A Silent Other Where

di Hilda Polaris
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Proemio ***
Capitolo 3: *** Atto I - Scena I ***
Capitolo 4: *** Atto I - Scena II ***
Capitolo 5: *** Atto I - Scena III ***
Capitolo 6: *** Atto I - Scena IV ***
Capitolo 7: *** Atto I - Scena V ***
Capitolo 8: *** Atto I - Scena VI ***
Capitolo 9: *** Atto I - Scena VII ***
Capitolo 10: *** Intemezzo I ***
Capitolo 11: *** Atto II - Scena I ***
Capitolo 12: *** ATTO II - Scena II ***
Capitolo 13: *** ATTO II - Scena III ***
Capitolo 14: *** ATTO II - Scena IV ***
Capitolo 15: *** ATTO II - Scena V ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


- Note alla struttura e premesse varie - 
(vi chiedo un po' di pazienza nel leggere questo preambolo. La storia comincia in fondo alla pagina)

 

A Silent Other Where è strutturato come un’opera teatrale, con divisione in atti e scene.

Ho seguito alcune delle norme di composizione che derivano dalla tragediografia classica, altre dall’opera lirica, altre dalla tragedia moderna…Diciamo che mi sono incasinata graziosamente con le mie stesse mani.

Gli atti veri e propri (5, come nella tragedia classica e divisi ciascuno in 7 scene come spesso nell’opera lirica) sono preceduti da un proemio, che segue in tutto e per tutto quelli epici con divisione in Protasi, Propositio e Invocatio; in particolare, l’Invocatio, dato che è cantata o recitata da un gruppo di fate, svolge anche la funzione dei Cori nella tragedia classica, e, metricamente, è scritta in quartine di settenari a rima alternata. Precede gli atti anche un piccolo prologo introduttivo, sempre recitato dalle fate, che poi, a turno, racconteranno gli avvenimenti degli atti, in una struttura a cornice tipo quella del Decamerone, intervenendo anche nel corso dei racconti per commentare o spiegare. Non si tratta quindi solo di un “racconto”, perché le narratrici a volte racconteranno, a volte interverranno con brevi commenti, a volte occuperanno intere scene con le loro osservazioni sugli avvenimenti o meditazioni di carattere più generale, o digressioni su avvenimenti passati non raccontati nella narrazione vera e propria. Alla fine di ogni atto, a mo’ degli intermezzi usati nella tragedia classica, presumibilmente aggiungerò una songfic, o un’epistola, o dei versi, o qualche altro testo di qualche genere che avranno anche la funzione di approfondire o chiarire i pensieri di qualche personaggio. Alla fine del Terzo e del Quinto atto cercherò di aggiungere anche un altro Coro (come accade nella tragedia manzoniana) in versi settenari, e spero di farcela.

Il linguaggio delle Alfe sarà di registro più alto, aulico: sono delle creature divine, in fondo.
Il linguaggio usato dai personaggi resterà più colloquiale e moderno.

In sostanza, un bel pout-pourri… Non posso garantire né ho la pretesa di affermare che si tratti di una bella opera, perché è piuttosto sperimentale e perché, ovviamente, non sono una scrittrice professionista - e anche i professionisti non possono mai scriver qualcosa che piaccia a tutti - , ma assicuro di averci messo tutto il mio impegno, la mia creatività e la mia smisurata passione per Asgard.

La storia è identificabile come un what-if collocato dopo la battaglia ad Asgard. Avviene contemporaneamente alla saga di Poseidone e parzialmente dopo la sua fine, allorquando, prima dell’inizio della nuova Guerra contro Hades, i guerrieri di Atena passano un periodo di relativa tranquillità in Grecia - nell’ultima puntata di Poseidone è infatti lì che li lasciamo.

Hilda, regina di Asgard e sacerdotessa/tramite del dio Odino, viene lasciata in un regno distrutto, ferita nel corpo e nell’animo, sola, con i suoi difensori morti per causa sua (almeno nella sua percezione delle cose), una sorella in preda a crisi isteriche dovute alla “sindrome da stress post traumatico” e una popolazione diffidente e spaventata. Gli Asi non sembrano più desiderare di comunicare con lei.

Ma, un giorno, i God Warriors tornano misteriosamente alla vita, annunciati dai corvi Hugin e Munin.

***

La quasi totalità dei personaggi la conosciamo già: ovvero © di Masami Kurumada, l'autore e ideatore, e Shingo Araki e Michi Himeno, i Character Designers. Altri, come alcuni tra i familiari dei Cavalieri di Asgard, compaiono nella serie ma io ho dato loro nomi e storia, e in alcuni casi solo storia perché i nomi erano già noti (vedi Fölken o la madre di Fenrir, Ingrid). Alcuni altri, come Bastian il cacciatore, Axel il padre di Fenrir, o Elfriede, madre di Alberich, o le varie Alfe, sono inventati esclusivamente da me. La maggior parte di costoro fa solo atto di presenza o serve per riempire il background dei protagonisti motivando dunque certi loro atteggiamenti ed azioni, laddove i personaggi principali sono quasi soltanto quelli che conosciamo già.


Cercherò per quel che posso di tenermi lontana dagli stereotipi e dalle MarySue, che innervosiscono anche me. La storia è in divenire, e io non mi stanco mai di trovarle difetti e di correggerla. So che la soluzione di far rinascere i God Warriors possa sembrare trita, ritrita e banale, di primo acchitto. Concedetemi il tempo di mostrare che così non è.

Vedrete, leggendo, che i personaggi principali sono quasi soltanto quelli che anche voi conoscete.
Altri ancora, come i familiari di Siegfried e il loro passato, sono ideati in comunione con la meravigliosa scrittrice e amica Belial*Mime, in quanto le nostre due fic (la sua è Blue Silence) sono legate in molti punti. In particolare, Aska è creata da lei, (e una stupenda frase a lei riferita, "il fiore sull'orlo del dirupo, il fiore destinato a morire", è direttamente ispirata ad una sua) ed è proprio grazie a questo personaggio e alla sua vicenda che ho deciso di collegare SOW alla sua stupenda storia, benché si tratti di due universi differenti e collegabili solo nel passato.
Approfitto di questo spazio per ringraziarla come non mi stancherò mai di fare.

Prima di proseguire, un ringraziamento doveroso e sentito va a anche a CowGirl Sara. Ha apprezzato così tanto SOW da sentirsi così ispirata da scrivere una specie di "fic della fic", incentrata su Siegfried e Hilda. Sono felice e onorata di questo, immensamente, ancor più perché la sua "The Night of Light" è davvero molto bella, e talmente azzeccata da sembrare perfettamente inseribile nel contesto di SOW, benché in quest'ultima i sentimenti di Siegfried non siano corrispondenti a quelli descritti da lei e non so se mai lo saranno. Insomma, vi consiglio caldamente di leggerla, non ne rimarrete delusi.
E voglio aggiungere anche altro: la ringrazio pubblicamente ancora più, perché, in questa bailamme di "ispirazioni al lavoro altrui" esplicite ed implicite, non dichiarate perché fa tanto comodo (e ovviamente non mi riferisco solo ai miei lavori, è una piaga diffusa nel mondo delle fics, purtroppo), lei ha avuto la correttezza e la maturità di "citare le fonti" e di chiedere il mio parere privatamente, nonostante ci conoscessimo proprio poco.
Grazie, Sara. :-)

E un'ultima osservazione riguardo plagi veri o presunti, "ispirazioni", "misteriose congruenze di avvenimenti, toni narrativi, struttura o descrizioni", permettetemela: sono cose che ho subito, che tanti hanno subito e che sono veramente fastidiose...
La mia fic è stata iniziata nel 2000, e dalle date potete vedere che è stata pubblicata poco dopo. Su altri siti, ancor prima di questo, quando certe cose ancora "non erano tanto di moda". Come le fic su sulle serie di moda ora così diffuse: ne leggi dieci belle, ben scritte e originali, e le altre mille ti sembrano tutte "già viste". Mia opinione.

Se la fantasia e l'immaginazione è un dono proprio di ogni essere umano, se ce l'abbiamo tutti, perché usare quella altrui anche come ispirazione, senza dare crediti?

No al plagio, in qualunque forma.


Grazie a chiunque vorrà dedicare parte del proprio tempo nel leggere la mia storia, con tutto il mio cuore.
È imperfetta, come lo sono io. Nasce dall'amore per Asgard senza pretese di grandezza.
Qualsiasi tipo di opinione costruttiva e motivata è ben accetta.


Grazie a tutti e buona lettura!

Mariacristina - Hilda Polaris

***

- A SILENT OTHER WHERE -

PROLOGO

 

 

Guardo la neve che cade…
È una vista non rara di questi tempi. È una vista non rara, in questi luoghi.
Osservo la danza dei fiocchi; sembrano così piccoli, fragili… Vita fugace.

Fugacità della vita.

 

Eppure Odino ha creato ogni singolo fiocco, affinché danzi nell’aria e affinché formi, con i suoi fratelli, un manto bianco e materno che preservi la terra dai rigori del gelo e che la culli in attesa del sole, al cui fecondo bacio cederà il posto quando sarà il tempo.

E anche allora ogni fratello sarà utile allorquando si trasformerà in goccia d’acqua.

 

Com’è bello questo silenzio…

Avete mai provato ad ascoltare il silenzio?
Perché è di esso, o di suoni simili, che Asgard si serve per raccontare le sue leggende.

 

Ascolta, mortale…

Gli Dei consentono, Odino mi dischiude le labbra.

Sarò io, per te, la voce del Silenzio.

 


 

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Capitolo 2
*** Proemio ***


PROEMIO

 

 

(Coro di Alfe, le Fate del Nord)

 

Protasi/Propositio


Oggi il cielo è plumbeo e l’atmosfera immobile preannuncia tempesta.
Probabilmente essa si protrarrà per giorni, devastando la nostra terra dal suo interno più profondo.
Ma questa terra vi è abituata… Abituata alle tormente perché esse fanno imprescindibilmente parte del suo essere; anzi, ha imparato perfino ad amare ogni manifestazione della natura, che qui canta con la sua voce più alta. Apparentemente questo canto, a volte misteriosamente silenzioso e a volte selvaggiamente indomabile, incute timore…
Ma è tipica prerogativa dell’uomo la paura di ciò che egli avverte come incontrollabile.
Silenzio incontrollabile… Incontrollabile clamore: i due volti della nostra terra.
Le due contrapposte armonie del suo canto.
Melodia che non tutti possono o sono in grado di ascoltare.

Ma noi, nate in queste lande e con queste lande, destinate a riunirsi agli Asi quando essi ricondurranno a sé ogni loro creatura nel giorno del Crepuscolo, paleseremo questo canto all’universo che ci circonda.
Per renderlo udibile all’intelletto umano lo narreremo in forma di fiaba.
E la neve sarà il musico che con le sue note accompagnerà la nostra voce.

Invocatio

Volgi lo sguardo di folgore
O nostro Signore Odino,
A ciò che l’umile mormore
Chiede al tuo soffio divino.

Fa’ che, sognando, trasecoli
Bardo nell’immaginare
Asgard, che ancora per secoli
Lasci la cetra cantare.

Fa’ che il tuo spirto pervada
Bianchi che l’occhio non vede;
Mostra a noi Alfe la strada
Per dir ciò cui mortale non crede.

Dona a noi voce di uomini
Che, senza svelar loro dove,
Tessa ricami ed immagini

D’un Freddo e Silente Altrove.

 

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Capitolo 3
*** Atto I - Scena I ***


ATTO I

SCENA I


 

Il mio nome è Seelye, un nome che evoca il soffio del vento.

Noi ci chiamiamo Alfe.

Voi ci chiamate Fate.

Siamo immortali custodi del gelo, invisibili genii dei boschi.
Conosciamo ogni roccia dei monti che ci circondano, ogni albero, ogni sua foglia.
Chiamiamo per nome ogni creatura di questa terra,
e conosciamo la lingua del vento e quella del mare.

Odi questo lieve stormire?

È l’algida Borea, un vento amico. Ti sta augurando il suo benvenuto.

Vedi quello scintillio su quell’iceberg?

È il sole. Ti sta sorridendo attraverso il ghiaccio.

Sì, perché qui il sole è timido, non ama dispiegare la sua possanza. Sa inoltre che un suo raggio troppo intenso distruggerebbe la magia di luoghi che anch’egli protegge,
che anch’egli ama.

Anche il popolo di mortali che qui risiede dall’epoca del mito aiuta noi e la natura a difendere questa terra, secondo la volontà degli Asi.
Fu per compiacere la volontà di Odino, infatti, che essi, come monito allo straniero, edificarono un’imponente effigie del Dio: la vedi, tra le nebbie che avvolgono quel picco lontano? Essa domina tutta la zona.
È Odino, che veglia sull’intera Norvegia brandendo la Spada divina che nella notte dei tempi fu forgiata per lui da Mimir: Balmung.

Per sua diretta volontà, allorché le circostanze lo richiedano, Balmung si pone nel pugno di un prescelto tra gli uomini e lo guida alla difesa di Asgard.

Ci fu però una volta, solo una volta,
in cui la sacra Spada si concesse ad uno straniero e contro Asgard, perché Asgard venisse salvata.

Ed è qui che comincia la nostra storia.


***

 

Uno degli Dei del Sud, Poseidone, sottrasse ad Odino l’Anello del Nibelungo, un oggetto che conferisce a chi lo indossa potere assoluto e permette di dominare il mondo,
ma anche di annientarlo.
Un’arma troppo potente e ardua da controllare,
per finire in mani imperfette come quelle umane.
Ma Poseidone, per un oscuro piano che mirava a soddisfare i suoi scopi sacrificando Asgard, pose con l’inganno e la violenza l’Anello al dito di un essere umano.

Vennero gli Stranieri, dalle terre assolate di Grecia.

Vennero, e portarono in Asgard una guerra che comunque si sarebbe scatenata per colpa di uno dei loro Dei, la cui nefasta volontà dominava l'Anello e chi era costretto a portarlo.
L’unico modo per porre fine al conflitto, liberando la vittima di Poseidone,
si rivelò essere Balmung.
Ma la morte in battaglia dei soldati scelti dell’esercito asgardiano,
l'antica casta dei Guerrieri Divini,
rese impossibile il suo utilizzo da parte di uno di essi;
così Odino scelse di consegnarla nelle mani di un condottiero greco che combatteva contro Nettuno per la fine delle ostilità e per il ripristino della pace nel Nord e nel Mondo.

L’incantesimo dell’Anello fu così spezzato dal potere della spada, la vittima fu liberata
e la guerra lasciò Asgard per trasferirsi, con i Cavalieri di Grecia,
alla corte di Poseidone nelle profondità del mare.

 

Ma da allora Asgard  non fu più la stessa.
Privata di ogni difesa, semidistrutta,
la nostra terra versava in uno stato di prostrazione desolante.
Gli abitanti contemplavano annichiliti
le rovine di quello che un tempo era stato il loro orgoglio,
diffidenti e impauriti, privi di fiducia nel loro avvenire.

Da molti secoli la guerra non bussava alle loro porte.

Asgard era stata città ostile e guerriera finché l’avvento al potere di una dinastia di regnanti, i Polaris, aveva permesso la fine di tale atteggiamento, e da allora l’isolamento della città era stato condotto in pace ed operosità.

Il loro simbolo in cielo era la Stella Polare, l’astro che indica il Nord;
le loro preghiere ad Odino impedivano lo scioglimento della calotta polare,
minaccia paventata dall’imprudenza del genere umano
e della sua inarrestabile corsa tecnologica
i cui effetti collaterali avevano determinato l’innalzamento della temperatura del pianeta. La condizione di benessere a cui i Polaris avevano condotto Asgard
aveva ben pochi precedenti nella storia,
perché era in massima parte dovuta alla pace.
Troppo impegnati ad assecondare la natura guerriera della gente del Nord,
troppo occupati dalla smania di riportare in patria trofei
di nemici sconfitti e città conquistate,
i precedenti re.
Figli troppo diretti di un bellicoso passato vichingo.

Ma a cosa serve un regno pieno di ricchezze e onori
se tutto questo viene spazzato via dalle tempeste della guerra?
I Polaris sembrarono aver inteso, unici,
l’importanza della pace e la futilità dell’orgoglio
la cui conferma vada cercata solo in battaglia.

Oh...

 

Dei del Walhalla, è così difficile a volte
seguire ed interpretare i vostri imperscrutabili disegni!
La bella favola di pace dei Polaris era destinata a terminare nel sangue.

Una guerra.

Rumore di cavalli in corsa,
orrore di urla,
sibilo di frecce e spade…


E il sangue e la morte.

Il pianto di un bambino,
una fuga nella tormenta…

E il sangue e la morte.

La fine di tutto quella volta fu anche un inizio,
ma di una tragedia il cui lento e inesorabile dispiegarsi fu incontrollabile per molti anni.

Fu così che avvenne.

Ai confini di Asgard c’era una cittadina, Yslung, che Asgard aveva occupato tempo addietro dopo il protrarsi di scontri e guerriglie per questioni di confini.
Alla lunga, la popolazione di entrambe le città aveva concluso che questa fosse la soluzione migliore, senonché la sete di vendetta e l’invidia per la posizione di Asgard, mai sopite, portarono un pugno di facinorosi di Yslung
a guidare una nuova ribellione che poi finì per trascinare l’intera popolazione.
Nel tentativo di sedarla Harald dei Polaris, il regnante di quegli anni,
aveva inviato una delegazione del proprio esercito nel territorio di Yslung,
dove essi avrebbero dovuto innanzitutto provare a parlamentare con l'altra parte
tentando la strada della diplomazia.
La violenza sarebbe dovuta intervenire solo in casi estremi.
Purtroppo uno dei soldati più forti e temibili dell’esercito reale, Fölken,
si lasciò andare all’uso della forza uccidendo uno dei consiglieri di Yslung e sua moglie,
e in seguito si diede alla fuga per motivi misteriosi.
Questo assassinio determinò un’inconsulta reazione a catena da parte dei soldati di Yslung, che inferociti, assaltarono in forze Asgard e il Palazzo Reale rimasto sguarnito dopo la partenza dei cavalieri.
Credevano che Fölken si fosse rifugiato dietro i mantelli dei suoi sovrani.
Le sale del castello furono invase e date al fuoco.
Ma mentre re Harald, alla guida degli ultimi rimasugli della sua Guardia personale e col solo appoggio del capitano, opponeva una coraggiosa quanto disperata resistenza agli invasori,
sua moglie, incinta, portata al sicuro dalla servitù nei sotterranei del palazzo
assieme alla primogenita,
veniva sorpresa dai dolori del parto, sopraggiunti inaspettatamente a causa dello choc dovuto all’invasione.

Oh, Odino… Concedi a me, tua serva, la forza di narrare ai mortali eventi tanto terribili!
Fu notte di dolore, urla e lacrime.


E di sangue e di morte.

 

Le complicazioni conseguenti al parto prematuro portarono a morte la giovane regina. Venne alla luce una creatura piccola e debole
che non ebbe neanche la forza di annunciare al mondo la propria presenza
mediante il primo vagito, e che solo un miracolo avrebbe potuto mantenere in vita.
Contemporaneamente Harald cadeva,
sopraffatto dalle ferite e dalla forza degli avversari.

La distruzione definitiva del Castello fu evitata

soltanto grazie al sopraggiungere dei Guerrieri Divini,
gli uomini scelti dell’esercito reale che nel frattempo erano riusciti a calmare la battaglia acuitasi in Yslung.
Uno di loro, fortunosamente, aveva scorto in lontananza le fiamme invadere le mura e assieme ad alcuni compagni aveva ripiegato disperatamente verso la cittadella,
con pochi cavalli e attraverso una delle inclementi tormente di neve dell'inverno polare.

Ma tutto fu invano, ahimè…

Una famiglia, una storia, una dinastia, una leggenda, una fiaba…
Tutto cancellato,
annientato in pochi minuti dalle trame segrete tessute in cielo dalle Norne.

Entrambi i sovrani chiusero gli occhi nello stesso istante.
Poi, non ci fu che il silenzio.


Di sangue e di morte.

 

E dell’erede al trono, della bambina spaventata che gli inservienti avevano portato via in lacrime assieme alla regina, nessuno seppe più nulla.

Il suo nome era Hilda dei Polaris.

 

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Capitolo 4
*** Atto I - Scena II ***


SCENA II


 

- Seelye, il tuo racconto promette grandi cose… Saranno degni, gli uomini, di ascoltare queste vicende narrate dalla bocca di una divinità?
- Oh, Eis: gli uomini hanno diritto di ascoltare una storia di cui sono i protagonisti.
- I protagonisti di questa storia hanno avuto contatti con il divino più volte, e alcuni di essi godono del favore degli Asi, nonché del Sommo Odino… Non tutti sono da considerarsi esseri umani come gli altri.
- Non solo per questa loro condizione privilegiata essi meritano che una creatura sovrannaturale canti la loro vita. Asgard rinnova la sua eccezionalità con storie che sembrano leggende, e noi, sue protettrici, abbiamo il dovere di riportarle con  devozione agli uomini, come perenne ricordo e insegnamento futuro.
Odino consente e sollecita le mie parole.

È tempo che io narri, Eis.

È tempo che noi Alfe accettiamo di dischiudere
il freddo bocciolo delle fiabe del Nord.

- Se è questo che Odino desidera dalle sue ancelle, così sia.
Ma ti prego, sorella, di concedere anche a noi l’onore di raccontare.
La neve cade, probabilmente durerà per giorni.
Essa avvolge noi e la Natura nel silenzio ideale per chi narra e per chi ascolta. Riuniamoci tra gli abeti: le loro frondose e amiche chiome ci proteggeranno
in caso di tormenta.

A te, Seelye, l’onore di cominciare.

 

(racconta Seelye)

 

- Grazie, sorella.
A turno noi Alfe mostreremo ai mortali quanto ricco di eterno e loquace fulgore
in realtà sia il silenzio di Asgard.
Alcune stelle solitarie fanno capolino tra le nubi… Bene.
Gli Dei illuminano e benedicono fausti il nostro raduno con le loro lucciole celesti,
visibili nonostante il cielo coperto.

 

Accade spesso che qualche stella sfidi i nembi e mostri il suo splendore
all’uomo che cerca una luce nell’oscurità.
Accade nel cielo, così come nelle vicende umane.
Una luce nel buio, seppur fioca, risalta nella notte anche più di quanto non si creda, e mostra a chi osserva che, nonostante la presenza di minacciose nuvole, lassù esiste comunque un cielo infinito.
Esiste comunque una via, uno spiraglio, una speranza di vita e di felicità.
La vista di quel minuscolo bagliore invita a dirigersi verso esso, a seguirlo, a cercarlo…

Rialzarsi, anelando a quella luce.

Andare avanti, anelando a quella luce.

Alla fine del cammino, la notte sarà terminata, e dissipate le nuvole.
Inizia un nuovo giorno, una nuova storia.
E il buio e l’oppressione dei nembi saranno dimenticati.

Questo è quello che la vicenda permea e che il suo dipanarsi insegna.

***

Cos’era rimasto, dopo la morte dei reali, dopo la terribile guerra contro Yslung?
Cosa, se non il buio?
Per anni Asgard rimase senza sostegno e senza guida.
Nessuno conosceva la sorte della piccola Hilda, e inoltre la principessina venuta prematuramente alla luce in quella terribile notte si dimostrò presto
fisicamente e psicologicamente troppo fragile
perché gravasse sulle sue spalle la responsabilità del regno e della preghiera.
Fu così che gli abitanti, riunitisi in assemblea assieme ai Guerrieri Divini, decisero di eleggere un Consiglio che governasse concretamente la città,
e ferventi suppliche ad Odino permisero la conservazione dei ghiacci,
anche se non pronunciate dai membri della famiglia reale.
Il Dio prese a cuore la sorte della sua città favorita,
e diresse gli eventi assieme alle Norne in modo da lasciare che la vita in quei luoghi scorresse lenta e tranquilla come un grande fiume,

in attesa che il destino risollevasse Asgard dalla sua lunga sosta nel buio.
Nessuno di noi conosce il loro accordo e i loro piani.

E di solito le tre Dee non sono propense a rivedere i loro intenti, neanche per il
Padre.

È il loro dovere, e il loro destino.

Ma gli abitanti di Asgard non si posero domande: videro il favore degli Asi e il loro unico scopo divenne sopravvivere agli inverni, in attesa che qualcosa, non sapevano cosa, accadesse.

Il Mondo era bianco, e piatto, e buio.


Per intere stagioni il cielo del Nord fu vuoto di Aurore Polari.
Passarono tanti lunghissimi anni dalla guerra in cui la famiglia dei Polaris era stata devastata.

Ma persino le nostre notti, ancorché gelide e lunghe, non durano in eterno.

E ancora più luminosa è l’alba che alle tenebre segue,
per chi ha gli occhi rassegnatamente abituati ad esse.

Anni, e poi il Destino diresse il suo dito su una fanciulla, che comparve a Palazzo accompagnata da una coppia di anziani e terrorizzati servitori che tutti ritenevano perduti
assieme alla famiglia reale.

La giovinetta sembrava in trance.
Da giorni aveva iniziato a parlare in una lingua che era stata retaggio del popolo del Nord secoli addietro, e, quando le si chiedeva di scrivere, utilizzava le Rune.

Entità buone e meno buone tormentavano le sue notti.
I corvi si posavano sulle sue mani quando la piccola le levava al cielo.
Eventi inspiegabili, come piogge di meteore che sembravano collegare le stelle dell'Orsa Maggiore alla Stella Polare, accompagnavano i suoi passi.

Quell'astro era un simbolo inequivocabile: i Polaris.


Le prove cui Odino sottopose la ragazza permisero di riconoscerne definitivamente l’identità.
Essa sentiva in sé la voce del Dio, riusciva ad interpretarne i segni e gli auspici,
riusciva ad impugnare la sacra Balmung senza rischi per la sua incolumità,
e infine, grazie alle sue preghiere, i ghiacci mantenevano il loro freddo e imponente aspetto, anche nelle giornate in cui il tiepido sole estivo minacciava il loro scioglimento.
Grazie ad una serie di vaghissimi ricordi riposti nella sua mente, all’innegabile somiglianza fisica e ai segnali che Odino trasmetteva attraverso la sua persona,
la fanciulla dagli occhi di blu e di lavanda fu ufficialmente riconosciuta
come la legittima erede di re Harald, la primogenita di cui tutti credevano persa la vita:
in virtù di questo, le fu consentito di salire al trono come Regina di Asgard.

Gli Dei tacquero
e gli uomini annuirono.

Il suo nome fu di nuovo Hilda dei Polaris.”


***

- Ricordi come apparve diversa la vita da allora, Seelye?

- Naturalmente! L’alba, dopo una notte invernale… Era finalmente giunta.


Asgard conobbe un rinnovato periodo di prosperità, e sebbene fossero stati molti, all’inizio, i dubbi circa il passato della nuova regina, essi furono fugati, oltre che dai segnali divini nella fanciulla,  anche dal suo modo di governare il paese.
Molti riconobbero il piglio quasi fin troppo solenne, la fedeltà ad Odino e lo sconfinato amore per la sua terra del mai troppo rimpianto Harald,
che sembrava vivere ancora nel viso, nel carattere e nei movimenti di Hilda.
La ragazza, nonostante la giovanissima età, seppe rendere onore al suo compito di reggente e di celebrante, sempre in bilico tra il divino e l'umano,
guidata dalla saggezza del nostro potente Signore.
Sempre condotta per mano dal Dio, Hilda elesse una nuova schiera di guerrieri che subentrarono ai precedenti Guerrieri Divini nella protezione del Palazzo Reale e di Asgard,
assegnando loro investitura ed armature in base ai meriti di addestramento e battaglia.

Sette stelle ancora una volta.

L’Orsa Maggiore rifulse della sua luce più splendente,
e insieme allo scintillìo della Stella Polare, illuminava Asgard.

Oh, quanto, quanto avevamo atteso la fine del buio!
 

***

- Ma, ahimè, sorella! La ruota del Destino continua a girare
anche se la si vorrebbe fermare sui periodi di gioia…
Le Norne continuano a dipanare il loro filo senza smettere di tesserlo,
e purtroppo non si preoccupano degli inevitabili strappi che esso può subire.

 

- Non lasciare che il buio pervada la tua anima nuovamente, Eis;
hai ragione.
La felicità perfetta non può essere eterna,
e la felicità eterna non sarà mai perfetta.
È la legge che domina il mondo, è innegabile. Ma è altrettanto innegabile che questa legge non preveda neanche oscurità completa e perenne.
Osserva questi fiocchi di neve. Ecco, ne prendo uno nelle mie mani: cosa vedi?

 

- Uno splendido, trasparente astro di ghiaccio.
Ma mi è consentito guardarlo solo per un istante… Subito dopo scompare.

- Certo, ma… Guarda intorno a te.
Non vedi forse una miriade di astri di ghiaccio come quello?
Tutti sono splendidi di una bellezza diversa ma ugualmente intensa.
Ognuno di essi dura meno di un respiro, ma vale la pena rinunciare ad ammirarli, solo perché sai che il tempo concesso per farlo sarà pochissimo?

Godi di quel gelido briciolo di brina…

E quando sarà scomparso, ecco, basterà che tu ne accolga un altro
sulla punta di un dito, e nuovamente ne ammiri la bellezza
senza preoccuparti di quanto a lungo essa potrebbe mostrarsi.

- Non puoi negare però che, dopo la scomparsa del fiocco, la delusione sarebbe inevitabile. E la consapevolezza che, qualora ce ne fossero ancora, essi avrebbero sempre vita così breve, non faciliterebbe il desiderio di cercarne e contemplarne altri!

-… E rinunciarvi solo per questo, Eis? No, non sarebbe giusto.

- Cosa te lo fa pensare?

- La certezza che la bellezza di ogni fiocco lascerà nel mio cuore il ricordo di sé, in modo che, se si ripresentasse, io non farei alcuna fatica a riconoscerla… E questa idea mi spingerà a desiderare che nevichi ancora!

- Le tue parole mi sono di grande conforto, sorella mia.
Vorrei che anche gli uomini possano acquisire la tua stessa sicurezza.

- Questa era la nostra intenzione, ricordi?
Noi adopereremo il nostro racconto per insegnare qualcosa al genere umano attraverso l’esempio, che è il migliore dei maestri.
Purtroppo gli uomini sono imperfetti, e non possiamo pretendere che tutti capiscano quello che noi trasmetteremo loro. Può darsi che comprendano alla maniera sbagliata, così come può darsi che non comprendano affatto. Ma perché non tentare?

Coraggio, Eis, a te ora: narra a noi tue compagne e agli uomini cosa accadde durante i primi anni del regno di Hilda di Polaris, quando tutti credevano che il loro cielo sarebbe rimasto eternamente limpido.


(racconta Eis)

-… E invece il cielo si oscurò a causa di nubi straniere!

“Poseidone rese schiava Hilda dell’Anello del Nibelungo.
Fu lei la vittima designata.
Nessuno sa come questa divinità del sole sia entrata in possesso del sacro oggetto;
ma quasi sempre le azioni malvagie hanno cause e spiegazioni facilmente attuabili e difficilmente comprensibili.
L’anima della regina soggiaceva al potere dell’Anello, che la spingeva a commettere i delitti più efferati restando consapevole di ciò che stava facendo, e provocandole inaudite sofferenze, dal momento che, inoltre, nessuno, nemmeno quelli che avevano notato il suo cambiamento, poteva mai immaginare cosa in realtà fosse accaduto.
L'Anello costrinse Hilda a desiderare nuove conquiste territoriali,
il cui scopo dichiarato era donare agli abitanti di Asgard territori baciati dal sole
nei quali vivere dopo millenni di isolamento nel gelo,
ma il cui scopo effettivo era insidiare e soppiantare il dominio di una dea greca da tempo in guerra contro Poseidone stesso: Athena.
Asgard e il suo popolo furono così coinvolti in una guerra dopo una pace faticosamente conquistata e minacciati dalla rovina derivante da essa.

Ma non fu quello l'unico dei drammi.
Il potere malefico a cui sottostava impediva alla fanciulla di arrestare lo scioglimento dei ghiacci dell'Artico mediante la preghiera.
Il livello del mare sì alzò pericolosamente, alcuni villaggi costieri furono sommersi, e la regina non fece nulla per salvare i loro abitanti.
Non fece nulla per pianificare la difesa della città dall'attacco dei guerrieri greci, salvo restar chiusa nella sala del trono a chieder conto di vite e anime ai suoi cavalieri.

Non fece nulla per nessuno.

I Guerrieri Divini caddero in battaglia l’uno dopo l’altro contro i Cavalieri di bronzo, i guerrieri di Athena giunti in Asgard, spinti al massacro dalla cieca fiducia nella loro regina.

La principessa Freya, la bambina fragile venuta al mondo nella tragica notte di tanti anni prima fu rinchiusa nelle prigioni del palazzo con l'accusa di tradimento da Hilda stessa, finché si vide costretta a darsi alla fuga assieme ad uno dei Cavalieri, fatto prigioniero con accuse insensate poco tempo addietro.

Il rimorso che divorò Hilda alla fine della guerra, quando, ritornando in sé grazie alla distruzione dell’Anello da parte di uno dei Cavalieri greci cui Odino aveva temporaneamente concesso Balmung, constatò la distruzione di cui era stata causa, fu devastante.
Cosa le era rimasto, se non il dolore?
Una sorella ancora troppo giovane per soffrire pene così grandi sfiduciata e in preda a continue crisi di nervi, un popolo pieno di terrore e di malcontento, le stelle dell’Orsa Maggiore tristemente spente, assieme alle vite dei Guerrieri di cui erano simbolo. Il buio era sceso implacabilmente su Asgard ancora una volta.

Come apparivano lontani e sepolti in un irreale e indefinito passato gli anni di gioia!


Pur tuttavia, l'Aurora tornò.


 

In una situazione del genere sarebbe stato troppo facile perdere ogni fiducia nell’avvenire. I fatti potevano soltanto far sospettare che il Destino si stesse addirittura accanendo contro Asgard. La fede vacillava, e ci si chiedeva come fosse possibile che gli Dei, e soprattutto Odino, che tanto dichiaravano di prediligere la città su ogni altra, potessero permettere il verificarsi di tali sciagure...”

- Ma, Eis, come ti ho detto poc’anzi…
L’imperfezione dell’uomo lo porta facilmente a concludere affrettatamente le sue riflessioni su quello che gli accade. La ruota del Destino non cessa di girare nemmeno nei periodi di oscurità, e gli avvenimenti che accaddero successivamente lo avrebbero ancora una volta dimostrato.


 

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Capitolo 5
*** Atto I - Scena III ***


SCENA III

 

Nondum omnium dierum sol occidit. (Tito Livio)

 

- Il cerchio si chiude su se stesso, da se stesso rinasce, sempre…
Come il sole, come la vita.
Poteva risbocciare la vita e la fiducia in essa ad Asgard,
dopo le tragiche vicende legate all'Anello? Poteva rifiorire la fede del popolo
in quella stessa regina che l’aveva portato alla rovina
lasciandosi dominare da un potere occulto?

- Poteva, sì, Eis…

Ovviamente, all’inizio tra la gente di Asgard serpeggiava molto scetticismo circa la capacità di imposizione della regina.
L’avevano vista soggiogata, cambiata, sottomessa.
L’avevano vista impartire ordini crudeli, disinteressarsi della sorte dei suoi sudditi, dei suoi cavalieri, dei suoi affetti, della rovina del suo regno, e la loro stima in lei aveva vacillato.
Il malcontento serpeggiava. C’era stato anche chi si era chiesto se l'Anello non fosse in realtà una punizione di Odino…

- Una punizione di Odino? E perché Odino avrebbe dovuto punire Asgard?

-Vedi… Come ti ho detto poc’anzi, nei momenti di oscurità la mente umana si fa confusa
e non ci vuol molto perché anche le sue certezze più collaudate vengano erose dal dubbio. É vero, tutti avevano accettato l’ascesa al trono di Hilda, convinti dai segni divini.
Ma la venuta dell'Anello aveva scosso questa fortezza di sicurezze come un terremoto,
e come un terremoto ne aveva distrutto le fondamenta, facendola infine crollare.
Si iniziò a pensare che in realtà Hilda non fosse la legittima erede dei Polaris,
e che l’aver permesso il suo governo fosse stato un errore.
Si ritenne di aver male interpretato gli auspici di Odino, e che per questo motivo Odino avesse voluto punire l’intero regno,
dimostrando la sostanziale inadeguatezza della regina mediante l’Anello.

- Com’è mutevole la mente umana…

- É inevitabile che lo sia.
É inevitabile che sia scossa da ogni tremore di vento, dato che è imperfetta
e non possiede la saggia capacità di discernimento del vero dal falso, del giusto dall’iniquo che solo la vita eterna con il suo bagaglio di esperienze può fornire.


(racconta Seelye)

 

“La diffidenza del suo popolo non aiutò Hilda nel difficile compito della ricostruzione,
non solo materiale, del suo regno, e i primi tempi dopo la fine della guerra
ben presto si rivelarono non meno ardui del periodo precedente.
Quello che Hilda più temeva erano gli attacchi esterni:
con la scomparsa della sua casta di soldati scelti Asgard rimaneva totalmente indifesa; inoltre i poteri della regina erano stati fiaccati durante la battaglia finale,
e certo non sarebbero bastati in caso di un nuovo assalto, da qualunque nemico provenisse. Era come se la compattezza di Asgard, fondata sull’incondizionata fede reciproca tra regnante, guerrieri e popolo, fosse venuta meno. Davanti al pericolo di nuove sventure provenienti da nemici stranieri, la regina badava ben poco alla legittimità del suo trono, che in quel periodo era messa in dubbio.

La fiducia del popolo in Hilda non era più la stessa,
ma la fiducia di Hilda negli Dei non venne meno nemmeno per un momento:
continuando a dirigere le opere di ricostruzione,
la regina cercava contemporaneamente di riavvicinarsi ai suoi sudditi, per dimostrare loro che non li aveva abbandonati, o almeno non per sua volontà…
Per dimostrare loro che gli Dei stessi non li avevano abbandonati…

Odino dette alla fanciulla una forza d’animo tale da permetterle di affrontare qualsiasi difficoltà, ma fu anche lei a sforzarsi di dimenticare i suoi scrupoli, i suoi sensi di colpa,
le sue debolezze, le sue incertezze.
Sebbene gli incubi riguardanti la sua prigionia nelle grinfie di Poseidone continuassero a logorare le sue notti, Hilda dava di sé un’immagine di fiera calma per poter trasmettere le stesse sensazioni nel suo popolo e fare in modo che rinnovasse la fiducia in lei.

Ma nessuno, nemmeno sua sorella, conosceva i suoi segreti tormenti.

Piano piano, gli abitanti della città e la città stessa tornavano a sorridere alla vita,
ma il cuore di Hilda non smise mai di sanguinare in solitudine,
finché qualcuno non decise di intervenire.”

 

- …Lo chiamarono prodigio… Ricordi, sorella mia?

Noi vi assistemmo esterrefatte dalle nostre gelide dimore silvestri…
Ricordi la luce?
Ricordi la vita, il suo rinnovato trionfo?
Ricordi gli squilli di tromba che le Valkirie fecero echeggiare per tutto il Valhalla?

- Certo che lo ricordo!

È un vero peccato che gli esseri umani non potessero constatare, ascoltando e guardando, il tripudio celeste.
Il nostro saggio Signore dimostrò ancora una volta la sua divina benevolenza verso Asgard, optando per una risoluzione che, in realtà, stupì non poco gli Asi.

Io stessa me ne domandai i motivi, allorché i corvi Hugin e Munin, durante il loro quotidiano giro di perlustrazione sulla Terra, mi riferirono la novità.
Sulle prime, non compresi bene le intenzioni del Dio; Hugin mi disse che le porte del Valhalla erano state spalancate.
Io gli domandai quale spirito avrebbero dovuto accogliere per la beatitudine eterna, ma lui, ridendo, rispose che, per la prima volta,
quelle porte di nubi si sarebbero aperte per lasciar uscire qualcuno e poi volò via.

Soltanto in seguito riuscii a comprendere a cosa si riferisse.

- Comprendo il tuo stupore:
è quasi impossibile fare in modo che le Norne cambino i loro disegni, così come è impossibile ricucire gli strappi del tutto, senza lasciare tracce.

Ma… Le tre Signore del Destino e del Tempo, a quanto pare, erano consapevoli dell’inconfutabile necessità del loro intervento, e così non si opposero all’ordine di Odino: ricucirono lo strappo nel filo della vita con il loro divino potere,
e le nubi dell’Aldilà furono squarciate da un lampo di luce.

- Otto spiriti tornarono in possesso delle loro spoglie mortali.
Nessun altro spirito errante del Valhalla osò confutare questo ritorno
perché tutti erano consapevoli dei meriti passati e futuri delle creature che,
in quel felice giorno, aprirono per la seconda volta gli occhi sul mondo dei vivi…

- La gente di Asgard, non essendo a conoscenza delle motivazioni profonde del gesto di Odino, fu certa immediatamente del suo intervento.

D’incanto tutta la fiducia nell’avvenire tornò a scorrere,

quasi come seconda linfa vitale, nelle loro vene.

E il cuore di Hilda, che tanto a lungo aveva urlato al silenzio la sua tristezza,

finalmente fu percorso da un brivido di pace.

 

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Capitolo 6
*** Atto I - Scena IV ***


SCENA IV

 

“Non tutto quel ch’è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza
E le radici profonde non gelano.

Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L’Ombra sprigionerà una scintilla,
Nuova la lama ora rotta,
…E Re quei ch’è senza corona.”

(J.R.R. Tolkien – The Lord of the Rings)

 

***

...Perché quando una sola piccola luce si accende nel buio
il suo pur fioco o intermittente bagliore
ti fa decidere di rialzarti
e illumina la tua speranza come mille splendenti soli.

(racconta Seelye)

 

“Cercò di riscaldarsi le mani con il proprio alito. Una giornata particolarmente fredda, per quella stagione. Ma sarebbe stato mai possibile parlar d’altro che di clima freddo in quella zona? Così apparentemente inospitale, eppure lei l’amava in ogni sua caratteristica. Senza il freddo probabilmente l’avrebbe amata di meno.

E poi, ormai, lei vi era abituata. Il freddo aveva temprato il suo fisico così come le traversie della sua pur breve vita avevano temprato il suo animo. Era una delle poche donne di Asgard in grado di resistere al gelo con facilità, e non pochi si stupivano nel vederla quotidianamente pregare per tempi più o meno lunghi, esposta al vento, sul Picco Ghiacciato, vestita solo del suo abito da celebrante.
Prima di chiudere le proprie preghiere, si accertò che il ghiaccio che la circondava non presentasse segni di scioglimento e che le crepe fossero risanate. Poi ringraziò il padre degli Dei per il favore che ancora una volta le aveva accordato, sospirando di sollievo.
Dopo l'Anello, il lavoro di ripristino dei ghiacciai era stato depauperante da ogni punto di vista, e l'imminente fine dell'inverno non era stata d'aiuto. Ma il peggio sembrava essere passato, e le rocce prima coperte dal ghiacciaio sembravano aver ripreso il loro aspetto di sempre e il livello del mare era tornato nella soglia non preoccupante.

Espirò, rialzandosi, e sorrise, guardando gli ultimi baluginii del fuoco del tramonto scomparire oltre l’orizzonte.

 

Un sorriso.

 

Quanto aveva desiderato poter sorridere, in passato! Ma gli eventi che l’avevano sopraffatta negli ultimi anni non glielo avevano mai consentito; molto spesso non aveva nemmeno potuto permettersi le lacrime, se non quando era da sola. Ma ora, l’inaspettata piega positiva presa dalle sue vicende le aveva finalmente dato occasione di alleggerire di molto il peso che portava nel cuore. Un peso enorme che schiacciava il suo animo come un macigno, fatto di frustrazioni, sensi di colpa e di inadeguatezza, sentimenti repressi con la forza e una gioventù che urlava a gran voce il suo diritto, negato, di godersi la vita con la leggerezza permessa a quegli anni. Ancora adesso le paure che avevano per così tanto tempo accompagnato i suoi passi tornavano a tormentarla. Perché era ancora al suo posto? Perché, nonostante la debolezza evidentemente dimostrata? Perché Odino aveva consentito a strappare dalle trappole dell’Aldilà i suoi guerrieri? E perché questi, tornati alla vita, invece di rivoltarsi contro colei che aveva causato la loro morte, le avevano rinnovato il giuramento di fedeltà?

E… se fosse successo di nuovo? Se una nuova tempesta avesse investito Asgard? Il suo animo era già provato, e lei non si sentiva in grado di affrontare nuove vicissitudini.

Tuttavia forzava se stessa ad andare avanti in nome della sua gente e degli Dei, cercando di non pensare nemmeno a tutto ciò che in altre circostanze sarebbe stato naturale chiedersi, perché il suo ruolo non glielo consentiva.

Eppure lei non aveva mai considerato questo come un limite.

Forse perché era troppo abituata a reprimere ciò che sentiva, per concentrarsi sugli altri?

Per badare più all’opinione che questi fantomatici altri potessero avere di lei, piuttosto che all’idea che lei aveva di sé? O perché sentiva su di sé il dovere di ripercorrere le orme di quel padre che aveva potuto conoscere e amare per così poco tempo, illudendosi così di mantenere un legame con lui?

Qualunque fosse il motivo, non aveva accettato il suo destino come la bestia accetta il giogo; anzi, il suo grande impegno, le profusione di energie fisiche e mentali in vista del bene della sua gente, erano proprio dovute all’amore per essa.

Credeva in quello che faceva, nonostante tutto.

 

Una folata di vento gelido le annunciò l’arrivo della notte; si scostò i capelli cerulei con una mano, e istintivamente alzò lo sguardo al cielo, che andava trapuntandosi di stelle.

Sorrise ancora.

L’Orsa Maggiore risplendeva davanti a lei. Molte volte, in passato, aveva rifiutato di guardare la notte, anche se lo scintillio delle stelle era uno degli spettacoli naturali che più amava, perché sapeva che il suo sguardo si sarebbe automaticamente posato su quelle sette stelle spente… Spente per mano sua.

Il buio di quegli astri le ricordava le sue colpe, o quelle che lei riteneva fossero tali, e le ricordava gli uomini che avevano perso le loro vite così come l’Orsa aveva perso le sue luci.

Ma adesso quel brillio amico era tornato a rassicurare e riempire di gioia i suoi occhi; molte volte le era capitato di cercarlo con lo sguardo, incredula, timorosa che il suo ritorno fosse stato un sogno… E ogni volta l’Orsa Maggiore era lì, bella e brillante, a ribadirle che la vita era realtà e facendole sorridere l’anima, oltre che il viso.

Era tempo di ritornare.

La fanciulla, dopo un ultimo sguardo al cielo e al Mare del Nord, che rifletteva il nero e blu della notte, si incamminò verso il suo cavallo che pazientemente l’aspettava, come ogni giorno, al di là del ponte che collegava il Picco alla terraferma. Il viaggio verso il castello, benché lungo, non la spaventava. Era in grado di domare gli elementi con i suoi poteri per lo più, e quel cammino verso casa le consentiva di riflettere e di ammirare con occhi mai stanchi la sua terra di ghiaccio, la sua neve, le sue montagne, le sue foreste di scuri abeti. Quasi mai accettava che qualcuno l’accompagnasse o le facesse da scorta, anche perché il momento delle sue preghiere era un periodo di tempo da condividere solo con il suo cuore e con Odino, la cui quasi paterna presenza l’invadeva, interrompendo i suoi contatti con il mondo esterno. Una sensazione comprensibile solo da chi l’avesse provata almeno una volta. Quindi solo da lei, in tutta Asgard. La cavalcata fu agevole, nonostante il freddo e qualche risveglio di vento. L’Orsa accompagnava, illuminandolo, il galoppo del cavallo e i pensieri della fanciulla, finalmente leggeri. Il suo dovere giornaliero era compiuto; adesso sarebbe ritornata al tepore del suo castello e dei suoi affetti.

Il suo cuore si riscaldava al solo pensiero. Prima, quando il castello era semidistrutto e quasi vuoto, tornare era sempre un pianto interiore, per lei, perché ogni angolo vuoto, ogni crepa, le ricordavano un evento rovinoso, una vita scomparsa.

 

Sorridi, le disse il cuore, e non pensarci più. Quei brutti momenti fanno parte del tuo passato. Guardati attorno, guarda il presente, e rivolgiti al futuro.

E Hilda di Polaris sorrise di nuovo.”

 

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Capitolo 7
*** Atto I - Scena V ***


SCENA V

 

***

- Seelye… Seelye…
l vento tace. Si è calmato. Ora possiamo udire la tua voce distintamente.
Ora la tua voce sorride, come sorrise la Regina di Asgard.
Ora Asgard sorride…

Ti prego, sorella, continua a narrare…

Ti prego, cielo, continua a sorridermi…

  ***

“Un altro sorriso al cielo proveniva, nel frattempo, da uno dei torrioni merlati del castello dei Polaris. Un altro rassicurante sguardo alle stelle dell’Orsa.

E un canto, per celebrarne la luce. Diffuso nell’etere, portato dal vento, cullava la natura come una ninna-nanna, quasi a favorirne il riposo notturno. Quella melodia, e soprattutto la maestria con cui era eseguita, era nota a chi l’avesse ascoltata almeno una volta. Un canto fievole e calmo che all'occorrenza poteva trasformarsi in ruggente corno di guerra, in sibilo assordante fino a condurre alla follia, in acuminato ago in grado di perforare cervello e anima...

Possibile?

Nessuno avrebbe mai voluto trovarsi ad ascoltare quell’ipnosi come nemico, perché nessuno avrebbe mai avuto la possibilità, dopo, di descriverne i devastanti effetti. E invece, tutti desideravano soggiacere alla sua dolce malìa da amichevoli e ammirati spettatori.

 

Chi sei?

 

Chi sei, musico che pizzichi le corde della tua cetra come se le accarezzassi?

 

Chi sei, Orfeo venuto dai ghiacci?

 

L’ultima nota risuonò a lungo. Il suonatore non interrompeva mai la sua esecuzione fino al termine.
Intanto avrebbe potuto accadere qualsiasi cosa, ma nulla lo avrebbe distolto dalla sua musica. Un colloquio amoroso che non ammetteva terzi e non ammetteva rotture. Il ragazzo, seduto su uno dei merli della torre con la sua cetra tra le mani, aprì gli occhi, riprendendo finalmente contatto con la realtà.

Fuoco. Porpora scintillante contro il nero del cielo. Passione che si esprimeva non appena le sue dita toccavano le corde come se sfiorassero il viso di una donna di cui egli fosse follemente innamorato. Ma l’unico suo amore era e sarebbe stato solo la musica.
Il resto del mondo, per lui, non aveva che un flebile e anonimo suono; per il resto del mondo, la sua anima non emetteva che silenzio.

- Mime?

Lui si voltò, sbattendo le palpebre per dar modo al suo sguardo di distogliersi dalle luci delle stelle e di concentrarsi nuovamente sul mondo di laggiù. Il caldo oro aranciato dei suoi capelli, insieme ai suoi occhi, contrastavano con l’oscurità della notte attorno a lui.

- Siete già tornata, Maestà?

- Ho recitato le mie preghiere tanto a lungo quanto altri giorni, Mime… Hai di nuovo perso la cognizione del tempo, vero?

Scostandosi il ciuffo di capelli spiovutogli sulla fronte, il ragazzo sorrise. La regina aveva ragione. Era sempre stato così, fin da quando era bambino, fin da quando la sua anima aveva iniziato ad esprimere sentimenti ed emozioni mediante note musicali; la musica era la sua donna, la sua dea, il suo culto. Era stato quindi inevitabile che ne avesse fatto anche la sua arma. Arma che non amava usare, però, nonostante fosse un guerriero: temeva continuamente di commettere sacrilegio verso qualcosa di troppo elevato, per poter essere piegato a squallide esigenze belliche.
Se avesse potuto, forse, non avrebbe mai imboccato la strada della guerra.

Se avesse potuto…
Se solo il destino glielo avesse consentito…

- A volte temo di risvegliarmi da un sogno.

- Cosa intendete?

- Credo la si possa chiamare paura, nulla più. Paura che la ricostruzione della pace di Asgard, la serenità ritrovata, le vostre vite, siano un sogno. Ricordo con troppa precisione una realtà di dolore per fidarmi nuovamente della felicità che mi si presenta davanti

Mime abbassò lo sguardo su di lei. Quanto sembrava fragile.
Una piccola cosa da riporre e proteggere, ecco quello che i suoi occhi vedevano.
Ma il suo cuore vedeva altro: una regina degna di tale ruolo e nome, una guida, forte abbastanza da condurre un regno che già aveva alle spalle secoli di leggende. Le sorrise, e poi posò una delle mani su quelle di lei.

Per Hilda, quel contatto e quel sorriso furono più eloquenti di qualsiasi discorso. L’ultima volta che aveva sfiorato la mano di Mime, quando era andata nel luogo in cui lui giaceva esanime dopo la battaglia con uno dei guerrieri greci, l’aveva sentita gelida, e lo stesso gelo le aveva immobilizzato il cuore.

Ma adesso ne avvertiva chiaramente il calore.

Sentiva la vita.

Dopo un altro sguardo, Mime tornò a sedersi e riprese a suonare.
Hilda ristette.
Era così bello ascoltare di nuovo la sua musica! Ascoltarla… Non sognarla.

“É dunque questa la realtà?” pensò allora “Mi è concesso crederci?”

E il suo sguardo cercò nel cielo, speranzoso, una risposta affermativa. ”

 

 

- Hilda di Polaris…

Le vicende passate ti avevano scosso l’animo così a fondo?
Tanto incredibile era apparso allora il dolore, quanto incredibile ti appare adesso la pace.
Abbi fede negli dei, giovane regina. Odino ti guarda, non ti abbandona. Ma è arduo anche per la sua somma autorità contrastare o prevedere i piani fatali delle Norne. Per voi mortali è troppo difficile capire.

Ma tu, figlia del Nord, ascolta la nostra voce, che ti arriva mediante il vento, o che ti parla nei sogni: non abbandonarti alla disperazione, quando essa arriva, credendola eterna… Ma neppure devi abbandonarti alla gioia, credendola eterna.

Non l’oscurità completa, non la completa luce.

Tanti fiocchi di neve si sono sciolti tra le tue mani, vero, Hilda?
Alza ancora gli occhi al cielo… Non rinunciare a contemplare la bellezza azzurra del prossimo dono delle nuvole.

 

 

“Mime aveva gli occhi chiusi, abbandonato a se stesso, inebriato e perso nel tumulto di emozioni che le sue stesse mani sapevano suscitare. Come al solito, aveva dimenticato di trovarsi in un contesto reale. Hilda lo sapeva anche perché poteva immaginare quanto fosse importante per lui adoperare finalmente il suo strumento musicale come desiderava, cioè come latore di emozioni e non come arma.

Se solo qualcuno non fosse intervenuto, questo ragazzo dagli occhi di fuoco così caldi, eppure così tristi, avrebbe potuto seguire i propri sogni.

Uno scricchiolio di cardini arrugginiti, e poi il rumore sordo di una porta che si chiudeva, li fece voltare entrambi.

Per Mime, l’incanto fu rotto di nuovo; ma da quando ad Asgard regnava la pace, e gli era consentito suonare a suo piacimento, egli aveva iniziato ad apprezzare, poco a poco, una qualsivoglia realtà che esistesse al di fuori e indipendente dalla sua musica.

Per Hilda, l’incanto fu spezzato e spazzato via da qualcosa di molto più intenso, che comunque essa si affrettò a ricacciare indietro, in modo da poterlo nascondere ad occhi che non fossero i propri.

Nessuno sapeva.
Nessuno avrebbe dovuto sapere.

Mai.

Qualcuno salutò cordialmente Mime, e s’inginocchiò davanti a lei.

- Hilda, mia regina, sono venuto a congedarmi. Le mie ferite si sono risanate, e c’è una carrozza che mi attende.

- Sono felice che tu ti sia ristabilito. Eri uno di quelli che aveva riportato le ferite più gravi, e che meno degli altri era abituato a subirne in battaglia, per via del dono di Fafnir. Ma vedo che i medici di corte hanno svolto un ottimo lavoro… Va’ pure, cavaliere, e porta a tuo padre i miei saluti.

Non guardarmi… Pensò, subito dopo.

Guardami… Riuscì ad aggiungere quella parte del suo animo che lei si stava sforzando di far tacere, ma che per un attimo sfuggì al suo controllo.

Solo per un attimo.

Lui alzò lo sguardo, poi si rimise in piedi, e le sorrise.

Uno splendore di puro azzurro, che per Hilda fu una sensazione simile ad un paradiso di cieli perfetti, raggiunto in un istante e solo per un istante, ma nel quale si rischia di trovare la più atroce delle morti.

Nessuno sapeva.

 

Nessuno avrebbe dovuto sapere.

 

- Grazie, Maestà. Se a Corte si dovesse aver bisogno di me, che non si esiti a contattarmi. In ogni caso farò avere mie notizie il più presto possibile. Arrivederci, Mime. Altezza, con permesso.

 

Detto questo, dopo un ultimo inchino, tornò da dove era venuto, a grandi passi, con l’andatura fiera che lo contraddistingueva, chiudendo la porta d’accesso alla torre dietro di sé.

Hilda rimase ferma e il tempo sembrò immobilizzarsi assieme a lei a ai suoi occhi fissi sulla porta, finché, dopo un lungo istante, senti lo sguardo scrutatore di Mime su di sé. Istintivamente si girò verso di lui. Il fuoco dei suoi occhi le scavò dentro a lungo attraversando tutte le barriere che lei si era impegnata a costruire con il passare degli anni. Non ci fu bisogno di alcuna parola.

 

Non guardarmi!

 

Non ci fu bisogno di parole, ma nella sua mente la regina sentiva gli occhi dell'uomo che aveva davanti quasi urlare una verità cui lei stessa rifiutava di credere. Questo la mise a disagio, oltre a non consentirle più di guardar Mime negli occhi, vergognandosi allo stesso tempo di tale vigliaccheria.

 

Distogli lo sguardo, Mime!

 

In realtà lo sguardo di Mime era durato poco più di un istante; ma tale istante gli era bastato. Il ragazzo non fece alcun commento. Semplicemente ...aveva capito. Così come aveva capito di essere simile a lei, in qualche modo. Anche il suo cuore era gonfio di segreti non detti, che inoltre non avrebbero dovuto essere detti né capiti. Le motivazioni e le emozioni che leggeva in lei erano profondamente diverse dalle sue, ma non per questo provocavano meno angoscia. Non solo l'Anello era causa di dolore, a quanto pareva, per molti di loro.

“La rinascita di noi guerrieri ha guarito il tuo animo di regina, Hilda di Polaris…” Pensò.

“…Ma ha ferito a morte il tuo cuore di donna.”

La vide allontanarsi con piccoli, frettolosi passi, dopo aver sussurrato qualche scusa e qualche parola di saluto. Scosse la testa, rivolgendo subito dopo gli occhi verso il cielo da cui l’Orsa gli sorrise di luce, tranquilla, ancora una volta.

 

“Oh, Musica! Fa’ che l’unica smania che mai mi tormenti sia il desiderio di te, renditi e continua ad essere mio unico amore, te ne prego.”

 

Decise quindi di intonare un’ultima nenia prima di ritirarsi nelle proprie stanze per la notte: la rese dolce e calma e pacata, per consolare nella figuretta che era scappata ai suoi occhi delle pene che non aveva mai provato, ma di cui riusciva ad indovinare la natura. Hilda poteva star tranquilla, perché il suo segreto sarebbe rimasto tale.

Ogni creatura della notte s'addormentò di beatitudine al suono della cetra.

 

Nessuno sapeva.

Nessuno doveva sapere.

Nessuno avrebbe saputo. ”

 

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Capitolo 8
*** Atto I - Scena VI ***


 

SCENA VI

 

(racconta Seelye)

“La carrozza correva lungo il sentiero. Al suo interno una figura contemplava l’alternarsi velocissimo dei paesaggi innevati che scorrevano davanti ai suoi occhi. Conifere, neve, roccia, rari arbusti si ripetevano sempre uguali e sempre diversi.
Guardare quei paesaggi da qualsiasi vetro che fosse occhio sul territorio esterno aveva consolato moltissime volte il suo animo, soprattutto negli anni passati. Specialmente nei periodi immediatamente antecedenti la guerra contro i Cavalieri greci, quando Hilda era la riproduzione in negativo di quanto era sempre stata, e i motivi del suo mutamento restavano per buona parte ignoti, la sua anima trovava riposo nel silenzio della neve e delle montagne. Niente armature, niente combattimenti, niente inspiegabili ordini da eseguire. E pensare che si era riversato anima e corpo nelle battaglie, aveva ricercato affannosamente la gloria per distrarre il suo cuore dal peso del passato, dedicandosi, finalmente, a qualcosa che riteneva giusto.

Hilda era stata l’incarnazione di quei valori che egli aveva inteso servire con tutte le sue forze, Hilda che al suo essere donna aveva sempre anteposto il suo ruolo di regnante, e che ritrovava la propria felicità nel creare e conservare quella del suo Paese. Hilda, e gli Dei del Valhalla, conferendogli quell’armatura, quell’onore e qualcosa da proteggere, avevano avuto il merito di riconferire anche significato alla sua vita. Talmente grande e cieca era stata la sua fiducia nelle virtù di cui era chiamato ad essere paladino che non aveva esitato ad obbligare se stesso a non sentire e non guardare il cambiamento di Hilda, continuando a seguirla con lo slancio di sempre, ignorando i dubbi che la sua mente insinuava a tradimento nel suo cuore.

Senso del dovere, forse? Sarebbe stato lodevole. Nessuno lo avrebbe biasimato per questo.

E invece no.

Era disperazione.

Non avrebbe mai accettato né creduto che, per la seconda volta nella sua vita, il mondo di capisaldi e fiducia che gli si presentava davanti come certo e immutabile, si fosse rivelato un castello di menzogne.

La prima volta che questo era successo lui era fuggito, e per molto tempo si era rinchiuso nell’odio, celandolo dietro una maschera di indifferenza; ma la seconda volta non gli era stato possibile fuggire, né avrebbe voluto farlo.
In battaglia, con quel ragazzino greco davanti… Aveva fatto sforzi incredibili per andare avanti e continuare a credere in quei valori che lui stesso aveva contribuito, per ordine di un Dio straniero che parlava per bocca di Hilda, a rendere un cumulo di macerie; e invece quel giovane greco aveva riportato alla luce, impietosamente, tutti i dubbi, tutti gli interrogativi rimasti senza risposta.

Poi, la verità.

L'Anello del Nibelungo.

La consapevolezza l'aveva schiacciato come un macigno contro un muro di annichilita impotenza. L'aveva lasciato senza forze.
A che sarebbe servito fuggire ancora? A che odiare ancora?
Stavolta era diverso, stavolta c’era in gioco qualcosa di diverso… Hilda aveva sempre preferito alienarsi da se stessa pur di favorire gli altri. Non sarebbe stato più costruttivo, per il suo popolo e per sé, imitarla, per una volta? Così aveva preferito sconfiggere l’ultimo nemico a costo della propria vita, sorridendo, e grazie al suo sacrificio i guerrieri di Athena avevano potuto liberare Hilda e poi sconfiggere Poseidone. In un attimo, il suo animo di guerriero si era riscosso e aveva trovato nella ribellione ferma e nel sacrificio l'ultimo atto dovuto alla sua regina e al suo popolo.

Un paradosso. Salva Hilda, ribellandoti a lei.

Del breve periodo di tempo in cui aveva dimorato nel Valhalla non ricordava nulla.
Solo la luce, e qualche immagine di figure femminili a cavallo… Forse le Valkirie.
Ma questo era già noto nelle leggende sull’Oltretomba. Evidentemente gli Dei avevano preferito togliere alla sua mente una parte di conoscenza che era riservata solo a loro. Il poter descrivere i saloni del Valhalla era un privilegio concesso soltanto alle creature immortali. Ma lui era stato ben contento di aver ricevuto l’oblio… Preferiva custodire in sé ricordi di vita, non ricordi di morte. E la vita che Odino gli aveva restituito poteva finalmente permettergli di costruirsene di piacevoli, più di quanti ne avesse avuti nel suo passato. Inoltre, quel dono gli aveva consentito finalmente di prendere coscienza del suo ruolo e della sua importanza: non vanagloria, ma fierezza. Fierezza perché le sue azioni avevano contribuito alla salvezza di Asgard che, abbattuto il velo di menzogna, si era dimostrata realmente e splendidamente come il mondo di valori in nome del quale aveva sempre combattuto e vissuto, e per il quale era valsa la pena aver dato la vita.”

***

“Nel frattempo un’altra figura contemplava il paesaggio attraverso il vetro. Non paesaggio mobile, questa volta, ma il medesimo scorcio che egli era abituato a ritrovare accostandosi alle finestre del palazzo di famiglia, una costruzione situata su un’altura a qualche chilometro dal castello reale. Sale e finestre che avevano visto i suoi giochi di bambino, poi i giochi del suo figlio maschio prediletto.

Un’immagine di donna si formò lesta nella sua mente. Quella donna che aveva amato con tutte le sue forze, e con la quale avrebbe voluto costruire un avvenire di pace familiare e di gloria per il suo casato, lo aveva persuaso ad accettare nella sua casa qualcuno di non suo; e così, nelle sale erano echeggiate per molti anni argentine voci di due bambini. Suo figlio e lei, così legati. Entrambi avevano la delicata bellezza di sua moglie, ma uno solo di loro gli apparteneva, mentre l’altra…
A suo tempo, molti anni addietro, la gente aveva parlato, insinuato.
E, per impedire che quel chiacchiericcio rovinasse la sua vita e la sua dignità, egli aveva accolto la bambina come se fosse propria e i pettegolezzi avevano avuto fine.
Del resto, la bambina assomigliava davvero molto a Hjördìs, e la verità era stata fin troppo facile da celare.

Ma quegli occhi d’ambra… Grandi, sicuramente incolpevoli, eppure così odiati, perché gli ricordavano continuamente che il cuore di sua moglie non gli era mai appartenuto, né mai lo sarebbe stato, nonostante il bambino avuto con lei, nonostante il matrimonio. Affetto, sì; stima, certo. Ma non amore. Quello era dell’altro, dell’uomo dorato che era venuto da lontano e l’aveva preceduto, e per il quale sua moglie aveva sfidato le millenarie convenzioni di Asgard. Quando l’aveva saputo aveva preso la decisione di rinunciare al matrimonio, ma le regole delle due famiglie erano chiare, rigide ed immutabili. Il patto era stato stretto molti anni addietro, quando entrambi erano ancora bambini. Il matrimonio ci fu, ma Hjördìs non fu mai sua. Di lei avrebbe avuto l’eterea immagine nei lineamenti del loro bambino, così come i trasparenti occhi: solo e soltanto quello. Un’immagine che finalmente avrebbe potuto incondizionatamente amare e da cui avrebbe ricevuto altrettanto amore, anche se di tipo diverso, senza doverlo dividere o cedere a qualcun altro. Padre e figlio.

Era quindi per molteplici motivi che andavano molto al di là dell’affetto filiale, che Siegmund considerava suo figlio più importante della propria stessa vita.

E adesso, dopo una parentesi di morte che l’aveva portato a pensare molto seriamente al suicidio, quel figlio che era il suo orgoglio e la sua famiglia gli veniva restituito dalla misericordia degli Dei. Sì: quello era uno dei giorni più felici che avesse mai vissuto.
Ripensando a quanto di più bello potesse essere accostato alla sua gioia di quel momento, Siegmund sorrise tra sé e sé, e quasi sussultò quando vide la carrozza di famiglia fare la sua comparsa nei viali del parco antistante il palazzo.

Si precipitò al portone d’ingresso, impaziente.

- Sapevo di trovarti qui, papà! É bello rivederti!

Esclamò sorridendo il giovane dopo essere sceso dalla carrozza.
Siegmund aveva gli occhi colmi di gioia, ma la sua proverbiale freddezza fece sì che egli accogliesse il figlio limitandosi ad una energica stretta di mano. Solo gli occhi, e il sorriso che conteneva tutta la felicità del mondo, tradivano la sua emozione.

- Stai bene, Siegfried?

Per qualche tempo aveva temuto di non poter più pronunciare quel nome. Anche in quel momento provò una certa paura nell'ascoltare quei suoni provenire dalle proprie labbra. Si sentiva in dovere di parlare quasi con cautela, come se, qualora avesse posto meno attenzione nel parlare, la vita di suo figlio gli sarebbe sfuggita nuovamente tra le mani assieme al suo nome.

- Le mie ferite erano gravi – Gli rispose il ragazzo, - ma i medici che la regina aveva convocato per curarci erano tra i migliori del Nord. Inoltre sai bene che, grazie a Fafnir, il mio corpo ha una capacità di rigenerazione molto più rapida rispetto alla norma.

- Figlio mio, a dire il vero il tuo corpo non avrebbe dovuto neanche essere ferito…

- Lo so, ma Seiya, il ragazzo della Grecia, è riuscito a colpirmi in corrispondenza del mio punto debole, e così l’intera difesa è stata intaccata, rendendomi vulnerabile. Ma adesso entriamo, papà. Credo si stia preparando una nevicata, e io ho nostalgia delle mie mura.

Così dicendo, entrambi gli uomini rientrarono in casa.

Più tardi, dopo la cena, si ritrovarono in quello che Siegmund aveva sempre considerato il rifugio per assaporare momenti piacevoli: si trattava di un salottino con un grande caminetto adiacente alla sala dove abitualmente si svolgevano i pasti. Quando sua moglie era ancora viva, vi aveva trascorso molte ore liete, anche se l’ombra dello sconosciuto straniero pendeva sempre sul suo capo come una spada di Damocle, e gli sgambettava davanti con i saltelli di quella bambina dagli occhi di luce che giocava con suo figlio. Purtroppo per lui, i suoi atteggiamenti verso quella creatura non avrebbero mai potuto essere di odio sincero, perché sapeva che lei non aveva colpa di essere ciò che era.

Ma Siegmund non considerava, o preferiva non considerare, l’opinione di Siegfried su sua madre e la sua sorellastra, per cui quando lo vide concentrare lo sguardo su un quadro che ritraeva Hjördìs, bellissima come sempre, provò un istintivo moto di gelosia. In quel ritratto, sua moglie assomigliava terribilmente alla bambina… E portava al collo il monito onnipresente che lo aveva fatto soffrire per anni, quasi come un simbolo di proprietà, perché gli ricordava senza ritegno quell’uomo, immaginato con un sorriso spavaldo e sicuro con cui sembrava dire: “Lei è mia, non tua. Anche se divide la tua casa e il tuo letto con te è mia, e lo resterà per sempre. È me che vuole, non te.”

Siegmund non sapeva che, così come il ciondolo era passato di madre in figlia, anche il nome dei Gemelli aveva posseduto entrambe le anime: dopo la morte di sua moglie, quella ragazzina aveva preferito un esilio nelle terre del Sud, in Grecia. Anche lei. E aveva subito lo stesso destino di sua madre. Siegmund non lo immaginava, perché, pur trattandola con rispetto, non se ne era mai occupato più del necessario.

Siegfried invece sapeva, perché qualche anno prima aveva sentito sanguinare il cuore, che il fiore sull’orlo del dirupo, il fiore destinato a morire, aveva infine compiuto il proprio destino. Parlarne con suo padre non sarebbe stata decisione saggia, quindi aveva nascosto il suo dolore all’interno dei recessi più reconditi del suo animo, accanto al dolore per la morte di sua madre, mentre Siegmund aveva preferito solo dimenticare sua moglie, e disinteressarsi della figlia di lei.

Ma entrambe vivevano ancora nel cuore di Siegfried.

Forse avrebbero fatto bene a parlarne fra loro; ma l’argomento era così spinoso e delicato che entrambi avevano preferito lasciar perdere. Due uomini soli in un grande palazzo, uno famiglia dell’altro, non potevano assolutamente lasciare che qualsiasi cosa turbasse il loro rapporto. Infatti, se conversazione non era incentrata su Hjördìs o su sua figlia, tutto procedeva per il meglio; in verità, erano entrambi consapevoli che, prima o poi, avrebbero dovuto affrontare il discorso.

***

- Forse la stai dipingendo più tragica di quello che era effettivamente, sorella mia. É la brama di rendere mito il tuo racconto che ti spinge ad ingigantire le cose?

- Non sto assolutamente esagerando, Eis, e dovresti saperlo bene: c’è una bella differenza tra l’invenzione e il disvelamento del non detto. Probabilmente, se Siegmund e suo figlio avessero fin dall’inizio dialogato anche di Hjördìs senza corrucciarsi, le cose sarebbero andate in maniera diversa.

- É anche vero che sia l’uno che l’altro, a quel tempo, non erano sufficientemente pronti per farlo; ma questo non vuol dire che non ne avessero desiderio. Portarsi un peso del genere in fondo al cuore non è facile nemmeno per il più freddo degli uomini.

- É per questo che per me era necessario raccontare il non detto, Eis…

- Se le cose stanno così, allora ti do ragione… Ma continua, ti prego.

***

“ Siegmund pregò i domestici di stappare una bottiglia del suo miglior idromele per festeggiare il ritorno di suo figlio, e la gioia per averlo ritrovato fu talmente intensa da oltrepassare qualsiasi altro pensiero, negativo o positivo che fosse.

- Oggi, figlio mio, – esordì, alzando il calice – Brindo non soltanto al tuo ritorno, ma anche ai tuoi meriti. Non è da tutti i padri vantare un figlio come te.

Siegfried sorrise, confuso: era consapevole di qualche sua impresa che facilmente poteva aver avuto odore di gloria, ma riteneva esagerate le lodi di suo padre, così preferì schernirsi:

- Ti prego, papà, ad Asgard ci sono sempre stati e ci sono tutt’ora molti guerrieri coperti di gloria e degni delle tue lodi. Non ricordi il padre di Fenrir?

- Intendi il conte Axel, quello che chiamavano il “Capitano degli Dei”? Certo, un uomo davvero valoroso, che fu decisivo durante la tragica notte della rivolta di Yslung. Ma tu non gli sei affatto inferiore.

- Ma…

- Siegfried, ascoltami: sono tuo padre, ma sai bene che sono sempre stato avaro di lodi per chiunque, per mia personale natura. Proprio per questo devi considerare le mie parole disinteressate. É vero, Asgard è terra di leggendari dei e leggendari uomini, e tu sei uno di essi, questo è certo. Smettila di sminuirti, e pensa a cosa hai fatto: nessuno, prima di te, era riuscito a sconfiggere Fafnir con pochi colpi di spada, ad acquistarne l’invulnerabilità e a recuperare il tesoro dei Nibelunghi. Avevi solo diciotto anni allora; credi che ogni ragazzo a quell’età si metta a compiere simili prodezze?

- Ho fatto anche una marea di errori.

- Questo avviene anche per il più meritevole degli uomini: nessuno di noi è perfetto, quindi nemmeno tu.

- Né ho mai avuto la presunzione di esserlo o diventarlo. E credimi, la venuta del dio del sud ha impartito a noi tutti una solenne lezione di modestia. L'unico dei suoi emissari che abbia avuto il coraggio di presentarsi a noi invitò persino me e Hilda a seguirlo in un... Come l'ha chiamato? Un palazzo sottomarino. Sì. Entrambi avremmo così potuto aver salva la vita implorando in ginocchio la clemenza di quel dio, mentre Asgard e la nostra gente si stava distruggendo attorno e dietro di noi.
Siegmund sostenne lo sguardo del figlio, percependo una ferita al suo orgoglio non meno grave di quelle fisiche di cui ancora portava i segni sul corpo. Bevve un lungo sorso di idromele prima di riprendere la parola, ed ebbe modo di notare quanto convulsamente Siegfried stringeva il proprio bicchiere:

- Siegfried... - Sussurrò, togliendo al figlio il bicchiere di mano, con calma, prima che l'ira che gli leggeva negli occhi lo frantumasse.

- Sì?

- …Il mio intento non è quello né di adularti, né di sopravvalutarti. Sii conscio del tuo valore perché non è qualcosa di cui sia possibile discutere, ma rimani sempre con i piedi per terra. Devi essere consapevole della tua gloria, non accecato da essa. Se la salvezza di Asgard fosse dipesa da un unico atto di sottomissione ad un dio...

- … Non credo di voler ascoltare il resto di questa frase, papà. Non ancora.

Siegmund non potè esimersi dal pensare a quanti altri discorsi tra loro erano in passato terminati nella stessa maniera. Ma scacciò subito queste nubi dalla mente, cambiando argomento e proponendo invece un altro brindisi alla rinnovata serenità di Asgard.
Dopo ciò, la serata proseguì e terminò lieve e veloce. Padre e figlio avevano molte cose da dirsi, e andarono poi a letto con l’animo più leggero, nonostante tra loro vi fosse l’ultimo sottile ostacolo rappresentato da Hjördìs.
Già dopo pochi giorni Siegfried sarebbe ripartito alla volta del castello reale per rivedere i compagni che non aveva ancora incontrato dal loro ritorno alla vita, eccetto Mime. Siegmund era conscio di questo e si premurò attentamente di non far nulla che impedisse a lui e al figlio di godere della reciproca, ritrovata presenza, nei giorni in cui non era costretto a dividerlo con i suoi doveri di soldato al servizio del trono. Quasi certamente la regina avrebbe approfittato dell'occasione per chiarire qualcosa e fornire alla sua guardia scelta di nuovo riunita qualche informazione in più sul suo periodo di prigionia e su tutto quello che era accaduto durante la loro assenza; fino a quel momento si era limitata a prodigarsi in attenzioni e sollecitudine nei loro confronti, e in richieste di perdono.

Ma questo a Siegfried non poteva bastare. Siegmund lo sapeva, lo percepiva. Avrebbe dovuto nuovamente, e troppo presto, guardare dalle finestre una carrozza che si allontanava.”

 

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Capitolo 9
*** Atto I - Scena VII ***


SCENA VII

 

O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù

Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono per ‘l vasto silenzio va

Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual messe di sogni
Ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!”

Gabriele D’Annunzio – O falce di Luna Calante (Canto Novo, VII)


(racconta Seelye)

 

Prigioniera.

Era stata la prima cosa che aveva pensato, quando aveva visto luccicare quel cerchietto d’oro al suo anulare. Una certezza che l'aveva devastata, mista ad una sensazione di assoluta, desolante impotenza.
Prigioniera. E una strana, insolita sensazione di freddo che le aveva invaso le membra fino all'osso. Proprio lei, che restava ore a pregare esposta al gelido clima di Asgard?

Poi aveva sentito il mare. Onde che la sommergevano, la soffocavano. Le impedivano di parlare, di muoversi, di respirare.

Poi una Voce suadente, maschile, inesorabile come un gorgo, profonda come gli abissi degli oceani, aveva iniziato a muovere le sue labbra al posto suo. Le parole erano straniere, ma uscivano da lei in un norvegese perfetto.

La Voce rideva con il ritmo di mille maree, quando Hilda le intimava di andarsene.
 

Non era uno degli Asi.

Tuttavia... Perché nessuno degli Asi era arrivato a salvarla?

A quale spirito gli Asi avevano permesso di appropriarsi di un manufatto dei Nibelunghi?

La sensazione di rialzarsi sul Picco e aprire gli occhi su una Asgard che sembrava vedere per la prima volta era stata straniante ed insieme euforica. Ma forse l'euforia non era sua. La provava l'Entità parassita che governava l'Anello.

Si era vista evocare con voce atona le sette armature del Nord, chiamare i suoi guerrieri alla guerra, sconvolgere Freya con propositi di espansione in Europa… Povera piccola. Appena aveva cercato di capire cosa stesse succedendo, lei non aveva trovato altro rimedio che farla tacere, rinchiudendola nelle segrete del Palazzo e in seguito dimenticandosi della sua esistenza.

Non farlo!

Aveva gridato la sua anima; ma la sua mano aveva ugualmente dato l’ordine a Thor. Adesso che ci pensava, quante volte la sua anima le aveva urlato quella frase? O meglio, quante volte lei aveva urlato a se stessa? La sua mano eseguiva solerte gli ordini della sua mente… Ma della mente di chi?

Non richiamare il loro aiuto, aveva detto a se stessa alla vista dei guerrieri scelti che prontamente si erano posti al suo servizio, non coinvolgere le loro vite in una guerra che potrebbe essere loro fatale, non approfittare della fiducia incondizionata che provano nei tuoi confronti per soddisfare i tuoi scopi.

I suoi scopi? O quelli di chi?

Non devi farlo!

La sua anima continuava a gridare disperatamente il suo tentativo di veto ad ogni ordine crudele da lei impartito. E ogni decisione le provocava un irrefrenabile brivido di freddo, ma nessun segno di questo era visibile all'esterno del suo corpo. Era la sua anima a rabbrividire.

Dichiarare guerra ad Atena, per squallidi e insoliti propositi di espansione territoriale.

Assumere un atteggiamento insensibile e ostinatamente teso al raggiungimento di fini perversi.

Richiamali!

Quando i Guerrieri Divini erano partiti ad incontrare i Cavalieri greci, la sua anima aveva tentato di dissuaderla, ancora una volta.
Aveva provato a dissuadersi da se stessa.
Ma, ancora una volta, il silenzio.

Il gelo.

Il ghiaccio polare si scioglieva, il livello dei mari saliva, il clima si riscaldava.

Pure, nella sua anima, il gelo.

La morte.

Aiutami, Odino. Qualcuno. Vi prego! Vi prego!
Che qualche dio li salvi da me!

Thor.
Fenrir.
Hagen.
Mime.
Alberich.
Syd e Bud.

Fermali, fermati!

Avrebbe voluto dilaniarsi con le proprie stesse unghie. Non c'era giorno in cui non desiderasse che chiunque, umano o divino, arrivasse ad ucciderla.

Poi, uno schizzo di sangue da un petto che non avrebbe mai dovuto sanguinare…

Non farlo!

Un sacrificio, in nome di una causa persa… Persa per colpa sua, di lei che si era sforzata di costruirla e di renderla scopo della vita altrui e della propria.

Non andartene!

In quel momento aveva sentito la propria anima venire incenerita, e poi spazzata via da una folata di vento.

Non lasciarmi!

Anche Dubhe si era spenta.

Siegfried…

- SIEGFRIED!

 

Aprì gli occhi di scatto.

 

Il buio della stanza l’invase. Solo una debolissima luce di luna filtrava attraverso le tende. Nonostante il buio, sbatté più volte le ciglia, confusa.
Aveva urlato?
Quel nome?

- Per gli Dei…-, mormorò, portandosi le mani al viso e subito alzandosi dal letto.

Dopo essersi diretta verso la finestra, scostò le tende semitrasparenti e rimase quasi abbagliata dalla luminosità opalina della luna, nonostante essa fosse ben lungi dall’essere accecante. Una notte serena, le diceva il paesaggio che si mostrava ai suoi occhi. Se solo avessero potuto le sue notti interiori essere tranquille a quel modo!
Da quando i suoi guerrieri avevano rivisto la luce, quel tormento che lei si era sforzata di reprimere da anni e per anni aveva cominciato nuovamente ad occuparle i pensieri, e questo non era affatto bene. Era abituata a sacrificare ogni singulto troppo impetuoso del proprio animo in vista della tranquillità e del bene comune, e da tempo non vi faceva più caso.
Far tacere l’anima è comunque una cosa difficile per tutti, anche per una donna che ha ricevuto dal suo stesso ruolo il dovere di farlo.

Ma l’aver urlato quel nome… In quel caso si trattava di un sentimento personale che per sua stessa natura andava soffocato e riposto al sicuro nelle parti più buie e recondite del cuore.

Non perché negativo in sé, ma per l’animo da cui proveniva e per la persona a cui era rivolto, nonché per la sua intensità, così alta che molte volte lei stessa ne era sgomenta e spaventata. Era quell’intensità che aveva tradotto i suoi incubi in urla?
Non lo avrebbe saputo dire con certezza.
O meglio, non avrebbe nemmeno voluto essere in grado di dare spiegazioni in merito.
Era abituata alle notti insonni trascorse a riflettere sull'Anello ma l’aver rivisto Siegfried vivo e sorridente davanti a lei aveva complicato anche i suoi incubi.

No.

Assolutamente no.

Hilda rivolse ancora una volta gli occhi alla luna, poi li richiuse e respirò profondamente, quasi aspirando dall’astro della notte la serenità che esso le trasmetteva e che desiderava per sé. Poi, molto più tranquilla, ritornò a letto.
L’indomani i suoi guerrieri si sarebbero riuniti a Palazzo per la prima volta dopo la loro rinascita. Un giorno che si prospettava importante e che doveva prospettarsi e dimostrarsi sereno, per lei e per gli altri. Quasi per incoraggiare se stessa, si specchiò in uno dei vetri della finestra, cimentandosi in un sorriso.
In fin dei conti, tutto si era risolto per il meglio… I guerrieri erano tornati a nuova vita e sembravano felici. Nessuno l’aveva mai accusata di nulla, anche se lei era pronta a riconoscere ed espiare colpe su colpe, e Asgard rifioriva giorno dopo giorno.
Era tutto così perfetto, per una volta! I suoi tumulti interiori erano ben poco rispetto al dolore che Asgard aveva appena superato, e, in confronto a questo, la loro importanza doveva sbiadire al più presto. La mattina dopo avrebbe cercato di evitare certi pensieri che la confondevano e sconvolgevano, e forse la giornata avrebbe potuto procedere senza intoppi.

Dopo aver chiuso il suo cuore, riuscì anche a chiudere gli occhi.

 

Nessuno sapeva.
Nessuno avrebbe dovuto sapere.

Mai.”

 

- FINE ATTO I -

 

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Capitolo 10
*** Intemezzo I ***


INTERMEZZO I

Sound the Bugle - SongFic

Music & Lyrics by: Bryan Adams
(la traduzione del testo è libera)

- I pensieri dell'anima di Mime poco prima di ritornare alla vita - 

 

Sound the bugle now,
Play it just for me...
As the seasons change,
Remember how I used to be.

Fa’ risuonare la tromba, ora,
suonala solo per me…
Così come cambiano le stagioni,
Ricorda il modo in cui ero.

Ed è solo uno squillo di tromba, ormai.

Una tromba che chiama alla guerra… L’unica musica che il mio cuore è costretto a sentire. Ho reso corno di guerra le mie armonie, la mia cetra ha le corde spezzate; spezzati sono i legami con il mio passato, quando le mie orecchie ascoltavano solo musica, e le mie mani pizzicavano dolcemente le corde… Ora sento solo urla di morte, e le mie mani molto spesso ne sono la causa.

Oh, perché?

Now I can’t go on,
I can’t even start,
I’ve got nothing left, just an empy heart...

Ora non riesco ad andare avanti,
E ugualmente non posso ricominciare,
Nulla mi è rimasto, solo un cuore svuotato…

Perché sento di essere prigioniero del mio ruolo?

Era altro quello che avrei voluto fare, altri gli ideali a cui avrei voluto dedicarmi. Non desideravo gloria e trionfo, solo la mia pace!
E adesso sono qui, anima depauperata dall’ultimo sforzo, e mani sporche di sangue mio e non mio. Non posso dimenticare le mie azioni: non ne ho più la forza, ormai. Niente può essere cambiato, e la mia cetra non potrà risuonare che di requiem di morte finché avrò dita insanguinate. 

E non esiste acqua che mondi, né luogo per dimenticare. Dimenticare il nulla che ho lasciato dentro me stesso è cosa possibile?

I’m a soldier,
wounded so I must give up the fight;
There’s nothing more, for me,
Lead me away...
Or leave me lying here.

Sono un guerriero,
ma ferito così tanto da essere costretto ad abbandonare la lotta;
Non c’è più niente per me,
Portami via…
O lasciami morire qui.

Guerriero.

Ha un suono aspro questa parola, e un compito altrettanto aspro, che costruisce le proprie vittorie sui dolori altrui. C’è qualcuno che vi dedica tutta la propria vita, e forse è questo che ci si aspetterebbe da me. Ma io non riesco a farlo.
Non è questo quello che volevo! Gli eventi mi hanno costretto, ma io… Io non ho fatto nulla per ostacolarli; anzi, ho dato il mio contributo alla distruzione dei miei stessi sogni con le mie azioni passate. Ora non riesco più a fingere di essere l’invincibile e ardito cavaliere che mi ero convinto di voler diventare e sembrare agli occhi altrui.
A che scopo portare avanti la menzogna? Sono stato trascinato fino a questo punto dagli eventi, è vero, ma ora che sono qui non riesco a pensare a null’altro che al mio annientamento. Non sono quello che ero, non sono quello che voglio essere, non ho la forza di provare a cambiarmi.

A che serve che io viva in questa maniera?

Sono una melodia incompleta e stonata.

Sound the bugle now,
Tell them I don’t care...
There’s not a road I know
That leads to anywhere.

Fa’ risuonare la tromba adesso,
di’ loro che non mi interessa più…
Non c’è nessuna strada che io conosca
Che possa condurre da qualche parte.

È come se fossi in un vicolo cieco, o in un labirinto.

Continuo a sentire richiami di battaglie a cui non ho mai voluto e a cui non vorrò mai partecipare. Potrei fuggire, ma poi mi darebbero del vigliacco.
Oh, non sanno quanto abbiano ragione: io sono così vigliacco che non ho nemmeno il coraggio e la voglia di scappare.

Scappare dove, poi?

E da chi? Da cosa? Da me stesso?

E percorrendo quale strada?

Without a light I fear that I will stumble in the dark,
Lay right down,
Decide not to go on...

Senza una luce guida temo di inciampare nell’oscurità,
Giacere per terra,
Decidere di non andare più avanti…

Mi è già successo una volta. Il buio mi ha pervaso interamente e così a fondo da rendermi assassino. Non ho saputo oppormi ad esso. Perché?

Oh… Era una buona scusa! Un’ottima scusa l’ira terribile, per sporcarsi le mani di sangue e sentire la coscienza rimproverarti solo da lontano.

Mi avresti voluto guerriero e spietato, vero, Fölken?

Vorrei che tu fossi vivo per vedere ciò cui mi ha ridotto l’aver esaudito un tuo desiderio. Cosa ne pensi?

Cosa vedi nel tuo figlio che lotta?

Vedi forse il tuo assassino?
Tu avevi ucciso i miei veri genitori, e per un quindicenne era impossibile credere alle tue motivazioni sugli orrori della guerra che obbligherebbero a determinati atti, per quanto fondate e veritiere esse fossero. Non ti ho creduto, Fölken, e ti ho colpito.
Ho passato poi tanti anni ad odiarti e altrettanti a rimpiangerti. Ma l’odio era un rifugio più confortevole. Poi, la battaglia con i Saints greci mi ha spinto a riflettere sull’enormità delle mie azioni ed è stata dura perché smettere di odiare te ha significato smettere di giustificare me.

Ora non ti odio più per quello che hai fatto. Non ti odio per come mi hai trattato per tantissimi anni, per i tuoi metodi bruschi, per il tuo modo strambo di volermi bene. Ma ti odierò per avermi cambiato a tal punto.

Ti odio per avermi tolto l’innocenza della musica.

Mi dispiace averti ucciso, padre mio, non avrei mai voluto arrivare a tanto e le mie attenuanti non possono diventare scuse. Ma guardami, adesso!

Volevi rendermi guerriero come te, e invece mi hai reso assassino come te!

Guardami, padre!

Ti odio per avermi dato modo di odiare me stesso!

E gli dei? Dov’erano gli dei, in quel momento, padre?

Then from on high,
Somewhere in the distance,
There’s a voice that calls:

REMEMBER WHO YOU ARE!”

Poi, dall’alto,
Da qualche parte in lontananza,
c’è una voce che mi chiama:

RICORDA CHI SEI!”
 

… Odino?

 

If you lose yourself
your courage soon will follow...
So be strong tonight, remember who you are!”

Se perdi te stesso,
presto interverrà e seguirà il tuo coraggio,
e allora sii forte, questa notte, ricorda chi sei!”

…Io chi sono?
Come posso ricordare quello che non so?
Non riesco a vedere altro che sangue sulle mie mani, e sulle corde della mia lira…

You’re a soldier now,
fightin’ in a battle
to be free once more...
That’s worth fightin’ for!”

Tu sei un guerriero adesso,
che combatte una battaglia
per essere libero una volta ancora…
Questo è ciò per cui vale la pena lottare!”

È forse questo ciò che mi si chiede?
Mio Signore, merito tutta questa fiducia? Io, così meschino da aver ucciso il mio genitore adottivo e da aver trascorso tutto il resto della mia vita fuggendo dai miei rimorsi?

E… Io, figlio di Yslung, che combatto per Asgard?

Perché mi sproni ad esser fiero di ciò che sono?
Quando ti ho dato ragione di meritare le tue parole e la tua voce che mi scuote dal cuore?

Odino?

Odino.

Odino!

Mi hai parlato, hai scelto me. Mi hai concesso l’immenso onore della tua fiducia.
Significherà pur qualcosa, vero, mio Signore? Significherà che credi davvero in me… Nonostante tutto? È quella stessa fiducia che spinse la mia regina a donarmi questa armatura, e Te a donarmi, ora, una nuova vita?

Vedo una luce lontana, mio Signore… Una luce azzurra di onde tranquille.

È il mondo dei vivi che mi richiama a sé?

Io…Non verrò mai meno al mio giuramento, Odino. La tua fiducia e quella di Hilda non saranno mai tradite, a costo della mia vita. Sarà la vostra fiducia a ridarmi coraggio, non le battaglie.
E su questo giuramento costruirò le note portanti della mia nuova melodia.

 

Sono Mime della stella Benetnash, Guerriero Divino di Asgard !

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Capitolo 11
*** Atto II - Scena I ***


A SILENT OTHER WHERE
 

ATTO II

 

SCENA I

 

La felicità più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi sempre dopo una caduta. ( CONFUCIO )

 

***

 

Azzurro del cielo, non tradire i miei occhi!

Io, Eis delle Alfe, narrerò questa parte della favola..

 

Sapranno le mie parole descrivere
I colori di un raggio di luce e di gioia?

Odino, assistimi.

Uomo, ascoltami.

(racconta Eis)

 

 

“ Una figuretta saliva trafelata ai piani più alti del palazzo.
Arrivata ad uno degli ultimi piani si fermò, ansante, per qualche secondo, e poi riprese il suo cammino nell’ampio corridoio che le si apriva davanti. Giunta davanti ad una porta che conosceva bene, la aprì senza esitare.

- Sorellina!

Hilda si voltò di scatto verso la porta, sorpresa.

- Freya? Cosa fai ancora qui? Non dovresti essere giù ad accogliere gli ospiti?

- Ne parli come se si trattasse di stranieri, sorella…- obiettò la fanciulla imbronciata, - I nostri cavalieri sono tornati, arrivano oggi a palazzo, e tu sei così calma?

Hilda abbassò per un momento lo sguardo, poi sorrise, continuando a pettinarsi. Freya non poteva sapere del tumulto che le occupava il cuore e che, allo stesso tempo, la riempiva di gioia e di paura. Gioia perché i suoi guerrieri le erano di nuovo accanto, ma anche paura, perché lei non si era ancora completamente liberata dai sensi di colpa riguardanti la sua precedente prigionia, e pertanto temeva un confronto diretto con coloro che più reputava di aver danneggiato.

L’incubo della notte appena trascorsa era un esplicito sintomo di quello che provava.

Per lungo tempo aveva creduto che anche la sua fragile ed amata sorellina minore le portasse rancore e per questo motivo cercava sempre di nascondere le sue paure persino a lei. Ma, con l’andare dei giorni, Hilda aveva infine capito che i suoi timori erano superflui, dal momento che aveva scorto nei grandi occhi di giada di Freya la solita adorazione nei suoi confronti. Forse la fanciulla era così felice, dal giorno in cui Odino aveva riportato alla vita i Guerrieri Divini, che ogni possibile passato dubbio circa la sorella era stato dimenticato… Oppure era semplicemente troppo inconsapevole, nella sua giovanissima età, per comprendere a fondo.
Guardando la propria immagine riflessa nello specchio Hilda ebbe un moto di subitaneo rimprovero verso se stessa: passava ancora troppo tempo ad arrovellarsi nei suoi dubbi e nelle sue domande retoriche… Quando avrebbe smesso?
“Continuando così rovinerai anche questi momenti di gioia, stupida!” pensò, rivolgendosi al proprio riflesso, “Dopo l’incontro di oggi niente più paure… O finirai per complicarti ulteriormente la vita da sola, anche quando non intervengono gli eventi esterni.”. E dopo un ultimo sguardo di rimprovero alla propria immagine, si alzò e si apprestò a seguire sua sorella.

La sala del trono si andava riempiendo di vita. Interamente costruita nel granito grigio/bluastro che componeva tutto il resto del castello, aveva al suo centro una specie di pozzo da cui scaturiva prodigiosamente una misteriosa fiamma azzurra. Le dicerie affermavano che si trattava del fuoco divino degli Asi, posto da Odino a protezione del Palazzo e a guida degli eredi dei Polaris. Non serviva legna o altro combustibile per alimentarne la luce e la vivacità; e, in più, lo strano fuoco non bruciava né emetteva fumo ma produceva soltanto un calore appena percettibile.

Era evidente che ci si trovasse di fronte ad un evento sovrannaturale, o comunque di natura non umana.

Il trono, sito al centro della parete di fronte all’ingresso sulla cima di una breve scalinata, era un alto seggio in pietra coperto da un drappo rosso e affiancato da due grandi sculture di grifoni rampanti, con una delle zampe anteriori poggiata nei pressi dei braccioli quasi a sottolineare la potenza di chi vi sedeva e la sottomissione ad esso delle creature più disparate. Forse tale immagine di forza avrebbe potuto non rappresentare convenientemente la dinastia del Polaris, fin dall’inizio votata alla pace; ma non bisogna dimenticare che, prima dei Polaris, Asgard aveva conosciuto una serie di famiglie reggenti dedicatesi quasi interamente ad affermare la propria presenza ed autorità a mezzo di guerre, e che, quindi, l’abbondanza di immagini orrorifiche sparse per la città era dovuta principalmente al mecenatismo di queste stirpi regali, così come la statuaria monumentale della sala del trono.

Asgard non era una città fuori dal tempo, anche se numerose coincidenze ed apparenze potevano dar modo, al visitatore straniero, di ritenerla tale: arretrata culturalmente e tecnologicamente.

Il passaggio dei secoli l’aveva sfiorata solo in parte, certo, ma la tecnologia vi era penetrata, seppur con fatica. I sovrani che si erano avvicendati nel corso del tempo, e soprattutto i soprattutto coloro che visto il dispiegarsi di secoli come il XIX e il XX, in cui i cambiamenti erano stati rapidissimi e fuorvianti, si erano adoperati perché gli abitanti avessero quante più comodità possibili. Rispetto allo sviluppo galoppante in altri paesi, ad Asgard c’erano voluti decenni su decenni per garantire ad ogni casa acqua corrente, elettricità e riscaldamento, per causa anche dell’impervia posizione geografica della città, arroccata su una montagna, preceduta da altre catene montuose, e a perpendicolo su un fiordo. Anche il clima proibitivo costituiva un serio problema: chi, non abituato a tutto questo, poteva aver voglia di impiantare qualcosa in quella terra dimenticata nel nord della Scandinavia?
Nonostante gli innegabili vincoli con la civiltà moderna, Asgard appariva, all’esterno, una città pressoché medievale. Vi erano automobili, ma erano usate pochissimo per la difficoltà delle strade e per il ghiaccio, così gli abitanti preferivano spostarsi nelle carrozze; inoltre, i loro abiti sembravano indietro di qualche secolo.
Una città povera?
No, assolutamente: la maggior parte delle abitazioni era antica, ma perfettamente agibile; nelle parti più impervie dell’altura su cui risiedeva la città si avvicendavano alcuni palazzi nobiliari e infine il castello, un capolavoro d’architettura scandinava ricostruito su resti di una precedente fortezza vichinga, che qualche architetto europeo aveva deciso di regalare secoli addietro al capriccio di qualche sovrano medievale ansioso di non essere da meno dei suoi illustri contemporanei dalle millenarie dinastie e auguste dimore. Austero ed imponente, durante la notte diventava quasi indistinguibile dal blu scuro del cielo per via della strana pietra bluastra di cui era fatto. La statua di Odino che si vedeva svettare a poca distanza dal castello era l’equivalente nordico di effigi colossali come la più conosciuta un tempo svettante nel porto di Rodi, in Grecia, e si diceva che fosse stata edificata dagli dei, per via delle improponibili e mastodontiche dimensioni. Per chi arrivava da lontano sembrava che il dio stesse arroccato sul punto più estremo del monte dov’era situata Asgard, brandendo Balmung per custodire e proteggere i suoi territori ghiacciati, circondato dalle vette bianchissime ed appuntite dei suoi monti. Si diceva anche che i meravigliosi arabeschi disegnati in cielo dalle aurore polari fossero gli iridati bagliori di Balmung, quando Odino, al di là del cielo, si lanciava nella lotta seguito da centinaia di Walkirie.
Nonostante il suo aspetto freddo e cupo potesse scoraggiare gli stranieri, Asgard sapeva innamorare di sé chi vi risiedeva: ammantata di algide e candide nevi e di trasparenti iceberg d’inverno, durante la fresca e breve stagione primaverile ed estiva si trasformava in un tripudio di campi verdeggianti e cieli cristallini. I suoi abitanti ne erano ferventi ammiratori, e, sebbene fossero spesso sottoposti a condizioni climatiche assai dure, non avrebbero cambiato la loro città con nessun’altra al mondo…”

 

***

 

- Eis…

 

- Sì?

 

- Apprezzo il tuo modo di magnificare Asgard,

rende onore agli Dei che l’hanno innalzata nella notte dei tempi…

Ma non vorresti ritornare alla tua narrazione?

 

- Seelye, è mio dovere informare i mortali sugli splendori che Asgard nasconde sotto la propria coltre d’infido ghiaccio!

Essi sono troppo portati a credere alle apparenze,
e avrebbero finito per ritenere Asgard una città fredda, vuota e primitiva,
se si fossero lasciati trasportare dalla loro abitudine.

- La limitatezza dell’uomo mi è nota, sorella mia, e intuisco anche facilmente che,
se tu non avessi illustrato e spiegato quanto di bello Asgard celi,
essi non si sarebbero preoccupati di indagare
per verificare se loro eventuali conclusioni fossero o meno discutibili.

Ma è tempo di proseguire, non credi?

Lascia una possibilità agli esseri umani: hai suscitato la loro curiosità,
e ora fa’ che sia loro cura reperire gli altri misteri di Asgard,
intuendoli dal tuo racconto o scoprendoli da soli.

- Certo, Seelye: questo è un altro degli insegnamenti che i mortali potrebbero,
se lo vogliono, ricavare dalla nostra favola.
Un accenno che funga per loro da guida…

Gli oracoli non parlano che per metafore.

 

***

 

“L’enorme scalinata che accolse i visitatori al loro ingresso sorprese maggiormente uno di loro che non aveva mai messo piede in dimore di quel genere per quasi tutta la sua vita e che pensava di non ammirarne mai.

- É incredibile! Non immaginavo tanta magnificenza. -

Farfugliò, confuso, volgendo lo sguardo in tutte le direzioni non appena lui e suo fratello furono introdotti nell’atrio del castello. Ogni minimo dettaglio di quel maniero lo stupiva e affascinava al tempo stesso, dal colore bluastro dei muri all'eco che dai suoi passi si propagava nelle sale. E poi era tutto così grande.
Non aveva mai conosciuto tutti quegli agi, e il ricordarlo gli procurava un dolore interno sordo e persistente, specie se ne riportava alla memoria i motivi. Si fermò per un istante, fingendo di guardare un quadro. Suo fratello si accorse immediatamente che c’era qualcosa che non andava. Erano stati separati per tanti anni, ma il feeling interiore ed inspiegabile che lega le menti e le vite di due gemelli faceva sentire la sua presenza nonostante essi fossero tanto simili fisicamente quanto differenti nell’animo.

- Cosa succede, Bud?

Gli fu chiesto dietro di lui.
Bud si voltò, e si specchiò nell’immagine dell’altro se stesso che aveva odiato e amato, poi addolcì il proprio sguardo, passandogli un braccio attorno alla spalla.

- Non è nulla di particolare…- rispose sorridendo – vecchie memorie e vecchi dolori. Sai benissimo a cosa mi riferisco; e non voglio parlarne.

- Bud, ti prego…

Lui si portò l’indice sulle labbra, per indicargli di tacere.

- Tu sei stato abituato a vivere nel lusso fin dall’infanzia. Io no, e mi sembra naturale stupirmi davanti a cose che non ho mai visto e di cui avrei dovuto invece godere. E credo anche di avere ogni diritto di innervosirmi pensando ai motivi… Ti pare?

- Non arrabbiarti, sai benissimo che sono sempre stato dalla tua parte.

- Non ne dubito. Da una comoda poltrona di velluto e davanti ad un caminetto acceso e ad un bicchiere del miglior idromele deve essere stato sfiancante. Ma non hai mai avuto il coraggio di fare o dire qualsiasi cosa che potesse cambiare la situazione, mi sembra.

Syd si passò nervosamente la mano sui capelli. Era vero.

Da quando aveva saputo dell’esistenza di suo fratello e della vita di stenti che era stato costretto a condurre per via della vigliaccheria dei suoi genitori, si era sentito impotente, vile e colpevole. Lui era stato il prescelto. Perché lui, poi? Era più basso, e meno forte.
Perché non Bud, che egli riteneva molto spesso migliore di sé?
Sospirò, poi rispose, lievemente accigliato:

- Non c’è bisogno che insisti nel ricordarmelo, lo so bene. Odino solo sa quanto mi sia sentito indegno del mio nome e del mio ruolo da quando sei tornato!

- …Syd, andiamo. Io non intendevo questo. Sei un cittadino e un figlio esemplare: mite ed obbediente. Non hai voluto ribellarti alle leggi o all’autorità di Xander, tutto qui. Non ho più le stesse idee di prima riguardo a te. Non ti addosso più colpe che non ti appartengono.

I due continuarono a percorrere i corridoi del palazzo, seguendo Hengi. Per un po’ rimasero in silenzio, poi Syd si rivolse nuovamente al fratello:

- Xander è tuo padre, fratello; perché lo chiami ancora per nome?

- NO! – Urlò improvvisamente Bud, fermandosi, - Xander è tuo padre, Syd. Mi ha rifiutato quando ero venuto alla luce da pochi minuti. Non lo considero mio padre, né l’ho ancora perdonato per quello che mi ha fatto. Non aspettarti che io cambi la mia opinione in proposito.

- E allora perché sei venuto a vivere con noi?

Syd conosceva le passate difficoltà del fratello e la sua conseguente e naturale diffidenza nei confronti della sua famiglia d’origine; della loro famiglia. Era questo il solco che ancora separava le loro due anime, anche se i maggiori problemi di interazione erano stati risolti durante la battaglia contro i Bronze Saints: infatti, prima di allora, Bud lo aveva odiato per molto tempo. Ma, pur comprendendo le sue pene, non riusciva a spiegarsi certi suoi atteggiamenti.
Rivolgendogli quella domanda il suo sguardo era stato di sincero stupore.

Bud ribatté, sorridendo e cambiando nuovamente tono.

- Che domanda inutile! Andiamo, Syd… Io non sono stupido né privo di un qualsiasi senso d’affetto. Ho accettato la proposta di condividere la dimora di Xander e sua moglie anzitutto per poter stare con te.

Syd sorrise.

- Certo. E… poi?

- …E poi… Ho deciso di concedere una possibilità alla tua famiglia di spiegare le loro azioni passate, e una possibilità a me stesso di provare a perdonarle. Non ti assicuro che questo avverrà, comunque, eh?

- La decisione sarà tua.

- E di nessun altro. Per lo meno, il vostro pregiato idromele mi aiuterà a chiarirmi le idee. -
Sogghignò Bud, mentre il fratello sembrò non apprezzare la battuta, ma come succedeva di solito preferì non replicare, dando a lui la sgradevole impressione di lanciare una secchiata d'acqua contro un muro.
Il domestico che li aveva accompagnati si fermò davanti ad una porta in legno finemente scolpita con figure mitologiche e sottili decorazioni curvilinee in oro.

- I signori desiderano essere annunciati?

Chiese, apprestandosi ad aprire la porta, ma la mano di Syd bloccò la sua.

- Lascia stare i formalismi, Hengi, conosco la strada… E poi non credo che la regina desideri un ricevimento ufficiale in pompa magna; non ha mai mostrato propensione per questo genere di cose.

- Come desiderate, signore.

Quando l'instancabile Hengi si fu congedato, Syd aprì risolutamente il massiccio portone ed entrò nella sala del trono, seguito a poca distanza da suo fratello.
Tutti i suoi amici! Tutti di nuovo vivi e sorridenti! Per un attimo credette di trovarsi in un sogno.
Bud, che non conosceva nessuno di loro e non era abituato a stare con molta gente, sembrava lievemente a disagio, ma il fratello lo invitò a farsi coraggio con un’amichevole pacca sulla spalla.

- É quasi irreale… - soggiunse poco dopo, procedendo all’interno della sala e guardandosi attorno, - Mi sembra di essere ritornato indietro nel tempo.

- Rendi grazie ad Odino per tutto questo, Syd!

Una nota voce femminile lo fece immediatamente voltare.
Hilda, la regina, aveva appena fatto ingresso nella sala attraverso una porta laterale insieme a Freya. Il suo squillante tono di voce riscosse molte altre persone tra i presenti, e presto un mormorio d’ approvazione, nel ritrovare in lei la donna d’un tempo, corse per tutta la sala.
Syd, sorridendo, s’inchinò e le depose un lieve bacio sul dorso della mano. Quello era tutto ciò che l’etichetta consentiva ad un guerriero verso la propria sovrana, ma era talmente intensa la gioia che egli provava nel rivederla che, se avesse potuto, l’avrebbe stretta a sé.
Quasi subito anche gli altri le si avvicinarono; non c’era ombra di rancore o rimprovero nei loro sguardi, ebbe modo di notare Hilda, piacevolmente sorpresa. Le sembrò di toccare il cielo con un dito.
Passò in rassegna con lo sguardo tutti quei visi sorridenti che le stavano intorno, soddisfatta.
Syd e Bud sembravano finalmente essere in buoni rapporti, notò, e ne fu felice; Fenrir se ne stava, come al solito, un po’ in disparte, ma pareva tranquillo; Mime accennava distrattamente qualche nota con la sua cetra, seduto sulla scalinata che conduceva al trono; Thor le era arrivato accanto e si informava gentilmente sul suo stato di salute; Hagen, dal canto suo, aveva raggiunto Freya e non le staccava gli occhi di dosso; e Siegfried, dopo aver salutato Syd, sembrava raggiante, nonostante la mano sinistra ancora fasciata. Hilda provò un’acuta stretta al cuore: lei era stata la causa di quella ferita durante la battaglia di Siegfried contro uno dei guerrieri di Atena, e tutto solo perché il cavaliere, risoluto nel tentativo di apprendere la verità sulla sua prigionia e sull’Anello del Nibelungo, si era rifiutato di obbedire al suo ordine di attaccare il nemico.
Dopo un po’ di tempo trascorso nel dare informazioni sulle proprie condizioni di salute, durante il quale Hilda pensò, con riconoscenza e stupore, che i suoi guerrieri si stavano interessando a come lei potesse aver sofferto sotto l'anello, piuttosto che alle proprie sofferenze, la regina si diresse verso la scala di pietra che portava verso il suo trono, ma anziché percorrerla interamente e sedersi su uno dei simboli della potenza regale, preferì sedersi su uno dei gradini accanto a Mime. Tutti la imitarono, felici di constatare che tutto, proprio tutto, era ritornato alle origini: Hilda non aveva mai amato le ricorrenze ufficiali o gli esibizionismi di cui la sua condizione privilegiata consentiva approfittare, e il fatto che, durante la sottomissione all’Anello, lei si era mantenuta a debita e sprezzante distanza da loro mettendo molto più in evidenza il suo ruolo di sovrana, era stato uno dei primi e più evidenti segni del suo cambiamento.

- Anzitutto, - esordì, con gli occhi bassi, - vorrei scusarmi con tutti voi per i disagi ai quali siete stati sottoposti per via del vostro patto di fedeltà con la sottoscritta. La mia incapacità vi ha causato tormento, ferite e morte, e certo avrei meritato...

- Maestà, – La interruppe Syd, – Attribuite a voi stessa colpe che appartengono ad altri. Se c’è qualcuno cui andrebbe rimproverata la nostra disfatta è Poseidone!

Hilda socchiuse gli occhi, non troppo convinta, nonostante il tono fervente del giovane, che riprese dopo una piccola pausa:

- Parlate della nostra morte come se voi stessa aveste brandito l’arma che l’ha provocata…

- In un certo senso è così, Syd. – gli rispose Hilda, contrita.

Ma il ragazzo scosse la testa, imitato da altri. Hagen intervenne, dimenticando per qualche istante di adorare Freya:

- Mia regina… Sarebbe stato facile ma ingiusto da parte nostra serbarvi rancore. Troppo semplice scaricare su di voi tutta la responsabilità ed usarvi come capro espiatorio. Tutti, voi compresa, abbiamo subito e sofferto questa situazione.

- Ma…

- Niente “ma”, mia regina; qualunque evento sgradevole sia successo in passato, adesso è solo un brutto ricordo. Odino ci ha onorato della sua benevolenza concedendo una seconda vita a noi cavalieri e una rinnovata serenità a voi e al resto del Regno. É compito di noi tutti, adesso, ricostruire Asgard guardando al futuro, e non proseguire la vita indugiando su rimpianti passati. Non credete?

Alle parole di Hagen successe immediatamente una serie di approvazioni e cenni affermativi. Hilda si girò lateralmente, confusa.
Ad un certo punto Mime, seduto accanto a lei, pose ancora una volta la propria mano sulla sua, poi la guardò inclinando leggermente il capo, lasciando che i capelli gli coprissero parzialmente il viso, e i suoi occhi chiarivano il suo sentire molto più di quanto avrebbe potuto qualsiasi discorso.
Speranza, fiducia, incoraggiamento.
Aveva intuito di nuovo le insicurezze della sua regina, anche se, stavolta, di diversa natura, e aveva tentato di dissiparle in uno dei due modi in cui amava maggiormente esprimere i suoi pensieri: lo sguardo e la musica. Non ci fu bisogno di alcun suono pronunciato dalle loro labbra per capirsi all’istante. Hilda gli fu enormemente grata, e a Mime parve di scorgere, tra le sue ciglia, una lacrima di commozione.

Poco dopo, nel momento in cui i cavalieri che non risiedevano stabilmente al castello si apprestavano a tornare alle rispettive dimore, Hilda porse ad ognuno un piccolo sacchetto di velluto blu chiuso da un nastro del medesimo colore. Molti visi s’illuminarono, nel ritrovarvi all’interno gli zaffiri di Odino. Queste grandi e preziose pietre color del cielo simboleggiavano le sette stelle dell’Orsa Maggiore, ed erano incastonati ognuno in una delle armature dei Guerrieri Divini. La loro unione e loro disposizione sull’enorme elmo della vicina statua di Odino permetteva l’apparizione della leggendaria armatura del padre degli Dei, interamente di platino e scolpita a guisa di cristalli di ghiaccio, all’interno della quale si trovava la sacra Balmung. Durante la battaglia finale contro i guerrieri di Atena, tale armatura aveva rivestito, per qualche attimo, uno di loro, il quale, per mezzo di essa, aveva potuto udire la voce e gli ordini del dio ed utilizzarne la Spada per liberare Hilda dall'Anello.
Dopo la morte dei sette guerrieri l’armatura e la Spada erano tornate al loro sonno all’interno della statua di Odino, gli zaffiri si erano staccati dall’elmo ed Hilda li aveva ritrovati, qualche giorno dopo, sul piazzale antistante la statua dove solitamente si svolgevano i riti celebrativi in onore degli dei.
La regina li aveva conservati gelosamente ma tristemente, ritenendoli l’ultimo ricordo del sacrificio dei suoi guerrieri… Ma adesso essi erano tornati alla vita, e le pietre, come nel loro diritto, avrebbero dovuto ritornare a loro incastonate nelle loro armature. Guardando i preziosi nelle loro mani ognuno di essi sembrava quasi felice di rivedere un vecchio amico sparito per un lungo intervallo di tempo. Vi era un legame particolare tra quelle pietre, le stelle dell’Orsa e i giovani destinati a rappresentarle per mezzo delle armature del Nord; così era allora, così era sempre stato, e non sarebbe stato facile spiegare la natura o l’origine di tale vincolo ai profani. Gli zaffiri stessi, si riteneva, erano stati forgiati da intelligenza ed opera divina, e come tali erano avvolti nel mistero fin dall’epoca, remotissima, della loro comparsa. Hilda ne era consapevole, così non si stupì affatto nel vedere i giovani lasciare la sala particolarmente euforici dopo la restituzione degli zaffiri; solo, intravide un’ombra passare fugacemente sul viso di Bud.
Bud non faceva parte della casta dei Guerrieri Divini; non lo era mai stato, e, nonostante i suoi decennali allenamenti, nel momento dell’investitura era stato preferito suo fratello e lui era stato relegato al ruolo di cavaliere/ombra: non l’armatura sacra, non la gloria presso i posteri, non lo zaffiro di Odino. Ancora una volta, Syd era stato il prescelto. Questo era stato l’ennesimo motivo del suo rancore verso il gemello e verso la sorte. Tempo dopo, durante lo scontro contro il guerriero di Atena Ikki della Fenice, che l’aveva costretto a riflettere sull’opportunità e la giustezza del suo odio, Bud sembrava aver capito ed interiorizzato il fatto che Syd non era certo colpevole delle scelte cadute su di lui, ma quel vecchio astio, dovuto forse anche a sensi di inferiorità ingiustificati, tornava a farsi sentire di tanto in tanto.
Probabilmente, aveva pensato Hilda, abbastanza tranquilla, il tempo avrebbe fugato ogni dubbio e medicato ogni ferita nell’animo del ragazzo.

“E magari farà lo stesso anche con me.”

Pensò, girandosi su se stessa ad occhi bassi. Quando rialzò lo sguardo si trovò davanti Siegfried con lo zaffiro in mano. Alla regina mancò il respiro per un secondo che già ritenne troppo lungo e pericoloso.
Ma Siegfried non fece nessuna domanda, limitandosi ad un sorriso, parole di congedo e ad un inchino appena accennato. Poi le voltò le spalle e si diresse verso l’uscita della sala del Trono ormai vuota. Mentre si accingeva ad attraversare la porta, Hilda gli corse dietro.

- Siegfried, aspetta!

Questi si voltò con aria interrogativa.
Hilda gli giunse abbastanza vicina da avvertire un senso di fin troppo noto disagio percorrerle le membra ma, come al solito, si spaventò delle proprie sensazioni e si guardò bene dal mostrare anche un microscopico sintomo del suo turbamento.

- C’è qualcosa che vorrei tu sappia, cavaliere - Disse, con un tremito nella voce che si affrettò a dissimulare schiarendosela - E che voglio sia un monito per il futuro, per te come capitano e per i tuoi compagni...

Siegfried, incuriosito, si appoggiò ad una colonna. Hilda proseguì:

- …Ho assistito alla tua battaglia contro Seiya, come ben sai, ed è stata una tortura difficilmente tollerabile. Ero presente, e non solo non sono intervenuta per salvarti, ma ti ho anche ferito. Ti ho visto soffrire in maniera inaudita e non sopporterei di nuovo una cosa del genere. Promettimi che non ci sarà una seconda volta, te ne prego: promettimi che, se mai dovesse accadere, tu non sacrificherai te stesso, ma ucciderai me e salverai Asgard.
L'uomo sospirò, poi scosse la testa e le lanciò un breve sguardo:

- Non chiedetemi cose che non posso promettervi.

- Perché?

- Se lasciassi condizionare il mio giuramento di fedeltà da cose del genere mi sembrerebbe di vanificarlo. E ad ogni modo… Io non posso che esser lieto delle mie sofferenze, se queste sono servite per la vostra salvezza e per quella della mia patria. Come posso salvare Asgard togliendo la vita a voi? Voi siete Asgard, per me.

A quell’ultima frase Hilda non poté fare a meno di alzare lo sguardo – cosa che con Siegfried le riusciva a stento - perdendosi nella trasparenza di ghiaccio dei suoi occhi.
Deglutì a vuoto per cercare in qualche modo di calmarsi: - Se Asgard continuerà a potersi gloriare di anime grandi come la tua, non potrà che entrare nel mito ed essere per l’eternità favorita dagli Asi.

- Non si tratta di possedere una grande anima, si tratta di fede. Io credo in Asgard, mia regina, e credo in voi. - le disse, non staccando gli occhi dai suoi, - Se l'Anello del Nibelungo e un dio del mare straniero non hanno mutato in alcun modo le mie convinzioni, null’altro, umano o divino, potrà mai farlo.

In altre circostanze, e davanti ad altre persone, Hilda avrebbe facilmente sostenuto uno sguardo così deciso fisso nel proprio. Ma, con Siegfried davanti, la donna prendeva troppo spesso e troppo presto il posto della Regina. Almeno ai suoi occhi nascondere quell’ingombrante matassa confusa di sentimenti diventava sempre più difficile.
Fortunatamente lui le facilitò il compito, accennando ancora un piccolo inchino prima di congedarsi da lei.

Ai sovrani dovrebbe essere insegnato a gestire in modo ineccepibile i moti del cuore prima ancora che a sedersi su un diamine di trono; anzi, prima ancora che a leggere e scrivere, si trovò a pensare imbronciata, mentre osservava la porta dietro cui Siegfried era scomparso.”

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Capitolo 12
*** ATTO II - Scena II ***


 

SCENA II

 

Il Sembrare fa violenza anche alla Verità.

(Simonide, lirico greco, V sec. a.C.)

 

 

“Amami.

Odiami.

Amami.

Odiami.

Amami, odiandomi.

Odiami, amandomi.

Lunghi e sottili rami, simili a tentatrici dita di donna, percorrevano la sua pelle, nuda nonostante il freddo intenso. Il vento scompigliava leggermente i suoi capelli. I suoi occhi erano chiusi, immobili le pupille sotto le palpebre.

Diventa uno con me.

Amami.

Il suo respiro era così silenzioso da sembrare impercettibile. La neve cadeva quietamente ma abbondantemente attorno a lui, ma non un brivido agitava le sue membra. I fiocchi di si scioglievano piano al calore del suo respiro, andando a posare un freddo e lieve bacio sulle sue labbra leggermente socchiuse. Anima, corpo, mente preda della malìa, della carezza degli spiriti che si manifestavano attraverso i rami. Rami che spesso riteneva una propaggine di se stesso.

Io e te siamo una cosa sola.

Abbiamo gli stessi battiti, gli stessi respiri.

Amami, perché sarò il tuo vanto e il tuo segreto.

Odiami, perché sarò la tua arma e il tuo potere.

Sarò la tua estasi e la tua rovina.

Amami, odiandomi.

Odiami, amandomi.

Un'ebbrezza gelida e bollente gli formicolava sotto la pelle.

Ad un tratto il rumore sordo di ramo spezzato interruppe l’incantesimo, e i rami si ritirarono. Due occhi, verdi d’erba e foglia, si spalancarono sulla piccola radura circostante, vagando con circospezione in quell’intervallo di bianco e vuoto nel fitto d’un bosco di abeti.
Una folata di vento improvviso coprì il rumore e il ragazzo fu scosso da un tremito: ora che il suo legame con la Natura era stato reciso, la sua sensibilità al freddo era tornata.
Cercò di coprirsi il torace nudo stringendo con una mano i due lembi della camicia leggera che indossava e che gli era scivolata lungo le braccia durante la meditazione, e continuò a guardarsi intorno, immobile, ancora lievemente stordito per il subitaneo ritorno alla realtà.
Lo scricchiolio regolare di passi nella neve fresca lo fece sussultare, e quando capì che si faceva sempre più vicino assunse posizione di difesa, gli occhi attenti e socchiusi come quelli di un gatto.
Il Bosco di cui era custode era il bosco sacro di Asgard, il più vicino alla Corte; se qualcuno lo stava percorrendo era evidente che la sua meta fosse il Palazzo Reale.

- Chi è là? Fatti riconoscere!

Urlò la formula di rito ma non ricevette alcuna risposta e questo aumentò la sua diffidenza.
Fu in quel momento che la vide comparire tra gli alberi.
Una ragazza molto alta, avvolta in un mantello d’ottima fattura e capelli ramati, lo stava osservando senza dare il minimo segno di paura.
Traendo un leggero sospiro di sollievo, Alberich abbassò le mani: nessun pericolo di invasione, la donna non sembrava ostile. Ma allora, come mai il senso di inquietudine che quel ramo spezzato aveva insinuato in lui non si era ancora dileguato? Si sentiva a disagio, avvertendo lo sguardo di lei su di sé.
La sconosciuta si avvicinò a lui di qualche metro, in silenzio, e il ragazzo fece istintivamente un passo all’indietro, stupendosi poi delle proprie azioni. “Dei, è soltanto una ragazza, cosa mi prende?”, si trovò a pensare. Volse allora lo sguardo agli alberi che lo circondavano: non un segno di vita da quegli spiriti e da quelle creature che prima sembravano pervadere l’intera foresta, oltre che la sua anima. Sembrava quasi che qualcosa li avesse messi in fuga.

- Hai paura di me? – Chiese divertita la ragazza, con voce roca, avvicinandosi ancora – Non dovrebbe essere il contrario? Sono io la fragile fanciulla, e tu…-

Arrivò a brevissima distanza da lui e gli scostò i lati della camicia, posando una mano sul suo petto.

- …Tu sei l’affascinante e coraggioso guerriero, no?

Concluse, alzando il suo liquido sguardo verso il viso dell'uomo.
Gli occhi di Alberich si chiusero a fessura, ancora più sospettosi, mentre la mano della sconosciuta aveva iniziato ad accarezzarlo lentamente, fino a fargli nuovamente scivolare l’indumento lungo le braccia. La sua mano scottava, e sentirla su di sé fu una sensazione quasi sgradevole al confronto dei rami e della neve. Benché fosse abituato alle carezze il ragazzo le bloccò con forza la mano, allontanandosi subito e rimettendo a posto la camicia, infastidito.

- Non perdi tempo, eh? – Le disse, abbottonandosi, - Comincia col dirmi chi sei! –

- Non ti piace essere accarezzato? – Gli rispose lei, ignorando la sua domanda.

Alberich la fulminò con lo sguardo, poi ribadì:

- Meno ciance, donna! – Le sue labbra si atteggiarono a ironico sorriso, proseguendo. - Io sono l’affascinante e coraggioso guerriero, d’accordo. Ma tu non sembri affatto una fanciulla fragile! Quindi, dato che questo guerriero sta esaurendo la sua pazienza, sarà meglio che tu mi dica chi diavolo sei e cosa diavolo vai cercando nel Bosco Sacro di Asgard...–

La ragazza simulò un piccolo broncio, cercando di riavvicinarsi a lui, ma Alberich si spostò, spalancando gli occhi e alzando le sopracciglia. Poi aggiunse, con voce più alta:

- ...Ora!
- Quello sguardo minaccioso ti rende ancora più attraente, Alberich!

Ancora una volta aveva ignorato le sue parole e gli sorrideva, non smettendo di fissare il proprio sguardo su di lui. E poi… Conosceva il suo nome?
Un nuovo soffio di vento particolarmente violento gli scompigliò i folti capelli rossi che si affrettò a riavviare con gesto rabbioso. Decisamente iniziava ad averne abbastanza: il fatto che la sua meditazione fosse stata interrotta era già stato seccante, e quella ragazza non faceva che peggiorare il suo nervosismo.

- Ascoltami bene, bellezza. Forse uno dei miei compagni ti avrebbe trattato con maggior riguardo per cavalleria, ma tu hai oltrepassato il mio limite di sopportazione quotidiano...

- Bene! – Replicò lei, allegra, battendo forte le mani e interrompendolo un’ennesima volta - …E adesso che mi fai, bimbo?

Alberich perse ogni controllo. La raggiunse a grandi passi, le immobilizzò entrambe le braccia afferrandole i polsi e la scaraventò contro un albero, bloccandola.
E fu con una certa soddisfazione che vide scomparire dal suo volto quel sorrisino che gli faceva salire il sangue alla testa, e comparirvi un’espressione di terrore.

- Come mi hai chiamato?! - Le sibilò subito dopo; lei serrò gli occhi e cercò di sgusciare via dalla stretta, senza successo. Alberich riprese: - Hai davvero fatto male i tuoi conti, ragazzina… Ma con chi credi di avere a che fare?! Non sono certo il tipo che si lascia bloccare da scrupoli solo perché sei una donna!

- Lasciami! – Urlò lei, continuando a dimenarsi. Ma Alberich strinse la presa.

- Ah, no! Puoi anche scordarlo, finché non mi dirai chi sei. E bada di decidere in fretta, oppure potrei anche pensare di rinchiudere quel bel visino in una bara d’ametista, come ho fatto con gli amichetti che vedi intorno a te!

La ragazza volse rapidamente lo sguardo verso una serie di teche alte ciascuna più di due metri, per lo più appoggiate ai tronchi degli alberi. E in ognuna, splendida, trasparente ed affilata, vi era uno scheletro umano. Paralizzata dall’orrore, strillò di nuovo.

- Lasciami, ho detto! Pagherai a caro prezzo quello che stai facendo!

Alberich scoppiò in una risata soddisfatta, e avvicinò il suo viso a quello di lei, sussurrandole con le labbra quasi sulle sue:

- Ma davvero? Credi di essere nelle condizioni di minacciare? Divertente! –

Poi si allontanò, continuando però ad immobilizzarle le braccia. I suoi occhi verdi avevano assunto un’espressione sarcastica e sottilmente crudele.

- Potrei farti qualunque cosa. Lo sai, vero? Un mio solo cenno e potresti essere immobilizzata dall’albero dietro di te e, credimi: rimpiangeresti le mie mani. Potrei anche decidere di averti qui e ora, con la forza, se lo volessi… Mi era parso di capire che avresti gradito. Non hai fatto bene i conti, temo. Allora, come la mettiamo?

- Lasciami! - Ripetè la donna, urlando ancora più forte.

- Il tuo nome. - Sibilò Alberich, dando una leggera stretta alla presa.

- BASTA! Sono…

- Alberich?!

Una voce interruppe l’alterco tra i due, che si voltarono nello stesso momento verso la fonte da cui proveniva, stupiti. Mime era sopraggiunto ad alcuni passi da loro, di corsa, e li osservava con un’espressione tra l’incredulo e il costernato. Approfittando del suo momento di distrazione la sconosciuta si liberò dalla morsa delle mani di Alberich con uno strattone, allontanandosene poi di qualche metro e dirigendosi a piccoli passi verso il suo “salvatore”, con l’adorazione più sconfinata dipinta sul volto. Mime scosse la testa:

- Sono allibito, Alberich… Ma cosa avevi intenzione di fare? Ti ha dato di volta il cervello?

Alberich sbuffò, noncurante, stringendosi nelle spalle e riavviandosi nuovamente i capelli. Senza aspettare la sua risposta, la ragazza s’intromise:

- Ha cercato di violentarmi! – cinguettò, sfoderando la più patetica tra le espressioni patetiche.

Mime la guardò, poi si volse di scatto verso Alberich, gli occhi sbarrati e colmi d’ira, ma il ragazzo continuava a tacere, scrollandosi degli immaginari granelli di polvere dalla camicia. Notando la sua ostinazione Mime preferì lasciar perdere le richieste di spiegazioni, per il momento, facendo appello a tutta la sua pazienza; riserve incluse. Espirò rumorosamente e subito dopo si girò verso la ragazza, che si era rifugiata dietro di lui e aveva assunto l’aria e gli occhioni lucidi di una vittima immolata sull’altare.

- Tutto bene? – Le chiese, sorridendo.

Per tutta risposta, la ragazza gli si buttò fra le braccia con un gridolino straziante.
Alberich scoppiò a ridere. Mime, interdetto, si irrigidì, ma dopo aver fulminato il collega con uno sguardo accarezzò leggermente i capelli di rame della ragazza, immaginando che quella povera creatura doveva certo aver subito uno choc. Si ripromise di riservare ad Alberich una di quelle lavate di capo che non avrebbe dimenticato facilmente non appena si fosse presentata un’occasione propizia. Quando la ragazza alzò gli occhi per poterlo guardare in viso e per rispondergli, Mime notò che esitava prima di parlare, e che, improvvisamente, aveva assunto un’espressione dapprima stupefatta, poi indecifrabile. Gli prese delicatamente una ciocca di capelli in mano, rigirandola poi tra le proprie dita:

- E così… Tu hai i capelli color dell’oro.

Mormorò, con l’aria cogitabonda. Mime smise di accarezzarle i capelli, ed inclinò il capo da un lato con aria interrogativa.

La ragazza riprese, dopo una breve pausa:

- … Devi essere Mime; Mime di Asgard. Non è così? Sei il figlio di Fölken…?
Mime si staccò quasi brutalmente dal suo abbraccio. Fölken… Il solo riascoltare il suono di quel nome gli aveva procurato una dolorosa fitta al cuore. 

- Come puoi sapere il mio nome e quello di mio… - Disse, ma si bloccò, prima di pronunciare la parola “padre”. Perché, dopotutto, riferirla a Fölken? Non lo era, non lo era mai stato, o meglio avrebbe voluto esserlo stato, ma a suo modo… E tale modo non corrispondeva in nulla con tutto quello che Mime intendeva per “padre”.

- …Intendi dire “padre”? – Domandò la ragazza, alzando il mento.

Mime cercò di riscuotersi dalle ripercussioni che il ricordo di quell’uomo scatenava nella sua anima. Nella sua mente non venivano evocate altro che percosse, durezza, corde spezzate… E l’odore del sangue. Quello di Fölken, sulle sue dita.

Ma quella fanciulla che gli era davanti non poteva né doveva sapere il suo passato, o, soprattutto, le sue tribolazioni interiori. Così, per risposta, le riservò un conciliante, tranquillo sorriso.

- Sì, quasi…

Il viso di lei assunse ancora una volta quell’espressione indecifrabile, non smettendo di fissare il proprio sguardo sui suoi occhi: sembrava quasi che desiderasse scorgere qualcosa attraverso essi.
Mime distolse lo sguardo quasi subito: non amava essere osservato e soprattutto detestava essere guardato negli occhi, perché temeva di rivelare qualcosa di troppo riguardante il suo non sempre confessabile passato. Il colore infuocato dei suoi occhi poteva fin troppo facilmente essere associato a quello del sangue.
Dopo qualche secondo che al ragazzo parve eterno la sconosciuta riprese, con tono mellifluo:

- Bene, Mime di Asgard… - Disse, accentuando molto il tono di voce quando pronunciava “Asgard”, cosa di cui Mime si domandò i motivi senza reperire alcuna risposta plausibile, - - …Mi hai salvata e sono in debito con te! Ma adesso devo proprio andare, ho assolutamente bisogno di parlare con la regina Hilda Polaris in privato… Il Palazzo è a due passi, posso fare da sola. –

- Un colloquio con la regina? – Strabiliò Mime, - Non sarà facile ottenerne uno in questo periodo.

- Ho ottimi motivi che convinceranno qualsiasi scettico, credimi. – Rispose lei, con un vago sorriso sulle labbra.

- Sembra una cosa seria. Se mi dici il tuo nome, potrei intercedere io per te presso la regina.

- Non è necessario. E, quanto al mio nome, - ammiccò – l’intera Asgard lo saprà a tempo debito.

Dopo aver detto questo emise un risolino divertito e corse via, verso il Palazzo Reale.”
 

***

 

- Corri, sconosciuta fanciulla, verso il destino che intendi scrivere per te, sicura che avverrà tutto quello che hai pianificato. Sorridi, e i tuoi passi sono leggeri come il tuo cuore. I tuoi capelli di rame si agitano al vento come fiamme… E il Palazzo Reale di Asgard non conosce né incendio né assedio da vent’anni.

Ascolta la voce di noi Alfe… Procederà davvero tutto secondo i tuoi piani, fanciulla?

Non sai che quel futuro cui tendi e quel posto cui ambisci potrebbe realizzarsi solo per intercessione delle Norne? Intendi ignorare le loro trame?

Sorridi ancora, all’ingresso del Castello, nell’ammirarne la magnificenza, e i tuoi occhi si illuminano di un acceso bagliore…

Un bagliore di fuoco.

 

***

 

 

“Mime rimase per qualche istante ad osservare la ragazza che correva verso il castello, e la sua mente era già in moto. Chi mai poteva essere? Come era venuta a conoscenza del suo nome e del suo legame con Fölken? E soprattutto, perché, accarezzando i suoi capelli di rame ed aspirandone il profumo, aveva provato una sensazione stranissima, molto simile alla nostalgia? Era certo di non aver mai incontrato quella sconosciuta prima di allora… E, per questo motivo, anche il suo improvviso arrivo al castello non aveva spiegazioni, né lei aveva voluto darne. Adesso che ci pensava, la ragazza non gli aveva neanche rivelato il suo nome.
Avrebbe dovuto vederci più chiaro; ma prima c’era una faccenda da sistemare.
Così raccolse la sua cetra prima depositata a terra e si diresse energicamente verso Alberich, il quale, con l’atteggiamento che gli era solito, era rimasto per tutto il tempo seduto sotto una delle teche dove rinserrava le sue vittime, a lucidare la sua spada d’ametista con meticolosità quasi maniacale.

- Alberich! Piantala di lucidare quella spada o finirai per consumarla! – Esordì Mime.

Alberich alzò indolentemente il capo verso di lui, soffocando uno sbadiglio. Non sarebbe cambiato mai… E pensare che la nobile famiglia di cui faceva parte era famosa, ad Asgard, per la severa educazione impartita ai suoi rampolli! Evidentemente Alberich era l’eccezione che confermava la regola.

- Che c’è, sei arrabbiato perché il vostro idillio è stato interrotto?

Mime alzò gli occhi al cielo e si guardò attorno, poi proseguì:

- Alzati da lì! Non mi piace parlare in un cimitero! – Gli intimò, facendo riferimento alle bare d’ametista che li circondavano, con tono disgustato. Alberich, dopo una breve risata, si alzò, e insieme si allontanarono dalle teche, dirigendosi lentamente verso il castello.

- Sei un tipo facilmente impressionabile, eh? – Disse Alberich ad un tratto, con aria festosa.

- Sei tu che hai un cattivo gusto senza limiti! Hai reso questa splendida foresta un maledetto ossario!

- Gli abitanti del “maledetto ossario” laggiù erano invasori o nemici la cui ostilità era stata ampiamente verificata, lo sai! Non venire a farmi la paternale, o i tuoi stupidi discorsi sulla lealtà! E poi, ad ognuno le sue tecniche di combattimento: tu stordisci i tuoi avversari con il suono della tua lira, io preferisco metterli sottovetro. Ci metto molto meno tempo di te, sai?

- Questo sarebbe umorismo? - Osservò Mime, tra il divertito e il rassegnato, mentre Alberich scoppiava un' altra volta in una delle sue irritanti risate. 

- Una delle numerose caratteristiche che mi rendono unico.

Mime chiese pazienza a chiunque degli Asi fosse in ascolto, poi bisbigliò:

- …E meno male! Non so se il mondo sia ancora pronto per reggerne più d’uno!

Alberich affettò un’espressione corrucciata:

- Invidioso e antipatico. Somigli sempre di più a Siegfried.

- Errore: la mia pazienza è molto più ampia della sua, ma non sono sicuro che sia un bene. E adesso, passando a cose più serie… - si fermò, guardandolo con aria accigliata, - …Cosa è successo con quella ragazza? Hai tentato sul serio di usarle violenza?

- Credi davvero che io sia capace di fare una cosa del genere, Mime? – Ribattè Alberich, fermandosi a sua volta, senza ombra di scherno né di ironia nei suoi occhi felini.

Mime intuì subito che diceva la verità: conosceva quel ragazzo da anni, ormai, e, anche se era consapevole che interagire con lui era difficile e spesso esasperante, e che in passato aveva commesso non poche azioni sospette, non poteva crederlo tanto abietto da compiere un atto del genere. Tuttavia non gli rispose, e Alberich riprese a camminare, guardando dritto davanti a sé, evidentemente infastidito dalle sue insinuazioni.
Mime riprese a parlare dopo qualche minuto, e i suoi occhi erano seri.

- Se ti credessi capace di stupro saresti già morto.

- É arrivata interrompendo la mia comunione con gli Spiriti della Foresta, e ha iniziato a mettermi le mani addosso. Non ha voluto dirmi il suo nome, e non faceva altro che ridacchiare. Ad un certo punto ho perso la pazienza, e… -

- E…? – Gli fece eco Mime, incoraggiandolo a proseguire.

- …E ho deciso di spaventarla, tutto qui. Non le avrei mai fatto del male in quel senso.

Mime annuì, ma poi aggiunse:

- Lei non poteva conoscere le tue reali intenzioni, Alberich… Ha seriamente creduto che tu volessi stuprarla e mi è parsa molto turbata.

- Ma bene così, io volevo che si spaventasse! Se tu avessi intuito di quella ragazza metà di quello che ho intuito io, la penseresti come me!

- Ti stai lasciando condizionare dalle supposizioni!

Alberich lo fermò ancora, costringendolo a voltarsi verso di lui e ponendogli entrambe le mani sulle spalle.

- Mime, ascoltami, allora: la prossima volta che ti capiterà di incontrare quella straniera, soffermati a guardarla negli occhi, intesi?

Mime abbassò lo sguardo.

- Non mi piace fissare la gente, perché questo significherebbe essere fissato a mia volta. Lo sguardo di certa gente, poi, mi fa sentire... -

- ...Questo significa che avevo intuito il giusto!

- Magari è solo suggestione, andiamo! - tentò di conciliare Mime.

- …O magari non lo è. In ogni caso io non mi fido di lei, e mi auguro che tu faccia altrettanto.

- Questo sarà tutto da vedere. – Osservò Mime e, dopo un po’ di tempo, riprese un tono scherzoso per cercare di stemperare la tensione che il discorso vertente sulla sconosciuta fanciulla aveva creato: - Però, la prossima volta che una straniera passa nella tua foresta, cerca di essere un po’ meno aggressivo! Se terrorizzi così tutte le donne che ti fanno innervosire come farai a ricrearti il seguito di donnine che piace tanto al tuo ego?

Alberich sorrise:

- Non sottovalutare il mio sex-appeal, fratello!

Gli occhi di rubino di Mime ebbero un lampo divertito, ma nient’affatto convinto. Gli diede una piccola botta sulla nuca, ridendo:

- Oh no, ma neanche il masochismo del genere femminile, quando si tratta di te!

Alberich proprio non era fatto per tenersi dentro le risposte, e non aspettò a replicare:
- Io so fare di meglio che strimpellare serenate sotto le finestre delle dame! -
Poi agitò il pugno davanti al viso di Mime, che lo guardava per nulla turbato finché all’improvviso gli prese il braccio e glielo torse fino ad immobilizzarglielo dietro la schiena. Alberich urlò:

- Ehi, piano! Stavo scherzando, accidenti a te! Quand’è che sei diventato così forte?

- Strimpellando la mia dannata lira.

- Che permaloso. Ti ho detto che scherzavo!

Mime lo lasciò andare immediatamente, con aria tranquillissima, poi riprese a camminare. Dopo qualche passo, si girò all’indietro, sogghignante, e strizzò un occhio:

- Anch’io!

Alberich sbuffò, incrociando le braccia con piglio bellicoso.

- Mi ricordi sempre di più Siegfried…!”

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Capitolo 13
*** ATTO II - Scena III ***


 

SCENA III

 

 

 

“Quando Sigmund ebbe tra le mani il plico con il sigillo reale in bella vista, non credette ai propri occhi. La presenza del sigillo dei Polaris indicava un alto livello di formalità, quindi il contenuto di quei fogli avrebbe dovuto essere non meno di una convocazione ufficiale e immediata a Palazzo.
Il che può significare soltanto guai, pensò, ricordando che l’ultima convocazione ufficiale della regina si era conclusa con la dichiarazione di guerra nei confronti del Santuario di Atene.
Per un breve quanto irrazionale momento, Sigmund fu tentato di far sparire quella lettera senza neanche aprirla, in modo da cautelare Siegfried da qualsiasi eventuale conseguenza. Ma quella invitante sensazione sparì quasi subito, e l’uomo, maledicendosi tra sé e sé per la propria vigliaccheria, si diresse verso le stanze di suo figlio.
Lo trovò sdraiato nella sua stanza, sulla pelliccia di un orso che egli stesso aveva ucciso quasi vent’ anni prima, quando tutto sembrava ancora perfetto, mentre leggeva un libro con il mento poggiato sulle mani. In certi momenti sembrava ancora un bambino, nonostante fosse uomo già da tempo e nonostante fosse alto quasi due metri.

- Sieg… - Esordì.

Il ragazzo alzò gli occhi verso di lui.

- É arrivato questo per te, - disse, porgendogli la busta che sembrava scottare nelle sue mani, - credo dal Palazzo Reale.-

- … Dal Palazzo? Così presto? – si stupì Siegfried, prendendo il plico dalle mani del padre con la mano sinistra, ancora fasciata.

Mentre apriva la busta e iniziava a leggerla, Sigmund accennò a quella fasciatura, per cercare di non pensare al contenuto della lettera, che continuava a suscitare in lui uno strano timore.

- Riesci a muovere la mano? –

- Poco. – rispose Siegfried, alzando lo sguardo dal foglio – Ma sto migliorando.

Quella ferita era l’ultimo ricordo della guerra contro il Santuario e dell’Anello del Nibelungo. Hilda stessa, obnubilata dal potere del gioiello, l’aveva inflitta al ragazzo quando egli aveva tentato di opporsi ai suoi massacri, con il proprio scettro. Poiché inferta con uno degli emblemi del potere che Odino esercitava per mano della propria celebrante, e quindi di origine non umana, la ferita tardava a rimarginarsi, e le normali cure mediche ottenevano effetti molto blandi.
Siegfried lesse velocemente, poi riconsegnò la busta aperta a suo padre.

- … Allora? – Domandò questi, ansioso.

- Devo presentarmi lì domattina. –

Sigmund sospirò.

- Il motivo? –

- Non ne ho la minima idea… Ma la convocazione è firmata dalla regina. Domani scopriremo l’arcano! – concluse il ragazzo sorridendo. Sembrava non essere scosso dall’inquietudine che dominava il padre, e dopo qualche altro minuto di conversazione, tornò a concentrarsi sul suo libro. Sigmund fece ritorno nelle proprie stanze a passo lento, quasi volesse cercare di scandire meno velocemente i minuti e le ore che separavano quei momenti di tranquillità domestica dall’incognita del giorno successivo. Passò davanti al quadro che ritraeva Hjordìs, e non poté fare a meno di soffermarsi a guardarlo. Non sapeva neanche lui se con occhio d’accusa o di rimpianto.
Quanto l’aveva amata… Quanto avrebbe desiderato cambiare il passato…

- Proteggi tuo figlio – sussurrò, guardando l’immagine sorridente di sua moglie, - Fa’ che non gli accada null’altro di male. Fallo per lui, se non vuoi farlo per me. –

Evitò con ogni cura di guardare Aska, dipinta bambina accanto alla madre, per non riportare alla mente pensieri negativi; subito dopo, lo sguardo fisso sul pavimento e le mani dietro la schiena, si diresse lentamente verso il sospirato riposo.

***

Hagen si rigirò nel letto innervosito quando l’ennesimo colpo contro la porta della sua camera lo fece sussultare. Erano quasi dieci minuti che qualcuno si ostinava a bussare, e al ragazzo pareva appena l’alba nella confusione ovattata tra il sonno e la veglia in cui si trovava.
Troppo presto per alzarsi, decisamente.
Buttò la testa sotto il cuscino, quasi pensando che quella lieve imbottitura di piume avrebbe potuto attutire il rumore dei colpi. Adesso c’era anche una voce ad aggiungersi al sonoro bussare…

- Hagen… Hagen! Oh, insomma, Hagen! –

Il ragazzo continuò a fingere di non sentire.

- Accidenti a te, se non mi apri entro dieci secondi entro lo stesso! – Proseguì la voce con decisione.

Entra, pensò Hagen, in un impeto di nervosismo, e giuro che ti faccio pentire d’essere nato, chiunque tu sia!

Qualche secondo ancora e la porta si aprì di slancio. Piccoli passi affrettati e poi qualcuno gli strappò il guanciale che stringeva sopra la testa.

- Sveglia, pelandrone! É incredibile che tu stia ancora dormendo a quest’ora!

Il ragazzo si voltò di scatto, pronto a mostrare i pugni al disturbatore, ma si bloccò a mezz’aria, interdetto e confuso. Era Freya. Per qualche secondo i due rimasero a guardarsi a vicenda allibiti, poi la fanciulla scoppiò in una risata che risuonò per la stanza, mentre Hagen faticava a credere ai propri occhi. Freya in camicia da notte nella sua camera da letto… Di certo un sogno. Un sogno pericolosissimo.

- Sei davvero incorreggibile! – esordì Freya con un broncio delizioso, puntandogli contro un dito, - Vivi a Palazzo e dovresti essere il primo a presentarti alle convocazioni. E invece sei ancora qui in pigiama! Non ti vergogni? –

Hagen realizzò in quel momento che in realtà indossava poco più di un paio di calzoni sdruciti come d’abitudine quando dormiva, e che la cosa, pur mettendo a disagio lui, sembrava non imbarazzare minimamente la principessa che nel frattempo continuava a rimproverarlo a metà fra il serio e il faceto. Una sveglia decisamente atipica, si disse, ma decisamente piacevole, aggiunse, soffermando per un secondo di troppo lo sguardo sui fianchi della ragazza e sulle gambe snelle che la camicia da notte semitrasparente lasciava intravedere. Poi sospirò.
Le donne sanno essere veramente crudeli... Pensò con rassegnazione.
Le sue meditazioni furono interrotte da Freya, la quale, spazientita dalla sua disattenzione e vedendolo ancora metà addormentato, balzando in ginocchio sul letto gli tolse tutte le coperte con uno strattone, facendolo rabbrividire di freddo improvviso e imbarazzandolo ancora di più.

- Adesso basta poltrire! Gli altri sono già qui, quindi vestiti in fretta e corri nella sala del Trono! Io e Hilda vi raggiungeremo a breve. Avanti, scendi di qui! – Concluse Freya, tirandolo giù dal letto dopo avergli afferrato i polsi.

Hagen si chiese il perché di tanta urgenza, e, nei minuti seguenti, restò imbambolato a guardare la porta, pensando lugubremente a quanto potesse diventare stupido un guerriero come lui, che non tremava davanti a nulla e conosceva ferite e battaglie, ma si ritrovava ogni volta ad incantarsi negli occhi di una ragazzina.
Perché non era possibile essere innamorati e allo stesso tempo mantenere il controllo?
Per fortuna, la sua dignità era salvaguardata dall’ingenuità di Freya, che non sospettava il cambiamento avvenuto nei suoi sentimenti verso di lei nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e continuava a comportarsi con quella naturalezza che lui aveva perso.

***

Più tardi, con propositi di autocontrollo che gli frullavano per la testa, Hagen si recò nella sala del Trono, e fu stupito nel vederla piena di fiori. I suoi compagni chiacchieravano a gruppetti, ed egli si avvicinò a Thor.

- Cosa festeggiamo?- gli domandò, indicando i fiori.

- Non saprei. Hilda non è ancora arrivata… Immagino solo che avranno svaligiato i fiorai di mezza città. -

Hagen si strinse nelle spalle; dunque nemmeno Thor, il suo punto di riferimento preferito perché avendo una decina d’anni più di tutti loro sembrava sapere sempre tutto prima di tutti – forse perché dall’alto della sua spropositata altezza vedeva prima le cose - conosceva il motivo di tutti quegli addobbi. In quel momento Hengi, ritto e compunto come sempre alla base della scalinata che conduceva al trono, battè due volte la base della sua lancia per terra, annunciando l’entrata della regina Hilda di Polaris e della principessa Freya.

- Ma come diavolo fa a sapere quando stanno arrivando, se loro entrano sempre dalla porta in cima alla scala? – Sussurrò Hagen, divertito, all’orecchio di Alberich. Lui rispose con una risatina sommessa, poi Hagen lo vide irrigidirsi di colpo e fissare un punto preciso nei pressi del trono.

Hilda e Freya erano entrate, ma non erano sole. Accanto ad Hilda, ammantata di rosso scuro e più alta di lei, c’era la ragazza con cui aveva discusso nel Bosco Sacro… Quanto tempo prima? Un mese? Due? Alberich non riusciva a ricordare.

- Che cosa significa questo? – si domandò, guardando istintivamente Mime, stupito almeno quanto lui. La sconosciuta sorrideva, mentre i suoi occhi di brace dorata divoravano la magnificenza della sala del Trono, i colori dei fiori e ogni singolo capello dei presenti. Freya, ma soprattutto Hilda, avevano l’aria radiosa, e aspettarono che il mormorio di dubbio iniziale serpeggiante tra i cavalieri si calmasse per prendere la parola. Hilda esordì, e la sua voce era chiaramente rotta dall’emozione.

- So che tutti voi vi starete chiedendo il motivo di questa convocazione e l’identità della persona che mi è vicina. Lei è qui da qualche settimana, ormai, ma una serie di motivi di necessità mi hanno indotta a nasconderne l’esistenza perfino a voi, miei cavalieri, fino a questo momento. – E, così dicendo, si voltò sorridendo verso la sconosciuta, che la prese per mano – Confesso che, - riprese, - quando questa ragazza si è presentata al mio cospetto e soprattutto mi ha rivelato la propria identità, ho assunto le vostre stesse espressioni incredule! Ho dovuto compiere delle indagini serie, perché le sue parole non andavano sottovalutate, ma nemmeno accettate senza riserve e senza opportuni accertamenti. Contro ogni mia previsione, tutto quello che mi ha raccontato si è rivelato essere corrispondente al vero, e ne ho le prove… - Fece una pausa, e poi sospirò, nel vedere la curiosità dipingersi sui volti degli ascoltatori. – Nemmeno Odino ha contraddetto le prove che mi sono state fornite… Ma non vi faccio attendere oltre: la ragazza che vedete accanto a me si chiama Astrid. Astrid di Polaris, ed è mia sorella maggiore. –

La sconosciuta fece qualche passo avanti sorridendo e si inchinò.

Alberich sgranò gli occhi e vide Mime impallidire all’improvviso.
Era impossibile descrivere le emozioni provate dai presenti in quel momento. L’incredulità e lo sgomento attraversavano i loro sguardi. Alberich si sforzava di mantenere l’autocontrollo, ma temeva che, se questa misteriosa Astrid avesse rivelato ad Hilda del loro scontro, probabilmente lui sarebbe stato nuovamente cacciato da corte, e maledisse la propria impulsività, non trascurando di maledire anche l’arrivo di Astrid, benché Hilda e Freya sembrassero oltremodo felici di questa novità.
Qualche minuto dopo la regina riprese la parola.

- Leggo incertezza nei vostri occhi, e la comprendo. Vi rivelerò quanto posso e quanto è giusto di mia sorella, perché è legittimo che sappiate, trattandosi di una notizia così importante per tutti. Purtroppo la vita non è stata generosa con lei quanto, tirando le somme, lo è stata con me e la principessa. Mio padre, il re Harald, concepì lei quando era giovane e sprovveduto, e il matrimonio con mia madre non lo interessava perché combinato e sulle prime celebrato addirittura a distanza. Essi si trovarono sposati senza nemmeno conoscersi né essersi visti se non da bambini, e la cerimonia ufficiale cui Asgard assistette un anno dopo non fu che uno specchietto per le allodole: il matrimonio era già stato celebrato un anno prima. Durante quell’anno, la frustrazione e la rabbia assalirono mio padre e lo portarono a cercare conforto tra le braccia di un’altra donna, la madre di Astrid. Dopo la cerimonia ufficiale, e dopo qualche tempo, il re si pentì del proprio errore davanti a sua moglie e davanti agli dei. Mia madre riuscì a perdonarlo perché lo amava, e ben presto il suo amore venne ricambiato con fervore e una condotta irreprensibile accresciuta dalla maturità.
Ma Harald non ebbe il coraggio di ripudiare la figlia che era venuta al mondo dal suo sbaglio, e benché l’avesse allontanata per sempre da Asgard continuò a provvedere al suo mantenimento. Dalla madre di Astrid esigeva il segreto, che fu mantenuto finché la povera donna, morta qualche anno fa, non lo rivelò a sua figlia in uno dei suoi ultimi respiri. Un documento firmato da mio padre e uno dei suoi anelli adoperati come sigillo, che Astrid mi ha consegnato al proprio arrivo, sono fra le testimonianze che mi hanno spinto a credere alle sue parole. –
Astrid aveva gli occhi lucidi, e Hilda la guardò con un sorriso triste.

- Io ritengo che sia giusto, quindi, che ella abbia da me quanto le spetti. Un posto a corte accanto a me e una famiglia, dato che non ha mai potuto sapere cosa significasse ed è stata costretta a nascondersi fuori da Asgard, finché si è ritrovata completamente sola. Non giudico la condotta di mio padre, perché l’avventatezza della gioventù porta spesso errori. Ma questa è la mia decisione, e spero che voi vogliate comprenderla e rispettarla. Detto questo, tacque, e Astrid la abbracciò mormorando “grazie”.

Alberich avvicinò Mime in quel momento, tra i mormorii di commento degli altri soldati, prendendolo per il gomito e trascinandolo in disparte.

-… Sorella della regina?! – Gli domandò tra i denti.

Mime aveva lo sguardo lontano.

- Ha gli stessi occhi di Harald… -

- Sì, ma tu ci credi?

- Perché non dovrei?

- Non ricordi quello che è successo nel Bosco? Mime! – Si sforzò di continuare a parlare sottovoce, ma Mime, destandosi come da una trance, lo guardò seriamente, e sospirò.

- Alberich, tu devi smetterla con i tuoi pregiudizi. Io non crederei mai ad una ragazza come Astrid se mi si presentasse davanti e dichiarasse di essere figlia di Harald. Ma c’è un documento firmato, un sigillo reale e la prova di Odino. Mi fido più dell’intuito di un dio che del mio.

Tuttavia la risposta lasciò entrambi chiaramente insoddisfatti, quando ad un tratto la voce di Hilda li fece voltare all’unisono. Si stava avvicinando con Astrid e Freya, che trotterellava felice dietro di loro, e Alberich fu preso da nuovi timori d’esilio, mentre Mime aveva assunto un’aria scettica nel constatare il lungo sorriso con cui Astrid l’aveva avvolto quando si era trovata abbastanza vicina.

- Iniziamo da loro due, sorella mia! – Esclamò Hilda – Mi hai detto di averli già conosciuti il giorno del tuo arrivo…

Alberich deglutì a vuoto e pensò: “Ci siamo”. Ma, senza lasciar trapelare i propri pensieri, si inchinò con fredda cortesia. Hilda proseguì, indicando prima l’uno e poi l’altro.

- Lui è Mime, ed oltre ad essere un prode cavaliere è un meraviglioso incantatore di cetre… - E lui è Alberich. Vi siete già conosciuti nel bosco! – Aveva assunto un’aria divertita, e Alberich se ne chiese il perché. Hilda intuì il suo disagio, e si affrettò a spiegare. – No, no, Alberich, non preoccuparti. Sebbene io critichi i tuoi metodi… ehm… bruschi, oggi è un giorno di festa. Stavi compiendo il tuo dovere di guardiano del Bosco, ma la prossima volta cerca di non esagerare! –

Diamine, sembra una madre che rimprovera un bambino con le dita nel miele, si stupì Alberich. Poi pensò che Astrid probabilmente si aspettasse le sue scuse. Scuse che il ragazzo si guardò bene dal pronunciare, chiedendosi invece in quali termini Astrid avesse raccontato l’accaduto alla regina in modo da determinare una reazione così blanda e superficiale. Ma la fanciulla, scuotendo la testa con un movimento elegante che le fece ondeggiare i capelli di rame, gli tese la mano e assunse un tono carezzevole.

- Questa è la nostra prima vera presentazione, caro Alberich… Dimentichiamo il passato! –
Sembrava un passo di una pièce teatrale in cui l’aristocratica castellana mostra condiscendenza al rozzo garzone di taverna.

“Nel Bosco hai tentato di spogliarmi, adesso mi tendi timidamente la manina… Chi credi di prendere in giro?” Pensò Alberich con lo sguardo fisso nel suo. E Astrid capì la sua espressione, tanto che abbassò gli occhi, affrettandosi poi a tendere la mano a Mime.
Poi Hilda la guidò verso gli altri, che Astrid esaminò con favore. La permanenza a Palazzo si rivelava sempre più interessante, pensò, mentre regalava ad un giovanotto dalla pelle insolitamente scura, che seppe poi chiamarsi Hagen, un meraviglioso e suadente sorriso.

La voce di Hilda proseguiva: - E questi è Siegfried Wolfangar, il capitano. Immagino non sia necessario che io aggiunga altro, sorellina: i suoi atti sono noti ben al di là dei confini di Asgard. –

“Ah,” pensò Astrid, “Costui dev’essere il ragazzo del drago”, e fu pronta ad elargirgli uno dei suoi sorrisi, ma le sue labbra rimasero immobili e la frase di circostanza che si era preparata rimase a mezz’aria. Hilda accennò un mezzo sorriso, constatando l’infallibilità di quello che lei e Freya chiamavano “l’effetto Siegfried”. Accidenti, questo non era previsto… Si sorprese a riflettere Astrid, e istintivamente si toccò una gemma che portava al collo, quasi per trarre sicurezza dalla sua solidità. Hilda non si accorse di questo turbamento. Ma Astrid pensò che la sua situazione si stava decisamente complicando. Si preoccupò tuttavia di non mostrare il minimo segno di difficoltà.
Quando, poco più tardi, pettinava i capelli di Hilda nella sua stanza, dichiarò con fervore di essere entusiasta di tutti i Guerrieri di Odino, e di trovarli belli e impavidi come li aveva sempre immaginati.

***

Il primo pensiero di Siegfried, quando Hilda aveva annunciato Astrid, era stato per suo padre. Aveva temuto così tanto il giorno della convocazione a Palazzo che sarebbe stato davvero divertente, per lui, raccontargli che s’era sbagliato e che la regina doveva semplicemente dar loro una buona notizia. Ma il divertimento era stato già rovinato quando aveva ascoltato la storia di questa nuova Polaris, così inquietantemente simile a quella di suo padre, sua madre ed Aska. Quando poi aveva visto Astrid davanti a sé, e i suoi occhi fiammeggianti posarsi su di lui senza alcun tipo di timore, era stato colto da un brivido di malessere. Pensò quindi di ascoltare i commenti dei suoi colleghi e chiese loro una riunione informale subito dopo il termine di quella con la regina.
Si fece raccontare dell’incontro di Mime e Alberich con Astrid come prima cosa e chiese le loro conclusioni.
Mime, interpellato, abbassò lo sguardo, pensoso, mentre Alberich, sorseggiando il suo corno di birra, non si fece ripetere due volte la richiesta di commentare:

- Fa la timida. Ma non lo è.

- Questo lo avevo immaginato. – Ribatté Siegfried; dialogare con Alberich, che per lui era solo un ragazzino impertinente e viziato che non faceva altro che fargli dispetti, non l’aveva mai allettato. Ma Mime continuava a tacere…

- Oh, no, tu non lo immagini invece. Ha avuto il talento di provarci con me e con Mime a distanza di circa un minuto! – Rispose Alberich, scoppiando a ridere.

- Davvero notevole… - Commentò Syd, che sedeva dall’altra parte del tavolo, alzando un sopracciglio. Avrebbe volentieri fatto a meno anche lui dell’esistenza di Alberich.

- Già! Se non riuscirò a darmi meglio da fare, questa donna finirà per eclissare i miei record!

Bofonchiò Alberich in risposta, tra le risate generali, che furono quasi subito interrotte da un commento spazientito di Mime.

- Alberich, ti ricordo che stai parlando della sorella della tua regina!

- Mah, - intervenne Siegfried, - se quella è la sorella di Hilda, io sono il re di Saturno.

Alberich non perse l’occasione:

- Mi auguro che la tua incoronazione avvenga presto, allora, così ci solleverai della tua presenza e io potrò dare la mia scalata al potere!

- Prego…? – Strabiliò Siegfried, mentre Syd soffocava una risata: assistere alle dialettiche contrapposte di Siegfried e Alberich era uno di quelli spettacoli che non avrebbe mai voluto perdere, specie quando Siegfried iniziava a prendere troppo sul serio le provocazioni dell’altro.

- Alberich, i piani malvagi non si rivelano al diretto interessato. Ti dovrò regalare il “Kit del Perfetto Personaggio Cattivo”, così magari almeno potrai imparare le basi. -

- Syd, non ti ci mettere anche tu! - si lagnò Siegfried. Quando si parlava con Alberich anche la discussione più seria rischiava di trasformarsi in charade, soprattutto quando qualcuno degli altri alimentava il fuoco, dato che tutti si divertivano a vederli battibeccare.

- Oh, non sono degno di tanta generosità, munifico Signore! - Replicò Alberich inchinandosi a Syd. Poi si voltò verso Siegfried con sguardo sornione e mimando il gesto con la mano:

- Non temere, verrò a salutarti con un fazzoletto candido e le lacrime agli occhi!

- Ragazzino, ti avviso: sto per giustiziarti.

- Obiezione, vostro onore! Mi appello alla clemenza della corte!

Siegfried pensò che il suo solito mal di testa da Alberich gli avrebbe rovinato la serata, mentre gli altri ridacchiavano.

- Alberich, mi sto spazientendo… Finisci il tuo racconto senza perderti nelle tue solite scempiaggini. Altrimenti hai dieci secondi per implodere.

- Ehi, mi hai preso per un buco nero, fratello?

- Non sono tuo fratello, per grazia di Odino e di ogni altra divinità conosciuta. Plaudo alle tue conoscenze scientifiche ma quanto al resto ho ancora un irrefrenabile desiderio di defenestrarti. O mandarti a breve nel buco nero di cui parlavi. Ti restano cinque secondi.

Alberich lanciò un finto grido struggente, portandosi la mano alla fronte, mentre Syd lanciava uno sguardo d’intesa ad Hagen, per indicargli di intervenire assieme a lui nel caso i due si fossero accapigliati come ragazzetti. L’uscita finale di Alberich terminò nel divertimento di tutti.

- Pena capitale o esilio... Che destino crudele! Sei un tiranno senza cuore, Siegfried… Avevo ben ragione io a tentare il colpo di Stato!

A Siegfried sembrava di interagire con un moccioso, quindi si costrinse ad essere tollerante.
La discussione su Astrid, in modo voluto o no, si spostò dunque verso altri argomenti decisamente più leggeri.
Mime, invece, seduto in disparte, aveva distolto lo sguardo dalla finestra quando aveva sentito i compagni scoppiare a ridere. Era lieto che una notizia importante come quella che avevano appena ricevuto avesse lasciato sui suoi amici ben poche tracce. Almeno su di loro.”

 

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Capitolo 14
*** ATTO II - Scena IV ***


SCENA IV

 

 

- Cos'è mai una macchia di verde nel biancore dell'inverno?

- Oh, un fiore... No?

- Non è sempre così, Seelye.

- Ma i bucaneve possiedono questo nome per un motivo... Sono inaspettati, sono i doni con i quali l'inverno corteggia l'arrivo della bella stagione.

- Lascia, allora, che io ti narri delle primavere apparenti…

 

***

 

"Era piccolo, anzi piccolissimo. Spuntava appena dal terreno ghiacciato, quasi temesse di mostrarsi. Freya capitombolò letteralmente accanto ad esso, ansimando. Il suo respiro produceva piccole nuvole di vapore che le solleticavano il naso. Ne accarezzò il bocciolo, quasi con tenerezza.
Hagen, che l'aveva vista precipitarsi in un punto imprecisato senza un motivo visibile, si era spaventato a morte credendo il suo entusiasmo nell'intravedere il fiore una caduta da cavallo.

- Principessa! Cosa succede?

- Guarda, Hagen! L'ho trovato, guarda qua!

Indicò il fiorellino non ancora sbocciato.

- Un bucaneve... E allora? - Rispose il ragazzo, con un sospiro di sollievo.

- Oh, Hagen, come sei prosaico! É il primo fiore. La primavera sta arrivando, e lui ce lo annuncia.

Incredibile - pensò Hagen, a metà tra il serio e il faceto - A volte sembra quasi una bambina...

Freya gli offrì uno di quei sorrisi disarmanti che lo facevano rabbrividire. Ma sarebbe stato meglio che lei non avesse mai potuto intuire la natura dei suoi pensieri. Non sempre erano... innocenti. Fortunatamente lui sapeva dissimularlo con estrema disinvoltura, e di questo era grato a se stesso.
Cercò quindi di nascondere il proprio turbamento quando Freya lo prese per mano invitandolo ad inginocchiarsi accanto a lei sulla neve. E, con uno dei suoi atti quasi fanciulleschi, lo aveva tirato così tanto che il ragazzo era stato sul punto di perdere l'equilibrio e di franarle addosso.

- Sai, - annunciò allegramente - questa consuetudine del primo fiore proviene da Hilda. Lei mi ha raccontato che da bambina, all'approssimarsi della fine dell'inverno, girava per giorni alla ricerca del primo fiore che le annunciasse la primavera. Era quasi un rito magico, per lei.

- Adesso non lo fa più?

Chiese Hagen, cercando disperatamente di interessarsi alla conversazione e non alle labbra di Freya.

- Non credo... Ma io sono qui per continuare la tradizione!

Detto ciò, si alzò in piedi, rimuovendo la neve rimastale sulla gonna con una piroetta che coinvolse Hagen in un ballo improvvisato.

- Come fai ad essere sempre così raggiante, sorellina? Svelami il tuo segreto!

I due giovani si voltarono allo stesso momento. Astrid scese dal suo cavallo bianco per andare ad abbracciare Freya con tenerezza. Hagen ebbe il tempo di notare che si trattava del cavallo di Hilda.

- Ero uscita dal Palazzo per una passeggiata... - Disse Astrid, accarezzando piano il muso del cavallo, - ... E vi ho intravisti. Disturbo? - aggiunse, con una punta di malizia. Hagen distolse lo sguardo, mentre Freya scoppiò a ridere.

- Assolutamente no, Astrid. Come ti vengono certe idee? Stavamo solo giocando!

- Questo l'avevo notato. Ma... Sei certa che al tuo accompagnatore piacciano certi giochi... ? -

La naturale continuazione di quella frase, rimasta a mezz'aria, era "... e non altri?", e Hagen lo capì immediatamente. Corrugò la fronte: non gradiva certe insinuazioni. Ma Astrid aveva stampato in volto un sorriso candido, e Freya non aveva, per fortuna, compreso il doppio senso dell'affermazione della sorella, per cui disse, leggermente stupita:

- Oh, beh, se gli avessero dato fastidio me l'avrebbe detto, credo... - Si voltò verso Hagen con aria interrogativa - ...Sì, vero?

Hagen annuì.
Astrid si strinse nelle spalle e rimontò a cavallo, salutandoli, dopo aver fatto una carezza a Freya. Ad Hagen, però, non sfuggì la punta d'ironia del suo sorriso di congedo, ragion per cui si limitò ad un mugugno di circostanza in risposta alla sua principessa che commentava entusiasta i capelli al vento dai bagliori infuocati della sorella maggiore.

***

Poche ore più tardi Hagen si trattenne per un po' davanti ad un caminetto, in una delle piccole stanze del castello di solito usate per trascorrervi del tempo libero o per prendere un the. Seduto per terra, su un tappeto, aveva la testa appoggiata al divano retrostante e guardava la danza delle fiamme quasi ipnotizzato da esse e dalla loro luce.
La sensazione di disagio provata quella mattina era dovuta non solo alle battute di Astrid, ma anche ai suoi sguardi: avevano il potere di farlo sentire inadeguato. Lui, un figlio di nessuno, in compagnia della sorella della regina di Asgard. Era normale che Astrid lo guardasse dall'alto in basso, e con una punta di commiserazione nel constatare in lui dei sentimenti senza speranza per una fanciulla d'alto rango e destinata a ben altri partiti. Aveva combattuto per anni con la convinzione di essere troppo poco, per meritare quello che aveva. Era stato accolto a Palazzo quando era ancora un bambino, da Harald e da sua moglie, che l'avevano fatto allevare tra gli agi garantendogli vitto, alloggio, istruzione e soprattutto affetto.
Freya aveva poi riempito il suo mondo, e dalla più tenera età il giovane aveva inseguito con tutte le proprie forze il potere e i ranghi di Guerriero Divino per diventare qualcuno e convincersi di meritare la sua vita nel castello, ma soprattutto per lei. Per essere degno di lei.
Chiuse gli occhi, e il calore delle fiamme gli scottò leggermente le palpebre.
Era abituato da anni di allenamenti ad interagire con il fuoco, unico tra i Guerrieri scelti da Odino, avvezzi per lo più al controllo dei poteri del freddo. Lui, Hagen, aveva imparato a manipolare energie calde e fredde, perché sentiva di dover fare di più, per essere al livello dei loro famosi antenati e delle loro famiglie nobiliari. E per acquistare credito agli occhi delle sue due regine, per essere notato e distinto.
Ma era ancora troppo poco. Troppo poco. Gli sguardi di Astrid gliel'avevano confermato: perfino quelli di una parvenue come lei. E nel cuore di Hagen, cominciava a farsi strada la convinzione che nulla sarebbe stato mai abbastanza.

- Ancora qui? - Domandò una voce alle sue spalle.

Era Mime. La sua compagnia più gradita nei momenti come quello; viveva anch'egli a Palazzo ma da molto meno tempo. Ad Hagen sembrava di ricordare che Mime avesse quindici anni quando era arrivato al castello. Non parlava, non guardava nessuno. Era andata avanti così per mesi, finché si seppe che era successa una disgrazia all'uomo che l'aveva allevato, il famoso Fölken. Quasi nessuno conosceva i particolari della vicenda, e Mime era una delle persone più criptiche e riservate che si potessero incontrare. Proprio perché, come lui, era orfano e non era chiaramente di famiglia nobile, Hagen lo sentiva molto vicino. Ma, come sempre, certe volte finiva per sentirsi inferiore anche a lui, che comunque vantava un padre adottivo ch'era stato uno dei più noti soldati mai esistiti ad Asgard pur non facendo parte dell'élite dei Guerrieri Divini, nonché l'enorme dono del talento musicale. A giudizio di Hagen quel dono lo rendeva quasi divino, specie se in comunione con la profondità intellettuale e spirituale del ragazzo. Ma era soprattutto grazie a questa che apprezzava la sua compagnia e i suoi silenzi.
Mime andò a sedersi sul divano accanto al punto a cui era appoggiato Hagen. Con la luce mobile delle fiamme riflessa su di lui, i suoi capelli biondo/arancio e i suoi occhi di rubino sembravano quasi incendiarsi. Buffo, per una persona apparentemente così gelida."

***

Specchio di anima in fiamma... Lucente cangiante accecante.

Profonda oltre ogni dire.

Ma che nessuno ne sveli il segreto.

Scolpiscilo in musica, affidalo al vento: i loro linguaggi non hanno parole.

***

"Per un po' i due giovani rimasero in silenzio. Poi, insolitamente, fu Mime ad iniziare.

- Sono passato di qui un'ora fa, e dall'uscio ti ho visto seduto in quel modo... Non sembravi aver bisogno di compagnia e me ne sono andato. Adesso ritorno e ti ritrovo nella stessa posizione. Sei troppo immobile per i tuoi standard. -

Hagen sorrise. Nel linguaggio di Mime, quello significava sollecitudine e una domanda simile a "Che cos'hai?".

- Mah, uno dei miei splendidi discorsi mentali privi di senso. Nulla di nuovo.- Gli rispose.

- Il fuoco è un interlocutore incostante e poco attento... Non ne vorresti uno in carne ed ossa?

Una domanda diretta? pensò Hagen, fantastico... Sta migliorando.

- Probabilmente mi sopporteresti meno di lui e meno di me stesso. Ma ti ringrazio comunque. - Sospirò, poi si rivolse a Mime - Tu ti sei mai sentito indegno della tua vita?

Mime strinse gli occhi, quasi colpito da una fitta di dolore improvvisa. Ed Hagen temette di aver premuto un tasto che non avrebbe dovuto toccare.

Ma gli occhi si riaprirono.

- Un'infinità di volte. Capita a tutti, no?

Il suo sguardo fisso davanti a sé si posò su Hagen, inquietandolo, perché quegli occhi dicevano molto di più della voce di chi li possedeva. Abissi inesplorati ed inesplorabili. E avevano il colore del sangue.
Hagen, per un momento, fu sul punto di chiedergli di più.
Ma voci concitate nei corridoi e passi affrettati fermarono le sue intenzioni prima che potesse pensare sul serio di metterle in pratica.
Bastian, il guardiano delle prigioni e cacciatore che era da talmente tanto tempo al servizio dei Polaris da essere ormai considerato un amico, aprì con violenza la porta. Aveva il fiato grosso e lo sguardo agitato.

- Finalmente ho trovato qualcuno! Venite, presto. Thor è andato ad inseguire i lupi. - Disse, tra un respiro affannoso e l'altro.

Mime e Hagen si guardarono, poi guardarono lui. Una folata di vento improvviso, proveniente dalla porta spalancata, fece ondeggiare pericolosamente il fuoco del caminetto, unica fonte di luce della stanza. Ma Hagen si apprestò ad accendere una lampada, subito interrotto da un gesto deciso del guardiano.

- Lascia perdere ed esci di qui. Venite tutti e due... Presto! -

- Ma che è successo? - Domandò Hagen.

- Si tratta di Astrid. I lupi l'hanno ferita.

Mime spalancò gli occhi. - I lupi? E Fenrir dov’è? I suoi lupi non attaccherebbero mai il castello e i suoi abitanti!

Bastian abbozzò un sorriso: probabilmente riteneva poco possibile che un branco di animali affamati di notte si ponesse problemi di divieto d'accesso ad una possibile riserva di cibo, solo per amore di un ragazzo in grado di comunicare con essi. Quando i giovani furono sulla soglia, egli pose le mani sulle loro spalle, spingendoli lievemente, con paterna condiscendenza. Quei ragazzi erano un po' anche figli suoi.
Mentre camminavano, Hagen gli chiese dove fossero Freya e Hilda.

- Visitano le tombe dei genitori in questo momento. Non temete per loro, hanno buona scorta. Ma mi occorre ognuno di voi.

Giunti davanti ad uno degli ingressi laterali del palazzo, Bastian si calò sugli occhi il cappuccio del mantello innevato che ancora portava addosso e ne lanciò uno ad Hagen, che lo prese al volo.

- Devi venire con me, ragazzo. È probabile che Fenrir e Thor abbiano bisogno d'aiuto. - Poi si interruppe, e scosse la testa - ... O forse no. Un Guerriero come voi non teme nessuna bestia, e Fenrir sa parlare con i lupi. Ciò nonostante loro hanno attaccato Astrid, e la mia esperienza di cacciatore mi ha insegnato che il comportamento degli animali non può sempre essere prevedibile. E infine io sono un maledetto vecchio ansioso... Devo comunque assicurarmi che entrambi stiano bene.

Hagen sorrise, mentre indossava il mantello: - Andiamo, Bastian, tu non sei affatto vecchio! Tiri con l'arco meglio di me e Thor messi insieme.
Ebbe in risposta uno sbuffo di Bastian, a metà tra l'imbarazzato e il grato, e poi lo scricchiolìo dei cardini arrugginiti della porta che veniva aperta a fatica, sorprendendo i tre uomini con una folata di vento gelido e neve.
Bastian sospirò.

- Una bufera ad inizio primavera... Gli Asi non sono proprio clementi, quest'anno... Noi vediamo il sole già troppo poco, e loro prolungano l'inverno! - Scosse la testa, poi si rivolse a Mime, che stava mantenendo la porta per permettere loro di uscire, e che fino ad allora non aveva proferito verbo - Tu resta qui. Anzi, va' da Astrid e vedi se ha bisogno di qualcosa. L’hanno portata nella sua stanza poco fa.

Mime corrugò la fronte e fece per protestare.

- Alt! - Lo fermò Bastian con un gesto imperioso della mano - Non accetto lamentele. Tranne i domestici, non c'è nessun altro a Palazzo... Astrid è la sorella della tua regina, ed ora è ferita e spaventata. Servi lei come serviresti Hilda.
Spinse fuori Hagen e chiuse la porta dietro di sé, lasciando Mime scontento e insoddisfatto. “Io non faccio il badante di Hilda, però”, pensò Mime.
Bastian avrebbe dovuto essere ben altro che un custode di celle, per come era autorevole: nemmeno Hilda riusciva a dirgli di no. Sembrava un po' il padre di tutti coloro che ne avevano bisogno, e a tutti andava bene ch'egli ricoprisse questo ruolo: non avrebbero potuto chiedere miglior genitore. Di padri ne ho avuti sin troppi, si trovò a pensare Mime, mentre saliva ai piani superiori verso le stanze di Astrid, ce ne sarà mai uno giusto per me?

Quando fu sulla porta, vi trovò Suzanne, la moglie di Bastian, che usciva dalla stanza proprio in quel momento.

- Oh, è una fortuna che tu sia qui. Forse avrebbe dovuto esserci Hilda o Freya, ma tu sarai senz'altro all'altezza della situazione...

- … All'altezza di quale situazione, precisamente? - Si stupì Mime.

- È molto scossa. L'ultima cosa di cui ha bisogno è di star sola. Falle compagnia mentre io vado a prendere dei tranquillanti, tu sei una persona tranquilla di tuo... È questione di pochi minuti.

Pochi minuti erano più che accettabili. Mime si era già rassegnato a sentirsi a disagio con Astrid per almeno qualche ora, e questa notizia gli risollevò l'umore. Preparò un sorriso ed entrò nella stanza, stupito, sulle prime, di non trovarvi Astrid nel letto. Si guardò attorno, poi la vide, inginocchiata davanti al camino, visibilmente alterata, mentre tendeva le mani al fuoco.
Accorse. In stato confusionale avrebbe potuto compiere qualsiasi cosa, e lui lo sapeva fin troppo bene... Si inginocchiò accanto a lei e le bloccò i polsi con le mani, allontanandola dalla fiamma. Astrid alzò lo sguardo. Indossava una camicia da notte dorata, e le spalle erano appena coperte da una vestaglia, che il movimento brusco stava facendo scivolare e che Mime si affrettò a rimettere a posto. Aveva la testa fasciata, dei graffi sul viso e sulle mani e i capelli di fuoco spettinati, ma era molto bella. Astrid si divincolò e strinse tra loro i lembi della vestaglia.

- I lupi mi hanno presa!! - Singhiozzò, con poca convinzione.

- Vi hanno anche lasciata andare, mia signora...

- Mi avrebbero uccisa! - Insisté lei - Sono fuggita appena in tempo.

- È molto strano che i lupi di Asgard attacchino gli esseri umani. Fenrir li conosce, Fenrir glielo impedisce. Lui è cresciuto tra loro... Ma, comunque sia, voi siete riuscita a fuggire; - le rivolse un rapido sguardo, quasi volesse chiederle come fosse riuscita a scappare, ferita, da un branco di animali selvatici inferociti per qualche motivo - dovreste essere grata al vostro coraggio e ad Odino, mia signora.

Astrid emise un mugolio insoddisfatto. Fissò il proprio sguardo sul viso di Mime, lo abbassò, sussurrò qualcosa a se stessa, poi lo risollevò nuovamente. Tentò di rialzarsi, facendo cadere la vestaglia, ma ricadde in ginocchio barcollando, mentre il ragazzo tentava di aiutarla, a disagio, avvertendo la non completa padronanza di sé di Astrid. Le luci delle fiamme danzavano sul viso di Mime quando lei lo guardò di nuovo.

- Tu... Non eri previsto, figlio di Fölken... - bisbigliò, con uno strano tono cantilenante. Mime credette che avesse completamente perso il senno, specie quando la mano di Astrid cominciò ad accarezzargli il viso e a passargli le dita sulle labbra.

- Forse i lupi lo sapevano... Tu non eri previsto! Non così! Sei un incendio scoppiato all'improvviso, e i tuoi occhi di fuoco mi uccidono come i lupi! -

I lupi? Che diamine centrano i lupi con me?! Pensò Mime incredulo. Astrid delirava senz'altro.

Mentre raccoglieva le idee per chiederle spiegazioni lei interruppe i suoi pensieri e il fiato, con le labbra febbricitanti sulle sue, all'improvviso. Ecco, questo davvero non lo aveva previsto, altro che i lupi... Tentò di ritrarsi con delicatezza, ma la donna strinse le braccia attorno al suo collo. Un bacio con cui sembrava quasi divorarlo, bruciarlo come il fuoco accanto a loro. Mime non aveva mai conosciuto un così improvviso ardore da parte di una donna e, dal momento che lui e Astrid si conoscevano molto meno che poco, lo trovava del tutto immotivato. D' istinto aveva ricambiato il bacio, ma quasi subito si rese conto di non desiderarlo e si staccò da lei, stavolta in modo deciso. Astrid lo guardò muta e non fece domande, ma i suoi occhi brucianti e umidi non lo lasciavano andare.

Qualche minuto dopo, Hilda irruppe nel silenzio incendiato della stanza, seguita da Freya. Senza esitare si precipitò accanto ad Astrid e la abbracciò, mormorando preoccupazione circa le sue ferite. Mime ne approfittò per rialzarsi in tutta fretta e passarsi il dorso della mano sulla bocca, per cancellare eventuali segni di rossetto.

Più tardi, solo nella propria camera, quando ormai l'atmosfera di agitazione delle ore precedenti si era calmata, il giovane ebbe occasione di ripensare all'accaduto. La prima sensazione fu confusa e indefinita. Le labbra di Astrid l'avevano frastornato per qualche istante, ma aveva capito immediatamente che qualcosa non andava. Lei non avrebbe dovuto essere lì, lui non avrebbe dovuto essere lì... Quella situazione, quella passione, non avrebbe dovuto essere vissuta da loro.
Si chiese per un attimo se temesse troppo la differenza di rango di Astrid per lasciarsi andare, come Hagen... Ma non era quello il punto. Classificò quindi l'accaduto come un errore, e s'impose di tenerlo per sé. Probabilmente Astrid si era comportata in quel modo perché in preda allo choc dopo la disavventura con i lupi; la cosa gli sembrava talmente poco importante, che non faticò a credere che anche lei l'avrebbe dimenticata al più presto. Pizzicò le corde della sua cetra. Era decisamente meno problematica di qualsiasi donna, e soprattutto, non gli procurava mai dubbi né problemi. L'abbandono della musica lo colse mentre le prime note si spandevano per l'aria, portando la sua anima a vette dove nulla aveva più importanza. E il bacio di Astrid volò via con esse."

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Capitolo 15
*** ATTO II - Scena V ***


SCENA V

 

(Racconta Eis)

 

"I giorni si susseguirono e finalmente l'inverno cedette il passo alla timida, breve e attesa primavera asgardiana. Da molto tempo Hilda non vedeva il sole, e il primo giorno in cui il cielo fu sgombro da nuvole e il tepore dell'astro fu così intenso da riscaldare, attraverso i vetri, le tende della sua stanza, la fanciulla saltò letteralmente fuori dal proprio letto e spalancò subito ogni finestra che trovava sul proprio cammino. Si fermò accanto alla più grande e la luce e il calore del sole di bella stagione le scesero sul viso come una carezza materna. Un miracolo breve e lontano, quando l'inverno batteva alle porte con la furia della neve.
Non restava che goderne per il tempo in cui era concesso.
Hilda, che pure avrebbe rinunciato a tutto fuorché alla sua neve e alle sue montagne di roccia e conifere, si sentiva così presa dalla luce del sole da avvertire quasi una stretta al cuore. C'erano alcuni spettacoli naturali che la inebriavano a tal punto da poter essere paragonati ad emozioni di natura umana. Nessuno era lì per causarle di proposito, quelle emozioni... Ma tali spettacoli esistevano e basta, come esisteva il mondo, come esisteva il cielo da tempo immemore, e il loro effetto riusciva ad essere così forte pur se privo di causa, e così totalizzante, che qualsiasi animo sensibile ne sarebbe stato scosso fin nel profondo.
Anche se avvertiva il fascino magico della notte, la luce la metteva sempre di buon umore.
Pensando a ciò che l'attendeva, a cuor leggero accolse Suzanne che, come ogni mattina, arrivava a portarle la colazione. A dire il vero lei non glielo aveva mai chiesto; ma l'anziana domestica, che era stata la sua balia e molto di più fin dalla più tenera età, continuava a viziarla come fosse una figlia, e protestava quando lei, imbarazzata, cercava di prendere le distanze.

Suzanne notò subito il suo buon umore:

- Ti vedo in ottima forma, piccola. É la primavera? Un miracolo concatenato ad un altro... C'è quasi da andare ad innalzare un nuovo altare a Balder.

Hilda si strinse nelle spalle con fare fanciullesco. Balder era il giovane dio della vegetazione e della luce, e molte delle grazie della bella stagione erano dovute a lui, secondo il popolo di Asgard.

- Oh, ci sono svariati motivi per cui essere di ottimo umore. - Rispose, traendo a sé la ciotola del porridge.

Suzanne si sedette accanto a lei, incrociando sul tavolo le braccia grassocce. Non l'aveva mai trattata come una regina se non dal punto di vista affettivo, e quindi era una delle poche persone che non si rivolgeva a lei con appellativi formali. Hilda gliene era profondamente grata.

- Sentiamoli, allora! -

- La primavera e il sole... - Accennò alla finestra aperta con un movimento del capo, da cui proveniva, attutito dalla brezza e dalla distanza, un suono di violini, - le feste in onore del risveglio della vita... Hmm... Qualcosa di simile alla Beltane dei Celti, non è vero?

- Sarà qualche strascico popolare delle celebrazioni druidiche. Non erano così lontane dalle nostre. Nonostante i secoli, sono tradizioni che tardano a morire, finché il popolo ci crede.

- Non c'è nulla di male nel festeggiare la primavera...

- Beltane non era un tranquillo festeggiamento di campagna, piccola mia... - aggiunse Suzanne lievemente imbarazzata - ... Ma non è male che ne siano rimasti gli echi più... consoni alla morale.

Hilda scoppiò a ridere. Suzanne parlava proprio come una mamma.
Le feste in onore della primavera erano consuetudini comuni a molti popoli antichi, con scopi medesimi anche se avevano nomi diversi. Lei conosceva benissimo gli esiti di Beltane, secoli addietro: la celebrazione dell'unione del Re Cervo con la Vergine Primavera e le feste in onore della vita e dell'amore non erano soltanto simboliche, ma anche fisiche. Ma progressivamente, almeno nell'ufficialità e nel pubblico, si erano ridotte a danze popolari e giochi nei boschi. Nulla che potesse offendere la morale di Suzanne, insomma.
Superato l'attimo di disagio, la donna la invitò a proseguire nell'elenco dei motivi per cui era così allegra, e Hilda, solitamente molto restìa a parlare di sé, quel giorno si sentiva particolarmente loquace. Iniziò a contare sulle dita, come una bambina e come faceva da piccola, ricordò Suzanne con un moto di commozione.

- Dunque... Astrid è totalmente guarita dalle ferite, e sembra anche aver superato il trauma dei lupi; le giornate saranno sempre più lunghe, e posso smettere di ricoprirmi di strati di vestiario infiniti... -

- ...Per non parlare di qualcun altro, che ricomincerà ad andare in giro non ricoperto da strati di vestiario. - soggiunse Suzanne, fintamente sovrappensiero, facendole l'occhiolino.

Hilda arrossì, colta in fallo, ma non fece alcun commento.

Invece si alzò, prese qualcosa da una scrivania, e lo sventolò sotto il naso della donna. Era un biglietto.

- Cos'è questo? - Chiese Suzanne.

- É una lettera di Saori. Saori Kido, la giovane reincarnazione di Atena che venne qui con i suoi cavalieri, dal Sud... Mi ha invitata in Grecia.

- In Grecia? Ma è un viaggio lunghissimo...

- Suzanne, è da un bel po' di decenni che hanno inventato gli aerei; ce la farò. E ci riuscirò persino in giornata, sembra.

- Spiritosa. E tu hai intenzione di andarci?

- Non so... Ma perché no, in fondo? Non ci sono mai stata.

- Ma così lasci tutto... - obiettò Suzanne.

- Non si tratta di partire immediatamente, né di star via molto: Suzanne, conosco i miei doveri. Appurerò l'opportunità di questo viaggio, mi assicurerò di ogni cosa, e infine deciderò. - rispose Hilda con risolutezza.

- Ad ogni modo, sembri proprio decisa... Perché?

Hilda le voltò le spalle, e, sempre con la lettera in mano, si avvicinò ad una finestra. I suoi capelli e le tende semitrasparenti sembravano fondersi nel muoversi al ritmo della brezza e nel rifrangere i raggi del sole. Abbassò la testa.

- Saori vorrebbe ospitarmi e parlarmi, ma non mi scrive solo per se stessa... Lei... Lei scrive anche da parte di Julian Solo.

- E chi sarebbe questo Solo?

Hilda strinse convulsamente la lettera fra le mani: - É la reincarnazione di Poseidone, dio greco dei mari. Il dio era nel suo corpo, quando è successo tutto. La mano e la voce che mi hanno imprigionata nel gorgo nero dell'Anello del Nibelungo erano le sue.

Suzanne si alzò di scatto e urlò: - Per tutti gli dei del Walhalla! Cosa può volere ancora da te?!

- Vuole chiedermi scusa.

Suzanne non credeva alle proprie orecchie. Il minimo che quel Julian/Poseidone avrebbe meritato, a suo giudizio, era la morte più atroce, per tutte le disgrazie di cui era stato causa... Con quale forma di insanità mentale poteva pensare che delle scuse verbali sarebbero state sufficienti?

- Chiederti scusa? Ridicolo. Assolutamente ridicolo.

- Lo so... - Rispose Hilda con un piccolo sospiro - Ma io voglio guardarlo negli occhi. Voglio che lui guardi me quando gli riverserò addosso tutto il male che mi ha fatto. Voglio sapere come pensa di architettare la sua sceneggiata di scuse. -

Il suo sguardo divenne gelido, con una sfumatura di crudeltà repressa che spaventò l'anziana domestica. Poche volte l'aveva vista così tranquillamente decisa a fare e pensare qualcosa di male. Ne ebbe quasi paura. Ma l'ombra sul viso di Hilda scomparve dopo pochi secondi, lasciando il posto ad uno sguardo più calmo e deciso. Ripose con movimenti sicuri il biglietto di Saori Kido in un cassetto, poi aiutò Suzanne con il vassoio della colazione. La donna capì che nessun altro tentativo di dissuasione avrebbe avuto successo, quindi non osò parlare. Capì anche di essere stata congedata, e che la regina aveva adesso preso il posto della figlia adottiva.
Gli occhi di Hilda le dicevano che non ci sarebbe stato più posto per dubbi o ripensamenti. Avrebbe incontrato quella Saori, avrebbe ripreso contatti con elementi di un periodo della sua vita che avrebbe dovuto invece dimenticare; e avrebbe assistito alla patetica recita di scuse di questo Julian Solo, che dava ennesima dimostrazione del proprio valore lasciando ad altri la trasmissione della propria richiesta.
Fosse stato per lei, l'unico modo utile di recarsi a tale riunione sarebbe stato armati di pugnali assortiti. Ci pensava ancora quando più tardi, nelle cucine, riponeva la zuccheriera nell'unico posto che avrebbe, come al solito, suscitato le ire della cuoca.

***

Hilda, per parte sua, corse da Astrid e le raccontò dell'invito.

- É proprio essenziale che tu ci vada? - , commentò lei, dopo aver letto e riletto le parole della Kido, - Non potresti richiedere una formale lettera di scuse a quest'uomo ed archiviare la faccenda?

- No. Io devo guardarlo negli occhi.- risposte Hilda.

Astrid alzò lo sguardo al cielo; poi prese per mano la sorella e iniziò letteralmente a trascinarla.
- Vieni con me. Ho bisogno di un po' d'aria. -

Non era necessario, questa mossa era sbagliata, e sua sorella ne avrebbe di nuovo sofferto. Glielo disse, con tono accorato, una volta che furono giunte all'esterno e che l'aria frizzante del mattino di inizio primavera le ebbe fatte rabbrividire.
Proprio ora che stava riacquistando un po' di serenità! Per un attimo, aveva avuto voglia di strappare quel foglietto in mille pezzi. Sbuffò leggermente, poi carezzò piano la guancia di Hilda, con gli occhi lucidi, ma non aggiunse altro.
Il cielo era splendidamente terso, i raggi del sole sembravano d'oro e d'argento, e l'ultima neve si scioglieva tutto intorno, rendendo l'intera Asgard porcellana disseminata di diamanti. Le due giovani donne camminarono in silenzio per un po', fianco a fianco, in uno dei terrazzi giardino del palazzo. Hilda era grata alla sua neo sorella di quell'atteggiamento; dopo l'ansia materna di Suzanne, e dopo quella che, ne era sicura, sarebbe diventata una crisi di pianto o supplica d'enormi occhioni spauriti da parte di Freya, aveva bisogno di una... disapprovazione più tacita e meno invasiva. Più adulta. Né di mamma verso figlia, né di figlia verso mamma. Astrid trasmetteva sicurezza ad ogni cadenzato, lento, elegante passo che faceva, e l'avere una sorella maggiore così... “sorella maggiore” piaceva enormemente alla regina. Finalmente qualcuno con cui confidarsi da pari a pari, finalmente qualcuno con cui dividere il peso delle sue preoccupazioni, del regno. Chissà, magari un giorno avrebbe persino racimolato da qualche parte il coraggio di parlarle di Siegfried.

Quando giunsero al parapetto del terrazzo, che garantiva una vista mozzafiato sull'intera città immersa nella luce in cui il sole e la neve la avvolgevano, restarono ancora un po' in silenzio a bearsi del suono del vento.

Astrid sapeva benissimo che Hilda avrebbe parlato per prima.

- Sai - iniziò infatti questa, girandosi e appoggiandosi con i gomiti al parapetto di marmo bluastro mentre il suo sguardo si fermava su una fontana sormontata da una statua, al centro del terrazzo, come a cercare in quell'immagine ricordi lontani, – In questo giardino ho sempre preso decisioni importanti. Fu qui che Hagen venne a chiedermi di entrare nel corpo d'élite dei Guerrieri Divini insieme a Siegfried. A dire il vero avevo deciso di accoglierli già da tempo, e Odino aveva mandato I suoi segni per suffragare la mia scelta, ma mi divertii ad ascoltare Hagen che parlava di quanto meravigliosamente due guerrieri audaci e coraggiosi come loro avrebbero protetto me e Freya dai pericoli... -

Astrid accennò una breve risatina, voltandosi a sua volta.
Hilda proseguì: - ...Era così entusiasta che non ho osato contraddirlo neanche quando parlò di una profezia contenuta negli Annali di Asgard circa una guerra che avrebbe minacciato la nostra città... Non gli credevo, naturalmente. Odino non mi aveva mai mostrato questo rischio. Poi la guerra venne, insieme agli stranieri di Saori Kido. Hagen aveva avuto ragione, e io per mesi pensai di essere divenuta incapace di leggere i segni degli dei... E ovviamente responsabile della fine di quegli stessi due ragazzi cui avevo dato l'investitura e l'armatura quel giorno, sotto quella fontana. - La sua voce si fece più fievole mentre lentamente iniziò a dirigersi verso la fontana di cui si parlava. Astrid la seguì.

- Odino quindi aveva visto giusto, scegliendo Hagen e Siegfried. Ha garantito protezione al regno durante la guerra, no?

Hilda la guardò seria.

- No, ha semplicemente garantito loro la morte. Mandò avvertimenti per spingermi a tutelare in qualche modo il mio regno, ma senza spiegare il motivo delle sue preferenze. Poseidone era un nemico troppo pericoloso, e quando si impadronì dell'Anello del Nibelungo per nessuno di noi ci fu più speranza.

- Raramente gli dei motivano le loro azioni. - replicò Astrid, lo sguardo improvvisamente immoto, fisso sullo zampillo d'acqua della fontana, lontano – C'è chi crede, come me, che non siamo che burattini nelle loro mani. Tu sei più fortunata se riesci in qualche modo a comunicare con essi. Magari, un giorno, Odino risponderà ai tuoi dubbi. -

- Dubito che questo avvenga prima della mia morte. Per questo io devo incontrare Julian Solo. Lui è un dio nel corpo di un uomo. Magari questo insieme di divino e umano renderà più facile, per me, chiedere delle spiegazioni e interpretarle. Parla con voce umana, guarda con occhi umani...- Strinse convulsamente le mani tra loro – Io... Glielo devo, capisci? Lo devo a coloro che sono morti in nome degli dei, a coloro che hanno sofferto. Lo devo ad Hagen, e a Siegfried, e agli altri... Io sono l'unico tramite che hanno! È il mio dovere di regina e di sacerdotessa.-

- Poseidone, però, non è Odino, sorella mia...

- Questo lo so. Cosa vuoi dire?

- ...E non pensi che sia il nostro dio, prima di altri, a doverti fornire delle risposte?

L'affermazione di Astrid colpì Hilda sul vivo. Queste improvvise esigenze suonavano nuove alle sue stesse orecchie. Mai la sua fede aveva vacillato. Mai, fino a quel momento, fino alla guerra, fino alla morte. Alzò lo sguardo al cielo, limpido, azzurro e scevro da nuvole. In fondo, lei non era che un essere umano. Quando il mondo attorno crolla, quando sei spettatore muto di una tragedia che non riesci a spiegarti condizionato dalla tua umanità, e pur tuttavia devi sforzarti di restare una roccia incrollabile per sostenere la fede del tuo popolo... Cosa ne sanno, gli dei, di quanto questo può annientare un, seppur forte, spirito non divino? Davvero non si aspettano mai dubbi, da parte di quelle creature che essi stessi hanno creato prive del loro sguardo che abbraccia tutti i quando e tutti i perché?

- Non sta a me giudicare l'operato e le decisioni di un dio. Che Odino mi punisca, se ravvisa in me un comportamento non idoneo quando uso l'intelletto che lui stesso mi ha donato, o se mi comporto da umana qual sono per mano sua. - Disse Hilda infine, lo sguardo sempre fisso al cielo, in una silenziosa richiesta... O una silenziosa sfida - Ma se gli dei non mi rispondono, andrò a cercarmi le risposte da sola. -

I suoi occhi erano di ghiaccio, quando abbassò lo sguardo dal cielo alla terra.
Un iceberg immobile, ma di cui si avverte la potenza solo osservandolo, con la consapevolezza che la vera immensità della sua mole è nascosta sotto l'acqua.

E Astrid pensò che lo spirito umano della regina di Asgard era ben lungi dall'essere spezzato.”

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