Il Cipollino D'Argento

di Il Romanticismo Perduto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Il cipollino d’argento

Capitolo 1

 

È una donna semplice, quella che iniziò la sua carriera con un’opera d’esordio il 15 di novembre, Luisa. Disse di aver scritto quel libro tutto, letteralmente, d’un fiato, senza pensarci due volte, passando una notte in bianco e dedicando anima e corpo all’impulso frenetico di scrivere la storia che le era venuto in mente.

Non aveva mai pensato che quel cipollino d’argento, con le sue lancette scintillanti e finemente decorate, raccontassero una storia truce, piena di dolore, di risentimento e di sangue.

Eppure, quando scriveva, con gli occhi arrossati per la fatica, ogni tanto le sembrava di vedere le lancette dei secondi muoversi.

Ma non lo rivelò mai a nessuno.

Il libro, semplice in sé, raccontava un giallo. Un giallo incentrato su un cipollino d’argento.

Non si sarebbe mai aspettata che lei diventasse il protagonista del suo libro.

 

Luisa varcò il portone in ferro con aria affascinata. Gli occhi sorridevano, le labbra, velate da un leggero strato di rossetto, si accingevano a rivolgersi verso l’alto, assaporando con gli occhi le meraviglie di cui era appena diventata padrona.

“Non credo ai fantasmi, né a delle vecchie profezie.” Ammise, guardando l’agente immobiliare quando gli parlò della villa, con occhi stralunati e sorpresi.

Non volle sapere niente del suo passato, solo dargli una seconda opportunità. Tutti avevano bisogno di una seconda opportunità, anche quella casa, scenario di un efferato omicidio.

Quando l’uomo, con mano tremante, aprì la porta d’ingresso, il cuore della donna batteva a mille.

Sin da quando era piccola aveva sempre sognato di vivere in una villa così, ammantata dall’oscurità e, magari, da un oscuro segreto, celato nelle sue fondamenta.

Varcò per prima la soglia, assaporando l’odore di chiuso come il profumo di una torta appena sfornata.

Sì, quella casa era sua, finalmente.

 

Luisa scrive, scrive, il computer sembra un’ombra estranea all’interno della casa, oscura, cigolante ma appena rimessa a nuovo.

Luisa fa scorrere le dita sulla tastiera che ormai conosce a memoria, ogni singolo tasto, suono e movimento. Scivola su quelle parole come olio, tentando di scrivere quella storia che le scorre davanti agli occhiali aguzzi come l’introduzione di un film a rallentatore.

Luisa legge e scrive, legge nella sua anima, nel suo subconscio e scrive la storia di quel cipollino, di quel fine argento decorato e lavorato a mano. Semplice, molto leggero e piccolo, con lievi decorazioni intorno alla cassa e nel quadrante. I numeri arabi erano delicati, il suo insieme era armonico, in ogni sua parte. Non ticchettava. Era fermo. Alle 11 e 15.

Proprio a quell’ora la donna lo aveva scoperto, nascosto all’interno dell’unico mobile che era rimasto in quella casa, in un cassetto chiuso a chiave.

 

«Mi scusi, perché questo mobile è rimasto?» domandò, osservando questo mobile antico, una vecchia seduta da trucco dell’ottocento in legno bianco, mangiato dal tempo e dalle rughe sui piedi a zampa di leone.

L’impiegato della ditta immobiliare, asciugandosi i sudori freddi, mugugnò la risposta.

«Sinceramente, non ne so il motivo, signora... A me avevano detto che questa casa era senza arredo alcuno.». la donna tentò di aprire i cassetti, qualche cianfrusaglia, alcuni trucchi andati a male, una sciarpa di velluto color azzurro carta da zucchero. E un cassetto chiuso.

«Questo cassetto è chiuso...» borbottò la donna, guardando la fessura dove andava inserita la chiave. L’uomo si avvicinò, con passo leggero, quasi spaventato nel risvegliare la casa.

«Beh, signora, se le interessa così tanto aprirlo può chiamare un fabbro... le andrebbe di scendere al piano terra?».

 

Quando Luisa aprì, con particolare destrezza, con un fermacapelli il cassetto, fece un rumore sinistro, di ferro arrugginito. All’interno, ammantato dalla polvere, un orologio da taschino, d’argento. Di primo acchito non si era accorta che l’orologio era fermo, perché l’ora della scoperta fu alle 11 e 15.

Quando lo prese in mano, osservandolo in ogni sua parte, leggermente esperta di questa chincaglieria, si illuminò. Davanti a lei, in un papiro trasparente andò delineandosi i profili di un nuovo racconto, che andava scritto subito, immediatamente.

Luisa scrive, scrive. Ma quando arrivò alla fine, non scrisse quella parola.

La mano tremava, e si guardò le dita. Per un attimo, al suono di un tuono del temporale che urlava al di là delle finestre, sull’ombra della sua mano, vi vide un occhio intriso di sangue.

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Capitolo 2

 

Accasciata alla luce del mattino da poche ore nato, la grande villa sembrava una bestia addormentata tra i ciuffi verdeggianti degli alberi che la circondavano oltre le basse aiuole di pietre bianche, da cui spuntavano, cresciute nel tempo con pioggia e baci di sole, le teste lunghe e vivaci dell’erba. Luisa si fermò trionfante ad osservare la sua nuova conquista.

Da sotto le suole delle sue scarpe, una lunga via lastricata si sdipanava per metri e metri, correndo tra le labbra di quelle recinzioni di masso come le linee sinuose di una donna, seguendo un disegno estraneo da tutti quelli che sino ad ora si erano affacciati al panorama dell’edilizia, punteggiato di onde quasi invisibili.

Lo sguardo incontrava diversi ostacoli, spingendosi sino alla facciata scrostata della casa. La donna, alle cui spalle si era chiuso un pesante cancello in ferro, levigato da sapienti mani e graffiato da lunghe tempeste, posò i bagagli a terra. Qua e là, avventurieri della natura, alcuni rami si erano stirati sino a coprire il selciato con la loro tenue ombra, promettendo ai visitatori una passeggiata da incubo in quello che pareva un tunnel naturale in costruzione. Non sei tu il padrone di questo luogo.

Luisa, la cui mente di scrittrice aveva il brutto vizio di galoppare, quella volta rabbrividì. Non era ancora vicina a quelle scale vittoriane di quel bianco slavato,  eppure una sensazione inquietante si fece largo sino a lei mentre le sue pupille fini si posavano sull’orbita scura del portone della casa. Sotto le carezze tiepide del sole, la donna rabbrividì.

Dalle viscere dei giardini – due ampie ali incolte che si univano nel retro della proprietà in un glorioso spiazzo verde – proveniva un soffocante sentore. La donna si guardò attorno, sbirciando oltre i tronchi degli alberi.

Occhi di tenebra la colsero, sguardi antichi che, ne era sicura, erano parte della villa e che, tra poche ore, sarebbero già stati familiari.

Luisa si mosse, riprendendo i bagagli. Lasciandosi alle spalle quell’avvertimento sussurratole da quelle stesse pietre su cui camminava, da quelle foglie, da quel silenzio.

Occhi di pietra, infossati nell’intrico del giardino, la seguirono.

 

Al centro di quella singolare bacinella che formavano le aiuole – una coppa tra mani giunte come nel desiderio di raccogliere acqua piovana – s’alzava verso il cielo una struttura di muratura a tre piani, alla cui sommità sbocciava un giglio, che fissava il cielo con l’apertura armonica tra i suoi petali. La fontana, perché di questo si trattava, era percorsa, almeno per i primi due piani, da gigli stuccati in rilievo, che riportavano la loro fantasia su quel memoriale acquatico che, anni prima, aveva illuminato di giochi il parco.

Luisa passò una mano sul parapetto della fontana, seguendone il levigato tratto. Sul fondo vi erano i segni dell’acqua che vi aveva ristagnato, le dentature verdastre di quell’antica abitante.

Tutto era silenzio, tra le volute dorate della luce che si specchiava su quella tavolozza verde e bianca. Luisa oltrepassò la fontana e si appressò lenta verso la casa, ritrovandosi infine davanti ai suoi scalini bianchi.

Salì, portandosi dietro le valigie, osservando le lingue di terreno che sottostavano ai corrimano a scivolo, che come le aiuole si aprivano in una foca larga e sinuosa per abbracciare il sentiero lastricato. Incassato in una cornice macchiata dal tempo stava il portone, che con la sua tinta bruna spiccava come l’alfiere nero in una folla di prede bianche. La sua lignea figura era incastonata di quadrati intagliati, su cui spuntava un batocchio ossidato che raffigurava un gargoyle dalla cui bocca spuntava un elaborato anello metallico.

La donna trasse le chiavi dalla borsa che teneva a tracolla, un paio di pesanti oggetti lustrati a cui era ancora appeso il cartellino immobiliare, su cui una grafia frettolosa e tonda aveva appuntato l’indirizzo dell’immobile.

La testa metallica s’incastrò perfettamente nella serratura, alzando uno squittio cupo alla pressione. Luisa girò con fatica la chiave, che si inceppò come un cavallo imbizzarrito.

Il sudaticcio omino dell’agenzia immobiliare che le aveva mostrato la villa le aveva annunciato le serie problematiche nell’aprirne la porta, ma lei non demorse, e con un paio di calci e vigorose spinte la porta s’aprì, svelando i tenebrosi intestini dell’edificio.

Alla luce gettata dall’intrusione, dal pavimento labirintico s’alzò una nuvola di polvere. La donna entrò coprendosi la bocca con una mano, mentre le particelle granulose s’infrangevano sulla sua figura. I suoi passi lasciavano impronte lucide sulle piastrelline bianche e nere che formavano il disegno del pavimento, una grande e semovente girandola sfaccettata, che rendeva quell’ambiente, se possibile, ancora più grande.

Sulla destra, lontana e nascosta, doveva essere la porta per immettersi nell’ala est, celata da un paio di drappi sporchi che, pochi giorni prima, l’agente dell’immobiliare aveva spostato con un bastone rimasto abbandonato proprio lì, accanto alla porta.

Luisa lo prese, utilizzandolo come un bastone da passeggio.

Sulla sinistra, la lunga onda delle scale si apriva riportando la figura della scalinata esterna, ma questa volta con intagli impressi nel lucido legno, che occhieggiava da sotto la polvere.

I passi che lei e l’uomo avevano disseminato erano già coperti di pulviscolo, e si riconoscevano solo aguzzando la vista. Luisa spalancò una persiana accanto alla rampa di scale, e la luce piovve attraverso i vetri sporchi come una benedizione.

Si sentivano le urla silenti di quel mostro addormentato, si disse; si sente la sua ira nell’essere stato svegliato. Era come un grande gatto arruffato. Le scale, al suo passaggio, cigolarono appena. Più assordanti furono i passettini di bestie invisibili che si ritiravano di gran carriera nell’ombra.

Per tutto il reticolo della casa, le porte delle stanze si rivelarono socchiuse. Attraverso gli spiragli, che Luisa si divertì ad allargare, solo una panoramica si intravide: grandi stanze vuote, finestre chiuse, a volte inchiodate, a volte semplicemente accecate dalle persiane, a volte senza alcuni vetri. Polvere e silenzio, e scarti di dubbia provenienza lasciati dai topi.

Solo una porta si rivelò aperta.

Luisa le passò davanti ormai senza darci conto, quando già aveva abbandonato l’intento di aprire ogni porta che le si presentava, stanca di assistere allo stesso panorama desolato. Tornò indietro di qualche passo, individuando una fonte di luce.

Se ne era quasi dimenticata, di quella stanza in cui era entrata col suo cicerone dell’agenzia. La donna sorrise, andando incontro all’unico mobile della casa, investito da una lama di luce che cadeva obliqua da un vetro della finestra, la cui metà persiana era caduta inesorabilmente.

Poggiò le mani sul piano levigato, aprendo nuovamente i cassetti. Di nuovo quel profumo stantio di trucchi, e un vago sentore di fiore e alcool. Di nuovo quel cassetto.

Posò a terra le valigie, senza curarsi troppo della polvere. Il suo senso del mistero si accrebbe miracolosamente, e la invitò a cercare un fermacapelli in una delle tasche della borsa.

Scrivere di scassinatori e ladri aveva dato i suoi frutti, e dopo un paio di minuti trascorsi nel tentativo di aprire il cassetto, finì trionfante la sua opera, tirando infine il gancio lavorato assicurato al legno.

Una nuvola di polvere s’alzò, e con uno strofinio la carta che ricopriva i cassetti si mostrò, scolorita e macchiata.

Sul fondo, solo un oggetto, liscio e sporco.

Un cipollino d’argento.

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