Ali in gabbia, Occhi selvaggi

di Nebula216
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sharifa ***
Capitolo 2: *** Aisha ***
Capitolo 3: *** Sabbia rossa ***
Capitolo 4: *** Gerusalemme ***
Capitolo 5: *** Incontro ***
Capitolo 6: *** Errore ***
Capitolo 7: *** Rafiq ***
Capitolo 8: *** Fuga ***
Capitolo 9: *** Collaborazione ***



Capitolo 1
*** Sharifa ***


“Ali in gabbia, Occhi selvaggi”
 

 
Capitolo 1:Sharifa
 
Pioveva.
Non sapevo da quanto tempo ero rimasta incantata, avevo perso la cognizione di qualsiasi cosa: tempo, spazio, forse anche l’appetito.
Raramente in Terra Santa pioveva e, quando accadeva, i risultati erano molteplici: gioia e stupore nei bambini, preoccupazione per i pastori che dovevano condurre le greggi verso gli ovili, paura che questo attimo di felicità potesse finire troppo presto.
La pioggerella, fine e a malapena percettibile sulla pelle, andava a confondersi tra i crini dei cavalli di mio padre, occupati a mangiare il fieno che, poco prima, avevo messo loro nel grande recinto adiacente alle stalle. Fra poco mio fratello Hassan li avrebbe rimessi nelle loro poste, questo significava che…
-Oh no…-
Mormorai, alzandomi di scatto dalla mia branda e iniziando a correre, nonostante l’abito che mi si avvolgeva attorno alle gambe come una schiera di affamati cobra del deserto: se era giunta l’ora di rimettere i cavalli nella stalla, questo significava una sola cosa… avrei dovuto cucinare se non volevamo restare a stomaco vuoto, cosa plausibile visto che, ancora, non avevo preparato niente.
Sistemai delle scodelle sul tavolo, accompagnate da dei rudimentali calici e cucchiai grezzi, prima di rendermi conto che il calderone con uno stufato di carne stava già bollendo.
-La mia sorellina distratta.-
Sentii dire da qualcuno che mi scompigliò i capelli amorevolmente: Hassan era un ragazzo di venticinque anni circa e, oltretutto, uno fra i più ambiti di Damasco.
Il suo fisico era magro, ma abbastanza muscoloso da non renderlo mingherlino; la pelle aveva catturato i raggi del sole, donando al suo corpo una tonalità bronzea simile al tramonto. I lineamenti del volto erano dritti, non aveva alcuna traccia di imperfezioni, a parte una piccola cicatrice sulla guancia sinistra, e i suoi occhi color ambra, dal taglio quasi felino, sapevano far sognare qualsiasi ragazza della città.
I capelli color pece, tenuti corti a causa del sole battente e del caldo afoso, completavano il suo aspetto.
-Dovevi avvertirmi che era quasi ora di cena. Ero…-
-Distratta, lo so.-
Disse ridendo, prima di regalarmi un bacio sulla tempia destra come dimostrazione d’affetto: adoravo mio fratello, sebbene certe volte fosse esagerato con le sue battute. Va bene, ero distratta… anzi, mi ero distratta, ma se aveva cucinato lui tanto meglio no?
…Forse no.
-Hai cucinato tu?!-
Domandai a metà tra il terrorizzato e il divertito, reazione che mi fece guadagnare una bella occhiataccia da parte sua: se c’era una cosa che Hassan non sapeva fare, o quantomeno dove non eccelleva, era proprio cucinare; per questo me ne occupavo io, mentre nostro padre, Rashid Madani, lavorava nella piccola fucina poco distante dal recinto dei cavalli.
-Ah ah, davvero spiritosa.-
-Non ero certo io quella che ha sputato da mangiare fuori dalla porta.-
Vidi chiaramente le guance di mio fratello tingersi di una tonalità più rossa e i suoi occhi sbarrarsi a dismisura.
-Ehi! Avevo messo troppe spezie ma mi sto regolando!-
Sospirai divertita, mentre con un mestolo di legno rigiravo lo stufato per evitare che si attaccasse al fondo: onde evitare altre scenette come la gara di sputi, presi il mio cucchiaio e ne assaggiai un poco, sotto lo sguardo speranzoso di mio fratello.
-Mh…-
-Allora? Dai Sharifa parla! Sono promosso?!-
Domandò con voce quasi strozzata, causandomi una risata serena e allegra. Gli scarruffai fraternamente quella zazzera di capelli corti che si ritrovava.
-Tranquillo Hassan, sei stato promosso.-
-Promosso a cosa?-
Una voce anziana, ma ancora melodica e quasi giovanile, mi fece girare verso la porta: mio padre Rashid era un uomo robusto, dal carnato identico a quello di mio fratello maggiore. La differenza, tra i due, stava nel colore degli occhi, più scuri in mio padre, nei capelli ormai grigi e la cicatrice sulla guancia sinistra che non compariva sul volto del capo famiglia.
Sorridente, lo accolsi con un abbraccio che fu prontamente ricambiato: papà aveva un stretta ferrea e salda, ma con me diventava dolce, come se avesse paura di spezzarmi a metà.
Lui mi considerava un fiore del deserto, raro e delicato.
Forse era per questo che aveva sempre paura a stringermi con troppa irruenza.
-E’ stato promosso a cuoco in seconda papà.-
-…Vuoi avvelenarmi Sharifa?-
Domandò ridendo, mentre Hassan sbuffava e versava lo stufato nelle ciotole: avrebbe rimesso dopo cena i cavalli nelle scuderie, dato che detestava interromperli mentre si svagavano nel recinto. Aveva passato il pomeriggio ad ammaestrare un giovane stallone che, nevrile com’era, aveva cercato in ogni modo di gettarlo a terra, inutilmente: in famiglia, mio fratello si occupava dell’addestramento dei cavalli, i quali poi venivano venduti al mercato. Ogni volta mi dispiaceva separarmi da qualche giovane destriero, in fondo li vedevo crescere, ma sapevo che mio padre li avrebbe venduti a gente onesta e buona.
Non era da lui darli a persone predisposte a maltrattarli.
Lo stufato finì ben presto, così decisi di mettere in tavola un po’ di frutta che avevo comprato al mercato quella mattina. Mi bastò prendere il cesto che la conteneva per ricordarmi le facce della gente: alcuni sembravano sorridere a fatica, altri evitavano persino di parlare o guardarti. Pensierosa, staccai da un grappolo d’uva un rametto, gustandomi con calma ogni singolo chicco, mentre mio padre e mio fratello si davano ai datteri: non capivo il motivo per cui la gente del posto fosse così preoccupata… che fosse per la possibile siccità?
No, non mi tornava: acqua ce n’era in abbondanza nei pozzi, eravamo riusciti a raccoglierne un bel po’. Allora perché la gente viveva nel terrore? Che la mia fosse una semplice fantasia?
Qualcuno mi fece riprendere dai miei pensieri tirandomi una ciocca dei miei lunghi capelli color mogano.
-AHIO!-
-Sorellina, ci sei?-
Domandò Hassan con un sorriso divertito dipinto sul volto, mentre con le dita della mano sinistra giocava con la ciocca che mi aveva tirato: maledetto traditore, mi ritrovai a pensare mentre arricciava i capelli.
-Sì ci sono Hassan, e vorrei farti notare che mi strapperai i capelli se continui a fare così.-
Mio padre rise di gusto vedendo l’espressione buffissima che aveva assunto mio fratello, una risata che ben presto contagiò sia lui che me: papà era una persona fantastica, sapeva sempre quando e come scherzare, come farci forza, come incoraggiarci… sapeva come fare il suo ruolo.
-Forza Hassan, rimetti nelle scuderie i cavalli. Io aiuto tua sorella.-
-Papà tranquillo posso fare da sola. Tu vai a riposarti.-
Dissi sicura a mio padre: nonostante il suo fisico muscoloso e robusto, anche Rashid iniziava a sentire il peso degli anni. Ogni sera tornava in casa dolorante, sebbene cercasse in ogni modo di sembrare in forma, pieno di energie come suo figlio maggiore: papà voleva farci vedere che stava bene, che ancora poteva sopportare orari lavorativi estenuanti… ma non era così. Da quando nostra madre era morta, lui si era fatto in quattro per farci crescere bene, aveva fatto di tutto per essere un buon padre, per non farci sentire il vuoto lasciato dalla sua scomparsa prematura.
E ora ne sentiva il peso.
Mi abbracciò dolcemente, augurandomi una buonanotte e sogni d’oro, prima di scomparire nella sua stanza fischiettando un motivetto di una canzone popolare che, improvvisamente, mi ritrovai a canticchiare a bocca chiusa mentre pulivo con cura le ciotole e il tegame dello stufato in un secchio che avevo, fortunatamente, riempito in precedenza con dell’acqua tiepida.
-Sembri nostra madre.-
Esordì Hassan appoggiato allo stipite della porta. La prima luce della luna illuminava la sua pelle dorata, rendendola più chiara e opaca di quello che era alla luce del sole: le vesti erano ricoperte di polvere, probabilmente perché qualche cavallo non aveva voluto farsi prendere. Risi, togliendogli dai capelli un filo di paglia.
-E tu sembri un puledro conciato in questo modo. Chi ha fatto storie adesso? Shetan? Hani? Ayman?-
Mio fratello scostò lo sguardo, imbronciato.
-…Farah Dihba.-
Sussurrò a denti stretti e facendomi scoppiare, non volontariamente, in una risata allegra: Farah Dihba era una fantastica giumenta dal mantello baio, piena di energie e coraggio… oltre che parecchio dispettosa. Ogni volta che doveva rientrare nelle scuderie faceva di tutto per evitare di esser presa da Hassan: eppure, quando veniva sellata, era dolce e ben disposta a collaborare.
Mio fratello mi fulminò con lo sguardo, piegando le labbra in un sorrisetto che, di rassicurante, non aveva niente: furbo come quello di uno sciacallo ed enigmatico quanto la faccia di un aspide.
-Ridi eh? Ti darò un buon motivo per ridere Sharifa!-
Improvvisamente, mi prese come se fossi stata una balla di fieno, caricandomi sulla sua spalla senza alcuno sforzo.
-HASSAN!-
Riuscii a dire con voce stridula prima che mi afferrasse ed iniziasse a torturarmi i fianchi con tanto, fin troppo, solletico: risi così tanto che dai miei occhi, di un colore simile al verde acqua scuro, iniziarono a scendermi delle lacrime e il respiro, già irregolare a causa delle risate, mi mancò qualche volta.
-Hassan ti prego basta!-
-Ah no, non è una frase sufficiente! Chiedimi scusa.-
-Ma di cosa?-
Domandai, prima di ricadere in un baratro di risate: Hassan non aveva alcuna intenzione di smetterla di farmi il solletico, a meno che non mi scusassi immediatamente per aver deriso della sua disavventura con la cavalla… cosa che non ero disposta a fare.
Ero una ragazza orgogliosa, difficilmente chinavo il capo se non mi sentivo realmente colpevole, e questo era uno di quei casi. Così come me, anche il mio carnefice non apprezzava l’idea di doversi scusare per primo se il torto non era suo: avrebbe continuato così in eterno, non si sarebbe stancato tanto facilmente… mentre io iniziavo a sentire i crampi all’addome.
-Mi dispiace Hassan, ma ora basta ti prego! Sto per sentirmi male!-
Tempo di dire le prime due parole, che già le sue dita cessarono di solleticarmi i fianchi con i loro movimenti rapidi, lasciando il posto alla presa ferrea e decisa delle sue mani: pochi attimi dopo, i miei piedi trovarono la stabilità del pavimento. Sebbene fossi finalmente in piedi, trattenni le maniche della tunica di mio fratello nelle mani, con il terrore di cadere per terra: ero conscia del fatto che sembravo una bambina ai primi passi, però non volevo ritrovarmi con la faccia al livello del suolo.
Hassan mi rivolse un sorriso fraterno e dolce.
-Stai bene?-
Mi domandò, scostandomi una ciocca di capelli color mogano dal volto. Mi limitai ad annuire, troppo stanca per poter pronunciare una minima frase.
-Buonanotte Hassan.-
Mi limitai a dire.
-Buonanotte Sharifa.-
Mi rispose mio fratello, regalandomi il solito bacio della buonanotte sulla fronte prima di lasciarmi andare nella mia camera.



Angolo Autrice: *sbuca da dietro il sipario timorosa* Salve... ehm... dunque, questa è la rima fic su Assassin's Creed che scrivo (e sicuramente si vede -.-'').
Mi è venuta in mente ascoltando una canzone dei Two Steps From Hell (che, penso, santificherò perché mi ispirano sempre X°°°D) "Merchant Prince".
E' una fic scritta da me e dedicata a un'amica che mi è sempre stata vicina, il cui personaggio sarà introdotto nel capitolo successivo.
Che dire... vi lascio con un paio di immagini di Sharifa.
Detto questo, mi dileguo XD.
Bacioni!
Nebula216

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Capitolo 2
*** Aisha ***


Capitolo 2: Aisha

E
ra finito.
Anche quel manoscritto era stato divorato dalla mia voglia di sapere in breve tempo: se avessi continuato di questo passo, non me ne sarebbe rimasto nemmeno uno. La biblioteca di famiglia, ormai, era diventata una mia seconda stanza, viste le ore che ci passavo: conoscevo la posizione di ogni singolo codice, su quale scaffale stava e come iniziavano.
Appoggiandomi contro lo schienale imbottito della sedia, provai una noia immensa: quello era l’ultimo che mio padre mi aveva riportato da uno dei suoi viaggi… adesso dovevo attendere il prossimo.
Un’attesa che poteva variare dalle poche settimane a più di tre mesi.
Allontanai dal mio sguardo verde acqua chiaro un piccolo ricciolo ramato, evidentemente sfuggito all’acconciatura che mi era stata fatta dalla nutrice quella mattina. Presi il mantello di lana finemente lavorata, mettendolo sulle spalle ed uscendo da quel forziere di antichi segreti e storie immutabili, decisa a sgranchirmi un poco le gambe: stare seduta per ore non era l’ideale, specie con la pioggia che imperversava nella zona e che rendeva umida e fredda la fortezza.
Mio padre, a breve, sarebbe dovuto tornare da una riunione di lavoro, o almeno così mi aveva detto quella mattina, prima di restare sola nella biblioteca per tutto il giorno: mi era difficile pensare se avesse detto il vero o il falso, a dire la verità mi era difficile persino pensare ad un suo possibile ritorno a casa… non sarebbe stata la prima volta dopotutto.
Camminai per i corridoi del palazzo, ammirando gli arazzi che, per generazioni, la mia famiglia si era tramandata: arazzi che raccontavano di guerre antiche, di battute di caccia, di amori impossibili e sofferti, antiche leggende che si perdevano nella notte dei tempi. Sfiorai un unicorno ricamato con cura certosina che, timidamente, si lasciava carezzare il muso da una vergine, ignaro del cavaliere nascosto, pronto a scoccare la freccia che lo avrebbe ucciso… e tutto per quel tesoro che ornava la sua fronte.
L’uomo, pensai, era la creatura più strana e ambigua di tutte: a volte si rivelava disposto a tutto per aiutare il prossimo… ed altre volte non esitava ad andargli contro, per ottenere ciò che voleva, per soddisfare i suoi desideri. Non avrei mai capito la mia specie, non avrei mai compreso fino in fondo quali fossero i meccanismi ancestrali che spingevano l’umanità ad agire in questo modo: erano le ambizioni e i peccati?
O qualcos’altro?
Ormai avrei dovuto capire la mente contorta dell’essere umano, però tutto mi risultava ancora difficile: non ero sicura delle mie ipotesi, forse non avrei mai trovato una risposta a tutti quegli interrogativi che mi stavano dilaniando la mente.
Mi allontanai dagli arazzi, percorrendo senza una meta precisa i vari corridoi del palazzo, inondati dal profumo della cena sul fuoco delle cucine: selvaggina, capponi, probabilmente uno stufato e qualcos’altro, ecco cosa avevano preparato i cuochi per il ritorno di mio padre.
Entrai in un’altra sala, vedendo i due segugi da caccia, sdraiati davanti al caminetto acceso, sollevare la testa ancora mezzi addormentati: le loro orecchie, lunghe e setose, contornavano i loro musi dalla pelle cadente, rendendoli ancor più dolci e simpatici alla vista; tempo di vedermi che le loro code sottili iniziarono a dimenarsi a destra e a sinistra, accogliendomi assieme a dei guaiti dolcissimi.
Sorridente, mi sedetti e lasciai che i due cani appoggiassero il muso o una delle zampe anteriori sulle mie gambe: nei lunghi pomeriggi in cui stavo da sola, loro e la mia governante erano gli unici a tenermi compagnia… se si parlava di compagnia dotata di anima.
Fissai, mentre coccolavo i due segugi, il fuoco scoppiettante del caminetto, perdendomi nuovamente nelle mie fantasticherie di giovane ragazza: ancora, nonostante la mia età, non ero sposata e questo per mio padre era una specie di disonore, o almeno così pensavo che fosse considerando il fatto che altre mie coetanee erano già diventate madri non so quante volte. Eppure, nemmeno lui sembrava pensarci troppo, soprattutto in quel periodo: occupato com’era a discutere di affari, poteva dedicarmi poco tempo, quanto bastava per rassicurarmi o per vedere come stavo.
Non lo colpevolizzavo per questo e, probabilmente, non lo avrei mai fatto, in nessun altro caso.
Il cigolio di una porta fece scattare in piedi i due segugi: il loro sguardo, da pigro e dolce, divenne attento, così come i loro muscoli si prepararono allo scatto. Mi voltai verso la porta, vedendo la mia governante entrare con una mantella più pesante: non era molto alta, eppure poteva donare una dolcezza e una sicurezza fuori dal comune; teneva i capelli, ormai grigi, raccolti in una crocchia e gli occhi, di un intenso color nocciola, mi fissavano preoccupati.
-Signorina! Deve coprirsi! Fa freddo e se si prende un malanno suo padre non me lo perdonerà!-
Accennai un sorriso, accettando di buon grado la mantella pesante che mi aveva portato.
-Tranquilla Margaret, non mi ammalerò.-
-Sì, sì, dice sempre così e poi si ritrova confinata nel letto!-
Replicò quando mi mise sulle spalle il mantello più pesante, non curandosi delle mie lamentele e delle risate. Quella donna si preoccupava troppo, era un’angoscia continua, mi ritrovai a pensare: quando mi vedeva carezzare i falchi e gli sparvieri da caccia di mio padre, quando facevo un giro sul mio cavallo, quando addirittura giocavo con i segugi o cercavo un libro.
Accettai, nonostante tutto, la cappa, continuando a fissare il fuoco scoppiettante, fasci di seta del colore del tramonto che dimostravano la loro allegria, schioccando come fruste al vento le loro cime: pregai che quella serenità contagiasse anche me, fin troppo malinconica per il tempo grigio e umido.
-Fra quanto sarà pronta la cena?-
Domandai a Margaret mentre carezzavo il muso dei due segugi scodinzolanti, probabilmente impazienti di mangiare ciò che sarebbe caduto dal tavolo o ciò che io e mio padre avremo lasciato loro.
-Non molto ormai signorina Aisha. Stia tranquilla, suo padre manterrà la parola data e tornerà per…-
Il suono di un corno mi bastò per farmi veramente sorridere di cuore: come se mi avessero messo dei carboni ardenti sulla sedia, scattai in piedi e corsi, con i cani a seguito, verso l’ingresso principale.
Superai dei servi con l’agilità di una cerva, aumentando l’ampiezza delle falcate quando vidi due di essi iniziare ad aprire il portone: era tornato, papà aveva mantenuto la parola data!
Tempo di vedere la porta di quercia aprirsi del tutto che un caldo, paterno e fradicio abbraccio mi sollevò da terra, facendomi scappare dalle labbra una risata serena: gli volevo un bene dell’anima, così come lui ne voleva a me.
-Bentornato padre.-
Dissi sorridente quando mi appoggiò, con delicatezza, a terra e mi ricambiò il sorriso, come solo un padre poteva fare, donandomi sicurezza, affetto… e anche scuse.
-Mi dispiace se ho tardato figlia, la riunione è durata più del previsto.-
Non gli detti la colpa: sapevo che lavorava costantemente per garantire la sicurezza dei nostri territori, della gente che vi abitava; consideravo mio padre un uomo saggio e virtuoso, disposto a tutto per aiutare il suo popolo… e di questo andavo fiera.
-Non si preoccupi padre, ne ho approfittato per terminare il manoscritto che mi avete riportato dal vostro ultimo viaggio.-
Mi accennò un sorriso, invitandomi a seguirlo nella sala da pranzo dove, come sempre, avremo consumato la cena, rispondendo alle domande che ci saremo posti fra un boccone e l’altro: lui mi avrebbe chiesto come avevo passato la giornata, io avrei risposto come sempre e gli avrei domandato come, invece, avesse passato il tempo, ottenendo come risposta le medesime parole di sempre.
Ci sedemmo, scortati dai segugi, a tavola, proprio quando dei servi avevano iniziato a portare le pietanze: selvaggina, soprattutto carne di cervo, qualche cappone ripieno, verdure e pane per accompagnare il tutto. I cani, guaenti, si accucciarono ai piedi di mio padre, supplicandolo con gli occhi color nocciola di lasciargli qualche boccone, o qualche osso da mordere; dopo numerosi lamenti, lanciò un osso per uno in due zone opposte della sala, per non farli litigare fra di loro.
-Come è andata oggi padre?-
Gli domandai per interrompere quel silenzio lugubre, accompagnato soltanto dallo scrosciare violento della pioggia: non aveva ancora aperto bocca, il che era parecchio strano da parte sua, visto e considerato che era sempre lui a rivolgermi le prime interpellanze. Non mi rispose, occupato a fissare concentrato, e con le mani congiunte sulle labbra, il suo calice del vino vuoto: probabilmente la riunione non era andata nel verso giusto, mi ritrovai a pensare, oppure stava progettando qualcosa che non potevo comprendere fino in fondo… o per niente.
Un servo si avvicinò con una brocca, versando nel calice di mio padre un po’ di vino.
-Va… tutto bene padre?-
Chiesi, preoccupata per  quello strano comportamento che stava tenendo il mio genitore. Lui, come se si fosse risvegliato da un incubo, sobbalzò leggermente sulla sedia, regalandomi a seguito un sorriso.
-Niente figlia mia, tranquilla. Stavo pensando a ciò che è successo durante la riunione e mi domandavo se ti piacerebbe venire con me in Terra Santa.-
A quella proposta per poco non mi soffocai con un sorso d’acqua: era uno scherzo? Mai mio padre mi aveva permesso, in passato, di seguirlo nei suoi viaggi, lasciandomi sola in quelle mura di gelida pietra; la sua proposta mi aveva colto alla sprovvista, causandomi un’immensa felicità… accompagnata però da un’ombra di timore.
Avevo sempre desiderato viaggiare assieme al mio genitore, fin da piccola… allora perché sentivo che qualcosa non andava?
-Padre… perché questa proposta? Non mi ha mai permesso di seguirla nei suoi viaggi.-
Lo vidi sorseggiare un po’ di vino, dopo aver ingoiato un boccone di cervo.
-Penso che possa aiutarti nella tua istruzione Aisha. Vedi, vivere in un luogo è diverso da leggere ed imparare nozioni relative ad esso.-
-Ho capito… ma perché in Terra Santa?-
Mi rivolse uno sguardo paterno, capendo perfettamente il mio timore.
-Dovrò recarmi là con dei soldati, a quanto pare Saladino ha distrutto dei pozzi per la nostra acqua e devo cercare di aiutare gli altri combattenti. Ti sto offrendo l’occasione di poter visitare quei luoghi figlia mia, di uscire da queste mura…-
Mi strinse la mano, nel tentativo di donarmi sicurezza e coraggio: non potevo lasciarmi sopraffare dalla paura, non avrei avuto mai più un’occasione simile. Sorridente, ricambiai la stretta, annuendo vigorosamente con la testa.
-Sì padre, partirò con voi.-
-Splendido! Sono davvero fiero di avere una figlia come te Aisha. Sei una mia degna erede, devi portare con orgoglio il tuo nome. Partiamo dopo domani.-
Mi disse, contento come non lo era mai stato della mia decisione.
Anche io, se avessi potuto, sarei scoppiata ad urlare dalla gioia, ma cercavo comunque di contenere la mia allegria sempre più crescente: avrei finalmente visto le città di cui mio padre mi aveva sempre raccontato, fin dall’infanzia: Gerusalemme, Acri, Damasco… finalmente le avrei viste di persona.
Finita la cena, mi congedai da mio padre, occupato a riscaldarsi vicino al caminetto con la compagnia dei fedeli segugi, raggiungendo con grandi falcate le scuderie del palazzo: aprii la porta sorridente, correndo a una delle poste ed emettendo un piccolo fischio. Subito, la testa dritta e perfetta della mia giumenta grigia chiara mi accolse con un lieve sbuffo, cercando subito una carezza o qualche cibaria; sorridendo, afferrai dell’avena da un secchio, porgendogliela a mano tesa.
-Ho una notizia stupenda bella.-
La cavalla sbuffò, masticando con gusto la biada che le avevo dato. Quando ripulì il palmo intero, le abbracciai il collo, regalandole una carezza appena sotto la criniera.
-Vado in Terra Santa con papà! Ti rendi conto? Finalmente potrò vedere le città di cui mi ha parlato tanto!-
La grigia nitrì, come se volesse assecondare la mia gioia. Sarei partita con mio padre, Roberto di Sable, per la Terra Santa: avrei avuto l’occasione di stargli vicino, dopo tanti anni… come quando ero piccola.
Come quando lui faceva di tutto per starmi vicino, per farmi sentire veramente sua figlia. Rimasi con la giumenta per qualche minuto, prima di rientrare in casa a causa del richiamo di mio padre: non cercai nemmeno di calmarmi quando mi stesi sotto le coperte, mi era impossibile chiudere occhio.
-La Terra Santa…-
Sussurrai, prima di crollare definitivamente nel buio della notte. 

Angolo autrice: Ed ecco a voi la seconda protagonista, Aisha!
Certo che per farla figlia di Roberto devo esser sadica forte! XD
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto come il precedente.
Bacioni!
Al prossimo!
Nebula216



 

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Capitolo 3
*** Sabbia rossa ***


Capitolo 3:Sabbia rossa
 

Mi svegliai all’improvviso, nel cuore della notte, madida di sudore a causa di un incubo… l’ennesimo in quelle settimane.
 
“Stavo galoppando su Farah Dihba, lungo la strada che da Damasco portava alla casa della mia famiglia: non distava molto, eppure mi sembrava un viaggio senza fine, non riuscivo mai a scorgere i recinti dei cavalli, non mi giungeva alle narici il fumo della fucina o del pranzo sul fuoco.
Il mio stomaco era chiuso in una stretta ferrea, la presa sinistra e maligna della Paura lo aveva totalmente avvolto nella sua mano scheletrica. Avevo fermato la giumenta all’imbocco di una strada, sollevandomi sulle staffe e guardando, da sotto il telo che portavo per proteggere la testa dal sole, il paesaggio circostante: soltanto sassi e sabbia. Spaventata, avevo nuovamente spronato la cavalla baia, incitandola con dolci sussurri e scusandomi per quella corsa senza fine: non capivo perché non potessi tornare a casa mia, non riuscivo a trovare una risposta adatta.
Mentre mi interrogavo su questo, ad un tratto, Farah Dihba si impennò improvvisamente, costringendomi a tenermi al suo collo per non cadere.
-Farah Dihba buona! Che ti pren…!?-
Non riuscii a finire la frase che vidi la sabbia davanti a me bagnarsi all’improvviso di rosso: la giumenta si agitò sul posto, costringendomi a farla allontanare il più velocemente possibile da quello strano fenomeno; galoppammo in una gola sterrata, con la speranza nel cuore di evadere da quella situazione sinistra…
Ma la nostra fuga era vana…
Qualsiasi cosa, dalla sabbia ai cespugli secchi, si stava tingendo e bagnando di rosso…
Persino la mia veste.
Col fiatone e gli occhi ben chiusi, mi lasciai guidare dalla corsa sicura e veloce della giumenta, supplicando mio padre o mio fratello di soccorrermi da quell’incubo: sussurravo una preghiera che, purtroppo, soltanto Farah Dihba e il silenzioso deserto potevano accoglierla.
Ad un tratto, gli zoccoli della mia cavalcatura iniziarono ad infrangere quello che sembrava uno specchio d’acqua cristallina: appena aprii gli occhi, non potei evitare di urlare, vedendo il paesaggio circostante...
Quella non era acqua…
Era sangue… sangue ancora caldo che sgorgava da cadaveri disposti attorno al lago.
Lanciai un grido di terrore, mentre la mia giumenta si impennava, facendomi finire nello specchio d’acqua vermiglia, lasciandomi lì; più provavo a risalire, e più mi sentivo affondare.
Più cercavo l’aria, più la bocca ingeriva quella linfa vitale che, in precedenza, era stata di quegli uomini, donne e bambini massacrati.”
 
A quel punto mi svegliavo, colta dal respiro affannato e dai sudori freddi: avevo paura a chiudere le palpebre, avevo paura di rivedere ciò che, purtroppo, dovevo affrontare ogni notte.
Un nemico che, per mia sfortuna, non aveva un corpo solido, un avversario che si annidava nella mia mente… come poterlo sconfiggere?
Sospirando, mi alzai dal letto, versando dell’acqua in una tinozza lignea e bagnandomi la faccia con vigore: dovevo dimenticarmi definitivamente di quell’incubo, non poteva andare avanti così.
Non potevo sopportare altro.
Non avrei sopportato altro.
Mi sedetti, quasi rassegnata, sul letto, osservando i primi raggi dell’alba scacciare le tenebre della notte e avvolgere, con le loro sfumature dorate, il paesaggio circostante in un caldo e confortevole abbraccio…
Lo stesso che Hassan mi regalò a sorpresa.
Sobbalzai per lo spavento, guardandolo con finta aria di rimprovero.
-Hassan!-
Lui accennò un sorriso innocente, mentre si sistemava meglio una maglia leggera sbracciata che, nel sonno, gli si era slacciata all’altezza del petto.
-Scusami, non volevo spaventarti. Come mai la mia sorellina è già sveglia?-
Sospirai, guardando il sole sorgere dalla piccola finestra della mia stanza.
-Ho avuto un incubo…-
-Lo stesso della settimana precedente?-
Annuii, lasciando che le braccia sicure e forti di mio fratello mi stringessero a sé: avevo paura, non riuscivo più a chiudere occhio, non riuscivo più a passare una notte tranquilla. Mi mancava il sonno sereno, mi mancavano i sogni, quelli belli, che avevano sempre accompagnato il mio riposo: fantasie su un mio possibile matrimonio, su un’ipotetica famiglia che avrei potuto costruire… su ciò che riservava per me il futuro.
Di solito non davo troppo peso ai sogni, eppure, in quelle settimane, mi ero ritrovata a pensare che, forse, quell’incubo avesse un significato più profondo… ma quale?
Sconsolata per la mia mancanza di risposte, mi strinsi fra le braccia di Hassan, come se fossi tornata una bambina piccola, lasciando che mi consolasse come solo un fratello maggiore poteva fare.
-Tranquilla Sharifa… è solo un incubo.-
-Lo so Hassan… però…-
-Ehi, non spaventarti va bene? Io e papà siamo qui.-
Mi strinse a sé, nel tentativo di trasmettermi una parte della sua sicurezza, per donarmi una briciola della sua calma… per rendermi più forte di quello che, purtroppo, non ero. Se dovevo trovare una sola parola che mi descrivesse totalmente, questa era “debole”: mi spaventavo per poco, non riuscivo a superare un ostacolo come un incubo, mi facevo condizionare da ogni singolo avvenimento… come altro potevo definirmi? Non sapevo nemmeno questo.
Hassan, per sbaglio, mi tirò una ciocca di capelli, di quella chioma color mogano che mi arrivava, per lunghezza, fino al sedere: non potei soffocare l’esclamazione di dolore, sebbene sapessi che non l’aveva fatto apposta.
-AHIO!-
-Scusami sorellina!-
Disse con un sorriso divertito dipinto sul volto, mentre io mi scostai i capelli sulla spalla sinistra, per evitare altri piccoli incidenti di questo genere: averli così lunghi non era un vantaggio, certo, però mi piacevano, erano una mia caratteristica… qualcosa che mi distingueva dalle altre ragazze della mia età; papà diceva che li avevo ereditati da mia madre, così come gli occhi. Non l’avevo mai vista… era morta pochi giorni dopo la mia nascita.
Sospirai, appoggiando la testa sulla spalla di Hassan ed osservando il sole illuminare ogni singolo anfratto della zona, una visione che mi rilassò la mente e il corpo.
-E’ un piccolo miracolo che si ripete ogni giorno.-
Esordì in un sussurro mio fratello e regalandomi, con quella frase, un sorriso accennato.
-Pensa se il sole non dovesse splendere più alto nel cielo… finirebbe tutto nel caos. Le piante, gli animali e gli esseri umani impazzirebbero.-
Mi vennero i brividi.
-Non è un pensiero allegro Hassan, non mi stai tirando su il morale sappilo.-
-Scusami.-
Replicò, baciandomi sulla testa con fare fraterno.
-Perdonato.-
Riuscii a dire, prima di sentire mio padre chiamarci per quella nuova giornata di lavoro: loro avrebbero dovuto lavorare qui, mio padre nella fucina e mio fratello con i cavalli, mentre io dovevo recarmi a Damasco per svolgere alcune mansioni. Quando Hassan uscì dalla mia stanza, indossai una veste color ametista chiara, aggiungendoci un velo quasi bianco per proteggere la testa dal sole che, più tardi, sarebbe diventato insopportabile.
Ascoltai le raccomandazioni di mio padre, avvertimenti che ormai conoscevo a menadito, per poi dileguarmi nelle scuderie ed uscirne in sella a Farah Dihba, pronta per una passeggiata verso la città. Alternai momenti di passo ad altri di trotto, godendomi quella prima brezza che, lievemente, mi carezzava il volto: presto sarebbe diventata rovente e insopportabile, dovevo beneficiare di quel venticello divino; appena vidi le mura di Damasco feci partire al trotto la bella baia con uno schiocco di lingua e una lieve pressione delle gambe attorno al costato.
Tempo di superare il portone principale che trovai le prime donne occupate a comprare frutta e tessuti al mercato: alcune di loro mi salutarono, accoglienza che ricambiai con un sorriso e un gesto della mano. Fermai Farah Dihba e scesi, per poi legarla a una staccionata vicina all’uscita della città.
-Sharifa! Oh, come stai tesoro? Ma guardati… sempre più bella ogni giorno che passa!-
Mi disse una donna che conoscevo bene: Adila, moglie di uno dei migliori mercanti di stoffe di quelle mura. Le sorrisi, ricambiando l’abbraccio che mi regalò, una stretta dolce e vigorosa, quasi protettiva… forse così dovevano essere le braccia di una madre, mi ritrovai a pensare improvvisamente: un pensiero troppo malinconico per una giornata felice e serena com’era quella. Scossi la testa, appena in tempo per accennare un sorriso quando mi fece girare su me stessa.
-Sempre stupenda, e i capelli sempre più lunghi! Ahhh, potessi tornar giovane.-
-Adila, non sei vecchia.-
-In confronto a te sì Sharifa… sei una cara ragazza… bella, dolce, gentile… a quando il matrimonio?-
La domanda improvvisa mi fece assumere un colorito purpureo niente male, oltre al fatto che i miei occhi si erano sgranati in maniera smisurata.
-ADILA!-
La vidi ridere di cuore, mentre due dei suoi figli, Jamal di cinque anni e Bashir di quattro, giocavano a rincorrersi tra la gente. Accennai un sorriso a vederli così allegri e pieni di vita, quando il mio occhio cadde sulla cinta di Tamir, mercante di armi che, un tempo, collaborava con mio padre: era un simbolo che mai in quella città avevo visto, un pezzo di stoffa del quale nessuno avrebbe sospettato.
Non feci in tempo a domandare niente alla donna, dato che i suoi due figli mi abbracciarono contemporaneamente le gambe, bisticciando fra di loro con furia.
-No Bashir, sono arrivato prima io!-
-Bugiardo! Sono io il più veloce! Vero Sharifa?-
Mi domandò speranzoso il bambino di quattro anni, guardandomi con occhi pieni di gioia; sorrisi, scompigliando amorevolmente la zazzera di ciuffi neri che si ritrovavano in testa e regalando loro un bacio sulla fronte.
-Siete arrivati insieme, come sempre. Scusatemi adesso, devo svolgere delle mansioni per mio padre.-
-Il vecchio Rashid se la cava sempre? E Hassan? Che fa quel bel giovane nonché tuo fratello?-
Mi chiese Adila mentre recuperava i panni che doveva lavare.
-Hassan sta bene, un po’ ammaccato per le cadute da cavallo ma è intero.-
Dissi sorridendo, prima di salutare la famiglia felice ed entrare nel cuore del mercato, dove, sapevo, avrei passato la maggior parte della mattinata.
Stanca per le commissioni e la calura sempre più forte, uscii dalle mura di Damasco, cullata dalla dolce andatura di Farah Dihba, occupata a masticare il morso e scacciare le mosche con la coda; le carezzai il collo, capendo quanto anche lei stesse patendo il caldo.
-Tranquilla bella, appena arriviamo a casa potrai bere quant…-
Il grido stridulo di un uccello mi gelò sulla sella, reazione che fece innervosire la mia cavalcatura. Alzai, tremante, la testa, vedendo un cumulo di avvoltoi in volo proprio sopra la terra della mia famiglia…
Pessimo presagio.
Terrorizzata, diedi un colpo di talloni alla baia, la quale partì direttamente al galoppo, quasi sfiorando con la pancia il terreno arido; non avrei mai voluto farle compiere quello sforzo con quel caldo, ma un’angoscia sempre più opprimente mi stava stritolando il petto.
Quando arrivai ai primi recinti dei cavalli, il cuore perse un battito: le stalle erano state distrutte, così come i recinti e la fucina di mio padre. Soltanto uno stallone grigio con criniera e coda nere venne verso di me al trotto, fermandosi vicino a Farah Dihba per brucare quel poco fieno che si era salvato: era Amir, l'orgoglio della scuderia secondo mio padre.
-No…-
Scesi velocemente dalla sella, calmando i cavalli e correndo, atterrita, verso l’entrata di quel piccolo rifugio per il mio unico genitore.
-PAPA’!-
Urlai quando entrai, prima di coprirmi la bocca con la mano: Rashid stava steso in un lago di sangue, ormai privo di vita. Una spada conficcata nello stomaco gli aveva strappato barbaramente l’anima, come uno sciacallo fa con la carcassa di una pecora smarrita; la faccia, contratta in un’ultima smorfia di dolore, mi impedì di respirare normalmente, facendomi salire fino alla bocca un conato di vomito.
Uscii, rigettando in un angolo ciò che ormai non riuscivo più a trattenere: mio padre era stato ucciso, qualcuno lo aveva eliminato da questo mondo.
Non avrei più sentito il suo abbraccio, non avrei più sentito la sua voce…
Non avrei vissuto niente di tutto questo.
Con gli occhi umidi, mi voltai, vedendo il sangue colare sulla sabbia, tingendo ogni singolo granello del terreno, così come le lacrime stavano facendo sul mio volto.
-Hassan…-
Mi ritrovai a chiamare in un sussurro, prima di alzarmi da terra e correre in quello che restava della nostra casa: i mobili erano stati rovesciati, quello non era più il nido sicuro nel quale ero cresciuta, bensì la testimonianza amara e sinistra dell’atto violento compiuto in mia assenza.
Mi inginocchiai a terra, riversando tutte le lacrime che i miei occhi non volevano più trattenere: la mia anima stava uscendo, goccia dopo goccia, mi stavo svuotando di tutti i ricordi legati a quel pezzo di terra… i ricordi di una vita intera.
-HASSAN DOVE SEI!?-
Urlai, nella speranza di vederlo spuntare da qualsiasi parte… inutilmente.
Non potevo più stare in quel posto, non potevo più vivere dentro quelle mura: mi sarei uccisa con le mie stesse mani. Mi guardai intorno, vedendo la punta di una spada: non mi interessava di chi fosse, non mi importava affatto.
Trattenendo le lacrime, mi tolsi il velo che portavo sulla testa, lasciando liberi i capelli color mogano; soltanto dopo afferrai, senza la minima esitazione, il pezzo di metallo affilato, percependo le sue schegge ferirmi il palmo della mano, la pelle pronta a cedere alla lama.
Avevo deciso…
Chi aveva fatto questo doveva pagare: che fosse uomo o donna, straniero o cittadino. 


Angolo autrice: Sharifa ha ricevuto una batosta bella e buona. Cosa accadrà? Dov'è finito Hassan? E soprattutto... (Voce fuori campo: Diavolo autrice sembri la voce narrante di Super Quark!!)(Me: O.o, è vero XD). Vabbè, vi lascio con un bacione e con la speranza che anche questo chappy vi sia piaciuto!
Bacioni!
Nebula216


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Capitolo 4
*** Gerusalemme ***


Capitolo 4:Gerusalemme
 

Gerusalemme era una città talmente grande che, se fossi uscita da sola, mi sarei persa dopo pochi attimi.
Ancora non mi sembrava vero che fossi arrivata in Terra Santa, non potevo minimamente immaginare che uno dei miei più grandi sogni si fosse realizzato; eppure ero là, carezzata dai raggi caldi e dorati del sole, sorridente come una bambina alla quale è stato regalato il suo primo gioiello.
Osservai la gente dal balcone della casa che mio padre aveva scelto come dimora per il tempo che saremo rimasti lì: presi un piccolo grappolo d’uva matura, mangiandone i chicchi con allegria, mentre Margaret sistemava la camera che mi era capitata… lamentandosi oltretutto dei soldati maleducati.
-Ma guarda te se questi uomini devono iniziare a fischiare come cardellini! Ah signorina mi dispiace che sia finita in questo porcile!-
Se devo esser sincera, non l’ascoltavo affatto, ero rapita dai colori delle stoffe al mercato, dai bambini che si rincorrevano nella folla, persino dai venditori che tiravano asini troppo testardi per proseguire: Gerusalemme era totalmente diversa dalla mia casa.
Più colorata, più calda… decisamente più accogliente.
Sorrisi, chiudendo gli occhi e lasciando che un leggero venticello mi carezzasse la pelle: l’umidità che caratterizzava la mia terra svanì al minimo tocco delicato del soffio orientale.
Avrei voluto restare in quella città per tutta la vita, e sapevo che sarei stata capace di farlo se avessi avuto l’occasione: il coraggio non mi mancava, e come poteva essere assente?
Di audacia ne avevo da vendere… dovevo solo avere la mia occasione.
Riaprii gli occhi.
-Non ti preoccupare Margaret… non ti preoccupare.-
-Ah, lei signorina è troppo buona! Fossi stata in lei una scudisciata a quei porci non gliela levava nessuno!-
Non potei fare a meno di ridere, ben immaginando la scena che la governante aveva proposto: sapevo benissimo che era capace di farlo, per questo cercavo di tenerla calma e tranquilla con mansioni diverse. Quella mattina, se non l’avessi portata via, avrebbe tirato una giara colma d’olio in testa a un soldato per un suo commento poco… galante.
Con un sorriso, mi voltai.
-Margaret, che ne dici se andiamo al mercato? Non ho voglia di star chiusa in questa camera, voglio vedere la città.-
La governante, quando finì di piegare delle stoffe, mi fissò, con i pugni sui gomiti: in un modo o nell’altro l’avrei convinta, non era così severa come mio padre.
Sapevo benissimo che, per lei, quella posizione significava “Non se ne parla”, ma non aveva la stoffa per esser severa con me: mi aveva cresciuta e allevata come se fossi stata sua figlia, mi aveva sempre difesa e protetta nelle mie fughe infantili… come poteva non appoggiarmi?
La governante sospirò.
-Pochi minuti signorina. Non voglio incappare nell’ira di suo padre.-
Con un sorriso da orecchio a orecchio, presi un velo e me lo avvolsi intorno ai capelli.
-Sbaglio o mio padre è a svolgere uno dei suoi tanti incarichi Margaret?-
-Sì, ma…-
Mi voltai, guardandola negli occhi con serenità.
-Niente “ma” Margaret: basterà convincere le guardie e tutto andrà bene.-
La governante sospirò, salvo poi prendere a sua volta un velo e farmi strada nei corridoi della nostra nuova casa.
Era immensa, io stessa sarei stata capace di perdermi in poco tempo e ancora non riuscivo a spiegarmi come mai Margaret avesse memorizzato, così in fretta, i corridoi da seguire da quelli a cui non potevo accedere. Nonostante volessi bene a mio padre, qualche volta mi veniva spontaneo pensare che le sue scelte per la mia sicurezza fossero… eccessive.
Avevo bisogno di aria, non potevo sempre star chiusa in quelle mura.
Aggirammo facilmente le guardie, dato che queste ultime non facevano altro che pattugliare le stesse zone della dimora: certo potevano allargarsi un pochino, pensai sarcasticamente mentre seguivo Margaret nella folla del mercato.
I bambini giocavano allegri e spensierati, si rincorrevano tra gli adulti che cercavano di vendere i prodotti locali o che, per un motivo o per un altro, discutevano. Tutta quella vitalità mi fece sorridere di cuore: non avevo modo, nella mia terra natale, di vedere la gente così piena di vita, allegra e tranquilla… me ne stavo ore e ore nelle mura, raramente potevo uscire per una cavalcata o una passeggiata e, se accadeva, ero sempre scortata da qualche guardia.
La mia non poteva esser considerata davvero vita se la paragonavo a quella che avevo di fronte.
Sospirai, prima di sentire un bambino sbattere contro le mie gambe.
-Bashir! Tutto bene?-
Un altro bambino, di cinque anni, mi si avvicinò, mentre stavo aiutando il piccolino.
-S…Sì. Grazie signorina.-
Sorrisi.
-Di niente piccolino, stai bene vero?-
Il bambino annuì, per poi guardare quello che, ad occhio, mi parve suo fratello vista la somiglianza. Quest’ultimo lo guardò.
-Andiamo Bashir, mamma deve essere avvertita!-
-Sì Jamal. Grazie signorina!-
Prima che potessi dire altro, i due piccoli scattarono e scomparirono nella folla, mentre Margaret mi rivolse uno sguardo.
-E’ tardi signorina Aisha… dobbiamo rientrare.-
Tardi?
Il sole aveva appena superato il mezzogiorno, come poteva esser tardi?
-Ma… Margaret, non è nemmeno calato il sole.-
-Suo padre tornerà a momenti signorina, è giusto attenderlo.-
Sospirai, salvo poi seguire la mia accompagnatrice tra la gente che, almeno a mio avviso, sembrava cambiata: erano timorosi, nervosi…
Non sorridevano più come prima.
Qualcosa non tornava.
 
-Aspetta, deve esserci un altro modo. Non c’è bisogno che muoia.-
La figura non lo ascoltò: senza un minimo di compassione, afferrò l’anziano alle spalle e, con un colpo preciso della lama, spezzò la sua vita in una manciata di secondi.
Altri due, come lui, lo raggiunsero.
-Bella uccisione. La fortuna favorisce la tua lama.-
Esordì il più giovane, mentre l’assassino ripuliva la sua lama, per poi rispondergli
-Non la fortuna, l’abilità. Resta a guardare, potresti imparare qualcosa.-
-Davvero. ti insegnerà a trascurare tutto ciò che il Maestro ci ha insegnato.-
Replicò, con ira, l’ultimo: cosa gli stava passando per la testa?!
-E come avresti fatto?-
Gli domandò, a sua volta, il primo.
-Non avrei mai attirato l’attenzione su di noi.
Non avrei tolto la vita ad un innocente.
Io avrei seguito il credo.-
Niente da fare: la sua risposta sembrava una bazzecola alle orecchie del compagno che, orgoglioso, lo fissò da sotto il candido cappuccio.
-Niente è reale, tutto è lecito. Un giorno sarai come me Malik e comprenderai meglio queste parole. Non conta come si svolge un incarico… l’importante è che sia fatto.-
Aveva perso la retta via, come poteva dir questo?!
-Ma non sono questi i principi…-
Tentò di dissuaderlo, inutilmente: la risposta fiera del compagno arrivò presto
-I miei sono migliori.-
Sospirò, muovendo le braccia come per levarsi di dosso una colpa non sua: era meglio levarsi da lì.
-… Vado in avanscoperta… cerca di non disonorarci oltre.-
Detto questo, diede un’occhiata veloce al più giovane e corse via, lasciando i due compagni soli.
Curioso e timoroso allo stesso tempo, il ragazzo di rango inferiore si avvicinò all’altro
-Qual è la missione? Mio fratello non mi ha detto nulla, solo che devo essere onorato dell’invito.-
Onorato dell’invito: aveva detto giusto.
Con un passo, l’assassino orgoglioso si voltò verso di lui, rispondendo alla sua domanda.
-Pensiamo che i templari abbiano trovato qualcosa sotto le mura del tempio.-
-Un tesoro?-
Rispose, quasi stupito, il giovane.
-Non lo so. Ciò che conta è che il Maestro lo considera importante, altrimenti non mi avrebbe chiesto di recuperarlo.-
Replicò il primo, per poi seguire la strada che aveva preso l’altro.
Non era stato difficile trovare il luogo, sarebbe stato ancor meno difficile uccidere i templari: quegli schifosi stranieri avevano osato dichiarar guerra alla loro terra, e per cosa?
La risposta a questo quesito non l’aveva, sapeva soltanto che il Maestro voleva quell’oggetto…
Glielo avrebbe portato.
Uccise, in silenzio, una sentinella, per poi avvicinarsi a delle rovine e restare in ascolto assieme ai compagni.
Su un tavolo di legno robusto stavano delle pergamene di vario tipo, mentre sopra di esso si ergeva un manufatto dorato, caratterizzato da una luce che, alla fiamma delle poche lanterne, sembrava propria.
-Quella dev’essere l’Arca.-
Disse, con un sussurro, il fratello del più giovane, il quale deglutì stupito.
-E’… l’arca… dell’alleanza?-
-Non essere stupido, quella non esiste. È solo una favola.-
Rispose l’assassino orgoglioso, ricevendo un’occhiata stralunata dal giovane.
-Allora cos’è?-
Osò domandare, quando il fratello maggiore alzò una mano inquieto.
-Zitti! Arriva qualcuno.-


Angolo Autrice: Eccomi qua! Lo so, vi ho fatto aspettare tanto e mi dispiace, ma lo studio e tutto il resto mi hanno messo K.O l'ispirazione.
Che dire, la storia inizia a prendere una piega interessante, no?
Al prossimo capitolo (Già pronto e prossimo ad esser postato)! Son graditi commenti e pareri-consigli :)!
Bacioni!
Nebula216 <3

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Capitolo 5
*** Incontro ***


Capitolo 5: Incontro
 

Quel giorno faceva più caldo del solito.
Il sole, già alle prime ore del mattino, aveva iniziato a picchiare come se dovesse dividere a metà le pietre che formavano le case attorno alla fortezza.
Sospirai, mentre lo stallone grigio proseguiva la strada principale: nonostante il tempo trascorso, ancora non riuscivo a prender confidenza con l’ambiente, non lo sentivo propriamente familiare e, forse, non lo sarebbe mai stato.
I bambini giocavano, sempre controllati dalle madri, sotto l’ombra che i pochi alberi circostanti potevano donare: nessuno sembrava, quel giorno, disposto a sprecare troppe energie, a ragion dovuta.
Soltanto noi dovevamo sgobbare a destra e a manca per garantire l’ordine e la pace.
Perché avessi preso quella decisione non sapevo spiegarlo affatto: non sapevo se l’avevo fatto per paura, per pazzia o per altro… mi bastava avere un luogo dove stare, senza avere alcun favore ovviamente.
Non amavo starmene con le mani in mano, non mi piaceva oziare… dovevo sentirmi utile nella vita, o quantomeno aiutare chi aveva bisogno.
Erano così tanti i pensieri che affollavano la mia mente che non mi resi conto dell’alt delle cavalcature che precedevano la mia e quelle di altri due compagni di fatiche: se non fosse stato per la piccola impennata del grigio, a quest’ora sicuramente avrei calpestato il ragazzo che mi precedeva.
-Ehi Hamal! Ma dove hai la testa eh!?-
Appunto.
-Mi dispiace Issam. Ero sovrappensiero.-
-Ultimamente lo sei troppo, vedi di tornare nei ranghi!-
Mi rimproverò il compagno di viaggio, prima di spronare nuovamente il suo cavallo e galoppare verso l’entrata della fortezza che, imponente, dominava su tutta la zona.
Sospirai, seguendo i restanti membri del gruppo in quella costruzione che, ormai, era diventata casa mia, ben sapendo cosa mi sarebbe aspettato una volta varcata la soglia.
Numerosi, fra uomini e ragazzi, erano occupati ad allenarsi con le più svariate lame, chi in duelli simulati e chi contro sacchi-bersaglio; altri gruppi facevano avanti e indietro da una parte all’altra della fortezza, lanciando ogni tanto delle occhiate al nostro gruppo.
Non me ne curai più di tanto, o almeno ci provai…
Non era facile ignorare l’appellativo “straniero”.
Fermati i cavalli vicino ad un abbeveratoio, scendemmo dalle selle, permettendo così alle nostre cavalcature di potersi dissetare: il viaggio era stato faticoso anche per loro, meritavano un po’ di riposo, pensai mentre allentavo la sella al grigio sotto lo sguardo irato di Issam.
-Che c’è Issam?-
Lo odiavo quando faceva così: erano solo passate due settimane dal mio arrivo e lui subito mi aveva inquadrato come un peso, una persona inutile.
-Hamal, non capisco ancora come tu sia diventato uno di noi. Sei distratto, sei estraneo alla comunità, sei un…-
-Andiamo Issam, finiscila. Fa troppo caldo, è normale distrarsi.-
Disse in mia difesa Basim, un ragazzo dai capelli tagliati corti scuri e occhi di un intenso marrone scuro.
-Tu non provare a difenderlo Basim! Sappiamo tutti quanti che è uno straniero, la cosa non mi piace, e lo sapete bene che tempi sono questi!-
Soltanto perché la mia linea di sangue non apparteneva, fin da tempi antichi, a quelle mura, la gente mi aveva cucito addosso quell’appellativo: per loro ero Hamal lo straniero, una causa ulteriore di guai.
-Lascialo parlare Basim. Non ho voglia di discutere… il viaggio mi ha stancato.-
Risposi mentre accompagnavo, con il cappuccio della veste candida calato sul volto, lo stallone all’interno delle scuderie, sempre ascoltando i discorsi degli altri ragazzi: Issam che perdeva la pazienza, i suoi due lecchini che cercavano di trattenerlo dal prendermi a pugni, Basim che gli tagliava la strada a braccia spalancate… una scena che, ultimamente, si ripeteva troppo spesso.
Appoggiata la sella ad una posta lignea, guardai il cavallo grattare la paglia con uno zoccolo e sbuffare: nemmeno a lui era piaciuto questo cambiamento repentino di luogo, ma dovevamo accontentarci.
Quando rialzò la nobile testa, gli carezzai con dolcezza lo spazio tra le narici, facendogli muovere le labbra per il solletico.
-Lo so che non è come a casa Amir, ma dobbiamo accontentarci.-
Gli dissi, mentre con un pugnale dividevo un paio di datteri per toglier loro il nocciolo: alla sola vista di quei frutti prelibati e dolci, il quadrupede drizzò le orecchie, avvicinando, però, la bocca alle mie mani soltanto quando mi aveva visto riporre la lama nella cintura.
Sorridente, gliene detti un pezzo.
-Non fare l’ingordo come tuo solito. So che ne mangeresti ceste intere, ma devi regolarti.-
Lo stallone sbuffò, annoiato per quei discorsi ripetitivi che, ogni volta, mi sentivo in dovere di fargli: non avevo altro che lui e la baietta ormai… mi era stato portato via tutto.
A causa di tutti quei pensieri, non mi accorsi di Basim che, alle mie spalle, mi toccò piano con una mano.
Sobbalzai.
-Basim!-
-Scusami Hamal, ma Al Mualim ci vuole vedere. Dobbiamo riferirgli ciò che abbiamo visto, lo sai come funziona.-
Sospirando, annuii, riempiendo l’abbeveratoio del cavallo, quasi vuoto, con dell’acqua, per poi seguire il compagno di allenamenti verso l’interno della fortezza: nonostante il fatto che non appartenessi a quella comunità, il Gran Maestro mi aveva permesso di restare, garantendomi vitto e alloggio in cambio di una semplice promessa…
Entrare davvero nella comunità.
Ero soltanto un apprendista, e avevo paura di quello che mi attendeva: vedevo uomini privati del dito anulare, uomini che, avvolti nelle stesse divise, condividevano anche il destino di quelle mura.
Ragazzi che, alle prime armi, venivano addestrati al lancio di lame, a salti mostruosi da altezze, in quel momento, inconcepibili per me.
Tutto per una causa che, ancora, faticavo a comprendere.
In silenzio, raggiungemmo la sala del Gran Maestro: quest’ultimo, piegato sopra delle carte, ci osservò con l’unico occhio sano, il sinistro, sollevandosi dalla sedia con un gesto tanto regale quanto ambiguo. Spinti sia dal rispetto che dal timore, abbassammo il capo, in quello che doveva essere un inchino.
-Alzatevi, miei adepti.-
Esordì, dopo una pausa silenziosa, Al Mualim: potevo vedere, nonostante la testa china, l’orlo della sua veste scura vicina a noi; potevo immaginare la sua faccia seria, contornata da una barba lunga e candida, simbolo di saggezza, fissarci con l’occhio vedente.
Non avevo avuto modo di parlare privatamente con lui, eppure aveva quel lato paterno che, purtroppo, mi era venuto a mancare. Tutti insieme, ci alzammo, e lì Issam prese la parola.
-Gran Maestro, non abbiamo riscontrato nulla durante la perlustrazione del territorio circostante. Inoltre, le esercitazioni sono andate a buon fine.-
-E Hamal? Come se l’è cavata il nostro giovane adepto Issam?-
Vidi chiaramente l’interrogato stringere la mascella dall’irritazione, salvo poi rilassarla dopo poco.
-…Impara in fretta.-
Si limitò a dire, prima di tornare fra i ranghi.
Mi ritrovai a pensare, alquanto felice, che vedere Issam costretto a dire la verità davanti alla presenza di Al Mualim fosse una mia piccola, seppur indiretta, vendetta per tutte le angherie vocali che mi aveva rivolto.
Sebbene il Gran Maestro mi avesse aperto le porte, avevo ben capito che, per vivere dentro quelle mura, avrei dovuto lottare: mi era bastato finire a terra quattro volte in una rissa per capirlo.
Non dovevo smettere di continuare a sopravvivere.
L’anziano mi rivolse uno sguardo, al quale risposi chinando un poco la testa.
-Hamal, ho assistito al tuo allenamento ieri. Ti sei battuto bene con la spada.-
Quel complimento non mi permise di nascondere un accenno di sorriso: dovevo mantenermi impassibile, altrimenti gli altri avrebbero pensato che il Gran Maestro mi avesse preso in simpatia, o che mi stesse favorendo.
-Ho ancora tanto da imparare Maestro.-
Risposi con sincera umiltà, facendolo annuire convinto.
-Il tuo viaggio è ancora lungo Hamal, ma stai già dimostrando di essere capace di percorrerlo assieme ai tuoi fratelli. Andate adesso, non voglio sottrarvi tempo utile per gli allenamenti.-
Quando ci fummo congedati con un inchino, ognuno prese una strada diversa: Issam, seguito dai suoi lecchini, si diresse all’arena dei combattimenti, mentre io e Basim andammo alla staccionata che affiancava il lancio con i coltelli.
Il moro, sorridente, mi diede una gomitata al braccio.
-Ammettilo, ti ha fatto piacere sentir dire ad Issam quelle cose.-
-Ma che dici Basim?-
Domandai a metà tra il divertito e la totale ignoranza mentre rigiravo tra le mie dita una lama lucente.
-Andiamo Hamal! Lui ti odia e ha dovuto farti i complimenti davanti ad Al Mualim! Dai, dimmi se ti ha fatto piacere! Anche un pochino!-
Risi, un riso sincero, mentre lanciavo in aria il pugnale che avevo scelto.
-Bhè… un pochino confesso.-
Quando ebbi nuovamente il pugnale a portata di mano, lo afferrai con le dita e, rapidamente, lo lanciai contro un bersaglio ligneo, beccandolo in quella che doveva esser la zona toracica; Basim, applaudendo, prese a sua volta una lama, colpendo lo stesso bersaglio alla testa.
-Hai ancora un po’ da imparare.-
Mi disse sorridendo.
-Anche tu Basim.-
Gli risposi, lanciando un ultimo coltello ed allontanandomi verso le scuderie.
-Non resti?-
Mi domandò il moro.
-Devo ancora pulire Amir, sai anche tu quanto è viziato.-
Risposi sorridendo, mentre entravo nelle scuderie fresche e odoranti di fieno.
Quel giorno, però, non c’erano solo il caldo e le mosche ad infastidire i destrieri della comunità: vidi il sauro rosso di Basim e il grigio pomellato scuro di Issam muovere la testa, innervositi, a destra e a sinistra, altri dimenare le code e altri impennarsi nelle rispettive poste.
Non sapevo cosa stava accadendo, ma non mi piaceva per niente: in tutta la mia vita, avevo ben compreso il linguaggio dei destrieri, e in quel momento sapevo che qualcosa non andava.
Deglutii, per poi procedere con passo lento verso le varie postazioni, studiandole una dopo l’altra, fino a fermarmi davanti a una giumenta roana: aveva ancora le redini e, come se non bastasse, una striscia di sangue le colava dal garrese fin quasi al ginocchio.
Quando entrai, per vedere se stava bene, notai la sella buttata per terra e, in un angolo ben nascosto, il cavaliere ferito: non doveva avere più di ventisei anni, almeno ad una prima occhiata così mi era sembrato, ma già aveva scoperto il dolore della guerra.
La mano destra, spinta da una forza superiore a quella fisica, stringeva in maniera disperata il braccio sinistro, letteralmente grondante di sangue.
Mi bastò vedere la sua espressione contratta dall’agonia per intervenire.
-Aspetta, aspetta ti aiuto.-
Inginocchiandomi, gli vidi meglio il viso: rispecchiava perfettamente i canoni di bellezza che le ragazze avrebbero lodato e ammirato. Il ragazzo che avevo davanti, però, differenziava per il colore degli occhi, di un intenso nero paragonabile soltanto ai capelli e al pizzetto che completavano il suo aspetto.
Il suo sguardo, carico di dolore e ira, mi trapassò, facendomi restare immobile come una statua.
-A…Aiutami…-
Disse mentre tentava, disperatamente, di fermare la perdita copiosa di sangue: non potevo lasciarlo lì… andava contro tutto quello che mi era stato insegnato.
Senza ripensarci, presi il suo braccio sano e me lo misi sulle spalle, bloccando con la mano sinistra l’emorragia: era debole, la ferita era profonda e il viaggio che aveva compiuto non l’aveva affatto aiutato.
Facendomi forza, lo condussi fuori dalle stalle, non curandomi degli sguardi atterriti degli altri membri della confraternita: dovevo salvarlo, dovevo aiutarlo!
Non poteva accadere di nuovo, non doveva succedere!
Con testardaggine, entrai all’interno della fortezza, mentre dei guaritori mi vennero incontro e presero il ragazzo con loro, pronti per curarlo… e forse permettergli di riacquistare la salute.
Il moro, in uno stato di confusione febbrile, mi guardò, dritto negli occhi.
-G…Grazie…-
Mi disse quando lo stavano portando via.
Eppure… potevo giurare che le sue iridi fossero prossime al pianto.
Non era solo il suo fisico a soffrire, non era il colpo che gli era stato inferto a dolergli più di ogni altra cosa…
C’era qualcos’altro, nella sua mente, che lo stava dilaniando: una lama interna che non gli permetteva di vivere.
Un dolore troppo grande per esser descritto a parole.

Angolo autrice: Ecco il quinto capitolo, ora sta a voi giudicare :).
La lasciate una recensione per favore? Anche piccola piccola, per capire se la storia piace o no.
Detto questo, spero vi piaccia e vi auguro una buona lettura!
Bacioni!
Nebula216 <3

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Capitolo 6
*** Errore ***


Capitolo 6: Errore
 

Non mi ero reso conto di quanto avevo galoppato.
Spronai il baio scuro che, già con gran foga, correva nell’arido deserto, come per scappare a quello che avevo assistito.
Non avrei potuto fare altrimenti, non era possibile.
Schioccai la lingua, ben sapendo che il mio destriero stava compiendo uno sforzo enorme: non avevo avuto scelta, non mi era stata concessa.
Finalmente, nella calura del giorno, vidi l’imponente struttura candida stagliarsi contro l’orizzonte, l’edificio che, per anni, era stata la mia casa.
Fermai e trattenni il cavallo sul posto, indeciso su cosa fare: fino a poco prima avevo agito con determinazione, senza dar modo a nessuno di farmi cambiare idea; in quel momento, invece, ero immobile, paralizzato dal dubbio.
Avevo sempre combattuto, perché mi sarei dovuto ritirare?!
-Andiamo… Forza!-
Incitai nuovamente la cavalcatura a galoppare, almeno per l’ultimo tratto che mi attendeva, salvo poi fermarmi davanti al portone ed entrare, con una calma apparente, nella città: la gente stava svolgendo le solite attività quotidiane, ignare di quello che era successo.
Una guardia, appartenente al mio stesso credo, si avvicinò sorridente.
-Altair! Sei tornato!-
Sollevai un poco lo sguardo, rendendomi conto di chi fosse.
-Rauf…-
Non ero mai stato tanto loquace, e il soldato che avevo davanti, invece, lo era fin troppo.
-Mi fa piacere vederti illeso, immagino che la tua missione sia riuscita.-
Parole che ferirono, più di una lama, l’orgoglio che già era stato dilaniato.
Mantenni la calma, per quanto difficile fosse.
-Il Maestro è nella torre?-
Domandai, ben sapendo che Rauf sapeva ogni cosa su tutti i membri della confraternita.
-Sì sì, sepolto fra i libri come sempre! Di sicuro ti aspetta!-
Rispose entusiasta, sicuro che tutto fosse andato liscio come l’olio nel Tempio di Salomone… ma non era così.
Deglutii, a causa della gola secca e dei ricordi recenti che si stavano accavallando uno sopra l’altro.
-Grazie fratello.-
-Salute e pace Altair.-
-…Altrettanto.-
Era tardi per tornare indietro, potevo soltanto andare avanti.
Presi un respiro, per poi iniziare a correre fra i vicoli della città e scalare, con discrezione, i muri delle case: saltare di tetto in tetto, a seconda della città, si rivelava la via più breve e nascosta alla vista.
Per quanto ne sapevo, potevano esserci spie dei templari o gente che li aveva presi in simpatia… e preferivo esser prudente.
Dopo tanta corsa, finalmente vidi due insegne dell’Ordine piantate su due pali, oltre alle guardie.
La roccaforte di Masyaf si stagliava, imponente, sulla zona più alta del territorio, incutendo sia timore che fascino: io, come altri, ero cresciuto in quelle mura, ormai ero abituato ad ogni singolo sasso… eppure, quella volta, ebbi un leggero brivido sulla schiena.
Non dovevo farmi cogliere dalla paura.
Con decisione, scossi la testa e ripresi a correre, lungo il sentiero in salita che mi avrebbe condotto alla porta principale della sede della confraternita. Superai due guardie, salendo i gradini noncurante delle loro domande: “Che succede?”, “Da cosa scappa?”, interrogativi che non volevo sentire.
Non avrei mai potuto scappare dalla colpa di cui mi ero macchiato… e purtroppo l’avevo capito tardi.
Svoltato un angolo della struttura, vidi una guardia appoggiata al muro, con cipiglio beffardo e al limite del sopportabile.
-Ahh, eccolo di ritorno.-
-Abbas…-
Tentai di controllarmi, quando l’altro assassino si staccò dal muro ed osservò alle mie spalle, con la testa allungata, se c’erano anche Malik e Kadar dietro di me.
-Dove sono gli altri? Li hai anticipati sperando di essere il primo a tornare? So che detesti condividere con altri la gloria.-
Rimasi zitto, non sapendo come rispondere ad una tale constatazione. Abbas prese fiato, guardandomi serio.
-Il silenzio è solo un’altra forma d’assenso.-
Mi aveva stancato, chi pensava di essere?
-Non hai niente di meglio da fare?-
Risposi, per evitare altre sue parole poco gradite. Abbas fece un passo verso di me: che altro c’era?
-Reco ordini dal Maestro… ti attende nella biblioteca.-
Rimasi immobile, come se una ventata di aria gelida mi avesse bloccato lì.
L’altro assassino, spazientito, aprì le braccia.
-Sbrigati su! Senza dubbio sarai ansioso di leccargli gli stivali.-
Sentendo quella frase, mi irritai così tanto che sarei stato capace di sgozzarlo in pochi secondi: l’unica cosa che mi tratteneva era la tunica che indossava.
-Un’altra parola e ti punto la lama alla gola.-
La mia minaccia non sembrò spaventarlo più di tanto: tranquillo, tornò al suo posto, dicendomi un’ultima cosa prima di farmi passare.
-Più tardi ne avremo tutto il tempo… fratello.-
Bene, sarei stato pronto.
Ripresi a correre, entrando nella piazza dove, di solito, si tenevano le lezioni per i novizi e i vari addestramenti. Lo spiazzo, in quel momento, brulicava di adepti che, ogni tanto, si distraevano per qualche esercizio fatto da altri novizi.
Mi soffermai per osservarne qualcuno, notando con pochissimo sforzo gli errori che compieva: troppo slancio del braccio, gamba troppo in avanti, polso poco fermo… gli errori erano così tanti che avrei potuto contarli per ore.
Scuotendo la testa, ripresi la mia corsa verso la biblioteca del Maestro, non curandomi della gradinata sempre più ripida, degli sguardi che mi venivano lanciati… rilassandomi un poco sentendo l’aria fresca di quelle mura. Ripresi fiato e, con calma, salii le scale che conducevano alla scrivania del nostro mentore, Al Mualim.
L’anziano stava facendo uscire dei novizi capitanati da Issam, visibilmente infuriato: cosa era successo? Il maestro si girò verso di me, l’occhio sano colmo di orgoglio nel vedermi…
Se solo avesse saputo…
-Altair.-
Esordì, con voce saggia e così colma di autorità che, immediatamente, sembra costringermi a chinarmi un poco.
-Maestro…-
Non riuscii a dire altro: la bocca era secca, arida come il deserto che avevo affrontato, colma di timore e indecisione. Non avevo mai avuto paura in tutta la mia vita, ma quando mi ritrovai lì, davanti al capo degli Assassini, a mani vuote… sentii che qualcosa non andava bene.
-Vieni avanti. Dimmi della tua missione.-
Mi ordinò, avvicinandosi alla scrivania lignea colma di pergamene, libri e penne intinte nell’inchiostro nero. Incerto, avanzai di due passi, osservando ogni suo gesto, ogni suo tratto del volto: la missione… la missione che era stata affidata a me, Malik e Kadar.
Leccai le labbra secche, sentendo nuovamente la cicatrice verticale che dominava sul lato destro della bocca.
Decisi di rispondere.
-Confido che tu abbia recuperato il tesoro dei Templari.-
Improvvisamente, tutti i miei buoni propositi di raccontare al Maestro l’accaduto svanirono, come una goccia d’acqua lasciata su una roccia rovente.
Sebbene non lo stessi fissando, percepii la pesantezza del suo sguardo, sapevo che attendeva una risposta… eppure mi era difficile parlare.
-C’è stato un contrattempo. Roberto di Sable non era solo.-
Mi decisi a dire, per quanto poco giuste mi sembrarono le parole.
Al Mualim non sembrò preoccuparsi più di tanto.
-Quando mai il nostro lavoro va come previsto? È la nostra capacità d’adattamento che ci rende ciò che siamo.-
Rispose, riempiendo le parole con orgoglio per ciò che siamo.
Sembrava, inoltre, volermi rassicurare, sembrava voler dire che la presenza di tutti quei templari non fosse una cosa grave… ma si sbagliava.
-Questa volta non è bastata.-
-… Che vuoi dire?-
Nella sua voce potei percepire una nota di preoccupazione, un segnale che non mi convinse a continuare il discorso.
Ormai avevo rivelato parte della verità… perché esitare?
-Vi ho deluso.-
Tre parole che riassunsero la mia colpa più grande: il fallimento.
Dietro di me, il mio Mentore si mosse, probabilmente nervoso.
-Il tesoro?-
Mi domandò, con voce ferma e seria.
-…L’hanno preso.-
-E Roberto?-
-…Fuggito.-
Avevo fallito, deluso tutto e tutti, in primis l’anziano che, con ira, strinse le mani sempre più forte, rendendo le nocche rugose totalmente candide. Il suo volto, prima disteso e sereno, si presentava in quel momento corrugato e colmo d’ira: camminava, per la stanza, come se avesse voluto sfogarsi, ma sapevo che non bastava… sapevo che non era sufficiente.
-Io mando te, il mio uomo migliore, a svolgere la missione più importante di qualunque altra prima d’ora… e tu ritorni da me con nient’altro che scuse e giustificazioni!-
La sua voce, iraconda, aumentò di volume ad ogni parola, quasi sfiorava l’urlato.
Deglutii, cercando di aggiustare il tutto.
-Io…-
Al Mualim, furibondo, alzò una mano.
-Non parlare! Non un’altra parola!-
Mi ordinò, costringendomi, a causa del rango, ad ubbidire.
Camminava, nel tentativo di calmarsi, passi che rappresentavano tutta la sua furia, tutta la sua ira, il suo disprezzo per il mio operato.
Una delusione, per lui ero diventato questo.
-Non è questo ciò che mi aspettavo. Dovremo organizzare un’altra forza.-
Mi azzardai a parlare.
-Vi giuro che lo troverò Maestro. Andrò a…-
-NO. Tu non farai nulla. Hai fatto abbastanza.-
La sua risposta, secca e decisa, mi costrinse a tacere nuovamente.
Sospirai, vedendo l’anziano voltarsi verso di me.
-Dove sono Malik e Kadar?-
Mi domandò, costringendomi a fissare per terra.
Ricordai soltanto le parole di de Sable, poi l’atterraggio, seguito dal crollo dell’apertura del tempio… infine le urla e…
La fuga.

“Non sai in che cosa ti immischi assassino.
Ti risparmio solo perché tu possa andare a riferire questo al tuo Maestro: la Terra Santa… non è più sua!
Dovrebbe fuggire finché può.
Se rimane, tutti voi morirete!”
 
-… Morti.-
Esordii in un sussurro, quando, alle mie spalle, percepii dei passi stanchi, accompagnati da delle voci e dei sospiri fiacchi, sussurri di una voce a me nota.
Lentamente, mi voltai, vedendo Malik scansarsi, con non poca fatica, dagli assassini che lo stavano scortando: un novizio, alle sue spalle, cercò di seguirlo, venendo bloccato da un altro.
La tunica, come quella del mio compagno, era macchiata di sangue, segno che gli aveva prestato soccorso: osservandolo attentamente, mi resi conto che altri non era che il giovane Hamal.
-No… Non morti… Io vivo ancora!-
Il moro, con voce strozzata dal pianto, agitò il braccio sano, come se volesse farmi notare ulteriormente quello che, per colpa mia gli era stato fatto: lo vedevo, lo sapevo cosa era successo!
Distolsi lo sguardo.
-E tuo fratello?-
Domandò Al Mualim, causando un moto di tristezza in Malik: quello che un tempo era stato il mio amico, stava trattenendo, con grande fatica, le lacrime che si stavano facendo sentire, pesanti come macigni ed amare come il fiele.
-No… PER COLPA TUA!-
Furibondo, mi puntò l’indice contro, facendomi riprendere dallo stato catatonico nel quale ero caduto.
-Mi hanno spinto fuori dalla sala! Non potevo rientrare!-
Cercai, con quella frase, di difendermi, sebbene sapessi e vedessi che tutto era inutile: difatti, Malik tornò all’attacco, furibondo ed incapace di controllarsi.
-PERCHE’ NON HAI VOLUTO DARMI ASCOLTO! Questo si poteva evitare! E mio fratello…-
Si fermò, trattenendo le lacrime, quelle gocce cristalline che gli stavano pugnalando gli occhi cupi, salvo poi continuare.
-MIO FRATELLO SAREBBE ANCORA VIVO! Oggi la tua arroganza ci è quasi costata la vittoria.-
Di colpo, vidi Al Mualim mutare espressione: da irato a sorpreso, il tutto in pochi secondi.
Che nascondeva Malik?
-Quasi?-
Domandò il Maestro curioso, attirando su di sé l’attenzione degli adepti.
-Ho ciò che il vostro prediletto non è riuscito a trovare… ecco, prendete.-
A seguito di queste parole, vidi un serviente portare, all’anziano, un manufatto completamente dorato, caratterizzato da una specie di calice alato con, al centro, una struttura oviforme, posandola sulla scrivania.
Il tesoro che avrei dovuto recuperare io.
-Anche se il tesoro non è l’unica cosa che mi son portato dietro.-
Ammise, con stanchezza, Malik, mentre fuori dalle mura iniziai a sentire varie voci che, tutte insieme, andarono a formare delle urla di guerra: il fratello d’ordine aveva recuperato il tesoro, certo, ma si era portato dietro buona parte dell’esercito dei Templari… Roberto compreso.
Strinsi la mascella, a causa dell’umiliazione che avevo subito, mentre un secondo serviente arrivò da Al Mualim.
-Maestro! Siamo sotto attacco! Roberto di Sable cinge d’assedio il villaggio di Masyaf!-
Vidi l’occhio del Maestro riempirsi di una rabbia protettiva, preoccupazione verso quello che era il suo popolo, quella che era la sua casa.
-Dunque cerca lo scontro. Molto bene, non lo deluderò. Vai, informa gli altri, la fortezza deve esser pronta.-
Lo vidi voltarsi verso di me, quanto bastava per vedermi in faccia.
-Quanto a te Altair, la nostra discussione dovrà attendere. Raggiungi il villaggio, annienta quegli invasori… scacciali dalla nostra casa!-
Nonostante la discussione precedente, Al Mualim sembrava aver ancora fiducia in me. Deciso a voler dimostrare chi ero davvero, presi fiato e risposi.
-Sarà fatto.-

Angolo autrice: Ecco il nuovo capitolo!
Cavolo, ho sudato 7 camicie per scriverlo, dato che Altair lo vedo come un personaggio moooooolto complesso. Spero di non averlo rovinato, purtroppo è stata un'impresa idilliaca mettersi nei suoi panni (confesso che è la prima volta che mi capita).
Ho deciso, oltretutto, di far raccontare la storia anche ai due caaari assassini (ne vedremo delle belle, che dite?).
Fatemi sapere se vi piace! ;D
Al prossimo capitolo!
Bacioni!
Nebula216 <3

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Capitolo 7
*** Rafiq ***


Capitolo 7: Rafiq
 
Avevo sfruttato tutte le energie che mi erano rimaste per tornare a Masyaf, ed ora che ero nelle mura confortevoli di casa mia… non riuscivo nemmeno a camminare.
Quel novizio, di cui ancora non sapevo il nome, era stato una manna dal cielo: era entrato nelle scuderie al momento giusto, mi aveva soccorso senza dir nulla, senza chiedermi niente. Si era avvicinato e, con decisione, mi aveva tirato su, portandomi con non poca fatica verso la prima gradinata della fortezza, senza curarsi minimamente degli sguardi altrui: ero in debito con lui, e un grazie non sarebbe bastato.
Tentando di star concentrato, mi voltai verso di lui, vedendolo ancora alle mie spalle: rispetto ad altri, era magrolino, ma nelle sue iridi scure potevo notare una testardaggine paragonabile a quella di un mulo… era quella caratteristica che mi aveva salvato.
Cercai di dire qualcosa, ma quello che ottenni fu solo una smorfia di dolore a causa della ferita e, soprattutto, per quello che avevo passato: il templare aveva affondato bene la spada nella mia carne… e in quella di Kadar.
Scossi la testa, decidendomi a camminare.
Stavo per fare un passo, quando lo vidi affiancarmi e sorreggermi, senza che io gli avessi chiesto niente.
-Non… non serve…-
Lo vidi sbuffare, quasi come se lo avessi offeso.
-Non scherzare. Sei debole, crolleresti dopo un passo.-
Rimasi zitto, sapendo quanto avesse ragione: mi limitai a fissargli la manica della tunica, macchiata di rosso a causa del mio sangue. Macchiata come l’anima di quello stupido che, invece di agire di testa sua, avrebbe dovuto darmi retta.
Quello stesso stupido che, adesso, lottava come se non fosse successo niente fuori, fra altri assassini… ed era stato Al Mualim ad ordinarglielo!
Colto da una rabbia improvvisa, strinsi con la mano sana la spalla del novizio, il quale si lamentò per la presa troppo forte: Altair aveva sempre avuto tutte le fortune di questo mondo, mentre io…
Io avevo perso tutto.
-Ahi, piano!-
Ripresomi dallo stato rabbioso, sciolsi la stretta e camminai, con non poche difficoltà, verso un corridoio: ero debole, è vero, ma l’avrei ammesso mal volentieri, soprattutto davanti ad un novizio. Svoltai l’angolo ma, purtroppo, vidi tutto diventare sfocato: le colonne, i mobili, persino le pietre che componevano i muri laterali; ero troppo stanco, troppo sfiancato per fare il minimo gesto.
Mi appoggiai, con un sospiro, al muro, vedendo subito l’apprendista avvicinarsi con preoccupazione: potevo farcela da solo, perché non voleva capire?
-Vai fuori, si impara di più sul campo che…-
-No.-
Sorpreso, lo fissai stralunato: non aveva visto che divisa portavo?
Ero superiore a lui di rango, come poteva pensare di rispondere così?
Non che me ne preoccupassi più di tanto, ma se fosse stato qualcun altro? Avrebbe risposto allo stesso modo?
Presi un respiro, contando mentalmente per potermi rialzare: quando provai a darmi la spinta, tutto quello che sentii fu soltanto una forte fitta alla spalla, quanto bastava per farmi lanciare un grido sommesso: no, non poteva andare così.
Tentai nuovamente, con tutta la volontà che potevo, ma non riuscii a schiodarmi da quel muro… e se non fosse stato per l’altro ragazzo, non ci sarei riuscito. Difatti, il novizio mi riprese, come aveva già fatto nelle scuderie, portandomi in una delle stanze dove venivano medicati i feriti.
Non parlai, non osai dire niente, mi limitai a fissare il pavimento, ad osservare i piedi che, in maniera meccanica, seguivano l’andatura di colui che mi aveva salvato: ero stato privato di tutto… persino della volontà.
Sentii la recluta aprire una porta e farmi sedere, in maniera un po’ goffa, sul letto: mi guardò, o almeno mi parve questo in quel momento, per poi porgermi da bere.
-Sarai stanco e...-
-Esci.-
Quell’ordine mi uscì come un ringhio dalla bocca, troppo aggressivo per una persona come me, o forse carico di quella stanchezza, di quella rabbia che mi stava divorando dentro, pezzo dopo pezzo.
Alzai un poco lo sguardo, vedendolo ancora lì, davanti a me, con una ciotola colma d’acqua fresca e pulita: una cosa che, più volte, avevo visto sottoforma di miraggio nel deserto. Mi porse il contenitore ligneo, deciso a volermi aiutare a tutti i costi, ad ignorare quello che avevo detto…
Ad ignorarmi come aveva fatto, poco prima, Altair.
Al solo ricordo degli avvenimenti, strinsi la ciotola e la scagliai, con forza, per terra, facendo sobbalzare l’altro per lo spavento.
-ESCI!-
Questa volta, l’urlo che lanciai lo fece letteralmente scappare, proprio mentre stavano per entrare dei medici: mai, in vita mia, avevo avuto una tale carica aggressiva, mai avevo urlato ad un novizio un ordine…
Doveva essere un brutto sogno, sì doveva esser così: magari mi sarei svegliato e avrei visto Kadar fare, come suo solito, il cascamorto con le ragazze del villaggio, per niente pronto per gli allenamenti.
Un medico mi si avvicinò.
-Malik, stenditi.-
Fui ben lieto, questa volta, di sdraiarmi: un secondo dottore, in quel momento, mi dette da bere, dalla stessa ciotola che, precedentemente, mi era stata offerta dal mio salvatore; con la gola secca, accettai, riprendendomi ad ogni sorso dalla stanchezza e dalla calura che avevo accumulato.
Un terzo curativo mi denudò delle armi, della parte superiore della tunica, facendo attenzione a non toccarmi troppo violentemente la ferita; infine, un quarto di loro analizzò la lesione, mentre il primo tornava a parlare con me.
-Perché hai cacciato Hamal? In fondo stava facendo una cosa giusta.-
Sospirai, osservando con non poca fatica il soffitto.
-Io… non lo so.-
Mi limitai a dire, ripensando a come aveva reagito il ragazzo: che l’avessi spaventato così tanto?
Ero davvero così?
Non sapevo darmi risposta.
-Tenetelo fermo. Non possiamo far niente per il braccio.-
Queste parole, precise e gelide, mi immobilizzarono ancor prima che potessero farlo i dottori. Soltanto quando riacquistai quella poca lucidità che avevo, era già troppo tardi: mi ritrovai avvolto nella stretta ferrea dei quattro, incapace di liberarmi, di oppormi.
Proprio come era successo, qualche attimo prima, nel tempio di Salomone.
 
“Altair, ingenuo e guidato dal suo stupido orgoglio, aveva deciso di farsi avanti, di sconfiggere da solo Roberto di Sable. Mai, nella mia vita, ho visto un assassino così sfrontato, capace di tradire in una volta sola tutti e tre i principi che ci erano stati insegnati!
Tentai di dissuaderlo, di fargli cambiare idea, ma ogni mio tentativo si rivelò vano: sicuro di sé, Altair scese le scale lignee e, con passo svelto, al limite dell’orgoglio, si avvicinò al gruppo di templari comandato da Roberto.
-Fermi templari! Non siete i soli ad avere interessi qui!-
Esordì il mio compagno, attirando su di sé l’attenzione di tutti i nostri nemici. Roberto, vedendolo, ghignò, un gesto che mi allarmò.
Guardando mio fratello,decisi di scendere al fianco di quel disgraziato, nella speranza di poter salvare il salvabile: scesi velocemente le scale, imponendo a Kadar, con lo sguardo più severo che potessi avere, di restare fermo dove era.
Mi fissò di rimando.
-Non sono un bambino Malik… voglio fare la mia parte.-
-Non essere sconsiderato come Altair, Kadar.-
Perché non voleva capire che lo stavo proteggendo?
Perché non mi dava retta?
-Bene, questo spiega il mio uomo mancante… E che cos’è che volete?-
Quella domanda che Roberto pose al prediletto del Maestro, in maniera così diretta, mi fece accapponare la pelle: senza dire nient’altro, scivolai lungo le scale e, velocemente, corsi da Altair, pronto a rispondere.
-…Sangue.-
Lo vidi scattare e, nel disperato tentativo di fermarlo, mi slanciai, urlando affinché potesse darmi ascolto.
-NON FARLO!-
Era troppo tardi…
Ero stato troppo lento.“

 
Urlai, mentre un quinto medico, entrato poco dopo, mi legò sotto la spalla un laccio ben stretto, così tanto che, in breve tempo, non riuscii più a sentirlo: non poteva andare così, non poteva affatto!
Mi divincolai, tentati di convincere i medici, ma tutto sembrava inutile.
La stanza, d’un tratto, sembrò tremare: i contorni si erano fatti meno definiti, come se stessi guardando il loro riflesso.
Effettivamente, era così.
Ciò che vedevo, altro non era che lo specchio formato dalle mie lacrime.
 
“Altair non aveva pensato ad una possibile difesa di Roberto, errore che costò caro a tutti quanti: il templare, con sicurezza, lo colpì e, in seguito, gli bloccò i polsi: senza che ci pensassi troppo, portai la mano all’elsa della spada, sentendo però qualcuno che, con forza, mi strattonava per il braccio sinistro.
Uno scagnozzo di De Sable.
Iniziai a tirare, mentre Roberto, con ira, parlava ad Altair.
-Non sai in che cosa ti immischi assassino.
Ti risparmio solo perché tu possa andare a riferire questo al tuo Maestro: la Terra Santa… non è più sua! Dovrebbe fuggire finché può.
Se rimane, tutti voi morirete!-
Conclusa la minaccia, lo vidi scagliare il nostro compagno fuori dal tempio, causando con quel gesto il crollo della nostra ultima via di fuga.
Io e Kadar avremmo dovuto lottare per sopravvivere.
Con una ginocchiata decisa, mi liberai dello scagnozzo, salvo poi girarmi verso il nascondiglio di mio fratello.
-Kadar!-
Lo vidi avvicinarsi a me con una certa insicurezza, sebbene volesse evitare di darla a vedere, probabilmente per orgoglio o per ricordarsi chi fosse.
Soltanto in quel momento, forse per la tensione o per vera paura, mi resi conto che non eravamo altro che ragazzi, soprattutto mio fratello, che per quanto addestramento avessimo ricevuto, non avremo mai avuto un vantaggio sui templari…

Non ora che Altair si era fatto cacciare.
-Fratello…-
Sapevo cosa stava per dire, ma non volevo farlo cedere, non volevo che cadesse nella disperazione: prendendo fiato, strinsi la mano sull’elsa della daga.
-Andrà  tutto bene Kadar.-“
 
-Andrà tutto bene Malik! Calmati!-
I medici cercarono di rassicurarmi, ma tutto fu inutile: non era mia intenzione calmarmi, non dopo che avevano ripetuto le stesse identiche parole che, invece, si erano rivelate fatali nel Tempio di Salomone.
Uno di loro,forse stanco delle mie lamentele, mi fermò il braccio, guardando a seguito i suoi colleghi.
-Tenetelo fermo, e tu inizia l’amputazione.-
Quando mi bloccarono di nuovo, capii che non potevo più ribellarmi.
Capii che tutto stava per finire.
 
“Il combattimento si era rivelato un grosso errore, e soltanto quando mi ritrovai rintanato in un angolo della stanza, steso a causa di due templari che, ridenti, mi puntavano le spade alla gola, quelle stesse armi che si erano tinte del mio sangue poco prima.
Roberto, in quel momento, fissava con scherno mio fratello, costretto a stare con le spalle al muro da altri crociati. Kadar deglutì, cercando disperatamente un’arma che potesse garantirgli una possibilità in più di fuga…
Qualcosa che potesse diventare il suo lasciapassare per vivere.
-TORNA INDIETRO!-
Urlai, ricevendo un calcio alle costole da un cavaliere che, per qualche istante, mi tolse il respiro. Mio fratello, con il terrore negli occhi, mi rivolse uno sguardo: non se ne sarebbe andato senza di me, lo sapevo.
Ripresi fiato.
-KADAR VATTENE! TORNA INDIETRO! NON PENSARE A ME! VA’ VIA!-
-E stai zitto!-
Con ira, un templare mi ferì il braccio sinistro, costringendomi a reprimere un urlo di dolore: non volevo dar loro alcuna soddisfazione, e mai gliel’avrei data!
Roberto, con curiosità, mi fissò.
-Quanto può esser doloroso e forte il legame fraterno? Sai rispondermi assassino?-
Non sapendo quali fossero le sue intenzioni, sputai per terra e, quasi ringhiando, lo fissai.
-Molto bene…-
Con decisione, Roberto mi pose un piede sulla faccia, costringendomi a guardare in direzione di mio fratello, ulteriormente spaventato.
Al primo segnale, un templare rigirò la lama e, senza indugi, trapassò il ventre di Kadar, mentre io, incapace di agire, di difenderlo, presi ad urlare.”
 
La lama dei medici, sicura e precisa, recise ogni singolo tessuto, un’ulteriore ferita che andava ad aggiungersi a quelle che avevo già accolto nella missione.
Urlai, a stento riuscii ad agitarmi per la presa dei curatori, i quali tentavano sempre di calmarmi…
Loro non avrebbero mai capito.
Quando il chirurgo iniziò a segare l’osso, altri ricordi si accavallarono.
-NO!-
 
“-KADAR! NO!-
-GUARDA COME SOCCOMBE TUO FRATELLO, ASSASSINO!-
Mi urlò, di rimando e divertito per lo spettacolo, De Sable, costringendomi ancora a guardare.
Tenendosi il ventre, Kadar mi fissò: stava perdendo sangue dall’addome, dalla bocca, ed io, stupido, non riuscivo ad aiutarlo.
Come potevo essere un fratello maggiore?!
Tentai nuovamente di alzarmi, ma questa volta la lama di Roberto mi inchiodò, per il braccio sinistro, al terreno, mentre un secondo templare sferrò un altro colpo alle spalle del mio fratellino: Kadar urlò, liberando una boccata di sangue mista a lacrime, cadendo al suolo con un rantolo che mi fece rabbrividire.
Senza alcuna pietà, i soldati di Roberto continuarono ad infierire su di lui, fino a quando spirò… ed io, per la troppa disperazione, mista alla rabbia, alla fatica e al sangue perso, svenni, pensando soltanto ad una cosa…
La colpa era soltanto di Altair.”
 
Un rumore, seppur lieve, mi risvegliò: su Masyaf era calata la sera e, nella mia stanza, era entrato nuovamente il novizio che avevo cacciato, in malo modo, ore prima. Aveva appena appoggiato, su un tavolino, un vassoio di legno con quella che sembrava la cena.
Lo fissai, in silenzio, notando come si sentiva a disagio: se dovevo esser sincero, non aveva tutti i torti, l’avevo cacciato in un modo che io stesso non riconoscevo come mio. Prima che potessi aprire bocca, e prima che il novizio mi avvertisse, notai una fasciatura intorno al mio braccio…
O, per dire meglio, intorno al moncone che restava del mio arto.
Spaventato, sbiancai e fissai l’altro ragazzo.
-I… i medici non potevano fare altrimenti… mi dispiace.-
Dopo aver pronunciato quelle parole a testa bassa, mi guardò: aveva gli occhi verdi scuri, a fatica riuscivo a distinguerli dal nero. Erano contornati da lunghe ciglia e, in quel momento, erano addolorati per ciò che mi era successo.
Sospirai.
-Grazie per… la cena. Ora vorrei restare solo.-
Non fiatò, non osò rispondermi: si limitò ad annuire e ad uscire. Quando provai a mangiare, col braccio sano, vidi entrare un serviente: adesso cosa c’era?
-Cosa vuoi?-
Domandai, ormai rassegnato a causa di tutto quello che era successo. L’altro mi guardò, poi decise di parlare
-Al Mualim mi ha detto di riferirti che domani mattina verrai scortato a Gerusalemme per ricoprire un nuovo incarico.-
La sua vocemi risultava indecisa e dispiaciuta.
Prendendo un respiro abbassai la testa.
-Quale?-
Un attimo di silenzio, poi un sospiro…
Infine la sentenza.
-Sarai il nuovo rafiq di Gerusalemme.-


Angolo Autrice: Ecco anche il capitolo 7!
Spero di averlo fatto il più straziante/triste/deprimente e altro.
Come vi sembra per ora la storia?
Al prossimo capitolo gente!
Bacioni!
Nebula216 <3

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Capitolo 8
*** Fuga ***


Capitolo 8: Fuga
 
Mio padre, ancora, non aveva fatto ritorno.
Era strano, di solito non tardava mai per cena, dato che era l’unico momento in cui potevamo stare insieme e parlare della nostra giornata, di come l’avevamo trascorsa.
Sospirai, vedendo il sole prossimo a tramontare del tutto: se avessi aspettato dell’altro mi sarebbe salita l’ansia.
Perché mio padre non tornava?
Margaret, vedendomi preoccupata, mi mise una mano sulla spalla.
-Tornerà… è stato lontano anche per più tempo.-
-Qui siamo in Terra Santa Margaret, è diversa da casa nostra.-
Risposi con la voce ridotta ad un sussurro, senza mai staccare lo sguardo dai cancelli della città. Avevo sentito certe storie su quelle terre, certi aneddoti di altri cavalieri, che mi avevano fatto rabbrividire in pochissimo tempo… e se mio padre fosse caduto vittima di un qualche agguato?
Se degli infedeli lo avessero aggredito sulla strada del ritorno?
Non riuscivo a sopportare questi pensieri, e la balia se ne accorse.
-Signorina… si calmi. Suo padre sa cavarsela, non deve aver paura.-
Certo, lo sapevo, ma gli imprevisti potevano accadere sempre e comunque: bastava un cavallo imbizzarrito per cambiare le cose.
Dopo tanti pensieri, decisi di allontanarmi dalla finestra, per non avere altre preoccupazioni: dovevo convincermi che sarebbe tornato, dovevo provarci.
Decisi di annegare le mie preoccupazioni in un bel bagno rilassante, con gli oli tipici del territorio comprati quella mattina al mercato: Margaret ne aveva presi così tanti che la scelta mi risultò alquanto difficile. Alla fine, optai per una boccetta di mirra, constatando che la vasca, finemente decorata, era già stata riempita d’acqua tiepida e fiori colorati: che la mia badante avesse esagerato?
-Margaret, non è che hai…-
-Sciocchezze! È nervosa oltre ogni dire, merita un po’ di riposo e tranquillità.-
Già, riposo e tranquillità… due parole che da molto tempo non riuscivo più ad associare alla vita che stavo conducendo. Margaret mi slacciò gli abiti che stavo indossando, permettendomi così di entrare totalmente nell’acqua, rilassandomi quasi subito per quella sensazione paradisiaca: forse non era un concetto estraneo dalla mia vita.
Quando riemersi, sentii la governante prendermi i capelli ed iniziare a pulirli con cura, come aveva sempre fatto in tutti quegli anni al posto di mia madre. Sospirai, osservando un fiore, di un bel rosso acceso, galleggiarmi intorno, quasi come se fosse coinvolto in una danza sconosciuta e silenziosa.
Avrei voluto esser cullata anche io in quel modo, senza alcuna preoccupazione o problema… volevo essere libera di andare ovunque volessi, senza scorte di soldati e coprifuochi.
Libera di fare ciò che volevo.
Purtroppo, i miei desideri dovevano restare semplici fantasie: secondo mio padre, dovevo pensare soltanto a diventare una brava moglie per un buon pretendente.
Margaret iniziò a darmi la mirra, riportandomi alla realtà e facendomi perdere il flusso dei miei pensieri: forse era meglio così, vista la tristezza che mi stava attanagliando il petto.
-Non sia triste signorina… molti uomini donerebbero il loro regno per lei.-
-Margaret, non è questo che voglio. Per una volta… vorrei essere io a decidere della mia vita: vorrei decidere io come organizzare la giornata, senza dover sentire mio padre dare gli ordini ai soldati o a te. Vorrei decidere io se, quando e soprattutto con chi sposarmi.-
La governante sospirò, porgendomi un telo quando uscii dalla vasca: sapevo che discorso mi aspettava, ma dovevo dire la mia… almeno con lei dovevo sfogarmi.
-So quanto brama la libertà signorina… ma lei ha dei doveri sulle sue spalle, è figlia di Roberto de Sable, nonché sua unica erede. È difficile… ma bisogna adattarsi.-
Parole, quelle di Margaret, che mi ferirono ulteriormente.
-Ma stia tranquilla signorina, suo padre non la darà mai in sposa ad un uomo zotico, caprone, riluttante, decrepito…-
-Va bene, va bene Margaret, ho capito! Adesso… vorrei soltanto riposare.-
Tutti quei discorsi mi stavano stancando: per quanto potessi confidarmi con Margaret, lei non avrebbe mai dato contro a mio padre, avrebbe trovato una giustificazione per tutto. Indossata la camicia da notte di lino candido e asciugati i capelli, non mi restava che infilarmi sotto le coperte e dormire, dato che quello era la mia ultima via di fuga: l’unico modo che avevo per realizzare i miei sogni di libertà.
La balia, con una candela in mano, mi guardò.
-Buonanotte signorina.-
-Buonanotte Margaret.-
Risposi, nella speranza che la luce di quel cero si spengesse subito: così fu.
Con tristezza, mi sistemai meglio sotto le coperte, osservando dalla finestra quella miriade di stelle che ornavano il cielo, uniche testimoni assieme alla luna della vita notturna.
Mentre facevo quei pensieri, sentii le palpebre farsi sempre più pesanti, fino a quando il mio mondo non fu totalmente avvolto dall’oscurità.
 
“Ero in uno strano piazzale,circondato da alte mura, occupato da uomini e ragazzi vestiti con strane tuniche sia grigie che bianche. Molti di loro si stavano esercitando, lanciando coltelli, frecce e altro contro dei manichini fatti di legno o dei  sacchi pieni di fieno. Sembravano soldati semplici e la prima cosa che pensai fu che quelli dovevano essere nuovi soldati semplici dell’esercito Templare…
Mi ricredetti subito quando vidi delle bandiere sventolare alte in cielo: non c’era il simbolo dei Crociati, bensì una strana A priva del gambo centrale… dove ero finita?
Provai a fermare degli uomini, intenti ad andare verso una torre elevata… questi però mi passarono attraverso.
-EHI!-
Mi voltai verso quel torrione, impallidendo appena vidi un ragazzo gettarsi, a braccia aperte, dalla cima: era pazzo!?
Mi scappò un urlo, non udibile da tutti coloro che mi stavano osservando: erano matti, pazzi da legare!
Mi guardai intorno, sempre più spaventata e confusa.
-MARGARET!-
Chiamai la mia badante, ma questa non arrivò. Corsi in ogni parte di quella piazza, vedendo all’improvviso una strana figura cupa, ben nascosta in un vicolo: era avvolta dalla testa ai piedi  in un mantello nero. Mi fermai, sicura che anche lui mi stesse scrutando: era diverso dagli altri… più minaccioso forse.
-C-chi sei?-
Lo sconosciuto non rispose: si limitò a star fermo sul posto, salvo poi voltare le spalle ed andarsene, con l’agilità di un felino.
Stanca per tutte quelle novità, mi sedetti contro il muro candido della struttura più imponente, provando a mettere in ordine le idee:ero da sola, in una strana fortezza nel deserto, abitata da uomini fuori di testa e strani… c’era altro?
Chiusi un attimo gli occhi, pregando che quell’incubo finisse al più presto.
Quando li riaprii quasi ero prossima a strillare: la piazza, gli uomini e la torre erano spariti, lasciando un grande vuoto attorno a me. L’unico elemento che illuminava l’oscurità era una strana sfera che, in quel momento, ruotava su sé stessa e fluttuava in aria.
Non sapevo cosa fosse, non ne avevo la più pallida idea… nonostante tutto, sentivo che emanava un potere forte, forse troppo per gli umani.
Quando mi avvicinai e provai a toccarla, fui avvolta da una luce accecante… e tutto intorno a me sparì.”
 
Mi sedetti di colpo, con il petto che si alzava ed abbassava ad un ritmo irregolare per lo spavento: era solo un incubo... anche se tremendamente reale.
Presi dei respiri profondi e, quando mi fui calmata, decisi di bere dell’acqua fresca.
-“Mi aiuterà… devo soltanto rilassarmi. Era solo un incubo dopotutto, no?”-
Pensai scendendo le scale, nel tentativo di rassicurarmi ulteriormente: non potevo spaventarmi per una cosa del genere, non poteva accadere davvero.
Mi avvicinai alle scale di pietra, bloccandomi sul quinto gradino a causa di alcune voci.
-Quei maledetti… ci hanno battuti!-
Sospirai sollevata nel sentire la voce di mio padre: stava bene, era tornato a casa sano e salvo… anche se la sua frase mi aveva lasciata alquanto interdetta.
Non feci un passo, rimasi lì ad ascoltare, ben nascosta dalle tenebre della notte.
-Non potevamo saperlo signore…-
-Quel maledetto di Al Mualim… Vedrà come metterò a ferro e fuoco quella sua dannata fortezza! Li ucciderò tutti!-
Sentii le mie gambe tremare sempre di più: che stava succedendo a papà?
Perché parlava così?
Non osai fiatare, rimasi lì in ascolto per non so quanto, fino a quando non tornai di corsa verso la mia stanza.
Non poteva esser questo mio padre… non era l’uomo che avevo sentito parlare pochi attimi prima…
Non poteva essere l’uomo che mi aveva cresciuta amorevolmente.
Senza riuscire a pensare lucidamente, mi tolsi la veste di lino notturna, cercando nei bauli qualche abito che potesse essere comodo: optai per uno azzurro chiaro, lungo fino ai piedi, con maniche abbastanza larghe e dalle spalline cadenti, abbinandoci un velo che potesse permettermi di passare inosservata.
Aspettai che il piano di sotto fosse sgombro e, quando vidi le luci spente, mi catapultai verso l’uscita, in direzione delle scuderie: quello non poteva essere il mio unico genitore, non poteva!
Sellai la mia giumenta in pochissimo tempo, senza preoccuparmi dei suoi nitriti leggermente spaventati: non mi aveva mai vista così confusa, una parte di me sapeva che dovevo fermarmi e ragionare, però quell’altra era troppo caotica per darle retta.
Una volta preparata la mia cavalcatura, salii e partii al galoppo, uscendo dalle mura di Gerusalemme senza esser notata da nessuno…
O almeno, così credevo.



Angolo autrice: Mi scuso del ritardo, ma l'università e gli altri numerosi impegni son tornati a farsi sentire.
Spero che vi sia piaciuto!
Al prossimo!
Bacioni!
Nebula216 <3

 

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Capitolo 9
*** Collaborazione ***


Capitolo 9: Collaborazione
 

Un serviente, mandato dal Gran Maestro, bussò ripetutamente alla mia porta, costringendomi a vestirmi alla svelta e ad andare nella sala principale: ringraziando il cielo, non si era catapultato nella mia stanza per avvertirmi… se fosse successo, sarebbe stato un discreto problema.
Mentre percorrevo i corridoi della fortezza, incrociai il mio amico Basim, alquanto preoccupato vista la sua faccia: che sapesse cosa mi attendeva?
-Basim…-
-Hamal, ma che hai fatto per finire in questo guaio?-
Mi sentii mancare: cosa sapeva?
Che avessero intuito?
Deglutii, nel tentativo di mantenere la calma: non potevo spaventarmi.
-Quale guaio?-
Basim si asciugò la fronte, accompagnandomi nella camminata e spiegando cosa era successo: gli assassini erano riusciti a respingere l’attacco dei Templari con una trappola, azionata a distanza. Questo mi sollevò, tanto che sul mio volto si dipinse un accenno di sorriso… il quale svanì presto a causa delle parole del mio amico.
-Al Mualim ha pugnalato davanti a tutti Altair.-
Mi fermai.
-Cosa?!-
Il Gran Maestro aveva pugnalato il suo assassino migliore?
Capivo perfettamente che aveva sbagliato nel Tempio di Salomone, ma non pensavo che potesse arrivare a tanto.
Se lui era stato punito così… no, non volevo pensarci.
-Al Mualim l’ha punito per l’arroganza dimostrata nel Tempio. Vuole parlare con te adesso, anche se non ne capisco il motivo. Insomma… tu eri qui dentro.-
Sì, in quel momento avevo preferito aiutare quel ragazzo moro di cui non sapevo il nome piuttosto che scendere in campo e combattere: forse era per questo che il Maestro aveva chiesto di me.
Mi morsi il labbro inferiore, pregando Allah che non castigasse anche me.
Guardai Basim: forse lui sapeva.
-Tu per caso sai…-
Lo vidi sospirare.
-No Hamal, non so dirti cosa vuole… ti auguro buona fortuna.-
Posò una mano sulla mia spalla, nel tentativo di rassicurarmi un poco su ciò che mi aspettava.
Annuii per ringraziarlo, salvo poi proseguire la camminata nei corridoi della struttura: con tutto il cuore sperai che non fosse per quel motivo… anche perché, se fosse stato davvero così, avrei potuto soltanto dire addio.
Mentre percorrevo uno degli androni, finemente decorato con arazzi e armi appartenute a qualche membro antico della gilda, scorsi tre uomini uscire dalla porta principale: due indossavano la tunica candida degli assassini; l’altro, sopra di essa, portava una veste blu scura, con ricami bianchi. Appena vidi la manica sinistra appuntata all’altezza della spalla, una morsa allo stomaco mi costrinse a fermarmi: capelli neri, occhi color pece e pizzetto…
Quello era il ragazzo che avevo cercato di aiutare.
Mi allontanai dalla ringhiera di quel passaggio, spiaccicandomi contro il muro candido e fresco: ricordavo perfettamente come mi aveva urlato contro, come le mie gambe avessero agito in maniera autonoma… come avevo seguito, diligentemente, le indicazioni datemi dai medici riguardo al suo risveglio.
Abbassai lo sguardo, tornando a percorrere la mia strada in silenzio.
Quando arrivai in prossimità della sala del Gran Maestro, sentii quest’ultimo parlare con qualcuno, una voce profonda e, in quel momento, stranita.
-Vivo… ma… vi ho visto colpirmi. La morte mi ha preso!-
Mi bastò quella frase per capire chi fosse al cospetto di Al Mualim: Altair Ibn-La'Ahad.
-Hai visto ciò che ho voluto che tu vedessi… e poi sei entrato nel sonno della Morte, nel grembo, così da risvegliarti e rinascere.-
Sapevo che spiare le conversazioni altrui non era indicato, ma non volevo interromperli così: avevo già capito, intanto, che il Maestro non aveva ucciso il suo adepto migliore… ma per cosa?
Perché?!
Aveva tradito i tre principi su cui si fondava la confraternita, la pena doveva essere capitale, e invece…
-A quale fine?-
Altair espresse a voce ciò che io, in quel momento, stavo pensando: se Al Mualim aveva risparmiato, nonostante tutto, l’assassino, doveva avere in serbo qualcosa.
-Ricordi Altair per cosa combattono gli assassini?-
-La pace, in ogni cosa.-
Provai, senza farmi vedere, ad avvicinarmi di più, senza rendermi conto però di un vaso che un servo aveva dimenticato lì: se Basim fosse venuto con me, forse il capitombolo che mi causò quel contenitore si sarebbe potuto evitare.
Caddi come una mela matura a terra, facendo girare simultaneamente sia il Maestro che Altair.
-Ahia…-
Sussurrai a denti stretti, mentre mi assicuravo con le mani che il cappuccio della divisa fosse ancora alto sul volto.
-Hamal, sei arrivato.-
Esordì l’anziano con tono solenne, facendomi alzare velocemente: non avevo fatto una bella figura, per niente!
-Maestro, sono mortificato per…-
-Tranquillo Hamal…-
Presi un sospiro, mentre Al Mualim tornò a guardare Altair.
-Sì, in ogni cosa. Non basta arrestare la violenza di ogni uomo su un altro. Si riferisce anche alla pace dentro di noi… non puoi avere l’una senza l’altra.-
Ascoltai, in disparte e con attenzione, il discorso del Maestro: aveva ragione, ma allora… perché la guerra?
-Così si dice.-
Rispose l’altro assassino, facendo brillare di sicurezza l’occhio sano dell’anziano.
-COSI’ È! Ma tu figlio mio non hai trovato la pace interiore… e purtroppo questo si vede. Sei arrogante e presuntuoso.-
Beh, non aveva tutti i torti, pensai fra me e me, restando in ascolto del loro dialogo.
-Non siete stato voi a dire che “Niente è reale e che tutto è lecito”?-
Vidi Al Mualim sospirare, con stanchezza, per poi tornare a guardare quello che, un tempo, era il suo adepto migliore; girò attorno alla sua scrivania lignea con passi lenti e affaticati.
-Non comprendi il reale significato di questa frase, figliolo. Essa non garantisce la libertà di fare come ti aggrada. È una nozione che deve guidare i tuoi sensi, presuppone una saggezza di cui chiaramente difetti.-
Ci fu un attimo di silenzio, in cui sentii chiaramente la mia gola secca oltre ogni dire e il cuore palpitare, nervoso, nel petto: che sarebbe successo?
Anche Altair rimase zitto, salvo poi alzare lo sguardo e parlare.
-Allora che ne sarà di me?-
Ancora silenzio.
-Dovrei ucciderti per le pene che ci hai causato… Malik crede che sia giusto, la tua vita in cambio di quella di suo fratello...-
Sentendo quell’affermazione non potei evitare di irrigidirmi sul posto: Malik, il ragazzo che avevo salvato… aveva detto davvero una cosa del genere?
Possibile che la sua rabbia potesse portare a tanto?
Che cosa avrebbe guadagnato da un atto del genere?!
Presi a mordicchiarmi il labbro inferiore, non curandomi del Maestro che si stava allontanando dalla sua scrivania.
 
“Non lo credevo capace di pensare questo…”
 
Al Mualim riprese il discorso.
-… Ma sarebbe uno spreco del mio tempo e del tuo talento. Vedrai che sei stato privato dei tuoi averi, oltre che del rango.-
Effettivamente, notai che Altair era stato spogliato di tutte le sue armi, dalla spada ai più piccoli e miseri pugnali da lancio: che significava?
-Sei tornato un novizio, un bambino… com’eri il giorno in cui ti sei unito al nostro ordine. Ti sto offrendo l’occasione di redimerti, dovrai meritarti il rientro nella confraternita.-
Il Gran Maestro mi guardò, facendomi sobbalzare sul posto: che aveva in mente? Altair lo guardò: l’unica cosa che riuscivo a vedere, sotto quel cappuccio bianco, era la bocca caratterizzata dalla cicatrice verticale.
Una piccola linea chiara su quella distesa color ambra.
-Presumo che abbiate in mente qualcosa.-
Esordì l’assassino, mentre l’anziano mi invitò, con un cenno, ad avvicinarmi all’altro. In silenzio, camminai avanti a me, fermandomi quando fui esattamente alla sinistra dell’altro adepto: con la coda dell’occhio, lo guardai, vedendo la sua bocca restare sempre seria, impassibile… in attesa del verdetto.
-Prima devi dimostrarmi che ti ricordi di come essere un assassino… un vero assassino.-
Non riuscendo a capire cosa c’entrassi io in tutto questo, decisi di provare quantomeno a domandare il motivo della mia presenza: per quanto mi sforzassi, non riuscivo a comprenderlo.
-Gran Maestro…-
L’uomo mi guardò, permettendomi di continuare a parlare.
-Come mai mi… avete fatto chiamare? Mi sembra che la situazione riguardi molto Altair. Non compren…-
Sollevò una mano, segno che dovevo restare in silenzio e che, forse, la spiegazione sarebbe arrivata presto.
Altair mi osservò, impassibile, da sotto il cappuccio: per lui dovevo essere un novellino, qualcosa più simile ad una seccatura che ad un possibile aiuto. Effettivamente, se confrontati, io scomparivo dietro l’ombra dell’altro assassino: lui aveva più esperienza, capacità più affinate delle mie… io ero solo agli inizi.
Il ventiseienne scostò lo sguardo, ponendo un’altra domanda al Gran Maestro.
-Volete che uccida qualcuno?-
-No.
Non ancora almeno. Per il momento ritornerai a fare l’allievo.-
La risposta dell’anziano era partita in modo quasi irritato, salvo poi sfumarsi in un tono più simile ad un consiglio, ad una frase paterna: non tutti avevano una seconda occasione, non tutti potevano vantarsi di esser scappati alla morte o di essere stati risparmiati.
Altair non doveva, assolutamente, perdere questa occasione.
-Non ce n’è bisogno. Sono un priore.-
Ruotai gli occhi verso il soffitto, maledicendo lui, la sua lingua e il suo dannato orgoglio: non osavo immaginare cosa avrebbe fatto il Maestro dopo tanta arroganza.
Lo guardai, temendo un possibile attacco d’ira da parte della guida di Masyaf… una reazione che non arrivò.
-Eri un priore. Altri rintracciavano le vittime per te, ma ora non più. Da oggi dovrai trovartele da solo, assieme ad Hamal.-
Mi sentii mancare: cosa aveva detto?!
Non potevo crederci, non volevo crederci: mi aveva praticamente ordinato di scendere in campo e fare qualcosa di più concreto, per giunta assieme ad un assassino ben conosciuto fra le mura della roccaforte.
-M-Maestro non so se…-
-Se questo è il vostro volere…-
Altair mi interruppe, come se non fossi mai stato presente nella sala.
Fra me e me pensai che, forse, non aveva fatto male a non farmi finire la frase: andare contro ad un ordine di Al Mualim non era affatto saggio.
Avevo sentito strane voci riguardo a chi disobbediva all’anziano… e non volevo provare niente di quello che dicevano sulla mia carne.
Guardai con la coda dell’occhio Altair, ripromettendomi di ringraziarlo appena fossimo usciti dalla sala.
L’anziano riprese la parola.
-Lo è.-
-Allora ditemi che cosa devo fare.-
… Avevo detto che volevo ringraziarlo?
Vedendo quanto mi stava considerando cambiai prontamente idea: non solo era arrogante, ma era anche pieno di sé ed insopportabile!
Sarebbe stato alquanto difficile collaborare con lui, me lo sentivo.
Dovevo armarmi di molta, molta, pazienza.
Serio, tornai a concentrarmi su Al Mualim, vedendolo camminare dietro il tavolo di legno con passi lenti e silenziosi, pronto soltanto per darci l’ordine.
Si fermò, appoggiò le mani sulla superficie lignea e, a testa bassa, iniziò a parlare.
-Sono stato tradito. Qualcuno stava aiutando Roberto di Sable… uno dei nostri. Scoprite dov’è e conducetelo qui da me, perché possa interrogarlo.-
Rimasi zitto, ascoltando la domanda del mio compagno.
-Cosa sapete dirmi del traditore?-
-Ah ma questo è quanto. Ti ho già detto tutto… il resto sta a te e Hamal.-
Senza alcun altra informazione, ci congedammo e scendemmo le scale, in direzione della porta principale delle mura centrali: vidi Issam e la sua combriccola, occupati a vantarsi l’un con l’altro per le varie “prodezze” svolte, fissarmi con stupore… evidentemente, in molti sognavano di lavorare insieme ad Altair.
Io, invece, mal digerivo questa collaborazione.
Mi guardai intorno, vedendo il mio amico Basim spiegare ad un altro novizio come poter colpire meglio l’avversario con un semplice pugno. Si girò un poco nella nostra direzione e, quando mi vide, smise di parlare: nei suoi occhi, seppur lontani da me, riuscivo a leggere una nota di preoccupazione e paura che mi fece rigirare le viscere.
Potevo anche non tornare più, per quanto ne sapevo: era la prima volta che uscivo dalle mura di Masyaf, senza un vero amico al mio fianco.
Altair, in silenzio, prese a correre, costringendomi a fare altrettanto: chissà che stava accadendo, mi dissi fra me e me.
Ad un certo punto, lo vidi fermarsi di botto davanti ad un altro assassino, un uomo col volto totalmente coperto da un velo, occhi esclusi; anche io, per non sbattere contro la schiena del mio compare, mi fermai.
L’assassino ci salutò.
-Salute e pace Altair, salute e pace Hamal.-
-Mi sbarri il passo.-
Commentò, inacidito, l’assassino con la cicatrice, rendendomi ancor più nervoso: non c’era solo lui, come potevo farglielo notare?
L’altro non si scompose: si limitò a continuare il suo discorso.
-Sì, ma Al Mualim mi ha chiesto di aiutarvi. Di ricordarti, Altair, come si caccia una preda.-
-So come si fa.-
La sua frase, detta in un sussurro sibilante e aggressivo, mi fece accapponare la pelle: era come aver sentito uno sciacallo, nel cuore della notte, ringhiare ben nascosto.
Una sensazione terribile, difficile da dimenticare.
-Comunque sia…-
Disse, con noncuranza, l’uomo che ci stava sbarrando la strada, continuando con lo stesso tono.
-Non intendo disobbedire.-
-E allora sbrigati!-
Lo rimbeccò, con ira, Altair, mentre io ascoltavo ogni singola parola dell’altro: per lui non era la prima volta, ma per me sì e non volevo rimetterci la pelle.
-Gli hashashin hanno molti strumenti a disposizione…-
-Sì sì, possiamo origliare, borseggiare… o usare la violenza per intimidire.-
Era davvero snervante il modo in cui il mio collega interrompeva, ogni volta, l’altro: dove diavolo la trovava la pazienza quest’ultimo?
-Bravo, te li ricordi.-
-Così vuoi che mi aggiri in mezzo agli altri e acquisisca informazioni sul traditore.-
Sbuffai, nel tentativo di non farci più caso: era così tanto egoista da aver deciso di ignorarmi a vita, e tutto per il suo titolo di priore.
 
“Che rabbia!”
 
-Sì. Iniziate al mercato del villaggio. È lì che l’abbiamo notato la prima volta.-
Sia io che Altair restammo interdetti.
-Tu sai chi è?!-
Sibilò, a denti stretti, il ventiseienne, alquanto seccato per la situazione.
-…Forse.-
Replicò l’altro, mentre io osservavo gli altri miei compagni parlottare tra di loro: sicuramente stavano discutendo sulla mia futura collaborazione con Altair, forse mi stavano invidiando… ma per cosa?
Per fare delle missioni con un cafone?
Non era una cosa da invidiare.
-Allora dimmi quel nome e facciamola finita.-
-Altair… il Maestro ha detto…-
Mi chetai quando vidi il suo occhio marrone scuro saettare, come una vipera del deserto verso di me: se volevo restare sano dovevo starmene zitto.
L’altro rispose.
-Non è così che funziona. Ora andate, e ricordate… iniziate dal mercato del villaggio.-
Sentii Altair sbuffare e riprendere, prima con passi silenziosi, poi correndo, la camminata verso l’uscita. Lo seguii, cercando di stare al suo passo: dovevo ammettere che era molto agile, si vedeva chiaramente che lui, rispetto a me, era cresciuto dentro quelle mura e aveva iniziato l’addestramento quando era piccolo.
Io alla sua età ancora giocavo fuori a nascondino con…
 
“Non puoi pensare a certe cose adesso. Concentrati sulla missione!”
 
Mi scossi, aumentando le falcate e raggiungendolo.
Prima che potessi parlargli, fui bloccato da un suo sguardo: era cupo, serio, come se in me vedesse soltanto una seccatura.
-Vedi di non darmi problemi Hamal… non sono dell’umore adatto.-
Le mie mani, fortunatamente occupate a sistemare la fascia sui fianchi, furono attraversate da un formicolio fastidioso tanto quanto l’ordine dell’altro assassino.
Si era ficcato nei guai da solo, non era colpa mia se era tornato ad essere un novizio.
-Non accadrà, stai tranquillo Altair.-
Risposi, alquanto seccato, salvo poi continuare a seguirlo verso il mercato.




Angolo Autrice: Ecco il nuovo capitolo!
Vorrei nuovamente scusarmi per la lentezza con cui posto, ma oggi ho sostenuto il 3° esame all'università prima delle vacanze di Natale e non ho avuto molto tempo per scrivere.
Oltretutto, l'ispirazione è tornata tutta d'un botto, sia per fanfic vecchie che per nuove (lobotomizzatemi, vi prego -.-'').
Spero vi piaccia come i precedenti e spero di poter scrivere nuovamente come facevo prima!
Al prossimo capitolo!
Bacioni!
Nebula216 <3

 

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