Il ritorno di Sherlock Holmes

di HuskyGentile
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un nuovo caso per Watson ***
Capitolo 2: *** Il caso Adair ***
Capitolo 3: *** La casa vuota ***
Capitolo 4: *** Orchestrazione perfetta ***
Capitolo 5: *** Sogno di una notte di mezza estate ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***
Capitolo 7: *** Epilogo bonus ***



Capitolo 1
*** Un nuovo caso per Watson ***


Capitolo 1.

Un nuovo caso per Watson

 

 

Non un cenno da parte sua, dopo il misterioso punto interrogativo alla fine del mio scritto ed il respiratore di Mycroft mandato per posta. Il mio amico aveva semplicemente voluto farmi sapere, a modo suo, che era vivo, ed era tornato. Eppure, passarono ancora mesi prima che ci rivedemmo. Per la precisione, fu lui ad invitarmi in Baker street, giacché non mi ero neanche lontanamente immaginato che potesse essere tornato nel suo, anzi nel nostro, vecchio appartamento. A dirla tutta, non mi ero dato pena di scoprire dove si fosse nascosto: ero certo si sarebbe fatto vivo lui, quando l’avesse giudicato più opportuno. E finalmente quel momento era arrivato.

Salii le scale, impaziente e nostalgico, scortato dal saluto di Mrs Hudson da basso, sempre molto contenta del mio rientrare in quella casa, sentimento che certo non provava nei confronti del mio amico.

Spalancai la porta senza neanche bussare, tanto ero desideroso di vederlo, di poter affermare che, sì, Sherlock Holmes era davvero tornato.

“Watson” mi disse, senza neanche girarsi, continuando a darmi le spalle, impegnato a scrutare fuori dalla finestra “non lo sa che è buona educazione bussare, prima di entrare?”

In altre circostanze avrei risposto un commento fintamente acido tipico delle nostre amichevoli schermaglie, ma quel giorno no, ero davvero troppo, troppo felice.

“Holmes!” gridai di gioia correndo verso di lui, che intanto si era girato verso di me con sguardo di finto rimprovero per i miei modi “È davvero lei!”.

E lo abbracciai.

Sentii che sorrideva, mentre ricambiava con forza l’abbraccio e diceva: “Ah, amico mio. Ma certo che sono io, chi diamine voleva che fossi?”

Ci sciogliemmo dall’abbraccio e ci guardammo l’un l’altro, come per vedere se eravamo diversi da come ci ricordavamo.

Ero piuttosto commosso, lo ammetto: certo, oramai avevo capito che era ancora tra noi, ma rivederlo mi faceva tornare alla mente quei terribili attimi in cui avevo pensato che l’avrei perso per sempre. E dallo sguardo di Holmes, anche lui stava pensando la stessa cosa: anche lui stava pensando all’ultima volta che mi aveva guardato negli occhi, prima di spingersi nell’abisso insieme alla sua nemesi, il professor Moriarty.

Per tante notti avevo sognato quegli occhi scuri che mi fissavano e poi si serravano, quasi a chiedermi perdono per quello che stava per fare, quasi per non vedere il dolore che il suo scomparire mi stava dando.

Rivedersi, finalmente, sembrava incredibile.

“Holmes, è un piacere rivederla, vecchia volpe!” dissi, rompendo quel silenzio che aveva già detto tutto quello che dovevamo dirci come non saremmo mai stati capaci di fare con le parole.

“Anche per me Watson, anche per me” rispose con un sorriso sghembo.

Mille domande mi ronzavano per la testa: come era scampato, cosa aveva fatto tutto questo tempo, perché era tornato a farsi vivo solo ora, solo ora che Mary…

Non feci in tempo a formulare nemmeno una di queste domande, che il mio amico mi precedette: “Ora, probabilmente lei si sarà chiesto come mai sono ancora qui su questa terra e perché ho aspettato solo questo momento per farmi vivo. È presto detto: sopravvivere al tuffo è stato quasi del tutto casuale, lo ammetto. Quasi, perché mi ero preoccupato di prendere in prestito da Mycroft il suo aggeggio –come potremmo definirlo?- salva ossigeno; tuttavia non sapevo se sarei riuscito ad uscire indenne da un salto del genere. Ad ogni buon conto mi ero premunito: se l’impatto non mi avesse ucciso, un po’ di ossigeno in più mi avrebbe fatto comodo mentre, sballottato dalle correnti, cercavo di riguadagnare la riva. Quanto al motivo per cui non mi sono rivelato prima, è presto detto: mi misi in contatto col Servizio Segreto di Sua Maestà, per comunicare il resoconto del, diciamo così Problema Finale*. Al che, mi venne comandato di mantenere segreta la mia identità, mentre i servizi segreti avrebbero messo in giro la notizia che fossi morto tra i flutti, per darmi l’opportunità di compiere indagini segrete per conto del governo. Ed è quello che ho fatto in questi tre anni: sa, Watson, essere morti è un’ottima copertura per molte indagini, senza contare che molti criminali avrebbero messo fuori il naso, credendo sconfitto Sherlock Holmes. Ah, io sconfitto?! Giammai!”

Mentre parlava di sé e delle sue imprese, lo osservavo passeggiare baldanzoso per la stanza, certamente fiero delle indagini compiute, il cui esito era quanto mai scontato.

Dovette essersi accorto del crescente fervore che aveva accompagnato le sue parole, perché cambiò improvvisamente tono, come se fosse un po’ dispiaciuto di avermi ignorato per vantarsi delle sue ultime imprese. Gli sorrisi, incoraggiante. Lui sospirò, e mi si avvicinò, stringendomi un poco la spalla, e disse: “Caro amico, mi spiace averle fatto credere che fossi scomparso, ma non potevo proprio rivelarle la verità; e poi, non la stavo lasciando solo: era in ottime mani, che si sono prese eccellente cura di lei in questi anni, dico bene?”

Abbassai lo sguardo e annuì, triste e un po’ pensieroso. Avrei forse dovuto dirgli che…

Ancora una volta, Holmes interruppe il filo dei miei pensieri, e disse in tono paterno: “A proposito, volevo farle le mie più sincere condoglianze, per la triste scomparsa di Mrs Watson”.

Alzai gli occhi, un po’ sorpreso: a Londra nessuno sapeva del suo ritorno, quindi avevo dato per scontato che non avesse mai messo il becco fuori di casa in questo tempo. Eppure, in qualche modo era venuto a sapere del mio triste lutto. Mio caro Holmes…

“Questo mi riporta al motivo per cui le ho chiesto di venire qua quest’oggi: sono coinvolto in una nuova indagine, e proprio qui nel cuore di Londra. Mi chiedevo se non le dispiacesse partecipare, ancora una volta” concluse Holmes con un brillio negli occhi. Chiaramente non vedeva l’ora di buttarsi nuovamente in mezzo all’avventura col suo socio.

Se voleva essere gentile con me, non c’era affatto riuscito.

“Holmes” risposi seccato, “ho appena seppellito mia moglie, non crede sia il caso di osservare il lutto ancora per un po’ prima di lanciarmi in una pazza avventura con lei?”

“Pensavo che un caso l’avrebbe distratta, e che la compagnia di un amico l’avrebbe fatta sentire meno solo” disse l’investigatore, abbassando lo sguardo e impallidendo un po’ per il fare brusco che avevo assunto così all’improvviso.

“Certo, come no! E fa finta di essere dispiaciuto per Mary, persino. Come se non avesse aspettato altro che questo momento… Senza mia moglie fra i piedi era libero di venirsi a riprendere il suo fedele Watson, non è vero?”.
Ero irritato, mi sentivo preso in giro: tutti quegli anni senza neanche un cenno da parte sua e poi –puff- rieccoci qua, pronti all’azione. Di contro, Holmes assunse un’aria quasi ferita. Ma io ne avevo avuta abbastanza dei suoi giochetti.

“Non sono il suo giocattolo, il suo cane da compagnia che può prendere e mollare quando più le fa comodo” urlai.

A queste parole, Holmes avanzò minaccioso e mi afferrò per il bavero della camicia. Benché fosse più basso di me, l’effetto era abbastanza impressionante.

“Io sarei quello che prende e molla quando fa più comodo?” sibilò, scrollandomi con forza “Io non ho mai smesso di volerla al mio fianco, lo sa bene. Se non mi sono fatto vivo in questi anni, è stato per assicurarle la felicità. Niente più azioni sconsiderate e pericolose al fianco di un detective geniale e senza sprezzo del pericolo, solo la tranquilla vita familiare accanto alla persona che si era scelto. L’ho fatto per lei, non capisce? È lei quello che se n’è andato da me, quello che mi ha rinnegato, respinto…”.

La voce gli morì in gola. Chissà da quanto tempo si teneva dentro tutte queste cose.

Persi immediatamente il cipiglio arrabbiato: a modo suo, mi aveva appena confessato l’affetto che nutriva per me e la gelosia che aveva sofferto sapendomi felicemente sposato, mentre lui veniva tagliato fuori da questa mia felicità familiare.

Feci per scusarmi, balbettai qualche parola incomprensibile, ma Holmes aveva già capito.

La sua espressione si addolcì, con le mani andò a stringermi le spalle, in un gesto affettuoso, e riprese: “Suvvia dottore, non rinvanghiamo il passato. Siamo amici, siamo insieme, e stiamo per addentrarci in un nuovo affascinante caso. Cosa può esserci di meglio?” e mi strizzò l’occhio.

Tutto sommato, non potevo che trovarmi d’accordo con lui. Come sempre, d’altronde.

 

 

 

*Problema Finale è il titolo del manoscritto di Doyle in cui Sherlock Holmes e James Moriarty si affrontano sulle cascate di Reichenbach

 

NOTA ALLA LETTURA: come avevo scritto nel disclaimer, questa FF tiene conto sia del film SHGdO, sia dei racconti di Doyle “L’ultima avventura” (The Final Problem) e “Il mistero della casa vuota”. In particolare, in quest’ultimo ci viene raccontato come H sia sopravvissuto alle cascate di Reichenbach, e come gli unici testimoni di ciò siano il colonnello Moran, che ha assistito allo scontro tra H e Moriarty, e Mycroft, avvertito da H stesso. Sempre per bocca di H, scopriamo che Mycroft ha fatto da intermediario tra il detective e i servizi segreti inglesi, che gli hanno affidato delle missioni della massima segretezza da svolgere in zone calde quali i confini del continente. Tornato in patria dopo 3 anni, H e W si rincontrano una prima volta senza che il dottore riconosca il proprio amico, poiché camuffato; avviene poi un secondo incontro, alla fine del quale H si rivela per chi veramente è, facendo svenire W. Senza troppi fronzoli, Doyle ci informa, per mezzo delle condoglianze che H fa a W, della morte di Mary. Non ci vengono date informazioni sulle circostanze della morte. Chiaramente, ACD aveva fatto morire il suo personaggio tra le rapide delle cascate, ma dopo le forti pressioni del pubblico aveva dovuto inventarsi una panzana credibile per giustificare l’assenza di H dall’ambiente londinese per così tanto tempo. Il povero dottore, mandato anche lui in pensione tramite accasamento, deve quindi essere reso seduta stante vedovo, per ricomporre il mitico duo. Anche se mi rendo conto che è una soluzione comoda e banale, ho voluto essere fedele all’ambientazione; nello scrivere recensioni, sempre graditissime, tenete quindi conto che le scelte dell’ambientazione sono dettate dal lascito di ACD, mentre i personaggi sono liberamente ispirati a SHGdO, e a loro intendo essere più fedele (e IC) possibile.

 

 

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Capitolo 2
*** Il caso Adair ***


Capitolo 2.

Il caso Adair

 

 

“Dal suo sorriso, deduco che si è deciso a seguirmi nelle indagini, non è vero?”

“Sono al suo servizio Holmes. Di cosa si tratta?”

“Conosce il caso dell’Onorevole Adair?”

“Se lo conosco? Holmes, andiamo! Ne parla tutta Londra, certo che lo conosco.”

Il caso, per le sue circostanze così particolari, aveva conquistato l’interesse del pubblico, e ormai tutti a Londra ne conoscevano i particolari.

L‘Onorevole Ronald Adair era il secondo figlio del Conte di Maynooth, al tempo Governatore di una delle colonie australiane. La madre di Adair era tornata dall’Australia per sottoporsi a un’operazione alla cataratta, e lei, suo figlio Ronald e sua figlia Hilda vivevano insieme al 427 di Park Lane. Il giovane si muoveva tra la buona società, e non aveva, per quanto si sapesse, nessun nemico e nessun vizio particolare. Era stato fidanzato con Miss Edith Woodley, di Carstairs, ma il fidanzamento era stato rotto per mutuo consenso alcuni mesi prima, e non c’erano segni che avesse lasciato indietro alcun sentimento profondo. Per il resto, la vita dell’uomo si muoveva in un convenzionale cerchio, per le sue abitudini pacate e la sua natura priva di emozioni. Era già un semplice giovane aristocratico che la morte venne nella sua forma più strana e inaspettata tra le ore dieci e undici e venti della notte del 30 Marzo 1894.

Ronald Adair era appassionato di carte, con cui giocava continuamente, ma non troppo da potergli nuocere. Era un membro del circolo delle carte del Baldwin, del Cavendish e del Bagatelle, e l’ultimo posto in cui era stato visto vivo il giorno della sua morte era proprio lì, come suo solito, dopo cena.

Giocava quasi tutti i giorni in un club o nell’altro, ma era un giocatore prudente, e spesso un buon vincitore. Venne fuori che, qualche settimana prima, insieme al suo partner aveva vinto ben 420 sterline.

La sera del crimine tornò dal club esattamente alle dieci. Sua madre e sua sorella avevano impiegato la serata fuori in società. La cameriera testimoniò che lo aveva sentito entrare nella stanza principale al secondo piano, che usava generalmente come proprio salotto. Lei vi aveva in precedenza acceso il fuoco, e poiché faceva fumo aveva lasciato la finestra aperta. Non erano stati uditi suoni nella stanza fino alle undici e venti, ora del ritorno di Lady Maynooth e di sua figlia. Desiderando dirgli buonanotte, lei cercò di entrare nella stanza del figlio. La porta era chiusa dall’interno, e Lady Maynooth, non ricevendo risposta alle sue grida e ai suoi colpi, chiese aiuto e la porta venne forzata. Lo sfortunato giovane giaceva vicino al tavolo. La sua testa era stata orrendamente mutilata dall’esplosione di un proiettile di pistola, ma nessuna arma di alcun tipo fu trovata nella stanza. Sul tavolo furono trovate due banconote da 10 sterline ciascuna e 17 sterline e 10 centesimi in monete d’argento e oro, disposte in piccole pile di ammontare vario. C’erano anche alcune figure disegnate sopra un foglio, con il nome di alcuni amici del club avversari, e col quale il giovane stava probabilmente facendo congetture per individuare le sue carte perdenti o vincenti, prima della sua morte.

L’esame delle circostanze servì solo a rendere il caso più complicato. In primo luogo, non c’era nessuna ragione evidente per cui il giovane avrebbe dovuto chiudere a chiave la porta dall’interno. C’era la possibilità che l’avesse fatto l’assassino e che fosse poi scappato dalla finestra. Il salto era, comunque, di almeno venti piedi, e un letto di croco in piena fioritura vi giaceva sotto. Né i fiori né il terriccio mostravano però alcun segno di essere stati disturbati, e nemmeno alcuna traccia sulla lunga striscia di erba che separava la casa dalla strada. Apparentemente, perciò, era stato il giovane stesso a chiudere la porta. Ma com’era andato incontro alla propria morte? Nessuno poteva aver scalato la parete fino alla finestra senza lasciare tracce. Supponendo che un uomo avesse sparato attraverso la finestra, avrebbe dovuto essere un notevole tiratore, per infliggere una così mortale ferita con un revolver.

Inoltre, Park Lane è un’arteria molto frequentata e c’è una fermata per le vetture a cento iarde dalla casa. Nessuno aveva udito lo sparo. Tuttavia c’era un uomo morto, colpito da un proiettile da revolver che era poi schizzato fuori, come fanno le pallottole dalla punta morbida, che aveva inflitto una ferita che doveva aver causato morte istantanea.

Queste erano dunque le circostanze del mistero di Park Lane. Erano note a tutti, cittadini e poliziotti; quello che però non si conosceva era il movente, l’arma del delitto, il modo e, soprattutto, gli indiziati.

Capii subito perché il caso avesse attratto l’attenzione del mio amico.

 

 

NOTA ALLA LETTURA: escluse le prime 6 righe e le ultime 4, le restanti sono quasi tutto frutto del genio creativo di Arthur Conan Doyle; io mi sono semplicemente limitata a prendere l’originale inglese, tradurlo e riarrangiare i pezzi così ottenuti in un unico capitolo in modo che contenesse tutte le informazioni relative al caso. Questo è il motivo per cui, sebbene la storia né i suoi personaggi mi appartengano, ho impiegato tanto tempo a scrivere il secondo capitolo.

 

NOTA DELL’AUTRICE: se avete apprezzato lasciatemi un commento, se vi ha fatto schifo lasciatemi un commento, se vi ha lasciato indifferenti siete dispensati dal lasciare commenti :).

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Capitolo 3
*** La casa vuota ***


Capitolo 3.

La casa vuota

 

 

“Allora andiamo a fare un sopralluogo a Park Lane, Holmes?” eccitazione e curiosità trapelavano dalle mie parole. Dio, quanto mi era mancato Holmes!

“Non occorre mio caro Watson: il caso è praticamente risolto.”

“Ha già qualche sospetto?” chiesi stupito. Nonostante avessi dovuto farci l’abitudine ormai, le sue capacità deduttive mi lasciavano sempre basito.

Ma il detective non mi ascoltava già più: con aria assorta aveva preso a girovagare nella stanza alla ricerca di qualcosa. Odiavo quando faceva così, quando deliberatamente ignorava le mie domande e mi lasciava all’oscuro dei suoi piani, per poi rivelarmi la soluzione dell’enigma solo a caso risolto. Sbuffai del suo comportamento. Proprio come ai vecchi tempi.

“Ah, eccolo qui!” esclamò il mio amico “Prego, Watson, sarebbe così gentile da tirare le tende e raggiungermi? Ho una cosa da mostrarle e vorrei che non fosse vista da occhi indiscreti.”

Non me lo feci ripetere: chiusi le tende e con un balzo lo raggiunsi mentre stava estraendo qualcosa dall’armadio, qualcosa di grande e informe che assomigliava a un corpo morto.

“Ma che diamine…?” dissi, quando Holmes mi passò la ‘cosa’.

“Bello vero? Certo, non come l’originale, ma non è niente male, davvero niente male”

Finalmente capii. Stringevo tra le braccia il manichino che già una volta aveva usato per burlarmi, mentre giocava con il suo ‘tessuto mimetico urbano’; il manichino aveva le esatte sembianze di Holmes: l’altezza, la costituzione e il profilo inconfondibile. C’era solo un particolare che…

“Holmes! Perché il suo manichino ha sempre indosso i miei vestiti?”

“Tecnicamente non è esatto: erano i suoi vestiti, finché non abbiamo concordato che oramai non le andavano più bene, ergo potevo usarli a mio piacimento.”

Feci per controbattere, ma mi anticipò: “E poi, deve ammettere che mi stanno decisamente meglio che a lei. Senza offesa, caro Watson.” aggiunse, rivolgendomi un sorriso sardonico.

“E di che?” sbuffai in tono scocciato. Davvero, quella sua mania non l’avrei mai capita.

“Venga da questa parte e lo posizioni –anzi, mi posizioni- alla scrivania, in modo che il mio profilo sia ben riconoscibile dalla finestra.”

Feci quel che mi veniva detto, impaziente di capire cosa aveva in mente il detective.

“Adesso mi ascolti bene, perché il suo ruolo è fondamentale per la riuscita del mio piano. Fra poco sarà buio, ed io uscirò da questa casa travestito da lei. Di tanto in tanto, rimanendo sempre nascosto e muovendosi solo in ginocchio se ne ha necessità, dovrà modificare un poco la posizione del manichino, per dare l’illusione che si tratti veramente di me. Io sarò nella casa vuota* dall’altra parte della strada, ad aspettare che esca allo scoperto.”

“Ma di cosa sta parlando, Holmes? A chi sta tendendo questa trappola, e perché è così sicuro che verrà?”

Mi lanciò uno sguardo indecifrabile, lo stesso che aveva sempre, prima di lanciarsi in una nuova avventura, e disse: “Lei non è l’unico a sapere che sono ancora in vita, Watson. Naturalmente anche Mycroft ne è informato: è stato lui a pagare l’affitto di questo posto in questi anni e a far in modo che rimanesse tutto come lo avevo lasciato. Ma purtroppo i miei amici non sono gli unici a sapere che cammino ancora su questa terra: qualcuno mi ha visto risalire la cascata a Reichenbach, qualcuno certamente non ben intenzionato, giacché ha tentato di abbattermi tirandomi contro dei sassi. Come può ben vedere non c’è riuscito, ma non tarderà molto a riprovarci, ora che sa che sono a Londra e che sono un pericolo per lui.”

“Ma” dissi “questo cosa c’entra con…”

“Con Ronald Adair? Tutto a suo tempo, amico mio, tutto a suo tempo.”

Mi arresi all’evidenza: non sarei riuscito a tirargli fuori nulla di più.

“Presto ora,” mi incalzò “si spogli e mi dia i suoi effetti.”

“Assolutamente no!” protestai risoluto.

Cinque minuti dopo, un Holmes con la mia bombetta e il mio bastone mi guardava dall’alto in basso chiedendomi: “Come sto?”

“Benissimo” risposi in un ringhio, mentre giacevo nascosto sotto la scrivania in maniche di camicia. “Non dimentichi i baffi” dissi, contento che almeno i miei non potesse prenderseli.

Ultimata la trasformazione, si avvicinò alle tende e le scostò, per rendere visibile la silhouette del manichino.

“Mi raccomando, non commetta imprudenze, amico mio” mi disse, prima di lasciarmi da solo nel suo studio, a fare da burattinaio per quella stupida commedia.

Tanto per cambiare, sbuffai; era la cosa che mi riusciva meglio, con Holmes.

 

 

 

*La casa vuota è il titolo del racconto di Doyle in cui, per la prima volta, riappare il redivivo Sherlock Holmes

 

 

NOTA ALLA LETTURA: ne “La casa vuota”, Holmes guida Watson in un appartamento vuoto che si rivela essere esattamente dall’altra parte del loro in Baker Street. Gli dice di guardare dalla finestra senza farsi notare, e Watson sbalordito vede la copia perfetta del detective ben visibile alla finestra. Lo stratagemma del manichino è usato da ACD per la prima volta, ma nel film era un particolare già usato, quindi ho dovuto adattare e ritirarlo fuori dall’armadio. Inoltre, anche il manichino di Doyle si muove, ma per merito di Msr Hudson, che nello scritto originale va piuttosto d’accordo con il detective. Poiché mi ispiro ai film per i personaggi, non potevo far chiedere a Holmes un favore così grande a Msr Hudson, e quindi ho pensato a Watson (e poi non vedevo l’ora di lasciarlo in mutande). In questo capitolo, i dialoghi sono interamente miei, e da ACD ho preso solo l’idea della trappola e il titolo.

 

NOTA DELL’AUTRICE: ringrazio tutti quelli che stanno leggendo questa fic, ma ancora di più ringrazio chi recensisce o manda anche solo un messaggio per dire che ha apprezzato. Purtroppo la recensione è l’unico indice di gradimento che abbiamo noi fanwriter: è bello vedere che 200 o 500 persone leggono una mia fic, però se solo 2 o 5 o 10 di esse recensiscono (o lo aggiungono alle seguite o alle preferite), cosa devo pensare di tutte le altre persone? Che si sono fermate a metà perché faceva schifo? Oppure che hanno letto e gradito ma non abbastanza da recensire? O, ancora, che la lettura ha lasciato indifferenti?

Questi sono principalmente i motivi per cui quando leggo una fic non sempre la recensisco, quindi suppongo sia così anche per gli altri. Tuttavia, ultimamente sto provando a fare diversamente per dare il buon esempio, e quindi vi esorto a fare altrettanto. Non sentitevi costretti, non tutti sono abituati a recensire! Ma se vi ha lasciato qualcosa, basta anche solo un “mi piace” che arriva come messaggio privato.

 

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Capitolo 4
*** Orchestrazione perfetta ***


Capitolo 4.

Orchestrazione perfetta

 

 

Erano passate quasi due ore, quando la profezia di Holmes si avverò: si udì un rumore di vetri infranti e il manichino cadde dalla sedia. Strisciando, mi avvicinai alla controfigura del detective e la osservai. Alla testa, un foro di pallottola. Quando pensai che era destinata al mio amico mi vennero i sudori freddi. A volte quasi scordavo quanto fosse pericoloso questo mestiere, e quante volte Holmes e io avevamo rischiato la pelle. Eppure, nonostante tutto, riuscivamo sempre a cavarcela: dove uno stava per soccombere, subito arrivava l’altro. Insieme, eravamo una coppia perfetta, una squadra invincibile. Sorrisi d’orgoglio al pensiero delle avventure passate, e di gioia al pensiero di quelle future. Strano che fosse Holmes l’unica persona che vedevo nel mio futuro.

Mi riscossi dai pensieri e tesi l’orecchio. Il nemico era stato acciuffato? Holmes aveva forse bisogno di me? La mia preoccupazione era vana: dopo qualche minuto, un trambusto di poliziotti in strada mi disse che era finita, il colpevole era stato arrestato.

Osai finalmente affacciarmi alla finestra.

“Caso risolto.” mi apostrofò una ben conosciuta voce. Dall’appartamento dirimpetto, Sherlock Holmes mi stava indicando il personaggio che veniva portato via in manette dagli ufficiali di Scotland Yard: era il Colonnello Moran. Rabbioso e impotente, si agitava come una tigre in gabbia. Non potei che essere sollevato dal vederlo ai ferri.

“Ci aspetti lì Watson. Io e il commissario Lestrade saremo subito da lei per raccogliere alcune prove.”

“Dottore” mi salutò Lestrade con un cenno mentre varcava la porta dell’appartamento. Poi aggiunse: “Ma non ha freddo così vestito?”

Lo fulminai con lo sguardo e mi rivolsi spazientito ad Holmes: “Potrebbe per cortesia ridarmi i vestiti adesso?”

“Solo un momento Watson, solo un momento. Commissario, vorrei che raccogliesse il proiettile per il processo.”

“Naturalmente. Anche se, viste le testimonianze oculari, il Colonnello rimarrà in galera un bel po’ anche senza il proiettile.”

“In galera?” chiese Holmes “E con quale accusa?”

Lestrade era perplesso. Sembrava stesse pensando che il mio amico si fosse rincitrullito. Un po’ lo pensavo anch’io, a dir la verità.

“Beh, con l’accusa di tentato omicidio nei confronti di Mr Sherlock Holmes, ovviamente.” disse Lestrade.

“Oh ma non è per quello che dovete processarlo. No, ecco…” e prese per la spalla Lestrade in modo paterno, quasi come stesse spiegando ad un bambino un po’ tardo qualcosa di ovvio “…è per l’omicidio di Ronald Adair che dovete processarlo.”

Mentre il commissario elaborava la notizia e balbettava confuso, con un fazzoletto Holmes raccolse la pallottola, che aveva trapassato la testa del manichino e giaceva a poca distanza da esso, e me la mostrò. Poi mi lanciò uno sguardo complice per verificare se avevo capito. Naturalmente sì. Lestrade, però, ancora no.

Presi dunque la parola: “Se esamina il proiettile, di certo scoprirà che è dello stesso tipo di quello che ha ucciso Ronald Adair; già questo dovrebbe bastare a incriminarlo. Inoltre, come ha appena verificato con i suoi occhi, il Colonnello Moran è un tiratore eccellente, e ha colpito il bersaglio sparando da una casa posta dall’altra parte della strada senza che nessuno udisse lo sparo. Io e il signor Holmes abbiamo già avuto a che fare con lui e con le nuove armi silenziose che ha usato. Questo non le ricorda nulla? Ha appena assistito all’esatta ricostruzione di come è avvenuto l’omicidio dell’Onorevole Adair. Un’orchestrazione perfetta.”

Guardai Holmes, che mi sorrise.

Lestrade sembrava avere ancora qualche remora. “E il movente?” chiese.

Fu Holmes a rispondere: “Come decine di gentiluomini di vari club possono testimoniare, il Colonnello Moran è socio di diversi circoli, ed è un giocatore incallito. Era lui il partner di Ronald Adair il giorno che vinse 420 sterline. Questi sono i fatti conosciuti, ma di qui in poi ci addentriamo nel regno delle ipotesi. Tuttavia sono positivamente convinto che il nostro uomo fosse un baro, e che l’Onorevole Adair se ne fosse accorto. Probabilmente egli l’ha affrontato, e gli ha proposto di allontanarsi spontaneamente dai circoli e di non giocare più, in modo da non doverlo denunciare. Ma il Colonnello non poteva ritirarsi: dopo aver abbandonato l’India per seguire il professor Moriarty e aver successivamente perso il suo protettore, non gli era rimasta altra fonte di reddito del gioco d’azzardo. Non poteva permettere che Ronald Adair lo rovinasse.”

Lestrade era basito, come al solito. “E lei come fa a saperlo, Holmes?”

“Commissario, una volta eliminato l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità*. Se lo ricordi per i prossimi casi. Per questo però, ho pensato avrebbe gradito un piccolo aiuto non ufficiale: tre omicidi irrisolti in un anno non può andare, Lestrade. Ma devo ammettere che ha trattato il Mistero Molesey con meno della sua usuale… voglio dire che l’ha condotto molto bene**” concluse Holmes irriverente.

Il commissario accettò infine la versione del detective, e, dopo avergli gettato un’occhiataccia e avermi fatto un cenno di saluto, prese il proiettile per il confronto e se ne andò.

Holmes si rivolse verso di me: “Dobbiamo brindare, amico mio!”

“Con piacere. Ma prima, potrebbe essere così gentile da ridarmi i vestiti?”

“Oh, che sbadato. Me ne stavo dimenticando.”

Certo…” replicai. Come se fosse possibile, con il sottoscritto in camicia di fronte a lui.

“È che mi stanno così bene, non…”

“HOLMES!” lo interruppi.

“Umpf” sbuffò “come siamo suscettibili…”

Ringraziai mentalmente il cielo di non avere un figlio piccolo: non sarei riuscito a tener testa ad un altro marmocchio oltre ad Holmes.

 

 

*citazione di Holmes a Watson da “Il segno dei quattro”

**citazione di Holmes a Lestrade da “La casa di vuota”

 

NOTA ALLA LETTURA: la risoluzione del caso è simile a quella ideata da Doyle. Nella fattispecie, H&W sono appostati insieme nella casa vuota, mentre il manichino è mosso da Msr Hudson. Un individuo entra e si accinge a prendere la mira. Appena sparato il colpo, H&W saltano fuori dal loro nascondiglio e lo immobilizzano. Poi arriva Lestrade e H racconta tutto. Il colonnello Moran è già espressamente citato nel libro, in quanto compagno di Adair. Tuttavia W non lo conosce, mentre nel film sì. Ho quindi soprasseduto sul nome del partner di gioco di Adair. Inoltre, nel racconto originale è H stesso a dirci di queste armi innovative che ha visto anche a Moriarty, mentre dal film è un particolare già intuibile, quindi faccio dire un po’ di cose a W perché non sembri un totale idiota, anche se Doyle lo fa rimanere allibito quanto Lestrade alle rivelazioni di H. Povero Watson!

A parte le due citazioni segnalate, il resto della fic è originale.

 

NOTA DELL’AUTRICE: prossimo aggiornamento previsto fra un paio di giorni! Siete stati molto pazienti a seguirmi fin qui, spero di non avervi annoiato troppo. Se fosse, vedrete che farò ammenda col prossimo capitolo (finalmente il caso di ACD è finito, posso scrivermi la trama che mi pare!), che sono molto curiosa di sapere se vi piacerà!

Capitolo 4.

Orchestrazione perfetta

 

 

Erano passate quasi due ore, quando la profezia di Holmes si avverò: si udì un rumore di vetri infranti e il manichino cadde dalla sedia. Strisciando, mi avvicinai alla controfigura del detective e la osservai. Alla testa, un foro di pallottola. Quando pensai che era destinata al mio amico mi vennero i sudori freddi. A volte quasi scordavo quanto fosse pericoloso questo mestiere, e quante volte Holmes e io avevamo rischiato la pelle. Eppure, nonostante tutto, riuscivamo sempre a cavarcela: dove uno stava per soccombere, subito arrivava l’altro. Insieme, eravamo una coppia perfetta, una squadra invincibile. Sorrisi d’orgoglio al pensiero delle avventure passate, e di gioia al pensiero di quelle future. Strano che fosse Holmes l’unica persona che vedevo nel mio futuro.

Mi riscossi dai pensieri e tesi l’orecchio. Il nemico era stato acciuffato? Holmes aveva forse bisogno di me? La mia preoccupazione era vana: dopo qualche minuto, un trambusto di poliziotti in strada mi disse che era finita, il colpevole era stato arrestato.

Osai finalmente affacciarmi alla finestra.

“Caso risolto.” mi apostrofò una ben conosciuta voce. Dall’appartamento dirimpetto, Sherlock Holmes mi stava indicando il personaggio che veniva portato via in manette dagli ufficiali di Scotland Yard: era il Colonnello Moran. Rabbioso e impotente, si agitava come una tigre in gabbia. Non potei che essere sollevato dal vederlo ai ferri.

“Ci aspetti lì Watson. Io e il commissario Lestrade saremo subito da lei per raccogliere alcune prove.”

“Dottore” mi salutò Lestrade con un cenno mentre varcava la porta dell’appartamento. Poi aggiunse: “Ma non ha freddo così vestito?”

Lo fulminai con lo sguardo e mi rivolsi spazientito ad Holmes: “Potrebbe per cortesia ridarmi i vestiti adesso?”

“Solo un momento Watson, solo un momento. Commissario, vorrei che raccogliesse il proiettile per il processo.”

“Naturalmente. Anche se, viste le testimonianze oculari, il Colonnello rimarrà in galera un bel po’ anche senza il proiettile.”

“In galera?” chiese Holmes “E con quale accusa?”

Lestrade era perplesso. Sembrava stesse pensando che il mio amico si fosse rincitrullito. Un po’ lo pensavo anch’io, a dir la verità.

“Beh, con l’accusa di tentato omicidio nei confronti di Mr Sherlock Holmes, ovviamente.” disse Lestrade.

“Oh ma non è per quello che dovete processarlo. No, ecco…” e prese per la spalla Lestrade in modo paterno, quasi come stesse spiegando ad un bambino un po’ tardo qualcosa di ovvio “…è per l’omicidio di Ronald Adair che dovete processarlo.”

Mentre il commissario elaborava la notizia e balbettava confuso, con un fazzoletto Holmes raccolse la pallottola, che aveva trapassato la testa del manichino e giaceva a poca distanza da esso, e me la mostrò. Poi mi lanciò uno sguardo complice per verificare se avevo capito. Naturalmente sì. Lestrade, però, ancora no.

Presi dunque la parola: “Se esamina il proiettile, di certo scoprirà che è dello stesso tipo di quello che ha ucciso Ronald Adair; già questo dovrebbe bastare a incriminarlo. Inoltre, come ha appena verificato con i suoi occhi, il Colonnello Moran è un tiratore eccellente, e ha colpito il bersaglio sparando da una casa posta dall’altra parte della strada senza che nessuno udisse lo sparo. Io e il signor Holmes abbiamo già avuto a che fare con lui e con le nuove armi silenziose che ha usato. Questo non le ricorda nulla? Ha appena assistito all’esatta ricostruzione di come è avvenuto l’omicidio dell’Onorevole Adair. Un’orchestrazione perfetta.”

Guardai Holmes, che mi sorrise.

Lestrade sembrava avere ancora qualche remora. “E il movente?” chiese.

Fu Holmes a rispondere: “Come decine di gentiluomini di vari club possono testimoniare, il Colonnello Moran è socio di diversi circoli, ed è un giocatore incallito. Era lui il partner di Ronald Adair il giorno che vinse 420 sterline. Questi sono i fatti conosciuti, ma di qui in poi ci addentriamo nel regno delle ipotesi. Tuttavia sono positivamente convinto che il nostro uomo fosse un baro, e che l’Onorevole Adair se ne fosse accorto. Probabilmente egli l’ha affrontato, e gli ha proposto di allontanarsi spontaneamente dai circoli e di non giocare più, in modo da non doverlo denunciare. Ma il Colonnello non poteva ritirarsi: dopo aver abbandonato l’India per seguire il professor Moriarty e aver successivamente perso il suo protettore, non gli era rimasta altra fonte di reddito del gioco d’azzardo. Non poteva permettere che Ronald Adair lo rovinasse.”

Lestrade era basito, come al solito. “E lei come fa a saperlo, Holmes?”

“Commissario, una volta eliminato l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità*. Se lo ricordi per i prossimi casi. Per questo però, ho pensato avrebbe gradito un piccolo aiuto non ufficiale: tre omicidi irrisolti in un anno non può andare, Lestrade. Ma devo ammettere che ha trattato il Mistero Molesey con meno della sua usuale… voglio dire che l’ha condotto molto bene**” concluse Holmes irriverente.

Il commissario accettò infine la versione del detective, e, dopo avergli gettato un’occhiataccia e avermi fatto un cenno di saluto, prese il proiettile per il confronto e se ne andò.

Holmes si rivolse verso di me: “Dobbiamo brindare, amico mio!”

“Con piacere. Ma prima, potrebbe essere così gentile da ridarmi i vestiti?”

“Oh, che sbadato. Me ne stavo dimenticando.”

Certo…” replicai. Come se fosse possibile, con il sottoscritto in camicia di fronte a lui.

“È che mi stanno così bene, non…”

“HOLMES!” lo interruppi.

“Umpf” sbuffò “come siamo suscettibili…”

Ringraziai mentalmente il cielo di non avere un figlio piccolo: non sarei riuscito a tener testa ad un altro marmocchio oltre ad Holmes.

 

 

*citazione di Holmes a Watson da “Il segno dei quattro”

**citazione di Holmes a Lestrade da “La casa di vuota”

 

NOTA ALLA LETTURA: la risoluzione del caso è simile a quella ideata da Doyle. Nella fattispecie, H&W sono appostati insieme nella casa vuota, mentre il manichino è mosso da Msr Hudson. Un individuo entra e si accinge a prendere la mira. Appena sparato il colpo, H&W saltano fuori dal loro nascondiglio e lo immobilizzano. Poi arriva Lestrade e H racconta tutto. Il colonnello Moran è già espressamente citato nel libro, in quanto compagno di Adair. Tuttavia W non lo conosce, mentre nel film sì. Ho quindi soprasseduto sul nome del partner di gioco di Adair. Inoltre, nel racconto originale è H stesso a dirci di queste armi innovative che ha visto anche a Moriarty, mentre dal film è un particolare già intuibile, quindi faccio dire un po’ di cose a W perché non sembri un totale idiota, anche se Doyle lo fa rimanere allibito quanto Lestrade alle rivelazioni di H. Povero Watson!

A parte le due citazioni segnalate, il resto della fic è originale.

 

NOTA DELL’AUTRICE: prossimo aggiornamento previsto fra un paio di giorni! Siete stati molto pazienti a seguirmi fin qui, spero di non avervi annoiato troppo. Se fosse, vedrete che farò ammenda col prossimo capitolo (finalmente il caso di ACD è finito, posso scrivermi la trama che mi pare!), che sono molto curiosa di sapere se vi piacerà!

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Capitolo 5
*** Sogno di una notte di mezza estate ***


Capitolo 5.

Sogno di una notte di mezza estate

 

“Solo un bicchiere e poi vado a casa, d’accordo?” avevo esordito mentre Holmes tirava fuori bottiglie di vino, whisky, formaldeide e qualunque altra cosa che secondo lui fosse anche solo lontanamente bevibile.

Un paio d’ore e parecchie bottiglie dopo, eravamo sprofondati nelle rispettiva poltrone, a rinvangare gli anni vissuti insieme con una nostalgia che solo l’alcool sapeva dare. Guardai il rispettabile detective, che non appariva più tanto rispettabile al momento: il braccio mollemente abbandonato sul bracciolo, il bicchiere ricolmo pericolosamente inclinato, la camicia fuori dai pantaloni e slacciata per il caldo estivo e per le vampate dell’alcool, le parole impastate per il troppo bere e per il fumo di pipa in cui eravamo immersi. Mi bastò incrociare il suo sguardo per capire che pensava le stesse cose di me. Tentai di recuperare un po’ di dignità allacciandomi la camicia (e sbagliando l’ordine dei bottoni).

L’ultimo barlume di razionalità mi stava dicendo di andare a casa, finché ancora mi reggevo in piedi, ma, come spesso accade quando si è ubriachi, la ragione è l’unica cosa che non si ascolta: si ascoltano invece gli istinti, le pulsioni represse che bramano di uscire. E mentre gli ultimi sprazzi di ragione andavano a farsi benedire, diedi retta ai miei istinti e aprii il vaso di Pandora.

“Lei non può vivere senza di me, Holmes.”

Il mio amico mi diede appena un’occhiata sarcastica, prima di rispondere: “O forse, è lei che non può vivere senza di me, Watson.”

“Eppure, nonostante la sua scomparsa, mi pare di essermela cavata bene in questi tre anni. Lo stesso non può dirsi di lei: sono vedovo da appena cinque minuti e mi salta già addosso implorandomi di tornare a fare coppia fissa.”

Stavo esagerando, e lo sapevo. Era un discorso volutamente malizioso, insinuante come la lingua di un serpente. Ma volevo stuzzicarlo, vedere fino a che punto gli ero mancato. Volevo fargli provare un po’ del dolore che aveva provocato a me, fingendosi morto per tutto questo tempo.

E la risposta non si fece attendere. Spietata, fredda e crudele: “E lei doveva tenerci davvero molto a quella ragazza, per dimenticarsela in cinque minuti.”

Fu un colpo basso. Persi la testa, e benché annebbiato dai fumi dell’alcool mi alzai con uno scatto dalla poltrona e mi gettai a testa bassa contro Holmes. Fece appena in tempo a tirarsi in piedi, che lo colpii con un gancio destro, mandandolo rovinosamente a terra.

Rimasi sconvolto dal mio stesso gesto: da dove mi veniva tutta quella rabbia neanch’io lo sapevo. Mentre Holmes si rialzava, gli urlai contro la mia collera: “Non manchi di rispetto a mia moglie”. Sì, era quello il motivo della mia furia, non poteva essere altro che quello.

Holmes mi si avvicinò, in volto un’espressione risoluta: “Smetta di giocare coi sentimenti altrui, Watson, e ammetta a se stesso che non è questa la verità.”

E mi colpì al diaframma, facendomi restare senza fiato, piegato in due dalla potenza del colpo. Ma più del pugno, mi colpirono le sue parole. Perché finalmente avevo capito la verità.

La verità è che la perdita di Mary era stata sì dolorosa, ma non quanto lo era stato vedere Holmes gettarsi tra le acque e crederlo perso per sempre. Mary era una donna eccezionale, dolce e servizievole, acuta e premurosa, una moglie perfetta, una perfetta padrona di casa. La vita familiare con lei era semplicemente un quadro, compiuto e stupendo in ogni dettaglio. Ma era anche una vita statica, monotona; e Mary non era la persona che avrei voluto accanto nella vita reale, al di fuori delle mura domestiche, in mezzo all’avventura e alle sfide.

Massaggiandomi l’addome per la potenza del colpo e ancora senza fiato, replicai in un sussurro: “La verità, Holmes? Ma come, la mente deduttiva più brillante del secolo ancora non c’è arrivata?”

Feci per tirargli un pugno, ma lo parò. Continuai a colpirlo senza sosta, ma mi afferrò entrambe le braccia bloccando i miei assalti. Mi dimenai e lo spinsi indietro con la forza del mio corpo, facendolo indietreggiare finché non inciampò nella pelle di tigre stesa sul pavimento, finendoci sopra e trascinando me con lui.

La botta gli fece lasciare la presa, e ne approfittai per bloccargli i polsi con le mani. Era immobilizzato, avevo ormai vinto la lotta. Peccato che non avessi più la minima voglia di lottare.

Lo guardai negli occhi, colmi dello stesso dolore che provavo io; mio malgrado, una lacrima mi sfuggì e cadde sulla sua guancia, mentre dicevo “Lei mi ha abbandonato. Si è spinto giù da quel balcone senza pensare al dolore che mi stava dando. Holmes, lei mi ha tradito. Non glielo perdonerò mai.”

Rimasi sopra di lui, ma lasciai lentamente la presa sui polsi, offrendo libero movimento alle braccia di Holmes. Questi si passò una mano sulla guancia per asciugare la lacrima che vi avevo versato, dopodiché salì verso il mio volto e me lo accarezzò con dolcezza. Quell’insolito gesto di gentilezza mi fece vergognare del mio temperamento irruento, e abbassai lo sguardo per non incrociare il suo. Nel frattempo, la mano di Holmes era arrivata fino ai miei capelli e vi si era insinuata, prima con dolcezza, poi stringendo con maggiore forza.

Mi scappò un gemito quando la stretta, da forte e decisa che era, divenne improvvisamente dolorosa e brutale: Holmes mi stava tirando con violenza per i capelli, e mi ritrovai inevitabilmente a guardarlo negli occhi, che lampeggiavano come quelli di un felino in agguato.

Troppo tardi mi accorsi delle sue intenzioni: grazie all’arte del baritsu rovesciò le sorti dell’incontro, ed improvvisamente fui schiena a terra, il corpo di Holmes che sovrastava sul mio.

“Maledizione Holmes, mi lasci!” gridai, un poco intimorito: il detective sembrava più folle che mai, una luce di rancore inespresso trapelava dalla sua espressione quasi bestiale.

“Lei non può dirmi questo, Watson, non può! Dannazione, sa cosa ho passato a vederla sposarsi, a vederla uscire dalla mia vita, lei che mi è stato vicino come mai nessun altro ha fatto né farà mai? Perché ha sposato Mary, perché?!”

Lo disse urlando, esigendo spiegazioni, ma improvvisamente non sapevo cosa rispondergli: ero incredulo per il suo comportamento, ma la furia ebbe la meglio, e mi riscossi in pochi attimi.

“Se davvero le importava così tanto di me, perché non me lo ha detto prima che mi sposassi, idiota testone egoista bastardo?! Avrebbe dovuto combattere di più per me, invece che comportarsi come un bambino di due anni che voleva il proprio giocattolo tutto per sé.”

Mi dimenai nella sua stretta ma mi era impossibile liberarmi, quindi mi limitai a sibilargli con odio: “Sa perché ho sposato Mary? Perché con lei avrei potuto essere finalmente felice, perché lei mi amava!”

Anch’io la amavo!” urlò Sherlock Holmes con tutto il fiato che aveva in corpo.

Era l’unica risposta che non mi sarei mai aspettato. E senza pensarci, senza averlo premeditato, feci la sola cosa sensata da fare: sporsi il mio viso verso il suo, chiusi gli occhi e lo baciai con foga sulle labbra.

Lo sentii trasalire e tentare di sfuggire a quel bacio, ma ora ero io che non avevo intenzione di lasciarlo andare; l’unica cosa che riuscivo a pensare era che non dovevo in alcun modo spezzare quel legame che ci stava unendo. Per la verità il mio cervello non era del tutto funzionante e nemmeno me ne importava un granché: con le labbra calde e morbide di Holmes sulle mie, che altro poteva importarmi?

Finché Holmes finalmente non si abbandonò al bacio: sentii le sue labbra smettere di contrastarmi e cercare le mie con la stessa passione con cui io cercavo le sue.

Percepii i nostri respiri sincronizzarsi, i nostri corpi, da rigidi che erano per lo sforzo della lotta, rilassarsi; e la sua bocca, finalmente schiudersi invitante.

Un brivido mi percorse tutto il corpo, mentre la sua lingua sfiorava le mie labbra e si insinuava dolcemente nella mia bocca, e il contatto tra le nostre lingue mi elettrizzò a tal punto che mi ritrovai a mia volta a spingere con passione la mia lingua verso di lui, che, ben contento, mi lasciò esplorare quella parte si sé che non avevo mai conosciuto, mugugnando di piacere.

Quasi senza rendercene conto ci trovammo avvinghiati braccia gambe labbra lingue in un groviglio inscioglibile.

Le mie membra sembravano possedere vita propria, e mentre le mie mani s’insinuavano sotto la sua camicia e ne saggiavano i muscoli della schiena e delle spalle, la sua esplorava la pelle del mio torace, mentre l’altra era ancora immersa tra i miei capelli, che pareva non avere alcuna intenzione di lasciare andare.

Ormai i nostri baci sembravano più morsi di animali selvatici abituati ad usare le zanne, per i quali la dolcezza è una cosa sconosciuta. Ma dietro quest’apparente brutalità la realtà appariva chiara: è che ci eravamo tanto voluti, che averci adesso non ci bastava, volevamo possederci interamente, mangiarci l’un l’altro, tanto era il nostro selvaggio desiderio. La realtà era che tanto grande era il male che ci eravamo fatti a vicenda, che ogni bacio era anche un morso, un modo per espiare i nostri peccati, soffrendo e godendo, odiandoci e amandoci a un tempo solo.

A poco a poco la stanchezza prese il posto della scarica di adrenalina ed euforia che ci aveva assaliti; ci trovammo improvvisamente senza forze, ebbri ma non di vino, mentre i postumi della sbornia e della lotta cominciavano a farsi sentire. Così abbandonammo le vestigia di lupi selvatici per tornare ad essere umani. Il bacio si affievolì, le zampate ridivennero carezze, e con tenerezza le nostre labbra si separarono di qualche centimetro.

“Se questo è un sogno,” sussurrai sulle sue labbra “non svegliarmi.”

“Se vorrai,” rispose Holmes “domattina potremmo far finta che sia stato solo un sogno.”

“Guardami.” dissi con dolcezza. Mentre apriva gli occhi sussurrai “Non è un sogno.”

Mi sorrise, poi richiuse gli occhi e si addormentò, la mano ancora impigliata tra i miei capelli.

 

 

 

NOTA DELL’AUTRICE (eh sì, niente nota alla lettura stavolta… È tutto originale quindi non posso più dare la colpa ad ACD se fa schifo): finalmente sono riuscita ad andare a parare dove volevo! Spero vi sia piaciuta! In caso affermativo siete pregati di farmelo sapere (se vi è piaciuto un personaggio più dell’altro, se avete trovato che fossero IC, se vi è piaciuta una frase o una visione in particolare, se vi è piaciuto lo stile, se vi è piaciuto il finale…sono solo alcuni suggerimenti!) così da aumentare enormemente la mia gioia; se avete consigli, frasi che non vi tornano, passaggi lenti o cose così, sentitevi liberi di farmelo sapere! Una sola piccola puntualizzazione da parte mia: a volte desideriamo talmente tanto vedere realizzata una scena, che descriviamo minuziosamente ogni dettaglio (dove sta chi, cosa fa, quanti peli del naso ha, quante fibre di tessuto di tappeto pesta mentre si muove e cose così); è un errore che tendevo a fare spesso, e quindi, di contro, mi sono impegnata a farlo il meno possibile. Spero di non essere caduta nell’errore contrario, togliendo al lettore immagini che non può figurarsi da solo. Se ho trovato una buona via di mezzo, sarei contenta se mi faceste sapere anche questo.

Vi lascio per un altro giorno e mezzo, giusto il tempo di preparare l’EPILOGO!

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo

 

 

Era una mattina splendida e radiosa. Non serviva certo l’uso della vista per capirlo: sentivo i raggi del sole lambirmi il viso e ferirmi gli occhi, benché chiusi. Decisi di sondare la situazione tenendoli serrati, e lasciando che fossero gli altri sensi a esplorare.

Tatto: male alla testa e alla schiena, nessuna mano tra i capelli. Diagnosi: dallo scontro della sera prima non avevo riportato traumi, se non indolenzimento muscolare per aver dormito sul duro e normali postumi da sbornia. Per quanto riguardava Holmes, era strano fosse così mattiniero, niente affatto strano che volesse evitare ad entrambi un risveglio imbarazzante.

Gusto: in bocca retrogusto amaro di alcool, sulle labbra vago sapore di altre labbra. Diagnosi: dovevo trovare una scusa per quello che era successo la sera prima, dopotutto ero stato io a prendere l’iniziativa. Non potevo semplicemente far finta di niente o dare la colpa all’alcool, sarebbe stato un insulto per entrambi.

Olfatto: odore di tabacco e aroma di the al gelsomino nell’aria, il mio preferito. Diagnosi: anche se era troppo imbarazzato per risvegliarsi in questa posizione, il detective accettava la cosa. Voler fare colazione con me significava che aveva intenzione di affrontare la questione. Probabilmente era accanto alla finestra, pensieroso, che fumava la pipa.

Udito: nessun rumore a parte qualche aspirata di pipa di tanto in tanto. Diagnosi: Holmes mi teneva d’occhio aspettando mi svegliassi, anche se avrebbe finto il contrario non appena avessi aperto gli occhi.

Probabilmente avrei dovuto fingere di dormire ancora per un po’, per poter valutare meglio cosa dire o fare una volta alzatomi; la situazione richiedeva una certa delicatezza, in effetti. Tuttavia il troppo pensare non era per me: ero un uomo d’azione che preferiva buttarsi nelle avventure e scoprire mano a mano cosa nascondevano, piuttosto che esaminare tutte le possibili alternative prima di fare una sola mossa. Con uno sbadiglio, aprii gli occhi e mi stiracchiai, mugugnando mentre tendevo i muscoli.

Mi alzai e mi girai verso la finestra, accanto alla quale, come previsto, il mio amico fumava, il giornale in mano ed aperto davanti a sé. Ero quasi certo mi avesse tenuto d’occhio fino a quel momento, ma ovviamente lui non diede segno di essersi neanche accorto della mia presenza.

“Buongiorno Holmes.” dissi per rompere il ghiaccio.

“Buongiorno Watson. Dormito bene?” rispose lui senza alzare gli occhi dal giornale che stava fingendo di leggere. Tutto sommato gliene fui grato: mi sentivo in imbarazzo al pensiero di incrociare il suo sguardo, dopo quello che era accaduto la sera precedente.

“Non male. Anche se preferirei dormire su un letto la prossima volta.”

Diamine, cos’erano tutti quei formalismi? Perché non riuscivamo a guardarci, a ridere, a prenderci in giro come al solito? Avevamo oltrepassato la linea del non ritorno?

Ero arrabbiato con me stesso e con Holmes, che con il cervello che si ritrovava non era riuscito a pensare a un modo per rendere meno imbarazzante il risveglio. Fare finta di niente era quasi peggio che ammettere quello che era successo! Gli voltai le spalle, mi rassettai i vestiti e feci per andarmene.

“Dove va?”

Sospirai. “A casa.” risposi senza girarmi.

“Speravo avrebbe fatto colazione con me, Watson. Le ho preparato il the al gelsomino, il suo preferito se non sbaglio.”

Bastò questo a convincermi. Girai sui tacchi e mi sedetti anch’io al tavolo. Holmes ripiegò il giornale e si mise a servire il the.

Ancora non osavo guardarlo negli occhi, quindi mi concentrai sulla mia tazza, mentre lui riprese la parola: “Se andarsene è quello che desidera, non la tratterrò. Già una volta avevo promesso che non l’avrei più coinvolta nelle mie avventure, eppure ho mancato alla parola data. Mi dispiace. Tuttavia, se è davvero sua intenzione andarsene, deve prima sapere una cosa.”

Un attimo di silenzio, un tossicchiare imbarazzato, poi Holmes riprese: “Non creda che sia stato senza remore quel salto nel vuoto a Reichenbach: quando l’ho vista apparire sulla soglia, mi sono maledetto con tutto me stesso, per il dolore che sapevo le avrei provocato.”

Lo disse con durezza, sicuramente ferito dalle parole che gli avevo urlato la sera precedente. Sospirai, pensando che, ancora una volta, aveva ragione. Ricordavo benissimo il suo sguardo prima di lanciarsi con Moriarty tra i flutti: era una muta richiesta di perdono, era un addio pieno di rimpianti.

“Eppure” continuò Holmes apparentemente ignaro del mio doloroso conflitto interiore “mentre ad occhi chiusi cadevo nel vuoto, pensando che non sarei sopravvissuto, non potei fare a meno di considerare quanto ero stato fortunato: l’ultima immagine che avrei portato con me, sarebbe stato il suo sguardo pieno di affetto, sarebbero stati i suoi occhi.”

Detto questo si chiuse nel silenzio, e finimmo il nostro the ognuno immerso nei propri pensieri. Presi la mia decisione, e senza aggiungere una sola parola, mi alzai e raggiunsi la porta. Holmes non tentò di fermarmi. Avevo già un piede fuori dalla porta quando mi voltai e lo guardai negli occhi, quegli occhi che avevano la stessa espressione di addio che avevo già visto su quella maledetta terrazza: “Vado a prendere Gladstone. Il nostro cane sarà impaziente di tornare a casa.”

Mi chiusi la porta alle spalle. Potevo ancora sentirlo sorridere.

 

THE END?

 

 

NOTA DELL’AUTRICE: ho messo molto impegno anche in questo capitolo e continuavo a cambiare particolari (figuratevi che ne ho scritti due, uno POV Watson, uno POV Holmes; pensavo di mettere il secondo in coda, voi che ne dite?); spero davvero vi sia piaciuto. Ci tengo a precisare che questo è solo un trampolino di lancio per H&W: il passo più grande è stato fatto, ma per essere una coppia ci sono molti altri problemi da affrontare, primo fra tutti l’intimità! Insomma, parliamo di due persone che si conoscono da anni e continuano a darsi del Lei e a non chiamarsi per nome… Ne hanno di strada da fare! Ho già cominciato la prossima long fic (Lo strano caso del dottor Watson e del signor Holmes), che svilupperà il rapporto trai due e che si apre con un primo capitolo decisamente hot. Inizialmente l’avevo pensato come un eccitante risveglio alla fine di questa fic, ma mi dispiaceva dover cambiare da VERDE a ROSSO l’intero racconto, quindi dovrete attendere ancora un po’ (che poi parlo come se avessi chissà quale seguito, come se fosse l’ottavo libro di Harry Potter, e invece a recensire sono sempre le solite 5 persone, anche se ho centinaia di visite alla storia. Boh, dite che le altre persone sono rimaste totalmente indifferenti? Speriamo di no!).

Grazie a tutti i recensori, che leggono fino in fondo anche le mie note pallose e si sentono in dovere di darmi la loro opinione: è davvero un bel gesto, molto confortante! Tento di ricambiare il favore ed essere più sincera possibile nei giudizi anch’io!

Grazie a chi ha scelto la mia storia, l’ha messa tra i preferiti o tra le seguite. Fatemi sapere se con questa conclusione ho confermato o deluso le aspettative!

Grazie al mio correttore di bozze (MP), che mi dà consigli in esclusiva, e alla mia accanita prima lettrice (CM), che legge in anteprima tutto quello che pubblico e mi dà sempre giudizi entusiastici.

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Capitolo 7
*** Epilogo bonus ***


Epilogo bonus

 

Era una mattina splendida e radiosa. Non serviva certo l’uso della vista per capirlo: sentivo i raggi del sole lambirmi il viso e ferirmi gli occhi, benché chiusi. Decisi di sondare la situazione tenendoli serrati, e lasciando che fossero gli altri sensi a esplorare.

Tatto: male alla testa e alla schiena, mano che stringeva il vuoto. Deduzione: dallo scontro della sera prima non avevo riportato traumi, se non indolenzimento muscolare per aver dormito sul duro e normali postumi da sbornia. Per quanto riguardava il mattiniero Watson, niente di strano che fosse già sveglio.

Gusto: in bocca retrogusto amaro di alcool, sulle labbra vago sapore di altre labbra. Diagnosi: dovevo trovare una scusa per quello che era successo la sera prima, non potevo semplicemente far finta di niente o dare la colpa all’alcool, sarebbe stato un insulto per entrambi.

Olfatto: aroma di the al gelsomino nell’aria, il preferito di Watson, vago odore di cane. Diagnosi: anche se era troppo imbarazzato per risvegliarsi in questa posizione, il dottore accettava la cosa. Voler fare colazione con me significava che non aveva intenzione di scappare e voleva parlare della situazione. Ah, e bisognava assolutamente fare un bagno a Gladstone, non mi andava che il suo odore appestasse così il mio Watson.

Udito: piccoli passi attutiti che si avvicinavano al mio giaciglio. Diagnosi: il dottore si apprestava a svegliarmi, dovevo fingere un credibile risveglio.

Sentii il suo fiato caldo sul mio viso e continuai a fingere di dormire, aspettando la sua mossa. Ancora odore di pelo di cane… Promemoria: ricordarsi di fare un bagno anche al padrone, oltre che al cane. Poi, una lingua umida e bavosa mi leccò il viso. Decisamente poco in stile Watson. Aprii gli occhi di colpo, sconcertato: “Wat…GLADSTONE!?”

La risata di Watson mi giunse forte alle orecchie. Era in piedi vicino alla finestra, piegato in due dalle risate.

“Watson esigo delle spiegazioni! Cosa ci fa il suo cane qui, a casa mia?”

Gladstone nel frattempo sembrava molto contento di vedermi, e aveva preso ad annusarmi le orecchie, tutto interessato. Quel cane era davvero insensato: dopo tutti gli esperimenti per cui lo avevo usato come cavia, non aveva ancora imparato a temermi, come qualunque altro animale avrebbe fatto. Ingenuo ed entusiasta come il suo padrone.

Padrone che, nel frattempo, cercava di parlare tra le risate: “Che domande Holmes! Il nostro cane è qui perché questa è casa nostra. Dove accidenti dovrebbe stare sennò?”

Non c’era bisogno di altre parole.

Un sorriso gli illuminò il volto, e a stento trattenni la gioia. Era una mattinata splendida e radiosa.

 

 

NOTA DELL’AUTRICE: come promesso, ecco l’epilogo alternativo! Quale preferite tra i due? Io ho scelto l’altro come finale ufficiale per vari motivi (tra cui mantenere il POV, far dire quelle cose a Holmes per convincere Watson a restare…), ma mi sono divertita molto a scrivere anche questa (in particolare la scena di Gladstone, ovvio) e sono curiosa di sapere se pensate la stessa cosa anche voi… Rinnovo i ringraziamenti a tutti, e concludo definitivamente questa fan fiction. Alla prossima!

 

ANGOLO PUBBLICITÀ: se vi è piaciuta la mia storia, spero di trovarvi anche nella prossima; si intitola LO STRANO CASO DEL DOTTOR WATSON E DEL SIGNOR HOLMES, ed è il seguito di questa. Il primo capitolo è in arrivo per lunedì!

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