brandon, facendo ridere Sick e Ryan.
«Doll, sei un bambino, lei una donna,
non è che se ti si rizza lei si bagna».
Alle parole di Sick sgranai gli occhi arrossendo, imbarazzata da una frase
tanto volgare.
«Sick, dacci un taglio, è una signora» ordinò Ryan, causando un mugugno da parte dell’amico
con i capelli castani.
«Ho solo detto la verità, cazzo. Non ho
fatto riferimenti a fighe o cose volgari»
si lamentò, guardandosi attorno, come se temesse di essere seguito.
Il suo guardo mi faceva paura, sembrava quello di un
pazzo. Che fosse quello il motivo di quel suo strano soprannome? Perché una
persona non poteva di certo chiamarsi Sick.
«Credo che quella frase fosse
abbastanza volgare per lei, a giudicare dal suo sguardo» ghignò Ryan. Improvvisamente sentii tutti gli occhi
puntati su di me e mi costrinsi a tenere lo sguardo basso, senza aggiungere
nulla.
«Cazzo, è vero. È anche arrossita. E se
non è perché ha qualcosa infila…». Sick
non completò la frase, perché Ryan gli tirò un ceffone sulla nuca, ammonendolo
con lo sguardo.
«Dacci un taglio Sick, cominci a fare
schifo» sbottò Brandon, affiancandosi a
me. «Scusalo, non ha tutte le rotelle
apposto ma è un bravo ragazzo. È solo un po’ fissato con il sesso, ma per il
resto è innocuo». Per cercare di
rassicurarmi di più sorrise, cercando con la mano qualcosa nella tasca dei
jeans.
«Si chiama Sick davvero? O è un
soprannome?». Domanda idiota, la mia.
Eppure volevo sapere di più su di loro, perché mi incuriosivano.
Erano… strani, sì.
«Si chiama Sick perché di solito…» cominciò a dire Brandon, prima che qualcosa attirasse
la sua attenzione e gli facesse smettere di parlare con me. «…scusami, non dovrei dirle io queste cose, scusami» si giustificò, allungando il passo e raggiungendo
Ryan e Sick, qualche metro più avanti di noi.
«Perché siete tutti così devoti a Ryan?
Fate tutto quello che dice lui, come mai?».
Speravo che Dollar mi potesse dare una risposta, sembrava quello più disposto a
parlare.
«Io… Alexis non posso, davvero.
Dovresti chiederlo a Ryan. Ne abbiamo parlato ieri sera, ma è meglio se chiedi
a Ryan di queste cose, mi dispiace».
Teneva lo sguardo basso, sul marciapiede, senza guardarmi in volto. Sembrava
veramente dispiaciuto.
«Quanti anni hai, Dollar?» domandai, accennando un sorriso. Magari a quella
domanda avrebbe potuto rispondere senza chiedere a Ryan il permesso. Mi
sembrava di aver capito che Ryan era interpellato solo quando si parlava del
loro legame, non di qualcosa di personale.
«Sedici. Sedici compiuti il mese scorso» esultò, fiero di quel numero. Quel suo essere così
felice mi fece ridere: ricordavo perfettamente il mio sedicesimo compleanno, la
festa con i miei amici in spiaggia fino all’alba.
«Sei così giovane» mormorai, involontariamente. Quella stessa notte ci
eravamo fermati per fare surf e la mattina dopo ero tornata a casa con la
febbre: il miglior compleanno di sempre.
«Sì, ma… voglio dire, non sono
inesperto. So come si fa, sai? E sono bravo, me l’hanno detto in molte» si vantò, continuando a sorridere. Era tranquillo,
per lui parlare di… esperienza sessuale sembrava essere all’ordine del giorno.
Quel suo comportamento mi stava mettendo a disagio, talmente tanto che abbassai
di nuovo lo sguardo, arrossendo. «Se vuoi
provare sono disponibile, sai?» tentò,
dandomi una leggera pacca sul fianco con il suo gomito.
«Io… ehm, ne sono lusingata, Dollar, ma
credo che sia meglio evitare, ecco». Non
volevo sembrare cattiva, era un bel ragazzo e sicuramente era il più simpatico
di tutti, ma non mi sembrava proprio il caso.
«Certo, capisco. Mi hai appena
conosciuto e vuoi aspettare, non c’è problema, quando vuoi bussi al 3B e io
sono lì» ammiccò, guardando poi verso
Ryan e gli altri. «Ryan, flag?».
Flag? Cosa voleva dire con Flag?
«No, lasciate stare. Qui non lo
facciamo» rispose Ryan, naturalmente
ottenendo il consenso di tutti.
«Cosa vuol dire?» domandai a Dollar, che era ancora di fianco a me.
«Ehm… chiedilo a Ryan, ok? E adesso
andiamo, che qui vicino c’è un bar, potresti provare a chiedere se hanno
bisogno di lavoro lì». Appoggiò la sua
mano sul mio gomito, costringendomi ad accelerare il passo per rimanere di
fianco a lui.
Mi stava letteralmente trascinando, disinteressato al
fatto che un suo passo fosse tre dei miei.
«Tu sta zitta e lasciami parlare, ok?» mi ammonì Ryan davanti alla vetrata di un bar, una
volta che Dollar mi ebbe trascinata a forza fino a lì.
«Io… cioè…» cominciai a dire, senza che nessuno mi desse
veramente retta. Ryan aprì la porta del locale, entrando seguito dagli altri.
Mi ritrovai da sola, fuori dal bar, senza che nessuno potesse anche solo
preoccuparsi di quello che volevo dire.
Ok, mi stavano aiutando a trovare un lavoro, erano
gentili e probabilmente non li avrei mai ringraziati abbastanza, ma volevo
almeno decidere qualcosa io, giusto per avere voce in capitolo sulla mia vita.
Entrai nel bar con uno sbuffo, guardando Ryan parlare
con una donna; sembrava impaurita e continuava a stringere, quasi in modo
convulso, uno straccio tra le mani.
«…lei» riuscii a sentire solo la fine del discorso di Ryan. La sua mano mi
indicò e la signora posò il suo sguardo su di me. Era combattuta, riuscivo a
vederlo, nonostante tutto cercò di sorridermi per salutare.
Ricambiai il saluto con un timido sorriso perché non
sapevo che cosa fare.
«Io… ecco, vedi, io lo farei volentieri,
ma non posso permettermi un’altra cameriera. Spero… spero che questo non cambi
le cose tra… tra di noi» bofonchiò a voce
talmente bassa che faticavo a capire le sue parole.
Tutti gli sguardi erano puntati su Ryan, i ragazzi
sembravano in attesa di un suo ordine. Sembrava che fossero disposti a tutto,
solo con un suo cenno.
Qualche secondo dopo, Ryan sospirò «capisco» e senza aggiungere altro uscì dal bar, seguito dai
ragazzi.
«Mi dispiace, davvero, ma non posso
permettermi un’altra ragazza. Ti prego, se è possibile, fa che non cambi nulla,
ok?». Non sapevo di che cosa stesse
parlando, ma era davvero preoccupata; spaventata, quasi.
«Non importa. Troverò qualche altro
bar, non deve preoccuparsi» cercai di
tranquillizzarla, appoggiandole una mano sul braccio. Quel gesto la spaventò
ancora di più, perché sussultò, indietreggiando di qualche passo fino a
sbattere con la schiena contro il bancone, dietro di lei. «Grazie, davvero»
ripetei, uscendo.
L’avevo spaventata, ma perché?
«Che cazzo c’è nel tuo cervello di così
sbagliato, eh?» sibilò Ryan, stringendo
la sua mano attorno al mio polso non appena uscii dal bar.
«Mi fai male» mi lamentai, spaventata dalla scintilla di pazzia che
potevo leggere nel suo sguardo. Che cosa gli prendeva?
«Quale parte di ‘parlo io e non tu’ non
ti è chiara? Perché te la rispiego»
continuò, avvicinando il suo viso al mio così tanto che mi costrinse a
indietreggiare.
«Lasciami» mi lamentai, strattonando il polso perché la sua
stretta si faceva sempre più forte. Gli occhi di Ryan saettarono sulla sua
mano, che lasciò subito la presa su di me. «Non ho detto niente, l’ho ringraziata» mi giustificai, guardandomi attorno. Dollar, Brandon e Sick si erano
allontanati e stavano guardando la vetrina di un negozio. Perché non erano
intervenuti?
«La prossima volta vedi di chiudere la
tua fottuta bocca, ok?». Il suo sguardo, il suo tono di voce… mi spaventarono
tanto che annuii solamente, senza ribattere nulla. «Adesso andiamo a vedere in un altro bar, e sta zitta,
non ringraziare nessuno». Con un fischio
richiamò l’attenzione dei ragazzi che ci raggiunsero.
Camminavo dietro di loro in silenzio, senza fare
domande o disturbare. Dopo lo sfogo di Ryan non mi sarei mai permessa di
interferire di nuovo.
«Come stai?» chiese timido Dollar, affiancandosi a me. Non
risposi, continuai a camminare, facendo spallucce.
In verità continuavo a trovare un pretesto per non
ricordare quello che era appena successo; sentivo qualcosa pungermi gli occhi e
non era il caso di fare la melodrammatica. Però quello che aveva detto, il modo
e il tono che aveva usato… mi avevano spaventata.
«Quando Ryan dice qualcosa devi
ascoltarlo, non arrabbiarti» spiegò,
probabilmente non capendo che non era rabbia il sentimento che stavo provando.
Annuii solamente, mordicchiandomi il labbro per concentrarmi a trattenere le
lacrime. «Adesso andiamo in un altro bar,
rimani zitta e parla solo se te lo dice, ok?» continuò, mentre Brandon teneva la porta del locale aperta perché io e
Dollar potessimo entrare.
«Sì» bisbigliai, entrando nel secondo bar a testa bassa e rimanendo vicino
all’uscita.
La scena era uguale a quella accaduta pochi minuti
prima: il proprietario, spaventato, si scusava ma non aveva bisogno di un’altra
ragazza. Era a corto di cameriere solo di sera e Ryan spiegò che avevo bisogno
di lavorare di giorno. Non provai nemmeno a parlare, impaurita di una sua
reazione esagerata.
Uscimmo dal locale in silenzio, fermandoci pochi
metri più avanti.
Di nuovo, Brandon, Dollar e Sick si allontanarono,
lasciandomi sola con Ryan. «Visto? Non è poi tanto difficile non dare aria al
cervello» ghignò facendomi stringere i
pugni per la rabbia.
Era ritornato lo stronzo ironico di sempre e non mi
faceva più paura; aprii le labbra per rispondergli a tono, quando il suo
sguardo si puntò dietro di me. Sbarrò gli occhi, sorpreso e, appoggiando la sua
mano sul mio polso sibilò: «cazzo». Cercai
di guardarmi attorno, ma Ryan non me lo permise: con il suo corpo a ripararmi
da quello che c’era dietro di me si avvicinò ai ragazzi. «Brandon, Sick, Dollar, qui. Tu, nasconditi» sbottò infine, spostando lo sguardo su di me.
Nascondermi? «Dove?» domandai, guardandomi attorno, in cerca di un posto che potesse
ripararmi.
«Da qualche parte, anche dietro al
cestino, tanto siete alti uguali»
ironizzò Ryan, dandomi le spalle e affiancando Brandon.
Volevo ribattere che no, non ero proprio alta come il
cestino, ma mi gelai sul posto, quando sentii una voce parlare.
«Guarda, guarda. Cal e i suoi scagnozzi».
La riconobbi subito, era quella del ragazzo moro che
mi aveva aggredita al mio arrivo nel Bronx.
«Dead» salutò Ryan, aggiungendo un gesto del capo. Riuscivo a vedere lui,
Brandon, Dollar e Sick di spalle, fortunatamente però coprivano la visuale
sull’altro ragazzo.
«Allora, la tua puttanella ha riferito
il messaggio? Era abbastanza chiaro?».
Sempre la sua voce, quella di ‘Dead’, come l’aveva
chiamato Ryan.
«A questo proposito… non è nessuna
puttana. È solo la nuova vicina» spiegò
Ryan, causando una risata di più persone.
«E fai il buon samaritano portandola a
spasso per farle conoscere il quartiere? Credi che non ci siamo accorti che è
dietro di voi?».
A quell’affermazione chiusi gli occhi,
raggomitolandomi su me stessa per cercare di farmi più piccola.
No, non di nuovo.
Non poteva picchiarmi una seconda volta. C’era Ryan con
gli altri ragazzi pronto a difendermi.
«Cerca un lavoro» intervenne Brandon avvicinandosi a Ryan, come se
avesse voluto formare un muro.
«Perché? Fare la puttana con voi non è
abbastanza? Tesoro, ti pagheremo meglio, vieni con noi» disse con un tono di voce più alto Dead, facendomi
rabbrividire.
Non riuscivo a non pensare alla mia aggressione e al
suo ghigno appena prima di tirarmi il pugno.
«Dacci un taglio, Dead. E vi consiglio
di andarvene. Non me ne frega un cazzo di dove siamo, ok? E non me ne frega
nemmeno di vedere che credete di essere talmente cazzuti da avere il flag anche qui. Perché se mi girano le
palle ti spacco il muso una volta per tutte».
La voce di Ryan era completamente cambiata. Bassa e
roca assomigliava al sibilo di un serpente prima dell’attacco.
«Non vi interessa della puttanella, ma
siete pronti a difenderla? Deve cavalcare bene, se in quattro siete disposti a
farvi il culo per lei».
C’era sempre una nota di superiorità nella sua voce,
simile a quella di Ryan quando faceva battute su di me.
«Andatevene» ringhiò Brandon, avanzando di un passo verso di loro.
«Uuuh! Che paura» scherzò qualcuno degli altri, prendendolo in giro. «Dead, vuoi vedere che adesso chiama la polizia?».
«Stai tirando troppo la corda, Dead. Se
continuate così comincio seriamente a perdere la pazienza, e non è un bene,
visti i risultati dell’ultima volta, no?».
Anche se non potevo vederlo, ero sicura che Ryan stesse ghignando, si sentiva
dal tono della sua voce.
«Andiamocene, stiamo dando troppo
spettacolo» ordinò Dead. Sentii subito
dei passi allontanarsi e sospirai, sollevata.
«Alexis, tutto bene?».
Riuscii a non urlare solo perché avevo riconosciuto
la voce di Dollar.
Mi alzai goffamente, sotto gli occhi di Ryan e
Brandon che stavano discutendo di qualcosa; a grandi passi mi avvicinai a loro
e, dopo aver posato le mani suoi miei fianchi per non far vedere quanto stessi
tremando, cercai di attirare la loro attenzione schiarendomi la gola. «Voglio
sapere cosa succede».
Non mi sarei spostata fino a quando non ci fosse
stata una risposta esauriente. E no, non mi accontentavo di qualcosa come le
scuse idiote che aveva utilizzato nelle ore precedenti, volevo sapere la
verità; chi erano e perché avevano minacciato gli altri ragazzi.
Ryan guardò a uno a uno i “suoi”, soffermandosi più a
lungo su di Brandon. Sembrava che, mutamente, avesse chiesto qualcosa e la
risposta l’avesse stupito. Infine, dopo essersi soffermato per qualche secondo
sul volto di Dollar, mi guardò, sospirando subito dopo: «andiamo a
casa». Sembrava essersi arreso.
Buongiorno! :)
Allora, prima di tutto
mi scuso per il linguaggio volgare di questo capitolo, sapete che di solito non
è così, ma sappiamo tutti che in questi ambienti non guardano la forma della
frase, ecco.
Poi poi poi… la storia
del FLAG sarà spiegata nel prossimo
capitolo, posso garantire che non me la sono inventata, ma nelle gang del Bronx
esiste. Ho lasciato un paio di indizi
per farvi capire che cosa sia, ma non temete, nel prossimo capitolo quel
simpaticone di Ryan vi spiegherà tutto bene (a proposito, siete pronte per
sorbirvi una spiegazione dettagliata di quello che sono Ryan e i suoi? Fatemi
sapere, che è meglio).
Inutile dire che
ringrazio ogni singola persona che ha aggiunto la storia ai
preferiti/seguiti/da ricordare e a chi ha anche trovato il coraggio di
recensire perché siete TANTE e non mi sarei mai
aspettata una risposta del genere per una storia così… particolare.
Come sempre, NERDS’ CORNER è il
gruppo spoiler, dove sono pubblicati i volti dei personaggi. ROBERTA ROBTWILI è il mio
profilo, ma se mi chiedete l’amicizia per favore specificate che siete lettori
(non mi interessa il nick, mi basta sapere che leggete)…
Spero di riuscire a
scrivere un altro capitolo per poter pubblicare domenica prossima, portate
pazienza se non arriverà puntualissimo, io ce la metto tutta!
Grazie a tutti e un
bacione!
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Capitolo 4 *** Eagles vs. Misfitous ***
YSM
All’ordine di Ryan di andare a
casa mi irrigidii: una parte di me era curiosa di sapere la verità, l’altra
però continuava a ricordarmi che dovevo anche fare la spesa.
Il lavoro avrebbe aspettato,
sapevo di avere i soldi necessari per poter pagare l’affitto per un altro paio
di mesi, ma la spesa… dovevo mangiare.
«Che c’è?»
sbottò Ryan, probabilmente notando la mia indecisione. Alla sua domanda
Brandon, Dollar e Sick si fermarono, guardandomi.
«Ecco… io… la spesa»
bofonchiai, guardando i miei piedi senza aggiungere altro. Sembravo una
stupida, un momento prima lo minacciavo per sapere che cosa succedeva e quello
dopo mi lamentavo perché volevo fare la spesa.
«Ti decidi? Prima rompi le palle e fai la saputella per sapere
e dopo vuoi fare la spesa» mi
punzecchiò, irritandomi. Era la verità, lo sapevo, ma sentirla dire da lui, con
quel suo tono che mi urtava…
«Senti, vorrei mangiare qualcosa, ok?». Feci un passo verso di lui, cercando di fronteggiarlo.
Impossibile, visto che gli arrivavo sì e no al petto. Ancora meno possibile
quando i ragazzi dietro di me cominciarono a sghignazzare per il mio gesto. «Ok» sospirai, abbassando le spalle e accantonando una volta per
tutte l’idea di affrontare Ryan, «andiamo
a casa».
«Ryan, dovrebbe mangiare. Può scomparire se non lo fa». Alla battuta di Brandon, Ryan
non riuscì a rimanere serio, tanto che un fastidioso ghigno si disegnò sul suo
viso. Gli avrei volentieri rotto il labbro un’altra volta, senza
aggiustarglielo subito dopo, però.
«Dollar, Sick, siete in grado di fare la spesa?» ordinò, guardandoli. I due
ragazzi si scambiarono uno sguardo strano che mi inquietò, soprattutto perché
ci aggiunsero una pacca cameratesca sulla spalla subito dopo.
«No» strillai, con un po’ troppa
enfasi. Non mi fidavo di Sick, non dopo le sue battute di pessimo gusto. «Io… grazie ma credo di potermi
arrangiare. Potrei andarci oggi pomeriggio, non c’è nessun problema» continuai, aggiungendo anche un
timido sorriso per sembrare più convincente. Speravo davvero che Sick e Dollar
seguissero il mio consiglio.
«Cosa ti piace?» chiese Dollar, causando una
risata di Sick.
«Non sono cose da chiedere, la sbatti al muro e fai quello che
piace a te, Doll» spiegò
Sick, facendo ridere tutti. L’unica che non trovava divertenti le sue battute
ero io? C’era qualcosa di squallido e perverso nel suo pensare sempre al sesso.
«Mi piace tutto, davvero»
mormorai, ignorando Sick, che continuava a guardarmi in modo strano. Eravamo
fermi in mezzo al marciapiede e nessuno sembrava prestarci attenzione; solo un
paio di ragazzi avevano borbottato qualcosa, prima di allontanarsi velocemente
dopo un’occhiataccia di Ryan.
«Bene, se le piace tutto,
questa ragazza piace anche a me»
sogghignò Sick, avvicinandosi di qualche passo a me. Istintivamente
indietreggiai, spaventata dal suo sguardo e dal ghigno che c’era sulle sue
labbra.
«Sick, dacci un taglio»
ordinò Ryan, causando uno sbuffo infastidito del suo amico, che tornò indietro.
«Muovetevi, voi andate a fare
la spesa, ci vediamo a casa»
terminò, accendendosi una sigaretta e cominciando a parlare con Brandon, mentre
si avviavano verso casa. Non si preoccuparono nemmeno di me, tanto che fui
costretta a correre per raggiungerli.
Non riuscivo a capire, però, di
che cosa parlassero; il loro tono di voce era basso e ogni tanto lanciavano
occhiate verso di me, come se non volessero farmi capire che cosa si stavano
dicendo.
«Entri in casa o rimani tutto il giorno sul pianerottolo?» sbottò Ryan, distendendosi con un
sonoro sbuffo sul divano del suo appartamento.
Mi guardai attorno, sospettosa,
come se qualcuno ci avesse seguiti; Brandon invece era tranquillo, gironzolava
per la cucina, in cerca di qualcosa.
«D’accordo»
bofonchiai per incoraggiarmi. Era dalla sera prima che volevo sapere chi erano
e il motivo per cui erano circondati da un alone di mistero; perché per ogni minima
cosa bisognasse avere il consenso di Ryan per parlare e come mai tutti avessero paura di loro.
Mi chiusi la porta alle spalle,
rimanendo in piedi, imbarazzata: non sapevo dove sedermi, non sapevo nemmeno se
potevo farlo.
«Allora? Tutta questa curiosità e cattiveria, dov’è sparita?» sghignazzò
Ryan, appoggiando i piedi sul bracciolo del divano e portandosi un braccio
dietro alla testa per stare più comodo.
Disteso sul divano, con la
sigaretta tra le labbra, era l’immagine della tranquillità. L’esatto opposto di
come mi sentivo io in quel momento.
Mi sembrava di essere entrata nella tana del lupo; sapevo
che era sbagliato pensarla in quel modo, visto che la sera prima mi ero
svegliata proprio in quella stessa stanza dopo l’aggressione, ma c’era una
sensazione di paura che non se ne voleva andare.
«Alexis,
puoi sederti, non ti mangiamo»
scherzò Brandon, sistemandosi nell’altro divano, di fianco a Ryan.
Camminando lentamente mi avvicinai a loro, sedendomi in un
angolo per non disturbare nessuno.
«Che cosa
vuoi sapere?» domandò Ryan,
aspirando una boccata di fumo prima di alzare lo sguardo per incrociare il mio.
Cercai di farmi un po’ di coraggio respirando profondamente,
poi sputai la mia domanda senza prendere fiato: «chi siete?».
Di nuovo, sì. Perché volevo veramente saperlo ora che Ryan sembrava disposto a
dare qualche risposta.
«Cazzo,
Brandon. Si è incantato il disco. Deve essere la decima volta che fa questa
domanda» ironizzò,
aggiungendoci quel suo ghigno che mi faceva arrabbiare.
«Ryan,
dai. Hai detto che le avresti spiegato»
mormorò Brandon, ammonendolo con lo sguardo.
«Sì, hai
ragione» ammise sollevandosi
a sedere e appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Be’, siamo gli Eagles».
Mi stava scrutando, in attesa di una mia reazione, era evidente. Eppure
continuavo a rimanere immobile, sperando che potesse aggiungere qualcosa in
più. Anche Brandon non si muoveva; il suo sguardo che saettava da me a Ryan.
L’unico movimento era il fumo rilasciato dalla sigaretta che Ryan stringeva tra
le sue dita.
«Chi?» mormorai talmente a bassa voce
che non ero nemmeno sicura mi avessero sentita. Ci riuscirono, però, visto che
Brandon non fu in grado di trattenere una risata e Ryan spalancò le labbra,
sorpreso.
«Non
prendermi per il culo, lentiggini»
sbottò, portandosi poi la sigaretta alle labbra e socchiudendo gli occhi.
«Non ti
sto prendendo in giro, dico davvero».
Ero stizzita, si poteva capire anche dal tono della mia voce. Perché non lo
stavo prendendo in giro e mi infastidiva il suo accusarmi.
«Non sai
chi sono gli Eagles? Dove cazzo vivevi? In spiaggia?». Aspirò un’ultima boccata di fumo dalla sigaretta prima di
spegnerla sul pavimento e lanciare il filtro sotto al divano. A quel gesto
rabbrividii, schifata. Quella casa era un porcile. Chissà cosa c’era sotto a
quel divano.
«Senti, io
abitavo a Los Angeles, se la geografia non è il tuo forte non è colpa mia, ok?
Si dà il caso che sia dall’altra parte degli Stati Uniti, quindi prendi un
atlante e impara qualcosa, oltre alle parolacce». Incrociai le braccia sotto al seno per sembrare più
arrabbiata; spostai addirittura lo sguardo da lui, indignata.
«Che cazzo
c’entra? Los Angeles, Houston, New York… dovresti saperle certe cose. Ma forse
non vi insegnano a vivere, al college»
si vantò, irritandomi ancora di più.
«Se devi
dire bugie e offendere puoi anche stare zitto. Avevi detto che mi avresti
spiegato, perché non lo stai facendo?»
incalzai, stringendo i pugni per cercare di scaricare la rabbia che sentivo.
«Immagino
che questa ragazza non sappia ancora nulla, no? Perché se sa qualcosa ed è
ancora seduta su quel divano per fronteggiarti in quel modo significa che è
stupida». A quelle parole
cominciai a guardarmi attorno, cercando di capire chi avesse parlato.
Era una voce che non avevo mai sentito, profonda; parlava
lentamente e in modo cantilenato con un forte accento texano.
«Come
sempre sei la voce della verità, JC».
Ryan non riusciva a togliersi il suo ghigno divertito dalle labbra, ma ero
sicura che non fosse rivolto a quell’uomo che era appoggiato allo stipite della
porta tra la cucina e il corridoio.
«Perché
sono più vecchio e conosco le donne meglio di te. L’incantevole piccolo elfo con
un labbro rotto è?» domandò,
avvicinandosi divertito a me e guardandomi curioso. Sembrava fossi un animale
che non aveva mai visto, qualcosa di nuovo che attirava la sua curiosità.
«Lentiggini» sbottò Ryan, irritandomi ancora
di più. Possibile che dovesse chiamarmi in quel modo ridicolo e assurdo solo
perché avevo qualche lentiggine sparsa sul volto? Soprattutto, quando si era
accorto che le avevo?
«Alexis» chiarii, ignorando lo sguardo di
Ryan su di me. Il mio nome era Alexis, non lentiggini.
«Ed è nel
nostro salotto perché...». JC
–come lo aveva chiamato Ryan– ammiccò verso di me, sistemandosi di fianco a
Ryan sul loro divano.
«La nostra
nuova vicina, quella dell’aggressione di ieri sera JC» spiegò Brandon, alzandosi per andare verso il vecchio frigo
che c’era nella loro cucina. Lo aprì e si prese una birra, togliendo il tappo
con i denti.
«Ecco dove
l’avevo già vista». Mi indicò
con l’indice, prendendo una sigaretta dalla tasca e accendendosela.
Ero quasi sicura che non avessero mai fatto un corso sulla
prevenzione del cancro ai polmoni; sembravano delle ciminiere, appena uno
finiva di fumare una sigaretta, cominciava l’altro. Era una cosa assolutamente
folle.
«Sì, era
quella svenuta sul divano, con il volto ricoperto di sangue. Ora, riprendiamo
il discorso, lentiggini».
Ryan tornò a guardarmi, aspettando qualcosa.
«Non mi
chiamo lentiggini. Il mio nome è Alexis»
ribattei, piccata dal suo nomignolo idiota.
«Lo so,
lentiggini». Un ghigno
sardonico sul suo volto. Improvvisamente capii: voleva farmi perdere la
pazienza, questo era il suo obbiettivo. Dovevo resistere.
«Bene,
l’importante è che tu lo sappia. Ora, potresti dirmi cosa sono questi Eagles?» tagliai corto, sperando che non
capisse il mio gioco. Meno corda gli davo meno rischiavo di scoppiare perché
troppo irritata.
«Siamo una
gang». Si zittì, guardandomi
di nuovo come se si aspettasse qualche reazione da parte mia.
«Gang
tipo… gang di strada?»
domandai, per nulla convinta.
Non sapevo niente di quell’argomento, ne avevo solo sentito
parlare ai TG, quando le gang di strada venivano associate a sparatorie, rapine
o traffico di droga.
«Sì,
quello» ribatté Ryan,
incrociando le braccia al petto e portando la schiena ad aderire allo schienale
del divano.
«Quindi
siete… pericolosi? È questo che state cercando di dirmi?». Una domanda che non era rivolta solo a Ryan, ma anche a
Brandon e JC.
Stavano dicendo che erano pericolosi perché volevano
spaventarmi? Farmi scappare dalla mia nuova casa?
«Perché
dovremmo essere pericolosi? Appena sei arrivata ti hanno picchiata, qui non sei
a Beverly Hills, lentiggini»
ironizzò Ryan, ridacchiando.
Quindi era tutta una questione del chi si conosceva prima?
«Se io fossi capitata nello
stesso palazzo di quelli che mi hanno aggredita sareste stati voi i cattivi?» bofonchiai, stringendo le dita a
pugno per non far vedere quanto in verità stessi tremando.
«Cattivi.
Non ci sono cattivi o buoni, solo diversi punti di vista». Quella frase mi fece rabbrividire.
Stava dicendo che anche loro avrebbero picchiato una donna
solo perché credevano fosse dell’altra gang?
«Anche voi
mi avreste picchiata?». Un
sussurro, perché mi mancava anche la voce.
Non riuscivo –e soprattutto non volevo– pensare a cosa
avrebbero potuto fare. Perché Dollar, con il suo sorriso storto non mi sembrava
il tipo di ragazzo che picchiava le persone, nonostante quella cicatrice
facesse capire che non viveva una vita facile.
«No. Le
donne e i bambini non si picchiano, sono gli altri stronzi che lo fanno». A quella confessione di Ryan mi
tranquillizzai un po’.
Speravo che non mi facessero del male, visto che mi avevano
salvata la sera prima.
«Non è
ancora scappata, questo significa che è stupida» sbottò Ryan, rivolto a JC e a
Brandon.
Indignata per quella affermazione, mi indispettii e mi
sentii in dovere di spiegare il mio comportamento: «Sinceramente sto solo cercando di capire la situazione, perché
siete due bande?». Perché non
una sola? A cosa servivano poi due bande?
«Due
bande? Forse non ti è chiaro, il Bronx è il covo delle bande. Ci siamo noi, ci
sono i Misfitous e infine ci sono tutte le altre bande che credono di poter
competere con noi ma non si azzardano nemmeno a provarci». Si accese una sigaretta, finendo la frase con le labbra
socchiuse per non farla cadere a terra.
«Perché
questi nomi?». Eagles,
Misfitous… erano nomi strani.
«Non hai
capito il perché? È ovvio, basta guardarci. Pensa a quelli che ti hanno aggredita,
visualizza le loro facce». Ryan
disegnò un cerchio immaginario attorno al suo viso con le
dita.
Non risposi, troppo impegnata a reprimere un conato di
vomito al ricordo di Dead, il ragazzo con i capelli neri che mi aveva tirato il
pugno.
«Te lo spiego
io» intervenne JC,
sorridendomi forse per cercare di tranquillizzarmi. «Noi siamo tutti americani, per questo ci chiamiamo Eagles, lo
sai che l’aquila è il simbolo degli Stati Uniti, no?». Annuii lentamente, ricordando una lezione di Storia Americana del liceo.
L’aquila è il simbolo
ufficiale degli Stati Uniti perché la sua essenza è nella forza e nel coraggio.
Nell’Antica Roma e in altre remote culture militari, l’aquila ha sempre
simboleggiato il comando e il controllo, e ha
rappresentato l’abilità di salire sopra a tutti i nemici. La sua vista
perfetta, i suoi artigli possenti, e l’apparenza maestosa indicano superiorità
morale. L’aquila vola più in alto di qualsiasi altro uccello, e quindi è il
simbolo dei più alti valori spirituali.
Sapevo che in qualsiasi
disegno l’aquila nordamericana era disegnata ad
ali spiegate, mentre reggeva un ramo d’olivo con una zampa e tredici frecce con
l’altra. Le tredici penne della coda rappresentavano l’unità delle Tredici
colonie originarie.
«E gli altri?»
domandai, cercando di pensare a qualche collegamento con quel nome strano.
«Misfitous è l’unione di Misfit e Promiscuous». Disadattato e promiscuo. Perché c’era anche qualcuno
che non era americano tra di loro? Improvvisamente ricordai il volto del
ragazzo latino, uno di quelli che aveva riso quando avevo dato l’indirizzo,
fece capolino nella mia mente tanto che fui attraversata da un nuovo brivido.
«Perché Eagles?».
Sì, riuscivo a capire che c’era qualcosa legato all’America, ma perché non un
nome che ricordasse la bandiera americana?
«L’Aquila nordamericana rappresenta le più alte aspirazioni
e un potere indomabile. Esattamente come siamo noi. Credi sia facile entrare
negli Eagles? Solo i più coraggiosi e temerari hanno l’onore di sventolare il
flag rosso». Alla sua frase ricordai
quello che Dollar aveva chiesto quella stessa mattina.
Flag.
Che
cos’era?
Non feci nemmeno in tempo a porre la domanda che la porta si spalancò, facendo
entrare una ragazza che sembrava uscita dal calendario porno di qualche
officina meccanica: seno visibilmente rifatto, capelli ossigenati acconciati in
dreadlocks, trucco pesante e corpo ricoperto da tatuaggi.
«Che cos'è questa cosa?». Non salutò nemmeno, si avvicinò a me,
piegandosi per guardarmi in viso. Quando il suo sguardo percorse il mio corpo,
fece una smorfia schifata che mi innervosì.
«La nostra nuova vicina, è
una persona» rispose Brandon.
Dal suo tono di voce sembrava divertito. Che cosa ci fosse di divertente in una
Barbie di plastica che cercava di formulare una frase però non riuscivo a
capirlo.
«Mi avete sostituita? Ho la
febbre per due giorni e quando torno trovo una... cosa a sostituirmi?». Si raddrizzò, fintamente offesa dalla
mia presenza.
Io l’avevo sostituita in cosa?
«Sta zitta Butterfly. Non ti abbiamo
sostituita. È la vicina»
borbottò Ryan, nella voce quel tono che di solito usava per dare qualche ordine
ai ragazzi.
«La vicina? Da quando avete una vicina?». Era arrabbiata, ma non riuscivo a capire
il perché.
Non avevo assolutamente fatto nulla di male, ero lì mentre cercavo
di capire che cosa fosse successo.
«Io… io mi sono trasferita ieri» spiegai, mostrandomi gentile con lei.
«Non ha nemmeno tette. Potevate almeno
sostituirmi con una che avesse tette. È tutta secca, cazzo». Inviperita prese una sigaretta e cercò
di accendersela, ma era così arrabbiata che l’accendino non funzionava. Riuscì
nella sua impresa solo alcuni tentativi dopo.
«Butterfly, ti abbiamo già detto che è la
nostra vicina» sibilò Ryan.
Potevo vedere i muscoli della sua mascella tesi, come se stesse trattenendo un
attacco di rabbia improvviso.
«Come cazzo hai fatto proprio tu, che vai
pazzo per le mie tette a fartela? Cosa strizzavi?». Si avvicinò a Ryan puntandogli due dita
contro; proprio le due dita che tenevano la sigaretta.
«Butterfly…» mormorò Brandon, forse per farla smettere.
Io non riuscivo a capire che cosa stesse succedendo; o
meglio, non volevo credere che Butterfly credesse veramente che io avevo fatto
sesso con Ryan.
«C’è un malinteso…» cominciai a dire, sperando che la
smettesse di urlare con quella sua voce stridula: mi stava urtando i nervi.
«Sta zitta, tette secche. Non puoi nemmeno
parlare, tu. Hai scopato con il mio Ryan? Immagino anche che Sick sia stato il
primo della lista, no? Ma come cazzo hanno fatto con una che non ha tette?» bofonchiò di nuovo, irritandomi.
Era tutta una questione di tette, secondo lei?
«Senti»
strillai all’improvviso, alzandomi in piedi e stupendo tutti con il mio gesto, «io almeno ho le tette vere, ok? Piuttosto
di averle finte preferisco non averne». In un gesto seccato indicai i due palloni gonfiati che
aveva al posto del seno e provocai una sua risata isterica.
«Queste, tette secche, sono un dono di
Madre Natura». Si prese il
seno tra le mani, per farmi capire a cosa si stava riferendo.
«Ah, si chiamava così il tuo chirurgo?» ribattei prima di rendermene conto.
Quella mia battuta causò una risata di Brandon e JC; Butterfly, però, digrignò
i denti, avvicinandosi pericolosamente a me.
«Senti, troietta, sei l’ultima arrivata e
non hai il diritto di scoparti i miei ragazzi, ok? Sono anni che da sola li
soddisfo tutti, appena ne hanno voglia. Quindi adesso alzi il tuo culo secco da
qui e te ne torni da dove sei venuta. E per la cronaca, la prossima volta che
offendi le mie tette e mi dici che non sono vere, ti rompo quel bel nasino che
hai. E adesso Ryan, andiamo a scopare, perché ne ho voglia». Si avvicinò a Ryan prendendogli una mano
e tirando il suo braccio perché potesse alzarsi.
«Non è il momento Butterfly» bisbigliò, ritirando
il braccio perché lei la smettesse di infastidirlo.
«Oh, è così, no? Hai appena finito con lei
e hai paura di non riuscirci con me? Ti ricordo che sono Butterfly, e tu meglio
degli altri sai il significato del mio nome. Però, capisco, ce l’hai davanti e
in questo momento non hai voglia, ma andiamo in camera tua». Ammiccò verso di lui, mentre non
riuscivo a togliermi quell’espressione schifata dal volto.
Perché da quello che avevo capito, Butterfly era la loro…
valvola di sfogo. Ma non era quello a impressionarmi, piuttosto che lei li
soddisfacesse tutti.
«Apri quelle fottute orecchie e prova a
usare il cervello. È la nostra nuova vicina, e adesso vattene
perché nessuno ti ha chiamata».
Lo scatto improvviso di Ryan mi fece sobbalzare; anche Butterfly si spaventò,
tanto che rimase immobile per qualche istante. Sembrava voler decidere che
fare.
«Insomma mi stai
dicendo che questa sera non scoperò con te? Bene ne ho altri dieci qui, sono
sicura che ne troverò uno» sogghignò, posando il
suo sguardo su Brandon.
«Non ci siamo
capiti». Ryan si avvicinò a lei, prendendole il mento tra il pollice e l’indice
e costringendola a tenere le sguardo puntato nel suo: «Adesso tu te ne vai,
perché questa sera nessuno te lo darà. Ed è un ordine, chiaro?» sibilò, talmente
sicuro di se stesso che rabbrividii per la paura.
«Vaffanculo, ok?
Non chiamatemi per la prossima settimana, perché non vedrete la mia figa
nemmeno se mi pagate» strillò Butterfly, camminando velocemente verso la porta
e sbattendola dopo essere uscita.
«Tanto domani
sarà qui a pregare qualcuno che la fotta, sai che ogni tanto pensa di essere
una Signora» ridacchiò Brandon, come se la scena a cui avevo assistito fosse
normale routine per loro.
«Dove eravamo
rimasti prima che Butterfly ci interrompesse?» chiese Ryan, sedendosi sul
divano e prendendo la bottiglia di birra che Brandon aveva aperto qualche
minuto prima.
«Eagles e
Misfitous» precisò JC, il ritratto della tranquillità appoggiato allo stipite
della porta.
«E lei è ancora
qui» continuò Brandon, sorridendo in modo strano. Sembrava ridere di qualcosa
che io non potevo capire. Qualcosa che però faceva ridere JC e Ryan.
«Questo conferma
la mia ipotesi, è stupida». All’affermazione di Ryan mi indispettii, alzandomi
in piedi pronta a tirargli uno schiaffo.
«Non sono
stupida, sto solo cercando di capire» spiegai, irritata dal suo continuo
prendermi in giro anche davanti agli altri.
«Allora quello
che forse ti serve per capire in che situazione siamo è dirti che noi siamo gli
Hard-cores degli Eagles? Così hai un
po’ più di paura?» scherzò, credendo di rendere le cose più chiare.
«Se la smettessi
di dire parole a caso e spiegassi un po’ meglio, magari riuscirei a capire, non
credi?» replicai, esausta da quel continuo botta e risposta; non volevo cedere,
non volevo dargli la soddisfazione di vincere.
«Non sa nemmeno
cosa sono gli Hard-cores. Ma dove
cazzo viveva in un telefilm per bambini?» si rivolse a Brandon e JC, che
cominciarono a ridere, guardandomi stupiti. «Gli Hard-cores sono i componenti principali della banda, quelli che
indossano il flag o compiono crimini come facciamo noi, fin qui mi segui o devo
farti un disegnino?» chiese, strafottente.
Non volevo dargli
la soddisfazione di non aver capito, così annuii, lasciandolo continuare senza
interrompere la sua spiegazione, anche se quel ‘compiono crimini’ mi aveva
sconvolta.
«Poi ci sono gli Associates, come JC, sono membri della
band ma raramente sono coinvolti nelle risse o in qualche altra situazione.
Ora, se il tuo cervellino californiano ce la fa a mantenere tutte queste
informazioni, io procederei con gli altri due gruppi, che ne dici lentiggini,
ce la puoi fare?» mi provocò, ammiccando verso di me.
«Vai avanti» lo esortai, stringendo le mani a pugno per contenermi.
«Ok, lentiggini,
continuiamo perché voglio vedere tra quando scapperai da quella porta. Ci sono
i Peripherals, con cui tu hai deciso
di scusarti e parlare, ok? Quelli dei bar, che dicono di essere degli Eagles
solo per avere la nostra protezione e qualche favore. Infine, lentiggini, ci
sono i Gonna-be. Come… ragazzi, ha
mai visto Liam o Shake? Be’, loro erano Gonna-be
fino al mese scorso. Sono le reclute, quelle che provano a entrare nella nostra
banda. Non tutti ci riescono, perché non accettiamo tutti quelli che ci
chiedono di poter entrare, devono superare delle prove». A quelle parole
Brandon e JC annuirono convinti; concordavano pienamente con le parole di Ryan.
«Prove?»
domandai, stupita. Che tipo di prove?
«Che facciamo?».
Il fatto che Ryan chiedesse un parere a
Brandon mi stupì; credevo fosse lui il ‘capo’ della banda.
Brandon fece
spallucce, massaggiandosi ripetutamente il mento ricoperto dal pizzetto. Quella
risposta sembrò soddisfare Ryan.
«O facciamo la
Roulette Russa oppure chiudiamo il Gonna-be
in ascensore con tre dei nostri e deve uscirne vivo dopo venti piani». Spalancai
gli occhi, completamente scioccata.
Uscire vivo?
Quindi c’era la
possibilità che qualcuno morisse dentro a quell’ascensore?
«Possono anche
morire?» chiesi allibita, rabbrividendo per quella possibilità.
«Se non sono
abbastanza forti da sopravvivere alla prova per entrare negli Eagles, quante
possibilità hanno secondo te, dopo? Quanto credi possa resistere un membro
della gang?».
Stavo per
chiedere se quindi anche loro erano in pericolo, ma fui interrotta dal rumore
di una chiave che girava; la porta si aprì e Dollar e Sick entrarono, ridendo
complici.
«Oh, siete qui.
Alexis, ti abbiamo messo la spesa in cucina» spiegò Dollar, dirigendosi verso
il frigo e prendendo una birra.
«In cucina? Ma se
le chiavi di casa ce le ho io» borbottai confusa, aprendo la borsa per
cercarle.
«Sì, abbiamo
scassinato la porta, ma non preoccuparti, è un lavoro fatto bene e poi
l’abbiamo richiusa. Nessun problema. E non ho nemmeno guardato nel tuo cassetto
della biancheria perché Dollar non me l’ha permesso». Sick ammiccò verso di me,
una smorfia triste sul suo viso. «Ryan, abbiamo
flaggato al supermercato, spero non ti dispiaccia. C’erano un paio di
Misfitous, quello con la cresta e quell’altro biondo che fuma sempre che hanno
cercato di avvicinarsi a noi, e avevano il flag in bella vista». Il tono di
voce di Sick era magicamente cambiato, non c’era più quella nota divertita e
quasi eccitata che aveva quando parlava con me; era serio.
«Che pezzi di
merda. Avete fatto bene, ci sono stati problemi?» si informò Ryan, muovendosi
irrequieto sul divano; portò le mani sotto al mento, sorreggendosi il volto.
«No, siamo usciti
poco dopo che loro sono entrati, ma ci hanno visti» spiegò Dollar, sedendosi di
fianco a me e circondandomi le spalle con un braccio. «Come stai?». Ammiccò e
non riuscii a trattenere una risata isterica e divertita. Perché Dollar mi
faceva ridere, il suo continuo provarci, nonostante gli avessi chiaramente
detto che non mi interessava, era comico.
«Cos’è il flag?»
domandai, guardando Ryan e subito dopo Brandon.
«Questo»
mormorarono entrambi, prendendo un fazzoletto rosso dalla tasca. Era un
fazzoletto vecchio e sporco, potevo vedere del sangue rappreso sulla stoffa. «Questo
è il flag, lo facciamo vedere quando siamo sicuri di avere tutto sotto
controllo, quando siamo sul nostro territorio, che va dall’inizio della strada
al murales che trovi nel prossimo incrocio, quello con l’aquila ad ali spiegate»
continuò Ryan, riponendo il fazzoletto rosso e sporco in tasca.
«Anche i
Misfitous hanno un fazzoletto rosso?». Indicai con il mento il pezzo di stoffa
che aveva appena messo via, ma qualcosa lo fece ridere.
«No. Il flag
cambia colore a seconda della banda. Noi ce l’abbiamo rosso, come il sangue che
hanno versato quelli che non ci sono più. È quello che vedi qui sopra». Allungò
il fazzoletto verso di me, indicando una delle tante macchie che c’erano sopra.
Versato sangue?
Quelli che non c’erano più?
«Sono morte tante
persone?» farfugliai, spaventata.
«Meno di quelle
che sono state uccise».
Ryan sorrise orgoglioso, gonfiando il petto fiero e
portando il fazzoletto rosso al petto, all’altezza del cuore.
«Uccise? Voi, voi
avete ucciso?». Sentii un nodo formarsi in gola
tanto che la mia voce diventò stridula.
«Chi interferisce
con noi non merita di vivere». Il tono solenne con cui parlò mi spaventò:
credeva davvero in quello che diceva. Per lui era normale uccidere le persone?
Funzionava così
lì, nel Bronx?
«Io-io-io devo
andare, vi lascio 50 dollari per la spesa, grazie» balbettai, prendendo i soldi
con mani tremanti dalla borsa.
«Alexis, aspetta»
disse Dollar, mentre appoggiavo i soldi sopra al tavolo della loro cucina.
«Doll, fermati».
Un ordine, ecco che cosa era. Riuscivo a capirlo dalla voce di Ryan e anche da
Dollar, che si era fermato in mezzo alla stanza, lasciandomi andare.
Attraversai il
pianerottolo di corsa, cercando le chiavi di casa nella borsa e riuscendo ad
aprire la porta solo dopo svariati tentativi perché la mia mano tremava troppo.
Entrai,
richiudendomi la porta alle spalle e appoggiandomi al legno per sostenermi: non
riuscivo più a sentire le gambe, spaventata com’ero.
I miei vicini di
casa erano dei killer. Uccidevano persone e andavano in giro con un fazzoletto
rosso per marcare il territorio; facevano a pugni per derubare la gente e non
si vergognavano nemmeno di dirlo.
Cercai di
respirare lentamente, pensando che non avrebbero mai potuto farmi del male. Ero
la loro vicina, non potevano uccidermi, tutti avrebbero dato la colpa a loro,
no?
E se anche la
polizia fosse loro alleata? In fin dei conti come potevano non essere in
prigione dopo aver ucciso?
Spalancai gli
occhi, talmente scioccata da non riuscire nemmeno a piangere e notai le buste
della spesa sopra al tavolo.
No, mi rifiutavo
di credere a quello che avevano detto; mi avevano aiutata a fare la spesa, mi
volevano aiutare a trovare un lavoro, non potevano essere degli assassini.
Mi avvicinai al
tavolo per sistemare la spesa, cercando di non pensare a chi ci fosse a meno di
venti metri da me.
Non avevo il
coraggio di incontrarli, ecco perché dalla mattina prima, cioè da quando Ryan
mi aveva parlato, non ero uscita; nemmeno per urlare contro a Dollar e Sick per
quel loro acquisto idiota che di certo non mi serviva. Ero quasi sicura fosse
opera di Sick: esattamente i prodotti di cui lui aveva bisogno.
Però volevo
cercarmi un lavoro ed ero decisa a sfidare la sorte: la sfortuna si era già
abbattuta su di me più e più volte, quante possibilità avevo di incontrare Ryan
o uno di loro sul pianerottolo mentre uscivo?
Abbassai
lentamente la maniglia per non fare rumore, pochi passi, forse dieci e poi
avrei sceso i gradini velocemente, sì; strinsi la maniglia tra le dita,
accompagnando la porta verso lo stipite perché non facesse rumore.
Ci ero quasi
riuscita quando una voce dietro di me mi fece sussultare. «Usciamo, lentiggini?».
Chiusi definitivamente la porta, rinunciando a fare silenzio, visto che ero
stata scoperta.
Non risposi,
tenni semplicemente lo sguardo basso, evitando di guardare Ryan negli occhi. La
verità era che avevo paura di lui, ora che sapevo quello che faceva.
«Palle girate,
lentiggini? Sai che il saluto non si nega nemmeno ai cani?» sghignazzò, forse perché credeva di farmi cedere. Ma
non ci riuscì, tanto che il mio piede era già sul primo gradino quando qualcosa
mi strattonò il braccio, costringendomi a invertire la rotta. «Che c’è? Ora non
sono nemmeno degno del tuo saluto?» rimbeccò, in attesa di una risposta.
Mi feci coraggio
e alzai lo sguardo, incrociando il suo, azzurro e limpido. C’era un nuovo
taglio sul sopracciglio, sembrava profondo. Istintivamente mi alzai in punta di
piedi per controllare meglio, ma quando capii il mio gesto ritornai con i piedi
per terra, guardando la porta del loro appartamento alla mia sinistra.
«Puoi anche
parlarmi, sai? Mi hai detto che non ho un linguaggio carino e l’ho capito,
eviterò di dire parolacce quando ti vedo, ti sta bene?» mi prese in giro,
credendo forse che non riuscissi a cogliere la sua ironia.
«Ciao, ora posso
andare?» domandai, indicando con un gesto del capo le scale dietro di noi.
«Così tanta fretta?
Sembravi curiosa ieri, la piccola lentiggini si è spaventata dei grandi ragazzi
che ha per vicini?». Un ghigno impertinente sul suo viso e la fila di denti
bianchi in bella vista.
«A proposito di
ragazzi, nella spesa c’è qualcosa che non uso». Mi ricordai della confezione di
preservativi che avevo trovato dentro al sacchetto della farmacia e portai la
mano in borsa, per cercare le chiavi di casa. In pochi passi entrai, andando in
bagno e prendendo la confezione dal mobiletto. «Tieni, serviranno a te» sbottai
posando la scatola nella mano di Ryan, dopo essere tornata nel pianerottolo.
«Taglia M? Mi sottovaluti, lentiggini, di un paio di taglie,
aggiungerei». Quella frase di poco gusto mi fece rabbrividire, indignata.
«Fottiti, Ryan» esplosi, cercando di mettere tutto il disprezzo che
provavo per lui in quelle due parole.
«Ohh, andrai
all’inferno se usi queste brutte parole, lo sai lentiggini?». La situazione era
così divertente per lui? Perché sembrava davvero divertito da quello che stava
succedendo.
«Hai ragione,
vaffanculo». Sorrisi ironica, avvicinandomi alle scale per scendere.
«Ti sbagli di
nuovo lentiggini, non è proprio quel tipo di posto quello in cui mi piace
andare di solito» strillò, mentre scendevo le scale velocemente.
Non meritava
nemmeno una risposta, non con una battuta del genere.
Chiusi il portone
alle mie spalle, respirando l’aria fresca e satura di smog attorno a me.
Mi sarei
arrangiata, non mi serviva Ryan per trovare un lavoro, mi bastava la mia
cartina… che naturalmente avevo lasciato nel loro appartamento la mattina
prima.
«Cazzo» sibilai,
aprendo il portone e salendo i gradini a due a due.
Bastava bussare
piano, sperando che Ryan fosse in bagno o a dormire. Erano in dieci in
quell’appartamento, forse di più, avevo una possibilità su dieci che fosse lui
ad aprire la porta.
Anche Sick
sarebbe stata una possibilità migliore, sì.
Bussai piano,
probabilmente non mi aveva sentito nessuno; eppure, qualche secondo dopo udii il
suono di passi da dietro la porta: il rumore del chiavistello che si apriva e uno
spiraglio di qualche centimetro.
Poi una voce.
«Sì, lentiggini?».
Salve ragazze! Ecco il quarto capitolo!
Prima di tutto ringrazio preferiti/seguiti/da ricordare e chi ha il
coraggio di commentare. Siete tutte vive alla fine di questo mattone così
palloso? Sì, bene! Allora vi faccio addormentare con le spiegazioni di quello
che ho scritto!
Dunque, ci sono un sacco di informazioni dentro e posso garantire che sono
tutte vere. Per quanto riguarda la storia del flag, i colori diversi e il
significato... mi sono basata su un'intervista che avevano fatto a un ex
componente di una gang del Bronx. Ho omesso alcune cose perché saranno più
utili in futuro e non aveva senso scriverle ora. In ogni caso, i nomi che io ho
cambiato in Eagles e Misfitous sono 'Bloods' e 'Crips'. Il nome Misfitous
(connubio tra Misfit e Promiscuous l’ha inventato SidRevo mentre cercavamo di
scervellarci per trovare un nome pauroso). Avevo cercato di farvi capire questa
differenza sottolineando più volte che c’erano dei messicani tra l’altra gang…
Anche la prova d'entrata è vera: i Bloods sono soliti chiudere in un
ascensore chi vuole entrare con tre dei loro componenti. Se dopo 20 piani il
ragazzo riesce a sopravvivere può entrare nella gang e ricevere il flag. Per
quanto riguarda la Roulette Russa... so che alcune gang usano anche questo
metodo, quindi l'ho inserito.
Per quanto riguarda Ryan e il suo spiegare che ci sono diverse bande... è
vero anche quello, ci sono tipo una decina di gang, ma solo i Bloods e i Crips
si contendono il primato per 'cattiveria' nel Bronx.
Butterfly... ecco, in internet non ho trovato riferimenti alle donne dei
componenti della gang, ma qui mi è stato utile il telefilm 'Sons of Anarchy'.
Le 'ragazze ufficiali' dei componenti si chiamano 'Signore' (Old Ladies in
lingua originale) e da questo deriva la frase che dice uno degli Eagles. Se una
è la Signora di qualcuno, non può essere sfiorata da nessun'altro della gang,
perchè va contro il regolamento che c'è tra di loro. Però, siccome di solito ci
sono poche Signore, è 'usanza' che abbiano alcune 'signorine gentili' che
soddisfano i loro bisogni come la buona samaritana di Butterfly :D
Hard-Cores e tutte le altre definizioni sono vere, non le ho inventate e le
loro descrizioni sono tutte esatte, cioè, mi sono basata su interviste e libri...
Basta, direi che non c’è altro e credo di essermi dilungata anche troppo in
queste note finali… scusatemi per il ritardo!
Alla prossima settimana.
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Capitolo 5 *** I need your help ***
YSM
«Io… ehm…
io ho lasciato la cartina sul… sul vostro divano». Indicai un punto dietro di lui, evitando di guardarlo in
faccia. Sapevo cosa avrei trovato: un ghigno impertinente pronto a farmi
arrabbiare, ma non avevo voglia di discutere di nuovo con lui dopo quello che
gli avevo urlato scendendo dalle scale.
«Cartina?» domandò, dandomi le spalle per
avvicinarsi al suo divano. Riuscii a vedere un sorriso sul suo volto mentre si
abbassava e prendeva tra le mani la mia cartina di New York. «Tu cammini per New York con questa?» sogghignò, avvicinandosi
lentamente alla porta, con la cartina in mano.
«Sì» ribattei, irritata dal suo
alternare lo sguardo dal pezzo di carta a me, «e ora, potresti restituirmela?». Cercai di dimostrarmi
gentile, aggiungendoci anche un sorriso per sembrare più amichevole. Era pur
sempre Ryan, uno degli Hard-cores degli Eagles, e aveva sottolineato che non
era poi così strano per lui uccidere.
«Darti la
cartina» sospirò, schioccando
la lingua, «non saprei, sai?
Ti sei comportata male, hai detto delle brutte parole… non so se sono così
buono da perdonarti così facilmente. Forse, con una parolina magica…». Si portò l’indice al mento,
fingendosi pensieroso.
Io, io dovevo dirgli per favore? Perché mai? Era lui quello
pazzo, che sembrava seguirmi a ogni passo che facevo e che non mi permetteva
nemmeno di riprendermi le mie cose.
«Ryan,
dammi la cartina, subito»
sbottai, incrociando le braccia sotto al seno e picchiettando il piede per
terra, impaziente.
«No
lentiggini, non funziona così. Non sei il capo, su. Sai cosa?» chiese, improvvisamente di
buonumore. «Facciamo una
scommessa, ti va?» mi
punzecchiò, dandomi dei leggeri colpetti sulla spalla con la sua mano. «Io tengo semplicemente la cartina
in mano, se tu riesci a prenderla puoi andare dove vuoi. In caso contrario, la
terrò io»
concluse, un ghigno sulle labbra ancora gonfie dal
taglio di qualche giorno prima. Sembrava serio, non mi stava prendendo in giro,
per lui era semplicemente una scommessa.
«Va bene» acconsentii, sicura che avrei
vinto. Ero più piccola di lui, ma probabilmente molto più agile e sarei
riuscita a distrarlo per poter raggiungere il mio scopo: prendere quello che
era mio.
Ryan però non era stupido come credevo, infatti, con un
ghigno, sollevò il braccio in alto tenendo la cartina sollevata: era
impossibile riuscire a prenderla, per me.
«Vai
lentiggini, stupiscimi» mi
provocò, agitando il braccio.
«Dammi
quella stupida cartina o ti tiro un pugno»
lo minacciai, alzandomi in punta di piedi per cercare di raggiungere il suo
braccio: inutile, visto che non riuscivo nemmeno ad arrivare al suo gomito
sollevato in aria. Cominciai anche a saltellare, cercando di darmi più spinta
per arrivare più in alto.
«Non ti sento lentiggini, devi urlare più forte,
da quassù non sento nulla». Si indicò
l’orecchio, per farmi capire che ero molto
più piccola di lui. Come se quella presa in giro non fosse stata sufficiente,
cominciò a ridere, appoggiandosi allo stipite della porta.
«Vaffanculo. Dammi la mia cartina» strillai, saltando un po’ più in alto tanto che mi
aggrappai al suo braccio, rimanendo sospesa in aria per qualche secondo. Ryan
non sembrò notare quel gesto, perché non si scompose nemmeno, impegnato com’era
a ridere di me e dei miei goffi gesti.
«Muffa e mulo? Cosa? Non sento». Si stava davvero divertendo molto ad agitare quel
pezzo di carta colorato in aria e a fingere di non capire quello che gli
dicevo.
«Bene» sbottai,
indietreggiando di un passo e preparandomi all’attacco definitivo: gli avrei
tirato un pugno sullo stomaco e poi mi sarei presa quello che mi spettava.
Sollevai la manica destra della maglia per avere più libertà di movimento e,
dopo aver chiuso la mano a pugno, caricai il braccio, chiudendo gli occhi.
Non
avevo mai tirato un pugno, ma avevo visto gli effetti sulla mano di alcuni
pazienti e sapevo che faceva male.
La
mia mano andò a scontrarsi con qualcosa di grande e caldo, ma non mi ferii come
avevo pensato.
Aprii
gli occhi per controllare, rimanendo sorpresa di vedere la mano di Ryan attorno
alla mia; in verità, riuscivo a vedere solo la sua, visto che le sue dita coprivano
la mia mano fino al polso, circondandolo.
«Impara a tirare i pugni, prima di fare tanto la dura,
lentiggini. Il pollice va fuori dalle altre dita, altrimenti con il colpo e la
pressione rischi di romperlo» cominciò a
dire, appoggiando la mia mano sul palmo della sua e aprendo gentilmente le mie
dita: spostò il pollice per poi portare di nuovo le mie dita nella posizione
iniziale, piegando infine il primo dito. «Il
pollice deve rimanere fuori dalle altre dita, o con il contraccolpo si rompe» spiegò di nuovo, lasciando poi la mia mano e
restituendomi la cartina.
«Che succede?» domandò
Dollar, materializzandosi di fianco a noi all’improvviso, tanto da spaventarmi
e farmi sussultare.
«Insegnatele come si tira un cazzo di pugno, prima che
si rompa una mano fingendo di sapere come si gioca a boxe» sbottò Ryan, allontanandosi da me per andare a
sedersi sul divano e appoggiare il capo sullo schienale, chiudendo gli occhi.
«Che c’è, Doc? Non sai nemmeno tirare un pugno?» mi provocò Dollar, ammiccando.
«Non ne ho mai tirato uno, e non mi serve sapere come
si fa, grazie per l’interessamento»
bofonchiai, stringendo la cartina tra le mani e dandogli le spalle.
Volevo
trovarmi un lavoro, non mi servivano di certo loro per riuscirci e non mi
serviva nemmeno sapere come si doveva tirare un pugno.
«Dove stai andando, Doc?». Di nuovo la voce divertita di Dollar; ero sicura che stesse
sorridendo, nonostante non potessi vederlo per accertarmene.
«A trovarmi un lavoro» strillai, dal pianerottolo. Speravo che non mi seguissero: volevo
andarci da sola, guardarmi attorno e scoprire il sobborgo di New York. Volevo
capire cosa mi circondava, come era realmente il Bronx.
Mi
fermai davanti al portone dello stabile, guardando prima a destra e poi a
sinistra, soffermandomi sul cancello mezzo sgangherato che c’era dall’altra
parte della strada. Stavo cercando di ricordare qualche particolare che mi
potesse aiutare perché volevo arrivare alla fermata della metropolitana per poi
andare a New York.
Girai
la cartina tra le mani cercando di orientarmi quando, all’incrocio dopo quello
di Whittier Street con Randall Ave, notai una piccola insegna che attirò la mia
attenzione; era l’insegna di un grill, il MoGridder’s
BBQ. Magari avevano bisogno di qualche cameriera, provare non costava
nulla.
Cominciai
a camminare seguendo le indicazioni della cartina, attraversando l’incrocio e
guardandomi attorno in cerca di uno stabile con il nome che avevo letto. Non
volevo chiedere informazioni visto quello che era successo la prima volta che
le avevo chieste, così continuai a camminare, fino a quando, sul ciglio della
strada, notai un furgoncino rosso; sopra una finestra, a lato del furgone,
c’era una scritta gialla: MoGridder BBQ.
Cominciai
a ridere, attirando l’attenzione di qualche passante che mi lanciò
un’occhiataccia preoccupata, e mi avvicinai per controllare.
Il
MoGridder non era un ristorante,
semplicemente un furgoncino che vendeva Hot Dog e altre schifezze fritte. Non
c’era nessuna cameriera o qualcuno che aiutasse il proprietario; solo lui che,
con un sorriso e gli abiti impregnati di grasso, faticava per soddisfare tutti
i clienti.
Non
volevo e non potevo arrendermi: il lavoro mi serviva per vivere e per
l’affitto, così cercai meglio sulla cartina e notai l’insegna di un altro
ristorante; dovevo solo attraversare Longfellow Ave e poi riattraversare
Randall Ave. Il ristorante si chiamava appunto Randall e, secondo la cartina era solamente a poco più di un isolato
dopo l’incrocio della mia via; non era nemmeno molto distante e sarebbe stato
facile arrivarci anche a piedi.
Arrivata
davanti al ristorante rimasi per qualche minuto a guardare la piccola vetrata;
i ristoranti a Los Angeles erano diversi e molto più lussuosi. Il Randall aveva una piccola tenda verde con
una scritta a caratteri grandi rossi e bianchi: Randall Restaurant.
Nonostante
non fosse nemmeno mezzogiorno, i piccoli tavolini all’interno del ristorante
erano quasi tutti occupati e c’era una ragazza con i capelli rossi che,
sorridente, correva da una parte all’altra, scherzando con i clienti; sembrava
conoscerli, visto che li abbracciava e continuava a versare caffè nelle loro
tazze.
«Provaci, Lexi»
bofonchiai tra me e me, camminando decisa verso la porta di vetro.
Quando
entrai sentii il suono di un campanello che avvisava l’arrivo di un nuovo
cliente; quel suono attirò l’attenzione
dei presenti e della ragazza con i capelli rossi che si avvicinò a me,
sorridendomi.
«Ciao, accomodati pure dove vuoi». Indicò il locale attorno a noi, guardando i tavoli
liberi in fondo. «Sei da sola o aspetti
qualcuno?» domandò, tornato poi a posare
lo sguardo su di me.
Per
qualche istante si soffermò a guardare il mio labbro, leggermente gonfio a
causa del benvenuto che i Misfitous mi avevano dato, poi, però, tornò a
guardarmi, cercando di mascherare la curiosità.
«Io… io veramente stavo cercando un lavoro» spiegai, sperando che potesse aiutarmi; sembrava così
gentile e disposta a parlare…
«Un lavoro? Vorresti fare la cameriera qui?» domandò, stupita ma felice. C’era un sorriso sul suo
volto che mi fece rabbrividire: mi sembrava di vedere qualcosa di famigliare in
lei, nei tratti sudamericani del suo volto.
«Io… sì, ecco»
borbottai, cominciando a gesticolare perché non sapevo nemmeno che cosa dire.
Non avevo un curriculum e nemmeno un po’ d’esperienza, visto che durante gli
studi avevo sempre fatto la baby-sitter.
«Abbiamo proprio bisogno di un’altra cameriera, sei
arrivata al momento giusto». Prese
sottobraccio il vassoio, sistemandosi la chioma di capelli rossi dietro la
schiena.
«Però… ecco non ho credenziali o curriculum» spiegai, elettrizzata dall’aver trovato un lavoro e
delusa dall’idea che quella mancanza potesse influire sulla mia assunzione.
Sarei
andata da Ryan a rinfacciarglielo, visto che non credeva in me e secondo lui
non sapevo nemmeno trovarmi un lavoro da sola.
La
ragazza guardò fuori dal locale, diventando improvvisamente seria e perdendo il
sorriso che l’aveva accompagnata fino a quel momento. Seguii istintivamente il
suo sguardo, voltandomi e guardando fuori dalla vetrata del locale: c’era
qualche sporadica macchina che passava, ma lei sembrava intimorita da due ragazzi
fermi in mezzo al marciapiede davanti al locale: stavano fumando una sigaretta
ma si vedeva chiaramente che ci tenevano sott’occhio, visto che non facevano
nulla per nasconderlo.
«Li conosci?»
sibilò la ragazza, indicandoli con un gesto del capo. Sembrava arrabbiata,
furiosa; faticavo addirittura a credere che fino a pochi secondi prima fosse
stata così gentile con me.
Cercai
di guardarli con più attenzione ma no, non riuscivo a riconoscerli. «No» spiegai, tornando a concentrarmi di nuovo sulla
cameriera, ora sospettosa.
«Tu non li conosci? Eppure sembra che ti stiano
aspettando, visto che sono fuori da questo locale da quando sei arrivata» mi accusò, spintonandomi leggermente. Il suo sguardo
saettò verso la vetrata, causandole subito dopo un ghigno soddisfatto. «Non sono così idiota, tesoro. Ti ho toccata ed erano
già pronti a entrare. Credi che non sappia riconoscere gli Eagles? E ora
vattene da qui, stronza Peripheral o quello che sei». Indicò la porta, alzando il tono della voce e
attirando l’attenzione dei clienti.
«Io, veramente…»
cercai di spiegare, prima che mi spintonasse in malo modo verso la porta.
«Vattene o chiamo mio fratello» mi minacciò, prendendo dalla tasca del piccolo
grembiule un telefono.
Uscii
dal locale stupita e confusa: non riuscivo a capire chi fosse quella ragazza,
cioè, sicuramente era legata ai Misfitous, ma come aveva fatto a capire che in
qualche modo ero collegata agli Eagles? E perché continuava a dire che i due
ragazzi fuori dal locale erano Eagles? Che fosse perché… no, impossibile che
Ryan mi avesse fatta seguire, non volevo crederci.
Mi
guardai attorno, ma, come sospettavo, i due ragazzi non c’erano più.
Forse
erano semplicemente due passanti che si erano fermati davanti al locale
indecisi se fermarsi a pranzo o no.
Cominciai
a guardarmi attorno, in cerca di qualche altro locale in cui chiedere se
avevano bisogno di lavorare ma non riuscivo più a rimanere tranquilla. L’idea
di essere seguita mi terrorizzava, perché in fin dei conti si trattava di
persone che avevano ucciso. Che fossero Eagles o Misfitous non cambiava poi
molto.
Volevo
tornare a casa, al sicuro, dove mi sarei distesa sul divano a guardare la TV.
Erano
passati meno di cinque giorni dal mio arrivo a Hunts Point, ma cominciavo a
sentire la mancanza del sole, dell’aria calda e umida di Los Angeles, ma
soprattutto dell’oceano, del rumore delle onde che si infrangevano contro la
mia tavola da surf e dell’adrenalina che provavo nel cavalcare un’onda buona.
Lì,
tra le nubi e quel tiepido sole, non riuscivo a sentirmi a casa, non ancora
almeno.
Ma
dovevo abituarmi, perché i fantasmi di Los Angeles mi avrebbero accolta se
fossi ritornata lì, ed ero fuggita proprio per quel motivo.
«Sta attenta»
sbottò un ragazzo, urtandomi mentre camminavo e risvegliandomi dai miei pensieri.
«Scusa» mormorai,
dimostrandomi gentile, nonostante si fosse già allontanato di qualche metro.
Mi
rispose con un gestaccio decisamente troppo volgare. Che cosa c’era di
sbagliato nelle persone di New York?
Tutti
erano scortesi e quelli che prestavano un po’ di attenzione alle persone che
chiedevano informazioni erano degli assassini.
Svoltai
l’angolo, indecisa se ritornare a casa o se cercare in qualche altro ristorante
quando sentii un rumore dietro di me. Mi voltai, spaventata, ma non vidi
nessuno; solamente una via vuota e qualche macchina che passava.
Suggestione,
non poteva essere altrimenti, ma quando ricominciai a camminare mi sembrò di
udire dei borbottii dietro di me; ancora una volta invertii la rotta per
controllare, ma, come era successo poco prima, non trovai nessuno.
Impossibile,
nessuno mi stava seguendo, no.
Velocizzai
per sicurezza il passo, convinta che fosse meglio tornare a casa e cercare
lavoro un’altra volta.
Attraverso
il vetro di una vetrata controllai dietro di me e riuscii a scorgere l’ombra di
due persone: stavano camminando velocemente, seguendo il mio passo ma rimanendo
qualche metro più indietro.
Dovevo
solo percorrere Whittier Street ed entrare in casa, solo poche centinaia di
metri e sarei stata al sicuro.
Mi
voltai di nuovo per controllare: i due ragazzi continuavano a seguirmi,
mantenendo sempre qualche metro di distanza. Aprii la borsa senza fermami e
cercai le chiavi del portone dello stabile, sicura che non potessero entrare.
Pochi
metri e sarei stata al sicuro, una decina di passi al massimo.
Velocizzai
il passo, cominciando a correre per distanziarmi di più da loro e vidi il
portone aprirsi davanti a me: Ryan stava uscendo.
«Mi inseguono»
bofonchiai, lanciandomi verso di lui e sbattendo contro il suo petto. Chiusi gli
occhi, stringendo in modo spasmodico le chiavi tra le mani.
«Cosa?» domandò
Ryan, irrigidendosi appena contro di me. Rimasi in quella posizione, con il
viso nascosto nel suo petto, cercando di respirare profondamente nonostante i
suoi vestiti fossero impregnati dell’odore di fumo. Incredibile come mi
sentissi al sicuro, anche se probabilmente ero con la persona più pericolosa di
tutto il Bronx.
«I due ragazzi, mi stanno seguendo» spiegai, affondando ancora di più il viso contro il
suo petto.
Mi
sarei aspettata qualsiasi reazione, tranne quella che Ryan ebbe: cominciò a
ridere, allontanandosi da me e facendomi aprire gli occhi. Si teneva appoggiato
al muro dietro di lui, con la testa inclinata indietro e la sigaretta accesa
tra le dita.
«Cazzo, avevo detto discrezione ragazzi. Se anche
lentiggini si è accorta di voi vuol dire che avete fatto un lavoro davvero di
merda» sbottò, tra un attacco di risa e
un altro.
«Perché è andata al Randall, e siamo convinti che
volesse cercare lavoro, ci siamo fatti vedere dalla sorella di Pick, e lei l’ha
mandata via. Credo fosse convinta che Alexis fosse una nostra Peripheral». A parlare fu uno dei due ragazzi che avevo visto
fuori dal locale, lo stesso che mi aveva seguito, assieme a quello con un
berretto di lana in testa.
«Voi… tu… tu li conosci?». Stavano parlando con lui senza azzuffarsi o picchiarsi, non si erano
nemmeno presentati, doveva per forza conoscerli.
«Secondo te, lentiggini, sono così idiota da lasciarti
andare in giro per il Bronx da sola? Come minimo saresti entrata in casa dei
Misfitous, cosa che hai quasi fatto. Non ti ho forse detto, ieri, che fino al
murales è nostro territorio? Non ti sei accorta dell’aquila ad ali spiegate che
è disegnata lì in fondo? No, tu dovevi andare fino all’incrocio dopo, no? Per
trovare un fottuto lavoro». Era ironico,
naturalmente, ma sapere che mi ero spaventata per niente e in qualche modo mi
ero dimostrata debole con lui mi irritò al punto che entrai nel pianerottolo e
cominciai a salire le scale.
«Stronzo»
bofonchiai tra me e me, sicura che nessuno potesse sentirmi.
Cosa
ne sapevo io di aquile disegnate sui muri e locali dei Misfitous? Io volevo
solo uno stupido lavoro, perché la vita lì doveva girare attorno a un paio di
gang?
Entrai
nel mio appartamento, richiudendomi la porta alle spalle e sospirando stanca:
volevo solo sedermi un po’ sul divano per rilassarmi dopo lo spavento che avevo
preso con quei due ragazzi che mi avevano pedinata.
«Apri» ordinò una
voce, battendo un colpo contro la porta del mio appartamento che fece vibrare
tutta la parete. Conoscevo una sola persona che bussava in quel modo insolito:
Ryan.
«Non sono a casa»
strillai, portando un braccio a coprirmi gli occhi. Non avevo voglia di vedere
nessuno, tantomeno i miei vicini.
«Lentiggini apri la porta o la sfondo». Di nuovo la voce di Ryan, seguita da un pugno ancora
più forte del precedente.
«Non sono in casa»
ribattei, coprendomi le orecchie come una bambina: era così difficile per loro
lasciarmi un po’ di privacy per poter pensare?
«Brandon, Sick, andate a prendere l’ariete. Sfondiamo
la porta». A quelle parole balzai in
piedi, correndo verso la porta prima che potessero sfondarla.
«Che cosa volevate fare?» brontolai, aprendo l’uscio di casa e guardandoli tutti e tre: stavano
cercando di trattenere le risate, con scarsi risultati.
«Convincerti ad aprire la porta, naturalmente». Ryan con il suo solito ghigno e il suo tono ironico.
L’avrei volentieri preso a schiaffi, se solo fossi stata alta come lui.
«Che cosa volete?».
Se erano davanti alla mia porta di sicuro c’era qualche motivo, la gente
normale di solito bussava perché aveva bisogno di qualcosa: sale, zucchero,
latte…
«I due ragazzi che credevi ti pedinassero sono Liam e
Shake, gli ultimi acquisti degli Eagles. Cazzo Brandon, non mi ero accorto che
fossimo caduti così in basso, sai? Continuo a chiedermi come abbiano fatto a
uscire dall’ascensore vivi» sbottò,
parlando poi con Brandon, di fianco a lui. Il suo amico ridacchiò, annuendo:
era convinto di quello che aveva detto Ryan.
«Bene, sono felice di averli conosciuti. Ora, ciao». Cercai di chiudere la porta: era un modo davvero
poco gentile di dire che no, non avevo voglia di parlare con loro; era
scortese, certo, ma sembrava che non riuscissero a capire la gentilezza.
«No… lentiggini»
sibilò Ryan, appoggiando una mano sulla porta per impedirmi di chiuderla
completamente, «forse non ci siamo
capiti. Siamo qui per dirti che se devi cercare un lavoro non puoi andare dove
vuoi, ok?». Incrociò le braccia al petto,
in attesa di una risposta.
Mi
soffermai a guardare il suo volto ricoperto da ematomi più o meno recenti,
riuscivo a vedere, nonostante la differenza di altezza, i suoi occhi azzurri
fissarmi intensamente, mentre cercavano di capire qualcosa.
«E dovrei cercare un lavoro con voi?». Era quello che stavano cercando di dirmi? Mi
volevano intimidire con le loro spalle larghe e i loro muscoli?
«Esatto, magari così eviti di venire uccisa, che ne
dici?». Sentire la voce di Sick così
ironica, senza strani riferimenti a qualcosa di volgare mi stupì, tanto che
spalancai le labbra, stupita.
«Ehi Doc! Come va?».
Dollar scostò con una spallata Sick, mi sorpassò dopo avermi scompigliato i
capelli e avanzò a grandi passi verso il divano di casa mia, senza nemmeno
chiedere permesso.
«Doc...
doc... cazzo! Ecco dove ti avevo vista! Hai fatto quel film porno, no?» esclamò all’improvviso Sick, facendomi sobbalzare,
stupita.
«Cosa?»
domandai, sicura di aver frainteso quello che aveva detto. Non poteva aver
chiesto se avevo fatto un film porno, no.
«Sì, quello con le dottoresse... è uno dei miei
preferiti, siete così... fighe che, cazzo, al solo pensiero mi si...» cominciò a dire, prima di essere interrotto.
«Sick»
urlò Dollar, fermandolo prima che potesse dire qualcosa di volgare,
sicuramente.
«Che c'è? Dollar, l'hai visto anche tu e hai
avuto la mia stessa reazione». Sick
sembrava offeso da Dollar, come se non avesse voluto essere interrotto durante
un discorso così importante.
La
frase di Sick però, sembrò irritare Dollar, che cominciò a muoversi irrequieto
sul divano. «È una ragazza»
bofonchiò poi, come
se volesse giustificare il motivo per cui l’aveva interrotto.
C’era qualcosa di così irreale e pazzo in quel
discorso che non riuscivo nemmeno a interromperlo per dirgli che si stava
sbagliando.
«No, è una maiala, mi ricordo
che cosa faceva» ghignò Sick, avvicinandosi a me e circondandomi le
spalle con un braccio. Il suo sorriso mi faceva paura; mi terrorizzava ancora
di più la sua mano, che sembrava scendere lentamente verso il mio seno.
«Io… io non ho fatto nessun
film porno con le dottoresse» spiegai, indietreggiando di un passo per scostarmi da
Sick perché non mi toccasse più.
«Ah no? Allora lì c’è
quella che ti assomiglia. Hai lavorato con James Deen?» domandò, curioso e allo
stesso tempo stupito di aver sbagliato qualcosa. Sembrava sapere molto di…
film, e mi stupì quella domanda. Come faceva a non saperlo?
«Io… Sick, James Dean è
morto parecchi anni fa» borbottai, sperando di non dargli una brutta notizia.
Avrei anche voluto aggiungere che ero quasi sicura che James Dean non avesse
fatto nessun tipo di film porno, ma non volevo mettere troppa carne al fuoco.
«No, stai scherzando? James
Deen è vivo. L’ultimo suo film è uscito un paio di giorni fa. Quindi… se non
hai lavorato con James… no, cazzo. No. Hai fatto quel film con Stoya? Non era
Sasha Gray? Cazzo ero sicuro che fosse Sasha, ma se eri tu…». La luce nel suo sguardo
cambiò: mi guardava con ammirazione, quasi.
Imbarazzata da quel disguido e irritata perché
nessuno stava cercando di fargli capire che no, non avevo mai fatto nessun tipo
di film, tantomeno porno, e che non sapevo chi fossero James, Stoya e Sasha, cercai
di non badare alla sensazione di caldo che sentivo all’altezza delle guance e spiegai
ancora una volta: «Sick, davvero io…». Non mi lasciò spiegare,
perché di nuovo cominciò a parlare, elettrizzato e felice.
«Allora?
Dimmi! Com’è girare un porno? Cazzo, mi sarebbe sempre piaciuto, non puoi
contattare qualcuno? Mi va bene tutto, basta che ci siano un paio di tette.
Niente roba gay, per favore, basta solo il mio, in mezzo a qualsiasi cosa tu
voglia» sputò senza mai
fermarsi. Stava quasi saltellando per la felicità e un po’ mi dispiaceva dargli
quella notizia, ma doveva sapere che si stava sbagliando.
«Sick… io…» cercai di parlare di nuovo,
inutilmente visto che per la seconda volta cominciò a parlare, senza fermarsi o
aspettare che gli dicessi qualcosa.
Ryan e Brandon guardavano la scena divertiti, senza venire
in mio aiuto; nemmeno Dollar parlava più, era seduto sul divano e lo sguardo
implorante che gli lanciai lo fece solo ridere di gusto.
Dovevo arrangiarmi io da sola?
«Cazzo, al solo pensiero di
quello che fanno in quei film io rischio di venire così. Lei è bella, vero? E
quelle tettine che ha… per non parlare delle facce che fa… cazzo mi sono
innamorato di lei appena l’ho vista».
Si portò una mano alla fronte, massaggiandola pensieroso tra un sospiro e
l’altro.
Doveva ascoltarmi, in un modo o nell’altro doveva smetterla,
perché non mi interessava di attori di film porno o altre cose simili.
«Sick, dannazione! Non ho
fatto nessun porno» strillai,
stringendo i pugni lungo i fianchi e riuscendo finalmente a zittirlo.
Riuscii a sentire le risate trattenute di Ryan, Dollar e
Brandon, ma nessuno si avvicinò a Sick: rimasero tutti al loro posto, Ryan e
Brandon appoggiati alla porta d’ingresso e Dollar seduto sul mio divano
sgangherato.
«Oh» sussurrò Sick, deluso. Continuava a tenere lo
sguardo basso, senza rivolgermi la parola. «Forse ti ho scambiata con qualche altra attrice, allora». Sembrava un modo strano per scusarsi, nonostante si
fosse avvicinato a me di qualche passo, guardando il mio viso e il mio corpo,
in cerca di una conferma per la sua ipotesi.
«È quello che sto cercando di dirti» spiegai, sorridendo imbarazzata dal suo strano
comportamento: cominciò a girarmi attorno, squadrando ogni centimetro del mio
corpo.
«Ma sei proprio sicura di non aver fatto nessun porno?
Nemmeno uno amatoriale?» ritentò, di
nuovo, irritandomi. Era così difficile capire che non avevo mai girato nessun porno, amatoriale o non?
«Che porno vuoi che abbia girato? Probabilmente è
ancora convinta che siano le cicogne a portare i bambini». Quella voce stridula riuscì a innervosirmi più delle
accuse stupide di Sick.
«Sono un dottore e comunque sì, so come nascono i
bambini» risposi, piccata. Possibile che
Butterfly –se quello era il suo nome, poi– dovesse offendere in modo così
gratuito? Cosa le avevo fatto per meritarmi il suo odio? Ci eravamo viste due
volte e si era sempre presentata con una frase poco carina per me.
«Oh, dottore? Le lauree le regalano così adesso? Posso
laurearmi anche io allora» ghignò,
divertita, avvicinandosi a Ryan e strofinando la sua mano sul petto di lui.
Credeva forse di offendermi con quel suo strano comportamento?
«Non c’è una laurea in quello che studi tu, mi dispiace». Ed ero anche stata gentile, trattenendomi e non
risultando volgare, visto che non sarebbe stato carino dirle che come, minimo,
per imparare qualcosa sul corpo umano avrebbe dovuto studiare Medicina o
Biologia. La Laurea in Zoccologia non era ancora stata inventata, ma da quello
che avevo potuto notare nei pochi minuti in cui avevo parlato assieme a lei,
Butterfly sarebbe stata in grado di laurearsi con il massimo dei voti.
«Magari sono più intelligente di te, ci vuole poco,
sai?» mi provocò, avvicinandosi a me dopo
aver sorpassato Ryan e Sick, ancora fermi e in silenzio sulla porta.
«Sì, hai ragione»
sospirai, schernendola. Non mi faceva di certo paura solo perché era molto più
alta di me e aveva degli air-bag a proteggerla davanti; Butterfly faceva uscire
la parte peggiore di me, quella pronta a rompere il naso di qualcuno con un
pugno.
«Che cosa ci fai qui, Butterfly?». La domanda di Ryan sembrò stupirla, perché si fermò,
voltandosi a guardarlo e giocherellando con un paio di dreadlock.
«Sono venuta a farti compagnia, tesoro. So che ti manco». Ammiccò verso di lui, cercando probabilmente di
risultare sensuale. L’unica cosa che però si poteva associare a Butterfly era
la volgarità.
«Non ho bisogno di te, e se non sbaglio un paio di
giorni fa hai detto che non saresti più passata di qui, sbaglio o aveva detto
una settimana, Brandon?» ghignò Ryan in
risposta, dando dei leggeri colpi sullo stomaco a Brandon con il suo gomito.
L’amico, in risposta annuì, rimanendo però zitto.
«Se non scopo con voi due lo farò con qualcun altro.
Sick non ha mai detto di no». Sorrise,
avvicinandosi a Sick che sembrava spaventato.
«Butt…» sibilò,
appiattendosi contro il muro. Sick era spaventato da Butterfly? Per questo
continuava a indietreggiare, cercando di mettere un po’ di distanza tra loro?
«Andiamo Sick, lo sappiamo entrambi che
tette secche non può soddisfarti come faccio io, su. Non sa quello che ti
piace, non ti conosce» cantilenò,
alternando delle occhiatacce arrabbiate a me, a quelle sensuali che rivolgeva a
lui.
«Sick questa sera non è disponibile, porta il tuo culo
fuori da qui, Butterfly». Era un ordine,
riuscivo a capirlo dal tono di voce di Ryan, e riuscì a capirlo anche Sick, che
alzò gli occhi al cielo con uno sguardo confuso ma triste.
«Adesso mi sbatti fuori da casa tua per la seconda
volta?» si indignò, alzando la voce e
fronteggiando Ryan. Volevo farle notare che quella, in verità, era casa mia, ma
non mi sarei mai permessa di interrompere una discussione in cui io non
c’entravo nulla.
«Sei a casa di Alexis» precisò Brandon, causandomi un sorriso soddisfatto che non riuscii a
nascondere.
«Andate tutti a fanculo! Anche tu, tette secche. Sappi
che me la pagherai, perché una stronza non può arrivare qui e prendersi i miei
ragazzi, chiaro?» strillò dal pianerottolo,
prima di scendere le scale. La sua uscita di scena così teatrale mi stupì,
paralizzandomi: credevo che quelle cose succedessero solo nei film, non anche
nella realtà.
«Ryan, io però…»
cominciò a dire Sick, fermandosi dopo avermi guardato.
«Non me ne frega un cazzo, Sick. È un ordine, per
quanto mi riguarda puoi guardarti un film porno e fare quel cazzo che vuoi,
chiaro? Se io dico che lei non si ferma da noi, non lo fa. E tu non andrai da
lei, perché questa sera dobbiamo uscire, e mi servite tutti». Se di solito la voce di Ryan che dava ordini era
dura ma non spaventosa, in quel momento invece mi fece proprio paura. Un
sibilo, poteva sembrare impossibile ma era un sibilo, basso e roco.
Tutti
abbassarono il capo, rimanendo in silenzio e non protestando.
«Andiamo, torniamo a casa, devo parlarvi». Con un gesto del capo Ryan indicò la porta di fronte
alla mia, facendo capire ai ragazzi che dovevano tornare nel loro appartamento.
Brandon
si spostò dall’uscio, per far passare Sick e Dollar, che se ne andarono in
silenzio, senza nemmeno parlare. Ryan, l’ultimo a uscire, chiuse la porta alle
sue spalle, lasciandomi da sola e senza nessun saluto.
Dovevo
solo abituarmi, perché erano semplicemente dei ragazzi grandi e grossi, che non
sapevano nulla riguardo all’educazione o al bon-ton.
Passai
il pomeriggio a finire di sistemare gli ultimi scatoloni che non ero riuscita a
svuotare, e poi mi preparai un’insalata che mangiai seduta sul divano a
guardare un film.
Il
film alla TV era così noioso che mi addormentai lì, sul divano, lasciando che
le immagini di quella strana storia d’amore tra un allenatore di calcio e la
sua allieva mi spingessero tra le braccia di Morfeo, che mi cullò fino a quando
un rumore mi svegliò di soprassalto.
«Alexis! Apri».
Un colpo alla porta che mi spaventò: non riuscii a capire dove fossi; nel sogno
stavo facendo surf.
Mi
strofinai gli occhi, guardandomi attorno e cercando di capire da dove
provenisse quella voce e quel continuo picchiare contro qualcosa.
«Apri questa cazzo di porta, sono Ryan». Un colpo ancora più forte che fece vibrare il
pavimento sotto ai miei piedi mentre scivolavo sul tappeto davanti al divano.
«Arrivo»
gracchiai con la voce ancora assonnata, correndo verso la porta, «cosa…» balbettai. Non appena la aprii e vidi le condizioni di Ryan davanti a me: la sua maglia
bianca era intrisa di sangue, il suo volto aveva diverse botte e c’era un
taglio sulla sua fronte che continuava a colare sangue.
«Ho bisogno di te».
Buongiorno ragazze! Intanto mi scuso per il mostruoso ritardo
che spero non si verifichi più!
Poi... Poi mi scuso anche per il linguaggio volgare di Sick e
Butterfly... So che la storia è a rating arancione, ma sinceramente mi sembra
stupido mettere rating rosso per qualche parolaccia o doppio senso, ecco.
Per Sick... Dunque, James Deen, Sasha Gray e Stoya sono
davvero tre pornoattori americani (non chiedetemi come faccio a saperlo...
Posso solo assicurarvi che al liceo avevo molti compagni maschi....).
Il MoGridder's e il Randall esistono veramente e sono
esattamente come li ho descritti, l'unica cosa... Non é vero che il Randall é
sotto il controllo dei Cribs (ossia dei miei Misfitous).
Diciamo che non ho mantenuto la stessa divisione delle strade
per le bande.
Per quello che accadrà nel prossimo capitolo... Avete
supposizioni? Nel gruppo ho spoilerato alla grande su quello che succederà,
ma... Voi cosa immaginate? :p
Come sempre questo é il gruppo spoiler Nerds' corner e questo il mio profilo Roberta
RobTwili (per favore specificate che siete lettori).
Ringrazio tutte quelle che hanno recensito lo sorso capitolo,
chi ha messo la storia tra i preferiti, i seguiti e tra quelle da ricordare!
A presto! (magari anche a domenica, quindi battete un colpo
se avete letto il capitolo, così mi regolo per il prossimo aggiornamento!).
Un bacione!
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Capitolo 6 *** He can't die! ***
YSM
«Cosa… cosa ti è successo?» domandai spaventata, avvicinandomi a lui per controllare le
ferite.
Non riuscivo a capire dove si
fosse tagliato per essersi sporcato così tanto la maglia; vedevo diversi tagli
sulle braccia, ma sembravano superficiali, niente a che vedere con quello sulla
fronte, almeno.
«No, io… io sto bene, è… non sono io». Era agitato e scosso, non l’avevo mai visto in quello stato.
Si muoveva da un piede all’altro, guardandosi continuamente alle spalle, come
se temesse di essere seguito.
«Ryan, calmati, non riesco a capire quello che vuoi dirmi. Chi
si è fatto male?» domandai,
appoggiandogli una mano sul braccio e spaventandolo a morte; si ritrasse subito
dal mio tocco come se avesse sentito dolore.
«Io… ti prego, devi aiutarci. Non posso portarlo in ospedale e
non voglio lasciarlo morire, non posso. Tu sei un medico, no?» la sua voce si incrinò
leggermente, come se gli costasse fatica parlare. Lo guardai deglutire e
respirare a stento, un groppo a chiudergli la gola.
«Dov’è?»
domandai spaventata, correndo in camera a prendere l’occorrente per medicare.
Mentre prendevo la valigetta dall’armadio guardai le mie mani: stavano tremando
troppo. Cercai di respirare a fondo per calmarmi, ricordando che avevo medicato
Ryan e Dollar senza problemi, qualche giorno prima.
Sarebbe stata la stessa cosa, nessun brutto ricordo o altro,
solo una piccola ferita da curare o cucire.
«In cucina» bofonchiò Ryan, aprendo la porta
del suo appartamento.
«Fa male, cazzo» strillò una voce. Riuscii a
riconoscerla subito: era quella di Sick.
«Adesso
arriva la Doc». Dollar stava
cercando di rassicurarlo, assieme a tutti gli altri ragazzi in piedi attorno al
tavolo.
«Lasciatela passare» ordinò Ryan, spostando due
ragazzi malamente.
Vedere Sick disteso sul tavolo,
con i vestiti zuppi di sangue e un taglio che si estendeva lungo tutta la
coscia mi fece gelare il sangue nelle vene: c’era una scena troppo vivida tra i
miei ricordi, gli stessi che cercavo di scacciare e da cui ero scappata.
«Non… non posso. Mi dispiace». La valigetta mi sfuggì dalle mani e cominciai a
indietreggiare, incapace di distogliere lo sguardo dalla gamba insanguinata e
ferita.
«Sei un medico»
sibilò Ryan, indicando Sick, che cominciava a perdere le forze, parlando sempre
più lentamente.
«No, io… non ho la laurea, non… portatelo in ospedale» bofonchiai, sentendo gli occhi di
tutti puntati addosso a me. Cercai di cacciare indietro le lacrime che
minacciavano di uscire dai miei occhi; non volevo farmi vedere piangere da loro.
«Non ha l’assicurazione, non posso portarlo in ospedale. Fai qualcosa cazzo» urlò Ryan, portandosi una mano tra i capelli e sporcandoli di sangue.
«Non ce la faccio» piagnucolai, sentendo le prime lacrime scendere e
chiudendo gli occhi per non guardare di nuovo Sick.
Ero combattuta, una parte di me voleva reagire e
aiutarlo perché sapevo che avrei potuto salvarlo, l’altra, spaventata dai
fantasmi del passato, mi suggeriva di fuggire e dimenticare.
«Dove cazzo vai? E quel cazzo di
giuramento che fate voi fottuti medici?».
Ryan mi raggiunse in pochi passi, strattonandomi un braccio e rischiando di
farmi perdere l’equilibrio, tanto che sbattei contro il suo petto, lasciando
cadere altre lacrime.
«Ryan non ce la faccio…» mormorai, scuotendo lentamente il capo e tenendo lo
sguardo basso per non incrociare il suo o quello degli altri ragazzi che
cominciarono a borbottare sommessamente qualcosa.
«Lo lasci morire?» strillò ancora più forte, stringendo la presa sul mio
braccio così tanto che cominciò a farmi davvero male.
«Lasciami» ribattei, cercando di liberarmi dalla sua mano: il suo
sguardo mi faceva paura, per la prima volta Ryan sembrava veramente fuori di sé
e temevo che potesse ferirmi.
«Ryan, calmati». Brandon si avvicinò a lui, appoggiandogli una mano
sulla spalla. Lo sguardo che si scambiarono costrinse Ryan a lasciarmi
lentamente; mi ritrovai a muovere il braccio per cercare di far passare il
dolore.
«Deve curarlo, cazzo. Ha la
gamba tagliata a metà». Ryan era fuori di lui, continuava a gridare, incurante
degli sguardi che lo fissavano, impauriti e agitati.
«Non posso» insistei, socchiudendo di nuovo gli occhi per non guardare
Sick, disteso sul tavolo e ricoperto di sangue.
«Alexis, per favore, morirà». Brandon cercava di convincermi ad
aiutarlo ma non ci riuscivo, era più forte di me. Le mie mani stavano tremando
troppo e avevo paura di non saper e che fare una volta davanti alla gamba
ferita di Sick.
«Non può morire anche lui, cazzo». Ryan tirò un pugno contro il muro,
a qualche manciata di centimetri dal mio viso, tanto che non riuscii a
trattenere un urlo spaventato.
«Alexis, fa qualcosa» mi supplicò Brandon. Mi sembrò quasi di vedere i
suoi occhi lucidi, sotto lo sguardo da duro e gli zigomi insanguinati; per
questo non riuscivo a decidermi: una parte di me voleva davvero aiutare Sick,
lo volevo davvero.
Presi un respiro profondo, scacciando tutti i fantasmi del passato e
avvicinandomi al tavolo. Al mio movimento, tutti i ragazzi che erano rimasti
accanto a Sick indietreggiarono di qualche passo, lasciandomi libera di
muovermi davanti a lui, che imprecò, appoggiando la nuca sulla tavola.
«Cazzo Alexis, ti prego fa qualcosa perché fa male» farfugliò,
digrignando i denti per il dolore. Guardai subito la sua gamba, senza toccarlo:
i pantaloni erano lacerati lungo tutta la coscia ed erano tutti insanguinati.
Aveva perso tanto sangue, ci poteva essere il pericolo che con la coltellata si
fosse addirittura recisa l’arteria femorale.
Corsi velocemente alla valigetta, aprendola e prendendo un paio di
guanti blu che faticai a indossare: le mani mi tremavano e sentivo le lacrime
scorrere lungo le mie guance, ma dovevo concentrarmi su di lui e sulla sua
gamba. Era Sick, eravamo a New York. Los Angeles e tutto quello che era
successo lì non dovevano interferire con quello che stavo per fare.
«La vita privata fuori dalla sala operatoria» diceva sempre il
professor Burton durante il tirocinio. Dovevo lasciare i ricordi lontano da me.
«Non ho niente per anestetizzarlo. Mi… mi serve qualcosa di forte,
avete della vodka?» domandai, rivolta a Dollar che continuava a stare di fianco
a me, seguendo i miei movimenti. Annuì, raggiungendo un mobiletto poco distante
dal tavolo e prendendo un paio di bottiglie di vodka che mi passò. «Bevine un
po’» mormorai, allungando una delle due bottiglie verso Sick che cercò di
sollevarsi.
Il suo volto era diventato pallido e faticava a tenere gli occhi
aperti, sembrava sul punto di svenire: dovevo sbrigarmi se volevo salvarlo.
Presi una forbice e tagliai definitivamente i jeans, lasciandogli la
gamba scoperta per guardare la ferita. C’era tanto sangue, ma il taglio, anche
se esteso, non sembrava profondo tanto da aver intaccato l’arteria.
«Da quanto è successo?» domandai, imbevendo un batuffolo di cotone con
il disinfettante per cercare di pulire un po’ la ferita. L’odore pungente mi
raggiunse, calmando un po’ i miei nervi troppo tesi.
«Mezz’ora fa, forse meno, non lo so». La voce di Ryan non era molto
distante da me, ma sentivo i suoi passi, come se stesse camminando nervosamente
su e giù per la stanza.
«Mezz’ora?» domandai, stupita, alzando lo sguardo dalla gamba di Sick
per guardare Ryan.
«Sì, noi eravamo all’angolo e… poi siamo tornati indietro. Mezz’ora»
spiegò, massaggiandosi il mento e sporcandosi ancora di più di sangue. Mi
accorsi che la ferita sulla sua fronte continuava a sanguinare, ma Sick, con la
sua gamba, era più importante di Ryan, visto che sicuramente quello era solo un
taglio superficiale.
Tamponai la ferita facendo attenzione a non premere troppo il cotone
per non fargli male, Sick però continuava a bere vodka, imprecando sempre più
lentamente.
«Sick, stai fermo» borbottai, finendo di pulire la ferita e sospirando
sollevata: l’arteria femorale non era stata recisa; era solo un taglio profondo
che sarebbe guarito nel giro di qualche settimana, nonostante ci volessero molti
punti per ricucirlo alla perfezione. «L’arteria femorale non è recisa» spiegai,
prendendo del cotone pulito per sistemare la ferita.
«Cosa cazzo vuol dire?» sbottò Ryan, avvicinandosi a me di scatto. Fui
costretta a scostarmi, spaventata dalla sua reazione.
«Non è in pericolo di vita. Ha perso tanto sangue ma non c’è pericolo
che possa morire dissanguato, devo solo mettergli dei punti» spiegai, prendendo
la bottiglia di vodka tra le mani e preparandomi al peggio. «Sick, devo
disinfettarti perché non so con cosa sei stato ferito e potresti fare
infezione. Ti brucerà, bevi ancora» consigliai, svitando il tappo con mano
tremante e attendendo qualche secondo. Quando appoggiò la bottiglia, dopo
averne bevuto qualche sorso, cominciai a bagnare la sua ferita con la vodka.
«Cazzo! Brucia» urlò, conficcando le dita sul bordo del tavolo per non
muoversi.
Vederlo preda del dolore mi fece salire di nuovo le lacrime agli occhi;
lacrime che cominciarono a scendere lungo le mie guance. Cercai di asciugarle
contro la maglia che portavo, continuando a bagnare con l’alcool la sua gamba.
«Perché si sta addormentando?» domandò Ryan, indicando Sick che
faticava a tenere gli occhi aperti e aveva abbandonato la testa all’indietro.
«Sick! No, Sick! Devi rimanere sveglio. Sick, Sick mi senti? Sono
Alexis, devi rimanere sveglio» strillai, cominciando a schiaffeggiare il suo
viso perché non si addormentasse. Aprì gli occhi, accennando a un debole
sorriso, prima di far cadere la testa di lato. «Sick! Svegliati cazzo» urlai,
non pensando alle lacrime che continuavano a scendere dal mio viso, cadendo
sulle sue guance.
«Apri quei fottuti occhi o giuro che ti tolgo quel fottuto flag e ti
spedisco a calci in culo dai Misfitous» ringhiò Ryan, tirando un pugno sulla
spalla di Sick, che si lamentò con un grugnito.
«Mi hai fatto male, stronzo»
bofonchiò, muovendo appena le labbra.
«Hai sentito che cazzo ha detto? Apri i tuoi fottuti occhi. Non avrò
una figa, ma accontentati e guardami». La frase di Ryan fece ridere tutti i
ragazzi dietro di lui e non riuscii a non ridere tra le lacrime, pensando a
quella strana situazione.
«Ho voglia di una scopata» sbottò Sick, facendomi ridere di nuovo,
mentre cominciavo a ricucire la grossa ferita sulla sua gamba. Nonostante tutto,
sentire quella frase così volgare uscire dalle sue labbra mi fece sperare che
ce l’avrebbe fatta e che si sarebbe ripreso.
«Non sei nelle condizioni, ora» scherzò Ryan, prendendo una sedia lì
vicino e sedendosi poi di fianco a lui, per fargli compagnia. Quel gesto mi
intenerì: sembrava che Ryan fosse lì per dare forza a Sick, per dirgli di
continuare a parlare e non mollare, perché ce l’avrebbero fatta, assieme.
«Me lo devi. Ti ho salvato il culo». Sentivo la voce di Sick diventare
sempre più debole, ma non doveva mollare, non in quel momento.
Sick non doveva morire, no.
«Lo so, e per questo ti lascerò casa libera con due fighe, che ne
dici? Solo tu e loro due, dove vuoi» propose Ryan, lanciandomi uno sguardo
preoccupato perché Sick sembrava reagire sempre meno. Cercai di non fargli
capire quanto fossi sconvolta, concentrandomi di nuovo sulla ferita.
«Si-Sick? Perché non mi racconti di quel film porno? Quello con Stoya?».
Un pretesto stupido per farlo parlare, ma mi sembrava che potesse
funzionare. Solo poche ore prima l’avevo visto così felice di raccontare i
dettagli della sua attrice preferita; chissà, forse si sarebbe concentrato di
nuovo.
Aprì leggermente gli occhi, sorridendo con una smorfia di sofferenza e
toccando, lentamente, la spalla di Ryan: «L’ho detto che è una porca» tossì, muovendosi
appena. «Sei sicura? Non vorrei scandalizzarti» aggiunse, cercando di deglutire
con fatica.
«No, ci ho
ripensato, me lo racconta Ryan, così tu ti concentri e mi dici se fa degli
errori, ma devi stare attento Sick, d’accordo?». Sapevo che parlare era
difficile per lui e non volevo che si sforzasse troppo. Mi bastavano cinque
minuti di tempo, volevo solo finire di cucirgli il grosso taglio e poi l’avrei
lasciato riposare. «Bevi un altro po’ di vodka, qui farà male» mormorai,
fermandomi con ago e filo a mezz’aria, aspettando che bevesse di nuovo prima di
cucirgli la pelle martoriata vicino al fianco.
«Tu vuoi
ubriacarlo per poi trombarlo, non è vero?» scherzò Brandon, cercando di
alleggerire l’atmosfera.
«Mi avete
scoperta» ridacchiai, reggendo il gioco per riuscire a tenere Sick sveglio. La
situazione era talmente paradossale che non mi rendevo nemmeno conto di quello
che stavo dicendo. Volevo solo salvare Sick e curarlo.
«Non serve
ubriacarmi, lo faccio volentieri da sobrio e duro di più» biascicò, appoggiando
la bottiglia mezza vuota di fianco a lui. Cucii gli ultimi punti, tagliando il
filo e disinfettando la gamba prima di cominciare a fasciarla. Il peggio era
passato, Sick poteva riposare tranquillo, ora.
«Sick, perché non
ti riposi un po’?» lo tentai, alzandogli lentamente la gamba e facendoci girare
la garza bianca attorno. «Se ti fanno tanto male i punti me lo dici che cerco
qualcosa per farti passare il dolore, ok?» continuai, legando la garza e
fermandola con un cerotto. Sick annuì solamente, muovendosi con lentezza sopra il
tavolo come se stesse cercando di trovare una posizione comoda. «Se volete
sistemarlo su un letto o sul divano per farlo stare più comodo…» suggerii,
togliendomi i guanti e gettandoli in una busta di plastica che avevo dentro
alla borsa.
«Paul, John,
Brandon, aiutatemi» ordinò Ryan, sollevando le spalle di Sick dal tavolo mentre
gli altri ragazzi si avvicinavano per aiutarlo.
«Attenti alla
gamba, potrebbero saltare i punti» li avvertii, sporgendomi in avanti
istintivamente, mentre, tutti e quattro sollevavano Sick dal tavolo, lentamente.
Se avessero mosso Sick nel modo sbagliato di sicuro il taglio si sarebbe aperto
di nuovo, causandogli molto più dolore di quanto in realtà ne sentisse. Si
mossero con calma, avvicinandosi al divano e stendendolo sopra dolcemente.
Sentii Sick mugugnare qualcosa, ma ero quasi sicura che la vodka e il dolore
avessero fatto effetto. Si sarebbe svegliato entro un paio d’ore in preda alla
sofferenza a causa dei punti che tiravano e della ferita, ma ci avrei pensato
dopo a lui, prima c’erano gli altri.
«Grazie per
l’aiuto» proruppe Ryan, avvicinandosi a me, per poi andare verso il frigo, per
prendersi una birra. Si sedette su una sedia, ignorando il tavolo sporco di
sangue o i ragazzi attorno a lui, che lo guardavano in attesa di sentirlo
parlare.
«Fammi vedere la
tua fronte» sbuffai, prendendo un altro paio di guanti dalla valigetta e
avvicinandomi a lui. Ero scossa per quello che era appena successo, ma non mi
ero dimenticata di quel taglio sanguinante; avrei dovuto almeno tamponare e
mettere un cerotto.
«Non è niente» si
lamentò, scostandomi con un gesto infastidito e portando i piedi ad appoggiarsi
sopra alla tavola.
«Hai un taglio sulla fronte e hai perso sangue, visto che ho appena
cucito la gamba a Sick, credo di non scandalizzarmi per un piccolo taglio» gli
ricordai, infastidita, incrociando le braccia al petto e picchiando il piede
per terra in attesa di poterlo curare. Possibile che dovesse sempre comportarsi
da stronzo? Non riuscivo a capire se lo fosse davvero o facesse solo finta.
«Brandon, Dollar e Lebo sono messi peggio». Liquidò il mio tentativo
di curarlo, indicando i ragazzi dietro di me. Istintivamente mi voltai,
guardandoli uno a uno. Brandon sembrava quello messo peggio: aveva gli zigomi
insanguinati, ma mi sembrava di vedere solo un piccolo taglio sotto l’occhio
sinistro, Lebo aveva un labbro rotto e la maglia sporca dal sangue che era
colato dalla ferita, Dollar, invece, aveva solamente un occhio pesto.
«Fatemi vedere»
mormorai, avvicinandomi a Dollar per controllare. Tastai l’occhio attorno al
livido, per sentire se ci fosse qualche ematoma, ma non riuscivo a sentire
nessuna sacca di sangue. «Devi… ti serve questa. La spalmi anche domani mattina
e domani sera, ti verrà l’occhio ancora più nero, ma non dovresti avere
problemi» lo informai con professionalità e attenzione, prendendo una pomata
dalla valigetta e spalmandogliela attorno all’occhio.
Dollar continuava
a guardarmi in silenzio, senza dire nulla; seguiva i miei movimenti con
attenzione, socchiudendo appena gli occhi quando per sbaglio tastavo un punto
dolente con le dita. «Grazie Doc» ammiccò, quando finii di spalmargli la crema
e gli allungai il tubetto.
Risposi con un
timido sorriso, avvicinandomi a Lebo. Ero quasi sicura di non aver mai parlato
con lui, forse non l’avevo nemmeno mai visto; cercai di ricordare se, quando mi
ero svegliata sul loro divano dopo l’aggressione da parte dei Misfitous, ci
fosse stato anche lui, ma non riuscivo a ricordarlo.
«Non ti servono
punti» mormorai, prendendo un po’ di cotone per pulire la ferita. Era solamente
un piccolo taglio, che sanguinava a causa di un pugno, almeno credevo. «Tieni
il taglio pulito e cerca di non prendere pugni per una settimana, dovrebbe
guarire». Riuscii a scorgere un sorriso tra quelle labbra gonfie e, sospirando,
mi avvicinai a Brandon: di sicuro il suo zigomo sinistro era stato colpito più
volte, visto che, oltre al taglio sotto all’occhio c’erano anche diversi lividi
viola che segnavano la formazione di un ematoma. «Devi metterti la stessa crema
di Dollar sullo zigomo, ma per questo taglio non posso fare molto» spiegai,
prendendo un piccolo cerotto che potesse ricoprire il taglio, dopo averlo
pulito.
«Grazie Alexis,
non solo per questo» mormorò Brandon, mentre mi scostavo da lui. Risposi solo
con un accenno di sorriso, troppo stanca per formulare davvero una risposta.
Sentivo l’adrenalina che se ne stava andando e cominciavano a farmi male le
spalle. Succedeva sempre così dopo un intervento. L’averlo provato dopo
settimane, però, mi stupì: in qualche modo, la sensazione di aver salvato una
persona era sempre bella e mi faceva sentire importante.
«Ryan, vuoi che
rimaniamo qui con Sick?» chiese Brandon, dopo aver raggiunto Lebo e Dollar che
si stavano incamminando verso il corridoio. Solo in quel momento mi resi conto
che gli altri se ne erano andati, lasciandoci da soli.
«No, rimango io.
Andate a dormire ragazzi». Un ordine, ancora una volta. Brandon annuì, facendo
un gesto del capo prima di sparire con Lebo e Dollar dietro la porta di legno e
richiudendosela alle spalle.
«Fammi vedere».
Gettai di nuovo i guanti, sporchi dal sangue di Brandon, e, dopo averne indossato
un paio puliti, mi avvicinai a Ryan che sbuffò, alzando gli occhi al soffitto.
«Ti ho detto che
non è niente» sbottò, incrociando le braccia al petto, mentre gli scostavo i
capelli insanguinati dalla fronte per controllare il taglio: non sembrava
profondo, ma dovevo pulirlo e disinfettarlo.
«Sta fermo»
brontolai, tenendogli con una mano il capo e strofinando il cotone con l’altra.
Cercavo di fare attenzione per non fargli male, ma era difficile, visto che
continuava a lamentarsi, dicendo che non si era fatto male e che potevo
tornarmene a casa. «Riesci a stare zitto per cinque minuti?» mi lamentai, prendendo
il disinfettante e spruzzandolo sulla sua fronte. Quell’odore, così familiare,
mi stordì ancora una volta per qualche secondo, trasportandomi dall’altra parte
dell’America.
«Che c’è?»
domandò Ryan, riportandomi a Whittier Street e spaventandomi. Sussultai,
strofinando con troppa forza il cotone contro la sua ferita senza che però Ryan
si lamentasse.
«Cosa vi è
successo?» chiesi, prima ancora di rendermene conto, mentre applicavo il
cerotto sopra alla colla perché il taglio potesse cicatrizzarsi presto.
«Stavamo giocando
a morra cinese e tutti hanno scelto forbice» ironizzò, probabilmente perché non
voleva dire che cosa era realmente accaduto.
Finii di
sistemare il cerotto, mettendone uno più grande sopra perché la ferita potesse
rimanere pulita e poi, dopo aver preso un respiro profondo per calmarmi, decisi
di rispondergli: «Sai, Ryan, ho salvato la vita a Sick e ho cucito l’altra metà
di voi, credo che potresti almeno dire perché siete arrivati a casa a pezzi».
Ero arrabbiata e stanca. Stanca del suo comportamento e di tutto quello che era
successo in quelle ore. Quanto tempo era passato da quando ero entrata nel loro
appartamento?
«Lentiggini,
questo posto non è per te, se sapessi tutto quello che succede probabilmente
ritorneresti nella tua amata spiaggia di corsa». Sempre quel tono che sembrava
schernirmi; ero sicura che fosse apparso il solito ghigno sul suo viso, anche
se non potevo saperlo, visto che stavo riordinando la mia valigetta, mezza
vuota.
Dovevo assolutamente comprare cerotti, bende e disinfettanti. Avevo la
netta sensazione, che quella situazione non era stata un caso fortuito, ma che
per gli Eagles fosse normale routine.
«Perché non mi metti alla prova? » azzardai, sicura che mi avrebbe
risposto di no. Con una tranquillità che non possedevo, mi sedetti su una sedia
davanti a lui, senza appoggiarmi al tavolo ancora sporco di sangue.
«D’accordo»
sospirò, stupendomi. Prese un respiro profondo e cominciò a parlare, lo sguardo
a qualche isolato di distanza, «noi volevamo solo… rimarcare il territorio,
sai, no? La solita storia. Siamo andati all’incrocio di confine, sicuri di noi
e pronti a mostrarci forti contro i Misfitous. Insomma, avevo organizzato
tutto: Brandon e Sick a coprirmi le spalle e Lebo e Dollar a spingere il topo verso di noi. Gli altri
avrebbero semplicemente coperto la zona, come sempre. Abbiamo aspettato il
momento giusto, era da solo e non sembrava nemmeno tanto forte, il topo perfetto, no? Cazzo, deve essere
stato un Gonna-Be dei Misfitous, perché quando abbiamo cercato di prendergli il
portafogli ha tirato fuori un coltello, minacciandomi. Sono riuscito a tirarmi
indietro, ma non mi ero accorto che ne stava arrivando un altro. Sick l’ha
visto e mi ha difeso, ma si è preso una coltellata sulla gamba. Gli altri… io
li sentivo, ma quel fottuto bastardo non mi lasciava andare, così l’ho riempito
di pugni fino a quando non si è più mosso, ma era davvero troppo tardi e non ho
potuto fare niente. Abbiamo pareggiato i conti ma… è stata tutta colpa mia,
cazzo. Non avevo la lucidità necessaria» concluse, portandosi una mano sulla
testa e prendendo una sigaretta.
Solo alla fine
della sua storia mi accorsi di quando mi fossi immersa nel suo racconto:
pendevo dalle sue labbra e avevo milioni di domande che chiedevano risposte.
Cosa voleva dire
che dovevano spingere il topo verso
di loro? Perché volevano derubare l’uomo?
«Non provarci
nemmeno» sbottò, aspirando una boccata di fumo dalla sigaretta e producendo
subito dopo una nuvola grigia.
Mi allontanai un
po’, per non aspirare quell’odore sgradevole in modo così diretto e poi
domandai, confusa: «cosa?». Non dovevo provare a fare cosa?
«Non provare
nemmeno a cominciare con tutte le domande che ci sono nella tua testolina. Non
ti risponderò, ti ho già detto molto di più di quanto dovresti sapere. In fin
dei conti sei solo la nostra vicina, anche se hai salvato Sick» concluse,
guardando verso il divano, da dove provenivano dei lamenti.
Mi alzai
velocemente, raggiungendo Sick che si muoveva irrequieto, imprecando contro
qualcosa.
«Sick? Tutto
bene?» chiesi, accarezzandogli la fronte per cercare di calmarlo. Era tutto
sudato e continuava a stringere le mani a pugno.
«La gamba, fa male» riuscii a capire, tra un gemito di dolore e un
altro. Corsi fino alla mia valigetta, frugando dentro in cerca delle pastiglie che
ero sicura di aver messo nella tasca laterale. Ne presi un paio, avvicinandomi
di nuovo a Sick e portandogli una mano dietro alla nuca, per costringerlo ad
alzarsi un po’. «Prendi queste e cerca di riposare, i punti ti faranno male»
mormorai, mentre ingeriva le pillole con un gemito di dolore: si era spostato
sul divano e la gamba si era mossa. Appoggiò di nuovo il capo sul bracciolo,
chiudendo gli occhi e tornando a respirare lentamente. Si era addormentato, il
respiro regolare, ma il viso esprimeva sofferenza; lo capivo dal pallore e
dalle labbra contratte.
«Se non ti dispiace rimango qui, così se ha bisogno posso aiutarlo»
bofonchiai, coprendo Sick con una vecchia coperta logora che c’era sullo
schienale del divano.
«Come vuoi». Ryan fece spallucce, cominciando a camminare su e giù per
la stanza, senza però prestarmi attenzione. Mi avvicinai all’altro divano,
sedendomi di fianco al bracciolo e appoggiando il capo sullo schienale,
sospirando.
Avevo solo bisogno di chiudere gli occhi per un paio di secondi, solo
per poter organizzare le idee e sistemare i pensieri e i ricordi.
«Cazzo» imprecò qualcuno. Mi svegliai di soprassalto sentendo un
rumore sordo e vicino.
Mi misi a sedere, trovandomi avvolta in una vecchia coperta e cercando
di ricordare perché non fossi a letto. Mi guardai attorno, trovando Ryan
intento a fare qualcosa, davanti alla parete con le foto.
«Non volevo svegliarti» bisbigliò, la sigaretta tra le labbra,
continuando a tenere lo sguardo basso su qualcosa che aveva tra le mani. Mi
alzai dal divano, avvicinandomi a Sick per dargli un’occhiata. Portai una mano
sulla sua fronte per sentire se avesse la febbre ma non mi sembrava; così, per
sicurezza, appoggiai due dita al suo collo, all’altezza della carotide, per
controllare i battiti. Tutto sembrava normale; le pulsazioni erano regolari e
quindi non aveva febbre, sintomo mancante per un’infezione: Sick si stava
lentamente riprendendo.
«Cosa stai facendo?» borbottai, avvicinandomi a Ryan, ancora davanti
al muro con le loro foto. Aveva un nastro nero in mano e stava sistemando una
foto di uno dei ragazzi che il giorno prima mi aveva seguita. Perché stava
cambiando la cornice?
«Sistemo le cose, voglio che sia tutto apposto» mormorò, stringendo il
nastrino nero nell’angolo in basso a destra della foto. La cornice, assieme a
qualche altra raffigurante dei ragazzi che non avevo mai visto, era nera.
«Perché Shake e Liam hanno la cornice nera come questi? E perché quel
nast…». Non terminai la frase, capendo immediatamente quello che era successo
la sera prima. Ryan aveva detto che un ragazzo l’aveva trattenuto ed era
arrivato troppo tardi. «Sono… Liam e Shake sono…» mormorai, la voce spezzata
dal nodo che si era formato in gola.
«Promettevano bene, mi dispiace». Aspirò una nuova boccata di fumo,
sistemando anche la seconda foto sul muro, in basso. Perché la sua foto e
quella di Brandon era più in alto rispetto alle altre? Esisteva una sorta di
gerarchia? Chi era Ryan, il capo? E Brandon? «Comunque non preoccuparti,
abbiamo pareggiato i conti». Aprì un cassetto di un mobile non molto distante
dalla parete, lanciando le vecchie cornici dentro; poi, senza guardarmi, andò a
distendersi sul divano.
Pareggiato i
conti? Cosa significava? Erano forse morte anche delle persone dei Misfitous?
«È morto anche
qualcuno di loro?» domandai curiosa, avvicinandomi al divano, perché potesse
spiegarmi quello che era successo senza svegliare Sick o i ragazzi che stavano
dormendo nelle camere.
«Te l’ho detto,
abbiamo pareggiato i conti» ribatté, portandosi la sigaretta alle labbra per
fare un ultimo tiro prima di spegnerla contro la gamba del divano e gettare il
filtro per terra.
«Chi… chi avete
ucciso?» borbottai, spaventata dalla sua ammissione. Non era minimamente
turbato, sembrava non interessargli nemmeno l’aver ucciso delle persone.
Alzò il capo,
facendo in modo che i nostri sguardi si incontrassero per qualche secondo; poi,
dopo essere rimasto in silenzio come se stesse valutando cosa dire e non dire,
si decise a parlare: «Clifton e Hunter, non è stata una grossa perdita per
loro, suppongo. Avremmo potuto fare di meglio, ma c’era Sick che continuava a
urlare per il dolore e Shake e Liam erano a pochi metri da noi, non avevo la
lucidità per continuare». Per continuare.
Quindi Ryan non si sarebbe fermato a due omicidi, era questo che cercava di
dire? «Perché non volevi aiutare Sick?» domandò all’improvviso, scrutando
attentamente il mio volto.
Temevo quella
domanda, ma ancora di più la mia risposta, perché non sapevo cosa dire. Non mi
sentivo pronta per ricordare il passato, ma soprattutto non volevo.
«Non ti interessa»
tagliai corto, interrompendo il contatto visivo con Ryan e guardando la
sigaretta spenta che aveva lanciato poco distante da me.
«Fammi capire, io
devo dirti cosa è successo stasera e tu non vuoi dirmi perché volevi lasciar
morire Sick?» domandò, ironico.
Sospirai,
evitando di incontrare il suo sguardo e decisi che era giunto il momento di
andare. «Credo che andrò a dormire un po’, se Sick si sveglia o se c’è qualche
problema chiamami» dissi con una calma che non provavo affatto, alzandomi in
piedi e avvicinandomi a Sick, per controllarlo. Mi soffermai a guardare la sua
gamba bendata; fortunatamente il sangue non aveva superato anche la benda,
quindi ero riuscita a ricucire il taglio abbastanza bene. Dovevo solo sperare
che non facesse infezione nelle ore successive, o sarebbe dovuto correre
all’ospedale e probabilmente ci sarebbero stati dei problemi anche per me,
visto che l’avevo medicato all’infuori dell’ambiente sterile e senza nemmeno
una laurea.
«Quando ti svegli
passa di qua, andremo a trovarti un lavoro, te lo devo».
Sono
di frettissima…
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto e… niente, non so che dovevo dire ma volevo
pubblicare stasera e non domani…
Non
chiedetemi più l’amicizia ma iscrivetevi al gruppo che è sempre quello (Nerds’ corner).
Alla
prossima settimana e scusate per la brevità delle note.
Un
bacione.
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Capitolo 7 *** Broken Rib & Phoenix ***
YSM
L’adrenalina
scorreva dentro di me e la stanchezza non voleva nemmeno lontanamente
sfiorarmi. Sembrava un paradosso ma non riuscivo a dormire, non dopo tutto
quello che era successo. L’immagine della gamba di Sick, ricucita dalle mie
stesse mani, non ne voleva sapere di abbandonare la mia mente; perché ero stata
io, proprio io, Alexis Cooper, a ricucirlo. La piccola Lexi ce l’aveva fatta,
era riuscita a salvare Sick.
Ma, nonostante tutto, c’era quel maledetto mal di
testa che non mi permetteva di riposare, la sensazione di essere da sola lì, a
letto, in quella stanza buia e infestata dai fantasmi del passato. Dovevo
smetterla di pensarci, ma non era facile. Non quando le immagini delle ultime
ore continuavano a rincorrermi, ricordandomi cosa avevo abbandonato a Los Angeles, ma soprattutto perché.
Mi alzai sbuffando, dirigendomi verso il bagno per farmi una
doccia perché speravo di riuscire a rilassarmi un po’, sotto il getto dell’acqua
calda. Quando uscii da quella doccia che odiavo, quasi un’ora dopo, il mio
corpo era ancora ricoperto dalle chiazze rosse che l’acqua calda aveva creato;
avevo raccolto i capelli in una coda alta, anche se erano ancora umidi: era
giugno e non avevo nessuna voglia di usare il phon, nonostante a New York non
fosse caldo come a Los Angeles.
Indossai un paio di jeans e una maglia, pronta per andare a
controllare le condizioni di Sick. Erano le sette e mezza di mattina e speravo
che, nonostante fossi andata a letto dopo le tre, i ragazzi fossero svegli.
Bussai piano, sperando di non svegliare chi stava dormendo:
ero sicura che se c’era qualcuno di sveglio in cucina mi avrebbe sentita. Infatti,
pochi istanti dopo, la porta si aprì, facendomi intravedere il volto di Ryan.
Si era ripulito dal sangue sul viso e sui capelli, ma potevo vedere i suoi
occhi segnati da profonde occhiaie, come se non avesse dormito. Forse non
l’aveva fatto, esattamente come me.
«Ciao, posso entrare?»
bisbigliai, sicura che Sick fosse ancora addormentato sul divano. Ryan non
rispose, richiuse la porta, togliendo il catenaccio e invitandomi poi a entrare
con un gesto del capo.
La stanza era semibuia, quasi tutte le imposte erano chiuse e
la luce del giorno che filtrava dalle finestre era poca e concentrata quasi
tutta sul tavolo della cucina. Il salotto e i divani, con Sick sopra, erano in
penombra, grazie soprattutto a una lampada accesa poco distante.
«Si è svegliato molte volte?»
domandai, avvicinandomi al divano per controllare Sick: come pensavo stava
ancora dormendo, riuscivo a capirlo dal suo respiro regolare e dai suoi
lineamenti rilassati. Non sembrava nemmeno che stesse provando dolore, ma per
sicurezza porta una mano a sfiorargli la fronte, sentendola fresca: non aveva
la febbre e non era nemmeno sudato. Bene, il taglio non aveva fatto infezione.
«Abbastanza, parlava da solo di film porno, quindi credo
stia bene» sbottò ironico Ryan, portandosi una
mano sul fianco mentre si sedeva, lentamente, sulla sedia. Strano, mi sembrava
quasi di aver scorto una smorfia sul suo viso, mentre si muoveva. Prese una
sigaretta dalla tasca dei jeans, accendendosela e cominciando a fumarla, così
tornai a guardare Sick, ancora addormentato. Volevo controllare la ferita, per
sicurezza. Cercando di non muoverlo troppo spostai la coperta, lasciando la gamba
scoperta.
La fasciatura che gli avevo fatto qualche ora prima era
intatta, non era sporca di sangue e sembrava non essersi allentata, così,
sfiorandolo il meno possibile, cominciai a disfarla.
«Chi cazzo rompe?» mugugnò
Sick, portandosi un braccio davanti al viso perché la luce non lo infastidisse.
Quel suo gesto mi intenerì: sembrava quasi un bambino alla mattina. Lo vidi
sbirciare per controllare chi lo stesse infastidendo e uno strano sorriso si
disegnò sul suo volto stanco e provato. «Oh
ciao. Tocca dove vuoi» esordì, un po’ più
lucido e quasi divertito. Sì, sembrava che Sick stesse guarendo in fretta.
«Sto controllando la ferita»
specificai, attenta a non sfiorare la sua gamba: avevo dimenticato di prendere
un paio di guanti sterili e non volevo aumentare il rischio di infezioni.
Sembrava tutto apposto, anche i punti non sembravano aver fatto infezione,
così, lentamente, ricominciai ad avvolgere la garza, tenendo la sua gamba
sollevata senza però farlo affaticare.
«Cazzo,
sei davvero uguale a quella del film. Però mi è venuto
in mente che era James Dean che aveva fatto il film con la dottoressa,
quella
porca. Ma non sei tu, perché lei era bionda e aveva il culo
più grande del tuo». Si sistemò meglio contro il
bracciolo del divano per
essere più comodo, tanto che portò un braccio dietro alla
nuca, spostando la
gamba perché riuscissi a medicarlo meglio. «Dimmi,
Lexi, come mai questa notte ho sognato te? Mi chiedevi di raccontarti
di quel film porno con Stoya». Alla sua affermazione sussultai,
non sapendo che
rispondere. Non era stato un sogno, ma solo il mio stupido tentativo di
tenerlo
sveglio mentre lo medicavo. Come potevo dirgli che non era stato un
sogno? Ero
sicura che se gli avessi detto la verità, la situazione sarebbe
peggiorata.
«Non saprei…» mentii,
sperando che qualcuno – Ryan per
esempio, visto che era l’unica persona oltre a noi due presente in quella
stanza – non decidesse di fare l’idiota e spifferare ai quattro venti la
verità.
«Sai Sick…» cominciò
infatti lui, senza però riuscire a terminare la frase, visto che Dollar e
Brandon entrarono in cucina, sbadigliando rumorosamente e stiracchiandosi. Si
avvicinarono a Sick, tirandogli una pacca sulla spalla e sorridendo nel vederlo
sveglio; poi, senza nemmeno salutarmi, si accomodarono sull’altro divano,
accendendosi una sigaretta.
«Allora? Come stai?» chiese
Dollar, ammiccando verso di me. Era comico: l’occhio che gli avevo medicato la
sera prima, a causa della pomata che gli avevo dato, era diventato ancora più
nero, facendo risaltare il verde dei suoi occhi.
Dopo aver finito di sistemare la fasciatura di Sick, mi
allontanai dal divano, evitando di ascoltare quello che si stavano dicendo:
raccontavano quello che era successo la sera prima, ricordando a Sick quello
che aveva fatto visto che, probabilmente a causa del dolore, i suoi ricordi
erano confusi.
«Così,
insomma, io mi sono preso una coltellata per Ryan?» ghignò
a un certo punto, sollevandosi a fatica sul divano
per cercare di guardare Ryan che era ancora seduto sulla sedia.
Mi sembrò quasi strano, visto che non commentò con nessuna
battuta alla domanda di Sick, ma si limitò solo a sorridere, rimanendo seduto.
Quel comportamento sorprese anche i ragazzi, che si zittirono per qualche
istante, fino a quando Brandon, fingendo di andare a prendere qualcosa in
frigo, si avvicinò a Ryan per chiedergli qualcosa che però non riuscii a
capire, a causa degli schiamazzi di Sick e Dollar che stavano imitando non
avevo ben capito chi.
Non ero riuscita a sentire cosa si erano detti inizialmente,
ma sembrava che, qualsiasi cosa fosse, avesse irritato parecchio Brandon che
continuava a ringhiare contro Ryan: «Devi dirle la verità». Gli
puntava l’indice contro il viso, sovrastandolo, visto che era in piedi davanti
a lui.
«Sta zitto, cazzo» sbottò
Ryan, massaggiandosi il viso con una mano. Il suo sguardo si fermò per qualche istante su
di me, per poi spostarsi su Dollar che stava ancora scherzando con Sick che non
riuscivo a vedere, ma che però sentivo: stava
deridendo Dollar avrebbe dovuto vedersi con Butterfly quella sera.
«Come
vuoi» tagliò corto
Brandon, prendendo un contenitore di latte dal frigo e cominciando a
bere senza
nemmeno prendersi un bicchiere. Dovevo ricordarmi di non chiedere mai
del latte
a loro, se non volevo trovarmi con strane sorprese sul contenitore.
«Io e Dollar andiamo a prendere le sigarette, a dopo».
Brandon diede una pacca sulla spalla di Ryan che imprecò,
spaventandomi.
«Cazzo, sei un coglione».
Un urlo, ecco che cosa era stato. Dollar e Sick smisero di parlare, attirati
dal tono di voce alto di Ryan. Vidi Sick cercare di alzarsi dal divano per
poter vedere che cosa stesse succedendo, senza però riuscirci perché
probabilmente i punti gli facevano male e non riusciva a muoversi molto.
«Scusa
Ryan, non mi sono più ricordato che hai male…». Il
ghigno sul volto di Brandon sembrava quasi schernirlo,
come se volutamente gli avesse mollato quella pacca.
«Dove hai male?» chiesi
istintivamente, attirata dalle parole di Brandon che finse stupore, portandosi
la mano davanti alle labbra, come se avesse appena svelato un segreto
inconfessabile.
«Scusami
Ryan, non dovevo proprio darti quella pacca sulla
spalla. Vieni Doll, andiamo a prendere le sigarette, a dopo Sick. Ciao
Lexi». Ammiccò verso di me, senza che Ryan lo vedesse, e
poi,
assieme a Dollar, uscì, richiudendosi la porta alle spalle.
Nella
stanza calò un improvviso silenzio, rotto solamente dal
respiro pesante di Ryan, che aveva i pugni stretti sopra al tavolo,
come se
fosse arrabbiato e stesse cercando di trattenersi. Mi avvicinai a lui
con
calma, quasi per non spaventarlo con movimenti bruschi e, una volta
giuntagli
davanti, tornai a ripetere la mia domanda: «Dove ti fa
male?». Speravo che non facesse lo stupido come il suo solito,
rispondendomi che non aveva male da nessuna parte e che non era nulla.
Sapevo
che quella sarebbe stata una bugia; un dolore avrebbe spiegato il suo
strano
comportamento di quella mattina, il suo rimanere sempre seduto sulla
sedia
senza intervenire troppo durante i nostri discorsi.
«Non è niente» sbottò, rimanendo
comunque seduto. Non mi stava nemmeno guardando, il suo sguardo era fisso alla
finestra che lasciava entrare un po’ di luce. Sentii un movimento provenire dal
divano: probabilmente era Sick che cercava di vedere che cosa stesse
succedendo, senza però riuscirci.
«Posso dirlo io, visto che sono un medico?» domandai, senza attendere veramente una risposta. Mi
aspettavo piuttosto un suo sbuffo infastidito e poi il suo spiegarmi dove aveva
male, invece Ryan si degnò solamente di spostare il suo sguardo su di me,
ironico.
«Mi sembrava avessi detto che non eri un medico, poche ore
fa». Quel ghigno mi urtò i nervi, tanto che
strinsi i pugni tenendo le braccia tese contro i fianchi e cercai di respirare
lentamente per non rispondergli a tono.
«Cosa? Non sei un medico? E chi cazzo mi ha cucito la gamba,
una pornostar?» strillò Sick, cercando di
attirare l’attenzione su di lui, nonostante non potessimo vederlo. Non lo
ascoltai nemmeno, arrabbiata com’ero con Ryan che non voleva dirmi cosa lo
facesse stare male.
«Non posso operare, ma so curare» puntualizzai, ancora in attesa di un suo movimento. Che
avesse male a una gamba, visto che era rimasto seduto tutto il tempo? No, non
poteva essere, mi aveva aperto la porta e poi si era andato a sedere, senza
zoppicare. Doveva essere qualcosa che faceva male muovendosi troppo, qualcosa
che…
«Che due coglioni, Brandon è una testa di cazzo. Non è
niente, mi fa male qui». Si indicò all’altezza
delle coste, sul lato sinistro del corpo. Coste, poteva anche essersene
rotta una o più, visto che aveva lottato la sera prima. Ricordando lo zigomo di
Brandon capii che la situazione poteva essere molto più seria di quello che
Ryan voleva farmi credere.
«Fammi vedere, potresti esserti rotto o inclinato qualche costa» cercai di spiegargli, avvicinandomi
di un passo a lui per guardare meglio.
Ryan alzò gli occhi al soffitto, prima di spostare la sedia e
alzarsi in piedi sbuffando, per rimarcare che non gli faceva piacere che lo
visitassi. Non piaceva nemmeno a me farlo, ma non volevo rimanere con il dubbio
di Ryan con una costa rotta. Non appena rimase immobile davanti a me, con le
braccia lungo i fianchi, alzai lo sguardo per incontrare il suo, parecchi
centimetri più su.
«Qualcuno mi può spiegare che succede?» si lamentò Sick, cercando di attirare l’attenzione su di
lui, ancora disteso sul divano e incapace di vederci. Non risposi, guardando
Ryan che aspettava una mia mossa.
«Devi toglierti la maglia».
Con un gesto stupido indicai la maglietta blu che portava. Come potevo
visitarlo e capire se aveva una costa rotta con la maglia? Ryan sembrò
infastidito, ma obbedì, gemendo per il dolore quando cominciò a sfilarsela
lentamente.
«Perché
deve togliersi la maglia? Che cosa state facendo?». Di nuovo
Sick, che chiedeva spiegazioni senza essere
nemmeno ascoltato. Un po’ mi dispiaceva, ma non riuscivo a
rispondergli, non
con il corpo di Ryan mezzo nudo davanti.
Il suo torace era ricoperto da diversi tatuaggi, il più
grande raffigurava un’aquila ad ali spiegate che stringeva una bandiera
americana, disegnato proprio sopra al cuore. Lungo le braccia c’erano altri
tatuaggi che non avevo mai notato, come quello sul bicipite sinistro con un albero
e un bambino, chiaro riferimento a The
giving tree, una storia che conoscevo molto bene. A contornare quei disegni
c’erano cicatrici più o meno grandi, alcune più rosse –quindi più recenti – e
altre più vecchie. Spostai lo sguardo sul suo fianco, all’altezza del punto che
aveva segnato sopra alla maglia: c’era un grande ematoma scuro che mi fece
rabbrividire. Poteva indicare due cose: o si era inclinato una costa o se
l’era rotta.
«Adesso ti tasto un po’, se ti fa male dimmelo» mormorai, schiarendomi la voce e spostandomi nervosamente
un ciuffo di capelli dal viso. Non appena sfiorai con i polpastrelli la sua
pelle liscia, Ryan rabbrividì, gemendo. «Ti ho
fatto male?» domandai preoccupata, alzando il
viso per guardarlo.
«Hai le mani gelate, cazzo»
sibilò,
ammonendomi con lo sguardo e accigliandosi. Stavo per ribattere, con molta
ironia, che stavo proprio per scusarmi a causa
delle mie mani fredde, ma Sick parlò di nuovo.
«Che
cosa sta succedendo? Perché l’hai fatto spogliare e
adesso lui ha detto che hai le mani fredde? Ragazzi, se state facendo
qualcosa
di porno voglio vedere anche io, perché potrei risparmiare tutti
i soldi
dell’abbonamento della TV via cavo, anzi, se volete avvicinarvi
un po’ a me…» propose, mentre lo sentivo muoversi
nel divano.
Quando capii il disguido che c’era stato con Sick cominciai a
ridere nervosamente, portandomi una mano
davanti alle labbra per non ghignare troppo rumorosamente. Ryan però non riuscì
a trattenersi e mi seguì, appoggiandosi al tavolo con entrambe le mani,
probabilmente perché gli faceva male la costa.
«Che
c’è? Qualche posizione strana che fa ridere? Ditemi, che
sono in ansia». Una nota isterica nella voce proveniente dal
divano che
mi fece ridere ancora più forte. Sick era assolutamente una
persona pazza e, forse, addirittura la più malata di sesso che io avessi mai
conosciuto. Il sesso era il suo unico pensiero fisso. E lo dimostrava anche con
una gamba suturata con più di venti punti.
«Girati, devo vedere anche dietro» mormorai, indietreggiando di un passo e cercando di
ritornare seria senza prestare attenzione a Sick, che continuava a chiedere
cosa stesse succedendo, avido di particolari piccanti.
Quando Ryan mi diede le spalle, trattenni il respiro per la
sorpresa: se ero rimasta stupita dall’aquila che c’era tatuata sopra al cuore,
non potevo non esserlo per quella che gli decorava la schiena. Era talmente
grande che partiva dalle scapole e arrivava fino alla vita. Un’aquila
appollaiata su un ramo, con la bandiera americana avvolta attorno al corpo. Di
nuovo un’aquila. Eagle.
Cercai di non guardare nemmeno le due profonde cicatrici che
c’erano all’altezza della vita, sicura che se le fosse procurate durante
qualche rissa. La mia attenzione si soffermò però su una cicatrice a forma di
cerchio, poco sotto la scapola destra. Istintivamente alzai il braccio per
sfiorarla, alzandomi in punta di piedi per controllare meglio. Sembrava… sembrava
una cicatrice dovuta a un colpo d’arma da fuoco.
«Allora?» domandò Ryan,
inarcando leggermente la schiena perché non sfiorassi ancora la cicatrice. Si
voltò appena con il viso, per guardarmi e io abbassai lo sguardo, imbarazzata.
Mi sembrava di essere stata scoperta durante una marachella, come se non avessi
dovuto guardare. In verità era una cosa stupida vergognarsi, ma sapevo che Ryan
mi aveva chiesto – perché costretto – di
controllare solo il suo fianco.
«Perché gli hai chiesto di farti vedere il culo? Sono sempre
stato convinto che Ryan fosse fornito». Alla
domanda di Sick sussultai spaventata: mi ero dimenticata che c’era anche lui,
ma non mi degnai di rispondergli ancora una volta, impegnata com’ero a guardare
il fianco di Ryan, marchiato da una botta nera.
«Se ti fa male dimmelo, cercherò di fare piano» mormorai, portando le mani una davanti e una dietro il suo
fianco e premendo appena per sentire se ci fosse qualche costa rotta.
«Cazzo» si lamentò subito
Ryan, non appena lo sfiorai. Forse la situazione era molto più seria, magari si
era davvero rotto qualche costa e non solo incrinata.
«Ryan,
andiamo, resisti! Non fare brutta figura proprio con
me davanti! Forza Lexi, fammi sentire cosa è capace di fare una
californiana». Non l’avevo nemmeno ascoltato, ma Ryan
probabilmente sì,
perché esplose, appoggiandosi contro al tavolo a causa del
dolore.
«Chiudi quella cazzo di bocca, Sick. Sta guardando se ho
qualche costa rotta» ribatté, talmente
arrabbiato che mi spaventai e tolsi le mani dal suo busto.
Sick non rispose, non sentivo nemmeno il suo respiro,
probabilmente si era reso conto del suo errore e non aveva nemmeno il coraggio
di parlare per scusarsi.
«Prova
a tossire, se ti fa male probabilmente c’è qualcosa»
spiegai a Ryan, portando di nuovo le mani all’altezza del
fianco e premendo un po’ di più. Sapevo che, di sicuro,
gli avrebbe fatto male,
ma dovevo capire se c’era solo una costa incrinata o se si era
rotto qualcosa. Quando Ryan tossì,
fortunatamente, non riuscii a sentire niente spostarsi, quindi non
c’era niente
di rotto. «Ti fa male?» domandai, allentando un po’
la pressione delle mie dita.
«Sì, cazzo» sibilò lui,
digrignando i denti per il dolore e stringendo i pugni lungo i fianchi. Cercava
di non far vedere quanto stesse soffrendo, anche se in verità la costa gli
doleva molto.
«Non
hai coste rotte, credo ce ne sia solamente una di incrinata, questa la
senti?». Premetti un po’ di più, all’altezza
della botta nera che
c’era sul suo fianco. Ryan gemette, inarcandosi sotto le mie mani.
«Sì cazzo, la sento, smettila di farmi male» grugnì, facendomi ridere. Sembrava improvvisamente che il
grande e grosso Ryan avesse male, così male da dimostrarsi debole per una
volta. Era sbagliato e antiprofessionale ed ero quasi sicura che se avessi
fatto una cosa così dentro all’ospedale avrebbero anche potuto togliermi
dall’albo dei medici, ma io nemmeno ero iscritta e la situazione non si sarebbe
ripetuta presto.
«Devo
controllare meglio»
borbottai, cercando di non ridere. Schiacciai un po’ più
forte il suo fianco,
sentendo di nuovo i muscoli della sua schiena tendersi e un lamento che
faticò
a trattenere. Non c’era bisogno di controllare, ma mi aveva presa
in giro
talmente tante volte che non mi sentivo nemmeno in colpa per quello che
stavo
facendo. «Sì»
finsi, schiacciando un’ultima volta, «credo
proprio che non sia rotta ma solamente incrinata. Devi stare a riposo
ed evitare risse per qualche
settimana, Ryan. Dovrei anche fasciarti, se vuoi guarire prima».
Stavo già camminando verso la porta per andare a prendere
l’occorrente, senza che Ryan mi dicesse che voleva guarire il
prima possibile.
Ero quasi sicura che picchiare per lui fosse importante tanto quanto
respirare;
forse di più, vista la frequenza con cui l’avevo visto con
il volto ricoperto
da lividi.
Dopo aver preso una garza e qualche cerotto, tornai nel loro
appartamento, trovando Ryan esattamente nello stesso punto in cui era pochi
minuti prima; non avevo controllato, ma sicuramente Sick era ancora disteso sul
divano, sbuffante perché non riusciva a vedere che cosa stesse succedendo.
«Devo stringerla per tenere fermo il busto, ma tu devi
riuscire a respirare, ok?». Iniziai ad
avvolgere la fascia attorno al suo busto, girandogli intorno per non farlo
muovere: l’avevo torturato anche troppo. Terminai di sistemargli la garza,
fermandola con un cerotto e assicurandomi che non fosse troppo stretta. «Ti dà fastidio?» domandai,
alzando lo sguardo per accertarmi che non mi stesse mentendo per farsi vedere
forte.
«No». Cercò di muoversi,
per capire quanto gli dolesse la costa, ma sembrava abbastanza soddisfatto,
fino a quando non prese tra le mani la maglia, per potersi rivestire: la
fasciatura gli impediva di alzare troppo il braccio e non riusciva a infilarsi
la t-shirt.
«Aspetta, siediti che così ti aiuto» proposi, prendendo la maglia dalle sue mani e indicandogli
la sedia. Ryan si sedette senza protestare, rimanendo in silenzio mentre
aspettavo che infilasse un braccio dentro alla manica della maglia e lo aiutavo
a infilare l’altro. Ci trovarono così, Dollar e Brandon, quando rientrarono:
sentii la porta aprirsi, lasciando subito dopo spazio a uno scoppio di risa che
mi fece voltare verso di loro, incuriosita. Brandon e Dollar ci stavano
additando, mentre cercavano di parlarsi, tra una risata e l’altra.
«Che-che cosa è successo, qui dentro?» domandò Dollar, appoggiandosi alla spalla di Brandon per
non cadere. Sembrava avessero visto qualcosa di divertente, perché non li avevo
mai visti ridere così.
«Cosa succede?». Di nuovo
Sick, che si faceva sentire ancora, dopo interminabili – per lui –momenti di
silenzio.
«Alexis sta rivestendo Ryan, come se fosse un bambino. Il
nostro piccolo Ryanuccio» commentò sarcastico
Brandon, mentre Ryan prendeva l’accendino che c’era sopra al tavolo e lo
scagliava verso di lui in un chiaro invito a smettere di prenderlo in giro.
«Cazzo, lo sapevo. Hanno fatto sesso a pochi metri da me,
ragazzi siete stati troppo poco rumorosi» si
lamentò Sick, irritandomi. Quante volte dovevamo dirgli che non avevamo fatto
sesso ma che lo stavo semplicemente medicando?
«Sick, cavolo! Ha una costa inclinata, non ho fatto sesso
con lui» sbraitai, fuori di me. Speravo che,
sentendo la mia voce potesse capire che non era successo niente. Mi ero anche
avvicinata a lui perché potesse guardarmi in viso: ero io, senza capelli arruffati,
viso arrossato o altri segni di attività fisica.
«Sì… come volete». Sick mi
stava semplicemente dando ragione per zittirmi, per
questo decisi di non continuare, sicura che
non avrebbe cambiato idea per nessuna ragione al mondo. Ecco una nuova qualità
di Sick, da aggiungere alla lista dopo malato di sesso e volgare: testardo,
come un mulo.
«Andiamo a trovarti questo lavoro. Brandon, vieni con me.
Tu, Dollar, ascolterai tutto quello che ti dice di fare Sick e lo farai fare
agli altri, comanda lui, d’accordo?» ordinò
Ryan, con tutta l’intenzione di chiudere il discorso che aveva cominciato Sick.
Dollar annuì, avvicinandosi al divano con Sick disteso sopra e sedendosi di
fianco a lui, in attesa di ordini. «Muovetevi». Ryan guardò prima me e dopo Brandon, indicando la porta
con un gesto del capo.
Dovevamo uscire in quel momento per andare a cercarmi un
lavoro? Brandon si avvicinò alla porta senza dire una parola e decisi di seguire il
suo esempio, prima di sentire Ryan ringhiare qualche ordine per costringermi a
seguirlo. Volevano trovarmi un lavoro? Bene, sfida accettata.
«Dove andiamo?» chiesi, una
volta usciti dallo stabile. Nessuno dei due mi rispose, voltarono solamente a
destra, in direzione di Randall Ave. Con un ghigno soddisfatto mi preparai a
fare la mia battuta in tono saccente, ricordandogli che il MoGridder era
solamente un camioncino, ma, con mia grande sorpresa, svoltarono a sinistra,
nella direzione opposta. Nessuno dei due parlava, camminavano fianco a fianco,
fumando, senza pensare di rallentare il passo per evitare che corressi: non
riuscivo infatti a rimanere di fianco a loro.
«Questo è il Phoenix. Tu lavorerai qui. È vicino a casa e
non ci sono Misfitous da queste parti» spiegò
Ryan, indicando una porta di vetro ricoperta da fogli di giornale. Posto
allettante, insomma, visto che nemmeno riuscivo a vederci dentro.
«Forse dovrei prima fare un colloquio, no?». Non ne ero sicura, ma di solito anche per fare le
cameriere ci voleva un minimo di esperienza, che io non avevo.
«John è un nostro amico» mi
spiegò pazientemente Brandon, mentre Ryan entrava nel locale, senza nemmeno
tenere la porta aperta per farmi entrare. Riuscii a non prendere la maniglia
sullo stomaco grazie a Brandon che allungò il braccio, tenendola aperta. Bene,
come inizio non era per niente male.
«Lei è Alexis e lavorerà qui»
esordì Ryan, indicandomi. Gli occhi di tutti i presenti si posarono su di me,
mentre un silenzio imbarazzante calava nel piccolo locale.
«Ryan,
io… noi non abbiamo bisogno di cameriere» squittì
un ometto piccolo e magro. Sembrava quello che più –
secondo
la mia idea – si avvicinava a una persona viscida. Le voci
cominciarono a
borbottare, indicando prima Ryan e poi me. Mi sentivo al centro
dell’attenzione, proprio l’ultimo posto in cui volevo
stare; cercai perciò di
nascondermi dietro a Brandon, che mi sorrise per tranquillizzarmi.
«Lei si chiama Alexis e lavorerà qui» ribatté Ryan, con la voce che di solito usava per dare
ordini ai ragazzi. L’omino indietreggiò, tamponandosi, con lo straccio che
aveva in mano, la fronte imperlata di sudore e diventando, se possibile, ancora
più piccolo. Incrociò il mio sguardo, quasi disprezzandomi, poi si rivolse a
Ryan che sembrava quasi stanco di rimanere in quel posto.
«Se lavora qui i nostri patti cambiano?». Il suo tono di voce sembrava davvero uno squittio in
confronto a quello di Ryan, così roco e basso. Cercai di avvicinarmi a loro,
per farmi conoscere da quel nuovo e strano capo
che sembrava provare antipatia per me, nonostante non mi avesse mai parlato,
così, per sembrare un po’ più simpatica e disposta a lavorare per lui, sorrisi,
cercando di risultare il più naturale possibile.
«No,
lei lavorerà per te e non cambierà niente»
tagliò corto Ryan, dando le spalle al barista e uscendo
poco dopo, seguito da Brandon. Non sapevo quando avrei cominciato e
soprattutto
se dovevo solamente servire un paio di birre al tavolo.
«Buongiorno, mi chiamo Alexis, come ha detto Ryan». Tesi il braccio per sembrare più professionale
presentandomi con una stretta di mano,
ma l’omino, che sembrava tanto spaventato da Ryan, cambiò improvvisamente
sguardo, spaventandomi.
«Mi
chiamo John. Lavorerai qui tutti i giorni, per dieci
ore. Non mi interessa quali turni farai, c’è sempre
bisogno. La paga non è
garantita ogni mese, e non voglio che Ryan sappia questa cosa. Quando
avrò i
soldi, te li darò. Non fare domande e non istigare risse tra i
clienti. Se
vogliono ubriacarsi lasciali fare. Una sola domanda, di chi sei la
Signora?» concluse, lanciandomi addosso, in malo modo, un
grembiule
macchiato di birra e vino. Il mio sguardo doveva esprimere tutta la mia
confusione; dov’era andato l’uomo spaventato che squittiva
a ogni ordine dato
da Ryan? Perché si era trasformato in un autoritario e stronzo
che avrei
volentieri preso a pugni?
«No, sono la loro vicina»
spiegai, ricordando che una volta avevo sentito Ryan parlare di Butterfly e
dire che lei si sentiva una Signora, pur non essendolo. Quindi, il mio nuovo
capo, mi stava accusando di andare a letto con qualcuno degli Eagles?
«Sì, la loro vicina, certo. Di chi sei la Signora? Non li ho
mai visti così verso qualcuno» rimbeccò,
tamburellando impaziente con le dita sul bancone. Non sapevo se mettermi a
ridere o se spiegargli, ancora una volta, che non ero la Signora di nessuno, ma semplicemente
la loro vicina. Mi soffermai a guardarlo in viso, in quegli occhi chiari che
non avevano niente di rassicurante; i capelli neri, decisamente sporchi, erano
appiattiti lungo la fronte e le tempie, arrivando a sfiorare le sopracciglia
folte.
«Sono la loro vicina, mi hanno solamente aiutata a trovare
lavoro. Un favore, ecco». Così doveva essere più
chiaro per lui, visto che avevo specificato che Ryan mi aveva condotta al
Phoenix solo perché gli avevo fatto un favore. John però non sembrò soddisfatto,
perché sbuffò, ghignando in modo quasi maligno.
«Gli Eagles non fanno favori a nessuno, si fanno pagare per
tutto. Se tu sei la loro vicina, dove abiti?»
si informò, cominciando a riempire di birra dei boccali e indicandomi il
lavello poco distante, pieno di bicchieri sporchi. Cominciai a risciacquarne un
paio, sotto al suo sguardo indagatore. Non volevo rispondere perché non
riuscivo a capire perché avrebbe dovuto cambiare idea sapendo il mio indirizzo;
era pur sempre il mio nuovo capo e quindi non potevo fare brutta figura.
«Abito nello stesso palazzo di Ryan e dei ragazzi, sono
all’interno C». In fin dei conti Ryan mi aveva
fatto capire che John era uno degli Eagles, forse non un Hard-Cores, ma uno di
quelli che si dichiarava Eagles per protezione: un Perhiperal, probabilmente.
«Bene. Allora se è vero che non sei la Signora di nessuno,
se vengo a sapere che hai detto a Ryan o a qualche altro che non ti pagherò
ogni mese o altro, sappi che ti licenzierò, e non potrò più riassumerti, visto
che sarò morto. Tu stai zitta e fingi di prendere lo stipendio ogni mese e noi
ci facciamo vedere tutti contenti ogni volta che un Eagle entra da quella
porta, intesi?». Mi guardò con uno sguardo che
mi spaventò e mi ritrovai ad annuire prima ancora di rendermene conto.
John non era un omino impaurito che non sapeva che fare; lui
aveva solo paura di Ryan, ma aveva trovato lo stesso il modo per minacciarmi.
Ok, non mi avrebbe pagata regolarmente, ma con i soldi che mi ero portata da
casa potevo pagarmi i primi due mesi di affitto, poi mi avrebbe pagata e sarei
riuscita comunque a mettere da parte un po’ di soldi. In fin dei conti il mio
stile di vita non era così costoso, solo qualche libro ogni tanto oltre alla
spesa.
«Finirai il turno stasera
alle sette. Non un minuto prima» specificò,
prima di andare da due ragazzi, seduti ad un tavolo lì vicino, e cominciare a
parlare, probabilmente di me: continuavano a indicarmi e a sogghignare, come se
avessi qualcosa fuori posto. Cercai di sistemarmi i capelli, lisciando anche le
pieghe di quell’uniforme sudicia di birra che mi aveva dato qualche minuto
prima, ma le loro risate non terminarono fino a quando, un paio di ore dopo,
uscirono dal locale, salutando John con una pacca sulla spalla.
Il tempo dentro al Phoenix sembrava non
trascorrere mai, era come ripetere le stesse azioni di continuo: prendere nota
del numero delle birre, correre a spinarle, portarle al tavolo e ritornare al
lavello con dei bicchieri sporchi da lavare. Per questo, quando il grande
orologio appeso al muro annunciò che erano le sette di sera, sospirai
sollevata: era il mio primo giorno di lavoro e mi ero impegnata al massimo per
non fare disastri, sapere che ci ero riuscita mi sollevava il morale.
«John, io… io avrei finito il turno» bofonchiai, avvicinandomi a lui, mentre scherzava,
sorridente, con Aria, l’altra cameriera. Avevo provato a parlarci e sembrava
anche simpatica, quando però, dopo che mi aveva chiesto come ero stata assunta
al Phoenix, le avevo spiegato che ero la vicina dei ragazzi, si era leggermente
alterata e non mi aveva più parlato. Un po’ mi dispiaceva, visto che sembrava
simpatica.
«Vattene» sbottò John,
girandomi le spalle e ricominciando a parlare con Aria. Lei mi sorrise, facendo
un gesto con la mano per salutarmi; almeno, dentro quel buco di locale, c’era
qualcuno gentile.
Appesi il grembiule con la piccola fenice disegnata sulla
tasca anteriore all’attaccapanni vicino al retro del locale e uscii,
respirando l’aria fresca di New York, come avessi trattenuto il respiro per ore:
dentro a quel locale, infatti, c’era una puzza di fumo che raggiungeva i
livelli del salone dell’appartamento di Ryan. A quel pensiero cominciai a
camminare verso casa lentamente; ero così stanca che ogni passo mi costava
sempre più fatica e non vedevo l’ora di arrivare in camera mia per poter
dormire un po’, visto che quella notte, a causa della gamba di Sick e dei
fantasmi del passato, non ero riuscita a dormire nemmeno per dieci minuti.
Salii le scale per arrivare al mio appartamento quasi
strisciando i piedi a causa della stanchezza, continuavo a rallentare il passo,
sicura che non sarei riuscita ad arrivare nemmeno al divano, provata com’ero.
Presi le chiavi dalla borsa per aprire la porta, ma mi accorsi che era
socchiusa.
Strano, ero sicura di aver chiuso la porta quella mattina,
prima di andare a medicare Sick, e l’avevo richiusa anche quando ero ritornata
a prendere la benda per Ryan. Che fossero stati i ragazzi? Magari erano entrati
perché gli serviva qualcosa e non l’avevano richiusa; in fin dei conti quando
Sick e Dollar avevano fatto la spesa per me, erano entrati in casa scassinando
la porta e poi richiudendola, forse si erano semplicemente dimenticati di
farlo.
Aprii l’uscio, sgranando gli occhi per la sorpresa: la casa
era sottosopra. Le ante dei mobili della cucina erano tutte aperte e c’erano
alcune confezioni di cibo per terra. No, così non funzionava. Volevano prendere
il sale, lo zucchero o qualsiasi altra cosa dal mio appartamento? Bene, se non
ero in casa e ne avevano un disperato bisogno potevano farlo, ma la casa
dovevano lasciarla in ordine e la porta doveva rimanere chiusa.
Arrabbiata, camminai a grandi passi verso il 3B, cominciando
a bussare furiosamente. Non mi interessava se stavano dormendo, mangiando o
qualsiasi altra cosa: mi avrebbero ascoltata e si sarebbero resi conto che il
loro comportamento era da maleducati.
«Che c’è, lentiggini?»
domandò Ryan, ghignando quando si accorse che ero io. Non lo salutai nemmeno,
avanzai, scostandolo per entrare in casa e far in modo che tutti potessero
sentirmi.
«Se entrate in casa mia almeno non lasciate la porta aperta
e soprattutto non distruggetemi casa. Prendete quello che dovete prendere e poi
andatevene. Mi ci vorrà tutta la sera per mettere a posto quel disastro,
dannazione». Presi un respiro profondo per
calmarmi e guardai Dollar e Brandon, in piedi in mezzo alla cucina. Mi osservarono
per qualche secondo stupiti e confusi, poi, dopo aver scambiato qualche parola
tra di loro, Brandon si avvicinò a Ryan, senza smettere di lanciarmi strane
occhiate.
«Ryan, nessuno di noi è entrato in casa sua».
Salve
ragazze!
Allora,
ecco qui il nuovo capitolo.
Intanto
mi scuso per le note assenti del precedente, ma avevo pubblicato davvero di
frettissima. Riguardo a quel capitolo ci tenevo a dire che non sono un medico e
quindi, nonostante abbia fatto ricerche, spero perdonerete eventuali errori. So
però che di solito una ferita all'arteria femorale causa la morte per
dissanguamento, per questo Lexi era sollevata nel vedere che tutto era apposto
e c'era solo una ferita profonda.
Per
quanto riguarda Ryan e il suo chiamare 'topo' il malcapitato che viene derubato
da loro... quello l'ho inventato di sana pianta, mi serviva qualcosa che
potesse far capire quanto si sentiva in trappola il malcapitato.
In
questo capitolo invece... ancora una volta, non sono un medico (non ho
acquistato nessuna Laurea in Medicina da una settimana all'altra e mai lo farò)
e quindi le mie informazioni si basano solo su Internet e qualche corso di
Anatomia. So però che le coste sono soggette a fratture durante le lotte e
che un metodo per capire se è rotta è quello di tossire o far girare il busto
(se la frattura è scomposta la costa rotta si muove in direzione contraria).
Il
Phoenix nel Bronx non esiste, mi serviva un locale sotto la giurisdizione degli
Eagles e non ho cercato nessun locale, l'ho inventato, in ogni caso credo non
sia poi così difficile l'esistenza, visto che è un normale e sudicio pub.
Come
al solito vi ringrazio per le bellissime parole che spendete per questa storia
ogni volta e vi ringrazio per inserire Ryan e Lexi tra i preferiti/seguiti e da
ricoradare. E grazie anche alle coraggiose che hanno inserito questa pazza tra
gli autori preferiti.
Per
quanto riguarda lo spoiler di Dollar che avevo inserito nel gruppo... mi scuso,
ma non c'è stato in questo capitolo, o sarebbe risultato ancora più luuuungo e
pesante. Poco male, uno spoiler in più del capitolo 8! :)
Vi
ricordo che se volete iscrivervi al gruppo spoiler, lo trovate qui: Nerds' corner. E' gratis e
non vi chiedo codici IBAN.
Alla
prossima settimana.
Un
bacione!
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Capitolo 8 *** Guns & Shower ***
YSM
Ad
Ale, Chiara, Cris ed Elle. Perché mi sopportano, anche troppo, e perché
probabilmente, senza di loro, il capitolo non sarebbe qui. <3
«Come hai
detto?». Ero stupita, sul
serio: Brandon non stava assolutamente scherzando ma sembrava piuttosto
preoccupato che qualcuno fosse entrato in casa mia. Li guardai a uno a uno,
leggendo nei loro volti lo stesso identico sguardo confuso. Non avevano cercato
né zucchero né sale, non si erano intrufolati in casa mia per farmi uno
scherzo. Ma se non era stato qualcuno di loro, allora chi aveva violato la mia
privacy, facendo irruzione nel mio appartamento?
Indietreggiai di un passo, cercando un mobile che potesse
sostenermi: l’idea che qualcuno di estraneo fosse entrato in casa mia,
rovistando tra le mie cose, mi faceva girare la testa.
«Ehi, Lexi» mormorò Brandon, correndo verso
di me e sorreggendomi, proprio mentre sentivo le gambe diventare molli. Le sue
braccia forti si appoggiarono ai miei fianchi, sostenendomi e trascinandomi
verso il divano, dove mi distese.
No, perché mi aveva fatta distendere sul divano? Dovevo
andare a casa e controllare che tutto fosse apposto, che non avessero preso
niente, che non mi avessero rubato i… «I
soldi» strillai, mettendomi a
sedere di scatto per poi alzarmi e correre verso la porta, prima che qualcuno
mi appoggiasse le mani sui fianchi, fermandomi. Non mi voltai nemmeno per
guardare chi fosse, non mi interessava. Era casa mia, c’era tutto quello che
per me aveva un significato. «Lasciami» protestai, cominciando a
muovermi. La presa era salda e sicura, tanto che i miei piedi smisero di
toccare il pavimento, mentre scalciavo. Chi diamine mi stava costringendo a
rimanere lì?
Mi voltai, percorrendo le braccia ricoperte da tatuaggi e,
non appena incontrai il suo volto, parlò: «non fare cazzate, lentiggini. Calmati, tu rimani qui». Ryan tornò a farmi sorreggere
dal pavimento, tenendo le sue mani sui miei fianchi perché non potessi
scappare. Come potevo anche solo pensare di farlo? Mi avrebbe raggiunta in un
paio di passi e sarebbe stato benissimo in grado di caricarmi in spalla e
legarmi al letto perché non scappassi.
«Voglio
solo sapere se hanno rubato qualcosa»
spiegai, cercando di calmarmi. Non ero così stupida da provare a scappare, non
con cinque persone alte due metri lì vicino a me. D’accordo, quattro persone e mezza,
se contavo la gamba di Sick che non gli permetteva di muoversi liberamente.
«Lexi,
potrebbero essere ancora dentro casa, se sono dei ladri potrebbero farti male,
non essere sciocca». Di nuovo
Brandon, a preoccuparsi per me. Sapevo che era la verità, ma non volevo cedere:
era casa mia, non mi interessava prendermi un nuovo pugno sul naso da qualcuno.
«Che
vengano a tirarmi un pugno! Che ci provino» sbottai, camminando di nuovo verso la porta, convinta di
quello che stavo facendo. Cosa credevano, che avessi paura di qualcuno solo
perché era un po’ più alto di me?
«Sta
ferma, qui». L’ordine di
Ryan, o almeno, la sua mano sul mio polso, mi costrinse a fermarmi con un piede
già sul pianerottolo. Mi voltai, guardandolo: non stava ridendo, non si stava
nemmeno prendendo gioco di me; semplicemente mi vietava di tornare a casa mia. «Non essere ridicola, lentiggini,
ti stenderebbero con un pugno, anche un moscerino ci riuscirebbe. Stai qui, senza
rompere le palle, e andiamo a controllare noi». Cominciava a perdere l’aria seria di poco prima, facendo
nascere quel ghigno –che odiavo – sulle sue labbra. Voleva fare di testa sua,
mettendo in pericolo la sua vita e quella dei suoi amici? Bene, non avrei di
certo interferito con la sua scelta di morire.
«D’accordo». Incrociai le braccia sotto al
seno e andai a sedermi sul bracciolo del divano, fingendo una calma che non
possedevo. La verità era che, oltre alla paura di qualcuno ancora dentro casa
mia, ero arrabbiata con Ryan, che credeva di avere potere anche su di me. Non
riusciva a capire che io non ero parte degli Eagles? Era così difficile per lui
pensare che non poteva comandare tutto e tutti?
Un rumore, proveniente dall’appartamento di fronte, ci fece
immobilizzare tutti: il colpo si era sentito, tanto che anche Sick, ancora
disteso sul divano, cercò di raddirizzarsi per capire da dove fosse venuto quel
rumore sordo.
Ryan aprì la porta per dirigersi verso le camere, tornando
subito dopo con un borsone scuro tra le mani. Lo aprì, senza parlare, tirando
fuori un groviglio di stoffa scura che appoggiò delicatamente sopra al tavolo
della cucina.
«Ryan, che
cosa vorresti fare?» domandò Brandon,
avvicinandosi a lui e sistemandosi al suo fianco, senza però aiutarlo a
districare quel groviglio di stoffa. Quando Ryan estrasse una pistola,
sussultai spaventata, rischiando di cadere dal bracciolo del divano sul quale
ero seduta. Cosa ci faceva con una pistola dentro a un borsone? Perché aveva un’arma
in casa? Il mio sgomento aumentò quando appoggiò sul tavolo davanti a lui altre
quattro pistole.
Cinque,
le pistole sopra a quella tavola erano cinque, ma ero quasi sicura che dentro a
quel borsone ce ne fossero altre.
«Brandon, Dollar, Josh e Paul, prendete le
pistole» ordinò Ryan, prendendone una in
mano e controllando che dentro al caricatore ci fossero dei proiettili. Non
avevo mai visto di persona quelle armi, ma vederle maneggiate con così tanta
naturalezza mi terrorizzò. Indietreggiai, allontanandomi da Ryan e da quello
che aveva in mano. Mi ero sempre immaginata una pistola come quelle che si
vedevano nei vecchi film western, con il tamburo con i sei colpi disponibili.
Quella che Ryan stava impugnando assomigliava più a un’arma dei telefilm
polizieschi, dove in ogni episodio bisognava scoprire l’assassino. Quando Ryan
caricò la pistola, sussultai spaventata: sembrava ancora più alto e spaventoso,
con quell’arma in mano.
«Ryan, calmati, non sappiamo nemmeno che cosa è
successo» cercò di farlo ragionare
Brandon, avvicinandosi comunque a lui, senza prendere nessuna pistola in mano.
Dollar,
obbedendo all’ordine di Ryan, camminava avanti e indietro, attorno alla tavola,
come se fosse indeciso su quale arma prendere.
«Ryan, non saprei, per una volta vorrei avere la
pistola più grande della tua» scherzò, aprendosi
in un sorriso che increspò la cicatrice sulla sua guancia. Brandon cercò di
soffocare una risata, mollandogli uno schiaffo sulla nuca per ammonirlo; Sick
invece, disteso sul divano, si fece sentire con una sonora risata che contagiò
anche Josh e Paul.
«Prendi quella fottuta pistola e mettici dentro
quei fottuti proiettili, cazzo» sbottò
Ryan, spegnendo le risate di tutti quanti. I ragazzi presero una pistola a
testa, senza badare troppo a quale avessero scelto, e seguirono Ryan, che si
era avvicinato alla porta, aprendola.
Sussurrò
ai ragazzi qualcosa che non riuscii a capire, ma li vidi annuire; avanzarono,
dividendosi poi una volta arrivati davanti alla porta del mio appartamento:
Brandon e Dollar a destra e Josh e Paul a sinistra. Ryan spalancò la porta con
un calcio, tenendo le braccia tese in avanti, con la pistola stretta tra le
mani. Pochi istanti dopo, Brandon, Josh, Paul e Dollar lo seguirono, entrando
in casa mia senza fare rumore.
«Lexi, chiudi la porta» consigliò Sick, facendomi sussultare per la sorpresa: ero così
impegnata a guardare Ryan e gli altri che non mi ero più ricordata di lui. «Chiudila»
ripeté, strisciando sul divano perché potessi vedere il suo volto. Non era una
battuta con qualche possibile sfondo sessuale, semplicemente mi stava ordinando
di chiudere la porta, ma perché? Obbedii, socchiudendo l’uscio e avvicinandomi
a lui, mentre, nervosamente, cominciavo a mordicchiarmi l’unghia del pollice,
sovrappensiero.
«Sick, e se c’è qualcuno in casa mia, che succede?» chiesi, non riuscendo a calmarmi. L’idea che Dollar,
così giovane, potesse ferirsi a causa mia non mi allettava. E, per quanto
potessi odiarlo, non mi piaceva neanche l’idea di avere la vita di Ryan sulla
coscienza.
Sick
si sistemò meglio, cercando di mettersi a sedere, poi, dopo aver sbuffato per
il dolore o forse per la mia domanda, cominciò a dire: «Se dovesse
esserci qualcuno di là, te ne accorgeresti. Si sono presi anche i silenziatori?» si informò, guardandomi, in attesa di una risposta. I
silenziatori? Non sapevo nemmeno che forma avessero, come potevo sapere se li
avevano presi? Probabilmente notando la mia confusione, Sick continuò: «Allora non ti preoccupare, li sentirai se qualcosa
andrà storto, e spero proprio di no, visto che non vorrei perdermi tutto il
divertimento» ghignò, indicandosi la
gamba fasciata. Non sembrava nemmeno preoccupato per le sorti dei suoi
compagni; non sapevo se fosse totale disinteresse verso di loro o troppa stima
e sicurezza per un esito positivo.
«Non ti interessa se qualcuno di loro muore?». Ero davvero sconvolta dalla sua tranquillità. Non
riuscivo a capire come potesse rimanere seduto su quel divano senza agitarsi
per la possibilità che uno dei ragazzi con cui divideva l’appartamento potesse
morire. Dannazione, lo ero io che li conoscevo da meno di un mese!
«So che non accadrà. Ryan sa cosa fare in ogni
situazione, e fino a quando c’è lui a capo di tutto e Brandon gli guarda le
spalle, so che non succederà nulla. A proposito, che giorno è oggi?» concluse, tastandosi le tasche dei pantaloni rotti,
come se stesse cercando qualcosa.
«Il… il due luglio, perché?». Ryan e gli altri non erano ancora tornati e lui si
preoccupava di sapere che giorno era? Cominciavo a capire perché si chiamasse
Sick – ero sicura che non fosse il suo vero nome.
«Quel porco di James Deen! Oggi esce il trailer del suo
film. Lexi, prendimi il PC, devo assolutamente vederlo, è con la gnocca con i
capelli rossi» esclamò, agitandosi sul
divano per cercare di guardare dove fosse quello di cui aveva bisogno.
Trailer
di film porno? Esistevano anche i trailer dei film porno? E cosa, esattamente,
facevano vedere? Credevo che tutti i film, bene o male, avessero le stesse
scene dentro. Insomma, cambiavano le posizioni, ma la sostanza era sempre
quella.
«Muoviti Lexi! Avrei dovuto vederlo stamattina. Come ho
potuto dimenticarlo?».
Era
decisamente melodrammatico, soprattutto quando, imprecando contro se stesso per
quella dimenticanza, cominciò a tirare pugni sul cuscino del divano,
sfiorandosi, a ogni gesto, la gamba ferita. Mi guardai attorno, cercando un PC
per poterglielo dare. Certo non ero affatto curiosa di sapere come fosse fatto
un trailer di porno; la domanda nella mia mente era pressoché disinteressata,
la riposta invece molto temuta.
«Ecco» mormorai,
porgendogli il PC che avevo trovato sopra alla tavola, poco distante dal
borsone contenente le pistole. Sick nemmeno mi ringraziò, impegnato com’era ad
accenderlo e a tamburellare con le dita in attesa che finisse di caricare la
pagina iniziale.
«Eccoci… andiamo…»
borbottò, digitando velocemente l’indirizzo di un sito e sospirando estasiato. «Vuoi vedere anche tu, Lexi?» domandò, girando il volto verso di me, per essere
sicuro di vedere la mia reazione. Se quella domanda me l’avesse posta Ryan, ci
avrei visto sicuramente un motivo per prendermi in giro, ma Sick… lui voleva
solo essere gentile e condividere la sua felicità con me, per questo non riuscivo
ad arrabbiarmi con lui, perché mi sembrava di vedere un bambino davanti
all’entrata di Disneyworld.
«No, no. Grazie lo stesso, non mi interessa molto». Cercai di liquidare la faccenda, allontanandomi dal
divano per non sentire strani rumori, ma soprattutto per cercare di captare
qualcosa di quello che stava succedendo nel mio appartamento. Per questo
sussultai spaventata quando sentii la porta aprirsi: Dollar, il primo a
entrare, era senza lividi o sangue in faccia, e lo stesso per gli altri
ragazzi. Sospirai, sollevata. Per fortuna nessuno di loro era ferito.
«Non c’è nessuno, ma ti hanno messo sottosopra la casa.
Dovresti vedere se ti hanno rubato qualcosa, ma non ti consiglio di chiamare la
polizia» spiegò Ryan, avvicinandosi ai
divani per controllare cosa stesse facendo Sick. Poi, senza badare a me o
spiegarmi altro, si sedette lentamente, stringendo un pugno senza però
lamentarsi: ero sicura che fosse la costa che gli doleva. «Che cazzo stai facendo, Sick? Hai una faccia da idiota» ghignò poi, cercando di colpirlo con un pugno, senza
però riuscirci: era troppo distante e con tutta probabilità non voleva alzarsi.
«Il trailer del film di James. È… dovete vederlo, sarà
il miglior film in assoluto, sì». La voce
di Sick era quasi comica, sembrava parlare come se avesse un nodo in gola,
tanto che tutti i ragazzi cominciarono a ridere, mentre Brandon raccoglieva le
pistole di tutti per riportarle dentro al borsone.
«Dici così ogni volta Sick, ormai sappiamo tutti che
non è vero» scherzò Brandon, mentre Paul
e Josh annuivano, dandogli ragione. Erano rilassati e tranquilli, come se per
loro fosse normale sistemare le armi dopo essere entrati in casa mia, per
controllare che non ci fosse nessuno.
«Io… non vorrei disturbarvi e mi dispiace interrompere
questo momento, ma vorrei sapere se posso tornare a casa mia, per controllare
se hanno rubato qualcosa» bisbigliai,
sistemandomi nervosamente un ciuffo di capelli dietro la schiena, perché
all’improvviso si erano tutti voltati a guardarmi. Essere così al centro
dell’attenzione, senza nessuno di fianco non mi piaceva, mi faceva sempre
sentire a disagio e ricordai di aver provato la stessa sensazione quella
mattina, appena entrata al Phoenix.
«Ryan, perché non le diamo una pistola? Così almeno se
ha bisogno di qualcosa può difendersi»
propose Dollar, come se fosse stata una grande idea.
«Cosa? No». Una
pistola, a me? Io che non sapevo nemmeno come si sparava. Io che avevo il
terrore di quelle armi, anche quando, alle giostre di primavera, le mettevano
per far impazzire i ragazzini. Odiavo le armi, erano pericolose.
«Dagli la Rivoltella. Le va più che bene» sbadigliò Ryan, stiracchiandosi sul divano senza
muoversi troppo. Rivoltella? Che cos’era?
Brandon
cercò qualcosa dentro al borsone e, dopo aver preso una pistola piccola, si
avvicinò a me con un sorriso: «Tieni, Lexi»
mormorò, porgendomi l’arma che istintivamente presi tra le mani. Se prima mi
sembrava piccola, quando sentii il suo peso e la vidi tra le mie mani, mi
accorsi che non lo era. «Calibro
trentotto, è una Smith & Wesson modello 60. Cinque colpi, semplice da usare
e la puoi nascondere in borsa, così sarai sempre armata. Consideralo un regalo
di benvenuto da parte nostra» concluse,
con un sorriso sulle labbra che risaltava tra gli zigomi ancora segnati dalla
lotta della sera prima.
Una
pistola, come benvenuto? Cordiale da parte loro, visto che ero sicura fosse
costosa, ma non mi interessava proprio per niente.
«Io… vi ringrazio per il pensiero, ma credo non mi
interessi». Non mi avevano mai insegnato
a rifiutare una pistola come regalo e non ero nemmeno sicura che ci fosse un
modo giusto per farlo. Semplicemente mi sarei spaventata di me stessa; se
avessi portato con me un’arma non mi sarei più riconosciuta nei miei valori. «Ora vado a controllare i danni» mormorai, cominciando a gesticolare ancora con la
pistola in mano, visto che Brandon si era allontanato da me per finire di
sistemare la tavola.
«Oh, lentiggini, abbassala. È carica, se vuoi uccidere
qualcuno fallo con i Misfitous, cazzo»
sibilò Ryan, alzandosi e raggiungendomi in pochi passi. Prese la pistola dalle
mie mani, aprendo il tamburo e togliendo i proiettili che c’erano dentro. «Tieni, ora gioca a fare la dura». Mi restituì l’arma, richiudendola con un rumore
sordo.
«No, non la voglio»
ribattei, tendendo le braccia verso di lui, perché potesse riprendersi la
pistola. Cominciò a ridere, tenendosi una mano sulla costa che gli doleva, poi,
dopo aver guardato Brandon e Dollar, si incamminò verso il mio appartamento,
lasciandomi davanti alla porta aperta, ancora con l’arma in mano. «Ti ho detto che non la voglio» sbottai, entrando in casa mia, ma bloccandomi subito:
era semplicemente un disastro, tutto era fuori posto. I cuscini del divano
erano sparsi per tutta la stanza, ogni anta dei mobili della cucina gialla era
aperta e c’erano delle pentole sparse per il pavimento e sui fornelli. Non
riuscivo nemmeno a parlare, men che meno a muovermi.
Qualcuno
era entrato in casa mia, aveva toccato e spostato le mie cose. Avanzai
lentamente verso il corridoio, spaventata da quello che probabilmente avrei
visto. Quando arrivai in camera, prima di svoltare l’angolo per entrare,
socchiusi gli occhi respirando a fondo per calmarmi, ma, alla vista di tutti i
miei vestiti sparsi per il pavimento e dei cassetti della biancheria aperti e
mezzi svuotati, non riuscii a trattenermi e fui costretta a correre in bagno, senza
nascondere i conati di vomito per poi tirare lo sciacquone. Mi rinfrescai il
viso, guardandomi attorno nel piccolo bagno: la tenda della doccia, quella che
avevo portato da Los Angeles perché aveva delle tavole da surf disegnate, era a
brandelli, sparsa sul pavimento. Il mobiletto con le medicine era aperto e
alcuni flaconi erano sparsi tra il lavandino e il pavimento, così, mi avvicinai
per controllare che non avessero aperto quello che conteneva una parte dei
soldi che mi ero portata da casa. Sospirai sollevata, quando mi accorsi che non
li avevano rubati, probabilmente perché non avevano avuto il tempo di guardare
dentro a tutti i barattoli.
«Ti hanno rubato i soldi?» domandò Ryan, entrando nel bagno che a causa della
sua presenza vicina sembrò ancora più piccolo. Sbirciò dentro alla confezione,
come per assicurarsi che non stessi mentendo. Quella parte di risparmi non era
stata toccata, temevo però per l’altra metà, quella che avevo nascosto in
camera.
«Questi sono più di cinquecento dollari, ma non li
hanno nemmeno visti, credo. Però ne ho altri in camera» mormorai, scansando Ryan e lasciando un’ultima
occhiata ai pezzi di tenda: me ne serviva un’altra, sicuramente. Non potevo
farmi la doccia senza tenda per sempre, o avrei rovinato il bagno.
«Forse quelli in camera li hanno presi, lì c’è un
disastro» spiegò Brandon, seguendomi poi
in silenzio mentre entravo nella stanza, fermandomi subito, perché mi veniva di
nuovo da vomitare: i miei vestiti sparsi ovunque, l’armadio aperto e tutti i
cassetti ribaltati per terra; la mia biancheria sparsa sul pavimento e sul
letto. Cercai di respirare a fondo di nuovo, avvicinandomi all’armadio per
controllare che non avessero preso i soldi.
«Non ci sono»
mormorai, atona, quando mi accorsi che la scatola da scarpe era sparita.
Avevano rubato quasi cinquecento dollari, praticamente metà dei miei risparmi.
Eppure non riuscivo a pensare in modo ragionevole, come se non mi rendessi
totalmente conto di quello che era successo, perché continuavo a guardare la
stanza messa sottosopra, ricordando che qualcuno aveva toccato le mie cose
senza permesso. «Devo lavare tutto quanto» spiegai, cominciando a raccogliere i vestiti sparsi
per la stanza per andare in bagno. Sentivo gli occhi dei ragazzi puntati
contro, ma non mi interessava: lenzuola, intimo, vestiti… tutto sarebbe finito
in lavatrice, a costo di rimanere con quella maglia addosso per una settimana.
E dovevo anche fare le pulizie, lavare il pavimento e tutti i mobili.
«Se hai bisogno chiama. Ragazzi, andiamo» borbottò Ryan, incamminandosi verso la porta di casa
senza chiedere se in quel momento mi servisse qualcosa. Lo ringraziai
mentalmente per quel gesto, andando poi in bagno e riempendo la lavatrice con
tutti i vestiti che ci potevano stare. Non mi ero accorta però, che qualcuno mi
aveva seguita.
«Doc, posso chiederti una cosa? So che non è il momento,
ma sono davvero preoccupato». Dollar,
davanti a me, continuava a dondolarsi sui piedi, in evidente disagio. Annuii,
senza interromperlo. «Ehm, il problema è
che... insomma, Dio che vergogna, ma sei un dottore, no? Ok, andiamo dritti al
dunque. Sono stato con Butterfly e... adesso il mio... coso è... così». Non mi lasciò nemmeno il tempo di capire di che cosa
stesse parlando, perché si abbassò i pantaloni e i boxer, rimanendo nudo dalla
vita in giù. Non aveva nemmeno chiesto il permesso, semplicemente si era
spogliato, come se fosse normale per lui mostrarsi nudo a chiunque.
«Dollar!»
strillai, cercando di non far vedere quanto mi imbarazzasse vederlo in quello
stato. Dovevo essere professionale, giusto? Abbassai lo sguardo lentamente,
arrivando alla fonte del suo problema, e schiarendomi la voce. Non ero sicura
di quello che stavo vedendo, ma mi sembrava brutto abbassarmi per controllare
meglio.
«Ti prego, dimmi che non morirò e che non è una
malattia che si prende quando si... insomma...» bofonchiò, gesticolando imbarazzato. Quella situazione era davvero
assurda, chiunque, se fosse entrato dalla porta in quel momento, si sarebbe
fatto un’idea sbagliata. Ma Dollar mi aveva chiesto di essere professionale. Mi
chinai leggermente in avanti, senza toccare nulla, e non riuscii a trattenere
una risata, quando capii cosa lo preoccupasse così tanto.
«Dollar, è rossetto» spiegai, tornando a guardarlo in viso cercando di non
ridere: tentai di soffocare la ridarella, ma fu impossibile. Quando poi cercò
di dire qualcosa, la mia bocca si contorse in una smorfia divertita, così
rinunciò.
Riaprì
di nuovo la bocca, cercando di non arrossire, con scarsi risultati: «Ho appena
fatto una gran figura di merda, vero?»
domandò, piegando le gambe per indossare di nuovo i calzoni. Si portò una mano
davanti agli occhi, evitando di guardarmi, probabilmente perché non riuscivo a
nascondere quanto quella situazione fosse comica. La verità era che con quell’incomprensione,
Dollar era riuscito a farmi dimenticare per qualche minuto quello che era
successo in casa mia. «Bene, credo di
poter tornare a casa. Grazie per il consulto medico e spero che questa cosa
possa rimanere tra di noi, senza che altri vengano a sapere del mio… problema
all’aquilotto» concluse, avvicinandosi
alla porta prima che potessi replicare qualsiasi cosa. Quando sentii il rumore
della serratura che si chiudeva, mi appoggiai alla lavatrice davanti a me,
tenendomi una mano sullo stomaco per il troppo ridere.
Dollar,
il piccolo Dollar – che tanto piccolo non era – si era denudato davanti a me
perché credeva di avere qualche malattia strana, quando in verità era solo un
po’ di rossetto. Non mi era mai capitata una cosa del genere, durante i miei
turni al pronto soccorso di Los Angeles.
Quando,
dopo qualche minuto, riuscii a riprendermi, il silenzio che c’era attorno a me,
cominciò a ricordarmi cosa era successo, e, schiacciata dal peso di tutto, mi
accasciai a terra, scivolando con la schiena contro la lavatrice. Chi poteva
essere entrato in casa mia? Perché mi avevano rubato i soldi, lasciando tutto
in disordine? Sapevano che gli Eagles abitavano nell’appartamento di fronte,
chi era così stupido da tentare un furto proprio nel loro palazzo? Forse
qualcuno che non lo sapeva, o qualcuno che ce l’aveva con me.
Ma
soprattutto, chi sapeva dove abitavo? Avevo dato il mio indirizzo solo a John,
ma mi rifiutavo di credere che fosse stato lui, visto che era rimasto sempre
dentro al locale. Allora chi mi odiava così tanto da entrare in casa mia e
rubare?
Frustrata
e arrabbiata con me stessa per essere capitata in quel posto disperso e pieno
di gente pazza, cominciai a pulire la casa, senza nemmeno guardare l’orologio;
per questo, quando, dopo aver steso l’ultima lavatrice e aver finito di lavare
il pavimento della mia camera per la seconda volta, guarda l’ora, mi stupii di
vedere che erano le sette di mattina.
Per
quante ore avevo risistemato e pulito casa? Con un rapido calcolo mi resi conto
che avevo fatto tutto in meno di dodici ore, senza mai fermarmi e senza
dormire.
«Cavolo» sbuffai,
ricordando che John mi aspettava al Phoenix alle nove. Non potevo tardare il
primo vero giorno di lavoro, non con John come capo, che avrebbe preso
l’occasione al volo per licenziarmi. Non volevo dargli quella soddisfazione,
piuttosto mi sarei licenziata io, nel momento in cui non mi fossero più serviti
soldi. «Sei uno splendore» farfugliai ironica, davanti alla mia immagine
riflessa sullo specchio del bagno: i capelli arruffati e tutti in disordine, le
guance rosse per lo sforzo di pulire tutto e la fronte sudata. Mi serviva una
doccia, subito.
Camminai
in punta di piedi fino alla cucina, prendendo un paio di slip e un reggiseno un
po’ più asciutti degli altri e, dopo essere ritornata in bagno, mi spogliai,
lanciando i vestiti sporchi dentro al cesto.
Fantastico!
Non avevo nemmeno una tenda per non bagnare tutto il bagno, visto che il ladro
si era impegnato per rompere anche quella. Girai il rubinetto, lasciando che la
stanza si scaldasse un po’ e, quando l’acqua diventò sufficientemente calda,
feci un passo in avanti, permettendo al getto di massaggiarmi le spalle tese e
la schiena. Inclinai anche il capo all’indietro, lasciando che l’acqua bagnasse
i miei capelli e sbattesse contro al mio viso, come se potesse levare i segni
di stanchezza.
Sorrisi,
rimanendo sotto al getto d’acqua e soffiando fuori le gocce che mi entravano in
bocca. Da piccola mi divertivo canticchiando, perché la voce che sentivo sotto
al getto d’acqua era sempre distorta e assomigliava a quella di un alieno; in
più mi sentivo isolata da tutto e tutti, in un mondo tutto mio.
«Perché cazzo non hai risposto?» strillò qualcuno, facendo esplodere la mia bolla
privata e riportandomi nel mio piccolo bagno, a Whittier Street. Spalancai gli
occhi confusa, togliendomi le gocce d’acqua dagli occhi che non mi permettevano
di vedere chi avesse parlato. Quando ci riuscii, inorridii: Ryan, Dollar e
Brandon erano davanti a me, con tre espressioni completamente diverse.
Improvvisamente,
seguendo lo sguardo di Dollar, ricordai che ero nuda. «Uscite dal
mio bagno» ordinai, portando un braccio a
coprirmi il seno e accavallando le gambe perché non mi vedessero. Come se non
l’avessi nemmeno detto, Ryan e Dollar rimasero a guardarmi; a differenza di
Brandon che si girò, guardando dalla parte opposta. «Uscite» urlai di
nuovo, indicando con una mano la porta, senza però perdere la mia scomoda
posizione. Perché quei due idioti continuavano a guardarmi, senza scomporsi? Mi
guardai attorno, cercando qualcosa con cui coprirmi: a pochi passi da me c’era
l’asciugamano che avevo appoggiato sopra al lavello, ma se mi fossi mossa, mi
avrebbero vista di nuovo nuda, e non mi sembrava una buona idea.
«Sto aspettando una risposta» ribatté Ryan, incrociando addirittura le braccia al
petto. Ma era serio? Io ero nuda, davanti a lui, e voleva sapere perché non gli
avevo risposto?
«Mi sto facendo la doccia, potreste uscire dal mio
bagno, o almeno girarvi dall’altra parte che mi copro con l’asciugamano?» domandai esasperata. Con uno sbuffo infastidito Ryan
girò il volto, guardando lo stipite della porta. Quando si accorse che Dollar,
di fianco a lui, continuava a guardarmi divertito, gli lasciò una pacca sullo
stomaco che lo fece gemere e subito dopo voltare dall’altra parte. Presi
velocemente l’asciugamano, arrotolandomelo attorno al corpo come se fosse un
vestito e tenendolo fermo con la mano. «Siete
davvero gentili» sbottai, prendendo
l’intimo in mano e nascondendolo dietro di me perché non potessero vederlo.
«Perché cazzo non hai risposto quando ti abbiamo
chiamata? È da venti minuti che bussiamo alla porta, credevamo ti avessero
rapita». Ryan tornò a guardare verso di
me, seguito da Dollar e Brandon subito dopo, come se gli avessi dato il
permesso.
«Perché mi stavo facendo la doccia. Scusa se non sento
chi bussa, da qui» risposi sarcastica,
spostandomi un ciuffo di capelli dal viso che mi solleticava una guancia.
«Non è una scusa, abbiamo scassinato la serratura» esplose poi, appoggiandosi con la spalla contro allo
stipite della porta. Voleva che gli offrissi anche una tazza di tè per metterlo
più a suo agio, forse? Brandon cercava di scusarsi con lo sguardo, senza però
farsi vedere da Ryan; almeno lui non mi aveva guardata, dimostrando un po’ più
di buon senso rispetto agli altri due.
«Sai Doc, non credevo fossi un tipo da tatuaggi. Un po’
esagerato, forse, ma carino» ammiccò
Dollar, indicando con il mento il mio fianco coperto dalla spugna bianca. Si
era accorto addirittura del piccolo disegno nero con un surfista che stava
cavalcando un’onda buona? «Se potessi
rivederlo di nuovo…» tentò, mentre
prendevo il sapone e cercavo di
scagliarglielo contro per ferirlo; Dollar però riuscì a prenderlo al volo,
ridendo ancora più forte del mio mancato tentativo di ferirlo.
«Puoi anche scoprirti, tanto sarebbe come vedere una
bambina per quel poco che hai» ironizzò
Ryan, facendomi ribollire il sangue nelle vene. Quel poco che avevo? Be’,
almeno io non mi ero rifatta e non rischiavo che mi esplodesse il seno ogni
volta che salivo su un aereo. Io rispettavo il mio corpo e se Madre Natura non
mi aveva donato due grandi tette, era stata generosa con il mio cervello.
«Vaffanculo. E adesso uscite da casa mia, tutti e tre». Ero arrabbiata, di più, infuriata, perché si stavano
prendendo gioco di me, perché offendevano il mio corpo.
Non
ero insicura, non mi era mai interessato non avere molto seno o l’essere alta
come un puffo: sapevo che in alcuni campi bastava essere intelligenti, non di
certo con delle misure da modella.
«Che sboccata e scortese! E noi che volevamo solo
invitarla domani. Potremmo anche ritirare l’invito, eh, Brandon?» ghignò Ryan, dando dei leggeri colpetti con il gomito
allo stomaco di Brandon. Invitare me? Per andare dove?
«Dove?» domandai, sinceramente stupita. Perché volevano invitarmi? Ero quasi
sicura di dover lavorare anche il giorno dopo, e non potevo chiedere un
permesso a John il terzo giorno di lavoro.
«Domani è il quattro luglio. Di solito andiamo giù alla
spiaggia, se ti va di fare un salto, mi piacerebbe rivedere bene quel tatuaggio» scherzò Dollar, sghignazzando. Il quattro luglio. La
Festa dell’Indipendenza. Come avevo potuto dimenticare che il giorno dopo
sarebbe stato il quattro luglio?
«Io… be’, grazie… è un pensiero davvero gentile da
parte vostra» mormorai, imbarazzata. Mi
sarebbe piaciuto passare la giornata in compagnia, piuttosto che rimanere
chiusa in quella casa che cominciava a farmi paura. Non sapevo nemmeno se i
negozi fossero aperti, a New York. Mi sembrava una buona alternativa passare
una giornata al mare, sotto al sole di luglio di New York, perché sarebbero
andati a Coney Island, no? «Andate a
Coney Island, giusto?» mi informai,
sperando di non fare figuracce con le mie scarse conoscenze di geografia del
posto.
«Sì, lentiggini. Ma non si può fare surf, calma la tua
adrenalina» mi derise Ryan, facendomi
arrabbiare. Ogni volta che parlava era capace di risvegliare la parte più
volgare e manesca che avevo, come se, per forza, dovessi tirargli un pugno per
farlo tacere. Se, prima della sua battuta, ero felice di passare una giornata
con loro, dopo aver sentito la sua ironia contro di me, avrei volentieri
declinato l’invito.
«Grazie, accetto volentieri». Sorrisi, fingendomi molto più felice di quanto non
fossi in realtà. Una giornata intera passata in compagnia di Ryan mi avrebbe sicuramente
distrutta: non era così facile rispondere a tono alle sue continue frecciatine
insulse. «Ora, se volete scusarmi, dovrei
andare a lavorare» conclusi, sperando che
potessero finalmente uscire da casa mia, lasciandomi il tempo di preparami
prima di partire.
Ryan
non rispose, mi girò le spalle, incamminandosi verso l’uscita, seguito subito
dopo da Brandon che mi salutò con un cenno del capo. Dollar rimase per qualche
istante sull’uscio, indeciso se dire o meno qualcosa. Poi, dopo aver sorriso,
disse: «Adesso siamo pari, più o meno». Ammiccò e sparì dalla mia vista prima che potessi
anche solo cercare qualcosa da scagliargli contro. «Ah» mormorò,
ricomparendo sulla soglia, «questo è tuo». Lanciò qualcosa verso di me e istintivamente
allungai le braccia per prenderlo tra le mani, dimenticandomi di tenere
l’asciugamano che scivolò a terra, lasciandomi di nuovo nuda. «Sì, ora siamo pari» ghignò, sparendo ed evitando il sapone che avevo lanciato di nuovo
verso di lui ma che andò a sbattere contro la porta.
«Idiota» urlai,
causando una sua risata prima di sentire il rumore della porta di casa che si
chiudeva.
Buongiorno
ragazze!
prima di tutto mi scuso per l’imprecisione nel capitolo scorso, dove chiamavo
‘costole’ quelle che in verità, nell’uomo, sono ‘coste’. Scusate ancora, ma
come ho già detto non studio medicina e affini e quindi non so sempre la
terminologia esatta. Posso assicurare che negli animali si chiamano costole :P
Comunque
ho corretto tutto nel capitolo precedente e qui devo aver parlato solo di
coste.
Poi
poi poi… diciamo che è un capitolo di passaggio e leggero, perché il prossimo
sarà un po’ più descrittivo e soprattutto storico. Ci sarà la storia delle gang
americane, per farvi capire come sono nati gli Eagles, ci sarà la storia di
Ryan e Brandon e forse anche di Sick.
Insomma,
vorrei però dire che non mi sono dimenticata di chi è entrato in casa di Lexi,
non preoccupatevi! :)
Come
sempre mi scuso per il linguaggio di Sick, se ha irritato/infastidito qualcuno
non l’ho fatto volontariamente, ma vi ricordo che la storia ha rating arancione
e l’avvertenza non per stomaci delicati. Siccome il rosso è per le scene di
sesso descrittivo, e qui non ci sono, non credo che per un paio di parolacce e
battute idiote ci sia bisogno di alzare il rating.
Le
pistole… non so molto, la mia conoscenza si basa su ricordi di quando ero
piccola e ho usato Wikipedia per rinfrescarmi la memoria. La pistola di Lexi
esiste, è una pistola piccola e maneggevole, scomoda se si deve combattere
negli scontri a fuoco perché ha solo 5 colpi, a differenza delle
semiautomatiche di Ryan, che sono come quelle dei poliziotti di CSI, per
capirci, con il caricatore da sotto.
Per
la scena della strana malattia di Dollar, mi sono ispirata alla scena di un
film che amo, dove però l’esperto era proprio Dollar! :P
La
reazione di Lexi a quello che le è successo… mmm, non so spiegare il perché
abbia reagito in modo così… strano, sinceramente. Ma sono convinta che non si è
totalmente resa conto di aver subito una rapina, ma ripeto: questo aspetto sarà
ripreso più avanti.
Coney
Island è una spiaggia famosa che si trova a Manhattan, famosissima soprattutto
per il suo luna park.
Infine,
la doccia… devo davvero dire qualcosa per questa scena così scema? Chi è nel
gruppo sa che ce l’avevo in mente da mesi e… niente! :P
Siete
pronte per il prossimo capitolo, per chiarire una volta per tutte cosa è Ryan, perché tutti hanno paura di
lui, la storia degli Eagles, di Ryan e Brandon? Spero di sì, ma vi avverto:
armatevi di caffè e Poket Coffee per rimanere sveglie! :)
Grazie
ancora a chi inserisce la storia tra i preferiti, seguiti e da ricordare, a chi
legge e a chi recensisce!
Vi
ricordo il gruppo spoiler: Nerds’ corner.
A
presto!
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Capitolo 9 *** Eagles & Ryan's Story ***
YSM
Spiaggia.
Questo era il mio pensiero costante da quando
Ryan mi aveva parlato di Coney Island. Perché il mare era la mia casa: i piedi
immersi nella sabbia e il profumo di salsedine. Non avevo mai considerato Los
Angeles come la mia vera casa, l’oceano, quello sì. Perché con la sensazione
dell’acqua che mi bagnava la pelle e il rumore delle onde che mi trasportava in
un altro mondo mi sentivo tranquilla. Non ne avevo mai fatto mistero, mai.
Per questo ero elettrizzata dall’idea di
ritornare, in qualche modo, a casa. Non era l’oceano Pacifico, ma mi sarei
accontentata.
«Ciao Alexis» salutò Aria, non appena entrai al
Phoenix. Cercavo di non dare l’idea di avere la testa tra le nuvole, ma era
inutile, visto che continuavo a sorridere come una stupida. Il pensiero di
quello che sarebbe successo il giorno dopo bussava alla mia testa ogni tre
secondi.
Sorrisi, dimostrandomi gentile ed educata con
lei, che sembrava l’unica persona vera, in quel posto di pazzi e squilibrati. Sentivo
la mancanza di un’amica, e non mi sarebbe dispiaciuto avere a fianco una
persona abituata ai comportamenti degli Eagles, e che sapeva come prenderli.
Poteva essere solo una del posto. Qualcuna con cui non avere segreti e poter
sparlare; insomma, qualcuna di cui fidarmi. In fondo, ragionai, se Aria stava
in quel posto, voleva dire che era in qualche modo legata agli Eagles, e chissà
perché poi.
«Era tanto in disordine?» mormorò, riscuotendomi
dai miei pensieri e avvicinandosi a me; si guardava attorno, sembrava aver paura che qualcuno potesse
sentirla. Non riuscivo a capire a cosa si stesse riferendo e probabilmente
riuscì a comprenderlo dalla mia espressione, perché si fece più vicina,
sfiorandomi l’orecchio con le labbra: «Il tuo appartamento, era tanto in
disordine? Ti hanno rubato molto?». Come faceva a sapere che dei ladri erano
stati in casa mia e che mi avevano rubato i soldi? Chi poteva averle detto
quello che era successo? Cercai un modo carino per chiederle come fosse venuta
a saperlo, ma mi anticipò, ammiccando verso di me. «Ryan, Brandon e Dollar sono
venuti qui un paio d’ore fa. Erano abbastanza arrabbiati e credo che se non ci
fosse stato Brand, Ryan non si sarebbe controllato così tanto. Ha urlato contro
John dicendogli che ti portata qui non per fare in modo che ti distruggesse la
casa. John ha detto che lui non c’entrava nulla, ma nessuno gli ha creduto.
Nemmeno io ci credo. Ti ha chiesto l’indirizzo?» continuò, cominciando a lavare
qualche boccale di birra sporco, per liberare un po’ il lavandino.
L’indirizzo?
Sì, John mi aveva chiesto l’indirizzo ma… no, mi rifiutavo di credere che fosse
stato John a conciare casa mia come una discarica e che mi avesse preso i
soldi. John era rimasto tutto il giorno al locale e non si era allontanato. Come poteva essere
stato lui? Perché mi odiava così tanto da rubare ed entrare in casa mia?
«Sì,
lui… lui mi ha chiesto l’indirizzo, ma…» balbettai, confusa da quello che Aria
mi aveva fatto notare. Mi interruppe subito con un gesto della mano: John in
arrivo. Il viso tirato, due occhiaie profonde e flaccide; doveva essere stanco
e parecchio teso. Nonostante l’aria da viscido, non riuscivo a convincermi che
lui fosse collegato alla messa a soqquadro del mio appartamento.
«Mi
dispiace per quello che ti è successo, ti hanno rubato tanti soldi?» si
informò, cercando di dimostrarsi gentile. Quel comportamento sembrava costargli
un grosso sforzo, perché continuava a tamponarsi la fronte sudata, guardandosi
attorno in modo nervoso.
E
se Aria avesse avuto ragione? Se fosse stato davvero lui a entrare in casa mia?
«Sì,
mi hanno rubato tutti i risparmi» mentii, cercando di sembrare molto più
arrabbiata e triste di quanto non fossi. Non dovevo ricordare Coney Island, o
avrei cominciato a ridere come un’idiota.
«Quanto
avevi?» si informò John. Quanta premura da parte sua! Ero stata assunta il
giorno prima, ma sembrava che fossi una sua amica di vecchia data. Un
comportamento decisamente opposto rispetto a quello del giorno prima. Sembrava
quasi dispiaciuto per me, un po’ troppo dispiaciuto.
«Cinquecento
dollari che mi servivano per pagare l’affitto il prossimo mese». Che era le
verità, o quasi: avevo ancora da parte cinquecento dollari, ma, se John non mi
avesse pagato come aveva già annunciato, non sarei riuscita nemmeno a
racimolare qualche dollaro per la spesa.
«Speriamo
di riuscire a pagare tutti questo mese» tagliò corto lui, allontanandosi subito
da me e Aria, senza aggiungere altro. Di sicuro John era un personaggio strano;
personaggio che forse avrei imparato a conoscere. Aria mi lanciò un’occhiata
ammonitrice intimandomi di non fiatare.
Così,
passai le dieci ore successive a spinare birre offrendole ai clienti mezzi
ubriachi che ridevano quando non riuscivano a mandare nemmeno una palla in
buca, durante una partita a biliardo. Avevo imparato a riconoscere qualche
volto e qualche nome, urlato troppo spesso tra un’imprecazione e l’altra: c’era
Nick con Bradley, c’era Tony con Steve. Tutti ragazzi che sembravano divertirsi
davanti a un biliardo e una birra. Ma c’erano anche i due uomini che avevo
visto il giorno prima, quelli che avevano parlato con John e poi se ne erano
andati. Loro non sembravano socievoli come gli altri ragazzi, anzi: rimanevano a
un tavolo da soli, parlando a bassa voce e interrompendo il discorso ogni volta
che qualcuno si avvicinava a loro o passava di fianco.
Aria
era stata chiara e e io mi trovavo d’accordo con lei. Al Phoenix c’era una sola
regola: non fare domande, sorridi e porgi
il boccale di birra. Ed era esattamente quello che avevo fatto: mi ero
dimostrata socievole e felice, nonostante tutto quello che mi era successo.
«John,
sono le sette, posso tornare a casa?» domandai, avvicinandomi a lui, mentre mi
pulivo le mani sul grembiule bianco. John stava pulendo con uno straccio un
tavolino sporco di birra e sigarette mezze fumate, tanto che non mi guardò
nemmeno.
«Ci
vediamo dopodomani. Ciao» sbottò, stupendomi. Dopodomani? Feci qualche calcolo
mentale. Quattro luglio. Ma il quattro luglio credevo che il locale rimanesse
aperto. Il giorno dei fuochi d’artificio
sarebbe stato deleterio chiudere il locale. Perché quindi non dovevo andare a
lavorare?
«Domani
il locale rimarrà chiuso?». Ero stupita, e si poteva capire anche dalla mia
domanda. John smise di strofinare il panno lurido contro il legno e si rivolse
verso di me: finalmente un po’ d’attenzione!
«No,
domani hai il giorno libero, per questa settimana». Tornò a fare quello che
stava facendo, ignorandomi. Avevo capito
il concetto; il discorso per lui poteva dirsi concluso. Sembrava che, per una
volta, gli interessasse davvero la pulizia di quel tavolo. Io però, ero
convinta che fosse solo uno stupido pretesto per non parlarmi.
«Oh,
be’… grazie. A dopodomani, allora» mormorai felice, allontanandomi da lui per
andare a salutare Aria: stava sistemando gli scatoloni vuoti nel retro. Era
così concentrata in quello che stava facendo che, quando parlai, gridò
spaventata.
«Aria,
io domani non ci sono, John ha detto che per questa settimana ho la giornata
libera. Non so perché, ma va benissimo» esultai. Felice, la abbracciai di
slancio, stupendola non poco. La sentii ridacchiare infatti, un po’ impacciata
dal mio gesto forse troppo avventato, ma rispose alla stretta.
«Non
è ancora così scemo. Divertiti domani» mormorò, una nota triste nella voce che
cercò di mascherare con un sorriso che non riuscì a raggiungere i suoi grandi
occhi castani. Sembrava volesse dirmi qualcosa, ma continuò a guardarmi in
silenzio, forse aspettando che fossi io a parlare per poi andarmene.
«Buona
giornata anche a te, ci vediamo». La abbracciai di nuovo, prima di scappare
fuori da quel locale ancora con il grembiule addosso. Quando svoltai l’incrocio
e lo notai, dovetti tornare indietro per toglierlo. Rientrai dentro al locale e
trovai John a guardarmi confuso e spaventato, come se avesse paura di me; così,
per fargli capire perché ero tornata, sventolai il grembiule, sicura che con
tutta la confusione che c’era non mi avrebbe sentita parlare, se l’avessi fatto.
Capì subito perché fossi ritornata al locale e fece un mezzo sorriso,
ritornando poi a parlare con i due ragazzi che rimanevano sempre a quel tavolo
all’angolo da soli.
Uscii
dal Phoenix con un sorriso e una strana sensazione; come se non avessi dovuto
tornare indietro. Una cosa stupida, certo, a cui evitai di prestare attenzione
perché sapevo che se ci avessi pensato troppo mi sarei intestardita. Per
questo, quando svoltai l’incrocio di Whittier Street e Randall Ave, mi stupii
di trovare Ryan e Brandon parlare con qualcuno. Stavo quasi per chiamarli,
quando, guardando meglio davanti a me, mi accorsi che Ryan teneva il ragazzo
sollevato da terra con una mano, mentre con l’altra puntava qualcosa contro il
suo collo. Qualcosa che risplendeva, sotto la luce del lampione.
Rimasi
in mezzo al marciapiede immobile, paralizzata dalla paura. Ryan, lo stesso che
faceva l’idiota quando mi vedeva, aveva un coltello –o qualcosa di simile –puntato
alla gola di un uomo; Brandon invece, che di solito era sempre così calmo e
rispettoso, caricò il braccio, dando un pugno sullo stomaco al ragazzo. Perché
si stavano comportando così? Che cosa aveva fatto per essere picchiato in quel
modo?
Nonostante
la scena fosse davvero spaventosa, non riuscivo a muovermi, paralizzata com’ero
dalla paura. Continuavano a tenerlo sollevato da terra, tirandogli pugni sullo
stomaco, come se fosse stato un sacco da boxe.
Brandon,
all’improvviso, guardò verso di me, fermando il braccio una manciata di
centimetri prima dello stomaco di quello sconosciuto. Mi sembrò quasi di vederlo
dire qualcosa a Ryan, visto che anche lui si girò subito a guardare verso di me,
per poi portare velocemente la mano con l’arma in tasca. Si avvicinò al volto
del ragazzo, mormorandogli qualcosa prima di spingerlo con forza a terra,
tirandogli un calcio subito dopo.
«Ehi,
lentiggini» ghignò Ryan, avvicinandosi a me, assieme a Brandon. Non badò al
ragazzo che si rialzò e corse via, tenendosi una mano sullo stomaco. Si stavano
avvicinando sempre di più, Ryan con il cappuccio della felpa scura calato in
testa e una sigaretta accesa tra le labbra.
«Non,
non toccarmi» mormorai, indietreggiando di un passo e trovandomi con le spalle
al muro. Ero in trappola, senza una via d’uscita. Ryan e Brandon erano davanti
a me, con un sorriso stampato sui loro volti. Sembrava che non fosse successo
nulla, non si erano accorti che avevo visto quello che avevano fatto a quel
povero ragazzo? E se avessero picchiato anche me? Se mi avessero uccisa? Nessuno
sapeva che ero lì, sarei semplicemente risultata dispersa, magari si sarebbe
sparsa la voce che ero in vacanza e nessuno mi avrebbe cercata.
«Lexi,
non è come sembra» cercò di spiegare Brandon, avvicinandosi cautamente a me:
probabilmente non voleva spaventarmi, visto che teneva anche le mani alzate,
per farmi vedere che non aveva armi con sé. Non ci stava riuscendo, però: ero
terrorizzata, li avevo appena visti aggredire un uomo innocente e fingevano che
non fosse successo nulla. Sì, Ryan mi aveva detto che aveva ucciso, ma vederlo
con i miei occhi, mentre lo faceva, era decisamente spaventoso.
«Avete
aggredito un uomo» urlai, sentendo le lacrime pungermi gli occhi per uscire.
Perché stavo reagendo in quel modo idiota e stupido? Perché mi sentivo… delusa,
come se in qualche modo avessi sempre accantonato l’idea di quanto fosse
pericoloso Ryan. Averlo visto con i miei occhi, aver notato quanto Brandon
fosse minaccioso, rendeva tutto reale, troppo. Talmente reale che cominciavo a
spaventarmi sul serio. Ero da sola, in una strada deserta, con due teppisti.
«Ci
ha preso in giro, gli serviva una lezione. Ma l’hai visto anche tu, è vivo, no?».
Di nuovo quel ghigno che sembrava renderlo felice. Ryan era la tranquillità
fatta a persona mentre si avvicinava a me, spegnendo la sigaretta ormai quasi finita.
Socchiusi
gli occhi, cercando di non esplodere lì, davanti a loro. Volevo tornare a casa,
rintanarmi in un posto sicuro che non mi ricordasse dov’ero capitata. Volevo
staccare la spina dal Bronx e da tutto quello che mi era successo da quando ci
avevo messo piede per la prima volta.
«Lexi,
va tutto bene, siamo noi». Brandon fece un altro passo in avanti,
intrappolandomi ancora di più contro il muro. In trappola, ecco com’ero, e non
potevo scappare, non con Brandon davanti a me, che si avvicinava lentamente. Ma
soprattutto non ce la potevo fare, con le lacrime che cominciavano a scendere
lungo le mie guance.
«Non
toccarmi» biascicai, portandomi un braccio davanti al volto, per non doverlo
guardare di nuovo. Mi avrebbe ferita, ne ero sicura; per questo mi raggomitolai
ancora di più, cercando di farmi più piccola, come se avessi potuto scomparire.
All’improvviso, però, qualcosa di grande e caldo mi avvolse, sfiorandomi la
schiena in una carezza.
«Va
tutto bene Lexi, calmati». La voce di Brandon assieme alle sue forti braccia
che mi circondavano la schiena mi fece cedere. Non c’era più nessun muro, non
c’era la bugia di essere forte e non c’era nemmeno la voglia di fingere.
Tutto
quello che mi era successo nel mese precedente all’improvviso mi si riversò addosso,
facendomi piangere: l’aggressione, avere come vicini una gang pericolosa, aver
conosciuto due ragazzi e sapere che erano morti, John e il suo trattarmi come
se fossi una schiava a lavoro e soprattutto i ladri in casa mia. Mi aggrappai
alla sua maglia, stringendo la stoffa tra le dita, incapace di fermarmi: ero
scoppiata e non mi interessava quello che potevano pensare di me, se volevano prendermi
in giro potevano farlo; non avevo la forza di fermarmi, lasciavo solamente che
le lacrime scorressero sulle mie guance, sentendomi un po’ più leggera ogni
volta che una goccia salata scivolava lungo il mio zigomo.
Eppure,
nonostante Ryan fosse, di sicuro, lì vicino, non sentii nessuna battuta da
parte sua; l’unica cosa che riuscivo a udire era la voce di Brandon unita alle
sue carezze. Cercava di calmarmi, mi ripeteva che non era successo niente e che
tutti stavano bene. Ma non era vero: io non stavo bene, io ero da sola, lì, in
un territorio sconosciuto in mezzo a persone pericolose. Non avevo nessuno e
forse, anche se odiavo ammetterlo, sentivo davvero la mancanza di casa.
«Non
fatemi del male» borbottai, tra un singhiozzo e l’altro, stringendo sempre di
più la sua maglia. Era la mia àncora, l’unico appiglio alla verità, al sapere
che non mi sarebbe successo nulla,
che non gli sarebbe successo nulla.
Perché, e forse questo dimostrava quanto io fossi malata, non volevo che i
ragazzi si ferissero o, peggio, morissero.
«Stai
scherzando, Lexi? Non ti faremo mai del male, e se qualcuno ti sfiorerà anche
sono con un dito lo uccidiamo, vero, Ryan?». Sentire la sua voce ovattata dalla
maglia, perché avevo il capo appoggiato al suo petto, mi fece sorridere tra le
lacrime: sembrava avere una voce ancora più profonda del solito.
«Sì»
sbottò Ryan, in risposta alla domanda di Brandon. Sì, avrebbero ucciso per me?
Era questo che stavano cercando di dire? Perché ero quasi sicura che non fosse
un modo di dire, sarebbero stati in grado di farlo davvero.
«Sentito?
L’ha detto anche Ryan. Ora non mi imbrattare più la maglia di lacrime, che si
sgualcisce e poi le donne non mi guardano». La battuta di Brandon mi fece
ridere così tanto che mi allontanai da lui, tornando ad appoggiare la schiena
al muro dietro di me, mentre mi strofinavo una guancia con il palmo della mano
per asciugarla. «Andiamo a casa, Lexi». Circondò le mie spalle con un braccio,
accompagnandomi verso casa, senza forzare il mio passo.
Non
parlò e lo stesso fece Ryan; non era uno di quei silenzi imbarazzanti, in cui
nessuno sapeva bene cosa dire, semplicemente avevamo già detto tutto. Quando
venivo scossa da un singhiozzo, il braccio di Brandon mi stringeva un po’ di
più a lui, ricordandomi che non ero sola, che potevo sempre contare su di lui.
«Buonanotte
Lexi. Mi raccomando, domani mattina sveglia all’alba, Coney Island ci aspetta».
Alla sua battuta, Brandon aggiunse un occhiolino che mi fece sorridere di
nuovo, mentre chiudevo la porta di casa con il catenaccio, perché nessuno
potesse entrare. Anche un doppio giro di chiave mi avrebbe tenuta più al
sicuro.
Lanciai
la borsa sul divano, togliendomi scarpe, maglia e pantaloni mentre camminavo
verso il bagno: mi serviva una doccia per calmarmi e ritrovare la lucidità.
Quello che però mi stupì, fu il vedere un particolare nuovo nel mio bagno. Lì,
dove fino alla sera prima c’era la mia tenda rosa con due tavole da surf che si
incrociavano, vedevo una tenda bianca, con disegnata sopra l’ombra di un uomo
che faceva surf. Convinta che fosse solo un’allucinazione, mi avvicinai, sfiorando
la tela ruvida con i polpastrelli. No, non era un’allucinazione, c’era davvero,
e probabilmente era un regalo dei ragazzi. Volevo andare a ringraziarli, ma ero
in intimo e, nonostante tre di loro mi avessero visto nuda, non mi sembrava
proprio il caso di dare spettacolo. L'avrei fatto il giorno dopo, non appena li
avessi visti. Non sapevo se fosse grazie a Ryan, Brandon o Dollar, ma li avrei
ringraziati tutti, indistintamente.
Dopo
essermi lasciata cullare e aver rilassato i muscoli grazie all’acqua calda e al
vapore che si era creato nel piccolo bagno, andai subito in camera mia,
addormentandomi poco dopo, stremata.
Quando
mi svegliai, quella mattina, capii subito che sarebbe stata una giornata
indimenticabile: il sole splendeva e illuminava la mia stanza, entrando dalla
finestra che avevo lasciato socchiusa la sera prima e producendo dei giochi di
colore sui muri della stanza.
Mi
misi a sedere, stiracchiando i muscoli della schiena e sorridendo come una
stupida: era il quattro luglio, e sarei andata a Coney Island con i ragazzi.
Non pensavo più a quello che era successo la sera prima, era come se con quel
pianto mi fossi definitivamente sfogata e liberata di tutti i miei pensieri:
volevo solo godermi una giornata di vacanza.
Mi
alzai, correndo in bagno per risciacquarmi il viso e indossare il mio costume
preferito: quello nero con i pallini colorati, che usavo sempre quando facevo
surf. Tornata in camera, aprii l’armadio per cercare qualcosa da mettermi ma lo
trovai vuoto. Giusto, avevo lavato tutti i miei vestiti due giorni prima e non
li avevo stirati per mancanza di tempo. Corsi in cucina, prendendo un paio di
pantaloncini e un top nero, e li indossai assieme a un paio di scarpe di tela
che non avevo mai messo da quando ero arrivata a New York.
Presi
la borsa mettendoci dentro un telo da spiaggia e una bottiglietta d’acqua e,
dopo aver chiuso la porta di casa alle mie spalle, bussai insistentemente
appena sotto alla targhetta 3B.
«Che
cazzo succede?» sbottò Ryan, aprendo la porta solo con un paio di boxer neri
addosso. Rimasi a guardarlo sorpresa, soffermandomi sul suo fianco che aveva un
grosso ematoma scuro all’altezza della costa incrinata. Per non fare la figura
della stupida, tornai a guardarlo, scoprendo uno sguardo decisamente assonnato.
«Andiamo?»
proposi, stringendo un po’ di più il manico della borsa che tenevo tra le mani.
Perché non erano ancora pronti? Brandon era stato chiaro: all’alba saremmo
partiti. Be’, eravamo anche in ritardo rispetto alla loro tabella di marcia.
«Che
cazzo di ore sono?» grugnì, avvicinandosi al divano e distendendosi, con un
sonoro sbuffo, sopra. Non si preoccupò nemmeno di essere praticamente quasi
nudo davanti a me, si portò solamente un braccio davanti agli occhi, infastidito
dalla luce della stanza.
«Sono
le sette e mezza. Siamo in ritardo, ho guardato gli orari della metro per
arrivare a Coney Island e ce n’è una che parte tra venti minuti, se ti sbrighi
a preparati ce la facciamo a prenderla». Una bambina la mattina di Natale, ecco
cosa sembravo in quel momento.
Ryan
spostò il braccio, alzando appena il capo per guardarmi confuso e infuriato: «Le
sette e mezza? Tu mi hai svegliato alle sette e mezza? Che cazzo passa per la
tua testolina bacata per svegliarmi prima che si svegli anche il primo gufo?».
Alla sua domanda, posta in quel tono così serio, non riuscii a non ridere. I
gufi erano animali notturni e di certo dormivano di mattina.
«Ryan,
i gufi dormono di giorno. E comunque è perché la metro sarà piena di gente, e
io voglio andare subito in spiaggia». Possibile che non capisse la mia urgenza?
Volevo assolutamente arrivare a Coney Island al più presto, per questo
continuavo a chiedermi perché rimanesse lì, disteso su divano in una posa che
di elegante non aveva nulla, in boxer.
«Metro?
No, lentiggini, non andiamo in metro, se non vuoi arrivare domani mattina»
ghignò, mettendosi a sedere per guardarmi divertito dal mio sguardo confuso. «Io
guido».
Macchina?
Saremmo andati a Coney Island in macchina? Ma non era più veloce andare in
metropolitana? E poi, dove avremmo parcheggiato, lì? Non ci ero mai stata, ma
ero sicura che non ci fosse una zona adibita a parcheggio.
«Ciao
Doc» esordì Dollar, entrando in cucina con una canottiera bianca attillata e un
costume nero. Riuscivo a vedere le sue braccia e i suoi pettorali fasciati
dalla stoffa bianca. Dollar sembrava più… muscoloso del solito; certo, niente a
che vedere con le braccia di Ryan, però.
Stavo
quasi per salutarlo, quando Sick e Brandon ci raggiunsero: Sick aveva una polo
blu, coordinata a un paio di
pantaloncini dello stesso colore. Brandon invece indossava una maglia bianca,
scollata a v, con un costume blu, a righe bianche e rosse sui fianchi.
Sembravano dei normali ragazzi che andavano al mare, tranne Sick, che aveva la
fasciatura che spuntava da sotto il costume. Lo sapeva che non poteva fare il
bagno, vero?
«Ryan,
andiamo su, va a prepararti» lo punzecchiò Brandon, dandogli delle pacche sulla
spalla per infastidirlo. Ryan sbuffò, guardando irritato la mano di Brandon,
poi, come se l’amico non gli avesse appena chiesto di andare a prepararsi,
appoggiò il capo sullo schienale del divano, chiudendo gli occhi.
«Quando
siete tutti pronti chiamatemi. Mancano Lebo, Paul e Josh. E poi, perché cazzo
siete tutti in piedi a quest’ora?». Era stupito, si poteva capire nonostante
parlasse con gli occhi chiusi e avesse la voce distorta per la strana posizione
in cui aveva piegato il collo.
«Perché
ci alziamo sempre a quest’ora. Sei tu quello che stanotte non ha dormito,
perché dovevi organizzare tutto per…». Dollar fu interrotto da Brandon, che gli
tirò un pugno sulla spalla per farlo stare zitto. Organizzarsi? Doveva
organizzare cosa? Stavo quasi per chiederlo, quando anche i tre ritardatari
entrarono in cucina, facendomi ridere. Lebo indossava una maglia rossa con una
tartaruga stampata sopra e un paio di pantaloncini grigi; i gemelli invece
erano vestiti allo stesso modo: maglia verde e pantaloncini neri. Tutti e tre
mi salutarono con un cenno del capo, al quale risposi con un sorriso.
«Ryan,
alza il culo dal divano e vai a vestirti» brontolò Brandon, facendomi ridere.
Non riuscivo a capire perché, ma sembrava l’unico a non temere Ryan, o meglio,
era l’unico che si permetteva di prenderlo in giro senza essere fulminato dall’ironia
del biondo.
«Che
palle. Dovevamo andare oggi pomeriggio» si lamentò, alzandosi dal divano e
camminando lentamente verso il corridoio. Lo fece con calma, tanto che senza
accorgermene, seguii con lo sguardo la sua colonna vertebrale, soffermandomi
sulle sue spalle larghe, ricoperte dalle ali dell’aquila che aveva gli artigli
saldi sul ramo che sfumava appena sopra l’elastico dei boxer. Ryan aveva un bel
fisico, certo, anche le sue gambe erano muscolose e lunghe e, a differenza di
quelle di molti ragazzi, erano dritte, senza assumere strane forme curve.
«Siediti
Lexi, sono quasi sicuro che ci metterà come minimo mezz’ora. È peggio delle
donne. Se nel frattempo vuoi intrattenerti con me, possiamo guardare qualche
film…». La battuta di Sick mi terrorizzò e divertì allo stesso tempo. Mi
sedetti sul divano, di fianco a lui, appoggiando la mia borsa per terra. Non
avevo però intenzione di guardare qualche film con lui, sicura che non sarebbe
di certo stata una commedia romantica o un thriller. «Guarderai un film con me?»
esultò, allungandosi verso il tavolino per prendere il PC che c’era sopra.
«No,
no Sick. Ti ringrazio per l’offerta, ma declino il film e qualsiasi altra cosa
tu voglia fare» ridacchiai, incapace di nascondere la mia felicità. Era il
quattro luglio, e io l’avrei passato con qualcuno che, in qualche strano e
perverso modo, si preoccupava per me.
«Andiamo».
Ryan entrò in salotto con un paio di occhiali da sole, una canottiera a righe
bianche e nere e un costume nero. Le sue braccia muscolose e tatuate erano
scoperte e non riuscii a trattenermi, fermandomi a guardarle. «Lentiggini? Ti
vuoi muovere?» sbottò, agitando la mano davanti al mio viso, mentre arrossivo
imbarazzata. Perché poi dovevo esserlo, visto che mi ero solo soffermata a
guardare i suoi tatuaggi?
«Sì,
andiamo. Le macchine?» domandai, schiarendomi la voce, mentre prendevo la mia
borsa per uscire da quell’appartamento sperando che nessuno vedesse quanto ero arrossita. Ero
in compagnia di sette ragazzi che sembravano avere un fisico da modelli, e,
nonostante non fossimo ancora arrivati in spiaggia, erano già mezzi svestiti.
Sentii
qualcuno ridacchiare dietro di me, mentre scendevo le scale di fianco a
Brandon, subito dopo Ryan e Sick, che zoppicava ancora. Stavo quasi per uscire
dallo stabile, quando la mano di Brandon sfiorò il mio braccio, attirando la
mia attenzione perché li seguissi, attraverso una porta che non avevo nemmeno
mai notato, nascosta com’era nel sottoscala.
«Andiamo,
scegli la donna da cavalcare» ghignò Ryan, fermo davanti a me tanto da
impedirmi di vedere qualcosa di diverso dalla sua schiena enorme.
«Cosa?»
biascicai, strozzandomi con la mia saliva, per quella battuta davvero volgare.
Come si permetteva di parlarmi in quel modo? Ero una donna, dannazione! Se
fosse stato Sick l’avrei sicuramente scusato, ma Ryan… lui mi stava dando della
lesbica? «Oh» mormorai, zittendo il mio flusso di pensieri, quando si spostò,
mostrandomi le moto che erano parcheggiate nel piccolo garage. Erano tante e…
grandi. Davvero grandi. Dubitavo di riuscire a salirci senza un aiuto.
«Scegli
la moto che vuoi guidare, lentiggini. Cazzo, ma parlo una lingua che nessuno
capisce?». Ryan era esasperato, si capì anche dal gesto che fece, guardando i
ragazzi e allargando le braccia. Ma non era di certo colpa mia, se parlava con
strani doppi sensi fraintendibili. Poi, realizzai quello che mi aveva appena
detto: dovevo scegliere la moto da guidare?
«Io
non so guidare la moto». Credeva davvero che fossi in grado di rimanere in
equilibrio su un ammasso di metallo che era cento volte il mio peso?
«Scherzi?».
A parlare, stupendomi, fu Dollar, che si avvicinò a me, piegandosi leggermente
per guardarmi bene in viso. «Perché non sai guidare una moto? Butterfly sa
farlo, dovresti imparare». Butterfly, certo, lei sapeva di sicuro cavalcare una
moto, e forse non solo quella. Ero talmente irritata dal fatto che Dollar mi
avesse paragonata a Butterfly che rischiavo addirittura di risultare volgare.
«Oh,
scusate se non so cavalcare una moto come la vostra Butterfly, vorrà dire che
andrò da sola, a piedi» conclusi, sistemandomi la canottierina nera con un
gesto seccato, tanto che la borsa urtò contro la moto più vicina. Qualcuno
dietro di me trattenne il respiro, come se avessi fatto qualcosa di male.
«Dai,
sali dietro a qualcuno di noi, su» propose Brandon, appoggiandomi una mano
sulla schiena per accompagnarmi verso le moto. Sì, avrei volentieri fatto il
viaggio con Brandon o Dollar, con Sick mi sarei un po’ spaventata, ma non volevo
assolutamente rimanere in moto con Ryan, no.
«Sali
con me, Lexi» mi pregò Sick, portandosi una mano al cuore e tendendo l’altra
verso di me. Inorridii, spaventata: non volevo dirgli in modo brusco che non
avrei viaggiato con lui perché mi faceva paura.
«Dai
Doc, io sono prudente» ammiccò Dollar, facendomi ridere. Stavo quasi per
avvicinarmi a lui, quando Ryan prese la parola.
«Facciamo
così, lentiggini: scegli la moto che ti piace di più e viaggerai su quella, che
ne dici?». Nonostante il ghigno –che era comunque sempre presente –Ryan
sembrava serio, così annuii, soddisfatta.
Dovevo
solo giocare d’astuzia, evitando di scegliere la sua moto o quella di Sick;
anche fare il viaggio assieme a Josh o Paul non mi sembrava una buona idea,
forse perché non avevo parlato molto con loro, ma era sempre meglio passare
un’ora seduta dietro di loro, che non con Ryan.
«D’accordo»
mormorai sovrappensiero, cominciando a camminare tra le moto. Ero sicura che
sarei riuscita a trovare qualche particolare per capire a chi appartenessero,
ma sembrava non essere così: ogni moto era senza adesivi o scritte, c’erano
solo ammaccature e graffi.
«Su,
lentiggini, non abbiamo tutta la giornata» sghignazzò Ryan, quando mi avvicinai
alla moto più in fondo. Ecco, mi sentivo un genio! Ryan era tipo il loro capo,
quello che camminava davanti a tutti e che si faceva avanti per difendere gli
altri; quindi, visto che le moto avevano tutte il muso rivolto verso il muro,
la sua doveva essere quella che avevo appena finito di guardare. Quella che,
quindi, non avrei scelto.
Mi
avvicinai alla saracinesca di uscita del garage e guardai la prima moto, tutta
nera, con aria soddisfatta.
«Questa»
esultai, indicandola. C’era una scritta argentata in corsivo su un fianco: Ninja. Sì, quella doveva essere la moto
di Dollar, un po’ lo rispecchiava: scura e semplice, sembrava addirittura
potente.
«Bene,
datele un casco» ordinò Ryan indossandone uno integrale a sua volta e
cominciando a fare lo slalom tra le moto. Perché si stava pericolosamente
avvicinando all’ultima, quella di fianco a me?
Perché
non era andato dalla parte opposta, verso la prima che era entrata in garage?
«Forza,
sali, lentiggini». Al consiglio di Ryan inorridii, indietreggiando di un passo,
senza pensare che dietro di me c’era il portone del garage. Ryan salì sulla
moto nera, confermando la mia paura. Quindi… dovevo andare in moto con Ryan? Ma
come era possibile dopo tutti i miei calcoli sulla posizione e su come erano
entrate in quel garage?
«Non
è la tua moto» mi intestardii, come una bambina. No, mi rifiutavo di credere
che fosse davvero la sua moto. Perché non poteva essere quella blu, la sua? O
magari quella grigia, tutte, ma non quella nera che avevo scelto.
«Certo
che è la mia, è una Ninja. E ora sali, muoviti, che ti serve una scaletta» mi
derise, quando Dollar mi porse un casco integrale, decisamente grande per me.
Lo rigirai tra le mani insicura se accettare o meno, poi, fingendo che non mi
interessasse veramente fare il viaggio con Ryan, lo indossai, causando uno
scoppio di risa generali perché era decisamente più grande rispetto al mio
capo. «Tieniti quello per oggi, non ne abbiamo uno taglia bambino». Sembrava
quasi soddisfatto di vedermi con quel coso nero in testa. Chissà quanto dovevo
apparire ridicola, quasi una cosa sproporzionata, vista la grandezza. «Andiamo,
centauro» ghignò, nuovamente, lasciando un pugno sul mio casco tanto che
rimbombò tutto, facendomi vacillare.
«Idiota»
strillai, alzando la visiera scura per mostrargli quanto fossi arrabbiata. Quel
gesto però sembrò causare la sua ilarità, visto che si portò una mano sullo
stomaco, cominciando a ridere più forte. Oh bene, ero così divertente con il
casco? Mi avvicinai alla moto, arrampicandomi sul pedalino del passeggero e
salendo dietro Ryan, evitando di toccare la sua schiena e soprattutto senza
circondargli il busto con le braccia. Meno mi appoggiavo al suo corpo meglio
era.
Ryan
si girò, per controllare che fossi salita, poi, come se la scena fosse stata
divertente, cominciò a ridere di nuovo. Quel suo comportamento mi dava i nervi.
«La moto non si è minimamente mossa, volerà via» sogghignò, dando gas per
accenderla. Sussultai spaventata, non più tanto sicura che correre in moto
fosse una buona idea; non con Ryan, almeno. «Dovrei ammanettarla, altrimenti
vola via». Il suo tono di voce era alto, probabilmente perché voleva farsi
sentire dai ragazzi anche sopra il rombo del motore. Dubitavo che ci riuscisse,
visto che era quasi assordante.
«Oh,
Lexi! Ammanettati a me, ammanettiamoci» strillò Sick, avvicinandosi a noi e
prendendo una mia mano. Se la portò sopra al cuore, piegandosi sulle ginocchia
in uno strano inchino. Quel gesto mi fece ridere, tanto da non riuscire a
trattenermi e mi appoggiai alla schiena di Ryan per non cadere dalla moto.
«Muovetevi,
idioti» ordinò Ryan, dando gas per uscire dal garage. Istintivamente, per non
rischiare di cadere, circondai il suo busto con le mie braccia, aggrappandomi
alla sua canottiera e stringendo la stoffa tra i pugni. Sarei morta, ne ero
sicura.
«Corri
piano». Nemmeno per favore, sì, ma non mi interessava essere cortese, non quando
mi trovavo seduta su una moto enorme, dietro a Ryan che non era poi molto più
piccolo della moto. Non rispose, lo sentii solamente ghignare, prima che,
accelerando in modo esagerato, partisse sgommando.
Era
inutile continuare a tirargli pugni sullo stomaco perché rallentasse, visto che
ogni volta che lo colpivo il suo piede sinistro si muoveva, cambiando marcia:
lo faceva volutamente, io gli chiedevo di rallentare e lui accelerava.
Bene,
non mi sarei più lamentata, ma di certo il viaggio di ritorno non l’avrei fatto
seduta su quella moto.
A
un certo punto Brandon si affiancò a noi, sollevando la visiera scura del casco
nero e ammiccando verso Ryan. Sentii la sua schiena scossa da una risata, e, prima
ancora di capire quello che stava succedendo, il braccio di Ryan si strinse attorno
alle mie mani, mentre accelerava, cercando di raggiungere Brandon, che ci aveva
superato.
«Idiota»
urlai, come se avesse potuto davvero sentirmi. Cercai di avvicinarmi di più a
lui, schiacciandomi contro la sua schiena e rendendo più salda la mia presa.
Per ripicca, gli pizzicai un fianco, sperando che capisse di rallentare, ma
Ryan, in risposta, si girò per guardarmi, non prestando più attenzione alla
strada.
Le
orecchie che fischiavano e la sensazione che la testa potesse staccarsi dal
corpo, le braccia che mi dolevano perché sembrava che fossero tagliate da
milioni di lame, quando in verità era solo il vento. Preferivo cento volte un
viaggio in metropolitana, al chiuso e al sicuro.
Avevo
controllato, e che il tempo per arrivare da Hunts Point a Coney Island era di
circa quaranta minuti, eppure, nonostante quel viaggio in moto potesse essere
paragonato all’inferno, ci fermammo venti minuti dopo.
Ryan
si tolse il casco dopo aver spento la moto e cominciò a ghignare guardando
Brandon che, sceso dalla moto, continuava a sorreggersi con le mani sulle gambe
per il troppo ridere. Una scena divertente, per loro! Dovevano solo aspettare
che ritornassi ad avere l’uso delle gambe e delle braccia, e poi mi sarei fatta
sentire.
«Lentiggini,
puoi scendere, non stiamo più correndo. Certo, se vuoi rimanere aggrappata a me
è un’altra cosa, ma almeno lascia che mi alzi da qui» sogghignò, mentre
ritiravo le mie braccia, come se mi fossi ustionata all’improvviso.
No!
Non volevo proprio rimanere aggrappata a lui.
Quel
mio gesto fulmineo li fece ridere tutti, solo che con il casco che scendeva sui
miei occhi non riuscivo a vederci bene, così cercai di slacciarlo, senza
riuscirci.
«Sta
ferma» sbottò Ryan, portando le sue mani sotto al mio mento e armeggiando con
la chiusura del casco. «Oh cazzo, si è rotto». Lo sentii tirare in due
direzioni opposte, senza che però il moschettone si aprisse.
«Cosa?»
strillai, già in preda a una crisi di panico. Dove sarei andata con un casco di
chissà quante taglie più grande di me addosso? Cosa avrebbe detto la gente? E
dovevo andare al pronto soccorso o dai pompieri? Chi sapeva aprire un casco?
No, calmi, forse serviva solo una forbice per tagliare la fibbia.
Un
nuovo scoppio di risa e le dita di Ryan a muoversi ancora, poi un “clic”. «Sei
salva». Sentii finalmente il mio capo libero dal casco e Ryan che cercava di
nascondere quel ghigno, davanti a me.
«Stronzo»
sbottai, capendo che mi aveva presa in giro e che non si era mai rotta la
chiusura del casco. Indignata, scesi dalla moto cercando di non inciampare e
riuscendoci. Quando appoggiai i piedi per terra sospirai sollevata, cercando di
riscaldarmi le braccia e le gambe, ancora insensibili per la corsa in moto.
«Andiamo!
E muoviti Lexi! È una spiaggia per nudisti, non puoi entrare con il costume»
spiegò Sick, serio, mentre si toglieva la maglia.
Spiaggia
per nudisti? Mi avevano portato in una spiaggia per nudisti? Spaventata mi
guardai attorno, notando però che tutte le persone indossavano il costume.
«Sei
un idiota, Sick». Non riuscii nemmeno a trattenere una risata, per quel suo
strano modo di fare. Credeva davvero che mi denudassi? Anche se fosse stata una
spiaggia per nudisti non mi sarei di certo tolta il costume, il problema era
che, sicuramente, loro l’avrebbero fatto.
«Ci
ho provato, mi sarebbe piaciuto vederti nuda» ammiccò, causando una nuova
risata generale. Gli sarebbe piaciuto vedermi nuda, ma avevo già dato anche
troppo, visto che tre di loro si erano introdotti in casa mia, entrando nel mio
bagno mentre mi facevo la doccia.
«Noi
l’abbiamo vista nuda» esultò Dollar, affiancandosi a me. Cercai di tirargli un
pugno sullo stomaco per farlo smettere di parlare, ma mi bloccò la mano dietro
la schiena, immobilizzandomi e portando una mano davanti alle mie labbra perché
non potessi parlare. Continuavo a scalciare, sperando che mi liberasse o che
qualcuno degli altri ragazzi lo facesse, ma naturalmente nessuno intervenne. «Ricordi
ieri mattina, quando siamo andati a casa sua perché non sapevamo dove fosse?
Quello che non ti ho mai detto è che era in bagno, così siamo entrati e…e
abbiamo visto la Doc nuda». Dollar sembrava così soddisfatto di quella piccola
rivincita su Sick che mi innervosii ancora di più, scalcando con maggiore forza
e cercando di pizzicargli il braccio con la mano che non era riuscito a
intrappolare.
«Cosa? Perché? Perché io non ci sono mai quando
c'è la possibilità di vedere una pornostar nuda dal vivo? Anche io voglio»
piagnucolò Sick, imbronciandosi mentre si appoggiava alla moto dietro di lui.
Sembrava davvero un bambino geloso di qualcosa tanto che cominciai a ridere,
muovendomi tra le braccia di Dollar.
«E
ti dirò di più, Sick» continuò Dollar, punzecchiandolo e rendendolo ancora più
curioso. Mi immobilizzai, temendo una strana confessione. Non sapevo a cosa
Dollar stesse pensando, ma ne ero davvero spaventata. Che cosa passava per
quella mente malata?
«Cosa? Cosa? C'è qualche piercing nascosto o
qualche tatuaggio dalle forme strane oltre a quello che si vede?». Lo sguardo
di Sick si posò sul mio fianco, lì, dove c’era il mio piccolo tatuaggio con il
surfista. Istintivamente smisi di pizzicare Dollar, portando la mano a
sistemarmi la canottiera con un gesto arrabbiato. Erano come due bambini: si
provocavano a vicenda, sapendo l’uno i punti deboli dell’altro. E non mi dava
fastidio, se non ero io l’argomento centrale.
«No, la Doc, lì sotto, è tutta... tutta...
tutta...» iniziò Dollar, prima che caricassi il gomito con tutta la forza che
avevo e lo piantassi sul suo stomaco. L’effetto però non era quello che avevo
immaginato, visto che Dollar riuscì a scansarsi, terminando la frase con un
urlo che riuscirono a sentire, probabilmente, anche tutti quelli in mare: «depilata».
Tutti
quanti cominciarono a ridere, tranne Sick, che mi guardò, sorpreso e quasi
emozionato: «ti prego, per favore, imboschiamoci da qualche parte solo io e te,
sono bravo e conosco un sacco di posizioni, sai?». Unì anche le mani in
preghiera, mentre Dollar lasciava la presa sul mio volto e sulla mia mano,
facendomi tornare libera di muovermi e parlare.
«Sentite,
andiamo in spiaggia, visto che si sta riempiendo e poi fate tutte le richieste
che volete per trombarvela» borbottò Ryan, prendendo in malo modo la mia borsa
appoggiata alla sua moto e porgendomela.
Ryan
si incamminò verso la spiaggia, seguito subito dopo da Brandon, Sick e i
gemelli. Dollar era di fianco a me, con uno strano sorriso soddisfatto sulle
labbra.
«Non
parlarmi nemmeno, non provarci» mormorai arrabbiata con lui per quello che
prima aveva detto a Sick. Possibile che avesse dovuto dire quello che aveva
visto mentre mi facevo la doccia?
«Dai
Doc… era uno scherzo» cercò di sdrammatizzare, dandomi dei leggeri colpetti sul
fianco con il suo gomito. No, non mi sarei arresa così facilmente, non
funzionava così con Alexis Cooper.
«Sei
fortunato solo perché sono alta metà di te e non ti stenderei nemmeno con un
pugno». Se fosse stato un po’ più piccolo e meno muscoloso l’avrei volentieri
picchiato. Era una questione di rispetto: io non avevo detto a nessuno quello
che era successo con la malattia che pensava di aver preso da Butterfly, perché
doveva fare l’idiota con Sick, vantandosi di avermi vista nuda?
«Se
vuoi ti insegno come si fa a pugni». Era una specie di trattato di pace? Voleva
che non fossi più arrabbiata con lui? Be’, non ci stava riuscendo. Appoggiai la
mia borsa sulla sabbia, togliendomi le scarpe di tela e affondando con i piedi
nella sabbia fresca, non ancora scaldata dal sole del mattino; istintivamente
chiusi gli occhi, inspirando a fondo: casa. Ero a casa.
Riaprii
gli occhi, rendendomi conto che c’era un sorriso spontaneo sulle mie labbra, un
sorriso che non mi ero nemmeno accorta di avere: era l’effetto del mare, del
profumo di salsedine e della sensazione della sabbia sotto ai piedi. Coney
Island sembrava un laghetto, la spiaggia non era piccola ma affollata,
nonostante fossero solamente le nove di mattina; era diversa, molto, da quello
che mi ero immaginata, ma non si poteva dire che non fosse suggestiva, con
l’enorme ruota panoramica –il Wonder Wheel –alle sue spalle.
Quando
guardai i ragazzi, li trovai già tutti a petto nudo, intenti a sogghignare,
osservandomi. Mi guardai, convinta che ci fosse qualcosa che non andava in me:
non c’era niente di fuori posto o sbagliato, semplicemente, tra tutti, ero
l’unica con addosso i vestiti.
«Spogliati
Lexi, su». Sick si sfregò le mani, facendomi ridere. Ero tranquilla, perché,
con tutte quelle persone non mi avrebbe di sicuro fatto nulla di male, soprattutto
perché i ragazzi mi avrebbero difesa, speravo. «Se vuoi posso farlo io» tentò
di nuovo, facendo un passo verso di me. Sick voleva spogliarmi, era così
contento di farlo che si dimenticò di me quando una ragazza mora, con un seno
molto vistoso, gli passò accanto, sorridendogli.
Mi
abbassai i pantaloncini, ripiegandoli e riponendoli dentro alla borsa, poi,
sperando che nessuno di loro prestasse troppa attenzione ai miei gesti, mi
sfilai il top, rimanendo solamente con il costume.
«Una
tavola da surf. Poteva anche non mettersi il pezzo sopra. Sai, lentiggini,
credo che a forza di fare surf le tue tette si siano trasferite sulla tavola».
Alla battuta di Ryan strinsi i pugni lungo i fianchi, arrabbiata. Sì, Dollar
doveva assolutamente insegnarmi come si tirava un pugno.
«Non
è vero, a me piace. È tutta piccola, se avesse due tette come quelle di
Butterfly farebbe schifo». Secondo una strana logica, quello di Dollar doveva
essere un complimento, ma non mi interessava poi molto quello che pensavano di
me. Quello era il mio corpo, io ci convivevo da ventidue anni e mi piaceva.
«A
te piace tutto in generale, Doll. Vado a farmi un bagno» sibilò Ryan,
incamminandosi verso il mare, senza aggiungere altro. Be’, se io dovevo
rimanere senza il pezzo sopra del costume perché non avevo tette, Ryan doveva
indossare sempre la maglietta, visto che la sua schiena, ricoperta da tatuaggi
e cicatrici, non era un bel vedere. E no, non mi interessavano i quintali di
muscoli che aveva.
«Lexi,
vuoi andare a fare un bagno o ti insegno come si tira un pugno? O vuoi
rotolarti con me nella sabbia?». La proposta di Dollar mi scosse dai miei
pensieri su Ryan e gli risposi senza nessun dubbio: sapevo quello che mi
interessava più di tutto.
«Insegnami
a tirare un pugno. Vado dopo a farmi il bagno e non mi rotolerò mai nella
sabbia con te». Così avevo risposto alle sue domande in modo chiaro, senza che
ci potessero essere dei dubbi. Speravo che Dollar potesse smetterla di provarci
con me, anche se, sentirmi in qualche modo contesa tra lui e Sick era
piacevole. Lo era sempre, anche quando –come in quel caso –sapevi che lo
facevano per scherzare.
«D’accordo,
allora, prima di tutto: schiena dritta, devi colpire le mie mani». Portò le
braccia in avanti, tenendole tese perché non si ferisse il petto con il
contraccolpo del mio pugno.
Sul
serio, voleva che lo ferissi? No, non potevo farlo, se gli avessi fatto male?
Era pur sempre Dollar, un bambino, nonostante fosse due volte me, in altezza e
anche larghezza.
«No,
se poi ti faccio male?» mormorai, non prestando troppa attenzione a Ryan che si
era seduto di fianco a Sick, scrollandosi l’acqua dai capelli bagnati. Sentii i
ragazzi ridere dietro di me, come se avessi detto qualcosa di divertente. Mi
voltai a guardarli, ma nessuno di loro fiatò: continuavano a scrutarmi, come se
fossi un gallo in attesa di combattere. Ma non ero di certo quello più forte,
anche se potevo ferire. Lanciai un’altra occhiata a Dollar, esitando con il
pugno alto perché non volevo colpirlo.
«Forza!
Colpiscimi, fammi sentire quanto male fanno quei piccoli pugnetti» ridacchiò
Dollar, muovendo le sue grandi mani davanti a me, per incitarmi a colpirlo. Più
lo guardavo e meno mi convincevo di quello che stavo facendo. Lì, in spiaggia,
davanti a tutti, io, alta poco più di un metro e mezzo, combattevo a suon di
pugni con un ragazzo di sedici anni, sfregiato sul volto.
«Ti ferirò. E se dovessi romperti una costola?»
tentai, sperando che si decidesse ad abbassare quelle braccia. La mia idea era
proprio stupida. Perché mi ero intestardita per imparare a dare un pugno?
«Andiamo! Fammi male» ribatté. Non aveva
nessuna intenzione di abbandonare il nostro ring, costruito dai ragazzi che si
erano seduti a cerchio attorno a noi.
Picchiarlo,
dovevo picchiare Dollar, tirargli un pugno sul palmo della mano, per la
precisione. Insomma, non era così difficile farlo, no? Bastava caricare il
braccio, stringere bene la mano tenendo il pollice in fuori e poi colpire.
Facile, come bere un bicchiere d’acqua.
Socchiusi
gli occhi, prendendo un respiro profondo e stringendo ancora di più le nocche,
poi, senza guardare, colpii la mano di Dollar. Rilasciando l’aria che avevo
trattenuto per la paura guardai il volto di Dollar, convinta di averlo ferito.
Lui però, al contrario di tutto quello che mi ero immaginata, stava trattenendo
malamente una risata, divertito dalla situazione.
«Non
è male, Doc. C’è l’istinto, devi un po’ migliorare la tecnica e avere meno
paura di far male. Quando dai un pugno lo fai perché le mani ti prudono e sai
che quella è la cosa giusta da fare, capisci? Non devi avere paura, perché di
sicuro, anche se ti ferirai, l’altro sarà sempre messo peggio. Ma ci
riproveremo». Appoggiò la sua mano sulla mia spalla, per darmi coraggio.
Cosa?
Non l’avevo nemmeno ferito? Non aveva sentito tutta la mia forza scontrarsi
contro la sua mano? Credevo di aver esagerato e lui mi diceva che non aveva
sentito nulla?
«Ma…
ma non hai sentito nulla?» balbettai, delusa dal suo essere così tranquillo e
spensierato. Come poteva non aver sentito nulla? Ero piccola, ok, ma i muscoli
c’erano e li avevo usati bene.
«Come
fa ad aver sentito qualcosa? Andiamo, sarebbe come dire che senti il moscerino
che si schianta contro la visiera del casco, lentiggini. Non si sentirà mai
niente» sogghignò Ryan, alzandosi in piedi per prendere qualcosa dai suoi
jeans, non molto distante da me.
E
improvvisamente lo sentii: esattamente come Dollar l’aveva descritto, un
desiderio di colpire qualcuno tanto che le mani prudevano. Strinsi ancora di
più le nocche, facendole sbiancare e, dopo averlo raggiunto, aspettai che
ritornasse in posizione eretta e puntai dritta davanti a me: al suo stomaco.
«Porca
vacca che male» sbottai, ritirando subito la mano e circondandola con l’altra.
Dove diavolo l’avevo colpito, su una corazza di ferro? Cominciai a saltellare
per il dolore, senza badare alle risate di Ryan, davanti a me.
«Ryan,
però sei uno stronzo» mormorò Brandon, alzandosi e avvicinandosi a me. Prese la
mia mano tra le sue, aprendo le mie dita per controllare. Non c’erano ossa rotte,
di questo ne ero certa, ma avevo preso una bella botta. Contro cosa diavolo
avevo tirato il pugno?
«Non ho fatto niente, andiamo ragazzi» si
giustificò Ryan, allargando le braccia, come se volesse sottolineare che non
aveva niente da nascondere e che era colpa mia.
Mi
intestardii, come una bambina. Un po’ per la figuraccia che mi aveva fatto fare
e un po’ perché ero sicura che volontariamente mi avesse fatto sbattere contro
qualcosa di duro perché mi ferissi, così mugolai: «Mi hai fatto male. L'hai fatto
volontariamente». Tornai a guardare la mia mano con le nocche rosse; magari
sarebbero diventate viola, e dove sarei andata con una mano conciata peggio di
un boxeur?
«Ma
no che non l’ho fatto apposta, lentiggini. Sei tu che hai le ossa come quelle
dei bambini. Non stavo nemmeno trattenendo il respiro o altro, mi hai
totalmente colto di sorpresa, altrimenti ti saresti ferita molto di più». Oh
sì, ecco. Era così bello per lui farmi sentire una nullità? Ci godeva così
tanto? Le mie mani volevano tirargli un nuovo pugno, ma ero sicura che non
fosse una buona idea, se volevo rimanere con le ossa intere, così, con uno
sbuffo, cominciai a muovere le dita, prima che qualcosa arrivato da dietro di
me, mi sollevasse da terra facendomi urlare.
«Ambulanza,
ferito grave. Codice rosso. Dobbiamo controllare una possibile frattura di una
mano» continuava a strillare Dollar, sollevandomi da terra solo con un braccio
attorno alla mia vita.
Si
stava pericolosamente avvicinando all’acqua, ma ridere mi portava via tutte le
energie tanto che non riuscivo nemmeno a dirgli di fermarsi.
«Doll,
mettimi giù» urlai, quando i miei piedi toccarono l’acqua fredda dell’oceano. «Dollar»
ripetei, accorgendomi che non si fermava, ma anzi, che continuava ad avanzare
pericolosamente verso il largo. «Dollar mettimi giù».
Non
appena terminai la frase sentii una risata di Dollar e di qualche altro
ragazzo, ma non vidi nulla, perché mi ritrovai sott’acqua, completamente
sommersa. Quello stupido mi aveva lanciata come se fossi un sacco di patate ma
me l’avrebbe pagata. Mi misi in piedi, trovandomi con l’acqua a metà busto e mi
preparai ad attaccare: l’acqua era il mio ambiente naturale e Dollar l’avrebbe
capito.
Con
un gesto secco mi legai i capelli bagnati e ghignai, rivolta verso di lui: «Sei
pronto alla guerra, Dollar?». Probabilmente per lui non ero minacciosa, ma non
sapeva cosa ero in grado di fare. Avevo passato vent’anni della mia vita a
lottare contro ragazzi che erano il doppio di me, e non ero mai stata sconfitta
in nessun corpo a corpo durante una battaglia d’acqua.
«Aspetta
che chiamo i rinforzi». Dollar si voltò verso la riva, dandomi le spalle, e
fischiò, facendo un gesto con la mano ai ragazzi: gli aveva appena suggerito di
raggiungerci.
Oh,
bene! Uno contro uno, li avrei stesi tutti.
Ryan,
Brandon, Paul, Josh e Lebo però non avevano un’aria serena, sembrava stessero
andando in battaglia.
«Uno
contro uno vi demolirò» sghignazzai, strofinandomi le mani e sistemandomi il
pezzo sopra del costume perché non si spostasse.
«Uno
contro uno? No, lentiggini, non hai capito chi comanda». Quella frase, uscita
dalle labbra di Ryan, fu l’ultimo suono che riuscii a distinguere, prima che
una cascata di acqua mi investisse in pieno.
Tutti
e sei si erano coalizzati per annegarmi, e a nulla erano valse le mie
suppliche, anche sotto forma di urla. Nessun bagnante si era avvicinato a noi
per aiutarmi. Non sapevo se fosse perché i ragazzi potevano spaventare o perché
la scena era divertente da guardare; ma, quando uscimmo da quel bagno, non
sentivo più la schiena, martoriata dai loro getti d’acqua.
«Siete
davvero degli stupidi. Sei contro una. Donna oltretutto» sbottai, arrotolandomi
il telo da mare attorno alle spalle, mentre mi sedevo di fianco a Sick, che
aveva guardato tutta la scena divertito.
«Stai
scherzando? Abbiamo avuto pietà di te solo perché Sick era infortunato,
altrimenti non saresti sopravvissuta al nostro attacco». Brandon prese posto vicino
a me, passandosi una mano tra i capelli bagnati e scompigliandoli ancora di
più. Notai subito l’aquila disegnata all’interno del suo braccio, sotto alla
spalla sinistra. Non era grande nemmeno la metà di quella che Ryan aveva
tatuata sopra al cuore, ma per qualche strana ragione me la ricordava.
Chissà
perché tutti avevano un tatuaggio dell’aquila, che fosse qualche tradizione
della banda?
«Brandon,
posso chiederti una cosa?». Non sapevo con che coraggio gli avrei posto quella
domanda, forse era solo curiosità.
Mi
guardò per qualche secondo, indeciso, poi, con lo sguardo, cercò il consenso di
Ryan. Quel gesto mi riportò alla mente una domanda che spesso mi ero posta, una
domanda che forse era meglio rispetto a quella del tatuaggio. Alla non risposta
di Brandon –che interpretai come un via libera –presi un respiro profondo e
tanto coraggio.
«Che
cos’è Ryan? Perché tutti quanti fate quello che lui dice e non lo contraddite
mai?». Ecco, l’avevo chiesto, finalmente. Dopo mesi, speravo che Brandon fosse
in grado di darmi una risposta, una vera risposta, senza mezze verità o
complete bugie.
«Ryan
è il nostro O.G.» spiegò Brandon, a bassa voce. Sembrava che mi avesse rivelato
un segreto inconfessabile, ma non riuscivo a capire a cosa si riferisse.
O.G.,
che cosa poteva significare? Cercavo di associare quelle iniziali a qualcosa
che potesse c’entrare con gli Eagles, ma non mi veniva in mente nulla, e di
certo, ogni mia supposizione sarebbe stata sbagliata, quindi era meglio
chiedere.
«Cioè?»
bisbigliai, temendo che qualcuno potesse sentire quello di cui stavamo
parlando. Lo strano comportamento di Brandon mi faceva reagire di conseguenza:
sguardi circospetti per controllare che non ci fossero persone in ascolto e
tono di voce basso.
«Cioè
Original Gangster. Sono il capo degli Eagles. Hai paura adesso, lentiggini?».
Sussultai spaventata; non avevo notato che Ryan si era seduto di fianco a me,
cominciando a parlare. Mi voltai verso di lui, concentrandomi su quello che
aveva detto. Original Gangster.
Avevo
sempre associato i Gangster alla Mafia, ma quindi le bande c’entravano qualcosa?
E che significato aveva essere l’O.G. degli Eagles?
«E
quindi? Cosa fai per essere un O.G.? Che differenza c’è tra te e… Brandon? O
Dollar?». Che avessero dei ‘gradi’ diversi? Forse Ryan poteva dare ordini a
tutti, ma qualcuno aveva più potere di lui?
«L’O.G.
è il capo, non c’è nessuno sopra di me. Io posso comandare a tutti e loro
devono rispettarmi. Io ho deciso i loro gradi, Brandon è il vice, quindi ha
quasi la mia importanza, poi c’è Sick che è Sergente. Il resto è come se
fossero… soldati? Non riesco a spiegarti. Non lo faccio perché non mi piace, ma
dovrei decidere i nomi da strada dei ragazzi, l’ho fatto solo con Sick e
Dollar, ma perché fa parte del loro carattere. I nomi da strada servono per
dargli una nuova identità, perché possano capire che gli Eagles sono la loro
nuova famiglia e perché i Misfitous e la gente capiscano che fanno parte degli
Eagles a tutti gli effetti e non sono solo gonna-be; una volta che entri negli
Eagles non puoi più uscirne, a meno che…» si interruppe, smettendo di fare
disegni astratti sulla sabbia per guardarmi. Non si poteva uscire dagli Eagles
a meno che? Qual era l’unica via per uscire da una banda?
«Cosa?»
mormorai, come se non volessi veramente sentire la risposta. Perché Ryan si era
interrotto proprio in quel momento, come se non volesse farmi sapere la verità?
Abbassò
di nuovo lo sguardo, tornando a guardare la sabbia tra i suoi piedi; poi, dopo
un sospiro, riprese a parlare con lo stesso tono basso e calmo: «a meno che non
muoia l’O.G., solo in quel caso il singolo elemento può decidere se rimanere
nella banda o uscirne per sempre. Però due dei nostri ci hanno tradito, erano
in combutta con i Misfitous e appena ce ne siamo accorti li abbiamo sistemati,
per questo, tra le nostre foto, ce ne sono un paio al contrario. I traditori
non meritano di avere la stessa importanza. I traditori non meritano nemmeno di
portare il flag con loro. Il flag è la nostra bandiera, il modo in cui ci
facciamo riconoscere quando siamo nel nostro territorio. Solo gli Hard-Cores
hanno il flag e non lo usiamo ovunque. Non consegniamo nemmeno il flag a ogni
nuovo entrato, ci vuole tempo per fidarsi dei nuovi. Molti entrano negli Eagles
solo per protezione, perché hanno paura di noi, altri lo fanno per farsi
vedere, e non li sopporto. Gli Eagles sono una famiglia, sono la mia vita. Mi
fanno girare i coglioni i bambinetti che vogliono entrare perché hanno paura di
me. Per questo noi reclutiamo solamente quelli che hanno almeno sedici anni. I
Misfitous sono diversi, loro fanno come gli altri: se ne fregano e li arruolano
quando hanno quattordici anni solo per fare numero. Ma non mi interessa il
numero, non mi interessa vincere uno scontro con loro, voglio che i miei
sappiano perché lo fanno e devono essere convinti. Un Eagles è per sempre, non
puoi decidere di andartene perché non vuoi derubare qualcuno. Sai quello che
fai quando entri in una banda: devi rubare, uccidere, sparare. Non puoi
fermarti a guardare chi stai uccidendo, o non te lo dimenticherai mai. Un
Eagles uccide quando non ha scelta e ruba solo quando sa che può farlo, se un
Eagles uccide un innocente non lo fa volutamente, capita. Le armi sono
pericolose, sì. La droga è qualcosa di sporco, ma non me ne fotte un cazzo. Io
so quello che è meglio per gli Eagles e faccio così, nei limiti del possibile e
sperando che nessuno venga ucciso, succede sempre; può succedere sempre, anche
quando il tuo topo è un Maya. Loro sono quelli che viaggiano con i soldi, sono
la preda migliore perché non hanno documenti e non andranno mai dalla polizia a
denunciarti; e noi lo sappiamo, tutti lo sanno. Ma gli Eagles sono i più forti,
tutti ci temono». Non avevo mai sentito Ryan fare un discorso più lungo e serio
di quello. Niente ironia, niente battutine idiote o frasi messe in mezzo per
prendermi in giro, mi aveva solamente raccontato la verità nuda e cruda, quella
che io gli avevo chiesto. In qualche modo era quasi strano sentirlo parlare
degli Eagles, perché, mentre ne parlava, sentivo un tono orgoglioso nella sua
voce, come se ne fosse direttamente responsabile.
«Quando
sono nati gli Eagles?». Era una domanda lecita, la mia. Dopo tutto quello che
mi aveva raccontato non poteva di certo pensare di aver placato la mia
curiosità, anzi, era l’esatto contrario.
«Vuoi
la versione lunga o quella corta?». Per qualche istante, sul suo volto, tornò
quel ghigno che sparì subito, sommerso da quello sguardo fiero, quello che
nasceva quando parlava della sua vita, della sua banda.
«Voglio
capire». Avevo tempo e sapevo che anche loro si erano presi una giornata di
‘vacanza’ dalla loro strana attività. Speravo che, come lo era stato fino a
quel momento, Ryan rimanesse serio e mi spiegasse tutto quello che volevo
sapere, perché, sembrava quasi… interessante, visto dai suoi occhi.
«Quasi
vent’anni fa c’era un bambino pestifero, marinava la scuola e non ascoltava mai
suo zio –viveva con lui perché i suoi genitori avevano deciso di andarsene e
lasciarlo da solo per girare il modo –così, questo bambino, ascoltava le
vecchie storie dei meccanici che lavoravano dal suo vicino. Ne era così
affascinato che ogni mattina, al posto di andare a scuola, correva
nell’officina e si sistemava dentro al cofano vuoto di una vecchia Mustang
nera, seminascosto. Sapeva che tutti riuscivano a vederlo, ma quello era il suo
nascondiglio. Suo, e del suo amico. L’altro piccolo diavolo che lo seguiva e
incitava in tutto. Così ci sono cresciuti, con queste storie. Vecchie leggende
del ghetto, quando tutto il Bronx era colmo di bande che si trasferivano qui
dalla California. In quegli anni, gli operai di quell’officina si lamentavano,
perché c’erano sempre meno gang che sapevano fare il loro lavoro. C’era poca
protezione. Non si sentiva più parlare di gang come i Fordham Aggies o dei
Fordham Baldies. Non c’erano nemmeno più gli Shamrocks, una gang irlandese che
si era trasferita qui, terrorizzando tutti tra gli anni cinquanta e sessanta. Non
si sentiva più nei corridoi delle scuole, studenti urlare The Baldies were coming, non c’era nemmeno più l’intervento della
polizia. Non c’erano più i biglietti da visita dei Baldies, che rasavano le
teste di quelli che incontravano. Non c’erano i Ducky Boys o altre gang, più
nulla. Tutto era in sordina per quel fottuto finto trattato che era stato fatto
quasi dieci anni prima. E quei due ragazzi non riuscivano a capire perché non
ci fosse più niente di tutte quelle storie per colpa dell’Hoe Avenue Peace Meeting. Tu lentiggini, naturalmente non sai di
cosa sto parlando, ma il trattato di pace dell’Hoe Avenue è un’assemblea
avvenuta il sette dicembre del settantuno qui, nel Bronx. L’avevano indetta
perché ci fosse una pace tra le gang, dopo la morte dell’O.G. dei Ghetto
Brothers, un uomo che si chiamava Black Benjie. Inutile dire che non c’era
stata nessuna pace, solo una negoziazione delle strade perché ci fossero meno
vittime. Questo incontro si svolse al Boys Club, sulla Hoe Avenue; c’erano
dozzine di gang e anche poliziotti, per placare gli animi in caso di rissa,
visto che erano presenti le più importanti gang, come Black Pearls, Savage Skulls, Turbans, Young
Sinners, Royal Javelins, Dutchmen, Magnificent Seven, Dirty Dozens, Liberated
Panthers, Black Spades, Seven Immortals, Latin Spades, Peacemakers ma
soprattutto i Ghetto Brothers. Te l’ho già
detto, no? Loro volevano la pace per rivendicare il capo, un ragazzo di
venticinque anni; quello che però non ho menzionato prima, è il motivo della
sua morte: stava cercando di dividere due gang che volevano combattere. Un
fottuto modo del cazzo per morire, non trovi? Un fottuto trattato di pace dove
presidenti e vicepresidenti erano seduti in cerchio su sedie di pelle, dietro
di loro le rispettive bande e le mogli ad aspettarli fuori al freddo. C’erano
solo due donne dentro la palestra del Boys Club: le presidenti delle uniche due
gang femminili; Alley Cats e Savage Sisters. Però non erano sedute sul primo
cerchio, assieme a tutti i presidenti e vice, erano appena dietro, assieme ai
soldati. Così si è concluso quel trattato di pace, dove tutti, per una decina
d’anni, hanno deciso di rallentare con le risse da strada. Meno morti, meno
sospetti da parte della polizia. Per questo quei due ragazzi hanno deciso di
riportare alto il valore di quello che facevano i loro antenati: combattere
contro altre gang per avere un determinato territorio. Così, a quattordici
anni, hanno formato la loro gang, hanno usato un fazzoletto rosso per
simboleggiare il sangue di chi sarebbe morto e hanno deciso che l’unica regola
era quella di essere americani. Solo degli Stati Uniti. E sono nati gli Eagles,
hanno cominciato a reclutare ragazzi, si sono allenati, e in pochi mesi tutti parlavano
degli Eagles. Ma non può esserci solo una banda, no? Se ce ne fosse solo una
così forte da dominare tutto non sarebbe nemmeno divertente. Come fai a
scippare qualcuno, se poi sai che è sotto la tua protezione? Come puoi sparare
a un fratello che la pensa come te? Un paio di mesi dopo sono nati i Misfitous,
che all’epoca erano i Misfit Promiscous. Che nome da coglioni, tra l’altro.
Poi, non si sa chi, ha deciso di unirlo, perché potessero sembrare più cattivi.
Alcuni dicono che noi siamo i discendenti dei Ducks, altri che i Misfitous lo
sono dei Socials, detti Socs. La verità è che Eagles e Misfitous sono nati per
rendere omaggio a tutte le gang del passato. E poi, un membro dopo l’altro,
siamo arrivati agli Eagles che vedi qui attorno a noi». Non aveva mai smesso di
parlare, mai. Si era quasi dimenticato della mia attenzione su di lui,
impegnato com’era a giocherellare con la sabbia, come se le sue mani fossero
una clessidra. Ryan si era dimenticato di me, sopraffatto dai ricordi. Ma
quando lui era diventato il presidente degli Eagles? Come era morto il primo? E
quanti presidenti c’erano stati prima di Ryan?
«Come
si chiamava il primo presidente?». Ryan ne aveva parlato quasi come se l’avesse
conosciuto; magari era suo padre o qualcuno che conosceva. La sua reazione mi
stupì: mi guardò per qualche secondo immobile, per poi cominciare a ridere così
forte da portarsi una mano sulla pancia. Che avevo detto di così comico?
«Lentiggini,
delle volte sei così… stupida» sbottò, dandomi una pacca sulla spalla e
alzandosi per raggiungere Sick e i gemelli, a qualche metro da noi. Mi lasciò
lì da sola, mentre cercavo di capire perché la mia domanda l’avesse fatto
ridere così tanto.
«Che
cosa gli hai detto di così divertente?» sogghignò Brandon, prendendo il posto
di Ryan di fianco a me e togliendosi la sabbia che gli sporcava le ginocchia.
Mi guardò, sorridendo tranquillo, come se sapesse quello che mi aveva
raccontato Ryan. Che l’avesse sentito, nonostante il tono basso? O forse, visto
che Brandon era il suo vice, si erano messi d’accordo prima?
«Gli
ho chiesto qual è il nome del primo presidente degli Eagles, quello che si
nascondeva con il suo amico dentro al cofano vuoto della vecchia Mustang. Era
suo padre o…». Idiota, ecco cos’ero. Ryan aveva pienamente ragione. Lui era il
primo presidente degli Eagles e Brandon il suo amico, quello che l’aveva sempre
appoggiato in tutto.
«Ora
hai capito?» domandò, sempre di buonumore. Sembrava davvero rilassato lì,
seduto su quel tronco, in riva all’oceano, mentre il sole lo colpiva in pieno
viso, costringendolo a portare un paio di occhiali da sole che nascondevano i
suoi occhi azzurri.
«Sì.
Ma c’è una cosa che Ryan non mi ha spiegato. E visto che tu sei il suo vice… mi
chiedevo: che cosa sono le Signore?». Mi ero fatta un’idea, ma preferivo
saperlo da Brandon, così da capire bene a cosa si riferisse chi mi chiamava in
quel modo.
«Le
Signore sono le fidanzate o le mogli. Le ragazze di un componente. Quasi tutte
le gang quando fanno le feste si divertono, ci sono ragazze come Butterfly che
sono pronte a soddisfarci. Però, se uno ha una Signora, non la tradisce,
capisci? Se qualcuno di noi avesse una Signora e noi vedessimo che la sta
tradendo, dovremmo allontanarlo dagli Eagles. Non puoi trombare con una
puttana, se hai una Signora che ti aspetta a casa, qualche lavoretto di bocca,
ma è il massimo che puoi fare, capisci? C’è rispetto per le nostre Signore e
non puoi tradirle. Forse per te anche questo è tradire, ma… è come se fosse un
modo per sfogarsi» concluse, imbarazzato. Sembrava si fosse reso conto dopo dei
termini che aveva usato; lui, che era sempre così serio e posato sembrava quasi
aver preso la strana malattia di Sick.
«E
nessuno di voi ha una Signora, o l’ha mai avuta?». In fin dei conti Butterfly
parlava come se andasse a letto con tutti loro, e non avevo mai visto donne
entrare o uscire dal loro appartamento: esclusa Butterfly, ovviamente.
«Adesso
no, però ce ne sono state. Ma dovresti capire anche tu che non è così facile essere
la Signora di uno di una gang. So che nei Misfitous Mike ha una Signora da un
paio d’anni, è una ragazza che lavora in un negozio a New York, Kristin o una
cosa così. Ma non si parla con le Signore delle altre gang, perché poi
riferiscono. Non sono importanti come un Hard-cores, ma ti tengono per le
palle, capisci? Hanno il potere». Quella sua strana affermazione mi fece
ridere. Si stava davvero sforzando di non essere volgare, ma ogni tanto, quando
si immergeva nel discorso, gli scappava qualche termine poco fine.
«E
chi degli Eagles ha avuto una Signora?». Non sapevo davvero chi di loro fosse
il tipo da avere una ragazza. Ryan, forse? Non me lo immaginavo di certo mentre
portava cioccolatini o fiori a San Valentino. Nemmeno Sick era quel tipo.
«Sick.
Ha avuto una Signora per un paio di mesi, era perso per lei o meglio, per le
sue tette. A lei non è mai interessato molto di lui, diciamo che si divertivano
assieme, e si sentiva, credimi. Poi lei è scappata in Italia e si è sposata con
il ragazzo di sempre. Era anche simpatica, ma non nominarla a Sick, altrimenti
comincia a raccontarti la storia, e credimi che va nei particolari delle loro
sessioni… porno. Non nominare mai, mai, il nome di Claire con lui vicino,
d’accordo?» sussurrò, guardando verso Sick che continuava a ridere,
sorseggiando una birra. Annuii convinta, senza smettere di ridere all’immagine
di Sick innamorato. «E poi Dollar. Sono convinto che è ancora innamorato di
lei, ma non lo ammetterà mai. Dollar fa tanto il forte, ma lo sappiamo tutti che
ha sedici anni, e lo sanno anche i suoi ormoni ogni volta che si avvicina a
lei. Ci è cresciuto assieme, insomma. Infine, l’ultimo che ha avuto una
Signora, per ben tre anni, sono stato io. Ma mi ha lasciato, quindi, perdonami,
ma al momento non sono interessato a storie serie con te, Lexi». Ammiccò,
facendomi ridere. Apprezzavo la sua sincerità e sapevo anche che era una
battuta. Io non ero interessata a Brandon, non ero interessata a nessuno di
loro, in verità.
Però,
sapere che alcuni di loro, nonostante la vita tra pistole, risse, droga e
morte, fossero dei ragazzi normali, con la voglia di costruirsi una famiglia,
me li faceva amare ancora di più.
Non
era un amore carnale, era come se fossero degli amici, come se dovessi
proteggerli. Una cosa stupida, visto che in teoria, guardando la stazza fisica,
era il contrario.
Ryan
richiamò Brandon di fianco a lui per accendere il fuoco, e dopo essermi alzata
per sgranchirmi le gambe, mi avvicinai a loro, sedendomi di fianco a Dollar che
pensò fosse una buona idea circondarmi le spalle con un suo braccio.
«Così
stai più calda, con quella canottierina prenderai freddo». La sua
giustificazione era talmente stupida e infantile che liquidai la faccenda con
una battuta. In verità, un paio d’ore dopo, il braccio di Dollar mi serviva
davvero come coperta. Mi ero dimenticata di portarmi una felpa, cosa che i
ragazzi avevano. Dollar aveva insistito tanto per prestarmi la sua, ma con la
scusa di essere abituata alle feste in spiaggia e il fuoco a scaldarmi, riuscii
a non accettare. Non volevo che si ammalasse per colpa mia, mi sarei sentita in
colpa.
Ridacchiai,
sentendo la battuta idiota di Sick riguardo una ragazza che ci aveva provato
con lui –senza successo, perché era brutta – quando il cellulare di Ryan
squillò, attirando l’attenzione di tutti che si zittirono.
«Che
c’è?» sbottò Ryan, portandosi il ricevitore all’orecchio. Nessuno gli staccava
gli occhi di dosso, in attesa di capire chi l’avesse disturbato. L’espressione
di Ryan mutò all’improvviso: il sorriso che aveva fino a qualche istante prima
svanì, lasciando spazio a una sorpresa iniziale che si tramutò in rabbia e
forse in qualche altra emozione. «Dove sei?» domandò di nuovo, alzandosi in
piedi e spegnendo il fuoco davanti a noi ricoprendolo con delle pedate di sabbia.
«Dove cazzo lo stanno portando?» strillò, facendomi sussultare spaventata. Ryan
sembrava fuori di sé: tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla, si
slacciò la felpa, chiudendo subito dopo la chiamata con un ringhio.
I
ragazzi erano già tutti in piedi, con i rispettivi caschi in mano, pronti a
partire nonostante non sapessero di cosa si trattasse. «Cosa succede?» domandò
Brandon, a voce di tutti.
«JC.
Aria mi ha chiamato, stava andando a salutarlo finito il turno al Phoenix e
quando è arrivata in officina l’ha trovato per terra. Gli hanno sparato su un
fianco e ha un punto rosso disegnato sulla fronte. Sono stati loro, cazzo.
Perché siamo stati così stupidi? Perché cazzo siamo venuti al mare? Lo sanno
che veniamo qui ogni anno, perché prendersela proprio con JC, cazzo? Non è
nemmeno un Hard-Cores, non sarà arrivato alla sua pistola, porca puttana». Ryan
indossò il casco, tendendomi l’altro perché seguissi il suo esempio. Nessuno
parlava, nessuno osava contraddirlo, anche perché, ne ero convinta, sarebbe
stato stupido farlo. Era furioso, molto più di quando erano morti Liam e Shake.
Ma, mi sembrava di aver capito che JC fosse ancora vivo. «Tieni, mettiti questa».
Mi porse la felpa che si era levato qualche minuto prima, perché la indossassi.
«Ryan,
tienila tu» mormorai, sicura che lui avrebbe sentito molto più freddo di me,
visto che il suo corpo, durante il viaggio in moto, mi avrebbe riparata dal
vento freddo della notte newyorkese.
«Indossa
questa fottuta felpa prima che ti faccia seriamente del male». La strattonò,
lanciandomela quasi addosso. Forse non dovevo più contraddirlo, non era il
momento e di certo non stava scherzando. Chiusi velocemente la zip, cercando di
arrotolare le maniche decisamente troppo lunghe. «Adesso ti porto a casa e poi
noi andiamo al St. Barnabas, Aria ci aspetta lì. Voglio arrivare prima che sia
troppo tardi, Aria ha detto che ha perso troppo sangue». Aria era in ospedale
con JC? Perché?
«Voglio
venire in ospedale con voi, vorrei stare con Aria». Probabilmente Ryan mi
avrebbe uccisa. Questa idea mi terrorizzò al punto che cercai di raggomitolarmi
su me stessa, mentre mi sistemavo sulla sua moto.
Mi
aspettavo una nuova sfuriata che non arrivò: Brandon gli appoggiò la mano sulla
spalla, attirando la sua attenzione. Quando Ryan lo guardò, cercò di respirare
profondamente, fermandosi.
«Aria
ne avrà bisogno e se non la portiamo a casa arriveremo prima» suggerì Brandon.
Quell’idea sembrò convincere Ryan che, annuendo, salì in moto, dando gas per
accenderla.
Il
viaggio di ritorno non era paragonabile a quello dell’andata. Se, quella
mattina, Ryan faceva l’idiota correndo, in quel momento non si rendeva nemmeno
conto della velocità a cui ci muovevamo: il vento che fischiava anche se avevo
il casco, l’aria che mi feriva come se fossero stati dei coltelli sulle gambe e
la mano di Ryan appoggiata alle mie, che stringeva la presa, come se avesse
paura che potessi volare via.
Ero
appiattita contro di lui, cercando di scaldarlo; sapevo di non riuscirci, ma
cercavo di abbracciarlo il più forte possibile, anche per non essere
catapultata via dalla moto. Non sarebbe mai successo con la presa salda delle
dita di Ryan attorno ai miei polsi.
Quando,
quasi un quarto d’ora dopo, arrivammo davanti al Pronto Soccorso del St.
Barnabas, i motori delle moto dei ragazzi si spensero contemporaneamente. Ryan
lasciò la presa sulle mie mani, mettendo il cavalletto alla moto e scendendo
subito dopo. Si allontanò, seguito da Brandon e dagli altri, senza nemmeno
aspettarmi, tanto che, dopo essere scesa dalla moto con qualche problema,
cominciai a correre per raggiungerli. Quando ci riuscii, avevano appena parlato
con l’infermiera all’accettazione, che indicò un corridoio alle sue spalle.
Ryan,
Brandon e Dollar davanti, Sick e i gemelli dietro e io per ultima.
Dollar
aprì la porta, ansioso forse più di Ryan di sapere come stesse JC, ma, quando
entrai anche io, rimasi pietrificata dalla scena: Aria, stretta tra le braccia
di Dollar che la cullava, stava piangendo; i suoi singhiozzi erano gli unici
rumori che si sentivano.
«Mi
dispiace così tanto, Aria» mormorò Dollar, accarezzandole la schiena
lentamente.
JC
non ce l’aveva fatta, così aveva singhiozzato Aria, senza smettere di piangere
tra le braccia di Dollar. Quando lui la accompagnò fuori per farle prendere una
boccata d’aria, un silenzio quasi doloroso calò dentro alla sala, fino a
quando, in lontananza, sentii il rumore dei fuochi d’artificio del quattro
luglio: la gente festeggiava l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, noi,
invece, eravamo in un corridoio d’ospedale, sconvolti dalla morte di JC.
Non
c’era assolutamente niente da festeggiare, e il rumore di quei botti cominciava
a innervosirmi: diventava sempre più forte e più frequente, entrandomi dentro e
confondendomi.
Socchiusi
gli occhi, cercando di calmare il mio respiro e, nel momento in cui li riaprii,
il rumore dei fuochi d’artificio cessò: un silenzio sordo, che mi terrorizzò,
di nuovo.
Se c’è qualcuno ancora sveglio, vi prego, battete
un colpo! :D
Siete sveglie e pronte? Perché dopo un capitolo
lungo il doppio, ci sono anche le note!
Duuuunque, prima di tutto, se siete arrivate fin
qui, vi ringrazio, vuol dire che qualcosina-ina di gang vi interessa (o forse
vi interessa il morto? Mah). In ogni caso, ci terrei a specificare delle cose,
per essere precisi e per ricordarvi, come sempre, che non invento e tantomeno copio
da qualche telefilm o altro.
Dunque, prima di tutto partiamo dallo scoppio di
Lexi: non era preventivato, nel senso che non l’avevo mai pensato, poi, mentre
scrivevo, mi sono messa a piangere con lei, perché in qualche modo mi sembrava
ne avesse bisogno e forse è questo il motivo per cui, il giorno dopo, affronta tutto
con più serenità. È come se si fosse liberata di tutte le emozioni che ha
incamerato da quando è arrivata e fosse pronta a ricominciare di nuovo. Una
cosa è certa: si è resa conto di quello che è successo, però, anche se sembra
un comportamento strano, non riesce a staccarsi da Brandon, perché deve
rimanere aggrappata alla realtà.
Per quanto riguarda la parte storica, la storia dell’OG, dei nomi da
strada, della morte del capo (che è l’unico modo per uscire dalla gang) e dei
Maya che portano i soldi e vengono derubati perché non hanno documenti e quindi
non possono denunciare nessuno alla polizia… è tutta vera. L’ho trovata scritta
in più saggi e interviste, e siccome mi sembrava carina, ho deciso di metterla.
Spero che dopo la precisazione che Ryan è l’OG degli Eagles, sia chiaro il
perché hanno quel rapporto con lui: non è paura, semplicemente rispetto per il
loro capo. E da qui nasce anche la differenza di comportamento tra gli Eagles e
Brandon. Lui, oltre a essere il vice e avere quindi più potere rispetto agli
altri, è sempre stato amico di Ryan, un po’ come se fosse un po’ OG anche lui,
ecco. Ah sì, in SoA tutti hanno un grado, pensavo questa cosa fosse inventata,
ma alla fine non lo è, semplicemente, il loro ‘Presidente’ è l’OG delle gang di
NY, ecco. Per il resto è uguale, tranne la differenza di alcuni nomi (da Gonna
Be a Prospect).
L’Hoe Avenue Peace Meeting è
avvenuto sul serio e tutto quello che ho scritto a riguardo è vero; il nome
delle gang, le due gang di ragazze che, pur essendo ammesse non avevano il
privilegio di rimanere sedute nella prima fila assieme a tutti gli altri
presidenti, le mogli che attendevano fuori… tutto vero, anche la parte dell’OG
dei Ghetto Brothers che è stato
assassinato perché cercava di fermare una rissa tra due gang. Questo perché lui
era per la pace tra le gang, e cercava di convertire tutti (da questa idea i GB
avevano cercato di convertire le gang con l’Hoe Avenue Peace Meeting. Cosa che
non è successa, come ho scritto).
Cosa è inventato? La storia degli Eagles, naturalmente. Da quando Ryan
entra in gioco tutto è falso, anche perché, nonostante io vi abbia detto che
Eagles e Misfitous sono basati su Bloods e Cribs, questi non sono delle gang
nate per riportare alto l’onore delle gang. Dopo l’HAPM tutte le gang hanno
continuato con il loro lavoro, con la nascita di altre gang.
Ancora una volta, il concetto di Signora l’ho preso da Sons of Anarchy,
dove succede esattamente quello: non puoi tradirla con un rapporto completo
perché gli altri ragazzi possono anche escluderti dalla banda. Diciamo che, in
qualche modo, ha un senso. Se pensiamo che sono circondati da ragazze…
espansive (chiamiamole così) che cercano in tutti i modi di diventare Signore
(per la protezione, il potere e la fama che si ha con questo ruolo), capiamo
che per un uomo non è facile resistere. Sarebbe come vivere perennemente in un
video di 50 cent senza poter muovere
un muscolo. Quindi, chi non ha Signora è libero di muoversi anche troppo, chi
invece ce l’ha, deve stare attento a quello che muove. Rapporto completo:
esclusione dalla gang e in ogni caso si dice alla Signora che l’uomo l’ha
tradita. C’è tanto rispetto per le donne, dico davvero.
Ultima cosa, poi giuro che ho finito: il punto rosso che JC ha in fronte è
il biglietto da visita dei Misfitous. Quello degli Eagles non l’ho volutamente
mai nemmeno menzionato, perché fino a questo momento non vi interessava. Perché
un punto rosso? Perché non ho trovato di meglio. Ahahha, no, seriamente: avevo
pensato a qualcosa che potesse ricordare il fatto che sono emarginati, che sono
di tante etnie e l’unica cosa che aveva un senso, forse, era un punto rosso che
simboleggia l’unione di diversi tipi di sangue, di diverse etnie, ecco.
Volevo qualcosa di ‘significativo’ un po’ come i Baldies (quelli di the Baldies were coming) che rasavano le
teste come biglietto da visita. Un codice, ecco: testa rasata? Hai incontrato i
Baldies.
In SoA, ad esempio, loro lasciano la A cerchiata (simbolo degli Anarchici),
e un’altra banda lascia la croce uncinata, per farvi capire che questa cosa non
è inventata né da me, né tantomeno da Sutter.
La morte di JC… diciamo che è un avvenimento importante, perché, visto che
lui non è un Hard cores, ma semplicemente un Associates, è come se i Misfitous
avessero aperto una sfida. Ma mi fermo qui, per non spoilerare troppo, suvvia!
Detto questo, credo davvero di aver sforato anche con le note (c’è un
limite per le note?) e quindi, come sempre, ringrazio preferiti, seguiti, da
ricordare, chi ha anche il coraggio di inserirmi tra gli autori (che non è una
parola che mi descrive) preferiti, chi legge e chi commenta. Non so mai come
ringraziarvi davvero, perché siete sempre tantissimi!
Infine, come sempre, vi ricordo che potete trovarmi qui: NERDS’ CORNER. È il
gruppo spoiler, dove, tra l’altro, ho già inserito i volti dei due nuovi
Gonna-Be degli Eagles. Vi ricordo che iscrivervi è gratis e non c’è tassa,
sapete però, che se lo fate è a vostro rischio e pericolo, perché rompo le
palle spesso.
Chiudo davvero, stavolta.
Grazie ancora, se siete sveglie e vive.
Rob.
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Capitolo 10 *** Lexi's secret ***
YSM
Nei giorni successivi mi ritrovai catapultata in un vortice
di emozioni che faticavo a gestire.
Lavoro, Eagles, Aria… dovevo assolutamente dedicarmi a chi
stava soffrendo di più in quel momento. Su una scala da uno a dieci, il dieci
apparteneva ad Aria: lei era più importante di tutti. Dopo la morte di JC, Aria
si era lasciata andare: non veniva più al Phoenix e, quando passavo a casa sua
di sera, la trovavo rannicchiata sul divano, con gli occhi arrossati dalle
lacrime. Per questo, quando mi aveva raccontato che JC – suo zio – era il
proprietario dell’officina della storia di Ryan, avevo capito perché i ragazzi
avessero reagito così male alla notizia della sua morte.
JC era un po’ il loro mentore, forse quello che li aveva
visti nascere, non portava il flag, ma ero sicura che fosse praticamente un
Eagles a tutti gli effetti; e, anche se non ci avevo parlato spesso, sapevo che
doveva essere un bravo ragazzo. Aria non parlava quasi mai di lui quando
rimanevo lì di fianco a lei; piangeva, cercando di trattenersi senza successo.
E lo stava facendo anche in quel momento, mentre le
circondavo i fianchi con un braccio, camminando di fianco a lei, sotto a quel
viale alberato che conduceva a tutte quelle tombe.
I ragazzi erano davanti a noi: avanzavano silenziosi e a
capo chino, lasciando che il flag uscisse dalle loro tasche, svolazzando per il
vento afoso che c’era. Dietro di noi, una piccola folla di gente, probabilmente
clienti abituali di JC e della sua officina.
Non c’erano nessuna compagna o figli, JC non aveva famiglia
– come mi aveva spiegato Aria –, la famiglia era il suo lavoro. La famiglia era
ritrovarsi con i ragazzi a tarda notte, quando l’officina era chiusa e potevano
sistemare le moto, truccandole per farle correre più veloci e silenziose.
Mi sistemai di fianco ad Aria, in prima fila, poco distante
da quella bara marrone, ricoperta dalla bandiera a stelle e strisce e da un
cuscino di rose rosse. Continuavo a sentire i suoi singhiozzi, nonostante
cercasse di trattenerli; ma sapevo che era impossibile. Aria considerava JC
come un genitore, più che come uno zio. Non sapevo cosa fosse successo ai suoi
veri genitori, ma sicuramente JC l’aveva cresciuta e amata come se fosse stata
sua figlia. Per questo, Aria sembrò calmarsi solamente quando Dollar, sedutosi
di fianco a lei, la fece appoggiare contro il suo petto, lasciando che si
sfogasse e sussurrandole qualcosa all’orecchio.
«Tutto
bene, lentiggini?» mormorò
Ryan, sedendosi di fianco a me, con un sospiro stanco. Annuii solamente,
cercando di non peggiorare la situazione: avevo un groppo alla gola che sapevo
mi avrebbe fatto tremare la voce se solo avessi cercato di parlare. Vedere i
ragazzi e Ryan così provati poi, mi faceva stare ancora più male. Perché anche
loro erano umani, nonostante le armi, nonostante le battute idiote e nonostante
tutto: sapevano amare, provavano emozioni vere, oltre alla rabbia e all’odio.
Per questo, ne ero sicura, lasciai sfuggire una lacrima
quando il pastore cominciò la funzione. Continuavo a guardare la foto stampata
sulla lapide, quel nome e quei numeri, troppo vicini per pensare che JC avesse
potuto davvero vivere fino in fondo la sua vita.
Quando, all’ordine di dire qualcosa, Dollar si alzò dalla
sedia, schiarendosi la voce, lo guardai sorpresa: credevo fosse Ryan a parlare
di JC, raccontando a tutti quello che aveva detto a me, la sua infanzia
all’officina, il suo creare gli Eagles e considerare JC come uno di loro.
«Io… io
non sono tanto bravo con le parole, ma vorrei davvero dire qualcosa per JC. Ecco,
lui… lui era come un padre per me. Non voglio offendere Ryan e gli altri
ragazzi che mi hanno insegnato a vivere, ma JC, lui è stato come un papà,
perché mi ha insegnato ad amare, mi ha concesso di amare». Il suo sguardo, con un sorriso amaro si posò su Aria, che
sorrise, asciugandosi una nuova lacrima che scivolò sulla sua guancia. «Insomma, quando mi ha trovato
fuori dalla sua officina perché mi avevano abbandonato non ci ha pensato due
volte e mi ha portato a casa con lui. Poi si è comportato da coglione e mi ha
fatto conoscere Ryan, ma prima ha cercato di proteggermi, insegnandomi a
fidarmi delle persone. E io l’ho fatto Jay, io mi sono fidato di te, perché la
fiducia dovevi meritartela, no? Eri un pezzo di merda con i clienti, ma non ti
sei mai lamentato quando ti accorgevi che ti rubavo venti dollari per prendermi
le caramelle prima e la roba dopo. Sei stato tu che mi ha dato questo
soprannome, no? Perché prendevo i soldi dollaro per dollaro, nascondendoli
dentro alle mutande». Dollar
si interruppe, lo sguardo distante e triste, nonostante ci fosse un sorriso
sulle sue labbra. «E poi,
quando ha visto che Aria non mi interessava solo per copiare i suoi compiti, mi
ha dato anche il permesso per trombarmela. E lo ringrazio per questo, insomma…». Di nuovo il suo sguardo saettò
verso Aria, allibita da quello che aveva sentito. Il pastore si schiarì la
voce, attirando l’attenzione di Dollar che si scusò per il linguaggio che aveva
usato. «E poi… niente, grazie
a JC sono diventato l’Eagles più giovane e portavo il flag già a scuola,
vantandomi. Solo che mi sento di non averlo mai ringraziato a sufficienza,
insomma. Era JC e lo prendevo sempre in giro, ma lui è stato buono con me,
forse a quest’ora, se non fosse per lui, non sarei qui. Sì, quel coltello mi ha
distrutto la faccia quando l’ho difeso, ma sai cosa ti dico, Jay? Che ne vado
fiero, perché l’ho fatto per te. E forse, amico, lo rifarei altre mille volte,
perché della mia faccia non me ne fotte un cazzo, ma vorrei averti con me,
ancora. Sei uno stronzo e voglio che tu lo sappia. E forse, per una volta, sei
tu che mi hai fottuto, ma me la pagherai».
La mano di Dollar si appoggiò sulla bara, esattamente come se avesse lasciato
una pacca sulla spalla a JC. Forse lo fece davvero, perché scosse lentamente la
testa, tornando a sedersi di fianco ad Aria, che lo abbracciò, lasciandogli un
dolce bacio sulla guancia.
«Grazie» mormorò poi, nascondendo un
singhiozzo contro il petto di Dollar. Nonostante le lacrime mi offuscassero la
vista, non riuscii a non sorridere, guardandoli: Aria e Dollar erano dolci e,
dopo le parole di Dollar, non riuscivo a non pensare che, da piccoli, dovevano
per forza essere stati terribili, uniti e bellissimi.
«Sei un
fottuto bastardo, e mi manchi. Fottiti».
Ryan si era alzato e continuava a stringere un pugno, appoggiato sopra al legno
scuro. La mano gli tremava, non quanto la voce. Sembrava quasi dispiaciuto, ma
non riuscivo a capirlo perché, come ogni volta, c’era quella patina di rabbia
che nascondeva tutte le sue vere emozioni. Ryan era come un camaleonte, si
nascondeva dietro la rabbia per non farsi vedere, perché la gente non potesse capire
quello che realmente stava provando.
Lasciai che tutti gli Eagles salutassero JC, con una frase
emblematica o solo una parola; nessuno era però riuscito a eguagliare il
discorso di Dollar, forse perché non ci avevano davvero provato. Dollar, lui
aveva scatenato qualcosa anche dentro di me, delle emozioni intense,
probabilmente perché sentire l’impatto che JC aveva avuto sulla sua vita non
era stato facile.
E non riuscivo a non pensare ancora a quelle parole mentre,
seduti tutti taciturni attorno a quel tavolo del Phoenix, sorseggiavamo una
birra. Aria continuava a piangere silenziosamente, cullata da Dollar che le
accarezzava il braccio e la spalla delicatamente e in modo continuo. Non poteva
che essere lei la Signora di Dollar, quella che lui segretamente ancora amava.
Perché con me scherzava e faceva lo stupido, ma con lei… si comportava
esattamente come una persona innamorata.
Lasciai che il mio sguardo vagasse su tutti loro: Aria e
Dollar, Josh e Paul, Sick, Brandon e Ryan. Fu su di lui che mi soffermai,
notando quanto fosse stanco e provato. Era da quando aveva ricevuto la notizia
della morte di JC che non riuscivo nemmeno più a scorgere il suo ghigno che mi
dava sempre i nervi.
Ryan si era… spento da quando eravamo tornati da Coney
Island. Improvvisamente collegai tutti i puntini, inorridendo davanti alla
verità che non volevo vedere.
«Mi
dispiace, è colpa mia» mormorai tenendo
lo sguardo basso, incapace di sostenere la visione dei loro occhi tristi. Era
tutta colpa mia, perché se non mi avessero accompagnata a Coney Island, non
sarebbe successo nulla e i Misfitous non avrebbero ucciso JC. Era tutta colpa
mia, di nuovo. Forse non avrei mai dovuto socializzare con loro, non dovevo
fare in modo che abbassassero la guardia, visto che la loro vita era sempre in
pericolo. Ero una stupida.
«Che cazzo dici, lentiggini?» sbottò Ryan, strattonandomi un braccio per
costringermi a lasciare il boccale di birra mezzo vuoto e voltarmi verso di
lui. Non potevo sostenere il suo sguardo, non ero pronta e non volevo. Ryan era
di sicuro infuriato con me per la morte di JC, e aveva ragione, anche io ero
arrabbiata con me stessa.
«Sì, è tutta colpa mia se... se è morto, non
dovevamo andare a Coney Island».
Continuavo a guardare le mie mani, intrecciate sul mio ventre. Sentivo gli
sguardi di tutti addosso a me, ma non avevo il coraggio di affrontarli. La
verità era che mi sentivo codarda. Codarda perché avevo aspettato tre giorni
per ammettere che ero la causa della morte di JC, codarda perché non avevo
avuto il coraggio di dirlo al funerale e codarda perché non riuscivo a guardare
nessuno negli occhi, troppo colpevole per quello che avevo fatto.
«Lexi, non è colpa tua». La mano di Brandon si appoggiò sulla mia spalla sinistra, cercando di
consolarmi. Era gentile da parte sua, ma non ci credevo e di certo non
servivano due parole per togliere il mio senso di colpa. Cercai di
rispondergli, ma Aria, con la voce rotta dal pianto, intervenne, facendomi
gelare il sangue nelle vene.
«Lexi, non dirlo nemmeno per scherzo, non è colpa tua.
Tu non c’entri». Allungò la mano sopra al
tavolo, cercando la mia che non si mosse, troppo schiacciata dal senso di
colpa. Non potevo guardarla, non quando sapevo di averle portato via un
parente. E non potevo nemmeno contare su Dollar, visto quello che JC aveva
rappresentato per lui.
«No, è solo colpa mia. Non vi disturberò più. Cercherò
un nuovo appartamento, così non morirà più nessuno per colpa mia. Mi dispiace». Aria non ritirò la mano, come se cercasse di farmi
capire che non c’era niente di male in me e non fosse davvero colpa mia.
«Apri quelle cazzo di orecchie, lentiggini: non è colpa
tua se hanno ucciso JC. La gente muore da queste parti, la gente muore ovunque:
qui, dove cazzo abitavi e anche in altri posti. La gente muore, questo è il succo.
JC è stato ucciso? Sì, hai ragione, ma non c’entri un cazzo tu e non è colpa
tua se è successo. Aspettavano il momento opportuno, che sarebbe stato il
giorno dopo, se solo il mio fottuto piano fosse stato messo in atto. Quindi non
inventare palle dicendo che JC è morto per colpa tua. JC si è fottuto da solo
quando ha deciso di starci vicino e di appoggiarci. Sapeva a cosa andava
incontro e non se ne è mai pentito, mai. Sa… sapeva che la sua vita sarebbe
stata in pericolo, ma ha deciso di rischiare perché per lui gli Eagles e quello
che rappresentavano avevano un senso. Ci credeva. E non voglio più sentire
queste fottute parole uscire dalla tua bocca. Tu non c’entri con JC, cazzo». La mano di Ryan era sempre più salda sul mio braccio
che continuava a scuotere con forza, come se volesse svegliarmi da un incubo.
Certo, il suo discorso non faceva una piega, ma parlava così semplicemente
perché loro non sapevano. Se solo avessero saputo…
«Non capite… sono io che faccio morire le persone,
porto sfortuna». La presa della mano di
Ryan si allentò di colpo, mentre tutto il tavolo cominciava a ridere. Alzai lo
sguardo, accorgendomi che nemmeno Aria –nonostante avesse una lacrima che
solcava la sua guancia – si era trattenuta. Cosa avevo detto di tanto divertente?
«Cosa sei, tipo un gatto nero?» ghignò Ryan, cercando di calmare la sua risata con un
sorso di birra. No, non ero un gatto nero, ero addirittura peggio.
«No, io… io…»
balbettai, rigirandomi il boccale mezzo vuoto tra le mie mani. Dovevo dirlo;
sapevo che mi sarei levata un peso e soprattutto avrebbero capito che non era
colpa loro se JC era morto.
«Lexi, che cosa è successo?». Sapevo che la domanda di Brandon non era posta
perché voleva ficcanasare nella mia vita, era il suo modo di fare, come se
avesse capito che c’era qualcosa che mi bloccava, qualcosa che mi impediva di
essere la Lexi spensierata che faceva tardi la notte, si ubriacava e il giorno
dopo si sentiva talmente in colpa da chiudersi in camera e studiare per ore,
pur di passare l’esame.
«Nie… niente»
mormorai, scuotendo la testa lentamente, mentre cercavo di cacciare via quelle
lacrime traditrici che volevano a tutti i costi uscire per farsi vedere.
Inutile, visto che una scese lungo la mia guancia prima che potessi toglierla
con la mano.
«Perché sei scappata da Los Angeles?». Dollar, così serio e attento, continuava a tenere il
braccio attorno alle spalle di Aria, senza però staccare lo sguardo da me.
In
verità, gli sguardi di tutti erano su di me: Dollar, Aria, Lebo, Josh e Paul,
Brandon e Ryan, entrambi di fianco a me. Guardai alla mia sinistra, verso
Brandon, il suo sguardo era dolce, quasi come se non volesse veramente
obbligarmi a parlare di quel segreto che cercavo di nascondere a tutti, come
se, in qualche modo, sapesse quello
che era successo.
Ryan…
lui invece continuava a osservarmi con un sopracciglio alzato, in attesa di
sentire la mia storia, la mia vera
storia.
«Io… il, il primo di giugno c’era l’esame di Anatomia.
Io l’avevo già superato l’appello prima, ma… Sophie ed Edge no. Loro sono…
erano, i miei migliori amici. Dovevamo festeggiare assieme, perché entrambi
erano riusciti a superarlo con una A-, ma quella sera avevo il turno di
volontariato all’ospedale e non potevo non presentarmi. Così ho assicurato a
Sophie che li avrei raggiunti al bar del campus, non appena avessi finito: dovevo
accompagnarli a casa io, perché sapevo che si sarebbero ubriacati. Poi un
bambino si era ferito gravemente e io non potevo abbandonarlo, così ho mandato
un messaggio a Edge, gli ho detto che ci saremmo rivisti a casa e… e dopo hanno
chiamato l’emergenza perché c’era stato un incidente e…». Smisi di parlare, cercando di scacciare dalla mente
quei ricordi che avevo cercato di cancellare. Nessuno di loro parlava, tutti
stavano aspettando che io concludessi il mio racconto, così presi un respiro
profondo, prima di tornare con la mente a quella maledetta sera. «Siamo usciti in ambulanza, correndo disperatamente
verso quell’incrocio, io mi sono dimenticata di guardare il mio cellulare. E
quando siamo arrivati, non volevo nemmeno guardare la targa di quella BMW,
perché non volevo trasformare in certezza la paura che mi faceva tremare le
ginocchia. Edge era in mezzo alla strada, non… non c’era più nulla da fare per
lui; era balzato fuori dall’auto a causa dell’urto contro quell’albero,
probabilmente perché non aveva la cintura di sicurezza. Edge non la metteva
mai, soprattutto quando guidava. Sophie però, lei… lei siamo riusciti a tirarla
fuori dalla macchina con l’aiuto dei Vigili del fuoco; era viva, così le abbiamo
messo il collare e dopo averla caricata in barella siamo subito partiti in
ambulanza verso l’ospedale. Io… io non sono riuscita a fare quello che dovevo,
non ero lucida, non… non ci sono riuscita, perché continuavo a piangere e
Sophie mi chiedeva perché, visto che non riusciva a vedere la sua gamba
dilaniata. È stata tutta colpa mia, se solo fossi andata in quel bar al posto
di andare a fare quello stupido turno di volontariato non sarebbero… loro
sarebbero con me». Non mi ero nemmeno
accorta di quanto stessi piangendo, non fino a quel momento, quando appoggiai
la fronte sulle braccia, nascondendo il viso a tutti. Era la prima volta che
raccontavo quello che era successo nei minimi dettagli. Nemmeno i miei genitori
sapevano tutti quei particolari e forse, proprio per quel motivo, non avevano
compreso la mia scelta di andarmene e abbandonare tutto. Per loro mi ero
dimostrata debole, come se la mia vita si fosse sempre basata su Edge e Soph.
Loro non capivano che era colpa mia, se non c’erano più. Io, che avevo sempre
sognato di fare Medicina per salvare le persone, avevo fallito proprio nel
salvare quelle a cui tenevo di più. Per questo mi spaventava l’idea di tornare
in sala operatoria, l’idea che la vita di una persona potesse dipendere da me,
dalle mie mani. Nessuno riusciva a capire la sensazione che provavo.
E
probabilmente non lo capiva nemmeno la persona che mi aveva appoggiato la mano
sulla testa, in un accenno di carezza. Ero talmente provata da quel ricordo,
che non avevo nemmeno la forza per alzarmi e guardare chi fosse.
«Lexi, non è colpa tua, hanno deciso loro di guidare da
ubriachi. Se ci fossi stata anche tu in quella macchina adesso non saresti
nemmeno viva, non ci hai mai pensato?».
Brandon e il suo voler tranquillizzarmi, ma questa volta non aveva ragione, no.
Eppure, come a voler supportare la sua idea, Dollar e Aria cercarono di calmarmi,
ripetendomi che non era colpa mia, che era stata una loro decisione.
«Dai, Doc, non è colpa tua, no? Hanno deciso di non
aspettarti e se ne sono andati. Tu avevi detto che avresti fatto tardi,
potevano prendere un taxi. Non puoi pensare che sia stata colpa tua, andiamo». Dollar continuava a sorridere, con quella smorfia
che gli increspava la pelle della cicatrice, rendendolo pauroso. Ma, forse
perché un po’ lo conoscevo, non riuscivo a vederci niente di pauroso in quegli
occhi verdi; anzi, mi sembrava addirittura buffo, con quell’espressione.
«Se vuoi, Lexi, possiamo chiuderci in bagno per cinque
minuti. Potresti uscire piangendo di nuovo, ma di sicuro non per lo stesso
motivo». Sick, oltre alla battuta che mi fece ridere
tra le lacrime, ci aggiunse anche un ammiccamento così comico da farmi
dimenticare, per qualche istante, tutto quello che avevo appena raccontato.
C’era
uno strano silenzio dentro di me che contrastava con il suono delle risate dei
ragazzi attorno; come se il continuo borbottare
confuso dei fantasmi che mi accompagnavano da un paio di mesi si fosse
interrotto. Come se, parlarne a voce alta con qualcuno, mi avesse tolto un
piccolo – grande – peso.
«Su, lentiggini. Bevi un po’ per dimenticare, è così
che si fa da queste parti». Ryan mi
punzecchiò il fianco con il gomito, ghignando. Apprezzavo il suo – il loro – tentativo
di sollevarmi il morale, evitando di farmi pensare a quello che era successo;
in fin dei conti, con una birra o due, cosa sarebbe mai potuto succedere?
Chissà
perché continuavano a fare battute divertenti, tanto che non riuscivo a
smettere di ridere. Dollar e Sick poi erano davvero esilaranti. Ryan parlava
poco, ma quando lo faceva diventava davvero ironico. Aveva ragione: con una
birra tutto si era risolto; pensavo poco a Sophie ed Edge e mi stavo godendo
quella serata.
«Vorrei… vorrei un’altra birra, sì!» strillai, appoggiando il boccale vuoto sopra al
tavolo e cercando di richiamare l’attenzione di John che vagava tra i tavoli
quasi deserti con un’aria triste. Forse, con qualche sorso di birra si sarebbe
divertito anche lui lì, assieme a noi.
«Sei ubriaca. È meglio se smetti di bere». Eccolo lì, pronto a rovinarmi tutto il divertimento
come il suo solito. Cosa gli interessava se bevevo un altro po’ di birra? In
fin dei conti non era il mio O.G., quindi non dovevo di certo sottostare ai
suoi ordini, no?
«No. Non son-biaca, ho sete» specificai, senza smettere di ridere e ammonendolo
con l’indice perché la smettesse di criticare ogni mio gesto o comportamento.
«Stai ridendo da mezz’ora e hai la testa che ciondola a
destra e a sinistra; nel tuo corpo c’è più birra che sangue e sei andata in
bagno sei volte. Non sei ubriaca?». Cosa
c’era di tanto divertente in quello che aveva detto che lo faceva ridere? No,
un momento, la risata che sentivo non proveniva dalle labbra di Ryan.
«Mi scappa la pipì»
protestai, incrociando le braccia sotto al seno e guardando arrabbiata il
bicchiere davanti a me. Spostai lo sguardo sul tavolo di legno, accorgendomi
che non c’era solo un bicchiere, ma ce n’erano tanti, la maggior parte vuoti.
Quanto avevano bevuto? «Siete degli
ubriaconi, lo sapete? Gua-guardate quanti bicchieri vuoti». Cercai di contarli, ma era difficile, visto che
continuavano a spostarsi di qua e di là, senza che riuscissi a fermarli.
«Portala in bagno che poi torniamo a casa. Ho
l’impressione che il tragitto sarà lungo»
sospirò qualcuno di fianco a me. Mi voltai arrabbiata, cercando qualcosa di cattivo
da dire, ma non appena guardai Ryan, non riuscii a trattenermi e cominciai a
ridere, così, senza un apparente motivo. In verità, non riuscivo a rimanere
seria guardando la sua faccia buffa. Ero sicura che assomigliasse a qualche
personaggio di un film che avevo visto, ma non ricordavo il nome.
«Lexi, andiamo in bagno» ridacchiò Aria, mentre Ryan mi prendeva per le spalle, mettendomi in
piedi a forza. Che modi! Non ero mica incapace di camminare, insomma.
«Oh» mormorai, ritrovandomi
con il sedere per terra e le gambe all’aria. Guardai davanti a me, in alto:
Ryan continuava a fissarmi, indeciso se ridere o rimanere serio. Aria invece,
trattenendo a stento un attacco di risa, cercò di aiutarmi, dandomi la mano
perché potessi alzarmi. Chissà perché ero caduta.
«Dovremmo filmarla e farle vedere il video quando è
lucida» propose Ryan, quando, assieme ad
Aria, mi incamminai verso il bagno. Chi dovevano filmare, Aria? Era così
ubriaca da aver detto qualcosa senza senso?
La
guardai, mentre teneva la porta del bagno aperta perché entrassi, ma non stava
dicendo niente, aveva solo un sorriso sulle labbra che non se ne voleva andare;
un sorriso che un po’ contrastava con i suoi occhi arrossati per il pianto.
Quando
uscii dal bagno, sussultai accorgendomi che c’era qualcuno davanti a me, che
imitava tutti i miei gesti. «Aria» mormorai,
avvicinandomi a lei perché la strana persona non potesse sentirci, «c’è una che imita tutto quello che faccio io». Senza che la ragazza davanti a me potesse notarmi,
indicai con un gesto del mento il punto esatto in cui si trovava, ma Aria non
guardò nemmeno, cominciò a ridere, appoggiandosi a me per sostenersi. Non
sapevo perché, ma era talmente divertente che cominciai a ridere anche io,
mentre, sostenendoci l’una con l’altra, uscivamo dal bagno sotto lo sguardo
confuso di John.
C’era
qualche problema per il fatto che stavamo ridendo? Non potevamo essere felici
anche se c’era stato, poche ore prima, il funerale di JC? Ero sicura che, anche
se non lo conoscevo bene, non si sarebbe arrabbiato perché ci eravamo scolate
un paio di birre. O forse tre, avevo perso il conto.
«Aria, sei ubriaca?». Dollar si avvicinò a lei, appoggiandole una mano sulla spalla e
portandole l’altra sotto al mento, costringendola ad alzare lo sguardo verso di
lui. Lo sguardo che ci scambiammo io e Aria, prima di cominciare a ridere,
sembrò irritare Dollar, che le circondò le spalle, borbottando qualcosa sul
portarla a casa sua.
«Aspetta. Io voglio stare con lei, mi diverto». Perché doveva dividermi da Aria? Ci stavamo
divertendo così tanto. Probabilmente Dollar fraintese quello che avevo detto,
perché cominciò a ridere, assieme a tutti gli altri, avvicinandosi verso
l’uscita con Aria, prima di dire a Ryan che li avrebbe raggiunti il più presto
possibile.
«Forza, lentiggini, è ora di andare a casa» sospirò Ryan, alzandosi dallo sgabello e
avvicinandosi a me. Perché si stava muovendo così, a destra e a sinistra, come
se stesse ballando?
«Perché ti muovi in quel modo strano?» chiesi, portandomi un indice al mento, pensierosa.
Quello strano modo di muoversi l’avevo visto da qualche parte, forse studiato a
scuola…
«Non sono io che mi muovo lentiggini, sei tu. Andiamo a
casa» mi riprese Ryan, agitandosi ancora
di più. No, era lui che si muoveva, inutile che mentisse con me, non ero ancora
scema.
«Ti muovi come se… come la teoria della tettonica delle
placche, sai? Hai un piede in Africa e uno in America, che potrebbe anche
essere visto che sei alto come un gigante».
Ecco cosa c’era di così strano. Si muoveva con un moto ondulatorio – o era
circolatorio? –.
«Tettonica delle… andiamo a casa, è completamente
andata». Ryan parlava con Brandon e Sick,
di fianco a lui, visto che Lebo e quelli che si assomigliavano stavano parlando
con John, poco distante da noi. Brandon annuì, dandogli ragione, Sick invece
non la smetteva di ridere, divertito da qualcosa.
«Io so che le tette si muovono, la tettonica non la
conosco, ma conosco una tettona». Sick si
divertiva proprio tanto, e, in fondo, la sua battuta non era così brutta, tanto
che cominciai a ridere, avvicinandomi a lui per stringergli la mano: era così
divertente quello che aveva detto che volevo congratularmi con lui.
«Sick, cazzo, non darle corda, guarda come si è
ridotta. Andiamo a casa». Di nuovo Ryan,
con quella sua voce odiosa, bassa e roca e con qualche strano potere che ti
faceva voglia di dirgli di sì. Ma non potevo andarmene. No, non volevo andare a
casa, volevo rimanere lì, con quel ragazzo che per tutta la sera mi aveva
guardato con un sorriso sulle labbra.
«No, voglio stare qui con lui» protestai, indicando il ragazzo moro all’angolo,
quello che mi aveva guardato. Ryan cominciò a ridere, spingendomi verso
l’uscita con forza, visto che non volevo muovermi. I ragazzi ci seguirono,
separandomi ancora di più dal mio uomo. «Perché?
Volevo conoscerlo, l’avrei sposato»
piagnucolai, avvicinandomi alla porta per entrare prima che Ryan si parasse
davanti a me, senza il ghigno divertito di poco prima.
«Sei ubriaca, lascia stare. Adesso andiamo a casa. E
ricordatemi che la prossima volta che si ubriaca devo portare una videocamera,
cazzo, chissà quanto si vergognerà domani, visto il concerto che hanno
inscenato lei e Aria». La mano di Ryan
circondò il mio braccio, costringendomi a camminare verso la parte opposta
rispetto al locale. Lontano dal mio uomo, lontano dai suoi occhi castani.
Perché?
«Voglio andare da lui. Lasciami». Cercai di spostare il braccio ma Ryan strinse di più
la presa, sollevandomi quasi da terra. Cercai di protestare, ma quando guardai
il suo volto capii cosa avevo pensato dentro al bar. L’aria fresca della sera
mi faceva ragionare più lucidamente. Avevo capito.
«Adesso torni a casa per dormire». La mascella contratta e lo sguardo arrabbiato, come
se avessi fatto qualcosa di male a lui. Ma perché gli interessava se rimanevo
con quel ragazzo così bello al bar? Non volevo mica che mi seguisse! Ero
grande, vaccinata e consenziente, lui poteva tornarsene a casa da Butt… Butterfly
o quello che era.
«Sai a chi assomigli? Sei la versione cattiva di
Falkor. Perché lui ha gli occhi scuri e tu chiari e poi… lui era più bello. Tu
sei cattivo, non mi lasci nemmeno tornare lì». Indicai la porta del Phoenix che improvvisamente si era allontanata.
Quando ci eravamo mossi così tanto? Perché non mi ero accorta di aver
camminato?
«Merda, Brandon, non è quel cane bianco del film?» ghignò Ryan, che aveva il viso stranamente poco
distante dal mio. Quando ero diventata così alta? O era Ryan che si era
abbassato? Magari si era tagliato un pezzo di gambe, per diventare come tutte
le persone normali.
«Ehi! Non è un cane, Falkor è il Fortunadrago de La storia infinita, sei un ignorante,
porca vacca» sbuffai frustrata. Nessuno
che si ricordava che Falkor era il Fortunadrago. Non era un cane, non era un
cane bianco.
«Ha detto porca vacca? Sick, Brandon, ha detto porca
vacca? L’ho sentito davvero?». Perché
Ryan era tanto divertito da quello che avevo detto? E soprattutto perché
continuavamo a camminare così velocemente? Non mi sentivo nemmeno le gambe,
concentrata com’ero a fissare Ryan e quello strano neo che aveva sulla tempia.
Non me ne ero mai accorta, chissà se era finto; magari se l’era disegnato.
Sick
e Brandon ridacchiarono, aprendo il portone del nostro palazzo e aspettando che
entrassimo prima di chiuderlo alle nostre spalle. Ma dove erano finiti Lebo e
gli altri due, i gemelli?
«Siamo arrivati, riesci a stare in piedi?» domandò Ryan, piegandosi un po’. Perché si stava
piegando? Voleva forse fare qualche battuta sulla mia non-altezza?
«Ehi! Perché state ballando di nuovo?» ridacchiai, indicando Brandon, Ryan e Sick davanti a
me. Continuavano a muoversi come al bar, con quello strano movimento che mi
ricordava quella cosa di Scienze. Ryan sospirò, strofinandosi il viso con una
mano in un gesto stanco; Brandon cercò di non ridere. Sick, invece, si avvicinò
a me, con il solito ghigno che usava quando voleva parlarmi di qualcosa di
porno.
«Lexi, se vuoi, questa sera sono libero» mormorò, ammiccando. Dovevo dirgli, una volta per
tutte, che non mi interessava fare niente con lui. Non era il mio tipo. Mi
piacevano i californiani, quelli che facevano surf. Belli, alti, biondi e con
gli occhi azzurri. Sick non rispecchiava quelle caratteristiche, soprattutto
perché, i fissati con i porno erano decisamente… inquietanti.
«Buonanotte Sick. Guardati un bel porno stasera e
divertiti tanto tanto. Sai che mi sei simpatico, di solito? Ma quando vuoi
trombarmi mi fai paura. Chissà quante cose sai fare con tutti i film che hai
visto, magari un giorno mi insegnerai qualcosa». No, forse non era il modo migliore per fargli capire che non mi
piaceva, ma non ero riuscita a rimanere seria di fronte alla sua espressione
sconvolta. Dovevo però salutare anche Brandon e Ryan, visto che sapevo era
maleducazione non farlo. «Brandon,
grazie. Di cuore. Sei davvero gentile, l’unico gentile. Grazie per le birre di
stasera». Lo abbracciai, prima di
prendere un respiro profondo e prepararmi a salutare Ryan: «e tu, versione cattiva di… Falkor, ciao. Salutami
Butterfly che stanotte si rotolerà nei vostri letti e buonanotte». Cercai la chiave di casa in borsa quando mi sfuggì
dalle mani, facendomi ridere: era caduta a terra con un suono davvero buffo.
«Ryan, è completamente fuori» mormorò Brandon, aiutandomi a prendere la borsa, ma
soprattutto a rialzarmi. C’era qualcosa che mi premeva all’altezza delle tempie
e sentivo un rumore fastidioso.
«Te ne sei accorto adesso? È da quando ha parlato della
tettonica a placche che ne ho avuto la conferma. Lentiggini, ascoltami, ce la
fai a entrare in casa e arrivare in camera senza sbattere contro pareti o
mobili?». Perché Ryan mi stava parlando a
pochi centimetri dal viso e lentamente, come se avesse paura che non riuscissi
a capire le sue parole?
«Ma hai gli occhi azzurri, azzurri, azzurri. Mai visto
occhi così tanto azzurri». Mi avvicinai
di più al suo viso, per guardarlo meglio. Poi, mi ricordai degli occhi di quel
ragazzo che al Phoenix mi aveva guardata per tutta la sera e presi una
decisione. «Notte. Io torno al Phoenix,
devo parlare con quel ragazzo con gli occhi castani». Stavo quasi per scendere le scale quando qualcosa mi
bloccò, stringendo attorno al mio polso. Quando mi voltai vidi la mano di Ryan
che mi teneva ferma, impedendomi di avanzare. «Dai, lasciami, voglio andare al Phoenix a bere una birra con quel
ragazzo» piagnucolai, cercando di
impietosirlo. Per tutta risposta Ryan mi trascinò lungo tutto il pianerottolo,
fino alla porta del mio appartamento.
«Arrangiati, non so che cazzo farci con lei e mi ha
stufato» sbottò, prendendo poi una sigaretta
dalla tasca dei jeans e scendendo le scale per uscire a fumare. Non salutò
nessuno, né Brandon né Sick, né me. Gentile, certo. Ero sempre più convinta che
fosse la versione cattiva di Falkor il Fortunadrago.
«Dai Lexi, andiamo a dormire» propose Brandon, aprendo la porta del 3C. Quando
aveva preso le mie chiavi? E soprattutto chi gli aveva dato il permesso di
entrare in casa mia? Come se per lui fosse stato tutto normale, si avvicinò al
divano, sedendosi con un sospiro e guardandomi, perché lo imitassi.
Mi
avvicinai a lui titubante, perché non sapevo bene che cosa fare, ma soprattutto
perché mi veniva da ridere, vedendolo così stanco. Socchiudeva gli occhi
lentamente, come se si stesse addormentando. Con un ghigno indietreggiai
lentamente, avvicinandomi alla porta e chiudendola il più piano possibile per
non svegliarlo. Sarei andata al Phoenix, da quel ragazzo!
«Cazzo» mi
lamentai, portandomi le mani alle tempie. Era da mesi che non mi svegliavo con
un dopo sbronza del genere. Mugolai, rigirandomi tra le lenzuola, incapace di guardare
che ora fosse. Oddio. Il turno al Phoenix. Mi misi a sedere di scatto e…
pessima mossa. Di nuovo quelle fitte alla testa che mi costringevano a rimanere
con gli occhi chiusi perché la stanza stava girando. Ma non riuscivo a capire
come mi ero addormentata, visto che vedevo – con gli occhi socchiusi – la luce
arrivare da destra. Io però sapevo di avere la finestra a sinistra del letto.
Mi
guardai attorno, improvvisamente sveglia e dimentica del mal di testa: quella
non era la mia camera. Dov’ero? Cercai di ripercorrere la serata per capire
cosa fosse successo, ma era impossibile, visto che ricordavo solo episodi
sporadici, come il ridere assieme ad Aria nel bagno del Phoenix o gli occhi
azzurri di Ryan. Quello che mi preoccupava maggiormente era il mio ultimo,
confuso, ricordo: Brandon si era addormentato sul mio divano e io ero uscita da
casa per andare al Phoenix, dal ragazzo che mi aveva guardata per tutta la
sera. Mi guardai attorno, cercando di capire dove fossi: c’erano un paio di
poster di ragazze mezze nude appese alle pareti, una sedia con sopra un cumulo
di vestiti, una chitarra appoggiata all’angolo e un pianoforte a muro.
Incuriosita
e spaventata, cercai di alzarmi dal letto per guardarmi attorno e sospirai sollevata
quando mi accorsi che indossavo l’intimo. Non potevo aver… no, non ero così
ubriaca da non sapere quello che avevo fatto, vero?
Quando
il mio piede toccò il pavimento freddo rabbrividii, sollevando la gamba
istintivamente. Ci dovevo riprovare, dovevo assolutamente capire dov’ero.
Trattenendo il respiro tornai ad appoggiare il piede per terra, alzandomi
lentamente e con movimenti cauti e misurati, sapevo per esperienza che ogni
movimento brusco poteva farmi cadere per terra, o peggio, vomitare.
Mi
avvicinai al pianoforte vecchio e logoro: c’era un posacenere pieno sopra e un
pacchetto di sigarette vuoto, accartocciato di fianco. Portai i polpastrelli a
sfiorare i tasti, senza premerli per suonarli; bianco e nero che si
alternavano, tasti ingialliti dal tempo e addirittura scalfiti da qualcosa.
Chissà di chi era quel pianoforte.
«Oh, buongiorno».
La voce parlò alle mie spalle, facendomi sussultare spaventata. Non avevo
nemmeno il coraggio di voltarmi per guardare a chi appartenesse. Non sapevo
nemmeno se avevo passato la notte con lui e forse non volevo nemmeno saperlo.
Rimasi immobile, aspettando non sapevo nemmeno cosa. «Lentiggini?».
Sentendo quella parola sospirai sollevata: era Ryan. Mi voltai tranquilla,
prima di rendermi conto che, se mi trovavo nella sua camera…
«Ho dormito con te questa notte?» domandai, cercando di non far notare quanto fossi
preoccupata da quella risposta. Ero sicura che non fosse successo nulla, non
con Ryan; ma ero ubriaca, e continuavo a non ricordare cosa fosse successo.
«Dormito non è il termine che userei, ma se vuoi
chiamarlo così…». Fece spallucce, sedendosi
in fondo al letto e stiracchiandosi la schiena e le braccia.
Oddio.
No. Non poteva essere vero, non ero così ubriaca da aver fatto qualcosa di
inopportuno con Ryan. Probabilmente mi stava prendendo in giro, come il suo
solito. Ricordavo di essere scappata dal mio appartamento mentre Brandon si
addormentava, potevo usare quella scusa per vedere quanta verità ci fosse nelle
sue parole.
«Cosa è successo?».
Mi appoggiai con la schiena al bordo del piano, attenta a non rompere o
spostare nulla. Ryan sospirò, come se ammettere quello che mi stava per dire
gli costasse un grande sforzo. Si sistemò meglio sul letto, appoggiando i gomiti
alle ginocchia e guardandomi senza nessuna traccia di ironia nel suo viso: era
davvero serio.
«Siamo arrivati a casa e Brandon ti ha accompagnata nel
tuo appartamento, ma poco dopo sei uscita, mi hai visto mentre stavo fumando,
ti sei avvicinata a me, hai tolto la sigaretta dalle mie labbra e mi hai
baciato. Per essere più precisi direi che mi hai assalito, eri aggrappata a me
e mi hai intimato di andare in camera mia perché altrimenti avresti usato la
rivoltella che ti abbiamo regalato. Così siamo venuti qui, e poi…». Si fermò, senza smettere di guardarmi, scrutandomi
in cerca di qualche gesto da parte mia. No, non ci credevo. Non avrei mai fatto
una cosa del genere nemmeno da ubriaca, tantomeno con Ryan.
«È una bugia, non ci credo» mi impuntai, incrociando anche le braccia sotto al
seno per sembrare più convinta. Improvvisamente mi ricordai che ero solo in
intimo e spalancai gli occhi, guardandomi attorno in cerca dei miei vestiti. Li
trovai sparsi per terra. Male, questa cosa supportava la tesi di Ryan, ma
potevo anche essermeli tolta io per il caldo durante il sonno; sì, doveva
essere così.
«Chiedi a Sick che si è lamentato per le tue urla tutta
la notte». Non riuscì a trattenere un
ghigno soddisfatto, mentre mi infilavo la maglia il più in fretta possibile.
Urla, Sick? No, mi stava prendendo in giro; sicuramente credeva che non avessi
il coraggio di chiedere conferma a Sick e si era inventato una bugia per prendersi
gioco di me, come il suo solito.
«Dov’è?»
domandai, infilandomi i pantaloni e indossando velocemente le scarpe che avevo
trovato poco distante dal piano. Gli avrei parlato, mi sarei fatta dire la
verità che, ne ero sicura, non era quella che mi stava raccontando Ryan.
«In cucina, sta facendo colazione con i ragazzi». Ryan si alzò, seguendo i miei movimenti quasi come
un automa: sembrava la mia ombra mentre, dalla camera, camminavo verso la
cucina a passo spedito curiosa di scoprire la verità.
«Lexi, mi hai stupito. Io… non ti facevo così, vorrei
davvero congratularmi con te. Il modo in cui urli… sei quasi meglio di Stoya, credimi.
Per non parlare di tutto quello che dovete aver fatto; il letto che sbatteva
contro al muro e il rumore delle molle. Io… volevo essere al posto di Ryan». Lasciò cadere il biscotto nel latte, alzandosi e
avvicinandosi a me per stringere la mia mano con foga. I suoi occhi mi
guardavano quasi con ammirazione. No, mi stavano prendendo in giro, si erano
concordati tra di loro per deridermi, ne ero sicura. Sick e Ryan l’avrebbero
fatto, ma Brandon no. Lui era il più leale di tutti e di sicuro non mi avrebbe
mentito.
«Brandon?»
domandai, una nota isterica nella voce perché cominciavo a temere davvero che
fosse la verità. Non potevo aver fatto sesso con Ryan e non ricordare niente,
era impossibile.
«Io ho preso sonno sul tuo divano e quando mi sono
svegliato credo che la vostra sessione fosse finita, perché non ho sentito
nulla» spiegò, tenendo le mani alzate e
parlando con la bocca piena di biscotti al cioccolato.
No,
non poteva essere vero. Io non avevo fatto sesso con Ryan, non era mai successo
nemmeno in California, durante le vacanze di primavera, quando bevevo molto più
di un paio di birre. Mi stavano tutti prendendo in giro per deridermi.
«Ci credi?»
domandò Ryan, aprendo il frigo e bevendo del succo di frutta direttamente dal
contenitore. No, no che non ci credevo. Non potevo davvero essermi comportata
in quel modo. Non era nella mia natura e soprattutto non era mai successo.
«No, mi state prendendo in giro. E poi… no, non ero io.
Non posso essere stata io». Ne ero
convinta e non mi avrebbero di certo fatto cambiare idea. Me ne sarei
ricordata, non potevo dimenticare quello che succedeva. Invece, dopo il ricordo
confuso di essere scappata da Brandon, c’era solo un enorme buco nero, come se
mi fossi addormentata.
«Che palle. Ryan, non ci è nemmeno cascata» sbuffò Sick, irritato, tanto che sbatté il pugno
sulla tavola, facendo tremare le tazze che c’erano sopra. Quindi avevo ragione,
mi avevano solo preso in giro, non era successo niente.
«Che stronzi! Perché mi avete detto che ero andata a
letto con Ryan? Credete che fossi così ubriaca da non ricordare quello che ho
fatto? So che siamo andati al Phoenix e so che vi ho raccontato quello che è
successo a LA» conclusi in un sussurro,
abbassando lo sguardo al ricordo di tutto quello che avevo detto. Nonostante il
mal di testa dovuto alla sbornia della sera prima, non mi ero di certo
dimenticata di Sophie ed Edge. Quello non sarebbe mai successo.
«Perché volevo sentire cosa avresti detto. Ieri sera mi
hai stupito con un paio di battute e la
tua volgarità e volevo sentire fino a che punto stamattina ci avresti creduto.
Cosa ti ha fatto capire che era una bugia? Ryan, vero? Se ti avessimo detto che
eri venuta con me non avresti avuto dubbi, no?». Sick era davvero deluso, come se fosse stato lo scherzo dell’anno. Ma
mi credeva così stupida? Certo, forse, un po’, all’inizio ci avevo creduto, ma
mi ero resa conto quasi subito che non era possibile una cosa del genere.
«Forse perché l’hai fatta apparire come una pornostar,
Sick. Urla, letti cigolanti e sbattuti contro il muro… un po’ troppo. Se ti
fossi fermato a gemiti e urla ci avrebbe creduto. Non ce la vedo lentiggini
così pornostar». Ryan mi guardò,
scrutandomi, come se stesse cercando di capire qualcosa. Ma come si permetteva?
Non sapeva niente di me, voleva anche indovinare come facevo sesso?
«Sentite, andate tutti a fanculo! Non permettetevi di
dire certe cose su di me, e soprattutto non vi interessa di certo se urlo,
grido, faccio cigolare i letti o chissà cosa. Non sono fatti vostri». Ero davvero irritata dal loro comportamento. Chi
credevano fossi, Butterfly? No, decisamente, visto che non mi interessava
essere la Signora di nessuno e tantomeno volevo provarci.
«Sei stata tu che ieri sera, mentre cantavi Bruce Springsteen
continuavi a dire che a letto sei una tigre. E questo non me lo sono inventato,
chiedi ad Aria. Spero solo che se lo ricordi, visto che duettavate al Phoenix,
cantando Born in the USA». Ecco, questo era tipico di me, lanciarmi in cover a
cappella, improvvisandomi cantante con qualsiasi cosa avessi sottomano. Ma non
riuscivo a ricordare nemmeno quel passaggio, quindi, per quanto ne sapevo,
poteva benissimo essere una bugia anche quella.
«Brandon, mi fido solo di te. Non dirmi che ti eri
addormentato sul mio divano perché c’eri al Phoenix, quindi non hai scuse. È
vero?». Sapevo che non mi avrebbe
mentito, Brandon era buono e di certo non riusciva a raccontare bugie, non
poteva. Avevamo creato uno strano rapporto, sapevo che lui era sincero con me.
«Come canti tu Bruce non lo fa nessuno» ridacchiò, cominciando a dondolarsi sulla sedia in
modo quasi pericoloso. Se fosse caduto avrebbe battuto la testa da qualche
parte, causandosi magari qualche tipo di trauma. Cercai di avvertirlo, ma
sembrò capirlo dal mio sguardo, perché ridacchiò, sedendosi poi composto. «Io vi iscriverei a una gara di karaoke Lexi, potreste
vincere, dico sul serio». Non riuscì a
rimanere serio, cominciando a ridere senza nemmeno trattenersi.
Bene,
insomma. Per una volta in cui mi ero lasciata un po’ andare e avevo abbassato
la guardia mi ritrovavo tutti a prendersi gioco di me: sembrava che avessi
cantato a squarciagola sopra ai tavoli del Phoenix, che fossi tornata a casa
urlando le mie doti a letto e che poi mi fossi data alla pazza gioia con Ryan.
Ma c’era qualcosa di vero, in tutto quello? Ero sicura che l’unica persona
sincera fino in fondo, che non si sarebbe mai presa gioco di me, fosse Aria.
«Sentite, voi continuate a ridere da soli per qualcosa
che non è successo, io invece vado a fare
la spesa e dopo vado da Aria».
Presi la borsa che avevo appoggiato sulla sedia e senza salutare nessuno uscii,
per andare a casa mia a prendere un po’ di risparmi – gli ultimi –per la spesa.
Speravo
solo che John mi pagasse a fine mese, altrimenti avrei dovuto trovare un
impiego che mi permettesse di pagare l’affitto per quel mese.
Salve!
Sì, lo so, è passata meno di una settimana dall’ultimo
aggiornamento, ma il capitolo era pronto e non ho resistito. Anche perché, lo
ammetto, non so nemmeno quando pubblicherò l’altro.
Quindi, niente… spero che questo capitolo un po’ “a sorpresa”
vi sia piaciuto. Diciamo che possiamo dividerlo in due: la prima parte
decisamente seria con la storia di Lexi (ve l’avevo anticipato più e più volte,
avevo detto che il video di You Found Me dei The Fray aveva uno spoiler sul
passato di Lexi). Insomma, magari è improbabile come cosa e forse addirittura
esagerata, vista la sua sfiga, ma io credo che sia possibile. Come se la sua
vita fosse stata perfetta fino al primo giugno e poi avesse cominciato a vedere
l’altro lato della medaglia.
E poi c’è la storia di Dollar, una cosa a cui tenevo
particolarmente. L’ho scritta con una canzone in sottofondo e piangevo da sola,
perché c’era qualcosa nel tono della sua voce che mi ha davvero commossa. E si
spiega anche il mistero di Aria e il suo legame con JC (che, nel caso non fosse
chiaro, era il meccanico amico di Ryan e Brandon, ma non lo zio di Ryan).
E si passa alla seconda parte, quella demente (ma non tanto).
Ci sono delle piccole cose che ho messo dentro e che logicamente non vi elenco.
Qualche curiosità, ecco. Forse su un paio di personaggi o forse più :P ditemi
se le trovate.
Per quanto riguarda Falkor e La tettonica a Placche… le ho
inserite!:P (per chi non è nel mio gruppo FB, non sono pazza, semplicemente ho
indetto una sfida: voi mi dite due parole strane che io devo inserire nel
capitolo; questa settimana erano quelle).
Infine, come sempre, vorrei ringraziare preferiti, seguiti da
ricordare, chi mi inserisce tra gli autori preferiti e chi commenta la storia. Ma
anche chi legge.
Grazie grazie grazie! <3
Infine, come sempre: Nerds’ corner è il
gruppo spoiler, trovate tutto lì e di solito rompo le palle con spoiler e altro
ogni giorno, tanto che sono sicura sono già stanchi di me.
Al prossimo capitolo (che, ripeto, non so con precisione
quando arriverà).
Un bacione.
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Capitolo 11 *** Lexi's a badass: Jail experience. ***
YSM
Camminavo lentamente verso il supermercato a causa del mal di testa. Per
la fretta di uscire e fare la spesa mi ero dimenticata di prendere un paio di
aspirine per cercare di ridurre il dolore. Entrai, superando le porte
scorrevoli, mentre la testa mi lanciava segnali di cedimento. Le mie tempie
pulsavano e non bastò appoggiarmi al carrello. Che dovevo comprare? Mi ero
dimenticata. Ma che idiota; che avevo nella testa il giorno prima da indurmi a
una sbronza colossale? Non ricordavo più gli effetti devastanti della mattina
dopo una sbronza? Ad arricchire il tutto c’era stato il risveglio nella camera
da letto di Ryan, la sua presa in giro e quella dei ragazzi.
Persa nei pensieri, cominciai a riempire il carrello con tutto ciò che
mi capitava sottomano, senza fare attenzione a ciò che buttavo dentro:
patatine, salatini, bibite gasate, acqua… quando mi trovai davanti agli
scaffali con i vari tipi di pasta, cercai di concentrarmi, guardando le varie
forme per decidere quale prendere: ero davvero fissata per determinati tipi di
pasta, odiavo quelli dalle forme piccole, che rischiavano di farmi soffocare.
«Vai anche a fargli la spesa? Sei tipo la loro mammina?». Riconobbi
subito quella voce, nonostante l’avessi sentita solo un paio di volte. Forse
non era il tono di voce che ricordavo così bene, ma il disprezzo che c’era
quando parlava con me.
«Butterfly» sospirai. Tra le mani rigiravo un pacco gigante di
spacchetti. «Posso sapere almeno il tuo vero nome?». Mi convinsi di non volerle
lanciare in testa una confezione da un kg. Non sarebbe bastato. E poi… con quel
dopo sbronza che mi ritrovavo la voglia di litigare con lei era scesa sotto
zero.
«Che cazzo te ne frega? Sono Butterfly e di certo non voglio diventare
la tua migliore amica. Se mi stai leccando i piedi perché non riesci a
soddisfarli non sono fatti miei, impara a scopare prima di decidere di voler
essere la Signora di qualcuno». C’era davvero tanto disprezzo nelle sue parole,
e potevo capirla: mi vedeva come quella che le aveva rubato il posto, ma non
era di certo così. Io non avevo quel tipo di rapporto con i ragazzi e non mi
interessava nemmeno essere la Signora di qualcuno. Ero la loro vicina, quella
che prendevano in giro quando si ubriacava e che aiutavano a trovare lavoro. Ma
di certo non ero né una loro Signora, né una… sgualdrina, tanto per non
offenderla.
«Davvero, io sono sicura che la tua idea di quello che faccio sia
sbagliata. Non sto cercando di diventare la Signora di nessuno e tantomeno
voglio portarmeli a letto, sono solo gentili con me, dico sul serio». Le
riservai un simpatico sorriso, pur sapendo quanto in realtà non mi piacesse per
niente. Non era simpatica come Aria, non era nemmeno lontanamente sopportabile.
Ma avevo deciso di non litigare e quindi mi sarei attenuta strettamente a
quell’intenzione.
«Senti, non prendermi per il culo, nanetta. So esattamente quello che
fai, credi che io sia così stupida da non capire che trombi con ogni singolo
ragazzo? Dico davvero, dacci un taglio, non sono ancora così cretina» sbottò, spintonandomi
con entrambe le mani. Rischiai di finire addosso allo scompartimento della
pasta.
Ok, ora era chiaro. Stava cercando di farmi arrabbiare. Ma io non
avrei mai urlato contro di lei, non in un luogo pubblico, davanti a tutta
quella gente. Ero sicura che sarebbe andata da Ryan a piangere e urlare che io
l’avevo offesa solo con l’intenzione di farsi consolare. Be’ si sbagliava di
grosso se pensava che fossi così stupida da non capirlo. Non sarei caduta in
quella trappola.
«Davvero Butterfly, hai frainteso». Mi voltai, fingendo indifferenza.
Mi sollevai in punta di piedi per rimettere a posto il pacco quando lei mi
spinse ancora facendomi perdere l’equilibrio. Fui tentata di voltarmi e
lanciarle la confezione addosso. Soffocai l’istinto e riuscii a tenere a bada
la parte di me che voleva spaccarle la faccia.
«Certo, immagino. Anche loro hanno frainteso, no? Puoi anche dirmi con
chi sei stata, sai?». Possibile che non le entrasse in testa? Io non volevo
andare a letto con nessuno degli Eagles. Ero esasperata, non sapevo più in che
lingua dirle la verità. Il fatto che fossi gentile con loro non era sinonimo di
scopate multiple. Che rabbia!
«Con nessuno, davvero». Stavo lottando duramente contro me stessa:
darle uno schiaffo con il pacco di pasta o limitarmi a tirarle i capelli?
Questo era un vero dramma. Ora sì che comprendevo il dubbio amletico.
«Dimmi, sei riuscita a farli godere o no? E spero che tu menta, perché
non puoi fingere di non venire assieme a loro». Si appoggiò al mio carrello con
i gomiti, senza smettere di guardarmi con quel suo sorriso –probabilmente – finto
come il suo seno.
«Butterfly, davvero, non è più un gioco divertente, comincio a
stancarmi. Come ti ho già detto non sono andata con nessuno e non voglio
parlare di queste cose». Mi allontanai, dirigendomi verso i condimenti, che
cominciai a guardare con molta attenzione. Non volevo commettere un omicidio in
un supermercato! Ma lei non voleva demordere. La ritrovai appena dietro le mie
spalle. Santa pazienza!
«E allora ammettilo, sei solo una puttana che non sa nemmeno fare il
suo lavoro» sussurrò al mio orecchio, con un ghigno che mi diede i nervi. Scattai,
ancora prima di rendermene conto, e mi
mossi fulminea. Non si levarono urla attorno a noi, nessuno sembrava aver fatto
caso alla mia reazione.
Quando capii quello che avevo fatto, era troppo tardi: Butterfly,
davanti a me, continuava a tenersi le mani davanti al naso, mentre le sue dita
si sporcavano di rosso. C’era del sangue che continuava a colare anche a terra.
Come se non fosse stato sufficiente, Butterfly, con un ghigno soddisfatto che
riuscivo a vedere solo io, cominciò a strillare, attirando l’attenzione di
tutti su di noi. «È pazza! Avete visto? Mi ha tirato un pugno all’improvviso,
le ho solo suggerito di prendere quella marca» urlò, indicando un tubetto posto
sullo scaffale dietro di me. Cominciai a guardarmi attorno, spaesata: tutti
borbottavano, indicandomi, mentre Butterfly fingeva di piangere per il dolore
al naso.
Che cosa avevo fatto? Che stava succedendo? Non era stato come con
Ryan, una blanda imitazione di pugno. Assomigliava più a quello che mi aveva
raccontato Dollar: una scarica di adrenalina che non riuscivi a controllare. Se
non fosse stato per il dolore alle nocche che continuavano a pulsare, non mi
sarei nemmeno resa conto della forza che avevo usato; doveva essere stata tanta
però, perché il suo naso continuava a sanguinare copiosamente, di certo perché
rotto.
«Fammi controllare» mormorai, avvicinandomi a lei. Volevo solo vedere
se il suo naso era rotto o meno, altrimenti, con un nuovo pugno, avrei
completato l’opera. No, non mi sentivo in colpa, ma non ero così stupida da
dare spettacolo di nuovo, con un secondo colpo.
«Allontanatela, è pazza» gridò di nuovo. Mi tenevano ferma per le
braccia, in modo da non farmi avvicinare a lei. Assurdo! C’era un poliziotto
accanto a me, era lui a strattonarmi per evitare che io mi muovessi.
«Sono un medico, controllo solo se ha il naso rotto» mi giustificai, incredula.
Mi stava davvero trattenendo perché avevo dato un pugno a Butterfly? Ma nessuno
aveva sentito la sua offesa? Evidentemente no, visto che tutte le persone lì
attorno continuavano a consolarla, porgendole fazzoletti e rassicurandola.
«Mike, portala dentro, è pazza» piagnucolò Butterfly, indicandomi di nuovo. Gli
sguardi di tutti i presenti si spostarono su di me, mentre rimanevo ferma,
intrappolata da quel poliziotto.
«Butterfly, dovresti seguirmi anche tu in centrale, vuoi fare una
denuncia?» chiese il ragazzo, senza lasciare la presa sul mio braccio. Sul
serio? Dovevo andare in centrale?
«No, io… lei… non… mi ha offesa» cercai di giustificarmi, cominciando
a temere che mi arrestassero davvero. Lei mi aveva dato della puttana e io
avevo reagito d’istinto; in modo sbagliato, certo, ma non potevano arrestarmi,
era legittima difesa.
«L’hai offesa, Butterfly?». Sembrava quasi una domanda retorica, posta
in modo ironico, come se Mike –come l’aveva chiamato Butterfly – si stesse
prendendo gioco di me. Qualcuno sogghignò alla domanda del poliziotto, ma io
non capivo perché ridessero.
«Certo che no, Mike, come potrei averla offesa? Come ho già detto le
ho consigliato di prendere un’altra marca di sugo». Sembrava che il sangue
continuasse a uscire dal suo naso e questo mi fece pensare che fosse veramente
rotto. Cercai di parlare, ma Mike il poliziotto non mi ascoltò nemmeno, troppo
impegnato ad annuire alle parole di Butterfly, finte come il suo seno.
«Andiamo in centrale, preparo tutte le carte e poi fai la denuncia,
ok?». Si stava incamminando verso l’uscita, costringendomi a seguirlo; la folla
di curiosi, dietro di noi, sembrava ancora più interessata alla scena. Quando
Mike aprì lo sportello posteriore dell’auto della polizia per farmi salire,
vidi che c’era un gruppetto di persone radunato fuori dal supermercato, sul
marciapiede.
Come aveva fatto il poliziotto ad arrivare così presto? Sembrava quasi
ci fosse già, e fosse corso lì attirato dalle urla di Butterfly, come… come se
lei avesse saputo che lui era lì.
Quando salì in auto, mettendosi al posto di guida, il poliziotto mi
guardò quasi ghignando, prima di scuotere il capo quasi rassegnato. «Ti sei
messa contro la ragazza sbagliata, tesoro» mormorò a bassa voce, tanto che non
ero nemmeno sicura avesse detto quelle esatte parole. Guidò per alcuni minuti,
fino a quando, dopo un paio d’incroci, parcheggiò la macchina davanti a un
grande edificio color ocra. Sopra alla porta principale c’era una scritta che
mi fece sbarrare gli occhi per la sorpresa, o forse, semplicemente, mi
risvegliò; capii improvvisamente dove mi trovavo e quello che stava per
accadere.
NYPD's 41st Precinct: era la stazione di polizia.
Io, Alexis Cooper che non ero nemmeno mai stata
fermata per eccesso di velocità, stavo per essere… arrestata per rissa? Per
cosa mi avrebbero arrestata?
«Andiamo» sbottò il ragazzo in divisa, aprendo lo sportello perché potessi uscire
dall’auto. Continuavo a tenere lo sguardo basso; sentivo le guance in fiamme a
causa della vergogna che provavo. Quando entrammo dentro alla centrale,
infatti, gli sguardi di tutti i presenti si spostarono su di me; potevo
sentirli, incuriositi e forse divertiti. «Ha
litigato con la ragazza sbagliata»
sogghignò Mike, al mio fianco, senza smettere di stringere il mio braccio, come
se avesse paura di una mia eventuale fuga. Mi condusse in una piccola stanza,
chiudendosi la porta alle spalle. «Sei
già schedata?» domandò, stupendomi. No,
come potevo essere schedata, io che non avevo mai fatto nulla nella mia vita?
Feci un gesto di diniego con il capo, lasciando che continuasse a spiegare
quello che stava succedendo. «Prima ti
faccio la foto segnaletica e dopo prendo le impronte. Mettiti lì». Indicò la parete dietro di me e mi guardai attorno,
confusa e spaventata. Era così simile allo sfondo delle foto di Ryan e dei
ragazzi che cominciai a tremare, spaventata. Sarei finita in prigione?
«Lei mi ha offesa, per questo ho tirato
il pugno. So… so di aver sbagliato, ma per favore, non mi arresti». Cercavo di non comportarmi come una bambina, mi
mordevo il labbro per non mettermi a piangere, visto che di sicuro non era un
modo maturo di reagire.
«Dopo la deposizione, ora girati di
lato». Si posizionò dietro la fotocamera,
aspettando che mi mettessi di lato per la foto segnaletica. Non riuscivo ancora
a crederci, stavo per essere arrestata perché avevo tirato un pugno a una ragazza
in un supermercato. Se solo Soph ed Edge l’avessero saputo mi avrebbero derisa
per giorni, io che mi fermavo a ogni semaforo appena scattava il giallo. «Girati verso di me». Non riuscii a trattenere una risata isterica, guardando i numeri di
fianco a me. Non sfioravo nemmeno i 5’2’’. Quando Mike alzò lo sguardo
dall’obbiettivo per cercare di capire perché stessi ridendo, soffocai le risa
con un colpo di tosse, tornando subito seria, come la situazione richiedeva.
In verità era tutto surreale, quasi come se fossi nel
set di un film.
«Devo prendere le impronte digitali per
schedarti». Posò davanti a me un foglio
che sicuramente avrebbe compilato; in fondo c’erano dieci caselline vuote: lì
avrei dovuto lasciare le mie impronte digitali. Mise l’inchiostro su ogni
polpastrello, indicandomi di apporre il timbro delle mie dita nelle apposite
caselline. Quando finii di timbrare, mi guardai le mani: i polpastrelli sporchi
di blu, le mie foto segnaletiche poco distante e un modulo con i miei dati da
riempire. Sembravo una criminale, esattamente come Ryan e tutti gli Eagles. Ma
che cosa mi era successo?
«Devi darmi i tuoi dati, poi potrai
chiamare un avvocato o chi vuoi, dobbiamo vedere se Butterfly vuole o meno
sporgere denuncia, poi potrai pagare la cauzione o pregare perché il tuo
avvocato conosca le persone giuste».
Avvocato? Non avevo mai avuto un avvocato nemmeno a Los Angeles, come potevo a
New York? In che guaio mi ero cacciata? Perché avevo reagito così
istintivamente? Ma soprattutto, da quando sapevo dare pugni così forti? Nemmeno
contro il fianco di Ryan avevo messo tutta quella forza.
«Io…» mormorai, prendendo un respiro profondo prima di cominciare a dire le
mie generalità, «Alexis Alice Kate
Cooper. Sono nata il ventisette aprile del millenovecento ottantanove a Los
Angeles, in California». Aspettai che
l’agente completasse la scheda per le altre mie generalità, poi, dopo aver
risposto a tutte le sue domande, tirai un sospiro di sollievo, come se fosse
stato difficile rispondere. Forse lo era stato davvero. Io continuavo a non
voler ricordare Los Angeles, e quello non era il modo giusto per farlo.
«Mentre aspettiamo che Butterfly
ritorni dall’ospedale per fare la sua deposizione, vuoi chiamare il tuo
avvocato?». Avvocato? No, come potevo
chiamarlo? Non avevo di certo nessun avvocato lì a Hunts Point. L’unica, le
uniche, persone che conoscevo erano Ryan e i ragazzi. Loro, però, probabilmente
ne conoscevano qualcuno di bravo, se nonostante tutta la droga, le risse e gli
omicidi, erano ancora liberi. Annuii, senza specificare che non avrei chiamato
il mio avvocato; in fin dei conti, nei film non facevano sempre vedere che si
aveva diritto a una telefonata? Composi quel numero sapendo che me ne sarei
pentita subito dopo. Chissà quanto mi avrebbe presa in giro, sapendo che ero
stata arrestata; ma in quel momento non mi importava, volevo solamente uscire
dalla centrale e tornare a casa. Dopo qualche squillo, rispose, ma ricordai che
probabilmente non sapeva il numero della centrale – se non era privato – quindi
forse era meglio che gli dicessi subito chi ero. «Ciao Ryan». Un
sussurro che di sicuro non era nemmeno riuscito a udire.
«Che c'è, lentiggini? Ti sei persa?». Il suo solito tono ironico e, ne ero sicura anche se
non potevo vederlo, stava sorridendo. Prima ancora di sapere perché lo avessi
chiamato, mi stava prendendo in giro.
«Ryan... potresti venire... a prendermi?» mormorai, tenendo lo sguardo basso e sentendo le gote
in fiamme. Non avevo nemmeno il coraggio
di dire dove mi trovavo. Alzai lo sguardo per controllare il poliziotto di
fianco a me: mi stava guardando spazientito, come se la telefonata non gli
facesse poi molto piacere.
«Che succede?». Il tono di voce di Ryan cambiò all’improvviso,
diventando serio. Mi sembrava quasi di sentirlo preoccupato, ma di certo ci
doveva essere la linea disturbata. Ryan non era mai preoccupato, nemmeno
quando, probabilmente, aveva una pistola puntata alla tempia.
«Ecco, sono… sono al 41st Precinct. Se
potessi portare anche un avvocato sarebbe meglio» bofonchiai prima di attaccare senza aspettare nemmeno una sua risposta.
Sapevo che si sarebbe messo a ridere e mi avrebbe presa in giro, ed era
l’ultima cosa che volevo.
«Mentre aspetti il tuo avvocato ti
porto in cella, così magari evitiamo di dare pugni alle persone, eh?». La mano dell’agente si strinse attorno al mio
braccio, costringendomi ad alzarmi da quella scomoda sedia di acciaio. In
cella, mi avrebbe davvero portato in cella? Sarei stata in prigione fino
all’arrivo di Ryan? Speravo solo che arrivasse il più presto possibile, perché
non potevo rimanere a lungo in quel posto.
«Muoviti… muoviti…» ripetevo quasi come una cantilena, continuando a
camminare su e giù, in quella piccola cella gialla. C’era un letto – grande per
me – con una coperta grigia, un
lavandino e un solo water. Niente doccia o altro; come potevano vivere così i
carcerati? O forse, in quella piccola cella non vivevano i veri e propri
carcerati, ma quelli che, come me, avevano per sbaglio tirato un pugno dopo
essere stati offesi.
«Un sorriso per la stampa» ghignò una voce. Appena mi volta verso l’uscita, per
guardare chi aveva parlato, sentii il suono di una fotocamera e il flash. Ryan,
assieme a Brandon e Dollar, continuava a sghignazzare, rimanendo appoggiato
alle sbarre.
«Ryan» sospirai, sollevata perché finalmente sarei uscita da quella cella. Mi
avvicinai alla porta in ferro, stringendo le sbarre tra le dita. «Ti prego, tirami fuori di qui, è stata lei a
provocarmi, te lo giuro». Le dita che
spasmodicamente si stringevano attorno al ferro freddo e Ryan, Brandon e Dollar
dietro le sbarre. Ah, no, ero io quella che stava dentro.
«Che è successo, Doc?». Dollar faticava a mantenersi serio, le sue labbra
continuavano a curvarsi all’insù, in un sorriso divertito e naturale che mi
infastidiva ancora di più. La scena, per loro, doveva essere davvero
divertente: tutti e tre sorridevano. Forse perché, per una volta, non erano
loro quelli dentro alla cella.
«Ero al supermercato e Butterfly si è
avvicinata; ho capito che voleva farmi arrabbiare e ho cercato di non prestarle
attenzione, ma poi mi ha dato della…». Mi
sentivo in imbarazzo a ripetere quello che lei aveva detto a me, ma se non
l’avessi fatto, probabilmente mi avrebbero davvero arrestata. Istintivamente
portai le dita alle tempie massaggiandole: avevo ancora mal di testa per la
sbornia della sera prima e tutto quello stress non mi faceva di certo bene. «… mi ha detto che sono una puttana che non sa fare il
suo lavoro, così senza nemmeno accorgermene le ho tirato un pugno, ma non l’ho
fatto volontariamente, lo giuro». Speravo
che almeno loro mi credessero, perché se così non fosse stato, non avevo
nessuna possibilità con l’agente di polizia.
«Le hai tirato un pugno? Come è stato?». Dollar sembrava quasi fiero di me, perché si
avvicinò di un passo alle sbarre di ferro, appoggiando la fronte contro la
grata, senza smettere di sorridere. Istintivamente guardai la mia mano, per
vedere i danni: con tutto quello che era successo non mi ero nemmeno resa conto
che, se avevo tirato un pugno, di certo qualche traccia sarebbe rimasta. Le
prime due nocche erano rosso scuro, tanto che, quando provai a sfiorarle
sussultai per il dolore.
«Non eri mai stata schedata?» ghignò Ryan. Quando alzai lo sguardo per capire a
cosa si riferisse, notai che stava insistentemente guardando le mie mani.
Ricordai che le dita avevano ancora l’inchiostro che l’agente aveva usato per
prelevarmi le impronte digitali e portai le mani dietro alla schiena,
nascondendole ai loro sguardi. «Non ci
credo. Non eri nemmeno mai stata schedata? Ma che cazzo hai fatto fino a ora,
bevuto Pepsi e preso il sole? Hai ventidue anni e non sei nemmeno mai stata al
fresco per un paio d’ore. Che delusione, lentiggini. Dovevi venire nel Bronx
per essere schedata». Si finse
dispiaciuto, scuotendo il capo, come se gli avessi appena dato uno dei
dispiaceri più grandi della sua vita.
«Smettila. Voglio uscire da qui, non
voglio che Butterfly sporga denuncia, non mi piace rimanere in questa cella». Mi guardai attorno: quelle pareti gialle mi
rendevano quasi claustrofobica, mi mancava il respiro.
«Butterfly vuole sporgere denuncia? È
gelosa, non ci posso credere» sbottò
divertito Ryan, allontanandosi per raggiungere Mike, poco distante da noi.
Brandon e Dollar continuavano a rimanere in silenzio,
guardandomi sempre con quel sorriso sulle labbra che non se ne voleva andare.
Cercai di non fare caso a loro, concentrandomi su Ryan che stava discutendo con
l’agente: sembrava gesticolare un po’ troppo, indicando prima la cella nella
quale mi trovavo e poi la porta d’uscita della centrale. Il poliziotto, dopo
qualche minuto sospirò annuendo: sembrava che quel gesto gli costasse un grande
sforzo.
«Si torna in libertà» sogghignò Dollar, facendo un passo indietro dopo
Brandon, che incrociò le braccia al petto, soddisfatto. Non capii a cosa si
riferisse fino a quando Mike, sospirando, infilò la chiave nella serratura
della grata davanti a me, aprendola.
«Come fai a lasciarla dentro? Guardala,
ha tipo lo sguardo di un cucciolo di lama bianco spaventato, non si può, deve
rimanere in libertà». Ryan sembrava
davvero divertito, visto che continuava a fare battutine stupide. Se solo non
fossi stata dentro alla cella di una centrale di polizia, gli avrei tirato un
pugno ancora più forte di quello che avevo dato a Butterfly. Questa volta non
avrei mirato al suo fianco, visto che era ricoperto da ferro, avrei mirato in
basso, dove, ne ero sicura, avrebbe sentito molto dolore. «Lentiggini, Mike ti fa uscire, ma devi pagare la
cauzione». Aveva negoziato? E Butterfly,
avrebbe sporto denuncia lo stesso?
«E per la denuncia di Butterfly?». Esitavo a uscire da quella cella, come spaventata da
quello che sarebbe successo. Magari il giorno dopo sarei dovuta tornare dentro
perché Butterfly mi aveva denunciata.
«Non ti denuncerà, ci parlo io. Paga la
cauzione a Mike e la storia si conclude qui». Ryan sembrava quasi ansioso di andarsene da quel posto, visto che si
tastò le tasche, in cerca del pacchetto di sigarette; se ne portò una alle
labbra, accendendola e inspirando a pieni polmoni. No, forse semplicemente era
ansioso di fumare e non gli interessava niente altro.
«Ma, come può essere che Butt…» cominciai a dire, prima che Ryan sbuffasse
infastidito, spegnendo la sigaretta sul muro e gettandola a terra, nonostante
l’avesse appena accesa.
«Lentiggini smettila di rompere le
palle, paga quella fottuta cauzione e usciamo di qui». Strinse la sua mano attorno al mio braccio, strattonandomi
perché uscissi dalla cella e seguissi Mike che si stava dirigendo verso
l’entrata. Cauzione, dovevo solo pagare la cauzione, con quali soldi? Quelli
destinati all’affitto, certo. Ma come sarei arrivata a fine mese, se John non
mi avesse pagata nonostante il lavoro al Phoenix?
Mi avvicinai a Mike in silenzio, aspettando di
sentire la somma che gli dovevo. «Sono trecento dollari» disse infine, attendendo che pagassi quella somma.
«Tre… trecento dollari?» biascicai, rischiando di soffocare con la mia stessa
saliva. Trecento dollari per essere rimasta dentro a una piccola cella per
nemmeno un’ora? O trecento dollari perché avrebbe insabbiato tutta la faccenda?
«Sì, erano cinquecento, ma visto che
sei la Signora di Ryan e tutto quanto…».
Mike gesticolava molto mentre parlava. Era il tipico comportamento delle
persone che non si sentivano a proprio agio, forse perché Ryan era a pochi
metri da noi o forse perché…
«Cosa? No, non sono la Signora di
nessuno, sono la loro vicina» cercai di
spiegare, inutilmente: l’agente cominciò a ridere, tamburellando con le dita
sulla scrivania scura davanti a lui, in attesa che pagassi il mio conto. Perché
nessuno mi credeva quando dicevo che non ero la Signora di nessuno?
«Sì, sì, certo. In ogni caso devi pagarmi
ora». Non la smetteva di tamburellare con
le dita sulla scrivania, tanto che quel gesto cominciava seriamente a darmi sui
nervi. Possibile che dovesse continuare con quel ticchettio fastidioso?
«Io… ho solo cento dollari. Scusi…». Mi avvicinai a Ryan e ai ragazzi, sperando che
avessero soldi a sufficienza per pagare la cauzione. Glieli avrei restituiti
una volta tornati a casa, non volevo di certo avere debiti con loro,
soprattutto perché avevo visto con i miei occhi cosa facevano per arrivare a
fine mese. «Ryan, io… io ho solo cento
dollari, me ne servono altri duecento. Potresti… potreste prestarmeli, appena
arriviamo a casa vi prometto che ve li restituisco subito» mormorai, torturandomi le mani per l’imbarazzo di
quella situazione. Io stavo chiedendo un prestito a loro.
«Ne ho cento. Brandon, Doll, arrivate a
cinquanta testoni in due?» domandò,
prendendo il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans e porgendomi cento
dollari. Brandon e Dollar lo imitarono, allungando cinquanta dollari a testa.
Li ringraziai imbarazzata e tornai a consegnare i soldi all’agente, che non si
era perso un mio gesto, come se temesse una mia possibile fuga.
«Ecco…». Appoggiai i soldi sul legno scuro, aspettando che smettesse di
ticchettare le dita e li prendesse, per contarli. Il suo volto si curvò in uno
strano ghigno, mentre raccoglieva i soldi, arrotolandoli e nascondendoli dentro
alla tasca interna della sua uniforme scura.
«Bene, Cooper. Immagino che ci
rivedremo ancora in giro, no?» ammiccò
verso di me, intrecciando le sue mani dietro alla nuca e portando i talloni ad
appoggiarsi alla scrivania, sgombra da carte. Sembrava quasi che si stesse
prendendo gioco di me, che sapesse qualcosa che io non sapevo. Per questo lo
salutai ringraziandolo con parole sconnesse, per tornare subito dopo dai
ragazzi.
«Torno subito, devo prendere una cosa». Di nuovo quel ghigno sul volto di Ryan; era
decisamente divertito mentre si allontanava da noi, dirigendosi verso la
scrivania dell’agente. Parlò con lui per qualche minuto fino a quando non
riuscì a convincere il poliziotto che, dopo un sospiro, gli porse un pezzo di
carta che Ryan prontamente nascose nella tasca posteriore dei pantaloni. «Andiamo a casa»
sogghignò, raggiungendoci.
Mentre uscivamo dalla centrale nessuno di noi
parlava: io continuavo a guardare i miei piedi, troppo imbarazzata da quello
che era successo per dire davvero qualcosa; Ryan fischiettava allegro, calcando
un sassolino. Brandon e Dollar, davanti a noi, avanzavano silenziosi verso le
moto, posteggiate pochi metri fuori dalla stazione di polizia.
«Tieni lentiggini». Feci appena a tempo a girarmi verso di lui che
qualcosa di nero e grande mi colpì allo stomaco. Quando abbassai lo sguardo,
notai che Ryan teneva un casco tra le mani; casco che non era grande come
quello che avevo usato qualche giorno prima, per andare a Coney Island. «Misura Baby. Dovrebbe entrarci la tua testolina così
da… dura». Mi stava prendendo in giro,
riuscivo a capirlo anche dal suo ammiccare verso di me. Indossò il suo casco, mettendosi
a cavallo della moto e dando gas per accendere il motore. Quando mi vide con il
casco tra le mani, indecisa su cosa fare, si alzò la visiera scura, parlando a
voce alta per farsi sentire anche sopra al rombo della moto. «Lentiggini? Vuoi tornare dentro o sali?». Era una domanda retorica, certo, ma involontariamente
mi voltai per guardare la centrale di polizia, dietro di me. «Ti vuoi muovere?»
sbottò, spazientito. Me lo fece capire anche dando un nuovo colpo di gas alla
moto. Portai le mani sulla cinghietta del mio casco, cercando di aprirla con
scarsi risultati: stavo tremando e non riuscivo ad aprire il moschettone. «Dammi qui»
sbuffò, prendendo il casco dalle mie mani e aprendo la cinghietta in pochi
secondi. Me lo fece indossare a forza, dandomi un pugno perché la mia testa
entrasse, poi, ridendo, chiuse la cinghietta, tornando a poggiare le mani sul
manubrio. «Sali o devo prenderti in
braccio?». Tutto purché la smettesse di
prendermi in giro. Mi sostenni sulle sue spalle, facendo forza con il piede sul
pedale e salendo sulla moto subito dopo. Volevo dirgli di non correre oltre i
limiti di velocità, ma Ryan partì sgommando e l’unica cosa che riuscii a fare
fu aggrapparmi più forte a lui, circondandogli il busto con entrambe le
braccia.
Quando arrivammo davanti a casa, qualche minuto dopo,
Ryan rallentò fino a fermarsi; aspettò che Dollar scendesse dalla sua moto per
aprire il portone del garage e poi entrò, parcheggiando la moto dopo quella di
Brandon e Dollar: la prima vicino all’uscita, esattamente nello stesso posto
della settimana prima, quando eravamo andati a Coney Island.
Per evitare che Ryan cominciasse a ridere di me di
nuovo, scesi dalla moto, dandogli le spalle per cercare di togliere il casco;
fortunatamente ci riuscii: la fibbia si aprì al primo tentativo, tanto che,
dopo essermi sfilata il casco, guardai Ryan. Non sapevo nemmeno dove
appoggiarlo.
«Tienilo tu, tanto di quella misura non
va bene a nessuno» liquidò la faccenda,
scendendo dalla moto e sfilandosi il casco a sua volta. Lo appoggiò al
manubrio, portandosi poi una mano tra i capelli e scompigliandoli. Non sapevo
che dire, perché in qualche modo mi sembrava un regalo. No, mi sbagliavo, era
un regalo vero e proprio, solo per me.
Cercai di ringraziarlo, ma Ryan, subito dopo Brandon
e Dollar, si incamminò verso le scale, per uscire dal garage senza aspettarmi.
Corsi per riuscire a raggiungerli, ma, una volta giunta al pianerottolo del
terzo piano, ricordai che dovevo loro duecento dollari. Si richiusero la porta
del 3B alle spalle, come se nemmeno fossi dietro di loro.
«Arrivo subito» strillai, perché potessero sentirmi. Presi le chiavi
di casa dalla borsa, aprendo la porta con urgenza; dopo aver appoggiato il
casco sopra alla tavola, corsi in bagno a prendere parte degli ultimi risparmi
che mi erano rimasti. Con i duecento dollari che dovevo dare ai ragazzi me ne
rimanevano meno di cento, non sarei mai riuscita a pagare l’affitto. Ma non
volevo e non potevo permettermi di avere un debito così grande con i miei
vicini.
Bussai alla loro porta con insistenza, fino a quando
Sick non venne ad aprire. «Ehi Lexi! Che piacere vederti. Un piacere quasi
indescrivibile, vorrei farti sentire quanto mi piace vederti, soprattutto ora
che sei una dura». Ammiccò, senza
spostarsi dall’uscio. Non riuscivo a entrare e nemmeno a vedere dentro il
salone; non se Sick rimaneva fermo.
«Scusa, posso entrare?» mormorai, indicando come una stupida la stanza dietro
di lui. Per tutta risposta Sick cominciò a ridacchiare, spostandosi e facendo
un goffo inchino. Brandon e Dollar erano seduti sui divani: stavano fumando;
Paul e Josh invece, erano di fianco a Ryan, davanti alla parete delle foto. Tutti
e tre stavano ridendo, come se ci fosse stato qualcosa di divertente da vedere.
«Grazie per avermi prestato i soldi,
prima» spiegai, porgendo cinquanta
dollari a Dollar e altrettanti a Brandon. Risposero al mio grazie con un ghigno
guardando Ryan divertiti.
«Non trovate che sia il posto giusto?» domandò Ryan, guardando la parete davanti a lui,
soddisfatto. Quando fui abbastanza vicina da vedere cosa attirasse l’attenzione
di tutti, spalancai gli occhi, stupita, arrabbiata e sorpresa: c’era la mia
foto segnaletica appesa al muro, di fianco alle foto di tutti i ragazzi. La mia
foto, quella che un’ora prima Mike, l’agente di polizia, mi aveva scattato.
Ecco cosa Ryan aveva preso, dopo aver costretto il ragazzo a consegnarglielo!
«Toglila subito. Ridammi quella… cosa» sbottai, avvicinandomi al muro per prendere la foto.
Non volevo che nessuno la vedesse, era una cosa davvero vergognosa. La gente
non doveva nemmeno sapere che io ero stata schedata e avevo evitato una
denuncia solo perché Ryan aveva contrattato con la polizia, no.
«Ehi, lentiggini! Calma, su. O vuoi
tirare un pugno anche a me?» scherzò,
senza smettere di ghignare. Ah, per lui era divertente, un motivo in più per
deridermi, no? Ecco perché non aveva detto niente alla centrale, perché voleva
aspettare di essere a casa, davanti a tutti i suoi amici.
«Dammela» sibilai, cercando di sembrare minacciosa. Il mio tentativo di
intimidirli non funzionò, visto che Ryan e i gemelli cominciarono a ridere,
portandosi le mani sullo stomaco. Bene, come al solito ero lo zimbello di
tutti, il loro personale giullare di corte che li faceva divertire. «Tieniti i tuoi soldi». Gli lanciai i cento dollari addosso, avanzando velocemente verso la
porta, per uscire da quell’appartamento. Non ci sarei più entrata, non quando lui era in quella casa, perché
cominciavo seriamente a odiare lui e il suo continuo prendermi in giro, era
stressante.
Avevo quasi raggiunto la maniglia della porta, quando
qualcosa si strinse attorno al mio polso, fermandomi. «Stasera c'è
una festa, se senti casino non farci caso»
spiegò Ryan, stringendo di più la sua mano. Festa, certo. Una festa, come avevo
fatto a non pensarci? Probabilmente era una festa per festeggiare Butterfly e
il suo stupido tentativo di lasciarmi al fresco, come dicevano loro. O forse
perché non ero riuscita a romperle il naso, chi poteva saperlo.
«Festeggiate Butterfly?» domandai ironica, strattonando il braccio perché lo
lasciasse. Ryan si rabbuiò per qualche istante, rimanendo immobile a fissarmi,
senza però dire nulla.
«Ryan, perché non facciamo venire anche lei?». Dollar lo affiancò, dandogli un colpo sulla spalla e
riscuotendolo dai suoi pensieri. Ryan prese un respiro profondo, lasciando il
mio polso e prendendo una sigaretta dal pacchetto che teneva sempre nella tasca
posteriore dei jeans.
Ci pensò per qualche secondo e, dopo aver aspirato
una boccata di fumo, disse: «Non è una
Eagles e nemmeno una Signora. Non è nemmeno una troietta». Certo, dimenticavo che le loro feste erano
esclusive, solo per chi faceva parte degli Eagles. No, anche di Butterfly, che
li soddisfaceva come una buona samaritana. Stavo per dire che non mi
interessava di certo partecipare a una festa che aveva come protagonista
principale Miss Silicone, quando Dollar mi stupì, parlando di nuovo.
«Ma ad Aria farebbe piacere, avrà qualcuno con
cui parlare, sai che odia Butterfly e tutte le sue amiche». Aria, ci sarebbe stata Aria. Perché? Cosa le
permetteva di essere presente a una delle loro feste esclusive? Forse perché
era una loro amica e dopo tutta la storia di JC volevano cercare di consolarla?
«Non mi interessa una festa con
Butterfly al centro dell’attenzione».
Incrociai le braccia sotto al seno, ponendo in quella frase tutto il mio odio
per quella ragazza. Se, in tutti i modi, avevo cercato di capirla e esserle
amica, dopo quello che aveva fatto al supermercato non potevo più sopportarla.
«La festa è per Aria, è la mia Signora» spiegò Dollar. Nel suo sorriso c’era una nota
divertita, il suo sguardo era fiero di dare quella notizia e gli occhi
brillavano per la felicità. Non riuscivo a vedere Dollar, uno degli Hard-Cores
degli Eagles, vedevo solo un ragazzo, felice di dire a tutti che aveva una
nuova fidanzata.
«Dollar, sono così felice per voi» esultai, abbracciandolo di slancio. Ero contenta per
lui, per Aria, per loro. Perché li avevo visti interagire poco, ma al funerale
il discorso di Dollar e il modo in cui l’aveva confortata mi aveva fatto
sperare in un loro avvicinamento.
«Alzi la mano chi vorrebbe essere al
mio posto in questo momento. Sick, la mano»
scherzò Dollar, rispondendo al mio abbraccio. Gli diedi un pugno scherzoso sul
braccio, allontanandomi di un passo da lui, mentre, con sguardo solenne
proclamava: «Doc, mi dispiace ma non ci
proverò più con te, ora sono un uomo impegnato». Ridacchiai assieme a Sick, Brandon e i gemelli, mentre Ryan spegneva
la sigaretta contro la porta a pochi passi da noi.
«Aria verrà a chiamarti quando arriva.
Non romperai le palle a nessuno ed eviterai di romperle a Butterfly, altrimenti
questa volta non me ne frega niente,
rimani in prigione e ti becchi una denuncia. E adesso vattene, che devo parlare
con loro». Ryan e i suoi proverbiali modi
gentili, delle volte rasentava quasi il ridicolo. Volevo uscire da quella casa
con classe, sbottando un «Vaffanculo», ma sarebbe stato come abbassarmi ai livelli di Ryan,
quindi semplicemente uscii senza dire nulla. E non gli avrei di certo parlato
nemmeno quella sera, anche se mi aveva invitata a quella stupida festa.
Salve ragazze!
Scusate per
il ritardo di questo capitolo ma ho avuto problemi nella scrittura.
Prima di
tutto: Don’t
hurt me again. È una OS Dollar e Aria, ambientata tra questo capitolo e il
precedente, per chi volesse leggerla…
Poi, vorrei
dire che non sono esperta di giustizia americana e non so se si può essere
schedati solo per un pugno, quindi quella scena prendetela con le pinze. C’è da
dire che sapendo che la polizia è sul libro paga degli Eagles, è possibile che
possano arrestare qualcuno che li ha in qualche modo ‘intaccati’. Insomma, qui
in Italia si è schedati solo per casi gravi, da quello che mi è stato detto, ma
in America sappiamo che funziona in modo diverso.
Ringrazio come
sempre quelli che aggiungono la storia tra preferiti, seguiti e da ricordare,
tutte le persone che mi aggiungono tra gli autori preferiti e chi commenta. Grazie
mille, davvero.
Spero di
poter regalare un capitolo migliore di questo al più presto, per la prossima
settimana, insomma, ma come sempre darò tutte le indicazioni sul gruppo di FB: Nerds’ corner.
Rob.
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Capitolo 12 *** Party & underwear ***
YSM
Continuavo a camminare
attorno al tavolo della mia cucina, indecisa se andare o meno a quella festa:
speravo che la rimandassero, anche se era impossibile e improbabile, visto che
continuavo a sentire risate e musica, al di là del pianerottolo.
Una
parte di me, quella razionale, continuava a ripetersi che non voleva andare a
quella festa; speravo con tutto il cuore che Aria non bussasse alla mia porta,
così non avrei varcato l'uscio del 3B. L'altra... be', l'altra era curiosa da
morire; curiosa di scoprire se le loro feste fossero come le avevo immaginate,
una versione dei video di 50 Cent senza una piscina di contorno.
«Ok,
non ci vado» decretai, togliendomi le scarpe: ero decisa, avrei indossato
qualcosa di più comodo di quei jeans, come una tuta. Non potevo andare a quella
festa, c’era Butterfly, c’erano tante persone che non conoscevo e soprattutto
Ryan, che mi aveva invitata solo perché costretto da Dollar. Non era bello
essere invitati perché obbligati, non mi sarei di certo lamentata per la musica
troppo alta o per strani rumori. Mi sarei comportata da fantasma, come se il 3C
fosse vuoto.
Quando cominciai
a sfilarmi la maglia, camminando verso la mia camera, qualcuno bussò alla mia
porta: mi fermai in mezzo al corridoio, la maglia mezza sfilata e il cuore che
batteva all’impazzata.
Festa.
«Lexi, sono io apri». La voce di Aria che sghignazzava prima che qualcosa –o
qualcuno –sbattesse contro la porta. «Sta
fermo» ridacchiò, mentre mi avvicinavo
all’entrata del mio appartamento, dopo essermi sistemata la maglia. Le avrei
detto che non mi sentivo bene e che mi dispiaceva, ma non mi andava di rovinare
la loro festa. «Lexi, che succede?» domandò lei, non appena aprii l’uscio.
Dollar, dietro di
lei, teneva le mani intrecciate sulla sua pancia e il mento appoggiato alla sua
spalla, ma quando mi vide, fece scivolare le sue mani sui fianchi di Aria,
indietreggiando di un passo. «Doc, tutto
bene?». C’era quasi una nota ansiosa
nella sua voce, la stessa che avevo sentito in quella di Aria.
«Io… sì, cioè no… non sto molto bene, è
meglio se non vengo alla festa» mentii,
torturandomi le mani e tenendo lo sguardo basso. Improvvisamente i piedi di
Aria e Dollar erano diventati molto più interessanti dei loro volti; forse
perché ero sicura che così non avrebbero scoperto il mio bluff.
«Doc, che hai?».
Dollar si avvicinò a me, superando Aria. Quel gesto mi fece sospirare sollevata,
ero sicura che lui avrebbe creduto alla mia bugia, a differenza di Aria; lei
infatti sembrava capire le persone solamente con uno sguardo, una qualità che
mi incuriosiva e intimidiva allo stesso tempo.
«Doll, vai ad aiutare Ryan con le birre, ti
raggiungiamo dopo». Aria spintonò Dollar
fuori dal mio appartamento, guardandomi minacciosa. Indietreggiai
istintivamente, sicura che avesse capito la mia bugia. Se fosse stato realmente
così, non l’avrei passata liscia. L’espressione infuriata sul suo viso la stava
dicendo tutta: ero nei guai. Dollar cercò di dire qualcosa, ma lei, senza
lasciargli il tempo di spiegarsi, chiuse la porta del mio appartamento,
voltandosi poi verso di me. «Cosa sarebbe
questa stronzata che stai male? Adesso tu attraversi quello stupido pianerottolo
e vieni di là a farmi compagnia, visto che non ho voglia di parlare con
Butterfly che ha sempre le gambe aperte. Muoviti»
ordinò, indicando la porta. Era arrabbiata, forse addirittura infuriata. Non
riuscii a trattenermi e cominciai a ridere, irritandola ancora di più. «E non ridere o chiamo Sick che venga a
prenderti a forza. Sai che con lui nessuno ti assicura di arrivare di là». Un ghigno sadico apparve sulle sue labbra
piene, mentre si sistemava i lunghi capelli castani dietro la schiena.
«Aria, per favore… non voglio venire a
quella festa. Sono davvero felice per te e Dollar, dico davvero, ma… ci sono
Butterfly, le sue amiche, Ryan… non ho voglia di vedere tutta quella gente.
Adesso mi cambio e guardo un bel film. Ma tu divertiti». La rassicurai anche con un sorriso, sperando che la smettesse di
insistere. Mi sarebbe piaciuto andare a quella festa per lei e per Dollar,
erano gli invitati che non sopportavo. Specialmente due, che avrei volentieri
preso a pugni di nuovo.
«Stai scherzando? Tu manchi alla mia festa
perché c’è Butterfly? Evitala, il suo cervello è così piccolo che a forza di
andare su e giù si è perso. Muoviti, rimani con me e non rompi». Prese il mio polso, costringendomi a
seguirla fuori di casa. Cercai di protestare, ma senza risultato. Mi ritrovai
di fronte a Sick, che ghignava, soddisfatto di trovarsi davanti una me
ammutolita.
«Benvenuta, Lexi. Mi casa es tu casa, e in
casa tu giri nuda, no? Quindi, togliti pure tutti i vestiti». Ammiccò, facendomi ridere. Sick era sempre
il solito, non perdeva mai l’occasione di provarci con me, nonostante i miei
continui rifiuti. Aria però non mi lasciò il tempo di rispondergli, mi trascinò
verso la parete delle foto, stupita di vedere la mia appesa lì con le altre.
«E questa? Chi ti ha dato il permesso di
metterla qui?». Voleva rimanere seria,
quasi arrabbiata, ma non ci riusciva; c’era un sorriso stampato sul suo viso
che non se ne voleva andare. Guardai la mia foto ancora appesa alla parete di
fianco a quella dei ragazzi e poi spostai lo sguardo su Aria, che non la
smetteva di fissarmi in attesa di una risposta.
«Non l’ho messa io, mi credi così stupida?
È stato Ryan, voleva fare l’idiota come sempre, naturalmente» sbottai, guardandomi attorno furtivamente per
vedere se fosse nei paraggi: magari potevo prendere la foto e nasconderla prima
che se ne accorgesse qualcuno. Ero sicura che Aria non avrebbe di certo obbiettato.
Quando però, a pochi metri da noi, vidi Ryan, mi immobilizzai per la sorpresa:
sul suo volto c’era un grande livido che dall’occhio arrivava fino al mento.
Fortunatamente non sembrava che ci fosse sangue; non era un taglio,
assomigliava di più a una botta.
«Cosa hai fatto?» domandai, avvicinandomi istintivamente a lui per controllare. Mi
alzai in punta di piedi, appoggiando una mano sul suo petto per non perdere
l’equilibrio; l’altra accarezzò la sua guancia con i polpastrelli, sfiorando la
parte lesa per cercare di capire a cosa fosse dovuto quell’ematoma. «Come ti sei fatto male?» bisbigliai, alzando lo sguardo per controllare che non mi
mentisse o si prendesse gioco di me come il suo solito.
«Il gatto della vecchia del piano di sotto». Ma il suo sguardo divertito e derisorio
diceva altro, così come la sua bocca contratta in una smorfia sarcastica. Istintivamente
reagii, schiacciando le mie dita sulla pelle arrossata, come una bambina in
cerca di vendetta. Ryan indietreggiò sbottando un insulto e si portò una mano
sulla guancia, per massaggiarsi dove lo avevo colpito.
Era un gesto
infantile e da stupidi, ma volevo che la smettesse di prendermi in giro e
mentirmi. Ero la loro vicina da più di un mese, li avevo curati e ricuciti,
avevo salvato la vita a Sick, mi avevano vista ubriaca e delirante: era il
momento di smetterla di trattarmi come una persona che non doveva sapere la
verità. Soprattutto, non ero così stupida come credeva; riuscivo a capire
quando mentiva e quando no.
Mi voltai,
dandogli le spalle per tornare da Aria, che aveva osservato tutta la scena
divertita. «Non dire niente, non ci
provare» la ammonii, prima che potesse
cominciare a dire che non dovevo rivolgermi a Ryan in quel modo perché lui era
l’O.G. degli Eagles. Poteva essere chi voleva, ma qualcuno doveva assolutamente
fargli capire che il mondo non ruotava attorno a lui e che non aveva il
permesso di essere sempre così ironico con tutti.
Avevo quasi
raggiunto la porta quando Butterfly entrò, seguita da un gruppo di papere come
lei. Quello che però attirava la mia attenzione – distogliendola dal gruppo di
ragazze – era il vistoso cerotto bianco che aveva sul naso; risaltava sul
trucco scuro dei suoi occhi e mi invogliava a colpirla una seconda volta,
ancora più forte.
«Guardate, la nanetta psicopatica». Cinque sguardi – quelli di Butterfly e le
sue quattro amiche – si spostarono su di me, facendomi sentire per qualche
istante in imbarazzo. Poi realizzai quello che Butterfly aveva detto e, pronta
per andare a rompere definitivamente il suo naso, avanzai verso di lei.
«Lentiggini, frena l’istinto da boxeur» sogghignò Ryan, stringendomi un polso per
fermarmi. Mi voltai, guardandolo con tutto l’odio che potevo trasmettergli:
Butterfly mi aveva offesa e io dovevo incassare senza reagire? No, non
funzionava proprio così; per alcuni aspetti del mio carattere ero ancora una
bambina cocciuta, soprattutto quando la gente mi provocava.
«Hai sentito cosa ha detto?» sibilai, stringendo le mani a pugno perché
volevo evitare di colpirlo in pieno viso, vista la botta che già aveva. Però
forse… di sicuro gli avrebbe fatto molto più male di un colpo assestato in
condizioni normali.
«Sì, e allora?»
domandò, come se non fosse stata un’offesa. Sul suo volto si allargò un sorriso
che sfociò presto in una risata: «ma è
vero che sei una nanetta. E sulla parte della psicopatica… potrei anche
concordare». Di nuovo quel sorriso: mi
stava prendendo in giro. Se quella era l’anticipazione della serata, be’, non
ci tenevo proprio a rimanere lì, per essere derisa davanti a tutti.
«Sei uno stronzo e, ah! Vaffanculo». Con poca eleganza alzai il dito medio,
strattonando il mio braccio perché mi lasciasse il polso. Quando mi trovai
Butterfly di fianco, fui quasi tentata di tirarle un nuovo pugno, ma avevo già
dato abbastanza spettacolo e non volevo rovinare la festa a Dollar e Aria,
avevo fatto anche troppo.
«Lexi, se esci da lì, non sei più mia
amica, non ti parlo più». La voce di Aria
sovrastava anche la musica e il chiacchiericcio. Mi fermai, immobile, con la
mano sul pomello della porta, indecisa se aprire e finire un rapporto – che
stava nascendo – con una delle persone
migliori che avessi incontrato lì, oppure rimanere da sola, senza nessuna
ragazza con cui parlare o confidarmi.
Presi un respiro
profondo, cercando di mettere in ordine le idee. Si trattava di fare una
scelta, tra l’altro nemmeno difficile. Avevo bisogno di Aria lì, al Phoenix;
avevo semplicemente bisogno di una persona che comprendesse la situazione e mi
lasciasse sfogare. Spostai la mano dal pomello della porta, girandomi
lentamente e trovando Aria davanti a me: sulle sue labbra c’era un sorriso
soddisfatto, come se avesse sempre saputo che non sarei uscita da quella porta.
«Lasciali perdere e goditi la festa» mormorò, sorridendo di fianco a me. Annuii,
evitando di guardare Butterfly o Ryan. Sentivo i loro sguardi addosso, ma
forse, anzi, di sicuro, Aria aveva ragione: non dovevo prestare attenzione a
loro ma divertirmi e basta. Forse era esattamente l’opposto di quello che
stavano cercando di fare. Ero riuscita a smascherarli: Ryan e Butterfly non mi
volevano a quella festa, ero un impiccio; proprio per quel motivo, sarei
tornata a casa per ultima, anche se avessi dovuto assistere a qualche scena
spiacevole.
Andai a sedermi
su una sedia che avevano spostato di fianco ai divani vecchi e logori. C’erano
anche un paio di poltrone che non avevo mai visto, come se tutta la festa si
dovesse svolgere lì, davanti alla TV che, senza audio, continuava a trasmettere
le immagini di un film porno. Quando riuscii a capire cosa stava succedendo,
spostai lo sguardo dallo schermo, imbarazzata. Senza dubbio doveva essere una
scelta di Sick, ma Butterfly e le sue amiche continuavano a guardare la TV con
interesse, borbottando qualcosa e annuendo tra di loro. Mancava poco che
prendessero appunti. Irritata dal loro comportamento, mi guardai attorno,
cercando di capire chi fossero tutti i ragazzi che c’erano lì.
Riconoscevo
Brandon, Sick, Paul e Josh, Lebo e Dollar, che continuava a pizzicare il sedere
di Aria; lei non riusciva a smettere di ridere, cosa che faceva sembrare le sue
minacce innocue. C’erano un paio di ragazzi che avevo visto più volte al
Phoenix, ma, la cosa che mi stupiva di più, era vedere l’interesse con cui un
paio di ragazzi che non avevo mai visto, guardavano la parete delle foto, criticandone
due. Di sicuro si stavano facendo quattro risate, deridendo la foto che Ryan
aveva preso alla stazione di polizia.
Mi avvicinai per
intimargli di smetterla, anche se non li conoscevo, ma mi zittii, notando un
particolare che prima – troppo presa dalla foga di andare contro Ryan – non avevo notato: le foto segnaletiche di
entrambi erano appese in fondo, sotto alle cornici bordate di nero raffiguranti
Liam e Shake. Che fossero due nuovi Eagles? O semplicemente dei gonna-be? Loro
potevano avere la foto assieme a quella di tutti gli Eagles o era un diritto
che si acquisiva dopo la prova barbara dell’ascensore?
«Tu sei la loro vicina?». Uno dei due, il ragazzo con i capelli scuri
e ricci, si voltò verso di me, dando una pacca alla schiena dell’amico perché
lo imitasse. Sembravano intenzionati a parlare con me, anche se non ne avevo
molta voglia. «Io sono Swift, lui è Ham» continuò il morettino, indicando poi l’amico
biondo. Swift e Ham. I loro nomi mi facevano capire che erano già parte degli
Eagles, visto che di sicuro quelli erano i cosiddetti “nomi da strada”.
«Lexi»
bofonchiai, accennando un sorriso per non sembrare antipatica. In fin dei conti
non era colpa loro se Butterfly quella stessa mattina mi aveva portato
all’esasperazione, costringendomi a tirarle un pugno e a evitare una denuncia
solo grazie a Ryan che aveva corrotto – non sapevo ancora come – il poliziotto.
«Sei anche tu amica di Butterfly?» domandò il ragazzo biondo, ammiccando verso
di me. Era partito con la frase sbagliata, visto che assomigliava terribilmente
a qualche battuta di Sick, detta con quello strano tono. Meglio far capire
subito che no, non ero collegata a Butterfly se non per l’odio che provavo per
lei e no, nessuno di loro due mi piaceva.
«No. Non sono amica di Butterfly, e no, non
mi interessate, così facciamo prima, senza che vi illudiate». Secca, acida e isterica. Sembravo quasi una
zitella, ma non mi interessava nemmeno fare bella figura. Non era la serata
giusta per una festa.
«Peccato»
mormorò Ham, rabbuiandosi appena. Sentii una presenza dietro di me e mi voltai
per controllare: era Sick, che prontamente si affiancò a noi, portando il suo
braccio attorno alle mie spalle.
«Povera Lexi, tutti che ci provano con te,
eh? Ma è perché sei da sola, in mezzo a tutti noi uomini. Sei come Puffetta,
Lexi, quindi, datti da fare. Mi offro volontario per testarti». La sua mano scese pericolosamente dalla mia
spalla, verso il mio seno, in un invito ancora più chiaro, nel caso non avessi
capito quello che mi stava dicendo a voce.
«Cosa stai dicendo?» sbottai piccata, allontanando la sua mano con uno schiaffo e
indietreggiando, perché non mi toccasse. I ragazzi dietro di me non riuscirono
a trattenere una risata, come se la scena fosse divertente per loro: per me non
lo era, assolutamente.
«Che sei come Puffetta, e sappiamo tutti
come sono nati i puffi, su. Grande Capo, Puffetta... hanno puffato come James
Deen e adesso si ritrovano con un sacco di puffi. Adesso andiamo in camera mia
a puffare». Un nuovo ammiccamento che mi
fece arrabbiare ancora di più: credevo di essere stata chiara con lui; non mi
interessava e gli avevo intimato di smetterla. Era divertente all’inizio, ma
quando cominciava ad allungare un po’ troppo le mani lo scherzo finiva.
«Puffetta almeno sapeva trombare e li
soddisfaceva tutti. Qui mi sa che non è così Sick»
ghignò Ryan a voce alta, facendo ridere tutti. «Più
che Puffetta direi che è un… trottolino, qualcosa da abbracciare, tipo i
peluche. Non fa tenerezza?». Mi sorrise,
accendendosi una sigaretta, mentre rimaneva beatamente seduto sulla poltrona, a
capo di quel cerchio.
L’avrei
gentilmente mandato a quel paese di nuovo, ma non volevo dargli quella
soddisfazione, visto che sapevo che il suo obiettivo principale era esattamente
quello. Il mio sorriso finto sembrò soddisfarlo: il ghigno sul suo volto si
allargò a dismisura, appena prima che si portasse la sigaretta alle labbra, per
aspirare una nuova boccata di fumo. Per quello che mi importava, poteva
rimanere tutta la sera a uccidersi in quel modo lento, accorciando la sua vita
ogni volta che aspirava quella cosa puzzolente. Quando soffiò fuori il fumo mi
accorsi però che era un po’ troppo denso e bianco per essere quello di una
sigaretta. Di male in peggio.
«Idiota»
mormorai tra me e me, andando a sedermi sulla sedia opposta alla sua poltrona,
per rimanere il più distante possibile da lui. Non era lui il motivo per cui
ero a quella festa, erano… Aria e Dollar, che continuavano a punzecchiarsi e
baciarsi in mezzo alle persone, come se fossero stati da soli. Aria mi aveva
fatto rimanere lì con una minaccia, poteva anche rimanere distante dalle labbra
di Dollar per qualche secondo; giusto per scambiare qualche battuta anche con
me, senza farmi sentire idiota e sola.
«Doll… Jack… smettila, dai, c’è Lexi» bofonchiò tra una risata e l’altra Aria,
poggiando le mani sul petto di Dollar e allontanandolo un po’. Alzai gli occhi
al cielo, sollevata: finalmente avrei parlato con qualcuno senza essere offesa
o derisa. «Come va?» chiese, avvicinandosi a me, mentre Dollar
raggiungeva Ham e Swift, impegnati in una conversazione che sembrava seria.
«Male, come vuoi che vada?» ammisi, senza rendermene veramente conto. Era
così quando Aria parlava con me, riuscivo a confidarmi con lei prima ancora di
realizzare cosa dicevo. La verità era che di lei mi fidavo e poche volte mi ero
sbagliata con la prima impressione.
«Perché,
che succede? Sai che puoi parlarne, no?».
Spostò la sedia avvicinandola alla mia, per essere più vicina e capire meglio
quello che volevo dirle. Presi un respiro profondo, spostandomi i capelli
dietro alla schiena e massaggiandomi le tempie per cercare di calmare il mio
mal di testa.
«Perché stamattina sono finita in prigione,
mi hanno schedata e non ho avuto una denuncia solo perché Ryan ha corrotto il
poliziotto non so nemmeno come. Ho dovuto pagare trecento dollari di cauzione
per uscire e me ne rimangono meno di duecento: devo arrivare a fine mese e
pagare l’affitto, ma non ho i soldi necessari per fare tutto e non so come
fare. Mi sbatteranno fuori di casa, credo, e dove vado? Torno a casa dai miei con
la coda tra le gambe, dicendo che non sono in grado di cavarmela da sola? È
esattamente quello che volevo dimostrare, io… non so nemmeno più chi sono, non
mi sono mai comportata così. È come se fossi un’altra persona: rispondo male,
sono arrabbiata e irritata, la Lexi che viveva a Los Angeles aveva un sorriso e
un abbraccio per tutti, era la prima che faceva festa e si divertiva nei
limiti, ero responsabile e pensavo dieci volte prima di fare qualcosa.
Guardami, sto diventando una teppista dopo nemmeno due mesi; sto diventando
come… loro». Alzai la mano, indicando
Ryan e Sick, davanti a noi. Stavano parlando di qualcosa di divertente,
indicando la TV, che trasmetteva ancora il film porno.
Aria appoggiò la
sua mano sulla mia, stringendola appena: «stai
crescendo, Lexi. Qui non è come a Los Angeles, probabilmente quella ragazza non
sarebbe sopravvissuta nemmeno una settimana qui. Maturi, cresci, cambi, succede
a tutti, ad alcune persone prima di altre, ma non per questo devi sentirti
strana. Forse stai semplicemente attraversando un periodo di transizione, ti
stai mettendo alla prova. Perché non può essere questa Lexi, quella che tira
pugni, quella vera? Forse hai sempre pensato troppo e hai bisogno di staccare,
no?». Mi sorrise, un sorriso dolce che mi
scaldò il cuore e che fece scivolare una lacrima lungo la mia guancia che asciugai
subito con il dorso della mano. «e per la
questione dei soldi non posso aiutarti, anche se lo vorrei. Ho l’affitto da
pagare e John non dà lo stipendio ogni mese, sto cercando di mettere da parte
qualcosina per un progetto futuro. Però, forse… io… mi avevano proposto un
lavoro che non ho accettato, ma tu… se ne hai tanto bisogno. Pagano bene e si
tratta di un paio d’ore» anticipò,
abbassando ancora di più il tono della voce. Ero disposta a tutto, se mi
avessero pagata abbastanza per riuscire a pagare l’affitto. Disposta a tutto
nei limiti del possibile, logicamente.
«Di cosa si tratta?» chiesi, speranzosa e preoccupata allo stesso tempo. Perché Aria
aveva rifiutato la proposta? C’era qualcosa di losco sotto o magari era
qualcosa di indecente? Si trattava di girare qualche filmato porno? Perché se
così fosse stato, mi sarei rifiutata anche io.
«Ecco… sono un paio di scatti per una marca
di intimo. Foto che finiranno solo sui cataloghi che mettono dentro ai negozi,
non foto pubblicitarie che compaiono nelle strade. Ho visto i completi, sono
carini e belli, niente strane trasparenze o cose troppo spinte. Semplicemente
non me la sono sentita perché mi è stato offerto quando lo zio è morto e c’era
Dollar, quindi ho lasciato perdere, Ma se vuoi credo stiano ancora cercando una
modella». Prese la sua borsa che aveva
appoggiato sulla sedia e cominciò a frugare, fino a trovare il telefono.
«Aria, modella di intimo? Guardami». In un gesto stupido, con entrambe le mani,
mi indicai il corpo: come potevo fare la modella io, che non avevo nemmeno una
prima, che ero alta poco più di un metro e mezzo e che avevo la pancia anche
troppo muscolosa a causa di tutti gli anni di surf? Sapevo che le modelle di
intimo non avevano il mio fisico, inutile mentire.
«Sei perfetta, Lexi. Ti mettono un paio di
tacchi, ti truccano e sarai perfetta. Credici. Questo è il numero, te lo invio». Digitò qualche altro tasto prima che
sentissi il mio cellulare vibrare dentro alla tasca dei miei jeans. Ci avrei
pensato, ma non ne ero sicura.
«Dov’è il mio piccolo e personale McFlurry?» sghignazzò Dollar, scompigliando i capelli di
Aria che arrossì, pestandogli un piede.
«Sta zitto, idiota». Si alzò in piedi, dandogli un pugno scherzoso sullo stomaco,
che lui ricambiò con un pizzicotto sui fianchi. In poco tempo passarono dai
dispetti ai baci, rincorrendosi per l’ampia cucina, come se fossero stati due
bambini. Forse lo erano davvero, in quei momenti: Aria e Dollar avevano sedici
anni, ma sembrava che troppo spesso se ne dimenticassero, impegnati com’erano a
vivere una vita al limite. Sembrava quasi che, assieme, accantonassero i
problemi della vita, per rinchiudersi in una bolla dove c’erano solo loro. Non sapevo
perché, ma ero invidiosa di quel loro modo di vivere.
Cominciai a
guardare i ragazzi attorno a me: si stavano tutti divertendo; ridevano e
scherzavano bevendo birra e facendo battute stupide. L’unica che, in quella
sala, non parlava con nessuno ero io. Anche Butterfly, nonostante il cerotto
sul naso pesto, si stava intrattenendo con Ryan e Lebo; più con Ryan a dire la
verità, visto che era seduta di fianco a lui, sulla sua poltrona e senza farsi
tanti problemi continuava ad accarezzargli la coscia, strusciando le sue unghie
laccate sui suoi jeans. Ryan continuava a parlare con Lebo, senza muoversi: era
il ritratto della tranquillità seduto su quella poltrona, con le braccia
distese sui braccioli e la testa appoggiata allo schienale. D’un tratto spostò
il suo sguardo su di me, senza smettere di parlare con Lebo; Butterfly seguì il
suo esempio, lanciandomi un’occhiata divertita e strusciandosi ancora di più
addosso a lui. Con un braccio circondò il collo di Ryan, avvicinando le labbra
al suo orecchio e mormorandogli qualcosa che lo fece sghignazzare, mentre non
la smetteva di fissarmi. L’altra mano di Butterfly scese sul suo petto,
accarezzandolo con il palmo della mano, sempre più giù, fino ad arrivare alla
cintura dei jeans; su e giù, in una carezza lenta e continua che divertiva
Ryan. O forse, semplicemente, era lei a divertirlo, lei che continuava a
strusciarsi al suo fianco, con la gamba che saliva sempre di più lungo la
coscia di Ryan. Irritata da quello spettacolino porno dal vivo, sbuffando
cercai qualcosa su cui concentrarmi: non volevo sentire lo sguardo di Ryan su
di me mentre Butterfly lo accarezzava, solo per prendermi in giro.
«Che succede Lexi, sei gelosa?». C’era una nota divertita in quella voce che
di solito era sempre seria. Guardai Brandon, sedutosi di fianco a me con una
lattina di birra tra le mani. Sembrava rilassato: un sorriso sincero sulle
labbra, uno di quelli che riusciva a raggiungere anche gli occhi.
«Io, gelosa? E di cosa, scusa?». Perché dovevo essere gelosa? Non avevo
nessun motivo di essere gelosa. In più trovavo, molte volte, la gelosia
sbagliata. Di solito ero felice per le altre persone, mai gelosa. Lì a Hunts
Point, poi, non avevo nessun motivo per essere gelosa di qualcuno,
assolutamente.
«Di Ryan e Butterfly? Vorresti incendiarli
o mi sbaglio?» scherzò, porgendomi la
lattina di birra perché potessi berne un po’. Gelosa di Butterfly e Ryan, io?
Forse Brandon aveva bevuto un po’ troppo, visto che quella era la cosa più
insensata che avesse detto da quando ero arrivata lì.
«Cosa? No, assolutamente». Bevvi un sorso di birra, rabbrividendo
quando il liquido fresco scese in gola. «Non
sono gelosa, sono solo… schifata, ecco. È una cosa ributtante vedere scene così,
se devono fare qualcosa possono anche chiudersi in camera, non è che tutti sono
interessati a quello che devono fare»
risposi piccata, riportando lo sguardo su di loro. La situazione non era
cambiata poi molto: Ryan stava parlando con Lebo, ma Butterfly non aveva smesso
di accarezzarlo, anzi, gli dava anche dei baci sul collo.
«E ti fanno schifo solo Ryan e Butterfly?» continuò, quasi divertito. Cosa c’era di
tanto divertente in quella scena? Io non riuscivo a vederlo, davvero. «Cioè, guardati attorno, Dollar e Aria credo si
siano divisi solo per prendere fiato, Sick è sparito da non so nemmeno quanto
in camera con la morettina e Titty e Lucy sono con i gemelli sul divano…». Indicava tutti nel momento in cui li citava.
Certo, Sick se ne era andato con un sorriso divertito sulle labbra e la mano
sul sedere della ragazza, ma Dollar e Aria non erano rimasti a baciarsi per
tutta la sera: avevo parlato con loro e Aria era riuscita anche a darmi qualche
consiglio. I gemelli e le due ragazze invece… sembrava stessero solo parlando,
ma non volevo avvicinarmi a loro per controllare.
«Non capisci, è il modo di fare di
Butterfly, vuole provocarmi perché così le tiro un nuovo pugno». Era quella la verità: lei voleva farmi
cedere davanti a Ryan, ma non mi interessava poi molto se si strusciava addosso
a lui o altro. Solo, poteva evitare di farlo davanti ad altre persone e a me,
ecco.
«E ci sta riuscendo, vedo» scherzò di nuovo, prendendo la lattina dalle
mie mani e bevendone un sorso. No, non ci stava riuscendo. Butterfly aveva già
vinto una volta, non le avrei permesso di vincere di nuovo, soprattutto non lì,
davanti a tutti. Mi guardai attorno: Dollar e Aria continuavano a ridacchiare e
a farsi dispetti tra un bacio e l’altro, i due ragazzi nuovi – Ham e Swift – erano
impegnati a parlare tra di loro, Lebo e Ryan anche, nonostante Butterfly
cercasse in tutti i modi di distrarlo. Insomma, tutti erano impegnati a parlare
con qualcuno, l’unica che rimaneva sempre da sola, tranne quando qualche animo
gentile come Brandon si avvicinava, ero io.
«Forse è meglio se me ne torno a casa, non
c’entro poi molto io, qui». Cercai di
alzarmi, ma Brandon prese la mia mano, costringendomi a non alzarmi da quella
sedia. Il sorriso divertito era sparito dalle sue labbra, lasciando spazio a
un’espressione seria, che poco ricordava il suo ghigno di qualche istante
prima.
«Rimani ancora un po’, devono ancora fare
l’annuncio». Indicò con un gesto del capo
Dollar, che si stava lisciando la maglia stropicciata, aiutato da Aria. Quel
gesto mi fece sorridere, ricordandomi il vero motivo per cui ero lì, così, per
non deludere Brandon, rinunciai al mio tentativo di andarmene.
«Io… io vorrei solo fare un annuncio, ecco.
Sapete tutti perché siete qui, no?». Dollar
prese la mano di Aria, attirandola verso di lui per abbracciarla. Quel gesto
scatenò dei fischi da parte dei ragazzi, che risero, assieme a Dollar. «Insomma, dopo dieci anni vogliamo
ufficializzare le cose, per questo stasera sono lieto di annunciarvi che Aria è
la mia Signora, questo significa che nessuno di voi la può più toccare, o vi
taglio a pezzettini. Ah, logicamente nemmeno lei può sfiorare neanche con un
dito un uomo che non sia io, se la vedete fare una cosa del genere… ditelo a me
che poi io la punirò. Mi sembra di aver detto tutto» concluse, riservando uno sguardo ad Aria, ancora imbarazzata. Le
diede un bacio sulle labbra che si concluse non appena ricominciarono i fischi
e le battute sceme. Cominciai ad applaudire assieme agli altri, divertita e
commossa da quella che, a tutti gli effetti, sembrava una – strana – festa di
fidanzamento.
«Devi fare il giuramento, Doll» gridò Ryan, senza alzarsi in piedi, rimanendo
sempre con Butterfly spalmata addosso a lui.
«Oh cazzo»
sbottò Dollar, guadagnandosi prima un pugno e poi un’occhiataccia da parte di
Aria. Giuramento? Che giuramento? C’era un giuramento da fare in quella strana
cerimonia? «Giuro solennemente di
trattarti bene come il mio flag, e di cavalcarti tanto quanto la mia moto». La mano destra sul cuore e il braccio
sinistro attorno alle spalle di Aria. Quando concluse la frase Ryan cominciò ad
applaudire, seguito subito dopo da tutti gli altri. Sotto al rumore degli
applausi, Dollar e Aria si scambiarono un nuovo, appassionato, bacio.
«Sei uno stronzo! Se non mi sbrigo a venire
mi perdo anche il tuo fottuto giuramento! Perché non mi hai chiamato?» sbottò Sick. C’era una nota stonata nella
scena, che no, non era di certo la sua frase, quanto il suo… abbigliamento: era
nudo, completamente; aveva solo un cuscino grigio che usava per coprirsi lo
stretto indispensabile. Aria non riuscì a trattenere una risata, guardandolo, e
si nascose contro il petto di Dollar. «Che
cazzo c’è da ridere? Sono corso qui quando ho sentito gli applausi. Siete degli
stronzi». Diede le spalle ad Aria e
Dollar, girandosi verso Ryan e gli altri ragazzi. Inevitabilmente, visto che
aveva girato le spalle anche a me, scoppiai a ridere vedendo il sedere di Sick.
Forse non era la visione del suo sedere ad essere così comica, quando il segno
ancora rosso ed evidente di uno schiaffo.
«Sick, vai a vestirti» ordinò Ryan, senza smettere di ridere. «Sei ridicolo e in più hai una manata sul culo» concluse poi in modo poco fine, ma così
divertente che non riuscii a non ridere, assieme agli altri presenti.
«Non capite niente, queste lenzuola sono di
seta. Seta. Costano» precisò, indicando
il cuscino e allontanandosi verso la sua stanza, senza aggiungere altro.
«Bene, se volete scusarci… Doll, Aria mi
raccomando, festeggiate bene e non fate troppo rumore, visto che la mia stanza
è di fianco alla vostra». Ryan si alzò
dalla poltrona, avvicinandosi a Dollar e Aria. Mollò una pacca sulla spalla a
Dollar e con un gesto strano e impacciato cercò di abbracciare Aria.
«Ryan, tanto se fanno rumore non li
sentirai, te ne farò fare di più io»
sghignazzò Butterfly, seguita subito dalle altre ragazze che erano lì, sedute
sul divano con i gemelli. Quella battuta di pessimo gusto mi fece sbuffare
schifata. Di nuovo, nel giro di poche ore, si era dimostrata come un’oca senza
cervello, che pensava di essere simpatica ma era solamente volgare.
«Dopo questa perla, me ne vado» mormorai rivolta a Brandon, ancora seduto di
fianco a me. Lo vidi sorridere appena, dopo avermi salutato con un gesto della
mano. Camminai verso Dollar e Aria per salutarli prima di andarmene e, una
volta raggiunti, capii che non sapevo che cosa dire. Dovevo fare le
congratulazioni per il loro fidanzamento? Optai per la cosa meno stupida che
avevo pensato. «Grazie per avermi
invitata, sono davvero felice per voi».
Sorrisi, abbracciando Aria che ricambiò la stretta; cercai di fare lo stesso
gesto con Dollar, ma non ci riuscii, perché mi scompigliò i capelli,
sorridendo.
«Grazie per essere qui, Doc» disse poi, abbracciandomi. Appena
indietreggiai di un passo tornò a circondare le spalle di Aria con il suo
braccio, come se avesse paura di non averla più al suo fianco.
Sorrisi un’ultima
volta ai miei amici, rabbuiandomi quando notai lo sguardo soddisfatto che
Butterfly stava rivolgendo a me – ne ero sicura – mentre con Ryan si chiudeva
la porta del corridoio alle spalle.
«Ripetimi l’indirizzo, per favore» biascicai, tamburellando con il vassoio
contro al tavolo per l’agitazione. Perché avevo accettato quel maledetto
lavoro? Con che coraggio mi sarei presentata al fotografo credendo che
avrebbero potuto scegliere me come testimonial per quella marca di intimo?
«Lexi, calmati, non c’è niente di male.
Sono un paio di foto, tutto qui, sarai perfetta. E l’indirizzo lo sai, è quello
studio a New York, in centro». Non mi
stava aiutando, non in quel modo. Ricordarmi che il fotografo era a New York mi
agitava ancora di più. Non ci sarei andata, avevo cambiato idea. Mi sarei
inventata qualche strana scusa: un meteorite, il crollo del mio palazzo, un
attacco alla metropolitana di New York. Tutte scuse plausibili, insomma.
«Ok, non ci vado più» decisi, appoggiando definitivamente il vassoio sul bancone del
Phoenix e prendendo un respiro profondo. Non era poi una brutta idea, avrei
rinunciato a mille dollari, in fin dei conti cos’erano? Solamente due mesi
d’affitto pagati e anche dei risparmi per la spesa, niente di più o di meno. «No, ci vado, mi servono i soldi» piagnucolai, capendo che probabilmente
sembravo una pazza squilibrata dalla doppia personalità.
«Lexi, mi fai paura. Smettila, tanto ci
vai, perché ho già detto a John che devi uscire prima. E non può dire niente a
me, adesso sono la Signora di Dollar».
Concluse la frase con un sorriso soddisfatto, come se dire quella frase le
desse un piacere indescrivibile, come se avesse sempre voluto dirla.
Non riuscii a
trattenere una risata divertita dalla sua felicità e il mio sguardo si posò di
nuovo su quel ragazzo all’angolo, che per tutto il mio turno mi aveva guardata;
ero quasi convinta di averlo visto ammiccare un paio di volte, ma non lo
conoscevo, non mi sembrava, almeno.
«Aria, chi è quel ragazzo che continua a
guardarmi? È strabico o gli ho fatto qualcosa di male?» mormorai, dando le spalle al morettino e indicandolo senza che
potesse vedermi. Aria cominciò a ridere, appoggiandosi al bancone per non
cadere per terra, sembrava che avessi detto una barzelletta divertentissima. «Che c’è? Dovrei conoscerlo? È qualche nuovo
acquisto degli Eagles? È un O.G. o qualcosa di simile?» mi allarmai, guardandomi attorno per capire se qualcuno avesse
sentito che non sapevo chi era quel ragazzo. Aria rise ancora più forte,
irritandomi maggiormente.
«Jack… Dollar mi ha raccontato che quando
ci siamo ubriacate, hai cominciato a guardarlo, urlando che l’avresti sposato.
Lui è Peter, abita nella strada dopo questa. Probabilmente non te ne sei mai
accorta, ma viene spesso qui, e sembra che tu gli sia simpatica. O forse gli
sei simpatica da quando ha sentito che volevi sposarlo» sghignazzò, deridendomi. Bene, non bastavano quelle maledette
foto che dovevo fare nel pomeriggio per agitarmi, ora c’era anche un ragazzo a
cui avevo dichiarato il mio amore ma che non ricordavo nemmeno di aver visto.
«Ma quanto ero ubriaca?» domandai, sbirciando verso il ragazzo, che
non la smetteva di sorridere. Non era brutto, ma dubitavo seriamente di aver
detto che l’avrei sposato. Dovevo aver bevuto davvero molto per dire una cosa
del genere.
«Lexi, muoviti: vai a casa, fatti una
doccia e poi corri a prendere la metro per andare a New York. Non fare tardi,
sai che più o meno hai un’ora di strada».
Aria mi slacciò il grembiule, spingendomi fuori dal Phoenix con un sorriso
sulle labbra. Certo, lei era felice; tanto ero io quella che doveva rimanere
mezza nuda davanti a una macchina fotografica per riuscire a pagare l’affitto.
Camminai
velocemente verso casa, cercando di non pensare a quello che dovevo fare. Una
doccia veloce e, in pochi minuti ero pronta per andare a prendere la
metropolitana.
Scesi le scale
sperando di non incontrare Ryan per non dare spiegazioni su quello che stavo
per fare e sospirai sollevata quando mi chiusi il portone dello stabile alle
spalle: ero riuscita a evitare tutti i ragazzi; questo significava non dover
dare spiegazioni a nessuno. Quel lavoro sarebbe stato un segreto tra me e Aria,
nessuno avrebbe mai saputo dell’esistenza di quelle foto e tutto si sarebbe risolto
al meglio: i soldi erano quelli del lavoro al Phoenix.
Un quarto d’ora
dopo, quando arrivai alla fermata della metropolitana, inorridii: c’erano delle
persone raggruppate fuori dall’entrata, che borbottavano arrabbiate. Mi
avvicinai a loro, cercando di capire cosa fosse successo. Riuscii a sentire
poche parole, che bastarono perché il mio malumore aumentasse. «Ragazzo… lanciato sotto alla metropolitana.
Morto… tutto bloccato». Perché qualcuno
aveva scelto proprio quel giorno per lanciarsi sotto a un treno in corsa? Come
sarei arrivata a New York? Impensabile prendere un autobus a quell’ora, o sarei
arrivata in ritardo di un’ora; un taxi era troppo costoso e non avevo tutti
quei risparmi. L’unica cosa da fare era… sì, quello di sicuro era il metodo più
veloce per arrivare a New York.
Presi il telefono
dalla borsa, componendo l’unico numero di cui mi fidavo. «Che c’è, Doc?».
La voce di Dollar era quasi divertita, forse perché non si aspettava una mia
chiamata. Ma non potevo di certo rivolgermi a Ryan; mi immaginavo le sue
battute stupide sulla mancanza di tette o altro.
«Dollar, sei da solo o c’è qualcuno vicino
a te?» domandai, ansiosa di sapere la
risposta. Se ci fosse stato Ryan di certo avrebbe chiesto spiegazioni, visto
che Dollar mi aveva chiamata “Doc”.
«Sono da solo, c’è qualche problema?». La voce improvvisamente seria, esattamente
come faceva Ryan quando qualcosa risvegliava il suo lato quasi umano. Non
riuscii a non sorridere, notando quella somiglianza. Quando però ricordai
quello che stavo per chiedergli, il sorriso sparì subito dalle mie labbra.
«Ecco, io… ho un incontro di lavoro a New
York, ma… un tizio si è lanciato sotto a un treno e adesso è tutto bloccato e
io non ce la faccio ad arrivare in tempo. Puoi… potresti accompagnarmi tu, in
moto? Però nessuno deve sapere nulla, per favore»
implorai, sperando che mi ascoltasse. Ero sicura che Dollar avrebbe mantenuto
il segreto, magari perché minacciato da Aria. Ma se l’avesse detto anche solo a
Sick, non avrei avuto più pace, tutti i ragazzi l’avrebbero saputo e sarebbe
stato impossibile scappare alle loro prese in giro.
«Arrivo subito»
mormorò, prima di chiudere la chiamata. Speravo che si ricordasse di prendere
il mio casco, ma non volevo chiamarlo ancora, così cominciai a camminare su e
giù, cercando di scacciare l’ansia. Alcuni minuti dopo sentii il rombo di una
moto, seguito subito dopo dal rumore di un clacson.
Corsi veloce
verso Dollar, sorridendogli grata. Mi porse il casco, alzando la visiera del
suo per parlarmi.
«Che succede Doc?» chiese, aspettando che chiudessi la sicura del mio casco.
Cercai di non metterci molto, ma ogni volta non riuscivo ad agganciare il
moschettone, così Dollar mi aiutò.
«Io… devo andare a fare un lavoro che mi ha
consigliato Aria. Ma non importa… non voglio che tu sappia nulla altrimenti poi
lo racconti agli altri. Lasciamo stare, mi basta che tu mi accompagni a New
York» farfugliai, senza veramente dire
qualcosa di senso compiuto. Dollar aspettò che salissi dietro di lui, prima che
gli dettassi l’indirizzo del fotografo. Non sembrò capire chi ci fosse a
quell’indirizzo, perché annuì, partendo subito sgommando.
Quando arrivammo
davanti allo stabile, l’insegna del fotografo svettava sul bianco del muro, ma
Dollar non sembrò farci caso quando frenò, spegnendo la moto. «Grazie per avermi accompagnato. E ti prego,
non dirlo a nessuno. Sarà il nostro segreto, d’accordo?» supplicai, riporgendogli il mio casco, dopo essermelo tolto.
Dollar si guardò attorno, probabilmente non capendo le mie parole. Quando il
suo sguardo si posò sull’insegna d’orata, spalancò gli occhi sorpreso, tornando
a guardarmi subito dopo.
«Fotografo? Hai accettato quel lavoro che
Aria non ha voluto fare?». Non gli
risposi, troppo imbarazzata. Probabilmente però, il mio silenzio gli fece
capire che la sua intuizione era esatta, perché continuò, ancora più
elettrizzato: «Cazzo. Perché ora? Be’, me
le farai vedere, vero? No, cazzo. Non posso, Aria. Merda. Be’, le farai vedere
a Sick, almeno?» domandò, combattuto. Era
chiaro che una parte di lui voleva vedere le foto, l’altra invece si ricordava
di Aria e della loro festa di fidanzamento di un paio di giorni prima. «Tu le dai a me che le faccio vedere a Sick,
non sono per me, quindi non c’è niente di male se poi ci do un’occhiatina. No,
forse c’è qualcosa di male. Ma se Aria non lo viene a sapere… e poi tu non
sarai nuda, no? Ma tu conosci Aria e… no, non posso. Non me le farai vedere,
vero? Le chiudi in una busta sigillata che io darò a Sick, poi tu le…». Dollar non la smetteva di parlare, non
lasciandomi il tempo di ribattere. Così, per fermarlo, appoggiai la mia mano
sul suo braccio, prendendo un respiro profondo per spiegare bene la situazione.
«Dollar, le foto non le vedrà nessuno, ok?
Né tu o Sick, né Aria o non so chi. Nessuno saprà niente di questo servizio
fotografico, come se non l’avessi fatto, ok?»
conclusi, sistemandomi la borsa sulla spalla perché volevo entrare, per non
arrivare in ritardo. Dollar si rabbuiò leggermente, come se fosse deluso, poi
però annuì.
«In bocca al lupo, allora. Se hai bisogno
per il ritorno chiamami pure. Ciao Doc».
si abbassò la visiera del casco, agganciando il mio al manubrio e dando gas per
accendere il motore. Pochi secondi dopo, Dollar, schivando un taxi giallo che
stava arrivando, sparì sgommando per ritornare a casa.
Presi un respiro
profondo, guardando di nuovo l’entrata del lussuoso stabile davanti a me. Ero a
New York, non nel Bronx. Con un sorriso amaro cominciai a salire i gradini
bianchi, ringraziando l’usciere che mi aprì il grande portone di legno e vetro
per farmi entrare. Presi l’ascensore, salendo fino al quinto piano, esattamente
come mi avevano detto per telefono; una volta arrivata davanti alla reception,
sorrisi alla segretaria, presentandomi. «Buongiorno,
sono Alexis Cooper, sono qui per quel servizio fotografico…» bofonchiai, con un filo di voce per
l’imbarazzo. Quella ragazza era molto più portata di me per un servizio
fotografico: fisico alto e slanciato, curve perfette, sorriso smagliante e
capelli che ricadevano sulla sua schiena con onde setose. Che cosa ci facevo
io, lì?
Mi condusse in
una piccola stanza: sembrava un camerino, c’era una poltrona davanti a un
grande specchio e, sedute su un divanetto nell’angolo, c’erano due ragazze che
appena mi videro, smisero di parlare, raggiungendomi con un sorriso. Si
presentarono, spiegandomi che erano le addette al trucco e ai capelli; mi
fecero sedere sulla poltrona, cominciando a sistemarmi. Mi sentivo un’idiota
mentre mi mettevano l’ombretto e arricciavano i miei capelli; era una tortura
piacevole che sicuramente non avrebbe avuto un risultato perfetto. Dubitavo di
risultare lontanamente attraente anche con un chilo di trucco sul viso e una
quantità industriale di lacca per fissare i ricci.
«Scegli quello che vuoi per partire, tanto
dovrai indossarli tutti e dieci» spiegò
la ragazza che mi aveva truccata. Mi voltai per guardare i diversi completini
intimi: quasi tutti erano composti da un bustino e un paio di culottes. Erano
tutti molto belli, ma non ero ancora convinta che il mio fisico potesse far
vedere la loro bellezza.
«Credo che sceglierò questo per primo» mormorai, indicando un bustino grigio, con
dei fiocchetti neri. Le culottes erano dello stesso colore, ma terminavano con
un po’ di pizzo. La ragazza sorrise, porgendomi anche un paio di calze a rete.
«Indossale sotto all’intimo, ti lasciamo
fare da sola, quando hai finito di vestirti chiamaci pure per chiudere il
corpetto dietro, non ti preoccupare». Mi
sorrise quasi dolcemente, uscendo assieme all’altra assistente e lasciandomi da
sola dentro a quel piccolo camerino.
Forza, dovevo
solo farmi forza, potevo farcela. Guardai la mia immagine riflessa allo specchio:
non mi riconoscevo nemmeno; il trucco scuro, i capelli con dei ricci curati e
ordinati. Indossai velocemente le calze e gli slip, faticando un po’ con i
gancetti del corpetto. Quando riuscii a chiudere anche l’ultimo gancio, mi
guardai allo specchio di nuovo, sistemandomi i capelli dietro alla schiena.
Sembravo la brutta copia di una modella di intimo, anzi, la copia menomata,
visto che mi mancavano almeno un paio di taglie di seno. Aprii la porta con lo
sguardo basso, troppo imbarazzata per guardare il volto delle due ragazze e
capire che non era quello che cercavano per la campagna di intimo; ma il loro
entusiasmo mi stupì, quando mi fecero indossare un paio di scarpe con i tacchi
e completarono l’opera con alcuni braccialetti neri.
Scoprii che la
ragazza che mi aveva acconciato era anche la fotografa e quella notizia riuscì
a rilassarmi: mentre mi preparavano ero riuscita a parlare con loro tanto che
mi sentivo meno in imbarazzo. E quando avevamo cominciato a fare le foto, una
dopo l’altra, mi ero rilassata davanti all’obbiettivo; un cambio di intimo dopo
l’altro ero riuscita anche a sorridere.
Sembrava tutto
perfetto; quando indossai l’ultimo completo –u no nero bellissimo ma
decisamente più audace degli altri, visto che copriva solo il seno e gli slip
erano un perizoma sotto a un paio di culottes quasi trasparenti – capii che
forse non era stata una brutta esperienza. Certo, continuavo a camminare da una
stanza all’altra in tacchi, reggicalze e intimo sexy, ma sicura che nessuno
avrebbe mai visto quelle foto, capii che in qualche modo quell’esperienza mi
avrebbe fatta crescere. Avevo imparato che si riusciva sempre a cavarsela, in
un modo o nell’altro. Bastava solo una gran forza di volontà.
Un colpo alla
porta e delle urla improvvise. Mi guardai attorno, cercando di capire cosa
stava succedendo in quella stanza: otto persone entrarono dalla porta,
indossando un casco integrale scuro, che non faceva vedere i loro volti;
agitavano delle pistole, senza veramente puntarle addosso a qualcuno.
Spaventata indietreggiai, cercando di ripararmi da qualche parte, ma, dietro al
divano chiaro non c’era spazio per nascondersi, per questo, quando uno di loro
si avvicinò a me, puntandomi la pistola contro, cominciai a urlare,
rannicchiandomi su me stessa perché non mi facesse del male. La sua mano
strinse il mio braccio, costringendomi ad alzarmi. Nonostante tutto, però, la
stretta non era ferrea, sembrava quasi che non volesse farmi veramente del
male.
«Scusa Doc, ho dovuto». Doc. bastò quella parola per farmi capire
tutto, perché solo una persona mi chiamava in quel modo. Abbassai lo sguardo,
cercando di calmarmi per evitare che il mio cuore esplodesse per la paura, ma
non ci riuscivo.
Capii subito chi
di loro era Ryan, dal suo modo di camminare ma soprattutto dal suo muoversi
sicuro in mezzo agli altri. Impugnava la pistola ad altezza uomo, puntandola
contro alle due povere ragazze che cercavano di non urlare e piangere. Avrei
voluto dirgli di smetterla, ma qualcosa mi fermava, come se fosse meglio non
far capire che li conoscevo.
«La ragazza ha fatto le foto, quindi la
pagherete. Domani i soldi saranno sul suo conto corrente» urlò, tenendo sempre la pistola puntata contro di loro. Con
l’altra mano prese la macchina fotografica che avevano usato e la scaraventò a
terra, distruggendola in tanti piccoli pezzi. Con la punta del piede spostò i
pezzi, fino a trovare la memory card. Abbassò la pistola, sparando un colpo che
mi fece gridare assieme alle due ragazze. «Dove
sono le sue cose?» domandò alle ragazze,
indicandomi. Mandy, quella che mi aveva truccato, singhiozzò che erano nel
camerino dietro di noi. Vidi Ryan camminare fino all’altra stanza e uscire
qualche secondo dopo con la mia borsa tra le mani. Non aveva ancora abbassato
la pistola, e questo mi spaventava: temevo potesse sparare un nuovo colpo,
stavolta magari contro le povere ragazze. «Se
non ci sono i soldi entro due giorni, torneremo, e non provate a chiamare la
polizia adesso, perché la ragazza viene con noi».
A quelle parole Dollar strinse un po’ la presa del suo braccio attorno al mio
collo, costringendomi a inclinare la schiena per non rimanere senza fiato.
«Appena usciamo ti libero» sussurrò piano, senza muoversi troppo per non
far capire che stava parlando con me. Istintivamente portai le mie mani sul suo
braccio, aggrappandomi per riuscire a respirare un po’ di più. Dollar
indietreggiò, senza lasciare la presa sul mio collo fino a quando uno dei ragazzi
chiuse la porta, una volta che tutti uscirono sul pianerottolo. «Scusa Doc»
mormorò, prendendo un mio polso e costringendomi a seguirli giù per le scale,
fino alla strada. Lì, dove qualche ora prima Dollar aveva posteggiato la sua
moto, c’erano le moto di tutti i ragazzi.
«Muoviti, mettiti questa e andiamo a casa» sbottò Ryan porgendomi la felpa che
indossava. Incrociai le braccia al petto, rimanendo ferma in mezzo alla strada.
Poco mi importava se ero praticamente nuda, visto che non riuscivo ancora a
capire perché fossero piombati dentro a quello studio fotografico. «Muoviti o giuro che mi incazzo» strillò, mettendomi il casco a forza senza
nemmeno aspettare che indossassi la sua felpa. Mi agganciai il casco, puntando
il tacco sul pedalino della moto di Ryan e cercando di salire nonostante il
reggicalze mi infastidisse. Quando Ryan partì sgommando, portai una mano dietro
alla schiena per incastrare la sua felpa sotto al mio sedere per non correre
per tutta New York in perizoma.
Sentivo il vento
fischiare nonostante il casco, le calze non riuscivano a ripararmi dal vento
che continuava a colpire la pelle nuda delle cosce, costringendomi a stringere
i denti per il dolore. Arrivammo al 198 di Whittier Street in meno di venti
minuti, quasi metà del tempo che avevo impiegato quella mattina con Dollar.
Ryan parcheggiò la moto davanti allo stabile, spegnendo il motore. Non aspettai
nemmeno che scendesse, volevo solo andare dentro casa per togliermi quel
ridicolo completo e farmi una doccia. Era stata una giornata speciale, come
sempre rovinata da Ryan.
«Dove cazzo credevi di andare conciata in
questo modo idiota?» sbottò, prendendo un
mio polso e strattonandomi, perché non mi muovessi. Mi slacciai il casco,
lanciandoglielo contro. Speravo di fargli male, ma Ryan, nonostante non avesse
lasciato la sua prese su di me, riuscì ad afferrare il mio casco con l’altra
mano. Non risposi, girandomi dall’altra parte perché sentivo gli occhi
pungermi. Perché Ryan doveva sempre rovinare tutto quello che da sola stavo
cercando di costruire? Cosa gli interessava se facevo un paio di foto in intimo
– foto che tra l’altro nessuno avrebbe visto?
«Ryan… lasciala stare» mormorò Brandon, togliendosi il casco e
scendendo dalla moto. Si mise al mio fianco, intimandogli di lasciarmi andare
anche con lo sguardo. Ryan però non sembrava volerlo ascoltare: la sua presa
non diminuì nemmeno quando cercai di ritirare il braccio.
«No, che cazzo credevi di fare, sentiamo?» chiese di nuovo, stringendo la mascella,
nervoso. C’era una vena che pulsava nella sua fronte, come se fosse davvero
arrabbiato. Tra i due, però, quella arrabbiata ero io: aveva rovinato una bella
giornata, rischiavo di non essere nemmeno pagata perché aveva fatto lo stupido
e in più continuavo a essere in intimo davanti a tutti loro.
«Volevo dei soldi, è così difficile da
capire?» strillai, la voce stridula a
causa delle lacrime che stavano per uscire. Perché John quel mese non mi aveva
pagata, e mi servivano i soldi per l’affitto o mi avrebbero sbattuta fuori di
casa. Ma non potevo dirlo a Ryan, o John sarebbe andato in mezzo ai casini, ed
era l’ultima cosa che volevo fare.
«Soldi?».
Sembrava scettico, come se quello che avevo detto non l’avesse convinto del
tutto. La sua presa sul mio polso si fece un po’ meno salda, così riuscii a
liberarmi per asciugarmi una lacrima che era scesa sulla mia guancia.
«Sì, cazzo. Volevo solo degli stupidi soldi
per comprarmi qualcosa di nuovo» mentii,
togliendomi la sua felpa e lanciandogliela contro, come se quel gesto potesse
fargli capire che non mi serviva il suo aiuto, che sapevo benissimo cavarmela
da sola. Non volevo niente di nuovo, ma Ryan non l’avrebbe mai saputo.
«Chiederli a noi era troppo difficile? Te
li avremmo prestati» sbottò ironico, per
farmi capire che c’era una soluzione migliore rispetto a qualche foto in
intimo. Era esattamente quello il problema, anzi, uno dei tanti problemi.
Volevo farcela da sola, con le mie forze. Non mi importava dei loro soldi.
«Quali mi avreste prestato? Quelli che
avete rubato a qualcuno o quelli guadagnati vendendo armi e droga?» urlai, prendendo la borsa che aveva
appoggiato alla moto, scendendo. Perché i loro soldi non li guadagnavano
onestamente, e quello forse mi infastidiva ancora di più. «E non dovevate permettervi di entrare in quel
modo in quello studio. Spaventare le persone in questo modo è da idioti, vi
avrei sparato un colpo a testa. E tu…»
minacciai, avvicinandomi a Dollar e puntandogli un dito contro, «non ti permettere mai più di giurare una cosa
e poi fare l’esatto contrario» terminai con
un singhiozzo, mentre la vista si appannava di nuovo perché nuove lacrime si
preparavano a scendere sulle mie guance.
«Lexi, ha minacciato di togliermi il flag,
non potevo. E sono pur sempre un Eagles, lo sai com’è l’aquila, no? È codarda e
ha un comportamento cattivo, non ci comportiamo onestamente. Ha minacciato di
togliermi la mia famiglia, senza flag non so nemmeno chi sono, cerca di capire» si scusò, mentre gli tiravo uno schiaffo.
Speravo solo di essere riuscita a colpirgli la guancia, perché non riuscivo più
a vedere il suo viso chiaramente.
Spalancai il
portone, togliendomi le scarpe con il tacco per correre più veloce possibile
verso il mio appartamento. Volevo rimanere da sola, forse mi sarebbe piaciuto
avere Aria al mio fianco, non lo sapevo.
Mi sentivo
delusa, amareggiata, felice… era come avere troppe emozioni che cercavano di
manifestarsi senza riuscirci. Perché apprezzavo il loro sforzo di aiutarmi, ma
non riuscivano a capire che in quel modo forse peggioravano la situazione.
Aprii la porta del
mio appartamento e corsi verso il divano, lasciando che tutte le lacrime che
avevo accumulato nell’ultima mezz’ora uscissero. Aria arrivò qualche minuto
dopo, sorridendo per il mio strampalato abbigliamento e sedendosi al mio
fianco; cercò di farmi ridere, imitando la voce di Dollar che l’aveva chiamata
preoccupato, perché forse io mi ero arrabbiata con lui. Non riuscii a
trattenere una risata tra le lacrime quando mi confidò che potevo picchiare
Dollar in ogni momento, se mi faceva sentire bene.
Rimase con me
tutta la sera, facendomi ridere con strani aneddoti e imitando Ryan mentre
mangiava un pezzo delle pizze che avevamo ordinato. Se ne andò a notte fonda,
dopo un paio di film comici che riuscirono a sollevarmi il morale, facendomi
quasi dimenticare tutto quello che era successo. Quasi.
Salve
ragazze!
Prima cosa… il giuramento di Dollar per Aria è una rivisitazione di quello del
matrimonio che c’è in SoA, che dice, testualmente “Prometto di trattarti bene
come la mia giacca (riferito alla casacca che ha lo stesso valore del flag) e
di cavalcarti come la mia moto”. L’ho adattato inserendo il flag, perché è una
cosa che mi è sempre piaciuta.
Poi
poi poi… Ham e Swift, ci sono già da un paio di settimane i loro volti nel
gruppo, sono i nuovi acquisti degli Eagles, visto che li ho decimati.
Per
quanto riguarda la seconda parte… è vero che il tragitto in moto/macchina da HP
a NY è circa metà rispetto a quello in metropolitana, aggiungeteci poi che Ryan
corre come uno scemo, quindi il quarto d’ora è assolutamente plausibile.
Per
quanto riguarda il lavoro di Lexi… sono quasi sicura che ci voglia un
curriculum e anche molta esperienza, e che non basta una telefonata per
risolvere tutto… ma parliamo degli Eagles, che con i soldi corrompono chiunque.
Infine
c’è la questione della OS Dollaria. Il MM ambientato dopo la festa. L’ho più o
meno già anticipato nel gruppo, ma vorrei sapere in quante sareste interessate
a leggerlo (si parla di un MM probabilmente rosso, che non aggiungerebbe
comunque niente alla trama).
Il
completino che indossa Lexi quando Ryan e gli altri fanno irruzione è quello
nero, l’ultimo che ho fatto vedere nel gruppo, comunque posterò ancora la foto
se qualcuno non l’ha vista.
Sono
sicura di aver dimenticato una cosa, ma non mi ricordo… babbeh, la aggiungo nel
gruppo quando mi ricordo, perdonatemi.
Come
sempre ringrazio preferiti, seguiti, da ricordare, chi legge e chi recensisce. Aumentate
sempre di più e non so mai come ringraziarvi!
Questo
è il gruppo spoiler a cui potete chiedere l’iscrizione, se volete: Nerds’ corner.
Grazie
ancora, alla prossima settimana (con un salto temporale che ci porta a
ottobre).
Rob.
|
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Capitolo 13 *** Lower Plaza by night ***
YSM
Dopo la retata allo studio
fotografico, mentre posavo per quel servizio di intimo, i miei rapporti con i
ragazzi si erano un po’… raffreddati, soprattutto con uno di loro. Ryan non si
era scusato –a differenza di Dollar –e io non mi ero di certo scomposta:
parlavo con lui lo stretto indispensabile, se lo vedevo sul pianerottolo, al
Phoenix o per strada lo salutavo, ma i nostri rapporti finivano lì. Non si
faceva nemmeno più medicare le ferite, probabilmente perché il giorno dopo la
loro intrusione nello studio di New York, avevo volontariamente fatto cadere sul
suo piede una pentola, senza nemmeno scusarmi. Quando Aria mi aveva fatto
notare che era stato un gesto infantile, avevo incassato il colpo, passando al
punto numero due: l’indifferenza.
Tre mesi d’indifferenza,
trascorsi lenti come se ogni minuto fosse stato un’ora; tre mesi che mi avevano
fatto capire quanto bisogno avessi dei ragazzi e delle loro battute stupide,
anche di quelle di Sick. Ma non volevo mollare; Ryan doveva ancora chiedere
scusa per quel gesto e io non gli avrei parlato fino a quando non avesse
pronunciato quelle cinque lettere.
«Sei peggio di una bambina Lexi» sbuffò Aria, rientrando al Phoenix dopo che Dollar e i
ragazzi se ne erano andati. Si sistemò i capelli e il grembiule che Dollar le
aveva spostato scherzosamente, poi cominciò a spinare una birra per Peter, il
ragazzo che continuava a guardarmi con quel sorriso perenne sul volto. «Porta un paio di gin a quei due,
li hanno ordinati dieci minuti fa; meglio non farli arrabbiare, è gente
pericolosa, quella». Spostai
lo sguardo seguendo quello di Aria, che saettò verso l’angolo più buio del
locale. Seduti al tavolo più nascosto del Phoenix c'erano due
ragazzi mori, uno con gli occhi castani e l'altro con gli occhi azzurri. Continuavano
a ordinare gin, nessun’altra bevanda; li avevo visti circa una settimana prima
e mi avevano colpito, non solo per la bellezza del ragazzo con gli occhi
azzurri, ma anche per il loro ordine: «Tanqueray liscio».
Riempii i bicchieri e glieli portai, poi, dopo aver
visto Aria che mi chiamava divertita, la seguii dietro al bancone, posando il
vassoio vuoto e pulendomi le mani sul piccolo grembiule bianco che indossavo.
«Che c’è?» domandai sospirando e appoggiandomi con la schiena al
muro dietro di me. Dopo nove ore di turno lì al Phoenix speravo solo che
l’ultima trascorresse il più veloce possibile così da poter andare a casa a
guardare un film sul divano.
«Io… non dovrei dirtelo ma è così
divertente che non resisto… Peter vuole invitarti a uscire per un appuntamento.
Oddio che cosa divertente». Continuava a
ridere, appoggiata al bancone; teneva una mano sul suo stomaco e l’altra la
agitava davanti al viso, come se improvvisamente avesse caldo. Sgranai gli
occhi alternando lo sguardo da Aria a Peter, che mi stava osservando, senza
smettere di sorridere. Cosa? Un appuntamento? Lui, con me? No, non… no!
«Aria, spero sia uno scherzo. Sappi
però che è di pessimo gusto» sbottai, per
niente divertita dal suo deridermi. Possibile che dovesse mettere in mezzo quel
povero ragazzo che era il nostro miglior cliente? Non poteva inventarsi qualche
turno al Phoenix doppio o magari che John mi avrebbe trattenuto la paga un
altro mese? Sembrava tutto divertente in confronto a quello scherzo stupido.
«Non sto scherzando Lexi, ti chiederà
di uscire dopo, quando avrai finito il turno. Me l’ha appena detto. Vorrei
esserci, quasi quasi chiamo Jack e gli dico che lo raggiungo a casa…» meditò, portandosi l’indice al mento, senza nessuna
traccia di ilarità sul volto. Quello era troppo!
Mi allontanai da Aria prima che potesse dire altro,
visto che mi stavo davvero infastidendo; cercai di servire tutti i clienti con
in sorriso, fino a quando, dieci minuti prima della fine del mio turno, Aria mi
salutò, uscendo dal Phoenix e salendo sulla moto di Dollar, che la stava
aspettando fuori dal locale. Risciacquai gli ultimi bicchieri sporchi che avevo
raccolto dai tavoli vuoti e, dopo aver appeso il grembiule nell’appendiabiti
che c’era nel retro, indossai il giaccone pesante e uscii nel freddo della
notte newyorkese, dopo aver salutato John, che stava finendo di sistemare la
lavapiatti.
Cercavo di ripararmi da quell’aria per me gelida,
velocizzavo anche il passo per poter arrivare a casa prima; da quando avevo
cominciato a lavorare al Phoenix avevo imparato a non guardarmi mai alle spalle
e a non prestare attenzione a nessuno. Quando uscivo, dopo il mio turno di
lavoro, se non c’era Aria o qualcuno dei ragazzi, camminavo veloce verso
Whittier Street, senza badare a voci che mi chiamavano o altro.
«Ciao» mormorò qualcuno, talmente vicino a me da terrorizzarmi. Gridai
spaventata, indietreggiando di un passo e temendo che potesse essere qualcuno
dei Misfitous pronto a farmi del male per la seconda volta. Dove diavolo era
Ryan quando serviva? «Scusami, non volevo
spaventarti». Il ragazzo si tolse il
berretto di lana che indossava, rendendosi riconoscibile: era Peter, il ragazzo
del bar, quello che mi guardava sempre con il sorriso.
«No, no. Non fa niente, non mi hai
spaventata» mentii, tenendo la mano sopra
al cuore e sperando che il battito rallentasse; non volevo morire d’infarto
così giovane. Peter ridacchiò, sprofondando fino al naso nella sua sciarpa
rossa e grigia per ripararsi dal freddo. Io invece spostai lo sguardo dai suoi
occhi castani per tornare a guardare la strada davanti a me, come se dovessi
concentrarmi per camminare dritta: in verità mi vergognavo a parlare con lui,
da sola, visto che era la prima volta.
«Lexi, vero?» domandò, come se non conoscesse già la risposta.
Lavoravo al Phoenix da quattro mesi e lui mi aveva vista praticamente ogni
giorno, aveva sentito Aria e John, forse anche Dollar e i ragazzi chiamarmi, e
ora mi chiedeva se era il mio nome? Annuii solamente, lanciandogli un’occhiata
di traverso e accelerando ancora di più il passo. «Non sei di New York, vero? Si sente dall’accento,
costa ovest, no?» azzardò, senza smettere
di sorridere. Cominciavo a trovarlo… inquietante; le cose erano due: o era
sempre di buonumore, oppure aveva il tetano. «Lasciami indovinare… California?».
Puntò il suo indice verso di me, convinto di avere ragione. Annuii solamente,
accennando a un debole sorriso perché mi sentivo in imbarazzo. Peter era di
certo un ragazzo normale, ma stonava, quasi, in quell’ambiente così diverso dal
mondo in cui per più di vent’anni avevo vissuto. «Sono bravo a capire da dove viene qualcuno e poi
l’accento californiano è davvero carino, sai?». Peter si fermò all’improvviso sul marciapiede, stringendo appena il
mio braccio e impedendomi di procedere. Mi voltai a guardarlo allarmata, ma
quando vidi che il suo sorriso non se ne era andato, cercai di capire il perché
di quel gesto. «Il semaforo, è rosso». Con un gesto del capo indicò un punto davanti a lui
e istintivamente seguii il suo sguardo fino a quando incontrai la mano rossa
illuminata.
«Oh… grazie» bofonchiai imbarazzata, nascondendo le mani dentro
alla giacca pesante che indossavo. Non avevo nemmeno notato che era il semaforo
prima dell’incrocio di Whittier Street, troppo impegnata a capire perché Peter
continuasse a sorridere. Aspettammo il verde in silenzio, attraversando sulle
strisce pedonali e svoltando verso Whittier Street subito dopo. «Io… sono arrivata»
mormorai vergognosa, indicando il palazzo dietro di me. Non sapevo ancora
perché Peter mi avesse accompagnata fino a casa, visto che Aria aveva detto che
abitava poco distante dal Phoenix.
Peter prese un respiro profondo, prima di schiarirsi
la voce : «So che sembrerò uno stupido, ma... vorresti uscire con
me?». Mi immobilizzai, trattenendo il respiro
e fissandomi sul suo sorriso che vacillò, quando non risposi. Peter
improvvisamente diventò serio, dondolandosi da un piede all’altro e abbassando
lo sguardo. Sapere di essere il motivo che aveva cancellato il suo sorriso mi
intristiva, ma non sapevo come dirgli che non mi interessava uscire con lui.
«Peter, io…» mormorai, grattandomi una tempia, in imbarazzo. Come
potevo rifiutare il suo invito senza ferirlo troppo? Sembrava un ragazzo
davvero simpatico e con la testa sulle spalle, che sapeva come cominciare un
discorso e intrattenere una conversazione.
«Oh, le voci sono vere? Sei la Signora
di Ryan?». Era stupito, potevo notarlo
dai suoi occhi sgranati e dalle sue sopracciglia aggrottate. Non sapevo se
mettermi a ridere per la sua battuta o se esserne indignata. Perché tutti
credevano che fossi la Signora di Ryan?
«Che cazzo ci fai qui?» sbottò una voce dietro di noi. Anche se l’avevo
riconosciuta, sussultai perché non mi aspettavo di trovare Ryan lì, a
quell’ora. Quando mi voltai per guardarlo, non riuscii a ribattere alla sua
domanda idiota. Da quanto era che non guardavo Ryan in viso? Gli occhi
arrossati e stanchi, il segno di un pugno di qualche giorno prima sulla guancia
e la sigaretta stretta tra le labbra. Cercava di nascondere il suo viso indossando
il cappuccio della felpa che aveva sotto alla giacca di pelle nera senza
riuscirci; si notava comunque il filo di barba bionda e un ciuffo di capelli
che gli ricadeva sulla tempia, poco distante dal suo neo.
«Io… io l’ho solo accompagnata a casa,
Ryan. Non ho fatto nulla, te lo giuro, io… non volevo dire che… cioè, ho solo
chiesto e non era mia intenzione. Io… credo che andrò… ci vediamo» balbettò, cominciando a indietreggiare senza darci le
spalle. Continuavo a guardare Peter camminare all’indietro, con le mani alzate
in segno di resa; si muoveva lentamente, ma allo stesso tempo cercava di fare
passi lunghi per andarsene il più in fretta possibile. Perché Peter aveva
reagito in quel modo?
«Che gli hai fatto?» domandai, accusando Ryan che non si era minimamente
scomposto per quella scena. Non aveva reagito avvicinandosi a Peter per
chiarire il malinteso, per dirgli che non si doveva spaventare in quel modo;
non aveva fatto niente, era rimasto in piedi lì, con la sigaretta tra le labbra
e la sua solita espressione da schiaffi.
«Io? Niente lentiggini, mi sembra tu
abbia visto che non gli ho fatto niente, no?». Sul suo volto si disegnò il solito ghigno; Ryan abbassò lo sguardo,
gettando la sigaretta a terra e spegnendola con la punta della scarpa. No, doveva
di sicuro aver fatto qualcosa, perché Peter aveva improvvisamente cambiato
comportamento quando aveva visto Ryan.
«Cosa gli hai fatto?» ribattei, intestardendomi. Non mi sarei schiodata di
lì fino a quando Ryan non avesse detto la verità riguardo Peter. Incrociai le
braccia al petto, in attesa di una risposta che doveva arrivare, perché non mi
sarei spostata da lì fino a quando non l’avessi avuta.
«State parlando di nuovo dopo tre mesi?
Non deve nevicare proprio stanotte» si
lamentò Dollar, sogghignando e stringendo di più il suo braccio attorno alle
spalle di Aria. Lei cercò di non farsi vedere, ma notai il suo gomito che andava
a colpire il fianco di Dollar, come se avesse detto qualcosa di male. «Che c’è? Ho solo chiesto se stanno parlando di nuovo
dopo tre mesi, non ho detto altro» si
giustificò, scrollando le spalle, senza accorgersi dello sguardo che gli aveva
riservato Aria.
«No, non sto parlando con lui. Ho solo
chiesto perché Peter se ne è andato via in quel modo» spiegai, battendo più volte il piede a terra a causa
del nervosismo. Quello che mi infastidiva ancora di più era vedere Ryan lì,
fermo e tranquillo, appoggiato al muro dello stabile e con le braccia
incrociate al petto. Se solo avesse avuto la sigaretta tra le labbra sarebbe
stato l’immagine della tranquillità.
«Ancora? Ti ho detto che non gli ho
fatto niente. C’eri qui anche tu». Alla
sua risposta sbuffai infastidita. No, doveva essere successo qualcosa prima che
Peter mi accompagnasse a casa, non riuscivo a credere che non fosse successo
niente. Una persona non cambiava di colpo umore e comportamento solo perché Ryan
appariva dal nulla.
«Senti, Peter non è un malato di mente
come te che cambia umore da un momento all’altro. Devi avergli fatto qualcosa,
perché un secondo prima, quando mi ha invitata a uscire, era felice e
tranquillo, poi sei arrivato tu e l’hai spaventato». Mi avvicinai a Ryan, cercando – inutilmente – di
fronteggiarlo. Era diventato più alto in quei tre mesi o lo era sempre stato?
«Oddio! Allora te l’ha chiesto davvero?
Cosa gli hai risposto? Ci uscirai assieme?».
Aria saltellò verso di me, appoggiando le sue mani sulle mie spalle e
scuotendomi, in attesa di una risposta. La guardai spaventata, alternando lo
sguardo dal suo volto a quello di Dollar, che mi osservava con uno strano
ghigno sulle labbra. Possibile che dovessi dire a tutti se avevo accettato o
meno l’appuntamento con Peter? Soprattutto perché non ero riuscita a dargli una
risposta, visto che Ryan era arrivato all’improvviso.
«Aria…» sibilai, ammonendola con lo sguardo. Non era né il luogo né il momento
adatto per parlare di Peter. Magari al caldo, sul mio divano, davanti a una
tazza di cioccolata fumante; ma non lì, nel freddo della notte newyorkese, con
Dollar e Ryan a pochi passi da noi.
«Andiamo! Dimmi solo sì o no, il bacio
me lo racconti dopo» ridacchiò,
saltellando davanti a me. Bacio? Ma cosa stava dicendo? Perché mai avrei dovuto
baciarlo? In fin dei conti non era successo niente, mi aveva solo chiesto di
uscire.
«Aria! Non c’è stato nessun bacio e non
gli ho nemmeno risposto» conclusi,
piccata. Lei, Dollar e Ryan mi stavano tutti osservando interessati, come se il
racconto del mio incontro fosse la trama di una soap-opera. In verità non c’era
proprio nulla di divertente e soprattutto mi dispiaceva per Peter, che se ne
era andato senza una risposta da parte mia.
«Perché non gli hai risposto? Era così
contento di invitarti a uscire, perché non gli hai detto sì o no?» mi accusò, arrabbiandosi a tal punto da farmi paura.
Indietreggiai istintivamente, appoggiando la schiena contro il muro che però si
mosse. Mi voltai spaventata, trovando Ryan dietro e capendo subito che non mi
ero appoggiata al muro, ma al suo petto.
«Perché è arrivato lui e Peter si è
spaventato ed è scappato». Indicai Ryan,
accusandolo di aver interrotto la conversazione. In verità non mi interessava
poi molto, ma non mi dispiaceva che si sentisse un po’ in colpa – ammesso che
Ryan fosse dotato di un cuore.
«Ryan, è sempre colpa tua! Non potevi
arrivare un paio di minuti dopo? Devi sempre rovinare le scene romantiche da
film, perché sono sicura che dopo il sì di Lexi, Peter si sarebbe avvinghiato a
lei, intrappolandola contro il portone e dandole un bacio che sarebbe durato
minuti interi. Oh, che romantico». Portò
le mani sotto al mento, alzando gli occhi al cielo in un gesto che mi fece
veramente paura. Aria sembrava convinta di quello che diceva.
«Tu sei fuori di testa» mormorai, prendendo le chiavi dalla tasca della mia
giacca per aprire il portone. Sì, ne avevo appena avuto la conferma: Dollar
stava portando Aria verso la pazzia, e mi dispiaceva; in fin dei conti sembrava
una ragazza intelligente, una volta.
«Buon riposo Doc, e attenta agli
intrusi» strillò criptico Dollar. Quando
mi voltai per cercare di capire a cosa si riferisse, vidi Aria tirargli una
gomitata sullo stomaco e Ryan scuotere la testa, come se avesse definitivamente
perso le speranze. «Ho solo detto buon
riposo» si giustificò Dollar, guardando
prima Ryan e poi Aria che non la smetteva di lanciargli sguardi che lo
avrebbero sicuramente incenerito.
Non volevo nemmeno sapere a cosa si riferissero; ero
talmente stanca che l’unico desiderio era quello di distendermi sul divano per
guardare un film e mangiare qualcosa al volo.
Quando mi chiusi la porta del mio appartamento alle
spalle, sospirai stiracchiandomi: la schiena mi doleva e non sentivo più le
gambe; mi serviva una doccia calda per sciogliere i muscoli tesi dalle ore di
lavoro. Indossai la tuta e, dopo aver riscaldato nel microonde la pasta che
avevo cucinato il giorno prima, mi sedetti sul divano accendendo la TV senza trattenere
un sospiro sollevato: quella sì che
sarebbe stata una serata tranquilla, TV, film horror e patatine.
«Alexis?» bisbigliò qualcuno, accarezzandomi una guancia. Mi mossi appena,
infastidita da quella carezza. Possibile che Edge dovesse fare sempre il
cretino e svegliarmi con le mani ancora fredde per colpa dell’acqua
dell’Oceano?
«Edge, dai» bofonchiai, rigirandomi sul mio letto e allungando il
braccio per colpirlo. La mia mano però sbatté contro qualcosa di morbido:
probabilmente mi ero addormentata sul divano, troppo stanca per il turno
all’ospedale. O avevamo studiato fino a tardi?
«Lentiggini svegliati» sbottò una voce poco distante da me. Lentiggini? No, Edge non mi chiamava mai
in quel modo. Per lui ero Alexis, o Lex, dipendeva se era o meno arrabbiato con
me. Non c’era nessuno a Los Angeles che…
Mi alzai a sedere di scatto ricordando che no, non
ero a Los Angeles; ero a Hunts Point, nel Bronx. Non ero nemmeno distesa a
letto, visto che c’era la televisione accesa davanti a me e Ryan, Brandon, Aria
e Dollar camminavano tranquillamente nel mio soggiorno, come se li avessi
invitati a entrare.
«Che… che cosa ci fate qui? Che ore sono? Che succede?» balbettai confusa, guardando l’orologio al mio polso:
le lancette segnavano le due. Avevo dormito una mattina intera, saltando
addirittura il turno al Phoenix? Non mi sembrava di essere così stanca. Guardai
i loro volti, notando che tutti, a fatica, si stavano trattenendo per non
ridere davanti a me. «Che succede?» tornai a ripetere, preoccupata. Si era ferito
qualcuno? Dov’erano Sick, Lebo, Paul, Josh e i due ragazzi nuovi? Mi alzai,
portandomi una mano alla fronte perché mi girava addirittura la testa.
«Lexi, devi cambiarti. Ti portiamo in un
posto, d’accordo? Vestiti come Aria».
Brandon sorrideva davanti a me, indicando Aria e il suo abbigliamento. Che
c’era di diverso dal solito? Sembrava solo avere una felpa più pesante e il
berretto di lana in testa. Spostai lo sguardo su Dollar, notando che, come
sempre, sopra alla felpa aveva la sua giacca di pelle nera; un abbigliamento
quasi uguale a quello di Ryan, che però non aveva la sciarpa nera e grigia come
Dollar.
«Dove dobbiamo andare? Che succede?». Non mi sarei mossa da casa mia fino a quando non mi
avessero spiegato la situazione; soprattutto perché, avevo notato guardando
fuori dalla finestra, erano le due di notte. A quelle domande Ryan alzò gli
occhi al soffitto, sedendosi sul mio divano e accendendosi una sigaretta;
Brandon sorrise, scambiandosi con Aria uno sguardo d’intesa che mi fece temere
il peggio.
«Andiamo Lexi, muoviti». Aria mi spinse verso la mia camera, senza aspettare
che qualcuno mi spiegasse cosa stava succedendo, ma soprattutto senza che lei
stessa lo facesse. «Dove hai messo la
felpa che ti ho costretto a prendere?».
Aprì il mio armadio, cominciando a rovistare tra i vari scomparti per trovare
quello che stava cercando. «Eccola qui.
Mettiti un’altra maglia pesante sotto e poi questa; un paio di jeans e delle
sneakers comode per correre». Mi lanciò
la felpa addosso e uscì dalla stanza senza darmi il tempo di chiedere ulteriori
spiegazioni.
Dovevo indossare una felpa, una maglia pesante sotto,
un paio di jeans e delle scarpe comode? Cosa dovevamo fare, una rapina?
Sbuffando perché nessuno aveva spento la mia curiosità, mi vestii, seguendo le
indicazioni di Aria. Uscii dalla camera camminando verso la cucina; mi sentivo
una completa idiota: era una strana sensazione, per me, indossare vestiti così
pesanti già a metà ottobre, visto che nemmeno a Natale, in California, le
temperature scendevano sotto i quindici gradi.
«Tieni, mettiti anche questo, sarà
freddo». Dollar mi porse un berretto di
lana simile a quello di Aria; grigio scuro con un motivo disegnato sopra. Era
carino, ma dubitavo fortemente che indossato da me risultasse sexy almeno la
metà di come stava ad Aria. Nonostante tutto, decisa che non l’avrei indossato,
accettai lo stesso quel dono, prendendo poi il giaccone appeso a qualche passo
da me.
«Dove andiamo?» domandai di nuovo, sperando che mi dicessero dove mi
avrebbero portata. In fin dei conti l’avrei scoperto in poco tempo, no? Anche
perché, alle due di notte, non erano poi molti i posti lì nel Bronx che
rimanevano aperti. Che fosse il compleanno di qualche Eagles, e avessero
organizzato una festa a sorpresa? Sapevo
che Dollar e Aria festeggiavano il loro compleanno a maggio, ma di tutti gli
altri –compreso Ryan – non ricordavo nessuna data.
«Prenditi il casco per bambini,
lentiggini» sbottò Ryan, spegnendo la
sigaretta sul pavimento del mio salotto. Quando mi sentì prendere un respiro,
pronta a scoppiare per quello che aveva fatto, alzò lo sguardo, prendendo il
filtro che aveva lasciato sul pavimento e alzandosi per gettarlo nelle
immondizie. Lo ringraziai mentalmente per quel gesto, senza nemmeno perdere
tempo a parlarci di nuovo: meno parlavo con Ryan più avrei mantenuto la mia
salute mentale, avevo già parlato troppo quel pomeriggio.
«Ma andiamo in moto a quest’ora? Con tutto questo freddo?» domandai, correndo per raggiungerli; quando ero
andata in camera per prendere il casco erano usciti tutti e non mi avevano
nemmeno aspettata. Ryan bussò – nel suo
modo stupido – alla porta del 3B per richiamare anche gli altri ragazzi e Sick,
Lebo, i gemelli e gli ultimi due arrivati negli Eagles uscirono sul
pianerottolo: indossavano tutti quanti una felpa scura e una giacca pesante
sopra.
«Hei, Lexi! Sei pronta?» domandò Sick, ammiccando verso di me e portando il
suo braccio attorno alle mie spalle. Forse lui era l’unico a cui potevo
estorcere qualche informazione; speravo solo che il prezzo non fosse troppo
alto, visto che con Sick non c’era mai da stare tranquilli.
«Sick… tu sai dove stiamo andando?» azzardai, alzando lo sguardo e sorridendogli. Speravo
non si accorgesse del modo convulso in cui stavo stringendo le mie dita attorno
al casco per l’imbarazzo. Non sapevo di certo fare la gatta morta, ma speravo
che con Sick fosse sufficiente un sorriso.
«Ovvio». Un nuovo ammiccamento e il suo braccio si strinse appena di più alla
mia spalla, avvicinandomi a lui. Bene, dovevo solo convincerlo a dirmi dove mi
stavano portando, magari facendo gli occhi dolci. Ma potevo riuscirci?
«E non mi vuoi dire dove mi portate?». Mi sentivo una stupida. Come potevo anche solo
pensare che sarei riuscita a farlo confessare sbattendo le palpebre più
velocemente e sorridendo in modo forzato? Non avevo di certo il sex appeal di
Butterfly o di qualsiasi altra ragazza che Sick aveva gentilmente ospitato in
camera sua.
«Ci stai provando con me, Lexi? Perché
se ti dico dove stiamo andando poi pretendo un regalo…». La sua mano scese lungo il mio braccio e
istintivamente mi allontanai da lui di un passo. No, avrei scoperto dove stavamo
andando in un altro modo, non di certo con qualche favore di natura… sessuale a
Sick. «Che ti avevo detto, Ryan? Ci
avrebbe provato ma si sarebbe arresa subito. Che delusione Lexi, nemmeno mi
lasci toccarti una tetta» bofonchiò,
fingendosi davvero offeso. Il suo sguardo triste, unito al gesto di diniego che
fece con il capo fece ridere tutti, me compresa.
«Andiamo, sali in moto» ordinò Ryan, dando gas alla sua per accenderla. Pochi
secondi dopo il piccolo garage fu invaso dal rombo delle moto dei ragazzi tanto
da diventare quasi fastidioso. Indossai il casco, cercando di chiudere il
moschettone il più in fretta possibile; fortunatamente ci riuscii al secondo
tentativo. Con il casco addosso mi guardai attorno, in cerca di una moto su cui
salire: Sick era fuori discussione, non mi fidavo di lui, soprattutto di notte;
no. Sulla moto di Dollar c’era anche Aria, quindi non potevo salirci; guardai
subito Brandon, ma sulle spalle aveva uno zaino di dimensioni non indifferenti,
quindi non c’era posto nemmeno sulla sua moto. Sarei salita su una delle moto
dei gemelli… se non avessero avuto uno zaino grande quanto quello di Brandon;
ma cosa stavano trasportando, dei cadaveri?
Lebo… lui non mi stava molto simpatico, ma avrei
fatto uno sforzo e sarei salita sulla sua moto – i due ragazzi nuovi non li
conoscevo e non li avevo nemmeno presi in considerazione –, mi avvicinai così
alla moto di Lebo, prima che Ryan parlasse: «Lentiggini, ti vuoi muovere o
aspettiamo l’alba?». Il piede appoggiato
a terra per sostenere la moto, la visiera del casco alzata per guardarmi e una
nota d’impazienza nella voce. Dovevo davvero salire sulla sua moto?
Mi guardai attorno, sperando che all’improvviso
spuntasse un fantasma di qualcuno, con uno spazio sufficiente perché potessi
salire dietro. Niente, nessun fantasma, nessun nuovo Eagles che avesse
dimostrato un po’ di buon senso o altro. Niente di niente, solo Ryan e la sua
Ninja nera.
«Vai piano» sbottai salendo dietro di lui, dopo aver appoggiato
la mano sul suo braccio per darmi la spinta così da evitare di cadere. Non
aspettò nemmeno che afferrassi la sua giacca di pelle, partì sgommando, facendomi
imprecare mentre mi aggrappavo con tutte le mie forze a lui; non potevo nemmeno
pizzicarlo, non avrebbe sentito nulla con tutti quei vestiti!
Ryan sfrecciava con la sua moto lungo le strade
deserte del Bronx, non riuscivo a capire dove ci stessimo dirigendo, visto che
le indicazioni continuavano a segnalare che ci stavamo avvicinando a New York.
Ma di sicuro quella non poteva essere la nostra destinazione, che cosa c’era a
New York alle due e mezza di notte? Ero quasi sicura che i negozi fossero tutti
chiusi, a meno che non volessero forzare qualche serratura per entrare di
nascosto da qualche parte – ed ero sicura che gli Eagles fossero in grado di
farlo.
Dopo un quarto d’ora di viaggio Ryan rallentò,
posteggiando la moto in una piccola via laterale. Non conoscevo New York e
nemmeno i nomi delle strade, ma ero sicura che fossimo abbastanza vicini al
centro; si sentiva ancora il vociare di qualche gruppetto di ragazzi che
camminava lungo la strada principale, ma soprattutto il tipico odore di New
York che mi fece socchiudere gli occhi. New York odorava di pioggia, asfalto e
fritto, l’odore di hot dog e hamburger che invadeva le strade era così caratteristico
da essere difficile da dimenticare.
«Lentiggini ti vuoi muovere o credi che
fosse tutto per fare un giro in moto?»
ghignò Ryan, togliendosi il casco e appendendolo al manubrio della moto. Mi
sentivo un’idiota, ma temevo che fosse uno scherzo e che Ryan ripartisse non
appena avessi lasciato la presa sui suoi fianchi.
«Siamo arrivati? Sicuro?» domandai, probabilmente apparendo ancora più stupida,
visto che tutti erano già scesi dalle loro moto e aspettavano me e Ryan. Aria
cominciò a ridere, appoggiando la fronte contro il petto di Dollar per
nascondersi, lui invece, esattamente come Brandon e Sick, non si preoccupò
nemmeno di sembrare discreto, rise davanti a me, portandosi una mano allo
stomaco. «Ok, scendo» mormorai, capendo che avevo appena fatto una
figuraccia davanti a tutti.
«Bene, ragazzi, cappuccio calato in
testa e colletti tirati su. Dobbiamo essere irriconoscibili. Aria, copriti
bene, mi raccomando. Lentiggini, metti quella cosa in testa e non alzare mai il
volto, ci sono le telecamere prima di entrare» ordinò, mentre i ragazzi si posizionavano meglio il cappuccio e Aria
indossava il suo berretto di lana. Imitai i suoi gesti, sicura che l’effetto
non fosse lo stesso. Odiavo i cappelli e i berretti perché non calzavano mai
bene, mi sembrava che il mio viso assumesse sempre forme troppo rotonde,
rendendomi simile a una palla da basket.
«Lentiggini, sei… sexy con quel coso in
testa» sghignazzò Ryan, accendendosi una
sigaretta. Vidi il suo sguardo illuminarsi grazie all’accendino e non potei non
notare i suoi occhi che mi guardavano con quello sguardo di sfida che faceva
sempre per prendermi in giro. «Sembri
Spugna, quello di Peter Pan. Ti manca la stazza fisica e la maglia a righe, poi
sei lui» concluse, facendo ridere tutti,
tranne me.
«Senti, dacci un taglio, nemmeno tu sei... sexy con
quel giubbotto di pelle e il cappuccio in testa, chi ti credi di essere, un
divo del cinema? James Dean era ben altro» sbottai sperando di
ferirlo. Si atteggiava sempre da figo, convinto che tutto il mondo fosse ai
suoi piedi. Mi aspettavo che spegnesse la sigaretta a terra e la pestasse con
forza, prima di avvicinarsi a me e puntarmi un dito contro, sibilandomi
qualcosa; invece Ryan cominciò a ridere, appoggiandosi alla moto dietro di lui
per non perdere l’equilibrio. Bene, la nottata si preannunciava uno spasso:
avremmo fatto irruzione in qualche gioielleria, rubando tutti i diamanti di
valore, poi, visto che di sicuro avrei sbagliato qualcosa, Ryan avrebbe urlato
contro di me.
«Era bella questa,
lentiggini. Ora muoviamoci, prima che torni la guardia» ordinò
Ryan, spegnendo la sigaretta per terra e sistemandosi meglio il cappuccio in
testa; sollevò il colletto della giacca di pelle e, seguito da Sick e Lebo,
cominciò a camminare. Brandon era subito dietro di loro; avanzava in silenzio
nonostante di fianco a lui ci fossero i due ragazzi nuovi.
«Su Doc, non dobbiamo mica
tardare» scherzò Dollar, dandomi una leggera pacca sulla
schiena e stampando un bacio sulla fronte di Aria. Sorrisi intenerita a quella
scena; era incredibile quando Dollar cambiasse quando c’era Ryan che ordinava
qualcosa rispetto a quando Aria era al suo fianco. Sembravano quasi due persone
distinte e, era inutile dirlo, preferivo mille volte la seconda versione,
quella che ricordava la loro vera età, che li rendeva quasi più… normali – se
c’era della normalità lì, nel Bronx.
«Insomma, concordavo con Ryan, ma sta…». Brandon si fermò
all’improvviso in mezzo al marciapiede; il suo gesto fu così inaspettato che lo
investii. Non avevo nemmeno avuto il tempo di scansarmi. Tutti quanti, Ryan
compreso, lo guardavamo, in attesa di capire che cosa gli stesse succedendo.
Perché si era fermato? Cosa era successo? Non mi sembrava di aver visto
qualcuno lì attorno, eccetto per quelle due ragazze che stavano camminando
verso di noi.
«Oh cazzo, che ci fa qui?» domandò Aria a Dollar, indicando una delle
due ragazze che si stavano avvicinando. Dollar fece spallucce, avvicinandosi di
un passo a Ryan e Brandon ma lasciando uno spazio tra loro per Sick. Io guardai
Aria, chiedendole con lo sguardo che cosa stesse succedendo. «La biondina è
Irene, l’ex di Brandon, quella che l’ha lasciato spezzandogli il cuore,
sinceramente non so nemmeno che ci faccia qui a quest’ora» mi spiegò a bassa
voce; vedevo Ryan spostarsi sempre più vicino a Brandon, come se volesse
sostenerlo anche fisicamente. Brandon aveva la schiena rigida e i muscoli delle
spalle tesi, vedevo i suoi pugni chiusi e, ne ero sicura anche se non riuscivo
a vedere il suo volto, stava serrando la mascella.
«Ciao, Brandy» esultò la ragazza con i capelli biondi, quando fu
abbastanza vicina da riconoscerlo. Era bella, sicuramente; aveva due lunghe
gambe e un fisico invidiabile, visibile perché era coperta solo da una giacca
di jeans nonostante le temperature non fossero così elevate, a quell’ora di
notte. I suoi grandi occhi azzurri risaltavano sul trucco scuro che contrastava
con i suoi capelli biondo platino. Sì, riuscivo a capire perché avesse spezzato
il suo cuore.
«Che cosa ci fai qui?» sibilò Brandon, stringendo più forte i pugni
lungo i fianchi. Vidi Ryan guardarlo appena, nonostante non mi fossi spostata;
assieme ad Aria ci eravamo fermate dietro di loro, lasciando che tutti gli
Eagles al completo rimanessero l’uno di fianco all’altro.
«Come cosa ci faccio? Non posso fare un giro a New York di notte? Lo
sai che la trovo romantica, no?». C’era uno strano ghigno sul suo volto
angelico che stonava. Irene non mi sembrava la classica ragazza stronza – non
come Butterfly, almeno – e sapere che era stata la fidanzata di Brandon
confermava quella tesi: Brandon non era un ragazzo superficiale, non si sarebbe
mai fermato solo alla sua bellezza.
«Perché sei qui?» domandò di nuovo lui. Era davvero arrabbiato, non
l’avevo mai sentito parlare con quel tono di voce. Sembrava quasi… infuriato
per averla trovata in un posto non sicuro per lei. Brandon sembrava protettivo
verso Irene, nonostante lui stesso avesse ammesso che non erano più una coppia.
«Andiamo, Brandy, non ricominciare con la storia della gelosia, non
siamo più una coppia». Irene si avvicinò, seguita dalla sua amica mora che non
staccava gli occhi di dosso a Ryan; sembrava arrabbiata con lui, ma non ne
capivo il motivo. Che fosse una sua ex fiamma? Magari Ryan l’aveva lasciata per
Butterfly, o l’aveva lasciato lei perché gelosa? «Ciao Aria, è bello rivederti.
Sapevo che non sareste riusciti a stare distanti per troppo tempo. E non so chi
sia l’altra, presumo la Signora di qualcuno… Ryan direi, viste le voci che
circolano…». Si sporse un po’ per guardarmi meglio e istintivamente nascosi il
viso contro la sciarpa che portavo al collo ma nonostante il freddo sentii le
mie gote arrossarsi per la vergogna. Volevo dirle che non ero la Signora di
nessuno, tantomeno di Ryan, ma non ero io a dover parlare, non sapevo nemmeno
se potevo farlo.
«Non è la mia Signora, è la nostra vicina» spiegò Ryan, piccato. Lo
vidi drizzarsi, alzando il capo, dimostrando che lui non aveva di certo paura
di Irene. In tutta risposta lei e la sua amica cominciarono a ridere,
spostandosi di qualche passo, come se volessero andarsene. Ryan rimase fermo,
non ordinava niente a nessuno, ed era quasi strano; sembrava aspettasse di
vedere quello che Brandon avrebbe fatto per poi decidere.
«Dove stai andando?». Brandon si avvicinò di qualche passo a Irene e
alla sua amica, senza smettere di stringere i pugni lungo i fianchi. A quella
sua azione, tutti i ragazzi si spostarono appena, senza perdere di vista la
scena, pronti a intervenire in qualsiasi caso. Irene fronteggiò Brandon: voleva
far vedere che non aveva paura, si vedeva dal suo sguardo e dal suo modo di
muoversi.
Io, però, non riuscivo a non notare che c’era una strana luce negli
occhi di Irene, come se le facesse veramente piacere vedere che Brandon si
preoccupava per lei. Magari, però, dipendeva dal fatto che non la conoscevo e
non l’avevo mai vista. Non sapevo nemmeno perché si fossero lasciati.
«Vado a fare un giro con Michelle, c’è qualche problema? Io non credo,
in fin dei conti non sono più la tua Signora, quindi andate a Lower Plaza e
divertitevi». Non aspettò nemmeno che Brandon ribattesse qualcosa, cominciò a
camminare, superandolo, senza nemmeno salutare nessuno. Lower Plaza? Che posto
era Lower Plaza? E perché sembrava sapere dove saremmo andati?
«Dai Brandon, lascia perdere, andiamo a scaricare i nervi e non ci
pensi, ok?». Ryan gli diede una pacca sulla spalla, come se volesse consolarlo.
Scherzosamente lo colpì con un pugno al fianco, simulando una lotta a cui
Brandon, però, non rispose: aveva lo sguardo fisso davanti a lui, guardava
Irene che si allontanava senza nemmeno voltarsi per guardarlo.
«Aria… ma che è successo tra Brandon e Irene?» domandai,
dimenticandomi di chiederle che ci fosse a Lower Plaza. In quel momento mi
interessava di più capire perché Irene avesse lasciato Brandon e che cosa fosse
successo durante la loro storia; in più ero curiosa di capire se Irene fosse
davvero stronza come sembrava.
«Be’, ecco… Brandon è, lui è un ragazzo abbastanza premuroso, forse un
po’ troppo. Irene è uno spirito libero, le piace viaggiare, sperimentare posti
e cose nuove e lui era decisamente troppo… protettivo con lei. Due opposti troppo opposti, io li ho
sempre chiamati così. Se entrambi fossero un po’ meno testardi e si adattassero
l’uno alle esigenze dell’altro probabilmente sarebbero perfetti, ma Brandon è
abituato a essere deciso, forse perché tiene sempre testa a Ryan e ormai è
così. Irene… lei voleva Brandon più per lei e meno per Ryan, e questo non lo
devi fare. Non puoi cambiare un Eagles, non è così che funziona. O lo accetti
per com’è, con la sua vita che è la gang, oppure non ti sforzi nemmeno di
provare a stare con lui. Credi sia facile stare con Jack? No, non lo è, ma so
che lo amo al punto tale da non poter stare senza di lui e sono sicura che
soffrirò, ma non ci voglio pensare, ho imparato a vivere ogni momento come se
fosse l’ultimo, ed è così che devo fare». Aria parlava piano, mi aveva
costretto a rallentare il passo, distaccandomi dai ragazzi perché non potessero
sentire quello che mi diceva. Involontariamente mi soffermai a guardare il suo
viso: gli occhi castani e grandi e i suoi capelli ondulati che ricadevano sulle
spalle e sulla schiena. Aria non poteva avere sedici anni, non riuscivo a
vedere in lei quella spensieratezza caratteristica; era sempre controllata,
pensava troppo da adulta. Un po’ mi faceva pena, mi chiedevo quando avesse
provato la gioia e la spensieratezza degli anni più belli, quelli in cui ti
senti invincibile e credi di essere il re del mondo, quelli in cui ti senti il
capo del liceo solo perché sei all’ultimo anno e sai che potrai ridere quando
appenderanno il nerd più sfigato del primo anno alla statua di Nettuno, nel
parcheggio del liceo.
«Non sbirciare Doc» sogghignò Dollar, coprendo i miei occhi con le sue
mani. Sussultai spaventata perché, persa tra i miei pensieri, non mi ero
accorta di lui. «Non preoccuparti, Aria ti dirà quando stiamo per ucciderti»
scherzò poi, spingendomi appena perché continuassi a camminare. Non riuscivo
nemmeno a capire dove fossimo; l’ultima immagine che ricordavo, prima che Aria rapisse
la mia attenzione con la storia di Brandon e Irene, era qualche via in centro a
New York.
«Dove stiamo andando? Dai, ditemi dove stiamo andando» mi lamentai
come una bambina, cercando di togliere le mani di Dollar dal mio viso. Volevo
capire dove fossimo, anche se, speravo, ormai eravamo vicini alla nostra meta.
Mi divincolai, sentendo le dita di Dollar scivolare dai miei occhi e
mentalmente esultai: alla fine il cervello vince sui muscoli, almeno così
pensavo.
«Benvenuta a Lower Plaza, lentiggini» mormorò Ryan, e io capii di
essermi liberata da Dollar non perché era riuscito a trattenermi, ma perché
eravamo arrivati. Guardai prima Dollar, poi Ryan, quasi timorosa di quello che
potevo vedere; poi, dopo aver preso un respiro profondo, spostai lo sguardo
davanti a me, rimanendo completamente senza parole.
Era… era esattamente come l’avevo sempre immaginato e visto alla TV, solo… solo più vuoto. Non
c’erano tutte le persone che pattinavano nella grande Promenade adibita a pista
di pattinaggio sul ghiaccio, non c’era nemmeno il grande albero di Natale che
avevo sempre voluto vedere dal vivo. Il Rockefeller Center era deserto, le
uniche persone che c’erano eravamo noi. Senza nemmeno accorgermene avanzai di
un passo, sistemandomi il berretto di lana che indossavo per guardare meglio
quello spettacolo davanti a me: le luci erano quasi tutte spente, la pista era
illuminata solo per quattro deboli fari posti ai lati, il ghiaccio –potevo
vederlo anche da quella distanza – era perfetto, nessuno ci aveva pattinato
sopra.
«È semplicemente una favola» mormorai, portandomi una mano davanti
alle labbra e lasciando che quella lacrima sfuggisse dal mio occhio, bagnandomi
la guancia. Avevo sempre sognato di pattinare sul ghiaccio, soprattutto a New
York; il Rockefeller Center era uno dei motivi per cui avevo scelto proprio
quella città per trasferirmi, l’avevo ripetuto ad Aria all’infinito. «Grazie»
sussurrai, asciugandomi la lacrima che non aveva smesso di scendere e
sorridendo ad Aria grata. Ero sicura che fosse lei ad aver spronato i ragazzi
affinché mi portassero lì, con loro.
«Non dire grazie, facci vedere le tette piuttosto, su! Via tutti
quegli strati di stoffa e fammi vedere le tue munizioni». Sick si sfregò le
mani, facendomi ridere. Brandon, di fianco a lui, gli tirò uno schiaffo sulla
nuca per rimproverarlo, ma non riuscii a smettere di ridere, forse anche per
spezzare la tensione e l’imbarazzo.
«Certo che, cazzo Sick, sei l’unico idiota che deve sempre fare
battute idiote. Questa, lentiggini, è una nostra tradizione. La notte prima
dell’apertura della pista di pattinaggio veniamo qui e la inauguriamo a modo
nostro. Aria è stata ammessa solo un paio di anni fa, poi non è più venuta per
dei motivi che tutti sappiamo. Quest’anno, visto il grande ritorno della
Signora, abbiamo invitato anche te che hai scassato le palle a tutti con questa
pista di pattinaggio. Ora sarebbe davvero divertente scoprire che in verità non
hai mai pattinato» sogghignò Ryan, facendomi arrossire imbarazzata. In effetti
sì, era vero, non avevo mai pattinato sul ghiaccio in vita mia, solamente
perché a Los Angeles non era mai sufficientemente freddo per andare a pattinare
o perché ero impegnata con gli esami.
«Io… so fare surf». Evitare la domanda parlando di altro non era una
tecnica efficace, visto che tutti i ragazzi si erano messi a ridere,
guardandomi. Si era capito tanto che non sapevo come si pattinava sul ghiaccio?
«Dai Lexi, prendi i pattini che ti insegno come si fa. Non è
difficile, se ci riesce anche Jack allora possono farlo tutti» scherzò Aria, porgendomi
un paio di pattini. Come faceva a sapere il mio numero? Perché di solito per i
pattini serviva il numero di scarpe, no? Improvvisamente ricordai che, un paio
di settimane prima, Aria mi aveva chiesto che numero portassi, inventandosi una
scusa stupida perché le prestassi un paio di scarpe. «Lo so, sono un genio. Ora
indossa questi e stringili bene, altrimenti poi ti faranno male le caviglie». Indossai
i pattini che mi aveva allungato, attenta a non tagliarmi con le lame e poi,
lentamente perché non mi sentivo al sicuro, mi alzai in piedi. Ero in
equilibrio precario, anche la più piccola folata di vento mi avrebbe di sicuro
fatto cadere, ne ero sicura. «Lexi, non sembri molto stabile. Ryan, dalle una
mano per arrivare in pista o si romperà una gamba». Cosa? Perché? Perché aveva
attirato l’attenzione di tutti su di me, soprattutto quella di Ryan?
«Ce la faccio da sola» sbottai offesa, oscillando pericolosamente
avanti e indietro dopo aver fatto un passo verso la distesa di ghiaccio che in
quel momento sembrava distante molto più dell’ultima volta che avevo controllato,
qualche istante prima. Ryan si avvicinò a me, camminando con quei cosi ai piedi come se fossero scarpe;
potevo vedere il suo ghigno soddisfatto, mentre mi dondolavo sempre meno
stabile. «Ho detto che ce la faccio» ribattei, agitando le braccia perché il
secondo passo aveva spostato decisamente troppo il mio baricentro, facendomi
perdere l’equilibrio.
«Senti lentiggini, sono le tre di notte, tra due ore cominceranno a
venire qui le persone e non mi sembra il caso che ci vedano perché tu non sai
camminare con un paio di pattini addosso. Andiamo». Si avvicinò troppo
velocemente a me tanto che non riuscii a reagire in tempo. In pochi istanti
Ryan mi prese sottobraccio, sollevandomi da terra; muovendosi come se non fossi
affatto un peso camminava a passo sicuro verso la pista, già occupata da
Brandon, Sick, Lebo e i gemelli che pattinavano a destra e a sinistra con
un’agilità di cui, di sicuro, non ero padrona. «Riesci a stare in equilibrio
qui o dobbiamo pagare un istruttore?» domandò ironicamente, appoggiandomi al
ghiaccio – molto più scivoloso di quanto penassi –sotto di me. Istintivamente
mi aggrappai alla sua giacca di pelle, cercando di capire quanto dovessi
muovermi per non cadere e per avanzare. «Cazzo lentiggini, non sai nemmeno
stare in piedi?». Di nuovo il sorriso di scherno e quella luce nei suoi occhi
che c’era solo quando mi prendeva in giro.
«Scusa se questi cosi hanno due coltelli sotto e io non so muovermi.
Mi arrangio, comunque, non serve che stai qui con me». Anche perché più mi
prendeva in giro più mi innervosivo, aumentando la mia incapacità di rimanere
in piedi sui pattini.
«Sinceramente sei tu quella aggrappata al mio giubbotto». Il suo
sguardo canzonatorio si spostò dal mio volto alle mie mani, aggrappate alla sua
giacca come se fosse l’unica ancora di salvezza. Istintivamente, come se mi
fossi bruciata, lasciai la presa, ritirando le mani e portandole lungo i
fianchi. Meno toccavo Ryan, meglio era. «D’accordo lentiggini». Alzò le mani,
indietreggiando senza smettere di guardarmi. Gli avrei fatto vedere di che
pasta era fatta una californiana! Se anche Ryan era in grado di pattinare, ci
sarei riuscita anche io.
Alzai un piede, portandolo avanti e appoggiandolo sul ghiaccio: tacco
e punta, come camminare. Probabilmente però, non si pattinava così, perché due
secondi dopo mi ritrovai seduta sul ghiaccio, sentendo un dolore indescrivibile
al sedere. «Merda» sibilai, guardandomi subito attorno e sperando che nessuno
avesse visto il mio ruzzolone a terra. Speranza vana: Ryan e tutti gli altri
avevano lo sguardo puntato su di me, come se ci fosse un faro che mi
illuminava. «Sto bene. Faccio da sola» strillai, prima che qualcuno si
avvicinasse a me per aiutarmi, da buon samaritano. Stavo già facendo la figura
dell’idiota, se mi avessero anche aiutata ad alzarmi sarebbe stato peggio.
Puntai le mani per terra, rabbrividendo perché il freddo del ghiaccio superava
anche la stoffa dei guanti: più cercavo di rialzarmi e più cadevo, ritrovandomi
sempre a terra. «Merda» sbottai di nuovo, puntando i pattini sul ghiaccio e
rialzandomi lentamente fino a mettermi in posizione eretta; soddisfatta di come
fossi riuscita a rialzarmi da sola, mi strofinai le mani sul corpo per
togliermi il ghiaccio dai pantaloni e dalla giacca.
«Tutto bene, Lexi?» domandò Brandon, avvicinandosi a me
tranquillamente, come se non stesse camminando con due lame sotto ai piedi.
Appoggiò la sua mano sul mio gomito, spingendomi dolcemente in avanti, senza costringermi
ad alzare i piedi per muovermi. «Aspetta che ti insegno come si fa. Tu sta
ferma, ti spingo io. Aria, vieni a darmi una mano» gridò poi, per farsi sentire
da Aria, che stava pattinando con Dollar dall’altra parte della pista. Nell’ora
successiva imparai a pattinare: non era poi così difficile nel momento in cui
capivi che non dovevi appoggiare il piede con un movimento di tacco-punta, come
se dovessi camminare. Brandon e Aria erano stati due maestri eccezionali e
riuscivo a fare due giri della pista a velocità sostenuta senza mai fermarmi.
Il mio sogno si era avverato: stavo pattinando al Rockefeller Center, a New
York; e, cosa che non avrei mai immaginato, lo stavo facendo alle quattro di
mattina, con la pista vuota.
«Brandon, muoviti. Facciamo una gara». Ryan, a pochi passi da me e
Brandon, gli lanciò un bastone, senza nemmeno avvertirlo. Per fortuna i
riflessi di Brandon erano migliori dei miei, perché prese il bastone al volo,
senza farlo toccare a terra. «Scegliti la squadra, parti tu». Non riuscivo a
capire a che gara si riferisse Ryan, non fino a quando Brandon cominciò a
giocherellare con il bastone ricurvo sul ghiaccio e Dollar gli lanciò il puck. Hockey, volevano giocare a hockey.
«Ryan, è tardi…» si giustificò Brandon, guardando l’orologio che aveva
al polso. Ryan, davanti a lui, imitò un pollo, facendogli capire che era una
scusa perché aveva paura di perdere. Brandon si arrabbiò, chiamando a gran voce
«Paul» che si avvicinò, frenando appena in tempo per non investire Brandon.
«Sick». Ryan aspettò che lo raggiungesse, poi entrambi guardarono
Brandon, aspettando che scegliesse il secondo ragazzo.
«Lebo, Ham e Swift. Tieniti Dollar e Josh, dai» concesse Brandon.
Erano in numero dispari, ma, siccome nessuno si era lamentato, sembrava che le
squadre fossero comunque equilibrate. «Le signore non le facciamo giocare, o
rischiamo di spezzarle in due. Potete mettervi fuori dal campo, così non vi
investiamo, se volete fare il tifo per noi…» scherzò poi Brandon, portandosi
una mano al pizzetto e massaggiandoselo.
Aria mi trascinò fuori dalla pista, bofonchiando che quando giocavano
a hockey diventavano degli uomini primitivi e che era meglio stare loro alla
larga. Quando cominciarono a giocare capii quello che Aria aveva cercato di
dirmi e la ringraziai più volte per avermi salvato la vita, facendomi uscire
dalla pista: sembravano davvero degli animali, urlavano, si insultavano, si
gettavano contro alle balaustre della pista e cercavano di rubarsi il puck a vicenda. Nemmeno ai campionati
mondiali avevo visto una partita così… avvincente.
«Così Dollar, cazzo! Devo farti diventare io un uomo? Spingili a terra»
urlò Ryan, incitando Dollar affinché si avvicinasse alla porta, scartando Lebo
e Swift che lo seguivano. Dollar riuscì a lanciare il dischetto di gomma in
porta, segnando il punto della vittoria. Vidi Ryan correre verso di lui,
lanciare il bastone per terra e colpire con un paio di pugni scherzosi la
spalla di Dollar. Josh e Sick continuavano a deridere i ragazzi dell’altra squadra,
come se il distacco fosse stato di molti punti, e non di uno solo.
«Bravo Jack» esultò Aria, pattinando verso di lui e baciandolo. Subito
i ragazzi cominciarono a fischiare e a spintonare scherzosamente Dollar,
intimandogli di prendersi una camera. Aria cominciò a ridere, abbracciando
subito dopo il suo ragazzo, per nascondere l’imbarazzo creato dalle battute dei
suoi amici.
«Sono quasi le cinque, è meglio se ce ne andiamo, tra un po’
cominciano ad arrivare le guardie» spiegò Ryan, pattinando verso l’uscita,
seguito dai ragazzi. Vedevo i loro sguardi felici, nonostante non potessero
rimanere lì di più. Alla fine, ancora una volta, avevo avuto la conferma che
sotto la scorza dura c’erano delle persone normali; magari non avevano un
grande cuore, non sapevano dire la cosa giusta al momento giusto, ma erano
ragazzi normali, ragazzi che si divertivano pattinando sul ghiaccio e giocando
a hockey, poco mi importava che lo facessero illegalmente, perché niente poteva
essere migliore dei sorrisi che c’erano sui loro volti.
Grazie ancora,
alla prossima settimana.
Concludevo
così l’otto maggio. Mi scuso immensamente per il ritardo, ma non lo so, alcuni
capitoli mi risultano più difficili di altri da scrivere, come se non bastasse
poi il tempo con l’avvicinarsi della sessione d’esami scarseggia sempre di più.
Questo
capitolo… dunque, per quanto riguarda Lower Plaza, è vero che la pista di
ghiaccio la costruiscono in questa Promenade, cioè, si trova dentro al
Rockefeller Center, ma il nome esatto della piazza in cui si trova è appunto
Lower Plaza. Altra cosa… ottobre. Sì, non me lo sono inventata, l’apertura del
palaghiaccio a Lower Plaza è da ottobre ad aprile, dalle nove a mezzanotte (per
questo ho fatto in modo che gli Eagles entrassero in piena notte). Per quanto
riguarda la non presenza di sicurezza/telecamere/gorilla vestiti di nero e
armi-minuti… non ci credo molto, ma sono sicura che gli Eagles possono
corrompere tutti. Nel caso questo non fosse possibile… vi prego di perdonare la
piccola licenza poetica.
Ah
sì, da idiota quale sono ho messo ben 2 riferimenti a due mie storie passate,
come se volessi creare un piccolo filo conduttore tra tutte. Cosa da poco, solo
piccole informazioni, se qualcuno le trova… be’, complimenti! :D
Irene…
lei è un personaggio nuovo, era comparsa solo nei ricordi di Brandon. Si può
dire che volutamente non ho spiegato tutto bene e ho lasciato intendere diverse
cose per confondervi (ma guarda un po’, uh? :D).
Poi,
per chi non avesse visto questa OS che ho pubblicato dopo l’ultimo capitolo: Be the one
è un MM rosso su Aria e Dollar, ambientato dopo la festa dello scorso capitolo.
Come
sempre ringrazio chi aggiunge la storia tra i preferiti, i seguiti e quelle da
ricordare, siete un numero incredibile! Ringrazio anche le tantissime persone
che hanno commentato lo scorso capitolo, grazie di cuore.
Ultima cosa, ma non per questo meno importante:
ringrazio Ale (alias TheCarnival)
per i bellissimi video che mi ha sfornato (due stavolta, indice che ci ho messo
davvero troppo ad aggiornare). Il primo è Be the one, che racconta
la storia di Dollar e Aria. Guardatelo e commuovetevi, per favore. Il secondo è
Titanium, un video
tutto dedicato a Lexi e alla sua storia che mi piace davvero un sacchissimo.
Ora,
e giuro che è l’ultima cosa (se non siete tutte addormentate) come sempre vi
lascio il link del gruppo spoiler, dove ci sono le immagini dei protagonisti e
dove trovate un sacco di spoiler di settimana in settimana. L’iscrizione costa
solo 5€ e il contributo giornaliero è di 0.00009€. No, cretinate a parte, è
tutto gratis e se volete venire a farvi rompere le scatole: Nerds’ corner.
A
presto (spero la prossima settimana).
Rob.
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Capitolo 14 *** Dreams, Kisses and News ***
YSM
Los Angeles, 1949.
Era strano essere la figlia di un
gangster, soprattutto quando ti costringeva ad andare a tutte le feste dove lui
stringeva alleanze e dove io dovevo rimanere seduta a tavola, a sentire cosa si
raccontavano di armi, guerra tra gang e altro. Non mi interessava nulla,
nemmeno di quella festa o di tutti quei signori che mi guardavano,
sorridendomi. Sapevo che cercavano di rendersi affascinanti ai miei occhi, ma
ricordavo cosa mio padre mi aveva detto: «Ricordati, Alexis, nessuno di loro cerca veramente di
conquistarti, lo fanno solo per avvicinarsi a me». Anche perché, se qualcuno di loro ci avesse veramente
provato, non avrei ceduto: nessuno sembrava abbastanza attraente da catturare
la mia attenzione, tanto che, ancora una volta, ero convinta di aver indossato
quel vestito rosso per nulla.
«Vado a
prendere qualcosa da bere al bar, scusatemi» mormorai a mia madre, alzandomi dal tavolo e facendo
attenzione allo strascico del mio vestito. Sapevo – perché mi era già successo
in passato – che i vestiti che usavo durante quelle cene erano una trappola
mortale: era facile pestarli e si incastravano dappertutto.
«Un Shirley Temple»
borbottai al cameriere, sperando che avesse visto a quale tavolo ero seduta.
Avere come padre il gangster più famoso di Los Angeles non era poi così male,
la maggior parte delle volte, soprattutto quando – anche se non era quello il
caso – potevi bere tutti gli alcolici che ti piacevano. Presi il mio drink,
cominciando a sorseggiarlo e tenendo la schiena appoggiata al bancone: attorno
a mio padre c’erano sei uomini che continuavano ad annuire a ogni sua parola
convincendomi sempre di più che non lo ascoltassero nemmeno, impegnati
com’erano a farsi accettare nella sua gang. Ma lui era più furbo di loro, i
suoi amici avevano già indagato su tutti, scoprendo che tra di loro si
nascondeva anche un poliziotto.
«Una Signorina come lei tutta sola in un bar? Non è una buona
idea». Istintivamente mi
voltai per capire a chi appartenesse quella voce: un ragazzo biondo era
appoggiato al bancone di fianco a me; stava sorseggiando del whiskey, muovendo
il bicchiere in circolo. Lui non sembrava come tutti gli altri uomini, non
guardava nemmeno mio padre, troppo impegnato a osservare l’alone che l’alcol
lasciava sul vetro del bicchiere.
«So cavarmela
da sola» sbottai, offesa
dalla sua battutina. Perché non era una buona idea che fossi lì, da sola, a
prendere un drink? Il locale era affollato e, nel remoto caso in cui qualcuno
si fosse avvicinato a me per ferirmi, c’erano almeno quaranta persone pronte a
sacrificare la loro vita per me, solo per fare un piacere a mio padre.
Istintivamente lo guardai: era impegnato in un discorso che sembrava più
divertente del solito, c’era uno strano sorriso nei suoi occhi, quella luce che
sapevo si accendeva solo quando le sue idee diventavano particolarmente
sadiche. Chissà che cosa stava pensando.
«Lei sa
cavarsela da sola? Potrei sapere il suo nome?». Uno strano ghigno sul volto del ragazzo biondo seduto di
fianco a me mi costrinse ad abbassare lo sguardo; mi concessi qualche secondo
per ammirare il fiore bianco che spiccava sull’ocra del vestito che indossava.
Quel giovane era bello e sapeva conquistare con il suo ammiccare e i suoi
movimenti studiati.
«Perché
non mi dite prima come vi chiamate?».
Era una boccata d’aria fresca tra tutti gli uomini che cercavano di
conquistarmi; quel giovane era ironico, affascinante e misterioso, il perfetto
connubio che sapeva attirare la mia attenzione in modo diverso dal solito. Il
ragazzo sorrise, guardandomi di sottecchi, poi, dopo aver alzato lo sguardo per
puntare i suoi occhi azzurri nei miei, respirò profondamente.
«Ryan, mi
chiamo Ryan. Ora mi piacerebbe sapere davvero il vostro nome, vorrei conoscervi». Nessun cognome, non voleva
nemmeno che sapessi come si chiamava. Forse, per una volta, non gli interessava
mio padre, forse ero io il motivo di quell’interesse.
«Alexis». Un sorriso sincero senza
abbassare lo sguardo. Non mi interessava che non fosse educazione, perché mia
madre mi aveva insegnato che non dovevo mai guardare negli occhi gli estranei;
Ryan non era un estraneo e non guardare in quei suoi meravigliosi occhi azzurri
sarebbe stato un peccato mortale, più grave di uccidere un uomo.
«Alexis,
che cosa ci fate qui, tutta sola, in un posto così poco sicuro? Non potete
rischiare di ferirvi, dovreste andarvene da questo posto. Posso accompagnarvi?» propose, senza smettere di
sorridere con quel suo strano ghigno. Un brivido mi attraversò la schiena
quando il mio sguardo si incatenò al suo. Ryan mi avrebbe portata via da lì,
via da mio padre, da quelle feste a cui ero obbligata ad andare, dalla malavita
e dai morti. Da tutto.
«Mi
porterà via da tutto questo?»
chiesi, appoggiando il bicchiere sul bancone di legno dietro di me e
avvicinandomi a lui, dopo aver alzato lo strascico rosso del vestito che
indossavo. Ryan alzò il volto stupito, mantenendo un ghigno divertito sulle sue
labbra. Sembrava quasi che mi stesse prendendo in giro, eppure non riuscivo a
non trovarlo attraente.
«No Signorina, sinceramente
volevo solo portarla a letto».
Continuava a muovere il bicchiere in circolo, senza prestargli veramente attenzione.
I suoi occhi erano incatenati ai miei, probabilmente mi scrutava in attesa di
una risposta. Eppure, quel suo modo diretto di dire le cose mi piaceva,
decisamente. Non era facile incontrare giovani che non avevano paura di dire
quello che pensavano, ma forse era solo perché non sapeva chi ero, forse, una
volta saputo il mio cognome, sarebbe scappato o avrebbe cominciato a parlare
con mio padre, come tutti.
«Lo vede
quello seduto al tavolo, laggiù? È mio padre, e la ucciderà se saprà che mi ha
anche solo sfiorata». Più
chiara di così non potevo esserlo, se non conosceva mio padre, il più famoso
gangster di Los Angeles, ricercato da tutta la polizia, allora probabilmente
era una spia.
«Mi piace
il pericolo, e sono sicuro che ne vale la pena, anche solo per un bacio. Vorrei
solo andarmene da questa sala, con te». La sua mano volontariamente
sfiorava il mio braccio nudo, causandomi milioni di brividi che forse erano
nati anche dopo aver sentito la sua voce che, sensuale, aveva abbattuto tutti i
confini tra di noi, nonostante fossimo circondati da persone che potevano
sentirci. Questa situazione, ai limiti del consentito e della decenza, mi diede
la forza di alzarmi, camminando verso l’uscita del locale. Mi voltai appena,
sorridendo a Ryan per assicurarmi che mi stesse guardando; quando notai il suo
sguardo sorpreso e sogghignai divertita, svoltando definitivamente l’angolo
della sala e sparendo dalla sua visuale.
Dovevo solo attendere qualche secondo, sperando che mi
raggiungesse per poi nasconderci in qualche…
«Dove stai
scappando?». Una presenza
dietro di me, il petto di qualcuno appoggiato alla mia schiena. Ryan.
Nonostante non potessi vederlo sapevo che era lui, riconoscevo la sua voce e il
suo fiato caldo che solleticava il mio collo, tanto che, istintivamente mi
voltai, circondandogli il collo con le braccia e alzandomi in punta di piedi
per poter raggiungere le sue labbra. «Potrebbero
vederci» sussurrò, abbassando
lo sguardo per guardare la mia bocca, a pochi centimetri dalla sua; cercò di
deglutire, aspettando una mia risposta.
«Mio padre
verrà comunque a saperlo entro due minuti, è meglio non allontanarsi, così non
perdiamo tempo». Con ancora l’ombra
di un sorriso sulle mie labbra, mi avvicinai a lui, annullando le distanze e
baciandolo. Lasciai che le sue labbra giocassero con le mie mentre facevo
scorrere le mie mani tra i suoi capelli. Ryan mi strinse a lui, sollevandomi da
terra di qualche centimetro e accarezzando la mia schiena da sopra la stoffa leggera
del vestito.
«Lexi?
Lexi?». Qualcuno che chiamava
il mio nome, costringendomi, inevitabilmente, ad abbandonare le morbide labbra
di Ryan che avevano sfiorato e accarezzato le mie. Cercai di guardarmi attorno,
ma non riuscivo a vedere chiaramente dov’ero, come se il locale attorno a me
stesse scomparendo, diventando sempre più buio; assomigliava a un tunnel dove sentivo
un martellare continuo diventare sempre più forte. «Lexi, siamo noi, abbiamo bisogno di te». Ancora una volta qualcuno che mi chiamava, ma cosa stava
succedendo? «Lexi, per
favore, svegliati, non voglio sfondare la porta». Mugugnai infastidita perché il rumore era sempre più
insistente e fastidioso e, arrabbiata, mi misi a sedere di scatto, aprendo gli
occhi.
«Oddio» bofonchiai, capendo quello che
era appena successo e portandomi le mani tra i capelli, tirandone qualche
ciocca per la frustrazione. «No». Negare l’evidenza, era così che
si faceva, no? Che cosa mi aveva suggerito il mio cervello quando aveva creato
quel sogno? Ma soprattutto, perché mi ero trasformata nella protagonista del
film di gangster che avevo visto la sera prima? Dovevo smetterla di guardare
quei film, sapendo che i miei vicini facevano parte di una gang, soprattutto
perché il protagonista maschile del mio sogno era… cazzo, avevo baciato Ryan.
Come era possibile una cosa del genere? Perché mi ero sognata di baciarlo?
«Lexi,
svegliati». Brandon, riuscivo
a riconoscere la sua voce nonostante la distanza. Mi alzai dal letto di corsa,
temendo che fosse successo qualcosa di male e andai velocemente all’ingresso,
spalancando la porta: Brandon, davanti a Ryan e Dollar, si teneva una mano sulla
fronte, ma notai subito il piccolo taglio che c’era; non sembrava niente di
preoccupante, comunque. Appoggiato allo stipite della porta, Ryan fumava una
sigaretta, come se non avesse avuto un labbro rotto e gonfio. Quello che però
mi preoccupava più di tutti era Dollar, con un occhio pesto e lo zigomo gonfio.
«Abbiamo bisogno di te…» spiegò Brandon, aspettando che mi
scansassi per farli entrare.
«Che cosa
vi è successo?» domandai,
guardando i loro volti uno ad uno. Riuscii a scorgere – dietro alla figura
imponente di Ryan –Sick; aveva una mano fasciata e camminava nervosamente su e
giù, sul pianerottolo. Di sicuro c’era stata una rissa. «Sono stati i Misfitous?»
strillai per farmi sentire, andando subito in camera per prendere l’occorrente
per medicarli. Era da qualche settimana che non tornavano a casa conciati così
male, con ferite vistose e tagli.
«No, i
bambini dell’asilo. Chi cazzo vuoi che sia stato, lentiggini?» sbottò Ryan, spegnendo la
sigaretta sul muro e lanciandola dietro di lui, sul pianerottolo. Si chiuse la
porta di casa alle spalle, dopo che tutti i ragazzi erano entrati. «Guarda la mano di Sick che è
quella messa peggio». Con un
gesto del capo Ryan indicò Sick, che continuava a camminare in modo nervoso,
senza fermarsi.
«Sick,
siediti qui e fammi vedere»
mormorai, spostando una sedia per poter vedere meglio la sua ferita. Quando si
tolse la benda –che scoprii essere una maglietta arrotolata –dalla mano, mi
fermai, indecisa se mettermi a ridere o mandarlo a quel paese: c’era un piccolo
taglio sul palmo della sua mano, tra il pollice e l’indice. Non era più grande
di un paio di centimetri e non sembrava nemmeno troppo profondo, nonostante
fosse ricoperto di sangue che gli aveva sporcato tutta la mano.
«Dimmi che non perderò la mano» piagnucolò Sick senza nemmeno controllare la situazione. «Sento che è una brutta ferita, lo
so che è brutta, ma ti prego, dimmi che riuscirò a usarla ancora. È la mia mano
destra, non posso perderla, non so usare la sinistra, ti prego». Era davvero preoccupato e questo
rendeva la situazione ancora più divertente: non aveva notato quanto fosse
piccolo quel taglio, talmente piccolo da non dover nemmeno essere cucito,
bastava semplicemente un cerotto.
«Sick, non vorrei davvero…». Non riuscii a terminare la frase, interrotta da Sick che si
portò la mano sinistra tra i capelli, in preda a una crisi di panico. Ryan,
Brandon e Dollar non parlavano nemmeno, concentrati com’erano a guardare la
scena.
«Cazzo, la mia mano destra. Come farò a sparare, a fumare, a
farmi una se…». Questa volta
fu il mio turno, capii quello che stava per dire e volendo evitare una battuta
di pessimo gusto urlai il suo nome talmente forte che la mia voce sovrastò la
sua. «Scusate se sono
preoccupato per la mia mano. Dovrai amputarmela? Forse era meglio se rimanevo
senza gamba, cazzo» sbottò
poi, non pensando di controllare la ferita per accertarsi che non era niente di
grave.
«Sick, è un taglietto talmente piccolo che non devo nemmeno
metterti dei punti» spiegai,
prendendo la sua mano tra le mie per fargli vedere a cosa mi riferivo. Sentii i
ragazzi ridere senza ritegno per la stupidità di Sick che abbassò lo sguardo,
imbarazzato. «Aspetta, ti
disinfetto e poi vedi che non è niente di grave, ok?». Bagnai un batuffolo di cotone con il disinfettante e,
attenta a non premere troppo sul taglio – perché non volevo fargli male – cominciai
a togliere il sangue raffermo. Non riuscivo a smettere di sorridere, guardando
il volto di Sick che si faceva sempre più sorpreso a mano a mano che pulivo la
ferita, scoprendo quel piccolo taglio di un paio di centimetri.
«Perché cazzo fa così male se è piccolo? Credevo fosse enorme,
con tutto quel sangue che c’era»
si lamentò, sussultando appena, quando strofinai il taglio con il cotone. «Brucia» piagnucolò poi, cominciando a muoversi nervoso. Sick sembrava
davvero un bambino, lo sembrava così tanto che socchiusi gli occhi, ricordando Luke,
il mio primo paziente. Era un bambino arrivato all’emergenza con una spina
piantata sul ginocchio; due grandi occhi azzurri sommersi dalle lacrime che
avevano smesso di scendere solo quando l’avevo tranquillizzato, regalandogli un
lecca-lecca. Ero sicura che Sick non si sarebbe accontentato di una caramella,
però.
Applicai un cerotto, attenta a non
peggiorare il suo taglio, poi, soddisfatta del mio lavoro, alzai lo sguardo,
togliendomi i guanti sporchi. «Stai
attento a non fare infezione, tienilo pulito, ma ti controllo comunque nei
prossimi giorni». Applicai,
per sicurezza, un cerotto più grande, sicura che Sick non sarebbe riuscito a eseguire
i miei ordini.
«Lexi, quando vuoi, la porta della mia camera è aperta e il mio
letto è sempre libero per te».
Sapevo che ere lo strano modo di Sick di dirmi grazie, per questo sorrisi,
indossando un paio di guanti nuovi, in attesa di vedere cosa fosse successo
agli altri. Se in quei cinque mesi avevo imparato qualcosa – nonostante per tre
non avessi parlato con quasi nessuno di loro – era il turno di Dollar, forse
Brandon. Ryan però, come sempre, si sarebbe fatto curare per ultimo.
«Doc… ho solo
preso un pugno, davvero. Non c’è bisogno che mi curi, metto un po’ di ghiaccio
quando arrivo a casa e poi mi passa»
borbottò, mentre sfioravo la pelle del suo viso per capire quanto fosse grave
la botta. Non mi preoccupava quella sullo zigomo, sapevo quanto fosse stato
fortunato a non esserselo rotto, era quella vicino all’occhio che mi agitava:
se ci fosse stata qualche commozione celebrale? Forse era meglio tenerlo sotto
controllo per qualche ora, solo per assicurarmi che non fosse niente di grave.
«Dollar, è meglio se rimani
qui per qualche ora, non vorrei che avessi una commozione» spiegai, finendo di spalmargli la
crema sul livido nero che gli ricopriva lo zigomo. Lo vidi alzarsi, irrequieto,
portandosi una mano sull’occhio che gli doleva e massaggiarlo; scuoteva la
testa per dire che no, non era d’accordo con quello che gli avevo detto.
«Io vado. Aria
non si sente bene da ieri mattina e sono un po’ preoccupato. All’improvviso
cambia e dice di stare bene, ma non le credo. Ryan, posso andare? Non sto male
e se dovesse succedermi qualcosa dico ad Aria di chiamare subito». Aria non si sentiva bene? Che
cosa le era successo e perché non me ne aveva parlato? L’avevo vista quel
giorno al Phoenix, durante il turno, ma non mi sembrava non si sentisse bene,
era solare e rilassata come sempre.
«Vai, fammi sapere come sta». Ryan gli aveva dato il permesso
di andarsene, quindi, per quanto potessi insistere per farlo rimanere lì con
me, ero sicura che Dollar sarebbe andato subito da Aria. In fin dei conti avrei
fatto anche io come lui; speravo solo che non avesse niente di male, povera
Aria.
«Certo. Doc, grazie per la visita
gratuita» salutò Dollar,
uscendo velocemente dal mio appartamento dopo aver preso il cellulare che aveva
appoggiato sul tavolo, prima che lo visitassi. Quando Dollar chiuse la porta,
lo fece con un tonfo talmente rumoroso che probabilmente riuscì a svegliare
anche la signora che abitava al piano inferiore.
«Fammi
vedere quel taglio, Brandon».
Indicai la sedia davanti a me con un gesto del capo, e, mentre aspettavo che
Brandon si sedesse, spruzzai un po’ di disinfettante su un batuffolo di cotone
pulito. Quando osservai il suo taglio, involontariamente sorrisi, capendo che
non mi ero sbagliata quando, appena erano entrati, avevo notato che non era
grave. «Non servono punti
nemmeno a te, basta solo questo cerotto perché il taglio cicatrizzi più in
fretta. Sei stato fortunato»
mormorai, pulendogli la fronte con gesti meccanici e applicando subito dopo il
cerotto. C’era un piccolo dettaglio che non avevo notato fino a quel momento:
le mie mani non tremavano più. Non era come quando, appena arrivata a Hunts
Point, ogni volta che dovevo applicare anche solo un cerotto cominciavo a
tremare, ero rilassata, tranquilla. Non c’era nessun tipo di pressione o altro,
solo io che facevo una delle cose che sapevo fare meglio. «Fatto» mormorai, spostandomi di un passo indietro e controllando la
sua fronte: sembrava che fosse tutto apposto, non si vedeva nemmeno il
disinfettante che avevo applicato sotto al cerotto bianco.
Brandon mi ringraziò con un sorriso, alzandosi dalla sedia e
lasciando il posto a Ryan, che, dopo qualche secondo di indecisione, si
avvicinò a me, sedendosi con un sonoro sbuffo per farmi capire che era lì
contro la sua volontà.
I miei occhi si abbassarono sul suo labbro rotto e
involontariamente il tubetto di disinfettante che tenevo in mano mi scivolò per
terra. Labbra, le sue labbra. Io dovevo medicare le stesse labbra che avevo
baciato nel mio sogno? No, non potevo. Era… non era una cosa che potevo fare,
soprattutto perché nel mio sogno ero stata io
a baciarlo; chissà cos’altro avrei fatto, se non fossi stata interrotta dal
loro arrivo.
«Che cazzo
succede, lentiggini?» sbottò
Ryan, piegandosi per prendere il flaconcino caduto. Quando me lo porse sfiorai
con le dita la sua mano, ritirandola subito come se mi fossi ustionata. Avevo
baciato Ryan, in sogno. Ora dovevo medicargli proprio le labbra, le sue labbra. «Ma stai bene?»
domandò, aggrottando le sopracciglia, confuso. Alzai lo sguardo, incontrando il
suo e peggiorando la situazione.
«Oddio» mormorai, dando le spalle ai
ragazzi e concentrandomi sulla goccia che stava cadendo dal lavandino della
cucina. Respirai profondamente, cercando di calmarmi. Nessuno di loro sapeva
quello che avevo sognato e non l’avrebbero mai saputo; bastava comportarsi
naturalmente, come avevo sempre fatto: odiare Ryan era il modo giusto per
uscire da quella situazione imbarazzante.
«Secondo una
che mi sono trombato un paio di volte, quando una ragazza si comporta in questo
modo è perché ha sognato che ti scopava»
spiegò Sick, facendomi inorridire. Come diamine aveva fatto a indovinare
cosa era successo proprio lui, che non aveva mai guardato un film che potesse
vedere anche un bambino? Mi sarei aspettata la verità da Brandon, forse Dollar,
ma non proprio da lui.
«Cosa
dici?» urlai, difendendomi.
Non volevo far capire che aveva ragione e soprattutto dargli la soddisfazione
di avermi smascherata. Quel sogno era stato un colpo basso, non mi era nemmeno
mai successa una cosa del genere e non doveva più succedere. D’accordo, Ryan
era carino, ma basta. Probabilmente il mio cervello aveva associato i suoi
tratti a quelli del protagonista di quel film gangster che avevo guardato,
anche perché mi era piaciuto. La mia mente aveva semplicemente sommato quei due
fattori.
«Dubito
che lentiggini abbia degli impulsi. Non ha nemmeno le tette, figuriamoci se
sogna di trombarmi»
sghignazzò Ryan, innervosendomi. Mi dispiaceva per lui, ma sì, avevo degli
impulsi anche io e no, non gliel’avrei mai detto, non ne volevo nemmeno
discutere. Cominciai a strofinare il cotone sul suo labbro con forza, cercando
di fargli male così magari avrebbe smesso di prendermi in giro. Vidi Ryan
sussultare per il dolore, ma non mi diede la soddisfazione di lamentarsi a
voce.
«Perché tu
dici che è una di quelle bigotte che non si schioda dal missionario? No, io
sono convinto che Lexi ci sa fare. Non dimentichiamoci del detto, guarda quanto
è piccola». Sick concluse il
suo discorso percorrendo – nonostante la distanza di qualche metro – il mio
corpo con la sua mano per far notare la differenza d’altezza tra me e loro. Era
sempre tanto gentile quando qualcuno mi spiegava che no, non ero alta come
loro, ma poco più della metà.
«La volete
smettere?» domandai,
controllando la ferita sul labbro di Ryan, senza pensare a quello che avevo
sognato poco prima. Era sempre e solo Ryan il mio vicino stronzo; niente di
più. Ryan non riuscì a trattenersi e cominciò a sghignazzare talmente forte che
smisi di medicarlo per qualche secondo, visto che si dondolava sulla sedia. Io
non riuscivo proprio a capire che cosa ci fosse di divertente, ma una cosa era
chiara: tutti quei pugni avevano fatto seriamente male al suo cervello che non
connetteva più.
«Io sono
ancora convinto che Stoya – la chiamavo così perché aveva gli stessi suoi
piercing – aveva ragione e che abbia sognato di trombarti. Me lo dici Lexi?
L’hai fatto anche con me? Come sono andato? Ero bravo, eh?». Sick si avvicinò curioso,
aspettando una mia risposta che non sarebbe di certo arrivata. Finii di
medicare Ryan senza nemmeno badare alle domande di Sick e, quando mi levai i
guanti gettandoli nel cestino, sentii distintamente una pacca sulla spalla di
Sick, da parte di Ryan; stava cercando di consolarlo per la mia non risposta
alla sua domanda.
«Grazie
Lexi, ci vediamo domani».
Brandon. Perché di tutti quanti lui era l’unico con un po’ di buon senso,
l’unico che sapeva ringraziare e dire la parola giusta al momento giusto. Forse
Brandon era l’unico Eagles dotato di cervello. Sì, doveva per forza essere
quello il motivo.
«Figurati
Brandon, quando hai bisogno sono qui». Sottolineai volontariamente il
verbo, facendo capire che mi stavo rivolgendo solo a lui. Ryan e Sick, come se
non c’entrassero nulla in tutto quel discorso, uscirono subito dopo Brandon,
lasciandomi nel mio appartamento da sola, con tutta la tavola sommersa da
cotone sporco e confezioni vuote di cerotti. Sistemai tutto in poco tempo,
andando in bagno a lavarmi le mani e rinfrescandomi, prima di tornare a letto. «Ora, cervello, evita di continuare
quel sogno. È tardi e domani mattina devo andare al Phoenix».
Fortunatamente il mio cervello mi ascoltò, visto che sognai
solamente di cavalcare un paio di onde buone, di fianco a Edge che mi prendeva
in giro perché secondo lui ero scarsa. Quando quella mattina mi svegliai, capii
di avere una strana sensazione, di sicuro infondata; almeno fino a quando al
Phoenix scoprii che Aria non c’era. Le mandai un messaggio chiedendole
spiegazioni, stava male per lo stesso motivo del giorno precedente? Rispose con
un messaggio che mi preoccupò ancora di più: «Indigestione, probabilmente. Scusami davvero Lexi, non volevo
farti fare il turno doppio, ma non ce la faccio ad alzarmi dal pavimento del
bagno. Sono un paio di mattine che non sto bene, ma oggi è peggio del solito». Preoccupata, avvisai che sarei
passata da lei dopo lavoro, per
controllare cosa le era successo.
Quel turno al Phoenix mi era sembrato più lungo del solito,
senza Aria a farmi ridere o senza le battute di Dollar che la prendeva in giro
non c’era niente per cui valesse la pena di lavorare lì. Nemmeno Peter, che
aveva capito il mio rifiuto al suo appuntamento di un mese prima; non ero stata
chiara, mi ero limitata a una risposta confusa, in cui gli spiegavo che non era
il momento più adatto per me per impegnarmi. Si era limitato a sorridere, senza
perdere le speranze. L’avevo silenziosamente ringraziato per la sua gentilezza
e poi ero tornata a servirgli le birre con meno imbarazzo.
Bussai alla porta dell’appartamento di Aria preoccupata e
senza fiato per la corsa che avevo fatto per raggiungerla. Mi aspettavo che
aprisse la porta quasi strisciando, con due occhiaie profonde e i segni
evidenti di qualche malattia; invece era bellissima e perfetta come sempre. Mi
aveva raccontato una bugia?
«Perché
sei venuta Lexi? Ti ho detto che stavo bene. È stata la pizza con i peperoni
che Jack ha preso l’altro giorno, credo ci fosse qualcosa di avariato. Mi ha
fatto male ieri mattina e oggi, ma poi mi passa. Solo che sai com’è Jack, non
voleva che andassi al Phoenix perché era qui quando ho vomitato» concluse, sedendosi sul divano e incrociando
le braccia al petto. Il medico che era in me raccolse tutti i sintomi che aveva
elencato, facendone una diagnosi che non portava a niente di buono; almeno, ero
sicura che per Aria non fosse niente di troppo bello, in quel momento.
«Aria… non
è che sei incinta?» domandai,
sperando di non sconvolgerla troppo. Non volevo farmi i fatti suoi, ma le
nausee mattutine e gli sbalzi d’umore che mi aveva descritto Dollar mi facevano
pensare solo a quello. Spalancò gli occhi, spaventata, poi, involontariamente,
la sua mano andò a posarsi sulla sua pancia piatta.
«Cosa? No,
non è possibile prendo la… cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo. Porca vacca,
cazzo. No, non posso essere incinta».
Aria si portò le mani tra i capelli, raggomitolandosi su se stessa, come una
bambina impaurita. «Cazzo, io
ho sempre preso la pillola, il mese scorso ho smesso e abituata com’ero non ci
ho più pensato. Cazzo, cazzo, cazzo. No, non voglio essere incinta». Si alzò dal divano, camminando
nervosamente attorno al tappeto, nel suo piccolo salotto.
«Aria,
calmati, non è nemmeno detto che tu sia incinta, è solo una mia supposizione.
Devi fare un test di gravidanza e in ogni caso se è così, sei ancora
all’inizio, non preoccuparti».
Mi alzai raggiungendola per abbracciarla; mi faceva tenerezza, per la prima
volta riuscivo a scorgere la sua fragilità, non nascosta dalla forza che la
contraddistingueva sempre. Aria era spaventata e non aveva nessuno a cui
appoggiarsi.
«Come
faccio a calmarmi? Se sono incinta cosa faccio? Devo abortire, non voglio un
bambino, non sono pronta per avere un bambino, Jack non vorrebbe un bambino.
No, perché capitano tutte a me Lexi, perché?». Aria cominciò a piangere, abbracciandomi. Sentivo il suo
corpo scosso dai singhiozzi e non riuscivo a calmarla, nonostante continuassi
ad accarezzarle la schiena, dolcemente.
«Aria» mormorai, avvicinandomi al divano
e aiutandola a sedersi, «non
pensare subito al peggio, non è detto che tu sia incinta e poi non voglio più
sentirti dire che non sei pronta per avere un bambino. Tu non hai sedici anni,
sei una delle persone più mature che io abbia mai conosciuto e forse anche la
più preparata. Ti ricordo che sei cresciuta in mezzo a bambini: Dollar, Ryan,
Brandon e Sick… non sono bambini? È più facile crescerne uno. E credo che prima
di decidere dovresti parlarne anche con Dollar, quando sarai sicura. Ma è solo
la mia opinione». Non volevo
forzarla a prendere una decisione che le avrebbe cambiato la vita per sempre,
ma Aria non doveva pensare solo a lei, ma anche a Dollar e soprattutto alla
vita che – con molta probabilità – portava dentro di lei.
Cominciò a ridere tra i singhiozzi per la mia battuta sui
ragazzi e si sollevò dalla mia spalla, asciugandosi le lacrime che erano scese
sulle sue guance. «Però io lo
vedrei Jack come papà, sarebbe così stupido vederlo mentre fa ridere suo figlio» mormorò, abbassando lo sguardo e
sfiorandosi il ventre con i polpastrelli, come se avesse paura di far del male
a qualcuno. «Come faccio a
saperlo? Dovevo avere il ciclo due settimane fa, ma non ci ho fatto caso, cosa
devo fare? Voglio essere sicura prima di parlarne con Jack, non voglio allarmarlo
per niente. Magari si arrabbia e mi dice che non mi ama più. E se scappasse?». Era terrorizzata, riuscivo a
vederlo nonostante le lacrime che scendevano lungo le sue guance, si notava
dalla sua mano che in modo convulso stringeva le mie, come se cercasse
conforto.
«Aria,
calmati. Domani mattina vai a prendere un test, così vedi, poi per sicurezza
fai gli esami del sangue, così non ci saranno più dubbi. Se sei incinta
comincerai a pensare a cosa dire a Dollar, e assieme deciderete cosa fare, non
agitarti adesso per niente, dai».
Cercai di sorriderle per tranquillizzarla, ma capivo che non doveva essere
facile per lei. Si era trovata catapultata in una situazione molto più grande
di tutto quello che le era successo fino a quel momento; in più, non riusciva a
credere che Dollar potesse appoggiare qualsiasi sua scelta. Ero sicura che
fosse perché semplicemente non capiva quanto fosse grande l’amore di Dollar per
lei; si vedeva, anche un cieco avrebbe visto il modo in cui la proteggeva da
tutti, per qualsiasi cosa.
«D’accordo,
ma tu vieni con me, non è vero? Domani quando facciamo quel… il test tu stai
con me, per favore» mi
supplicò, asciugandosi le nuove lacrime che le avevano bagnato le guance. Come
potevo dirle che no, non sarei stata con lei? Aria aveva bisogno di un’amica,
di qualcuno che le rimanesse accanto in quel momento strano, non mi sarei mai
rifiutata di fare una cosa simile, soprattutto perché ci tenevo a lei e sapevo
quanto avesse bisogno di sostegno: non poteva contare su una famiglia, visto
che la sua famiglia erano gli Eagles. L’avrei supportata e consigliata, come
una sorella maggiore, perché vedevo Aria come la sorellina che non avevo mai
avuto, qualcosa da proteggere. Era stupido, perché Aria sotto molti aspetti era
più matura di me, ma in quel momento era così spaventata che sembrava una
bambina.
«Lo
guardiamo assieme domani, ok?»
mormorai, accarezzandole di nuovo la schiena durante quell’abbraccio che voleva
consolarla. Sentii il suo capo muoversi: annuiva per dirmi che sì, l’avremmo fatto
insieme.
E successe esattamente così: le stringevo la mano aspettando
che passassero i minuti, sperando silenziosamente che il risultato di quel test
fosse negativo. Era il giorno del Ringraziamento, erano le sette di mattina e
Aria non si preoccupava nemmeno del tacchino da cuocere, come era giusto che
fosse.
«Lexi…
guarda tu» mormorò stringendo
ancora più forte la mia mano tra le sue; rischiava di rompermi le ossa, ma non
me la sentivo di dirle nulla, era davvero agitata e preoccupata. Avanzai di un passo,
respirando a fondo e sperando con tutta me stessa che il risultato fosse
negativo, ancora una volta. Quando arrivai davanti alla tazza con quel piccolo
bastoncino dentro, socchiusi gli occhi per qualche secondo. «Allora?» domandò Aria, dietro di me. Forse credeva che avessi già
visto se era positivo o negativo, ma non era così.
«Adesso
guardo» spiegai,
avvicinandomi e prendendo il test in mano. Il respiro mi si strozzò in gola,
leggendo il risultato. «È… è
positivo Aria».
Istintivamente mi voltai, guardandola: socchiuse gli occhi lentamente,
lasciando che una lacrima silenziosa scivolasse lungo la sua guancia. Nessun
gemito, nessun urlo, un silenzio che riuscì a spezzarmi il cuore. «Non è ancora detto che sia vero,
farai gli esami del sangue per essere sicura, questi cosi sbagliano alcune
volte, magari è anche perché sei stressata e comunque non è detto che…». Mille scuse a cui sapevo non
avrebbe creduto. Eppure mi sentivo in dovere di farlo, di darle un’ultima
speranza.
«Lexi…
lascia stare, davvero. Non parliamone con nessuno, non voglio rovinare il
Ringraziamento ai ragazzi. Ne parlerò con Jack solo quando sarò sicura, nel
frattempo, ti prego, non dirlo a nessuno. Adesso aiutami a preparare la cena,
deve essere tutto perfetto».
Cominciò a prendere gli ingredienti per riempire il grosso tacchino che aveva
comprato il giorno prima e senza più pensare al test di gravidanza,
chiacchierammo di John e del Phoenix e di Peter che non aveva più provato
espressamente a chiedermi di uscire; Aria continuava a farfugliare che aveva
una sua teoria, ma che me ne avrebbe parlato al momento opportuno. Quando
l’avevo minacciata con un coltello da carne, chiedendole a cosa si stesse
riferendo, contrattaccò lanciandomi addosso una cucchiaiata di ripieno del
tacchino, centrandomi in pieno viso.
Ci trovarono così i ragazzi, quando arrivarono quel
pomeriggio: Aria con un cucchiaio in mano, io con il volto sporco di ripieno e
con il coltello da carne come arma.
«Che cazzo
sta succedendo dentro a questa cucina?»
sbottò Ryan, togliendo la pistola dalla cinta dei pantaloni e appoggiandola
sopra al mobile d’ingresso. Quel gesto – che non avevo mai notato – mi fece
sbarrare gli occhi per la sorpresa. Ryan portava sempre una pistola con sé o
era solo un caso? Cercò di rilassare i muscoli del collo, girando lentamente il
capo e poi, senza attendere una risposta da parte mia o di Aria, andò a sedersi
sul suo divano con uno sbuffo.
«Che state
preparando di buono, oltre al tacchino?»
domandò curioso Dollar, avvicinandosi ad Aria e abbracciandola, dopo aver fatto
scorrere le sue mani sulla sua pancia. Quel gesto involontario di Dollar mi
fece sorridere, come se sapesse il segreto di Aria che, ne ero sicura, avrebbe
scoperto presto. «Mi fai
assaggiare qualcosina?»
piagnucolò, baciandole il collo e scendendo verso la sua spalla. Sentii un
sospiro di Aria e ridacchiai, incapace di trattenermi.
«Jack,
allontanati subito, tu e quelle tue manacce sudice! Non ti voglio vicino al
tacchino, tu mi servi solo per controllare la cottura, visto che Lexi non sa
nemmeno come si cucina la carne. E io che confidavo in lei» sbuffò Aria, fingendosi offesa
dalla notizia che le avevo dato quella mattina, mentre cercavamo di non pensare
al risultato del test. Aria spintonò Dollar scherzosamente, allontanandolo dal ripieno
che avevamo preparato fino a quel momento.
«Perché
non sai cucinare la carne, Lexi?»
domandò incuriosito Sick. Mugugnai rassegnata, sapendo che lui era l’ultima
persona a dovermi fare quella domanda. Conoscendo Sick e la sua fissa, di
sicuro avrebbe cominciato a fare battutine inutili, e lì, davanti a tutti, mi
avrebbe fatta vergognare di nuovo.
Per evitare di arrossire imbarazzata davanti a tutti, aprii
il frigo, fingendo di cercare qualcosa, poi, con un rantolo perché speravo che
non mi sentisse, mugugnai: «Perché
sono vegetariana». Sentii
distintamente il rumore di qualcosa di metallico che cadeva a terra – come un
coltello –e , quando mi voltai per controllare, trovai Sick con le mani a
mezz’aria e gli occhi sbarrati per la sorpresa.
«Sei vegetariana e non me l’hai mai detto? Sei vegetariana e
non sei mai voluta venire in camera mia? Dobbiamo rimediare subito.
Vegetariana. Cioè, tu hai una ceretta integrale e sei vegetariana. È un invito,
capisci?». Si avvicinò a me,
abbracciandomi all’improvviso, felice per quella notizia e impedendomi di
spostarmi o sottrarmi da quell’abbraccio. «Lexi, sei la donna della mia vita. Sposami, ti prego; facciamo
tanti figli, proviamoci se non li vuoi. Farò tutto quello che vorrai se tu
farai tutto quello che vorrò».
Gli occhi di Sick brillavano per la felicità. Aveva un’espressione talmente
comica sul suo viso che non riuscii a trattenermi, cominciando a ridere assieme
agli altri.
Tra una risata e l’altra
infornammo il tacchino; Dollar era l’addetto alla cottura, controllava che non
si seccasse troppo, rigirandolo nella grande teglia e bagnandolo con il sugo;
sembrava davvero un cuoco, se non fosse stato per quelle due ridicole
mollettine che Aria gli aveva messo in testa, perché continuava a lamentarsi
che aveva i capelli troppo lunghi.
Quando il cuoco informò che la
cena era pronta, io e Aria facemmo accomodare i ragazzi nei posti che avevamo
assegnato loro: io mi sarei seduta tra Brandon e Aria, che aveva Dollar alla
sua sinistra. Tutti in cerchio, tutti gli Eagles assieme, con la Signora di
Dollar. Mi sentivo fuori luogo, nonostante Aria mi avesse ripetuto per tutta la
mattina che non ero un’estranea. Riuscivo a vedere i ragazzi tranquilli e
felici, durante quella festa che per loro significava molto, quasi come fosse
qualcosa che li rispecchiava; e forse era proprio così, perché non li avevo mai
visti tutti e nove – con i due ultimi arrivati – in piedi davanti a una tavola
imbandita, mentre Brandon farfugliava qualche parola di ringraziamento per gli
Eagles e Ryan affettava il tacchino. Era esattamente come stare in famiglia,
come vedere papà che tagliava il tacchino, mettendolo nel piatto di mamma e nel
mio – anche se sapeva che non l’avrei
mangiato. C’era qualcosa di più però, un legame più forte tra di loro che andava
oltre un legame di sangue, era addirittura più forte: il rispetto che l’uno
provava per l’altro, la lealtà tra di loro, la sicurezza che ognuno si sarebbe
ferito pur proteggere l’altro.
Alzai il mio bicchiere pieno di
succo –per non far insospettire i ragazzi, visto che Aria non poteva bere alcol
– e sorrisi; i brindisi erano davvero assurdi, soprattutto quelli di Sick.
Avevo imparato ad accettarli però; erano unici, tutti loro. Per questo non
riuscii a cancellare quel sorriso nemmeno quando Ryan – per fare l’idiota
mentre brindavamo – mi guardò ghignando, prima di ammiccare, dando una pacca
sulla spalla a Brandon, di fianco a lui.
Stavolta
sono stata brava e non ci ho messo venti giorni! :)
Scherzi
a parte, mi scuso nuovamente per il ritardo, ma davvero la sessione d’esami è
alle porte e non ho il tempo materiale per scrivere. Cioè, scriverei di notte,
ma ogni tanto il mio cervello chiede venia perché vuole riposare, quindi evito
di farlo e scrivo un piccolo pezzettino alla volta.
Prima
di tutto: quando ho detto che ci sarebbe stato il bacio (spoiler che ho messo
nel gruppo) non mentivo, come potete vedere. Il bacio c’è stato.
Seconda
cosa… la prima parte, ovvero tutto il sogno di Lexi è il trailer di Gangster Squad, il nuovo
film di Ryan. Lexi diventa Emma Stone che nel film è la compagna di Sean Penn,
mentre qui è la figlia del gangster. Tutto quello che ho scritto è frutto della
mia fantasia e non c’entra con il film, l’unica cosa (oltre all’ambientazione)
presa dal trailer è la frase “Mi porterai
via da tutto questo?” “Veramente
volevo solo portarti a letto”. E, preciso e sottolineo, come Ryan dice BED
non lo dice nessuno.
Comuuuunque,
per la seconda parte… Aria. Ecco, questa cosa credo non se la aspettasse
nessuno (vi prego, ora non cominciate a dire “io sì”, che il mio ego si
affloscia). Una sorpresa, su! Ora bisogna vedere cosa decide lei e cosa
decidono gli altri, vi ricordo però che il prossimo capitolo subirà un nuovo
salto temporale –l’ultimo –di un mese, quindi ci troveremo più o meno a
Natale/Capodanno.
Ah
sì, babbeh, si è capito, no? Siamo nel giorno del Ringraziamento e quindi c’è
la cena con il tacchino ripieno. Credo lo sappiate tutte, comunque di solito spetta
al capo della famiglia l’onore di tagliare il tacchino, per questo lo fa Ryan.
Ecco,
non credo ci sia altro riguardo al capitolo, come sempre se avete domande,
supposizioni, offese, offerte pecuniarie, potete contattarvi e sarò ben felice
di rispondervi.
Come
avrete notato all’inizio del capitolo la lista dei video si allunga, l’ultimo
arrivato è uno dei miei preferiti. Dura poco poco e sono i “credits” iniziali
di YSM, una genialata sempre di TheCarnival, che mi fa questi regali
bellissimi che io amo e che mi danno sempre idee nuove per i capitoli.
Guardatelo, non ve ne pentirete (e se non avete guardato gli altri…
genuflettetevi sui ceci per 40 minuti urlando qualcosa di offensivo riguardo…
boh, il vostro personaggio preferito, poi guardateli).
Infine,
come sempre, ringrazio preferiti/seguiti/da ricordare perché aumentate sempre
di più e siete un numero stratosferico, e poi vorrei ringraziare anche chi mi
inserisce tra gli autori preferiti, perché non credevo che ci fossero così
tante persone malate di mente dentro a EFP (fluffosamente parlando).
Il
gruppo spoiler è questo: NERDS’ CORNER e
come sempre ricordo che l’iscrizione è gratis e dentro trovate le foto dei
protagonisti e gli spoiler dei capitoli futuri, chi volesse, deve solo
iscriversi, accetto tutti, indifferentemente.
Il prossimo capitolo è a un buon punto e spero di aggiornare
quanto prima, quindi, quando avete letto per favore fatemi qualche
segno di fumo che mi regolo per aggiornare. Graaaaazie <3
A
presto,
Rob.
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Capitolo 15 *** All chickens come home to roost ***
YSM
Dopo il risultato delle analisi
del sangue – che avevano confermato
quello del test fatto una settimana prima – Aria si era chiusa in se stessa; sorrideva
e scherzava meno, nonostante io cercassi in tutti i modi di fare la stupida per
riuscire a donarle un sorriso. Sapevo che stava pensando al modo migliore per
dire a Dollar che aspettava un bambino, ma ero altrettanto sicura che lui non
si sarebbe arrabbiato così tanto come lei credeva. Forse ne sarebbe anche stato
felice, in fondo era una novità, e, anche se avevano solo sedici anni, erano
abbastanza maturi da poter crescere un figlio.
Aria era arrivata al Phoenix una
settimana prima di Natale con un radioso sorriso sulle labbra che mi aveva
fatto capire subito quello che era successo. Abbandonai il boccale di birra
mezzo pieno sul bancone e corsi ad abbracciarla, lasciando che una lacrima di
felicità scendesse lungo la mia guancia alla visione di quel sorriso. «Che cosa ti avevo detto? Dollar
non è uno stupido ed è in grado di prendersi le sue responsabilità, come
gliel’hai detto? Che cosa ha detto?».
La parte più pettegola di me stava uscendo, forse perché Aria era ormai una
delle amiche più care che avessi mai avuto, e forse perché, un po’, mi
mancavano i gossip.
«Io… non sapevo come dirglielo, così prima l’ho fatto sedere e
dopo gliel’ho detto; all’inizio non capiva, si è chiesto come fosse possibile,
poi gli ho ricordato che non prendo più la pillola e che ce ne siamo
dimenticati; era stupito, ma ha ammesso che è anche colpa sua perché fa sempre
l’idiota. Alla fine mi ha chiesto cosa volevo fare, e dopo averne parlato
abbiamo deciso che lo teniamo, vogliamo entrambi questo bambino. Forse è un
segno, no? Cioè, è così che doveva andare, forse c’è un motivo». Fece spallucce senza però
riuscire a cancellare quel sorriso che le illuminava il volto più del solito.
Aria sembrava addirittura più bella.
«Tu non sai nemmeno quanto sono felice per voi. Diventerò zia,
potrà chiamarmi zia?»
domandai, capendo subito dopo che non era il luogo o il momento adatto per chiedere
una cosa del genere. Forse era anche scortese, ma non riuscivo proprio a
rimanere seria e composta di fronte a una notizia del genere: i bambini mi
erano sempre piaciuti e avevo pregato per anni Soph ed Edge di regalarmene uno che
potessi chiamare nipotino, ma non ci ero mai riuscita. Stavolta era diverso,
Aria e Dollar sarebbero stati due genitori speciali, che avrebbero amato quel
bambino come se fosse stato l’unico al mondo.
«Lexi…»
bofonchiò, scuotendo il capo senza però smettere di sorridere. «Aspetta prima di dire così. E poi
dobbiamo dirlo ai ragazzi, io… in questi casi non so nemmeno se debba decidere
Ryan. E se lui dice di no? Cosa bisogna fare? Non voglio che Jack venga escluso
dagli Eagles per colpa mia, non sarebbe giusto e…». Appoggiai una mano sulla sua spalla per cercare di calmarla:
era spaventata, logico, si trovava in una situazione nuova e non sapeva quello
che poteva succedere, ma ero sicura che Ryan non avesse così tanto potere da
decidere cosa dovevano fare Aria e Dollar. Insomma, era sì l’O.G. degli Eagles,
ma mi rifiutavo di credere che potesse decidere anche sulle vite private degli
altri, soprattutto se di mezzo c’era un bambino.
«Stai tranquilla, vedrai che Ryan sarà felice, esattamente come
tutti gli altri. Quando lo direte?».
Mi sarebbe piaciuto esserci, solo per vedere le espressioni stupite dei
ragazzi. Immaginavo già le battute stupide di Sick e il sorriso di Brandon,
mentre si congratulava con loro. Chissà cosa avrebbe detto Ryan; di sicuro
sarebbe rimasto impassibile, fermo sul suo divano, a fumarsi una sigaretta
mentre tutti festeggiavano. Sì, perché Ryan non aveva un cuore.
«A Natale, durante la cena. Vogliamo che ci siano tutti e io ti
voglio al mio fianco. Devi starmi vicina, altrimenti ho paura» mormorò, sistemandosi il
grembiule perché John si era avvicinato a noi, incuriosito dalle nostre
chiacchiere e dal nostro ritardo nel consegnare gli ordini ai clienti. «E poi prima lo diciamo meglio è,
Jack sta impazzendo, sembra che io non possa fare nulla. Tra un po’ secondo lui
non sarò nemmeno in grado di farmi la doccia, mi insaponerà lui la schiena, il
che non è male…» sghignazzò,
facendomi ridere. Vederla così solare era quasi contagioso; in qualche modo
stava tornando la vecchia Aria, la ragazza spensierata che si era nascosta nelle
ultime settimane.
«Certo che ci sarò, e ti difenderò contro chiunque. So
picchiare molto più forte di quelle quattro scimmie che ho per vicini» ribattei, senza smettere di
sogghignare con Aria. John si avvicinò ancora di più a noi, tanto che non
continuai nemmeno la frase, sicura che avrebbe potuto sentirci. Aria finse di
asciugare un paio di boccali di birra e, nascondendo il nostro sorriso,
cercammo di non farci scoprire, senza naturalmente riuscirci.
«Si può sapere che cos’avete oggi da sghignazzare più del
solito? Andate a lavorare, visto che vi pago par farlo». John e la sua voce odiosa, ma soprattutto John e le sue
bugie. Non era affatto vero che ci pagava ogni mese. Avevo lo stipendio in
arretrato di tre mesi e non mi ero mai, mai, lamentata con nessuno di quella
situazione, soprattutto con i ragazzi. Doveva ringraziare Aria e quelle foto
che avevo fatto a New York – e che non erano mai uscite perché Ryan le aveva
distrutte – era solo grazie ai guadagni di quel servizio fotografico che riuscivo
a pagare l’affitto ogni mese. Ma se John non mi avesse pagata nemmeno a
dicembre, non avrei saputo come fare, visto che non avevo abbastanza risparmi
per pagare l’affitto. Senza dire nulla, dopo che Aria gli ebbe fatto una
linguaccia alle spalle, cominciammo a lavorare, in silenzio.
«Lexi, e se mi dicono che non posso tenere il bambino? Se Ryan
dice che va contro le regole degli Eagles e che devo abortire?» bisbigliò spaventata,
mordicchiandosi l’unghia del pollice mentre sistemavo gli ultimi piatti sulla
grande tavola dei ragazzi; avremmo mangiato di nuovo tutti assieme, esattamente
come il giorno del Ringraziamento. Appoggiai la pila di piatti sul tavolo,
sospirando e guardando Aria, di fianco a me.
«Mentiremo, ok? Dirò che non è più possibile abortire, Ryan non
sa fino a quanti mesi si può fare, e in ogni caso sono sicura che non servirà
mentire Aria, vedrai che tutto andrà bene e Ryan sarà felice». Scossi leggermente le sue
spalle, sperando che riuscisse a capire – una volta per tutte – che nessuno le
avrebbe privato di decidere quello che era giusto per lei e per Dollar, nemmeno
Ryan. Se così fosse stato, mi sarei ribellata a Ryan, avevo ancora la mia
rivoltella!
«Stai vicino a me quando lo dico, vero?» mormorò, abbracciandomi perché potessi infonderle un po’ di
sicurezza. Non riuscii a trattenere un sorriso, stringendo un po’ più forte le
mie braccia attorno al suo corpo per farle capire che sì, le sarei rimasta
vicino, qualsiasi cosa fosse successa io ero con lei, contro tutti. «Sta nevicando» mormorò sorpresa, allentando
l’abbraccio e asciugandosi in fretta una lacrima, cercando di non farsi vedere
da me.
Guardai subito fuori dalla
finestra, cercando di vedere oltre il vetro oscurato dalla condensa. Neve. Era
la prima volta che vedevo la neve, soprattutto perché, cosa strana a New York,
non aveva mai nevicato fino a quel momento. «Wow»
sospirai, strofinando il polso sul vetro, per vedere fuori. C’erano dei grossi
fiocchi di neve che cadevano, posandosi silenziosi sul terreno. Istintivamente
cominciai a sorridere, correndo verso la porta per uscire a vedere quello
spettacolo. Quante volte avevo sognato la neve? Quante mi ero messa a piangere
da bambina, perché non avevo mai fatto un pupazzo di neve come nei film
ambientati a New York? Aprii la porta dell’appartamento dei ragazzi sbattendo
subito contro qualcosa, o qualcuno, ma non mi interessava, non quando potevo
vedere e toccare la neve. «Scusa» borbottai, correndo giù per le
scale, senza nemmeno soffermarmi a chiedere se avevo ferito qualcuno. Sapevo
che se avevo urtato Ryan nemmeno si era accorto del nostro scontro.
«Lentiggini, dove cazzo stai correndo?» domandò, affacciandosi alla balaustra delle scale, facendo
rimbombare la sua voce che sembrò addirittura più roca e profonda del solito.
Non avevo tempo di rispondergli, rischiavo che smettesse di nevicare e non
potevo permettermi di non vivere appieno quella magia. Sentii la voce di Aria
urlare che stavo scendendo in strada per vedere la neve e subito dopo Ryan urlò
di nuovo, perché potessi sentirlo anche se ero arrivata al portone d’ingresso: «Se poi hai la febbre perché esci
con una maglietta a maniche corte non…».
Non aspettai nemmeno che terminasse la frase, impegnata com’ero ad aprire il
portone dello stabile, per uscire; ci riuscii, correndo in mezzo alla strada
deserta e respirando a fondo, con il volto sollevato verso il cielo. Qualcosa
di freddo cominciò a posarsi sul mio viso e sulle mie braccia, facendomi
rabbrividire; era una sensazione indescrivibile se paragonata alla vista che
avevo: il cielo buio sopra di me era rischiarato da milioni di piccoli puntini
bianchi che cadevano, posandosi silenziosi sulla strada e sui tetti degli
stabili. Perfino il vecchio e sgangherato cancello davanti a me sembrava più
bello, in quel contorno così fiabesco. Cominciai a sorridere, portando i palmi
delle mani all’insù per guardare quei piccoli fiocchi bianchi che si posavano,
sciogliendosi subito dopo. Fiocchi di neve ovunque, sul mio viso, sulle mie
braccia nude e sui miei capelli, sembrava davvero di essere dentro a un film,
solo che era decisamente freddo. Cercando di scaldarmi le braccia nude con le
mani, corsi velocemente su per le scale, arrivando in cucina dai ragazzi in
pochi secondi. «Fa… fa
davvero freddo» bofonchiai,
come una stupida. Logico: se c’era la neve, faceva freddo, ma non avevo mai
pensato che potesse fare così freddo.
«Benvenuta a New York in inverno, lentiggini. Che ti aspettavi,
temperature tropicali e sole a mezzanotte?» sbottò Ryan, sorseggiando una birra, seduto sul suo divano.
Lebo, Ham e Swift, di fianco a lui cominciarono a sghignazzare, deridendomi.
Non avevo nemmeno voglia di ribattere, visto che avevo capito la stupidaggine
fatta. La verità era che la neve mi piaceva così tanto da non farmi ragionare,
soprattutto dopo averla vista per la prima volta.
«Posso scaldarti io, Lexi» ghignò Sick, avvicinandosi a me e appoggiando le sue mani
sulle mie spalle. Istintivamente indietreggiai, spaventata da quello che Sick
avrebbe potuto fare. Ero sicura che sì, fosse a conoscenza di diversi modi per
scaldarmi, ma no, non mi interessavano. Andai involontariamente a sbattere
contro Aria, che stava finendo di condire l’insalata, dietro al bancone. Stavo
quasi per scusarmi, prima che Dollar urlasse contro di me che dovevo stare
attenta, perché non bisognava scontrarsi in quel modo con le persone.
L’occhiataccia di Aria per tranquillizzarlo mi fece ridere quasi più delle sue
scuse borbottate.
La cena trascorse tranquilla e in
allegria, con qualche bicchiere di vino di troppo che mi fece ridere più del
dovuto, ma non volevo ubriacarmi prima del grande annuncio di Aria e Dollar
che, ne ero sicura, sarebbe avvenuto a momenti.
«Lexi, mi aiuti a portare i piatti in cucina?» domandò Aria, facendomi capire
anche con lo sguardo che non avrebbe accettato un no come risposta. Dovevo
seguirla. Mi alzai in piedi barcollando e prendendo una pila di piatti per aiutarla a portarli in
cucina, nonostante pesassero. «Ora, glielo diciamo ora» mormorò Aria, prendendo
le stoviglie dalle mie mani per appoggiarle sul mobile poco distante da noi. La
ringraziai mentalmente, visto che cominciavano a pesare veramente.
«Buona fortuna». Feci l’occhiolino, alzando entrambi i pollici per
farle capire che ero con lei. Non ero ubriaca, ero solo felice, soprattutto
perché, ne ero sicura, i ragazzi avrebbero preso la notizia con serenità. Aria
sbuffò, tornando di fianco a Dollar in cucina e sedendosi sulle sue gambe,
lasciando libera la sedia di fianco a me. Mi sedetti incrociando le braccia
sotto al seno, in attesa di sentire che cosa avessero da dire Aria e Dollar, ma
soprattutto i ragazzi; vedevo le mani di Aria stringersi convulsamente a quelle
di Dollar mentre cercava di farsi coraggio, per questo non riuscii a non
bisbigliare il suo nome, attirando la sua attenzione. «Sta calma, andrà bene»
mormorai, piegandomi un po’ in avanti per stringere la sua mano e quella di
Dollar con la mia. Entrambi si voltarono verso di me, donandomi un sorriso
teso, che mostrava quanto fossero agitati.
«Ryan… io… io ti ho mentito. Ho mentito a tutti voi, cioè, vi ho
nascosto una cosa» esordì così Dollar, appoggiando le sue mani sulla pancia di
Aria. Io che sapevo la verità non riuscii a nascondere un sorriso, guardando i
volti dei ragazzi per gustarmi la loro espressione. Ryan era furioso, aveva una
vena che pulsava sul suo collo e sulla fronte, mentre con la mano stretta a
pugno, cercava di respirare profondamente per non esplodere; Brandon era calmo,
come al solito, ma si notava una strana luce nel suo sguardo, nel modo in cui
guardava Dollar curioso, come se volesse capire cosa stava per dire. Sick aveva
il suo solito ghigno sulle labbra che però era spento, in attesa di capire – probabilmente
– quale fosse la cosa giusta – per lui –da dire. Josh e Paul… non li avevo mai
visti così: la schiena dritta e la mano dietro alla schiena, come se… come se
avessero una pistola e fossero pronti a usarla, senza nessun problema. Lebo e i
due ragazzi nuovi cercavano di rimanere impassibili, ma riuscivo a notare i
loro volti tesi e spaventati da quello che poteva accadere.
«Che cazzo vuoi dire Doll? Spero tu abbia una spiegazione per questa
stronzata prima che mi incazzi». Ryan non smetteva di stringere la mano in modo
convulso, controllando a stento il respiro. Speravo solo che Dollar potesse
risolvere la situazione e ancora di più che la notizia della gravidanza non li
sconvolgesse, altrimenti eravamo tutti e tre nei guai, soprattutto io, che non
c’entravo con gli Eagles ma che avevo sostenuto Aria e la sua scelta di tenere
il bambino.
«Stasera qui c’è qualcuno che non è un Eagles, oltre alla Doc,
naturalmente». Lo sguardo di Dollar incrociò il mio per qualche istante e
cercai di incoraggiarlo, sorridendogli appena; ero sicura che il mio sorriso
assomigliasse di più a una smorfia, ma Dollar avrebbe capito il messaggio, sì. «Ecco…
noi, Aria… è in arrivo un piccolo Eagles, o una piccola Eagles» concluse,
sorridendo. La cicatrice sulla sua guancia si increspò, lasciando che le sue
labbra si tendessero verso l’alto. Aria, ancora seduta sulle sue ginocchia, non
respirava nemmeno, in attesa della risposta dei ragazzi. C’era però uno strano
silenzio, come se tutti aspettassero un cenno per parlare. Sapevamo tutti chi doveva dire la prima parola, per
questo nessuno fiatava, guardandolo.
«Sei incinta?» sbottò Ryan, spostando lo sguardo su Aria. Mi sembrò
addirittura di vederla farsi più piccola, lì, tra le braccia di Dollar che – ero
sicura – l’avrebbe appoggiata in qualsiasi scelta. Aria annuì, senza però dire
una parola. Temevo quasi che le mancasse la voce per la paura della risposta di
Ryan che sembrava quasi più rilassato. La mano era appoggiata alla tavola con
il palmo all’ingiù; le dita non erano più contratte, ma rilassate. Sul suo
volto però, c’era la solita maschera di strafottenza che non lo abbandonava
mai. «In quanti mesi sei?» si informò, senza smettere di fissare Aria che
deglutì, facendosi forza.
«Sono… sono ancora all’inizio, cioè, non devo partorire adesso, però…
ecco, io, noi…» bofonchiò, senza dare una vera risposta a Ryan. Sospirai, fiera
di lei: ero stata io a suggerire di non dire il mese esatto fino a quando non
avesse capito se Ryan e i ragazzi erano o no contro la gravidanza. Così
potevamo sempre mentire e dire che non era possibile abortire perché troppo
tardi.
«Perché non l’hai detto prima? Il primo figlio degli Eagles? Cazzo,
Doll, pannolini e vomito? Non farei mai cambio». Ryan si aprì in un sorriso
sincero – uno dei pochi che avevo visto da quando ero arrivata, non un ghigno,
un vero e proprio sorriso – e si alzò dalla sedia, raggiungendo Dollar e dandogli
una pacca sulla spalla, per congratularsi con lui. Aria mi guardò, alzandosi in
piedi, mentre Dollar sogghignava per le continue prese in giro di Ryan. «Aria,
sei sicura di volere il figlio o la figlia di Doll? Una mammoletta come lui,
che avrà paura di sparare per il cuore da tenerone?». Le mani di Ryan si
appoggiarono alle spalle di Dollar, scuotendolo avanti e indietro
scherzosamente.
«Mammina, vieni qui» mormorò Brandon, avvicinandosi ad Aria e
abbracciandola. Le sue labbra si appoggiarono alla fronte di Aria che cominciò
a ridere, asciugandosi una lacrima che stava scendendo lungo la sua guancia. «Sono
felice per voi, davvero». Ero quasi sicura che Brandon avesse sussurrato queste
parole ad Aria, prima di darle un nuovo bacio sulla fronte; si avvicinò poi a
Dollar, abbracciandolo e dandogli delle sonore pacche sulla schiena che lo
fecero lamentare.
«Cioè, un bimbo in arrivo sai cosa vuol dire? Te la darà meno, poi tu
vorrai ancora vederla nuda, con quella cosa dentro di lei? Cioè, non sarà più
definita trombabile nemmeno per me, con una pancia ripiena» sogghignò Sick,
spegnendo la sigaretta sul posacenere davanti a lui e alzandosi poi per
congratularsi con Dollar e Aria. Erano lì, tutti gli Eagles in fila, ognuno con
una battuta diversa per Dollar e Aria, ma sapevo che, nonostante Sick
continuasse a fare riferimenti alla sfera intima dei futuri genitori, erano
felici per loro.
«Che ti avevo detto? Ti sei preoccupata per nulla» bisbigliai,
avvicinandomi ad Aria. Non volevo che gli altri sentissero quello che avevo da
dire, forse perché tutti credevano che io non sapessi la notizia. In verità,
era impossibile nascondere la commozione nei miei occhi che si trasformava in
lacrime silenziose; vedere i ragazzi così felici per Dollar mi faceva davvero
stringere il cuore. Aria mi abbracciò, senza dire nulla, sapevamo entrambe che
alcune volte non servivano parole, un abbraccio era molto più importante.
«Come lo chiamerete?» si informò Brandon, tenendo il braccio attorno
alle spalle di Dollar che guardò subito Aria, in attesa di un consenso. La vidi
annuire impercettibilmente, come se volesse tranquillizzarlo: non era un
segreto e la notizia andava condivisa.
«Noi… se è una femminuccia… Ariel, ci piace Ariel. Se è un maschio – futuro
Eagles senza nemmeno fargli fare la prova dell’ascensore – lo chiameremo JC.
Glielo dobbiamo». La mano di Dollar si spostò dentro alla tasca dei suoi jeans;
ero sicura che avesse il flag, ancora sporco dal sangue di JC, anche se non era
un vero e proprio Eagles. Quella notizia riuscì a commuovermi ancora di più
tanto che dovetti asciugarmi una lacrima che stava scendendo sulla mia guancia.
«Chi cazzo ha detto che non farà la prova dell’ascensore? Cos’è, un
Eagles ad honorem? Non se ne parla, quando sarà abbastanza grande per decidere
lo chiuderemo in ascensore senza di te, Doll, o non lo picchierai nemmeno,
rendendo tutto più facile». C’era però, di nuovo, quel sorriso sul volto di
Ryan che mi faceva capire quanto in verità stesse scherzando, come se nemmeno
lui credesse alle sue parole. Forse, davvero, non ci sarebbe stata nessuna
prova dell’ascensore per il piccolo JC, avrebbe portato il flag fin da bambino,
abituato com’era a vedere suo padre e i suoi zii con quel pezzo di stoffa
rosso. «Gli insegneremo i valori degli Eagles» continuò Ryan, diventando serio,
«gli faremo vedere chi comanda e come, capirà che noi siamo la strada giusta e
si unirà a noi, senza nemmeno prendere in considerazione i Misfitous o le altre
bande». C’era quella sfumatura nella voce di Ryan, quella che faceva capire
quanto fosse orgoglioso dei suoi Eagles e di quello che aveva creato.
«Ah, Sick, se dovesse essere Ariel… non ti tromberai mia figlia, è
chiaro?» domandò Aria, facendo ridere tutti. Il modo in cui aveva detto quella
frase, il suo puntare l’indice contro Sick per fargli capire che si stava
rivolgendo proprio a lui, era davvero comico.
«Vedremo… potrebbe subire il mio fascino, magari se diventa bella come
la madre…». Sick ammiccò verso Aria; sapevamo tutti che era il suo stupido modo
di scherzare, per questo Aria e Dollar non si arrabbiarono nemmeno, seguendo
gli altri in quella risata collettiva. «E adesso brindiamo ad Ariel, la futura
figlia di Dollar, ma soprattutto di Aria, che mi tromberò tra una quindicina
d’anni». Il bicchiere pieno di vino di Sick si sollevò, in un chiaro invito a
seguirlo per festeggiare. Festeggiamenti che compresero un numero indefinito di
brindisi, portandomi a bere vino contro la mia volontà, visto che se non
brindavo non ero una vera amica di Aria. Non mi avevano ascoltata nemmeno
quando li avevo supplicati di smetterla di farmi bere, perché il vino non
riuscivo a reggerlo e mi sarei ubriacata di sicuro. Per questo ero seduta sul
divano dei ragazzi, con un perenne sorriso sulle labbra e la testa pesante appoggiata
sulla spalla di Dollar, di fianco a me. Non ero ubriaca, no. Ero esattamente
nel limbo, quando sei così felice che la vita ti sorride e quando non hai
problemi a dire quello che pensi.
«Aria… pensavo che con il tuo stipendio di dicembre potremmo comprare
la cameretta, che dici?» domandò entusiasta Dollar, guardando Aria. Lo sentivo
muoversi contro di lei e involontariamente, a ogni mossa, borbottavo
infastidita: la mia testa si muoveva e sentivo un continuo martellare alle mie
tempie.
«Sarebbe bello, sì» ribatté Aria. Anche se non potevo vedere la sua
espressione sapevo che stava sorridendo. In qualche modo, il parlare davanti a
tutti di qualcosa di così privato era per lei un’ulteriore conferma di quanto Dollar
fosse felice di quella notizia. Mi misi a sedere: volevo ricordare ad Aria una
cosa importante e magari era meglio farlo prima che comprasse la cameretta per
il loro futuro bambino.
«Ricorda che non è detto che John ci paghi questo mese, magari salta»
specificai, annuendo. Non si ricordava più che John non ci pagava regolarmente
ogni mese? E se non avesse pagato proprio il mese di dicembre, come avrebbe
fatto a prendere la cameretta per il piccolo? Probabilmente aveva bevuto e non
si ricordava più di quel particolare.
«Lexi!» strillò Aria, spaventandomi. Sgranai gli occhi, cercando di capire
perché tutti i ragazzi mi stessero fissando come se avessi detto qualcosa di
male. Avevo solo detto la verità, perché Brandon e Dollar continuavano ad
alternare i loro sguardi tra Aria, me e Ryan? Ma soprattutto, perché tutti stavano
in silenzio?
«Che c'è? Ho solo detto la verità» mi giustificai, facendo spallucce e cercando di
alzarmi per prendere il bicchiere d’acqua che avevo appoggiato sopra al
tavolino. Quando alzai il sedere dal divano rischiai di cadere, se non fosse
stato per i riflessi di Dollar che riuscì ad afferrarmi per poi appoggiarmi
delicatamente sul divano.
«Che cazzo vuol dire che John non vi
paga ogni mese?» sbottò Ryan, spostandosi
nervoso sulla sua poltrona e curvandosi verso il divano sul quale eravamo
seduti io, Dollar e Aria. Improvvisamente, dopo aver bevuto un sorso d’acqua,
mi resi conto di quello che avevo detto: John non ci pagava, gli Eagles non lo
sapevano, Aria si era raccomandata – appena avevo cominciato a lavorare al
Phoenix – di non farne parola con nessuno e io stessa avevo scelto quella via
per il bene di John e del Phoenix, per il bene di tutti quelli che andavano lì
ogni giorno a tracannare birra e a bere superalcolici, sapendo di essere
protetti dagli Eagles. Mi portai una mano davanti alle labbra, sapendo che
comunque era troppo tardi.
«Niente Ryan, è ubriaca» cercò di giustificarmi Aria, senza però riuscirci.
Dollar, in mezzo a noi due, cominciò a muoversi irrequieto, guardando prima me
e poi Aria. Perché tutti ci stavano osservando, come se fossimo al centro di un
teatrino? Era così grave che John non ci pagasse regolarmente ogni mese?
«Ops… forse non dovevo dirlo?». Suonava come una domanda, quando in verità volevo
solo far capire ad Aria che mi dispiaceva di aver parlato troppo. Non mi ero
nemmeno accorta di aver detto una cosa così importante senza nemmeno pensarci. «È uno scherzo»
bofonchiai, cercando di sorridere per risultare credibile. La mascella serrata
di Ryan e lo sguardo furioso di tutti i ragazzi però mi fecero capire che no,
non ci credevano.
«Da quanto non vi paga ogni mese?» sbottò Ryan accendendosi nervosamente una sigaretta
in attesa di una risposta. Abbassai il volto; avevo già fatto anche troppi
danni, era il momento di Aria. Se dovevamo spiegare quello che succedeva dentro
al Phoenix, era meglio che fosse lei la
portavoce, visto che ci lavorava da molto più tempo di me; e poi lei era la
Signora di Dollar, quindi molto più intoccabile di me. Aria però non rispose:
era seduta di fianco a Dollar e guardava le sue mani che si muovevano
irrequiete. «Da quanto cazzo non vi paga
ogni mese?» urlò Ryan battendo un pugno
sul tavolino davanti a lui così forte che sussultai, spaventata. Non avevo però
il coraggio di alzare lo sguardo per
guardare Ryan, doveva essere Aria a parlare.
«Da un paio d’anni. Solamente il primo
anno mi ha pagato regolarmente, poi ha cominciato a saltare qualche mese;
capitava ogni tanto, non mi interessava poi molto all’epoca visto che ero
riuscita a mettere da parte un po’ di risparmi e non dovevo pagare l’affitto.
Negli ultimi mesi – più o meno da quando è arrivata Lexi – è diventato più incostante» spiegò, interrompendosi subito dopo, come se si aspettasse
che continuassi io. No, avevo davvero detto anche troppo.
«Per questo sei andata a fare quel
servizio a New York? Non ti aveva pagata e non avevi i soldi per l’affitto?». Ryan si stava rivolgendo a me, ne ero sicura. Non
volevo però guardalo, spaventata da quello che avrebbe potuto dire se gli
avessi confessato che era per riuscire a pagare l’affitto che avevo accettato
quel lavoro a New York. «Rispondi» sibilò, stringendo il pugno ancora appoggiato sopra
al tavolo di fronte al divano.
«Sì» bisbigliai, socchiudendo gli occhi, in attesa di uno scoppio da parte
di Ryan. E se avesse picchiato me e Aria perché avevamo tenuto nascosta una
cosa così importante? E se avessi dovuto pagarlo o qualcosa di simile? Ryan
picchiò di nuovo il pugno contro al tavolo, alzandosi in piedi e gettando la
sigaretta a terra per poi spegnerla con il piede quasi volesse distruggerla.
«Ryan, non è detto che…» cominciò a dire Brandon, prima di fermarsi, notando
lo sguardo di Ryan: era furioso, non l’avevo mai visto così. La vena sulla
fronte gli pulsava e la sua mascella era così contratta che temevo si potesse
rompere. Brandon non terminò la frase, aspettando che Ryan parlasse.
«Non dire cazzate, ok? Quanto prendiamo
da lui per parargli il culo? Cinquecento al mese, giusto? Non dirmi che non
arriva a coprire spese e due fottute cameriere, perché non ci credo. Ci sono di
mezzo loro, ci ha traditi, sta facendo il doppiogioco così ha il culo parato da
entrambe le parti. Quel fottuto locale è quasi al confine, no? Ecco perché non
gli hanno nemmeno storto un capello quando l’ha aperto, prima che noi ci
facessimo avanti per difenderlo, era già d’accordo con loro, doppia protezione
in cambio di chissà che prezzo. Andiamo da lui». Ryan si avvicinò al mobiletto vicino all’ingresso, dove di solito
appoggiava la pistola appena entrato in casa. I ragazzi, spaventati,
alternavano lo sguardo da lui a Brandon, in attesa di capire che cosa andasse
fatto.
«Ryan, aspetta. Cerca di calmarti e poi
andiamo da lui per capire quello che è successo, è Natale e probabil…». Di nuovo, Brandon non riuscì a finire la frase,
interrotto da Ryan che, dopo aver caricato la sua semiautomatica, si avvicinò a
lui, tenendo la pistola in mano, ad altezza uomo.
«Non me ne fotte un cazzo se è Natale o
il giorno dei Ringraziamento. Anche se sta scopando con una puttana andiamo da
lui e lo facciamo fuori, ok? Non si mente agli Eagles, la gente lo sa. Chi lo
fa viene ucciso, è la regola. E non provare nemmeno a contestare, l’O.G. sono
io e voi fate tutto quello che vi dico. Alzate quel fottuto culo e andiamo». Ryan mi faceva davvero paura: continuava a urlare
gli ordini, camminando avanti e indietro in quella stanza, senza sapere bene
dove andare, come se non controllasse il suo corpo. Sapevo che per lui quel
tradimento era molto più grave di qualsiasi altra cosa, ma non volevo e non
potevo intervenire, non quando anche Brandon non sapeva cosa fare.
«Andiamo da lui e gli chiediamo quello
che è successo, ok? Non lo uccidiamo, ci facciamo spiegare perché ha reagito
così». Sembrava che Brandon stesse
stabilendo un patto: avrebbero appoggiato Ryan e quella sua missione solo se
non ci fosse stato nessun morto. Speravo però che non picchiassero John al
punto da causargli un coma.
«Muovetevi». Né sì, né no, solo un nuovo ordine, mentre tutti si
alzavano dal divano per seguire Ryan che era già sul pianerottolo. Tutti tranne
Dollar, ancora seduto tra me e Aria; aveva uno sguardo furioso, la sua mano
torturava la gamba e riuscivo a vedere la stessa scintilla folle che avevo
visto pochi istanti prima nello sguardo di Ryan. «Dollar, muoviti, non sei esente solo perché Aria
aspetta tuo figlio» sbottò Ryan, tornando
indietro di un passo dopo aver visto che Dollar non si era alzato per seguirli.
«Perché?» bisbigliò Dollar, rivolto ad Aria, di fianco a lui. Mi sentii
improvvisamente in colpa, avevo combinato un casino solo perché non ero
riuscita a tenere a freno la mia lingua, a causa di un bicchiere di troppo.
Aria non rispose, lasciando solamente che una lacrima scendesse silenziosa
lungo la sua guancia, mentre cercava di spiegare che non sapeva perché non ne
aveva parlato. «Ne riparliamo a casa» spiegò Dollar prima di alzarsi dal divano senza
nemmeno darle un bacio o salutarla. Uscì dall’appartamento chiudendosi la porta
alle spalle e facendo piombare un improvviso silenzio, visto che eravamo
rimaste solamente io e Aria.
«Aria… mi dispiace, io non mi sono resa
conto di averlo detto, non volevo fare casini…». Non era nemmeno una giustificazione e lo sapevo, ma ero altrettanto
consapevole di aver combinato un gran casino: Dollar si era arrabbiato con lei
perché non aveva mai detto nulla, i ragazzi stavano andando da John e non
sapevo nemmeno con che intenzioni precise, Aria era in lacrime davanti a me e
io… io continuavo a torturarmi le mani, maledicendomi perché avevo bevuto
troppo e combinato un casino.
«Non fa niente, avrei dovuto dirlo io.
È solo che adesso sono preoccupata per loro. E se Jack non mi vuole più perché
crede che io gli nasconda qualcosa? Adesso sono ancora più preoccupata per
loro, è una guerra e non hanno paura di combattere. Magari Jack mi lascia
perché gli ho mentito. E se non mi ama più?» singhiozzò, senza smettere di piangere. Tolsi il cuscino che stava
torturando con le mani e la abbracciai, lasciando che si sfogasse un po’ prima
di parlare. Ancora una volta Aria non riusciva a capire quanto Dollar la
amasse, quando lui tenesse a lei e fosse pronto a difenderla.
«Aria, Dollar non ti lascerà mai, e
andrà tutto bene, vedrai». Non volevo e
non potevo promettere, perché sarebbe stato troppo per me vivere con il rimorso
di aver promesso qualcosa di cui non ero sicura. Era anche inutile mentire ad
Aria, quando – lei per prima – sapeva che Dollar rischiava ogni volta che
usciva da quella porta. «Ti accompagno a
casa così ti riposi, lascia stare qui, faccio io». Con un gesto del capo indicai la cucina dietro di noi: la tavola era
ancora apparecchiata e c’erano i piatti sporchi da lavare, ma non volevo far
affaticare Aria, soprattutto non quando era così preoccupata.
«Sei sicura?» mormorò, alzando il volto e asciugandosi una lacrima.
Annuii sorridendo per rassicurarla e le diedi un fugace abbraccio, prima di
alzarmi dal divano per accompagnarla a casa. Prima la portavo al sicuro, meglio
mi sarei sentita. «D’accordo» sembrava quasi rassegnata, però raccolse le sue cose,
prendendo la borsa per tornare a casa.
«Dai, andiamo» mormorai, aprendo la porta del 3B e aspettando che
uscisse per richiuderla alle mie spalle. Accompagnai Aria a casa, fermandomi
per prendere un tè assieme a lei e rassicurandola ancora una volta che non
sarebbe successo nulla. Quando uscii da casa sua, nonostante l’ora tarda e le
nuvole, ero così felice per la neve che non riuscivo a smettere di sorridere.
Tutto era ricoperto da uno strato bianco: i marciapiedi, le strade, perfino i
parchimetri, era magico. Non sentivo nemmeno il rumore del motore di qualche
macchina o moto, solo un silenzio che mi rilassava e mi rendeva felice. Tornata
a casa entrai nell’appartamento dei ragazzi usando la chiave che era nascosta
sotto allo zerbino e, dopo aver acceso la radio perché mi tenesse compagnia,
cominciai a sistemare la cucina, lavando i piatti e sparecchiando la tavola
imbandita. Non sapevo nemmeno dove sistemare i segnaposti che io e Aria avevamo
ritagliato quella mattina, così, per rendere l’ambiente più ospitale, li
appoggiai sopra alla TV, in fila. C’erano nove Babbo Natale, ognuno con il nome
di uno dei ragazzi.
«Che cazzo ci fai qui?» proruppe qualcuno, mentre rimiravo il mio lavoro. Era
una voce femminile, era la voce di… mi voltai con un sospiro, guardando
Butterfly in piedi davanti alla porta d’ingresso. Era sempre lei, con i suoi
lunghi capelli biondi acconciati in dreadlock e il trucco pesante a
incorniciarle gli occhi chiari.
«I ragazzi hanno avuto da fare e ho
sistemato la cucina» spiegai, prendendo il
mio giaccone e la borsa. Meno stavo nella stessa stanza di Butterfly e meglio
era per entrambe. L’ultima volta che ero rimasta con lei in una stanza era stato
per la festa di Dollar e Aria, e non volevo di certo ripetere l’esperienza. «Ciao Butterfly»
salutai avvicinandomi alla porta. Si scostò per lasciarmi passare senza nemmeno
salutarmi. Poco male, di certo sarei sopravvissuta anche senza il suo saluto,
pensai infilando la chiave nella toppa per aprire la porta del mio
appartamento.
«Aria dov’è?». Una voce maschile, questa volta. Una voce mi parlò
alle spalle e la riconobbi subito: Ryan. Mi voltai, lasciando la porta
socchiusa dietro di me e sospirando sollevata quando vidi che non aveva segni
di lotta sul viso e che i suoi vestiti erano integri. Anche i ragazzi dietro di
lui – ad eccezione di Dollar, che non c’era – non avevano segni di lotta evidenti.
Sembrava che non fosse successo niente di grave, per fortuna.
«È tornata a casa, l’ho accompagnata
io, sta bene» rassicurai tutti quanti,
appoggiando la schiena allo stipite della porta dietro di me. Una parte di me
voleva chiedere come era andata, se John stesse bene o meno, l’altra però aveva
paura di sentire la risposta, perché sapevo che i ragazzi erano capaci di fare
di tutto. «State tutti bene?» azzardai. Non era una domanda troppo indiscreta e
potevano dire che anche John stava bene, così da rassicurarmi.
«Era come pensavamo, John ci ha traditi». Ryan era di poche parole e questo mi fece capire che
non voleva parlarne, per questo annuii solamente, spostandomi dallo stipite e
aprendo la porta per entrare a casa. Non volevo sapere e se Ryan non parlava
significava che non c’era niente da sapere o niente che io potessi sapere.
Quando mi chiusi la porta alle spalle sospirai,
appoggiando la schiena al legno e scivolando fino a sedermi per terra. Era
sempre più difficile vivere a contatto con i ragazzi e la loro vita; mi
toglieva tutte le forze in alcuni momenti, anche se in altri non potevo fare a
meno di pensare a quanto ero fortunata ad averli conosciuti. Cercavo io stessa
di trovare un equilibrio a quei due risvolti della medaglia, ma sapevo
benissimo che c’era una parte più importante dell’altra: la corsa in moto verso
il Rockefeller Center, il pattinare sulla pista di Lower Plaza, il quattro
luglio a Coney Island, il giorno del Ringraziamento con loro, al 3B, l’amicizia
con Aria… era tutto così vivo nella mia mente tanto da rendere tutto il resto
meno importante.
«Come stai?» chiesi ad Aria, saltellando fuori dalla porta del
Phoenix perché la neve che continuava a cadere mi aveva bagnato i capelli,
anche se avevo cercato di tenerli nascosti sotto al berretto di lana. Era il
giorno dopo Natale e, come stabilito un paio di giorni prima, il Phoenix
l’avremmo aperto io e Aria; John sarebbe arrivato un paio d’ore dopo. Mai come
quel giorno volevo vedere John, per assicurarmi che stesse bene. Lo odiavo,
certo, era uno stronzo che amava farti sentire inferiore a lui non appena era
da solo, ma era pur sempre un uomo e, anche se non aveva famiglia, ero sicura
che qualche caro vicino a lui fosse venuto a trovarlo per Natale.
«Come vuoi che stia? Ieri sera ho
litigato con Jack e siamo riusciti a chiarirci stamattina all’alba,
praticamente. Non ho dormito e mi fanno male le gambe, in più al pensiero di
dover lavorare per dieci ore sto ancora più male» si lamentò, aprendo la serranda e massaggiandosi la schiena. «Sono a pezzi oggi, dico davvero». Aprì la porta del locale, entrò e si sedette subito
sul primo sgabello che trovò, sollevando le gambe e sospirando.
«Aria, dovresti andare a casa a
riposarti un po’, sul serio. Non devi sforzarti, fai del male a tutti e due.
Vai a casa, faccio io qui, non ti preoccupare, dico a John che ho preso anche
il tuo posto perché non ti sentivi bene»
proposi, sperando che accettasse. Non doveva affaticarsi e soprattutto era
normale che si stancasse più facilmente, specialmente perché aveva passato la
notte insonne, litigando con Dollar per qualcosa che avevo scatenato io.
«No, rimango, non ti preoccupare.
Magari spino solo le birre e tu le servi, ok?» azzardò, sorridendo. Era uno sorriso stanco, un sorriso che non
riusciva a mascherare la sua preoccupazione per diverse cose, prima tra tutti
la litigata con Dollar. «No, Lexi. Lo so
a cosa stai pensando. Non sono preoccupata per Jack, sono solo stanca, davvero». Appoggiò la sua mano sulla mia, stringendola appena.
Volevo chiederle se era tutto sistemato, ma la porta del Phoenix si aprì e il
piccolo campanello posto sul lato dello stipite annunciò che era entrato
qualcuno.
«Siete qui, ragazze? Oggi vi lascio la
giornata libera. Questi sono i sei mesi di arretrato che ti devo, Aria. Lexi,
per te ci sono i tre mesi che non ti ho pagato e altri cinquecento dollari». Porse una busta ad Aria e un’altra a me. Riuscivo a
capire perché avesse improvvisamente deciso di pagare i mesi in arretrato, ma
perché mi doveva dare anche cinquecento dollari? Cosa avevo fatto per
guadagnare cinquecento dollari così, all’improvviso?
«Per… perché cinquecento dollari in
più?» chiesi confusa, seguendo però
l’esempio di Aria e prendendo la busta che John teneva tra le sue mani.
Cominciai a torturare i bordi, in attesa di una risposta guardando John
sembrava indeciso, come se non volesse davvero spiegare quel particolare.
«Io… il primo giorno, quando sei
arrivata, ho mandato Simon e Hugh a casa tua, per capire chi fossi. Avevo
l’alibi perché stavo lavorando qui ed ero sicuro che nessuno mi avrebbe mai
scoperto, in più Simon e Hugh non sono né degli Eagles né dei Misfitous, quindi
nessuno avrebbe sospettato di loro. Mi dispiace, avevo bisogno di soldi per
riuscire a pagare Ryan e Dead, non volevo spaventarti». C’era quasi una traccia di umanità dietro ai piccoli
occhiali, dentro ai suoi occhi. Una piccola fiammella che però non riuscivo a
veder crescere, perché John mi aveva presa in giro, esattamente come aveva
fatto con Ryan e gli Eagles. John mi aveva chiesto come stavo dopo la rapina a
casa mia e aveva lui stesso i soldi che mi avevano rubato. «Mi dispiace Lexi, davvero». Non riuscivo nemmeno a credere alle sue parole,
troppo sconvolta da quella notizia. Ryan lo sapeva? Era legale per le leggi degli
Eagles che qualcuno rubasse?
«Perché ci stai pagando adesso?» domandai stupidamente, forse perché speravo che la
risposta che avevo pensato non fosse quella vera. Dove aveva trovato i soldi
per pagare tutti quei mesi di arretrato e perché proprio il giorno dopo che
Ryan e gli altri lo avevano scoperto?
«Andate a casa ragazze» ci consigliò John, cercando di sorridere. In verità
sul suo volto – quel giorno ancora più tirato e stanco del solito – comparve
solo una smorfia che mi fece salire le lacrime agli occhi. Era stupido, era
infantile, era da idioti, eppure, forse per la prima e unica volta, vedevo John
come un essere umano.
Aria uscì dal locale in silenzio e decisi di seguire
il suo esempio; una volta uscita, però, la mia curiosità prevalse sul buonsenso,
costringendomi a chiedere spiegazioni. «Aria, perché ha fatto così? Cosa
voleva dire?». La costrinsi a fermarsi, afferrandole
un braccio perché continuava a camminare senza degnarmi di uno sguardo.
«Vai a casa Lexi» mugolò, senza riuscire a nascondere gli occhi gonfi
di lacrime che non sapeva trattenere. Cercai di chiederle spiegazioni, ma
cominciò a camminare velocemente verso casa sua, dalla parte opposta rispetto a
Whittier Street. Era… era come se tutti sapessero che stava per succedere
qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa, esattamente. Di sicuro c’entravano
Ryan e gli Eagles, con molta probabilità anche i Misfitous. La reazione di John
mi aveva fatto capire che anche lui era in mezzo a quella situazione e, visti i
risvolti del giorno prima, ero quasi convinta che lui ne fosse la causa. Tornai
a casa e per tutto il giorno feci le pulizie, cercando di tenere il corpo e la
mente occupati, senza però riuscirci. Nonostante non mi fossi fermata nemmeno
per pranzare, non riuscivo a smettere di pensare al comportamento di John e a
quello di Aria. Sicura che mi sarei confusa ancora di più, non avevo nemmeno bussato
al 3B per chiedere spiegazioni, tanto non sarebbero arrivate.
Quando andai a dormire, quella sera, c’era una strana
sensazione che non se ne voleva andare; sensazione che si intensificò quando,
arrivata al Phoenix, notai che la serranda non era stata aperta. Dov’era John?
Era il suo turno di aprire il locale. La situazione non migliorò quando notai,
all’angolo della strada, una piccola folla di gente che borbottava irrequieta.
Mi avvicinai a loro lentamente, non sapendo che cosa aspettarmi. «Che
succede?» domandai a Peter, notando che
era quello più sconvolto di tutti; se ne stava in un angolo in disparte, seduto
su una pietra a qualche metro dalla folla. Le mani tra i capelli e una
sigaretta tra le labbra che fumava quasi in modo isterico.
«John è dietro l’angolo. Morto. L’hanno
ammazzato, ma non si capisce chi sia stato. Ha il biglietto da visita degli
Eagles, ma non possono essere stati loro perché lui era un Periperhal degli
Eagles. Deve essere stato qualcun altro che ha lasciato il loro biglietto da
visita per incolparli». John era dietro
quel muro, morto? Spalancai gli occhi, sorpresa da quella notizia; chi era
stato a ucciderlo? Gli Eagles o i Misfitous che avevano mascherato la sua
morte? E poi, cosa significava che John aveva il biglietto da visita degli
Eagles? Qual era il loro biglietto da visita? Ricordavo che, quando JC era
morto, Brandon o Ryan mi aveva parlato di quello dei Misfitous – un punto rosso
in fronte – ma non mi avevano mai detto com’era il loro. «Lexi, non andare, davvero, non è un bello spettacolo». La mano di Peter sfiorò la mia per fermarmi; anche
il suo sguardo mi supplicava di non andare, perché di sicuro lo spettacolo non
era piacevole. Eppure ero un medico e volevo vedere quello che gli era
successo.
«Sono un medico» gli ricordai, avanzando di un passo verso l’angolo e
prendendo un respiro profondo. Quanto poteva essere messo male John? Quando
riuscii a farmi spazio tra la folla, rabbrividii, sconcertata: il corpo di John
era… «O mio Dio» mormorai, portando una mano davanti alle labbra. John
era senza maglia, potevo notare il foro di un proiettile esattamente sopra al
cuore, ma non era quello che mi aveva colpita: c’era un uccello stilizzato
intagliato sul suo petto che non mi sconvolgeva quanto le due X incise sui suoi
occhi e quella che c’era sulle sue labbra. Chi aveva fatto quei tagli non si
era nemmeno scomposto; erano decisi e secchi, senza ripensamenti. Era quello il
biglietto da visita degli Eagles? Disegnare con un coltello una X sulle labbra
e sugli occhi e un’aquila stilizzata sul petto solo dopo averlo ucciso con un
colpo di pistola?
«Che cazzo ci fai qui?». Qualcuno strattonò il mio braccio, costringendomi a
indietreggiare spintonando la folla che non si voleva allontanare da quello
spettacolo così macabro. Ryan mi fece attraversare la strada, allontanandomi da
tutti, anche da Peter, che continuava a guardarci. «Va a casa subito»
ordinò, senza lasciare il mio braccio ma, anzi, stringendo di più la presa.
«Siete stati voi?». Un sussurro, perché quello spettacolo aveva davvero
messo a dura prova i miei nervi da medico. Nemmeno quando arrivavano
all’emergenza i ragazzi che perdevano gli arti a causa di qualche incidente in
moto avevo reagito in quel modo, forse perché quello che avevo appena visto era
un gesto barbaro.
«Vai a casa» ripeté, quando vidi avvicinarsi a noi Brandon e gli
altri. Cercai di chiedere di nuovo se erano stati loro a ucciderlo, ma Ryan non
mi lasciò parlare, interrompendomi: «Non
ti interessa sapere chi è stato, va a casa e dimentica tutto quello che hai
visto, fingi che siano stati i Misfitous se ti fa stare meglio». Era un’ammissione, esattamente come se avesse appena
detto che erano state le sue dita a impugnare il coltello che aveva inciso
sulla carne di John, come se fosse stato il suo indice a premere il grilletto
della pistola che gli aveva puntato al petto.
Così era stata opera degli Eagles, per spaventare i
Misfitous o per ricevere più attenzioni? Era perché così più persone sarebbero
corse a farsi proteggere da loro o c’era anche qualche altro motivo? Perché, di
sicuro, quella era una battaglia di cui tutti sapevano l’esistenza, ma era una
guerra con strategie segrete che pochi conoscevano. Io ero una di quelli.
Ragazzuole buongiorno!
E alle maturande… in bocca al lupo! :)
Dunque, prima di tutto:
il titolo. “All chickens come home to
roost” equivale al nostro “Tutti i
nodi vengono al pettine” e mi riferisco alla questione “rapina
all’appartamento di Lexi”. Si sapeva? Non si sapeva? Si era capito? Non si era
capito? Avevo lasciato indizi sparsi, alcune di voi avevano capito che erano
stati i due ragazzi, altre avevano supposto che fosse stata opera di John, ma
nessuna (mi pare) aveva unito le due cose. Forse qualcuno aveva ipotizzato che
John fosse invischiato con i Misfitous, ma avevo volutamente lasciato cadere
l’argomento “ladri” per non dare troppi indizi.
Ma passiamo al
capitolo! Per quanto riguarda la prima parte, la reazione dei ragazzi alla
notizia di Dollar e Aria… be’, io lo ammetto, lì, per la prima volta, sono
riuscita a farmi piacere Ryan, non chiedetemi il motivo perché non credo di
saperlo spiegare.
Per quanto riguarda il
“biglietto da visita” degli Eagles… ci ho pensato tanto. Avevo un’alternativa
ancora peggiore, lo ammetto, poi ne ho scelto una molto macabra, ma meno
“forte”. Rimane il fatto che è comunque una cosa molto più barbara rispetto ai
Misfitous che fanno solo un punto rosso sulla fronte. Questo, ancora una volta,
per ricordarvi che gli Eagles non sono buoni, semplicemente Lexi sta cercando di vedere il loro lato migliore.
Bene, spero di essere
riuscita a incuriosirvi con la parte finale, aumentando un po’ il livello di
adrenalina e… niente, ringrazio preferiti, seguiti e da ricordare che hanno
raggiunto un traguardo tondo tondo che non mi sarei mai aspettata. Ringrazio anche
le tantissime persone che ogni volta commentano i miei capitoli, aiutandomi a
capire se sono riuscita a confondervi o meno! :P
Come sempre, per chi
volesse spoiler, foto e capire quanto rompo le balle, questo qui è il mio
gruppo: Nerds’
corner.
A presto (farò comunque
sapere nel gruppo quando aggiorno con anticipo).
Rob.
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Capitolo 16 *** Romeo & Juliet ***
YSM
«Non ci pensare Lexi, più ci pensi e più fa male. John non meritava le
lacrime di nessuno di noi, soprattutto le tue per quello che ti ha fatto e per
il modo in cui si è comportato con te al Phoenix». Quante volte avevo sentito
questa frase ripetuta da Aria, nella settimana dopo la morte di John? Troppe,
forse, ma non riuscivo ancora a indossare la maschera di indifferenza che
sembrava tutti gli Eagles condividessero. Come se non fosse successo nulla,
continuavano a comportarsi normalmente; niente lacrime, un funerale a cui avevo
partecipato per correttezza e dove mi ero accorta di quanto il Bronx potesse
essere freddo e inospitale. La neve che ricopriva tutte le lapidi di fianco a
noi, il pastore, io, Aria e Peter e qualche Eagles in lontananza, per ricordare
che loro c’erano nonostante il gesto di
John, nonostante la sua morte.
Non avevo chiesto nessun tipo di conferma o smentita a Ryan, non
sapevo se fosse stata la sua mano quella che aveva premuto il coltello contro
John e l’aveva ucciso e, forse, non volevo nemmeno saperlo. Non mi interessava
se era stato Ryan, Brandon, uno dei ragazzi o i Misfitous. Volevo rimanere
fuori da quell’aspetto della loro vita e ci sarei riuscita.
«Merda» sbottai, strappando l’ennesima pagina di giornale. Possibile
che nessuno cercasse una cameriera, una commessa o qualsiasi altra mansione che
non comprendesse un palo e un night club? Sembrava che nei dintorni cercassero
solo esperte ballerine o esperte massaggiatrici. Cominciai a
scorrere l’elenco della pagina successiva quando qualcuno bussò alla porta del
mio appartamento. Di certo non poteva essere Ryan, visto che non avevano
cercato di buttare giù la porta a calci. Chi poteva essere?
«Lexi, apri» strillò Aria, bussando con più insistenza. La sentii
lamentarsi con qualcuno a bassa voce e, quando aprii la porta, trovai lei
davanti a Sick, Ryan, Brandon e Dollar che si immobilizzarono, guardandomi. «Stai
bene? Sembri sconvolta, guarda i tuoi capelli, Lexi» mi sgridò Aria, senza
lasciarmi il tempo di reagire. «Andiamo, muoviti, esci con noi. Vai a vestirti,
che sembra tu abbia l’influenza». Indicò i pantaloni grigi della tuta che
indossavo, legati in vita con un elastico per capelli, e la maglia di Edge;
quella che mi aveva regalato dopo il nostro primo concerto al liceo, dove avevo
preso la prima sbronza. Tornando a casa al mattino avevo salutato i miei
genitori con uno «Yo» che mi aveva smascherata subito.
«Che cos’hanno i miei vestiti che non va? E poi non ho tempo di uscire
con voi, devo trovare un lavoro, altrimenti non riesco a pagare l’affitto»
spiegai, raccogliendomi i capelli con l’elastico che avevo al polso e tornando
a sedermi sulla sedia, dopo aver appoggiato il mento al ginocchio. Sentivo gli
sguardi dei ragazzi su di me, così misi il tappo all’evidenziatore giallo che
tenevo tra le mani e, dopo aver sospirato, alzai lo sguardo, guardandoli a uno
a uno. «Si può sapere che c’è?» sbottai, rivolgendomi infine ad Aria, che mai
come in quel momento sembrava aver preso il posto di O.G. degli Eagles,
sostituendo Ryan, di fianco a lei.
«Andiamo a prendere la cameretta, vogliamo che ci sia anche tu con
noi; ci sono tutti gli amici di Jack e io voglio te». Questo era un colpo
basso. Non poteva puntare sul senso di colpa per costringermi a uscire di casa
con loro, no. Sapeva che avrei accettato se mi avesse posto la questione sotto
quel punto di vista. Alcune volte odiavo Aria e il suo stupido modo di
convincere le persone. «Dai Lexi, potresti accompagnarci, no? Se non mi
accompagni non sei mia amica». Incrociò le braccia sotto al seno, fingendosi
arrabbiata. Cercai di trattenere un sorriso, sapendo che in pochi minuti mi
sarei alzata e li avrei seguiti, ma l’idea di vedere fino a che punto Aria fosse
disposta a spingersi per costringermi a seguirla mi divertiva, così cercai di
non ridere senza distogliere lo sguardo dal suo, in silenzio. «Fallo per il tuo
nipotino… così potrai dirgli che anche tu sei andata a comprare la camera per
lui». Unì le mani poco sotto al mento, in un gesto di preghiera. Stavo per
mettermi a ridere, ma Sick, con una sua battuta, non mi permise di farlo.
«Lei. Sarà una lei, cazzo. Se è un lui non va bene. Lei, Ariel.
Assomiglierà ad Aria, d’accordo? Tutta sua madre, se poi volete metterci un
paio di taglie in più per delle tette esplosive, be’, fate pure, ma non deve
avere niente di simile a me qui in basso. Non può essere un uomo». Era davvero
arrabbiato, teneva a quella causa in una maniera assoluta. Tutti quanti – Aria
e Dollar compresi – cominciammo a ridere mentre mi alzavo per andare in camera
a vestirmi per uscire: era il due di gennaio e faceva ancora freddo, la neve
caduta a Natale e durante i giorni successivi non si era sciolta nonostante le
strade e i marciapiedi fossero percorribili. Infilai una felpa e un paio di
jeans e, dopo aver preso il cappotto che tenevo appeso nell’armadio in camera,
corsi in cucina a prendere gli scarponcini.
«Dai Lexi, sei lenta come una lumaca» si lamentò Dollar. Alzai lo
sguardo meditando per qualche secondo di lanciargli il secondo scarponcino
addosso. Ci pensò Aria a punirlo. Caricò il suo braccio, lasciando che il
gomito sprofondasse nello stomaco di Dollar che si lamentò con un gemito. «Scusa,
Lexi». Trattenni una risata, scuotendo la testa e indossando anche l’altro
scarponcino, poi, dopo essermi alzata, aspettai che i ragazzi uscissero,
sperando di poter capire perché Aria mi volesse con sé. Non riuscii a parlarle però,
visto che continuava a rimanere di fianco a Dollar, ridendo e scherzando con
lui. Tra le varie battute, sentii Dollar ridacchiare con Aria, dicendole che la
sua pancia cominciava a ingrossarsi – cosa non vera tra l’altro – e prontamente
vidi lei rispondere con un pizzicotto sul suo braccio.
Camminavo silenziosa di fianco a Brandon, appena dietro Sick e Ryan
che stavano parlando di un certo Night, rinchiuso in qualche carcere. Sembrava
che lo conoscessero, anzi, che fosse addirittura uno degli Eagles, ma non
capivo perché continuassero a parlare di sanzioni;
così, cercando di placare la mia curiosità e sperando di non essere sentita da
Ryan, mi avvicinai di più a Brandon, sorridendogli.
«Brandon, chi è Night? E cosa sono le sanzioni?». Ryan, si accorse del mio interesse e fece un passo
indietro, ghignando. Si frappose tra me e Brandon che si affiancò a Sick
davanti a noi; continuarono a guardare me e Ryan, come se si aspettassero una
sua spiegazione e la mia reazione. Era qualcosa di brutto come… come quello che
era successo a John? Perché avevo sepolto nella parte più profonda della mia
memoria la visione del suo corpo, di quelle croci e dell’aquila stilizzata; non
volevo ricordare, altrimenti non sarei riuscita a rimanere di fianco ai
ragazzi, troppo spaventata. Così, il mio cervello aveva scelto la soluzione più
naturale: dimenticare per non impazzire.
«Sai, lentiggini… alcuni di noi sono in prigione – a dire la verità ci
siamo stati tutti – ma quelli che rimangono dentro… hanno bisogno di
protezione. Lì dentro, tra quelle mura, più che fuori, devono avere la
sicurezza di avere il culo parato, non si può essere da soli, altrimenti non
resisti nemmeno un giorno e ti fanno secco. Quando qualcuno fa qualcosa di
male, l’altro componente della banda applica una sanzione. Di solito consiste solamente nel picchiare per qualche
minuto, niente di macabro o barbaro». Niente di macabro o barbaro, certo. Cosa
poteva essere paragonato a quello che era successo a John? Rabbrividii,
ripensando a quelle croci e al corpo morto. «Qui al Vernon C. Bain Correctional Center
naturalmente ci siamo passati tutti. Night e un altro paio di Hard Cores degli
Eagles sono dentro, così, quando si annoiano decidono di fare queste sanzioni,
niente di preoccupante» ripeté Ryan, facendomi saltare i nervi. Presi un respiro profondo,
pronta a esplodere e liberare tutto quello che avevo tenuto dentro per una
settimana dopo la morte di John.
«Niente di
preoccupante, vero? Perché per te non è mai niente di preoccupante, no? Voglio
dire vai in giro a incidere aquile e croci sui cadaveri a cui prima hai sparato
e non è niente di preoccupante una rissa. Lo capisco, davvero» terminai sarcastica, sibilando
il mio sconcerto con un tono bassissimo di voce. Le braccia rigide lungo i
fianchi, i pugni stretti per trattenere la rabbia di fronte a Ryan…
«Una
settimana, hai resistito molto, lentiggini. I tuoi nervi sono d’acciaio. Vorrei
spiegarti che no, le croci sugli occhi e sulle labbra non sono un simbolo della
nostra firma, non siamo così barbari. Quello è il simbolo per indicare i
traditori, quelli che hanno visto qualcosa e poi l’hanno riferito a chi non
dovevano. Occhi, labbra. La firma degli Eagles è semplicemente l’aquila
stilizzata e la pallottola per ucciderli prima, esattamente come il punto rosso
dei Misfitous».
Si era acceso una sigaretta, fumando in mezzo al marciapiede senza curarsi
delle persone che ci superavano lanciandogli sguardi spaventati. Le croci non
erano la firma degli Eagles? Certo, ma loro le avevano incise, quindi non
cambiava poi molto, erano sempre dei barbari sadici.
«Ma sei stato
sempre tu a fare quelle incisioni, sapere che non è la vostra firma non cambia» mormorai, tenendo lo
sguardo basso. Sapevo che Ryan, Brandon, Sick, Aria e Dollar stavano tutti
osservando ogni mio minimo movimento per intuire le mie mosse, per questo
cercavo di non dar loro modo di capire a cosa stavo pensando; non volevo che comprendessero
quanto fossi spaventata da tutto quello.
«Io? Io ho
fatto quelle incisioni?» sbottò, incapace di trattenere una risata e lasciando che una nuvola di
fumo uscisse dalle sue labbra, dissolvendosi nel cielo grigio, sopra di noi; «ci sono così tante cose che
non sai lentiggini… non basterebbero due giornate per spiegare tutta la vita di
un Eagles».
Scosse leggermente il capo, senza nemmeno guardarmi. Lo sguardo assente – distante
chilometri e anni – fece accendere una fiammella dentro di me; la stessa che si
era spenta la mattina dopo Natale, all’incrocio dopo il Phoenix. Non era stato
lui a uccidere John? Non era morto per mano degli Eagles? E allora chi era
stato a simulare la loro firma? Perché non avevano detto niente per
discolparsi?
«Ma allora…» bisbigliai, cercando di
formulare una domanda a cui potessero rispondere. Come temevo però, Ryan mi
fermò, scuotendo di nuovo il capo e spegnendo definitivamente la sigaretta per
terra.
«No, non sono
cose che ti interessano. Il massimo che puoi sapere è la questione delle sanzioni in carcere e i sei minuti senza protezione, niente di
più». Con un
gesto del capo indicò a Brandon di seguirlo; voleva continuare a camminare
verso il negozio di mobili, probabilmente per ritornare a casa il prima
possibile. Guardai Aria, sperando che potesse parlarmi dei sei minuti senza protezione, ma era troppo impegnata a sogghignare
con Dollar e non volevo disturbarla, non quando sembravano così affiatati e
complici. Brandon era impegnato a parlare con Ryan e, visto il suo sguardo
grave, non si trattava di certo di sciocchezze. Mi rimaneva una sola
alternativa…
«Sick, cosa
sono i sei minuti senza protezione?». Non sapevo perché, ma
temevo che non fosse proprio una passeggiata e il fatto che ci fosse quel
“senza protezione” non mi piaceva per niente. Che si picchiassero barbaramente
con coltelli e altre armi senza che nessuno potesse difenderli? Sick abbassò lo
sguardo verso di me, sorridendo lascivo. Che cosa gli avevo chiesto?
«Cosa stai cercando di dirmi Lexi, che
vorresti fare i 7 minuti in paradiso con me? Tranquilla, me ne bastano tre per
te» sogghignò, ammiccando. Mi allontanai
di un passo da lui, causando le risate di Aria e Dollar. Potevano prendermi in
giro quanto volevano, ma non mi fidavo di Sick, soprattutto quando cominciava a
parlare utilizzando doppi sensi e allusioni sessuali. «Non preoccuparti Lexi, ti spiego cosa sono questi sei
minuti senza protezione. Semplicemente uno picchia l’altro, senza che lui possa
controbattere. Come se io picchiassi… che ne so, Doll per sei minuti, senza che
lui possa portarsi le mani davanti al viso per coprirsi, chiaro?». Alzò leggermente le sopracciglia, sperando di essere
stato esauriente. Annuii. Avevo afferrato immediatamente la sua spiegazione,
grazie soprattutto al chiaro esempio. La trovavo un’altra tecnica barbara,
esattamente come tutto quello che riguardava le gang, ma non fiatai. «Bene, ora ti spiego cosa sono i tre minuti in paradiso
con Sick, poi comincerai a capire a chi si è ispirata quella scrittrice inglese
per il Signor Gray. È tutto vero, tutto vero». Fece l’occhiolino di nuovo, senza smettere di sorridere. Ok, Sick mi
faceva davvero paura, non volevo nemmeno chiedergli come facesse a conoscere
quel libro, ma non mi interessava di certo, non se stavo parlando con Sick.
«Sick, dacci un taglio, fai paura» sogghignò Aria, stringendo di più il suo braccio
attorno alla vita di Dollar; lasciò che lui le scompigliasse i capelli,
lamentandosi con un morso alla spalla. Di sicuro avevano risolto dopo la
litigata la notte di Natale. Mi faceva davvero piacere rivederli complici e
scherzosi perché, in qualche modo, mi sentivo meno in colpa.
«E comunque, vorrei solo annunciare che
stanotte ho sognato Claire. Anzi, ho sognato che eravamo al liceo, quando ci
chiudevamo nello stanzino delle scope. Vi ricordate ragazzi? Ryan, ricordi
quando Kristin, la ragazza di Mike dei Misfitous ha aperto la porta dello
stanzino e poi è corsa a spifferare tutto al professor Shoes che ci ha sospeso
per una settimana solo perché stavamo trombando? Che stronzo! Solo perché lui
non aveva istinti ed era geloso. Non è mica colpa mia se era così brutto da non
aver trovato nessuna che gliela potesse dare» concluse, facendo spallucce come se fosse una cosa ovvia. Non riuscii a
trattenere una risatina divertita dallo strano modo di Sick di catalogare le
persone. «E poi stanotte mi sono
ricordato delle tette di Claire; potrei chiamarla, per vederci mezz’oretta,
così, senza impegno, una trombatina»
mormorò, soprappensiero. Stava decidendo cosa fare, come se parlasse tra sé e
sé, senza ricordarsi che c’eravamo anche noi di fianco a lui.
«Sick, ma non è sposata? Non abita in
Italia?» domandai, ricordando quello che
aveva detto Brandon seduto su quel vecchio tronco, a Coney Island, il quattro
di luglio. Ricordavo perfettamente che mi aveva consigliato di non nominare mai
Claire, visto quello che aveva causato a Sick, lasciandolo; ma non credevo ci
fossero problemi, visto che era stato proprio lui a parlarne per primo.
«Certo, ma mica sono geloso. E poi
quello lì l’ha conosciuto dopo di me. Sai come si dice, no? Il primo trombato
non si scorda mai». Si accese una
sigaretta, allungando il pacchetto per chiedermi se ne volessi una anche io;
declinai l’offerta, incapace di nascondere un sorriso divertito dalle battute
stupide di Sick. Se appena arrivata credevo che il problema di Sick non fosse
una cosa normale, più passava il tempo più capivo che lui, con il suo chiodo
fisso per il sesso e per il porno, era esattamente come tutti i ragazzi della
sua età – se non fosse stato per quello sguardo da pazzo.
Procedemmo in silenzio per qualche altro isolato, e
io continuavo a tenere lo sguardo basso per non incontrare quello degli altri
Eagles, visto che avevo ancora paura a rimanere da sola con loro, dopo la
scoperta del corpo di John. All’improvviso un ragazzo urtò Aria, vicina a me,
spintonandomi subito dopo. «Ehi stronzo, sta attento» sbottò Dollar, attirando l’attenzione di Ryan, Sick e
Brandon che subito si voltarono per controllare che cosa fosse successo.
Probabilmente il ragazzo aveva perso l’equilibrio, perché, dopo essersi calato
il cappuccio in testa, girò verso destra per attraversare la strada. «Stai bene?»
chiese subito Dollar ad Aria, assicurandosi che entrambi non si fossero feriti.
«Aria, sei una puttana» strillò il ragazzo, senza smettere di
camminare. Ma che cosa stava succedendo? Guardai Ryan, immobile di fianco a me:
la mano dietro alla schiena, come se fosse pronto a prendere la pistola che – sicuramente
– aveva con sé. Brandon non sembrava molto più rilassato di Ryan, si avvicinò
di un passo a lui, senza perdere di vista il ragazzo, ora in mezzo alla strada.
Sick si accostò ad Aria, sorpassandola e facendole da scudo con il proprio
corpo.
«Senti, pezzo di merda, non dici alla mia Signora che è una puttana,
soprattutto perché aspetta mio figlio, hai capito?». Dollar cominciò a
camminare per raggiungere il ragazzo e Ryan, di fianco a me, si immobilizzò
ancora di più; non respirava nemmeno. Temevo che sparasse a quel ragazzo solo
perché aveva offeso Aria, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo da Dollar e
dalle sue gambe che si avvicinavano sempre di più a lui.
«Doll, non fare cagate» lo ammonì subito Ryan, con un tono di voce che
assomigliava a un ordine. Dollar si girò verso Ryan con uno sguardo furioso;
sapevo cosa voleva dire: quel ragazzo aveva offeso Aria e avrebbe pagato quella
sua brutta condotta. Un pugno? Una ferita? Non sapevo che cosa aspettarmi, ma
sapere che Ryan non si stava muovendo e lasciava a Dollar la decisione di tutto
in qualche modo mi sollevava; ero sicura che Dollar non fosse cattivo come
Ryan. Dollar raggiunse il ragazzo, urlandogli contro di girarsi senza però
ottenere alcun risultato.
«Jack, lascia stare dai, non fare lo scemo». Aria appoggiò le mani sul
braccio di Sick, tendendosi in avanti perché Dollar potesse sentire la sua
voce, nonostante non fosse tanto vicino. Poi, il ragazzo che aveva offeso Aria,
tirò fuori una pistola dalla tasca della felpa nera che indossava e la puntò contro
il viso di Dollar che si fermò all’improvviso, rischiando di scivolare per
terra perché la neve sulla strada si era trasformata in ghiaccio a causa del
freddo. «Jack» strillò Aria, correndo veloce verso di lui tanto che Sick non
riuscì a raggiungerla. Il bracciò del ragazzo si spostò, lasciando che il
mirino della pistola deviasse su un altro obiettivo: Aria.
Non riuscii nemmeno a urlare, perché il rumore di due spari risuonò,
facendomi bloccare il respiro.
«Cazzo» sbottò Ryan, prima che io venissi scaraventata a terra. Mi
aspettavo di sbattere il capo contro l’asfalto freddo, ma qualcosa di caldo si
frappose fra la mia tempia e il terreno, proteggendomi. Un respiro caldo e
spezzato che si infrangeva contro la mia guancia e il peso e il calore di un
corpo sopra al mio a proteggermi. «Doll, resisti» strillò Ryan. Il suo respiro
smise di infrangersi contro il mio viso e per un attimo strinsi le palpebre più
forte, temendo il peggio fino a quando sentii il corpo di Ryan muoversi ancora
contro di me. Solo in quel momento tornai – con tanta fatica – a respirare. La
mano che prima era appoggiata alla mia fronte si spostò fino alla mia nuca, in
modo che non potessi alzare il volto; non ci pensavo nemmeno, soprattutto
quando sentii dei colpi vicino a me: il fischio della pallottola che veniva
sparata e il braccio di Ryan che si muoveva per il rinculo. «Sick, Brandon,
sparate cazzo» urlò Ryan, senza smettere di sparare. Non riuscivo nemmeno a
contare i colpi, ma di sicuro erano più di dieci; tanto che, all’improvviso,
cominciò a sparare a vuoto. Non sentivo più il rumore degli spari, solo dei
colpi a vuoto, come se non ci fossero più proiettili. «Cazzo» sbottò Ryan,
sbattendo qualcosa a terra, poco distante dal mio volto. «Doll sei vivo?» urlò
di nuovo, irrigidendosi in attesa di una risposta. Sentii la sua presa sul mio
capo farsi più forte e di nuovo il suo respiro che si infrangeva contro la mia
guancia. Poi, di colpo, gli spari terminarono, separandomi dal fiato caldo di
Ryan e dalla sua presa. «Stai bene?» domandò stringendo il mio mento tra il
pollice e l’indice e forzandomi a girare il volto per controllare come stessi.
Aprii gli occhi lentamente trovandomi lo sguardo di Ryan molto più vicino di
quanto mi aspettassi e, capendo di non aver voce, annuii debolmente. «Sta qui.
Non muoverti» ordinò, alzandosi in piedi velocemente e correndo verso la strada
davanti a noi.
Mi misi a sedere, cercando di capire cosa fosse successo; c’era
qualcuno disteso a terra poco distante da Ryan, ma non era lui quello
accerchiato. Mi alzai e corsi velocemente verso Ryan, Sick e Brandon, tutti
chini su Dollar; aveva la maglia intrisa di sangue e si muoveva appena.
«Hai… visto? Ne ho ucci…so u…no» scherzò, cercando di sorridere.
Sgranai gli occhi notando i cinque fori sul suo petto e cercai di riprendermi
frugando in borsa e digitando il numero dell’emergenza dell’ospedale e, tenendo
il cellulare tra l’orecchio e la spalla, mi inginocchiai davanti a Dollar che
cercò di regalarmi un sorriso, mostrandomi quando la sua bocca fosse piena di
sangue.
Emorragia.
Cazzo.
«Mi serve un’ambulanza ad Halleck Street, subito dopo l’incrocio con
Randall Ave, in direzione opposta a Edgewater Rd. C’è un ferito da arma da
fuoco grave». Riattaccai, lanciando il telefono dietro di me e prendendo la
maglia di Dollar per strapparla. Non mi interessava nemmeno del suo sangue
sulle mie mani, impegnata com’ero a premere la stoffa nei due fori più vicini
al cuore per cercare di rallentare l’uscita di tutto quel sangue.
«Aria?» soffiò Dollar, cercando di alzare il capo senza riuscirci. Mi
gelai per un secondo, fermandomi con le mani sporche a mezz’aria, prima di
guardare Ryan che capì, affiancandosi a me e aiutandomi a premere sul petto di
Dollar.
«Aria sta bene, è qui vicino. Il colpo l’ha solo sfiorata» mentì
probabilmente, senza farlo capire. Sentii Dollar rilassarsi sotto al mio tocco,
felice per quella notizia; mi ripresi, tornando a premere con tutta la mia
forza sulle sue ferite, concentrandomi sui suoi grandi occhi verdi che
sembravano spegnersi a ogni istante che passava. La sua cicatrice contratta per
il dolore e l’espressione di sofferenza che lo colpiva a ondate.
«La… il… bimbo?» domandò, sforzandosi di far uscire un suono dalle sue labbra.
Se non fossi stata così vicino a lui probabilmente non l’avrei nemmeno sentito,
visto che era un bisbiglio appena udibile. Non guardai nemmeno Ryan, troppo
timorosa di dire che Aria non era lì di fianco a lui, lasciando che fosse
proprio Ryan a spiegare come Aria e il suo bambino stessero.
«Stanno bene. Sick è con loro. Sta zitto adesso» ordinò, la voce
leggermente incrinata. Dollar fece di nuovo quella smorfia che doveva
assomigliare a un sorriso, lasciando che un rivolo di sangue scendesse dalle sue
labbra, sporcandogli il mento giù, verso il suo collo. Chiuse gli occhi
lentamente, senza riaprili. «Doll, coglione vedi di non chiudere gli occhi o ti
tolgo il flag. Doll!» urlò Ryan, strattonando il corpo di Dollar e prendendo il
volto tra le sue mani per agitarlo. «Doll, cazzo». Lo scossone che gli diede
fece ciondolare il capo di Dollar, che però non lo ascoltò, tenendo gli occhi
chiusi. «No» sbottò Ryan, senza smettere di muovere il corpo di Dollar.
Avvicinai solo una mano, prendendo il polso freddo di Dollar e chiudendo gli
occhi, quando non sentii il battito.
«Ryan» mormorai, lasciando che le lacrime cominciassero a scorrere
lungo le mie guance. Ryan non mi ascoltò, portandosi una mano tra i capelli e
sporcandoseli di sangue. «Ryan» tornai a dire, appoggiandogli la mano sul
braccio per fermarlo. Le mani di Ryan lasciarono il volto di Dollar e il suo
sguardo incontrò il mio per un secondo, prima che prendesse tra le mani la
pistola di Dollar, avvicinandosi al ragazzo che aveva insultato Aria.
Era in mezzo alla strada, ferito a una gamba. Stava cercando di
andarsene senza farsi notare, ma non era riuscito a fuggire, perché costretto a
strisciare a terra.
«Chi cazzo vi ha mandato?» strillò Ryan, inginocchiandosi di fronte a
lui e puntandogli la pistola in mezzo alla fronte. Il ragazzo cominciò a
piagnucolare, abbassando lo sguardo quando la mano sinistra di Ryan si strinse
a pugno sul suo giaccone. «Dimmi chi cazzo ti ha mandato e ti risparmio la vita».
Uno strattone più forte e il suo pollice che caricava la pistola, in un chiaro
avvertimento: se non avesse risposto Ryan gli avrebbe sparato in fronte,
uccidendolo. «È stato Dead?» domandò. Non riuscivo a smettere di guardare Ryan
e la sua furia, perché se l’avevo sempre visto arrabbiato, anche quando era
successo qualcosa di grave – come la morte di JC o di John – non mi ero mai
accorta di quanto potesse essere minaccioso. «Rispondi, cazzo. È stato Dead?».
Spostò la pistola dalla fronte alla tempia del ragazzo, facendomi vedere lo
stampo che la canna dell’arma gli aveva lasciato sulla fronte da quanto Ryan
aveva premuto.
«Sì… sì» piagnucolò il ragazzo, senza nemmeno nascondere quanto la sua
voce tremasse per la paura di morire e cominciando a piangere. Cercò di
ritrarsi, scivolando indietro, ma Ryan non lasciò la presa sul suo giaccone,
costringendolo ad avvicinarsi di colpo a lui, tanto che i loro nasi si
sfiorarono.
«Ti lascio vivo solo perché devi riferire un messaggio, pezzo di
merda. Hai ucciso una donna e un bambino, hai ucciso uno degli Hard-Cores degli
Eagles. Di’ a Dead che la guerra è iniziata, e non ci fermeremo fino a quando
l’ultimo fottuto Misfitous non sarà sepolto sei metri sotto terra, con un’aquila
intagliata sul petto. Non vi spareremo nemmeno prima, dovrete soffrire, pezzi
di merda». La sua voce era bassa ma così tagliente che sembrava potesse
uccidere solo con le parole. «Torna da lui e riferisci il messaggio, o ti
troverò e ti ucciderò prima di loro». La pistola si abbassò fino al ginocchio,
dopo di che, Ryan premette il grilletto, spaventandomi. Il ragazzo urlò per il
dolore, piegandosi in avanti e portando le mani sulla gamba.
«Ryan, che cazzo è successo?». Quando mi voltai, trovai Mike – il
poliziotto che mi aveva arrestata – a qualche metro da noi, guardava verso il
ragazzo che si allontanava strisciando; poi, quando il suo sguardo si posò su
Dollar, di fianco a me, lo vidi sgranare gli occhi mormorando: «Oh, cazzo»
quando si accorse della pozza di sangue che circondava il suo corpo.
Mi guardai attorno, in cerca di Aria, credevo di trovarla ferita,
magari con Sick al suo fianco, ma mi sbagliavo. Aria era distesa in mezzo
all’asfalto, senza nessuna protezione. «Aria» mormorai, sentendo lentamente i
brividi ricoprirmi il corpo a mano a mano che il mio cervello cominciava a
collegare tutti i punti; spostavo lo sguardo da Aria a Dollar, incapace di
muovermi, incapace di dire qualcosa. Lasciavo solo che le lacrime scendessero,
pensando che non era possibile che fossero entrambi immobili su quella strada,
distesi sull’asfalto e ricoperti di sangue, perché nessuno poteva morire così. Chi
li aveva uccisi non poteva avere un cuore, nessuno, nemmeno il killer più
spietato uccideva due ragazzi così giovani e innamorati l’uno dell’altra
assieme. Nemmeno Shakespeare aveva sacrificato la vita di Romeo e Giulietta
assieme, era stata Giulietta a decidere di morire perché troppo vile. Ma non
era una favola, non eravamo a Verona e non c’era nessuna pozione magica che
avrebbe potuto riportarli in vita entro qualche ora. Perché non era come Romeo e Giulietta; Giulietta era stata una codarda e
aveva deciso di morire perché non credeva di saper vivere senza Romeo, non
immaginava una vita senza quel ragazzo che le aveva conquistato il cuore in una
sera. Aria… lei aveva lottato per salvare il suo amore, se ne era fregata della
morte e l’aveva difeso, probabilmente avrebbe preferito morire al posto di
Dollar. Era diverso, Giulietta era una vigliacca, non si era nemmeno impegnata
per provare a vivere senza Romeo; Aria si era impegnata per far vivere Dollar
senza di lei, fallendo. E non riuscivo a smettere di piangere, vedendo il suo
corpo disteso sull’asfalto innevato, le mani ancora a proteggere la sua pancia,
il suo, il loro bambino. L’ultimo
disperato tentativo di salvare la vita che cresceva dentro di lei, quando si
era accorta che la pistola si era spostata, cambiando obiettivo. Forse Aria
aveva deciso che Dollar si sarebbe potuto costruire una vita senza di lei, per
questo aveva corso quel rischio. Dollar invece non aveva finto nessuna morte
per ingannare; aveva lottato fino allo stremo, lo dimostravano i fori di
proiettile sul suo petto e il suo viso ancora distorto dal dolore che gli
avevano provocato. Lo dimostrava la piccola macchia rossa sull’asfalto,
all’altezza delle sue labbra, perché del sangue era colato dalla sua bocca.
Dollar e Aria avevano lottato senza arrendersi, fino alla fine; si erano
sacrificati l’uno per l’altro senza pensare che sarebbe stato inutile. Non come
Romeo e Giulietta; eppure il risultato era lo stesso. Feci un passo verso di
Aria, allungando la mano per spostarle una ciocca di capelli dal viso che non
riusciva a farmi vedere le sue labbra piene, socchiuse; ma sentii le gambe
cedere e mi ritrovai inginocchiata davanti a lei, troppo vicina al suo volto da
non poterne sopportare la vista, perché un flash mi colpì, scambiando per un
attimo il suo volto con quello di Soph. Un singhiozzo sfuggì alle mie labbra e
lasciai che le lacrime offuscassero la mia vista. C’era una sola costante tra
l’incidente di Soph ed Edge e quello che era successo ad Aria e Dollar: io. Ero
io che causavo la morte delle persone che mi stavano vicine, ero io la causa di
tutto.
«Alexis…» chiamò qualcuno che
non riuscii a vedere. Mi sentii sollevare da terra, un braccio mi strinse le
spalle e l’altro scivolò sotto alle mie ginocchia. Istintivamente appoggiai il
capo al petto di chi mi stava sorreggendo e non riuscii a trattenere un
singhiozzo più forte degli altri, seguito subito da un altro. Strinsi il
tessuto di pelle con la mia mano, aggrappandomi forte e chiudendo gli occhi.
Era impossibile rimanere così: l’immagine di Aria e Dollar stesi a terra e
ricoperti di sangue continuava a riproporsi, causandomi una sensazione fastidiosa
che mi fece gemere tra un singhiozzo e l’altro. «Alexis, calma» mormorò la stessa voce di prima, stavolta
vicina al mio orecchio. Non ero nemmeno sicura appartenesse a Ryan, anche se mi
sembrava di scorgere il suo viso preoccupato a pochi centimetri dal mio,
nonostante le lacrime mi impedissero di vedere chiaramente quello che stava
succedendo attorno a me.
«Sono morti» gemetti, portandomi una mano
al petto; lì dove faceva più male di tutto. Lì, dove avevo riservato a loro uno
spazio importante e dove ci sarebbe stato – per la seconda volta – un vuoto. Sentivo
il mio corpo tremare, ma non riuscivo a controllare i muscoli, era come se non
riuscissi a ordinare a me stessa di rimanere ferma, come se l’unica parte di me
che obbediva fosse il mio cervello, che mi stava dicendo una cosa sola: “è
colpa tua”. Perché lo era, per la seconda volta a causa mia era morto qualcuno.
«Alexis, guardami» ordinò la stessa voce
di prima. Doveva essere Ryan, per forza. Nessuno dava ordini tranne lui.
Nessuno aveva il cuore di pietra e riusciva a non piangere, tranne lui. Cercai
di alzare il capo dalla sua spalla, ma era difficile; non riuscivo ancora a
muovermi, così appoggiai la fronte sul suo collo, cercando di sollevarmi, con
lentezza. Quando incontrai i suoi occhi chiari vicino ai miei, mi sentii in
dovere di dirgli la verità.
«Sono morti, per colpa mia» spiegai,
asciugando una lacrima sulla mia guancia con la mano. Una nuova ondata di
lacrime arrivò quando vidi le mie dita sporche del sangue di Dollar. Tornai a
nascondermi contro l’incavo del collo di Ryan, sfogandomi e piangendo,
dimenticandomi delle altre persone di fianco a me. Perché non riuscivo a non
pensare a Liam e a Shake, a JC, ad Aria,
Dollar e al loro bambino. Quanto ancora doveva essere lunga quella lista?
Quante persone sarebbero morte lì, a Hunts Point prima che quella stupida
guerra tra bande finisse?
«Ryan, stanno arrivando gli altri agenti»
bofonchiò qualcuno in lontananza. Non ci feci nemmeno caso, mi raggomitolai più
stretta, svuotando la mente da tutti i brutti pensieri. Sapevo che Ryan non
aveva nulla da ribattere a quello che avevo detto, perché era la verità.
«Cazzo… Brandon, portala a casa». Sentii
Ryan muoversi e le sue braccia si tesero, fino a quando fui costretta ad
abbandonare il suo corpo caldo, perché c’era qualcun altro a sorreggermi.
Brandon, probabilmente, visto che gli aveva appena ordinato di portarmi a casa.
Riuscii a scorgere l’ombra dei suoi capelli scuri e per un istante i suoi occhi
superarono la barriera delle mie lacrime.
Dolore, ecco cosa riuscii a leggere nel suo sguardo. Dolore che avevo
causato io.
«È colpa mia… è, è… tutta colpa mia»
spiegai anche a lui mentre il mio corpo veniva scosso dai singhiozzi. Sentivo
che ci stavamo muovendo, ma non volevo nemmeno guardare dove fossimo diretti,
perché qualsiasi posto non sarebbe stato abbastanza distante da loro, non fino
a quando l’avessimo raggiunto a piedi e in poco tempo.
«No, Lexi. Non è colpa tua, non dire così».
La sua voce bassa cercava di rassicurarmi, senza riuscirci. Non bastava una
bugia per farmi capire che non era colpa mia, non ero così stupida da crederci.
Scossi leggermente il capo per fargli capire che non serviva mentire.
«Sì che è colpa mia. Se io non avessi detto che… che John non ci pagava
sarebbero vivi». Perché mi ero ubriacata
a Natale e avevo fatto scoprire a Ryan il doppio gioco di John. Così loro o i
Misfitous l’avevano ucciso e poi gli altri si erano ribellati uccidendo Aria e
Dollar. A quel pensiero l’immagine dei loro corpi tornò vivida nella mia mente
e mi mancò il fiato per i singhiozzi che non volevano rallentare. Avevo ucciso
due ragazzi di sedici anni.
«Lexi non è colpa tua, cerca di respirare»
mi suggerì Brandon, accarezzandomi la spalla con la mano che mi sorreggeva.
Gemetti infastidita dal suo continuo mentire per non dare la colpa a me, dopo
aver alzato lo sguardo perché potesse vedere che ero cosciente e sapevo quello
che dicevo.
Presi un respiro profondo per cercare di calmare i singhiozzi e,
ignorando le lacrime che non volevano fermarsi, parlai: «Sono io. È la seconda
volta che per colpa mia muoiono due miei amici».
Quella frase, detta a voce alta, era ancora più spaventosa di quando l’avevo
pensata perché rendeva tutto più vero, senza pietà. Lo sguardo di Brandon si
fece serio e vidi la sua fronte corrugarsi, come se volesse sgridarmi ma
qualcosa lo trattenesse.
«Lexi, smettila». Era un ordine
e non avevo nemmeno più la forza di ripetere quello che da troppo stavo
pensando. Sarei scappata lontano da loro, lontano da tutti per salvare le loro
vite perché non potevo permettere che la storia si ripetesse.
«Voglio andare a casa» piagnucolai,
circondando il collo di Brandon con le mie braccia e appoggiando il capo sulla
sua spalla. Sentivo il fruscio del vento sempre più debole e le mie palpebre stavano
diventando sempre più pesanti. Non volevo che Brandon mi lasciasse cadere,
anche se sapevo che le sue braccia erano forti.
«Stiamo andando a casa» mi
spiegò, fermandosi. Una sua mano si spostò dalla mia schiena ma riuscì a
tenermi in equilibrio, poi, sempre più distante, udii il rumore di una porta
che sbatteva e il rimbombo di passi, come se stesse salendo una scala. Dove mi
stava portando? Cosa stava succedendo?
«Voglio andare a casa mia, non voglio che vi uccidano. Se rimango qui
morirete come tutti quelli a cui tengo»
mormorai, lasciando che le lacrime scorressero lungo le mie guance, di nuovo.
Non riuscivo a fermarle e non mi interessava; potevo dimostrarmi debole,
stupida e infantile, ma non ero in grado di contenere tutto quel dolore.
Brandon appoggiò il mio corpo a qualcosa di morbido, ma non avevo la forza di
muovermi o di guardare.
«Lexi, calmati, non devi andare da nessuna parte, cerca di riposare,
rimango qui, ok?». Una carezza sul mio
capo per tranquillizzarmi, mentre cadevo in un oblio interrotto solo da
immagini che si alternavano: Soph, Edge, Dollar e Aria, un circolo che non
voleva smettere.
«Voglio andare a casa»
bofonchiai, lasciando che il buio mi inghiottisse definitivamente.
Andiamo con ordine per queste note finali…
Sick parla del Signor Grey con un chiaro riferimento a 50 sfumature di grigio e ai “poteri sovrannaturali” che
ha (secondo me), però è una cosa scema, visto che la storia è ambientata a
gennaio e il libro a gennaio non era uscito. Quindi, a questo punto, mi sa che
Sick ha letto la fan fiction :D
Le sanzioni e i sei minuti senza protezione esistono
davvero. Nei carcere americani –dove ogni persona per sopravvivere deve
decidere a quale gang affiliarsi –ci sono: ogni tanto, quando sono annoiati,
inscenano questi scontri “tra amici” solo per passare il tempo. Questo non l’ho
scoperto durante il mio giro notturno nei quartieri malfamati del Bronx (come
qualcuno di voi ha ipotizzato io faccia di notte, al posto di dormire) ma l’ho
visto in un programma TV che ormai è diventato la mia droga e mi ha fatto
pensare più di una volta di fare un paio di capitoletti con gli Eagles in
prigione (cosa che NON succederà, comunque).
Il Vernon C. Bain Correctional Center è uno dei due centri con uso di carcere a
Hunts Point. Per quanto riguarda l’altro, lo Spofford Juvenile Center, è stato chiuso a marzo del 2011, ed essendo la storia ora
ambientata a Gennaio 2012 ho preferito rispettare questa scelta. Anche perché
lo Spofford era comunque un centro che ospitava minorenni, cosa che gli Eagles
non sono.
E si passa alle croci sugli occhi e sulle labbra del capitolo
scorso… ho cercato di non sbilanciarmi troppo su questa cosa, ma un paio di voi
l’avevano comunque capito che quello era un trattamento riservato ai traditori.
Ci tengo a precisare che di solito (da quello che ho letto più volte) ai
traditori viene semplicemente tagliata la gola, però volevo qualcosa di più
visivo e più duro, quindi mi sono permessa di inventare questa cosa. Questo per
ricordare che il biglietto da visita degli Eagles è semplicemente l’aquila
intagliata nel petto.
E si passa alla scena finale. Non ho molto da dire,
sinceramente. Cioè, avrei anche troppo da dire, ma non voglio assolutamente
spiegare il perché. Prima di tutto mi sembra chiara la scelta del titolo del
capitolo, Lexi fa un ragionamento preciso e mi piace seguire il suo istinto per
il titolo.
Perché questa scelta? Questa scena è stata l’idea iniziale di
You saved me, la storia è partita
dalla sparatoria, da quello che succede e poi si è sviluppata prima verso il
finale e poi verso i primi capitoli. Non era mia intenzione coinvolgere anche
lei, l’idea di partenza era solamente lui, poi, come ho ripetuto più volte, il
suo personaggio mi ha preso la mano ed è diventato uno dei principali senza
volerlo. Senza cuore? Bastarda? Stronza? Ditemi quello che volete, ma posso
assicurarvi che non sapete cosa ho passato per scrivere quelle righe. Vi ho
fatto soffrire? Da una parte lo ammetto, se sono riuscita anche solo a smuovere
qualcosa dentro di voi… mi sento felice, perché vuol dire che almeno un po’ ai
personaggi ci eravate affezionate. Dall’altra mi dispiace, ma ho sempre detto,
dall’inizio della storia, che tutti i personaggi erano in pericolo e che non
dovevate affezionarvi a nessuno, perché non assicuravo la vita di nessuno.
Vorrei di nuovo ringraziare tutti i preferiti, i seguiti,
quelle che hanno inserito la storia tra le ricordate, chi ha avuto il coraggio
di inserirmi tra gli autori preferiti (tanto lo so che a mano a mano che
leggete il capitolo i numeri caleranno eh! :P) e chi recensisce sempre. Un
grazie enorme e di cuore, davvero!
Come sempre ricordo il gruppo spoiler, dove do tutte le
anticipazioni e dove ogni tanto attento alla vostra vita con foto che fanno
morire: NERDS’
CORNER.
Grazie ancora per aver letto.
Rob.
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Capitolo 17 *** The last goodbye ***
YSM
Svegliarsi dopo un incubo,
con la testa che doleva per le troppe lacrime versate non era mai il modo
migliore per cominciare una giornata; soprattutto se, appena sveglia, ricordavi
l’orrore visto il giorno prima: il modo truce in cui due delle persone più care
erano state freddate e lasciate lì, in mezzo alla strada.
Mi alzai dal divano
cercando di non pensare a niente, volevo svuotare la mente come era successo
con tutti i miei sentimenti, avevo bisogno di rilassarmi e di non pensare,
prima di cominciare a preparare le valigie per tornare a casa. Dovevo salvare i
ragazzi allontanandomi da loro, perché ovunque io andassi, portavo morte e
lacrime. Ecco il mio unico pensiero mentre scostavo la coperta che qualcuno mi
aveva sistemato perché non prendessi freddo. Sussultai spaventata quando, dopo
essermi legata i capelli, vidi Ryan seduto su una sedia della mia cucina; il
volto spento e nessuna fiammella di vita in quello sguardo che di solito covava
rabbia e trasmetteva ironia. Stava fumando con un gesto troppo meccanico per
sembrare rilassato: la mano destra si spostava dalle labbra per poi appoggiarsi
alla coscia mentre soffiava fuori una nuvola di fumo grigio; lo sguardo fisso
davanti a lui, ma al contempo distante ore e chilometri. Non avevo nemmeno la
forza di sgridarlo per tutti i filtri di sigaretta che c’erano per terra.
Vidi i suoi occhi posarsi
su di me per un istante, non appena mi alzai dal divano. Nessun saluto, nessuna
battuta idiota, solamente le sue labbra socchiuse per far uscire una nuvola
grigia di fumo. Mi avvicinai al frigo, prendendo una bottiglia d’acqua e
riempendomi un bicchiere senza dire nemmeno una parola; Ryan, come pensavo, non
fece niente per rompere quel silenzio, rendendo la cucina del mio appartamento
quasi opprimente, come se stesse cercando di farmi capire che dovevo andarmene
subito da lì. Camminai verso il bagno, spogliandomi in modo meccanico e
socchiudendo gli occhi per far scendere le lacrime nate quando il mio sguardo
si era posato sui miei vestiti macchiati di sangue.
Aria e Dollar. Ancora una
volta non riuscivo a non pensare a loro, ai loro corpi distesi lì, in mezzo
all’asfalto e ricoperti di sangue. Non ero in grado di lavare via
quell’immagine dalla mia mente, non come avevo fatto con il sangue rappreso
sulle mie mani. Uscii dalla doccia arrotolandomi un grande asciugamano bianco e
tamponando i capelli, legandoli subito dopo anche se erano umidi. Indossai un
paio di pantaloni e una maglia che avevo appeso all’attaccapanni del bagno la
mattina del giorno precedente, prima di uscire con Aria e Dollar, e, senza
pensare alle lacrime che non accennavano a fermarsi, andai in camera, decisa.
Sapevo quello che avrei fatto: per il bene di tutti e per non impazzire dovevo
andarmene da lì. Magari sarei tornata in California; anzi… mi era sempre
piaciuta la Florida, lì avrei potuto fare surf e il clima era simile a quello
di Los Angeles. Sì. Sarei partita quel giorno stesso.
Quando tornai in cucina
trovai Ryan seduto sulla stessa sedia, l’unica differenza era la sigaretta
spenta, che si era aggiunta a tutti i filtri accumulati dentro al posacenere e
sul pavimento. Non parlai, di nuovo; mi limitai solamente ad aprire le ante dei
mobili della cucina per prendere le pentole e ammucchiarle sopra al tavolo. Le
avrei inscatolate entro quel pomeriggio; sapevo che ci sarebbero stati problemi
per il trasloco, ma potevo fare con calma, mi sarei fatta spedire dai ragazzi
gli scatoloni un po’ alla volta, dopo aver trovato una sistemazione decente,
lontana da gang e da morti.
«Cosa stai facendo?»
sbottò Ryan. Alzai lo sguardo per guardarlo e notai che i suoi muscoli erano
tesi, non sembrava rilassato e indifferente come qualche minuto prima. Ignorai
quella strana sensazione e continuai ad appoggiare le pentole in modo ordinato,
tenendo la mente concentrata per posizionarle una sopra l’altra, dalla più
grande alla più piccola. Sentivo però lo sguardo di Ryan puntato su di me e
sapevo che l’unico modo per far sì che la smettesse era rispondere.
«Le valigie. Me ne torno a casa, non posso più
stare qui» mormorai, lasciando che una lacrima scendesse lungo la mia guancia
per cadere poi sulla mia mano che stava sistemando i coperchi delle pentole.
Ryan si irrigidì ancora di più, tanto che vidi le sue mani stringersi a pugno
sulle sue ginocchia, come se volesse trattenere un attacco di rabbia. Non avevo
però il coraggio di guardarlo in faccia di nuovo, timorosa di quello che avrei
potuto vedere.
«Fai le valigie per andare
dove? A casa? Scappi di nuovo esattamente come hai fatto quando sei arrivata? È
questo che vuoi fare per tutta la tua vita, scappare alla prima difficoltà?».
Disprezzo, amarezza, rabbia… non riuscivo nemmeno a capire quali fossero i
sentimenti che provava Ryan, ma di certo si poteva notare l’odio che provava
verso di me, perché gli avevo portato via Aria e Dollar, due delle persone
probabilmente più importanti per lui e per tutti gli Eagles.
«Non si tratta di scappare alla prima difficoltà, non capisci? Ovunque vada le
persone a cui voglio bene finiscono per ferirsi o farsi male e sono stanca». La
mia voce era stridula ma non me ne curai; non mi interessava nemmeno delle
lacrime che scendevano lungo le mie guance. Probabilmente sembravo una bambina,
ma Ryan poteva pensare quello che voleva, non mi interessava. Sapevo che era
colpa mia e me ne sarei andata per salvarli tutti, perché non dovevano morire
per colpa mia.
«Non è colpa tua, andiamo. Se vuoi pensarla così… fai pure, va avanti, ma non è
per colpa tua che sono morti Aria e Doll. La gente qui muore ogni giorno, molto
più di quello che tu immagini». Le sue mani corsero sopra al tavolo per
afferrare l’accendino e il pacchetto di sigarette; ne tirò fuori una,
stringendola tra le labbra mentre la accendeva. Di nuovo, come già era
capitato, la luce prodotta dalla fiamma illuminò il volto di Ryan, mostrandomi
il suo zigomo con una piccola ferita. Assomigliava a una sbucciatura, come
quando da bambina cadevo dalla tavola da surf, ferendomi le ginocchia sugli
scogli.
«Mi sono ubriacata e siete venuti a sapere che John non ci pagava, se non
l’avessi detto non sarebbe successo tutto questo casino». Continuavo a ripetere
quelle frasi in modo meccanico camminando avanti e indietro per appoggiare le
pentole sulla tavola. Non pensavo nemmeno a quello che dicevo; la verità era
che durante la doccia avevo rimuginato su quella decisione e niente e nessuno
mi avrebbe mai fatto cambiare idea, perché sapevo che era colpa mia. Me
l’avevano ripetuto Ryan e Brandon e sapevo che se Aria fosse stata lì si
sarebbe arrabbiata con me, perché secondo lei non era colpa mia. Aria…
socchiusi gli occhi sentendo una nuova ondata di lacrime arrivare. Stavo
piangendo, di nuovo. Avevo perso il conto delle volte in cui l’avevo fatto lì,
a Hunts Point.
«Vuoi metterti in quella fottuta testa che non è colpa tua se la gente muore?
Vai dove cazzo vuoi, ma non rifilare a nessuno la scusa che la gente muore per
causa tua, perché non è vero». Ryan si alzò di colpo dalla sedia, facendola
sbattere con lo schienale per terra a causa del contraccolpo. La sigaretta era
caduta sul pavimento, ma non sembrava nemmeno accorgersene, troppo impegnato a
stringere il bordo del tavolo con forza, come se volesse scaricare tutta la
rabbia su quell’oggetto. Ero stanca; stanca di scappare per proteggere le
persone e stanca di essere sempre la causa di tutto. Secondo Ryan potevo andare
dove volevo, bene, l’avrei fatto!
«Vado dove voglio, hai ragione. Vado a casa, parto oggi pomeriggio» spiegai,
tenendo lo sguardo abbassato perché non volevo più scontrarmi con i suoi occhi
tristi e stanchi. Sapevo che soffriva; Ryan non aveva un cuore, ma soffriva
anche lui per la perdita di Dollar e Aria, ne aveva dato prova quando – con le
mani sul viso di Dollar – l’aveva scosso nonostante fosse già morto.
«Almeno saluta Doll e Aria, non credi di doverglielo?». Senso di colpa. Tipico
di Aria; non era così che mi aveva obbligata a seguirla il giorno prima? Però,
in quella frase di Ryan, c’era anche la sua ironia. Questo perché Ryan,
nonostante tutto, soffriva. Forse anche lui aveva un cuore. Raccolse la
sigaretta che gli era caduta e dopo averla spenta dentro al portacenere – facendo
cadere altri filtri consumati sopra al tavolo –si avvicinò alla porta del mio
appartamento, fermandosi con la mano sulla maniglia. «I funerali sono domani
mattina. Fai quel cazzo che vuoi». Non si voltò per guardarmi, ma capii che aspettava
una mia risposta quando, dopo qualche secondo di silenzio, la sua mano non girò
il pomello per aprire la porta.
«Aspetterò domani allora;
partirò dopo i funerali». Sapevo che era la cosa giusta da fare. Perché Aria e
Dollar mi erano stati vicino come solo Soph ed Edge avevano fatto. Era Dollar
che mi aveva portata al sicuro, la sera del mio arrivo a Hunts Point, durante
la rissa con i Misfitous; era Aria ad avermi accolta come se mi conoscesse da
sempre, dopo che John mi aveva derubato. Aria e Dollar meritavano la mia
presenza al loro funerale, perché erano mei amici e volevo bene a loro, anche a
quel piccolo fagiolino dentro alla pancia di Aria, lo stesso che avevo scoperto
per prima, grazie ai miei studi.
La mia risposta sembrò
soddisfare Ryan, perché aprì la porta, uscendo dal mio appartamento e
richiudendosela subito dopo alle spalle. Nessuna parola, nessun suono
all’infuori del mio respiro che si faceva sempre più veloce, producendo un peso
sul mio petto.
«Vaffanculo» urlai scagliando
la pentola che avevo in mano contro la porta. Non ci arrivò, cadendo sul pavimento
qualche metro più avanti e producendo un frastuono che non riuscì a superare il
mio urlo. Caddi sulle ginocchia singhiozzando, lasciando finalmente che le
lacrime che avevo – malamente – trattenuto per la presenza di Ryan scendessero,
rigandomi le guance. Era un urlo contro Ryan, contro la vita che faceva e aveva
costretto Dollar e Aria a fare. Era un urlo contro John e la sua stupidità,
perché aveva ricevuto protezione da entrambe le gang, tradendo la loro fiducia.
Era un urlo contro tutti e contro nessuno, contro me, che mi incolpavo per
tutto e contro i miei genitori, che mi avevano abbandonata e si erano
dimenticati di me, evitando perfino di farmi gli auguri per Natale. Piansi fino
a sentire la gola bruciare, con i palmi delle mani appoggiati al pavimento
perché non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi. Quando capii che non sarei
riuscita a cambiare il corso della mia vita rimanendo lì per terra a piangere,
mi sforzai di alzarmi per andare verso il divano, dove mi distesi, coprendomi
con la coperta che – probabilmente – mi aveva sistemato Brandon la sera prima.
Non appena chiusi gli occhi promisi a me stessa che non avrei più pianto per
Aria e Dollar; promessa che infransi la mattina dopo, il giorno del loro
funerale.
Quella mattina anche il cielo
sembrava triste per Aria e Dollar. Hunts Point era sovrastato da nuvoloni neri
che minacciavano pioggia; la stessa che probabilmente avrebbe fatto sciogliere
un po’ della neve che ricopriva i marciapiedi e i bordi delle strade. Mi
asciugai una lacrima che scendeva silenziosa lungo la mia guancia e sistemai il
vestito che avevo appena indossato; lo stesso che Aria mi aveva costretto a
comprare un paio di settimane prima. «Smettila di rompere Lexi, quel colore ti
dona e sei ancora più gnocca perché contrasta con i tuoi capelli scuri». Così
si era imposta senza che avessi possibilità di ribadire: mi aveva sfilato di
dosso il vestito in mezzo al negozio, senza curarsi delle altre persone che
avrebbero potuto vedermi in intimo. Durante quella giornata di shopping
sfrenato Aria mi aveva costretta a comprare anche un paio di scarpe con il
tacco perché «Sei alta come una persona normale con queste ai piedi e magari
qualcuno ti noterà». Non aveva ceduto, spiegandomi chi mi doveva notare. Aria
era una persona odiosa, quando si intestardiva per tenerti all’oscuro di
qualcosa. Un sorriso amaro si posò sulle mie labbra, mentre indossavo quei
tacchi altissimi con cui rischiavo di rompermi una caviglia. Glielo dovevo, mi
sentivo obbligata a portarli, sicura che, per qualsiasi altra occasione Aria mi
avrebbe costretta a indossarli. In equilibrio precario mi diressi fino al
divano per prendere la borsa e, dopo aver indossato un giaccone pesante per ripararmi
da quel freddo pungente; sospirai, appoggiando la mano sulla maniglia. Dovevo
essere forte, non potevo dimostrarmi debole, non dovevo piangere.
Quando però aprii la porta e
vidi tutti i ragazzi in silenzio sul pianerottolo, la promessa che avevo appena
fatto a me stessa andò in frantumi; la vista mi si appannò e qualcosa di caldo
scivolò giù, lungo le mie guance. Mi voltai, guardando la porta del mio
appartamento e asciugandomi una lacrima cercando di non farmi notare dai
ragazzi.
«Andiamo» ordinò Ryan.
Nessuna ironia nella sua voce, non mi aveva nemmeno salutata. Non che mi
aspettassi quel gesto da parte sua, visto il modo in cui se ne era andato dal
mio appartamento la sera prima, dopo quello che era successo. Aspettai qualche
secondo, sentendo i passi dei ragazzi che scendevano la scala e poi, dopo
essermi asciugata di nuovo le lacrime ed essermi promessa che non avrei più
pianto, li seguii, in silenzio.
Credevo che avremmo preso le
moto o che saremmo andati a piedi, in fin dei conti il cimitero era a pochi
isolati da Whittier Street, per questo quando vidi Ryan e i ragazzi uscire dal
portone dello stabile per poi dirigersi nel retro mi fermai, confusa. Cosa
c’era nel retro del 198 di Whittier Street? Perché non sapevo nemmeno che il
mio palazzo avesse uno spazio abbastanza grande per ospitare… «Wow» sussurrai
stupita, vedendo quelle tre auto parcheggiate in quello spiazzo di cemento
chiaramente adibito a parcheggio. Erano tutte dei ragazzi? Come facevano a
permettersi quelle auto lussuose? Le avevano rubate a qualcuno? C’erano troppe
domande nella mia testa che non avrebbero avuto di certo una risposta, visto
che Ryan salì sulla prima auto – al posto di guida –; Brandon fece lo stesso
con la seconda e Sick li imitò, aprendo però lo sportello della terza macchina.
I ragazzi si divisero: Paul e Josh salirono sui sedili posteriori della
macchina guidata da Brandon, Ham e Swift invece in quella di Sick. Lebo mi
guardò, accennando un sorriso e indicando, con un gesto del capo, la macchina
che aveva Ryan alla guida. Non avevo nemmeno voglia di discutere così mi
incamminai verso la berlina scusa, salendo sul sedile anteriore. Ryan mi guardò
sorpreso, bofonchiando qualcosa prima di scuotere il capo, avviando il motore.
«Agganciati la cintura di
sicurezza» proruppe immettendosi in strada, senza veramente controllare se ci
fossero macchine che sopraggiungevano. Mi voltai a guardarlo stupita; mi stava
ordinando di agganciare la cintura di sicurezza quando lui era il primo a non
farlo? Stavo per ribattere che forse doveva indossarla prima lui, ma lo sguardo
di Ryan – triste, furioso e malinconico – mi bloccò, impedendomi di ribattere. «Subito»
continuò poi, senza smettere di guardarmi. Sapevo che non mi avrebbe dato pace
fino a quando non l’avessi indossata, così, trattenendo a stento un sbuffo per
l’irritazione, feci come mi aveva ordinato.
Ryan si fermò un isolato
prima del cimitero, posteggiando l’auto di fianco alla strada; sentii i motori
di altre due macchine spegnersi e istintivamente mi voltai, vedendo che, appena
dietro all’auto di Ryan c’erano Brandon e Sick. Lo sportello di Ryan si aprì e,
prima ancora di scendere dall’auto, si accese una sigaretta, richiudendosi la
portiera alle spalle e appoggiandosi con la schiena alla macchina per fumare.
In pochi istanti tutti i ragazzi si radunarono lasciandomi dentro all’auto da
sola, oppressa da quel silenzio che non mi permetteva nemmeno di sentire le
loro voci. Scesi, raggiungendoli ma rimanendo un po’ in disparte perché non
volevo ascoltare che cosa avessero da dire; sapevo che Ryan mi teneva
all’oscuro riguardo diversi aspetti degli Eagles e non volevo essere così
presuntuosa da origliare i loro discorsi, non in quel momento.
Cominciai a guardarmi
attorno, concentrandomi sul vialetto ricoperto di neve; il lungo viale alberato
non era come l’avevo visto a luglio, con gli alberi che proteggevano dalla luce
del sole, c’erano solo rami secchi, coperti di neve. Tutto era ricoperto di
neve; tutto era bianco e grigio: il cielo, il paesaggio e anche le lapidi, che
si confondevano e disperdevano in mezzo a tutto quel bianco. Poco distante da
me c’erano due ragazze; vedevo i loro sguardi nascosti da un paio di occhiali
da sole scuri, ma le riconobbi subito, nonostante le avessi viste solamente per
qualche minuto, un mese prima: erano Irene e la sua amica. Irene, l’ex Signora
di Brandon. Mi salutò con un gesto della mano e risposi con un timido sorriso,
chiedendomi chi le avesse avvertite. Pensiero stupido, visto che la notizia
della morte di Aria e Dollar si era sparsa in poco tempo, portando tristezza e
sorpresa: più di qualche abitante di Hunts Point si era infatti chiesto come
mai Ryan non avesse già attuato una vendetta, uccidendo tutti i Misfitous,
visto che avevano a loro volta ammazzato una Signora, per di più incinta.
«Brandon» mormorò Irene,
avvicinandosi a lui per attirare la sua attenzione. Vidi il corpo di Brandon
tendersi appena, riconoscendo quella voce probabilmente per lui famigliare;
socchiuse gli occhi prendendo un respiro profondo e si voltò verso di lei, con
uno sguardo spento. «Mi dispiace così tanto» singhiozzò Irene, raggiungendolo
in un paio di passi e abbracciandolo. Vidi il suo corpo scosso dai singhiozzi e
una lacrima superò la barriera degli occhiali scuri, scendendo lungo la sua
guancia.
«Ciao» bofonchiò Brandon, dandole
un bacio tra i capelli e ispirando a occhi chiusi. Le braccia di Brandon
circondarono il corpo di Irene, stringendola quasi in modo possessivo. Sentivo i
suoi singhiozzi attutiti, visto che il suo volto era appoggiato al giaccone di
Brandon, ma capii qualche parola di quello che stava dicendo a lui. «Non
importa, sta tranquilla» rispose, accarezzandole di nuovo il capo, per
tranquillizzarla. Irene cercò di parlare ancora una volta, stringendo le
braccia attorno al corpo di Brandon che le appoggiò una mano sulla guancia,
perché potesse guardarla negli occhi; l’altra mano si spostò sul suo viso,
sollevandole gli occhiali da sole e mostrando i suoi grandi occhi azzurri
velati dalle lacrime. «Irene, smettila. Non mi interessa». C’era l’ombra di un
sorriso in quelle labbra circondate dal pizzetto, come se fosse felice.
«No, Brandon io…» cercò di
nuovo di spiegare lei, levandosi una lacrima dalla guancia con un gesto secco
della mano. Lui non le permise di concludere la frase, accarezzandole una
guancia e baciandole la fronte, bofonchiando qualcosa che non riuscii a
comprendere, se non qualche parola come «dopo» e «casa». Irene annuì, prendendo
un respiro profondo per calmarsi un po’.
Ryan, proprio come gli altri
ragazzi, era immobile a qualche passo di distanza da Brandon e Irene e non era
intervenuto. Esattamente come era accaduto la notte in cui avevo incontrato Irene
per la prima volta –andando a pattinare a Lower Plaza – nessuno dei ragazzi
aveva interferito con la chiacchierata tra Brandon e Irene; erano attenti a
tutto quello che accadeva, senza però intervenire o disturbare.
«Entriamo» ordinò Ryan,
gettando la sigaretta per terra e spegnendola con la punta della scarpa. Senza
aggiungere altro abbandonò il lungo viale alberato, valicando il cancello in
ferro battuto ed entrando al Joseph
Rodman Drake Park. Quel piccolo parco adibito a cimitero non era più grande
di tre ettari; la parte che ospitava le lapidi poi era racchiusa da un recinto
in ferro, come se quella cinquantina di lapidi fosse così protetta. Mi ero
chiesta, la volta precedente – durante il funerale di JC – come mai solamente
gli Hard-Cores degli Eagles fossero le uniche persone sepolte in quel piccolo
cimitero in tempi recenti – visto che quasi tutte le lapide portavano date di
due secoli prima –. Aria mi aveva spiegato che Ryan aveva adibito quel piccolo
cimitero come “cappella degli Eagles” solamente perché Joseph Rodman Drake aveva scritto in The American flag.
Ryan camminò fino ad arrivare sotto a una grande quercia,
isolata da tutte le altre tombe. Lì, ricoperte da due grandi cuscini di rose
rosse, bianche e blu – che probabilmente
volevano rappresentare la Stars and
Stripes – c’erano le bare di Aria e Dollar. Vedere i loro nomi incisi mi
fece salire di nuovo le lacrime agli occhi, come se solo in quel momento
riuscissi a capire che non li avrei più rivisti.
Aria Butler.
Jack “Dollar” Smith.
Quei due nomi continuavano ad attirare la mia attenzione,
nonostante non volessi leggerli. Le date sotto poi, rendevano tutto ancora più
macabro; non potevano essere così vicine. Sedici anni, come si poteva morire a
sedici anni perché qualcuno ti sparava a sangue freddo? Quella persona non era
nemmeno umana, non poteva avere sentimenti, aveva meno cuore di Ryan.
«Ehi» sbottò qualcuno, appoggiandomi una mano sulla
spalla. Sussultai, alzando lo guardo dalle lapidi per capire chi fosse.
Difficile dirlo, visto che non riuscivo a vederci con le lacrime che rendevano
tutto confuso, ma sembrava Ryan. Mi strofinai le guance, trattenendo l’ennesimo
singhiozzo e guardando Ryan ora davanti a me. Sembrava volesse dire qualcosa, ma
ci rinunciò subito dopo. «Siediti» ordinò, indicando una sedia di fianco a lui.
Era la sedia più vicina alla lapide di Aria, da lì potevo vedere il suo nome
scalfito nella pietra; riuscivo anche a scorgere la lapide di Dollar e rimasi
colpita da una differenza: sulla pietra grigia, sopra a Jack “Dollar” Smith
c’era un’aquila. Sopra al nome di Aria invece vedevo un piccolo angelo, con il
volto rivolto verso l’aquila. Strinsi convulsamente il fazzoletto tra le mani, torturandolo;
quel metodo però non funzionò, visto che cominciai a piangere di nuovo. Dovevo
andarmene da quel posto, il più presto possibile. Sarei partita subito dopo il
funerale, avrei telefonato a Brandon e gli avrei chiesto di spedire le mie cose
al mio nuovo indirizzo; di Brandon potevo fidarmi.
Alla mia sinistra prese posto
Brandon, subito dopo di lui c’era Irene, ancora nascosta dagli occhiali scuri.
Di fianco a Ryan, alla sua destra, si sedette Sick. Per la prima volta non
c’era quel suo sguardo da maniaco, era semplicemente uno sguardo triste e
spento, come quello di tutti i ragazzi. Paul, Josh, Ham e Swift presero posto
nella fila di sedie dietro a noi. Riuscivo a udire un vociare crescere, come se
lentamente arrivassero le persone, non ero però in grado di vederle, perché le
lacrime offuscavano tutto. Sentivo Ryan e Sick bofonchiare qualcosa; sembravano
discutere di una decisione presa, una decisione insindacabile.
«Michael?» domandò una voce
femminile, non molto distante da me. Istintivamente mi voltai per capire a chi
appartenesse, ma, nonostante avessi cercato di asciugare le lacrime, non
riconoscevo quella ragazza con i capelli castani. Era alta e bella, con un
fisico quasi da modella: non indossava gli occhiali da sole e si vedeva che
aveva pianto: i suoi occhi marroni erano circondati da due grosse occhiaie
scure, come se non dormisse da giorni.
«Oh cazzo» sbottò Sick, come
se c’entrasse qualcosa con quella ragazza. Smise di parlare con Ryan, alzandosi
lentamente in piedi e camminando fino a lei. Quando fu sufficientemente vicino
si abbassò, guardandola come se fosse un’allucinazione. «Che cosa ci fai qui?».
Non riuscivo a vedere lo sguardo di Sick, ma dalla voce si capiva quanto quella
ragazza fosse in grado di incidere sul suo umore. Che fosse… che fosse Claire?
«Lo sai che volevo bene ad Aria e Dollar, non potevo mancare». Accennò a un
sorriso stanco, torturandosi le mani e giocherellando con l’anello d’oro che
aveva all’anulare sinistro. Quella ragazza era sposata, quindi doveva per forza
essere Claire.
Sick si mosse irrequieto,
facendo mezzo passo indietro per non essere troppo vicino a lei, come se la
vicinanza gli costasse un certo sforzo. «Chi ti ha detto di Aria e Dollar?».
C’era quasi rabbia nella voce di Sick, sembrava che vedere Claire non fosse una
cosa piacevole per lui. Strano, visto che ogni volta che parlava di lei appariva
innamorato.
«Ho i miei contatti». Una
risposta fredda che si intonava all’espressione su quel viso stanco,
incorniciato da lunghi capelli castani che ricadevano scomposti sulle spalle.
Claire era davvero una bella ragazza e riuscivo a capire perché Sick fosse – nel
suo modo distorto, certo – ancora innamorato di lei. Se poi sapeva tenergli
testa, forse erano davvero fatti l’uno per l’altra.
«Quindi non sei venuta qui
per rivedere me?». C’erano ironia, disprezzo e tristezza in quella frase. Si
capiva che Sick soffriva ancora e forse per quello si comportava in modo così
brusco con Claire. Non le lasciò nemmeno il tempo di rispondere, le diede le
spalle, tornando a sedersi di fianco a Ryan. «Puoi anche tornartene da tuo
marito» sbottò, prendendo una sigaretta dalla tasca del giaccone che indossava
e accendendola dopo averla portata alle labbra.
«Michael, per favore»
supplicò Claire, facendo un passo verso di lui. Non mi guardò, non guardava
nemmeno i ragazzi; nessuno, solo Sick. Sick che continuava a comportarsi come
un bambino, guardando dalla parte opposta del cimitero, come se, fuori da
quella recinzione in ferro battuto, ci fosse qualcosa di interessante. «Michel,
parliamo» insistette, appoggiando la mano sinistra su quella di Sick.
Il suo sguardo si abbassò,
focalizzandosi sulle loro mani che si toccavano. «Va via. Siamo a un funerale e
non ho voglia di parlare con te. Tornatene in Italia da tuo marito». A quella
frase non riuscii a trattenere una risata che, unendosi a un singhiozzo, spaventò
Ryan tanto che mi guardò, sorpreso.
Quella situazione era così
surreale da ricordarmi, ancora una volta, perché volessi andarmene. Hunts Point
non rispecchiava il mondo reale; Hunts Point era un quartiere isolato da tutto,
dove era quasi normale ridere partecipando a un funerale e piangere scoprendo
che una ragazza di sedici anni era incinta. Hunts Point mi sarebbe mancato, ma
dovevo allontanarmi ed era solo questione di ore, ormai.
Qualche istante dopo comparve
il pastore, riportandomi alla realtà e zittendo Claire che cercava di far
ragionare Sick, costringendolo a parlare con lei. Ci rinunciò con un sospiro,
andando a sedersi in fondo, nelle ultime sedie rimaste vuote.
Le parole del pastore
sembravano infliggermi una coltellata ogni secondo che passava, come se tutto
quello che diceva fosse riferito a quello che era successo lì a Hunts Point con
Aria e Dollar. Il mio arrivo, Dollar che mi aveva portata al 3B, Aria e la sua
accoglienza al Phoenix, il nostro diventare sempre più amiche, il vederla
sorridere durante la sua festa di fidanzamento e le sue lacrime dopo quel test
di gravidanza. Il suo indice puntato contro di me se voleva obbligarmi a fare
qualcosa e la cicatrice di Dollar che si increspava ogni volta che regalava un
sorriso a lei. Le mani di Dollar che proteggevano la pancia di Aria e quella
nuova vita dentro di lei… senza nemmeno accorgermene cominciai a piangere di
nuovo, isolandomi da tutti e non capendo che Sick si era alzato per camminare
fino alle due bare. Si posizionò in mezzo, attirando la mia attenzione dopo che
si era schiarito la voce.
«Io… mi hanno detto che
dovevo fare il discorso, il problema è che non sono tanto bravo con le parole.
Ci proverò lo stesso. Vorrei spendere prima cinque minuti di tempo per Aria,
una ragazza fantastica che aveva due belle tette. L’ho sempre detto a Dollar
che lo invidiavo per quello; insomma Aria fin da piccola si è dimostrata una
ragazza che sapeva tenere testa a Dollar, era dell’idea che siccome aveva la
patata sarebbe stata in grado di tenerlo in pugno, e aveva ragione», si
interruppe, prendendo un respiro e sentii una risata di Ryan, di fianco a me. «Insomma,
Aria era una ragazza speciale e tutti voi sapete che non mi sarei perso per
niente al mondo la festa di Aria e Dollar, quella dove l’abbiamo ufficializzata
a Signora». Un nuovo attimo di silenzio, interrotto dalle risate dei ragazzi
che probabilmente ricordavano fin troppo bene Sick nudo, con lo stampo di una
mano sul sedere. «Aria era figa dentro e fuori, e poi aspettava un bambino. Una
bambina, per essere precisi; bambina che mi sarei trombato tra una quindicina
d’anni, dopo essermi assicurato che avesse le
tette della madre. Però, ammettiamolo, Aria era figa e stupida. Perché
non si può innamorarsi di Doll. Lui era un cretino», lo sguardo di Sick si
spostò, per posarsi sulla bara davanti alla lapide con la foto di Dollar; poi
continuò: «l’ha dimostrato dall’inizio, guadagnandosi quel soprannome che tutti
conosciamo, e l’ha dimostrato anche senza aver fatto la prova dell’ascensore.
Perché Doll aveva le palle, ha combattuto fino alla fine, come ha fatto Aria.
Siamo tutti fieri di loro, siamo felici di aver donato quel flag a Dollar,
perché l’ha portato con onore, non l’ha mai fatto cadere, non c’era polvere su
quel pezzo di stoffa rossa insanguinata. Non c’è mai stata fino a quando il suo
sangue ha ricoperto completamente anche quello di JC, una persona davvero
importante per entrambi. Non voglio parlare di lui, ma so che da lassù Dollar
si sta lamentando perché lo sto prendendo in giro. In verità non so che dire. Era
un bravo ragazzo, trombava poco… no, non è vero. Trombava come un riccio e lo
prendevamo sempre per il culo perché gli volevamo bene, quindi… continua a
trombare amico». Lo sguardo di Sick si spostò verso l’alto mentre si portava un
pugno al cuore, socchiudendo gli occhi. Stupido Sick che era riuscito a farmi
piangere di nuovo, con un discorso tanto serio quanto idiota e volgare.
Speravo che quella tortura
fosse finita, ma mi sbagliavo; Ryan si alzò camminando fino all’esatto punto in
cui Sick aveva tenuto il discorso. Ne avrebbe fatto uno anche lui? Ryan, l’O.G.
senza cuore degli Eagles, avrebbe fatto un discorso per salutare Aria e Dollar?
Mi aspettavo di tutto, ero quasi pronta a sentirlo parlare di quanto Dollar non
sapesse picchiare o sparare, sicura che sarebbe stato quasi un discorso senza
sentimenti. Il gesto di Ryan però mi stupì, facendomi bloccare il respiro:
estrasse dalla tasca dei suoi jeans scuri un flag rosso, sistemandone un altro
che era quasi uscito, e, dopo averlo preso tra le mani, tirò in due direzioni
diverse, rompendolo esattamente a metà. Doveva essere il flag di Dollar, vista
la quantità di sangue che c’era sopra, per questo – e anche per l’importanza
che sapevo loro davano a quel pezzo di stoffa – non riuscii a trattenere un
singhiozzo più forte, mentre Ryan appoggiava un pezzo di flag sopra alla lapide
di Dollar e un altro su quella di Aria. Fermò i due pezzi di stoffa con dei
sassi, tornando poi a sedersi di fianco a me senza dire una parola. La visione
dei due pezzi di stoffa rossi sopra alle due lapidi grigie in quel prato bianco
era quasi fastidiosa, soprattutto perché il forte vento – che minacciava una
pioggia sempre più imminente – continuava a farli sventolare.
Qualcosa di caldo si appoggiò
sopra al mio ginocchio, stringendo appena la presa, ma non me ne curai,
incapace di distogliere lo sguardo dalla foto di Aria, così sorridente e
felice. Non ascoltai altro; il dolore era troppo e la funzione finì
fortunatamente poco dopo, lasciandomi in uno stato quasi catatonico seduta su
quella sedia, a pochi metri da quelli che erano stati forse i miei unici, veri
amici lì. Vedevo le persone avvicinarsi alle due lapidi e appoggiarci le dita
sopra, per salutare un’ultima volta quei due ragazzi, sentivo il vociare farsi
sempre meno forte, come se le persone, a poco a poco, se ne stessero andando.
C’era però il costante borbottio di Ryan che ringraziava tutti, sempre con lo
stesso tono distaccato, come se non gli interessasse veramente e fosse lì solo
perché costretto. Forse era davvero così, forse Ryan non avrebbe mai voluto
partecipare a quel funerale. Mi asciugai una lacrima, decisa che non avrei più
pianto. Dietro a una signora che non conoscevo, c’era Peter. Sembrava che tutti
se ne fossero andati, dopo aver fatto le condoglianze a Ryan e che Peter e
quella signora fossero gli ultimi rimasti.
«Ciao» mormorò Peter,
cercando di sorridere verso di me. Risposi con un cenno del capo, sapendo che
non sarei stata capace di parlare. «Vai pure a casa mamma, ti raggiungo tra poco»
sussurrò alla signora, appoggiandole gentilmente una mano sulla schiena per
allontanarla da Ryan che le stava chiedendo come si sentisse. La mamma di
Peter? E perché Ryan la conosceva e sembrava così gentile con lei?
La signora salutò tutti,
rivolgendomi un sorriso materno che mi scaldò il cuore e poi si allontanò.
«C’è qualche problema?» chiese Ryan, sospettoso.
Sembrava che qualcosa nel comportamento di Peter l’avesse insospettito al punto
che vidi i muscoli del suo corpo tendersi e i ragazzi avvicinarsi a lui. Erano
in posizione di attacco e sarebbero scattati al primo segnale.
Peter scosse la testa,
cercando di spiegare che non c’era nessun problema, poi, dopo aver preso un
respiro profondo, cominciò a parlare: «Ieri ho
ricevuto notizie da mio padre, non posso andare a vederlo perché è nel buco e
quindi non riceve visite. Comunque ha trovato il modo di comunicare con un
altro e il suo messaggio è chiaro: sistemerà tutti i Misfitous che ci sono al
Vernon. Dice anche che gli dispiace per Dollar e Aria e che gli sarebbe
piaciuto essere qui a sventolare il flag». Prigione, Misfitous, flag… ma chi
era il padre di Peter e cosa c’entrava con gli Eagles?
«Sapevo che avremmo sempre potuto contare su Night.
Ringrazialo, se riesci a farglielo sapere e ricordagli che c’è sempre il suo
posto qui in mezzo a noi. E… io e i ragazzi abbiamo pensato a una cosa, per
ringraziare anche te». L’ultima frase di Ryan mi stupì, tanto che mi alzai
dalla sedia e mi avvicinai involontariamente di un passo, per capire se avevo
sentito bene. Ryan aveva davvero ringraziato Peter? Lo stesso Peter che
sembrava voler uccidere alcune volte? E che cosa aveva fatto Peter per
meritarsi un regalo dagli Eagles? Di che regalo si trattava?
Vidi Peter dondolarsi da un
piede all’altro, in evidente imbarazzo. Si portò una mano al mento, pensieroso;
sembrava non sapesse che cosa dire. «Io… lo faccio
volentieri» spiegò, tenendo lo sguardo basso, come se si vergognasse.
Ryan non era d’accordo;
sbuffò, prendendo una sigaretta dalla tasca posteriore dei jeans e, dopo aver
guardato Brandon e Sick – come se volesse cercare un loro muto consenso – disse:
«il Phoenix ha bisogno di un nuovo capo, qualcuno che
sia alleato con noi, abbiamo bisogno di sapere con sicurezza che il Phoenix
sarà sotto la nostra protezione, con uno di noi. Se ti fa piacere potresti
diventare il nuovo proprietario». Avevo capito bene? Ryan aveva appena chiesto
a Peter di diventare il nuovo padrone del Phoenix, solo ed esclusivamente se
fosse stato sotto la loro giurisdizione? «Diciamo che è
un ringraziamento per te e per Night» concluse poi, lasciandomi ancora più
sorpresa.
«Non so cosa dire, io… grazie». Un sorriso – il suo
sorriso – fece capolino sul volto di Peter e mi ritrovai a sorridere con lui,
per quel riso così contagioso che mi spaventava ma riusciva anche a ricordarmi
che qualcuno, lì a Hunts Point, era una persona che non uccideva o vendeva
droga per vivere. Il Phoenix con Peter come proprietario sarebbe stato un po’
come il vecchio locale che conoscevo, solo senza Aria e John. Un po’ meno luminoso,
senza l’allegria di Aria e la sua voce che salutava ogni cliente che usciva, ma
con il sorriso di Peter ad accogliere ogni persona. Peter, commosso e felice,
salutò i ragazzi e se ne andò, rivolgendomi solo il suo sorriso. Non me l’ero
sentita di dirgli che sarei partita in un paio d’ore, preferivo sparire, senza
scenate che mi avrebbero solamente rattristata di più.
«Andiamo a casa» ordinò Ryan, guardando ancora una
volta il cumulo di terra smossa davanti alle due lapidi grigie. Istintivamente
feci lo stesso, salutando Aria e Dollar e ringraziandoli per tutti i bei
momenti passati assieme. Mi sarebbero mancati, ma non mi sarei mai scordata di
loro, sarebbe stato impossibile farlo.
Salimmo in macchina in
silenzio, tanto che quando sentii il rumore di qualcosa che cominciava a
picchiettare sul tettuccio dell’auto mi stupii di sentirlo così forte: stava
piovendo. Non era una pioggerellina fine, assomigliava piuttosto a uno di quei
temporali estivi che ti coglievano all’improvviso, durante una passeggiata
sulla spiaggia. Mi voltai a guardare Ryan che stava guidando e rimasi sorpresa
di vedere sul suo viso una scia che scendeva dal suo occhi destro: Ryan stava
piangendo. La luce del giorno rifletteva le gocce di pioggia del parabrezza sul
suo volto, come se fosse ancora più rigato dalle lacrime; non me la sentivo
nemmeno di parlare. Vedere Ryan così vulnerabile faceva quasi male, tanto che
mi voltai, guardando fuori dal finestrino fino a quando non ci fermammo sul
parcheggio dietro allo stabile di Whittier Street. Scesi dall’auto sapendo che
sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto i ragazzi, così aspettai che anche
Brandon e Sick – con Lebo, Paul, Josh, Ham e Swift – ci raggiungessero e feci
un respiro profondo, pronta per parlare.
«Io finisco di preparare le valige e me ne vado. Volevo
solo salutarvi». Terminai la frase con un nodo in gola e la voce che tremava
per le lacrime che volevano uscire di nuovo. Piangevo interrottamente da due
giorni e sembrava che quella crisi non dovesse avere mai fine; lo sembrò ancora
meno quando Brandon si avvicinò a me, abbracciandomi. «Grazie, di tutto» mormorai contro il suo petto, sicura
che mi avrebbe sentita. La presa delle sue braccia attorno al mio corpo si
strinse appena, come se volesse rispondere alla mia frase. Gli altri ragazzi mi
salutarono senza avvicinarsi o abbracciarmi; nemmeno Sick, che si allontanò
dopo un ghigno, rispondendo al suo telefono che squillava. Brandon, dopo aver
sciolto il nostro abbraccio si avvicinò a Irene, in piedi dietro a lui; era
salita in macchina con lui e non aveva mai parlato in mia presenza, sembrava però
che avessero più di qualche questione in sospeso; speravo solo che tutto si
risolvesse per il meglio, perché Brandon meritava quello.
Ryan non mi salutò; fece semplicemente
un gesto che in quei sei mesi gli avevo visto fare anche troppo spesso: prese
una sigaretta dalla tasca dei jeans, cominciando a fumarla subito dopo. Forse
era meglio così, nessun saluto con Ryan, perché non c’era niente da dire, non
dopo quello che ci eravamo detti la mattina prima.
Salii le scale per arrivare
al terzo piano lentamente, ascoltando il rumore dei miei tacchi sul marmo
consumato e guardando quelle vecchie pareti con l’intonaco grigio scrostato.
Forse mi sarebbe mancata Whittier Street, mi sarebbe mancato il 3C ma
soprattutto il 3B pensai, chiudendo la prima valigia e aprendo il cassetto
della biancheria – l’ultimo – per sistemare il contenuto nella seconda. Sì,
sarebbe stato stupido mentire, mi sarebbero mancati, ma era meglio così per
loro, perché volevo bene a quei pazzi scatenati – un po’ volevo bene anche a
Ryan, o forse, semplicemente, lo odiavo meno – e non avrei mai voluto che
qualcun altro di loro morisse. Se fossero morti senza che la notizia mi giungesse
forse sarebbe stato addirittura meglio.
Sentii qualcuno bussare
insistentemente alla mia porta, con urgenza. «Lexi, apri la
porta». Un urlo, la voce di Brandon. Lasciai la canottierina che avevo in mano
sopra al materasso e corsi verso la porta, sbattendoci contro e indietreggiando
di un passo per aprirla.
«Cosa succede?» domandai a Brandon, vedendo il suo
sguardo sconvolto e i suoi capelli bagnati dalla pioggia. Era spaventato e
aveva il fiato corto per la corsa che probabilmente aveva fatto per
raggiungermi. Prima ancora che pronunciasse le parole il mio respiro si fermò,
in attesa di capire che cosa fosse successo.
«Ryan sta andando dai Misfitous, da solo. Vuole
ucciderli tutti».
Per
prima cosa vorrei scusarmi per l’immenso ritardo di questo capitolo che arriva
a quasi un mese dall’altro. Mi scuso infinitamente, ma in questo periodo non
c’era proprio la voglia di scrivere per diversi motivi annoianti che non starò
qui a dire, perché non voglio stancarvi.
Tornando
al capitolo… non ho poi molto da dire. Tanti ritorni che ho sempre voluto
inserire (ammetto che vorrei scrivere una OS Sick/Claire perché hanno tanto da
dire. Ci sarebbe anche qualcosina Brandon/Irene, ma forse più avanti, visto che
dalla fine del capitolo si intuisce che Irene al momento non è la priorità di
Brandon).
Ah
sì, il Joseph
Rodman Drake Park è un piccolo cimitero a
Hunts Point. Ha una cinquantina di lapidi e come ho scritto sono tutte vecchie,
nel senso che l’ultima persona seppellita lì deve essere più o meno morta nel
1850. Mi sono presa la licenza di dire che gli Eagles usano quel cimitero come
cappella perché è vero che J.R. Drake ha scritto “The American Flag”. Comunque
il lungo viale con gli alberi (come avevo descritto durante il funerale di JC
senza saperlo) e il cancello esistono davvero, e il cimitero è a un paio di
isolati da Whittier Street.
È
anche stato svelato il mistero di Peter, finalmente si scopre il suo legame con
gli Eagles e perché sappia così tante cose su di loro. Ci sono ancora un paio
di misteri su di lui, ma non credo svelerò altro, o magari più avanti, devo
ancora capire cosa sarà utile e cosa no.
Comunque,
quando Peter parla di suo padre Night, dicendo che è nel buco, significa che è in isolamento, quindi non ha tutti i
privilegi degli altri carcerati (mi sembra non sia possibile nemmeno l’ora
d’aria fuori dalla cella, forse una doccia al giorno, ma non ci metterei la
mano sul fuoco); insomma, un gergo dei carcerati per dire che si è in una cella
di isolamento.
Per
quanto riguarda una mia possibile pausa per l’estate… io sinceramente non ne ho
bisogno, non aggiornerò ogni settimana, però non mi va di fermarmi un mese o
più, ecco. Scriverò e non appena avrò un capitolo pronto lo pubblico, anche
perché il capitolo 18 per me è davvero importantissimo e forse, assieme al 16,
è il capitolo centrale di tutta la storia.
All’inizio,
nella lunga lista dei video, si è aggiunto: Goodbye Dollar. Un video che è
nato come una scommessa da parte di The carnival che mi ha detto
«siccome tu mi hai fatta piangere con il capitolo io farò lo stesso con un
video». Inutile dire che ci è riuscita alla grande.
Come
sempre –anzi, stavolta più di sempre –ringrazio tutte le meravigliose
recensioni che mi avete lasciato allo scorso capitolo e tutte voi che
aggiungete la storia ai preferiti, seguiti e da ricordare e anche chi ha il
coraggio di mettermi tra gli autori preferiti.
Ricordo
per chi volesse il gruppo spoiler: Nerds’ corner.
A
presto.
Rob.
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Capitolo 18 *** Sex and fire in the rain ***
YSM
«Cosa?» urlai, spalancando gli occhi per
la sorpresa. Ryan stava andando dai Misfitous da solo? E perché mai stava
facendo una cosa simile? Brandon si portò una mano tra i capelli, non curandosi
delle gocce di pioggia che corsero lungo il suo viso, dopo quel gesto.
«Io… non…
non riusciamo a fargli cambiare idea. Sick se ne è andato e siamo solo io e i
ragazzi. Ti prego, aiutami».
Una supplica, ecco quello che stava facendo Brandon. Senza nemmeno pensarci lo
scostai, correndo giù per le scale scalza. Sentivo i passi di Brandon dietro di
me; mi stava seguendo senza dire niente. Arrivati al portone dello stabile
Brandon allungò il passo, superandomi e correndo fino all’entrata del garage.
Non sentivo nemmeno la pioggia che sbatteva addosso a me, bagnando quel vestitino
che non avevo nemmeno avuto il tempo di togliere. Non mi accorgevo nemmeno del
freddo, nonostante fosse metà gennaio e la neve imbiancasse ancora tutta Hunts
Point. Niente era più importante di correre da Ryan per fermarlo prima che si
uccidesse per vendicare Aria e Dollar.
Svoltai l’angolo dello stabile e trovai Ryan sulla sua moto,
circondato da Paul, Josh, Lebo, Ham e Swift che tentavano di dissuaderlo
dall’andare dai Misfitous. Ryan non li ascoltava nemmeno, impegnato com’era a
dare gas alla moto per cercare di avviarla. Corsi fino ad arrivare davanti a
lui, scostandomi i capelli bagnati che non mi permettevano di vederlo
chiaramente. «Che cosa fai?» strillai, stringendo i pugni
lungo i fianchi. Vidi i ragazzi fare un passo indietro, lasciandomi più spazio;
Ryan invece continuava a spingere il piede sempre più forte, rischiando di
rompere la moto che non ne voleva sapere di partire. Ringraziai mentalmente
chiunque, da lassù, non permettesse a quell’aggeggio di accendersi e feci un
altro passo in avanti, in modo che se anche fosse riuscito a far partire la
moto non sarebbe potuto andarsene senza investirmi.
«Vattene» ringhiò, senza smettere di
provare ad avviare il motore. Sembrava impazzito e forse lo era davvero. Non
indossava nemmeno il casco; i capelli, completamente bagnati, ricadevano sulla
sua fronte e la felpa scura che indossava era zuppa. Quando, dopo un altro
tentativo, vide che il motore non voleva saperne di accendersi, scese,
portandosi una mano alla fronte. Vedevo il suo petto alzarsi e abbassarsi
troppo velocemente, come se fosse sotto shock e potesse esplodere da un momento
all’altro.
«Ryan…» sussurrai, avvicinandomi a lui e
appoggiandogli una mano sul braccio. Quel gesto sembrò quasi spaventarlo,
perché indietreggiò di un passo, guardandomi poi furioso. Istintivamente,
sicura che non mi avrebbe fatto del male, avanzai verso di lui. Volevo fargli
capire che stava sbagliando, che quel pensiero che l’aveva sfiorato non era la
soluzione migliore da adottare. Ryan era troppo impulsivo.
«Non
dovevi andartene? Perché cazzo sei ancora qui?». Ryan mi fronteggiò, fregandosene dei ragazzi che, a qualche
metro da noi, guardavano la scena senza intervenire. Il suo sguardo ferito e la
sua voce piena d’ira non mi spaventavano; avevo imparato a conoscerlo, avevo
scoperto che nascondeva i suoi sentimenti con la rabbia, ma se voleva sapeva
controllarla. Tornò alla moto e, senza salirci sopra, provò di nuovo a dare
gas. Sembrò per qualche istante che il motore si avviasse, ma – fortunatamente
– fu solo un’illusione momentanea.
«Perché tu
stai facendo il cretino e andrai ad ammazzarti» spiegai, rispondendo alla sua domanda con un nuovo urlo.
Perché se me ne fossi andata senza fermarlo sarei stata la persona più egoista
della terra, soprattutto perché se l’avessi lasciato andare sarebbe morto di
sicuro. Mi scostai di nuovo i capelli dal viso, cercando di tenere gli occhi
aperti nonostante la pioggia fosse sempre più forte e mi picchiettasse addosso,
facendo quasi male.
«Non morirò. Devo ucciderli». Lo sguardo di Ryan si fermò per
qualche istante, rimanendo incatenato al mio; sembrava volesse farmi capire che
andare dai Misfitous per ucciderli fosse la soluzione migliore. Poi, come se si
fosse risvegliato all’improvviso, tornò a dedicarsi alla sua moto, cercando di
accenderla. Ancora una volta Ryan imprecò quando il motore non ne volle sapere
di avviarsi. Interpretavo quel gesto come un segno, come se qualcuno mi stesse
urlando che dovevo fermarlo.
«Ryan per
favore» supplicai,
appoggiando la mia mano sulla sua che stringeva il manubrio della moto.
Ritrasse la mano alzandosi il cappuccio della felpa sulla testa – probabilmente
per cercare di ripararsi di più dalla pioggia – inutilmente; sentivo anche dei
tuoni in lontananza, come se un temporale si stesse avvicinando. Mi voltai a
guardare Brandon, sul suo volto lo sguardo disperato di chi è a conoscenza che
qualcosa di brutto può accadere se non si è in grado di cambiare il corso delle
cose. Ryan sembrava davvero un pazzo, ma non riuscivamo a fermarlo; io non sapevo
più che cosa fare o dire.
«Ryan, non
andare, fermati» urlò Brandon
per farsi sentire sopra lo scrosciare dell’acqua; Ryan però non smise di
provare ad avviare la moto, alzando il viso e guardando Brandon come se fosse
arrabbiato anche con lui, come se Brandon non capisse quello che lui voleva
fare. Vidi Brandon socchiudere gli occhi per qualche istante, in una muta
preghiera verso Ryan e i suoi assurdi colpi di testa.
«Col cazzo. Hanno ucciso due
ragazzi di sedici anni, non capisci? Erano due ragazzi, avevano tutta la vita
davanti e loro li hanno uccisi, devono pagarla». Ryan si allontanò dalla moto, avvicinandosi a Brandon e
fronteggiandolo. Era la prima volta che lo vedevo così furioso mentre parlava
con Brandon – visto che di solito a lui si rivolgeva in modo diverso –; quello che
però mi stupì fu l’atteggiamento di Brandon: non tentò di farlo ragionare come
le altre volte, non gli diede contro. Rimase semplicemente a guardarlo,
immobile, come se temesse che qualsiasi azione avrebbe potuto sconvolgere ancora
di più Ryan. Sembrava quasi che Brandon avesse perso tutte le speranze. Che
fosse quello il motivo per cui mi aveva chiamata?
Dovevo intervenire di nuovo, perché non potevo permettere
che Ryan morisse, no. «Ryan,
pensaci, non è il momento migliore per fare queste stronzate». Non sapevo più come dirglielo e
temevo che appena fosse riuscito ad avviare la moto nessuno sarebbe riuscito a
fermarlo. Questo era il mio più grande timore.
«Non sei tu a dovermi dire
quando è il momento migliore, non capisci? Dollar e Aria sono morti. Andrò dai
Misfitous a ucciderli, cominciando da BB Child, così non uccideranno più
nessuno». Di nuovo il suo
sguardo incatenato al mio, quella luce nei suoi occhi che gridava vendetta ed
era assetata di sangue. Quello stesso sguardo però nascondeva tristezza,
delusione e forse qualche altra emozione; la stessa che non riuscivo mai a
decifrare.
«Sì, mi sono
accorta, li ho visti anche io lì per terra, cosa credi? Abbiamo sofferto tutti.
Ragiona, cazzo. Possibile che tu non capisca che così morirai? Ti farai
uccidere se andrai da solo» strillai,
cercando si spintonarlo perché si allontanasse dalla moto. Poi, all’improvviso,
sentii un rumore che riuscì a raggiungere il centro del mio petto, urlandomi
che era finita. Il rombo del motore della moto fece perdere un battito al mio
cuore, togliendomi le forze al punto che per un secondo vidi tutto nero. «Ryan»
sospirai, aggrappandomi con tutta la forza che avevo al suo
braccio, in una nuova, muta, preghiera affinché scendesse da quell’aggeggio e
la smettesse di fare il cretino.
Scrollò il braccio con forza, facendomi cadere a terra tanto
che sentii l’asfalto bagnato sfregare contro i palmi delle mie mani, causandomi
un dolore simile a una bruciatura. Riuscii a non picchiare la testa contro il
marciapiede solo perché, sorpresa dal gesto di Ryan, non ero indietreggiata. «Vattene, hai detto che l’avresti
fatto, fallo» urlò, tanto che
la vena sulla sua fronte pulsò. Si mise a cavalcioni della sua moto, senza
nemmeno aiutarmi a rimettermi in piedi, dimostrando ancora una volta quanto
fosse stronzo.
«Sai cosa?
Me ne andrò e tu vai a farti uccidere, così dovranno fare anche il tuo funerale
dopodomani» gridai, la voce
rotta dalle lacrime che, miste alle gocce di pioggia, rigavano il mio volto.
Perché quel gesto di Ryan mi aveva ferita molto di più dentro, rispetto a
quelle sbucciature nelle mani che sarebbero guarite nel giro di qualche giorno.
Perché Ryan era uno stronzo e non riusciva a non essere egoista nemmeno per un
attimo, troppo concentrato ad ascoltare se stesso.
«Non morirò» fu la sua unica risposta, prima
di girare il polso per dare gas, mentre alzava il cavalletto, pronto per
partire.
Un moto di rabbia improvviso – dovuto alla visione di Ryan
su quella moto, sotto a un temporale e una pioggia che non smetteva di scendere
–mi salì dentro, tanto che esplosi, urlandogli contro e fregandomene delle
parole che uscivano dalle mie labbra come singhiozzi. «Forse è meglio che tu invece lo faccia, tanto a nessuno
interessa se morirai o meno».
Non aspettai nemmeno di vederlo partire, mi girai, correndo il più veloce
possibile per allontanarmi da quel parcheggio; per allontanarmi da Ryan e anche
da tutti i ragazzi. Dovevo andarmene da Hunts Point. Sbattei il portone
d’entrata correndo su per la scala e rischiando di cadere più volte perché i
miei piedi nudi e bagnati scivolavano sul marmo freddo; quando arrivai al
pianerottolo del terzo piano e mi accorsi che Brandon si era dimenticato di
chiudere la porta d’entrata del mio appartamento trattenni un singhiozzo,
varcando la soglia di casa e sbattendomi con forza la porta alle spalle.
Stavo tremando; tremavo di freddo e di rabbia. Tremavo
perché non ero riuscita a fermare Ryan, perché mi aveva vista piangere e perché
stava andando a uccidersi, solo per dimostrare che lui avrebbe sconfitto quella
stupida banda di teppisti.
Non pensai nemmeno a medicarmi i palmi delle mani che
bruciavano e avevano macchiato di sangue il mio vestito ormai completamente
zuppo, no. Dovevo solo riempire la valigia con le ultime cose e andarmene da
lì, senza sapere se Ryan sarebbe riuscito o meno a sopravvivere.
Per questo, quando – una volta arrivata in camera – sentii
bussare alla porta, mi si bloccò un singhiozzo in gola, lasciando che una
lacrima scendesse lungo la mia guancia. Non era un bussare normale, era il
bussare di Ryan; quei colpi contro la porta, come se volesse romperla.
Camminai velocemente verso la cucina, aprendo la porta
all’improvviso per esplodere di nuovo contro di lui. «Sei così stronzo da volermi vedere piangere per te? Vuoi anche
una fotogr…» iniziai a dire
tra i singhiozzi, non riuscendo a terminare la frase perché qualcosa me lo impedì. La mano di Ryan
si appoggiò alla mia guancia, attirandomi a lui tanto che le parole morirono
catturate dalle sue labbra. Accadde così velocemente che non riuscii a capire
cosa stesse succedendo, l’unica cosa che sentii fu il rumore di uno scoppio;
non capivo nemmeno da dove provenisse, ma sentivo uno strano calore al centro
del mio petto che si stava diradando velocemente in tutto il mio corpo. Era
come se le labbra di Ryan – che non volevano lasciare le mie – mi avessero… liberata.
Cercai di scostarmi da lui per ragionare, ma non me lo permise, catturando di
nuovo la mia bocca mentre mi sbatteva in malo modo contro il muro dietro di me,
stringendo lievemente la presa delle sue dita sul mio mento per alzare il mio
volto. Quando aprii gli occhi per cercare di spingerlo via, sentii di nuovo
quel rumore, quello scoppio simile a un’esplosione, e fu esattamente in quel
momento che capii. Le mie mani corsero al viso di Ryan per attirarlo verso di
me tanto che mi alzai anche in punta di piedi. Sentivo la barba ispida
graffiare i miei palmi sbucciati dalla caduta di poco prima ma non me ne curai,
troppo presa dalla grande mano di Ryan che scendeva lungo la mia schiena,
attirandomi verso di lui. Fu così istintivo per me sollevarmi e agganciare le
mie gambe attorno ai suoi fianchi che mi ritrovai –prima ancora di rendermene
conto –con le dita immerse tra i suoi capelli; sentivo le sue ciocche bagnate
tra le mie dita e, senza smettere di mordicchiare le sue labbra, ne tirai qualcuna
quando sentii le sue mani muoversi frenetiche sulle mie gambe per cercare di
sollevare il mio vestito. Non era facile, me ne rendevo conto a ogni passo di
Ryan verso la mia camera, mentre mi muovevo quasi in modo frenetico perché il
mio corpo era scosso da brividi: era quasi fastidiosa la sensazione dell’abito
bagnato e freddo che contrastava la mano e il corpo caldo di Ryan contro il
mio.
«Alexis» mormorò sulle mie labbra,
appoggiando la fronte alla mia quando sentii il legno dello stipite della porta
contro la mia schiena. Aprii gli occhi, cercando di capire quello che stava
succedendo, ma vedere Ryan – il suo viso, i suoi occhi stanchi e di un azzurro
ancora più profondo del solito – davanti a me, mi fece perdere la ragione di
nuovo. O forse, semplicemente, me la fece ritrovare. Non gli lasciai il tempo
di aggiungere altro, accarezzando le sue labbra con la mia lingua e stringendo
con più forza i suoi capelli tra le mie dita. Sentii qualcosa di morbido contro
la mia schiena e, quando aprii gli occhi per cercare di capire cosa fosse
successo, vidi Ryan sorridere davanti a me; eravamo sul mio letto, Ryan era
disteso sopra di me e la sua mano destra continuava a sfiorare la mia guancia,
senza veramente muoversi. Era… era il suo sguardo l’unica cosa che si spostava;
mi scrutava, guardava ogni singola cellula del mio volto senza smettere mai e
mi faceva sentire in imbarazzo, quasi esposta. Sembrava che Ryan riuscisse a leggermi
l’anima solo attraverso lo sguardo. Incapace di sostenere i sui occhi lo
attirai a me, tornando a baciare le sue labbra morbide e torturare i suoi
capelli. Sentii le sue mani muoversi sul mio corpo e scendere fino alle mie
gambe; le sue dita si aggrapparono al bordo del mio vestito e cercarono di
alzarlo affinché potessi levarmelo ma non era facile, soprattutto perché
eravamo entrambi bagnati e i nostri vestiti erano zuppi. Quando Ryan riuscì a togliermi
il vestito, rabbrividii sentendo le sue mani a contatto con la pelle della mia
schiena. Quella carezza riuscì a stupirmi; involontariamente avevo sempre
associato a Ryan dei gesti molto più fisici, come se anche in momenti così
intimi fosse costretto a usare la forza. Ryan invece era dolce. Lo erano le sue
dita che sfioravano la mia schiena salendo verso la chiusura del reggiseno e lo
erano anche le sue labbra che non smettevano di torturare le mie. Istintivamente
tirai verso di me la sua felpa, cercando
goffamente di levargliela; avevo fretta, avevamo fretta. Era come se
dentro alla mia camera da letto si respirasse la paura di una magia che
finisce, come se da un momento all’altro tutto potesse tornare alla normalità
prima che ce ne potessimo accorgere. Per questo – credo – Ryan mi aiutò a
togliergli la felpa scura e la maglia bianca a maniche corte che portava sotto.
Non ebbi nemmeno il tempo di lanciare quei vestiti per terra che Ryan iniziò a
slacciarsi i pantaloni, abbassandoli in un movimento frenetico. Sentii un suono
simile a un gemito trattenuto quando Ryan si abbassò di nuovo, togliendosi
anche i boxer.
Non pensai a nulla, attirai solo il volto di Ryan verso di
me per baciarlo ancora, inarcando la schiena affinché potesse raggiungere il
gancetto del mio reggiseno per aprirlo. Sentii la stoffa allentarsi attorno al
mio busto e le dita di Ryan che veloci sfilavano le spalline dalle mie braccia.
In pochi istanti anche i miei slip seguirono tutti gli altri capi sul pavimento
e mi ritrovai nuda sotto di Ryan; sentivo il respiro accelerato e un martellare
continuo che non mi permetteva di udire nulla, era come essere schiava di un
incantesimo. La mano di Ryan sfiorò il mio collo, scendendo ad accarezzarmi il
seno e il fianco, per poi attirarmi verso di lui in modo possessivo tanto che
quel movimento mi strappò un gemito, o forse lo fece l’irruenza di quel gesto;
come se Ryan volesse farmi capire che gli appartenevo. Sentivo i nostri corpi attratti
l’uno dall’altro, perché c’era l’urgenza di trovarsi; lasciavo le mie mani
muoversi frenetiche sulla sua schiena e percepivo i brividi che ogni movimento
del corpo di Ryan faceva nascere sulla mia pelle. Perché sentire Ryan sopra di
me era come ritornare a casa, o forse semplicemente trovarla per la prima
volta.
La mano di Ryan scese di nuovo, sfiorandomi il ventre e
graffiando la mia coscia prima di spostare il mio ginocchio per sistemarsi
meglio sopra di me. Quel gesto mi mozzò il respiro, tanto che vidi lo sguardo
di Ryan rabbuiarsi per qualche istante, come se temesse di aver fatto qualcosa
di male. Cercai di rassicurarlo con lo sguardo, spostando anche l’altra gamba
in un chiaro invito che Ryan accolse subito tanto che mi ritrovai rigida e
immobile, in attesa. Il respiro fermo e gli occhi chiusi, come se temessi che
Ryan potesse ferirmi; per questo, quando qualcosa di morbido sfiorò il mio
collo per fermarsi sulla mia spalla, rilassai i muscoli del mio corpo,
aggrappandomi con tutte le mie forze alle spalle di Ryan e ignorando la
sensazione di fuoco che avevo suoi miei palmi sbucciati quando sfioravo il corpo
di Ryan, accarezzando la sua pelle o i suoi capelli.
Perché era la sensazione del corpo di Ryan che si univa al
mio e dei muscoli delle sue braccia tesi per non cadere addosso a me che
sentivo, era il martellare del mio cuore quello che mi impediva di udire il
gemito trattenuto di Ryan; era il mio corpo che cercava di adattarsi a lui che
fremeva. Lo sentii sospirare senza
nemmeno muoversi, tanto che istintivamente il mio bacino si spostò in avanti,
causandogli un gemito e un insulto. Mi fermai, credendo di aver fatto qualcosa
di male ma Ryan mi stupì di nuovo, portando la sua mano dietro la mia schiena e
sollevandomi appena – senza però separarmi da lui – fino a portare le sue gambe
sotto di me perché potessimo essere entrambi seduti uno davanti all’altra.
Istintivamente portai le mie mani tra i suoi capelli, unendo le mie labbra alle
sue e ringraziandolo perché in quella posizione era più facile per me vedere il
suo viso. Sentivo le sue mani muoversi delicate sul mio corpo, fermarsi suoi
miei fianchi senza costringermi però a qualsiasi ritmo; Ryan mi stava lasciando
carta bianca, completamente. Ero io a dettare il ritmo dei nostri sospiri,
guidata solo dalla presa delle sue mani sui miei fianchi che si faceva sempre
più forte, a mano a mano che aumentavo il ritmo dei miei movimenti perché
sentivo il piacere avvicinarsi sempre di più, tanto che graffiai la sua nuca,
scendendo lungo la sua schiena, cercando di trattenere un gemito più profondo
degli altri. Mi accasciai su di Ryan, appoggiando la fronte sulla sua spalla e
tentando di riprendere fiato mentre sentivo il suo corpo muoversi
freneticamente alla ricerca dello stesso piacere che invadeva ogni singola
cellula del mio corpo, annebbiandomi la vista e alterando i miei sensi. Perché
dovevo per forza avere i sensi alterati: non poteva essere una lacrima quella
che stava scendendo lungo il volto di Ryan, correndo veloce verso il suo mento
per nascondersi tra la sua barba ispida. Mi sporsi verso di lui sfiorandogli la
guancia con le labbra e sentendo una goccia salata bagnarle. Quel sapore,
mischiato alla voce di Ryan che sussurrò il mio nome aumentando la presa sui
miei fianchi fu in grado di abbattere totalmente il mio muro; quello che mi
divideva da lui, quello che avevo creato perché non potesse ferirmi.
Quello che mi faceva continuamente pensare che non avesse un
cuore.
Socchiusi gli occhi, cercando di respirare a fondo per far
tornare il battito del mio cuore normale – cuore che sembrava scappare assieme
a quello di Ryan – e per la prima volta sfiorai con il naso la pelle della
spalla di Ryan scoprendo che il suo odore era qualcosa che non avevo mai
sentito. Ryan profumava di... era un miscuglio di più odori; il dopobarba di
mio papà, l’odore di salsedine che si respirava all’alba sulla spiaggia e forse
anche quella miscela di odori che c’era sotto alla ruota panoramica del luna park,
lo stesso dove avevo dato il primo bacio e dove mi ero innamorata del mio primo
ragazzo, quello che mi aveva insegnato ad amare.
Ryan si spostò, interrompendo il flusso dei miei pensieri e
lasciandomi seduta nuda in mezzo a quel grande letto. «Devo andare, i ragazzi hanno bisogno di me» bofonchiò, indossando con
movimenti convulsi i boxer e i jeans e lanciando per terra i miei slip e il mio
reggiseno che erano finiti sopra alla sua maglia e alla sua felpa che indossò,
tenendo il cappuccio alzato sul capo. Senza nemmeno voltarsi verso di me se ne
andò. Non spiegò quel suo gesto e non motivò la sua scelta improvvisa di
andarsene.
«Ryan» sussurrai, sentendo la porta di
casa chiudersi e subito dopo un silenzio quasi inquietante tutto attorno a me.
In un gesto meccanico cercai di coprirmi con il lenzuolo,
portandolo fino alle mie spalle. Non riuscivo però a muovermi; ero come
pietrificata, seduta lì sul mio letto con le lenzuola ancora umide di pioggia e
sudore. Il mio respiro ancora accelerato e il cuore che non voleva smetterla di
battere all’impazzata. Era come se stessi vivendo la situazione da esterna,
come se il mio cervello non fosse veramente collegato. Forse era semplicemente
un metodo difensivo, qualcosa che avevo creato per non farmi soffrire, perché
sapevo che se solo avessi pensato a quello che era successo qualche minuto
prima avrei sofferto.
Presi un respiro profondo abbandonando il capo all’indietro,
cercando di riordinare le mie idee. Dovevo alzarmi, fare una doccia per
togliere l’odore di Ryan dalla mia pelle – perché era quasi insopportabile – e
dopo dovevo assolutamente finire di preparare le valigie; non potevo permettere
che un semplice sbaglio mi facesse cambiare tutto quello che avevo pianificato.
Ma si trattava di uno sbaglio? Poteva uno sbaglio essere così grande? Uno
sbaglio era una parola scritta in modo errato, un piede appoggiato male su un
gradino, un bacio strappato all’improvviso; quello… quello non era stato uno
sbaglio. Ci avevo, ci avevamo pensato, eravamo coscienti di quello che stavamo
facendo.
Scossi la testa cercando di scacciare quei pensieri che mi
stavano confondendo sempre di più e, abbandonando il lenzuolo, scivolai sul
letto fino ad arrivare al bordo del materasso; allungai la mano per prendere i
miei slip dal pavimento e sentii il rumore di qualcosa di metallico cadere.
Guardai per terra, notando –d i fianco al mio reggiseno – una catenina d’oro
con un ciondolo. Istintivamente la raccolsi, avvicinandola al mio viso per
capire che cosa fosse. Lasciai che quel lungo e sottile filo d’oro scorresse
tra le mie dita fino a quando non vidi quel piccolo cerchietto d’oro con
un’aquila incisa dentro: era un’aquila con le ali spiegate, esattamente come quella
sopra al cuore di Ryan. Sentii la vista appannarsi ancora una volta e nuove
lacrime uscire dai miei occhi, senza che potessi fare veramente qualcosa per
fermarle.
Strinsi la catenina tra le mani, avvicinandola al mio petto
e appoggiando la fronte sulle mie ginocchia, lasciandomi andare a un pianto
liberatorio che mi tolse anche il respiro. Singhiozzai stringendo quasi con
rabbia quel sottile filo d’oro e capii che prima di lasciare Hunts Point dovevo
parlare con Ryan, chiarire che quello che c’era stato non significava nulla,
perché andarsene senza aver parlato con lui era davvero da codardi. Sarei
andata al 3B e, dopo avergli restituito la collanina avrei spiegato che quando
le persone sono tristi o arrabbiate capita che succedano cose di cui poi ci si
pente. Gli avrei spiegato che non doveva sentirsi in colpa perché per me non
aveva nessun significato quello che c’era stato e non ricordavo nemmeno il
profumo della sua pelle o il suo tocco delicato sul mio corpo; no, non
ricordavo nulla.
Indossai la collanina scendendo dal letto e camminando
lentamente verso il bagno per farmi una doccia: dovevo scaldarmi e lavare via
la pioggia che mi aveva bagnato tutti i capelli; poi sarei andata da Ryan a
restituirgli la collanina e a parlargli. Perché ero sicura che lui volesse una
spiegazione.
Dunque…
avrei così tante cose da dire su questo capitolo che alla fine non ne dirò
nessuna.
Come
ho ripetuto all’infinito questo assieme al capitolo 16 era l’idea iniziale di You saved me. Cosa succederà ora? Uhm…
potrei quasi sicuramente dire che tre quarti delle vostre supposizioni sono
sbagliate perché continuo a portarvi fuori strada e quindi non so se
riuscirete veramente a capire come va a finire; c’è da dire però che mancano
ancora 4 capitoli epilogo compreso.
Ritornando
al capitolo… potrei dire che la seconda scena l’ho immaginata così tante volte
da sapervi dire l’esatto angolo con cui la luce che entra dalla finestra
colpisce il viso e il corpo di Ryan, potrei anche dire che so a memoria il
numero di pieghe delle lenzuola, ma non riuscivo a descrivere la scena come
l’ho immaginata. Non sapevo se focalizzarmi esclusivamente nella parte
descrittiva o solo sui sentimenti di Lexi. Ho pensato fosse più giusto, visto
che è un pov di Lexi, focalizzarmi su quello che lei ha pensato e vissuto. Lo
so che come scena fa schifo e ne ho scritte di migliori, ma per me è stato
difficilissima scriverla proprio perché sapevo quello che Lexi avrebbe provato
una volta chiusa la porta di casa e quindi c’era un blocco. Ma babbeh, quello
che è fatto è fatto… :)
Poi
poi poi… come sempre ringrazio i preferiti i seguiti e quelli che aggiungono la
storia alle ricordate perché siete tantissimi e aumentate ogni giorno di più e
io non so mai come ringraziarvi!
Alcuni
di voi l’hanno già letta ma per correttezza riporto anche qui JANITOR
CLOSET, la OS su Sick e Claire. Se volete farci un salto siete ben accette.
Ultimo,
ma non meno importante, come sempre vi ricordo NERDS’ CORNER il
mio gruppo dove inserisco spoiler e altro.
A
presto per il prossimo capitolo che spero arrivi un po’ più in fretta (a questo
proposito mi scuso ancora per il ritardo, però ultimamente non è che io sia al
massimo della forma fisica e in mezzo ci sono le vacanze che non aiutano).
Rob.
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Capitolo 19 *** Indifference ***
YSM
«Ryan, io credo che sia giusto dirti che per me quello che c’è
stato prima in camera mia… voglio dire… il fatto che noi abbiamo… che abbiamo
fatto… quella cosa, ehm… non significa nulla. Cioè, io lo so che magari per te
ha qualche significato ma davvero, per me non è stato nulla. Un momento di
debolezza, ero sconvolta per Aria e Dollar, sei piombato in casa mia e mi hai
baciata; insomma, vorrei che tu capissi che non mi piaci. Sei un bel ragazzo,
certo, ma… ecco… secondo te cosa è stato? Ahh» gemetti frustrata, portandomi le
mani tra i capelli e guardando la mia immagine riflessa allo specchio. Ero
un’emerita idiota; perché se fossi andata da Ryan a parlargli in quel modo di
certo si sarebbe messo a ridere e non avrebbe più smesso di prendermi in giro.
Andare da lui a parlare di quello che era successo – qualsiasi cosa fosse
–significava offrirgli su un piatto d’argento un nuovo motivo per deridermi; e
non era proprio quello di cui avevo bisogno.
Mi serviva un piano B, qualcosa da mettere in atto, qualcosa che
non fosse parlare con Ryan; qualcosa come… l’indifferenza. Sì, fingere che
poche ore prima non fosse successo nulla sembrava il modo migliore per superare
quello che c’era stato.
Avevo bisogno di distrarmi per cancellare dai miei ricordi quelle
immagini e sensazioni, dovevo uscire da quella casa e lasciare che l’aria
fresca mi schiarisse le idee, perché altrimenti rischiavo di impazzire;
insomma, prima di andarmene avrei parlato con Ryan, ma non c’era nessuna
fretta, la Florida non sarebbe scappata di certo. Potevo fare la spesa; avrei
comprato poche cose, l’indispensabile per un altro paio di giorni, così da non
lasciare troppi avanzi nel frigo – anche se ero sicura che i ragazzi avrebbero
di sicuro consumato tutto.
Presi la borsa e, dopo aver controllato che non piovesse più,
indossai le scarpe e il cappotto, pronta per uscire; quando mi chiusi la porta
di casa alle spalle feci un respiro per prendere un po’ di coraggio, preparata
ad affrontare Hunts Point e i suoi mille pericoli.
«Ciao lentiggini». Sussultai al suono di quella voce, facendo
cadere le chiavi di casa a terra; mi accucciai, rischiando di perdere
l’equilibrio. I miei movimenti impacciati fecero sghignazzare qualcuno; sentii
persino una risata a stento trattenuta. Alzai lo sguardo e incrociai quello di
Sick, il ragazzo che non era in grado di rimanere serio; nonostante si mordesse
la mano per non ridere non riusciva a smettere di scuotere le spalle per
l’attacco di risa.
«Sono felice di essere comica come il solito, Sick» sbottai, senza
spostare lo sguardo. La verità era che non volevo incontrare gli occhi
sarcastici di Ryan, sicura che sarei arrossita dall’imbarazzo. Dopo quello che
era successo in camera mia aveva ancora il coraggio di salutarmi in quel modo
stupido? Forse evitare di parlare era la soluzione migliore, sì. Mi alzai,
cercando di raggiungere la scala prima che Ryan potesse bloccare il passaggio,
costringendomi a scendere tre rampe di fianco a lui. Fortunatamente ci riuscii.
Corsi giù per la gradinata il più velocemente possibile, rischiando di
scivolare più volte sui gradini. Mi lasciai però Ryan e i ragazzi alle spalle,
sospirando sollevata quando richiusi il portone dello stabile dietro di me.
Birra, mi serviva della birra. Birra che avrei consumato quella
sera stessa, sdraiata sul mio divano con un film horror a tenermi compagnia;
perché non era proprio serata per guardare film romantici. Avrei mangiato
qualcosa in piedi e avrei bevuto un paio di birre; poi, esausta e forse un po’
ubriaca, mi sarei addormentata sul divano. Non era poi un cattivo modo per
passare la serata.
«Lexi, aspetta». Non feci nemmeno in tempo a svoltare l’angolo di
Whittier Street che uno dei ragazzi, alle mie spalle, mi chiamò. Fortunatamente
non era Ryan; per questo, quando Brandon smise di correre dopo avermi
raggiunto, rallentai il passo perché ero curiosa di capire che cosa avesse da
dire. «Puoi fermarti un secondo?» ridacchiò, quando si accorse che non accennavo
a smettere di camminare per la voglia di raggiungere il negozio di liquori. Gli
obbedii, fermandomi a un paio di isolati dal Phoenix, senza attraversare
l’incrocio nonostante ci fosse il semaforo pedonale con la luce verde accesa. «Grazie»
scherzò, mimando un inchino. A quel suo gesto non riuscii a trattenere un
sorriso, lasciando che le mie labbra si curvassero all’insù sotto alla spessa
sciarpa di lana grigia e azzurra che portavo al collo. «Io volevo solo
ringraziarti. Qualsiasi cosa tu abbia fatto… o detto a Ryan prima ha
funzionato. Sembra essere meno pazzo, è quasi più tranquillo. Grazie Lexi, ti
siamo tutti debitori». La sua mano si appoggiò alla mia spalla per stringerla
con un po’ di forza; riuscii a sentire il calore del suo corpo nonostante il giaccone
e la felpa che portavo sotto. Brandon mi era davvero riconoscente e le sue
parole erano sentite: era difficile credere che potesse mentire quando il suo
sguardo – rispetto a quel pomeriggio – era rilassato e quasi felice. Si
sbagliava solo su un piccolo particolare, però.
«Io non ho fatto o detto nulla a Ryan. Credo si sia accorto da
solo che andare dai Misfitous da solo era un’idea cretina». Di certo Ryan non
aveva cambiato idea per essere venuto a letto con me, perché non avevo tutto
quel potere per cambiare le sue decisioni. Semplicemente era trascorso un po’
di tempo e poi il suo cervello aveva capito che non era la cosa migliore da
fare, se voleva rimanere vivo. Brandon non riuscì a trattenere un sorriso alla
mia affermazione, come se sapesse che avevo appena raccontato una bugia. Ma
Brandon non poteva saperlo, perché Ryan – orgoglioso com’era – non avrebbe mai
raccontato a nessuno quello che era successo, visto che si era trattato di un
momento di debolezza. Ryan non si mostrava mai debole.
«Certo, ci credo. Grazie comunque». Ammiccò verso di me, prima di
girarsi per tornare a casa lentamente. Non aveva fretta, non correva come aveva
fatto per raggiungermi. Sospirai alzando gli occhi al cielo e guardai di nuovo
davanti a me, attendendo che non ci fossero macchine sulla strada. Senza
aspettare che il semaforo diventasse ancora verde, attraversai arrivando al
lato opposto e guardando prima a destra e poi a sinistra. Ero di fronte a un
bivio: potevo andare direttamente al supermercato a comprare le birre o fare un
paio di isolati in più, fermarmi per prendere una birra al Phoenix, salutare
Peter e andare al negozio passando per Coster Street. In fin dei conti era un
solo isolato in più, e non avevo nemmeno salutato Peter quella mattina.
Camminai velocemente verso il Phoenix, concentrandomi sulle mie
gambe e contando i miei passi per tenere la mente occupata: non volevo pensare
di nuovo al 198 di Whittier Street e agli inquilini del terzo piano perché non
era proprio il caso. Quando varcai la soglia del locale, Peter mi accolse con
un radioso sorriso al quale risposi felice, rilassandomi un po’. L’atmosfera
che si respirava dentro a quel locale contrastava con il freddo che c’era fuori
e riusciva a rallegrarmi. Soprattutto perché dopo la notizia che Ryan aveva
dato a Peter quella stessa mattina, Shirley, l’altra cameriera, aveva subito
ceduto il testimone al nuovo proprietario aiutandolo a servire i clienti anche
quel giorno.
«Ciao Lexi» mi salutò, indicandomi con un gesto del capo uno
sgabello davanti al bancone. Mi allungò un boccale di birra con un simpatico «offre
la casa», prima ancora che io potessi fiatare. «Come stai? Va un po’ meglio di
questa mattina?». Alla sua affermazione sospirai, alzando lo sguardo e
soffermandomi su due cornici nere appese sul muro dietro al bancone: erano Aria
e Dollar in due diverse foto; ritratti entrambi sorridenti e intenti a bere una
birra proprio in quel locale. Vedere quelle foto mi fece ricordare il funerale,
causandomi un groppo in gola che cercai di sciogliere con la birra.
«Va peggio, direi» bofonchiai, tornando a guardare negli occhi
scuri di Peter. Il suo sorriso si spense appena e la sua mano accarezzò la mia,
sopra al bancone. A quel gesto mi ritrassi subito, nascondendo la mano in tasca
del giaccone e avvicinando l’altra al boccale perché non tentasse di nuovo di
toccarmi. «Devo andare, scusami» mi giustificai, lasciando la birra a metà e
uscendo dal locale dopo aver spintonato un ragazzo che mi aveva sbarrato la
strada. Che cosa mi era venuto in mente? Perché ero andata al Phoenix sapendo
che c’era Peter? Credevo avesse smesso di provare a essere più che gentile con
me, gli avevo chiaramente detto che non ero interessata a lui. Perché tornava a
comportarsi in quel modo proprio quel giorno? Perché il tocco della sua mano
era risultato quasi fastidioso se comparato a quello che mi aveva sfiorato quel
pomeriggio?
Calciai un sasso con tutta la forza che avevo e quello andò a
sbattere contro una vetrata dalla parte opposta della strada facendo fischiare
qualcuno. Mi guardai attorno, cercando di capire da dove provenisse quella
risata che non riuscivo a riconoscere. Non era Ryan, non era nemmeno dei
ragazzi; eppure… eppure ero sicura di aver già sentito quel suono gutturale da
qualche parte. Istintivamente portai la mano sul cellulare, sbloccandolo e
componendo un numero che sapevo a memoria. Era stupido e idiota, ma c’era una
strana sensazione che non mi permetteva di essere tranquilla; sensazione che
divenne certezza quando dall’angolo della strada vidi uscire Dead e Pitt.
«Hai litigato con il fidanzatino?» ghignò Dead, avvicinandosi
pericolosamente a me. Mi guardai attorno, estraendo il cellulare dalla tasca e
avviando la chiamata mentre lo portavo dietro alla mia schiena, perché
dall’altra parte della cornetta potessero sentire. «Insomma, un calcio così
forte a un minuscolo sassolino da una ragazza così piccola… che ti ha fatto il
piccolo Calloway, eh?» continuò, avvicinandosi con l’altro ragazzo a me.
Indietreggiai di nuovo, finendo con le spalle contro a un muro e sussultando
spaventata.
«Che cosa ci fate qui? Non è il vostro territorio» azzardai,
sperando di riuscire a dare qualche informazione in più sulla mia posizione.
Speravo solo che in linea ci fosse qualcuno. Dead ghignò, fingendosi divertito
al punto che diede una pacca sulla spalla a Pitt che espirò il fumo della
sigaretta, unendosi a lui in quella risata finta.
«Territorio di confine, ricordi? Il tuo piccolo Calloway non te
l’ha detto che il Phoenix è nel territorio di confine? Questa strada è
territorio di confine, quindi è di chi vince la battaglia, piccola puttanella
di Calloway. Vediamo se ti ha insegnato qualcosa… una parte di questa strada è
sotto il dominio dei Misfitous, l’altra degli… come si chiamano, Pitt? Turkey?
Crow? Ah no, Eagles. Hai il cinquanta percento di possibilità di essere nella
parte del tuo piccolo Calloway ma potresti essere anche in quella sbagliata. Ti
do l’opportunità di scegliere se rimanere in questo marciapiede o attraversare
la strada e andare nell’altro. Se al mio tre ti troverai sul marciapiede dei
Misfitous… be’, credo che Calloway prima di scoparsele debba istruirle. Farà
così con la prossima, giusto Pitt?». Il biondo ghignò, annuendo in un gesto di
assenso alle parole di Dead. Perché in quella stupida via non c’era nessuno? E
perché nessuno accorreva in mio aiuto? Non avevano risposto alla chiamata? Mi
guardai attorno, cercando di capire quale lato della strada potesse essere sotto
al controllo dei Misfitous e quale degli Eagles, ma non riuscivo a leggere i
cartelli con i nomi delle vie vicine. «Uno…» cominciò a contare Dead,
avvicinandosi a me lentamente. Lì, sarei rimasta ferma in quel punto. Che quel
muro fosse sotto al controllo degli Eagles o dei Misfitous non mi interessava,
perché ero sicura che Dead mi avrebbe uccisa in entrambi i casi, visto che non
c’erano testimoni. «Due…» continuò, estraendo un coltello da dietro la schiena
e alzandolo perché potessi vederlo. Finsi di essere coraggiosa e non abbassai
lo sguardo, rimanendo in piedi immobile in attesa che lui e Pitt si
avvicinassero a me per ferirmi, o peggio, uccidermi. «E tre…». Il sorriso sul
volto di Dead si allargò a dismisura, producendo una smorfia spaventosa che mi
fece socchiudere gli occhi per qualche secondo, in attesa di sentire la lama
fredda affondare sulla mia gola.
«Sei dalla parte sbagliata della strada, Dead». Nell’udire quella frase
sospirai sollevata, portando la nuca ad appoggiarsi al muro dietro di me. Non
ero mai stata così felice di sentire quella voce e di vedere i ragazzi. Ryan e
Brandon si misero tra me e Dead, nascondendomi. Rimasi immobile, in attesa di
capire che cosa stesse succedendo, visto che non riuscivo più a vedere nulla.
«Ed ecco il cavaliere che corre a salvare la sua puttanella. È
così importante per te che comincio a credere che deve davvero essere brava.
Potresti lasciarmela per una notte?» scherzò, senza spostarsi. Ryan e Brandon
non si erano mossi, quindi anche Dead e Pitt dovevano essere rimasti fermi al
loro posto.
«Chissà che cosa dirà la gente quando scoprirà che volevi uccidere
qualcuno nel nostro territorio. Un Peripheral per di più. Si chiederanno che
razza di O.G. hanno i Misfitous, non trovi?» lo provocò Ryan, avanzando di un
passo verso di lui mentre la sua mano destra si muoveva lentamente verso la
cintura dei pantaloni, dietro alla sua schiena. «Non credi che farà una figura
da fighetta, Brandon? Si chiederanno con che coraggio ha violato il patto, no?».
Ryan si girò a guardare Brandon di fianco a lui e vidi la sua mano destra
impugnare una pistola per poi puntarla verso Dead che imprecò, sussultando e
cominciando a indietreggiare. «Quindi io direi che la finiamo di fare queste
stronzate e ci vediamo domani sera, o magari dopodomani, che ne dici Dead? In
un territorio neutrale, con le bande al completo. Una piccola rivincita per
ricordare che hai ucciso un ragazzo e una donna che aspettava un bambino. Sai,
gli Eagles non tollerano proprio la violazione di certe leggi, spero tu possa
capirmi, no? Se succedesse qualcosa a Kristin mentre torna dal lavoro Mike non
ne sarebbe affatto contento, giusto? Pensa se BB Child poi dovesse rompersi un
paio di ossa. Povero, così giovane e già con qualche cicatrice sul corpo…». Ricordai
perché Ryan mi sembrasse pericoloso: la sua voce, il suo tono così basso che
sembrava stesse sibilando; stava intimidendo Dead e Pitt, e ci riuscì, visto
che, spaventati, se ne andarono senza dire niente. Vidi la mano di Ryan tornare
dietro alla sua schiena per nascondere la pistola che aveva preso in mano; si
scambiò uno sguardo con Brandon prima di girarsi verso di me per ammonirmi con un’occhiata.
«Che cazzo ci fai qui, tu?» sbottò, incrociando le braccia al petto, in attesa
di una mia risposta.
«Stavo andando a fare la spesa, non posso?» cercai di affrontarlo,
nascondendo il mio telefono dentro al giaccone e guardandomi attorno per capire
da che parte fosse il supermercato. Non avevo mai camminato per quelle vie di
Hunts Point ma sapevo che Coster Street si congiungeva a Randall Ave, per
questo –quando vidi alcune macchine sulla strada alla fine di Coster Street
alla mia sinistra – capii che sarei arrivata al supermercato andando in quella
direzione.
«Perché cazzo sei
venuta qui? Coster Street è territorio di confine» proruppe di nuovo,
avvicinandosi di un passo a me tanto che istintivamente mi allontanai da lui,
incapace di rimanere per troppo tempo a così poca distanza dal suo corpo. Feci
un nuovo passo indietro ma Ryan mi seguì, come se volesse di nuovo avvicinarsi
a me.
«Perché sono andata al Phoenix, non posso? Mi è proibito? E non lo
so che Coster Street è territorio di confine, ok? Non so queste stupide cose da
gang e non mi interessano. Ma fammi il favore di dire a Dead che non sono la
tua puttanella, perché è la seconda volta che vuole farmi del male convinto che
io lo sia». Non aspettai nemmeno una sua risposta, cominciai a camminare lungo
Coster Street – lungo il marciapiede che era territorio degli Eagles – per
arrivare il più presto possibile a Randall Ave. Non mi interessava di Ryan e
Brandon, sapevano badare a loro stessi molto più di quanto potessi farlo io.
Loro avevano armi, muscoli e conoscenza di vie e stupidi trattati del Bronx.
«Ehi lentiggini, potresti almeno ringraziare perché ti abbiamo
salvato il culo». Qualcosa mi strattonò il braccio, costringendomi a girarmi.
Era un tocco familiare, ma la forza non era certo dolce. Quel gesto si mischiò
al ricordo del tocco di Ryan sul mio corpo, facendomi vacillare appena. No, non
c’era niente del dolce Ryan di quel pomeriggio in quello sguardo severo e
furioso davanti a me. Probabilmente mi ero immaginata tutto.
«Grazie?» domandai ironica, pronta per esplodere. Gli avrei detto
che non dovevo ringraziarlo per nulla, visto che era per colpa sua e dei suoi
stupidi amici gangster se avevo rischiato di morire per due volte. Gli avrei
anche ricordato che forse era lui a dovermi ringraziare, viste le innumerevoli
volte in cui mi avevano svegliato nel cuore della notte perché potessi medicarli.
«Ehi, ragazzi, basta. Siamo stati fortunati che Lexi ha avuto il
sangue freddo di chiamarti e abbiamo capito dov’era. Non è successo nulla e
tutto si è sistemato, andiamo Ryan. Lexi sta attenta, d’accordo? Ci vediamo a
casa». Brandon si mise davanti a me, riparandomi da Ryan – o forse facendo da
scudo a lui contro la mia ira – e lo spintonò dalla parte opposta, senza che
avessi il tempo di aggiungere altro. Perché diamine dovevo sempre fare la
figura della stupida quando era Ryan a comportarsi da idiota?
Avevo un assoluto bisogno di birra, tanta birra. Così tanta da non
ricordare nemmeno come mi chiamavo. Quando entrai nel supermercato non badai
nemmeno alla commessa che mi salutò cordialmente, mi diressi verso il reparto
liquori, prendendo tre confezioni di birra e andando subito dopo alla cassa,
senza fare caso al sorriso cordiale della cassiera. «C’è qualche festa?»
scherzò, cercando di farmi parlare. Presi il portafoglio dalla borsa,
allungando dieci dollari sopra al rullo. Non aspettai nemmeno il resto,
imbustai le tre confezioni di birra uscendo dal supermercato senza salutare.
Non ero dell’umore adatto; Ryan mi aveva di nuovo fatta arrabbiare, esattamente
come succedeva da quasi nove mesi.
Arrivai a casa e sistemai le birre in frigo, scaldandomi una pizza
surgelata al microonde e indossando un paio di pantaloni della tuta e una
maglia a maniche corte mentre aspettavo che la mia cena finisse di scongelarsi.
Mentre mi toglievo la maglia sentii qualcosa picchiettare sul mio stomaco e
ricordai che indossavo ancora la catenina di Ryan. Abbassai lo sguardo,
prendendo quel piccolo ciondolo d’argento e rigirandomelo tra le dita. «Vaffanculo
Ryan Calloway» sibilai, indossando la maglia scura che avevo preso dalla
valigia di fianco al mio letto e dirigendomi verso la cucina. Aprii il forno e
misi la pizza sul piatto tagliandola in quattro spicchi poi, dopo aver preso tre
bottiglie di birra tra tutte quelle che avevo comprato, andai a sedermi sul
divano, appoggiando il piatto sul tavolino di fronte a me.
A metà film avevo già finito la pizza e bevuto due bottiglie.
Ricordavo di aver barcollato fino al frigo per prendere la quarta prima di
cominciare la terza, poi del film non ero riuscita a vedere il finale, troppo
impegnata a bere.
Per questo, la mattina dopo, quando mi svegliai su quel divano mi maledissi
da sola nel momento in cui provai ad alzarmi: la testa mi doleva e la stanza
girava, in più c’era la sensazione di nausea che si faceva ogni istante più
forte. Cercando di combattere contro il mio appartamento che sembrava muoversi
come un peschereccio durante una tempesta riuscii ad arrivare al bagno per
vomitare. Quando mi alzai dal pavimento per sciacquarmi il viso e vidi la mia
immagine riflessa allo specchio mi resi conto che la mia idea di ubriacarmi la
sera prima per scordare quello che era successo era così stupida da far
apparire l’idea di Ryan di andare dai Misfitous da solo quasi come una
genialata. Avevo un assoluto bisogno di bere qualcosa di caldo, possibilmente
con molto limone.
Limone che non avevo, visto che in frigo c’erano solamente verdure
e birra. Presi un respiro profondo portandomi le mani tra i capelli e capendo
che dovevo attraversare il pianerottolo e bussare al 3B se volevo guarire da
quella sbornia, così, cercando di camminare lungo i muri per non cadere
rovinosamente a terra, arrivai davanti alla porta e, dopo qualche secondo di
indecisione, bussai.
«Ciao Lexi, tutto bene?» mi salutò preoccupato Paul, scostandosi
perché potessi entrare in casa. Speravo con tutta me stessa che in casa non ci
fosse Ryan, perché – anche se avevo affogato tutti i miei problemi con la birra
– non ero ancora pronta a vederlo. Speranza che svanì quando lo vidi seduto sul
divano a fumare assieme a Brandon e Sick. Stavano discutendo di qualcosa
veramente importante, perché non fecero nemmeno caso a me, tanto che mi rivolsi
a Paul, appoggiandomi alla porta dietro di me.
«Io… non sto bene e ho bisogno di un limone, potresti prestarmelo
per favore? Te lo riporto il prima possibile». Parlavo lentamente e a bassa
voce, sperando di passare inosservata a Ryan e a Sick, perché avevo paura delle
loro battute. Paul annuì con un sorriso, avvicinandosi al frigo e sparendo
dietro allo sportello dopo averlo aperto per cercare il limone. Ricomparve
davanti a me giocherellando con quell’agrume scherzando un po’ prima di tendere
la mano perché potessi prenderlo. «Grazie» mormorai, stringendo il limone tra
le dita e appoggiando una mano sul pomello della porta per uscire.
«Lexi, che succede? Come mai sei qui da noi?» urlò Sick, attirando
l’attenzione di tutti su di me. Socchiusi gli occhi, cercando di pensare il più
velocemente possibile a una scusa per quel limone. Dire che mi ero presa una
sbronza la sera prima non mi sembrava una buona cosa, visto che sicuramente poi
avrebbero investigato per scoprire che cosa mi avesse turbata.
«Ho… stamattina non sto molto bene, ho vomitato perché
probabilmente ieri sera ho fatto indigestione e volevo farmi qualcosa di caldo
usando il limone ma non ne avevo a casa». Come scusa – visto che comunque era
una mezza verità – poteva reggere. Speravo solo che non si avvicinassero troppo
a me per vedere le mie profonde occhiaie e quanto la luce mi infastidisse.
«Sei incinta? Lo Spirito Santo ha colpito ancora o è stato Peter?»
sogghignò Sick, ridendo di gusto tanto che si picchiò la mano sulla coscia,
dondolandosi avanti e indietro. Probabilmente per il suo cervello da scemo era
una signora battuta, qualcosa a cui tutti i presenti dovevano ridere. Nessuno
dei presenti però cominciò a ridere, visto che Paul e Brandon gli riservarono
un’occhiataccia e Ryan rimase fermo a guardarmi.
«Sei un idiota» sbottai, voltandomi verso la porta senza badare
alla testa che mi doleva e al 3B che girava attorno a me. Uscii da
quell’appartamento sentendo l’eco delle risate di Sick e, quando mi chiusi la
porta di casa alle spalle, cercai di respirare rimanendo in piedi solo perché
la mia schiena era appoggiata al legno dietro di me. Con movimenti lenti
scaldai un po’ d’acqua, aromatizzandola con il limone e lo zucchero e, dopo
essermi seduta sul divano, mi rilassai bevendo. Ricordavo quando – dopo la
prima sbronza – Edge mi aveva insegnato quel rimedio per non avere troppo mal
di stomaco la mattina dopo. Io, lui e Soph avevamo bevuto così tante volte quel
miscuglio che alla fine era diventato una specie di rito post sbronza.
Passai tutta la giornata sul divano, guardando qualche film che
trasmettevano sui canali che il mio vecchio televisore riusciva a prendere e per
pranzo mi preparai un po’ di tè che accompagnai con qualche biscotto perché non
volevo rischiare di vomitare di nuovo. Alla sera però, ritornata in forze e
decisamente affamata, mi preparai un panino che riempii con maionese, pomodoro
e mozzarella, esattamente come avevo visto fare alla protagonista del film che
finii di guardare prima di andare a farmi una doccia.
Quando, quella sera, mi distesi a letto, mi ricordai che non avevo
ancora parlato con Ryan; ma, come mi ero promessa, non sarei stata di certo io
quella che avrebbe affrontato l’argomento. Dovevo anche restituirgli la collana
che portavo al collo, ma sembrava che nemmeno si fosse accorto di non averla
più con sé, quindi probabilmente non era così importante per lui. Ci avrei
pensato il giorno dopo, magari.
Svegliarsi la mattina perché un raggio di sole ti colpisce in
pieno viso non è mai un brutto risveglio, se però i tuoi vicini decidono di
piantare un chiodo nel muro confinante con la tua camera tutto cambia
significato. Grugnii infastidita da quel continuo rumore e, sbuffando, mi misi a
sedere sul letto, sistemandomi la maglia che si era attorcigliata attorno al
mio busto durante la notte. «Lentiggini, vuoi aprire questa cazzo di porta?»
urlò qualcuno. Sbuffai capendo che non c’era nessun chiodo, solamente un pugno
che sbatteva contro la mia porta. Mi alzai dal letto lentamente, raccogliendo i
capelli in una coda e passando per la cucina per addentare una brioche; poi,
dopo qualche minuto, aprii la porta, trovandomi davanti Ryan con il mento
completamente ricoperto di sangue.
«Ho un piccolo problema» spiegò entrando in casa senza che
l’avessi nemmeno invitato. Camminò fino alla cucina, spostando una sedia con un
piede e sedendosi senza aggiungere altro. Camminando, aveva macchiato il mio
pavimento di sangue, visto che il suo naso continuava a sanguinare. Quando si
accorse che non mi muovevo, si girò verso di me, per capire che cosa mi
bloccasse sulla soglia.
«Accomodati pure» mormorai ironica, chiudendo la porta alle mie
spalle per andare in camera a prendere l’occorrente per medicarlo. Quando
tornai in cucina, lo trovai nella stessa posizione: schiena dritta e gambe
aperte perché probabilmente non voleva sporcare anche i pantaloni – visto che
la felpa era tutta macchiata – ma il mio pavimento. Mi misi i guanti, cercando
di estraniarmi per non pensare che avrei dovuto medicare Ryan. Era un paziente,
non c’era nessun coinvolgimento con lui, di nessuna natura. Con movimenti
meccanici spruzzai il disinfettante sul batuffolo di cotone e cominciai a
pulire il sangue rappreso dal suo mento e dalle sue labbra, continuando a
ripetermi che era solo un paziente e niente di più. Ero quasi sicura che il suo
naso non fosse rotto, semplicemente aveva preso una botta forte. Sapevo infatti
che si poteva perdere sangue dal naso in seguito a una forte contusione anche
senza romperlo.
«Così… sei incinta?» chiese, guadagnandosi una mia occhiataccia.
Che cavolo di domande faceva? Credevo fosse più intelligente e soprattutto meno
deviato di Sick. Non gli risposi nemmeno, fingendo di non aver sentito cosa
aveva appena detto. «Dove hai nascosto la tua curiosità? Non mi chiedi come è
successo?» domandò sogghignando, mentre strofinavo il cotone appena sopra alle
sue labbra. Ignorai la sua domanda portando le mie mani sul suo naso e
muovendolo per sentire se fosse rotto o meno. Come immaginavo non era rotto,
aveva semplicemente preso una botta.
«Perché dovrei? Tanto inventerai qualcosa a caso. Saresti capace
di dire che è stato Rumpelstiltskin che ti ha picchiato con il suo bastone»
ironizzai, prendendo un pezzo di cotone per cercare di fermare il sangue che
scendeva sempre più lentamente dal suo naso. Sfiorai inavvertitamente il suo
labbro con l’indice e cercai di non far vedere quanto quel contatto mi avesse
destabilizzata, concentrandomi di nuovo sul suo naso.
«Questa è davvero una buona scusa, la utilizzerò in futuro» sghignazzò,
aspettando che dicessi qualcosa; probabilmente credeva rispondessi di nuovo
alla sua battuta, ma non lo feci. Attese in silenzio per qualche secondo, ma
non vedendo nessuna reazione da parte mia non disse nulla. Sembrava pensieroso,
sentivo il suo sguardo studiarmi e cercavo di fingermi concentrata sul cerotto
che stavo applicando sul suo naso. «Mi stai evitando?» chiese, sorpreso. Lo
vidi aggrottare la fronte cercando di capire perché lo stessi evitando, così mi
sentii in dovere di spiegare.
«Non ti sto evitando Ryan, ti sto ignorando, è diverso». Gettai il
cotone sporco di sangue nel cestino e dopo aver disinfettato la tavola con
l’alcol mi tolsi i guanti, evitando di guardare Ryan che era ancora seduto; le
mani appoggiate alle cosce e quel cerotto bianco sul naso che lo rendevano
quasi ridicolo. Perché diamine non se ne tornava nel suo appartamento? L’avevo
medicato, no? Bene, non doveva fare colazione, picchiare qualcuno o divertirsi con
Butterfly? Che cosa stava aspettando?
«E mi ignori dall’altro ieri» concluse. Da quando si era fatto
così attento al mio ignorarlo o meno? Da quando gli interessava sapere se lo
ignoravo e perché? Perché non tornava a essere il solito idiota che se ne fregava
di tutto e tutti e uccideva le persone dopo avergli rubato i soldi?
«Almeno non fingo che non sia successo» mormorai sovrappensiero, accartocciando
il sacchetto quasi con rabbia. Non mi ero nemmeno accorta di aver pronunciato
quelle parole – così convinta di averle solamente pensate – fino a quando non
vidi Ryan alzarsi davanti a me e appoggiare le sue mani sulle mie spalle per
scrollarmi.
«Mi ignori perché io fingo che non sia successo?». C’era quasi una
nota divertita nella sua voce; nota che mi fece arrabbiare ancora di più tanto
che mi scostai dal suo tocco, allontanandomi di qualche passo da lui. Possibile
che dovesse sempre sogghignare in quel modo, alzando solo un angolo delle
labbra? Mi infastidiva, cominciava seriamente a infastidirmi.
«No, ti ignoro e basta. Non posso? Va contro le leggi degli Eagles
ignorare l’O.G.?». Cercai di sembrare più alta con scarsi risultati, visto che
non riuscivo a sfiorare nemmeno il suo collo. Speravo però che a intimidirlo
fosse il mio sguardo, più che la mia stazza fisica. Per questo mi concentrai per
guardarlo con tutto l’odio che provavo verso di lui. Non sembrò funzionare
però, visto che Ryan sospirò, portandosi una mano tra i capelli e avvicinandosi
a me.
«Vuoi davvero sapere perché fingo
che non sia successo nulla?» chiese,
senza aspettare una mia risposta. Non feci nemmeno in tempo ad annuire che continuò: «perché non voglio voler pensare anche a te, Alexis.
Perché preferirei morire io stesso piuttosto di vedere di nuovo il sangue di
qualcuno dei miei su quel fottuto flag e perché pensare che tu, che sei così
piccola e...fragile, potresti morire mi fa imbestialire. Non so controllare i
miei sentimenti, cazzo. Per me è tutta rabbia e godo quando mi sfogo e tiro un
pugno. La sensazione delle ossa che si rompono contro la mia mano mi dà una
scarica di adrenalina che mi costringe a continuare fino a quando non sento più
un muscolo dell’altra persona muoversi. Non voglio dipendere da nessuno e non
voglio che nessuno dipenda da me. Ci siamo io, gli Eagles e le risse contro i
Misfitous. Non voglio perdere la lucidità perché devo pensare che ogni mia
azione può provocare la mia morte e qualcuno ci potrebbe rimanere male. Non è
mai stato così per me e mai lo sarà. Quindi no, quello che c'è stato nemmeno lo
ricordo e di sicuro non accadrà mai più. Se voglio sfogarmi senza impegno vado
da Butterfly, come ho sempre fatto. Lei c’è, quello è il suo compito». Prese un respiro profondo, rilassandosi appena.
Cercavo di non far vedere i miei occhi lucidi ma era quasi impossibile; le
parole di Ryan erano state in grado di illudermi in un primo momento per poi
ferirmi. Perché la verità era che lui non si isolava da tutti perché non gli
interessava, ma semplicemente perché così era più facile. Ryan era una persona
che stava bene da sola, per questo non aveva mai avuto una Signora ma
semplicemente una ragazza da sbattersi quando gli faceva più comodo. Per questo
Butterfly ricopriva quel ruolo, perché a lei andava bene essere la valvola di
sfogo di Ryan, quella era la sua parte. Perché per Ryan tutti avevano un ruolo;
tutti tranne me.
«E il mio? Qual è il mio compito?» domandai, respingendo tutte le lacrime che ormai
offuscavano la mia vista. Era stupido, certo. Che cosa mi aspettavo da Ryan?
Non era esattamente quello che volevo dirgli io, che non mi interessava ciò che
era successo e che era stato solo uno sbaglio? Allora perché continuavo a
mordermi il labbro per trattenere le lacrime che non volevo Ryan vedesse?
Ryan indietreggiò appena, avvicinandosi alla porta
e dandomi le spalle per qualche istante, senza rispondere alla mia domanda.
Sembrò pensarci poi, mentre abbassava la maniglia per uscire, mormorò: «Il tuo
compito è quello di tenerci vivi il più possibile». Non aggiunse altro, si chiuse semplicemente la porta
alle spalle, lasciandomi ancora una volta da sola in quella casa all’improvviso
troppo silenziosa.
No, non dovevo piangere. Era giusto così e
soprattutto volevo che andasse in questo modo. Così me ne sarei andata nel giro
di una settimana, tempo di salutare bene tutti e di spedire le mie cose. Se
Ryan mi avesse parlato in modo diverso sarebbe stato strano. In fin dei conti
aveva espressamente detto che di me non gli interessava nulla visto che c’era
Butterfly. No, non era vero ma mi piaceva crederlo, era più facile da superare
e andava bene così. Perché era stupido piangere per Ryan, per questo andai
subito in bagno a sciacquarmi il viso: le gocce d’acqua che scendevano lungo le
mie guance non erano lacrime, solamente acqua. Mi asciugai il viso e dopo aver
preso un respiro profondo decisi di uscire dal mio appartamento per fare un po’
di spesa. Niente Coster Street o Phoenix però; avrei raggiunto direttamente il
negozio e dopo aver comprato qualcosa di diverso dalla birra sarei tornata a
casa, sì.
Uscii
dal mio appartamento tenendo lo sguardo basso perché speravo di non trovare
Ryan di nuovo, invece, mentre giravo la chiave nella toppa per chiudere la
porta, sentii un rumore di tacchi sul pianerottolo che mi fece capire subito di
chi si trattasse.
«Tette secche, sei ancora qui?» sghignazzò Butterfly, fermandosi davanti alla porta
del 3B per guardarmi. Nonostante il freddo indossava solamente una giacca di
pelle e sotto una magliettina striminzita che sottolineava la curva del suo
seno imbottito di silicone. Ai piedi calzava un paio di stivali con un tacco
decisamente troppo alto per me, tanto che sembrava alta quasi quanto Ryan. «Spiegami perché non hai ancora levato il tuo culo
rachitico da qui» continuò poi, con la
finezza che la contraddistingueva.
Mi avvicinai alle scale ignorandola, perché
Butterfly non meritava di certo la mia attenzione; poi però cambiai idea e decisi
che forse era meglio essere gentile con lei e non abbassarmi al suo livello. «Me ne
vado tra una settimana al massimo» spiegai,
voltandomi appena in tempo per vedere sul suo volto un’espressione stupita che
cercò di nascondere subito.
«Per fortuna, non ne potevo più di
te». Fece comparire sul suo viso un
sorriso finto quanto il suo seno, poi bussò alla porta del 3B, aspettando che
qualcuno le aprisse per farla entrare. Non aspettai nemmeno di vedere a chi
avesse rivolto quel: «ti sono mancata,
tesoro?» prima che la porta si chiudesse,
visto che cominciai a scendere la scala di corsa per andare il più presto
possibile al supermercato.
Una volta uscita dallo stabile non avevo poi così
fretta di arrivare al negozio, più rimanevo fuori di casa più mi sentivo
tranquilla; visto che ultimamente Whittier Street cominciava a farmi strani
effetti: ragionavo in modo disconnesso e il più delle volte reagivo troppo
istintivamente. Whittier Street mi stava cambiando, troppo. Era questa la
conclusione a cui ero giunta mentre pagavo il conto di quella spesa che mi
avrebbe permesso di sopravvivere per la settimana successiva.
Cercai di camminare il più veloce possibile verso
casa perché le due buste pesavano e a ogni passo rischiavo di farle cadere a
terra: spargere la spesa sui marciapiedi di Hunts Point non era decisamente
nella lista delle cose da fare. Per questo, quando le appoggiai sopra al tavolo
della mia cucina, sorrisi soddisfatta, togliendomi il giaccone e indossando una
felpa e un paio di pantaloni della tuta. Dopo aver sistemato tutta la spesa
presi un paio di limoni, dirigendomi verso il pianerottolo. L’ultima cosa che
volevo era lasciare debiti a Hunts Point; anche se si trattava solo di un
limone non volevo che i ragazzi fossero
in debito con me. Bussai, sperando che non mi aprisse Ryan – visto che non
avevo voglia di parlargli e sinceramente nemmeno di salutarlo prima di andarmene;
anzi, non volevo più aver a che fare con lui – e sorrisi sollevata vedendo
Brandon che ghignò, notando i limoni che avevo in mano.
«Non andremo di certo in rovina per
un limone, Lexi» scherzò, spostandosi
dalla porta per farmi entrare in casa. Non pensai di guardarmi attorno per
controllare che non ci fosse Ryan, troppo distratta da Brandon che mi fece
ridere quando mi scompigliò i capelli. Per questo quando, ridendo,
indietreggiai scontrandomi contro qualcosa, urlai spaventata.
«Tette secche vuoi stare attenta?» sbottò Butterfly, spintonandomi perché mi
allontanassi da lei. Era seduta su uno sgabello poco distante dalla porta,
indossava solamente una maglia che non era della sua taglia – probabilmente di
uno dei ragazzi – e stava fumando una sigaretta tranquillamente. «Ryan hai trovato qualcosa?» domandò poi, rivolgendo lo sguardo verso l’angolo con
i divani e la TV. Seguii la sua occhiata e quasi mi strozzai con la mia stessa
saliva: Ryan – vestito solamente con dei pantaloni della tuta grigi, senza
maglia o canottiera – continuava a spostare i cuscini della sua poltrona, in
cerca di qualcosa. Ma che cosa stava cercando mezzo nudo?
«Sei riuscito a trovarla?» chiese Brandon, dandomi delle pacche leggere sulla
schiena perché tornassi a respirare. Lo ringraziai con un gesto della mano,
cercando di non concentrarmi troppo sul corpo di Ryan ricoperto di tatuaggi. In
fin dei conti l’avevo visto – e toccato – un paio di giorni prima, no?
«No, cazzo. Sono talmente abituato
a indossarla che non riesco a ricordare da quando non ce l’ho più. Sono sicuro
che il giorno del funerale di Dollar e Aria ce l’avevo per…». Si immobilizzò all’improvviso, con il cuscino della
poltrona in mano. Lo rimise a posto lentamente, come se avesse trovato quello
che stava cercando. «Credo di ricordare
dove ho messo la mia collana. Devo averla nascosta in camera» mormorò, lanciandomi un’occhiata prima di sparire
verso la sua camera.
Improvvisamente sentii le guance in fiamme e mi
ritrovai a deglutire, cercando di respirare: la collana che portavo al collo
sembrò diventare pesante tanto quanto un macigno.
La collana di Ryan… non l’aveva lasciata dentro
al suo cassetto in camera, non era possibile, visto che ce l’avevo io al mio
collo. Allora perché aveva mentito? Si aspettava che davanti a tutti io la
mostrassi, rivelando che la indossavo? Non l’avrei mai fatto, o avrei dovuto
spiegare come l’avevo trovata, di fianco al mio letto, avvolta tra i miei
vestiti mentre mi rivestivo, dopo aver fatto l’amore con Ryan. O forse, semplicemente,
avrebbe bussato alla mia porta cinque minuti dopo, intimandomi di dargli la
collana perché era sua e io non avevo il diritto di tenerla, certamente,
sarebbe successo così.
«Brandon… tieni pure i limoni; io…
io vado. Ci vediamo» salutai, senza badare
a Butterfly che cominciò a lamentarsi per la mia maleducazione, visto che non
mi ero scusata per la mia presenza lì. Chiusi la porta del 3B correndo verso il
mio appartamento come se ci fosse un mostro che mi seguiva, poi, una volta
arrivata al sicuro, mi levai la felpa e, raggiunto lo specchio, guardai la mia
immagine riflessa e quella catenina color argento che arrivava fino al mio
stomaco. Presi in mano il pendente che sfiorava la mia pelle abbronzata e lo
rigirai tra le dita, sfiorando le ali dell’aquila rialzate. Fino a quando Ryan
non mi avesse chiesto la collana l’avrei tenuta io; doveva imparare che non era
sempre il capo e che ogni tanto anche lui doveva abbassarsi al livello delle
altre persone. Bastava un semplice «Alexis
hai ritrovato la mia collana per caso? Potresti gentilmente ridarmela? » e l’avrei tolta subito. Quanto teneva a quella
collana Ryan, visto che aveva detto che non se l’era mai tolta e la indossava
sempre?
Saaaaaalve!
Dunque, eccoci con il capitolo 19 che, contrariamente a
quanto avevo detto, è il penultimo capitolo prima dell’epilogo. Quindi i
capitoli totali saranno 21 e non 22 come precedentemente annunciato, ci sono
però due OS con pov diverso da quello di Lexi che saranno pubblicate. Quindi
non gioite tanto perché YSM è quasi finita, visto che ci sono anche le due OS
:D
Per quanto riguarda questo capitolo invece…
Per quanto riguarda Coster Street… è una via che esiste (come
tutte quelle citate nel corso della storia) e si trova poco distante da
Whittier Street. Come ho già ribadito non ho rispettato le divisioni di Bloods
e Crips quindi non so o meno se Coster Street sia una via di confine per le due
bande, ma fingiamo che sia vero, su, lasciatemi questa piccola convinzione.
Quando Dead offende gli Eagles, fingendo di non ricordare il
loro nome dice prima Turkey e poi Crow che come tutti saprete significa
Tacchino e Corvo, questo per sminuirli abbondantemente, ecco.
Per quanto riguarda lo sfogo di Ryan… quello che ha mentre
Lexi lo medica… quella parte l’ho scritta il 23 marzo nelle bozze del mio
cellulare mentre andavo a lezione e ogni volta che la rileggo io mi metto a
piangere, non chiedetemi perché (cioè lo so che la risposta è che sono idiota,
ma non ditemelo, datemi la speranza di non esserlo) e niente…
Mistero della collanina risolto, mhh? Ryan non ha
assolutamente lasciato la collanina da Lexi per farle un regalo, semplicemente
si è sfilata nella foga del momento. Avevo cercato di farlo capire nel capitolo
scorso, descrivendo la catenina come lunga (Lexi continua a dire che le arriva
dallo stomaco) perché si potesse capire che si era tolta sfilando la felpa. Poi
avevo cominciato a spiegarlo nelle prime recensioni, ma mi ero accorta che vi
aveva assolutamente intrippato questa cosa e ho smesso di dirlo, tanto in ogni
caso questa scena era prevista e vi avrei spiegato tutto qui.
Niente, non mi pare di avere altro da aggiungere… come sempre
ringrazio seguiti, preferiti e da ricordare che aumentano sempre di più,
ringrazio tutte le persone che leggono e quelle che hanno addirittura il
coraggio di recensire! :)
Come sempre lascio il link al gruppo spoiler dove potete
iscrivervi senza problemi visto che accetto tutti: Nerds’ corner. Vi comunico
che tra domani e dopodomani inserirò nel gruppo una OS riguardante YSM che non
voglio per diversi motivi pubblicare in EFP, quindi se vi va di leggerla sapete
che potete trovarla lì.
Ci vediamo presto per l’ultimo capitolo prima dell’epilogo.
Rob.
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Capitolo 20 *** You can keep it ***
YSM
Erano passati tre giorni da quando Ryan aveva scoperto di
aver perso la collana, ma non era tornato a riprendersela o tantomeno ne aveva
espressamente parlato con me; in verità non mi aveva proprio rivolto la parola.
Dopo il nostro discorso nel mio appartamento Ryan aveva cominciato a ignorarmi
esattamente come io facevo con lui. Se ci incontravamo per strada o per le
scale, mi salutava solamente con un gesto del capo, tornando poi a parlare con
chi era con lui; quando andavo a trovare i ragazzi durante il giorno e lui mi
apriva la porta, non si degnava nemmeno di salutarmi.
Era una situazione insopportabile.
Per questo mi ero decisa: sarei partita. Avevo il volo da
New York a Miami quel sabato pomeriggio; mi rimanevano meno di due giorni lì a
Hunts Point. Quel giovedì poi sembrava scorrere lentamente: in TV non c’era
nulla per cui valesse la pena rimanere in casa e fuori c’era un vento freddo
che minacciava neve. Mi alzai, decisa a raggruppare gli ultimi vestiti che
durante quella partenza così a lungo rimandata avevo più volte spostato dalla
valigia all’armadio, quando sentii qualcuno bussare alla porta. Erano dei colpi
leggeri, come se chi era all’uscio si vergognasse a essere lì.
«Sì?» chiesi, aprendo la porta e
stupendomi quando vidi davanti a me Irene. Sorrideva, in evidente imbarazzo e
continuava a guardarsi attorno, timorosa che qualcuno potesse vederla. «Vuoi entrare?» domandai sorpresa. Nonostante
frequentasse abitualmente Brandon e il 3B, non avevo parlato con lei molte
volte; tendeva sempre a intrattenersi con Brandon.
«Grazie
Lexi» sussurrò grata,
entrando e richiudendo la porta subito dopo. Che strano comportamento, non
l’avevo mai vista così nervosa. «Ti
va se ci sediamo?» domandò,
indicando il mio divano sgangherato a qualche metro da noi. Annuii, seguendola
e sedendomi di fianco a lei. «Ti
chiederai che cosa ci faccio qui, non è vero?» azzardò, allargando il sorriso sul suo volto e sistemandosi
comodamente, come se fosse a casa sua.
«Be’…» borbottai, alzando le spalle,
insicura su cosa dire. Non era di certo bello ammettere che trovavo strana la
sua visita, visto che non avevamo un rapporto così stretto –non quanto quello
instaurato con Aria, almeno. Irene sorrise, spostandosi una ciocca dei lunghi
capelli biondi dalla fronte e appoggiando il gomito allo schienale del divano,
perché potessimo essere una di fronte all’altra.
«Arriviamo
dritti al punto, ok? Non mi piace girare intorno a quello che ho da dire. Sei
ancora convinta di partire dopodomani?».
Si fermò, in attesa di una mia risposta. Quella domanda mi sembrò così strana
che per qualche secondo rimasi immobile, incapace di capire perché proprio lei
mi stesse chiedendo se sarei partita o meno. Sarebbe stato più logico se
l’avesse fatto Brandon o uno dei ragazzi –uno qualsiasi, escluso il loro O.G.,
visto l’odio che provava per me –ma non lei. «Lo so che sembra una domanda strana, posta da me almeno”
continuò subito dopo, accorgendosi che non reagivo o rispondevo.
«Certo che
partirò, perché non dovrei farlo?».
Avevo deciso che sarei partita e così avrei fatto, perché non potevo più
rimanere nel Bronx, non con il pensiero di Aria e Dollar ogni volta che
attraversavo Edgewater Road. E non avevo più un lavoro, quindi non potevo
pagarmi l’affitto. Era un problema anche quello. Probabilmente Peter mi avrebbe
assunta di nuovo come cameriera al Phoenix se solo io avessi trovato il
coraggio di chiederlo, ma non volevo più lavorare in quel bar.
«Perché
non rimani ancora un po’?».
Domanda stupida la sua; avevo cento motivi per andarmene e nessuno per rimanere.
Non riuscivo ancora a capire che cosa volesse proprio lei, poi. Probabilmente
riusciva a leggere la confusione nel mio sguardo, perché non trattenne una
risata, abbandonando il capo contro lo schienale del divano, di fianco a lei.
Quel gesto mi ricordò Aria e le serate passate a chiacchierare e guardare film,
mentre i ragazzi erano a lavorare.
«Perché
non ho più nessun motivo per rimanere. Non ho amici, non ho un lavoro e tra
meno di quindici giorni nemmeno più una casa, visto che non riuscirei a trovare
i soldi per l’affitto di gennaio. È meglio così» conclusi, vedendo il suo sguardo rabbuiarsi. Sembrò pensare a
qualcosa da dire per qualche secondo, tanto che, in imbarazzo per quel silenzio
che avevo causato, cercai di legarmi i capelli per prendere un po’ di tempo
mentre pensavo a qualcosa da dire. Non che non mi piacesse parlare con lei, ma
in qualche modo mi sentivo a disagio perché non riuscivo a capire il vero
motivo per cui fosse lì, nel mio appartamento.
«Be’, ci
sono i ragazzi, ci sono anche io. Mi sei simpatica, dovremmo uscire qualche
volta assieme, non credi? E poi se il problema sono i soldi… ho la soluzione!
Lavoro in un piccolo negozio in centro a New York, ci serve un’altra commessa,
potresti venire a lavorare lì. Pagano bene, c’è un po’ di strada da fare ma se
mi trasferisco dai ragazzi potremmo prendere la metro assieme, così ci facciamo
compagnia» tentò, cercando di
risultare più convincente con un sorriso. La sua mano si allungò per stringere
la mia, distante solamente qualche centimetro. Quello strano comportamento mi
puzzava. Perché voleva che rimanessi?
«Perché
vuoi che io rimanga?». Non
era stata proprio lei a dire, qualche minuto prima, che non le piaceva girare
attorno al discorso ma arrivare dritta al punto? Bene, allora avrebbe dovuto
essere sincera con me, perché non sopportavo le persone bugiarde e false.
«Rimani,
Lexi. Da quando sei qui qualcosa è cambiato, sei riuscita a far succedere così
tante cose e ho paura che una volta che tu te ne sei andata tutto peggiorerà.
Quando sei arrivata hai smosso le acque, Aria e Dollar hanno cominciato a
rifrequentarsi e aspettavano addirittura un figlio, io e Brandon ci siamo
rimessi assieme e Claire e Sick hanno parlato dopo quasi dieci anni». Non aveva mai smesso di
sorridere durante tutta la sua spiegazione, forse per sottolineare che –per lei
–con il mio arrivo erano accadute tante cose belle. Io non riuscivo a vederla
nello stesso modo. Presi un respiro profondo, ignorando la sua mano che
stringeva la mia.
«Io non la
vedo così. Da quando sono qui gli Eagles hanno subito tante perdite e in quasi
tutte c’entro io. JC era da solo perché siamo andati a Coney Island e non aveva
protezione. Aria e Dollar si frequentavano di nuovo? Sì, è vero, e guarda
adesso, sono morti. Mi sono ubriacata e ho svelato che John non ci pagava
regolarmente e che cosa gli è successo? L’hanno ucciso come se fosse stato un
animale da macello. Io non credo proprio di aver smosso le acque in modo
positivo Irene, scusami ma non riesco a vederla in questo modo. Ed è questo il
motivo principale per cui me ne vado. Hunts Point non è il mio posto». Socchiusi gli occhi, ignorando
le lacrime che volevano scendere dopo quel discorso che per settimane mi ero
tenuta dentro senza sfogarmi con nessuno. Irene sorrise appena, irritandomi
ancora di più.
«Hunts
Point è il posto perfetto per te, Lexi. Hai cambiato tante cose e da quello che
ho sentito tante cose sono cambiate in te, sei cresciuta da quando sei arrivata
qui nove mesi fa». La presa
della sua mano sulla mia si rafforzò appena, per farmi capire che le sue parole
erano sentite. Oh, ora riuscivo a capire! Tutto diventava chiaro. Risi nervosa,
portandomi le mani tra i capelli e tirandone qualche ciocca, disfacendo la coda
che mi ero fatta qualche minuto prima.
«Di’ a
Brandon che si faccia i fatti suoi, per favore. Senza offesa per lui, Irene, ma
non credo che mi conosca così bene da sapere se sono cambiata o meno. E
soprattutto, se deve dirmi qualcosa, gradirei fosse il diretto interessato a
dirlo, non un’ambasciatrice. Ora scusami, ma ho da….». Non riuscii a terminare la frase perché qualcuno bussò alla
mia porta. Irene si alzò in piedi di colpo, guardandosi attorno spaventata;
sembrava cercare un posto per nascondersi.
«Ti prego,
non dire che sono qui a nessuno, nemmeno a Brandon. Digli che non ci sono e che
non mi hai mai vista, inventati qualche scusa, per favore» supplicò, correndo verso il
corridoio per chiudersi la porta della mia camera alle spalle. Guardai il
corridoio vuoto, confusa. Che diamine stava succedendo? Perché avrei dovuto
mentire a Brandon? Ma soprattutto perché nessuno doveva sapere che Irene era lì
a casa mia?
«Ciao» salutai, aprendo un piccolo
spiraglio perché Brandon non potesse guardare dentro casa mia. Quel gesto
probabilmente lo insospettì, visto che cercò di guardare dietro di me, per
scorgere Irene. Per fortuna si era nascosta in camera, o l’avrebbe vista
subito.
«Posso
entrare?» domandò, facendo un
passo in avanti, come se fosse sicuro che l’avrei fatto accomodare.
Istintivamente socchiusi di più la porta, tanto che Brandon poteva vedere
solamente metà del mio viso. Si fermò, vedendo che non avevo intenzione di
farlo accomodare e mi guardò con circospezione, soffermandosi per qualche
secondo di troppo sul mio sguardo.
«Sono
nuda, ho appena finito di fare la doccia e sono nuda. Scusa se non ti faccio
entrare, ma sai, non ho nemmeno l’asciugamano addosso e…». Come scusa poteva reggere, visto che non poteva di certo
vedere se avevo raccontato una bugia. Brandon sbuffò, incrociando le braccia al
petto, come se stesse perdendo la pazienza.
«Lexi,
sappiamo che non è vero. E se anche fosse… ti ho già vista nuda, ricordi?
Quindi, per favore, spostati dalla porta»
minacciò, appoggiando una mano sulla maniglia e spingendo verso di me per
aprirla. Cercai di oppormi con tutta la mia forza, ma fu inutile, visto che in
pochi secondi mi ritrovai davanti Brandon che sorrise, soffermandosi sui
vestiti che portavo. «Dov’è?» domandò, cominciando a guardare
dietro al divano e in cucina. Finsi di non aver sentito la sua domanda, seguendolo
a mano a mano che si avvicinava alla mia camera. Aprì la porta del bagno
grugnendo frustrato quando si accorse che era vuoto. Impossibile non capire che
Irene doveva per forza essere in camera, visto che era l’unica altra porta. «Non inventarti che c’è un uomo
Lexi, perché non ci credo».
Aprì la porta, avvicinandosi a grandi passi a Irene, seduta sul mio letto. Si
stava torturando l’unghia del pollice e quando lo vide arrivare cercò di
dimostrarsi dispiaciuta, ma Brandon non le lascò il tempo di scusarsi. «Che cosa ti avevo detto? Restane
fuori Irene. Non dovevi venire qui, perché l’hai fatto?». Sembrava davvero arrabbiato, tanto che la prese per un
braccio, strattonandola quasi in modo dolce perché potesse seguirlo fuori dal
mio appartamento. Non aggiunse altro, si chiuse solo la porta alle spalle
mentre Irene sussurrava che dovevo pensare alla sua offerta.
C’era poco da pensare riguardo l’offerta di Irene: non avrei
accettato. Mi dispiaceva per lei, ma non si trattava solo di soldi –visto che
mi aveva anche trovato un lavoro –era più che altro insopportabile rimanere lì
a Hunts Point, come se improvvisamente quel piccolo Borough mi fosse diventato
stretto. Non credevo nemmeno un po’ alle sue parole, poi, visto che era strano
per me sentire una richiesta così proprio da lei, l’ultima persona con cui
avevo legato. Quindi la ringraziavo per il suo interesse verso di me e anche
per la sua disponibilità a provare a diventare mia amica, ma reclinavo ogni
tipo di offerta. In fin dei conti era giovedì ed ero sicura che in un giorno
non sarei mai riuscita a socializzare con lei al punto da diventare sua amica e
piangere all’aeroporto, mentre la salutavo.
Sarei passata dai ragazzi il venerdì pomeriggio a porgere i
saluti; forse potevo anche salutare Ryan, se si degnava di parlarmi, altrimenti
ne avrei fatto volentieri a meno. «Si
tratta solo di cortesia, tutto qui»
pensai tornando in camera mia per finire di sistemare la valigia, visto che ero
stata interrotta da Irene, poco prima.
Quella sera, stanca ma soddisfatta di aver sistemato tutto
ed essere ormai pronta per la partenza, mi distesi sul divano sgranocchiando un
pacchetto di patatine e guardando una commedia che speravo riuscisse a
strapparmi un sorriso. In verità, quello stupido film riuscì a rendere peggiore
il mio umore, visto che il protagonista indossava una collana a cui teneva
visto che gliel’aveva regalata il nonno. Quella commedia aumentò il mio senso
di colpa a dismisura, perché cominciai a pensare alla collana di Ryan che
portavo al collo; e se fosse stato un regalo di qualcuno? Qualcosa a cui lui
teneva e io continuavo a tenerla senza restituirla perché volevo che lui la
chiedesse? Sapevo che Ryan era orgoglioso, ma non potevo privarlo di qualcosa a
cui magari era davvero legato solo per comportarmi da bambina, non era giusto
nei suoi confronti. Era ancora meno una buona idea andarmene con quella collana
sapendo che l’avrei privato per sempre di quel ricordo. Infantile, stupido ed
egoista, non era qualcosa che io avrei fatto. Quindi dovevo restituirla, al più
presto; subito.
Mi alzai dal divano in fretta, correndo verso la porta del
mio appartamento e spalancandola per poi attraversare velocemente il
pianerottolo e bussare ininterrottamente al 3B.
Nessuna risposta.
Nessuno che imprecava aprendo la porta o ignorandomi. Dove
erano i ragazzi? Mi voltai per tornare nel mio appartamento quando sentii la
porta dietro di me aprirsi, facendomi sospirare sollevata mentre mi voltavo.
Nel momento in cui vidi chi c’era davanti a me però, preferii che nessuno mi
avesse aperto la porta.
«Che cazzo
vuoi, tette secche?» sbottò
Butterfly, accendendosi una sigaretta e chiudendo subito dopo la porta dietro
di lei perché non potessi entrare. Si avvicinò lentamente alla scala,
attendendo che rispondessi alla sua domanda. Non era il caso di dirle che
volevo parlare proprio con Ryan o si sarebbe arrabbiata e temevo che dentro a
quella minuscola borsa potesse avere qualche arma con cui ferirmi o peggio,
conoscesse qualche mossa di karate in grado di stendermi in due secondi; meglio
rimanere vaghi.
«Dovevo
parlare con i ragazzi di una cosa, non c’è nessuno di loro?». Così sarebbe stata costretta a
dirmi chi c’era in casa –ammesso che non fossero usciti tutti. Butterfly si
fermò con un piede sul secondo gradino e si voltò a guardarmi, con uno strano
sorriso sulle labbra. Sembrava quasi soddisfatta, ma non riuscivo a capire di
cosa.
«Non ti
hanno detto che uscivano, eh? Che cosa succede, tette secche, i tuoi amichetti
non ti dicono più nulla? Povera piccola incompresa». Si finse addolorata, irritandomi al punto che per qualche
secondo fui tentata di avvicinarmi a lei e ripetere l’esperienza di mesi prima:
un bel pugno assestato sul suo naso e di nuovo il rumore dell’osso che si rompeva
sotto alle mie nocche. Se mi fossi comportata in quel modo però, ero sicura che
Butterfly avrebbe reso i miei ultimi giorno a Hunts Point un vero inferno;
quindi semplicemente entrai in casa mia, decisa a rimanere sveglia fino a
quando i ragazzi non fossero tornati per dormire. Avrei chiesto a Ryan di
entrare un attimo nel mio appartamento e gli avrei riconsegnato la collana.
Ramanzina? Ci dovevo ancora pensare, l’avrei inventata al momento.
Per quante volte avevo camminato dal divano al tavolo,
avanti e indietro? Non sapevo dirlo con esattezza, ma visto che l’avevo fatto
ininterrottamente per quasi tre ore, dovevano essere davvero molte. Erano quasi
le due di notte e dei ragazzi non avevo visto nemmeno l’ombra. Dove diavolo
erano finiti? Perché non tornavano a casa a dormire? Non volevo consegnare la
collanina il giorno dopo perché poi –visto che mi conoscevo anche troppo –ero
sicura che avrei trovato una scusa per posticipare. E io dovevo dargli la
catenina al più presto.
Sentii il frastuono delle moto dei ragazzi che sopraggiungevano
e qualcuno aprì il portone del garage perché potessero parcheggiarle dentro,
mentre il rombo di altre moto che si avvicinava diventò così forte da
sovrastare gli schiamazzi. Almeno erano arrivati a casa sani e salvi, anche se
sembrava stessero giocando a Tupac e Notorius B.I.G. visto che non capivo
perché continuassero a sparare. Improvvisamente mi fermai in mezzo alla stanza,
sentendo delle urla sempre più forti e i colpi di pistola che cessavano.
Probabilmente avevano solo spaventato qualcuno che li aveva seguiti o magari
stavano facendo qualche stupido rituale di cui non mi avevano mai parlato. Non
smettevano però di urlare: era un continuo sovrastarsi di voci e grida che non
riuscivo a riconoscere. Le mie gambe non volevano nemmeno muoversi perché
sapevo che se fossi andata in camera e mi fossi affacciata al balcone avrei
visto che cosa stava succedendo in strada. Una parte di me preferiva rimanere
all’oscuro, sicura che i ragazzi stessero facendo i cretini come il solito. Sì,
doveva essere così, visto che le urla stavano diminuendo di intensità e tutto
intorno a me ritornava a essere silenzioso e tranquillo, come se si fossero
stancati di giocare.
Poi, all’improvviso –proprio quando non si sentiva più nulla
–udii il rumore di tre spari. Niente altro per alcuni secondi, solo l’eco di
quei colpi che avevano fatto tremare i vetri delle finestre.
«No» urlò qualcuno. Un urlo che arrivò
al centro del mio cuore, mentre le mie gambe cedevano definitivamente per farmi
cadere a terra, completamente senza forza. Sentii subito dopo due moto partire
sgommando, ma non avevo la forza di correre fuori per guardare che cosa fosse
successo. Da stupida non mi ero spaventata con gli spari e le urla; erano stati
quegli ultimi tre colpi a farmi cedere, come se esattamente in quel momento
fosse successo qualcosa di brutto a qualcuno
dei ragazzi.
«Alexis!» gridò una voce. Sentivo l’eco
salire dalla tromba delle scale ma non ero in grado di far forza alle mie gambe
per alzarmi in piedi. La voce si fece sempre più vicina, fino a quando arrivò
sul pianerottolo. «Apri! Apri questa cazzo di porta e scendi! È ferito,
abbiamo bisogno di te». Dei colpi contro la
porta, come se volesse buttarla giù. Dei colpi che per quanto simili a quelli
che avevo sentito così tante volte, non erano uguali. Non si trattava di fretta
o paura, era semplicemente…
Le
mie gambe reagirono da sole, come se fossero disconnesse dal resto del corpo.
Quando aprii la porta e vidi il suo viso martoriato dai pugni e ricoperto di
sangue sgranai gli occhi, sorpresa e spaventata. Era quasi irriconoscibile;
probabilmente, se l’avessi incontrato per strada e non sul pianerottolo, non
sarei nemmeno riuscita a riconoscerlo. Nemmeno l’azzurro dei suoi occhi
riusciva a contrastare tutto quel sangue.
«Ti prego»
mormorò, stringendo la presa della sua mano sulla porta. Sembrava cercasse di
sostenersi, come se gli mancassero le forze. Non me lo feci ripetere due volte,
forse perché le mie gambe cominciarono a muoversi senza che me ne fossi resa
conto. Prima ancora di chiedere qualsiasi cosa, cominciai a correre giù per la
scala, per uscire.
«Dove?» domandai,
spalancando il portone e vedendo subito quello che stavo cercando. Non mi
guardai nemmeno attorno, non mi interessava di tutte le altre persone perché
sapevo da chi andare; sapevo chi aveva bisogno di me. Corsi fino a
inginocchiarmi di fianco a lui, non badando a tutto il sangue che c’era sul
marciapiede. «Ryan…» mormorai, sentendo un nodo in gola quando appoggiai
il suo capo sulle mie gambe, scostandogli i capelli intrisi di sangue dalla
fronte. «Ryan…» ripetei, sfiorandogli il volto in punta di dita,
quasi temessi di fargli male. Era impossibile, perché ero sicura che quei due
colpi al centro del petto –esattamente da dove fuoriusciva troppo sangue –fossero molto più fastidiosi delle mie dita. Vidi il
suo sguardo spostarsi lentamente su di me e una piccola fiammella si accese,
quando mi vide.
«Lentiggini… sei qui» bofonchiò, tossendo. Non mi curai delle lacrime che cominciarono a scendere
quando Ryan sorrise, allungando lentamente la sua mano per accarezzarmi una
guancia; presi istintivamente la sua mano tra le mie, stringendola e sentendo
come le sue dita fredde contrastassero alle mie calde. Cercavo di non piangere
perché volevo continuare a guardare Ryan per avere una sua immagine nitida, ma
non era facile; ogni minimo gesto gli causava una smorfia di dolore che non
riusciva a nascondere. La sua mano sfiorò il mio collo, per finire appoggiata
al centro del petto, esattamente sopra alla collana nascosta dalla felpa che
indossavo. Nonostante gli strati di stoffa la mano di Ryan bruciava al
contatto, sembrava che la collana mi stesse marchiando, ma non riuscivo a
smettere di piangere e i miei occhi non volevano abbandonare i suoi. «Ce… l’hai… tu?».
Sapevo a cosa si riferiva, così annuii, lasciando che alcune mie lacrime gli
bagnassero il volto, cancellando un po’ di sangue. Non volevo nemmeno parlare,
non potevo parlare perché c’era qualcosa che me lo impediva; qualcosa dentro
alla mia gola. Vidi Ryan aprire le labbra per cercare di dire qualcosa e lo
fermai, lasciando la sua mano e appoggiando la mia sulla sua guancia,
accarezzandola lievemente.
«Sta zitto, stupido» gemetti tra le lacrime, stringendo con più forza la sua mano perché
potesse sentire che ero lì, accanto a lui. Avrei voluto aiutarlo, tamponare
quelle ferite, ma c’era davvero troppo sangue per terra e il rumore della
sirena dell’ambulanza che si avvicinava sempre di più mi fece sospirare
sollevata. «Adesso ti portano in
ospedale, ti tolgono i proiettili e domani cominci a ordinare ancora ai ragazzi
che cosa fare, d’accordo?» mormorai,
senza lasciare la sua mano, ancora ferma sulla collanina. Non era possibile che
sapesse che la stavo indossando, era nascosta dalla stoffa, eppure il suo palmo
era proprio appoggiato sopra.
«A…lexi…s, pu…oi
te…nerl…». Le sue labbra si
curvarono in quel ghigno che odiavo con tutta me stessa, quello che faceva
quando mi prendeva in giro. I suoi occhi però erano chiusi, non c’era quella
fiammella che mi faceva imbestialire ancora di più. Sentii la presa della sua
mano sulle mie farsi debole e istintivamente, per non farla cadere, la strinsi
con più forza, scuotendola appena. Perché non reagiva? Perché non la stringeva
più? Perché non mi prendeva in giro chiamandomi lentiggini? Perché non apriva i
suoi occhi, si alzava da terra e cominciava a ridere, dicendo che era tutto uno
scherzo?
«No, no Ryan, no»
urlai, lasciando la sua mano e prendendo il suo volto tra le mie, scuotendolo
appena. Di nuovo, i suoi occhi rimasero chiusi e vidi il suo capo ciondolare
verso l’asfalto quando l’ambulanza arrivò fermandosi a qualche metro da noi. «Ryan non puoi»
gridai più forte, picchiando un pugno contro il suo petto, senza che lui
reagisse. «Non puoi lasciarmi, hai
capito?». Non poteva, ero io quella che
doveva andarsene da Hunts Point, non lui. Ero io quella che doveva prendere un
aereo con la consapevolezza di vederli ancora vivi, non lui. Appoggiai la
fronte sul suo petto, ignorando l’odore di sangue e concentrandomi solo sullo
stesso miscuglio di profumi che avevo sentito qualche giorno prima in camera
mia, dopo aver fatto l’amore con lui. Socchiusi gli occhi, dando libero sfogo
alle lacrime e ignorando quello che stava succedendo attorno a me. Sentii
qualcuno avvicinarsi e pronunciare quella parola che mai come in quel momento,
se riferita a Ryan, era in grado di ferirmi ancora di più.
«Morto». Ancora
delle voci e poi l’ambulanza che ripartiva a sirene e lampeggianti spenti,
simbolo che non c’era nessuna urgenza. C’erano continue voci attorno a me che
si avvicinavano e allontanavano, qualcuno cominciò a piangere, ma non alzai lo
sguardo per controllare chi fosse, rimasi con il capo appoggiato al petto di
Ryan fino a quando una mano calda –non fredda come il corpo sotto di me –si
appoggiò al mio capo, accarezzandolo.
«Lexi, andiamo dentro». Sembrava la voce di Brandon, ma era così diversa, come se… alzai lo
sguardo, incontrando i suoi occhi così ricolmi di lacrime e rabbia che
istintivamente strinsi la felpa di Ryan più forte tra le mie dita, guardandolo
di nuovo. Mi abbassai, sfiorando le sue labbra con le mie e sistemando quella
ciocca di capelli che, ribelle, continuava a spostarsi sulla sua fronte intrisa
di sangue ormai raffermo.
Brandon
mi sollevò, prendendomi tra le sue braccia senza sforzo e lasciando che mi sfogassi,
con la fronte appoggiata al suo collo mentre saliva le scale di casa. «Mi
dispiace» mormorò, senza nascondere la
sua voce incrinata dalle lacrime che sentivo scorrere sulle sue guance. Cercai
di farmi forza, ignorando l’immagine del sorriso spento di Ryan che non se ne
voleva andare.
«Chi… che cosa è successo?» domandai, strofinando la mia guancia con il palmo
della mano per togliere le nuove lacrime che stavano scendendo. Brandon mi fece
sedere sul divano, rimanendo di fianco a me. Non gli importava nemmeno di
asciugare le lacrime che scorrevano sul suo volto, continuava a guardare
davanti a lui, verso la poltrona vuota di Ryan.
«Era la solita serata, siamo… abbiamo fatto un giro, ci
siamo scontrati nel territorio di confine come il solito e gli abbiamo fatto il
culo. Siamo tornati a casa ma ci hanno seguiti e noi non eravamo preparati. Ci
hanno colti alle spalle. Abbiamo lottato ma…». Si portò la mano tra i capelli, alzando lo sguardo al soffitto e respirando
a fondo per calmarsi. «Ryan cercava di
essere ovunque e di proteggere tutti; quando qualcuno lo chiamava accorreva
subito e se ne andava solo se non c’era più niente da fare. Poi si è avvicinato
a Dead e ha perso la testa, non ha più badato a nessuno nonostante vedesse i
ragazzi cadere a terra di fianco a lui». Ragazzi cadere a terra, allora Ryan non
era l’unica perdita degli Eagles. In quanti erano morti davanti al 198 di
Whittier Street? Mi guardai attorno per capire se ci fosse qualcun altro dentro
al loro appartamento ma eravamo solo noi. In quanti erano rimasti vivi? Quanti
Misfitous erano riusciti a uccidere? La curiosità era tanta, ma temevo la
risposta. Come avrei reagito se fosse morto qualcuno di loro che conoscevo
bene? Se fosse successo qualcosa a Sick?
«Chi… chi sta bene?». Speravo che Brandon riuscisse a capire cosa gli stavo chiedendo,
perché non volevo usare la parola vivo
né morto; entrambe mi avrebbero
riportato alla mente Ryan e il suo sorriso spento, la presa delle sue mani che
si allentava e il suo corpo privo di vita abbandonato sulle mie gambe.
Brandon,
senza distogliere lo sguardo dalla poltrona di Ryan –quasi come se stesse
parlando con lui –cominciò a raccontare: «Il primo che Ryan ha ucciso è stato BB
Child, per Dollar credo. Non ci ha impiegato molto e non gli interessava. Ryan
lo voleva morto. Io e Sick abbiamo cominciato a picchiare altri Misfitous
perché volevamo finire il prima possibile, ma ne sono arrivati un paio di nuovi
alle spalle e Josh e Paul sono riusciti a salvarci. Non riuscivo più a vedere
Ryan perché continuava a correre ovunque per pararci il culo, per questo quando
Sick ha esultato dopo aver ucciso Pick mi sono fermato per cercarlo. Ryan era
davanti a Dead e gli strattonava la felpa, sono riuscito a vederlo mentre gli
assestava una pugnalata sullo stomaco prima che Pitt arrivasse alle mie spalle
e mi tirasse un pugno sul fianco facendomi mancare il respiro. Poi non so che
cosa sia successo, non riuscivo più a capire nulla, c’erano solo il coltello
che tenevo in mano perché la pistola era scarica e sangue, tanto sangue. Ho
sentito Josh urlare il nome di Paul e poi il rumore di una scarica di pugni
ancora più forte. Non riuscivo nemmeno a vedere Hem o Swift, nessuno.
Continuavo a picchiare chiunque fosse davanti a me, calpestavo i loro volti e conficcavo
il coltello nella carne, non mi interessava davvero. Quando ho visto che più
nessuno si faceva avanti mi sono voltato verso Ryan e gli ho sorriso perché
eravamo riusciti a vincere di nuovo, non ho davvero controllato chi dei nostri
era rimasto a terra. E poi… poi ci sono stati quei tre colpi e Ryan è caduto a
terra. Sono corso da te subito, dovevo farlo. Dovevate parlarvi, non potevo
lasciare che tu non lo vedessi, non me lo sarei mai perdonato e tu avresti
vissuto per sempre con il rimorso di non avergli detto addio». Quando Brandon concluse il suo racconto cercai di
trattenere i singhiozzi, ma non ci riuscivo. Avevo ascoltato con gli occhi
chiusi, immaginando la scena come l’aveva raccontata e nel mio corpo avevo
sentito il segno di ogni coltellata e colpo di pistola.
«Quindi Paul è morto? E anche Hem e Swift? E di loro,
dei Misfitous?». Non riuscivo a non
pensare a Paul e al suo sorriso, ai suoi occhi così simili a quelli del
fratello. Come poteva sentirsi Josh dopo aver perso così tanti fratelli? Ryan,
Hem, Swift e anche Paul. E Sick, Lebo e l’altro ragazzo di cui non ricordavo il
nome perché l’avevo visto solo di sfuggita un paio di volte? Che ne era di
loro? Erano riusciti a salvarsi?
«Anche Lebo»
sospirò, strofinandosi il volto con la mano per togliere le lacrime che
scendevano lungo le sue guance. «Ma Ryan
è riuscito a uccidere Dead e sai cosa? Sono così fiero di lui che se fosse di
fianco a me gli darei una pacca sulla spalla. Dead, Pick, BB Child e altri sono
morti. Mike è ferito gravemente, credo. Pitt e Dan l’hanno portato via in moto
subito dopo aver sparato a Ryan. È solo questo che mi infastidisce, il fatto
che gli abbiano sparato nel momento in cui non riusciva a difendersi. Sono dei
codardi, aveva ragione Ryan, ce l’ha sempre avuta. Ti chiedo solo una cosa
Lexi; l’ultimo favore, poi non mi dovrai più nulla. Rimani per il funerale,
fallo per Ryan, per gli Eagles». La sua
mano strinse la mia e vidi il suo sguardo implorarmi perché rimanessi.
Senza
nemmeno pensarci annuii, sapevo che era la cosa giusta da fare. Lo dovevo a
Ryan, agli Eagles, a Dollar e Aria, a tutti quelli che avevano versato del
sangue perché credevano in una causa. Lo dovevo a loro perché mi erano stati
vicini quando avevo avuto bisogno di conforto e c’erano stati a sostenermi
quando ero giù –che fosse con una battuta cretina o con un abbraccio. Perché
nonostante tutto, non riuscivo a non pensare a Ryan e di nuovo mi ritrovai a
piangere, rannicchiandomi su me stessa. Era una cosa così stupida e insensata
sentire così tanto dolore per una persona che avevo odiato, che non riuscivo
nemmeno a pensare a quello che facevo.
Sentii
la porta dietro di me aprirsi e istintivamente mi voltai per guardare chi
stesse entrando. Era stupido –forse più ancora del dolore che provavo –ma una
piccola parte di me aveva sperato di veder entrare Ryan; un ghigno per deridermi
e il suo «che cazzo ci fai qui, lentiggini, ti sei persa?» prima di accendersi una sigaretta mentre si sedeva
sulla sua poltrona. Invece da quella porta entrarono solamente Sick e Josh. Nessun
sorriso, nessuna battuta cretina di Sick, niente di niente; solo due sguardi
tristi e gli occhi ricolmi di lacrime e tristezza. Josh non mi guardò nemmeno,
non salutò; camminò velocemente verso la sua camera sbattendo la porta per
chiuderla. Non me la sentivo nemmeno di dire qualcosa, visto che potevo solo
immaginare come potesse essere perdere un fratello. Doveva essere un dolore
molto più forte di quello che avevo provato con la morte di Soph ed Edge e di
Aria e Dollar; un dolore molto più grande.
«Cazzo» sbottò
all’improvviso Brandon, alzandosi in piedi di colpo e prendendo il telefono
dalla tasca della giacca. Non si lamentò nemmeno quando sfiorò il taglio al
fianco che sanguinava copiosamente; digitò solamente un numero, portandosi il
telefono all’orecchio e camminando su e giù davanti a me. Sick si sedette sul
divano di fianco a quello in cui ero seduta io e abbandonò il capo
all’indietro, sospirando. Mi sembrò quasi di vedere una lacrima sul suo volto,
ma fui distratta da Brandon che lanciò il cellulare, scagliandolo contro al
muro. «Cazzo» urlò, cadendo inginocchiato a terra. «No, non lei. Chiunque ma non lei». Si portò le mani davanti al volto, nascondendosi da
me e Sick che cercavamo di trattenere le lacrime. Non potevano averlo fatto sul
serio, i Misfitous non potevano essere così stronzi da prendersela con Irene.
Avrei voluto dire a Brandon che forse non aveva sentito il cellulare squillare,
che magari stava dormendo visto che era notte fonda, ma avevo paura che una
bugia –se di bugia si trattava –potesse illuderlo che tutto sarebbe andato
bene. Non potevo illuderlo o la delusione sarebbe stata ancora più grande.
«Brandon»
mormorai alzandomi dal divano e inginocchiandomi davanti a lui; istintivamente
lo abbracciai, lasciando che appoggiasse la sua fronte alla mia spalla e
piangesse. Non sapevo che cosa dire perché temevo che ogni parola fosse quella
sbagliata, così cercai di calmarlo accarezzandogli la schiena.
Sentii
qualcuno bussare alla porta con insistenza e Brandon si sollevò di scatto, prendendo
la pistola da sopra il tavolo e intimandomi di andare dietro a Sick senza
parlare. Lo vidi asciugarsi le lacrime con la manica della felpa in un gesto
che mi fece tenerezza e poi, dopo aver bloccato la porta con il piede, la aprì
di qualche centimetro, per vedere chi ci fosse sul pianerottolo. «Irene» sussurrò, spalancando la porta e abbracciandola.
Sospirai sollevata accasciandomi ancora di più al suolo e lasciando che un
piccolo sorriso nascesse sulle mie labbra ancora ricoperte da sangue e lacrime.
«Perché non hai risposto al telefono? Ho
provato a chiamarti ma non rispondevi e mi ero preoccupato» esordì. Forse voleva sgridarla, ma non ci riusciva,
anche dal suo tono di voce traspariva la felicità di poter stringere Irene
ancora una volta tra le sue braccia.
«Ho sentito che c’era stata una sparatoria qui e sono
subito corsa per raggiungerti tanto che ho lasciato a casa il telefono. Come
state? È successo qualcosa? State tutti bene? Dov’è Ryan, dove sono i ragazzi?» domandò Irene, sciogliendo l’abbraccio di Brandon e
inorridendo quando lo vide ricoperto di sangue e tagli. «Bran, che è successo? Dove… dove sono gli altri?». Guardò me e Sick, cercando con lo sguardo qualcun
altro attorno a noi. Vidi i suoi grandi occhi azzurri riempirsi di lacrime
quando nessuno di noi tre rispose alla sua domanda e subito abbracciò di nuovo
Brandon, scoppiando a piangere senza trattenersi. «Mi dispiace tanto»
piagnucolò tra le lacrime, cercando di consolare Brandon che continuava a
piangere silenziosamente, senza smettere di accarezzare la schiena di Irene,
ancora stretta a lui.
Nessuno
di noi aveva il coraggio di parlare per rompere quel silenzio così pesante e
carico di tristezza, rimanemmo semplicemente lì –io seduta sul pavimento, Sick
sul divano e Brandon e Irene abbracciati –fino a quando Josh non entrò in
soggiorno, con una sigaretta tra le labbra. Indossava solo un paio di pantaloni
della tuta blu, nessuna maglia o felpa; questo mi permise di vedere un grosso
livido sulla sua schiena all’altezza delle coste. Istintivamente mi alzai per
andare verso di lui e guardare meglio la sua ferita; quel movimento però lo
spaventò al punto che si ritrasse prima ancora che le mie mani lo sfiorassero.
«Scusa» sbottò,
aspirando una lunga boccata di fumo senza che riuscissi a vedere la luce nei
suoi occhi mutare: continuava a rimanere spento, come se qualcuno l’avesse
privato della vita. Forse era così che si sentiva, perché Paul era parte di
lui, metà della sua vita. Mi diede le spalle perché potessi controllare, ma
dopo aver tastato un po’, conclusi che non poteva avere coste incrinate, anche
perché avrebbe di certo sofferto di più e non sarebbe stato in grado di
muoversi così liberamente.
Dejà
vu.
Ryan
e il mio curare le sue ferite, le mie mani che si muovevano esperte sul suo corpo
tastando le sue ossa per capire se ci fosse qualcosa di rotto e subito dopo una
nuova immagine: i sui muscoli che guizzavano sotto alle mie dita mentre il suo
corpo si muoveva frenetico contro e dentro al mio, in cerca di quel piacere che
entrambi volevamo. Una nuova immagine, ancora una volta: non più Ryan e il suo
corpo, solo il suo sguardo che lentamente diventava vitreo davanti a me, la sua
mano che abbandonava il mio petto, lasciandomi inconsciamente in custodia
quella collanina che gli avevo rubato. Indietreggiai fino a trovare sostegno
contro il piano della cucina, portandomi una mano al petto, esattamente dove
Ryan aveva appoggiato la sua, prima di morire. Socchiusi gli occhi ascoltando
il battito frenetico del mio cuore che cercava di farmi recepire un messaggio
che non volevo –ma soprattutto non potevo –decifrare.
«Lexi, siamo qui, ti staremo sempre accanto» mormorò Irene, abbracciandomi di slancio. Volevo
spiegarle che non sarebbe stato così, perché non avevo cambiato idea e me ne
sarei andata, perché Miami mi aspettava e dovevo andarmene da lì, da tutto
quello che mi ricordava i morti e il sangue. Istintivamente guardai le mie
mani, notando le chiazze rosso scuro che c’erano sopra.
Sangue.
Sangue
di Ryan.
Non
provai nemmeno a fermare le lacrime che mi offuscarono la vista, accecandomi.
Sentii Irene appoggiare una mano sulla mia schiena, borbottando che era meglio
se mi accompagnava a casa per fare una doccia. Non protestai nemmeno,
semplicemente volevo togliere le ultime tracce di Ryan da me; non volevo più
pensare a lui, non volevo più ricordarmi di lui. Come se non fosse mai
esistito.
«Ci saremo noi, Lexi. Per sempre» ripeté Irene, aiutandomi a indossare il pigiama prima
che mi distendessi a letto.
«No, solo fino al funerale» mormorai, socchiudendo gli occhi e bagnando il
cuscino con le lacrime che, di nuovo, non ero riuscita a trattenere. Stupido
Bronx, stupidi Eagles e stupido Ryan, ecco cosa continuavo a pensare, mentre la
mia mano destra stringeva convulsamente quel piccolo ciondolo sopra al mio
stomaco. Sentii la mano di Irene accarezzarmi il capo cercando di
tranquillizzarmi e provai a calmare il mio respiro, prima che tutto diventasse
nero e rosso. Nero come l’oblio in cui eravamo caduti tutti e rosso come il
sangue che ci aveva spinti giù da quel precipizio. Dovevo solo resistere fino
al funerale, poi me ne sarei andata subito.
Ero
quasi sicura che ci fosse una leggenda che associava la pioggia alle lacrime
del cielo. Non ci avevo creduto per più di vent’anni; ma, anche in quel lunedì
pomeriggio, sembrava che i nuvoloni grigi minacciassero pioggia, esattamente
come il giorno del funerale di Dollar e Aria. C’era però una piccola variante:
non si trattava solo di due ragazzi, erano molti di più e c’era anche Ryan.
Incredibile
come il mio corpo avesse reagito alla sua morte, come avessi scoperto che le
lacrime non erano comandate dal cervello ma dal cuore; perché per quanto mi
sforzassi di non piangere, ripetendomi che odiavo Ryan con tutta me stessa e
che forse un po’ si meritava quello che gli era successo, continuavo a
piangere. Cercavo di non farmi vedere da Brandon e dai ragazzi, perché ero
sicura che loro soffrissero molto più di me –in particolar modo Josh –però
sapevo che i miei occhi arrossati non passavano di certo inosservati, soprattutto
a Brandon e Irene che si erano intestarditi: ogni giorno venivano a casa mia e
sembravano darsi il cambio per farmi compagnia, come se avessi bisogno di una
baby-sitter. In verità avrei preferito rimanere da sola, sfogandomi contro
qualsiasi cosa avesse intralciato la mia strada, invece ero costretta a
rimanere calma, senza lasciar sfuggire lacrime che puntualmente scendevano
sotto alla doccia di sera. Continuavo a ripetermi che non stavo piangendo, che
semplicemente era l’acqua che scorreva e mi bagnava il viso, ma potevo sentire che
alcune gocce d’acqua erano più salate di altre.
«Lexi, siamo arrivati» mormorò Irene di fianco a me, appoggiandomi una mano sul braccio per
scuotermi dai miei pensieri. Mi guardai intorno, vedendo per la prima volta in
quella giornata cosa c’era attorno a me: un lungo viale alberato che aiutava il
grigio del cielo a rendere tutto ancora più cupo e i finestrini di quella
berlina scura bagnati da qualche sporadica goccia di pioggia. Scossi il capo
cercando di cancellare i ricordi dei giorni precedenti e scesi dall’auto,
cominciando a camminare verso la grande quercia. Ero sicura che avrebbero
seppellito Ryan e gli altri Eagles in quell’angolo di cimitero, vicino a tutti
gli altri che avevano versato del sangue per loro. Quando arrivai davanti a
tutte quelle bare sistemate una di fianco all’altra dovetti sedermi perché le
mie gambe non riuscivano più a sostenermi: non era tanto la foto di Ryan –lo
sguardo duro senza nessuna traccia di sorriso –sulla lapide a sconvolgermi; era
quella bara di legno scuro, ricoperta solamente da una bandiera americana e tre
rose –una bianca, una rossa e una blu –sopra. Perché la semplicità di quella
bara, la semplicità dei suoi ornamenti, contrastava con il cuscino di rose che
c’era sopra agli altri. Non lo interpretavo nemmeno come un segno di non
rispetto verso Ryan, anzi; sembrava che proprio per la sua semplicità quella cassa
custodisse una persona importante.
Brandon
si sedette di fianco a me, nella sedia più vicina alla bara di Ryan e degli altri
ragazzi. Irene era esattamente una fila dietro di lui; vedevo le loro mani
intrecciate tra le sedie, come se attraverso quel gesto cercassero di farsi
forza a vicenda.
Sick
occupò la sedia alla mia destra, senza fare nessuna battuta o dire qualcosa di
stupido come il suo solito. Nemmeno Josh, che si sedette sull’ultima sedia in
prima fila, di fianco a Sick, parlò. Rimanemmo semplicemente tutti in silenzio,
ascoltando il vociare della folla che si era radunata per assistere a quel
funerale. Riconoscevo molti ragazzi che avevo già visto gironzolare attorno al
198 di Whittier Street o al Phoenix; c’erano Peter e sua madre, c’era l’altra
cameriera del Phoenix e, nell’ultima fila in fondo, Butterfly. Mai come in quel
momento provai pena per lei. Il trucco scuro colato sulle sue guance e gli
occhi arrossati e gonfi di lacrime. Non c’era lo sguardo di sfida e sufficienza
che aveva di solito; era solamente una ragazza che piangeva a un funerale.
Socchiusi gli occhi, incapace di guardarla ancora perché avevo capito che in
qualche strano modo anche lei aveva amato Ryan e i ragazzi e le faceva male
essere lì, per assistere al loro funerale.
Tornai
a concentrarmi sulla funzione, sul pastore che continuava a parlare di coraggio
e di forza, di quanto una persona potesse combattere fino all’ultimo, di come
Ryan fosse stato coraggioso e i ragazzi avessero creduto in lui. Quando Brandon
si alzò dalla sedia per cominciare il suo discorso, una parte di me si rifiutò
di ascoltare, sicura che mi sarei ferita ancora di più. Eppure non riuscii a
non seguire il suo dialogo, immaginandomi ogni parola che usciva dalle sue
labbra e ricreandomi le scene di cui parlava: lui e Ryan da piccoli, loro due
che ascoltavano JC e gli altri nascosti dentro al cofano di quella vecchia
Mustang nell’officina, l’arrivo di Sick, Paul e Josh, loro vicini di casa. Il
racconto delle prime notti a bere birra e fumare marijuana mentre immaginavano
come sarebbe stato avere una gang tutta loro; i pugni sul naso per decidere
quale nome potesse essere il più appropriato per loro e infine l’arrivo di
Dollar e la tragedia che gli aveva marchiato il volto per sempre. Non aveva
tralasciato nessun Eagles, nessuno; nemmeno Ham e Swift, gli ultimi due
arrivati. Quando concluse il suo discorso e tornò a sedersi, mi asciugai le
lacrime che rigavano le mie guance e non riuscii a trattenere il principio di
una risata quando sentii Sick soffiarsi il naso di fianco a me. Appoggiai la
mia mano su quella di Brandon, stringendola appena e cercando di sorridergli
quando i suoi occhi incontrarono i miei; sentii la sua stretta farsi più forte
e istintivamente ricambiai, notando come la sua immagine si offuscasse ogni
secondo di più a causa delle lacrime.
Non
ascoltai nemmeno il resto della funzione, troppo impegnata a trattenere le
lacrime e torturarmi l’unghia del pollice con i denti; ero quasi sicura che se
avessi continuato in quel modo mi sarebbe uscito del sangue, ma non mi
interessava poi molto. Quando le persone attorno a me cominciarono ad alzarsi
dalle sedie per andarsene mi guardai attorno: Brandon, Sick e Josh continuavano
a parlare con chiunque si avvicinasse a loro, scambiandosi sorrisi stanchi e
pacche sulle spalle. Irene si sedette di fianco a me, rimanendo in silenzio e
aspettando pazientemente che tutti se ne fossero andati. Poi, quando Brandon si
avvicinò a me, senza che lui dicesse una parola, si alzò, raggiungendo i
ragazzi che si erano accostati alle macchine.
«Aspetta Lexi».
La sua grande mano si appoggiò al mio braccio perché non potessi seguire Irene,
per raggiungere gli altri. Quel gesto mi stupì; perché dovevamo rimanere lì e
non potevamo raggiungere i ragazzi? Brandon si avvicinò alla lapide dove era
inciso il nome di Ryan, la stessa che aveva quei caratteri così semplici
rispetto a quelli delle altre pietre, senza nessun disegno, solo una bandiera
americana arrotolata attorno e quel pezzo di stoffa rosso che sventolava di
fianco. Ero sicura che nessun flag fosse importante come quello; di sicuro non
aveva mai preso polvere o toccato il terreno, visto che era di Ryan.
«Che c’è?»
chiesi, ignorando la voce che diventò stridula per il nodo che si era formato
in gola e concentrandomi su quelle tre rose poste sopra alla terra smossa,
davanti a me. Vidi Brandon respirare a fondo, prima di guardare nella mia
stessa direzione. Stavamo entrambi evitando l’uno lo sguardo dell’altro, forse
perché coscienti di come i nostri occhi fossero uno lo specchio dell’altro.
«Grazie per essere rimasta fino a oggi. Vorrei che tu
rimanessi di più, ma so che non posso obbligarti. Sono sicuro che Hunts Point
sia la tua casa, ti ho vista crescere da quando sei arrivata, ti ho vista
cambiare. Se ti dicessi che ti ho vista felice non mentirei nemmeno, sai?
Perché i sorrisi che c’erano sul tuo volto quando scherzavi con Aria non erano di
sicuro falsi. E, ti prego, lasciami continuare, non è una bugia se ti dico che
ti ho vista innamorata. Sei riuscita a vedere oltre, Lexi, non sei rimasta
spaventata dal suo sguardo di ghiaccio, dalla sua altezza o dai tatuaggi e
dalle cicatrici, sei riuscita a vedergli dentro, a vedere il suo cuore. Ryan
non è… era un ragazzo facile, sono il primo che l’avrebbe preso a pugni più e
più volte quando faceva l’idiota, ma gli volevo bene per quello. Tu che sei
arrivata così tardi, hai saputo vedere oltre. Non mi interessano le scuse che
ti inventerai per dirmi che mi sbaglio, perché non cambio idea, puoi stare
tranquilla. Sotto questo aspetto sei uguale a lui, sai? Non gliel’ho mai detto,
ma sono sicuro che tu non gli fossi indifferente. Sai quella volta che ti sei
ubriacata, dopo il funerale di JC, quando alla mattina ti sei svegliata in
camera di Ryan? Io non mi ero addormentato sul tuo divano, lo stavo mettendo
alla prova. Sapevo che se ti avesse vista uscire non ti avrebbe mai lasciata
andare e infatti ti ha fermato. L’ho spiato, l’ho visto salire le scale con la
sigaretta tra le labbra e i suoi occhi che non smettevano di osservarti il
viso, studiandoti mentre eri addormentata. Se avesse saputo che ero sveglio mi
avrebbe rotto un braccio, ma dovevo metterlo alla prova, volevo capire cosa
provava per te. Quando sono corso da te perché Ryan voleva andare dai Misfitous
temevo non mi avresti aiutato, temevo te ne saresti fregata –come probabilmente
avresti fatto all’inizio. Invece no, ho visto il tuo sguardo mutare a mano a
mano che ti spiegavo la situazione, ti ho vista correre per salvarlo e lottare
per fermarlo. Temevo davvero che nemmeno tu riuscissi a farlo, temevo che la
rabbia l’avesse accecato al punto da non vedere come quella sua scelta ti
avesse sconvolta. E poi c’è stata quella frase, non so davvero che cosa sia
successo, ma è cambiato qualcosa. Quando ti ha vista andare via e ha sbattuto
il casco per terra prima di seguirti ho sospirato, perché sapevo che il peggio
era passato. Ho visto il suo sguardo cercarti l’altra notte, l’ho visto
sorridere quando ti ha guardata e forse questo ha ripagato tutti i miei sforzi.
Sapere che c’era quel sorriso nonostante la sofferenza è abbastanza per
ripetermi che sono riuscito a donare un attimo di felicità a una delle persone
migliori che io abbia mai conosciuto. Non devi dire nulla, non ti ho detto
tutte queste cose per metterti in imbarazzo o altro, volevo solo che tu
sapessi, perché è giusto. Volevo che tu vedessi tutto ciò che c’era da vedere
prima di partire. Non cercherò più di farti rimanere spiegandoti quanto tu sia
cresciuta e cambiata, lo prometto. Era solo che dovevo farlo per… Ryan» concluse. Il suo sguardo non si era spostato dalla
lapide su cui era inciso Ryan Calloway,
esattamente come il mio. Eppure, durante tutto quel lungo discorso che in
qualche modo aveva ripercorso il mio spaccato di vita a Hunts Point, lasciando
che le lacrime rigassero –ancora una volta –il mio volto al pensiero di tutto
quello che mi era accaduto. Forse Brandon aveva ragione, forse ero davvero
cambiata e cresciuta lì a Hunts Point, ma io non riuscivo a vederlo e capirlo
in quel momento, troppo sopraffatta da tutte le emozioni che provavo.
Abbracciai
istintivamente Brandon, nascondendo il mio viso contro la sua felpa scura e
stringendo le mie braccia attorno a lui, come se fosse l’unico appiglio che mi
era rimasto. Sentii la sua mano accarezzarmi la schiena e il suo petto
sussultare per un singhiozzo: stava piangendo anche lui e a quel pensiero non
riuscii a trattenere una risata che lo contagiò al punto che come due stupidi
cominciammo a ridere tra le lacrime, attirando l’attenzione dei ragazzi dietro
di noi che si avvicinarono curiosi. Nessuno dei due spiegò cosa ci fossimo
detti –cosa Brandon avesse detto a me –tanto che, in silenzio, ci avviammo
verso le macchine per tornare a casa, visto che dovevo finire di preparare le
valigie; sul serio questa volta.
Guardavo
fuori dal finestrino della macchina il paesaggio scorrere davanti a me e non
riuscivo a parlare; nessuno in quell’auto parlava, c’era un silenzio quasi
innaturale spezzato solo dal ticchettio delle dita di Brandon sul volante.
Irene, di fianco a me, continuava a muoversi irrequieta sul sedile, sapevo che
voleva dire qualcosa, ma allo stesso tempo temeva di spezzare quel silenzio.
Nemmeno Sick, seduto sul sedile anteriore dell’auto, elargiva battute stupide
come il suo solito. Quando Brandon posteggiò la macchina nel parcheggio
dell’aeroporto cercai di calmarmi con un lungo respiro. Avevo imposto una
regola: mi avrebbero accompagnata fino all’aeroporto ma sarei entrata da sola
perché non volevo addii sdolcinati o lacrime, visto che ne avevo già versate
troppe. Scesi dall’auto seguita da Irene che borbottò qualcosa riguardo il
parcheggio così distante dall’aeroporto e aprii il bagagliaio, aspettando che
Brandon mi aiutasse a prendere quella valigia pesantissima che appoggiò a
terra, con un tonfo.
«Grazie, per tutto. Ci sentiamo». Cercavo di parlare il meno possibile, evitando di
incrociare i loro sguardi. Abbracciai Irene trattenendo le lacrime quando mi
ripeté ancora una volta che per qualsiasi cosa avrei potuto contattarla,
riuscii a ridere alla battuta cretina di Sick di sperimentare il bagno
dell’aereo con qualche ragazzo e guardai Josh, rimanendo in silenzio
esattamente come lui. Dovevo solo salutare l’ultima persona, quella a cui forse
tenevo di più, quella che per me aveva fatto tanto, troppo forse.
«Ci sarò, per qualsiasi cosa, d’accordo?» mormorò Brandon al mio orecchio, mentre lo
abbracciavo stretta e cercavo di non piangere. Annuii solamente, deglutendo per
non piangere e senza guardare nessuno mi avvicinai alla mia valigia, camminando
verso la direzione opposta. Sentii qualcuno dire il mio nome, ma non mi voltai
nemmeno, troppo preoccupata che potessero vedermi piangere di nuovo; non
potevano ricordarmi con le lacrime, non dopo tutte quelle che avevo versato
negli ultimi giorni.
Quando
passai i controlli di sicurezza e mi avvicinai al tabellone con le partenze, mi
fermai di colpo. La valigia in mano e lo zaino in spalla. Il volo per Miami
sarebbe partito un’ora dopo, ma ero davvero sicura che Miami fosse la soluzione
a tutti i miei problemi? Scappare ancora era quello che volevo?
Improvvisamente, come un’illuminazione capii; un sorriso si disegnò sulle mie
labbra e cominciai a correre, trascinando la valigia con me.
Caaaaaaaaaaaaaaaalmi!
:D
Per
qualsiasi lamentela, minaccia di morte o cosa brutta, vi prego di parlare al
mio agente che trovate… uh, non ho un agente, ok, allora non potete dirmi
parole!:D Scherzo, ovviamente!
Scherzi
a parte… lo so, non ve lo aspettavate (o forse lo aspettavate e quindi siccome
era la soluzione più gettonata non vi siete soffermate a pensare veramente che
quella fosse la fine di YSM) però, non è finita. Ci sono 2 OS e l’epilogo,
quindi in verità, se questo è quello che avete creduto fosse il finale… sono
riuscita a fregarvi, di nuovo.
Ma
andiamo con ordine, sapete che quando c’è un capitolo lungo anche le note lo
sono perché devo spiegarvi alcune cosucce.
Partiamo!
Ok,
quando Lexi parla di Tupac e Notorious B.I.G…. siccome magari la
storia non la sanno tutti spiego velocemente, ok? Tupac e Biggie (chiamiamo
così il secondo che facciamo prima, anche perché è uno dei suoi soprannomi)
erano due cantanti rapper amici, molto amici. Uno veniva da NY (Biggie) e uno
dalla costa ovest (logicamente se sono in due sto parlando di Tupac). Amici
amici, canzoni assieme, festini, donne… tutte cose da rapper, fino a quando,
fuori da uno studio, attentano alla vita di Tupac sparandogli 3 colpi nel
petto. Si dice che siano stati Biggie e Diddy (Puff Daddy) a commissionare
quell’omicidio che però non è andato a buon (o cattivo, direi) fine. Insomma,
nonostante tutto Tupac riesce a salvarsi e, si dice, da questo momento nasce
l’odio e la divisione tra Weast Coast ed East Coast per quanto riguarda i rapper
e le bande. Quindi, quando Lexi parla di giocare a Tupac e Notorious B.I.G. si
riferisce ai colpi di pistola che sente e alla possibilità che stiano sparando
contro i Misfitous. [che poi la storia dei rapper americani non vi interessa,
vero? Be’, ormai l’ho scritta :P].
Se
passiamo alla parte brutta brutta brutta brutta… molte di voi l’avevano
ipotizzato, ho sempre cercato di deviare cambiato le carte in tavola,
confondendovi con gli spoiler e mettendovi delle piccole pulci nell’orecchio
per farvi capire che niente era sicuro… quello che vorrei far capire è che io
sono la prima che durante quella parte ha pianto tanto, spero solo di essere
riuscita a trasmettervi qualcosa!
Ah
sì, adesso posso dirlo: c’era solo UNA persona che sapeva questa parte di finale,
una scrittrice tra l’altro che non legge YSM. Però, per evitare che la
uccidiate non vi dico il nome :D
Per
quanto riguarda tutti gli altri non-vivi-ma-non-vampiri… giuro che avrei fatto
ancora più strage perché ci avevo preso la mano, però poi ho pensato che un
paio di sopravvissuti sarebbe stato carino averli, quindi mi sono fermata. No,
scherzi a parte: avrei volentieri ucciso più Misfitous di Eagles, però non
volevo che fosse una cosa irreale dove una gang rimane viva e l’altra muore
tutta. Un po’ per ciascuno, sono le due gang più forti del Bronx quindi se
lottano seriamente qualcuno ci rimette.
Per
il funerale… volevo scrivere un discorso come c’era stato per Doll e Aria, ma
non ce l’ho fatta, mi faceva davvero male, così ci ho rinunciato e mi sono resa
conto, durante la rilettura, che il discorso seppur in maniera privata c’è,
ecco, forse così è meglio…
La
fine che non è la fine. Che ha fatto Lexi? Dove va? Dove sta scappando con un
sorriso? Avrete questa risposta nell’epilogo, ma quello che vi dirò vi
scioccherà! Prima dell’epilogo arriverà una OS con un Ryan POV (come?, direte
voi). Os ambientata durante questo capitolo, precisamente la notte della lotta.
Si capiranno pensieri di Ryan e cose che forse non sono mai state chiare.
Entreremo in quella zucca vuota e scopriremo com’è stata quella lotta dal suo
punto di vista, spero che l’idea possa piacervi.
Poi
ci sarà l’epilogo e YSM come storia sarà conclusa. Ma, c’è però un ma. Dopo
l’epilogo arriverà l’ultima vera OS che concluderà il mio rapporto con gli
Eagles. Non è difficile capire di chi sarà il pov, visto che l’avevo annunciato
e se non è di Lexi e non può essere il mio… quindi, riassumendo, in ordine
cronologico avrete: OS Ryan POV,
EPILOGO, OS CONCLUSIVA, chiaro? Ecco, niente, volevo aggiungere che tra
la OS con il pov di Ryan e l’epilogo spero di far passare il meno tempo
possibile, quindi come al solito sbirciate ogni tanto per vedere se ho
aggiornato (sempre se vi interessa, logico!).
Credo
di aver scritto anche troppe note, quindi come sempre vi ricordo il gruppo
avvisi e spoiler a cui potete iscrivervi senza problemi: Nerds’ corner.
E
vi aspetto per la OS, se vorrete.
Rob.
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Capitolo 21 *** Epilogue- You saved me ***
YSM
«Dottoressa Cooper, il signore della 198 si è ripreso. Mi aveva
detto di avvisarla anche se aveva finito il turno». Michelle, la nuova e gentile infermiera, mi porse la
cartella medica del paziente con i valori registrati qualche minuto prima
durante la visita giornaliera. La ringraziai con un sorriso, camminando lungo
quel corridoio bianco e illuminato: sembrava infinito. Continuavo a guardare i
numeri delle camere posti in successione; pari a destra e dispari a sinistra.
La stanza 198 era la penultima in fondo, prima della porta d’emergenza che
mostrava uno scorcio di città, ai piedi di quell’ospedale. Entrai nella camera,
visitando il paziente e controllando che i valori fossero nella norma e
salutandolo poi, prima di lasciare quella stanza per andare a cambiarmi e
uscire da quell’ospedale.
Amavo il mio lavoro ma dopo un
doppio turno di dodici ore cominciavo a sentire i primi segni di stanchezza,
quelli che non mi permettevano di essere lucida e pronta se fosse arrivato un
nuovo ferito da incidente stradale.
Uscii dall’ospedale e respirai a
pieni polmoni l’aria calda, lasciando che il sole mi scaldasse il viso e che il
vento mi scompigliasse i capelli; la sensazione di quei deboli raggi di sole
riuscì a strapparmi un sorriso mentre svoltavo l’angolo per entrare, come ogni
settimana, nel negozio.
«Dottoressa Cooper, il solito?» chiese la commessa, iniziando a preparare il pacchetto perché
potessi portare via quello che avevo comprato. Io annuii solamente, allungandole
dieci dollari e insistendo – come ogni settimana – affinché non mi restituisse
il resto. Uscii dal negozio cominciando a camminare lentamente; sapevo che mi
aspettavano quasi venti minuti di camminata, ma per quanto stanca potessi
essere, in qualche modo quella routine settimanale mi rilassava.
Sentii il cellulare vibrare in
tasca per segnalarmi l’arrivo di un messaggio e sorrisi, prendendolo in mano e
sbloccandolo. «Potresti prendere il latte in polvere per
Ryan Junior? Io non ricordo mai qual è e non vorrei che gli succedesse qualcosa
di male. Fai tu che sei una dottoressa, niente responsabilità per me». Paraculo, pensai, digitando
velocemente che avrei preso io il latte in povere per RJ. La risposta arrivò
poco dopo, ringraziandomi di nuovo con una sfilza di complimenti su quanto io
fossi indispensabile e importante per tutti e avvertendomi che per cena non
c’era niente da mangiare. Ovvio, dovevo passare io al negozio per fare la
spesa.
Non sarebbe mai cambiato nulla,
perché quella era la routine settimanale che mi ero scelta e che avevo deciso di
affrontare. Quella era la vita che avevo deciso di vivere, con tutte le
conseguenze positive e negative, felici e
dolorose. Mi sistemai una ciocca di capelli dietro all’orecchio aprendo il
basso cancello in ferro battuto e richiudendolo alle mie spalle. Dopo quasi un
anno ancora mi chiedevo perché nessuno avesse pensato di sistemarlo, visto che
produceva un rumore fastidioso ogni volta che qualcuno lo apriva o chiudeva. Con quello stupido pensiero camminai
fino ad arrivare a quel pezzo di pietra, sedendomi davanti dopo aver sistemato
le tre rose – bianca, rossa e blu – sopra.
«Ciao»
mormorai imbarazzata, esattamente come facevo ogni giovedì finito il mio turno
al St. Barnabas. Guardai la scritta su quella tomba, scostando un po’ di
muschio che si stava formando e che rischiava di ricoprire la fine del suo
cognome. Spostai il muschio, lasciando che si
vedesse tutto il cognome, posto sotto a quell’aquila intagliata nella pietra. «Oggi ho un po’ più tempo degli
altri giorni, forse oggi voglio
ritagliarmi un po’ più di tempo rispetto alle mie fugaci visite degli altri
giovedì» iniziai a dire,
sedendomi comoda davanti alla lapide e giocherellando con i petali della rosa
rossa secca che avevo portato la settimana precedente. «Mi sono sempre chiesta se hai capito perché vengo solo di
giovedì, ma poi mi rispondo che non eri idiota, solo stronzo. Insomma, lo sai
perché vengo il giovedì, no? Adesso dovresti dire qualcosa come… sì lentiggini,
non sono così idiota come credi, giovedì
è il giorno in cui i Misfitous mi hanno fottuto» imitai malamente la sua voce, usando la rosa che avevo tra le
mani come se fosse una sigaretta. La verità era che mi mancava, terribilmente.
Forse, proprio per quel motivo, non ero riuscita a prendere l’aereo per Miami
ma, all’ultimo minuto, ero salita su un volo per Los Angeles, perché qualcosa
mi aveva spinta ad affrontare le mie paure. «Comunque volevo ringraziarti. Lo so che non dovrei, ma…
sembrerà stupido Ryan, ma hai fatto qualcosa alla mia vita che… sono cambiata.
Mi hai insegnato che se credi in qualcosa lotti fino a quando non l’hai
ottenuta, mi hai insegnato che non si scappa dai problemi, ma bisogna
affrontarli. E ho fatto così, hai visto? Ho preso l’aereo per Los Angeles e ho
dato quei due stupidi esami per essere un medico a tutti gli effetti. Li hai
visti i ragazzi mentre mi applaudivano quando ero sopra a quel palco a ritirare
la mia laurea? Perché mi è sembrato quasi di vederti lì, tra Brandon e Sick,
con la tua aria scazzata e la sigaretta tra le labbra. Invece Brandon è stato
gentile, mi ha abbracciata e mi ha detto che era fiero di me». Non riuscii a trattenere una
risata, asciugandomi una lacrima che era scesa al ricordo del giorno della mia
laurea e della sorpresa nel vedere Brandon, Josh, Sick e Irene lì, per me. «Così ho capito che era giusto che
tornassi nella mia vera casa e sono tornata qui. Sai che il 3B non è lo stesso
senza di te? Sembra stupido, ma è quasi vuoto e più silenzioso, la tua camera
non l’ha toccata nessuno e Brandon secondo me sa che ogni tanto ci vado, solo
per risentire quell’odore di fumo e casa che trovo tra le tue felpe, però non
mi ha mai detto nulla e non credo lo farà. È un bravo O.G., sai? I ragazzi
dicono che da quando non ci sei più tu le cose sono cambiate; tornano a casa
poche volte con tagli ed ematomi, li curo forse una volta ogni due settimane,
non come quando c’eri tu. Brandon è anche un bravo papà, vedo come guarda Ryan
Junior ogni giorno e sono sempre più convinta che quel bambino sia esattamente
come te. Ha i capelli biondi di Irene e gli occhi azzurri di Brandon, ma quel
piccolo neo sulla tempia, sotto all’occhio sinistro ricorda tanto il tuo
sguardo. Credo sia il motivo principale per cui lo hanno chiamato Ryan Junior.
Sick gli ha comprato un calendario porno da mettere in camera, ma Irene si è
rifiutata di appenderlo perché dice che non vuole che suo figlio veda una tetta
fino a sedici anni. Credo si sbagli, tanto». Non riuscii a trattenere una nuova risata tra le lacrime,
incurante di quanto la magliettina bianca che indossavo fosse bagnata per tutte
quelle che avevo lasciato scivolare lungo le mie guance senza asciugarle. «Sai cosa? Sono così cattiva che
più di una volta mi sono ritrovata gelosa di loro, sono gelosa di Ryan Junior.
È brutto da dire, forse anche per te, ma ho pensato più di qualche volta che mi
sarebbe piaciuto avere qualcosa di tuo oltre a questa collana che porto sempre.
Ma è giusto così, perché le cose vanno come devono andare e forse, proprio
perché ho solo la tua collana, ho cambiato la mia vita per tornare qui. Sai
cosa mi piace pensare? Che mi hai salvato, in un modo distorto dal normale, non
parlo solo di tutte le volte in cui mi hai parato il culo. Mi hai salvato
permettendomi di conoscerti, di entrare nella tua vita e in quella dei ragazzi.
Mi piace pensare che il destino abbia giocato per me, conducendomi al 3C di
Whittier Street perché potessi incontrare voi, incontrare te. Ero arrivata per
scappare da qualcosa e fino a quando tu non te ne sei andato continuavo a
rimandare la mia partenza da qui, come se fossi legata. Poi tu sei… insomma,
hai capito, e io ho deciso di scappare a Miami, ma mentre guardavo quel tabellone,
all’aeroporto, Los Angeles ha attirato la mia attenzione e ho capito che non si
può scappare, perché se scappi dalla tua vita non troverai mai il tuo posto nel
mondo. Me l’hai insegnato tu, perché non ti ho mai visto scappare di fronte ai
Misfitous, non ti ho mai visto scappare di fronte a niente, ma solo rincorrere.
Mi hai insegnato che tutti hanno un po’ di forza e che basta solo trovarla, e tu
mi hai fatto trovare la mia, per questo continuo a dirti che in un modo
distorto mi hai salvato. E sai cosa? Mi piace pensare, egocentricamente, che
sono riuscita a farlo anche io, che ti ho reso in qualche modo più umano, o
forse ti ho aiutato a esternare i tuoi sentimenti, perché non riesco a
dimenticare il tuo sguardo su quel marciapiede, mentre mi sorridevi
accarezzandomi la guancia e…»
smisi di parlare alzando gli occhi al cielo e cercando di respirare, visto che
non avevo più aria dentro ai miei polmoni, troppo impegnati a farmi
singhiozzare tra le lacrime. Mi passai una mano sotto al naso, tentando di
togliere le lacrime che avevano bagnato anche le mie labbra.«… ti chiedo solo di smetterla, ok?
Perché sognarti ogni notte fa male, ti chiedo solo questo. Lo so che ti piace
infastidirmi, ma il fatto che ogni notte io ti senta bussare alla mia porta e
quando la apra ti trovi davanti sorridente mi fa ancora più male alla luce del
giorno, sapendo che quel sorriso non c’è. Lo so che sei stronzo, ma smettila di
esserlo almeno da morto». Una
risata isterica uscì dalle mie labbra quando pronunciai quella parola che
odiavo con tutta me stessa. «Ok,
la smetto perché mi sto dando fastidio da sola. Continua a fare in modo che
Brandon abbia la testa sulle spalle, ok? Perché Ryan Junior non può perdere il
suo papà, anche se Irene è una mamma bravissima». Mi alzai lentamente, prendendo le rose secche della
settimana precedente quando sentii qualcosa sbattere contro al mio stomaco.
Abbassai lo sguardo, sbuffando e, dopo aver giocato per qualche secondo con il
ciondolo con l’aquila incisa, lo nascosi di nuovo sotto alla maglietta che
indossavo. Non volevo nemmeno sapere come avesse potuto scivolare fuori,
probabilmente era successo quando mi ero piegata. Con le tre rose secche in
mano mi voltai un’ultima volta – per quella settimana – verso la tomba di Ryan,
dopo aver dato uno sguardo anche a quelle di Dollar e Aria. Un soffio di vento
scompigliò i miei capelli mentre gettavo i fiori in un cestino e istintivamente
alzai gli occhi verso il cielo azzurro e limpido. C’era una sola macchiolina
nera che si muoveva: un uccello. Impossibile che fosse un’aquila, potevo
vederlo dal movimento delle ali e dalla stazza. Avevo però letto da qualche
parte che le aquile si uniscono per la vita e reagiscono d’istinto per
proteggere le altre aquile a cui tengono. Per questo in quel momento provai a
convincermi che quell’uccello lo fosse; che esistesse un’aquila che sorvolava Hunts
Point e proteggeva tutti quelli che credevano in quel flag rosso; lo stendardo
degli Eagles.
Facciamo che andiamo con ordine perché
oggi ho un bel po’ di cose da dire.
Prima di tutto: You can keep
it è la OS Ryan pov che ho pubblicato un paio di giorni fa.
La OS finale la pubblicherò al più
presto.
Poi procediamo con le precisazioni del
capitolo, visto che ce ne sono un paio.
Allora, questo è ambientato più di un
anno dopo lo scorso capitolo. Cosa è successo? Semplice, Lexi all’aeroporto ha
preso un aereo per Los Angeles e non per Miami. Giuro che ho controllato ed è
possibile. Dunque, Lexi nello scorso capitolo dice che l’aereo per Miami
sarebbe stato un ora dopo e all’improvviso guarda il tabellone e corre. Che
partono da La Guardia Airport (il più grande aeroporto di New York assieme al
JFK) ci sono, della US Airways, un volo per Miami alle 15.30 mentre per Los
Angeles alle 14.45, quindi è possibile che prenda un volo al posto dell’altro.
Poi… uhm… il St. Barnabas l’avevo già
nominato come ospedale nel capitolo dove loro sono a Coney Island e corrono a
casa perché JC è stato ferito dai Misfitous. Lì, al St. Barnabas, trovano Aria
che li avverte che JC non ce l’ha fatta.
Ultima cosa… Ryan Junior. Spero sia
chiaro chi sono i loro genitori, giusto? :D
E ora lasciatemi 2 minuti per i
ringraziamenti (potete anche smettere di leggere ahahhaha).
Prima di tutto vorrei ringraziare Malia
che mi ha betato tutti i capitoli, aiutandomi a migliorare come “scrittrice” e
come persona, mi ha insegnato molto e se YSM esiste è perché lei mi ha sempre
spronata a migliorarmi.
Un grazie ad Ale che ha fatto un sacco
di video per questa storia <3
Un grazie a tutte quelle che mi hanno
sopportata durante la stesura dei capitoli, bullizzandomi perché non
cancellassi il capitolo quando mi rendevo conto che faceva schifo.
E infine, perché è il più importante, un
grazie infinito a tutte voi che avete accolto questa storia così bene. Quando
l’ho iniziata non pensavo (e non lo penso ancora, secondo me siete tutte sotto
effetto di allucinogeni!) che potesse piacere così, visto che l’idea di base è
il cliché più vecchio del mondo. Vi ringrazio una a una, tutte, da chi ha
seguito questa storia dal primo capitolo a chi dall’ultimo, indifferentemente.
Grazie perché siete state tantissime a
leggere, recensire e addirittura segnalare, grazie infinitamente. Grazie per i
bellissimi complimenti immeritati che mi avete fatto, grazie per tutte le
bellissime parole spese e che mi hanno fatto commuovere, grazie per tutte le
risate che mi avete regalato con le vostre recensioni.
You saved me è nata come una sfida per
me, perché volevo provare a me stessa di essere in grado di scrivere qualcosa
di impegnativo, qualcosa di diverso dal solito che non fosse solo una storia
per ridere. Io non so se sono riuscita a emozionarvi tanto quanto io sono
riuscita a farlo mentre scrivevo, ma se siete riuscite a sentire il respiro di
Lexi e la risata di Ryan anche solo in lontananza… credetemi che sono la
persona più soddisfatta che ci possa essere.
So che molti capitoli e avvenimenti sono
diversi da come ve li aspettavate, ma spero che la storia non sia stata una
delusione e che un messaggio importante sia stato trasmesso. Perché il titolo
ho sempre voluto che foste voi a interpretarlo, ma alla fine Lexi ha svelato
quello che io ho sempre pensato, che fosse qualcosa di reciproco, perché
l’amore fa questo. E niente… giuro che ho le lacrime agli occhi un po’ perché
metterò la crocetta su completa e un po’ perché questa storia davvero mi ha
insegnato tanto quindi la smetto di parlare e di rompervi.
Grazie, grazie e ancora grazie, se
vorrete ci sarà la OS che, adesso posso svelarlo anche se probabilmente si era
capito, avrà pov Brandon e sarà ambientata un po’ dopo questo epilogo. Non
aggiunge quasi nulla alla trama, se YSM fosse un film questa OS sarebbe come la
scena nascosta dopo i titoli di coda, ma… niente, se vorrete esserci anche lì,
siete le benvenute. E lo sarete anche nelle prossime storie che inizierò a
scrivere al più presto.
Come sempre, per tenervi in contatto con
me potete iscrivervi al gruppo: NERDS’ CORNER, vi
ricordo che accetto tutti.
Vi saluto io, vi ringraziano Lexi, Aria,
Dollar, Ryan e tutti gli Eagles e perché no, anche i Misfitous.
Rob.
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